Si vende da Domenico Occhi
Libraro in Marceria
Sotto l' Orologio di San Marco
All' Insegna dell' Unione.



RIME
DI MADONNA
GASPARA STAMPA;
CON ALCUNE ALTRE
DI COLLALTINO, E DI VINCIGUERRA
Conti di Collalto:
E DI BALDASSARE STAMPA.

Giuntovi diversi componimenti di varj Autori
in lode della medesima.

IN VENEZIA,
MDCCXXXVIII.

Appresso Francesco Piacentini.

Con Licenza de' Superiori, e Privilegio.

O Tu che onori ogni scienza, ed arte, Rambaldo, in tanta fama ascesso omai, Che ciascun lido il tuo Nome risona; Sò che da me non chiedi atto dimesso, O suon di favellare umile e piano, Per far lieta accoglienza a questi Carmi. Sotto tanta umiltade altri s' asconda, Per far che grati sieno i dolci frutti Di Parnaso a coloro, i quai non sanno Veracemente esser di gloria amanti: Io dunque altro consiglio userò teco. Se questi Fogli a te, Signor cortese, Com' era il tuo disir, non vengon pronti, Aver non dei la mia tardanza a sdegno; Mentre fortuna è al mio voler nimica. Son queste quelle ornate e illustri Rime, Che Febo all' ombra del suo verde alloro, Dettò cantando ad Anassilla un tempo; Perchè il tuo Colle divenisse altero Al par di Sorga: e nuovo ampio argomento Di gloriarsi al tuo gran Sangue, e a noi Donne porge Costei. Queste son Carte Che di vero diletto empiono il Mondo; E insegnar ponno oltre all' Italia, quanto Largo il cielo a noi sia d' eletti ingegni; E fanno accorta altrui, che quale in terra Di giunger poetando opra non faccia, Dove con altri pochi ella pur giunse, In cambio di destar ne' pensier nostri Maraviglia, e piacer; ne move a sdegno. Opran le Muse nel formare i Vati, Come chi 'n liscia carta imprimer tenta Qualche leggiadra immagine; che prima D' averne una conforme al bel disegno, Molte indietro ne lascia; e queste poi Dona a' fanciulli, e la miglior dispiega Superbamente in degno ornato loco. Fu dato in sorte a questa Donna altera Di stare appresso al sacro Nume, ed ivi Scoprir di Pindo ogni tesoro ascoso. Ma qual alma, qual viso in ciel creato Ebbe il tuo Collaltin, che a se la volse, In sì forti catene avvinta e stretta? Più che la luce non insegna altrui, Donde derivi il bianco, il verde, il nero, E l' altra schiera de' color diversi; Egli a lei dimostrò da qual cagione Sorga ne' petti umani amor possente; In compagnia di speme, e di timore, Di piaceri, e d' angosce; ond' altri puote Fare a se specchio, e in qualche guisa aitarsi Contra questo fatal nimico acerbo, Fonte d' ogni conforto, e d' ogni danno; Che il ben promette, mentre il male apporta. O Collaltin già in terra, or vago lume, Che in ciel fiammeggi in qualche astro lucente, Certa son io, che il mio grave pensiero Delle tue laudi oggi discopri. Io bramo Spiegarle altrui; ma non vorrei che l' alma Donna, ch' ebbe di te fra noi vaghezza, Per quel ch'io scrivo, or mi prendesse in ira: Deh chiama dunque a te, mentre io ragiono, Quella tua sospirosa, e chiara Amante, Che Amor non ti dee già posta aver lunge; E del tuo dolce favellar la pasci, Sicchè s' infiammi del piacer d' udirti, A t rivolta, e me non curi. Qual altro cor, salvo il tuo forte armato Di pensier saggi, e d' onorate voglie, Durato fora a quell' alta bellezza, Al sospirar soave, al dolce canto, Che al tuo s' assomigliava in ogni parte, E a quel che fere ad udir trasse, e tronchi? Ahi come agevol cosa è perder tosto A sì dolci lusinghe ogni ragione, E privo rimaner d' ardire e possa Di più ritrarsi a libertade, e a pace. Ahi se cadevi in così dolce rete, Francia non ti vedea cinger la spada Di Guerrier forte, e non l' Etruria: il punto Temuto avresti di lasciar Costei, Più che lasciare il cor l' alma non teme. Quanti rimangon miseri e infelici, Per la pietà di due luci serene, Di poche lagrimette intorno sparse; Nè forse belle son come eran quelle Dell' amorosa tua Donna soave, Che l' alme distringeva in mille guise. Anch' io crudel ti dissi; anche a me parve Soperchia ferità la tua costanza; Che rado umano spirto in queste membra Racchiuso, può pregiar tanta virtude, Ch' ogni nostra quiete in terra offende: E solo è conosciuta allor che piove Un raggio a noi dal ciel, come in me avviene Ora, che dal tuo albergo un ne tramandi. Ma rimanti co' tuoi pregi beati, Che un' altra schierainna&ztilde;i a me ne veggio, Di così viva, e nuova luce adorni, Ch' io stimava men peso il dir de' tuoi: E se piu tardi a dir prendo di questi, Freno al caldo voler fu la temenza. Dite, Rambaldo, io dir pavento, e bramo; E per quanto modestia agli occhi un velo Ti ponga, dei scoprir che a me conviensi Tesserti un fregio all' onorato crine. Bench' io non so qual mai leggiadro fiore Sia nato appresso alle Sorelle sante, Che da man della mia più degna assai Colto non fosse, ed a te porto avante. A te d' alto saper lode fu data, E d' alta Poesia; nè spero in vano Ch' esser tu debba in fine il più bel raggio, Che il nostro tempo di sua luce onori. O generoso Spirto almo e felice, Che solingo poggiar veduto al Tempio Sei dell' onor, non senza onesto affanno, Perchè non cresce in così pura voglia Qualunque di Regal Sangue tra noi Deriva, ed a Regal Sangue è congiunto, Come Tu sei (a) La Famiglia de' Conti di Collalto trae l' origine dai Re de' Longobardi, ed è la stessa che quella d' Hohenzollern, da cui deriva l' altra poi de' moderni Re della Prussia, Elettori di Brandemburgo., che degna gloria acquisti? Non creder mai, ch' altri il pensiero volga Alle tue imprese, agli atti tuoi gentili, Al magnanimo core, ed al consiglio, Che tosto allor non dica: Oh come è degno Rambaldo di sedere al grande Augusto A lato, e viver seco! Or di sublime Canto avrei d' uopo, ed a' tuoi vanti eguale; Ma trovo il valor mio picciolo e parco, Onde vergogna mi ricopre il viso: E me pareggio a villanella incolta, Che nastri, e fiori avendo al crine, pensa Di poter gire alteramente in faccia A molto ornato, e nobile soggetto; Innanzi a cui perle, e zaffir son belli. Ma siami tua bontà saldo conforto; Mentre conosco a mille prove, come Ad alto volo questa anima impenni, E poi mia voce umil benigno ascolti. O bontà somma, ond' io tanto mi pregio! Potessi almen narrar di qual novella Gioia, e alterezza or mi riempi il seno! Deh, poichè sorte rea tante fiate Levò sul capo mio la fera spada; Il tuo solo favor mi resti in terra; Ch' altri non mi vedrà chinare il viso Più mai di doglia, e di timor dipinto; Nè forza avrà di far ch'io pianga, e turbi La pace mia, qual più maligna stella Data fosse compagna al viver mio. Tu sei la Fonte, onde il mio ben rampolla; E tu col tuo poter lo stil mio innalzi, Dove giammai per se non potria gire. Se all' affannato ingegno aita porgi, In bel cheto riposo i dolci Versi Canterò di Costei, che per tuo dono Risorge al Mondo, in fin ch' io sia possente Di seguir sue bell' orme, e venga un giorno, Che con più degne, e luminose note, E con più chiaro, e più nobil volume Io narri quel, che or solo adombro in parte. Io prego intanto il grato ciel, che sopra Te, Pianta eccelsa, e sopra i Rami tuoi “ Piova rugiada sì che non t' offenda Per avversa stagion caldo, nè gelo. ” E il verde RAMUSCEL (a) Il Co: Pietro di Collalto primogenito, nato addi 15 d' Aprile 1738. e Nipote di S˙ E˙ il Sig˙ Co: Antonio Rambaldo di Collalto. che scopre appena La sua tenera chioma al ciel rivolta, All' ombra tua cresca felice, e altero. Così l' almo FANCIUL, ch' ora è tua speme, Allor sarà tua nuova gloria, e pace; E sarà tal, che si contenda un giorno, Tra l' un paese che sull' Istro impera, E l' altro che del mar siede al governo, Qual più di sue famose, elette imprese Deggia vantarsi, e dir: Questi è mio Figlio. Se giunto agli anni gloriosi suoi, Avverrà mai, che il mio predire ascolti; Spero che fuor de' maestosi lumi Alcun diletto Egli dimostri, ch' io L' alte or abbia di lui cose promesse. Benchè lieve è scoprir ne' fonti puri Degli Avi, le future opre di lui: Tal frutto nasce a noi di tal radice. Tanto non dan le Stelle; io venni anch' io In terra il fausto dì ch' Ei vi discese, Molti anni prima, e pur gloria mi manca. Pensando al tuo gioir dunque, mi piace, Conte, che in tempo sì bramato, e caro Giungano a te questi onorati Fogli: Degni d' esserti innanzi ora che sei Tanto nell' alma di letizia pieno. Ornarli io devea forse in miglior guisa; Ma veste a tal beltà pari non dassi; E me Signor col tuo gradir consola; Che qualche pregio è pur nel de sir mio; Nè in vano ho mai con te mie preci sparte.

POichè a Dio nostro Signore è piaciuto di chiamare a se, sul fiore si può dire degli anni suoi, la mia a me molto cara, e da me molto amata Sorella; ed ella partendo, ha portato con esso lei tutte le mie speranze, e tutte le consolazioni, e la vita stessa: io ho cercato di levarmi davanti gli occhi tutte le sue cose; acciocchè il vederle, ed il trattarle non rinnovasse l' acerbissima memoria di lei nell' animo mio, e per consequente non rinfrescasse la piaga de' molti dolori, avendo perduto una così valorosa Sorella. E volendo, e dovendo far il medesimo di queste sue Rime, tessute da lei, parte per essercizio dello ingegno suo, felice quanto a donna, se non m' inganna l' affezione fraterna; parte per esprimere alcun suo amoroso concetto; molti gentiluomini di chiaro spirito, che l' amarono, mentre visse, ed hanno potere sopra di me, m'hanno tolta, mal mio grado, da questo proponimento, e costretta a raccogliere insieme quelle, che si sono potute trovare; mostrandomi, ch' io non dovea, nè potea, per non turbar la mia pace, turbar la gloria della Sorella, celando le sue fatiche onorate. Questa adunque è stata la cagione, ch'io le ho fatte pubblicare. Perchè poi io le abbia dedicate più a vostra Signoria Reverendissima, che ad altro Signore, è per questo. Tre, se io non erro, sono le sorti de' Signori, che si trovano al mondo, di natura, di fortuna, e di virtù. I due primi sono Signori di nome, l' ultimo di effetto; perchè quelli sono fatti da altri, e questo si fà da se stesso; però a lui dirittamente si conuiene il nome, e la riverenza di Signore, Girando per tanto gli occhi per tutta Italia, per trovare a chi più meritevolmente il nome di vero Signore si convenisse; il vivo raggio di vostra Signoria Reverendissima splende agli occhi miei da quella sua riposta solitudine, ove il più delle volte per dar opera a' suoi gravi ed alti studi, e pascere di preziosissimo cibo il suo divino intelletto, si ritiene, sì fattamente, che come ferro da calamita, sono stata tirata a viva forza a consacrarle a lei; perchè oltre ch' è Signore di natura, nato nobilissimo, in nobilissima città d' Italia; di fortuna, per le ricchezze amplissime ch' ella ha; di virtù, possedendo tutte le più nobili, e più segnalate scienze che si trovino; ed alla quale come a chiarissima stella, e ferma, si denno indrizzare tutte le opere di quei, che nel mare di qual si voglia fatica onorata navigano. Io sono sicura, che in questo compiacerò anche alla benedetta anima della amata Sorella mia, se di là s' ha alcun senso, o memoria delle cose di questo mondo, la quale vivendo ebbe sempre per mira vostra Signoria Reverendissima; come uno de' più bei lumi d' Italia, e destinate le sue fatiche; inchinando, e riverendo sempre il nome, e l' alto giudizio di lei, qualunque volta se ne ragionava, che era assai spesso; e portando al cielo i suoi dottissimi, leggiadrissimi, e gravissimi componimenti al pari di tutti gli antichi, e moderni, che si leggono. Non isdegni adunque vostra Signoria Reverendissima, di ricever con quella molta bontà d' animo, che Dio le ha dato, questi pochi frutti dell' ingegno della desideratissima Sorella mia, dalla quale fù mentre visse osservata, e tanto riverita; contentandosi, che sotto l' ombra del suo celebratissimo nome, si riposi anco la penna, lo studio, l' arte, e gli amorosi, e ferventi desiderj di una Donna, con tante altre divinissime fatiche de' più alti, ed esquisiti spiriti dell' età nostra; e con questo baciandole le dotte, e sacre mani, faccio fine.

Di Venezia a XIII. d' Ottobre M˙ D˙ LIIII.

IN questa nuova edizione delle Rime di Gaspara Stampa, si è tenuto il medesimo ordine della prima; fuor che d' aver collocato in diverso luogo un Sonetto a lei scritto da incerto Autore; che a c. 131. andava fra quei di lei frammischiato, senza alcuna distinzione, onde veniva preso agevolmente per suo. Si aggiunse ad esse Rime a c. 130.il Sonetto che comincia: Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto, tratto dalle Rime diverse di alcune nobilissime Donne, raccolte dal Domenichi in Lucca, in 8. 1559. ed un Capitolo per monaca a c. 173. che si è rinvenuto nella scelta di Rime di diversi begli ingegni. In Genova, 1573. in 12. I tre Sonetti antichi in sua lode, che non vanno nelle sue Rime, si sono tolti; quel di D˙ Ippolita Mirtilla, dalle predette Rime di alcune nobilissime Donne; quel di Malatesta da Rimini, dal libro terzo delle Rime di diversi nobilissimi Autori, 1550. quel di Girolamo Parabosco, dal secondo volume delle Rime scelte di diversi Autori, 1588.

Perle Rime di Collaltino Conte di Collalto, si è veduto il libro primo delle Rime diverse, appresso il Giolito, 1545. e il libro primo delle Rime diverse appresso il medesimo, 1549.

Le Rime di Vinciguerra II. Conte di Collalto, si sono tratte dal libro quinto delle Rime di diversi, appresso il Giolito. Dal libro delle Rime di diversi Autori raccolte dal Ruscelli, 1554. dalle Rime di Anton Jacopo Corso, appresso i figliuoli di Aldo, 1553.

Quelle di Baldassare Stampa, si trovano nel primo libro delle Rime diverse, appresso il Giolito, 1549. Nel libro secondo delle Rime di diversi, appresso il Giolito, 1548. Nel libro terzo delle Rime di diversi al Segno del Pozzo, 1550. Nel Dialogo Amoroso di Giuseppe Betussi, al Segno del Pozzo, 1543.

DEl luogo della nascita di Gaspara Stampa, è disparere tra gli Autori; però che altri Viniziana, altri Milanese, altri Padovana la chiamano: ella è risolutamente Padovana; e tale si dichiara ella nelle sue rime. Viniziana forse fu detta, perchè era solita abitare in Venezia; e Milanese l'hanno creduta alcuni, perchè nel vero la sua gente era nobile Milanese; e questo è chiaro per un catalogo sopra le lettere, e la vita della Religiosa Angelica Paola de' Negri Milanese, stampato in Roma nelle case del Popolo Romano del 1576. in 8. tra le Lettere di essa Religiosa; compilato da Andrea Roberto, Cherico, e Dottor di Leggi, Vicario Generale del Cardinal Borromeo, e delegato dalla Santa Sede Apostolica ad esaminare essi testimonj, ne' quali si legge il nome di Gaspara Stampa con queste precise parole: Gasparina Stampa, Gentildonna Milanese. Nacque dunque in Padova di nobil sangue Milanese circa l' anno 1523. fu allevata degnamente, e decorosamente da' Genitori suoi, massime dal padre, da lei tuttavia perduto nella sua tenera età: per la qual cosa non lasciò di badar agli studi, e passò ad abitare nella città di Venezia. Fu una di quella più rare, ed eccellenti Donne che dalla benigna natura sieno state prodotte giammai. Apprese le due lingue Latina, e Greca con maraviglioso profitto, e si diede poi del tutto alla più amena tra l' arti liberali, ch' è la Poesia, in cui scrisse italianamente; e ne produsse frutti così prodigiosi, che veramente chi legge, e considera le sue divine Rime, sarà costretto a confessare, ch' ella sia impareggiabile nel suo modo di comporre geniale, amoroso, tenero, ed insieme sostenuto da novità di leggiadri, e nobilissimi pensieri, espressi con originale felicità. Scrisse le sue Rime, fuor che alcune pochissime, tutte in lode di Collaltino di Collalto Conte di Trevigi. Ella in età d' anni ventisei in circa fortemente s'accese del predetto Cavaliere, ornato di moltissimi pregi, e da lui per tre anni continui pare che fosse gentilmente corrisposta; come si può raccogliere dalla tessitura delle Rime di lei. Era in fatti degna dell' amor suo; poichè oltre alla singolar sua facoltà di verseggiare, fu dotata di alta bellezza, e di così vaghe e gentili maniere, che a chiunque venia fatto di vederla, rimaneva nell'animo verso lei riverenza, ed amore. Accadeva questo particolarmente a'Poeti ed a'Letterati uomini del secolo suo; allor che udivano la sua dolcissima voce nel canto, e allor che divertivasi ella sonando la vivola, o il liuto; ne' quali instrumenti era perfetta maestra. Cominciò a languire la Stampa tosto che il Conte Collaltino, tratto da desiderio d'onore, si portò in Francia a guerreggiare sotto Arrigo II. La grandissima consolazione che recò a Gaspara il Conte col suo ritorno in Italia, fu di breve durata; poichè si cominciò ad udir fama, ch' avesse egli a maritarsi. Ella per questa ragione tutta mortificata, e sopra ogni maggior espressione addolorata, in pochissimi mesi, e nel più bel fiore dell' età sua, che appena era oltre agli anni trenta, morì d' una infermità crudele e penosa, la qual credesi ancora, che sia stata effetto di veleno; e ciò occorse intorno all' anno 1554.

Terminò così di vivere questa valorosa Donna, la cui chiarissima fama non dovrà morir mai, sì per merito delle sue belle Rime, che del suo costantissimo amore. E tengo per certo, che quantunque sieno scritti i suoi versi così felicemente, non fossero da lei riveduti, per colpa della sua immatura morte; poichè s' incontra in uno o due de' suoi Sonetti, che lodando ella un distinto soggetto, incomincia col voi, e termina col tu: la qual cosa non si dee attribuir ad altro, che a non aver rilette una seconda volta con attenzione le opere sue. Fu celebrata vivendo da più chiari soggetti dell' età sua. E'lodata con un Epigramma tra quelli di Niccolò Stoppio; e tra gli altri per lei scrissero il Varchi, Giulio Stufa, Giorgio Benzone, Ippolita Mirtilla, da lei molto amata, Malatesta da Rimini, Leonardo Emo, Torquato Bembo; e fu cantata parimenti dal Conte Collaltino suo gentil verseggiatore, delle cui lodi molto si chiama sorpresa, e contenta nelle sue Rime. A lei pure scrisse versi il Conte Vinciguerra II. di Collalto fratello di Collaltino. Francesco Sansovino le manda il suo Ragionamento intorno alla bell' Arte d'Amore, le dedica la Lettura del Varchi sopra il Sonetto della Gelosia del Casa, e così indirizza a lei la lunga Prefazione dell' Ameto del Boccaccio; distinguendola con onoratissimi titoli, convenienti a ben nata persona. Nel nuovo libro di Lettere de' più rari Autori della Lingua volgare una a lei n' è indirizzata appunto dalla venerabile Angelica Paola de' Negri Milanese; e una parimenti sene trova per lei nel primo libro delle Lettere Amorose di Girolamo Parabosco per se, e per altrui scritte. Chiamavasi la Stampa ne' suoi componimenti ancora col nome d' Anassilla; vale a dire Ninfa del fiume Anasso, che è il medesimo che la Piave, la qual bagna ed abbraccia da più lati le antichissime Giurisdizioni de' Conti di Trevigi, e Collalto. Dopo la morte di Gaspara, Cassandra sua Sorella, diede in luce moltissime sue Rime; la maggior parte delle quali però furono più d' un anno prima, mandate da Gaspara in Francia al Conte Collaltino, tutte scritte di suo pugno. Indirizzò Cassandra il libro della Sorella a Monsignor Giovanni della Casa, Arcivescovo di Benevento, e Poeta, come è noto ad ognuno, celebratissimo. Si Stamparono del 1554. in Venezia per Plinio Pietrasanta in 8. ed è libro divenuto raro sopra ogni credenza. Nelle predette Lettere di Girolamo Parabosco, una ancora se ne legge, scritta a questa Cassandra Stampa, in cui è lodata altamente, come Donna di scienze; e s' incontra spesso che chi loda GASPARA, loda anche lei. Ciò mostra che questa famiglia era molto gentile, ed onorata; non men che bastevolmente provveduta de' beni di fortuna; poichè aveva genio, e facoltà di educare, e di mantenere negli studj, e nelle bell' arti le sue stesse Donne. S' argomenta, che il padre della Stampa fosse uomo distinto, e di buon discernimento. Ad un Giovanni Stampa a Padova si trova scritta una Lettera in quelle, che sotto nome di D˙ Lugrezia Gonzaga pubblicò Ortensio Lando: e parla di Massimiliano Stampa, e di Ermete Stampa suo fratello, Lodovico Domenichi nel suo Ragionamento intorno all' Imprese Militari, ed Amorose; ne parla come d' uomini distinti per sapere, e per nascita; e furono tutti e due ammogliati. Ad Ermete vengono scritte alcune Lettere anche dal Cardinal Bembo: ma non si ha lume che basti ad affermare che d'uno di questi ella sia stata figliuola; nè quando sia passata questa famiglia da Milano in Padova.

Baldasare Stampa era fuor di dubbio fratello di Gaspara, e fu parimenti molto valoroso Poeta; di che bastevol prova fanno le poche Rime che di lui si sono rimase, sparse nelle antiche Raccolte. Morì anch' egli giovane assai, cioè d' anni 23. in circa. Che fosse morto prima dell' anno 1549. si raccoglie dal primo libro delle Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori, ristampato dal Giolito in detto anno; trovandovisi un Sonetto to del Domenichi, in cui si piange la morte di Baldassare Stampa. Parla di lui anche Giuseppe Betussi nel suo Dialogo del Raverta, e Francesco Sansovino nella Prefazione al suo Ragionamento della bell' Arte d' Amore; scoprendo il suo merito, e la molta affezione ch' egli aveva per lui; e fu una compassione, che sia mancato in così acerbi anni. Si ha notizia che vivesse un Donato Stampa dopo la morte di Baldassare, e di Gaspara Stampa; e ciò si rileva dal seguente Epitaffio, fatto porre da Sibilla Lignamine, Gentildonna di Padova, al sepolcro di Donato Stampa suo marito, sotterato in SS˙ Giovanni, e Paolo di Venezia.

Christophoro a Lignamine Patavino Patri, Et Joanni Baptistae ejus F˙ optimis Philosophis, & nobilissimis Medicis, Ac Donato Stampae Viro integerrimo, Sibilla a Lignamine filia, soror, & vxor, Brevi temporis spatio tot clarissimis Orbata luminibus sibi, ac Post: posuit.

MDLXVIII K˙ April:

Queste notizie si sono ricavate dalle Rime della Stampa, dalle due lettere che precedono le stesse Rime, una di Gaspara, una di sua Sorella Cassandra; dalle Poesie, e dalle memorie di alcuni suoi lodatori, dal Museo dell' eruditissimo Sig˙ Apostolo Zeno; e dal mio Archivio. Per tanto riflettendo al singolar merito di questa illustre Donna, ed alla rarità degli esemplari delle sue Rime, mi son risoluto di far sì che sieno ristampate in uso de' Letterati soggetti, che in questo felice secolo fioriscono; e di pagar in un certo modo l' obbligazione che parmi avere alla memoria di lei, che ad uno de' nostri Collalti sacrò i frutti del pellegrino suo ingegno. Mi piace ancora di aver avuta sorte di rinvenire il suo ritratto, copiato da valorosa mano dall' originale di Guercino da Cento, donato a me dalla la Cesarea Cattolica Maestà di Carlo VI. felicissimo Regnante, Imperator de' Romani; il qual ritratto, fatto intagliar in rame, sul disegno del celeberrimo Signor Daniel Antonio Bertoli, si dovrà porre in ornamento dell' Opera.

Non sarà fuor di proposito dir anche alcuna cosa del Conte Collaltino, da alcuni chiamato parimenti Collatino di Collalto, e del Conte Vinciguerra suo fratello; tanto più che penso di far imprimere con quelle della Stampa le poche rime che di loro ci restano, e così l' altre di Baldassare Stampa; le quali tutte hanno qualche correlazione con la nostra famosa Donna.

Dell' anno 1523. addì 22. di Maggio a ore 19. e un 4. giorno di Venerdì, nacque in San Salvatore Collaltino di Collalto, Conte di Trevigi, di Manfredo di Collalto, e di Bianca pur di Collalto, della mia stessa linea, figliuola di Antonio terzo Conte di Trevigi, detto il Liberale, e di Lucia Mocenigo N˙ V˙ e sorella del Conte Rambaldo mio Tritavo. È stata questa Bianca, Donna di singolar bellezza, e di raro talento, di che fà fede il Betussi, che la colloca tra le Poetesse del suo tempo; e Francesco Agostin della Chiesa nel suo Teatro delle Donne Letterate. Mostrò Collaltino sin da' primi anni suoi grandissima inclinazione verso le scienze; e riuscì elegante, e giudizioso Poeta, non men che valoroso Capitano. Passò al servigio di Arrigo II. Re di Francia, e fu da lui molto amato, e distinto; comandò alcune milizie in Francia; e nelle guerre d' Italia, segnatamente sotto Bologna, sotto Siena, e sotto la Mirandola, con Pietro Strozzi, come si ha dal Tuano. Era uomo di bella e signorile presenza, e di nobili, e gentilissime maniere: ebbe fama di costumato, e generosissimo Cavaliere, e fu Prottetore degli uomini Letterati. Le sue Rime vanno sparse per varie Raccolte, in poco numero; non perchè in maggior copia non ne abbia scritte; ma perchè era di tal modestia, che stimava bene di torle all' altrui cognizione. In questo proposito scrisse in età d' anni ventiuno una lettera a Giuseppe Betussi, così bella, e così prudente, che leggendola, non si può a meno di non tenerlo in conto di molto savio, e moderato. Per quanto si può argomentare dalle Rime di Gaspara Stampa, si chiamava col nome pastorale di Coridone. Oltre i suoi viaggi nella Francia, è stato anche nell' Inghilterra: il che si raccoglie da Giuseppe Bettusi, che lo accompagnò; e ne da cenno, mentre dedica a lui la sua traduzione della Genealogia degli Dei del Boccaccio. Si accasò dell' anno 1557. con Giulia Torrella Marchesana di Cassei e Montechiarugolo, nobilissima Dama, maritate in secondo voto nel Conte Antonio di Collalto, Colaterale della Serenissima Repubblica di Venezia, mio Bisavo. Collaltino fu molto lodato ed innalzato, segnatamente da Pietro Aretino, dal Ruscelli, dal Betussi, il qual gli fece la sua impresa, e dal Domenichi, che un altra impresa per lui pensò. Marco della Fratta lo introduce a parlare in tutto il suo Dialogo della Nobiltà, stampato in Firenze del 1548. in 8. Gli altri interlocutori sono Prospero Frangipani da Castello, il Conte Muzio di Porzia, Giuseppe Betussi, Pompeo di Coloreto &c. I Ragionamenti si fingono essere stati nel palagio del Collalto. Ma per tutte le lodi a lui date, vagliono quelle della divina Gaspara Stampa. Il primo figliuolo di Collaltino fu il Conte Pirro Manfredo, nato del 1558. addi 26. di Marzo: s' estinse la sua linea mascoina circa un secolo fa; e rimangono presentemente superstiti per parte di Donna il Conte Basilio, e i Conti Pirro, e Ferrante suoi figliuoli. Di questo Conte Basilio fu Ava una Contessa Collaltina, nipote del nostro Collaltino. Abbiamo il ritratto di Collaltino, tolto da una copia dell' original di Tiziano, il qual originale si trova in Francia, non so per qual accidente; e perchè sia impresso in rame, fu da me fatto intagliare dal valoroso Sig˙ Jacopo Sedelmayir. Quantunque sia stato dipinto in età alquanto avanzata, e quantunque sia tolto da una copia, per non poter altro, pare a me che mantenga la bell' indole sua. Ma è tempo di dire ancora poche parole del Conte Vinciguerra di Collalto suo fratello.

Nacque Vinciguerra II. Conte di Collaltto in Venezia l' anno 1527. addì 26. d' Agosto, a ore ventidue è mezza, di lunedì, del Conte Manfredo di Collalto. È stato uomo amator delle scienze, e valoroso Poeta; si dice che amasse da giovanetto la famosa Bianca Capello, che fu poi Gran duchessa di Toscana. Tuttavia par che Giuseppe Betussi la faccia Veronese, in una sua lettera scritta al Conte Vincigverra; poichè fà che l' Adige si pregi di possederla. Si chiamava certamente col nome di Bianca, e cominciava il suo cognome per la lettera C˙ qualunque ella si fosse, era Donna molto distinta per ogni pregio, ed avea a grado esso Conte Vincigverra; come si ha da una lettera di Pietro Aretino a lui scritta. Fu Abate di Nervesa, e accasato in D˙ Giovanna de' Conti di Luna; morì in S˙ Salvatore giovane, e senza prole. Sali in molto pregio, e fu lodato da Gaspara Stampa, dall' Aretino, dal Ruscelli in molte occasioni, dal Domenichi nella dedicazione dell' Aristea, e fecegli ancora la sua Impresa, dal Betussi, e da molti altri.

L' Ameto, divinissimo Spirito, prodotto dalla gioventù del Boccaccio, come ec. E in un altro luogo più sotto, dietro a un dubbio. Rimetterò al vostro perfettissimo giudizio, il creder quello che a voi parrà più verisimile ec. E quasi in fine; poichè ha parlato di alcune voci usate nell' Ameto. E altre voci così fatte, e tutte latine sono sparse per questo volume, le quali come conosciute da voi, lascierò addietro, assai certo del frutto che sino a quì avete fatto, e siete per fare ne' vostri studj. Ma ponendo omai fine, perdonatimi, s' io sono stato così breve, perchè le istorie senza alcun dubbio sono infinite, e si potrebbono estender a lungo; ma a me pare, che oltre che il libro crescerebbe fuor di modo, sarebbe anco superfluo, trattandole Ovidio così leggiadramente, il quale cred' io che in breve voi medesima potrete intender senza fatica; appresso questo i fiumi, i luoghi, le città, e l'isole occuperebbero gran parte del volume. E però rimettendo a un'altra volta il riveder diligentemente l' Ameto, vi appresto insieme col libro queste poche mal composte righe, partorite dal caso per la necesità del tempo. Solo vo' dirvi, che vi degniate mostrarlo a M˙ Francesco Cavazza, e a M˙ Giovanni Roma, acciocchè essi veggano, che quel dì che noi dispurammo putammo dello stile del Conte Baldassar Castiglione, e del Boccaccio, fu più tosto per passar il tempo, che perch' io abbia opinione, che lo stil dell' Ameto sia uguale a quel del Conte; conciosiachè il suo è chiaro, non affettato, e puro; e questo all' incontro è oscuro, tirato, e confuso, e pieno d' epiteti, come voi medessima vedrete Tuttavia mi rimetto all' opinione di coloro che sanno più di me; pregandovi, che vi ricordiate della mia servitù. State sana.

Ho letto più di mille fiate il Sonetto composto dalla virtuosa M˙ GASPARA STAMPA in lode vostra; il quale mi è paruto sì maraviglioso, e da sì bella vena procedere, ch'io sono stata in forse, se dovea credere che da alcuna Donna fosse stato composto; poichè la Marchesana di Pescara, e la Sig˙ Veronica da Gambara se n' erano volate al cielo; ed ancora ne starei dubbiosa, se non mi veniva a memoria di averla e veduta, e udita favellare di tal maniera, che ben vi si può credere. Taccio le altre testimonianze, che da altre parti ho del suo singolar intelletto. Sicchè io mi rallegro molto con esso voi, che abbiate si dotta tromba delle vostre lodi. Dalla Fratta alli XII. di Ottobre.

Nel Teatro delle Donne illustri.
ac.
169.

Gaspara Stampa Viniziana, fu in musica eccellente e gran Poetessa, di che ne fanno fede non sol diversi nobilissimi e famosi Scrittori dell' età sua, i quali hanno scritte le lodi di quella; ma anche le sue onoratissime fatiche, avendo scritte Rime bellissime, che mostrano al mondo la nobiltà del suo spirito; le quali si diedero in luce in Venezia del 1554.

Nel Dialogo Amoroso impresso del 1543. ac. 15. 16. Parlandosi
del Capitan Camillo Caula, si fa richiesta di
alcuni suoi Sonetti; al che risponde M˙
Francesca, che gli ha M˙ Alessandro
Campesano.

Fra: Or su, or su per non perdere il tempo ve li dirò.
Il primo è fatto per lo Illustre Conte
Collaltino di Collalto, col suo
nome nei capiversi.

Celeste pianta, che in sì acerbo fiore Ove il bel COLLE ascende in nome altero, Lustri per spiagge, e monti quel sentiero A cui gloria, e virtù rendono onore. L' ombra tua, da cui nasce il gran splendore, Tra viva speme nel disio sincero, Infiamma l' alma mia, che scopre il vero, Narrando in parte il pregio, e il tuo valore. O d' ardente virtù sol specchio ed arte, Chi in così teneri anni al ciel t' invia; Ove sol regna il Sol, Pallade, e Marte? Natura ch' esaltarti ognor disia, Trova largo il cammino a parte a parte, E spaziosa al tuo salir la via.

Nel libro de' Casi degli Uomini illustri a c. 261.
scrivendo a Pietro Ficio.

Non perchè io mi difidi della bontà dell' Ill. Sig˙ Co: Collaltino, ma perchè poco mi assicuro nel debile valor mio; vorrei che i meriti della pregiata virtù vostra impetrassero per me appo lui la grazia sua: la quale come ch' io speri aver acquistata, nondimeno tanto è il zelo di conservarla, che a me pare quella non esser giunta al sommo dell' affezion mia; e di questo n'è cagione il conoscermi persona inutile, e giovane di nessun pregio: però a voi qual secondo padre a sua Signoria in onore, amore, e riverenza, mando questa mia picciola fatica: acciocchè tenendovi parte della stessa, vegniate a goder parte de' miei sudori, e per debito della benigna natura vostra, siate costretto contra ogni mio merito, renderla più gradita al mio Signore, ec.

Nel predetto libro a c. 262. scrivendo a Gio; Battista
Casella Corso.

Certamente l'amore che sempre mi avete dimostrato, e l'obbligo che dovrei avervi, meriterebbe che con altro che con parole mi vi dimostrassi più grato; ma chi mi punge nel sinistro lato con continui benefizj, e obblighi, vuole ch'io m'assicuri di poter sovrastare alquanto ad essere più cortese verso i vostri meriti. Nondimeno, acciocchè appaja scritto di mia mano nel cospetto d' ognuno che si degnerà leggere, quanto mi siate nel cuore; sarete contento vedere in che io, parte di questa state sotto l'ombra dell' Illustrissimo mio Signore, e vostro singolarissimo amico il Conte Collaltino di Collalto abbia speso il tempo, ec. più sotto parlando di questo suo libro. e siccome nella fronte porta scolpito l' onorato nome del più cortese e benigno Signore, non togliendo a veruno altro però il loco suo, ch' oggidì sia, e ch' io abbia conosciuto, ec. più sotto: Onde meco stesso godo, e me ne vado altero, poichè nella novella amicizia tra il mio Illustre Signore, e voi; egli avrà conosciuto un Gentiluomo onorato, una persona di molto valore; e uno amico sincero; voi dall' altra parte un Signor benigno, un Giovine reale, ed uno specchio di tutte le virtù, oggidi tale, che in qualunque azioni onorate, non sopporta, nè patirà ch' altro par suo gli vada innanzi, ec.

Nel Dialogo intitolato il Raverta, appresso il Giolito
1562. a c. 79.

Do: Non passerò con silenzio il nobilissimo Conte Collaltino di Collalto, il quale non è meno dotato di perfetissime bellezze interiori, di quello che sia d' esteriori. Or ben si può dir di lui, che siccome è ben formato di viso, e di corpo, che men bella ancora non sia la sua anima: perciocchè effettualmente l'uno, e l'altro si conosce.

Rav. Tutto il mondo è di questo parere, ec.

Nelle sue Rime appresso il Giolito 1544. a c. 7.

Illustre Collatin, che a gentilezza D' antichissimo Sangue, e a molte rare Doti, che altrui Fortuna, e Dio può dare, Di corpo aggiungi, e d' animo bellezza: Quel più fallace ben che il mondo apprezza, E suole aver tra le sue gioie care, Il tuo purgato cor non sa degnare; Ch' ha sol d' onore, anzi del ciel vaghezza. Tu con lodato ardir cingendo spada, Che a molti è di licenza ampia cagione, Dio temi, e tutto ciò fai che gli aggrada. Tu quell' età che alle virtù s' oppone, Reggendo in guisa tal che mai non cada, Ti fai sempre più caro alle persone.

Nel Dialogo dell' Imprese Militari, ed Amorose, con un
Ragionamento di messer Lodovico Domenichi, impresso
dal Giolito 1557. in 8. a c. 132.

Ricevei già molte cortesie e favori dal Conte Collatino di Collalto, Giovane di singolar virtù, e grandezza d' animo, e oltre alle doti del corpo, accompagnato ancora abbondevolmente da' beni della fortuna; i quali gli danno comodità, e occasione di usar liberalità verso coloro, che la meritano; onde essendo io stato beneficato da lui, e perciò volendo fare alcuna memoria del suo merito, e dell' obbligo mio; figurai l' albero del Pino, il quale è di questa proprietà, che da ogni stagione ha frutti maturi: e il motto diceva: Semper fertilis. Volendo per questo mostrare, che la vita di questo nobil Signore di continuo produce soavissimi frutti di gloria e d' onore ec.

Mandovi, nobilissimo Signore, il libro ch' io ho fatto delle Donne Illustri, insieme con quello di M˙ Giovanni Boccaccio, da me tradotto, che V˙ S˙ desiderava ch' io le facessi vedere; imperocchè per gl' infiniti meriti suoi, e per molti benefizj da lei a me fatti, sono tenuto a maggior cosa, che questa non è; e senza dubbio più volentieri a quella lo mando, ch' ella non brama di vederlo; ma ben mi duole, che non risponderà forse all' immaginazion sua. Perchè V˙ S˙ facilmente dovea giudicare ch' io fossi stato più copioso ch' io non sono; ma ec. molto, dopo celebrando alcune illustri Donne: L' infinite virtù, la singolar onestà di LUCIA di COLLALTO, Sorella di V˙ S˙ e vera immagine della madre; che meritamente tra l' altre ho ricordata. Il valore, ec. Piu sotto, mentre dice, che le belle azioni debbono unirsi a nobiltà di sangue: Non cercherò minutamente di raccontare altrimenti le vite, ed azioni loro; essendone vie più di me V˙ S˙ informatissima, di tutte le istorie studiosa; tanto più ec. Di la a poco: Se forse anco paresse cosa nuova a V˙ S˙ che di alcune donne abbia narrato l'origine delle famiglie, e delle nobiltà, e d' altre abbia taciuto, mi riserbo di rendergliene conto a bocca. Oltre che ec. Nel fine: Mi riserbo a parlar di ciò con lei a bocca più chiaramente; ma non più di questa cosa, ch' oggi mai parmi, che dovrei far fine, nè più infastidirla; Nondimeno con quella fede, ch' io ho sempre trovato nell' occorenze mie essere stato servito ed ajutato da V˙ S˙ i cui meriti mai non mi scorderò, fino a tanto che lo spirito reggerà queste membra; medesimamente a baldanza le ho scoperto questa parte del animo mio, come anco prima d' ora quella mi può aver veduto il cuore. Basta che V˙ S˙ mi tenga nella grazia sua, come ch' io ne sia indegno; e mi ritorni in quella dell' onorato Capitano Camillo Caula. Così facendo fine, le ricordo che in breve, secondo la cortesissima offerta sua, mi vedrà seco a S˙ Salvatore, sì per fare il debito mio, venendola a ritrovare, come anco per dilungarmi alquanto dagli odj, dall' insidie, e dalle simulazioni, e dalle falsità che di continuo mi tengono con l' animo inquieto, e travagliato: là dove quella vive con la mente riposata, tranquilla, felice, e contenta; e s' io potessi dir, direi beata; a lei umilmente mi raccomando, e bacio le mani.

A' 7. di Maggio di Ven. 1558.

Io non vi vo' dire, o Signor Compare, che mi rallegri, che abbiate due figliuoli Collaltino, e Vinciguerra degni di aver per padre qual sia Principe o Re, avvenga che la sì fatta parola concorre con il suo volgare detto comune a ciascuno, che ci sa aprir bocca. Dicovi bene che il mio animo sente di quella consolazione, che della bontà de' costumi e dell' uno, e dell' altro prova il vostro cuore, mercè della qualita di questo, e di quello. Se la sua genitrice, ora glorificata in cielo, dalla disgrazia venisse in terra per tanto di spazio, che gustasse il procedere mirabile di COLLALTINO; son certo che se alle beate anime si potesse crescer gaudio, il vedere sì nobile spirito di creatura, le ne crescerebbe. Imperocchè dal di lui esempio non pure i garzoni, gran maestri dell' età sua, ma gli attempati Signori nella loro, e la gentilezza, e la creanza imparano da tale, ch' è miracolo della gioventù Italiana; onde tutte le penne di chi sa meglio scrivere, devriano esercitarsi nella laude di tal persona. Imperocchè le sue pompe, i suoi giuochi, ed i suoi diporti sono intorno al comodo de' chiari, degli alti, e degli eccellenti ingegni. Sicchè puossi il contento che in voi abbonda in virtù sua, chiamare felicità; onde senza invidiar punto quella d' altri, ve ne andiate vivendo mille anni.

Di Gennajo in Venezia 1545.

Il Sonetto vostro al magnanimo CONTE COLLALTINO mi è così piaciuto, che non so qual altro mai mi piacesse cotanto. Voglio tacere di quello della Signoria sua, per non parere di rubar le grazie. Dirò bene, che a un gran Gentiluomo come lui, non è biasimo l' esser sì fatto; e gli mancava cotesta altra virtù, a fornirlo di farlo più chiaro, che non sono oscuri coloro, che per vedersi potenti, si terrebbero il comporre per vizio. Messer Giuseppe, l' invidia è una peste sì comune agli animi nostri, che se le cose che son vostre non fossero anche mie, non mi potrei tenere d' invidiar l'affezione, con cui vi tiene abbracciato il gran GIOVINE, e benemerito certo. Avvenga che non saria niente facile a trovare chi sapesse conoscere l' eccellenza di sì felice dono, nel modo che il vostro cuore, il vostro ingegno, e la vostra vita sa conoscere in tutto; sicchè godasi la di voi fortuna di così fraterno commerito.

Di Gennajo in Venezia 1546.

Non accadeva, che il Conte COLLALTINO si scusasse meco di quello che debbo ringraziar lui; perchè godo do più delle parole usatemi dalla cortesia sua, che degli effetti conseguiti delle mercedi altrui. Certo che le promesse di cotal Signore mi son doni; e i doni de' Principi promesse.

Di Gennajo. In Venezia 1546.

Ecco il COLLALTINO Conte vostro, che vi fa la via che cercate: andate con seco ormai, imperocchè la fama vi è scorta, e l' onore sostegno, e la gloria lucerna, ec.

Nella dedicatoria della Lettura di Girolamo Ruscelli sopra
un Sonetto del Marchese della Terza; in Ven. 1552.

Farò sempre lezione delle persone a chi consacrarle, come ho fatto nel Boccaccio all' onoratissimo Sig˙ Co: Gio: Batista Brembato: nelle Lettere l' una del Citolini in difesa della lingua volgare, al Sig˙ Conte Vinciguerra di Collalto, ec.

Nel suo Ragionamento sopra l'Imprese Militari, ed Amorose,
1557. a c. 139.

Or per tornare al Conte Vinciguerra di Collalto, dico, che la singolare umanità, e magnificenza di questo amorevole Signore è tanta, e tale che s' ha fatti schiavi e divoti tutti i begli spiriti dell' età nostra. E benchè io sia come nulla appresso loro, nondimeno per soddisfare in quel miglior modo che io posso, all' obbligo particolare ch' io tengo seco, per essere io stato favorito e beneficato da lui; gli feci per impresa un Cigno; il quale volando per l' aere, ed avendo in bocca il glorioso nome del Conte VINCIGUERRA, lo porta a consacrare al Tempio dell' eternità; come senza alcun dubbio avverrà per merito delle virtù sue. Il motto dice; Caelo Musa beat.

Nel primo libro delle Rime diverse di molti Eccellentissimi
Autori appresso il Giolito
1549. a c. 367.

Correndo il giorno tuo verso l' occaso, Che appena avea mostrato il lume al mondo, E già fatto ogni primo a te secondo, Che di gloria, e d' onor privo è rimaso; Nebbia coperse il Colle di Parnaso; Che il tuo splendor rendea piano e giocondo; E il fonte d' Elicon purgato e mondo, Torbido venne a tanto orribil caso. Apollo sospirò, pianser le Muse, E fu tal grido d' ogni intorno udito, Che dai cor nostri l' allegrezza escluse. Rimase allora ogni animo smarrito; E questo suon la bocca a tutti chiuse: Stampa caro e gentile, ove sei ito?

Nel suo Dialogo Amoroso, impresso in Ven. al Segno del
Pozzo a c. 26. e 27.

Fra: E mi sarebbe gratissimo, che vi fosse anche il gentilissimo M˙ Baldassare Stampa, per sentir in ciò il parer suo; perchè a me, che son Donna, in ciò di poco giudizio, e di manco esperienza, potreste dare ad intendere ciò che vi piacesse; e se bene io vi rispondessi all' opposito, le mie ragioni sariano facilmente ributtate; ma quelle d' un suo pari, così per poco non anderiano per terra, ec.

Nell' altro suo Dialogo intitolato: Il Raverta, appresso
il Giolito 1562. a c. 81.

Di messer Gottardo Mosello, e di messer Baldassare Stampa poco son per parlarvi; poichè i componimenti suoi, più volte da me mandati al Sig˙ Domenichi, e a voi, fanno chiarissimo testimonio quanto essi sieno virtuosi, ee.

Benzon, se il vero quì la fama narra, Che così chiara, e così trista suona; Terra è, lasso, tra noi la bella e buona Saffo de' nostri giorni alta Gasparra. Onde ogni saggio, e buon di questo innarra Secol ancor peggiore, e in Elicona Febo tra sì, e il no seco tenzona, Come chi suo gran mal paventi e garra. E ben sarebbe la più viva lampa Spenta d' Apollo, e il più leggiadro fiore Di virtù secco al suo maggior vigore. O d' ogni gran valor segnata STAMPA, La cerva, e il corvo lungo tempo scampa; Ma il cigno tosto, e la colomba muore. Ben diss' io il ver, ch' alla colomba, e al cigno Breve spazio di vita il ciel prescrive, Ma il corvo sempre, e la cornice vive, E il serpe, o s' altro è più ver noi maligno. O più d' altro ancor mai duro, e ferrigno Secol, che d' ogni ben te stesso prive; Chi fia, che onori più le caste Dive, O creda Febo a' suoi largo, e benigno? Se il primo, e più bel fior d' ogni virtute, N' hà, quando più splendea, svelto, e reciso Lei, che cieca sua falce attorno gira? Pianga mesta la terra; e il paradiso, Benzon, lieto si allegri, che rimira Cose sì rare, anzi non mai vedute. Ben è d' alta vaghezza il mondo scarco, Poi che spento Anassilla ha Morte rea, Che sol col canto, e con le luci fea A' giri eterni, ed a' lor lumi incarco. Spegni, Amor, la tua face, e rompi l' arco, Perchè, chiusi quegli occhi, onde s' ardea; Sparita una sì vera immortal Dea, Ch' i cori n' impiagava a stretto varco; Puoi dir, che sei rimaso solo, e inerme, Sole, e inermi le Suore al puro argento, Di Castalia, or ch' è svelto il lor bel germe. Chi vedrà più bellezza, o udrà concento Dolce, o d' alma; ahi terrene cose inferme, Non sì, qual voi, fugace è l' aura, e il vento. Se mira il ciel questa divina STAMPA Col guardo, onde dar vita a' morti suole Sgombra da quel le nubi, e face il Sole, Vago apparir quando più tuona, e lampa. Tocca dal piè, d' amor la terra avvampa, E produce ivi poi rose, e viole; Ed ogni pietra, che non può si duole Tenera farsi per serbarne stampa. Natura alle fattezze alte e leggiadre Stupida resta, e sè de' suoi lavori Invidia, che non sa com' possa tanto. Le stanno intorno i pargoletti Amori; E dicon sempre lieti in dolce canto: Venere è questa a noi diletta madre. Ben è ragion, Varchi gentil, se avvampa Vostro pietoso cor fero dolore; Chi non sospiri, e pianga entro e di fuore, Se d' ogni alto valor morta è la STAMPA? Ma se più d' altro lume or splende e lampa Nel ciel, chi vinse qui le dotte Suore Di beltate e virtù, ben dee minore Farsi la pena ch' oggi in voi si stampa. Questa de' nostri dì Saffo novella, Pari alla Greca nel tosco idioma; Ma più casta di lei, quanto più bella; Viverà sempre in questa parte, e in quella; Pur deve ogni gentil tonder la chioma Alla tomba di lei, ch' è fatta Stella. Giulio, quel duol, ch' entro il mio cor si accampa, Egual non ebbe mai, non che maggiore; Tal fu Colei, che nel suo più bel fiore Si spense, qual per vento accesa lampa. E s' ora il ciel della sua luce stampa, Che atra nebbia fea quì chiaro splendore, Molle rendendo ogni più duro core, Ciò non m' assolve dal gran danno, o scampa. Anzi contra Fortuna iniqua e fella M' inaspra più, che mai sazia, nè doma, Pianto più giusto ogn' or piu rinnovella. Ben mi consola in qualche parte, ch' ella Vivrà mai sempre; e tal che Atene e Roma, Saffo, e Lucrezia uscir vedran di sella. Se Amor, Natura al nobile intelletto Vostro fece spiegar tanto alto l' ale, Che vince e preme ogni altra opra mortale Di qual si voglia stile alto e perfetto; Perchè dolervi ognor, che Amore il petto Trapassi a voi con sì onorato strale, S' egli vi scorge, ove per se non sale Chi non prova d' amor cotanto affetto? L' erta ed alpestra e faticosa via, Ov' egli vi guidò sicuramente, Da voi questo dolor levar deuria. Lodando lui, che così agevolmente Sola v' addusse, dove altri disia Chiara, illustre, famosa eternamente. O Sola quì tra noi del ciel Fenice, Che alzata a volo il secol nostro oscura; E soura l' ali al ciel passa sicura, Sicchè vederla a pena omai ne lice. O sola agli occhi miei vera beatrice, In cui si mostra quanto sa Natura, Bellezza immaculata, e vista pura Da far con picciol cenno ogni uom felice. In cui si mostra quel che non comprende Altro intelletto al mondo, se no' il mio; Ch' amor tant' alto il leva, quanto v' anta. In voi si mostra quanto ancor s' accende L' anima gloriosa nel disio, Che per elezione a Dio la chiama. Qual sacro ingegno o in prosa sciolta; o in rima Con dir alto, e leggiadro studio, ed arte, Dirà di vostre lodi una sol parte Di voi, Donna lodata in ogni clima? Altra non fu mai tal, se il ver s' estima, Che voi pareggi; onde natura ha sparte Tutte sue grazie, e le virtù comparte Per farvi delle belle oggi la prima. E come il Sol, che ogni altra luce avanza, E da noi scaccia l' ombre, e apporta il lume, Così il vostro valor mostrate in nui. Amor che ne' vostri occhi ha la sua stanza, Mi fece al cor l' usato suo costume Per farmi a voì sogetto, e non d' altrui. Si dolci sa il mio Sol tesser gl' inganni Coi cari amati, e graziosi accenti, Co' risi un tempo, e con sospir dolenti, Imprimendo nei cor dolcezza, e affanni; Sì son vaghi a mirar, sì presti ai danni Nel viso sfavillar de' raggi ardenti, Gli occhi più ch' altri mai chiari e lucenti, Gli occhi seggio d' amor, dei cor tiranni: Che se scioglie le voci, o i lumi gira Con minor danno le parole e i sguardi Spiegano i Basilischi, e le Sirene. Morto resta, o prigion chi ascolta o mira; Ma dell' altera STAMPA i lacci, e i guardi Vita danno al mio mal con mille pene. Or ne rendi al Tirreno il corso, e l' onde Più chiare, o famoso Arno, e di fin oro Letto vagheggi; e il tuo bel crin d' alloro Con doppio giro altier premi, circonde. Ora ten vai superbo, or hai tu donde Sen pregi più delle tue Ninfe il coro; E chi di ricco, ed immortal tesoro Pinga le verdi tue fiorite sponde: Donna gentil, da' cui begli occhi move Soave fiamma, che di santo ardore Nostr' alme incende con felice vampa. Sovra il tuo grembo eterne grazie piove, Mentre con puro stil del tuo valore Perpetuo segno in mille carte STAMPA. Se il veder, e l' udir, splendore, e canto Al divino simile, ed al celeste, Cui mira, e sente ognor anzi che veste Anima il frale suo terreno manto: Due scale son, che nostre menti al santo Seggio, mortale, v' nettar già pasceste, Riducer ponno; que' begli occhi, e queste Care voci mirate, e udite alquanto; Di lei, che allor che la natura volse Formar, della più vaga idea che in mente Fosse di Dio, l' altero esempio tolse. Sì direte poggiando al ciel sovente: Te nata con le Muse in grembo accolse Venere, o Stampa, o Sol più ch' altro ardente,

Allo Illustre mio Signore.

