POESIE
DI
GIANNINA MILLI.

VOLUME PRIMO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1862.

Il favore col quale venne accolto il volume delle Poesie di Giannina Milli, già da qualche anno dato alla luce, fu tale da darmi animo a metter mano alla presente edizione in due volumi, la quale ho procurato che sia più completa che per me si poteva. In questi due volumi si troveranno raccolti, oltre i Componimenti già pubblicati, quelli altri che la gentil poetessa scrisse o improvvisò dipoi, molti de' quali ancora inediti.

Mi è sembrato bene premettervi il discorso che della Milli e delle sue Poesie dettò l' egregio e compianto Giovanni Frassi in quel suo stile piano, piacevole e tutto paesano: e il discorso del Frassi è l' elogio migliore che di Lei si potesse fare.

Felice Le Monnier.

Firenze, Agosto 1862.

Nacque la Milli in Teramo piccola città dell' Abruzzo ulteriore. Non aveva ancora compiuto i cinque anni, quando una sera udì con grandissima attenzione narrare da suo padre una popolare storiella. Dopo averci ripensato tutto il giorno seguente, corse a sua madre e le disse: « Mamma, sono poetessa anch' io! Sta' a sentire i miei versi. » Allora messasi a passeggiare su e giù con grazia infantile, cominciò:

Di Tisbe infelice Udite gli accenti, Udite i lamenti Che fanno pietà. Apri le luci, o Piramo, In te ritorna e mira: È Tisbe che delira, Caro, vicino a te. La cruda belva irata, Causa di tua ferita, Che tolse a te la vita, Il caro sposo a me….

Ma qui dovette arrestarsi; poichè la madre mossa da meraviglia e da subita violenza d' affetto, sì forte se la strinse al seno che le impedì di proseguire. Poche ore dopo, Bernardo Milli, al quale era stato nel tornare a casa riferito dalla moglie ogni cosa, copiati diligentemente quei versi sulla copertina di una Bibbia, vi scriveva sotto: « Fatti dalla mia figliuola Giannina. »1 Dul Poliorama Pittoresco, giornale napoltano, giugno 1852.

Questa scena domestica avvenne nell' autunno del 1832. Tralascio per brevità di narrare distesamente come dalla terra natale venisse condotta a Napoli e posta in una casa di educazione; e come poi per grave infermità fosse ricondotta alla casa paterna. Dirò solo che non avendo gran cosa profittato degli insegnamenti che (bene o male non so) le si dettero, si deliberò di ritenerla in famiglia. E siccome mostrava di esser dotata di dolce voce e robusta, un maestro di musica volle gratuitamente istruirla nel canto. Ma la madre, che aveva in animo di farne prima o poi una poetessa (tant' è, quelle benedette mamme hanno quasi sempre ragione) non cessava di farle leggere quanti libri le cadevano fra le mani, segnatamente la Gerusalemme Liberata; di che la Giannina prendeva diletto grandissimo. Un nuovo ajuto le venne da uno zio librajo, il quale messe il suo magazzino a disposizione della studiosa giovinetta. È quindi da credere che non difettasse di libri. Ma quali scegliere fra tanti? La Giannina non esitava: il più vicino era preferito; leggendo cosi a giornate intiere, dimentica del sonno, del cibo e perfino delle bambole e dei balocchi. In tal modo divideva il suo tempo fra lo studio delle note e dei libri; ma sentitasi più chiamata ai libri che ai capperi, un bel giorno dimandò con cara arroganza al suo maestro, se sarebbe mai giunta a cantare come la Malibran. Ed avendo questi risposto essere un tantino impossibile, la Giannina dopo averlo ringraziato delle cure che si era preso per lei, dichiarò alla famiglia che non intendeva più cantare una nota; e per quanto si dicesse e facesse, nulla valse a rimuoverla dal suo proposito. Ma quando allo sforzo del contrastare tenne dietro la cana del riflettere, un delicato sgomento l' assalse. Ella vedeva le sue sorelle e fratelli minori in qualche utile disciplina avviati; lei sola essere a carico della famiglia, della quale voleva divenire (come poi divenne davvero) il sostegno. Nè ormai si stimava più in tempo di mettersi in una nuova carriera, avendo già raggiunto l' età matura (secondo lei) di diciassette anni: età nella quale una donna qualche volta teme non esser più giovane, mentre spesso a cinquanta si assicura di esserlo sempre un zinzino. Questi pensieri le misero nell' animo una profonda malinconia; e il dì 27 febbraio 1845 il suo dolore fu tale che dette in un pianto dirotto. Ma già si sa; quando il male è grande, la Provvidenza è vicina. Presa da una prepotente brama di sfogare il suo crepacuore, lo versò in un sonetto tutto pieno di mestizia dolcissima. Il caso (o chi regola il caso) volle che questo scritto cadesse nelle mani del professore De Martinis, uomo onesto ed autorevole, il quale seppe ravvisarvi in germe un ingegno poetico. E sebbene la mal ferma salute quasi lo confinasse in casa, pur si condusse dai genitori della Giannina, e si offerse di esserle maestro, purchè si fossero presi cura di condurla da lui regolarmente ogni giorno. La generosa offerta fu accolta per acclamazione; e da quel giorno la strada fra la casa della giovine e quella del maestro non mise più erba. Allora la nostra Giannina prese a studiare pensatamente e ordinatamente; ed invece di legger molto, lesse bene. Imparò dai poeti l' arte difficile d' immaginare, di significare, di commuovere; dai prosatori l' arte non facile di parlar semplice, di parlar presto, di parlar chiaro; imparò da tutti quell' ordine, quel benedetto ordine che prima di divenir lucido fa tanto sospirare e sudare; e la sobrietà che fa entrare senza preamboli nel soggetto destando l' interesse alle prime linee, che fa correre a spron battuto alla meta, che fa smettere a tempo lasciando colla voglia il lettore. E di questi precetti, e consigli, e conforti, è rimasta poi gratissima al suo De Martinis, e di lui sempre parla e si rammenta con sospiro di benedizione. La qual cosa conferma quella sentenza che meriterebbe venire inalzata alla dignità di proverbio, cioè: Che il grano e la riconoscenza son due piante le quali fruttificano solamente nel buon terreno.

Frattanto il profitto tenne dietro allo studio; la reputazione non tardò a seguire il profitto; talchè essendo passato il Regaldi da Teramo volle conoscere di persona la giovine di cui tanto si parlava in paese; e ravvisate in lei le qualità necessarie a bene improvvisare, consigliolla a darsi intieramente alla poesia estemporanea. Ed ecco la Giannina muover privatamente i primi passi per questo rischiosissimo arringo, e provarsi sopra temi che il maestro le andava via via proponendo. Ma qui un nuovo intoppo: il De Martinis che era tenerissimo della patria lingua, come l' udiva pronunziare qualche vocabolo d' incerta lega, la fermava in tronco per assicurarsi se era veramente oro di padella. Dovevano essere scene degne del Goldoni, vedere una giovane passeggiare agitata su e giù per la stanza cogli occhi scintillanti gestendo enfaticamente, rimaner poi ad un tratto muta ed immobile, mentre da un lato il maestro curvo sovra il codice della favella, processava con comica fretta il vocabolo incriminato.

Ma di questo passo non si poteva più lungamente procedere; e presto venne il momento nel quale il giovane arbusto già riboccante di succo e di vita, doveva staccarsi dal sostegno a cui era stato fino allora appoggiato, per inalzare all' aure il verde lusso dei rami suoi rigogliosi. Essa dunque partì da Teramo dando esperimenti pubblici negli Abruzzi, nelle Calabrie, e finalmente a Napoli ove rimase lungo tempo, avendo a Mecenate quel Giulio Genoino, autore di un teatro di educazione e di altre pregevoli operette. Percorse poi tutto il regno delle due Sicilie e gli Stati Pontifici, preceduta spesso dalla sua fama, superando sempre la sua fama medesima. Gli uomini più illustri, le donne più egregie fecero a gara a conoscerla, ad onorarla. A Roma le furono incise due medaglie d' argento, a Perugia una d' oro; le più illustri Accademie vollero averla nel loro seno. È verissimo che l' esser socio di un' Accademia non sempre è prova di merito; ma è anche vero che l' essere invitato a farne parte è sempre un segno di stima.

Non è improbabile che le donne, nel vedere la Milli correre trionfante il paese nostro, provino un gentil desiderio di emularne la gloria. Credo perciò utile ricordare che i poeti e soprattutto gl' improvvisatori nascono; e che ove non si siano sortite da natura le necessarie qualità a ben poetare, ogni sofrzo diviene infruttuoso. Nulladimeno si consolino le donne; poichè se non diverranno poetesse, nessuno potrà impedir loro di esser buone figlie, buone mogli e buone madri, ufficj, è vero, più modesti, ma non meno nobili e cari alla patria. Io, per esempio, so di non esser uno scrittore; ma non per, questo devo meno tenermi di essere un galantuomo. Se il vin del Reno è il vino più squisito del mondo, non ne viene di conseguenza che si debba gettar per le fosse quello di Montepulciano. Per non invidiare poi la sorte della Milli basterebbe riflettere alle ansie terribili che l' assalgono ogni volta che deve affrontare un nuovo cimento; e alla raminga vita che è condannata a condurre; e all' imbarazzo di trovarsi spesso in faccia a persone sconosciute; e alla noja di conversare con persone nojose; e al rammarico di separarsi continuamente da amiche persone; e a non avere, per dir così, il tempo di goder le gioie del focolare domestico; e a mille altre tribolazioni di cui è sparsa la vita del poeta; le quali cose tutte ha la Giannina mirabilmente svelate in uno dei più teneri suoi componimenti.

È la Milli snella della persona, ha i capelli neri, l' occhio vivace, onesto lo sguardo. Sorride con grazia a chi le parla con benevolenza; ma non è il sorriso di coloro che mendicano favore perchè sanno non esserne meritevoli. Ha modi semplici, senza affettazione di semplicità, che sarebbe la più stucchevole di tutte le affettazioni; nel vestire sfugge del pari i più ricchi fronzoli della sciocca eleganza, e la negligenza aritmetica della sciocca letterata; non si abbaglia alla Corilla, non si pettina alla Saffo; non porta in capo corone d' alloro; non cita mai verso di classico, non parla, grazie a Dio, mai latino; insomma discorrendo seco senza conoscerla, può benissimo venirvi fatto di domandarle se conosce la Milli.

Sembra che il cielo, a compensarci dei tanti mali che soffriamo, ci abbia voluto più che ogni altro popolo, benedire di poesia. Perocchè oltre quella che a larga mano si vede sparsa su i nostri colli, su i nostri campi, sulle nostre marine, molta ce ne ha profusa nel cuore, dandoci la facoltà di esprimerla facilmente. Ma avendo noi abusato di questa facoltà, il dono della Provvidenza ci è tornato in danno e vergogna; poichè se non pochi sono i buoni poeti, tanti sono i pessimi che un galantuomo, il quale abbia un po'di erubescenza al suo comando, se non si sente da natura veramente chiamato a far versi, si guarda bene dal dettarne pur uno. Nè con questo già intendo gridare la croce addosso alla poesia: sarebbe crudeltà togliere questa consolazione ad un popolo che tanto ha bisogno di consolazioni; sarebbe stoltezza rinunziare ad un mezzo efficacissimo a prepararci un avvenire men tristo. Dirò anzi che quando noi troviamo in una stessa persona riunite, e naturali disposizioni, e forti studj, e generosi propositi, allora noi lo salutiamo poeta, e corriamo a lui con quella gioia medesima colla quale abbracciamo un compagno d' arme che ci arrivi sul punto di partir per la guerra.

E questo sentimento dolcissimo ho provato nel leggere i versi della Milli: versi che spesso non si posson leggere una sola volta; versi che spesso impariamo a memoria per maravigliare gli stranieri, per correggere gl'invidi, per commovere un' amata persona.

E perchè il lettore non mi reputi piuttosto fanatico che giusto estimatore di queste mirabili poesie, ne riporterò alcuni tratti affinchè possa giudicare egli stesso; ricordandogli che tolti dal luogo dove sono, perdono la metà del pregio che hanno, facendo quella figura che di un quadro nascosto per metà, farebbe la parte scoperta.

Sentite L' Arpu

L' Arpa!… di quai memorie Favella al pensier mio!.. Dai più remoti secoli Posta tra l' uomo e Dio, Stette sublime interprete Dei sensi di lassù. Chè al suon dell' arpa i savii Veggenti d' israello Cantando profetavano Al popolo rubello Le sorti, che aspettavanlo Nei secoli avvenir. Dei prigionieri il flebile Lamento accompagnava: Sull' Eritreo di gloria Concenti a Dio mandava; Del peregrin le trepide Speranze confortò. …………. Oh! l' arpa santa, il genio Di Geremia vorrei; Sovra i tuoi mali, o nobile Mia terra, io piangerei, In suon che i cuor più barbari Farìa pietosi a te! Ah! perchè donna, e povera Mi fe' d' ingegno Iddio?… Pari all' ardor che m' agita E all'immortal disìo, Perchè, diletta Italia, Il canto mio non è?… Ma pur se fiochi suonano I subiti concenti, Non son devoti ai perfidi, Ai villi, ed ai potenti, Nè per superbo imperio Mai sgorgheran da me!

In qualunque argomento che essa scelga o le sia comandato trova sempre il modo di svolgere qualche nobile sentimento, di proclamare qualche utile verità. Se io fossi invitato per esempio a scrivere qualche cosa sopra il Sordo-Muto, direi che è molto infelice. — Bravo! E poi?… E poi poche altre cose della medesima forza. Ora sentite la Milli: Ah! toccata sì misera sorte Al malèdico fosse, od al vile Che alla serpe strisciante simile Tende lacci alla pura virtù; O a colui che i malvagi adulando Nei lor vizii e nell' oro sta immerso! Ma di Quei che creò l' universo Gli alti fini indagare chi può? Chi può dir, se costui ch'io compiango Degno invece d'invidia non sia, Se in età così stolida e ria La loquela gli manca e l' udir? Di vigliacche proteste egli è puro, Non udì nostro vanto disperso; Noi già donni dell' ampio universo, Vilipesi egli udire non può. E quel Dio che gli umani dolori Giusto premia di eterni contenti, Ai celesti immortali concenti Il suo orecchio dischiuder saprà. Là concorde degli Angioli all' inno Fia l' accento dal mutolo emerso: L' armonìa dell' intiero universo Ivi allora comprender potrà.

Tu mi domanderai, o lettore, di dove essa si levi questi pensieri stupendi. Ti risponde ella stessa per me:

Non vo' che il poco giovanile ingegno …………… Di studiate bellezze i carmi vesta: Il cor favella; la mia musà è questa.

Ora senti poche strofe di un'Ode sopra « Santa Croce » improvvisate cinque anni fa dalla nostra Giannina. Dico nostra, perchè mi accorgo che anche tu, o lettore, cominci a volerle bene.

Santa Croce! Ah! tal home soltanto Basta a scuoter le menti italiane: Chi qui freddo insensibil rimane Esser figlio d' Italia non può! Qui le mura, le volte, i dipinti, Le colonne han favelle eloquenti, E dal seno dell' urne tacenti Si trasfonde una fiamma nel cor. È la fiamma dell' arti divine Che il pensiero educaro fra noi; È la fiamma che accese gli eroi Alla gloria del patrio terren. ………….. Io verrò, sì verrò nel tuo tempio Riverente e devota a prostrarmi, E nel sen, da quegl' incliti marmi Pioverammi celeste vigor.

E venne in fatti nel settembre decorso fra noi, e cantò all' improvviso sul soggetto medesimo. In questa composizione ed in altre di storico argomento, oltre lo splendor della forma, è mirabile l' aggiustatezza con cui giudica dei fatti, e delle loro cagioni, la somiglianza con cui sa ritrarre i tempi e gli uomini. Volete vedere Michelangelo? Ascoltate:

O tu che quattro allori al crin cingesti, « Michel più che mortale Angel Divino; » Tu che modello incomparabil resti Dell' italico artista cittadino; Come all' anima tua che le celesti Sedi reddìa nel suol sacro a Quirino, Come dolce tornar dovè la cura Che il tuo fral ricondusse a queste mura! Sol quì dovean le tue spoglie posarsi Poi che alla patria ognor fosti devoto.

Volete vedere Galileo? seguitate l' ottava medesima:

E a fronte a te sol degno era di starsi Quei che avvertì pria della terra il moto. « Sotto l' eterco padiglion rotarsi » Vide ei più mondi, e il sol schiararli immoto; Onde primo le vie del firmamento Sgombrò dell' Anglo illustre all' ardimento. Deh! ricordar potessi, o patria mia, Sol le tue glorie, ed oblïar gli errori! Strappar potessi una pagina ria Dalla storia de' tuoi tanti dolori! Quella che mostra la crudel genìa Che al grande insidïò vita ed allori; E a rinnegare il conquistato vero Co' tormenti lo astrinse e il career nero! Ma pur quel ver niegando il ripetea Tra sè, chè in mente ei gli fulgea più vivo. E tanto a confermarlo il sol figgea, Che l' occhio stanco del veder fu privo. Nella tomba sereno ei discendea Certo del suo trionfo, e del votivo Plauso dell' orbe al suo possente ingegno Che il crollo diè dell' ignoranza al regno.

Volete vedere il Machiavelli? Eccolo:

Ma te, sublime pensator protondo, Che ai regnator lo scettro temperando Gli allôr ne sfrondi, e di quai stilli al mondo Lagrime e sangue astuto vai svelando, Te le genti gravâr d' ingiusto pondo Di biasmo, i fini tuoi mal penetrando; E son recenti le ghirlande e i voti Che a' marmi tuoi tributano i nepoti.

Volete veder l' Alfieri?

Oh! lode a quei che all' iracondo Alfieri Al tuo dinanzi eresse il monumento! L' Allobrogo feroce i tuoi pensieri Rivestì di magnanimo ardimento; E, sceneggiando finti casi e veri, Dall' ozio neghittoso e sonolento Riscosse Italia che stupita e lieta In lui riebbe il suo civil poeta!

Volete veder la figura sdegnosa del gran padre Alighieri? che sovra ogni altro vi grandeggia appunto perchè le sue ossa sono lontane?

È vuota l' arca ove il tuo nome è sculto, Ma tua severa effigie vi grandeggia; E par si adiri, quasi a nuovo insulto, Che in questa sacra a nostre glorie reggia, Sorgan tumuli a strani ospiti, e inulto Il patrio dritto fin quivi si veggia Ove di patrio amor tutto ragiona E l' aura stessa, Italia, Italia, suona!

Volete finalmente sapere quali commozioni si provano passeggiando in quel tempio che racchiude la più illustre assemblea di morti che il mondo possa vantare? Ascoltate:

Oh! il benedetto Arcangelo che Dio Fe' dell'Eden del mondo protettore, Ti serbi, o tempio, incolume dal rio Poter del veglio edace e distruttore; Che in te si serba il venerato e pio Palladio del supremo italo onore, Nè il popol che ti eresse e in te si aduna, Può a lungo disperar di sua fortuna.

Vi sono certi scrittori che sanno con una sola parola dir più che altri in un capitolo. Non ti sembra, o lettore, di trovar più sugo in un' ottava della Milli che in un libro di certi scrittori?1 Questo pensiero mi fu gentilmente suggerito dall' autrice della Storia Sacra per uso delle Madri di famiglia.

Ma se io obbedissi al diletto di citare questi versi mirabili, e voi a quello di ascoltarli, dovrei trascrivere il « Manzoni alla tomba del Grossi; le ottave a Giambatista Vico; la Casa di Dante, l' Orfana, la Preghiera della moglie del pescatore, la Demente ec. ec.: insomma finirei col riportare quasi il libro intiero; la qual cosa farebbe brontolare Le Monnier, che ne sta facendo una delle sue tante belle e corrette edizioni.1 Questo periodo non è a proposito, ora che questo discorso è premesso alla presente edizione, ma abbiamo creduto bene lasciarlo nella sua integrità. (Nota dell' Edit) Tuttavolta non so resistere alla tentazione di farvene sentire un' altra che è la mia prediletta.

L' addio di una sposa alla casa paterna.

…………………. Da questo loco, a Te amorosa,2 Parla ad un'immagine della Madonna. Non fia che il priego sollevi io più: Deh! insiem col nome d' itala sposa Dammi tu d' itala donna virtù. Dammi che meco la nuova stanza Perenni alberghino l' onor, la fè, E la serena maschia costanza Che alla sventura oppor si de' Nè sìa di vile ozio snervato Del mio consorte fomento al cor Quel verecondo amor bennato Cui benedisse dianzi il Signor. Il dolce sogno de' miei verdi anni Ei fu il mio timido primo sospir; Deh! ch' io gli allevii ognor gli affanni Ch' io gli raddoppi sempre il gioir! Co' fragorosi diletti il rio Mondo non turbi il mio pensier; Ma, saggia ed umile, il voler mio Del mio consorte pieghi al voler. Deh! tu che udisti sull' empia vetta L' addio del Figlio a te parlar, Reggimi, mentre la mia diletta Madre, m' appresto oggi a lasciar. Seco il cadente padre, le amate Suore, e i fratelli pianger vedrò: Oh! a te confido quelle adorate Alme, e a Chi tanto, Madre, ti amò! Da queste soglie ogni sventura Tenga il tuo poter, E fa' ch' io sempre di colpe pura Lieta le torni a riveder! » Sorgea, tergendosi dagli occhi il pianto, Quando un sospiro lieve ascoltò; E la sua madre si vide accanto Che inosservata con lei pregò. Fra le sue braccia slanciossi, e ancora Piansero insieme molto, e pregâr; Maria sovvenne ambe in quell' ora Che gemebonde si separâr. Tutte sue grazie su quella cara Ingenua sposa profuse ognor; Ebbe la vita e lieta e amara, Ma puro sempre mantenne il cor.

Dai pochi brani riportati deve il lettore essersi accorto che i versi della Milli tanto guadagnano sottoposti alla lettura quanto quelli degli altri improvvisatori sogliono scapitare. A chi poi mi domandasse se i suoi versi son tutti eccellenti, risponderei francamente di no. Quando essa improvvisa non può sempre trovarsi nelle condizioni necessarie a ben farlo. Qualche volta accade perfino che è costretta a rinunziarvi. E la cosa è naturalissima: non si può sempre andare a prendere idee dal cervello, come si va ad attingere acqua alla fontana. Prima dunque di pubblicare i versi che via via ha improvvisato non sarbbe mal fatto che ella li esaminasse severamente. Non già che in tutti qualche pregio non sia; ma perchè essendo qualche volta meno felici, diminuiscono per così dire il pregio degli altri. E sarebbe poi sacro debito dei signori Giornalisti (e lo farei io se fossi da tanto) d' indicare con rigore amico alla Milli le poesie mediocri fra le molte stupende; sicuri di farle cosa gratissima. Ma la critica in generale non sembrami che sia esercitata come si dovrebbe. Di qua si tratta il povero autore col rispetto medesimo col quale fra loro si trattano due fiaccherai che si siano giusto allora arrotati: e questo è male; di là si loda e s' inneggia; s' incensa fino a dargli nei denti il turribolo: e questo è anche peggio. Lo scrittore oggi più che in ogni altro tempo deve essere un guerriero che combatte per la santa causa della civiltà: il giornalista che non lo avverte dei suoi errori è come chi vede il suo commilitone aver guasto l' archibugio, e sta zitto. Quando tali giornalisti vanno scrivendo patria! patria! bisogna concludere che la patria non l' hanno nel cuore ma nel calamaio.

Hanno gl' Italiani un genere di poesia che le nazioni antiche forse non ebbero, che le moderne nazioni appena hanno tentato di avere: la poesia estemporanea. Ma qui pure hanno abusato di questa specie di privilegio; talchè gli esperimenti degli improvvisatori sono spesso un giuoco per chi li dà, una noia per chi li ascolta. Ed invero i loro concetti possono dirsi sublimi quando non insultano apertamente il buon senso. I loro versi, piuttosto che versi potrebbero esser chiamati tagli di prosa di undici piedi di taglio, senza contare gli scampoli. Delle rime non parlo: sono sì volgari, sì fisse che a mala pena la prima si mostra, l' altra è subito indovinata. Udite verbigrazia nel primo verso squillare una tromba? State sicuri chennel secondo qualche cosa rimbomba; se in qualche modo si nomina l' eco, prima o poi deve rispondere dall' opposto speco. Queste rime vanno insieme come i frati: quando se ne vede uno, si sa che è prossimo a sbucare il padre compagno. Insomma rime, versi, concetti, è tutta roba da fare scappare perfin le ostriche.

Ma non si hanno per questo a metter tutti gl' improvvisatori in un fascio; e taluno ve ne ha che già fa parte della nostra letteratura, fra i quali non esito un momento a porre la Giannina Milli.

I versi da lei detti all' improvviso in Firenze furono di tal pregio che molti non li reputarono improvvisati. La Milli ne fu informata, e andò in collera. Ebbe torto: si stenta a credere le cose straordinarie per questo appunto che sono straordinarie. Io medesimo non conoscendola di persona, se non era nel numero dei miscredenti, non era neppure (lo confesso) in quello dei fedeli. Mal sapeva capacitarmi come si potessero in pochi minuti dettar pochi versi, che io non mi sarei sognato di scrivere consumando un anno di tempo e un barile d' inchiostro. Per comprender bene, per comprender subito un bell' ingegno ci vuole ingegno; ed io sono volgo, e il guaio è che spesso non me n' avvedo neppure. Per tutte queste ragioni i giornali ne parlarono assai variamente; fu più volte citato lo scritto del Giordani contro gli improvvisatori, che io certamente non prenderò a confutare; lasciando questo carico al mio amico Atto Vannucci ch' è atleta ben degno di combatter con lui. Una lotta fra il Giordani e Vannucci desterà interesse: fra me e il Giordani desterebbe riso o pietà. Ed altro carico gli lascio pur di buon grado: quello cioè di chiarire in guisa tale la quistione da metter d' accordo i critici onesti: ufficio degno di lui e dell' alta critica che egli va sì nobilmente esercitando. Quanto a me, ragionando come soglio alla lesta e alla casalinga, dirò che niuno può agl' Italiani ricusare la facoltà di far versi all' improvviso. Il nostro popolo ne fa fede ogni giorno; lo stesso Giordani è costretto a confessarlo dicendo «…. e con quanto può aversi di certezza sulle cose umane tenghiamo che lo Sgricci verissimamente improvvisasse. »1 Giordani, Intorno allo Sgricci e agl' improvvisatori d' Italia, vol. X˙ Ora se si può improvvisare, si potragrave; improvvisare meglio o peggio come accade in tutte le cose del mondo. Un cavallo spagnuolo, per esempio, corre più d' un cavallo svizzero; un arabo più d' uno spagnuolo; un inglese più d' un arabo. Va bene? Ora se Beco Sudicio improvvisava meglio di ogni suo antagonista, la Bandettini meglio di Beco Sudicio, domando e dico: perchè la Milli non potrà improvvisare meglio della Bandettini, e perchè non può sorgere perfino chi li superi tutti? Come poi sia possibile nello spazio di pochi minuti afferrare il soggetto, ornarlo di forme convenienti e poetiche, vi dichiaro alla bella libera che non lo so, e dubito assai che altri possa spiegarlo, e credo che anche la stessa Milli (poverina!) lo ignori. Ma e questo che prova? Se io non so precisamente, completamente, sicuramente che cosa sia il sole, dovrò concludere che il sole non esiste? Piuttosto di ostinarmi a negare quello che non intendo, non farò meglio a trar profitto da quello che vedo? Nessuno può spiegar chiaro, spiegar fino in fondo, spiegar sulla lavagna come per esempio le ciliegie si formino nell' ovario del fiore, come sbuchino dai petali cadenti, come vengano a maturità, e come lustre e rosse poi ridano al cielo. Ebbene: mentre altri discutono io le colgo e le mangio. Finiamo dunque le chiacchiere. Chi ha fatto l' universo può fare un improvvisatore. Ma lasciamo dire alla Milli stessa le sue ragioni che meglio di noi saprà farlo, e il lettore me ne saprà grado perchè potrà riposarsi con una mirabile poesia della fatica durata nel leggere la mia prosa negletta.

A PIETRO GIORDANI.
SOPRA IL SUO SCRITTO SULLO SGRICCI

Severo ingegno, cui del bel paese Ricinto invan da l' Appennino e il mare, Forte così la caritade accese Quanto da l' auree tue pagine appare; Te lo spirto immortal del Certaldese Scèrse dal ciel tra l' anime più chiare, E ti trasmise, eredità gentile, L' italo, puro, armonïoso stile. Un grido, un plauso incontrastato e schietto Ebber per te de l' età nostra i savi; E molti, rinsaviti d' intelletto, Tornâr l' idioma ad onorar de gli avi; Chè, ripieno d' ardir la lingua e il petto, L' ignavia e la viltà tu fulminavi Di chi insozza di barbari stranieri Modi, il linguaggio che parlò Alighieri. Tu pria del sommo, al par che sventurato, Lëopardi la fama divulgasti, E nel suo cor diserto, esulcerato De l' amistade il balsamo versasti; Sopra l' acerbo inevitabil fato Che sì tosto cel tolse, dolorasti; E non per lui, che per sè visse assai, Ma per la patria risuonâr tuoi lai. Pur mi perdona, o spirto venerando, Ch' io tra i più degni ognor sublimo, e còlo, Dimmi, perchè, tanto l' Italia amando, Vuoi d' un vanto frodar l' italo suolo?…. Perchè sostieni che non può tentando Fervido ingegno sollevarsi a volo, Fino a toccar bella e onorata meta Ne la ratta de l' estro ora inquïeta? Carme non v' è che sia d' udirsi degno, Dici, se veglie pria non costi e stenti. Deh! a che ti trasse un mal concetto sdegno! Come a te stesso, e al creder tuo tu menti!…. Italo tu, dell' italiano ingegno Puoi sconoscer le forze onnipossenti?…. Che non si può nel suol dove prodotti Fur Galileo, Colombo, e Buonarotti?…. Certo, a colui che all' incompreso ardore Si abbandona del carme non pensato, Chieder non puoi del ghibellin cantore L' alto poema, o quello di Torquato. Ma s' ei cantando ti ricerca il core, Se di fede, di onor, d' intemerato Zelo di patria i sensi in te ravviva, Dimmi, di gloria la sua meta è priva? C' invidian gli stranier sì peregrina Dote, e nel fango tu gittar la vuoi? E scendi a dubitar se la divina Fiamma sussista, e se si alberghi in noi? Ah! dell' aure, dei fior, della marina, Del sol che quì più belli ha i raggi suoi, De le nostre memorie il sacro incanto Niega, se nieghi l' improvviso canto!…. V' è, (chi nol sa?) I' ingannator, procace Stuol che illude, e mentisce estro e fatica; E quel che inutil grida, e stolto e audace, Lo studio e l' arte a chi ha la musa amica; A costor ben s' addice il tuo mordace Ghigno, e la bile che il tuo dir nutrica: Ma, perchè inetti son molti, o bugiardi; Tutti proscriver tu vorresti i bardi?…. Ah! non voler, no, disfrondar quest' una Foglia dal serto ancor dei nostri allori! Troppe già il turbo di crudel fortuna Strapponne, e inaridì ne' suoi furori. Se vergognar vuoi di stoltezza alcuna, Delle laudi vergogna, e dei tesori Profusi al volteggiar d' una carola, O al dolce trillo di venduta gola!

