Monsignore am co gentilissimo,

Se teneste meco silenzio, come dite, per non incomodarmi faceste male assai, perchè le vostre lettere mi sono sempre carissime. Se poi non mi scrivete per comodo vostro fate bene; e già la memoria dei vostri pregi e dei favori de' quali mi còlmaste, mi parla una voce a vostro riguardo sempre dolce e perpetua.

Quanto poi all' onore che volete farmi, primieramente vi supplicherò a ben consultare la vostra coscienza circa il merito mio. E dopo questa supplica, per obbedire ai vostri pregiati comandi, vi dirò ch'to nacqui in Firenze da Cipriano Carniani cittadino fiorentino, e da Elisabetta Fabbroni. Il primo mio studio fu la geometria, che mi veniva insegnata dal cavalier Giovanni Fabbroni fratello di mia madre, caro all'animo mio, e chiaro all'Europa, come dimostra l'elogio che l'illustre bibliotecario di Modena Antonio Lombardi fece per servire alle memorie dell'accademia italiana, cui mio zio ebbe l'onore di appartenere. Dopo lo studio della geometria quel mio zio preso da vivissimo amore per me, voleva occuparmi in cose più alte; ma mia, madre, saggiamente giudicando quanto importi ad una donna l'avvezzarsi buona madre di famiglia, not permise. Onde suo malgrado dovè mio zio cedere, ed io fui data ai lavori donneschi ed all'economia domestica. Ed a solo ornamento mi fu insegnato la musica, il disegno, la lingua francese, la lingua inglese e il ballo: tutti studi che io feci assai superficialmente. Entrata nel mio sedicesim'anno mi maritai al conte Don Francesco Malvezzi, cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, ottimo e caro compagno della mia vita. Il quale sposatomi per amore, mi condusse subitamente a Bologna sua patria, e ciò fu il novembre del 1802. Ne' primi tre anni del mio maritaggio niun altro pensiero mi occupò, fuor quello di acquistarmi la benevolenza dei miei novelli parenti. Divenni madre di tre figliuoli, i quali il cielo mi tolse, due tosto nati, e la terza, chè era femmina, al comparire del sesto anno; e in ricompensa mi donò poscia un maschietto che ora ha dieci anni, e che sarà, spero, il sostenitore della famiglia. Ora trovandomi io pel sistema della famiglia senza obblighi di cure domestiche, cercai di tôrmi alie noie dell' ozio col darmi allo studio, e più particolarmente allo studio della poesia, il quale comechè non mai coltivato, era sin dalla fanciullezza stato sempre il mio prediletto. Feci in brevissimo tempo la conoscenza di molti insigni letterati, tra' quali il celebre abate Biamonti, che teneva in Bologna la cattedra di eloquenza, mi prese singolare affetto. E onorandomi della sua conversazione, anzi dandomi lezione tre volte la settimana, m'introdusse all' antica filosofia, e col mezzo delle sue proprie traduzioni si studiò di farmi conoscere i principali classici greci. Tolto egli alla cattedra ed a Bologna, quantunque a me non tolto intieramente, per l' amicizia che sino all' ultimo della vita mi serbò, onorandomi costantemente di sue lettere, ebbi non poco a lamentare la sua partenza. Pure il vedere la mia conversazione morta della presenza di molti dotti, la facilità che trovava al poetare, l'udire i miei versi ripetuti dalla bocca degli amici, le lettere dell'affettuoso mio zio mi erano efficaci incoraggiamenti al proseguire de' miei studi. Voglio qui darvi un'idea de' miei primi versi con due sonettucci:

Zeffiretto gentil che qui t'aggiri E all'inquieta alma mia conforto sei, Tu che allevii pietoso i mali miei E una mesta dolcezza in cor mi spiri, Vola, deh vola a lui che i miei sospiri Cagiona sol, e ciò ch'io dir vorrei Di' flebilmente tu, ch'io non saprei Tanta eloquenza aver quant'ho martiri. Tu testimon de' miei dogliosi accenti, Digli come nel duol morta ho ragione, Di quale acuto stral trafitto ho il core. E digli come a' miei giorni dolenti Speme nessuna mai limite pone Sin che propizio a me nol guida amore. Ve' come splende la falcata luna, E come è il ciel di vaghe stelle adorno! Or ben può dirsi il bel chiaror del giorno Vince la notte, tanti lumi aduna. Alme beate che a tanta fortuna Levate foste in quell'alto soggiorno Ove fulgete al vero sole intorno Nè può turbarvi mai tenebra alcuna! Deh perchè morte alfin meco pietosa Libera a me non fa la miser'alma Sì ch'io pur tanto ben goda a voi presso? Posa quindi sperar forse l'oppresso Mio cor potria, che qui null'altra calma Porta conforto a mia vita affannosa.