Poichè le mie pene amorose, che per amor di V˙ S˙ porto scritte in diverse lettere, e rime, non han possuto una per una, non pur far pietoso V˙ S˙ verso di me, ma farla nè anco cortese di scrivermi una parola: mi son risoluta di ragunarle tutte in questo libro, per vedere, se tutte insieme lo potranno fare. Quì dunque V˙ S˙ vedrà, non il pelago delle passioni, delle lagrime, e de' tormenti miei; perchè è mar senza fondo; ma un picciolo ruscello solo di esse; nè pensi V˙ S˙ ch' io abbia ciò fatto, per farla conoscente della sua crudeltà; perchè crudeltà non si può dire, dove non è obbligo, nè per contristarnela: ma per farla più tosto conoscente della sua grandezza, ed allegrarla. Perchè vedendo essere usciti dalla durezza vostra, verso di me questi frutti conghietturerà, quali saranno quelli, che usciranno dalla sua pietà, se avverrà mai che i cieli me la facciano pietosa, o obbietto nobile, o obbietto chiaro, o obbietto divino, poichè tormentando ancora giovi, e fai frutto. Legga V˙ S˙ dunque, quando averà triegua dalle sue maggiori, e più care cure, le note delle cure amorose, e gravi della sua fidissima, ed infelicissima Anassilla; e da questa ombra prenda argomento, quali ella le debba provare e sentir nell' animo; che certo, se accaderà giammai che la mia povera, e mesta casa sia fatta degna del ricevere il suo grand' Oste, che è V˙ S˙ io son sicura, che i letti, le camere, le sale, e tutto racconteranno i lamenti, i singulti, i sospiri, e le lagrime, che giorno, e notte ho sparse, chiamando il nome di V˙ S˙ benedicendo però sempre nel mezzo de' miei maggiori tormenti, i cieli, e la mia buona sorte della cagion d' essi; perciocchè, assai meglio è per voi, Conte, morire, che gioir per qualunque. Ma che fo io? perchè senza bisogno tengo V˙ S˙ troppo lungamente a noia, ingiuriando anco le mie rime, quasi che esse non sappian dir le lor ragioni, ed abbian bisogno dell' altrui aita? Rimettendomi dunque ad esse, farò fine, pregando V˙ S˙ per ultimo guiderdone della mia fedelissima servitù, che nel ricever questo povero libretto, mi sia cortese sol di un sospiro; il quale rinfreschi così lontano la memoria della sua dimenticata, ed abbandonata Anassilla. E tu, libretto mio, depositario delle mie lagrime, appresentati nella più umil forma, che saprai dinanzi al Signor nostro, in compagnia della mia candida fede. E se in ricevendoti, vedrai rasserenar un poco quei miei fatali ed eterni lumi, beate tutte le nostre fatiche, e felicissime tutte le nostre speranze; e così ti resta seco eternamente in pace.