Ha scritto Pietro Giordani1 Della più degna gloria della pittura e scultura. « Quegli è poeta dal quale io parto altro uomo da quel che solevo, maggior di me stesso, acceso e possente a grandi cose.» Quest' aurea sentenza, mi induce a credere che se il parmense letterato avesse udito la Milli improvvisare quelle ottave stupende, il più caldo ammiratore della Milli avrebbe nome Pietro Giordani.

A che son utili gl' improvvisatori? Rispondo subito: I cattivi a far perdere il tempo, i buoni a farlo utilmente e piacevolmente impiegare. Perocchè vedete: un pensiero scritto in un libro vi resta lettera morta finchè il lettore non sappia farselo proprio, e (per così dire) pensarlo egli stesso. Molte utili verità, molte idee pellegrine ci sfuggono inosservate, le quali non ci sfuggirebbero se il libro stesso potesse dirci: Bada! questa è un' idea pellegrina; arrestati! questa è un' utile verità. Ma un pensiero espresso in pubblico da un oratore, per esempio, o da un comico, trova il suo commento nella sensazione che nel pubblico stesso produce. Quanti pensieri sarebbero rimasti per noi vuoto suono, se gli applausi e gli urli della moltitudine non ce li avesse resi evidenti. Pensando con gli altri, si pensa meglio: sentendo insieme, si sente di più. Il senso di ciascuno si raddoppia, si somma; divien senso di tutti; divien senso comune. Lo stesso e più accade delle commozioni. Se il vicino dà segno di fremere, già abbiamo stretto il pugno; se il vicino è intenerito, le nostre lagrime già scorrono tacitamente. Ed infatti credete voi che non si svegli una simpatia fra il cuore degli spettatori (che più o meno tutti l' hanno) e il cuore di un oratore o dí un comico? Credete voi che il fremito che essi destano nell' uditorio non rimbalzi nel loro proprio cuore e accresca il loro fremito? Credete voi finalmente che essi declamando dinanzi a mille uditori di cui hanno saputo svegliare l' entusiasmo, non siano essi più entusiasmati di quello che sarebbero declamando dinanzi a un battaglione di nude panche indifferenti?

Ora quello che in essi avviene, avviene nell' improvvisatore se è tale veramente; con questa differenza che nei primi la commozione resta infeconda, nell' altro riscaldando il suo genio l' alza ad idee sì sublimi, che solitario non avrebbe raggiunto; le quali poi, come avviene di due specchi posti uno in faccia dell' altro, tornano per la seconda volta a ripercuotersi nell' anima degli uditori, e vi destano una nuova commozione.

In questo modo, in questo solo modo, mi rendo conto della differenza che passa fra le poesie estemporanee della nostra poetessa e quelle scritte a tavolino; la qual cosa mi fa, sciupando l' Ariosto, ripetere:

Che spesso i versi della Milli sono Meglio improvvisi che a pensarvi, usciti.

Chi ne volesse una prova legga le stanze seguenti da lei dettate in un' Accademia data il 31 marzo 1853 in Aci Reale, e alle quali mi fo lecito di premettere una parola, affinchè possano essere meglio intese e apprezzate..

L' ultimo tema estratto era Giacomo Leopardi. Essendo ormai stanca chiese le rime per farvi sopra un sonetto. Trovavasi fra gli uditori un fraticello fanatico di quel sommo scrittore, al quale non parendo che in sì breve composizione potesse degnamente lodarsi quell' ingegno divino, esclamò con rozzo entusiasmo: « Che sonetto! Che sonetto! Pare a lei, signora mia, che tema simile possa trattarsi con un sonetto? Ci vuole una composizione, ma lunga, signora mia, ma molto lunga; » e ad averlo lasciato dire avrebbe chiesto un poema in, ventiquattro canti. Gli uditori che con diletto grandissimo aveano uditi gl' improvvisi precedenti, e che con pari rincrescimento vedeano approssimarsi il termine dell' Accademia, rafforzarono con siciliano strepito la dimanda del frate.

Giacomo Leopardi (lo dico per chi lo sa, ma non se ne ricorda) fu uno dei più buoni e più alti ingegni di cui la patria nostra si onora. Poco più che ventenne finse in greco un inno a Nettuno, che la dotta Europa si bevve per greco veramente. A chi mi dice esser questi meri trastulli, rispondo che i giganti soli sanno trastullarsi così. Le sue prose poi e le sue canzoni soprattutto spirano tanta scienza ed amore, che fecero dire al Giordani essere egli tra i viventi quello che meglio somigliasse gli antichi. Ma come ei fu il più grande dei suoi tempi, fu ancora il più sventurato. Oppresso quasi assiduamente da atroce morbo, la sua vita fu quasi tutta un dolore. E nel tristo cammino della sua vita incontrò una buona fanciulla che lo amò perchè era buono, perchè era sapiente, perchè era tanto infelice. Rapitagli da morte immatura dubitò della Provvidenza; ma questa fu meno bestemmia che urlo di spasimo disperato.

Il lettore s' immaginerà come la Milli riandando rapidamente la vita di quel grande infelice fosse scossa tanto dal soggetto come dal desiderio manifestatole di sentirlo trattato a dovere. Essa dunque rimase più lungamente pensosa che far non soleva, poi disse le ottave seguenti:

E te, sublime, smisurato ingegno, Novo d' Italia mia decoro e vanto, Te il verso mio, di tanta gloria indegno, Invocherà tra desiderio e pianto. Deh! ch' oggi almen tocchi onorato segno Per te, signor del desolato canto; Vagliami il lungo studio, ond' ho costume Vegliar le notti sopra il tuo volume. E tu nascesti a far più certa fede Che dei sommi retaggio è la sventura; E Dio sì eccelsa e schiva alma ti diede, Che non toccò della mortal sozzura. Chi la cagion del duolo arcano chiede, Che contristò la tua gentil natura, Non sa che solo a chi il creò potea Svelarsi il cor che nel tuo petto ardea. Fosco degli anni tuoi sorse il mattino, D' un dì più fosco ancor tristo foriero; Dotto del greco e del saper latino, Eri al tuo proprio secolo straniero. Struggea tue membra fragili il divino Foco dell' alto creator pensiero; E insiem con Bruto, nel dolor profondo, Virtù, sclamavi, è nome vano al mondo! Ma crederò che tu, tu stesso, esempio Di celesti virtù, di patrio amore, Dal cor mandassi il grido infausto ed empio Che l' ateo parla, ma non sente in core? No: della luce, della mente è scempio Chi 'l disse pria, chi confermò l' errore; Uom che su gli altri al par di te s' ergea Sublimemente in Dio creder dovea! E tu credevi; ma diserta e muta Era a gli sguardi tuoi la terra intiera: E pareati tra gente sconosciuta Trarre i dì, lungi dalla patria vera; Chè in questa grama d' ogni onor scaduta, Nei figli scemi di virtù guerriera, Non ravvisavi più l' augusta donna E i forti eroi che le facean colonna. Però funereo, disperato il verso Da l' imo fondo del tuo petto uscia; Ma quando lieve, a te nel duolo immerso, Un' angelica forma ne venìa, Azzurri gli occhi come il ciel più terso, Mesta il volto, la voce un' armonìa, E dolcemente a te posava accanto, E col bel vel ti rasciugava il pianto; La tua canzon suave e raddolcita Parea la sospirosa aura d' aprile; E confortavi l' anima smarrita In quella cara visïon gentile. E benchè indarno alla terrena vita Donna chiedessi a quella pia simìle, Pago, sclamasti in quella idea consorte: « Due belle cose ha il mondo, amore e morte. »

Dalla commozione che il lettore prova leggendo i versi della Milli, può argomentarsi agevolmente quella che proverebbe vedendoli sbocciare sul suo labbro. Un silenzio attento precede il suo dire: un silenzio commosso lo accompagna: si sta zitti, non fermi; qualche rara esclamazione sfugge inosservata a colui stesso a cui sfugge. Ma essa è già entrata risolutamente nel suo soggetto. I versi escono con sì rapida vena che gli stenografi sono appena capaci a raccoglierli; la lingua popolare ad un tempo e purissima, è lontana del pari dal gallicismo che stomaca e dalla pedanteria che sgomenta: le rime accorrono con frettolosa obbedienza; le similitudini vanno a combaciare a capello; gli aggiunti vestono quasi a festa l' idea; i versi dei classici sono con tale sapiente leggiadria collocati da star coi suoi versi lietamente in famiglia; i pensieri infine appajono nuovi ed antichi ad un tempo; nuovi perchè mai letti nei libri; antichi perchè letti nel più vecchio libro del mondo; nel nostro cuore. Avviene talvolta che agitata dalle idee che alla mente le si affollano, angustiata dal rigore dei ritmi e dei metri che si è imposta, e dal rigore più terribile dei tempi in che viviamo, si arresta un momento. Si provano allora timori che la sua anima stessa non ha tempo di provare: non trema perchè combatte; tremiamo noi testimonj del cimento terribile. Ma questi timori si dileguano improvvisamente tosto che la si vede uscire da tante difficoltà, con quella grazia con cui dal cespite irto di spine esce sull' alba la rosa profumando l' aere all' intorno. E allora irrompiamo in approvazioni fragorose…. ma no: sembran voci d' applauso, ma è scoppio di gioja. E in quella gioja solenne ho veduto ritrovarsi i nostri cittadini più eletti: quelli perfino che il turbine delle civili discordie avea fatalmente divisi.

Altri offra alla Milli lodi veramente degne di lei: io la ringrazio per i semi di virtù che ha gettato nei nostri cuori; la ringrazio per averci fatto insieme pensare e piangere e fremere insieme; io la ringrazio per tutto il bene che ci ha fatto; per tutto il bene che ci farà fare.

Giovanni Frassi.

A Te, cui mi legano con nodi di verace e calda amicizia, corrispondenza di affet li e conformità di studi; a Te, che, afflitta da recente sventura, rendi il dolore delle passate mie più sensibile ed acerbo, intitolo questo volume de' miei canti, in argomento di quell' affezione che ti porto, e che potrà solo venir meno quaggiù col cessar della vita. Addio.

Firenze, 25 Febbraio 1858.

GIANNINA MILLI.

STANZE.

Tra le più care e a me dilette cose, Come di un culto sacrosanti obbietti, Serbo tre vizze e scolorite rose, A cui tributo riverenti affetti; Pegni di tre memorie avventurose, Svegliatrici di nobili concetti, Queste figlie di april l' umil mia stanza Empion di arcana celestial fragranza. Non mi fur porte dalla man tremante Di sospiroso e fervido amatore, Siccome un' arra di sua fè costante De' suoi congedi nelle trepid' ore; Ma sprone ad opre generose e sante, Augurio fausto d' avvenir migliore, E premio ad ardua fortunata prova M' ebbi le rose che serbar mi giova. Pe' monti apruzii un italo cantore, Peregrinando, udir fe' l' armonia De' carmi suoi, che del disio d' onore Infiammâr la commossa anima mia. Mentr' ei compreso da superno ardore Scioglieva il volo all' alta fantasia, Rapita dal vigor del carme ardente, Fiori su lui spargea l' accolta gente. Oh dal pensier non mi cadrà giammai Quella sera per me solenne e lieta! Vidi di gloria luminosi rai Sfavillar sulla fronte del poeta, E per esso dall' anima esultai…. Ma scorta a un tempo la sublime meta Ch' ei già toccava, disperando, al suolo Chinai le luci tra vergogna e duolo. Ma quale a ravvivar gli egri e smarriti Spirti a me s' offre prezïoso pegno?… Tra i mille fiori al merto suo largiti Scelse una rosa quel gentile ingegno; E, abbandonando gli aprutini liti, A me inviolla di amistade in segno, In segno di amistade e di conforto Perch' io mirassi a glorïoso porto. Questa è la rosa che olezzante e bella Serbai primiera, e serberò fin tanto De l' ingegno la vivida fiammella Risveglierà mio facil estro al canto. Propizia sorte fe' ch' altra sorella Non men leggiadra le posassi accanto, E, divisi tra lor gli affetti miei, Preferir l' una all' altra io non potrei. Crebbe di sacro chiostro all' ombra amena Quest' altra rosa: vergine romita, Di pensier santi e d' innocenza piena, La tolse al cespo ove brillò fiorita. Io l' ebbi in dono, ed ecco in me balena Luce improvvisa che a cantar m' invita: Canto la rosa che nel chiostro nata Tra le spine del mondo è traportata. Fu il primo carme che improvviso sciolsi, Il primo carme che una nuova via Schiuse a la speme che nel petto accolsi Siccome raggio che di ciel venìa. Da quel giorno mai più gli occhi non volsi Dall' alto segno che toccare ambía; E, qual dono del ciel, serbai gelosa Quella che m' ispirò vivida rosa. Pur di bellezza quasi a me sembraro Privi quei fior, quando col core oppresso Da un senso di piacer sentito e raro Un altro pegno a lor posai d' appresso. Dir quanto e come io l' ho diletto e caro Al debil verso mio non è concesso; Chè mal si puote in misurati detti Versar la piena d' irrompenti affetti. Dal fervid' estro fuor di me rapita, Quasi da un velo ricoperti i rai, Tolsi una sera in man la cetra, e ardita, Siccome il core mi dettò, cantai. Che dicessi nol so…. bianco vestita, Segno di mille sguardi io mi trovai, E tra' plausi cortesi il suolo scersi Sparso d' intorno a me di fior diversi. Tolsi una rosa, e il cittadino fiore Offerto in premio all' umil canto mio, Accrescendomi in sen forza e valore Di bella laude vi addoppiò il disio. Sperai per esso che di nuovo onore Avrei fatto giocondo il suol natio, O se vana la speme, il labbro muto Saria fatto per sempre al verso arguto. Questi i tre pegni son, questi i tesori Ch' io lieta serbo con gelosa cura; D' indiche gemme i tremuli splendori É ricche vesti l' alma mia non cura; Sol basta a me che in questi eletti fiori M' abbia un conforto incontro alla sventura, Che irata sparge di crudeli affanni Il dolce tempo de' miei giovani anni. Quando increscevol più del duolo il pondo Si aggrava sulla mesta anima mia, Che, disdegnosa del fragor del mondo, Ciò che avviene quaggiù scordar vorria, Quando il raggio benefico e giocondo Non piove sul mio cor la poesia, Corro a quel loco che per me rinserra Quanto ho di caro e prezïoso in terra. Guardo le rose, e al core, in quel momento, Al mio povero cor, fassi straniero Ogni senso di duolo, e in me risento Della speranza l' alito leggiero; Guardo le rose, e al delfico cimento Pieno d' ardor si slancia il mio pensiero; Guardo le rose…. e di splendor vestita In quel punto si mostra a me la vita. Oh! se sperar non mi concede il fato Sola una fronda di quel nobil serto Che, tardi ahi! troppo, venne al gran Torquato Qual premio ai lunghi suoi dolori offerto, Più modesto ornamento a me sia dato Sopra la bruna chioma aver conserto, E, in loco almen de' non concessi allori, Questi v' intreccerò poveri fiori.

Nell' Ottobre dell' anno 1848.

Piangi, o misera; quel ch' ora ti assale Angoscioso ineffabile tormento, Pur troppo io so che ad alleggiar non vale Della nostra pietade ogni argomento. Di sconsolato pianto hai cagion tale, Che già pensando il cor tremar mi sento; E tronca resta sul mio labbro smorto La parola d' inutile conforto. Come tremenda irruppe la sciagura Sul domestico asilo, un di felice! Ai primi colpi intrepida e secura L' alma serbasti d' alti sensi altrice; Ma, poi che colse inaspettata e dura Il giovinetto tuo figlio infelice, Venir manco sentisti il tuo vigore; Chè duol di madre avanza ogni dolore. Quante notti angosciose, o sventurata, Vegliando appresso alla diletta prole, Mentre di speme, ch' era a te negata, Le porgevi amorevoli parole, Non ti sorse il pensiero: Ah! quest' amata Fronte, ch' io bacio, ah! forse il novo sole Troverà fredda, immota, e a me fia tolta La gioja di baciarla un' altra volta! E apparve il sole di quel dì temuto Che chiedesti: Dov' è, dov' è, mio figlio? Ed ogni labbro si ristette muto, E di lacrime grave era ogni ciglio. In cor premendo a forza il duolo acuto, L' angiol che ti rimane in questo esiglio, Non ardiva su te levare il viso, Dal fraterno diletto angiol diviso. Ahi comprendesti!… E un guardo al ciel rivolto, Pieno d' immenso disperato affetto, Tre volte, il cor tutto sui labbri accolto, Tu chiamasti per nome il tuo diletto. Poi, vêr la figlia ripiegando il volto, Lei ti stringesti lungamente al petto; E, se di madre non ti uccise il duolo, Di amor materno fu miracol solo.

Nell' Aprile dell' anno 1851.

O stella tremula, Che, in mezzo a mille Astri, più vivido Mandi chiaror; Sempre in te affiggonsi Le mie pupille, Tratte da incognito Senso d' amor. Bramo con ansia La tacit' ora In cui le tenebre Spiegano il vel, Perchè tu a splendere Ritorni allora Dal lato occiduo Del puro ciel. Dimmi: sei l' arbitra Tu del mio fato, L' astro dell' Angelo Che Dio mi diè? Lassù per l' etere Interminato, Fausta, o malefica Splendi per me?… Parla, o bellissima Stella romita, Gli arcani svelami Dell' avvenir: Nel duro tramite Di questa vita Sarà che compiasi Il mio desir?… Dimmi: dall' aere Che solchi altera Seguendo il tramite Che fece il sol, Odi tu i gemiti Che in questa sfera Mandano i miseri Figli del duol?… Vedi qual agita Le umane sorti Turbo indomabile Di guerra e orror, Vedi gl' innumeri Danni e le morti Onde rattristansi Gli sguardi e il cor?.. Se il sai, favellami: Qual fine avranno Le gare infauste Tra genti e Re? Cadranno i popoli Per forza, o inganno, Lambendo ai despoti Di nuovo il piè? O pur dal vertice Del monte sacro Il sasso mistico Si spiccherà, E il babilonico Rio simulacro Infranto il terreo Piede cadrà?… Ma tu d' un nugolo Copri la faccia!… Tristo presagio Al mio pensier…. Ah se implacabile Sorte minaccia, Taci!… nascondimi Pietosa il ver!

Nel Maggio dell' anno 1848.

Ben dal volger de' neri occhi lucenti, E dalla bianca tua fronte vezzosa, Ben traspar la gentile alma amorosa Che fa del cielo innamorar le menti. Pur modesta cosi celar tu tenti Que' pregi ond' altra si vedria fastosa, Che, in tua virtù quasi negletta e ascosa, Passi tra 'l vulgo delle umane genti. Ma, quanto al vulgo più nascosta, tanto Sei più nota e più cara ai pochi eletti Che bèi dell' amor tuo pudico e santo. Nè mai più dolce tua beltà sfavilla D' allor che, pegno di celesti affetti, Ti bagna i lumi una pietosa stilla.

Il dì 19 Maggio dell' anno 1851.

Quando sul dolce tuo pensoso aspetto Talor si affisa la pupilla mia, Un senso arcano di fraterno affetto M' infonde al cor la tua melanconia. Degli anni in sul mattin limpido e schietto, Quando tutto il creato è un' armonia, E in fantastiche forme l' intelletto Un incognito ben sogna e desia; Tu amor sol chiedi, ed ogni tua parola Svela qual s' ha necessità di amore L' alma tua pellegrina al mondo e sola. O giovinetta, bada!… A te che tanto Pensi altamente ed hai sì ingenuo il core, Forse l' amor non frutterà che pianto!

Il dì 50 Maggio dell' anno 1851.

Su questa Palma, mobile Tua cuna, appresso al rio, Riposa in pace, o tenero Frutto dell' amor mio. Per brevi istanti, ahi misera! Portai tuo dolce peso Su queste braccia; un albero Invece or ti sostien…. T' ha morte ria conteso Al mio materno sen! Dormi su que' pieghevoli Rami, o fanciul. Se mai A te d' intorno gemere Il venticello udrai, Ei ti dirà che in gemiti Mi struggo anch' io: fin tanto Che di sue stille tremule L' alba t' irrorerà, Qui a spargerti di pianto La madre tua verrà. Tutto del duol che straziami Per la tua dura sorte Ti parlerà sul lugubre Albero della morte. Ma se le note flebili Odi d' augel dolente I miei materni cantici Non creder di ascoltar: Vuol, qual tu stai, silente La madre tua restar. Tu più dunque non sei! Tra i fanciulletti Scherzar non ti vedrò gioioso in faccia; Non ti vedrò seguir rapido in caccia I cavrioletti. Della prima calugine abbellita Io non vedrò la giovanil tua gota, Quando ti accresceria nel cor la vita Ebbrezza ignota! Stanco ed onusto di ferine prede Tornar non ti vedrò dall' erme selve, E l' irte spoglie delle uccise belve Deporre al piede Di vaga amante dalla rosea bocca, E chiederle, qual premio lusinghiero, Del suo bel crine morbidetto e nero Sola una ciocca! Non mi diranno i guerrier nostri: è pari Al genitore nel pugnar tuo figlio; Ei sfida ardito il bellico periglio E i nudi acciari. Dirmi invece udirò: Gioco è dei venti Il figliuol tuo sulla solinga Palma; Ei non per man di prodi combattenti Esalò l' alma. Tu più dunque non sei! Le tue leggiadre Luci mai più non rivedran l' aurora! Lassa! Fui madre pochi istanti, ed ora Più non son madre! Su questa Palma funebre, La culla che ti è tomba, Nido sarà del passero, Stanza della colomba; E allor che il picciol feretro, Co' raggi suoi novelli, Diman, sorgendo limpido, Indoreratti il sol, Si desteran gli augelli…. E dormirai tu sol! Allor che curvo e tremolo Il vecchio padre mio Vedrò qui a stento giungere, Che mai dirògli?… Oh Dio!… Che gli dirò, quand' umide Per giubilo le ciglia, Del nuovo nato a chiedere Ansioso mi verrà, Chè il figlio di sua figlia Ei benedir vorrà?… Ahi! condurrollo tacita Al triste albero accanto, E lo vedrò prorompere In desolato pianto! Affiserà tra' gemiti La piccioletta salma Del figliuol mio, che d' ultimo Sonno si addormentò Sulla funesta Palma Ch' ei stesso un dì piantò!

Nel Giugno dell' anno 1848.

1 Recitate nella tornata dell' ultima domenica di dicembre del 1850 dell' Accademia Pontaniana, essendo stata l' autrice eletta per acclamaziene socia onoraria. Da che soave nella mente mia Brillò la luce sovrumana e pura Dell' estro, per cui l' ardua fantasia Al vol di schiette rime si assecura; Da che fidente l' anima si apria Alla speranza di miglior ventura, E lamentava, tutta in sè romita, Gli ozii infelici della scorsa vita; Non mai, non mai com' or sentii possente Al cor parlarmi l' onorata brama Di avermi un giorno tra l' ausonia gente Non peritura vereconda fama: Poi che pronto voler benignamente Me tra l' eccelso vostro coro acclama, Vorrei, per dolce armonïoso canto, Mostrarmi degna di sedervi accanto. Ma perchè lungi troppo io son dal segno Che col pensiero indomito vagheggio, E perchè a vanto immeritato tegno L' avermi tra voi grandi ultimo seggio, Non vo' che il poco giovanile ingegno, Or che l' animo grato aprir vi deggio, Di studiate bellezze ì carmi vesta: Il cor favella; la mia musa è questa. O di sapienti venerando stuolo, Che, disdegnoso del reo vulgo insano, Curi la gloria del sebezio suolo, Raccolto all' ombra del divin Pontano; Poi che di mille vanti un vanto solo Ne lascia intatto ancor l' invido estrano, Addoppia, addoppia l' indefessa cura, Chè pur questo può tôrne la sventura. Ahi! la sventura l' implacabil fera Sua mano aggrava sulla terra nostra, Ed ogni pianta più feconda e altera Di grati frutti in suo disdegno prostra! Oh! chi mi addita il seggio almen qual era, Ove di sè fea vereconda mostra Quella Gentil, ch' ebbe di Saffo il canto, E il cor più degno di perpetuo vanto?1 Maria Giuseppa Guacci Nobile, illustre poetessa, socia dell' Accademia. O Guacci! al nome tuo diletto e caro Veggo a duolo atteggiarsi ogni sembiante; Chè risospinse al cielo il fato avaro Quel generoso tuo spirito amante. E il desiderio infruttuoso e amaro Di te forse più vivo in questo istante Qui si ridesta, i miei bassi e negletti Paragonando agli alti tuoi concetti. Ma pur, se mi divide un tratto immenso Dall' alta meta ove Colei pervenne, E se di orgoglio saria vano senso Seguir suoi voli con sì fiacche penne, Vagliami almen con voi l' amore intenso Che gl' inesperti miei passi sostenne Lungo i perigli della scabra via Per cui nullo conforto a me si offria. Chè se all' ardente ingegno mio, voglioso Di nobil vanto, fian regola e sprone Il tuo esempio e il consiglio, o valoroso Stuolo, splendor della natia regione, Forse avverrà non resti inglorïoso Il nome mio nell' onorato agone De' pronti carmi; nè arrossir dovrai Se a' famosi tuoi nomi aggiunto or l' hai.

Nel Dicembre dell' anno 1850.

E ver, doglioso e mesto è il canto Che a me sul labbro sospinge il cor; Una inesausta vena di pianto De' più begli anni mi attrista il fior. Pur, se mi chiedi da che deriva Quello che m' ange crudo martìr, Dirò che ho pena segreta e viva, Ma perchè peno io non so dir. Perchè sospira chiedi all' auretta, E perchè mormora chiedi al ruscel, Chiedi a che geme la colombetta Mentre ha d' appresso il suo fedel. Ch' è in lor natura, risponderanno, Spirare, gemere e mormorar; Così i miei versi altro non hanno Senso gradito, che il lamentar.

Il giorno 4 Ciugno dell' anno 1849.

Quasi pallido sogno a te parea Della vita la festa ed il sorriso, Ed un arcano intenso duol ti fea D' ogni cara dolcezza il cor diviso. Fissa, angosciosa trasparia l' idea, Che il tuo spirto presago avea conquiso, Nel flebil verso che da te movea, Nello squallor del giovinetto viso. E allor che agli astri, all' aure, alla marina Volger ti piacque il carme armonïoso Dalla riva gentil di Mergellina, Piansero i eari tuoi d' amaro pianto, E al bianco t' agguagliàr cigno amoroso, Che presso a morte ha più soave il canto.

Nel giorno 4 Agosto dell' anno 1851

Nella mesta notturna ora silente, In cui godo vegliar tutta romita Su' volumi di quei ch' orma lucente Di sè al mondo lasciàr dopo la vita; Qual di persona, cui ne strinse ardente Affetto, e venne al nostro amor rapita, Di te piango talor, Donna gentile, Morta degli anni tuoi nel verde aprile. Da un' indomata arcana simpatia Tratta i tuoi versi a meditar mi sento, E da quella dolcissima armonia Di soavi pensier prendo argomento. Come in terso cristal l' anima mia L' anima tua contempla in quel momento, E teco piange, si sublima, e spera Pace nel dì che non avrà mai sera. Al mormorio di limpido ruscello Che lentamente scorra in ermo loco, Al flebile gorgheggio dell' augello Che canti acceso in amoroso foco, Al sospir di olezzante venticello Che aleggi in mezzo ai fior tepido e fioco, Simile è il verso tuo, quando del core Narra le pene e l' ignorato amore: L' ignoto amor che vivo t' arse il petto E impennò ai voli dell' ingegno l' ale, E infuse à ogni tuo nobile concetto Una soavità celestïale. Dove, oh! dove vedesti il giovinetto Volto che in terra non può aver rivale?… E come, e quando concedea la sorte Che ti legassi a lui d' amor sì forte?… Ah non in questa dolorosa valle Incontravi colui che t' innamora; Ma il tuo pensier, che per etereo calle In meste fantasie vagava ognora, Quest' una forma predilesse, tralle Forme angeliche c' han lassù dimora; Questa ti arrise, e in te avvivar sapea Del bello eterno la suprema idea. Ma un' altra corda la tua dolce lira S' ebbe, che rese più gagliardo suono. Oh! chi con te non piange e non sospira Membrando glorie che trascorse sono? È Dante stesso che tua mente ispira Quando sull' urna sua dipingi prono L' anglico Bardo, che d' Italia degno Sortiva il core ed il fecondo ingegno. Inclita figlia del gentil paese, Dove lodata un dì culla sortiva L' itala poesia, che immenso stese Il vol poi d' Arno sulla nobil riva; Oh! come la tua bella alma cortese La carità del patrio suol sentiva! Come godea di celebrar nel canto Ogni sicano generoso vanto! Deh! or tu, nova degli astri cittadina, Che, ricongiunta all' amoroso Meli, E all' alma antica della dotta Nina, Cresci con essi l' armonia de' cieli; Deh! un raggio sol della virtù divina, Che ne' teneri tuoi carmi riveli, Trasfondi in me, che ti assomiglio almeno Nel santo amore del natal terreno. Io non ti vidi, mentre in vago ammanto Peregrinavi sulla grama terra; Nè ancor toccai la patria tua, che tanto Tesoro di memorie in grembo serra; Ma se il destin, che mi condanna al pianto, Precoce avello al piè non mi disserra, Un dì verrò sull' urna tua silente D' alti pensieri ad afforzar la mente.

Nell' Ottobre dell' anno 1851.

Ti vidi in sale splendide Muovere a lieta danza; A te d' intorno un' aura Spirava di esultanza; Eri ad un astro simile Ricinta di splendor: Ti vidi…. eppure un battito Io non provai d' amor. Sopra al verone, in candida Veste solinga stavi; Una canzone flebile Sull' arpa modulavi; Di quel tuo canto, magico Parevami il tenor; Io ne rimasi estatico, Ma non destommi amor. Ti vidi lieve ed agile Correr pei campi aperti, Questo e quel fior raccogliere, Farne leggiadri serti, E mi sembrasti il genio Di primavera allor; Ma pel tuo volto amabile In me non surse amor. Alfin pietosa e ingenua Nel verecondo aspetto Ti vidi ì passi muovere Entro meschino tetto; Ivi di rea miseria Lenivi tu il dolor…. Ah! mi sembrasti un angelo, Arsi per te d' amor!

Il giorno 18 Luglio dell' anno 1847.

Infelice! Col crine sconvolto, Con le vesti neglette, sdrucite, Stenuato, sparuto nel volto, Quasi a calma composto si sta, Le incavate pupille smarrite Affisando d' intorno egli va; Ed il labbro dischiude al sorriso, A un sorriso che lacera il core! D' una stupida gioja il suo viso Ad un tratto raggiante si fa…. È una gioja che sembra dolore, È una gioja che desta pietà. Infelice! Perdè l' intelletto, Come bruto divenne insensato, Di natura non sente più affetto, Non rimembra più il tempo che fu; Egli amava…. tradito, sprezzato Della mente smarrì la virtù. Ve! una donna dal mesto sembiante Amorosa lo chiama per nome; Ei si scuote, la fisa un istante, Qual chi cerca al passato redir; Le divide sul fronte le chiome, La respinge mettendo un sospir. È sua madre! Del duol nell' eccesso Ella il capo sul petto reclina; Quegli intanto susurra sommesso: « Non è lei!… ma…. fra poco verrà; Cento volte ha il suo labbro promesso Che di un altro giammai non sarà! » Poi si tace, diviene pensoso, E la destra portando sul core Un antico martíre angoscioso Par ch' ei voglia in quell' atto celar…. Lo travaglia l' indomito amore, Come il vento fa l' onde del mar. Ma chi fende la calca?… chi è mai La donzella che ratta si appressa? Sgorga il pianto da' bruni suoi rai, Sparso ha il volto di tetro pallor, Nell' angoscia onde ha l' anima oppressa La parola sui labbri le muor Al deliro si prostra d' innante, Come reo che ne aspetti condanna; Lo rimira affannosa, tremante, E ne implora perdono, pietà; Perchè quei la ravvisi si affanna, E i più teneri nomi gli dà. Ma colui con orrenda quïete: — Non è lei! — dice qual trasognato. Ella piange, ed invano ripete Ch' ella è dessa, che il torna ad amar. Non v' ha possa che all' orrido stato L' infelice omai valga a strappar!