Soffrite pure questa breve anacreontica che feci in quel tempo al conte Ranuzzi, zio di mio marito.

Cantate, o muse, i pregi Di lui che tanto onoro E pe' cui fatti egregi Felsina insuperbì. Da Clio le andate cose Apprese, e della vita Per l' onde tempestose Securo navigò. Èrato le soavi Rime d'amor gli diede, Onde de' eor le chiavi A voglia sua girò. Per le celesti ruote A lui fu guida Urania, A lui dell'alte note Il magistero aprì. Interrogò natura Ed ella obedïente Ogni cagione oscura Al Sofo suo scuoprì. Scuoprì come la tèrra Talor si scuote e trema, Come il fulmin s'atterra E rum oreggia il tuon. Come sprigiona e slega I venti il re de' nembi, Come i color dispiega L'ancella di Giunon. Ma da severi studi Talor le grazie tolgono. E a dilettosi ludi Guidan la dotta man. La man che a tesser muove Ed erbe e fiori e fronde, Sì delicate e nuove. Che insulto al vero fan. E in compagnia di loro Ei siede alla dolce ombra D'un elce o d'un allôro Sul vario pinto suol. E meditando scopre In ogni selva o fonte Iddio di cui son opre E stelle e luna e sol. Spirto gentil pietoso, Volgi alla patria e mira, Che soccorso e riposo Invan da te sperò. Odi qual inno suona Di vedove e pupilli, Ve' come si corona La man che li salvò. Oh caro spirto, o santo D'ogni virtude albergo, Or come a te col canto Darò il dovuto onor! Alla conocchia, all'ago Me condannò natura, L'ingegno indarno è vago Del non caduco allôr.

Non deggio celarvi che l' affezione che il Biamonti e gli altri amici mi portavano faceva loro parer bella ogni cosa mia, e non s'accorgevano come io correva a briglia sciolta nel falso, poichè amavo il Frugoni e la sua maniera. Conobbi il signor Costa, ed all' occhio penetrante di quel valentissimo non isfuggì l' error mio. Volle egli aver la compiacenza d'insegnarmi l'analisi delle idee; mi fece studiare a moderni filosofi, e mi fece gustare le bellezze dei classici italiani con tanta maestria, quanta non saprei esprimere con parole. E perchè io aveva perduto ogni coraggio al poetare, egli con eleganti e soavissimi versi e sonetti mi veniva stimolantlo alle rime. Onde io osai alcuna volta rispondergli. Eccovi due mie risposte:

No che alla mesta e dolce melodia Onde 'l Cigno di Sorga la beltate Canta, e 'l valor di Lei che in le beate Sedi levò, sua somma leggiadria, Un cuor di tigre o d'orso non potria Frenare il pianto, e non sentir pietate, Ma seguitar suo volo in tarda etate? Ahi stolta presunzion, vana follía! Tentar lo volle mio basso intelletto Ma il rimembrarlo, ahimè, sì m'addolora, Che me del troppo ardir spesso riprendo. Nè mio voler, ma l'usanza seguendo Per istranee favelle errando ognora, Lungi men vo' dal tosco fonte eletto. Io sentia dentro al cor già venir meno Il bel desío che a poetar m'invita, Se tu cui dièr le muse al piccol Reno Spirto gentile nol tenevi in vita; Tu cui di patria caritade il seno Arde sì, che all'Italia oggi invilita Perchè non è chi di lei tolga il freno Spiri col canto la virtù smarrita. Or io tentando a passo grave e lento Del sacro monte la difficil via Vommi, ma tremo, e il piè mancar mi sento. Già grida il vulgo all' arditezza mia, Forse l'Olimpo ne farà lamento; Ma il biasmo è tuo, o tua la laude fia.

Aveva già conosciuto il celebre Mezzofanti, e dietro la sua scorta avevo ripreso l' inglese. Conobbi la signora contessa Olimpia Debianchi, amica della Staël, e chiarissima letterata francese, la quale tanto mi prese amore, che per due interi anni, con indicibile assiduità, mi diede un corso di letteratura francese, corroborato da tanta filosofia quanta è capace quella sublime sua mente. Quindi cominciato da me stesso lo studio della latinità, ebbi in sorte di poter tenere qualche conversazione circa la maniera di studiar Ciceronè, con l' amico mio familiare, il celebre Garatoni. Conobbi il cav. Monti, ed egli pure mi onorò di tanta amicizia quanta sanno tutti che onoravano la casa mia in quel tempo. Egli ebbe la bontà d' esaminare i miei studi, e con parole, e con lettere, e con versi m'incoraggiò allo studio della poesia. Voglio qui trascrivervi anche due sonetti, che osai fare per lui, l' ultimo de' quali è una risposta alla domanda ch'egli mi fece di un fiore per dedicarmi nel suo giardino della Feron ade.

