ANTONIETTA GIACOMELLI

SULLA BRECCIA

usque in finem.

Seconda edizione.

FIRENZE,
TIPOGRAFIA DI G. BARBÈRA.
1895.

Proprietà letteraria.

Un altro mio libro, Lungo la via, è stato da taluni—non so come davvero—qualificato un romanzo. Ora, siccome questo è quasi una continuazione di quello, e, come quello, non è che un seguito di pensieri e di sentimenti destati dalla vita, e la parte narrativa non vi è che pretesto, ed è un filo tanto tenue che a volte del tutto, o quasi, scompare, ho voluto, con questa dichiarazione, disingannare in tempo chi nel presente volume cercasse un romanzo.

Roma, Aprile 1894.

A. G.

Roma, 16 Novembre.

Il salotto era buio—non v'era che la luce della lampada del corridoio ch'entrava fioca traverso le vetrate. Non trovavo i fiammiferi sul caminetto—forse speravo di non trovarli. Provai un che di penoso quando sentii sotto la mano la scatolina.

Avevo sciolto il pacco delle lettere perchè bruciassero meglio, a una a una. Buttai la prima sulla cenere e accostai il cerino acceso. Ma la mano tremava, s' accostava troppo poco…. S' accese un angolo, al cerino che moriva—e si spensero entrambi.—Era la prima ch'egli m'aveva scritta—breve, timida ed enigmatica, che m'aveva dato più da fantasticare che da leggere e m'aveva fatto passare una notte agitata e felice…. Provai con un'altra. Un orlo di fiamma cerula progredì rapidamente, cacciandosi dinanzi come un' ombra che andava coprendo le parole; la carta, con un piccolo suono metallico, si accartocciava, si spaccava, in un colore incandescente, che si spegneva man mano.—Erano distrutte entrambe, non rimanevano più che brandelli di un velo nero grigiastro che un soffio avrebbe ridotto in cenere.

Mi pareva strano d' aver potuto. Strinsi forte le altre, come per salvarle da me stessa. Volevo tornar di qua nella mia stanza. rimetterle, rinehiuderle in quel cassetto, tenerle almeno come reliquie del passato. E sentivo la carta fredda sulle mie labbra e la tempesta nel cuore. E in quella tortura mi martellava la voce intima, la voce che da un pezzo mi ripeteva: Consuma, consuma! Mi pareva, adesso, di udirla più forte, di averne paura….

E allora volli buttarle là tutte insieme, farne un falò che mi scottasse il viso e m'intontisse, e facesse nella stanza tetra una gran luce di trionfo. Ma non seppi. La terza, sola, bruciò, lenta, aperta, voltata sì che a quel chiarore tremulo leggeva, leggeva ancora…. L' onda scura velò un «mia», poi un «buona», cui m'era attaccata con uno spasime di tenerezza. E allora buttai là alla rinfusa, nervosamente, macchinalmente, un' altra, e un' altra ancora: e divamparono, e la fiamma faceva piegare i fogli più lontani e li attirava, e ardevano rizzandosi, aprendosi da sè, torcendosi come cosa viva che si ribella. E vidi sparire una data che mi dava dei brividi di rimpianto, la data di un poste lontano dov' egli era andato per me…. E sparì la firma, «Mario.» Aveva aggiunto «vostro per sempre»; e sparì il «vostro», e spari il«sempre,» e la fiamma andò diminnendo, oscillando su quel mucchio leggero, con que'gorgogli come d'aria, sommessi; divenne una fiammella azzurra che vagolava sui fogli carbonizzati, poi puntini incandescenti stridenti, che morivano nel buio. Ed io era sull'orlo della sedia, curva suì caminetto, aspirando l' odore della carta bruciata, col viso ardente e un doloroso martellare del cervello, istupidita.

Buttai là tutto il resto, coll' ultimo cerino. Una nuvola di cenere e di fumo mi respinse: poi la tiamma divampò chiara, allegra, e illuminò tutto il salotto. Guardai in su, al ritratto del nonno. Aveva un colore di vita, e mi pareva che que'suoi occhi onesti e buoni mi guardassero.

Mi restava in mano ancora il ritratto. Quello almeno— almeno quello!…. La fiamma andava diminuendo— non rimaneva quasi più altro che una gran rosa cangiante che si sfaceva leggermente crepitando, e nell' aria rarefatta salivano, volavano brandelli neri. Guardai il nonno ancora, più smorto nella luce che calava, poi mi ritrovai in ginocchio sul paracenere…. La fotografia era sul mucchio che finiva di ardere. Ma lui non ardeva…. Lingue di fiammelle lo circondavano, lo lambivano, il cartone, pertino gli orli dorati, resistevano. Una superstizione del cuore quasi mi faceva scioccamente sperare…. Poi il fuoco aveva cominciato a rodere, al sommo, vicino al capo: ma prima di stiorare i capelli s' era spento.

Feci per ritirare, trionfante, l' immagine invulnerabile. Ma intanto aveva preso a bruciare un angolo. Mi dicevo ch' ero in tempo ancora…. Ma le mani, aggrappate alla tenda del caminetto, rimanevano là avviticchiate, mi paralizzava quasi il malessere di tutto il corpo accasciato, col sangue al capo e i brividi nelle membra. E guardai, immobile, la carta staccarsi dal cartone, incresparsi la mano, poi il viso contraffarsi, sparire. Poi non vidi nè sentii più nulla, e rimasi là al buio, in terra, quanto tempo non so.

Che fantasia m' ha presa di metter qua tutto questo? Strano gusto da decadenti che abbiamo ora di far dell' arte, dell' arte oziosamente analitica, insolentemente serena, a proposito d' ogni nostra miseria, d' ogni nostro spasimo…. Quanto di meglio avremmo a fare! Invece di analisi sterili, quasi compiacenti, quella seria applicazione del «conosci te stesso» ch'è ribellione a noi medesimi e volente amore di progresso.

Più tardi.—Ilo passeggiato un pezzo, in fretta, nel corridoio, sperando di stancarmi, di farmi venir sonno. Inutile. Dianzi, all'orologio del salotto son battute le due. Ora battono a Santa Maria Maggiore. Di giorno non si ode, ma nel silenzio della notte la voce cupa arriva fin qua.

Ilo pensato di cominciare a scrivere il mio giornale. Sarà un amico, cui dirò tante cose, e che, a sua volta, me le rammenterà, più tardi.—Soleva farlo anche la povera zia Annetta. È là fra le sue carte, che Gino ha portate da Treviso, allora…. Ma non ho ancora osato aprirle; mi pare un' indiscrezione, quasi una profanazione.

Invece, dianzi, ho levato dal cassetto, qua, le sue lettere, e ne ho cercata una del marzo dell' anno scorso —tre mesi prima della sua morte. Povera santa donna, quanto bene mi voleva…. Che struggimento di tenerezza mi dà quel pacco così grosso—che male, lancinante a volte, fanno al cuore i caratteri dei cari morti…. Povera zia, ora capisco quanto ha fatto, quanto ha sofferto per noi—ora sento quanto le debbo, e quanto ho da rimproverarmi.—Come sono stata spensierata, come sono stata egoista! Tutto adesso mi torna in mente con una chiarezza, un'insistenza che mi torturano.

Oh! rivivesse per un anno almeno, e lo potessi passare tutto con lei, per lei, giorno e notte, assistendola, carezzandola, non contraddicendola mai, mai…. Perchè non abbiamo insistito ancora più perchè venisse a Roma con noi? perchè lasciarla compiere anche quest'ultimo sacrifizio per quel povero resto d'affari? —Il papà, poveretto, ha fatto di tutto, è vero—anche Gino. Ma io ho fatto troppo poco—troppo poco…. E forse ero la sola io, la sua Nicoletta, che sarebbe potuta riuscire. Oh! adesso lo sento, e non me lo perdonerò mai—mai!—E ultimamente le ho tenuto un po'il broncio per lui…. Dio mio, perchè parmi a volte di tenerglielo ancora? Anche stasera, anche adesso….

Ed è morta sola, senza aver tempo di chiamarei, di chiamar nessuno—d' un attacco di non so qual male ch' essa ci aveva tenuto nascosto. È morta nel suo povero studiolo, davanti a quella scrivania dove passava ore ogni giorno, scrivendo a noi o di noi.— Aveva vegliato tutta la notte, tenuta desta dall'emozione seguita ad un atto compiuto dalla sua anima onesta…. Gino, quando, il giorno dopo, giunse là, trovò sulla scrivania il suo giornale, aperto alla pagina interrotta. Aveva appena cominciato un nuovo quaderno; e fu in quello solo che finora osammo leggere.

Vi aveva scritto la sera prima, per dire che noi pure avevamo fatto il nostro dovere—e che l'indomani avrebbe portato al tribunale quel testamento ch' essa aveva trovato e che di una fortuna un'altra volta ci privava.—Indi aveva letto, pregato, lungo la breve notte di giugno. Poi aveva scritto ancora, sul far del giorno. Era l' aurora d'una domenica. Le ultime righe son vergate con un carattere divenuto d'un tratto tremolante—eppure si leggono bene:

«Sentivo che non avrei potuto dormire, e m'ero messa a leggere vecchie storie—vecchie per la nuova generazione, ma per noi vive sempre, e fulgide—storie di sante lotte italiane, e di martarii, Indi sfogliai i miei volumi gialli, dove risuona la voce di coloro che, ne' primi sccoli, svolsero l'idea cristiana, giganti in ogni tempo. Poi stetti un pezzo qua, parlando, nel silenzio alto della notte, a Cristo redentore.

»Ora si va facendo chiaro di fuori, e la luce della mia lampadina comincia a confondersi col grigio del mattino.

»Ho aperta la finestra. È piovuto stanotte, e i tetti sono ancora umidi. Ora lo strato bigio del cielo si va rompendo verso oriente. Un'aria fresca agita gli alberi degli orti di là, e fa frusciar le foglie della mia edera. Lungo la via s'apre qualche imposta, cigolando. Quelle del povero Nani rimasero aperte tutta la notte, e c' era il lume acceso….

»Ho spento ora il mio. Il cielo è già quasi tutto sereno, e verso oriente va facendosi rosato. Le campane della Madonna Grande suonano a distesa, e annunziono l'aurora del giorno del Signore.

E lo era stata davvero per lei, santa creatura vissuta di fede e di sacrifizi.

Rileggo quella lettera del 13 marzo. Povera zia, aveva voluto prima farmi sorridere con un certo episodio del gatto—e poi aveva alluso a quella commedia di Giacinto Gallina, I oci del cuor.—Oh! se li aveva buoni, povera zia, gli occhi del cuore! Come vedeva addentro, in fondo in fondo, anche di lontano, —come lo aveva indovinato quel mio affetto, puro sì, ma mal posto e malsano, che mi restringeva l'anima in quel culto e mi sciupava la vita…. E come mi aveva presa colle buone, carezzandomi quasi…. Eppure non valse, allora. Gl'innamorati vogliono sentirsi dar ragione sempre—vogliono soprattutto che si dia sempre ragione a chi amano.

Come era vero! Diceva: «Senti, Coletta, mia buona figliuola,—vieni un po' qui dalla zia come ci venivi una volta, quando sedevi sul suo sgabellino verde a fiori gialli—te ne rammenti? e le mettevi in grembo la tua testolina. Lo vedo bene che non ci vieni tanto volontieri, e che invece d'una vecchia zia preferiresti avere per confidente un'amica che s'immedesimasse in tutti i tuoi sogni, e ti desse sempre ragione, e ti aiutasse nel tuo piccolo romanzo…. È naturale. E io di quell' amica imaginaria non sono punto gelosa, perchè so che verrà il giorno nel quale t' avvedrai che l'amica migliore è stata la vecchia zia.»

Oh! se è venuto quel giorno! Ma allora, che rabbia mi facevano quelle buone parole!—E dopo venivano due pagine di giudizi su lui. Erano severi, ma giusti. Perfino io lo capivo, in parte.—Ma non ne sentivo che crescere l'amore e l' ira—e buttai là, mi rammento, piena di rabbia e d'angoscia, la lettera della zia, e corsi a quel cassetto, a guardare e baciare quel ritratto, quelle lettere, a chiamarlo mio, a chiedergli perdono per chi osava offenderlo, ad esaltarmi di collera e di tenerezza.

Neppure avevo voluto terminar di leggere, quella sera, la povera lettera. Forse non la lessi mai bene l'ultima pagina—certo non la intesi mai come ora…. Buona zia, mi diceva: «Povera cara, t'ho detto delle dure parole, lo so. Dure, e che ti parranno inginste, e metteranno nel tuo cuore contro la zia un sentimento di sdegno, e, perfino, una specie di avversione desolata.—Te lo perdono, Coletta, perchè anch'io sono stata giovane….

»Lo so, lo so, figliuola, che cosa passa nel tuo povero cuore—e mentre ti parlavo severa son tornata a quegli anni, e in un amaro ricordo, quassù, dove da te sembro, e per età, e per luogo, e per pensieri e vita, tanto lontana, ho pianto teco.

Qui c'è una riga di puntini, che mi fa indovinare tutta una storia di dolore e di sacrifizio. Poi seguitava: Coraggio. Nelle dolorose esperienze che vai facendo, il tuo cuore non s'accasci, mai! Procederai intanto negli anni, incontrerai nuove prove, e imparerai a frenare la fantasia, che nell'amore ha tanta parte, e quindi a combattere certe simpatie fin dal loro nascere; e imparerai anche a conoscere senza soverchie illusioni nè soverchie diffidenze gli nomini e la vita— e si ritemprerà l' anima tua per le nuove battaglie.

»Coraggio, figliuola, e fiducia in coloro che ti chiedono un breve tempo di lotta intima per salvarti da una vita di dolori e di pericoli. Coraggio, e fiducia in Quello che ama i generosi e i volenti—in Quello che ha destinato il tuo amore ad essere uno di quegli affetti privi di conforti terreni, che valgono a maturar nel sacrifizio il cuore delle fanciulle—uno di quegli affetti che il tempo e le umane e le divine cose fanno svanire, ma che ne' cuori in cui son passati rimangono quale una memoria incontaminata—a quelli che li banno inspirati saran forse, un giorno, salvezza.»

Zia, zia mia, m'hai vista dianzi, di là? Sei contenta della tua Nicoletta? M'aiuterai tu perchè tutto questo s' avveri?

Li 30.—Non ho avuto tempo di scrivere in questi giorni. Certa roba del papà da accomodare, un'amica malata, qualche raccomandazione di cui occuparmi, la ripulitura generale della casa, che mi dà sempre più da fare, perchè la povera Angela diventa vecchia. E come si fa? A un mutamento non è il caso di pensare, chè l'abbiamo portata qui da Treviso, come una di famiglia; e poi, ci ricorda tante cose!…. E di prendere aiuti lo stipendio del papà non consentirebbe; e, fosse anche maggiore, sarebbe a qualche maggior comodo per lui, non per me, che converrebbe pensare. Siamo poi ridotti in due, e non mi posso lamentar davvero di soverchio peso di famiglia. Ce ne fosse di più! Ha lasciato un così gran vuoto il nostro Gino!

Eppure, meglio così. Egli avrebbe avuto modo di rimanere a Roma, e con patti vantaggiosi e prospettive promettenti. Ma ha preferito concorrere, come incaricato, alla cattedra di filosofia del diritto all' università di Siena. Qui sarebbe stato imbrancato con giovani più o meno schiavi della corrente—là egli si afferma.

Il nostro quartierino va diventando troppo grande —e lo diventerà anche più. Ho deciso di lavorare anch'io. Cercherò un posto d'istitutrice. L'ho detto. l'altro giorno, al papà. Poveretto, egli ci si è inquietato molto, ha protestato violentemente. Temo che abbia anche pianto, dopo, quando è rimasto solo. Non gliene ho parlato più; ma andrò persuadendolo un po' alla volta, e son sicura che finirà con esserne contento— tanto più che, per allontanarmi da lui il meno possibile, cercherò un posto in Roma.

Intanto c' è tempo. Non sarà facile trovare; e poi ho bisogno di prepararmi, di studiare, chè mi sento molto ignorante. Ah! avessi badato sempre alla povera zia! Non mi fossi distratta in questi ultimi anni…. Basta, è finita; o, dirò meglio, lotterò meco finchè sarà finita. Non voglio che un sentimento egoistico s'impadronisca dell'anima mia e della mia vita, e la isterilisca ne'rimpianti e ne' sogni.—Eppure, a volte, troppe volte, forse, senza che dapprima me ne fossi avveduta, mi ritrovo a sognare ancora, e a ribellai mivi invano….

Ma coraggio, e avanti! La vita è lotta, e la giovinezza arma di conquista. Voglio conquistar la pace, non la pace neghittosa, ma quella che è frutto di fede e di volontà non vane, e sorgente di devozioni operose. Mi aiuterà Quello che dà l'eroismo ai santi e la forza ai deboli.

Povero papà, come mi parrà strano lasciarlo, lui che mi ha sempre un poco vizinta. che quand' era deputato mi mehava quasi sempre appresso, con gran eruccio della povera zia. che temeva in questa gran Roma, lontana da lei, mi guastassi…. E anche mi dorrà lasciar questa casa dere stiamo già da oltre due anni, dacchè siamo fissati qui. Due anni già da quell'addio così penoso ai luogni amati, da quell' amara separazione da lei che dovevamo non più rivedere…. Era una mattina nebbiosa d' autunno. il treno metteva un fischio lunge come un lamento Ed essa era rimasta immobile sotto la tettoia….

Due anni di dolori e di lotte, due anni, perciò, benedetti. E a queste umili stanze intanto mi sono attaccata coll' affetto che pensa e ricorda, alla mia specialmente. Il papà ha voluto lasciare a me la cameretta d' angolo, perchè, disse, i giovani han da guardare cose belle. Siamo in un posto un po' scomodo, un po' strambo, direi inverosimile—ma buono per quelli che sentono Roma, la vera Roma: sul Campidoglio, appena passaio il Tabulario, presso la rupe Tarpea, con in vista il Fôro, il Colossco, il Palatino, l'Aventino, e più in là S, Giovanni in Laterano e S. Croce in Gerusalemme, e l'ampio piano ondulante, fra gli acquedotti ruinati, fino ai monti Laziali e i Sabini da un lato, sfuggente dall' altro verso il mare, e l'infinito.

Li 7 Dicembre.—Oggi ho fatto due visite. Una da Rita Longhi, che aveva il suo giorno. C'erano là due coniugi che non conoscevo, e dei quali, nella presentazione, non afferrai il nome. La signora si meravigliava udendo ch'ero signorina e non accompagnata. Dissi che non sapevo perchè una signorina dovesse rendersi ridicola. “Ma,” l'altra insisteva, “l'avverto che qui non si usa.” “Speriamo che s'userà in segnito,” risposi ridendo; “si parla tanto di progresso!” Poi, siccome avevo fatto eccezione per le giovinette e detto che da un gran pezzo io non sono più tale perchè ho ventisei anni, “Zitta, zitta,” disse il signore, che fin là non aveva parlato, “le signorine non han da dire i loro anni!” “Forse per paura di non trovar marito?” risposi. “Li lascino dire almeno a quelle che non lo cercano!” Vedevo che Rita, che pareva tener molto alla visita di que' coniugi, stava un po'sulle spine, seccata dagli spiriti battaglieri dell'amica. Avrà avuto tutte le ragioni lei, poveretta, e io avrò avuto torto; ma devo confessare che mi divertivo mezzo mondo: mi ci sentivo così diabolicamente donna!

Uscendo di là—è andata a cacciarsi in piazza Vittorio Emanuele quella desolante amica!—fui appena in tempo a saltare nell' omnibus di San Silvestro che si metteva in moto. Mi trovava pigiata fra un ottimo omone e una balia in fronzoli, con un marmocchietto che mi tentava, con quelle manine potelées e quel visino senza profilo. In via Sistina scesi a casa Teodoro. È una conoscenza di bagni, rimasta affatte superficiale, una madre e una figlia, donna Lavinia e donna Ricciarda, che vanno molto nel mondo e hanno una casa messa con molto gusto. Il defunto conte Teodoro era un amatore d'arte e d'antico, ed ha fatto della sua casa un piccolo museo, del quale però le signore, che preferiscono i comforts moderni, mi pare farebbero un po'a meno.

Oggi facevano un gran brontolare perchè, a cagione di certi enormi paesaggi del Poussin, i tubi del calorifero furon dovuti mettere in modo che non si può ottenere più di 170. lo ci soffocavo, per verità; ma, ad ogni visita ch'entrava, madre e figlia ripetevano le scuse pel gran freddo. Un'amica di donna Ricciarda protestò; ma questa, ritirando con un vezzo da enfant gútée la testina bionda nel suo skunk, che le stava a meraviglia, insisteva dicendo: “Ma, cara mia, si gela!”

Io intanto prendevo poca parte alla conversazione, incantata com' ero a guardare un delizioso quattrocento che mi stava in faccia, una dolce madonna, sur un fondo di pallido paesaggio umbro. Poi ascoltai, udendo che accennavano all'ultimo numero della Revue, La signorina che aveva asserito di non sentir freddo parlava di un articolo di Vogüé, “Non so,” disse donna Ricciarda, “non l'ho visto; sai, io non ci leggo che i romanzi. Adesso ce n' è une d'interessantissimo, Nénuphars, di Mébac. Che tipo di donna, cara mia, che passione, che scene emozionanti—lui poi è un irresistibile. E che noioso tipo di marito!” E fece una smorfietta graziosissima.

Servirono il tè, che donna Ricciarda dichiarò essere detestabile, e che consigliava di correggere con molti wafers alla vainiglia—cosa della quale dava l'esempio con una disinvoltura «adorabile,» come diceva la marchesa de'Bardi.

Questa era un'elegante figura aristocratica, dai lineamenti finissimi e un po'sciupati; e se ne stava languidamente e alteramente semi-sdraiata sul sofà, fumando una sigaretta che impazientemente aveva chiesta appena entrata, e colle gambe accavallate in modo che si vedevano due piedini maravigliosi, raffinatamente calzati di scarpette minuscole, e due calze di seta nera salenti fra il raso e le trine.—Era là colle sue due figliuole, una adulta, l'altra adolescente. La maggiore, non bella, ma alta, flessuosa, bionda, con un bel sorriso, del quale abusava un po', parlava, come la sorella, ora italiano ora francese, con una certa posa di distrazioni e di cercar le parole, con de' frequenti «come si dice?»trascinati con un certo incantesimo studiato. Si lamentava del gran da fare, del gran da pensare. “Ah! ma chère, je n'y tiens plus! Pensa, ierlaltro alla noce di Clara, poi al five o' clock in casa Van Ruys, poi ballo all' ambasciata inglese; ieri lezione di bicicletta, concerto alla sala Dante, poi alla première della Carmen, poi ballo in casa Fortebracci; oggi lawn-tennis, gente a pranzo, stasera recita in casa Ständel. C'est assommant!”

“Ma Edmée,” esclamava la sorella, una brunetta irrequieta, colle vesti ancora corte e una toque di velluto sui capelli sciolti, “tu ti lamenti…. C'est trop bête! E dire che io ho una voglia matta d'andarei anch'io nel mondo e la mamma non mi ci mena ancora! Ah! ma l'anno venturo! N'est-ce pas, petite mère?” E la guardava con certi occhi birichini, dicendo: “Sì, sì, sì,” e accompagnandosi con un certo batter di mani da bimba usa a vincerla. Ma la madre era intenta a parlare a mezza voce con donna Lavinia di cosa che parevano molto interessanti.

“Madge, mon ange,” disse la sorella, “sois done sage!” Poi s'alzò, invitando, con una strizzatina d'occhio, donna Ricciarda, che aveva acceso una sigaretta e ne offriva un'altra all'amica, ad appartarsi con lei, sur un divano verso un angolo, dietro un gruppo di bambous, leggeri come piume. Le due fanciulle si sdraiarono, reelinate l'una verso l'altra per accendere la sigaretta di Edmée, fra i guanciali di stoffe d'Oriente, sotto una gran tela scura—un Caravaggio, parevami, che rappresentava una truce scena di martirio, E mentre le andava avvolgondo un velo azzurrognolo di fumo, la visitatrice narrava all'altra con certe squillanti risatine ogni tanto, di non so che avventura di lawntennis, della quale doveva essere stato vittima un bel Gastone, Donne Ricciarda ascoltava senza sorridere, cacciando il fumo in alto e allungando spesso fuor della pelliccia l'avambraccio undo e la manima carica di due grossi zaffiri, per far cadere la cenere nella ceneriera, mentre i piedini, stesi e incrociati sul grosso tappeto di Smirne, andavano diventando nervosi.

Tornando, salii all' ultimo piano di una casa in via Macel de'Corvi, dove sapevo s'era da poco trasferita una sartina alla quale, tempo addietro, avevo dato qualche lavoro, Volevo chiederle certi stampi di vestine che mi proponevo di fare, coll'Angela, per alcuni miei piccoli amici poveri. Mi aperse sua madre. Non la riconobbi quasi, tanto era mutata. “La mia povera Lucia non può l'vorare,” mi disse subito, “è malata da un pezzo, e da due giorni non s'alza.” Aperse la porta di una camera dalla quale uscì un tanfo ributtante. Uno a ridosso dell'altro, vi stavano un letto nuziale, nel quale vaneggiava un domo che pareva incretinito, e un lettino, sul quale giaceva la povera giovane colle guancie diafane e infossate che al vedermi si colorarono an poco, le labbra bianche, e dué grandi occhi cerchiati di ombra grigie.

Essa non ebbe forza di parlarmi; ma ne trovò abbastanza per sorridermi. La madre un narrò che avevano dovuto mutar casa e restringersi cosò perchè la sua figliuola, a cagione dell'anemia che l'aveva presa, aveva perso quasi tutte le sue clienti, che volevano essere servite puntualmente; che la poveretta mancando così di mezzi. per prendere la carne, il vine, il ferro che il medico le ordinava, era andata rapidamente deperendo; era però rimasta alzata fino a pochi giorni prima, sforzandosi anche a girare, prima per cercar lavoro, infine per provare certe toilettes che le erano capitate ultimamente—toilettes di bambine per un ballo, che non le avevano accontentate, e che, per mutarle in tempo, l'avevano fatta stare alzata due notti. E così aveva finito di esaurirsi, e quando era andata a riportarle s'era svenuta in quella casa: ed era tornata trascinandosi a mala pena, e s' era coricata per non più rialzarsi. E tutto mancava, perchè lei, la madre, per assistere i suoi malati, non poteva più fare il suo mezzo servizio, e i pochi risparmi s'erano dileguati in quel tempo; anche quel po' di oro e di mobiglio e di vestiti migliori, e perfino la macchina, erano stati impegnati. Non rimaneva più da impeguare che una certa coperta imbottita, della quale ha tante bisogno il povero padre infermo, ridotto così, malconcio e istupidito, in conseguenza di una caduta da un'armatura economica che s'era spezzata, ed era stato portato inutilmente da un ospedale all' altro, chè in nessun luogo aveva trovato posto….

“La madre di quelle bambine non pensa alla Lucia?” chiesi. “Oh! signora,” rispose la povera donna, “essa non ha neppur pagato ancora l'ultimo lavoro; dice che non ha quattrini….” “E le altre signore neppure?” dissi. Essa crollò il capo. “Sono andata tersora alla porta di tre di loro,” rispose, “e mandai loro a dire che la mia Lucia è malata. Una mi fece rispndere che tornassi un altro momento perchè stava pranzo; un'altra mi mandò una mezza lira; l'altra stava per montare in carrozza e mi disse che doveva andare a una festa di beneficenza e non poteva tornare indietro. Fortuna che la sua cameriera, una buona vecchia che conoscevo, mi diede lei qualchecosa di suo.—E l'altra figliuola,” seguitò, attirandomi un po' in disparte e abbassando la voce, che si ruppe in un singhiozzo, “l'altra figliuola, che per la miseria ho dovuta mettere al servizio di sediei anni, è stata rovinata da un amante della sua signora, che l'ha cacciata su'due piedi; è non trova da collocarsi, ed è venuta con noi, che non abbiamo per lei neppure un letto.”

E mentre la madre parlava, il padre, coll'occhio ebete, guardava sulla sua mano, dalla quale una lurida fascia si andava sciogliendo, una piaga purulenta, e metteva un genuto lungo, come di bambino che soffra inconscio. La figliuola aveva socchiuso gli occhi, e il giovane petto appena appena sollevava col respiro la coperta leggera, troppo leggera, sulla quale posavano le mani ceree—le povere mani che di giorno e di notte hanno lavorato nella seta e il velluto, a far belle fanciulle spensierate, bambine vane, madri immemori—povere mani consunte che forse più non lavoreranno.

Li 12.—Oggi il papà non è andato al Ministero, causa una forte tosse che l'ha preso. La strapazzava da qualche giorno, e io predicava inutilmente: quando si tratta del dovere, povero papà, egli è sordo per tutto il resto. Ma oggi ho tempestato tanto che m'ha dovuta udire. È una tosse qualunque, l' avessi io ne riderei; ma quando li hanno loro, tutti i mali fanno paura.

Sono andata io a San Silvestro a portare il suo biglietto di scusa; chè per la povera Angela, avvezza a quelle di Treviso, le distanze di Roma son l' infinito. Tornando, ho raggiunto in via Ara Coeli il nostro fattorino, al quale ho strappato—Dio, com'era lento a cercare di compensarci per non poter venire, causa un impiccio noioso, a fare il Natale con noi, e un giornale di Siena, che contiene un articolo che lo riguarda. Che effetto mi fa vedere stampato: il professore Da Ponte! Mi pare ancora impossibile sia proprio lui, il mio Gino, ch'era uno studentello un po' matto, al quale tutti, io compresa, facevano la predica! Lui che era un così fervido sostenitore delle dottrine d'oltremonte, che si affermava prima egheliano, poi positivista, e non soffriva contraddizioni, ora, illuminato di luce nuova, insegna da una cattedra della vecchia università dottrine che sono una continua sfida alla corrente e a coloro dai quali il suo pane, e forse tutto il suo avvenire, dipendono.

In quel giornale è un fiero attacco contro di lui, di un avversario che non gli risparmia neppure l'arma più temuta, il ridicolo. Ma come vedo, traverso la sua lettera, il suo calmo sorriso da forte! come ci vedo anche la bontà superiore del suo cuore, che non s'irrita verso colui e, con grata giustizia, rammenta quanto deve alla povera zia….

«Non so, mi dice, qual fiera voglia di tempeste e di battaglie mi vada crescendo nell' anima. L'avevo anche dianzi, quando altri ideali mi sorridevano; ma non avevo allora la calma sicura che oggi mi aiuta a tutto incontrar con impavido amore. Oggi ho sfogliato gli scritti miei di quel tempo e, quantunque essi abbiano trovato tanto favore, n'ho avuto compassione. Come son lieto adesso di non averli mai voluti mandare alla povera zia, di aver sentito che quell'anima inflessibile avrebbe, malgrado il suo affetto tutto materno, disdegnato i miei successi in un campo così lontano da quello sul quale essa bramava di vedermi lavorare e combattere!

»Vado rileggendo anche alcune lettere sue, d' allora. Son quasi tutte appelli all'emancipazione, spinte alla lotta. «Coraggio, figliuolo, coraggio e indipendenza!» E altrove: «Sii originale.»—«Sciogliti da codesti legami, indegni di liberi.»—«Non ti »tentino fiacche dottrine del mondo garrulo.»—«Prepara »l' anima tua alle venture battaglie.»—Sì, seconda madre mia. eccomi!»

Povero Gino, quanto sofferse, allora! Fu lui che, a quel tremendo telegramma che la diceva morta, accorse a Treviso. Volevo accompagnarlo; mi respinse con violenza. Volle esser solo a quello strazio. Arrivò nella notte. L'avevano distesa sul suo letto nella cameretta dietro lo studiolo. Tranne il pallore cereo e la rigidità della morte, non era mutata, ci disse Gino—il suo caro viso era sereno, come in un sogno di luce.

Ersilia Rossi, la figliuola del proprietario della casa, ch'essa aveva preso quasi a educare, e che ancora ignorava la ricchezza che lo zelo di onestà della sua povera pigionale dell' abbaino le aveva procurata, l' aveva circondata di lumi e coperta di fiori, e, fra le mani unite sul petto, aveva messo una croce.— Era la vecchia croce di metallo che avea confortato gli ultimi momenti del nostro martire, morto nelle segrete del castello di Mantova, poi quelli della nostra santa nonna, poi quelli di un angelo—nostra madre; e quelli ancora di quel nonno venerando, addormentatosì nella pace del giusto là, appiè dei colli Asolani, alla vigilia del mesto esodo nostro….

Gino vollè vegliarla solo; e il mio cuore immagina che cosa, in quella notte, in quella muta compagnia, sia passato nell' anima di lui.

La depose nel feretro, aiutò i necrofori a metterla sul carro. Poi risalì nell'abbaino abbandonato, a pianger sole, e a raccogliere, come reliquie ormai, le poche povere cose ch'essa aveva tenute per sè, allora del naufragio d' ogni cosa nostra.—Poi era andato al tribunale, a portarvi, invece della povera morta, quel testamento di Alvise Marin.

Dopo qualche tempo giunse una lettera del padre di Ersilia, il signor Giambattista Rossi. Egli, parlando dell' insperata fortuna discesa a sua figlia dall'archivic dimenticato e dalle mani della sua povera inquilina, si mostrava confuso, felice, grato, impacciato quanto mai. E terminava offrendo al «giovane signore, conosciuto in quella triste occasione,» di condividere con sua figlia quella sostanza che, senza la voluta e cercata scoperta della zia e l' onestà di noi tutti, sarebbe stata nostra…. La lettera, evidentemente, non era stata composta dal povero mercantuccio; egli aveva, co' suoi grossi caratteri tondi, copiato—chissà quanto a malincuore! ciò che aveva scritto la figliuola, che la simpatia e un desiderio generoso movevano ad un tempo.

Gino, leggendo, scattò. Egli aveva bensì narrato al suo ritorno che la giovane era una graziosissima figurina, una fanciulla che dimostrava serietà e gentilezza, di cuore e di spirito e che serbava alla nostra povera morta un culto di affetto e di gratitudine. Ma l'idea di ciò che tosto gli parve un mercato aveva, ciò malgrado, destato tutte le ribellioni dell' anima sua.—Rispose lui, tosto, ringraziando, e dicendo che a ben altro partito poteva aspirare la signorina.

E mentre egli scriveva di là nella sua umile cameretta, e il papà, tranquillo come nulla fosse accaduto, leggeva il giornale nel vano della finestra, io mi sentiva superba.

Li 17.—Una corsa fino ai Prati di Castello, con un tempaccio. C' era urgenza—portare una buona notizia a una povera famiglia di un quinto piano di via Tacito. Quando arrivai al Gesù, l' omnibus di piazza Cavour era appena passato, il tram di piazza del Popolo veniva avanti completo. Un fiaccheraio si provava a sedurmi, col suo dito teso…. Ma superai la tentazione, e infilai la via de'Cestari e poi la via della Scrofa, dove fendevo allegramente un certo vento di tramontana che mi portava spruzzi d'acqua sul viso. Quando s'ha tutta l' anima in un pensiero, correre traverso l'acqua e il vento par che vi aiuti a turbinare più alto di terra.

Sul ponte di Ripetta era una grottesca lotta di tutti i passanti, per salvare dai furori eolici gli ombrelli e i cappelli—in piazza Cavour un diluvio, che lavava l' omnibus di stazione e i due poveri cavalli mortificati. Giunsi alla mèta col caldo e l'anisa d'una corsa nel vento, e salii l'eterna scaletta di quella casa nuova, già sudicia e colle muraglie unticcie e sgretolate che paion vecchie. Una casa alta, sottile, isolata, che sporge invano gli addentellati da tutte le parti— uno de' tanti malinconici monumenti che in Roma son rimasti delle illusioni e della sete di lucro degli uni, dell'esca traditrice offerta dagli altri—qui attirando e poi lasciando senza pane innumerevoli operai, rovinando molti, iniquamente arricchendo alcuni—distruggendo (non là, dove tutto sarebbesi dovuto concentrare e compiere, ma altrove) ombre e memorie di alberi antichi, serena magnificenza di orizzonti—disperdendo, spoetizzando, con una guerra desolante al pittoresco, al caratteristico—creando borgate sconnesse e sudicie, dove certe dimenticanze municipali aggravano le conseguenze delle indolenti, indecenti abitudini.

E così ragionando avevo oltrepassato quattro piani, con quattro porte ciascuno, e letto su ogni porta dei primi, tanto per tirare il fiato, uno o due modesti nomi, quali su lastrine di metallo leggero, quali su carte ingiallite. Quelle degli ultimi erano anonime.— La gioia di coloro che andavo a trovare mi fece dimenticare ogni cosa, vento e pioggia, scale e ragionamenti. Riuscire a recar conforto accade tanto più di rado che non si vorrebbe!

E ridiscendendo, e ascoltando un certo romorio confuso che scendeva e saliva da tutta quelle gente varia che vive là agglomerata, chissà con quanta diversità di passato, di vita, di passioni e di aspirazioni, di gioie e di tristezze, ripensai ad un verso di Wordsworth che mi parve l' espressione di codesto: «la mesta quieta musica dell'umanità»—The sad quiet music of humanity. E, tornando, mentre l' omnibus quasi vuoto mi andava sballottando sul selciato, pensavo con un brivide a quando quella musica, di mesta e quieta, diventa tempesta di reazione e di vendetta —tempesta quasi fatale, reazioni e vendette di tutto il male che la società fa a sè stessa.

Vigilia di Natale.—Oggi che ho riordinato le mie carte ho voluto unire quell' ultima pagina del giornale della povera zia ai quaderni precedenti. E, tenendoli in mano, l'immenso desiderio di lei, la brama di farla un poco rivivere con tutto ciò che di lei rimane quaggiù, ha vinto i miei scrupoli, e, per la prima volta, ho sfogliato quelle pagine.

Con meraviglia trovai il giornale alternato con frammenti di molte delle lettere ch'essa scriveva a Gino ed a me. Si vede ch'essa sentiva la sua vita così legata alla nostra che ciò ch'essa diceva a noi le pareva quasi tutti'uno con ciò che diceva a sè stessa —par quasi che così cercasse di riavvicinarci in qualche guisa a lei…. Povera buona zia, da parecchie correzioni che ci sono fra le righe si capisce ch'essa si serviva di codesto come di malacopia per certe parti delle sue lettere. Forse la malacopia di questi frammenti essa non la faceva tanto perchè tenesse al bello stile quanto pel grande amore che metteva in tutto quello che ci diceva, pel gran desiderio di giovarci, il più efficacemente possibile, della sua vecchia esperienza—e forse anche…. Buona zia, aveva anch'essa il carattere fiero e focoso di casa nostra— e voleva esser mite e indulgente. Ho notato qua e là molte cancellature di parole severe, quasi aspre, sostituite da parole molto molto diverse; e a volte, riscontrando certe varianti, non ho potuto a meno di sorridere traverso le lagrime.

Per distinguere questi frammenti da ciò ch'era giornale intimo essa metteva la data isolata, a destra, come si suole per le lettere; mentre le date del giornale sono, come le mie, in linea col testo.—È una serie di parecchi grossi quaderni, ch' essa teneva in una busta volante di cartone bigio, un po' sciupata, sulla quale aveva scritto: Lungo la via.

Era la sua via modesta ed oscura pel mondo— per lei illuminata d'in alto—era anche la via nostra, lungo la quale, di lontano, lo spirito suo ci scortava, ci scorta tuttora…. Qua e là vedo traccie di lagrime, qualche fiore disseccato, accanto a date d' anniversari mesti, o di luoghi alpini, o di posti amati.—Sfoglio, sfogho, vedo spesso il mio nome, quello di noi tutti, vivi e morti—e molti nomi umili e cari, che mi rammentano anni lieti e ormai lontani. Sfoglio, perchè non so progredire a lungo in una pagina—la commozione mi vince riudendo quella voce amata—e muto i fogli e i quaderni.

Aveva cominciato a scrivere la vigilia di Natale —quattro anni addietro. Era triste pei ricordi ed i vuoti—ma era ancora nella vecchia casa, era col nonno. Ora, tutto è passato—e siamo a un'altra vigilia di Natale, con un cumulo sempre maggiore di ricordi e di rimpianti.—Ma essa, dalla sua finestra, avea guardato nella notte, ascoltando le campane che ripetevano il grido profetico: Christus heri, Christus hodie, Christus in soecula! e andavano evocandole visioni di luce.

Io non odo stanotte alcuna voce di campana— solo lo stormire del vento nelle ruine del Fôro, negli elci nati fra i ruderi de' palazzi dei Cesari—il vento che passa sulla campagna memore e deserta, sotto gli archi de'trionfatori, sull'arena dell'anfiteatro, dove caddero i martiri. E anch' esso, il vento delle ruine, mi ripete quel grido di trionfo—e i ricordi mesti e i rimpianti si fondono con divine speranze, l'anima si rasserena nella fede che illumina, si ritempra nell'amore che vuole.

Li 14 Gennaio.—Una lunga interruzione per i soliti perditempo di capodanno; e anche per le lettere, che non metto fra quelli, giacchè gli augurii non son per lo più che un pretesto per rammentarsi a quegli amici cui si scrive poco ma che non si vogliono perdere di vista. Poi, tutti son tornati adesso, tutte han ripreso a ricevere, anche le più refrattarie, le più timorose di parer provinciali se non tardano fino all'ultimo limite a lasciarsi trovare in casa….

Dunque parecchie prime visite da fare, molte scale da salire, molte chiacchiere da ascoltare, molte cose da notare in questo mare magnum del mondo e della vita. Poi son cominciate le conferenze al Collegio Romano; poi, la mattina, ci son le visite alla Biblioteca Vittorio Emanuele, per prepararsi all'avvenire; poi c'è la solita recrudescenza invernale di miseria fra gli amici de'quartieri poveri…. E poi, qualche corsa d'innamorata, così, come un lusso, come un premio, quando mi par di meritarlo, in taluno de'miei posti prediletti, dove i rumori del mondo non arrivano, e parlano le voci del passato, e quella, eterna, di Roma. Oppure vado a rivedere qualche autore prediletto, di quelli che hanno sempre qualche cosa di nuovo da dirvi, o qualcuno de'monumenti della forte e serena arte antica che rimane ne'secoli.

Oggi sono stata un' ora alla Sistina, a riguardarvi que' profeti di Michelangelo che pare ascoltino la voce del futuro—l' Eva che, collo sguardo cupido, sembra riveli tutta la genesi delle miserie della sua progenie —il Mosè del Signorelli, degno di parlar di Javeh possente e vendicatore a quel popolo dai misteriosi destini.

Poi, tornando, c'è una mano da dare all'Angela in cucina, poi da desinare, in faccia al papà, al quale, per divertirlo, racconto il raccontabile—racoleta egli mi dice; poi scrivo a Gino, o leggo, o riparo alle avarie del nostro guardaroba; poi vien sonno, e vilmente mi ritiro.

Sono felice perchè in questo frattempo son riuscita a far ricoverare il padre di Lucia, la sarta; ed ho trovato una buona signora che ha preso, come aiuto della sua donna, la sorella; e lei, un po' noi un po'alcune persone alle quali ne ho parlato, l'andiamo tirando su, tanto che ha ricominciato a lavoricchiare, e la madre ha potuto riprendere il suo mezzo servizio. —Grazie, Signore!

Li 21.—Sono stata oggi a fare una visita a un vecchio amico, dal quale vado ogni tanto a ritemprarmi ne'ricordi e le speranze—fra Paolo da Trento. Egli, giovane ardente e gagliardo, aveva da poco indossato l'abito del poverello d'Assisi e si trovava in Venezia quando scoppiò la rivoluzione del '48. Aveva seguíto coll'entusiasmo della fede il grande e sventurato movimento—era poi rimasto, devoto infaticabile sulla breccia, ad assistere, a Marghera prima, poi sul ponte della laguna, al forte del piazzale di S. Antonio, i caduti nell' eroica difesa, fra l'imperversar delle bombe e i miasmi del colera. E avea raccolto nelle sue braccia, spirante, il povero zio Andrea—ed avea trasmesse ai nonni le ultime parole di lui, parole di fede e di amore indomati.

L'altro giorno, sfogliando i quaderni della zia Annetta, trovai, nel primo, alcune pagine dedicate a questo e all'altro fratello martire, Lorenzo, morto in carcere a Mantova, alla vigilia di una sentenza che forse lo avrebbe innalzato alla gloria delle forche di Belfiore. —Era a proposito di un vecchio quadretto ch'essa avea ritrovato in soffitta, dimenticato e coperto di polvere—un gruppetto de'due fanciulli, fatto a matita dalla prozia Orsola Baldan—anima d'artista e di santa, morta giovane anch'essa, e che lasciò nella nostra casa un dolce riflesso de'luminosi ideali della sua vita. Quel quadretto la povera zia Annetta lo aveva, da allora, tenuto sempre fra le reliquie del passato che, come un conforto e una speranza, custodiva fra i vuoti del presente. E con esse Gino me lo portò, allora. E l'ho appeso qua davanti, al disopra del mio tavolino, sotto i ritratti di essi fatti uomini.

Che direste se tornaste ora, gagliarde anime ribelli?

Traversai il cortile, verde d'umidità, che mette a una povera porta, e tirai il campanello. Il suono si ripercosse oscillando a lungo nel silenzio del chiostro. Il fratello laico m'introdusse nella gran sagrestia, dove, sul solito vecchio seggiolone, aspettai. Dalla finestra, in alto, scendeva un raggio di luce obliqua, e batteva sur un Cristo in Croce del Guercino, vibrante di dolore e di vita.

Udii nel corridoio avvicinarsi anche più affrettato del consueto il passo del padre—il passo che da tanti anni suole, infaticabilmente, di qua e di là, in luoghi di dolore, fra anime travagliate dalla vita, recar conforto e speranza, rialzare virtù vacillanti, far balenare raggi di fede e di carità. E comparve sulla soglia l'amico mio venerato, così alto nella statura e così umile nel portamento, così virile nelle linee del volto e così dolce nell'espressione della fede sicura, della carità ineffabile.

“Ebbene, figliuola?” mi disse; e gli occhi suoi, penetranti e buoni, guardavano, addentro, ne'miei. Poi sedette in faccia a me—e io non gli avevo risposto ancora.

“Che avete a narrarmi?” riprese, mentre il suo sorriso, indulgente aspettava. “Nulla,” risposi, “se non che l'anima mia è stanca. Vi son de'momenti nei quali le nebbie della terra offuscano la via—e lo scetticismo o'l indifferenza altrui di fronte ai grandi ideali mettono qua dentro un freddo di morte.”

Egli mi guardò un momento, poi disse: “Nè quelle nebbie ne quel freddo possono far deviare nè accaseiare le anime che la fede alta illumina e la carità di. Cristo riscalda—per quelli,” seguitò, mentre gli occhi di lui irradiavano la luce interiore, “che seguono il precetto del Maestro: «Sieno cinti i vostri lombi e nelle vostre mani lampade accese.»”

“Si,” risposi, “la voce di Cristo io l'ascolto, la chiamo. Ma mi scoraggio e mi sgomento quando vedo che troppo pochi la intendono.”

Il frate alzò gli occhi un poco, come per guardare, al di là delle mura del suo chiostro, lontano. “Che ne sapete voi, figliuola?” rispose, “perchè vi lasciate sgomentare dalla fantasmagoria delle miserie umane? Guardate dall'alto, guardate traverso i secoli a ritroso fino a quello che vide l'aurora della legge di redenzione…. In tutti i tempi vedrete una lotta fra quella legge e le passioni—vedrete di quella legge de'trionfi maravigliosi, ma parziali; e sentirete che lo spirito di Cristo non fu mai dalla società inteso come in questo tempo i cui scetticismi vi sgomentano.”

È vero,” dissi; “ma attraverso quali rovine non andiamo noi, seppur vi andiamo, incontro all'èra bramata? E quanti non sono, anche fra coloro che avrebbero missione di aprirgliela, quelli che a Cristo intralciano la via?”

“Non è che momentaneamente,” egli rispose, “a volte solo apparentemente, che s'intralcia la via alla verità e all'amore. Noi non possiamo, da questo mondo finito, in questa breve vita, seguire tutto il lento e complicato svolgersi delle idee e degli eventi. In alto in alto, figliuola, la mente, in alto il cuore; e se salendo si dilegueranno le fedi e gli affetti meschini, si farà in noi quella veduta larga e serena che tanto più insegna a confidare quanto più insegna ad amare.”

Ma io era tuttora troppo ferita da quella tristezza che vi prende a certi contatti, a certe letture di scettici o di bigotti, di corrotti o di volgari—e lo dissi a lui. E nelle mie parole erano amarezza e disdegno di ricordi.

La mano del frate si pose per un momento sulla mia spalla, e gli occhi suoi guardavano Cristo mentre egli mi diceva: “Lo stesso ideale che vi fa sdegnosa e'insegna ad essere indulgenti—esso ci dice che invano vorremmo tener alta la bandiera di Lui se non è nel cuor nostro quella carità serena ch'è la base della sua legge. Lungi lungi da noi cristiani il querulo pessimismo, i rimpianti impotenti, gli sgomenti di chi non sa guardare alto e lontano. Male conosceremmo l'umana natura, male intuiremmo il mistero della vita, se le vicende del pensiero e della coscienza ci sgomentassero—male intenderemmo le grandi rivelazioni della fede avvalorate dalla ragione e dalla storia, se lo scoramento ci prendesse di fronte agli errori e alle passioni che ne circondano—cui siamo soggetti noi stessi, figliuola,” aggiunse abbassando gli occhi e la voce. E sul viso del santo passò un raggio di umiltà grande e divina, che fece arrossir me, misera.

“Oh! padre,” dissi, “è vero, e a me ben altrimenti che a lei incombe il dovere dell'indulgenza. Ma è pel grande amore all'idea non solo, ma al bene de'fratelli, che l'ira tenta l'anima mia e lo sconforto mi prende, di fronte a tutto ciò che, ne'campi più opposti e per opera della scuole e delle sètte fra loro più avverse, congiura contro il trionfo del vero, che è quello del buono e del giusto.”

“Ebbene, adiratevì pure, figliuola,” rispose col suo paterno sorriso, il frate, “ma sia sempre ira magnanima, scevra soprattutto da pregiudizi di parte, da miseria di passioni che dividono e corrompono—sia l'ira di cui disse il salmista e Paolo ripeteva: Irascimini et nolite peccare «adiratevi e non vogliate peccare.» Abbastanza abbastanza ha danneggiato la causa del vero, la causa dì Dio «lo zelo amaro e le dissensioni ne' cuori» che l'altro apostolo della legge d'amore, Giacomo, riprovava colle roventi parole della sua lettera; abbastanza, d'ambe le parti, s'è odiato, abbastanza s'è percosso, abbastanza, da chi lo ama e da chi lo perseguita, s'è frainteso il Maestro. E se guerra s'ha a fare, e se armi s'hanno a brandire, sia guerra per la pace, sieno le armi della carità.—Sì, figliuola, lottiamo virilmente, costantemente, pel grande ideale che, al di sopra delle nebbie della bassura, al di sopra delle cupidigie terrene, delle parti meschine e de'gretti formalismi, chiama, aspetta l'umanità travagliata, e sola ne scioglierà i problemi. Per esso restiamo sulla breccia, fino alla fine—e sia l'amore de'fratelli, de'fratelli diseredati soprattutto, il nostro grido di guerra.

Il volto del frate s'era andato colorando, gli occhi di lui risplendevano come di un riflesso d'in alto.—Per la via, di lontano, un reggimento s'andava avvicinando, colla banda che suonava una marcia che parea di trionfo—mentre dal coro della chiesa, accanto, venivano vibrando voci salmodianti. Era il grido antico di Davidde: Domine, usquequo? Signore, fino a quando?

Il frate ed io ascoltavamo in silenzio. Lui s'era rifatto pallido, più pallido del consueto—e lo sguardo vagava come a rievocare visioni lontane.—“Padre,” dissi, “è ad essi che pensa? e al sogno di que'giorni?” Gli occhi del cappuccino s'erano andati riempiendo di lagrime, le mani scarne stringevano la corda nodosa del suo cilizio—e non rispose.

La banda del reggimento era vicina, passava sotto l'alta finestra dalla quale il sole andava sparendo, e solo ancora illuminava un poco sulla parete il Cristo del Guercino—i cristalli scossi tremavano, le note salenti si ripercotevano tuonando sotto l'ampia vôlta della sagrestia, si fondevano colle voci che venivano dal coro, e ripetevano il vaticinio d'Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una gran luce; la luce si levò per quelli che abitavano nell'oscura regione di morte»

Li 17 Febbraio.—Son felice ora, perchè è qui in vacanza il mio Gino, che mi riempie il cuore e lo spirito. Egli mi dedica parecchie ore ogni giorno.—Che belle corse facciamo insieme, in que'posti che fanno pensare, lontani dalla folla, lontani dall'attuale parodia del carnevale! Durante le ore di corso andiamo sul Gianicolo, o sulla via Appia, o in taluna delle antiche basiliche sparse per la campagna, che nello splendido deserto che circonda Roma parlano all'anima ben altrimenti di quelle innalzate nell'interno, al tempo del paganeggiare dell'arte e della fede. Oppure andiamo errando sul Celio e l'Aventino ragionando del passato e, fra le ruine delle cose umane, interrogando le cose eterne e l'avvenire.

Oggi siamo saliti sull'Aventino. È uno de' miei posti prediletti perchè lo trascura la folla, e l'anima vi si riposa in quella pace di orti e di vie solitarie sotto il sole, di chiostri memori, di vecchie chiese silenti.—Ma lo amo soprattutto perchè parmi quasi un simbolo dell' idea democratica. Il ricordo del gagliardo e vano tentativo de'Gracchi si lega lassù ai miracoli ivi compiuti dalla democrazia cristiana per opera di alcune donne inermi—Marcella, Paola, Blesilla, ed altre, che, discendenti talune dagli Scipioni e dagli Emili, avevano obbedito alla parola d'amore del Maestro sè stesse ed ogni loro avere consacrando ai poveri.—E mentre passeggiavamo pei viali del Priorato di Malta e ascoltavamo i rumori della Roma attuale salir confusi e attutiti in quella pace, andavamo rievocando i luminosi ideali, gli apostoli dell'idea del diritto superiore alla forza, della legge morale superiore alle passioni—idea e legge senza le quali il mondo invano cerca la soluzione de'maggiori suoi problemi.

Li 26.—Oggi è il terzo anniversario della morte del povero nonno. Ho fatto compagnia più del solito al papà, tanto più ch'è domenica—una domenica piovosa e ventosa, che ci ha tenuti in casa tutto il pomeriggio. Eppure, poco s'è conversato—le anime nostre, più che colle parole, si univano ne' pensieri, che andavano in su, lontano.

Era a Moliparte, pochi mesi prima di lasciare la villa, di lasciare la vecchia casa di città, che ci vide nascere tutti, di generazione in generazione. Lo strazio di quegli addii, a lui fu risparmiato—a lui che la lunga vita avea consacrata a lavorare per un'idea, a educare ad essa i figliuoli suoi, che con essa e per essa tutto misero repentaglio—tutto perdettero, fuorchè l'onore e la fede.

Che giorni d'angoscia furono, intorno a quel letto dov'egli si spegneva—quante lagrime versate o, più spesso, represse da un pensiero d'amore a chi rimaneva, girando per quelle memori sale già altrui destinate, e nelle quali più non avrebbe risuonato la cara festevole voce di lui, gagliardo sempre e sereno. —Eppure, da lui, da lui che, lento e calmo, in quella camera vôlta alla luce d'oriente, pasava, pareva emanasse quell'altra luce de'giusti che la legge di Cristo ha educati; intorno la spoglia sua si sentiva la pace—non la pace di un sonno eterno, ma quella radiosa dell'altra vita immortale.

Stamani, come sempre, ora, in questo giorno, ho ricevuto da lassù una lettera, memore. È una povera contadina, alla quale, la domenica dopo i vespri, davo un'ora di lezione. Era giovinetta allora; ora è maritata ed ha già cinque figliuoli e molte tribolazioni. Ma tutto essa sopporta rassegnata e fidente—perchè ogni festa essa apre il suo libro e vi rilegge i precetti del Maestro e le sue promesse. «Il mondo godrà e voi sarete in tristezza; ma la vostra tristezza si muterà in gaudio.».

L'avevo trovata, molti anni addietro, che badava alla mucca di suo padre, pascente in un vallone deserto. Filava sulla sua conocchia, seduta sotto il gran castagno dove io soleva passar dell'ore, studiando a volte, più spesso fantasticando.

E mentre la mucca vagava intorno fra le macchie del pendiío, scotendo il campanaccio dal suono cupo, essa mi narrava delle fatiche di suo padre, delle devozioni domestiche di sua madre, nella casetta in alto, delle semplici gioie di lei, la sera al filò nella stalla, ola festa quando scendeva alla chiesa, e cantava, colle compagne, le laudi della Madonna. E mi confidava il suo cruccio per non saper leggere. “Non ho tempo di andare alla scuola,” mi diceva, “eo sono anche troppo grande, e vorrei poter leggere anch'io, quando vado al pascolo, come Maria la pastora, in quel vecchio libro che racconta le storie del Signore.”

E avevo preso a insegnarle, insieme colle altre mie scolarine; e imparò a leggere nel vecchio libro, e anche nella storia d'Italia—e a scrivere pure, con molti spropositi, ma con quella grazia semplice e gentile, esilarante a volte, che fa che non una io distruggo delle lettere delle mie contadine di lassù….

Memori cuori fedeli che mi seguite traverso le prove della vita e le distrazioni del mondo—anime ingenue e serene che i nostri monti amati salvano dai miasmi corruttori, serbano fide agli insegnamenti primi, alle patriarcali virtù do'focolari che le tradizioni cristiane serbane intemerate…. Io vi rivedo da qui, sul fondo di que' colli ridenti, appiè dell'Alpi grandi, sotto le piante antiche che videro la giovinezza mia, e vista avevano quella di coloro che amavo e che ci han preceduti. È come un soffio di un passato benedetto—un riposo dell'anima contristata dalle nebbie della bassura, dalle miserie e dagli egoismi umani, dal faticoso turbinío delle passioni, dal romoreggiar delle procelle fratricide che si addensano all'orizzonte.—Tornate, tornate soventi, sante visioni lontane—tornate cogli spiriti di loro che puri e gagliardi traversarono la vita—ditemi di non disperare del santo ideale, ditemi di non disertare.

Li 16 Marzo.—Sono stata al teatro. Davano la Forza del Destino. Era la prima volta dopo la mia risoluzione di quella sera di novembre. Che violento ritorno è stato a giorni che voglio dimenticare…. La dolorosa passione di quella musica, di quel tragico fato, hanno ridestato tutto ciò che qua dentro credevo quasi spento. Tornai a casa sgomenta—e non mi coricai. Stetti qua lungamente, ripensando, e ribellandomi al mio pensiero.

Ora l'orologio segna le tre. Fa freddo nella mia camera—e il petrolio va mancando nella lampada.—Scostati, dolce e torturante fantasma—non tornare a consumar nell'egoismo d'una sterile passione la vita mia, ad altro destinata, ad altro anelante. Cristo, Signore e Maestro, aiutami—lo voglio!

Li. 27.—M'avevano offerto un posto, a Vicenza. È stata una gran tentazione. Tornar lassù, vicino ai luoghi amati, alle memorie, alle tombe, agli amici della giovinezza, alle Alpi grandi—lassù dove spesso un desiderio nostalgico mi chiama…. Tentazione forte, ma breve. Ho risposto no in giornata—e il papà non ne ha saputo nulla.

E così, seguito a studiare, e ad aspettare. E le mie giornate passano ripiene, un po'affaticate anche. A volte una certa tristezza mi prende—la tristezza del pensiero, la tristezza del sentimento.—È quella disposizione d'animo nella quale a volte lo spirito quasi aristocraticamente si compiace…. E abbiamo torto. Che sarebbe, seppur l'abbiamo, una qualche superiorità morale se non ci basta a vincere gli scoramenti e l'inedia, a trovar quel conforto ch'è frutto di pena cristianamente accettata, quella pace—la pace di cui disse Cristo—ch'è frutto di guerra?

Li 18 Aprile.—Scrivo di rado perchè «la via lunga mi sospinge» e mi pare di non aver tempo di fermarmi. Eppure è bene sostare ogni tanto per guardar la vis percorsa e raccoglier nuovi lumi e nuove forze a proseguire. Sia nel campo della vita pratica sia in quello degli studi, il cuore e la mente a volte si smarriscono, ed han bisogno di cercare, fra le nebbie che da quella e da questi s'innalzano, un faro che, se può a volte rimanere velato, brilla sempre ed aspetta.

Vi sono ora più che mai de' momenti nei quali si rimane disorientati, smarriti in questo immenso rivolgimento che nel pensiero e nella vita ha recato il tempo attuale. Gli esseri che circoscrivono nel cervello la potenza umana di assorgere alla verità, e il cervello stesso restringono fra certi confini gretti, risolvono colle negazioni; e gl'ignoranti e i volgari, che pensano col cervello altrui, ripetono queste con asseveranza anche maggiore, e beatamente vi si adagiano; e quelli che vogliono per le passioni giustificata ogni licenza, fanno di que'sistemi che mutilano e atrofizzano la scienza e diminuiscono e demoliscono l'uomo, i maestri della vita, gl'inspiratori dell'arte.

Guai a chi, adesso, s'affida unicamente alla vecchia fede de'primi anni, agli insegnamenti categorici del catechismo, alle pratiche fatte per tradizione e abitudine! O rimarrà stagnante ed inutile in una religione che sarà buona tutt'al più per sè, o diverrà incoerente fra la pratica e l'opinione, la fede e il pensiero; o perderà la fede, e s'illuderà di poter vivere di pensiero.

Eppure, non v'ha forse guaio sulla terra che non sia destinato a produrre del bene. Questo grande rivolgimento del pensiero, questi incessanti tentativi per istrappare al vero i suoi veli, ad ogni cosa l'arcano delle genesi, alla vita ogni suo segreto, questi sforzi per sopprimer Dio, e tutto umanamente, materialmente spiegare, avranno, un giorno, giovato a far più grande e più stabile il trionfo dello spirito. Il mondo, il povero mondo, comincia ad avvedersene. Alle negazioni, grossolanamente sicure, seguite alle ciniche derisioni del secolo scorso, va sempre più subentrando il dubbio—un dubbio che non vorrebbe capitolare, che cerca ogni soluzione all'infuori di quelle della filosofia spiritualista e della religione cristiana, ma che, almeno, confessa l'impotenza umana ad andare oltre un certo limite.

La temerità orgogliosa e volgare che s'era compiaciuta a considerar l'universo come un laboratorio chimico e a sottoporre l'uomo all'analisi stessa cui si sottopone un minerale qualunque, ha fatto il suo tempo: le stesse esperienze scientifiche l'hanno condannata—e lo spirito umano si va ribellando all'idea d'entrare in una storta, sente d'essere qualchecosa di più di un composto chimico, d'avere altre aspirazioni, altri doveri, altri destini che non potrebbero avere, sia pure dopo una lentissima evoluzione, il semplice prodotto di una cellula. Esso, oltre ad essersi viste mancare in mano le prove seriamente scientifiche di certe ipotesi dapprima accettate, ha ritrovato, non solamente nel proprio cuore, ma nella propria mente, de'vuoti dolorosi, delle aspirazioni imperiose; esso ha veduto nella pratica che cosa divenga l'uomo privo della coscienza della propria origine e de'propri destini, e perciò de'propri doveri; esso ha sentito che, una volta finito di distruggere l'eredità del passato, tenace e feconda ancora in tanti di quelli stessi che la respingono, le teorie della negazione non lascerebbero nella società che tenebre, passioni sfrenate e rovine…. E pur non rivolendo quell'eredità, cerca dell'altro, escogita nuovi sistemi, riparla di fedi—fedi che vorrebbero essere indipendenti da quella ch'è la base d'ogni altra—la fede nel Dio personale—e non s'avvedono di riavvicinarsi ad essa, a Lui.

E intanto coloro cui il deposito di questa fede era affidato sono stati spinti a cercare alla loro volta, a rischiarare di maggior luce ciò che insegnano, a darvi più solide basi, a sempre più anch'essi addentrarsi nel campo scientifico e nella storia per trovarvi nuove e più grandiose rivelazioni di Dio e dell'opera del Verbo, nuove armonie della scienza e della storia coi voli infiniti dello spirito e i documenti della rivelazione. Sono stati spinti, soprattutto, a meglio coltivare il campo morale, perchè in una più vera e più ampia applicazione dell'idea e della legge cristiane il mondo ritrovi inspirazione e guida a sciogliere i suoi maggiori ed ora più che mai urgenti problemi.

Sempre più mi persuado che la voce udita l'altro giorno in quel chiostro, da quell'uomo di Dio, diceva il vero: chi crede non deve sconfortarsi, nè, per quanto danno possano intanto recar certi errori, temere la scienza; chi crede non deve aver di Dio e delle sue rivelazioni all'umanità sì meschino concetto—ma piuttosto affrettare col desiderio que'progressi scientifici che, irradiando l'uno e le altre di nuova luce, già cominciano a prepararne il trionfo. Chi crede non meschinamente ma con altezza di grandi ideali, deve amare—e chi crede ed ama guarda lontano, lavora, e aspetta.

Li 23.—Era una giornata grigia; nuvole grevi pesavano basse, gli alberi del Palatino e del Celio velava il denso umidore. Ero andata girando fra le rovine laggiù, sola coi secoli e i vaganti pensieri.—Poi m'ero fermata a guardare l'arco di Tito, seduta sur uno dei gradini sconnessi e spezzati del tempio di Venere e Roma.

E una visione, grande e terribile, mi avvolse. Mi vedevo sorger dinanzi, in uno splendore di luce orientale, Gerusalemme colle sue cupole, le terrazze, le alte mura, circondata dai forti di Sionne, d'Acri, di Bethzeta, e dominata dal tempio magnifico eretto sul Moriah, co'suoi bastioni formidabili, le porte immani e i torrioni, e la massa candida e corrusca di marmi e d'oro, sorgente fra gli alti colonnati e i cortili, che, nelle annue solennità commemoranti la sua storia arcana, dinanzi al santuario del Dio vivente, raccoglievano Israele.

Poi udiva ruggir la sommossa contro il Mansueto e gl'imprecanti chiamar sulle venture generazioni il sangue di Lui—e mi si svolgeva dinanzi il dramma d'odio e d'amore del Golgotha, lugubre e luminoso.—E poi la guerra, lunga di anni, immane, sterminatrice, che Roma condusse contro Giuda, ribelle ai tremendi decreti ad esso prima annunziati da Mosè, sul confine della terra di Canaan, alla vigilia di salire al Nebo e alla morte: «Se non ascolti la voce del Signore…. Da paese rimoto farà piombare il Signore sopra di te, com'aquila che vola impetuosa, una nazione della quale non capirai il linguaggio. E ti disperderà il Signore fra tutte le genti, dall'una all'altra estremità della terra.»

Decreti più tardi a Israele ripetuti da'suoi veggenti, a Gerusalemme con lagrime rammentati da Lui che per l'ultima volta vi rientrava, a cercarvi il martirio: «Tu conoscessi almeno oggi ciò che fa alla tua pace; ma ora ciò è ascoso agli occhi tuoi. Perocchè verranno giorni che i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, e ti serreranno all'intorno, e ti stringeranno d'ogni parte. E atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te, e in te non lasceranno pietra sopra pietra, per non aver tu riconosciuto il giorno della visita che a te è stata fatta.»

E dopo i lunghi assedi alle città minori, e le stragi raccapriccianti, gli assalti replicati ai formidabili baluardi della città sacra, da titanico disperato valore difesi, palmo a palmo contesi da'truci capitani—Eleazaro figlio di Giairo, Giovanni di Giscala, Giuda il Gaulonita—solo dalla morte, sui mucchi alti de'cadaveri e delle armi infrante, domati—mentre strazio e ferocia di fame e di delitti compievano in ogni angolo della città miseranda «l'abominazione della desolazione;» finchè, fra sangue e putredine di cadaveri, Tito di Vespasiano, debellato, ultimo baluardo, il Tempio, colla spada vendicatrice tagliando il velo del Santo dei Santi, là penetrò dove, dal tempo di Geremia disparita l'Arca dell'alleanza, solo rimaneva lo spirito di Jeovah.

E mi parea di vedere la crudele magnificenza di quel trionfo, che dietro al cesare romano, che la sua via di ritorno, a Cesarea, a Berito, ad Antiochia, avea segnata con migliaia e migliaia di cadaveri del popolo disperso, traeva le reliquie del tempio—tutto ciò che Israele da secoli avea custodito come palladio de'suoi destini—il candelabro a sette braccia, la tavola de'pani di proposizione, gl'incensori, le trombe de'Leviti, la lama d'oro portante il nome di Jeovah, il Libro della Legge, il velo del Santuario; e una fantasmagoria di stoffe preziose, di corone e di gemme, d'animali e di balsami d'Oriente, e modelli delle città prese, e marmi istoriati, e ori ed avori; e, in isplendide vesti, scelti fra parecchie centinaia di migliaia, settecento prigioni; e, col laccio al collo, uno de'capitani, Simone figlio di Gioras—quegli che, appiè del Campidoglio fu tratto nel carcere Mamertino, mentre il corteo sostava, aspettando tornasse il littore ad annunziare a Tito di Vespasiano ch'egli era vissuto, e il cesare potesse, pago, salire al tempio sacrificando a Giove Ottimo Massimo.

Sulla via Sacra è frusto il selciato—Israele perdura disperso tra le nazioni. L'antico culto di giubilo e di grazia, esultante dinanzi al Dio protettore de' padri suoi, s'è mutato in un culto di lutto e di rimpianti. L'offerta esso la fa solo a parole, e a voce bassa chiede la restaurazione del Tempio. Gli anni suoi esso conta dall'èra della desolazione, quasi tutte le sue feste sono anniversari di dolore. Ai pochi fidi che rimangono, da crescenti cupidigie non distolti dall'antico ideale, il libro dice: «Sii triste al mattino, e ricordati del Tempio distrutto. Se ti desti la notte piangilo. Quando esci va a capo basso, rimembrando la rovina di Solima.»

Disperso perdura Israele—sulla via Sacra de'trionfi cesarei è frusto il selciato—rovine di pietre e rovine di memorie rimangono della gran Roma imperiale, conquistatrice e despota…. Ma il martire del Golgotha vive—e fra gli errori e le passioni che lo disconoscono, cresce nel mondo; e il trionfo di Lui preparano le rivendicazioni della giustizia.

Li 29.—Giornata squallida. Ho visto nel mio giro miserie più desolanti del consueto e ho potuto far tanto poco! Se vi sono delle ore nelle quali mi verrebbe fatto di rimpiangere la fortuna perduta son queste—queste ore amare.

E tanto più amare perchè insieme colle miserie materiali s'incontrano le morali, che ne conseguono —e la stessa grandezza di questo centro e la maggior corruzione che ne viene danno all'indigenza qualche cosa di più desolante.—Sfogliavo dianzi i quaderni della povera zia, e ad ogni momento trovavo allusioni a poveri, descrizioni di miserie, accenni alla gran legge cristiana di giustizia e d'amore. E facevo i confronti fra que'poveri suoi, di allora e di lassù, i campagnoli soprattutto, per lo più confortati da un ideale di fede, dalla voce del pastore, dalla campana della chiesa vicina che parla di una vita migliore, da un contorno di poveri un po'men poveri di loro, che fraternamente li aiutano—e quelli di adesso e di que'vasti lontani quartieri, che vivono in una miseria progrediente, cui manca il lavoro, e spesso anche la salute e l'energia, che stanno agglomerati, formicolanti, in case enormi, in camere nude e sudicie, in letti dove magri cenci di coperte senza lenzuola spesso ricoprono un'intera famiglia, senza distinzione d'età nè di sesso, di sani nè di malati; coi pastori scarsi e lontani, le grandi chiese monumentali che appariscono al loro orizzonte, più musei d'arte che luoghi d'istruzione e di preghiera; e, nel gran silenzio spirituale, nel gran vuoto ch'è intorno ad essi, odono gli echi de'vizi d'in alto, son chiamati a servirli, ne sperimentano gli eccitamenti e le conseguenze—mentre alla loro portata, ad ogni cantonata, ad ogni pagoda di giornalaio, nelle idee che scendono e s'infiltrano, trovano gli apostolati dell'oscenità e dello scetticismo che finiscono di demolire in essi ogni senso morale e ogni speranza, e per solo conforto instillano in loro quell'odio che mette nell'animo amarezze nuove e tremende, e sprona a chieder giustizia co'delitti e le stragi.

Sì, è un senso di pietà, di sgomento e di ribellione ad un tempo che vi prende dinanzi a quel misero mondo. E un amaro sorriso viene sulle labbra quando si ode la gente elegante, e ben pasciuta, e soddisfatta nelle sue passioni, far la scettica e la severa…. Andassero andassero a vedere—e, soprattutto, serbassero per chi, più illuminato e fortunato, è più responsabile degli atti propri, la severità che hanno per le colpe e i vizi de'poveri! È iniqua l'indulgenza che si fa più larga a misura ch'è più brillante la posizione sociale degli individui—è vile il disprezzo come è vile l'ossequio di coloro che le colpe degli infimi giudicano ad un'altra stregua di quelle de'grandi e de'fortunati….

Andassero, e vedessero, e ascoltassero—e si persuaderebbero di quanta responsabilità gravi, delle miserie materiali e delle morali—fra loro così strettamente congiunte e spesso le une dalle altre conseguenti,—sulle classi dalle quali dottrine ed esempi discendono. E imparerebbero di che cosa sia fatta la carità—non penserebbero d'aver soddisfatto al grande dovere distribuendo per la strada o alla loro porta alcuni soldi agli accattoni, che spesso son mestieranti impostori o dilettanti d'ozio, o figurando in pubbliche sottoscrizioni di beneficenza. Sentirebbero che la carità vera, la carità cristiana, vuol dire ben altro—vuol dire anzitutto il sentimento di giustizia che si ribella dinanzi all'eccesso delle sproporzioni economiche, e sente la necessità di una radicale riforma sociale; vuol dire quell'amore del bene che non s'accontenta di dare, di dare di lontano, a casaccio, freddamente, forse a malincuore—ma sente il dovere di avvicinare, di confortare, di migliorare, di rialzare materialmente e moralmente; vuol dire, in una parola, quella carità che ricorda che i poveri non son gente d'un'altra razza e d'un altro mondo, ma compagni di via e fratelli.

È questa la sola carità vera, è questa la sola che potrebbe sciogliere la grande questione sociale—giacchè è la sola che farebbe diminuir davvero le ingiustizie e le miserie, la sola che migliorerebbe gl'individui in alto e in basso. E senza questo miglioramento interiore dei ricchi e dei poveri, questo disinteresse e questa sobrietà per amor di un ideale di virtù e di giustizia, cui Cristo alluse dicendo: «Beati i poveri di spirito,» ogni soluzione sognata è vana utopia.

Ma che cosa inspira la carità intera, che non è mossa da vana ostentazione o da passaggero entusiasmo, ma da un amore fondato su larghi principii di onestà e di giustizia—la carità illuminata, umile, longanime, perdonante e perseverante, che da nulla si lascia stancare, nè disgustare, che nulla scoraggia e nulla sgomenta? Che cosa la dà all'infuori dello spirito dell'Evangelo, in quanti la si ritrova che la voce di Cristo non ascoltino, che a Lui non la chiedano?

Li 7 Maggio.—Ho lasciata aperta tutto il giorno la finestra, perchè anche nella mia camera entrasse la primavera. Son le giornate nelle quali un misterioso elemento di vita, di cui l'aria, la luce, la natura tutta sembrano pregne, fa provare un senso indefinibile che dà all'anima ali di letizia e di sogni, ritorni di giovinezza.—Mai come in questo tempo dell'anno mi appar luminoso il mistero della risurrezione—legge della natura che sfugge all'analisi, ma che lo spirito intravede nelle grandi armonie dell'universo, che il cuore sente nelle sue ore di vita, che la fede da diciannove secoli illumina dalla scoperchiata tomba di Cristo.

Dianzi son passati qua sotto de'suonatori di mandolino, e nell'aria salirono note passionate e malinconiche. Mi affacciai alla finestra. Una luce smorta, di luna dietro le nubi, illuminava appena il gran campo delle ruine—un'aria tepida e leggera bisbigliava piano negli alberi del Palatino—il suono tremulo delle corde toccate s'andava perdendo in lontananza. —E l'anima mia tornava al passato, risentiva, quasi, i fremiti inconsci degli anni primi, ripensava agli affetti e ai sogni dileguati, agli affetti e alle speranze rimasti.

Vi son de'momenti nei quali il contrasto della realtà coi fantasmi della giovinezza, i mutamenti che gli anni recano nell'anima, fanno quasi parere d'aver vissuto in un altro mondo, in un altro tempo, belli e lontani.—Giorni felici quelli, ne'quali tante cose s'ignorano e tante cose si credono—ore benedette di affetti indefiniti e di fidenti entusiasmi, che puri e baldi vi slanciano incontro all'avvenire.

Ancora adesso, a volte, mi trovo a ripensare a'miei sogni d'allora—fin da quando, bambina solitaria (Gino, per lo più, si divertiva altrove co'piccoli amici suoi), passavo le mie ore di ricreazione meridiana all'ombra dei grandi pini del giardino—oppure, nelle sere d'inverno, sulla ringhiera, in alto, dove in una modesta cassa custodivo i miei giocattoli, e Laura, la mia gran bambola, se ne stava, ritta ritta, in un angolo.—Ma i giocattoli erano, per lo più, trascurati, e la povera Laura passava settimane intere annoiandosi sola. Amavo meglio appoggiarmi all'invetriata verso ponente, e guardar la luce calare sulla riviera, e il Sile azzurro, e il bastione vetusto, e i campi di là, lontani.

Ed erano corse strane che facevo, sur un cavallo focoso, traverso paesi ignoti—vallate fra monti nevosi e immani dirupi, e selve vergini, e lande immense e città e monumenti splendidi, come nella storia sacra trovavo descritte Ninive e Babilonia, e il Tempio di Sionne.—Oppure sognavo i geniali cavalieri e le dame flessuose che avevo visti dipinti in certi quadri storici dell'antica Trevigi—e forti guerrieri sugli spalti di castelli inespugnabili, e legioni di crociati che partivano per l'Oriente, baldi di fede e d'entusiasmo.—E s'era fatto buio a volte che ancora stavo là, appoggiata al finestrone o seduta in un canto, mentre le figure dipinte sulle pareti mi pareva s'ingrandissero, si movessero come ombre. E la mia buona istitutrice, che non udiva sulla ringhiera alcun rumore e voleva facessi moto, apriva la porta del nostro studio e diceva: “Saute!”

E più tardi, in quegli anni dell'adolescenza nei quali la vita s'apre con affetti e desiderii violenti e indefiniti, e nuovi strani sprazzi di luce e di entusiasmi fanno crescer l'anima nella vita, che avvicendarsi di fantasie! Ora sognavo di trovarmi, nuova Giovanna d'Arco, alla testa dell'esercito d'Italia, ricacciando oltre l'Alpi lo straniero. Ora possedevo una fortuna immensa, che, nubile e dimessa, in una certa modesta casetta di via dei Casini, accosto alla Madonna Grande, spendevo tutta in opere di beneficenza—e per ore ed ore almanaccavo su tutti gl'instituti che avrei fondati, per la maggior parte di educazione, e perfino ne componevo mentalmente i programmi. Ora ero madre di dodici figli, ognuno dei quali, in un campo diverso, faceva un gran bene all'Italia; ma, più spesso ero direttrice di un collegio dal quale tutte le allieve uscivano atte a migliorare la società. Ora ero una proprietaria di molte terre e di molte fabbriche, e iniziavo su larga scala tutti i miglioramenti agricoli e industriali dei quali, a tavola, udivo mio padre parlare, e impiegavo tutti i poveri d'Italia, e li guidavo al bene—ora, suora missionaria in Africa o nella China, vi subivo il martirio.

A volte ero una scrittrice i cui libri facevano diventar buoni tutti quelli che li leggevano—oppure una signora sempre velata che va a soccorrere tutti i poveri della sua città. Qualche volta poi capitava che fossi mogli di un certo giovane biondo che vedevo qualche volta passare a cavallo, e che era un genio e un eroe, che liberava l'Italia da tutti i guai che udivo deplorare.—Poi l'idea d'esser moglie cominciò a parermi una certa cosa non abbastanza indipendente…. E siccome una volta avevo chiesto alla mia istitutrice se si possono avere bambini senza aver marito ed essa m'aveva risposto: “Cela arrive quelquefois,” preferivo pensare d'esser una di queste privilegiate, e di avere, nubile, un figlio che fosse un santo prete, una specie di apostolo, che attirasse e convertisse le moltitudini, e poi diventasse Papa, e ripristinasse la Chiesa di Cristo e redimesse l'Italia….

Poveri sogni, povera giovinezza che va passado tra le rovine del passato e gli sgomenti dell'avvenire. —È duro, è tremendo, mentre, ben altrimenti che allora! si conoscono le miserie della vita e del mondo, mentre d'intorno si vedono gli errori, le corruzioni, le ingiustizie, le piaghe sociali, o abbuiarsi l'orizzonte, e tante buone care cose svanir nel passato, è duro, dico, è tremendo, per chi, se ha perdute le illusioni, ha serbati intatti gli entusiasmi, sentirsi, di fronte a tutto, impotenti, sentirsi rodere e contrastare fra gli sdegni e la pietà, l'ira e l'amore—sentirsi l'anima che anela a lottar fra le tempeste, e altro non ha che due povere deboli ali che sì poco alto sanno portarla—che vorrebbe agire e far agire, e nulla fa nè può fare—nulla in paragone dei desiderii immensi….

Eppure, stolta e mala cosa sarebbe scoraggirsi perchè giovanili chimere sono sfumate. Quegli ideali che alla fantasia della giovinetta ignara della vita inspiravano ingenue ambizioni, devono rimaner nel cuore della donna, non per tenerla in una tristezza ignava, ma per ripeterle ogni giorno, in ogni ora più oscura della sua vita: Lavora, soffri, combatti…. Non v'ha modesta creatura che qualchecosa di bene non possa fare, non v'ha umile vita che non possa lasciare, fra i compagni di miserie, una traccia benefica.

Invidio quelle virtù tanto più grandi quanto più piccolo e modesto n'è il campo, quelle devozioni al bene tanto più feconde quanto più son fatte di oscuri sacrifizi. M'insegni Cristo, il maestro della carità umile e fidente, a non perdere fra inutili rimpianti il tempo ch'Egli m'ha contato quaggiù. Grandi son le umane miserie e infinite le divine misericordie. Chi guarda al patibolo del Calvario sente aleggiare su questo povero mondo una grande virtù di perdono e di speranza—sente che lassù, come è il fonte di vita, è il fonte dell'amore che non sogna ma prega, che non si abbatte, ma lavora perseverando…. usque in finem.

Li. 10.—Sto leggendo un libro di C. Wagner, uscito ora, e intitolato: Jeunesse. Esso giustifica il suo titolo non solamente perchè è rivolto alla gioventù ma per la gran forza vitale ch'è in esso. È uno studio del tempo presente, un'analisi del fatto, del disfatto e del da farsi, e un appello ai giovani e all'avvenire. Libro alto e sereno, pieno di equanimità e d'amore. Ci vado facendo i miei segni, ad ogni seconda pagina. Come fare a leggere un libro che piace senza un lapis in mano? Spesso, disgraziatamente, il libro non è vostro, e dovete astenervene. Ma che pena! e, a volte, la tentazione vince.

Nella prima parte, L'héritage, che m'ha fatta ripensare a quanto, a proposito della scienza, scrissi qui l'altro giorno, ho segnato questo, che amo di tradurre: «Noi bramiamo soltanto che la scienza sempre più rispetti i fatti, tutti i fatti, che ritrovi il suo equilibrio e presti alle realtà interiori l'attenzione che meritano. Non dimentichiamo d'altra parte che nel movimento della scienza verso il materialismo i più frettolosi non furono gli scienziati. Molti fra questi si sono ben guardati dal cadere in ciò che si potrebbe chiamare la superstizione scientifica. Ma, se quelli erano riservati, altri han parlato in nome loro. Sono i filosofi e i letterati che speculano coi portati della scienza presi in blocco, come si specula alla borsa.

«La diminuzione dell'uomo ai propri occhi s'è, necessariamente, fatta sentire in tutti i rami dell'esistenza, manifestandosi con un accasciamento della vita dello spirito.»

E più in là: «Noi assistiamo alla pretesa che hanno certe scienze di rappresentar da sole tutto il sapere umano. E siccome, all'infuori del sapere non v'ha per l'uomo, agli occhi della scienza ridotta a quel modo, alcun mezzo di comunicare colla realtà, noi vediamo alcuni pretendere di ridurre ogni realtà e tutta la vita a ciò che hanno constatato. All'infuori di questo (e, per vasto che sia, Dio sa quanto questo campo sia misero in paragone dell'infinita ricchezza della vita) non vi sarebbero che sogni e illusioni. Non è più scienza, ma assolutismo scientifico»

E più in là: «Il nostro tempo ha proceduto a rapidi passi sulla via del realismo scientifico prima, indi del realismo pratico, spensieratamente disperdendo ciò che costituisce il bene supremo dell'umanità. Esso ha sostituito al concetto di un mondo vivente quello di un mondo morto. La meccanica ha, su tutta la linea, surrogato l'anima. La scienza materialista non fa caso nè del mondo nè dell'uomo. Per essa nulla v'ha in fondo alle cose. L'universo è un immenso fuoco d'artifizio che in ultima analisi si riduce all'urto degli atomi.—V'han de'giorni ne'quali certi scienziati parlano come se sapessero ogni cosa. In quanto agli ignoranti son più sicuri ancora, e la maggioranza de'contemporanei ha adottato questo meschino concetto dell'universo, nel quale non possono collocare nè le loro credenze, nè la loro regola di condotta, e nemmeno i loro sentimenti. Infatti, che è tutto ciò agli occhi del realismo scientifico? Nulla. In un mondo simile la sorte dell'uomo è di scender lui pure al livello d'una macchina, e d'essere, a seconda de'casi: macchina da lavoro, macchina da studio, macchina da godimenti, macchina da macello; carne da piacere, o carne da cannone.»

E più in là: «Un delitto di lesa umanità è in fondo a tutte le sofferenze del tempo presente.»

Indi, analizzando lo spirito di questo tempo, l'autore osserva come esso sarebbe opposto ai portati di questo concetto materialistico dell'universo, giacchè è uno spirito di libertà, di fratellanza, di giustizia. Da questo, egli dice, i contrasti e i tormenti del mondo attuale. E conclude affermando ciò che ormai è constatato da tutti: «Nell'immenso accrescimento di forza materiale, di ricchezza, di cognizioni, ci siamo sempre più impoveriti nell'energia morale, nel disinteresse, nella fede. Ciò che ovunque fa difetto è l'uomo.»

Ma più tardi, in un capitolo Sentiers de demain, egli constata il principiare del risveglio: «Non è più il tempo nel quale una sommaria cognizione del nostro essere materiale bastava a farei spiegare l'uomo. Son sorti problemi de'quali quelli che chiamavano il pensiero una secrezione del cervello non avevano alcuna idea, e di cui non s'avvedono coloro pei quali la psicologia par confodersi colla fisiologia. La parolina so, poco fa ancora così sicura di sè e così soddisfatta, incontra ora dovunque degli increduli. Il senso del mistero, che non è infine che una delle forme del senso della realtà, s'è risvegliato in faccia all'incognito. Che niuno possa spiegare la vita, che niuno possa gettare un ponte sull'abisso che separa il movimento materiale dal pensiero, perfino dalla più semplice sensazione che vi sia nel campo quotidiano, nel quale continuamente si agitano innumerevoli misteri: ecco ciò che ora colpisce ognuno che rifletta. Non ne è diminuito il rispetto per la scienza; ma vi ha guadagnato il rispetto per l'uomo, per le realità invisibili.»

No, non ne è diminuito il rispetto per la scienza; e non potrà che crescere la nostra fede in essa vedendola progredire, insieme colle lente e pazienti analisi e le non premature conclusioni, nelle grandi sintesi, nella via ascendente che assorge ai grandi concepimenti, in vista de'grandi orizzonti, e mena ad ogni progresso dello spirito.

Li 30 Giugno.—Roma si spopola. Il mondo esotico, quello elegante, quello politico, son del tutto scomparsi; e ora vanno partendo molti anche di quello più modesto e del cittadino, sia pure pei Castelli o Civitavecchia. Non si domanda: “Andate via?” si domanda: “Dove andate?” Rimanere, o anche solo partir tardi o per tornar presto, par quasi un'umiliazione.

I conoscenti nostri, tutti buzzurri o stranieri, van terminando di dileguarsi. Presto forse non avrò altre visite da fare che a quelli che non solo non possono procurarsi il lusso della villeggiatura, ma che, spesso, hanno appena, seppure l'hanno, quello d'una camicia di ricambio, d'una camera in cui respirare non soffocati dai miasmi dell'intera famiglia, d'un letto in cui dormire in due o tre soltanto, e sul quale il caldo, gl'insetti, il puzzo, la fame non li contrastino al sonno.

È pensando a questi che non oso dolermi di dover rimanere. Sarei un'ingrata.—E poi, per quanto mi seducano il miraggio di quelle alte cime amate, di quel verde de'boschi e de'prati, dove soleva andarmi a ritemprare le membra e l'anima, per quanto lo spirito mio si volga pieno di desiderio a quella vita di silenzio e di pace, il mio cuore a quegli affetti intimi, a quelle vecchie sante memorie di lassù, penso che sovra ogni altra cosa bella, ogni altra cosa buona, sovra ogni altro conforto, è la coscienza del dovere compiuto.

Li 16 Luglio.—Oggi, tornando da una penosa visita fuori porta San Lorenzo, uno dei più desolanti e sgomentanti fra i quartieri poveri, ho voluto, così, come un po'di villeggiatura, fare il giro del Macao, per vedere il verde di que'giardinetti che sorridono sotto i villini chiusi, lungo le vie deserte, inondate di sole.

Ritrovatami in una via che non conoscevo, guardai in su a cercarne il nome—e lessi: Via Bezzecca. E tosto, una cara visione mi sorse dinanzi….. E quando, in piazza dei Cinquecento, salii nel tram, essa mi stava dinanzi ancora—e mi accompagnò nel carrozzone quasi vuoto, lungo tutta via Nazionale, e lungo la passeggiata poi per tornare alla mia vecchia casa del Campidoglio—e tuttora la vedo.

La vedo ancora quell'alta valle trentina dove eravamo salite, la povera zia ed io, con quella sete di verde, di fresco, di solitudine, di pace, che spinge fra i monti a scordarvi, per un po', l'afa della terra e del mondo.—Avevamo lasciato il Garda scintillante sotto il sole splendido; e la strada che si svolge fra i massi spaccati dalle mine era entrata nella gola deserta. Poi, dal Montebaldo, nuvole bigie erano salite, e andavano coprendo la valle, stretta, nuda, salente fino al lago di Ledro che le dà o ne prende il nome, e dove essa si spiana e s'apre, larga ed amena, da Pieve a Bezzecca e a Tiarno, per poi restringersi come Termopili verso Storo, Vezza, Condino, Rocca d'Anfo, famigliari a chi non dimentica le vie dolorose del nostro riscatto e la memoria dei forti.

Il cielo era tutto coperto di nuvole grigie che pesavano, basse, sulle montagne. Il lago verde e quieto che, come un ypsilon, s'interna fra esse, qua e là impaludandosi sotto le canne, non era solcato da alcuna barca. Al di là dei pochi tetti e del vecchio grosso campanile di Pieve, si vedevano, più alto, le case bianche di Bezzecca, rifatte dopo la rovina e l'incendio di quel giorno, e la malinconica chiesuola che sorge sull' altipiano dove maggiormente fervette la battaglia, ch'era perduta già, quando il leggendario condottiero apparve, e in breve ora ne mutava le sorti.

Ma i giorni seguenti ridevano sotto il sole il cielo, e i monti selvosi, e il lago dalle mille tinte cangianti, e i campi bianchi pel saraceno fiorito, e lo storico altipiano dal verde e molle prato ondulante: e la chiesa bianca del cimitero, sconsacrata dal sangue di quel giorno, diroccata quasi, e il povero campo, coperto d'erbe selvatiche, nei quali alla rinfusa giacciono i resti dei caduti, parevano meno mesti, parevano sorridere anch'essi, nella pace di chi aspetta sperando.

E ogni mattina passavamo lassù, accanto ai morti, ore tranquille, leggendo all'ombra di grandi noci, che videro.—E la sera a volte ci tornavamo, a guardare gli ultimi raggi del sole, per noi già scomparso, accender di porpora le cime nevose del Montebaldo, mentre le ombre decrescevano nella valle e il lago s'increspava sotto la brezza della sera. E tacevamo in quella pace, mentre lungo la strada, dai pochi campi tornavano i contadini, e qua e là erravano voci tranquille, e nel villaggio si vedevano povere cucine illuminarsi e fumo lento salir da'comignoli, nell'aria fatta quieta. Poi, dalla parrocchia e dai paeselli intorno, vicino e lontano, suovava, sonora e soave, con una malinconia di cose passate ma non morte, l'Ave Maria….. E ascoltavamo le voci della terra e del cielo —e guardando la chiesina ruinata e il poggio là presso, di dove ira nemica fece ruzzolare una pietra che, anch' essa sepolta, aspetta, le anime nostre andavano dicendo: Riposate in pace.

Una sera che la zia era assente ero andata lassù sola. Dietro i monti a settentrione salivano grandi nubi, quali bianche e lente, quali scure e scorrenti come fumo, che andavano coprendo la valle. Il lago s'era fatto a chiazze nere, fra striscie come d'indaco; sui boschi, alle falde de'monti, il vento passava sibilando. Una luce bianca, quasi d'immobili bagliori elettrici, contrastava colle ombre che andavano crescendo. Ogni tanto il vento taceva, posavano le foglie delle piante; solo qualche uccello passava, volando bosso, nell'aria umida e greve.

Le nuvole avevano raggiunto le cime che circondano il Garda, e proiettavano sul Montebaldo strane tinte violacee. Sulla valle del Concei, che s'apre dietro Bezzecca, si manteneva un sereno d'un azzurro pallido verdognolo, quasi cristallino, sul quale spiccavano, con riflessi coruschi, come di visione, i monti dai quali il nemico, in quel giorno, era sceso, e balda impazienza aveva spinto i nostri a incontrarlo su que'dirupi, dai quali taluni di essi, dopo una truce impari lotta, ruzzolarono lapidati, e per due giorni rimasero fra quelle balze, morenti e soli.

Un tuono lungo, intermittente, romoreggiava lontano, avvicinandosi. Un lampo ogni tanto illuminava i monti del Garda; la gran massa del Montebaldo, a volte, appariva in uno splendore incandescente, e dispariva nelle nebbie. Il vento avea ripreso con violenza, fischiando ululando lungo le falde selvose de'monti, e flagellava gli alberi intorno a me; i rami scricchiolavano, foglie volavano nella bufera. Tutte le campane della valle suonavano con que'rintocchi disordinati che scongiurano il Dio delle procelle «a fulgure et tempestate.»

Io non avevo più la forza di reggermi, era imminente la pioggia, l'oscurità cresceva rapidamente— era già quasi notte. Tuttavia, affascinata, non sapevo risolvermi a rientrare. Perciò, visto aperto il cancello del camposanto, mi arrampicai pel resto della breve china e mi rifugiai sotto la porta della chiesa.

I lampi e i tuoni erano ormai su Bezzecca, e si seguivano senza tregua, con bagliori che mi acciecavano, e scrosci terribili che rimbombavano d'ogni parte destando tutti gli echi della valle. De'monti non si vedevano più che le pendici basse; il lago, tutto nero, si accendeva, sotto i lampi, d'una luce d'argento. Indi la pioggia cominciò a cadere a torrenti, spinta, tormentata, di qua, di là, dall'impeto della bufera.—Il cielo s'era fatto tutto un grande strato scuro uniforme, che si confondeva nella notte colla massa delle montagne. I lampi ormai lo rischiaravano tutto: nelle tenebre profonde si vedeva ogni tanto tutta la valle fino ai monti del Garda illuminarsi d'una gran luce d'oro, come una visione di cielo, e in un attimo disparir nella notte.

Io me ne stava là, sbattuta, fradicia, immobile su quella porta. Tacevano le campane; non udiva più che il tuonar del cielo e il gemito delle piante nel vento.

E pensavo a que'morti che avevo d'intorno, pensavo all'Italia che amarono, ai popoli oppressi, alle anime schiave, alle procelle del passato e a quelle dell'avvenire. E mi sembrava che nell'anima mia non meno fiera tempesta si sollevasse di quella che mi tuonava d'intorno….. Il lamento delle selve nella bufera mi pareva quello delle masse sofferenti, dibattentisi fra le miserie e le passioni—la tonante elettricità mi parea la risposta dell'eterna giustizia, che abbatte e rinnova. E nella splendida visione che ogni tanto appariva nella notte cercavo, per la nuova generazione, come un emblema di più radiosi ideali—e avrei voluto che altri lampi e altri tuoni la illuminassero e la scuotessero, sulle vie della verità e della giustizia.

E in quella sera, ai morti che mi giacevano d'intorno, sotto le zolle umide, non più augurava pace….. Avrei voluto per essi anticipasse l'ora della riscossa di Dio—avrei voluto vederli risorgere nella vittoria del Redentore, ad ammonire gli scettici, i libertini, i frolli, gl'ignavi, gli smemorati—a ripetere, fra le umane passioni e le umane ingiustizie, la parola che Cristo, a quelle alludendo, disse al mondo: «Non pace io reco, ma guerra.»

Li. 3 Novembre.—Mi si offre un posto d'istitutrice nella famiglia del comm. Falletti, ricco banchiere di Genova, da poco trasferitosi qui. La famiglia è composta dei genitori, una signorina, un giovanotto, e una giovinetta di quattordici anni, che sarebbe la mia allieva. Abitano il secondo piano di un palazzo in via Condotti, mentre il primo è occupato dalla loro banca.

Vi andai oggi. Mi ricevette la signora, una donna formosa sui quarantacinque anni, di un'eleganza non fine, di un complesso volgare.—Mi raccontò senza preamboli che l'altra istitutrice era dovuta partire lì per lì, in conseguenza di una debolezza—e accentuò la parola con un sorriso tra maligno e indulgente. Mi parlò della sua Valentiana come di una fanciulla bizzarra “un po'capricciosetta,” diceva; “sa, troppo bene ci si vuole a questi figliuoli. È una testolina, ha certe idee, pare impossibile, non par fatta pel giorno d'oggi. Spero che lei saprà ridurmela.”—Non mi fece alcuna interrogazione d'indole morale; non mi richiese che del numero delle lingue che conosco, aggiungendo che pel piano c'è una maestra. Al desiderio che espressi di vedere quella che dovrebbe essere la mia allieva, essa rispose con una certa affettazione ch'era tornata un po'stanca da villa Borghese.

Quando fui per partire, essa volle accompagnarmi attraverso quattro o cinque salotti, addobbati con lusso ma senza gusto, che entrando non avevo visti, perchè il cameriere, forse a cagione della mia toilette modesta, m'aveva fatta passare direttamente dal corridoio nel salottino intimo della signora. Nell'accommiatarsi, alla porta dell'anticamera, dove aspettava impettito un altro cameriere in livrea, mi disse: “Dunque, siamo intese: per salario cento lire al mese.”

Li 6.—Tutto tutto mi si para dinanzi—sdegni, umiliazioni, lotte….. Eppure, non sarò vile, accetto. Il papà n'è molto commosso, ma contento gli rimanga vicina, e fidente in me ben più che io stessa non lo sia. Gino m'ha scritto due parole sole—forse le stesse che m'avrebbe scritte la povera zia, quelle ch'essa soleva dire a lui: «Va, e combatti.»

Li 7.—Ho scritto alla signora Falletti. È fissato che assumerò il mio posto il quindici. In questi giorni faccio del mio meglio per disporre le cose in modo che il mio povero papà abbia a risentirsi il meno possibile della mia mancanza. Son sicura che la buona Angela avrà cura di lui—verrò a vederlo spesso. Eppure, vi son de'momenti nei quali uno struggimento, quasi un pentimento, mi assalgono….. Stamani, quando egli usciva per recarsi all'ufficio, mi affacciai per guardargli appresso, e mi prese un impeto di tenerezza osservando la sua schiena un po'curva e il suo passo che non è più quello d'una volta.

Li 14.—Ho messo nel baule il mio modesto guardaroba, i miei libri prediletti, alcuni di que'ricordi che mi son più cari. E ho ripensato a quando li ho raccolti lassù, in que'giorni di addii dolorosi…. Grazi, Signore, che oggi, in quest'altro addio, oltre al pensiero di vita che viene da Te, mi conforta quello del lavoro, quello della lotta. Rendi questi non infecondi Tu, Signore—dà alla mia lampada la luce Tua, sì che non la offuschi la polvere della via, non la spengano le procelle.

Ilo distaccato dalla parete qua davanti i loro ritratti—i nonni, così buoni e sereni nella severità antica, la mia angelica mamma, così presto dileguatasi d'infra noi, consunta da devozioni intime ed eroiche—gli zii Andrea e Lorenzo, che la morte per un santo amore gagliardo serbò giovani per sempre —la zia Annetta, caduta, lei pure, sulla breccia, fida all'idea che non muore.—Daranno, que'morti, vita all'ignota camera che mi aspetta in quella casa—mi conforteranno, la sera, dopo le lotte della giornata, in quell'ora in cui il pensiero va cercando nel passato, errando, sgomento a volte, nell'avvenire….. Avevo avuto per un momento la tentazione di portar meco là, come memento al disprezzo di qualche anima volgare, alcuni fra gli avanzi d'altri tempi….. Poi sorrisi di me stessa.—Il crocifisso del mio tavolino, qualche lettera, qualche fiore disseccato, qualche piccolo dono gentile….. Bastano questi. Non voglio recar là altri ricordi che quelli che alla coscienza ed al cuore insegnino a compiere il dovere.

Tra i fiori ne riconobbi uno di lui….. Povero fiore, che vorresti dirmi, ora?

Li 15.—Eccomi, da stamani, al mio posto. Mi sono stordita col da fare fino all'ultimo momento. Il papà voleva accompagnarmi; io non volli, chè temeva di non essere brava, sulla porta di questa casa estranea…..

Un cameriere mi accompagnò ad una cameretta al terzo piano—piuttosto triste, con una finestra che mette sur un cortile ristretto. Un lettino di ferro, un armadio, un cassettone, un tavolino, alcune sedie ricoperte di cretonne scura. le pareti nude.—Avevo appena compiuto il breve inventario del mio mobiglio che vidi comparire sulla porta, rimasta aperta, una radiante figura di fanciulla.

Alta pei suoi quattordici anni, di quella snellezza un po'inelegante dell'adolescenza, bruna di capelli e di carnagione, con due occhi grigi, grandi e profondi, in un viso dalle linee capricciose, un po'risentite, occhi che davano lampi e sorrisi stranamente simpatici. Stava un po'indietro, guardandomi con un'intensità tra ritrosa e ardita, quasi incerta ancora. Io mi sentivo vincere da un singolare turbamento….. Poi le stesi le braccia—ed essa vi si precipitò in furia, e mi strinse con forza tra le sue.—In quel momento tutti i miei propositi di calma e di fortezza furono soverchiati da un affetto nuovo, quasi materno, che m'aveva sollevato il cuore, da quella pronta espansione di simpatia, cui non m'ero aspettata—e tutto ciò che provavo in quell'ora, e tutto ciò che negli scorsi giorni avevo sofferto e represso, scoppiò in singhiozzi convulsi.

M'ero tosto rimessa—ma Valentina seguitava a guardarmi cogli occhi umidi e, baciandomi con una famigliarità eccessiva ma che in quel momento era ben lungi dall'offendermi, mi disse: “Le vorrò tanto bene!”—Poi, presami per mano senza cermonie, mi condusse nella camera attigua, al sua, spaziosa, allegra, con due finestre sulla piazza di Spagna, elegantemente arredata con molti ninnoli moderni e molto disordine; indi passammo in una sala d'angolo, lo studio. Uno studio senza fisonomia—molti mobili inutili, alcune oleografie disadatte, pochi libri.—Mentre stavo per esaminare questi e fare alla mia allieva qualche domanda relativa ai suoi studi, suonarono le undici e tre quarti. Valentina disse che la colazione è al mezzogiorno, ma esser meglio scendessimo addirittura, perchè intanto avrei potuto far la conoscenza di suo padre e dei fratelli. “Elisa,” disse ridendo un po'troppo forte, “sarà certo l'ultima.”

Scendeva le scale a salti, che scomponevano anche più i suoi capelli e le vesti, eleganti ma un po'sciatte. Abbasso guardò, passando, fra le cortine d'una porta, e dopo un: “C'è” soddisfatto, mi fece cenno di seguirla in quella stanza, un fumoir pregno di un'atmosfera azzurrognola, dove un signore leggeva un giornale fumando, sdraiato in una poltrona. “Papà, la signorina,” disse, con un certo che fra petulante e premuroso, la fanciulla.—Quel signore, che appariva piuttosto basso e tarchiato, non si alzò; si limitò ad abbassare il giornale e a togliersi il sigaro di bocca, piegando un poco la persona in atto di saluto. Poi, con due occhi indefinibili in un viso largo, pallido, regolare, incorniciato da favoriti grigio-rossastri, mi fissò per un momento, con uno sguardo che aveva dello sfacciato. Indi mi disse: “Spero, signorina, che saprà tener a dovere questa monella.”—E la guardava con una certa durezza, la quale però si fondeva con un'orgogliosa tenerezza paterna. Poi senza aspettare la mia risposta, rimise il suo grosso avana fra le labbra tumide e rialzò il giornale.

Sul viso di Valentina passò una nube e le sue narici mobili fremevano. Riprese la mia mano per condurmi nel salottino della mamma. Traversando una delle sale, incontrammo un giovane sui ventitrè o ventiquattro anni, alto, biondo, pallido, elegante, che Valentina mi presentò come “Alberto” suo fratello e che salutò me, cortese e indifferente, e la sorella con un atto delle dita un po'schiaffino un po'carezza, e tirò innanzi. Valentina fece spalluccie.

La signora discorreva con un vecchio amico di famiglia, ospite di passaggio. M'aveva vista entrare, ma non aveva subito interrotto la conversazione. Quando le fui vicina si rivolse a mezzo, mi salutò con un certo sussiego, e mi disse di sedere. Poi riprese il suo dialogo.

Vedevo che Valentina era inquieta e le faceva dei cenni, un po'troppo apparenti, perchè facesse la presentazione. Allora la signora, come si fosse avvista di una distrazione, borbottò a mezza voce accennandomi al suo interlocutore: “L'istitutrice.” Valentina, rossa come una bragia, col dispetto e l'imbarazzo nella voce, corresse: “Il conte Arduini, la signorina Da Ponte.”—Io mi sentivo tanto a disagio che non osai guardare la signora—ma negli occhi di Valentina, che avevo di fronte, vidi riflettersi la loro sorda battaglia.

Il conte Arduini intanto aveva ripreso un'altra volta il filo della conversazione colla signora. Quando il cameriere comparve e questa s'alzò prendendo il braccio del vecchio gentiluomo, Valentina, con atto comico, mi offerse il suo, dicendo: “Per miracolo manca Elisa.”

L'insistenza della fanciulla sull'argomento mi rendeva specialmente interessante quest'ultimo personaggio della famiglia che mi rimaneva a conoscere. Ma quando fummo seduti a tavola, in una sala da pranzo spaziosa e tetra, in istile del scicento, che s'era già preso il brodo e ch'ebbi inteso altre due volte, dal padre e dal fratello, ripetere: “Già, Elisa, per miracolo!” e che l'aspettata comparve, rimasi, nella mia impressione, incerta. Una personcina sui ventidue anni, bionda, graziosa, bellina come una bambola, colla quale facevano uno strano contrasto un'aria stanca, preoccupata, e una certa tristezza vaga che dava a quella frivola fisonomia un carattere, un carattere indefinibile. La sua toilette ricercatissima giustificava a suo modo il ritardo, ch'essa non curò affatto di scusare. Strinse la mano al conte Arduini, che s'era alzato ad incontrarla e inchinato con una premura un po'vieux style—e a me, che m'ero alzata a mezzo, continuò il sorriso abbozzato per lui, e vi aggiunse un “Ben arrivata, signorina,” che mi parve cordiale.

La conversazione riprese—sull'argomento del giorno, uno scandaluccio avvenuto ieri in uno degli ambulatori di Montecitorio, a proposito del quale il comm. Falletti emetteva ogni tanto una breve sentenza, che la signora, per lo più, contraddiceva con un profluvio di parole. Il conte Arduini, vecchio provinciale, che pareva inesperto della vita politica e nuovo ai conversari della capitale, non faceva che qualche rara e timida, per lo più ingenua, osservazione. Il pallido giovinotto metteva qua e là qualche frase da filosofo che posa a scetticismo. La signorina Elisa pareva pensare a tutt'altro.

