ANNIE VIVANTI
TERRA
DI
CLEOPATRA



MONDADORI
MILANO



ANNIE VIVANTI

TERRA
DI CLEOPATRA

A. MONDADORI
MILANO

I diritti di riproduzione e traduzione sono
riservati per tutti i paesi, compresi
la Svezia, la Norvegia e
l' Olanda

Copyright by A. Vivanti Chartres
1925



Io certo sogno. Non è possibile che sia vero tutto quanto mi accade!… Mi pare ch'io stia facendo uno di quei sogni stravaganti e pazzeschi che, al mattino, quando si vorrebbero ricordare e raccontare, sfumano, si confondono, dileguano nella più insensata incoerenza.

A momenti mi sveglierò nella mia placida villetta sulla collina, e la fedele Margherita, battendo piano alla porta mi dirà: —Signora, sono le sette.

Ma frattanto questa fantasmagoria stravagante mi tiene nelle sue spire.

Sono nel deserto libico, issata su un cammello, e mi avvio verso la tomba di Tut-Ankh-Amen. Davanti a me, sopra un altro cammello, dondola un arabo alto e solenne; e al mio fianco corre un negro in una lunga camicia azzurra, col turbante calato a sghimbescio sopra l'occhio sinistro, che è cieco; i suoi piedi nudi battono la sabbia con ritmo molle e veloce…

Appaiono, in fila cupa sullo sterminato oro del deserto, delle figure femminili, alte, misteriose, ammantate di nero; alcune recano sul capo delle anfore stillanti d'acqua. Passano mute, alzando su me i loro immensi occhi attoniti.

Saïda! Saïda—le saluto io.

Allora con liete grida accorrono, mi circondano: —Allâh! Allâh! Yisàllimâk.— Stendono le dita tinte di henné e mi toccano le vesti, poi si recano alle labbra la mano che m'ha toccata. Una di esse stacca dal suo polso un amuleto e me lo getta in grembo: sono otto piccoli gatti di giada verde infilati su uno spago. Voglio ricompensarla, voglio ringraziarla, ma essa fugge via e raggiunge le compagne che già si allontanano… Vanno verso l'immensa spianata tebaica dove i due Colossi di Memnon seggono immoti nel loro millenario stupore.

Ben presto le nere bibliche figure non sono più che una sottile striscia scura sulla dorata pianura. Poi spariscono in un nembo di sabbia.

L'arabo, il negro ed io proseguiamo silenziosi… Il vento del deserto ci turbina d'intorno.

Non è un sogno, questo?

No. Me lo dicono gli otto piccoli gatti di giada verde che tengo nelle mani.

Ma voglio procedere con ordine. Voglio schiarire i miei pensieri; rievocare con precisione le circostanze che hanno portato tanto nuovo sconvolgimento nella mia già irrequieta esistenza.

Veramente, la colpa è tutta di Flora e del suo cappello parigino.

Nei primi giorni del mese scorso, di ritorno dal suo viaggio a Parigi, Flora mi venne a trovare. Era elegantissima, come sempre; forse anche più del solito, poichè intorno a lei aleggiava l'indefinibile atmosfera di rue de la Paix.

Dopo le prime battute formali, mi domandò:

—Ti piace il mio cappello?—E soggiunse con enfasi reverente:—Ci vedi la patte di madame Lévis Lévy?!

Io guardai con la dovuta attenzione quella specie d'imbuto altissimo di ciniglia nera che le adornava il capo. Poi dichiarai:

—Lo trovo orrendo.

Flora mi fissò sbigottita; indi scrollò il capo (dentro all' imbuto) con espressione accorata:

—Annie, tu non stai bene. Non sei del tuo umore solito. È già un po' di tempo che me ne accorgo. Dovresti prendere un ricostituente, o consultare un medico.

—Ciò non mi farà ammirare il tuo copricapo, —ribattei un po' stizzita.

Tuttavia confesso che la sua frase mi impressionò. Quella sera, guardandomi nello specchio, mi trovai un po' pallida, un po' abbattuta. E l'indomani andai a trovare il mio dottore.

—Mi dica la verità, dottore. Sono ammalata?

—Quali disturbi avverte?—mi domandò l'eminente professore, dopo un'accurata ascoltazione. —Io non trovo niente. Mi descriva i suoi sintomi.

—Mah!… non saprei precisarli… sono un po' vaghi. Soffro, per esempio, di antipatie, di forti antipatie… (pensavo al cappello di Flora) e di distrazioni, di dimenticanze; dimentico gli impegni che ho colla gente noiosa; perdo spesso ombrelli e borsette; ho orrore di rispondere alle lettere e alle visite…

Il mio dottore ed amico dissimulò un sorriso. Indi, assumendo un cipiglio severamente professionale, trasse a sè il blocco delle ricette e vi scrisse alcune parole. Strappò il foglietto e me lo porse.

Con stupore lessi la prescrizione:

«Silenzio e solitudine per due mesi».

—Silenzio e solitudine?—ripetei sbigottita.

—Precisamente. Per due mesi Lei non parlerà con nessuno, non riceverà alcuna visita, non aprirà alcuna lettera; si isolerà completamente dal mondo. Le ripeto la mia ordinazione: silenzio e solitudine.

—Ma dove si trova il silenzio e la solitudine? Com'è possibile isolarsi in una città dove si conosce tutti?

—Faccia un viaggio,—disse il dottore.— Vada a stare dove non conosce nessuno.

Passai in rapida rivista mentale le cento città d'Italia. In tutte ero stata; in tutte avevo conoscenze, amici, parenti. Allora vagai più oltre col pensiero: Londra, Parigi, Berlino, Vienna, New York… Da per tutto ero stata, da per tutto avevo trovato folla e rumore, turbine e tumulto.

Sospirai.—Bisognerebbe andare nel deserto…

—Benissimo!—esclamò il dottore.—Vada in Egitto. Del deserto, là, ne trova fin che vuole.

In Egitto! Luminosa idea! Io non sono mai stata in Egitto. Nessuno ch'io conosco vive in Egitto. Sì; in Egitto io troverò la solitudine e il silenzio.

Mezz'ora dopo, ero negli uffici dell'Agenzia di Navigazione.

—Scusi… quando parte un piroscafo per l'Egitto?

—Oggi alle due. L'«Esperia», da Genova. Guardai l'orologio. Era un po' tardi.

—Altro?

—Venerdì parte l'«Hélouan» da Trieste…

—Benissimo. Riservatemi una cabina sull' «Hélouan».

Giunta a casa non potei resistere alla tentazione di telefonare ai miei amici più intimi:

—Addio! Addio a tutti! Parto per l'Egitto. Stupefazione generale.

—Per l'Egitto?! Ma che idea! Ma perchè?

—Vado nel deserto a cercare la solitudine e il silenzio.

Poi mi rinchiusi nella mia stanza a scrivere la notizia a tutte le mie conoscenze che non avvevano il telefono.

L'indomani mattina Flora si precipitò da me.

—Ma come? Vai in Egitto?

—Sì.

—Beata te!… Vorrei venirci anch'io.

—E perchè no?—feci io, tanto per dire una cosa.

—Infatti,—riflettè lei.—Perchè no?

—Scusami,—esclamai affrettatamente,— ho un mondo di cose da fare. Devo preparare le valigie, salutare i parenti, occuparmi del passaporto.

—Già… gia!…—Flora mi salutò distrattamente. Poi soggiunse, pensosa, con occhio vago:

—Chissà che genere di toilettes si portano nel deserto!…

Vennero anche tutte le altre mie amiche a trovarmi.

—Vai in Egitto! Fortunata te! Potessimo venirci anche noi!

—Magari!—rispondevo a tutte, sorridendo. —Ne sarei ben felice.

Allora mi domandavano mille schiarimenti riguardo al viaggio, alla traversata, alla vita e al clima di laggiù.

E partendo, ripetevano:

—Beata te!… Peccato che non ci veniamo anche noi!

—Peccato davvero!

In serata una di esse, Sofia, la moglie di un pittore nevrastenico, mi telefonò:

—Grande novità!

—Che sarebbe?…

—Imàginati! ho detto a mio marito che vai in Egitto e che saresti felice se venissimo anche noi. Da principio è stato molto incerto, capirari… ma gli ho esaltato le emozioni artistiche che proverebbe laggiù: la vegetazione tropicale… le palme… i tramonti… le mummie… Basta! Ha acconsentito! Pensa! pensa, che gioia!

—Che gioia!—feci eco flebilmente.

La stessa sera arrivò mia cognata tutta trafelata e giuliva.

—Figurati! Gino è d'accordo!!

—È d'accordo? Con chi?

—Ma con noi! Gli ho detto che mi avevi





tanto pegata di accompagnarti, e poichè lui il mese prossimo deve andare a Londra e non gli piace lasciarmi sola… Insomma, è deciso! Che gioia! che gioia!

—Ah sì! Che gioia!

In quell'istante il telefono squillò.

—Sono io! sono Ortensia! Mia cara! Veniamo anche noi. Piero è entusiasta dell'idea. Ti ringrazia tanto d'averglielo proposto. Prenderà le sue ferie adesso invece che in agosto. Oh… e poi verrà anche l'ingegnere… ma sì, sai bene, Armandi… quel giovane ingegnere, tanto nostro amico!… L'Egitto è sempre tato il suo sogno.

Alla stazione la sera della partenza, tutta una folla era radunata davanti alla carrozza dei vagoni-letto del treno di Trieste. C'erano tutti i miei amici, e anche gli amici degli amici che partivano con me.

Risate, auguri, frizzi, raccomandazioni

—Abbracci alle Piramidi!

—Salutami la Sfinge!

—Attenti ai coccodrilli!…

Dalla carrozza vicina si sporgevano volti curiosi.

—Ma che cosa c'è? Perchè tanto chiasso e tanta gente?

Qualcuno rispose:

—È una scrittrice che va ne deserto a cercare la solitudine e il silenzio.

Siamo a bordo dell'Helouan, snella ed agile levriera dei mari.

Cielo azzurro; acque danzanti frisées au petit fer.

Per tre volte il fischio stridulo e dolorante del battello annunzia il suo distacco dalla riva. Appoggiata alla ringhiera guardo la passerella che lentamente si solleva.

Trieste, addio!… L'Helouan scivola via dalla banchina con dolcezza dignitosa.

Mi guardo intorno. Per quanto il timore di rinnovati torbidi nazionalisti in Egitto abbia trattenuto gran numero di viaggiatori, a bordo vi è la solita accolta di tipi disparati venuti da ogni parte del mondo. Oltre la comitiva d'amici partiti dall'Italia con me—Flora e mia cognata; il pittore nevrastenico e sua moglie; Ortensia col marito e l'ingegnere—che ora, radunati sul ponte chiacchierano, discutono e ridono vi è un pallido e chiomato giovane dell'Uruguay che va in Palestina a portare una bandiera al sacro «Hortus Conclusus»; vi sono alcuni tedeschi, tra cui un conte prussiano, fosco ed accigliato, che accompagna verso le calde sabbie di Assuan la sua giovane sposa ammalata di petto; vi sono le solite inevitabili americane, e pochi inglesi.

Uno di questi anglo-sassoni, un uomo ancor giovane, basso e tarchiato, passeggia continuamente in su e in giù colle mani in tasca e guarda tutti con un'aria lievemente sprezzante; nel viso abbronzato, gli occhi, molto vicini, lo fanno un poco assomigliare a una faina o a un furetto. Si dice che sia un personaggio importante, ma nessuno sa il suo nome.

Due giovani persiani in tarbush—visi d'avorio antico, occhi di fuoco e di velluto—si tengono severamente appartati; forse per timore di scortesie occidentali.

Finalmente vi è un piccolo gruppo di eminenti personalità torinesi, che rappresentano il fino fiore dell'intellettualità, della forza e della ricchezza d'Italia. Li accompagna un dotto professore d'Università, di cui il nome, già reso illustre nella Storia dell'Arte da suo padre, è noto e caro a noi tutti.

Mentre m'avvio verso la fiorita veranda a poppa, mi colpisce l'orecchio un canto lento e grave, pieno di nostalgica malinconia.

—Dove eantano?—chiedo a un ufficiale di bordo che passa in quel momento.

—Nella quarta classe. Sono centotrenta Sionisti che emigrano in Palestina. Vuole vederli? Vuole parlare con loro?

Egli mi precede per i complicati meandri del piroscafo finchè giungiamo sotto coperta in mezzo ai cantori.

Sono tutti giovanissimi: occhi lucenti, capelli ricciuti, e il caratteristico profilo curvilineo del popolo eletto e da secoli disperso. Vi sono tra loro cinque o sei ragazze, quasi bambine ancora. Tutti si accostano curiosamente, mi circondano con timidi saluti:

Grüss Gott… guten Tag!… Chiedo ad uno che mi sta vicino:

—Siete tedesco? O polacco? Quello mi risponde, altero:

—Sono ebreo, signora.

Un altro soggiunge:—Però veniamo dalla Polonia.

Io, ignara di politica polacca e un poco intimidita da tutti quegli occhi aspettanti fissi in me, osservo:

—Ho conosciuto un vostro illustre connazionale: il grande artista Paderewsky.

Un silenzio glaciale accoglie la mia frase. Poi una ragazzina muove avanti d'un passo ed esclama:

—Paderewsky è nostro nemico!

Mi scuso e mi dolgo. Allora con veemenza e passione quei giovani mi narrano le loro sofferenze, il loro spasimo, la loro speranza di ritrovare e di ricostituire finalmente la patria antica.

Li lascio, salutandoli con fervido augurio, mentre essi riprendono il mesto ritmo delle loro canzoni.

Risalgo sul ponte e prendo posto nella mia seggiola a sdraio accanto a un blando e aristocratico signore dai baffi bianchi, che legge un libro (ne scorgo il titolo: «Fumée d'Opium», di Claude Farrère). Cortesemente egli lo chiude e dopo pochi istanti mi rivolge la parola con un accento prettamente parigino.

Allude alla politica internazionale e chiede la mia opinione sull'atteggiamento inglese nel Sudan e sulla Società delle Nazioni.

Io mi affretto a dire dell'uno e dell'altra tutto il male che penso; ed egli allora, con un sorriso amabile, si presenta: è Lord Meston, membro del Consiglio della Società delle Nazioni, che si reca nel Sudan per incarico del Governo inglese. Tableau!

Il medico di bordo che ha udito la nostra conversazione mi dice sommesso in italiano:

—Lei si farà espellere dall'Egitto prima ancora di esserci arrivata!…

Fortunatamente in quel momento rimbomba il sonoro gong che ci chiama a colazione; ed io, lieta di sfuggire a Lord Meston (che d'altronde mi saluta con sorriso amico: gli inglesi amano la franchezza!) entro, con tutti gli altri, nella gaia sala da pranzo. Vedo con piacere commisto a una certa trepidanza, che mi è stato riservato il posto d'onore alla destra del Comandante. A Trieste prima dell'imbarco qualcuno mi ha detto:—Il Capitano Fabiani è il miglior navigatore della Linea; ma è un uomo d'indole ferocemente «orsina!»—Ed ora, prendendo il mio posto accanto a lui, mi chiedo quali argomenti di conversazione potrò trovare per blandirlo ed ammansirlo. Anzitutto mi prefiggo di non parlargli nè del tempo, nè del mare, nè del barometro, temi aborriti da ogni marinaio…

Ma ecco che le mie amiche dall'altra parte della tavola già lo assalgono con una tempesta di domande:

—Comandante! Che tempo avremo oggi? E stanotte? E domani?… Il mare come sarà?… Il barometro è alto? È basso? Sale? Seende?…

Il Comandante risponde a tutte con un benevolo e paziente sorriso. E il mio timore di lui svanisce.

Le mie amiche passano subito dall'argomento della meteorologia a quello della toilette.

—Io non ho portato che vestiti di mussola, —dichiara Flora.—M'hanno detto che in Egitto fa un caldo da morire.

—Ed io non ho portato che maglie e pellicce, —ribatte mia cognata.—M'hanno accertato che al Cairo ogni notte si gela.

—A me l'impiegato dell'Agenzia Cook ha raccomandato di non portare che un casco e una spolverina—geme la moglie del pittore; —ed ora apprendo che al Shepheard's Hôtel si fa un lusso sfrenato.

A tavola in faccia a me siede «il personaggio» inglese dagli occhi di furetto; alla sua sinistra una formosa americana di Baltimore.

Noto che essa lo interroga con un'espressione d'ansia repressa.

—E allora? Mi dica!… allora?

—Allora,—risponde con calma l'inglese, servendosi ampiamente d'antipasto,—appena trovato quel mucchio di pietre rivelatore, ci siamo messi a scavare, a scavare in tutte le direzioni. Scava ad Est… niente. Scava ad Ovest… niente. Scava a Nord… niente! Lord Carnarvon s'impazienta:—Smettete!—comanda. Ma io mi ostino. Scavo a Sud…

L'inglese s'interrompe per mangiare una sardina, mentre la sua interlocutrice lo contempla estatica con un'oliva già da tempo in bilico sulla forchetta.

—Scavate a Sud?…

—Scavo a Sud, e trovo…

L'americana rinuncia all'oliva e la ridepone nel piatto.—Che cosa trovate?

—Ve lo dirò più tardi.—E con una risata lievemente canzonatoria l'inglese continua il suo pasto.

Mi volgo al Comandante:—Chi è quei signore in faccia a noi?

—Ma come? Non lo sa? È Carter.

—Carter! Howard Carter!?

—Precisamente.

—Quello della famosa tomba di Tut…

—Proprio lui.

—Ma io lo credevo morto!

Il Comandante sorride.—Come vede, è vivo e sta benissimo.

Infatti Howard Carter sta bene e, rotto l'incognito, si presta di buona grazia alla collettiva ammirazione e curiosità. Reduce dalle sue cinquantasette conferenze in America, egli è avvezzo ad essere il personaggio in vista, «le lion» festeggiato e ascoltato. Quindi, finita la colazione e risaliti nella sala da fumare a prendere il caffè, gli facciamo cerchio attorno, ansiosi di ascoltare dalle sue labbra stesse la narrazione delle sue sensazionali scoperte.

Uno dei presenti, male informato come me, mormora sommesso:

—È strano! Avevamo l'idea che fosse morto…

Carter ha sentito, e ribatte con un sorriso:

—Non io. È lord Carnarvon ch'è morto.

—Per maleficio del violato re?—chiede nervosamente la signora americana.

—Mai più!—dice Carter, accendendo una sigaretta—È morto d'erisipola e di polmonite.

L'arida risposta m'impressiona. Penso alla fortuna toccata a questo modesto ex-impiegato dell'Ufficio degli Scavi, che colla scomparsa del suo generoso patrono è balzato di colpo in vetta alla notorietà mondiale. Ma egli già ha cominciato il suo racconto:

—Erano le undici di notte… una notte di luna… quando d'improvviso intoppai nel primo scalino della tomba che da sei anni cercavo…

—Ah!—all'americana sfuggì dal petto l'irrefrenabile esclamazione.

—I miei arabi ristettero di botto, alzarono gli occhi e le braccia al cielo, e intonarono un canto ad Allah.

Una pausa; poi Carter continuò:

—Debbo dirvi che ai primi di quell'anno mi ero recato al Musky, il vecchio bazar del Cairo, in un negozio d'antichità. Stavo per comperare un oggetto qualsiasi, allorchè mi colpì l'orecchio il canto d'un canarino appeso ne retrobottega. Uscii dal negozio senza aver comperato nulla.

Dopo questa importante dichiarazione Carter tacque per sorseggiare lentamente il suo caffè. Noi non gli togliemmo gli occhi da dosso.

Indi riprese:

—Strano a dirsi, la voce di quel canarino mi perseguitò tutta notte nel sonno…

—A-a-h!—Un altro tremulo sospiro dell'americana.

—L'indomani tornai dall'antiquario. Non comprai antichità, comprai quel canarino. E la sera stessa presi il treno per Luxor. Ebbene: più mi avvicinavo alla pianura tebaica e più forte cantava il canarino…

—Anche di notte?—domandò il pittore nevrastenico.

—Ssst!—lo zittimmo noi, sdegnati dell'interruzione.

—… E più mi avvicinavo agli scavi e sempre più forte cantava,—continuò Carter.— Durante tutti gli ardui lavori di quei mesi quell'uccello cantò e trillò come in un crescendo d'estasi. Ma ecco,—il narratore abbassò la voce—ecco che il giorno in cui aprimmo la cripta, quel canarino tacque d'un tratto, e rimase muto fino al momento che ai nostri occhi apparve il sarcofago! Allora improvvisamente si rimise a cantare a squarciagola. Ma nell'ora suprema…—qui Carter fece una pausa molto drammatica e noi tutti trattenemmo il fiato—nell'ora suprema in cui io rompevo i sigilli del cofano d'oro che rinchiude de l'effige del Faraone, ecco giungere correndo un negro che grida: «Il canarino…»

—È morto!—sfuggì detto all'americana.

Carter aggrottò le ciglia. Non gli garbava che gli si rovinasse il suo effetto.—«Il canarino… è stato mangiato da un cobra!»

Nel silenzio che seguì nessuno osò fiatare.

—Strano a dirsi,—riprese Carter con voce cupa,—quando aprimmo il cofano, là, sulla fronte della maschera d'oro che ricopre il Faraone, vedemmo scolpito, tra freschi fiori di loto perfettamente conservati… il sinuoso contorno d'un cobra!

Tacemmo, impressionatissimi dalla fantasiosa e commovente narrazione. Allora con quella speciale mentalità anglo-sassone che ama il dileggio, e si compiace di volgere in ischerzo il sentimento e la commozione altrui, il narratore si affrettò a soggiungere:

—Ed ora, volete sapere quale fu la prima effige che trovai scolpita sul regale sarcofago? Era… il ritratto di Charlot!

—Charlot!!

—Charlot, Proprio lui!—motteggiò Carter. —Charley Chaplin in persona, coi suoì piccoli baffi, le sue grandi scarpe e il suo bravo cappello melone.

Dopo un attimo di incredulo stupore gli inglesi presenti, approvando la canzonatura, proruppero in una grossa risata; ma l'americana, asciugandosi gli occhi ancora lagrimosi per la morte del canarino, parve alquanto urtata.

Quanto a me, confesso che nella mia mente il canarino aveva già assunto le proporzioni di un «canard»; e pensai che probabilmente quell'ibrido volatile era stato servito agli americani in tutte le cinquantasette conferenze.

Fu a questo punto che si avvicinò al nostro gruppo il professore di Storia d'Arte dell'Università di Torino, l'egregio Lionello Venturi, e rivolse a Carter alcune domande.

—Vuole dirci qual'è l'importanza della Tomba di Tut-Ankh-Amen in rapporto alle tombe scoperte prima? Quale posto occupano nella storia dell'arte egiziana gli oggetti trovati da Lei?

—Un posto modesto—ammise Carter.— Molte tombe già aperte sono più importanti di questa.

Ma ad altre domande di carattere scientifico che gli rivolse cortesemente il professore, Howard Carter rispose evasivamente, e riprese a narrare le sue barzellette.