Voi, che ascoltate in queste meste rime, In questi mesti, in questi oscuri accenti, Il suon degli amorosi mieì lamenti, E delle pene mie tra l' altre prime; Ove fia chi valore apprezzi e stime, Gloria, non che perdon de' miei tormenti, Spero trovar fra le ben nate genti; Poichè la lor cagione è sì sublime. E spero ancor che debba dir qualch' una: Felicissima lei, dacchè sostenne Per sì chiara cagion danno sì chiaro. Deh perchè tanto amor, tanta fortuna Per sì nobil Signore a me non venne, Che anch' io ne andrei con tanta donna a paro? Era vicino il dì che il Creatore, Che nell' altezza sua potea restarsi, In forma umana venne a dimostrarsi, Dal ventre virginale uscendo fuore; Quando degnò l' illustre mio Signore, Per cui ho tanti poi lamenti sparsi, Potendo in luogo più alto annidarsi, Farsi nido e ricetto del mio core. Ond' io sì rara e sì alta ventura Accolsi lieta; e duolmi sol che tardi Mi fe' degna di lei l' eterna cura. Da indi in qua pensieri, e speme, e sguardi Volsi a lui tutti, fuor d' ogni misura Chiaro e gentil, quanto il Sol miri e guardi. Se di rozzo pastor di gregge, e folle Il giogo Ascreo fe' diventar Poeta Lui, che poi salse a sì lodata meta, Che quasi a tutti gli altri fama tolle; Che maraviglia fia, s' alza ed estolle Me bassa e vile a scriver tanta pièta, Quel che può più che studio e che pianeta, Il mio verde pregiato ed alto Colle? La cui sacra onorata e fatal ombra Dal mio cor, quasi subita tempesta, Ogn' ignoranza ogni bassezza sgombra. Questa da basso luogo m' erge, e questa Mi rinnova lo stil, la vena adombra; Tanta virtù nell' alma ognor mi desta. Quando fu prima il mio Signor concetto, Tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle Gli dier le grazie, e queste doti e quelle, Perch' ei fosse tra noi solo perfetto. Saturno diegli altezza d' intelletto; Giove il cercar le cose degne e belle; Marte appo lui fece ogni altro uomo imbelle; Febo gli empì di stile e senno il petto: Vener gli diè bellezza e leggiadria; Eloquenza Mercurio; ma la Luna Lo fe' gelato più ch'io non vorria. Di queste tante e rare grazie ognuna M' infiammò della chiara fiamma mia, E per agghiacciar lui restò quell' una. Io assimiglio il mio Signor al cielo Meco sovente. Il suo bel viso è il Sole; Gli occhi le stelle; e il suon delle parole È l' armonia che fà il Signor di Delo. Le tempeste le piogge i tuoni e il gelo Sono i suoi sdegni, quando irar si suole; Le bonacce e il sereno è, quando vuole Squarciar dell' ire sue benigno il velo. La Primavera e il germogliar de' fiori È, quando ei fà fiorir la mia speranza, Promettendo tenermi in questo stato. L' orrido verno è poi, quando cangiato Minaccia di mutar pensieri e stanza; Spogliata me de' miei più ricchi onori. Un intelletto angelico e divino, Una real natura ed un valore, Un desio vago di fama e d' onore, Un parlar saggio grave e pellegrino; Un sangue illustre a gli alti Re vicino, Una fortuna a poche altre minore, Un' età nel suo proprio e vero fiore, Un atto onesto mansueto e chino; Un viso più che il Sol lucente e chiaro, Ove bellezza e grazia Amor riserra, In non mai più vedute o udite tempre; Fur le catene che già mi legaro: E mi fan dolce ed onorata guerra. O pur piaccia ad Amor che stringan sempre! Chi vuol conoscer, Donne, il mio Signore; Miri un Signor di vago e dolce aspetto, Giovane d' anni e vecchio d' intelletto, Immagin della gloria e del valore! Di pelo biondo e di vivo colore, Di persona alta e spazioso petto; E finalmente in ogni opra perfetto, Fuor che un poco, oimè lassa, empio in amore. E chi vuol poi conoscer me, rimiri Una donna in effetti ed in sembiante Immagin della morte e de' martiri. Un albergo di fè saldo e costante, Una che perchè pianga, arda, e sospiri, Non fà pietoso il suo crudele amante. Se così come sono abbietta e vile Donna, posso portar sì alto foco; Perchè non debbo aver almeno un poco Di ritraggerlo al mondo e vena e stile? Se Amor con nuovo insolito focile, Ov' io non potea gir, m' alzò a tal loco; Perchè non può non con usato gioco Far la pena, e la penna in me simile? E se non può per forza di natura, Puollo almen per miracolo, che spesso Vince, trapassa, e rompe ogni misura. Come ciò sia non posso dir espresso; Io provo ben, che per mia gran ventura Mi sento il cor di nuovo stile impresso. Se avvien che un giorno Amore a me mi renda, E mi ritolga a questo empio Signore; Di che paventa, e non vorrebbe il core, Tal gioia del penar suo par che prenda: Voi chiamerete invan la mia stupenda Fede, e l' immenso e smisurato amore, Di vostra crudeltà, di vostro errore Tardi pentito, ove non è chi intenda. Ed io cantando la mia libertade, Da così duri lacci e crudi sciolta, Passerò lieta alla futura etade. E se giusto pregare in ciel s' ascolta, Vedrò forse anco in man di crudeltade La vita vostra a mia vendetta involta. Alto Colle gradito e grazioso, Nuovo Parnaso mio, nuovo Elicona, Ove poggiando attendo la corona, Delle fatiche mie dolce riposo; Quanto sei quì tra noi chiaro e famoso, E quanto sei a Rodano, e a Garona, A dire in rime alto desio mi sprona; Ma l' opra è tal, che cominciar non oso. Anzi quanto avverrà che mai ne canti, Fia pura ombra del ver, perciò che il vero Va di lungo al mio stile e all' altrui innanti; Le tue frondi e il tuo giogo, verdi e intero Conservi 'l cielo, albergo degli amanti, Colle gentil degnissimo d' Impero. Arbor felice avventuroso e chiaro, Onde i duo rami sono al mondo nati, Che vanno in alto, e son già tanto alzati, Quanto raro altri rami unqua s' alzaro; Rami che vanno ai grandi Scipj a paro, O s' altri fur di lor mai più lodati; Ben lo sanno i miei occhi fortunati, Che per bearsi in un d' essi miraro. Al tronco ed a voi, rami, sempre il cielo Piova rugiada, sì che non v' offenda Per avversa stagion caldo nè gelo. La chioma vostra e l' ombra s' apra e stenda Verde per tutto; e di onorato zelo Odor, fior, frutti a tutta Italia renda. Deh perchè così tardo gli occhi apersi Nel divin non umano amato volto, Ond' io scorgo mirando impresso e scolto Un mar d' alti miracoli e diversi? Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi D' inutil pianto in questo viver stolto; Nè l' alma avria, come ha, poco nè molto Di fortuna, o d' amore onde dolersi. E sarei forse di sì chiaro grido, Che mercè dello stil ch' indi m' è dato, Risoneria forse Adria oggi, e il suo lido. Ond' io sol piango il mio tempo passato, Mirando altrove; e forse anche mi fido Di fare in parte il foco mio lodato. Chi darà penna d' aquila o colomba Al mio stil basso, sicch' ei prenda il volo Dall' Indo al Mauro, e d' uno in altro Polo, Ove arrivar non può saetta o fromba? E quasi chiara e risonante tromba, La bellezza, il valor al mondo solo Di quel bel viso ch' io sospiro e colo, Descriva sì che l' opra non soccomba? Ma poichè ciò m' è tolto, ed io poggiare Per me stessa non posso ove conviene, Sicchè l' opra e lo stil vadan di pare; L' udranno sol queste felici arene, Questo d' Adria beato e chiaro mare; Porto de' miei diletti, e di mie pene. Che maraviglia fu, se al primo assalto, Giovane e sola, io restai presa al varco; Stando Amor quindi cogli strali e l' arco, E ferendo per mezzo, or basso or alto? Indi il Signor che in rime orno ed esalto Quanto più posso, e il mio dir resta parco, Con due occhi, anzi strai che spesso incarco Han fatto al Sole, e con un cor di smalto? Ed essendo da lato anche imboscate, Sicchè a modo nessun fess' io difesa, Alta virtute, e chiara nobiltate? Da tanti e tai nemici restai presa; Nè mi duol, pur che l' alma mia beltate, Or che m' ha vinta, non faccia altra impresa. Voi, che cercando ornar d' alloro il crine Per via di stile, al bel monte poggiate Con quante si fe' mai salde pedate, Anime sagge, dotte, e pellegrine; In questo mar che non ha fondo o fine, Le larghe vele innanzi a me spiegate: E gli onori e le grazie ad un cantate Del mio Signor, sì rare e sì divine. Perchè soggetto sì sublime e solo, Senz' altra aita di felice ingegno, Può per se stesso al cielo alzarci a volo. Io per me sola a dimostrar ne vegno, Quanto l' amo ad ognun, quanto lo colo; Ma delle lodi sue non giungo al segno. Siccome provo ognor nuovi diletti Nell' amor mio, e gioie non usate, E veggo in quell' angelica beltate Sempre nuovi miracoli ed effetti; Così vorrei aver concetti e detti, E parole a tanta opra appropriate: Sicchè fosser da me scritte e cantate, E fatte conte a mille alti intelletti. Et udissero l' altre che verranno, Con quanta invidia lor sia gita altera, Dell' amoroso mio felice danno. E vedesse anche la mia Gloria vera, Quanta i begli occhi suoi luce e forza hanno Di far beata altrui, benchè si pera. Io non v' invidio punto, Angeli santi, Le vostre tante glorie e tanti beni, E quei disir di ciò che braman pieni; Stando voi sempre all' alto Sire avanti. Perchè i diletti miei son tali e tanti, Che non posson capire in cor terreni; Mentre ho davanti i lumi almi e sereni, Di cui convien che sempre scriva e canti. E come in ciel gran refrigerio, e vita Dal volto suo solete voi fruire; Tal io quà giù dalla beltà infinita. In questo sol vincete il mio gioire, Che la vostra è eterna e stabilita, E la mia gloria può tosto finire. Quando io veggo apparir il mio bel raggio, Parmi vedere il Sol quando esce fuora; Quando fà meco poi dolce dimora, Mi sembra il Sol che faccia suo viaggio: E tanta nel cor gioia e vigore aggio, Tanta ne mostro nel sembiante allora, Quanta l' erba che il Sol pinge e colora, A mezzo giorno nel più vago Maggio. Quando poi parte il mio Sol finalmente, Parmi l' altro veder, che scolorita Lasci la terra andando in Occidente. Ma l' altro torna, e rende luce e vita; E del mio chiaro e lucido Oriente È il tornar dubbio, e certa la partita. Come chi mira in ciel fiso le stelle, Sempre qualch' una nuova ve ne scorge, Che non più vista pria fra tanti sorge Chiari lumi del mondo, alme fiammelle; Mirando fiso l' alte doti e belle Vostre, Signor, di qualch' una si accorge L' occhio mio nuova, che materia porge, Onde di lei si scriva e si favelle. Ma siccome non può gli occbi del cielo Tutti, perchè occhio vegga, raccontare Lingua mortal, e chiusa in uman velo; Io posso bene i vostri onor mirare: Ma la più parte d' essi ascondo e celo, Perchè la lingua all' opra non è pare. Il bel che fuor per gli occhi appare, e il vago Del mio Signore, e del suo dolce viso, È tanto e tal, che fà restar conquiso Ognun che il mira di gran lunga, e pago. Ma se qual è un cervier occhio e mago, Potesse altri mirare intento e fiso Quel che fuor non si mostra, un paradiso Di maraviglie vi vedrebbe, e un lago. E le donne non pur, ma gli animali, L' erbe le piante, l' onde i venti, e i sassi Farian arder d' amor gli occbi fatali. Questa una grazia agli occhi miei sol dassi, In guiderdon di tanti e tanti mali, Per onde a tanto ben poggiando vassi. S' Io che son Dio, ed ho meco tante armi, Non posso star col tuo Signore a prova, Ed è la sua bellezza unica e nuova Pronta mai sempre a tante ingiurie farmi; Come a tuo prò posso ora io consigliarmi, E darti il modo, con che tu rimova Quel saldo ghiaccio che nel cor si trova, Per via di preghi, di consiglio, o carmi? Ti bisogna aspettar tempo, o fortuna Che ti guidino a questo; ed altra via Non ti posso mostrar, se non quest' una. Così mi dice, e poi si vola via; Ed io mi resto al Sole ed alla Luna, Piangendo sempre la sventura mia. Rivolgete talor pietoso gli occhi Dalle vostre bellezze alle mie pene; Sicchè quanta alterezza indi vi viene, Tanta quindi pietate il cor vi tocchi: Vedrete qual martir indi mi fiocchi, Vedrete vote le faretre e piene, Che preste a' danni miei sempre Amor tiene, Quando avvien che ver me l' arco suo scocchi. E forse la pietà del mio tormento Vi moverà, dove or ne gite altero, Non lo vedendo voi, qual io lo sento; Così penosa io meno, e men voi fiero Ritornerete; e cento volte e cento Benedirete i ciel che mi vi diero. Grazie, che fate mai sempre soggiorno Negli occhi ch' amo, e quei poi delle prede, Che fan tante di noi, vostra mercede, Fanno il tempio d' Amor ricco et adorno; Quando scherzate a que' bei rai d' intorno Co' pargoletti Amor, che v' hanno sede, Fate fede a colui della mia fede, Che in tante carte omai celebro ed orno. E se di Grazie avete il nome e l' opra, Fatemi graziosi que' due giri, Che allo splendor del Sol stanno di sopra. E poi ch' hanno adescato i miei desiri, Fate, così mai morte non li copra, Che non mi lascin preda de' martiri. Vengan quante fur mai lingue, ed ingegni, Quanti fur stili in prosa, e quanti in versi, E quanti in tempi e paesi diversi, Spirti di riverenza e d' onor degni; Non fia mai che descrivan l' ire e i sdegni, Le noie e i danni che in amor soffersi; Percbè nel vero tanti e tali fersi, Che passan tutti gli amorosi segni. E non fia anche alcun che possa dire, Anzi adombrar la schiera de' diletti, Che Amor, la sua mercè, mi fà sentire. Voi, che ad amar per grazia siete eletti, Non vi dolete dunque di patire; Perchè i martir d' Amor son benedetti. Trammi, dico ad Amor talora, omai Fuor delle man di questo crudo ed empio; Che vive del mio danno e del mio scempio, Per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai: Poichè con tanti miei tormenti e guai, Sua fiera voglia ancor non pago od empio. O di Diana avaro e crudo tempio, Quando del sangue mio sazio sarai? Poi torno a me, e del mio dir mi pento, Sì l' ira il rimembrar pur lui mi smorza, Che de' miei non vorrei meno un tormento. Con sì nuova arte, con sì nuova forza La bellezza ch' io amo, e ch' io pavento, Ogni senso m' intrica, offusca, e sforza. Arsi piansi cantai, piango ardo e canto, Piangerò arderò canterò sempre, Fin che morte o fortuna o tempo stempre, All' ingegno occhi e cor, stil foco e pianto. La bellezza il valore e il senno a canto, Che in vaghe sagge ed onorate tempre Amor natura e studio par che tempre Nel volto petto e cor del lume santo: Che quando viene e quando parte il Sole, La notte e il giorno ognor, la state e il verno Tenebre e luce darmi e tormi suole. Tanto con l' occhio fuor, con l' occhio interno, Agli atti suoi, ai modi, alle parole, Splendor dolcezza e grazia ivi discerno. Altri mai foco, stral, prigione o nodo Sì vivo, e acuto, e sì aspra, e sì stretto Non arse, impiagò, tenne, e strinse il petto, Quanto il mio ardente, acuto, acerba, e sodo, Nè qual io moro, e nasco, e peno, e godo, More altra e nasce, e pena ed ha diletto, Per fermo e vario, e bello e crudo aspetto, Che in voci e in carte spesso accuso e lodo. Nè furo ad altrui mai le gioie care Quanto a me son, quando mi doglio e sfaccio, Mirando alle mie luci or fosche or chiare. Mi dorrà sol, se mi trarrà d' impaccio, Fin che potrò e vivere ed amare, Lo strale, e il foco, e la prigione, e il laccio. Quando innanti a' begli occhi almi e lucenti, Per mia rara ventura al mondo, io vegno, Lo stil la lingua, l' ardire e l' ingegno, I pensieri i concetti e i sentimenti; O restan tutti oppressi, o tutti spenti; E quasi muta e stupida divegno: O sia la riverenza in che li tegno, O sia che sono in quel bel lume intenti. Basta ch' io non so mai formar parola, Sì quel fatale e mio divino aspetto La forza insieme, e l' anima m' invola. O mirabil d' Amore e raro effetto, Ch' una sol cosa, una bellezza sola Mi dia la vita, e tolga l' intelletto. Mentre io conto fra me minutamente Le doti del mio Conte a parte a parte, Nobiltate, bellezza, ingegno, ed arte, Che lo fan chiaro sovra l' altra gente: Tale e tanto piacer l' anima sente; Che sendo tutte le sue virtù sparte, Mi maraviglio come non si parte, Volando al ciel per starvi eternamente. E certo v' anderia, se non temesse Che restasse il suo ben da lei diviso, E men beato il suo stato rendesse. Perchè il suo vero e proprio paradiso, Quello che per bearsi ella si elesse, È il mio dolce Signore, e il suo bel viso. Fra quella illustre e nobil compagnia Di grazie che vi fan, Conte, immortale, S' erge più d' altra, e vaga stende l' ale Del canto la dolcissima armonia. Quella in noi ogni acerba cura e ria Può render dolce, e far lieve ogni male; Quella, quand' Euro più fiero l' assale; Può render queto il mar turbato pria. Il Gioco, il Riso, Venere, e gli Amori Si veggon l' aere far sereno intorno, Ovunque suoni il dolce accento fuori. Ed io potendo far con voi soggiorno, All' armonia di quei celesti Cori Poco mi curerei di far ritorno. Chi non sa come dolce il cor si fura, Come dolce s' obblia ogni martire, Come dolce s' acqueta ogni desire, Sicchè di nulla più l' alma si cura: Venga per sua rarissima ventura Sol una volta voi, Conte, ad udire, Quando solete cantando addolcire La terra, e il cielo, e ciò che fe' natura. Al suon vedrà degli amorosi accenti Farsi l' aere sereno, ed arrestare L' orgoglio l' acque, le tempeste, e i venti. E visto poi quel che potete fare, Crederà ben che tigri, orsi, e serpenti Arrestasse anche Orfeo col suo cantare. Per le saette tue, Amor, ti giuro, E per la tua possente e sacra face, Che se ben questa m' arde e il cor mi sface, E quelle mi feriscon, non mi curo: Quantunque nel passato, e nel futuro Qual l' une acute, l' altra qual vivace, Donne amorose, e prendi qual ti piace, Che sentisser giammai, nè fian nè furo. Perchè nasce virtù da questa pena, Che il senso del dolor vince ed abbaglia, Sicchè o non duole, o non si sente appena. Quel che l' anima e il corpo mi travaglia; È la temenza che a morir mi mena, Che il foco mio non sia foco di paglia. Quando sarete mai sazie e satolle Del lungo strazio mio delle mie pene, Luci assai più che il Sol chiare e serene; Ch' ora illustrate il vostro amato Colle? Quando fia che non sia di pianto molle Il petto mio, che a gran pena sostiene L' anima fuggitiva, or che la spene Ch' era si poca, ancora Amor ne tolle? Quando fia che vi vegga un dì pietose, E duri la pietà vostra e non manchi Tosto, come le lievi e frali cose? O non fia, lassa, mai, o saran bianchi Questi crin prima; e quei sensi amorosi Accesi or sì, saranno freddi e stanchi. Sai tu, perchè ti mise in mano, Amore, Gli stral tua madre, ed agli occhi la benda? Perchè quella saetti, impiaghi, e fenda I cor di questo e quel fido amatore; E con questi non possa veder fuore De' colpi tuoi la crudeltà stupenda: Sicchè pietoso affatto non ti renda, O almen non tempri l' empio tuo furore. Che se vedessi un dì la piaga mia: O non saresti Dio, ma cruda fera; O pietoso, o men aspro ti faria. Non vorrei già che tu vedessi in ciera I raggi del mio Sol; che ti parria Forse all' incontro picciola e leggera. Accogliete benigni, o Colle, o Fiume, Albergo delle Grazie alme e d' Amore, Quella ch' arde del vostro alto Signore, E vive sol de' raggi del suo lume: E se fate, che amando si consume Men aspramente il mio infiammato core; Pregherò che vi sieno amiche l' ore, Ogni ninfa silvestre, ed ogni nume. E lascerò scolpita in qualche scorza La memoria di tanta cortesia, Quando di lasciar voi mi sarà forza. Ma, lassa, io sento che la fiamma mia Che dovrebbe scemar, più si rinforza; E più che altrove, quì s' ama e desia. Cesare e Ciro i vostri fidi spegli, In cui mai sempre, Signor, vi mirate, Poichè a seguir le lor chiare pedate Par che ciascun di lor v' infiammi e svegli; Perchè siccome è stato questi e quegli Esempio di clemenza e di pietate, Solo in queste virtù v' allontanate Da que' due chiari ed onorati vegli? Perchè non siete voi mite e clemente A me vostra prigion, vostra fattura, Come fur essi all' acquistata gente? Anzi forse voi siete di natura Mite con tutti, e meco solamente D' aspra e spietata. O mia somma sventura! Altero nido, ove il mio vivo Sole Prese da prima il suo terreno incarco, Onde però va più leggero e scarco Di quel che da tutt' altri andar si suole: Io vorrei dir, ma non so far parole Di tanti e tanti pregi, onde sei carco; Perchè lo stile all' alta impresa è parco, E vie più a chi t' onora entro e ti cole. Perciò mi taccio, e prego il ciel che sempre Ti serbi in questo lieto e vago stato, In queste care e graziose tempre; E renda ognor più chiaro e più lodato Il tuo Signore e mio; e che mi stempre Sempre nel mio bel foco alto e pregiato. Qualunque del mio petto esce sospiro, Ch' escon ad or ad or ardenti e spessi, Dal dì che per mio Sole gli occhi elessi, Che a prima vista a morte mi feriro; Vanno verso il bel Colle, ove pur miro, Benchè lontana, e vanno anche con essi I miei pensieri, e tutti i sensi stessi: Nè val, s' io li ritengo o li ritiro. Perchè la propria loro e vera stanza Son que' begli occhi, e quella alma beltade, Che prima mi destar la desianza. O pur sieno ivi accolti da pietade; Di che non spero, poi che per usanza Vi suol sempre aver luogo crudeltade. Se con tutto il mio studio e tutta l' arte, Io non posso accennar pur quanto e quale È íl foco mio, dal dì che il primo strale M' avventò Amor nella sinistra parte; Come volete voi, Signor, che in parte L' altrui voglie amorose e l' altrui male, Con questa forza stanca e così frale Io dica in vive voci, o scriva in carte? Datemi o il ciel più stile, o voi men pena, Onde abbia o più vigore, o men martire; Sicchè la vostra voglia resti piena. E se ciò non si può, vostro desire Adempiete da voi, che avete vena, Stile, ed ingegno eguale al vostro dire. Onde, che questo mar turbate spesso, Come turba anche me la gelosia, Venite a starvi meco in compagnia; Poichè mi siete sì care, e sì presso: Così fiero Austro ed Aquilon con esso Meno importuno e men crudo vi sia, Così triegua talora Eolo vi dia; Quel che a me dall' amor non è concesso. Lassa, ch' io ho da pianger tanto e tanto, Che l' umor che per gli occhi verso fuore, È poco o nulla se fosse altrettanto. Voi mi darete voi del vostro umore, Quanto mi basti a disfogare il pianto, Che si convien all' alto mio dolore. Ahi, se così vi distrignesse il laccìo, Come, misera, me stringe ed affrena; Non cerchereste d' una in altra pena Girmi traendo, e d' uno in altro impaccio. Ma perch' io son di foco, e voi di ghiaccio; Voi siete in libertate, ed io in catena; Io son di stanca, voi di franca lena; Voi vivete contento, ed io mi sfaccio: Voi mi ponete leggi, che a portarle Non basterian le spalle di Milone, Non ch' io debile e fral possa osservarle. Seguite, poichè il ciel così dispone: Forse che un giorno Amor potria mutarle; Forse che un dì farà la mia ragione. Tu pur mi promettesti amica pace, Amore, il dì che tua serva divenni, Mostrandomi i begli occhi, i guardi, e i cenni, Ove tua madre alberga e si compiace; Ed or quasi Signore empio e fallace, Poichè una volta il tuo giogo sostenni, Ad or ad or nuove saette impenni, Ed accendi una ed or un' altra face: E mi trafiggi, e mi consumi il core Col mezzo dell' orgoglio di colui, Che tanto gode, quanto altri si more. Così, misera me, tradita fui Giovane incauta sotto fè d' Amore; E doler mi vorrei, nè so di cui. Dura è la stella mia, maggior durezza È quella del mio Conte: egli mi fugge, Io seguo lui; altri per me si strugge, Io non posso mirare altra bellezza. Odio chi m' ama, ed amo chi mi sprezza; Verso chi m' è umile, il mio cor rugge; Io sono umil con chi mia speme adugge: A così strano cibo ho l' alma avvezza. Egli ognor dà cagione a nuovo sdegno, Essi mi cercan dar conforto e pace; Io lascio questi, ed a quell' un m' attegno. Così nella tua scola, Amor, si face Sempre il contrario di quel ch' egli è degno: L' umil si sprezza, e l' empio si compiace. Se tu vedessi, o madre degli Amori, E teco insieme il tuo figlio diletto L' accese e vive fiamme del mio petto, A quali altre fur mai pari, o maggiori; Se tu vedessi i pelaghi d' umori, Che da poi che il mio cor ti fu soggetto Mercè del vago e grazioso aspetto, Per questi occhi dolenti verso fuori: So che aversti pietà del mio gran pianto, E della fiamma mia spietata e ria, Che per sfogar talor descrivo e canto. Ma voi ferite, e poi fuggite via Più che folgor veloci, ed io fra tanto Resto col pianto e con la fiamma mia. Io vo pur descrivendo d' ora in ora La beltà vostra, e il vostro raro ingegno, E il valor d' altro stil, che del mio, degno; Se non quanto ei più d' altro mai vi onora. Nè perch' io m' affatichi, giungo ancora Di tanti pregi vostri al minor segno, Conte d' ogni virtù nido e sostegno, Senza cui la mia vita morte fora. Così s' io prendo a scriver il mio foco; È tanto e tal, da ch' egli da voi nasce, Che s' io ne dico assai, ne dico poco. Questo e quello il mio cor nutrisce e pasce, E questo e quel mi dà martiro e gioco: Così fui destinata entro le fasce. Alto Colle, almo Fiume, ove soggiorno Fan le Virtuti, e le Grazie, e gli Amori, Dal dì che dimostraste al mondo fuori Chi fà me, chi fà lui chiaro et adorno; Serena tu la fronte, alza tu il corno, Tu con nuove acque, e tu con nuovi fiori, Or che fa, colmo anch' ei di nuovi onori, Il Signor vostro e mio a voi ritorno? E poi che fia con voi, per cortesia Oprate sì che a me ritorni tosto; Che viver senza lui poco potria. Così stia il verno a voi sempre discosto, Così Flora, e Pomona in compagnia, Vi faccian sempre Aprile, e sempre Agosto. Io son dell' aspettare omai sì stanca, Sì vinta dal dolore, e dal desio, Per la sì poca fede e molto obblio Di chi del suo tornar, lassa, mi manca: Che lei che il mondo impallidisce e imbianca Con la sua falce, e da l' ultimo fio; Chiamo talor per refrigerio mio: Sì 'l dolor nel mio petto si rinfranca. Ed ella si fà sorda al mio chiamare, Schernendo i miei pensier fallaci e folli, Come sta sordo anch' egli al suo tornare. Così col pianto onde ho gli occhi miei molli, Fo pietose quest' onde e questo mare; Ed ei si vive lieto ne' suoi Colli. Come l' augel che a Febo è grato tanto Soura Meandro, ove suol far soggiorno, Quando si accosta il suo ultimo giorno, Move più dolci le querele e il canto; Tal io lontana dal bel viso santo, Soura il superbo d' Adria e ricco corno, Morte tema ed orrore avendo intorno, Affino, lassa, le querele e il pianto. E sono in questo a quell' augel minore, Che per quella onde venne istessa traccia, Ritorna a Febo il suo diletto olore. Ed io perchè morendo mi disfaccia, Non pur non torno a star col mio Signore, Ma temo che di me tutto gli spiaccia. Qual sempre a' miei disir contraria sorte Fra la spiga, e la man mi s' è tramessa; Sicchè la gioia che mi fù promessa, Tarda tanto a venir per darmi morte? Le mie due vive, due fidate scorte, Il Signor mio, anzi l' anima stessa, L' immagin che nel cor m' è sempre impressa, Perchè non batte omai, lassa, alle porte? L' alma allargata a questa nuova speme, Che ristretta nel duol prendea vigore, Mancherà tosto certo se non viene. E saran de' miracoli d' Amore, Che un' ombra breve di sperato bene Tolga altrui vita, e dia vita il dolore. Poi che Amor mi ferì di crude ponte, Vostra mercè, qual siete vivo e vero, V' ho scolpito nel fronte e nel pensiero, Sicchè nessun sembiante più si affronte; Il viso stesso, il proprio stesso fronte, Il proprio ciglio umilemente altero, Gli occhi stessi, i due Sol dell' emispero, Le stesse grazie, e le fattezze conte. In questo il mio ritratto è dissimile; Che qual mi siete, vi mostra alteretto, Là dove siete a tutti gli altri umile. Ora per far che anch' io v' abbia perfetto, Per far che anch' io pur v' abbia a voi simile; Emendate anche meco un tal difetto. Vieni, Amore, a veder la gloria mia, E poi la tua; che l' opra de' tuoi strali Ha fatto ambeduo noi chiari immortali, Ouvnque per Amor s' ama e desia. Chiara fe' me, perchè non fui restia Ad accettar i tuoi colpi mortali, Essendo gli occhi onde fui presa, quali Natura non fe' mai poscia nè pria. Chiaro fe' te, perchè a lodarti vegno Quanto più posso in rime ed in parole, Con quella che m' hai dato vena e ingegno. Or a te si convien far che quel Sole, Che mi desti per guida e per sostegno, Non lasci oscure queste luci e sole. Beate luci, or se mi fate guerra Voi, donde può venir sol la mia pace; Se il viver mio a voi, luci alme, spiace, E la mia vita in voi solo si serra: Mi converrà (e chi nol crede, s' erra) O viver sempre in guerra aspra e tenace, O tosto tosto l' anima fugace, Lasciato il corpo, se n' andrà sotterra. E così rimarrete senza poi Soggetto, ove possiate essercitare La crudeltate vostra Amore, e voi. Io ne verrò alfine a guadagnare; Che morendo un senza peccati suoi, Felicemente suole al ciel poggiare. Se d' arder e d' amar io non mi stanco, Anzi crescermi ognor questo e quel sento; E di questo e di quello io non mi pento, Come Amor sa, che mi sta sempre al fianco: Onde avvien che la speme ognor vien manco, Da me sparendo come nebbia al vento, La speme che il mio cor può far contento, Senza cui non si vive, e non vissi anco? Nel mezzo del mio cor spesso mi dice Un' incognita tema: O miserella, Non sia il tuo stato gran tempo felice; Che fra non molto potria sparir quella Luce degli occhi tuoi vera beatrice, Ed ogni gioia tua sparir con ella. Se non temprasse il foco del mio core L' umor che verso per gli occhi sì spesso; Io avrei visto già di morte il messo, E l' alma ad ubbidirla uscita fuore. Perchè la speme omai code al timore, Ed ogni cosa mia soggiace ad esso; Poichè si vede a mille segni espresso, Che chi può farlo vuole il mio dolore. Dunque s' io vivo, è mercè del mio pianto; S' io moro, è colpa delle crude voglie Del mio Signore, in vista dolce tanto. Ei mi legò sì ch' altri non mi scioglie; Ei vuol aver della mia morte il vanto. O poco chiare ed onorate spoglie! Voi, che in marmi, in colori, in bronzo, in cera Imitate, e vincete la Natura; Formando questa e quell' altra figura, Che poi somigli alla sua forma vera; Venite tutti in graziosa schiera A formar la più bella creatura, Che facesse giammai la prima cura; Poichè con le sue man fe' la primiera. Ritraggete il mio Conte; e siavi a mente Qual è dentro ritrarlo, e qual è fuore, Sicchè a tanta opra non manchi niente, Fategli solamente doppio il core, Come vedrete ch' egli ha veramente, Il suo, e il mio che gli ha donato Amore. Ritraggete poi me dall' altra parte, Come vedrete ch' io sono in effetto; Viva senz' alma e senza cor nel petto, Per miracol d' Amor raro e nuova arte. Quasi nave che vada senza sarte, Senza timon, senza vele e trinchetto; Mirando sempre al lume benedetto Della sua tramontana, ovunque parte. Ed avvertite che sia il mio sembiante Dalla parte sinistra afflitto e mesto, E dalla destra allegro e trionfante. Il mio stato felice vuol dir questo, Or che mi trovo il mio Signor davante; Quello, il timor che sarà d' altra presto. A Che, Signor, affaticare in vano, Per ritrarvi e scolpirvi in marmi, o in carte, O gli altri che hanno fama di quest' arte, O il chiaro Buonarroti, o Tiziano? Se scolpito qual siete aperto e piano, V' ho nel petto e nel fronte a parte a parte: Sicchè l' immagin d' indi unqua non parte, Perchè siate voi presso, o pur lontano. Ma forse voi volete esser ritratto In sembiante leale e grazioso, Qual siete a tutti in ogni opra, in ogni atto. Dove, lassa, che appena dirvel' oso, Vi porto impresso, qual vi provo in fatto, Un pochetto incostante e disdegnoso. Deh perchè non ho io l' ingegno e l' arte Di Lisippo e d' Apelle, onde potessi Il viso che per Sole al mondo elessi, Dipinger e scolpire in qualche parte? Poichè non posso ben ritrarre in carte, Come aurian collo stile ritratto essi, Le mie due stelle; la cui luce impressi Pria sì nel cor, che d' indi non si parte. Perch' io rimarrei sol con un tormento D' amar e sospirare, e il cor saria D' ogni altra cura poi pago e contento; Dove or piango l' acerba pena mia, E piango ch' atta a pinger non mi sento, Al mondo il mio bel Sol, quanto devria. Quelle lagrime calde, e quei sospiri, Che vedete ch' io spargo sì concenti Da poter arrestare il mar co' venti, Quando avvien ch' ei più frema e più s' adiri; Come potete voi co' vostri giri Rimirar non pur queti, ma contenti: O cor di fere tigri e di serpenti, Che vive sol de' duri miei martiri? Deh prolungate almen per alcune ore Questa vostra ostinata dipartita, Fin che m' usi a portar tanto dolore: Perciò che a così subita sparita Io potrei della vita restar fuore, Sol per servire a voi da me gradita. Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna M' affliggon sì, che non so come io possa Riparar questa e quell' altra percossa, Che mi danno a vicenda or l' altro or l' una. Aer, mar, terra, ciel, sol, stelle, e luna, Con quanto ha più ciascuna orgoglio e possa A danno mio, a mia rovina mossa, Lassa, mi si mostrò fin dalla cuna. E quel ch' è solo il mio fido sostegno, Per accrescermi duol, fra sì breve ora Partirassi da me senza ritegno. Almen venisse acerba morte ancora, Mentre io dolente mi lamento e sdegno, Dalle man di tant' oste a trarmi fuora. Chi mi darà soccorso all' ora estrema, Che verrà morte a trarmi fuor di vita Tosto dopo l' acerba dipartita, Onde fin d' ora il cor paventa e trema? Madre e Sorella no; perchè la tema Questa e quella a dolersi meco invita; E poi per prova omai la loro aita Non giova a questa doglia alta e suprema. E le vostre fidate amiche scorte, Che di giovarmi avriano sole il come, Saran lontane in quell' altera corte. Dunque io porrò queste terrene some Senza conforto alcun, se non di morte, Sospirando e chiamando il vostro nome. OR che torna la dolce Primavera A tutto il mondo, a me sola si parte; E va da noi lontana in quella parte, Ov' è del Sol più fredda assai la sfera: E que' vermigli e bianchi fior, che in schiera Amor nel viso di sua man comparte Del mio Signor, del gran figlio di Marte, Daranno agli occhi miei l' ultima sera. E fioriranno a gente ove non fia Chi spiri e viva sol del lor odore, Come fà la penosa vita mia. O troppo iniquo e troppo ingiusto Amore, A comportar, che degli amanti stia Sì lontano l' un l' altro il corpo e il core. Questo poco di tempo che m' è dato, Anzi di vita, avanti il partir vostro, Voi dovreste, o del mondo unico mostro, Essermi pure ad or ad or a lato: Acciò che poi essendo dilungato Dal felice, e natio terreno nostro; Prenda vigor dal vago avorio ed ostro Il mio poi, senza voi, misero stato. Perchè se vi partite, ed io non prenda Prima vigor da voi, converrà certo Che a morte l' alma subito si renda. E dove al monte faticoso ed erto D' onor poggiate, temo non offenda Questa macchia il candor del vostro merto. VOI che novellamente, donne, entrate In questo pien di tema, e pien d' errore Largo, e profondo pelago d' Amore, Ove già tante navi son spezzate: Siate accorte, e tant' oltra non passate, Che non possiate in fine uscirne fuore; Nè fidate in bonacce, o in seconde ore, Che come a me vi fian tosto cangiate. Sia dal mio esempio il vostro legno scorto, Cui ria fortuna allor diede di piglio, Che più sperai esser vicina al porto. Sovra tutto vi do questo consiglio: Prendete amanti nobili; e conforto Questo vi fia in ogni aspro periglio. Deh se vi fu giammai dolce e soave La vostra fedelissima Anassilla, Mentre serrata sì che nullo aprilla, Teneste del suo cor, Conte, la chiave; Leggendo in queste carte il lungo e grave Pianto, a che Amor per voi lassa sortilla: Mostrar almen di pièta una scintilla In premio di sua fè non vi sia grave. Accompagnate almen con un sospiro La schiera immensa de' sospiri suoi, Che mille volte i ciel pietosi udiro. Così sia sempre Amor benigno a voi, Quanto a lei fu per voi spietato e diro; Così non sia mai cosa che v' annoi. Ricevete cortesi i miei lamenti, E portateli fide al mio Signore, O di Francia beate e felici ore; Che godete or de' begli occhi lucenti: E ditegli con tristi e mesti accenti, Che s' ei non move a dar soccorso al core O tornando o scrivendo; fra poche ore Resteran gli occhi miei di luce spenti. Perchè le pene mie molte ed estreme Per questa assenzia omai son giunte in parte, Dove di morte sol si pensa e teme. E s' egli avvien che indarno restin sparte Dinanzi a lui le mie voci supreme, Al mio scampo non ho più schermo, od arte; Chi porterà le mie giuste querele Al mio Signore, al gran Re Franco appresso, D' ogni rara eccellenza esempio espresso, E fuor che a me, a tutti altri fedele? Aure de' miei sospir voi che le vele De' miei caldi desir gonfiate spesso, Sarete il mio secreto e fido messo, Onde il mio stato a lui sol si rivele. E se la lunga e faticosa via Vi sbigottisce, venga con voi anche La poca e nulla omai speranza mia: E s' egli avvien che ancor essa si stanche, Quando dinanzi all' idol nostro fia; Tornate a me, che anch' io convien che manche. Chiaro e famoso mare, Sopra il cui nobil dosso Si posò il mio Signor, mentre Amor volle; Rive onorate e care, Con sospir dir lo posso, Che il petto mio vedeste spesso molle; Soave lido, e colle, Che con fiato amoroso Udisti le mie note, D' ira e di sdegno vote, Colme d' ogni diletto e di riposo; Udite tutti intenti Il suono or degli acerbi miei lamenti. Io dico, che dal giorno Che fece dipartita L' idolo, onde avean pace i miei sospiri; Tolti mi fur d' intorno Tutti i ben d' esta vita, E restai preda eterna de' martiri. E perch' io pur m' adiri, E chiami Amore ingrato, Che m' involò sì tosto Il ben ch' or sta discosto, Non per questo a pietade è mai tornato; E tien l' usate tempre, Perch' io mi sfaccia e mi lamenti sempre. Deh fosse men lontano Almen chi move il pianto, E chi move le giuste mie querele; Che forse non invano M' affliggerei cotanto, E chiamerei Amor empio e crudele; Che amaro assenzio e fele Dopo quel dolce cibo Mi fe', lassa, gustare In tempre aspre ed amare. O duro tosco che in amor delibo Perchè fai sì dogliosa La vita mia, che fu già sì gioiosa! Almen poichè m' è lunge Il mio terrestre Dio, Che sì lontano ancor mi apporta guai; Il duol che sì mi punge Non mandasse in obblio, E l' udisse ei per cui piansi e cantai: Men acerbi i miei lai, Men cruda la mia pena, Men fiero il mio tormento, Che giorno e notte sento Fora per la sua luce alma e serena: E sariami 'l dispetto Dolce sovra ogni dolce alto diletto. S' egli è pur la mia stella, E se s' accorda il cielo, Ch' io moia per cagion così gradita; Venga morte, e con ella Amor, e questo velo Tolgan, ed esca fuor l' alma smarrita; Che del suo albergo uscita, Volerà lieta in parte, Dove s' avrà mercede Della sua viva fede; Fede d' esser cantata in mille carte. Ma, lassa, a che non torna Chi le tenebre mie cogli occhi adorna? Se tu fossi contenta, Canzon, come sei mesta, N' andresti chiara in quella parte e in questa. Mentre, Signor, alle alte cose intento, V' ornate in Francia l' onorata chioma, Come fecero i figli alti di Roma; Figli sol di valore e d' ardimento; Io qui sovr' Adria piango e mi lamento; Sì da' martir, sì da' travagli doma, Gravata sì dall' amorosa soma, Che mi veggo morire, e lo consento. E duolmi sol che sì come s' intende Quì 'l suon da noi de' vostri onor, che omai Per tutta Italia sì chiaro si stende; Non s' oda in Francia il suono de' miei lai, Che così spesso il ciel pietoso rende; E voi pietoso non ha fatto mai. O ora, o stella dispietata e cruda, Ch' io vidi dipartir la gloria mia; Lasciando di beata ch' era pria La vita mia d' ogni suo bene ignuda. Da indi in qua per me si trema, e suda, Si piange, si dispera, e si desia; E sarà maraviglia se non fia, Che morte tosto queste luci chiuda. Che del lor fatal Sol restate senza, Altra luce giammai mirar non ponno, Che lor non sembri notte e dipartenza. Dunque o lor tosto, Amor, rendi il lor donno, O per non soffrir più si dura assenza, Tosto le chiudi in sempiterno sonno. Quando più tardi il Sole a noi ritorna, E quando avvien che poi più tardi annotte; Quand' ei mostra i crin d' or, quando la notte Mostra la Luna l' argentate corna: Il mio cor lasso a' suoi sospir ritorna, Alle voci, alle lagrime interrotte; Sì le ha tutte ad un segno ricondotte L' assenzia di Colui che Francia adorna. E sì caldo desio di rivederlo Fra tutti altri martir mi preme e punge, Che non so come omai più sostenerlo. E duolmi più ch' egli è da me sì lunge, Che a poter richiamarlo, ed a poterlo Mover a pièta il mio gridar non giunge. LA mia vita è un mar: l' acqua è il mio pianto, I venti sono l' aure de' sospiri; La speranza è la nave; i miei disiri La vela e i remi che la caccian tanto. La tramontana mia è il lume santo De' miei duo chiari, duo stellanti giri; A' quai convien che ancor lontana io miri; Senza timon, senza nocchiero a canto. Le perigliose e subite tempeste Son le teme, e le fredde gelosie; Al dipartirsi tarde, al venir preste. Bonacce non vi son; perchè dal die Che voi, Conte, da me lontan vi feste, Partir con voi l' ore serene mie. Deh foss' io certa almen che alcuna volta Voi rivolgeste a me l' alto pensiero; Conte, a cui per mio danno ì cieli diero Si da' lacci d' amor l' anima sciolta. L' acerba pena mia nel petto accolta, L' empia mercè del dispietato arciero, I sospir che in amor sola mi fero; Aurian tregua talora o poca o molta. Ma il sentirmi patir carca di fede, Senza mover pietade a chi mi strugge, A chi contento i miei tormenti vede; Sì le speranze mie tronca et adugge, Che se Dio di rimedio non provvede, L' alma per dipartirsi freme e rugge. LA gran sete amorosa che mi afflige, La memoria del bene onde son priva, Che mi sta dentro al cor tenace e viva, Sicchè null' altra più forte s' affige; Sovra ogni forza mia move et adige La vena mia, per se muta e restiva: E fà che in queste carte adombri e scriva, Quanto aspramente Amor m' arde e trafige. Che fà qual noi parlar la muta pica? Chi 'l nero corvo, e gli altri muti uccelli? La brama sol di quel che li nutrica. Però se avvien ch' io scriva e ch' io favelli, Narrando l' amorosa mia fatica; Non sono io no, son gli occhi vaghi e belli. Fa ch' io rivegga, Amore, anzi ch' io moia Gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro; Fuor de' quai ciò ch' io veggio, e ciò ch' io miro Con questi miei mi par tenebre e noia. Quante fiamme or vome Etna, arser già Troia In quello incendio dispietato e diro, A petto alle mie fiamme, al mio martiro Son poco, o nulla, anzi son pace e gioia. E se il Sol delle luci mie divine, Chi 'l crederia? tornando non lo smorza; Sento che il mio incendio è senza fine. O mirabil d' Amore, e nuova forza, Che dove avvien che un foco l' altro affine, Quì solo un foco l' altro vince, e sforza. Quando talora Amor m' assal più forte, E il desir, e l' assenzia mi fan guerra, E questa, e quel vorria pormi sotterra, Preda d' oscura e dispietata morte; Io mi rivolgo alle mie fide scorte, Onde benchè lontan, virtù si sferra: Talchè la nave mia che dubbiosa erra, Subito par che al lido si riporte. Sicchè quanto ho d' amor onde mi doglia, Tanto ho onde mi lodi; poichè io sento Che una sol man mi leghi, una mi scioglia. O gioia amara! o mio dolce tormento! Io prego il ciel, che mai non mi vi toglia; E sia il mio stato or misero, or contento. O Delle mie fatiche alto ritegno, Mentre ad Amor, ed a fortuna piacque, Conte gentile, a cui giammai non nacque Bellezza egual, valor, sangue, ed ingegno; Se il vostro cor di maggior donna degno, Una volta in me sola si compiacque, Se fin gli scogli d' Adria, i lidi, e l' acque San che voi siete il mio solo sostegno: Perchè senza mia colpa e mio difetto, Se non d' esser più che altra fida stata, M' avete tratta fuor del vostro petto? Questa è la gioia mia da voi sperata? E questo è quel che voi m' avete detto? Questa è la fè che voi m' avete data? Gli occhi onde mi legasti, Amore, affrena; Sicchè non veggan mai altra bellezza, Altra creanza ed altra gentilezza Di belle donne, onde la Francia è piena. Acciò che quanto or è dolce ed amena, Non sia piena di lagrime e d' asprezza La vita mia, ch' ogni altra cosa sprezza, Fuor che la luce sua chiara e serena. E s' egli avvien che sia lor mostro a sorte Obbietto che sia degno essere amato, Ed accenda quel cor tenace e forte; Ferisci lui col tuo strale impiombato, O con quel d' oro dona a me la morte; Perchè viver non voglio in tale stato. La fè, Conte, il più caro e ricco pegno Che possa aver illustre Cavaliero, Come cangiaste voi presto e leggero, Fuor che di lei d' ogni virtù sostegno? Appena vide voi'l Gallico regno, Che mutaste con lei voglia e pensiero; Ed Anassilla e il suo fedele e vero Amor sparir da voi tutti ad un segno. E piaccia pure a lui che mi governa Che non sia la cagion di questo obblio Novella fiamma nel cor vostro interna. O se ciò è, acerbo stato mio, O doglia mia soura ogni doglia eterna; O fidanza d' Amor che mi tradio. Prendi, Amor, de' tuoi lacci il più possente, Che non abbia nè schermo, nè difesa, Onde Evadne e Penelope fu presa, E lega il mio Signor novellamente. Appena ei fu dagli occhi nostri assente, Per gir all' alta ed onorata impresa, Che noi scherniti e sua fè vilipesa, Rivolse altrove la superba mente. E quasi in alto pelago sommerso D' obblivione, alla sua Anassilla Non ha degnato mai scrivere un verso. O Nerone, o Mezenzio, o Mario, o Silla, Chi fu di voi sì crudo e sì perverso, D' Amor gustata pure una scintilla? Questo aspro Conte un cor d' orsa e di tigre Che in così vago e mansueto aspetto, Per forza di valore e d' intelletto, Alla strada di gloria par che migre; Non so per qual cagion guasti e denigre Col mancarmi di fè sì degno effetto; E l' ali di sua fama col difetto D' infedeltà renda restive e pigre. Almen gli fossi io presso, onde potessi, Dimostrargli il suo fallo, e il dolor mio; Sicchè fido e pietoso lo facessi. Ma i son quì lassa, colma di desio, E i miei lamenti all' aure son commessi; Egli in Francia si sta colmo di obblio. Qui dove avvien che il nostro mar ristagne, Conte, la vostra misera Anassilla Quando la Luna agghiaccia, e il Sol sfavilla, Pur voi chiamando si lamenta ed agne. Voi, dove avvien che l' Oceano bagne, La notte, il giorno, all' alba, ed alla squilla, Menando vita libera e tranquilla, Mirate lieto il mar e le campagne. E sì l' assenzia e il poco amor v' invola La memoria di lei, la vostra fede, Che pur non le scrivete una parola. O fra tutte altre mia miseria sola; O pena mia che ogni altra pena eccede. Ciò si comporta, Amor, nella tua scola? Oime le notti mie colme di gioia, I dì tranquilli, e la serena vita, Come mi tolse amara dipartita; E converte il mio stato tutto in noia? E perchè temo ancor, e più m' annoia, Che la memoria mia sia dipartita Da quel Conte crudel, che m' ha ferita; Che mi resta altro omai, se non ch' io moia? E vo' morir, che rimirar d' altrui Quel che fu mio questi occhi non potranno; Perchè mirar non sanno altri che lui. Prendano esempio l' altre che verranno, A non mandar tant' oltra i disir sui, Che ritrar non si possan dall' inganno. O sacro amato e prezioso aspetto, O più che il chiaro Sol lucenti lumi; O sangue illustre, angelici costumi, O alto ingegno, altissimo intelletto. O colmi di prudenza e di diletto, D' eloquenza profondi e larghi fiumi, O finalmente, onde io più mi consumi, D' ogni grazia e virtù, Conte, ricetto. Qual contro a' miei disir stella empia e cruda Già mi vi tolse, ed or vi tien discosto, Contra la fè che voi mi deste pria? O morte dunque queste luci chiuda, Od apritele voi tornando tosto; Perchè così non so quel ch' io mi sia. Quando tal volta il mio soverchio ardore M' assale, e stringe oltra ogni stile umano, Userei contra me la propria mano Per finir tanti omai con un dolore. Se non che dentro mi ragiona Amore, Il qual giammai da me non è lontano: Non por la falce tua nell' altrui grano, Tu non sei tua, tu sei del tuo Signore. Perchè dal dì che a lui ti diedi in preda, L' anima e il corpo, e la morte e la vita Divenne sua, e a lui convien che ceda. Sicchè a far da te stessa dipartita, Senza ch' egli tel dica, o tel conceda; È troppo ingiusta cosa, e troppo ardita. Piangete, Donne; e poichè la mia morte Non move il mio Signor crudo e lontano, Voi che siete di cor dolce ed umano, Aprite di pietade almen le porte. Piangete meco la mia acerba sorte Chiamando Amore, il cielo empio e inumano; E lei che mi ferì, spietata mano; Che mi vegga morir, e lo comporte. E poichè io sarò cenere e favilla, Dite alcuna di voi mesta e pietosa, Sentita del mio foco una scintilla: Sotto quest' aspra pietra giace ascosa L' infelice e fidissima Anassilla, Raro esempio di fede alta amorosa. Prendi, Amore, i tuoi strali e la tua face, Ch'io ti rinunzio i torti e le fatiche, Le voglie a' propri danni sempre amiche, La guerra certa e la dubbiosa pace. Trova un nuovo soggetto e più capace, Cui 'l tuo foco arda e la tua rete intriche, Ch' io per me non vo' più che mi si diche: Questa per altri indarno arde e si sface. Io son del grave esilio tuo tornata; E son resa a me stessa, e non men pento, Mercè di lui che m' ha la via mostrata. E ne' miei danni ho pur questo contento, Che almen se fui da te sì mal trattata; Alta fu la cagion del mio tormento. Lassa, chi turba la mia lunga pace? Chi rompe il sonno e l' alta mia quiete; Chi mi stilla nel cor novella sete Di gir seguendo quel che più mi sface? Tu Amore, il cui strale, e la cui face Ogni contento uman recide e miete; Tu m' imbevesti col tuo fiume lete Che più mi noce, quanto più mi piace. Ahi quando fia giammai che un giorno possa Voler col mio voler; resa a me stessa, Del grave giogo periglioso scossa? Quando fia mai che la sembianza impressa Dentro alle mie midolle, e dentro all' ossa Mi smaghi Amore, e i miei martir con essa? Ma che sciocca dich' io? perchè vaneggio? Perchè sì fuggo questo chiaro inganno? Perchè sgravarmi da sì util danno Pronta ne' danni miei ad Amor chieggio? Come fuor di me stessa non mi avveggio, Che quante ebber mai gioie, e quante avranno, Quante fur donne mai, quante saranno; Co' miei chiari martir passo e pareggio? Che l' arder per cagione alta e gentile, Ogni aspra vita fà dolce e beata, Più che gioir per cosa abbietta e vile. Ed io ringrazio Amor, che destinata M' abbia a tal foco, che da Battro a Tile Spero anche un giorno andar chiara e lodata. Voi, che per l' amoroso aspro sentiero, Donne care, come io forse passate; Ed avete talor viste, e provate Quante pene può dar quel crudo arciero: Dite per cortesia, ma dite il vero, Se quante ne son or, quante son state, All' aspre pene mie paragonate, Ugguaglian un de' miei martiri intero? E dite, se vedeste mai sembianza Più dolce in vista, e più spietata poi Del Signor mio, nell' amorosa stanza? Così tal volta Amor dia tregua a voi, Mentr' ei con questa dura lontananza Sfoga in me tutti ad uno i furor suoi. Nuovo e raro miracol di natura, Ma non nuovo, nè raro a quel Signore, Che il mondo tutto va chiamando Amore, Che il tutto adopra fuor d' ogni misura. Il valor che degli altri il pregio fura Del mio Signor, che vince ogni valore; È vinto, lassa, sol dal mio dolore, Dolor a petto a cui null' altro dura. Quanto ei tutti altri Cavalieri eccede, In esser bello, nobile, ed ardito; Tanto è vinto da me, dalla mia fede. Miracol fuor d' amor mai non udito, Dolor che chi nol prova non lo crede. Lassa, ch' io sola vinco l' infinito. Quasi quercia di monte urtata e scossa Da ogni lato, e da contrari venti, Che sendo or questi, or quelli più possenti, Per cader mille volte e mille è mossa; La vita mia, questa mia frale possa Combattuta or da speme, or da tormenti, Non sa, lontani i chiari lumi ardenti, In qual parte piegare omai si possa. Or m' affidan le carte del mio bene, Or mi disperan poi le altrui parole. Ei mi dice: Io pur vengo; altri: Non viene. Sia morte meco almen più che non suole Pietosa a trarmi fuor di tante pene; Se non debbo veder tosto il mio Sole. Qual fuggitiva cerva e miserella, Che avendo la saetta nel costato, Seguita da due veltri in selva e in prato, Fugge la morte che va pur con ella; Tal io ferita dall' empie quadrella Del fiero cacciator crudo ed alato, Gelosia e desio avendo a lato, Fuggo, e schivar non posso la mia stella. La qual mi mena a miserabil morte, Se non ritorna a noi da gente strana Il Sol degli occhi miei che la conforte; Egli è 'l dittamo mio, egli risana La piaga mia; e può far la mia sorte D' aspra e noiosa, dilettosa e piana. A che, Conte, assalir chi non ripugna? A che gittar per terra chi si rende? A che contender con chi non contende? Con chi avete mai sempre fra l' ugna? Sapete che co' morti non si pugna; Che lo splendor d' un Cavaliere offende, E il vostro più, che l' ali oggimai stende, Dove non so s' altrui chiarezza aggiugna. Guardate che la fama delle tante Vostre vittorie poi non renda oscura, Signor, questa una sola, e non ammante. Io per me stimerei mia gran ventura L' esser veduta al vostro carro innante; Ma voi del vostro onor abbiate cura. Menami, Amore, omai, lassa! il mio Sole, Che mi solea non pur far chiaro il giorno, Ma non men che il dì, chiara anco la notte, Tal ch' io sprezzava il ritornar dell' alba, Sì di questi occhi la sua vaga luce Disgombrava le tenebre e la nebbia, Ed ora più non veggio altro che nebbia, Poichè l' usato mio lucente Sole; Con la sua, e del mondo altera luce, Lume facendo in altra parte e giorno; Vuol che mai non si rompa per me l' alba, Perchè da me non fugga unqua la notte. Deh discacciasse il vel di questa notte, Il vel di tanta e sì importuna nebbia, E all' apparir del suo ritorno l' alba Mi rimenasse il mio bramato Sole, Sicchè lieta vedessi ancora un giorno, Pria che chiudessi in tutto esta mia luce. Ben fora chiara e graziosa luce, Che procedesse a sì beata notte; Ben fora chiaro e desiato giorno, E disgombrato di tempeste e nebbia, Che mostrasse a questi occhi il lor bel Sole; Spuntando tra le rose, e tra i fior l' alba. Pur che innanzi che il ciel mi renda l' alba, Morte amara non spenga la mia luce, Invidiando a lei l' amato Sole; E chiusi gli occhi in sempiterna notte, Ne vada, lassa, a star fra quella nebbia, Dove mai non si vede il chiaro giorno. Tu dunque, Amor, che fai di notte giorno, E puoi condurmi in un momento l' alba, E via cacciar de' miei martir la nebbia, E di tenebre oscure trar la luce; Rompi omai 'l vel di questa lunga notte, E adduci a questi occhi il mio bel Sole. Vivo Sol, che solei far chiaro il giorno, Mentre la luce mia non vide nebbia; Perchè non meni alla mia notte l' alba? Deh perchè, com' io son con voi col core, Non vi son, Conte, ancor con la persona, Com' io vorrei; tanto il desio mi sprona, Tanto mi stringe il signor nostro Amore? Che mirando talor l' aspro furore Soura di voi, quando arde più Bellona, Di qualche Cavalier, che la corona Cercasse porsi di sì alto onore; Vedendo scender qualche colpo crudo, O pregherei Amor che lo schifassi, O io del corpo mio gli farei scudo: Ma il ciel pur fiero alle mie voglie stassi, Nè m' ode; benchè il duol che dentro chiudo, Rompa per la pietate i duri sassi. O Gran valor d' un Cavalier cortese, D' aver portato fin in Francia il core D' una giovane incauta, che Amore Allo splendor de' suoi begli occhi prese. Almen m' aveste le promesse attese Di temprar con due versi il mio dolore, Mentre, Signor, a procacciarvi onore Tutte le voglie avete ad una intese. Io ho pur letto nelle antiche carte, Che non ebbero a sdegno i grandi Eroi Parimente seguir Venere, e Marte. E del Re che seguite, udito ho poi, Che queste cure altamente comparte; Ond' è chiar dagli Esperj ai lidi Eoi. Conte, il vostro valor ben è infinito, Sicchè vince qualunque alto valore, Ma verissimamente è via minore Del duol, che amando io ho per voi patito. E se non s' è fin qui letto ed udito Dell' infinito cosa unqua maggiore; Questi sono i miracoli d' Amore, Che vince ciò che in cielo è stabilito. Tempo già fu che l' alta gioia mia Di gran lunga avanzava anco il mio duolo, Mentre dolce la speme entro fioria. Or ella è gita, ed ei rimaso è solo, Dal dì che per mia stella acerba e ria Prendeste, ahi lassa, verso Francia il volo. Io pure aspetto, e non veggo che giunga Il mio Signor, o il suo fidato messo, Al termin che da lui mi fu promesso; Lassa, che il mio piacer troppo s' allunga, Onde avvien che temenza il cor mi punga, Che qualche intoppo non gli sia successo; O ch' ei sol pensi in me quanto m' è presso, E l' assenza il suo cor da me disgiunga. Il che se fosse, io prego morte avara, Che venga in vece sua, poich' ei non viene, A trarmi fuor di tema e vita amara. Ma se giusta cagion me lo ritiene, Io prego Amor che ogni fosco rischiara, Che apra la via, ond' io vegga il mio bene. O Beata e dolcissima novella, O caro annunzio, che mi promettete, Che tosto rivedrò le care e liete Luci, e la faccia graziosa e bella. O mia ventura, o mia propizia stella, Ch' a tanto ben serbata ancor m' avete, O fede, o speme, ch' a me sempre siete State compagne in dura aspra procella. O cangiato in un punto viver mio Di mesto in lieto; o queto almo e sereno Fatto or, di verno tenebroso e rio; Quando potrò giammai lodarvi appieno? Come dir qual nel core aggio desio, Di che letizia io l' abbia ingombro e pieno? Con quai degne accoglienze, o quai parole Raccorrò io il mio gradito Amante, Che torna a me con tante glorie e tante, Quante in un sol non vide forse il Sole? Qual color or di rose, or di viole Fia il mio? qual core or saldo, et or tremante, Condotta innazi a quel divin sembiante, Ch' ardir e tema insieme dar mi suole? Oserò io con queste fide braccia Cingerli il caro collo, ed accostare La mia tremante alla sua viva faccia? Lassa, che pur a tanto ben penare, Temo che il cor di gioia non si sfaccia; Chi l' ha provato se lo può pensare. Via da me le tenebre e la nebbia, Che mi son sempre state agli occhi intorno Sei Lune e più, che in Francia fe' soggiorno Lui, che il mio cor come gli piace, trebbia. È ben ragion, ch' asserenarmi io debbia, Or che il mio Sol m' ha rimenato il giorno; Or ch' han pace le guerre che d' attorno, Mi fur; qual vide Trasimeno, e Trebbia. Sia ogni cosa in me di riso piena, Poichè seco una schiera di diletti A star meco il mio Sole almo rimena. Sia la mia vita in mille dolci eletti Piaceri involta, e tutta alma e serena, E se stessa gioendo ognor diletti. Io benedico, Amor, tutti gli affanni, Tutte le ingiurie, e tutte le fatiche, Tutte le noie novelle, ed antiche, Che m' hai fatto provar tante, e tanti anni. Benedico le frodi, e i tanti inganni, Con che convien che i tuoi seguaci intriche; Poichè tornando le due Stelle amiche, M' hanno in un tratto ristorati i danni. Tutto il passato mal porre in obblio M' ha fatto la lor viva e nova luce, Ove sol trova pace il mio desio. Questa per dritta strada mi conduce Su a contemplar le belle cose, e Dio, Ferma guida, alta scorta, e fida duce. O Notte a me più chiara e più beata, Che i più beati giorni ed i più chiari, Notte degna da' primi e da' più rari Ingegni esser, non pur da me lodata. Tu delle gioie mie sola sei stata Fida ministra, tu tutti gli amari Della mia vita hai fatto dolci e cari; Resomi in braccio lui che m' ha legata. Sol mi mancò che non divenni allora La fortunata Alcmena; a cui stè tanto Più dell' usato a ritornar l' Aurora. Pur così bene io non potrò mai tanto Dir di te, notte candida, che ancora Dalla materia non sia vinto il canto. Son pur questi i begli occhi, e quelle ch' hanno Vinto il Sol tante volte alme bellezze; Son pur queste le grazie e le vaghezze, Che luce e vita alla mia morte danno. E tuttavia son sì pronte all' affanno Le voglie mie, ed a' tormenti avvezze Di tanta assenza omai, che le allegrezze Ritornar a star meco più non sanno. Quasi 'l gran Re che di sospetto pieno, Fuggendo il crudo zio, per lunga usanza Si fece natural cibo il veleno. Qui fà bisogno, Amor, la tua possanza, Che del primo dolor mi sgombri il seno; Sicchè tanta mia gioia or v' abbia stanza. O diletti d' Amor dubbi e fugaci, O speranza che s' alza e cade spesso, E nasce e more in un momento stesso; O poca fede, o poco lunghe paci. Quegli, a cui dissi: Tu solo mi piaci, È pur tornato, io l' ho pur sempre presso, Io pur mi specchio, e mi compiaccio in esso, E ne' begli occhi suoi chiari e vivaci. E tuttavia nel cor mi rode un verme Di fredda gelosia, freddo timore Di tosto tosto senza lui vederme. Rendi tu vana la mia tema, Amore, Tu che beata e lieta puoi tenerme; Conservandomi fido il mio Signore. Or che ritorna e si rinnova l' anno, Passato il verno e la stagion più fresca, L' amoroso desir mio si rinfresca, E la mia dolce pena, e il dolce affanno. E qual i nuovi umor gravidi fanno Gli arbori, onde lor frutto a suo tempo esca; Tal umor nel mio petto par che cresca; Al qual poi pensier dolci a dietro vanno. Ed è ben degno, che gioia ed umore, Or ch' egli è meco la mia Primavera, Mi rinnovelli e mi ridesti Amore. O pur non giunga a sì bel giorno sera; O pur non cangi il bel tempo in orrore, Dipartendo da me l' alma mia sfera. Poiche' m' ha reso Amor le vive Stelle, Che mi guìdano al ciel per dritta via, E nelle molte mie gravi tempeste M' hanno mai sempre ricondotta in porto Di questo chiaro e fortunato mare; Che indarno turban le procelle e i venti: Udite, benigne aure, amici venti, E voi occhi del cielo, ardenti Stelle, Mentre quì soura questo altero mare, Dalla mia lunga e faticosa via, La mercede d' Amor, tornata in porto, Lodo di lui gli strazi, e le tempeste. Voi voci, voi sospir, voi le tempeste Siete, voi siete i graziosi venti, Che dimostrate poi sì dolce il porto, Quando il Sol arde, e quando ardon le Stelle; Voi siete la sicura e dritta via, Che ci guidate de' diletti al mare. Qual d' eloquenza fia si largo mare, E sì scarco di nubi e di tempeste, Che possa dir senza arrestar fra via, Mentre stan quete le procelle e i venti, La gioia che mi dan le mie due Stelle, Or ch' hanno il mio Signor ridotto in porto? Dolce, sicuro, e grazioso porto, Che del mio pianto l' infinito mare M' hai acquetato al raggio delle Stelle; Ch' ovunque splendon fugan le tempeste, Sicch' io non posso più temer che i venti Turbin sì cara e dilettosa via. Menami, Amor, omai per questa via, Finchè quest' alma giunga all' altro porto, Ch' io non vo' navigar con altri venti; Nè di questo cercar più largo mare, Nè nel viaggio mio vo' ch' altre Stelle Mi sieno scorte, e sgombrin le tempeste Aspre tempeste, ed importuni venti Non n' impediran più del mar la via; Or che le Stelle mie m' han mostro il porto. Gioia somma, infinito alto diletto, Or che l' amato mio tesoro ho presso; Or che parlo con lui, che il miro spesso; M' ingombrerebbe certamente il petto; Se il cor non mi turbasse un sol sospetto Di tosto tosto rimaner senza esso; Per quel ch' io veggo a qualche segno espresso, Che sol apre Amor gli occhi all' intelletto. E se ciò è, io vo' certo finire Questa misera vita in un momento, Anzi ch' io provi un tanto aspro martire. Perchè conosco chiaramente e sento; Che senza lui mi converria morire, Ch' è l' appoggio a cui 'l viver mio sostento. Chi può contare il mio felice stato, L' alta mia gioia, e gli alti miei diletti O un di que' del cielo Angeli eletti, O altro amante, che l' abbia provato? Io mi sto sempre al mio Signore a lato, Godo il lampo degli occhi, e il suon dei detti; Vivomi de' divini alti concetti, Ch' escon da tanto ingegno e sì pregiato. Io mi miro sovente il suo bel viso; E mirando mi par vedere insieme Tutta la gloria, e il ben del Paradiso. Quel che sol turba in parte la mia speme, È il timor che da me non sia diviso; Che il vorrei meco fin all' ore estreme. Pommi ove il mare irato geme e frange, Ove ha l' acqua più queta e più tranquilla, Pommi ove il Sol più arde e più sfavilla, O dove il ghiaccio altrui trafige ed ange: Pommi al Tanai gelato, al freddo Gange, Ove dolce rugiada e manna stilla; Ove per l' aria empio velen scintilla, O dove per Amor si ride e piange. Pommi ove il crudo Scita ed empio fere, O dove è queta gente e riposata, O dove tosto, o tardi vom vive e pere. Vivrò qual vissi, e sarò qual son stata, Pur che le fide mie due Stelle vere Non rivolgan da me la luce usata. Se voi poteste, o Sol degli occhi miei, Qual siete dentro donno del mio core, Veder co' vostri apertamente fuore; O me beata quattro volte e sei! Voi più sicuro, e queta io più sarei, Voi senza gelosia, senza timore; Io di due sarei scema d' un dolore, E più felicemente ardendo andrei. Anzi aperto per voi, lassa, si vede, Più che il lume del Sol lucido e chiaro, Che dentro e fuori io spiro amor e fede. Ma vi mostrate di credenza avaro, Per tormi ogni speranza di mercede, E far il dolce mio vivere amaro. Deh foss' io almen sicura che lo stato Dove or mi trovo, non mancasse presto, Perchè, sì come or è lieto, ed or mesto, Sarebbe il più felice che sia stato. Io ho Amore, e il mio Signor a lato; E mi consolo or con quello, or con questo, E sempre che di loro un m' è molesto, Ricorro all' altro che m' è poi pacato. Se Amor m' assale con la gelosia, Mi volgo al viso che in se dentro serra Virtù ch' ogni tormento scaccia via. Se il mio Signor mi fà con ira guerra, Viene Amor poi con l' altra compagnia, Vera umiltà che ogni alto sdegno atterra. Mille volte, Signor, movo la penna Per mostrar fuor qual chiudo entro il pensiero Il valor vostro, e il bel sembiante altero, Ove Amor, e la gloria l' ale impenna. Ma perchè chi cantò Sorga, e Gebenna, E seco il gran Virgilio, e il grande Omero Non basteriano a raccontarne il vero; Ragion ch' io taccia alla memoria accenna. Però mi volgo a scriver solamente L' istorie delle mie gioiose pene, Che mi fan singolar fra l' altra gente: E come Amor ne' bei vostri occhi tiene Il seggio suo, e come indi sovente Sì dolce l' alma a tormentar mi viene. Quelle rime onorate, e quell' ingegno Pari alla beltà vostra, e al gran valore, Rivolgete a voi stesso in far onore, Conte, come di lor soggetto degno. O trovate di me più altero pegno, Se pur uscir da voi volete fuore; Perchè a sì larga vena, a tanto umore Son per me troppo frale e secco legno. E non ho parte in me d' esser cantata, Se non perch' amo e riverisco voi Oltra ogni umana, oltra ogni forma usata. Sì chiara fiamma merta i pregi suoi; In questa parte io deggio esser cantata Finch' io sia viva, eternamente, e poi. Lodate i chiari lumi ove mirando Perdei me stessa; e quel bel viso umano, Da cui vibrò lo stral, mosse la mano Amor, quando da me mi pose in bando. Lodate il valor vostro alto e mirando, Ch' al valor d' Alessandro è prossimano; Sallo il gran Re, sallo il paese strano, Che di voi, e di lui vanno parlando. Lodate il senno, a cui non è simile Nel bel verde degli anni; quel che in carte Vedrò famoso, il vostro ingegno e stile. In me, Signor, non è pur una parte, Che non sia tutta indegna, e tutta vile, Per cui sì vaghe rime sieno sparte. A che vergar, Signor, carte ed inchiostro In lodar me, se non ho cosa degna, Onde tant' alto onor mi si convegna; E se ho pur niente è tutto vostro? Entro i begli occhi, entro l' avorio e l' ostro, Ove Amor tien sua gloriosa insegna; Ove per me trionfa, e per voi regna, Quanto scrivo e ragiono mi fu mostro. Perchè ciò, che s' onora, e in me si prezza, Anzi s' io vivo e spiro, è vostro il vanto, A voi convien, non alla mia bassezza. Ma voi cercate con si dolce canto, Lassa, oltra quel che fà vostra bellezza; D' accrescermi più foco, e maggior pianto. Bastavan, Conte, que' bei lumi, quelli, Che al Sol raggi, a Ciprigna alma beltate, Ad Amore arme, a me la libertate, Furar da prima, che mirai in elli; A far ch' arda per voi sempre e favelli, Sicchè l' intenda la futura etate, Senza cercar con pure rime ornate; D' aggiunger nuove al cor piaghe e flagelli. Che col vostro alto procacciarmi onore, Si strigneria, se si potesse il laccio, S' accresceria, se si potesse ardore. Ma di questo e di quel son fuor d' impaccio; Che quanto arder e stringer puote Amore, Io son stretta per voi, Conte, e mi sfaccio. Io non mi voglio più doler d' Amore, Poichè quanto ei mi dà doglia e tormento, Tanto il Signor ch' io amo, e ch' io pavento Cerca scrivendo procacciarmi onore. O di tutte bellezze e grazie il fiore, Nido di cortesia, e di ardimento; Come posso bramar che resti spento Così famoso e così chiaro ardore? Anzi prego che il ciel mi doni vita, Sicchè dovunque il Sol nasca e tramonte Sia la mia fiamma entro tai versi udita. E dica alcuna, ove d' Amor si conte: Ben fu la sorte di costei gradita, Scritta, e cantata da sì alto Conte. Se qualche tema talor non turbasse, O qualche sdegno il mio felice stato, Sarebbe il più tranquillo, il più beato Di qualunque altra donna altr' uomo amasse. Che se avvien pur che il mio Signor mi lasse, Talor a qualche degna opra chiamato; Dentro il mio core è bello ed onorato, Come se meco il suo sembiante stasse. Sicchè avendo mai sempre in compagnia Tutto quel che più amo e più mi piace; Turbarmi Amore, o sorte non potria. S' egli che nel mio pianto si compiace, Con qualche nuova e strana fantasia Non turbasse, o rompesse la mia pace. Chi vuol veder l' immagin del valore, L' albergo della vera cortesia, Il nido di bellezza e leggiadria, La stanza della gloria alta e d' onore; Venga a veder l' illustre mio Signore, Dove si trova ciò che si desia, Fino il mio cor, e fino l' alma mia, Che gli die' già, nè poi mi rese Amore. Ma s' ella è donna, non s' affissi molto, Che resterà subitamente presa Fra mille maraviglie del bel volto. Ivi Amor ha la rete sempre tesa, Indi saetta, ed ivi giace occolto, Quando vuol far qualche maggiore impresa. Quando io movo a mirar fisa ed intenta Le ricchezze, e i tesor che Amore, e il cielo Dentro nell' alma, e fuor nel mortal velo Poser di lui, che ogni altra luce ha spenta. Resto del mio martir tanto contenta, Sì paga del mio vivo ardente zelo, Che la ferita, e il dispietato telo, Che mi trafige il cor, non par che senta. Sol mi struggo e mi doglio quando penso, Che da me tosto debba allontanarse Questo d' ogni mia gloria abisso immenso. A questo l' alma sol non può quetarse, A ciò grida ed esclama ogni mio senso: O tante indarno mie fatiche sparse! O tante indarno mie fatiche sparse! O tanti indarno miei sparsi sospiri; O vivo foco, o fè, che se ben miri, Di tal null' altra mai non alse, ed arse. O carte in van vergate, e da vergarse Per lodar quegli ardenti amati giri; O speranze ministre de' disiri, A cui premio più degno dovea darse. Tutte ad un tratto ve ne porta il vento, Poichè dall' empio mio Signore stesso Con queste proprie orecchie dir mi sento; Che tanto pensa a me quanto m' è presso; E partendo si parte in un momento Ogni memoria del mio amor da esso. Signore, io so che in me non son più viva E veggo omai ch' ancor in voi son morta; E l' alma ch' io vi diedi non sopporta Che stia più meco vostra voglia schiva. E questo pianto che da me deriva, Non so chi 'l mova per l' usata porta; Nè chi mova la mano, e le sia scorta, Quando avvien che di voi tal volta scriva. Strano e fiero miracol veramente, Che altri sia viva, e non sia viva, e pera; E senta tutto, e non senta niente: Sicchè può dirsi la mia forma vera, Da chi ben mira a sì vario accidente, Un' immagine d' Eco, e di Chimera. Vorrei che mi dicessi un poco, Amore, Che ho a far io con queste tue sorelle Temenza, e gelosia? ed ond' è ch' elle Non sanno star, se non dentro il mio core? Tu hai mille altre donne che l' ardore Provan com' io, dell' empie tue facelle: Or manda dunque queste a star con quelle; Fà che un dì n' escan del mio petto fuore. Io ho ben, mi dice ei, mille persone A chi mandarle; ma nessuna d' esse Ha qual tu da temere alta cagione. Le luci che ami, son le luci stesse, Che per dar gelosia e passione A tutto il mondo, la mia madre elesse. Così m' acqueto di temer contenta, E di viver d' amara gelosia, Pur che l' amato lume lo consenta, Pur che non spiaccia a lui la pena mia. Perch' è più dolce, se per lui si stenta, Che gioir per ogni altro non sarìa; Ed io per me non fia mai che mi penta Di sì gradita e nobil prigionìa. Perchè capire un' alma tanto bene, Senza provarvi qualche cosa avversa, Questa terrena vita non sostiene. Ed io che sono in tante pene immersa, Quando avanti il suo raggio almo mi viene, Resto da quel ch' esser solea diversa. Su speranza, su fè, prendete l' armi Contra questa crudel nimica mia, Importuna, e spietata gelosia, Che cerca quanto può di vita trarmi. Diasi uscita a' sospir, verghinsi carmi, Sicchè si sfoghi tanta pena ria; Trovisi dolce e grata compagnia, Sicchè possa il dolor men danno farmi. E se questo non basta, un altro Amore Si prenda, e lasci questo onde ora avvampo; E così vinca l' un l' altro dolore. Perchè ogni fera in selva, in prato, in campo Cerca per natural forza e vigore Di tentar ogni via per lo suo scampo. S' io il dissi mai, Signor, che mi sia tolto L' arder per voi, come ardo in fiamma viva; S' io il dissi mai, ch' io resti d' amar priva, E resti il cor del suo bel laccio sciolto. S' io il dissi mai, che il lume del bel volto Di cui convien che ognor ragioni e scriva, Alla mia luce di tutt' altro schiva, Non si mostri giammai poco, nè molto. S' io il dissi mai, che gli vomini a vicenda Tutti e gli Dei, Fortuna disdegnosa A mio danno, a rovina ultima accenda; Ma s' io nol dissi, e non feci mai cosa Degna del vostro sdegno; omai si renda La vita mia qual fu lieta e gioiosa. O mia sventura, o mio perverso fato, O sentenza nimica del mio bene; Poichè senza mia colpa mi conviene Portar la pena dell' altrui peccato. Quando si vide mai reo condannato Alla morte, all' esilio, alle catene Per l' altrui fallo, e per maggior sue pene Senza esser dal suo giudice ascoltato? Io griderò, Signor, tanto, e sì forte, Che se non li vorrete ascoltar voi, Udranno i gridi miei Amore, o Morte; E forse alcun pietoso dirà poi: Questa locò per sua contraria sorte In troppo crudo loco i pensier suoi. Qual fu di me giammai sotto la Luna Donna più sventurata e più confusa, Poichè il mio Sole, il mio Signor m' accusa Di cosa, ove io non ho già colpa alcuna? E per farmi dolente a via più d' una Guisa, non vuol ch' io possa far mia scusa; Vuol, ch' io tenga lo stil, la bocca chiusa Come muto, o fanciul picciolo in cuna. A qual più sventurato, e tristo reo Di non potere usar la sua difesa Sì dura legge al mondo unqua si deo? Tal è la fiamma ond' haime, Amore, accesa Tal è il mio fato dispietato e reo, Tal è il laccio crudel con che m' hai presa. Poi che da voi, Sìgnor, m' è pur vietato Che dir le vere mie ragion non possa, Per consumarmi le midolle e l' ossa Con questo nuovo strazio e non usato. Fin che spirto avrò in corpo, ed alma, e fiato Fin che questa mia lingua averà possa, Griderò sola in qualche speco, o fossa La mia innocenza, e più l' altrui peccato. E forse che avverrà quello che avvenne Della Zampogna di chi vide Mida, Che sonò poi quel ch' egli ascoso tenne. L' innocenza, Signor, troppo in se fida, Troppo è veloce a metter ale e penne. E quanto più la chiude altri, più grida. Quando io dimando nel mio pianto Amore, Che così male il mio parlare ascolta, Mille fiate il dì, non una volta; Che mi fere e trafige a tutte l' ore: Come esser può, s' io diedi l' alma e il core Al mio Signor dal dì ch' a me l' ho tolta; E se ogni cosa dentro a lui raccolta E riso e gioia è scema di dolore? S' io sento gelosia fredda e temenza, E d' allegrezza e gioia resti priva, S' io vivo in lui, e in me di me son senza? Vo' che tu mora al bene, ed al mal viva: Mi risponde egli in ultima sentenza. Questo ti basti, e questo fà che scriva. Così senza aver vita vivo in pene, E vivendo, ov' è gioia, non son lieta, Così fra viva, e morta Amor mi tiene, E vita, e morte ad un tempo mi vieta. Tal la sua sorte a ognun nascendo viene, Tal fu il mio aspro e mio crudo pianeta, Di sì rio frutto in sitibonde arene Senza mai sparger seme avvien ch' io mieta. E s' io voglio per me stessa finire Con la vita i tormenti, non m' è dato, Che senza vita un vom non può morire. Qual fine Amore e il ciel m' abbia serbato Io non so, lassa, e non posso ridire; So ben ch' io sono in un misero stato. Queste rive che amai sì caldamente; Rive soura tutt' altre alme, e beate, Fido albergo di cara libertate, Nido d' illustre, e riposata gente; Chi l' crederia? mi son novellamente Si fattamente fuor del core andate; Che di passar con lor le mie giornate Mi doglio meco, e mi pento sovente. E tutti i miei disir, e i miei pensieri Mirano a quel bel Colle, ove ora stanza Il mio Signor, e i suoi due lumi alteri. Quivi per acquetar la desianza, Spenderei tutta seco volentieri Questa vita penosa che m' avanza. Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio Di dolce ch' esser suole, e lieto mare, Dopo il vostro da noi allontanare, Quanta compassion a me propria aggio; Tanto ho invidia al bel colle, al pino, al faggio, Che gli fanno ombra; e al fiume, che bagnare Gli suole il piede, ed a me nome dare, Che godono or del vostro vivo raggio. E se non ch' egli è pur quello il bel nido, Dove nasceste, io pregherei, che fesse Il ciel lui ermo, lor secchi, e quel torbo; Per questo io resto, e prego voi, o fido Del mio cor speglio ove mi tergo e forbo; A tornar tosto, e serbar le promesse. Chi mi darà di lagrime un gran fonte, Ch' io sfoghi a pieno il mio dolore immenso, Che m' assale e trafige, quando io penso Al poco amor del mio spietato Conte? Tosto che il Sol degli occhi suoi tramonte A gli occhi miei, a' quali è raro accenso, Tanto ha di me non più memoria o senso, Quanto una tigre del più aspro monte. Ben è il mio stato, e il destin crudo e fero, Che tosto, che da me vi dipartite, Voi cangiate, Signor, loco e pensiero. Io ti scriverò subito, mi dite, Ch' io sarò giunto al loco ove andar chero; E poi la vostra fede a me tradite. Prendete il volo tutti in quella parte Ove sta chi può dar fine a' miei mali Col raggio sol de' lumi suoi fatali, O sospiri, o querele al vento sparte. E con quanta eloquenza, e con quanta arte Vi detterà colui che ha face e strali, Dite alla vita mia pietose, quali Dì provo, quando egli da noi si parte. O se con vostri umili modi adorni Potrete far pietoso il vago aspetto, Sicchè a star oggimai con noi ritorni; Non tornate più voi, ch' io non v' aspetto, Rimanetevi pure in que' soggiorni; E venga a me con lui gioia e diletto. Sacro fiume beato, alle cui sponde Scorgi l' antico, vago, ed alto Colle, Ove nacque la pianta, ch' oggi estolle Al cielo i rami, e le famose fronde; Ben fur le stelle a tuoi desir seconde, Che il sì spesso veder non ti si tolle, E il far talor la bella pianta molle, Che a me, lassa, sì spesso si nasconde. Tu mi dai nome, ed io vedrò se in carte Posso con le virtù che la mi rende, Al secol che verrà famoso farte. O pur non turbi il ciel, cui sempre offende La gioia mia, i miei disegni in parte; Altri ch' ella so ben che non m' intende. Fiume, che dal mio nome nome prendi, E bagni i piedi all' alto Colle e vago Ove nacque il famoso ed alto Fago, Delle cui fronde alto desio m accendi. Tu vedi spesso lui, spesso l' intendi, E talor rendi la sua bella immago; Ed a me che d' altr' ombra non m' appago, Cosi sovente, lassa, lo contendi. Pur non ostante che la nobil fronde, Ond' io piansi, e cantai con più d' un verso, La tua mercè, sì spesso lo nasconde. Prego il ciel ch' altra pioggia, o nembo avverso Non turbi, Anasso, mai le tue chiare onde, Se non quel sol che da questi occhi verso. O rive, o lidi, che già foste porto, Delle dolci amorose mie fatiche, Mentre stavan con noi le luci amiche; Che sempre accese nell' interno porto: Quanta mi deste già gioia e conforto, Tanto mi siete ad or ad or nimiche, Poichè il mio Sol (lassa convien che il diche) Voi, e me ha lasciato a sì gran torto. Io cangerei con voi campagne, e boschi, E colli, e fiumi là, dove dimora, Chi partendo lasciò gli occhi miei foschi. E di tornar non fà pensiero ancora; Non ostante crudel, che ben conoschi, Che se sta molto converrà ch' io mora. Sovente Amor che mi stà sempre a lato, Mi dice: Miserella, quale or fia La vita tua, poichè da te si svia Lui che soleva far lieto il tuo stato? Io gli rispondo: E tu, perchè mostrato L' hai a questi occhi, quando il vidi pria; Se ne dovea seguir la morte mia, Subito visto, e subito rubato? Ond' ei si tace, avvisto del suo fallo, Ed io mi resto preda del mio male, Quanto mesta e dogliosa il mio cor sallo. E perch' io preghi, il mio pregar non vale, Perciò che a chi deurebbe, ed a chi fallo, O poco, o nulla del mio danno cale. Rimandatemi il core, empio tiranno, Che a sì gran torto avete e straziate E di lui, e di me quel proprio fate, Che le tigri, e i leon di cerva fanno. Son passati otto giorni, a me un anno, Ch' io non ho vostre lettre, od imbasciate, Contra le fè, che voi m' avete date, O fonte di valor Conte, e d' inganno. Credete ch' io sia Ercole, o Sansone, A poter sostener tanto dolore, Giovane, e donna, e fuor d' ogni ragione Massime essendo quì senza il mio core, E senza voi a mia difensione, Onde mi suol venir forza e vigore? Quando fia mai ch' io vegga un dì pietosi Gli occhi, che per mio mal da prima vidi In queste rive d' Adria, in questi lidi, Dove Amor mille lacci aveva ascosi? Quando fia mai che libera dir osi: Date bando a' miei pianti, ed a' miei gridi; Or ti conforta, anima cara, or ridi, Or tempo è ben che godi, e che riposi? Lassa, non so, so ben che ad ora ad ora Ho cercato placar o lui, o Morte, E nè questa, nè quello ho mosso ancora. Tal è, misera, il fin, tal è la sorte Di chi troppo altamente s' innamora; Donne mie, siate all' invescarvi accorte. Ricorro a voi, luci beate e dive, A voi che siete le mie fide scorte; Dappoi che il cielo, amor, fortuna, e sorte, Sono a' soccorsi miei sì tardi, e schive. Se per me in voi si spera, e in voi si vive, Come avvien che per voi pur si comporte A star lunge da me queste ore corte, Che il mio ben la pietà vostra prescrive? Deh non state oggimai da me più lunge; Fate che questo breve spazio sia Concesso a me d' avervi sempre presso. Che l' ardente desio tanto mi punge, Che certo finirà la vita mia, Se non m' è il vagheggiarvi ognor concesso. Liete campagne, dolci colli ameni, Verdi prati, alte selve, erbose rive, Serrata valle, ove or soggiorna e vive Chi può far i miei dì foschi, e sereni. Antri d' ombre amorose, e fresche pieni Ove raggio di sol non è che arrive; Vaghi augei, chiari fiumi, ed aure estive, Vezzose Ninfe, Pan, Fauni, e Sileni. O rendetemi tosto il mio Signore, Voi che l' avete; o fategli almen conta La mia pena, e l' acerbo aspro dolore; Ditegli che la vita mia tramonta, Se omai fra pochi giorni, anzi poche ore Il suo raggio a questi occhi non sormonta. Come posso far pace col desio, O farvi tregua, poichè egli pur vuole, Non essendo qui nosco il suo bel Sole, Tranquillo porto, e Sole al viver mio? Egli fà giorno al suo Colle natio, Come a chi nulla, o poco incresce e duole O il morir nostro, o il pianto, o le parole, Lassa, ch' io nacqui sotto destin rio. Là dove converrà che tosto ceda A morte l' alma, o tosto a noi ritorni La beltà ch' al mio mal non par che creda. Tal quì fra questi d' Adria almi soggiorni, Io misera Anassilla d' Amor preda, Notte e dì chiamo i miei due lumi adorni. Or sopra il forte e veloce destriero, Io dico meco, segue lepre, o cerva Il mio bel Sole, or rapida caterva D' uccelli con falconi, o con sparviero. Or assal con lo spiedo il cignal fiero, Quando animoso il suo venire osserva; Or all' opre di Marte, or di Minerva Rivolge l' alto e saggio suo pensiero. Or mangia, or dorme, or leva, ed or ragiona, Or vagheggia il suo Colle, or con l' umana Sua maniera trattiene ogni persona. Così, Signor, bench' io vi sia lontana, Sì fattamente Amor mi punge e sprona, Che ogni vostra opra m' è presente, e piana. Se il cielo ha quì di noi perpetua cura, E partisce ad ognun, come conviene, Che maraviglia è se a me die' pene, E mi die' vita dispietata e dura? E se il mio Sol di me poco si cura? Se mi vede morir, e lo sostiene? Ei vince il Sol con sue luci serene Illustre e bel per studio, e per natura. A lui convien regnare, a me servire Vil donna e bassa; e parmi ancora troppo, Ch' egli non sdegni 'l mio per lui patire. Queste ragioni, ed altre insieme aggroppo Meco talor per dar tregua al martire; Col desir sempre presto, e il poter zoppo. Si come tu m' insegni a sospirare, D' arder di fiamma tal, che Etna pareggia; Pianger di pianto tal che se n' avveggia Omai quest' onda, e cresca questo mare; Insegnami anche, Amor, tu che 'l puoi fare, Come men duro il mio Signor far deggia; Come quando adivien, che pietà chieggia Possa placarlo al suon del mio pregare. Ch' io ti perdono e danni, e strazi, e torti, Che tu m' hai fatto, e fai tanti, e sì gravi, Ch' io non so come il ciel te lo comporti. Perchè non fia più pena che m' aggravi; Pur ch' io faccia pietosi, e faccia accorti Gli occhi che del mio core hanno le chiavi. Larghe vene d' umor, vive scintille; Che m' ardete, e bagnate in acqua, e in fiamma Sicchè di me omai non resta dramma, Che non sia tutta pelaghi, e faville; Fate che senta almeno una di mille Aspre mie pene chi mi lava e infiamma, Nè di foco che m' arda sente squamma, Nè d' umor goccia che dagli occhi stille. Non son, mi dice Amor, le ragion pari, Egli è nobile e bel, tu brutta e vile, Egli larghi, tu hai li cieli avari. Gioia e tormento al merto tuo simile Convien ch' io doni: in questi stati vari Io peno, ei gode; Amor segue suo stile. Piangete Donne, e con voi pianga Amore, Poichè non piange lui, che m' ha ferita; Sicchè l' alma farà tosto partita Da questo corpo tormentato fuore. E se mai da pietoso, e gentil core L' estrema voce altrui fu esaudita; Dappoi ch' io sarò morta, e seppellita, Scrivete la cagion del mio dolore. Per amar molto, ed esser poco amata, Visse, e morì infelice; ed or quì giace La più fedele amante che sia stata. Pregale, viator, riposo e pace; Ed impara da lei sì mal trattata, A non seguire un cor crudo e fugace. Io vorrei pur che Amor dicesse come Debbo seguirlo, e con qual arte e stile Possa sperar di far chi m' arde umile, O deporre io queste amorose some. Io ho le forze omai sì fiacche e dome, Sì paventosa son tornata e vile; Che quasi ad Eco immagine simile, Di donna serbo sol la voce e il nome. Nè perchè le vestigia del mio Sole Io segua sempre, come fece anch' ella, E risponda all' estreme sue parole; Posso indur la mia fiera e dura stella Ad oprar sì ch' ei crudo come suole, S' arresti al suon di mia stanca favella. Se poteste, Signor, con l' occhio interno Penetrar i segreti del mio core, Come vedete queste ombre di fuore, Apertamente con questo occhio esterno; Vi vedreste le pene dell' Inferno, Un abisso infinito di dolore, Quanta mai gelosia, quanto timore Amore ha dato, o può dare in eterno E vedreste voi stesso seder donno In mezzo all' alma, cui tanti tormenti Non han potuto mai cavarvi, o ponno. E tutti altri disir vedreste spenti, Od oppressi da greve ed alto sonno, E sol quei d' aver voi desti, ed ardenti. Straziami, Amor, se sai, dammi tormento, Tommi pur lui, che vorrei sempre presso, Tommi pur crudo, e disleal con esso Ogni mia pace, ed ogni mio contento. Fammi pur mesta, e lieta in un momento; Dammi più morti con un colpo stesso; Fammi esempio infelice del mio sesso: Che per ciò di seguirti non mi pento. Perchè volgendo a quei lumi il pensiero, Che vicini, e lontani mi son scorta Per l' aspro periglioso tuo sentiero; Move da lor virtù che il cor conforta, Sicchè quanto più sei crudele e fiero, Tanto più facilmente ei ti comporta. Due anni e più ha già voltato il cielo, Ch' io restai presa all' amoroso visco, Per una beltà tal, che dirlo ardisco, Simil mai non si vide in mortal velo: Per questo io la divolgo, e non la celo, E non mi pento, anzi glorio e gioisco; E se donna giammai gradì, gradisco Questa fiamma amorosa e questo gelo. E duolmi sol, se sarà mai quell' ora, Che da me si disciolga, e leghi altronde La beltà che ogni cosa arde, e innamora. E se Morte a chi prega unqua risponde: La prego, che permetta anzi ch' io mora, Che non vegga d' altrui l' amata fronde. Mentre io-penso dolente all' ora breve, Che del suo lume fien mie luci prive; Questi lidi lo sanno e queste rive, Io mi disfaccio come al Sol la neve. E quel che par che più m' annoi e aggreve, È che il termine mio tant' oltra arrive; E che prima di vita non mi prive Morte, a tutt' altri grave, a me sol lieve. Che s' io morissi innanzi a tanta doglia, L' anima andrebbe altrove consolata; Lasciando quì la sua terrena spoglia. Ma Fortuna, ed Amor m' hanno lasciata; Perchè morendo ognora più mi doglia, Questa vita penosa che m' è data. A Che pur dire, o mio dolce Signore, Che esca frutto da me di lode degno? A che alzarmi a sì gradito segno? A che scrivendo procacciarmi onore? Se da quel dì ch' entrar mi fece Amore Con l' arme de' vostri occhi entro il suo regno; Voi movete lo stil, l' arte, l' ingegno, Sensi, spirti, pensier, voglie, alma, e core? Se da me dunque nasce cosa buona, È vostra non è mia; voi mi guidate, A voi si deve il premio, e la corona. Voi, non me da qui indietro omai lodate, Di quanto per me s' opra, e si ragiona; Che l' ingegno e lo stil, Signor, mi date. Deh lasciate, Signor, le maggior cure D' ir procacciando in questa età fiorita Con fatiche, e periglio della vita Alti pregi, alti onori, alte venture. E in questi Colli, in queste alme e sicure Valli, e campagne, dove Amor n' invita, Viviamo insieme vita alma e gradita, Fin che il sol de' nostri occhi al fin s' oscure. Perchè tante fatiche, e tanti stenti Fan la vita più dura; e tanti onori Restan per morte poi subito spenti. Quì coglieremo a tempo e rose, e fiori, Ed erbe, e frutti, e con dolci concenti Canterem con gli uccelli i nostri amori. Quella febbre amorosa che m' atterra Due anni e più; e quel gravoso incarco; Ch' io sento, poichè Amor mi prese al varco Di duo begli occhi, onde l' uscir mi serra; Potea bastare a farmi andar sotterra, Lasciar lo spirto del suo corpo scarco, Senza voler ch' oltra i suoi strali e l' arco, Altra febbre, altro mal mi fesse guerra. Padre del ciel, tu vedi in quante pene Questo misero spirto, e questa scorza A tormentare amor, e febbre viene. Di queste febbri o l' una, o l' altra smorza; Che due tanti nimici non sostiene, Donna sì frale, e di sì poca forza. Care Stelle, che tutte insieme insieme Con Cupido, e Ciprigna vaghe, e pronte Deste il mio cor a quell' altero Conte, Che per premio m' ha poi tolto la speme; Poichè vedete ch' ei, che nulla teme Contra voi, contra me alza la fronte; Vendicate le vostre, e le mie onte Con vendette più crude, e più supreme. E questo sia, non che il mio cor mi renda, Ma mi dia il suo, e rendami la spene, E così si dia otta per vicenda. Fate che in quelle, ond' io son or catene Presa e legata, il Conte io leghi e prenda: Questo strazio al superbo si conviene. Verso il bel nido, ove restai partendo, Ove vive di me la miglior parte, Quando il Sol faticoso torna, e parte; Mai sempre l' ale del desir io stendo. E me ad or ad or biasmo e riprendo, Che a star con voi non usai forza ed arte; Sapendo che da voi stando in disparte, Ben mille volte al dì moro vivendo. La speme mosse il mio dubbioso piede, Che deveste venir tosto a vedermi, Per arrestar questa fugace vita. Osservate, Signor, la data fede; Fate venendo questi lidi or ermi, Cari e gioiosi, e me lieta e gradita. Se il fin degli occhi miei, e del pensiero, È il vedervi, e di voi pensar, mia vita; Poi l' un mi tolse l' empia dipartita Ch' io fei da voi per non dritto sentiero: L' immagin del sembiante vostro vero Mi stà sempre nel cor fisa, e scolpita; Qual donna in parte, ove sia più gradita, Che gemme orientali, oro, ed impero. Ma perchè l' alma desiosa, e vaga, Troppo aggravata d' amorosa sete, Di questo sol rimedio mal s' appaga. Fate le luci mie gioiose e liete, Signor di vostra vista; e questa piaga: Saldate; che voi sol saldar potete. Quando mostra a questi occhi Amor le porte Dell' immensa bellezza, ed infinita, Dell' unico mio Sol, l' alma invaghita Delle sue glorie par che si conforte. Quando poi mostra alla memoria a sorte, Quelle di crudeltà mai non udita? Tutta all' incontro afflitta e sbigottita, Resta preda, ed immagine di morte. E così vita, e morte, e gioie, e pene, E temenza, e fidanza, e guerra, e pace, Per le tue mani, Amor, d'un loco viene. Nè questo vario stato mi dispiace; Sì son dolci i martiri, e le catene; Ma temo che sarà breve e fugace. Occhi miei lassi, non lasciate il pianto, Come non lascian me tema e spavento Di veder tosto a noi rubato, e spento Il lume ch' amo e riverisco tanto, Pregate Morte se si può fra tanto. Che mi venga essa a cavar fuor di stento; Perchè morir a un tratto è men tormento, Che viver sempre a mille morti a canto. Io direi che pregaste prima Amore, Che facesse cangiar voglia e pensiero Al nostro crudo, e disleal Signore; Ma so che saria in van, perchè sì fiero, Così indurato, ed ostinato core Non ebbe mai illustre Cavaliero. Se una vera, e rarissima umiltate, Una fè più che marmo e scoglio salda, Una fiamma ch' abbrucia, non pur scalda, Un non curar della sua libertate; Un per piacer alle due luci amate, Aver l' alma al morir ardita e balda, Un liquefarsi come neve in falda; Mertan per tempo omai trovar pietate: Io deurei pur sperar d' aprir lo scoglio Ch' intorno al core ha il mio Signor sì sodo, Ch' altrui pregare, o strazio anco non franse. Ed io ne prego ardente, come soglio, Amor, e lui che m' hanno stretto il nodo; E sa quanto per me si piange, e pianse. Io accuso talora Amor, e lui Ch' io amo; Amor, che mi legò sì forte; Lui, che mi può dar vita, e dammi morte, Cercando torsi a me per darsi altrui. Ma meglio avvista poi scuso ambedui, Ed accuso me sol della mia sorte; E le mie voglie al voler poco accorte; Ch' io delle pene mie ministra fui. Perchè veggendo la mia indegnitade, Dovea mirare in men gradito loco, Per poterne sperar maggior pietade. Fetonte, Icaro, ed io, per poter poco, Ed osar molto, in questa, e in quella etade Restiamo estinti da troppo alto foco. Poichè desia cangiar pensiero, e voglia L' empio Signor, che onoro ed amo tanto; Senza curar de' fiumi del mio pianto, E del mancar della mia frale spoglia: Io prego Morte che di quà mi toglia, Perchè non abbia questo crudo il vanto; O prego Amor che mi rallenti alquanto, Poichè de' doni suoi tutta mi spoglia. Sicchè o morta non vegga tanto danno, O viva e sciolta non lo stimi molto, Allor che gli occhi altro mirar sapranno. Dunque o sia falso il mio temere e stolto, O resti sciolta al rinnovar dell' anno, O queti il corpo in bel marmo sepolto. Che bella lode, Amor, che ricche spoglie Avrai d' una infiammata giovinetta, Che t' è stata sì fida e sì soggetta; Seguendo più le tue, che le sue voglie: Se per te così tosto si discioglie Dalla catena, che l' aveva stretta; La quale piace sì, sì le diletta, Che a penar dolcemente par l' invoglie. Non conviene ad un Dio l' esser sì lieve, Massimamente quando il cangiar stato, Non è diletto altrui, ma doglia greve. Ma tu pur segui il tuo costume usato, E fai la gioia mia fugace e breve; Ritogliendomi il ben che m' hai donato. A Che più saettarmi, Arcier spietato? Se tu lo fai per mostrar la tua forza, Io ho già tutto dentro e nella scorza Questo misero corpo arso, e piagato. Se tu lo fai per farmi un dì placato Chi la mia libertà mi lega e smorza; Tu speri in van, perchè tua poggia ed orza Nulla rileva il suo legno ostinato. Egli si pasce del mio crudo strazio, Quanto è maggior, e delle aspre mie pene; Non pur che mai ne sia pentito e sazio, Ed in una gran tema mi mantiene, Che fatto d' altra donna in breve spazio, Mi torrà le sue luci alme e serene. Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia, Tempo, fortuna, invidia, o crudeltade La mia viva ed angelica beltade, Quella che appaga e queta ogni mia voglia. E dammi quanto sai tormento e doglia, Che tutto mi sarà gioia e pietade; Tommi riposo, tommi libertade: E se ti par, tommi anco questa spoglia. Che per certo io morrò lieta e contenta, Morendo sua, pur che non vegga io, Ch' ella sia fatta d' altra donna, o senta. Questa tema sol turba il piacer mio, Questa fà ch' a' miei danni non consenta; E fà la speme ritrosa al desio. Voi potete, Signor, ben tormi voi Con quel cor d' indurato diamante, E farvi d' altra donna nuovo amante; Di che cosa non è che più m' annoi: Ma non potete già ritormi poi L' immagin vostra, il vostro almo sembiante, Che giorno e notte mi stà sempre innante; Poichè mi fece Amor de' servi suoi. Non potete ritormi quei disiri, Che m' acceser di voi sì caldamente E il foco, e il pianto che per gli occhi verso. Questi mi fien ne' miei gravi martiri Dolce sostegno, e la memoria ardente Del dilletto provato, ch' han disperso. S' Una candida fede, un cor sincero, Una gran riverenza, una infinita Uoglia a servir altrui pronta ed ardita; Un servo grato al suo Signor mai fero: Dourebbe pur, Signor, l' effetto vero, E la mia fede esser da voi gradita; Se i vostri onor più cari che la vita, Mi fur mai sempre, e più ch' oro, ed impero. Ma poichè mia fortuna mi contende, Mercè sì giusta, poichè a sì gran torto, A schivo il servir mio da voi si prende: Ciò ch' a voi piace paziente porto; Sperando pur che Dio, che tutto intende, Vi faccia un dì della mia fede accorto. Cantate meco, Progne, e Filomena, Anzi piangete il mio grave martire; Or che la Primavera, e il suo fiorire, I miei lamenti, e voi tornando mena. A voi rinnova la memoria, e pena De l' onta di Tereo, e le giuste ire, E me l' acerbo, e crudo dipartire Del mio Signore morte empia rimena. Dunque essendo più fresco il mio dolore, Aitatemi amiche a disfogarlo, Ch' io per me non ho tanto entro vigore. E se piace ad Amor mai di scemarlo, Io piangerò poi 'l vostro a tutte l' ore, Con quanto stile ed arte potrò farlo. Una inaudita, e nuova crudeltate, Un esser al fuggir pronto e leggero, Un andar troppo di sue doti altero, Un torre ad altri la sua libertate; Un vedermi penar senza pietate, Un aver sempre a' miei danni il pensiero, Un rider di mia morte quando pero, Un aver voglie ognor fredde e gelate: Un eterno timor di lontananza, Un verno eterno senza primavera, Un non dar giammai cibo alla speranza; M' han fatto divenire una Chimera, Un abisso confuso, un mar, che avanza D' onde e tempeste una marina vera. Quasi vom che rimaner dee tosto senza Il cibo, onde nudrir suol la sua vita, Più dell' usato a prenderne s' aita Fin che gli è presso posto in sua presenza; Convien che innanzi all' aspra dipartenza, Che a sì crudi digiuni l' alma invita, Ella più dell' usato sia nudrita, Per poter poi soffrir sì dura assenza. Però, vaghi occhi miei, mirate fiso Più dell' usato, anzi bevete il bene, E il bel del vostro amato e caro viso. E voi, orecchie, oltra l' usato piene Restate del parlar, che il Paradiso Certo armonia più dolce non contiene. Se voi vedete a mille chiari segni, Che tanto ho cara, e non più questa vita, Quanto è con voi, quanto è da voi gradita, Ultimo fin di tutti i miei disegni; A che pur con nuova arte, e nuovi ingegni Darmi qualche novella aspra ferita: Tramando or questa, or quella dipartita, Quasi ogni pace mia da voi si sdegni? Se volete ch' io mora, un colpo solo M' uccida, sicchè omai si ponga fine Al dispiacervi, al vivere, ed al duolo, Perchè così stà sempre sul confine, Di morte l' alma; e mai non prende il volo, Pensando pure a voi, luci divine. Poichè tu mandi a far tanta dimora, Empia Fortuna, in sì lontan paese Il chiaro e vivo raggio che m' accese, Empia, ed avversa a' miei disiri ognora; Conveniente, e giusto, e degno fora, Che tu mi fossi almen tanto cortese; Che queste ore sì brevi avesse spese Quì meco tutte lui che m' innamora. Sicchè il cor, e gli orecchi, e gli occhi insieme Prendesser cibo a sostenermi in vita, Quel lungo tempo poi ch' ei fia lontano. Ma tu stai dura, ed io mi doglio in vano, Dal ciel, da te, e poi da Amor tradita: Però l' alma di ciò sospira e geme. Perchè mi sii, Signor, crudo e selvaggio, Disdegnoso, inumano, ed inclemente, Perchè abbia volto altrove ultimamente Spirto, pensieri, core, anima, e raggio; Non per questo adivien, che il foco che aggio Nel petto acceso si spenga, o s' allente; Anzi si fà più vivo, e più cocente, Quanto ha da te più strazi, e fiero oltraggio; Che s' io t' amassi come l' altre fanno, T' amerei solo, e seguirei fin tanto, Ch' io ne sentissi utile, e non danno; Ma per ciò ch' amo te, amo quel santo Lume, che gli occhi miei visto prima hanno; Convien ch' io t' ami all' allegrezza, e al pianto. Maraviglia non è, se in uno istante Ritraeste da me pensieri e voglie; Che vi venne cagion di prender moglie, E divenir marito, ov' eri amante. Nodo e fè che non è stretto e costante, Per picciola cagion si rompe e scioglie; La mia fede, il mio nodo il vanto toglie Al nodo Gordino, e al diamante; Però non fia giammai che scioglia questo, E rompa quella, se non cruda Morte; La qual prego, Signor, che venga presto: Sicch' io non vegga con le luci scorte Quello ch' or col pensier atro e funesto, Mi fà veder la mia spietata sorte. Certo fate gran torto alla mia fede, Conte, sovra ogni fè candida e pura, A dir, che in Francia è più salda e più dura La fè di quelle donne, a chi lor crede. Se come Amor che i pensier dentro vede, E passa ove occhio uman non s' assicura, Penetraste anco voi per mia ventura, Ove l' immagin vostra altera siede: Voi la vedreste salda come scoglio, Immobilmente appresso del mio core; E deporreste meco il vostro orgoglio. Ma voi vedete sol quel che appar fuore; Per questo io resto, misera, uno scoglio: E voi credete poco al mio dolore. Diversi effetti Amor mi fè vedere Poco anzi; or mi pascea di gelosia, Dimostrandomi quanto lieve sia, Creder suo quel che a molte può piacere. Or mi pascea di speme e di piacere, Mostrandomi la fè mia sempre pria, Salda e costante della Gloria mia, E le promesse sue sicure e vere. Per questo or fra tempeste, or fra bonaccia Guidai la barca mia dubbia, e sicura, Veggendo Amore or fosco, or chiaro in faccia. Or la speranza più non mi assicura; E la temenza vuol ch' io mi disfaccia: Dir più non oso, e sallo chi n' ha cura. La vita fugge, ed io pur sospirando Trapasso, lassa, il più degli anni miei, Nè di passarli ardendo mi dorrei, Alla cagion de' miei sospir mirando: Se non che non so punto il come, e il quando Den le mie gioie dar loco agli omei; Che forse a poco a poco m' userei, Ad andar le mie pene sopportando. Anzi misera io so che sarò tosto, Che per partenza, o per cangiar volere, Il fin de' miei piacer non è discosto. E perchè Amor mel faccia prevedere, Non è per questo il mio petto disposto A poter tanta doglia sostenere. Deh consolate il cor co' vostri rai, Questo almen poco spazio che m' avanza Della vostra vicina lontananza, Ch' io non vedrò con gli occhi asciutti mai. Lasciate i vostri amati Colli, e gai A voi sì cara, e a me nimica stanza; Colli ch' hanno imparato per usanza A farmi oltraggio sì sovente omai. Già senza voi non fia manco fiorita, La chioma de' bei Colli, dov' io forsi Resterò senza voi, senza la vita. Che cosa è, Conte, àlla pietade opporsi, Se non negare a chi dimanda aita, I suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi? Io non trovo più rime, onde più possa Lodar vostra beltà, vostro valore; E contare i tormenti del mio core: Si cresce a quelli, e a me manca la possa. E quasi fiamma che sia dentro mossa, E non possa sfogar l' incendio fuore, Questo interno desio cresce il dolore, E mi consuma le midolle, e l' ossa. Sicchè fra tutti i beni, e tutti i mali Che Amor suol dar, io ho questo vantaggio, Che quanti sien ridir non posso, e quali. Dunque, o tu vivo mio lucente raggio, Dammi vigore, o tu dammi, Amor, l' ali, Ch' io saglia a mostrar fuor quel che in cor aggio. Io penso talor meco quanto amaro Fora il mio stato, se per qualche sdegno, O per stimarsi il mio Signor più degno Mi ritogliesse il suo bel lume, e chiaro. E mi risolvo che il vero riparo, Quando ad esaminar ben tutto vegno, Per finire i miei mal tutti ad un segno; Saria di morte il colpo aspro ed avaro. Che s' io restassi in vita, gli occhi, e il core, La speranza, il desio mi farian guerra; Che prendon sol da lui esca e vigore. Dove s' io fossi morta, e posta in terra, Si porria fine ad un tratto al dolore; Ch' è vita morte, che più morti atterra. Che fia di me, dico ad Amor talora, Poichè del mio Signor gli occhi sereni Lasceran questi miei di pianto pieni, Fatto esso d' altri infin all' ultima ora? Che fia di me, mi rispond' egli allora; Ch' arco, e saette, e faci, e teme, e speni, Tengo in quegli occhi, e tutti altri miei beni; Nè mai ritrarli io ho potuto ancora? D' indi soglio infiammar, d' indi ferire; Or, se come tu dì, ce li ritoglie, Caduta è la mia gloria, e il nostro ardire. In queste amare, e dispietate voglie, Restiam noi due; ed ei segue di gire, Carco e superbo delle nostre spoglie. Se gran temenza non tenesse a freno, La mia lingua bramosa, e il mio desio, Sicch' io potessi dire al Signor mio, Come amando, e temendo io vengo meno: Io spererei, che quel di grazie pieno, Viso leggiadro, onde tutt' altro obblio, Quanto è il mio stato travagliato e rio, Tanto lo fesse un dì chiaro e sereno. E quello, onde m' avvinse, e strinse nodo, Non cercherebbe, lassa, di slegarlo, Allor che più credea che fosse sodo. Ma per troppo timor non oso farlo; Così dentro al mio cor mi struggo e rodo; E sol con meco, e con Amor ne parlo. Quasi vago, e purpureo Giacinto, Che in verde prato, in piaggia aprica e lieta, Crescendo a' raggi del più bel pianeta, Che lo mantien degli onor suoi dipinto; Subito torna languidetto e vinto, Sicchè mai non si vide tanta pièta, Se di veder gli usati rai gli vieta, Nube, che il Sole abbia coperto e cinto: Tal la mia speme, che ognor s' erge e cresce, Dinanzi a' rai della beltà infinita, Onde ogni sua virtude, e vigor esce. Ma la ritorna poi fiacca e smarrita Oscura tema, che con lei si mesce, Che la sua luce tosto fia sparita. Lassa, in questo fiorito, e verde prato Delle delizie mie, fra sì erba, Onde la tua mercè, vo sì superba, Amor, poichè il mio Sol m' hai ritornato: Per quel che a certi segni m' è mostrato, Un empio, e velenoso aspe si serba, Per far la vita mia di dolce acerba, E avvelenarmi il mio felice stato. Il che, se dee seguir, prego che priva, Mi faccia Morte e di vita, e di senso Prima che questa tema giunga a riva. Perchè a dover provar dolor sì immenso, Assai meglio è morir, che restar viva; Se le provate mie doglie compenso. Acconciatevi, spirti stanchi e frali, A sostener la perigliosa guerra, E il colpo che fortuna empia disserra, Da noi partendo i lumi miei fatali. Quanti avete fin qui tormenti, e quali Sofferti, poi che crudo Amor n' atterra; Son sogni ed ombre, a lato a quei che serra Questa seconda assenza strazi, e mali. Perchè contra il dolor mi fece ardita Un poco di virtù, che aveva allora, Che fece il mio Signor l' altra partita. Or essendo mancata quella ancora, Ed essendo cresciuta la ferita; Altro schermo non ho, se non ch' io mora. Comincia, alma infelice, a poco a poco A ricever di fiera sorte il colpo, A cui pensando sol mi snervo e spolpo; Ed in guai si converte ogni mio gioco. L' alta cagion del nostro chiaro foco Partirà tosto; di che, lassa, io scolpo Amore, e il crudo mio Signor incolpo, Sì veloce a cangiar pensier e loco. Sicchè quando si parte, e torna il Sole, Non vegga l' occhio tuo di pianto asciutto, Poichè dove si può cosi si vuole. Che un cor saldo e costante vince il tutto, E morte al fine, o il tempo come suole, Ti trarran fuor di vita, e fuor di lutto. Amor, lo stato tuo è proprio quale È una ruota che mai sempre gira; E chi v' è suso or canta, ed or sospira, E senza mai fermarsi or scende, or sale. Or ti chiama fedele, or disleale, Or fà pace con teco, ed or s' adira; Ora ti si dà ii preda, or si ritira; Or nel ben teme, ed or spera nel male. Or s' alza al cielo, or cade nell' inferno, Or è lunge dal lido, or giunge in porto, Or trema a mezza state, or suda il verno. Io, lassa me, nel mio maggior conforto Sono assalita d' un sospetto interno, Che mi tien sempre il cor fra vivo, e morto. S' io non avessi al cor già fatto un callo, E patteggiato dentro col pensiero, Non dar più loco al dispietato Arciero; Mal trattata da lui quanto egli sallo: Di farmi entrar nell' amoroso ballo Novamente, e più crudo che il primiero, Per farmi uscir del mio preso sentiero, E commetter del primo un maggior fallo: Aurian forza i vostri occhi, e quel cortese Atto, e tante altre grazie, e la beltade, Onde Natura a farsi onor intese. Ma per aver di me giusta pietade, Tanto ho di voi non più le voglie accese, Quanto permette onor, ed onestade. Se quel grave martir che il cor m' afflige, Non temprasse talor cortese Amore, Già mi sarei di vita uscita fuore, E varcato averei Cocito e Stige. Ma perchè quanto ei più m' ange e trafige, Tanto la gioia poi tempra l' ardore, Tenendo sempre fra due, lassa, il core, Nè al si, nè al no, l' alma s' affige. Così d' ambrosia vivo, e di veleno, Ne di vita, o di morte stà sicura L' anima ch' or s' avviva, ed or vien meno. O strana, o nuova, o insolita ventura, O petto di dolor, e noia pieno, O diletto, o martir, che poco dura! Chi darà lena alla tua stanca vita, Talor dentro nel cor mi dice Amore, Or che chi ti suol dar lena, e vigore, S' apparecchia di far da te partita? Pensando a ciò, sì a lagrimar m' invita, Questo vero, e giustissimo dolore, Che sarei già di vita uscita fuore, Se non che il raggio di chi può m' aita. E rimango pregando o lui, o Morte, Lui, che non parta, o lei, che a me ne vegna, Sicch' ei vegga presente tanta pièta. Ma al mio gridare, e al mio pregar sì forte, Di risponder nè questo, nè quel degna; E la sua aita ognun di lor mi vieta. Voi vi partite, Conte, ed io qual soglio, Mi rimango di duol preda, e di morte; E questo, e quella ingiurioso, e forte Userà contra me l' usato orgoglio. Nè potrò farmi a' colpi loro scoglio, Non avendo con me chi mi conforte, Il vostro viso, e le due fide scorte, Che ne' perigli per iscudo toglio. Deh foss' io certa almen, che di due cose Seguisse l' una; o voi tornaste presto, O fossero anche in voi fiamme amorose: Che mi sarebbe schermo e quello, e questo In far meno l' assenze mie penose, E il vostro dipartir meno molesto. Ecco, Amor, io morrò, perchè la vita Si partirà da me, e senza lei, Tu sei certo ch' io viver non potrei, Che saria cosa nuova, ed inaudita. Quanto a me ne sarò poco pentita; Perchè la lunga istoria degli omei, De' sospir, de' martir, de' dolor miei Sarà per questo mezzo almen finita; Mi dorrà sol per conto tuo, che poi Non avrai cor sì saldo, e sì costante, Dove possi aventar gli strali tuoi. E le vittorie tue, le tante, e tante Tue glorie perderanno i pregi suoi, Al cader di sì fida, e salda amante. Chi 'l crederia? felice era il mio stato, Quando a vicenda or doglia, ed or diletto, Or tema, or speme m' ingombrava il petto, E m' era il cielo, or chiaro, ed or turbato. Perchè questo d' Amor fiorito prato Non è a mio giudizio a pien perfetto, Se non è misto di contrario effetto, Quando la noia fà il piacer più grato. Ma or l' ha pieno sì di spine, e sterpi, Chi lo può fare; e svelti i fiori, e l' erba, Che sol v' albergan velenosi serpi. O fè cangiata, o mia fortuna acerba, Tu le speranze mie recidi, e sterpi La cagion dentro al petto mio si serba. Se soffrir il dolore è l' esser forte, E l' esser forte è virtù bella e rara; Nella tua corte, Amor, certo s' impara Questa virtù, più che in ogni altra corte. Perchè non è chi teco non sopporte, De' dolori, e di teme le migliara, Per una luce in apparenza chiara, Che poi scure ombre e tenebre n' apporte. La continenza vi s' impara ancora, Perchè da quello, onde s' ha più desio, Per riverenza altrui, s' astien talora. Queste virtuti, ed altre ho imparate io, Sotto questo Signor, che sì s' onora, E sotto il dolce, ed empio Signor mio. Signor, ite felice ove il desio Ad or ad or più chiaro vi richiama, A far volare al ciel la vostra fama, Sicura dalla morte, e dall' obblio. Ricordatevi sol, come resto io Solinga tortorella in secca rama; Che senza lui, che sol sospira, e brama Fugge ogni verde pianta, e chiaro rio. Al mio cor fate cara compagnia, Il vostro ad altra donna non donate; Poichè a me sì fedel lo deste pria. Sopra tutto tornar vi ricordate; E se avvien, che fia quando estinta io sia, Della mia rara fè non vi scordate. Al partir vostro, s' è con voi partita Ogni mia gioia, ed ogni mia speranza, L' ardir, la forza, il core, e la baldanza, E poco men che l' anima, e la vita. E restò sol, più che mai fosse, ardita L' importuna, ed ardente desianza; La quale in questa vostra lontananza Mi dà, misera me, doglia infinita. E se da voi non vien qualche conforto O di lettra, o di messo, o di venire; Certo, Signore, il viver mio fia corto. Perchè in amor non è altro il morire, Per quel ch' a mille, e mille prove ho scorto; Che aver poca speranza, e gran desire. È questa quella viva, e salda fede, Che promettevi alla tua Pastorella, Quando partendo alla stagion novella N' andasti, ove 'l gran Re Gallico siede? O di quanto il Sol scalda, e quanto vede Perfido ingrato in atto, ed in favella; Misera me, che ti divenni ancella, Per riportarne sì scarsa mercede. Così l' afflitta, e misera Anassilla Lungo i bei lidi d' Adria iva chiamando Il suo Pastor, da cui il ciel partilla. E l' acqua, e l' aure dolce risonando Allor che il Sol più arde, e più sfavilla, I suoi sospiri al ciel givan portando. Poichè per mio destin volgeste in parte Piedi e voler, onde perdei la spene Di riveder più mai quelle serene Luci, che ho già lodate in tante carte; Io mi volsi al gran Sole, e con quell' arte, E quella luce, che da lui sol viene Trassi fuor dalle sirti, a dall' arene Il legno mio, per via di remi, e sarte. La ragion fu le sarte, e i remi furo. La volontà, che all' ira ed all' orgoglio D' Amor si fece poi argine, e muro. Così senza temer di dar in scoglio, Mi vivo in porto omai queto e sicuro: D' un sol mi lodo, e di nessun mi doglio. Ardente mio desir, a che pur vago De' nostri danni in parte stendi l' ale, Ov' è, cui de' miei strazi poco cale, E del mio trar fuor di questi occhi un lago? Ben si può del mio stato esser presago Il partir della speme fiacca e frale; E la memoria, che sì poco assale Quel delle voglie mie tiranno, e mago. Egli a nuovi diletti aperto ha il seno, E di me sì fedele ha quella cura, Che di chi non si vede, e si può meno. Dunque tu di tornar a me procura, Che il turbar la mia pace, e il mio sereno È troppo intempestiva cosa, e dura. Poichè m' hai resa, Amor, la libertade, Mantiemmi in questo dolce e lieto stato, Sicchè il mio cor sia mio, sì come è stato Nella mia prima giovenil etade; O se pur vuoi che dietro alle tue strade, Amando segua il mio costume usato, Fà ch' io arda di foco più temprato; E che s' io ardo altrui n' abbia pietade. Perchè mi par vedere a certi segni Che ordisci nuovi lacci, e nuove faci; E di ritrarmi al giogo tuo t' ingegni. Serbami, Amore, in queste brevi paci; Amor, che contra me superbo regni, Amor, che nel mio mal sol ti compiaci. Amor m' ha fatto tal, ch' io vivo in foco Qual nuova Salamandra al mondo, e quale L' altro di lei non men stranio animale, Che vive e spira nel medesmo loco. Le mie delizie son tutte e il mio gioco Viver ardendo, e non sentire il male, E non curar, ch' ei che m' induce a tale, Abbia di me pietà molto, nè poco. A pena era anche estinto il primo ardore, Che accese l' altro Amore, a quel ch' io sento Fin qui per prova più vivo e maggiore. Ed io ardere amando non mi pento, Pur che chi m' ha di nuovo tolto il core, Resti dell' arder mio pago, e contento. Qual darai fine, Amor, alle mie pene, Se dal cenere estinto d' un ardore Rinasce l' altro, tua mercè, maggiore, E si vivace a consumar mi viene? Qual nelle più felici e calde arene, Nel nido acceso sol di vario odore D' una Fenice estinta esce poi fuore Un verme, che Fenice altra diviene. In questo io debbo a' tuoi cortesi strali, Che sempre è degno, ed onorato oggetto Quello, onde mi ferisci, onde m' assali. Ed ora è tale, e tanto, e sì perfetto, Ha tante doti alla bellezza eguali, Ch' arder per lui m' è sommo alto diletto. D'esser sempre esca al tuo concente foco, E sempre segno a' tuoi pungenti strali, D' esser sempre ministra de' miei mali, Ed aver sempre i miei tormenti a gioco, Io non mi dolgo, Amor, molto nè poco, Poichè dal dì che il desir prese l' ali; Mi son fatti i martir propri e fatali, E libertade in me non ha più loco. Pur che tu mi conservi in questo stato Dove or m' hai posta, e sotto quel Signore, Onde il cor novamente m' hai legato. O mi fia dolce, o tornerà minore Quanto son per provar, quanto ho provato La sua rara bellezza, e il suo valore. A che bramar, Signor, che venga manco Quel che avete di me desire, e speme, S' Amor, poichè per lui si spera e teme, I più giusti di lor non vide unqu' anco; Che vuol dir ch' ogni dì divien più franco Quel che di voi desir m' ingombra e preme? La speme no, che par ch' ognor si sceme, Vostra mercede, ond' io mi snervo, e imbianco. Ama chi t' odia, grida da lontano, Non pur chi t' ama, il Signor che la via Ci aperse in Croce da salir al cielo. Riverite la sua possente mano; Non cercate, Signor, la morte mia, Che questo è il vero, et a Dio caro zelo. Dove volete voi, ed in qual parte Voltar speme, e desio che più convegna, Se volete, Signor, far cosa degna Di quel amor ch' io vo spiegando in carte? Forse a Dio? già da Dio non si diparte Chi d' Amor segue la felice insegna; Ei di sua bocca propria pur c' insegna Ad amar lui, e il prossimo in disparte; Or se devete amar, non è via meglio Amar me, che v' adoro, e che m' ho fatto Del vostro vago viso tempio, e speglio? Dunque amate, e servate amando il patto Che ha fatto Cristo; ed amando io vi sveglio, Che amiate cor, che ad amar voi sia atto. Io non veggo giammai giunger quel giorno, Ove nacque Colui, che carne prese, Essendo Dio, per cancellar l' offese Del nostro padre al suo Fattor ritorno; Che non mi risovvenga il modo adorno, Col quale, avendo Amor le reti tese, Fra due begli occhi ed un riso, mi prese; Occhi, che or fan da me lunge soggiorno: E delle antiche ancor qualche puntura Io non senta al desire, ed al cor darmi, Sì fu la piaga mia profonda, e dura. E se non che ragion pur prende l' armi, E vince il senso, questa acerba cura Sarebbe or tal, che non potrebbe aitarmi. Veggio Amor tender l' arco, e nuovo strale Por nella corda, e saettarmi il core, E non ben saldo ancor l' altro dolore, Nuova piaga rifarmi, e nuovo male. E sì il suo foco m' è proprio e fatale, Sì son preda e mancipio ognor d' Amore, Che perchè l' alma vegga il suo migliore, Ripararsi da lui nè vuol, nè vale. Ben è ver, che la tela che m' ordisce Sempre è di ricco stame; e quindi avviene, Che ne' suoi danni il cor pere, e gioisce. E il ferro è tale, onde a ferirmi or viene, Che si può dir, che chi per lui perisce Prova sol una vita, e sommo bene. Che farai alma? ove volgerai 'l piede? Qual sentier prenderai, che più ti vaglia? Tornerai a seguire Amor, che smaglia Ogni lorica quando irato fiede? O stanca, e sazia delle tante prede Fatte di te nell' aspra sua battaglia; T' armerai sì che perch' ei pur t' assaglia, Non ti vincerà più qual suole, e crede. Il ritrarsi è sicuro, e il contrastare È glorioso; e l' esca che ci mostra, È tal che può nocendo anche giovare. Non perde, e non vince anche uom che non giostra; In queste imprese perigliose, e rare Si potria far maggior la gloria nostra. Un veder torsi a poco a poco il core, Misera, e non dolersi dell' offesa; Un veder chiaro la sua fiamma accesa Negli altrui lumi, e non fuggir l' ardore; Un cercar volontario d' uscir fuore Della sua libertà poco anzi resa, Un aver sempre all' altrui voglia intesa, L' alma vaga, e ministra al suo dolore: Un parer tutto grazia e leggiadria Ciò che si vede in un aspetto umano, Se parli, o taccia, o se si mova, o stia: Son le cagion ch' io temo, non pian piano Cada nel mar del pianto, ov' era pria La vita mia; e prego Dio che in vano. La piaga ch' io credea, che fosse salda, Per la omai molta assenza, e poco amore Di quell'alpestro, ed indurato core, Freddo più che di neve fredda falda: Sì desta ad or ad ora, e si riscalda, E gitta ad or ad or sangue, ed umore, Sicchè l' alma si vive anco in timore, Ch' esser deurebbe omai sicura e balda. Nè perchè cerchi aggiunger nuovi lacci, Al collo mio, so far che molto, o poco Quell' antico mio nodo non m' impacci. Si suol pur dir, che foco scaccia foco; Ma tu, Amor, che il mio martir procacci, Fai che questo in me, lassa, or non ha loco. Ben si convien, Signor, che l' aureo dardo Amor v'abbia aventato in mezzo il petto, Rotto quel duro, e quel gelato affetto Tanto alle fiamme sue ritroso e tardo: Avendo a me col vostro dolce sguardo, Onde piove desir, gioia, e diletto; L' alma impiagata, e il cor legato e stretto Oltra misura, onde mi struggo ed ardo. Men dunque acerbo dee parer a vui Esser nel laccio avviluppato e preso, Ov' io sì stretta ancor legata fui. Zelo di ardente caritade acceso Esser conviene eguale omai fra nui Nel nostro dolce ed amoroso peso. Signor, poichè m' avete il collo avvinto In sì tenace nodo, e così forte, Poichè a me piace, ed Amor vuol ch' io porte Nel cor voi solo, e nullo altro dipinto; A voi convien per quel gentile instinto, Che natura e virtù v' han dato in sorte, Volger pietoso le due fide scorte Verso chi di suo grado avete vinto. Carità, pace, fede, ed umiltate Sien le nostre armi, onde si meni vita Rado, o non mai menata in altra etate. E sia chi dica: o coppia alma e gradita, Ben avesti le stelle amiche e grate, Sì dolcemente in un voler unita. Qual sagittario, che sia sempre avvezzo Trarre ad un segno, e mai colpo non falla; O da propria vaghezza tratto, o dalla Speme ch' ha da ritrarne onore, e prezzo: Amor che nel mio mal mai non è sezzo, Torna a ferirmi il cor, nè mai si stalla; E la piaga or riscalda, apre, e rifalla, Nè mi val s' io lo temo, o s' io lo sprezzo. Tanto di me ferir diletto prende, E tal n' attende, e merca onor, che omai Per quel ch' io provo, ad altro non intende. Il vivo foco, ond' io arsi e cantai Molti anni, a pena è spento, che raccende D' un altro il cor, che tregua non ha mai. A mezzo il mare ch' io varcai tre anni Fra dubbi venti, ed era quasi in porto, M' ha ricondotta Amor, che a sì gran torto; È ne' travagli miei pronto, e ne' danni. E per doppiare a' miei disiri i vanni, Un sì chiaro Oriente agli occhi ha porto; Che rimirando lui prendo conforto, E par che manco il travagliar m' affanni. Un foco eguale al primo foco io sento; E se in sì poco spazio questo è tale, Che dell' altro non sia maggior, pavento. Ma che poss' io, se m' è l' arder fatale, Se volontariamente andar consento D' un foco in altro, e d' un in altro male? Di chi ti lagni, o mio diletto e fido, Soura questo famoso e chiaro lido, Ove fan nido tante onorate alme, Felici ed alme? Io mi lagno, Signor, di due begli occhi, Onde eterna dolcezza avvien che fiocchi, Nè par che tocchi a lor, nè dia lor noia, Perch' io mi moia. Per le saette mie, per la mia face, Che il tuo languir a gran torto, mi spiace, Ma s' egli piace a chi vuol che ti sfaccia, Che vuoi ch' io faccia? Vo' che tu, che sol puoi soccorso darmi, Tu che sei nostro Dio, tu ch' hai forti armi, Onde aitarmi, o tempri il duro core, O il mio dolore. Mille fiate, e mille mi son messo Per saettar quegli occhi, e gir lor presso, Ma il lume stesso sì m' ingombra, ch' io Non son più Dio. Or se tanto essi, e tu sì poco vali, Perchè non cedi lor l' arco, e gli strali, E faci, ed ali, e il tuo carro, e il tuo Regno, Come a più degno? Io cederei di grado, pur che loco Mi desser quei begli occhi, e strali, e foco, Onde apro, e cuoco; ma lor non aggrada, Che seco vada. Com' esser può, che Amor voglia legarse, E farse servo altrui, nè possa farse, E son sì scarse quelle vive stelle, Che stii con elle? Elle hanno a schivo, che di lor vittoria Abbia io, stando con lor, parte di gloria; Perchè d' istoria è men degno colui, Ch' è con altrui. Dunque senza speranza, e senza aita, Poich' è la Deitade tua finita, Sarà mia vita il tempo che m' avanza In desianza? Così fia, lasso; ed io la face, e l' arco, E le saette mie gitto ad un varco, Poichè son scarco, mercè di quel lume D' ogni mio Nume. Piangiamo insieme, l' un la Deitate, L' altro la sua perduta libertate, Senza pietate di colei, che sola Tutto n' invola. Io volo al cielo, io resto fra quest' onde; Io Giove, io chiamerò chi non risponde; Aure seconde, fate al mondo chiara Cosa sì rara. Sacro Re, che gli antichi, e nuovi Regi, Quanti sono, o fur mai eccelsi, e degni, Per forza di valor propria, e d' ingegni Vinci; e te stesso, e tutto il mondo fregi: Ed a' più chiari spirti, ed a' più egregi, A' più felici, e più sublimi ingegni La via d' alzarsi al ciel scrivendo insegni, Con la materia de' tuoi tanti pregi. Volgi dal tron della tua maestade, Sereno il ciglio, onde queti, e governi Popoli e Regni, alla mia umiltade. Che se tu aspiri a' miei disiri interni, Spero vil donna alla futura etade, Far con tant' altri i tuoi gran fatti eterni. Alma Regina, eterno e vivo Sole, Prodotta ad illustrar Imperi e Regni, E congiunta al maggior Re, ch' oggi regni, Cara sì, che con voi vuole, e non vuole; Date all' ingegno mio rime e parole, Onde possa adombrar con quai può segni Quanto la vostra altezza, e i pregi degni Il mondo tutto riverisce e cole. Lasciate che alla fama, e agli scrittori, Che parleran di voi sì scrittori, Che parleran di voi sì chiaramente; Io donna da lontan possa andar dietro. Lasciate, ch' io di sì famosi allori M' adorni il crine alla futura gente; O qual grazia mi fia, se questo impetro! Tu che traesti dal natio paese, Le nostre Muse tutte, ed Elicona Là dove regge il Rodano, e la Sona, Il maggior Re che viva, e il più cortese; Ed or con voi son tutte ad una intese, Insieme col gran figlio di Latona, A celebrar quella Real Corona, E le sue tante, e gloriose imprese; Chiaro Alamanni, io vorrei ben anch' io Venir in parte di cotanto onore, E lodar lui con voi, e poi voi anco. Ma si oppone all' immenso mio desio, L' esser io donna e vil, preda d' Amore, Lo spirto è pronto, ma lo stile è stanco. Alma Fenice, che con l' auree piume, Prendi fra l' altre donne un sì bel volo; Ch' Adria ed Italia, e l' uno e l' altro Polo Tutto di maraviglia empi, e di lume. Bellezza eterna, angelico costume, Petto d' oneste voglie albergo solo, Deh perchè non poss' io, come vi colo, Versar scrivendo d' eloquenza un fiume? Che spererei della più sacra fronde, Così donna qual sono, ornarmi il crine, E star con Saffo, e con Corinna a lato. Poichè lo stil al desio non risponde Fate voi co' be' rai, luci divine, Chiare voi stesse, e questo mar beato. Voi n' andaste, Signor, senza me dove Il gran Troian fermò le schiere erranti, Ov' io nacqui, ove luce vidi inanti Dolce sì, che lo star mi spiace altrove. Ivi vedrete vaghe feste, e nuove Schiere di donne, e di cortesi amanti, E tanti, che a onorar vengono, e tanti Un degli Dei più cari al vero Giove. Ed io rimasa qui dove Adria regna, Seguo pur voi, e il mio natio paese, Col pensier; che non è chi lo ritegna. Venir col resto il mio Signor contese, Che senza ordine suo, ch' io vada, o vegna Non vuole Amor, poichè di lui m' accese. Mentre, chiaro Signor, per voi s' attende A poggiar nel cammin che al ciel vi mena Per via di lingue, e di scienze, e vena, Che il vostro nome in tutto il mondo stende; Io donna, e vil cui desir egual prende, E l' acque di Castalia ho viste a pena; Vorrei venirvi dietro, e non ho lena, Che la bassezza mia tanta opra offende. Però mi resto, e di lontan sospiro, I nobil frutti dell' ingegno vostro, Che con tant' altri già tanti anni ammiro. Quei son la vera porpora, e il vero ostro, Gli archi, e le statue, se ben dritto miro, Che rendon chiaro, e caro il secol nostro. Se Voi non foste a maggior cose volto, Onde il vostro splendor, VENIER, sormonte; Avendo sì gran stil, rime sì pronte, E de' lacci d' amore essendo sciolto; Vi pregherei che il valor, e il bel volto, E l' altre grazie del mio chiaro Conte, Alla futura età faceste conte, Poichè poterlo fare a me è tolto. E faceste ancor conto il foco mio, E la mia fede oltra ogni fede ardente, Degna d' eterna vita, e non d' obblio. Ma poi degno rispetto nol consente, Vedrò tal qual' io sono adombrarne io Una minima parte solamente. Speron, che all' opre chiare, ed onorate Spronate ognun col vostro vivo esempio, Mentre d' ogni atto vile illustre scempio, Con l' arme del valor vincendo fate: Poichè di seguir io vostre pedate, Per me l' ardente mio desir non empio; Voi, d' ogni cortesia ricetto e tempio, A venir dopo voi la man mi date. Sicchè come ambo due produsse un nido, Ambo due alzi un vol, vostra mercede, E venga in parte anch' io del vostro grido. Così d' Antenor quell' antica sede, E questo d' Adria fortunato lido, Faccian de' vostri onor mai sempre fede. Alma celeste, e pura, Che casta, e verginella Stata tanto fra noi sei gita al cielo, Dove or soura misura Ti stai lucente e bella Di più perfetto accesa, e maggior zelo; Perchè nel mortal velo Rade volte altrui lice Unir perfettamente Al suo Fattor la mente, Sì trista è del nostro arbor la radice, E sì forte n' atterra Questa del senso perigliosa guerra. Tu vagheggi or beata Quell' infinito Sole, Di cui quest' altro Sole è picciol raggio; E la voglia appagata Hai sì ch' altro non vuole, Giunta all' ultimo fin di suo viaggio, E la noia, e l' oltraggio, E l' ombra di quel male, Che sostenesti in vita, È per sempre sbandita, Salita in parte, ove dolor non sale; Ove si vive sempre Col primo Amor in dilettose tempre. Ben può gradirsi altero Il nostro sesso omai Per tanta Donna, e tanto a Cristo amica; Che mancato il primiero Valor, spenti que' rai, Ch' illustrar già la santa schiera antica, In questa età nimica, Dove il vizio governa, Sia stata una di noi, Che tutti i pensier suoi Abbia rivolto a quella luce eterna; E quì fra queste rive Sia vissa sempre come in ciel si vive. Adria si lagna parte Del tuo da lei partire, Parte s' allegra, poichè al ciel sei gita; Che se udirte e parlarte Le ha tolto il tuo morire, Or che sei sempre al sommo ben unita; Potrai chiedergli aita, Quando il bisogno fia; Certo soccorso, e fido Per lo tuo chiaro nido, Sicchè sicuro, e glorioso fia, E fin quanto il Sol giri Ciascun lo tema, riverifca, e ammiri. Da que' superni chiostri, Ove or sicura siedi, Tutta raccolta in chi di se ti prese; Gli ardenti sospir nostri A temprar talor riedi Con le voglie d' amor più vive e accese. Mira madre cortese I tuoi diletti figli, La loro mesta casa, Or senza te rimasa, Alle terrene noie, ed a' perigli; E siale, ancor lontana, Scorta, e più che mai fida tramontana. Se in te, quanto è desio, fosse valore, Potresti leggermente Alzarti al ciel fra quella santa gente. Alma onorata e saggia, che tornando Dopo sì lungo corso, onde venisti, Vergine e pura qual dal ventre uscisti, Lasciato hai noi piangendo e desiando; Ed or davanti 'l tuo principio stando, A cui vivendo ancor quà giù ti unisti; Delle degne opre tue mercede acquisti; E d' esser gita lui mai sempre amando. Mira dal cielo i tuoi diletti figli, Qual del tuo dipartir cordoglio prema, Ed Adria, che con lor t' onora ed ama. Queglì non è che più guidi, o consigli Senza il tuo senno; e questa resta scema Di chi le mostri ognor come Dio s' ama. Casta, cara, e di Dio diletta ancella, Che vivuta fra noi tanti e tanti anni; Ti sei sempre schermita dagli inganni Di questa vita neghittosa, e fella. Ed or semplice e pura verginella Sei gita a volo a quei superni scanni, Vero porto ed eterno degli affanni, D' ogni nostr' atra e torbida procella. Adria ha visto, e veder spera ancor segno Della tua santa, e gloriosa vita, E fiorir frutti del tuo santo ingegno. E de' tuoi dolci figli insieme unita La schiera, che ti fu sì caro pegno, Per te sospira mesta e sbigottita. Quelle lagrime spesse, e sospir molti, Che mandan fuor i tuoi figli diletti, Poichè salisti al Regno degli eletti, Alma felice, che dal ciel n' ascolti; Sien dalla vera tua pietate accolti Qual si conviene a' lor ardenti affetti; E quei pensier or casti e benedetti Sieno alla cura lor, se mai fur volti. E sì come quà giù fosti lor guida, E madre, e scorta, così su dal cielo Sii lor la vera tramontana, e fida. Sicchè tutti infiammati di quel zelo, Che per dritto sentier a te ne guida Di quest' ombre quà giù squarciamo il velo. Quando quell' alma, i cui desir ardenti Sempre resse virtute, ed onestate, Finito il corso di sua lunga etate, Salì al cielo, i mortai lumi spenti. L' eterno Re delle ben nate genti Raccolse lei nella sua maestate, E quelle squadre angeliche e beate, Empiero il ciel di non usati accenti. Vieni, diletta Verginella, e pura, S' udia dolce cantare, a corre il frutto De la tua castità lieta, e sicura. Vieni, fedel, che disdiceva in tutto Star sì raro miracol di natura, Sì gentil pianta in un terreno asciutto. Qual è fresch' aura all' estiva ora ardente Alla stanca, e sudata Pastorella; Qual è a chi dorme in riva erbosa e bella, Il mormorar d' un bel cristal corrente; Qual di Sol raggio in bel prato ridente A' fior che langue alla stagion novella; Qual certo porto a dubbia navicella, Ch' esce fuor di tempesta aspra, e repente: Tal fù il vostro apparir gradito tanto, Priuli nostro, a nostre luci meste, E le rime ch' agli altri han tolto il vanto. Quello a noi stesse ne fu caro, e queste, Dopo il depor del terren vostro manto, Ne faran chiare ovunque amor si deste. Zanni, quel chiaro e quel felice ingegno, Che splende in voi, e quel sommo valore, Di cui non ha per quel che s' ode fuore, Adria più ricco, e più leggiadro pegno; Io quanto posso umile a inchinar vegno, Serva di cortesia, serva d' Amore, Dogliosa sol che in così santo ardore Non van le forze del desire al segno. Perchè a ridir per via di rime a pieno Quanto io v' onoro, e quanto è il vostro merto, Ogni altro stil, che il vostro verria meno. Voi sol col passo saldo, e passo certo In questo d' Adria, e fortunato seno Salite al monte faticoso, ed erto. Conte, quel vivo, ed onorato raggio, Che splende fuor del vostro chiaro ingegno Per via di rime, ed è già giunto a segno, Che o l' ha con pochi, o non ha alcun paraggio; È frutto sol del vostro santo, e saggio Petto, d' ogni virtù nido e sostegno; Ch' io per me propria, se a stimarmi vegno, Non pur per darne altrui lume non aggio. E se tal volta vo spiegando in carte Oscure e basse, qualche mio martire; Amor, che me lo dà, dammi anche l' arte. Voi per voi sol potete al ciel salire, Cigno gentil, sì ch' altri non v' ha parte, Così potess' io il vostro vol seguire. O inaudita e rara cortesia, Donar i pregi del suo proprio onore Ad una donna umil, che il proprio core Non pur altro non ha, che di lei sia! Ben v' avea fra tutti altri alzato pria A chiaro segno il vostro alto valore, Senza nuova cercar gloria, e splendore, Per questa disusata e rara via. Sicchè non resti modo alcuno in terra, Ond' uom possa poggiar per farsi chiaro, Non cerco dall' illustre Vinciguerra. O spirto in mille guise eccelso e raro, Qual vena d' eloquenza petto serra, Che possa gir alle tue lodi a paro? Quel lume che il mar d' Adria empie, ed avvampa Di sì bei frutti, e di sì degni effetti, Per via di prose, e versi alti ed eletti, Che Natura, ed Amor, Conte, in voi stampa, È lume proprio della vostra lampa, E frutti de' vostri alti, e bei concetti, E non riflesso degli oscuri obbietti Di me misera affllitta e lassa Stampa. E se vostra infinita caritade Me bassa, e grave di terreno peso Di così rare lodi empie ed ingombra; Al fin ritorna in voi la chiaritade, Che di nessuna indegnità ripreso, Fate sparir la lode altrui qual ombra. Se quanta acqua ha Castalia, ed Elicona Beveste tutta, e sì felicemente, Chiaro Signor, che poi le vene spente, Restasser secche ad ogni altra persona. Come poss' io quando desio mi sprona, A dir di voi sì caldo, e sì sovente, Sperar di pur adombrar solamente, Quanto di voi si stima, e si ragiona? Anzi, perchè non pur i versi miei, Non posson dir quanto io v' onoro e colo, Ma mille Lini meco, e mille Orfei: O voi dite di voi, o di me solo, Sappia il mondo ch' io volli, e non potei Alzarmi pigra a sì gradito volo. Io vorrei ben, Molin, ma non ho l' ale Da prender tanto, e sì gradito volo, Portar scrivendo all' uno e all' altro Polo, L' alta cagion del mio foco immortale. Che l' opra e la materia è tanta, e tale, Ed io son sì dal mal vinta, e dal duolo, Che a ciò non basto; e voi bastate solo, Od altrui stile al vostro stile eguale. Voi far fiorir potete eternamente Il Colle ch' amo; voi farlo lodando, Nuovo Parnaso alla futura gente. Io vo ben ciò talor meco provando, Quanto mi detta il mio desir ardente; Ma forse scemo sue lodi cantando. Tu che agli antichi spirti vai di paro, E con le dotte, ed onorate rime, Rischiari l' acque, e fai fiorir le cime, Del Colle, ove si sale oggi sì raro. Movi il canto, Molin, canoro e chiaro, Se mai movesti; e il mio Colle sublime Fà fiorir fra le cose al mondo prime, Poi che a me il ciel di farlo è stato avaro. A me diè solo amarlo, è l' amo quanto Sì puote amar; ma il celebrarlo poi È d' altro stile incarco, che di donna. Qui convien sol la tua cetra e il tuo canto, Chiaro Signor, tu sol descriver puoi Questa del viver mio salda colonna. Voi, che fate suonar da Battro a Tile, Onde il Sol viene a noi, onde si parte, Quel chiaro stil che il cielo vi comparte, Che può d' orrido verno fare Aprile. O a soggetto men basso, e di me vile, Le vostre rime in tutto il mondo sparte, Rivolgete, o pregate Amor ex parte, Che faccia me a voi non dissimile. Sì che qual sono i vostri versi gai, Sia egual la materia; e regni, e viva Quanto il Sol gira, e quanto ne sperai. Che s' ella è di valor in tutto priva, E que' sì chiari, indegna opra dirai, D' Adria felice ed onorata riva. Dotto saggio gentil chiaro Bonetto, La cui bontà il bel nome ancor pareggia; Or l' alta cortesia che signoreggia Il nobil cor a ognun vi rende accetto; Saper bramo io dal vostro almo intelletto, Che le cose segrete in Dio vagheggia, Qual è più il danno, o l' util che si veggia Il mondo trar dall' amoroso affetto? Ditemi ancor, perchè fu Amor dipinto Già dagli antichi, e da' moderni ancora Si pinge faretrato, ignudo, e cieco? Questo dubbio da voi mi sia distinto Che nel mio cor gran tempo già dimora, Mercè dell'' ignoranza ch' è ognor meco. È si gradito, e sì dolce l' obbietto Del mio foco, Signor, e tanto e tale, Che di soffrir ardendo non mi cale Ogni acerbo martir, ogni dispetto. Duolmi sol ch' io non sia degno ricetto Di tanto bene, e a tanta fiamma eguale; E che il mio stil sia infermo, stanco e frale A portar l' opra, ove giugne il concetto. E sopra tutto duolmi, che la ria Mia fortuna s' ingegna sì sovente, A dilungar da me la Gloria mia. Che mi giova, Signor, che fra la gente, Illustre, come dite, e chiara io sia, Se dentro l' alma mia gioia non sente? Il gran terror delle nimiche squadre, Che sotto il più felice Imperadore, Frenò sì spesso il tedesco furore, Fatto ribelle a la sua santa madre; Come hai potuto tu, celeste Padre, Veder degli anni suoi nel più bel fiore, Fra donne imbelli, empia mercè d' Amore, Cader per man servili indegne et adre? Marte il suo bellicoso orrido carme Cangi in sospiri omai, e con lui chiuda Sotterra i suoi trofei, l' insegne, e l' arme. O d' esse almen la bella amica ignuda, Venere sua come più degna n' arme, Poi ch' ella è più di lui sanguigna e cruda. Se da' vostri occhi, dall' avorio ed ostro, Onde Amor manda fuor faci e quadrella, Se dai tesor dell' anima, che ancella Nacque d' alto valor nel divin chiosiro; Ciò ch' io scrissi e cantai mi fù dimostro, Per lor d' ogni atto vil tornai rubella, E se mercè di quelle, e mercè d' ella, Col tempo avaro, e con gl' ingegni giostro: A voi deve ogni lingua dotta e chiara, Rendere lode, poichè in voi s' accoglie Virtù, che il fosco mio sgombra, e rischiara. A voi deè morte, che tutto apre e scioglie, Non esser come agli altri empia ed amara; E il mondo ornarvi il crin di doppie foglie. Grazie, che fate il ciel fresco e sereno, Quando v' aggrada; e tu, che l' innamori Sacratissima madre degli Amori, Al cui bel raggio ogni altra ombra vien meno; Spargete con cortese, e largo seno Nembo odorato di grazie, e di fiori, Sopra questi chiarissimi Pastori, Che me di gioia, ed Adria han d' onor pieno. Sicchè non turbi il lor felice stato Fortuna avversa, o torbida procella, E sia sempre come or dolce, e beato. Tal pregando Anassilla pastorella, D' ardente zelo, e il cor caldo e infiammato, Le Grazie udirla, e la più chiara stella. Voi, che alle Muse, ed al Signor di Delo, Caro più ch' altri, quasi unico mostro, La via d' andar a lor m' avete mostro, Pensier cangiati innanzi tempo, e pelo; E di morte schernendo il crudo telo, Chiaro poggiate a quel celeste chiostro, Ov' io con voi d' alzarmi indarno giostro, Che pur m' atterra il peso grave, e il gelo: Fate col vostro stil palesi e note Le vostre lodi a tutto il mondo, e il saggio Senno, e il valor ch' ogni altro par che adombre; Perch' io per me, Michel, cosa non aggio D' esser cantata dalle vostre note, Che tempo, e morte tosto non la sgombre. Deh, perchè non poss' io qual debbo, e quale Voi m' imponeste, al mio stil porre i vanni, Sicchè il vostro bel nome dagli inganni Del tempo tolto, al ciel spiegasse l' ale; Coppia onorata, a cui null' altra eguale Si vede, o vedrà mai dopo mille anni, Per virtude, e valor salita a' scanni, Ove raro, o non mai si salse o sale? Felice Serravalle, a cui per sorte Si diede l' esser retta, e governata Da sì gran Donna, e sì degno Consorte. Felicissima me se fossi nata, O con voi prima, o con voi fin a morte Vivessi questa vita che m' è data. Perche' Fortuna avversa a' miei disiri Quasi smarrita, e stanca navicella Da lunga combattuta, e ria procella, Come a lei piace mi rivolva, e giri; E meco più ad or ad or s' adiri; E mi percuota in questa parte, e in quella, Nè lasci l' empia e di pietà rubella, Che da' suoi colpi il cor punto respiri: Io pur, Balbi, nel mal mi riconforto, Poichè ho le vostre ornate rime amiche; Onde mal grado suo vivrò mille anni. Queste alla speme mia mostrano il porto, Queste contra dell' aure aspre, e nimiche Saran dolce ristoro de' miei danni. A voi sien Febo, e le Sorelle amiche, Schiera gentil, che col vivace ingegno, Con l' arte, e con lo stil giungete a segno, Ove non giunser le memorie antiche. Voi le più gravi cure, e le nimiche Voglie acquetate, voi l' ira e lo sdegno; Voi siete dolce altrui tregua e ritegno Nelle lunghe penose aspre fatiche. Io dell' interna mia cura, e vivace, Fin ch' è durato il vostro dolce dire, Ho, la vostra mercè, trovato pace; Così piaccia ad Amor di stabilire Questa mia breve gioia; e chi mi sface Tenga mai sempre queto il mio desire. Anima, che sicura sei passata Per questo procelloso mar, per questa Vita mortal senza provar tempesta, Dagli onori, e dal volgo allontanata; Ed or con quella angelica brigata Ti vivi vita eterna in gioia e in festa; Lasciata quì tutta confusa e mesta La gioventù da te retta e guidata. Pianga il tuo dipartir, la lontananza Del buon Socrate suo celeste e santo Tutta Italia, e tutta Adria in ogni stanza: Ed io per me, se non che mi fà tanto Pianger Amor per lui, che non m' avanza, Colmerei l' urna tua col mio gran pianto. Quale a pieno potrà mai prosa, o rima La vostra cortesia lodar, e l' arte; Quella che a me di lode dà tal parte, Questa, ch' orna ed illustra il nostro clima? Voi siete sol, Signor, se il ver si stima, Cui altri non pareggia; in voi ha sparte Le grazie il ciel, che altrove non comparte In questa nostra etade, o nella prima. Voi siete il Sol, che ogni altra luce avanza; Da voi si prende qualitate, e lume, E tutto quel di ben, che splende in nui. Felice me, poi che ho trovato stanza Nella vostra memoria, per costume Usa a far viver dopo morte altrui. Ben posso gir dell' altre donne in cima, Fin dove il Sole a noi nasce e diparte, Poich' io son scritta dalle vostre carte, Emo, e pulita dalla vostra lima. Il chiaro Achille ebbe la spoglia opima D' onor fra gli altri gran figli di Marte, Non perchè fosse tale egli in gran parte, Ma perchè Omero lui alza e sublima. In me è solo amor, e desianza Di ber dell' acque del Castalio fiume; Ove voi spesso, ed io ancor non fui. Se questo onesto mio desir s' avanza, Se un dì m' infonde Apollo del suo nume; Andrò lodando queste rive e vui. Ninfe, che d' Adria i più riposti guadi, Sacre abitate, e tu Dea degli Amori, Che da queste acque prima uscisti fuori, Care sì che il tuo Cipro men t' aggradi: A' modi adorni a maraviglia, e radi, Alla maggior beltà ch' oggi s' onori; Al soggetto più degno di scrittori, Pur che sia stile che à gran segno vadi: Alla Barozza, a cui nulla seconda, De' più ricchi tesor che il mar vostro aggia, Ornate il crin, e l' aurea treccia bionda. E lungo questa erbosa e chiara spiaggia Canti l' una di voi, l' altra risponda; La vostra donna bella, onesta, e saggia. Felice Cavalier, e fortunato, A cui toccò fra tutti gli altri in sorte, Aver sì bella, e sì nobil consorte, E di sì chiaro ingegno, e si pregiato: Voi potete obbliar standole a lato, I gravi assalti di fortuna, e morte, Perch' ella può con le due fide scorte Render tranquillo il ciel fosco e turbato. Coppia gentil, dopo mill' anni e mille De' vostri veri pregi, e vero onore, Splenderanno fra noi chiare faville. Ed ancor fia chi dica pien d' ardore: Alme felici, poichè il ciel sortille, A sì bel nodo, ed a sì santo ardore. Porgi man, Febo, all' erba, e con quell' arte, Che suol rendere altrui salute e vita, Il mio buon Emo, e il Tiepol nostro aita; Due che tengon di noi la miglior parte; E l' empia febbre, e le reliquie sparte, Onde han la faccia pallida e smarrita, Sia da lor, tua mercè, tosto bandita, Se disii presso noi famoso farte. Sì vedrai poi d' incensi e d' odor vari, E di votive tavole e di segni, Carco il tuo tempio, e i tuoi sacrati altari. Ed udrai mille e mille chiari ingegni, Dir le tue lodi, e i fatti egregi e chiari, Onde fra gli altri Dei lodato regni. Le virtù vostre, e quel cortese affetto, Che mostrate, Guiscardo, avermi a parte, E quel vergar delle onorate carte, In lode mia sì chiaro, e sì perfetto: Hanno tanto poter dentro al mio petto, Che con quanto si può mai studio od arte, Io son volta ad amarte ed onorarte, Quasi di vero onor nido e ricetto. Ma con quel solo, e non altro desio Che prescrive onestade, e che conviensi Al voler vostro, ed allo stato mio. Perchè l' amar con questi frali sensi, È amor breve; e spesse volte è rio, Che n' ancide la strada, onde al ciel viensi. Quel che con tanta, e sì larga misura Felice ingegno, il nostro alto Fattore Vi die', Guiscardo, e quel raro valore, Che de' più chiari il vivo raggio oscura; Quel vago stil, quella cortese cura, Che di lodarmi sì v' infiamma il core, Non per mio merto a tanta opra minore, Ma per mia rara, e mia sola ventura: E sopra tutto quell' amor, che tanto Mostrate avermi, che l' amato move, E fà uno il voler quando è diviso: Son cagion che v' onori, ed ami quanto Può donna chiaro ingegno, stile, e viso; Però quanto onestà detti ed approve. Signor, dappoi che l' acqua del mio pianto, Che sì larga e sì spessa versar soglio, Non può rompere il saldo e duro scoglio, Del cor del fratel vostro tanto o quanto; Vedete voi, cui so ch' egli ama tanto, Se scrivendogli umile un mezzo foglio, Per vincer l' ostinato e fiero orgoglio Di quel petto poteste aver il vanto. Illustre Vinciguerra, io non desio Da lui, se non che mi dica in due versi: Pena, spera, ed aspetta il tornar mio. Se ciò m' avviene, i miei sensi dispersi, Come pianta piantata appresso il rio, Voi vedrete in un punto riaversi. Pastor, che d' Adria il fortunato seno Di tanti onori, e tanti pregi ornate, E delle rive sue chiare e pregiate Avete omai cantando il mondo pieno; Pastor, ch' alto saper chiudete in seno Nella più verde, e più fiorita etate; E da radici uscendo alte e lodate, Fate col canto il ciel fosco, e sereno: Deh potess' io del vostro almo splendore Venire in parte, e di quei chiari effetti; Che non temerei morte, o tempo oscuro. Così lodando il suo saggio Pastore, Anassilla dicea, di dolci aspetti Ripieno il cielo, all' aer chiaro e puro. Mentre al cielo il Pastor d' alma beltate Coridone alza l' una, e l' altra Stampa, E mentre l' una, e l' altra arde ed avvampa Di far lui chiaro a questa nostra etate: In note di vivace amor formate, D' amor che solo in gentil cor s' accampa, Dice Anassilla al Sol volta che scampa, Le forze avendo a più poter legate. Deh, perchè stil, vaghezza, ed armonia D' alzar lui non ho io rime e concento A segno, ove Pastor mai non è stato? Perchè a voglia sì santa, e così pia Non risponde il poter, che in un momento Faria lo stato mio chiaro e beato? Amica, dolce, ed onorata schiera, Schiera di cortesia, e d' onestade; Soggiorno di valore, e di beltade, Di diporti e di grazie madre vera. Io prego Amore, e il ciel che unita intera, Ti conservi in felice, e lunga etade, E questi giochi, e questa libertade, Veggan tardi, o non mai l' ultima sera. Cosa non possa mai perversa, e ria Turbar per tempo alcun, o disunire Così dolce, e gradita compagnia. A me si dia per grazia di gioire, Con lei molti anni, e con la fiamma mia, Che sovra il ciel mi fà superba gire. Rivolgete la lingua, e le parole A dir di cosa più degna, e più chiara, Che non son io, schiera onorata e cara, Onde tanto Elicona s' orna e cole. Come la Luna il lume suo dal Sole Prende, onde poi la notte apre, e rischiara; Io cui natura è stata in tutto avara, Splendo quanto il mio Sol permette, e vuole A lui dunque si dee' tutta la lode, Perchè s' ei non mi dà del suo vigore; Non è chi mova la mia lingua, o snode. La mia vita in lui vive, ed in me more, Di lui sol parla, pensa, scrive, ed ode: O pur mi serbi in questo stato Amore. Chiunque a fama gloriosa intende Per via di chiaro stil, d' alto intelletto, Talor basso e vilissimo soggetto Per esaltarlo poetando prende. Omero che per tutto fama stende, Alzò cantando un animal negletto; E Virgilio la lingua saggio e il petto, Della zanzara al ciel scrivendo ascende. Tal di noi basso tema, fate vui Che il nostro nome indegno, ch' uom riguardi, Alzate sì che non fia mai, che moia. A voi, Priuli saggio, ceda lui, Che Mantova orna, e i bei campi Lombardi, E chi cantò Micena insieme e Troia. Cercando nuovi versi, e nuove rime Per poter far le lodi vostre conte, Apollo sceso giù dal sacro monte, L' orecchie mi tirò nelle ore prime. Altro ingegno, altro stile, ed altre lime, Mi disse, e d' eloquenza un maggior fonte Ti converrebbe, a poter stare a fronte Con soggetto sì degno, e sì sublime. Un mar che non ha fine, e non ha fondo, Cerchi solcar, cercando di lodare, Il Reverendo a nullo altro secondo. A tutti altri le stelle furo avare, Quando mandar sì chiaro spirto al mondo; A cui han dato ciò che si può dare. Soranzo, dell' immenso valor vostro, E dell' altre virtù tante, e sì nuove, Raggio sì vivo, e sì possente move, E di sì chiaro lume il secol nostro; Che volendo io vergar carta ed inchiostro, Sì come sono or quì, sien note altrove; La grandezza dell' opra mi rimove, E ritarda lo stil quel che mi è mostro. Io vinco ben tutt' altre di desio In amarvi e onorarvi come deggio; Ma l' opra è tal che vince il poter mio. Onde maggior virtude a chi può chieggio, Da pagar tanto, e sì dovuto fio, O vo' tacer di voi per non far peggio. Questo felice e glorioso Tempio Della più chiara Dea ch' oggi s' onori, Poich' io non ho condegni incensi e fiori, Colpa del duro mio destino, ed empio; Dietro a voi, che di morte fate scempio, Fra i più famosi e più saggi scrittori, Dotti figli d' Esperia, almi Pastori, Di queste basse rime adorno ed empio. Che se m' avesse il cielo alzata dove Alzato ha lei, alzato ha il vostro stile, O me lodata, o paghi i disir miei! Voi dunque in rime disusate e nuove Fate udire il suo nome a Battro, e Tile, E tutto quel ch' io volli, e non potei. Signor, se a quei lodati e chiari segni Il vostro ingegno, i vostri studi, e l' arte, V' hanno alzato, e il vergar di tante carte, A' quai s' alzaro i più chiari e più degni; Come poss' io come i maggiori ingegni, Entrando in tanto mar con poche sarte, Quanto si vuol, quanto si dee lodarte, Sicchè di nostro dir tu non ti sdegni? Certo, il desire e debito mi sprona, E via più la vostr' alta cortesia, Che tal volta di me pensa, e ragiona. Ma l' opra è tal, tal è la penna mia, Tal di voi parla, e sente ogni persona, Che credend' io d'alzar v' abbasseria. Voi, che di vari campi, e prati vari, Con la penna mietendo biade, e fiori, Mostrate ognor fra i più saggi scrittori, Ond' uomo si diletti, ed onde impari; O degli ingegni al mondo eletti, e rari Di mille edere degno, e mille allori; Il cui splendor non fia che discolori, L' invido obblio, o gli anni empi ed avari. Quante grazie vi rendo, Ortensio, poi Che senza merto mio, per vostri scritti, N' andrò famosa dagl' Indi agli Eoi. Con tante altre lodate, e chiari invitti, Che per la vostra penna, e pregi suoi, Di morte, o tempo non temon despitti. Se una sola eccellenza suol far chiaro Chi la possede, e voi n' avete mille, Gradito Cavalier, quai voci o squille, Potran mai gire a' vostri merti a paro? Voi nell' età più verde con quel raro Giudizio restingueste le faville, D' Inghilterra, e di Francia, ove sopille Non puote alcun di quanti unqua provaro. Voi di grandezza, voi di cortesia, Voi di presenza, voi di nobiltate, V' alzate a segno, ove altri non fù pria. Cantin di voi le penne più lodate; Che io quanto potrà la penna mia, Vi farò chiaro alla futura etate. Mille fiate a voi volgo la mente, Per lodarvi, Fortunio, quanto deggio, Quanto lodarvi, e riverirvi io veggio Dalla più dotta, e la più chiara gente; Ma dall' opra lo stil vinto si sente, Con cui sì male i vostri onor pareggio; Onde muta rimango, ed al ciel chieggio, O maggior vena, o desir meno ardente. Io dirò ben, che qualunque io mi sia, Per via di stile, io son vostra mercede; Che mi mostraste si spesso la via. Perchè il far poi del valor vostro fede, È opra d' altra penna che la mia, E il mondo per se stesso se lo vede. Signor, che per si rara cortesia Con rime degne di futura etate, Sì dolcemente cantate e lodate L' alto mio Colle, e l' alta fiamma mia: Io prego Amor, che se spietata e ria Vi fu giammai la donna, che ora amate, Ferendo lei di quadrella indorate, La renda a disir vostri molle e pia. E prego voi, che il vostro chiaro stile, Lasciato me soggetto senza frutto, Si volga al Signor mio chiaro e gentile. Io per me son quasi un terreno asciutto, Sono una pianta abbandonata e vile, Colta da lui, e suo è il pregio in tutto. Quel gentil seme di virtute ardente, Che germogliar nel vostro ingegno intende Fin da' primi anni, ed or tal frutto rende, Che n' è piena Adria omai tutto, e lo sente; Con quel desio che sì fervidamente Spiegate in carte, che di me vi prende; Sì viva fiamma nel mio cor accende, Che alla vostra è minor poco, o niente. È ben ver che il desio con che amo voi, È tutto d' onestà pieno, e d' amore; Perchè altrimente non convien tra noi. Appagate di questo il vostro core; Spirto gentil, e fate noto poi, Ne' vostri versi questo santo ardore. Di queste tenebrose, e fiere voglie Ch' io drizzai ad amar cosa mortale, Seguendo il van desio fallace e frale, Che sì rio frutto di sue opre coglie; Se avvien, che la tua grazia non mi spoglie, Poichè per me la mia forza non vale, Temo, che l' avversario empio infernale Non riporti di me l' amate spoglie. Dolce Signor, che sei venuto in terra, Ed hai presa per me terrena vesta, Per combatter, e vincer questa guerra. Dammi lo scudo di tua grazia, e desta In me virtù, sì ch' io getti per terra Ogni affetto terren che mi molesta. Quelle piaghe profonde, e l' acqua, e il sangue, Che nel tuo corpo glorioso io veggio, Signor, che sceso dal celeste seggio, Per vita al mondo dar restasti esangue; Che nel mio cor, che del fallir suo langue Vogli imprimer omai per grazia chieggio; Sicchè al fin del viaggio, che pur deggio, Non trionfi di me l' inimico angue. Cancella queste piaghe d' amor vano, Che m' hanno quasi già condotta a morte, Pur rimirando un bel sembiante umano. Aprimi omai del regno tuo le porte, E per salir a lui dammi la mano; Perchè a ciò far non giovano altre scorte. Signor, che doni il Paradiso, e tolli, Doni, e tolli alla molta, e poca fede, Per opre no; ch' a sì larga mercede, Sono i nostri operar debili e folli. Da' tuoi alti celesti e sacri colli, Ov' è il soggiorno tuo proprio, e la sede China gli occhi al mio cor, che mercè chiede Del suo fallir co' miei umidi e molli. E perchè suol la tua grazia sovente Abbondare, ove il fallo è via maggiore, Per mostrar la tua gloria maggiormente: Nel petto mio, ricetto d' ogni errore, Entra col foco tuo vivo ed ardente, E spento ogni altro, accendivi il tuo amore. Mesta, e pentita de' miei gravi errori, E del mio vaneggiar tanto, e sì lieve, E d' aver speso questo tempo breve, Della vita fugace in vani amori; A te, Signor, che intenerisci i cori, E rendi calda la gelata neve; E fai soave ogni aspro peso, e greve, A chiunque accendi de' tuoi santi ardori: Ricorro; e prego, che mi porghi mano A trarmi fuor del pelago, onde uscire, S' io tentassi da me, sarebbe vano. Tu volesti per noi Signor, morire, Tu ricomprasti tutto il seme umano; Dolce Signor, non mi lasciar perire. Volgi a me, peccatricce empia, la vista, Mi grida il mio Signor che in Croce pende; E dal mio cieco senso non s' intende La voce sua di vera pietà mista. Sì mi trasforma Amor empio, e contrista, E d' altro foco il cor arde ed accende; Sì l' alma al proprio e vero ben contende, Che non si perde mai poichè s' acquista. La ragion saria ben facile e pronta A seguire il suo meglio; ma la svia Questa fral carne, che con lei s' affronta. Dunque apparir non può la luce mia, Se il Sol della tua grazia non sormonta A squarciar questa nebbia fosca e ria. Purga, Signor, omai l' interno affetto, Della mia coscienza, sicch' io miri Solo in te, te solo ami, te sospiri, Mio glorioso eterno e vere obbietto. Sgombra con la tua grazia dal mio petto Tutte altre voglie, e tutti altri disiri; E le cure d' Amor tante, e i sospiri, Che m' accompagnan dietro al van diletto. La bellezza ch' io amo è delle rare Che mai facesti; ma poi ch' è terrena, A quella del tuo regno non è pare. Tu per dritto sentier là su mi mena, Ove per tempo non si può cangiare L' eterna vita in torbida, e serena. Volgi, Padre del cielo, a miglior calle I passi miei, onde ho già cominciato Dietro al folle desio, che avea voltato A te mio premio, e vero ben le spalle; E con la grazia tua, che mai non falle, A porgermi il tuo lume or sei pregato; Trammi onde uscir per me sola è vietato, Da questa di miserie oscura valle. E donami destrezza e virtù tale, Che posti i miei desir tutti ad un segno, Saglia, ove amando il nome tuo, si sale: A fruire i tesori del tuo regno, Sicchè inutil per me non resti, e frale La preziosa tua morte, e il tuo legno. Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata, Amar bellezza umana e fral qual vetro, E l' eterna e celeste lasciar dietro Della somma bontà, che m' ha creata? E poi m' ha dalla morte liberata, E dall' inferno tenebroso e tetro, Se del fallir mi pento qual fe' Pietro, Poichè tre volte già l' ebbe negata? Dunque io potrò veder di piaghe pieno Il mio Fattor per me sospeso in croce, E d' Amor e di zel non venir meno? Dunque non drizzerò pensieri, e voce, Ogni altro affetto uman spento, e terreno, Solo a' suoi strazi, alla sua pena atroce? Virtudi eccelse, e doti illustri e chiare, Che alzate al cielo il mio real Signore Sol co' passi di gloria, e d' alto onore, Già giunto in parte, ove non ha più pare; Voi voi sol voglio volgermi ad amare; Temprando il mio focoso e cieco amore: Guidato sol da tenebre ed orrore, Ove ambi due potrà forse annoiare. Or raccquistato alquanto del mio lume, Potrò specchiarmi in quel bel raggio ardente, Che da prima m' elessi per mio nume; E di cibo miglior pascer la mente, Dove io pasceva i sensi per costume Di cosa, che si fugge via repente. Quel desir che fù già caldo ed ardente, A bellezza seguir fugace e frale, L' alta mercè di Dio, prese ha già l' ale, Ed è rivolto a più fido Oriente: Seguendo del mio Conte solamente Quella interna bellezza, e senza eguale, Che con fortuna non scende, e non sale, E del tempo, e d' altrui cura niente. Da quì indietro il suo sommo valore, La cortesia, e il saggio alto intelletto D' alte opre vago, e di perpetuo onore; Saran più degna fiamma del mio petto, E più degno ricetto del mio core, E delle rime mie più degno oggetto. Canta, tu Musa mia, non più quel volto, Non più quegli occhi, e quelle alme bellezze, Che il senso mal accorto par che prezze, In quest' ombre terrene impresso e involto; Ma l' alto senno in saggio petto accolto, Mille tesori, e mille altre vaghezze Del Conte mio, e tante sue grandezze, Onde oggi il pregio a tutti gli altri ha tolto. Or sarà il tuo Castalio, e il tuo Parnaso Non fumo ed ombra, ma leggiadra schiera Di virtù vere, chiuse in nobil vaso. Questa è via da salir a gloria vera, Questo può farti dall' Orto all' Occaso, E di verace onor chiara ed altera. Donne voi, che fin qui libere e sciolte Degli amorosi lacci vi trovate, Onde son io, e son tante altre avvolte: Se di saper, che cosa sia bramate Questo Amor, che Signor ha fatto, e Dio Non pur la nostra, ma l' antica etate. È un affetto ardente, un van desio D' ombre fallaci, un volontario inganno, Un por se stesso, e il suo bene in obblio. Un cercar suo mal grado con affanno, Quel che mai non si trova, o se pur viene, Avuto, arreca penitenza e danno. Un nutrir la sua vita sol di spene; Un aver sempre mai pensieri, e voglie Di fredda gelosia, di dubbi piene. Un laccio che s' allaccia, e non si scioglie Quando altrui piace, un gir spargendo seme, Di cui buon frutto mai non si ricoglie. Una cura mordace che il cor preme, Un la sua libertate, e la sua gioia, E la sua pace andar perdendo insieme. Un morir, nè sentir perchè si moia; Un arder dentro d' un vivace ardore; Un esser mesta, e non sentir la noia. Un mostrar quel ch' uom chiude dentro e fore, Un esser sempre pallido e tremante; Un errar sempre, e non veder l' errore. Un avvilirsi al viso amato innante; Un esser fuor di lui franca ed ardita; Un non saper tener ferme le piante. Un aver spesso in odio la sua vita, Ed amar più l' altrui, un esser spesso Or mesta e fosca, or lieta e colorita. Un ogni studio in non cale aver messo, Un fuggir il commerzio delle genti, Un esser da se lunge, ed altrui presso. Un far seco ragioni, ed argomenti, E disegni, ed immagini, che poi Tutti qual polve via portano i venti. Un non dormire a pieno i sonni suoi, Un destarsi sdegnosa, ed un sognarsi Sempre cosa contraria a quel che vuoi. Un aver doglia, e non voler lagnarsi Di chi n' offende; anzi rivolger l' ira Contra se stesso, e sol seco sdegnarsi. Un veder solo un viso ove si mira, Un in esso affissarsi, benchè lunge, Un gioir l' alma quando si sospira, E finalmente un mal che unge, e punge. Da Più lati fra noi, Conte, risuona, Che voi siete ito, ove desio d' onore Sotto Bologna vi sospinge e sprona. Per mostrar ivi il vostro alto valore, Valor degno di tanto Cavaliero; Ma non degno però di tanto amore. Io quando alla ragion volgo il pensiero, Godo meco, e gioisco, e vo lodando, Che così prode amante i ciel mi diero. Ma quando poi ritorno al senso, quando Penso a' perigli, onde la guerra è piena, Che Marte a' figli suoi và procacciando; Di timor in timor, di pena in pena Meno questa noiosa e mesta vita, Mentre voi foste quì, dolce e serena. Me accusando ch' io non fossi ardita Di finir con un colpo i dolor miei, Anzi che voi da me feste partita. Felice è quella donna, a cui gli Dei Han dato amante meno illustre in sorte, E men vago di spoglie e di trofei. Col qual le sue dimore lunghe, e corte Trapassa lieta, avendol sempre a lato, Fido, costante, valoroso, e forte. Felice il tempo antico, e fortunato, Quando era il mondo semplice, e innocente; Poco alle guerre, alle rapine usato. Allor quella beata e queta gente Sotto una amica e cara povertate, Menava i giorni suoi sicuramente. Allor le Pastorelle innamorate Avean mai sempre seco i lor Pastori, Da' quai non eran mai abbandonate. Con lor da' primi mattutini albori Scherzavan fin al dipartir del Sole, Lietamente cogliendo e frutti, e fiori. Ed or di vaghe rose, e di viole Tessevan vaghe ghirlandette, e care, Come chi sacri altari onora e cole. Nè la quiete lor potea turbare, L' empito delle guerre amaro ed empio, Che l' umane allegrezze suol cangiare. Guerre, che fan di noi sì crudo scempio, Guerre, che turban sì l' umano stato, Guerre, soggetto d' ogni crudo esempio. Ben fù fiero colui, per cui trovato Fù prima il ferro; causa a tanti mali, Quanti il mondo prova ora, ed ha provato. Le guerre, le battaglie de' mortali Erano tutte in quella età novella, Contra i semplici e poveri animali. Contra quali il Pastor, la Pastorella Con rete in spalla, e con lacci, e con cani Givan cingendo questa selva, e quella. Ma poi quegli appetiti ingordi e insani, Di posseder l' altrui robe, e l' avere, Dall' antica pietà si fer lontani. Quindi si cominciar prima a vedere Le crude guerre, e strepiti dell' armi, Che fan misere noi tanto temere. Allor suonare i bellicosi carmi, S' udiro per cittadi, e per campagne, Contra quai ogni stil convien che s' armi. Di lor convien ch' io mi lamenti e lagne, La lor mercede il mio Signor m' è lunge; Per lor non è chi, lassa, m' accompagne. Voi, se zelo d' Amor pur poco punge, Cavalier onorati, se si trova Alcun, cui Marte dal suo ben disgiunge; Dimostrate in altrui la vostra prova, Perdonate cortesi al Signor mio, In cui morir, e viver sol mi giova. L' aspetto suo devria sol far restio L' empito d' ogni cruda, ed empia mano, Senza che lo chiedessi umilmente io. La qual con quanto posso affetto umano, Con quanta posso estrema cortesia, E giunga il prego mio presso e lontano; Prego, ch' ardito alcun di voi non sia, D' offender pur un poco un Signor tale, E turbar seco ancor la vita mia. E voi, Conte, voi animo reale, Provato, e riprovato in ogni impresa, Deh, se di me pur poco ancor vi cale. Quando sarà l' aspra battaglia accesa, Andate cauto, ed abbiate rispetto A me tutta per voi dubbia e sospesa. E pensate che sia nel vostro petto L' anima mia con la vostra alma unita, Quasi in suo proprio, e suo alto ricetto. E sì come faceste alla partita, Pensate, Conte, omai anco al ritorno, Se voi cercate di tenermi in vita; Ch' io vi vo richiamando notte e giorno. Dettata dal dolor cieco ed insano Vattene al mio Signor, lettera amica, Baciando a lui la generosa mano. E dígli, che dal dì, che la nimica Mia stella me lo tolse, il cibo mio È sol noia, dolor, pianto, e fatica. Ben fu il ciel al mio ben contrario e rio, Che a pena mi mostrò l' amato obbietto, Che, misera, da me lo dipartio. O brevi gioie, o frale uman diletto, O nel regno d' Amor tesor fugace, Subito mostro, e subito intercetto. Il bel paese che superbo giace Fra il Rodano, e la Mosa, or mi contende La suprema cagion d' ogni mia pace. Mentre ivi il mio Signor gradito intende Alle onorate giostre, a' pregi, a' ludi, Di cui sì chiara a noi fama s' estende: Io, misera, che in lui tutti, miei studi, Tutte le voglie ho poste essendo lunge, Convien che desiando agghiacci, e sudi. E sì fiero il martir m' assale, e punge, Ch' io mi vivo sol d' esso, e vivrommi anco Fin che il ciel, Conte, a me vi ricongiunge. Voi qual guerrier vittorioso e franco, Ferite altrui con l' onorata lancia; Io son ferita quì dal lato manco. O per me poco avventurosa Francia, O bel paese avverso a' miei desiri, Che impallidir mi fai spesso la guancia. Dovunque avvien che gli occhi volga e giri, Non vi trovando voi, Conte, mi resto Senza speranza, preda de' sospiri. Voi prometteste ben di scriver presto, Non potendo tornar per porger esca, Fra tanto al mio desir atro e funesto. E poichè non lo fate, temo ch' esca, Dalla memoria vostra la mia fede, E che del mio dolor poco v' incresca. È questa dell' amor mio la mercede? E della vostra fede è questo il pegno? Misera donna che ad amante crede. Credetti amar un Cavalier più degno, E il più bel che mai fosse, ed or m' avveggio, Che la credenza mia non giunge al segno. Empia Fortuna, or che mi puoi far peggio Rottemi le promesse di colui, Senza cui d' ogni mal preda vaneggio? Io non spero giammai, che come fui Vostra, Conte, una volta non sia sempre, Così non foste voi, Conte, d' altrui. Non so perchè la vita non si stempre, Non so come or con voi ragioni e scriva, Afflitta sì dalle amorose tempre. Ma, lassa, che dich' io? perchè mi priva Sì 'l duol del vero mio conoscimento, Ch' io tema d' una fè tenace e viva? Non siete voi quel pieno d' ardimento, Di senno, e di valor, che a mille prove Trovato ho fido cento volte e cento? Perchè debb' io temer, ch' essendo altrove Da me partito a pena, in voi sì tosto Nuovo amor a' miei danni si rinnove? Deh, dolce Conte mio, per quelle, e queste Fra noi ore lietissime passate, Ond' io mi piacqui, e voi vi compiaceste; Più lungamente omai non indugiate A scrivermi due versi solamente, Se il mio diletto, e la mia vita amate. Che non potendo veder voi presente, Il veder vostre carte darà certo Qualche soccorso all' affannata mente. Questo al mio grande amor è picciol merto; Ma sarà nondimeno ampio ristoro Al faticoso mio poggiar, ed erto. Ben felice è lo stato di coloro, Che per buona fortuna, e destro fato Han sempre presso il lor caro tesoro. Misera me, che m' è il mio ben vietato, Allor che più bramava, e più devea Essergli caramente ognor a lato. La mia fortuna instabilmente rea Mi vi die' tosto mi vi tolse; Che maggior danno far non mi potea. Ma voi, se dentro il vostro cor s' accolse Giammai vera pietà di chi v' adora, Di chi più voi, che la sua vita volse. Non fate, come ho detto, più dimora, Di scrivermi, e poi far tosto ritorno, Se non volete comportar, ch' io mora; Come stò per morir di giorno in giorno. Dalle ricche beate e chiare rive D' Adria, di cortesia nido, e d' amore, Ove sì dolce si soggiorna e vive; Donna, avendo lontano il suo Signore, Quando il Sol si diparte, e quando poi A noi rimena il mattutino albore: Per isfogar gli ardenti desir suoi, Con queste voci lo sospira, e chiama; Voi, rive, che l' udite ditel voi. Tu, che volando vai di rama in rama, Consorte amata, e fida tortorella, E sai quanto si tema, e quanto s' ama; Quando, volando in questa parte e in quella, Sei vicina al mio ben, mostragli aperto In note, ch' abbian voce di favella. Digli quanto è il mio stato aspro, ed incerto Or che, lassa, da lui mi trovo lunge Per ria fortuna mia, e non per merto. E tu, Rosignuolin, quando ti punge Giusto desio di disfogar tuoi lai, Con voce ove cantando non s' aggiunge. Digli dolente quanto fossi mai, Che la mia vita è tutta oscura notte, Essendo priva di quei dolci rai. E tu che in cave e solitarie grotte, Eco, soggiorni, il suon de' miei lamenti Rendi alle orecchie sue con voci rotte. E voi dolci aure, ed amorosi venti, I miei sospir accolti in lunga schiera, Deh fate al Signor mio tutti presenti. E voi che lunga, e dolce Primavera Serbate, ombrose selve, e siete spesso Fido soggiorno a questa, e a quella fera. Mostrate tutti al mio Signor espresso, Che non pur i diletti mi son noia; Ma la vita mi è morte anco senz' esso. Ei si portò partendo ogni mia gioia, E se tornando omai non la rimena, Per forza converrà tosto ch' io moia. La speme sola al viver mio dà lena, La qual non tornand' ei, non può durare, Da soverchio desio vinta, e da pena. Quell' ore ch' io solea tutte passare Liete e tranquille, mentre era ei presente, Or ch' egli è lunge son tornate amare. Ma, lassa, a torto del suo mal si pente, A torto chiama il suo destin crudele, Chi volontario al suo morir consente. Lassa, io dovea con mie giuste querele, O far che non andasse, o far che andando Non desse al vento senza me le vele. Ch' or non m' andrei dolente lamentando, Nè temenza d' obblio, nè gelosia Non m' avrebber di me mandata in bando. Emendate, Signor, la colpa mia, Voi ritornando, ove il vostro ritorno Più che la propria vita si desia. E se rimena il Sole un dì quel giorno, Non pensate mai più da me partire, Ch' io non vi sia da presso notte e giorno, Poich' io mi veggo senza voi morire. Musa mia, che sì pronta, e sì cortese A pianger fosti meco, ed a cantare Le mie gioie d' Amor tutte, e l' offese; In tempre oltra l' usato aspre ed amare, Movi meco dolente, e sbigottita Con le Sorelle a pianger e a gridare: In quest' aspra ed amara dipartita, Che per far me da me stessa partire, Hanno Fortuna, e il mio Signore ordita. E perchè forse non potrem supplire Noi soli a tanta doglia, in parte al pianto Queste rive, e quest' onde fà venire. Onde, che meco si compiacquer tanto Della cara presenza di colui, Che or lunge, sospirando io chiamo e canto. Questi, Amor, son gli usati frutti tui, Brevissimi diletti, e lunghe doglie Ch' io provo, che tua serva sono, e fui. Che come toglie agli arbori le foglie Tosto l' Autunno, così di tua mano, Se si dona alcun ben, tosto si toglie. Tu mi donasti, ed or mi tien lontano Quanto ben tu puoi darmi, e quanto vede, Di caro il Sol tornando all' Oceano. E bench' io sia sicura di sua fede, Bench' io riposi inquanto m' ha promesso, Nelle dolci parole, che mi diede: Quando il desio m' assale, ch' è sì spesso, Non essendo quì meco chi l' appaga, La vita mia è un morir espresso. Donne, cui punge l' amorosa piaga, Di lasciar dipartir l' amato bene, Non sia alcuna di voi che ne sia vaga. Perchè son poi maggioir assai le pene Di quel ch' altri si crede, o che s' aspetta, Qualor l' amara desianza viene. Niuna cosa a noi piace o diletta, Se non v' è quel che ne la fà piacere, Quel ch' ogni nostra gioia fà perfetta. Io quel che voglio non posso volere, Se quel ch' amo non ho presso, o d' intorno, Quel che le noie mie torna in piacere. Tu che fai ora a Lendenara giorno, Almo mio Sole, ed a me notte oscura, Sole a cui sempre col pensier ritorno: Dell' alta fede mia sincera, e pura Tien almen la memoria che si deve, Che durerà fin che mia vita dura. E se degna pietà ti move, in breve O scrivi, o vieni, o manda, sicchè io sia Scema di cura dispietata e greve. Che tanto durerà la vita mia, Quanto io sarò sicura d' esser cara, E d' esser presso a chi il mio cor desia, Il mio cor, ch' ora alberga in Lendenara. Non aspettò giammai focoso amante La desiata, e la bramata vista Di quel, per cui versò lagrime tante. Non aspettò giammai anima trista, E destinata nel prosondo abisso, La faccia del Signor di gloria mista. Non aspettò giammai servo, che affisso Fosse a dura ed acerba servitute, Alla sua libertà il termin prefisso. Non desiò giammai la gioventute Cara e gioisa, un uom già carco d' anni, In cui tutte le forze son perdute. Non desiò giammai d' uscir d' affanni Un, cui fortuna avversa affligge e preme, Carco e gravato d' infiniti danni. Non aspettò giammai un uom che teme Vicino a morte, la sua sanitate, Di cui era già giunto all' ore estreme. Non aspettò giammai le luci amate Di dilettoso caro dolce figlio, Benigna madre, e carca di pietate, Non aspettò giammai di gran periglio Sì distosa uscir nave, a cui l' onde, E nimica tempesta dier di piglio. Quant' io le carte tue care, e gioconde, Mirtilla, mia Mirtilla, alle cui voglie Ogni mia voglia, ogni desir risponde. Mirtilla mia, con la qual mi si toglie Ogni mia gioia, ed ogni mio diletto, Restando preda di perpetue doglie. Col cui leggiadro e grazioso aspetto Mi si rende ogni bene, ogni piacere Dolce, amoroso, caro, alto, ed eletto. Che non potendo te propria vedere, Veder i frutti del tuo vago ingegno, È quanto di consorto io posso avere. Però tosto ch' io vidi il caro pegno Dell' amor tuo ver me, l' amiche carte; Della memoria tua perpetuo segno; Quel piacer, che può dare a parte a parte Cosa dolce e gradita, ho sentito io, Sicchè a gran pena io, lo potrei contarte. Quel che ha turbato alquanto il gioir mio, È stato entro esse il legger, e il vedere Cosa tutta contraria al mio desio, Che la Mirtilla mia degna d' avere Prospero corso, e vera e dolce pace, Sia stata astretta per fobbre a giacere Questo pero fra mezzo il mal mi piace, Che la mercè di Dio, vi siete presto Convaluta del mal aspro, e tenace. Or attendete a conservar il resto Del tempo, che da me sarete lunge, Sicchè anco a me non sia il viver molesto. Perchè un sol duol due corpi insieme punge, Siccome un solo amor, ed una fede, Ed una volontà due cor congiunge. E se talor di voi cerca far prede Qualche cura noiosa, adoperate Quell' estrema virtù, che il ciel vi diede, E fra tanto di me vi ricordate. Dimmi per la tua face, Amor, e per gli strali, Per questi che mi dan colpi mortali, E quella che mi sface; Onde avvien, che non osi Ferir il mio Signore, Altero de' tuo strazi, e del mio core, In sembianti pietosi? Ove anniderò poi, Mi risponde ei, s' io perdo gli occhi suoi? Così m' impresse al core La beltà vostra Amor co' raggi suoi, Che di me fuor mi trasse, e pose in voi; Or che son voi fatta io, Voi meco una medesma cosa siete; Onde al ben, al mal mio, Come al vostro, pensar sempre dovete; Ma pur se alfin volete, Che il vostro orgoglio la mia vita uccida, Pensate che di voi siete omicida. L' empio tuo strale, Amore, È più crudo, e più forte Assai che quel di Morte, Che per Morte una volta sol si more; E tu col tuo colpire Uccidi mille, e non si può morire: Dunque, Amore, è men male La Morte, che il tuo strale. Io veggio spesso Amore, Girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi, Dolci del mio cor maghi, Dell' amato, e gradito mio Signore; Quinci par che saetti, E sien gli strali suoi gioie, e diletti; Queste son armi, che danno altrui vita, In loco di ferita. Sapete voi perchè ognun non accende, E non empie d' amore L' infinita beltà del mio Signore? Però ch' ognun com' io non la comprende; A cui per sorte è dato Vedervi quel, che a tanti altri è vietato; Che se non fosse ciò, le pietre, e l' erbe Spirerebbono ardore, E girian di tal fiamma alte e superbe. Se tu credi piacere al mio Signore, Come si vede chiaro, Amor empio ed avaro, Poichè non gli hai pur tocco l' alma e il core; E come è anche degno, Poichè con gli occhi suoi mantienti il regno: Perchè vuoi pur, ch' io moia, Per dargli biasmo, e noia? Biasmo, d' esser crudele, Avendo uccisa donna sì fedele; Noia, perchè se vive del mio strazio, Chi lo farà poi sazio? Il cor verrebbe teco, Nel tuo partir, Signore, S' egli fosse più meco, Poichè con gli occhi tuoi mi prese Amore. Dunque veranno teco i sospir miei, Che sol mi son restati Fidi compagni e grati, E le voci, e gli omei; E se vedi mancarti la lor scorta, Pensa ch' io sarò morta. Qual fosse il mio martire Nel vostro dipartire, Voi 'l potete di qui, Signor, stimare, Che mi fù tolto infin il lagrimare. E l' umor che per gli occhi uscendo fuore, Suol sfogarmi il dolore, In quell' amara, e cruda dipartita Mi negò la sua aita. O mio misero stato, D' altra donna non mai visto, e provato; Poichè quello, ond' Amor è sì cortese, Nel maggior vopo a me sola contese. Le pene dell' Inferno insieme insieme, Appresso il mio gran foco, Tutte son nulla, o poco; Perchè ove non è speme, L' anima risoluta al partir sempre, S' avvezza al duol, che mai non cangia tempre. La mia è maggior noia, Perchè gusto talor ombra di gioia, Mercè della speranza: E questa varia usanza Di gioir, e patire, Fà maggior il martire. Se il cibo, onde i suoi servi nudre Amore, È il dolore e il martire, Come poss' io morire, Nodrita dal dolore? Il semplicetto pesce, Che solo nell' umor vive e respira, In un momento spira Tosto che dell' acqua esce; E l' animal che vive in fiamma, e in foco, Muor, come cangia loco. Or se tu vuoi, ch' io moia, Amor, trammi di guai, e pommi in gioia; Perchè col pianto mio cibo vitale, Tu non mi puoi far male. Beato sogno, e caro, Che sotto oscuro velo m' hai mostrato Il mio felice stato: Qual potrà ingegno chiaro Quanto io debbo, e vorrei giammai lodarte In vive voci, e in carte. Io per me farò fede, Dovunque esser potrà mia voce udita, Che sol la tua mercede, Io son restata in vita. Signor, per cortesia Non mi dite, che quando andaste via, Amor mi negò il pianto; Perchè veggendo in me già spento il foco, L' acqua non v' avea loco, Per temperarlo alquanto: Anzi dite piu tosto, che fu tanto, In quel punto l' ardore, Che diseccò l' umore; E non potei mostrare L' acerba pena mia col lagrimare, Perciò che il corpo mio d' ogni umor casso, O restò tutto foco, o tutto sasso. Deh farà mai ritorno agli occhi miei Quel vivo, e chiaro lume, Ond' io vivo, e quei veggon per costume? Potran mai le mie lagrime, e gli omei Far molle chi di lor si pasce e vive, Che stà da me lontano, e non mi scrive? Aspro e selvaggio core, Questa è la fè d' Amore? Conte, dov' è andata La fè sì tosto, che m' avete data? Che vuol dir, che la mia E più costante che non era pria? Che vuol dir che dappoi Che voi partiste, io son sempre con voi? Sapete voi quel che dirà la gente, Dove forza d' Amor punto si sente? O che Conte crudele, O che donna fedele! Spesso che Amor con le sue tempre usate, Assal la vostra mifera Anassilla, Vi prenderia di lei, Conte, pietate In vederla, et udilla; Perchè le pene sue, i suoi cordogli Rompono i duri scogli; Ma voi state lontano, Ed ella piange in vano. Veggano Amore, e il ciel che il tutto vede, La vostra rotta, e la sua salda fede. S' io credessi por fine al mio martire, Certo vorrei morire; Perchè una morte sola Non uccide; consola. Ma temo, lassa me, che dopo morte L' amoroso martir prema più forte; E questo posso dirlo, perchè io Moro più volte, e pur cresce il desio: Dunque per men tormento Di vivere e penar, lassa, consento. Con quai segni, Signor, volete ch' io Vi mostri l' amor mio, Se amando, e morendo ad ora ad ora Non si crede per voi, lassa, ch' io mora? Aprite lo mio cor, ch' avete in mano, E se l' immagin vostra non v' è impressa, Dite ch' io non sia d' essa: E s' ella v' è, a che pungermi in vano, L' alma di sì crudi ami, Con dir pur, ch' io non v' ami? Io v' amo, ed amerò fin che le ruote Girin del Sol, e più, se più si puote. E se voi nol credete, È perchè crudo siete. Dal mio vivace foco Nasce un effetto raro, Che non ha forse in altra donna paro. Che quando allenta un poco, Egli par, che m' incresca, Sì chiaro è chi l' accende, e dolce l'esca. E dove per costume, Par che il foco consume, Me nutre il foco, e consuma il pensare, Che il foco abbia a mancare. Deh perchè soffri, Amor, che desiando La mia vivace fede, Resti senza mercede, Anzi di vita, e di me stessa in bando? S' io amo, ed ardo fuor d' ogni misura, Perchè si prende a gioco L' amor mio, e il mio foco, Da chi morir mi vede, e non n' ha cura? Gli orsi, i leoni, e le più crude fere Move talor pietade, Di chi con umiltade Nel maggior uopo suo mercè lor chiere; E quella cruda voglia, Che vive di martire, Allor suol più gioire, Quand' avvien ch' io mi sfaccia, e più m' addoglia. Felice in questa, e più nell' altra vita Chi fugge, come voi, prima che provi La miseria del secolo infinita: Prima che dentro al cor si turbi e movi Per tanti inaspettati uman cordogli, E poi d' uscirne al fin loco non trovi. Felice, anima tu, che quì ti spogli Di questi affetti miseri e terreni, E delle nostre pene non ti dogli. Tutti i tuoi dì saran lieti e sereni, Senz' ira, senza guerra, e senza danni, Di pace, di riposo, e d' amor pieni. Felice chi si fà sotto umil panni, Di Cristo Signor suo divota ancella, Nè prova i nostri maritali affanni. E gli occhi alzando alla divina Stella, Lascia questo aspro e periglioso mare, Ch' aura giammai non ha senza procella. Felice chi non ha tante ore amare; Nè sente tutto il dì pianti e lamenti, O di troppo volere, e poco fare. Qui s' odon solo al fin con gran tormenti, O querele di figli, o di consorte, E mai dell' esser tuo non ti contenti. Infelice colei, che a questa sorte Chiama la trista sua disavventura, Che in vita sa, che cosa è inferno, e morte. Questa è una valle lagrimosa e oscura, Piena di ortiche e di pungenti spini; Dove il tuo falso ben passa e non dura. Infelici noi povere e meschine, Serve di vanità, figlie del mondo, Lontane, oimè, dall' opre alte e divine. Altre per fare il crin più crespo e biondo, Provano ogni arte, e trovan mille ingegni, Onde van dell' abisso l' alme al fondo. Infelice quell' altra move a' sdegni Il marito, o l' amante, e s' affatica Di tornar grata, e far che lei non sdegni. Ad altri più che a se medesma amica, Quella con acque forti il viso offende; Della salute sua propria nimica. Infelice colei che solo attende Da mezzo dì, da vespro, e da mattina, E tutto il giorno alla vaghezza spende; Per parer fresca bianca e pellegrina, Dorme senza pensar della famiglia, E negli empiastri notte e dì s' affina. Infelice quest' altra della figlia Grande, che per voler darle marito, Senza quetar giammai, cura si piglia. E perchè al mondo ha perso l' appetito, Non fà se non gridar, teme, e sospetta Dell' onor suo che non gli sia rapito. Infelice qualunque il frutto aspetta De' cari figli, e sta con questa speme, Lagrimando così sempre soletta. Questo l' annoia poi, l' aggrava e preme, Che misera da lor vien disprezzata, E di continuo ne sospira e geme. Infelice chi sta sempre arrabbiata, E col consorte suo non ha mai posa, Mesta del tutto, afflitta e sconsolata. Troppo accorta al suo mal vive gelosa, E col figliuolo suo spesso s' adira, Non gusta cibo mai, mai non riposa. Infelice quell' altra che sospira, Che sa che il suo marito poco l' ama, E di mal occhio per mal far la mira. Alcuna in testimonio il cielo chiama, Che sa di non aver commesso errore, E pur talor si duol della sua fama. Infelice via più chi porta amore, E di vane speranze, e van disiri Si va pascendo il tormentato core. Altre pene infinite altri martiri, Che narrar non si sanno, il mondo apporta, Mille altre angosce, e mille altri sospiri. Felice per seguir più fida scorta Chi elegge di Maria la miglior parte, E si fà viva a Cristo, al mondo morta. Felice chi sue voglie ha volte e sparte Al sommo Sole, al ben del Paradiso, E quì con umiltà pon cura ed arte. A voi convien, che il bel leggiadro viso Celate sotto puro e bianco velo, Aver il cor da uman pensier diviso. Felice voi, che d' amoroso zelo Accesa, v' aggirate al vero Sole, Che luce eternamente in terra e in cielo. Voi correte quà giù rose e viole, Sarà del viver vostro il fin beato, Ch' altro non è di chi tal vita vuole. Felice voi, che avete consacrato I vaghi occhi divini, il bel crin d' oro A chi sì bella al mondo v' ha creato. È questo il ricco, il caro, e bel tesoro, Quest' è la preziosa margherita, Onde di palme al fin cinta e d' alloro; Vittoria porterete a Cristo unita.