Valentina, ch'era accanto a me, dopo le due prime portate, cui aveva fatto famosamente onore, pareva impaziente d'andarsene, e ogni tanto mi prendeva una mano o dava una tiratina alla mia veste. Alle frutta, che dichiarò piacerle poco, non istava più alle mosse, benchè io cercassi di farla quietare. Con un dattero in bocca, preso dal trionfo, e mentre il cameriere non aveva ancora fatto il giro, disse che avevamo tanto da parlare e da fare, e che noi due saremmo risalite.

Nessuno curò di correggere la sconvenienza della fanciulla. Avrei voluto e dovuto farlo io, ma vilmente temetti lo si potesse attribuire al desiderio del dessert. Perciò rivolsi un: “Permette?” alla signora, che stava servendosi e che, con un tono di aspirazione a superiorità, rispose ognuno a casa sua esser libero di fare quel che gli piaceva.—Osservai in quel momento gli occhi del signor Alberto fissi su me con un'intensità indagatrice—mi sentii arrossire, ciò che mi seccò non poco, sì che il rossore ne aumentava. Perciò seguii in fretta il mio diavolino ch'era già fuori della porta e infilava la scala cantarellando un'aria d'operetta.

Li 18.—Ho passato questi tre giorni esaminando la mia allieva per vedere che cosa sia, che cosa pensi, e che cosa sappia. Malgrado i suoi lati eccessivi e le storture dell'educazione, mi vado sempre più confermando nella buona impressione del primo momento. Evidentemente, essa ha per natura un ottimo cuore, ma, per effetto di malo indirizzo, è cresciuta egoista. Ha una singolare prontezza d'ingegno, ma non riflette punto a quello che dice nè a quello che fa.—A quanto ho inteso, un po'dall'uno un po'dall'altro della famiglia, essa fu, per esser l'ultima de'fratelli, assai guastata fin tardi; nè fu messa in collegio come la sorella, per la semplice ragione che non ci aveva acconsentito. Per cui, tra per la sua straordinaria vivacità, tra per la cecità de'genitori, era divenuta insoffribile. Le presero allora un'istitutrice.

Ma questa era una giovane, la quale, più che vocazione d'istitutrice, aveva desiderio di piacere e di maritarsi; e perciò era sempre distratta e svogliata. Sicchè (questo me lo disse oggi la madre) facilmente si lasciò adescare da un intimo frequentatore della casa.—“Egli non la frequenterà più, spero,” non seppi trattenermi dal dire in tono d'interrogazione severa—chè avevo notato come nell'alludere a costui nelle labbra della signora fosse passata una certa contrazione di compiacenza.—Ma essa, arrossendo leggermente e mendicando un po'le parole, rispose: “Sa, altro è dire, altro è fare….. Si tratta di un personaggio….. importante—un amico di mio marito, con qualche interesse in comune….. una persona influente, rispettabilissima, molto in auge…..”

Io m'era sentita impallidire ascoltando quella donna, che, pure, non diceva nulla di straordinario….. D'un tratto essa, sia che realmente avesse frainteso il movente delle mie parole, sia che lo fingesse per potersi vendicare della figura che faceva dinanzi a me, mutò voce e tenore, e, guardandomi col più maligno de'suoi sorrisi: “Oh! signorina,” disse, “non abbia paura: non c'è pericolo!”

Li 19.—Oggi abbiamo compiuto il programma e l'orario delle nostre occupazioni; ma tutto fra noi due, chè i genitori—è vero ch'è una fortuna—non se ne sono impicciati. Il padre, cui m'ero prima rivolta come al più intelligente, mi rispose essere molto occupato de'suoi affari e non aver tempo da perdere con queste cosuccie di donne—facessi io, come meglio credo. La madre si limitò a raccomandarmi le lingue straniere. “Son quelle,” disse, “che fanno figurare in società, specie nelle società aristocratiche; chè noi frequentiamo i primi signori. In quanto all'italiano, Valentina ne sa anche di troppo. Delle altre cose che insegnano adesso non me ne intendo. Ma già, per una donna non occorrono tanti studi: che sia graziosa è l'essenziale. Ho sempre visto che le donne più sanno meno piacciono agli uomini. Per cui, si regoli.—In quanto ai libri che diceva, li prenda pure. Io veramente ho sempre trovato che ciò che si spende in libri, noi donne—meno qualche ultimo romanzo, non dico, di qualche autore in voga, da tenere sul tavolino del salotto—è danaro sprecato; ma, grazie a Dio, la casa Falletti può sprecarne in questa e in altre cose.” E con queste parole, accompagnate da un gesto maestoso e da un sorriso di soddisfazione e d'insolita benevolenza, la signora chiuse il suo dire.

Appena avuto il permesso di sprecare in libri i quattrini della casa Falletti, Valentina ed io, col nostro elenco, corremmo da Loescher, malgrado un tempaccio che aveva reso il Corso quasi deserto. “Ah! che gioia.” esclamava la mia chiacchierina, che in questi primi giorni, per meglio conoscere il mio terreno, qualunque cosa storta o cattiva essa dica, lascio parlare parlare, senza correggerla nè interromperla, “che gioia girare a piedi colla pioggia e il vento! La mamma dice che si sciupa la roba e si par gente che non ha carrozza. Ma non importa, non è vero? C'è Elisa che detesta il vento perchè le scompone i ricciolini che le costano tanta fatica; e Alberto anche, perchè ha sempre paura di raffreddarsi.—Oh! guarda Luchino! ha visto entrar da Aragno quel giovinotto coll'impermeabile? Pareva che pensasse a Elisa, che ci aveva tanto sperato. Ma ora è qualche giorno che non la bada più; e lei, ha visto come mangia poco e come è dispettosa? Oggi m'ha strapazzata proprio senza ragione! Un bel giovane, non è vero?”

Una raffica di vento in piazza Colonna mutò un'altra volta il corso dei pensieri di quella testolina, che prese a compassionare la povera bandiera di Montecitorio, che si desolava fra quelle sbattiture. “C'è stata mai alla Camera, lei? Io sì, l'anno scorso all'apertura, quando ci venne il Re. Eravamo nella tribuna della presidenza. Veramente il Re non si vedeva nè si udiva; ma la mamma dice che quella è la tribuna migliore perchè è la più distinta. Il papà non è venuto. La mamma dice che a Montecitorio egli andrà nell'aula, o niente. Magari! Non è vero che sarebbe bello se il papà fosse deputato? S'era portato, sa; ma sono stati tutti quattrini sprecati. Adesso si spera che lo facciano senatore. Almeno, così ha detto alla mamma il senatore Baretti, che s'interessa tanto per lui.”

E qui l'enfant terrible prese un'aria di mistero: “Sa, il senatore Baretti era innamorato della signorina Esther, l'altra mia signorina….. Voleva sposarla, lei me lo diceva sempre. Poi, un giorno l'ho udita pianger forte in camera della mamma, non so perchè; e il giorno dopo è partita, che pareva stesse tanto male, poveretta.” E fu cogli occhi umidi e il visetto alterato che Valentina chiuse l'ombrello, sulla porta del libraio.

Li 20.—Son riuscita a fare qualche mutamento nel nostro studio. Ho fatto sparire tre quadretti— una mezza figura di donna, se non equivoca, sciocca, una triviale scena d'osteria, e una leziosa passeggiata stile Watteau. Non ci sarà stato nulla di decisamente cattivo; ma trovo che non basta. Ciò che ne circonda deve il più possibile esprimere i nostri ideali e i nostri principii—parlo dei buoni, ben inteso; e se non possiamo manifestarli in questo modo, almeno non facciamo transazioni—specie intorno alla gioventù che s'educa alla vita. Meglio le pareti spoglie, una stanza nuda, che qualchecosa che avvezzi l'anima a quell'eclettismo in morale, a quell'indeterminatezza nell'indirizzo, che preparano i compiacenti servilismi ai pregiudizi sociali.—Per poco ornata, d'altronde, che sia una stanza, essa non sarà mai squallida ove la vivifichino il cuore e lo spirito di chi l'abita.

La signora Falletti aveva un po'sorriso di ciò ch'essa chiama la mia pedanteria. “Ci vuol altro a questo mondo,” m'aveva detto, “guardar tanto pel sottile! Lei è esaltata: badi a me che son pratica.” Mi sarebbe venuto fatto di risponderle che per certuni sono esaltati tutti quelli che non son volgari….. Ma pensai che, oltre a un dovere di prudenza verso la madre della mia allieva, avevo anche quello di non cadere in un ingiusto pensiero d'orgoglio.

Ho soppresso anche certe poltrone basse e soffici, nelle quali Valentina aveva l'abitudine di sdraiarsi. È una diminuzione, è un'insidia tutto ciò che ammollisce la gioventù e le crea bisogni fittizi e fomenta gli egoismi.—In principio c'è stato ribellione—la mia bambina rifiutava di studiare sulle seggiole alte e dure. E per mezza giornata è stata in piedi, senza far nulla, con tanto di muso. Quando non ne potè più di stanchezza sedette sulla sedia alta e dura, e tutto fu finito. E oggi essa mi disse: “Signorina, perchè i nostri genitori ci fanno creder necessarie tante cose che non lo sono?”

Ho ottenuto anche di far ridurre a scansíe e vetrate e metter qui, ad uso di libreria, un armadio vuoto che c'era nel corridoio. Valentina avrebbe voluto uná piccola libreria apposita; e per ottenerla aveva fatto al papà tutte le sue moine da bimba guastata. Ma il papà stette saldo, e la ammonì a non darsi di queste importanze, ridicole in una donna, e a non fargli sciupar quattrini pel terzo piano.» La persuasi a rassegnarsi, dicendole che l'essenziale sono i libri e, più ancora, la buona volontà di profittarne.

Non abbiamo peranco cominciato a studiare regolarmente. Vado esaminando ciò che la ragazza ha imparato e fatto finora. Essa sa molto più che non immaginassi —abbastanza per potersi illudere d'essere una giovinetta istruita. Ma manca il pensiero sintetico illuminante, manca l'inspirazione del sentimento, manca l'indirizzo. È quell'odierno affastellamento di cognizioni che riempie il cervello ma non lo nutre, nè educa l'anima a salire. Vedo che, più che dare a questa ragazza lezioni di questa o quella materia, avrò da cercar di allargare, sintetizzare, indirizzare ciò ch'essa già sa, insegnarle a imparare, a cercar la luce vera, aiutare lo sviluppo dell'anima, temprare il carattere, e del complesso delle cose imparate fare una base larga e salda ai principii.

Li 21.—Valentina mi si va affezionando sempre più e, ciò che soprattutto mi conforta, capisco di lavorare in un buon terreno. Ma il lavoro da fare non è nè poco nè facile—tanto più che v'è da combattere tante avverse influenze d'ambiente. Sempre più capisco che la mia vita qui sarà una lotta continua, che avrò da seguire in tutti i modi il breve programma fattomi da mio fratello, ch'è sempre stato, in qualsiasi campo, quello della nostra famiglia.—Dio m'inspiri e m'aiuti—e voi, sante creature del mio passato, pregate per me Quello in cui ritrovaste la pace della vittoria.

Oggi andai a trovare il papà, che si sforzava di mostrarmisi allegro….. Poveretto, egli forse s'illudeva che gli occhi della sua Nicoletta non leggessero addentro nel suo vecchio cuore—vecchio non tanto per gli anni quanto per le molte traversie, giovane sempre per l'affetto e l'ideale.—La buona Angela fa del suo meglio; eppure notai intorno a lui tante piccole trascuranze che non posso rimproverare a lei, povera donna, ma che rimprovererei tanto a me stessa….. Vorrei fare a lui e alla casa visite frequenti—e lo potrei, chè i signori Falletti sono anche meco coerenti al loro programma, fin dal primo giorno annunziatomi dalla signora. Ma sento di dover lasciare il meno possibile la mia allieva, tanto più che a nessuno in casa sua potrei affidarla.

Li 22.—Oggi ho pregato la signora di mutarci la cameriera. Era adibita a noi una certa Rosina che mi faceva pena di veder girare intorno alla mia figliuola —una ragazza leggera e civetta, che le andava parlando di molte sciocchezze. La signora faceva delle difficoltà, non sentendosi, diceva, di cedere Filomena, la cameriera sua, alla quale è avvezza. Dissi non importava, ci assegnasse invece la vecchia Marianna, per un servizio più limitato, chè intendo abituare Valentina a vestirsi da sè e a pensare a gran parte dell'assetto della propria camera.

La signora protestava romorosamente, dicendo che quando, grazie a Dio, si può tener tanta gente di servizio, non c' è ragione di abbassarsi. Cercai di persuaderla della dignità e dell'opportunità del bastare a sè stessi, sia per abituarsi all'ordine, all'attività, alla disinvoltura, all'idea che nessun lavoro onesto, per quanto umile, abbassa l'uomo, sia in vista di tutte le possibili evenienze della vita.—Ma essa non pareva punto persuasa: mi pareva anzi offesa io ammettessi per sua figlia la possibilità di certe evenienze….. Disse anche che Valentina «non ci si adatterà.» Poi, vedendomi sorridere di queste parole, disse in tono di sfida: “Ebbene, ci si provi un po'! vedremo se le riesce.”

La mia bambina m'ha fatto in sulle prime un po'di musetto; poi i miei ragionamenti l'hanno persuasa, ed ha finito col trovare famosamente divertente l'idea di rivoltare i materassi.

Così ho ottenuto il doppio scopo di allontanare dalla mia figliuola una cattiva consigliera e di poterla obbligare a vincer la pigrizia e il disordine che son propri di chi lascia fare, e anche quell'abitudine di comandare a bacchetta, tanto nociva ai giovani, non foss'altro che per la vanità, l'egoismo, i pregiudizi che fomenta.

Togliessero quella Rosina anche alla povera signorina Elisa! A quanto Valentina mi racconta, è un continuo adularla, lusingarla, dirle che il conte Tizio ieri è passato qua sotto in phaëton guardando in su, che il capitano Caio l'ha fermata per via per farle interrogazioni sul conto suo, che la madre dell'avvocato Sempronio ha detto a una sua amica, che l'ha ripetuto alla padrona di una sua compagna, che a suo figlio piace la signorina Falletti. E che lunghi consulti fanno in quel gabinetto di toilette, e che tirar di stringhe del busto intorno a quella povera vitina già tanto sottile, e che studi di pettinature, di accomodature di nastri, di cinte, di trine, di carrés….. Ieri osservai sgomenta certe ombre nere intorno agli occhi della fanciulla; e le sue labbra anemiche erano di un rosso insolito.

Li 23.—Stasera, per la prima volta, mi trattenni un poco, con Valentina, in sala. Tutte le sere, quando non escono, i signori Falletti ricevono gl'intimi. Contrariamente al solito, pare, i convenuti non erano che due. La signora, evidentemente, n'era seccata e non isdegnò di giustificar meco la scarsità del numero. C'era al Costanzi una première che faceva correr tutta Roma; loro non ci andavano per non esser giunti in tempo a trovar palchi. “Cioè ce n'erano ancora,” soggiunse, “ma non palchi per noi—tutti di second'ordine.”

La signorina Elisa, di pessimo umore, sdraiata in una poltrona sotto la lumiera, ricamava un'imitazione di gobelin, dando ogni tanto, quando la lana le si aggrovigliava, certi strattoni che la rompevano, accompagnati da una soffiata d'impazienza, mentre il piedino nervoso si metteva in moto.—Il commendatore leggeva il Sole, di un umore che, quantunque per cause certamente molto diverse, faceva il paio con quello della figliuola. Il signor Alberto era uscito subito dopo il desinare. Valentina s'era mezzo addormentata accanto a me.

La conversazione coi due estranei era sostenuta dalla signora, cui essi profondevano i «donna Claudia» a tutto potere. L'appellativo, evidentemente, è conquistato da poco, ed ha per lei tutta la preziosità delle proprietà nuove e non da tutti riconosciute.— Uno dei due visitatori era il cav. Spelli, alto impiegato in non so quale Ministero, personaggio insignificante, parmi, e molto umile col commendatore. L'altro era il famoso senatore Baretti, il «rispettabilissimo frequentatore della casa»—un uomo vicino alla cinquantina, imponente di figura e di modi, tutto improntato, fin nell'atteggiamento delle linee del volto e nell'inflessione della voce, nel modo soddisfatto nel quale guarda, e parla, e siede, e fuma, e sputa, della superiorità che nel mondo gli danno, a quanto ho inteso, il suo ingegno, le cariche onorifiche, la fortuna in pochi anni fattasi ragguardevole, la grande influenza acquistata nel mondo politico e nel finanziario.

Prima che i visitatori se n'andassero, ero salita con Valentina. Qualche tempo dopo, avvedutami di un libro che avevo dimenticato abbasso, feci per ridiscendere. Quando fui sul pianerottolo fra il terzo e il secondo piano vidi i due visitatori uscire sulla scala; e mi trattenni un poco per evitare d'incontrarli. Mentre scendevano, udii la voce del cav. Spelli, che diceva: “Mica male, eh? la nuova bonne.” Non intesi la risposta dell'altro, dalla voce di basso. Poi riudii quella, stridula, del cavaliere, che diceva altre parole, fra le quali non afferrai che «osso duro;» poi una grassa risata del senatore, poi di nuovo la voce del cavaliere, che s'era fermato per riaccendere il sigaro, e, fra una tirata e l'altra, diceva: “Col tempo…. e colla…. paglia….” M'ero aggrappata alla balaustrata di ferro, che tentennavo un po': e m'era venuta una voglia indiavolata di farla cadere addosso a que'due miserabili.

Ho detto miserabili? Chissà quanti uomini, e quante donne oneste anche! qualificherebbero di esagerato quel mio epiteto….

Li 24.—Oggi è stata a trovarmi Valeria Franchi, l'amica che m'ha procurato questo posto. È di Brescia, e nipote di un compagno d'eroismo, nelle dieci giornate, a Tito Speri, caduto a fianco di lui che cinque anni dopo saliva il patibolo. Il figlio suo, padre di Valeria, medico, quando lei era ancora adolescente moriva di colera, vittima del dovere. La madre la educò colle memorie domestiche e il culto degli ideali che avevano inspirato que'forti. Chè allora si chiamavano forti quelli che in una fede divina e nella legge di Cristo attingevano virtù gagliarde di uomini e di cittadini—non, come ora, quelli che vantano gretti scetticismi, frutto di povertà interiore, e troppo spesso generatori di disonesti o di fiacchi.

Rimasta, alcuni anni sono, orfana e sola, con pochi mezzi, molto ingegno e molta coltura, venne in Roma dove aveva un'amica, presso la quale vive, e che le procurò lezioni di letteratura italiana. C'incontrammo per la prima volta in una casa dov'essa insegnava. Uscimmo di là insieme; e credo che, distratte dal mutuo interesse, c'inoltrammo anche per vie dove non avevamo da andare.—Era stato pronto, per l'affinità de'ricordi e de'principii, il legame fra noi. Ci rivedemmo ogni tanto, divenimmo amiche, seriamente, saldamente.

Essa ha venticinque anni; è una figura di una bellezza austera, con qualchecosa in tutto l'esser suo di fiero e di originale. E austero e fiero e originale è il suo carattere, e buono insieme, profondamente buono. Non è fatta, certamente, per piacere a tutti, nè da tutti essere intesa. V'ha chi la giudica orgogliosissima, e chi umile come una santa—chi la dice arida e chi passionata. Io, che la conosco nell'intimo, so ch'è «alma sdegnosa,» non per orgoglio meschino ma per altezza d'ideali e severa esigenza di virtù in altrui come in sè stessa—ch'è passionata per natura e non arida, ma austera per reazione di volontà fortissima. Ci bisticciamo a volte, ci urtiamo, violentemente; poi, in uno slancio, facciamo la pace.

Essa, da un anno, dava lezioni a Valentina, chè l'istitutrice di questa era straniera. E fu perciò atto generoso, e tanto più che ha poche lezioni, procurare a me questo posto. Quando tentai di ringraziarnela, parve offesa. “Varrebbe la pena d'essere amiche?” rispose. “Tu non l'avresti fatto?” E mi guardò con occhio inquisitore.

Li 25.—Stasera dopo pranzo la signora era salita, per la prima volta, da noi, per vedere i mutamenti fatti nello studio. Fui felice, a buon conto, che Valentina in quel momento non ci fosse.

La signora osservò che pareva una stanza più da uomini che da donne. Poi, guardando il mio crocifisso, che ho messo sulla nostra gran tavola da studio, fece un atto di meraviglia e disse: “Ma non siamo mica in chiesa! Tutto a suo posto, cara signorina.”

Risposi che non mi pareva l'immagine del redentore e del legislatore fosse spostata in un luogo dove una creatura si educa e si prepara alla vita. La signora parve per un momento colpita, come dinanzi ad un'idea affatto nuova, ad un inusitato aspetto della cosa. Ma poi, con un certo imbarazzo nella voce, riprese: “Sa, non dico, ma potrebbe, se qualche amica viene quassù, dare un'aria clericale….Mica ch'io sia un'anticlericale, sa, niente affatto; anzi, se non piove, vado a messa tutte le feste, e mi piace che anche le mie figliuole ci vadano. S'è sempre fatto così…. Poi a una donna un po'di clericalismo vien perdonato; è anzi bon ton. «Trono e altare» come dice Livia di Sant'Albano. Ma poi, sa, ci vuole anche un po'di progresso—non bisogna parer gente troppo alla vecchia—in questi tempi non conviene!”

Di fronte alla volgarità di quella donna, che d'altra parte non faceva che ingenuamente esprimere ciò che tante altre, meno sciocche di lei, non dicono, ma cui, non meno prive di principii e di carattere, informano la vita, io mi sentiva salire il sangue al viso. Malgrado lo sforzo fatto per contenermi: “Signora,” risposi, “questo programma non è davvero il mio. Io intendo d'aiutar Valentina a divenire una donna cristiana e italiana, in tutto e per tutto; e non di farne una bambola o una banderuola.”

La signora tacque per un momento, colla brama di vendicar l'offesa raccogliendo le scarse forze dell'intelletto; indi rispose: “Si vede, signorina, che lei non è fatta per servire!”—“La ringrazio, signora,” risposi col più fiero de' miei sorrisi. Essa mi guardò un momento sconcertata; poi, in tono di minaccia, aggiunse: “….e che non le preme di conservare il suo posto.” E con questo, senza lasciarmi tempo a rispondere, uscì rapidamente.

Che avverrà? Vado esaminando la mia coscienza, e mi sento tranquilla. Quanto mi pento quando ho alzato la voce per motivi personali, altrettanto parmi d'aver compiuto un dovere quando l'ho fatto per difendere un principio. Dio sa se mi dorrebbe di dover lasciare la mia Valentina, nella quale ho già messo tanto affetto e tante speranze, di dare un dolore a mio padre, di dover ricominciare, e chissà dove e come…. Ma, piuttosto che mancare ai principii e al dovere, voglio questo, ed altro, e tutto.

Li 26.—L'affare d'ieri non ebbe alcun seguito. La signora stamani mi salutò come sempre, e mi parlò di tutt'altro; forse anche con un'ombra di affabilità insolita. Ho capito ch'essa deve averne parlato al marito, e forse non al marito solo; chè, durante la colazione, fatto cenno ch'ebbe questi ad una sottoscrizione recatagli per erigere un monumento sepolcrale al missionario Massaia, lui e il signor Alberto mi guardarono—e nei loro occhi non c'era nè ostilità nè sarcasmo; direi anzi che c'era del rispetto.

È un paio di giorni che il signor Alberto mi guarda con un certo interesse. Egli si professa dilettante di psicologia—perciò forse va studiando il nuovo soggetto capitatogli sott'occhi.—Ma, se lui studia me, io studio lui.

È un giovane che s'è completamente lasciato educare dall'ambiente fin de siècle. Non ama scomodarsi, nemmeno per un entusiasmo; affetta di non credere nè a Dio nè agli nomini, e tanto meno alle donne—di non esser suscettibile nè di ammirazione nè di meraviglia; considera tutto da dilettante eclettico. Rifugge dall'anacronismo d'essere cavalleresco colle signore, e soprattutto da quello d'esserlo colle signore della sua famiglia, e in particolar modo colle sorelle.

Tuttavia, traverso a questa vernice di modernità, vado scoprendo, o, dirò meglio, indovinando, un forte ingegno, una cultura raffinata, un talento artistico non comune, e un cuore che avrebbe bisogno di altri principii e di un altro ambiente per espandersi. Egli si sente, io credo, molto a disagio; e non solamente a cagione dell'inferiorità morale de'suoi genitori. Malgrado le doti intellettuali e fisiche che contribuiscono a renderlo festeggiato in società, l'avvenire che potrebbe sorridergli, la vita allegra che mena, l'olimpica sicurezza di sè che ostenta, quel giovane non è punto felice. Lo capisco da tante piccole cose che ne rivelano di grandi. Egli, come gli altri, s'è lasciato trascinare dalla corrente, ha abbracciate, senza troppo vagliarle, le dottrine in voga; ma mentre tanti altri, corrotti, o sciocchi, o volgari, ci si adagiano, vivendo terra terra, lui che, quantunque nato per migliori ideali, le afferma, le proclama, le esalta ad oltranza, esse rodono nel più intimo.

Li 27.—Oggi sono andata in casa Maren. È una famiglia di vecchi amici nostri, da poco tempo venuti a fissarsi in Roma. Son di Asolo, la piccola antica città che ha dato il nome ai cari colli della mia giovinezza.

Come sempre la rivedo, distesa a mezzo la collina, fra le quercie e le vigne crescenti intorno alle mura ruinate, che narrano de'tempi foschi degli Ezzelini, e degli anni gai ne'quali la spodestata regina di Cipro confortavano le aure asolane, e il fasto di una corte concessale dalla Serenissima, e i poeti della laguna, e le corti d'amore, e le giostre e le caccie scorrenti sul piano lieto di sole e di pampini….

E come rivedo, in fondo, le mie Prealpi cerule, la Monfenera e la Grappa che coi dolci declivi salgono da quella vallata radiosa dove Canova nacque e a Dio e all'arte eresse il suo tempio, e sangue di prodi bagnò l'altro estremo dei colli Asolani, per l'Italia caduti appiè del bianco santuario di Maria. Come rivedo il mio Piave candido che reca alla pianura veneta il saluto del forte Cadore, e lambiva le quercie antiche del Montello—di quella selva le cui ombre narravano le glorie della nostra marina, la marina dei Dandolo e dei Pisani, dei Morosini e degli Emo, e che avidità e incuria umane distrussero.

Come rivedo, soprattutto, appiè degli Asolani, la villa bianca fra i castagni del mio Moliparte—e quella di Maser, dove sotto i portici di Palladio e le vòlte istoriate da Paolo e i gran pini in alto, ho passato tante ore gioconde di giovinezza coll'amica mia prima…. Ora essa giace nella cripta di quel tempietto dove, dinanzi all'altare di Cristo redentore, timide e volenti in sull'entrar nella vita, per la prima volta ricevemmo il pegno dell'amore di Lui più misterioso e più grande.—Riposa là, sotto la gran pietra, nel silenzio e nel buio, il suo corpo disfatto—ma non là la cerca il mio cuore. La cerca fuori, in quel cielo pieno di splendori, su quelle verdi pendici e fra que'semplici cuori di poveri ch'essa amava e dove forse qualchecosa dell'anima sua è rimasto.

Ho sfogliato dianzi i quanderni della povera zia. Rammentavo che v'era una data di settembre in cui essa accennava ad una visita annua che solevamo, di generazione in generazione, fare alla famiglia Maren; e la cercai per rileggerla. Essa vi parla del padre e nonno degli amici nostri—il signor Barnaba, amico del bisnonno mio, e la moglie sua, che rammentava, colla figura formosa e il toppè candido, le zentildone della Dominante; e narra dell'infanzia sua e della giovinezza, quando quella giornata era per lei una festa, fra i giuochi gai prima, colle fanciulle di casa, e poi i sogni di giovinetta in faccia ai monti ceruli, fra i verdi poggi declinanti tra i fiori e le ruine, nella luce del tramonto.

E dice che più tardi, una volta, avean trovato il vecchio signor Barnaba solo. La formosa signora era morta, morta, giovinetta, una delle fanciulle, l'altra maritata lontano, il figlio assente, presso la fidanzata. —Un'altra volta, molto più tardi ancora, alla vecchia tavola, fra i vecchi ritratti di famiglia e gli specchi rococò, nemmeno il signor Barnaba c'era più; e il figlio era già brizzolato, e la sposa non era più giovane, e al posto de'nonni erano i loro figliuoli. E così terminava quella sua evocazione del passato:

«Ora, anche i fanciulli son diventati grandi, e vecchi i genitori—presto un altro giro della ruota sarà compiuto.

»E i poggi lieti di vigne rimangono, rimangono le Alpi grandi e il sole che tramonta per risorgere sulle vicende umane. Rimane la luce divina che illumina le gioie e i dolori, le virtù e le miserie—e nel grande mistero della vita e della morte conforta, come foriera del giorno che verrà.»

E ora l'altro giro della ruota è compiuto. Anche la nuora della vecchia signora è morta, e la lieta vecchia casa di Asolo è passata, come la nostra, in mani estranee.

Sopravvive il marito, il signor Marco, già vecchio, e venerando per ideali e virtù sopravvissuti all'antico valore di patriotta. E Francesco, il maggiore di quei fanciulli, coi quali, alla mia volta, benchè più piccina, giocavo io, è marito e padre, e insegnava con autorità di dottrine e di vita una filosofia indipendente dall'andazzo, la quale finora gli ha precluso la cattedra d'università che al forte ingegno suo e alla vasta dottrina spetterebbero—punito adesso colla disponibilità per avere, come provveditore agli studi, resistito da onesto all'apostolato corruttore, disfacitore, che va sempre più invadendo la famiglia e la scuola, per mezzo di settari che della libera fortezza sua si vendicarono con calunnie.

L'altra, la piccola Elena, è ora un forte e sereno tipi di donna nubile, che, con operoso amore di sorella, assiste e supplisce la cognata, resa, da un'artrite cronica, quasi impotente—l'angelica Letizia che, colla fede e la virtù invitte, par voglia, pur fra le prove morali e le torture fisiche, giustificare il suo nome.

Essi m'han recato qua, coll'ambiente loro di cristiana virtù fra le prove e di pace fra le lotte, come un soffio delle nostre convalli, della nostra giovinezza—essi mi fanno rivivere in un passato vivo di morti amati e di memorie che non muoiono.

10 Dicembre.—Ora abbiamo sistemato i nostri studi e la nostra vita. Valentina non brontola più per coricarsi alle nove e mezza e alzarsi alle sei e mezza; anzi trova ch'è una gran bella cosa vestirsi col lume. E ho da fare a correggerla del disprezzo che sente per quelli che s'alzano più tardi. Alle nove abbiamo fatto colazione e siamo rientrate dalla chiesa e da una o due visite a qualcuno dei nostri poveri. Poi abbiamo due ore di lezioni che variano a seconda de' giorni; poi lei un'altra di componimento. A mezzodì si scende a colazione; e si risale, non presto come il primo giorno, ma più presto si può senza increanza; c' è tanto poco da imparare in que' convegni di famiglia!

Subito dopo riusciamo, e si fa, per lo più, un giro con qualche scopo d'istruzione storica o artistica. La signora trova strano che s'esca a quell'ora in cui, dice, tutte le vere signore stanno in casa. “Chi è mai che esce, nel pomeriggio, prima delle tre? Si vede che lei è avvezza in provincia!” Gran parte di quelle mie lezioni, che, per lo più, non sono circoscritte a una data cosa, ma comprendono tutto quello che viene in mente e sorge dal cuore, le faccio così, senza programma, e con quelle invidiabili inspirazioni ed illustrazioni che mi forniscono i luoghi, le cose e le memorie. Spesso portiamo con noi l'aiuto di un libro, e ci fermiamo a leggere qua o là—in uno di que' posti dove la Roma moderna non arriva, e l'autica che vi dorme d'intorno rivive dinanzi agli occhi e nell'anima.—E son felice vedendo che la mia Valentina m'intende, che l'anima sua è pronta alle impressioni del bello e del buono, e non sarà di quelle che insulsamente e vanamente traversano la vita.

Quando rientriamo, ne'giorni nei quali non viene la maestra di pianoforte, facciamo l'ora di lavoro; poi altre lezioni fino alle sei, se siamo rientrate alle tre, fino alle sette se siamo, a cagione di qualche corsa più lunga, rientrate alle quattro.—L'ora o la mezz'ora di libertà prima del desinare è la gioia di Valentina, che ne profitta per le sue letture amene.—Alle sette e mezza si desina, dopo, per lo più, le signore escono, pel teatro, od altro. Il commendatore non le accompagna quasi mai; rimane in casa, cogli amici e i giornali, o esce per conto suo, come ogni sera, poco dopo terminato il pranzo, fa il signor Alberto.—Io son felice quando posso riprendere in pace la mia figliuola e risalire nel nostro santuario del terzo piano.

Strano quanto spesso mi accade di chiamar quella figliuola mia anche di fronte a sua madre!

Le serate nelle quali rimangono in casa, soli o con pochi amici, le chiamano, per distinguerle dalla serata fissa, ch'è il lunedì, serate di famiglia. Eppure vi trovo tanto poco di famigliare! La famigliarità della deficienza di riguardi reciproci—quella sì; ma l'unione famigliare de'cuori, l'educazione domestica che procede dai vecchi buoni esempi, dall'ordine della vita comune, dalla pace delle anime che s'intendono e si migliorano a vicenda, tutto codesto manca. Vado pur troppo riscontrando in questa famiglia il tipo di ciò che, bensì con molte varianti, va diventando la famiglia moderna—dove l'affetto c'è se viene spontaneo, quasi istintivo, ma da nessuno ideale è rafforzato, educato—dove i doveri si sentono più come una convenzione sociale che come una legge sancita d'in alto, e il rispetto va diventando un'usanza fuor di moda, e le buone tradizioni patriarcali si affievoliscono, si disperdono, si dimenticano.

Li 2.—Oggi ho avuto una conversazione colla vecchia Marianna. È una buona donna che sta in casa Falletti da quarant'anni. Come tutte le persone di servizio anziane essa ama parlare dei vecchi padroni, di quelli d'allora. Nei giorni scorsi m'aveva accennato ad essi più volte; ma oggi, forse anche più incoraggita da un rimprovero che avevo fatto a Valentina perchè le aveva parlato in tono arrogante, essa, dopo finito il suo servizio, sedette nella mia camera, sur una seggiola vicina alla porta, e mi narrò la storia della famiglia del «signor Felice» come lo chiama senz'altro.

“Io non capisco questa novità dei comandatori,” disse; “ci si confonde, perchè ne vengono in casa, dice Luigi, sempre di nuovi. Poi, quello lì l'ho visto che non aveva dieci anni. Allora mi voleva bene; era un buon ragazzetto, di buon cuore, che aveva compassione dei poveri. La sua mamma, buon'anima, era una santa, che non pensava che alla sua famiglia e a far limosina. Suo padre era un negoziante di tele all'ingrosso, e faceva bene i suoi affari. Ma che galantuomo! che buon cristiano! Non c'era l'eguale in tutta Sarzana; chi voleva andar sicuro veniva dal signor Pietro Falletti. E quanti aiutava! Ah! la vecchia Marianna ne sa qualchecosa…. Quando è morto c'era tutto il paese dietro, e bisognava sentire i discorsi della gente, e dei poveri poi!

“Felicino aveva vent'anni, allora. Era andato a Genova, in banca, come dicevano, per farci la pratica. Ma erano intesi che sarebbe tornato a casa per continuare il negozio. Invece, cara lei, quando il signor Pietro morì il ragazzo non volle saperne di rimanere a casa. La signora Giuseppa, poveretta, che era rimasta sola perchè la figlia aveva sposato quel conte, e che ci aveva tanto amore a quel figliuolo e a quel negozio, piangeva sempre, e continuava lei, alla bell'e meglio, sperando sempre di persuader Felicino. Ma lui diceva che Sarzana è un buco, che il commercio di suo padre era troppo ordinario, che aveva altre idee…. Insomma, che facesse allora non so; so che la sua povera mamma faceva le gran lagrime, e che ogni volta che era stato a trovarci mi diceva: «Ah! Marianna, dire che il mio povero Piero ed io abbiamo fatto tanto per tirar su bene quel figliuolo, ch' era tanto buono, e che adesso laggiù me l' hanno tutto cambiato! Non è più lui, non è più lui!» E me n' accorgeva anch'io, sa: ci veniva meno che poteva, a casa, e veniva vestito che pareva un conte. Aveva messo su una gran superbia—pazienza con me, povera serva, ma anche colla mamma!—E non andava più alla Messa, e quando vedeva arrivare il Prevosto—quello era un santo, signora mia!—se la svignava.

‘Un bel giorno Felicino annunziò che sposava la figlia di un mugnaio che aveva messo su un molino di quelli moderni e s'era fatto un signore. E dopo poi,’ aggiunse abbassando la voce, ‘fece tanti milioni quando venne, sa, quell' affare della macina che affamava i poveri e faceva crescer la pellagra…. Basta, io non me n'intendo—ma dico che se la giustizia non ci fosse all' altro mondo…. Insomma fecero il matrimonio a Genova, con un gran lusso e tanta gente. La signora Giuseppa ci andò anche lei, con un abito di seta nuovo. Ma non tornò tanto allegra, sebbene che diceva che la sposa era una bella ragazza e che Felicine colla dote che gli avevano data piantava una banca da per sè. Speravo sempre di vederla anch'io, la sosa; e io e la padrona si era consumata una pezza della tela più fina per far le lenzuola nuove; e sì era fatta pitturare una camera per gli sposi. Ma lei non venne mai; e anche il signor Felice veniva sempre più di rado; diceva che aveva tanti affari.—Intanto la povera padrona, che si trovava impicciata a far andare avanti il negozio da sola, si rassegnò a chiuderlo. La prese un grande avvilimento; e dopo poco tempo andò a trovare il suo vecchio in paradiso.’

La povera donna si asciugò le lagrime con una cocca del grembiule, poi continuò: ‘Allora il signor Felice ha venduto la nostra povera easa, col mobiglio e tutto, e anche quel che avevamo al sole; e mandò via Tonio, il servitore, che faceva anche da facchino quando c'era il negozio, e Betta, la cuoca, perchè erano vecchi. A me mi disse di andare a Genova con lui. L'ho ringraziato, ma mi sapeva amaro di lasciar la casa dei miei padroni. Basta, andai a Genova. In principio ero cameriera della sposa, e pareva anche che l'accontentassi. Ma dopo, sa, venne più lusso, la povera Marianna di casa vecchia non poteva più bastare. Allora presero una giovinotta, sul fare della Rosina, e io passai in guardaroba. Ma l' anno dopo non ero più buona neanche là, e a me mi diedero da fare i bassi servizi a Bertino e alla Lisetta, che avevano una governante tedesca. Che cari bambini erano! Più tardi venne la Tinetta, ma quella era un diavolino incarnato. Gliele davano tutte vinte, tutte! La povera Nanni, la governante, la mandarono via perchè l'aveva castigata; e dopo ne cambiarono tante: nessuna resisteva, perchè il papà e la mamma davano sempre ragione alla bambina. E anch'io ne ho passate, signorina, ne ho passate!…. Finchè è venuta l'aia di studio, sa, quella prima di lei. Poveretta, si può dire che ci son dei birbanti a questo mondo!…’

Poi, come pentita, si fermò lì, e riprese: ‘Intanto era morto il padre della signora e si aveva cambiato casa: si era andati a stare in un palazzo più bello; avesse visto, signorina, che sale, che roba! E in che lusso strepitoso marciava la signora! Quando andava al teatro era piena di diamanti, e che strascico! E carrozze, e cavalli, e livree nuove ai servitori, e pranzi, e suarè, e i primi signori che andavano e che venivano. E poi, da noialtri servitori, che baldoria! e che robe mi toccava vedere! Basta, signorina, quando la gente non ha più timor di Dio ne fa di tutte lo sorti.—Io sospirava tante volte, e avrei voluto tornare al mio paese. Ma era già vecchia, e con pochi risparmi, perchè un mio nipote che non aveva voluto saperne del mestiere di suo padre, buon' anima, che faceva il tessitore, era andato per gli studi, e dicevano anche che aveva una buona testa. Ma ha avuto la sfortuna, e ho dovuto pensarci io per tanti anni. E poi mi piangeva il cuore a lasciar quei figliuoli. Loro veramente erano già allevati e non ci pensavano più alla povera Marianna… ma era lo stesso. E così son restata.

‘E intanto cominciarono a cambiar le cose; si sentiva tante volte delle baruffe nella camera dei padroni, il signor Felice era diventato cattivo, la signora gli faceva i dispetti. I camerieri ridevano fra di loro, sentivo che dicevano tante volte, facendosi d'occhio, «la signorina,» ma non capivo di chi parlassero. Un giorno che stavo sul portone passò una bella carrozza a due cavalli e i servitori in livrea, che facevano d'occhio al nostro guardaportone e ad Anselmo il cocchiere, che stava là anche lui; e dentro e' era una bella signora, vestita e piena di diamanti che pareva la Madonna. Anselmo e il guardaportone si guardarono ridendo e dissero di nuovo: «La signorina!» Ho domandato allora chi fosse quella bella signora, ma tornarono a ridere e Anselmo mi dise «vecchia insensata.» E insensata ho da essere, perchè ancora non ci ho capito niente.

‘Basta, non so cosa sia capitato poi; fatto sta che cominciarono a far tanti discorsi, e in casa non si faceva più tanta festa, e ci veniva meno gente. I servitori dicevano che il padrone aveva dei dispiaceri; e un giorno vidi Giovanni, quello dell'anticamera, che era bravo da leggere, che aveva portato un foglio, sa, di quelli che vendono quelli che gridano per le strade, e leggeva forte. Ma io non potevo capir bene, perchè tutti gli altri gli stavano intorno, e poi quando si è vecchi si è duri d'orecchio. Ma dopo sentivo che dicevano: «Cosa succederà? che ci mandi via? che dobbiamo andarne di mezzo noi che non abbiamo rubato i milioni?» E gli nomini dicevano bestemmie e parolaccie che mi facevano venire i capelli ritti. Ah! signorina, che giornate ho passate! Volevo che quei ragazzi mi spiegassero, ma nessuno se ne curava; colle vecchie, cara lei, non c'importa di discorrere. Il foglio non lo potevo leggere, perchè non so di lettera; e poi lo avevano fatto sparire. Ma un po' alla volta ho potuto capire lo stesso che il signor Felice aveva fatto delle brutte azioni, che tutti parlavano di lui, e che si vendeva tutto e che si veniva a stare a Roma. Oh! se i suoi poveri vecchi avessero potuto rialzar la testa! No, no, meglio così… A che tempi siamo arrivati, signorina, a che tempi!’

Li 3.—Stasera burrasca con Valentina, che aveva mortificato sua sorella. Quella mi si ribellò, con uno di que'suoi accessi di furore e di ostinazione dei quali le avevano lasciato prender l'abitudine e che mi daranno da fare parecchio. Ora s'è coricata, imbronciata e senza bacio—e mi disse che del mio bacio non le importava niente. E quanto ci tiene invece, cara figliuola!

La scena mi riuscì doppiamente dolorosa in quanto si trattava di quella povera signorina Elisa. Ho detto l'altro giorno che suo fratello non è felice—altrettanto devo dire di lei. Ed è così penoso veder giovani malcontenti! e accade così spesso ormai! Si direbbe che la gioia va sparendo davanti ai piaceri, la contentezza davanti alle soddisfazioni de' sempre nuovi capricci.

Dacchè son qua non ho mai visto quella ragazza serena: o è allegrissima per qualche gaio progetto, o è agitata in qualche aspettativa, o è seccata per qualche contrattempo, o è imbronciata per qualche disinganno o qualche ora di noia. L'hanno lanciata nel mondo, povera figliuola, in cerca di un marito, si sa, e, possibilmente, di una corona comitale, per lo meno; e finora pare le cose vadano maluccio, malgrado il padre banchiere e poco scrupoloso e il visetto che non guasta.—La cosa sembra strana a tutti, a cominciar da sua madre, che si dà una gran pena per riuscire, e non lo nasconde. Ciò non toglie che la figlia incolpi la madre degli insuccessi—mentre la madre accusa la figlia di non saper fare. Non lo so da loro direttamente, chè non han meco, per parlarmi di questo, abbastanza confidenza; lo so dalle loro amiche, che vanno guardando «la povera, la buona, la cara» Elisa con un sorriso di benevolo compatimento, ripetendo: «Peccato, pare impossibile!»

E così, si corre a tutti i luoghi di riunione dove è possibile andare, si cerca di penetrare dove, in grazia de'milioni, si sarà tollerati, si moltiplicano le trottate al Pincio e a villa Borghese e i giri sul Corso, s'impara a giocare a lawn-tennis, a girare per la città in biroccino, guidando da sè, si cerca di far parte delle società che organizzano gite in stage e caccie alla volpe, s'invita gente a pranzo e la sera si tentano delle sauteries e perfino dei five o'clock! E si aumenta il personale di servizio, si rinnovano le livree, s'inaugura un guardaportone.—A momenti le sarte e le modiste di Roma non son più all'altezza dovuta—a Torino c'è di meglio; e si potrebbe, anche, far passare Mme Laferrière, co'suoi modelli di Parigi.—Il capo di casa, quando arrivano certi conti, brontola; ma la signora sa dar delle ragioni tanto buone! Il bene di quella cara figliuola, il decoro della famiglia, la necessità d'insinuarsi nella haute, di conquistare un posto ragguardevole alla capitale, di far la strada a lui, coi bagliori della sua potenza economica, per arrivare fino a palazzo Madama, e anche, chissà?…

E intanto a queste povere signore non bastano le giornate. Le vedo pochissimo, occupate come sono, la mattina a girare per le loro spese e le loro ordinazioni, le prime ore del pomeriggio a riposare dalle veglie, le altre colle visite o lo sport, le serate coi divertimenti. Di tutto questo sento gli echi a tavola—echi radi e brevi per parte della figlia, per lo più stanca e preoccupata, prolissi e romorosi per parte della madre; e che provocano spesso delle mezze parole sdegnose del signor Alberto all'indirizzo della madre, de'sorrisi maliziosi all'indirizzo della sorella. Il commendatore ascolta con una specie di olimpico compatimento. A volte di fronte a qualche accenno della moglie a certe relazioni nuove, a certe cortesie ricevute, vedo ne' suoi occhi verdi passare un lampo come di soddisfazione concupiscente.

Oggi la signora era di un umore trionfante. La duchessa di Sant' Albano, incontrata in casa della ministressa ***, era stata con lei anche più gentile del consueto, aveva fatto una graziosa carezza ad Elisa, e le aveva invitate a certi tableaux vivants che avranno luogo una di queste sere in casa sua. “Relazione fatta, dunque! Le carte, Felice. Elisa, le deporremo domani passando per andare al concerto. A proposito, sai, Felice, domani c'è seduta della nuova Società di beneficenza. Oggi e'era la Baltieri che voleva persuadermi ad entrar come visitatrice. Figuriamoci, con tanto da fare che abbiamo che non si sa più da che parte rivoltarsi! E poi, santo Dio, io, col mio sentire, andar dai poveri, veder le miserie —mi farebbe troppo male. Poi, non si sa mai… da quella gente si può portar via qualche cosa—non è pulito, non è igienico. Ho detto che volentieri contribuirò col mio obolo—quel che si può fare, ben inteso, in questi anni di guai….”

Il commendatore taceva, impenetrabile; la signorina Elisa era astratta, Valentina mi guardava, e i suoi grandi occhi scontenti parevano interrogarmi…. Quando guardai il fratello vidi che il suo viso s'era insolitamente colorato e che teneva gli occhi insolitamente abbassati.—“L'ho dunque indovinato,” dissi fra me. E avrei voluto potergli prender le mani, e chiedergli: “E allora, perchè?”

Li 4.—Davvero, la signora Falletti non ha torto: non è allegra cosa il girar per le case de' poveri. Vi son de' giorni nei quali ci vuole tutta la convinzione che ho, non solo del dovere che s'ha di avvicinarli e di studiarne i bisogni e, come si può, aiutarli, ma del profondo beneficio morale che ne viene a chi lo fa, perchè perseveri ad esporre ogni giorno la mia Valentina a certe impressioni. Ed è con una soddisfazione intima e grande che noto la forza della volontà di lei, fatta di bontà di cuore non solo, ma dei principii che vado inculcandole, di lei che costantemente si ribella alla tristezza e alla commozione come al ribrezzo, che pur sente colla vivezza propria della sua natura, e tiene a seguitare. Tanto, che a volte, quando sono malcontenta di lei, la minaccio di sopprimer le visite ai poveri dell'indomani. In sulle prime, per lo più, fa spalluccie e risponde che sarà un fastidio di meno. Ma non c'è pericolo: presto o tardi nel corso della giornata, essa se ne viene a me tutta commossa e mi dice: “Signorina, mi dia un altro castigo! Castigare i poveri per me non è giustizia!”

L'avevo minacciata di codesto anche ieri, in seguito a una scenata che m'aveva fatta perchè mi oppongo a che la conducano al teatro. M'aveva detto che queste sono oppressioni, ingiustizie, e che le sue amiche così, e che le sue amiche colà. “Di' un po',” le chiesi, “chi di voi ti pare sia più fortunata—tu che la sera leggi le tue belle storie, e poi vai a letto e dormi pacifica, e ti alzi presto e di buona voglia, o le tue coetanee che passano la sera in teatro, o a veglia, e si alzano tardi, piene di sonno, di fantasie e di malumore?” Essa taceva e non voleva arrendersi. “Chi ti pare possa aver più la testina a posto e imparar meglio?” Silenzio. “Per quale ti pare debba esser più facile di prepararsi a diventar buona e serena per tutta la vita?”

Valentina m'aveva sempre guardata intensamente. A questa domanda mi chiese a bruciapelo: “Lei, quando hanno cominciato a condurla in teatro?”—“A diciotto anni,” dissi. “Ancora tre e mezzo dunque,” rispose, calma, come per una cosa decisa, senza replica. “Voglio diventar come lei.” Sorrisi. “Devi cercare di diventar migliore,” dissi. Essa spalancò i grandi occhi grigi, che s'erano riempiti di meraviglia, come avessi parlato di qualchecosa di sopranaturale. Poi mi buttò le braccia al collo violentemente e disse: “Mi perdona? Andremo domani dalla mamma di quel ragazzo che piangeva ieri su quella scala?”

Infatti, non stamani, ma nel pomeriggio, vi andammo—in un sesto piano di un' immensa casa in via Emanuele Filiberto.—Il marito, falegname, che da oltre un anno non trovava più lavoro, s'era messo per disperazione a fare il facchino, e, per aver portato un peso superiore alle sue forze, aveva avuto degli sbocchi di sangue, e si trovava in letto rifinito. All'ospedale, non avendo egli febbre, non sarebbe stato ricevuto. Il medico condotto, chiamato da tre giorni, non s'era visto ancora. Lei, cui, per gli strapazzi in tempo di gravidanza, s'erano mutate in piaghe le varici che aveva alle gambe, non aveva modo di curarle nè di acquistare i debiti ripari, e può appena reggersi in piedi; eppure assiste il marito e si trascina ogni giorno a prender la minestra dei frati. Uno dei cinque bambini è scrofoloso; un altro ha la testa tutta coperta di piaghe fetenti; i due più piccini, uno lattante, entrambi che non camminano ancora, vestiti di cenci sporchi, brulicavano piangendo sul letto, intorno al padre, e lo inaffiavano. Il maggiore, un bel ragazzino di nove anni, biondo e diafano, che non può più andare alla scuola per mancanza di scarpe e le vesti troppo logore, si studiava di far tacere il fratellino dalle piaghe, che gridava dal canto suo.

Chi aiuta è una vicina che ha pure il marito che da dieci mesi non trova lavoro, ed ha sei figliuoli, e un'ernia, per la quale non ha mai potuto provvedere un cinto; e vende per alcune ore al giorno, a un angolo di via, di que'mucchietti di cinque piccole mele di scarto, a un soldo l'uno. Quelli, come gli altri, hanno un letto solo per tutti, e una sola coperta e nessun lenzuolo; e siccome i figliuoli maggiori sono adolescenti, due maschi dormono sulla nuda terra, avvolti in uno straccio. —Erano le due, e nessuno ancora in quelle due camere aveva mangiato, all'infuori di quella minestra divisa. Si aspettava ansiosamente il ritorno della venditrice di mucchietti di mele e di uno de' ragazzi grandi, che guadagna, da un negoziante, tre soldi al giorno.

Uscendo da là vidi nell'andito, in terra, un mucchio, come di brandelli d'una coperta, e, sopra, sul muro, un crocifisso. “Là dorme la sora Filomena co' suoi bambini,” disse la donna. La «sora Filomena» è la vedova di un operaio ch'è rimasto impigliato nell'ingranaggio d'una macchina; ed ha un tumore nel ventre e un altro al seno, e due bambini colle solite piaghe. E quando trova de' panni da lavare affida le sue creature alle vicine, e se ne sta tutto il giorno al lavatoio; e poi porta i panni sul capo, anche ne'quartieri più lontani. Ed è felice quando guadagna due lire in una settimana. E la sera si butta là, sulla fredda e nuda terra, co' suoi figliuoli, fra que' cenci e sotto quel crocifisso.

Li 5.—Oggi mentre stavamo in sala Valentina ed io ad aspettar la chiamata a colazione, che tardò insolitamente, essa mi parlava delle sue amiche, che sua madre vorrebbe riprendesse a frequentare, dicendo che son relazioni distinte e che non conviene trascurarle. Perciò le avevo chiesto chi fossero queste amiche. Mi disse che una è una ragazzina di due anni minore di lei, Ninì Santorelli, che la sua mamma mette con tanta eleganza e che va a tanti divertimenti.

“Sa,” seguitava, “Ninì non si divertirebbe mica a venir a passeggiare con noi a piedi in que' posti solitari e a sentire i suoi discorsi, signorina. Lei dice che non è bello girare che in carrozza, al Corso e a villa Borghese o al Pincio. E non si adatterebbe mica ad alzarsi presto e ad andare a letto alle nove e mezzo…. Oh! sì, quando non la conducono al teatro o ai bals d'enfants, sta alzata in sala a giocare coi grandi. E come è fortunata! Dice sempre che vuol farsi una dote doppia di quella delle sue sorelle e sposare un marchese!”

Un'altra amica è Annie Spelli, la figlia dell'alto impiegato ch'ebbi occasione di apprezzare in quella sera, sul pianerottolo. Essa ha già quasi diciassette anni e amoreggia con uno studente. “Vedesse che bel giovane! E vedesse come si guardano! Dappertutto dove è lei lui ci si ritrova. È che lei ha imparato a fargli i segnali…. E poi si scrivono e la cameriera porta le lettere. E hanno trovato anche la maniera di vedersi da soli, certe sere che sua madre va fuori senza condurla appresso. Ma non m'ha detto come…. Altro che mi dice sempre che la bacia tanto forte che si sente male. Farà come me, non è vero, signorina, che mi dice tante volte che le faccio male!—Ma adesso pare che ce ne sia un altro che le conviene di più e che vede sempre in teatro. In teatro l'altro ci può andar poco perchè ha pochi quattrini; ma questo dice che è ricco. Con questo, perchè ha paura che la cameriera la tradisca presso l'altro, corrisponde sulla quarta pagina della Tribuna. Un giorno m'ha fatto leggere una delle letterine di lui. Sentisse quanto bene le vuole! la chiama «sogno, delizia, febbre del mio sangue»—pensi che malinconia, la febbre!—Lei non sa ancora quale sceglierà. Già dice che è giovane, che ha tempo, che intanto possono venirne tanti altri. Dice che per marito bisogna scegliere il più ricco, e gli altri tenerli per amici…. Già, dice che il suo papà sta facendo tanti quattrini con certi affari, non so….—difatti, vedo che ha sempre da parlare in segreto col papà mio—e che potrà avere una bella dote e fare un bel partito e godersi la vita.”

Un'altra amica è Merope Secondi, la figlia di un dignitario della massoneria, che frequenta il liceo e diventerà professoressa. “Sapesse,” esclamava Valentina, “che sapiente è quella! Ride sempre di me perchè dice che sono un'ignorante, che credo ancora a quelle sciochezze che insegnano nel catechismo. Dice che non è vero niente che siamo creati da Dio—che anzi non si sa nemmeno se Dio esista—par più di no che di sì…. Dice che adesso non si deve più dir Dio—si deve dire, aspetti…. l'Inconoscibile!—E bisogna sentire come ride di quelli che sperano di rivedere i morti! Dice che son tutte imposture de'preti per spillar quattrini; che l'anima è fatta di fosforo e di non so che altre sostanze che colla morte si decompongono, e che siamo come le bestie. E pare che ci tenga molto ad esserlo. Strano, non è vero?—Vedesse quanto studia! Dice che avrà poi una cattedra di pedagogia in una scuola normale.—Anche suo padre le dà delle lezioni di filosofia. Poi le spiega Dante, in una maniera nuova, perchè dice che finora nessuno lo ha capito.—Dice che suo padre appartiene a una società di amanti dell' umanità, che vogliono cambiar tutto, perchè finora il mondo è stato ingannato da superstizioni che hanno fatto il loro tempo. E vogliono buttar via tutta la roba vecchia, tutti gl'impacci—vedesse che gesto buffo fa quando dice impacci! E dice che allora l'umanità sarà libera e felice, e che anche noi donne allora potremo fare tutto quello che ci piacerà.—Potrò dunque allora montare a cavallo anch'io, non è vero, signorina?” aggiunse battendo le mani con gioia la mia bambina. “Sì, cara,” rispose ridendo suo fratello, ch'era entrato verso la fine del discorso, “potrai montare a cavallo e anche fare…. tante altre belle cose!”

Ci guardammo. “Meno male,” dissi fra me, “la gran piovra non l'ha ancora afferrato.”—Egli lesse il mio pensiero, perchè mi guardò sorridendo—di un sorriso che aveva ancor sempre la sua ironia un po'olimpica, ma nel quale era come un principio di confidenza.

Li 6.—Ho ottenuto dalla signora Falletti di poter andare qualchevolta con Valentina a passar la sera dai Maren, i quali stanno poco lontano da qui, in via Sistina. È per me uno de' conforti maggiori. È là che andrò ogni tanto a ritemprarmi «in più spirabil aere,» è là che potrò spesso trovarmi col papà. Il vecchio signor Marco, che mantiene la robustezza propria, ora, de' vecchi, ci rammenta tanto il povero nonno, ch' egli veniva spesso a trovare a Moliparte e col quale faceva—mi par di vederli—delle lunghe conversazioni passeggiando sotto i portici della villa o pei viali del parco. Veniva di solito verso sera; e rammento che, giovinetta spensierata che scorrazzavo là intorno, mi fermavo a volte a guardare le due serene figure—quella alta e rigida del nonno, più vecchio, più asciutto, con quel che di marziale impresso alla sua persona non tanto dalla vita del campo quanto, forse, dalla tempra gagliarda e, nella dolcezza sua, inflessibile—l'altra dell'amico, più artisticamente bella, con qualchecosa d'inspirato, come l'anima mia d'allora, immaginosa, amava figurarsi, in sul tramonto della vita, gli eroi del suo pensiero.

E ancora mi par di vederli, sparir nell' ombra de'viali conversando pacati, mentre il sole calava laggiù verso i Berici, e l'aria della sera faceva stormir le foglie sul loro capo e una mestizia vaga prendeva l' inconscia anima mia.—Una sera, mi rammento, chiesi alla povera mamma: “Di che hanno sempre tanto a discorrere?” E odo ancora la voce così dolce di lei, dolce come quel suo viso di madonna dell'Angelico; “Credo,” disse, “che parlino di cose d'anni passati. “E gli occhi suoi guardarono nel vuoto, come evocando lontane visioni sfuggenti.

Il vecchio amico colla vigoria del corpo serba quella dell'anima e la prontezza dell'intelletto. Scrittore un tempo, sobrio, austero, di patrie storie, che illustrarono alcuni fra i più epici momenti del nostro riscatto, egli seguita a vivere coi morti e col suo pensiero; e eo'grandi ideali e i virili ricordi egli tempra, come ha temprato quelle de'figli suoi, le anime giovinette de'nipotini che gli erescono d' intorno.

Sono una fortuna per la mia Valentina questo ambiente che mi aiuta a educarla, e i figliuoli di casa, Giorgio, Bianca, Ferdinando. I due primi son di poco maggiori di lei, l'altro è bambino ancora. Essa s'è tosto presa di gran simpatia per Bianca; benchè più seria questa, e più dolce di carattere. Ha fatto subito amicizia anche con Giorgio, avvezzato a non isfuggire, come sogliono i ragazzi d'adesso, la compagnia delle giovinette, quasi fosse cosa strana e ridicola. Ed è una festa che fanno ogni volta, un chiasso di giochi e di risate che esilara anche noi che li guardiamo augurando.

Era ciò che, fin dai primi giorni, avevo sognato per Valentina. Per quanto io faccia per ringiovanirmi con questa, per quanto mi studi d' essere con lei gioviale, non basta. Alle pericolose amiche delle quali essa m'ha parlato era necessario sostituirne almeno una di bene educata. La gioventù ha bisogno di gioventù e di allegria—questa povera allegria che si fa tanto rara—voglio dire l' allegria genuina che sempre più deve far luogo alle contraffazioni. I desiderii esagerati, le rivalità vanitose, le mollezze studiate, le noie morbide che fanno cercare gli eccitamenti malsani, tutto ciò dagli adulti passa ai giovinetti e i fanciulli—o, dirò meglio, i giovinetti e i fanciulli vengono ad essi educati con una premura stolta che pretende essere affettuosa.

E la loro cara semplice allegria, come quella de'giovani, sparisce dai loro cuori e dai loro visi; e in quelle figure, che qualchecosa ha fatto esili e tristi, si aggiunge l'impronta di una nervosità strana o di una più strana stanchezza, di un misto di fiacchezza di tempra e d'imperiosità di passioni egoistiche. Col rispetto e l'obbedienza è sparita anche la gioia, coll'ingenua semplicità è sparita la forza.—Non si è mai tanto come ora, è vero—parlo dell'èra volgare—pensato alla ginnastica, ai bagni di mare e alle doccie, e forse solo ora ai soggiorni in montagna, in campagna, alle cure ricostituenti. Ma tutto ciò non basta.

È il succo vitale che va diminuendo nella pianta umana. A rifarlo è necessario qualchecosa di più esercitante, di più corroborante ancora: alla ginnastica fisica è necessario di aggiunger quella ginnastica morale che avvezza alla disciplina, alle privazioni ed agli sforzi, e educa la volontà. Non basta menare i figliuoli per un mese o due in montagna o in campagna; bisogna tutto l'anno, il più possibile, sottrarli alle influenze disfacitrici dell'ambiente, perchè non li invecchi questa vita rapida, convulsa, che par così ripiena ed è così fatua, che par fatta di progressi e contiene tanti germi di dissoluzione. Le cure ricostituenti del sangue è necessario accompagnarle con una ricostituzione dell'uomo.

Pei giovinetti ora ci sono i giornalini più o meno pornografici esposti ad ogni angolo di via, gl'infami libercoli gratuiti o quasi, le vili scatole dei cerini, le réclames sfacciate, gli spettacoli solleticanti, e tutto il resto, per preparare le precocità mostruose e contaminar la vita alla sorgente preparando le rovine e le sciagurate eredità future—gli opprimenti programmi delle scuole che abusano di forze già in parte sciupate, che ingombrano e non riempiono, insegnano e non sempre istruiscono, non educano ma corrompono colle dottrine demolitrici.

E viene la sazietà, viene la nevrosi, viene un marasmo giovanile mille volte più triste del senile—e il pessimismo, e lo scetticismo, e un concetto della vita che oscilla fra il malsano amore che la fa ricercare pei godimenti materiali e l'empio disprezzo che la fa trascurar coll'inedia o sfuggire col suicidio. E declina nel cuore la potenza di amare, la potenza di godere, quella di creare, quella di sentire i virili entusiasmi, quella di emanciparsi soprattutto…. E il mondo attuale, che vuol far trionfare il piacere, e ne ha fatto uno de' principali scopi della vita e del lavoro, e per esso moltiplica l'affarismo e le transazioni della coscienza, il mondo apparentemente così gaio, così brillante, così ricco di risorse per ogni più raffinato desiderio dello spirito e dei sensi, va destando l'indefinito sgomento che precorre le catastrofi.

Li 7.—Accanto a noi, in un altro quartiere di questo terzo piano, abita una sorella del commendatore. Essa è vedova di un conte Valenti, il quale, a quanto intesi da Valeria, per aver fatto questa mésalliance, aveva incontrato le ire della famiglia sua, aristocraticissima e nerissima. Non so se per ammansar questa, o seguendo un'inclinazione sua, la contessa Faustina si fece tutta alle idee del suo nuovo ambiente. Circondatasi fin dal principio di que'preti che fanno calunniare il cattolicismo, preti che avran dottrina, ma non han mai saputo leggere il Vangelo nè capir Cristo, essa aveva finito di rendere odiosa la religione al marito, il quale, già disgustatone dall'educazione bigotta ricevuta, e, evidentemente, non troppo forte di spirito, ci perdette anche quel tanto di fede che prima aveva; e ne vennero fra i coniugi guai senza fine.

Di tre figliuoli che avevano, una figlia, uscita di convento che pareva una santuccia, tenuta dalla mamma per qualche anno sotto una campana di vetro, contrariata poi in un progetto di matrimonio fattole da un giovane ottimo, religioso anche, ma liberale, finì più tardi con amoreggiare di soppiatto con uno scioperato e fuggire con lui.—Un'altra figlia, sposata giovanissima, senza amore nè esperienza, a un giovane ipocrita che posava a San Luigi ed era raccomandato da que' preti, divenne moglie infelicissima.

Un figliuolo, educato in casa, era tutte le delizie della madre, la quale, colla sua predilezione, accentuata anche da quell'idea aristocratica che in certe famiglie nobili—e anche in parecchie non nobili—fa idolatrare e guastare i maschi a preferenza delle fanciulle, lo aveva fin da bambino avvezzato a comandare e farsi servire, creando così sempre nuovi capricci e fomentando ogni orgoglio e ogni egoismo. E non capiva di dare al figliuolo l'educazione più anti-cristiana; credeva invece di far di lui un essere perfetto, a forza di aride istruzioni impartite da que' preti, e di pratiche compiute senza alcuna partecipazione dell' anima.

Traversata l'università con parecchie burrasche, contro le quali la madre (il padre era morto) aveva creduto munirlo mettendogli al collo medaglie miracolose, e dopo ognuna delle quali—se c'eran nuovi quattrini da chiedere—egli si mostrava tutto compunto e asseriva d'essersi confessato, il contino Alessandro era andato a Parigi come addetto alla nunziatura—e là aveva finito di perfezionarsi.—Questo però non gli toglieva di scriver costantemente a sua madre lettere edificanti, contenenti a volte, alla vigilia di qualche momento scabroso, perfino sunti di conferenze di Notre-Dame; lettere che mandavano in visibilio la contessa Faustina, la quale, colla cecità propria della gente bigotta, credeva a tutto, e, coll'incoerenza egualmente propria a molti di coloro, giudicava con compiacente indulgenza i disordini del figliuolo, rivelatile dalle cambiali che alquanto spesso doveva pagare per lui.

Finalmente, sciupato quattrini, salute ed ogni cosa, il conte Alessandro dovette lasciare il posto e tornarsene presso sua madre, colla quale sta da qualche anno, prima a Genova, ora qui.

La contessa, malgrado tutte le delusioni sofferte, non ha punto mutato idee, e cerca il suo conforto andando, malgrado i suoi sessant' anni e una pinguedine e un mal di cuore che la fanno pesante ed asmatica, da una società cattolica all'altra, organizzando sempre nuove divozioncine, cercando associati per fondare un nuovo giornale che dovrebbe essere informato ad uno spirito evangelico anche maggiore di quello degli altri giornali che si chiamano cattolici…. facendo collezioni di reliquie, elenchi di miracoli, e, ogni giorno, gran conciliaboli in casa sua con un certo padre Fabio.

Il conte Alessandro, che ora ha un trentacinque anni, ma che, floscio, sciupato, calvo com'è, ne dimostra di più, ha conservato tutte le sue eleganze, le sue pose, le sue mollezze da vivcur aristocratico. Egli è sempre dedito alla vita galante, con quel tanto però di riserve cui lo inducono la paura d' ammalare e l' amore ai propri comodi. Ciò non toglie che al suo titolo e ai quattrini rimastigli molte signorine, nonchè molte brave mamme, facciano la corte. Ma egli non par punto disposto a sobbarcarsi a un incomodo grave come quello del matrimonio.

Tra le due famiglie i rapporti son più frequenti che buoni. Il commendatore mette in ridicolo la santità, com'egli dice, della sorella; questa taccia lui di empietà. Le due cognate litigano a proposito di tutto. Il conte Alessandro vorrebbe far da mentore galante al cugino Alberto, il quale non ci tiene affatto. Valentina ha per la zia ed il cugino una di quell aperte e scortesi antipatie proprie de' figliuoli viziati—antipatia ch' essi cordialmente ricambiano.

In quanto alla signorina Elisa, poveretta, quella gran voglia che ha di maritarsi la rende più degli altri favorevole al cugino, nonchè alla zia. Ma nessuno l'aiuta, chè la zia cerca una nuora del suo colore, e la madre ha per la figliuola maggiori aspirazioni.— Un giorno, in un momento di espansione, essa mi disse: “È vero, è conte, ha un bel nome e un che di chic; ma ha già sciupata mezza la sua fortuna. La mia Elisa, con que'quanttrini e quel visetto, può aspirare a ben altro! Pare impossibile non si sia ancora riusciti a trovare…. Gli uomini, decisamente, van perdendo il senso comune.”

Li 8.—Non m'ero mai fermata abbasso nelle sere di ricevimento, a cagione di Valentina. Ma ieri, lunedì, la signora volle assolutamente si comparisse anche noi.

C'era Valeria, che mi andava accennando alla cronaca dell'uno e dell'altro. Vennero prima parecchi nomini. Festeggiatissimo un loquace comm. Bellani, appaltatore fattosi milionario in pochi anni, fabbricando, con esili armature che sacrificarono parecchi operai, molte cattive case, alcune delle quali son già rovinate. Poi un comm. Ratti, omino lesto e insinuante, direttore di non so quale società di credito che ha arricchito i fondatori e rovinato gli azionisti. Un deputato Lupi, affarista e influentissimo. Un signor Marra, proprietario di un giornale che sostiene sempre il maggior offerente o promettente. Un senatore Liberti, che s'è guadagnato il suo seggio a palazzo Madama col sudore della sua fronte. Un giovane e cortese avvocato Marini, che combina molti affari, forensi e non forensi, vince cause disperate, trova rimedio a tutto…. e sta ora diligentemente lavorando alla propria futura candidatura politica, pazientemente demolendo il vecchio e benemerito deputato del suo paese. Il professore Secondi, padre dell'amica Merope, amico dell'umanità, oratore reboante e grand'uomo. Un signor Diego, collaboratore in più giornali di vari colori, e polemista abilissimo—tanto abile che, in certe polemiche, sostiene entrambe le parti. Un notissimo scrittore e oratore, il quale ogni volta che pubblica qualcosa o dice quattro parole in pubblico manda o fa mandare ai giornali i relativi soffietti. Un chiaro avvocato e professore, Barducci mi pare, che fa furori colle sue lezioni brillanti, e con difese meravigliose, che provano ai giurati e alla gente che va alla scuola della Corte d'Assise come l'eredità, l'ambiente, le condizioni psichiche, fisiologiche o patologiche, la forza irresistibile, o la pazzia ragionante, o la suggestione, o magari l'ipnotismo, facciano di ogni delinquente un irresponsabile, più, un soggetto interessante per gli studiosi d'antropologia criminale.

Quest'ultimo è un intimo amico e protettore del signor Alberto, il quale era verboso stasera, e discuteva con brio nel gruppo giovane, dov'erano commentate con molto favore due odi sue recenti—variazioni artisticamente fini sul solito tema: i languenti pessimismi della decadenza.—Il padre conferiva in un angolo coi pezzi grossi, ai quali presto vennero ad aggiungersi il senatore Baretti, anche più maestoso del consueto, e un'Eccellenza, Sottosergretario di Stato, giovane, elegante, taciturno, posante all'uomo del futuro.

La signora, in una lunghissima veste di raso vicil or, carica di jais, andava da un gruppo all'altro, tutta sorrisi e movimenti e riflessi gialli, intrattenendo specialmente le alcune signore che v'erano, racolte in circolo in un angolo—talune mogli di qualcuno dei sunnominati, altre venute sole o colle figliuole, che erano, colla signorina Elisa, passate in un'altra sala per maturarvi non so bene qual progetto.—Ma la signora Falletti non parve veramente soddisfatta che quando entrarono il conte Alberico Araldi, con una figlia Ginevra e un figlio Florestano—il padre, bel tipo di vecchio aristocratico, la figlia, non bella, con due occhi grandi e arditi, con un'affettazione di cordialità signorile e di noncurante disinvoltura—il figlio, elegantissimo e impertinente petit-maitre quasi imberbe.

La signora mi pregò di accompagnare la contessina dalle ragazze. Era di là un vocío confuso che agitava un gruppo variopinto di sette o otto signorine. Mi ritirai con Valeria, che ei aveva seguite, in un angolo del salotto.—Evidentemente, quelle signorine erano seccate della nostra presenza—e andarono abbassando la voce. Si udiva tuttavia abbastanza per capire che la carità, la modestia, la prudenza non preccupavano gran fatto quelle testoline infiorate e quei cuoricini del gentil sesso.

C'erano l'appariscente e verbosa signorina Bellani, la figlia dell'appaltatore, la quale, conchiusa, pareva, la piccola congiura femminile, prese a raccontare di certi suoi trionfi di finestra; la graziosissima signorina Carmen Landucci, che diceva di certi fiaschi d'una sua amica nubile e di certi scandalucci di un'amica maritata; le signorine Luisa e Ada Fabbrotti, che si punzecchiavano e tartassavano a vicenda, in una rivalità evidente; le signorine Paruti e Mosca, che si toglievano l'una l'altra le parole di bocca per annunziare le ultime, o, dirò meglio, le imminenti modificazioni della moda, e sentenziavano profetando ciò che sarà più o meno ben portato—contraddette dalla contessina Araldi, che si affermava iniziata molto addentro nei misteri del tempio. Ha un'amica a Parigi, la vicomtesse de la Flotte, che la tiene informata d'ogni primizia, d'ogni aurora, anzi d'ogni alba di novità—non solo in fatto di toilettes, ma in fatto di parures, di addobbi di salotti, di bibelots, di passatempi, di romanzi e di pièces, di termini, di gesti, di maníe, credo anche di sofferenze, adottati dalla scietà.

E la disinvolta contessina Ginevra cominciava a citare de'saggi di tutto codesto…. A un certo punto mi fecero sentire (chè Valentina era venuta a raggiungermi) talmente a disagio le domande e le spiegazioni, le occhiate e i sorrisi di quelle gentili giovinette, che, presa per mano la mia figliuola e data un'occhiata, che voleva dir qualchecosa, a sua sorella, la quale, stretta in quel gruppo, silenziosa come sempre, se ne rimaneva passiva, mi affrettai a rientrare in sala. Indi profittai di un momento nel quale la signora traversava per dirle che ci saremmo ritirate.—Essa era radiante, tanto più che, frattanto, era venuta, per la prima volta, anche la famosa—troppo famosa nel mondo della maldicenza—duchessa di Sant'Albano, che benevolmente troneggiava fra quelle signore borghesi, non tutte eleganti nè disinvolte. “Non è vero che bella riunione?” mi disse. “Roba fine, roba scelta. Quella là,” aggiunse accennando a Valentina, “dovrebbe finalmente arrivare a dirozzarsi!”

Meno male che la mia Valentina mi aiuta con ciò che sua madre chiama la sua rozzezza. Essa non ha alcuna inclinazione per queste belle riunioni, e prima delle dieci, ora che s'alza presto, casca di sonno. L'ho lasciata dianzi, già addormentata; e son venuta di qua col desiderio di scriver qualchecosa di quel principio di serata e in pari tempo la tristezza delle mie impressioni.

Ho scritto accennando a certe miserie che ci accade d'incontrare, una o l'altra, ogni giorno, e delle quali le sale del banchiere avevano riunito stasera una certa varietà di campioni,—e non è la prima nè sarà certo l'ultima volta che di queste tristezze riempirò le pagine del mio quaderno.

Eppure non lo faccio per malignità, non lo faccio con un sentimento di avversione o di disprezzo verso alcuno: la somma degli errori, delle passioni, delle colpe umani, considerata dall'alto, desta soprattutto pietà—e nell'anima cristiana cui le miserie proprie insegnarono l'umiltà e l'indulgenza, e che sgomenta si chiede che cosa essa stessa, se diversamente educata e circondata, sarebbe divenuta, e sente tutta la responsabilità che le creano i principii e gli esempi e le occasioni avuti, essa accende sempre più quella carità che vorrebbe poter risanare tanti mali, togliere allo scetticismo e alla corruzione dell'ambiente questa povera giovane generazione che tutto contribuisce a disfare.

Sovente, di fronte ai delirii, alle debolezze, alle tristizie che vedo, o di cui odo o leggo, mi rammento di un giorno, ormai lontano.—Ero in un villaggio del basso Polesine, presso alla

….. marina dove il Po disconde Per aver pace.

Avevo passeggiato un pezzo sull'argine, guardando, nel silenzio della sera, il gran fiume lento che pareva immobile e i campi vasti e deserti, che si andavano velando di nebbia. Poi ero discesa in paese, e, passando accanto alla chiesa, avevo udito, di dentro, cantare. M'avvicinai alla porta di fianco, ch'era chiusa, e mi fermai ad ascoltare l'armonia sonora e malinconica. Eran voci di popolo che cantavano il Miserere. La lunga mesta cadenza d'ogni versetto pareva il grido di pena dell'anima umana fra le sue miserie—pareva un appello, forse inconscio, a una pace perduta. —Con una variante insolita, ma fatta per aumentare quell'impressione, il coro ogni tanto ripeteva: «Miserere….» Ed io, colla tempia appoggiata a quella porta, guardandomi d'intorno salir le nebbie della terra, ascoltavo quell'armonia, ripetevo quella parola…. E ora, soventi, pensando alle miserie mie e alle altrui, mi par di ritrovarmi fra quelle nebbie, sulla porta di quella chiesa—e vado ripetendo: Miserere!

Li 9.—Avevo provato a persuader la signora Falletti di non far più fermare Valentina e me abbasso nelle sere di lunedì; le avevo detto a un dipresso di che tenore fossero i discorsi delle fanciulle che vi convenivano. Ma essa mi rispose ch'io sono un'esagerata, una donna fatta alla vecchia, che trovo a ridire su tutto, che pretenderei tutto il mondo fosse un convento; e anzi a questo proposito finì con farmi una predica e ammonirmi, pel mio meglio, a mutare, se non voglio rendermi antipatica.

Pensai allora di parlarne alla signorina Elisa, colla quale finora avevo sempre parlato poco, e perchè la vedo per lo più fra gente, e perchè la sua poca espansività, la sua aria preoccupata, spesso seccata, non incoraggiano. Eppure me ne dolevo—mi pareva brutto di viver così estranea ad una fanciulla che vedo tutti i giorni, che è tanto più infelice quanto più i suoi si studiano di far la sua felicità, e che, attentamente osservandola, mi pare, malgrado la frivolezza della sua vita, superiore all'ambiente che la circonda, superiore, direi, a ciò che l'hanno fatta divenire.

Essa mi diede ragione; ma lo fece fiaccamente, tristemente, come chi è scoraggito e cui un gran vuoto o un gran disinganno ha spezzato la molla d'ogni energia, come d'ogni entusiasmo. “Già, son così,” disse. “Non son cattive tutte, forse son cattive poche; ma è l'esempio, è la provocazione, è la corrente. Lo provo in me stessa: non sono maligna, e son diventata maldicente; non sono civetta e faccio tutto come se lo fossi; ho imparato a credere più al male che al bene, e cerco di preferenza i frivoli e i cattivi, benchè senta di non amarli punto. Benchè senta a volte,” aggiunse con amarezza, “di detestarli tutti!”

Cercai di mettere un po'd'olio in quell'aspra così precoce filosofia pessimista—di persuader quella biondina delicata e schopenauereggiante, la quale s' era riabbandonata nella sua poltrona come se quel suo argomento fosse senza replica, che avrebbe potuto essere per lei una grande, una santa compiacenza, specie quando si trovava in casa sua, di rimettere a posto, senza arroganza, ma con parole di carità e di dignità, le iniziatrici di maldicenze e di discorsi ignobili, di sostituire agli argomenti delle frivole e delle ignoranti degli argomenti migliori.—Una tristezza profonda si dipinse sul viso della fanciulla; ma non rispose. Sospirò, parve, per un momento, voler parlare—poi ricadde nella sua atonia.

Tacqui anch'io, pel momento; ma non tacerò per sempre. In un modo o nell'altro, in tanti piccoli modi forse, voglio riuscire. Non val la pena di vivere se non si cerca di fare intorno a sè tutto il poco di bene che si può—se non si cerca di far partecipi i meno fortunati di noi del tesoro d'insegnamenti, di esempi, di occasioni, che abbiamo incontrato noi lungo la nostra via. Il precetto di Cristo di far parte altrui di quanto si possiede non deve limitarsi, certamente, ai beni materiali. E, spesso, può dare anche chi possiede assai poco—può dare a chi, in altri campi, possiede molto di più e potrà forse, in un'altra ora, farvi un largo ricambio. La vita sociale dovrebbe e potrebbe essere uno scambio di benefizi…. Ma, pur troppo, l'egoismo, l'inerzia o l'acredine da una parte, le gelosie dell'amor proprio e tutte le tirannie delle passioni dall'altra, ne fanno più spesso uno scambio, se non di malefizi, di scettiche o ignave indifferenze.

Li 10.—Stasera il commendatore era verde. Capii subito che una qualche combinazione doveva essergli andata a male o si trovava in gran pericolo. Nessuno in casa fu risparmiato—nè le persone di famiglia, nè i domestici: io pure, s'intende, ebbi la mia parte.

Più tardi la mia enfant terrible mi spifferò la cosa. Dopo colazion, mentre io era andata a trovare il papà, essa aveva udito nel fumoir una gran lite tra il padre e il fratello, ed era corsa a vedere che fosse. Certo non s'erano avveduti di lei, rimasta in un canto, perchè avevano seguitato. “Avesse visto,” diceva Valentina, “come era rosso il papà! E come gridava: Stolido, imbecille, poeta!—E Alberto era bianco come un fazzoletto e tremava tutto di rabbia. E il papà diceva: «Da quando in qua ti son venuti questi scrupoli? Eri un giovinotto allegro e spregiudicato. Che diamine! intanto si fa l'affare, e poi sarà quel che sarà!»

“E Alberto badava a ripetere che lui non voleva impegni, non voleva legami, che la ragazza non gli piaceva. E il papà ripeteva che poco importava, che le ereditiere non si sposano pei loro occhi—che donne belle, del resto, non mancano, che coi quattrini si può avere tutto ciò che si vuole….—Pensi, osservò la mia bambina, come se un ricco potesse sposarne tante!—E diceva che un'occasione simile non si sarebbe più ritrovata. «Una società con una casa di quella forza!» gridava, «che ci metterebbe di sbalzo alla testa del movimento, che ci aprirebbe….» Non so che cosa dicesse si sarebbe aperto.—Ma Alberto seguitava a dire che non voleva nè entrar negli affari, nè prender quella moglie, nè prender moglie, nè impicci di sorta—che voleva esser libero, far tutto quello che gli piaceva.

“«M'avete avvezzato così,» diceva, «lasciatemi seguitare a divertirmi, chè non voglio seccature di nessun genere.»—E il papà allora cominciò a dir delle brutte parole e ad agitar le mani, e vedevo che Alberto stringeva i pugni—ed io ebbi paura e scappai.”

Malgrado la pena intensa ch'io provava all'idea che Valentina avesse assistito ad una scena simile e quantunque vivamente mi ripugnasse il lasciarla seguitare il suo racconto, non volli interromperla. E ciò non solo per vedere fino a che punto avesse inteso e cercar di attenuare le sue impressioni, ma anche per sempre meglio conscere il retroscena di questo ambiente nel quale Dio mi ha messa a lavorare. Ambiente moderno tipo: da un lato assenza d'ogni scrupolo di fronte alla sete di ricchezze e di dominio—dall'altro, sfrenato desiderio di licenza e di piaceri; dall'uno e dall'altro, scetticismo, origine di tutto.

Tempo addietro una giovane signora, che mi udiva esprimere la mia profonda tristezza per tanto ruinare della società, sorrideva di me come di un'esaltata. “Come, lei si affanna tanto pel pubblico?” diceva. “Non capisco. Io bado a casa mia, e il resto del mondo poi non turba i miei sonni.”

E dire che quella signora pretende aver cuore ed essere religiosa e virtuosa! Cuore piccino, religione rachitica, virtù senza calore.—Vi sono di quelli che, specie quando parlano d'una madre di famiglia, credono farle il maggiore elogio dicendo che il suo pensiero non andava oltre quella…. Spesso accade di leggere elogi funebri di signore delle quali si dice che la famiglia era per loro «unico pensiero, unica cura.»

Ma possono esser salde le basi della fede e della virtù di quelle che si rinchiudono l'anima così fra le pareti della propria casa? Quali ideali le illuminano e rinvigoriscono? e il loro stesso amore e le loro stesse preoccupazioni per la famiglia non ne risulteranno rimpiccioliti, e circoscritti alle cose inferiori? E quali virtù di uomini e di cittadini potranno infonder nei figliuoli se non sanno amare che essi e preoccuparsi che di essi? E potranno dirsi donne cristiane quelle che, educando, dimenticano la carità in tutte le sue forme, e il civismo e il patriottismo, che fanno parte della legge fondamentale del Maestro: l'amore?

Li 13.—Stasera, cosa rara, era scesa la contessa Faustina. La signora Falletti, che non ha punta simpatia per la cognata, ha però certi riguardi per lei, chè, via, è sempre una contessa; e l'accolse facendole una certa festa. La signorina Elisa si affrettò a toglierle di dosso lo sciallino, a spingere una certa poltrona in un certo posto dove ci vede bene a lavorare nella sua coperta all'uncinetto, e a metterle uno sgabello sotto i piedi e un cuscino dietro la schiena.—Il commendatore, dopo un grugnito di saluto, seguitò a leggere il suo giornale. Il signor Alberto che, cosa rarissima, era rimasto in casa, si mise, seccato, a fare un solitario. Valentina fece una faccia stufa. Io la esortavo piano a vincere la sua contrarietà e ad essere gentile.

Appena si fu rimessa dall'ansia del moto fatto, la contessa intavolò i suoi soliti argomenti—con un certo che di untuoso dapprima, che poi si andava mutando in un tono sempre più aspro. La signora Claudia le dava ora ragione ora torto, a seconda forse della maggiore o minore opportunità, secondo lei, della cosa. La signorina Elisa si studiava di darle ragione il più possibile. Il commendatore, dopo aver letto un pezzo, cominciò a replicare bruscamente, rozzamente.—Lei gridava contro la rivoluzione, i liberali, gli usurpatori—lui gridava contro i preti e il cattolicismo. Entrambi svisavano e offendevano. La signora cercava di metter bene e faceva peggio; la signorina era tutta rossa e a disagio.

A un certo punto la contessa si rivolse a me, come chiamandomi in aiuto. “So,” disse, “che lei è una dei nostri.” Le risposi che s'ingannava di molto. “Ma come,” insistette, “se mi hanno detto che lei è una buona cattolica?”—“Spero le abbiano detto la verità,” risposi.—La vecchia signora mi guardò severamente, come avessi voluto canzonarla con risposte contraddittorie. Mi affrettai a chiarire: “Cattolica cristiana,” dissi.

Essa mi guardò stupita e scandalizzata. “Che nuova sètta è questa?” esclamò; “chi si permette di fare queste distinzioni?” Risposi che le fa chi guarda a Cristo e vive nella sua legge. “E noi,” chiese irritata, “a chi guardiamo e in che legge viviamo?”—“Temo che guardino,” dissi, “a una contraffazione di Cristo, e seguano le leggi di una stampa fatta per isterilir la fede nell'anima, la carità nel cuore, per seminare turbamenti e discordie, e fomentar sempre nuove diserzioni dal grembo della Chiesa.”

“Ah!” disse, “forse le piace la stampa massonica!” —“Avverso quella sètta ipocrita e nefasta e tutto ciò che da essa emana,” risposi; “ma anche più mi contrista il vedere sì indegnamente travisato il Vangelo da tanti che si erigono ad apostoli di esso.” La contessa mise tutta la sua amarezza in un sorriso di compassione. “Povera giovane,” disse, “come è fuor di strada!” E guardò Valentina in atto di sgomento.

La signora Falletti era inquieta, e mi guardava severamente. Il commendatore rideva sotto i baffi. Egli è di quelli pei quali non esiste distinzione in argomento; per lui, come per tanti altri di quel livello, ogni cattolico è un clericale, ogni credente è un ingenuo, un poeta. Un po'di scienza e di politica da strapazzo e molto utilitarismo ne hanno fatto uno dei tanti liberi pensatori che non sanno pensare.—Il signor Alberto alzava a quando a quando gli occhi dalle carte, e taceva sempre.

Ma quando la contessa cominciò ad inveire contro la libertà e la scienza, che asseriva essere le maggiori nemiche della fede, contro i giovani e ogni cosa d'adesso, questi scattò dal suo posto e venne a risponderle con tutta la baldanza di uno che si trova dalla parte della ragione perchè avversario s'è messo da sè dalla parte del torto.—E fu uno scambio di propositi intemperanti e falsi, senza che mai la vera causa di Cristo e del bene umano fosse presa in considerazione dalla contessa. Scambio che si estese maggiormente coll'arrivo di parecchi frequentatori, che si schierarono tutti col signor Alberto—anche quelli che, se non pensano come la contessa Faustina, non pensano neppur come lui, ma che dall'aspra grettezza di lei erano stati spinti nel campo opposto.

Quando la contessa risalì, le offersi il mio braccio per le scale. Giunte che fummo al pianerottolo, mi disse: “Mi dispiace molto che lei non sia dei nostri: potremmo fare molto bene insieme.”

Li 15.—Seguita, dopo la scena dell'altro giorno, il malumore tra padre e figlio. Anche la madre è piuttosto fredda col figliuolo. La sorella maggiore non capisco bene che cosa pensi…. È sempre astratta, come straniera in casa. È una di quelle tante ragazze come l'uccello sul ramo, che aspetta di spiccare il volo e formare il suo nido, e si riservano di esplicare allora l'affetto e la virtù.—Perchè? È così bella la missione di figliuola, di sorella, di ragazza che, libera, si prepara alla vita, non aspettando nell'inedia e l'impazienza, ma amando ciò che ha d'intorno e facendo volonterosa la sua parte di bene!

La povera signorina Elisa ha, per l'indole de'genitori, un magro compito di figliuola, è vero. Ma come sorella avrebbe, io credo, un campo molto meno infecondo. E invece fra lei e il fratello v'ha una certa freddezza, una certa estraneità, che pur troppo si riscontrano spesso tra i fratelli e le sorelle.—Il fratello, che non ha che mediocremente imparato a rispettare le donne, rispetta anche meno sua sorella, che gli pare rappresenti qualchecosa di molto inconcludente. La sorella, senza troppo calore d'ideali e di principii, e distratta da quel costante obbiettivo della sua fantasia che la fa viver nell'avvenire, ha, come dicevo, una troppo scarsa idea della sua attuale missione domestica.

Se potessi riuscire ad interessarvela! Se potessi, avvicinando in un'intimità de'cuori e delle menti la sorella al fratello, far del bene ad entrambi! Quella ha bisogno di riempir la sua vita meglio che non sia stata guidata a fare fin qui—questo ho bisogno d'una mano amorevole che si posi ogni tanto sulla sua spalla, d'una voce seria e soave che parli al suo cuore….

Credo sia un grave errore la grande diversità di educazione tra i fratelli e le sorelle, i giovani e le ragazze in genere. Diversità ch'è conseguenza de'pregiudizi sociali che valutano troppo diversamente i due sessi, sia nel campo intellettuale sia nel morale, rimpicciolendo l'ámbito della donna, autorizzando nell'uomo cose immorali ed ingiuste. Mi piacerebbe di vedere tra i fratelli e le sorelle una parziale comunanza di studi e di vita—comunanza che giovasse non solo a farne degli amici, ma ad irrobustire le menti e meglio riempir le vite femminili, e a purificar le coscienze e ingentilire i cuori de'giovani.

Li 16.—È battuta dianzi mezzanotte. Ma non so decidermi a coricarmi. Una folla di pensieri e di ricordi mi trattiene qui, più che mai desta e repugnante alle tenebre.

Stasera in casa Maren, oltre al papà e a Valeria, che quasi sempre vi ritrovo, erano altri due amici di famiglia: un vecchio compagno del signor Marco e del papà, compagno di studi, d'ideali, di patrie lotte—e un sacerdote di lassù, anima eletta e gagliarda, che l'odio de'farisci moderni perseguita e tortura, ma cui non toglie la divina serenità, la carità a tutta prova del santo maestro Antonio Rosmini.

Che aria ossigenata vivificante spirava in quella stanza austera—che vita di pure fedi e di forti ricordi intemerati, di generosi ideali, di fidenti speranze! Il vecchio signor Marco, mio padre, l'amico e compagno loro che, veterani del nostro riscatto, avean combattuto con la libera penna, o con l'armi, e i sacrifizi della fortuna, e soprattutto, co'divini luminosi ideali e l'indomita virtù del carattere, rappresentavano quella falange che va sparendo nel passato, e per l'Italia sognato e preparato aveva un ben diverso futuro…. Francesco e il sacerdote erano i campioni giovani e perduranti nelle battaglie del pensiero, ne'sacrifizi alla grande idea cristiana, che, fra i martiri oscuri, procede ai trionfi dell'avvenire.

E Letizia, Elena, Valeria, tipi diversi ed eletti di donne la cui vita è informata a quell'idea e al culto delle tradizioni domestiche, forti di patriottismo operoso, e consacrate all'esercizio delle serie e modeste virtù d'ogni giorno—virtù feconde d'indomita rassegnazione fra le prove, di carità solerte e consolatrice, di austerità d'abnegazioni perseveranti, mi facevano ripensare al divino ideale della nostra missione.

Si parlò del passato e del presente, delle vicende della storia, delle grandi manifestazioni del pensiero, dell'arduo animoso cammino della scienza verso la luce; si evocarono anime grandi d'ogni tempo che, come fiaccole lungo la via de'secoli, brillano nel tempo; si ricordarono quelle più oscure, ma forse non meno grandi, che in tutti i campi lavorarono e soffersero per un'idea. E i figliuoli avevano smesso di fare il chiasso usato, e ascoltavano intenti—pallidi a volte per quegli interni bagliori che irradiano le anime che pure e balde entrano nella vita.

Alle dieci Valentina ed io scendevanmo la scalinata della Trinità de'Monti. Gli altri erano rimasti—sempre brillava il lume in quella stanza, in alto. Ed io mi rivolgevo a guardare quella finestra illuminata—e tuttora lo vedo, da qui, nella notte quieta e profonda, quel punto luminoso che mi par come un faro, e mi parla degli apostoli dell'ideale, che, qua e là, vegliano, resistono, combattono, sentinelle avanzate sui campi che aspettano l'avvenire.

Li 18.—La signora Falletti desiderava dare qualche trattenimento che attirasse tutti i frequentatori della sua casa e, possibilmente, fosse assunto agli onori della cronaca. Vi furono molte discussioni domestiche; il commendatore propendeva per un ballo addirittura, un gran ballo, che disturba una volta sola e fa più chiasso. «Il est si doux,» dice Jollivet, «de faire plus que le voisin!» La signora trovava che son forse più chic due o tre serate per le quali si mandano i biglietti d'invito così concepiti—ultima moda: «La signora tale, la sera tale, rimane in casa.» Il signor Alberto trovava che sarebbe stato delizioso combinare dei tableaux vivants, con tante graziose personcine di conoscenza. Ma la sorella Elisa parve sgomentarsene…. “Piuttosto,” disse, “una soirée musicale.” Infatti, essa è forte in mandolino, sul quale da qualche tempo si esercita per due o tre ore al giorno. Finirono con scegliere la soirée musicale, la quale, naturalmente, si sarebbe poi mutata in dansante, e la fissarono per ieri.

Vi furono molti preparativi e molte emozioni.—Un giorno la signora rientrò colla seccante notizia che la duchessa di Sant'Albano, la quale, per assicurarsi che venisse davvero, essa era andata ad invitare in persona, le aveva detto che una delle signorine Gualdi è una mandolinista di prima forza. La povera signorina Elisa impallidì, ma non disse nulla. Disse molto invece la madre, la quale, colla scusa che son delle impertinenti che s'impongono, studiava il modo di dimenticare le Gualdi nell'invito, o non avvertirle che si farà musica, o non pregare la signorina Egle di portare il mandolino. Ma il commendatore la fulminò cogli occhi. Poi udii che le diceva sottovoce: “Sei matta? pei vostri pettegolezzi di donne permetterei che si rischi di mandare all'aria quella magnifica combinazione?”

Insomma, le Gualdi furono invitate, col rispettivo mandolino. Ma la signorina Elisa si affaticò per giornate intere sul mandolino suo, e la madre invitò un mandolinista famoso, che in questi giorni si trova in Roma, perchè almeno anche la Gualdi fosse eclissata. —Ma ahimè! il mandolinista, all'ultima ora, fu colto da un'indisposizione; e la signorina Gualdi ebbe più applausi della signorina Falletti, benchè anche a questa non ne fossero stati avari.

E moltissimi pure n'ebbero la signorina Carmen Landucci, che cantò, con certe sfumature di passione molto…. in carattere, l'aria: «Sul bastion di Siviglia» della sigaraia spagnola sua omonima, e la signorina Paruti, che suonò l'arpa, in una specie di costume greco, pel quale era stata fatta un'economia di stoffa un po'soverchia. La signora Gerardi, dalle carni morbide, le linee opulenti, i capelli d'un biondo acceso, intrecciati con grosse perle, gli occhi lampeggianti, a riflessi metallici, in una veste a drappeggi verde chiaro, una perfetta figura paolesca insomma, cantò col conte Fortebracci il duetto d'amore del Ruy Blas, e pareva un po'dimenticar qualchecosa….

Le mamme Gualdi, Landucci e Paruti trionfavano —qualche altra mamma di figliuole che avevano valentemente eseguita al piano una sonata di Schubert o di Chopin che pochi avevano gustate, o modestamente cantato qualche pezzo meno piccante, ricevevano, senza entusiasmo, gli elogi di qualche buona persona che le aveva avvicinate—mentre un violinista divinamente suonava, fra la distrazione quasi generale e i cicalecci sommessi, quella maravigliosa Sonata in re minore di Grieg.

Il programma non fu potuto esaurire per la maleducata impazienza di quelli, e soprattutto di quelle, che volevano ballare. Ciononostante, il ballo non attecchì, la serata, malgrado gli sforzi sovrumani che fecero le signore di casa per dissimulare e farne gli onori, riuscì fredda, scucita, con molti intervalli noiosi e molti crocchi che si guardavano con una certa quasi ostilità e parlavano a mezza voce.—Vi fu qualche giro di mazurka e di bosto, qualche abbozzo di flirtation, qualche partita di écarté, ma il brio non venne.

Oggi comparvero nei giornali i cui cronisti erano stati invitati, relazioni piuttosto fiacche, e una decisamente poco cortese. Valentina l'aveva letta e, a desinare, s'era espressa in termini alquanto energici contro quel cronista ch'essa chiamava «quel grassone antipatico» «quel ghiottone che aveva mangiato tanto pâté de foie.»—La corressi dicendole di non denominar mai la gente pei difetti fisici o morali, specie quando ci muove il risentimento—di non far vieppiù rilevare altrui le offese, anzichè attenuarle con una carità che gioverebbe da una parte e dall'altra.—“Oh! signorina,” disse la madre, “scusi, ma Valentina ha ragione! Certe cose non s'hanno a perdonare—e noi siam gente schietta, senza gesuitismi.”

La mia posizione s'era fatta delle più scabrose…. Non potevo tollerare, in presenza della mia allieva, una simile definizione della carità cristiana—nè potevo umiliare quella madre davanti a'suoi figliuoli. Mi sentii salire il sangue al viso, e risposi, colla voce che tremava, che quando si ha l'anima educata alla carità si è sinceri in quella più che altri, forse, nei sentimenti opposti….—La signora mutò tosto discorso, rivolgendosi al marito, ch'era occupatissimo a preparare uno speciale condimento per non so quale crostaceo prezioso fatto venire da Taranto. La signorina Elisa aveva gli occhi un po'umidi. Il signor Alberto mi guardava senza la sua solita aria di superiorità. Valentina si pulì la bocca in fretta per voltarsi a baciarmi col suo modo violento, e mi disse: “Non lo farò più, signorina.”

Li 19.—Oggi sono stata a dare un ultimo saluto a Luisa Montelli, che si sposa domani.—È una giovinetta di diciotto anni, uscita l'anno scorso di collegio, buona, carina, ingenua, che si è serenamente lasciata fidanzare ad un uomo che non ama, ma che è sicura, tanto glielo hanno detto, che la renderà felicissima.

Del mondo e della vita essa non sa quasi nulla. In collegio ha fatto i soliti studi convenzionali, è stata istruita nella solita religione gretta e formalista. In casa ha imparato che una donna dev'essere il più possibile bella, graziosa, e che deve il meno possibile ragionare colla propria testa e seguire gl'impulsi della propria coscienza. Ha imparato ad accettare, senza nemmeno pensare alla possibilità di discuterli, tutti i pregiudizi e le convenzioni sociali. Ha imparato che la donna dev'essere sottomessa sempre alla volontà altrui, e che quando sarà moglie sarà un oggetto di proprietà del marito, e dovrà uniformare non solo la volontà sua a quella di lui, ma i principii, i pensieri, sè stessa.

Ecco ciò che sa la buona giovinetta che domani si troverà lanciata in tutt'altro ambiente, fra tutt'altre persone, fra nuovi doveri, nuove difficoltà, nuovi pericoli—povera creatura che, come un pezzo di creta malleabile, passerà dalle mani degli uni a quelle degli altri, senza che alcuno si sia curato, o sia per curarsi, di darle una forma decisa e solida, d'infonderle uno spirito che ne faccia una personalità.

Ma non si fermano qua i tradimenti de'quali, di solito, son colpevoli le educazioni di questo genere. Per una precauzione che nulla giustifica—precauzione che un tempo era la regola generale e che ora un complesso di cose va rendendo sempre più difficile o vana—si lascia che quelle ragazze traversino la giovinezza, si promettano, si sposino, senza conoscere, o conoscendo in malo modo, certe realità che costituiscono parte dei pericoli da evitare e dei doveri da compiere come mogli.—Si crede di dover istruire le fanciulle in tante cose, che serviranno loro di ornamento e di passatempo—e si avrà da lasciarle ignorare, o malsanamente immaginare, le realtà che rasentano ogni giorno, che ogni giorno, intorno ad esse, in esse stesse, creano insidie e pericoli? Pericoli tanto maggiori perchè non conosciuti, o conosciuti a mezzo, con quel che di vago che genera le curiosità malsane, le ricerche fatte da sè o con aiuti pericolosi, e che perciò possono condurvi a scoperte súbite e tremende.

Chi crede tutelare la moralità e la felicità delle proprie figliuole lasciandole, anche dopo passata l'adolescenza, in certe ignoranze, non misura quanto danno rechi loro e nell'una e nell'altra. Certe cose conosciute a mezzo e solo nella loro parte superiore—come sarebbe, in questo caso, l'amore—sono un'insidia continua: non è davvero il conoscer l'esistenza di certi guai che crea il pericolo di cadervi; e, seppure ciò ne potrà a volte conseguire, saran sempre molto più numerosi i casi ne'quali le fanciulle meno facilmente si lascieranno andare, perciocchè ne conoscono il fondo, sulla china dell'amore.

E poi, è onesto, è generoso verso le nostre figliuole il lasciarle ignorare la corruzione sociale, il lasciarle, di fronte all'altro sesso, in illusioni ingenuamente poetiche? È amore della loro dignità il lasciarle adorar ciecamente e ciecamente affidarsi? O non sarà piuttosto un render loro più facili quegli esaltamenti della fantasia che, per lo più, son l'inizio degli amori infelici o deplorevoli? E non ne saran diminuiti il loro decoro e il loro prestigio, non ne sarà anche scemata di molto l'influenza loro seria e buona? Chè molto maggiori, naturalmente, sono il rispetto e la soggezione che inspira agli uomini una ragazza che sa regolare sè stessa e giudicar loro, che non quelli che possa inspirare un'altra per la sua innocenza ignorante—adorabile nella fanciullezza e l'adolescenza, ridicola più tardi.

Mi pare che errino tanto le madri che per le figliuole paventano ogni rivelazione in codesto campo quanto quelle che, leggere o noncuranti, le lasciano vedervi addentro senza serietà di criteri morali; mi pare sieno nel falso tanto quelle che alle figliuole vietano ogni lettura che dell'argomento parli in modo serio, come quelle che le lasciano leggere libri, assistere a spettacoli che eccitano la fantasia, ed altro…. e prendere il gusto e l'abitudine delle conversazioni libere, de'sorrisi indulgenti, o anche solo avvezzarsi alla stupida e immorale accettazione de'pregiudizi compiacenti verso le licenze dell'altro sesso.—Parmi il giusto stia nell'illuminar con prudenza e con quella serietà e saldezza di criteri morali che tutelano ad un tempo la coscienza e la dignità, e fanno sì che, tolte certe curiosità malsane, spoetizzate certe incognite, educata l'anima alle fierezze femminili, le fanciulle si trovino conscie e difese ad un tempo.

Ma ciò che è un vero reato è il lasciarle fidanzarsi, e perfino sposare, specie quando non amano, senza che conoscano tutti i doveri cui s'impegnano. È un atto questo di tale slealtà (i pregiudizi e le convenzioni sociali fanno commettere anche alle persone migliori, inscientemente, molti delitti) che io non esito a pensare esso dovrebbe bastare a render nullo il matrimonio. —Non dovrebbe essere lecito di far prendere a una creatura un impegno su cosa che ignora, di farla giurar doveri che solo in parte conosce, di esporla a sorprese che, nelle anime non volgari, soventi destano impressioni tremende, sgomenti e ribellioni…. Dovrebbe ripugnare come un tradimento il mettere una fanciulla che sta per incontrare gli augusti doveri di madre di famiglia, nell'umiliante condizione di trovarsi, inconscia, in balía di uno che, salvo casi troppo rari, non è degno di una vergine.

So di una donna ch'era stata maritata a tradimento così, e il marito della quale era ricorso per aiuto ad un sacerdote, che le rammentò il giuramento di obbedienza fatto dinanzi l'altare. Quella rispose che il giuramento non poteva valere che per ciò che, quando lo aveva fatto, erale noto. E, se fosse stato il caso di rimanere nel campo del diritto astratto, anzichè entrare in quello del dovere di sacrifizio al principio morale, l'argomento sarebbe stato senza replica.

Queste strane ingiustizie sono effetto del gran resto di pregiudizi che pesano sulla donna—pregiudizi che, malgrado tutte le adulazioni delle quali è circondata, la tengono in una condizione inferiore, falsa, ingiusta. Checchè si dica, la donna, specie nei paesi meridionali, è ancora lungi dall'essere messa a quel posto nel quale essa dovrebbe trovarsi accanto all'uomo, cogli stessi scopi finali e la stessa dignità, e da esso diversa solo ne' mezzi e in alcune parti della missione—essa vi è ancora troppo considerata come qualchecosa d'inferiore ad esso, qualchecosa che esiste per esso, per procurargli ogni genere di conforti e di piaceri, dai più gentili ai più brutali.—Non possono spiegarsi che con questo e le umilianti ignoranze, e le consapevolezze indulgenti e compiacenti, e il trascurar di temprare fortemente le coscienze e i caratteri femminili.

Quante volte non ho inteso dire: “L'uomo deve formarsi lui la donna!“—Povera Beatrice, povero ideale della nostra missione….

No, la donna non ha da arrivare informe ed incerta fra le mani dell' uomo. Tanto meglio se questi sarà tale da saperla e volerla sempre più migliorare ed elevare—ma il fondamento ci dev'essere, quel fondamento che vi rende perfettibili, sia per opera altrui, sia per opera propria, o di entrambi. Il matrimonio dovrebbe essere un patto di mutuo soccorso per tutti i doveri, le difficoltà, le miserie della vita. E, appunto per questo, basta della vita anche una scarsa conoscenza per intendere quanto ampia sia la parte nostra di fronte all'uomo….