Io non posso a meno di confrontare la rumorosa notorietà di questo giovane cui i suoi connazionali hanno fatto una così enorme fama, col silenzio che avvolge uno scienziato nostro, grande e modesto, cui sono dovute delle scoperte di ben altra importanza.

Nel vecchio palazzo freddo e polveroso del Museo Egizio di Torino—ch'è pure uno dei primi musei del mondo—Ernesto Schiaparelli, quasi ignoto all'infuori della ristretta cerchia di dotti egittologi, vive e lavora in silenziosa solitudine ed austerità.

Chiuso nella penombra di quella gelide sale, egli pensa forse con dolore, con struggimento, alle scintillanti rive del Nilo, alle dorate sabbie di Tebe, alle luminose vallate che a lui —degno—svelarono i loro millenari misteri. Ripensa le fatiche eroiche, le notti epiche… i suoi poveri fellahîn che lo adoravano come un dio… Forse rimpiange la meravigliosa impresa di Abydos che gli era stata affidata; Abydos, di cui gli splendori ancor nascosti furono dal Governo Egiziano profferti a lui, alla sua mirabile attività, per la maggior gloria d'Italia…

Ahimè! Quando la spedizione era già pronta alla partenza, un cambiamento di governo, l'avvento di un nuovo ministro, la arrestò, la vietò.

«Ma che idea, voler andare a scavare in Egitto, con tutto quello che c'è da fare qui!…»

Ernesto Schiaparelli si arrese; la missione non partì.

E la gloria delle scoperte di Abydos non fu dell'Italia.









Come un sogno passa il resto della traversata.

L'isola degli Incanti, Creta, sorge per breve ora da un mare di raso cerulo; Monte Ida, coronato di neve, erge la vetta luminosa nel cielo vespertino… Qui nacquero gli Iddii della Grecia; qui nacque la poesia dei miti antichi…

Mi torna al pensiero il grido del poeta morente:

«Oh Mother Ida, hear me 'ere I die!…»

Ma già i pendii azzurrini e le rosate vette si attenuano nella lontananza… si perdono… svaniscono…

Alessandira. Un pandemonio! Orde di demoni neri in turbante e camicioni bianchi si precipitano a bordo gesticolando e gridando. Si slanciano verso di me: afferrano tutte le cose mie, bauli, valigie, ombrellino, cappelliera, borsetta… Io cerco di spiegar loro che tutto è ancora aperto e che non trovo le chiavi, ma essi scuotono il capo:

«Malesh, malesh!»—gridano raucamente (imagino che quella parola voglia dire «non capisco!») e spariscono giù per la scaletta di bordo.

Scendiamo tutti nell'indescrivibile baraonda della dogana, tra urlanti facchini, interpreti, guide, agenti, funzionari, portieri d'albergo, che tutti insieme gesticolano, gridano e litigano. Scorgo qua e là, tra montagne di bagagli altrui, le cose mie, e le addito disperatamente a gente che non ascolta. Intravedo un enorme negro che va in giro colla mia cappelliera sulla testa e infilata al braccio la mia borsetta…

Non so come io riesca alfine a ritrovare tutto, a riavere tutto; certo apprendo fin d'ora a confidare nell'onestà araba; onestà che a mio riguardo non si è mai smentita.

Da parte dei funzionari in fez incontro poi una cortesia squisita; quando alle loro svariate interrogazioni e indicazioni io rispondo «Malesh! Malesh!» essi sembrano divertirsi assai; e senza aprir nulla mi lasciano passare direttamente nell'aspettante treno del Cairo.

Qui trovo che i miei foschi portatori mi hanno riservato uno scompartimento; mi chiudono dentro a chiave; poi, con larghi sorrisi, toccandosi la fronte e il cuore, se ne vanno via.

Quando Allah vuole, il treno parte; ed io mi appoggio all'indietro tra i cuscini con un sospiro di gioia. Eccomi dunque in Egitto!… Questo pensiero mi agita, mi commuove; già mi sento afferrare i nervi dalla sacra e oscura forza di questa mistica terra.

Spio attraverso ai vetri. È notte; una meravigliosa notte orientale col cielo tempestato di stelle fino all'orizzonte. Traversiamo un'arida e malinconica pianura su cui appare di quando in quando, grigio e senza rilievo, un villagetto arabo: poche casupole di fango, senza tetto, radunate intorno a una palma.

Lo squallore stesso del paesaggio ha una sua desolata poesia.

Già parmi udire le voci profonde di immense solitudini, i cavernosi echi di un'epoca perduta. Mi sembra che il deserto stenda le sue pallide mani per attirarmi a sè…

Un colpo secco alla porta vetrata del corridoio mi scuote: è un ferroviere arabo che entra e mi dice qualcosa con voce agitata.

Io rispondo al solito:—«Malesh!»

Tale risposta pare stupirlo assai.

Sopraggiunge un altro impiegato, più loquace ma non più comprensibile; ed anche a lui ripeto l'unica parola araba di cui dispongo: —Malesh!

—«Malesh?» What do you mean by «Malesh?» —esclama lui in inglese.—Io vi dico che il treno brucia, e voi rispondete «non importa?»

Così apprendo il significato di quella parola con la quale finora ho saputo così bene trarmi d'impaccio; parola che poi odo ripetere intorno a me ad ogni istante. Gli arabi la usano più d'ogni altra nella loro fatalistica rassegnazione. Qualunque cosa accada, a loro o ad altri, si stringono nelle sottili spalle:—Non fa nulla! Non importa!… «Malesh!»

Frattanto il treno s'è fermato in aperta campagna, e noi tutti che viaggiamo nella carrozza incendiata scendiamo precipitosamente. Poi, nella dolce aria notturna aspettiamo, con le nostre valigie accatastate all'intorno; mentre la carrozza che già manda nubi di fumo, viene staccata dal treno e abbandonata…

Verso la mezzanotte giungiamo al Cairo.

Tutta la comitiva delle mie conoscenze ha deciso, come me, di scendere al Shepheard's Hôtel; e quando entriamo nell'atrio di quel sontuoso albergo, coi nostri visi stanchi e con l'anima crepuscolare di chi ha fatto un lungo viaggio, ci troviamo in piena festa da ballo.

Luci multicolori, toilettes risplendenti, jazzband pulsante ed assordante…

Passiamo rapidi attraverso tutto quello sfavillìo; e nell'ascensore salutandoci ci diamo appuntamento per la mattina alle otto.

La mia camera vasta e tranquilla dà su un cupo e tacito giardino. Ben presto il lontano jazz-band si attenua per me in una dolce ninna-nanna…

Mi sveglio presto e splanco i vetri al gran sole africano, alla fine aria purissima che m'inebbria.

Si batte piano alla mia porta. Apro. Un solenne e gigantesco arabo in turbante e candide vesti fluttuanti s'inchina fin quasi a terra.

—Bath is ready, ma' am.

—Thank you.

Quel mio ringraziamento pare stupirlo. Il grave volto scuro s'irradia di un sorriso abbagliante. I negri non sono avvezzi ad essere ringraziati.

Dopo il bagno mi vesto rapida, bevo una tazza di squisito thè e traversando il terrazzo dell'Hotel scendo nella rumorosa allegrezza della strada.

Subito una folla di venditori e di guide mi circonda: sono figure pittoresche e magnifiche nei loro smaglianti drappeggi. Vogliono vendermi mille cose: collane, braccialetti, tappeti, cartoline, scarabei. Vogliono condurmi in mille posti: alla Cittadella, alle Piramidi, ai Musei, alle Moschee, ai Bazar, alle tombe dei Califfi…

Lady! Io sono Moise! Vieni con me: sono Moise!

Lady, non prendere Moise, prendi Hassan! Io sono Hassan! Hassan ti conduce a comperare antichità per cinque sterline. Anche per cinque piastre!

—Non ascoltarli, Lady! Tu ascolta Yahia, Mohamed Yahia, dragomanno di Lord Kitchener! Non perdere occasione di avere Mohamed Yahia, dragomanno di Lord Kitchener! Eccoti mia carta da visita!

—Senti, Lady, senti,—mi sussurra un altro, —io ti conduco stasera a vedera danze egiziane… poi con policeman in Quartiere del Pesce… terribile Quartiere del Pesce!… e in fumeria di hashish…

D'improvviso compare un poliziotto arabo che si slancia su loro roteando il manganello, e con pugni e grida li scaccia via tutti.

M'incammino allegramente senz'altra molestia; ma appena giunta alla vicina Place de l'Opéra eccoli di nuovo, sbucati da chissà dove, tutti intorno a me.—Ricordati di Moise!… Di Hassan!… Di Mohamed!… Pensa a Lord Kitchener…

Io dico di sì a tutti, aggiungendo:

—To-morrow!… demain!… morgen!… domani!

Allora ridono con bianchi denti ed occhi scintillanti, e tornano indietro verso il Shepheard's in cerca d'altra preda.

Ma sono quasi le otto; ricordo il convegno dato iersera agli amici: e torno indietro anchi'io.

Eccoli gia sulla terrazza che m'aspettano: Flora, floreale ed estiva; mia cognata in golf con la pelliccia sul braccio; Ortensia in spolvena e casco; menre il pittore nevrastenico ha inaugurato per l'occasione un tarbush scarlatto, senza dubbio coll'idea d'intonarsi pittoricamente al colore locale.

Mi accolgono con liete esclamazioni.

—Ti cercavamo! Tutto il programma per oggi e per domani è già stabilito. A momenti saranno qui le automobili. Dunque andiamo a vedere le Moschee e la Cittadella; poi alle Piramidi e alla Sfinge. Di là a Heliopolis e Sakkàra. E domani sera ritorniamo qui.

Qualcosa dentro di me si ribella. Sento che non posso e non voglio andare in allegra comitiva automobilistica a vedere tutte quelle cose di cui la sola evocazione mi fa tremare il cuore.

Come sfuggire alla gaia e chiassosa compagnia?

Addueo un improvviso mal di capo. Nessuno ci crede.

Tuttavia, nonostante le loro proteste, vado a rinchiudermi nella mia camera e non ne scendo finchè non ho udito affievolirsi e perdersi nel frastuono della via il rombo delle loro automobili.

Io, per oggi ho un'altra mèta. Scendo al vestibolo e interpello un impiegato svizzero dell'hôtel.

—Sa dirmi dove si trova in questi giorni Zagloul Pascià?

—Zagloul!…—Egli ripete quasi costernato il nome del caduto ministro nazionalista, e si guarda attorno con aria diffidente come per vedere se qualche personalità inglese ci ascolta. Poi dice a bassa voce:—Dev'essere al Mena-House Hôtel.—E soggiunge:—prigioniero degli inglesi.

—Prigioniero?!

—Praticamente, se non ufficialmente— dice lo svizzero con un sorriso.—So che è stato pregato di non uscire dall'albergo senza il permesso delle autorità britanniche.

Io rifletto un istante.—Quell'albergo dove si trova?

—Sull'orlo del deserto.

—Molto distante di qui?

—Un'ora.

La mia decisione è presa; andrò al Mena-House Hotel a chiedere notizie del grande leader, che fu sino a ieri l'idolo del popolo egiziano, ed è oggi abbattuto sotto l'accusa di aver incoraggiato gli assassini del sirdar britannico, Sir Lee Stack. Nessuno crede troppo a questa accusa; certo non quelli che conoscono la ferrea moralità e il lungimirante ingegno del nobile e fiero Zagloul.

A Parigi durante la Conferenza della Pace ebbi l'occasione di conoscerlo; io alloggiavo al Grand Hotel dove la Delegazione Egiziana occupava il sontuoso appartamento del primo piano. Rivedo ancora, ondeggiante in quel Jardin d'Hiver, la folla eterogenea di tante diverse razze e nazionalità; e torreggiante sopra a loro l'alta figura ascetica di Saad Zagloul, gli occhi profondi corruscanti di luce cupa sotto al rosso vivo del tarbush.

Egli allora mi aveva invitata a un indimenticabile banchetto. Eravamo tredici commensali: io l'unica donna. I dodici uomini erano sudditi rappresentativi dei «paesi oppressi dalla Gran Bretagna»: l'Egitto, l'Irlanda, l'India, l'Africa del Sud…

Oggi dunque avrei tentato di rivedere il mio anfitrione d'allora.

Feci cenno a un' «arabyeh» ferma davanti al Shepheard's; vi salii, e i due cavalli snelli e nervosi partirono al gran trotto.

In pochi momenti il rumoroso centro della città è lonatano dietro di noi. Ci avviciniamo a un fiume maestoso, immenso, solcato da innumerevoli vele latine; è il Nilo! il sacro Nilo, di cui le dorate acque cullarono nel cestino di giunchi il piccolo Mosè…

Traversiamo due ponti; oltrepassiamo l'isola di Ghezira e svoltiamo in un larghissimo viale, lungo e diritto, che pare non abbia fine: in duplice filare le alte acacie—che qui chiamano la «barba del Profeta»—vi gettano la loro ombra tenue.

Ora le case si diradano. A destra e a sinistra della strada si stende una landa bassa, sterile e desolata.

Ecco i primi cammelli, lenti e dignitosi, che muovono con passo solenne verso il deserto; sembrano immensi; sono guidati da bambinetti laceri e scalzi. Passano dei beduini seduti di fianco sulla schiena di asinelli bianchi tutti adorni di nastri e di collane variopinte. A piedi, nella polvere, camminano le donne: misteriose figure ammantate di nero, che hanno un portamento maestoso, una dignità regale.

Ogni tanto—orrenda macchia sul biblico paesaggio!—passa un arabo, nell'ampio barracano svolazzante, pedalando su una bicicletta; poi, nel turbine di polvere smossa, la carovana di cammelli, di donne, di beduini e di bimbi riprende la sua orientale poesia.

Ma che cosa scorgo laggiù oltre il termine del viale? Laggiù in fondo all'arida spianata polverosa? Che cosa si erge nel cielo, lontano ancora, ma già immenso di poesia e di grandiosità?

Con un tuffo nel sangue comprendo ciò che vedo. Sono le Piramidi! le portentose Piramidi di Gizeh, sull'orlo del deserto libico.

Ma come! di già? Tanto attese, e pure improvvise, mi sorgono dinanzi agli occhi; istintivamente congiungo le mani con un senso di reverente stupefazione.

L'arabyeh vola… vola nella sabbia che turbina… Ormai ai due lati della strada non vi sono più che ondeggianti dune grigio-dorate; le Piramidi si ergono sempre più enormi, sempre più vicine…

Ma d'improvviso, scartando dal viale con una larga curva a destra, la carrozza sale verso una folta macchia d'alberi, palmizi e sicomori; nel centro biancheggia una casa: è il Mena-House Hôtel.

Entro nell'ampio vestibolo dove, nonostante il calore estivo della giornata, fiammeggia nell'aperto caminetto il gran fuoco caro agli inglesi. Noto infatti che gli ospiti, seduti o sdraiati nelle ampie poltrone, sono tutti anglo-sassoni; sui loro volti è diffusa quella pacata e superiore indifferenza che caratterizza il turista britannico all'estero.

Pensando allo scopo di questa mia gita, mi sento un po' mancare il cuore.

Guardo l'amabile e rigido direttore svizzero; guardo i corretti camerieri europei; guardo i servitori negri dalle chiuse faccie impenetrabili…

A chi potrò chiedere di Zagloul Pascià?

A chi potevo chiedere di Zagloul Pascià?

Invano avevo cercato con lo sguardo l'alta figura del leader egiziano, ospite e prigioniero in questo lussuoso albergo. Non era apparso nell'Hall e neppure nella sala da pranzo all'ora della colazione.

Sentivo che in questo ambiente non era prudente domandare, nè facile sapere, di lui. Il Mena-House, come tutti i grandi alberghi d'Egitto, è diretto da avveduti e sagaci svizzeri cui sta a cuore so prattutto la clientela inglese. Perciò chiunque dimostrasse simpatia o anche interessamento alla questione nazionalista egiziana od al suo capo (di cui il nome è severamente «taboo!») creerebbe intorno a sè un'atmosfera di diffidenza, se non addirittura di sospetto; e arrischierebbe d'essere invitato a lasciare immediatamente la terra dei Faraoni quale ospite non desiderabile.

Così meditavo, sfogliando distrattamente le pagine d'un vecchio «Daily Graphic», nell'atrio di quel meraviglioso albergo sito sul margine del deserto. Ed ecco che venne a prendere posto accanto a me un ufficiale inglese: giovane, biondissimo, con gli occhi d'acciaio e l'aria sdegnosamente apatica che in Inghilterra denota una buona educazione.

Mi balzò in mente l'audace detto:

«Beard the lion in his den!»

«Affronta il leone nella sua tana!»

E perchè no? Perchè non chiedere addirittura a un ufficiale britannico notizie del più fiero avversario della Gran Bretagna?

Deposi il «Graphic» e volsi lo sguardo alle finestre irradiate dal gran sole africano; indi profferii una di quelle osservazioni brillanti che è d'uso scambiarsi tra inglesi all'estero:

—Il clima di questo paese è assai piacevole.

Lo dissi con quell'accento languido e gutturale che si usa tra anglo-sassoni ben nati: il cosìdetto Oxford drawl, che si ottiene impostando la voce molto in gola, strascicando le sillabe, e pronunciando le consonanti come se si avesse un raffreddore di testa. Questo modo di parlare traccia la linea di demarcazione tra le persone della buona società e il «vile volgo».

—Il clima sarebbe tollerabile,—mi rispose lui, con la stessa intonazione.—Ma la popolazione indigena è nauseante.

Seguì una pausa ch'io mi guardai bene dall'interrompere.

Fu lui che riprese:

—Quale impressione le ha fatto il vecchio fungo laggiù?—E con la testa accennò alla vetrata in direzione del deserto.

—Non capisco.

—Non ha notato che la Sfinge vista di dietro pare un enorme fungo?

Aoh!… la Sfinge?—feci io languidamente. —Non l'ho ancora veduta.

Con questa dichiarazione sento di essere salita molto in alto nel suo concetto; una viaggiatrice che viene in Egitto e non si precipita a vedere la Sfinge deve essere invero una persona superiore.

—Probabilmente ne rimarrà delusa,—osserva lui.—C'è d'altronde chi dice che la Sfinge non sia una femmina ma un maschio. Scavando nella sabbia attorno s'è trovata la sua barba.

—Aoh?

—Si; una di quelle barbe a treccia che i









Faraoni si attaccavano al mento nelle occasioni di grande solennità. Questa della Sfinge pare fosse lunga quindici metri!

Io risi. E rise anche lui. Sentii ch'era giunto il momento d'«affrontare il leone». Quindi chiesi a bruciapelo:

—Che ne è di quell'ex-ministro nazionalista caduto in disgrazia? Si chiamava… come si chiamava?… Zig?… Zag?…

—Zagloul? Era qui fino a ieri. Si è ammalato gravemente e gli è stato concesso di tornare nella sua villa al Cairo.

—Ammalato?!

—Sì. Povero visionario!… Ormai egli non è più che il campione moribondo d'una causa morta. Non si ha idea.—continuò il giovane, —che cosa fosse l'esaltazione degli egiziani per lui. Nelle strade non si udiva che gridare: «Viva Zagloul!» e nelle case si tenevano i lumi accesi davanti al suo ritratto. Per fortuna, il colpo che ha freddato Sir Lee Stack è stato mortale anche per Zagloul e i suoi sogni di un Egitto autonomo. Possiamo star tranquilli che per cinquant'anni non se ne parlerà più.

—Non mancano—osservai blandamente,

—i calunniatori che fanno delle insinuazioni…

—Già! già! dicono che il Sirdar l'abbiamo ucciso noi!—frise l'ufficiale.—E sempre così. Quando per caso accade un fatto che indirettamente giova al nostro Impero, siamo sempre noi stessi che l'abbiamo istigato o compiuto!

—Tanto più in questo caso, vero? Dicono che il Sirdar era molto buono e che gli indigeni lo amavano. E poi… se non erro, Sir Lee Stack non era inglese…, era un irlandese, vero?

Non risponde; ma sento su me i suoi scrutanti occhi d'acciaio.

Mi alzo.—Basta! andiamo a vedere «il fungo».

E salutando con un cenno del capo, passo attraverso l'atrio ed esco dall'albergo.

Ferma sull'alta veranda mi guardo attorno. Non è ancora la stagione in cui i turisti dilagano per l'Egitto con ombrellini e veli, cannocchiali ed esclamazioni ammirative. Oggi ancora il deserto è deserto davvero. Nulla si muove sull'immensa spianata gialla stesa davanti a me. Solanto laggiù, all'ombra della Grande Piramide—macchia di colore vivido sull'ocra della sabbia—un beduino sonnecchia, sdraiato al fianco del suo cammello che, inginocchiato, mostra la paziente schiena adorna d'una sella scarlatta…

Contemplo l'arida spianata, tagliata soltanto ad est da un sottilissimo nastro smeraldino: lieve striscia di vegetazione che segna il percorso del Nilo, unica spennellata di verde in questa terra meravigliosa e spaventosa, dove non spunta un virgulto, non cresce un filo d'erba se non è irrigato! D'improvviso percepisco tutta la forza del recente ultimatum inglese. La sua minaccia di chiudere gli sbarramenti del Nilo Azzurro a centottanta miglia sud di Khartoum deviando il corso delle acque, m'appare in tutta la sua terribilità.

Comprendo l'angoscia di queste genti, di cui la vita stessa è afferrata alle sue fonti da una mano straniera. Basta che quella mano dia una stretta, perchè l'Egitto muoia!

Parmi di sentire l'ansito di questa terra, sterile ed assetata, a proposito della quale Austen Chamberlain, nella Camera dei Comuni, ha pronunciato testè il macabro bisticcio:

—Noi non vogliamo… affamarla colla sete!

No; non vogliono. Ma possono.

…E l'Egitto sente echeggiare cupamente nel suo cuore ogni colpo di maglio dato lassù all'enorme diga di Makwar a cui da quattro anni si lavora febbrilmente e che tra pochi mesi sarà terminata.

Mentre gli enormi fari elettrici che illuminano anche di notte quel titanico lavoro, pare scrivano in caratteri di fuoco sul cielo egiziano:

Ti potremo affamare colla sete!

Scendo dalla veranda dell'albergo, traverso il giardino, e m'avvio per la traccia polverosa che si perde nel deserto.

Eccomi tra le desolate dune ai piedi della Grande Piramide, l'immensa tomba che ventinove secoli prima di Cristo il re Cheope osò far costruire, quasi prevedesse che il suo regno durerebbe trent'anni e che i suoi centomila schiavi avrebbero il tempo di terminarla prima della sua morte.

Sopra un altipiano sassoso, sorge, in faccia ai quattro punti cardinali, quel prodigioso sepolcro: il monumento forse più antico, forse più colossale che mani umane abbiano costruito.

Piccole mani umane!… Povere gracili mani di schiavi, come avete fatto a smuovere anche uno solo di questi due milioni e mezzo di giganteschi blocchi di sasso? Recarli dalle lontane rive del Nilo e issarli uno sull'altro a così vertiginosa altezza?