Nel Dicembre dell' anno 1847.

Oh! non le dite che dritto al cielo Il suo figliuolo spiegava il vol! Oh! non le dite che il fragil velo Entro quell' urna ne resta sol! Lasciate ch' ella di un rio di pianto Sparga la cuna nel suo dolor; E, come illusa, vi sciolga il canto Che al suo fanciullo sciolse talor. Seco piangete sovra il rubello Fato che tanta speme tradì…. Ma non le dite che assai più bello In Paradiso verdrallo un dì: Chè, per vederlo fatto angioletto A Dio d' appresso l' alì spiegar, Potria, nell' impeto dell' ansio affetto, Ancor non chiesta a Dio tornar.

Il giorno 18 Luglio dell' anno 1851.

O verginelle, cui commove il petto Intemerato battito d' amor, Versate pianto di pietoso affetto Udendo questa storia di dolor. Era donzella vereconda Annina, Bella qual alba di sereno dì; Rassembrava una rosa porporina Che appena il grembo sullo stelo aprì. Era orfanella Annina e poveretta, E allor che stava il sol per tramontar Solea nel cimitero andar soletta Sulla fossa materna a lagimar. Quivi prostrata, in biancheggiante veste, Le roride pupille vôlte al ciel, Della pace parea l' angel celeste Che veglia dei fedeli in sull' avel. Ed ecco, mentre ella raccolta stassi Nell' estasi di sua santa pietà, S' ode d' accanto un romorio di passi, Ed un sospir che trabalzar la fa. Ratta si volge…. a mezzo in ciel la luna Velata, manda languido chiaror; D' alto cipresso l' ombra lunga e bruna Scambia per un fantasma di terror. Non un accento diè…. qual da saetta Punta, riversa cadde tosto al suol, Veder credendo un' alma maledetta Surta dall' infernal stanza del duol. Piangete, o giovinette…. era l' amante Che inosservato l' orme sue calcò; Ma, giungendo, trovolla agonizzante, E di tornarla a vita invan cercò. La nova luna, al loco ove già tanto Pianse e pregò quell' angelo d' amor, Alla materna vide urna d' accanto L' urna di lei morta dei dì nel fior.

Nel Dicembre dell' anno 1847.

Oh se al mondo potessi e alle sue tante Follie togliermi alfine, i giorni lieti Trar vorrei sotto l' ombra degli abeti, Giuliva come spensierato infante. Assisa al margo di un ruscel sonante Forse emular saprei gli alti poeti, Disfogando con l' aure e coi pianeti La melodia che informa il core amante. Poscia nel grembo di romito albergo Dio pregherei per que' che menan lassa Vita, ed a tutte gioie han volto il tergo, Ahi fuggevole sogno!… in crudi affanni Scorre frattanto la mia vita, e passa Tutto l' incanto de' miei giovani anni! Passa l' incanto de' miei giovani anni, E, pari al luccicar di fatuo foco, Que' che già mi bear suavi inganni Si dileguan tra l' ombre a poco a poco. Or veggo ben che in questo basso loco Stan sol beni fallaci e certi danni; E tutto appare vanitade e gioco Al cor già dotto degli umani affanni. Però, come fanciul che piange i fiori Che il verno inardì, piango ancor io Le gioie dei vissuti anni migliori. E ne' miei canti, in cui disfogo il duolo, Invan richieggo in meste note a Dio Di que' giorni beati un giorno solo. Ove ne andâro le suavi e belle Fantasie de' miei primi anni ridenti, Quando estranea del mondo alle procelle Godea l' alma piacer casti innocenti?.. Avean per me dolcissime favelle I fior, l' aurette e i rapidi torrenti; E, al' ciel rivolta, voi, limpide stelle, D' ogni speranza mia fea confidenti. Or pel mio core, in preda ad incresciose Cure perenni, non han più linguaggio Così leggiadre e in pria dilette cose. Mute son l' aure e i fior, degli astri il raggio Muto; ma immago son le procellose Onde del triste mio terren viaggio.

Nell' Aprile dell' anno 1849.

Tra le pudiche Vergini Che avvolte in sacro velo Vivono ascose al secolo Care al Fattor del cielo, Tragge la vaga Giulia Foschi languenti dì Qual rosa che, sul cespite Vivace, si appassì. Nuotanti nelle lacrime I lumi sulla croce Affigge, e lamentevole Suona sua cara voce, Quando frammista all' umili Sorelle nel Signor, Alterna i sacri cantici Coi gemiti del cor. Guari non è, nel giubilo Di clamorose feste, Fu vista, pari a Silfide Avvolta in bianca veste; E da' suoi labbri armonico Un carme si partì, Carme che di magnanimi Affetti i cuori empì. Or che mai trasse a cingere Le lane penitenti Costei, che ai doni labili Di grazie seducenti, Alle dovizie, ai nobili Stemmi d' avìto onor, Aggiunse il dono splendido D' ingegno animator? Itale donne, ai bamboletti vostri, Qualor vi chieggon di passate istorie, Di questi tempi fortunosi nostri Narrate voi le lutte, il duol, le glorie. Dite siccome due contrari mostri Troncâr le nostre spemi e le vittorie; E come questa patria han travagliata Despota rabbia e libertà sfrenata. E a rischiarar di civiche tempeste E sanguinose gare il quadro orrendo, Vi giovi, o donne, in note care e meste D' una donzella i casi ir ripetendo: Di Giulia, in mortal velo Angiol celeste, Dite, ch' alma sublime in sen chiudendo, Sacrò alla patria amor, dovizie, ingegno, Sperando torla dal servaggio indegno. Ell' era amante, ed il garzon diletto Sospinse incontro allo straniero odiato; Ei giacque in campo, ma ferito in petto, D' italo amore martire onorato. Ell' era ricca, e ogni prezioso oggetto La patria a sollevar da lei fu dato. S' ebbe il dono dei carmi, e i carmi suoi Sciolse solo a infiammar gl' itali eroi. Ma di Salasco all' oneroso patto Arse di sdegno pria, poi dal dolore Quell' animo gentile sopraffatto Pianse sovra il caduto italo onore. E la speranza omai smarrita affatto Di patria gloria e di novello amore, D' ogni cura mortale il sen disgombra, Del sacro chiostro si raccolse all' ombra. Ma già non quetasi Nel santo ostello Il duol che assiduo Le sfiora il sen; Ed ella piegasi Verso l' avello Qual giglio candido Verso il terren. Si avanza il rigido Verno, e più tetro Le guance a Giulia Tinge un pallor; Ella vagheggia Il suo feretro; Com' altra il talamo Casto d' amor. Un' alba affacciasi, Di Giulia il viso Splende d' insolito Vivo chiaror…. Tornò quell' angelo Al paradìso Pregando a Italia Mite il Signor!

Nel Dicembre dell' anno 1849.

Se alcun da me forbiti carmi aspetta, Sappia che, mentre il duol nel cor mi dura, Di pianger più che di cantar mi alletta. Ma, perchè santa e generosa cura La pia memoria di onorar ne indice Di questo egregio che a noi morte fura, E perchè al mesto ingegno mio si addice Mesto soggetto, or io di lui parlando « Farò come colui che piange e dice. » Nè a te, spirto gentile e venerando, Temerò sia discaro il verso mio, Benchè basso tuttor vada suonando; Però che in quello che a te fu natio, Ricco di antico onor, lido aprutino, La prima aura vital bovvi pur io. E a te fu dolce il plauso cittadino, Mentre vivesti, più d' ogni altro vanto Che ti acquistavi col pennel divino. Ben se ne avvide ognuno, e tu l' incanto Ne fruisti quel di che la tua riva Ti accolse, atteso e disïato tanto. E al suon de' lieti affettuosi evviva In che rompean, di te superbi omai, Gli abitator della città giuliva, Tu, di tenero pianto umidi i rai, Benedivi alla bella arte, e ai durati Nel seguirla disagi, e stenti, e guai. E il poco ingegno mio, che, in onta ai fati Avversi, l' ali al primo vol credea, Della tua lode al suon, novi indomati Sentia sproni di gloria, ed irrompea Nel pronto carme, che dal cor partito Trepidamente in ogni cor scendea. Ahi! chi detto mi avria che, non compito Un lustro da quel dì così festoso, Io stessa, io stessa, nel sebezio lito, Molle il ciglio di pianto doloroso, Alla memoria tua sacrato avrei Di miei carmi il concento lamentoso?… Dunque egli è ver che fatto muto sei Eternalmente, e che il tuo dolce aspetto Tolto è veder per sempre agli occhi miei?… E si estinse la vita in quel tuo petto D' ogni bella virtù nido fecondo, Fecondo nido d' ogni puro affetto?…. Sublime artista ti ammirava il mondo; Ma in te altri pregi, che dell' arte, amava Chi dell' anima tua scendeva in fondo. E lo spregio scorgeavi per la prava Gente che piaggia sol chi in alto è posto E del caduto il duol con scherni aggrava; E l' orrore per que' che di nascosto Vibrano il ferro micidial nel core Ch' ogni fidanza in essi avea riposto. E, scevro affatto d' emulo livore, Vedeati inteso, alteramente umíle, Più a meritar che a conseguire onore. A' suavi costumi, alla gentile Serenità del volto, alla favella Non per odio o timor bugiarda o vile, Vèr te ciascun sentiasi tratto, e bella Gara d' onor fervea nell' affidata Alle tue cure gioventù novella. Ahi! come or geme afflitta e sconsolata Quella solerte ed animosa schiera, Del suo maestro, anzi del padre orbata! Deh! s' egli è ver che nell' eterea sfera, Dove nel primo Amor l' alma s' india, Penetra il suono di mortal preghiera, Un solo istante, o dolce anima pia, Ritorna in mezzo a noi, come amoroso Raggio di stella in fitta tenebria. Torna, e sorridi al santo ed operoso Zelo che n' arde di onorar tuo merto Già per sè stesso illustre e glorïoso. Dall' amistà, dalla giustizia offerto Sulla recente tua fossa vedrai Non perituro volontario serto. E, se duolo terren commover mai Può chi nel mar di tutta gioia nuota, Forse che al nostro duol pur ti dorrai. Starà la fama tua salda ed immota, Finchè della virtù l' etereo riso A tremito d' amore i petti seuota. E tu veglia, tornando al Paradiso, Che mai non venga illanguidito o scemo, In questo travagliato italo Eliso, Dell' antica sua gloria il raggio estremo.

Nell' Aprile dell' anno 1831.

Della mia vita in sull' april novello, Quando all' innamorato Spirto bramoso dell' eterno bello Tutto gaudio e sorriso era il creato; Quando dell' armonia, Che si svolgea nella fanciulla mente, La segreta virtù magicamente Ogni cosa al mio sguardo ingentilia; Come per fama di onorate imprese Vien che si desti amore, Che pur da'sensi l' esca sua non prese Entro bennato generoso core; Così, sublime e rara Donna, in que' miei primi anni io t' onorai: Chè tua modestia è sol, se ancor non sai Quanto per tua virtude altrui se' cara. E delle schiette note armonïose, 'In che talor volesti Dell' alma intesa alle superne cose I soavi svelar sensi celesti, Al mio povero tetto Giunse il suon ch' io raccolsi avidamente, E un arcano disio trepidamente Mi si metteva nel commosso petto. E poi che ardii le mie speranze e il duolo Sfogar nelle dimesse Rime, e dell' arte al periglioso volo Amore, immenso amor, l' ali mi resse, Di te pensai pur anco E della lode onde sei tu fregiata; E tal pensier mi fu per l' onorata Via nuovo sprone al giovinetto fianco. Di te cantato avria quel chiaro lume Di questa terra nostra, « Ch' ogni bellezza, ogni gentil costume In te congiungi con mirabil mostra; » E di più caro vanto, Che l' adorata sua Laura non ebbe, Sì che sovente al suo gran cor ne increbbe, Fatta segno t' avria nel dolce canto. Oh molte itale donne a te simìli Il ciel ne desse almeno! A te, che le magnanime e gentili Virtudi, e gli alti sensi accogli in seno Di Vittoria Colonna, Dell' illustre tua stirpe onor perenne, Di cui non vantan le più chiare penne Più veneranda e glorïosa donna. Canzon, ben sai che questa, a cui t' invio, Alma cortese e bella, Sè stessa asconde in suo splendor natio, Come in profondo ciel lontana stella. Però, se a' sensi tuoi Vedrai sue guance di rossor suffuse, Dille: chi mi vergò giammai non schiuse A bugiarda parola i labbri suoi.

Nel giorno 10 Luglio dell' anno 1851.

Vorrei col vol dell' aquila Levar lo spirto anelo A spazïar pe' lucidi Campi del vasto cielo; Libera al par dell' aria, Un solo istante almen, Vorrei slanciarmi a vivere Dell' infinito in sen! Se in una stella scegliere Dovessi mai dimora, Non sceglierei la splendida Foriera dell' aurora; Ma in grembo a un astro, incognito Al mortal guardo ancor, Vorrei romita accogliermi, Vivervi ascosa ognor.

Nel giorno 6 Maggio dell' anno 1851.

A te, partenopeo suolo diletto, Reggia di luce e d' armonia, soven te Torno sull' ali del memore affetto. E di quell' aër tuo, che lenemente Molce ogni cor, la voluttà respiro Nel caro inganno dell' accesa mente. E, come ai dì passati, in sul tuo miro Lido beato soffermando il passo, Pe' floridi verzier seggo e sospiro. Quivi al mio sguardo effigïato un sasso Mostra l' aspetto del divin Torquato, Sprone all' ingegno combattuto e lasso. Come garzon che l' occhio innamorato Fisa in volto a colei che il cor gli ha vinto, Io guardo il vate illustre e sventurato. Oh quante volte in quel verde recinto, Che par quasi a' profani occhi il nasconda, Fanciulletta pensosa ho il piè sospinto! E quante volte al mormorio dell' onda, Di un augelletto agli amorosi lai, Dell' aura al susurrar tra fronda e fronda, I mestissimi miei pianti sposai! Chè fin la speme dell' eccelsa meta Diniegata per sempre a me pensai! Sul volto dell' altissimo poeta Volle l' industre artefìce scolpita Di Lui la generosa alma inquïeta. Brilla in quegli occhi il raggio della vita, Di quella vita dall' acerbo sdegno Del reo destin ferocemente attrita. E quell' amor, che al suo potente ingegno Vestìa le penne più animose e pronte, Sì che del verde allôr fecesi degno, Come nell' ampia sua nobile fronte Dagli anni no, ma dal dolor soleata, Fa le sue fiamme manifeste e conte! O sublime Cantore, onde eternata Fu l' alta impresa degli eroi che a Cristo La benedetta spada ebber votata, Or che stimol di onor novo imprevisto Dal letargo destò l' ingegno mio, In che giacque finor silente e tristo; Deh! tu sorridi al nobile disio Che il sen m' infiamma, e l' estro m' avval Sì che il mio verso non ricopra oblio. Ben sai che fanciulletta io m' era ancora Quando appresi ad amarti, e ad invogliarn Per te del nome che più dura e onora. Tutta d' ignoto ardor sentia scaldarmi, Quando, del padre sui ginocchi assisa, Gìa ripetendo i tuoi sublimi carmi. Ad arduo segno avea l' anima affisa, Ma negletto fu l' estro, e sconsolata Giacqui dai cari miei sogni divisa! Alfin mi scuoto, e quella brama innata Più potente risorge in me con gli anni, Da maturo consiglio confortata. Ad avvilirmi omai sfido gli affanni, Se la veloce e mobil fantasia Si reggerà sugli spiegati vanni. Te guida invoco alla difficil via, Divin Torquato, che sempre ti aggiri Infra i pensieri della mente mia. Deh tu, che il puoi, fa che il mio verso spiri Aura di affetti generosi e casti, Sì che qualche pietosa alma sospiri, Se fia che avverso fato a me sovrasti.

Nel giorno 16 Luglio dell' anno 1846.

Tre fiate, o sol, rinnovellar vid' io L' annuo tuo corso nel modesto tetto, Che or lascio per più tacito ricetto, Meglio conforme al mesto ingegno mio. A rare gioje, a spessi affanni il petto Qui schiusi, e molto d' obliar disio; Non esulto nè piango in dirgli addio, Chè il lascio senza duol, senza diletto. Oh! il Ciel consenta che serena e bella Vegga una volta dalla nuova stanza De' miei destini scintillar la stella! E, ridesta alla gioja e alla speranza, Possa, cessata la crudel procella, Discior l' inno di pace e di fidanza.

Nel giorno 16 Agosto dell' anno 1849.

« Deh non pianger mia morte, o dolce suora, Più che non pensi è il mio destin felice; Sol la tua doglia nel morir mi accora Ed un sospiro dal mio petto elice. Al fianco ognor mi avrai, se all' alam lice Di ritornar nella mortal dimora; Presso te, presso l' egra genitrice Starò compagna, non veduta ognora. Addio sorella; un' altra volta almeno Bacia, deh! bacia le mie guance smorte, Un' altra volta ancor stringimi al seno. » Io vêr lei mi slanciai piangendo forte; Ella con volto angelico e sereno: « Addio! » mi disse; e la colpì la morte Stesa io la vidi sul funereo letto, Bianca siccome immaco lato giglio, Giunte le cerce man sul casto petto, Scinta le chiome, e chiuso il nero ciglio. La vidi…. e nel delirio dell' affetto Credei di Morte ottuso il fero artiglio; Tanto vago e sereno era l' aspetto Di lei ch' angiolo fu nel breve esiglio. Bagnandole di pianto il caro viso: Orsù ti desta, o suora mia, sclamai, Troppo in sogno vagheggi il paradiso! Ahimè, che invan risposta io n' aspettai! Spento lo sguardo, spento era il sorriso…. Ed io proruppi in angosciosi lai! Ed io proruppi in angosciosi lai; Ma, quando il velo suo stese la sera, Quasi al duol di quaggiù fatta straniera, Una calma divina in sen provai. Le molli ciglia alla siderea sfera Da vaga luna irradïata alzai; Che quivi ascesa ell' era io ricordai, E dal core mi uscì questa preghiera: O suora mia, che fatta se' beata, Certo lassuso tu oblïar non puoi Colei che in terra fu da te sì amata! Deh! su me volgi ancor gli sguardi tuoi, Ch' io qui vivo diserta e sconsolata…. E tu, diletta, t' involasti a noi! Certo la tua preghiera, anima bella, M' implorava da Lui che impera al tuono Questa dei carmi nobile fiammella Onde talor di me maggiore io sono. Avea 'l pensier rivolto a te, o sorella, Quando ascoltar mi parve un dolce suono Di voce che dicea: Canta, o donzella; Iddio d' estri e di canti a te fa dono. Ed io cantai, sacrando a te il primiero Carme innocente che sul labbro pio Sospinse allora un tenero pensiero. Se a mia tutela ti destina Iddio, Tra le frane del ripido sentiero, Guidami or tu, cortese angelo mio.

Nel Maggio dell' anno 1846.

Continuamente nell' umíl mio tetto Manda una lampa pallido chiarore Innanzi al pinto sovrumano aspetto Di Lei che in grembo accolse il primo Amore. Quando al suo raggio io veglio, e il púro affetto Verso dell' ansio e travagliato core, Una cara mi torna allo intelletto Rimembranza di speme e di dolore. Presso all' ultimo suo fato languia L' amata suora, allor che, vôlta a questa Leggiadra immago tua, dolce Maria, Su me pregò suavemente mesta Tua santa aita, e in quel pregar la pia Fu assunta ai gaudii dell' eterna festa. Però, qualora l' anima si sente Più sconfortata dalla prova dura A cui fu posta, e par quasi pavente Sotto il carco piegar della sventura, Questa effigie contemplo; e dolcemente S' insinua a poco a poco una secura Pace ne' sensi e nell' accesa mente, Che ad arcana si leva estasi pura. E veggo vivo e sorridente farsi Il santo aspetto, e in mite atto di amore Quella mia cara a' suoi ginocchi starsi; E in suon che vince ogni più dolce canto L' odo il prego iterar che all' ultime ore Sciolse per me che le piangea d' accanto.

Nel Marzo dell' anno 1852.

Vaga fanciulla, perchè si mesta Movi soletta in negra vesta Quando all' occaso s' inchina il sole, E una ghirlanda fai di viole?… A chi destini quei bruni fior? Simbol non sono di lieto amor! — Nube di duolo coprì mia stella; Io non ho amori, sono orfanella. È fida immago di mia tristezza Delle viole la pallidezza; Della mia madre il freddo avel Ne adorno all' ora che imbruna il ciel. La conoscesti la madre mia?… Quanto era buona, quanto era pia! A lei d' accanto lieta e secura Io vissi ignara della sventura: Come augelletto che l' ala ancor Del proprio nido non mosse fuor. Ahi! con lo spegnersi della sua vita Ogni dolcezza fu a me rapita!… Sol mio retaggio è sulla terra L' urna che in grembo la madre serra; Là prego Iddio che tosto almen Di quella cara mi torni al sen.

Nel giorno 26 Gennaio dell' anno 1848.

Allor che l' inesperto e giovinetto Ingegno l' ali al primo vol credea, E riboccante l' anima di affetto In rozzi ingenui carmi si espandea, Nella quïete del natal mio tetto Di te, Giulio, pensar spesso solea; Chè riverente amor nel vergin petto Dell' opre tue la fama m' infondea. E accolsi tra le mie dolci speranze Quella pur anco di veder da presso Un dì le venerande tue sembianze. Ma sperar non osai che al facil canto Saria dal Ciel benigno oggi concesso Di un tuo plauso cortese il premio e il vanto.

Nel Dicembre dell' anno 1851.

Tanto dell' opre tue fama onorata Omai suona per l' italo paese, Che maggior del disio che il cor ti accese Mercè godi di laude intemerata. Pur dì verrà che fia scarsa trovata Quella parte di onor che a te si rese, Quando di tua gentile alma cortese. Ogni virtude il tempo avrà svelata. Chè molti, è ver, nel grembo suo rinserra Figli, cui largo fu d' ingegno il Cielo, Questa feconda e glorïosa terra; Ma forse invan si cercheria tra' molti Chi ti pareggi in operoso zelo Di sensi all' altrui ben sempre rivolti.

Nel giorno 12 Aprile dell' anno 1852.

Alta la notte dal puro cielo Sul mondo stese il fosco velo Tutto ingemmato dalle fiammelle D' innumerevoli leggiadre stelle, Che nell' azzurra ampia marina La lor riflettono luce divina; Mentre increspata appena l' onda Bacia con murmore roco la sponda. Ben cento navi nel porto accolte, Le vele ai nudi arbori avvolte, Posano immote dei rischi ignare Che ad esse appresta l' instabil mare. Lontan lontano chiude la scena Dei monti calabri l' ardua catena, Che, dalla tenebra densa velati, Sembran giganti dismisurati A guardia posti di te, regina Dell' onde sicule, vaga Messina. Come leggiadra e cara sei, Città vetusta, agli occhi miei!… Quante memorie di duol, d' amore, D' alte speranze, di patrio onore, Ratte si affollano alla mia mente In questa placida ora silente! Ohimè quest' onda che in sè riflette De' tuoi palagi le bianche vette, Questa, che in tempi per te di gloria Incoronati dalla vittoria, Reduci accolse carchi navigli Di generosi tuoi degni figli, Questa or riflettersi vedesi in seno Le paventate torri che freno Posero al corso vittorïoso D' un popol baldo ed animoso, Che nei suoi sacri dritti risorto Esser chiedeva libero o morto. Spessi sui bellici spaldi odïti I bronzi ignivomi stanno schierati, Quei bronzi stessi che strage e lutto Fra le tue mura piovver per tutto; E or dell' aspetto sol minaccianti Sembran fin l' adito chiuderti ai pianti, E in muto eloquio diconti ognora: « Pugnasti indarno; sei serva ancora. »

Nel Novembre dell' anno 1852.

Come face notturna in ermo loco Al soffio agitator d' aura inclemente Or brilla, or lume dà pallido e fioco, E al peregrin, che disïosamente Vi affigge il guardo in mezzo all' aer nero, Or speranza, or timor ravviva in mente; Così a me nel dubbioso ansio pensiero Dell' ingegno lucea l' incerto raggio Che di onor m' era scorta al bel sentiero. E come quei che a lungo arduo viaggio Si commise, le sue forze misura E a mezza via mancar sente il coraggio; Tal io, romita giovinetta oscura, Stetti scorata a riguardar la bella Meta, contesa a me dalla sventura. E i puri gaudii dell' età novella, E i dolci sogni, e l' ineffabil riso Di che la vita allor tutta si abbella. Pallide larve mi sembraro, e il viso Bagnai di pianto, disperando il segno A che sempre il pensier teneasi fiso. Fu allor che il poco abbandonato ingegno Spontanee mi dettò subite rime Piene del duol che avea sull' alma regno. Pur, benchè rozze, quelle note prime Un' eco ritrovaro entro il tuo petto Dischiuso ad ogni pio senso sublime. Con quel benigno ed amoroso aspetto, Con che timida figlia un padre incuora, Venir ti vidi al mio povero tetto. E con l' accento che a virtù avvalora Mi favellasti, e l' alma trepidante Di buon ardir riconfortossi allora. I tuoi modi suavi, il tuo sembiante, Mi crebbero fidanza, e t' invocai Maestro e duce sin da quell' istante. Per te all' are riposte io mi appressai Della Divina che al mortal rivela La propria altezza co' superni rai. Dell' itala dolcissima loquela Le innumere bellezze e l' armonia, Che i cor più schivi innamorando inciela, Per te meglio conobbi; e dalla mia Anima ardente mosse puro il verso Vôlto a ogni cosa più gentile e pia. Per te, schermo carcando al fato avverso, Al subitaneo carme il volo sciolsi, A nobil segno ogni disio converso. E sempre che nell' arduo arringo colsi Cortese un plauso, riverente e grato Il memore pensiero a te rivolsi. Oh! così men fugace e più mertato Il Ciel pietoso mi conceda il vanto, Che sol ne' sogni ho conseguir sperato, Com' io terrò, dolce conforto e santo, De' benefizii tuoi memoria in core, Fin che nel suono dell' estremo canto Torni quest' alma in seno al primo Amore.

Nell' Aprile dell' anno 1852.

O tra scabri dirupi inabitati Silenzïosa vallicella oscura, Di amene ombre gioconda, e di odorati Fior che benigna ti largì natura; Salve! in riva al Tirren, pe' frequentati Trivi superbi di fastose mura, Tra 'l fragore de' cocchi e il popol denso, Al tuo cenobio, alla tua pace io penso! E così forte rivocare io tento Quella che in te provai calma divina, Che a poco a poco ciò che miro e sento Si trasforma per l' alma peregrina. Più il mar non veggo che amoroso e lento Lambe il lito gentil di Mergellina, Ma del picciolo tuo rivo argentato Ascolto il mormorio sommesso e grato. Veggio la grotta, ov* ebbe aspro ricetto Il piacentino cavalier cortese, A cui sì fera di rimorsi in petto Guerra l' error non volontario accese, Che agli agi aviti, al maritale affetto, Al dolce nido nel natal paese, Disse perpetuo irrevocato addio, Tutto offerondo in olocausto a Dio. Qui scalzo e cinto di cilizio, i vani Diporti e l' ora maledia fatale Che, perseguendo per colline e piani Errante belva a cui il timor dà l' ale, Di fitto bosco nei recessi arcani, A caso, incendio suscitò ferale, Onde a torto accusato altri poi venne, E a un passo fu dalla crudel bipenne. Nè il duro esiglio, nè il solingo orrore Del loco, e l' aspre penitenze e i pianti, Credea pena adeguata al grave errore Di che ognor si accusava al cielo innanti Rendean fede dell' alto suo dolore Gli estenuati pallidi sembianti, E il crine incolto, ed i dogliosi accenti, Con che novi al Signor chiedea tormenti. Or dell' aura il sospir, che dai roseti Suavemente move profumata, L' eco mi sembra dei sospir segreti Di quella al ciel diletta alma bennata! Odo fremer tutt' ora infra i mirteti L' angelica melode innamorata Che allietò spesso di celeste incanto L' ora notturna al solitario Santo. — Non ricca di scolpiti prezïosi Marmi, ma sorge la chiesetta umile Modesta e bella, accanto a paurosi Antri, di belve un dì tetro covile. Le mura ornan l' offerte de' pietosi, E l' ara, in sua semplicità gentile, Splende non già d' indiche gemme e d' ori, Ma di olezanti ognor vergini fiori. Nè mai sì dolce ricercommi il petto Qual più suave udii musica nota, Come l' alto silenzio benedetto Che regna dentro la magion devota, Piove dal santo effigiato aspetto Al cor commosso una dolcezza ignota; E voce ascolta in cara estasi assorto: « Delle umane procelle è questo il porto. » Oh benedetti, oh avventurosi invero Voi, semplici romiti poverelli, Che a custodia del loco un mite impero Serba nel nome e nell' amor fratelli! Non giuro irrevocabile severo Vi annoda qui, se il mondo ancor vi appelli, Nè tardo pentimento la secura Pace conturba delle vostre mura. A' scarsi desiderii, a' pochi vostri Bisogni ardente carità provvede; E delle scienze, un dì vive ne' chiostri, Unica quì tien loco ingenua Fede. Invidia e ambizïon, feroci mostri, Cercano indarno in mezzo a voi la sede, Chè sol nel vostro cor fida tenace La speme alberga dell' eterna pace. Con lieto volto il peregrin bramoso Dall' Eremo alla valle accompagnate, E dell' antico Santo glorïoso La leggenda, cortesi, gli narrate. — Quì sul nudo terren cercò riposo; Qui fûr tante per lui notti vegliate; Qui mostra un sasso venerato agli occhi L' orma tuttor de' suoi curvi ginocchi! Nè tu sì vaga allora eri e ridente, O quïeta odorosa vallicella; Ma di macigni e bronchi orrendamente Irta, e ad ogni gentil germe rubella; Pur fin d' allora la Netína gente Qui trasse a schiere ad onorar la bella Alta virtù dell' umile Eremita Che illustrò il loco ove traea la vita: E poi che al ciel la santa anima volse, Dove il disio si acqueta, i bianchi vanni, Ed un serto immortal di luce colse, In premio ai lunghi sostenuti affanni; La grotta, il loco ove la prece sciolse, Il rio che il dissetò per sì lunghi anni, Il sasso ch' ebbe al pio capo sostegno, Di riverenza popolar fur segno.

Nel Dicembre dell' anno 1853.

Allor che il lume della bionda aurora La tranquilla rischiara aria serena, Di un verde colle sull' altura amena Sola co' miei pensier traggo talora. E come veggio tutta emerger fuora Da rosea nebbia l' incantevol scena, Cui fa specchio la pura onda tirrená Leve increspata dalla placid' ôra; In un mar di dolcezza indefinita S' immerge la commossa anima, e oblia Tutte le cure della stanca vita. E a te, cara e gentil Napoli mia, Cui fu tanta beltà da Dio largita, Un saluto di amor per me s' invia.

Il giorno 20 Luglio dell' anno 1852.