Ripenso soventi a una leggenda indiana, che E. Legouvé toglie dal Mahabkarata,1 E. LEGOUVÈ, Histoire morale des femmes. della bella Damayanti, figlia di re, e di Nala, il leone degli uomini. Non si sono mai visti, ma un cigno selvatico ha cantato a ciascuno le lodi dell'altro e si amano da lungi. Il re, vedendo pensierosa la sua figliuola invita tutti i principi de' regni vicini perchè Damayanti possa fare la sua scelta. Nala è fra quelli—la fanciulla appena lo vede lo riconosce per l'emozione che la invade. Essa fissa che al terzo giorno scenderà dal trono e andrà a metter la sua mano in quella dell'uomo che ama.

Ma in quel giorno quattro semi-dei, innamorati di Damayanti, assumono le sembianze di Nala, e insieme a lui si presentano al convegno. La fanciulla se ne sgomenta, e prega gli dei superni di far sì che possa riconoscere il vero Nala. D'un tratto i quattro abitatori del cielo d'Indra appariscono alteri, sereni, luminosi, come esseri che non sono di questa terra, le loro vesti sono smaglianti, i fiori che li inghirlandano si fanno più vividi….Le vesti di Nala appaiono sciupate, appassita la sua ghirlanda, i piedi polverosi, il viso coperto di sudore, e, prossimo a cadere per la stanchezza, il suo corpo è il solo che proietta ombra.

Damayanti scende dal trono, toglie dal proprio capo la fresca ghirlanda e la pone su quello di Nala; al posto di essa posa, come un velo, un lembo del mantello di lui, e sostenendolo gli dice: “Son la tua sposa.”

Come è bene preconizzato in questa breve scena, veramente eccezionale nell'antichità pagana, I'ideale che più tardi sorse e si trovò effettuato, del matrimonio cristiano! Chè nella poesia della leggenda orientale è raffigurata la santità di quell'amore tanto maggiore quanto maggiori sacrifizi gli son richiesti—non di servili compiacenze da schiava inintelligente, ma di quelle volenti e veggenti devozioni delle quali solo il matrimonio cristiano dà tutte le alte inspirazioni e tutta la saldezza della virtù, anche all'infuori dell'amore.

Oh! teniamolo alto, ben alto, tutto l'ideale della nostra missione—e mogli, e fanciulle destinate a divenirlo, ed altre che mai non lo saranno: in tutte le condizioni l'idea della donna non ha mai da essere scompagnata da quella del bene—chè il nostro è un sacerdozio, sacerdozio cui le virtù del cuore non bastano, ma che, severo, richiede anche quelle dello spirito e della coscienza.

Dianzi, rovistando nelle mie vecchie carte, trovai un foglio scritto a Treviso, una notte, mi rammento—in una di quelle notti nelle quali l'anima, scossa da qualche impressione, si rifiuta al sonno.—Non si legge quasi più, l'inchiostro violetto d'anilina è tutto sbiadito—m'ha ingannata come tante delle attuali imposture industriali e non industriali. Voglio ricopiarlo però, per memoria di quegli anni belli di giovinezza—e tanto più che l'argomento stasera mi ha menata a parlare della nostra missione, e ad accennare, dianzi, a Beatrice, quel gran simbolo di essa.

Beatrice in suso, ed io in lei guardava.
Par., II.

…. Una folata di vento aveva chiuso un'imposta con gran chiasso, e nel mio angolo buio era arrivato un soffiolino freddo, che m'aveva fatto passare per l'ossa un brivido. La libreria aveva scricchiolato un poco, e la vecchia bandiera dietro la scrivania s'era mossa intorno al crocifisso. I cristalli scossi fremevano, sommessamente, diminuendo, nel silenzio d'una súbita calma.

Ma io seguitava a starmene inerte nella poltrona, e mi pareva che tutti i pensieri scivolassero come in una nebbia sull'anima mia sonnolenta.

Il vento aveva spazzato tutte le nuvole e, d'infra i grandi alberi nudi del giardino, la luna, un poco scialba, guardava per entro la mia mezza finestra.

Il raggio che metteva una striscia bianca sul pavimento saliva lungo la parete di contro, fino sur una vecchia incisione del quadro di Ary Scheffer, sotto la quale, molti anni addietro, avevo trascritto queste quattro terzine del Paradiso:

Fatto avea di là mane e di qua sera Tal foce, e quasi tutto era là bianco Quello emisperio, e l'altra parte nera, Quando Beatrice in sul sinistro fianco Vidi rivolta, e riguardar nel Sole: Aquila sì non gli s'affisse unquanco. E sì come secondo raggio suole Uscir del primo c risalire in suso, Pur come peregrin che tornar vuole: Coì dell'atto suo, per gli occhi infuso Nell'immagine mia, il mio si fece, E fissi gli occhi al Sole oltre a nostr'uso.

Par., I.

Quanti anni son passati….Ora sui margini bianchi del quadro son larghe macchie gialle, e le terzine appena si leggono per l'inchiostro sbiadito.

La luna s'era rischiarata del tutto.—Le due figure spiccavano. E a mano a mano, nel chiarore bianco e quieto, mi andavano prendendo luce e vita, come di visione.

Visione divina ed umana, visione del cielo e della terra—che all'anima mi parlava d'infinite miserie e di splendori infiniti; che dalla selva buia, entro la quale l'uomo, che il Poeta raffigura, si trova smarrito, mi portava fino alla fulgente pace de'giusti.

E mi diceva come Dante, colla duplice idea personificata nella sua Donna, sia entrato in uno de'più alti misteri della vita umana.—Beatrice, l'amata donna virtuosa il cui ricordo, allor ch'agli avea vòlto

….. i passi suoi per via non vera, Immagini di beu segnendo false, Che nulla promission rendono intera, Purg., XXX.

richiamandolo al vero, e pel vero al bene,

La tramortita sua virtù ravviva, Purg., XXXIII.

Beatrice è degna di divenire immagine di quella sapienza divina senza la quale niuna umana scienza, non arrivando a spiegare le cause ultime, nè a risolvere i grandi problemi dell'esser nostro e dei nostri destini, vale a soddisfar l'intelletto ed il cuore, nè a sollevarli al disopra delle miserie della vita.

Colla donna che si fa guida a quel Vero

Di fuor dal qual nessun vero si spazia, Par., IV.

la donna che

Vincendo l'uom col lume d'un sorriso Par., XVIII.

fa

……. crescer l'ale al voler suo Par., XV.

e lo solleva

………… a più alta salute, Par., XIV.

colla donna che può dire

………….. pensa ch'io sono Presso a Colui che ogni torto disgrava, Par., XVIII.

e cui l'uomo risponde

Tu m'hai di servo tratto a libertate, Par., XXXI.

mi passavan dinanzi, come in un turbinío di gioie e di dolori, di trionfi e di cadute, di virtù e di miserie, tutti i grandi e pietosi portati della nostra fede—tutti i grandi e pietosi doveri della nostra missione.

Fede che inspira l'amore—missione che nell'amore si compendia. Fede che non toglie le miseri della vita, ma sovra di esse fa balenar l'ideale che solleva e conforta—missione che di quella fede è come il commento umano, e, nella donna mettendo un fascino che fa rivolgere gli occhi alla luce, una dolcezza che annunzia le divine misericordie, una forza, fatta tutta d'intelletto d'amore, occulta, quasi inavvertita, che rialza, rinfranca, eleva, della donna fa l'angelo della carità e il genio del progresso.

La luna s'era innalzata, e il quadro era sparito nell'ombra.—Ma io era in piedi—e ben altra luce illuminava agli occhi miei le due figure salenti.

Li. 20.

In una camera, due maschi adolescenti s'alzavano dal letto allora, con certi occhi sbattuti e certi sguardi erranti. In mezzo a un altro letto sedeva una bambina seminuda, col visetto coperto da una sudicia maschera di raso rosso e nero. Altri bambini colla testa e le manine medicate mugolavano là intorno. Sulla parete di contro erano un ritratto di padre Agostino da Montefeltro, accanto a un'incisione rappresentante un certo triplice laido suicidio ch'ebbe qui tempo addietro un successo di scandalo.—In un corridoio che metteva a quella camera giaceva in letto, malata, una donna giovane e bella, che nessuno seppe o volle dire chi fosse.

In un interno al sesto piano era coricata una donna tisica, un'abruzzese, che non vuol andare all'ospedale, per non abbandonare una sua bambina di nove anni. “Fosse un maschio,” diceva; “ma una femmina!” E c'era ne'suoi occhi un'ansietà cosí dolorosa nel dire quest'ultima parola!—Tutto ciò che v'era là da mangiare in quel giorno erano foglie di broccolo non condite. E non v'era nemmeno una maglia su quel povero petto che la tosse lacerava. E la bambina, con una magra vestina sudicia troppo larga per lei, che le pendeva dalle spalle esili e lasciava veder la carne, se ne stava, con due occhioni sbarrati, a guardarci, livida pel freddo. E la madre ce la mostrava cogli occhi pieni di lagrime e diceva colla voce rauca e straziata: “Guardate di sotto, signore mie, sta creatura è gnuda!”

Era là una vicina, smunta quasi quanto lei, con un bambino già scrofoloso al petto, la quale, la notte, butta una coperta sul pavimento d'una piccola cucina, e dorme là col marito e due bambini. Eppure, guardandoci con una faccia radiante di gratitudine come avesse narrato un gran gaudio, ci disse: “M'hanno dato il biglietto della minestra della Regina!”

Entrambe, ben inteso, hanno il marito disoccupato, e in giro. Quello della prima da un anno cerca lavoro colle febbri addosso.

In una stanza più in là era un letto nuziale, nel quale dormono due coniugi e una vicina che tengono per carità, con due figliuole adolescenti….In un'altra là vicino era un letto da una persona, nel quale dormono i genitori e due figlie adulte—in terra sta un fratello di vent'anni.—Nella cucina dorme, sur un mucchio di cartocci, una vecchia con tre bambini, tutti malati e piagati, che hanno il padre suicidato e la madre al manicomio.—Nel corridoio che metteva a quel quartiere s'alzava dal letto un uomo che ci guardava con occhio torvo.

All'altro capo del ballatoio, in una cameretta senza alcun mobile nè alcun suppellettile, erano due giacigli informi. Sur uno era qualche cosa che pareva un mucchio di panni di nessun colore. “È mio marito,” disse la donna che ci aveva pregate d'entrare. Era un muratore disoccupato, e affetto da malattia di cuore. Egli s'era buttato là vestito e coperto d'un povero mantello; non si moveva; solo s'udiva un respiro che pareva un rantolo.

Mentre scendevamo una donna napoletana ci aspettava sulla scala: “Signore,” disse, “sto a caccia di voi!” E c'introdusse nella sua abitazione, ch'era a mezzanino, in una piccola corte, e buia sì che quasi pareva fosse notte. L'entrata era ingombra da un'altra famiglia, che non si distingueva bene fra l'arruffio di quel po'di roba che v'era. In un canto urtai qualchecosa che credetti de'sacchi: era un giovane malato, buttato là, sotto qualche straccio. In un altro angolo c'era una donna che divideva fra tre ragazzi un pane, il solo pane che ci fosse. “È tanto poveretta anche questa,” mi disse la prima, “col marito a spasso; aiutate lei pure, signore, Dio vi darà bene!”

Nella camera sua, piccolissima, tutta piena di certi mucchi sudici che erano come illusioni di letti, nella luce scarsa della finestra, il marito, ciabattino, riparava delle povere scarpe quasi distrutte, che scoraggirebbero qualunque altro meno stretto dal bisogno. Eppure, malgrado quello squallore, pareva una gran cosa veder uno che potesse far qualchescosa. “Almeno c'è un po'di pane per ste creature,” diceva quell'uomo guardando con tenerezza quattro bambini malamente coperti che gli stavano intorno. E c'era sul suo viso quella certa serenità che scorgo, generalmente, nei pochi uomini di questi quartieri che possono lavorare; mentre sulla faccia del disoccupato è di solito un'impronta indefinibile, che a volte è d'accasciamento, a volte pare rasenti l'ebetismo, a volte ha qualchecosa di cupo che mette sgomento….

“Oggi stanno a casa li figli perchè è giovedì,” disse la madre, “ma sennò vanno alla scola, qua dai frati de padre Lodovico. Che non voglio mica che me crescano senza timor de Dio. La santa morte piuttosto!”—Che profonda bellezza, sulla bocca d'una madre soprattutto, in quell'aggettivo davanti la tremenda parola!

Li 21.—Oggi sono stata a casa, e vi ho trovato una lettera del nostro professore, che si annunzia per Natale. Mi par mill'anni di rivederlo il mio Gino!

È qualche tempo che vado preoccupandomi del suo avvenire intimo. Egli ha ora ventisei anni, e sarebbe tempo pensasse a formare una famiglia. Pur troppo ci si metton di mezzo le circostanze economiche. Una delle grandi immoralità del lusso e della mollezza odierni è l'inciamo ch'essi sono ai matrimoni dei non ricchi, e anche dei ricchi: chè le pretensioni aumentano in proporzione.

E così, per non poter soddisfare le attuali vanità e le esigenze delle donne, nonchè, soventi, le proprie, spesso fomentate non tanto dall'indole quanto dall'ambiente e dalle abitudini prese, i giovani sostituiscono agli affetti e le virtù della famiglia l'egoismo ed i vizi e gli ambienti corrotti—mentre tante ragazze, che bramano di formare una famiglia e potrebbero essere ottime mogli e madri, invecchiano in un celibato cui un'educazione che lascia tanti vuoti non le ha preparate, e che certi stolti pregiudizi sociali, che loro contendono dignità e indipendenza, rendono loro più grave.

So che il mio Gino, come s'è emancipato dalla corrente nel campo filosofico e religioso, se n'è, per conseguenza, emancipato pure in quello morale. Ma, Dio mio, quante miserie e quanti scogli non sono, specie per un giovane, in questa povera vita?—E poi, dal lato del cuore, egli comincierà presto a sentir de'vuoti che finora non ha sentiti; e se non li sentirà per ora, li sentirà più tardi, forse troppo tardi….

Non ho mai dimenticato l'impressione che m'ha fatta una volta un amico di casa nostra, che ora non è più. Aveva preso moglie quando già era brizzolato e alquanto sciupato. Era felice e adorava un suo esile figliuoletto. Ma la sua contentezza era costantemente turbata dall'idea di non essersela procurata prima, e soprattutto dalla vista dell'esilità di quell'unico bambino, e dal timore di non giungere in tempo a vederlo uomo.—“Ah! se si cercasse,” uddii che diceva un giorno alla povera zia, “di presentir questo divino sentimento paterno, non si tarderebbe, tanto a procurarselo, e non lo si comprometterebbe, prima, così miseramente!” E vidi che un penoso rossore era salito al viso di quell'uomo e che i suoi occhi s'erano riempiti di lagrime.

Li 22.—Oggi comincieremo un nuovo corso di studi…. Adesso che Valentina si va abituando a servirsi da sè e a tener le proprie cose in ordine, voglio che cominci il suo noviziato di massaia. Ho avuto per questo, ben inteso, un'altra lotta da sostenere con sua madre, la quale trovava che sua figlia non ha punto bisogno d'insudiciarsi le mani in cucina nè di scottarsele coi ferri, nè di far lavori d'ago usuali. Essa trovava che basterebbe imparasse a fare dei lavori di capriccio, da ornar la casa e far regali d'onomastico. Cercai di persuaderla che questi devono essere un di più, di cui occuparsi a tempo perduto, e dell'utilità e della dignità del bastare a sè stesse in tutte le evenienze della vita, del poter essere in casa propria, non padrone cieche e dispotiche, e perciò spesso dannose e ingiuste, ma direttrici illuminate, che possano, a seconda de'casi, fare o insegnare, econome esperte che sappiano combinare il sobrio benessere della famiglia col giusto risparmio.

La signora badava a ripetere che saran cose buone per certa gente—e sottolineava quel certa—ma che sua figlia, grazie a Dio, la quale potrà sempre tenere de'maggiordomi e non avrà mai da badare all'economia, non ne aveva bisogno. Replicai che nessuno può preveder l'avvenire—e che, ad ogni modo, intendersi dell'azienda domestica e saperla dirigere è questione di ordine e di dignità, che lo stare ciecamente in mano di servi e di maggiordomi dovrebbe umiliare una padrona di casa, che, se incapace e inesperta, manca di prestigio non solo verso di essi, ma verso i suoi, e cui, in caso di sempre possibili rovesci di fortuna, son riservati rimorsi, o, per lo meno, è negato il santo conforto di salvare la famiglia.

I pregiudizi imparati da una classe cui essa aspira di salire e la vanità offesa della parvenue impedivano la signora di lasciarsi persuadere dalle mie riflessioni. Tuttavia, non sapendo più che dire, essa cedette anche stavolta, raccomandandomi però di badare a che Valentina non si guasti nei contatti colla gente bassa e non sciupi le sue manine.—Colsi l'occasione per dirle che io piuttosto dovevo pregar lei di badare a che essa non si guastasse coi contatti di certe amiche che la nostra figliuola m'aveva descritte, e, invece di sciuparsi le manine, non si sciupasse il cuore e la coscienza.

“Come si vede che lei non è signora,” rispose, “che idee borghesi ha mai!” Una risposta sanguinosa era salita alle mie labbra—ma la offersi alla mia Valentina e mi limitai a correggere: “Vuol dire democratiche? Ebbene sì—e ci tengo. V'ha della gente che si pretende democratica perchè accarezza le passioni del popolo e se ne fa sgabello a salire—ve n'ha dell'altra che lo è veramente perchè ama e rispetta il popolo, e vuole stare al suo contatto per quello scambio d'insegnamenti che avviene fra esso e noi quando lo amiamo e sappiamo farcene amare.” —“Poesia poesia,” rispose la signora, “padroni e servi han da stare al loro posto; a noi tocca comandare, a quelli servire—lei non sa che genia di gente è—tutti ladri quando possono, ingordi, viziosi, senza cuore. Le donne poi tutte….”

Mi sentii impallidire, davanti a quella figlia di un uomo arricchito col pane degli affamati, a quella moglie d'un affarista senza scrupoli e d'un mantenitore di femmine, a quell'educatrice di un libertino—e, colla voce che, mio, malgrado, tremava, risposi: “Molti ladri, molti ingordi, molti viziosi, molti senza cuore, signora, possiamo trovarne più alto, molto più alto—là di dove il marcio cola in basso e appesta anche ciò che si serbava śano. Lascino almeno che gli onesti che rimangono stendano una mano amica in quelle bassure, e aiutino qualcuno a salvarsi o rialzarsi, e rendano meno tremenda l'ora delle rivendicazioni della giustizia!”

“Ah! una radicale!” esclamò la signora, “una radicale che ci si è introdotta in casa colla veste d'istitutrice. Almeno favorisca di non guastar la testa di mia figlia.”—“Ho gran paura che sia già guastata,” risposi sorridendo. “Infatti, Valentina è adorata da tutti i poveri che andiamo a visitare, da tutti gli umili che ora hanno che fare con lei—ed ha già cominciato a esercitare intorno a sè una buona influenza. Davvero, è ormai troppo tardi!”

L'orgoglio della mamma dominò per un momento l'egoismo della donna volgare—e sorrise di compiacenza. Poi tornò a raccomandarmi il decoro e le mani di sua figlia, e s'affrettò di là, dove aveva udito entrar la voce del senatore Baretti e della duchessa Livia di Sant'Albano.

Li 23.—Gino è arrivato, e l'ho visto a casa. M'è parso un po'più magro e più pensieroso. Cercai di farlo parlare, d'incoraggire la sua solita confidenza meco. Invano. Povero Gino, che cosa sarà? La mia fantasia lavora tutt'oggi con un certo sgomento….

Ringrazio Dio che d'una cosa, di quella che più d'ogni altra mi sta a cuore, posso stare sicura: egli non pencola.

Vigilia di Natale.—Avevo chiesto alla signora Falletti di lasciarmi passare questa sera co'miei. Era una serata delle più scure, e freddo il tramontano. Il Corso, in quell'ora de'desinari, era quasi deserto fra le due lunghe file di vetrine risplendenti, colla mostra delle grandi occasioni. Andavo in fretta, senza badarle, spinta dal desiderio del caro nido, di que'due che mi rimangono. Solo mi fermai un momento davanti Aragno, dove un bambino e una giovinetta, laceri e scialbi, guardavano nella vetrina, che la raffinata fantasia del confiseur aveva fornita di seducenti pasticcini. Gli occhi stranamente sbattuti della fanciulla, che s'erano rivolti a ringraziarmi, mi fecero passar dinanzi come una visione di desolanti squallori, d'insidie sciagurate, di vili turpitudini, di sofferenze infinite.

Erano seduti davanti il caminetto, taciturni. Durante il desinare Gino cercò d'essere lieto—cercammo d'esserlo tutti.—Ma troppi ricordi sono nella nostra vita, troppe ruine e dipartite nel nostro passato perchè questa sera che ne'paesi nostri è consacrata alle affettuose riunioni non sia ora per noi come una commemorazione di dolori.—Ma son dolori illuminati da quella grande idea che irradia coloro i quali, al ricordo di un tempo antico e, traverso i secoli, sempre presente, levano più alto il pensiero, e, fra le miserie e le lotte della vita, ascoltano le voci d'in alto che ripetono il grido che annunziò l'Aspettato: Pace in terra agli uomini di buona volontà.

E ragionammo lungamente dopo, sotto la lampada. E il papà si rasserenava, si elettrizzava ascoltando il suo figliuolo che parlava degli studi e de'lavori suoi, de'generosi propositi e delle lotte virili. Egli ha compiuto la sua emancipazione allargando le vedute della mente oltre i gretti confini che taluni vorrebbero, in nome della scienza, del cui nome abusano per esprimer concetti e conclusioni tutt'altro che scientifici, mettere allo spirito—ha ripreso a studiare senza i preconcetti e le illusioni di chi attribuisce alla mente umana il potere di trovar da sola la verità. Egli ha fatto tesoro delle delusioni e delle confessioni dei più sintetici fra gli scienziati e i pensatori, ha capito ch'è ingenuo l'attaccarsi con sicurezza ad ogni nuova teoria non confermata dal tempo e dalle prove dell'esperienza—specie quelle che riguardano la psiche umana.

Ma per far questo egli ha dovuto cominciare coll'emanciparsi da que'legami che alla mente, al cuore, alla coscienza, mettono le passioni; ha dovuto lottare con altrui, e più ancora con sè stesso, per conquistare quell'indipendenza interiore senza la quale non v'ha pensiero nè virtù sicuri. Lotta strenua e fiera, specie in questo tempo di disorientamento, di conflitti di teorie e di egoismi, tempo nel quale, spesso, ciò che par rigoglio di vita è galvanismo in qualchecosa che si decompone, mentre invece vive veramente ciò che soffre, e cerca, e lotta, e prepara.

Un resto di fiamma nel caminetto illuminava la pallida e serena figura del papà, la barba nella quale rimane appena qualche traccia del biondo d'un tempo…. e la testa bruna di Gino, viva di giovinezza virile. Io avevo appoggiato il capo alla spalla di questo, ed entrambi alla nostra volta ascoltavamo nostro padre rammentare il forte passato e l'epopea della prode giovinezza sua, da Quarto al Volturno. E sentivamo nell'anime nostre passare un soffio d'aria ossigenata, un alito di calore vivificante. E santi ideali, e memorie di forti, e tenerezze d'intimi rimpianti ci facevano guardare a lui che ci rimane, e pensare agli assenti che non tornano, ma aspettano…. E unità di affetti, di propositi e di speranze, ci facevano stringere l'uno all'altro, mentre, da una chiesa di là dal Fôro, veniva suono di campane. E tacevamo, ascoltando—e il pensiero andava a ritroso del tempo—e traverso le nebbie e i bagliori del presente vedeva emergere, mite, grande e serena, la figura del Martire divino—e l'anima ascoltava la voce che da venti secoli ripete al mondo e ad ogni cuore umano: Venite a me.

Natale.—Stamani Valentina ed io siamo andate a Sant'Andrea delle Fratte sul far del giorno. I lumi sull'altare brillavano nella penombra. Una luce pallida che scendeva obliqua dalle finestre, in alto, illuminava le pagine del nostro libro, sul quale seguivamo le parole scritturali, magnifiche, che la Chiesa ha scelto per le tre Messe d'oggi.

«Perchè è corso un fremito nelle nazioni?—Che i cieli esultino, che la terra si scuota dinanzi al Signore: giacchè Egli viene.—Il Padre t'ha detto: Innanzi che fosse la stella del mattino io t'ho generato.—La luce oggi brillerà su di noi, perchè ci è nato il Signore; e sarà chiamato l'Ammirabile, Dio, il Principe di pace, il Padre del secolo futuro, il cui regno non avrà fine.—Rallegrati, figlia di Sion: canta dei cantici, figlia di Gerusalemme; ecco che viene il tuo Re, il Santo, il Salvatore del mondo.—Il Signore ha mandato il Salvatore che aveva promesso; ha rivelato la sua giustizia dinanzi alle nazioni. Alleluia! Un giorno santo ha brillato su di noi; venite nazioni, e adorate il Signore; perchè oggi sulla terra è discesa una gran luce.»

E quello splendido inizio del vangelo di Giovanni: «In principio era Verbo»—meraviglioso compendio della genesi del mondo e degli eterni destini—e il semplice racconto de'pastori, i primi chiamati ad adorar l'Aspettato. Poveri ed umili che, come la prescelta vergine ebrea aveva esclamato nel suo cantico di giubilo: «Ha abbassato dal trono i possenti ed ha esaltato gli umili,» eran destinati ad essere al mondo quali un emblema della legge nuova di giustizia e d'amore.

Uscendo di chiesa prendemmo una botte per andar a fare il nostro giro di visite del mattino, ma più lungo del solito. In un'altra vettura ci aspettava la Marianna, colle strenne che Valentina recava pel Natale. Essa la aveva acquistate colle sue economie, giacchè la mesata che, in seguito a molte preghiere, ha ottenuto dal padre per la beneficenza è assai meschina, e deve prender quasi tutto su quella, di molto maggiore, che le era assegnata «pei suoi capricci.»—Io ne son lieta, chè così può tanto meglio verificarsi in lei il bene che la carità fa a chi l'esercita più ancora a volte che a chi la riceve—poichè l'anima vi si tempra al dominio di sè, alla sobrietà, ai sacrifizi.

E così, a forza di tante piccole rinunzie, la mia bambina era riuscita a mettere insieme parecchi vestiti pei più pezzenti fra i nostri poveri amici, parecchi capi di biancheria per gente che non aveva da mutaris, e lenzuola e coperte per letti che non ne avevano, e anche un letto, per dividere quelle due famiglie che dormivano ammucchiate in uno; e medicine pei nostri malati, e alcuni buoni libri, e alcune buone immagini, che confortano e innalzano un po'l'anima di quelli che ormai altri amici educano solo allo scetticismo, al vizio, all'odio. Ed essa vi aggiunse qualche promessa di lavoro, di raccomandazioni, e i buoni consigli e le buone parole che rialzano e rasserenano, che fanno sentire, anche assai più che nel dono materiale, la fratellanza cristiana. E ci fu festa e gioia e lagrime di contentezza, e benedizioni energicamente espresse, in parecchie camere squallide, cui eravamo salite per lunghe scale leggendo sulle pareti: Viva l'anarchia—Viva la dinamite.

Era già quasi mezzogiorno quando scendevamo l'ultima scala, in una casa di via Tasso, dove le scritte erano più numerose, e sciami d'altri miserabili si vedevano o si udivano dai pianerottoli in poveri interni, ed uscivano donne e uomini a supplicarci di entrare anche da loro, di procurar lavoro, disperati nell'inedia com'erano, quali da settimane, quali da mesi….

Valentina si stringeva a me desolata per non poterli consolare, impaurita per quelle scritte, e mi chiedeva: “Ma perchè i signori non vengono a vedere? Se tutti vedessero, troverebbero rimedio! E questi non iscriverebbero più quelle brutte cose!” E mentre risalivamo nella vettura, e uno sciame di bambini sudici e seminudi ne'cenci brulicava intorno, nel fango della strada, seguitava: “Uccidere e distruggere è sempre delitto, non è vero?”—“È sempre delitto,” risposi; “ma il maggiore dei delitti lo commette chi distrugge nel popolo la fede e la virtù, e lo uccide coll'esempio dell'ingordigia e de'vizi, e, dopo averlo affamato e piagato nel corpo e nell'anima, gode e dimentica.”

I grandi occhi grigi di Valentina si fecero più grandi nel viso pallido. “E che avverrà?” chiese.—Da Santa Maria Maggiore, da San Giovanni in Laterano, da altre chiese, più lontane, giungeva suono di campane festanti. “Senti?” risposi. “Esse ripetono l'annunzio e la chiamata degli angeli ai poveri pastori…. Prega, prega, figliuola, perchè in un tempo non lontano il mondo ascolti un'altra volta la gran voce di giustizia e d'amore.”

Quando scendevamo alla prota di casa le signore Falletti rientravano nel loro coupé dalla Messa ultima di San Marcello. Erano in gran gala, e tenevano ciascuna un librettino di preghiere legato in avorio. Salendo insieme le scale—chè l'ascensore è in riparazione —presi di mano il suo alla signorina. Era uno de'soliti libretti insulsi, con alcune di quelle egoistiche preghierine stereotipate e qualche bigotta divozioncina.

A colazione, benchè si fosse noi pure in ritardo, il commendatore e il signor Alberto si fecero aspettare. Il primo veniva dallo studio, l'altro dalla sua camera, chè s'era alzato allora. Era più stanco e pallido e malumorato del consueto. Valentina gli chiese dove fosse stato la sera prima. Egli parve turbarsi, e si affrettò a parlar d'altro.—Subito dopo colazione egli riuscì, il commendatore tornò in ufficio, le signore andarono a mutare toilette per recarsi, più tardi, a villa Borghese.

Valentina ed io andammo dai Maren, che ci aspettavano per una passeggiata da fare coi miei, e riuscimmo tutti insieme. Letizia non permise che alcuno de'suoi rimanesse a tenerle compagnia. “Non resto sola,” diceva con quel suo sorriso d'angelo. E posava la povera mano scarna sul libro frusto che tiene sempre sul tavolino accanto alla sua poltrona—il Libro della vita.

Incontravamo la gente a frotte, e in folla le carrozze e le botti che s'avviavano verso i luoghi più frequentati—i più eleganti al Pincio e a villa Borghese, i popolani alle osterie di ponte Molle e di via Nomentana. Ma non era, in quella apparente festosità, nulla della solennità della giornata, nulla di gaio. Un trionfo di vanità da un lato, d'intemperanza dall'altro—di assenza di pensiero, di assenza, soprattutto, di ricordi.

Noi ci eravamo diretti verso il Campidoglio. Salimmo a casa mia, dove i miei ci aspettavano, e con loro proseguimmo al Palatino. I due anziani sedettero all'ombra degli elci dal lato del Circo Massimo, in faccia all'Aventino, Gino e Francesco passeggiavano ragionando de'loro studi lungo lo stadio di Domiziano, Elena ed io andavamo errando fra gli alberi e le rovine, dove i nostri quattro folletti si rincorrevano. V'erano pochi altri—qualche forestiere colla guida, qualche prete che leggeva il breviario, un collegio di fanciulle che ballavano una ronde sotto gli alberi che coprono la casa di Caligola. La giornata era splendida, sereni i lontani orizzonti. E una gran pace era su quel teatro del rovesciato dispotismo imperiale, accanto a quell'arena dove caddero i martiri della nuova idea.

Stasera v'erano a pranzo gli amici scapoli che frequentano la sera. Pranzo prelibato, con un menu dei più solleticanti—pesci a caccia e specialità di leccornie fatti venire di fuori, profusione di vini e di liquori esteri, frutta esotiche e dolci di Torino.—I due commendatori, tuttavia, erano piuttosto foschi d'umore; il deputato Lupi, quello che Valeria, l'altra sera, mi dipingeva come un affarista influente, era pieno di gentili premure verso la signora del suo anfitrione; l'avvocato Marini, che sta lavorando in molti cuori e tentando molte borse di elettori in non so quale collegio vacante, era tutto brio e facondia, e l'avvocato e professore Barducci, l'amico del signor Alberto e il suo mentore scientifico, faceva cattedra della sua seggiola di convitato.

Verso la fine del pranzo, in onore del Natale, tutti s'erano più o meno elettrizzati—perfino il signor Alberto aveva galvanizzato la sua stanchezza fin de siècle. Era Natale, e perciò conveniva riunirsi, conveniva mangiare e bere più intemperantemente e raffinatamente del solito, e magari, dopo, andare ad assistere a uno spettacolo licenzioso e vuotar tutto il calice de'così detti piaceri. Della commemorazione del maggiore degli eventi che registri la storia, della pacata sublimità della festa cristiana, della poesia affettuosa della riunione domestica, della lieta sobrietà, della carità fraterna che, ne'suoi inni alle feste di Cristo, inspirava il poeta lombardo, che è rimasto?

Quando il desinare fu terminato, i due commendatori s'avviarono alla sala parlando di nuove speculazioni bancarie e del pericolo di riforma che corre, per le nuove tendenze sociali, il sistema tributario; il deputato Lupi, carezzandosi il ben pasciuto stomaco, rimpiangeva la tassa del macinato, il candidato Marini inveiva contro i disoccupati, asserendo che il lavoro non è un diritto e si formalizzava della fame…. pardon, delle esigenze di quella gente. L'avvocato professore Barducci, invece, protestava facendo magnifiche dichiarazioni umanitarie. Poco importa, infatti, se, colle sue teorie che negano il libero arbitrio e tolgono l'ideale e la fede, egli incoraggia tutte le passioni dell'egoismo d'in alto e d'in basso…. Non è necessario d'essere cocrenti—basta declamare e farsi innanzi nel mondo.

“Valentina,” dissi quando fummo in sala, “come vogliamo passare la nostra serata di Natale?” Essa rispose piano: “Audiamo disopra.” Ci accommiatammo fra saluti distratti. Solo, m'avvidi che la signorina Elisa ci seguiva con uno sguardo profondamente triste, come di chi si sente rimanere isolato nella folla. Conto su quello sguardo.

Faceva un po'freddo disopra, in confronto degli ambienti abbasso, riscaldati, oltre che dal calorifero, dal gas e dalle vivande. Accesi la lampada in mezzo alla nostra gran tavola da studio. Avrei voluto rallegrarla la mia figliuola, farle passare una buona serata, compensarla un poco di quella triste mancanza di serena intimità domestica ch'essa forse inconsciamente sentiva. Ma era distratta e pensierosa; non voleva far nulla, neppur leggere nel suo libro di novelle. Mi attirò sul sofà, e posò il capo sulla mia spalla, senza parlare.

“A che pensi, Valentina?” chiesi. “Non so bene,” rispose. “Penso a tante cose.” Tacque un po', poi riprese: “Dovrebbe esser così bella la sera di Natale! Ha visto nel mio libro che bella descrizione di un albero, con tanti lumi e tanti doni per tutti, e tante cose pei bambini dei poveri…. E tutti, la famiglia, i domestici, i poveri, che prima leggono il Vangelo della Messa della notte: «In quel tempo comparve un editto di Cesare Augusto,» e poi pregano per tutti, e poi fanno festa intorno all'albero e stanno tanto allegri!”

Un ricordo lontano ormai e considerazioni dolorose m'avevano stretto la gola, e non risposi. E mentre si stava entrambe in silenzio, s'udiva per la strada uno sguaiato vociar d'ubbriachi, e grave disordinato trascinar di piedi, e suoni ributtanti. “Anche quelli festeggiano il Natale,” disse Valentina.—Ed io pensava all'inconscia terribilità di quell' anche che ravvicinava i due Natali del povero e del ricco—questo, nel suo smemorato volgare scetticismo e nel suo fasto egoistico anche più riprovevole di quello sudicio del popopolo ignorante c tradito.

“Valentina,” dissi, “non voglio tu sia triste la sera di Natale. Suoniamo il nostro pezzo a quattro mani!” Ma essa non si mosse.

Singolare tempo questo, nel quale anche le anime giovinette, ove non sieno volgari, son prese da gravi pensieri, confusamente presentono qualchecosa che si prepara.—Dopo un altro silenzio Valentina mi guardò: “Signorina,” disse, “stamani in via Tasso lei mi ha detto di pregare per tutti…. Preghiamo!” E si alzò rapidamente, e andò ad inginocchiarsi davanti alla tavola da studio, in faccia a Cristo.

Io tardai un momento a mettermi accanto a lei, per guardare la mia figliuola in quell'atto, con quel pensiero.—E mi pareva di riudir la voce della signora Falletti quando, in quel giorno, osservando quel crocifisso, ed esprimendo un concetto molto molto comune, aveva detto:” Sa…. potrebbe dare un'aria clericale; e conviene andare col progresso.”

Li 27.—Oggi Valentina ed io abbiamo avuto a tavola il nostro menu a parte. Era una cosa che avevo mediata fin dai primi giorni; ma, sicura com'ero che non sarei stata intesa nè esaudita, avevo voluto attendere di far penetrare il mio concetto nell'anima della mia allieva, perchè fosse lei a chiedere la riforma.

Convinta che, generalmente, i ricchi, e anche i benestanti, mangiano, non solo troppo delicatamente, ma troppo—troppo pel corpo, troppo per l'anima, e troppo, soprattutto, in presenza della grande questione di umanità e di giustizia che finalmente s'avanza, non ho avuto bisogno di far molte parole per persuaderne pure Valentina. Per la questione della giustizia son bastate poche visite ai poveri; per quella dell'igiene fisica e morale è bastato farle intendere semplicissime dimostrazioni fisiologiche e un ideale di dignità e di forza che non può andare disgiunto dalla semplicità e la sobrietà della vita.

Ho scelto, per farle la mia proposta, la sera stessa di Natale, dopo che ci eravamo rialzate da quella preghiera: ed essa abbracciò l'idea coll'entusiasmo proprio della sua età e della sua natura. Entusiasmo che, naturalmente, si fiaccherà chissà quanto nella lotta quotidiana—tanto più che, la riforma essendo limitata a noi due, le toccherà la pena di Tantalo d'aver sempre sotto agli occhi ciò che seguiteranno a mangiare gli altri.—Ma meglio così: sarà un mezzo di più per abituarla alla lotta, a quel dominio di sè che ormai s'insegna così di rado a questa povera gioventù che ci si studia d'infrollire in tutti i modi, come se già non fossimo abbastanza fiacchi, abbastanza malati.

Quando Valentina ne parlò a sua madre è stato il finimondo. Io credo che la signora Falletti temette d'aver affidato sua figlia ad una matta fuggita dal manicomio. Si rivolse tosto al marito, addirittura sgomenta. Ma questi, per fortuna, è sempre tanto preoccupato de'suoi affari che considera il resto delle cose di questo mondo come indifferenti, degne tutt'al più d'un suo sorriso distratto. Perciò rispose alla moglie di non guastarsi il sangue per queste sciocchezze; essere poi un'ingenuità il credere che sapremmo resistere a lungo alla tentazione d'una buona tavola.

“Ma intanto son capricci!” insisteva la signora. “Me ne hai passati tanti finora de'capricci,” saltò a dire la figliuola, “che me ne potrari passare uno di più.“—”Ma quelli eran capricci da bambina!” rispose, con fior di logica, la madre. “Già,” replicò la figliuola, “e questo è un capriccio da persona seria: credevo dovesse esser migliore di quelli!”

La risposta era forte, ma era stata mitigata da quell'inflessione di voce ingenua che ha sempre Valentina. Perciò nè io la corressi (come m'avrebbe pesato sato correggerla mentre dava prova di carattere!), nè la madre s'irritò contro di essa. Invece si rivolse a me, dicendomi che non capiva perchè volessi dare a una Falletti—e pronunziava il nome colla voce grossa —abitudini meschine. “Capisco che una che non era abituata.…” aggiunse in aria di compassione.

Li 28.—In questi giorni avevo sempre cercato un'occasione per dire alla signorina Elisa qualchecosa di quel che pensava circa l'influenza ch'essa potrebbe esercitare sul fratello; ma il momento opportuno non s'era peranco presentato. Stamani, quando entrai in sala, m'accorsi che i due fratelli troncavano bruscamente una discussione la quale, a giudicar dal tono delle voci e dall'espressione amara rimasta sui loro visi durante tutto il tempo della colazione, doveva essere stata alquanto aspra.

Stasera, rompendo per la prima volta il riserbo finora mantenuto meco, la signorina mi disse, tutta agitata, che suo fratello è uno scettico e un libertino, che ne lo aveva rimproverato, che lui aveva accolto male le sue parole, e che avevano finito con dirsene di tutti i colori. “Ti sta bene,” disse la madre; “non hai voluto badarmi, ti sei voluta immischiar di cose nelle quali non hai che vedere. Io sono sempre stata in pace coi miei fratelli perchè badavo ai fatti miei e non istavo a seccarli.”—La figlia rispose che s' era sempre ingerita troppo poco dei fatti di suo fratello, tanto più che non se ne occupava lei, madre, cui il farlo toccava soprattutto. “Oh! Signore,” replicò la saggia mamma, “che ingenua che sei! Uomini sono, giovinotti; e hanno diritto di pensare e di fare come loro pare e piace e di godersi la vita.”—“Chiami un diritto,” rispose la figliuola, pallida di sdegno, “affermare cattivi principii, degradarsi e rovinar sè e altrui! Dica lei, signorina,” aggiunse rivolgendosi a me, “se non ho ragione.”

La madre, seccata da quell'interpellanza, e più ancora, forse, per sentirsi a corto d'argomenti, s'alzò e passò di là. Io risposi alla figlia ch'essa aveva perfettamente ragione, ma che temevo non avesse scelto bene i mezzi, avesse usato di quel modo che non persuade perchè ferisce—che temevo, invece di farsi, toccando il cuore di suo fratello, di quello un alleato, si fosse fatto, urtandolo, un avversario del suo amor proprio, “C' è una canzonetta veneziana,” aggiunsi, “che udivo cantare, quand' ero bambina, da una mia zia e dice:

L'omo, perdia, xe un anzolo, Basta saverlo tor.

Non direi che, generalmente parlando, l'uomo sia un angelo—francamente no: ma ch'esso sarebbe in tutto molto migliore se noi donne lo savessimo tor, questo sì, e lo dico per esperienza.”—“Ah! vorrei che ci si provasse lei,” replicò la signorina; “io so che appena apro bocca lui si ribella ed è il primo ad offendermi.”

Io tacqui per un momento, guardando il viso irato della fanciulla. Poi le chiesi se suo fratello si sentiva da lei amato. Essa parve meravigliarsi della mia domanda. “Eh! diamine,” rispose, “son sua sorella! è naturale gli voglia bene.”—“Conosco molte sorelle,” dissi, “che vogliono bene ai fratelli per convenzione, per abitudine, per la parziale comunanza della vita; ma che non sono punto le amiche dei loro fratelli, e che questi vedono sempre pronte a dimenticar quell' affetto e la sua soave missione per altre cose che le distraggono, e fors'anco.… le rendono irrequiete ed aspre.”

La signorina arrossì leggermente e rotolava con una certa nervosità intorno alle dita l'estremità d'uno de'suoi nastri. Capii d'averla offesa toccando nel vivo; e volli rimediare dicendo che non credevo fosse questo precisamente il caso suo, ma che supponevo essa, per la sua poca espansività, non dimostri al fratello tutto ciò che per lui sente, e non abbia creato fra essa e lui quell'intima amicizia delle anime che prepara la donna ad esercitare la sua buona influenza, vale a dire migliorare confortando.

“Io,” seguitai, “ero caduta dapprincipio nello stesso errore col fratello mio; ma l'esperienza m'ha insegnato che noi donne non dobbiamo mai scompagnar l'idea di elevare da quella di confortare. Non dobbiamo presentare all'uomo nè la religione nè la morale come doveri aridi, penosi, tristi—dobbiamo far sempre balenare qualchecosa che irradi, qualchecosa che incoraggi ritemprando, qualchecosa che metta nel cuore la speranza e il sorriso. E invece di fare all'amor proprio degli uomini di quelle offese che li fanno irritare e rinchiudersi, servirsi di quello stesso amor proprio per far loro sentire, sfatando i comodi e immorali pregiudizi invalsi, di quanto le nostre dottrine filosofiche e religiose, e le leggi di vita che ne derivano, innalzino l'uomo e lo facciano libero e forte.—Dobbiamo non predicar mai; ma ragionare con serenità spassionata; e, più che parlare, esercitare la tacita ma continua influenza della dignità e della carità della vita cristiana, cercar di procurare, nascondendo un po'la nostra mano, conoscenze, letture, occasioni che ci aiutino, che creino l'ambiente —l'ambiente del quale ora tanto, e a ragione, si parla, per la possente influenza che esercita sull'individuo. E sempre, e soprattutto, dobbiamo amare—e saper aspettare dal tempo e da Dio ciò che ben di rado si ottiene prontamente, che mai si ottiene senza l'aiuto di Lui.”

La signorina Elisa era pensierosa, e un poco commossa. Pareva pensasse a molte cose e non le sapesse o volesse dire. Intanto il fratello fece per entrare. Quando ei vide in intimo colloquio si fermò come seccato e un'ombra passò sul suo viso. Tuttavia volle fare il disinvolto, e riprese a farsi innanzi; ma senza guardare la sorella e rivolgendo a me alcune banali parole qualunque. Essa pareva contrastata tra il desiderio di far la pace e la ripugnanza a fare il primo passo. Io, senza parere, le tirai un poco un lembo della veste e, con un pretesto, feci per allontanarmi. Ma il giovanotto, che certamente paventava un nuovo tête-à-tête colla sorella, e forse supponeva questa, dopo il colloquio avuto meco, anche più agguerrita, ne trovò uno alla sua volta per trattenermi.

E intanto lei, che aveva superato la sua piccola lotta intima, noncurante, nell'entusiasmo della vittoria, della presenza mia, gli aveva buttato le braccia al collo. Lui, sorpreso e confuso, rimase per un momento interdetto; poi un rossore vivissimo sali al suo viso e gli occhi gli si gonfiarono.… E stava per baciare in viso la sorella quando, con un altro rapidissimo movimento, rialzò la bocca e la posò sui capelli di lei.

E mentre uscivo di là io pensava come in quell'atto, quasi istintivo, di delicata riverenza, erano un'umiltà nuova, una tacita confessione.

Li 29.—Stamani, prima di colazione, trovammo abbasso madre e figlia di pessimo umore. Iersera ha avuto luogo un ballo al Circolo degli Artisti, e la signorina aveva fatto uno studio speciale di toilette. Con quella toilette, che avea subíto varie vicende e non andava mai bene ed era stata una preoccupazione di settimane, la povera ragazza aveva aspirato, se non altro, alla soddisfazione di veder figurare il suo nome in qualche cronaca di giornale, preceduto o seguíto da qualcheduno di quegli aggettivi paradisiaci dei quali son così prodighi i cronisti de'balli.… E il nome è venuto, in tre giornali—come si fa a dimenticare il nome di certe potenze? ma, così, seguíto da un semplice stupido «in rosa», misto a qualche altro nome, in fine!

I giornali erano là, spiegazzati, uno sur un tavolino, uno sul sofà, uno in terra. La signorina si asciugava qualche lagrimuccia dagli occhi sbattuti dalla veglia; la signora era agitatissima. “Pare impossibile,” gridava, “tanti epiteti, tante descrizioni, tante estasi per quelle pettegole di quelle Laurini, che avevano un vestitino di tulle da due lire al metro! E quella goffa Bellani, senza grazia, senza spirito; e quell'aristocraticona di quella Teodoro, con quella ciera di tisica e quella toilette da sfacciata! E quelle eterne Settimi, la presenza di Dio, che non si può prendere un giornale in mano senza vederle nominate! E quelle.…”

E mentre la saggia mamma seguitava a snocciolare i suoi apprezzamenti benevoli, io cercava ansiosamente un pretesto per mandar via Valentina; e le parlavo forte, in fretta, accompagnandola alla porta. “E dire che questa qui,” seguitava, “era una delle più ammirate! stava d'incanto. Avesse visto il marchesino.…” La signorina interruppe la madre arrossendo, con uno sguardo nel quale era gioia e timore. “Eh! che importa? già si può dire ormai! Sa, signorina, c'è il marchesino di Soría che ha fatto ad Elisa una corte spietata. Due balli in giro e una quadriglia.… L'ha osservato anche Maria Fiorelli, che ne fremeva, perchè colla sua non ha fatto, dopo, che il cotillon; e ha tre anni più della mia, e non ha quel visetto, e il padre.… si dice che sia sconcertato. A proposito, Felice,” disse al marito vedendolo entrare, ormai distratta dall'idea che la preoccupava più che non volesse far apparire, di quella possibile rivale, “non è vero che Fiorelli è in cattive acque?”

Li 31.—La famiglia abbasso è andata al teatro per aspettar l'ora della cena di mezzanotte. Valentina s'è coricata. Nella casa in faccia odo musica da ballo—per la strada passano vociando frotte di gente.

Oggi Valentina ed io siamo andate fuori porta Salaria, alle catacombe di Priscilla. La giornata era splendida, la campagna ondulante sotto il sole nella sua gran pace di deserto magnifico. Sui monti della Sabina era candore di neve, che guardavo con nostalgica brama.

Nel laberinto buio, consacrato alla memoria di lei che dell'apostolo delle genti fu, collo sposo suo, Aquila, amica operosa, s'inoltrava una processione di gente varia, che cantava le litanie dei santi. Era una serie di nomi antichi, d'uomini e di donne, che là sotto scorreva echeggiando—nomi d'apostoli e di penitenti, di martiri della grande idea che procede nei secoli. E negli antri tenebrosi dove l'idea fervette, aspettando —combattendo coll'amore, trionfando col sangue,— tumultuanti visioni di Roma pagana mi passavan dinanzi, e fasto d'infami tirannie, e fantasmi di corruzioni sfrenate.… E nella mente mi tornava quanto Pietro Cossa, nella Messalina, fa dire a Silva, l'etèra:

……Era l'allegra festa Dei Saturnali, il giorno novo aggiunto Da Claudio; ovunque pubblici bauchotti E un correr pazzo, ed alte grida. Ad arte Mi tolsi dalle mie compagne, e sola, E dosvïata per sentieri ignoti, Senza volerlo, uscii fuor de la porta Capena. Il sol cadeva, e la quïote Si diffondea sulla campagna, mesta Per quella lunga riga di sepolcri, Quando mi colpì l'eco di loutano Canto; parea venisse di sotterra, Lento, solenne; e, come in quoll'istanto Fossi condotta da invisibil mano, Giunsi, e discesi nel misterïoso Loco. Un antro; pareti umido, e scarsa Lampa svelava con la luce tetra Gente in ginocchio innanzi ad una croce. Vinta da reverenza, io pur chinai La fronte; e allora sorse in piedi un uomo. Candida come neve avea la veste, E cominciò a parlare annunzïando Che i poveri e gli oppressi sono cari Al padre ch'è nel cielo, che i superbi Cadranno umilïati, e che la legge Nova è la carità che tutti abbraccia Nel suo bacio divino.

La processione s' era fermata, e aveva sciolto l'inno di grazie. Eravamo accalcati in un trivio basso, serpeggiante in pendío—sacerdoti, suore di carità, contadini, stranieri del nord, alcuni bruni frati orientali—e cantavano uniti: Salvum fac populum tuum, Domine.— Ed io dimenticava d'unire alla loro la mia voce, pensando al gran sogno di giustizia e di pace… E tutta l'anima mia ripeteva: Signore, fino a quando?

Avevano terminato, si riallontanavano. Valentina ed io eravamo rimaste sole, col lume che all' entrata m'avevano pôrto. Lo diedi ad essa. “Reggilo,” dissi, “e pensa alla lampada che dobbiamo tener accesa sempre, fino al dì della chiamata.” Essa era pallida e mi guardava in silenzio. Poi, osservando le ossa sparse ne'loculi aperti: “Poveri morti!” disse. Io scossi il capo. “Beato,” risposi, “chi muore per una grande idea—e chi per essa, pur lottando e soffrendo, vive.”— Essa, come per uno slancio di volente entusiasmo, alzò il lume, e vidi che gli occhi suoi s'erano riempiti di lagrime. Baciai la fronte della mia figliuola, e dissi: “Avanti!”

Fuori, sulla campagna dianzi radiosa sotto il sole, nubi s'addensavano all'orizzonte, salivano, scorrevano col vento.

È battuta, ora, mezzanotte. Qua in faccia seguitano a ballare, seguita per la strada il vociare intemperante; i convitati, abbasso, alzeranno ora i bicchieri.

Alla signora Falletti faceva malinconia, diceva, l'idea che la sua Valentina stavolta non cominciasse l'anno allegramente—le pareva di cattivo augurio. “Non tema, signora,” risposi, “ben altre e meno illusorie arre di letizia cerco di preparare per l'avvenire della sua Valentina.” Essa non capì.

Sì, comincialo pure dormendo, figliuola, l'anno novello —ripara nel sonno le tue giovani forze perchè il mattino ti trovi forte e serena, perchè ti trovi pronta. Sarà più tardi che in questa notte veglierai.—Più tardi, chè allora avrai un passato cui ripensare nel silenzio, ideali e memorie cui chieder lume e forza per l'ignoto avvenire.

Li 2 Gennaio.—Benchè egli non me n'avesse detto nulla, capivo che il signor Alberto, dopo la soluzione della sua scena colla sorella, mi era riconoscente per ciò che aveva indovinato. L'indomani colse una piccola occasione qualunque per usarmi una cortesia. Ho apprezzato assai il suo sentimento: vi son certe anime rachitiche cui riesce così grave dovere altrui della gratitudine che a far qualchecosa per esse ci si guadagna invece la loro antipatia.

Finora egli s'era sempre tenuto meco in grande riserbo: in sul principio per indifferenza, dopo, io credo, per un certo timore della severità de' miei principii—timore forse giustificato dal modo meschino, partigiano, aspro, col quale il principio religioso e morale gli sarà stato finora esposto. Ma l'altra sera m'ero accorta che, mentre io rispondevo a sua zia, egli ascoltava con rispetto le mie parole; e quantunque, come ebbi ben presto campo di avvedermi, non lo avessero scosso menomamente, gli avevano, se non altro, inspirato una certa fiducia in chi le aveva dette.

E stasera, invece di andare nel fumoir per poco dopo uscire, come suole, egli venne in salotto, dove stavo sola, mentre la madre e la signorina Elisa si preparavano pel teatro, e Valentina—per un mutamento d'orario della maestra—prendeva la sua lezione di pianoforte; e si sfogò meco a proposito di una scena che, prima di pranzo, aveva avuto disopra dalla zia.—Questa lo aveva fatto chiamare con un prestesto, ed egli s'era trovato di fronte nientemeno che il padre Fabio; e fra tutti e'due, coll'infelicissima scelta di mezzi che sogliono fare quelli che non intendono Cristo nè la sua legge, gli avevano parlato allo scopo di «convertirlo.» E di quella conversazione era rimasto nell'animo del giovane un misto di acredine e d'ilarità.

Indi, abbandonandosi nella sua poltrona, col capo rovesciato sulla spalliera soffice, cominciò a parlare del «pregiudizio religioso» delle «cose finite» dei trionfi della scienza positiva. E sorrideva colle labbra anemiche, e gli occhi, ombrati di stanchezza, si socchiudevano con una certa posa di scetticismo vanitoso.

Egli certamente si aspettava a una predica, o una vivace protesta. Ma ebbe a rimaner disingannato. “Lei è molto giovane,” risposi. E, mentre volgeva un po'il capo guardandomi, vedevo ch'egli incontrava con meraviglia un mio sguardo indulgente. Poi disse, con una certa sicurezza orgogliosa: “Lei crede che cogli anni io muterò parere? Spero che seguiterò a pensare col mio cervello!”—“Ed io,” risposi sorridendo, “spero ch'ella in seguito penserà col suo cervello anche più che non abbia fatto finora—con un cervello fattosi all'esperienza e aiutato dall'anima.”

“L' esperienza?” disse; “ma se è il nostro sistema!” —“Si,” risposi, “ma un' esperienza parziale, che s'isola in campi separati, chiusi, dai quali non si può abbracciare alcun insieme, nei quali nessuna sintesi è possibile—campi ne'quali lo studioso rimane mutilato perchè vi è mutilato l'uomo. Vi son regioni dell'anima e della vita cui il cervello da solo non arriva: esso ha bisogno di due ali possenti—il cuore e la coscienza. E la vita, la vita vera, fa il resto; qualora dinanzi ad ogni lume di verità non sorgano nebbie di passioni.”

Egli girò l'argomento insistendo sulle grandi e molte e indiscutibili conquiste della scienza sperimentale. “Non so,” risposi, “se si debba invidiare o compiangere quelli che di tutte queste conquisto si sentono tanto sicuri…” E sorrisi mio malgrado.—Egli mi guardò come chi dicesse: Che ne sapete voi? il vostro cervellino femminile non ci arriva; la scienza è nostra. Indi si fece ad espor le sue idec di positivista con brillante facondia di ragionamento, con sottigliezza di sofismi, con sentenze trionfanti.

Non volli compromettere la gran causa cui ho votato l'anima e la vita mie con confutazioni scientifiche e filosofiche che, a cagione della mia ignoranza, sarebbero state affatto insufficienti; e glielo dissi, e dissi che ben altri potrebbe rispondere ed ha risposto e risponde a tutto codesto, con forza di argomenti non solamente scientifici e filosofici, ma storici e morali. E che d'altronde, per poco uno segua le evoluzioni della scienza, vede che sarebbe ingenuo credere ogni sua affermazione sia verità, ogni sua negazione sia per essere confermata dall'avvenire. “Il maggior nemico della fede,” dissi, “non è la scienza che cerca, ma il falso orgoglio che rifiuta a priori, la grettezza delle analisi circoscritte, che inaridiscono l'anima e la fanno miope—sì che male afferra la natura della fede e le vicende della scienza. Nel tempo infinito della verità un secolo è un'ora—e le vicende sue son passi, ora innanzi ora indietro, di qua, di là, quali illuminati, quali nella nebbia, tentoni; mentre la fede, immobile nella luce degli eterni ideali, aspetta e confida.”

M'ero fermata, guardando il giovane pallido, che s'era riabbandonato, inerte, nella sua poltrona. “Felici quelli che credono e aspettano!” disse con un sorriso che, più che d'invidia, pareva d'orgoglioso compianto. “Ma la scienza, per evoluzioni che faccia, non potrà che sempre più abbattere le fantastiche illusioni del misticismo.”

Scattai. “Misticismo?” dissi. “Per voi tutto ciò che non striscia terra terra, tutto ciò che non si lascia triturare dal coltello anatomico, decomporre in una storta, vedere, toccare e fiutare, è frutto di fantasia, morbosa visione di misticismo. Per voi il mondo è un fenomeno di auto-creazione, l'uomo una specie di macchina che si smonta e si esamina, minutamente, tranquillamente. Voi sapete, voi spiegate.… Beati voi! Peccato solamente che, nelle vostre esattissime notomie, dimentichiate qualchecosa—non vi avvediate cioè nè dello spirito del mondo nè del nostro; peccato che, nell' entusiasmo per la vostra scienza positiva, siate cosi distratti da non vodere che, eliminando Dio perchè incomprensibile, si erigono dei sistemi molto più incomprensibili e, in nome del positivismo, si cade nel fantastico—così poco positivi da non capire che questa povera umanità che tanto studiate è composta di qualchecosa di più degli elementi da voi constatati, è retta da leggi interiori spesso molto diverse da quelle da voi affermate, ha bisogno di qualchecosa di meglio dello vostre teorie.”

Egli m'aveva lasciata andare fino alla fine; ma le mani nervose stringevano i due bracciali, le narici fremevano, gli occhi brillavano nel viso che s' era insolitamente acceso. “Ella calunnia il nostro sistema,” esclamò poi; “noi non siamo nè assolutisti nè esclusivisti; solo non ammettiamo oltre certi limiti affermazioni d'alcun genere; e credo noi siamo più onesti e saggi e modesti di voi credenti, che avete la presunzione di sapere e l'ardimento di affermare cose inaccessibili e indimostrabili.”

“Sì,” dissi, “inaccessibili al solo cervello, indimostrabili da esso e ad esso, ove sia solo. Ma l' uomo non è composto di solo cervello—voi positivisti troppo spesso dimenticate ch' esso ha altresì, lo ripeto, il cuore e la coscienza; ed è perchè studiando vi mutilate che vi risulta mutilato l' uomo e il mondo vi appare un fenomeno meschino e in molte parti muto.”

Egli rinnovò la protesta in favore del suo sistema e de' seguaci di questo dicendo che se i positivisti escludono, nell'analisi scientifica, l' aiuto del cuore e della coscienza, non lo escludono nella pratica della vita.— Risposi citando alcuni fra i capi della sua scuola, come Häckel e Spencer, che hanno messo alla carità strane e spietate limitazioni.… “Ma anche a parte questo,” seguitai, “quelli fra voi che nella pratica della vita cercano l'aiuto del cuore e della coscienza, fanno così perchè, fortunatamente, sono incoerenti; chè l'applicazione delle vostre teorie deve condurre, coll' abbassamento della nostra genesi e la negazione del libero arbitrio, al disorientamento e al rilassamento delle coscienze—col vuoto fatto nelle regioni superiori, alla distruzione d' ogni ideale e quindi d'ogni amore; cioè all' egoismo ed al vizio, alla diminuzione dell'uomo in ogni sua facoltà.

“E già,” aggiunsi, “ne vediamo qualchecosa. Credo che un grande rivelatore della genesi e dell' essenza nostre, come un gran saggio delle varie teorie, debba essere ciò che in noi risulta da queste: se l'uomo fosse quale voi affermate e nulla esistesse al disopra di esso, e le nostre dottrine non fossero profondamente vere ed umane, queste non varrebbero a farne ciò che di tanti seppero e sanno fare, di puro, di buono, di santo, di sublime. Mentre invece.… Ripenso a Teofilo cristiano, il quale, ad Autolico pagano, che gli diceva:—Mostrami il tuo Dio,—rispose:—Mostrami il tuo uomo.—E noi potremmo dire a voi:—Mostrateci la vostra società.”

Egli tentò dapprima di scagionare le sue teorie della loro parte di responsabilità nelle attuali rovine morali e materiali; e si fece a citare i vizi e i mali dei tempi di fede e quanto v' ha di progressi morali nel tempo presente.—Gli feci rapidamente osservare con quali eredità di corruttela pagana e di barbarie nordica il cristianesimo medioevale abbia avuto a lottare—e, fra tutti i vizi di quel tempo, quali maschie virtù esso abbia create e quali splendidi monumenti di carità, d'idealità magnifiche, d'arte grande e gentile, abbia lasciati ne' cuori e sulla terra. Accennai alle conseguenze morali della paganità della rinascenza e a tutto ciò che v'ha di cristiano nello spirito del tempo presente; spirito che negli individui va sempre più perdendo di forza coll' aumentare del così detto realismo della vita, conseguenza di teorie che uccidono, con ogni fede, ogni ideale.—Realismo per modo di dire: chè nulla è meno reale della vita odierna, vita fittizia, fatta in gran parte di febbri di passioni che sciupano anime e corpi, e non soddisfano alcuna delle fondamentali aspirazioni umane.

Il giovane, non potendo opporre valide ragioni, opponeva sofismi; e s'era finito con riscaldarci entrambi più del dovere. A un certo punto m' avvidi che stavo per trascendere—riflettei che, se avevo fatto il mio dovere dicendo quanto m'era parso giusto in pro del mio ideale, avrei mancato alla prima delle sue leggi venendo meno alla carità. E, d'un tratto, sentii che con quel pensiero un gran mutamento s'era fatto nell'anima mia, che una grande commozione la vinceva. E stesi entrambe le mani al mio avversario, e nel guardarlo m'accorsi che qualchecosa velava i miei occhi.…

“Che stiamo qui,” gli dissi, “perdendo il nostro tempo con tante parole? Son sicura, guardi, che se domani andassimo visitando degli interni di famiglie veramente cristiane, o taluno di que' luoghi dove la nostra fede opera i suoi miracoli di virtù e di carità, e, mentre noi discutiamo teorie, trionfa delle passioni, e ne cura le piaghe, e insegna ad amare, a soffrire, a perdonare, a vincere le battaglie dell' orgoglio, e quelle de'sensi e d'ogni egoismo, a vivere e a morire guardando in alto—son sicura, ripetei, che avremmo finito di discutere, e che quelle verità che non avea viste lo spirito annebbiato dalle passioni si farebbero strada traverso il cuore e la coscienza, nello spirito purificato.”

Le mani del giovane, ch'erano rimaste nelle mie, s'erano fatte fredde, il viso anche più pallido. Egli stava per rispondermi, quando sua madre, in sortie, comparve sulla porta, guardò, con aria scandolezzata e, in pari tempo, di maligno trionfo, e disse, scandendo lentamente ogni sillaba: “Ah! va bene, va benissimo!”

Io alzai anche più il capo, e la guardai fieramente negli occhi—lui non si turbò, nè lasciò andare le mie mani. E, rivolgendosi, calmo, a lei, disse: “Sì, mamma, va benissimo.”

Li 5.—Oggi andai a casa a passare un'ora col papà—e stasera ho mandato dai Maren Valentina con Valeria. Un ricordo doloroso e benedetto mi faceva preferire la solitudine. È l'anniversario della morto di mia madre—di lei che ho conosciuta troppo poco, chè troppo giovane e spensierata ero quando ci ha lasciati, ma che rammento quasi come un sogno di cielo, tanto era bella, tanto era santa.

Sfogliando i quaderni della povera zia, trovo questo giorno segnato sempre come una data di dolore. Quattro anni sono eravamo a Moliparte; e le portammo una ghirlanda che le avevamo fatta noi, con rami di sempreverdi del giardino e i pochi fiori che c' erano nella cedraia. Gliela portammo su quella pietra della cappella sotto la quale le ceneri sue aspettano la chiamata di Cristo.

Gino era con noi, in vacanza. La sua fronte era fasciata per le bruciature riportate due giorni prima a Treviso, in un incendio nel quale s' era buttato pel salvataggio. La zia lo rammenta nel suo giornale con orgoglio giocondo—lei che sempre, colle parole e cogli esempi, ci avea spronati alle fortezze generose e al valore.—Sante memorie, che soguono nella vita come appelli e benedizioni.

Mai scorderò quell'inverno, passato quasi tutto lassù, in quella solitudine grande. Le giornate piovose o nebbiose, che passavamo in casa, leggendo o lavorando nel salotto de' fiamminghi, e durante le quali, il nonno, il papà, la zia con serena e forte rassegnazione si confortavano a vicenda delle prove che stavano traversando, e si preparavano agli ultimi distacchi. Le giornate di neve, nelle quali la zia ed io uscivamo con entusiasmo a calpestare su pei colli deserti i vasti strati candidi, vergini d'ogni traccia umana, e ad ascoltar fra le pendici immacolate più intima ed alta la voce del Verbo di Dio. Quelle serene nelle quali riprendevamo i nostri giri di visite— visite agli umili amici delle case sparse pei colli e i campi, dove sempre ritrovavamo la festevole cordialità e quel sentimento di pura e serena fede cristiana che, elevandone lo spirito e facendone più gentile il cuore, toglie la volgarità anche alle più umili creature —nelle cucine affumicate, nelle calde stalle, ne' cortili dove tutto si rallegrava, i bambini, i polli, le api intorno agli alveari, i fiori sulle finestre.

Oppure, bramose di più vasti orizzonti, salivamo alle più alte cime de' colli, a mirarvi le Alpi candide nel sereno, e il piano immenso fino agli Euganei e ai Berici ad occidente, ad oriente fino a qualche curva lontana delle Prealpi Giulie, morente a mezzogiorno nella laguna corusca sotto il sole, dalla quale, come visione d'immane vascello fantastico, sorgeva Venezia. O, coll'ultimo cavallo che ci rimaneva, la vecchia baia che, a'loro tempi, la povera zia cavalcava, e ora umilmente tirava una modesta timonella, andavamo girando pei paesi vicini, a trovar qualcuno di que' vecchi amici che l'inverno non aveva fatti fuggire, e ci offrivano davanti al fuoco cordialità di conversari, e una tazza di caffè coi baìcoli, e i fiori della cedraia.

E le lunghe buone serate sotto la lampada, fra i vecchi buoni libri e i fidati ragionamenti, o scrivendo agli amici lontani i pensieri e gli affetti crescenti nella vita solitaria—funchè per la strada passavano i giovani che tornavano dal filò nelle stalle, cantando strofe villerecce che si spandevano nel silenzio, lontano.—E le mattinate, nelle quali ci si alzava col lume, e s'andava alla Messa prima, sulla strada indurita dal gelo, nell'aria che pungeva la faccia, cogli occhi rivolti ad oriente, dove cresceva l'aurora che faceva impallidir le stelle sul nostro capo. E poi, al ritorno, le lezioni alla povera Teresina, per prepararla agli esami di maestra—e le visite ai malati, pieni di fede e di gratitudine, e alle fidanzate che, per gli ultimi giorni di carnevale, si preparavano al grande avvenimento.… Giorni benedetti, ne'quali la giovane anima mia, protetta dall'amore e dalle sventure de' miei, cresceva alla vita, e ne imparava le lezioni severe, e il segreto di felicità raramente sognate, ma che son le sole profonde, le sole sicure.

Li 6.—La signora Falletti ha scoperto qualchecosa fra la Rosina e Luigi, il primo cameriere. È stato durante una di quelle lunghe nottate nelle quali essi erano obbligati ad aspettare alzati il ritorno de' padroni.… E, senza badare alla sua parte di responsabilità, aggravata dalla durezza della pretesa, senza prendere in considerazione il fatto ch'è risultato, che cioè il più colpevole dei due era lui, la signora ha cacciato lei lì per lì, e al cameriere s' è limitata a dare una strapazzata.

Mi spaventavano le facili conseguenze di un licenziamento fatto a quel modo e seguíto da un completo abbandono; e mi sdegnava il trionfante cinismo del giovinotto che continuava a servire impunito, nell' insolenza della sua livrea. Mi permisi di parlare alla signora in favore della Rosina, la quale, per trovarsi i suoi genitori in un paese alquanto lontano e in miseria, era audata a rifugiarsi presso un'amica.

La signora Falletti mi rispose che si meravigliava io, di principii tanto severi da non aver voluto quella ragazza avvicinasse Valentina, m'interessassi ad essa ora, dopo ciò che aveva fatto! Le risposi che per la stessa ragione per la quale avevo voluto far evitare a Valentina un contatto pericoloso, mi stava ora a cuore di salvare una disgraziata dal cadere anche più basso. Essa mi rispose che non sapeva che farci, ci pensasse lei, doveva pensarci prima.

Prima! pensai; povera ragazza, uscita da chissà quale ambiente, con un'indole leggera, messa a contatto di un giovinastro, e forse senza che alcuno mai le facesse la carità di qualche parola buona, di qualche buon consiglio, di quella vigilanza quasi materna che le signore devono avere sulle persone di servizio.… Essa non era stata in casa che una cameriera, non v'era stata mai un essere umano, che ha bisogno di una mano amica fra i pericoli della sua posizione: tutt'al più era stata per la figliuola maggiore una pericolosa confidente.

E di Luigi chi s'era curato di fare altro che un bravo cameriere? chi aveva pensato ch'egli poteva essere aiutato a farsi un galantuomo? Forse i due signori coi loro esempi e con certe missioni che gli affidavano?…

Espressi in parte il mio pensiero alla signora. Essa mi rispose che aveva altro cui pensare che le anime della servitù; che, d'altra parte, Luigi è un uomo e non si può troppo condannarlo so ha agito da uomo, e che Rosina ha più di sedici anni e il codice stesso accolla alla donna che ha oltrepassata quell'età (giustizia, quando verrai?…) ogni responsabilità.

Questo pensiero della Rosina mi turba e mi perseguita. Come potrei fare?…

Li 7.—Sono stata dalla Rosina. La trovai in uno stato di quelli che, spesso, conducono al suicidio o all'ultimo disonore. Indagando, capii che un miserabile stava già pronto a profittare della buona occasione —e che nell'animo di lei era un guazzabuglio di ripugnanze che lottavano coi desiderii, di desolazione che rendeva più forte la tentazione. Sentivo che se essa rimaneva là, senza un aiuto, senza qualchecosa che le risollevi lo spirito smarrito, sarebbe perduta.

Mi feci a spaventarla da un lato e ad incoraggirla dall'altro—toccai tutte le corde, ahimè, molto lente, di quella povera anima da nessun vero principio cristiano educata, e ch'era passata dalla miseria e l'ignoranza di casa sua al fasto frivolo delle padrone e alla corruzione de'servi, corrotti forse, se non da quelli, da altri padroni. Era un insieme di vuoti e di miserie, un incrocio di tremende influenze, che mi sgomentavano.… Sentivo che non c'era tempo da pardere—e non vidi, pel momento, altro rimedio che quello di portarla subito dalle suore del Buon Pastore dove intanto sarebbe stata al sicuro, e dove quelle sante creature avrebbero potuto influire sull'animo di lei. Essa, benchè contrastata e perplessa, finì con accettare; e mi affrettai a menarla là, promettendo di occuparmi pel poi.

Quando essa aveva visto quella dolce superiora, che, sul sofà di paglia sotto un crocifisso che guardava in giù pietosamente, l'accoglieva con bontà materna, la povera ragazza parve trasformata.… Ed io avevo lasciato il convento con un gran peso di meno sul cuore; e più tardi, mentre passavo per certe vie di Trastevere, davanti osterie piene di voci briache, fra donne sguaiate, monelli sfacciati e bambine discinte e limosinanti, pensavo alle trasformazioni morali che son capaci di operare quelli che Cristo inspira. E mi chiedevo se son proprio quelli che tanto sgomentano coloro che, colle leggi, o la penna, o la parola, governano il nostro paese, che inspirano loro tanto terrore pel pericolo delle istituzioni.… Perchè non imparano a distinguere fra questi e i non degni ministri di Lui?

Li S.—Iersera, lunedì, le solite e i soliti; in più una delle tre amiche delle quali m'aveva parlato Valentina, Annie Spelli, la figlia dell'alto impiegato, quella che ha aperto un concorso per censo fra i suoi pretendenti, e la cui presenza, mio malgrado, ci cotrinse a rimanere abbasso. Essa aveva cominciato con lamentare romorosamente l'infedeltà, da qualche tempo, della sua «piccola amica;» indi le aveva passato un braccio intorno la vita e, con una cert'aria di protezione, la faceva passeggiare pel fumoir e la sala da gioco, dove stavano radunati gli uomini.

Io non volevo perderle di vista, e passai davanti un vano di finestra del fumoir, dove la signorina Annie aveva attirato l'altra, civettando coll'aiuto della tenda che nascondeva e scopriva la sua bella figurina agli occhi de'fumatori. Essa aveva detto qualchecosa «d'istitutrice noiosa;» e Valentina s'era inalberata e col suo sguardo più fiero le aveva risposto: “Provati ancora a toccarmela!”—Poco dopo la signorina era in mezzo alla stanza, e faceva il chiasso in una nuvola di fumo, fumando lei stessa, e chiamando pel cognome i giovanotti e apostrofandoli in un modo estremamente incoraggiante.

La mia Valentina era tornata presso di me. “Oh! quella Annie!” diceva; “non la posso soffrire!” Le risposi ch'era malissimo, che avevo piacere ne stesse lontana e non l'imitasse, ma che si deve voler bene a tutti. “Oh! se sapesse,” riprese, “se sapesse!” E s'era fatta di bragia e pareva esitare.… Poi, con una specie di furore, mi disse in un orecchio, precipitosamente: “Ha osato dirmi male di lei!” Non seppi reprimere un sorriso di compiacenza davanti l'affetto cavalleresco della mia bambina. “Ti ringrazio,” risposi; “ma non puoi pretendere ch'essa mi conosca come mi conosci tu. E se ti par d'avere una buona istitutrice, ringraziane il Signore e non giudicare una che ha la sventura d'essere stata male educata.”

Di là intanto preludiavano un walzer di Strauss. Annie ci passò accanto con un sorriso di trionfo, al braccio dell'avvocato Silva, uno dei più noti viveurs di Roma. Un giovane piuttosto brutto, di una bruttezza malsana e malsanamente interessante, di molto ingegno e di molto spirito, causeur felicissimo, ambizione delle signore e delle signorine, ch'egli ricambia con molta.… disinvoltura.

Uscimmo in sala anche noi. Ma quasi tutti i giovani rimasero nel fumoir e nella sala da gioco, dove era piantata una partita di écarté. Un uomo di buona volontà, il tenente Sardi, sonava nel modo più diabolicamente seduttore, An der schönen blauen Donau —ed io stavo per dimenticare la mia nuova posizione e ballavo già colla fantasia, quando un invito del deputato Lupi mi richiamò alla realtà, mi fece rammentare che Nicoletta Da Ponte è ora «l'istitutrice;» e rimasi vicino alla mia allieva.

Avevano fatto largo in sala; e le signore e alcune signorine stavano sedute in circolo—altre signorine passeggiavano irrequiete, guardando verso la porta della sala degli uomini, mentre le due o tre coppie pronte, per essere troppo scarse, non volevano cominciare. La signora Falletti si decise ad andar a invitare i giovanotti. Ne vennero tre o quattro, alquanto di malavoglia, e fecero la loro scelta per lo più fra le signore maritate, che non si vergognavano di ballare mentre c'erano tante ragazze che andavano cercando di malumore un posto in cui aspettare la loro volta.

Poco a poco l'improvvisata festina s'andò animando, per merito di qualche uomo maturo sopraggiunto; mentre ogni tanto, sulla porta del fumoir, si vedevano alcuni giovani, fra i quali il signor Alberto, languidamente appoggiati agli stipiti, che guardavano con un'aria blasée.—E ciò quantunque un gruppo allegro di signore e di signorine si fosse recato di là in commissione, a implorare i signori giovanotti, e non avessero risparmiato vezzi nè moine, che non avevano avuto in compenso che una fiacca e breve condiscendenza di alcuni, e da altri qualche frase più o meno arditamente galante.

Dopo un Sir Roger un po'mal riuscito, smisero di ballare; e allora qualche giovane, cessato il pericolo di doversi esporre alla grave fatica, s'arrischiò a venir di qua. Ve n'erano alcuni che sfuggivano, con coscienziosa cura, tutte le ragazze, nonchè le rispettive mamme, onorando della loro attenzione solo le signore giovani. Qualcuno, meno circospetto, intratteneva qualche signorina.—Osservai una mamma mentre l'avvocato Silva, col suo moversi dinoccolato e il sorriso di uomo avvezzo ai facili trionfi, s'avvicinava alla sua figliuola, guardarla con compiacenza da capo a piedi, come per immaginare tutta l'impressione ch'essa gli avrebbe fatta.

Annie Spelli, che aveva un carré alquanto sfacciato e le braccia tutte nude, vi aggiungeva le occhiate provocanti e gli scherzi arrischiati. La signorina Landucci raccontava a voce molto alta, ad altre due signorine, una storiella di sport, alquanto gasconne, che pareva destinata ad altri orecchi, un po'più in là. La signorina Bellani, la figlia dell'appaltatore, passeggiava i suoi splendidi occhi stupidi, a braccetto delle due Fabbrotti, un po'dimesse, un po'mortificate, e teneva in mostra le mani ingemmate. La marchesina Araldi chiamava due o tre giovani dell'aristocrazia ch'erano lì, pel nome di battesimo—Uberto, Folco, Gastone.— fletteva in tutti i sensi il suo bel personale dalle mosse feline, parlava di Zola e di Guy de Maupassant, e affettava una specie di mania da rigattiera. La signorina Paruti descriveva spietatamente certe inglesi brutte che aveva incontrate in un museo, e imitava i loro gesti e il loro italiano.

La signorina Santi si atteggiava a donna seria e discuteva di politica con un giovinetto che, a sentire come giudicava l'operato altrui, pareva avesse fatta lui l'Italia; ciò che non gl'impediva di farsi molto compiangere per le imminenti fatiche del volontariato. Là vicino una giovane signora si lamentava d'essere incinta per la seconda volta. La signora Spelli, non meno allegra della figlia, faceva a un giovanotto di belle speranze interrogazioni alquanto ardite sulle sue fortune colle signore. La signora Sabelli, dal personale magnifico e dalle linee del volto e la calma serena d'una donna di Leonardo, se ne stava, maestosa e silenziosa, ascoltando la sua vicina, una donnina vivace e languida, che faceva delle professioni di fede d'una specie di buddismo rammodernato. Poco più in là un signore parlava, colla maggiore serietà, di jettatura e di jettatori. La mamma Landucci narrava, en petit comité, i trionfi di sua figlia alla pista velocipedistica. La signorina Clari, una figurina alta, fine, snellissima, d'un biondo quasi bianco, con certi occhi glauchi e «uno sguardo che viene di lontano» come direbbe Lamartine, un tipo da leggenda nordica, si appoggiava un po'malinconicamente alla signorina Elisa, e tacevano entrambe, in un angolo, sotto le grandi foglie di una latania.

Il signor Alberto, là presso, s'era avvicinato, con un fare tra grazioso e insolente, a una signorina che pareva aspettarlo ed aveva vivamente arrossito; e le aveva chiesto ridendo quanto tempo era che non si confessava; ed essa aveva arrossito anche più vivamente, e s'era affrettata a rispondere ch'era un pezzo, non se ne rammentava neanche più.… Un'altra, un po'più in là, un po'matura, e molto nervosa, asseriva con amarezza che per trovar marito bisogna essere ricche o civette—e colla coda dell'occhio guardava un giovinotto che sbadigliava in un canto.

Il conte Alessandro Valenti, in un crocchio di tre o quattro uomini, citava con una certa ammirazione il codice di Vronsky in Anna Karénina: «S'han da pagare i debiti di gioco, non quelli del sarto; non s'ha a mentire, eccetto colle donne; i soli esseri che si possono legittimamente tradire sono i mariti; si può insultare, non perdonare gl'insulti.» Là vicino le signorine Spelli e Mosca nominavano, con una certa rivalità d'ambizione di essere addentro ne'misteri del santuario, le cocottes più in voga. Mentre la signora Falletti, che teneva sul sofà principale una specie di circolo serio, insinuava sull'uno e sull'altro nome di donna de'cenni vaghi, seguíti da sospensioni, da dichiarazioni di non saper nulla, di sperare non sia.…

L'avvocato Silva, a una domanda intima d'avvenire fattagli da un'altra signora, aveva risposto, con un sorriso da epicureo raffinato, e colle parole di Almaviva: “L'amour n'est que le roman du coeur; c'est le plaisir qui en est l'histoire.”—Io gli stavo poco discosto, e avevo detto: “Histoire bien triste, à son épilogue surtout.”—Egli s'era voltato, seccato, alquanto, e aveva replicato, con una certa posa di spensieratezza trionfante: “Che importa dell'epilogo giacchè tutto finisce?”—“Tutto?” ripetei—e misi nella mia interrogazione la dolorosa serietà d'un richiamo, mentre guardavo l'attitudine cascante, e il pallore cereo e gli occhi stanchi del giovane, che, nella sua cercata fede materialistica, olimpicamente sorrideva.

Poco dopo, ripassandogli a poca distanza, udii che diceva a mezza voce al signor Alberto: “Che seccatora antipatica quella vostra istitutrice!”

Li. 9.—Oggi abbiamo fatto la nostra passeggiata verso San Lorenzo. La giornata era splendida, e le lunghe vie, le piazze, i vasti spazi scoperti dell'Esquilino e di San Giovanni in Laterano abbagliavano sotto il sole. Passammo sotto il cavalcavia della strada ferrata, e ci trovammo in uno di que'quartieri dove paiono essersi dato convegno infinite miserie, non pur di Roma, ma d'Italia—dove si vedono tutti i tipi della penisola e si odono tutti i dialetti.—Ogni tanto si leggeva su di una porta: Ufficio affitti Banca tale.

In fondo, i monti della Sabina si staccavano sul cielo magnifico, colle cime ondulanti candide di neve nell'aria cristallina.—Ma l'occhio non poteva dilettarsi di quel riso di terra e di cielo, lungo quelle vie, sterrate, fangose di sudiciume, co'marciapiedi che si sgretolano nelle cunette piene d'acqua sporca, fra torsi di cavolo, cenci, avanzi di scarpe e di cappelli, sudici brani di giornalucoli illustrati, misti alle spazzature, dove razzolano bambini malsani, mal coperti, spesso co'piedi e le mani o il collo fasciati—vie fiancheggiate di case alte, monotone, ornate di cenci alle finestre, con poche e misere botteghe, e luride taverne, alternate con portoni chiusi, ricettacoli immondi. Ogni tanto si vedevano case tutte chiuse—quali perchè già screpolate e pericolanti, quali per non poterne riscuotere gli affitti e sottrarsi al pagamento delle tasse.

Entrammo in uno de' casamenti più abitati—di quelli che conosceva fin da' tempi miei—che alberga oltre duecento famiglie; e, colle sottane in mano, salimmo per la scala buia, dove trovavamo ogni tanto l'ingombro d' un bambino, e dalla quale un tentativo di lavatura scolava col sudiciume.—Avevamo alcuni indirizzi; ma l'oscurità de' corridoi c' impediva di leggere i numeri sulle porte—e, per chiederne ai vicini prossimi alla scala, ci si affacciava ad usci semi-aperti, traverso i quali si vedevano interni tanto squallidi da chiedersi se non era il caso di fermarsi là addirittura, e da provare un certo riguardo a farvi capire che si recavano soccorsi altrove.

Ma, come quasi sempre vado osservando, le risposte erano pronte e non rivelavano invidia. Una donna che pareva estenuata disse che quella che cercavamo era andata al dispensario di via Galilei a far curare i suoi bambini malati, ma che doveva tornar presto. Un uomo cencioso ci accompagnò alla sua porta e ce l'aperse. Nella camera erano quattro assi su' cavalletti, e un pezzo di tappeto da terra, tutto buchi e rattoppi, che serviva da saccone e da coperta ad un tempo; là presso un piccolo giaciglio da bambini— un sacconcino nero di miseria, dal quale esalava un fetore misto di sudiciume e di jodoformio. Su di una tavola erano alcune croste di pane, un piatto rotto, e alcune boccette vuote. Altro non v' era in tutta la camera.

Poco dopo tornò la donna, una marchigiana, co' due bambini in braccio. Uno aveva entrambi i piedini e una manina fasciati; ha le ossa cariate per mancanza di nutrizione. L'altro aveva la testina e la schiena piene di piaghe. Il padre, falegname, da molti mesi non trova più lavoro; la madre, disfatta dalla miseria e dal cruccio, colle labbra bianche per l'anemia e le ossa dolenti per dormire sulle assi, non si reggeva quasi più. Ma non imprecò contro la sua sorte, non lamentò; i suoi occhi, che ci guardavano come un' apparizione celeste, erano pregni di lagrime immobili, le labbra bianche ci sorridevano di gratitudine—mentre uno de' bambini gemeva nelle sue braccia, e l'altro, che—ci diceva la madre—aveva pianto di fame tutta la notte, colla manina cariata cercava una crosta sul tavolino.…

Quando riuscivamo una donna, che ci aspettava sul ballatoio, mi disse: “Ela, signora, la xe dei me paesi—la go sentia dal discòrar. Mi me mario me ga abandonada co tre putei, e xe andà co un' altra.…” La guardai: due ombre nere sotto gli occhi gonfi di pianto invecchiavano il bel viso pallido sotto uno scialle nero—un viso degno del pennello di Giacomo Favretto.

Un' altra donna, una calabrese, in una camera dove non c' era che un saccone in terra e un lume acceso davanti una Madonna, aveva, oltre ai suoi tre, tutti medicati, altri due bambini, anche più malandati di quelli. “Di chi sono?” chiesi. “Questi,” risposero tre donne in coro, “hanno il padre all'ospedale e la madre carcerata.”—“E chi ei pensa?”—“Un po'la sora Saveria che qui, un po'noi. Eh! signora, semo cristiani, e quel boccone de pane, se c'è, serve per tutti—e se non c'è, è quaresima de passione.…”

In un'altra camera, abitata da una madre vecchia e una figlia nubile, non v'era altro che alcuni sacchi in piedi, in un angolo. Alla sera quelle donne buttano que'sacchi in terra, e vi si sdraiano.—La figlia era assente; la madre raccontava ch'era andata al suo lavoro, per quattro soldi al giorno. E aggiungeva: “Una ragazza di diciotto anni, bella e onorata.” E altre donne intorno ripetevano: “Una ragazza bella e onorata.” E la madre replicava: “Bella e onorata.”

Quando uscivamo di là Valentina mi chieso: “Signorina, perchè quelle donne seguitavano a ripetere quelle parole?” Ed io mi sentiva i brividi correre per le membra.…

Sulle scale altre donne ci aspettavano; e ognuna ci pregava di andar a veder la camera sua. E fu una raccapricciante fantasmagoria di giacigli, o senza saccone, o senza lenzuola, o senza coperte, o con cenci di tutto questo—di fanciulli gialli, di bambini piagati. Quasi dappertutto v'era qualche essere a letto. A letto per modo di dire; accovacciato su qualche cosa messa in posizione orizzontale, e più sudicia del resto. E quasi dappertutto erano donne semi-consunte, che scusavano il sudiciume coll'impossibilità di mutare, giacchè un saccone non si lava come un lenzuolo, o colla mancanza di forze. E quasi dappertutto era gente che, per non poter pagare l'affitto, doveva sloggiare entro pochi giorni.

A tutte queste donne si chiede: “Che fa vostro marito?” Ci si sente rispondere tutti i mestieri possibili —ma l'aggiunta è invariata: a spasso. Crudele ironia di parola che giocondamente ricopre abissi d'ogni miseria materiale e morale, d'ogni tentazione, d'ogni minaccia.…

E quando riuscivamo erano altre donne che ci venivano appresso, fin fuori sulla strada. Due di esse imprecavano; ma le altre le fecero tacere. Una di queste era coperta di stracci che volevano esser neri; aveva perso il marito per infortunio sul lavoro. Un'altra era livida, ed aveva il ventre gonfio per un tumore. Una tossiva per la bronchite, un'altra era gialla di febbri. Quasi tutte avevano un colore terreo, le occhiaie grigie e infossate. E ci guardavano implorando, alcune in silenzio, cogli occhi pieni di lagrime. —E lo spettacolo miserando si disegnava sul fondo magnifico della via de'Marsi, sul gaio cerulo delle radiose lontananze.

Tornando mi parea di procedere come sonnambula, di veder tutto come una vana fantasmagoria; appena udiva i ragionamenti di Valentina, le sue esclamazioni di raccapriccio e di pietà. E coll'immaginazione andavo oltre a quella casa, a quel quartiere, entravo in tutti i vasti quartieri dove tanti altri soffrono, andavo oltre Roma, oltre l'Italia, e la massa della sofferenza umana mi sgomentava, mi accasciava.…—Salite che fummo nel tram, la gente che vi si avvicendava mi faceva un effetto strano—quasi mi offendevano certe allegre risate di due buontemponi che avevamo in faccia. Quando, scendendo al crocicchio di piazza Venezia, vidi il rimescolío degli equipaggi e delle signore eleganti che venivano dai due Corsi e da via Nazionale, mi parve che il mio capogiro aumentasse fino ad una specie di vaneggiamento, a una tremenda visione del futuro—di quando quegli uomini cui lavoro e fede sono stati tolti, quelle madri piangenti che non hanno da sfamare le loro creature, quelle fanciulle cui la miseria e l'abbandono spinge per la china del vile piacere altrui, usciranno dai loro squallidi covi, esaltati, trasformati in belve, da un delirio di sangue vendicatore.

Li 10.—Benchè il signor Alberto ed io si sia detto alla madre di quale argomento si stesse parlando quella sera e perchè io avessi prese le mani di lui, e quantunque a quest'ora essa dovrebbe conoscermi abbastanza per trovar più che verosimile la cosa, quell'impressione è rimasta nell'animo suo, e vi rimarrà. —Forse sarebbe difficile toglierla, fra noi, anche da un animo meno volgare del suo: tanta è in un paese la forza del pregiudizio!

Son grata al signor Alberto che s'ò condotto e seguita a condursi meco cavallerescamente. E tanto più devo notarlo in quanto ho avuto campo di osservarlo con altre, di condizione molto superiore alla mia attuale; ed ho visto quanto poco rispetto egli abbia per le donne in genere.—Tuttavia non posso dire che in me egli rispetti l'istitutrice di sua sorella o una donna per la quale provi un sentimento speciale: no, perchè il contegno che tiene meco lo tiene pure verso Valeria, e, più o meno, verso tutte le donne che gl'impongono.

Perciò sempre più mi confermo nell'opinione che nel declinare del rispetto dell' uomo verso le donne, gran parte della colpa sia dalla parte di queste, e non solamente delle disoneste.—È naturale che quando gli uomini scorgono in noi un gran desiderio di piacere al loro sesso, e vedono quanta pena ci diamo per conquistare uno qualunque di loro che ci tolga al celibato, e quanto indulgenti siamo pei loro disordini, fino al riconoscimento di ciò ch'essi chiamano i loro speciali bisogni e diritti, e vedono anzi spesso più ricercati da noi quelli che menano vita più disonesta, è naturale, dico, ch'essi s'avvezzino a prenderci con disinvoltura.

Se la maggioranza delle donne avesse più alti e saldi e coerenti principii, e fosse più curante della propria dignità e della propria missione, quanto meno scettici e corrotti, via confessiamolo, non sarebbero anche gli uomini?—No, non sono solamente le donne disoneste che guastano gli uomini; parrà un paradosso: ma io sono convinta che più ancora (prese, ben inteso, in massa) li guastano le oneste—e soprattutto con quelle malintese indulgenze che non souo carità pietosa che compatisce e perdona alla debolezza e alle cadute, ma stupida e immorale compiacenza che consente all'immoralità mascolina come ad una convenzione e ad un diritto.

Perfino la maggioranza delle madri si lascia in proposito infinoechiare dalla memore immoralità dei mariti. Si preoccuperanno pel timore che i loro figliuoli prendano un raffreddore o non passino un esame, che si stanchino o si scomodino troppo se han da fare il volontariato o una gita in montagna—e non si preoccupano, o molto mediocremente, di salvarne il corpo e lo spirito dai pericoli che d'ogni parte, in loro stessi e intorno a loro, insidiano i giovani che entrano nella vita. Che dico? Ve ne sono di quelle—mi trema di sdegno la mano nello scriverlo—che arrivano fino a parlarne come di cosa regolare, che deve essere, che è bene avvenga, e si compiacciono di ciò che chiamano le scappate, i successi de'figliuoli, e perfino li incoraggiano e li favoriscono!

Il tempo attuale si mostra accanito avversario de'pregiudizi: ma, se bene osserviamo, in realtà esso chiama pregiudizi ciò che, come la legge religiosa e morale, gli riesce incomodo, e non si cura davvero di distruggere il pregiudizio che seconda le passioni, il pregiudizio che induce all'immoralità non foss' altro che per timore del ridicolo, e crea intorno ai giovani una massa di allettamenti e di eccitamenti a paragone de'quali l'inclinazione naturale è un nulla.

Nessun più ostinato sostenitore delle legittimità di certe tendenze potrebbe in buona fede negarlo: le massime elastiche, incoraggianti, falsanti il criterio al punto da far passare la debolezza per bravura, il sentimento dell'onestà e della propria dignità per ridicolaggine, la donna come giocattolo o strumento vile, la famiglia avvenire come una cosa secondaria cui nessun sacrifizio preventivo è da farsi, la gioventù come un tempo che dà il diritto di tutto dimenticare pel capriceio e il piacere—le letture, le immagini, gli spettacoli, i ritrovi, che preparano, eccitano, trascinano —tutto questo costituisce la parte maggiore di ciò che si suol chiamare bisogni. La natura lasciata a sè stessa è misera sì—ma da sola, ed è chiaro, non creerebbe che una minima parte della corruzione che ne circonda: ciò che in questa v'ha di più basso, di più vile, di più assassino—e tanto più basso e vile e assassino quanto più è raftinato dall'eleganza—è ciò ch'io chiamerei il wermouth che alle passioni offrono il pregiudizio sociale e tutti quelli che gli fan da mezzani.

E noi donne oneste e cristiane dovremmo farci complici compiacenti di questi pregiudizi, come ci facciamo complici di quegli altri pregiudizi che deprimono il nostro sesso e ci fanno mancipio de'capricci mascolini, tirannici o sensuali che sieno?—Chè la questione dell'immoralità dell'altro sesso ha due lati: quello che riguarda l'uomo per sè, ne'doveri verso la propria dignità, umana e virile, morale e fisica— e quello che riguarda l'onestà verso il sesso nostro. E non so in quale dei due sia maggiore viltà di pregiudizi corruttori.

Parlavo un giorno di codesto con un uomo che intende d'essere uno spirito forte, d'essere orgoglioso ed onesto. E quel forte e orgoglioso non arrossiva di dirmi che nelle proprie inclinazioni libertine egli non aspira a vittorie, giacchè non saprebbe lottare, nè lo vorrebbe, nè alcuno da lui lo ha mai richiesto. E quell'onesto, alle parole mie sulla viltà della seduzione, col più vile de'suoi sorrisi, rispose: “Che si difendano! se davvero non vogliono, resistano!”—E colui un quarto d'ora prima aveva meco negato la libertà dell'arbitrio, aveva dichiarato di seguir con interesse e con fede le odierne ricerche di tutti gli umani elementi di debolezza!

A quanto pare, dunque, la «servitù dell'arbitrio» —come la chiamò il suo propugnatore Lutero—la forza irresistibile, son debolezze del sesso forte; noi donne sole, noi che voi chiamate sesso debole, abbiamo tutti i doveri perchè tutti abbiamo gli elementi di forza! Mentre voi non sapete resistere neanche quando nessuno vi tenta, noi dovremo e potremo resistere sempre, anche quando voi mettete in opera tutte le insidie vostre più tremende e più vili! Vi ringraziamo dell'onore che pare farci la vostra incoerenza: ma non è davvero questo che accettiamo come il rispetto che il vostro sesso ha da tributare al nostro.… Se è con questa scusa in malafede che voi vi pretendete permesso di rovinar la vita di una creatura, se è fanciulla, l'avvenire di una famiglia se non lo è, per il capriccio vostro di un'ora, ritirateci un'ipocrita considerazione che siete ben lungi dal sentire. E sappiate che se vi son delle donne oneste che alle vostre prodezze verso il nostro sesso sorridono indulgenti e compiacenti, ve n'ha qualcuna che osa dirvi senz' altro che siete disonesti e vili, perchè è disonesto e vile chi abusa dell'impunità per rovinare altrui pel proprio piacere.—E se tacciono i codici, perciò che tanto in essi rimane d'ingiusti e iniqui pregiudizi, non potrà non pensarlo nell'intimo della coscienza ognuno di voi stessi; e ogni volta che vi vien fatto di rammentar sorridendo «il casto Giuseppe» non potrete non sentire quanto più completamente lo definireste chiamandolo «l'onesto e gagliardo.»

E, tornando al primo lato della questione, a quello cioè che riguarda il libertinaggio in sè stesso, quanto più alto e degno del nostro era il concetto de'Germani dei quali narra Tacito, che il libertinaggio punivano colla stessa pena destinata alla viltà, immergendo cioè nel fango fino al collo coloro dei quali, noi progrediti, diciamo che «vivono,» che «si divertono,» che «passano la loro giovinezza.…» E come è bello quel secondo versetto de' Ricordi di un altro pagano, Mare' Aurelio, che dice aver imparato ad essere «verecondo e maschio!» Quanto non dice l'unione di queste due parole a coloro che dell'integrità della vita vilmente sorridono come fosse indegna della virilità, mentre ne è il decoro, la forza, la custode!

Pagine roventi ho lette, in proposito, grazie a Dio, e scritte da uomini, e da uomini laici; e proprio in questi giorni alcune righe di un autore tanto poco— specie nel tempo nel quale le scriveva—sospetto in argomento, che lui stesso, pur troppo, è colpevole di un triste contributo alla letteratura immorale. Paul Bourget, ne'suoi Essais de psychologie contemporaine, dice: «N'y a-t-il pas quelque naïvete en effet et une forte inconsequence à prétendre respecter son pays d'une part lorsque de l'autre on ne respecte rien de ce qui fait la vigueur d'un pays: la chasteté des hommes, la grande et entière simplicité du coeur, le profond sérieux de la vie morale?»

E dianzi, sfogliavo il mio Jeunnesse di C. Wagner, uomo assai pratico della gioventù, giacchè, come dichiara, vive sempre in mezzo ai giovani e li cerca— e vado spigolando nel capitolo La solidarité, che segue quello La joie, nel quale lamentava la mancanza della gioia, dell'allegria, de'piaceri veri, pel crescere de'piaceri morbosi. A proposito di ciò cui accennavo dianzi egli dice:

«Anzitutto il giovane deve sentire il rispetto della vita, della preminenza, del valore, della santità di essa, e degli obblighi ch'essa perciò ne impone come eredi suoi. Il sentimento fondamentale che deve dominare un giovane è quello della sua dignità virile. Se ha questo sentimento, egli considererà la vita come un bene avuto in deposito e non in possesso assoluto; perciò avrà in suo aiuto contro le passioni una forza nobilissima ed efficace.»

E dopo aver accennato alla grande influenza che su codesto hanno l'igiene, il metodo di vita, il genere delle occupazioni, delle letture, delle distrazioni, degli esercizi fisici, egli torna a dire della possente efficacia che, soprattutto, ha l'ideale della propria dignità e dello scopo della vita.

«E, anzitutto,» egli seguita, «esso ci fa superiori ai sofismi e ai cinici precetti dei quali la gente d'animo meschino ha seminato questo campo. Chè si può dir davvero che se mai la gioventù trova un cumulo di massime sciocche e colpevoli è su questo argomento. In nome di ciò che si chiama un bisogno le si predica di non fare sforzo alcuno e di secondare qualsiasi capriccio: far così è bene, fare altrimenti è sciocco, colpevole perfino!—Davvero è necessario d'avere in noi stessi qualchecosa da contrapporre a simili enormezze. E tanto più che basta guardarsi d'intorno per avvedersi che se la nostra gioventù ha bisogno di qualchecosa è di serbare le proprie forze.

»Questo così detto bisogno che si proclama in tutti i toni è nelle fantasie sovraeccitate dalle letture, dalle compagnie, dagli esempi. Ma, via, ammettiamolo anche come un fatto. Ciò non toglierebbe che il complesso della individualità nostra ne'suoi istinti e bisogni superiori debba essere rispettata. Atti che diminuiscono la nostra stima per noi e per altrui, che ci fanno derogare dalla nostra dignità personale, son cattivi, anche se provocati da qualche cosa di reale.

».… Un uomo che ha un ideale, dei principii, dell'energia, si distingue da un dappoco pel posto ch'egli nella sua vita dà ai diversi bisogni dell'esser suo e per la fermezza colla quale egli sa subordinare gli uni agli altri. Ecco perchè ho posto per principio che la cosa più importante in argomento è d'avere un ideale che ci aiuti a regolarci. Ora, per quello che apprezza la dignità propria e l'altrui, cedere è tradire ciò che v'ha in noi di più nobile.»

Poi rispondendo a chi combatte la castità come un danno dicendo che chi vuol far l'angelo fa la bestia, egli seguita: «Faccio osservare che fan la bestia molti che non han provato a far l'angelo. Non son caduti nel fango perchè han voluto volare troppo alto, ma perchè han cominciato troppo basso. Il miglior mezzo per divenire lo schiavo de'propri desiderii non è davvero il dominarli ma il servirli.

».… Peccate contro l'amore alla sua base, nella giovinezza, e la vita d'una nazione intera vi risponderà con rovine e sofferenze incalcolabili.—Riassumendomi dirò che la regola dev'essere la castità: ogni infrazione ad essa è una colpa. Per quanto difficile e dura questa legge possa sembrare, è la sola buona. All'infuori di essa non vi ha posto che per una morale da ipocriti. È pure difficile d'essere sempre leali ed onesti: non se n'è mai tratta la conseguenza che sieno permesse la menzogna e la frode. Che quegli che cade e manca al rispetto di sè stesso e dell'amore sappia che ha fatto male! Nelle circostanze morali penose è questa ancora la migliore speranza di salvezza. Ma chiamar bene il male perchè il male è difficile da evitarsi, è peggio ancora che farlo: è falsare la coscienza.»

Indi, entrando più addentro nel campo pratico della vita, e profondamente interpretando lo spirito cristiano, egli seguita: «Ma conviene muoversi in piena realtà e considerar le situazioni davvicino. Ora, nella lotta della quale parliamo e che, più o meno difficile, non è risparmiata ad alcuno, ciò che più monta non è d'esser sempre il più forte—bensì di non mai capitolare. Nel gran libro della sapienza della vita v'ha un capitolo importante quanto quello di badare a non cadere: ed è quello dove s'insegna a rialzarsi quando s'è caduti. Perchè qualcuno traversasse la vita senza mai, in questa come in altre cose, offendere la legge della coscienza, converrebbe fosse perfetto—e noi non lo siamo. Attendiamoci perciò a tristi ore, nelle quali la vista si confonde, la lotta si fa penosa, la stanchezza e lo scoraggiamento ci prendono, fors'anco la debolezza estrema.… Non importa, un uomo caduto non è un uomo morto, è solamente ferito, e forse non ha che incespicato. Ciò che importa è ch'esso non se ne stia là rassegnato, che non perda la speranza, e, soprattutto, che non rinneghi lo scopo della vita. Se l'ideale rimane intatto, rimane anche la speranza della vittoria. Basta che il male si seguiti a chiamare francamente male, e che il caduto riconosea d'esser caduto. Soprattutto non sofismi, non menzogne!

»A questo punto importa l'intervento di amici esperti e sicuri. Sarebbe gran peccato che un giovane retto e non corrotto disperasse di sè e rinunziasse alla lotta a cagione della sua caduta. Rialziamolo e incoraggiamolo con una tenerezza inflessibile!

»Ma chi se ne preoccupa? Nulla uguaglia l'incoerenza del mondo verso i giovani. Esso non pensa che a dar loro le massime e gli esempi cattivi, per poi maltrattarli quando errano, e, soprattutto, tenerli in terra quando sono caduti. Ora leggeri ora rigidi, noi ignoriamo la pietà che rialza e risana, e pochi conoscono quella clemenza de'giusti che sta nell'odiare il male e nell' amare chi ad esso ha ceduto. Noi ci troviamo pur troppo su di una via poco battuta: si direbbe che ci si trova molto lontani dalle cose umane, benchè vi si sia più che mai. Riparare agli errori non dovrebbe essere una delle principali preoccupazioni della vita? L'esercito migliore non è quello che non è mai stato battuto; infatti, s'ignora come procederebbe nella disfatta. Saper essere vinti, coprire la propria ritirata, raccogliere le proprie forze, riparare alle perdite, fasciare le ferite, riprender coraggio e tornare sul campo con novella energia, ecco la gran prova, la prova suprema.»

Indi, da ciò ch'egli chiama «le basse caricature dell'amore» il mio autore sale nel campo del vero amore, che, egli dice, «la gioventù deve prepararsi a provare in ciò che ha di più elevato.» E procede dicendo come «l'attrazione che spinge l'uomo verso la donna oltrepassi di molto i limiti ristretti di una soddisfazione sensuale e passaggera» e parla della grande potenza misteriosa della donna sull'uomo—potenza per la quale questi, a sperimentarne tutta la verità, deve «inspirarsi del doppio rispetto, disè e della donna, forme diverse della stessa venerazione pel mistero della vita. Come il rispetto di noi medesimi ha per base l'alta idea che abbiamo della virilità, e perciò deriva da una sorgente più alta della nostra personalità particolare, così il nostro rispetto per la donna precede quello di una donna.»

Poi, procedendo sempre, il Wagner viene a parlare di un altro grave torto della società attuale—quello del pregiudizio che tien quasi separati i giovani de'due sessi e li impedisce di conoscersi, e favorisce quindi i facili amori, origine del disprezzo della donna, e priva la gioventù delle gioie e degli affetti migliori, di amicizie illuminate e benevoli, di sorrisi e di luce che dissipino le ombre del pensiero, di sguardi incoraggianti che allontanino le idee tristi e cattive «bisogni de'quali, egli dice, in un giovane che già non sia stato corrotto, sono ben altrimenti sensibili di quegli altri de'quali ci rintronano.» Indi egli conchiude con questa pagina di una verità tremenda:

«Se la nostra gioventù è così insulsa e imbronciata è che molti si son fatti scettici in amore. Essi han percorso le vie che da esso allontanano. La vita respinge quello che ne ha intorbidato la sorgente; essa ormai gli si rifiuta. Mai più egli potrà intenderla nella sua bellezza robusta. Nè il cielo azzurro, nè i fiori, nè l'acqua che mormora gli potranno più rivelare il loro segreto. Egli si sente escluso dalla vita. È la scomunica più tremenda. All'anima sua appassita pare appassito il mondo. Quegli che si rispetta e rispetta l'amore conosce le gioie intense, gioie di fanciullo, ad altri sconosciute. Egli ha serbata intatta la facoltà d'esser felice. La vita sana e forte scorre nelle sue arterie come il succo vitale nel tronco delle quercie, e la sua giovinezza gli comunica quell' ebbrezza divina che fa che il mondo intero canti nel suo cuore. Tutte le esistenze riunite dei viveurs non valgono un'ora della sua.