Oh, migliaia di povere mani che migliaia d'anni fa compieste questo prodigio, che cosa avete avuto per vostro compenso? Soltanto il diritto di riposare e dissolvervi qui nella sabbia dove vi hanno seppellito?… Io voglio pensare, io voglio credere che altre angeliche mani, mani bianche che voi nella vita non avreste osato sfiorare neppure con lo sguardo, oggi e per sempre vi rechino fiori e balsamo, conforto e tenerezze.

Mentre sogno così, alcuni arabi che stavano sdraiati nell'ombra si alzano, si avvicinano salutando:

—Saida!… Saida!…

Un magnifico dragomanno in lunghi drappeggi arancini addita il fianco della priamide, e dice in francese:

—Guardate!

Alzo gli occhi e scorgo, in alto, in alto, a due terzi della facciata a nord, alcune macchiette nere che si muovono, che salgono lentamente, inerpicandosi per l'enorme muraglia gialla. Sembrano moscerini.

—Non vorreste—dice il dragomanno— salire anche voi?

—E come si può salire?

—Oh, non è difficile! Ogni gradino è alto poco più di un metro…

—Più di un metro!…

—Allora due di noi vi precediamo trascinandovi su per le braccia, mentre un terzo sta dietro e vi spinge in su.

Mi affretto a declinare l'invito.

—O preferireste forse entrare nella Piramide? È vero ch'è un po' scuro e che fa un caldo soffocante; ma una volta penetrata nell'interno, strisciando sulle mani e sulle ginocchia, lo trovereste molto interessante.

—Grazie! Grazie tante! Per oggi no. Forse domani…

—Domani! domani!—fa eco il dragomanno, sorridendo; e rivolto ai suoi compagni che già mi circondano, li conforta con la mia promessa:—Domani!… Bukra!

Aïwa!… Bukra! bukra!—fanno coro tutti, sorridendo e salutandomi.

E mi lasciano proseguire indisturbata.

M'inoltro trepida nel deserto. Qui nulla e nessuno; sacra e inviolata solitudine. Sotto il gran sole l'aria scintilla come satura d'uno spolverìo di gemme.

Ma la Sfinge? Dov'è? Perchè non la vedo? La cerco con lo sguardo, inutilmente.

Erti sull'orizzonte non vedo che i tre funerei giganti: Cheope, Khefren e Menkewre, che sembrano parlare tra loro di morte e di eternità.

Ma d'un tratto laggiù, ad est, ecco! la vedo. È lei, immane, favolosa, ambigua, sprofondata in una conca di sabbia; ed è dello stesso colore della sabbia che la circonda, che le sale d'intorno quasi per ricoprirla e nasconderla agli occhi dell'umanità.

Con uno strano battito di cuore mi metto a correre per giungere a lei—stolta ch'io sono!…

Essa è là da millenni, e per millenni resterà là; eppure mi par di dover correre, ansante e palpitante, per giungerle dinanzi più presto, per contemplare subito quel viso sfigurato, quell'enigma eterno, fonte di mille aneddoti, protagonista di mille drammi, bersaglio di mille beffe…

Mi torna al pensiero il mentecatto di Hitchens, che s'innamorò di lei perchè era l'unica donna di cui non fosse possibile indovinare il mistero. Egli ogni notte abbandonava la giovane sposa per correre qui a gettarsi nella sabbia ai piedi dell'eterna Silenziosa…

Anch'io, quasi senza respiro, cado nella sabbia davanti a lei. Cado? O m'inginocchio?

O Sfinge! O strano volto sfregiato, o creatura indefinibile, tu incuti nel mio spirito a un tempo pace e terrore; un senso della effimera vanità d'ogni cosa, e la trasecolante certezza di una perpetuità ultra-terrena…

Quanto tempo rimango così? Non lo so.

Il miracolo della Sfinge mi tiene immobile, ipnotizzata, nell'immensa solitudine, nell'immenso silenzio.

Il sole cade dietro alla Piramide di Khefren, e d'un tratto il deserto s'incendia. Il cielo è tutta una conflagrazione! La Sfinge, le Piramidi, la sabbia sono tutte d'oro, sono tutte di fiamma.

E il silenzio perdura; il silenzio del deserto che non somiglia ad alcun altro silenzio; un silenzio in cui si ascolta la muta voce dell'immensità.

L'incendio si spegne; l'oro si attenua. Il giorno e la notte si congiungono in un pallore acromatico, un pallore che scende dal cielo e s'unisce al pallore che sale dalla sabbia. Il mistero del crepuscolo avvolge il mistero della Sfinge.

E d'improvviso è notte.

Trasalisco, tremo!… Gli arabi m'hanno scordata; sono partiti silenziosi verso le loro capanne. Io sono sola in questo livido illimitato cimitero.

Un folle terrore m'assale; mi alzo e corro nella sabbia, sprofondando ad ogni passo… Le nereggianti piramidi incombono su me. Corro, ansante e tremante, verso la chiarità della strada maestra, verso la scintillante allegrezza della lontana città…

Dolce è il saluto arabo:

«Quando tu varchi la soglia, entra nella mia casa la felicità».

Vorrei fosse davvero così. Vorrei che ogni qual volta io varco una soglia amica, la felicità vi entrasse con me.

Quella mattina entravo nella casa di Zagloul Pascià; puntualmente alle dieci salivo l'ampia gradinata di marmo della sua magnifica villa nella strada che porta il suo nome— Sharia Saad Pascià Zagloul. Nel giardino, sotto a un porticato moresco, quattro o cinque servi arabi bianco-vestiti mi salutarono al passaggio.

La porta si aprì subito: ero aspettata. Un silenzioso domestico mi condusse attraverso il vestibolo nel vasto e luminoso salone arredato all'europea; e dopo alcuni istanti apparve un altro domestico, grave e pittoresco, recando su di un vassoio dorato una delicata e minuscola tazza colma di squisito caffè turco.

Si ritirò presso la porta, dove rimase immobile come una statua di bronzo finchè ebbi bevnto. Indi m'invitò a passare nello studio di Sua Eccellenza.

Zagloul Pascià m'accolse ritto accanto alla sua scrivania; in testa il rosso «tarbush» che gli arabi tengono sul capo come segno di rispetto, e che non tolgono nè per salutare, nè in casa loro.

Egli mi apparve tal quale l'avevo conosciuto a Parigi cinque anni prima: nè gli onori nè le disgrazie, nè il potere nè la prigionia, nè gli osanna nè i vituperî hanno alterato di una linea il forte viso lievemente olivastro, il fiero portamento della persona alta e magrissima, lo sguardo a un tempo indomito e inesorabile di quei suoi straordinari occhi infossati, occhi che sembrano scrutare fino in fondo l'anima di chi gli sta dinanzi.

Ebbe per me quel saluto grave e poetico, pronunciato senza sorriso, che mi commosse. Avrei voluto dirgli subito, impetuosamente, tutta la mia devozione, tutto il mio dolore per la crudele sorte che colpiva lui e il suo paese; non potei. Ma egli certo comprese; poichè al mio silenzio rispose d'un tratto il suo sorriso luminoso, così raro in quel volto austero e travagliato.

Accanto a lui, soave e bianchissima, con immensi occhi neri, stave una donna, che dava l'impressione d'essere insieme suora ed angelo tutelare: Madame Zagloul Pascià, che anch'essa mi salutò affettuosamente.

La conversazione si svolse in francese, lingua ormai ufficiale per gli stranieri in Egitto. L'inglese nessuno lo vuol più parlare.

—Eccellenza,—dissi,—vi porto il saluto di amici lontani.—E li nominai.

Egli ringraziò; e ricordò tutti, specialmente gli scrittori e i giornalisti d'Italia, che a Parigi gli avevano dimostrato viva simpatia.

A mia volta, chiesi nuove degli amici egiziani che avevo conosciuto; anzitutto del dottor Afifi, suo segretario confidenziale e recentemente suo ministro.

—Mi ha abbandonato,—disse Zagloul con grave semplicità.—Molti che nei giorni buoni erano con me, oggi mi hanno voltato le spalle.

è vero. Anche il giorno precedente avevo dovuto constatarlo a un ricevimento in casa di Madame Sharàui, la bella e ricchissima feminista egiziana, nota anche a Roma, che un tempo era la più ardente partigiana e apologista di Zagloul. Ero entrata in quello strano ambiente di donne sole—aristocratico «harem» modern style, in cui si fa della politica e dell'etica sociale—ignara degli odî e degli amori del giorno; e con stupore avevo udito l'esplosione di rancori, femminilmente illogici, contro il duce nazionalista. Ma come! Quel purissimo eroe che per il suo paese tutto aveva dato: le sue ricchezze, la sua libertà, la sua salute, e che, già innanzi negli anni, sfidava con indifferenza la prigionia e gli attentati alla sua vita, era oggetto di tanta esecrazione? Non lo potevo credere.

Ma la donne sono feroci. Al grande patriota e statista, martire della sua idea, esse non perdonano l'insucesso—quand'anche tale insuccesso sia dovuto a sleali macchinazioni e a tradimenti impossibili a sventare.

Questo avrei voluto dire a Zagloul con tutto il mio sdegno; ma lo sguardo d'accorata adorazione che sua moglie volgeva su di lui, mi rammentava ch'ero di fronte a un ammalato e che era doveroso lenire e non inasprire le sue ferite.

Presi dunque a parlargli del mio progettato viaggio in alto Egitto.

—Partirete presto?

—Subito, Eccellenza.

—Voi che siete stata amica di questo paese prina ancora di conoscerlo, vedrete dunque la mia terra, vedrete la mia gente… Vorrei— soggiunse, guardandomi pensieroso—che a voi si svelasse l'anima profonda dei miei poveri fellahìn, anima così nobile e così disconosciuta!

—Se me lo permettete, porterò ad essi il vostro saluto, Eccellenza.

Egli sorrise assentendo. Poi:

—Arriverete fino al Sudan?—domandò, mentre una nube gli oscurava la fronte.

Gli risposi ch'ero incerta.

—Come si può credere che l'Egitto abbandoni il Sudan?—esclamò lui, con occhi saettanti.—Quando la ferrea forza riuscì a strapparcene una parte, noi la riconquistammo a prezzo d'incalcolabili sacrifizî, profondendo sangue e milioni. Ed ora dovremmo rinunciarvi?

Rinunciare al Nilo da cui dipende la nostra vita stessa?—Il suo volto era impallidito. —Ma il giorno che ne dovessimo abbandonare ad altri anche una sola parte, l'Egitto sarebbe una nazione morta!

Le sue parole mi diedero una stretta al cuore. Quella mattina stessa avevo appreso che Lord Meston, mio compagno di viaggio nella traversata del Mediterraneo, recatosi al Sudan per incarico di un gruppo di capitalisti inglesi, era riuscito a gettare le basi di un accordo con gli Abissini, accordo che darebbe all'Inghilterra il completo dominio del Nilo, dalle sue sorgenti fino al mare!

Avrei voluto parlarne, ma non osai. Il pallore di quel volto martoriato mi suggellò le labbra.

…Il campanello già aveva trillato più volte, e di tratto in tratto venivano portati dei biglietti di visita di persone che chiedevano o attendevano udienza; Madame Zagloul faceva rispondere a tutti che Sua Eccellenza era sofferente e non poteva ricevere alcuno.

Volli accomiatarmi anch'io, ma egli mi trattenne.

Io non so nè voglio ripetere la nostra conversazione di quel giorno.

Trovai io forse qualche parola che fu di conforto ai loro cuori doloranti?

Non lo so. So che quando mi congedai, nelle grandi pupille della soave donna brillava









il pianto; e Saad Zagloul, stringendomi la mano, disse:

—Ritornate! Promettetemi di ritornare.

Uscii di là con l'anima sconvolta, pensando a tutto ciò che il grande statista egiziano aveva ideato e tentato, e che gli avversi fati avevano così spietatamente distrutto.

Mentre, ferma nell'atrio, aspettavo che il servitore arabo chiamasse la mia carrozza, udii un grande orologio battere con suono di cattedrale le ore. Macchinalmente contai i rintocchi….

Dodici?!…

Impossibile!

Alzai gli occhi al quadrante; le lancette non segnavano che le undici. L'orologio di Zagloul batteva dunque le ore in anticipo? Precorreva gli eventi?

Ciò mi parve quasi un simbolo.

E pensai:

—Il tempo inesorabile cammina. La fatidica ora giungerà.

Partii quella sera stessa, risalendo il Nilo: verso Luxor dai roseti sempre in fiore; verso Tebe dalle Cento Porte; verso Kom-Ombos dai Templi Gemelli; verso File, perla nelle azzurre acque sommersa; verso Assuan, l'antica Silene…

E da per tutto e a tutti portai il saluto di Saad Pascià Zagloul. Il suo nome era un talismano che apriva tutte le porte e tutti i cuori.

—Ma come? Tu conosci Saad Zagloul? Entra nella nostra casa e sii benedetta!

—Tu l'hai veduto?… Gli hai parlato?… Allah Yesallim-àk… Dio ti protegga!

Mohamed Yahia, il «dragomanno di Lord Kitchener», era divenuto la mia guida. Ed a lui dissi:

—Sappi, Mohamed, ch'io sono amica di Saad Zagloul.

Il suo viso si trasfigurò:—Che dici, Lady? «Amica di Saad Zagloul?»—Si chinò a baciare il lembo della mia veste.—Allora conosco il tuo cuore!

E il ragazzo nero che nella sabbia a fianco del mio cavallo correva, tenendo tra i denti un lembo della sua tunica strappata, si fermò di botto:

Saadi Pásha!… Tu lo conosci? Tu hai toccato la sua mano? Che Allah ti preservi da ogni male! Che la luce dei cieli sia con te!

Ora Yahia mi precedeva da per tutto annunciando in arabo:

—L'amica di Saadi Pásha!

Lo diceva per le strade, nei negozi, lo diceva a tutti, anche ai temibili «policemen» indigeni che girano per le vie facendo turbinare le loro lunghe fruste… Ed era intorno a me un subito fiorire di sorrisi, d'entusiasmi, d'ingenue esclamazioni.

Nel bazar di Assuan, dagli aperti negozi scintillanti, tutti uscivano a salutarmi; mi prendevano per le braccia, mi traevano qua e là.

—Amica di Saadi Pásha! Entra! entra!— e mi circondavano.—Quando lo rivedrai?… Portagli il mio saluto!… Ecco il mio nome!… Ecco il mio biglietto…—In un momento ebbi le mani piene di cartoncini e di foglietti; poi un negoziante, certo Hanafi Bey, staccò dalla sua vetrina una collana d'ambra e me la porse.

Volli pagarla; non ci fu verso: era un dono. Allora anche altri negozianti dai bazar vicini accorsero, chi con un filo di corallo, chi con un braccialetto, con uno scarabeo o un amuleto…

…Li ho qui davanti a me mentre scrivo, tutti quei doni fattimi in nome di Zagloul Pascià. E la loro vista m'intenerisce il cuore.

Siamo all'entrata della Grande Diga d'Assuan, la più colossale che esista al mondo.

Accompagnata dal conte Luigi di Valmarana, salgo su un piccolo trolley a due posti per traversare questo famoso «miglio di granito» che gli inglesi hanno lanciato sopra il Nilo.

…La carriola, spinta a mano da indigeni scalzi, parte a corsa rapidissima; ma dopo breve tratto rallenta, si arresta. I Nubiani che la spingono si rivolgono a noi con parole che non comprendiamo, e additano una folla di soldati in uniforme khaki che si concentrano, si addensano rapidamente nel centro del ponte come per sbarrarci il cammino.

Yahia, in piedi sul trolley dietro a noi, si china in avanti e annuncia:

—Non si può proseguire.

—E perchè no?

—Quelli,—addita la macchia khaki, gialla nel sole e traversata da balenii d'armi, —sono le truppe rimandate indietro dal Sudan in seguito all'ultimatum inglese. Sono d'umore cattivo, e non vogliono vedere gli stranieri.

Infatti notiamo che l'ammasso umano color d'ocra si avanza lentamente ma deliberatamente verso di noi. Sono uomini foschi e magnifici; quasi tutti di statura gigantesea, e armati fino ai denti.

—Pare davvero—osserva il conte di Valmarana, —che il loro atteggiamento non sia troppo conciliante.

—Sono ribelli pericolosi,—insiste Yahia.

—Hanno ricevuto l'ordine di deporre le armi e non hanno obbedito.

Io scrollo le spalle.

—Avanti! avanti! Noi siamo italiani, non inglesi; quindi non ci odiano, e non dobbiamo aver paura.

—Avanti!—ordina il conte.

E i Nubiani, avvezzi all'obbedienza, si rimettono a spingere il trolley, ma sempre più lentamente e mormorando a bassa voce tra loro.

Ora le prime file dei soldati ci sono vicinissime.

—È male! è male!—protesta Yahia dietro a noi.—Se succede qualche cosa, io sono un dragomanno rovinato.

—Che abbia ragione?—dice il conte.— Forse commettiamo un'imprudenza.

Infatti i soldati in mezzo ai quali dobbiamo passare ci squadrano con aria fosca e minacciosa.

—Basta!—conclude Valmarana.—Sarà meglio tornare indietro.

Tornare indietro? Davanti a tutti quegli occhi fissi in noi? Volgere le spalle a quegli uomini di colore? Francamente, io non ne ho il coraggio. Mi pare di sentirmi sicura soltanto guardandoli in faccia.

E non per un istante tolgo gli occhi da quei cupi occhi disperati che rispondono fieramente al mio sguardo.

Ma ormai è impossibile proseguire; lentamente e silenziosamente i soldati si sono messi sulla nostra strada: ritti e fermi sulle rotaie c'impediscono il passo. Yahia è saltato a terra; il suo viso bruno si è fatto cinereo.

—Indicami un ufficiale!—gli ordino io.

Egli accenna con lo sguardo più che col gesto, ad uno che si tiene in disparte, appoggiato al parapetto: è di statura meno alta e di tinta un po' più chiara degli altri.

Anche Valmarana è sceso dalla carriola e mi tende la mano. Passiamo tra il silenzio di tutti quegli uomini—impressionante silenzio! —e ci avviciniamo all'ufficiale. Quello non si muove.

Io gli domando:—Vous parlez fran&cced;ais? Egli assente, freddamente, con un gesto del capo.

Allora dichiaro con voce risoluta:

—J'ai l'honneur de connaître Son Excellence Saad Zagloul; et je serais heureuse si vos soldats le savaient.

L'effetto è istantaneo. Il duro volto s'illumina; la mano s'alza di scatto e tocca la fronte nel saluto arabo. Rivolto ai soldati che gli stanne più vicini pronuncia qualche parola… Ed è come la fiammata d'una striscia di polvere! È come se avesse gridato un ordine ad alta voce da un capo del ponte all'altro. Un mormorìo, un ondeggiare di khaki, la chiusa folla minacciosa si apre, si divide…

—Saadi Pàsha! Saadi Pàsha!—Il nome adorato corre da un labbro all'altro: i foschi visi s'illuminano nel sorriso.

L'ufficiale ci riaccompagna al trolley, e saluta.

—Saïda, sitt!… Saïda!

—Saïda!—rispondo io, con lieti cenni di mano.

Allora dalla folla dei ribelli si leva un grido, un formidabile urrà:

—Yai' she Saad Zagloul!… Saad Zagloul, evviva!

Il conte di Valmarana, in piedi, saluta a capo scoperto.

E il trolley riprende la corsa tra le due ali di soldati acclamanti.

…Tutto questo io narrai a Zagloul Pascià quando, di ritorno al Cairo, lo andai a ritrovare.

Era l'ora del crepuscolo, e già da tempo si era spenta la voce del muezzin che dall'alto dei minareti chiama alla preghiera.

Zagloul era solo. Mi ascoltò colla fronte china sulla mano, senza muoversi e senza parlare. Quando tacqui, alzò il volto; era pallidissimo. Mormorò con un amaro sorriso:

—…E vorrebbero soffocare tutto ciò!

—Non lo potranno, Eccellenza. Mai!

Gli dissi addio, ed egli trattenne per un istante la mia mano.

—Addio. Quando voi sarete in Italia… S'interruppe un attimo, poi riprese:

…In Italia, ricordatevi che il mio cuore è con voi.

Eccomi dunque ad Assuan, la città delle Cateratte.

Giunta un'ora fa da Luxor, ho ancora gli occhi abbacinati per avere contemplato così a lungo—se pure traverso i vetri duplici ed azzurri del treno—tutto il desolato e sterile splendore del deserto.

Esco sul terrazzo della mia camera e m'appoggio al parapetto. Davanti a me è uno spettacolo come nessun altro al mondo. Il Nilo, che dalla Prima Cateratta scende bianco di schiuma e iroso, e prorompe urlando dalle centottanta porte della Diga, qui si allarga, già placato, in una spianata di liquido argento.

Mille isole di roccia nera, lucenti come l'onice, sorgono dall'acqua; e di fronte a me, nel centro del fiume, l'Isola Elefantina erge il cupo dorso granitico e la vetta crestata di palme.

Lontano ad occidente il Sahara distende lo sterminato tappeto fulvo sotto al torrente biondo del sole.

Assuan, la greca Sylene!… Qui vengono gli ammalati di petto a cercare la guarigione; qui dovrebbero venire gli ammalati di tristezza a cercare la gioia—la gioia di vivere in una terra di tanta indescrivibile bellezza.

«Sfolgorante, trascendentale, sublime!…» Cerco un'espressione che si adatti a questo luogo; e non la trovo. Qui lo spirito affonda in un silenzioso stupore; qui la Fede—che il moderno tumulto ha resa incerta, cieca, titubante —ritrova le ali, spalanca gli occhi e si slancia verso i cieli.

«Allah! Allah!» Il grido perenne degli arabi ad ogni ora e ad ogni evento, si ripercuote in noi; e un'invocazione alla Deità risale alle labbra desuete; mentre i figli del deserto inginocchiati nella sabbia, col viso rivolto alla Mecca, pregano:

«Allah! Allah! Tu sei Dio e non v'è altro Dio all'infuori di Te.

Il deserto è il Tuo giardino. Scendi nel Tuo giardino, Allah, e commina accanto a noi!…»

Mi sporgo un poco dal parapetto. Qua sotto, l'acqua del Sacro Fiume lambe la riva del parco, e in una piccola insenatura dondola una candida feluca aspettante…

Subitamente decisa prendo sciarpa e mantello, e scendo nel vestibolo dell'Hôtel, dove l'orchestra del «five o' clock» scuote la calda sonnolenza del pomeriggio africano.

Dalla veranda mi viene incontro il conte Luigi di Valmarana, gentile compagno dei miei recenti viaggi, e m'invita a prendere il thè e ad ascoltare il sincopato singhiozzo del «Tea for two…»

—No, no! Prendiamo invece una barca e andiamo all'Isola Elefantina!

—A quest'ora!—esclama il conte che, piuttosto incline alla blanda contemplazione, paventa un poco la mia irrequieta attività.— Siamo appena arrivati da un viaggio di sette ore in ferrovia…

—Ma guardate il Nilo!—esclamo io, con impeto lirico;—guardate quelle rocce che sembrano mostri accovacciati ai piedi di Khnum, il dio delle Cateratte! Ma pensate che dall'Isola Elefantina partirono i Re della Quinta Dinastia, i quali…

—Andiamo pure,—dice il conte esterrefatto dalla mia inusitata erudizione.