Così la nuova della tua partita A me giugneva inaspettata e dura, Che trepidante l' anima e smarrita Raccôrre indarno i suoi pensier procura. Sovra la mia pupilla, inaridita Riman la stilla sacra alla sventura; E trista, sconfortata, invano io tento Sul fato ultimo tuo sciorre un lamento. Nè forse pianto a te si dee, se morte Ti tolse al mondo nell' april degli anni. La via che acerba t' indicea la sorte Era sparsa di triboli e d' inganni; Se le giornate del tuo viver corte Scevre non furo di crudeli affanni, A un altro affanno più crudele ancora Ti tolse almeno la novissima ora. Tu non vedesti il doloroso istante Dal cui pensiero forse, o sventurata, Fur le potenze tue vitali affrante Così che l' urna al piè t' ebbe scavata. La terra ove il tuo cor divenne amante, Ove d' immenso amor tu fosti amata, Tu non lasciasti; e almen riposerai Dove il tuo fido al sol dischiuse i rai. Sovra la tua povera fossa almeno Avrai chi pianga, e sciolga una preghiera Nell' ora che per l' etere sereno Distende il velo suo la mesta sera. E quella che il tuo fral racchiude in seno A te non sembrerà terra straniera; Ch' ivi la patria sua ritrova il core Dove il santo provò moto di amore. Oh chi può dir s' io che sospiro e gemo Sul fior de' tuoi gentili anni caduto, Incontrerò tra poco il di supremo In suoì per me di cari affetti muto! Chi sa se invidiar dovrò l' estremo Conforto di che in terra hai tu goduto, E morir senza che un amato aspetto Io vegga appresso al mio funereo letto?

Nell' Aprile dell' anno 1852.

Come il sospir dell' esule Vola al natal suo lido, Come il suo vol la rondine Drizza al fecondo nido, Così, bramoso, indocile, Sull' ali del desir, Il pensier mio sospingesi In grembo all' avvenir. E, benchè orrende fremano Nell' aer le procelle, Oltre le nubi ei penetra A contemplar le stelle; E ai venti che sconvolgono Dall' imo fondo il mar, Vede serena e placida La calma sottentrar. Allor, siccome immemore D' ogni incresciosa cura, Canto la pace e il gaudio Di quella età futura; E sogno fin che al timido Voto di questo cor Rivolga Iddio propizio Un guardo di favor! Così, se alfin disperdersi Vedrò mia speme al vento, Non su' miei fati inutile Io scioglierò lamento; Ma rivocando l' estasi Andrò dei scorsi dì Nella gentil memoria Di un sogno che fuggi.

Il giorno 8 Luglio dell' anno 1852.

Lungi dal suol natio, lungi da quanto Più dolcemente ti fu caro in terra, Senza bacio fraterno e senza pianto La fatale incontrasti ultima guerra! Nè sovra l' urna che il tuo cener serra Mai verrà sconsolata in bruno ammanto La madre tua, che insiem con te sotterra Piange sepolta ogni sua speme e vanto. Forse ti strinse un tal pensiero il core, Così che ad un sospir flebil commisto Volò sciolto il tuo spirto al suo Fattore. E quel cordoglio, umilemente offerto In sagrifizio per la Fè di Cristo, Accrebbe in ciel di tue virtudi il merto.

Il giorno 23 Dicembre dell' anno 1853.

E qui fuggiasi; qui, le guance smorte, Dalle vigilie e dagli stenti attrita, Traea la casta Verginella forte Lunghissimi anni di angelica vita. Qui remota dal mondo e dalle corte Gioie, pregava per la terra avita; E pe' delitti di una gente ria Sè, innocente olocausto, al cielo offria! — L' umide mura, il benedetto altare, La santa effigie ond' è fregiato il loco, L' erbe onde il suolo ricoverto appare, Della lampa devota il raggio fioco, L' onda che stilla a gocce argentee e rare Dalle fessure con murmure roco, Tutto qui par che ti trasfonda all' alma Religïosa inusitata calma. Oh quante volte nelle tacite ore Che la luna sul mondo i rai piovea, Di questa grotta il tenebroso orrore Etereo lume diradar solea; Ed ella, assorta in visïon di amore, A faccia a faccia il suo Signor vedea, E sulle chiome incolte Ei le depose Un bacio e un serto d' immortali rose! Oppressa dal divin gaudio, sovente Sovra il nudo terren giacque la bella, Fin che venne a velar dall' orïente L' alba serena ogni leggiadra stella. Di memori pensier carca la mente Allor dall' antro uscía la verginella, E i colli e il mar mirava, e la soggetta Nel piano a' sguardi suoi patria diletta. E alcuna stilla di amoroso pianto Bagnò a tal vista le leggiadre ciglia; Chè vivean nel suo cor pudico e santo Amor di cittadina, amor di figlia. Tai sacri affetti in lei cesser soltanto A quel che, viva ancor, la rassomiglia Ai puri spirti, che di amore ardenti Empiono il ciel di armonici concenti. Però, quando sentì di morte il gelo Correr per l' ossa, ed appressarsi l' ora Che l' aspettato avria premio nel cielo, Per cui soffrì nella mortal dimora; Gli occhi raggianti di sidereo zelo A te, Palermo, rivolgeva ancora, Trattasi al limitar dell' ignorata Grotta, ove a' sguardi altrui visse celata. E poi ch' ella ebbe per l' estrema volta Affisato le tue superbe mura, La smorta faccia verso il ciel rivolta, Pregò per te, sua dolce ultima cura; E in un sospir la bella anima accolta Volò dell' etra alla region più pura, Dove più vivi di sua luce eterna Spande i raggi l' amor che il ciel governa.

Nel giorno 4 Novembre dell' anno 1852.

Qual pallidetto giglio Che sullo stel s' inchina, Languí la vaga Amina Degli anni suoi nel fior. Pianse e pregò tre lune Sopra un romito avello; Un giorno alfin su quello Stanca si addormentò. Non la destò il lamento Dell' usignuolo a sera, L' allegra capinera Non la destò al mattin. Venner le amiche, e in lagrime Le si prostrâro appresso, Poi nell' avello istesso La posero a dormir.

Nell' Agosto dell' anno 1853.

Care fanciulle, in mezzo a cui l' incanto De' più begli anni rigustava il core, Addio, vi lascio, nè frenar so il pianto, L' ingenuo in rimirar vostro dolore. Addio!… dovunque mi sospinga il santo Degl' improvvisi carmi ascoso ardore, Mi seguirà, dolce conforto e vanto, La memoria gentil del vostro amore. E voi, fanciulle mie, nella silente Ora che imbruna il ciel, quando levate All' Eterno Fattor la casta mente, All' amica raminga oh! ripensate; E perchè si abbia paee il cor dolente, In quell' ora per me tutte pregate! —

Nel giorno 29 Novembre dell' anno 1854.

Non io sulla modesta sepoltura Che ti ebbe d' ogni taccia immacolato, Il carme scioglierò che la sventura Piange di chi anzi tempo è a noi furato. Chè non dagli anni il viver si misura, Ma dal ben che quaggiù venne operato; E dove all' alto oprar tronco è il desio, « Muor giovane colui ch' è caro a Dio. » E tu vivesti sol quanto mesteri T' era a spregiar la vanità terrena, E sulla traccia degli eterni veri Spinger la mente ove la luce è piena. Quindi, non domo da' martirii fieri Che la tua contristâro età serena, Tornasti ove all' umana eletta prole Splende perpetuo di Giustizia il Sole.

Nel giorno 29 Marzo dell' anno 1854.

Oh ben giungi, vezzoso pargoletto, Ben giungi atteso e disïato tanto, Ad acquetar nel dolce avito tetto Col tuo primo vagire il lungo pianto! Oh! a lei che torna col materno affetto Della vita a gustar tutto l' incanto, Schiudi un sorriso, che al suo petto, anelo Trasfonda il gaudio che si gusta in cielo! Dall' amplesso del Nume allor staccato, Scioglievi il volo dall' empirea soglia Vêr questa valle, dall' amor scortato Che a Dio sommette ogni terrena voglia; Quando il sentier ti venne attraversato Da due vaghi angeletti in bianca spoglia Che il crin di gigli coronato aviéno, E alternamente ti serraro al seno. Vanne, disser concordi, e sia felice Il tuo passaggio sulla grama terra: Alla casta leggiadra Genitrice Reca il bacio di noi che il ciel rinserra; A te, fratello, risvegliar si addice La speme che con noi giacque sotterra; Noi dal soggiorno ove rifulge il vero Sarem di scorta al tuo mortal sentiero. E tu i bei gesti rinnovar dovrai Degli avi illustri nel Sicano suolo; E tanto ai genitor gaudio darai, Quanto al nostro partir s' ebber di duolo. Vanne, chè il fato ivi ti appella omai D' onde, or è l' anno, noi sciogliemmo il volo. Vanne e nel petto lor tu disacerba Di tristi giorni la memoria acerba.

Nel giorno 16 Dicembre dell' anno 1852.

Quando da questa travagliosa e dura Valle passasti ove il mortal s' india, Quasi colta da pubblica sventura Pianse la dolce tua terra natia. E l' ingegno gentile, e la secura Virtù modesta, e l' alma integra e pia Laudava ognun, che immerso in trista cura L' inanimato tuo frale seguia. Ma quando il fragil vel la terra ascose, Sull' erme zolle con novello affetto Si prostrâr quelle genti dolorose. E t' invocâr siccome angel clemente, Cui la tutela delle patrie cose Confidava lassù l' Onnipotente.

Nel Maggio dell' anno 1854.

Oh madre mia! se nel crudel dolore Ond' è lo spirto travagliato e affranto, Una scintilla dell' antico ardore Oggi mi arride e mi sospinge al canto; Tributo egli è che ti consacra il core, Il cor che il suo rifugio ha in te soltanto, E dall' immenso tuo tenero amore Ripete ogni sua gioja, ogni suo vanto. Ahi, per seguirmi, agli altri figli, al fido Consorte tolta, il pianto tuo divori Meco peregrinando in stranio lido!… Oh madre mia! deh meco piangi, e aspetta Per que' cari, per te giorni migliori; Il Ciel m' ispira…. e tu l' augurio accetta.

Nel giorno 7 Settembre dell' anno 1854.

Non ti conobbi io, no, cara donzella, Mentre per questa valle tenebrosa Peregrinando, al volto, alla favella Non rassembravi altrui terrena cosa; Ma qui, dove brillò dì tua novella Età l' aurora, e ove tua salma or posa, Dolce si serba la memoria e bella Della tua vereconda alma amorosa. Ed io ti veggo e t' amo, e vera e viva, Del fratel, del diserto genitore Nella sciolta per te rima votiva. Quindi ti sacro anch' io pallido un fiore; lo, passaggiera su tua patria riva, Ma suora a ognun che contristò il dolore.

Nel Gennaio dell' anno 1855.

Povera madre!… Ahi che dolor, che schianto Ti colse nell' udir che il tuo diletto Figlio languia per crudo morbo affranto Da te lontano sotto stranio tetto! Per correr no, ma per volargli accanto T' impennâr l' ali il tuo terror, l' affetto, Ed ahi! giungesti…. per raccôr soltanto L' ultimo suo di amor tenero detto! E poi che del tuo ben diserta e priva, Cinta di brune vesti, un disperato Addio volgesti al suol che lo copriva; Come, oh! come fra te meravigliavi Che viva, dopo il rio strazio durato, Viva per anco al patrio suol tornavi!

Nel Maggio dell' anno 1853.

Quando i silenzii e l' ombra Dell' alta notte bruna Sorge la bianca luna Pietosa ad allegrar, D' ogni creata cosa Nella solenne calma Mesto conforto l' alma Ritrova al suo penar. Una gentil la stringe Necessità di pianto, Rapita nell' incanto D' indefinito amor. E, il ciel mirando, parle Che da ogni vaga stella Un' anima sorella Risponda al suo dolor.

Nel giorno 1 Luglio dell' anno 1852.

Quando al primo suo vol timidamente Credeasi il giovinetto ingegno mio, Nè oltrepassava il suon dell' innocente Verso il recinto dall' ostel natio, A te, leggiadra come il confidente Della vergine età casto disio, Volsi la nota che partia dal core, Di tue care virtù vinta al fulgore. Lieta tu allor dell' infinito e santo Degli adorati genitori affetto, Sorridevi con essi al facil canto, E dolcemente mi stringevi al petto; Lungi ti trasse la fortuna intanto, E là dove i Normanni ebber ricetto Peregrini approdando ai nostri lidi, Te, dopo lungo disïar, rividi. Bella del par, cortese ed amorosa Più che al tempo primier ti ritrovai; Ma al volto, al riso, agli atti, alla pietosa Languida luce degli azzurri rai, Ben parea che alla scola dolorosa Della sventura eri provata omai…. Misera! chè la pia madre e un fratello Già rapiti ti avea l' orrido avello! Tutta allor vidi la virtù di amore Che al tuo stesso dolor reggeva il freno, Quando alle dolci tue dilette suore Mostravi il volto placido e sereno; Sol furtiva mirando il genitore, Che il cordoglio e l' età mutato aviéno, Pinta apparia la faccia mansueta D' ineffabil pietà, d' ansia segreta. Ond' ei che in fondo del tuo cor leggea, Molli di care lacrime le eiglia, Col dolce nome te appellar solea D' angelo tutelar di sua famiglia. E quando ai pregi tuoi ciascun vedea Preso restar di affetto e meraviglia, Sovra tutti felice, Iddio lodava Che in te il più grande dei tesor gli dava. Pur cotanta virtude, amor si forte, Onde il tuo nome è benedetto e chiaro, Non valse il colpo a distornar di morte Da quel capo per te sacrato e caro. Povera amica! ahi! dell' avversa sorte Sino al fondo vuotasti il nappo amaro Nel fero istante in che quell' adorata Mano sentisti fra le tue gelata! Oh! non io tenterò con mendicati Detti, che sono oltraggio alla sventura, Del tuo giusto dolor gl' intemerati Sensi lenir con importuna cura. Tu che piangevi insiem co' travagliati Nei dì che t' era amica la ventura, Sai che il conforto a noi più grato e santo È un fido cor che pianga al nostro pianto. E questo t' offro, io che per lunga usanza Ti onoro e t' amo quanto puossi in terra; E quale un giorno nella patria stanza Qui vivo ancor col fato acerbo in guerra. Deh, se ad ambe il Signor doni costanza Nel vario calle ch' Egli a noi disserra, Questo al core gentil ti giunga accetto Novello pegno dell' antico affetto.

Nel Novembre dell' anno 1855

Queste carte a te sacre, o mia gentile, Cento bei nomi fregeranno un giorno, Quasi giardin che alla stagion d' aprile Superbo appar di eletti fiori adorno. Allora il nome mio negletto e umile Tra quegli illustri che vedrassi intorno, Starà siccome entro ben colta ajuola La modesta tra i fior bruna viola. Ma tu che hai l' alma vereconda e bella Educata dell' arti al santo amore, Tu sopra tutti avrai caro, o donzella, Quel non nato a brillar povero fiore. E se addensar vedrai della procella Sul suo capo l' indomito furore, Tu almen gli appresta con amico affetto Un securo rifugio in sul tuo petto.

Nel giorno 6 Settembre dell' anno 1852.

Questa gentil che d ogni pregio ornata Teco all' ara conduci, o giovinetto, Fra stranie genti, in suol lontano è nata, Straniera a noi di modi, e lingua, e affetto. Ma tu che hai l' alma a sensi alti formata, Italo per natura ed intelletto, Farai ch' ella si tenga ognor beata Del mutato per lei natal ricetto. Narrale tu le nostre glorie e il duolo; Quai fummo, e quai ne vuol fato inclemente Che all' opre tronca ed ai desiri il volo. E s' ella teco esulta e si addolora De fasti andati e del languir presente, Nulla a tua gioja fia che manchi allora.

Nel 25 Ottobre dell' anno 1853.

Quando agli sguardi miei la prima fiata Tu ti offeristi, o fior di leggiadria, Dolcemente sull' omero poggiata Del giovinetto che a te amore unìa; Così per gli occhi fuor della bennata Anima il puro gaudio trasparía Ch' io dissi: Oh veramente avventurata Costei ch' ogni suo voto alfin compìa! Non è dunque al mortal sempre fallace La speranza di gioja integra e vera Qui dove tutto è instabile e fugace. Ahi! cosi dissi!… nè pensai che nera Da presso incombe, quando il viver piace, La fatale ai viventi ultima sera!

Nel giorno 22 Luglio dell' anno 1854.

Mi han detto che oggi è giorno avventurato, Poichè risorto è Cristo Salvatore, Il qual giacque in Giudea martorïato Per liberarci da eterno dolore. S' Ei tanto ci ama, io voglio inginocchiato Oggi pregarlo con tutto il mio core, Perchè a te, babbo, ed a te, mamma mia Faccia ogni grazia che più cara sia. Io sono ancor si ignaro e piccioletto Che pregarlo non so come vorrei; Ma in Bettelemme anch' Ei fu pargoletto, E i suoi parenti li onorava anch' ei; Chieder vo' dunque a Cristo benedetto Che alla virtù diriga i passi miei, Perchè di me sien lieti i vostri cori, E il nome che mi deste un giorno onori.

Nell' Aprile dell' anno 1855.

Vergin celeste, i cui devoti altari Trepida abbraccio e confidente insieme, Se de' miei giorni combattuti e amari Pietade alcuna il santo cor ti preme; Guarda com' io tra gl' incessanti e vari Mali, il cui turbo ognor presso mi freme, Fatta sono al meschin naufrago pari Che indarno oppone al mar sue posse estreme. Deh! mi soccorri, o Benedetta, o viva Fonte di tutte grazie, e in questo seno La moribonda omai speme ravviva. Fa che fra tanto orror di alcun baleno L' aër si accenda, ed un' amica riva Da lungi appaja agli occhi stanchi almeno!

Nel Novembre dell' anno 1855.

Se avvenga mai che in me raccheti alquanto O tempo, o grazia che dal ciel discenda, Questa di acerbo duol guerra tremenda Ch' ora il varco dinega ai detti e al pianto, Pinger saprò con stil flebile tanto L' inaspettata e rea vostra vicenda; Che ogni alma fia che di pietà s' accenda E pianga al suono del mio mesto canto. Or voi, che a un tempo a me ritolse, e unío A quella cara, che ancor piango e invoco, L' eterno Amor che acqueta ogni disío; Voi, novi Angeli miei, dal ciel vegliate, Perchè in me non si estingua il sacro foco Che contende all' oblìo l' alme bennate.

Nel Novembre dell' anno 1855.

Tra i sospir del Creato autunno il loco Cede e lo scettro al rigido fratel; A stento il sol le nubi squarcia, e fioco Manda il più pigro suo raggio dal ciel. Dagli agitati rami ad una ad una Cadon le foglie inaridite al suol, Molte a piè del natale arbor ne aduna, Molte lunge ne porta il turbo a vol. Non più coperti dalla molle erbetta, Son tristi i campi e pieni di squallor; E tu vivi tuttora, o farfalletta, Tu nata insieme coi già morti fior?… Oh meschinella, che pietà mi fai Col pigro vol, con l' inquïeto errar!… Una compagna invan cercando vai Delle tante che teco un dì vagâr!… Tosto, deh! tosto tra le nude ajuole Riedi, e ti appresta, o povera, a morir; È fugace il tepor di questo sole Nè basta le campagne a rifiorir. Di profumi e di amore, o mia gentile, Hai d' uopo, e il verno offrirne a te non può; Ben da compianger sei, se con l' aprile La fragil vita tua già non mancò.

Nel Novembre dell' anno 1855.

Era concetta nell' Eterna Idea, Pria che fossero il tempo e la natura, La grazïosa e bella creatura Che sovra ogni altra al suo Fattor piacea. Ma sorto il di ch' Ella informar dovea Umana spoglia in questa valle oscura, Cinta di bianco velo, umile e pura, Apparve ai cieli a cui fulgor crescea. E d' amor vinti i cieli al suo passaggio Chiedean ch' ivi posasse, e riverenti Gli angeli feano a Lei regina omaggio. Ma Dio: Va, disse, e compi i miei portenti. Ed Ella, qual di sol rapido raggio, Scese alla speme delle umane genti.

Nel Settembre dell' anno 1855.

La prima volta allor, dopo il fatale Bando che indisse all' uom l' acerba via, Risuonar dell' angelica armonia Questa bassa si udì sede mortale. E al nome segno all' inno trïonfale, Al tuo dolce e gentil nome, o Maria, La terra tutta cosi mesta in pria Brillò di luce vivida immortale. Da una nova speranza indefinita Scossa, si volse alle celesti rote L' umana gente nel dolor sopita. E ad essa cui stupore alto percote, Scritto apparve quel Nome, arra di vita, Sovra l' arco dell' iri in auree note.

Nel Settembre dell' anno 1855.

Della sicula terra al sol diletta, Salve, o novo prodigio e nova speme; Salve, o tu, cui nell' alma fanciulletta Germoglia adulto d' ardui veri il seme! Se ognor più salde in te radici metta L' alto disio che ti affatica e preme, E di procelle sgombro a te il destino Conceda il giorno di un sì bel mattino; Dei dì passati in questo ameno lido Dolce memoria ti rimanga in core; E a chi ten chiede nel tuo patrio nido, Narra quai segni avesti qui d' amore. Smentisci tu l' insidïoso grido Che di scherno atteggiati e di livore Noi pinge, intesi ad osteggiar la bella Che n' è per fato e per dolor sorella. De' più bei nomi ond' è Napoli altera Il fior tu mostra in queste carte accolto. Nel segnarlo, ciascuno una preghiera, Un voto ardente ha per te al ciel rivolto. Ciascun da te gran cose attende, e spera Che a magnanimi fatti un dì sii volto; Se, di sensi magnanimi nudrita, Sua meta attinge la gentil tua vita.

Nell' Aprile dell' anno 1856.

All' estatico sguardo, alla immortale Letizia che traspar dal tuo bel viso, Mentre alle umane pompe e al falso riso Doni, senza mirar, l' estremo vale; Di meraviglia e riverenza assale I nostri petti un tremito improvviso; Nè te, fior vagheggiato in paradiso, Crediam schiuso alla bassa aura mortale. Oh! giusto è ben che all' atre nebbie e al fumo Della terra disdegni esser commisto L' intemerato tuo vergin profumo; Chè splender dèi sul verecondo stelo. Tra i fior più belli e più graditi a Cristo, Che da' chiusi orti li trapianta in cielo.

Nel Luglio dell' anno 1856.

Oh amico, oh padre! oh generoso e tanto De' combattuti miei giorni sostegno, Chi in te mi tolse il più gentile e santo Conforto agli estri del tremante ingegno?… Col cor straziato e le pupille in pianto, Ecco, dinanzi al tuo feretro io vegno; Ed una nota del dimesso canto T' offro, di duol dismisurato in segno. Nulla più posso, il sai!… mandi ai futuri Altri dell' opre di tua mente il grido, Sì che perpetua la tua gloria duri; Io, con quanti ha infelici il suol natio, Piango il tuo core…. il cor più degno e fido Che a conforto dell' uom creasse Iddio!

Nell' Aprile dell' anno 1856.

Nè perchè suoni oggi solenne e chiara Sul labbro ai patrii più felici ingegni La tua lode in quest' Aula, anima cara, Il poco verso mio fia che tu sdegni. Se piansi genuflessa alla tua bara, Se ti pôrsi d' onor pubblici segni, Qui, dove fui sol tua mercede accolta, Dritto è ben ch' io t' inneggi anche una volta. Anche una volta?… Ah! fin che in sen mi spiri Questa che in vita tiemmi aura di canto, Il tributo ti avrai de' miei sospiri E de' miei voti, o illustre veglio e santo! Così dall' etra, ove svelato or miri Quel ver che l' alme può bear soltanto, Tu mi sorrida ognor fausto, siccome Spesso il mio verso suonerà il tuo nome! Quello è il tuo seggio, ohimè!… colà tra questo Inclito stuol splendevi venerando. E il tuo consiglio, e il detto arguto e onesto S' avean su tutti i cor dolce comando. Oh! certo ognun qui doloroso e mesto, Fra i mille pregi tuoi, va rimembrando Che insiem con pochi richiamavi a vita Tu il consesso gentil del Panormita! Qual fu, mentre vivesti, altera e bella Opra concetta in questo suol natío Che del senno, del cor, della favella Non promovessi, o generoso e pio?… Ogni gloria vetusta, ogni novella Speme d' onore, ogni impeto, o disio, Che da patrio movesse intimo affetto, Un eco ritrovava entro il tuo petto. E t' era gioja, anzi delizia sola, Da prestanti garzon vederti cinto, Dell' arti ausonie e dell' ausonia scola Parlar con foco non dagli anni estinto. Dal vivo esempio tuo, dalla parola Ciascun sentiasi alla virtù sospinto; E germogliava ai giovinetti in core Per te ad un tempo, e riverenza e amore. E il poverello, che affatica invano La voce e il piè seguendo un aureo cocchio, Silenzïoso a te stendea la mano, Nè mai respinto ti seguía con l' occhio. E tu, cui mai d' ambizïon l' insano Spirto non fea curvar fronte o ginocchio, Supplice ai Grandi ti facevi appresso, L' obol pietoso ad implorar per esso! Però nel giorno che improvvisa e fera Ti colse la crudel che mai non erra, D' unanime cordoglio e di preghiera Tutta sonò questa natal tua terra. Oh santa, oh pura, oh gloria eccelsa e vera, A cui non fia che il tempo osi far guerra!… Da grandi, ed imi, e sapïenti, e ignari Cadesti pianto e benedetto al pari! Esulta dunque! E di là dove accoglie L' Eterno Re lo stanco peregrino, Piega il guardo amoroso a queste soglie Ove un giorno splendea l' Angel d' Aquino.1 È tradizione che la sala, ove presentemente si tengono le adunanze dell' Accademia Pontaniana, nel Convento di San Domenico in Napoli, sia la stessa in cui solea dettare le sue lezioni l' angelico dottore San Tommaso. Ridi al fraterno stuol che il labbro scioglie Ad onorarti e vate e cittadino; E a quel che ti offron duraturo serto Soffri che sia quest' umil fior conserto.

Nel Luglio dell' anno 1856.

Non di lucidi marmi, in cui venduto Scalpello incida favolosi vanti, Nè di esequie pompose e compri pianti Offro a' tuoi Mani, o padre mio, tributo. A te in modesta oscurità vissuto, Pago sol degli affetti intimi e santi, Più dolce fia questo di eletti canti Semplice omaggio a tua virtù renduto. Chè se la gloria ai desiderii è meta Di chi suda tra l' armi, e di chi affisa Dell' arti al sol l' ardente alma inquïeta, Del saggio appaga l' umile talento L' amico encomio, che, d' un eco a guisa, Si disposa de' suoi cari al lamento.

Nel Gennojo dell' anno 1856.

Vaga angioletta che pur or scendesti A spirar la mortale aura inclemente, E del bacio de' spiriti celesti Serbi sul fronte ancor l' orma lucente; Deh il puro gaudio onde nascendo empiesti Il petto all' uno e all' altro tuo parente, Per lor che veglian la tua culla insieme Arra di mille sia gioje supreme! Innocente e leggiadra, in questa sponda Cui bacia mormorando il mar tirreno, Cresci, qual fior cui mite aura gioconda Careggia in sull' albòr di un dì sereno. Cresci, e d' ogni virtù brilli feconda L' alma che inconscia or ti si alberga in seno. Cresci, e col culto de' tuoi padri a Dio Apprendi anco l' amor del suol natío.

Il giorno 25 Agosto dell' anno 1856.

Oh giovinetta, che in canori accenti La gentile riveli anima pia, E di arcano dolor spesso lamenti La possa ria; A te, che umíle e vereconda vivi Della modestia tua nel vel ristretta, E solo quando il cor t' ispira, scrivi Com' entro detta; A te del canto mio volgo una nota, Io che del mondo tra 'l fragor mi aggiro, Mentre dal mondo più viver remota Bramo e sospiro. Dal dì che insieme c' incontrammo, e corse Tra noi spontaneo di amistade un detto, Una dolce per te cura mi sorse Nell' ansio petto. E il vivo onesto balenar de' rai, E la suavità di tua favella Mi s' impressero in cor, sì che t' amai Come sorella. Più non ti vidi da quel dì, ma spesso Di te ripenso nelle tacite ore Che mi è solinga rimaner concesso Col mio dolore. E membro come a te puranco, illusa Dal vano grido che destò il mio canto, Parve la via che m' ha il destin dischiusa Tutta un incanto. Oh giovinetta!… il Ciel ti serbi ai cari Studii romiti, alle innocenti ascose Nel pio recinto de' paterni lari Cure amorose! Risuoni sempre nel fidato ostello La tua canzone affettuosa e mesta, Come la nota di solingo augello Nella foresta. Nè in te mai svegli improvvido disio, Che men caro ti renda il dolce stato, Quel vanto che altrui sembra il viver mio Faccia beato! Allor che l' estro le mie fibre scote, Tra folto cerchio di commosse genti, Ansio il sen, di rossor sparsa le gote, Gli occhi fulgenti, Rompo nel carme che mi diè il Signore, Come diè all' aura il susurrar gentile, Il murmure al ruscel, l' olezzo al fiore, Pompa d' aprile; Se amico plauso mi festeggia, a riso Riconoscente me atteggiata vedi, E, insieme al vulgo, da piacer conquiso Il cor mi credi. Nè sai che stille dolorose amare Vela quel riso che i miei labbri sfiora, Nè una vittima in me tratta all' altare Tu vedi allora!… Eppur tal sono; chè supplizio lento È l' ardor che mi assal di vena in vena; La stessa lode all' ispirato accento Non premio, è pena! È pena sì; chè se alla meta io guardo A cui tender dovria l' italo ingegno, Scorgendo che a poggiarvi invano io ardo, Ilo di me sdegno. E quando penso che alla pace oscura, A' bei diletti della verde etate Questa ardita mi tolse inutil cura, Di me ho pietate!… Ma se puranco riserbasse il cielo Al poco verso duratura fama, Forse saria di questo core anelo Paga la brama?… Oh giovinetta, oh ben creder mel dêi, Non fu di stolta vanità lo sprone Quel che sospinse i dubbi passi miei Nell' arduo agone. Non mai mi parve disïabil fregio Per umil fronte femminil l' alloro; Chè a noi modestia è primo, unico pregio, Solo decoro. Assai più degno e generoso è il fine Cui tendo, e a cui me stessa immolo intanto; Altera vo del mio serto di spine, E prego e canto!

Nell' Ottobre dell' anno 1856.