» L'entusiasmo giovanile non è che un'altra forma dell'amore. Esso cresce e diminuisce con questo. A mano mano che diminuisce in noi la facoltà d'amare e la qualità del nostro amore, l'entusiasmo diminuisce o s' altera. L' amore rispettato è non solamente una fonte di poesia, di gioia, di vita, ma anche di forza e di valoro. A coloro che serbano la castità virile appartiene al più alto grado il segreto della virtù. La virtù è il sunto di tutte le maschie qualità che fioriscono nel mondo della bellezza e della fedeltà; essa fa i cuori saldi, indomiti, gli occhi chiaroveggenti, le braccia capaci di fortemente agire. Questo concentramento di vigore, questa fiera coscienza della propria dignità e della propria forza sono il maggiore dei premi.

» E se si pensa al futuro, se vi ci si prepara, non devesi pur pensare al tempo in cui le qualità di capo di famiglia, di protettore della donna, di padre, ci creano sì grandi responsabilità? Quegli che non ha mai ringraziato i suoi maggiori d'esser vissuti in tal modo da lasciargli una buona salute, un sangue puro, una vitalità intera, non sa che cosa sia la solidarietà della carne e del sangue, nè quali austeri doveri noi abbiamo verso coloro che un giorno usciranno da noi. Fra tutti i delitti che si commettono sotto il sole di Dio, quello del quale meno che di qualsiasi altro vorrei gravarmi la coscienza è l'alterare in me stesso la sorgente della vita, e trasmettere ad altri un'esistenza diminuita, soggetta a tutti i mali, un corpo misero e un' anima frusta!»

Li 12.—Non avrà più luogo il ballo che, in seguito al malcontento rimasto dalla soirée musicale, i signori Falletti avevano deciso di dare, colla speranza di un successo maggiore e meno amareggiato. È morta a Sarzana una zia paterna del commendatore. A quanto mi dice la vecchia Marianna, era una santa donna, una zitellona, che aveva voluto molto bene al nipote e ai nipotini, e qualche volta andava a trovarli a Genova, benchè le facessero poca festa, e quasi paresse si vergognassero di lei.… Allora non era ricca; più tardi ereditò da un lontano parente. Quando seppero della sua morte, avvenuta quasi d'improvviso, i coniugi Falletti avevano sperato, e si disponevano al lutto. Ma essa invece non aveva lasciato al nipote che alcuni oggetti di famiglia, e la sostanza l'avea destinata ad alcuni istituti di beneficenza. Perciò essi avevano deciso —e tanto più ch'è carnevale—di tener nascosta «la disgrazia.» Ma un indiscreto giornale di Genova l'aveva annunziata, a cagione del testamento; e perciò alcuni altri giornali l'avevano messa nei loro necrologi. La signora Falletti ne fu contrariatissima, sbuffò, lucubrò per trovare un modus vivendi. Dopo qualche consulto decisero di rinunziare al ballo in casa, ma di non privare «quella povera figliuola» dei divertimenti cui la gioventù ha diritto; o tanto più che «una ragazza non sa mai quando sia la sua ora.…» E la madre ordinò per sè alcune toilettes di un elegantissimo mezzo lutto, la figlia mise una fascia di crêpe al braccio—e tutto fu combinato.

La sola persona in casa che pianse la povera vecchia zia fu la povera vecchia serva.

Li 14.—Oggi s'è saputo che il marchesino di Soria ha chiesto la mano della signorina Gilda Fiorelli. È stato un fulmine. Quando risalivo dal passeggio con Valentina s'udì, passando, un forte alterco in sala tra madre e figlia. Si distingueva la voce irata della madre che diceva: “Già, la colpa è sempre mia, ingrata!” Poi la voce, rotta dal pianto, della signorina Elisa, che gridava: “Sì, colla tua fretta e le tue imprudenze.…”

Cercai di far rumore e di affrettare il passo, tanto più che vedevo che Valentina ascoltava. “Un'altra delle solite scene,” disse. E poi continuò, salendo l'altro ramo di scala: “Signorina, che avrò da fare io per maritarmi presto? non voglio mica far la vita di Elisa, io—voglio essere felice, io!”—Le risposi che non c'era bisogno nè di maritarsi presto, nè di maritarsi, nè di essere infelici. “Ma allora,” riprese, “ho da farmi monaca, o istitutrice? Non ne ho punta voglia, sa!”—“Vedrai,” dissi, “che, se sei savia e mi ascolti, sarai, la duri poco, o molto, o anche sempre, una signorina felice.”

“Davvero?” disse, “una signorina felice? Io credevo fosse una cosa impossibile. Ma, allora, perchè si fa un così gran faticare per trovar marito? Io credevo fosse perchè la felicità non la potesse dare che il marito. Sento sempre dire: La sposa tale è assai felice. Il tal altro rende sua moglie felice. Il matrimonio dei tali altri è felicissimo.—E quando una si sposa tutti le fanno tanti rallegramenti, e dicono: Come è allegra quella ragazza—come è fortunata quella mamma! E le amiche, alle volte, piangono.… Per questo credevo che il matrimonio fosse la sorgente della felicità— che tutti quelli che sono maritati fossero felici!”

Più tardi.—Stasera Elisa non aveva mangiato nulla a desinare, e s'era ritirata subito dopo. Sua madre non parve preoccuparsene; disse ch'erano le solite cose che passano, che conveniva lasciarla tranquilla. Ma io non n'era persuasa; e, pensando giunto il momento che da un pezzo cercavo, col pretesto che avevo da fare, mi accommiatai con Valentina; e dopo, lasciata questa nello studio, immersa nella sua lettura, andai a vedere di Elisa.

Non aveva chiusa la sua porta nè acceso il lume. La vedevo un poco illuminata dal gas del corridoio, semi-sdraiata sul sofà, con un languore di tutta la persona, e nel viso un incantesimo doloroso. Quando s'avvido di me parve confusa dapprima, poi contenta. —Accesi un lume, chiusi la porta, e sedetti accanto a lei. Essa si rizzò, mi passò un braccio intorno alla vita, e appoggiò il capo alla mia spalla, senza parlare, con un certo affanno nel respiro.

Capivo che aveva bisogno di piangere; e presi a carezzarle i capelli e a dirle qualche parola affettuosa. Il respiro s'andava facendo sempre più corto, il petto si sollevava, scosso da quei primi singulti rapidissimi che escono come un gemito tremulo. Poi il pianto scoppiò violento, quasi infantile, e la povera personcina mi si avviticchiava addosso torcendosi convulsa. —Dopo qualche minuto i singhiozzi s'andarono facendo più radi e più lenti; si sciolse da me, e s'appoggiò al bracciale del sofà. Ogni tanto la scoteva ancora un singhiozzo, ch'essa secondava con un movimento quasi inerte del capo che reggeva colla mano, e gli occhi gonfi e arrossati, ma asciutti, erano come senza sguardo.

“Elisa,” dissi (essa, giorni addietro, aveva voluto ci chiamassimo pei nostri nomi), “che le è accaduto?” Essa fece uno sforzo per inghiottire; poi, colla voce rotta e alta del pianto che ricominciava, rispose: “Ciò che è accaduto non è nulla di nuovo; uno più uno meno.… Ma è che sono infelice, infelicissima, e che lo sarò sempre!” E si alzò concitata, e cominciò a passeggiare per la camera, ripetendo le parole «infelice, infelicissima,» esaltandosi sempre più.—“È dacchè sono in questa casa,” dissi, “che l'ho capito; ma c'era troppo poca intimità fra noi per poter osaro di parlargliene.”—“Oh!” rispose, “sapesse quante volte, fin dai primi giorni, avrei voluto parlarle io per la prima! Sentivo che in lei avrei potuto trovare un'amica —non di quelle amiche come le altre, che.…” S'interruppe con uno sconforto irato negli occhi e nella voce. Poi riprese: “Sapesse quante volte ho guardato lei con invidia! Sì, la signorina Falletti, la ricca signorina Falletti,” aggiunse con sarcasmo, “invidiava l'istitutrice, perchè la vedeva serena, perchè vedeva in tutta la sua persona una dignità che essa ha perduta!” E si abbandonò su di una sedia, e i singhiozzi ripresero, violenti, senza lagrime.

“Mia buona amica,” dissi andando a lei e riconducendola meco verso il sofà, “io credo che nella sua infelicità non vi sia nulla d'irrimediabile. Non sono circostanze che la rendono infelice, è uno stato d'animo che si può mutare.”—“Dica piuttosto,” rispose, “una condizione falsa, ingiusta, impossibile—una condizione non mia speciale, ma di tante e tante!”—E, svincolando le sue mani dalle mie, si rimise a camminare concitata; poi mi si fermò dinanzi guardandomi: “Ringrazi Dio lei,” disse quasi con ira; “al posto suo anch'io varrei qualche cosa di più che non valga, e non sarei infelice.”

E, con un sorriso amaro, continuò: “Come è ingiusto con noi il mondo—e come si pensa poco al bene di questa povera donna, tanto ipocritamente adulata! Bambine, siamo i giocattoli dei nostri genitori, che non sanno rifiutarci nulla, che dico? che ci procurano anche tanti di quei piaceri che non bramiamo, che non conosciamo neppure—piaceri che ci mettono mille capricci e mille vanità, e ci fanno credere che il mondo sia fatto per divertir noi.—Adolescenti, ci mettono in collegio. Ma, in gran parte dei collegi, si studiano tante cose che e'ingombrano la testolina che rimane leggera; e s'incomincia a invidiar quella perchè è nobile, a disprezzar questa perchè è povera, a rivaloggiare con un'altra perchè è brava, a odiare quell'altra perchè si burla di voi. Tutte le passioncelle lavorano lavorano—e non e'è sempre chi sappia o si curi di aiutarci a combatterle.

“Quando si è delle grandi e che comincia quel lavorío dei quindici anni, quel lavorío immenso di sogni, di chimere, di desiderii strani, di aspirazioni indefinite, si comincia a sentire, nelle ore di ricreazione, e specie dopo il ritorno dalle vacanze, un ronzio di mezzi romanzetti sussurrati nei gruppi delle amiche, commenti di fantasie ancora ignoranti che un desiderio malsano fa indovinar le cose a mezzo; spiegazioni arrischiate di quelle che la sanno più lunga e tengono a farlo sapere; confidenze ingenue delle prime passioncelle, confidenze vanitose dei primi trionfi.— Poi comincia qualche tentativo di varianti alla severità dell'uniforme, uno studio di golettini e di ricciolini. Ci par d'essere così liscie, così brutte in collegio! E quando poi ci si accorge che certe maestre hanno le stesse idee, le stesse voglie nostre, e chissà quanti più rimpianti!… E se poi si arriva a sapere o a immaginare qualchecosa della direttrice.… Che rimescolío, che brulichío, di piccoli pettegolezzi, di piccole malvagità!—E quando si esce al passeggio, che emozione pensando ai giovinetti di liceo che si faranno trovare al nostro passaggio, che ci seguiranno, che ci guarderanno in un certo modo.… E che sognare, la sera prima di addormentarsi, di una lettera mandata di soppiatto da quello.… Già mentalmente la si legge e si compone la risposta.”

Elisa s'interruppe, come ripensando. Poi seguitò: “Che lungo discorso le faccio! È che lei non è stata in collegio, e queste cose non le ha provate. Forse non sa come da certi collegi escano le ragazze che si credono innocenti e serene.… Non si sa, no, che tante n'escono già contaminate nella fantasia sbrigliata, con tutte le passioni già pronte a renderci vane, ambiziose, invidiose, leggere.… passioni che, spesso, non sono state che debolmente combattute, cui non sono stati pôrti, da mani sapienti e amorose, i rimedi che salvano, i principii e gli affetti che preparano a questa povera vita che credevamo così bella.… Usciamo, e quante di noi trovano in famiglia ciò che non han trovato in collegio?”

Essa si fermò di nuovo, e il suo viso acceso s'andò impallidendo e rattristando mentre riprendeva la sua passeggiata nervosa: “Ah! Nicoletta,” seguitò dopo un poco, “quanto male ci fanno quelli che pur ci amano! Non sono ancora pronte le vesti che devono sostituir l'uniforme, che si comincia a preoccuparsi del nostro matrimonio—non per prepararci ad incontrarlo degnamente, ma per finire di montarci il capo con desiderii e illusioni. Non ci si dice mai «se ti mariterai», si dice sempre «quando ti mariterai.» Il matrimonio diventa una cosa indiscutibile, indispensabile, una condizione sine qua non di felicità, e perfino di dignità muliebre!

“Perciò bisogna corcarlo questo marito, ad ogni costo. Ma che dico? non è tanto il marito che si cerca, quanto il partito: l'uomo importa fino ad un certo punto—è ciò ch'egli rappresenta, e, soprattutto, ciò ch'egli possiede o ch'egli può sperare per l'avvenire. E tutto si deve fare per questo. Bisogna vestirsi, bisogna passeggiaro, bisogna andare nei pubblici ritrovi, ai bagni, in visita da un'amica in villeggiatura o durante il carnevale, perfino in chiesa a volte! sicuro, qua a Roma alla Messa ultima a San Marcello —tutto per trovar marito. Bisogna coltivarsi per questo, bisogna esser belle, bisogna esser brave, bisogna esser buone, o anche, a seconda dei casi, leggere e civette—sempre per questo. E tanto n'è invalsa l'idea che, anche se non lo si fa per questo, anche se neppure ci si pensa, lo pensa la gente, e dovunque v'incontri vi considera senz' altro come una merce che la mamma porta in giro a far vedere.…

“E la mamma vi aiuta coi suoi consigli, e le amiche giovani coi loro esempi, e le amiche vecchie colle ricerche e i tentativi, e le cameriere confidenti colle adulazioni e i pettegolezzi.… E se uno è passato di qua due volte, se un altro vi ha guardata, se un altro s'è fermato, in una sala, a scambiar quattro parole con voi, si è già tutte in sussulto—mamma e figliuola cominciano a informarsi, a calcolare, a progettare; si cerca d'incoraggir l'amico.… Ahimè! quante volte s'è capito che quello non aveva nessuna intenzione—e quante altre volte s'è capito d'avere, colla furia indecorosa e malaccorta, guastato una cosa reale, ma immatura!”

Sul volto di Elisa era tornata un'espressione amara —il recente umiliante ricordo senza dubbio passava nell'anima sua.… Poi riprese: “Le dico tutto questo, Nicoletta, perchè lei che non è passata—ne ringrazi Dio!—per queste miserie, capisca che sorta di lavoro debba farsi intanto in un povero spirito, in un povero cuore di fanciulla—glielo dico,” ripetè con forza e tremando di collera e di esaltazione, “perchè voglio che mi compatisca se sono invidiosa delle amiche che si sposano, irritata colla mamma che guasta, con me stessa che non riesco—perchè voglio che sappia che se son frivola, scontrosa, distratta, inerte, se son diventata una povera sciocca, ridicola, infelice, la colpa non è mia!”

Profondamente turbata da quella tragedia intima di un'anima di fanciulla, che avevo immaginata, guardando intorno a me, le tante volte in vita mia, ma che non avevo mai vista così a nudo e davvicino, attirai Elisa fra le mie braccia e le dissi come intendessi bene tutto, e quanto fossi lungi dal giudicarla come essa supponeva. “Ah! lei,” rispose, “lei sì, perchè è giusta, ma gli altri! Povere donne che siamo, vittime di ogni convenzione che faccia comodo agli uomini, per piacere ai quali ei diamo tanta pena!… Aveva un bel mettermi in ridicolo Alberto oggi,” disse colla voce soffocata dallo sdegno, “perchè desidero di maritarmi! Dopo che nè lui nè nessuno s'è mai curato di farmi pensare a qualche altro ideale, nè a educarmi in modo da riempir certi vuoti… Ha un bel dire lui, lui che è libero di fare tutto quel che gli piace e che nessuno censura! Quelli stessi che si pretendono autorizzati a scapricciarsi in tutti i modi, a rivoltarsi nel fango anche, par che dimentichino che…”

Le guancie della fanciulla s'erano fatte di bragia. D'un tratto, mutando voce, disse quasi implorando: “Nicoletta, per carità, non mi disprezzi per questo che ho detto: non è codesto ch'io bramo—sa Iddio se disdegno la parte inferiore. Ma m'irrita l'immoralità, l'ingiustizia di una società così severa con noi e così indulgente con loro—mi sdegna il sapere che da noi l'altro sesso esige ciò ch'esso per sè pretende essere impossibile; mi rivolta il vedere che mio fratello, il quale, coll'approvazione del papà, coll'indifferenza, quasi la compiacenza, della mamma, si scapriecia senza scrupoli, senza pensare a una lotta colle passioni che gli fa comodo di reputare ridicola, sorride della sua povera sorella, che non aspira certo alle soddisfazioni del vizio, ma alle gioie dell' amore onesto e della maternità. La sua sorella,” aggiunse con un sorriso amaro, “ch'era piaciuta a più d'uno, che poi se n'è riallontanato per isgomento dei legami della famiglia, o perchè…” Fece colle labbra un atto di schifo, poi riprese: “Eppure, io non pretenderei che nessuno si sacrificasse per dare a me le gioie dell'amore e della famiglia. Scnta, Nicoletta,” seguitò prendendomi le mani e cogli occhi pieni di lagrime, “le giuro che non sentirei, o sentirei molto meno, questi desiderii, se fossi stata altrimenti educata, altrimenti indirizzata, se non avessero lasciato nel mio cuore e nel mio spirito tanti tanti vuoti… E invece forse l'avrò scandalizzata con certe cose che ho dette.” E rimase immobile dinanzi a me, come umiliata.

Io era rimasta tutto quel tempo quasi muta, colpita da una súbita rivelazione. Avevo indovinato tutta la genesi dell'infelicità di quella e di tante altre fanciulle; ma non ne credeva Elisa conscia a tal punto, non la credeva capace di giudicare della situazione con tanta verità. Quando poi essa mi espresse il timore di avermi scandalizzata con certe allusioni, risposi che scandalizzarsene non potrebbe essere altro che ipocrisia… Chi, in questo povero mondo, potrebbe negar di sentire certe inclinazioni? “Nè è a vergognarsene,” soggiunsi; “ciò di cui mi vergognerei sarebbe dell'ignavia di fronte a codeste miserie, della viltà d'amarle e di cercarne la soddisfazione, invece di combatterle col disprezzo delle anime alte e gagliarde.”

“E in quanto ai vuoti del cuore, al desiderio dell' amore e della maternità, del nido proprio,” seguitai, “capisco tutto, Elisa, e, quantunque io abbia, volente, scelto un'altra via, sento quanto stolta insincerità sia in quelle donne nubili che disdegnano quelle altre che hanno, od hanno avuto, un'aspirazione diversa. Nel celibato volontario, nella verginità amata, è una dignità e una superiorità, uno stato d'indipendenza fisica e morale che mettono in noi un fondo d'orgoglio fierissimo dal quale io stessa non so difendermi. Ma questo orgoglio non mi toglie di capire ciò che io stessa, un tempo, sotto la tirannia d'un grande amore, ho provato, ciò che è, e dev'essere, l'aspirazione e la condizione della grande maggioranza.”

Elisa mi guardò con due occhi confidenti. “Ah!” disse, “lei ha amato…”—“E chi è sulla terra che non ha amato?” risposi. “Qualche vizioso, sì—nessun altro certamente. E nelle anime sdegnose l'amore è forse più tremendo.”

Stemmo entrambe per poco in silenzio. Sulla piazza i rumori diminuivano, alla Trinità de' Monti battevano le dieci. Pensai con un po'di rimorso a Valentina, che avrei dovuta far coricare. Ma sentivo che in quel momento il mio dovere era presso la povera fanciulla che ni'aveva aperto il suo cuore e che, reclinato fra le mani il capo, ripetendo che l'infelicità sua era ormai irrimediabile, lo scoteva con una desolazione stanca.—Ed io, riattirandola fra le mie braccia, le andavo dicendo come essa poteva rimediare, dando alla sua vita degli scopi che non obbligano punto a rinunziare all'evenienza del matrimonio, ma che sono un lavoro del cuore e dello spirito che a tutto prepara, e dà in ogni stato dignità, calma, e conforti.

“Ah!” m'interruppe, “sì, vorrei, per esempio, studiare; mi ei sono anche provata; ma non m'è riuscito. Guai se, uscite di collegio, o anche qualche anno dopo, s'è creduto d'avere, come scioccamente si suol dire, finita la propria educazione: non s'impara più nulla, e si dimentica quel poco che s'è imparato—peggio ancora, si perde la facilità d'imparare, e, a volte, anche quella di riflettere; si finisce con trovar noiosi, seppure non illeggibili, tutti i libri che non sono romanzi, e non si sa più pensare che col cervello altrui —o colle convinzioni della volgarità altrui,” accentuò con un sorriso di sprezzo.

“E quando poi s'aggiungono certe preoccupazioni di cuore, o di fantasia, o anche solo di mondo, è finita, Io non invidio le scrittrici, e nemmeno quelle che per la loro coltura brillano in società; mi accontenterei di sapere abbastanza pel nutrimento dello spirito mio, per guarire da queste preoccupazioni che mi rendono ridicola, per sapermi guidare in questa burrasca della vita, fra tante opinioni che corrono adesso e che fanno girare il capo e scuoter principii eretti nelle anime nostre su basi troppo fragili… Lei forse non lo avrebbe supposto, non è vero? questo desiderio nella povera sciocca frivola Elisa… Ah! è che qua dentro c'è qualchecosa…” proseguì con una tristezza amara. “Sapesse quante volte sento l'inferiorità nella quale vegeto, la brama intensa di uscirne, di salire, di respirare altrove, che cosa non so bene… Sapesse, Nicoletta, come allora invidio quelle che sanno pensare, che sanno rispondere, che sanno sostenere i principii che amo e che non so nè difendere nè mantener saldi nell'anima mia! Vorrei servire anch'io la verità e la giustizia, fare un po'di bene a chi mi avvicina o circonda, non traversar questo mondo cieca, incerta, inutile. Lo vorrei soprattutto per uno…”

Essa aveva le lagrime negli occhi e nella voce. Capii a chi in particolare essa pensava in quel momento. “Brava Elisa,” dissi, “questo voto è nobile e santo; non lo lasci morir nel suo cuore—esso le ridarà le attitudini che le sembrano perdute: il cuore dà a volte ali all'ingegno. E così, studiando per far del bene altrui, a suo fratello, ella ne avrà fatto già molto a sè stessa.”

“Ma crede che basti studiare?” ripresi. “Nulla di buono, specie noi donne, si fa quaggiù senza l'aiuto della carità. A poco giova la dottrina, a pochissimo, spesso a nulla, le aride dispute, scppure non fanno male per le ire che fomentano. È soprattutto amare che dobbiamo, Elisa, amare, pregare, e predicar coll' esempio della vita cristiana, colla tolleranza unita alla severità de'principii, colla dolcezza unita all' incorruttibilità della coscienza, colla vivacità dello spirito e de'modi congiunta alla scrietà della vita. Dobbiamo saper andare in società e non temere di ritirarci nell'intimo della nostra camera, nell'intimo di noi stesse. Dobbiamo saper essere signore fuori e dentro la nostra casa, eleganti e semplici, studiose e massaie, ad un tempo; con civismo cristiano portare al bene della patria, al bene pubblico quell' interesse che fa agire con amore costante, sia pure ne' campi più modesti; pregare Iddio nella chiesa e nella casa, nel mondo e nella solitudine—pregarlo con poche parole, pregarlo con molte opere—con quelle della carità soprattutto.”

Temetti per un momento d'avere, trascinata dalla foga dell' anima, seccato la mia interlocutrice, d'averle tenuto un discorso che potesse parerle una predica. Perciò mi fermai a guardarla, chè avevo parlato passeggiando alla mia volta. Non m'ero accorta ch'essa aveva reclinato il capo nelle mani unite, in atto di preghiera.

Quando tacqui essa rialzò gli occhi umidi d'una luce nuova: “L'ho pregato, Nicoletta,” disse, “colle parole; aiutami tu”—e calcò con affetto su questo primo tu—“a pregarlo colle opere.”—“Non ne avrai bisogno,” risposi; “dapprincipio verrai bensì dai poveri con noi—ma ne imparerai presto la via, e quando avrai fatto, con carità vera, da to, avrai sentito ch'era quella la via della vita.—E non solamente verso quelli che più specialmente si suol chiamare poveri,” aggiunsi: “de'poveri ve ne sono al mondo d'ogni specie, anche fra i ricchi, anche fra i potenti.”—Una nube di tristezza passò sul viso della fanciulla.

“Son poveri i poveri,” seguitai, “son poveri quelli che ci servono in casa, quelli che lavorano, fuori, per noi—son poveri i parenti e gli amici nostri, e i gaudenti del mondo, e i colpevoli, e gli erranti per false dottrine—siamo povere noi stesse, siamo poveri tutti; perciò tutti abbiamo bisogno di carità, bisogno di darne, e di riceverne. Amiamo, Elisa, e lavoriamo; e la carità di Cristo avrà riempito i vuoti dei nostri cuori.”

Ci eravamo abbracciate, davanti un crocifisso ch'era accanto al suo letto.—Si udirono avvicinarsi de'passi nel corridoio. Erano il padre e la madre che si ritiravano. Mentre passavano davanti la porta s'intese il padre che diceva: “Oh! credi che a quest'ora dorme di certo. Son cose da ragazze. Se mi riesce quest'altro affare, perdio, vedrai che un marito glielo trovo; e guarirà.”

Erano passati. Elisa s'era fatta livida, poi scarlatta. “Coraggio,” dissi, “e all'opera! e anch'essi un giorno capiranno.”

Quando risalii ero agitata io stessa, sentivo che non avrei dormito, che non potevo pensare ad altro. E così misi qua tutto, come ricordo di una grande speranza sorta nel mio cuore.… Mio Dio, fa che si avveri!

Gli alberi del Pincio e dell'Accademia di Francia si disegnano già sul bianco dell'alba—e i campanili della Trinità de'Monti, come una preghiera, salgono nel sereno.

Li 16.—Oggi ebbe luogo e passò di qua l'accompagnamento funebre di un uomo illustre nella scienza e nella politica. Gran ressa di curiosi per le strade e la piazza, di signore che accorrevano, vestite di tutti i colori, chiacchieranti e sorridenti, come ad una festa. Valentina ed io guardavamo da una delle finestre del nostro studio. Essa s'era fatta pallida, e mi chiedeva, cogli occhi pieni di lagrime: “Ha lasciato dei figliuoli? Poveretti, come piangeranno!” Poi osservò che non v'erano sacerdoti nè croce. “Perchè?” chiese; “come sono stati poco pietosi gli amici di quel morto!”— “Preghiamo il Signore,” risposi, “pel povero morto e per loro.”

Stavamo colle mani giunte sulla finestra quando entrò la contessa Faustina, la quale, vedendoci pregare, fece le meraviglie.—“Care mie, perdete il vostro tempo! Non vedete ch'è un trasporto civile? non sapete che quello era un massone? È dannato—a che serve pregare?”—Valentina era tutta sgomenta. “Davvero, signorina,” chiese, “sarà dannato?”—“Cara,” dissi, “sarebbe una grande irriverenza verso Dio voler indovinare i suoi decreti. In quanto a me preferisco confidare nelle sue grandi misericordie.”—“Ma non si può dimenticare neanche la sua giustizia!” ribattè vivamente la contessa. “E chi le dice,” risposi, “che la dannazione di quell'uomo sarebbe giustizia?”

La signora era scandalizzata. “Come?” disse, “lei non sa ch'egli era un ateo?”—“Lo so,” risposi, “ed i suoi scritti e le sue parole e i suoi atti m'hanno contristata molte volte. Ma chi le dice che Dio non possa usare maggior misericordia verso quegli che, appunto perchè ateo, è passato sulla terra come un figliuolo d'ignoti, privo di que'conforti che sono lume e forza fra le insidie della vita—che al figlio sconoscente ed errante Egli non voglia ora aprire le braccia, come fece il padre del figliuol prodigo, in quella parabola da Lui lasciata su questa povera terra?”

La contessa non rispose a me, ma rivolgendosi a Valentina, disse: “Non lasciarti sedurre dalle idee della tua istitutrice: sono molto pericolose!”—“Zia,” rispose la fanciulla, “la mia signorina ha ragione, perchè leggo ogni giorno un capitolo del Vangelo, e ci trovo a tutti i momenti predicate la carità e la misericordia. Lo ha mai letto lei, zia, il Vangelo?”—La signora, fortemente irritata, rispose alla nipote dandole della pettegola insolente. “Zia,” rispose quasi piangendo la mia figliuola, “scusi, ma io non ho inteso di offenderla. Le domandava così perchè proprio stamani si leggeva il sermone della montagna, dove il Signore disse: Beati i misericordiosi, perchè troveranno misericordia. E io vorrei che lei, zia, trovasse misericordia!”

La contessa Valenti finì d'andar sulle furie. “Ah! è così che si educa,” disse rivolta a me, “una ragazza, a confidare nella misericordia di Dio per un empio e a dubitarne per una sua serva fedele! Signorina, questo è troppo!”—Valentina non mi lasciò il tempo di rispondere. “Zia, zia,” esclamò tutta agitata, “non rimproveri la signorina, perchè essa mi ha sgridata tante volte perchè io non le volevo bene—no, punto bene, zia, non le volevo! Ed è stata la signorina che m'ha detto che bisogna voler bene a tutti e non giudicar nessuno, perchè altrimenti non si è cristiani. Ed è per questo che io adesso voglio bene a lei, zia, che è tanto santa, e anche a quel povero morto laggiù, e prego per tutti.”

La signora s'era un poco calmata; ma rispose coll'arroganza di chi si sente umiliato: “Ti dispenso dal pregare per me: chi sta nell'ovile non ha bicogno delle preghiere di chi ne sta fuori.”—Trovai un pretesto per far allontanare Valentina, indi risposi: “Resta a vedersi s'è più addentro nell'ovile, più vicino al pastore, chi tiene la sua legge d'amore e di perdono scritta nel proprio cuore e ad essa informa i sentimenti e la vita, o chi crede servirla coll'arido formalismo ch'è la negazione dell'idea di Cristo, il grande avversario de'farisei, il gran martire dell'ira loro.”

“Ah! lei forse paragona noi cattolici ai farisei?” disse, ricominciando ad irritarsi, la signora. “Non dica noi cattolici,” risposi; “io mi credo più cattolica assai di loro, perchè sto fida alla dottrina fondamentale della Chiesa, depositaria della nuova legge, dottrina rimasta incolume traverso gli errori detti e commessi in nome di essa. È un gran danno,” aggiunsi con forza, “che loro fanno al cattolicismo affermandosi cattolici—son loro che fanno calunniare la nostra religione, e ogni giorno a schiere le allontanano le anime.”

La signora rispose compassionandomi e dicendo ch'io sono fuor di strada, perchè non capisco che se non si tien tutto saldo, tutto andrà a catafascio. “E che cos'è questo tutto che loro tengono saldo?” chiesi. “Ho gran paura che si riassuma in quel vano ostinato rimpianto che ha completamente falsato in voi, farisei moderni, lo spirito di Cristo, così opposto alle ambizioni terrene, così opposto a tutto ciò che alla materia sacrifica lo spirito.”

“Ma non capisce,” gridò la contessa, “che senza il potere temporale la Chiesa non è libera? Non vede.…” E cominciava ad enumerarmi gl'inciampi che la Chiesa incontra nell'esercizio del suo ministero. Ma non la lasciai proseguire, dicendole che li vedo da me, che ne provo un continuo intenso dolore. “Ma crede lei,” seguitai, “che se domani la Chiesa riavesse Roma quegli inciampi sarebbero tolti? O non capisce piuttosto che le si aggiungerebbero nuove tremendo difficoltà? Ben altro ci vuole!—E crede lei che nello stesso Vaticano, a cominciar dal Pontefice, i più ormai non ne sieno persuasi, non sentano che Dio ha destinato quest'ora della storia a produrre delle trasformazioni dalle quali la Chiesa uscirà più pura, più forte, più grande e feconda? Non crede che là dentro molti cuori, quello del Pastore soprattutto, già sono impazienti di liberarsi dagli impacci pesanti che ritardano il trionfo di Cristo?”

La contessa mi guardava, e forse non capiva; e insisteva, come su cose colle quali non si può transigere, sugli intralei posti dal Governo nostro alla religione. “Ma come mai,” dissi, “loro non s'avvedono ch'è appunto quella vana insistenza di rimpianti e di animosità che ai nemici della religione dà la forza maggiore? Crede lei che senza codesta i nemici della religione troverebbero tutti gli aderenti che trovano? Non sa quanti si allontanano dalla Chiesa unicamente per codesto, quanti rifiutano per questo di darle a educare o anche solo istruire nella religione i loro figliuoli, i quali vanno poi, senza alcun antidoto, in mano di chi insegna a rinnegare ogni principio di fede e spesso financo di spiritualismo, e ne corrompe, collo spirito, il cuore e la coscienza?”

Qui la signora prese a seagliarsi contro coloro che aiutano le teorie negatriei, lasciandole dovunque salire in cattedra e spesso incoraggiandole. “È doloroso,” dissi, “molto doloroso; e appunto per questo dobbiamo fare quanto sta in noi per avvicinare anzichè per far allontanare sempre più le menti, i cuori, le coscienze. Se noi ci sentiamo nel vero e nel giusto, se ci crediamo maggiormente illuminati, se ci sappiamo depositari della parola del Redentore, come possiamo non sentire, appunto perciò, maggior dovere di fare ogni sacrifizio pel bene dei fratelli? Perchè dovremmo aspettarli di piè fermo non solo, ma inspirar loro antipatia e diffidenza coll'offenderli in sentimenti legittimi, falsando in pari tempo lo spirito di Cristo e della sua dottrina? Non dovremo piuttosto inspirarci alla carità e alla misericordia infinite del Maestro per farci, come dice Paolo, tutti a tutti per tutti far salvi?”

“Lei è un'utopista, un'illusa,” rispose la contessa; “non si guadagnerebbe nulla, e si perderebbe anche quel che ci rimane: creda a me.”—“La compiango, signora,” dissi, “per questo triste scetticismo, che la fa calunniare gli uomini. Il guasto è grande, è vero, gli errori son molti, molti gli ostinati, moltissimi gl'indifferenti. Ma siamo anche in un momento di transizione, di disorientamento, d'incertezza, di profondi disinganni nel campo scientifico e nel morale e sociale.… Se il mondo poco ascolta l'arido predicar principii, esso non sarebbe sordo com'ella crede alla voce della carità, che, in quest'ora di cupidigia e di piaceri materiali, parlasse in nome di un principio sciolto da ogni preoccupazione terrena e, soprattutto, fosse animata dall'amore, che cerca, che aspetta, che compatisce, che aiuta.—No, grazie a Dio, non siamo ancora scesi così in basso—vedo che ancora i sacerdoti degni della loro missione son venerati; e se recano poco frutto è a cagione della barriera che ci tiene divisi in due campi. Oh! la togliessero—e vedremmo quanto slancio vi sarebbe, d'ambe le parti— e quanti di quelli ora separati dalle teorie s'intenderebbero nel campo dei fatti, e quanta luce si farebbe ne'cuori scossi, nelle coscienze purificate. L'idea cristiana non sarebbe divina e umana ad un tempo se non fosse negli uomini possente. Ogniqualvolta è stata intesa e applicata è stata feconda di vita.—Signore, fino a quando?…”

M'ero andata animando fino ad una commozione quasi violenta. La contessa era rimasta impassibile, e scoteva il capo. “Povera giovane,” disse, con una certa unzione, “lei è in buona fede; ma è fuor di strada. Vedrà che si muterà; il Signore le farà la grazia.”—“La faccia a lei la grazia!” risposi. “Io per me Gli chiedo quella d'imparar ad amare sempre più, a sempre meglio seguir quella legge ch'Egli riassunse alla vigilia del suo martirio: «Novo comandamento do io a voi: che vi amiate l'un l'altro; che vi amiate l'un l'altro com'io ho amato voi. Da questo conosceranno che siete miei discepoli se avrete amore uno per l'altro»—e della quale disse Paolo.…” E stesi la mano alla mia Bibbia per leggervi due versetti della prima lettera ai Corinti.

“Ah! ecco,” esclamò la contessa, “quel libro, quel libro! Non sa che è pericoloso?”—“Sì,” dissi, “è pericoloso—è pericoloso al vostro modo d' interpretare e d' insegnar la dottrina! Per questo lo tenete tanto in disparte, per questo lo dimenticate e lo lasciate ignorare. Ma, grazie a Dio, esso parla a volte anche a chi non vuole udirlo!”

E intanto avevo trovato il versetto: «Quand' io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho la carità sono come un bronzo sonante e un cembalo squillante. E quando avessi il dono di profezia e intendessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e quando avessi tutta la fede talmente che trasportassi le montagne, se non ho la carità sono un niente.» E gli altri: «Pei deboli mi son fatto debole per guadagnarli; mi son fatto tutto a tutti, per tutti far salvi.»— «Siccome io a tutto m' adatto per tutti, non cercando la mia utilità, affinchè molti sien salvi.» E questi altri, nella lettera ai Romani: «Porgete le mani a colui che è debole di fede, non disputando delle opinioni.» … «Noi che siamo i più forti portiamo le infermità dei più deboli.»

E nell' epistola di Giacomo: «Chè se avete uno zelo amaro e delle dissensioni ne' vostri cuori non vogliate gloriarvi e mentire alla verità: poichè non è questa una sapienza che scenda di colassù: ma terrena, animalesca, diabolica. Poichè dove è tale zelo è dissensione, ivi scompiglio ed ogni opera prava.» E in quella di Giovanni: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, dappoichè Dio è carità.»

In quel mentre rientrò Valentina, accompagnata da sua madre; e la contessa si trovò sollevata dall'imbarazzo di rispondere agli apostoli di Cristo.

1°ree; Febbraio.—Quindici giorni di silenzio. In questo frattempo ho avuto la gioia di vedere i primi frutti della risoluzione di Elisa. Essa ha cominciato la sua nuova vita con occuparsi di Rosina; ed è riuscita, mettendo in vista ai suoi un altro cameriere e perorando in favore di quella, a far licenziare Luigi e riprendere questa. Ma ce ne volle. La madre, che non aveva punto temuto per sua figlia l' influenza di quella ragazza leggera e inesperta, la temeva ora che una severa lezione l' ha ammonita sui pericoli del mondo, sulla ribalderia mascolina e sulla debolezza propria— ora che il tempo passato in un santo luogo dove la carità di Cristo illumina, rialza, purifica, ha compiuto in lei, sull' orlo del precipizio, la redenzione. Eppure, il mondo è così.

Questo caso mi fa ripensare a un bozzetto di Bourget, intitolato Un saint. Egli vi presenta un giovane di molto ingegno e di molta dottrina, ma ch' è la quintessenza del tipo fin de siècle. S' incontrano per caso, in un albergo di Pisa, senza alcuna conoscenza preventiva; e vanno insieme, allo scopo di vedervi un certo affresco di Benozzo Gozzoli, a visitare Montechiaro, un'abbazia olivetana del territorio di Pisa, soppressa, e, come monumento nazionale, custodita, per incarico del Governo, dall'antico abate di essa. L' albergatore, udendo l'intenzione di que' signori che gli chiedevano all'uopo una vettura, aveva cominciato con esultare all' idea che la patria era salva perchè quella congregazione era stata soppressa.

Quando i due viaggiatori son presso alla mèta vedono un vecchio prete (l'abate aveva dovuto spogliare il saio dell'ordine) che, poveramente vestito e con aria festevole, vien loro incontro come ad amici. Essi passcranno la notte lassù ed egli fa loro da ospite e da cicerone, con quella semplicità paternamente bonaria che spesso si riscontra nei buoni preti. Egli vuol sapere i nomi di battesimo dei due visitatori, per chiamarli più famigliarmente «signor Paolo» e «signor Filippo;» egli alterna le illustrazioni artistiche del monastero col rimpianto rassegnato e fidente della comunità dispersa, e le premure pel benessere de' suoi ospiti con semplici e serene allusioni di fede e di carità.

Il narratore è commosso da quell' impressione. Non così il suo compagno che, inasprito dallo scetticismo voluto e dall' ambizione insoddisfatta, tutto disprezza e tutto deride, e si diverte alle spalle del povero frate.

Questi fa vedere ai suoi ospiti, come curiosità, certe monete romane rinvenute dagli affittuari del monastero. Essi constatano che alcune sono rarissime, hanno un grande valore. Il vecchio abate se ne rallegra tutto, e pensa che le venderà e che col ricavato potrà riparare, per quando i suoi fratelli torneranno, una certa terrazza destinata alla passeggiata degli invalidi.

Indi i viaggiatori si ritirano nelle loro camere. Il signor Paolo, prima di addormentarsi, aveva udito il suo compagno passeggiare un pezzo e con passo agitato nella camera sua; indi s' era addormentato ripensando alle impressioni, soavemente rivelatrici, di quel luogo e di quell' uomo di Dio.

L'indomani si desta piuttosto tardi e si vede dinanzi il rozzo servitore col vassoio del caffè, e il vecchio abate che, con una primitiva e gioviale cordialità italiana, è venuto a dargli il buongiorno, e gli fa dei bon mots, e gli dice che ha celebrato la Messa ed ha pregato pei suoi due ospiti. Poi gli racconta che il signor Filippo è stato più mattiniero di lui, perchè lo ha visto per tempo che s' arrampieava come un gatto sul monte in faccia.

Il signor Paolo s' alza, va a rivedere il suo Gozzoli, poi desidera rivedere le monete. E il padre gli porta la cassetta, che soleva tenere aperta nel suo studio, dove l' avevano esaminata la sera prima. Il dilettante cerca subito le tre o quattro monete più rare; ma, con terrore, s' avvede che due di queste, le più preziose, non ci son più. Egli pensa tosto che nessuna persona ignorante poteva avere, con simile discernimento, commesso quel furto; rammenta l' irritazione del suo compagno per la mancanza di una somma che gli permetterebbe di farsi innanzi, con non so quale pubblicazione, nel mondo letterario—rammenta il suo passeggiare convulso la sera prima, e si trova, suo malgrado, costretto ad ammettere che il giovane, dopo aver lottato la notte contro la tentazione, si fosse introdotto al mattino, mentre l' abate celebrava la Messa, nella sua cella e, non prevedendo un secondo esame del compagno alla cassetta, avesse involato le due monete e fosse indi andato a fare una corsa su pei monti per istordirsi.

Egli si sente accasciare—e tanto più che lui stesso poteva essere sospettato. E corre tosto dal padre, con un filo di speranza che potesse esser questi medesimo che avesse levato le monete.—Ma ciò non era. E il buon vecchio, che non dubita un solo istante dell' innocenza dell' uomo che gli sta dinanzi, livido per lo sgomento e il dolore, lo rassicura chiamandolo mon enfant, «avec une voix que je ne lui connaissais pas encore, non plus celle de l'hôte amical, mais celle du prêtre.» E alla sua dichiarazione che avrebbe tosto consegnato il ladro ai carabinieri risponde imponendogli di non farne nulla, di non lasciar menomamente sospettare al compagno la scoperta fatta; lo obbliga anzi a giurare di non tradirsi in alcun modo. E lo lascia per un impegno.

Il signor Paolo va fantasticando quale sarà il concetto del padre; e si sente tutto rimescolare quando vede tornare il compagno, il quale, coll'alterazione del viso, l' inquietudine delle mosse, le giustificazioni per la passeggiata mattinale, gli conferma quanto ha dovuto immaginare. E, giunto il mezzogiorno, egli pensa all' intimo supplizio cui dovrà sottostare, fra lui e il santo vecchio, il giovane colpevole.

Il padre siede a tavola, buono e sereno come sempre, e buono e incoraggiante in particolar modo verso questo, del quale osserva il pallore e cui versa, per rianimarlo, del vino santo, il quale, gli spiega, si fa coll'uva serbata fino a Pasqua e poi torchiata, e della quale il proverbio dice: «Nell' uva son tre vinaccioli: uno di sanità, uno di letizia, uno di ubbriachezza.» E soggiunge che nel suo vin santo non sono che i due primi.

Dopo il desinare, durante il quale il narratore aveva più volte osservato che il compagno inghiottiva lagrime, essi risalgono; e l' abate dice ai suoi ospiti (dovevan ripartire poco dopo) di scegliersi ciascuno una o due di quelle monete, per sua memoria; e porta la cassetta nel parlatorio dove stavano, la depone sulla tavola e si ritira.

Il signor Paolo ha ora finito di capire il concetto del padre—concetto, egli dice, che solo l' intima conoscenza del cuore umano che ha il confessore poteva suggerire. Egli si sente commosso, e dice ad alta voce: «Que c'est bon un bon prêtre!» Il giovane, più pallido e nervoso che mai, si volge in fretta dall' altra parte, verso la finestra—l' altro prende a casaccio una delle monete e si affretta a lasciarlo solo, ritirandosi nella propria camera. Un momento dopo egli ode il vicino uscire dal parlatorio e correre rapidamente lungo il corridoio, verso la porta dell'abate.…

«Che cosa gli disse,» egli scrive, «e che gli rispose il sacerdote? Lo ignoro, e lo ignorerò sempre. Ma so che più tardi, quando ripartivamo, e mentre questi, sulla soglia dell'antico convento soppresso, ci salutava colla mano, vidi nello sguardo che il mio compagno dava all' umile prete che il dì prima avea deriso, l' alba di un' altra anima.»

Non ho saputo resistere alla tentazione di guastare, riassumendolo per metterlo qui, il mirabile bozzetto: troppo esso m' ha commossa quando lo lessi, troppo vivamente ho sentito per esso due cose cui il caso di Rosina m'ha fatto pensare. La prima parrebbe un paradosso: quel giovane, scettico, sarcastico, divorato dall'acredine dell' ambizione insoddisfatta, riesce dapprima, benchè niuna cattiva azione consti a carico suo, oltremodo antipatico. È quando è divenuto un ladro che si comincia a provare per lui della simpatia: e ciò perchè in pari tempo egli soffre, lotta, e finalmente confessa e ripara. È dunque una prova di più di quanto profondamente umano sia lo spirito di Cristo, così severo col fariseo incensurato e superbo, così indulgente col pubblicano colpevole e pentito—lo spirito di quella dottrina che non transige col male, che in tutti i modi ci aiuta ad evitarlo o combatterlo—e che, caduti, ci offre sì largo e pietoso perdono, sì possenti aiuti a rialzarci, a riabilitarci, a salire più alto di chi orgogliosomente si compiace di non esser caduto mai.…

L'altra cosa cui il caso di Rosina come il bozzetto del Bourget m'ha fatto pensare (e la grande diversità dei due soggetti e delle due colpe prova di quanto generale applicazione sia questa dottrina) è la potenza unica che hanno sul cuore umano i buoni ministri della nostra religione. Leggendo la prima parte di quel bozzetto non si spera nè aspetta nulla da quell'anima così profondamente corrosa dal male del secolo; e anche quando il rimorso e la vergogna per la colpa commessa cominciano a fare in quella il loro lavoro benefico, si sente che a nulla approderebbero, che l'orgoglio unito all'avidità impedirebbe quel giovane di tornare indietro, lo risospingerebbe anzi sempre più in là sulla via dello scetticismo, e forse dell'iniquità.

Ci voleva la dolce evangelica bontà di quel santo vecchio, che fece più intenso il rimorso e richiamò più gagliarda la voce del dovere, dei primi principii forse imparati in un'adolescenza cristiana; ci voleva anche la confidenza che raramente può inspirare uno che non sia prete—quella confidenza che viene dal veder nel buon prete, non solo l'uomo uso a domar le passioni e a pensare e a vivere con carità, ma il confessore, quello ch'è avvezzo a penetrare fino nel più intimo delle coscienze colpevoli, delle anime piagate…

Molti sono i preti, pur troppo, che, sia per virtù che loro manca, sia per non avere l'anima informata alla carità di Cristo, non inspirano questa fiducia, non aiutano altrui a questi intimi risorgimenti. E grande è il loro torto—immenso il danno.—Ma molti più che generalmente non si creda sono gli altri—e molti più ancora sarebbero ove la funesta scissura fosse tolta, ove, d'ambe le parti, per amore del bene, le recriminazioni finissero, e ai preti timidi o incerti non fosse, da quelli che nella Chiesa di Cristo, alterandone lo spirito, spadroneggiano, inceppata o isterilita la carità, e il mondo non seguitasse a trascurar di cercare i migliori, a sfuggire e diffidare in massa, senza conoscere, tutti e tutto confondendo.

E ripenso all'albergatore di Pisa, che potrebbe anche essere un deputato, un giornalista, un maestro, un declamatore qualunque, che, per amore alla salvezza della patria, si sentiva rassicurato pensando che la pericolosa congregazione è soppressa.

Li 2.—Per aiutare Elisa ne'suoi nuovi propositi le ho fatto fare la conoscenza di Elena Maren, che può esserle nella vita amica e maestra. Ed è coll'entusiasmo nato dalla crisi dell'altra sera, di lunga mano preparata, e risolta da un provvido disinganno, ch'essa frequenta quella casa della quale soventi Valentina le aveva parlato, ma che fino allora le era apparsa come traverso un velo di squallore e di tristezza. Dianzi, abbasso, mentre suo padre teneva il consueto petit comité co'soliti affaristi e sua madre faceva la corte alla non incensurabile duchessa di Sant'Albano, che la ricambiava con cortesia di aristocratiche degnazioni, essa mi diceva: “Lassù, in quelle camere modeste si respira una nobiltà e una grandezza che invano avevo cercata sotto certi orpelli—e in quell'ambiente austero, fra quelle persone provate dalla sventura, ho trovato una serenità che dai gaudenti del mondo è molto molto lontana.”

Malgrado il malumore della madre, che la vorrebbe ora più che mai mettere innanzi, in cerca di qualche altro marito, essa studia tutti i modi per isfuggirle; e passa ogni giorno un'ora, due, tre, con Elena, la quale la inizia, colle parole e più colla pratica, all'azienda domestica, a certe virtù modeste e grandi che sono come le armi della donna nella vita; la mette a parte de'sistemi coi quali in casa sua educano i figliuoli, la prende seco nelle sue visite ai poveri, al dispensario, dove le insegna a vincere il ribrezzo e le impressioni dolorose e a curare e confortare i malati; le fa prendere amore alle passeggiate solitarie ed artistiche, le fa leggere i suoi libri, le fa conoscere i suoi amici migliori.

E in Elisa si va come rinnovando la giovinezza sciupata, la scettica apatia di lei scompare per far posto alla nascente vigoria di uno spirito che ritrova un ideale e una mèta, le mille piccole preoccupazioni egoistiche vanno tacendo, soggiogate da una preoccupazione nuova e generosa, le indefinite tristezze, gli acri rimpianti, le invidie roditrici, svaniscono nell'intima gioia della riconquista di sè stessa, nella coscienza d'avviarsi ad essere, a fare qualchecosa. Perfino il suo viso, che dianzi avea quasi costante un'impronta di stanchezza, di noia indifferente, par che ora rispecchi qualchecosa della nuova vita interiore; e le linee inerti e fredde par che vadano acquistando una nuova espressione.

La contrarietà della madre, che pel disinganno di sua figlia avea sognato tutt'altro genere di conforti, sì che nemmeno apprezza la serenità nuova di lei, e la nuova bontà che le risparmia gli usati rimproveri e lo spettacolo delle solite crisi di nervi, le toglie di fare alla sua vita tutte le riforme che vorrebbe. Spesso deve cedere, e fare, e andare; ed io stessa la esorto a non troppo mutare d'un tratto.—Ma dove essa si mantiene inesorabile è nell'abbandono di certe indecorose, ridicole, dannose arti di menzogne che vorrebbero essere estetiche—busto e scarpe stretti, tacchi alti, lavoro di tavolozza—e in una riforma di quelle scollature compiacenti che sono una delle più umilianti vigliaccherie femminine.…

Per questa soprattutto la madre è adiratissima. “Con una carnagione come quella!” esclamava ieri, “con contorni di quella fatta! Domando io se c'è sugo di tener tutto nascosto—se non è un vero peccato.… E poi avrai il coraggio di lamentarti perchè non trovi marito! Non lo sai ancora che agli uomini.…” Uno sguardo di Elisa, tale sguardo del quale non l'avrei creduta capace, troncò, quasi come una strozzatura fisica, le parole in bocca a costei.

Li 3.—…

In fondo alla gran chiesa solenne alcuni ceri ardevano intorno a una bara modesta; due lunghe file di domenicani cantavano requie al vecchio fratello estinto. Appiè della bara posava una corona colla scritta: Al padre Alberto Guglielmotti—la marina italiana. In fianco all'altare, accanto al generale dell'ordine, era un ammiraglio.

M'ero appoggiata a una colonna guardando, mentre le meste salmodíe erravano salivano sotto le vôlte alte del tempio.—Il frate ottuagenario, due sere prima caduto sulla breccia, riposava—l'anima gagliarda che, innamorata di Dio, del mare e delle patrie glorie, aveva, alla mano infaticabile, dettato tante pagine vibranti d'italiche grandezze, di tempeste e di fragor di battaglie, era salita all'infinita pace. I fratelli, ammantati di bianco e di nero, colle torcie in mano, cantavano —ritto guardava l'ammiraglio—sui fiori che la nostra marina avea deposti sulla povera bara pioveva un pallido raggio di sole.

Li 4.—Elisa, iersera, aveva espresso il desiderio d'andar a fare in casa Fiorelli una visita di congratulazione. La madre protestò clamorosamente, e corcò di rinfocolare nella figliuola il primitive risentimento contro la rivale fortunata. Ma Elisa insisteva, malgrado un'emozione che la faceva arrossire e impallidire a vicenda. Io venni in suo aiuto offrendo d'accompagnarla. La signora finì con adattarsi; ma disse che non riconosceva più sua figlia, e che in casa sua, da qualche tempo, spira un'aria che non le piace.

Andammo oggi, noi due. Elisa era alquanto nervosa, e non parlò quasi mai durante il tragitto. Quando il coupé si fermò in via Venti Settembre, davanti casa Fiorelli, ebbe un piccolo sussulto, come se le fosse doluto d'esser giunta così presto. Ma si ricompose tosto, e quando fu nel salotto dove le signore Fiorelli stavano in circolo, col fidanzato e alcune amiche, essa abbracciò la signorina Gilda e le fece i suoi augurii con quella commozione sincera che mettono in cuore le vittorie intime. La fidanzata, coll'egoismo delle felicità spensierate, non parve vedere, nella visita della signorina Falletti, nulla al di là di una delle tante visite che in questi giorni riceve; e, con molta disinvoltura, tornò a sedere al posto suo obbligato, presso lo sposo.

Questi pareva leggermente seccato. La madre guardò per un momento Elisa con una piccola aria di trionfo, che si affrettò poi a dissimulare chiedendole di sua madre con una premura affettata.—Un silenzio penoso regnò per qualche momento nel piccolo circolo; poi la conversazione riprese, ma fiacca e stentata, mentre i due fidanzati seguitavano a bisbigliar fra loro, inclinati l'un verso l'altro, tenendosi per mano e dandosi le convenzionali occhiate amorose, senza menomamente incaricarsi della presenza altrui.

A un certo punto la signora Fiorelli disse alla figliuola di far vedere alla signorina Falletti i suoi regali. Allora quella si scosse e, con un sorriso di vanità trionfante, senza staccarsi dal fidanzato, si alzò per passare di là. Elisa e le altre signorine seguirono.

Io rimasi—mentre la signora mi andava magnificando la quantità e lo splendore dei regali, la ricchezza del corredo, i patti fatti collo sposo circa il lusso del quale dovrà circondare la sua Gilda. “Abbiamo fissato tutto,” disse, “il numero delle carrozze, dei cavalli e dei servi, lo spillatico per le toilettes, i divertimenti, le bagnature, e anche.… s'è assicurato l'avvenire in caso di vedovanza o di separazione. Insomma credo proprio che a mia figlia non mancherà nulla e sarà felice.”

Quando gli altri rientrarono in sala la signorina Gilda prese a servire il tè, aiutata dal marchesino. Terminato ch'ebbero, si scoperse che non v'erano nel circolo due seggiole libere vicine; e una delle amiche tosto s'alzò, con una premura degna di miglior causa, perchè i due non avessero a rimaner separati neppure per un momento. Ed essi sedettero, e ripresero le loro smorfie.

Ed io intanto andavo pensando come la volgarità di certi usi sociali guasti anche lo cose più gentili. Una coppia di fidanzati, che sarebbe tanto simpatica se fosse fatta di due che si amano senza smancerie, che si avvicinano più per meglio conoscersi che per soddisfare un morbido desiderio, e seriamente si preparano alla solennità dell'unione per la vita, è invece così spesso qualchecosa di triviale e di nauseante. E ciò per quel continuo ricercarsi, sia per passione, sia solamente per convenzione—per quell'egoismo a due che, durante il tempo del fidanzamento, fa parer legittime le più strane sconvenienze verso il resto del mondo—per quelle assiduità occessive che generano i desiderii e i malsani languori, e in pari tempo preparano la sazietà per dopo. Sazietà così precoce quando l'amore non è stato temprato da alcun alto ideale, da alcuna lotta gagliarda—assiduità che, per questo, poco o nulla valgono a farsi reciprocamente conoscere, a render utile quel tempo che dovrebbe essere di reciproca prova, e che a volte, specie nelle classi eleganti, è abbreviato di tanto che si vede la mostruosità di unioni fra due che sono l'un l'altro estranei, e forse non si conoscono che pei frivoli patti del contratto nuziale e.… qualche indulgente licenza amorosa.

Quando tornavamo, Elisa, immersa ne'suoi pensieri, non parlava affatto. “A che pensi?” le chiesi dopo un po', mentre entravamo nella piazza del Quirinale e gli occhi nostri erravano in quello splendore, nella luce del tramonto. “Mi domandavo,” rispose, “perchè ora mi senta tanto meno invidiosa che non mi sentissi poche settimane addietro.”

La carrozza s'era fermata, perchè la guardia passava, colla banda che suonava una marcia di trionfo. Guardammo la bandiera del reggimento che, nell'aria vibrante, s'allontanava, guardammo al balcone dal quale Pio IX, in un'ora memoranda, disse quel: «Benedici, gran Dio, l'Italia» che sì profonda eco ebbe ne'cuori e che aspetta d'essere, nel giorno del trionfo di Cristo, da un altro balcone, ripetuto.…

“Tu sei ora meno invidiosa,” risposi dopo un poco, per la stessa ragione per la quale quella marcia, quella bandiera, la vista di quel balcone t'hanno fatta ora impallidire—mentre forse poco tempo addietro saresti passata indifferente, preoccupata di tutt'altro. Gli alti ideali, quando accendono un'anima, quante miserie spazzano, da quanti piccoli tremendi legami vi sciolgono! e che elemento sono di pace fra le nuove tempeste, di fiducia fra le nuove preoccupazioni, di carità fra i nuovi sdegni!”

Li 5.—Il signor Alberto s'è avveduto del mutamento seguíto in sua sorella; e in principio mi pareva lo considerasse con un certo interesse e una certa simpatia. Ma poi la corrente esteriore che sempre più va travolgendo quel giovane e sciupandolo nell'anima e nel corpo, lo distrasse anche da codesto, quasi completamente. Elisa, che il bene del fratello s'era proposto come uno de'nuovi scopi della sua vita di fanciulla, si rattrista per lui e scoraggia, assai; e tanto più in quanto capisce che tardi ci ha pensato, giacchè non l'ha avvezzato per tempo al rispetto e alla confidenza verso di lei. Della commozione di quella sera non so se qualchecosa sia rimasto. Forse sì, in fondo a quel cuore traviato ma non corrotto ancora; ma converrebbe saperne profittare.

Oggi ne parlavamo, lei ed io; ed essa era un poco irritata. Cercai di persuaderla che nel lavoro sulle anime non conviene aver fretta, che molto dobbiamo aspettare dal tempo e dalla vita—e lavorare intanto con quella prudenza che insegna «l'intelletto d'amore.» —Se prima, distratta da altre preoccupazioni, essa era passiva di fronte a questa e a tante altre cose, ora essa sarebbe passata all'intolleranza dell'inesperienza. E in questa la mantiene e rinfocola la zia Faustina, colla quale essa s'è confidata e che davvero non può esserle un'opportuna consigliera.

Osservo ch'essa coglie ora tutte le occasioni per dare, in presenza di suo fratello, delle stoccate alla scienza moderna; sicchè ogni volta è una replica più o meno aspra, ch'essa non sa rintuzzare cogliendo nel segno. Poi fa allusioni pungenti, anche in presenza d'altri, alla sregolatezza della vita. E lui fa spalluccie. Poi farà un predicozzo sulle pratiche religiose. E lui sorride.—Essa ignora ancora completamente come la verità s'insinui nelle menti, l'amore del bene ne'cuori. Anch'essa è stata educata nella religione gretta e sterile, mummificata nel formalismo, che non ha mai capito l'Evangelo, che non ha fatto di sè stessa la maestra dello spirito e del cuore—religione che sta, non in noi, ma accanto a noi, come qualchecosa di convenzionale che impone i suoi legami e le sue occupazioni, ma non fa parte dell'intimo dell'anima e della vita; seppure non si tinge di colore politico— colore ch'è anche un astringente e un disseccante.

Questo colore Elisa non lo avrebbe; e per evitar che lo assuma sto contendendola alla zia e a que'preti nefasti che sogliono salir le scale di lei. Ma non è facile: è grande la presa che il bigottismo ha sugli spiriti non profondamente cristiani; mentre chi intende il vero spirito del Vangelo rifugge da codesta misera parodia dell'idea religiosa.

Ho cominciato con indurla a sostituire col libro delle preghiere liturgiche, che sono uno splendido estratto della Scrittura, de'Vangeli, delle lettere degli apostoli, i libri di preghiera che aveva, scelti fra quella massa di libretti pieni di devozioncine grette, di preghierine stereotipate, o insulse o fanatiche, che lasciano lo spirito senza nutrimento e il cuore senza calore, e fanno muover verso Dio più le labbra che l'anima —que'libretti che v'inculcano sempre più quell'anticristiano egoismo che fa parere unico scopo della vita e della fede debba essere la preoccupazione della salvezza dell'anima propria. Non solo: ma vi fanno dire, fra l'altre cose, un mondo di bugie, seppure non di bestemmie.

Vi fanno, per esempio, chiedere a Dio di distaccare il vostro cuore «da tutte le creature.» E son libri, s'intende, fatti per gente di questo mondo, che deve vivere in questo mondo, e amare, e quanto! intorno a sè, e per le quali l'affetto è non solo bisogno, ma dovere.—Alludono, diranno alcuni, all'amore sensibile.… Ma, Dio buono, quando questo non trascende a pensieri od atti colpevoli, non è desso semplicemente legge di vita? non è desso origine della famiglia? E la maggior parte delle persone che ogni giorno ripetono quella preghiera perchè è stampata nel loro libro, non sono desse mogli e madri, o ragazze che hanno tutta la possibile buona volontà di divenirlo alla loro volta, e che forse in quel momento stesso pensano all'uomo che onestamente amano?

Ma dunque, perchè servirsi di quella sublime fra le facoltà umane ch'è l'unione a Dio per mezzo della preghiera per deformarci coll'ipocrisia? E perchè, invece di tanto farci pregare pel nostro distacco dalle creature, non allargarci l'anima con quella carità che, lungi dal fare disordinati o eccessivi gli affetti, li innalza e purifica, e, come dice Paolo, «si fa tutta a tutti per tutti far salvi?»—quella carità che vi fa esser di quelli dei quali così stupendamente dice Lacordaire che «han posto la loro purezza sotto la custodia della loro carità?»

E così, per questo vuoto e falso indirizzo religioso, vi son tante signore che frequentano le chiese e si pretendono religiosissime, e faranno magari tutti i giorni quelle e tante altre ipocrite preghiere di simil genere, e poi dicono male del prossimo allegramente, e allegramente si vendicano, o fomentano negli altri sospetti e dispiaceri; o sono altere o ingenerose verso i poveri e gli umili, o intolleranti verso quelli che errano, o noncuranti le responsabilità morali—o rivaleggianti fra loro nell'esposizione al pubblico del seno e delle braccia e nel numero degli ammiratori, o nell'indulgenza di certe licenze e di certi discorsi sdruccioli—più curanti di combinar queste cose col loro formalismo religioso, che credono basti a salvar l'anima, che di chiedersi quali sieno veramente i doveri della donna cristiana.

Quando vado a una Messa di giorno festivo, specie sulle ore tarde, e vedo un'accolta di donne—alcune eleganti come a una qualunque vana comparsa, indifferenti, distratte, aspettanti, con in mano qualcuno di quegli insulsi libriccini, e un'aria di noia più o meno rassegnata, il termine del rito—altre che leggono in certi grossi libri che conosco bene, ripieni di preghiere e di divozioncine bigotte, e anche più rimpinzati da certe immagini e certe pagelle delle quali della gente che vede poco chiaro inonda il mondo cattolico—altre che, invece di seguire i sublimi pensieri simbolici del Sacrifizio, che probabilmente ignorano, recitano il rosario, macchinalmente, con un borbottio frettoloso e tirando il fiato ogni tanto come trombe aspiranti, ora chiudendo gli occhi, ora atteggiandoli a una certa estasi che non ha proprio nulla di elevato nè di elevante, io mi domando qual frutto per la vita, per le difficoltà e le insidie d'ogni giorno, rimarrà in quelle donne che in modi così variamente superficiali hanno assistito alla Messa.…

Ho parlato delle donne, non perchè altrettanto, a un dipresso, non si possa dire degli uomini, ma perchè le donne, nelle disposizioni dello spirito, offrono più spiccati i contrasti e fanno più dolorosamente notare i vuoti di quello.

Eeco perchè il gran rito della nostra fede ha, presso chi non distingue nè approfondisce, assunto un'impronta quasi volgare—ecco perchè «andare a Messa» pare al volgo—intendo il volgo dello spirito —quasi sinonimo di bigottismo. Leggerezza negli uni, pietismo negli altri, negli uni e negli altri ignoranza e superficialità, non solo fanno rimpicciolire le forme del culto, ma fanno sentire quanto poco solidamente fondata, quanto poco custodita possa essere la fede nella grande maggioranza, quanto poco, soprattutto, possa essere feconda.

E i sacramenti? Del battesimo e della cresima pochi sanno gli altissimi significati: pel primo si suol fare una più o meno gaia e più o meno inzuccherata e inaffiata festicciuola di famiglia, e per entrambi si sceglie o si accetta un padrino o una madrina, i quali, quando hanno pensato a un regalo e ad alcune mancie, si sentono completamente sdebitati; e, seppure pensassero ad adempiere ai doveri della paternità morale della quale hanno assunto gli obblighi, se ne vedrebbero, nella maggior parte de'casi, dispensati, o evitati come gente noiosa—a meno che ai parenti del figlioccio non facessero sorridere una meno spirituale prospettiva.…

Della confessione.… ahimè, quale strazio si fa d'ambe le parti! Da quella di que'preti che la possente medicina non sanno amministrare e, o per ignoranza, o per grettezza d'idee, o per preoccupazioni di partito, o per mancanza di zelo, o per zelo male inteso, la isteriliscono, seppure non la rendono malefica. Da quella di coloro che nella confessione—più che l' intimo beneficio morale dell' esame interiore, del reale riconoscimento delle proprie colpe, del consiglio e l' aiuto attinti da chi ha esperienza delle miserie umane e dei loro rimedi e parla in nome di un principio e di una legge divini—cercano l'assoluzione.… L' assoluzione che non pensano quanto severamente condizionata sia alle disposizioni interiori di pentimento vero e di volenti propositi, quanto di rado quindi, anche quando è concessa, sia valida—così provocando gli scherzi stolti di coloro che la confessione farebbero credere un vile accomodamento della coscienza, che confessa la colpa senza volervi rinunziare, che cerca il perdono senza volere il rimedio.

La comunione? quanti sono che si accostano all' altare meditando la grandezza dell' istituzione della cena, del testamento di Cristo alla vigilia del martirio? E perciò, oltre che per la vigliaccheria umana, quanti dell' uno e dell' altro sacramento non partecipano di soppiatto, quasi vergognandone, come di avanzi di pregiudizi, di atti di debolezza?—E il matrimonio, ch' è la sanzione divina dell' unione di due vite e della formazione della famiglia, per quanti non è divenuto, dopo l' istituzione dell' atto civile, una semplice benedizione, cui ricorrono per rispetto alle antiche abitudini, e agli scrupoli della sposa?

E il culto di Maria, la sublime vergine ebrea

Umile ed alta più che creatura

che, traverso i secoli, inspirò il genio degli artisti e de' poeti come l'amore ne' cuori, quanto non è stato rimpicciolito, sciupato, colle meschine moltiplicazioni e le forme fanatiche e paganeggianti?

Noi cattolici dovremmo gagliardamente ribellarci contro tutto ciò che ha messo sulla nostra religione un' apparenza gretta, vuota ed ipocrita, e la fa perciò calunniare da chi ama tutto confondere per tutto distruggere, e le magnifiche istituzioni del nostro culto, divine e così profondamente umane ad un tempo, fa ai poco pensanti apparir tali da giustificare i dileggi de' frivoli e de' volgari. Pur troppo, ha in tutto ciò la sua parte di colpa, in questi paesi meridionali soprattutto, una porzione del clero stesso, porzione la quale, in parte a cagione di preoccupazioni sciagurate, ma più ancora a cagione d'ignoranza e di meschinità d' ideali, ha isterilito, mummificato la fede nel formalismo.

Dico formalismo e non forma: chè la forma è necessaria al culto per la semplice ragione che non siamo puri spiriti e che, a possentemente, costantemente, proficuamente innalzarci, le pure astrazioni non bastano —non bastano per le anime più elevate, per le menti più chiare, tanto meno basterebbero per la massa. Ma il formalismo è ciò che, invece di servirsi delle forme come mezzo a salire, se ne fa poco meno che scopo ultimo. È il formalismo che fa calunniare le forme—è il formalismo che persuade molti d'aver compiuto il dovere religioso, d'essere cristiani, quando hanno, in qualche modo, adempiuto alle pratiche— è il formalismo che, restringendo i cuori e gli spiriti, spesso li fa dimenticare gli obblighi primi de' cristiani —l'integrità della coscienza e del costume, la carità fraterna, l'umiltà, e prepara gli uni all' indifferenza, gli altri al fanatismo.… se non all' ipocrisia.

È il formalismo che, quasi zavorra, tiene spiriti e cuori compressi, gravati abbasso, e li fa aggirarsi fra idee meschine, che non danno per la vita alcun vero e stabile frutto, e tutt'al più serviranno a qualche individuo, ma non giovano a spandere intorno, vivo e fecondo, lo spirito che largamente migliora i popoli e fa trionfare i grandi ideali cristiani. È ad esso perciò che tanti devono la mancanza dello slancio necessario ad abbandonare i meschini puntigli di parte, i gretti interessi e le ire impotenti, ad ascoltar la parola di pace, di perdono e d' amore che da venti secoli risuona sulla terra, e chiama, chiama—e aspetta.

Li 7.—Stamani, mentre Valentina era assente, la signora Falletti venne nel nostro studio. Era raggiante, e mi raccontò che un amico di Firenze aveva scritto a nome di un amico suo, il barone Gentili, chiedendo pel figlio di quello la mano di Elisa. “È figlio unico,” disse, “il padre è ricchissimo, è stato fatto barone per certe elargizioni, hanno palazzi e ville, e sono imparentati con famiglie dell' antica nobiltà.” —“E come è il giovane?” chiesi. “È un bel giovane,” rispose. “L' abbiamo visto qualche anno fa a Viareggio. Allora era giovanissimo, ma già molto disinvolto e ricercato. Ad Elisa piaceva.”—“Ma non lo conoscono più di così?” chiesi senza dissimulare lo sgomento che mi prendeva.

“L' amico Ranucci,” rispose la signora un po' impacciata, “dice ch' è stato un giovane piuttosto brillante, si capisce, ma che è un perfetto gentiluomo.”— “Ma sa, signora,” replicai, “che povero significato abbiano nel mondo queste due parole? e che cosa possa nascondersi, pel morale e pel fisico, sotto quelle altre, così indulgenti, piuttosto brillante?”—“Eh! Dio buono,” rispose seccata la signora, “ci siamo! Lei vuol sempre troppe cose, troppe minuzie, troppe pedanterie. Ci vuol altro a questo mondo! Lei ha bisogno di vivere, cara signorina, di conoscere la società. Lei che cita tante cose francesi dovrebbe conoscere il proverbio: Il fò che junesse se passe. Creda a me, più ne han fatte prima, meno ne fanno dopo.”—“Sì,” risposi, “quando son sazi e frusti nel corpo e nell'anima e che.… Povera Elisa!” esclamai, mentre mi sentivo arrossire e impallidire a vicenda. “Oh! non s'inquieti, signorina,” riprese irritata la signora; “a lei non tocca—lasci il pensiero a me che son la madre. Se si dovesse guardar tanto pel sottile come fa lei, si andrebbe avanti davvero a questo mondo! Al giorno d'oggi! Quando uno è un gentiluomo non si può pretender di più.” E con questo la signora Falletti s'alzò e se n' andò salutandomi freddamente.

Ero rimasta così inquieta che temo d'aver dato alquanto male le mie lezioni a Valentina. Avrei voluto correr tosto da Elisa.… Ma Rosina, cui avevo chiesto di lei, m' aveva detto ch' era uscita con sua madre. —A colazione comparve stravolta, e vidi che non mangiava. Mi guardava spesso e, in un momento nel quale i genitori erano assorti dalla vivanda che avevano dinanzi, mi fece cenno che, dopo, sarebbe salita.—La signora Falletti, benchè parlasse d'altro, era trionfante, e tutti i suoi discorsi avevano una tinta rosea, anzi dorata. Il commendatore parlava poco, come sempre, ma le sue grosse labbra abbozzavano ogni tanto un sorriso di soddisfazione e gli occhi verdi guardarono due o tre volte con compiacenza la figlia, che pareva voler evitare quegli sguardi. Il signor Alberto era più pallido del consueto e non parlò mai. Un momento, vidi ch' ogli fissava sua sorella con uno sguardo profondamente triste. Valentina osservava tutti, e poi guardava me, come sconcertata.

Quando la colazione, che mi parve eterna, fu terminata, risalii con Valentina, dicendole che oggi, non sentendomi io bene, non saremmo uscite. Ed essa corse nel suo angolo, a confortarsi colla sua Percoto. Indi mi ritirai nella mia camera, dove presto mi raggiunse Elisa.

Questa era anche più stravolta di prima. “Nicoletta,” disse tosto, “so che sai tutto; che devo fare?” S' era lasciata andare su di una sedia, e ne' suoi occhi era una vivacità insolita, e nella bocca qualchecosa che diceva che la sua agitazione era fatta di timore e d'incertezza bensì, ma anche di una certa gioia e di un certo desiderio.—Le risposi che, pel poco che sapevo, non potevo darle altro consiglio che quello di non precipitar nulla, d' informarsi, di conoscer meglio.

“Ma,” disse, “credo che i miei abbiano già precipitato —so che mio padre ha risposto, non un formale, ma in un modo che quasi lo equivale. Mi par di capire che questo matrimonio è stato preparato da qualche tempo, da lui e dal Ranucci col padre Gentili.” —Chiesi se sapeva che genere di famiglia fosse. “Non so bene,” rispose perplessa; “so solo che sono molto ricchi; non ho mai inteso parlar di essi altro che per la loro ricchezza.”

Tacque per un momento, poi aggiunse con una certa esitanza, e arrossendo un poco: “Avevo inteso anzi, quell'anno a Viareggio, bucinar qualchecosa di un po' losco sull' origine della sostanza.” Poi si affrettò a soggiungere: “Ma il giovane, naturalmente, non c'entrerebbe per nulla.—Era venuto là a trovar sua madre,” seguitò poi, “una signora bella ancora e molto elegante e festeggiata; era, malgrado i suoi quarant' anni, una delle stelle della season.”—“E lui?” chiesi. “Lui era un bel giovane, un po'vano, mi pareva, un po'leggero.… Ma da allora è passato qualche anno, e si sarà fatto più serio.”—“È ciò che converrebbe vedere,” dissi. “Già,” rispose, “verrà presto, certamente.” E si guardava le manine stese sulle ginocchia—e, forse, pensava che un grosso anello di fidanzata sarebbe stato molto bene all'anulare della sua sinistra.

Io taceva—e osservava un certo che di convulso nei tratti del suo viso e i suoi occhi bassi e irrequieti. Quando li rialzò mi guardò come spaventata. “Nicoletta,” disse, “tu non sei contenta, tu vedi male.…”. Risposi che, infatti, temevo molto. “Oh! mio Dio,” disse scoraggita, “e che fare? I miei genitori sono entusiasti dell'idea, non ammettono dubbi.… Io, vedo bensì che giocherei una gran carta—ma penso che se lasciassi andare quest'occasione, forse non se ne presenterebbe nessuna di migliore, e che sarei allora daccapo un' infelice perchè i miei genitori mi rinfaccierebbero sempre il mio rifiuto. Tu sai,” aggiunse tristemente, “in quale ambiente mi tocchi vivere. Ed è anche per uscirne che quasi accetterei chiunque mi si presentasse.”

Le chiesi s'era sicura di mutare in meglio—le rammentai la diceria sull'origine della sostanza, la leggerezza della madre, le tendenze dimostrate dal giovane, e le feci osservare quanto più grave debba riuscire, se non è buono, l'ambiente della famiglia acquisita, dove neanche è il compenso degli affetti primi, e quanto tremendo, soprattutto, debba essere il sapersi legate ad un uomo che ha su di voi intimi e dispotici diritti e l'anima del quale sia straniera alla vostra—ad un uomo che sarà il padre dei vostri figli e col quale non potrete andare d' accordo—che non potrete stimare, nè amare d'amore serio e duraturo. “Per carità, Elisa,” aggiunsi, “non rovinarti, non esporre te e lui stesso alla mostruosità di un'unione fatta senza amarsi nè conoscersi, per un progetto interessato o un capriccio che, a volte, si soddisfa perchè s'è disposti a dimenticar poco dopo la fede giurata e i doveri assunti.”—“Sono mostruosità,” essa rispose, “molto frequenti, sempre più frequenti. Dicono che adesso l'amore non è più di moda—fuorchè,” aggiunse con un sorriso acerbo, “quand' è illegittimo.…”

Ci guardammo.… S'era fatta livida, e le sue labbra tremavano. Poi disse a mezza voce: “Hai ragione. Vorrei che neanche venisse.”—“Perchè?” risposi; “lascialo venire; lo giudicherai—per quel tanto che un uomo si può giudicare vedendolo.”—Ma essa, ormai, era sgomenta. “È molto simpatico,” disse; e un rossore leggero passò, con quel ricordo e quel timore, sul viso della fanciulla. Poi soggiunse: “E come farò a lottare coi miei? Non ne avrò la forza. Me ne diranno tante che finiranno col ripersuadermi.…”— “Povera figliuola,” risposi, “non t'hanno insegnato a volere.… Ma urge di cominciare. Non senti come incalzano le insidie della vita?”

Li 10.—Il barone Alfredo Gentili è venuto due giorni dopo la risposta del comm. Falletti. Un giovane sui ventisei anni, di una bellezza già sciupata da ciò che il mondo chiama vivere e che meglio potrebbe chiamarsi morire—vestito con quella finta trascuratezza ch'è la più pretenziosa delle eleganze, un po' dinoccolato, un po' distratto, molto poseur, moltissimo gascon. Uno di quelli che crederebbero di parer borghesi e provinciali, o non favoriti dal sorriso del dio odierno, se trovassero che qualchecosa è buono, che qualchecosa è bello, che qualchecosa è degno di ammirazione. Trovava che in Italia tutto è primitivo, tutto è volgare. In Italia non si sa vivere, non si sa flâner,how to flirt, nè vestirsi, nè mangiare, nè bere, nè, forse, pensare e muoversi. Aveva sempre in bocca Parigi o Londra o New-York. Emetteva ogni tanto sentenze nebulose, con certe velleità di posare ad un Amleto rammodernato. Citava Stendhal e Renan, con qualche pizzico di Schopenhauer.

La signora Falletti era in una perpetua ammirazione —ammirazione tale che, sentendo di non poter arrivare tant'alto, parlava, contro la sua abitudine, assai poco. La sua consueta arroganza pareva scomparsa —si sarebbe detto che non si sentiva degna di divenir la suocera di un simile genero.—Il commendatore pareva soddisfatto, ma, lui pure, un po'impacciato di fronte a tutta quella esoticheria, a tutti quegli olimpici disprezzi.—Il signor Alberto solo sapeva tener fronte al barone; e lo faceva con una dignità e un'energia che a me piacevano molto, e molto dispiacevano a'genitori, che gli facevano, invano, cenni e strizzate d'occhio.

Elisa aveva preso il partito più conforme alla sua natura: taceva quasi sempre, e si mostrava poco men che imbronciata. Ma l' occhio mio, di lei esperto ormai, vedeva ch'essa soffriva e lottava, e, non volendo guardarlo, lo guardava a tutti i momenti.—Lui che, per la risposta del padre e il contegno di entrambi i genitori, si sentiva sicuro, non si occupava gran fatto della signorina. Evidentemente, egli aveva aspirato alle cinquecentomila lire di dote della figlia del banchiere, e, per averle, si adattava anche a prender in moglie una donna che gli era indifferente.—Del resto, che importava? Da una certa citazione sfuggitagli in un momento di a parte col signor Alberto e ch'io avevo udita passando, si poteva anche presumere che ben poco stretto e ben poco grave sarebbe stato per lui il legame matrimoniale.…

Più tardi—era lunedì—venne gente, e ballarono. Il barone Alfredo, dopo essersi fatto vedere accanto alla signorina in un'intimità alquanto cavalière, direi quasi insolente, s' era, appena ebbero cominciato a ballare, ritirato nel fumoir.

Verso la fine della serata osservai che il signor Alberto voleva parlarmi. Ma conveniva farlo senza dar nell' occhio alla madre, e mai ci si riusciva. Finalmente, nell'anticamera, dopo ch'egli ebbe aiutato l'ultima signora a indossare la sortie, e mentre s'udiva avvicinarsi il fruscio dell'abito di sua madre, egli mi passò accanto rapidamente, dicendo, fra i denti e concitato: “Salvi Elisa.”

Questa, quand' ero da poco in camera mia, venne a battere alla mia porta. Era ansante, non tanto per aver salito le scale rapidamente, si vedeva, quanto per l' emozione che la soffocava. “Dunque?” dissi.— Essa mi guardò con due occhi smarriti. “Oh! Nicoletta,” disse, “dammi forza contro di loro e contro me stessa.…”—“Ben altri che non sia io, può dartela,” risposi; “chiedila a Lui, volente.”—“Non so risolvermi a volere,” disse. “Se potessi non rivederlo più.… ma senza aver da prendere questa risoluzione che, malgrado tutto ciò che ho visto e udito, mi costa troppo.”—“Lo ami dunque già?” chiesi. “Non lo amo,” rispose; “ma sai che tremenda disposizione morbida sia nell'animo d'una ragazza che hanno abituata a sognar giorno e notte il matrimonio?”—“La immagino,” risposi; “ma spero che ne trionferai, per amore, non solo dell'avvenire, ma della tua dignità. Te lo dico in nome di tuo fratello.”—“Alberto che t'ha detto?” mi chiese ansiosa. Le ripetei quelle due parole di lui.

La fanciulla piegò il capo fra le mani. Poi, rialzandolo, disse: “Pregherò lui di provar a parlare ad essi: io non oso.”—“Potrà parlare anche lui,” dissi, “e la sua parola ti sarà di valido aiuto. Ma tu vorresti abdicare così al tuo diritto sacrosanto di donna libera? vorrai startene timida e muta di fronte ad un atto che decide del tuo avvenire e che solo la tua volontà deve determinare? Vuoi avere un'anima di schiava, che soggiace, non al dolce e santo vincolo dell'amore figliale, ma all'iniqua patria potestà pagana, anzichè usare della sacra libertà bandita da Cristo?”

Elisa s'era levata in piedi, e guardava Lui che avevo additato sulla parete. I suoi occhi si riempirono di lagrime, il suo viso s'era fatto pallidissimo. Mi strinse forte le mani e disse: “Vado adesso—saranno alzati ancora. Altrimenti.… ho paura. Prega per me.” E corse fuori a precipizio.

L'indomani, dopo un rinnovarsi in famiglia di lotte violenti, cui prese parte anche il signor Alberto, il barone era ripartito, e i coniugi Falletti, di un umore nerissimo, non parlavano nè ai loro figliuoli nè a me. A un certo punto del desinare, la signora, rivolgendosi al marito, disse, a proposito di non so che, e accentuando acerbamente le parole: “Guardarsi dai ficcanaso e i faccendieri, la più antipatica razza di gente che ci sia.”

Li 11.—Elisa va sempre più prendendo amore a ciò ch'essa chiama la vita. Un giorno che, accennandovi, avevo detto: “La tua nuova vita” essa avea vivamente protestato dicendo: “Lascia l'aggettivo: l'altra non era vita; quando s' è inutili a questo mondo non si vive, si vegeta.”

Al posto delle sue alternative di apatia e di nervosità è sorto un giocondo fervore d'azione che ha fatto moltiplicare il suo tempo e lo sue forze fisiche, dianzi spesso abbattute. Dapprima temevo che, il primo entusiasmo sbollito, essa si sarebbe fiaccata. Ma sempre più mi vado persuadendo che sono gli entusiasmi e i fervori frutto di slanci superficiali e di spirito d'ostentazione quelli che si fiaccano e ci fanno veder tanto deteriorare d'istituzioni, di società, di opere buone, iniziate sotto gli auspicii della moda, della voga, del ton del quarto d'ora. Quelli che hanno per base un serio ideale, un rinnovamento interiore, sono ben altrimenti saldi e perseveranti, ben altrimenti fecondi.

Stamani che Elena non poteva uscire, Elisa era venuta dai poveri con noi; e osservavo lo sforzo che ancora, dinanzi a certi spettacoli miserandi, contrae l'essere suo avvezzo finora ad ogni delicatura di mollezza signorile, a non pensare, a non immaginare, a non credere.… Ed anche ha da fare tuttora a lottar contro i disinganni cui deve prepararsi chi va a vedere, a verificare, a mettersi in un pratico contatto, a cercar di fare del bene. Guai a chi vi si accinge con poesia di utopistici ottimismi, con pretensioni di trovar sempre tutti onesti, tutti sinceri, tutti virtuosi, tutti grati, tutti miti! Quello poco durerà alla prova.

Eppure, siamo circondati, nelle classi illuminate, e non bisognose, e ricche, di tanti disonesti, di tanti bugiardi, di tanti viziosi, di tanti ingrati, di tanti prepotenti —tanti che son lungi dall'avere le infinite attenuanti de' poveri.… Ciononostante, specie quando si tratta di persone che hanno l' aureola d' un nome o d' una fortuna non importa come ammassata, siamo tanto tanto indulgenti, ci sentiamo tanto onorati di avvicinarle, di stringer loro la mano.… Che vuol dire tutta la severità che ci prende di fronte alle miserie morali di chi lotta colle miserie materiali, e vive in un' ignoranza alla quale come fuochi futui balenano i riflessi della nostra civiltà infrollita, de' nostri scetticismi disfacitori, de'nostri vizi, e a' cui orecchi risuonano ormai d'ogni parte le parole de'sobillatori e le promesse Iusinghiere? E perchè, se ci sdegnano i feroci delitti che, non i poveri, ma i malvagi e folli settari dell' anarchia van perpetrando, se ci destano tanto intensa pietà le vittime di questi, non pensiamo anche al cumulo di crudeli egoismi, molli e raffinati, che, colle più pacifiche e gentili apparenze, fanno soffrire, languire, estenuarsi lentamente innumerevoli creature, e nei secoli van preparando, con tutte le corruzioni, tutte le miserie e tutte le abiezioni e tutti i deliri?

Eppure, malgrado tante cagioni di corruzione e di disperazione, tanto seminar di scetticismi e di odii che fanno i falsi amici del popolo, non si crederebbe quanta fede e quanta rassegnazione rimanga in tanti di questi poveri d'ogni parte d'Italia. E ancor meno si crederebbe quanta gente si trovi, grata per ogni inezia che si dia—e quanta vera poesia di sentimento e di espressioni, e quanta tenerezza pei figliuoli, e quanta cura pei vecchi, e quanta carità reciproca—fino a trovar donne che cedono a una vicina parte dell' elemosina avuta e che è, non superfluo, ma pane che si tolgono di bocca! Noi abbiamo delle donne che, quando il marito trova lavoro, vengono ad avvertircene «per non rubare,» dicono, «l'elemosina ad altri.»—Si trovano pure, è vero, anche tra i poveri, le madri cattive, ed anche crudeli, i padri che sciupano all'osteria e peggio i figli sconoscenti, gl'ingordi, gli esigenti, gl'insolenti, gl'ingrati, gl'invidiosi, i pigri, gl'impostori.… Ma quale meraviglia? Ed è questa una buona ragione per disprezzare e trascurare tutti, e non cercar piuttosto d'incoraggire i buoni e di migliorare i tristi?

Oggi nella prima casa dove s'entrò trovammo una trentina di disoccupati che stavano seduti discorrendo. Al nostro passaggio tacquero tutti. Nella semi-oscurità non poteva distinguere i visi. Ma sguisciando tra loro, che si scansavano per farci posto, non so che brivido mi prendeva.…

In una camera era una donna che aveva ottenuto in quel giorno un posto alla cucina Sonnino delle madri lattanti. Era a letto per curare certe piaghe alle gambe, le solite piaghe delle varici strapazzate colle fatiche—chè è lavandaia, e non aveva trovato lavoro che all'altro estremo della città, ai Prati di Castello, e, incinta, recava fin là i panni sul capo, trascinandosi appresso due bambini che non voleva lasciare, mentre il marito, fabbro disoccupato, andava in giro a chieder lavoro, struggendosi di stenti e di pena per non poter più mantenere la famiglia, e recando a casa a volte qualche torso di cavolo o qualche rifiuto d' osteria.

I bambini le stavano tutti tre intorno, i due più piccini le insudiciavano il letto, uno, tutto moccioso, gridava e la tormentava senza interruzione. Ma lei era raggiante. “Pensi, signora,” mi diceva, “mangerò tutti i giorni!” E altre donne, che ci avevano seguite in quella camera, la guardavano con una specie di ammirazione. E ripetevano: “La sora Amalia mangerà! la sora Amalia mangerà!”

Là vicino c'era un' altra donna, bianca per l'anemia, che faceva tacere colla minestra dei frati i bambini suoi, uno rachitico, un altro rovinato da scottature, in una camera vuota, meno una coperta in terra, in un canto. Tutto il lusso della casa era in uno stanzino di passo, dove stava, in un buon letto pulito, inferma cronica, la vecchia madre di lei. Il marito, muratore disoccupato, s' è buttato in Tevere il mese scorso.

Più in là, in una piccola cucina a tramontana, buia e fredda, c' era un uomo in letto, da molto tempo malato di bronchite, che all'ospedale dapprima non poteva entrare perchè non aveva gli estremi per essere accettato, e ora che il male s' è mutato in fiera polmonite non vi trova posto, perchè rigurgita di malati d'influenza. Quando ci vide si mise a piangere e, col respiro breve e la voce, rauca pel catarro e rotta per l'affanno e i singhiozzi, che a volte usciva come un sibilo, ci raccomandava la sua famiglia.

La moglie, che appena si reggeva, faceva cuocere poche foglie di broccolo. Un ragazzo lì presso era buttato in terra, addormentato. “Ha vegliato suo padre tutto stanotte,” disse la madre.—Il medico condotto, chiamato da tre giorni, non s' era visto ancora.—Dei bambini stavano, nella camera là presso, intorno a un'altra donna. “È una vicina che fa la carità di tenerli,” disse la donna, “sebbene che lei pure ne ha, ed è tanto poveretta.”—“Brava,” dissi a quella, “che avete carità pel vostro prossimo.”—“Eh! diammene, signora,” mi rispose, “e che non semo cristiani?”

Un'altra loro bambina, di otto anni, cieca, sordomuta, cretina, mostruosa, un'altra vicina pietosa la porta tutti i giorni a Santo Spirito—un quattro chilometri di strada—per le scosse elettriche.… “Vedeste,” diceva la madre, “è un filòmeno. Ah! signora mia, non se sa più a che Madonna portarla! Le avemo provate tutte!” E l'uomo andava dicendo: “È la Madonna che vi ha mandate—oggi proprio mo no stavo disperato. Che il Signore vi dia tanto bene!”—“Signore, per carità non ci abbandonate,” aggiungeva la moglie, che pareva uno spettro. “Signore mie, qua se more de male e de fame, credeteme, non ve dico la buscía!”

Quando uscivamo essa ci pregò di lasciarci accompagnare da certi loro conoscenti “che stanno,” diceva, “in questo stesso palazzo.…” Trovammo una ragazza a letto, che pareva intontita. “Questa è mia sorella,” disse una donna ch'era là e che si reggeva colle grucce; “ha la febbre da un anno e non se po'liberà.” In mezzo alla camera era seduto un uomo giallo, che ci guardava con certi occhi incantati. “Quest' omo, signore mie, lo vedete come mi sta? Mi esce pazzo dalla passione perchè non trova da lavorà. E li figli anche stamattina sono andati a scola senza mangià gnente, e sapete co che fame ce tornano?” L'uomo alzò gli occhi torbidi in faccia a noi. “Le creature vogliono mangiare, sapete!” disse con voce cupa. Poi tacque, e il suo sguardo riprese la fissità di prima.

In un' altra stanza trovammo una donna, una romagnola, che guardava una sua creaturina d'un anno, accoccolata sur un sacconcino posato su due seggiole e ricoperta di brandelli d' uno sciallino rosso. Non ci diceva nulla—pareva pietrificata dal dolore.—Osservai la povera creaturina—era agli ultimi—moriva d'inedia per lo scarso latte avuto dalla madre, la quale, dacchè quella era nata, si nutriva appena, colle febbri addosso, il marito bracciante senza lavoro, e altri due figliuoli da mantenere.

Cercai di confortarla accennando a questi. Non dimentico lo sguardo intenso, quasi fiero, col quale quella donna mi rispose: “Non siete madre voi!—E lui,” seguitava, “è fuggito stamattina presto, perchè non voleva vedere, non voleva! L'ama assai, sapete, la sua creatura! E si strugge, capite, a vederla morir di fame! Non sono i signori soli che vogliono bene alle creature!” Poi, con una mossa che aveva del selvaggio, si buttò in ginocchio davanti le immagini sacre del letto, e singhiozzò: “Madonna, Madonna mia bella, aiutatemi voi!”

Il bambino s'era steso, poi rivoltato con de' movimenti convulsi; poi i pugnetti piccini, magri, neri, erano rimasti stretti su que' cenci rossi, il visino giallo, distrutto, qua e là macchiato di lividi, gli occhioni ceruli, la bocchina aperta rimasero immobili.

Li 12.—Stasera, cosa rara, il conte Alessandro era venuto a portar nel salone di casa Falletti il suo profumo di opoponax, il suo umore scontroso, e i suoi sbadigli. Elisa scriveva in camera sua, Valentina aveva la sua lezione di pianoforte. La conversazione languiva fra lui, la signora Falletti, seccata per una villania ricevuta oggi, a quanto mi narrò Elisa, da una dama della haute, e i due commendatori. Valeria ed io chiacchieravamo un po' in disparte.

A un certo punto fummo scosse da un'esclamazione irata del conte, il quale energicamente significava la sua indignazione contro il cuoco che aveva servito oggi certi fagiani cotti in un modo abominevole. “Due fagiani di Boemia!” tuonava. “E quella buona donna di mia madre che non capisce niente! Già, è un pezzo che lo dico, con lei non si può vivore. Pensi, zia,” seguitava, “adesso l'han presa gli scrupoli perchè, naturalmente, la sera mi faccio aspettare dal cameriere.…”—“Vorrai dire la mattina,” interruppe, con una grassa risata, il commendatore zio, che aggiunse una strizzata d'occhio compiacente.

Un sorriso di soddisfazione rese anche più repulsiva la faccia floscia del nipote, di quel vecchio che non ha quarant' anni. Poi seguitò: “Figurarsi! tanti sentimentalismi per quella gente! Non so dove la mamma sia andata a pescare idee simili. Ma già, ormai è cominciato il regno della canaglia. Se si seguita di questo passo, uno di questi giorni non s'avrà più diritto d'esser signori.”—“Hai proprio ragione, caro,” rispose la zia alzando la voce, forse pel timore ch'io non l'udissi. “Ed è incredibile come adesso certa gente piena d'invidia s'è unita agli straccioni per farci la guerra. E perchè non bastava, anche certe signore sono state prese dalla mania di occuparsi dei rachitici, degli scrofolosi, delle ragazze delle strade, di che so io, ch'è una cosa che dà proprio la nausea! Ma poi, lasciassero in pace il prossimo! E invece è un batter cassa continuo—e come si fa a dir sempre di no? Quando si portano certi nomi bisogna adattarsi.… Ma a momenti non si può proprio più andare avanti. Non sono anni questi, non sono anni.…”

“Lo dica a me, zia, che anche ieri m'hanno appioppato due higlietti per una festa a beneficio di non so quale nuovo asilo pei bambini. Si può esser più balordi? Andar a seccare i galantuomini per incoraggire la poveraglia a seguitare a far figliuoli! Beate la Francia e l'Inghilterra, dove almeno hanno imparato.…”

Egli s'interruppe per ascoltare i due commendatori, che parlavano degli scioperi de'lavoratori di certe miniere, i quali, per l'insalubrità e l'eccesso del lavoro, muoion giovani dopo una vita d'inferno. La signora Falletti elargì una parola in favor loro. “Quelli che non ci si trovano bene facciano qualchecosa d' altro!” esclamò, con vigliacca ingenuità, il profumato viveur. Poi continuò: “Dol resto poi sono smorfie, perchè si vedono incoraggiti dagli scalmanati. Non bisogna mica credere che quella gente sia come noi— quella gente là, vede, zia,” disse con una intonazione sentimentale, “come non ha la nostra delicatezza di sentire, non ha neppure i nostri bisogni fisici. È altra carne, vede, zia, non bisogna che lei si commuova troppo.… Son canaglie, creda pure, canaglie che non lo meritano e che domani verranno a saccheggiare e far saltare in aria le nostre case.” La signora Falletti fece un gesto d' orrore.

“Mitraglia, mitraglia, ci vuole per quella gente, altro che chiacchiere e sentimentalismi,” prese a dire il comm. Falletti—mentre l'altro commendatore pareva incerto sulla via da prendere, visto che si trovava fra quell' ambiente e un discorso democraticoumanitario fatto ieri a un banchetto. “Già,” riprese il conte Alessandro, “soprattutto per questi così detti disoccupati che vengono tutti i giorni a romperci le scatole con quella eterna solfa del lavoro.”—“Basterebbe che volessero.…” si decise finalmente a dire il senatore. “Tutta una massa di poltroni,” seguitava il vecchio giovinotto, “di oziosi e di viziosi.” E le labbra smorte di quell' ozioso e vizioso elegante si atteggiarono a un' espressione di sprezzo.

“Com' è che tu taci?” mi disse piano Valeria. “Non ti riconosco!”—“Non dubitare,” risposi, mentre essa s'alzava per partire, chè doveva recarsi altrove; “aspettavo il momento buono—ora è venuto. Stasera stessa sarò licenziata, ma sia.”

Salutata la signorina che partiva, il conte Alessandro seguitava a parlar de' vizi del popolo, precipua causa, secondo lui, della miseria. “Peccato davvero,” dissi, “che il popolo non imiti le virtù dei signori—specialmente di quelli che tanto lo disprezzano.” —Il conte finse di non aver udito; e tentò d'intavolare un altro discorso. Ma la manovra non gli riuscì. “Conte,” dissi, “lei non crede ai disoccupati, e sia. Forse infatti la crisi edilizia e tutto il ristagno industriale e commericale li hanno inventati i disoccupati, visto che la fame è qualchecosa di estremamente piacevole. È vero che i medici degli ospedali dicono che adesso i guariti conviene cacciarli fuori quasi colla violenza, mentre quando era facile trovar lavoro fuggivano dall' ospedale colla febbre addosso. Ma forse anche i medici dicono bugie. Se però non crede ai disoccupati, crederà almeno ai malati, spero: per quanto «quell' altra carne» sia dura, qualche volta capita anche ad essa di soffrire.… Perciò oggi appunto pensavo di ricorrere a lei pure per un disgraziato che ha una malattia cronica e penosissima e manca di tutto.”

I due commendatori s'erano prudentemente dileguati davanti alla mia lingua e alla mia richiesta; la signora Falletti aveva preso a leggere la sua solita cronaca; il conte aveva ascoltato col dispetto sulla sua faccia smorta—e, quando tacqui, s'affrettò a dire, con un'altra di quelle ingenue sortite dell' egoismo: “Ma perchè non va all' ospedale?”—“Negli ospedali non prendono cronici,” dissi; “e all'ospizio dei cronici non c' è posto—ve ne son già settantanove di prenotati pel primo che la morte renderà vacante! E intanto soffre quella carne non solo, ma tutta la famiglia, che.…”—“Eh! già, ecco, il solito, la famiglia! per quella incorreggibile mania diammogliarsi.…”

“Infatti,” risposi, “il matrimonio è stato istituito come privilegio dei signori—come, pare, dovrebbero essere un privilegio di questi anche la parodia del matrimonio e dell' amore, ed ogni vizio. Perciò non so davvero che cosa avrebbe a rimanere ai poveri.… Forse il conforto della carità che trovano nei ricchi che li chiamano canaglia.”—“Ma, santo Dio,” replicò il mio interlocutore, “si parla per loro bene! perchè fa pena sapere che soffrono!”—“Tanta pena infatti,” dissi, “che non si saprebbe fare per essi alcun sacrifizio, e che si trova giustissimo che, perchè noi si possa comodamente avvoltolarci negli agi e nei piaceri, a loro sia vietato o reso disastroso lo stupido diritto della famiglia!”

“Ma, signorina,” rispose il conte, che forse tollerava la mia grandine perchè capiva d' aver parecchio da farsi perdonare, “lei dimentica ch' è sui nostri agi e i nostri piaceri che quella gente vive—che noi,” aggiunse in tono pietoso, “intendiamo d' esser benemeriti di quella gente.”—“Già,” risposi, “forse è per aiutar «quella gente» che si vedono andar su e giù pel Corso degli equipaggi contenenti certa.… merce, che si mangiano i fagiani a preferenza dei polli, e le leccornie raffinate e i pasticcini che ornano certe vetrine insolenti a preferenza dei cibi igienici, che si bevono i vini esteri e prelibati a preferenza del vino italiano, e che ci si veste a Parigi o a Londra, o da un sarto o una sarta o una modista in voga, che si fanno pagare il nome, invece di ricorrere ad esercenti più modesti.… Sarà per questo che si scelgono le stoffe e le pelliccie più costose, e che certe signore si coprono di perle e di brillanti.… Saranno grandi benemerenze queste e tante altre, non dico; ma, che vuole, non me ne sento gran fatto commuovere.…”

“Ma, signorina,” riprese il mio paziente, “lei forse pretenderebbe che si rinunziasse al cachet di veri signori per amore della poveraglia italiana? Questo sarebbe un poco troppo!”—“Infatti,” risposi, “ha ragione! il cachet di quelli che lei chiama veri signori è l' egoismo, il crudele egoismo. Scusi, me n' ero dimenticata. Infatti ciò è estremamente bon ton.”— “Lei è ingiusta,” riprese il conte, con una certa solennità da uomo serio che compatisce gli errori d' una povera testa esaltata. “E non capisce che il lusso finisce sempre con esser la risorsa dei poveri di tutti i paesi, perchè incoraggia e alimenta le industrie.”

“Codesto è un comodo errore,” risposi, “confutato dagli economisti più largamente veggenti; e, d'altra parte, non è necessario d'essere economisti per intenderlo, purchè ci si guardi d' intorno. Sarebbe troppo immorale e doloroso dovessero trovarsi in contraddizione il vantaggio morale e il materiale dell' umanità: ma ciò non è. Chi fa più lusso potrà parere più benemerito delle classi operaie di chi ne fa meno—ma conviene guardar le cose più profondamente e largamente, e non giudicare dagli effetti immediati. Non v' hanno solamente le industrie di lusso: chi è sinceramente e disinteressatamente animato dal desiderio di giovare alle classi lavoratrici, anzichè incoraggir di preferenza quelle industrie che soddisfano unicamente i propri capricci, preferirà destinare una parte della sua rendita a far lavorare in pro de' reali bisogni dei non abbienti, a farsi, in certo modo, sostituire presso gli esercenti da istituti di beneficenza, da famiglie da rialzare, da società cooperative da sviluppare; preferirà, col sacrifizio di una parte del suo lusso, aiutare l'impianto di piccoli commerci che agevolino il giro del danaro, l' acquisto di terre da far fecondare, di provvide industrie da piantare, ec.—E se i più facessero così, non solo ne sarebbe diminuito l' eccesso dei dislivelli economici, ma ne conseguirebbe un grande vantaggio morale, che si risolverebbe poi, per le classi inferiori come per le superiori, in un vantaggio materiale —mentre lo spettacolo del lusso de' ricchi e de' benestanti non può essere che profondamente corrompitore e di essi medesimi e di chi n'è stromento, e li vede, e li invidia, e, bramando e odiando, per quanto può, imita.… E dal reciproco fomentarsi del lusso e delle passioni non può conseguire che la febbre attuale di arricchire e di godere a qualunque costo, di spendere soverchiamente e di rischiare, sì che ne vediamo continue rovine d'istituti e di famiglie, e imbrogli, e delitti, e sfacelo industriale, morale e fisico, e complicarsi le difficoltà e le miserie tanto da render necessaria la crisi tremenda che s'avvicina.…”

Il mio discorso era servito come di un leggero soporifero al conte, i cui occhi si socchiudevano, mentre il capo si andava, a piccole scosse, abbassando. Quando la mia voce tacque, egli si destò di soprassalto e disse: “Già, adesso è un gran discorrere di queste cose. È una vera mania—già, viviamo in un tempo di manie.”— “Infatti,” dissi, “mi pare che ce ne sieno molte delle manie. Ma le più, per combinazione, sono un peccato proprio degli eleganti e dei molli; ne perdonino perciò una agli altri—l'innocente mania della giustizia!”

“Oh! oh! che parolone,” rispose il conte Alessandro, “piano piano; finchè parla di carità, non dico —e mi pare che si sia già fatto e si faccia molto. Una volta, perbacco, non si faceva tanto chiasso pei poveri; eppure se ne stavano zitti e tiravano innanzi lo stesso. Ma ora son divenuti gli enfants gâtés, e perciò alzano la cresta!”—“Si fa molto,” risposi, “ma il fatto sta che, per un complesso di cose, la miseria va crescendo sempre. Lo lasci dire a chi lo constata più che non si dia la pena di farlo lei, signor conte.… E se un tempo i poveri stavano zitti e ora han cominciato a capire i loro diritti e a reclamar giustizia, ringraziamoli d'esserne tolti all'ignavia de'nostri ingiusti e crudeli pregiudizi—e se molti questi diritti li sentono e reclamano intemperantemente, pensiamo a chi li sobilla per farsene sgabello; e se quelli od altri son viziosi, o disonesti o violenti, accusiamone soprattutto la nostra società scettica e corrotta, che li tradisce togliendo loro ogni principio e ogni ideale, e li corrompe colle occasioni e cogli esempi.…”

Sul viso del mio interlocutore passò una nube ch' egli cercò tosto di dissipare con un sorriso che voleva essere disinvolto. “Le confesso,” rispose, “che io non mi sento punto inclinato a ringraziar costoro— e in quanto al resto, checchè ella dica, non mi pare che, tutto sommato, le classi lavoratrici attuali abbiano tanto a lamentarsi. È un continuo parlarne ed occuparsene, e protestare e studiar leggi nuove.…”—“E c'è di che, interruppi; “chè di un provvido mezzo di benessere sociale quale è l' industria s'è fatto non solo una sorgente d' immoralità d'in alto e d'in basso, ma, soventi, un mezzo di tirannia inumana. Non è permesso di fare di un uomo, e tanto meno di una donna e d' un fanciullo, una macchina e un martire, come fanno così spesso ora gli industriali, che iniquamente abusano della creatura umana. Ed è sacrosanta la campagna iniziata contro questi abusi che rovinano il popolo nel corpo e nell' anima, e dei grandi progressi dell' industria, per l'avidità e la fretta de' padroni, fanno cagioni d' immoralità profonde e di deformazione della razza.”