E traversiamo il vestibolo per andare a consultare l'onnisciente «Concierge» riguardo al nolo della feluca.

Anche quel prudente svizzero ci avverte ch'è un po'tardi.

—Il tramonto è già vicino,—ammonisce lui.—E qui la notte sopraggiunge rapidissima.

—Il tramonto?… Il tramonto visto dalle rovine del Tempio di Amenophis?!… Ma dev' essere una meraviglia!

Scendiamo alla riva.

Il barcaiolo nubiano—tunica bianca, sciarpa rossa, faccia nera—stende la tenebrosa mano e ci fa salire sulla dondolante feluca. Una spinta! e la barca scivola sulla lucida lastra dell'acqua.

Il Nubiano, in pose pittoriche, governa la vela latina.

—Che magnifica belva!—commenta Valmarana, guardandolo.

—Magnifico, sì. Ma come fosco e misterioso! Forse hanno ragione i nordici… Pensate, che spavento trovarsi alla mercè di questi giganti neri!…

Continuiamo un po 'su questo tono, quando d'un tratto il Nubiano apre la caverna della sua bocca e dice:

—Bella serata, vero, Eccellenze?









Lo dice con uno spiccato accento napoletano. Il conte ed io ci guardiamo intrdetti.

La «magnifica belva» parla l'idioma gentile!? Ha dunque compreso tutto ciò che abbiamo detto di lui?

Con un largo sorriso egli ci spiega ch'è stato per tre anni tra gli operai napoletani addetti ai lavori della Diga.

—Come vi chiamate?—gli domanda il conte.

—Giuma Moliàmmed;—risponde lui.— Ma i napoletani mi chiamano «u' biondo!».

E di nuovo il suo sorriso quasi infantile illumina come una spennellata di biacca il volto nero. A me non sembra più una «belva», ma una mite e buona creatura umana.

Colla vela a sghembo la barca scivola serpeggiando tra le isolette.

Ma d'un tratto il sole precipita verso l'orizzonte; il cielo s'incendia, e l'acqua si tramuta da liquido argento in liquido oro.

—Bisogna far presto,—dice Giuma, afferrando i remi.

Difatti il sole cade; cade come una palla di fuoco dietro la parete di montagne desertiche. L'incendio divampa sempre più; il Nilo arrossa. Pare di navigare nel sangue!

Ma eccoci all'Isola, di cui il ripido fianco sorge nerissimo dall'acqua e sembra davvero il dorso d'un enorme elefante che dorma a testa bassa, sopito dall'eterno fragore della vicina Cateratta.

Giuma ci precede per l'erta scarpata; e indica due villaggetti nubiani aggrappati a metà pendìo sul fianco ovest dell'isola; poi ci guida verso il giardino del Museo, tra palme, roseti ed azalee in fiore.

Io, che non amo nè giardini nè musei, m'inoltro sola verso le grigie rovine del Tempio in vetta al promontorio.

Mi guardo intorno.

È un Tempio, questo? o una necropoli?

Non lo so.

Che silenzio! Che pace!… Il tramonto s'è spento; il cielo è tutto soffuso d'un freddo latteo chiarore. Soltanto a ponente, sopra il Sahara, s'apre un ventaglio verde e rosato in cui s'incastra, fine gioiello, lo spicchio della luna nuova…

D'un tratto trasalisco. Ho scorto, accovacciata tra le rovine, una figura misteriosa avvolta di drappi neri.

È un arabo, che strisciando mi si avvicina, recandosi la mano alla fronte e al cuore.

Sitt,—mormora in un linguaggio stentato ma declamatorio, ibrido miscuglio d'arabo e d'italiano,—voglio dirti il tuo destino. La tua fortuna, Sitt taiyib, lascia ch'io la legga nella sabbia.

Mi scosto; ma egli ha già ammucchiato ai miei piedi una piccola piramide di sabbia e di sassi, ed ora vi traccia rapido coll'indice dei segni cabalistici: cerchietti, spirali e curve.

—Io vedo, io vedo il tuo destino! Tu vieni da molto lontano; tu vai molto lontano. Io so il pensiero che tu porti con te.

Incuriosita sosto e l'ascolto. Le sue frasi enimmatiche, le sue formule nebulose mi sembrano piene di misterioso significato.

—Dammi qualche cosa di tuo, Sitt,— mormora l'indovino;—qualche piccolo oggetto senza valore. Io te lo renderò.

Mi tolgo dal collo una medaglietta, ed egli la seppellisce nella sabbia, continuando a disegnarvi sopra le sue curve, i suoi cerchietti…

—Ecco! Ora vedo la tua anima. E vedo il tuo ieri. E vedo il tuo domani. Quale dei tre vuoi tu ch'io ti dica?

—Il domani!—esclamo senza esitazione.

—Domani… tu vedrai sorgere il sole!— Lo dice con una solennità che m'impressiona.

—«Vedrò sorgere il sole?» Che cosa vuol dire? Che sarò felice?

—La tua felicità sarà pari alla tua saggezza.

Il pronostico non mi entusiasma. Egli soggiunge:

—E poichè vedo la tua anima, ti dirò che la tua saggezza è grande. Tu avrai sempre tutto quello che desideri perchè tu non desideri che quello che già possiedi. Tu troverai sempre tutto quello che cerchi, perchè tu non cerchi che quello che hai già trovato. I tuoi nemici…

—Nemici?—interrompo ridendo.—Io non ho nemici.

—…I tuoi nemici sono sciacalli, ma tu li chiami agnelli e porgi loro l'erba da mangiare. Essi mangiano l'erba e scordano di dilaniarti la mano. Invero tu sei molto saggia.

Io rido ancora; ed egli soggiunge:

—Vuoi che ti dica quale giornata fra tutte ti è più cara? Quale sarà sempre il giorno tuo più bello?

—Sì!

Il giorno… che domani sarà ieri.

La risposta sibillina mi confonde. «Il giorno che domani sarà ieri?»… quale giorno può essere?

Mentre tento di sciogliere quell'enigma egli riprende:

—Ed ora vuoi tu sapere la data della tua morte? Io te la posso dire.

—No, no!—esclamo nervosamente.

Ma egli, abbassando la voce, già predice la durata della mia vita; e per quanto ne metta lontano il termine, quella data mi fa paura. Alla vita non bisogna fissare alcun limite, mai, per quanto lontano!

Turbata e commossa mi pare vero tutto ciò ch'egli dice. In questo fantastico ambiente, in questa grandiosa solitudine mi sembra d'ascoltare un vaticinio soprannaturale e sacro.

Tremando riprendo la medaglietta, e gli verso nella lunga mano scura le monete d'argento che ho con me. Egli si china a toccare in segno di riconoscenza il lembo della mia veste; poi si rialza e, in piedi, dice con un gesto solenne e ieratico:

—Va! Va nel deserto senza paura! Allah ti accompagnerà. La palma che hai piantato nel cortile del povero ti darà la sua ombra quando brucia il sole, e i suoi frutti saranno dolci alle tue labbra quando la notte cadrà.

Poi sparisce come un'ombra tra i dirupi.

È già il crepuscolo; quel crepuscolo che nei paesi del tropico piomba improvviso dietro la fuga del sole. Già vaniscono in veli cinerei i lontani monti della Nubia; svaniscono le dune e le vallate del deserto.

Soltanto il Nilo rifulge ancora, lucida spianata di madreperla, nella morbida e vellutata oscurità.

Le alte siloette del conte e di Giuma si profilano in distanza, venendo rapidamente verso di me.

Valmarana mi raggiunge quasi correndo:

—Dove siete fuggita? È notte. Bisogna tornare a casa.

Riprendiamo la discesa; ma a metà pendìo Giuma ci ferma.

—Laggiù c'è il Nilometro,—dice, additando una stretta scalinata che discende ripida, tagliata nelle roccie.

Il Nilometro? L'opera meravigliosa riattata da Ismail dopo più di mille anni d'abbandono? e che ancor oggi, indicando il livello alto o scarso delle acque, preannuncia al popolo egiziano l'abbondanza o la carestia? Bisogna vedere il Nilometro!

Allora Giuma, prendendomi per un braccio e avvertendo il conte che badi a non scivolare sui diroccati scalini, mi fa scendere verso una caverna quadrata, molto in basso, che appare lievemente soffusa di luce. Il conte, dietro a noi, tenta di decifrare sulle pareti le iscrizioni greche che dànno i livelli dell'acqua nell'epoca imperiale; e quelle francesi ed arabiche più recenti. Ma la penombra glielo vieta.

La scalinata termina, ed io faccio per mettere piede sul pavimento lucido e nero… quando un grido di Giuma e uno strappo ch'egli dà al mio braccio m'arresta. Non c'è pavimento! Quel quadrato cupo e lucente davanti a me è l'acqua del Nilo, profondissima! È il pozzo del Nilometro.

Rabbrividendo mi ritraggo.

Risalendo i gradini, Valamarana, che ora ci precede, appoggia per un istante la mano alla parete rocciosa. Di nuovo il grido di Giuma ci fa trasalire:

—Via la mano! Scorpioni!… Molti scorpioni nelle roccie… scorpioni che dànno la morte!

Con un nuovo brivido d'orrore affrettiamo il passo.

Quando risaliamo in barca, è già notte fitta, e un vento freddo sorge dal fiume.

Piacevole è rientrare nell'albergo illuminato e gaio, dove il vibrante appello del gong già chiama al placido rito della toilette serale…

Quella sera stessa, la prima del mio soggiorno nel sontuoso Cataract Hotel, entrando nella mia stanza trovai la cameriera svizzera che accomodava le tende della zanzariera intorno al letto.

—Ma come? Vi sono zanzare qui, in questa stagione?—le domandai.

—Nossignora,—disse lei.—Zanzare, no. Intuii una reticenza.

—«Zanzare no?» Che cosa allora?

La rosea ragazza di St. Gallen non rispose. Insistetti:

—Di peggio, forse? Qualche orribile insetto tropicale?

—Oh! mai più, signora! Qui no. Negli altri alberghi ce ne sono tanti. Ma qui, neppur uno.

—«Neppur uno?» Ma di che cosa?— domandai con una certa inquietudine.

Come se non mi avesse udita la ragazza uscì rapida dalla stanza.

Dovevo apprendere qulche ora più tardi il significato del suo prudente silenzio.

Verso la mezzanotte, cessate le danze nel gran salone, mi ero appena ritirata nella mia camera quando un trambusto nel corridoio mi fece riaffacciare all'uscio per vedere che cosa accadeva.

Una signora svedese, agitatissima, in vestaglia celeste, parlava concitata con un gruppo di servi arabi accorsi. Uno scorpione! C'era uno scorpione nella sua camera. Era saltato fuori da un mazzo di fiori che il giardiniere le aveva portato nel pomeriggio. Uno scorpione giallo… verde… grande così!

—Dove? Dove?—chiedemmo tutti. Anche gli altri ospiti erano usciti dalle camere vicine.

La signora riaprì cautamente la sua porta e noi ci affacciammo con prudenza alla soglia.

Nulla. I fiori troneggiavano innocenti in mezzo alla tavola; di scorpioni nessuna traccia.

Questa sparizione, lungi dal tranquillizzare la signora, la spaventò ancor più; e mentre i servi negri sdraiati in terra guardavano sotto ai mobili, essa non cessava dall'esclamare:

—Era lì… era là!… Era grande così!… Bisogna trovarlo!

Arrivò il capo cameriere e poi la governante e poi il segretario; e ad ogni nuovo arrivato la signora ripeteva la descrizione dello scorpione il quale cresceva di qualche centimetro ad ogni narrazione. Finalmente giunse anche il direttore; era cortesissimo, ma un poco scettico.

—Signora,—disse sorridendo,—se quella bestia era grande come lei dice, non era uno scorpione; era un giovane coccodrillo.

Tuttavia diede ordini severissimi al personale che non smettesse di cercarlo finchè non fosse ritrovato. La signora svedese voleva ad ogni costo cambiare di camera, ma non essendovene una libera in tutto l'Hotel, dovette rassegnarsi ad aspettare l'esito delle ricerche; mentre gli intervenuti la confortavano e ingannavano l'attesa scambiandosi aneddoti e reminiscenze, per lo più a lugubre fine, riguardanti gli insetti tropicali incontrati sul loro cammino.

Lo scorpione quella notte non fu ritrovato; e alle due del mattino la signora svedese, affranta, si fece mettere una branda nella camera da bagno.

L'indomani mattina i due facchini neri le portarono a vedere uno scorpione morto.

—Sarà quello? Sarà roprio quello?— La signora lo contemplava con occhi d'orrore.

Yes, yes!—asserivano i negri con largo sorriso. Allora la signora regalò dieci piastre ai due facchini, e si rasserenò.

Ma ecco che, un'ora dopo, la cameriera portò, ravvolto in un pezzo di carta, un altro scorpione. L'aveva proprio ucciso lei! colla scopa, sotto al letto!… Oramai la signora poteva dormire tranquilla.

La signora limitò la mancia a tre piastre; e definitivamente tranquillizzata diede ordine che si rifacesse il letto nella sua camera.

Ma quando poi si vide arrivare il «Liftboy» recando sul cinereo palmo della mano un terzo cadaverino giallognolo, andò su tutte le furie; scacciò sdegnata l'impertinente e sorridente boy, e si fece rifare la branda nella stanza da bagno.

Fu allora che qualcuno parlò di Moussa Soleman, il famoso snake-charmer di Luxor, l'incantatore che aveva il dono di «sentire» e attirare a sè qualsiasi aracnide o rettile, dovunque esso si trovasse.

Buona idea! Perchè non si farebbe venire Soleman? Non certo per lo scorpione della signora svedese soltanto, ma per l'interesse che l'esibizione delle sue meravigliose facoltà offrirebbe a tutti gli ospiti dell'albergo.

Fu interpellato, come sempre, l'illuminato Concierge.

—Moussa Soleman è portentoso.—confermò; —non ce n'è un altro come lui in tutto l'Egitto. Suo padre, suo nonno, tutti i suoi antenati furono dei celebri incantatori. Però, costa caro farlo venire; per muoversi da Luxor domanda centoventi sterline egiziane.

Centoventi sterline! Caro, infatti. Tuttavia quella cifra divisa tra tutti gli ospiti dell'albergo non ci parve rovinosa.

Uno solo tra i forestieri protestò: era il dottor Lambertz, un medico di Colonia, venuto ad Assuan per accompagnarvi una bionda sposina tedesca, ammalata di petto.

—A dir vero—fece lui—io l'ho veduto a Luxor, il famoso Soleman, e non mi ha troppo persuaso. Andava in giro per i giardini degli alberghi, seguito da un ragazzetto che portava una curiosa cesta a forma d'anfora, ricoperta di stoffa rossa; parlava e gesticolava percuotendo con una bacchetta le roccie; poi si fermava di botto, cacciava la mano tra i sassi, e dopo molto frugare e brancicare traeva fuori per la coda un serpe. Lo mostrava con aria trionfante; poi lo metteva nella cesta che il ragazzino s'affrettava a rinchiudere.

—Ma come?—domandò una signora— e non suonava il flauto? Non li faceva ballare?

—Mai più!—rispose il dottore.—Anzi, giudicando dalla lentezza dei loro contorcimenti, quei rettili dovevano essere narcotizzati. Ho anche dubitato che fossero già messi lì in anticipazione della nostra visita, fissati forse in qualche trappola; o, forse, l'incantatore li portava con sè, nascosti sotto le pieghe del suo mantello.

Il portiere, senza ribattere parola, sparì; poi riapparve portando un grosso barattolo di vetro in cui natava nello spirito un'impressionante raccolta di rettili e aracnidi: parecchi scorpioni, qualche Scolopendra gigantea—il millepiedi dei tropici—e un grande cobra, la temibile Naja Tripudians, di cui le spire riempivano fino all'orlo il recipiente.

—Tutti questi li ha trovati Moussa Soleman, —disse.—E li ha trovati qui.

—Misericordia!—esclamò la signora svedese. —Nelle camere da letto?

—No, no!—la rassicurò sorridendo il portiere. —Tra le roccie dell'Isola Elefantina. E non poteva esserci inganno poichè vi andava per la prima volta…

Fummo tutti d'accordo che sarebbe interessante far venire Moussa Soleman.

E gli fu mandato un telegramma d'invito.

Nel pomeriggio del giorno seguente ecco arrivare da Luxor il famoso Soleman—turbante bianco, faccia nera, mantello fluente— e dietro di lui il ragazzo, colla bacchetta e la cesta coperta di stoffa rossa.

Eravamo tutti nell'atrio ad aspettarlo; e il dottor Lambertz gli tenne, in inglese, un discorsetto preliminare. Con cortese diplomazia gli domandò se non avesse difficoltà a sbarazzarsi per un istante del suo mantello…

Il viso di Soleman si contrasse nell'ira; volse in giro su noi gli occhi fiammeggianti; poi con moto brusco, quasi convulso, cominciò a spogliarsi: gettò in terra il mantello che lo ricopriva tutto, poi un altro più piccolo che portava sotto; poi il galabye, una specie di lungo camicione nero… i lugubri indumenti giacquero









ro foschi sul chiaro mosaico del pavimento. Nell'aria si sparse uno strano e sottile olezzo, come di muschio e d'ambra grigia. Era forse quell'effluvio che attraeva o impauriva i rettili?…

Stop! stop!—gridò il dottore trattenendo quasi di forza l'iroso Soleman che pareva volesse spogliarsi completamente.

—Stop! stop!—facemmo coro noi.

Frattanto qualcuno aveva dato una sbirciatina nella misteriosa cesta. Era vuota.

—Ebbene, che cosa devo cercare? E dove? —brontolò Soleman riprendendo con rabbia i suoi indumenti.

Il direttore l'invitò a salire al primo piano, e gli indicò una stanza che non era quella della svedese.

Noi tutti lo seguimmo silenziosi.

Soleman entrò, fiutò l'aria un istante, picchiò qua e là colla bacchettina; poi disse:

—Qui c'è niente.

E tornò fuori nel corridoio.

Il direttore, precedendolo, aprì varie stanze; e in tutte Soleman entrò, borbottò qualche parola incomprensibile, e tornò fuori dicendo:

—Niente!

Ma appena entrato nella stanza della svedese esclamò:—Akraba!… I smell scorpion!… Sento odore di scorpione.—E cominciò a battere tutti i mobili, pronunciando ad altissima voce una cantilena strana. Dopo pochi istanti ecco apparire da sotto al cassettone la perniciosa bestia: uno scorpione quale in Italia non ne ho veduto mai: enorme, verdognolo, semitrasparente. Soleman l'afferrò e lo tenne qualche istante sul palmo della mano grigiastra; lo toccò leggermente con la bacchetta; poi lo depose sulla tavola di legno lucido.

—Ipnotizzato!—dichiarò.—Adesso non si muoverà più.

Infatti lo scorpione rimase lì, fermo, agitando lievemente le pinze e la coda. Allora l'uomo, coll'indice, strisciò sulla tavola un percorso di qualche centimetro.—Fin qui puoi venire; e non oltre!

Lo scorpione si mosse lentamente lungo la traccia segnata, e giunto al limite si fermò. Allora Soleman lo prese, e lo lasciò cadere nella cesta che il ragazzo gli porgeva.

Plaudimmo. Ma il risentimento dell'offeso incantatore non si placò. Ci vollero molte scuse e complimenti e tazze di caffè prima di poterlo ammansare completamente.

—E adesso?—domandò.—Che cosa volete ch'io faccia?

Il dottor Lambertz propose che si andasse in cerca di serpenti lungo le rive del Nilo.

All right!—disse Soleman. E uscimmo dall'albergo dietro a lui.

Sulla terrazza si fermò un momento alzando gli occhi verso il cielo. Già la luminosa giornata volgeva al suo termine.

—Bisognerà far presto,—disse.—Quando scende il sole i serpenti si addormentano.

Affrettando il passo, traversammo il giardino e c'inoltrammo per un sentiero dirupato costeggiante il fiume.

E qui gli ultimi dubbi riguardo alle virtù incantatrici di Moussa Soleman caddero. È possibile che a Luxor, dove tante volte in un giorno era chiamato a compiere i suoi «performances», ricorresse a qualche trucco (se non altro per semplificare e far presto; od anche perchè, effettivamente, a furia di cacciarle, le serpi mancavano); forse mandava avanti il ragazzo colla cesta a deporre in luoghi prestabiliti qualche sonnolente biscia, qualche vipera narcotizzata e sdentata.

Ma qui non vi fu inganno di sorta. Lungo le deserte rive della «Gran Madre»—così l'arabo suole chiamare il suo fiume amato e sacro—egli ci precedette con preghiere e invocazioni, agitando in aria la sua bacchetta o percuotendo con essa le roccie e i cespugli.

—O serpenti, che obbediste alla voce di mio padre, alla voce del mio nonno Mansour, alla voce del mio avo, lo Sceicco Rifai, obbedite oggi alla voce di Moussa Soleman. O serpenti, in nome di Allah (e quel nome sia eternamente lodato!) vi comando di ascoltare la voce di Moussa Soleman e di uscire dai vostri nascondigli. O serpenti…

S'interruppe e sostò di botto: fiutò l'aria colle fini narici palpitanti, e si volse a noi:

—Naja! Naja haje,—sussurrò. Con gesto repentino si chinò a terra, cacciò la mano in un alto groviglio d'erba secca e ne trasse per la coda un serpente sottile e guizzante, dalla testa triangolare mobilissima, dagli occhi vividi e maligni, dalla linguetta ondulante come un finissimo nastro in una corrente d'aria.

«Naja haje!» L'aspide di Cleopatra!… M'avvicinai per guardar meglio; ma Soleman, lanciando uno sguardo al sole calante, chiamò subito il ragazzo e cacciò la serpe nella cesta a far compagnia allo scorpione.

Riprese a camminare davanti a noi, ripetendo le sue incantazioni; pareva in uno stato di strano eccitamento; se qualcuno di noi diceva una parola, anche a bassa voce, si volgeva a fulminarci collo sguardo. Accanto a un muricciuolo diroccato si fermò, battendo qua e là colla bacchetta. D'un tratto si volse a noi con occhi spiritati:

—Cobra!—disse, quasi in un rantolo; e insinuando la scarna mano fra i sassi ne estrasse con un forte strappo una serpe formidabile. Era un rettile scuro con una specie di cappuccio che gli si gonfiava dietro la testa: la cobra-di-cappello!

Soleman subito l'afferrò al collo e l'appressò a un lembo del suo manto. Il serpente aprì una bocca enorme… e morse! Allora con un nuovo strappo Soleman lo staccò, e ci mostrò la stoffa in cui erano rimasti due denti, fini come spilli.

—Gliene cresceranno degli altri;—spiegò, liberandosi con difficoltà dal serpe che gli si era attorcigliato intorno al braccio.

Poi lo mise nella cesta che il raggazzo gli porgeva aperta.

Stavamo per proseguire quando con una esclamazione ci fermò:

—Attenti!—E indicando la sabbia ai nostri piedi:—Non calpestate!—ci ammonì.