Non andrà molto, e a queste incantatrici Piagge, cui tanta luce orna e colora, A questo ciel che i pronti estri felici D' ingenui carmi fecondava ognora, Al caro stuol degl' immutati amici, Per cui di un riso il viver mio s' infiora, Volgerò dell' addio l' infausto accento, Credendo i giorni ai salsi flutti e al vento. E come il duro mio fato prescrive, Di terra in terra andrò peregrinando; Pari all' augel che stabil mai non vive, Ma va con le stagioni äer mutando. Com' esso anch' io per le diverse rive Sol per brev' ora poserò, lasciando Ovunque un' eco fuggitiva e pia D' improvvisa mestissima armonia. Tempo già fu, quando la vita apparve Un lieto sogno alla virginea mente, Quando mille d' amor leggiadre larve L' avvenir disposavano al presente; Disïabile e bello allor mi parve Girne vagando tra l' ausonia gente, E l' astro salutar della vicina Rinnovellata libertà latina. Oh a che gradita illusïon lasciai In preda allor l' indomito pensiero! Quanti fervidi voti al cielo alzai Nel dì che parve d' altra età foriero! Libero carme disnodar sognai Ad un risorto popolo guerriero, E, di Corinna assai più degna, alfine Di cittadino allôr cingermi il crine! Ma poi che notte tempestosa e scura Successe al sol tanti anni atteso e tanti, E spremuti da nova alta sciagura Bagnan le nostre gote amari pianti, A che lungo l' italica pianura Suonar dovranno i facili miei canti Se un lamento discior mi sia vietato Su quel che ne colpì barbaro fato?… Ahi, scorgeranno gli occhi miei, recenti L' orme sanguigne di quei pochi forti Che di verace libertà frementi Cadder per essa, vinti no, ma morti! Mescersi udrò fino ai dogliosi accenti D' orfani figli e vedove consorti, D' impudenti vigliacchi il plauso esoso Che menton gioia, ove non è riposo! E tacermi dovrò! chiuder nel petto Lo sprezzo e l' ira ond' è ricolmo il core, Ed i moti frenar del patrio affetto, Perfin dell' estro nel divino ardore! Nè avrò, raccolta nel modesto tetto, Quel conforto che or molce il mio dolore, L' amistade, ch' è pio consiglio e aita Alla raminga mia povera vita.

Nel Settembre dell' anno 1852.

Se alcun stupisce che ai canori accenti Che ai figli tuoi spira sul labbro il core L' incolto verso anch' io mescer mi attenti, Quasi compresa dallo stesso ardore, Sappia che a' tuoi domestici contenti Già straniero non è questo mio core, Da che ti piacque con paterne ciglia Fisarmi, e il nome a me donar di figlia. Oh avventuroso!… e a te concede Iddio Il più bel premio che sperar sia dato; Chè, di te degna, e del terren natio, Vedi la prole tua crescerti a lato! Ah! di tal gaudio privo il padre mio Già da lunghi anni, ed ansio e addolorato Pe' muti lari invan si aggira, e chiama La sposa e i figli con intensa brama! Oh! a te risparmi ognor duolo cotanto Il ciel pietoso, ed il natal tuo giorno Sempre festeggin con l' ingenuo canto Questi tuoi cari a te raccolti intorno. Ne udrò da lungi io le bell' opre e il vanto, Onde il tuo nome splenderà più adorno; E dolce fiami lo sperar che sia Viva qui sempre la memoria mia.

Nel giorno 20 Aprile dell' anno 1857.

Oh patria mia!… dal mare all' Apennino Scoti d' un grido le cognate genti, E il guardo e il cor ne drizza ove Quirino Slanciò l' aquila a vol pe' quattro venti. Giorno è questo de' pochi in che il destino Disacerbi di un gaudio i tuoi tormenti, Giorno che a te, madre infelice e bella, Un' onta di tre secoli cancella! Mira! raccolto al piè del fulminato Arbor vetusto, al cui bel rezzo amico Fama è che un giorno l' immortal Torquato Egro venisse a spirar l' aere aprico, Di eletti ingegni un folto ed onorato Stuolo rinnuova il suo trïonfo antico, Cantando il di ch' entro più degna fossa Quelle sacre posâr carissime ossa. Oh fortunata, oh benedetta l' ora Ch' io qui ne venni oscura pellegrina, E sorger vidi questa lieta aurora, E questa ascesi memore collina, E prostrarmi mi è dato alla dimora Che qui fu estrema a quella alma divina E l' incolta sposar nota votiva All' armonia che queste sponde avviva! Ma a quell' ardor che mi affatica il petto Perchè fioco risponde il verso mio?… Oh mia luce, oh mia scorta, oh benedetto Spirto famoso ch' or t' insempri in Dio!… Tu se' pur quei che l' infantil mio petto Accendevi d' indomito disio, Quando sul labbro virginal le prime Innocenti correan subite rime! Ahi! pronto sì, ma non eletto il canto Da me si parte, e sen rattrista il core!… Pur del destino, il sai, colpa è soltanto Ch' agio ed ala mi tolse a vol maggiore! Ma in questo loco, alla tua tomba accanto, Tra gl' inni intesi a tributarti onore, Come del foco tuo or non mi accendi, E di te degno il mio carme non rendi?… Oh se pari al disio che m' arde il seno Fosse il poter del concitato ingegno!…. Come questo diletto almo terreno Or io farei di eterne laudi segno! Di un avvenir più splendido e sereno Il culto che ti è reso oggi mi è pegno; Ch' ove de' sommi estinti insorge cura Ivi è dritto sperar gloria futura. Nè tu però fosti negletto mai, Benchè umil fossa ti chiudesse in grembo. Morte che termin pose a' tanti guai Che t' incalzàr quasi continuo nembo, Emerger fe' della tua gloria i rai Che indarno invidia ricoprì di un lembo; E venerato prezïoso il sasso Fu dove il nome si scolpía di Tasso. Nè crescer già la riverenza nostra Pon questi marmi, e la tua fama, o Divo. Ma novo sprone ad onorata giostra Ne fiano, e quasi patrio altar votivo. Deh! veglia tu dalla superna chiostra, Perchè in noi sempre ed operoso e vivo Ferva quel foco che il tuo petto accese, Alla gloria immortal del bel paese. Avversa è tanto al viver mio fortuna, Che veggo dileguar qual nebbia al vento, Le mie dolci speranze ad una ad una. Però non altro suon che di lamento Mandar dovría nel poco verso il core, O muto starsi in un feral sgomento. Ma come al tocco della luce il fiore Sul verde stelo si raddrizza, e spande Dal calice dischiuso il grato odore, Tale all' udir dell' infelice e grande Torquato il nome l' abbattuto ingegno Si desta, e offrirgli anela altre ghirlande; che del culto de' miei carmi è segno Ciascuna gloria del gentil paese, A cui dell' arti Iddio concesse il regno, Quasi compenso delle lunghe offese Che barbarie e viltà gli prodigaro, Onde da quel di pria vario si rese. Oh sì! giocondo a me fia sempre e caro Dir di colui che celebrò gli Eroi Che di Cristo l' avel riconquistaro, E dell' epico serto onde gir puoi Tra Ie genti superba, o Italia mia, Adornò riverente i crini tuoi. Come, deh! come, o madre augusta e pia, Soffrir potesti che suonasse il grido: Italia dorme, e il suo Torquato oblia?.. Non dorme, no; scorre di Iido in lido, Quasi fiamma, una brama intensa e bella Di onorar quei che onora il patrio nido. Roma, qual donna al trono avvezza, appella A compir l' opra che in sè omai matura, Per comun gloria, ogni città sorella. E là donde spiccò l' ala secura L' anima invitta del divin Poeta Dal fral cui logorò tedio e sventura, Sulla collina dilettosa e queta, Entro splendido avello alfin compone L' ossa di lui che nel Signor si allieta. Oh! fra le illustri civiche corone Che a' novi marmi appenderan le genti, Finchè la fama tua nel mondo suone, Questa gradisci più che in riverenti Carmi t' offron del Tebro i generosi Figli, che al patrio onor vegliano intenti. Nè perchè i detti ai detti lor disposi Io, sì povera ancor di merto e vanto, Taccia mi avrò di sensi ambizîosi; Chè amore, immenso amor, spira soltanto Il verso mio che qui t' inneggia a nome Della terra ove al duol nascesti e al canto. Sorrento mia, che in mar si specchia, come Donna di sue bellezze innamorata, Intesa a rannodar le olenti chiome, Per te splende famosa e invidïata, E vuol che sia la tua tomba diletta Di un altro fiore cittadino ornata. Però sì dolce incarco a me si aspetta, A me che queste lascerò tra poco Eccelse mura dal destin costretta. L' ultima volta il glorïoso loco Risuoni dunque delle ingenue rime Onde il tuo nome benedetto invoco. Deh! aleggi ognor su queste sacre cime Il vocale tuo spirto, e tenga viva Dell' arte la gentil fiamma sublime. Come da centro in ogni itala riva Scorra, e di novo ardir v' infonda il seme; Chè l' età che il tuo culto alfin ravviva Ha di fato miglior secura speme.

Nel giorno 26 Maggio dell' anno 1857.

Se avverrà mai che a mia raminga vita Conceda il cielo un dì tregua o riposo, E nell' oscura mia stanza romita Trar possa i giorni in dolce ozio operoso; Ogni fasto, ogni lutto, ogni gradita Memoria del latin suolo famoso, Per quanto io sappia a nobil volo alzarmi, Mi fia suggetto a non fugaci carmi. Or, pari ad onda che gorgoglia e freme, Se angusto è il varco onde trabocca a stento, Per mille affetti accumulati insieme Sgorga fioco, interrotto il mio concento. « Ma se le mie parole esser den seme » Che frutti, o cara, a te novo ardimento A progredir nella via scabra e dura Per cui ne spinge una concorde cura, Odile; a te favella il cor soltanto, Il cor che palpitò di novo affetto Quel di che alfine l' una all' altra accanto Ricambiar ne fu dato un bacio e un detto. Corser sole due lune, e chiaro tanto Nel mio tu leggi, come io nel tuo petto, Che il nostro nodo non saprà l' edace Tempo allentar nè più render tenace. Oh quante volte, allor che dall' altera Tua Roma lungi condurrammi il fato, A ricercarti tornerò leggera Sull' ali di un sospiro innamorato!… Brevi giorni ebbi io già di gioja intera, Ma tra i più fausti avrò nel cor segnato Questo in che teco visitai le oscure Cave ai Fedeli asilo e sepolture. Ben la tua mano ho nella mia sentito Tremula, allora che l' esperto Duce1 Il chiarissimo archeologo cavaliere De Rossi, scopritore delle Catacombe di San Calisto, si compiacque egli stesso farci da guida. Che ne guidava, onor del patrio lito Che le glorie sepolte al sol radduce, Mostro n' ha di Sofronia ivi scolpito Il nome, e il priego che l' eterna luce Le sorridesse in ciel, dove anelava Ricongiungersi a lei chi la invocava. D' amor, di tema e riverenza un misto Ogni più scabro cor stringe e possiede, Qui dove a mille i martiri di Cristo Col sangue suggellâr la nova Fede. Oh! dalla tomba del divo Calisto, Che il benedetto nome al loco diede, Luce traean di generosi esempi Que' fidi petti in que' perversi tempi! E qui all' eccelsa tra le avventurose Che al ciel sospinse l' idolatra antica Rabbia, a Cecilia, qui l' avel compose Di pio Gerarca la cura pudica. Oh! di quel serto di fragranti rose, Che ai vôti marmi appese destra amica, Serba, o diletta, il fior ch' io distaccai E pegno di memoria a te donai. Ma perchè tu nel verdeggiante adorno Bosco, a cui nome dier l' alme Camene, Nieghi destar di Egeria dal soggiorno L' eco, col verso che dal cor ti viene?… Di quel Gentil che ricordato il giorno Vuol che qui entrambe convenir ne avviene, Poichè in silenzio rimaner ti piace Rendi l' augurio, in parte almen, fallace. Deh, tu sovente a quest' amena altura, Quand' io lungi sarò, torna, o diletta; E ricorda di me, che alla ventura I passi movo dal destin costretta. Quale in mezzo alla sterile pianura Roma sta, che la terra ebbe soggetta, Tale un oási in cor mi sorge, e tutto Il resto è intorno a lei tenebre e lutto!

Nel Maggio dell' anno 1857.

In quell' età che si credea la pura Anima ad ogni illusïon gradita, Quando raccolta tra le fide mura Dell' umil tetto ove sortii la vita, Solitaria vegliava a notte oscura Sovra le storie della terra avita, Spesso, o Turrena, a meditar sostai Le tante glorie onde tu altera vai. E vidi cinta, per gentile incanto, La fronte tua di gemino splendore. Chè a te, già bella per etrusco vanto, E poi per maschio italico valore, Iddio sorrise di favor più santo Quando, di Religion figlia e di amore, Vincitrice spuntò dalle tue scole L' alba dell' arte onde fu Sanzio il sole. Ond' io, che ai carmi ho solo onnipossente Sprone la carità del suol natio, Nascer sentii nella commossa mente Fin da' primi anni il fervido disio Di venir peregrina e riverente A te, che austera in secol molle e rio, Benchè spoglia di tua possa vetusta, Ben merti il nome conservar di augusta. Ma se propizio al dolce voto arrise Il ciel così ch' io nel tuo grembo alfine Da' monumenti tuoi, dalle sorrise Pianure, dalle floride colline, Da' sepolcri Volunnj, in cui trasmise Splendido e puro in mezzo alle ruine A te l' Etruria, alle bell' arti amica, Un vivo raggio di sua gloria antica, Nove immagini attingo e ardir novello Al disadorno mio carme impensato, Ogni voto, ogni mio sogno più bello Vince quel che mi dài vanto onorato. D' Itali illustri ad immortal drappello Me, donna oscura, tu sublimi allato, Me che dal verso facile e negletto Vano e fugace sol grido mi aspetto! Ah! di que' nomi nella luce assorto L' umil mio nome al guardo altrui si cela, Siccome allor che splende il sol dall' orto Picciola stella di pallor si vela! Pur non fia di sì nobile conforto Indegna l' alma innamorata, e anela Di quell' eccelsa glorïosa meta Che avversa sorte di toccar le vieta. Chè, se al sovrano italico concetto Mal rispondere è dato al fioco accento, Fia sempre almen da generoso affetto Da pietà, da virtù mosso il concento. Taccia il lume per me dell' intelletto Quel dì che di vigliacco blandimento Porgan tributo le mie pronte rime Al ricco ignavo, o al vil che i mesti opprime!… Qual ch' ella sia, di verità seguace Fia la mia Musa ognor, nobil Turrena; E se daralle il Ciel giorni di pace Là dove sorge la real Sirena, Forse infiammata a più splendida face Carme sciorrò con più robusta lena, E tu che in cima a' miei pensier starai Novo dal grato cor tributo avrai.

Nel giorno 4 Luglio dell' anno 1857.

Se il cor che geme del terren natio Nella memoria e nella brama assorto, Gustò, mentre fermai qui il passo mio, Di men tristi e agitate ore il conforto, A te, coppia fedel, che amico Iddio D' amor sospinse a invidïato porto, Il debbo a te, che d' ospital ricetto Larga mi fosti e di verace affetto. Di fuor dagli occhi e dal gentil sembiante A voi traspare, e vi si spande intorno, Di pace e di armonia senso beante Che bea ciascun che fa con voi soggiorno. Tal grazïosa luce tremolante D' astro romito al tramontar del giorno, Le mute cose rischiarando abbella E a suavi pensier l' anime appella. Oh quante volte sovra ignoti aspetti Figgendo il guardo, fra straniere mura, Di voi, de' vostri tre cari angioletti Ricorderò con amorosa cura!… Quai già li vidi intorno a voi ristretti, Talor vedrolli, ed una ardente e pura Prece alzerò, perchè si accolga in loro Delle patrie virtù tutto il tesoro. Ben de' plausi cortesi e generosi Qui largiti a' miei canti avrò memoria; Ma il cor, scevro di sensi ambizïosi, Grato esser può, non pago in vana gloria. Di ricordi suavi e affettuosi La pagina più bella di mia storia Tutta s' incide, e quel ch' è a voi serbato Solo alla morte cancellarlo è dato.

Nel giorno 24 Luglio dell' anno 1857.

Qui, dove al sol le caste luci aprío La serafica Vergine innocente, Che avvolta in umil veste penitente Fu difesa e splendor del suol natío; Vieni a scioglier tuoi voti, o sommo Pio, Concordi ai voti dell' ausonia gente; E quella ch' oggi è in ciel Diva possente, Sorriderà benigna al Tuo disío. Ella che un dì stringendo in man la Croce, Sola ed invitta, di fraterna guerra Conquise a un tratto l' impeto feroce, Ella che rese dall' estraneo esiglio Di Pier la sede alla romulea terra, Ella al Tuo cor darà forza e consiglio.

Nel giorno 26 Agosto dell' anno 1837.

Oh non pensate che argomenti umani Al duol di questa pia rechin conforto! Tutti son essi inefficaci e vani Per cor che tutto in sua sciagura è assorto. Sol Dio, che serba i suoi giudizii arcani Allo sguardo mortale audace e corto, Sol Dio co' detti del Vangelo eterno Può farsi strada ad orbo sen materno! E ben fu dessa del Signor la voce Che a costei favellò ne' dubbi istanti Che scolorar vedea per morbo atroce Del giovinetto suo figlio i sembianti. Mentre trepida orava a Cristo in Croce Pe' giorni del suo caro periglianti, Susurrar si sentì nel petto anelo: « Giovane muor colui ch' è caro al cielo. » Oh sventurata!… Oh di che fera punta Per questi accenti fu il tuo cor trafitto! Tacita, immota, con la faccia smunta, Vitreo lo sguardo e nel figliuol confitto, Già ti parea che l' alma tua disgiunta Dalle membra, per l' ultimo tragitto Precedesse la sua che balenava Nel languid' occhio che di te cercava! Di te cercava!… e tu resa alla vita Dalla potenza del materno affetto, Atteggiata alla speme, omai smarrita, Sedevi appresso al doloroso letto. Là, mentre con la bocca scolorita Premevi il fronte pallido e diletto, Cruda memoria radduceati ai giorni Di pia fidanza e casti gaudii adorni. Membravi il dì che tue marmoree sale Empì di gioia tacito bisbiglio, Chè dalla cheta stanza nuzïale I vagiti partian di un picciol figlio: « Degno degli Avi, e del terren natale Ei fia, dicevi con umido ciglio; A Dio lo chiesi, e Dio che mel concede Dell' italo valor farallo erede. » Come ben cólta rara pianticella Crescea fiorente, ed al gentil sorriso, Al vago aspetto, alla dolce favella Angioletto parea di paradiso. D' ogni virtù più vereconda e bella Fregiato il cor che tralucea dal viso, L' eletto ingegno di educar godea A forti studii e a generosa idea. E tu, che lieta eri per lui soltanto Del ricco censo e degli aviti onori, Stolto ed infido gli pingevi il vanto Che dàn dovizie e gesti dei maggiori. Fido compagno ei ti seguía d' accanto Nell' ostel dell' inopia e de' dolori; Là, confortando i derelitti e i mesti, Delle vere invaghì glorie celesti. Ma già l' acuto tuo sguardo un segreto Palpito novo gli discerne in core. Quel volto in pria così sereno e lieto, Spesso or si tinge di lieve pallore; Ha lo sguardo vagante, irrequïeto, Le membra oppresse da gentil languore…. Se alcun di sua mestizia il chiede, ei tace, Ma il silenzio dei detti è più loquace. Oh lieto il giorno che al tuo sen stringevi Lui dubitoso e trepido tuttora, E col consorte insiem benedicevi Al voto suo ch' era ben vostro ancora! Ecco scorrono i dì rapidi e brevi, Parata a festa è già la tua dimora, Ecco s' invoca Imen…. ma qual d' omei Flebil suon ti percuote, e dove sei?… Ahi! non sul fausto talamo auspicato Che la tua man gli apparecchiava, o pia, Ma giace il garzoncel disventurato Sul guanciale dell' ultima agonia!… Così verde arbuscel folto ed ornato Di fior che all' aura rigogliosi apría, Divelto a un tratto ed atterrato resta Dal furïar di súbita tempesta. Pur non t' avvedi? ne' parlanti rai, Che al ciel rivolge in atto di preghiera, Non è sgomento nè dolor, chè omai Lassù vagheggia la sua patria vera. Dell' innocenza i più leggiadri e gai Anni ei percorse in questa bassa sfera, E il piè fermò sul limitar del calle Per cui molti a virtù volgon le spalle. Forse, chi sa?… men grato a Dio, men degno Di te, che fosti l' angel suo terreno, Ei divenía se a più lontano segno Traea la vita in suol d' insidie pieno. Or si tramuta dal ginnasio al regno, Dal dnbbio albore al dì sempre sereno; E meglio là, dove più Amor diffonde Gli eterni raggi, all' amor tuo risponde.

Nell' Ottobre dell' anno 1857.

Perchè di affetto e riverenza un pegno Serbi di me, bennata alma cortese, L' umil mio nome in questo foglio io segno Cedendo a quel disio che in te si apprese. Fra le note però di quei che ingegno Ebber sovrano nel gentil paese Deh non locar, chè lor faresti oltraggio, Questo del mio pensier debile raggio.

Nell' Ottobre dell' anno 1857.

Chi è costui che all' ispirato volto, Alla pupilla spazïosa ardente, Agli atti, al crine rabbuffato e incolto Sembra acceso da un estro onnipossente?… Come d' ogni mortal senso dísciolto, Più nulla a sè d' intorno avverte, o sente; Rapido move concitato il passo, E il guardo figge su funereo sasso! O sacro ingegno! Or leva i miei pensieri All' altezza del nobile subbietto: È del sublime ed iracondo Alfieri Quel che io rimiro mäestoso aspetto. Alla tomba del gran padre Alighieri Immenso il guida riverente affetto, E qui d' amor, di generoso sdegno Il severo feconda eccelso ingegno. O Dante, o Dante, s' egli è ver che il guardo Chinan quaggiù color che il cielo serra, Mira questo magnanimo e gagliardo Figlio del suol cui l' Alpe e il mar rinserra. Ei solo in secol stolido e codardo È di te degno e della propria terra, Ei solo ereditò l' alma tua grande Che in generosi eterni versi spande. Ecco ei t' invoca, e con voce tonante L' ira che gli arde in cor così rivela: O tu, padre e signor del risonante Dolce idïoma che raspìsce e inciela, Vate infelice, perchè troppo amante Della tua terra di discordie anela, Odimi, or ch' io sopra il tuo muto avello Della nostra vergogna a te favello. E tu qui giaci, e qui freddo è il tuo core, Quel tuo cor che non ebbe in terra pari! Oh rimorso perpetuo, oh rio rossore Di colei che ti astrinse ai passi amari Della fuga! Lo stranio vïatore, Giunto a Fiorenza da lontani mari, Ricercando va indarno il muto frale Di chi al mondo le diè fama immortale! Dunque neppur con la tua morte tacque L' ira nel cor de' tuoi crudi nemici? E inesaudita la tua prece giacque Di riposar nelle natie pendici? Dunque non solo al fato avaro piacque Che traessi quaggiù giorni infelici, Che dinegava in patria aver la fossa Alle tue sante ed incolpabili ossa?… Oh maledette, e maledette ancora Le inique gare e gli odii empii di parte: Essi bruttàr di umano sangue ognora Questa del mondo incantatrice parte: Della sua gloria essi offuscâr l' aurora; Della calunnia essi aguzzaron l' arte, E la virtù, la verità, l' ingegno Fêr di sciagura miserando segno. Padre, e tu tanto ne' robusti versi Contro sì reo costume fulminavi…. Ahi che non veggo or io fatti diversi I molli eredi di magnanimi Avi! Dell' antico valore i sensi persi, Duran gli affetti di discordia pravi; Della discordia che in feral cipresso Cangiò l' alloro ai forti un dì concesso. Oh rifiorisca almeno il sacro alloro, Premio dell' arti, in questa terra nostra! Di tanta turba cianciatrice il coro, Che nulla intende, e tutto intender mostra, Tacciasi alfine; e tacciasi con loro Chi la divina arte dei carmi prostra. Ah! che di noi non dica lo straniero: Dell' Italo è infiacchito anco il pensiero. Là nel soggiorno d' immortal splendore, Ove sede eternal ti diede Iddio, Esser non può che ancor non t' arda in core La santa carità del suol natio. Provvedi adunque, o celestial cantore, D' alcuna gloria il tuo paese e il mio; E me che sieguo tue vestigia sante Non indegno figliuol chiamin di Dante.

Napoli, il giorno 30 Marzo dell' anno 1851.

Oh belle, o varie opre vezzose In cui la mano del sommo Autor Tanto mirabile arte dispose Di schiette grazie, forme e color; O fiori, io v' amo! Sia che pe' colti Orti vi edúchi destra gentil, Sia che pe' campi cresciate incolti Desti alla tepida aura di april, Io sempre v' amo; chè indefinita Da voi favella mi sembra udir, Che dice: Immagine siam della vita; Come noi, tutto deve appassir. Però qualora i miei concenti Di voi favellano, o ingenui fior, Io non rivesto i pronti accenti Di liete immagini di fausto amor. Schiudervi all' alba d' un dì sereno, Brillar poche ore sul verde stel, Languir la sera sopra di un seno Che forse a' teneri sensi è di gel; O di bugiarde promesse pegno Da destra a destra passare a vol, Quindi nell' ìmpeto di crudo sdegno Girne sforndati, calpesti al suol; Ecco la sorte che ben sovente Da voi s' incontra, poveri fior; Oh come rado vi si consente Morir su vergine amante cor! Più fortunati tra voi son quelli Che man pietosa suole educar Sui taciturni romiti avelli Di quei che in vita constanti amar. Sacri per l' alme cortesi, allora Crescete liberi d' ogni timor; Di stille argentee l' alba v' irrora, Mesto salutavi il dì che muor. Oh! se dell' alme i versi miei Sapesser tutte le vie cercar, Per voi, gentili fiori, vorrei Più miti e dolci sensi destar. Direi: sul verde cespo natio Lasciate i poveri fiori morir; Forse anco ad essi concede Iddio L' amor del patrio loco sentir! Mirate come pallide e prive Del grato effluvio schiudono al sol Le foglie, quelli che dalle rive Natie trapiantansi in altro suol. Lasciate…. Oh! quale vano deliro L' accesa mente mi traviò?… Perchè su voi, fiori, sospiro E stolte brame formando vo?… Poichè un sol giorno, o poveretti, È a voi concesso quaggiù brillar, Meglio è, destando soavi affetti, Sopra di un vergine seno mancar. O fiori, addio! Quando sotterra S' avrà riposo lo stanco cor, Su quella poca diserta terra, Ultimi amici crescete allor.

Porlici, il giorno 19 Ottobre dell' anno 1851.

Dolce l' aura mi aleggia d' intorno Di soavi profumi olezzante, A' fiorettì rapiti e alle piante Ond' è ricco di Portici il suol; Pur quel nugol, che tetro oggi copre Il suo puro bellissimo cielo, Tra le nordiche nebbie ed il gelo Mi trasporta dell' estro nel vol. Caledonie antichissime selve, Vi contempla l' acceso pensiero; Al mio sguardo del nordico Omero Maestosa la forma apparì. D' Inisfela sul colle ei si asside, E Malvina gli posa d' accanto: « Tocca l' arpa, o Malvina, ed al canto Desterassi l' antico guerrier. » Odi, ei chiede a te volto, l' arpeggio Che risuona più mesto e dolente, Quel che torna all' accesa sua mente Qualche storia pietosa d' amor. Già il suo fronte s' increspa, dell' estro Già la possa lo ispira soltanto…. « Tocca l' arpa, o Malvina; nel canto Già prorompe il canuto guerrier. » Ombre antiche de' padri, che, avvolte Di fantastiche nubi nel grembo, Quando irato più mormora il nembo Percorrete le volte del ciel, Ombre antiche, la lena non basta Più al subietto magnanimo e santo; « De' trionfi non scioglie più il canto Il canuto dolente guerrier. » È diserta la reggia di Selma, Mute sono le vaste sue sale, Nè il licor della conca ospitale Versa in giro letizia nei cor. Spenti tutti i gagliardi!… Ed io resto, Io dal duolo e dagli anni sì affranto! « Tocca l' arpa, o Malvina; il mio canto Piange sovra i caduti guerrier. » Dell' invitto Tremmorre lo scudo Per le selve ora più non rimbomba; Di Fingallo e di Oscarre la tomba L' irto cardo ed il muschio coprì. Spenti i Bardi!… Ed allor che alla terra Darò anch' io questo fragile ammanto, « Non sarà chi rallegri col canto L' ombra mesta del Bardo guerrier » O Malvina! tu sola starai Presso a quei che fu padre al tuo sposo, Quando il dì dell' eterno riposo Invocato per lui sorgerà. Sola tu la sua funebre pietra Verrai spesso a bagnare di pianto, « E sull' arpa mestissima un canto Scioglierai per lo spento guerrier. » Oh! non pianger, gentile; nell' ora Della notte più tacita e bruna Sopra un candido raggio di luna Ombra amica a trovar ti verrò. E starà del diletto tuo nome Vivo sempre e dolcissimo il vanto, « Fin che un eco risuoni del canto Del canuto tuo Bardo guerrier. »

Portici, il giorno 19 Ottobre dell' anno 1851.

Solingo, immoto, di cordoglio e d' ira Colmo lo spirto generoso, ardente, Da un verde colle, onde lontan rimira D' Arno i piani rigar l' onda fluente, Terribile lo sguardo, in cui traspira La sacra fiamma che gli brilla in mente, Figge Alighier su quelle patrie mura Ch' egli ama di un amor senza misura. Ahi, spinto in crudo e doloroso esiglio, Le può da lungi salutar soltanto! Straziano il guelfo e il ghibellino artiglio La sua diletta alma cittade intanto. Chi la soccorre nel fatal periglio?… Chi, ripieno d' ardir sublime e santo, A' divisi suoi figli alto ragiona Siccome amore e verità lo sprona?… Io solo, io solo a cotant' opra basto, Grida Alighier con generoso orgoglio; Io, che in amarti a tutti altri sovrasto, Acerbo sopra tutti esser ti voglio: Fulminerò le molli usanze, il fasto, La discordia cagion d' ogni cordoglio; Disdegnando e piangendo i versi miei Diran qual fosti e quale or fatta sei. Per nuova via che l' estro a me disserra Mi spingerò del pensier mio nel volo; Visiterò nel centro della terra L' alme dannate a sempiterno duolo; Quivi nell' infernal tremenda guerra Porrò chi travagliava il patrio suolo; E interprete di Dio, vari tormenti A' varii infliggerò tristi nocenti. Non per vile timor sarà che il vero Nel portentoso carme mio si taccia. Vedrai più d' un ch' è per potenza altero, D' ira e vergogna avvampar tutto in faccia. L' ipocrita di frode consigliero Farò che in mezzo a' più perversi giaccia; E divisa dal corpo, in vita ancora, Spingerò un' alma all' infernal dimora. Nè solo il duol che i maledetti opprime, Segno all' alta di Dio giustizia eterna, Darà soggetto alle inusate rime Dell' ingegno immortal che mi governa; In suon che mesta tenerezza esprime, E la dolce preghiera al pianto alterna, Dirò di que' cui la speranza allieta Di venir tosto alla celeste meta. Ma quando tra l' angelica armonia, D' immortale corona redimìta, Vedrò con faccia in un severa e pia Quella che amai dall' alba della vita; Quando la concitata fantasia, Di vanni infatigabili fornita, Di stella in stella, lei prendendo a duce, S' innalzerà fino all' eterna luce; Quando nel fonte d' ogni ben le ciglia D' affligger mi fia dato un solo istante, E dell' amor cui nullo altro somiglia Un raggio chiarirà lo spirto amante, Ricolme di stupor, di meraviglia, Volger le genti si dovranno a Dante, E chiederan: Quale possanza areana Ti sorresse nell' opra sovrumana?… Ed io dirò: la carità che in core Pel diletto mi ardea suolo natio Nel triplice suo vol resse il valore Di questo combattuto ingegno mio: Martire illustre dell' altrui livore, È soave dell' Esule disio Renderti, o patria, in cambio a' suoi dolori Un serto eterno d' invidiati allori. Ahi dormiranno in terra di stranieri Del tuo poeta, o mia Fiorenza, l' ossa Ei tutti a te sacrava i suoi pensieri, E tu crudel gli negherai la fossa. Pure avverrà che un giorno d' Alighieri Il fral reclamerai, tardi riscossa…. Ma tua vergogna durerà fintanto Che duri il suon del mio divino canto.