“Che avvocatessa scalmanata!” prese a dire il conte Valenti, che pareva cominciasse finalmente ad inquietarsi; “ella dovrebbe mettersi in giro a far l'apostolo della carità.”—“Della giustizia in caso,” risposi, “ripeto la parola. C' è stato finora un grande equivoco—chè Cristo da troppo pochi è stato inteso, e da un numero anche minore seguito. I ricchi hanno creduto, o voluto credere, che bastasse di dare pei poveri una più o meno piccola parte del loro superfluo; s' è pensato che bastasse fondare degli ospedali, degli asili d' infanzia, de' ricoveri pei vecchi, de' rifugi per le fanciulle, di aprire delle cucine economiche, delle sale di lavoro, di andar a visitare i poveri a domicilio, di far tante cose bellissime e santissime—cui alcuni ed alcune si prestano con vero amore, molti per ostentazione o convenienza, mentre molti altri.… trovano più comodo di non occuparsene affatto.”

La signora Falletti fece frusciare un poco il giornale e mi lanciò un' occhiata di traverso.

“Ma tutto ciò è lungi dal bastare. Una riforma radicale è necessaria—quella che insegna l'idea cristiana e che solo la religione cristiana può, co'suoi potenti mezzi morali, rendere attuabile. Tutte queste istituzioni, tutte queste opere di carità sono a vantaggio, spesso meschino o affatto transitorio, di una minoranza piccolissima in confronto della massa dei miseri. Serbiamole, moltiplichiamole, perchè sono preziose, perchè sono sante! Ma pensiamo che non sono ancora—me lo lasci dire per la terza volta—la giustizia! chè una grande iniquità perdura fintanto che v' hanno queste immense disuguaglianze.…”

“Ah! il comunismo addirittura,” interruppe il conte inorridito. “No,” risposi; “codesta è un' utopia stolta, un piano irrealizzabile, e, seppur fosse realizzabile, non mantenibile. La comunanza e l' uguaglianza de' beni, ammessane per un momento la possibilità, sarebbe anzitutto un'altra ingiustizia, chè troppi ne vantaggerebbero immeritamente; sarebbe poi la distruzione del bello materiale e del morale, sarebbe la morte dell' ingegno, dell' arte, nonchè di molte virtù, prima fra tutte la carità. Altro è la comunanza e l' eguaglianza de' beni, altro è un freno posto all' eccesso dei dislivelli, agli abusi del capitale, e la sacrosanta legge dell' associazione. Legge che non sarebbe altro che un portato della legge divina recata al mondo da Cristo—ma che non sarà mai saldamente effettuabile senza quella riforma interiore ed esteriore ch'Egli ha predicata e per la quale ha lasciato colla sua religione aiuti possenti, i cui frutti vediamo nel passato e nel presente. Quella riforma che, facendoci sobrii in ogni cosa e amanti del prossimo con giustizia generale, costante, e non solamente con capricci di carità, diminuirebbe gli egoismi, le mollezze, le cupidigie, gli abusi d' ogni genere, i quali, appoggiati dal pregiudizio sociale della legittimità di certi privilegi, son la cagione delle eccessive disuguaglianze non solo, ma dell' immoralità che d'in alto si estende in basso e aumenta tutte le miserie, e le rende più tremende.”

Il sonno avea ripreso il mio interlocutore, il quale, poveretto, aveva sacrosanto diritto di dormire, chè avrà visto l' alba anche stamani. E per lui rispose, alzando, col suo sorriso maligno, gli occhi dal giornale, la signora Falletti: “Signorina, lei stasera sarà felice! Quel buon diavolo lì l' ha lasciata sfogare abbastanza la sua mania di dar lezioni.”

Guardai un momento la signora negli occhi; poi risposi: “Le assicuro che non son mai tanto felice come quando mi trovo fra gente dalla quale posso imparare—e ciò mi accade spesso, anche negli ambienti più umili. Non è colpa mia quando mi trovo con persona colla quale il caso è inverso.”—“Ebbene,” replicò lei, “a comodo suo. Potrà cercare un altro servizio.”—“Cercherò un altro posto,” risposi con una calma che parve meravigliar la signora, la quale si alzò tosto e passò nel fumoir. Indi udii un alternarsi della sua voce con quella del marito; e queste parole di lei: “.… se quella ragazzaccia non le si fosse così stupidamente affezionata!” Dopo non so quale risposta del commendatore essa rientrò con una faccia agro-dolce, e mi disse, mentre mi disponevo a risalire, e il conte, che intanto s' era destato, pure si accommiatava: “Per quella cosa.… in caso.… riparleremo domani.”—“Va bene,” risposi; “buona sera, signora.”

In anticamera dissi al mio antagonista: “Conte, torno alla carica pel nostro povero malato che manca di tutto, mentre ne abbiamo tanti altri, e infiniti altri ci sarebbero intorno a noi, che non hanno da mangiare nè da coprirsi, famiglie intere che dormono sur un pagliericcio, senza lenzuola e senza coperte, donne esauste, bambini pieni di piaghe.…”—“Zitta, zitta,” quello interruppe, facendo l'atto di turarsi gli orecchi, “non ho carattere da poter reggere a queste descrizioni.… Sa, noi nervosi siamo troppo sensibili!”

Levò di tasca un elegantissimo portamonete di cuoio di Russia, col monogramma e la corona in brillanti, ne estrasse, colle dita bianche e delicate, una moneta da due lire, e la depose con garbo nella mia mano aperta. Deve non aver notato l'ironia della voce e del sorriso colla quale gli dissi “grazie!” perchè, quando il cameriere lo ebbe aiutato ad infilare la sua lunga pelliccia di sealskin, egli mi fece un inchino, e mi rispose serio serio: “Pas de quoi.”

Li 13.—Il vivo desiderio che nutrivo pel mio Gino è stato soddisfatto. Egli s' è fidanzato ad una signorina di Siena, che ha tutte le qualità che auguravo per la compagna di mio fratello. Una cosa sola le manca—quella che, da molti ora, è la sola ricercata: i quattrini. E perciò il matrimonio non potrà farsi che quando Gino sarà promosso professore straordinario. E neanche allora forse lo potrebbero fare se la giovane non fosse educata in modo, non solo da adattarsi ad una vita modesta, ma da saper governare la casa da buona massaia.—Speriamo non ci voglia molto tempo. Intanto son sicura che Gino ritrarrà fin d' ora conforti ed aiuti morali da quella fanciulla. Signore, benedicili!

Siena, li 15.—Ho chiesto alcuni giorni di permesso per venire col papà a Siena a conoscere la mia futura sorella; e l' ho fatto senza scrupoli, chè ormai posso tranquillamente affidare Valentina ad Elisa.

La fidanzata del nostro Gino vive sola col padre vedovo. È un' anima educata senza pregiudizi, secondo gli alti ideali cristiani, aperta all'amore del bene, temprata da principii saldi, equilibrata in un'armonia di affetti e di pietose carità femminili e di energie e di civismo che si soglion chiamare virili—armonia che apparisce nel suo contegno modesto e disinvolto, dolce e risoluto. Non ha smesso di studiare all' età in cui meglio s' intende, ma seguita a farlo un po' al giorno, come alimento di vita morale, nelle ore che per sè le lasciano le sue cure domestiche, che ha studiate come si dovrebbero studiare, quale cioè l' arte per noi più seria, e un imprescindibile dovere femminile. Colla modesta pensione di suo padre—ch'era maggiore nell' esercito, e, pel riaprirsi di una vecchia ferita, riportata a Custoza, dovette lasciare anzi tempo il servizio —essa riesce a far vivere agiatamente lui, senza ch' egli troppo s' avveda delle privazioni ch' essa impone a sè stessa.—Ha ventidue anni; non è bella, ma molto piacente, e si mette con semplicità finissima. E, a rendercela anche più cara, ha un nome per noi benedetto: Sofia, quello di nostra madre.

Gino la vide per la prima volta una mattina presto, mentre passava davanti una chiesa, ed essa ne usciva sorreggendo una povera donna che si sentiva male. La simpatia che tosto gl' inspirarono la figura e l' atto della fanciulla lo aveva fatto superare ogni peritanza, ed offerse il suo aiuto. Il modo gentile e dignitoso nel quale essa lo ringraziò declinando l'offerta lo interessò ad essa anche maggiormente. La seguì di lontano, s'informò, trovò un pretesto per avvicinare il padre, in modo da poter avvicinare anche la figlia. Quello, che già conosceva Gino per fama, non mise ostacolo alcuno. In poco tempo i due giovani s' erano intesi coll' anima; ma si amavano forse già che ancora Sofia non voleva e Gino non osava. Lei, educata a tanta serietà e dignità di pensieri e di vita, non volle abbandonarsi fin dalle prime all'amore e ad un impegno—volle, prima, essere amica.—Dopo qualche tempo, un giorno, senza alcuna parola, senza alcun atto, in un momento di emozione, s' erano legati per la vita.

Tuttavia essi, per saggia e forte volontà di lei, non si vedono che due volte in settimana.

Oggi venne una signora a trovare Sofia. “Peccato,” le diceva quella con voce melliflua, “che si trova così sola.… È una posizione scabrosa per una fidanzata. Sarà un sacrifizio per suo padre dovere stare a badarvi.” Sofia si fece pallida, e sul suo viso, abitualmente calmo e dolce, passò un lampo d'orgoglio e d'ira. “Badarci!” rispose; “mio padre sa come ha educato sua figlia e che nessuno meglio di lei stessa potrebbe esserle custode.”—“Ma cara,” insistè la signora, un po' confusa, “non dico, ma sa.… è per il mondo—non si usa, non sta bene.”—“Non m' incarico dei pregiudizi del mondo,” rispose; “quando non solo non faccio nulla di male ma neanche do adito a sospettarne, sdegno di uniformarmi ad usi che non sono altro che conseguenze delle povere basi che si soglion mettere ai principii e alla virtù de' giovani.” —“Ma cara,” insisteva ancora, con voce sempre più melliflua, la saggia signora, “son loro, gli uomini, che.…”—“Oh! gli uomini,” rispose con un fiero sorriso la fanciulla, “gli uomini sono con noi come noi li vogliamo. Mi sono accorta molte volte che da una donna che sia, non solo nel costume, ma nel contegno, severa, emana una potenza singolare, che impone il rispetto, e comanda ai sensi mentre eleva gli spiriti. D' altra parte il mio fidanzato sa che da me non avrà mai nè un bacio nè una smanceria.”

“Oh! questo poi,” rispose l' altra meravigliata, “è troppo! Io baciavo il mio fidanzato e ho sempre lasciato che baciassero i loro le mie figliuole. Quando si amano e son fidanzati.…”

“Appunto per questo il bacio è più che mai pericoloso,” rispose Sofia. “In quanto a me dichiaro che preferisco non baciare il mio fidanzato e star sola con lui—perchè se i nostri corpi rimangono discosti, sì uniscano più intimamente le nostre anime.”

La signora scosse il capo, e se n' andò punto persuasa. Tanto è potente, nelle anime volgari, il pregiudizio! Ho detto «nelle anime volgari;» pur troppo capita abbastanza spesso di trovarne radicati anche in quelle che non lo sono.

La vecchia Siena mi ha affascinata. L'amavo già prima, per descrizioni udite, direi quasi come per un presentimento. Qualche anno addietro v' era stata la povera zia, con Gino—chi avrebbe detto allora?— per combinarvi un affare doloroso cui la coraggiosa devozione di lei l' aveva fatta risolvere.… E m' aveva scritto da qua una lunga lettera, che prima di partire andai a cercare nella cara grossa busta bigia, per vedere tutto ciò che aveva visto lei, per prepararmi a tutte le impressioni sue. E ora nulla mi vien fatto di dirne, chè sento mi ritroverei a ripeterla—tanta armonia era, di fronte al bello, fra le anime nostre.… Ve ne fosse altrettanta nella virtù, in quella virtù che amo e che sento, e che son così lungi dall' esercitare come vorrei e dovrei!

Domani partiamo per Spoleto, nelle cui vicinanze abbiamo vecchi amici che da un pezzo c' invitano.— Come son volati questi giorni, belli d' affetto e di speranze di bene pel nostro amatissimo, ripieni di fidi conversari, di intime comunicazioni degli spiriti, fra le bellezze della natura e dell' arte e la severa grandezza de' ricordi…

Colle di Spoleto, li 20.—Siamo in un casino isolato, sur uno sperone che si protende dalla collina che ci nasconde la vetusta pittoresca Spoleto. Dietro a noi gira, in un vasto semicerchio, da levante a ponente, la catena dell'Appennino—qua intorno verde e bigia di lecci e d'ulivi, cerula più in là, dove le falde popolose si confondono col piano e le cime col cielo. —Siamo soli, fra poche case sparse; de' contadini potano le viti per l'erta e cantano ogni tanto uno stornello malinconico, dalla cadenza lunga, che erra per la valle.

Dalla mia finestra vedo, a mattina, il Monteluco, tutto vestito di vecchie elci, quasi nere, fra le quali si nascondono qua e là casine, piccole e bianche, che paion dadi. Sono antichi eremi—chè, fin dai primi secoli dell'èra nostra, quel monte erto e selvoso è stato il rifugio di anime aspiranti «alla pace delle cose eterne.» In cima al monte è un convento francescano, cui un santo, morto in questo secolo, e che aveva amato gli umili e resistito ai potenti, Leopoldo da Gaiche, impose una regola anche più severa di quella dell'ordine d'Assisi.—Fra gli alberi grandi e i dirupi, que'penitenti delle colpe altrui pregano; ed ogni povero della valle che salga lassù sa che non invano avrà suonato alla porta dei figli del Poverello.

A settentrione, in fondo, a mezzo la costa del monte Subasio, biancheggia Assisi.—Quante immagini, quante voci, quanti ricordi in questo spazio di memore terra italiana, in questo ampio silenzio! Son le dolci madonne e i santi sereni del Perugino e dello Spagna, che si staccano così calmi e così puri sul fondo di questo paesaggio ridente e luminoso—sono i versi ingenui de' nostri primi poeti, che ci par di riudire sulle bocche di quest' umile gente, che parla come Cino e Jacopone cantavano—è soprattutto quella parola di pace e di carità che il santo d'Assisi ha sparsa nel mondo, ne'secoli lontani.—E quando il povero ha toccato il battente della porta e a quella che gli ha dato un pezzo di pane dice: “Che Dio e san Francesco ti ripaghino, sorella mia,” mi par che un alito di quella figura umile e grande passi sul mio cuore, rasserenando.

Francesco, Caterina, Savonarola—quali nomi, quali geni di un passato nel quale fermentano semi d'avvenire! —Ci pensavo dianzi, alla mia finestra, mentre guardavo il piano ondeggiante fra i monti ceruli e ascoltavo scorrer nelle quercie la voce del vento.

Li 22.—Stasera non è venuto nessuno all'infuori del fido senatore e del cav. Spelli, che stettero sempre di là nel fumoir, parlando a mezza voce col commendatore. Si vocifera che questi abbia combinato, con persone altolocate, un affare misterioso, e che gli altri due si sien presa da lui pei loro buoni uffici una mancia ragguardevole.—Ciò non toglie che quella stessa signora che me lo disse stia cercando di persuader suo figlio a innamorarsi di Elisa. Questa gente mi fa pensare a una cosa che dice La Bruyère nel suo libro dei Caratteri: «Si le financier manque son coup les courtisans disent: C'est un malotru; s'il rèussit ils lui demandent sa fille.»

Povera Elisa, ammiro la buona volontà e la fermezza colle quali essa s'è messa e si mantiene sulla sua nuova via, malgrado l'assidua contrarietà che trova in sua madre. Non parlo del padre, che vive in una regione di troppo superiore a queste miserie per avvedersi di ciò che accade nell'animo e nella vita intima de' suoi figliuoli. Far loro la vita comoda e brillante, istruirli ed avviarli secondo detta la moda del momento, e trovar loro de' partiti così detti convenienti, ecco in che cosa, per questi come per tanti altri genitori, si riassumono i doveri verso i figliuoli.

Ho cercato, naturalmente invano, di persuadere i signori Falletti a voler aiutar la loro Elisa ad uscire dalla posizione infelico ch'essa quella sera mi dipingeva. Non sono certamente questi cervelli ristretti, queste anime volgari che potrebbero aiutar l'inizio in Italia della riforma necessaria alla dignità e alla felicità delle ragazze. Quanti sono, per ora, fra noi che intendono la falsità e l'infelicità della posizione di quelle che non si sposano presto, troppo presto?

Oltre alle storture ed al vuoto di tante educazioni simili a quella di Elisa, è tutto un insieme di pregiudizi sociali che contribuisce a dare alla posizione di signorina una provvisorietà che, spesso durando a lungo, e a volte tutta la vita, rende quella posizione falsa e non di rado le mette una stolta ombra di ridicolo.

Se, giunte a una certa età, le ragazze, seriamente e solidamente educate, con una mèta e un indirizzo, si trovassero riconosciuta un'individualità e una certa indipendenza, morale e materiale, vi guadagnerebbero, non esse solamente, ma la società. Uno de'pregiudizi più dannosi è quello che stabilisce una diversità di grado sociale fra la donna maritata e la nubile, e accorda, non solo dignità minore, ma minor libertà a quella che, per l'assenza di certi legami, dovrebbe poterne avere molta di più.

Da questo quell'impronta così ingiustamente ridicola che, spesso, danno alla casa le signorine non giovanissime, specie quando sono più d'una. Quella dipendenza di giovinette, quel vestire sempre eguali, quell'uscire sempre insieme o sempre accompagnate, quel non poter prendere nessuna iniziativa, quell' essere sempre alla berlina come roba esposta che aspetta chi la scelga, quel trovarsi di fronte all' altro sesso in una posizione imbarazzante, son cose che creano troppe umiliazioni e troppe infelicità. Elisa l'altra sera non disse tutto ciò che in proposito da molti anni vado osservando.

No, nessuno nei nostri paesi avrebbe diritto di formalizzarsi, nè del malcontento delle signorine che aspettano, nè della leggerezza colla quale tante si buttano nel matrimonio. Quando una ragazza è giunta a una certa età, essa, naturalmente, sente il bisogno di estrinsecarsi, di fare qualchecosa, di essere qualcheduno. E l' inferiorità e la dipendenza cui gli usi nostri condannano le signorine devono farne necessariamente —a seconda della natura, dell' educazione, dell'ambiente più o meno elevato, più o meno fornito di risorse morali e materiali—o delle spostate irrequiete e inasprite, o delle infelici rassegnate, o produrre delle deformazioni morali, cagionare delle alterazioni nervose.…

Francamente, poche cose, guardandomi d' intorno, mi rattristano quanto questa. All'idea che la donna, per conquistare la propria dignità e la propria pace, abbia ad essere costretta a prendere, bene o male, marito, e a prenderlo presto—al vedere tante madri alle quali la vista delle loro figliuole nubili mette tristezza e sgomento, tante figlie che nella casa paterna devono, necessariamente, sentirsi quasi condannate che aspettano la liberazione, io sento ribellarsi tutta l' anima mia, parmi che questa della dignità della ragazza e della donna nubile italiane debba essere una delle rivendicazioni sociali da chiedere al secolo nel quale stiamo per entrare.

Noi siamo irretiti fra i pregiudizi. Si tremerebbe all'idea di dare una maggior libertà alle signorine; ma non si trema dei pericoli di tanti desiderii onesti insoddisfatti, della fantasia che lavora a vuoto, delle letture e degli spettacoli che esaltano, dei divertimenti che eccitano e vi mettono ogni tanto coll'altro sesso a un contatto pericoloso perchè momentaneo e fatto in anormali condizioni. Si è formalisti in questo come nella religione e in tante altre cose—si bada a custodire, a frenare, a salvare la correttezza delle apparenze: de' vuoti e de' guasti interiori non ci si preoccupa.

S'intende di serbar così le ragazze con una certa aureola di giovinette innocenti fino al matrimonio; e non si pensa che, ben meglio di questa che, spesso, non è che convenzionale ipocrisia, varrebbe una degna preparazione alla vita, che giovasse sia pel matrimonio sia pel celibato, formando l' esperionza, sfatando certe illusioni, e perciò calmando certi desiderii, togliendo all' altro sesso il prestigio del frutto proibito, creando fra i giovani e le signorine relazioni che possano essere amichevoli senza essere romantiche o scorrette, e inspirino a quelli verso queste un rispetto tanto maggiore e più sincero in quanto custodito dalla dignità della libertà.

Si desidera tanto di maritar le signorine—e si segue un sistema che intralcia i matrimoni, per quell' ipocrisia che tiene a distanza i giovani dei due sessi, e per quel benedetto fantasma del matrimonio sempre di mezzo, che rende circospetti i giovani e imbarazzate le ragazze, e crea compromissioni, equivoci, delusioni, e mette nei loro rapporti un che d' incerto, di falso, di volgare, quando non fomenta disordini o leggerezze clandestine. Mentre, invece, l' ammettere quella onesta libertà che inspira la riverenza e fa che due giovani di sesso diverso possano avvicinarsi senza che tosto abbiano a sorgere speranze di matrimonio e pettegolezzi di comari, e insegna serenità di relazioni semplicemente intellettuali ed amichevoli, che potranno, sia serbarsi tali sempre, sia, per simpatia o per crescente accordo delle anime, mutarsi in un legame più intimo, favorirebbe i matrimoni non solo, ma farebbe diminuire il numero di quelle unioni immorali, di esseri che non si amano o non si conoscono, o si amano senza che l' amore abbia una salda base di stima e d' amicizia.

Si dice che l' accordare questa maggiore libertà è impossibile perchè vi siamo impreparati. Certamente, la condizione prima è un'educazione seria, salda, con fondamento di principii severi, rafforzati e custoditi da una larga e vera applicazione della legge cristiana. Questo anzitutto. E dopo, coraggio! Ho sufficiente fede negli uomini, dirò anzi conoscenza di essi, per essere sicura ch' essi raramente abuserebbero della riforma—e sempre meno man mano ch' essa s' andasse estendendo, imponendo alla generalità. Più procedo nella vita, più osservo intorno a me, più mi persuado della verità di quanto ho detto qui altre volte: la donna che non sia solamente onesta, ma sia inesorabilmente intemerata e dignitosa in tutto il suo contegno, esercita sull'uomo, a meno che questi non sia corrotto fino al midollo, un potere quasi magnetico, che rende un individuo con essa affatto diverso da quello che è con un' altra, sia pure onesta, ma non severa.

E questo potere, più largamente e liberamente esercitato, di quanto non contribuirebbe alla riforma del costume nell' altro sesso, a sfatare gl' immorali pregiudizi, il libertinaggio convenzionale dei quali scrivevo qui l'altro giorno?… Quanto bene non farebbe ai giovani non trovarsi chiuse, o da un divieto o dal giustificato timore di compromettere la propria libertà, le vie ad avvicinare le ragazze? Quanto spesso ciò non gioverebbe a distoglierli da tutt' altre frequenze?

Per tutto questo dicevo dianzi che se, giunte a una certa età, le signorine, seriamente e solidamente educate, con una mèta e un indirizzo, si trovassero riconosciuta un'individualità e una certa indipendenza, morale e materiale, vi guadagnerebbero non esse solamente ma la società. Chè ne vantaggierebbero i genitori, le madri soprattutto, cui molti sospiri sarebbero risparmiati—i giovani che ne sarebbero elevati— molte famiglie future, che si formerebbero in modo migliore, e avrebbero assai miglior garanzia di salute fisica, di unione coniugale, di buona educazione de'figliuoli, di esperienza, di autorità e di prestigio della madre.

Ma per effettuare tutto questo, converrebbe che le signorine non solo avessero più seria educazione e più seria ed opportuna coltura, e maggiore libertà, ma che non avesse a riuscir loro arduo proporre uno scopo, sia pure provvisorio, alla loro vita. Per questo sarebbe utile non meno che giusto che la figlia cui è destinata una dote non dovesse aspettare il giorno del matrimonio per vedersela assegnata, ma, maggiorenne che fosse, potesse entrarne in possesso. Chè, prima di rappresentare un sesso, la donna è una creatura umana —e giustizia e previdenza vogliono che una personalità le sia riconosciuta in tutti i modi, senza bisogno che un uomo stia per conferirle il titolo di moglie…

Così, colla seria e salda educazione, e una certa libertà, per tutte, e i mezzi economici, sia pure esigui, per le une, una professione o un' arte per le altre, sarebbe alla grande maggioranza delle signorine aperta la via a far del bene a loro stesse e ad altrui, moralmente e materialmente. Non solo esse si sentirebbero maggior dignità, e proverebbero maggiori soddisfazioni della coscienza e del cuore, dello spirito e dell'amor proprio, e perciò molto minori desiderii e vuoti, e quindi minori cause di quelle alterazioni morali e fisiche che da quelli dipendono—non solo ne avvantaggierebbero e le famiglie loro, e i giovani, e le famiglie avvenire—ma da esse potrebbe molto ripromettersi la grande questione umanitaria cristiana… Ne abbiamo eloquenti esempi dai paesi maggiormente progrediti, dove le signorine si associano ne' più fecondi apostolati di carità moralizzatrice delle masse.

Quale più nobile campo di quello al bisogno d' affetto e d' attività delle giovani? Quale scambio di benefizi non avverrebbe tra esse che con amore opererebbero, e quel campo dal quale ricaverebbero le gioie più sante e più durevoli? E per quelle che, volenti o nolenti, percorrono la via senza famiglia propria e senza amore, quale riempitivo del cuore non sarebbe, quale fecondo elemento di vita?

Li 25.—In questi giorni in casa non si parla d' altro che del grande successo ottenuto l' altro ieri al teatro Nazionale da una commedia in due atti del signor Alberto. La madre è più gonfia e ciarliera che mai; il commendatore ha scosso per la circostanza la sua indifferenza alle cose inferiori, e gode in silenzio ma intensamente di questo trionfo artistico del figliuolo, che viene ad infiorare i suoi trionfi finanziari.—Elisa invece è più che mai taciturna, e pare la compiacenza pel successo del fratello sia, nel fondo dell' anima sua, assai amareggiata…

In quanto all' autore, chiamato molte volte agli onori della ribalta, festeggiato in mille modi, onorato anche da estese e accurate critiche, e che sa d'essere in questi giorni sulle bocche della tutta Roma, v' ha in esso più nervosità che compiacenza, più preoccupazione che contento. Ieri che Valentina, dopo aver inteso sua madre enumerare le ovazioni da lui avute, gli buttò le braccia al collo dicendogli ch' era tutta superba d' avere un fratello così bravo, osservai ch' egli si turbò stranamente e si sciolse da quell'abbraccio senza rispondere, con un imbarazzo penoso, direi con una certa commozione.—Per vedere anche più in fondo all' anima di lui mi avvicinai io pure e gli dissi: “Potrei aver il piacere di leggere la sua commedia?” Egli arrossì vivamente, e balbettò, senza guardarmi, alcune parole sconnesse, le quali volevano dire che non aveva in quel momento il manoscritto, e che d'altra parte non mi sarebbe piacinto…

Fu di straforo, col mezzo di Elisa, che potei averlo. È un lavoro che rivela un ingegno forte e originale, una singolare attitudine all'osservazione psicologica, un senso artistico finissimo. L'argomento è sdrucciolo, scetticamente immorale la soluzione—le singole scene rivelano quell' esperienza del male che non è stata accompagnata da sufficiente esperienza del bene, ma in pari tempo una potenza di sentire che può far passare da ogni cattiva cosa ad ogni cosa migliore, ove un nuovo ideale baleni, ove nuove forti impressioni scuotano e purifichino.—E stasera, mentre lo osservavo così pensieroso nel suo trionfo, la speranza cresceva nell' anima mia.

Li 26.—Oggi sono andata da una signora per raccomandarle quel Luigi rimandato da casa Falletti in seguito all'affare della Rosina. Non riuscendo a trovare un altro posto, egli era venuto a raccomandarsi a me di nascosto. E ciò benchè, ascoltando alle porte, avesse saputo ch' io ero l' iniziatrice del suo castigo… Si vede ch'egli ha avuto la perspicacia d' indovinare che quella stessa legge cristiana che m'aveva spinta a chiedere giustizia, m' avrebbe insegnato a non trascurare il colpevole.

È stato per me un intimo conforto. M'aveva fatto pena veder quell' uomo partire senza posto, impenitente, irritato, senza una buona parola che lo aiutasse, pronto forse ad aumentare il numero de' facinorosi o a sempre più ingolfarsi nella via del male; e sentivo rimorso di non aver osato allora far qualchecosa per lui. Strano che timidezze vi prendono a volte di fronte a un bene da farsi! È pigrizia, è debolezza, è timore di parere ingenui, fra gli scetticismi e le indifferenze del mondo?

Profittai dell' occasione per dirgli qualche buona parola. Pareva ch' egli non ne avesse udite mai, perchè gli fecero come un' impressione nuova, maggiore assai ch'io non avessi sperato.—Eppure, perchè meravigliarne? Questo povero mondo è desso proprio tanto tristo in fondo come si suol andare dicendo? Quanti non s'abbandonano ai loro cattivi istinti perchè nulla o troppo poco è stato fatto per far loro amare il bene e combattere il male, perchè sono stati avvezzati a non veder la felicità se non nel soddisfacimento delle passioni, perchè, in una parola, l' anima loro è stata dimenticata?

In questo tempo di declamazioni democratiche vive il vero spirito democratico che si studia di rialzare veramente il fratello diseredato? S' è creduto di far molto pel popolo insegnandogli a leggere e accordandogli il diritto di voto… Povero popolo! quando ha saputo leggere gli si è lasciata dilagare intorno la facile ribalda letteratura illustrata da pochi soldi, che, ad ogni cantonata, lo insidia e insidia i figliuoli suoi e i nostri—e quando ha avuto il diritto di voto ha trovato degli uomini che non solo si pretendono onesti, ma che si reputano degni di rappresentare il paese e di dettarne le leggi, i quali non esitano a corromperlo, a distruggerne il senso morale comprando i suoi voti, per poi, dal loro seggio di legislatori, contribuire a sempre più demolire in esso que' principii ch' erano la sua salvaguardia, la sola base della sua morale, il solo conforto nelle sue miserie, e ne' banchetti elettorali declamare a vuoto, oh! quanto a vuoto!

Li 27.—È partito il signor Alberto. Lo hanno mandato a Genova a trovare uno zio scapolo, fratello di sua madre, il famoso milionario de' lieti tempi del macinato, al celibato del quale pare il cognato e la sorella tengano molto.—Poco fa, a quanto mi narrava Valeria, c' era stato un allarme: dopo passata la giovinezza, durante la quale gli amorosi congiunti gli avevano fatto andar a male un progetto di matrimonio ed avevano premurosamente vegliato intorno a lui, quello sciocco s'era permesso d'innamorarsi di una vedova e di fidanzarsi a lei. Per fortuna un' anima buona aveva mandato tutto a monte con una lettera anonima.

Ho notato con piacere che il signor Alberto è partito a malincuore; e iersera, mentre m' ero avvicinata per abbassar la fiamma d' una lampada che filava, udii che diceva a suo padre: “.… ma un vile no, perdio!”

Dopo il nostro dialogo di quella sera egli ha sempre evitato di ritrovarsi solo con me. Non è una vigliaccheria mascolina—giacchè, come ho detto, egli s' è condotto meco cavallerescamente, ed anzi seguita a mostrarmi, davanti a tutti, maggior deferenza di prima. Ma è chiaro ch' egli teme la ripresa di una discussione ch' io ho mossa sur un terreno nel quale egli si sente alquanto debole. E mi pare ch' egli si voglia lanciare e stordire più che mai in ciò che chiamano la vita.…

Eppure credo che l' ora sua non sia lontana. In tutt' e tre questi figliuoli, per fortuna, invece della volgarità de' genitori, è ricomparsa la nobiltà de' nonni, dei quali mi narrava la vecchia Marianna. E dagli stessi disordini dello spirito e della vita quel giovane finirà con ricavare i disinganni rivelatori.—Poveri giovani, cui i vaneggiamenti dell' orgoglio umano, Io spostamento delle ambizioni, il mondo fomentatore di passioni e creatore di tentazioni e d' insidie, tormentano e sciupano gli anni migliori, con tante illusioni vane, con tante febbri artificiali, con tanti pregiudizi corruttori.

Nel mio Jeunesse, nella parte seconda, Les héritiers, rileggevo l' altro giorno questi brani: «I leaders del giorno sono gli scrittori, e più specialmente i romanzieri, che si son maggiormente assimilato il concetto realistico dell' universo e si son fatti apostoli di fatalismo. Più sentenziosi degli scienziati—come sogliono essere quelli che tengono la scienza di seconda mano— essi hanno eretto sui risultati rudimentali di una fisiologia nascente un' intera psicologia, un' intera sociologia. Pretendendo al positivismo assoluto, hanno sezionato, pesato, misurato ogni cosa. E dopo avere tranquillamente notomizzato, come essi credono, il cuore umano come altri taglierebbe e fotograferebbe il cervello, essi ne espongono le sezioni, ne spiegano il meccanismo, fanno la nomenclatura d' ogni fibra. I loro scritti, dove con molto talento erano asserite le cose più discutibili, alla loro volta divennero testi. Dopo i volgarizzatori di prim' ordine vennero quelli di secondo, di terzo, di decimo, sempre più sicuri.

».… Si ode parlare con molta disinvoltura dell' incoscienza, dell' irresponsabilità, dell' eredità, dei delitti passionali; tutte cose delle quali, vista la gravità e l'oscurità loro, converrebbe parlare col massimo riserbo. Ne è risultato uno stato morale ponoso, pericoloso, specie nell' età nella quale il carattere si forma. Nessuno potrebbe negare che il sentimento della responsabilità, base della condotta, sia gravemento compromesso.

».… La volontà si atrofizza quando non ci si crede. Basta persuadere uno della sua impotenza perchè agisca da impotente.… La volontà ha subíto, nella gioventù attuale, un insieme di deplorevoli influenze che l' hanno accasciata e snervata. Una di queste influenze è il vento del fatalismo che va soffiando tra noi. Perchè lottare, perchè fare degli sforzi? Non v' ha iniziativa personale; una necessità ineluttabile domina l' anima e il mondo. Combattere le proprie passioni e i mali della società è follia.…»

E più in là: «Ma non la volontà sola s' isterilisce: mano mano giungiamo a sprezzare la vita reale e l' azione.»

E nel capitolo La joie: «Abbasso i pessimisti! Sorridenti o tragici che siate, la vita vi condanna e vi smentisce, operai del nulla sui quali aleggia il sorriso del disgusto come il fuoco fatuo sul fracidume delle paludi!»

E in un altro, Comment on se porte et comment on s'amuse, a proposito dell' attuale godere fittizio: «Invece di farvi gustar la vita in ciò ch' essa ha di buono e di procurarvi quella dolce ebbrezza che fa che la gioventù sana e robusta ode «risuonar l'azzurro e le stelle cantare,» esso, colle sue inevitabili reazioni, predispone piuttosto a sentire ciò che v' ha di amaro in fondo al calice.—Oh! so bene che ancora, qua e là, ci si diverte! ci si divertirà sempre finchè vi saranno il sole, dei fiori, e dei bravi giovani dal cuore non sciupato. Ma, in genere, la gioia è diminuita; e siamo rintronati dal ritornello: Non si sa più divertirsi.

» È ora di seriamente preoccuparsi di questi sintomi. Parmi che la salute e la gioia sieno necessarie a coltivarsi quanto qualsiasi qualità e cognizione.

«Ahimè, per alcuni, pur troppo, il male è incurabile. E mi sia concesso di dare una lagrima a tante povere vite giovani e perdute, vittime di anormalità psicologiche, appassite innanzi tempo, a quella gioventù destinata a cadere, come i frutti malati, dall'albero della vita. Triste raccolto di tanto seminar d'errori e di vizi! Codesti son da compiangere; molti tra essi forse pagano debiti che non hanno contratti; si può chiamarli i figli del dolore del secolo. Ma guai a noi se la pietà ch' essi c' inspirano non ridesta in pari tempo nei nostri cuori l' odio di tutto ciò che ha cagionato il loro martirio!»

E nel capitolo Orientation morale: «Quando si pone mente alla vita che attende l' attuale gioventù a tutto ciò ch' essa dovrà incontrare di pene e di sforzi, ci si sente prender da un odio invincibile contro quelle dottrine nichiliste che sono state per degli anni il suo nutrimento quasi esclusivo.—Basta basta negare, e basta, soprattutto, ascoltar ciarlatani! Dateci degli uomini di fede e d' azione, d' amore e d'odio, dall'occhio acuto, dal petto vibrante, dal braccio vigoroso; degli uomini i quali, disillusi delle vane visioni della fantasia e del vnoto risonar di parole, pongano mano all' aratro, e, come dimostrazione, traccino il loro solco nella vita vera.»

E nel capitolo L'action: «Far crescer e progredire la vita, renderla giusta, forte, pura, lieta, amarla e provarglielo, ecco la mèta.»

E più in là: «L' odio del male è l' indispensabile complemento dell'amore alla vita. Quegli che non sa odiare non seppe mai amare. Chi dice amo, e non mente, dice in pari tempo odio. Queste belle e forti passioni sono il nerbo de' combattimenti. Tutti i grandi amici degli uomini le hanno conosciute perciò solo che erano tutti d'un pezzo, come le rupi sulle quali si può costruire un edifizio e spaccarsi il cranio.

»Amare il bene e odiare il male, con tutto ciò che si è e tutto ciò che si sa, fino al sacrifizio, fino alla morte, è ciò che costituisce il grado più elevato della disciplina virile. Perciò attraverso gli umili principii, la fedeltà nelle piccole cose, l'obbedienza volente son divenute la libertà suprema e la felicità più alta e più pura.

»Vergogna alla felicità vile e passiva che v' infrollisce e indi a tutto vi espone senza difesa: una simile felicità quale miseria!»

E alla fine del capitolo Sentiers de demain, come introduzione all' ultima parte del libro: Vers les sources et les sommets, che ha per motto: Lucem in alto quaerens, vitam in profundis: «Quelli che vegliano nella notte, e ansiosi scrutano l'orizzonte, respirano finalmente. Davvero noi usciamo da un sogno tenebroso. Posti in faccia al nulla, ne abbiamo misurata la profondità. Abbiamo sentito morire in noi la certezza, la speranza.… Ma il sogno svanisce, e già «dal lato della notte che par trasparente» si disegna dinanzi agli occhi la striscia biancheggiante dell' alba. Non è che una linea, una frangia argentata nelle tenebre: ma alla sua vista torna la speranza; vi son de'giorni nell'avvenire; potremo amare e credere ancora! Coraggio dunque, e in alto i cuori! Dinanzi alla legge brutale dell'egoismo invadente, dinanzi al sofisma nell'idea e nella vita, conviene innamorarsi della giustizia, della verità, della semplicità. Ma per essere forti e meglio vederci—giacchè l'avvenire è dei credenti che vedono—ritempriamoci alle sorgenti e saliamo alle vette!»

Li 28.—Stasera, lunedì, la signora volle ci trattenessimo un' ora abbasso, chè v' era poca gente e una certa musoneria. Alcuni uomini fumavano di là, due o tre crocchi bisbigliavano negli angoli della sala. Al pianoforte la bionda signorina Clari sonava, dalle Romanze senza parole di Mendelssohn, quelle barcarole veneziane che sembrano come un malinconico ritorno a lontane memorie passate.

Io stavo appoggiata alla coda del pianoforte, dimenticando quanto mi circondava. E mi parea di ritrovarmi lassù, in quella stanza ampia, inondata di una luce calda ch' entrava dagli alti finestroni, traverso le tende antiche e i trasparenti gai di uccelli del paradiso, volanti tra palme leggere e muse dalle lunghe foglie flessuose, e illuminava sulle pareti i grandi quadri della scuola veneta, che parean scene vive. In quella stanza dove, giovinetta, solevo sonare, e, di preferenza, ponevo sul leggío le pagine che più misteriosamente mi parlavano all' anima, e le mettevano dolci giocondi desiderii indefiniti e fieri entusiasmi, che ne' sogni abbracciavano il mondo e la vita, l'amore e la morte.

Quando la musica andò tacondo in quelle ultime battute che paion come un cauto che muore in lontananza, mi riscossi, e m' avvidi dell' avvocato Silva che stava a poca distanza, semi-sdraiato in una poltroncina e reclinato verso una signora atteggiata con certa equivoca eleganza, e il cui ampio carré non aveva altro velo che quello del fumo della sua sigaretta. —Vidi ch' egli mi osservava colle labbra stirate in un sorriso ironico, e diceva alla sua vicina qualchecosa che la faceva olimpicamente guardarmi e sorridere.

Egli era anche più magro, più livido, più sbattuto del consueto; gli occhi, incavati nelle occhiaie fatte grigie, avevano assunto qualchecosa di vitreo. E l' espressione, mista di sensualità e di sarcasmo, di quello sguardo che errava dalle compiacenti nudità di quella donna a me che, poche settimane addietro, come memento, gli avevo detto quella parola e ch'egli avea definita «seccatora antipatica,» l'espressione, dico, di quello sguardo errante, che a volte pareva smarrirsi nel vuoto, mi sta dinanzi tuttora, mi perseguita come suggestione di fantasma.

Povero giovane, povera vita che si spegne nel sogghigno de' cercati scetticismi, nelle sfuggenti desolate giocondità del piacere.… Signore, misericordia!

Li 29.—La contessa Faustina ha dato alla cognata e ad Elisa due biglietti per una grande funzione d'oggi in San Pietro.—Valentina ed io, intanto, siamo andate sulla via Appia a visitare le catacombe di San Sebastiano, il soldato romano martire due volte. Ora essa è là al suo tavolino, e, come suol fare dopo ognuna delle nostre corse, serive le sue impressioni.

Roma in questi giorni formicola di pellegrini— molti indirizzi e molti doni sono stati recati in Vaticano; si dice che alla funzione d' oggi forse sessantamila persone avranno assistito.…

Dianzi sono stata un pezzo ad ascoltar le campane di San Pietro, che annunziavano il termine della funzione; e il mio cuore, che l' idea religiosa suol far sussultare, rimase oppresso da una tristezza infinita.

Era la tristezza del grande amore, di quello stesso grande amore che mi tolse d' accettare il biglietto che oggi occorreva ad entrar nel gran tempio, il quale, quando le sue porte dovrebbe spalancare perchè tutti liberi accorressero intorno al pastore, le tien semichiuse.… Chè più profondo è il sentimento religioso, più intenso il desiderio de'trionfi di Cristo, più si contrista l'anima di fronte a voi che opprimete la Chiesa e il capo di essa, e ipocritamente vorreste farlo credere d'altri prigioniero!

O Padre, che di tanti triboli la vita hai seminata, sei prigioniero, infatti! prigioniero di coloro che, innanzi a te prostrati, t'ingannano, e la gran causa di Dio tradiscono. Chissà quanta tristezza è nel tuo cuore —chissà quali rimpianti de'santi trionfi della luce nella carità, sognati in que'tuoi liberi giorni, lassù nella terra che vide Francesco, Caterina, Girolamo.… Chissà quante volte, all'anima tua che s'appressa all'infinito, è balenata come visione lungamente bramata, ha sorriso al tuo cuore oppresso e contristato l' immagine del pastore che, libero negli impulsi della sua carità, dì e notte corre, per monti e per valli, in cerca.… che solleva e riscalda coll' amore, l' amore grande, infinito, che ricorda e dimentica, che, onnipossente, penetra commovendoli ne'cuori ribelli, scuote, colla grandezza degli esempi, le coscienze meno pure, e, rinnovando l'uomo, fa risplendere allo spirito suo i bagliori di quella luce che rischiara «coloro che seggono nelle tenebre e nell' ombra di morte.»

Si suol dire fra noi che i clericali sono «i nemici delle istituzioni.» E di questa frase si fa un abuso ridicolo, con essa si trascende soventi—specie quando nell'anatema si comprendono sacerdoti e ordini benemeriti dell' umanità e laici degni di grande rispetto— alle maggiori ingiustizie, alle maggiori ingratitudini. È piuttosto «nemici della religione cattolica» che si dovrebbe chiamare, non dico tutti i clericali, ma que' molti fra essi che domina uno spirito farisaico e settario.—Si: quando io, di fronte a questi, mi rattristo e sgomento, non è per l' amore, per quanto vivo e tenace, ch'io sento per le istituzioni del nostro paese: è per l' amore della mia fede cattolica, ch' essi fanno calunniare e disertaro.

Ben altri sono i veri nemici delle istituzioni: son la setta massonica e coloro che, senza appartenervi, ne vagheggiano gli scopi e ne seguono l'indirizzo, o anche solo, sia pure inconsciamente, li favoriscono, che sono i grandi nemici delle nostre istituzioni, giacchè, volontariamente o involontariamente, sono i grandi nemici di tutto ciò senza di cui ogni cosa è eretta sul vuoto.

Anticamente istituita con alti e larghi scopi di umanità, di rivendicazioni di libertà e di giustizia, la massoneria s' è andata man mano, ne'paesi latini e dopo che s'è fusa con altre sètte, corrompendo fino a divenire in realtà la negazione di ciò che mostra di propugnare. I grandi ideali ch' essa par mantenere non sono più che una lustra—la beneficenza ch' essa esercita è soprattutto pagamento di coscienze che si vendono ad essa per servirne gli scopi occulti. Nel suo programma, ne' suoi riti ridicoli, impera la menzogna; la parola per essa, secondo il precetto del Talleyrand, serve a nascondere il pensiero. È un gran rettile che assume tutte le forme, pe' suoi fini si serve di tutti i mezzi, da nulla rifugge—e striscia, e piega, di sotto, e scava e scava.…

Estesissima, potentissima, è da pochi conosciuta; molti fra gli stessi suoi adetti, pur credendo di conoscere, non conoscono; tant' è vero che fra essi vi son de'galantuomini e, forse, delle donne oneste, che non sanno a che cosa si prestino, a che cosa vadano incontro.… Ed infatti l' umanità non è ancora abbastanza corrotta perchè certe propagande si possano fare alla luce del sole.—Erano sacrosante, in tempi di servitù, le congiure contro lo straniero o la prepotenza de'grandi. Ma perchè in tempi di libertà, o dirò meglio di licenza, quella istituzione senta il bisogno di lavorare nel mistero, convien dire che gli scopi suoi sieno inconfessabili.

Ogni giorno capita di meravigliare di qualche persecuzione immeritata, di qualche ingiustificabile favoritismo, di qualche strana impunità, di qualche improvviso mutamento nelle condizioni di un individuo. Ci si meraviglia perchè non si pensa che, in gran parte de' casi, c' è sotto la lega tenebrosa che, con promesse, con minaccie e con premi, spaventa e seduce giovani che entrano in carriera, padri di famiglia che lottano col bisogno, ingegni che non si sono ancora fatti strada nel mondo e che poi si ritrovano aiutati e schiavi ad un tempo.

E ogni giorno, a tutte l' ore, dalle cantonate, dalle vetrine de' librai, dalle pagode de' giornalai, da una miriade di libri, di opuscoli, di giornali e di giornalini illustrati, di produzioni teatrali, di canzonette, di scatole di cerini, di réclames, la nostra gioventù, il nostro popolo sono invitati, solleticati, attirati—d'ogni parte un trabocchetto è teso alla libertà della coscienza, all' onestà del pensiero e della vita; d' ogni parte, o in nome della scienza, o in nome della libertà, in nome della patria, come in nome del piacere, ora in forma elevata, ora in forma umoristica, ora in forma laida o scurrile, si lavora a demolire non solamente, senza distinguere, i rappresentanti della religione, ma gli stessi principii religiosi e morali, che nella grande maggioranza, e specie nel popolo, sono una cosa sola; e, col principio religioso-morale, con cui, spento che sia, si spegne ogni ideale che sollevi e freni, rimane demolito per conseguenza ogni ordine interiore ed esteriore, e perciò si scatenano le passioni, e ne vengon minate le fibre morali e fisiche, spostati e sconnessi, coi desiderii, gl'individui, le famiglie, preparati gli squilibri economici e le crisi sociali.

Sarebbe ridicolo il dire che di tutto ciò sia da tenere responsabile la massoneria; le passioni umane, pur troppo, e quella, di tutte la più abietta, che, per interesse od altro, le fomenta e sfrutta, non hanno bisogno della massoneria per venire a galla. Ma è pur troppo vero che questa sottomano incoraggia la propaganda corruttrice in tutte le sue forme; non esclusa quella, tremenda, che vien fatta da maestri e da maestre, protetti a prezzo di obbedienza ad un programma ateo e disfacitore, inorpellato di grandi parole.

Ecco perchè io diceva ch' è nel campo della massoneria e di chi, anche senza appartenervi, ne segue gli scopi e l' indirizzo, o si presta, sia pure inconsciamente o in buona fede, alle sue mire, che bisogna cercare i veri nemici della patria, i veri nemici delle istituzioni: chè quando un popolo è senza fede e senza coscienza, ogni rovina è imminente; ed è ridicola ipocrisia a quello stesso popolo parlar d' ideali—è vano cercar di frenare con ammonimenti e con leggi quando negli animi s' è fatto quel vuoto che toglie d' intendere gli uni e di rispettare le altre.

No, non potremo credere all' amore della libertà che pretendono avere coloro che fomentano o tollerano la licenza, che della libertà è la negazione—non potremo credere al loro amore alla patria finchè li vedremo minar le basi della sua grandezza e della sua prosperità, non potremo credere al loro amore al progresso finchè li vedremo stromenti di quel regresso morale ch' è origine d' ogni regresso—non potremo credere al loro amore al popolo e alla giovane generazione finchè li vedremo tradir l'uno e l'altra demolendo le anime, e colle anime i corpi.

Che sono alle istituzioni nostre, a paragone di questi danni, le opposizioni de' clericali? Ah! lo ripeto, è come cattolica ben più che come italiana che m' infiammo contro l' opera di quelli—mentre è in ogni fibra della mia coscienza d' italiana, di liberale, di democratica, di amante della gioventù del mio paese, che fremo pensando a voi, massoni e non massoni, che in qualsiasi modo vi fate apostoli di ciò che prepara, colla servitù alle passioni, tutte le servitù e tutte le oppressioni, tutti i disordini e tutte le ingiustizie, tutte le violenze e tutte le reazioni.

Quanta confusione di parole, quanti equivoci, quanti inganni, quanti pregiudizi ci governano, creano la pubblica opinione, l' andazzo della maggioranza! E quanto bisogno vi sarebbe di voci che si levassero, spassionate, sincere, animose, a smascherare i tristi, a disingannare gl' illusi, a scuotere i tiepidi, a richiamare gli erranti! Quante volte il desiderio mi prende, intenso, ardente, di gridare al mio paese: Che facciamo? dove andiamo?

Ma quale autorità avrebbe la mia povera voce? sarebbe ascoltata?… Essa, certamente, si perderebbe nell' aria.—Eppure, sento che la speranza di giovare, anche in minimo grado, anche ad un' anima sola, mi farebbe sfidar le ire e le vendette d' ogni sètta e d' ogni partito, ogni contumelia, ogni derisione, ogni calunnia. Sentirei tutto ciò sorridere all' anima mia purchè potessi rivolgermi a tutti gli onesti, a tutti i buoni d' ogni partito, a tutti quelli cui rimane in cuore un ideale d' amore del bene e della patria, scongiurandoli di deporre antipatie, rimpianti, rancori e timori, per amore di questo povero paese travagliato, di questa povera gioventù errante, di questo povero popolo tradito, della libertà e della giustizia conculcate.…

E sono, questi onesti e questi buoni, in maggior numero che non si creda—e in maggior numero che non si creda sono, ne' partiti più opposti, quelli che, sia per convinzione antica, sia in conseguenza de' crescenti disinganni, bramano un avvicinamento delle forze sane del paese.—Son voti ancora—quanti ne vado udendo, a voce o per iscritto, dagli eletti d' ogni parte!—per lo più latenti, per taluni indeterminati, o timidi, ma intensi—e che, se da coloro che imperano ne'partiti opposti venisse una parola nuova e generosa, si manifesterebbero con entusiasmo, si trasformerebbero in aiuti all' opera rigeneratrice.

Ma, giacchè coloro non vogliono o non possono, o, irresoluti, indugiano, perchè, perchè aspettate? perchè non levate voci di ribellione a tutto ciò che fomenta il male, a tutto ciò che intralcia il progresso del bene —quelle voci di ribellione che fanno la guerra per amore della pace, che non chiamano al disordine ma all' ordine, che non istigano all' odio ma diffondono l'amore? Perchè, perchè vi accontentate di sospirar nell'intimo dell'anima contristata, e non entrate, forti dell' ideale, nel campo de' cimenti nuovi?… È bello su que' campi combattere, sia pure oscuramente—combattere colle armi della fede e della carità; è bello su que' campi soffrire, disconosciuti e perseguitati, coll' ideale dinanzi e la fede in Dio e nel futuro— sarà su quelli vita il morire.

1°ree; Marzo.—Stasera abbiamo fatto carnevale, e siamo rientrate molto più tardi del solito. E ancora ho dovuto asciugare a Valentina qualche lagrimuccia di rimpianto e di protesta. La giovane generazione s' era esaltata di giubilo con certe sciarade in azione, che, per verità, non erano sempre molto misteriose, ma che i vecchi si compiacevano a indovinare un po' stentatamente.—Era un chiasso tale che facevano que' folletti che un po' alla volta ci prese una specie di contagio, e Elena, Valeria, io, più tardi perfino Francesco e il papà, prendemmo parte al gioco, camuffandoci dei paludamenti e i copricapo più o meno grotteschi che le nostre giovinette, dopo una congiura durata tutta la settimana, avevano messi insieme.— Il signor Marco e la povera Letizia, guardando quella radiante giovinezza de' figliuoli, parevano aver dimenticato l' uno gli anni, l'altra i malanni.

Valentina, dianzi, quando già era a letto, asseriva che mai, quando la mamma la menava ai balli e ai veglioni de' bambini, s' era divertita tanto. “E poi,” aggiungeva, “non ho paura per domani.”—“Quale paura?” chiesi. “Sa,” rispose con un certo imbarazzo, “quando s' andava.… la mamma voleva sempre ch'io facessi la prima figura, ch'io fossi di quelle nominate sui giornali. Sapesse che da fare e da pensare c' era sempre pei costumi! Stavo bene, sa; tutti dicevano ch'ero un amore.… E i ragazzi mi facevano la corte, e le altre mi guardavano in un certo modo —e anche le loro mamme! E io me ne tenevo, e mi godevo di quelle che avevano dispetto. Ma poi, tante volte, non c' era giustizia—non era sempre a me che davano il primo premio. E poi i giornali, il giorno dopo, nominavano delle altre prima di me.… E allora la mamma si adirava, e Alberto mi canzonava —e io piangeva, e tutti mi facevano tanta rabbia! Ma per domani,” ripetè soddisfatta, “non ho paura!” E mi buttò le braccia al collo con un bacio, e poco dopo era addormentata.

Li 2.—Quando tornavamo da Siena, il papà ed io, diretti a Spoleto, ci fermammo alcune ore ad Assisi. E quel ricordo è rimasto nell'anima mia come una visione.

Era una giornata splendida e calma; la vettura saliva lenta per l' erta del monte, ed io, seduta a ritroso, guardavo farmisi sempre più ampia dinanzi l' Umbria cerula, il fuggente orizzonte lontano.—Assisi taceva nel riposo dell' ora meridiana; intorno al tempio del suo Francesco volavano a stormi gli uccelli, quasi consci dell' amore di lui per le alate creature del Signore. Sotto la porta maravigliosa, «ricamata nel marmo» che dal gran cortile cinto d' un chiostro mette nella chiesa di sotto, mi parve dinanzi agli occhi miei passasse come un sogno di lontani secoli redivivi.

La vôlta, immane e bassa, che si estende nell' ombra, qua e là illuminata, traverso i vetri istoriati delle finestre ogivali—le pareti scure sulle quali i primi maestri dell' arte italica, in onore del cavaliere di Cristo, lavorarono a gara—un sarcofago, da un lato, dove un raggio obliquo batteva come un pensiero di luce, e sul quale una figura stanca riposa nella morte— un silenzio piono di mistero, m'avevano messa nell'anima non so qual pace mistica e solenne.

Poi eravamo saliti nel tempio superiore, dove la vôlta s' erge, alta e luminosa, quasi emblema dell' anima che, dopo le oscurità del dubbio e della fede, sale, libera nella morte, incontro alla verità. E avevamo lungamente guardato le illustrazioni che della storia biblica e della vita di Francesco d'Assisi fecero Cimabue e Giotto, con quelle loro figure così efficaci nella loro ingennità, così vive e vere di pensiero e di colore nella primitiva scorrettezza del disegno, così originali per quella forte e sincera inspirazione di fede e di gagliardia di spirito cui quel tempo, tra barbaro e gentile, temprava.

E traverso la porta spalancata avevo guardato il prato solitario dinanzi—ripensando all' umile eroe che, incontaminato e santo, avea voluto riposar là, nel campo de' giustiziati—là, accanto alle vittime delle passioni e a quelle della tirannia, avea voluto la spoglia sua aspettasse l' ora della risurrezione in Lui ch'è l'amore, la misericordia, e la vita.

Poi s' era ridiscesi. Il sole, più basso, illuminava di una luce calda una cappella dal lato meridionale, dove una dolce madonna dello Spagna sorride ai santi. E sotto la vôlta centrale apparivano le allegorie colle quali Giotto ha raffigurato la Povertà, la Castità, l'Obbedienza e la Gloria di Francesco. E più in là, sulle pareti, in alto, in basso, bizzarramente, genialmente, Simon Memmi, Cimabue, fra Martino, Giotto, Giunta Pisano, Taddeo Gaddi, Giottino, Buffalmacco, Andrea dell' Ingegno, Giovanni da Milano, profusero dipinti che sono come una storia di quell' aurora della pittura italiana, che dovea salire, spesso inspirandosi a' primitivi maestri, alle serene altezze del quattrocento.

E in quella chiesa deserta, istoriata di figure d'altro tempo, dove passeggiavamo soli co' ricordi santi e gloriosi, la figura di Francesco mi sorgeva dinanzi, come incarnazione di un pensiero vivo traverso i secoli. E la ritrovavo fuori, sotto il sole radioso della sua terra, nelle vie tranquille che serbano un'impronta rustica e primitiva; sulla gran piazza deserta dove sorge il gran tempio di Santa Chiara, la vergine invitta da lui consacrata a Dio, e che dalla soglia del suo monastero, intrepida fra le campagne, scacciò i Saraceni—in quella del Duomo dove, sul fondo severo della facciata medioevale, si disegna il monumento di lui; giù al piano, in quel tempio della Madonna degli Angeli, che ricopre la povera cella dov' egli moriva, e dove lo Spagna ammirevolmente ritrasse i primi compagni suoi nella «follia della croce,» e Luca della Robbia lasciava una statua di lui, nella quale l' artista maraviglioso impresse tutto il carattere sublimemente inspirato d'amore del Poverello. Quella cella dalla quale Francesco, prossimo a morte, volle farsi portare in vista della sua Assisi, a benedire, colle forze fuggenti, la patria amata.

E mentre, ripresa la ferrovia, giravamo intorno a quel monte Subasio sul quale Assisi si stende e il gran tempio e il convento paion sospesi fra terra e cielo, quella figura mi seguiva, pareva tutto riempire. Ed aprimmo i libri che s' erano presi come compagni di viaggio—Francesco d'Assisi del Bonghi e L'Italie mystique del Gebhardt, nel quale è un capitolo su Francesco. E li scorremmo traversando quella campagna umbra nella quale dovunque quel nome è sulle labbra del popolo e parla alla sua fantasia.—E ora li rileggo qui, nella quiete della mia serata,—ed amo ristudiare la grande figura traverso quelle pagine, che sono, io credo, fra le più splendide ch'essa abbia inspirate.

Quelle pagine presentano Francesco di Pietro Bernardone, giovane signore, elegante e prodigo, che i compagni solevano eleggere a «principe della gioventù,» e girava la notte al lume delle fiaccole, col bastone del gaio comando; e, trovatore e poeta, cantava l'amore nelle dolci sirventesi, e sognava i pericoli, le avventure e le glorie della cavalleria, e si disponeva a seguire nel mezzogiorno Gualtieri di Brienne. Indi, soldato della sua terra contro i baroni, per un anno prigioniero di guerra a Perugia, nulla aveva perso della primitiva letizia; e a chi ne faceva le meraviglie rispondeva: «Il mio corpo è in catene, ma libero è il mio spirito.»

Più tardi, un grave malore sofferto, le miserie che lo circondano, l'ingiustizia che opprime i servi della gleba, colpiscono l'anima sua, e si fa pensieroso. Egli si pente d' avere una volta respinto un povero, un grande amore lo prende, e confusamente si sente chiamato, dove non sa—e prega lungamente, nei luoghi più solitari. E ai compagni che vorrebbero richiamarlo ai sollazzi usati e gli chiedono se pensa a prender moglie, risponde: «Sì; e più nobile e più ricca e più bella che voi non pensate.»

Ed è la povertà quella povertà cui egli più tardi indirizzerà il suo canto d'innamorato. «Era nel presepe e, come uno scudiero fedele, si tenne armata nel grande combattimento ch'essa ha sostenuto per la nostra redenzione.» Francesco ha fatto sue le parole di Cristo agli apostoli suoi: «Non vogliate avere nè oro nè argento nelle vostre borse,» e tutto abbandona, agi, piaceri, ricchezze; e sulla povertà volontaria che, spogliando l' uomo d' ogni attaccamento materiale e avvicinandolo per una parte ai poveri e per l'altra a Dio, purifica l'anima e l'accende di carità, egli fonderà la grande famiglia che in breve sarà sparsa in tutto il mondo.

Eppure, nulla di triste o di grave ha la sua regola: non è un ascetismo ristretto, è uno spirito di libertà e di carità nella povertà. Egli è un poeta meridionale, amico della luce e della letizia, socievole, operoso, amante di tutti e di tutto. Egli non cura le derisioni degli amici e de'concittadini; col mantello che il vescovo d'Assisi gli ha dato il giorno nel quale dinanzi a lui delle vesti signorili s'è spogliato per ridarle a suo padre che lo maledice, egli va nelle selve cantando, assiste e bacia i lebbrosi, s'offre come servo, mendica per le vie.

E ai primi compagni nella sua nuova vita Francesco insegna a sacrificarsi, non per la propria salvezza, solo, ma pel bene di tutti, non cercando Dio ne' chiostri, ma vedendolo e liberamente glorificandolo nelle città popolose, sui monti, nei campi; ordina l'allegrezza, come la castità e l'obbedienza. A frate Leone insegna che la gioia perfetta è quella che proverà quando nessuna privazione, nessuna offesa, nessuna persecuzione potranno togliergli la pace e l'allegrezza dell' anima. Predica ai semplici, mendica per gli affamati, consola i morenti, accoglie i pagani, rialza i delinquenti; ai ladri cacciati dal portinaio del convento manda pane e vino, accompagnati da tali parole che quelli lo pregano di accettarli nel suo ordine.

Egli ama i fiori, gli animali, scosta dal mezzo della via il verme che il suo piede stava per ischiacciare, prepara il miele per le api l'inverno, alla cicala dice: «Canta, sorella cicala, e loda il Signore col tuo grido di giubilo.» Il falco della Verna lo chiama a mattutino; le rondini, che col loro cicaleccio gli avevano impedito di proseguir la sua predica, egli ascolta un pezzo: poi dice loro: «Rondini, sorelle, ora avete gridato abbastanza; adesso è la volta mia—tacete, e ascoltate la parola del Signore.» E un' altra volta dice agli uccelli: «Lodate il Creatore, che v'ha dato per regno l'aria del cielo, le fonti per dissetarvi, i monti e le selve per rifugio.»

Egli ama la natura «la nostra madre terra,» vi sente la vita di Dio—non vuol terrori, non tristezze; compone un cantico al Sole, l'alleluia d'Assisi. Egli sogna gli angeli che suonano il violoncello, loda la luce del giorno, lo stellato delle notti meridionali, l'alito del vento, il murmure delle acque, le erbe della terra, i fiori porporini e i canti festosi.

Non vuol vedere contrasto fra la serenità della natura e le miserie umane. «Sii lodato, Signore,» egli dice, «per quelli che perdonano in nome del tuo amore, pei deboli che sopportano le tribolazioni. Beati gl'infelici e i pacifici, perchè Tu darai loro una corona.» Egli accoglie nell' ordine suo popolani, nobili, borghesi, sacerdoti, soldati, giureconsulti, studenti, poeti. E a tutti raccomanda la pace e la misericordia. Nel primo capitolo generale dice loro: «Che la pace sia in fondo ai vostri cuori più ancora che sulle vostre labbra. Non date ad alcuno occasione di collera o di scandalo; portate tutto il mondo alla benignità, alla concordia, all'unione. Guarire i feriti, consolare quelli che soffrono, ricondurre i traviati, ecco la vostra missione.» Ed ogni suo discorso egli comincia colle parole: «La pace sia con voi.» E ad ognuno ripete: «Gitta il tuo pensiero nel Signore ed egli nutrirà il tuo spirito.»

Alla vecchia madre di due de' suoi frati, non avendo altro, Francesco fa dare, in segno di gratitudine, la Bibbia del coro; e dice: «Dio preferirà la nostra carità al nostro salmodiare.»—Egli severamente proscrive l'ozio, e dà ad uno de' suoi che se ne stava ozioso il nomignolo di «frate mosca.» Fra Egidio va a far fascine e a spigolare pei poveri; e ad un novizio che si rifiutava a fare altrettanto perchè avea da pregare, Francesco dice: «La tua preghiera sia breve e muta.»

I suoi confessano, uniscono famiglie e partiti discordi, calmano pubbliche rivolte, intervengono fra padroni e servi, raddolciscono l'orgoglio de' grandi, rialzano i piccoli, rianimano ne' cuori la carità, legano le classi e le arti fra loro, le città e le provincie; passano una parola d'ordine in tutta Italia, ravvicinano le coscienze alla Chiesa, nutrono l'amore delle libertà italiche. I terziari dell' ordine sono obbligati a non portare armi se non in difesa della Chiesa e della patria.

Ad Ottone IV, il quale, nel 1209, passò per Rivo Torto per andare a incoronarsi in Roma, Francesco, che ivi allora si trovava, e che non volle uscire a vederlo nè permise a'suoi d'uscire, manda uno di questi perchè gli dica che di quell' onore ben poco avrebbe goduto. A Bari egli incontra Federico II, e resiste alle turpi insidie di lui—e Pier delle Vigne si lamenta dello spirito anti-imperiale da Francesco infuso nelle masse.

Egli accorre a Perugia a predicar la pace fra i cittadini; indi, bramoso di più largo apostolato e di martirio, parte pel Marocco a cercarvi gl'infedeli e soggiorna per qualche tempo nel campo de'crociati. Più tardi manda in Oriente una missione, che va fin sotto le mura di Damietta; uno de'suoi precorre Marco Polo.

Dapprima Francesco non vuole conventi. All' ordine suo egli non impone il regime feudale bensì il repubblicano, e istituisce il parlamento d'Assisi. Egli riconduce l'Italia al patto evangelico con l'amore e la pietà; ringiovanisce la Chiesa, senza creare eresie. «Egli aveva saputo,» dice il Gebhardt, «riaprire il Vangelo alla pagina del sermone della montagna; egli era pronto a rendere all'Italia il sorriso di misericordia e le magiche parole colle quali la Chiesa aveva dianzi cullato l'infanzia del cristianesimo.»

E più in là: «Francesco istituiva, non il libero esame, ma la libertà della carità: alla Chiesa egli portava la forza dell'apostolato primitivo, la strappava alle sterili malinconie, all' orgoglio dell' episcopato feudale, per lanciarla, non più signora altera, ma madre pietosa, in seno alle città popolose, tra il fermento de' comuni, e i servi della gleba; egli la riconduceva a'suoi ricordi più belli rendendole, come una feconda parola, il grido sublime di Gesù: Misereor super turbam.»

Per una notte di Natale, nella valle di Greccio, egli avea chiamati i pastori e i contadini in una stalla. Verso la mezzanotte si vedono qua e là torcie che, traversando i campi, s'avviano al convegno. E Francesco legge, fra l'asino e il bue, accanto a una mangiatoia, l'Evangelo secondo Luca: In quel tempo comparve un editto di Cesare Augusto.…»

L'Umbria lo festeggia, Bologna, affollata per vederlo, lo acclama. A Siena, dove subisce una dolorosa bruciatura agli occhi infermi, egli invoca «il suo fratello il fuoco.» Indi, sentendosi prossimo a morte, vuol tornare ad Assisi—e il popolo tutto è sul suo passaggio.

Terribili sofferenze lo torturano; ed egli, al suo cantico al Sole vuol aggiungere un versetto in onore della «sua sorella la morte.» Si fa trasportare sulle braccia de'fratelli in faccia ad Assisi. Morente si fa leggere il cantico al Sole e l'Evangelo di Giovanni: «… e come Egli aveva amato i suoi ch'erano nel mondo li amò sino alla fine.»

Francesco spira una sera d'ottobre, in sull'ora del tramonto.—Narra la leggenda che, mentre le allodole non cantano che nella luce del sole—alaudae aves lucis amicae—vennero allodole in quell'ora e si posarono cantando sul tetto di Santa Maria degli Angeli, sulle celle, nella corte. «Francesco,» dice il Gebhardt, «moriva pianto da'suoi, dal popolo, dagli uccelli, dal sole.»

I suoi intonarono i cantici di giubilo che la Chiesa primitiva intonava pei martiri—e l'indomani il popolo, con rami d'ulivo, come in trionfo, accompagnava sul monte la salma dell' apostolo suo.

Li 7.—ler l'altro sera, quando ci eravamo appena seduti a tavola, ricevetti questo biglietto:

«Martedì sera.

»Signorina, il parroco di San Vincenzo mi avverte d' essere stato chiamato al letto di un moribondo, via dell' Umiltà, n.*, e di non aver potuto arrivare fino a lui, essendovisi opposti in modo assoluto alcuni amici che stavano nell' anticamera. Egli spera io conosca qualche persona che possa riuscire a far rispettare la volontà del morente, e ad introdurmi presso di lui. Siccome questi è l'avvocato Silva, ho pensato a Lei. La carità di Cristo l'inspiri.

«Fra Paolo da Trento.»

Superai i brividi che m'avevano presa, rilessi il biglietto ad alta voce, e chiesi alla signora il permesso di prender meco la Marianna. “È matta, signorina,” rispose, “una giovane mettersi in giro di notte, l'ultima notte di carnevale, per andare al letto d'un giovinotto? In casa mia non si permettono di questi scandali!” Ma, prima ancora ch'io avessi avuto tempo di rispondere che non mi curo affatto degli ipocriti pregiudizi sociali, il commendatore, fattosi pallidissimo, e in preda ad insolita agitazione, era quasi balzato dalla seggiola. “Signorina, ci pensa? È la massoneria che fa la guardia—lei non sa che cosa voglia dire!”—“È tanto più perchè lo so,” risposi, “che voglio andare.”

La signora seguitava a protestare per via dello scandalo, il commendatore, che andava arrossendo e impallidendo a vicenda, borbottava parole sconnesse, fra le quali potei distinguere due volte “compromettermi,” mentre Elisa ripeteva supplicando: “Lasciatela, lasciatela andare!”—“Reclamo,” dissi, “la libertà per tutti che in questa casa, fin dal primo giorno, mi è stata annunziata.…”—“Tutto ha da avere un limite,” rispose la signora; “ed ella non può dimenticare che in questa casa si trova in condizione dipendente.”—“Di fronte ai doveri della carità, come di fronte alla verità e alla giustizia,” replicai, “non vi son superiori sulla terra. E, in ogni modo, a questa casa nessun impegno mi costringe.” Respinsi con un bacio violento Valentina che, agitatissima, voleva seguirmi, ed uscii senz'altro.

Pochi minuti dopo, colla rapidità possibile all' età della mia compagna—ultima sera di carnevale com'era, non potemmo trovare una vettura—la vecchia Marianna ed io ci avviavamo al convento. Il padre Paolo stava già pronto, dietro il laico che ci aperse. Senza scambiare una parola, anzi tenendoci a qualche distanza, ci affrettammo, per la via del Tritone, fendendo la folla che tornava dal Corso, e la piazza di Trevi, alla via dell'Umiltà. La portinaia mi rispose che l'avvocato Silva occupava un quartiere al mezzanino. Visto sopraggiungere il cappuccino: “Ah!” disse, “come farà? Quel poveretto, oggi dopo mezzogiorno, mentre gli facevo in camera qualche servizio perchè l'infermiere era fuori, m'aveva detto che desiderava vedere un prete, ma che i suoi amici non lo permettevano. Io però, siccome in quel momento c'era nessuno, corsi dal parroco, che venne subito. Ma intanto eran tornati anche gli amici, e appena lo videro comparire lo cacciarono via, e minacciarono me, benchè badassi a ripetere ch'era proprio l'avvocato che lo aveva chiesto. Per carità, come faccio ora?” E pareva voler sbarrare il passo al cappuccino. Ma questi, mentre la Marianna si fermava abbasso, mi seguì risolutamente per le scale.

La porta del Silva era socchiusa, ed entrammo. Nell'anticamera stavano seduti, chiacchierando, tre signori, un vecchio e due giovani. Al voderci balzarono in piedi e ci mossero incontro come per impedirci d'inoltrare. “Chi è lei, signora,” mi chiese bruscamente il più anziano, “e con qual veste viene?” —“Sono la signorina Da Ponte, e vengo, colla veste di libera cittadina, a far rispettare il desiderio di quel moribondo.”—“Quel moribondo,” riprese l'altro, “non ha alcun desiderio contrario ai nostri, e noi non tolleriamo presso il nostro amico intrusioni indiscrete.”— “L'intrusione,” risposi, “è vostra; in nome della libertà di coscienza, lasciateci passare.”—“Noi non lasciamo passare alcun rappresentate del fanatismo cattolico.”—“Protesto.” insistei con forza, “protesto, non in nome del cattolicismo, per quanto sià in me amore a difenderlo e in voi odio a combatterlo: protesto soprattutto in nome della giustizia, dell'onestà, della libertà, in nome di tutto ciò che la vostra sètta offende e calpesta nel mondo!”

“Signorina,” disse concitato e facendo un atto di minaccia colla mano uno dei giovani, che avevo riconosciuto pel professore Barducci, “ringrazi il suo sesso se…”—“Mi dolgo del mio sesso,” risposi, “se esso mi rende meno atta a combattervi. È troppo doloroso che, dopo tanti olocausti di martiri della libertà, il nostro paese avesse a cadere, irretito e contaminato, in una tirannia che insidia ogni virtù e arriva fino alla parte più inviolabile della coscienza.”

Erano sorti tutti tre in un confuso vociare, e mi si andavano avvicinando anche più, come per costringermi a retrocedere. Ma io rimasi ferma, noncurante del loro contatto. Si ritrassero allora incerti, guardando ogni tanto, come se quella veneranda figura li avesse suggestionati, il padre Paolo, ch'era rimasto dietro a me, immobile ed in silenzio. “Non abbiamo tempo da perdere,” ripresi; “lasciateci passare; la vostra vittima brama luce e conforto, e voi non gli potete dare nè l'una nè l'altro.”—Vidi allora il Barducci dir piano al vecchio, con un sorriso di soddisfazione, alcune parole che non intesi; solo afferrai, due volte, il nome del mio Gino. E un brivido mi corse per le membra quando vidi, sul viso del vecchio che ascoltava, un' espressione che pareva di trionfo… Come per incanto, cadde ogni resistenza; e passammo, il frate ed io, nella camera del morente.

Al primo entrare un tanfo ributtante mi fece per un poco trattenere il respiro. Nella semi-oscurità della camera, illuminata da una lampada nascosta dietro un paravento presso al quale sonnecchiava l'infermiere, distinsi, sul bianco del guanciale, i capelli neri del giovane, poi gli occhi stranamente ingranditi nel viso giallo e disfatto. Dapprima parve non capire chi entrasse: certamente, colla perdurante resistenza dell' udito nei moribondi, egli ci aveva intesi entrare senza che la vista offuscata gli avesse permesso di distinguerci. Ma quando il frate fu vicino al suo letto que'grandi occhi vitrei si animarono in un'espressione di gioia intensa.

Avvicinatami io dall'altra parte, mi chinai su luì toccandogli una mano, immobile sulla coperta, umida e fredda. Capii che m'aveva riconosciuta. Nelle guancie livide, infossate, macchiate di ombre nere, affluì un po'di sangue pallido; e, colla lingua grossa e lenta, disse: “Ah! grazie… lei… la sola… la sola… aveva ragione… grazie!” E rimase come spossato; ma si vedova che gli occhi cercavano di nuovo, dall'altra parte, il cappuccino.—Feci per allontanarmi. Egli ebbe allora un movimento del capo… Forse credette io volessi lasciarlo per non più tornare, perchè poi, a stento alzando un poco la mano, m'indicò una porta diversa da quella dalla quale eravamo entrati. Allora mi ritirai per di là, nello studio.

La stanza, pregna di odore di sigaretta e illuminata dalla lampada verde della serivania, era messa con una certa eleganza mondana. I mobili erano di stile antico, meno qualche poltrona a sdraio, bassa e soffice. Alcuni acquarelli sulle pareti, alcune fotografie qua e là, rivelavano i gusti e le abitudini che in vita aveva avuti il giovane che ora stava in faccia alla morto.—Guardai i libri posati sur un tavolino presso la scrivania. C' erano alla rinfusa volumi di Feuerbach, di Büchner, di Hartmann, di Häckel, di Hobbes, di Spencer, di Schopenhauer, di Moleschott, di Renan. In un' étagère là vicina vidi tutta la biblioteca dello Zola, tutte le fisiologie del Mantegazza, i romanzi del d'Annunzio e d'altri del genere. Sulla table à thé erano Guy de Maupassant e un numero di un ribaldo periodico parigino illustrato. Sul sofà, dov'erano rimasti, da un lato, un guanciale, un fazzoletto con traccie di sangue, una mezza sigaretta posata sur una ceneriera accanto, stava, aperto, il volume delle Fleurs du mal di Baudelaire. Tutti insieme avevano compiuto l'opera loro, che stava ormai all'epilogo.

M' inginocchiai accanto a una sedia; ma non sapevo formulare nessuna preghiera. L'anima mia era troppo scossa dalla lotta sostenuta, dalle impressioni provate, da ciò che mi circondava… Il bisbiglío di là nell'anticamera, ch'era andato diminuendo, ora riaumentava, e pareva ci fosse un certo andirivieni. Ripensai con un brivido al nome di mio fratello, udito in quel momento, e che pareva aver servito di prospettiva a un compenso e una vendetta; rivedevo quei sorrisi di trionfo… Ebbi un momento di codardia… Poi mi rialzai ritemprata da uno slancio d'amore all'ideale della mia vita. “Vergogna,” dissi fra me, “a chi non sa rischiare e soffrire per esso. Gino stesso m'ha ripetuto la parola d'ordine di quella ch'è stata la nostra seconda madre: Va e combatti. Ebbene, ho combattuto e combatterò, e combatterà lui pure… usque in finem.

Erano passati forse dieci o dodici minuti. Il padre Paolo aveva aperto la porta come per richiamarmi, e rientrai nella camera. La lampada era stata tolta dal suo nascondiglio, perchè il morente aveva bramato più luce. L'infermiere era stato allontanato nè più richiamato, chè ormai di nulla più bisognava quel corpo dal quale la vita sfuggiva. Solo, il padre ed io andavamo inumidendogli con una penna bagnata le labbra e la lingua aride, che, con un movimento quasi convulso, assorbivano tosto avidamente. Le forze erano un poco aumentate, la vita dello spirito pareva, per un momento, rifluire in quelle membra prima di abbandonarle al disfacimento; un'espressione di calma era nel viso meno terreo, negli occhi meno sbarrati. Egli ci guardava ora l'uno ora l'altro, come in atto di gratitudine.

Il padre Paolo, che aveva tutto recato seco, sul petto sotto il suo saio, stava per porgore all'infermo l'ultima cena. “Pensi,” gli dissi, “al Redentore che, alla vigilia del suo martirio, spezzando a'suoi il pane della pasqua, istituì il sacramento dell'amore—e d'amore e di perdono parlò, fin sulla croce.”—Egli ricevette l'ostia consacrata, poi chiuse gli occhi. Dalle palpebre velate come di un' ombra nera uscirono due lagrime. Stette, per un poco, immobile; poi riaperse i grandi occhi umidi e disse al padre: “Grazie.”

Intanto si udivano alzarsi nell'anticamera voci concitate. “Ci son di là i suoi amici,” dissi, “che desidereranno vederla.” Quegli occhi diedero un lampo strano, che pareva fatto di avversione e di sgomento: e, con tutta la forza che gli rimaneva e che in quell'istante pareva raddoppiata, il morente, colla voce velata e soffocata, quasi gridò: “No no, non voglio vederli!” e le povere membra consunte tremavano. Il frate si chinò su di lui e con voce amorevole gli disse: “Figliuolo, nessun rancore turbi l'anima vostra; chiamateli a voi perchè sappiano come perdonino e muoiano i cristiani; e per essi pregate quel Dio di misericordia che sta per accogliervi nel suo seno.” Egli si calmò, e fece un cenno del capo come per annuire.

Una mano intanto s'era posata sul pomo della porta. Mi affrettai ad andarla ad aprire. Altri cinque o sei s'erano aggiunti ai due giovani di prima; il vecchio non e'era più. I nuovi arrivati ricoprivano col pastrano il frac, e avevano i guanti chiari. Il professore Barducci mi chiese bruscamente: “Non hanno ancora finito di tormentare quell'infelice?”—“Vengano a vedere,” risposi.

Alcuni parvero seccati e incerti; l'avvocato Marini, che riconobbi nella penombra, uscì in fretta; gli altri si fecero innanzi con un certo turbamento, uno, appena entrato, si portò al naso il fazzoletto, uno rimase discosto dal letto, un altro si nascose dietro il più alto fra loro. Enrieo Silva riconobbe i più vicini, e li salutò per nome. Loro gli dicevano alcune banalità di miglioramento; e il Barducci aggiunse: “Passeremo ancora delle ore allegre insieme.”—Il viso del morente si contrasse e le sue labbra bianche abbozzarono un sorriso amaro. “Oh! quelle ore!” disse—e lo sguardo di quegli occhi sbarrati errò quasi atterrito su que'giovani e nel vuoto. “No no quelle ore!” aggiunse poi come in un soffio; e tornò a guardarli con un'ansietà nella quale pareva essere una preghiera e un'esortazione di chi usciva dalla vita a quelli che vi rimanevano… Poi si rivolse al lato dov'era il frate, e disse: “Padre, è ora.”

Il sacerdote cominciò ad amministrare l'ultimo sacramento. Que'giovani s'erano ritirati verso un angolo e parlavano sottovoce, mentre il ministro del perdono di Dio andava dicendo, sulle membra che erano soggiaciute alle miserie della via, le parole consolanti che accompagnano l'unzione, simbolo d'incorruttibilità, e all'anima che parte implorano fortezza nella lotta estrema. L'infermo lo seguiva—si vedeva negli occhi perdurare luce d'intelletto e nel volto farsi una calma più solenne.

Quando tutto fu terminato, e gli amici, meno due o tre che frattanto erano partiti, gli si riavvicinarono, egli accennò che s'aprissoro le finestre, e volle essere rizzato sui guanciali. Il respiro s'era fatto più affannoso —egli si agitava in cerca d'aria. Poi, con uno sforzo improvviso, ebbe un accesso di vomito sanguinolento, che insudiciò i guanti del più vicino a lui, il quale si affrettò ad allontanarsi, rovesciandoli con un versaccio di schifo. Un altro mi aiutò a ricomporre il poveretto sui guanciali.

Intanto era venuto un medico, lo aveva guardato un poco; poi, mentre io gli passavo accanto per andar a cercare un fazzoletto, a quello degli amici ch'era più discosto disse piano: “Ne avrà ancora per un'ora o due.”—Poco dopo riusciva, seguito da quei giovani, che salutarono il morente dicendogli che sarebbero tornati l'indomani. Egli scosse il capo. Poi, al Barducci disse: “Ricordati.… voglio.… la croce.” Questi non rispose e uscì in fretta.—Uno era rimasto. Era l'altro dei due giovani che avevo trovati, arrivando, nell'anticamera—quello dei tre che meno aspramente m'aveva apostrofata.

Agli orologi vicini battevano le undici. Traverso le finestre semi-aperte s'udiva salir dalla via lo schiamazzo dell'ultima notte di carnevale, e voci oscene e briache, e vocine in falsetto di maschere. Da una taverna vicina uscivano risa sguaiate e un ballabile strapazzato da un organetto.—Il moribondo pareva non soffrir più; posava stanco, cogli occhi semichiusi. Il frate, seduto accanto a lui, interrompeva ogni tanto le preghiere colle quali la Chiesa accompagna l'uomo che passa dal tempo all'eternità, per dirgli una parola di speranza e di pace. Il giovane, a me sconosciuto, stava ritto appiè del letto e, pallido e immobile, guardava.

La porta era rimasta aperta. S'udì nell'anticamera un leggero stropiccío di piedi e voci femminili sommesse che parlavano coll' infermiere. Poi, nel vano della porta, comparvero due domini neri. Nell' atto che fecero per togliersi il mezzo volto, vidi che il domino nascondeva un più gaio e più succinto costume.… Una era alta e forte, con un viso dalle linee grosse e procaci; e gli occhi torbidi parevano guardare inebetiti, senza pietà nè ribrezzo. L'altra, più gentile d'aspetto, era rimasta un po'indietro e sporgeva il capo appoggiandolo alla spalla della compagna e stringendosi a lei, cogli occhi sbarrati di meraviglia e di sgomento.—Guardai lui: egli non le vedeva.—Quando rialzai gli occhi erano scomparse.

Poco dopo l'infermo, cogli occhi che più non distinguevano, cercò l'amico, e poi “Giulio,” disse, “ti raccomando.… la croce.” Indi si rivolse al frate, e parve volergli dire qualchecosa. Ma l'affanno lo riprese.— Il giovane s' era avvicinato, e aveva circondato con un braccio il busto dell' agonizzante, che si andava agitando. Per due o tre volte una scossa convulsa alle gambe gli fece rapidamente alzar le ginocchia. S'era andato rizzando sempre più, poi curvandosi, addosso al petto dell'amico.—Il sacerdote era alle parole: «Il tuo soggiorno sia oggi nella pace—e la tua dimora nella celeste Gerusalemme.»—Il morente rialzò il capo con un ultimo ritorno di forza—il suo sguardo intenso, fisso nel vuoto, s'illuminò di una luce nuova e, in un sussulto, colla voce strozzata, gridò: “Mamma!” Poi il capo si rovesciò pesantemente all'indietro— gli occhi e la bocca rimasero aperti, immobili. Era passato.

Ci cravamo inginocchiati tutti tre intorno a quel letto. Il frate pregava sommessamente, il giovane singhiozzava, col viso nella coperta.—Dopo un poco entrò l'infermiere e, guardando il cadavere, disse: “Non c'è tempo da perdere.” Apersi l'armadio e il cassettone, cercando, mentre egli portava dentro una secchia. Quando tutto fu pronto, mi avvicinai al padre, che non si moveva. “Io rimango,” disse. “Al coro stanotte non m'aspettano.”—Il giovane, confuso e lagrimoso, pareva incerto. “Vada anche lei, figliuolo,” gli disse il frate amorevolmente; “e preghi per l'amico che è partito e per quelli che rimangono.” Egli non potè articolar parola. Poi s'avviò meco.

Abbasso, nell'entrata dove la lanterna si spegneva, la buona Marianna aspettava, recitando il rosario dei morti. Quando useivamo sulla via batteva mezzanotte. La gente e i rumori erano diminuiti, non s'incontrava più che qualche gruppo di ubbriachi, o di maschere che andavano ai veglioni in ritardo. Il giovane mi chiese il permesso di accompagnarmi a casa. Accettai. Percorremmo tutto quel tratto di Corso e la via Condotti senza parlare. E che gli avrei detto? Ciò ch'egli aveva veduto, ciò ch'egli aveva provato, dovevano esser ben più eloquenti nell'animo di lui della miseria delle mie parole.

Quando, sotto il fanale che sta sulla porta di casa Falletti, egli mi lasciò, vidi i suoi occhi velarsi, nel viso pallidissimo. E mentre ci si stringeva la mano egli mormorò, colla voce soffocata: “Perdoni—grazie.”

Ieri, nella cronaca di un giornale, si leggeva:

«Prepotenza pretina e.… femminina.—Ieri, presso un egregio giovane da morbo letale ridotto in fin di vita, voleva a forza introdursi un prete, che fu, con lodevole energia, respinto dagli amici del moribondo. Ma poi, ad ora tarda, una biondina ardita, con qual veste non si sa.… astutamente riuscì a far penetrare la tonaca di un frate nel sacrario del domicilio altrui, e, colle lugubri formalità che affrettano la morte, turbare gli ultimi momenti dell'infelice. Protestiamo una volta di più contro queste violazioni della libertà di coscienza che non ha ancora finito di perpetrare il fanatismo cattolico.»

E stasera un altro giornale portava:

«Funeralia.—Stamane, alle ore 9, avevano luogo, in forma strettamente civile, i funerali dell' egregio avvocato Enrico Silva, onore e speranza del nostro foro. Reggevano i cordoni ec.» E poi: «A campo Verano, in elogio del giovane troppo presto rapito ai sorrisi della vita e all'agone della scienza, parlarono, visibilmente commossi, l'avvocato Marini, come rappresentante il collegio degli avvocati, e il professore Barducci, come rappresentante la Massoneria. Questi non mancò di rivolgere un troppo giusto anatema a chi aveva voluto, ponendone in non cale le estreme volontà, funestare le ultime ore del diletto amico.»

Li 8.—Vado ricevendo lettere di amiche e di amici che hanno saputo del fidanzamento di Gino. Che varietà di sentimenti umani! Alcuni hanno interpretato appieno i sentimenti miei. Altri mi mandano dei rallegramenti insulsi, quasi en passant: son di quelli— e son tanti!—che ai fratelli danno poca importanza, pei quali l'amor fraterno è un affetto tiepido, che l'età va facendo sempre più fiacco, e che il matrimonio poi fa spegnere quasi del tutto. Quanti ho visti nella famiglia nuova circoscrivere tutto ciò che può dare il loro cuore—altri, pur seguitando dopo il matrimonio ad amare i genitori, considerare i fratelli quasi come estranei.… Quante volte m'è capitato di sentir dire: “Adesso che i vecchi son morti non val più la pena d'andare a casa.…”

Un'amica invece mi compiange per ciò che vado a perdere d'affetto; dice che dovrei essere gelosa, sentire antipatia per la mia futura cognata. E un amico osa trovare che Gino fa male a prender moglie, dice che dovrebbe piuttosto pensare ad aiutar suo padre e sua sorella.—Non so quale dei due m'abbia fatto più rabbia!

Ho risposto oggi a quest'ultimo che nostro padre ed io avremmo assolutamente respinto un sacrifizio che, a meno di condizioni ben peggiori della nostra, sarebbe un'ingiustizia e un'immoralità. Il diritto di formare una famiglia è sacrosanto, e i genitori e i fratelli devono non solo non contrastarlo, ma appoggiarlo.

Quell' amico mi serive che mio fratello non dovrebbe permettere ch'io lavori.… Quanti pregiudizi a questo mondo, in questi paesi specialmente! Io, malgrado tutte le difficoltà e le spine che incontro, sono, indipendentemente dall'idea della retribuzione, felice di lavorare, per la dignità e le risorse morali del lavoro, pel mezzo che questo mi offre di fare un po'di maggior bene che non potrei farne altrimenti. E mio fratello lo sa, sa che suo padre e sua sorella son contenti così—che suo padre trova troppo giusto egli faccia ciò che ha fatto lui stesso, e non pensa che il matrimonio abbia ad essere un privilegio dei ricchi o degli orfani—che sua sorella brama soprattutto di saperlo non privo di que'santi affetti custodi, di quelle gioie che allontanano dai piaceri. Sa ch'essa amerà sua moglie come una sorella, e ne'suoi figliuoli metterà tutto quel sentimento materno che v'ha in ogni cuore di donna anche schiva del matrimonio.

E all'amica risponderò che, seppure mio malgrado sentirò della gelosia, la respingerò come una tentazione. Che diritto di gelosia ha una sorella? verso un'altra sorella, in caso, o una semplice amica: mai verso una donna che al fratello ha inspirato un affetto diverso—e tanto meno quando questa donna ha da divenire sua moglie.

Infatti, è qualche tempo ch'io m'avvedo che Gino mi serive un po' più di rado e meno lungamente. Egli è sempre ottimo per me—anche l'altro giorno ha compiuto per me un vero sacrifizio; ma tante piccole cose mi fanno sentire che ormai sono in seconda linea, che le primizie del suo cuore e del suo spirito sono per lei.… Ebbene, e non è giusto? E quando io amavo lui, non lo amavo forse più che non amassi Gino? Non gli scrivevo più spesso, più lungamente, non avevo più cura di cuore e di spirito per lui che non ne avessi per mio fratello? Povero Gino, chissà quante volte, allora, lo avrò trascurato.…

Mi accade bensì a volte, ora, di sentirmi un po'triste —chissà? anche un po'gelosa.… Ma penso che conviene esser giusti a questo mondo.

Li 11.—Il signor Alberto è tornato da due giorni. Mi pare invecchiato. È quell' invecchiare del corpo e dell'anima, così comune ormai, cagionato da abusi di generi molto diversi—ma tutti forse in ultima analisi derivanti da quell' offesa primitiva che fanno all'uomo le dottrine demolitrici.—I suoi genitori pare non se n'avvedano—nemmeno sua madre, che si bea della sua bellezza, del suo ingegno, delle sue fortune nel mondo.… Elisa sola nota e si rattrista; ma rimane intimidita da'suoi tentativi sfortunati.

Lo osservavo iersera, in un momento nel quale tutti erano occupati a conversare o a leggere; ed egli s'era abbandonato in una poltrona, guardando dinanzi a sè, nel vuoto, cogli occhi più infossati di dianzi e le occhiaie più grigie, e nel viso un'ansietà dolorosa, come avesse interrogato la sfinge del suo pensiero.… Avrei voluto avvicinarmi a lui, dirgli qualche parola; ma come fare, là, fra gli altri, e col sospetto che pesa su di noi?

A un certo punto egli s'avvide che lo guardavo— e un rossore leggero passò sul suo viso. Per fortuna, nessuno, io credo, se n'accorse. Guai altrimenti! chè ognuno avrebbe attribuito quel rossore a tutt' altra causa di quella che aveva. Ha un campo così ristretto, in genere, la psicologia della gente, soprattutto quando si tratta di giovani!

Stamani, per la prima volta dacchè mi trovo in questa casa, egli salì nel nostro studio. Valentina oggi, a cagione di certe lettere urgenti ch'io aveva da scrivere, era andata in chiesa e dai poveri con sua sorella, che va prendendo sempre più amore alle sue nuove occupazioni e sempre più sentendo anche la sua missione di sorella maggiore.—Entrando egli pareva imbarazzato; e, deponendo un libro sulla tavola, disse ch'era venuto a portare a Valentina un ricordo che le aveva preso a Genova. Era una splendida edizione illustrata dei Promessi sposi.

Mentre lodavo la scelta, osservai ch'egli non accennava a ritirarsi. Guardava intorno a sè, e mi pareva che ne'suoi occhi passasse qualchecosa come un sentimento di tristezza e d'invidia. Io pensai per un momento alla possibilità d'una comparsa di sua madre, o anche solo d'una chiacchiera di servitù; ma scacciai il pensiero come una tentazione di viltà. Sedetti al mio posto, davanti la tavola da studio; sedette lui pure, al posto di Valentina.

“Il povero Silva è morto,” disse, come fosse stato il seguito d'un suo pensiero. E dopo un momento di pausa aggiunse: “Giulio Libani m'ha raccontato tutto.” E mi guardò un momento; poi il suo sguardo riprese la fissità dolorosa della sera innanzi.—“Povero Silva,” dissi, “spero che la sua vita e la sua morte avranno detto qualchecosa a più d'uno.” Egli scosse il capo, poi rispose: “Forse a qualeuno pel quale non è troppo tardi: non ad uno che nella vita non vede ormai più che fantasmi nati di fatalità e un avvicendarsi di forze eieche, e sente sò stesso travolto in balía di esse.” E rimase nuovamente assorto nel suo pensiero.

Egli mi faceva ripensare a certi periodi di lettere di Flaubert che Bourget cita, non so più dove: «.…la défaillance et la détresse jamais reposées, et rendues plus tragiques par l'absence de motifs précis.»—«Il me semble que je traverse une solitude sans fin pour aller je ne sais où.»—«Tout se convertit pour moi en tristesse.»

“Sì,” risposi, “è il tarlo vendicatore de'grandi ideali combattuti o negletti—è il lento lavoro di una demolizione che dall'amarezza del disinganno farà uscire, con nuove fedi, nuove forze, e nuovi propositi.” Egli rispose che m'invidiava la mia fortuna d'aver questa fede, d'aver una fede qualsiasi.

“Lei dice la fortuna,” replicai; “sa lei di che cosa la mia fede sia fatta? crede ch'essa sia nell'anima mia com'è ne' miei occhi la facoltà di vedere?… E se le dicessi ch'era stata distrutta, e che fu riconquistata brano a brano, e che ogni giorno tuttora la contendo alle insidie della vita, studiandone gli oggetti, amandola, servendola, cercando, soprattutto, che non la offuschino, che non la soffochino le passioni?”— “Non capisco codesta fede,” rispose; “la fede che lotta, che ragiona, che studia, non è più fede—fede e lotta, fede e ragionamento. fede e scienza, si escludono assolutamente.”

Dissi ch'era questo un pregiudizio che i nuovi studi religiosi, e più ancora il lavoro che nella scienza fanno il tempo e l'esperienza, vanno sfatando. Il rationabile obsequium di Paolo va sempre più risultando come ciò che dev'essere la fede. “Io non invidio,” dissi, “ma compiango la fede di chi per serbarla ha bisogno di chiudere gli occhi alla luce, o vede tra la fede e la scienza una barriera. E non è certamente dal ristagno di questa e da un oscuramento intellettuale del mondo che la fede aspetta il suo trionfo— come non lo aspetta dai volgari che, scredenti o credenti che sieno, non provano le aspirazioni rivelatrici, non intendono lo spirito delle cose eterne.”

Egli rispose che tutto ciò è bellissimo, ma non può persuadere chi è avvezzo al sistema positivo, che nulla può ammettere di quanto non ha constatato. Replicai cogli argomenti di due mesi addietro, ed aggiunsi che la stessa scienza positiva si erige su atti di fede giacchè è anch'essa, a volte, necessariamente aprioristica; ed accennai alla miseria di ciò che, in confronto de'misteri dell'universo, la scienza può constatare, mentre di tanto maggiori sono i bisogni e le intuizioni dell' anima—bisogni i quali fanno sì che, appunto per essere positivi, conviene non rifiutare il soccorso della religione—intuizioni che sono di questa potenti ausiliari, giacchè la ragione dimostra le ragioni della rivelazione.

“Vi son de'momenti,” egli rispose, “de'tristi momenti, nei quali ammetto questi bisogni; ma non sento nè ammetto queste intuizioni.”—“Non chiami tristi,” dissi, “que'momenti benedetti; essi sono il maggior contrassegno degli spiriti non volgari, e, un giorno, saranno anche rivelatori. Ma non è passivamente che dobbiamo aspettarli: dobbiamo cercarli nelle pagine del passato e negli albori della scienza d'oggi che si rinnova sulle ruine di quella d'ieri, e va scoprendo, fra il regno dell'intelletto e quello della fede, nuove, dianzi non credute, armonie; dobbiamo, soprattutto, cercarli colle virtù della vita.”

Sul mio viso dev'essere passata la tristezza d'un mio pensiero, ch'egli tosto afferrò, perchè il suo pallore si fece più cereo. “Beati i cuori puri, ha detto Cristo,” aggiunsi, “perchè vedranno Dio.”—Egli sorrise amaramente. “Ella vede dunque,” disse, “che per me non può esservi speranza.” E sulle sue labbra anemiche il sorriso amaro si spense in una contrazione d'orgoglio, ribelle all'umiliazione di quel pensiero. “Per chi è mai,” risposi, “che Cristo non ha dato speranza? S'egli ha incoraggito i cuori puri, ha attirato a sè e sublimato gli erranti e i caduti, e gli uni e gli altri ha amati del suo amore divino, che è luce e redenzione.”

Gli occhi del giovane si alzarono, quasi macchinalmente portandosi sul crocifisso in faccia a noi; ma li riabbassò tosto, battendo rapidamente le palpebre. Era per reprimere una lagrima? Non so.—Subito dopo si rivolse a mezzo, appoggiando la schiena e il gomito sul tavolino e tormentando colle dita nervose i baffetti biondi, mentre il suo viso si atteggiava a una posa d'ironia mal riuscita.

In quel mentre entrò Valentina. Furono grida di giubilo per la novità di vedere Alberto nel suo studio, al suo posto, e per quel regalo magnifico! Era tutta ansante ancora per le scale salite in furia, e rossa di freddo e di piacere. Non sapeva più, quell' anima giovane e che con tanto entusiasmo s'affaccia alla vita, su che cosa fermarsi. “Oh! signorina, quel bel libro! lo leggeremo insieme la sera. Caro caro Alberto, come sei buono!” E dopo averlo abbracciato seguitò: “Sa, la povera Lisa sta molto meglio —è stata la nostra coperta. E il piccolo Mimi è diventato come una mela. E suor Vincenza ha portato via lei la bambina al suo presepio; e Lallino lo abbiamo accompagnato noi dai frati del padre Lodovico; e un bel frate colla barba bianca, che pare tutto il padre Cristoforo, lo ha preso nelle sue braccia.— Ed era venuto a portarlo il suo papà, e baciava le mani a lui e anche a noi, e piangeva.… Pensi, quell'omone così grande e così nero, che va in giro a far le iscrizioni degli anarchici! Io avevo fino paura.…”

D'un tratto la mia bambina s'interruppe, guardando suo fratello esterrefatta. “Che hai, Alberto,” disse, “piangi anche tu, adesso?” E voleva riabbracciarlo, tra pietosa e spaventata. Ma lui, i cui occhi s'erano infatti riempiti di lagrime e che fieramente lottava contro di esse e le ribelli contrazioni de'muscoli del viso, si svincolò con forza dalle braccia della sorella e l'andò respingendo finchè furono alla porta, dove essa lo aveva seguito, e aperse e richiuse quella violentemente.

Valentina tornò indietro tutta mortificata e sgomenta. “Che ha Alberto?” chiese. “Non l'ho mai visto così!” Risposi ch'egli sarà stato nervoso, mal disposto per qualche dispiacere. “Povero Alberto,” diceva la mia figliuola, “che dispiacere avrà? E quel bel libro che m'ha portato! Che dispiacere avrà Alberto, signorina?” E tosto, volgendosi con rapida mossa al crocifisso, giunse le mani, e il caro visetto assunse l'espressione della preghiera.

Oh! sì, prega, angioletto, prega Quello che, dall' alto del suo patibolo, aspetta la povera umanità errante e travagliata—pregalo per tuo fratello, pregalo per gli altri fratelli ch'Egli t'ha dati. L'innocenza tua implori, per le colpe e i dolori che non conosci, Quello che perdona e rialza, Quello che conforta e ritempra —e fra noi miseri educa i santi.

Li 12.—Stamani, pel nostro giro di visite, ci eravamo unite a una suora del Buono e perpetuo soccorso, di via Merulana. La conosco da un pezzo, e soprattutto la conoscono le donne de'quartieri poveri di lassù. Quando stavo a casa, in sul principio specialmente, ero felice quando potevo girare con lei che tanto meglio di me sa parlare ai miseri. Di fronte a certi spettacoli mi sentivo prendere dallo sgomento, dalla disperazione di non poter fare, dal rimorso del buon desinare, del buon letto, e di tutte le comodità e i conforti che mi aspettavano nella mia pur tanto modesta casa.… Ma lei che, fin dalla prima giovinezza, ha tutto abbandonato per recarsi oltre l'equatore, in un'isola dell'Oceano Indiano—dove una donna eletta, suor Augustine de la Resles, la cui vita è stata, se la parola non è troppo ardita, un romanzo eroico, avea fondato uno ospedale pei lebbrosi—e per sette anni ha vissuto laggiù di quel martirio, e ora qui, con essa e le sante compagne, tutta la vita duramente provata consacra all'educazione delle fanciulle e all'assistenza de'poveri, ben altrimenti può e sa guardar le miserie e confortarle.

Un po'consola, un po'sgrida, un po'rabbonisce, un po'esorta a sopportare, a confidare, ad aiutarsi, a tirar su bene i figliuoli, a tener pulito intorno a sè. E bisogna sentire come quelle donne la chiamano: “Oh! monica mia, sorella mia, suor Benedetta mia!” E come alle sue parole paion riprender fede e coraggio! M'è capitato più volte di vederle perfino, in que'loro squallori, colle lagrime ancora negli occhi, ridere con lei, che fa le viste di volerle percuotere e le carezza…

Essa è una specie di confessore per le miserie de'dintorni, che vanno a chiedere aiuto in quell'asilo dove tanto grande è la carità e tanto miseri son ridotti i mezzi—dove le povere suore s'impongono sempre nuove privazioni per non rimetter sulla strada fanciulle salvate dall' abiezione per le quali la scarsa retta non può più esser pagata che a mezzo—alla cui porta battono creature abbandonate o tradite e si odono storie raccapriccianti… E suor Benedetta le ripete alla donna veneranda che gli acciacchi hanno inchiodata in un seggiolone e che piange di dolore per non poter accogliere quante sogna il suo cuore. Quella donna che nel modo più largo e più scevro d'ogni preoccupazione temporale interpreta l'Evangelo —e che un giorno, a me che le chiedevo se avrebbe fatto, come altri, difficoltà ad accettare un'illegittima, con sublime semplicità rispose: “Oh! cela ne nous regarde pas!” e, ad una donna caduta che confessava il suo peccato, lei santa, disse: “Ti giudicherà il Signore, figliuola—non io.”

Li 13.—Oggi doveva aver luogo in Trastevere una commemorazione patriottica. Per quell'attrazione che ogni patrio ricordo esercita sull'anima mia e il dovere che sento di educar Valentina all'amore d'Italia e al culto dei forti, volli andar a passeggiare da quella parte—quantunque prevedessi che non avrei colà trovato l'espressione de'sentimenti miei.

Perchè ogni festa che fa battere il cuore ne'suoi affetti più gagliardi, il religioso e il patriottico, ha da essere ora amareggiata da errori di passioni ingenerose? Perchè l'altro giorno, dover ascoltare con tristezza le campane di San Pietro—perchè dovermi sentire oppressa e trepida oggi, nel palpito che mi destavano e la vista dei nostri santi colori, sventolanti sul fondo radioso del cielo di Roma, e il suono di quell'inno che, colle balde parole evocanti i morti, tante anime scosse e sollevò nelle ribellioni magnanime?…

Alcuni uomini, fra quelle bandiere, quando tacque quell'inno, parlarono—parlarono al popolo. Ma non era illuminato e volente amore che li inspirava, di fronte a quella massa nella quale fervono umane passioni e che travagliano umani bisogni. Parevano piuttosto de'vanitosi o degli illusi, cui bastava, sulla falsariga adottata dal volgare pregiudizio, declamare e adulare.

Che importava, infatti, se le grandi parole delle quali facevano risuonar la piazza gremita erravano su quella folla di popolo gonfie e vuote? Se, mentre le predicavano il culto degli alti ideali, le forti virtù, le magnanime devozioni alla patria e all'umanità, coprivano d'insulti e di scherno, o scostavano come un impaccio, l'idea che comprende ed alimenta ogni ideale, inspira e rafforza ogni virtù, insegna e fa eroica ogni devozione? Che importava se a quel popolo, cui facevano appello perchè purificasse l'ambiente corrotto, inspiravano il disprezzo e l'odio verso l'istituzione che tiene in deposito la sola legge che parli alle coscienze, la sola parola che non vanamente scuota i cuori? Che montava se, declamando al popolo e pel popolo, dimenticavano la storia al punto da respinger quella sola idea democratica completa e non utopistica ch'è l'idea cristiana?