Guardando meglio vedemmo sporgere dalla sabbia due piccolissime punte: erano le corna di una viperetta di tinta carnicina, particolarmente orrida e micidiale, detta «Cerastes Cornutus»…

Impressionante davvero fu quella passeggiata con Moussa Soleman. Un altro cobra ch'egli afferrò troppo in basso, si avventò a mordergli il braccio; e noi vedemmo il sangue sgorgare rosso-vivo sulla sua pelle scura. L'incantatore stesso impallidì, di quel pallore cinereo dei neri; e—sempre tenendo stretto l'ondeggiante rettile—si chinò a sputar saliva sulla ferita, mentre il ragazzo gli stropicciava forte il braccio con una pietra nera che s'era tolta di tasca.

Vedendoci impressionati l'incantatore sorrise; e ponendo accanto alla sua guancia la testolina irrequieta del rettile, l'accarezzò.

—Nessun serpente uccide Soleman!—disse. —I serpenti amano Soleman…

Ed ecco che accadde una cosa orribile. Un ragazzo abissino, che da un pezzo ci seguiva, si slanciò improvvisamente verso Soleman, gli strappò di mano il rettile, e, prima che glielo si potesse impedire, aprì largamente le mascelle, si cacciò in bocca la testa del serpe e con un morso la troncò. Poi la sputò fuori sulla sabbia, getandovi anche il tronco decapitato. Testa e tronco ebbero per alcuni istanti qualche scatto e contorcimento…

In tutti noi era corso un brivido d'orrore. Io provavo un senso quasi di svenimento. Soleman stesso pareva impazzito.

—O sozzo figlio d'un cammello nero!— urlò, slanciandosi furente sul ragazzo, che però con un balzo riuscì a sgusciargli di mano e fuggire.—Che i cani ti dilaniino! Che gli sciacalli ti divorino! immondo e verminoso obbrobrio della terra!

Poi, alzando le braccia e la voce, come se clamasse a tutta la desolata landa d'intorno:

—O serpenti!—gridò,—egli è abissino, non arabo! Egli è della razza dei traditori, degli artefici d'iniquità. O serpenti, perdonate!… O serpenti, ascoltate ancora la voce di Moussa Soleman!…

Ma il sole era caduto. E i serpenti dormivano.

Perla d'Egitto, sposa del Nilo—File!

In tutta la terra Faraonica, tra tutti i Templi di suprema magnificenza, non vi è nulla che possa starti a pari, o tragica File, gemma moribonda nel tuo cerulo scrigno ondulante, fiore del loto ch'ergi la pallida fronte dall'ac que che fatalmente ti debbono sommergere…

Io ho creduto fino ad oggi di aver molto viaggiato. Mi pareva, perchè sono stata a Parigi e a Montecarlo, a Stoccolma e a New York, sulle nevi della Jungfrau e sotto le cateratte del Niagara, di essere un'avventurosa pellegrina del mondo. Ma quanto convenzionali e meschine mi appaiono quelle esperienze di treno e piroscafo, di slitta e ferry-boat, in confronto alla mia fantastica escursione d'oggi, quando coll'anima invasa di stupore entrai, in barca, nel Tempio di File, scivolando sull'acque cupe e chete tra i colonnati, penetrando con un lieve colpo di remo nel Santuario di nozze d'Osiride, dio dei Morti, con Iside, «la grande Incantatrice»…

Un senso di paurosa meraviglia mi colse; mi parve che i fantasmi degli Dei perduti mi precedessero e mi seguissero nell'ombre di quel Tempio, mentre dalle profonde acque saliva il cavernoso murmure dei passati millenni.

Vi andai stamane, nell'alba bionda e calda dell'ultima mia giornata ad Assuan. Venne a svegliarmi prima di giorno Hilda, la gaia cameriera svizzera; m'avvertì, preparando il bagno, che sarebbe stata giornata di vento.

—Lo dice l'acqua del Nilo,—sentenziò.

Difatti entrando nella saletta da bagno, vidi con raccapriccio la vasca colma d'un fluido color d'ocra carico.

Mi ci tuffai rassegnata; pareva di prendere il bagno nel caffè.

Poi mi vestii in fretta: jumper, feltro alla Wild West, velo azzurro per ripararmi dal sole, dal vento e dalla sabbia.

E scesi

Sul piazzale dell'hotel m'aspettava già Mohammed Hassen, il nuovo dragomanno, raccomandatomi dal mio fedele Yahia ch'era stato richiamato d'urgenza a Luxor.

Cercai collo sguardo i soliti cavalli o cammelli; ma in loro vece stavano, in tenuta di gala —collana di perline, coccarde e fiocchi—due asinelli bianco-argentei; li teneva per le redini un efèbo olivastro in tunica gialla.

Hassen mi presentò gravemente tutt'e tre; prima gli asini:—«Cocktail e Rum-punch» —allegri nomi affibbiati alle innocenti bestie da viaggiatori inglesi; poi mi presentò l'asinaio: —«Ahmed».

Questi, volgendo a me gli occhi sfolgoranti come due torcie nere, toccò la fronte e il cuore in segno di saluto.

—Ma dove sono i cammelli, Hassen? Yahia mi portava sempre il brontolante Roosevelt e la sdegnosa Sarah Bernhardt.

—Niente cammelli oggi, signora—disse il dragomanno, sorridendo. E issandomi in sella al niveo Cocktail spiegò che per certe brevi gite nel deserto questi asinelli assuanesi, velocissimi e instancabili, sono da preferirsi a cammelli od a cavalli.

A sua volta saltò in groppa al risplendente Rum-punch, e partimmo a trotto rapidissimo per le vie ancora silenziose di Assuan.

Il ragazzo Ahmed ci seguì correndo, con un lembo della sua tunica gialla stretta fra i denti.

Piegammo subito a Sud in direzione del villaggio di Shellal, prendendo la «Desert Route» che dal piccolo cimitero europeo sale a Kebbet-el-Hava, la tomba dello Sceicco. Qui si apre una vista fantastica sulla vallata del Nilo, sulle cateratte, sui due deserti, quello Libico d'un grigio un po' freddo, quello di Sahara tutto d'oro incandescente come se racchiudesse in ogni sua molecola un'infocata scintilla di sole. Mohammed Hassen rallentò l'andatura per additarmi quello sterminato tappeto rutilante.

—Qui vengono da ogni parte del mondo gli ammalati di reumatismo,—mi spiegò.— Arrivano in barella; rimangono cinque o sei giorni seppelliti nella sabbia fino al collo; dai loro pori scorre l'acqua a rivoli… Poi si alzano e vanno via guariti.

Scendemmo serpeggiando fra le dune, traversammo la lieve ombra d'un boschetto di tamerici, poi uscimmo nuovamente nello sfrontato sfolgorio del sole.

Oh, la bella trottata sulla sabbia morbida turbinante nell'aria mattinale del deserto! aria fresca, vivida, purissima che dà alla testa come un calice di Cliquot extra-dry. Come descriverne la forte e sana ebbrezza?

L'aria del deserto è un'aria speciale; chi la respira prova una gioia quasi violenta; un senso di vitalità ardente, il desiderio di slanciarsi avanti e sempre più avanti nella libera immensità…

«Più t'inoltri nel deserto. più ti avvicini a Dio», dicono gli arabi. E invero, il mondo e le sue inquietudini mi sembrano infinitamente lontani.

Portata dall'agile Cocktail in un biondo turbinìo di sabbia mi guardo intorno. Vastità. Silenzio. Solitudine! Il mistico splendore del Giardino di Allah!…

Solitario e solenne davanti a me cavalca il dragomanno nel bianco baraccano fluttuante; l'argenteo Rum-punch solleva coi snelli piedi un luminoso pulviscolo, e sembra a guado in un tremulo fiotto d'oro.

Una sola nota turba la mia felicità: è il lieve ansito del ragazzo Ahmed, che corre e corre dietro a me, col lembo della tunica tra i denti.

Mi volto.—Non sei stanco di correre, Ahmed?

—No, lady.

—Non vuoi che si vada più adagio? O che ci fermiamo un pò?

—No, lady.—E per dimostrare la sua instancabilità batte col pugno serrato la groppa di Cocktail, facendolo balzare innanzi a trotto più veloce.

M'è stato detto che questi «hammàr», così si chiamano in arabo gli asinai, hanno la vita breve; è raro che raggiungano più dei venti o venticinque anni; poi una sincope li abbatte, e la loro corsa è finita.

Penso con una stretta al cuore:—Se si potessero salvare! Se si potesse cambiare il loro destino così inutilmente crudele!

Certo tutti pensano così di fronte alle umane sofferenze; si vorrebbe recar balsamo ad ogni sventura, soccorrere, salvare, confortare tutti… Poi, scoraggiati, si sospira:

Kismet! È destino!—E non potendo aiutare tutti, non si aiuta nessuno.

Il leggero ansito di Ahmed dietro a me riprende e continua; continua finchè io mi ci abituo e lo dimentico. E non mi accorgo più di essere crudele.

Lontano, uno stridente sibilo di vaporiera lacera con orrida stonatura il grandioso silenzio del deserto; è la ferrovia di Shellal, villaggio arabo accoccolato sulla sponda del Nilo, dove la ferrea attività britannica ha svolto la sua azione utile e inestetica, trasformando il sognante, squallido villaggetto di fango in un affaccendato alveare d'operosità. Cantieri, uffici, attendamenti; un viavai di sunzionari, d'ingegneri, di lavoranti d'ogni razza. Qui nessuna miseria e nessuna poesia; già pulsa nell'atmosfera il ritmo della Grande Diga non lontana, opera titanica che ferma e raduna in un gigantesco serbatoio le acque del Nilo durante i mesi di piena, per liberarle a poco a poco, nella misura del necessario, quando giunge l'estate colla sua spaventosa siccità.

Traversando il paese rallento il passo di Cocktail e chiamo al mio fianco il dragomanno.

—Hassen! Voi egiziani dovete pur ammettere che gli inglesi hanno fatto un gran bene al vostro paese.

—Sì, signora.—E Hassen fissa su me i profondi occhi orientali, a un tempo miti e furbi, dolci e subdoli.

—E se è così, perchè non siete riconoscenti? Perchè volete mandarli fuori dall'Egitto?

—Signora,—dice l'enimmatico Hassen, e addita l'Ovest con un gesto ieratico che lo fa parere una bella statua di bronzo,—volgi a sinistra se vuoi giungere al Nilo e prendere la feluca che ti porterà a File.

Sento che la sua anima mi sfugge; e non lo interrogo più.

Volgiamo a sinistra, e appena usciti dal paese ritroviamo la sabbia, il silenzio, la solitudine.

E qui d'improvviso Hassen si decide a rispondermi: da arabo imaginifico qual'è, la sua risposta è una parabola:

—Signora, se tu fossi un poveretto triste e infermo; se tu avessi una casa squallida e disordinata; se la tua famiglia fosse miserabile e sofferente; e se allora un dottore, un uomo ricco e benefico, venisse a trovarti; se egli ti recasse soccorsi e rimedi, s'egli guarisse molte tue piaghe e portasse nella tua casa l'ordine e la salubrità: tu gli saresti riconoscente. È vero?

—È vero.

—Lo ringrazieresti; pagheresti i suoi servizi fino al limite delle tue possibilità; poi gli diresti: «Mio benefattore, io ti saluto. Allah ti salvi e t'accompagni. Addio!»… È vero?

—È vero.

—Ma se quel dottore non volesse più andarsene da casa tua? Se tu lo vedessi comandare ai tuoi figli, percuotere i tuoi fratelli, seminar discordia tra i tuoi parenti; se tu lo vedessi attendarsi nei tuoi giardini, spadroneggiare nei tuoi campi, frugare nei tuoi cimiteri… —La voce di Hassen dapprima dolce e sommessa era an data man mano alzandosi di tono.—Se tu sentissi ch'egli disprezza la tua razza, schernisce la tua fede, calpesta la tua dignità, avvelena la tua coscienza…—la voce di Hassen vibrò:—tu gli diresti: « O signore, so che tutto questo è per mio bene, e te ne sono grato. Ma vattene ora! Vattene coi tuoi rimedi e le tue cure, colle tue ricchezze e la tua civiltà! Vattene, e lasciami libero e solo in questa povera casa… che è mia!

Mentre io cerco, per placarlo, una risposta serena e logica, usciamo dal cerchio di ondulanti dune.

Ed ecco stendersi improvvisa davanti a noi una immensa spianata d'acqua ferma e luminosa; un mare di cristallo. Ne interrogo la lucente superficie.

File, dov'è? Dov'è l'Isola degli Incanti? La Sirena del Nilo che erta sull'ultimo lembo









dell'Egitto regge sul suo seno l'ultimo Tempio egiziano?

Sparita! annegata nei flutti profondi e luminosi; sacrificata alla fame degli uomini e alla sete della terra.

Sporgono dall'acqua soltanto—stranissima visione!—le vette di due torri e, simile a un baldacchino fantastico, la sommità d'un chiosco. Nulla più.

Accanto a File, fatale alla sua sacra e delicata bellezza, è sorto il Mostro di sasso e di ferro, di forza e di clamore, la Grande Diga, che ogni primavera chiudendo le sue cento e ottanta porte, frena e arresta la turbolenta corsa del Nilo. Allora l'acqua sale lentamente intorno a File, si insinua tra le sue rocce, serpeggia tra i suoi palmeti, striscia tra i suoi colonnati; si alza, la circonda, l'afferra… la chiude nel suo molle e inesorabile abbraccio.

E File muore. Tristi all'intorno stanno, a guardia di quel glauco sepolcro, i monti desertici, le desolate immensità della Nubia.

Quale l'antico storico, Strabo, la vide—in tutta la sua superba bellezza, coi suoi Templi, con le sue statue, col furore delle libere cateratte che le piombavano urlando d'intorno —noi non la vedremo mai più; noi venuti duemila anni dopo a salutarla, la troviamo votata alla distruzione.

Ma in questo suo cerulo tramonto essa è forse più meravigliosa ancora. Pur morente, ella compie la sua missione di bellezza, reca intero e intatto il suo mistico messaggio a noi.

Sulla riva ci aspettava una risplendente feluca con quattro barcaioli nubiani e un ragazzetto arabo accoccolato sulla prua.

Lasciando gli asinelli alle cure di Ahmed, prendemmo posto sotto i variopinti tendaggi; e i rematori con ritmico urto ci portarono al largo.

Il ragazzetto a prua intonò un canto; aveva una voce di soprano altissima, a un tempo morbida e penetrante. Cantò unquo;a solo» di poche note; poi i quattro uomini fecero coro. Era una nenia appassionata e dolce: meraviglioso il contrasto della serafica voce del bimbo colle profonde note gutturali dei negri.

La canzone diceva:

«Orieda, gazzella del deserto,

Non amo più l'amore d'altre donne

Dal dì che ho amato te».

Il breve canto finì; e i barcaioli continuarono a remare in silenzio.

Avrei voluto udirli ancora.

Sing again!—dissi in inglese; ma quelli non compresero.

Ghanni!… Cantate!—comandò Hassen. E poichè il ragazzetto che doveva intonare la strofa, taceva, Hassen con la frusta che aveva servito per Rum-punch gli assestò sulle spalle una sferzata.

Io protestai sdegnata, e i quattro nubiani risero. Rise anche il fanciullo. Poi riprese a cantare.

«Orieda, colomba del deserto…» E gli uomini:

«Il sole brucia, la palma è senz'ombra

Quando fuggi da me».

Nuovo silenzio. Nuova frustata al bimbo. E nuova strofa:

«Oreida, fontana nel deserto,

Appoggia le tue mani alla mia fronte…

Resta con me!»

«Resta con me!…» Il dilettoso suono si diffonde nell'aria… si attenua… si spegne.

Traversiamo così il luminoso specchio d'acqua.

A un tratto Hassen mi avverte che galleggiamo sopra l'isola sommersa. Sotto la nostra barca è File!

Mi sporgo; affondo lo sguardo nell'acqua danzante e scintillante; tratto tratto intravvedo, o credo intravvedere, un serpeggiante chiarore, un biancheggiare incerto tra zone opache…

E penso che lì sotto giace la città in cui l'arte egizia raggiunse il suo più alto splendore. Sotto la chiglia della nostra barca è il Santuario di Harendotes, il padiglione di Nectanebo, il Tempio sacro ad Hathor-Afrodite… Voghiamo sopra il colonnato d'Augusto, i propilei d'Adriano, i lunghi portici di Tiberio…

Quando alzo gli occhi abbacinati passiamo dinanzi all'alto, fantastico baldacchino che già avevo scorto dalla riva: è l'incompiuto Chiosco di Traiano. Le sue pallide colonne appaiono più gracili e più lunghe, raddoppiate nel tremulo riflesso dell'acqua.

Ed ora ci avviciniamo alle due torri del Tempio d'Iside, enormi piloni ornati di bassorilievi dove una gigantesca Iside pare stenderci le sue braccia stilizzate.

Davanti al portale la feluca si ferma; sull'ondulante soglia del Tempio un'altra barca ci aspetta, una barca piccolissima governata da un solitario barcaiolo negro, favoloso di vecchiezza e di solennità.

Hassen, in piedi, mi aiuta a passare dalla nostra feluca in quella esigua imbarcazione. E mentre egli coi nubiani resta di fuori nel sole, io, sola col vecchio rematore, passo sotto l'architrave del portico tra i due grandi piloni, e penetro nella fresca penombra del Tempio.

Eccomi nella casa d'Iside, «Dea misteriosa, benigna e risanatrice».

Il vecchio rema e non parla. Passiamo di vano in vano, serpeggiando tra i colonnati, scivolando sotto ai portali. L'acqua è così alta che i capitelli delle colonne sono a portata della mia mano: con trepide dita ne sfioro le scolpite fronde, i delicati bocciuoli, le aperte corolle simili a gigli araldici…

Il silenzio è profondo. Non s'ode che il sussurrante sospiro dell'acqua lievemente mossa.

E la barca passa da vestibolo ad ipostile, dalla Camera di Purificazione alla solenne semi-oscurità del Santuario, dove le pareti dipinte hanno delle dolcissime sfumature di colori, delle armonie in sordina. verdi e azzurre, viola ed arancine; e i soffitti tinti d'azzurro cupo sono tempestati di stelle e solcati da stormi di falchi e d'avvoltoi…

Voghiamo per i cheti ombrosi corridoi verso l'ara sacra alla Deità Lunare. Dappertutto l'acqua ondula e risplende, e tinge di una meravigliosa luce glauca la stranissima atmosfera del Tempio…

O mistica pace! O grande silenzio! Forse in nessuna chiesa al mondo ho sentito così commossa sulle mie labbra la preghiera.

… Fuori, nel sole, i barcaioli riprendono a cantare.

È un richiamo.

Addio, File sacra, tragica, perduta!

Lontano da te udrò ancora nei miei sogni il murmure dell'acqua, che con sommesse voci batte alle tue pareti, singhiozza tra i tuoi colonnati, e pare che pianga di doverti arrecare la morte.

Un gran sole ardeva sul deserto.

Si ritornava dalla gita all'isola di File, traversando al rapido trotto dei nostri asinelli le sterminate dune, quando incontrammo una delle solite pittoresche file di donne, alte, scarne, ammantate di nero. Venivano dal Nilo, recando sul capo delle pesanti anfore colme d'acqua. Scalze nella sabbia rovente, si avviavano verso i loro lontani tugurî di fango.

Provai un senso di pietà.

—Poverette!—esclamai, guardandole allontanare, funeree figure sull'abbagliante oro del paesaggio.

—«Poverette!» Perchè?—domandò stupito il mio dragomanno, volgendosi in sella per guardarmi.—Quelle donne sono perfettamente felici.

—Felici?—feci eco a mia volta.

Evidentemente Mohammed Hassen aveva sulla felicità femminile delle idee alquanto singolari. Lo interrogai.

—Secondo te, Hassen, in che cosa consiste dunque la felicità per una donna?

—Consiste—sentenziò Hassen con orientale gravità,—nell'avere un Dio in cui credere; un pane da mangiare; e un uomo a cui obbedire.

Allibii. Questa elementare concezione della muliebre felicità mi parve interessante. Mi parve anche giusta… da punto di vista arabo e dal punto di vista maschile.

—Pensaci!—continuava Hassen, scotendo davanti al suo fine naso un indice ammonitore: —ripeti a te stessa lentamente e con riflessione questa formula, e ne comprenderai la saggezza.

Ed io ripetei a me stessa:

«Un Dio in cui credere. Un pane da mangiare. Un uomo a cui obbedire».

—Può darsi, o Hassen, che tu abbia ragione.

I profondi occhi del mussulmano si fissavano su me, accesi di blando fanatismo.

—Se vuoi ti racconterò una storia,— disse.

E senz'altro la raccontò:

—Una dona che viveva nell'oasi di Gâra fece un sogno. E nel sogno vide la sua porta aprirsi. Sulla soglia comparve suo marito che le disse:

«Alzati e va nel deserto. Ti recherai a Birambar dove abita lo Sceicco Es-Samat detto il Taciturno, e gli dirai che venga a trovarmi prima di notte».

«Sì, mio signore».

»Per giungervi seguirai la traccia che va dal pozzo di El-Haratra dove crescono tre palme, fino alla tomba di Heke-Yek dove siede Hassouna, il mendicante orbo. Hai compreso?»

«Ho compreso».

«Va!»

E la donna, velatosi il capo, andò.

Dopo che essa (sempre in sogno) ebbe oltrepassato il pozzo di El-Haratra dove crescono tre palme, giunse alla tomba di Heke-Yek e vide seduto Hassouna il mendicante orbo. Egli le fissò in volto l'unico suo occhio, e la chiamò a sè. Ma ella ebbe paura e fuggì.

Allora l'orbo si alzò, la inseguì, la raggiunse… E con le lunghe mani magre la strangolò.

Questo fu il sogno. Con un urlo di terrore la donna si svegliò.

«Sian grazie ad Allah!… Non è stato che un sogno».

Ma ecco che la porta si aprì e sulla soglia comparve suo marito.

«Alzati», le disse, «e va nel deserto. Recati a Birambar dove abita lo Sceicco Es-Samat detto il Taciturno, e digli che venga a trovarmi prima di notte».

La donna tremò.

«Seguirai la traccia che va dal pozzo di El-Haratra dove crescono tre palme, fino alla tomba di Heke-Yek dove siede Hassouna il mendicante orbo…»

«O mio signore!…»

«Hai compreso?»

«Ho compreso»

«Va!»

E al donna, velatosi il capo, andò.

Nè più fece ritorno.

Mohammed Hassen tacque.

Mi permisi di osservare che in questo caso l'obbedienza aveva condotto non alla felicità ma alla morte.

—Tutte le strade conducono alla morte,— disse l'arabo.—Decoroso è per la donna l'andarvi con mansuetudine, come per l'uomo l'andarvi con fierezza.

—Tuttavia—insistetti,—costei poteva pur narrare a suo marito il sogno; poteva ragionare, poteva discutere…

—Discutere!—L'arabo calò sugli occhi le frangiate palpebre come per concludere il discorso. —Meglio avere nel nostro giaciglio sette scorpioni che una donna che discute,—sentenziò.