Portiei, il giorno 19 Ottobre dell' anno 1851.

O voi, tormento e gaudio De' generosi petti, Guida soave e stimolo Che i nobili intelletti Levate all' ineffabile Luce del primo ver, Amore e Gloria! Oh! a' battiti Di questo cor, che sente Tutto il poter che diedevi Colui ch' è onnipossente, Perchè non può rispondere Del fioco verso il suon?… Amore e gloria! Il facile Vulgo che ciancia e ignora, Che notte crede il sorgere Di un' invocata aurora, Di nome sol conoscere Voi, santi affetti, può. Ed or dorati appellavi Sogni de' giovani anni, Che l' alme ardenti pascono Di lusinghieri inganni, Larve che ognor ne sfuggono Lasciandosi seguir; Or vostra diva origine, In basso appien travolta, Credon che in un fuggevole Giorno di ebbrezza stolta, O in un mercato plauso Possan di voi sentir. O voi spirti magnanimi Di Dante e di Torquato, E tu di Sorga flebile Cantore innamorato, E tu che amori e bellici Ludi narrasti un dì; Angel d' Urbino, indomito Ugo, che in strania riva Recasti l' ira e il fervido Estro che in te bolliva; E tu feroce Allobrogo Dal disdegnoso cor; Voi, che di amore e gloria Potentemente ardeste, Di questi affetti, oh! ditemi Quale più caro aveste?… Qual più vi spinse all' ardua Meta di eccelso onor?… Oh! se nel pio delirio Che l' anima m' investe A me in vision mostrassesi La compagnia celeste Che immortalò la nobile Terra che al sol mi diè, Vederi, vedrei le fulgide Pupille lor dubbiose Fissarsi or sopra il lauro, Ora sulle amorose Donne, ed incerti pendere L' inchiesta a satisfar. Chè, se speraro attingere Gloria dall' alte imprese, Amore al desiderio Della virtù gli accese; Questo fu sprone, e premio L' altra eternal ne fu. Perchè, perchè sospingesi, Sereno incontro a morte, Dove più ferve il bellico Agon quel giovin forte, Spirando dal fulmineo Sguardo sgomento ai cor?… Perchè?… Perchè di un lauro Gli orni la gloria il crine; Perchè di lei che adoralo Le labbra porporine Schiudangli un riso, e plaudano A' suoi trionfi un dì. Non può bastar la gloria Al nostro cor soltanto; Amor che non sia stimolo A scopo eccelso e santo Bastar non puote a nobile E generoso cor. Sol quando, in pio connubio Soavemente stretti, Nelle bell' alme annidano Questi divini affetti, Opre mirande compionsi D' ingegno e di valor.

Portici, il giorno 19 Ottobre dell' anno 1832.

O casta, assidua compagna mia Nel doloroso mortal sentier, Salve dolcissima melanconia, Ispiratrice del mio pensier. A esprimer quali in me tu desti Arcani sensi di grato amor Vorrei le belle rime celesti Onde Valchiusa venne in onor; O le suavi note pietose Che il catanese cigno eternàr, E alle gentili alme pensose Fanno suavi pianti versar. Fin dall' aurora di que' verdi anni, Che, inconscia l' alma del mondo ancor, Quasi non crede ai crudi affanni, Ond' altri geme in suo dolor. E qual farfalla irrequïeta Tende a un' arcana felicità, Ed è a vicenda or mesta or lieta, Nè la cagione spiegar ne sa, La tua suave casta possanza, O Diva amabile, il cor senti, E fin d' allora sulla sembianza Tuo lieve solco mi si scolpì. Oh quante volte, fuggendo i giuochi Delle compagne, rapita in te, Godea per ermi campestri lochi Muover solinga pensosa il piè! E della bianca luna il chiarore, Degli astri innumeri lo scintillar Il grato olezzo di un vago fiore, Del venticello il susurrar. Del sacro tempio la squilla pia, Che in sulla sera udir si fa, Pioveanmi in seno un' armonia, Una ineffabile soavità! Ed io careggio i mesti affetti Che tu pietosa risvegli in me, Perchè i più nobili chiari intelletti Sempre ispirati furon da te. Là nel tumulto di gaja festa Un lieto canto non parla al cor, Come una voce che sciolga mesta A notte un tenero canto d' amor. È bello il viso roseo vivace Della donzella che ha lieto il sen; Pur mesto e pallido un volto piace Come di tremula stella il seren. Spesso la gioja ne' nostri petti Attuta i sensi della pietà; Ma tu motrice di casti affetti Avvivi i sensi di carità. Oh! se tu sempre m' ispiri il canto, Se di mia cetra tu svegli il suon, Se di chi m' ode molli di pianto Spesso le ciglia, o Diva, son, Di più non chiedo; d' ogni tesoro È questo un vanto più caro a me: Ambiscan altri l' eterno alloro, A me sol basta questa mercè.

Napoli, il giorno 30 Novembre dell' anno 1851.

Io, che, lontana dal patrio nido, Traggo la vita vagando ognor, E ne' miei canti per ogni lido Un' eco lascio del mio dolor, Amo le rondini, che in lunga schiera Son use a nostre piagge tornar, Allor che l' alito di primavera Torna il creato a rallegrar. Amo le rondini, perchè di un raggio Di miro ingegno Dio le dotò, Perchè, sì deboli, il lor coraggio Nembo o periglio fiaccar non può. Io le amo in fine perchè il Signore Mirabilmente in lor scolpì Incancellabile senso di amore Pel loco u' i lumi schiusero al dì. Oh sì! commossa sempre le vidi Con la stagione gaja redir, Ed ingegnose i nuovi nidi Affaccendarsi a costruir. Lunghe romite ore passai Immota spesso al mio veron, E a' lor monotoni canti sposai Una impensata flebil canzon. Pianger le intesi quando crudele Mano distrusse l' opera lor, E, al mesto suono di lor querele, Spezzar m' intesi per doglia il cor. E quando parvemi il pigolìo Di lor novella prole sentir, Provai di giubilo un moto anch' io, Siccome al compiersi di un mio desir. Oh rondinelle, quest' anno ancora L' usato nido giste a formar Là sotto il tetto della dimora Che i miei più cari suole albergar; Ma chiuso e muto il veroncello Stette, e nessuno vi salutò; Solo allo splendere del dì novello Mesto mio padre vi riguardò; E inumidirsi senti le ciglia, Chè vivo assalselo il sovvenir Della lontana diletta figlia Che al vostro riedere solea gioir.

Qui mancano alcune strofe non raccolte.

Ah! pari a voi, cui l' indomato Istinto spinge cielo a mutar, Me pur sospinge forza del fato Lungi dal patrio suolo a vagar. Pur, se non cóglievi l' ultima sera Là nell' adusto egizio ciel, Voi tornerete a primavera All' ospitale nido fedel. Ma chi sa quando a me fia dato Alla diletta patria tornar…. Chi sa in qual strania terra, ignorato Oscuro avello dovrò trovar!… O rondinelle, deh, se nell' ora Che da noi lungi spiegate il vol Qualche fioretto olezza ancora Nell' adorato mio patrio suol, Quel fior togliete, rondini amate, E sulla tomba che in sen mi avrà Quel mesto fiore cader lasciate Pegno di memore santa pietà.

Napoli, il giorno 30 Novembre dell' anno 1851.

O tu, cui nell' estatica Immensa fantasia Piovve dai cieli il mistieo Poter dell' armonia, Che, a Dio figliuola, regola Degli astri il carolar; Cigno, onde lieta Bergamo Giva, e superba tanto, Che poco di Catania Invidïava il vanto, Nè la rivale Pesaro Giungeva ad inchinar; Oh! qual nell' umil cantico Suono sciorrò di lode, Che addir si possa al vario Suono della melode Onde per te eran l' anime Scosse e rapite in ciel?… Deh un solo accordo angelico Dell' armonia possente Che ti fervea nell' ansia Ed ispirata mente Mi aleggi intorno, e numeri Degni di te sciorrò. Qual di dolcezza fremito Correr mi sento all' ossa, Se per incanto l' aura D' intorno a me commossa Di Parisina sembrami Ripeta il lamentar! Or è l' altera d' Anglia Regina che si duole; Or Belisario misero Di tetto orbo e di sole: Or la Bolena vittima Di regio ambito onor. Ed or scherzoso e facile Risuona altro concento; È di Bettly, che, libera Come pel firmamento Vispo augelletto, ingenua Ride sfidando amor. Ma questa ch' or percuotemi Mestissima armonia, Questo lamento tenero Di Edgardo e di Lucia, Che van fidando all' aura Gli ardenti lor sospir, Questo mi scende all' anima Commossa e dolorosa; E quando odo il delirio Dell' omicida sposa, Che mi costringe a fremere D' orrore e di pietà, Io sclamo: Ah! nel dipingere La vergine demente Certo al pensier non corseti Che un dì della tua mente Come di quella il raggio Vedrebbesi oscurar! E che le dolci lacrime, Da te già provocate Sul suo destin, dovrebbero Amare e sconsolate Da' nostri lumi piovere Sul fato tuo crudel! Dimmi: allorchè, di laude Bramoso, al suol natio Dal cor volgesti un tenero Affettuoso addio, Niun d' avvenir infausto Presagio a te parlò? E quando in seno accolseti Lutezia clamorosa, Nè il core più molceati La dolce armonïosa Cara favella italica Che t' ispirava ognor, Dimmi, i frequenti plausi, Gli entusïasti evviva, In te infiacchiro il memore Pensier di questa riva?… Caro ti fu l' estraneo Vie più che il patrio allôr?… No: chè, allor quando tacita Splendeva in ciel la luna, La santa e pia memoria Del suol che a te fu cuna Givi a nudrir sul gelido Del tuo Bellini avel. Quivi a te prono, immobile, Ridea dalla sua stella L' alma del sommo Siculo All' anima sorella, E di concenti italici Pioveati un' onda in sen. Crudo ad entrambi il fato: Ei come sole vivido A un tratto è tramontato, Dell' immortal suo genio Cinto dai raggi ancor; Tu, orbato dell' altissimo Dono dell' intelletto, D' inutil pièta misero Ed insensato obbietto, Sparisti, come languida Face in notturno orror. Oh sventurata Italia, Tu che i tuoi mali acerbi Dell' arti almen co' lauri Inganni e disacerbi, Ultima, innocua gloria Che a te il destin lasciò; Poi che la muta cenere Possiedi almen del grande, Adorna il freddo tumulo Di funebri ghirlande, Ed a' tuoi figli additalo Sprone a virtude e onor.

Napoli, il giorno 9 Settembre dell' anno 1851.

D' angelli e fiori, di tombe algenti, Di spemi tronche a mezzo il vol, Troppo suonarono i miei concenti Sacri a' gentili affetti e al duol. Forse a più forti sensi, a più degno Suono innalzarli dovrei talor; Ma Dio, che diemmi ardito ingegno Di donna in seno lasciommi il cor. Però rifugge da crude scene Di sangue e d' empii ludi il pensier E cerca in piagge campestri amene Un raggio d' intimo mesto piacer. Oh solitudine! siccome al cielo Tende dal suolo la fiamma ognor, Tal, nel fragore del mondo, anelo A te sospira questo mio cor; E benedice l' estro possente Che mi trasporta in un balen In solitaria parte silente Dove più libero mi batte il sen. Oh sì! te invoca qualunque il guardo Dell' intelletto spinge a mirar, Lungi dal vano secol codardo, Del Vero eterno lo sfolgorar. Nè mai più presso si sente a Dio, Nè mai più forte contro i martìr, D' allor che medita solingo e pio La speme indomita dell' avvenir! Obblii lo stolto, tra' balli, al raggio Di mille faci, l' altrui dolor; Ne' tuoi silenzii prepara il saggio L' argin che il corso tronca all' error. Quando la mano della sventura Ferrea si aggrava sul nostro sen. Te solo cerca un' alma pura Che il volgo vile a spregio tien; Chè spesso è crudo atroce insulto Per nobil core l' altrui pietà; Spesso mentisce livore occulto I dolci sensi di carità. O solitudine, ti abborre e fugge Sol chi pel mondo può Dio scordar, O quei cui rabido rimorso strugge E di sè stesso suol paventar. I tuoi silenzii hanno per questi Voci ed immagini d' alto terror, Veggon fantasmi a nuocer presti Ne' tronchi immobili, nell' ombra lor! Ma chi non teme di Dio lo sguardo Che segna il tramite del nostro piè, Chi non ha il core empio o codardo, Chi a' dolci affetti stranio non è, Non fia che passi in mezzo al vano Fragor del mondo un giorno intier Senza che, tratto da un moto arcano, Te non invochi nel suo pensier! O solitudine, addio! Col canto Che sulle argute labbra già muor, Ecco svanisce il dolce incanto Che la tua pace m' infuse al cor!

Napoli, il giorno 15 Febbrajo dell' anno 1852.

In quell' ora che a dolci pensieri Di pietade s' inchina la mente, Quando il raggio del sole cadente Veste i campi di arcana beltà; Una mesta solinga donzella Trae dall' arpa doglioso concerto…. « Ah il suo cor fu tradito, diserto, Sulla terra più speme non ha! » Ha la faccia leggiadra, pallente, Come l' astro più bello del cielo; Come fior che avvizzì sullo stelo Lassa appar la persona gentil. Dal bel crine pur ora strappato A' suoi piedi di rose sta un serto: « Ah il suo cor fu tradito, diserto, Sulla terra più speme non ha! » Infelice! quest' ora solenne Quante care memorie in lei desta! Quella squilla, che ascoltasi mesta Di lontano per l' aere oscillar, Quella stella che prima nel cielo, Spande tremolo il raggio ed incerto, « Non trovâr sempre oscuro e diserto Quel suo cor che più speme non ha. » Non è guari sull' arpa fedele, Ch' or dà suono di cupo dolore, Una dolce canzone di amore Con armonica voce sposò; Chè pareale fiorito il sentiero Della vita difficile ed erto, « E non era il suo core diserto, Siccome or, che più speme non ha. » Oh ascoltate!… Con voce interrotta Da dogliosi singhiozzi frequenti, Cerca in questi mestissimi accenti Del suo petto la doglia sfogar. Lamentevol, suave, siccome D' usignol che gorgheggi all' aperto, « Il suo canto del core diserto Narra il duolo che speme non ha. » — Lene auretta, che, qual già nell' ore De' miei gaudii, a me intorno ti aggiri, Va; non ho più suavi sospiri Da fidare al tuo volo leggier. Quel dolor che mi adduce alla tomba Vo' che resti a ogni sguardo coperto…. « Sdegna il core tradito, diserto, Il compianto, se amore non ha. » Come rosa che il calice schiude Alla luce di un giorno sereno, Tal si schiuse il mio vergine seno Al sorriso fallace di amor. Di un indegno l' affetto mentito Vinse il candido core inesperto, « Questo cor, che, tradito, diserto, Più contento, più speme non ha. » Era un vile, ed io, lassa! lo amai Come s' ama quaggiuso una volta!… L' amai dissi?… Ahi che debole e stolta Per mia pena lo adoro tuttor! Senza questo, a me lieve parria Ogni affanno più crudo sofferto; « Ah il mio core tradito, diserto, D' odio un moto per l' empio non ha! » Un Eliso per me fu la terra Fìn che d' essere amata mi parve; Poi che il sogno incantevol disparve, Una tomba divenne per me. Oh! si affretti l' istante che addurmi Dee riposo dolcissimo e certo; « Pel mio core tradito, diserto, Sulla terra più speme non v' ha. » Sì, lo sento; più languida ognora Nel mio petto serpeggia la vita; Godi, o ingrato; la vergin tradita Fredda salma tra poco sarà. Tu, crudel, vivrai preda ai rimorsi; Io nel ciel di mia fede avrò merto…. « Là soltanto il mio core diserto Può l' oblio e la pace trovar. »

Napoli, il giorno 30 Novembre dell' anno 1852.

Tu, cui tra mille il Massimo Del suo favor fe' segno, Nel dono di mirabile Onnipotente ingegno, In cui di sè compiacquesi Più vasta orma stampar, Di civiltate ai popoli Augusto sacerdote, Ch' eterni biasmo e laude Nelle ispirate note, Quando la sacra ai cantici Ora t' infiamma il sen; Poeta, a me rivélati In tutto il tuo splendore: Non, spensierato e facile, Laude e fugace onore Chiedendo a incolti numeri Nati da pronto ardor; Ma assiduo, infatigabile, Inteso ad ardua meta, Beato insieme e martire Di una pietà segreta, Che t' arde in sen qual vivida Face in notturno orror. Qual è colui che l' impeto Sublime tuo pareggia?… Qual nell' umíl tugurio, Nella splendente reggia Tuona severa e libera La voce del tuo cor;

Manca una strofe non raccolta.

Ma pur qual guardo penetra L' arcano del tuo petto?… Ascoso ricettacolo D' ogni sublime affetto, Di spemi a tutti incognite E di profondo duol, Quasi straniero al secolo E a' tuoi fratelli vivi, E pur per essi mediti E piangi, e canti, e scrivi, Come ti detta l' intimo Irrefrenato ardor. Nell' onde che accavallansi Mosse da rea tempesta, Nel turbine che sradica Gli alberi alla foresta, Nel fulmine che l' äere Solea, e sprofonda al suol, Sublimi attingi immagini Di morte e di spavento; Han per te voci unanimi Folgore, ed onda, e vento; Tutto risponde al subito Slancio del tuo pensier. Guai, se un procace irridere Osa al divino ingegno! Guai, se un vigliacco a' plausi Di stolto vulgo è segno! Come torrente straripa Dal proprio letto fuor, Tal concitato il cantico Ti eromperà dal petto; Ma allor, di sdegno vindice Reso infelice obbietto, Scontar dovrai tra spasimi Tuo generoso ardir. Sprezzo di cieca ignavia, Orgoglio di potenti, Esilio reo, miseria, E carceri squallenti, E amor conteso, e tumulo Privo di pianto e fior; Ecco, o poeta, il premio Ch' è forse a te serbato: Ma tu disfidi intrepido L' ira del cieco fato, E spingi il guardo d' aquila In grembo all' avvenir. Nell' avvenir riposano Le tue speranze, o Vate! Là dell' ambito lauro Le fronde sospirate Vedi fiorir spontanee Sul tuo negletto avel. E mentre ogni memoria Il tempo rio cancella D' alte cittadi e popoli, Rispetta e ognor più bella Rende la sacra laude Che il nome tuo fregiò. Combatti, dunque, e intrepido Tocca l' eccelsa meta. Possa la tua grand' anima, Tornando a Dio, Poeta, Udir: « Compisti il nobile Carco che a te si diè! »

Napoli, il giorno 30 Novembre dell' anno 1852.

Perchè di Rolla l' indomato amore, E i lunghi strazii, e l' opre ond' ei fu obbietto Di meraviglia pel sovran scultore, Porgete ai pronti carmi miei subbietto?… Non io mirai, di queste scene onore, Monti,1 Pietro Monti, valente attore, il quale rappresentò assai bene il personaggio di Luigi Rolla nel teatro de' Fiorentini in Napoli. ritrarne e voce, ed atti, e aspetto, E illudervi così l' occhio e la mente, Che qui Rolla parea vivo e presente. A me soltanto la fedele istoria Le sventure narrò dell' infelice, Che d' immenso avvampò disio di gloria, Come ad itala altera alma si addice. Del par che ai grandi d' immortal memoria, A lui fu amore di martír radice; Timido al par del gran Torquato, adora Una dolce e pietosa Eleonora. Eleonora! la pudica e bella Sembianza, che del ciel fede gli rende, Che al par di mesta solitaria stella, Nelle tenébre del suo duol risplende. Vedila! Nell' ebrea vaga donzella, Che l' occhio pensieroso a terra intende, Ei la ritrasse, e, se allo sguardo credi, Viva e spirante innanzi a te la vedi. Oh quante volte immoto, inebbrïato Dalla dolcezza di una cara idea, Stette con lo scalpello alto levato, Chè d' appressarlo a lei quasi temea!… E dal labbro a gentil riso atteggiato Questa voce partirsi a lui parea: T' affida, o Rolla, avrai l' ambito onore; Grande è l' ingegno, se lo ispira amore! — Ed ei sperava; e, se talor beffardo Ghigno sostenne per le vie frequenti Di volgo sempre cianciator codardo Che apprezza l' uom dai panni d' ôr splendenti, Qui rifuggiasi; e, nel fissar lo sguardo Su questa immago, alle vigilie, ai stenti, Ai durati dispregi ei benedia, E maggior del suo duol farsi sentia. Pur d' amore e d' ingegno il doppio foco, Se a belle e generose opere incita, Strugge nel sen dov' arde a poco a poco Nascosamente il germe della vita. Insofferente del terrestre loco L' anima all' ideal bello rapita, Ogni dì allenta, a divenir perfetta, I nodi ond' ella al fragil corpo è stretta. E tu, Rolla, tu pur nel volto scarno, Nell' occhio acceso di febbrile ardore, Ben mostri come non prevedi indarno Prossimo il dì che cessi il tuo dolore. Oh ascolta, ascolta!… la città dell' Arno Di lieto echeggia popolar clamore; Si plaude a quei che per sublime ingegno Dell' artistico allôr fecesi degno. Oh! mira il volto di quell' uom, che figlio Ti appella, e stringe al palpitante seno. Guarda, dal suo vivace umido ciglio Dell' arte trasparir sacro baleno! Ah, s' ei ti ammira, se per suo consiglio A te l' alloro aggiudicossi, oh, appieno Di te superbo, or sclama: O suol natio, Buonarroti il dicea, son grande anch' io! — Rolla, ti scuoti…. Ah! in un delirio insano Brandisci un maglio, e pallido furente Con empia il vibri parricida mano Sul marmo, e in mille pezzi il fai repente. Sciagurato, che festi!! A Dio l' arcano Giudizio del tuo fallo! A te morente Speme non resta omai che tra i futuri Bella nell' opre la tua fama duri.

Napoli, il giorno 14 Gennajo dell' anno 1852.

Pari a flebile armonia Di lontana arpa gemente, Che nell' ora più silente Rechi a noi l' auretta a vol, Or vorrei che fosse il suono Del negletto verso mio, Poi che pingervi degg' io Una scena di dolor. È la notte; a mezzo il cielo Splende il mite astro di argento; Non si ascolta aura di vento Tra le foglie susurrar. Nel soggiorno degli estinti, Una donna in veste bruna, Move al raggio della luna Trepidante incerto il piè. È una madre, una infelice Madre, orbata del suo figlio, Che, di pianto molle il ciglio, Di sospiri colmo il sen, Presso l' urna che ne serra Le mortali amate spoglie Ogni sera si raccoglie Solitaria a lagrimar. Ogni sera una ghirlanda, Di sua man contesta, appende Ad un salcio che protende I suoi rami sull' avel; E una fronda, in cambio tolta Da quell' arbor di dolore, Tutto il giorno sopra il core Suol la misera recar. Spesso avvien che di un augello Al mestissimo concento Sposi un carme di lamento, Tutta assorta nel martír. Io l' ascolto, il flebil senso N' è trasfuso nel mio canto: Come un' eco del suo pianto Sul mio labbro ei suona ancor. E fia ver?… non è delirio, Non è sogno di terrore?… Di quest' urna nell' orrore Il mio figlio si celò! Il mio figlio!… Ed io più mai Non vedrò quel caro aspetto; Nè più un riso, un bacio, un detto Alla madre ei volgerà!! Mai più, il guardo rivolgendo Di garzoni a eletto stuolo, Dirò: vince il mio figliuolo Tutti in senno ed in beltà! Nè più il mio materno orgoglio Sognerà ricchezze e onori, E soavi e casti amori Per te, vita del mio cor! Tu cadesti!… Ah in tristo giorno Già schiudevi al sole i rai: Di singhiozzi e d' alti guai Risuonava la magion; Quando al bacio del consorte Moribondo io ti offeria, Al tuo capo ei benedia…. E la vita gli mancò. Ed io vissi? Ultima prece Ahi! fu questa del morente: « Del mio figlio il cor, la mente Sacri educa al patrio suol. » Sposo, il sai, compii l' incarco; Fu tra' pochi il tuo diletto Che ancor serban viva in petto La latina alma virtù. Però trasse disdegnando E fremendo i brevi giorni, E agli angelici soggiorni Di te degno ritornò. Or, da entrambi voi diserta, A che resto in sulla terra? O diletti, alla mia guerra Deh! pregate un pronto fin. Come l' esule il suo lido, lo sospiro ognor la morte…. Voi del cielo in sulle porte, Spirti amati, incontrerò!

Napoli, il giorno 14 Gennajo dell' anno 1852.

Più dell' ora, che lieto nel cielo Sorge l' astro che il giorno radduce, Amo quella in che languida luce Manda, pria si nasconda nel mar. L' amai sempre; e dell' Ave al rintocco Una voce tai sensi mi esprime: « Sia soggetto a tue sùbite rime Quella squilla che parla del ciel. » Oh foss' io nella povera valle Irrigata dall' umil Tordino, Cui sovrasta l' eccelso Appennino In perpetuo coperto di gel! Oh ascoltassi partirsi tutt' ora Del Cenobio vicin dalle cime « Quella squilla che flebili rime M' ispirò sotto il patrio mio ciel! » Ma, se lungi da te mi son io, Caro suol che la culla mi desti, E a te il suono de' cantici mesti Della figlia più giunger non può, A te sempre rivolgo il pensiero, Per te prego nel duol che mi opprime, « Se m' ispira le subite rime Quella squilla che parla del ciel. » Benedetto colui che primiero In quel triplice suono suave Statuì dell' angelico Ave Duratura memoria quaggiù. Benedetto! in cittadi fastose, Od in piagge solinghe ed opime, « A quel suono la mente, e le rime Volgo a Lei ch' è reina nel ciel. » Non v' ha cor cosi duro e feroce, Che di amore compunto non sia, Se la squilla dell' Ave Maria Nel silenzio de' campi il colpi. Quante volte a quel suono il malvagio Senti in cor del rimorso le lime, « E pentito con supplici rime Chiese vènia alla Donna del ciel! » Nella terra del misero esiglio Si assideva il divino Alighieri, Nutricando sdegnosi pensieri Contro lei che madrigna gli fu; Ma al rintocco dell' Ave sacrato, Scordò l' ira il poeta sublime…. « E amor patrio divampan sue rime, Ricordando Fiorenza e il suo ciel. » Altri ispirisi a' lieti concenti Che risuonano in aule fastose, Canti i gaudii fallaci e le rose Che appassiscon nel corso del di; Io m' ispiro nell' ora solenne Che ogni vano pensiero deprime, « E consacro le subite rime Alla squilla che parla del Ciel. » Oh Colei per cui l' Ave s' intuona, Speme e luce dell' alme dolenti, Piova un raggio nell' itale menti Che le desti a bell' opre di onor! E quai s' ebbe, dal core dettate, Le innocenti canzoni mie prime, « Si avrà un giorno anche l' ultime rime Quella squilla che parla del Ciel. »

Napoli, il giorno 13 Febbrajo dell' anno 1852.

Salvete, o innumerevoli Dell' etra pellegrine, Che, diffondendo tremolo Lume dall' aureo crine, D' incanto inesprimile Vestite e terra e ciel. Salvete! A voi, mirabile Del Creator fattura, Armonïoso gaudio Di tutta la natura, Innamorata ed avida Volgo lo sguardo ognor. E anelo un casto volgervi Suon del negletto verso, Se dell' amor, che modera E informa l' universo, Da vostre sedi un raggio Discenda infino a me! Altri la vece assidua Del vostro corso indaghi; Altri sognati auspicii A trar da voi si appaghi; Altri a qualcuna incognita Tra voi rapisca il vel; Io canto sol le placide Gioje ai vulgari ascose, Le indefinibili estasi, Le immagini amorose, I pensier santi e nobili Che da voi traggo ognor. Allor che il Sol, qual rutilo Globo, nel mar si asconde, E de' suoi raggi l' ultimo Tremola in sulle fronde, E il suon dell' Ave angelico Flebil mi scende al cor, Come l' amante affiggesi Ad un veron ben noto, Tal vêr la plaga aurifera Io tengo il guardo ìmmoto, E, al sorger della pallida Stella primiera in ciel, Sorrido amante, e i vergini Pensier confido a lei; Ansia talor la interrogo Se i casti voti miei Sarà che mai propizio Abbiano il Cielo alfin. Quai verginelle timide, Che ritrosette il velo Scostan dal volto roseo, Così poi veggo in cielo Delle altre stelle il lucido Drappello comparir. E le saluto, e sembrami Che sopra l' alma mia Quasi a torrenti versino La luce e l' armonia Che il primo Amor, creandole, Ad esse comparti. E canto, e oblio de' poveri Miei gìorni le procelle, E innamorata l' anima Di tutte cose belle Per esse si erge al massimo Dell' universo Autor. O stelle, o eterne fiaccole Della magion di Dio, Se da voi tanto scendemi Di gloria in cor disio, Perchè si fioco e labile Suona il mio verso ancor?… Duolo e sconforto pungemi A dir di voi, membrando Qual vi rivolse cantico Sublime ed ammirando Colei, che del sebezio Suolo è perenne onor.1 Maria Giuseppa Guacci Nobili, chiarissima poetessa, autrice di una Canzone alle Stelle, abitò molti anni sul colle di Capodimonte presso la Regia Specola. Ah! su quel colle florido, Donde solea pensosa A voi guardar quell' inchta Donna, ancor ìo bramosa Verrò talvolta, memore Dell' alta sua virtù. Quivi più lieti e facili Saranno i miei concenti, Mirando quel magnanimo1 Il chiarissimo De Gasparis, scopritore di sei pianeti, abbruzzese. Che alle stupite genti Sei vostre suore, incognite A tutti, pria svelò. E forse all' incantevole Vista del ciel stellato, De' colli che sì specchiano Nel flutto inargentato, Dell' erto monte ch' ignei Torrenti erutta fuor, La fantasia d' immagini S' ispirerà novelle; E voi men rozzi numeri, O armoniose stelle, Degni del ciel sebezio, Vi avrete allor da me.

Napoli, il giorno 13 Febbrojo dell' anno 1852.

Come nel fondo di terso lago Brilla di un astro l' aureo chiaror, Tal de' miei primi anni la immago A me sorride in fondo al cor. Quelle dilette pie ricordanze Di fanciullesche gioie e desir, Quelle indistinte vaghe speranze, Quella fiducia nell' avvenir; Io le amo, e spesso ne fo suggetto Del carme figlio di pronto ardor; Chè più suave sgorga dal petto Il verso quando lo move amor. Ahi prematuri, assidui affanni Tolsermi al gaudio di quei be' dì, Ed i gentili miei giovani anni Di un tetro velo sorte coprì. Ma allor che stanca chieggo un conforto Al duol che mi ange continuo e fier, Come a tranquillo securo porto A quei begli anni torna il pensier. Oh! i lieti sogni! oh! le dorate Visioni d' angeli, d' augelli e fior, Di lusinghiere splendide fate Dispensatrici d' aurei tesor! Come suavi della mia culla Sopra il guanciale si riposâr! Come l' ardita mente fanciulla Con lor per l' etere godea vagar! Oh! allora il dono d' un augelletto, Di un variopinto leggiadro fior, Eran tesori che forte in petto Facean balzarmi per gioja il cor! È ver che a rendermi mesta e piangente Bastava orbarmi dell' augellin; Bastava il soffio del verno algente Che inaridisse quel fiorellin. Ma tosto al duolo pungente e vivo Sentia succedere la gioia in sen; Come alle nubi in tempo estivo In ciel succede tosto il seren. Oh! come dolce nell' alma mia Scendea la voce del padre allor Che a questo capo ei benedia Nell' ora mesta che il giorno muor! Oh! allor, degli angeli fatta sorella, L' anima al cielo spiccava il vol, E di Maria la immagin bella Rideami cinta da' rai del sol! Allora il canto che diemmi Iddio Rompea spontaneo del vergin cor, Ed era premio al canto mio Un dolce amplesso del genitor! Ahi! ratto scorse tempo sì bello Ed or la vita traggo nel duol Lungi dall' umile paterno ostello, Lungi dal patrio diletto suol! Ma fin ch' io serbi l' alma innocente E puro il verso che Dio mi dà, Mi avrò un conforto al duol presente Nella memoria di quell' età!