Se nel paganesimo la democrazia non fu mai se non cosa rara e parziale, o sterile; se solo nel cristianesimo essa fu dottrina e feconda legge d'amore; se fu il cristianesimo che, nella società che buttava, da sè lontani, a morir derelitti quegli schiavi de'quali ad ogni più sfrenata cupidigia, ad ogni più turpe e feroce libidine de'padroni, era stata prostituita l'esistenza —nella società che al popolo ozioso dava corruttori, pane e spettacoli, e terme, e saturnali, e vista di barbari combattimenti, istituì l'amore e la devozione ad ogni miseria, e creò miracoli di carità che traversano i secoli; se perfino i migliori fra i pagani, come Catone il Censore, Epitteto, Celso, esprimevano, con parole che ora nessun più duro aristocratico oserebbe pronunziare, il disprezzo del popolo e della sofferenza umana, se le religioni antiche, delle quali que'sedicenti democratici esaltano la poesia e, ne'loro voli lirici, quasi sognano il ritorno, non si rivolgevano che a qualche iniziato e trascuravano le masse, e i ristretti templi pagani le escludevano dal loro recinto—mentre il cristianesimo fu predicato da un umile agli umili, ai possenti imponendo di rispettar la giustizia, ai ricchi di dare, ai sapienti d'insegnare; se il sacerdote pagano altro non era che una comparsa vana, quando non era un conscio e venale impostore, e la milizia maschile e femminile di Cristo al popolo, e ai più miseri del popolo, e a'popoli più lontani d'ogni civiltà, soprattutto è consacrata; se dalla storia del paganesimo si eleva un immenso grido di plebe oppressa da iniquità d'egoismi e di corruzioni, e quella del cristianesimo —malgrado le grandi ombre in essa recate dagli errori e le colpe, frutto di umane passioni e di corruzioni di tempi, degli apostoli non degni—ha ad ogni pagina nuove istituzioni di luce e di carità, delle quali la parola del divino Maestro fu tra gli uomini feconda, ed ha, traverso il feudalismo del medio evo, fatto crescer l'idea democratica inspirando e benedicendo le corporazioni delle arti, ebbene, che importa?

Tanto, il povero popolo nella storia non è versato, nè è forte in filosofia; molte, molte cose gli si possono dire senza timore d'essere smentiti… Si può anche proporre all'ammirazione e alla gratitudine sue quel Voltaire che, con aristocratico cinismo, lo disprezzava, a nominargli con ischerno que'francescani, que'redentoristi, que'fate-bene-fratelli, que'teatini, que'barnabiti, quegli oratoriani, quei crociferi, quegli scolopi, que'somaschi, que'preti della missione, che furono istituiti da quel Francesco d'Assisi, quel Giovanni Matha, quel Giovanni di Dio, quel Gaetano Tiene, quell'Antonio Zaccaria, quel Filippo Neri, quel Carlo Borromeo, quel Camillo di Lellis, quel Giuseppe Calasanzio, quel Girolamo Emiliani, quel Vincenzo de'Paoli, la vita de'quali fu un olocausto di eroica carità verso il popolo, e le cui fondazioni son tutte erette su concetti della più profonda democrazia, di una devozione al popolo in tutte le forme. Raccogliere ed educare i fanciulli abbandonati o in pericolo, istruire gl'ignoranti, assistere gl'infermi in ogni più ributtante o contagiosa malattia, confortare i carcerati, liberare gli schiavi, rialzare i caduti, richiamare i traviati, evangelizzare i selvaggi… Sì che larghe traccie di quelle istituzioni trova chi studia imparziale la storia dei popoli, specie in que'secoli travagliati dalle guerre, le pesti, le carestie, che que'soldati di Cristo vide dovunque, provvidi, intrepidi, pronti ad ogni prova come al martirio.

Si potrà anche mettere il popolo in guardia contro quelle innumerevoli istituzioni che continuamente sorgono come miracoli d'industria della carità cristiana, per lenire ogni genere di umana miseria, e delle quali scrittori non cattolici ci narrarono gli eroici prodigi… Si potrà parlargli dell'idea che tutto codesto ha inspirato e della legge e delle promesse di Cristo, come di vieti pregiudizi, che dico? d'insidie che minacciano esso e la patria… Che importa, dal momento che a codesto si sostituiscono tante belle parole, tante seducenti promesse, le quali, nelle aule dove si raduna la gioventù e nelle piazze dove si raduna il popolo, scorrono sonore?

Povero popolo, come lo opprimono o lo trascurano gli uni, come lo guastano, sfruttano e ingannano gli altri, come gli uni e gli altri—nemici e sedicenti amici—lo traggono a rovina, lo suadono ai delitti! Oh! se imparasse a conoscere l'Amico vero! Ma il giorno non è lontano—la voce di Lui si va riudendo, e, un giorno, dominerà la lotta feroce degli egoismi e degli odii che ora preparano giorni assai oscuri— giorni che non senza raccapriccio il pensiero precorre…

Per confortarmi nelle mie impressioni d'oggi e rinfrancarmi nelle mie speranze pel dopo, rileggevo dianzi queste righe di Antonio Fogazzaro: «Adesso fermentano in Europa i germi di un'altra rivoluzione, ed è una grande idea cristiana di giustizia economica, non conosciuta ancora, che sta salendo. Perciò ribollono in alto le cupidigie disoneste del danaro, e le corruzioni dei nostri ordinamenti economici vengono continuamente a galla. Badate bene che i progressi dell'idea cristiana sono comunemente iniziati, aiutati, da gente anticristiana: nel secolo scorso, dai filosofi dell'Enciclopedia, nel secolo presente dai socialisti negatori del cristianesimo, gente che crede andare dove vuol lei, e va dove nè lei nè altri sa, dove vuole una Legge superiore. Se credeste spaventarmi con gli anarchici, vi direi che saranno essi pure strumenti inconsci di una trasformazione cristiana della società.»

Li 15.—Un signore, che avevo visto qualchevolta dacchè mi trovo in questa casa, aveva pregato la signora Falletti di chiedermi per lui la mia mano. Questa, stamani, mi fece chiamare per tempo nel suo salottino intimo; e, coll'aria di chi annunzia un sicuro e giocondo evento, mi partecipò la gran fortuna che m'era toccata, e senza neppur aspettare la mia risposta, mi faceva già i suoi rallegramenti e i suoi augurii. —Io sentii un sorriso leggero passarmi, mio malgrado, sulle labbra. Poi dissi alla signora ch'ero gratissima a lei pei suoi augurii, a lui per un'offerta tanto disinteressata—ma che non accettavo nè gli uni nè l'altra.

La signora Falletti spalancò tanto d'occhi. “Ah! è forse innamorata? di qualche disperato, eh? e con quella testolina poetica pensa che vivranno di sospiri! Cara lei, si tenga al solido: quel signore è un proprietario, ed ha la testa a partito; più, aspetta un'eredità, e le dico io che non so quanti…” Pareva volesse dire che non sapeva quanti, con simili qualifiche, avrebbero pensato a sposare una stracciona come me; ma siccome esitava, colsi quel momento di sosta nel vortice delle sue parole per dirle che non sono innamorata di nessuno, ma che non intendo di prender marito.

“Come,” disse, “lei preferisce restar lì, e servire per giunta?” Risposi che non resto li niente affatto, giacchè mi par di sapermi muovere abbastanza, molto meglio, credo, che se avessi marito; e che, in quanto al servire, prima di servir casa Falletti servo un ideale; e che d'altronde preferisco guadagnare col mio lavoro la mia libertà anzichè smetter di lavorare per perderla.

La signora Falletti era più che esterrefatta—era sgomenta. Incapace di capirmi, essa, certamente, ripensò a quella sera in cui aveva visto le mani di suo figlio nelle mie. Rossa di collera, disse: “Io non credo a queste stranezze; qualchecosa di sotto ci ha da essere! Ma badi bene che se mira più alto le toccherà precipitar molto basso.…”

Ne'miei occhi dev' essere passato un riflesso di ciò che divampò in quel momento nell'animo mio—perchè la mia interlocutrice fu costretta ad abbassare i suoi. Indi essa balbettò qualche parola di scusa, e cercò di rimediare tornando ai consigli pel mio bene; e andava ripetendo la sua frase obbligata: “Lei è esaltata—badi a me che son pratica.”

Le risposi che la vera praticità consiste nel seguir la propria vocazione, la via sulla quale Dio ci chiama. “Ma allora dunque si faccia monaca!” esclamò; “non sa che le donne nubili sono spostate?” Balzai sulla sedia: “Monaca? mai! Venero le monache, ma non saprei imitarle. In quanto allo spostamento delle donne nubili, ciò che v'ha di vero nel progresso del tempo attuale va, grazie a Dio, dissipando codesto pregiudizio così umiliante pel nostro sesso; si comincia a capire che la donna non ha bisogno di piegarsi sotto alcun giogo per serbare la sua dignità.”

La signora Falletti scoteva il capo. “Ma se poi capita quello che la innamora, addio grandi propositi, addio superbia!” Un ricordo non del tutto spento ancora chiamò sul mio viso il rossore; ma non abbassai il capo. “Forse sì,” risposi, “pur troppo.… Ma pregherei Dio d'aiutarmi a non disertare.” Poi, non fidandomi del tatto di lei, scrissi sul suo tavolino alcune righe di gratitudine e di spiegazione a quel signore—mentre essa andava passeggiando pel salottino e ripetendo: “Pare impossibile che teste matte ci sono a questo mondo!”

Li 16.—I miei poveri amici hanno una nuova prova da traversare. Letizia ha perduto la sua piccola dote, ch'era aflidata a una Banea, testè fallita. Piecola dote, ma che, per la famiglia rovinata com'è, e lo stipendio di Francesco, ridotto a metà dall'aspettativa che gli hanno inflitta, era una grande risorsa. La notizia è giunta tanto più dolorosa perchè inattesa; ma non è bastata a scuotere quelle anime forti dalla dignità della loro rassegnazione.

L' angoscia è più intensa per Letizia, la quale era felice nel pensiero che qualchecosa di suo aiutava i suoi cari nelle difficoltà della vita d'ogni giorno. E gli altri, che tutto indovinano, raddoppiano per amor suo di fortezza—Elena soprattutto, che, il giorno in cui seppellì nel suo cuore un tragico amore che vado indovinando nel suo passato, ha cercato nelle più intime devozioni del cuore ardente ogni suo conforto.

Il primo sacrifizio cui hanno dovuto pensare è quello della casa. Avvezzi dall'infanzia agli splendidi panorami della loro Asolo, essi, venendo a Roma, avevano cercato un quartiere ristretto e modesto, ma in quella posizione magnifica lassù, di dove si domina gran parte di Roma, e que'tramonti maravigliosi quali si sogliono mirare dalla terrazza della Trinità de'Monti. Era l'unico lusso che si fossero concesso. Ed ora anche a quello devono rinunziare; nè, per non allontanar troppo il vecchio padre dalla sua quotidiana passeggiata del Pincio e Francesco dalle biblioteche, le donne vogliono cercar gli orizzonti de'quartieri nuovi. Per combinare l'economia colla centralità hanno scelto un povero quartierino nella malinconica via degli Avignonesi, dove si trasferiranno il mese venturo.

Oggi che Valentina usciva con sua sorella, andai a dar loro un saluto nel pomeriggio. Elena era andata coi ragazzi a visitare i musei capitolini. Passando davanti la porta aperta del signor Marco, lo vidi che, piano piano, con meticolosa esattezza di vecchio ordinato, già cominciava a riporre in una cassa carte, ritratti, e vecchi oggetti sparsi. Mi fermai un momento nel corridoio, considerando con tenerezza accorata quell'uomo che, nella lieta fanciullezza, ho conosciuto lassù, amico di coloro che amavo, e che a tutto è andato mano mano serenamente rinunziando, fuorchè agli ideali della sua coscienza.

Passai da Letizia. V'erano là due signore. Una, che conosce la famiglia da un pezzo, si ribellava alla sequela di sventure che, diceva, perseguita i Maren. “Gente tanto buona,” ripeteva ogni tanto, “che non meriterebbe davvero d'essere così disgraziata”—mentre l'altra andava suggerendo a Letizia certe preghiere da fare, per ottener questo e quello.

Quanto poca gente v'ha a questo mondo che intende, o, dirò meglio, intuisce il mistero del dolore! Se ne sentissero l'essenza e la missione nel mondo non si farebbero meraviglia di vedere soventi ad esso sacrati i migliori—e non si perderebbero nella pericolosa illusione delle preghiere per gl'interessi particolari. Dico pericolosa perchè, in chi non ha una fede illuminata e solidamente fondata, le preghiere inesaudite sono altrettante cause di diminuzione di quella. Si suol citare la parola di Cristo: «Chiedete e vi sarà dato.» Ma si dimentica quell'altra: «Chiedete il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato come soprappiù.»

Il regno di Dio e la sua giustizia sono il regno del bene nel senso più alto, del bene in noi e nel mondo—quel bene morale, proprio e d'altrui, pel quale ogni anima deve lavorare e che dev'essere la base e lo scopo della scienza, del lavoro, della carità, come il precipuo obbiettivo delle nostre preghiere a Dio.—Pel resto nulla ei vieta di pregare; ma non fondiamo su codeste preghiere—soventi, pur troppo, non fatte come si dovrebbe—troppe speranze, non fondiamovi la nostra fede, soprattutto. Chi governa gli umani destini vede spesso altrimenti di noi, sempre più lontano. E la preghiera nostra nelle prove, ne'perduranti o minacciati dolori—che molte volte, oh! quante volte, son frutto di colpe vicine o remote, nostre o d'altrui—deve a tutto prepararci e per tutto chiedere forza e virtù perseveranti.

In questo senso, con poche parole e il suo dolce sorriso, aveva risposto Letizia. E il suo viso avea finito di rischiararsi di quella luce interiore ch'è il segreto delle anime nelle quali Cristo vive. Ed io, vedendola così tribolata e così serena, ripensavo a quel versetto del salmista: «La luce della tua faccia è impressa su di noi; tu nel cuor mio infondesti letizia.»

Uscendo di là sono andata a trovare i Seriani, dai quali mi reco di rado e mi rimproveravo di non andare più sovente, giacchè sono anch'essi disgraziati e in sè non hanno i conforti degli amici miei.

Il padre è un buon uomo in fondo, ma di poca levatura, di una coltura fatta tutta di luoghi comuni, che riguardano le grandezze del paganesimo, gli scandali del cattolicismo, e di un po'di scienza moderna, non vagliata e da strapazzo; molto popolare per aver fatto, nelle adunanze politiche e ne'giornali, una propaganda di grandi principii e di grosse parole, misti a lazzi voltairiani e a professioni di un facile patriottismo, pieno di teorie illusorie; insomma, un di que'tipi comunissimi, che in questi ultimi anni andavano per la maggiore ed ora cominciano ad essere un po'in ribasso.

La sua signora s'è completamente uniformata alle idee del marito; ora, per di più, è inasprita, irritata dai dispiaceri. Il figlio maggiore, portato alle naturali conclusioni le teorie paterne, ritrovate nelle scuole e ne'compagni, «del libito s'è fatto licito», e a trentasei anni ha i nervi rovinati, è sempre malazzato, esigente, irritabile, stravagante. Il secondo ha voluto mettersi nelle speculazioni e guadagnare a furia, s'è rovinato, ha rovinato altri, e ai genitori è una continua sorgente di sacrifizi e di umiliazioni. Una figlia nubile, di trent'anni, è divenuta isterica a forza di un malcontento cui nessun serio ideale era stato dato a rimedio. Un'altra, la minore, ch'era stata l'idolo de'genitori, maritata a un ufficiale, viene ogni momento a casa perchè i distaccamenti le pesano, è abituata ai comodi e alle carezze costanti di casa sua e alle distrazioni della capitale; e la mamma le fa le toilettes nuove e la solleva dalla noia di allevare i bambini.—E la povera signora brontola e sospira, dice che la vita è troppo grave, che Dio, se esiste, è molto ingiusto, che li perseguita, che ha anche provato a pregarlo, ma ch'è inutile; e che non valeva la pena d'esser galantuomini tutta la vita, d'aver fatto sempre del bene, per avere que'bei premi.

Uscii da là profondamente triste—e facevo i confronti cogli amici dai quali ero stata poco prima, e che, con forte rassegnazione, sopportano mali cui non essi hanno dato cagione, mentre, risalendo all'origine della maggior parte de'guai di questi altri, si troverebbe che se li son preparati da sè.… Ed ero tanto più triste in quanto invano avevo cercato di confortare.

Eppure, non dovrei scoraggirmi. Non ch'io abbia a sperare di poterei fare direttamente gran cose; ma, a volte, una parola oggi, un'altra più tardi, un esempio che si mette dinanzi senza parere, una conoscenza che si fa fare, un posto nel quale si conduce, un libro un articolo che si fan leggere, un'impressione che si procura, possono essere come scintille.… La misericordia di Dio non si vale sempre de'saggi nè de'santi. Egli, sulla terra, ha amato gli umili e i piccoli—e, spesso, Lo vediamo servirsi pel bene in questo povero mondo di cose che paion così da poco!

Ho letto una volta, non so più dove, di un modesto sacerdote ch'era andato a trovare un giovane malato e desolato, che nessuna fede e nessuna virtù confortavano. Egli era stato preceduto colà da un altro sacerdote, dotto e fanatico, il quale inutilmente aveva fatto all'infelice lunghi rimproveri, ed esortazioni e minaccie; ed era riuscito a farne un sofferente forte e rassegnato parlandogli invece di Dio come padre misericordioso d'ognuno, e del dolore non come castigo ma come una prova che purifica e prepara.

Non tutti, nè in qualunque momento, son disposti ad ascoltare chi parla in nome di Dio—o, seppure ascoltano, per lo più dimenticano, o sembrano dimenticare. Più tardi, a volte, in una gioia, o, più spesso, in un maggior dolore, in un nobile entusiasmo, in un atto di carità compiuta, quell'impressione ritorna—ed è forse quella l'ora del Signore.

Li 17.—I coniugi Falletti avevano cominciato ad avvedersi di un mutamento nel loro figliuolo; chè, non solo egli è deperito e pensieroso, ma sta in casa molto più che non istesse dianzi. Ed entrambi ne lo strapazzavano, e lo spronavano a riprender la vita di prima, benchè ne sappiano i disordini. Disordini che il commendatore dice esser naturalissimi, poichè i giovani han da fare così ed è sciocco chi non gode la sua gioventù. Egli è di quelli cui pare che la gioventù consista, non nella forza, nella letizia, nei generosi ardimenti, ma ne'piaceri morbosi e viziosi, e nello sciupío d'ogni vitalità fisica e morale.

La madre poi tiene alle abitudini del figlio perchè le trova di bon ton, le pare queste lo innalzino al livello di quella classe ch'è l'oggetto supremo delle sue aspirazioni. Ed essi tengono anche a che egli non muti perchè il suo ingegno è molto apprezzato e messo innanzi da alcuni uomini che son qua, in questo momento, i leaders de' giovani che alternano la licenziosità della vita collo studio di teorie molto compiacenti e incoraggianti.

Perciò, da qualche giorno, v'era un certo malumore in famiglia, che si manifestava per ogni inezia. Vedevo che Elisa ne soffriva, e invano cercava di metter pace. La povera ragazza, per esservisi accinta un po'tardi, non è ancora riuscita a conquistare in casa il prestigio di serietà che vi dà un'influenza sugli animi altrui. —Stasera essa era salita con Valentina per passare un certo pezzo a quattro mani, che devono suonare una di queste sere.

Non era venuto nessuno, nemmeno il fido senatore Baretti. Il commendatore s'era messo a fumare di qua, e leggeva il solito giornale di finanza; la signora Falletti alternava il suo lavoro all'uncinetto colla lettura della sua solita cronaca; io terminavo una cuffietta per un marmocchio che non ne ha; e il signor Alberto, sdraiato in una poltrona bassa, guardava davanti a sè, con quella fissità di fantasma che da qualche tempo è ne'suoi occhi e ne'suoi tratti quando qualchecosa non lo fa muovere o distrarre.

A un certo punto il padre, che lo aveva guardato alcune volte, depose il giornale e il sigaro, e, facendosi delle mani puntello sulle ginocchia, si eresse rivolto a lui, come in atto di chi si prepara a fare un'intemerata. “Domando io,” disse col sarcasmo nella voce, “s'è un bel ticchio che t'ha preso adesso di fare il vecchio! C'è tempo, mi pare, e'è tempo! Che stai lì, scimunito, a filar pensieri, che fai malinconia a vederti? Animo, su, e torna a far la tua parte di giovane, perdio!” E la madre non aveva aspettato le ultime parole della predica paterna per farvi un'eco clamorosa.

I lineamenti inerti del giovane si contrassero, gli occhi languidi si accesero di una luce strana. “La mia parte di giovane?” ripetè; “sì, voialtri davvero m'avete insegnato a farla! Bella gioventù che m'avete preparata, vigoroso e baldo giovane che m'avete fatto!” E il viso pallidissimo s'era fatto di fiamma, e gli occhi schizzavano l'ira.

Io mi affrettai ad alzarmi, chè ormai mi sentiva là troppo spostata. Ma il signor Alberto, con una mossa rapidissima, s'alzò, e mi s'avvicinò dicendo: “Rimanga, signorina; credo che ci sarà bisogno di lei!” E mentre io stava confusa e perplessa, chiedendomi se infatti non era meglio rimanessi per cercar di mettere, all'uopo, qualche parola fra i litiganti, il padre riprese ad inveire contro il figliuolo per la sua insolenza e la sua ingratitudine.

Questi rispose che lo giustificava l'essere stato tradito da chi, fin dalla sua infanzia, non aveva fatto altro che prepararlo ad una vita della quale troppo tardi avea misurato le conseguenze, da chi non aveva salvato il suo spirito, la sua coscienza, la sua fibra fisica da alcuna insidia, da alcun pericolo. “Ecco ciò che si guadagna,” esclamò tragicamente la madre, “ad amarli e idolatrarli questi figliuoli!”—“Idolatrare sì, ma amare no, vivaddio,” rispose sempre più eccitato il figliuolo; “l'amore educa, corregge, e, a costo di far soffrire e piangere, prepara qualchecosa ne'poveri figliuoli; non li lascia, non li mette in balía di tutto quel di cattivo che v'ha in loro stessi e nel mondo!”

Egli stava proferendo le ultime parole quando il padre, pallido e cogli occhi quasi fuori dell'orbita, gli si avvicinò, minacciandolo co'pugni stretti, mentre la madre accorreva spaventata accanto al figliuolo. Ma questi non pareva punto intimidito. Col capo alto, le labbra e le narici frementi, gli occhi vividi come per febbre, egli fissava suo padre, imperterrito. Per un momento le sue mani s'erano protese a difendersi— poi, rapidamente, le aveva cacciate nelle tasche. Il padre s'arrestò, e prese a dargli del pazzo, dell'esaltato, che non sapeva prender la vita come va presa, che non sapeva esser pratico.

Un'amara ironia passò sul viso del giovane, e mutò il tono della sua voce: “Ah! è vero, non so prender la vita, perchè v'ha qua dentro non so bene che cosa, che aspira un po'più in su del banco e della cassaforte, che non s'accontenta di gioie adultere o comprate, nè di teorie che fanno il vuoto nel cuore e nell'intelletto e rovine nella coscienza.… Beato, beato chi s'accontenta così, e guardi pur dall'alto i miseri che non gli somigliano!”

Il commendatore stava per effettuare la minaccia delle sue mani, mentre la signora, che prima s'era lasciata andare su di una sedia, era corsa fuori coprendosi il viso colle mani. Io mi affrettai a mettermi fra il padre e il figlio, e ansiosamente cercai di ammansar questo.—Ma non valse. L'amarezza desolata che da qualche tempo rode quel giovane aveva spezzato ogni ritegno, e a forza irrompeva contro la colpevole stoltezza de'genitori, vendicatrice.

Colsi un momento di tregua nelle parole sanguinose che i due seguitavano a scambiarsi, per riavvicinarmi al signor Alberto, chiedendogli perchè avesse voluto io assistessi a una scena così dolorosa per poi non fare alcun conto delle mie preghiere. Allora, non tanto, certamente, per aderire alle mie parole quanto perchè lo sfogo aveva attenuata l'ira lungamente repressa, e già cominciava a subentrare il rimorso pel proprio eccedere, egli si fece più calmo; e più non rispondeva a quanto il padre gli andava tempestando. —Solo, quando questi disse qualchecosa di «sciocchi pregiudizi di donnette,» il giovane si rizzò fieramente, e gli occhi suoi, belli di una luce nuova, fecero abbassare quelli del padre mentre diceva: “Non pregiudizi di donnette, ma santi ideali che invano tentiamo di offuscare col nostro fango e senza i quali invano tentiamo di vivere!”

“In nome di questi ideali,” dissi, ansiosamente prendendogli le mani, mentre egli s'avviava alla porta, “non lasci questa stanza così.” Egli s'era rifatto pallidissimo —la reazione, con quel pensiero, progrediva rapidamente nell'animo di lui. Si rivolse quasi istintivamente verso il sofà dov'era dianzi sua madre, del cui disparire non s'era avveduto.… Il padre intanto avea ripreso il suo posto, il suo giornale, e il suo sigaro. Il figlio vide, e il suo viso si rioscurò. Mi avvicinai a lui e gli dissi all'orecchio: “Faccia il sacrifizio di quest'orgoglio—sarà un velo di meno dinanzi la verità.” Egli fremeva—ma si mosse rapidamente verso il padre e, colla voce che ancora tremava, gli chiese perdono. Questi lo guardò un poco—poi prese il suo partito: “Sì, sì, ragazzaccio,” disse; “e ora va a letto, e fa una buona dormita sulle tue fisime.”

Uscimmo insieme nell'anticamera. Il cameriere era ritto al suo posto. Il giovane mi strinse la mano con uno sguardo come di chi si sente nel mondo solo, e desolato. —Egli non sa che l'alba sua è spuntata, che per lui l'ora di Dio s'avvicina.

Li 18.—Ho creduto bene di riferire ad Elisa la scena avvenuta. Per quanto mi riuscisse penoso il doverla in tal modo far ripensare a'torti de'suoi genitori, vedevo necessario essa, dovendo aiutare suo fratello, fosse di tutto informata.

E la sua inesperienza le aveva fatto tosto sperare la salvezza di lui fosse ormai un fatto compiuto— essa già lo vedeva tornato alla fede, alla virtù, alla serenità, alla salute, e faceva progetti ingenui e imprudenti. Mi affrettai a disilluderla; le feci osservare ch'egli traversa un momento difficile e pericoloso, nel quale la luce che, in seguito ai disinganni della vita, va rischiarando l'anima sua, è bastata a farlo pensieroso e disgustato, ma non basta ancora a fargli discernere chiara la via retta, nè a dargli la forza della quale ha d'uopo per emanciparsi da tanti legami interiori ed esteriori che lo tengono schiavo.

Dal presente stato d'animo quel giovane può uscire vittorioso e rinnovato, ma può anche smarrirsi accasciandosi; la tristezza attuale, che può essergli cagione di vita, può anche, se qualchecosa non lo solleva nella speranza, spingerlo a disperatamente rituffarsi nel vortice che lo ha travolto finora. È ciò che pur troppo vediamo così spesso accadere intorno a noi.… Conviene aiutarlo; e non tanto con ragionamenti quanto procurandogli impressioni nuove e salutari che infondano vigore al cuore ed allo spirito, e mezzi fisici pure, che ritemprino il corpo accasciato coll'anima.

Dissi alla sorella di spingerlo a togliersi per ora dall'ambiente dove lo incatenano tanti morbosi legami, tante avverse influenze soggiogano il suo spirito, e dove, a compier la propria emancipazione, egli avrebbe d'uopo di straordinaria energia, che difficilmente può trovare in sè un essere diminuito dalle teorie e le conseguenze pratiche dell'odierno fatalismo.

Gran parte della gioventù attuale si consuma in eccessi morbosi, eccessi della mente cogli studi, aridi pel soverchio sminuzzamento dell' analisi e la mancanza di un ideale che sollevi ed irradii; eccessi della fantasia colle letture e gli spettacoli eccitanti; eccessi dei sensi, tanto più fatali per l'infiacchimento delle nuove generazioni.—In questo tempo di tante cure e di tanti progressi igienici, si trascura il principale: vi sarebbe bisogno, oltrechè di un ritorno a migliori ideali, di un ritorno alla semplicità della vita, ch'è l'igiene migliore del corpo e dell'anima.

Si va bensì in campagna, in montagna—è anzi divenuto moda e manía: ma per lo più son brevi villeggiature allo scopo di respirare aria migliore e di far gite, e, spesso, un trasportare in campagna gran parte della vita cittadina, colle sue esigenze, le sue passioni, le sue gare. Non si cerca, dai più, la vera vita campestre, colla sua semplicità, la sua pace, i suoi intimi e grandi insegnamenti, che purificano ed innalzano; non si cercano i mezzi ch'essa offre di efficacemente occuparsi della grande questione sociale che agita il mondo, del miglioramento agricolo del nostro povero paese, che ha tanto bisogno di essere in tutti i modi rialzato.

Non si amano abbastanza i campi perchè l'anima, viziata dalle attuali morbosità di vita e di pensiero, intende male la voce benefica della natura, ch'è quella di Dio, e i cuori non sono educati a quel patriottismo vigoroso che alle vuote declamazioni politiche preferisce le opere e i sacrifici fecondi. Non si amano abbastanza i campi e chi li lavora anche perchè troppo poche coscienze sono temprate a quel sentimento di giustizia e di carità proprio di chi professa la democrazia cristiana, e perciò non crede d'aver fatto abbastanza quando ha versato un'elemosina ambiziosa in pro di qualche istituto pio, o s'è sottoscritto per convenienza in qualche colletta, o ha preso brontolando qualche biglietto per uno spettacolo di beneficenza—ma sente il dovere di avvicinarsi all'operaio dei campi come a quello dell'officina, e moralmente e materialmente rialzare entrambi.

Io credo che se il signor Alberto rivolgesse il pensiero a queste cose, e suo padre ve lo aiutasse comprando una campagna, egli si troverebbe presto guarito dal suo male fin de siècle. La sua stessa penna potrebbe ritemprarsi attingendo a nuove e più pure sorgenti.—Ma saprà risolversi a romperla con tante cose che tutto lo invescano, adattarsi alla semplicità, alla sobrietà, alla fatica, a tutte queste possenti medicine così urtanti colle viziature e le delicature dell'attuale decadenza? E suo padre, soprattutto, vorrà togliere un capitale a'suoi affari così comodamente e rapidamente proficui per impiegarlo nei campi, tanto meno retributori degl'imbrogli, e che esigono sì gran cure, e spese, e contributo di tasse?

Non e'è da illudersi; vi son tanti migliori di lui che non lo farebbero, che non lo fanno; ve ne sono tanti altri che le campagne comprano o possiedono, ma che non intendono la missione di proprietari, o non hanno l'abnegazione di adempiervi, e se ne stanno sempre o quasi sempre lontani dalle loro terre e dai loro lavoratori, non curando i bisogni delle une e degli altri, spesso non conoscendoli neppure.… È immenso il danno morale e materiale che al paese recano e le morbose avidità di potenza economica e di piaceri, che per molti riassumono l'ideale e lo scopo del lavoro, e gli egoismi che fanno dimentiear tante cose.

Oggi a tavola il signor Alberto era di un umore anche più tetro del solito. Nel padre non pareva che la scena dolorosa avesse lasciato alcuna traccia: la sua cinica filosofia di uomo-affari lo salva da molte preoccupazioni.… La madre era distratta dall'idea di un primo invito per questa sera, in una casa della haute, e inquieta perchè la sarta non aveva ancora mandato le toilettes. E ogni momento le faceva telefonare sollecitatorie e minaccie. Elisa era divisa fra la preoccupazione pel fratello e l'emozione per la serata in prospettiva; ma notai con piacere che la preoccupazione vinceva l'emozione.

Li 19.—Elisa ha cercato d'insinuare a suo fratello l'idea della quale avevamo parlato l'altro giorno. Egli non la respinse e non l'accettò. La sua presente atonia lo fa inerte e irresoluto.

Ciò malgrado, Elisa provò a parlarne anche al padre, pregandolo di aiutare e spronare Alberto acquistando per lui delle terre. Egli le rise in faccia. “Sei matta?” disse. “Saranno anni questi da mettersi a fare i possidenti? mentre i disgraziati che lo sono invidiano quelli che hanno avuto abbastanza spirito da non farsi buscherare dalla terra! E andrò a mettere un capitale in mano a quel poeta perchè magari me lo sciupi colle fisime umanitarie.… Cara te, lascia che tuo fratello faccia il suo mestiere di godersi la vita, ch'è alquanto più piacevole, e tu non lasciarti guastare il capo da quella stramba ch'è venuta in casa: pensa a far la calza e a trovar marito; le donne non han da impicciarsi d'altro.”

Li 20.—Oggi la signora ci aveva imprestato il suo coupé perchè la si scusasse e sostituisse presso una sua conoscente, dalla quale diceva di non aver tempo d'andare. Quando vidi il quartiere, il salotto, capii come la signora Falletti, che aspira a salire, non tenga molto a farvi le visite da sè. La signora non parve gran fatto lusingata dalla presenza nostra. “Già,” disse, “donna Claudia è molto occupata, non la vedo più. Trascura le vecchie amiche,” aggiunse con un certo sorriso amaro.

La conversazione, per quanti argomenti intavolassi, languiva. Poi, avendo io chiesto alla signora se ha bambini, essa si elettrizzò, e disse: “Sì, due maschietti e una femminuccia—tre birichini!” aggiunse con una espressione d'orgoglio. E suonò il campanello, e alla bella servotta spettinata che comparve disse di cambiare i grembiuli ai due piccoli e di mandar tutti i figliuoli in salotto.—Poco dopo s'udirono alzarsi note impertinenti di voci infantili, la porta fu riaperta bruscamente ed entrarono i due maschi—un ragazzino di dieci anni, che non salutò, e aveva l'aria seccata —l'altro, minore di qualche anno, col grembiule sudicio, che corse difilato a una certa bomboniera che stava fra i ninnoli d'una étagère, a cercarvi i cioccolattini.

“Quello è il mio ghiottoncello,” disse la mamma; “ogni tanto, sa, mi fa una gastrichetta. Ma come si fa, bambini sono!—Ma questo qui,” seguitò guardando l'altro con compiacenza, “questo qui è un omino. Ha molto talento, è il primo della classe, sa? Ha un amor proprio, una passione di emergere! Suo padre dice sempre che questo qui farà strada.”—E mentre il ragazzo se la svignava e l'altro seguitava a sgranar cioccolattini, seguitò: “E sentisse come ragiona! Quando torna da scuola, invece di giocare, legge il giornale; e a tavola bisogna sentire che ragionamenti col suo papà.… Eh! questi figli adesso ne sanno più di noi, povere mamme, non è vero? Vi fanno certi discorsi che non si sa più che cosa rispondere. Il mio grandicello, se crede, non mi vuol più venire in chiesa; dice che è libero pensatore. E non c'è mica più verso di farsi obbedire nè ascoltare in niente, sa; che! dice che siamo in tempi di progresso. E che ci si può fare? Le mie amiche mi raccontano lo stesso de' figliuoli loro.… Basta adesso, carino!” disse con voce di preghiera carezzevole al piccino, che s'andava imbrattando di cioccolatta la bocca e le manine. Ma il carino seguitava senza scomporsi, e la mamma esclamò: “Pare impossibile eh? come son birichini questi figliuoli.”

Intanto era entrata la bambina, che aveva fatto, si vedeva, toilette completa. Era una bella biondina di sette anni, coi capelli sciolti, e un elegantissimo vestitino di peluche rosa, guarnito di molte trine. “Ah! la signorina! ha voluto metter l'abito nuovo! Guardi un po'se son vanarelle queste bambine d'adesso.… L'ha voluto lei, sa, questo vestito—diceva che tutte le sue amiche erano meglio vestite di lei, e ci pativa, poverina. E insomma ha convenuto accontentarla, madamigella! sebbene che il suo papà, poveretto, non abbia che una meschina paga di cassiere. Ma vuol tanto bene a questa figliuola! Dica un po', signorina, noi ai tempi nostri non eravamo così capricciose.…”

“Cara signora,” risposi, “credo che i bambini di tutti i tempi sarebbero stati capricciosi se avessero avuto dei genitori troppo.… buoni. I genitori nostri, per quanto mi rammento, comandavano a noi; mentre adesso sono i genitori che stanno agli ordini dei figliuoli.”

La signora parve seccata, la bambina, che certamente aveva contato sur un complimento per l'abito nuovo, mi guardava con aria ostile. Il bambino intanto era venuto a strofinar la bocchina sudicia addosso a sua madre, la quale, come in atto di protesta contro la mia risposta, baciava con trasporto i riccioli del suo angioletto. Poi mi disse, quasi in aria di compassione: “Lei non è mamma. Se lo diventa mi saprà dire!”—“Non lo diventerò mai, signora,” risposi; “ma se lo fossi mi ricorderei, credo, più che mai del grande amore della mamma mia, che mi ha pur tanto corretta, e castigata, e fatta piangere, e la cui memoria benedico e ringrazio ogni giorno, per questo soprattutto.”

Così dicendo m'ero commossa, e la bambina mi guardava meravigliata. “Già,” rispose la signora un po' confusa. “Ma questi sono altri tempi! adesso le cose son diverse.”

Ah! sì davvero, son molto diverse!

Li 21.—Oggi siamo andate a passeggiare pel Celio, l'antico mons Querquetulanus, più tardi chiamato Caelius da Celio Vibenna, fuoruscito etrusco, e padre di quel Servio Tullio benemerito di giustizia verso il popolo. La bassa collina ondulante, disabitata fin dal tempo del sacco di Roberto Guiscardo, è una delle mie passeggiate predilette, co'suoi grandi alberi, le vecchie chiese solitarie, i ricordi dei santi primitivi che ivi vissero e morirono nel trionfo di Cristo, la gran pace delle rovine d'intorno e della campagna deserta. E mi rallegro nell'osservare come la mia Valentina vada sentendo l'anima de' luoghi, intendendo le tacite voci della natura, la perdurante vita de' morti, e, nei richiami del passato, gli appelli dell'avvenire.

Entrammo nella chiesa di San Gregorio, e stemmo un po'nella cella rimasta della casa di lui che la tradizione fa della stirpe degli Anicj, guardando il letto di pietra e la cattedra di quell'uomo umile e grande, il cui pontificato fu una difesa diuturna dei diritti del popolo contro l'oppressione delle leggi romane e longobarde e l'avidità di coloro che le aggravavano abusandone, e contro i quali il mite e gagliardo pontefice strenuamente lottava in nome della libertà proclamata da Cristo. Libertà ch' egli difese altresì nelle coscienze, e in nome della quale protesse gli ebrei, vietando ogni violenza contro di essi.—Infaticabile apostolo della fede e della dottrina del Nazzareno nella società sconvolta fra gli avanzi della corruttela romana e l'incalzante barbarie settentrionale, inflessibile co'potenti, inesauribile di carità e di abnegazione verso i poveri e gli umili, fino a tutto consumare in pro de'fratelli, averi, forze, vita.

E mentre passeggiavamo pei chiostri che circondano l'atrio silenzioso, fra i sarcofagi istoriati nel gusto maraviglioso di Mino da Fiesole, e, in quella pace di cose umane e divine, di lui parlava a Valentina, essa mi chiese: “ Signorina, perchè si sente sempre parlare dei Papi cattivi e mai dei santi? Ero passata di qua un'altra volta, colle mie amiche Merope e Annie. Ma Annie non sapeva nulla, nè si curava di nulla, e diceva che i luoghi solitari son noiosi; e Merope parlava con disprezzo di «tutte queste chiese,» diceva, «che ha seminate il fanatismo di quei tempi, e hanno fatto dare alle vie e alle piazze tanti nomi stupidi e insulsi, che ormai a noi non dicono più niente.» Stupida lei,” aggiunse alzando la voce, “che parla senza sapere. Ogni volta che leggo o sento qualchecosa di un gran santo, che ha passato una vita di sacrifizi pel bene degli uomini, penso a quella saccente che dice che son loro gli umanitari—loro che non san far altro che chiacchierare!”

“Valentina,” dissi, “essa ha gran torto, e amo vedere che lo senti. Ma non avvezzarti a parlar di codesto con quell'irritazione che non è degna de' cristiani; e se a volte capitasse a me di farlo, non imitarmi, e, piuttosto, rammentami ciò che t'ho detto. E invece d'inveire, studia la storia, impara a conoscere le vere idee feconde di bene, i veri benefattori dell'umanità; e, soprattutto, cerca di esser buona, non di bontà passiva, ma di quella bontà attiva che ama gli erranti, li cerca, e spia, per aiutarli, l'ora del Signore.”

Valentina s'era fatta pensierosa. “Signorina,” disse, “crede ch'io potrò far del bene a Merope? Essa sa tanto più di me che non ci arriverò mai!”—“Tu credi,” risposi, “che sia nel cumulo delle cognizioni che consiste il sapere che aiuta ad essere benefici? Non senti quanti vuoti possono rimanere non solo in un cuore, ma in uno spirito, quando questo sappia tante cose senza quel nesso tra loro che ne costituisce la spiegazione, senza quel senso dell' infinito, dell' invisibile, senza il quale tutto è oscuro, freddo, squallido, sterile? Il cuore e lo spirito hanno, come il corpo, bisogno di luce non fatua e di nutrizione non illusoria. Perciò tanti che sono anche scarsamente istruiti, ma son usi a guardare nei grandi spazi e a riscaldarsi ai raggi del sole, possono essere atti a salire non solo, ma ad insegnare altrui, e con l'intelletto, e colle virtù della vita e dell' esempio, molto più che non possano esservi atti tanti eruditi che non sieno nel vero ed alto senso sapienti—lo possono soprattutto quando li inspiri l'amore de'fratelli. L'amore, l'amore illuminato si fa strada nelle anime, non dubitare, più di qualunque prestigio di erudizione, più di ogni eloquenza di parole—è desso il retaggio che Cristo ci ha lasciato, come legge non solo, ma come arma di combattimento.”

Valentina aveva appoggiato il capo alla mia spalla, e mi fissava con uno sguardo che mi diceva come l'anima intuiva ciò che forse lo spirito immaturo non afferrava ancora. “Oh! mi aiuti,” disse, “mi aiuti sempre, signorina! La vita a me pareva così bella, e sento sempre dire invece che è così difficile—e adesso, non so perchè, comincio a crederlo.… Che diverrò, signorina, che farò? Alle volte, non so bene, sento in me delle cose strane, ed ho paura.…”

Traversammo l'orto dei Camaldolesi, fra cespugli di semprevivi, e visitammo le tre cappelle—quella dove è conservata la tavola intorno alla quale la tradizione narra che Gregorio ogni giorno da sè serviva dodici pellegrini poveri; quella dove Guido Reni e il suo grande scolaro, il Domenichino, illustrarono il martirio dell' apostolo Andrea; l'altra dove Guido dipinse un gruppo d'angeli che suonano vari strumenti, meraviglioso soprattutto per la vita dell' espressione.— Di sotto è una statua di santa Silvia, la madre di Gregorio —santa per la pietà e la carità della vita, trasmesse nel figliuolo. È scolpita dal Cordieri, scolaro di Michelangelo—dimenticata e stupenda opera d'arte che, con singolare potenza, nel viso di quella donna che guarda il cielo e sul quale paiono essere tutti i dolori della terra, sofferti o in altrui confortati, esprime il trionfo dello spirito sulla materia. Essa tiene in mano il Libro della vita—aperto alla pagina del salmo 118, dove è scritto: Vivet anima mea et laudabit te, et judicia tua adjuvabunt me.

Un raggio del sole che scendeva sulla campagna in una gloria d'oro e penetrava dalla porta aperta, illuminava la candida figura e le parole.… Valentina guardava, e leggeva. Nel silenzio della cappella e dell'orto, dal quale entravano profumi di primavera, errava, con quella luce, un'infinita pace d'in alto.

Li 22.—Oggi ho dato vacanza a Valentina, ch'era stata invitata dai Maren con Elisa, per ciò ch'esse chiamano il loro tirocinio. Valentina, che avevo cominciato io ad iniziare a certe occupazioni di casa, è ancora sempre una strambetta; ma con molta gravità mi promette che quando compirà quindici anni —li compie fra un mese—diventerà una brava donna.

Elisa, che ha un'indole riflessiva e pratica, ha già molto profittato dell'esempio e delle lezioni dell'amica; e non solo va imparando a far la cucina, a stirare, a far lavori usuali, ma iniziandosi a tutte le previdenze e le arti dell'ordine, dell'economia, dell'igiene. Ed ora, a forza d'energia e d'insistenza di entrambe (quanto indietro siamo ancora!) è riuscita ad ottenere con Elena il privilegio di andar negli ospedali, per farvi quella pratica d'infermiera che dovrebbe essere una delle principali cognizioni della donna. E in pari tempo confortano i malati e vanno imparando tutte quelle intime arti del cuore e della fede che fanno, nei corpi che soffrono, innalzare gli spiriti e migliorare le coscienze.

E il frutto di tutto ciò che Elisa impara e fa fuori lo vedo in casa, nel suo contegno più dignitoso e in pari tempo più rispettoso coi genitori, nella sua premura pei fratelli, nella sua oculata bontà verso le persone di servizio che, un po' per volta, si son trovate dirette, invigilate, istruite, fraternamente consigliate da lei. E lo vedo in lei stessa, che par come una creatura assorta dalla schiavitù delle frivolezze della vita alla libertà dello spirito e dell'azione, alla dignità della vita vera.

“Ora finalmente,” essa mi diceva l'altro giorno, “sento la soddisfazione di vivere. Nessuna umiliazione è paragonabile a quella che prova un'anima, che non sia vuota, nel sentir di vivere unicamente per mostrarsi, per divertirsi, ed avere tutt' al più un valore ornamentale.”—“Ed io aggiungerò,” risposi, “che un altro gran vuoto devono sentire anche quelle fanciulle che menano vita più seria e modesta, ma insulsa e meschina, tutta racchiusa fra egoistiche occupazioni, sia materiali, sia intellettuali, ed egoistici sogni, e che non furono indirizzate a pensare ad altro che al proprio avvenire.”

Inutile dire che Elisa ha molto formalizzato non solo i suoi genitori ma le amiche, le quali, forse per l'intima coscienza dell' attuale superiorità di lei, vanno facendo a carico suo ogni sorta di commenti, vanno escogitando ogni sorta di piccole malignità, e inorridiscono perchè esce sola, fanno le smorfie perchè va dai poveri per davvero, senza curar di figurare nelle mostre di filantropia, perchè si espone ai pericoli de'contatti coi malati; dicono che sono esagerazioni, pose, caricature. Si provano a metterla in ridicolo perchè veste con semplicità, gira spesso a piedi, si occupa di faccende di casa, va in chiesa la mattina presto o la sera, e non solamente la festa all'ultima Messa, e va visitando posti storici e cose d'arte.—Ma essa non si accora gran fatto per le loro critiche: è tanto felice d'esser liberata dalle preoccupazioni, dalle delusioni, dalle invidie che prima sentiva per l'una e per l'altra, che le riesce facile di perdonare a tutte e non lasciarsi amareggiare dalle osservazioni di chi non capisce. Piuttosto, ha cercato di persuader qualcuna ad imitarla: ed è felice ogniqualvolta le pare d'aver fatto un po'breccia, in favore del suo nuovo indirizzo, su qualche anima di fanciulla.

Ma tutto ciò che Elena ed Elisa hanno trovato modo di fare non basta ancora a realizzare il sogno, il vecchio caro sogno del quale parlavo qui tempo addietro, a proposito dell' educazione, della libertà e dell' indirizzo da dare alle signorine italiane. Le visite ai poveri, i noviziati negli ospedali, non sono che parti della grande missione cristiana della donna, e non basterebbero a far mettere in pratica quella riforma radicale che occorrerebbe nell'indirizzo della sua vita— riforma in pro della vera dignità e della seria felicità sua e del bene non illusorio del paese.

A questo proposito da lungo tempo valorosamente sostiene un'ardua campagna Fanny Zampini Salazar. E di questi giorni, quella eletta e geniale nostra scrittrice ch'è Sofia Bisi Albini, la quale «con intelletto d'amore» si va facendo delle fanciulle italiane amica e maestra, scriveva:

«.… Noi ci accorgiamo ora, forse troppo tardi, d'avere studiato egoisticamente, per piacevole curiosità, per soddisfazione dell'amor proprio, perchè lo si doveva fare. Quante signorine, dopo cinque o sei anni, confessano d'aver tutto dimenticato—fanciulle intelligenti che pareva studiassero con passione, vissute sempre in un ambiente intellettuale—ma che non hanno visto nei loro studi uno scopo per la vita, un mezzo di perfezionamento morale, di utile altrui.

»Finita la scuola, laggiù in fondo, nell' incerto bagliore dell' avvenire, i nostri occhi tentavano di scorgere l'astro luminoso dell' amore, e non si osava pensare che rabbrividendo alla possibilità ch'esso non sorgesse per noi.

» Quanto sole, quanto sole invece per le fanciulle d'Inghilterra e d'America! per esse che studiano, non tanto per sè, come per gli altri; per esse che non sanno concepire la vita senza una missione da compiere, e, non perdendo tempo a sognare per il futuro, sanno fare tante e così utili cose, oggi.

»Buona idea è il raccogliersi sotto una croce rossa, pronte a curare dei possibili feriti di un sanguinoso avvenire; ma opera buona è il curare quelli che ci cadono ogni giorno intorno nella dolorosa battaglia della vita.»

Sì, a quelli che cadono e a quelli che sorgono noi dobbiamo porgere, col nostro cuore, le nostre mani. Perciò un altro de' più cari scopi nostri dovrebbe essere l' educazione de' figliuoli del popolo, mediante quelle scuole-ricreatorii che ne' paesi più progrediti si trovano ad ogni piè sospinto e che sorgono e prosperano in mano di donne, di signorine soprattutto. È codesto un campo fecondo e benedetto, dove le fanciulle si preparano alla vita, e pagano all' umanità il loro tributo lavorando a sostituire la fede pura e moralizzatrice ai pregiudizi come allo scetticismo dell'ignoranza, a educare alla bontà e all' onestà i giovani cuori e le giovani coscienze, a dare alle menti quell'istruzione sobria e adatta, che nella vita del popolo sia beneficio e non scoglio, a distribuire, come così bene dice Melchior de Vogüè, «le bon pain, le pain de force et de courage»—un campo che aiuta a conoscere i bisogni morali e materiali delle masse e sul quale le varie classi s'incontrano, imparano a conoscersi e ad amarsi, e realizzano quella fratellanza cristiana così feconda di bene non meno a chi dà e fa che a chi riceve.

Ascoltate ascoltate, care fanciulle del nostro paese, —ascoltate le voci che vi chiamano.… Spesso ai vostri orecchi risuoneranno le parole di patria, di libertà, di democrazia, di progresso; ma è, pur troppo, soprattutto gente che sa ed ama parlare più che non sappia agire e sacrificarsi, che quelle parole fa errare fra noi. Rispondete voi a coloro—rispondete, non sognando quella stolta deformazione del nostro sesso che impropriamente si suol chiamare emancipazione della donna, ma scuotendo il giogo dei veri pregiudizi che vi opprimono, e diminuiscono voi e isteriliscono la vostra vita—rispondete sorgendo con quell' affetto generoso e animoso che ad ogni vita più squallida dà, con uno scopo, una felicità intima e sicura, e che non distoglie dagli affetti e i doveri domestici, ma ad essi vi prepara più esperte, più gagliarde, più degne. Quell' affetto che vi fa schive degli ozi e de' sogni come degli studi e de' lavori egoistici, e d'intorno si guarda, e pensa, e, come i grandi ideali, sente i grandi doveri; quell' affetto che, mentre altri s'agitano fra incoerenza di vano rimbombar di parole e di apostolati corruttori, migliorando i popoli li fa avvicinare a quegli alti ideali che il nostro secolo vagheggia e de' quali in gran parte a noi, a noi, donne inspirate da Cristo, spetta di affrettare il trionfo.

Li 23.—Dopo la scena di quella mattina nel nostro studio il signor Alberto par volersi allontanare da me più che mai. Pareva perfino ch'egli sfuggisse Valentina, ch'era profondamente convinta suo fratello fosse in collera con lei, e andava chiedendosi quale offesa gli avrà recata. “Che non l'abbia ringraziato abbastanza pel libro?” mi diceva l'altro giorno. E quantunque io avessi cercato di toglierle quell'idea, essa volle andare stamani a trovarlo nel suo studio, per ringraziarlo ancora e chiedergli scusa se mai lo aveva offeso.

Quando tornò disopra era raggiante. “Sa, signorina,” mi narrò tutta commossa, “egli non aveva niente con me, mi disse che l'avevo ringraziato anche troppo. E m'ha detto anche una cosa che non m'aveva detta mai—m'ha detto che mi vuol tanto bene e mi ha baciata in fronte e m'ha chiamata «angelo!» Pensi, angelo io che son tanto cattiva!—Era seduto davanti al suo tavolino, con un gran libro aperto davanti, nel quale c'erano dei segni a lapis. Volevo metterci un po'il naso per vedere che cosa fosse, ma lui mi disse che non era roba per me. Avevo però già letto a capo di pagina: Antonio Rosmini. Che sia un cattivo libro, signorina?”

Li 24.—Oggi la signora Falletti voleva persuadermi a menar Valentina alle conferenze del Collegio Romano. “Una riunione così chic,” diceva, “dove vanno la Regina e tutta la ot! Non capisco perchè lei, che è tanto per gli studi, si ostini a non volerci venire.” Risposi che quand' ero a casa mia ci andavo sempre; ma che non mi pare sia il caso di condurre una giovinetta a sentire oratori che non si rivolgono a giovinette.

“Oh! e poi,” saltò su la signora Gerioli, ch'è un'intima amica della signora Falletti e, su per giù, al suo livello intellettuale, “non ne vale la pena! per andar a sentire delle mediocrità.… Anche giovedì passato quel Masi è stato troppo noioso!”—“Davvero?” dissi, “mi fa specie. Io l'ho inteso parecchie volte negli anni passati e l'ho trovato sempre un conferenziere finissimo, arguto, smagliante, che fa vedere ciò che descrive, o viver ne'tempi de'quali narra. Vuol dire che sarà svanito di fresco.”

“Sa,” tentò di rimediare la signora Gerioli, “volevo dire che, anche lui come gli altri, dice cose che già si sanno.”—“Secondo il grado di coltura,” risposi; “io, per esempio, che so poco, confesso che ogni volta ne sento parecchie delle cose che ignoravo.”

La signora Gerioli si affrettò a mutar discorso, mentre io cercava di evitare lo sguardo di Valeria, chè, se i nostri occhi si fossero incontrati, guai! È che al Collegio Romano s'era solite metterci vicine; e spesso alquanto ci era toccato il piacere ineffabile d'aver davanti o dietro a noi della gente che non capiva, e che quanto meno capiva tanto più olimpicamente, compassionevolmente, giudicava gli oratori, e quanto meno sapeva tanto più trovava che non v'era nulla di nuovo da imparare.

Per carità, quando si parla, o si scrive, o si fa qualunque cosa nella vita, che s'abbiano de'giudici intelligenti: quelli non fanno paura! E se ci giudicano severamente, vuol dire che lo abbiamo meritato e le loro critiche c'insegneranno qualchecosa—l'umiltà, se non altro, ch'è una gran simpatica e rara virtù.… Ma che tentazioni di superbia, che stirature di nervi devono dare a chi fa qualchecosa i giudizi degli sciocchi che ci pretendono (son quelli i soli veri sciocchi, i non intelligenti modesti hanno sempre una certa superiorità), quelli che credono di mostrarsi gente di valore trovando da ridire su tutto, non trovando mai nulla da imparare nè da ammirare, mai nulla alla loro altezza!

Valentina, che aveva udito il fervorino di sua madre, mi tormentò tutta la sera perchè la menassi alle conferenze. Ma io, come quando si trattava del teatro, non mi lasciai commuovere.—Mi pare che, per poter effettuare senza danno il programma di libertà per le signorine del quale parlavo qui tempo addietro, convenga tenere le giovinette in una disciplina che, senza punto opprimere lo spirito, aiuti a formare in esse la solida base di carattere e d'istruzione necessaria nella vita.

Io cerco di mettere nella mia Valentina seri principii —e, in pari tempo, di illuminarle la mente e formarle il carattere e il cuore in modo che quelli possano mettervi salde radici. Giacchè, a che cosa giova inculcar principii se in pari tempo non si tempra l'anima fortemente? E per far questo mi pare convenga una certa regolarità e severità di vita, che avvezzi alle privazioni senza le quali difficilmente s'imparano, sia l'impero su di sè, sia l'abnegazione verso gli altri, e in pari tempo salvi dalle influenze esteriori cattive o pericolose.

Quando le fanciulle sono state severamente temprate in ogni loro facoltà morale e fisica, ed hanno dei principii e un indirizzo, fatte adulte, lasciamo loro quella certa libertà di vedere, di udire, di fare, di onestamente divertirsi, che aiuta il formarsi dell' individualità, e lascia cercare la propria via e i propri mezzi d'azione, e provarsi prima di assumere i maggiori impegni della vita.—Ho detto divertirsi, e non l'ho detto tanto per dire: l'ho detto pensando non solo alla parte importante che nelle giovani vite hanno gli svaghi e la gaiezza, ma anche al penoso spettacolo che offrono le spose alle quali da ragazze è stato conteso ogni piacere più onesto, e forse hanno vagheggiato il matrimonio soprattutto come un'istituzione che dà il diritto di divertirsi, e con frenesia si buttano ne'divertimenti quando si dovrebbe cominciare ad usarne con maggiore sobrietà.

Ma l'adolescenza svagolata fra le comparse e gli spassi mondani, che fanno nelle anime non formate un pericoloso guazzabuglio d'impressioni, le conversazioni, e le letture, e le conferenze, che qua e là mettono idee incompiute, destinate a vagare in cervelli immaturi e ancora troppo scarsamente illuminati, sono come una forza che disperde, disorienta, a volte infiacchisce, e prepara alle superficialità eclettiche, alle compiacenti transazioni; e, spesso, toglie alla prima giovinezza la schiettezza della vera allegria.

Li 25.—Oggi, giovedì, siamo andate con Bianca alla villa Celimontana. Pochi a Roma conoscono quel posto incantevole; forse è troppo bello, troppo diverso da ciò che ama la folla.—Noi vi andiamo soventi, attratte dall'intimo fascino di quella verde oasi che sorge sul colle abbandonato, fra il campo delle rovine de'secoli trascorsi e l'immensa campagna.

Oggi non v'era nessuno, quasi; e que' pochi, sparsi qua e là, leggevano all'ombra delle piante. Io avevo lasciato le due fanciulle libere di girare a piacer loro. Vi son de'luoghi sulla terra, come dell'ore nella vita, ne'quali l'anima cerca la solitudine, quasi ogni voce, ogni aspetto umano, togliesse d'udire l'arcana parola delle cose.

Era una festa dell'aria mite nel sole, appena mossa; sì che recava, coll'odore delle piante, carezze blande. Piegai pel viale che scende verso oriente, di dove si scorgevano azzurri nell' aria chiara i monti Albani, e Frascati—l'antica Tuscolo di Cicerone—Marino, Castel Gandolfo, l'Ariccia, Albano, Rocca di Papa, adagiati sulle storiche pendici da'poeti latini con desiderio cantate.—Più in qua il piano ondulante tra le lunghe fughe di acquedotti, sul quale l'occhio si perde fra i ricordi. Vicino, a manca, la gran mole di San Giovanni in Laterano, colle gigantesche statue degli apostoli che sul cielo si staccavano vigorose, come un pensiero che i secoli traversa, e sfida.

Stetti un pezzo a guardare, ripensando—mentre l'acqua d'una fontana di sotto, con un gorgoglío sommesso, cadeva dalle roccie velate di capelvenere, tra i formium, i bambous sorgenti dalla vasca e le calle fiorite, protetti da salici piangenti e da alti platani che cominciano a verdeggiare.—Indi procedetti, fino in vista della via Appia, all'ombra dei pini, degli eucalyptus, de' cipressi, tra i tufi vestiti di edera e di acanto, dai quali le opunzie grigie sporgevano intrecciandosi. Da là, traverso le jucche e le palme, bisbiglianti nell'aria leggera, vedevo sorger dal piano, immenso come infinita distesa di mare, la tomba di Cecilia Metella, la porta di San Sebastiano, sostituita all'antica Capena, e, qua e là, que' dolorosi edifizi color di sangue, che albergano i galeotti. Più vicino, le vetuste chiese de'primi secoli, erette sulle catacombe— le terme di Caracalla, immane monumento di quella corruzione nella quale la dottrina del giustiziato del Calvario creava i santi ed i martiri—il rifugio del padre Simpliciano, dove l'amore di Cristo redime e rinnova. A destra l'Aventino, co'suoi asili di pace e di carità—il Gianicolo colle memorie dolorose e i larghi pini ombrelliferi di villa Corsini, che spiccavano scuri e leggeri nel vespertino chiarore di ponente —la cupola di San Pietro, grandiosa e fredda meraviglia dell'arte—gli alberi, più in qua, del Palatino, che ricoprono d'ombre e di sorriso cupi misteri umani là sotto sepolti.

Avevo passeggiato un pezzo sul terrapieno dinanzi, lieto di fiori e di marmi, fra i lauri, i mandarini, gli oleandri e i ligustri, lungo il prato smaltato di viole e di primole e ombreggiato di wellingtonie, di cedri deodara, di alti pini vestiti di rose, di chamaerops folti e di larghe latanie lucenti sotto il sole, fra le glauche agave e le mahonie porporine, e le piume ondeggianti de'gynerium. E m'ero fermata, guardando quel panorama così vasto e così vario, e il giardino dinanzi, digradante per la collina fino alle verdi praterie, dove pigre bufale pascevano e un pifferaro affidava all'aria quieta lunghe note malinconiche.

Poi m'ero internata pei viali che si perdono intorno tra le conifere scure, gli aceri e le magnolie, che sui prati proiettavano ombre che s'andavano allungando, e traverso i quali penetrava qua e là bagliore di raggi luminosi.—Ogni tanto, fra le alte siepi di bosso e di thuye, o i pini silvestri e i cipressi, s'apriva uno spiazzo, dove pioveva una luce fredda e quieta, e una statua mezzo vestita d'edera, o un'erma sottile reggente una testa mutilata, mettevano intorno qualchecosa di mesto, come tacita compagnia di fantasmi. —Qualche uccello cantava ne'rami—qua e là voce d'acqua cadente nell' acqua bisbigliava sommessa.

Così girando ero tornata là dove la tradizione narra, e una lapide ricorda, che Filippo Neri soleva recarsi a conversare co'discepoli suoi. E là sedetti pensando —pensando al giovane patrizio fiorentino che, per la tristezza della corruzione del suo secolo, rinunzia ad ogni dolce e lieta prospettiva della vita, ad ogni onore, ad ogni avere, per venire, con un pensiero magnanimo, povero e oscuro in Roma, dove fino a trentasei anni vive indigente e laico, passa i giorni e le notti fra gli ospedali dove assiste e conforta gl'infermi, i fondaci e le vie dove, semplice e modesto, e quasi suo malgrado eloquente, evangelizza il popolo, e le catacombe dove l'anima sua s'inspirava a quell'ardente amore di Dio e degli uomini, a quell' indomita eroica volontà di riforma che, sulle anime più schive, nelle vite più rotte, gli fece, intorno a sè e per tutta la lunga sua vita, compier miracoli di rinnovamento interiore.

Quell' uomo ch' era sì puro, sì alto, e, per volontà eroica, sì libero da schiavitù di passioni, da costantemente studiarsi di nascondere altrui, con ogni possibile volontaria umiliazione, la propria virtù, l'ingegno, il sapere, da ricambiare di carità inesauribile persecuzioni, oltraggi, calunnie, sevizie di nemici accaniti —da respinger costante non solo ogni bene materiale, ma ogni onore e ogni dignità che gli venissero offerti—che, austero fino all'eroismo della penitenza, e ciò malgrado, anzi forse per questo, ebbe, e sempre serbò, l'anima giovane e serena—amante della natura, della musica, della gaiezza, che i discepoli, i giovani, i fanciulli, seco traeva pei poggi che circondano Roma, cantando, recitando, cogliendo i fiori della terra come i frutti della vita dello spirito —il difensore della memoria di Girolamo Savonarola e di quella Caterina de'Ricci, non meno dell'altra Caterina, libera e santa nell'ammonire in nome di Cristo i suoi vicari—l'amico di Carlo e di Federigo Borromeo, il maestro e l'inspiratore del grande annalista Baronio, il protettore del Palestrina—il confessore che tutto otteneva a forza di carità, il maestro sapiente e paziente, il fondatore di una congregazione che, più che un ordine nuovo, era un'accolta di sacerdoti i quali, fra le clericali ambizioni e simonie e corruzioni del loro secolo, s'informavano alla pura tradizione de'secoli primi, Filippo Neri è una delle più sublimi figure che emergono in quella pleiade d'uomini che in que'secoli qua e là iniziarono la riforma cattolica. Riforma rimasta pur troppo di gran lunga incompiuta, ma che sarebbe stata ben altrimenti radicale e cristiana di quella operata dal tutt'altro che santo monaco di Wittemberg, dal terrorista Calvino, dal turpe e sanguinario Enrico VIII.

Quante volte pensando all'umana virtù e alla fama del mondo, e osservando e confrontando, mi son dovuta dire una cosa che a prima giunta può parere ingiusta: che cioè i soli uomini veramente completamente grandi sono i santi—i grandi santi. Chè, per quanta altezza di genio e di virtù sia in un uomo, per quanta carità anche, v'han sempre in esso debolezze, o de' sensi, o dell' avarizia, o dell' orgoglio, o dell' ambizione, o dell' invidia.… Perfino l' onestà, l' onestà che dovrebbe estendersi a quello scrupolo che vede un delitto in ogni minimo danno recato altrui, in ogni minima offesa all' austerità del principio morale, quanto imperfetta non è anche nei più onesti fra coloro che non inspira un alto principio cristiano, a tutte le più eroiche rinunzie informando la vita!

Mio Dio, quanti che sono stimati, ammirati, quanti cui stringiamo la mano come ai migliori fra gli uomini, non hanno nella loro vita di que' delitti che il mondo perdona con un sorriso—quanti non hanno tante di quelle debolezze che fanno, anche negli uomini più grandi, tanta miseria interiore?

Per le grandezze complete, fatte di pieno dominio di sè, per certe costanze di intime lotte e di intime vittorie, come per certi croismi di umiltà e di carità, è necessaria quella fede robusta che fa gagliardo il cuore come la volontà. E questa fede forte ed umile in pari tempo, la quale non è lo sterile fanatismo che può riscontrarsi in ogni religione e giungere fino al parossismo, ma l'alto ideale cristiano che par quasi far trascendere, nell' eroismo e l'indipendenza della virtù, l'umana natura, e crea i grandi santi, è soprattutto propria della religione cattolica—quella religione cattolica che nelle anime grette si presta alle pompe vanitose e a'vuoti formalismi, e dalle anime generose trae tipi che han qualchecosa di soprannaturale, di singolarmente possente.

E mentre ripensavo a codesto ed evocavo la grande e geniale figura di quell' apostolo della Roma del cinquecento, il sole calava sul Gianicolo in una gloria di luce porporina—l'aria s'andava facendo umida, e un velo leggero si stendeva sulla campagna. M'ero messa pel lungo viale degli elci secolari, enormi, nodosi, che i rami, contorti come da fiera ribellione, incrociano formando una vôlta quasi nera, che il sole qua e là, traverso spiragli, illuminava di sprazzi d'oro. —I pochi visitatori s'erano dileguati; tutto taceva; solo un capinero chiacchierava sommesso, in fondo al viale. La fuga delle statue fatte grigie dalle intemperie de'secoli, de'sarcofagi corrosi, delle colonne spezzate, fra i timpani e i capitelli mutilati, vestiti d'edera, e le anfore verdi d'umido, aveva assunto in quell' ora qualchecosa di solenne. Un intimo fascino mi tratteneva là sotto, in quella luce che calava, in quel silenzio, tra quelle fredde figure immobili e mute, in faccia a quel cerulo spiraglio, in fondo, dal quale l'occhio e l'anima sfuggivano nell' infinito.

Uscii in cerca delle mie fanciulle, che udivo rincorrersi e chiamarsi colle loro voci squillanti. Le ritrovai, col cappello e la cintura infiorati di viole e di pratoline, intorno all'obelisco là presso. “Andiamo,” dissi, “è tardi.” Valentina, accaldata, elettrizzata dalla corsa e dal piacere, non voleva partire, mi supplicava concedessi un'altra mezz' ora, visto che oggi avea vacanza tutto il giorno e che il sole non era peranco tramontato. “Perchè dunque,” seguitava a dire, “perchè?”

“Per avvezzarsi alle rinunzie,” dissi, “per avvezzarsi a dominare i desiderii come i timori, ed esser forti nella prosperità, per esserlo anche più nell' infortunio. Leggi là,” aggiunsi, indicando l'iscrizione sull'obelisco, dal nostro lato. “Nec ventos—nec hyemem. Nè per vento—nè per gelo. Come quella pietra resiste ai venti e alle intemperie, abbiamo a resistere noi, figliuola, sia alle prove sia alle seduzioni della vita—non insensibili com'essa, ma se non sempre vittoriosi, sempre vivi di volontà che si ribella ad ogni fiacchezza.”

E mentre ci si dirigeva verso il cancello della villa, Valentina si rivolse a guardar l'obelisco e, stringendosi a me quasi cercando aiuto, ripetè: Nec ventos— nec hyemem.

Li 15 Aprile.—ll tentativo sfortunato in pro del fratello non ha scoraggiato Elisa. Quel carattere, dianzi timido e fiacco, ha trovato, nei nuovi ideali, una forza nuova. È il gran segreto di tante umane energie, di tanti miracoli della fede, della virtù, della carità.— Vedendo che per ora il progetto di toglier quel giovane di qua e mandarlo in altro ambiente e con altri scopi alla vita è difficilmente effettuabile, essa ha pensato di trovare in Roma stessa un modo di distrarlo un poco dalle sue abitudini e far dirigere l'animo suo a cose che scuotano e rinvigoriscano la parte migliore di lui, sieno ad un tempo luce e calore in quello spirito errante e in quell'anima assiderata. Ha pensato che ciò che ha fatto bene a lei farà bene a lui pure; e, ben inteso, senza lasciargliene scorgere il vero scopo, gli ha detto, una quindicina di giorni fa, che bramava di visitare i vari istituti di carità qui esistenti e lo pregò di farle da cavaliere.

Ancora un paio di mesi addietro il signor Alberto non avrebbe certamente aderito—tanto repugnante gli sarebbe parsa l'idea, e tanto più noiosa in quanto si sarebbe trattato di seccarsi per una sorella. Ora invece annuì—senza entusiasmo, ma con discreta buona grazia. E cominciarono subito. Ogni due o tre giorni vanno in qualche posto; e ogni volta, dopo, vedo la sorella più contenta e il fratello più pensieroso. Ma la preoccupazione di questo non è più quella indeterminata, roditrice, di dianzi; par piuttosto una fissità in pensieri e sentimenti nuovi, in rimorsi forse più di dianzi intensi, ma non più desolati come di chi non vede rimedio nè speranza. Egli va perdendo la sua abituale ironia di scettico freddo; e spesso, quando accenna a qualchecosa che ha veduto in que'luoghi, la sua voce si vela un poco, ed evita d'incontrare lo sguardo mio.

Elisa è felice; e tanto più che, scosso da quanto aveva visto negli istituti, egli aderì volontieri a seguirla anche in certe visite ai poveri. Essa mi racconta con compiacenza commossa tutte le impressioni che scorge nel fratello, tutto ciò ch'egli dice alle suore, ai frati, ai ricoverati, ai poveri, e le carezze che fa, lui così schifiltoso, ai bambini sudici ne'quartieri più desolanti—e i quattrini che si toglie di tasca per lasciarli di qua e di là.

“E li toglie a sè stesso, sai,” mi diceva stasera, mentre eravamo sole nella sala, chè la madre era salita con Valentina dalla cognata e i signori erano fuori di casa. “Al papà, pur troppo, non si può chiederne per questi scopi. Egli dice che fa abbastanza, con questo continuo seccare, questo continuo batter cassa di sottoscrizioni, di associazioni, per questi eterni poveri.… Ah! se il papà volesse andar a vedere! allora si persuaderebbe anche lui.…” E gli occhi della fanciulla si riempirono di lagrime e il rossore le salì fino alla fronte.

Poi seguitò: “Ieri Alberto aveva provato a chiedergli qualchecosa in sussidio alla sua mesata, per mettere in salvo due giovinette del Testaccio che son rimaste orfane e sulla strada. E siccome il papà non ne voleva sapere, udii che Alberto gli diceva a mezza voce: «Se si trattasse.… dell'opposto, allora sì, non è vero?» Oh! Nicoletta, m'ha fatto venire i brividi! —E più tardi venne da me tutto contento e mi disse: «Sai, ho trovato modo di rimediare; i quattrini li ho.»—Volevo sapere come li avesse trovati; non ci fu verso di cavarglielo. Ma c'era sul suo viso qualchecosa di così insolito, di così strano.… Pareva così trionfante, così baldo! E stamani quando uscimmo a cavallo mi parve tanto più forte e ardito! Non lamentò affatto, oggi, che le donne a cavallo stancano i cavalieri, non protestò mai contro le mie galoppate. Che cosa sarà?”

Elisa era rimasta guardando fiso dinanzi a sè, come chi intensamente cerca la soluzione d'un problema difficile. “Cara,” dissi, “credo si tratterà di qualchecosa di molto semplice: egli non avrà trovato nuovi quattrini—avrà invece risolto di risparmiare su qualche suo piacere. E la letizia e la forza d'oggi non saranno altro che il frutto e il premio di quella vittoria e di quel sacrifizio.”

Discorrendo passeggiavamo pei salotti vuoti; ed eravamo uscite sul balcone del fumoir a respirare l'aria di una mite serata di primavera. La piazza di Spagna era già quasi deserta; non s'udiva che qualche rara carrozza, qualche voce tranquilla di passanti, e il gorgoglío della fontana. Non so di dove, veniva, ogni tanto, un acuto profumo di philadelphi. I fanali della scalinata della Trinità de'Monti salivano nella notte.

Nel fumoir andarono entrando il signor Alberto e alcuni de'suoi amici. Dopo un poco s'udì la voce alta e fessa di Sarti, che diceva: “Come mai, Alberto, non se'venuto iersera? Gran peccato davvero! Erano au grand complet, e anche più assassine del solito.”— “Non sai,” saltò su un altro, Spinelli, “che Falletti da qualche tempo in qua medita di farsi frate?” E un coro di grasse risate risonò nell' atmosfera azzurra di fumo.—Il signor Alberto era ritto in piedi davanti al caminetto, e leggeva, noncurante, la Tribuna, mentre gli altri seguitavano a incrociar motteggi, e nomignoli di sciagurate, e allusioni e aggettivi libertini, fra risate anche più schifose di quelli.

Poi il giovane alzò gli occhi con un sorriso di supremo disprezzo: “I gran miserabili che siamo!” disse, e sputò nella cenere.—“Ve l'ho detto io, ve l'ho detto io,” gridò in trionfo Spinelli, “che quello là si fa frate?” E ricominciarono più sonori i lazzi e gli sghignazzi.—Ma Alberto non si scoteva, e seguitava a fissarli impavido, con uno sguardo che aveva assunto una maschia fierezza e dal cui impero magnetico gli altri parevano sentirsi costretti ad evitarlo. E quando uno di questi disse una parola che suona turpe offesa, egli rispose con forza: “No, non codesto! ma uomo libero e gagliardo che riconquista la sua dignità e la forza virile, e, come uomo e come cittadino, sente i doveri dell' avvenire.”

Egli pareva essersi fatto più alto, fieramente eretto nella luce del lampadario, bello e fremente d'ira, cogli occhi che parevano voler sfidare a uno a uno tutti quelli del branco che gli stava dinanzi.

Avevano taciuto per un momento; poi alcuni ricominciavano —quando Elisa ed io, nauseate, per porre fine a que'discorsi rientrammo nella stanza. Fu uno scompiglio: quelli ch'erano seduti o semisdraiati si rizzarono precipitosamente—quelli che parlavano ammutolirono interdetti; erano imbarazzati perfino a salutarci. Noi li guardavamo in faccia, senza parlare, nè salutare, nè muoverci.… Essi non ressero a lungo all'umiliazione, e si dileguarono tutti, risalutando anche più impacciati e balbettando, alcuni, qualche parola di scusa.

Elisa, più nuova di me alla ributtante e desolante impressione, appena usciti costoro si lasciò andare in una poltrona e ruppe in singhiozzi.—Alberto era rimasto come intimidito. Fiero di dignità voluta e di libertà riconquistata davanti a'compagni dell' antivigilia, pareva egli si sentisse ancora troppo vicino al fango per osar di guardare noi serenamente. Ma io, che male sentirei la grandezza delle vittorie intime e de'generosi disprezzi del pregiudizio e del motteggio altrui se non avessi considerato con viva simpatia il virile contegno del giovane in quella sera, per la prima volta chiamandolo senz' altro per nome: “Alberto,” dissi, “perchè non conforta sua sorella in questo momento penoso?”—Egli aveva letto il mio sentimento e mi diede, come un lampo, uno sguardo di gratitudine. Ma non si mosse.

In quel mentre il cameriere portò una lettera ad Elisa. Questa, tutta tremante ancora per lo sdegno, aveva rialzato il capo, e lacerato la busta; e man mano che leggeva, la meraviglia e un'affettuosa commozione si dipingevano sul suo viso. Poi, mentre balzava in piedi ad abbracciare il fratello, mi pôrse la lettera, con un sorriso che diceva: “Avevi indovinato.”— Era la superiora dell' istituto del Buono e perpetuo soccorso, che le accusava ricevuta delle cinquecento lire inviatele pel primo anno di pensione delle due orfane, e le diceva che avrebbe fatto pregare le fanciulle per la loro benefattrice.

Io rilessi il biglietto ad alta voce. Indi udii Alberto che, abbracciando Elisa, le diceva: “Quando rivedrai quelle suore di'loro che facciano pregare quelle fanciulle anche per tuo fratello.”

Li 16.—Ho letto dianzi un articolo firmato da una donna. In quell' articolo quella donna constata la fine di alcune cose: la fede, le religioni, Dio—e appena concede a codesti poveri sogni un olimpico sorriso di compassione, con un certo vaporoso accenno a un rimpianto sentimentale.

Siete alquanto in arretrato, parmi, signora; e, se morta è la vostra fede, assai viva è in compenso la vostra buona fede. Avete preso sul serio le affrettate sentenze di alcuni illusi, che hanno creduto di spiegar l'universo e l'uomo colle analisi della loro piccola lente, di soddisfare l'umanità con una filosofia che si risolve in circoli viziosi, di mutare la storia con cavilli filologici su alcuni testi, o con quelle poetiche variazioni per le quali uno scrittore francese non credente, Maxime Du Camp, in una lettera privata definiva l'autore della Vie de Jésus «le Paganini du néant.»

Ma non lo sapete ancora, signora, che quelle sentenze orgogliose ed ingenue già cominciano a sapere di muffa? Ammuffisce tanto presto ciò che non è sano! Non sapete che se, come dice Melchior de Vogüé, «da codeste sentenze furono persuasi i mediocri,» quelli fra gli scienziati, i filosofi, gli storici, che il pensiero non fossilizzano e che il rispetto umano non lega e non mutila, si son già accorti che, per un vero forse trovato accanto a noi, altri infiniti rimangono, nell' immensità sfuggente, inesplorati, e nuovi trovati e nuovi disinganni ad un tempo fanno riavvicinar la scienza, la filosofia e la storia a quelle «cose morte» che il finale trionfo aspettano dai secoli? E non sapete che se grande è stato realmente il ruinar di esse fra gli uomini, e tanti persistono nello scetticismo che con tanto sicura serenità voi constatate, è appunto perchè in maggior parte la società è composta di quei «mediocri» cui, non l'ebbrezza della ricerca scientifica ha fatto velo, ma la grettezza della mente e del cuore, e le nebbie dolle passioni?

È possibile che siate artista voi, signora? Ma nell' anima dell' artista vibra l'universo—e le sue armonie non possono non dire a chi le intende la parola eterna. Gli artisti scettici sono incoerenti, sempre: giacchè l'arte è riflesso di fede; e, ove realmente la fede fosse morta nel mondo, anche l'arte morrebbe, come si spegne la fiamma cui è mancato il «vital nutrimento.»

Cose passate.… Ah! siamo noi, signora, siamo noi che passiamo—son le illusioni, son gli errori nostri, son queste brevi giornate che passano. E passano anche le nubi che offuscano quelle cose che credete finite e che non sono che oscurate agli occhi nostri perchè viviamo sulla terra, e dalla terra molta polvere si solleva. Passate!… Ma che sono la vita nostra, che sono i periodi della scienza, che sono i secoli, di fronte a quell' Autore di vita e d'amore che voi decretate finito? Povera gente che siamo—e poveri soprattutto quando nè l'intelletto, nè il cuore, nè la coscienza bastano a farci sentir l'ignobile assurdità di certe vacue ipotesi!

Ah! voi credete che questa povera umanità possa andare innanzi così, non vedete che cosa l'attuale disorientamento di credenze e di coscienze precipiti e prepari.… Asserite morte per sempre le vecchie religioni: le vecchie, sì—fatte di que' tentativi di fedi e di culti che sono il bisogno congenito dell' umanità, ma non poterono risolvere alcuno de' suoi problemi— quel buddismo compreso, che ora una bizzarria della moda va galvanizzando nella nostra società malata e che si vorrebbe paragonare al cristianesimo non solo, ma far apparire di questo il precursore! Come se la sua dottrina di passivo pessimismo, di desolante nichilismo, in sè non contenesse la negazione di tutti gli attivi e fecondi principii, possenti fattori di vita interiore, di civiltà, di progresso, che emanano dalla dottrina e dalla legge di Cristo!

Le vecchie religioni son morte, sì—non quella antica e sempre nuova che cresce nei secoli, e nell' attuale, così grande malgrado i suoi errori e le sue miserie, si va esplicando e imponendo alle coscienze ben altrimenti che non facesse in quel medio evo il quale, da chi del cristianesimo non intende lo spirito, è ritenuto il tempo del suo trionfo; quella religione che dà sempre più larghe e benefiche schiere di creature che consacrano la vita a curar le nostre piaghe, e sempre più moltiplica e feconda i miracoli della sua carità.

No, del passato il cristianesimo non è che in parte —il cristianesimo di Cristo è dell' avvenire!—Non sentite, signora? Il tuono romba all' orizzonte, la procella si oscura e s'avvicina. Molte cose muteranno allora, molte cadranno rovesciate—e noi forse con esse. Ma l'idea rimarrà; l'idea di verità, di giustizia e d'amore che Cristo al tempo ha affidata e a' discepoli suoi: «Andate, e recate al mondo la buona novella.»—«Ecco che io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli.»—«Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.»

E saremmo noi, noi donne cui Egli rivendicò umana dignità, e umani diritti, e divina missione di carità, che ci faremmo diffonditrici di negazioni che fanno il buio nella vita e il deserto nell' anima? Sarà più degno di noi il sorriso che demolisce che non sia quello che irradia e consola? Preferiremo la cieca compiacenza, che gli errori dello spirito e gli scetticismi delle passioni accetta e carezza, al forte amore che insegna a guardare alto e lontano, a sorreggere, a vivificare?

Ah! signora, se non sappiamo tenor accesa, fra le nebbie della via, la nostra lampada, non invitiamo alcuno a seguirci—se l'anima nostra è morta sì che morto ci sembri ciò che vive ed è vita, spezziamo la nostra penna, e serbiamo per noi sole la miseria nostra! Troppi errori, troppi dolori sono nel mondo: se non sappiamo nè illuminare, nè consolare, nè ritemprar coi divini ideali, usciamo dal tempio dell' arte, usciamo dalla scuola: non vi ha posto per noi!

Li 17.—Oggi è il genetliaco di Valentina. I genitori e i fratelli eran soliti farle in questo giorno de' bei regali—oggetti eleganti e frivoli per lo più. Quest'anno essa era molto preoccupata nell' aspettativa di questo giorno. Anzitutto perchè m'aveva promesso di diventare, a cominciar da oggi, una brava donna. Poi per i regali, ch'essa avrebbe voluto fossero di suo gusto, “del mio nuovo gusto,” diceva. “Ma come fare?”

Pensai d'aiutarla io, tanto più che a quella scelta davo un'importanza anche maggiore. E così i genitori le regalarono due incisioni in cornice, da sostituire a que'tali quadretti ch'io aveva fatti sparire —due incisioni cui da un pezzo facevamo all'amore quando si passava davanti Bossi, sul Corso.—Una è La dernière prière—l'interno del Colosseo, gremito di spettatori, e, sull' arena, in fondo, un gruppo di cristiani, uomini e donne, inginocchiati intorno ad un sacerdote in piedi, che intona il canto della vittoria. Sul davanti i leoni vanno emergendo dalla cavea, e il primo, già uscito, s' è fermato guardando e fiutando intento.… L'altra è l'interno di un carcere politico del Borbone di Napoli, nel quale un padre, condannato al capestro, dà alla figlia l'estremo addio —due figure stupende per l'espressione di fede e di fortezza magnanime che ne frena lo strazio.

Elisa regalò tutta la biblioteca di M.me Bourbon —que' racconti che così profondamente educano la donna alla vita.—Il fratello aveva chiesto ieri l'altro a Valentina che cosa desiderasse. Essa rimase un pezzo perplessa—e consultava me cogli occhi. Ma io non volli suggerire.

Fra i nostri clienti abbiamo la famiglia d'un falegname disoccupato, colla moglie che sempre si raccomanda per aver lavoro almeno per sè. Tutta la famiglia dorme su di un piccolo pagliericcio. Il sogno di Valentina, da quindici giorni in qua, era di ordinare al marito le assi e i cavalletti, e alla moglie dar da fare un pagliericcio grande e le lenzuola, e poi lasciarli loro, con una coperta. Ed essa, finalmente, per tutta risposta, facendosi rossa come una bragia, e cogli occhi bassi, aveva confidato il sogno, piano, al fratello. E questi l'aveva abbracciata senza parlare.

Stamani, quando Valentina, di ritorno dal nostro piccolo giro, ebbe saltato un pezzo di gioia intorno ai suoi regali e si fu seduta al tavolino, trovò fra i suoi quaderni un taccuino da note di marocchino nero, con entro una carta da cinquanta lire, e suvvi incise in oro queste parole: Ora et labora.

Abbiamo visto oggi lassù una persona che spesso ci accade d'incontrare nei nostri giri dai poveri. Una donna che, a differenza di chi molto apparisce e poco o punto fa, moltissimo fa e pochissimo apparisce— una donna che non è giovane, e, qui e altrove, ogni giorno per tempo è in piedi, e, in un dispensario, o in casa propria, o in casa loro, cura colle sue mani piaghe di bambini e anche di adulti, negli ospedali assiste e conforta i malati, e presta loro i servigi più umili e faticosi e ributtanti, fino a sostituirsi a volte ad infermiere mancanti; o va in giro pei quartieri più miseri a cercare, a verificare, a rimediare, con una meravigliosa arte di carità, che intuisce i bisogni veri e i maggiori, fa miracoli di sapiente economia che sembrano moltiplicarle in mano ciò di cui può disporre—aiuta con sussidi, con distribuzioni di lavoro, con raccomandazioni ad altri, con consigli pratici, con esortazioni religiose e morali, che sollevano gli spiriti ignoranti, o erranti, o abbattuti—fatte con voce materna, con carezze, con abbracci anche, dove i dolori sono più intensi.… Infaticabile, mai scoraggita, mai ributtata, nemmeno dagli insulti, dagli inganni, dall'ingratitudine—sempre serena, sempre pietosa, sempre forte di una fede superiore, che alimenta la carità inesauribile e infonde in altrui rassegnazione e speranza—sempre salda malgrado stanchezze e sofferenze che la sua virtù non cura nè ammette, sempre disinvolta nella sua modestia, magnanima ne'suoi giudizi su chi essa avrebbe diritto di censurare, come una che non fa nè sa nulla, e ha da imparare da tutti.… quantunque a un ingegno e una coltura non comuni unisca un finissimo charme di società, e conti fra i suoi amici degli eletti d'ogni parte d'Europa.

Tante volte ci eravamo messe di puntiglio a voler arrivare prima di lei in qualche posto del suo quartiere; mai ci è riuscito: essa, come una fata, era sempre passata già, dappertutto. I poveri, per lo più, non la conoscono, o, dirò meglio, ignorano il suo nome. Ma ben lo conosco io, che non so pronunziarlo senza un'affettuosa commozione—ben conosco quella mano benefica ch'era più che degna di popolarizzare in Italia la narrazione che Maxime Du Camp ha fatto dei miracoli della carità privata a Parigi.

Li 18.—Stasera siamo andate in casa Maren. Sapevo che la povera Letizia era più sofferente del solito, e avevo raccomandato a Valentina di non fare il consueto chiasso coi ragazzi. Ma essa non volle ammettere un peggioramento che appariva da tutta la povera persona torturata; e, con quel sorriso ch' è come il perpetuo riflesso dell' anima sua, volle che i figliuoli si divertissero come sempre—per divertir lei, diceva, dolce e fortissima martire.

E mentre quelli giocavano alle parole a più sensi —è un gioco che soglio suggerire per avvezzar Valentina a riflettere e distinguere—ed Elena terminava di fare a suo padre la lettura del giornale, essa mi narrava piano de'grandi conforti che ampiamente la compensano d'ogni pena. “Sai,” mi diceva, “quanto, venendo qui, avevo tremato pel mio Giorgio—e per le immoralità della scuola, qui anche maggiori che in provincia, e per le teorie materialistiche del professore di filosofia che sapevo egli avrebbe avuto. Finora m'era parso che nessun peggioramento fosse avvenuto nel mio figliuolo; ma sempre temevo d'illudermi.—Oggi egli rientrò dalla scuola un po'più pallido del solito, e pensieroso. Nessuno se n'era avvisto—ma di che cosa non s'avvede la mamma? Non gli lasciai pace finchè non m'ebbe confessato di che si trattava. —Il professore di filosofia lo aveva interrogato sulla questione del libero arbitrio; ed egli aveva risposto secondo i principii della filosofia spiritualista. Il professore prese a contraddirlo e canzonarlo; egli non si lasciò intimidire, e replicò, fra i sorrisi di scherno di molti dei compagni. Ne venne una vivace discussione, in seguito alla quale il professore lo condannò a tre giorni di esclusione dalla scuola.”

“Ti penti di quanto hai fatto?” gli chiesi. “Ti spaventano le derisioni e le persecuzioni future?”—E il mio figliuolo mi guardò negli occhi, e mi disse, colla voce ferma, col sorriso sereno: “No, mamma, non me ne pento—lo rifarei.”

E quando ebbe superata la commozione che la vinceva, Letizia seguitò narrandomi di altre lotte dal suo figliuolo sostenute coi compagni—lotte di resistenza contro la corruzione di questa gioventù che non è ancora uscita di fanciullezza che trova pronti, insidiosi, tutti i mezzi che menano a rovina, e, se non ancora nel corpo, è contaminata nell' anima, e preparata a tutti i vizi come a tutti gli scetticismi, e a tutte le transazioni della coscienza.

E si fece a narrarmi particolari desolanti, sgomentanti.… E le povere membra torturate di quella madre tremavano—e brividi dolorosi prendevano me, che non ho figliuoli, che mai ne avrò, e che perciò amo tutti i figliuoli altrui, e tanto più intensamente mi cruccio pensando all'avvenire del nostro paese.— Signore, Signore, disperdi il presagio e, a costo d'ogni sacrifizio e d'ogni dolore, le nuove generazioni risanino, risorgano, insorgano, forti d'ideali magnanimi!

Li 20.—Son felice perchè il mio Gino è arrivato ieri, per le vacanze di Pasqua. Era con una certa trepidazione che lo aspettavo.… Quantunque dalle sue lettere non trasparisse niente di nuovo, il ricordo di quel fosco episodio dell'ultima sera di carnevale mi faceva sempre temere per lui. Ma nulla potei indovinare. Dovrei anzi dire ch'egli mi par più sereno che non fosse quando fu qui a Natale.—È l'amore che lo conforta? O v'ha, soprattutto, nell' anima sua anche maggior vita ed energia di fede e di volontà?

Certo, egli è saldo e indomito sempre. Finchè andava errando nello scetticismo, egli ogni tanto mutava scuola e indirizzo, era inquieto, internamente tormentato, anche quando più si mostrava sicuro e soddisfatto. Ora ch'egli ha conquistato la fede, la fede creatrice delle forti convinzioni e de'grandi ideali, e perciò delle salde energie, le sue facoltà si sono equilibrate, rafforzate come per un impulso di vita sana, gagliarda, feconda.

Ho voluto fargli fare la conoscenza di Alberto; e si son riusciti reciprocamente molto simpatici. Alberto ogni giorno impresta a Gino uno de'suoi cavalli, e fanno insieme delle lunghe cavalcate.

Li 21, venerdì santo.—Scartabellavo stasera i quaderni della povera zia; e vi rilessi una sua data da Moliparte, del venerdì santo di quattr' anni sono. Essa parlava di una rassegna fatta a certa reliquie del passato —povere in sè, preziose al cuor suo ed al nostro, perchè ognuna parlava di que' giorni consacrati da magnanimi sacrifizi alla patria e alla libertà. Poi narrava della sera prima, passata sola col nonno, nel salotto de'fiamminghi, e durante la quale aveva letto a lui brani dell' Evangelo: «Prima della festa di Pasqua, sapendo Gesù come era giunto il tempo per lui di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi ch'erano nel mondo. li amò sino alla fine.»— «La pace lascio a voi, la pace mia do a voi; ve la do non come suole il mondo. Non si turbi il cuor vostro, nè impaurisca.»

E seguitava sfogliando le pagine eterne—e trascriveva le parole d'amore e di vita, che con un fremito aveva lette, mentre il nonno, il vecchio cospiratore che tutto avea rischiato per l'idea, passeggiava nella stanza, e il vento di fuori faceva scorrer sulla luna le nubi che mettevano nell'ombra sulla terrazza le statue di Giove e di Venere.…

Son passati quattr'anni—son morti entrambi; non vedrò più Moliparte; nuovi dolori e nuove lotte mi aspettano. Ma quel libro rimane; e tutti i giorni mi ripete la parola d'amore, la legge e le promesse di Lui.

Melchior de Vogüé, nel suo giornale di viaggio in Palestina, dalla terra che vide Cristo scriveva: «C'est sur une de ces pierres, et cela seul suffirait à les faire à jamais bénies, qu'un disciple bien inspiré a recueilli l'audacieuse et adorable parole: «Heureux ceux qui pleurent!» Trésor que depuis chacun garde dans la vieille Bible, dont on relit le même passage au courant des douleurs espacées dans la vie; oubliée aux jours heureux, rouverte aux jours d'angoisse, on y retrouve le verset mouillé plus d'une fois, jalon des misères passées, consolateur immuable de souffrances qui changent, survivant seul aux chimères et aux déceptions qui les ont produites, remède d'une même et éternelle vertu pour guérir des peines diverses et éphémères.»

Li 23, Pasqua.—Un pensiero che la gran festa d'oggi mi fa rammentare—un pensiero di Ruggero Bonghi, questa nostra mente gagliarda che, sdegnosa di seguir la corrente o di ondeggiare fra gl'ideali e i rispetti umani, al paese nostro dice ogni tanto alte e franche parole di vita.

«Bisogna rinnovare Cristo in sè stessi. Chè Egli è vivente tuttora, nè è risorto per rimorire. Dacchè Egli è stato tra gli uomini questi son caduti molte volte; ma non hanno avuto se non nel pensiero e nel sentimento di Lui la scaturigine del risorgimento. Non so mistero maggiore, ma non ne so nemmeno di più certo. Tutta la storia moderna lo addita, e le sue grandi vicissitudini son queste: oscuramento, ravvivamento dell'idea di Cristo.»

Li 24.—Lo zio scapolo cui tempo addietro i signori Falletti avevano, suo malgrado, mandato il loro figliuolo a rinfrescargli la memoria, è morto d'apoplessia. La signora ha messo lutto pesante, e fa un gran parlare del suo «povero fratello» del suo «caro fratello» del suo «buon fratello,» che ha lasciato al suo Alberto tutta la cospicua sostanza.

Il commendatore è seccato assai perchè quel balordo di suo cognato aveva fatto la sciocchezza d'isterilir la sua fortuna colle campagne. Infatti, toltine parecchi legati ad istituti di beneficenza, quasi tutto ciò che rimane ad Alberto son latifondi nella provincia di Mantova.—“Ora ci sarà il fastidio di cercar compratori, a questi lumi di luna!” diceva ieri a colazione. “Caro papà,” rispose tranquillamente il figliuolo, “il fastidio ti sarà risparmiato, perchè intendo di non vender nulla.”

Il commendatore sbarrò tanto d'occhi. “Cos' hai detto, non intendi di vendere? Caro te, non mi scherzare colle cose serie.” Alberto rispose che non era stato mai tanto serio come in quel momento, e che della roba sua si sarebbe occupato lui.—Ma la madre sorse alla sua volta a protestare, dicendo che un giovane bello, fortunato, artista come lui—e si gonfiava tutta di boriosa compiacenza materna—non era nato per fare il fattore di campagna, che un par suo non aveva da perdersi a perticar campi e far conti coi villani.

Alberto rispose: “Resta a vedere se non è fin adesso che mi son perso facendo la vita che ho fatta e scrivendo quello che ho scritto, e se non comincierò a far qualchecosa di buono con quei campi e con quei villani!”— “Fossero almeno belle posizioni!” seguitava la madre; “ci fosse una bella villa, da andarvi a passare l'autunno e far molti inviti.… Allora, non dico—sarebbe almeno una soddisfazione da signori. Ma andar a.…”

Il figliuolo non la lasciò proseguire: “Accontentati, cara mamma,” disse, “delle soddisfazioni da signori che ci procuriamo qui. Per me dichiaro che ne sono alquanto stufo, e che voglio provare qualchecosa di nuovo. E chissà che non mi senta più degno signore d'or innanzi che non mi sia sentito fin qui.…” Un rapido rossore passò sul viso pallido del giovane, che fece un atto come per supplire a quel che non aveva detto e por fine al dialogo.—Per sua fortuna fu aiutato dall' arrivo in tavola di un'enorme fetta di pesce spada, fatto venire da Scilla, che fortemente commosse il commendatore.

Li 27.—Non credo ancora.… Ier l'altro, nel pomeriggio, il signor Marco Maren è stato colto da una paralisi. Fu Elena che lo trovò, in camera sua, privo di sensi sul pavimento.—Io era a casa, per confortare il papà della partenza di Gino, quando vennero ad avvertirnelo. Accorremmo. Là giunti, ci parve che come un'eco dello strazio di tre anni sono, al letto del povero nonno, si rinnovasse nel nostro cuore.…

Il medico non aveva lasciato alcuna speranza. L'infermo non dava altro segno di vita che il respiro affannoso; l'occhio non guardava più. la bocca non emetteva che qualche suono inarticolato.—Egli non aveva più bisogno di nulla—ma Elena, disperata, non se ne voleva persuadere. La passione del suo dolore la teneva in un moto costante, fra cento vani ingenui tentativi. Francesco era caduto in una tremenda atonia. Letizia invano cercava di superare per essi l'affanno proprio, chè era amore di figlia il suo. Giorgio e Bianca erano presi come da sgomento.

Passammo così—nemmeno Valeria ed Elisa, tosto accorse, avevano voluto lasciare l'amica—tutta la notte e tutto il giorno appresso. Nella giornata, perchè apprendesse le severe lezioni della morte, avevo fatto venire anche Valentina.—I polsi andavano mancando, diminuendo il colore, gli occhi sempre più si spegnevano. —Il sacerdote aveva amministrato l'estrema unzione—e all' anima, sopita innanzi di sciogliersi da «questo corpo di morte,» ripeteva le promesse di Dio. Il sole calava dietro monte Mario, nel radioso sereno —dalla finestra aperta entravano profumi di primavera e suono lontano di campane festanti. E in quello strazio de' cuori, davanti all' orrore di quella imminente dissoluzione della materia, pareva dicessero l'eterna parola della vita.

Li 29.—Passiamo, tutte tre, gran parte delle nostre giornate in casa Maren—per illuderci di confortare, e, anche, per aiutare materialmente. Chè il trasferimento nel quartiere di via degli Avignonesi era fissato pel primo di maggio—e a mala pena i nostri poveri amici hanno potuto ottenere, dagli inquilini che loro succederanno qui, una settimana di proroga. E così, nella nuova tremenda amarezza che è venuta ad aggravare ancora la tristezza del sacrifizio, cogli occhi offuscati dalle lagrime, Elena e Francesco vanno raccogliendo gli oggetti da riporre, condizionando i vecchi mobili che aveano visti i lieti tempi di Asolo, riponendo come reliquie tutto ciò ch'era appartenuto a lui che ancora a volte cercano per queste stanze che si vanno spogliando.

Li 30.—Il commendatore ha dovuto rassegnarsi all' irremovibile risoluzione del figliuolo. Ieri udii che gli diceva: “Ingrato, che non ti periti a darmi un simile dolore!” Quegli non rispose—ma, collo sguardo di penosa meraviglia col quale fissò suo padre, pareva volesse dirgli: Come non m'hai fatto un simile rimprovero quando lo avrei meritato?

Egli partirà fra pochi giorni. Il suo progetto è di andare a prender possesso e cognizione de'suoi fondi, e di mettersi a studiare agricoltura, parte da sè, parte alla Scuola superiore d'agricoltura di Milano, che frequenterà l'inverno venturo.

Iersera udivo il professore Barducci ed altri amici suoi deplorare in sua presenza la perdita che vanno a fare la società brillante, la scienza, e l'arte. Egli rispose che prova una grande compiacenza nel dare alla società brillante il primo buon esempio che le abbia dato finora; e che in quanto alla scienza e all'arte spera poterle servire meglio in un ambiente meno corrotto, «dove, forse, certe cose s'intendono meglio.»

Il professore scosse il capo, come in atto di compassione dinanzi ad uno che vaneggia; e gli amici più giovani sogghignarono.…

1°ree; Maggio.—Torno da casa Maren. Il loro strazio aumenta ogni giorno—quello strazio che dapprima è come attutito dallo stupore, e poi va sempre più persuadendo vincendo l'anima che si ribella.… Non v'ha rimpianto che non li torturi, non v'ha rimprovero che non si facciano, come se tutto non avessero posto in opera per confortare gli ultimi anni del loro diletto. Oh! li conosco, li conosco questi martirii, che ci fanno supplicare i morti di perdonarci, di ascoltarci, una volta ancora!

Vanno ricevendo molte lettere. Spesso pregano me di aprirle. Quanto poche son quelle che toccano il solo argomento che possa confortare.… Io credo che se dovessi non parlare, a chi piange un essere amato, dell' altra vita e di ciò che a coloro che rimangono dà forza tra i rimpianti e le prove della via, preferirei serbare il silenzio. Che è tutto il resto di fronte alla desolazione de'distacchi supremi, di fronte al tremendo ridestarsi del problema della morte e della vita? Vano impotente risuonar di parole.

Voi, scettici, di fronte ai grandi dolori come di fronte ai grandi doveri, alle grandi virtù, alle grandi iniziative della vita, ritiratevi: ad altri il compito di confortare—come ad altri quello di amare di quell' amore gagliardo, perseverante e fecondo che, traverso le miserie della terra, solleva, crea, trionfa.

Li 2.—Oggi, al primo piano, è stato eseguito l'arresto di un disgraziato commesso del commendatore, che fu per anni inconscio stromento de'suoi imbrogli colossali. Una figliuola di lui, sedotta da un signore, dal quale aveva avuto un figlio, era stata, tisica, abbandonata. Il padre, per non averla a mandare all' ospedale o lasciarla morir d'inedia, era ricorso al principale, dal quale non aveva potuto ottenere altro che delle ingiurie all' indirizzo della figliuola. Ed ha sottratto alcune centinaia di lire. Il commendatore lo ha tosto denunziato senza misericordia; e tutt' oggi inveì contro «quel ladro» e lamentò che non si trovano più galantuomini.

Li 7.—Stasera i Maren son passati nella nuova casa. Mentre aspettavano la carrozza che doveva trasportare Letizia, entrai con Elena per l'ultima volta nella camera di suo padre. V'era là ancora una cassetta —quella cassetta nella quale, tempo addietro, lo avevo visto riporre degli oggetti. Elena vi si appoggiò, e ruppe in singhiozzi. Poi, rialzando il capo, mi disse: “Tu non sai, Nicoletta, che cosa vi sia qua dentro.… Erano le reliquie del suo passato—le carte salvate dalle cospirazioni, i ricordi de'compagni di carcere, e quelli de'suoi vecchi, e della povera nonna, e dell' amico prediletto, il nonno tuo; e poi.…”

Elena si fece pallida, e ne'suoi occhi passò un lampo strano. “Vi sono,” seguitò, “le lettere di un acerrimo nemico suo, ch'è stato pure la cagione volontaria della nostra rovina—e che io, Nicoletta, ho amato ed amo, terribilmente, come si ama quando si disprezza! Lui pure mi amava e mi ama—ama me quanto odiava mio padre.… E lui, quel santo che ci ha lasciati, non aveva messo fra noi nessun ostacolo— giacchè tutto aveva perdonato.”

Essa tacque—e guardava dinanzi a sè, immobile. Le presi le mani—erano gelide. “Che n' è di lui?” dissi.—“È qui; e mi scrive assiduamente, tentando la mia coscienza di figlia.…”

Elena alzò i grandi occhi neri, che fissarono il sole disparente dietro il monte Mario, come in quell'ora di supremo addio.… E, senza guardarmi, come avesse parlato all' anima dipartita, colla voce ferma, colle mani aggrappate alla cassetta di quelle reliquie del passato, disse: “Mai!”

Li 8.—Alberto è partito stasera. Il commendatore fu molto freddo con lui; la madre gli disse la confortava la speranza ch'egli sarebbe presto rinsavito. Le sorelle erano in lagrime. Lui era commosso, ma contento.—A me disse una parola sola, ma tale, e con un accento, che ne dicevano molte: “Grazie!”

Più tardi era venuto il senatore Baretti. Discorreva a mezza voce, come di consueto, col commendatore, in un angolo del salotto. Per la disgrazia che ho di un udito finissimo, udivo, senza volere, dall' altro angolo dove stavo con Valentina, sfogliando con lei, per distrarla un poco, un volume illustrato. “Dunque Alberto è partito,” disse il senatore. “Sì,” rispose il padre, colla stizza nella voce. “M'aveva a capitare anche la disgrazia che mi guastassero il capo di quel ragazzo. Pare impossibile, da qualche tempo in qua s' è lasciato rincretinire da due pettegole. Chi l'avrebbe detto, eh? quel fior di ragazzo che era! Non è più uomo, credimi, non è più uomo.”

Li 9.—Oggi tornando da un giro in Trastevere, dove abbiamo, Valentina ed io, alcuni clienti, ci siamo fermate in Campo di Fiori a guardare il monumento di Giordano Bruno. Non vedo mai quella fosca figura che, nel suo saio domenicano, s'erge su quella piazza popolare, senza un senso di tristezza profonda. Essa è stata colà innalzata coll' apparente proposito di protestare contro un atto cui il barbaro fanatismo dei tempi trasse chi allora rappresentava la Chiesa. E con questo pretesto fu fatta l'apoteosi di un filosofo che nella storia del pensiero umano non ha lasciato alcuno sprazzo di luce sua, disordinato nell' ingegno come nella vita, e che solo in fine si elevò, per l'intrepida saldezza del carattere, ritrovata di fronte al martirio.

Coloro sono gli stessi de'quali parlavo qui tempo addietro, che vanno predicando al popolo e alla gioventù una storia parziale e partigiana, una storia fatta con criteri critici falsi e ingiusti perciò che giudicano cose d'altri tempi colle idee de' tempi nostri, e sempre ricantano, spesso non vagliando ed esagerando, gli errori, i disordini e i delitti dei rappresentanti della Chiesa, senza mai accennare in pari tempo ai pregiudizi, alle corruzioni, alle stragi feroci dei quali è ripiena la storia de' popoli e d'ogni istituzione. Battono sempre sulla intolleranza esercitata in nome del cattolicismo, invitano sempre al compianto che, giustamente, meritano le vittime di quella: ma perchè non dicono mai una parola del truce fanatismo de' luterani, degli anabattisti, degli ussiti, in Germania, dei calvinisti nella Svizzera, degli ugonotti, di Elisabetta, di Edoardo VI in Inghilterra, i quali tutti, in nome delle loro sètte, fecero stragi nei cattolici? Perchè dimenticano le ecatombi perpetrate dai terroristi, che pur pretendevano di far trionfare i principii umanitari, e le orribili torture delle quali fino a questo secolo tutti i governi si resero colpevoli? Perchè non mettere insieme tutti questi delitti commessi in nome di un qualunque principio, cattolico o anticattolico, religioso o anti-religioso, per tutti condannarli col pensiero d'amore cristiano? Perchè al popolo, anzichè insegnargli a odiare un'idea e chi la rappresenta, perciò che taluni che la rappresentavano ne' tempi de' dispotismi e de' corrotti e feroci costumi del feudalismo prima, de' principi tiranni poi, si lasciarono traviar lungi, molto lungi, dallo spirito del Maestro, non insegnargli la storia qual è, con essa ammaestrandolo a guardare a que' principii senza i quali, o male interpretando i quali, l'uomo, per la guasta sua natura, precipita ad ogni rovina morale e materiale? a que' principii che di tanto bene, traverso le nequizie de' tempi, furono fecondi nella società, e tante volte provvidamente inspirarono, come maestre di virtù, di carità e di pace, quella Chiesa della quale non sogliono rammentare altro che i torti?