Me lo tenni per detto.

A qualche chilometro da Assuan, giunse improvviso al mio orecchio un suono lugubre e pauroso; erano grida d'angoscia, urli e lamenti che provenivano da un vicino casolare quasi affondato tra le dune.

—Mio Dio! Hassen! Che cos'è?

—È un funerale, signora.

E il giovane asinaio, Ahmed, che ci seguiva veloce, col respiro ansante per la lunga corsa, disse:

—Dev'essere morto il vecchio beduino Abdel-Rahman.

Rallentammo il passo dei nostri asinelli per non giungere troppo presto alla luttuosa capanna da cui usciva in quel momento il funebre corteo.

Quattro uomini apparivano sulla soglia recando in ispalla una barella. Li circondava una folla di donne che gridavano e gesticolavano pazzamente, ora stendendo le braccia al cielo, ora chinandosi a terra e cospargendosi di sabbia il capo.

I portatori, seguiti da pochi uomini e da tutte quelle donne piangenti, mossero lentamente dalla capanna venendo nella nostra direzione.

Secondo l'usanza mussulmana che vuole la rapida dissoluzione del corpo, il defunto non era chiuso in una cassa, ma semplicemente ravvolto in una leggera stoffa dai vividi colori; e veniva portato a seppellire così, poco discosto da casa sua, dove nulla rivelava un cimitero; solo qualche sasso sporgente qua e là dalla sabbia poteva indicare che già altri morti vi riposavano.

Ahmed mi additò silenziosamente, a pochi passi da noi, un'angusta fossa scavata nella rena. Alto nel cielo roteava in sinistra attesa uno stormo di avvoltoi.

—Non trattristarti,—disse Hassen che mi osservava.—Abd-el-Rahman era molto vecchio. Vedi pure che le donne piangono poco. Se fosse stato giovane tu le vedresti lacerarsi le vesti, strapparsi i capelli, coprirsi di cenere il capo e il petto. Ma questo vegliardo era giunto al termine del suo cammino. Ora riposerà bene qui nel deserto, col viso rivolto alla Mecca.

Dopo un silenzio domandai:—Voi credete alla resurrezione?

—Egli risorgerà—disse Hassen alzando il mistico sguardo al cielo,—ma soltanto quando tutti gli umani che popolano la terra saranno morti.

E il ragazzo Ahmed confermò:

—Sì; i morti risorgeranno. Quelli che hanno compiuto delle buone azioni si sveglieranno con la faccia bianca; e quelli che hanno fatto male risorgeranno con la faccia nera.

Di lontano s'intesero nuove grida; giungevano da ogni parte altre donne—macchiette nere sull'immensa spianata gialla—che scorgendo il corteo correvano a raggiungerlo con altissimi lamenti.

—Che cosa dicono?—chiesi ad Hassen.

—Dicono: «Oh, sventura nostra! oh, nostro padre! Pane e sostegno della casa. Ti hanno tolto dal tuo letto per metterti nella sabbia… oh sciagura, oh dolore!»

—Ma quelle infelici sono dunque tutte parenti del morto?

—Mai più! Sono estranee che vengono da grandi distanze; forse non lo conoscevano neppure.

—Ma allora perchè piangono così?

Hassen spiegò:—Le donne che vengono oggi a piangere questo morto, sanno che domani, se muore qualcuno di casa loro, le donne di qui andranno a piangerlo; poichè tale è l'usanza.

E Ahmed, con gesto ieratico, aggiunse:

—Il morto che nessuno piange non trova riposo.

Ora il corteo era vicinissimo a noi. Passavano gli uomini lentamente col loro lieve ed esiguo fardello; si scorgeva chiaramente sulla barella la sottile forma immota sotto al vivido drappo.

Subitamente Hassen ed Ahmed si girarono verso l'est in direzione della Mecca, e pronunciarono ad alta voce la formula rituale di ElIslam:

—«Allah è grande. Non vi è altro Dio ali'infuori di Allah».

Ripeterono più volte le consacrate parole che ogni giorno pronunciano trecento milioni di fedeli; poi, sempre col viso rivolto alla lontana città sacra, soggiunsero in lenta cantilena.

«Allah, Perfezione dell'Oriente e dell'Occidente,

Allah, Illuminatore del Sole e della Luna,

Abbi misericordia del servo Tuo che hai richiamato a Te»

Poi stettero in silenzio mentre i portatori passavano oltre e andavano a deporre la barella accanto alla fossa aperta. I pochi uomini che li seguivano recitavano ad alta voce dei versetti del Corano.

Ma le fantomatiche donne ploranti che chiudevano la processione, sfilando davanti a noi rallentavano il passo per contemplarci con infantile curiosità. Fissavano attonite le mie vesti, il mio lungo velo azzurro, il mio cappello alla Wild-West. Qualcuna sostò, smettendo di piangere per interpellare Hassen e Ahmed sull'essere mio; qualche altra abbandonò addirittura il corteo per muovere timidamente più vicino a me.

Quasi tutte povere e quindi senza velo, tenevano con la mano un lembo del mantello davanti al viso: gesto di verecondia che hanno istintivamente al cospetto di stranieri le donne che s'incontrano nel deserto.

Io feci loro un cenno di saluto. Subito mi furono d'intorno, scoprendosi il viso, toccando









con trepide dita la mia gonna, il mio velo, le mie mani. I profondi meravigliosi occhi mi scrutavano, m'interrogavano; e vi era in quei volti sparuti ed emaciati tanta dolcezza, tanto struggente desiderio di parlarmi e di comprendermi ch'io mi sentivo commossa e turbata.

Una di esse con un subitaneo sorriso trasse indietro il manto nero che la copriva tutta, e mi mostrò rannicchiato al suo petto un bambinello, minuscolo putto color di bronzo, carico d'amuleti.

Io risi. Era veramente delizioso a vedersi, e volli esprimere alla madre la mia ammirazione.

—Hassen! Come si dice in arabo: «È bello il tuo bambino».

—Per la vita del Profeta!—esclamò lui

—guàrdati bene dal dirlo! Se i mali spiriti odono dire che un bambino è bello vengono a portarlo via.

Allora mi limitai ad accarezzare la manina nera del piccino, e subito parecchie altre donne che portavano anch'esse dei bambini celati sotto gli ampi mantelli, vollero mostrarmeli, vollero ch'io li accarezzassi, ch'io toccassi loro le manine e i piedini.

Allora Hassen intervenne:

—Voi dimenticate il morto!—ammonì, con gesto austero verso il piccolo gruppo raccolto intorno alla fossa.

Quasi spaventate, le donne si ricoprirono in fretta coi mantelli neri, e riprendendo subitamente il loro pianto e lamentìo, si allontanarono correndo.

Una sola—la prima che m'aveva mostrato il suo piccino—rimase esitante accanto a me; poi, con impulso gentile, staccò dal polso del bimbo un amuleto e me lo gettò in grembo.

Volli renderglielo; ma ella si ritrasse. Volli pagarglielo, ma essa ebbe un gesto di sgomento, quasi di dolore. Compresi allora che gli amuleti non si rifiutano e non si pagano.

Per ringraziarla avvicinai il minuscolo cerchio d'avorio alle mie labbra. Il viso di lei si illuminò. Con impeto pronunciò una parola di saluto a me stranamente nota e familiare:

Alalà!—gridò, alzando la scarna mano verso il cielo.

E fuggì in un lieve fluttuar di drappi neri.

—«Alalà?…» Hassen! che cosa vuol dire?

—Vuol dire: «Iddio ti abbia nella sua cura».

Nel mio cuore pensai:

—O Italia cara e lontana… alalà!

Tutti gli ospiti del Cataract Hôtel sono alla finestra; una inusitata agitazione regna nell'albergo. I negri corrono per i corridoi, chiamandosi tra loro, parlando concitatamente, commentando uno straordinario fenomeno. Che cos'è? Piove!

Questo prodigio avviene in Assuan circa una volta all'anno; e gli indigeni coi neri volti alzati al cielo contemplano stupiti il lieve sipario argenteo che vela il paesaggio.

«Es regnet, Gott regnet, Die Erde die so dürstig war…»

cita con un sospiro di sollievo il dottor Lambertz di Colonia, affacciatosi egli pure alla finestra.

Ma dopo breve istante la pioggia cessa, il trasparente sipario vanisce, e sull'arsa terra tropicale il sole riluce più radioso e più torrido di prima.

Tra qualche ora riparto per Luxor; lascerò questa meravigliosa città il cui incanto più possente risiede forse nell'abbagliante vividezza dei suoi colori. L'oro rutilante della sua sabbia, lo sfavillìo nero delle sue rocce, l'oltremare schietto del suo cielo, l'ametista e lo smeraldo delle sue acque dànno agli occhi e al cervello una specie di vertigine cromatica che affascina e sbalordisce.

Ma in certi stati d'animo questo sfarzo avvampante spaventa e affanna.

—Ho nostalgia dell'ombra, della nubilosa tranquillità di un cielo grigio!—mi dice, quando entro nella sua camera a salutarla, la bionda sposina tedesca ammalata di petto, che suo marito e il dottor Lambertz hanno condotto qui, lontano dai rigidi inverni germanici, in cerca di guarigione.—Voi partite!—sospira, fissandomi in volto i larghi occhi febbricitanti.— Potessi anch'io mettermi in viaggio, fuggir via da questi esotici splendori, da queste sfolgoranti luminosità!

—Ma voi qui guarirete…

Essa scuote il capo con un sorrisetto tragico.

Qui non si guarisce. Qui la notte toglie ciò che il giorno dà.

Forse è vero. Al torrido calore della giornata segue, appena cade il sole, un freddo intenso, e all'alba si leva del Nilo una nebbia subdola e insidiosa. Quando poi soffia il vento, così frequente ed impetuoso sull'orlo dei due deserti, la sabbia turbinante penetra nei polmoni ammalati, li brucia, li inaridisce; e gli infermi non osano quasi respirare.

L'ammalata riprende con la sua esile voce di bambina:

—Talvolta, specialmente di notte, mi coglie un senso d'ansia, uno spasimo di terrore all'idea di essere così lontana da casa mia, dì trovarmi qui, al lembo estremo dell'Egitto, sull'orlo dei tropici, con l'infocata desolazione del deserto intorno a me!…

La comprendo. Sul suo cuore è caduto quel male che tanti viaggiatori in remote terre conoscono: lo spavento della lontananza. È un male che coglie all'improvviso—anche in piena salute fisica—senza alcuna ragione, sovente anzi nell'ora più lieta e spensierata, quando la folla gioiosa strepita d'intorno o ferve festoso il ritmo d'un jazz-band. Una stretta al cuore… un sussulto nelle vene… un'impressime di smarrimento e d'angoscia… poi un senso di pericolo, d'atroce isolamento fra tanta gente estranea. Allora vi prende una specie di frenesia: partire, partire subito! prendere il primo treno, il primo piroscafo che vi riporti a casa vostra, alla fida e racchiusa cerchia di cose note e familiari, lontano dalle spaventose immensità… lontano dalle lontananze!

Così penso, contemplando quel delicato volto febrile tra i guanciali, udendo l'ansito del breve respiro. E comprendo quale inferno debba essere la luminosa terra africana coi suoi smaglianti colori e splendori, per questo pallido nordico fiore che vi langue.

Con una stretta al cuore mi torna alla mente il ricordo del funebre corteo visto ieri tra le dune… l'esiguo concavo letto nella sabbia… il macabro roteare degli avvoltoi nel cielo turchino…

Un brivido mi corre per le vene. Ma mi accomiato da lei con parole di conforto e di speranza.

Uscendo dalla penombra di quella camera d'ammalata, un barbaglio di sole m'investe. Ed io provo come un senso di rimorso.

Mi sembra che andandomene così, a riprendere il mio libero vagabondaggio in un mondo vasto e radioso, io commetta verso quella mite creatura votata alla morte, un atto di crudeltà.

Scendo nell'atrio dove sono raccolte le mie valigie. Due o tre «boys» negri, nelle scarlatte tuniche ricamate d'oro, stanno chini ad attaccarvi le sgargianti etichette dell'Hôtel: vividi quadretti che dovunque io vada devono rammentarmi il mio meraviglioso soggiorno presso alle Cateratte.

Ecco il fedele dragomanno, Mohammed Hassen, che viene a congedarsi da me. Nella fantasiosa fraseologia araba mi benedice ed invoca da Allah il mio ritorno.

Anche l'asinaio, il gracile Ahmed, mi saluta con un soave augurio:

Naharek leben!—dice, recandosi la mano al cuore.—«Che i tuoi giorni siano bianchi come il latte!»

Se ne vanno; ed io dalla terrazza dell'albergo guardo con un certo rammarico allontanarsi i due pittoreschi compagni delle mie gite. Sono appena spariti che un'altra guida araba, maestosa e impeccabile nei bianchi drappeggi, sale lestamente la gradinata. Fa il gesto di toccare il suolo, poi si reca la mano alle labbra:

—Bacio la terra dove tu passi, milady! Permetti ch'io ti conduca all'Isola Elefantina?… Alla Tomba dello Sceicco?… Al convento di San Simone?… Al Tempio di File?

E mi porge il suo biglietto. Leggo: Morsy Khalil, dragoman and contractor. —Grazie,—rispondo.—Sono di partenza, e ho già visto tutto.

—Anche i coccodrilli?… Domanda lui.

Coccodrilli? Veramente non ne ho visti. Ma ormai non c'è più tempo: sono le dieci passate e il mio treno parte a mezzogiorno.

—Milady! Tu vuoi andar via senza aver visto i coccodrilli?—Vi è nella sua voce un tale stupore ch'io ne resto impressionata.

—E dove si vedono i coccodrilli?

A Kom-Ombos, precisamente sulla tua strada per andare a Luxor. Ascolta, lady, ascolta Khalil! Tu spedisci oggi col treno i tuoi bagagli, e t'imbarchi con me sulla dahabia di mio fratello. (Buonissimo fratello! bellissima dahabia!) Scendiamo il Nilo; stanotte ci fermiamo al largo di El Agar, e tu dormi sul ponte della barca sotto la tenda! (Bellissimo ponte, buonissima tenda!) All'alba ripartiamo; arriviamo a Kom-Ombos; vediamo i coccodrilli. Poi prendi lo stesso treno che volevi prendere oggi. E domani sera arrivi a Luxor.

Resto perplessa di fronte a questo programma: l'idea dei coccodrilli mi sorride; l'idea della notte sul Nilo sotto la tenda con Khalil e suo fratello, mi alletta meno.

L'arabo intuisce un rifiuto.—D'altronde, milady—soggiunge col suo insinuante sorriso, —qualche coccodrillo potrei fartelo vedere anche qui.

E poichè interrogo l'orologio al mio polso, insiste:

—C'è tempo! Vieni con me.

E scende rapido la marmorea gradinata, volgendo con lunghi passi verso il centro della città. Io seguo quasi correndo gli svolazzanti drappeggi del suo mantello e il dondoìo maestoso del suo candido turbante.

Dopo un po'lo chiamo:—Ma Khalil! Dove andate? Il Nilo è a destra.

—I coccodrilli sono a sinistra,—dichiara lui, e affretta ancora il passo.

Ci addentriamo nelle anguste e tortuose strade della vecchia Assuan; indi penetriamo nell'ombroso labirinto del Bazar. Sulle porte si affacciano i negozianti con saluti e inchini, invitandoci in tutte le lingue ad entrare, a comperare penne di struzzo e pelli di pantera, collane d'ambra e babbucce di paglia, armi di dervisci e «costumi di dama sudanese»—succinti «costumi» invero, poichè consistono di una semplice cinturetta di cuoio adorna di una breve frangia e di qualche conchiglia.

Ma Khalil non ascolta e non si ferma; il suo bianco turbante mi precede rapido e risoluto per le oscure viuzze del Bazar. Ci arrestiamo finalmente alla soglia di un negozietto più degli altri scuro e misterioso; sulla soglia il padrone, un siriano alto e magro, saluta inchinandosi cerimoniosamente fino a terra.

Timsak!—gli dice Khalil con voce sonora.

—Timsak!—fa eco il negoziante volgendosi a me con un sorriso allettatore.

—Timsak!—dico allora anch'io, convinta di pronunciare un nuovo amabile saluto arabo.

Il siriano ci fa entrare nella bottega e ci precede per un lungo corridoio che sbocca in un altro v mo fiocamente illuminato. Si ferma, addita il soffitto e proclama con aria trionfale:

—Timsak!

Allora comprendo che quella parola non è un saluto orientale. Significa «coccodrillo». Infatti, sopra le nostre teste stanno appesi orizzontalmente, come se natassero nell'aria, innumerevoli coccodrilli; coccodrilli grandi e spaventosi, coccodrilli piccoli e maligni, coccodrilli blandi e sorridenti, in toni digradanti tra il verde, il grigiastro e il nero.

Il siriano ordina al suo commesso, un gigantesco sudanese, di mostrarmene qualcuno; e quello, issato sopra una scala, ne stacca parecchi e li depone a terra davanti a me. Poi ne spicca uno dall'aspetto eccezionalmente feroce e me io porge; io stendo le mani e l'accolgo con un certo senso di raccapriccio.

Mi colpisce la strana leggerezza della formidabile bestia.

—Non è riempito che di paglia,—mi spiega il negoziante. Poi, accennando al lungo dorso munito di punte aguzze come i denti di una sega:—Badi di non ferirsi alle squame taglienti della coda! Questi animali sono imbalsamati con un liquido potentemente venefico e il più piccolo graffio può provocare un'infezione.

Lo depongo in tutta fretta. Poi domando: —E tutti questi li avete presi a Kom-Ombos?

—A Kom-Ombos!—Il siriano dà in una risata.—A Kom-Ombos da centinaia d'anni non c'è più l'ombra di un coccodrillo!

Io lancio un'occhiata di sdegno a Khalil, il quale, per nulla turbato, finge di non accorgersene.

L'altro continua:—Bisogna risalire fino al Nilo Bianco per trovarne; un viaggio di circa tremila chilometri.

Khalil interviene placidamente:

—C'è pure qualche avanzo di coccodrillo mummificato a Kom-Ombos.

—Già,—dice con una strizzatina d'occhi il siriano. E rivolto a me, si dimostra bene informato: —Se ne trovano infatti i resti nelle rovine del Tempio dedicato a Sebek, l'antico dio-coccodrillo, dio delle tenebre, ritenuto il più malefico di tutti gli dèi egizi. Durante il regno di Neos Dionysos quel culto a Kom-Ombos era tenuto in alto onore: come anche nell'oasi del Fayum, dove in un lago allora esistente nuotavano i sacri anfibi, custoditi da sacerdoti, propiziati con laudi e preci, e adorni di gemme come delle belle dame… Ma tutto ciò—conclude il dotto siriano,—risale a circa due millenni fa.

Io guardo con cipiglio il sorridente Khalil.

Bene per me che non ho ritardato la partenza, che non ho accettato di passare la notte in barca sul Nilo, per vedere all'alba i resti di un coccodrillo mummificato dell'epoca tolemaica!

Contemplando i sinistri mostri ghignanti intorno a me, mi domando come mai, anche nei tempi più remoti e oscuri, degli esseri umani abbiano potuto adorarli e decorarne lo squamoso collo di gemme.

—Vuole comprarne uno?—mi chiede il siriano con voce suadente.

—Misericordia!—esclamo inorridita.— Mai!

La parola «mai!»—come anche la parola «sempre!»—va usata con prudenza dalla donna. Soltanto chi conosce a fondo la frale e instabile psiche femminile potrà spiegarsi come, dieci minuti più tardi, io mi trovi proprietaria di un orribile coccodrillo che sorride cinicamente con tutti i suoi ottantaquattro denti. (Il siriano me li ha fatti accuratamente contare, osservando che, in proporzione, il prezzo di due sterline è straordinariamente modico).

Appena concluso il contratto, per timore ch'io cambî idea, egli consegna l'animale al nubiano, che se lo pone in testa, e parte di corsa a portarlo all'Hôtel.

… Quando vi giungo anch'io—frettolosa. poichè non mancano più che quaranta minuti









alla partenza del treno—interrogo con un certo imbarazzo il portiere.

—Dica un po'… hanno forse portato qualche cosa per me?… Un… un coccodrillo?

—No, signora:—dice Herr Müller.—Finora nessun coccodrillo è arrivato.

La sua correttezza professionale gli vieta sorriso o commento.

Passa un quarto d'ora e il coccodrillo non si vede. Salgo nell'automobile, dove già altri viaggiator aspettano per recarsi alla stazione; penso con sdegno, e insieme con un certo senso di sollievo, che probabilmente quel nubiano col coccodrillo in testa avrà fatto semplicemente il giro del Bazar e sarà ritornato al suo negozio.

Herr Müller allo sportello, con l'inchino del commiato, mi domanda:

—E se arriva il…

Lo interrompo nervosamente:—Lo tenga pure lei! No! Non me lo faccia seguire.

E mentalmente rendo grazie al «dio delle tenebre» che il suo rappresentante impagliato non è nell'automobile con me.

Ho già preso il mio posto d'angolo nel piccolo treno dai vetri azzurri che mi condurrà traverso il deserto, quando affacciandomi al finestrino vedo irrompere nella stazione un gruppo d'indigeni che parlano e gesticolano concitati, interpellando facchini e ferrovieri. Centro del rumoroso branco è il nubiano, insieme a un «boy» del Cataract Hôtel nella sua uniforme scarlatta.

Il ragazzo reca tra le braccia—horresco referens! —il mio coccodrillo, parzialmente avviluppato in ampi fogli di giornale; vedo sporgere dalle due estremità del lungo involto l'aborrito ghigno e la micidiale coda.

Mi ritraggo, mi rannicchio; voglio celarmi… invano! Il ragazzo già mi ha scorta e si precipita verso il mio scompartimento, seguito dal codazzo d'indigeni e, più lentamente, dal capostazione e da altri maestosi funzionari in fez.

Inchini, sorrisi, spiegazioni. Il nubiano era realmente andato all'Hôtel, ma aveva consegnato il mio acquisto a un'altra signora.

—Perdonami, lady!—dice lui.—Ho creduto che eri tu!… Capirai, per noi negri, le donne bianche si assomigliano tutte. Impossibile distinguerle una dall'altra.

Confortante pensiero!

Frattanto il coccodrillo viene issato dentro al finestrino e spinto tra le mie riluttanti braccia. Rinnovati inchini e saluti; mentre io— amara ironia!—debbo elargire ringraziamenti e mance.

Il treno corre.

Il coccodrillo ballonzola sulla reticella sopra il mio capo. Tratto tratto gli lancio una bieca occhiata: i vetri azzurri prestano una scialba tinta cerulea al suo satanico sorriso.

Dovrò dunque portare attorno, per terra e per mare, per l'Africa e l'Europa, per frontiere e dogane questo esecrando anfibio?…

Non voglio pensarci!

Il treno corre; corre sull'oro sterminato del deserto, serpeggia lungo le ampie curve del Nilo, si slancia verso Luxor.