Foggia, il giorno 7 Maggio dell' anno 1854.

Vaghe donne, che assise tra i fiori Dell' ausonio incantevol giardino, Di un amato crescente bambino Sorridete ai trastulli, al gioir; Vaghe donne, una stilla di pianto Deh! v' imperli le luci leggiadre, Or ch' io pingo il dolor di una madre, Che il figliuolo si vede morir! A' miei sguardi si schiude il deserto Vasto, nudo, solingo, infocato; Non è un' aura che alleggi col fiato Del dïurno pianeta l' ardor! Non un fiore, un fil d' erba vi alligna, Non vi è l' ombra di un solo arboscello, Nè dall' ala di un nomade augello È solcato lo spazio del ciel! Pur, fra tanto squallor di natura, Agar sola, affannata si aggira; Ha lo sguardo qual fosse delira, Sparso e brutto di polvere il crin. Ululando interrotte parole Or con ira, or con ansia amorosa, Si allontana, e poi riede ove posa Sull' arena il morente Ismael! Sol negli occhi un avanzo di vita Al diletto fanciullo balena; Tra le fauci essiccate, può appena La sua lingua il lamento formar! Vèr lei tende le picciole mani, E sommesso talora ripete: — Madre, oh madre, soccorrimi! Ho sete; L' acqua porgi al tuo figlio, o morrà. — Chi ridir può il dolor disperato Dell' afflitta a tai miseri accenti? Sulle inospiti arene roventi Genuflessa d' accanto al figliuol, Interrotte da spessi singhiozzi Queste flebili voci ella manda, E senz' eco per l' arida landa Il lor suono disperdesi e muor: — Tu che nasci del sangue di Abramo Da me ancella chiamata al suo letto, Da' suoi campi, dagli agi, dal tetto Sei cacciato qual servo stranier! Forse altera del nuovo mio stato Io di Sara l' orgoglio offendea, Ma su te, no, piombar non dovea Del mio fallo la pena crudel! Oh! deh fosser due rivi questi occhi, Dissetarti vorrei col mio pianto; Ma son lacrime amare cotanto, Che veleno sarebbe per te! Vorrei farti del sangue bevanda, Del' mio sangue, o figliuolo diletto; Ma l' orror del ferito mio petto La tua morte potrebbe affrettar. Dio di Abramo, di Abramo il figliuolo Perchè lasci di aita diserto? S' ei da sè discacciarlo ha sofferto, Non fu senza tuo sommo voler! De' suoi campi, de' greggi, dell' oro Abbia lsacco l' intero retaggio: Al mio figlio dà solo il coraggio, Nè minor del fratello sarà! — Donna, esulta! — Quel Dio che invocasti Giusto libra le sorti mortali: Ve', già volge il remeggio dell' ali Un suo Nunzio celeste vêr te. D' onda limpida e pura ti mostra Colmo vase onde il figlio ristori, Ed imperio, e vittorie, ed allori Gli promette pel tempo avvenir! Donna, esulta! — E il tuo esempio ammaestri Chi si affanna pe' mali del mondo, Che il Signor può condurne dal fondo Dell' abisso all' altezza maggior!

Foggia, il giorno 19 Maggio dell' anno 1854.

Quel dì che pose i cardini Al gemino emisfero Chi può crollarlo al volgere D' un sol guardo severo, Nel primo riso ingenuo Di amore e gioventù Nacquer due Dee, bellissime D' alta immortal virtù. Nacquero: e i Cieli, attoniti Della beltà di quelle, Incoronâr di lucidi Astri le due sorelle, E innamorati gli angeli Figgean gli sguardi in lor, Mentr' esse si prostravano A' piè del sommo Autor. Baciò la primogenita Suora sul fronte il Nume, E la fregiò di aureola D' inestinguibil lume; Col suo divino anelito Sui labbri le spirò, E Poesia nell' estasi D' amore la nomò. All' altra di un' armonica Arpa fe' grato dono, E delle sfere eteree Inebrïolla al suono; Di quei concenti il magico Le concedea poter, E diede a lei di Musica Il nome lusinghier Creolle; e disse: — Agli uomini Scendete sulla terra; Del cieco error la tenebra Che li circonda e serra Sgombrate voi benefiche, E sia vostra mercè Che i lor pensier sollevinsi Novellamente a me. Disse: e le Dive amabili Spiegàr le candidi ali, E dalle stelle vennero Al loco de' mortali. Come posâr le tenere Suore dal lungo vol, Spuntò fra la barbarie Di civiltade il sol. L' una, col guardo all' etere Rivolto, onde scendea, Di religion negli animi I semi trasfondea; Leggi e costumi ai popoli Maestra ella dettò, E l' opre lor magnanime Col canto celebrò. L' altra i ferini spiriti Co' suoni ingentilía, Nè mai discompagnandosi Dall' alma poesia, Paga gran tempo stettesi Di più modesto onor, Nè alla primiera laude Ella agognava ancor. Ma, poi che in basso volsero Della sorella i fati, E ai glorïosi lauri De' greci e ausonii vati Lauri non vide aggiugnere, Quel serto ad arricchir, Di più superba laude Accolse in sè il desir Oggi il primato toglierle Di onor vorrebbe audace, Solo perchè il magnanimo Stuol che in colei si piace Scarso si è fatto e timido, Nè ottien dall' ebra età Il lusinghiero encomio Che a' figli suoi si dà. Ma pur se suona il plauso Più clamoroso e spesso, Se a piene mani l' auro È a' figli tuoi concesso, La tua sorella, o Musica, Non basti a sovrastar: Il Sole ell' è, tu il pallido Astro ch' ei fa brillar. Così ti dissi, o Musica, Quel dì che un novo incanto M' inebrïò la fervida Alma e spronolla al canto; Così, gli accordi armonici Lasciati, il mio pensier Con ansia infaticabile Arduo battea sentier. Ma pur ti serbo un intimo Culto, e pur t' amo ancora: Della mia Dea l' amabile Sei prediletta suora; Nel riso suo benefico Creovvi ambo il Signor; Ella sublima l' anima, Tu ingentilisci il cor!

Foggia, il giorno 19 Maggio dell' anno 1854.

Nell' ardore dell' estro improvviso, Che m' infiamma la mente ispirata, Io dipingo una madre angosciata Da un cordoglio che pari non ha. Alla culla dell' unico figlio Solitaria si asside d' accanto; « Ah! l' affetto più tenero e santo È a lei fonte di acerbo dolor! » Sui ginocchi le mani intrecciate, Ella guarda il dormente bambino, Bello come del ciel Serafino, Ma dannato a perpetuo martír; Chè al suo ciglio negata è la luce, Della vita straniero è all' incanto…. « Ah! l' affetto più tenero e santo È a lei fonte di acerbo dolor! » Infelice! agli amori innocenti, Benedetti dal mondo e dal cielo, Quante volte con l' animo anèlo, Questo frutto dal Nume implorò! Al sentirne il suo grembo fecondo Fu sì lieta, sen piacque cotanto…. Ahi! fu pago quel voto sì santo, Ma per sommo suo cruccio e dolor! Come stringer potè fra le braccia Quel suo dolce tesoro amorosa, Aspettonne, tremante, ansïosa Uno sguardo, ricambio d' amor…. Quello sguardo non ebbe la mesta: Gli occhi ha il figlio, ma solo pel pianto…. « Ah! l' affetto più tenero e santo È a lei fonte di acerbo dolor! » Ogni madre, vegliando il suo figlio Nella queta domestica stanza, Mille sogni d' amor, di speranza, Per lui forma sul tempo avvenir; Costei sola non spera fra tutte Dal figliuolo nè gioja, nè vanto…. « Ah! l' affetto più tenero e santo È a lei fonte di acerbo dolor! » Che le giova se bello e robusto Egli cresca qual pianta gentile? Potrà l' uom più spregevole e vile L' orbo afflitto insultare e schernir! Quale automa degli altri in balía Vivrà mesto, e miserrimo oh quanto! E l' amore più casto e più santo Non dariagli che cruccio e dolor! Quando fia che quel gramo innocente Schiuda il labbro a formar le parole, E de' prati, del mare, del sole Esaltar la bellezza udirà: Dimmi, o Madre, dirà, perchè mai Tutto a me copre un funebre ammanto? Il Signor, che è benefico e santo, Per qual fallo dannommi al dolor? Ch' è la luce che allegra ciascuno, Meraviglia dell' ampia natura? A me, dunque, a me solo si fura Il gran Fabbro nell' opre ammirar? Neppur te, dolce Madre, ho veduto, Te che m' ami e compiangi pur tanto! Ah! so ben che « l' affetto più santo Sol ti è fonte di acerbo dolor! » Or mi ascolta: se avvien che la morte Mi rapisca degli anni sul fiore, No, non pianger, ma prona al Signore Di tal grazia gli rendi mercè. Come a martire, allora la chioma A me cingi di vivo amaranto; Oh! vedrò dal soggiorno del Santo Te che resti all' umano dolor!

Foggia, il giorno 7 Maggio dell' anno 1854.

Era quel dì che il lucido Sole oscurossi in cielo, Quando del Cristo all' ultimo Spiro, del tempio il velo Squarciossi, e da' suoi cardini La terra vacillò; Quel dì che i bronzi tacciono Dell' ardue torri in vetta, E, come donna vedova In suo dolor negletta, Cinto di veste lugubre Stassi il devoto altar. Al mesto suon degli organi Che feano invito al pianto, Fra turba supplichevole, Presso al delubro santo, Stava di Sorga il flebile Cantor prostrato al suol. Disconfortato ed ansio Smarriasi il suo pensiero Ne' fini imperscrutabili Dell' immortal mistero, E a sè medesmo inchiedere Sommessamente ardì: Come, se scadde il misero Mortal per proprio errore Da sua superna origine, Come con tanto amore Sua nera ingratitudine L' alto Fattor pagò? Così pensava, e il dubbio Serpea nella sua mente, Quando si scosse a un tenero Sospir che dolcemente, Qual tocco d' arpa eolia, Da presso gli suonò. Si volse, e vide un angelo Di amore e di bellezza, Una suave e candida Faccia, a cui pia tristezza Cresceva indefinibile Incanto sovruman. Fissi sull' ara i ceruli Leggiadri lumi avea, E di umiltà ineffabile In atto al sen premea Le belle mani eburnee Del priego nel fervor. E tanto amor, tal semplice Fede in quell' atto stava, Tanta celeste grazia In quel volto brillava, Che di Petrarca il dubbio Repente dileguò. Egli credè. — L' angelica Alma di un sì bel frale Lasciar poteva il Massimo Preda all' autor del male? Si degna opra redimere Dovette il suo Fattor! Egli credè. — Dai vividi Azzurri occhi partio Un raggio suavissimo Che il ricondusse a Dio, E di novelle immagini La mente gli arricchi. E amò colei dell' unico Amor, santo, indomato, Che per età non mutasi, Che non soggetto è al fato, Che non aspetta premio Nel mondo dell' error. Deh! per cotal memoria In un dolente e lieta, Per Laura tua, concedimi, O altissimo Poeta, Di quell' ardor che acceseti Un raggio, un lampo sol! Fa tu che sempre sgorghino I versi miei dal core, E se fugaci i cantici Avran fugace onore, Destin gentili e nobili Sensi a' presenti almen!

Foggia, il giorno 7 Maggio dell' anno 1854.

Per ogni cosa vaga e gentile Ha un suono il verso che diemmi il Ciel: Io canto l' aura del nuovo aprile, E i fior dischiusi in sullo stel. Canto del mare l' onda tranquilla, Ed il sospiro di un vergin cor; Canto la flebile devota squilla, E la preghiera del vïator. Ed anco allora che più sull' alma Del duolo il pondo sento aggravar, Canto: succedere dovrà la calma Della tempesta al furïar. E a te, leggiadro arco celeste, Che l' etra abbelli co' tuoi color, Ora a te volgo le rime meste Nell' improvviso dell' estro ardor: A te, che simile a un invocato Riso, che al pianto succeder suol, Fra rotte nubi nel ciel turbato Nunzio apparisci che torna il sol. Di spirti eterei stuolo infinito Lungo la tua curva talor Mostrasi al mio sguardo, rapito Nella vaghezza de' tuoi color. Gli Angeli sono, che arbori e mèssi Hanno in custodia con santo zel: Piogge e rugiade dispensan essi, Temprano i venti, l' ardore e il gel. E il suon de' dolci celesti canti, Che insiem disciolgono sull' arpe d' ôr, L' eco è de' fervidi voti e de' pianti Degli operosi agricoltor. Tal sede ottennero quel di che illesa Dall' universo naufragio andò L' arca del giusto, scevro di offesa, Che innanzi al Nume grazia trovò. E tu di pace e di alleanza Nunzio apparisti pel ciel seren, Simbol suave della speranza Che l' aspre doglie lenisce in sen. Ah! salvo appena dall' arca uscito Del buon Noemo l' empio figliuol, Al padre irridere osava ardito, Ch' ebbro nel sonno giaceva al suol. E la malvagia prole di lui Di nuovo l' ira di Dio chiamò, Ma Dio fedele a' giuri sui Te sempre in cielo ne addimostrò. Oh! non sia dunque chi più disperi Se infuria il vento, se freme il mar! In mezzo ai turbini più tetri e fieri Noi ti vedremo, Iri, brillar. Noi ti vedremo: e, tra i martíri Di questo breve mortal cammin, Iddio, diremo, ne dà nell' Iri Arra di eterno miglior destin!

Lucera, il giorno 3 Giugno dell' anno 1854.

E voi, cui fero miserando sdegno Disgiunse in vita e a lacerarvi spinse, Voi canta il mite verecondo ingegno, Avverso a quell' error che entrambi vinse. O Monti, o Gianni! se nel divo regno Sede per voi, morendo, alfin si attinse, Grazïoso vi fia che il vostro vanto Suoni indiviso nell' umíl mio canto. Di vigorosa, eccelsa fantasia Prodigamente ambo dotò natura; E da' primi anni voi la poesia Innamorò della sua luce pura; Ma per la scabra e perigliosa via, Per che ognor procedendo uom s' infutura, L' uno alse ed arse, e all' ardua cima venne, Forviò l' altro e labil gloria ottenne. Dal volume immortal dell' Alighieri Monti il bello toglieva ornato stile, E la copia de' suoi forti pensieri Di suave vestía forma gentile; Gianni ai tetri, fantastici, stranieri Deliri, avendo i nostri sommi a vile, Abbandonava l' agitata mente Nella foga dell' estro onnipossente. O Cantor di Basville, a quel divino Carme che narra la gravosa pena Dello spirto, cui l' angel peregrino Tragge a mirar trista e nefanda scena, Plaudì Italia da Calpe ad Appennino Benedicendo a tua feconda vena, Dogliosa sol che avessì tu di Dante Il verso sì, non l' animo costante! Ma, in vita ancora, con frequenti affanni Del malfermo pensier pagasti il fio. E tu sugli altri fieramente, o Gianni, Ti mostravi vêr lui mordace e rio. Del pronto ingegno sugli arditi vanni Qualor, cantando, t' innalzavi a Dio, Ansie, commosse ai subiti concenti, Un Nume ti dicean le ausonie genti! E benedían questo incantato lido Che sol può gir di tai prodigi altero. Ma fuggitivo e labil sempre è il grido Del carme che creò ratto il pensiero! Ahi! questa febbre ond' io pur m' ardo e ancido, E indarno forse di emularti spero, Questa non mai di duratura gloria Fia che giunga a fregiar d' uom la memoria! Pur troppo è ver! già copre il nero oblio I carmi tuoi sacri al Guerrier fatale. Pur l' aringo medesmo or corro anch' io, Sorte aspettando alla tua sorte uguale. Ma all' umil nave dello ingegno mio, Se mai prece del core in alto sale, Sempre non toglierà fato crudele Che a correr miglior acqua alzi le vele.

Foggia, il giorno 19 Maggio dell' anno 1854.

Col mio pensier che penetra La notte del passato, Che nel futuro slanciasi A interrogar suo fato, Là nelle piagge galliche Io mi trasporto a vol. E pingo presso all' ultima Inevitabil ora Lionardo, ingegno altissimo, Che Italia e il mondo onora, Di Buonarroti e Sanzio Emulo illustre un dì. Ei che de' prischi secoli Degno di Atene e Roma, Ebbe di alloro triplice Ghirlanda in sulla chioma, A qual dell' arti ingenue Volger si piacque il cor, Ei che aspirò tra gli emoli Sommi al primato anelo, Astro solingo spegnesi Colà nel franco cielo, Poi che de' suoi prodigii L' ospite suolo empì. Muore; ed ancor l' archetipo Vagheggia di quel bello Ch' ei diffidò di esprimere Col creator pennello, Quando alla Cena mistica Il Cristo figurò. E tosto anela a sciogliersi Della terrena creta, Perchè ad eccelso spirito Il ciel soltanto è meta; Come de' fiumi al correre Meta soltanto è il mar. Non mai possente principe Nel suo supremo giorno Stuol così folto videsi Di mesti amici intorno, Siccome è quel che accerchia Il nobile pittor. Persin quel Re magnanimo Che al quinto Carlo in guerra Ardito osò contendere L' impero della terra, Regge pietoso il debile Capo di lui che muor. E dubbi rende gli animi Qual sia tra lor più degno, Se quei che tanta gloria Mertò al divino ingegno, O quei che dona un premio Che vince ogni altro onor. Ma pur sul venerabile Estenuato aspetto Veggo affacciarsi l' ansia Di un angoscioso affetto, Veggo ch' ei volge cupido Lo sguardo intorno a sè; Ed affannoso un gemito Mette, e da sua pupilla Silenzïosa scorrere Veggo un' amara stilla Giù per la gota pallida, Nunzia di arcano duol!… T' intendo, ah sì! quel gemito Comprendo e quel tuo pianto! Ancor qui molti ti amano, Stan molti a te d' accanto, E un Re che piange a piangere Altrui costringe ognor; Ma son straniere lagrime Che irrigano quei volti, Intorno a te di strania Favella il suono ascolti, Ed un avello estranio Ti si dischiude al piè! E grave è a tua grand' anima Non poter dir morendo: Io dormirò dell' ultimo Sonno u' vagii nascendo; Lieto sarà il mio cenere Di patrie ombre e di fior! Ma ti consola! il tumulo Che ospiterà il tuo frale, Quì attesterà la gloria Del tuo terren natale; E a chi, invidïando, insultalo, Tacendo, assai dirà. E quanti ivi d' Italia Verran petti, devoti Alle bell' Arti ingenue, Di fior, di canti e voti Il marmo tuo funereo Onoreranno ognor!

Lucera, il giorno 3 Giugno dell' anno 1854.

Dammi un fior, sia pur fresco e leggiadro, Abbia tutti dell' Iri i colori, Signoreggi in bellezza tra i fiori Come il sole tra gli astri nel ciel; Sia venuto da stranie regioni, Prezïoso qual fulgido vezzo; Se a quel fior manca solo l' olezzo, Non ha pregio veruno per me. O donzelle, a voi drizzo il mio carme, Io la donna in quel fior simboleggio; E, com' esso, sgradita la veggio, Se le manca una cara virtù; La virtude quest' è che sublima, Che abbellisce ogni pregio più raro, Che disarma financo l' amaro Dell' invidia temuto livor. O donzelle, qual perla eritrea, O gentil talismano di amore, Qual tesor di cui nulla è maggiore, Quale speme di fausto avvenir; Careggiate la diva modestia, La virtù che alla donna si addice, Che adorabil la rende e felice, Benedetta dal mondo e dal ciel. Vaghi rai, belle chiome, e sorriso Dolce, e volto di gigli e di rose, E movenze suavi amorose, E favella d' angelico suon, Vi concesse benigna natura, E, gelosa dell' opra gentile, Voi soggette all' imperio virile Rese invitte dell' uomo sul cor. Ma l' incanto distrutto saria, Come al sol si discioglie la brina, Se la vergin modestia divina Non vi ornasse del casto pudor. Se fastose del vago sembiante Chi l' ammiri col guardo cercate, Se il modesto contegno oblïate, Voi scadete dal pregio miglior. Dell' età che passaro più saggia L' età nostra deride lo stolto Che d' ignavia tra l' ombre sepolto Della donna vorrebbe il pensier. Or son molte che all' opre d' Aracne, Alle molli carole ed al canto Altro aggiungon più nobile vanto Che l' ingegno fecondo può dar. E per morbide tele dipinte, Per armoniche rime ispirate, Son pur esse le donne onorate, Grave incarco han pur esse a compir. Ma la donna ingegnosa e leggiadra Solo allor sembra scesa dal cielo, Quando, avvolta nel timido velo Di modestia, i suoi pregi non sa. Solo allor non di vacuo stupore Desta il senso ne' cuori vìrili, Ma gli affetti più casti e gentili Suscitando, migliora l' età. La modestia è l' odor che discopre L' oblïata ed umil vïoletta, È l' aureola dell' anima eletta, La corona di ogni altra virtù: È quel pregio pel quale onorata Esser solo ogni donna dovria: Fu modesta nel mondo Maria Che or si asside regina nel ciel.

Lucera, il giorno 3 Giugno dell' anno 1854.

Solingo è il Tempio: d' una nube oscura Oggi ricopre il sole il divo aspetto: Sembra a lutto vestita la natura, Squallido e muto ogni più vago oggetto; Ed un senso d' incognita paura, D' angoscioso dubbiar trasfonde in petto La incerta luce che per l' ampia volta Splende, ove nullo rumorio si ascolta. Tacito e solo un uomo ecco si avanza, Che ha lo sguardo ispirato al ciel converso; Al compresso respiro, alla sembianza, In meditar profondo ei sembra immerso. Col corpo è sol nella terrena stanza, Chè il suo spirto, maggior dell' universo, Si aderge infaticabile ed ardito Pe' campi a spazïar dell' infinito. È Buonarroti, il generoso, altero Uom che all' aspetto sol parve mortale, A cui non puote l' invido straniero Ingegno contrappor di merto eguale; È Buonarroti, che il tremendo e fiero Si apparecchia a ritrar giorno finale, E con la mente di terror ripiena Guarda la grande paurosa scena. Ecco, già spente son le stelle e il sole, Un rumor cupo in tutto il ciel rimbomba; E pari a tuon che il mondo assordar suole Si ascolta il suon dell' angelica tromba; Dai cardin crolla la terrestre mole; Rotto il coperchio, fuor versa ogni tomba La propria preda, e paurosi e tetri Empion la valle gl' infiniti spetri. Dal fronte un marchio gli spirti rubelli Tentan, graffiando, cancellarsi invano; Truce ghignando, nel lasciar gli avelli, Qual suo retaggio li segnò Satàno. Di eterea luce sfavillanti e belli, Schierati a destra per l' immenso piano, Volgon lo sguardo i giusti ai benedetti Angeli da cui fur guidati e retti. Ed ecco de' Cherubi in fra gli Osanna, Su trono fulgidissimo abbagliante, Il Giudice immortal, che non s' inganna, Nel suo tremendo appar vero sembiante. Ei parla…. Ei parla! — L' eterna condanna Già profferì la sua voce tonante, Già con urli di orror gli empi dannati Maledicono il giorno in che fur nati. Ve' de' demoni rei la truce schiera, Or questa or quella arroncigliando in fretta, Giù nell' orror dell' infernal bufera Seco trascina ogni alma maledetta; Del cielo intanto alla region più mera Letizïando innalzasi l' eletta Gente, ed inneggia l' increato, il forte Che la scampò dalla perpetua morte. Ma qui dell' alto immaginar la possa Mancò al divino artefice, e sentio Quasi di morte il gel correr per l' ossa E tronchi i vanni al nobile disio…. Ma fu da un angiol sua virtù riscossa, Che disse: Pingi; tel comanda Iddio! — Rizzossi allora, e come l' estro il vinse La portentosa visïon dipinse.

Lucera, il giorno 3 Giugno dell' anno 1854.

O pigro ingegno, destati, Canta di Dio la gloria; Del Dio forte, terribile, Che impera alla vittoria, E gli elementi ha docili Ministri al suo poter! Ei d' Israello il popolo Sottratto al giogo volle, E a Lui che il gregge timido Pasceva a piè del colle Dall' igneo inconsumabile Roveto favellò: — Vanne! Compiuto è il termine Dall' ira mia prescritto, Che di Giacobbe i posteri Geman nell' arso Egitto; Questo bandisci impavido Al popol servo e al re! Vanne! Facondia e indomito Valore in te saranno; I detti tuoi mirabili Prodigi compiranno…. Io son chi sono; all' opera Grande mi avrai con te! — Stolti! pensàr deludere L' Eterno gli oppressori; Di quei ch' Ei volle liberi Si fêr persecutori…. Stolti! all' Eterno osavano Di spergiurar così! D' ogni flagel dimentichi, In riva all' Eritreo Inseguon, quai fameliche Belve, il fuggente Ebreo…. Già di sua strage esultano Ne' truci lor pensier! Chiude allo scampo ogni adito A quello il mar mugghiante: E donne, e vegli, e pargoli, Con labbro e cor tremante, Le palme al ciel sollevano Nell' ansie del terror; Signor, sclamando, ah! compiesi Così la tua promessa?… Ve' che il crudele Egizio Ne insegue, e già si appressa; Morte, o novel servaggio Sul nostro capo sta! Ma in Dio fidente, impavido, Cinto di eterea luce, D' un guardo sol le timide Turbe rincora il Duce; Franco si avanza; il tumido Flutto gli mugge al piè…. Ed ei si avanza, e l' umile Verga vêr quello stende; Ed ecco l' onda instabile In un balen si fende, E ossequïosa schiudegli Asciutto, ampio sentier! Ei vi si spinge. E, simili Ad attruppati armenti, Sui passi suoi si versano A folla le sue genti, E d' ambo i lati innalzasi Come parete il mar! Già l' altra sponda toccano Fra gioja e meraviglia, Quando un novel prodigio Percuote a lor le ciglia; Chè pel mirando tramite, Che il Nume ad essi apri, Tumultuando spingesi Degli oppressor la schiera: Ed ecco col terribile Urto della bufera Avanzasi, riversasi Tosto sovr' essi il mar! I cocchi aurati ed agili Ecco si affondan ratti; Qua e là per l' onde instabili Son galleggianti tratti Armi, cavalli ed uomini Chiedenti aita invan!… —Osanna! Osanna a Jeova, Al Dio di Abramo osanna! Ei salva i miti ed umili, Gli empii orgogliosi Ei danna. Spinse Ei del mar tra i vortici Cavalli e cavalier! L' egizïano esercito, Di strage apportatore, Sparì nel vasto oceano Al guardo del Signore; Ma l' altra sponda incolume Salvo Israel toccò! E terra e cielo attoniti Dell' Eritreo sul lido Fêr eco al divo cantico Che l' ispirato e fido Duce del santo popolo Nel suo gioir snodò!

Lucera, il giorno 30 Giugno dell' anno 1854.

Ed anch' oggi io sono, e spiro L' aura amica della vita: Oggi ancora a gaudio miro La natura rivestita; Come pura e senza velo La novella aurora appar…. Di zaffiro sembra il cielo, È cristallo il vasto mar! Tra le foglie tremolanti, Al sospir dei venticelli, Già disciolgon lieti canti Variopinti e vispi augelli…. Su, mortali, in ozio molle Non vi trovi il nuovo sol: Di virtù ben arduo è il colle, Nè chi è pigro ascender suol! E tu, tolta a ogni lusinga Della terra, e in Dio beata, Esci, o Vergine solinga, Dalla cella intemerata; China all' ara, i voti casti Rinnovella del tuo cor, Per quel mondo che lasciasti Prega pace dal Signor! O colomba tremebonda Che raccogli il vol nell' Arca, La tua prece pudibonda Dell' empiro i poggi varca; Dolce, come il tintinnìo D' arpa scossa a mesto tuon, Di tua prece accetto a Dio, Tra gli altari, echeggia il suon. —O di vita eterna fonte, Dio pietoso, e giusto e santo, A te, prona al suol la fronte, Il mortal solleva il canto; Or che al romper dell' aurora La notturna ombra sparì, Da te, Rege e Padre, implora Fausto e puro il nuovo dì. Come irradia e monti e piani Su dall' etra il sol lucente, La tua grazia sugli umani Si diffonda, o Dio clemente; Nel tugurio meschinello, Mesto asil di povertà, Nel superbo aurato ostello Scenda, o Dio, la tua pietà! Non indarno di sudore Oggi asperga il volto e il seno L' abbronzato agricoltore Mentre curvo ara il terreno; Manda tu sull' arso suolo Nudritivo e fresco umor, Ma distorna il fosco volo D' atro nembo struggitor! L' operajo invan non chiegga La mercè di sua fatica; Dei potenti a lato segga Carità dei giusti amica; A chi imparte altrui giustizia Mostra tu nudato il ver, Non insidii rea nequizia Ai pupilli e dritti e aver! I ministri del tuo tempio, Pieni il cor di santo zelo, Avvalorin con l' esempio I precetti del Vangelo; Sian conforto dei soffrenti, Sian di pace i banditor, Luce sian per l' egre menti Accecate dall' error! Ne' cenobii solitari Volgi alfin pietoso il guardo: Genuflessa ai santi altari, Tolta al secolo bugiardo, Vedi, o Dio, l' umile schiera Che suo debito qui fa Il digiuno, la preghiera, La fraterna carità! L' Angel tuo, di spada armato, Guardi ognor la casta soglia; Nè la nebbia del peccato Cor che a te sacrossi accoglia…. E, se vuoi che de' miei giorni Questo sia l' ultimo dì, Fa che pura a te ritorni L' alma, qual da te partì!