IL FINE.

Candide rose, e leggiadretti fiori, Che fate nel bel sen dolce soggiorno; Quando sarà per me quel chiaro giorno, Che l' alma n' esca del suo bando fuori? Alteri vaghi, pargoletti Amori, Che a lei scherzando gite d' ogn' intorno; Volto, che d' onestà sei così adorno, Quando fien spenti mai cotanti ardori? Le stelle in cielo non staran più allora, Nè le selve averan arbori e fronde, Nè pesce alcuno asconderan più l' acque. Allor fia il dì che di legami fuora Uscirà il core. O fortunate l' onde, In cui sì bella donna al mondo nacque! Domenichi gentil, se il ciel vi dona Cosa che a pochi, ed a rari concede, Che quel leggiadro stil che in voi si vede, Empie di maraviglia ogni persona; Ben meritate degna, alta corona: Che il grave spirto all' alto stil non cede; Ma l' uno, e l' altro uguale il ciel vi diede, Che più dolce armonia quà più non suona. L' ingegno, la memoria, il dir, e l' arte Congiunti insieme con dolci parole, Degno vi fan di mille eterne carte. Anzi oggidì vostre virtù son sole; Che chi disia lodarvi in qualche parte, Cerca d' aggiunger nuova luce al Sole. Dal lido occidentale all' onde ircane, E dal Nilo, onde il Reno in mar ha foce, Che questo agghiaccia, e quello accende e cuoce Genti crude, selvagge, orride, e strane: Nè dal gran fiume all' isole lontane, Si trovò fiera al mal mai più veloce Di questa, che con gli occhi, e con la voce Nudrisce di pietà speranze vane. Altre son che col canto, e con gli artigli, Altre col lume fan di vita uscire Gli uomini, che non senton tanta pena. Non si trova splendor che si assomigli, Nè voce, o membra di maggior martire, Come son queste, dove Amor mi mena. Elena, poichè il pianto, e le parole Ch' io spargo ognor per farvi forse umile, Vanno crescendo; e mai non cangia stile L' eccessivo splendor del vostro Sole; Che non mi abbagli e strugga come suole L' altero sguardo a cui non è simile; Ch' ogni vago, ogni bello, ogni gentile Si scorge nelle luci oneste e sole. Dolce pietà di me v' allacci e prenda; Che gli occhi stanchi non versan più pianto, Nè la voce sfogar può il suo dolore. Chi mi tolse il mio ben prego mel renda; Che il lagrimare e sospirar cotanto, In sempiterni danni ha chiuso il core. L' umor che da' begli occhi si discende, Cadendo bagna i più leggiadri fiori, E il bel viso seren vie più s' accende Di vari, vaghi, e dolorosi ardori. Quando il giusto dolor, che il cor offende Tai segni spinse all' apparir di fuori; Sicchè umile e pietosa a voi vi rende, Che a me teneste in dubbio i vostri amori. Chi vide mai o nell' Aprile, o il Maggio Pioggia venir col Sol lucido e chiaro, Che intenerisce i fior, fà fresche l' erbe. Renderia molle ogni animo selvaggio L' alta cagion di tante pene acerbe; Tal fu di quei begli occhi il pianto amaro. Muzio, se di sapere hai pur disio Qual sia il mio stato, e di qual alma vivo; Elena è pur colei che mi tien vivo, E cresce e scema il mio dolce disio. Che non avrò giammai più bel disio Fin che il cielo terrà mio spirto vivo; Ned altro bramo, che restar quì vivo, Acciò che per pietà cresca il disio. E gli occhi suoi leggiadri torre a morte, Quando ella partirà da questa vita; E cantando sfogar mia acerba morte; Acciò che il canto si rimanga in vita; Ed altera non vada l' empia morte; Ch' ella quì resti in sempiterna vita. Quel lume da cui il ciel toglie il sereno Nasce, donna, dal vostro altero viso, Che forma in terra un nuovo paradiso Di gioia, di beltà, di grazie pieno. Lo splendor, onde il Sol riluce a pieno, Dagli occhi vien, che m' hanno il cor diviso; L' erranti stelle, ed ogni segno fiso Toglie il più bel dal vostro casto seno. Quante eccellenze delle cose belle Si videro giammai, da voi natura Tolse per adunarle tutte insieme. Maraviglia non è dunque, se quelle Rendono chiara ogni altra cosa oscura; Che il lume vostro ogni altro vince e preme. Se in quante forme mai quì scese Giove Potessi trasformarmi in questa e in quella, Per far sentir d' amor alma rubella, Farei con queste ed altre mille prove; Ma temo sì che poco valga e giove Con voi, donna gentil, onesta, e bella, Che avete amica ogni benigna stella, Che il lor voler dal vostro non si move. Che fora poi, se in prezioso umore, O in foco, o in vago augel di bianche piume Me variar potessi, e voi dal vero? Che non è al valor vostro altro valore, Nè foco alcun che punto vi consume, Nè augel vi può seguir con volo altero. Non si vedrà più lieto il tristo core, Ma l' alma afflitta ognor andar errando; Ch' essendo posta del suo ben in bando, Viverà carca d' eterno dolore. Delle spoglie superbe altero Amore Vedrassi andar; come ella fece quando Più volte avendo lui fatto ir penando, Or ha posto in obblio l' arme e il valore. Non verseranno gli occhi, se non onde, E non spargerà il petto altro che fiamma, Vedendo agli occhi il tenebroso velo: Per aspri boschi il mio corpo s' asconde, Per non veder quel che consente il cielo, Che disio di morir tanto l' infiamma. In amoroso e florido giardino, Ove stavan le Grazie, e i cari Amori, Mi parea di veder vari colori, E al paradiso allor esser vicino. Quando vid' io nel mezzo del cammino Un serpe divorar i vaghi fiori; Ed infettar i più soavi odori, Non so s' era sua colpa, o di destino. Fallace Vision; temo del vero; Perchè la fede, ch' è cotanto rara, Paolo la perseguì, la negò Piero. Sì ch' un donna instabile ed avara, La qual non tenne mai dritto sentiero, Al fin non faccia la mia vita amara. Dunque un Garzone, un Capitano invitto Malvagia Sorte priverà d' onore, Di cui l' ardito ed animoso core Non si smarrì giammai, non pur fu vitto? Ma per sfogar l' acerbo rio despitto, Movesti in ogni parte il tuo furore; Per soggiogar l' antico alto valore, Che di Francia farà l' imperio afflitto. Con tutto il tuo poter, perversa Sorte, La vittoria fu tanto sanguinosa, Ch' ebbe più danno il vincitor, che il vinto Onde il gran Cavaliero, il Guerrier forte Con la gente di Marte valorosa, Farà ancor teco l' inimico estinto. Nel fiammeggiar della vermiglia aurora, Per farmi lieto alla staggion novella, La mia vaga, e leggiadra pastorella Esce col gregge dal suo albergo fuora. Allor tra bei crin d' or scherza fresca ora, E verdeggia alle piante erbetta bella; E allo splendor dell' una, e l' altra stella Ogni cosa creata s' innamora. Per mirarla i ruscei copron le sponde, Denso nembo le fà l' aria d' intorno, Stan chini i monti, immobili le fronde. Sorge Febo, e n' adduce il chiaro giorno, Quando io dico, e ad un punto ella risponde: O dolci baci, o breve, o bel soggiorno! Quando madonna il suo terrestre velo, Ch' ebbe d' ogni bellezza, e grazia il vanto, Rese alla terra, e spirto ignudo e santo Tornò davanti al suo Fattore in cielo: Punti d' ardente, e di pietoso zelo Gli occhi, e i cori mostrar gran doglia, e pianto; E si converse in aspre note il canto, Spento il foco d' amor, spuntato il telo. Tra fumi e nebbie, ed infernai vapori Febo s' ascose, e per dirotte cave Corsero al negro mar funesti umori. Ma il ciel, che maggior gioia unqua non ave, Lieto s' aperse; e coi divin splendori Fe' quanto era quà giù chiaro e soave. È questo il petto, Amor, a cui mi resi Il dì che mi assalisti al primo assalto? Son questi i bei rubini, e il bianco smalto, Che mi tolsero il core, e nol contesi? Son questi gli occhi, anzi i due Soli accesi, Che mi vinser ferendo or basso or alto? Son questi i lacci, ch' io prigione esalto De' bei capelli in vari modi appresi? È questa l' armonia, questo il concento Delle parole angeliche e beate, De' quai rimasi ardente fiamma al suono. È questo il vago altero portamento, Son queste le accoglienze a me già usate? Quelle son pur, se fuor di me non sono. Quando mercè d' Amore io giunsi al loco Nido della cagion del mio servire, Alto ricetto d' ogni mio disire, Fido albergo di lei, che sempre invoco; Cominciaro le stelle a poco a poco Fuor del cielo ridenti ad apparire, Non men per salutar, che riverire La bella fiamma del mio nobil foco. La qual sorgendo a illuminar l' oscuro Delle mie luci, i rai celesti oppresse, E fe' il ciel chiaro col suo lume puro. Io vidi allo splendor, che mi concesse Il folgorar del raggio suo sicuro, Sparir tutte le stelle in fuga messe. Fu morte il mio partire, Quando da voi, che l' anima mia siete, Senza spirto partì, come sapete, Donna; e non doglia di dover morire: E se per morte non restai di gire Al loco, ove io dovea; Amor ch' ambi pungea D' un medesimo stral, tenendo in vita L' un' alma all' altra unita, Fu cagion ch' io dell' alma mia sol privo, In me morto restassi, ed in voi vivo. Fortunata città, beato mare, Ove nacque sì bella e cara donna, Del viver mio colonna; Esempio di virtù, di cortesia, Negli atti, nel sembiante, e nella gonna: Di costumi e di grazia singolare; Sola tra l' altre rare Gloria del cielo, e della vita mia. Non offenda voi mai fortuna ria, Nè contraria stagion danno v' apporte: Cada chi v' odia alla miseria in fondo; Natura, Iddio, e il Mondo Sempre v' accresca in più gradita sorte: Talchè sien chiari ad ogni età futura I sacri lidi, e l' onorate mura. Da te, famoso mar, vento e procelle Vadano in bando, e nel tuo vaso ognora Ninfe faccian dimora, Quant' altre furon mai vaghe e lascive. Splenda oro fino dell' arena fuora, E da ogni parte in te versin le stelle Perle candide e belle; E coralli di fiamme ardenti e vive: Giungano sempre alle felici rive Legni guidati da cortesi amanti, E varchi lieta il tuo bel regno ignuda La Dea pietosa, e cruda, Co' pargoletti Amor dietro, ed innanti; E tu coperto d' amoroso nembo Abbi sol latte, e molle argento in grembo. A te, cittade, ogni mortal impero Con fedeltade, e con ardir soggiaccia, Dal mar che sempre agghiaccia Sin agli Etiopi; e dal levar del Sole Sin dove il seno l' occean l' abbraccia: E quanti Re son tra il Gange, e l' Ibere, Dal Tanai al Nilo fiero Consacrino al tuo nome opre, e parole. Spiriti di voglie alte eccellenti, e sole Reggan te in libertade ampla ed eterna; Nè mai sia il cielo d' arrichirti stanco: Viva il canuto e bianco, Finchè piace a colui che ci governa, Robusto e sano; e più fiorita sempre La gioventù senza cangiar mai tempre. Voi mentre io, lasso, in queste frondi ho stanza, Che fan verde ghirlanda all' ALTO COLLE, E la mia lingua estolle L' alma beltade al ciel; da cui diviso Empio fato mi tien col petto molle; Godete la divina sua sembianza; Nè mai per lontananza Restate privi del celeste viso, Che l' angelo a cui siete paradiso Raggira in voi, nè spiega altronde il volo: Così in disparte a lui mi reggo nulla; Che il ciel sin alla culla Mi die' imperfetto quì senza lui solo; Ond' io col pensier volto a' suoi bei rai, Voi, e lui di lodar non empio mai. Voi, perchè riserrate il più bel pegno Ch' abbia del suo valore unqua il ciel mostro; Lui, che dall' alto chiostro Scese tra noi per allumar la terra; E a tempo in ver del più bel stato nostro Si fece del cor mio ricetto degno; Onde a lodar io vegno L' alta sua gran virtù, che mai non erra. Così piangendo la continua guerra Con che contende a' miei desir fortuna, Stracciandomi da lui lontano a forza, Con questa frale scorza Compiaccio a lei, di penar mai digiuna; Ma con l' affetto, e con la voce ardita Voi benedico, e lui che mi dà vita. E dico: O tetti illustri, o benigne acque, Vi fu a gara cortese ogni pianeta; Quell' ora santa e lieta Che vi fe' chiari di cotanto lume; In vista riverente mansueta La bella immago a tutto il mondo piacque. Il giorno, ch' ella nacque, Venne in terra ogni grazia, ogni costume; Un paradiso sembra, ed anzi un nume; E con questo mirando i fior diversi, Parmi proprio veder il mio tesoro, U' con la mente adoro Quasi lui quei fior bianchi e gialli e persi; Ma scosso dell' error, tosto m' avveggio, Che voi lo possedete; ed io vaneggio. E raddoppiando le querele e i gridi, Ingombro l' aria de' sospir di foco, E il mio destino invoco Maligno inesorabile protervo; E maledico ogni creato loco, Ove ogni altro fuor ch' ei solo s' annidi: E con orribil stridi Mi disfaccio disosso spolpo e snervo. Poi volto in fuga come offeso cervo Da stral nel fianco, io corro ove mi mena Il furor, il martir, nè so a qual passo. E di viver più lasso Bramar non oso in sì gravosa pena: Pur col sperar pietà da lei lontano Il corso fermo, e in parte il mio mal sano. Canzon, s' omai più troppo a venir tarda Qualche soccorso al discontento core, Io morirò di doglia, e non d' amore. Corso, se il ciel che vi produsse in terra, Benchè parto mortal pur sì perfetto, Per virtù, per valor, per intelletto, Che se il mondo vi pregia in ciò non erra; Spezzi ogni tomba dove il tempo serra Le gran memorie d' ogni spirto eletto, Sicchè fin che ei mantien forma ed aspetto Sia il nome vostro eterno in pace, e in guerra. Cantate la beltà dell' Idol mio; Perchè, lasso, a pensarla mi confondo, Non che a parlarne, e il suo miglior obblio. Questo è soggetto a null' altro secondo; Questo le nostre menti innalza a Dio, E indur potrebbe a miglior bene il mondo. Collalto, in cui del ciel scendendo in terra Di quel ben di là su vero perfetto, Che infiamma ogni alma, alluma ogn' intelletto, Che serpendo quà giù vaneggia ed erra; Aperto mostra quel che asconde e serra L' alto Motor del bel numero eletto: Che intormo al santo suo divino aspetto Tien con dolce felice eterna guerra. Brama il vostro celeste Idolo, il mio Basso stile cantar; ma mi confondo Nel gran soggetto, e rime e versi obblio. Cantatel voi, che avete ognor secondo Con le suor d' Elicona il sacro Dio, Che avviva e illustra co' suoi raggi il mondo. OPER cui sola ad alto onor m' invio, Donna gentil, che il basso mio pensiero Scorgete al ciel per vago almo sentiero, A contemplar le intelligenze, e Dio; In voi s' erge, e si specchia il mio disio; E mirando ivi accolto il pregio altero, E l' onestade, e tutto il bene intero, Frena l' ardir del senso frale e rio. Indi per la beltà vostra infinita Di grado in grado puro e lieto poggia; Sì che giunge alla vera eterna vita. Così la mente al suo Fattor s' appoggia, Or degno effetto al vostro amor l' invita; Poichè per voi nel suo riposo alloggia. Misero, che agghiacciando avvampo ed ardo, E per temprar col pianto il foco interno, Gli amari affanni, e l' alta doglia eterno E con due morti in vita mi ritardo. Sperando temo or debile or gagliardo; E morto io vivo in dolce orrido inferno; E pur mi reggo senza alcun governo, E caccio tigri a passo infermo e tardo. A me ribello io sono, altrui fedele; E duolmi, e rido, e guererggiando in pace, Faccio gli sensi alla ragione scorte: Dolce l' assenzio parmi, acerbo il mele; E mi pasco di quel che mi dispiace; Così strani accidenti ha la mia sorte. L'afflitto mio pensier così m' ingombra D' amaro duol, che mi distrugge e sface, Che con i miei sospir non ho mai pace, E son fatto di me sol parte ed ombra. L' alma d' ogni piacer si vede sgombra, Sicchè la vita, misero, mi spiace; I sensi infermi, il cor languido giace, E gli occhi miei continuo pianto adombra. Manca il vigor, e nel mio volto appare Segno di morte, e in loco alcun non veggio Rimedio alla mia vita al suo fin corsa. L' aspro crudel mio stato, ond' io vaneggio, E non l' ugguaglia stil, potria turbare, Non dico d' uom, ma un cor di tigre e d' orsa. L' alta fiamma d' amor m' incende e sugge L' umor che mi dà vita e nudrimento, Sicchè per chiari segni omai mi sento, Che la morte s' appressa, e il viver fugge. L' alma quasi leon dentro si rugge; E de' sospiri al doloroso vento Rinforza il fero ardore, e il mio tormento; Così mia verde età si secca e strugge. Asciutto è il mar de' miei sì larghi pianti, Nè più lagrime dà, se non di sangue La travagliata e misera mia testa. E dove pria fra i più gagliardi amanti Men gìa, fatto ora son debile, esangue, Tanto che sol morir, lasso, mi resta. Le vostre belle e pure e dotte carte, E gli spiegati vostri alti concetti, Partoriscono in me sì dolci effetti, Ch' ogni mio duol dall' anima si parte. Contando il vostro amor vincete l' arte, Onde non corre a voi, benchè s' affretti L' avaro tempo, e il dir pien d' intelletti Adorna il nome vostro in ogni parte. E se il pensier ch' è in me fosse pur mio, Com' è già stato, e s' io potessi omai Volger le rime a voi come disio; Forse il mio stil sempre uso a tragger guai, E lodar quella, onde il mio foco uscìo, Saria più vago ed onorato assai. Domenichi gentil, che fate voi Lontan dagli occhi miei, vicino al core? Se non com' io del vostro almo valore Sempre, talora almen pensate a noi? Se voi scrivete io non vi chieggo poi, Che restar non conviensi al vostro onore; Ma ben vorrei quetar l' alto dolore Col vostro ingegno, e i dolci frutti suoi. Premevi amor per l' aria d' un bel volto? O godete per lui felice amante? O ve ne andate pur libero e sciolto? Io non saprei giammai ritrar le piante Dal regno suo, perchè in martiri avvolto Mi strugga, e insieme sia caldo, e tremante. Frena, mio bene, i lumi tuoi lascivi; Che il tuo dolce guardar mi cangia in sasso; Ma non tener ti prego il viso basso, Che mi fanno morir gli occhi tuoi schivi. Tempra, deh tempra i raggi ardenti e vivi, Ch' io mi consumo, e gli occhi in terra abbasso; Ma se il tuo cenno fai pietoso, ahi lasso, Me per troppo sperar di vita privi. Nè mai bagnar di lagrime ti piaccia Le tue serene luci, acciò che allora Di tenerezza e duol non mi disfaccia. Ma se il vederti in ogni via m' accora; Forse io dirò, che la tua bella faccia M' ascondi. Ah no; ma fa sì ch' io non mora. Il fero mio disio tanto mi accende, Quanto più la speranza mi conforta; E il nuovo empio riparo alla via corta Della mia gioia oltre ogni dir m' offende. Che se il muro importun, che mi contende L' entrata dove è la mia fida scorta; Non serrasse la già benigna porta, Per cui solo il mio duol mercede attende: Io spererei, che quanto dolce mai Fosse raccolto in cor di lieti amanti, Al paragon del mio paresse guai. Muro, cagion de' miei sì larghi pianti, Degna pietà, crudel, ti rompa omai; Sicch' io del primo comodo mi vanti. Vostro orgoglio, madonna, e il vostro sdegno Potrà condur ben la mia vita a morte; Che a sostentar l' assalto io non son forte Degli occhi ardenti; ai quai neve divengo: Ma non far, ch' io pur mostri picciol segno Di aver altrove le mie voglie scorte; Che quando a voi mi die' l' alma mia sorte, Promisi fede, e il cor lasciai per pegno. Sicch' egli come ostaggio di mia vita, Per mia ribellion sostenerebbe Esilio e fine, ond io morrei con lui. Se dunque mai non posso esser d' altrui; Por fine all' ire omai buono sarebbe; Anzi, se vostro son, datemi aita. Alto Signor, venuta è l' ora omai, Che finisca la morte il mio peccato; Venuto è il giorno, ond' io sarò beato, Sicchè a lodarti io non mi stanchi mai. L' offese mie ver te son i miei guai; E s' io partendo lascio il mondo ingrato, Di farti oltraggio, ovunque avrò il mio stato A me fia più che quì gradito assai. Se la Parca immaturo a voi mi toglie, Amici miei, più breve è l' error mio; E vostre sien del mio Signor le voglie. Lavate ha le mie colpe il sangue pio; Disse l' Artuso, dall' umane spoglie L' alma rendendo al suo Fattore e Dio. Vera umiltà con gravi modi unita, Gli atti cortesi il senno, ed il valore, Cui non si vide par, non che maggiore, Ad amar voi, Signor, ciascuno invita. Il saggio e buon consiglio, e la gradita Eloquenza, il giudizio, e lo splendore Dell' alto ingegno tal vi porge onore, Che il mondo per mirabile v' addita. E s' egli è ver, che una medesim' alma, Lasciato che ha l' albergo suo primiero, Entra in diversi corpi; io penso e stimo, Che chiuda in se la nobil vostra salma, L' afferma il nome, il chiaro spirto altero Di quel grand' Ermolao vostro avo primo. Il non vedervi mi conduce a morte, E parimente il veder voi m' uccide; Dunque chi fia che in questo amor s' affide? Il mio dolor è così accerbo e forte, Ed è sì smisurata la mia gioia, Che l' uno, e l' altro vince il mio vigore. Così il mio ben pareggia il mio dolore; E due contrarj in operar ch' io moia, Fanno un effetto: e la mia sorte è tale, Che avvegna qual si voglia, ho sempre male. Mentre d' amor fra speme incerta, e tarda, Fra certo affanno, e gelido timore Mi tiene in forse, e mi tormenta il core, Sicchè par che ad un tempo agghiacci, et arda; Non trovo chi la voglia aspra e gagliarda M' acqueti altri che voi, del mondo onore; Le cui degne virtuti, il cui valore Non chiude stil, nè mente a pieno guarda. Beato voi, che il dolce ornato e caro Vostro parlar, e i gentil modi alteri Vincer ponno in altrui lo strazio amaro. Felice me, che negli acerbi e feri Casi ho il conforto vostro unico e raro; Onde a voi spesso volgo i miei pensieri. Se all' ardente disio, che a dir mi spinge Non risponde lo stil; se il bel soggetto La lingua in queste carte non dipinge; Da voi, donna, procede il mio difetto. La beltà ch' ogni senso annoda e stringe, Di leggiadri sembianti almo ricetto; È tal che giù del suo seggio sospinge Ogni arte, ogni natura, ogni intelletto. Io non ho da volar tanto alto piume; Nè pur la mente il ver pensando acquista; Anzi par che al principio si consume. Come abbagliando il Sol gli occhi contrista, E quanto ei rende più vivo il suo lume, Tanto chi il mira, men serva la vista. Figliuol di Dio, che del paterno scanno Per dar la pace a noi scendesti in terra; E morendo vincesti l' aspra guerra, Che al mondo fe' l' antico empio tiranno; Ben giusto fia l' offrirti ogni nostro anno, E lo stato, e il pensier volto sotterra; Poichè solo per te, dove si serra Ogni grazia del ciel, siam fuor d' affanno. Non ti spiacque, Signor, farti mortale Per liberarne, e te lasciasti in pegno; Tanto è l' amor cui nullo stile adegua: Onde, se senza te son cieco e frale, Spero aver per pietà misero, indegno, Lume e vigor, sicch' io t' adori e segua. Cura, che sempre vigilante e desta A persuadermi il mal, di timor m' empi; E nel dubbioso cor tue voglie adempi, E fai la vita mia dogliosa e mesta: Tosco a' dolci pensieri, atra tempesta, Che perdi le mie spemi, e i cari tempi; Perchè mi struggi con novelli, ed empi Sospetti, ed ognor più mi sei molesta? O fiero mostro, o peste degli amanti, Qual furia quì dal basso orrido chiostro Ti manda a conturbar i nostri canti? Vattene omai, che il tuo poter m' hai mostro; Onde in fredde paure, e in larghi pianti Noterà molti affanni il tristo inchiostro. Ho riveduto, amanti, il mio bel Sole, Dal cui chiaro splendor, dalla cui vista Quando lontano io son, l' anima trista Di viver sempre in tenebre si duole. Udite ho le dolcissime parole, Onde il mio cor sommo diletto acquista; E se talora alcun dolor m' attrista, Dolce per queste in me divenir suole. Però con vaghe ed onorate rime Scrivete il mio piacer, lodate il giorno, Che la serena luce mi riporta. O benedette le faville prime, Onde m' ardeste, donna; il cui ritorno Quanto più lungo fu, più mi conforta. L' alto, felice, e raro vostro ingegno, Che frutti si mirabili produce, E le tanti virtudi, onde traluce La grazia di che il ciel vi fece degno; M' han preso sì che a riverirvi io vegno; E del pensier quella mia poca luce Ad inchinarmi ognor sì mi conduce, Come di questa età vero sostegno. E se le forze, e il mio potere infermo Di quell' alto disio gissero a paro, Che sempre a dir di voi m'invoglia ed ange; Vi farei contra morte, e il tempo schermo; E il vostro nome eterno, illustre e chiaro Cantando renderei dal Tago al Gange. Lasso, ben so che il mio crudel martire Avanza ogni altra pena, ogni lamento; Ma perchè l' alma il più pianga e sospire, D' esser tuo servo, Amor, già non mi pento: Che quante volte a me veggo apparire La bella donna, onde al mio mal consento, Ratto mi corre al cor tanto gioire, Ch' io dico: Or m' è soave ogni tormento. Così la doglia, e gli angosciosi affanni Temprando, par che tutto mi conforte La dolce vista, ch' io ringrazio e lodo. Ed invaghito io son sì de' miei danni, Ch' io voglio anzi per questa oltraggio e morte, Che viver lieto in alcun altro modo. Il vostro dono prezioso e caro A pensar di me stesso omai m' invita, Perchè la sabbia già di nostra vita Veggo correre in lui senza riparo; E in tanto al volto, onde ogni bene imparo, Volgendo i miei pensier, la mente ardita, Sento che la beltà vostra infinita Mi porta al ciel beato spirto e chiaro. O dono altero, in ch' io mirando espresso Il viver frale, e quanto è breve l' ora, Sprezzo l' umane cure, e il mondo istesso. Divina alma bellezza, ond' io son fuora Di me medesmo, e al sommo ben m' appresso; E l' alma il suo Fattor vede et adora. Donna gentile, il cui purgato inchiostro De' più famosi stili arriva il segno, Ed il cui chiaro, e fortunato ingegno Rende gli antichi onori al secol nostro; Non l' oro sì di fuor n' adorna e l' ostro, Come voi col dir vago altero e degno Ornate il mondo; ne più caro pegno Ave Parnaso dello studio vostro. Voi da' pensier leggiadri alzata a volo, Vi fate eterna, e il vostro almo valore Si sparge omai dall' uno all' altro Polo. Chi dunque fia che pien di dolce ardore, Udendo questo, al nome vostro solo Non consacri gli scritti, e insieme il core? Signore, il cui fedel saggio consiglio Leva dalla mia mente il fosco velo; E mi dimostra per qual modo al cielo Si poggi, e l' uom del suo Fattor sia figlio; Quì lo star senza voi parmi un esiglio; Ma pur quel che m' affligge ardente zelo, Sana l' istessa doglia, che mal celo, E col portarmi a voi m' allegra il ciglio. Così l' amor con due contrarj effetti M' inforsa, ond' io non so, se l' esser mio Lontan me addogli, o me vicin diletti. Ma come ognor mirarvi, e udir disio L' alta eloquenza, e i vostri alteri detti; Così di me non entre in voi l' obblio. Qual lingua mai potria lodarti a pieno, Alto Signor, del ciel pietoso e forte, Che per serrarne le tarteree porte, Non ti spiacque abitar basso terreno? Nuova pietade al secol d' error pieno Mostrasti, in darti a così acerba morte; Divine forze in far le genti accorte, Che morendo a Pluton ponesti il freno. Fu smisurato amor dall' alta sfera, Ove sei Dio, discender quì per noi, E farti anco passibile, e mortale. E pur ti offendo; ma se i merti tuoi Doni, e te stesso a chi pentito spera; È questo amor cui stime il senso frale? Sansovino gentil, cortese e caro, In cui le stelle amiche e il cielo infuse Pensier, che fuori ogni viltade escluse, E rende il vostro nome ornato e chiaro; Dall' acerbo crudel mio duolo amaro, Onde Amor, lasso, il cor mi strinse e chiuse, Mieto lagrime tante, e si confuse, Ch' io per me non so farmi alcun riparo. Veggo la vita mia di pena in pena Varcando andarsi agli ultimi sospiri, Anzi volar, se pietà non l' affrena. Sol voi date conforto a' miei martiri; E quella vista angelica e serena, Ond' hanno speme i dolci miei desiri. Se v' acorgeste del fuggir dell' ore, E come il tempo con l' usato artiglio Crespar le guance, e il candido e vermiglio Suol tramutar in pallido colore; E il vago agli occhi, al viso tor l' onore; Usereste altre modo, altro consiglio, Madonna, e con sereno e lieto ciglio Omai trarreste me di doglia fuore. Deh non v' insuperbite all' esser bella; Cadono i gigli; e voi direte alfine, Dannando il giovenile orgoglio altero: Lassa, quanto mutata io son da quella! O saggio amante! ahi bel perduto crime! In van fui bella, e in van muto pensiero. Donna, la cui beltà pur non pareggia Alcun pensier, non che l' ugguagli stile; A voi ne vengo riverente umile, Come chi di gran mal soccorso chieggia. E prego omai, vostra pietà s' avveggia Del duol che fammi a morte esser simile; E come bella, siate anco gentile, Sicchè d' ogni mio danno il fin si veggia. Potrò poi dir delle dorate chiome, Di que' vostri occhi dolcemente accensi, E del bel che mi prese io non so come. Ch' ora gli affanni, e i miei martiri intensi, Quando vorrei cantar il vostro nome, Confondono il pensier, perdono i sensi. Signor gentil, che in dolci e stretti nodi Legate ogni alma al vostro degno amore, E date a questa età vero splendore, Con le proprie virtuti in mille modi; Come poss' io narrar le tante lodi Se ogni alto stile cede al vostro onore? Come tacer, se il mio leggiadro ardore Vuol pur che a dir di voi la lingua snodi? O vera pietra forte intera e salda, V' cortesia fermato ha il proprio seggio, E in cui s' appoggia il mio sperar non vile. Se al soggetto che date, e alla mia calda Altera voglia ugual deste anche stile; Di voi piu chiaro al mondo alcun non veggio. Savina mio, se voi sapeste quante Lagrime io versi, e in quale stato io viva, Direste bene: O sfortunato amante, Qual crudeltà d' ogni tuo ben ti priva? Misero me, che quelle luci sante Della mia donna ritrosetta e schiva, Mi son contese; ond' io son posto in tante Pene, che non è stil che le descriva. E se non che per l' alma sua contrada Errando, involo come Amor m' insegna, La sua vaga serena e dolce vista; Morrei; ma poichè il mal mio sol le aggrada, D' ogni conforto mio si turba e sdegna: Così il mio vero amor tal merto acquista. Crudel Sirena mia, poi ch'è pur vero, Che del vostro fedel l' acerba morte Bramate, lasso, e la mia dura sorte Vuol pur ch' io viva, ond' io senza fin pero; Ecco per aspri monti, e per sentiero Sassoso inculto, e per vie rotte e torte, Prendo strano cammin senza altrui scorte; Misero, e pur vi lascio il mio pensiero. Forse avverrà, che in parte ove il Sol preme, E vicino arde i colli, e le campagne, Nel doppio ardore il consumarmi impetre: O là ve' il ciel più freddo orrido piagne, Spenga il mio foco, e la mia vita insieme; E mi assomigli alle gelate pietre. Dolce mio ben, deh qual cagion vi move A tenermi celato il caro volto; Onde in pianti, e in sospiri, e in pene avvolte Duro stato, e crudel convien ch' io prove? Lasso me, che mi struggo, e non ho dove Mi trovi aita, che se pur m' è tolto Il veder voi, per cui libero e sciolto Men gìa d' ogni martir, che piu mi giove? Privo di quella vista, ond' io tutt' ardo Forse ch' io spiri, o che mi cerchi altronde Tregua col mie dolor tenace e forte? Non fia mai ver: ma senza il vostro sguardo, Sempre avrò doglie nel mio cor profonde; Nè voglio altro piacer che la mia morte. Felice cor, che vinto dal disio Da me partisti, e seguitando Amore, Che ti condusse dal mio albergo fuore Nel dolce albergo entrasti, ond' egli uscio; Se ti ricordi che pur fosti mio Quando, lasso, vivea tempo migliore; Ascolta i preghi miei, che il fero ardore Mi detta, e l' aspro affanno acerbo e rio. Poichè venir non posso ove tu sei; E sì come tu prima in me ti stavi, Così in te starmi ore tranquille e liete; Ti raccomando il mio tormento a lei: Non più, donna, per voi dolore aggravi Il fedel ch' io reggeva, or voi reggette. Io provo giorni tenebrosi e rei, E due contrarj un sol soggetto accoglie; Perch' io contrasto alle mie proprie voglie, E non posso voler quel ch' io vorrei. S' io son cagion degli aspri affanni miei, Lasso, e mi copro di sì gravi spoglie; Ond' è che in pianto il cor mi si discioglie? Che pianger, s' io consento, non devrei. Ma se pur altri star mi fà doglioso, A che ferir il ciel con gridi alteri; Se il sospirar non leva la mia pena? Che fanno meco omai questi pensieri, Che turbano il mio stato, e il mio riposo? E perchè la ragion non mi raffrena? Occhi, che la virtù vostra serena, Che già mi trasse all' amorosa rete, A me tenendo ascosa, rivolgete Quel ben ch' indi sperava, in pianto e in pena; Se il vostro sguardo sol mi stringe, e mena Come vi piace all' ore triste, e liete; Perchè col torto orgoglio pur volete Tormi il piacer, che i miei tormenti affrena? Fugge al vostro apparir, lumi beati, Ogni oscuro che cinga l' alma nostra; Sol contra me l' usanza è fiera e nuova. Se vostro io sono, ond' è che siete armati, Lasso, a mio danno? ma se voglia vostra E pur ch' io mora, ecco il morir mi giova. Di dolcezza, e d' Amor l' anima pieno, Lungo le chiare fresche e lucide onde Del mio bell' Arno, avea l' ore seconde D' ogni giorno per me lieto ed ameno. Or son di tutto privo, or mi vien meno Lo splendor delle luci alme e gioconde; E quella gran bellezza mi si asconde, Che il torbido mio cor rendea sereno. Invido mio destino, invida sorte, Perchè destare in me sì rei pensieri, E tor la speme alle mie giuste voglie? Perchè colmarmi di sì fiere doglie? Ahi lasso, dunque non convien che speri Soccorso altronde aver, se non da morte.