Le colline arabiche si aprono, si allargano…

Ecco la roccia solitaria che chiude la vallata desertica… ecco i gracili minareti di Esneh… ecco le caotiche rovine del Tempio di Karnak…

Ed ora sull'immensa spianata tebaica appaiono i due colossi di Memnon, i giganteschi custo di della Vallata dei Re.

E dai misteriosi penetrali di quella valle di tombe mi pare che giunga, come soffio di vento ultra-terreno, il profondo e calmo respiro dell'Eternità.

Il mio meraviglioso soggiorno in Egitto volge al suo termine.

Qualche giorno ancora, e poi questa radiosa Luxor, Tebe la magnifica coi suoi colossi calmi e terrificanti, e l'angoscioso mistero delle Vallate sepolcrali, e le ciclopiche rovine di Karnak e del Ramesseum… tutti, tutti mi sembreranno un sogno, come oggi, qui, un sogno mi appare la lontana Europa colle sue moderne città febbrili e rumorose.

… La barca colla grande vela a sghembo mi porta attraverso il Nilo, dalla gaia sponda Est alla tragica riva Occidentale sacra alla morte.

L'acqua in quest'ora mattutina è crudamente azzurra sotto il folle turchino del cielo; e tutt'intorno fluttua e risplende quella tinta di vivido azzurro, tinta di scarabeo, così cara agli egizi che lo chiamano «il colore dell'amore».

Mi sporgo dalla barca e tuffo una mano nell'acqua: la rialzo sgocciolante di zaffiri.

Il barcaiolo copto interrompe la sua canzone —quella strana antichissima cantilena, a un tempo così triste e così veemente, di tutti i barcaioli del Nilo.

Lish rub al Mayeb en Nil awadeh— mormora egli colla sua dolce intonazione araba. —«Chi beve l'acqua del Nilo deve ritornare».

Subito rituffo nel sacro fiume ambo le mani, stringendole vicine per trattenere quant'acqua posso nell'incavo dei palmi.

E formulo il mio voto:

—Ch'io ritorni a te, o Egitto, terra ammaliatrice! Al tuo desolato splendore, alle tue giornate vampanti, alle tue notti di velluto, ai tuoi tramonti di fiamma!… Ch'io ritorni, o Egitto, a te!

E bevo. Bevo a piccoli sorsi l'acqua fresca e leggiera, la magica acqua che lascia nell'anima la sete inestinguibile del ritorno.

Ci avviciniamo alla sponda di Tebe, Tebe superba, che nella notte dei secoli levò alta sul mondo la fiaccola della civiltà, mentre ancora nel nostro occidente settenrionale il pensiero umano dormiva.

Là sulla riva mi aspetta il dragomanno— non altri che la mia prima guida, il fedele Yahia, che ho ritrovato iersera alla stazione di Luxor. Tiene per le briglie due nerissimi cavalli che coi sottili garretti affondati nella polvere volgono in giro l'occhio inquieto e le orecchie sospettose.

Partiamo subito a galoppo verso la catena dei monti libici che, lontana ancora, si erge davanti a noi come un immane baluardo biancastro: torreggiante necropoli le cui viscere aride e calde hanno occultato per millenni le umane spoglie dei Faraoni.

Temendo che vandali di future generazioni potessero turbare con sguardi profanatori e mani violatrici il loro sacro riposo, quegli antichi re scavarono nelle profondità dei monti i loro giganteschi sepolcri, vere cattedrali sotterranee; ivi, coricati sul fianco sinistro, col viso rivolto ad Oriente dovevano aspettare che il Dio Sole, passando nella sua grande barca, li sollevasse e li portasse verso le luminose plaghe dell'Immortalità.

Secondo la loro fede, per conseguire l'eterna vita occorreva la intatta conservazione del corpo; quindi non a torto prescelsero a sepolcreto i recessi calcarei di questi monti, che hanno la virtù di conservare indefinitamente immutato ciò che si confida alle loro profondità.

Difati, quando le torce brillarono, or non è molto, nel buio della tomba di Tut-Ankh-Amen, rimasta fino ad oggi inviolata—agli occhi stupefatti degli scopritori tutto vi apparve incredibilmente nuovo. Gli oggetti d'oro risplendevano come bruniti la vigilia dalle mani che ve li avevano deposti trentacinque secoli fa; incorrotti erano i delicati cibi, inalterati i leggeri indumenti preparati per il risveglio del giovane sovrano. E alcuni fragili fiori, sbocciati sulle sponde del Nilo quindici secoli prima che nascesse Gesù Cristo, poggiavano, vizzi appena, alla parete della cripta.

È probabile che, domani, quando gli archeologi apriranno il sarcofago dorato che rinchiude ancora la salma del Faraone, disfatte le lunghe bende che lo avvolgono, si troveranno di fronte a un adolescente dai lineamenti pressochè intatti, quasi la fiamma vitale che li animò si fosse da pochi giorni spenta.

Ma non è verso i lugubri splendori della Vallata dei Re che stamane ci dirigiamo.

Il mio pensiero rivolto all'Italia e alle imponenti scoperte fatte dalla Missione Italiana sotto la direzione del grande egittologo Ernesto Schiaparelli, mi spinge a visitare anzitutto la Vallata delle Regine, dove le sovrane, anche morte, si appartano umilmente dai loro augusti sposi e signori, come in un funereo harem.

Oltrepassato dunque il mirabile Tempio tolemaico di Deir-el-Medineh, volgiamo bruscamente ad Ovest e penetriamo in una chiusa valle di grande bellezza.

Galoppando sulla scintillante sabbia tra il duplice baluardo di pallide rocce, si giunge in breve ora a Biban-el-Harim, e i cavalli si fermano davanti al lungo steccato che rinchiude gli scavi delle tombe più importanti.

Un guardiano arabo esce dalla sua cabina e viene ad aprire il cancello; guarda il mio permesso d'entrata e saluta rispettosamente.

Io entro nel recinto, mentre Yahia si ferma di fuori coi cavalli.

—Ti prego—mi dice il guardiano—di voler aspettare qualche momento. È annunciato l'arrivo di una comitiva di turisti Cook. Non possono tardare. Così tu potrai andare con loro a visitare le tombe.

—Ma io non voglio andare coi turisti Cook!

—esclamo.—Voglio andar sola.

—Sola? Tu vuoi scendere sola nelle tombe?

—esclama stupefatto l'arabo.

—Sola!—affermo io, risoluta a non lasciarmi guastare impressioni e commozioni da garruli turisti o da loquaci guide.

—Ma porta almeno con te il tuo dragomanno! Baderò io ai cavalli,—insiste lui.

—Non è necessario.—E m'incammino balda verso una delle cupe aperture rettangolari nel fianco della montagna.

Il guardiano mi rincorre.—Ma, lady! lady! Fèrmati! Le tombe non sono illuminate. Se vuoi scendere, devi portare una lampada con te.

Sparisce nella cabina e torna fuori con una lucernetta ad olio; è accesa, ma la pallida fiammella è quasi invisibile nella gran luce meridiana.

—Bada di scuoterla sempre,—mi ammonisce, —altrimenti si spegne.

E soggiunge fissandomi attonito:

—Ma non avrai paura laggiù?

Mi stringo nelle spalle. L'idea d'avere un po' di paura quando non si corre alcun pericolo è piuttosto allettante…

—Invero,—mormora lui,—tu sei coraggiosa come una pantera nelle foreste di Djurdjurah.

Scotendo vigorosamente la lucerna, entro nella prima tomba che mi si presenta. È la dimora funeraria della sovrana Nefertari. sposa-sorella del grande Ramses II, e madre di quella dolce Myriam che salvò dalle acque il piccolo Mosè.

Scendo per una ripidissima gradinata che si sprofonda nelle viscere della montagna, e penetro in un vestibolo quadrato dal cupo soffitto tempestato di stelle. È un antro caldo e oscuro. Scuoto sempre la lucerna di cui la fiamma si abbassa per mancanza d'aria.

Mi guardo intorno. Le pareti sono fittamente coperte di bassoriblievi e di dipinti, mirabili per delicatezza di linea e freschezza di colori. Mi domando, stupita, per quale prodigio il genio umano abbia potuto compiere in queste tenebre delle opere d'arte così meravigliose.

Ovunque campeggia la soave figuretta della giovane sovrana, dal gracile corpo d'adolescente, dalle guance rosate, dagli occhi allungati col bistro. Nella sua rigida snellezza ella appare —come tutte le figure femminili egizizne di cinquanta secoli fa—prettamente stilizzata.

Ma sarebbe errato attribuire la linea esile, gli esigui fianchi, il gracile seno della donna egizia ad una «maniera» degli artisti di allora. Dagli studi dell'antropologo Giovanni Marro, compiuti su centinaia di scheletri scoperti a Gebelein, risulta che la struttura ossea femminile di quell'epoca quasi non si differenziava da quella maschile—gracilissima anch'essa—e che le donne egiziane erano di fatto quali le troviamo rappresentate: dei tipi d'una snellezza ultra-moderna, dai sottili, quasi asessuali, corpi di efebo.

Discendo per un'altra gradinata alla profonda cripta che contiene il sarcofago; sopra l'architrave della porta, una Dea della Verità distende le ali variopinte.

Anche qui, sulle pareti e sulle quattro grandi colonne, seguiamo la vezzosa Nefertari nel suo pellegrinaggio per il Regno dei Morti.

La vediamo inginocchiata ad adorare il Dio Sole; china ad impetrare grazia all'austero Osiride e al suo terrificante tribunale di mostri e di demoni. Questi pesano solennemente in una bilancia il piccolo cuore della regina; e nel piatto di contro c'è una piuma. Se il cuore non pesa meno della piuma, la reginetta, ahimè! sarà condannata a perpetui tormenti…

Ma accorre a confortarla Hathor, la gioiosa dea della voluttà e dell'amore, che la protegge da mille altre paurose divinità: divinità alate e leonine, divinità dalla testa di scorpione e dalla testa di scarabeo…

Torno fuori all'aperto nella luce abbagliante del giorno.

E vedo che è giunta al cancello la comitiva Cook: veli verdi, voci stridule, risate chiassose, e un gran parlamentare col custode che controlla i permessi d'entrata.

Dovrei aspettarli? No, davvero!… E rapida m'inoltro, seguendo la muraglia Est della montagna, finchè trovò l'entrata di un'altra tomba marcata col numero 52. È la tomba della regina Thiti; mi ci riparo frettolosa.

Per entrare in questa caverna non vi sono scalini ma un ripidissimo pendìo diroccato. Si scende quasi scivolando; i sassi rotolano di sotto ai piedi, e la muraglia rocciosa si rinserra soffocante all'intorno. Entrando nel buio di questo sepolcro, mi sembra invero di lasciare lontano dietro di me il soleggiato mondo dei vivi.

Penetro in un lungo corridoio; poi in un'ampia cappella da cui s'intravvedono altre stanze sepolcrali. Sulle pareti danzano mille demoni e si snodano dei grandi serpenti verdastri; la bieca dea Selket col suo scorpione in testa mi fissa con occhio torvo… Il caldo è asfissiante ed io devo scuotere continuamente la lampada di cui la fiamma oscillante brilla più intensa per un attimo e poi nuovamente si abbassa.

D'improvviso sento corrermi nelle vene un piccolo fremito nervoso. Penso:

—E se mi venisse male, quaggiù, in questa tomba dove nessuno mi ha visto entrare? Sarebbe pur terribile!… Tanto più, che se anche gridassi a squarciagola nessuno mi udrebbe…

Poi, assennata, ragiono:—Ma io non mi sento affatto male. Perchè fantastico così? Per fare dello «sport» colla paura? No. Io voglio essere la pantera delle foreste di Djurdjurah!

E m'inoltro con passo deciso verso l'ultima stanza.

Qui si spalanca la profonda cripta del sarcofago. Mi sporgo a guardar giù. È vuota.

Come immenso è il silenzio! La fiamma della lampadetta vacilla, sempre più fievole; pare soffocata anch'essa dall'afa irrespirabile di questo luogo. La scuoto, la innalzo… e trasalisco.

A due passi da me, adagiata in una nicchia tra ghirlande di fiori appassiti, vedo una macabra figuretta, dalle scarne mani contorte, dal terrificante sorriso, dalle vaste occhiaia piene di tenebre—spaventose occhiaia che sembrano guardarmi con minaccia. Mi par quasi che sia la Morte stessa che mi guata così.

Rimango immobile a contemplarla. Immobile?… Sì. E nella mia mano la lampada chetamente si spegne. Io sono al buio, sotto la terra, con quella morta; nell'immenso silenzio e nella completa solitudine.

Il cuore comincia a battermi con violenza.

Come troverò la strada per uscire? Come potrò tornar fuori al sole?

D'un tratto… mio Dio!… qualcosa accanto a me… si muove! Non mi sbaglio: ho udito come un subdolo fruscìo… Il terrore m'irrigidisce, un brivido glaciale mi percorre tutta, ruscellandomi dalla nuca alle calcagna.

Pietoso Iddio! Che cosa c'è di vivo in questa tomba con me?

Con gli occhi sbarrati nel buio sto in ascolto… ecco! ecco… ancora! Qualcosa mi ha sfiorato la guancia… come un soffio… come un respiro…

Getto un urlo, un urlo che cade molle e sordo in quest'antro sotterraneo. Lascio cadere la lucernetta che batte il pavimento con metallico rumore… Brancico frenetica cercando l'uscita. Non so più orientarmi. Urto contro le pareti, batto il viso contro le colonne… E il cuore mi martella così pazzamente che mi pare debba cogliermi il deliquio o la sincope…

Dov'è rimasta la pantera del Djurdjurah?

Delle voci… dei passi… delle risate… È la comïtiva Cook (oh, adorabile comitiva Cook!) che scende nella tomba con lampade accese, con guide, con guardiani. Odo la voce dell'interprete (oh, deliziosa voce!) che esclama:

—Qui ci troviamo nella Tomba della Regina Thiti di cui le spoglie umane furono disperse. In una nicchia laterale voi vedrete una giovane donna detta «la Cantatrice», amica della regina, che volle essere seppellita accanto a lei…

Con slancio gioioso mi precipito verso quelle voci, quelle luci.

Ma più rapido di me si slancia fuori dalla cripta un pipistrello. La sua ala mi sfiora la guancia, come un soffio… come un respiro…

—Mia cara, vuoi la mia candida opinione?

E Flora si appoggiò indietro nella poltrona di vimini, accavallando le gambe nelle lucide calze di seta paglierina:—Ebbene, secondo me, l'Egitto è una montatura. L'Egitto… è un «bluff».

—Sciagurata!—esclamai—che cosa dici? Flora ripetè la trasecolante asserzione; poi battè la mano ingemmata sul tondo campanellino d'argento per chiamare un cameriere.

L'ho ritrovata qui a Luxor, la mia cinica amica, al mio ritorno iersera dalla Valle delle Regine. Da quando un mese fa, al Cairo, ci eravamo lasciate—lei per recarsi coi compagni a Sakkara, io per andare alla ricerca di Zagloul Pascià,—non avevo più avuto sue nuove; quasi non avevo più pensato a lei.









Ed ecco che iersera, traversando il vestibolo di questo pittoresco Winter Palace Hôtel, la scorsi seduta sul terrazzo con un romanzo francese sulle ginocchia e una sigaretta in bocca. Contemplava sbadigliando il Nilo opalescente sotto il cielo di corallo e d'ametista.

La chiamai.

—Flora!…

Si volse di scatto, mi vide. Buttò in terra il libro e mi corse incontro.

—Sei tu!—Mi abbracciò e mi baciò.— Sia lodato il cielo!

Sorridendo ricambiai l'abbraccio.—Non sapevo che la mia presenza potesse darti tanta gioia.

—Neanch'io!—dichiarò lei con la sua solita cruda sincerità.—Ma mia cara, bisogna sapere fino a che punto io mi annoio!—Mi trasse fuori a sedere sul terrazzo del Palmgarden. —Il mio tedio della vita è giunto fino al delirio, fino al parossismo.

—Ma Flora! Come è possibile annoiarsi in Egitto?!

Fu a questo punto ch'essa enunciò il suo apprezzamento irriverente per questa terra d'incanti.

—Sei dunque sola qui?—domandai.— Gli altri dove sono rimasti?

—Gli altri!…—Flora levò gli occhi al cielo.

—Ma sì! I nostri compagni di viaggio: mia cognata, il pittore nevrastenico, Sofia, Ortensia, l'ingegnere… tutti insomma.

—Non parlarmene. Sono qui; sono tutti qui. Se ti ho detto che mi annoio fino allo spasimo è appunto per la loro presenza. Bisogna sentirli! Ormai non parlano più che di Amenofis, di Tutmosis, di Ra, di Ptha, di Ka… Sono maniaci. Capaci di tornare dieci volte alla tomba di Thi per decifrare un geroglifico; capaci di stare delle giornate intere a contemplare un tramonto…

—«Delle giornate intere»? Esageri!

—No. È così.—Accese un'altra sigaretta.

—Basta. Non parliamone più! Quella gente mi esce da tutti i pori. Prendiamo piuttosto un mint-julep.—E al cameriere abissino che s'inchinava davanti a noi ordinò l'aromatica bevanda.

—Ma dimmi di te,—insistetti.—Che cos'hai fatto dacchè ci siamo lasciate quella mattina al Shepheards Hôtel?

—Ho fatto le solite cose;—e Flora soffiò il fumo dalle fini narici come un grazioso drago in miniatura.—Sono stata al Museo Egizio e al Museo Arabico; sono stata al Mokattam e alla Sorgente di Mosè; al Barrage e alla Foresta Pietrificata. Ho visitato le Moschee ed i Bazar; ho comperato dei tappeti di Bokhara e degli esemplari del Corano; dei piatti di Rodi made in Germany e delle antichità fabbricate qui, dagli indigeni, durante i mesi di morta stagione.

—Ma Flora!… Non sei dunque stata a Memfi? a Dendera? ad Abydos?

—Sì, sì; mi sono buscata dei raffreddori nei Templi e ho rischiato di soffocare nelle Tombe. Mi sono anche sgangherata la spina dorsale galoppando per monti e per valli su quei frenetici asini e quegli indemoniati cavalli del deserto.

—Potevi viaggiare coi cammelli.

—Sì, sì, parlamene dei cammelli!… che quando sei giù sono invitanti come una sedia a dondolo, e quando sei su pare di essere sulla guglia di un campanile durante un terremoto sussultorio. Ho fatto tutta la gita a Sakkara sopra un ipocondriaco cammello mugolante e gorgogliante, che ogni tanto voltava indietro la testa a guardarmi con un occhio enorme, spaventoso!… Ti accerto, mia cara, che i cammelli mi escono da tutti i pori.

Io risi.—È strano—osservai,—come l'Egitto non ti ha affatto cambiata! La sua grandezza, la sua arte non hanno lasciato impronta sulla tua anima? La sua storia non ti ha impressionata?

—Sì, sì! mi ha impressionata,—disse Flora. —La notte soffro d'insonnia, o mi sveglio di soprassalto credendo d'avere la stanza piena di Faraoni.

E sorseggiando il mint-julep, concluse:

—Basta. L'Egitto mi esce dai pori. Preferisco Viareggio o Montecarlo.

Dall'atrio giunge un suono di voci, un trillìo di risa—squillanti accenti latini, più acuti che non i soliti smorzati toni degli anglosassoni.

—Ecco gli amici,—dice Flora.

Ritornano infatti da Karnak, ed entrano sorridenti e garruli nel Palm-garden. Hanno tutti adottato nell'atteggiamento e nel vestire un non so che di esotico.

Subito mi sono d'intorno con esclamazioni ed interrogazioni.

—Ma dove sei stata? Perchè non ci hai scritto? Perchè non ci hai aspettati al Cairo?

—Credevo che mi avreste raggiunta ad Assuan.

—Amica mia!—esclama Ortensia, che ha inalberato sulle abbreviate chiome un casco coloniale adorno di un lungo velo verde,— non abbiamo potuto strapparci alle meraviglie di Luxor. Questa maliarda ci tiene nelle sue spire.

Sofia, la moglie del pittore nevrastenico, soggiunge con impeto lirico:

—È come se Tebe avesse chiuso intorno a noi le sue Cento Porte, per imprigionarci eternamente nel cerchio dei suoi splendori!

E mia cognata, che a casa sua non si occupa che di ménage e di menu, e non parla che dei misfatti delle persone di servizio, enuncia con gravità:

—Figurati che negli scavi di Deir el Bahri abbiamo appreso che Tutmosis e Khounaton sono la stessa persona!

(Evito d'incontrare lo sguardo di Flora).

—Ti sbagli—la corregge Ortensia;—non era Tutmosis, ma bensì quel decadente di Ramsete secondo, che dopo aver preso in isposa le sue due sorelle e le sue tre figlie…

—Essendo re—spiega mia cognata,—gli erano imposte le nozze consanguinee.

—Infelice uomo!—esclama il pittore,— se ha dovuto sposare tutta la sua famiglia!…

Sua moglie gli taglia la frase con un'occhiata sdegnosa; poi rivolta a me, e scandendo enfaticamente le parole:

—Tu forse non sai che c'erano delle femministe anche sedici secoli prima dell'êra cristiana?

Veramente non lo sapevo.

—Ebbene, la regina Hatshopsitu…

—Detta anche Hatasu,—interpone mia cognata.

—… vestiva da uomo, portava una barba finta e s'infischiava di suo marito.

—Che la uccise,—conclude con voce cupa il pittore.

—Non è vero!—esclamano all'unisono Sofia e Ortensia.

Flora esasperata scatta in piedi.

—Sarà meglio andare a vestirsi per il pranzo, —dichiara.—Tanto più che stasera c'è il ballo di gala.

Il pranzo trascorse piacevolissimo.

Nonostante le sarcastiche smorfie di Flora, io volli farmi narrare dagli amici, avventure ed impressioni di viaggio.

Ortensia, che con suo marito e l'ingegnere Armandi era stata alla caccia degli sciacalli, me ne fece una drammatica descrizione.

—… Ed eccoci là, fermi, immobili, in sella, col fucile puntato davanti a un campo di canne da zucchero! Dei piccoli negri nudi battono le canne con strilli da indemoniati… D'un tratto balzano fuori gli sciacalli… qua!.. là!.. da tutte le parti… sembrano dei grossi cani… Noi subito: pum! pum!… Ah, era davvero emozionante!

—E gli sciacalli?

—Sono scappati,—disse Ortensia.

Poi fu Sofia che raccontò:

—Al Cairo, Piero ed io siamo stati invitati una sera a un matrimonio arabo; però non fu concesso a lui di entrare nella casa della sposa; nel cortile un gruppo d'uomini gli si fece incontro sbarrandogli il passo. Dovetti salire sola nell'harem. Io avevo imaginato un harem come quelli nelle Mille e Una Notte: veli… profumi… fontane zampillanti… Ma in arabo harîm non significa che «vano interdetto», ed esiste in tutte le case; è l'appartamento riservato esclusivamente alle donne e nessun uomo estraneo alla famiglia può varcarne la soglia.

—Sventurate arabe!—rise l'ingegnere.— È dunque escluso per loro il più innocuo «flirt»!