Oh! se amassero davvero questo povero popolo e questa povera gioventù, quanto più amerebbero la verità e la giustizia, e quanto meno strazio perciò farebbero e della storia e della scienza, che par non vogliano far servire ad altro che alle loro mire d'odio e di distruzione di un'idea che non riusciranno mai a distruggere, mentre invece spingono ad ogni sfacelo le masse credule e tradite, i giovani che ora navigano nella vita senza bussola e senza faro, iniquamente privati di tutto ciò che alla gioventù dà calore di vita e d'ideali!

Essi pretendono che noi cattolici bramiamo, vogliamo le ombre per nasconderci in esse, e in esse nascondere e il passato e i trovati della scienza. Oh! no, la luce noi vogliamo, la luce, noi cattolici cristiani, (non parlo degli altri, che, improvvidamente e inutilmente, tentano, riguardo ai torti dei membri della Chiesa passati e presenti, di tutto scusare quando non possono tutto nascondere), la luce che faccia progredire la scienza verso la verità e conoscere la storia qual è. Sarebbe ora di finirla colle negazioni per partito preso, per scetticismo di massima, come sarebbe ora di finirla col continuo rimproverare alla Chiesa, non solo le macchie del suo passato, ma gli errori suoi di fronte al progredire della scienza. Il progredire della storia onesta fa vedere che se la scienza ha trovato momentanei inciampi in taluni rappresentanti della Chiesa, ne ha trovati pure, e quanti! in ogni religione come in ogni ordine sociale. Se Galileo non era stato inteso nè creduto dai consultori del Sant' Uffizio, come non lo era stato dagli aristotelici delle università, Lutero e Melantone avevano dato del pazzo a Copernico, al canonico Copernico, e Bacone lo aveva qualificato reo di libertinaggio di spirito. E Keplero, protetto dai cattolici, e cui era stata offerta la cattedra di matematica di Bologna, fu torturato dai teologi protestanti di Tubinga, che confiscarono i suoi beni e minacciarono del rogo sua madre. Erano codesti frutti del tempo, del tempo arretrato ancora sul cammino della scienza, e, da un cumulo di pregiudizi non peranco dileguati, spinto all'intolleranza, direi allo spavento, del nuovo, e per questo e per un resto di barbarie, non rifuggente da atti ingiusti e crudeli.

Non so quindi di quanto acume storico dieno prova quelli che fanno tanto caso d'incredulità, di lentezze e di crude misure così generalmente condivise; mentre poi mai curano di rammentare tutti gl'incoraggiamenti e gl'impulsi—fors'anco eccessivi per la licenziosità cui talora, a cagione de' tempi, incorsero—dati dalla Chiesa alle lettere e alle arti, ed alla scienza stessa.

Sì, sarebbe tempo di smettere, d'ambe le parti, quella malafede che fa vedere il male tutto dalla parte opposta e di quella parte fa tacere ogni bene, e di essere onesti. Se noi cattolici, per esempio, malgrado l'attenuante de' tempi in cui accaddero, dobbiamo essere i primi a condannare le cose indegne ed inique che contaminarono la Chiesa di Cristo, e furono tra i moventi della Riforma protestante, sarebbe giusto del pari che altri non erigessero a campione della libertà, della ragione e della purezza della vita quel Lutero che negò il libero arbitrio, e la ragione, cui pure parve di rendere il massimo omaggio, in pari tempo stranamente calunniò, ed attizzò in sulle prime i fanatismi più violenti—Lutero che, interpretando Paolo secondo lo spirito proprio, proclamava bastar la fede, essere inutili le opere buone (ch'egli scambiava colle opere, cioè i formalismi della legge mosaica), e, nella Cattività di Babilonia, asseriva che un credente battezzato, per quante iniquità commetta, non può perdersi nemmen se vuole, purchè non rifiuti la fede, giacchè Cristo ha preventivamente tutto espiato —Lutero che, malgrado lo sdegno suo giustissimo contro tutte le corruzioni di Roma, non fu certamente un modello di castità nè di temperanza. Ciò che non toglie a noi cattolici il dovere di lealmente riconoscere il bene che, insieme al male, Lutero fece alla società, alla stessa Chiesa, che spinse alla riforma cattolica.

Sì, in questo tempo nel quale si riabilitano Lucrezia Borgia e Maramaldo, sarebbe ora d'essere, di fronte al passato, imparziali—non solo per debito d'onestà, ma per amore del presente e dell' avvenire. Come, spesso, due coniugi che hanno mutui rimproveri da farsi si perdonano a vicenda e si riuniscono e cercano di mettersi d' accordo per amore de' figliuoli, così dovrebbero fare tutti i buoni d'ogni parte per amore di questa patria, di questa umanità, di questo popolo, de'quali tanto e così vanamente si parla: chè la società, ben più che di parole, ha bisogno d'azione e di sacrifizi. È illusorio lo sperare un gran frutto dal bene tentato dall'una o dall'altra parte isolata: nessun vero e stabile miglioramento morale e, per conseguenza, materiale, può esservi senza una base d'ideali e di principii, senza i quali l'uomo costantemente tende a farsi bruto—come su scarsissima scala può esercitare un'influenza benefica un partito religioso-politico a torto o a ragione reputato come nemico, e che, ad ogni modo, è spesso lungi dallo interpretar giustamente lo spirito d'amore del Vangelo. Quando odo di trionfi massonici mi contristo profondamente; ma non mi rallegro davvero neppur dei trionfi de' clericali, per quanto di buono, di ottimo anche, possa essere e sia nelle intenzioni di molti di questi. Chè gli uni e gli altri provocano reazioni intemperanti e funeste a quella sola idea benefica, alla sola risolvitrice de' problemi della vita, l'idea di Cristo.

Di quanti fra coloro che non parlano in pubblico esprimo il voto—di quanti laici onesti e veggenti e liberali, di quanti sacerdoti, tanti più che non si creda! Di quanti sospiri dolorosi, di quanti voti ardenti di pace, di quanti sogni di carità vincitrice, fidenti in Dio, uditi in modeste stanze di parroci, di preti maestri, di più d'un vescovo, in parlatorii e in sagristie di conventi soprattutto, le mie parole son l'eco! Quante lettere vado rileggendo ogni tanto di sacerdoti che tanto più amano l'Italia quanto più ne vedono la ruina, e tanto più implorano il giorno bramato!…

E sempre lo vedo ancora, il fosco monumento che sorge su quella piazza popolare… E, intorno ad esso, come in un sogno, mi sorge dinanzi una strana visione, trionfo di un'età ventura. La gioventù d'Italia che, senza distinzione de'partiti spenti, laica e sacerdotale, si aggruppa intorno a quel bronzo che rammenta gli odii degli uni e degli altri—e sul piedistallo, colla data del secolo venturo, scrive: Christus vincit.

Li 10 Giugno.—Un mese di silenzio. È che più di prima dedicavamo le sere ai nostri poveri amici. —Non era solamente per essi che lo facevo: era anche per avvezzar Valentina a quel grande dovere della vita, che alla donna incombe specialmente, di confortare altrui. Ed è per me un'intima gioia vedere come la mia figliuola, malgrado l'indole sua vivacissima, intenda e rispetti il dolore, come, per amore dell' amica e de' suoi, mai si ribelli alla malinconia di queste serate seguite alle liete di dianzi.

È la cognizione che, visitando i poveri, è andata prendendo della sofferenza umana che ha educato l'anima sua alla pietà e alla serietà; sì che, insensibilmente, senza che io le facessi prediche in proposito, s' è spogliata di quell' egoismo che non era nella sua natura, ma cui—come tanto spesso accade oggi—era stata avvezzata dalla frivolezza e la mollezza dell' educazione; quell' egoismo che ci fa considerare noi stessi come, se si può dir così, scopo della nostra vita, e volontieri ci fa evitare le occasioni di scomodarci per gli altri. Essa ora, spinta anche dall' esempio della sorella, queste occasioni di prestarsi, di aiutare dove può, le cerca; e in pari tempo, coll' esperienza che va facendo, va educandosi l'animo anche a quell' altra carità ch' è anzitutto onestà, e vi fa non solo rifuggire dalla maldicenza, ma adempier al dovere di ritrattare, come restituzione di cosa mal tolta, ogni involontaria, anche piccola, calunnia, sentir la responsabilità di tutto il male che si può fare altrui—specie il male morale, ch' è di gran lunga il peggiore—colle parole, cogli atti, cogli esempi.

E un' altra cosa che assai mi conforta in questa educazione è il desiderio che scorgo nella mia allieva di emendarsi, di progredire, gli sforzi che fa per contenere certi impeti dell' indole sua, il buon volere col quale è andata sempre accettando le mie proposte di riforma alla mollezza o alla frivolezza della vita. E di queste riforme sempre più appariscono i frutti. L'alzarsi e il coricarsi presto, il mangiare semplicemente e moderatamente, le lunghe passeggiate a piedi, la regolarità e la serenità della vita e degli studi, l'hanno irrobustita nel fisico e nel morale; e la sua vivacità, che dapprima, pei capricci cui era stata cresciuta, aveva del nervoso e dello sregolato, ora par si sia fatta anch' essa qualchecosa di gagliardo.

Il lavoro più difficile è stato sulla suscettibilità, proveniente da quel falso amor proprio che, più o meno accentuato, è tra i difetti più comuni, per non dire generali, e che ci crea tanti elementi di debolezza. E d'infelicità pure: per sapere quanta probabilità abbia uno d'essere cattivo e, per conseguenza, intimamente infelice, converrebbe potergli rivolgere la domanda di Rivarol: «Ditemi da quanti lati potete essere ferito.»

Sfogliando i quaderni della povera zia, è una gran guerra che vi trovo—ora capisco quanto aveva ragione —a tutte le debolezze della vanità e dell' amor proprio, quelle debolezze che vi rendono presuntuosi, esigenti, permalosi, meschinamente sensibili a tutto ciò che vi può offendere o anche salutarmente ammaestrare, ingiusti nel giudicare altrui, ingenerosi verso chi non ci apprezza quanto vorremmo—e son perciò altrettanti elementi di schiavitù, di diminuzione di noi stessi, e fanno piccini piccini tanti che son chiari per ingegno e per opere egregie, tanti, perfino, che son detti, e credono d'essere, uomini grandi.

La serena superiorità di chi troppo non si commuove nè per testimonianze lusinghiere nè per mortificazioni —di chi, pur sentendone tutta l'amarezza, sa perdonare le offese e le ingratitudini, e imparzialmente giudicare gli offensori, gl'ingrati, quelli cui non siamo simpatici, e rendere, all' occasione, bene per male, e trar partito dalle lezioni della vita per vincersi, migliorarsi ed elevarsi, dovrebbe essere uno de' principali obbiettivi di quell' auto-educazione cui altri possono indirizzare, ma cui tutti dobbiamo tenerci costantemente applicati con volente desiderio di progresso.

Come dicevo, è stato ed è questo per Valentina il lavoro più difficile; e per aiutarvela, tutte le sere, dopo che ha pregato pel progresso della verità e della giustizia, per la Chiesa e l'Italia, pei suoi, per quelli che errano e quelli che soffrono, e il proprio miglioramento morale, la faccio pregare per quelli che le hanno fatto del bene e quelli che le hanno fatto del male o le sono antipatici. La parola antipatico però è esclusa dal nostro vocabolario. Reminiscenza questa —come tante altre che m'insegnano i miei doveri di educatrice—di un tempo lontano e di quella donna eletta ch'era l'istitutrice mia, spartana nell' educare, sapientemente devota nell' amare.

E pure un gran da fare ho avuto a vincere nella mia allieva quell' altra così comune debolezza dell'amor proprio che vi fa repugnanti a confessare i propri torti. Ma un po'per volta essa s' è andata persuadendo ch' è fare il male che umilia, non il confessarlo—che anzi il confessarlo eleva. E, quantunque le costi, essa ora è spesso la prima ad accusarsi; e s'avvezza così in pari tempo all' umiltà e alla franchezza.

Un altro progresso di lei che noto con intima compiacenza è questo—progresso ch' è forse ad un tempo del cuore, della coscienza e della volontà: dapprima essa si provava ogni tanto a sedurmi ad entrare, com' era stata avvezzata, dai pasticcieri, a farvi quelle odiose mangiate di paste o di dolci. Ora non c' è più pericolo. A volte osservo bensì i suoi occhi che guardano nelle vetrine con desiderio intenso. Ma scommetto che ogni volta essa, per vincer la tentazione, evòca le visite del mattino.…

Anche i suoi gusti sono andati man mano modificandosi. Nel primo tempo essa si fermava di preferenza davanti i negozi di stoffe, di mode e di chincaglie; ora preferirebbe fermarsi davanti a quelle de' librai, dove, pur troppo, devo invece spesso, con qualche pretesto, farle affrettare il passo, o de' negozianti di quadri e d'incisioni, o i gabinetti degli antiquari.—E così va formando il gusto anche per la toilette. Prima sognava vestiti chiassosi, e credeva non si potesse vestir bene e aver l'aria di signora se non spendendo molto e seguendo sempre in tutto la moda. Ora ha capito che le toilettes create unicamente dalla sarta, e da essa imposte, hanno spesso quell' impronta di eleganza arida e anti-estetica che si riscontra in un salotto addobbato esclusivamente dal tappezziere, nel quale non vi sia traccia di una mano di donna artista—toilettes che, colla cieca servilità alla moda, rammentano la livrea e v'infliggono un'aria volgare. E s' è persuasa che molto spesso chi meno spende—quando abbia il gusto educato e sappia fare o dirigere—ha un'impronta molto più fine, ed artistica, e personale; e ciò pel discernimento che mette nel non adottare le foggie ridicole o esagerate o troppo portate, e la serietà, l'indipendenza, la disinvoltura che dimostra nel non affrettarsi a mutare ad ogni minimo cenno della dea, nel dare, con certe piccole cose, alla propria figura un carattere.

E così mi son servita anche di questo per far pensare la mia figliuola e sempre più iniziarla alla pratica della vita, nella quale dobbiamo saper armonizzare il pensiero e il sentimento, lo studio e l'azione, l'ideale e la pratica, e cercare in noi e intorno a noi tutto ciò che può aiutarci lungo la via.—Per questo cerco di educarla alla serietà de' principii e della vita e in pari tempo all' allegria. V'ha della gente che confonde l'allegria colla leggerezza, e la serietà colla musoneria. Nulla di più falso. I caratteri veramente seri per serietà di principii e serietà e sobrietà di vita son quelli che più son capaci d'allegria, vera e serena, quell' allegria che non è il fuoco fatuo de' piaceri, ma la luce interiore che, fra le difficoltà della vita, illumina e vivifica—e in molti casi è senz' altro una virtù.

Perciò faccio la guerra alle lune cui Valentina andrebbe soggetta, la faccio ridere e cantare e ballare, voglio che le sue finestre sieno piene di fiori e d'uccelli, e che in pari tempo ne prenda cura da sè, per avvezzarsi alla pazienza e alle molteplici attività non solo, ma a meritare i conforti col lavoro.—E, anche per questo, tengo ad insegnarle quell' arte preziosa ch' è il sapersi creare risorse dove i volgari non trovano che noia, il bastare a sè stessi il più possibile non solo nelle cose della vita materiale, ma in quelle dello spirito. E questo progresso spirituale di lei si manifesta nel diradarsi de' suoi rimpianti delle passeggiate mondane, nel suo crescente sentimento della natura, dell' arte, delle memorie, nell' imparare ch'essa va facendo ad intender le voci della solitudine.

Finchè la temperatura lo ha permesso abbiamo fatto molti giri artistici. Si vedeva poco al giorno, ma piano, osservando, pensando, confrontando, cercando lo spirito, la parola d'ogni cosa. Mi sta molto a cuore che Valentina impari ad intendere e ad amare il bello —e non si fermi alle linee, all'impressione superficiale che fa i dilettanti, ma l'anima s'avvezzi, oltrechè a educare il gusto, a metterlo d'accordo coi principii e i sentimenti, a sentir le armonie del bello col vero e col buono.

Vorrei abituarla a camminare sempre ad occhi aperti, sia fra le miserie, sia fra le bellezze della terra —pronta ad ammirare e a compatire, ad intendere e ad operare, a rendere il più possibile fecondo ciò che impara e fa. Voglio ch'essa non riesca di quelle anime, per difetto di educazione chiuse in un àmbito stretto, aride e fredde per mancanza di alimento di vita, e tutte esplicanti la loro attività di sentimento e d'opere in una cerchia egoistica e meschina, mute e indifferenti, o timide, per ignoranza, o per ristrettezza d'ideali, dinanzi alla santità delle cose grandi, delle cose belle.

Li 11.—Oggi le ragazze ed io siamo felici perchè, tutte insieme, s'è ottenuto di sostituire la villeggiatura al mare con quella in montagna. Ad Elisa ripugnava l'idea di ricominciar la vita frivola e snervante e di ansiosa aspettativa che soleva fare alle spiaggie eleganti cui solevano recarsi. Valentina era smaniosa di provare le forti emozioni della montagna, delle quali le andavo parlando, e di divenire alpinista. Perciò è stato un vero assedio che entrambe hanno fatto alla madre, la quale in principio non ne voleva sapere, e poi finì con adattarsi, dicendo che da qualche tempo in casa sua tutti van diventando matti.

“Queste figliuole vogliono trascinarmi su per le montagne,” diceva l'altro giorno alla signora Gerioli. “Pensa che idea! Pazienza Valentina—è sempre stata una pazzerella—ma Elisa, non la riconosco più! Una ragazza così tranquilla, così ragionevole, che aveva gusti e aspirazioni così signorili, che s'era fatta così bene alle abitudini moderne, ora è diventata un' originale, va a vedere le antichità come una forestiera, va a passeggiar nelle ville che non s'è neanche mai sentite a nominare, va dai poveri, a rischio di portar a casa qualchecosa, si prende a cuore per gli altri un monte di seccature, quando comando alla servitù o i lavoranti prende le parti di quella gente e vorrebbe insegnare a me; va in chiesa alle ore delle serve; quel che spendeva in tante cosine, sai, di quelle che danno il casset della vera signora moderna, ora invece lo spende in certi libri che fanno sbadigliare solo a leggerne il frontispizio, e discute, come se valesse la pena che noi donne ci si sciupi la bocca a parlar di cose da lasciarle agli uomini. Che diamine, noi donne non abbiamo il dovere di pensare— per piacere agli uomini ci vuol tutt' altro!—E adesso, perchè non bastava, non vuol più saperne di Livorno, vuol andare in montagna, come ti dicevo, in qualche posto da orsi, a perdere il fiato e le gambe e rovinarsi la carnagione su per i grebbani! Vedremo che marito troverà lassù.… Che speri in qualche alpinista? Io per me dichiaro che a me paion tutti matti. Che ci vanno a fare lassù? quando al piano si sta tanto bene e ci si diverte senza incomodarsi.… Il nostro delizioso Pancaldi, eh? e quella vita, e quel brio, e quel sic!

Il discorso era stato fatto nell' angolo della sala opposto a quello nel quale mi trovavo, ma a voce abbastanza alta perchè potessi tutto chiaramente udire. Intesi solo a un dipresso la risposta dell'amica, che mi pareva deplorare, rimpiangere e compiangere. Deve poi aver chiesto notizie di Alberto, perchè la signora Falletti rispose: “Ah! tu sapessi, è un altro mio dolore! Ci tenevamo tanto sicuri che quel figliuolo si sarebbe presto stufato, e pentito della sua stramberia. Invece, cara te, scrive certe lettere da fattore, nelle quali non parla che di campi e di contadini, e di bachi e di bestiame, ch'è una cosa da far inorridire! Pensa, quel fior di giovane, ch'era la nostra gioia vedere come era elegante, e brillante, e festeggiato, pensare come va a perdersi!”—“Peccato, peccato davvero!” ripeteva l'amica scotendo il capo mestamente.

“Queste cose,” seguitava la signora Falletti, “le sento più che altro da Elisa, perchè, sapendo che lo disapproviamo, a noi genitori egli scrive poco. Si sfoga invece con lei, chè, pare impossibile, dopo che han loro guastato il capo si vogliono più bene, hanno fatto tra loro una gran combriccola. E bisogna sentire che tirate lui le scrive di novità che vuol fare sulle sue terre, che idee da poeta quando parla dei villani! Crede che sieno gente da trattar colle buone—s'illude che lo ascoltino e gli vogliano bene, povero ragazzo. Se n'accorgerà, se n'accorgerà!”

L'amica fece all'amica un'eco sommessa e convinta, e la signora Falletti seguitò: “Ma il peggio si è che mi va scaldando la testa ad Elisa con delle cose incredibili. Figurati che le dice che adosso comincia a desiderare la famiglia e che non tarderà molto a prender moglie; e che fintanto son celibi tutti due dovrebbe andar lei a tenergli compagnia e aiutarlo a mettere in esecuzione i suoi progetti. E quella sciocca è tutta esaltata da quest' idea e mi tormenta per questo ogni giorno. Pensa, si può essere più irragionevoli? Lasciar la vita della capitale per andarsi a inselvatichire in mezzo ai campi e a rincretinir coi villani!”

Li 12.—Le cose che la signora Falletti ha narrate ieri alla sua amica a proposito di Alberto sono, a grande conforto dell' animo mio, tutte vere, e perciò v'ha, necessariamente, anche di più: v'ha tutta quella evoluzione morale che le ha cagionate e ne va a sua volta ricevendo forza sempre maggiore.—Elisa mi legge tutte le lettere di suo fratello—e traverso queste seguo l'influenza benefica che l'ideale, il lavoro, la vita dei campi esercitano su quel giovane, nell'anima e nel corpo. Lui ch'era così molle, così pigro, così delicato, che temeva il sole, il vento e la pioggia, ora s' alza presto, e dura per ore ed ore sui campi, sotto il sole, nell' afa di quelle bassure. Lui che aveva gusti e schifiltosità aristocratiche, scrive ora di certi lavori che fa, anche manuali, per provare ed imparare da sè ogni cosa.

I suoi pregiudizi contro quella gente, come lui pure chiamava il popolo, si son mutati in un serio amore che riconosce il buono e le cause del cattivo, e a questo cerca i rimedi. Egli non parla quasi più delle sofferenze fisiche che lamentava qui—pare si vadano dileguando insieme coi malsani desiderii, il tedio doloroso, lo scettico sorriso—si vadano dileguando al sole che mancava al corpo ed all'anima suoi.

Per quanti giovani che vado incontrando sulla mia via bramo quel sole.… quel sole che non sarebbe sempre necessario—guai altrimenti—di andar a cercare ne'campi. Esso, se questo triste ambiente non fosse gravato di tante nebbie di scetticismi e di egoismi corruttori, disfacitori, brillerebbe dovunque, nelle coscienze integre, ne'cuori amanti e giovani, nelle menti incorrotte, che cercano il progresso vero, e non rincorrono larve sfuggenti e traditrici.

Li 14.—Oggi che Valentina era invitata dai Maren, andai a fare una visita a una signora conoscente mia, che abita al Lungo Tevere Mellini e che da quando mi trovo in questa casa non avevo più vista. Mentre uscivo, passava per piazza di Spagna un reggimento colla banda; e, invece di dirigermi a Ripetta, seguii come un monello, pel Babuino e piazza del Popolo e il ponte Margherita, una marcia robusta e marziale. E andavo innanzi come smemorata, quasi senza vedere intorno a me, portata da una fiera ebbrezza dell' anima. Quando la musica, con gagliarde armonie, parla alle parti più profonde dell' animo nostro, come par di salire, liberi e forti, oltre la polvere delle nostre miserie!

Ma, pur troppo, viene il momento in cui la musica tace. E con qual senso di vuoto l'anima allora si sente ripiegare in sè stessa, come una vela cui va mancando il vento.… Eppure conviene rialzarla, risospingerla, anche quando la stanchezza e lo sconforto vi prendono. —È il gran dovere della vita, e il gran segreto de'fecondi ideali.

Il salotto, tenuto in una malinconica penombra, era pregno di un odore misto di bulgaro, di fraesie e di sigaretta. Quando le mie pupille si furono dilatate vidi intorno a me un bizzarro arruffio di mobili mollemente eleganti, di scialbe stoffe antiche drappeggiate con artistica negligenza, di paraventi cinesi che riparavano divani bassi e vis-à-vis invitanti, lampade posate in terra, alte come colonne, coperte da paralume di trina, pallidi e leggeri, fra casse nuziali intagliate in istile del cinquecento, e bauli antichi dai quali si staccavano, accartocciandosi, certi cuoi di Germania che mi facevano commettere de'peccati d'invidia.

Sulle pareti erano quadri che distinguevo male— meno una testa di vecchio, una testa calda e viva, maravigliosamente vera, che rammentava il fare del Bronzino, e su cui batteva un esile raggio di sole nel quale ballavano gli atomi—un paesaggio dalle tinte malinconiche, pieno di un intimo sentimento della natura, che quasi pareva un Ruysdaël—e una figura tizianesca di donna seminuda la quale, mollemente riversata fra cuscini cremisi, guardava, con un sorriso sensuale, da un cavalletto vicino la finestra, in faccia a una Madonna del trecento che, collo sguardo intenso alla giottesca, mirava il Bambino, quasi nascosto dalla pesante tenda di damasco.

Lunghe foglic di muse e di formium, palme leggiere di aralie e di phoenix uscivano da grandi vasi del Giappone; bronzi di scavo spiccavano su fondi di pallido velluto ondeggiante—bianche figurine vieux Sare civettavano qua e là su mensoline sparse per le pareti, fra piatti di Sèvres, e tamburelli gai, e grandi mazzi Mackart, con lunghe tife uscenti d'infra i gynerium, e vecchi ritratti in miniatura, dai costumi del settecento, e ventagli istoriati, e ninnoli moderni lillipuziani.

In un angolo, sotto una fosca lanterna veneziana, erano, su bassi sgabelli turchi, cofanetti di ebano intarsiati in madreperla, avori artistici ingialliti dal tempo, pugnali maravigliosamente damaschinati, fra ciarpe fruste e vecchi liuti, che facevano pensare a misteri di tragici amori orientali.

In uno scaffalino portatile erano alcune edizioni antiche—fra le quali un Aldo che recava nel testo stemmi di famiglie patrizie venete delle quali narrava i fasti, e un vesperale deliziosamente miniato nella più pura maniera del quattrocento, accanto al quale, buttato là come uno strambo anacronismo, era un gaio volume di Lorenzo Stecchetti.

Così non mi dolsi dei quattordici minuti durante i quali ebbi ad aspettare la signora.—Essa comparve in una veste da camera di surah bianco e saumon, elegantissima; e, con una certa posa di negligenza, s'era lasciata andare sur una poltrona bassa. La coda arrivava, con una curva graziosa, fin quasi a mezzo il salotto, e due gran maniche à la juge, dalle quali, fra lunge trine, uscivano due avambracci degni d'una statua greca, posavano sui molli bracciali senz'angoli.

La signora, dopo aver acceso la sua sigaretta, cominciò con parlare di alcuni fatti più o meno piccanti della cronaca mondana di questi giorni. Ma lo faceva svogliatamente, quasi distrattamente; e negli occhi ombrati dal bistre, e sulle labbra rosse di carminio vedevo segni come di un dolore che rode.

La pena che, sia pure in un essere che non inspira simpatia, desta la sofferenza umana, mi fece cercar la via per arrivare a quel dolore contro il quale, evidentemente, la fatuità e i piaceri lottavano invano. È una triste storia di tutti i giorni ormai.… Un suo figliuolo di sedici anni, unico e idolatrato, si va sciupando già, e i genitori che, fin dalla sua infanzia, l'hanno educato all'egoismo e a tutti i capricci di questo, e poi l'hanno lasciato indifeso, fra gli scetticismi della scuola e la precoce corruzione de'compagni, nulla più possono sopra di lui.

La signora aveva buttato via il resto della sigaretta, e pareva aver ritrovato nell' angoscia di madre quella serietà che manca alla donna. Ma era un tardo e scoraggito rimpianto—e l'abbandono delle belle membra fra la seta e le trine pareva essersi fatto più pesante. “E sì che s'è tentato tutto,” diceva. “Quest'anno lo abbiamo fatto studiare in casa, con professori dai quali non poteva imparar che le migliori massime di morale. Abbiamo invigilato perchè non frequentasse certi amici, perchè non andasse in certi luoghi; gli abbiamo fatto leggere libri moralissimi.… Ma poco s'è guadagnato. Il ragazzo non è cattivo, si vede che vorrebbe emendarsi, ma che non può, non ne ha la forza. Ormai non ispero più nulla.” La signora tacque, e nei grandi occhi neri passò un dolore sconsolato intorno al quale tutta quella eleganza gaia pareva mettere come un sorriso ironico.

“Lei ha parlato di morale,” dissi; “la morale è cosa sublime—tanto sublime che la nostra povera natura ben di rado ci arriva da sola, e anche più di rado ci si mantiene. Se per ascendere ad essa non cerchiamo di appoggiarci a ciò che n'è la base e il sostegno, torneremo sempre a rasentar la polvere, se non il fango—specie quando ci gravi l'abitudine.”

“Ah! capisco,” rispose, “la religione! Ebbene, non creda ch'io l'abbia trascurata; mio figlio è sempre venuto a Messa con me.”—“La Messa?” dissi, “ma sa egli neanche che cosa sia la Messa?”—“Quando faceva le elementari è stato istruito nel catechismo; e lo ha imparato tutto.” Non seppi reprimere un sorriso. “Può bastare il catechismo,” chiesi, “imparato e non capito da fanciulli, a scortare l'uomo nella vita, nel mondo, fra tanti scogli di passioni e di opposte dottrine?”—“Infatti,” rispose la signora, “il mio Renato mi fa spesso delle obiezioni e delle domande che m'imbarazzano.… E io non so rispondere che con le risposte del catechismo. Quelle che non ho dimenticate,” aggiunse con un frivolo sorriso. “Ora questi ragazzi studiano troppo.”

“Non è che studino troppo,” risposi, “è che studiano male, o, dirò meglio, che sono male istruiti e indirizzati. La coalizione delle impazienze scientifiche colle passioni fa strage dei principii messi in un'anima bambina, per la quale, mentre va crescendo, l'istruzione religiosa non è cresciuta in proporzione, ha anzi completamente abdicato, lasciando libero il campo ad ogni libertinaggio del pensiero della vita.”

“Ma come fare?” disse. “Il clero s'è reso, specie quaggiù, troppo inviso pei suoi torti.” Risposi che bastava volere, e saper cercare e scegliere—che io, che pure da poco tempo mi trovo in Roma, conosco già parecchi sacerdoti, anche qui, che stimo ed ammiro. “In questo caso,” essa rispose, “saran mosche bianche.” —Le chiesi se s'era mai dato la pena di verificare codesto. Rispose che no, che coi preti aveva sempre bazzicato poco. E accentuò i preti con un certo che di disprezzo.

“Dire i preti,” risposi, “è come dire le donne; e come noi ci offendiamo dell'ingiustizia di chi ci mette a mazzo, avrebbero diritto di offendersi i preti di chi non distingue fra loro. In ogni classe, in ogni istituzione umana, penetra guasto di passioni; e non credo,” aggiunsi, “che neanche nel partito nostro ella troverà tutto alto e tutto puro.…” La signora arrossì sotto il belletto, e non rispose.

“S'ella acconsente,” ripresi poi, “io potrei farle conoscere un sacerdote che saprebbe essere pel suo figliuolo un maestro, che al giovinetto cui s'insegna a cercare il vero da un lato solo e si scalza la base della morale, dia le risposte ch'ella dice di non saper dare. Un sacerdote che sarebbe per lui anche un amico—quell' intimo amico dell' anima, che ha imparato a curarne le piaghe.”

“Ah! la confessione!” disse la signora perplessa; “temo che il mio Renato non ci si adatterebbe più.”

Risposi che ciò cui, parlando del suo figliuolo, essa m'aveva accennato doveva necessariamente rendervelo repugnante; ma che un buon sacerdote sa ben aiutare a superar quel primo momento che si risolve in un conforto e una sorgente di forza de'quali solo la religione nostra ha il segreto. Le dissi che uomini della scienza, non cattolici, nè credenti, ebbero ad ammettere esser l'istituzione della confessione non solo frutto di un'intima conoscenza del cuore umano, ma, specie per certe miserie, e ove non sia troppo infrequente, nè superficialmente fatta, il rimedio più efficace, il solo efficace; e che sapevo di genitori e di educatori protestanti, ai quali nemmeno una profonda religiosità inspirata ai giovani bastava ad ottenere ciò che, quando il confessore sia degno, e chi si confessa sia leale e volente, ottiene la confessione.

L'altra, rispondendo senza rispondere, obiettava con quei confessori che fanno più male che bene. “Che ve ne sono è vero, pur troppo,” dissi; “non tanto nell' alta Italia, dove la grande maggioranza del clero è, per l'onestà della vita, all'altezza della sua missione, e buona parte di esso anche per la carità e la dottrina, quanto in queste provincie meridionali nelle quali è dolorosamente frequente l'incontro d'indegni e d'inetti.—Ma perchè taluni si son rovinati nelle scuole, o coi cattivi compagni, o con cattive letture, dovremo chiudere le scuole, tenerli nella solitudine e nell' ignoranza? Non dovremo piuttosto scegliere e invigilare? E perchè molti medici non sono buoni e valenti non ricorreremo ad alcun medico? O non ci diamo piuttosto molta pena per sceglierlo questo medico del corpo? E non dovremo darcene tanto più per scegliere quello dell' anima, che, spesso, diviene indirettamente —come sarebbe nel caso del figlio suo —quello pure del corpo?”

La signora pareva imbarazzata. “Sapesse,” disse, “ci son tante cose.… Se si vivesse in campagna.… se si potesse far tutto ciò che si vuole.…” S'interruppe come pentita—ma era troppo tardi; il rispetto umano, evidentemente, non era l'ultima delle difficoltà che que' genitori, come tanti altri, incontravano nell' educazione del loro figliuolo. “Chi potrà impedire,” risposi, “un padre e una madre di provvedere come meglio credono al bene de'loro figli? Sarebbe questa la libertà della cui conquista tanto esultiamo?”

“Ma è,” rispose, “che coloro son considerati come i nemici delle istituzioni.…”—“Già,” dissi; “la frase obbligata dei discorsi politici e dei giornali.—V'ha bensì nel così detto clericalismo una corrente fatale che minaccia le nostre istituzioni—non per le sue ambizioni anti-cristiane e impotenti, ma pel gran danno che reca alla religione, senza la quale nessuno Stato regge a lungo, tanto è necessaria alla società.—Ma noi vorremo, per altre vie, aiutare il clericalismo in questo lavoro di demolizione? E ad un pregiudizio fatto di confusione fra il partito politico e i principii cristiani, e, forse più ancora, di rispetti umani, sacrificheremmo i nostri figliuoli e, con essi, quella povera patria nel cui nome tanto declamiamo e per la quale tanto poco sacrifichiamo, tanto poco facciamo di buono? e a cagione degli errori e dei torti d'una parte, sia pur grande, del clero, respingeremo o trascureremo i grandi principii che soli insegnano a vivere?”

La signora pareva persuasa e inquieta ad un tempo. Forse la povera donna in quel momento più ancora che al suo figliuolo pensava a sè stessa. Seppure una certa cronaca che circola sul conto suo è falsa, essa, evidentemente, è lungi da serietà di vita—e non era certo al suo giovinetto solo che la legge cristiana poteva parere severa.

In quel mentre un cameriere annunziò che la carrozza era pronta. Essa non deve essere stata annoiata dal mio argomento quanto io temeva, giacchè mi offerse di accompagnarla a villa Pamphily. Accettai.— Mentre essa si preparava per uscire pensai che avevo, fino allora, parlato solo alla sua mente; temetti d'essere, per la necessità di ribattere volgari pregiudizi, salita un po'in cattedra. Temetti anche di averla involontariamente umiliata, di non averle fatto sentire ancora nulla della carità di quella religione per la quale avevo perorato. La toilette frivola, il belletto, la vita di essa non mi pareva mi autorizzassero a far mia la massima di un filosofo materialista, che cioè «la pietà è cosa indegna del saggio», e preferivo rammentare quel sacerdote di cui narra Edward Irving, che avea tolto uno sciagurato alla colpa e alla disperazione con queste sole parole: «Dio vi ama.» Perciò con desiderio aspettavo di ritrovarmi con essa.

Ma avevamo traversato i Prati, la città leonina, e s'era, pel gran viale di villa Corsini, arrivate alla sommità del Gianicolo ed entrate nella villa Pamphily, che poche parole ancora s'erano scambiate; parole indifferenti, che non erano l'espressione dei pensieri che movevano le anime nostre.

Mi parve che la solitudine e la pace del luogo dicessero qualchecosa all'anima della mia compagna perchè poco dopo si rivolse a guardarmi—e ne'suoi occhi era splendore e tristezza di lagrime, che sembravano dire e chiedere.… Ed io allora, prendendo fra le mie una delle sue mani, mi feci a parlarle di Quello che, traverso le passioni de'secoli e nostre, ci ripete: Venite a me—e parlò del lieve peso del giogo suo, così diverso da quello che la vita infligge a chi sta all'infuori della sua legge di vita e d'amore; di Quello che, fra le miserie della terra, è venuto a recare la buona novella—quella novella che ei apre gli orizzonti luminosi della fede, i campi benedetti della carità—la novella del perdono e della riabilitazione, della grazia che aiuta, dell' amore che purifica e redime.

“E mentre il mondo,” seguitai, “dopo aver declamato splendide teorie senza base, corrompe, rovina, e non sa rimediare, cerchiamo, per noi e pei nostri, un rimedio e un aiuto non solo nei grandi ideali della fede, ma, più praticamente, in ciò che, traverso le colpe, gli errori e i dolori delle generazioni, rimane come un rifugio dove la coscienza umiliandosi si risolleva, il cuore agitato e fiacco si calma e si ritempra, lo spirito incerto si rasserena e si rinfranca in una luce che sorge dall' intimo fondo dell' anima che si rinnova, e ascolta la parola, sapiente di carità, feconda di pace e di forza, che i degni ministri di Cristo dicono ad essa.… Troppo ne conosco la virtù educatrice, dal mondo inavvertita, troppo, in me stessa, no ho sperimentata e ne sperimento la possente influenza, per potere, dinanzi a difficoltà e lotte della vita, non parlar di codesto.…”

Il sole era prossimo al tramonto, e una luce d'oro inondava la campagna immensa, di là dai grandi alberi solenni. Qualche carrozza passava rapidamente accanto a noi che andavamo al passo, tacendo in quel silenzio. E il radioso riflesso del tramonto illuminava traverso il finestrino la bella figura di lei, abbandonata nel fondo della carrozza, e gli occhi che parevano fissi in un pensiero.…

A un certo punto la mano ch'io tenevo strinse nervosamente la mia. Io ripresi: “Lasci lasci che altri, corrotti od illusi, declamino in nome della patria e delle istituzioni; malgrado una deplorevole riserva cui fa triste riscontro il nostro combattere non solamente un partito politico, non solamente la religione cattolica e i suoi ministri, ma i grandi ideali dello spirito—riserva che lega anche tanti sacerdoti che sarebbero felici di trovarsene liberati e dalla quale parecchi fin d'ora, con magnanima abnegazione, si sciolgono,—malgrado essa, dico, ben pochi nell'altro campo—siamo giusti e franchi una volta—fanno alla patria e alle istituzioni il male che vien loro fatto nel nostro. E quanti invece, sacerdoti, e frati, e suore, e donne pietose, non prendono a raccogliere i caduti del nostro campo, a curarne le piaghe, a salvar tenere piantine dai miasmi della corruzione che serpeggia fra le rovine d'ogni fede e d'ogni ideale, d'ogni guida e d'ogni freno.…”

“Ah! signora,” seguitai, “fu un tempo della mia prima giovinezza nel quale avrei declamato anch' io: è il vezzo degli illusi, dei non pratici—un tempo nel quale credetti perciò amar la patria e il prossimo.… Più m'inoltro nella vita, più vedo e più sento, più mi persuado che libertà, progresso, moralità son vuote parole dove le anime rimangano terra terra, schiave delle passioni, e il progresso morale non accompagni il materiale, e la moralità non sia inculcata più efficacemente che non possano fredde massime, senza aiuto di divini ideali e di quelle pratiche delle quali ha bisogno l'umana natura, non ne'campi fatui dell' utopia, ma nella vita reale.…”

Nello sguardo triste della signora si accentuò un'espressione di sgomento, come avessi messo la mano nella sua piaga.… Sempre più vedevo che non mancava la persuasione, ma il coraggio. Perciò seguitai: “E comincia a sentirlo questo povero mondo. E molti illusi si ricredono, ed altri, che ignoravano, vanno studiando, e non pochi, che seguitano a declamare in pubblico, agiscono in privato molto diversamente, o, per lo meno, diversamente indirizzano i loro figliuoli. —Ma se in molti va scalzandosi il pregiudizio, rimane il rispetto umano, e la paura di pregiudicarsi, sotto la larvata tirannia d'ipocriti, i quali ingannano l'umanità che affermano di amare.…” La signora ebbe un guizzo, come se qualchecosa, in quella sua piaga, avesse punto. “Rimangono, soprattutto, le passioni, che vogliono per sè la libertà che contendono all'anima.… Aiutiamoli dunque noi, signora, cercando i rimedi veri, e incoraggiando, col ricercarla, quella parte di clero che altamente e largamente, e senza preoccupazioni di parte, intende la sua missione. Grande è la potenza dell'esempio, e tanti che non hanno osato farsi innanzi, sapranno almeno seguirci.”

Il sole era sparito dietro la gran cupola, che pareva sorger sola nel deserto—l'orizzonte di fiamma s'andava assottigliando, e l'orlo ranciato si fondeva col verdognolo che moriva nell' azzurro pallido. Qualche uccello chiacchierava ne'rami, sul nostro capo. Solo di lontano s'udiva ancora qualche rara carrozza scorrere pei viali. L'ombra cresceva sotto gli alberi, l'aria s'andava facendo umida, la nebbia si stendeva sulla campagna, lontano.

Uscimmo dalla villa, passando dinanzi alle rovine del Vascello, sotto la porta San Pancrazio, tra quel casino dei Quattro Venti e quella villa Corsini, che, nel giugno 1849, videro cadere, sotto il piombo straniero, fiore di giovinezza che un puro ideale avea sacrati alla morte.—E ripensai alla narrazione che Emilio Dandolo, nel suo volume de'Volontari lombardi, fece di quelle pugne gagliarde e della morte di que' prodi, Enrico Dandolo, Emilio Morosini e l'intrepido loro capo, Luciano Manara: morte francamente cattolica, sotto la divisa della rivoluzione, e in faccia alle breccie delle mura di Roma.

Li 15.—Era qualche tempo che notavo nei signori Falletti una certa inquietudine e un certo accenno a un mutamento d'abitudini. Poi, d'un tratto, si vide tornare la tranquillità, si notò anzi un rincarare in certe fastosità di vita e nella boriosità de'discorsi della signora. Ed ora ho saputo che s'era trattato dapprima di qualche pericolo, in conseguenza di quel recente grave imbroglio, cui tempo fa ho accennato, e nel quale il commendatore fu aiutato dal senatore Baretti e dal eav. Spelli; pericolo che poi, come alquanto spesso accade ai ladri all'ingrosso, era stato, non so con quale manovra, scongiurato.

Ieri il commesso del comm. Falletti è stato condannato a due anni di carcere.

Li 16.—È fissato che partiremo ai primi di luglio e che andremo in Cadore. Il commendatore non verrà—rimarrà, come suole, a badare agli affari e più tardi andrà fuori per conto suo. La signora, che si adattava così a malincuore all' idea di andare in montagna, ora ci si è addomesticata, perchè, a forza di parlarne a tutti per lamentarsene, ha capito che ora anche la montagna è di moda; ma deplora di perder così l'occasione di sfoggiare toilettes d'estate. “Non e'è proprio sugo,” diceva l'altra sera; “per le toilettes d'estate non c'è più posto. A Roma l'estate c'è poca gente, e poi non è chie di far visite in questa stagione; ai bagni non si va più.… Per cui che cosa rimane?”

“Rimarranno alcune migliaia di lire di più in tasca ai mariti e padri,” osservò il commendatore, alzando un poco gli occhi dal suo giornale. “Oh! pei mariti e padri che hanno le tasche ben fornite come le tue, Felice,” disse tutta gonfia la signora, “poco importa!” —“Sarebbe bene,” saltò a dire Valentina, “che quei quattrini, se non vanno in toilettes, non istessero neanche nelle tasche tanto ben fornite!”

In Cadore! mi par ancora di sognare, tanta è l'emozione dell'anima mia. Il progetto è di andarvi pel Trentino e il Pusterthal, e di tornare pel Veneto. Rivedrò le mie Alpi grandi, rivedrò i paesi della mia giovinezza! Ma con quali ricordi, quali vuoti.… Il mio cuore esulta e paventa.

Li 18.—Stasera abbasso gran discussione a proposito di un nuovo lavoro drammatico che ha avuto iersera al Valle un successone. A quanto ne intesi, è uno dei soliti drammi a base d'adulterio, colle solite scene eccitanti, le solite morbosità passionali, come dice il vocabolario della vita e della letteratura odierni, drammi che avvezzano le attrici ad una specie di prostituzione alla platea.

E sempre. sempre codesto! E il teatro è ancora il meno male. Non si può più guardare nè una tabella d'affissi, nè nella vetrina d'un libraio, nè la mostra d'un giornalaio, nè sur un banchetto di stazione ferroviaria o di un venditore girovago—dove i giovinetti, i fanciulli e le fanciulle si fermano, con tanto d'occhi, a guardare e imparare.…—senza vedere avvisi, titoli, copertine, illustrazioni. caricature, dove tutto, anche le réclames di opere scientifiche o di prodotti industriali, o le allegorie politiche, assume concetti e forme pornografici —nè si può più, nella maggior parte dei giornali, legger la cronaca, nè l'appendice, nè guardare la quarta pagina, senza trovar la solita solfa, a un soldo al giorno! E coloro che reggono le sorti del paese non vedono o non pensano—oh! davvero non pensano!…

Avrei voluto stringer le mani, tempo fa, ad Enrico Nencioni, per un suo articolo ch'era nella Nuova Antologia, sul romanzo moderno, e dove, a proposito di codesto, era una frase che io, donna, non posso permettermi di ripetere, ma che nella sua crudezza è bella come la risposta vera di Cambronne.

Ma fate, fate voi quel che vi piace, gavazzate pure in quel fango ch'è l'ideale vostro—ma, almeno, risparmiate altrui la nausea di vedersi sempre sotto agli occhi le analisi delle vostre sensazioni! Non è solamente perchè ciò che da voi emana è immorale, dannoso, vergognoso—è anche perchè fa schifo, perchè puzza, perchè fa dar di stomaco alla gente che non si diletta a guardare e fiutar le immondezze, e sa metter l'amore un po'più in su di dove voi lo mettete.

Voi parlate di vero.… Come se di vero a questo mondo non ci fosse che codesto—come se noi d'altra facoltà che di codesta, sacra nel suo scopo, e dalle passioni che voi carezzate e fomentate fatta brutale, non fossimo forniti! Parlate di amore dell' analisi e dell' arte.… Come se l'analisi e l'arte descrittiva non avessero altri campi—come se fossimo divenuti così miserabili da dover essere la nostra psicologia ridotta allo studio de'turpi raffinamenti dell' animalità!

Ah! siamo ristucchi, noi onesti, noi puliti, noi che pensiamo ed amiamo, di quel vostro eterno ritornello della carne, messa in tutte le salse! E, soprattutto, ci fa gridar di dolore il vedere la lue che, autori e editori e rivenditori, senza coscienza nè pietà, inoculate in questa povera gioventù, nella quale sempre maggiore si fa il numero degli sfiaccolati, dei malati nel corpo e nello spirito.… Ma assai vi cale di essa! A voi, autori, basta soddisfare, oltrechè col fatto, colle morbose immaginazioni de'ricordi, i vostri vizi, a voi, autori, editori e rivenditori, basta, lusingando e solleticando le passioni altrui, far quattrini—quattrini che dovrebbero scottarvi le mani, pesarvi sulla coscienza anche più di quelli che aveste rubati: sì, è più colpevole fare altrui un danno morale e fisico che alleggerirgli le tasche.

Per quanto mi sdegnino e addolorino, e misuri tutto il danno che recano, gli scrittori avversi alla religione, sento verso di essi il dovere della tolleranza: chè negli errori dello spirito si può ammettere la buona fede, il fanatismo scientifico. Ma per voi, sacerdoti della carne, non v'ha scusa nè attenuante che valga.… Credo che verso i primi Cristo userebbe della sua grande mansuetudine —credo ch'egli la userebbe soprattutto verso ogni caduto per debolezza—ma che verso di voi, turpi mezzani, prostitutori dell' ingegno e dell' arte, avvelenatori della gioventù, snervatori della patria, Egli, e a ben maggior dritto, userebbe de'flagelli coi quali scacciò chi del tempio faceva bottega!

Li 19.—Una gioconda notizia ha messo in moto tutti gli amici di casa Falletti: il commendatore, in premio di una elargizione a scopo di beneficenza, è stato fatto barone.

La gioia della signora è al colmo—tanto più che sa da fonte sicura, essa dice, che fra non molto seguirà la nomina a senatore. Il suo scilinguagnolo s'è fatto anche più sciolto, e più stridula la sua voce.—La soddisfazione del commendatore mi par meno serena di quella della consorte. Infatti, la gli è costata non poco.

Anche ad Elisa la compiacenza del titolo che, evidentemente e, diciamolo, naturalmente, non le dispiace, è amareggiata—ma per ragioni molto diverse da quella del padre.—Alberto scrisse dai suoi campi che non intende di adottarlo, perchè la nobiltà sua conta di procurarsela da sè.—Valentina, elettrizzata dalla ressa di questi giorni e dai sorrisi cerimoniosi, asserisce che i titoli sono una gran bella cosa, giacchè pare che tutti vi vogliano più bene.

Li 21.—La signora Falletti ha ricevuto da una sua sorella, che villeggia su quel di Varese e cui aveva scritto brontolando pel progetto della montagna, un invito a recarsi da lei mentre le figliuole andranno a cavarsi i loro gusti matti. Essa lo accettò come una liberazione, e oggi mi annunziò che affiderà a me le sue figliuole. “Giacchè in questa casa è avvenuta la rivoluzione,” mi disse bruscamente, “e non c'è più ordine nè quiete, e a ciascuno saltano in capo idee dell' altro mondo, e non si riesce più a far ascoltare un po'di buon senso, tant'è, finiscano di emanciparsi, e vadano loro tre. Così lei potrà cavarsi la voglia di dirigere e comandare. Poi, sento che Alberto scrive ad Elisa che s'è inteso con suo fratello per venire insieme in Cadore; per cui avranno anche due cavalieri. E si divertano!”

Avrei buttato le braccia al collo alla signora Falletti per tutte le liete notizie che mi dava.—E Gino, cattivo, che non mi scrive nulla del suo bel progetto! Vorrà farmi un'improvvisata. Ma le improvvisate sono a benefizio di chi si procura la gioia di farle, non di chi vien privato di quella lunga, intima, crescente, dell' aspettativa.…

Li 22.—Siamo balzate dianzi dalla seggiola, Valentina ed io, perchè passava la banda militare. Guai se vedessi la mia figliuola rimanere impassibile quando passa un reggimento colla banda e la bandiera! Fosse pure per zelo di studiare, andrei là a scuoterla e a dirle: “Di che cosa sei fatta?” Sarebbe come se mi trovassi di fronte ad un giovane che non ha mai, per un'idea generosa, commesso un'imprudenza: mi darebbe la nausea.

Credo che una delle principali preoccupazioni dell' educatore debba essere di metter nell' allievo il seme de'fecondi entusiasmi—vale a dire quella fede ch'è il gran segreto d'ogni umana energia, e, da quella base unica ch'è la fede in Dio, senza la quale tutte le altre son senza principio e senza fine, si espande in quelle varie fedi che sono gl'ideali dell' anima e i moventi di essa; fedi, ideali, entusiasmi, che nè l'età nè i disinganni possono far svanire. Quando sento qualcuno parlare degli ideali e degli entusiasmi dileguati per l'esperienza della vita penso che, non l'esperienza della vita, ma il guasto delle passioni avrà, in quell' anima, dissolto qualchecosa.…

E per questo non basta seminar le fedi e i principii —convien temprare i caratteri in modo che possano sostenere indomiti l'urto della vita. E per indomiti non intendo impeccabili: vi può essere energia molto maggiore in chi si rialza che in chi non è caduto mai. La virtù non consiste tanto nell' innocenza, come nella forza di reazione contro quegli scoraggiamenti della coscienza che persuadono alle sistematiche transazioni col male.

Ed è per questo che odio come la maggiore delle vigliaccherie dello spirito quella negazione del libero arbitrio che rivela non solo la debolezza di quelli che la propugnano, ma la poca delicatezza della loro coscienza, il nessun loro amore all'umanità e alla patria. Se abbiamo la sventura e la vergogna di un simile immorale e demoralizzante convincimento, almeno teniamolo per noi! Non abbiamo d'intorno abbastanza fiacchezza, non v'ha in questo povero mondo abbastanza ribollimento di passioni, senza che cerchiamo di legittimare le debolezze e le colpe nostre abbassando, cogli ideali, le facoltà e i doveri dell' uomo? Perchè v'hanno delle condizioni fisiche o fisiche-morali che a volte, momentaneamente o per sempre, tolgono o limitano le libertà dell' arbitrio, si dovrà queste dolorose anomalie generalizzarle, e, persuadendo l'uomo della sua impotenza di fronte al male, vale a dire rendendolo davvero quasi impotente, creare in esso un nuovo e più tremendo elemento di debolezza? Si dovrà rimpicciolire così non solo l'uomo, ma la scienza?

Si proclama tant'alto da quelli stessi la libertà del pensiero; ma che povera libertà dev'essere nel pensiero di chi sente l'anima propria fatalmente schiava? Non libertà ma libertinaggio di pensiero è ciò cui menano le teorie di codesti filosofi che trascurano le grandi sintesi, l'ordine e le relazioni universali, le cause e le ragioni ultime delle cose. Chè, per la confusione tra libertà umana e ribellione a quelle grandi rivelazioni divine che fanno la natura, l'anima, la storia (la storia che non consista, come quella di certi esegeti, in cavilli su alcuni testi, o di certi storici, in vedute parziali, meschine e ingiuste), s'è creato dio e tiranno il pregiudizio che travia l'umanità in ricerche affannose perchè da nessuna luce divina rischiarate, e al posto della libertà de'giusti si crea la schiavitù di quelle passioni che sono il gran movente, non delle ribellioni generose, ma delle ribellioni egoistiche e disordinate.

Chi dice la fede e la ragione correr vie opposte— come, tempo fa, udii declamare da un reboante oratore che ad ogni parola sonora faceva andare in visibilio una sala gremita di ragazzi—non merita il nome di filosofo nè di pensatore: chè, come dice lo stesso Locke, «la materia della fede è al disopra dell'umana ragione, non ad essa opposta.» La ragione dà i motivi della fede—la ragione di coloro che non li vedono, e non sentono la necessità e la grandezza del mistero, è ragione meschina, volgare, terra terra, che non potrà educare che generazioni senza principii nè carattere, generazioni pronte ad ogni rovina morale e materiale.

Chi pretende essere liberale nella scienza e nella politica e in pari tempo afferma teorie che, negandole, realmente diminuiscono—diminuendo l'umana energia—l'umana libertà, offende e profana la santa idea di libertà. Nessuna libertà, nè di pensiero nè d'azione, è possibile dove manchi quella libertà interiore ch'è frutto di dominio sulle passioni e che solo può venirci da una robusta fede nell' altezza della nostra origine, dei nostri destini e dei nostri doveri— come nessuna libertà politica può mantenersi a lungo senza quelle virtù intime e civili che fanno rispettare e obbedire le leggi, della libertà tutrici. Sì, obbedire: chè libertà è obbedienza di tutti a un principio di verità e di giustizia—mentre le ribellioni che voi chiamate libertà e son licenza menano l'umanità a obbedire alle passioni. La vostra è perciò obbedienza di schiavi, la nostra è obbedienza di liberi.

Liberi fino ad un certo punto, pur troppo—chè fintanto saremo su questa povera terra seguiteremo a sentirci gravati da tutte le sue tentazioni, da tutte le nostre miserie. Ma almeno è vita di ribellione costante la nostra, vita di aspirazione a quell' indefinito progresso che gli alti ideali mettono nel cuore, a quella verità che, secondo dice Giovanni, ci farà liberi. La morale nostra, umile ed ambiziosa ad un tempo, ci vieta quelle negazioni orgogliose che non vengono da progresso dello spirito, ma da ricerche, più che da amore, inspirate da vanità, e, spesso, più che rischiarate da vero lume di scienza, son dirette dalle ribellioni della coscienza al dovere—e in pari tempo ci addita altissimi ideali e ci offre, ad avvicinarci ad essi, aiuti possenti—possenti sulla coscienza, sullo spirito, sul cuore, e su quella facoltà che da tutto codesto è mossa, la volontà.

Poche bestemmie storiche, io credo, fra quante ne furono dette o scritte dacchè le umane passioni fan guerra alla verità e alla giustizia, son più ciecamente vili di quella che, parecchi anni addietro, scrisse un poeta al cui splendido talento sarebbe spettato di meglio insegnare alla gioventù italiana la storia e di additarle migliori ideali; la bestemmia che osava—e si reputava, quel poeta, campione di democrazia!—denominar con parole di dileggio Cristo e la croce di redenzione che l'Apostolo della libertà, della giustizia e dell' umana eguaglianza avrebbe, secondo lui «buttato sulle spalle» di Roma, dicendole: «Portala, e servi!» di Roma ch'era mancipio allora della feroce e turpe tirannia di un Tiberio e di un Nerone, e di quella anche più dispotica di una corruzione sfrenata, che il vate, poetizzandola, amaramente rimpiangeva.…

Altri più degni e gagliardi canti da allora sciogliesti, poeta—ed altri da te la patria aspetta. Da te, e da quanti irradia intelletto ed amore, essa attende la libera parola che alla santa libertà de'figliuoli della luce inneggi e chiami.

Li 28.—Gran da fare in questi giorni, chè il primo di luglio partiamo. La signora Falletti si tratterrà ancora. Valentina è come frenetica per la gioia, e non sa più quel che si faccia. Elisa s'occupa infaticabilmente, non solo per lasciar la casa in ordine e disporre ogni cosa per la lunga assenza, ma per esaurire tanti piccoli impegni che, da quando ha cominciato la sua vita, era andata assumendo per giovare di qua e di là.

Ha avuto anche da sostenere una lotta, nella quale l'ho aiutata: si trattava di ottenere per Giovanni, il nuovo cameriere, il permesso di prender moglie. Chè i signori Falletti, com'è, pur troppo, sistema di tanti altri, non volevano domestici ammogliati, e, udendo che quello s'è fidanzato, stavano per licenziarlo. Persuaderli dell' immoralità della cosa fu impossibile; ma, se non altro, si riuscì nell' intento.

Tutte tre pensiamo con pena ai nostri poveri che, mentre noi ci divertiremo, si risentiranno della nostra assenza. Perciò abbiamo combinato le cose con suor Benedetta e alcune altre suore degli altri quartieri, e colla povera Elena.… Sante e forti anime, martiri oscure, quali ogni tanto s'incontrano nella vita, come conforto e benedizione fra le miserie della terra, e in paragone delle quali io mi sento così da poco! Come giova nella vita, invece di confrontarsi ai peggiori di noi per trarne argomento di compiacenza (stupida compiacenza ove si pensi alle enormi differenze di responsabilità), confrontarsi ai migliori, per imparare ad umiliarne e spronarne a progredire.

Li 30.—Abbiamo terminati i nostri preparativi pel viaggio; domani partiamo.—La separazione dal papà m'è riuscita confortata dal pensiero che fra due mesi partirà lui pure per l'alta Italia, e che lo ritroverò nel Veneto, dove, al ritorno dalla montagna, potrò passare con lui una ventina di giorni.

Ci siamo accommiatate stamani dai Maren. È stato assai penoso per noi lasciare quei poveretti fra tanti guai, collo strazio recente, e la squallida prospettiva di un'intera estate in Roma. Sì che nemmeno osavamo mostrare il nostro contento—io soprattutto, che posso misurare dalla mia la nostalgia loro di lassù, io che rivedrò i nostri monti e fors' anco que' colli ridenti che ci videro crescere alla vita, e dove tanta parte de' nostri cuori è rimasta.

Eppure, non abbiamo udito alcun lamento. La povera Letizia, soffocata dal caldo in quella cameretta bassa e triste, nel suo bruno ch'essa vuol portare ad ogni costo, era grondante di sudore e più cerea del consueto. Ma non era meno buono e rassegnato il suo sorriso. Elena si rallegrava per noi, e raccomandava ad Elisa con ansia orgogliosa i posti più belli da visitare nei nostri dintorni, nella sua Asolo. Bianca piangeva in braccio a Valentina, commossa quasi quanto lei, e che solo la dominante gioia della partenza impediva di desolarsi per la separazione dall' amica.

Giorgio era nello studio di suo padre, che sta preparandolo all'esame di filosofia, nel quale è sicuro che, per partito preso, il professore lo farà bocciare. Non permettemmo che li chiamassero—andammo noi a trovarli.—Dev' essere stato un momento nel quale il ragazzo s'era lasciato vincere dallo scoramento, perchè sul suo viso era qualche traccia di lagrime. Gli misi una mano sulla spalla. “Coraggio, Giorgio,” dissi, “la vita è rude per chi vuol fare il proprio dovere; ma gli offre anche de' conforti che gli altri ignorano. Tuo padre ne sa qualchecosa.” Francesco, in piedi davanti al tavolino, guardava il figliuolo, e una tenerezza accorata e orgogliosa era ne'suoi occhi. “Stavo dicendogli,” disse, “che a tutto mi rassegnerei: non a vederlo disertare.”

Quando stavamo per lasciarci, Letizia ci disse: “Godete più che potete lassù; salite, salite—excelsior!” E il povero corpo paralizzato sembrava quasi prender vita da un memore entusiasmo. Sulla bocca di quella povera inferma che a stento muove le membra, mi pareva in sulle prime dolorosamente strana quella parola. Eppure, come era a posto—quant' alto sale quell' anima cristiana nel suo trionfo dello spirito sulla materia!

Più tardi andai a salutare il padre Paolo. Avevo il cuore stretto tanto più in quanto lo trovai deperito. So—non da luì—ch'egli sempre più si logora colle austerità della vita e le devozioni della carità. “Buon viaggio, figliuola,” mi disse; “andate, andate lassù a ritemprarvi. E passando per le mie valli trentine pensate al vecchio frate—recate il suo saluto a quelle Alpi che aspettano.…”

Rovereto, 2 Luglio.—Abbiamo lasciato Roma ieri, col diretto delle tre. Stamani all' alba passavamo per Mantova. Desta dal sonno faticoso del viaggio, guardai il vasto piano velato di nebbia, la malinconica città da indelebili memorie consacrata. Cercai nella luce grigia la torre del castello di San Giorgio, dove i forti aspettarono, il campo di Belfiore, dove i martiri, dalla forca, salirono al Dio che, forti e fidenti, invocarono. —Il treno correva rapido traverso i memori campi lombardi e veneti, verso Verona; e la mia preghiera del mattino, mentre guardavo crescere la luce e dorarsi l'oriente, era una preghiera di resurrezione, di santa libertà degli spiriti che compia l'altra, indarno altrimenti dai martiri nostri preparata.

A Verona, fra Porta Nuova e Porta Vescovo, avevo destato le mie compagne perchè ammirassero il panorama splendido della città, ondulante, italianamente magnifica, sui poggi, tra i forti, le torri, i cipressi, arrossata dai riflessi de'primi raggi del sole, che illuminavano le vette delle Alpi trentine.—Alla Chiusa di Rivoli, ad esse, commosse della nuova severa impressione, rammentai que' versi dell' Aleardi:

..… Fra due ritte, ignude Pareti eccelse di cinerea pietra Serpe la strada candida, e la verde Onda del fiume. Passa una poana Su pel ristretto ciel: per la declive Acqua pericolando una veloce Zattera passa. Il loco ha somiglianza Di Termopile: e forse alcuno attende Leonida venturo.

Al forte, abbasso, all'altro, su nella roccia, sospeso sull' abisso, l'ultimo saluto alle assise de' soldati nostri. Ad Avio il palo tricolore accanto al giallo-nero.…

Ad Ala, durante il rimescolío affannoso della dogana, Elisa e Valentina parevano quasi sgomente da quell' impressione, nuova per esse—per me vecchia ormai, ma sempre dolorosa.… Indi le mie compagne proseguirono fino a Trento

……ultima gemma Dell' italico lembo,

ch'esse bramavano visitare, e dove le raggiungerò stasera, per ripartirne domattina. Io volli sostare a Rovereto, dove sante memorie mi chiamavano.—Anche quattro anni addietro m'ero fermata qui, colla povera zia, e, in uno de' suoi quaderni, che ho preso meco, ritrovo una pagina che rammenta il grande roveretano, Antonio Rosmini.

È nella sua casa avita, dove fida amicizia mi aspettava, che, fra i ricordi, passo la mia giornata—qui nelle ampie stanze dove mute mi guardano austere figure d'altri tempi, e l'anima mia si sente ritemprare dal pensiero di Lui, che il genio possente trasse alle più alte divinazioni dello spirito, e la santità della coscienza alle più eroiche virtù della vita. Grande figura luminosa, vieppiù irradiata dal lungo martirio e dalla perdurante persecuzione che invido odio e prepotenza d'ipocriti, giunti fino ad alterare proposizioni di lui, inflissero ed infliggono al pensatore intemerato, il quale, spaziando ne' regni dell' idea, più luminosa e sicura via apriva allo spirito che sale incontro a Dio ed al Vero—all' apostolo di Cristo la cui vita eroicamente austera fu tutta informata ad un largo altissimo pensiero d'amore, a costanti devozioni di quella carità sulla quale avea fondato l'ordine suo, che dalla Carità prende il nome—al cattolico fedele, che, saldo mantenendo il pensiero, fidente in Dio e nell' avvenire, obbediva, ogni ribellione dell' orgoglio sacrificando, ogni egoismo d'ambizioni terrene—a Lui che, magnanimo, sempre, tutto perdonò, anche la lenta morte, che potè torturare il suo corpo, non turbare la santa anima intemerata.

E mentre ripensavo, girando per queste sale deserte, da fido amore custodite, quella figura dovunque mi stava dinanzi—e con essa altre, conosciute ed amate, di discepoli suoi, sacerdoti eletti, all' ideale del Maestro informanti i pensieri e la vita, viventi taluni, perseguitati o negletti, altri caduti sulla breccia d'una vita di carità, amareggiata dalle contraddizioni e le calunnie, confortata e illuminata, sempre, dal bene fatto, dalla fede serbata.—E un'aura come di pace fra le tempeste mi avvolgeva in quel silenzio, e intime voci possenti mi pareva mi rinfrancassero sulla via della vita, levassero la mia fede là dove tacciono le passioni e le ombre si dileguano.

Più tardi.—Mi sono affacciata dianzi a una finestra, guardando il panorama magnifico della valle Lagarina, le note pendici dello Stivo sparse di paesi ridenti e di foschi castelli ruinati, nidi un tempo di feroci tirannie feudali, nei quali ora, fra i ruderi, sui truci misteri sepolti, trionfano sorriso di sole, progresso di giustizia e d'amore, speranza di libertà.… La città gentile che vivo e grato serba il ricordo del vessillo di San Marco, all' ombra del quale sorse a prosperità di commerci e a luce di sapienza, taceva nella quiete dell' ora meridiana. Dinanzi, tra il verde delle piante, sorgeva, fulgidamente bianco nella calda luce abbagliante, il monumento che la sua terra eresse al grande cittadino. Dall' asilo là presso un canto veniva di fanciulli che in coro intonavano una preghiera. Le voci infantili, ora altissime come grido, ora basse e tremule come lamento, mi sembravano l'inconscia parola del mio pensiero—mi pareva che, in nome dell' innocente giovinezza, in nome del futuro, chiedessero amore a chi odia, pace a chi divide, fede non gretta a chi, fra le miserie della terra e le contraddizioni degli uomini, dimentica d'alzare, dalle preoccupazioni meschine, l'anima là d'onde virtù divina scende ne'cuori e coll' amore trionfa.

Cortina d'Ampezzo, li 4.—Abbiamo lasciato Trento stamani, e siamo passate per Botzen, Brixen, Franzensfest, dove dalla linea del Brenner si stacca quella del Pusterthal. A Franzensfest un rimescolío frettoloso di touristes e di alpinisti, la confusione delle lingue. Si sale nel treno del Pusterthal, nell' ampio Aussichtcoupé, tutto cristalli, che trasporta, senza nascondervela, lungo la vallata della Pusteria.

Ridente e troppo poco alpestre, ne' suoi monti dalle falde verdi, a scacchi gialli, ora, pel frumento maturo, essa attrae soprattutto per la pulitezza, la gaiezza, la grazia, direi quasi la civetteria d'ogni più umile casuccia, d'ogni briciolo di giardino, d'ogni povero balcone pieno di fiori e, spesso, con qualche formosa figura di contadina che s'intravede fra i rampicanti e le tende bianche.

Dopo Bruneck, Welsperg, Niederdorf—di dove mi rammentavo d'esser passata, in vettura, oltre una ventina (stavo per dire una trentina) d'anni fa, in braccio a Cèsarine, la mia bonne savoiarda—s'arrivò a Toblach, dove lasciammo la ferrovia. Là nuovo rimescolìo di viaggiatori e di bagagli, alla stazione e nell' elegante albergo dove ci eravamo recate per la colazione.—In faccia s'apriva l'alpestre valle di Landro, che mette in Cadore; e mi parea mill' anni che il nostro pesante e lento vetturale tirolese, colla sua pipa di porcellana e il suo cattivo tedesco, facesse spicciar d'attaccare i cavalli. E la mia impazienza era resa anche maggiore dalla gioia che provavo per l'ammirazione delle mie compagne, per quella della mia Valentina soprattutto.

Quando entrammo nella valle di Landro (l'aneroide segnava oltre 1000 m. s. m.) il tempo minacciava, e faceva freddo. Tutto l'arsenale di giacchette e di plaids che avevamo con noi bastava appena. Era un motivo di più di entusiasmo per la mia bambina —e pareva desse al luogo maggior severità di bellezza. Una valle chiusa fra monti immani, dirupati, sulle cui cime rocciose posavano le nuvole dense. Ogni tanto un laghetto profondo, dall' acqua verde, nella quale si rispecchiavano i larici—macchie qua e là di abeti quasi neri; sul ciglio della strada, di distanza in distanza, come un richiamo, un vetusto crocifisso, che una rustica cimasa tenta di proteggere dalle intemperie alpine. Non una casa, e—tranne nei landaus di forestieri che ogni tanto, di gran trotto, s'incontrano col nostro—non una figura umana.

A Landro la valle si restringe anche più, per riallargarsi un poco a Schluderbach, dove, su di un lembo di sereno, giganteggiano candidi il Dürrenstein e il Monte Cristallo, sul quale spicca la tinta verde-glauco del ghiacciaio della Valfonda.—Indi la valle si fa sempre più selvaggia, e la strada scende a zig-zag lungo i fianchi a picco, sopra un precipizio in fondo al quale scorre sui massi un torrente spumante, il Boite, tra selve folte di lariei.—È un posto di tal severa paurosa magnificenza che mi fece ripensare a que' versi sublimi dell' Adelchi, ne' quali il diacono Martino narra a Carlomagno il suo passaggio delle Alpi, e che, in quegli anni belli, il mio professore ed io leggevamo, pallidi entrambi.

Dopo tre ore di carrozza da Toblach s'apre la vallata di Cortina. È un ampio bacino, tutto prati verdissimi e selve di conifere, salenti sulle falde de' monti —fra i quali s'elevano a oltre 3000 m. il Cristallo, il Tofana, il Pelmo, il Sorapiss, l'Antelao monti dalle creste dolomitiche, aguzze, bizzarre, bianche, grigie, nere, azzurrognole, rosate, che si fanno quasi incandescenti nella luce delle aurore e dei tramonti.

Li 7.—Mi sono interrotta l'altro giorno per uscire colle mie compagne, le quali, nell' entusiasmo della prima impressione, non mi lasciavano pace.

Ci troviamo in uno dei tanti alberghi che fiancheggiano la strada postale. Ma, malgrado la grande affluenza e il continuo avvicendarsi dei forastieri, tutto è tranquillo, direi quasi solitario.—Moltissimi tedeschi, dall'accento per lo più germanico, molti inglesi, pochi italiani. Quasi tutta gente che s'alza presto, si disperde per le ascensioni e le escursioni, si riunisce a tavola rotonda con pochissimi frais de toilette, e va a letto alle nove.

Altrettanto abbiamo fatto noi in questi tre giorni dacchè ei troviamo qui. Dapprima credevo di dover trenare le mie ragazze alla montagna; ma invece, con mia grande soddisfazione, le ho viste disinvolte e resistenti fin dal primo giorno, svelte e felici negli abiti corti, le grosse scarpe, i cappelloni sempre carichi di fiori alpini.—In Valentina aiutano l'età e la robustezza; in Elisa soprattutto il grande amore col quale essa va cercando tutto ciò è diverso da quanto l'avevano avvezzata a bramare e cercare.

Non abbiamo però fatto ancora nessuna gita importante; per queste aspettiamo i nostri fratelli, che devono arrivare dopodomani e che attendiamo con impazienza. Intanto facciamo passeggiate nei dintorni, scorrazziamo pei prati in cerca di fiori, ei perdiamo nei bosehi, entriamo nelle case, sparse pei verdi declivi, ondulanti, a discorrere con queste donne forti e belle, dal costume pittoresco, che tengono ordine e pulitezza mirabili ne'loro rustici interni.

Il paese è prettamente italiano—un pezzo di Cadore staccatosi dall'Italia fin da quando, al tempo della lega di Cambrai, i Cadorini, fedeli a Venezia, strenuamente combatterono gl'imperiali di Massimiliano, a Rusecco a Vallesella riportando segnalate vittorie, in cambio d'incendi e di stragi degli indomiti paesi di quelle valli. Cortina sola cedette, e diedesi allo straniero, col quale sempre rimase. E questo ricordo offusca nel cuore la bellezza de'luoghi.

Stasera due lettere da Roma—dal papà, e da Elena; care pagine che hanno fatto vibrare le più intime e malinconiche parti del mio cuore.

Li 8.—Oggi siamo state un pezzo sul limitare di un bosco di là dal torrente, distese sotto le piante. È uno dei lussi della vita di montagna. Sdraiarsi sull'erba o sul musco, supini—davanti, le praterie, i boschi, le cime—sul capo, traverso i rami alti, l'azzurro cielo, le nuvole vaganti che fanno variare e moversi le tinte del paesaggio. La voce del torrente si fonde con quella dell'aria che passa sulle selve— ogni tanto s'ode un muggito, un tintinnio di campanaccio delle mandre sui prati,

.…… o, sul meriggio, Tocchi dal sole, crepitar del pino Silvestre i coni.

Un po'alla volta par che tutto, cielo, dirupi, prati e foreste, si confonda; il nostro corpo pare si faccia più leggero—un'ebbrezza singolare, nella quale hanno egual parte lo spirito e i sensi direi quasi purificati, vi fa parer d'essere quasi librati fra terra e cielo, che qualchecosa sia entrato in voi come di onda letea.

Li 9.—Gino e Alberto sono arrivati stasera. Che lieta emozione è stata! Il mio Gino è sempre lui— serio e baldo, affettuoso e virile. E la stessa preoccupazione che gli dà il pensiero della sua cara lontana egli cerca di dominare.—In Alberto non v'ha quasi più traccia del fiacco e scettico giovinotto di dianzi. L'evoluzione che le cose umane e le divine, le morali e le materiali sono andate e vanno operando in lui, appare nel suo aspetto e nelle sue mosse più virili, nell'occhio più vivo, in tutto un insieme che rivela il rinvigorirsi dell'anima e delle membra.

Vi aggiunge anche il costume da montagna, col quale i nostri viaggiatori sono arrivati, chè son venuti da Belluno a piedi: il grosso vestito, a blusa e calzoni corti, di loden, le calze lunghe e le scarpe grosse, l'assenza del colletto, sostituito da un fazzoletto bianco, il cappello di feltro, collo stemma del club alpino, il sacco, le tracolle e l'alpenstock— quello di Gino glorioso di molte ascensioni, tutto pieno de'nomi, incisi a fuoco, delle cime toccate—quello d'Alberto tutto bianco e liscio ancora.

Eravamo andate loro incontro. Ad Acquabona, presso il confine austro-italiano, sostammo ad aspettare i nostri viandanti.—Là intorno, il 2 maggio 1848, ebbe luogo il primo scontro fra gli austriaci e i cadorini, i quali, soli, con a capo l'ormai leggendario capitano Pietro Fortunato Calvi, avevano organizzato una difesa delle loro valli, eroica, disperata—difesa fatta con molti petti indomiti, con poche armi, rustiche per lo più, quali forche e mannaie, colle mine e le roccie precipitanti, colle campane suonanti a stormo, col forte amore e gli ardimenti con cui le madri stesse e le spose spronavano, seguivano, aiutavano, Dio invocando per la patria, fra i saccheggi e gl'incendi delle case loro, i lutti e le ruine.

Fu verso Acquabona che il biondo eroe, sul suo cavallo bianco, impavido tra il fischiar delle palle, levato sulla punta della spada il foglio della capitolazione di Udine, in atto di sfida sventolò un fazzoletto rosso, segnale a'suoi che vittoriosi inseguirono il nemico fino alle sue trincee.

Stemmo un pezzo sedute là, sul ciglio della strada, evocando il passato, che tanto più forte parlava al nostro cuore in quell'immensa bellezza di solitudine alpina. Poco prima che i nostri spuntassero a una svolta della strada, il sole era tramontato e avea lasciato la valle in una penombra fredda, il verde de'boschi s'era fatto quasi nero. Solo le cime più alte delle dolomiti rimanevano ancora illuminate di un chiarore infocato che spariva man mano—e, per un po,'era rimasto solo, rosato sulla neve eterna, l'Antelao, il gigante. —Dai comignoli delle case sparse saliva il fumo lento, e al villaggio sonava l'Ave Maria, vibrante nell'aria quieta, piena di pace.

Quando tornavamo con loro verso Cortina le masse nere immani de'monti si staccavano sull'immenso stellato. Qua e là brillavano, nelle case lungo la strada o su per l'erte, lumi o riflessi di fuoco—la voce del torrente, abbasso, saliva nel silenzio della notte.

Pieve di Cadore, li 13.—Abbiamo lasciato Cortina due giorni dopo l'arrivo dei nostri fratelli e siamo discesi iersera qui, nell'antica cittadina dalle tragiche e forti memorie, alle quali, come un sogno di luce e di colori, s'unisce quella del grande Tiziano, che qui nacque e che le bianche cime delle sue Marmarole con memore amore riprodusse su tante delle sue tele famose.

Stamani siamo andati visitando la statua in bronzo di lui, sorgente nel mezzo dall'antica piazza, il monumento al giovane condottiero della difesa del '48, ultimo dei martiri di Belfiore; la torre e l'antico palazzo della Comunità, dove sono i busti de'cadorini illustri, il museo, la chiesa rifatta nel secolo scorso, con tradizioni parrocchiali fin dai tempi longobardi, e dipinti dei vari Vecellio, dei due Palma, di Pomponio Amalteo; la casipola dove nacque Tiziano, altre case con antiche memorie storiche e artistiche, e poesia di semplicità patriarcale che sopravvive sotto i soffitti alla Sansovino, fra le pareti bianche e i vecchi ritratti, e i mobili vetusti e i pavimenti sgretolati, e i grandi e bassi focolari intorno ai quali, nelle lunghe scrate d'inverno, mentre al di fuori il vento sibila e turbina la neve, la famiglia si raduna, e i vecchi, saldi e sereni nell'antica fede, narrano le gesta e le speranze del passato.

Nel pomeriggio salimmo il Montericco, fino ai pochi ruderi dell'antico Castello, che la tradizione, come narra, nella sua Guida del Cadore, Ottone Brentari, vuole dati dai tempi di quegli Insubri Caturigi che avrebbero dato il nome al Cadore; avrebbero visto indi avvicendarsi i Romani, gli Eruli di Odoacre, i Goti, i Franchi, i Longobardi, contro i quali i Cadorini fecero una strenua difesa che si perde nelle nebbie di leggende guerriere e mistiche—gl'imperiali, Carolingi prima, Svevi poi, e i Caminesi, fra i quali spiccano i nomi romanzeschi di Guecello, figlio di Matilde di Collalto, sposo alla figlia di Valfredo di Colfosco, e il Gherardo che Dante rammenta nel Purgatorio, e Rizzardo, trucidato per ordine di Altiniero degli Azzoni e di Rambaldo di Collalto, e la moglie dell'ultimo di essi, Verde Scaligera—e i conti del Tirolo, e i Patriarchi d'Aquileia, e la Repubblica di Venezia, finchè, già mezzo ruinato, fu messo a sacco e a fuoco dalle truppe napoleoniche.

Scendemmo al roccolo di Sant'Alipio, illustrato da Antonio Caccianiga, verde nido di pace, sospeso a picco sul Piave che precipita nel fondo d'un burrone, spumando e rumoreggiando fra le roccie. Era lassù un inseguirsi di tragiche memorie, un trapassare di varie visioni lontane e vicine, e in pari tempo, dinanzi quel panorama grandiosamente sereno, in quell'ora di meriggio calda e silente, una brama di quiete infinita.

Verso sera, per la strada pittoresca che si svolge a zig-zag traverso un parco di boschi e di prati, scendemmo nell'angusto e pittoresco vallone di Perarolo, nel quale il Boite s'unisce al Piave. Questi due torrenti, scorrendo fra i monti selvosi, hanno fluitato gl'innumerevoli tronchi de'pini, degli abeti, de'larici, de'faggi, divelti dalle selve natie e con fulminea rapidità precipitati, tra le caratteristiche chiamate, i segnali con fiaccole di abete per la notte,—segnali convenuti sì da sfidar la voce del vento e degli alberi scricchiolanti—e il correre e il lavorar febbrile de'sobri, intrepidi, fortissimi boschieri. Alla stazione di segno ricevono il marchio del proprietario, e vengono lanciati nel torrente, alla menada, che li conduce ai cidoli, o chiuse, dove, ritirati, riconosciuti, divisi, e segati in una delle cinquanta seghe di Perarolo, son caricati sulle zattere, che pel Piave scendono a Venezia.

Il sole nella valle angusta e profonda era già tramontato; un riflesso purpureo illuminava ancora le case bianche del paese, il ponte del Boite, i due glauchi torrenti, il selvoso monte Dubiéa, e, a settentrione, irradiava l'Antelao. Entrammo nella chiesa bizantina che sorge sotto le verdi, deliziosamente umide, pendici del parco che sale dalla villa Costantini. Era deserta: e ci fermammo alquanto in quella penombra, nella quiete silente degli altari.

M'ero accostata all'altar maggiore, e, ai lati del tabernacolo, avevo letto, incisi nel marmo, l'invito e la promessa di Cristo: «Venite ad me omnes.… et ego reficiam vos» (Matt. XI). «Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus» (Matt. XXVIII).—Mi rivolsi verso Alberto, ch'era dietro a me, colla mano accennando a quelle parole. Egli lesse—e gli altri erano già alla porta che di là non s'era mosso ancora.

Ora son tutti coricati; nell'albergo, nel paese, non odo più alcun rumore: alla vecchia torre battono le undici. Sono stata dianzi alla finestra, guardando la luna calare sul Montericco che pareva crescere nell'ombra, e ascoltando la voce eterna e monotona del Piave. L'Antelao aveva, nella luce lunare, aspetti d'immane fantasima. Voci strane mi parevano scorrere ogni tanto, su, nella foresta. E brividi prendevano l'anima mia, che chiamava l'infinito.

Misurina, li 14.—Abbiamo lasciato Pieve stamani, e, per Calalzo, Domegge, Treponti—pittoreschi paesi dalle case di legno, colle cucine nere di fumo, le finestre piene di garofani, e le donne bellissime, pallide e forti sotto il tradizionale fazzoletto nero, paesi al cui nome si legano ricordi della difesa cadorina contro il tedesco—e il bosco di Gogna, d'onde si stacca la strada che mette in Comelico, siamo saliti ad Auronzo, antica borgata con tradizioni romane e longobarde, che si stende, lunga e ridente, nella sua valle aprica, e all'Argentiera, dov'era una miniera di calamina, ora abbandonata, e dove lasciammo la carrozza.

Procedevamo di buon passo sulla strada, ora ristretta tra le rupi e l'Ansici, che scende impetuoso, ora serpeggiante per verdissime erte, sparse di conifere e di casolari, di mucche pascenti, con alte cime dolomitiche in vista, e la selva di San Marco, che forniva alberi ed antenne alla Repubblica, dominata dal bizzarro Corno del Doge, e, più in là, dal ghiacciaio magnifico del Sorapiss.

Giungemmo, dopo cinque ore di cammino, a quest'alta valletta di Misurina (m. 1800). Il sole scomparso illuminava di un colore incandescente il Cadini, lo Schwalbenkofel, le Tre Cime di Lavaredo, mentre più in là, verso mezzogiorno, andavano impallidendo il Sorapiss, il Col del Fuoco, il Corno del Doge, l'Antelao, e, ad ovest, le pareti, fredde d'ombra, del Cristallo e del Piz Popena entravano già nella notte. La selva di larici che scende da'monti sorgeva come un'ombra tetra intorno al lago quieto. La voce di qualche campanaccio qua e là, di mucca ancor desta, si spandeva ogni tanto in quel silenzio di alta solitudine alpina. Un lume, in fondo, brillava nel piccolo albergo in riva al lago.

Non era libera alcuna delle dodici camere. Ci offersero delle brande poste in tre camerette nude d'una casina nuova, destinata al cantoniere. Era già una fortuna; e Valentina era al settimo cielo all'idea di dormire in una branda.—Cenammo con alcuni touristes tedeschi e inglesi e alcuni cacciatori veneti, i quali non sognavano che camosci e cotorni. E passammo il resto della nostra breve serata intorno al fuoco della cucina, discorrendo, un po'in italiano un po'in tedesco, con una guida di Cortina, un mulattiere di Niederdorf, e due vecchi montanari, i quali, nei lunghi inverni, rimangono a guardia dell'albergo, che diviene un rifugio pei pochi viandanti che dal Cadore passano in Pusteria, o viceversa.

E ci narravano questi delle fredde giornate solitarie, delle veglie nelle lunghe notti fra gli ululanti gemiti del vento, delle gelide tormente di neve, del biancore abbagliante che per mesi e mesi ricopre gl'immani colossi circostanti, e i boschi e il lago gelato. E mentre i rami di ginepro crepitavano sul focolare, mandando, coll'odore di resina, razzi e scintille, e illuminavano di sotto in su le robuste figure di que'montanari e le nostre—e que'due vecchi solitari narravano episodi della difesa cadorina nel '48, evocando, commossi ancora, la bionda e balda figura del loro eroe che, con in cuore il sogno radioso delle Alpi nostre rivendicate, spirava sulla forca fra le nebbie di Belfiore, io guardavo con intima emozione illuminarsi d'entusiasmo e di vita le giovani figure de'miei compagni.

Ci ritirammo presto, chè a mezzanotte i due giovani partono per l'ascensione del Cristallo (m. 3244). Ma il progetto s'era fatto alquanto tempestosamente, perchè le ragazze, nella loro inesperienza, non volevano assolutamente esser da meno. Ci volle del bello e del buono a persuaderle delle difficoltà e dei pericoli, assolutamente non superabili da alpiniste non provette. Valentina, colla Guida in mano, si esaltava leggendo del bosco e del terreno acquitrinoso da traversare di notte, del campo di neve, del ghiacciaio, dei burroni, delle rupi a picco, e sognava la corda e il piccone.

Alberto ed io, Gino stesso, dovemmo usare di tutta la nostra energia per calmarla. Le dissi che intanto noi avremmo salito il monte Piana il quale, di facile ascesa, ha una vista di poco inferiore a quella del Cristallo. “Non me n'importa,” gridava. “non voglio il premio senza averlo meritato!” Angelo, la guida, era entusiasta della piccola animosa, e le assicurava che, se si esercita, fra pochi anni la porterà su tutte le cime più scabrose del Cadore.

Elisa, a forza di sentir parlare di difficoltà, cominciava a sgomentarsi per suo fratello che sta appena facendo il suo noviziato. Ma egli si ribellò fieramente, assicurò che sarebbe tornato senza macchia e senza paura dal suo battesimo d'alpinista. Guai se avesse udito la guida che, intanto, colla sua buona aperta faccia di galantuomo e la mano sul fortissimo petto, assicurava piano Elisa che non l'avrebbe perso di vista un momento e, a costo di prenderlo in collo nei passi scabrosi, glielo avrebbe riportato sano. Si rimase che alle due ci si ritroverà verso il passo delle Tre Croci, per proseguire a Cortina.

Quando fui qui, nel mio camerino, sentii che non avrei dormito—e levai dalla borsa quaderno, penna e calamaio da viaggio.—Dianzi guardai nella notte. Poche stelle brillavano nel cielo velato; un tiepido e leggero alito di vento scorreva sul lago, fra i rami delle conifere, sussurrando sommesso in questo solenne ampio silenzio di notte alpina—And the mystic wind went by—come dice Edgar Poe—il mistico vento passava.

Cortina, li 15.—Stamani mi destai per la prima, vidi un raggio di luce entrar dal fesso dell'imposta, e apersi, piano, la finestra. Il cielo era tutto sereno e, nella pallida luce dell'alba, le conifere intorno al lago si specchiavano nell'acqua, immobili. Il ghiacciaio del Sorapiss, in faccia, si andava tingendo di riflessi opalini, che si fondevano con una tinta purpurea, crescente come una gloria di fantastici splendori. Tutto taceva. Non udivo che, ogni tanto, cader dalle reti tese sul lago qualche goccia nell'acqua, o uno strido, in alto, d'uccello di rapina.

Due ore dopo, accompagnate da uno dei due vecchi custodi dell'albergo, eravamo vicine alla sommità del Piana (m. 2296), fra i rhododendron, i ginepri, i mughi, sempre più radi, le roccie chiazzate di licheni, e qua e là, carline argentee e ranuncoli glaciali, mentre un gruppo di quattro o cinque camosci ci passava dinanzi a gran salti, disparendo fra le rupi.

L'orizzonte s'andava maravigliosamente allargando, sempre nuovi giganti alpini apparivano ne'bagliori di un sole splendido, cominciava l'inebriante emozione delle altezze. Elisa s'era rasserenata, e procedeva con entusiasmo. Ma Valentina saliva la china dolcissima, già quasi piana ormai, con tanto di muso, con un fare negletto e giocherellando coll'alpenstock che mai degnava di puntare in terra—come fosse stata un Ball o un Grohmann o un Sella sulla salita del Pincio. Asseriva che non v'era lassù niente di particolare, che quando s'ha da essere delle dappoco tanto vale rimanersene a livello del mare, trovava da ridire perfino sul nome del monte. “Piana,” diceva, “che nome da poltroni! ed infatti, non vedete? par di camminare in pianura.”

“Valentina,” dissi, “dunque tutto il tuo amore alla natura è fatto di ambizione! Non vedi come la delusione del tuo amor proprio ti rende insensibile alle bellezze che hai dintorno? Ti par degno questo, ti par d'avere di che tanto superbire?” La mia figliuola mi guardava negli occhi. “È che non amo le cose facili,” disse; “a forza di starmene laggiù, fra tante mollezze, fra tante vigliaccherie, mi son nate qua dentro delle grandi ribellioni—m'ha presa un gran desiderio di resistere e di lottare!”

La guardai con una tenerezza che invano forse cercavo di non mostrarle intera. “Serbale,” dissi, “queste ribellioni, alimentale come un fuoco sacro che ti faccia traversar la vita incontaminata e non inutile. Ma non lasciarti da esse sviare negli sterili orgogli, nelle ambizioni egoistiche e tormentatrici. Impara ad apprezzare la nobiltà d'ogni lotta intima ed oscura, quelle soprattutto che il cuore e la coscienza riportano contro le passioni. Impara ad amare il campo della tua missione di donna, senza invidiare quella, in parte diversa, ma non superiore, dell'nomo.

“Vedi,” seguitai accennando alla gran massa candida del Cristallo, mentre Elisa ansiosamente cercava col canocchiale intorno al ghiacciaio i nostri alpinisti: “mentre i nostri fratelli esercitano e ritemprano lassù le loro membra virili e preparano il corpo e l'anima ai cimenti dell' avvenire, prepariamo alla nostra volta, in queste solitudini magnifiche, i nostri cuori a salire sempre più, a sempre meglio intendere la voce di Dio, a sempre meglio amare, a sacrificare al dovere le passioni meschine.”

Eravamo giunte sulla vasta sommità del monte, e un'esclamazione eh' era quasi un grido eruppe dal petto delle mie compagne. Era un immenso mare, ondulante immoto fino all' orizzonte lontano lontano, sotto il radioso azzurro del cielo—una fulgente visione di cime, quali salenti altere, avvolte in un manto candido, immacolate; quali fosche, bigie o rossastre, bizzarramente dirupate, quali sfumanti tra leggere ombre turchine, quali avvolte in un velo corrusco, come vanente luce di sogno. E lo sguardo si smarriva nello spazio, l'anima saliva, come un inno all'eterno infinito.

Le mie compagne, che per la prima volta ricevevano l' impressione delle vette, s' erano strette a me, guardando estatiche, immobili. Elisa, cogli occhi umidi, senza parole—Valentina pallida per un' emozione quasi violenta. Poi, colla voce alterata, “È Dio che parla quassù,” disse—e sul viso palpitante di lei parve riflettersi l' interiore comunicazione del Verbo.

Avevamo traversato la vasta spianata, fin là dove, verso settentrione, il monte precipita a picco sulla valle di Landro e, come dadi in fondo ad un burrone, appariscono le case di Landro e di Schluderbach, e il colore verde glauco del laghetto di Dürren, e la strada di Toblach che, come un nastro bianco, serpeggia fra gli abeti. E là, senza perder di vista la mia figliuola, che temerariamente voleva protendersi sull'abisso, coll' aiuto, un po'della Guida e della bussola, un po'della memoria, andavo ritrovando nell'immenso spazio delle vecchie conoscenze, per quanto il differente punto di vista ne alterasse i contorni. Fra oriente e settentrione, lontano, il Grossglockner, il Grossvenediger, il Picco dei Tre Signori; più in qua lo Schwalbenkofel, il Dürrenstein—verso occidente, al di là del Cristallo, la Marmolada. la Civetta, il Pelmo; a mezzogiorno il Sorapiss, l'Antelao, le Marmarole, e, accosto, torreggianti co'candidi dirupi, il Dreizinnen o Tre Cime di Lavaredo.

Là presso è la pietra di confine della repubblica veneta, portante la data 1753, e che tuttora segna il confine italo-austriaco. “Non lo varcheranno più, non è vero?” diceva Valentina. “E se ci si provassero.…” I suoi occhi brillavano, e lo sguardo suo, come per associazione d'idee, si portò rapido sul Monte Cristallo. “Saranno lassù ora,” disse. Indi si buttò nelle braccia di sua sorella. “Elisa,” mormorò, “preghiamo!” E le due fanciulle si strinsero forte, guardando nell'azzurro infinito.

Nel pomeriggio, verso le due, ei avviavamo, come d'intesa, incontro ai nostri fratelli, per proseguire con essi, pel passo delle Tre Croci, a Cortima. Ci fermammo un po' al posto convenuto, aspettando, benechè si fosse anticipato sull' ora fissata dalla guida, con impazienza ansiosa.—Li scorgemmo di lontano che procedevano a passo accelerato, come chi, salendo, non ha fatto che sgranchirsi. Alberto era stato valoroso, la guida asseriva che mai aveva visto tanto ardire in un esordiente; Gino era fiero del suo figlioccio in alpinismo.

Alberto pareva non udire che a mezzo gli elogi de' compagni, i rallegramenti nostri. Sul viso vivamente colorato dall' aria delle vette si andava accentuando una commozione che mi rammentava i momenti ne' quali dinanzi all'anima di lui eran passati i bagliori dell'infinito.—La guida precedeva, Gino narrava alle ragazze i particolari dell'ascensione. Alberto era rimasto indietro con me; e, senza parlare, come per un tacito accordo delle anime, ci eravamo fermati.

Il sole scendeva dietro i monti di Cortina, e illuminava di porporini splendori il Cristallo, il Cadini, le creste merlate delle Marmarole. Sui prati e i boschi silenti un riflesso di luce si stendeva, nella quiete solenne della sera—e digradava man mano. Alberto, appoggiato all'alpenstock, col capo alto, gli occhi, insolitamente illuminati, fissi sulle cime, le labbra frementi, taceva sempre.

“Alberto,” dissi, “è giunta l'ora?” Egli mi guardò —e una profonda commozione contrasse quel viso fattosi virile. “È prossima,” rispose; “sento ch'Egli viene.”

San Martino di Castrozza, li 4 Agosto.—Riapro il mio quaderno dopo tre settimane di vagabondaggio per monti e per valli. Da Cortina siamo tornati nella val d'Adige, per salire da Bolzano, pel passo della Mendola alla valle di Non, l'Anaunia de' Romani, che, larga e magnifica, da Fondo scende co'prati e le selve ondeggianti sotto il sole all' antica Cles, superba della sua tavola clesiana—sulla quale è inciso il decreto con cui Claudio imperatore concedeva agli Anaumi la cittadinanza romana—di molti altri avanzi, romani ed etruschi, e del suo castello, ove nacque quel fastoso Bernardo Clesio, principe vescovo di Trento, che fu il Leon X del Trentino.—Là presso s'apre da un lato la silvestre val di Sole che mette a quelle di Rabbi, di Rendena, di Pejo, e, pel passo del Tonale, mena in Valcamonica—dall'altro, seguendo il Noce romoreggiante in fondo tra i dirupi, si prolunga, fino a Mezzolombardo, l'Anaunia, fra alti villaggi aprichi e ridenti, e grandiosi castelli medioevali e santuari pittoreschi, e poesia di leggende eroiche ed ingenue, e paurosi ricordi di dèmoni e di streghe, e di quella tremenda sollevazione di popolo contro la prepotenza feudale che fu la guerra dei Rustici.

Da Mezzolombardo retrocedemmo ad Egna (Neumarkt) per salire, pel bosco di San Lugano e Cavalese, nella val di Fiemme, che la tradizione vuole popolata da fuggiaschi della Marca Trevigiana, e di là passare in quelle valli di Predazzo e di Fassa che Humboldt chiamò «il gabinetto mineralogico d'Europa» e nella prima metà del secolo furono oggetto degli studi di parecchi altri insigni naturalisti.—Da Vigo di Fassa salimmo il Col di Rodella (m. 2186), che domina la val Gardena, dove si conserva la lingua ladina, il Rosengarten, che divide la val di Fassa dalla val d'Adige, i Monzoni, d'onde tornammo con un bottino di minerali; e i nostri fratelli compirono valorosamente l'ascensione di quel maraviglioso gigante dolomitico ch'è il Sasso Lungo, fino alla Grohmannspitze (m. 3174). Indi, tornati a Predazzo, risalimmo, sempre a piedi, nella valle del Travignolo, l'antica selva magnifica di Paneveggio, e, pel passo di Rolle (m. 2000), scendemmo nella val di Primiero, fermandoci qua, dove ci troviamo da una settimana.

È stata una fantasmagoria di paesaggi alpestri— cime eccelse e abissi profondi, desolazione di dirupi e di frane, di abitazioni ruinate dalla furia devastatrice delle acque, e sorriso di verdi praterie e di paesi pittoreschi, candidi splendori di nevi eterne e moventi ombre di selve—augusti silenzi delle cime e scrosciar di torrenti precipitanti sulle roccie, echeggiar di tempeste e ulular di bufere fra le gole nude e negli alberi gementi—aurore viste, ora durante un'ansiosa impaziente salita verso le vette, ora dal fondo di una valle, cogli occhi alle cime colorantisi man mano nel primo saluto del sole—quieti meriggi passati all'ombra delle piante, fra i muschi, nell'aria pregna di profumi di resina e di ciclamini, negli ampi silenzi, suadenti a infinito desiderio di luce, a nostalgico desiderio di pace—sere passate affrettando il passo per istrade solitarie, tra ombre fantastiche di dorsi salenti nella notte, di alberi fruscianti come voci misteriose, di case sparse e già chiuse, illuminate dai fuochi della cena —poi, seduti in una di quelle stanze tappezzate di legno, con in mezzo certe stufe enormi, intorno a una tavola d'osteria di montagna, coll'appetito triplicato, che fa trovar qualunque rustico cibo migliore assai de'piatti più raffinati che la gola blasèe ha escogitato nella frolla civiltà di noi che nevroticamente cerchiamo e languiamo abbasso… poi, raccolti in circolo sotto la cappa del camino, intorno a' focolari bassi, conversando co'montanari robusti e intelligenti, colle donne svelte e formose ne'costumi pittoreschi, con alpinisti e cacciatori, colle guide—quella simpatica categoria di uomini dalle membra atletiche o dall' occhio d'aquila, arditi e prudenti, onesti e fedeli, spesso eroicamente devoti.

E che varietà di racconti—leggende ingenuamente fantastiche, pregiudizi che sarebbero ridicoli abbasso, e lassù sono simpatici per non so quale impronta di vetusta poesia che anima la natura—narrazioni d'imprese temerarie, di casi pietosi, di dolci idillii e di fiere vendette, di fedi sicure e di desolati abbandoni. E che tristezza prende all'idea del diminuire della semplicità montanina, del penetrare che lassù fanno dal basso ciò che corrompe, spoetizza, toglie lo schietto carattere originale! Come si vorrebbe, con tutto codesto, salire salire, sì che la torbida fiumana non arrivi!…

Qui ci troviamo nell'unico e piccolo albergo alpino, solo fra i boschi che salgono verso le bianche bizzarre magnifiche dolomiti che circondano la valle, accanto all'umile osteria e alla chiesina dal tetto acuminato.

Quali ricordi per me, e quale rimpianto… Ero stata qui quattr'anni sono colla povera zia. Come pareva giovane ancora—più giovane di me per la forza e l' entusiasmo—quante ore passate leggendo ne'boschi, e che lungo errare infaticato nella valle! Quante cose da allora—come lontano mi pare quel tempo….

Ieri riapersi il suo scartafaccio, e vi ritrovai il racconto dell'ascensione che facemmo insieme della Rosetta (m. 2810).—Era un brano di lettera a Gino —come era diverso allora!—per animarlo a salire alle vette—a quelle delle Alpi, come gradino ad altre più eccelse. E oggi che questi miei compagni progettarono per domani quell'ascensione, il mio cuore era ripieno di lei, pensando, memore e grata, a tante cose.

Li 5.—Siamo partiti alle tre, col fanale, e per guida il nostro buono, e forte, e gentile Michele Bèttega d' allora. Le mie figliuole (non parlo dei ragazzi, che hanno compiuto ier l'altro nientemeno che l'ascensione della Pala di San Martino, fino a pochi anni fa vergine ancora) sono state valorose—anche di notte, nella selva, nel regno degli ultimi fiori che raccolsero a gara, e che ora, coll' aiuto di Gino, stanno classificando e disseccando; sulla roccia, alla corda, sulla cima aguzza, frastagliata, dove a mala pena trovammo posto in sei, ad ammirarvi il panorama anche più splendido di quelli veduti fin qui, colle innumerevoli creste merlate delle dolomiti d' intorno, e più in là, a settentrione, la candida Marmolada, la Civetta, il Cristallo, l'Antelao—a nord-est la Tosa, il Carè Alto, e, all'ultimo orizzonte, l'Adamello, la Presanella, l'Ortler, il Bernina, il Cevedale, il Disgrazia—a sud-est la pianura veneta sfuggente verso il mare.

Prima che si lasciasse la vetta cominciarono nuvole vaganti ad addensarsi intorno a noi, sorgenti rapidamente, lungo i roccioni a picco, come da bolgie dantesche, dall'abisso di mille metri che ci si apriva di sotto. In poco tempo ci trovammo avvolti in una caligine densa, pregna di elettricità.—Quando fummo ridiscesi al piano dell' antico ghiacciaio fu, per qualche tempo, impossibile metterci per lo stretto sentiero scavato dal piccone nella roccia e che non si può percorrere che legati: non si vedeva più nulla, se non, a brevi intervalli, lampi abbaglianti, ch' eran seguiti da scrosci di tuoni che si ripercotevano, si rincorrevano, crescendo, diminuendo, lontano.… Di sotto, di sopra, intorno, era una ridda infernale di umidi vapori rimescolantisi nel vento, che di cima in cima, di qua, di là, li spingeva, aprendo ogni tanto spiragli di sereno che tosto disparivano nella tormenta.

Le mie ragazze erano intrepide e felici; Valentina pareva inebbriata da un fiero entusiasmo di resistenza, negli occhi suoi era luce di sfida alle procelle, come avesse sentito in codesto un' immagine della vita e dell' avvenire.…

A poco a poco i vapori si diradarono, si abbassarono, il sole ricomparve fulgente nell' azzurro, mentre le nubi s' andavano addensando più basso, tutto nascondendoci, all' infuori delle cime, che sorgevano, come in una gloria di luce, al disopra della procella che seguitava a romoreggiare di sotto—e parevano ergersi nella vittoria—ribelli e grandi come l'idea.

Primiero, li 13.—Siamo discesi qui ieri. Le figliuole ed io vi staremo ferme pel resto del mese, Gino andrà fra alcuni giorni a raggiungere nel Veneto il papà, che va visitando parenti ed amici; Alberto tornerà sulle sue terre.—E noi ve lo raggiungeremo. I genitori hanno permesso si accetti un suo invito colà; ben inteso, non senza trovare infelicissima l' idea di passare dal fresco della montagna al caldo affannoso di quelle bassure, «in una fattoria noiosa,» come scrisse la madre.

Inutile dire che l' idea ha invece molto sorriso a tutt'e tre le invitate.—Là poi ci divideremo—Alberto accompagnerà le sorelle sul varesotto presso la madre, ed io raggiungerò i miei a Treviso.

Il dì dell'Assunta.—Stamani quando apersi la mia finestra non erano ancora le cinque; il sole arrossava le cime de' monti, e la luce si spandeva nella vallata, sul verde de' prati e de' boschi, sulle case sparse, sulle leggere erranti nebbie del mattino.—Le ragazze, stanche dell' ascensione fatta ieri al Pavione, dormivano ancora; i giovanotti pure—così almeno credevo. Uscii coll' idea di recarmi, come solevo in tempi lontani ormai e felici, alla Messa prima.

La chiesa era ancora quasi deserta; non udivo, davanti l'altare, che il crepitío sommesso della lampada del Sacramento e la voce del torrente in fondo alla valle. Ed io tornava agli anni primi, ne'quali questo giorno era per me una solennità piena di gioia, fra i lumi e i canti della mia vecchia Madonna Grande. E una serie di luoghi consacrati dalle memorie mi passava dinanzi, e persone amate, quali sparite d'in sulla terra, quali mutate dagli anni, ma ancora ma sempre più care.… E traversavo col pensiero gli anni del dolore —del provvido dolore che tempra le anime.

Più tardi uscì la Messa cantata—e ai lati dell'altare intonarono il Kyrie. Erano contadini—e parevano le stesse voci, un po'nasali, era lo stesso canto, semplice e lento, che echeggiava nel mio cuore dal coro della chiesa di Moliparte.… Chiusi gli occhi fra le mani, mi parve di ritrovarmi fra quella povera gente che ci amava, ed ebbi un momento di commozione infinita.

Come è bella la Messa d'oggi! L'epistola, tolta dall' Ecclesiastico, ha tutto il fascino della poesia orientale. «Quasi cedrus exaltata sum in Libano, et quasi cypressus in monte Sion.—Quasi palma exaltata sum in Cades, et quasi plantatio rosae in Jericho.— Quasi oliva speciosa in campis, et quasi platanus exaltata sum juxta aquam.…»

Quando tutto fu terminato, e che la gente era già uscita dalla chiesa, volli rileggerla. E mentre cercavo la pagina rivolsi, non so perchè, il capo all' indietro, e vidi poco discosto da me, appoggiato al muro, Alberto, solo, cogli occhi alla luce che pioveva sull'altare.