IL FINE.

Per far pago il disio di cui più giusto, Nè più gentil nel cor non mi si stampa, Pur di trovar tua bella immago, o Stampa, In lino, in cedro, od in metal vetusto; Mentre spazio mi sembra Italia angusto, E il cor di girne in traccia arde ed avvampa, Dovunque mova il Sol l' accesa lampa; Eccola tra le spoglie alte d' Augusto. Che del gran genio d' Austria acesso e pieno, Con larga mano in mio favor si priva D' essa, per liete far mie voglie appieno. Quanto Alessandro, benchè vera e viva Die' Campaspe, ad Apelle ebbe a dar meno! Oh Carlo! oh degno che Costei ne scriva! Donna, che di sì vaghe e terse rime Tessesti chiara ed immortal corona, A lui che accese in te le dolci e prime Fiamme, e ne' carmi tuoi tanto alto suona: Per lui poggiasti all' onorate cime Del santissimo monte d' Elicona; Là dove a te vicino, in bel sublime Seggio risiede, e ancor teco ragiona. Verrà, dic' egli, un dì quando tra miei Nipoti amanti di sapere, un sia, Da cui pregiata tanto esser tu dei. Questi ripien della virtù natia, Anche ne' tempi più perversi e rei Farà che viva la memoria mia. O fortvnato quattro volte e sei, Collaltin, cui trovar si chiara tromba Avvenne in sorte; onde fra gli Avi miei Il tuo nome immortale ancor rimbomba. Nè obblio, nè morte, nè destin, ne' Dei Far potran mai che tua fama soccomba; Che a' lor ugne ti tolse, e agli aspri e rei Morsi la tua Gasparra, ed alla tomba. Quanto all' invitta fede, e a' dolci amori Dovesti, ond' arse ella sì forte; e quanto A' sommi che ti diede eterni onori. Ned io d' Apollo, nè di Marte il vanto Nè in Francia, e nell' Etruria i colti allori; Ma sol t' invidio d' Anassilla il canto. D'un de' Collalti miei dalle pupille Scese tal fiamma in petto ad Anassilla, Che d' altri amanti, e fur ben mille e mille, In lei mai non si accese una scintilla. Di stral sì acerbo il molle fianco aprille Quegli, al cui bell' incendio il ciel sortilla; Ch' unqua più non conobbe ore tranquille, Misera, in terra, nè di pace stilla. Troppo ver lei fu dispietato, e infido, Quel suo felice, valoroso amante; Che pur sì grato esser doveva, e fido. Oh quante pene indi sofferse, oh quante! Ne pianse Anasso, e l' uno, e l' altro lido D' Adria; ei solo durò fero, e incostante. Cred' io, che men dovesse il Rege Ibero Al gran Ligure Eroe per lo scoperto Nuovo mondo, e pel varco al mare aperto D' infinite provincie al vasto impero; Nè più potria dover, s' indi 'l sentiero Mostro gli avesse di poggiar all' erto Tempio del cielo; o per virtude e merto Farsi Signor dell' universo intero. Quanto a voi deggio, o Zen, per l' alte Rime, Rare vie più, che nel mar dolce stilla, Piene di viva luce alma e sublime. Le Rime, dove Amor sue pene instilla, Quelle con cui del mio Colle le cime Sì chiare feo l'altissima Anassilla. Sceglier da tutta la passata gente, Che avvinta andasse mai da' sue ritorte, Donna volendo più che fiamma ardente, Fida ed ugual nell' una, e l' altra sorte; In cui non fosser mai sue faci spente Dal tempo, dal destin, nè dalla morte; Ma dell' antica, e dell' età presente Vincesse amando ogni altra donna forte; Tal che a tutta la schiera alma amorosa Recasse onor con la sua chiara lampa, Qual magnanima, invitta, e generosa; Nè ardesse sol d' inestinguibil vampa; Ma sua fiamma rendesse anco famosa, Te sola elesse Amore, inclita Stampa. Sedere io vidi all' ombra d' un bel faggio Amore un giorno, e a lui corsi repente; Chiedendo, se si offrisse a noi presente, Qual mai sarebbe d' Anassilla il raggio. Rispose: Come ai fior vaghi di Maggio, Così alla fronte, al crine, alla ridente Bocca le aurette, e più soavemente, Volar vedresti, e far gentile oltraggio. Le tre Grazie alle ciglia, io stesso ai rai, Divini rai! cui pari Uomini, e Dei Nè in terra, nè su in ciel videro mai. Gigli e rose alle gote, il riso a' bei Labbri gentili, al seno i vezzi gai. Oh Donna, perchè viva ancor non sei? Come, se Genitor debito lascia, Adempierlo convien che al figlio piaccia, Se d' ingiusto fuggir cerca la taccia, Onde a ciascun quanto si dee rilascia. Quella culla membrando, e quella fascia In cui l' accolse, e mille volte in faccia Baciollo il padre, vuol ragion ch' ei faccia, (Se di duro diamante il cor non fascia) Qualche atto ancor per esso di pietade, Come in ciascun per se natura instilla, Che non sia privo d' ogni umanitade. Così facc' io lodando ora Anassilla, Per dare effetto a ciò che in altra etade Colui non fece, al quale Amor sortilla. Se mai pur fui del tuo soccorso degno, E se ti piacque al tuo monte innalzarmi, Febo, l' estro, la vena, il metro, e i carmi Detta al povero mio già stanco ingegno; Mentre a cantare d' Anassilla or vegno, Cui fanno eterna più che bronzi, e marmi L' inclite rime; e sì poco dir parmi, Che al gran Tosco sarian troppo alto segno. Ond' io lui pure, ed ogni altro disfido, Che fra seguaci tuoi o poscia, o prima D' alto sia stato mai famoso grido; D' imitar, d' uguagliar lo stile in rima, E l' armonia, che risonar fe' il lido D' Adria, e tanto del Colle alto la cima Per cantar di colei che tanto il mio Colle onorò, movendo i passi al monte, Da cui sgorga quel sacro inclito fonte, Ond' è sì chiaro il bel Castalio rio; Lungo le verdi sponde io vidi il Dio, Che di lauro immortale orna la fronte; E l' altro seco a par gìa, che si pronte Sempre ha le frodi, ed è si dolce, e rio. Litigio era tra lor, se in puro stile, E in soave armonia fosse maggiore, O in esser bella, amabile, e gentile, Anassilla, e in aver entro al suo core La fè serbata a null' altra simile: Nè Apollo vinse, nè perdette Amore. Se stato io fossi quel che l' opra feo Rara immortale, onde tanto Arno crebbe; Arno, che a Sorga poscia invidia n' ebbe, Perchè più chiaro, e men ingrato e reo; O quel felice Pastorello Ideo Che le tre Dive nude a mirar ebbe; Il cui giudizio tanto a Giuno increbbe Ch' arsa fu Troja, e l' alto Ilio cadeo: Da' lidi occidentali all' onda maura Non saria stata sì famosa in rima, Nè in vita, e in morte sì lodata Laura. Nè gir dell' altre Dee Venere in cima Potria, che quella che il mio stil ristauro Anassilla tra loro andrebbe prima. Gasparra illustre sopra ogni altra, e chiara Tra più famosi ingegni, e tra più chiari, Da cui Parnaso, ed Aganippe impara Nuovi concenti più soavi e rari: Quanto è di vago in te, quanto rischiara Tua luce il mio cor lasso, or che gli amari Pensier fugando, il risana, e il prepara A insoliti piacer più dolci e cari. Ben divorar più di cent' anni e cento Il tempo puote, e ricondurre il Sole Dappoi che di tua vita il raggio è spento: Non però di tue dolci auree parole Spegnere il suono, ed il divin concento Delle tante tue doti uniche e sole. Movo sovente i pensier tristi e lassi Per notturne caverne orride et adre, Pur come quelle ove cercava il padre Scendendo Enea con mal sicuri passi: E fra me dico: È questo il varco v' vassi Per mezzo il seno dell' antica madre, Passando Stige, e le infelici squadre Di là da' regni tenebrosi e bassi? Ma come fia che dal furore io scampi Del trifauce custode, e tanti mostri Placati, giunga agli almi Elisj campi? Pur seguo; e tal disio mi trae de' vostri Pregi, Anassilla, ch' io non temo inciampi, Purchè la vostra immago a me si mostri. Qual furor, qual disdegno, avversa Morte, Ti prese allor, che d' Anassilla al crine La mano osasti porre iniqua e forte; E trar sì rara alma beltade al fine? O ore al viver suo misere e corte, O Sol, che appena nato al tuo confine Giungesti! O in Lete ad un sol punto assorte, Bellezze incomparabili e divine! Grazie, Amor, Riso, Vezzi, e Fede, e Speme, Che non vi mosse od utile, o pietate A porgerle soccorso all' ore estreme? Voi, Muse, voi foste più amiche e grate, Ch' ella per voi la sua morte già preme, Resa immortale alla futura etate. Come ogni stella alla diurna lampa, Come ogni fiume all' immenso Occeano, Come ogni ardore all' amorosa vampa, Come ogni forma all' intelletto umano. Così a te cede ogni Poeta, o Stampa; Ed ogni stile al tuo, sì dolce e piano; Che o s' erga, o si deprima ei non inciampa; Chiaro e gentile; nè mai gonfio e vano. E qual accresce la beltà natia, S' or di fiori, or di gemme alma donzella, Secondo il tempo, e il loco adorna sia; Tal come l' argomento a se t' appella; Or dispieghi, or raccogli l' armonia, O in ogni dote unica Donna, e bella, Quando, Anassilla, a te riguardo, il mio Pensiero a se le tue virtù richiama; E n' ammira or la fede, ed or la fama, Or di seguir le Muse il bel disio. Ma sovra ogni altra il cor sì dolce e pio, Che ugual sostiene varia sorte, ed ama; Costante in sofferire or tema, or brama, Nel lieto stato umil, forte nel rio. Ode sin l' armonia, sino i concenti Della tua cetra; e come sposi a quella Le tue rime dogliose, e i dolci accenti. Ma poi sì turba; che sì chiara, e bella Donna nel mar d' amor, vede che i venti Nimici ha tutti, ed ha contra ogni stella. O delle antiche donne alta bontate, Che non si trova or più verso gli amanti, Che sino agli empi, ingrati, ed incostanti Eran gentili, eran cortesi, e grate! Perchè nato non sono in quella etate, O quell' sesso non è come era innanti; Ch' or non sarei fra mille noie e pianti, Da mercè sì lontano, e da pietate? Se solo ritrovassi una scintilla In donna mai di così puro foco, Qual già s' accese in petto ad Anassilla; In riso tutta la mia vita, e in gioco, E in pace passerei dolce e tranquilla; Nè d' amor mi dorrei molto, nè poco. Ombre felici, avventurosi spirti, Piacciavi dir quando Anassilla agli orti Vostri varcò, da queste insidie e sirti, Della vita mortal già in Lete assorti; Che fece entrando fra gli opachi ed irti Boschi, e passando i calli incerti e torti? Ed or che fà tra gli amorosi mirti, Dove non teme più d' Amore i torti? Saffo, e Corinna ad incontrarla nosco, Sin al confine dell' Elisie rive, Usciro, che altro Sol che il vostro inaura. Stassi ora, e a paro va col maggior Tosco; Che seco or siede, or parla, or canta, or scrive; Tal che sembra scordarsi egli di Laura. Presso alla Brenta io nacqui, e dove impera Adria poi venni in placida fortuna, Degna del chiaro sangue, e dalla cuna Trassi virtù, non rigida e severa. Leggiadra e bella il ciel femmi, e sincera; In fede e amor pari non ebbi alcuna; Altamente m' accesi, e fu sol una L' illustre, ond' arse il cor mia fiamma vera. Seguii le Muse, e gloria ottenni, e vanto; Febo non già, ma il tuo sublime Colle Al sovruman disio destommi, e al canto. Morte crudel di reo tosco mi volle Nel fior degli anni estinta: ora il tuo pianto Nuova vita mi rende, e a lei mi tolle. Ninfa che del Pierio amabil coro Alzò la fama, è questa alma Anassilla; Quanta dolcezza in Elicona stilla, È in questo di sue rime ampio lavoro. E col cantar che gemme vince ed oro, D' Anasso feo sonar l' onda tranquilla; Ma più quel Colle che per se sortilla; Quel ch' è mia patria, e tanto amo ed onoro. Saffo, Corinna a lei non fu simile, Nè la Gambara mai, nè la Colonna, Benchè dotate di sì chiaro stile. Che tra noi cinta di terrestre gonna, D' alto ingegno, di fè, d' amor gentile, Pari non vide il Sol famosa Donna. Olà, Caronte, olà; dove s' asconde La tua barca fatal? Chi mai sì grida? Son Anassilla, quella mesta e fida, Alla cui fè dura mercè risponde. Che vuoi da me? passare all' altre sponde Alma non può, cui morte non divida Dal corpo. Or chi t' uccise? Amor, l' infida Sorte, e colui… Non varcherai quest' onde. Deh, Caronte, m' accogli. Eh d' altra barca Cerca, e d' altro nocchier; che incontr' Amore Nulla poss' io, ne può destin, nè Parca. Passerò tuo malgrado; ha strali il core, Pianto hanno gli occhi; e con questi si varca A' regni della Morte, e del dolore. Da quei fior da cui trae l' ape ingegnosa Il mel più dolce alla stagion novella; Ben succhia umor la vile aragna anch' ella; Ma di venen forma sostanza ascosa. Così dotti Scrittori e versi, e prosa Trasser da' merti tuoi, dalla tua bella Sembianza, e in un dall' una e l' altra stella, Onde fosti, e sarai chiara e famosa. Solo da tue virtù, dal tuo costume Sì degno e onesto, trasse atro mortale Veleno, invido autor ribelle al lume. L' odio e il livore al menzogner che vale? Scemar tua gloria in vano egli presume, Quando mill' altri l' han resa immortale. Fiume, che ognora con le tue chiare onde Le sacre baci, ed onorate rive, Ch' io tanto amai, benchè ritrose e schive, Pur pel Colle che a lor l' ombre diffonde; Così verdi e fiorite le tue sponde, Di lor vaghezze mai non restin prive, Così le pure tue dolci acque e vive Sien di Ninfe, e di pesci ognor feconde: Se a te lice impetrar da' sommi Dei, Che Udasco nel tuo grembo alla tranquilla Sua pace torni, e teco resti, e a lei. Così cangisi in mele ogni tua stilla, Così chiaro ti renda ognor Colei, Che si chiamò dal tuo nome Anassilla. Spiega l' antico incendio in nuove rime, Ch' arse Anassilla or son tanti e tanti anni: E alla morte, e all' obblio fà illustri inganni, Col vital lume che il buon Febo imprime. Che più alto soggetto, e più sublime Non ti si offerse mai: del tempo i danni Puoi ristorare, e far chiari gli affanni Di chi può andar fra l' alme donne, e prime; Che rendesser famoso il proprio ardore Per via di stile, e d' eloquenti carmi, L' amante alzando infin sopra le stelle. E giusto è ben, che le sembianze belle, E sue belle virtù, bronzi, ne' marmi Non abbiano a invidiar. Qui tacque Amore. Quando Anassilla il suo bel velo santo Scinse, come pur piacque all' empia Parca, E il bel Castalio fu converso in pianto, E di duolo ogni Musa oppressa e carca; Cinto si vide di funebre manto Pianger de' Pegasei colli il Monarca, E il Tejo veglio e il sommo onor di Manto Piangevan seco, e il gran Dante, e il Petrarca. Le valli, i poggi, e il prato ahi non più adorno, Squallide l' erbe, e i fior guasti e distrutti Con mesto suon la gian chiamando intorno. Tristezze, orrori, e disperati lutti, Menando notte, avean bandito il giorno; E parean spenti gli elementi tutti. Rime, che tutto vergognar fareste De' Toscani Poeti il nobil coro, E degno serto appena in fronte avreste, Se Febo stesso dal suo crin l' alloro Tratto, e di quel nuove ghirlande inteste Fosser da lui di souruman lavoro; Per far corona a voi, tra danze e feste Dell' alme Muse, e de' seguaci loro. Quanto d' ogni terren lume le Stelle, E quanto d' esse, e della Luna, il Sole, Tanto dell' altre siete voi più belle. Ben lodarvi potrei, se le parole, L' estro, la vena, e tutte avessi io quelle Doti leggiardre d' Anassilla, e sole. Quella d' Anasso lungo alla corrente Gentil Ginestra adorna d' aurea foglia; Che coll' odor, che sì soavemente Sparge, ad ornarsi, il crin le Ninfe invoglia; Fu Ninfa pur, dal crudo Amor possente Cangiata in cespo, in tronco, in rami, e in foglia; Che la sua interna antica fiamma ardente Nel pallor mostra, nè di lei si spoglia. Più fiero in altre già non fe' mai scempio Amor quanto in Costei, che sol sortilla Per farne nuovo, ed infelice esempio. Tutto l' incendio suo nè pur scintilla A ravvivar valse in cor duro ed empio. O degna di miglior sorte Anassilla! Dive, per cui si poggia all' Ascree cime, Use alla morte, ed all' obblio far guerra, Dite, se Donna mai si vide in terra D' estro dotata, e stil tanto sublime; Quanto Colei, che in terse, e dolci rime L'alto Colle onorò, che Anasso serra? Colei che immortal sorge di sotterra, E altera stassi fra le donne prime, Che cantasser già mai soavi amori; Tal che Saffo, Corinna, e la Colonna, La Gambara, ed ogni altra i propri allori Sacrano al tempio di sì chiara Donna; Anzi i Poeti ancor; che a' primi onori Sesso in Pindo poggiar non vieta, o gonna. Questa è pur dessa. Ecco il gentil sembiante, Che di beltade ogni altra Donna, e Dea Vinse, e di gloria, e tante doti, e tante Virtù, che in grado così eccelso avea. Oh qual mentre a' miei lumi or s' offre innante, Gioia si desta, e il cor sazia e ricrea! Ma chi non diveria mirando amante Viva… ma oh fato, oh sorte, oh morte rea! Come spegneste la più chiara luce, Che scendesse tra noi dall' auree Stelle, E delle man di Dio così degna opra? Convien che notte un sì bel Sole ahi copra? Ma dove siete, alme sembianze belle? Chi a voi mi rende, o a me voi riconduce? Se scorger mai dal Sangue illustre e altero, Del Conte suo, ne' chiari fonti e puri, E discerner potuto avesse il vero Di ciò ch' avrian prodotto i dì futuri; Che stato fosse ad Anassilla io spero Udasco non ignoto, e a lei men duri Di rea fortuna i colpi, e men severo Amore, e i giorni men tristi ed oscuri: Pensando che di lei genio, ed affetto, E rimembranza, e immagini, e parole Avrian dopo tanti anni in lui ricetto. E ciò che avvenir rado, o mai non suole, Che sarebbe anche spenta, alto soggetto Delle sue rime, e il suo unico Sole. Mira, Anassilla, come cangi tempre Il destin con ciascun di noi mortali; E come variando ognor distempre, Ed insieme confonda i beni, e i mali. Fedele il Conte tuo non ti fu sempre, E non ebbe al tuo foco incendj uguali; Ed io son si fedel, s' avvien che tempre Sol d' una dolce stilla Amor gli strali. Io così sventurato; ei sì felice, Trovando in te, Donna sublime, e fida Pietà, di cui godere a me non lice. E pur l' anima, il cor, la lingua grida; E domanda ragion; ma quanto dice Amor non cura, e non la Sorte infida. Voi, che l' Euganee rive, e l' erbe, e l' acque, Cigni, sospese all' armonia tenete De' bei concenti; Deh mi rispondete: Anassilla immortal fra voi pur nacque? Adriaco mare, v' de' fuoi dì le piacque Passar l' ore sì brevi, or triste, or liete, Sien così l' onde tue chiare e quiete, Nel tuo sen la gran Donna estinta giacque? Voi, dell' Alto mio Colle apriche cime, Voi sponde, e fiume, da cui prese il nome, Foste soggetto di sue dotte rime? Ma, Donna tu, che di sì alte some Gravata fosti; chi del cor le prime Tue spoglie tolse, fu poi fido?…. Ahi come! chi per trarne il foco al cielo ascese, Nè chi con l' ali tanto in alto s' erse, Nè chi 'l carro del Sol guidar s' offerse, Da cui nel Po precipitato scese; Nè chi di Giuno immaginò le offese, Nè chi di Pluto al regno il varco aperse; Nè Re Pelleo, nè il formidabil Xerse, Nè chi la torre al cielo erger intense: Nè chi presunse di Nettuno i regni Primo domar con rozza barca, e stanca, D' Eolo sprezzando i minacciosi sdegni; Tanto ardito non fu, quanto chi avvampa Nel disir alto, e ne' vani disegni Di pareggiar tuoi modi, inclita Stampa. Cigni, che il canto d' Anassilla al tempio, E alla fama immortal di lei sacrate, Onde sì altamente al ciel poggiate, Che tutto di stupore io mi riempio: Non vider, non udir simile esempio Nè l' età nostra, nè l' età passate; Che già col Sole a paro a par v' alzate, D' obblio facendo, e dell' invidia scempio. Come potria l' altero augel di Giove Giungervi, o seguir voi presso e vicino Al lume di Costei chiaro e sovrano? Seguite pur, che non seguite in vano Il canto, e il volo; tanta in voi si move Virtù da Amor, da Febo, e dal Destino. La fronte il latte, e vincono la neve Le guance, e le più vaghe e fresche rose; Ebano è il crine, e il ciglio, e l' amorose Luci, da cui cotanto amor si beve. Il profilato naso non riceve Da invidia emenda; nella bocca espose Tutti natura i suoi tesori, e pose Ogni suo studio in sì bel giro, e breve. Ed ambo i labbri di corallo accese, De' quai l' un fece tumidetto alquanto, E dell' altro più atto ai baci il rese. Vezzoso il mento, il collo agile; oh quanto Perfetto il seno! e ben natura offese L' arte, che il meglio ne celò col manto. O dell' Alme felici alta bontate! Son pur rivali in gloria, e son diverse Di patria, e ponno il vanto di beltate Contender, senza altro rispetto averse; E pur quando Anassilla a lor s' offerse, Per l' Elisie campagne avventurate; Le usciro incontro; e tutta si proferse L' una, e l' altra d' amor colma, e pietate. Nè sol Saffo, e Corinna; ma di tanti Greci, Latini, e Toschi incliti vati Non fu chi non pregiasse i suoi bei vanti. Veggendo poi di sua beltà gli oranti Raggi, ed udendo i suoi soavi canti, Presi tutti restaro, e innamorati. Anima eccelsa fra mill' altre eletta, A dar vita a sì bel corpo, e pudico; Chi fu che tanto avesse il cielo amico, In ciò che a donna di miglior s' aspetta? E chi vide altra più di te perfetta In fede, e amor? chi al sacro Colle aprico Salì più in alto (e nulla è quel ch' io dico) Tra la schiera che là poggiar s' affretta? Chi mai più dolce, e più soave canto Sciolse del tuo, dal quale ancor distilla, Per chi l' intende d' amoroso ob quanto! E al fin chi donna men lieta e tranquilla Conobbe mai, cui fosse Amor cotanto, Fero, e crudele? Ahi misera Anassilla! Com' egli avvenne al tuo mal cauto figlio, Che guidar l' aureo carro ebbe diletto, E che del lume mal condotto e retto, Tardi pentissi, e del folle consiglio; A me puote avvenir; se pur m' appiglio Al soverchio disio che m' arde il petto; E se pure oso mai porlo ad effetto, Senza veder il mio certo periglio. Troppo alto ardire in me la brama instilla, Febo; ma pur se tuo favore impetra, Dirassi: All' ardua impresa il ciel sortilla. E la man, che temendo ora s' arretra, Stenderò sciolta al mirto, v' d' Anassilla Per trenta lustri e più pende la cetra. Anassilla, che fai? da un altro Nume, Dan un altro Pindo aver cerchi favore? Prezzi più Anasso del Castalio fiume? Ma chi dell' empio ardir ne ha colpa? Amore. Amor nel regno mio tanto presume? Io son de' Vati sol Nume e Signore: È ver; ma che poss' io, s' altro costume, S' altra legge prescrisse egli al mio core? Giuro per Stige d' accusar l' audace Innanzi a Giove ancor. Ma se al Destino, Quanto piace ad Amor, tanto sol piace. Così ceder dovrò? Si. Ma il divino Poter, gli strali anch' ei, l' arco, e la face Ceda, che n' è più degno, a Collaltino. Donna immortale, or che tue dotte rime Giunsero a render pago il mio desio; Tanta dolcezza in lor, tanta trov' io Grazia, vaghezza, e stil tanto sublime; Che somma tenerezza, e invidia imprime L' avventuroso Conte entro il cor mio, Quel Conte, che per te vinse l' obblio, Ed ottiene per te le glorie prime. Qual altra doti in terra ebbe cotante Come Anassilla? chi di lei più forte, E nell' alto amor suo chi più costante? O come or seco cangerei mia sorte; Che per vantar sì illustre, e fida amante, La mia vita darei per la sua morte. Stringea la Fede due colombe al seno Pure così, così candide e belle, Che il mondo ornava il lor guardo sereno, E due vaghi Amorini avean con elle. Io che per gran dolcezza venia meno, D' esser giunto credea sopra le stelle, E tra beati in ciel, caldo e ripieno Di zelo e di pietade in mirar quelle. O Fede! oh Amor! quai maraviglie, e quale Deità sotto candida e tranquilla Forma sì copre, e di colomba ha l' ale? Dicon: Quella è l' altissima Anassilla, D' un de' Collalti tuoi gloria immortale; Questa è la tua sin or fida Corilla. Certo aveva cred' io tarpate l' ali, Sì pigro è giunto il sonno; e giunto appena Nell' ora che la luce in ciel rimena L' alba, il crin cinta di rose immortali; Colei m' apparve, di cui piango i mali, E l' empia sorte d' ogni doglia piena; Colpo d' Amore che a morir la mena, Poichè gia spese in lei tutti gli strali: Quando poi pochi, e lievi aveane impressi, E alcun di piombo, al cor del crudo amante; Sol per gravarla d' insoffribil some: Deh, mi disse: Non far che più sì nome Nè ingrato, nè infedele, nè incostante Colui, che solo per amare elessi. L' inclita cetra che dell' alto Colle Cantò sì dolce d' Adria su la riva; Tal che Teti, e Nereo dal fondo molle Spesso sortiro al suon ch' ivi s' udiva; Per trerta lustri e sei pende, ove estolle Pindo più eccelso il giogo, di man priva, Che sia sì ardita di toccarla, e folle, Di tanta è adorna altera luce, e viva: E sì sublime è il mirto ov' ella è appesa, E sì da frondi e rami in strana guisa Coronata d' intorno, e a pien difesa. Sovra il tronco sta scritto: Allor divisa Fin dall' amica pianta, ed a man resa Degna di lei, che qui giunga Luisa. Rapide movi per gli Elisj campi, O Fama, l' ale, ove altro Sole avvampa; E vestigio mortale il suol non stampa; Ma notte, o mostri non temer, nè inciampi. Là fra le vaghe apriche piagge, e gli ampi Giardini scorgerai l' inclita Stampa; Che qual fra i minor lumi accesa lampa, Non fia che al guardo ti si celi o scampi. Baciale umil la rilucente gonna; E dille: Su nel mondo sì prepara Nuova gloria al tuo nome in nuova guisa. Se ti risponderà: Come? Altra donna, Dirai, ti fà la su famosa e chiara; Ma chi fia questa? e tu: Sarà Luisa. A lenta navicella, Che del vicino lido Timida e cauta sol lungo le sponde, La prora volge a non lontana meta; Il viaggio non vieta Sdegno o furor dell' onde, Nè scoglio, o sirti, o instabil Eolo infido, Nè influssi di rea Stella Le minaccian procella: Ma non lascia di se chiara memoria; Che i perigli a schivar non merca gloria. Tal io, se d' Ippocrene Bebbi dell' onde spesso, Fu solo a stilla a stila a pie del monte, Nelle palustri oscure ed ime valli; Nè mai per gli ardui calli Mi volsi all' alma fonte, Che scaturir fe' già Pegaso stesso; Nè a quel giogo, onde viene A' Vati il sommo bene: Ma sempre lunge da' più bei sentieri, Mi tolsero poggiar tardi pensieri. È ver che la mia cetra Co' suoi Latini carmi, Suono die' spesso più gradito, e altero; Pronta seguendo il suo vario soggetto, Svelò spesso l' affetto Di tue frodi, e il severo Tuo regno, Amore, e le tue faci, e l' armi; E come chi s' arretra Fra quelle, non impetra Ragion, non che pietà della sua doglia; E come il tuo furor di morte invoglia. Ma il tempo angusto e breve, E quanto di mia vita Il picciol corso in varie cure involse, Come ciascuno il proprio stato guida; E come sorte infida, O piacer mi rivolse, O s' altro è mai che l' uom lusinga e invita; Che il cor più che non deve Troppo a seguir fu lieve; Così mi pose di me stesso in ira, Che trattar mi vietò la Tosca lira. Ne' miei primi verdi anni, Che a Febo offersi i voti, Ed all' alme Sorelle, in rozzi versi; Con troppo caldo ardir scrissi, e cantai I miei pensier più gai: In Ippocrene aspersi Le labbra, e il petto, e per sentieri ignoti Spiegai gli audaci vanni; Al tempo illustri inganni Sperai di fare, e con rapido corso Per l' ardue vie del bel monte son corso. Se disire improvviso Allora io pur sentia D' amor, di solitudine, e d' onore Con poetico ardir mover l' ingegno; In poche note al segno Bramato giunse il core; Che tentar ricusò più lunga via: Da' pregi altri un bel viso Spesse volte ho diviso; E or quelli, or questo andai nelle mie carte Cantando sì ma sol cantando in parte. Talor del proprio stato Piansi l' acerba sorte; E le catene, onde il mio cor s' avvinse; Talor la libertà piansi, e la pace: Indi in stil più vivace Scrissi, come Amor strinse Anassilla fedel sino alla morte: Nè tacqui il fortunato Prode amante, ma ingrato; Di cui però Costei nelle sue rime Cantò sì che andò chiara in tra le prime. Ed oh fosse il mio canto Stato più illustre e colto, Sì come richiedea l' alto argomento; E non qual si dimostra umile e oscuro; Che al secolo futuro, Fra cento Vati, e cento Mio stil, mercè di lei, sarebbe accolto. Alzar voleva io tanto Di questa Donna il vanto, Quanto ella il nostro alzò sublime Colle, Onde si chiara fama al ciel s' estolle. Quindi avrei di Luisa Le doti, e i rari pregi Cantati con lo stil puro e felice, Col puro stil che d' Ippocrene stilla; Dal rogo d' Anassilla Come questa Fenice Nascesse; e al ciel volti i pensieri egregi, Da Febo in nuova guisa Più non fosse divisa; Tal che a lui sacra, ed alle sante Muse, Ogni maschio valor vinse e confuse. Ma se Apollo seconda Così nobil disio, E se i miei voti, e le mie brame ascolta, E il suo favor non mi contende Euterpe; Ciò che nel cor mi serpe, Con pronta lingua, e sciolta Spiegherò fuor di tema il canto mìo; E cinto il crin di fronda Con vena più feconda, In più sublimi versi, e più sonori Canterò forse anch' io l' arme, e gli amori. Voi che nasceste all' alto Colle in seno, Lumi d' Apollo, e fulmini di Marte; Se di quel vostro Sangue anch' io son parte, Spero che il nome mio non venga meno. M' abbaglia in parte è ver l' almo e sereno Splendor diverso, onde natura ed arte Sì nelle altrui, che nelle vostre carte Chiari vi fece, e gloriosi appieno. Ma pur seguendo i raggi vostri, il passo Timido e lento io movo; e veder parmi Vostri vestigi appena, e son già lasso. Quindi, se di trofei, d' allori, e d' armi, Di vostre tombe non corono il sasso; Ornando almen lo vo di pochi carmi. O tu delle piu belle, umane cose Nimico formidabile, e possente, Che in queste osasti porre il ferreo dente, Rime in cui la sua gloria Amor ripose; Dall' empie, ingorde fauci, e rugginose, A cui tanto poter Dio non consente, Rendile a forza; onde all' età presente Tornino ancor più belle, e luminose. Per te già non dovean sì eletti Carmi Passare al cieco obblio per l' onda stigia, E veder le triste ombre, e Dite avara. Ecco nata fra noi, chi ti disarmi; Inguisto usurpator, cedi a Luigia; E questo nome a riverire impara. Aggiungi ai pregi, onde in sovrana parte, Fuor della schiera neghittosa e folle, Solingo, Irminda, il tuo nome s' estolle, L' aver serbate sì leggiadre carte. Già il cieco eterno obblio più non ha parte In Anassilla; e al fortunato Colle Quel raggio altero di splendor non tolle, Ch' essa gli diè con la sua nobil arte. Di tua pietate Amor gioisce, e grida: O alme, accese il cor di questa face, Leggete i versi della mia fedele. Vedrete come la sua dolce guida, Segue un' alma gentil, come si sface Fra soavi sospiri, e fra querele. Lo dolce stil, l' angelica figura, Con l' aspro duol degli occhi, e della mente, E con la faccia vostra rilucente, Da vincer ogni umana creatura; Mai non fe' giunger d' amore paura Nel petto del Signor vostro possente; Lo qual di pietra armato crudelmente, Lassa, in grembo lasciovvi a morte oscura. Onde un pensiero in me si gira ratto, Che l' alma mi riempie di amarezza; E dico in voce bassa addolorata: Come potrà mio stil pigro, e mal atto Metter amore, e di pietà vaghezza Nel cor della mia fera dispietata? Ben veggo, che non sol fama s' acquista In opre eccelse, e forti, e in dure imprese, Voci spargendo per ogni paese Di quanto unqua si soffre, e si conquista; Ma con dolce speranza a timor mista, E con dolci battaglie, e dolci offese, Chiaro sa fare il core, a cui s' apprese Amor, mentre lo alletta, e lo contrista: Quando la fiamma ch' ivi entro è racchiusa, Cantata è sì che maraviglia desta, E gloria s' ha, non che perdono, e scusa; Come laudando il suo Colle fe' questa Non donna in terra, anzi verace Musa, Oltre misura al mondo manifesta. Son queste quelle ornate, e illustri Carte, Che lette aprono il cor con dolce chiave, Per pianto porvi, e ricordanza grave Del peggior fel, di che fesse Amor parte. O pure note, or chi v' ha intorno sparte, Lassa, miglior destin d' Eco non ave: E sol rimaso è il suon vostro soave, Nato di lei, distrutta a parte a parte. Misera se, che in chiaro e nobil petto Aspra voglia rinvenne, e cor selvaggio, D' amor nimico, e di sì caldo affetto. Beata in ciò, che fuor tosto d' oltraggio Trassela il sommo Re; ch' ebbe diletto D' aver in ciel da sì bel canto omagio. Certo di caldo amor fiamma sì pura In bel petto di donna ancor non arse, Come in lei che le lodi al mondo sparse Di Collaltino, in vita aspra ed oscura. E ben trovar dovea sorte men dura Nel desir suo, poichè fida gli apparse; Se spesso di pietà le stelle scarse Non fosser là ve' s' ama oltre misura. Or pio consiglio è quel che a dare è volto A sì gran Donna onor novello, e fama; E il suo stil nuovamente al tempo ha tolto: Perchè qualche mercè sì dolce brama Abbia, e rasciughi in parte il suo bel volto Ella, che forse ancor sospira, ed ama. In chi ponesti, Amor, fiamma sì pura Come in cor d' Anassilla, che tanto arse, E che tanti sospiri, e pianti sparse, Finchè al meriggio trovò notte oscura? Le avvenne d' incontrar sorte sì dura Solo per te, quando nel mondo apparse, Poichè fur di pietà le stelle scarse, E i loro influssi rei fuor di misura. Risponde: Ebbe il destin colpa; ed io volto Fui sempre a' suoi guadagni, onde sua fama Fuor di mano alla morte, e al tempo ho tolto. Ed or destai nel Gozzi ardente brama Di lodar sua bell' alma, e il chiaro volto; E il valor dell' Eroe che amava, ed ama. Deh perchè a me negate alto e sublime Stile, di che per voi superbo andrei, Tra gli alti Vati anch' io con le mie rime, Se stati foste meno avari, o Dei? Di Pindo, e d' Elicona anch' io le cime Vago di bel disio salite avrei; E le pene che il cor sofferse prime, Ed i novelli strazi anche direi. Ma se volle così mia trista sorte, Dotta Bergalli, e così volle Amore, Il fato avverso, ed il nimico cielo; Non fia però, che con tue fide scorte Non canti io pur dell' uno, e l' altro core Il vivo foco, e l' ostinato gelo. Senza ir cercando tra le fole Achee Gli esempj d' onestà, d' amor, di fede; Nè tra quelle ch' uom sdegna, e a pena crede, Donne, che il secol prisco appellò Dee; Quivi sbandite l' arti false, e ree, L' onor del vostro sesso al mondo riede; E mercè di Costei nostra età vede Puro il regno d' Amor, come esser dee. Felici voi, Donne mie vaghe e care, Se studio fate in così bella scola; Ma più felici noi, se ciò ne avviene. Nel diletto comun mie doglie amare Io già mi scordo; ed or chieggo a te sola, Aver pietà delle mie lunghe pene. Luisa, tu che amica di virtute, Le dotte Rime volentier ravvivi; Deh quelle d' Anassilla in carte scrivi, Che sì canore furo, or son si mute. E s' udiran d' Amor nuove ferute, Cagion ch' altri dagli occhi mandi rivi, Ch' altri di pace, e libertà sien privi, E ch' altri vita, ed altri terra mute. La speme s' udirà senza consiglio, Ed il timore senza alcun conforto, E ogni occulto pensier scritto nel ciglio. E voci mute, ed un tacer accorto, E un fioco sospirar del disio figlio; E varcar molto mar senza alcun porto. Quando tra rari spirti io veggo voi, Luisa, fermo il mio vago disire; E dico a me: Costei pei pregi suoi Certo de' primi al merto dee salire. Qual cosa degna in lei bramar più puoi? Al profondo saper, al dolce dire Modestia unisce; e questa fà che poi Invidia non l' assale, e non ardire. E in lei cortese studio, e bel diletto Trar dall' obblio l' altrui opre gentili, Che fur dal tempo, e dal livore assorte. Or d' Anassilla il puro, ardente affetto, Ed i Carmi al miglior Tosco simili, Fà che qual lui abbiano illustre sorte. Chi del legno mortal drizza le sarte Dietro ad Amor, nè teme onta, od inganno, Intenda prima da color che il sanno, Qual del protervo sia la forza e l' arte. E in queste di pietate indarno sparte, Scorga vani i disegni, certo il danno, In queste, che per norma altrui sen vanno, Già per cento anni e cento illustri Carte. Non è più accorta Donna o antica, o nuova, Come Costei, che il suo mal scriva, e sforzi In guisa, che non resti altra fidanza. E se non avverrà, che in legger piova Tal pianto, che i desir fallaci ammorzi; Spenta fia di salute ogni speranza. Alma città, cui della Brenta in riva Cinse di mura il buon duce Troiano, Poich' Ilio cesse alla gran fiamma argiva: Non già il tuo bel principio, e sì lontano, Che Roma pur ti cede, ancor che il freno Di tutto il mondo un tempo avesse in mano: Nè i verdi colli, nè il fecondo, e ameno Pian, nè le ville, nè i palagi, o i tempi Render ti ponno gloriosa a pieno. Ma perchè tanti, e sì sublimi esempi Di virtù vera in te splendono ognora, E perchè sempre ne' passati tempi; Ebbero fido albergo, e l' hanno ancora L' arti, e gli studi più pregiati e degni, Sovra l' altre Città ciascun t' onora. Tu nutri il fior de' peregrini ingegni, E d' uomini, e di donne, e di donzelle, Che danno di saper non bassi segni. Tra le quai tutte oneste, e sagge, e belle Risplendi tu co' tuoi divini accenti, Gasparra, come il Sol fra l' altre stelle, O con quai dolci e soavi lamenti, Al tuo Conte gentil narri l' amore, Narri le pene, che per lui tu senti! Ogni più duro, ogni selvaggio core Verria pietoso al suon delle tue Rime, O delle Donne eccelso e raro onore. Per te alle Muse d' abitar le cime Piacque del tuo famoso ed alto Colle, Di tutti il più felice, e il più sublime. Che per secoli tanti il giogo estolle, Ove han le Grazie, e le Virtù ricetto, Sicchè a Parnaso omai la fama tolle. Felice il nodo, onde il tuo cor fù stretto, E felice d' Amor l' arco, e lo strale, Che ti ferì di tanta piaga il petto. Di questa un chiaro stile ed immortale Nacque, o gran Donna; e t' è il soffrir dolcezza Per sì alto Signore un colpo tale. Che quanto di lodarlo hai tu vaghezza, Tanto egli ogni tua lode addietro lassa, Vie più in valor crescendo, e in gentilezza. Ma di seguirlo pur tu non sei lassa Con l' intelletto; e in vano egli s' adopra, Che tosto il giugni, se talor trapassa. Ben degno sei per così nobil opra, Amor, che con silenzio ogni tua pena, Ogni tuo affanno in avvenir si copra. Già il mar, che l' Adria con sue leggi affrena, Risonò spesso agli amorosi Carmi Di questa nuova, ed immortal Sirena. Ella spezzar farebbe i duri marmi, O si dolga del suo Signor crudele, Lontano a lei fra rischi, e in mezzo all' armi; E il chiama spesse volte empio, e infedele, Mentr' egli affaticando gloria acquista, Senza curarsi dell' altrui querele: O di sua fè sicura, e non piu trista, Narri le gioie sue soavemente, Gli occhi pascendo dell' amata vista. Stanno le Muse ad ascoltarla intente; E Apollo stesso, rimirando lei, D' aver Dafni seguita omai si pente. O Città venturosa, ove Costei Nacque, e vivendo tal luce diffuse, Che vinse morte, e gli anni invidi e rei. E benchè gli occhi in sonno eterno chiuse, Vive per fama, e il suo bel Colle verde Conserva il cielo, albergo delle Muse; E per varia stagione i fior non perde. Donna gentile, a cui Amor cotanto Il bianco sen di nobil fiamma accese, Che dolcemente poi chiara, e palese Da un mare all' altro mar festi col canto. Lo so pur troppo il non dovuto pianto Per la guancia gentil corse e discese; Ma Apollo amico un degno serto prese, E sul tuo vago crin poselo intanto. Rasciuga il ciglio; e la gloria, e le lodi Che Irminda chiara in sull' aurea montagna Ti porge, or mira, anima bella, e godi. E mira Amor, che nosco s' accompagna, Dona i fiori, e di pianto in dolci modi L' urna per ciò famosa, adorna, e bagna. Non mi dorrei di quel cocente foco, Che mi consuma crudelmente l' ossa, Se sperassi al mio duol punta, e commossa La dolce fera mia vedere un poco; O almen sperassi lo mio rauco, e fioco Stile innalzar sopra d' Olimpo ed ossa; Con quanta Amor mi porge industria e possa, Quando il bel nome suo piangendo invoco. Che de' carmi così col pregio e l' arte D' Anassilla, i miei carmi andriano a paro, In ogni etate conti, e in ogni parte; Come il suo col mio amor; che il cielo avaro Vuol della donna mia ch' esprima in carte, Ciò ch' ella del suo Conte illustre e chiaro. Chi dolce appella Amor di gioia fonte, Le lagrime cosparte, ed i sospiri, Le profonde del cor pene, e i martiri Con quanti apporta Amor disprezzi ed onte; In queste rime gloriose e conte, Di dolor piene d' Anassilla miri: Che in sino ch' esca il Sole, e ovunque giri Chiara n' andrà col suo lodato Conte. Chi dice poi che Amor non è possente; Queste carte rilegga, e in esse scorga, Quanto a Costei saper diede, e valore: E la vedrà lagnarsi fortemente; A par di lui, che cantò in riva a Sorga; Chi fia ch' or neghi tua possanza, Amore? Non più all' onde d' Anasso, o all' aere sparse Di fosco giorno, o in sempre umida oscura Notte, d' amara ingombra aspra ventura, Cui pari ancora in terra non apparse; Ma, in un raccolte l' auree fiamme, ond' arse Quesi' alma illustre, o in lieta sorte, o in dura; Or che luce a noi mostra e nuova e pura, Che al par de' primi cigni al ciel può alzarse. Chi, nel mirare entro dipinto e scritto Di sì bel foco il lume, e come i vanni Spiegasse ella di Pindo all' ardue cime; Non dirà per pietate in cor trafitto: O beata Costei, che i tanti affanni Seppe dell' amor suo spargere in rime! Bergalli onor dell' Apollinea fronda, Che prescrive del ciel lo sdegno, e l' ira, E che la bella tua chioma circonda, Onde qual sacra cosa Adria t' ammira: Io pur vorrei con la mia rauca lira Render più chiara a ogni più strana sponda, Lei ch' or de' sacri Elisi aure respira; E fu a se sola, e a null' altra seconda. Dico Anassilla, i cui sospiri in rime Ornate sparsi, al cieco obblio ritogli; Ahi come Amor le fu crudele e ingrato! Ma così d' ali avessi il tergo armato, Per innalzarme a sì onorate cime; Ch' empier vorrei delle sue laudi i fogli. Non convien, che nessuno all' opra bella Sia sprone a me, che di desire avvampo; Ed or vie più, che cortesia novella Del mio chiaro Signor me n' apre il campo. E se non posso in questa parte, e in quella Far della gloria mia scorgere il lampo; Costei laudando, e sua Tosca favella, Incontro al tempo avrò difesa, e scampo. All' altre pure, a cui non dier gli Dei Sì altero amante, e sì leggiadro ingegno, Insegnerò tacere, e pregiar lei: E lagrimar, che fosse presa a sdegno Sua pura fiamma, e i sospir caldi e bei. Amor, gran crudeltà s' usa in tuo regno! Anche oltre all' Appenin, dove sorgea In tanta fama il tuo Conte gentile, Quel sì leggiadro, ed amoroso stile, E quella tua pietà sentir dovea. Poichè ogni tigre dispietata e rea Avresti fatta lagrimando umile, Non che il dolce Signor, che di simile Fiamma forse in suo cor si distruggea. Deh non s' incolpi Amor; ma lei che toglie Effetto a' bei disegni, e non s' avvede, Che di cieca, e d' infida i nomi accoglie. Non vedi ch' egli ancor dall' alma sede, Move nel suo Rambaldo ardenti voglie La storia a rinnovar della tua fede? Se d' alto onor te non alzava al segno, Il suon di tua dolcissima favella, Fama s' udrebbe in questa parte, e in quella Del lume del tuo viso altero, e degno. Spese Amore in formarlo opra, ed ingegno; L' immagine cercando in ogni stella; Nè si appagò giammai, sinchè la bella Madre non diegli il suo proprio disegno. Forse il Signor, ch' era tua pace e cura, Veggendo te di tanti raggi accesa, Amarti non osò di terren foco. Pur se stesso anche opra divina e pura Stimar doveva, e giù dal ciel dicesa; Se al suo Rambaldo assomigliava un poco. Quante fiate a rimirar io torno Il dolce viso maestoso altero, Di quel tuo Collaltin forte guerriero; Che un tempo fu d' ogni tuo pregio adorno; Tante io penso, Rambaldo, al fatal giorno, Che Amor nel caldo giovenil pensiero Posel di lei; delle cui Rime io spero Tosto novella fama udire intorno. E dico: Se in veder l' almo sembiante Messo in tacita carta, altra potrebbe D' ineffabile incendio arder nel core; Ben è stata a ragion tenera amante Anassilla immortal, che ottenne ed ebbe Di parlar seco, e di parlar d' amore. Opra gentile, e di se degna imprese Amor, destando in voi dolce pietate D' Anassilla gentil, che in altra etate Del vostro Collaltino in van s' accesse: Ma temo ancor che dell' antiche offese Cerchi in voi far l' aspre vendette usate; E mentre me dal basso volgo alzate, Abbia sue voglie ad oltraggiarvi intese. E tra se dica acerbamente: Un giorno Videsi Collaltin lasciare in guai La chiara donna, onde a me tanto increbbe. Or veggasi Rambaldo un disadorno Oggetto amar con minor pregio assai, Che l' altro dal suo sdegno un dì non ebbe. La bianca fede, e tua beltade accesa, Il puro stile, e il sospirar doglioso, Infelice Anassilla, ahi che pur oso Pensarlo a pena, a te fecer offesa: Poichè senza tai scorte avresti presa Men ardua via, nel mar fosco e dubbioso; Dove a' più arditi Amor toglie riposo, E fà di scogli rei dura contesa. Ma già che tempo i tuoi danni ricopre, Prego Amor, che a nessuna altra fedele Dia sì cruda mercè di sue calde opre. Nè incolpo il tuo Signor vago, e crudele; Mentre con quanti regni il Sol discopre, Non cambierei le tue dolci querele. Di qual freddo macigno erasi armato Il tuo chiaro Signore, alma gentile, Che al dolce suon dell' amoroso stile Tanto valse in durar fero e ostinato? Meglio era, che pensassi il mar turbato Rendere al tuo cantar piano, ed umile: Qualche Sirena aver se stessa a vile Scorgevi almeno, e depor l' odio usato. Io non so, come Amor l' empie facelle, Dopo i tuoi torti ancora accenda; e metta Speme d' alti diletti entro un bel volto. Se non siete di lei più sagge, e belle, Se più degno amator voi non alletta; Donne, serbate il cor libero e sciolto. Sia pur di bronzo, o di diamante armato, Far non puote difesa un cor gentile, Contro ad Amor, che mai non cangia stile, Nelle vittorie sue fero e ostinato. Esser non può l' alto ordine turbato De' Fati mai. Questi Natura umile Fero, e serva d' Amor, che tiene a vile D' ogni altro Nume ogni valore usato. Alto Iddio, prendi l' arco, e le facelle Accendi, e fanne prova tal, che metta Timore a ogni alma forte in un bel volto. Ma no: gitta quell' armi, e sien le belle Doti d' Irminda, e quanto in lei ci alletta, Che altrui stringano il cor, nè sia più sciolto. Senza versar dagli occhi amaro pianto, Non leggo mai questi pietosi carmi, Ond' è degna Costei di bronzi, e marmi, Non che delle mie laudi, e del mio canto. Toglier vorrei scrivendo ogni suo vanto Al crudo Amor; ma lui di veder parmi, In atto umil depor l' orgoglio, e l' armi; E di sua ferità pentirsi alquanto. Io però grido: Or chi tra sommi Dei Te ripor volle, che di tanta asprezza Su questi ornati fogli in colpa sei? Risponde: più che mia strana durezza, Il desiar ch' ebb' io contra Costei, De' suoi chiari sospiri era vaghezza. Anassilla, felice è il tuo bel pianto, Se il degna Irmiminda de' suoi chiari carmi; Più durevoli assai di bronzi, e marmi, E più soavi che de' cigni il canto: Quindi come maggior sarà il tuo vanto Per le sue lodi; così giusto parmi, Che sì gran donna, che l' orgoglio e l' armi Sprezzò d' Amore, te ristauri alquanto. Fiaccando del crudel d' Uomini e Dei Cieco tiranno, il folle ardir, l' asprezza; E degna ben di tal vendetta sei: Onde, del fier nimico ogni durezza Cangiata e vinta, oda poi dir: Costei Pianse, perchè di gloria ebbe vaghezza. Miracol nuovo di natura, e d' arte, Di fede esempio, e d' amor saldo e vero, Dolce Anassilla, or compensarti io spero Del piacer ch' ebbi già dalle tue carte. Però volgiti meco a quella parte, Ove Austria avventurosa alza suo impero; E tal vedrai, che umanamente altero, Ha dipinti nel viso Apollo, e Marte. Del chiaro illustre Sangue egli è di lui, Ch' Adria ti diede, e Francia indi t' ha tolto; Onde chiamasti in van pace e ristauro. La generosa man baciagli; e i tui Carmi, e il tuo sospirare, e il pianger molto Fien chiari sua mercè dall' Indo al Mauro. O gloriosa illustre e nobil arte, Divina Poesia, sublime e vero Dono de' sommi Dei, cingermi io spero Per te di lauro, e celebrar in carte, Questa seguace tua, che in ogni parte Spiega l' insegne del tuo sacro impero; Seguendo or con soave, or con altero Canto Giove, Minerva, Amore, e Marte. Quanto, e dove rapito io sia da lui, Quel vil ozio lo mostri, a cui m' ha tolto; E quel languido stil, che sì ristauro. Ch' oso te, Irminda, e i rari pregi tui, E gli altri studj andar cantando, e il molto Valor, benchè chiari dall' Indo al Mauro. La disastrosa via, dove alcun giunge Per sol valore di fatiche e pene, Gravi cosi, che in premio indi ne viene, Gire in disparte dalla morte, e lunge; Dopo molti anni che desir mi punge, E che fortuna in dietro mi ritiene, Scorsa aver parmi, e già gustare il bene, Che noi mortali a' sommi Dei congiunge. Non vo', Collalto, omai ch' altri mi chieggia, Qual forza, e qual virtù furon mie scorte; Ma in cambio tua bontade intenda, e veggia. Deh pensi tu, che donna amata in sorte, E cantata da te, Conte, mai deggia Rimanersi d' obblio preda, e di morte? Sin dove il Sol col lume unqua non giunge, Sin dove Fama con fatiche e pene L' ali spiegar non può, di giunger viene A me speranza, e vie forse più lunge; Se Irminda, che così d' amor mi punge, E in chiaro nodo avvinto mi ritiene, Nodo da' pregi ordito di quel bene, Che all' alte doti in lei Virtù congiunge: Tanto il soccorso delle Muse chieggia Per me, che della Gloria al Tempio scorte Mi sien cortesi, e me più in me non veggia: Ma giunto a sì beata e rara sorte, Tanto essa l' amor mio gradir poi deggia, Quant' io per essa obblio sprezzare e morte. Anassilla, non più: tempo alfin giunge, Che risorger vedrai dalle tue pene Nuova luce d' onor, che a trar ti viene Per sempre dall' obblio torbido lunge. Quell' Irminda gentil, cui desir punge Di bell' opre; e timor nullo ritiene; Par che ponga in te sola ogni suo bene, E le sue laudi con le tue congiunge. E s' avvien mai, che volgersi ella chieggia D' Udasco a' pregi, che pur son sue scorte, E in lodar essi la sua gloria veggia; Non ti doler; se fossi viva in sorte, Tu ancor: Di Collaltin tacer si deggia, (Diresti) e Udasco sol tolgasi a morte. Voi che avete, Gasparro, il canto, e il nome Di Costei, ch' arse in pura fiamma ardente; E l' altero amator chiamò sovente, In vano le più volte, io non so come; Le sue soperchie, ed amorose some, E le luci lodate, ancor che spente; E dove aura d' amor si spira e sente, Fate che tanta fede omai si nome. Me non seguite già; che augel di Giove, Spiegar v' è dato a somme altezze il volo; E in piano io vi terrei palustre, e vile, Su l' Istro un Tosco Cigno or per lei move Tal armonia, che il nostro mar può solo Fargli col vostro canto Eco gentile. A scarsa vena, e mal celebre nome Viene il vostro disio giusto, ed ardente Di lodar lei, le cui pene sovente Odo ove s' ama rimembrar ahi come! Tolto ha l' incarco di sì care some Più chiaro ingegno; e quelle membra spente Orna così, che ogni altra invidia sente, Che sparita beltà tanto si nome. E il bel don delle figlie alme di Giove Girando a lei, voi seco il nobil volo Stendete pur, benchè v' abbiate a vile. Due tali inchiostri omai cortesia move, Ch' io deggio dir, che il mio turberà solo Quella serva d' Amore ombra gentile. So pur che le tue laudi a saper vero, Gentil Verdani, tu non nieghi, o togli; E so che di Costei gli ornati fogli Cagion di maraviglie alte ti diero: Deh perchè dunque un tuo nobil pensiero A lei non sacri, e il canto or non disciogli? Non approvar tacendo i duri orgogli D' Amor, verso la misera sì fiero. Si potria dir, ch' io te non pregio, o lei, Se non ti movo a celebrarla in carte; O che non han possanza i preghi miei. E questo io credo. Ahi come giungo in parte Talora d' accusar gli avversi Dei, Che di merto mi fer si poca parte. Tu, che su l' alme hai sì soave impero, E i chiari esempi a celebrar le invogli; Perchè sproni sì forti, e tanti accogli, Ond' io torni al lavor dolce primiero? Troppo per me spinoso oggi è il sentiero, Che a te facil si mostra; e cento scogli Mi veggo innanzi; nè perchè tu il vogli, Dal periglio ritrarme oso, nè spero. Deh poi che sì cortese, e amica sei, D' aver tue belle note indarno sparte, Or non t' incresca: e ben conoscer dei, Che amor non già dal tuo voler mi parte; Ma sol colpa è de' tempi invidi e rei, Se altrove ho volto omai lo studio e l' arte. O Irminda, o d' Adria pregio, e lume vero, Che Anassilla, e il suo Colle all' obblio togli, Col nuovo onor di non caduchi fogli, E con lo stil, che i Numi aureo ti diero! Perchè pur gli occhi a me volgi, e il pensiero? Se tu i bei carmi a lodar lei disciogli; Amor, non ch' altri, fia che gli empi orgogli Pianga, e i giorni in che fu sì ingiusto e fiero. Io ben dir posso avventurosa lei, Però che son le sue pietose carte Da versi altri lodate, che da miei! Tu, se tua cortesia ti scusa in parte; Irritar potresti anco Uomini, e Dei, Gli occhi inchinando in così bassa parte.