—Sono forse più felici di noi,—sospirò Ortensia.—Esse almeno non hanno l'amarezza di vedere i loro uomini intessere il «flirt», innocuo o meno, con altre donne; e neppure li vedono ogni sera ai dancings stringersi al petto delle creature seminude nel voluttuoso abbandono dei «Blues».—E Ortensia lanciò uno sguardo saettante alla tavola vicina, dove cinguettavano delle fanciulle nordiche, aristocraticamente sfrontate e provocanti.

—Entrai dunque sola in quella casa— riprese Sofia,—portando un mazzo di fiori per la sposa. Traversai varie stanze dove delle vecchie ancelle arabe sedute in terra salmodiavano o pregavano; e mi diressi verso l'ultima sala da cui giungeva un suono di cetre e tamburelli, e risate argentine, e un ritmico batter di mani. Questi suoni cessarono qualche istante prima del mio arrivo. Sulla soglia dovetti sostare; la stanza sfavillante di luci era gremita da una folla di giovinette sedute in terra, tutte strette e vicine. Nessuna parve badare a me; alcune volsero il capo a guardarmi, poi ripresero il loro gioioso cicaleccio. Erano per lo più belle e di carnagione chiarissima, con gli occhi esageratamente tinti di bistro.

Sopra un divano addossato alla parete sedevano quattro donne in vesti sgargianti e ricoperte di monili e di zecchini.

«Qual'è la sposa?» domandai in francese, chinandomi verso la fanciulla che mi era più vicina. «È una di quelle quattro sul divano?»

Essa rise e scosse il capo:

«Quelle sono le ballerine.»

«Ballerine? E come fanno a ballare se non c'è posto neppure per alzarsi in piedi?»

L'altra mi fissò stupita:

«E perchè dovrebbero alzarsi in piedi per ballare?»

In quel punto ricominciò il cadenzato batter di mani e di tamburelli, e subito le quattro donne sedute sul divano, facendosi schermo col braccio al viso, iniziarono le caratteristiche mosse ondulanti e convulsive della danza orientale.

… La sposa, frattanto, era al piano superiore chiusa nella camera nuziale con la madre e qualche amica più intima, essendo imminente l'arrivo dello sposo. Questi, secondo l'uso, non l'aveva mai veduta…

—Mai veduta?!—interruppe Ortensia.— E se poi non gli piaceva?

—Sette donne della sua famiglia erano andate a trovarla e gli avevano riferito ch'era bella,—spiegò Sofia.—E lo era infatti.

—Tu l'hai vista?

—Sì. Una ragazzina mi condusse di sopra perchè potessi recare i miei fiori e i miei auguri.

La sposa stava ritta, immobile sotto il bianco velo, e a lato due fanciulle, in posa ieratica, reggevano due candele accese. Accettò i miei fiori e i miei auguri con un piccolo cenno della testa; poi riprese il suo atteggiamento statuario in mezzo alle due oscillanti fiammelle.

In quel punto scoccarono le undici; e subito lo sposo entrò, seguito dal padre e dai fratelli; tutti erano vestiti di nero all'europea, ma col rosso tarbush sul capo in segno di rispetto.

Il giovane si avvicinò. Appariva commosso. Alzò con gesto grave il velo della sposa, ristette un attimo a mirarla estatico; poi si chinò a baciarla in fronte. Indi pronunziò solennemente la formula rituale:

«In nome di Allah!»

E le chiuse sul polso un braccialetto d'oro, simbolo per lei di volontaria schiavitù…

Sofia tacque.

Passavano i camerieri servendo il gelato in scintillanti barchette di ghiaccio decorate di bandierine e di lumi variopinti.

D'improvviso Flora, ch'era sempre rimasta silenziosa, fece una inattesa dichiarazione.

—Io sono stata in una fumeria di hashish.

—Tu?… In una fumeria?…

—Ma come? Quando? Con chi?

—E perchè non ce l'hai detto?

Flora rise.—Non volevo obbiezioni o divieti.

—Ma che divieti!—saltò su Ortensia.— Saremmo venute anche noi!

I mariti protestarono.

Flora riprese:

—Ho combinato con miss Kay, quell'americana che era al Shepheards, di andarvi una notte col dragomanno Abdul.

Ci vestimmo molto semplicemente di scuro, e uscimmo verso la mezzanotte dall'albergo.

Abdul ci condusse traverso il Quartiere del Pesce, ignobile quartiere dove donne d'ogni razza, scintillanti d'orpelli, stanno esposte in vani aperti sulla strada. Ivi rimangono tutta la notte in attesa. Dietro a loro, delle tende variopinte celano un'alcova…

Ci affrettammo a uscire da quel tristo luogo; e attraverso un dedalo di viuzze scure giungemmo in un cortiletto fiocamente illuminato da una lanterna.

Abdul battè tre colpi alla porta d'una casetta bassa. Dietro la fitta musharabia moresca qualcuno c'interpellò; poi un vecchio arabo, che fingeva d'essere assonnato, aprì cautamente l'uscio, richiudendolo in fretta dietro di noi. Confesso che penetrai con un certo batticuore in quel luogo dall'aspetto così poco rassicurante.

«Badate ai gradini!» ammonì il vecchio.

Difatti, ai nostri piedi una scala s'inabissava ripida in un sottosuolo.

Scendemmo trepidanti, volgendoci tratto tratto per vedere se Abdul ci seguiva, e percorremmo un corridoio dove molli tappeti smorzavano i nostri passi.

Dal fondo dell'andito giungeva una musica in sordina, una malinconica nenia di tre note sempre ripetute; faceva da accompagnamento al trillo acuto, insistente di un usignolo meccanico, uno di quegli usignoletti dorati che si vedono in Germania infissi sulle scatole da «carillon».

Entrammo nella penombra di una lunga sala dalle velate luci rossastra, in un'atmosfera densa di pesanti effluvi; si scorgevano, sdraiate in cerchio su bassi divani, delle figure immobili…

Il vecchio disse anche a noi di sdraiarci. Obbedimmo; ma poichè non volevamo aspirare dalla ghoza gli insidiosi vapori di manzul o di hashish, accettammo invece una sigaretta dal profumo stranamente sottile e deliquescente…

Ora i miei pensieri si confondono. Ricordo che una specie di vertigine mi colse, uno strano senso di leggerezza e di vaneggiamento. Vidi le pareti della sala allargarsi, allargarsi smisuratamente… udii la tenue musica di tre note sorgere in un crescendo fantastico, vibrare come una sinfonia di mille orchestre… e l'esile trillo d'uccelletto trasformarsi in uno scrosciante gorgheggìo, come se in una foresta illimitata migliaia e migliaia d'usignoli lanciassero al cielo la loro folle estasi canora…

Ma d'improvviso udii chiamare il mio nome. Era miss Kay, agitata, tremante, in piedi accanto a me. «Andiamo via! andiamo via! Ho paura!»

Allora un senso di spavento invase anche me; vincendo il torpore che mi strisciava subdolo nel cervello mi alzai, la seguii…

A tastoni, barcollando come ebbre, traver sammo la sala, percorremmo il corridoio, risalimmo le scale. Qualcuno ci aperse la porta…

Allorchè fummo di fuori, ansimanti, respirando a lunghi tratti la fresca aria notturna, ci volgemmo a cercare Abdul. Era con noi; e ci guardava col suo sorriso blando e malizioso.

«No good hashish? Pas bon?»

«No, no!… Pas bon!… pas bon!…»

D'un tratto lo vedemmo trasalire, irrigidirsi come in ascolto. Dei passi cadenzati echeggiavano nel vicolo… si avvicinavano…

Una pattuglia!

Abdul ci afferrò ognuna per un braccio e ci trasse via di corsa.

Eravamo uscite in tempo.

Il pranzo termina. Già nel gran salone delle danze pulsano i sincopati ritmi, le isteriche modulazioni dei nuovissimi ballabili.

Ma nessuna di noi, neppure Flora, si sente attratta dalla snervante musica o dal mondano turbinìo.

Lasciando gli uomini nello «smoking-room» alle gioie dei Nestor e del Cointreau, usciamo fuori sul terrazzo.

La vellutata freschezza della notte cala dolcemente sui nostri nervi. Sedute nelle grandi poltrone di vimini, miriamo il silenzioso fluire del Nilo sotto le stelle; sulle creste dei monti scendono le ombre come un morbido spolverìo di viola.

Restiamo lungamente silenziose. Poi Ortensia, dolce anima rapsodica, mormora:

—Su queste acque un giorno passò una galera d'oro con le vele di porpora. E una donna, dagli occhi oceanici, dalle nubilose chiome strette nel serpentino diadema, posava sul cuore di un romano amante…

Sogguardai Flora, temendo un commento frivolo o mordace.

Ma il fascino della notte orientale aveva afferrato anche lei. Mormorò a bassa voce il nome della regale amatrice, della creatura di fiamma e di passione, inesorabile nell'amore, magnifica nella morte:—Cleopatra!

—La sorellina della Sfinge,—disse Ortensia.

—La sorella di tutte le donne,—disse Flora.

Davanti alla nostra mente passò l'Invocata, la soave e terribile, dall'oscuro cuore insaziato.

Tacemmo.

E forse ciascuna di noi, tardigiunte, noi costrette nel servaggio di aride consuetudini e fredde convenzionalità, sognammo di scendere alla riva del leggendario fiume e trovarvi una nave dalle purpuree vele… una nave che ci portasse lontano dalle squallide realtà della vita, verso un destino risplendente, verso un ineffabile amore, verso una morte superba.

Sole, sole, sole! Un sole che piomba dall'alto e avvampa e accieca e annienta. Un sole che sale dalla sabbia e vibra e pulsa e oscilla.

Sole, sole, sole!

Cavalchiamo in silenzio, il dragomanno ed io, sotto il cielo rovente, sulla rovente sabbia.

Cenere e polvere, sabbia e sole—null'altro è intorno a noi, unici esseri viventi in questo illimitato paesaggio di morte; un paesaggio giallo picchiettato di fori neri che sono tombe, migliaia di tombe scavate nella rena e nelle rocce, dove per secoli si è lavorato a nascondere i morti, e per altri secoli si è lavorato a riesumarli. Ora sono definitivamente abbandonate, povere fosse che non racchiudevano tesori, ma soltanto i resti mummificati di miseri fellah. Qua e là nella polvere si scorge qualche macabro avanzo, qualche lembo di benda annerita, qualche frammento d'ossa…

Cavalchiamo in silenzio, il dragomanno ed io, nella desolata Valle della Morte.

Partendo stamane da Luxor abbiamo seguito per un tratto la strada di ieri sulla sponda occidentale del Nilo, ripassando davanti ai due giganti senza viso, i Colossi di Memnon, isolati ed enormi in mezzo alla pianura di Tebe.

Torreggiano da lontano le due immense figure di calcare rosso sui loro alti troni; il Colosso «canoro», che al levar del sole emetteva una nota dolente ed armoniosa, siede alla destra del silenzioso fratello; sulla sua titanica caviglia sono incisi dodici esametri della greca poetessa Balbilla, ed altre iscrizioni che celebrano il misterioso suo «canto» mattinale.

Secondo un mito d'allora, quel suono soave era un saluto che il morto Memnon mandava ogni alba alla madre lontana. Ma quando, in seguito a un restauro, il Colosso ammutolì, il secolare enigma fu schiarito: era il vento del mattino che, passando traverso una fenditura tra i blocchi di sasso, aveva prodotto quella musicale vibrazione.

Giungiamo alla parete rocciosa di Kurnel Murrai, dove i beduini si sono fabbricati dei tugurî coi cocci di antiche anfore; indi pieghiamo ad Est, e oltrepassando il Tempio di Setos seguiamo la serpeggiante traccia che conduce a Biban el Muluk—la Valle sepolcrale dei Re.

A destra, a sinistra, e tutt'intorno sbadigliano le nere buche che furono tombe di morti, e sono oggi tane di sciacalli e di iene, ed anche rifugi di esseri umani.

Infatti, vedo sbucare qua e là da quegli antri dei fantasmi sparuti, tragici figli del deserto che non hanno altro asilo all'infuori di quelle caverne.

Accorrono e mi circondano con grida inarticolate alzando verso di me gli occhi imploranti, poveri occhi spenti dal sole, dalla miseria e—particolare orrendo!—dalle mosche che si aggrappano alle lunghe ciglia, e ch'essi per inerzia, o forse per superstizione, non si curano di discacciare.

Tendono le mani scheletriche offrendomi ogni sorta di macabri oggetti:

Sitt! Prendi questo piede di mummia!

—Questa vertebra di principe!…

—Questo cranio di sciacallo!…

—Questo sacro gatto fossilizzato!…

Il dragomanno Yahia fa turbinare la lunga frusta e li allontana con irose grida.

Ma io li richiamo; e pur non accettando uè vertebre principesche nè piedi di mummia nè sacri gatti, distribuisco poche piastre a quegli sventurati, ricevendone in compenso tale dovizia di benedizioni che ne resto commossa ed umiliata.

I nostri cavalli riprendono il ritmico galoppo sulla sabbia.

Passiamo dinanzi ad un grigio e grandioso edificio, ultima sentinella sul limite del mondo dei vivi; è il palazzo eretto dallo sventurato Lord Carnarvon per vigilare più da presso i famosi scavi della tomba di Tut-Ankh-Aton, l'adolescente apostata che per cingere la duplice corona dell'Alto e Basso Egitto, rinnegò la sua fede e cambiò il suo nome.

Mi ricorre al pensiero l'oscuro sortilegio che trasse ad arcana morte il nobile Lord britannico. E non lui solo: un misterioso fato doveva colpire anche i suoi amici—il miliardario George Jay Gould, e Wolf Joel, e il celebre radiografo Archibald Douglas Reid…

Senza essere superstiziosa, non posso a meno di ricordare le parole di Amleto, prescienti e profonde:

«There are more things in heaven and earth, Horatio,

Than are dreamt of in your philosophy.»

Ora la cinerea traccia si addentra in una gola lugubre e soffocante; varca la soglia dell'immensa Morgue.

Penetriamo nella Valle dei Trapassati.

Nessun girone dantesco può apparire più grandiosamente spietato, più terrificante nel suo selvaggio orrore. La stretta gola si snoda tortuosa tra due alte muraglie livide.

Ogni segno di vita si spegne.

Un lontano grido di sciacallo… il guizzo di una serpe che s'insinua tra le rocce… il lento roteare di un'aquila che si perde nell'azzurro incandescente… Poi più nulla.

Ad una svolta del sentiero l'arabo sparisce; ed io mi sento completamente sola nella tremenda solitudine.

… Poco a poco, un senso di stupefazione quasi allucinata s'impadronisce di me. Mi sembra di perdere ogni nozione di tempo e di luogo, ogni coscienza della realtà.

Qui, a cospetto dell'Infinito e dell'Eterno, lo spirito si smarrisce. Vani e lontani dileguano i ricordi di un remoto mondo angusto ed affollato. Eventi e sensazioni che un giorno apparivano essenziali e vitali—gioie ed angoscie odî ed amori, aspirazioni e speranze—svaniscono, perdono ogni importanza e significato.

Dove il tempo si calcola a millenni, la nostra breve giornata di vita che cosa conta? Che importa se nel nostro attimo d'esistenza siamo ricchi o poveri, celebri od oscuri, amati o solitari, noi pulviscoli di sabbia turbinanti nel vuoto, faville evanescenti che un soffio spegnerà?

L'immensa dissoluzione circostante proclama che di vero non vi è che il Nulla, di vivo non vi è che la Morte.

La Morte?

No. Al di sopra di lei, maggiore di lei, si erge, sempiterna vincitrice, la Fede.

Qui, in questo enorme cimitero dove le tombe hanno per cupola le montagne desertiche, aleggia quello stesso anelito umano verso la Deità che muove le fronde di lontani cimiteri sperduti, dove la speranza ha per simbolo una croce di legno o una ghirlanda di fiori.

La Fede, istinto primordiale e possente di tutti gli uomini e di tutti i tempi, trionfa anche qui della macabra Devastatrice; e quella stessa forza superna che piega le ginocchia dei credenti nell'ombra delle nostre chiese, prostrava in adorazione del Dio Sole le prime genti al risveglio del mondo.

Il sole! In questa luminosa terra d'Oriente è sempre il sole—il Sole falco araldico, il Sole disco alato, il Sole centro dell'universo—che domina e risplende in tutte le religiose raffigurazioni, divinità suprema e universale.

Quando gli Egiziani imaginavano ancora che la terra fosse una lunga striscia verde tra due deserti e che il mondo finisse alla Prima Cateratta, quando credevano la Notte una gigantesca donna dal corpo picchiettato di stelle, china sopra la terra reggendosi colle mani ad oriente e la punta de' piedi ad occidente, si rivolgevano supplici al divino Aton, astro del giorno, perchè fugasse la Tenebrosa.

E con quale impeto lirico lo sapevano invocare! Udite un Inno al Sole composto cinquanta secoli fa:

Tu ti alzi, o Aton, iniziatore della vita E riempi la terra delle tue bellezze. La luce accompagna i tuoi passi. L'aurora sorge. Le tenebre fuggono quando tu lanci i tuoi dardi.

Oh, felici i poeti d'allora che dicevano quello che nessuno ancora aveva detto! e attingendo a vergini fonti il loro canto, coglievano nuove e mattinali le imagini, presso alle sorgenti prime e purissime della poesia!

La valle termina. Le due pareti rocciose si congiungono, chiudono il varco, ergendosi in un'unica torreggiante muraglia nel cui fianco si spalancano le cupe aperture delle Tombe.

Ben più grandiosi e impressionanti dei sepolcri delle Regine sono questi labirintici templi funerari dei Re.

… Io scendo di gradinata in gradinata, di piano in piano nelle soffocanti profondità. L'enorme calore mi toglie il respiro, mi fa battere tumultuoso il cuore. Passo di vestibolo in vestibolo sotto una foresta di colonne istoriate, sotto le costellazioni dipinte, sotto le immote ali tese di falchi e d'avvoltoi.

Sinistramente illuminati dalla luce elettrica, dèi e demoni si rincorrono sulle pareti, accompagnando col loro sguardo obliquo la fuga dell'anima regale, che—ora fiamma, ora sparviero —trasvola le acque del Nilo, solca i cieli effusi di luce, o scende verso il fatale Occidente dove il sole s'inabissa e si spegne.

Forse il più imponente degli ipogei è quello di Setos I, palazzo sotterraneo di quattordici stanze, degno asilo di riposo per l'edificatore dei Templi di Karnak, di Kurna, di Abydos…

Non lontano è la famosa tomba di Ramsete, chiamata, per una imagine che vi è scolpita, «la Tomba del Suonatore d'arpa»; e più oltre si sprofonda il baratro del saccheggiato avello di Sesostris il Grande, in cui si brancica incespicando tra ammassi di mascerie…

Risalgo dalla Tomba di Neferkere, ultimo dei Ramessidi, e ridiscendo in quella di Ramsete Sesto.

Qui spicca ovunque, inatteso e sorprendente, il simbolo cristiano—la croce. Fu sovrapposta ai simulacri pagani dagli anacoreti copti nei primi secoli dell'età nostra. Si dice che in questa tomba sostasse a riposare Sant'Antonio prima di peregrinare più oltre nel deserto.

… E per ultimo scendo a visitare il sepolcro di Amenofis II.

Qui la profondità è così enorme, il caldo così opprimente, che pare di sentirsi sul capo tutto il peso della montagna sovrastante.

Scendo per gradinate quasi perpendicolari, per scoscesi pendii, per vertiginose gallerie diroccate. Traverso un'angusta passerella gettata sopra una voragine—pozzo scavato per inghiottire i profanatori—e scendo ancora… scendo sempre… Mi pare che non potrò mai più risalire verso la luce del giorno.

D'un tratto il declivio si arresta; la fuga dei corridoi termina; le pareti si allargano in una vasta sala funeraria; sei immense colonne di roccia ne sostengono la vôlta ingemmata di stelle.

Ai miei piedi si spalanca il baratro della cripta. Mi avvicino trepida a interrogarne la penombra dove si profila il contorno di un sarcofago spalancato.

Appena mi chino, il dragomanno fa scattare un faro elettrico che illumina di colpo il viso del morto Re, un viso senza lineamenti, senza occhi, che pur sembra fissarmi, e rimproverare il mio umano sguardo violatore…

Allorchè dal buio delle tombe torno fuori nella vibrante aria aperta, è già il tramonto —l'ora trionfale dell'Egitto, quando in una sola fiamma si uniscono gli avvampanti cieli e l'incendiata terra. Il fulgore è indescrivibile, abbacinante. Sembra che il cielo ad occaso debba schiantarsi per la violenza del suo oro.

E mi pare—fantastica visione!—che da quello squarcio rutilante escano gli antichi Dèi dell'Egitto, varcando a lunghi passi le fiammeggianti creste montane: Aton, dio del Sole, e Thout il pallido dio lunare; Iside la Consolatrice e Hathor dea della Felicità. E la dea Fiore-del-Loto, e gli dèi delle Stelle, delle Nuvole e del Silenzio… e Osiride dio della Morte.

Un brivido corre per le sterminate lande. Sorgono in piedi statue e Colossi… si alzano dai loro seggi le Sfingi, stirando le granitiche membra… dal fondo di templi e di tombe si slanciano a volo falchi ed avvoltoi, e dalle cupe vôlte dipinte salgono le costellazioni a prendere il loro posto nel firmamento…

Con questa visione, in questi sogni, io ti lascio, Egitto, terra di splendore.

Per quante meraviglie tu mi possa ancora rivelare prima che le azzurre acque del Mediterraneo mi portino lontana, nulla potrà uguagliare il tuo fulgore in questo istante. Qui, nell'ora tua più trionfale, nel luogo tuo più sacro, mi accomiato da te.

… Come un immenso susurro, come un gigantesco frusciar d'ali sorge il vento del Sahara e passa turbinando sopra le sabbie.

È forse lo spirito del Deserto che mi saluta?

O Egitto, terra di poesia, terra d'incanti… addio!

FINE

VERSO GLI INVIOLATI SILENZI DEL DESERTO

I. La partenza… pag. 9

II. La traversata 19

III. Howard Carter e il suo canarino 26

IV. L'arrivo 33

V. Mattinata al Cairo 38

VI. Nel Mena-House Hôtel 46

VII. Le piramidi di Ghizeh 51

VIII. L'eterna Silenziosa 56

IX. Una visita a Zagloul Pascià 59

X. L'incanto d'un nome 66

PRESSO LE SCROSCIANTI CATERATTE DEL NILO

XI. L' Isola Elefantina 77

XII. Vaticinio nella sabbia 83

XIII. Scorpioni e serpenti 89

XIV. L'incantatore 96

XV. Gita a un'isola moribonda 104

XVI. L'agonia di File 115

XVII. Elegia desertica 120

TRA GLI ETERNI SPLENDORI DI TEBE

XVIII. Un commiato 133

XIX. Coccodrilli 138

XX. Il funereo Harem delle Regine 148

XXI. Effluvi d' Oriente 160

XXII. La Vallata dei Re 176

Finito di stampare
il 30 novembre 1925
negli Stab. Tip. Lit. Edit.
A. MONDADORI
VERONA