Avevo ritrovato la pagina, e riletto il primo periodo: «In omnibus requiem quaesivi, et in hereditate Domini morabor.—In ogni cosa ho cercato la pace, ed è nell'eredità del Signore ch'io rimarrò.» Mi alzai e mi accostai ad Alberto, segnandogli, sul libro aperto, queste parole.

*** li 3 Settembre.—Abbiamo lasciato Primiero ier l' altro, e, per Fonzaso, siamo discese a Feltre, dove abbiamo preso la ferrovia. Fin da là cominciò l' emozione del mio cuore, che, guardando l' antica pittoresca cittadina, rammentava gite liete d' altri tempi, co' miei due morelli che al ritorno mi stancavano i polsi divorando la strada—la strada che serpeggia tagliata nel monte spaccato dalle mine, ogni tanto a picco sul Piave. Ora passavo di là chiusa in un vagone di ferrovia, e col cuore pieno di ricordi già lontani. Eppure questi ricordi—fuorchè pei cari che ci hanno lasciati—non osavano essere rimpianti. Il resto che era, a paragone de'tesori ritrovati nelle anime di creature incontrate lungo la mia via—tesori «che i ladri non involano e la ruggine non rode?»

Il Piave usciva dalla stretta di Castelnuovo, dove sono gli avanzi del forte nel quale Girolamo Emiliani, soldato della Repubblica e prigione del vescovo di Feltre, votava a Maria liberatrice tutte le giovani forze e la virtù dell' avvenire, e, recato all' antico santuario di Treviso, caro all' infanzia mia e alla giovinezza, i ceppi infranti, diveniva uno di que'fondatori di ordini che, nella corrotta società del cinquecento e fino a' giorni nostri, apportarono lume e devozioni di carità redentrice.

Eravamo a Quero, ad Alano, a Fener—la valle si allargava, si espandeva il torrente, appariva, in fondo, il piano cerulo ondulante della mia terra. Al Molinetto si scopriva ridente Valdobbiadene da un lato, dall' altro s' apriva, magnifica, la vallata di Possagno, fra gli ultimi contrafforti delle Alpi e i miei colli Asolani.… Ero ormai sui campi quasi ogni giorno percorsi, passavo Onigo, la stretta sotto il monte della Madonna di Rôcca, il 9 maggio 1848 consacrato dal sangue di prodi da Roma accorsi per la santa crociata. —Il treno aveva oltrepassato Cornuda, s'avvicinava alle rovine del Montello, e la fuga de' miei colli appariva ora dal lato meridionale, nella luce de' nostri autunni radiosi. Già si vedevano emergere le linee classiche della villa e del tempio di Maser, già avevo scôrto, fra gli alberi del parco, la villa di Moliparte, le note case de' miei umili amici, sparse sui verdi declivi—riconosceva ad una ad una le cime del Collalto, del Colmureggio, del San Giorgio, la gran quercia del Lasta, il roccolo del Castellaro, i campanili di Moliparte, di Maser, di Coste, di Crespignaga, e, più in là, Asolo vetusta e la rôcca.…

Il cuore batteva più forte, non sapevo più parlare. Aggrappata al finestrino, cogli occhi fissi sui luoghi amati, mi pareva tutta l' anima mia vibrasse ne' ricordi. Elisa pure guardava intenta, e non osava parlarmi —Valentina si stringeva a me, forte, come se tutto avesse potuto intendere ciò che passava nell' anima mia.

Avevamo oltrepassato Pederiva e Biadene—le boschette di Montebelluna mi avevano già nascosta la cara visione. Il treno correva rapido, traverso il piano monotono e l' antica Postumia, verso Postioma, e si avvicinava a Monigo, rasentava strade cognite, tante volte percorse, diretta, colla gioia impaziente della giovinezza, a un caro nido d' affetto e di pace. Poi apparvero in fondo, sull' orizzonte che s' andava oscurando, i campanili di Treviso, gli alti camini delle fabbriche, la cupola del Duomo, la gran mole di San Nicolò—e con essi memorie si sollevavano in folla, tornavano come un sogno.

Quando scendemmo alla stazione, per aspettarvi il treno da prendere per Mantova, annottava. Sotto la tettoia, dopo il breve rimescolío dell'arrivo, s'era rimaste sole, passeggiando nell' afa d'una sera d'estate in pianura. Solo, ogni tanto, un facchino passava con un fanale. I vagoni ne' binari morti si staccavano neri sul fondo ancora un po' biancastro dell'orizzonte.

Sapevo che nessuno sarebbe venuto, chè il papà e Gino si trovavano, l' uno a Venezia, l' altro a Vittorio. —E ripensavo a tre anni fa, a quella triste mattinata di settembre, nella quale, là, avevo abbracciato per l' ultima volta lei che rimaneva—lei che ci amava e che mai più rivedrò sulla terra.

Li 4.—La villa nella quale ci troviamo è situata in una pianura che si stende a perdita di vista fra il Po e il Mincio. Solo ne' giorni più chiari si distinguono a settentrione, sfumanti lontano lontano, le cime delle Alpi e, ad occidente, qualche cerula curva dell'Appennino. Vasti campi di granturco alto, immobile nella caldura, maturano sotto un sole bruciante, divisi da lunghe file di gelsi, dalle foglie grasse e lucenti, e intersecati da canali, dove un' acqua pigra e nerastra, qua e là coperta di ninfee, scola silente tra due file di saliei bigi.

Ogni tanto, lungo la strada, si vede il tetto di paglia di una cascina, acuminato e annerito, verde di musco dal lato di tramontana. Sulla porta, o a qualche finestra praticata nella bassa muraglia di sotto, appare una donna dalla tinta olivastra; in mezzo al cortile razzolano bambini e galline; stracci asciugano al sole distesi sulla siepe di cinta, accanto a'letamai fumiganti.—Per la strada bianca e deserta passano ogni tanto carri tirati da lunghe file di bovi dalle corna enormi; altre file procedono lente, arando i campi non seminati; e nessun grido di bifolco rompe il silenzio grave nell' aria immobile.

La casa padronale, che sorge a poca distanza dal villaggio, ha un aspetto signorile e abbandonato. Una doppia scalea esterna mena all'altezza del primo piano, ad un atrio sostenuto da colonne ioniche. Nell'interno è una gran sala alta di due piani, con una ringhiera che, a livello del secondo, corre all'ingiro; ai lati le solite quattro stanze, ampie ed altissime. Sulle pareti della sala son dipinte scene mitologiche che arieggiano la scuola del Correggio, con qualche figura degna del Soiaro—nelle stanze sono stucchi e specchi rococò, in parte scrostati.

Nella mia, cui tutte le altre somigliano, son pochi mobili intarsiati, dalla sagoma del principio del secolo, un letto ampio, alto e duro, colla zanzariera, una tavola che traballa, chiazzata di macchie d'inchiostro, quattro seggiole di paglia sconnesse, un cassettone senza chiave e una maniglia che manca, con ai lati due vasi di porcellana, contenenti ciascuno un mazzo piramidale di fiori artificiali sotto una campana di vetro, un orologio a pendolo, stile impero, fermo Dio sa da quanto, un cuscinetto di seta azzurra sbiadita, fatto a spicchi duri duri, con entro infissi alcuni spilli irrugginiti. Sulle pareti è una serie d' incisioni rappresentanti episodi alquanto fantastici della vita del figliuol prodigo, dove lui e le sue adescatrici vestono alla foggia della Reggenza. Alle finestre pendono tende di toile perse magre e sbiadite, che lasciano entrare nello stanzone bianco uno sfolgorío di luce.

Davanti alla villa, fra due adiacenze dagli ampi porticali, è un giardino stile Versailles, mezzo inselvatichito, nel quale i bossi, liberati dalla tirannia delle simmetriche potature, si sono andati emancipando, i sentieri sono scomparsi sotto l'erbacce, che hanno invaso anche le aiuole, abbracciando soffocando le poche povere piante rimaste, qualche esile rosaio sfiorito, qualche giglio vestito di convolvoli, due o tre ortensie pompose di qualche fiore. Alcune piante di limone intisichiscono ai quattro angoli e lungo il viale di mezzo; un fauno annerito, dalle braccia spezzate, va scomparendo, in mezzo a una vasca senz' acqua, sotto una fitta vegetazione d'ipomea. Dietro la casa, a settentrione, una pergola di carpini, unica ombría, mena ad una montagnola, cui si sale per un sentierino a chiocciola, coperto d' erba bruciata, e in cima al quale un' esile acacia pare appassire sotto il sole.

Li 5.—Nei tre mesi che Alberto ha passati qui, egli, si vede, non ha pensato ad altro che a ciò che assunse come una missione. Per la casa da abbellire e da rendere meno scomoda, pel giardino da creare, egli fa progetti da effettuarsi verso la ventura primavera, quando tornerà dalla scuola di Milano. E quando ne parla si vede che un altro ideale, nuovo anche questo per lui, balena e sorride alla sua coscienza e alla sua fantasia, se non ancora al suo cuore.…

Finora è stato per lui, ed è tuttora, un assiduo lavoro di ricognizione d' ogni cosa, uno studio delle condizioni del suolo e di chi lo lavora, della cultura de'campi e di quella degli individui. Lavoro arido e spesso sconfortante, non di rado odioso. Chè la prima condizione di riforma è stato il rinunziare alla rinnovazione de'contratti cogli affittuari il cui tempo scadrà alla fine di quest'anno—gli affittuari che, spesso, son la rovina morale e materiale, come spesso son frutto di egoismo e d' inerzia di proprietari che non intendono i loro doveri verso la terra e chi la lavora. Gente che —sarei ingiusta se dicessi sempre—soventi sale soltanto per forza di mezzi economici, non ha altro ideale che aumentarli, e perciò grava sul contadino e, per avidità inintelligente, stanca e trascura campi, animali, abitazioni, ogni cosa.

Il nuovo proprietario di questa vasta tenuta ha già provato brutte sorprese, incontrato, e con affittuari e con contadini, fra la malizia degli uni e l'ignoranza e i pregiudizi e la diffidenza degli altri, scene disgustose, provato a' suoi primi entusiasmi amari disinganni. Ma non si lascia scoraggire, e prosegue nell'inizio della per ora ingrata riforma; e va tutto ispezionando, tutto notando da sè, per vedere che cosa ci sarà a fare dopo, quando potrà disporre de'suoi campi e dirigere la sua gente. E nella diuturna lotta cogli abiti primi dell'indole e della vita suoi, colle passioni proprie e colle altrui, tempra la volontà, la perseveranza ne'propositi, la fede nell'idea.

Li 15.—Il nostro ospite temeva in questa pianura calda e monotona, in questa casa senza risorse, noi ci trovassimo male. Infatti, la prima sera, sotto l'atrio, abbattute dal caldo, tanto più opprimente per chi scende da'monti, e che all'avvicinarsi della notte pareva farsi sempre più afoso, tormentate dalle zanzare, malinconicamente intrattenute da un concerto degli innumerevoli ranocchi pullulanti ne' fossati vicini e lontani, continuamente ammonite, col fantasma della febbre, a non scendere in giardino, non eravamo gran fatto brillanti. Valentina si disperava colle zanzare e invano si schiaffeggiava la fronte, le guancie, le mani, sperando di schiacciarle. Elisa si conteneva, si sforzava a parlare; ma una profonda malinconia, come di nostalgia delle altezze, la opprimeva suo malgrado. Io ero tuttora dominata dall'impressione del viaggio del dì innanzi. Il povero Alberto era mortificato, pentito dell'invito fatto, quasi sgomento, come di una responsabilità; e ci pregò di ripartire senza riguardi.

Allora le sorelle, prese da un impeto d'affetto e di commozione pensando al generoso sacrifizio di lui che si condanna a rimaner qui, solo e fra le difficoltà, gran parte dell' anno, balzarono ad un tempo ad abbracciarlo, a dirgli ch' erano felici di stare presso di lui. Ed Elisa arrivò fino a riparlargli del desiderio ch' egli le aveva espresso di averla intanto a compagna ed aiuto; e si sforzava, ora che si trovava sotto l' incubo della triste impressione, a nuovamente provare l' entusiasmo col quale, di lontano, aveva accolto quel progetto.

Alberto sorrideva scotendo il capo. Io dissi allora che se quel progetto non è facilmente effettuabile, sarà facilissimo alle sue sorelle di profittare di questi giorni per lasciare la loro buona traccia femminile intorno a lui e aiutarlo presso la sua gente.—Ed esse, con quest'idea, avevano già dimenticato l'afa, i ranocchi, le zanzare, e cominciarono a far progetti, Valentina stupendi, utopistici, più modesti e pratici Elisa.

E così l'indomani cominciarono con scendere in cucina, dove le cose andavano alquanto male, con una donna provvisoria dei dintorni, sciupona e buona a nulla. Alberto, assorto nelle sue idee e nel suo fervore di riforma in tutto, che par quasi un fervore d' espiazione, non ci badava, o, dirò meglio, non voleva badarci. Elisa che, giustamente, guarda al pratico, pensava che raramente durano questi fervori quando v' han di mezzo esagerazioni; e si propose di far del suo meglio per organizzare intorno al fratello le cose in modo da facilitargli la perseveranza nella parte più saggia de' suoi propositi.

Perciò lo persuase a tosto licenziare quella donna, andò nella borgata vicina a cercarne una da indirizzare secondo i sistemi imparati in casa Maren, la trovò, e si mise a passare in cucina mezze le giornate, riformando e insegnando. Poi organizzò e preparò lei stessa una dispensa, una farmacia pei bisogni più urgenti, un guardaroba di biancheria, a fornire i quali volle andare a Mantova a far provviste e ordinazioni.

Alberto lasciando Roma aveva rimandato il suo cameriere, il quale, corrotto—e come avrebbe potuto non esserlo?—sarebbe riuscito in campagna un pericoloso elemento. Ma qui non aveva saputo trovare da sostituirlo. Elisa, girando e osservando nelle case de' contadini, scoperse un giovane, da poco tornato dall' esercito, che mostrava opportune attitudini; e, con buon successo, s' è messa ad addestrarlo.—E io esigo che Valentina l'aiuti in tutto, s' avvezzi qui a mettere in pratica, meglio che non possa farlo a casa propria, le arti domestiche imparate in quest' anno. E voglio che, per avvezzarsi in pari tempo alla praticità della vita e al gusto artistico, essa aiuti sua sorella anche in que'progetti che quella studia di fare per l'allevamento dei polli, l'impianto di un'ortaglia, e il giardino che dovrà circondare la casa e render l' aria più salubre.

Così passano ripiene le loro giornate. Tanto che Elisa finora non ha quasi mai voluto effettuare le lunghe trottate nei dintorni che Alberto sempre ci propone, e per le quali ha fatto venire una sella per lei. Valentina ed io abbiamo un panier e due deliziose cavalline friulane che ogni giorno per ore lei od io guidiamo traverso i campi. Ma non son giri oziosi, chè ad ogni cascina scendiamo a visitarla, ad osservare l'indole e le abitudini della gente, a conversare un po'con tutti. E andiamo notando la grande miseria degli avventizi, sempre erranti da una casa all'altra—e quali case! —da un campo all'altro, senza potersi a nulla attaccare; spesso minati dalla febbre, dall'anemia, dal bisogno, negletti, dimenticati, insieme colle terre che lavorano, da chi non pensa che a goderne altrove le rendite. E andiamo notando la meraviglia di tutti questi contadini, che, a differenza dei nostri di lassù, dove il bello della natura attira i proprietari in campagna e dove il sistema della mezzadria suole, benchè non abbastanza, avvicinare, non sono avvezzi a vedere i signori occuparsi di loro, e non hanno, per lo più, la gentilezza d'animo, di linguaggio e di modi che quelli caratterizza e rende così simpatici.

Valentina a volte se ne torna spoetizzata e scoraggita, e fa i confronti coi paesi che abbiamo da poco percorsi. Ed io le ripeto ciò che le vado predicando nei nostri giri dai poveri di laggiù: riflettiamo alle cause, impariamo a compatire, ad avere pazienza, lunga pazienza, a non fare il bene colle illusioni dell' ottimismo e le impazienze dell' egoismo e dell'ambizione, ma con quella bontà serena che inspirano gl'ideali, e che, se spesso incontra difficoltà e disinganni amari, finisce sempre con lasciare traccie di bene, e semi di meglio per l'avvenire.

Li 19.—Le nostre giornate seguitano a passare nell'afa pesante, nella pianura monotona—ma senza una mezz'ora di noia. Ciascuno di noi pensa e lavora: e le riunioni a tavola e la sera sono ora liete quanto lo erano lassù, per l'intima soddisfazione della coscienza. Ciascuno esprime le proprie impressioni, le idee, i progetti per l' avvenire. Alberto rientra spesso irritato o scoraggito; e fra noi ritrova serenità e coraggio. E spesso ci manda a visitare, a parlare, a recar soccorsi, e buoni consigli. Chè egli sente di lasciarsi troppo facilmente trasportar dalla collera o prendere dall' inerzia di una certa timidezza; e capisce che non ha ancora imparato come si parla ai poveri, come si trova la via a persuaderli, a toccare le molle di quel sentimento ch' è molto meno intorpidito che non sembri, e risponde molto meglio e con assai più gratitudine a una parola buona, a un segno di benevolenza, a un semplice sorriso cordiale a volte, che ad una elargizione fatta con durezza o con alterigia, o di lontano. Chi non ha cercato di farne la prova, chi, con uno scetticismo fatto d' inesperienza, segue una via diversa, non sa qual sorgente di bene sciupi, di quali intimi conforti si privi.

Li 21.—Ora che gli affari in casa sono un po'avviati, andiamo facendo anche delle gite al di là de' confini della tenuta. Ci spingiamo fino a Borgoforte, a Bozzolo, sui campi memorandi di Goito e di Curtatone. E i santi ricordi del passato si uniscono a questa gran pace della campagna, a questo fidente lavoro per un' idea, a farci amare questa pianura uniforme, questa vita che in sulle prime ci era parsa così triste.

A misura che i giorni passano andiamo sentendo sempre più l'intimo fascino di questi ampi orizzonti, di questi campi lavorati dall'uomo che si estendono fecondi sotto il sole, di queste tinte grigiastre delle lunghe file di salici che si rincorrono lontano, di queste nebbie che spesso mettono sul piano un velo bianco, sfumante nell' aria quieta, nel silenzio infinito, rotto soltanto, nelle ore più calde, dallo strido delle cicale.

Li 22.—La signora Falletti seguita a scrivere alle figliuole chiedendo come mai non sono stufe di stare quaggiù, e cercando di sedurle colla descrizione della vita brillante ch' essa mena e la circonda a Varese. Ma esse sono tanto infervorate nelle loro faccende di qui, tanto desiderose anche di dare una prova d'affetto al fratello, che vogliono il più possibile prolungare il loro soggiorno presso di lui.—Io partirò fra pochi giorni, per giungere in tempo a passare co'miei le mie tre settimane a Treviso.

Le sere intanto si son fatte lunghe, e le passiamo nella sala, che abbiamo aggiustata per ora alla meglio, con qualche mobile racimolato per le camere, con qualche altro, più antico ed artistico, trovato rotto in soffitta e fatto accomodare, qualche discreto quadro polveroso, che abbiamo ripulito—de'seicento di scuola bolognese, che Valentina, la quale si pretende già conoscitrice, sentenzierebbe addirittura dei Caracci— qualche pezzo di damasco sbiadito, qualche arazzo sgualcito che abbiamo un po'riparato, qualche antica secchia di rame, nella quale abbiamo messo delle piante, una parte de' libri d'Alberto, e un pianoforte ch' egli s' era fatto venire da Milano.

E spesso abbiamo la compagnia di un vecchio proprietario del vicinato, uomo di valore, e per l'ingegno e per la gagliardia del carattere, cui il nobile proposito di Alberto ha destato viva simpatia, e che lo conforta della sua amicizia e de'suoi consigli. Egli, coinvolto nel processo di Mantova, fu compagno di carcere del mio povero zio Lorenzo, lo assistette fino all' ultimo respiro, e ne parla quasi come di un santo.

Un altro frequentatore della sera è il parroco—un di que' sacerdoti quali nell'alta Italia, in Lombardia specialmente, s'incontrano non di rado, in tutto degni della loro missione: dall'intima severità e carità della vita e la salda sapienza, alla serena dignità dell' aspetto e della parola.—Egli era coadiutore nella parrocchia di Revere quando Bartolommeo Grazioli, parroco in quella, ne fu tratto al castello di San Giorgio e da questo alla forca. E il ricordo di lui, intemerato e santo, vive e sanguina tuttora nel cuore del sacerdote. E quando si ragiona del passato e dell'avvenire, della Chiesa e dell' Italia, di Cristo e della sua legge, la veneranda figura di lui s'illumina di dolore, di desiderio, di sante brame di pace e di carità—e le parole sue, piene di amore fidente, penetrano nello spirito e nel cuore, e vi rimangono.

Li 24.—Abbiamo, Elisa ed io, un nuovo impegno. Non potendo visitare la scuola, chiusa per le vacanze, s'è voluto almeno conoscere la maestra. Che dolorosa impressione è stata! La povera giovane ha imparato in una scuola normale ch' era diretta dapprima da una donna intemerata ed eletta, la quale, vittima d' intrighi tenebrosi, era stata messa in disparte; e l' aveva sostituita una, non solo di gran lunga inferiore a quella per capacità, ma scettica e pubblicamente immorale, e che, tra le future educatrici del popolo d'Italia, con zelo disimpegnava l'apostolato di scetticismo e di corruzione mosso dalla sètta onnipotente, cui apparteneva.

Abbiamo saputo che, in un altro paese, di questa povera maestra ha ben presto trionfato uno dei tanti onesti sindaci e signorotti. Ora è qui da un anno; e mangia spesso pane asciutto per vestire all' ultima moda, con certi tacchetti alti alti, certe cinture strette strette, certi porte-bonheurs risuonanti, e certi cappelli sbalorditoi. Ha un piccolo balcone sulla strada, ornato con altrettanta civetteria, e dove spesso interrompe la lettura di qualche romanzo da strapazzo o di qualche giornaletto umoristico-pornografico—dei quali la posta le porta ogni tanto qualche esemplare, che ignora da chi le venga—per sorridere agli ammiratori. —Qualcuno di questi, naturalmente, si trova sempre ad aspettarla alle tre, alla porta della scuola, dalla quale le bambine escono indisciplinate, e male istruite, e nella quale hanno imparato a far piccoli pettegolezzi, piccole congiure, a desiderar cose che non possono nè devono avere, e a burlarsi ad un tempo della maestrina capricciosa e nervosa e del parroco venerando.

Quando Alberto giunse qui per la prima volta, la maestra s' era molto elettrizzata; e il paese, ben inteso, era sicuro che il giovane signore non avrebbe trascurato l' occasione di qualche piacevole ora di svago nella noia della vita campestre. E grande fu il disinganno di lei e di alcuni sfaccendati, dilettanti di scandali del prossimo, quando si avvidero che il nuovo proprietario pensava a tutt' altro. Talmente a tutt' altro, che, più tardi, in seno al consiglio comunale, nel quale era entrato, egli aveva cercato di promuovere il licenziamento della maestra. Ma l'aveva trovata troppo bene protetta per potervi riuscire.

Elisa ed io abbiamo voluto avvicinarla per vedere di vincer la partita in modo migliore. Ed abbiamo trovato in lei un' altra prova di quanto poco ci voglia a volte, purchè si sappiano scegliere i mezzi, per richiamare sulla buona via questa povera umanità della quale si dice tanto male. No, lo ripeto, non è sempre la conoscenza del mondo che fa gli scettici: è più spesso l' aver trascurato ciò che su di esso può influire —vale a dire non intender la potenza, direi la prepotenza, della bontà.

Tempo addietro narravo qui di una specie di miracolo operato da una buona parola di un buon sacerdote, seguita a molte vane esortazioni di un sacerdote fanatico e gretto. Ora mi vien fatto di ripensare ad una cosa che m' ha narrata una di quelle persone che intorno a sè, quasi naturalmente, irradiano il bene.— Una giovane sua conoscente, ch'era stata male indirizzata nella vita, e già aveva avviato una relazione colpevole, la trovò un giorno che frastagliava delle vecchie incisioni, per incollarle in un album che dovea servire di trastullo ai poveri bambini malati nell'ospedale. Quando intese a quale scopo quella signora si occupava, la giovane fu presa come da un impeto di commozione—di quegli impeti fatti di ammirazione, di rimorso, d' invidia, di un guazzabuglio di desiderii e di rimpianti, che a volte una causa minima desta violentemente.

Infatti, essa non ignorava che quella signora soleva compiere atti di carità ben maggiori e più ammirevoli di questo: ma fu questo, il minimo, quello ch' era destinato a toccarle il cuore.—Non è lavoro di fantasia, è storia: quella giovane troncò tosto la relazione colpevole, e prese ad esercitare alla sua volta opere buone.

Per quanto inverosimile la cosa possa sembrare, per quanto anche sieno infrequenti i mutamenti repentini, e convenga perciò armarsi di perseverante pazienza ne' ripetuti e lunghi tentativi, essa insegna la fede nel bene, essa esorta a nulla trascurare per amore di esso e de' compagni di via e di miserie.

La nostra maestrina, dopo pochi giorni che ci avvicinava, ha cominciato con disperatamente ribellarsi contro gl' insegnamenti della scuola e la tristizia di chi l' aveva avviata per la cattiva strada, e di chi l' aveva anche più trascinata per la china, e di chi ve la manteneva. Ora si va calmando coi nostri incoraggiamenti, e con entusiasmo ci ascolta e dice che siamo due inviate del cielo.—Le chiesi perchè essa non avesse mai profittato del bene che poteva, e certamente avrà cercato di farle, il parroco. Essa arrossì, e confessò ch' era per l' orrore che nelle scuole le avevano insegnato ad avere de' preti. “Anche de' buoni?” chiesi. “Non si parlava di buoni nè di cattivi,” rispose; “si diceva, si ripeteva sempre, che i preti sono «i nemici delle istituzioni.»”

Come mai coloro che imperano nel partito nero, e a tanti sacerdoti ottimi, dall'infimo grado fino al più alto, forzano la parola e la coscienza, non sentono il rimorso, l' orrore, di seguitar ad offrire a dei tristi ipocriti questo facile pretesto alla loro opera demolitrice d'ogni fede, d'ogni legge, d'ogni onesto principio, d'ogni libertà vera? Come non sentono, di fronte a quel loro meschino puntiglio, pesare sul loro capo, terribile, la minaccia di Cristo a quelli che il vero e grande amore del bene non avrà animati: «Io vi vomiterò dalla mia bocca?»

Li 28.—Abbiamo passato una bella serata. Le ragazze fecero a quattro mani della musica vecchia italiana, di quella che fa vibrare, più che le corde de'sentimenti intimi, quasi inconsci, come fa la musica tedesca, quella dell' entusiasmo e de' ricordi lontani. I nostri due vecchi amici, elettrizzati, volevano riudire que' cori che nei giorni dell' oppressione prepararono le energie della riscossa. Alberto si mise tosto al pianoforte, accennando i motivi; e insieme cantammo il coro de' Lombardi: «O Signore, dal tetto natio,» e l' altro: «Va pensiero» del Nabucco, che avevamo, le ragazze ed io, cantato più volte in casa Maren.

Il vecchio cospiratore e il vecchio sacerdote ascoltavano, intenti e commossi. E la musa ancor desta del secondo gl'inspirò di que' versi facili, fluenti, quali solevano farne i nostri vecchi ad ogni occasione lieta o triste—versi nei quali vibrava la forte e buona anima di lui.

Le sorelle avrebbero voluto che il poeta loro rispondesse in rime. Ma egli non improvvisa; i suoi versi son que' lavori finissimi, un po'tormentati, di cesello, che insegna il gusto attuale. Ed Elisa, che non istava alle mosse, corse a prendere un'Ode ai campi, che Alberto ha composta qui, ne' giorni della sua solitudine dopo il ritorno dalle Alpi, e ch' essa gli aveva strappata oggi, scoprendola per caso.

È un canto vigoroso, nel quale si sentono dapprima vibrare le più riposte armonie della natura, lo spirito divino che aleggia nel creato—e poi la feconda vita del suolo e delle piante, e quella rude dell' uomo che li lavora—e chiude con un appello gagliardo a chi ama la patria terra e i fratelli diseredati. E tutto il canto è illuminato da bagliori di quella nuova fede che ha inspirato i nuovi ideali di lui, e si fonde col pensiero alle forti memorie del passato, coi voti arditi e magnanimi per l'avvenire. E sono qua e là tocchi descrittivi di mano maestra, voli di un lirismo potente. Questo canto, confrontato co' precedenti versi del suo autore, rivela tutto il lavoro di evoluzione progrediente che in quest'anno s'è andato facendo nell'animo d'Alberto e il nuovo vigore che n'ha ritratto l'ingegno di lui.

Pallidissima, colla voce alterata e il petto ansante, Elisa leggeva, e il trionfo d' una gioia infinita era ne' suoi occhi. Alberto era scomparso.

Li 29.—Stamani, mentre Alberto era in campagna e Valentina faceva un suo compito, ci eravamo messe, Elisa ed io, ad aggiustare un po' anche la camera di lui. Poi, mentre Elisa andava ad invigilare i suoi allievi domestici, ero rimasta sola, ricucendo una vecchia tenda; e ogni tanto interrompevo il mio lavoro per dar delle occhiate ai libri, i quali, in gran numero, stavano, parte in uno scaffale, parte sul tavolino, parte su sedie, alcuni in terra—libri di scienza, di filosofia, di storia, di letteratura, di economia politica, d' autori i più opposti fra loro; e riviste italiane e straniere, e trattati e giornali d' agricoltura. Un intenso desiderio mi spingeva a guardare anche quelli sul tavolino, aperti in modo da testimoniare di uno studio comparativo, e frammisti a carte scritte e buttate alla rinfusa, come da chi lavora nelle tempeste del pensiero.

La mia discretezza lottava col desiderio, e mi diceva che no, neanche que' libri dovevo permettermi di guardare, quando udii sulla ghiaia del viale il passo irrequieto di Goito, il cavallo d'Alberto. Poco dopo comparve lui, acceso dalla cavalcata, e cogli stivali inzacoherati fino al sommo. Mi alzai tosto per lasciarlo solo—ma egli sembrò volermi trattenere. “Ella avrà da mutarsi,” dissi, riponendo il mio lavoro. Egli pareva un poco imbarazzato, quasi perplesso. Poi disse: “Giacchè ha la bontà di occuparsi della mia camera, vi avrà notato un altro vuoto— un gran vuoto da colmare.”

Non avevo dapprima capito—chè, intenta com'ero a riporre nell'astuccio l'ago, il ditale e le forbici, non lo avevo guardato. Solo avevo notato qualchecosa come un leggero tremito nella voce di lui. Alzai gli occhi, e rividi sul volto acceso del giovane, più profonda e in pari tempo più calma, l' emozione della quale altre volte avevo visto de' lampi rivelatori.… E, senz' altro, i nostri sguardi si diressero alla parete sopra il letto di lui. Io avevo inteso—ma non volli parlare.

Egli capì, e sorrise mestamente. “Ha ragione,” disse, “son io che devo dire, son io che devo fare, ad alta voce, ammenda della mia smemoratezza stolta, del mio rispetto umano piccino.… Quando abbiamo passato l' età che accetta senza discutere, paghi di sofismi vuoti e corruttori, o anche solo spinti da un' ostentazione di spirito forte, ch'è invece tanto tanto debole! si toglie di là l'immagine di Cristo, come fosse un meschino amuleto da donnette.… Come si può essere sciocchi, come si può esser vili! come si può mentire agli ideali, che pretendiamo di tener alti, di nobiltà morale e di umanità! Qualunque sia la fede, purchè rimanga intelletto di vita e d' amore, l' immagine di Cristo non ha da passare ne' ferri vecchi.”

Il rossore del suo viso s' era fatto più intenso, mentre egli parlava, rapido, concitato, senza guardarmi, cogli occhi su quella parete. Indi, quasi come avesse parlato a sè stesso, abbassando la voce, aggiunse: “E si crede d' aver progredito quando quella parete s'è fatta nuda, muta così—seppure a quel posto non s' è sostituito qualchecosa di molto diverso.…”

Nella sala s' udì la voce squillante di Valentina, che mi cercava, felice del suo compito terminato. La chiamai. Essa entrò di corsa, urtando me e il fratello. —“Guarda,” dissi, “stavamo dicendo che una delle cose che mancano ancora in questa camera è un' immagine di Cristo.”—Essa guardò un momento suo fratello come meravigliata, chè, certamente, avrà osservato le tante volte, a casa, lo stesso vuoto nella camera, pur tanto addobbata e ripiena, di lui. Ma la sua nascente delicatezza di donna represse le parole che forse stavano già sulle labbra della bambina— e un lampo divinatore passò, con un sorriso di gioia, sul viso di lei. “Oh! Alberto,” disse, “lascia che ti dia il crocifisso mio! Mi è tanto caro che me lo son voluto portare appresso. Ed è quello davanti al quale ho tante volte pregato per te.…” E si slanciò verso Alberto che le stendeva le braccia.

Sera.—Oggi Elisa, come ha fatto qualchevolta dacchè siamo qui, aveva voluto cedere a me il suo cavallo, e ci precedeva con Valentina nella victoria. Quando tornavamo il sole, come un enorme globo incandescente, era tramontato nelle nebbie dell' orizzonte, e un velo cerulo s' andava estendendo sui campi deserti. La strada bianca, lunga, diritta, risonava sotto il trotto serrato dei nostri cavalli; nella luce che calava sull'immensa distesa, le rane cominciavano il loro verso malinconico. Al campanile di un villaggio lontano sonava l'Ave Maria, e i contadini che rincasavano si scoprivano riverenti. Nelle povere case che dai sacrifizi del giovane signore aspettano la redenzione si accendevano i magri fuochi della cena. Entrambi tacevamo; una parola più augusta scendeva nelle anime nostre.

Quando, dopo una lunga galoppata, ci mettemmo al passo, Alberto mi disse: “Un tempo credevo di amare la campagna; ora m' avvedo che non l' amavo se non da artista. Ne sentivo la poesia, non ne intendevo l' anima.”

Io serbai il silenzio—lo guardai solamente. Egli riprese con un sorriso: “Oggi è la mia giornata delle confessioni; che ne pensa?”—“Penso,” risposi, “che è perciò la giornata del trionfo.” Gli occhi del giovane fissarono i miei, mentre i nostri cavalli, che lasciavamo andare colle redini lènte, s' andavano quasi fermando.

“La dignità, come tante altre cose,” seguitai, “è così male intesa—e così male, a volte, si mette l'orgoglio.… Perciò si porta il capo alto quando s' avrebbe da arrossire, e si crede umiliarsi nell'ora delle intime vittorie, che risollevano dinanzi a Dio ed agli uomini.”

“Gli uomini?” ripetè, “quanti sono che vedono così, e così apprezzano?”—“I migliori e i più intelligenti,” risposi, “quelli cui le passioni e i pregiudizi non hanno falsato la coscienza e l' intelletto, e quelli soprattutto che la pura idea cristiana ha educati e ne son ministri degni.”

Procedemmo per qualche minuto in silenzio, ascoltando le voci della sera. Indi ripresi, come avessi parlato a me stessa e seguitassi ad alta voce il corso de' miei pensieri, che indovinavano i suoi: “Strano come si condannino le forme della nostra fede in un tempo che ha dato tanto sviluppo agli studi psicologici e che perciò dovrebbe sentirne l' opportunità profonda, il lato intimamente umano.… Nè capisco come, in questo momento di manía di pubbliche confessioni, scritte e stampate con arte vanitosa, ambiziosa di scandali, si trovi umiliante la confessione seria e magnanima delle proprie cadute ad un uomo che le giudica più indulgentemente assai che non soglia giudicare le proprie, ed ha missione di aiutarci nelle lotte della vita col lume e i conforti di quell'idea che crea le sole intere grandezze morali.”

Alberto taceva; ma sul suo viso e negli occhi suoi, fissi all' orizzonte lontano, qualchecosa come una lotta intima passava. Indi sorrise come avesse sorriso di sè stesso—e disse: “Quante cose si vedono, quante si sentono, prima non credute nè volute ammettere.… È l' anima che cresce e sale nella vita, e fa all' intelletto le sue rivelazioni, e conquista, nella forza intima della coscienza, la libertà.

“Vi fu un tempo—ed ella lo sa,” egli seguitò fissandomi con uno sguardo memore e grato, “nel quale anch'io ho chiamato deboli e di corta veduta quelli che credono alla rivelazione, e oscura questa: adesso, quantunque ancora vada vagando e cercando, sento che, se la rivelazione è misteriosa, è la nebbia delle passioni e de' pregiudizi ch' è oscura—sento che non intendere ciò che chiamerei il mistero del mistero è grettezza di spirito, e che perciò perder la fede è segno non di forza, ma di debolezza, è segno di perdita di noi stessi; sento che per riconquistar la fede è anzitutto noi stessi che dobbiamo riconquistare.”

Il giovane s'era eretto, il capo s'era alzato con una mossa altera. “È così” risposi, “che amo vederla parlar di codesto, Alberto—col capo alto, e l' occhio che guarda lontano.”

Eravamo prossimi alla villa, ne vedevamo già, nella notte crescente, le finestre illuminate, e udivamo i cani abbaiare e le quiete voci del villaggio intorno. Quando fummo presso la chiesa, ne usciva il parroco recando il Viatico ad un malato che avevamo visitato ieri. Scendemmo a terra e piegammo il ginocchio.—Il sacerdote era passato sollecito nella solennità dell'abito e del portamento. I lumi, il suono del campanello, i passi della gente che seguiva, si dileguavano nella notte.

Proseguimmo a piedi, in silenzio, colle redini al braccio. Un intimo brivido, il brivido del mistero d' amore, del cui velo la scienza, che intuisce nuove incognite nelle trasformazioni, va sollevando un lembo, mi correva tuttora per le membra. La campana di notte, lenta e solenne, vibrava nell'aria quieta, sotto le stelle che s' andavano accendendo nel sereno. Misteri quaggiù d' amore e di dolore—misteri nell'immensità degli spazi.

Li 30.—Dopodomani parto per Treviso, dove entrambi i miei cari mi aspettano, e dove passeremo qualche tempo presso amici che non hanno dimenticato. Le figliuole si tratterranno qui qualche altro giorno per ciò che, con grande soddisfazione, di Valentina soprattutto, chiamano i loro affari. Torneranno, colla madre, a Roma verso la fine del mese; ed io farò che il mio ritorno combini col loro.

È la prima volta che lascio per tanto tempo Valentina; e ne provo una commozione che si aggiunge a quella che sento pensando a tutto ciò che aspetta il mio cuore là dove troverò tanti ricordi, e tanti vuoti dolorosi, uno soprattutto.…

Oggi la mia bambina non vorrebbe lasciarmi mai, trova nel suo cuore tante gentilezze nuove, poi, ogni tanto, trascorre a scatti di ribellione.… Che sarebbe se dovessi lasciarla per sempre?…

Alberto, dopo aver accompagnato le sorelle a Varese, proseguirà pel mezzogiorno della Francia, dove intende di visitare alcuni posti che lo aiutino ne' suoi studi d' agricoltura e d' enologia. Indi si recherà a Parigi e a Berlino, per passar parola con quegli alcuni generosi che, qua e là, si sono associati per innalzar la bandiera di una riscossa degli spiriti, per rialzare la nostra società decadente mediante un ravvivamento di quegli ideali e di quelle fedi che hanno fatto dire recentemente, qui, a un eletto e gagliardo apostolo di quell' idea, Paul Desjardins: «Je suis ultra-chrétien.» Uomini d' ogni religione e di varie scuole filosofiche, fra i quali molti, forse, non hanno ancora, circa i mezzi, un concetto deciso e pratico, ma che, certamente, son vicini a Cristo anche più ch' essi stessi non pensino, giacchè Cristo inspira, e a sè insensibilmente, progressivamente, attrae, ognuno che aspira al bene, lo vuole, e per esso ama, pensa, e combatte.

1°ree; Ottobre.—Oggi andai a fare qua e là pei campi e nel villaggio alcune visite di commiato—e sentii d' aver già degli amici fra questa povera gente usa all' abbandono e all' alterigia da un lato, alla voce di sobillatori e di corruttori dall' altro.

Avevo lasciato per ultimo il parroco.—La canonica è piccola e bianca, coperta in parte di glicine e di rose rampicanti, e circondata di un giardinetto ch' egli coltiva con amore. La sua Perpetua, una vecchia affezionata e ciarliera, mi disse che il parroco era chiuso nel suo studio con una persona. Pensai d' aspettare; e rimasi là, seduta in cucina a discorrere colla donna, che mi narrava della gran bontà del suo padrone, della vita di austeri sacrifizi, della carità inesauribile.

“Non so come faccia,” diceva, “vecchio com'è, a resistere. Sa che alle volte, quando ho da uscire avanti mezzogiorno, mi capita di non ritrovare più la carne nella pentola? E bisogna sentire allora come si scusa —perchè di me ha un po'paura, sa? Anche certe bottiglie di vin vecchio che gli aveva regalate un suo amico, una alla volta, hanno imparato tutte la strada di qualche malato della parrocchia. E quando faccio per preparargli la roba da mutarsi, trovo sempre qualchecosa che manca, e ogni inverno siamo ridotti quasi senza coperte. Che ci vengano i ladri in questa casa? gli dico alle volte. E lui mi risponde:—State zitta, cattiva lingua!

“Adesso s' è fissato di voler dormire con un materasso sottile come una foglia—ne ha levata mezza la lana!—e un saccone duro da far paura. Che non ne fa abbastanza della penitenza? gli dico. E lui brontola, e mi dà della pettegola.—E così è una processione continua di gente che viene a lamentarsi di qualchecosa; e lui riceve tutti, ascolta tutti—e guai se io alle volte, quando lo vedo stanco o sofferente, tento di chiudere o di mandargliene via qualcuno!—Il prete ha da avere il cuore e la porta sempre aperti,— mi dice. Ma poi, se bastasse! Quelli che non vengono è lui che va a cercarli—sani e malati, e vecchi che non possono venire alla chiesa perchè stanno lontani. E vedesse che ceffi si riducono a venir qui alle volte! E riescono da quella porta che paion cambiati. Non si sa mica che cos'abbia lui che fa cambiar la gente.… Io credo che sia ch' è un santo.—Che ne dice lei?” aggiunse la vecchia abbassando la voce, come si fosse trattato di una grave scoperta da farsi.

In quel mentre la porta dello studio si aperse, e ne uscì uno che tosto riconobbi per Alberto, quantunque, per essermi, come per un impulso di discretezza, rapidamente ritratta, non avessi potuto scorgerlo in viso. Quando si fu allontanato traversai la saletta e bussai alla porta del parroco.—Egli era seduto alla sua scrivania, e mi accolse col suo solito sorriso buono e festevole. Più festevole anzi che mai, mi pareva, con qualchecosa di lietamente commosso….

Discorremmo dell'argomento del quale spesso, nelle scorse sere, ci eravamo intrattenuti alla villa—Cristo nell'avvenire, la Chiesa e l'Italia—io, come soglio quando sono con chi non è debole di fede e perciò non può esserne scosso, inquieta e impaziente, lui sereno nelle sue larghe vedute di fede e di carità. “Traversiamo momenti di transizione,” egli diceva, “momenti che si andranno facendo sempre più foschi e scabrosi. Non ve ne sgomentate, figliuola. La società ha bisogno di constatare tutte le conseguenze de'suoi errori. Cristo lo ha detto. È necessario che degli scandali avvengano. E per società non intendo il mondo soltanto—intendo pure la Chiesa, che Dio va purgando nelle prove. Non dobbiamo dolercene, perchè troppo v'era, e v' è tuttora, di lontano dallo spirito del Maestro —troppi di noi meritano l'invettiva di Gesù: Ma guai a voi che chiudete in faccia agli uomini il regno de' cieli—chè nè voi v' entrate, nè permettete che v' entri chi sta per entrarvi.”

Una nube di tristezza passò sul viso del vecchio sacerdote. E fu colla voce alterata ch' egli seguitò: “Oh! figliuola, che responsabilità è la nostra—quella de' pastori che devono far emanare da sè quel calore di carità che trattiene, che cerca, che chiama, che aspetta!… Io non chiedo a Lui,”—e guardava il crocifisso sulla scrivania, “altra sapienza che questa.”

“Sventuratamente,” dissi, “non sono, per ora, i preti che fanno questa preghiera quelli che hanno maggior probabilità di salire nella gerarchia ecclesiastica.” Il parroco sorrise bonariamente. “Ebbene, che importa?” disse; “ci lascino pure vicini al popolo presso al quale ora più che mai si fa importante la nostra missione. Meglio se nell'adempimento del nostro dovere non sorridono premi all'ambizione—meglio se costantemente abbiamo da ricordare che missione nostra è il sacrificio—l'oscuro sacrificio.”

Il sole che scendeva all'orizzonte illuminava di una luce allegra le pareti bianche dello studio, gli scaffali de' libri dell'antica sapienza, l'immagine di Quello che irradia luce ed amore sul passato, sul presente e sul lontano avvenire. Dalla finestra aperta entrava profumo di fiori e il chiacchierío di un capinero nascosto in una vecchia catalpa.

Io non gli avevo risposto—tutta l'anima mia ascoltava ancora le parole di lui e di quell'ambiente di carità e di pace. Egli riprese: “Coraggio, figliuola, —non seguiteranno le cose così; ricordatevi del passato, vedete di quanto la Chiesa è progredita sulla via della luce e della virtù. Non siate impaziente, non diffidate—nuove prove recheranno nuovi progressi, nuovi dolori apporteranno nuovi frutti di vita, un'altra èra di sangue, forse, ci ripurgherà nel martirio.”

Sul volto pallido del sacerdote, sotto i capelli bianchi, in faccia a Cristo, mi parve che qualchecosa passasse come una luce di trionfo divino.

Stazione di Verona, li 2.—Ho due ore d' aspetto. M'ero messa a leggere e non capivo, chè il mio cuore, diviso fra quanto ho lasciato e quanto mi aspetta, è troppo ripieno d' emozioni. Amo meglio scrivere.

Hanno voluto accompagnarmi tutti tre a Mantova, dove dovevo prendere il treno. Anticipammo, pel desiderio che s' aveva di visitare insieme il castello di San Giorgio. Partimmo alle sei, Valentina ed io nel panier, mentre Elisa e Alberto precedevano nel tilbury. Una nebbia fitta s' andava diradando sotto il sole, e lasciava sulle siepi, sulle foglie de' gelsi e delle viti, che cominciavano qua e là a ingiallire e arrossare, perle d'argento. Fu con una certa tristezza che traversai per l'ultima volta que'campi monotoni, che salutai le donne uscite sulle porte delle povere case a vederci passare, che cercai una volta ancora le guglie sparse de'campanili.

Valentina, insolitamente silenziosa, non mi distoglieva di dosso i grandi occhi intenti, che ogni tanto si riempivano di lagrime. Io le facevo le mie raccomandazioni —e mi sforzavo ad essere un po' sostenuta perchè la non mi si mettesse in una passione di pianto. “Signorina,” disse, “saprò essere buona senza di lei?” Poi le veniva paura ch'io rimanessi ne'miei paesi. “Tornerà, tornerà di sicuro, non è vero?” mi diceva buttandomi le braccia al collo. Poi d'un tratto si metteva in collera come avesse saputo che la tradirò, e mi minacciava con due occhi pieni d'ira.

Cara, generosa, ardente natura, che, trascinata al male, può cadere di precipizio in precipizio, diretta al bene può assorgere ad ogni virtù più gagliarda. Signore, perchè, a volte, un triste presentimento m'assale?…

Eravamo giunti alla piazza dei Martiri, al malinconico monumento sacro alla memoria dei forti, e avevamo letto i nomi de' giustiziati, e, ai due lati: Qui le ossa—Qui le forche.—Una luce bianca di sole fra i vapori inondava la gran piazza solitaria. Ci dirigemmo in silenzio al castello, traversammo il cortile squallido, ci mettemmo per le lunghe scale che, traverso l'Archivio di Stato, salgono alle celle che memore pietà serba come sacrari.

Per me non era la prima volta. Anni addietro vi ero stata col povero nonno e la povera zia, e ci eravamo lungamente indugiati nel carcere angusto e tetro dove il nostro martire per oltre un anno avea languito ed era spirato, forse invidiando i compagni che salivano, in que'giorni, il patibolo…. Ora, entrambi hanno raggiunto il martire oscuro.—Rimangono memorie, rimangono ansiosi timori per quel diletto che mi resta —rimane la fede che loro ha guidati traverso le lotte della vita.

Era fin da iersera che avevo notato sul viso d'Alberto, quando mi guardava, come una nube di corruccio, e che mi pareva egli cercasse modo di parlarmi da solo a sola. Ma mai l'occasione s'era presentata. —A un certo punto, rimasti indietro nel labirinto delle carceri, egli mi apostrofò a bruciapelo: “Nicoletta, perchè mi crede un vile?”

Lo guardai meravigliata. “Lei ieri, quando io uscivo dallo studio del parroco, s'è affrettata a ritirarsi… Credeva ch'io mi sarei vergognato d'esser visto uscire di là? che fossi debole al punto di bramar di dissimulare il passo che avevo fatto, perfino dinanzi a lei? —a lei?” ripetè con un tremito d'emozione nella voce. “Non lei sola, che mi ha insensibilmente condotto e fatto condurre dove mai avrei sognato di giungere, ma ogni altro lo saprà—ogni altro che mi censurerà, che mi deriderà…. Ebbene, che importa?” egli seguitava come fra sè, con un fiero sorriso di sfida.

Stesi al giovane la mano. “Ha ragione di rimproverarmi,” dissi; “mi perdoni. È stato un atto quasi istintivo, forse suggerito dall'abitudine delle codardie umane.” Lui continuò: “Vigliacco chi si vergogna degli aiuti e de'conforti che cerca—vigliacco!—Ero andato là senza nessuno scopo determinato.… Cominciai a parlare a quell'uomo di Dio, che diceva cose che mi fecero un'impressione nuova. Dopo qualche tempo m'accorsi che m'ero confessato, e che non mi rimaneva ad ascoltare che la parola del perdono. Quella parola non mi parve quella d'un uomo—non mi parve usurpata—mi parve venisse, traverso i secoli, da Lui, da Lui che affidava a'suoi tutte le facoltà sanatrici e confortatrici della sua legge d'amore.…”

Un raggio di luce pallida, che scendeva da un alto finestrino praticato nella muraglia grossa, rischiarava il viso del giovane, che non m'era mai parso così baldo. “Alberto,” dissi, m' è caro sia qua ch' ella mi ha narrato codesto—in queste carceri dalle quali i martiri della libertà d'Italia passarono al luogo dove, volenti, fecero ciò ch'ella ieri ha fatto. E m'è anche più caro il pensiero ch'ella lo ha compiuto nel rigoglio della giovinezza e della salute, in faccia alla vita, senza timori e senza viltà.”

Avevamo raggiunto Elisa e Valentina, in una delle celle che mettono verso porta San Giorgio e la campagna —quella di Enrico Tazzoli. Un reggimento usciva dalla porta, colla banda e la bandiera. Pareva, in quel carcere, un sogno—il sogno de'martiri.—E guardavamo la lunga fila ondeggiante in cadenza allontanarsi nell'ampia distesa bigia, ascoltavamo le note che si dileguavano nella nebbia. Ed io avevo quasi inconsciamente giunte le mani, a Dio chiedendo per questa nostra terra adorata virtù ed amore di forti.

Roma, li 29 Ottobre.—Son tornata da otto giorni, col papà, all' indomani del ritorno delle signore Falletti. Gino l' abbiamo lasciato ad Empoli, diretto a Siena.—Mi sento disorientata ancora, col cuore ancora distratto dai posti riveduti, dalle impressioni provate, tanto più care quanto più dolorose.…

Avevo tentato di visitar l' abbaino della povera zia. Mi dissero che il signor Rossi è morto, che la signorina Ersilia s' è sposata fuori di città, e che la casa è stata venduta a un vecchio orso che non lascia passar nessuno.—Stetti un pezzo guardando la stramba casetta pittoresca, cogli affreschi del Pordenone che sbiadiscono sul muro sgretolato, il balcone di ferro panciuto e arricciato, la finestra dell' abbaino dov' essa soleva tener le sue piante e guardare gli alberi degli orti di là e le Alpi lontane, e la lunga finestra illuminata della Madonna Grande, e la finestrina in faccia, di Nani, il suo piccolo malato.

Chiesi di lui alle donne del vicinato. È morto poco dopo di lei, e della madre non seppero più nulla. Anche la ricamatrice è andata altrove—la casa di fianco, morta la vecchia signora de' fiori, è stata venduta. Il signor Davide, il droghiere, ha chiuso bottega fallito. Chiesi di Rosina, la figlia dell' oste, che le recava il desinare e le faceva qualche servizio. Le comari si guardarono, facendo de' cenni misteriosi.

Eppure ogni giorno ripassavo in quella via delle Stangade—e ogni volta guardavo in su, all' abbaino, come avessi potuto sperare di veder la cara figura riaffacciarsi.… Un giorno vidi aperta la finestra—e il cuore prese a battere più forte.

Passeggiai lungo il Sile, intorno alla nostra casa, intorno al giardino, percorsi e ripercorsi tutte le vie del vicinato, andai in tutti i posti per me più familiari, passai delle ore alla Madonna Grande, ripensando. —Ogni tanto salivo al solaio della casa che ci ospitava, a guardare a una a una le cime delle mie Prealpi, de' miei Asolani—e poi i campi in tutti i sensi percorsi nella prima lieta giovinezza, i noti campanili del suburbio, le strade bianche fiancheggiate di platani, il Sile azzurro e placido fra i giuncheti.

Rividi le maestre mie, che mi riempirono il cuore di memori grati ritorni al passato—il mio maestro, il sacerdote eletto cui tanto debbo della vita dell' anima e della mente, e col quale, ne' fidati colloqui, soglio ritemprarmi pei cimenti della via, lui che, sempre, mi fa ripensare alla profondità e la santità del legame che fra il maestro e il discepolo si forma quando un divino ideale inspiri le dottrine e la vita di chi insegna. Legame ben diverso da quello che nasce fra l' allievo e un maestro di scetticismo e che lo scetticismo guidi nella vita.… legame che mi fa ripensare alle stupende parole colle quali Antonio Fogazzaro chiudeva una commemorazione del maestro suo, Giacomo Zanella:

«.… Ma ora ch'io dissi le ultime parole, le ultime solenni parole dell' amore, il tuo euore si è commosso, tu vieni a me con volto paterno, ed io piego il mio, sento la tua mano, sento la tua voce, sento una dolcezza e una forza, un lampo della mia adolescenza che ti fu cara, un lampo del mondo in cui sei; onde, rialzandomi, con gioia ti dico: Grazie, Maestro.»

Rividi amici tante volte desiderati—incontrai persone che allora non solevo avvicinare e colle quali avvennero espansioni nuove ed esuberanti—alcune altre, fra le conoscenti di quel tempo, fredde come chi non rammenta.—Trovai vuoti di persone morte, uomini maturi fatti quasi vecchi, fanciulli fatti adolescenti, signorine d' allora già madri di più bambini, giovani che avevo lasciati ragazzi.

Andai più volte a passare un' ora sotto le vôlte severamente magnifiche del mio San Niccolò, a ripensare in quella pace augusta di luce e d' ombra, e rivedervi il mio Giambellino e quelle maravigliose opere de' Lombardi che sono l' altare e il mausoleo di Agostino d'Onigo; in Seminario, nell'antico refettorio dei Domenicani, quelle teste deliziose di Tomaso da Modena, e, in Duomo, il mio Paris Bordone, e, al Museo, per opera di un uomo valente e benemerito quanto modesto, sorto come per incanto, quegli affreschi che rammentano il fare del Carpaccio, raffiguranti l' immaginosa storia di Sant' Orsola.

Trovai care vecchie case desolantemente rammodernate, antichi affreschi di facciate iniquamente fatte sparire, imposte di palazzi vetusti colorate in verde vivo, vie raddrizzate, portici soppressi, case dalla cognita simpatica fisonomia originale, co'barbacani e i cornicioni sporgenti e i balconi pieni di fiori, tutte lisciate, imbellettate e rincivilite, rampicanti divelti da vecchie muraglie, piante acquatiche strappate dai canali, soppresso lo scalo all'antica dogana—svago della mia fanciullezza, quando le grosse barche, tirate da'bovi, arrivavano da Venezia—soppresso il lavatoio al ponte

.… dove Sile e Cagnan s'accompagna

Par.. IX.

e del quale parevami ancora d'udire lo sbatter de'panni sull'assi, che saliva col ronzío de' cicalecci delle lavandaie —il mio caro grosso brutto ponte di Sant'Agata sostituito da un insulso ponticello civettuolo—e tante altre malinconie.

Una mattina partimmo, col medesimo treno di quattro anni addietro—una mattina nebbiosa come quella. Ma lei non c' era a benedirmi.… E quando, per un intenso desiderio disperato, mi spôrsi dal finestrino, e vidi sotto la tettoia figure ignote che salutavano altri, e la stazione farsi sempre più lontana, e il Sile disparire, e i profili della mia Treviso confondersi nella nebbia, alzai gli occhi dell'anima là dove le nebbie della terra non arrivano.

Ora ho ripreso la mia vita con Valentina, che mi ha accolta con gioia romorosa e m'ha detto: “Si ricordi, signorina, non dobbiamo lasciarci mai più, mai più!”

Li 30.—La contessa Faustina e il conte Alessandro non sono peranco rientrati, e non torneranno che dopo Natale. Lei dicono vada in traccia, per suo figlio, di un'ereditiera del suo colore; lui è a Montecarlo.

In casa Maren poco di nuovo. Francesco sempre lasciato in disparte, e sempre indomito, anzi occupato a scrivere un libro che, per gl'incrollabili principii ch' egli vi afferma, gli procurerà nuove contraddizioni e nuove persecuzioni; Letizia sempre sofferente e sempre rassegnata; Elena sempre operosa, sempre pronta a dimenticare le pene sue per confortare le altrui. Giorgio, bocciato anche la seconda volta all' esame di filosofia, deve ripetere l'anno. Ne freme —ma ne son fatti, nella lotta, più saldi i suoi convincimenti e i propositi, e tanto più vigorosamente egli si ribella a tutte l'altre insidie della scuola e de'compagni. Bianca, felice del ritorno della sua Valentina, va sempre più acquistando in gentilezza d'animo e d'aspetto.

Il padre Paolo, un po'più pallido, un po'più curvo, m'ha accolta festosamente, e m'ha fatta parlare a lungo de'suoi monti e delle sue valli—e gli occhi di lui, mentre ascoltava, parevano risplendere di un ritorno di giovinezza.

Li 31.—A Varese le signore Falletti hanno conosciuto un capitano d'artiglieria, Carlo Santella, di Como, giovane egregio per qualità morali e intellettuali, e simpaticissimo di figura. S'è legato con loro, a cagione di Elisa, che molto gli piaceva e che prese ad amarlo come, essa dice, non aveva amato mai. —Non s'era però fatto avanti più di così—nè di matrimonio nè d'amore era mai stato parlato.

Siccome egli è di guarnigione a Roma, ha cominciato, naturalmente, a frequentar la casa; e ciò quantunque non vi fosse stato molto incoraggito dalla signora. Questa ha in vista per Elisa non so quale matrimonio cospicuo; e forse temeva la preferenza della figliuola per uno che ha bensì mezzi non pochi e s'avvia a una brillante carriera, ma non ha nè blasone nè milioni.

Fin dalla seconda sera ch'egli venne m'accorsi ch'egli discorreva meco volontieri, e non di argomenti frivoli, e s'interessava molto ad ogni cosa ch'io diceva, anche se non rivolta a lui, e parlando cercava di trovarsi meco all'unisono. Un'altra sera notai ne'suoi occhi che mi guardavano qualchecosa di anormale. Volli scacciare questo pensiero—al quale sentivo tanto maggiore soddisfazione in quanto egli mi piace assai. L'idea di Elisa mette fra la mia coscienza e lui una barriera che dev'essere insuperabile, checchè il cuore ne dica.

Essa s' è già avveduta di tutto, ben inteso; probabilmente se n'è avveduta anche prima di me.… Iersera vedevo che soffriva, e quando lui ed io eravamo insieme non distoglieva gli occhi da noi e cercava tutti i modi per avvicinarlo senza parere. E oggi è meco freddissima. Povera Elisa!…

E se non fosse che una manovra per destare la sua gelosia? Se la povera istitutrice dovesse servir di gradino per meglio salire più alto?… Eppure non ne lo crederei capace. E, d'altra parte, non ve ne sarebbe bisogno. E ne'suoi occhi c'era qualchecosa.…

Novembre, la sera de'morti.—Sono stata, dianzi, a trovare il papà.—Questa sera, un tempo, solevamo passarla a Moliparte, uniti nel salotto de'fiamminghi, pregando, coi domestici, pei trapassati. Poi me n'andavo sotto l'atrio a guardar nella notte, e meglio ascoltare la voce malinconica della campana che, fin tardi, al villaggio, ai campi lontani, parlava di essi che ci han preceduti.

Ora, odo qua in faccia suonare i soliti ballabili —e le solite voci briache passare per la via. La signora Falletti voleva a forza condurre Elisa in non so qual teatro, dove, forse per vincere la ripugnanza di qualche retrogrado, danno una première solleticante.

Anime dilette del passato, sante memorie, tornate tornate, a ritemprare—tornate, a chiamare!

Li 3.—Ho perduto la mia pace—quella pace ch'ero così felice d'avere riconquistata. Adesso egli viene tutte le sere. Non posso avere più dubbi.… Egli ha bensì capito che non poteva seguitar a mostrare la sua preferenza, e—tanto più ch'io ora lo evito sempre e in tutti i modi gli faccio capire il mio proposito —mi avvicina di rado; ma ho notato più volte i segni infallibili—i mutamenti di colore, l'alterazione della voce, il tremito delle mani.… Mio Dio, purchè egli a sua volta non li abbia notati in me! Comunque sia, il mio apparente raffreddamento non ha giovato—tutt'altro.

Ed Elisa capisce tutto, e se ne strugge. E neppure apprezza il suo parziale fiacco ritorno a lei. Finora s'è condotta con dignità; ma temo sempre che l'aumentare della gelosia possa finire con farle dimenticare il suo orgoglio di fanciulla.—Povera Elisa, chissà che martirio è nel suo cuore.… Molte volte fui sul punto di parlarle apertamente—ma poi sempre temo di urtare anche più il suo amor proprio, senza riuscir a rassicurare il suo cuore.—Spero che almeno essa avrà notato il mio contegno e capito i miei intendimenti. Ma chissà se li crede fermi? Son proprio sicura io stessa che lo sieno?…

Li 7.—Che giorni difficili si traversano nella vita! Faccio del mio meglio per sostenermi, per seguitar a fare tutto il mio dovere e perchè la mia Valentina non s'accorga di nulla. Finora spero d'esservi riuscita. Ma con che pena! come mi sento distratta e fiacca, come mi sento contrastata.… È una lotta continua del cuore e della fantasia che spingono da una parte, della coscienza e della ragione che richiamano dall'altra. L'intelligenza ne soffre, dura fatica a raccogliersi, ad esplicarsi nell'insegnamento—ne soffre il fisico, ne soffre ogni energia, in un momento nel quale avrei bisogno di tutte le mie forze! Mio Dio, aiutami Tu!

Per qualche sera non era venuto. M'è parso che Elisa ne godesse.… Ed io, mio malgrado, ogni volta che udivo sonare il campanello speravo fosse lui— e ogni altra persona che compariva mi riusciva quasi uggiosa.

Ieri l'altro lo incontrai per via. Ero con Valentina. Quando, passando, ci salutò con aria turbata, mi sentii impallidire. M'era parso che Valentina m'avesse guardata. Perciò le inventai di un certo male nervoso a un piede che ogni tanto mi dà delle trafitture.

Forse feci peggio. Il timore di perdere il prestigio che sui giovani deve a qualunque costo serbare chi educa, e quello soprattutto di dare alla mia allieva, se non dei cattivi esempi, delle distrazioni, dei pensieri disadatti alla sua età, mi turbano oltremodo. Se è sempre una cosa penosa per me vedere una ragazza perdere per un amore la serietà e la serenità, lo è doppiamente quando si tratta di un'educatrice. E non so per quale delle due sorelle senta più scrupolo, direi quasi rimorso.…

Ora temo e spero sempre di tornarlo ad incontrare. Per quanto costantemente scelga passeggiate opposte ai pressi del suo quartiere, l'anima mia va da quella parte.

Che devo fare, mio Dio? Vi son de'momenti nei quali mi pare che dovrei senz'altro lasciar questa casa, Roma. Poi me ne sento mancare la forza. La chiedo a Dio tutti i giorni—ma forse non la chiedo abbastanza sincera, abbastanza volente.

Li 10.—Egli non era più tornato. Iersera mi trovavo in sala affatto sola. Le signore stavano preparandosi pel teatro, il commendatore e gli amici erano nel fumoir, Valentina era salita a prendere il suo lavoro, una coperta che aggiusta per i poveri. Udii una suonata di campanello, indi una sciabola in anticamera —la sua sciabola. Entrò pallidissimo. Io mi sentivo tremare, e, rapidamente, confusamente, presentii, e chiesi forza a Quello senza il cui aiuto male si combatte.

Egli sedette vicino a me senza parlare. Per fortuna era bassa la fiamma della lampada nell'angolo dove mi trovavo.… Lo sgabello sul quale egli s'era messo toccava la mia poltroncina. Sentivo il suo respiro frequente, l'odore dell'ultima sigaretta rimasto sui suoi baffi. Egli si chinò sur una delle mie mani, ch'era sul bracciale della poltrona, e vi posò la fronte. Era fredda. Ritirai tosto la mano. Lui rialzò il capo: era anche più pallido di prima—e inghiottiva per l'emozione. Egli aveva appena detto: “Dunque.…” che Valentina comparve sulla porta, carica della sua coperta, che trascinava un po'. Mi affrettai ad incontrarla e a rialzare il lembo caduto; e le sedetti accanto, e presi ad aiutarla a lavorare, benchè la mano mi tremasse e il cotone mi s'ingarbugliasse ad ogni punto.

Lui non s'era mosso che per salutar Valentina, appena appena; ed aveva ripreso il suo posto scartabellando nervosamente una rivista sul tavolino là presso.—Poco dopo entrarono le signore in pelliccia. Elisa appena lo vide arrossì vivamente. Egli s'era loro avvicinato con un certo imbarazzo. La madre lo salutò freddamente, e gli disse ch'era dispiacente di doverlo congedare—non volevano arrivar troppo tardi all'Amico Fritz.—Elisa disse, mentre gli occhi rilucenti parevano invitare. qualchecosa della bellezza di quella musica.

Ma egli non ne fu scosso. Disse ch'era venuto solo a salutarle, che aveva un impegno per la serata. Io feci per accommiatarmi dalle signore e da lui, che pensavo sarebbero scesi insieme. Ma egli era impacciato, e balbettò che aveva da parlare al commendatore e che perciò doveva trattenersi ancora un momento. Elisa impallidì. Io dissi tosto a Valentina che saremmo risalite, ed uscii con lei salutando tutti, mentre egli mi seguiva con uno sguardo che implorava.

Mi affrettavo per le scale come se qualcuno m'avesse inseguita—la povera Valentina, colla sua gran coperta raccolta in furia nelle braccia, durava fatica a tenermi dietro. Giunte qua, le dissi che, siccome si sarebbe passata la sera sole, era meglio leggesse; e non se lo fece dire due volte.—Io avrei voluto rimaner sola, ritirarmi nella mia camera per dar libero corso all'emozione di gioia e di martirio che mi soffocava. Ma il timore che Valentina potesse sospettare io fossi ridiscesa mi trattenne nello studio.

Fingevo di leggere anch'io, qua davanti al mio tavolino. Ma appena sapevo che libro avessi dinanzi, e di rado mi rammentavo di voltare la pagina. L'anima mia, tutto il mio essere, erano ancora in preda all'impressione di quel momento.… Perfino il pensiero pareva sospeso. Era come un dormiveglia dolce, ma con quella certa punta dolorosa che va penetrando ne'lieti sogni man mano che s'avvicina il risveglio alla vita. E quando questo fu compiuto, sentii che l'ora era giunta.

Non v'ha più luogo a discussioni colla coscienza, non v'ha più luogo a viltà. È il dovere, e basta.

L'altro giorno ho inteso parlare da Valeria di una famiglia inglese che sta per lasciare Roma e cerca un'istitutrice provvisoria, per gli alcuni mesi che, prima di tornare in Inghilterra, passerà in altre città d'Italia. Non so che gente sia, nè quanti figliuoli, nè quali esigenze abbiano. Non importa—mi offrirò comunque sia: basta partire.—Il deperimento della mia salute in quest'ultimo tempo, deperimento che esagererò, mi sarà sufficiente pretesto; dirò che quando l'anemia mi prende suol andare a precipizio e che non vi ho trovato mai altro rimedio che un pronto mutamento d'aria. Se, come spero, la signora Falletti non si sentirà, finchè Elisa è nubile, di gravarsi, come essa suol dire, di un'altra figliuola da marito, cercherò di farmi sostituire da Valeria. Stasera stessa gliene scrivo, e la pregherò di scrivere a sua volta all'Ariccia, dove quella famiglia inglese si trova attualmente, raccomandandomi.—Al papà dirò la verità. —Purchè si faccia presto!

Li 11.—Valeria sarebbe disposta a sostituirmi, ed ha scritto all'Ariccia.—Ho detto tutto al papà. E stato per lui un gran colpo; ma non è mio padre che tentennerebbe dinanzi a un dovere. Abbiamo passato insieme un'ora ben triste.…

Iersera egli era tornato. Ma lo seppi in tempo, e pretestai un mal di capo per non scendere. Più volte però durante la serata m'aveva preso la tentazione di sentirmi meglio.… Che giorni, mio Dio! Vi son de'momenti nei quali, oltre allo struggimento del cuore, mi tenta l'orgoglio che provo pensando ch'egli sarebbe disposto a rinunziare per me a una dote come quella di Elisa e ad una fanciulla che pur gli piaceva.

E vi sono auche de'momenti nei quali un altro orgoglio mi tenta: mi par di diventare un'eroina da romanzo! E mi duole di ritrovare a volte in questa sciocca idea la forza di perseverare nel mio proposito.… Eppure no, quella meschina sorgente di forza— povera forza fatta di vanità—non la voglio! Eroina da romanzo? Sono semplicemente una donna che compie un dovere. Dovere tanto più serio in quanto l'amore per quell'uomo non è, in Elisa, una febbre capricciosa come la mia: Elisa è fatta pel matrimonio, è cresciuta avvezza a quell'idea, e al suo amore s'è tosto legata quella prospettiva. Più, io sono stata la causa principale della sua rinunzia ad una precedente occasione. Allora feci bene a distoglierla da un'unione che prometteva male; ma non ho ora tanto più il dovere di non fargliene tramontare una che offre tutte le garanzie più serie?

Questo amore, per essa che per la prima volta ama veramente, è l'avvenire—e il dovervi rinunziare l'accascierebbe; per me, che non son chiamata alla vita coniugale, e per la quale l'amore è sempre stato un affetto strano, pieno di ribellioni e di contrasti, e che, se cedessi all'attrazione del momento, mi ritroverei poi un giorno pentita, e farei pentir quell'uomo d'avere scelto una donna troppo fiera e indipendente, per me, dico, non si tratterà che di lottare un'altra volta e un'altra volta riconquistar la pace della libera solitudine, del lavoro pel mio ideale.… Ed è in questo pensiero che voglio trovar la forza, non in compiacenze stolte—in questo, e in Dio.

E ne ho d' uopo di forza, oh! quanto! La mente ragiona, la coscienza approva e comanda—e il cuore, a volte.… Povero cuore!…

Li 12.—Elisa è ora meno fredda meco. Sento ch'essa mi è grata pel mio contegno—benchè l'amor proprio le vieti di farmene cenno, e ancora, certamente, non sappia perdonarmi il sentimento che ho inspirato all'uomo che ama.—Io, mio malgrado, la studio per veder d'indovinare in essa l'attuale contegno di lui. Come s'è condotto ier l'altro sera? è tornato ieri? Non ne so nulla. Solo vi son de'momenti nei quali—povera pazza che sono—mi sgomentano certi lieti sorrisi di lei.… E sento già la gelosia di quel futuro che sto preparando, e nel quale la mia lontananza spegnerà in lui l'affetto, e la vicinanza di lei riaccenderà quello di prima. Ve ne son perfino di quelli in cui, io che l'ho tanto ammirato pel suo disinteresse, penso con risentimento che in un giorno non lontano egli si rallegrerà della mia ritirata, a cagione del mezzo milione della figlia del banchiere.… Povero cuore umano —e povera Nicoletta che, ancora, osa sentirsi tentata d'insuperbire!…

Li 15.—Ieri ho chiesto una giornata di permesso per andare con Valeria all'Ariccia, dove eravamo aspettate. Non dissi in casa lo scopo della nostra gita. —Ho combinato. La famiglia è composta dei genitori e tre bambine dai sei ai dieci anni. La madre, bella, elegante ed altera—le bambine, tre di quegli splendidi tipini dai capelli biondi, dai grandi occhi ombrati di lunghe sopracciglia, dal nasino un po'retroussé, che si vedono, con que'gran cuffioni e que'gran nastri intorno alla vita e i braccini nudi, in certe stampe inglesi e in certe incisioni di keepsake.—L'incontro fu breve e piuttosto freddo. Avrò da istruire tutte tre le bambine—Kate, Lily e Daisy, che non sa leggere. —Non sanno ancora dove si recheranno; ma la partenza è fissata pel 25 corrente. Io dovrò raggiungerli all'Ariccia.

Quando tornai la signora Falletti era sola nel suo salottino. Le parlai cercando di dare alle mie parole tutta la maggiore apparenza di verità. Non mi parve ch'essa sinceramente mi credesse; ma mostrò di credere, e non seppe dissimulare il suo contento per la mia partenza. Solo obbiettava mancarle il tempo di trovare da sostituirmi, “giacchè,” aggiunse, “non posso assumere per ora di badare a quella pazzerella.” Le dissi di Valeria. Dapprima non parve soddisfatta; certamente un'amica mia, ch'essa già conosceva e non le era mai piaciuta, un'altra istitutrice imbevuta di «certe strambe idee» non poteva essere il suo ideale. Ma la ristrettezza del tempo la fece finir con aderire, tanto più che il commendatore, fatto chiamare di qua, aveva, sulla porta, fra una boccata e l'altra di sigaro, annuito, con un “Sì, sì,” indifferente e frettoloso, aggiungendo un “Sono aspettato,” come di scusa a me.

Indi la signora mi disse che durante la mia assenza Elisa aveva ricevuto da Napoli una lettera da «una principessa loro intima amica», che la invitava alle nozze di sua figlia e a tenerle compagnia per qualche giorno dopo la partenza di questa. “Elisa non ne aveva voglia,” aggiunse la signora, “ma io la persuasi, perchè è una di quelle amicizie che conviene coltivare. È anche per fare una dimostrazione a quell'impertinente di quel Santella, che si pensa di farle la corte. Come se nostra figlia fosse roba per lui! Ma, si capisce, la gli piace, e più ancora gli piacerà la sua dote.”

Io mi sentii mutar di colore; ma, nella mia gola quasi strozzata, trovai una mezza voce da dire: “Il capitano Santella è d'animo troppo nobile perchè si possa sospettarlo di questo.”—“Oh! oh! l'ingenua,” rispose, sogghignando, la signora Falletti, “lei crede? Le dico io che Santella una stracciona non la sposerebbe davvero!” e mi guardò in un certo modo.

Quando, coll'animo più che mai in tempesta, traversavo le sale per salire a cercar la mia Valentina, incontrai Elisa e le diedi la notizia. Essa si fece di bragia, si elettrizzò tutta, e mi soffocò addirittura di abbracci, di carezze, di rimpianti dei quali invano cercava di dissimular la gioia e che—il cuore umano giustifica a volte i più strani paradossi—credo fossero, a forza di gioia, sinceri. Certo, essa non mi aveva mai voluto bene come in quel momento—e, fors'anco, le feci compassione.…

Essa voleva trascinarmi seco su di un sofà, mentre, cogli occhi umidi, seguitava a coprirmi di baci. Ma io dissi che dovevo affrettarmi presso Valentina e cercavo di svincolarmi. Non sapevo sorridere—sentivo sul mio viso qualchecosa che volevo nascondere.… Essa mi guardò, arrossì vivamente, e parve umiliata. Aperse la bocca come per dir qualchecosa—poi sul suo viso passò una nube, e la bocca si richiuse con un fremito fiero degli angoli.

“Quando parti per Napoli?” chiesi. “Stasera stessa,” rispose, “col diretto delle undici, chè le nozze hanno luogo domani sera. Ne sono abbastanza contrariata,” aggiunse, “chè è un ambiente quello che non mi piace punto. Già, finchè starò in questa casa dovrò sempre agire contro il mio sentimento.” E pareva fosse lieta di accennarmi a questo, quale ad un serio motivo di bramare l'unione con lui. “Ci rimarrai poco ormai,” risposi, “Dio vi benedica!”

La mia voce aveva tremato, s'era quasi spenta nelle ultime parole. Elisa aveva gli occhi pregni di lagrime. Ci abbracciammo in silenzio. Essa scottava pel sangue che un'altra volta le era affluito al viso. Ma, un'altra volta, non seppe dire una parola che le bruciava le labbra.—Ed io, dopo averla ribaciata e avere stretta al mio cuore con forza quella personcina che tremava, e per la quale mi pareva di provare ira e tenerezza ad un tempo perciò ch'era destinata a lui, mi allontanai rapidamente.

Mentre salivo le scale l'emozione di quel momento mi si fondeva in cuore colla prospettiva dell'altro, non meno penoso forse, che m'aspettava. In tutti questi giorni ero riuscita, mi pareva, a non far sorgere nell'animo di Valentina altro sospetto e altra pena che per la mia salute, del deterioramento della quale le avevo, esagerandolo d'assai, parlato ad arte. E ciò me l'aveva resa tanto più affettuosa e premurosa, l'aveva perfino fatta studiare con più impegno, perchè, povera cara bambina, diceva che voleva guarirmi a forza di darmi consolazione.

Ed io, distratta e contrastata com'era, tra forti ed opposti sentimenti, non avevo ancora, malgrado gl'impeti di tenerezza, di rimpianto, d'inquietudine anche, che a volte mi prendevano pensando a lei, potuto presentire appieno lo strazio di questa separazione. —Ma ora che tutto era deciso, ora che avevo anche superato, abbasso, i momenti più scabrosi, e che il mio cuore, per la stessa violenza di quelle emozioni cui lui aveva parte, era, da quel lato, entrato in uno di quegli stadi d'atonia che non mancano in nessun affetto e in nessun dolore, mi pareva che l'anima mia fosse ormai aperta tutta dal lato della mia figliuola, che in me più non vibrasse che il cuore della maestra.… della mamma.

E quando entrai nello studio, dove essa, ignara del mio ritorno, stava immersa nella sua lettura, e vedendomi mi corse incontro tutta in festa e mi saltò al collo, sentii tutte le mie forze mancare.… E di nuovo, come quando, dopo altri giorni di lotta intima, l'avevo vista e stretta fra le mie braccia per la prima volta, non seppi frenare la mia commozione.

Essa s'era sgomentata, ma non aveva capito. Quando rialzai il capo vidi che grosse lagrime scendevano sulle sue guancie e gli occhi parean fatti più grandi da meraviglia e da timore.—Non volevo dirle la cosa bruscamente —volli prepararla con parole indeterminate.… Ma essa, d'un tratto, aveva inteso—e tutto il fondo selvaggio di quella calda natura meridionale si sollevò con fiera violenza.—Non fu dapprima dolore il suo, fu ribellione—non era affetto che mi mostrava, era collera. Sarei rimasta, dinanzi a quella strana manifestazione, meravigliata e sgomenta se non mi fossi rammentata che nell'identico modo avevo, anche più giovane di lei, accolto l'annunzio della partenza dell'istitutrice mia.

Essa aveva asciugato le sue lagrime, mi guardava con due occhi irritati, e mi andava dicendo delle impertinenze. Poi dalla violenza passò allo scherno, e, colle narici frementi e le labbra atteggiate al sarcasmo, aveva mutato le insolenze grossolane, nel genere di “donna senza cuore che l'abbandona a questo modo,” in punte di sarcasmo che mi qualificavano d'ipocrita che l'avevo ingannata fino all'ultimo.—Io che, per esperienza mia, sapevo come tutto ciò sarebbe andato a finire, aspettavo in silenzio senza ribellarmi nè correggere. E quando la povera creatura si buttò sul sofà in un pianto disperato, corsi a lei, e mi lasciai trascinare, soffocare, coprir di lagrime e di baci.

Quando ebbi esaurito tutto ciò che avevo potuto dirle per confortarla e che udii battere le undici, volli farla coricare. Ed essa quasi macchinalmente si lasciò menare in camera, spogliare e mettere a letto come una bambina. S'era poi tornata ad avviticchiare a me, che m'ero seduta là accanto, ed aveva appoggiato il capo sul mio petto, col respiro pesante dell'esaurimento. Poi le palpebre gonfie pel gran piangere cominciarono ad abbassarsi, il suo abbandono andò diventando sempre più grave, finchè rimase del tutto addormentata.

La deposi piano sul guanciale—e non sapevo risolvermi a lasciarla. Un'immensa tenerezza mi richiamava sempre a quella creatura cui mi lega la maternità dell'anima e per la quale la nostra separazione è il primo gran dolore della sua vita. E mirando il sonno di quella purissima figura di giovinetta, mille pensieri, mille timori mi assalivano.… E avrei voluto poterla vegliare, seguire sempre, finchè, donna, l'avessi vista entrare, forte e sicura, nella vita.

Deposi la lampada in un angolo, in terra. Avevo risolto di rimaner là, anche perchè avevo quasi paura della solitudine della mia camera. Temevo il risveglio di un altro affetto, di un altro rimpianto, che già andavano rifacendosi strada nell'anima sconvolta.… E stetti là delle ore, appoggiata al letto della mia figliuola, ripensando, mentre ascoltavo il respiro regolare di lei che seguitava a dormire, immobile, del sonno della giovinezza. La luce fioca della lampada in terra illuminava languidamente la camera—ricordi di notti vegliate a letti di morenti mi ripassavano nell'anima con un brivido.—Batterono mezzanotte, il tocco, le due, le tre.… Poi sentii che la stanchezza mi vinceva, e mi addormentai sul guanciale di Valentina.

Li 18.—Mi par mill'anni che sieno passati questi ultimi otto giorni. Valentina non è più capace di far nulla e vorrebbe sempre stare appiccicata a me; io vado sempre più sentendo la pena di ciò che qui lascio —perfino di persone e di cose cui non m'ero mai accorta d'essere attaccata.—Forse è meglio—chè così non mi domina troppo il pensiero di lui.…

Mi sono imposta di risalir sempre, appena desinato. Iersera, che avevo tardato un poco e Valentina m'aveva preceduta, udii una sciabola in fondo alla scala. Era la sua. Mi parve che il cuore mi si spezzasse —e fui tentata di ridiscendere….…—Mi fermai sul pianerottolo, in un punto dov'egli non m'avrebbe potuta scorgere. Passò rapidamente—mi parve di vederlo come in una nuvola—e distinguevo male i gradini che avevo ripreso a salire.

Glielo avranno detto? e come? s'inquieterà per la mia salute? oppure capirà? Mi ammirerà egli— mi amerà tanto più? O sarà partito per Napoli?

Sera.—La posta delle tre mi ha recato una lettera d'una signora che frequentava questa casa nel primo tempo ch'ero qui e mi dimostrava della simpatia, ed ebbe a scrivermi dopo alcune volte, da Firenze dove s'era trasferita, per qualche piccola incombenza. Essa mi accompagna una lettera della signora Falletti, e mi dice che, conoscendomi, è tanto sicura che la versione che questa dà alla mia partenza è falsa, che, acciò io possa, prima di lasciare questa casa, confonder quella donna, supera la ripugnanza che prova nel mandarmi cosa che deve farmi una penosa impressione.

Ho letto la lettera della signora Falletti tremando, mio malgrado, d'amor proprio crudamente offeso; e devo confessare ch'essa mi ha procurato una delle maggiori tentazioni della mia vita.… Eppure Dio mi aiuterà a superarla. Se io dicessi a quella donna la verità, oltre a compiere verso Elisa e verso lui un atto oltremodo indelicato, renderei quasi impossibile il loro matrimonio, disfarei tutto ciò che, con tanta pena, ho fatto.… E dovrei disprezzare me stessa—e lui pure avrebbe il diritto di disprezzarmi. Dirò, coll'Adelchi del Manzoni, che respinge una tentazione di viltà: Al vento, empio pensier!

Metto qui la lettera, come un documento di certe realità che s'incontrano lungo la via.

«Cara Amica!

»Mi perdonerà che da molto tempo non gli ho scritto, e vorrà credermi che non è stato per dimenticanza ma per non aver tempo. È un gran da fare che si ha quando si vive alla Capitale e massime nell'alta società. E una continuazione di impegni e di pensieri massime per una mamma che ha una figliuola da maritare. Ma la mia Elisa è stata invitata da una nostra intima Amica, una Principessa di Napoli. E così ho un poco di tempo, e ne approfitto per mandarci subbito le nostre notizie.

»Primieramente debbo annunziarle che mio Marito per una forte somma sborsata in opere di Beneficienza è stato fatto Barone. E quanto prima sarà anche fatto Senatore. Esso è assai occupato e gli anni sono piuttosto difficili; ma esso, per dire la verità, è assai bravo e non possiamo che essere sodisfatti. Debbo anche annunziarle che il mio Alberto à fatto un eredità di mio fratello di tre milioni abbondanti. La disgrazia è stata questa primavera improvisamente, e può imaginare il mio dispiacere.

»La mia Elisa è molto ricercata ma finora non à ancora fatto la sua scielta. Essa dice che vuole sposare uno di suo genio. Ma spero che presto si collocherà anche essa. Il mio Alberto non è più così brilante come quando Ella lo vedeva. À cangiato di gusti gli piace di stare in campagna di fare l'Alpinista e viagiare. A me mi dispiace perchè mi piace i giovani che si diverte. Adesso è in Germannia in un viaggio di Istruzione. A suo Padre gli dispiace perchè non ha voluto entrare in Banca con Lui. È molto bravo per li studi e pieno di talento. Speriamo che col tempo si cangi anche delle sue stravaganze.

»La mia Valentina si è fatta, non dovrei dirlo che son sua madre, una bella giovinotta. In questo momento mi tocca la seccatura di cambiar di Governante quella giovine decaduta che Ella ha veduto. Essa dice che parte per salute ma io dico che ci è sotto qualche cosa. Aveva sperato in un Capitano che viene per casa perchè invece fa la corte alla mia Elisa. Lei non ci pensa, che non è nepure partito per essa, ma invece si è innamorata la Governante e io dico che parte per il grande avvilimento che lui gli à levate le speranze. Anche lei del resto povera ragazza non à torto se cerca di collocarsi. Adesso va da certi Inglesi viaggianti con tre bambine che la prendono come una specie di bon. Io poi a dire la verità non mi dispiace troppo perchè è una giovine di talento ma pedante stravvagante con certe idee dell'altro mondo e si mischia troppo dei fatti delli altri. À fatto andare a monte alla mia Elisa un brillantissimo matrimonio colla scusa che ei era qualche cosa da dire sul giovine che era un giovine proprio distinto. À disgustato il mio Alberto con un famoso Professore che gli voleva tanto bene perchè diceva che aveva delle cattive massime. E invece bisogna sapere come tutti lo lodano, anche i giornali, e sotto di Lui il mio Alberto poteva farsi strada più presto. E invece gli ha voltata la testa, pare impossibile quella ragazza niente bella e più vecchia di lui. Lui dice che non è inamorato che anche lei neanche ei pensa, che sono solamente amici. Ma a me non la danno da intendere. Ai tempi nostri non si usava queste amicizie. Le ragazze facevano all'amore se trovavano da farlo oppure se ne stavano ad attendere a casa, senza impiciarsi dei fatti delli altri e massime dei giovinotti. Che ne dice Ella, cara Amica? Invece di lei viene una sua Amica che era maestra della mia Valentina. Veramente avrei avuto più piacere di un altra perchè ho idea che questa sia dello stampo dell'altra. Ma non ho avuto tempo di cercare e poi è difficile trovar bene. Anche con quella di prima che à dovuto andar via in premura che si ricorderà, ero stata scottata.

»E come stanno loro tutti in famiglia? Mi favorirà le di lei notizie che mi farà molto piacere. E cosa fa il suo bel giovinotto? Non pensa a prender Moglie? Dovrebbe venire qualche volta alla Capitale, che quest'anno si diverte molto. E farebbe moltissimo piacere se ci favorirà. Si dice che avremo molte Feste nelle Case della prima Nobiltà. Adesso abbiamo al Costanzi dei bellissimi Teatri con toelette di molto lusso. Già adesso se si vuol fare buona figura conviene servirsi a Parigi. E noi siamo molto contente di Madama Laferriere. Ma adesso ho inteso di un altro, un inglese, che è ancora più chie e che non mi ricordo il nome. Adesso bisognerebbe sapere tutte le lingue perchè si sente tanti nomi strani e tante parole che non si capisce. La mia Valentina è brava, massimamente nel Francese. Lei vorebbe sempre studiare è piena di memoria. Ma quella rivvoluzionaria di quella Governante me l'à fatta un poco stravvagante anche essa, e ho paura che quando me la prenderò io, avrò da combattere per ridurmela.

» Ma sono al termine del secondo foglietto cara Amica e la lascio con tante assicurazioni della mia costante amicizia. Mi ricordi a tutti i suoi di famiglia con tanti doveri di mio Marito. Con sincera affezzione me Le protesto

» Roma, Pallazzo Falletti » addì 16 di Novembre 189*.

» Di Lei aff. ma amica

» Baronessa Claudia Falletti.»

Li 19.—La vendetta ordita nell'anticamera del morente sta per compiersi. L'ho saputo oggi, a casa, dove trovai una lettera di Gino. Le pressioni perchè si affiliasse, che la sètta tenebrosa, che valuta tutta la potenza del suo ingegno, gli aveva fatte mentre ancora si trovava in Roma, avevano ripreso, dopo quel fatto dell'ultima notte di carnevale, più insistenti ed insidiose—alle promesse erano state aggiunte le minaccie per la sua carriera. Viste vane le une e le altre, cominciò una sequela di noie, di difficoltà che non sempre sapeva di dove venissero, di articoli che tentavano di demolirlo, come uomo e come maestro, di intrighi orditi contro di lui da mani che si nascondevano e facevano agire taluni fra gli stessi suoi scolari. Poi aveva visto questi diminuire, dileguarsi quasi tutti, malgrado la grande simpatia ch'egli aveva loro inspirata.—Tutto questo egli ei aveva tenuto nascosto sempre; aveva resistito tacendo, con quella fortezza e quella serenità magnanime che solo i grandi ideali insegnano.

Ma ora egli ci annunzia che, al posto di professore straordinario che gli spetterebbe e gli era stato promesso, sarà nominato un altro. Gino del suo rivale non ci dice altro che il nome. Ma noi sappiamo che questi è ad esso, in tutto, inferiore d'assai. Il merito suo sta nelle dottrine demolitrici e, soprattutto, nelle sue qualità di fratello. Forse il ritardo aveva lo scopo di dar tempo al refrattario. Sanno ch'egli è povero, ch'è fidanzato, che il suo avvenire intimo dipende dai passi della sua carriera—e le crescenti capitolazioni li facevano non disperare della vittoria.—E intanto altri, settari del campo clericale, consci delle insidie delle quali Gino era oggetto, gli avevano offerto, pel caso di naufragio, una cattedra molto bene retribuita in un istituto dove, pretendendo insegnarla, l'idea cristiana si travisa, e per entrar nel quale egli avrebbe dovuto venir meno a'suoi sentimenti di cattolico cristiano, di liberale e d'italiano. Ed ha rifiutato senz'altro.

Povero Gino, che dolore represso è fra tutte le sue righe e, in pari tempo, qual fidente incrollabile amore all'idea! Egli ci narra l'una e l'altra cosa laconicamente, semplicemente, dice che lavorerà in altro modo, prega il papà e me di non affliggerci per lui, di non temere: «Mi conforti,» egli dice, «il sapervi sereni in faccia alla vita, anche stavolta; mi aiutino la fede e l'affetto vostri come quelli della mia Sofia. M'è risparmiato un dolore cui male mi sarei rassegnato: scorger nell'amore di lei una viltà. Essa fu nella prova, costantemente, pari a sè stessa: la sua mano di donna, così piccola e così forte, mi aiuta contro ciò che solevamo chiamare la nostra felicità, che si va sempre più allontanando, forse dileguando per sempre. Fido al nostro ideale, fido a me, quel cuore ha convertito in valore tutto il martirio suo, tutto il martirio nostro.—Vi son delle ore nelle quali vorrei esser solo a soffrire, a lottare; in altre una balda ebbrezza mi prende pensando ad essa, a voi, diletti, che la stessa causa fa progredire, volenti e fidenti, nella procella che d'intorno ci si oscura.»

Grazie, Signore, che di sì fiera gioia conforti lo squallore del mio cuore di donna e di sorella: vederlo inflessibile fra le seduzioni degli opposti partiti, irradiato della Tua luce, m'è premio ad ogni lotta, ad ogni sacrifizio. Dà a lui, dà a loro, quella felicità ch'io non voglio; per loro ti offro questi miei giorni d'affanno, e dammi fede e virtù in cambio, Signore!

Li 20.—Ancora tre giorni. Devo partire per l'Ariccia il 24, chè la famiglia parte il 25, non so per dove. —Ho quasi finiti i miei impacchi. La mia Valentina ha voluto aiutarmi—e, ogni tanto, era uno scoppio di pianto che faceva interrompere il lavoro.—Avrei voluto far da sola, risparmiarle questo di più di pena. Poi pensai che non è bene far evitare ai giovani gli sforzi penosi e le impressioni che li preparano alla vita, la vita vera.—Povera figliuola, chissà a che cosa va incontro? Quali tempeste e quali desolazioni aspettano quell'anima passionata e generosa?…

Elisa m'ha scritto. Una lettera molto affettuosa, e da tutta la quale traspariscono la lotta e l'imbarazzo. Mi ringrazia ripetutamente per tutto il bene che ho fatto a lei e ai suoi fratelli, e pel bene che le ho voluto, e finisce dicendo: «Grazie per tutto—per tutto.…»

La signora in questi giorni è meco assai gentile. Ma, ciò malgrado, molto mi costa la lotta col risentimento che m'ha destato in cuore quella lettera— e più volte sono stata sul punto di fare una sciocchezza.… Povera donna, in fondo è frutto d'ignoranza, della quale non ha colpa. Il commendatore mi si mostra di una deferenza insolita. Hanno voluto farmi un dono—un bel braccialetto; e hanno permesso che Valentina mi regalasse una Bibbia di edizione stile antico.

Mi duole di dover partire senza veder Alberto. Egli ha compiuto il giro che s'era prefisso, e ora giungerà a Vienna, dove so che conta trattenersi una decina di giorni, per poi fermarsi, passando, a Gratz e a Trieste, ed essere sulle sue terre verso la Madonna di dicembre, tempo fissato per la consegna degli affittuari.— Volli almeno scrivergli, stasera, per prender commiato, e dirgli qualche parola ancora—di quelle sulle quali era fondata la nostra amicizia.

Li 21.—I genitori di Valentina, seccati della desolazione di lei, hanno pensato di mandarla al più presto fuori a distrarsi. Perciò hanno deciso di far venire addirittura Valeria e mandarle insieme per qualche giorno a Napoli, presso l'amica e la sorella, finchè, dicono, là le sarà passata e si sarà avvezzata alla nuova istitutrice. Valentina supplicò la lasciassero aspettare fino a domani l'altro, dopo la partenza mia; ma il padre disse ch'era ora di finirla, e fu inesorabile.

Quando fummo per lasciarci, abbasso al portone, ed essa non voleva distaccarsi da me, il commendatore, che rientrava in quel mentre, la prese per un braccio e la cacciò a forza nel coupé.—Mi parve come se qualchecosa, dentro, mi si fosse spezzato.… Indi risalii in fretta, e rientrai nella sua camera vuota, poi in quello studio dove aiutavo quell'anima a crescere nella vita e n'ho avuto tanti e sì puri conforti.… Ed ho lungamente pensato e pregato dinanzi al crocifisso del tavolino. Esso rimane qui, chè glielo lascio come ricordo, e bandiera.

Più tardi.—Torno da casa, col cuore più stretto che mai.… Adesso vado a passare col mio povero papà un'ora ogni giorno. Egli soffre della mia partenza, come soffro io di doverlo lasciare, più assai che non si voglia dimostrarcelo a vicenda. E i nostri colloqui perciò son brevi, perfino insulsi a volte—nè l'uno nè l'altro dice quello che pensa, quello che sente soprattutto.

Scrisse lui a Gino la cosa. A me troppo ripugnava. E questi mi mandò una lettera degna di lui—nella quale ho trovato tutto il cuore, tutta l'anima di mio fratello.

Li 22.—Stamani avevo terminati i miei preparativi. Mi rammentai ch'è la festa di Cecilia, la purissima fanciulla, fida, nella famiglia pagana, alla legge di Cristo, e che, vergine, trasse lo sposo alla nuova fede e al martirio. Presi una botte e andai verso le catacombe di San Calisto, dove il corpo di lei stette per secoli sepolto e tuttora si venera la sua memoria.

Una nebbia bianca leggera andava sfumando sulla campagna, sotto il sole; e i pensieri miei erravano nella pace di quel deserto. La vettura scorreva rapida sul selciato della via Appia, fra le mura squallide e gli orti—e sul grande scheletro corroso delle terme di Caracalla, nell'aria immobile e tiepida, cornacchie volavano gracchiando. Ogni tanto lasciavo dietro a me una di quelle vecchie chiese solitarie, dagli affreschi sbiaditi sulle facciate vetuste e i piazzali verdi d'erba, che narrano traverso i secoli ognuna la storia di un martire.

Discesi ed entrai nel campo che ricopre le catacombe di Calisto. Rami di mortella e crisantemi sparsi segnavano, fra i campi squallidi, la via. Prima di scender nell'antro buio, stetti un po'guardando il gran piano sfuggente da'monti ceruli al mare, gl'inmmensi orizzonti di luce, quali alla morta vergine, nel giorno del suo trionfo in Cristo, avran sorriso.

Sulla lunga scala ripida la luce fioca diminuiva man mano; qualche lume rossastro, in fondo, oscillava nell'aria umida. Dopo due svolte del corridoio angusto mi ritrovai dinanzi la cappella di Cecilia. Era là entro, sotto la vôlta di tufo, una festa di lumi e di fiori. Una ressa di gente vi si accalcava aspettando il Sacrifizio. Tornai per un poco sui miei passi, e mi fermai in un corridoio appena rischiarato da una fiamma che languiva accanto a un loculo aperto e vuoto. Sotto leggevo: Saturnina in pace, in fide Dei.

Un'armonia di voci giovani che intonavano il Kyrie giunse fino a me. Echeggiava sotto le vôlte basse, scorreva pel buio laberinto del cemeterio—grave prima, nel Kyrie lungo, gemente, poi nel Gloria fremente fino ad un grido come di preghiera e di trionfo ad un tempo. Pareva il suono venir di lontano—tutto sembrava un sogno di secoli remoti.

M'ero ritirata fino appiè della lunga scala ripida, grigia e fredda nella luce scarsa che scendeva d'in alto. E mi parea di vederne scendere una mesta fila di uomini e di donne, recanti sulle braccia il corpo inerte e sanguinoso d'una fanciulla. Mi parea di vedere le lagrime di coloro, di udirne i canti di trionfo. Mi passavano accanto, si dileguavano nel buio de'corridori —e sangue ne segnava la via.

Ero in ginocchio, in terra, col capo appoggiato al tufo umido. Le voci tacevano. Il sacerdote offriva il Sacrifizio—emblema dell'unione di Cristo all'umanità errante e travagliata, redenta nell'amore. Nell'anima mia ogni pena avea perso della sua intensità—ogni affetto mi parea sollevato a più alto e incorruttibile amore. E andavo pregando per quanti sto per lasciare, buoni e non buoni, diletti e troppo poco amati.— Pregavo pel mondo che si agita e brama, e cerca altrove —invano; e, più che con parole, pregai con lagrime. —E quando il coro riprese, cantando Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, da nobis pacem, tutta l'anima mia sorse in quel grido.

Brillava disopra splendido il sole, odoravano nell'aria tiepida i fiori sparsi sul sentiero.—Ma l'anima mia ancora ascoltava quelle voci salenti di sotterra, ancora seguiva quella visione di sangue.

Li 23.—Ho terminato di far le mie visite di commiato. Avevo lasciato per ultimo le più care e dolorose: le mie povere predilette, cui ho portato certe cose che non prendo meco, e che piangendo mi baciavano le mani e le vesti, e volli baciare in viso, e cui promisi che la mia Valentina non le abbandonerà; i Maren, che non sanno, e non dicono, ma hanno indovinato, e inteso—e coi quali, mentre l'angoscia era nei nostri cuori, poche parole ho scambiate; il padre Paolo, il confidente dell'anima mia.

Gli narrai tutto—e lasciai libero quasi violento corso alla voce della mia combattuta passione.—Col capo basso, come assorto in un pensiero, egli. per qualche minuto, aveva serbato il silenzio. “Padre,” dissi, “ella non m'intenderà—che ne sa lei di queste tempeste?”

Il capo del frate si rialzò vivamente, negli occhi passò un lampo—un lampo solo. Poi la serenità usata tornò sul volto venerando di lui, e, colla consueta carità infinita, prese a confortarmi e ritemprarmi con quelle parole che Cristo insegna a'suoi.… Quando partivo la tempesta del mio cuore s'era tramutata in non so quale baldo desiderio di resistenza nuova, di nuove battaglie.

“Dio vi benedica, figliuola,” egli disse mentre mi accompagnava lungo il chiostro solitario, “e vi armi della sua carità pei cimenti dell'avvenire.…”—La campana del convento chiamava i frati al coro. “Vado al mio posto,” disse, “al posto dove soglio chiedere a Dio l'ora de'trionfi della carità e della giustizia.… Chiediamola chiediamola, figliuola, e lavoriamo perseveranti. Se cadremo sulla breccia senza averla veduta, cadremo colla fede salda nel cuore e l'amore indomato.”

E la figura del cappuccino, che in dir questo s'era eretta come per un impulso possente, e si staccava sul fondo di quel povero chiostro bianco e di quello spiraglio di cielo, mi sta dinanzi ancora, mi accompagnerà, come un richiamo, un conforto, una speranza.

Tornando mi parve di veder lui traversare, in fondo, la via.… Non era dunque partito per Napoli. —Mi rimproverai di sentirmene lieta—e, passando accanto a Sant'Andrea delle Fratte, vi entrai per aiutarmi a scacciar quel pensiero e pregare per lui e per essa.—E mentre stavo là, nella quiete vespertina dell'altare, metteva pace nella mia tempesta l'idea che non era a una donna priva di principii e di virtù che lo lasciavo—mi sosteneva il pensiero che l'anima di lei avrebbe potuto, a fianco di lui, elevato nella coscienza, nel cuore, nell' ingegno, sempre meglio esplicarsi e, a sua volta, aiutarlo a percorrere la via diritta e a guardare, fra le burrasche e le insidie della vita, in alto.

E questo pensiero, a me che l'amore, più assai che sogni d'avvenire, suole inspirar la brama intensa del progresso morale dell'essere amato, e il silenzio pieno di Dio di quella chiesa modesta dove anime travagliate dalla vita vanno cercando forza e pace, finirono di mettere nel mio cuore una calma ch'era come il riposo della vittoria.—Grazie, mio Dio, perchè questa è Tua.

Sera.—Mi sono accommiatata da tutti. Prima di pranzo dal papà, e dall' Angela cui lo raccomandai, con uno stringimento di cuore fatto di tutti que'timori che vi assalgono quando ci si separa da un essere adorato, specie se l'età che declina aggiunge ancora alle altre minaccie della vita.… A tavola non mi riuscì di mangiare—e poco capii de' discorsi che i signori Falletti facevano col senatore Baretti e il cav. Spelli. Poco dopo che fummo tornati in sala, dicendo che domattina devo partire per tempo e che avevo ancora qualchecosa da fare, mi accommiatai dalla signora. Essa mi si mostrò benevola, volle darmi due baci, e disse che mi augurava buona fortuna.… I due amici mi fecero un mezzo inchino, ripetendo l'augurio. In quel momento il dialogo udito in quella sera, un anno fa, sulla scala, mi si riaffacciò—e fece altero il mio saluto.

Mi avviai al fumoir, dove s'udiva tossire il commendator Falletti. Egli era seduto nella solita poltrona, e leggeva, fumando—come nel giorno in cui Valentina m'aveva a lui presentata. Ma stavolta egli s'alzò del tutto, depose il sigaro e il giornale, e mi prese le due mani. “La ringrazio, signorina,” disse con una voce anche più bassa del consueto. E mi parve di sognare vedendo su quel viso qualchecosa che somigliava alla commozione. Indi, senza aspettare la mia risposta, si voltò bruscamente, e, a passo sollecito, si diresse verso la porta della sala.

Andai di là, dalle persone di servizio, e salutai tutti a uno a uno. Giovanni, che sposerà fra pochi giorni, era tutto sorridente di felicità e di gratitudine, e seguitava ad augurare anche a me, diceva, buona fortuna. Rosina, nel corridoio, mi baciò le mani piangendo.… La buona Marianna volle accompagnarmi fin quassù, e seguitava ad asciugarsi le lagrime col grembiule e a dire che le pareva impossibile. Fu con una tenerezza piena di venerazione e di ricordi che baciai quelle vecchie guancie rugose, e strinsi quelle mani ruvide, che tanto lungamente e fedelmente hanno lavorato.

E quando m'ebbe lasciata, nella mia cameretta tutta spoglia ormai colle valigie chiuse, pensai ai vecchi servitori de'miei morti, a luoghi e tempi remoti.… E una folla d'affetti e di memorie m'assalse, lontane e vicine, e rimpianti indefiniti, e immagini amate, fra le quali invano cercavo di allontanarne una che sempre insistente, angosciante, ritorna.… Partire senza rivederlo —senza sapere di lui nulla.… Mio Dio, mio Dio, aiutami fino alla fine—ch'io scacci da me ogni ritorno vile!

E poi son venuta qua a raccogliere il resto delle mie carte e chiudere la mia cartella—e finii collo scrivere ancora.—Quanto ho scritto in questi giorni! Che impressione mi faranno queste pagine fra qualche anno? Ne sorriderò Non credo—ma ringrazierò Iddio di avermi aiutata a non disertare la mia via.

Mi duole di partire senza veder Alberto … Batte mezzanotte—e domattina devo esser pronta per le sei. È ora di finire—di lasciarlo questo caro posto de'miei pensieri, questa stanza dove la mia figliuola più non mi troverà … Signore, benedicila!

Ariccia, li 24.—Stamani, mentre scendevo e Giovanni correva avanti colle valigie, udii una vettura avvicinarsi di gran trotto e fermarsi alla porta—poi un passo affrettato che saliva le scale. Era Alberto. C'incontrammo a mezzo ramo. Egli si fermò, ansante e pallido. Io, confusa e commossa, volevo ringraziarlo per l'atto cavalleresco, dirgli qualchecosa … Non mi fu possibile, le lagrime mi strozzavano. Ne vidi negli occhi di lui e ne sentii sulla mia mano quando egli, con un ginocchio piegato sur uno dei gradini di sotto, la baciò, mormorando due parole strane e dolcissime: “Mamma mia!” Giovanni abbasso gridava facessi presto, ch'era già tardi. Alberto si rialzò vacillando, mentre tutta l'anima mia gli rispondeva: “Figliuolo!” —Egli rimase, appoggiato alla balaustrata, immobile. Io corsi giù a precipizio, entrai nel coupé, e il cavallo parti di trotto serrato, mentre nelle vie deserte albeggiava.

Giunta qui, trovai una lettera di Gino. L'ultimo filo di speranza è perduto—l'altro è nominato. Egli lascierà Siena, non sa per dove ancora.… Ma nulla nell'animo di lui è mutato. «Non temere,» egli mi dice, «non piego. Lontani e per vie diverse, ma uniti nell'ideale cui abbiamo votato la vita, persevereremo.… usque in finem.»