IL FINE.

PIù volte, graziosa giovane, essendo vivo M˙ Baldassare, il quale non posso non senza dolor ricordare, a voi fratello, a me parte di quest' anima, sentì nel raccontarmi le felicità dategli dalla somma grazia di Dio, rammemorar voi per la principale; e della quale egli ne facea grandissima stima; più volte mi dipinse l' eccellenza del vostro intelletto; e la costanza del vostro animo. La onde lui conoscendo di così chiaro spirito, e ripieno essendo di letizia, che la natura lo avesse di tanto ben fatto partecipe, ne aveva grandissimo contento; ed in me nacque ardentissimo desiderio di mostrargli, che si come egli m' era impresso nel più profondo del cuore; così voi eravate da me parimente amata, ed osservata; e appunto era apparecchiato a tanto: quando la nimica fortuna interrompendo ogni mio disegno, mi privò di lui, me solo in affanno lasciando, perchè rimaso confuso più oltre non procedei. Ma perchè potrebbe tal volta avvenire, che quell' anima benedetta, fatta cittadina del cielo, siccome ben ne fù degna la sua virginità; vedendomi dal mio proponimento rimosso, conturbasse la sua pace; ora di nuovo rilevato dal sonno, e da pentimento della mia tardezza rimorso, non come io volea, ma come io posso, le vengo innanzi: colpa non mia; ma della disavventura. E perchè, come di più tempo in età, mi ricorda, che io riprendeva, ammoniva, ricordava, ammmaestrava, quasi fatto di lui padre, la sua gentilissima natura, che da me chiedeva consiglio, ricordi, ammaesttamenti, e riprensioni; procedendo con voi con quel medesimo modo, perchè io son tenuto a questo, essendo voi lui medesimo, per ricordo vi mando la presente bozza da me fatta, per ricreamento delle più gravi lettere; acciochè col mezzo di questa possiate imparare a fuggir gl' inganni, che usano i perversi uomini alle candide e pure donzelle, come voi siete. E con questa vi ammaestro, e vi consiglio a procedere ne' vostri gloriosi studj, fuggendo ogni occasione, che disturbar vi potesse dalla impresa vostra. Io so ch' io son troppo ardito, ma i meriti delle virtù vostre, e l' affezione estrema portata a voi, e a Madonna Cassandra vostra onorata sorella, e il debito a che io son tenuto; mi costringono a questo: la onde spero trovare appo voi perdono. Forse poi riprendendo vigore; tempo verrà, che io più sicuramente allargando i vanni per l' aere sereno de' vostri onori, supplirò a quello, che al presente non posso, per esser solo sostenere.

Di Vinegia, Adi 3. Gennajo, 1545.

F˙ R˙ Sansovino.

PAreami, valorosissima Giovane, offendere in un medesimo tempo e il debito mio, ed i meriti del dottissimo Varchi, se più oltra prolungando, io non appresentava al mondo questa graziosa e vaga sua Lettera, sotto il vostro dolcissimo e caro nome: perchè come invidioso tenea quella lode occupata, che dall' universale si deve a tanto uomo, e come ingrato mostrava di malamente conoscere quant' io vi debbo, ed in ogni mio pensiero, ed in ogni mia azione. Il qual conoscimento, come ch' egli più volte a me stesso facesse noia, invitandomi a darvi il tributo, al quale m' hanno il valore, e la virtù vostra obbligato; e non sapendo a che guisa, conciosia ch' io non abbia appo me cosa degna di vita, nondimeno sì m' è egli stato di giovamento a questo, ch' io pur pensando direttamente, ho stimato la presente Lettera dover esser bastante a dimostrarvi in qualche parte l'animo mio; soddisfacendo anche all' eccellenza del Varchi. Or perchè io son certo, che vana sarebbe la fatica di coloro, che lodando la bontà di Dio, pressumessero di favellando farla maggiore; però tacendo le lodi del Varchi, e di Monsignor della Casa, solamente dirò, che assai si terranno amendui lodati, quando essi sapranno le cose loro da voi lodatissima, essere e lette, ed avute care; conciosia che il valore, ed il purgatissimo giudizio vostro di gran lunga avanza la lode comune. Questa adunque v' appresento con quella umiltà, che per me si può maggiore; assai ben certo della vostra somma virtù, alla quale con riverenza m' inchino.

Di Vinegia, il 26. di Febbrajo, 1545.

È della Venerabile Angelica Paola de' Negri, essendo
posta col suo nome nelle Lettere di essa
Religiosa, impresse in Roma.

CHe maraviglia vi fia, o anima mia dolcissima, e nel purissimo Sangue di Gesù Cristo cordialissima, ch' io vi ami in quello che tanto vi amò, che per eccessivo amore diede se stesso a sì acerba e penosa morte? Se il Creatore tanto vi ama, perchè non vi debbo io, miserabil creatura amare? S' esso in voi si compiacque in tanto adornarvi delle abbondanti grazie sue, per meglio potersene compiacere; perchè non mi compiacerò io ancora nell' opre sue mirabili che ha fatte in voi? Deh, così piacesse alla bontà sua di farmi degna di vedere a perficere la bell' opera, che ha in voi cominciata; il che son certa che farà volendo voi, e voi spero che vorrete; perchè essendo voi di quel nobile spirito, che da molti mi viene predicato; non posso credere che vogliate seguire la stoltizia di quelli, che usurpandosi i doni, e grazie a loro fatte, sene invaghiscono, e insuperbiscono talmente, che facendosi di tali grazie sue un idolo, vogliono per loro le laudi, che appartengono a Dio; vogliono essere adorati, magnificati, ed ogni studio pongono in piacere al mondo e agli uomini; ed in compiacere a se stessi, ed a proprj sensi, alle volontà sensitive, e ad altri abbominevoli desiderj; e delle grazie che Dio gli ha fatte, se ne servono in offenderlo, in vituperarlo: e se potessero per più licenziosamente poter servire a' suoi sfrenati desiderj di ambizioni, ed altri vizi, si eleggerebbero che non si fosse nè Dio, nè Anima. Questo ben prego, che mai non cada nella dolce anima vostra; ma so che siete grata alle grazie, acciò di maggiori grazie siate fatta degna. Ricordatevi, sorella amabilissima, che le grazie che avete, vi furono date, perchè vi faceste tutta spirito, ed un angiolo in carne. Or che male non sarebbe, se con tanti doni, e grazie, vi sottraeste a Dio, che vi ha creata, e ricreata nel Sangue preziosissimo del Figliuol suo per darvi al mondo a' fumetti, all'ambizioni, alla vanità, e voluttà di quello? Riconoscete, riconoscete la bellezza, e la dignità, ed eccellenza del vostro spirito; e cercate di accrescerlo col farlo tutto divino per il mezzo delle virtù sante. Ricordatevi che questi beni tutti se ne porta il vento, e dopo la morte altro non ne resta, se non dolore e crucciato, non avendone ben usato. Queste virtù, che il mondo onora, non danno all' anima altro che quel poco e momentaneo contento, che ci portano le laudi degli adulatori; e chiusi gli occhi per l' ultimo sonno, son morte anche elle; ma le virtù vere, le virtù sante, le virtù cristiane, le virtù divine, decorano l' anima, la illustrano, l' arricchiscono, l' ornano, la beatificano, e nella presente e nella futura vita. Che vale quella virtù, che morendo noi, muore con noi? Ma quanto è più utile, e più desiderabile quella virtù, che sempre accompagna l' anima, e mai non l' abbandona; ma sempre le apporta nuove corone, nuove palme, nuovi trionfi. O Dio, crederò io, che la mia amabile madonna Gasparina sarà sì poco avveduta, che non vorrà saper fare questa elezione? Vorrà rifiutare i beni celesti per li terreni? Oh mi dirà alcuno: Voglio l' uno, e l' altro; ed io rispondo, anzi non io, ma il Signore: Mal si può servire a due Signori; Risponde Paolo, la donna non maritata, e vergine pensa quelle cose che sono del Signore, che la sia santa di corpo, e di spirito: e quella ch' è maritata, pensa alle cose del mondo, e come piaccia al marito. Deh, anima cara, ponete i vostri studj in essere ben casta, ben umile, ben paziente, e piena dell' altre virtù sante; acciò ben possiate piacere al celeste Sposo vostro, i cui casti amplessi più danno di contento all' anima, che quanti piaceri si ponno avere fuori di lui. E voi, a chi ha date grazie tali, non vi potete con l' ajuto e grazia sua, rendere atta a sempre fruirlo? Rifiutarete adunque un tanto bene? Deh non per l' amore di Dio; non non, anima benedetta, ricomperata con tanto prezzo; anzi lasciando tutti gli altri, abbracciate questo. Non v' incresca contristare il mondo nell' aspettazione che ha di voi; e non crediate agli adulatori, a quelli che vi amano secondo la carne, non v' ingannate vi prego; e togliete da voi quelle pratiche, e conversazioni che vi alienano da Cristo, e mettonvi in pericolo, e ponno dare nota di sospizione a quella bella onestà che in voi riluce; oltre all' altre virtù vostre, per le quali dissi, che non vi doveva essere maraviglia, s' io vi amo. Vi amo, e amerò sempre, se voi amerete quello, che tanto vi ama; e non solo con lettere, ma col sangue, con la vita, con l' anima sarò contenta, e non mi ritratterò, potendo, di portarvi aiuto nel corso virtuoso, il quale vi dia a perficere chi in voi l' ha cominciato. Di grazia fatevi famigliari per tanta considerazione i tormenti, e pene per voi sostenute: sottraete qualche tempo all' altre occupazioni per spenderlo a' piedi del Salvatore vostro: fatelo di grazia, acciò siate fatta degna di ricevere vero lume, e cognizione reale del volere di Dio in voi, per quello esequire, ed orare per me. Salutate le communi Madre, e Sorella: la nostra Madonna vi saluta. Valete, spirito formato in Paradiso, perchè ivi fosse la conversazione vostra, e dopo la eterna abitazione.

Dal Sacro Loco di S˙ Paolo Apostolo, in Milano, alli 20.
Agosto, del 1544.

Vostra tutta in Gesù Cristo A˙ P˙ A˙

GEntilissima Madonna, s'io potessi donarmi ad altri che a V˙ S˙ certamente non sarebbe di me Signore altro che il magnifico M˙ A˙ ed avrei ragione di far questo tanto più volentieri, quanto esser di più prezzo, e più valore mi conoscessi; poich' egli veramente figliuolo della virtù, e padre de' virtuosi, m' ha fatto conoscer la S˙ V˙ la cui bellissima presenza, accompagnata da quelle rare virtù, dalle quali giammai separata non foste; m' ha ad un tempo impiagandomi il cuore di mille ferite, d'altrettanti miei dubbi fatto chiarissimo. Credete voi, dolce Signora mia, che mai per addietro io abbia voluto credere, che un uomo in un sol punto possa ardere, ed agghiacciare? Credete ch' io abbia mai pensato di poter vedere una donna al mondo perfetta in tutte le virtù? Credete voi ch' io avessi mai creduto, che il canto delle Sirene avesse forza di trar gli ascoltanti fuora di loro stessi? Certo non; ma per innanzi non potrò io più questo negare, che del tutto m' ha fatto chiaro, la V˙ S˙ che non sì tosto ebb' io veduto lo splendore de' bei vostri occhi, che da mille punture mi sentì tagliare il cuore: perchè freddissimo divenuto; senza dubbio avrei domandato aita, se un vostro dolce sguardo subito non mi soccorreva: il quale non solamente menomò la forza di quel ghiaccio, che poco più standomi intorno al cuore, mi poteva trar di vita; ma nel mio petto adunò tanto foco, che men cocente debbo credere che sia qual più ardente fornace si ritrova; o Donna sopra modo amara, e gradita dalle stelle; questo è quel foco, che in me non sarà mai di manco valore, mercè le vostre tante virtù. Chi vide mai tal bellezza in altra parte? chi tanta grazia? e chi mai sì dolci maniere, e chi mai sì soavi, e dolci parole ascoltò? chi mai sentì più alti concetti? che dirò io di quell' angelica voce, che qualora percuote l' aria co' suoi divini accenti, fà tale, e sì dolce armonia, che non pure a guisa di Sirena fà d' ognuno che degno è d' ascoltarla, insignorire il fratel della morte; ma infonde spirto e vita nelle piu fredde pietre; facendole per soverchia dolcezza lacrimare. Potete adunque, bellissima Signora Gasparina, esser sicura, ch'ogni uomo che vi veda, v' abbia da rimaner perpetuo servitore; de' quali, benchè io sia forse il più indegno per virtù, non sarò già per amore; e da ora innanzi in ogni cosa ch' io conoscerò potervi piacere, ne mostrerò chiarissimo segno.

Benchè l' amicizia mia sia da essere poco apprezzata, nondimeno quale ella si sia, quello stesso ch' eravate, e sempre meco siete stato; siete anco al presente, e vi tengo per amicissimo, come di continuo v' hò avuto; tanto più, essendo voi persona virtuosa, e che merita d' esser amata da ognuno: ond' io sempre amandovi presso, e lontano l' amicizia vostra mi piace; e vi prego metterla in uso, e servirvi di quella; e se altramente fosse, ve lo direi liberameute. Avendo veduto nel fine della vostra lettera quanto amorevolmente mi sforziate a mandarvi de' miei sonetti; vi rispondo, che mi rincresce fino all' anima, e mi duole non poter soddisfare al desiderio vostro, come che sieno rozzi, di niun valore, e d' ogni dolcezza privi; perciocchè la sorte mia buona ha voluto, che n' abbia perduto forse quaranta; acciocchè tanta lordura non si manifestasse appresso i rari ingegni, che non mi conoscono per tale; non essendo questa la mia professione; e se pure alle volte v' inciampo, scrivo più tosto per isfogar meco stesso i miei pensieri, che comunicarli con altri. Nondimeno per non negarvi cosa alcuna, non già per contento mio; e sallo Id: dio; vi mando quelli pochi che mi trovo, e vi prego che vogliate per ogni modo ingegnarvi di far senza, sì di questi ultimi come di quei primi, che mi avete scritto avere, e mi duole che abbiate; e non vogliate contra mia voglia farmi gire processione con questo mezzo: la qual cosa ragionevolmente non potreste fare: perchè in una schiera di così pellegrini spiriti, non è anco lecito frammettervi cosa che dia più tosto biasimo a quei tali, che hanno fatto la raccolta, ed elezione di queste rime, che alcuna loda. La onde vi esorto a lasciare i miei da parte, che senza dubbio v' apporteranno per la rozzezza loro vergogna infinita, senza speranza di alcun premio d' onore; e metterei quelli che vi ponno far guidicar di saggio e maturo giudizio, accrescendovi degno ed onorato nome. Così facendo fine, a voi, e a M˙ Lodovico Domenichi, mi offero, e raccomando.

Adi 2. Novembre 1544. di S˙ Salvatore.

A' comandi, e piaceri vostri
Collaltino di Collalto.

LIgurgo antico Filosofo, o non men largo, che nobile Signor mio, nelle leggi che diede a' Lacedemoni, molte cose instituì, e degne, e santissime: ma tra l'altre ordinò prima, che fosse vietato lo scrivere istorie d' altra sorte, che quelle, che serbano le memorie degli Uomini illustri: i quali co' propri sudori delle loro virtù, sprezzando ogni caso di morte, merita vano la eternità del sempre vivere, dando al mondo chiari esempi di gloria. Permise poi che a tutti gli altri peccati si potesse usare clemenza, salvo a quello dell' ingratitudine: conciosia che tal fallo era sì da loro odiato, che in ciò parendoli poca pena la morte; tormentavano continuamente con istrani supplizj chi non riconosceva i benefizj. Nè ciò solamente fu da cosi saggio uomo istituito, nè da tali popoli eseguito: ma questo istesso si vede contenersi in Mosè agli Ebrei, in Solone agli Ateniesi, in Asclepio a' Rodiani, in Numa Pompilio a' Romani, ed in Foroneo agli Egizj; e nel detto Ligurgo: i quali furono i sette datori delle leggi al mondo. La onde in ciascuna da per se, ed in tutte insieme, sopra questo vizio è gravissimo il tormento, oltre che la maggior pena dell' ingrato a me pare, che sia (quando nasconde i beneficj ricevuti) l' essere cagione di farlo indegno di più averne degli altri. Così in ultimo, che l' uomo dovesse esser tenuto onorare le persone degne di merito, e di lode; ed a quelle obbligato in ogni luogo, ed a maggior suo potere farle riverenza, ed ampiamente mostrarsele per general debito tenuto. Perciò adunque, onorato Padrone, seguendo l' editto d' un tanto uomo; primieramente mi son mosso fare da me la giunta al libro delle Donne famose, Latinamente scritto da M˙ Giovanni Boccaccio, ed il suo tradurre. Per questo medesimamente mi sono ingegnato farne dodici degli Uomini: i quali (non molto andrà) che sotto il riverito Nome vostro, si lascieranno leggere. Ed ultimamente, accciocchè da me non si manchi cosa a fare, che a ciò s' appartenga; avendo diligentemente cercato, e trovato i nove libri sopra i casi ed accidenti degli Uomini illustri, scritto dal medesimo Boccaccio; a comune utilità, gli ho trasportati dalla lingua Latina nella volgare; essendo il dritto non di tradurre le istorie Greche, e Latine, nè i buoni Poeti, che tutto il giorno sono nelle mani de' dotti; perchè di gran lunga perdono dignità, e vaghezza: ma di sforzarsi tornare a pregio le opere da pochi gustate, e degne di memoria, di quelli ch' a benefizio universale, si sono affaticati, come è stata la presente di questo degno Autore: la quale in se contiene tant'utile, e dignità, quanto in altra si possa trovare a giovamento, ed esempio d' ogni gran Principe. Così anco, per più non tardare a portarmi di maniera, che il mondo conosca, non ch' io non sia ingrato; ma ch' io confesso essere molto tenuto a V˙ S˙ Illustrissima, perchè è troppo picciolo dono ai meriti del valor suo, ed al debito infinito, ch' io mi trovo con esso lei: la quale continuamente non si sazia, non a me solo giovare, e senza essere richiesta far beneficio; ma anco, dove sa, che l' altrui bisogno la inviti, subito si move a darvi saggio della sua cortesia; le porgo questo umile e basso dono, in quanto alla grandezza, e dignità de' meriti suoi; ma non debile, nè di picciolo valore, riguardandosi alla povertà del mio ingegno, ed alle virtù del principale Autore. Il quale per non saper io trovare miglior comparazione) tanto merita nell' opre sue a giudizio d' ogni saggio, essere lodato, quanto; io son tenuto a V˙ S˙ che è senza fine ma nel terzo mio proposito, ben mi sono avveduto non poco essermi ingannato, perciocchè cercando onorare, e mostrarmi grato a un tanto Signore, ho accresciuto peso maggiore ai molti beneficj, ed a voi non sono per aggiungere maggior luce di quello, che si faccia un debil lume ai lucenti raggi del Sole, anzi a me stesso ho proccacciato splendore, e sono uscito delle tenebre. Ma con questo mi dò pace, e senza arroganza ciò posso dire; che non conosco persona di tanto valore, che possa aggiungere al sommo degli onori vostri; nè colpi di fortuna che vi possono percuotere; così buoni sono i fondamenti, che in acerba età, degni veramente di quel Sangue Illustrissimo, onde voi tanto anticamente uscito, avete, principiato, e di questo non ne voglio maggior testimonio, che le parole uscite di bocca, ed il concetto di voi fatto dal pregiato, e vie piu degno, che di mortali onori S˙ Gio. Iacopo Leonardi, Conte di monte Labbate, ed Ambasciatore d'Urbino, al cui intiero giudizio, come a nuovo oracolo del mondo, si deve prestar quella fede; che maggior sì possa. Perciocchè sempre vi ha lodato, non come spirito mortalmente prodotto, ed ammirato, non qual giovane non meno illustre di Sangue, che di virtù, e costumi, ma si come creatura nata con più intelletto, e con maggior giudizio negli anni acerbi, di quello che può acquistar altrui con la continuazione dei giorni maturi, e di quì si vede, che nè perchè per lo passato, allora quando tutta l' Italia era in armi, e sossopra, così nobilissima Famiglia perdesse la Contea di Trivigi, e solamente le sia restato il titolo, punto però a voi, Giovine illustre, e vero erede de' famosi precessori vostri, si è scemato l' animo reale, parendovi tanto avanzare, quanto giovate altrui. Conciosia che non mai ammiraste i tesori; ma sempre avete avuto riguardo alla fama ed all' onore accompagnato con la gloria, che deve essere specchio di ogni famoso Cavaliere: onde chiaramente vi dimostrate degno di quel antico ceppo, che nobilissimo venne, ed ebbe fregio in Italia, non al tempo dell' Imperio de Romani; che pare più oggidì non si possa dire; ma mille seicento, e settantasei anni anzi la venuta di Cristo, e novecento, e più sopra la edificazione di Roma; come di ciò fanno fede, ed ho veduto io in antichissime istorie: e quanto continuamente si sia mantenuto, lo dimostrano gl' infiniti privilegj concessivi da tanti Imperatori, e la grandezza del Conte Rambaldo al tempo dell' Arciduca d' Austria: quando chiamato da'Viniziani in Italia al possesso della terraferma, venendo a Trivigi, andò nel maggior Palazzo a far riverenza al Conte; e se medesimo invitò a Collalto, si può veder anco al tempo di Federigo Imperatore (s' io non erro nel nome) che facendo Viniziani lega, e pace seco, e con molti altri Potentati, furono chiamati per confederati i Conti di Collalto: ma che voglio io addurre maggior testimonio di questo? che quella poca giurisdizione, poca dico al merito vostro, che vi è restata, ed è nella Casa, non ha mai avuto superiore alcuno, nè investitura da altri, che da Iddio, e dall' istessa natura. Conciosia che voi faceste edificare e terre, e castella, voi medesimi instituiste ordini, e statuti; e voi sempre o poco, o assai avete tenuto Signoria sopra altrui: nè oggidi riconoscete altri superiori, eccetto che per riverenza, ed amore questa santa, degna, e giusta Repubblica: della quale ne siete parte, e membro. E quanto a quella siate stati fedeli, nel tempo, che i Francesi erano in questi luoghi del Friuli, di Trivigi, e quì d' intorno, si conobbe, ed ella sallo, dalle degne opre, e dalle utili fatiche eseguire dalla buona memoria dell' Illustre S˙ Conte Gio: Antonio vostro zio, che con comune dolore d' ognuno, che lo conobbe, è passaro da questa a miglior vita: il quale si può dir solo tenne in fede, e fu buona cagione, che tutto il paese non fosse danneggiato, anzi rispettato, ed appena paresse esservi stato guerra. Onde s' è bene veduto la memoria, che così Illustrissimo, e Serrenissimo Dominio ne ha tenuto, essendo sempre inviolabili restate le vostre giurisdizioni, delle quali siete risoluti padroni. Ma dove ammi guidato l'affezione a ragionare, che pur ora me n' aveggio, dico in quanto a cose ch' a me non s' appartengono? Però come umile servitore di V˙ S˙ tornerò a quello che a me tocca, e con ogni riverenza la pregherò gradire questa mia picciola fatica; ma che dico mia? essendo più tosto sua, poscia che mercè, e bontà di lei, e dell' onoratissimo suo Fratello, degni figliuoli veramente di un tanto Padre, com' è l' Illustrissimo Conte Manfredo, ritenuto tutta questa state sotto l' ombra di quelli, dove pur anco tuttavia respiro; l' ho ridotta a perfezione; e posso dire, che molti anni sono ch' io non ho avuto si tranquilla vita. Per ciò come cosa sua a lei la rendo, e la prego averla cara, qual si conviene non al volere di chi sin ora l'ha posseduta; ma al merito del principale Autore, all' utile dell' opera, ed all' affezion mia; e se alle volte quando ella darà riposo a' suoi più degni, e gravi studi, consentirà porvi gli occhi sopra, vedrà certamente di tanta dilettazione, vaghezza, ed utile esser ripieno questo libro, quanto altro che Gentiluomo, e Signore onorato possa leggere. Attento che in quello si richiude la correzione de' vizi, de'quali non avete bisogno amendarvi; gli esempi de' casi, le sventure seguite, la cognizione de' diffetti, e la gloria de' virtuosi, la quale sarà la vostra. Di me poi non dico altro a V˙ S˙ Illustrissima, perchè sotto l'ombra, e protezione di lei gran tempo è ch' io vivo: e prima incominciai da quella ricevere benefizj, ed essere ajutato, ch' io appena lo conoscessi, i quali con vero esempio di magnanimità, e grandezza, di maniera hanno sempre continuato, e seguono; ch' io per non essere da tutto il mondo rimproverato d'ingratitudine, li taccio; benchè posso dire, che oguno che ha di me conoscenza, più di me lo vede. E con verità mi è lecito affermare, chi di affezione ho molti padroni, ma d' effetti non altro benefattore che voi. Nè che io con la confessione dell' obbligo cerchi far ciò palese a tutto il mondo, la modestia di voi, nobilissimo Signore, si deve arrossare; essendo lo splendido animo suo drizzato a cose vie più sublimi, e di gran lunga maggiori di queste minime e frivole, alle quali egli punto non pensa: perchè se io facessi altrimenti, sarei tenuto il più ingrato e sconoscente ch' oggidi viva. E meglio è ch' io stesso da me medesimo mi umilj, che aspettar d' essere da altri abbassato; come che alle volte la mia soverchia umiltà, porgendo ardire all' arroganza altrui, m' abbia nociuto appsesso agli ignoranti. Nondimeno ogni persona grave e di giudizio, se non per altro, per questo solo atto, da molto più ch' io non sono, mi estimerà maggiormente che con un pari di V˙ S˙ altri deve dimostrarsi umile, quanto la bontà di lei cerca aggrandire le abbassate qualità di chi l' ama, e l' è affezionato come son io; che d' affezione non ho chi mi vinca; e di ciò mi sia testimonio l' onorato, e valoroso Capitan Camillo Caula, il quale sa l' interno del cuor mio; ed a cui non è mai stato nascosto l' obbligo che ho confessato, e confermerò sempre sino a tanto che lo spirito reggerà queste membra. Ma per più non la fastidire, e con ogni umiltà, e riverenza facendo fine, non resterò di raccomandarle l' affezione della servitù mia, e pregarla che non si sdegni, ch' io mi sia serviro dell' onorato nome suo.

Nel mese di Ottobre, MDXLV. dl S˙ Salvatore.