Ite mie rime al fortunato Olona Ove l'italo amore ha vôlto il piede; Vedrete lui che nuovo lustro diede Al plettro aonio che immortal risuona. Lui cui le sante muse fan corona, Mentr'erra col pensier per quella sede, Che fu già di Feronia, e l'ira vede Dell'empia Giuno che minaccia e tuona. Ditegli come al suo partir qui muto È fatto il mondo, e sconsolato e mesfo Chi suo dolce parlar più non ascolta. E se dal duol la voce non v'è tolta Ditegli flebilmente in tuon modesto, Ch'ei torni e faccia il desir mio compiuto. Superba in sua beltà sorge la rosa, Narciso al rio si specchia e s'innamora, Langue la mammoletta vergognosa, Vagheggia Adon la Dea; giacinto implora. Ma pago di sua candida e vezzosa Forma il ligustro, ogni altro discolora, Soletto e umil tra selve si riposa, E inculte siepi vagamente infiora. Oh immagin di virtù, che tanto puoi In gentil cuore! a te sia mite il gelo, E ognor t' avvivi il sol co' raggi suoi. Anzi risplendi nuova stella in cielo, E di te canti il vate, onde tra noi Più non s'invidia l' aurea cuna a Delo.

Conobbi poscia il cavalier Strocchi, ed allor veramente posso dire che conobbi le persone stesse d' Orazio e di Virgilio tanto dilucidamente mi vennero da quel sommo spiegati. Di molte dotte conversazioni mi onoro pur anche il Sofocle Italiano sig. marchese Angelelli. Di qualche conversazione, pur da me riputata lezione di scienza universale, mi onorò ultimamente il celebre Orioli. E per non troppo noiarvi dinumerando i dotti che mi onoravano di singolare amicizia, nominerò soltanto alcuni di quelli che il cielo tolse non solamente a me, ma all'Italia: Azzoguidi, Testa, Don Apponte, la Tambroni, Prandi, Pozzetti, Butturini, Perticari, e Monti, i cardinali Lante e Spina. Cosi per più di vent'anni vidi la mia conversazione onorata da dottissimi italiani e stranieri. Frequentai, sebben moderatamente, le numerose adunaze, i pranzi, e più che tutto i balli, e venni dividendo il tempo tra i divertimenti, i lavori donneschi e lo studio. Mandai alle stampe alcune odi ed alcuni sonetti senza nome, e pure senza nome pubblicai co' torchi del Nobili l' anno 1822 la mia traduzione del Riccio rapito del Pope. Le altre mie stampe credo le abbiate tutte vedute. E tra non molto vedrete il fine del mio poemetto, e tosto vedrete un altro volgarizzamento di Cicerone. Il 4 aprile del 1822 per ispontaneo favore gli accademici Felsinei a pieni voti mi acclamarono del loro numero, e mi presentarono il diploma: Del 1823 fui onorata del diploma di accademica degli. Entelati in S. Miniato di Toscana. Del 1824 fui onorata del diploma dell' accademia d' Arcadia. Del 1826 ebbi l'onorato diploma dell'accademia Tiberina. Del 1827 ebbi l'onorato diploma dell'accademia Latina. Del 1828 ebbi l'onore d'esser nominata nell' Ateneo Forlivese accademica dei Filergiti.

Eccovi, amico gentilissimo, in una lunga diceria, i particolari della mia vita. Gli affido al vostro senno; valetevi del puro necessario. Perdonate se non feci sollecita risposta alla graziosa vostra lettera, Non so qual verecondia mi trattenesse; finalmente vinse l' autorità de' vostri comandi. Gli onori piacciono, è vero, a tutti; ma a chi guarda un po' addentro piace più assai il meritarli che non l' ottenerli; come piace assai più l' essere che il parere.

Serbatemi la vostra grazia, salutatemi l'Odescalchi, il Betti e il Biondi, e con ogni ossequio credetemi sempre

Bologna, 18 dicembre 1829.

Vostra dey ma serva ed amica
Teresa Carniani-Malvezzi.