NOn essendo nato l' uomo solamente per uso di se stesso, ma a benefizio comune, parmi, cortesissimo e benigno Signor mio, ch' egli sempre debba avere nell' animo di giovare altrui; il che io di continuo tengo nel cuore; e in quelle cose, che nimica fortuna non mi può levare, ne mostri l' effetto. Perciocchè non potendo ciascuno esser capace della lingua Latina, e nel lungo uso di quella spendere il tempo, ho cercato nella natia nostra scrivere alcuna cosa di mio, e ridurvi un degno volume pel presente Autore: il quale, se mentre visse cerco giovare a tutti gli studiosi: diritto è che ritrovi alcuno, che si sforzi donar novella vita, e ritornare in luce l' opere di lui, già tanti anni nelle tenebre sepolte: le quali, se saranno ben esaminate per avventura, arreccheranno maggior utile al mondo, che forse non fanno le azioni di molti vivi tra noi non poco stimati, ed avuti in pregio. Però V˙ S˙ ora da me prenda parte di quello, che ad ogni picciol suo cenno, con le debili forze del povero ingegno, può darle un molto affezionato, benchè di poco merito servitore. Ora a lei ne viene la traduzíone mia sopra i quindici libri della Genealogia degli Dei del Boccaccio, che già fà l' anno e più V˙ S˙ mi pose in cuore, che non per se, ma per utile comune io dovessi fare: la quale tanto non aurebbe indugiato a lasciarsi vedere, se non vi si fosse interposto l' andata mia seco in Inghilterra. Nè per aggiungere maggior lume allo splendore che per più d' una via da se stessa V˙ S˙ si procaccia, di maniera che si può dire: ella all' eternità un tempio fondare, al nome suo la consacro; ma si bene per render più l' opra gradita, e per conoscere il potete dell' intelletto mio, tale che da se medesimo di soggetto d' invenzione, e stile non puote mandare a perfezione una fatica, che sia degna del titolo di quella. Aggiungendovi anco, che avvendola il suo principale Autore fatta a petizione d' un Re, non mi pareva, ch' ella appunto avesse a tralignare dal suo primo grado: conciosia che lasciando ora da parte l' antichissima origine degl' illustri Progenirori suoi, se riguarderemo alla nobiltà del titolo di Conte, troveremo, non c'ingannando gli scrittori, ch' egli è antichissimo, e usato già come si legge poscia che il Romano Imperio in Orientale e Occidentale da Costantino fu partito: nè altro significa, che compagno di Re, o d' Imperatore. Ma oltre questo, so ben io che portando il nome di V˙ S˙ in fronte, ritornerà in luce sotto la scorta d' un personaggio tale che d' animo, d' opre, e di sangue non è meno chiaro di qualunque splendido Re, che già sia stato, e oggidì viva, e però d' intorno l' antica in segna di lei nell' altra mia fatica sopra i casi degli Uomini illustri, ed in questa medesimamente non poteva io più proprio motto accomodarle che Regum opes equat animis. Ma quello che anco mi move a far ciò, è per far parte del molto a che tenuto sono; perciocchè ne' secoli che avveranno più allora sarà commendata, ch' ora non è gradita; perchè (e siami lecito dire senza arroganza) sono certo una parte delle fatiche che ho fatto, averle di sorte fondate, che più saranno stabili nell' avvenire, che al presente forse giudicate non sono: e potrebbe anco essere, se l' anime nella beatitudine avessero punto ricordo della felicità mondana, che V˙ S˙ non meno si potesse tenere pregiata per l' ornamento delle lettere, che per la gloria dell' arme. Ma ben mi duole, che le scritture mie non sieno quali ella merita, ed io vorrei. Nondimeno non sia già alcuno, che mosso dal grido della liberalità di voi, magnanimo Signore, istimi ch' io abbia fatto questo con speranza di riceverne premio, nè dono alcuno, che ciò veramente non è stato in me, attento che molto prima d' ora, senza alcuna azione mia, di maniera ho conosciuto la cortesia vostra, che a me sarebbe di mestiero, piuttosto cercare di scancellare parte degli obblighi, che avere intenzione di accrescere somma maggiore. A me sarà assai, e parrà molto avere avanzato, non cantare insieme col Principe de' Poeti Latini: Sordent tibi munera nostra. Purchè V˙ S˙ gradisca, non le fatiche mie, ma l' affezione del cuor mio, mi terrò aver ricevuto quel pregio maggiore, ch' io più desidero, e ne possa aspettare; il che mi farà di sommo contento; la dove se ciò sortisse il contrario, tanto sono avvezzo, ma non già secò, perdere delle mie fatiche, che l' avere anco perduto questa, mi sarà cosa leggera. Tuttavia, tale conosco la di lei bontà, ch' io mi rendo sicuro, che ella avrà grata la presente opra; e tenendomi per suo servitore, aggiungerà animo, e forze al mio desio di continuare negli studj, ed attendere a cose maggiori; alla cui grazia con quella riverenza ch' io le porto, di cuore mi raccomando. Del MDXLVII. del Mese di Febbrajo, di Venezia.

LA carestia che voi mi fate di quella vostra presenza, di che solevate già essermi così largo, m' accresce sì la volontà del goderne; che se non mutate modo, sarò isforzato dall'amore che vi tengo, a trasferire la mia a San Salvatore; che al Signor Manfredo di voi Padre, e di me Compare, tanto sarebbe caro ch' io ci venissi, quanto a voi piaceria il mio venirci; sento tutto ricrearmi gli spiriti, quando mi vi rimiro innanzi, perchè parmi che siate composto non di carne, d' ossa, di nervi di fiato, di vita, di mente, e d'anima; ma scorgovi quasi creatura formata di grazia, di gentilezza, di affabilità, di senno, di virtù, di valore, e di nobiltà d'animo; pronto, largo, chiaro, ottimo, grato, mansueto, e sincero; onde avviene che quell' indole angelica che in la vostra propria sembianza con le stampe della sua medesima effigie, impresse colei, dalla qual nasceste, ricrei i petti di chi vi vede cogli occhi che vi veggo io; che più vi considero, più mi commovo nella maraviglia, che appena mi lascia pensare, il come sia possibile, che un sì acerbo garzone proceda sì oltra nel consiglio dell' azioni del mondo; tal che i Re, e gl'Imperatori terrebbero per un nuovo vanto di creanza, il poter dire che voi foste creato nelle corti loro. Sicchè piacciavi di farmi parer qualche cosa, di niente ch' io sono, col più spesso rivedervi; altrimenti porterò invidia alle carte, dove le penne de' più divini ingegni, e in quest' opra, e in quella onorano se con le note del nome di V˙ S˙

Di Luglio, di Venezia, MDXLV.

LA gran roba di Velluto col roverso di Damasco nero l' un drappo all'altro, che pur jeri sì lietamente mi mandaste a donare, o Signore; così ricca e bella, che ci saranno pochi Principi che si arrischiassero, non dico d' essere larghi ad altri, ma di prestarla al dorso di lor medesimi i dì solenni appena; è una certa prova, che dell' arte della liberalità è precettore il cielo, ed egli solo la insegna alle creature di Dio, in quel punto ch' esse ci nascono. E ciò confermate voi, che sì giovinetto ancora, siete un miracolo del sì fatto mestiero; conciosia che la cesarea cognizione del vostro animo penetra più tosto nel cuore del bisogno altrui con la sollecitudine del dare, che altri non rivolge la sua speranza alla certa carità delle larghe mercedi vostre: ma buon per chi ci vive in necessità, se i gran maestri che ci comandano, partecipassero punto della splendidezza con cui rapite in modo la libertà degli uomini, che a voi divengono più schiavi d' amore, ch' a lor non son servi d' odio: ed è però il vero che le altezze di molti dovrebbero, per torsi dal nome l' infamia dell' avarizia, imitare in la lor vecchiezza la bontà di voi, quasi fanciullo in la etade; ma più che attempato nella prudenza, e in ciascuna real virtude; onde vedremo ancora esserci di sorte propizia la grazia eterna di Dio; che la fortuna quell' ora si terrà beata, che vi farà felice in tanto che la volontade che tenete ai virtuosi, si stancherà in consolarli con la magnificenza de' beneficj: di che nello stato che mo' si trova il cor vostro altero, godo tra gli altri io, che del dono vi ringrazio, non secondo il suo pregio; ma qual è il mio potere. Di Settembre in Venezia, MDXLV.

LA cortesia ritatdata dallo stento con le quali ansie, colui che dà, tormenta la necessità di quel che riceve; sebbene alla fine perviene in mano di chi l'aspetta, si può chiamar più tosto avarizia, che splendidezza. Io ciò favello in proposito d' indugio, che mi saria fatto più prò l'essere pagatore a tale, che il ricevere ciò in mercede da lui; e perchè pensando a sì strano scherno, mi rammento prima darmisi la signoril Vesta, che mi fosse promessa da voi; torno a rendervene un'altra volta grazie. E perchè la liberalità è tiranna, che solo si diletta d' imperare gli animi liberi, vivendo io omai sotto le leggi datemi da lei a nome vostro, è forza confessare la giurisdizione, che sopra il mio arbitrio avete.

Di Settembre. In Venezia, MDXLV.

ANch'io per aver pure qualch' ombra di virtù in lo ingegno, partecipo dell'obbligo con cui liberamente avetemi fatto servo il Betussi, giovane amabile, e buono. Ha in se la cortesia che altri dimostra in verso il come suo intelletto, una certa bontà signorile, che anco chi non ne gusta, la sente. Non è però tutto bene ispeso quel ch' ognor donano le splendidissime generosità d' altrui; anzi si può dir gittato l' oro, che si consuma nel soperchio della vanità, e nel sontuoso della crapola, del troppo che si porge nel vizio dell' una cosa, e dell' altra. Soccorrasi il bisogno e di questo virtuoso, e di quello. Ecco voi che meritate che la fortuna vi dia regno, qual diede a Pirro; dacchè la natura vi ha dato la bellezza della sua propria sembianza, non togliete la facoltà a voi medesimo per conto delle lascive delizie; ma ve la scemate bene per uomini con essa. Ecco i begli spiriti son quasi scemi nei cartocci loro; e siccome i tetti diventerebbono disutili, se non si accomodassero del terreno che gli manca, così eglino resteriano sterili, se si patisse che vivessero poveri, grande è l' altezza di quelli, che si scorgono innanzi persone conosciute dalla fama in grazia di quelle virtù, che la mercè propria loro gli ha sostentate col pane, che medicavano in prima. Perseverate dunque in ajutar i dotti, e i buoni, che ciò facendo, diverete soggetto di lode, e d' onore; dando materia al mondo di sempre maravigliarsi del come sia vero, che uno ancora di età garzone, sappia non arrendere ad altro, che a beneficare chi il merita. D' Ottobre. In Venezia, MDXLV.

PErchè più pare di vostra laude il ringraziare chi accetta i vostri doni, che non è debito di far ciò a chi gli riceve; dirò solo che se gli animi di chi più ha, fossero della lega del cuor vostro, i pesi della povertà non sariano conosciuti dalle spalle della virtù; onde gli onori, e non i vituperj allimenterebbero l' eternità della loro memoria. Di Novembre. In Venezia, MDXLV.

DAcchè la di Voi Signoria mi sforza con l'umanità de' preghi della polizza vostra, a dirvi il mio parere circa il ragionamento, che teneste voi nel caso del Signor Pier Luigi Farnese; rispondo, ch'io sento dire, che tutte le cose, le quali in nome di ben fare si eseguiscono, in la subita voce degli esiti loro, apportano laude a chi sene trova autore; ma tosto che si aqueta quel rumor primo, che pare uscire dalla pubblica lingua della virtù; considerandosi lo intrinseco del perchè si è cotale opra esequita, la fedele conscienza del non appassionato interesse, agguaglia chi l'esequisce, al fatto di colui, che sotto specie dell' apparente libertà della patria, uccise il Principe della Fiorentina cittade. Di Marzo, in Venezia, MDXXVIII.

PErch' io non resto punto soddisfatto, se ben più di mille volte ho notificato a V˙ S˙ la sviscerata volontà, che tiene la mia virtù nel caso del mostrare al suo nome, quanto sono obbligato a lodarlo; ecco che ancor ve lo replico. Ma per essere indegno del di lei merito, e del di me obbligo, il non mostrar cogli effetti ciò che dico in parole; tosto che ponga un poco in riposo l' animo, convertirò i detti nei fatti. Di Giugno, in Venezia, MDXLVIII.

S' Io avessi saputo con miglior modo, e più conveniente alle virtuose qualità di V˙ S˙ ed all' affezione del cuor mio, mostrarle segno di far cosa che le fosse grata; mi sarei certo con ogni studio sforzato d' adempire il desiderio mio: ma non essendo presso di me cosa degna di lei; e pur volendo mostrarle com' io l'osservo, ed amo, quanto osservare, ed amar si debbe persona di tanto valore, con quel più riverente, ed amorevole affetto che possa derivare dall'intrinsico dell' animo mio; mando a V˙ S˙ questi miei amori, pregandola a leggerli, e farli degni di passare in man delle persone di qualche merito. Credo che V˙ S˙ si umilierà ad onorarli, non già per il valore che sia in quelli; ma sì bene per usar meco ancora di quella cortesia, la quale essendo propria del nobilissimo suo lignaggio; veramente, e con ragione si può dire, ch'ella nascesse ad un parto con lei; avendola dal suo nascimento così felicemente accompagnata in sino al fior dell'età sua; come non è dubbio, ch'ell'abbia da durare con la felicissima, e lunga vita di lei. Ma perchè forse V˙ S˙ potrebbe rimanersi dalla lezione di queste rime, non sperando trarne alcun diletto; io che per ogni modo desidero piacer a lei, ed ottenere l'intento mio, voglio pregarla quanto più posso a concedermi questa grazia. E benchè ella non aspetti guiderdone alcuno dell' opere sue reali; io però in questa ardisco promettergliene un maggiore dell' opinion sua, e del creder di molti; e questo sarà, che leggendo V˙ S˙ i miei concetti amorosi; e considerando con quanta leggiadria, e facilità ella è usata d' esprimere i suoi divinissimi, ella si rallegrerà, conoscendosi tanto valere in questo, quanto ella avanza in molti generosi effetti i più degni Cavalieri dell' età nostra. Mando anco a V˙ S˙ più volontieri, e di miglior animo queste rime d'amore, sapendo ch' ella non può non essere in così fioriti anni meritamente soggetta d' Amore. E sarebbe empietà credere altro di lei; veggendola in tutti i suoi custumi, e in ciascuna sua azione spirare amore, leggiadria, e umanità; co' quali virtuosi effetti ella ha forza di farsi schiavi i cuori, e gli animi di tutte le persone, che pure una volta la veggono, e l' odano favellare. Perchè essendo io, con queste rare grazie concedute dal cielo a V˙ S˙ fatto suo volontario servo; era ben ragione ch' io ne mostrassi a qualche tempo alcun segno; il quale ora, come meglio posso m'impegno farle palese. Ben la prego, s'io non offendo però la realità del magnanimo cuor suo, ad aver caro questo offizio mio; e reputarlo non degno di lei, ma il più caro, il più affettuoso, il piò umile, il maggiore ch' io potessi giammai per alcun tempo fare; considerata la qualità sua, e la condizion del grado mio. La qual cosa, se V˙ S˙ farà, com'io spero, io mi riputerò molto felice; ed ella sarà stimata, quale è cortesissima, ed amorevolissima in sin presso a più maligni. E senz' altro più dirle, a V˙ S˙ faccio umil riverenza

Di Vinegia.

MEsser Giuseppe Betussi servitore, e tanto affezionato a V˙ S˙ vi manda alcune medaglie, ed un libretto per parte mia. Gli uomini son ben degni di venirvi innanzi: ma i miei scritti non già: pure in quel che manca la dottrina, e la sufficienza, supplisca la divozione del cuor mio, tutta pronta a' comandi di V˙ S˙ Illustre, e le bacio la mano. Di Venezia, alli 26. Settembre, 1549.

Servitore il Doni.

NE' luoghi debiti e tempi convenienti sempre si doverebbono scrivere, e nominare gli uomini degni tanto di onore, quanto d' eternità. In altra maniera non mi par lecito, nè ragionevole: questo modo avrebbe da essere osservato nelle dedicazioni de' libri, o qual altra cosa che sia. Avendo dunque fatto imprimere alcune Medaglie, le quali sono tutte dedicate a' Principi Illustrissimi, e Signori famosi; e di quelle fattone un libro, mi pareva fare un grandissimo errore a non unire in compagnia di tanti splendori, il raggio della luce di V˙ S˙ Ill. e porre il nome suo in luogo onorato. Poi consacrarle quell' effigie di quell' Enrico Re dei Re; Re veramente che ama, conosce, premia, ed onora gli uomini; onde ne apparisce nella felice persona vostra manifesto saggio, siccome chiaramente la Maestà Sua ha compreso il valore dell' armi, e la virtù delle lettere in voi; però osservando io la grandezza di V˙ S˙ Ill. con queste poche righe, infinitamente mi raccomando.

Di Vinegia, alli 5. Febbrajo, 1550.

CHe mi siate padre in amore, Signor Pietro onorato, grande onore ne apporto, e maggior allegrezza sento: perciocchè l' aver Padre tale, a cui i Regj s' inchinano, e gl' Imperatori cedono, più che Re mi fa stimare, e più che Imperatore gloriare; ch'io vi sia figliuolo nel battesimo, umilmente ne lodo Iddio, che oltre allo avermi eletto per esaltarmi nel mondo quel che mi siete, mi abbia aggiunto grazia di penetrare col lume dell' intelletto negli splendori divini delle vostre virtù, ed azioni. Onde spiritualmente, ed effettualmente imitandole, e osservandole, ne ritraessi quel frutto in benefizio mio, e del prossimo d' amor, di fede, e di carita, ch' è così grato a Dio. Dell'esservi padrone nel grado, ne ringrazio la natura; ma dell' esservi servitore ne' meriti, me medesimo biasimo; perchè io quel loco per antica eredità de' miei genitori possedo; e voi quest' altro, per nuovo acquisto di voi stesso nell' occupate: ma quel tanto favore, e si caro che a V˙ S˙ è piaciuto di farmi, sia ascritto alla innata sua magnanimitate, e non al giusto mio demerito, che non contentandosi d' avermi per figliuolo e servidore, mi vuole con sì nobili catene torre quella parte di libertà, che mi resta. Ma perchè quello che vi sono volontario, non vi posso essere sforzato, abbiatemi pur quale mi desiderate, che tale esservi voglio. In questo mentre stando io al punto di questa ventura, aspetterò ch' ella mi apporti quel pregio, per il qual, pur con speranza di ottenerlo, al di lei arbitrio mi offersi: ed uscendo al debito suo tempo dal vaso la polizza mia inefficace, siccome al numero maggiore de' simili avviene, io non accuserò l' intenzione mia buona dell'aver errato, ma il tutto imputerò all'opra parziale di lei maligna, e fraudolente. Che V˙ S˙ resti per disagio di venir a nostro Signore, oltre modo mi spiace; ed in questo riducendomi a memoria l'animo vostro reale, temo che non gli veniate; perchè, se cercherete di soddisfar a quel tanto vi conviene, e di giungervi con quegli onori, che vi si aspettano, nè Vinegia sarà atta a vestirvi, nè Milano ad accompagnare, nè Roma a ricevervi. Venga pur V˙ S˙ alteramente, o umilmente; che nè l' esser pomposa la farà più lodata di ciò ch' ella sia; nè l' essere abbietta le scemerà in altrui quella maraviglia di nome, e d' effetti ch' ella per se sola di loco in loco riporta. Ho riferito a bocca al Signor Gabriello Cesano ciò che V˙ S˙ scrivendo mi prega, il quale uomo amico della sua profondissima scienza, mi disse succintamente, che scriverà a V˙ S˙ e che gli è servitore; ed io con questo dicendovi, che a grandissimo favore mi riputerò, se mi farete per l'avvenire grazia di qualche vostra lettera; supplico V˙ S˙ ad amarmi come figliuolo, ed a comandarmi come servitore. Di Roma, alli XXIX. Dicembre MDL.

Di V˙ S˙ Figliozzo, e affezionatiss. Servitore.

QUando io mi vi vedo innanzi così ben formato e di persona, e di membra, e che mi ricordo, che pur vi tenni in braccio alla salutifera cerimonia del battesimo; mi rallegro di voi cresciuto in la età, e dolgomi di me scemato in la vita diciotto anni che avete, e ch' io debbo la cotal somma di tempo star nel mondo, mi fanno sospirare, e sospirando correre con la mente a pensare alla gioventù ch' ero allora, ed alla vecchiezza che sono adesso. Intanto chiamo felice il Signor Manfredo, che è genitore d'una sorte di figliuoli, e di figliuole, che le virtù, i costumi, e le gentilezze ponno imparare a farsi perfette nelle loro condizioni divine. Io non so qual regia antichità di progenie abbia in se la grazia, la modestia, e il senno, che tiene in se la di lui prole onorata: e si può dire sicuramente, che la bellezza, dono della natura inestimabile, sia la minor cosa ne' maschi, e nelle femmine di casa sua. E però non è maraviglia, che Amore, di che siete soggetto, vi mostri caro a colei, che è a voi più che la vita carissima. Bianca fu il nome dell' alta Signora di cui nasceste, e così anche chiamasi quella divina donna, per la quale vivete nel mondo; che vive chi ama, con l' affetto del cuore con che amate voi, che meritate lode dell'amore onesto, che sì fervido, sì leale, e sì costante le portate. Per il che vorrei che il mio ingegno fosse da tanto che potesse cantarne, acciò restasse testimonio della beltade sua, e della fede vostra. Di Ottobre, in Venezia, MDXLV.

Nel libro dei Casi degli Uomini Illustri, stampato in
Vinegia del 1545. al segno del Pozzo,
a c. 259.

EMi ha doluto insino all'anima, nobilissimo, e benigno Signore, che le vite delle mie Donne illustri siano uscire nelle mani degli uomini dotti, senza la scorta delle virtuose, e degne qualità della tanto da voi amata, e dal mondo riverita S˙ Bianca C. la quale se tra tutte l' altre non merita il principato, per non ingiuriare l' avanzo dell' altre famose; dirò almeno con pace del resto, che può stare al paragone di quante chiare antiche, e moderne furono giammai, ed oggidì si trovano. Perciocchè di nobiltà è a bastanza chiara, per virtù non ha chi se le agguagli; per bellezza dell' animo, e del corpo non ha chi la vinca; e per castità punto non cede alla famosa Romana, con la quale solamente la pareggio; perchè ella tiene l' insegna delle altre pudiche. E veramente il generoso animo di V˙ S˙ non poteva altrove drizzare il core, eccetto che ad albergarsi in petto così signorile. La onde meritamente ogni altra donna, che ha il titolo di bella, può invidiar l' Adige; poichè egli gode della più gentile, e felice alma che Iddio abbia mandato, e la natura tra noi creato. Nè vi doglia della lontananza dell'amata vista, conciosia che sarebbe privo di giudizio chi non penasse per così vago, e divino Angelo. E se alla partita di V˙ S˙ di Verona rimaneste senza cuore, e spirito, non mi maraviglio; attento che io spinto dal desio delle continue, ed onorate lodi, che tuttavia l' affezionata lingua e penna con ognuno di V˙ S˙ le dà, e scrive, poscia che l'ho veduta, ho portato di maniera impressa nell'animo mio la vera sembianza di lei, per aver in quella conosciuto di gran lunga maggiore la perfezione, che non può essere il grido del vulgo; che poco ha mancato, ch' io non le abbia dato loco tra gli Uomini Illustri, dacchè a tempo tra le donne famose non la puoti locare. Ma non si potendo rimediare all'impossibile; questa mia drizzata a V˙ S˙ insieme con una di queste mie fatiche, che le mando, sarà almeno un testimonio a quella, ed una fede al mondo dell' onore, e riverenza ch' io le porto, e del nobile foco, che voi, generosissimo Signore, nell' amarla, ed essere affezionato pudicamente v' ha acceso, e vi tiene infiammato. Aspettando occasione di poter dare (sì per meriti di lei, come per disio, e contento vostro) a conoscere al mondo quanto ella sia degna di onore con più ornati titoli e convenevoli parole. Intanto V˙ S˙ accetti l' umile dono, ch' io le indirizzo, e per me si degni oprare, che sia gradito dall'onoratissimo suo fratello; del quale essendo quella la maggior parte, e così all'incontro egli di lei, qual parte d'amendue abbiatelo caro, come si conviene all'affezion mia. Nè di ciò punto ho dubbio, perchè sempre ho conosciuto la V˙ S˙ piena d' umiltà, colma d' amore, ornata di benignità, e desiderosa di far grazia a tutti. Oltre che di questo m' assicura la benevolenza, e affezione, ch' io sempre in lei verso me ho conosciuto: la quale istimandomi molto più, non voglio dire, che a me non si conviene; perchè mi conosco di nessun pregio; ma vie maggiormente di quello, che alla grandezza di lei potrebbe fare di meno; mostra palesemente, la virtù, e la generosità dell' animo verso il prossimo essersi congiunta con la virtù del sangue Illustre. Laonde meco stesso vado altiero di quello, che l' animo considerando i meriti di me medesimo, mi fa arrossare. Ma non sarà però, che sempre dal lato mio (come è il dritto) non mi dimostri a lei umile, ed affezionatissimo servitore: piacendomi però, ch' io non lo negherò, gli onori, che da altri di pregio ricevo; ma non già il levarmi da me stesso in alterezza: perchè conosco troppo bene quello che vaglio, e chi mi sia. Conosco anco chi mi stima di più, e di meno; ai primi de' quali (sallo Iddio l' obbligo che ne tengo; siccome de' secondi nell' animo mio poco mi curo. Con questo facendo fine, aspetterò il tempo di far parte del molto che a V˙ S˙ sono tenuto. Alla quale m' inchino, e raccomando. Il primo di Ottobre MDXLV. di Vinegia.

Di V˙ S˙ Ill.

Affezionatiss. Servitore
Giuseppe Betussi.

Girolamo Ruscelli

GIà molti giorni il Signor Alessandro Citolini, ed io, eravamo stati in continui discorsi per dar fine a un libro mio delle lingue, e ci studiavamo di porre al libro tal fine, ch' egli uscendo, l'abbia a porre alle tante diversità di regole e di dizionarj che ogni giorno escono à luce; nè però con quella intera risoluzione, che molti vorrebbono; quando al Citolini sopravvenne la Lettera, di V˙ S˙ Illustrissima pregandolo a mandarle quel discorso, o lettera ch' egli già molti anni scrisse, e da altri fu stampata in difesa della Lingua volgare; e a mandarle ancora scritte tutte quelle ragioni, che sopra tal proposito V˙ S˙ ed io con alcuni altri l' udimmo con molta maraviglia e piacere di tutti discorrere alla presenza di M˙ Trifon Gabriele di felice memoria. Per ubbidire a questi due comandamenti di V˙ S˙ fu mestieri primieramente procurar di ritrovare quella Lettera, perchè nè egli se la trovava; nè io; e cercandosi tra Libreri, dicean tutti non averla; ma che continuamente era loro dimandata da ogni parte; la onde facendo diligenza tra questi Gentiluomini Letterati, se ne trovò una appresso il Clarissimo Signor Bernardo Zane, vero albergo d' ogni virtù; ed era per la continua mutazione di mano, così consumata; che per leggerla convenisse essere più indovino che dotto. All' altro di mandarle la sostanza delle cose discorse in presenza di Monsignor Trifone, si potea da noi con più agevolezza ubbidire, perciò che io in quel giorno con sommo stupor le ascoltai, e con molta diligenza le raccolsi nella mente; e ne feci di poi capitolo nel detto mio libro. Ma perchè il particolar comandamento di V˙ S˙ Ill. giovasse universalmenre ad ogni altro, che così come ella avesse ricco l' animo di sì gloriosi pensieri, si risolvemmo di mandarle l' una cosa, e l' altra in stampa, poichè già l'una, e l' altra è ora in man nostra di porer fare. Occorse in quello che al Citolino convenisse andare personalmente a far riverenza al non mai a pieno riverito, ed amato Signor Duca di Fiorenza, dalla quale occasione impedirlo o ritardarlo, sarebbe stata empietà troppo grande; e non ubbidire a V˙ S˙ Illustrissima, sarebbe stato fallo fuor d' ogni scusa, come fuor d' ogni scusa sarebbe fallo e prosunzione, ch' io senza il Citolino mi assicurassi di mandar fuori quelle mie fatiche, che già tanti giorni aspettano il loro ultimo adornamento dalle man sue. E per questo mi è parso di far gran senno, se fin tanto ch' ei torni, io mandandone a V˙ S˙ o piuttosto al mondo sotto il suo nome, questa Lettera del Citolini, dia a lei saggio del desiderio d' ogn' uno di noi in farle servigio, ed al mondo speranza, che persone che abbiano Signor tale, qual è V˙ S˙ per segno e meta delle lor fatiche, come noi abbiamo, non sien fuor de' termini della modestia, se si assicurano di promettere ch' elle abbiano ad essere nè disutili, nè indegne di vedersi da chi si voglia che sia. Riceveralle com' io mi prometto V˙ S˙ con quella bontà, che alla grandezza dell' animo suo per far contrappeso alla grandezza della divozion dell' uno, e dell' altro di noi verso lei, si conviene.

Di Venezia a' V˙ di Settembre. MDLI.

IL FINE.

I versi segnati con la ^ sono Canzoni, è Sestine; i
distinti * sono terze Rime; i notati ¶ sono Madrigali;
gli altri sono tutti Sonetti.

A che bramar, Signor, che venga meno 109

A che, Conte, assalir chi non ripugna? 50

A che più saettarmi, Arcier spietato, 89

A che pur dir, o mio dolce Signore, 83

A che, Signor, affaticar in vano, 29

A che vergar, Signor, carte ed inchiostro, 63

Accogliete benigni, o Colle, o fiume, 18

Acconciatevi, spirti stanchi e frali, 100

Ahi se così vi distringesse il laccio, 21

^ Alma celeste, e pura; 121

Alma Fenice, che con l' auree piume, 118

Alma onorata, e saggia, che partendo 123

Alma Regina, eterno, e vivo Sole; 117

Al partir vostro s' è con voi partita, 105

Altero nido, ove il mio vivo Sole, 19

Alto Colle, almo fiume, ove soggiorno, 24

Alto Colle, gradito, e grazìoso, 6

Altri mai foco, stral, prigione, o nodo, 14

A mezzo il mare, ch' io varcai tre anni, 114

Amica dolce ed onorata schiera, 140

Amor m' ha fatto tal, che vivo in foco, 108

Amor, lo stato tuo è proprio quale, 101

Anima, che sicura sei passata; 134

Arbor felice, avventuroso, e chiaro, 6

Ardente mio disir, a che pur vago 107

Arsi, piansi cantai, piango, ardo, e canto; 15

A voi sien Febo, e le Sorelle amiche, 134

Bastavan, Conte, quei bei lumi, quelli, 64

Beate luci, or se mi fate guerra, 27

Beato insogno, e caro, 169

Ben posso gir dell' altre donne in cima; 135

Ben si convien, Signor, che l' aureo dardo, 113

Cantate meco Progne, e Filomena, 91

Canta tu, Musa mia, non più quel volto, 151

Care Stelle, che tutte insieme insieme, 85

Casta cara, e di Dio diletta Ancella, 124

Cercando nuovi versi, e nuove rime, 141

Certo fate gran torto alla mia fede, 95

Cesare, e Ciro i vostri fidi spegli, 19

Che bella lode Amor, che ricche spoglie 89

Che farai, alma? ove volgerai il piede? 112

Che fia di me, dico ad Amor talora, 98

Che meraviglia fu, se al primo assalto, 8

^ Chiaro, e famoso mare, 35

Chi darà lena alla tua stanca vita, 102

Chi darà penne d' aquila, o colomba, 7

Chi'l crederia, felice era il mio stato, 104

Chi mi darà di lagrime un gran fonte, 73

Chi mi darà soccorso all' ora estrema. 31

Chi non sa come dolce il cor si fura, 16

Chi porterà le mie giuste querele, 34

Chi può contar il mio felice stato, 60

Chiunque a fama gloriosa intende, 141

Chi vuol conoscer, donne, il mio Signore, 4

Chi vuol veder l' immagin del valore 65

Come chi mira in ciel fisso le stelle, 10

Come l' augel, ch' a Febo è grato tanto, 25

Come posso far pace col disio? 78

Comincia alma infelice a poco a poco, 100

Con quai degne accoglienze, o quai parole 54

Con quai segni, Signor, volete ch' io; 171

Conte, dov' è andata 170

Conte, il vostro valor ben è infinito, 53

Conte, quel vivo ed onorato raggio, 126

Così m' aqueto di temer contenta, 68

Così m' impresse al core, 165

Così senza aver vita vivo in pene; 71

* Dalle ricche beate, e chiare rive, 159

Dal mio vivace foco, 172

* Da più lati fra noi, Conte, risuona 153

Deh consolate il cor co' vostri rai, 96

Deh farà mai ritorno agli occhi miei, 170

Deh foss' io almen sicura, che lo stato 61

Deh foss'io certa almen, ch' alcuna volta 39

Deh lasciate, Signor, le maggior cure, 84

Deh perchè com' io son con voi col core, 52

Deh perchè così tardo gli occhi apersi, 7

Deh perchè non ho io l' ingegno, e l' arte, 30

Deh perchè non poss' io qual debbo, e quale, 133

Deh perchè soffri, Amor, che disiando, 172

Deh se vi fu giammai dolce, e soave, 33

D' esser sempre esca al tuo concente foco, 109

* Dettata dal dolor cieco ed insano. 156

^ Di chi ti lagni, o mio diletto, e fido, 115

Dimmi per la tua face 165

Di queste tenebrose, e fiere voglie, 146

Diversi effetti Amor mi fe' vedere, 95

* Donne, voi che fin qui libere e sciolte, 151

Dotto saggio gentil chiaro Bonetto, 130

Dove volete voi, ed in qual parte, 110

Due anni e più ha già voltato il cielo. 82

Dunque io potrò fattura empia ed ingrata, 149

Dura è la Stella mia, maggior durezza 22

Ecco, Amor, io morrò, perchè la vita, 103

È questa quella viva, e salda fede, 106

Era vicino il dì che il Creatore, 2

È si gradito, e si dolce l' obbietto, 130

Fa ch' io rivegga, Anor, anzi ch' io moia 40

Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia 90

* Felice in questa, e poi nell' altra vita, 173

Felice Cavalier, e fortunato, 136

Fiume, che dal mio nome nome prendi, 74

Fra quella illustre, e nobil compagnia, 16

Gioia somma, infinito alto diletto 59

Gli occhi, onde mi legasti, Amor, raffrena, 12

Grazie, che fate il ciel fosco, e sereno 132

Grazie, che fate mai sempre soggiorno 12

Il bel che fuor ger gli occhi appare, e il vago 10

Il cor verebbe teco, 167

Il gran terror delle nimiche squadre, 131

Io accuso talora Amor, e lui, 88

Io assomiglio il mio Signore al cielo; 3

Io benedico, Amor, tutti gli affanni, 55

Io non mi voglio più doler d' Amore, 64

Io non trovo più rime, onde più possa 97

Io non veggio giammai giunger quel giorno, 100

Io non v' invidio punto, Angeli santi, 9

Io penso talor meco quanto amaro, 97

Io pur aspetto, e non veggo che giunga 53

Io son dell' aspettar omasi sì stanca, 25

Io veggo spesso Amore, 166

Io vo pur discrivendo d' ora in ora 23

Io vorrei ben, Molin, ma non ho l' ale 128

Io vorrei pur, ch' Amor dicesse come 81

Lafè, Conte, il più ricco, e caro pegno 42

La gran sete amorosa, che m' afflige 40

La mia vita è un mar: l' acqua è 'l mio pianto, 39

La piaga ch' io credea, che fosse salda, 112

Larghe vene d'umor, vive scintille, 80

Lassa, chi turba la mia lunga pace, 47

Lassa, in questo fiorito, e verde prato, 99

La vita fugge, ed io pur sospirando 96

L' empio tuo stral, Amore, 166

Le pene dell' Inferno tutte insieme, 168

Le virtù vostre, e quel cortese affetto, 137

Liete campagne, dolci Colli ameni, 77

Lodate i chiari lumi, ove mirando, 63

Ma che sciocca di ch' io? perchè vaneggio? 47

^ Menami, Amor, omai, lassa il mio Sole; 50

Mentre al ciel il Pastor d' alma beltate, 139

Mentre chiaro, Signor, per voi s' attende, 119

Mentre, Signor, all' alte cose intento, 37

Mentre io conto fra me minutamente, 15

Mentr' io penso dolente all' ora breve, 83

Meraviglia non è, se in un istante 94

Mesta e pentita de' miei gravi errori, 147

Mille fiate a voi volgo la mente, 144

Mille volte, Signor, movo la penna, 62

* Musa mia, che sì pronta, e sì cortese, 161

Ninfe, che d' Adria i più riposti guadi, 136

* Non aspettò giammai focoso Amante, 163

Nuovo e raro miracol di natura, 48

O beata, e dolcissima novella, 54

Occhi miei lassi, non lasciate il pianto, 87

O delle mie fatiche alto sostegno, 41

O diletti d' Amor dubbj e fugaci, 57

O gran valor d' un Cavalier cortese, 52

Oime le notti mie colme di gioia, 44

O inaudita e rara cortesia, 127

O mia sventura, o mio perverso fato, 69

Onde, che questo mar turbate spesso, 22

O notte a me più chiara, e più beata 56

O' ora, o Stella dispietata e cruda, 38

Or che ritorna, e si rinnova l' anno, 57

Orche torna la dolce primavera, 32

O rive, o lidi, che già foste porto, 75

Or sopra il forte e veloce destiero, 78

O sacro, amato, e grazioso aspetto, 45

O tante indarno mie fatiche sparse, 66

Pastor, che d' Adria il fortunato seno, 139

Perchè Fortuna avversa a' miei disiri, 133

Perchè mi sii Signor crudo, e selvaggio, 94

Per le saette tue, Amor, ti giuro, 17

Piangete, donne, e con voi pianga Amore, 80

Piangete, donne, e poichè la mia morte 46

Poichè Amor mi ferì di crude ponte 26

Poichè da voi, Signor, m' è pur vietato, 70

Poichè desia cangiar pensier, e voglie, 88

Poichè m' hai resa, Amor, la libertade, 107

^ Poichè m' ha reso Amor le vive Stelle, 58

Poichè per mio destin volgeste in parte, 106

Poichè tu mandi a far tanta dimora, 93

Pommi, ove' l mar irato geme, e frange, 60

Porgi man, Febo, all' erbe, e con quell' arte, 137

Prendete il volo tutti in quella parte, 73

Prendi, Amor, de' tuoi lacci il più possente, 45

Prendi, Amor, i tuoi Strali; e la tua face, 46

Purga, Signor, omai l' interno affetto, 148

Qual darai fine, Amor, alle mie pene, 108

Quale appieno potrà mai prosa, o rima, 135

Qual' è fresc' aura all' estiva ora ardente, 125

Qual fosse il mio martire, 168

Qual fu di me giammai sotto la Luna, 70

Qual fuggitiva cerva, e miserella, 49

Qual saggittario, che sia sempre avvezzo, 114

Qual sempre a' miei desir contraria sorte, 25

Qualunque del mio petto esce sospiro; 20

Quand' io dimando nel mio pianto Amore; 71

Quand' io movo a mirar fissa ed intenta 66

Quand' io veggio apparir il mio bel raggio, 10

Quando fia mai ch' io vegga un di pietosi, 76

Quando fu prima il mio Signor concetto, 3

Quando innanti a' begli occhi almi e lucenti, 15

Quando mostra a questi occhi Amor le porte, 86

Quando piu tardi il Sole a noi aggiorna, 38

Quando quell' alma, i cui disiri ardenti 125

Quando sarete mai sazie e sattlle, 17

Quando talora Amor m' assal più forte, 41

Quando tal volta il mio soverchio ardore, 45

Quanto questo fatt'ora aspro e selvaggio, 72

Quasi quercia di monte vrtata e scossa, 49

Quasi vago, e purpureo giacinto, 99

Quasi uom, che rimaner dee tosto senza 91

Quel che con tanta e sì larga misura, 138

Quel disir che fu già caldo ed ardente, 150

Quel gentil seme di virtute ardente 145

Quella febbre amorosa, che m'atterra, 84

Quelle lagrime calde, e quei sospiri, 30

Quelle lagrime spesse, e sospir molti, 124

Quelle piaghe profonde, e l' acque, e il sangue 146

Quel lume, che il mar d' Adria empie, ed avvampa 127

Quest' aspro Conte un cor d' orsa, e di tigre, 43

Queste rive, ch' amai sì caldamente, 72

Questo felice, e glorioso Tempio, 142

Questo poco di tempo che m' e' dato, 32

Qui dove avvien, che il nostro mar ristagne, 44

Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna, 31

Ricevete cortesi i miei lamenti, 14

Ricorro a voi, luci beate, e dive, 77

Rimandatemi il core, empio tiranno, 76

Ritraggete poi me dall' altra parte, 29

Rivolgete la lingua, e le parole, 140

Rivolgete talor pietoso gli occhi, 12

Sacro fiume beato, alle cui sponde, 74

Sacro Re, che gli antichi, e nuovi Regi, 117

Sai tu, perchè ti m se in mano, Amore, 18

Sapete voi, perch' ognun non accende 166

S' avvien, ch'un giorno Amore a me mi renda, 5

Se con tutto il mio studio, e tutta l' arte 20

Se così come sono abbietta e vile 5

Se d' arder, e d' amar mai non mi stanco, 27

Se da' vostri occhi, dall' avorio ed ostro, 131

Se di rozzo Pastor di gregge, e folle, 2

Se gran temenza non tenesse a freno, 98

Se il cibo, onde i suoi servi nutre amore, 168

Se il cielo a quì di noi perpetua cura, 79

Se il fin degli occhi miei, e del pensiero, 86

Se non temprasse il foco del mio amore 28

Se poteste, Signor, con l' occhio interno, 81

Se qualche tema talor non turbasse, 65

Se quant' acqua ha Castalia, ed Elicona 128

Se quel grave martir, ch' il cor m' afflige 102

Se soffrir il dolor, e l' esser forte, 104

Se tu credi piacer al mio Signore, 167

Se tu vedessi, o madre degli Amori, 23

Se voi non foste a maggior cose volto, 120

Se voi poteste, o Sol degli occhi miei, 61

Se voi vedete a mille chiari segni, 93

Siccome provo ognor nuovi diletti 9

Siccome tu m' insegni a sospirare, 79

Signor, che doni il paradiso, e tolli, 147

Signor, che per si rara cortesia 145

Signor, dappoi che l' acqua del mio pianto 138

Signor, io so che in me non son piu viva 67

Signor, ite felice ove il disio 105

Signor, poi che m' avete il collo avvinto, 113

Signor, per cortesia 169

Signor, se a quei lodati, e chiari segni 143

S' io che son Dio, ed ho meco tant' armi 11

S' io credessi por fine al mio martire 171

S' io il dissi mai, Signor, che mi sia tolto 69

S' io non avessi al cor già fatto un callo, 101

Son pur questi i begli occhi, e quelle ch' hanno 56

Soranzo, dell' immenso valor vostro 142

Sovente Amor, che mi sta sempre a lato 75

Spesso che Amor con le sue tempre usate 170

Speron, che all' opre chiare ed onorate, 120

Straziami, Amor, se sai dammi tormento, 82

S' una candida fede, un cor sincero, 91

S' una sola eccellenza suol far chiaro, 144

S' una vera e verissima umiltade, 87

Su speranza, su fè, prendete l' armi, 68

Trammi, dico ad Amor talora, omai 13

Tu, ch' agli antichi spiriti vai di paro, 129

Tu che traesti dal natio paese 118

Tu pur mi promettesti amica pace, 22

Veggio Amor tender l' arco, e nuovo strale 111

Venga quante fur mai lingue e d' ingegni, 13

Verso il bel nido, ov' io restai partendo 85

Via da me le tenebre, e la nebbia 55

Vieni, Amor, a veder la gloria mia, 26

Virtuti eccelse, e doti illustri, e chiare, 150

Voi ch' alle Muse, ed al Signor di Delo 133

Voi ch'ascoltate in queste meste rime, 1

Voi che cercando ornar d' alloro il crine 8

Voi che di varj campi, e prati veri 143

Voi che fate sonar da Battro, a Tile 129

Voi che in marmi, in colori, in bronzo, in cerae 28

Voi che novellamente, donne, entrate 33

Voi che per l' amoroso aspro sentiero 48

Voi ne andaste, Signor, senza me dove 119

Voi potete, Signor, ben tormi voi 90

Voi vi partite, Conte, ed io qual so glio 103

Volgi a me peccatrice empia la vista, 148

Volgi, padre del cielo a miglior calle 149

Vorrei che mi dicessi un poco, Amore, 67

Una inaudita e nuova crudeltade, 92

Un' intelletto angelico, e divino, 4

Un veder torsi a poco a poco il core, 112

Zanni, quel chiaro, e quel felice ingegno, 126

Candide rose, e leggiadretti fiori, a carte 177

Dal lido occidentale, all' onde ircane 178

Domenichi gentil, se il ciel vi dona 178

Dunque un Garzone, un capitano invitto 182

Elena, poi che il pianto, e le parole 179

In amoroso e florido giardino, 182

L' umor, che da' begli occhi si discende, 179

Muzio, se di saper pur hai disio, 180

Non si vedrà pià lieto il tristo core, 181

Quel lume da cui il ciel toglie il sereno, 180

Se in quante forme mai quì scese Giove, 181

Corso, se il ciel che vi produsse in terra, a carte 190

E questo il petto, Amor, a cui mi resi, 184

^ Fortunata città, beato mare, 186

Fu morte il mio partire, 185

Nel fiammeggiar della vermiglia Aurora, 183

Quando Madonna il suo terrestre velo, 184

Quando mercè d' Amore io giunsi al loco, 185

Alto Signor, venuta è l' ora omai, a carte 196

Crudel Sirena mia, poi ch' è pur vero, 205

Cura, che sempre vigilante e desta, 199

Di dolcezza, e d' amor l' anima pieno, 208

Dolce mio ben, deh qual cagion vi move 206

Domenichi gentil, che fate voi, 194

Donna gentile, il cui purgato inchiostro 201

Donna, la cui beltà pur non pareggia 204

Felice cor, che vinto dal disio 206

Figliuol di Dio, che dal paterno scanno 198

Frena, mio bene, i lumi tuoi lascivi; 194

Ho riveduto, amanti, il mio bel Sole, 199

Il fero mio disio tanto m' accende, 195

Il non vedervi mi conduce a morte, 197

Io provo giorni tenebrosi e rei, 207

Il vostro dono prezioso, e caro 201

L' afflitto mio pensier così m' ingombra, 192

L' alta fiamma d' amor m' incende e sugge, 193

L' alto felice, e raro vostro ingegno, 200

Lasso, ben so che il mio crudel martire, 200

Le vostre belle e pure e dotte carte, 193

Mentre d' amor fra speme incerta, e tarda 197

Misero, che aghiacciando avvampo, ed ardo, 192

Occhi, che la virtù vostra serena, 207

O per cui sola ad alto onor m' invio, 191

Qual lingua mai potria lodarti appieno, 202

Sansovino gentil, cortese e caro, 203

Savina mio, se voi sapeste quante 205

Se all' ardente disio, che a dir mi spinge 198

Se v' accorgeste del fuggir dell' ore, 203

Signore, il cui fedel saggio consiglio, 202

Signor gentil, che in dolci e stretti nodi, 204

Vera umiltà con gravi modi unita 196

Vostro orgoglio, madonna, e il vostro sdegno 195

BENEDETTO VARCHI.

Ben dissi'l ver che alla colomba, e al cigno a carte XXXVII

Benzon, se il vero quì la fama narra, XXXVI

Giulio, quel duol ch' entro il mio cor s' accampa, XXXIX

Con questo risponde a quel di Giulio Stufa.

GIORGIO BENZONE.

Ben è d' alta vaghezza il Mondo scarco, XXXVII

GIROLAMO PARABOSCO.

Se mira il ciel questa divina Stampa, XXVIII

GIULIO STUFA.

Ben è ragion, Varchi gentil, s' avvampa XXXVIII

INCERTO.

Se amor natura al nobile intelletto XXXIX

Al quale risponde la Stampa per le Rime con un Sonetto a c. 130

IPPOLITA MIRTILLA.

O sola quì tra noi del ciel Fenice, XL

LEONARDO EMO.

Qual sacro ingegno o in prosa sciolta, o in rima, XL

Al quale risponde la Stampa per le rime con due Sonetti a c. 135

MALATESTA DA RIMINI.

Sì dolci sa il mio cor tesser gl' inganni, XLI

TORQUATO BEMBO.

Or ne rendi al Tirreno il corso e l' onde, XLI

Se il veder, e l' udir splendor, e canto, XLII

A lenta navicella, a carte 233

Anassilla, che fai? da un altro Nume, 230

Anassilla, felice è il tuo bel pianto, 254

Anima eccelsa, fra mill' altre eletta, 229

Certo aveva cred' io tarpate l' ali 232

Com' egli avvenne al tuo mal cauto figlio, 230

Come ogni Stella alla diurna lampa, 218

Come se genitor debito lascia, 215

Cigni, che il canto d' Anassilla al tempio 228

Cred' io che men dovesse il Rege Ibero, 213

Da quei fior, da cui trae l' ape ingegnosa 222

Dive, per cui si poggia all' ascree cime, 225

Donna, che di sì vaghe, e terse rime 212

Donna immortale, or che tue dotte rime 231

D' un de' Collalti miei dalle pupille 113

Fiume, che ognora con le tue chiare onde, 222

Gasparra illustre sopra ogni altra, e chiara 217

In chi ponesti, Amor, fiamma sì pura, 241

La fronte il latte, e vincono la neve 228

L' inclita cetra, che dell' alto Colle 232

Mira, Anassilla, come cangi tempre 226

Movo sovente i pensier tristi, e lassi 217

Nè chi per trarne il foco al cielo ascese, 227

Ninfa, che del Pierio amabil coro 221

O dell' Alme felici alta bontate, 229

O delle antiche donne alta bontate, 219

O là, Caronte, olà, dove s' asconde 221

O fortunato quattro volte e sei, 212

O gloriosa Illustre e nobil arte, 255

Ombre felici, avventurosi spirti, 220

Per cantar di Colei che tanto il mio 216

Per far pago il disio di cui più giusto, 211

Presso alla Brenta io nacqui, e dove impera 220

Qual furor, qual disdegno, avversa Morte, 218

Quando, Anassilla, a te riguardo, il mio 219

Quando, Anassilla, il suo bel velo santo 223

Quella d' Anasso lungo alla corrente 224

Questa è pur d' essa? ecco il gentil sembiante, 225

Rapide movi per gli Elisj campi, 233

Rime, che tutto vergognar fareste 224

Sceglier da tutta la passata gente 214

Sedere io vidi all' ombra d' un bel faggio 214

Se mai pur fui del tuo soccorso degno, 215

Se scorger mai del Sangue illustre altero 226

Se stato io fossi quel che l' opra feo 216

Sia pur di bronzo, o di diamante armato, 253

Sin dove il Sol col lume unqua non giunge, 256

Spiega l' antito incendio in nuove rime, 223

Stringea la Fede due colombe al seno, 231

Voi, che l' Euganee rive, e l' erbe, e l' acque 227

Voi, che nasceste all' Alto Colle in seno, 237

N˙ H˙ ALOIGI QUIRINI.

O tu delle più belle umane cose 238

N˙ D˙ A˙ T˙ G˙

Anassilla non più, tempo alfin giunge, 256

ANTON FEDERIGO SEGHEZZI.

Aggiungi ai pregi, onde in sourana parte 239

CARLO GOZZI.

Lo dolce stil, l' angelica figura, 239

FRANCESCO GOZZI.

Ben veggo, che non sol fama s' acquista 240

GASPARO GOZZI.

A scarsa vena, e mal celebre nome 257

Certo di caldo amor fiamma sì pura 241

Son queste quelle ornate, e illustri carte, 240

GIOUANNANTONIO VERDANI.

O Irminda, o d' Adria pregio, e lume vero, 259

Tu, che su l' alme hai sì soave impero, 258

GIOUANNI CENDONI.

Deh perchè a me negaste alto e sublime 242

Senza ir cercando tra le folle Achee 242

GIULIA LAMA.

Luisa, tu che amica di virtute, 243

Quando tra rari spirti io veggo voi, 243

GIUSEPPE ANTONIO MAGNI.

Chi del legno mortal drizza le sarte,

GIUSEPPE SALIO.

Alma Città, cui della brenta in riva 244

LIBORIO FRONTINI.

Donna gentile, a cui Amor cotanto 247

LUISA BERGALI.

Anche oltre all' Appenin dove sorgea 250

Di qual freddo macigno erasi armato, 252

La bianca fede, e tua beltade accesa, 252

La disastrosa via, dove alcun giunge 255

Miracol nuovo di natura e d' arte 254

Non convien che nessuno all' opra bella 249

Opra gentile, e di se degna imprese 251

Quante fiate a rimirar io torno 251

Se d' alto onor te non alzava al segno 250

Senza versar da li occhi amaro pianto, 253

So pur che le tue laudi a saper vero, 258

Voi che avete, Gasparro, il canto, e il nome 257

NICCOLA DE' CORADDI D' AUSTRIA.

Chi dolce appella Amor di gioia fonte, 248

Non mi dorrei di quel cocente foco, 247

PIETRO PANCIERA.

Non più all' onde d' Anasso, o all' aere sparse 248

VERONICA CANTELLI TAGLIAZZUCCHI.

Bergalli onor dell' Appolinea fronda, 249

IL FINE.

AVendo veduto per la Fede di revisione, ed approvazione del P˙ F˙ Paolo Tommaso Manuelli Inquisitore, nel Libro intitolato: Rime di Gaspara Stampa, con alcune altre di Collaltino, e di Vinciguerra Conti di Collalto, e di Baldassare Stampa, giuntovi diversi componimenti di varj Autori in lode della medesima, non v' esser cos' alcuna contro la santa Fede cattolica; e parimente per Attestato del Segretario nostro, niente contro Principi, e buoni costumi; concediamo licenza a Francesco Piacentini Stampatore, che possa esser stampato, osservando gli ordini in materia di Stampe, e presentando le solite copie alle Pubbliche Librerie di Venezia, e di Padova.

Data 19. Maggio 1738.

(Gio: Francesco Morosini Kav. Rif.

(Pietro Grimani Kav. Rif.

(Daniel Bragadin Proc. Rif.

Agostino Gadaldini Segr.

1738. 22. Maggio.
Registrato nel Magistrato Ecc. della Bestemmia.

Vettor Gradenigo Seg˙