Lucera, il giorno 30 Giugno dell' anno 1854

Nell' etade più gaja e ridente, Quando un riso rassembra la vita, Una vergin fanciulla romita Fatta è strania del mondo al gioir. Delle vispe giulive compagne Più non tragge ai ritrovi frequenti, Nè più intreccia alle chiome lucenti I fioretti che il prato educò. È leggiadra, qual sogno d' amore Che ne bea di dolcezza divina; Pura è come la goccia di brina Che sui fiori fa l' alba brillar! Ma negli atti, nei panni dimessi Rassomiglia la bruna viola; E ogni sera suol misera e sola Un lamento sull' arpa snodar. — Astro amico, che il tremulo raggio De' miei cari diffondi sull' urna, E tu, flebile auretta notturna, Che ravvivi sovr' essa i miei fior; Voi che spesso d' accanto a quel marmo Mi vedeste nel duol derelitta, Dite voi se dell' orfana afflitta V' è altra donna più mesta quaggiù! Quale implume augelletto nel nido, Sotto l' ala materna securo, Rida il cielo o sia torbido e scuro, Non conosce perigli e timor; Tale io vissi secura e fidente, Come ignara di tutte amarezze, E sognava sol baci e carezze Della madre, del mio genitor. Ahi, fu sogno quel tempo felice, Da cui tosto, me lassa! fui desta! Improvvisa una fera tempesta A mio danno il destin suscitò. Le due piante dal provvido rezzo Atterrò nel suo crudo furore, E al lor piede me, gracile fiore, Risparmiò con più cruda pietà! Ahi, non trovo sì flebili detti Che dipingano al vero il mio stato…. S' è per sempre il bell' astro oscurato Che ai primi anni il sentier mi schiarì! In un mondo che temo ed ignoro Erro estranea fra tutt' i viventi: Io son canna sbattuta dai venti, Son colomba che il nido smarrì. Una insidia a ogni passo pavento, Chè non ho chi mi guidi o consigli; Se una madre riprende i suoi figli, Se li stringe amorosa sul cor, Io di pianto mi struggo, e prorompo: Dove sei, dove sei, madre mia?… Ma una voce dolcissima e pia Par che allora risponda al mio cor!… Oh! è la voce che prima ascoltai, Che insegnommi la prima preghiera, Che al mio capo soleva ogni sera Benedire, invocando il Signor! È la voce che ancor mi chiamava Fra i martír dell' estrema agonia…. Spera, o figlia, e confida in Maria, Mi ripete dall' alto del ciel! — Sì, o diletta: a Colei che invocasti Scudo e madre alla grama orfanella, Qual nocchiero alla fausta sua stella, Sempre io volgo la mente ed il cor. Ella pura e incolpata mi serbi Nella valle del misero esiglio, Ed al pianto che bagna il mio ciglio Un compenso ella appresti nel ciel!

Lucera, il giorno 30 Giugno dell' anno 1854.

Chiedi, ed avrai; disse l' Eterno al figlio Del sublime testor de' sacri canti. Ed ei co' suoi pensier stette a consiglio Sulla polve prostrato al Nume innanti. Ergendo alfine timoroso il ciglio, Di modesto rossor sparsi i sembianti, Fammi, rispose in supplichevol suono, Della verace sapïenza il dono. E Dio si piacque dell' inchiesta, e: Saggio, Disse, per quel che a me chiedi già sei; Ma tale or ti farò, che al tuo paraggio Staran soli in saper gli Angeli miei; Perchè grandezze non chiedesti, omaggio Avrai non sol da' tuoi soggetti Ebrei, Ma carchi di tesor da stranio lido Trarran le genti di tua fama al grido! Oh felice Israello, allor che un tanto Re di tue sorti governava il freno! Meraviglioso all' universo il santo Tempio si ergea di tua Sionne in seno; Traeano a folla gli stranieri al vanto Del prence tuo di sapïenza pieno, E, scrutando ei de' cor gl' intimi arcani, Giudizii profferia vieppiù che umani! E ben, più che mortal, divo intelletto Mostrò quel dì che, innanzi a lui prostrate, Contendevan tra lor del pargoletto Due donne, entrambe in vista addolorate: Signor! l' una dicea, del figliuoletto Costei trovò le membra inanimate, A me dormente lo posò vicino, E in cambio tolse il mio vivo bambino. Fa che reso mi sia, giusto e clemente Signor, da questa ardita il figlio mio! — — Guarda, l' altra dicea, ch' ella è demente! Da lei schiacciato, il pargol suo morío; Questo che vivo e bello è a te presente, Credilo, o re, da questo fianco uscío; Non mai staccossi dal materno lato…. Deh! tu non far che a me venga involato! Del sorriso degli Angeli ridea Intanto il bimbo vezzosetto e caro; Nè l' aspra lite diffinir potea Ei d' ogni umana conoscenza ignaro; E l' una e l' altra donna in lui figgea Avido il guardo ed amoroso al paro, E de' regii ministri ognun rimaso Era incerto dubbiando al nuovo caso. Ma quei che della vera sapïenza Da Dio già s' ebbe l' ineffabil dono, Questa allor profferì cruda sentenza, Composto a grave maestà sul trono: — Poi che ad ambe prestar dêssi credenza, E madri entrambe del fanciullo sono, In due venga diviso, e di sue sparte Membra s' abbia ciascuna un' egual parte. Arresta…. arresta! allor gridò la vera Madre, e slanciossi pallida, tremante Verso il ministro, che in sembianza fera Già già ghermiva il tenerello infante. Arresta…. arresta! Ah! pur ch' egli non pera, Venga strappato dal mio petto amante…. Non val ch' io muoja di rammarco e duolo, Ma colei s' abbia intero il mio figliuolo! — Onnipossente grido hai tu, natura! Proruppe allora il gran monarca: or basta; Cessa, o donna, dal duol; ti rassicura, Niun fato avverso al figlio tuo sovrasta; Illeso il rendo a tua tenera cura, Fia punita colei che tel contrasta; E tu qui meco a Dio tributa omaggio Che di sapienza in me trasfuse il raggio!

Foggia, il giorno 30 Giugno dell' anno 1854.

Del Cantor delle vergini morenti Presso la lagrimata urna modesta Un uom s' inoltra a passi incerti e lenti, Nell' ora che a pietà l' anime desta. L' aspetto ha grave, gli occhi vivi, ardenti, La fronte ampia, su cui par manifesta L' orma fatal dell' ispirato ingegno Che i pochi adduce a glorïoso segno. All' affetto che in me desti, all' arcano Moto che ad arduo vol l' estro disserra, Io ti ravviso, o della pia Milano Vanto, e decoro dell' ausonia terra. Tu, il cui verso invidiar fe' l' inumano Fato dell' immortal Mastro di guerra, Tu, che all' antica ricantata fola Succeder festi del Vangel la scola; Tu vieni l' urna a confortar di pianto Di Lui che ti ebbe qual duca e fratello, Vieni a invocarne l' amoroso e santo Spirto che splende dove è il ciel più bello. Oh! se per lui scioglier volessi un canto, Se d' Italia il sospir suonasse in quello, Fremer di gioja udriansi entro la fossa Del morto amico le incolpabili ossa! Ma non a lui, nè ai varii fortunosi Eventi ond' è teatro il patrio suolo, Fu dato ridestar gli armonïosi Estri, di cui sol Dio fu meta al volo. Altri ti apponga sensi neghittosi, E cor che freddo resta al comun duolo: Io del silenzio tuo stimo ben degna L' età che i mimi di cantar non sdegna. Ma si abbian pure e plausi, e canti, ed oro Cotesti eroi del secolo preclaro; Anzi profana man l' eterno alloro Offra per agil trillo altrui sì caro. Giaccian negletti e miseri coloro Che per opre magnanime sudàro…. Ma sin che duri il vergognoso esempio Chiudi, o mia patria, di tue glorie il tempio! E tu, cui Dio sì largamente avea Concesso il don d' impietosire i cuori, Nel verso che in sì pio modo pingea, L' infausto fin di verginali amori, Di tanto avesti la fortuna rea, Premio sì scarso ai nobili sudori, Che in aridi per te studii molesti L' eletto ingegno affaticar dovesti! La carcer d' Ildegonda e la paura, E le nozze di Lida semiviva, E di Bice la misera ventura, E il pentimento della Fuggitiva, E di Giselda la mortale arsura, Indarno l' estro tuo creando avviva. L' età che pianse a lor vicende strane, A chi creolle non offerse un pane! Pur tu modesto ognora e verecondo Pago vivevi dell' oscuro stato; E più del plauso e del fragor del mondo Di Manzoni l' amor ti fe' beato; Di Manzoni che immerso in duol profondo, Presso il funereo tuo marmo onorato, Pensa com' ei del glorïoso stuolo De' Sommi avanza omai diserto e solo. E poi che teco all' immortal dimora Pur di Silvio volò l' anima bella, Anch' ei da Dio sommessamente implora La pace che turbar non può procella. Ma tu, deh! prega ch' ei non rieda ancora Allo splendor della natia sua stella, Se d' altri Grandi pria non splenda ornata Questa, madre di eroi, terra beata.

Foggia, il giorno 7 Maggio dell' anno 1854.

Quel di che il santo terreno eliso Suonò del primo detto di amor, Della natura nel pio sorriso Schiusersi all' aura i primi fior. Schiusersi; e misto al suon de' canti Della innocente coppia fedel, Il puro olezzo de' lor fragranti Calici alzossi suave al ciel. Ahi! tosto l' invido serpente astuto Trasse gl' incauti sposi a peccar, Onde dal fero Angel temuto Si udiro a eterno bando dannar. Fuggian compresi di orror; sul crine L' igneo vedeansi brando strisciar…. E, lungo il tramite, le prime spine Sotto i lor passi sentian spuntar! E poi che molle de' suoi sudori All' uom la terra frutti donò, Crescer spontanee, appresso ai fiori, L' aspre infeconde spine ei mirò. Le spine e i fiori!… quanto mistero Di amor, di sdegno, di gioia e duol, D' illusïoni, di nudo vero In essi io scorgo a un punto sol! Non mira il sole, disse il sapiente, Nascer perfetta cosa quaggiù; Ma ad ogni cosa l' Onnipotente Díè, nota o incognita, qualche virtù; E se non molce e alletta i sensi, S' utile al corpo alcun non dà, Forse che ad anima che scruti e pensi Di ascosi beni fonte sarà. Così, mirando leggiadra rosa, In me di averla nasce il desir; La man vi stendo, e dall' ascosa Spina mi sento tosto ferir. Mi lagno, e chieggo: perchè il gentile Fiore sì acerba guardia mertò? Ma scorgo un lurido insetto vile Da cui la provvida spina il campò! Due strade io veggio: l' una fiorita Par che a percorrerla alletti il piè; L' altra, di triboli aspri gremita, Par che sgomento metta di sè. Pur quella a un baratro mette ferale, Ond' uom che caddevi salvo non fu, Questa all' eccelso ed immortale Tempio conduce della virtù! L' Uom Dio che carco de' nostri errori A riscattarne venne dal ciel, Non ebbe serto al crin di fiori, Ma di pungente spina crudel. E quei beato, che la sventura Sereno affronta, si udì chiamar. Misero dunque chi pon sua cura, I fior cogliendo, spine a cansar! Amiamo i fiori; in così belle Opre adoriamo l' Eterno Autor; Egli che il cielo ornò di stelle, Ornar la terra volle di fior. Amiamo i fiori; ma, se di spine Avrem soltanto serto quaggiù, Di fiori eterni speriam sul crine Una corona fruir lassù!

Trani, il giorno 7 Agosto dell' anno 1854.

Impallidiva timidetta e bella, Pari a fanciulla che langue di amore, La più vaga del ciel limpida stella Annunziatrice del sereno albore. E all' aure, ai fior della stagion novella, All' ineffabil riso incantatore, Un uom venía della gentil Sorrento, In sè raccolto, e a passo tardo e lento. Quel mar, que' colli, que' boschi odorati, Ei si sofferma a contemplar rapito; E fra i tetti da bei cedri ombreggiati Un ne scerne, e commosso il segna a dito…. Ah! certo i più sereni anni beati Egli passò su questo ameno lito; Certo egli l' ama, e nel toccarlo oblia La noja e il mal della passata via. Oh mare, oh colli, oh boschi!… Oh nell' ascoso Linguaggio che a voi pur concesse Iddio, Di Goffredo plaudite al glorïoso Vate, or che fa ritorno al suol natío. Voi che il primo accoglieste armonïoso Carme gentil che da' suoi labbri uscío, Voi che eterna da lui fama aspettate, Deh alcun conforto nel suo cor versate! Esul ramingo, trasse ei giovinetto Col dolce genitor da voi lontano. Cantò Rinaldo con nascente affetto, E poi l' armi pietose e il Capitano. Di una Corte splendor, d' invidia obbietto, Fu adorato, deriso al par d' insano; E gli estremi toccò, per sorte dura, Or della gloria ed or della sventura. Oh quante volte, disfrancato e lasso Dall' acerba del cor continua guerra, Qui rivolger pensò l' errante passo, O diletta dal sol florida terra! E l' auree stanze che ammorbava il basso Dell' invidia livor, che ascoso atterra Qual che s' innalzi per virtù d' ingegno, Fu tratto a maledir, colmo di sdegno! Ma quelle stanze…. oh! quelle stanze ancora Sommessamente a benedir riedea; E sè medesmo interrogava allora, Se pago altrove viver mai potea. Ivi di sè fe' mostra Eleonora, Più che donna, per lui celeste Dea; Ivi il raggio de' cari occhi fatali Leniagli il pondo de' terreni mali. Ahi! di quegli occhi il pio sguardo amoroso Sorprese il prence nel poeta intento; E fu segno di lungo e doloroso Carcer per quei che ne fu già contento. E allor, che tolto al loco tenebroso, Trovò quel guardo ahi! già per sempre spento, La conseguíta libertà richiesta Gl' increbbe al par di sua prigion funesta. E tristo, infermo, povero, la brama Di riveder la sua patria lo assale; E ch' ei provò, narra pietosa fama, Lo pane altrui siccome sa di sale. Ma tu, Sorrento, alla sua vita grama, A quella irrequïeta alma immortale, Balsamo appresti nel verace affetto Che amata suora per lui chiude in petto. Oh come, oh come, ravvisando in quello Umile peregrin che le sta innante, Il glorïoso suo dolce fratello, Quella pia si scolora nel sembiante!… Godi, o Torquato, il più felice e bello Del viver che ti resta è questo istante. Godi, o Torquato, e in questo suol riposa Dalla vita raminga ed affannosa. Qui avrai, quando ti colga la superna Ora, di patrii marmi e amor tributo; E fia da lungi il tuo sepolcro scerna Ad onorarlo il peregrin venuto. Ma che!… tu corri alla Cittade eterna, Al trionfo immortal che ti è dovuto?… Ahi! del trionfo pria l' ingiusta sorte Colà ti appresta inaspettata morte!

Trani, il giorno 7 Agosto dell' anno 1854.

Arpa gentil, che gli angeli Stessi tempraro un giorno, E al pastorel fatidico Di regio serto adorno, Dono immortal di Jeova, Dal cielo un dì recàr; Arpa gentil, deh! un flebile Suono de' tuoi concenti Manda a ispirar quest' anima Agl' improvvisi accenti, Poichè a te vuolsi il povero Mio carme consacrar E tu al buon germe d' Isai Il primo vanto desti, E alle donzelle ebraiche Noto e gradito il festi, Pria che per fatti bellici Vanto acquistasse e onor. E allor che delle vergini Il coro giubilante, Cantò la sua vittoria Sopra il crudel gigante, Al Dio che esalta gli umili L' inno su te sposò. Pendean commosse, estatiche, Le genti inebrïate All' armonia dolcissima, Che da tue corde aurate Con man maestra ed agile Solea sovente ei trar. E solamente il magico Suon che da te movea Dell' invasato Saule L' ira ammansir potea, Quando il maligno spirito Truce ruggíagli in cor. O del cruento Gelboe Balze a Saul funeste, Tutte di orrore ìnsolito Quel dì vi riscuoteste, Ch' ei v' imprecò nel cantico Nebbie perpetue e gel Dagli antri più reconditi I vostri echi gementi A lungo ripeterono I flebili lamenti Che sull' estinto Gionata Nel suo dolor mandò. Ma più frequenti, o armonica Arpa, ei su te sposava Gli alti ispirati numeri Con che il Signor lodava, Quando la regia porpora Cinse, ed il serto al crin. E allor che in mezzo al fulgido Fasto novello, in core Sentia più acuta figgersi La spina del dolore, Ed invocava supplice Perdono al suo fallir: Tu suo conforto ed unica Amica rimanevi; Con lui di morbo orribile Sui danni aspri gemevi; E tra i singhiozzi e l' ultime Strida echeggiavi ancor. O sacra arpa davìdica Ah! degli accordi tuoi Solo il più tristo e flebile Oggi si addice a noi, Poi che il Signor nel vindice Sdegno ci visitò. Mille per queste italiche Piagge il crudel Colèra Colse infelici vittime, Quasi vernal bufera, Che abbatte a un punto e sradica Annose piante e fior. Deh! il rassegnato ed umile Carme del Re pastore, Che disarmò la collera Tremenda del Signore, Con le tue corde, o mistica Arpa, ne ispira al cor. E in questo suol che Oronzio Col patrocinio santo Sempre campò dall' índico Flagel temuto tanto, Quasi cultor che vigili Assiduo il suo giardin; Su te di laude e grazie Discioglierem concenti; E del Leccese Martire Alle lontane genti, Cinto di nuova aureola, Il sacro nome andrà.

Lecce, il giorno 25 Dicembre dell' anno 1854.

O de' Paoli magnanimo Santo, Che l' intera tua vita spendesti A conforto di grami e di mesti Che in te dolce sostegno trovâr: De' tuoi sacri istituti al più bello Soffri che oggi sia vôlto il mio canto; « Può la legge di Cristo soltanto Tai prodigi d' amore ispirar. » Ben mel so, che terreno concento Mal si addice al superno valore Delle caste serafiche suore, Che a' soffrenti i lor giorni votâr. Ma il mio verso fia l' eco del mondo, Che ripete a perenne lor vanto: « Può la legge di Cristo soltanto Tai prodigi d' amore ispirar. » Tolte agli agi, al fulgor delle corti, Uno stuolo di donne amorose, Con lo zelo, con l' opre rispose Al tuo santo sublime pensier. Non rinchiuse, nè astrette in perpetuo, Hanno un voto di tutti il più santo: « Carità, Carità che soltanto Può il Vangelo di Cristo ispirar. » Carità! deh! qual foco divino In quei petti per essa si apprende! Quale eroe con tai donne contende In coraggio, fortezza, e pietà? Non più donne, sono angeli in terra, Che Dio cinse del fragile ammanto, « Per mostrar che sua legge soltanto Può i prodigi più belli ispirar. » Veglie, stenti, scabroso cammino, Crudo verno, affannosa caldura, Che son mai, se fraterna sventura Al soccorso, gemendo, appellò? Alle nude capanne, a gl' infetti Lochi volan, vi son per incanto, « Ed aita e conforto soltanto Può lor vista ai soffrenti ispirar. » Fin ne' campi, tra l' armi omicide Coraggiose si slanciano e invitte; Fascian, curan le membra trafitte, De' morenti l' estremo sospir Esse accolgono, e innalzan la Croce Dove sparso fu sangue cotanto: « Ah! la legge di Cristo soltanto Può alla donna tal forza ispirar. » O rejetti daì proprii parenti, Alla morte, nascendo, dannati, Trovatelli infelici, affidati Di questi angeli al provvido amor; Trovatelli infelici, deh! meco Ripetete con tenero pianto: « Può la legge di Cristo soltanto Tai prodigi d' amore ispirar. » Donzellette, che al fulgido esempio Di virtù così bella crescete, Care piante, che un giorno sarete L' ornamento del suolo natal; Per voi pur benedette tra noi Saran quelle che v' amano or tanto, « Quelle a cui Caritade soltanto Suol per voi tante cure ispirar. » Cadrà il vel nella fine dei tempi Alla fede, e la fede fia muta; La speranza alla sponda venuta In eterno distrutta sarà. — Sola tu starai viva in eterno, Carità, quando tutto fia infranto, Perchè Dio Caritade è soltanto, E il suo regno in te volle fondar

Lecce, il giorno 25 Dicembre dell' anno 1854.

Oh! se vi cale che il facil canto Sgorghi dai labbri; mosso dal cor, Qual della verga mosaica al santo Tocco, dal sasso l' onda uscì fuor; D' itali ingegni sacrato al merto Chiedete il verso che Dio mi diè, D' itali ingegni per cui d' un serto La patria nostra bella ancor è. Sanzio e Bellini! oh dolci, oh cari Nomi che appresi bimba ad amar! Nomi che suonano diletti e chiari Ovunque han l' arti culto ed altar; Voi, benchè in varia età vissuti, Nel mïo pensiero mi piaccio unir, Siccome il suono di due liuti Che accordo unisono facciano udir. Dalla più vaga tra quante stelle L' Eterno Amore accese in ciel, Le vostre amanti alme sorelle Scesero in terra nel fragil vel. E una sublime idea pietosa Eletti foste a rivelar, L' un con la nota armonïosa, L' altro le tele nel colorar. Ambo al confronto di due possenti Immensi ingegni posti quaggiù, Emuli illustri, se non vincenti, D' alta brillaste propria virtù — Già quei che al paro trattar sapea Sesta, scalpello, cetra, e pennel, Del maestoso sublime avea Tocco il confine posto dal ciel; Ma Raffaello, altro ideale Ansio cercava nel suo pensier, Quando una forma celestïale Guidò l' Amore sul suo sentier. Ei riguardolla trepido e pago Sclamando: È dessa, or son pittor! Ecco la dolce eterea immago Che a' miei dipinti fia vita e onor. Anch' io l' aureola di quella luce Che Buonarroti fregia, or mi avrò; S' ei meraviglia, sgomento induce, Celesti affetti io desterò. — Oh Raffaello! toccato il santo Culmin dell' arte, mancasti al dì, E la gran tela, tuo maggior vanto, La tua funerea stanza abbellì. Ti pianser quelli cui guida e sprone Eri alla gloria del patrio suol; Ma la più bella delle corone Di Michelangelo ti offerse il duol. A te men fausto, Cigno Sicano, Nell' ore estreme parve il destin; Fra stranie genti, in suolo estrano Fornisti il breve mortal cammin. Plaudiva il mondo del Pesarese Al novatore vasto pensier; Ed ei, co' suoni, dell' alte imprese Rendea lo strepito, l' urto guerrier. Ma tu, trascorsi quei splendidi anni, Spento dei marzii ludi il fragor, Sorgesti interpetre di dolci affanni. Delle nascose pene del cor. E Amina, e Norma, e la Straniera Per te sì care note snodàr, Che la più bella e splendid' èra Della melodica arte segnâr. Oh Catanese Cigno divino, Certo nell' ora del tuo morir, Presso il tuo letto l' Angel d' Urbino Vedesti in rosea nube venir; Aperti i labbri a un riso pio, Vieni, ti disse, vieni, o fratel; Vieni e armonizza l' Osanna a Dio, Le tue melodi insegna al Ciel. Vieni, ti aspetta la terza sfera, Ove di Laura siede il Cantor; Da quella patria eterna e vera Noi veglieremo l' italo onor.

Lecce, il giorno 25 Dicembre dell' anno 1854.

Severo ingegno, cui del bel paese Ricinto invan dall' Appennino e il mare, Forte così la caritade accese Come dall' auree tue pagine appare; Te lo spirto immortal del Certaldese Scerse dal Ciel tra l' anime più chiare, E ti trasmise, eredità gentile, L' italo, puro, armonïoso stile. Un grido, un plauso incontrastato e schietto Ebber per te dell' età nostra i savi; E molti, rinsaviti d' intelletto, Tornâr l' idioma ad onorar degli avi; Chè, ripieno d' ardir la lingua e il petto, L' ignavia e la viltà tu fulminavi Di chi insozza di barbari stranieri Modi il linguaggio che parlò Alighieri. Tu pria del sommo, al par che sventurato, Lëopardi la fama divulgasti, E nel suo cor diserto esulcerato Dell' amistade il balsamo versasti; Sopra l' acerbo inevitabil fato Che sì tosto cel tolse, dolorasti; E non per lui, che per sè visse assai Ma per la patria risuonâr tuoi lai. Pur mi perdona, o spirto venerando, Ch' io tra i più degni ognor sublimo e colo, Dimmi, perchè, tanto l' Italia amando, Vuoi d' un vanto frodar l' italo suolo?… Perchè sostieni che non può cantando Fervido ingegno sollevarsi a volo, Fino a toccar bella e onorata meta Nella ratta dell' estro ora inquïeta? Carme non v' è che sia d' udirsi degno, Dici, se veglie pria non costi e stenti. Deh! a che ti trasse un mal concetto sdegno Come a te stesso, e al creder tuo tu menti!… Italo tu, dell' italiano ingegno Puoi sconoscer le forze onnipossenti?… Che non si può nel suol dove prodotti Fur Galielo, Colombo, e Buonarrotti? Certo, a colui che all' incompreso ardore Si abbandona del carme non pensato, Chieder non puoi del ghibellin cantore L' alto poema, o quello di Torquato. Ma s' ei cantando ti ricerca il core, Se di fede, di onor, d' intemerato Zelo di patria i sensi in te ravviva, Dimmi, di gloria la sua meta è priva? C' invidian gli stranier si peregrina Dote, e nel fango tu gittar la vuoi? E scendi a dubitar se la divina Fiamma sussista, e se si alberghi in noi? Ah! dell' aure, dei fior, della marina, Del sol che qui più belli ha i raggi suoi, Delle nostre memorie il sacro incanto Niega, se nieghi l' improvviso canto!… V' è (chi nol sa?) l' ingannator, procace Stuol che illude, e mentisce estro e fatica; E quel che inutil grida, e stolto, e audace, Lo studio e l' arte a chi ha la Musa amica; A costor ben si addice il tuo mordace Ghigno, e la bile che il tuo dir nutrica: Ma, perchè inetti son molti, o bugiardi, Tutti proscriver tu vorresti i bardi?… Ah non voler, no, disfrondar quest' una Foglia dal serto ancor dei nostri allori! Troppe già il turbo di crudel fortuna Strapponne, e inaridì ne' suoi furori. Se vergognar vuoi di stoltezza alcuna, Delle laudi vergogna, e dei tesori Profusi al volteggiar d' una carola, O al dolce trillo di venduta gola!

Lecce, il giorno 25 Dicembre dell' anno 1854.

O sorga l' alba rosea Dal mar con lieta fronte, O schiari l' astro argenteo Il limpido orizonte, Sempre una cara immagine Di Sanzio nel pensier Sta in cima, e norma ed arbitra Fassi del suo voler. Eccolo; a sonno placido Chiuse poc' anzi gli occhi; Abbandonato pendegli Un braccio sui ginocchi; Dell' altro al vago e nobile Fronte si fa puntel, Ai piedi suoi rimirasi L' avvivator pennel Tele e alberelli ingombrano La taciturna stanza; Vedi incompiuta effigìe Di angelica sembianza…. Oh non stupire! all' italo Genio tributa onor; Basta un sol figlio a cingergli Dell' arti il sacro allôr. Oh ve'! una fiamma súbita Tinge al dormente il viso, I labbri suoi dischiudonsi Ad un gentil sorriso…. Sogna…. un sospiro fervido Dal petto gli fuggì…. Qual nome suavissimo, Sognando, proferì? È lei che invoca, è l' angelo Bello di etereo lume, Che di terrena vergine Per lui le forme assume; È lei, che nell' estatica Ansia del suo pensier Sogna, e sognando sembragli Innanzi a sè veder. Lieve, qual soffio placido Di auretta mattutina, Ecco che a lui si approssima La vaga Fornarina; E con accento tenero Sembra così parlar: « Volto del mio più amabile Sapresti immaginar? Pingimi; Iddìo creavami Solo per te sì bella; Dei sogni tuoi l' immagine, Dì tua gloria la stella Son io; son io, ravvisami, Che, nel leggiadro vel, T' offro del bello archetipo L' idea rapita al ciel. Pingimi; e il mondo, attonito Alle tue tele innante, Nell' arte tua mirabile Ti appellerà gigante; Pingimi, e niun tra glí emuli Di questa o d' altra età, La fama tua raggiungere, O mio pittor, potrà. » Disse e una vaga aureola Di luce la ricinse; Ma come lampo, rapido Poi quel fulgor si estinse. Tende ei le braccia, sgombrasi Dai sensi il sonno allor; Ei sorge, e acceso sentesi Di sovrumano ardor. Stringe il pennello, e rendere Cerca quel vago aspetto; Ma non è foco sterile Quello che gli arde il petto; Chè tra i frequenti báttiti Del suo commosso cor, Misto dell' arte è il palpito Ai palpiti d' amor. Chè amor di gloria è stimolo Sempre a bennato ingegno; Di poca fiamma accendesi Chi poltre in ozio indegno. Ma a Raffaello un lauro Novo sul crin posò La idolatrata vergine Che i sonni suoi beò

Aci Reale, il giorno 10 Marzo dell' anno 1856

Söavemente leggera e ombrosa, Sul mar, sui campi, dal vasto ciel, Stende la sera armonïosa L' immensurato trapunto vel. E pel sereno dell' aere oscilla Mesta, qual d' esule mesto pensier, La benedetta devota squilla Che all' Ave invita il passegger. A quel pio suono, che tristi e cari Sensi risveglia in ogni cor, Si prostran gli Orfani ai sacri altari Nella memoria dei genitor. Sulle gentili labbra rosate Non brilla il riso dei lieti di; Ambo le palme al ciel levate, Sciolgon l' unanime prece così: « Signor, ci dissero che a noi meschini Soli nel mondo, cresciuti al duol, Tu più benigno l' orecchio inchini Dal tron cui forma sgabello il sol; E che, quantunque siam poverelli, Nudriti solo per carità, A te dinanzi siam ricchi e belli, Più di chi in aurei palagi sta. La dolce madre, il genitore A te, morendo, ne accomandâr; Noi non abbiamo che te, o Signore, Poichè quei cari ne abbandonàr! Deh! nell' eterna luce ricetto Pe' nostri prieghi accorda a lor! Su chi ne accoglie in questo tetto Delle tue grazie spandi il tesor. Tu fa che docili e pazïenti Cresciamo all' ombra di questo altar; Gran Dio, siam fragili canne, dei venti Esposte all' impeto e al furïar! Disser che mille rischi e perigli Di questa vita son pel cammin; Signor, ricorda che siam tuoi figli Tu campa gli Orfani da reo destin! Se noi la patria di asil provvede, Se ai sensi educane di fè, di onor, Tu fa che adulti, s' uopo il richiede, Versiam per essa il sangue ancor! E Tu che i pargoli ami pur tanto, E in grembo avesti un Dio bambin. Tu ne raccogli sotto il tuo manto, Maria, che d' astri hai cinto il crin. Noi siam diserti, siam poverelli, Ma nostra speme riposa in Te; A tutti i miseri, e agli Orfanelli Il tuo figliuolo madre ti fe'. » Dissero, e come l' odor dei fiori Al ciel s' innalza sul far del dì, Tal di quei vergini fanciullì cuori L' ingenua prece a Dio salì.

Aci Reale, il giorno 10 Marzo dell' anno 1853.

O Torquato, la mente che spesso Dolorando rimembra i tuoi fati, Ed impreca ai mortali spietati Che il divino tuo petto attristâr, Mi trasporta a quel dì che compiuti In feroce martirio sett' anni, A te stanco, sfinito d' affanni, Di Sant' Anna la carcer si aprì. Qual ti veggo, scarnato, pallente! A ogni passo il tuo piede vacilla; Fin l' azzurra spaziosa pupilla Par non regga del sole al fulgor. No, così, no così tu non eri, Quando al suon di tue rime celesti Ammirata una Corte vedesti Tributarti lusinghe e favor. E tra il suono dei plausi frequenti Di Leonora sul pallido viso Sorprendevì un fugace sorriso, Che tradiva il segreto del cor. Lëonora! la forma divina Che del vate ispirava la mente, Che in gentil visïone sovente Confortava il settenne suo duol; Ella origin per lui di sventura, Sventurata per esso non meno, Muta or dorme dell' urna nel seno, E al suo Tasso sorrider non può! Come quei ch' esser visto paventi, Della notte nell' ora più nera, Trasse al marmo ove scese anzi sera La gentile ch' ei tanto adorò. Là prostrato, e siccome diviso Con lo spirto da tutti i viventi, Tra il silenzio dell' urne squallenti Queste voci dal petto mandò: « Tu, che amata già fosti nel mondo Come in cielo può amarsi soltanto, Che piangevi pietosa al mie pianto, Comprendendo qual fosse il mio cor; Tu, che oppressa chinavi la fronte Sotto il peso del regio tuo stato, E l' amor del fedele Torquato Preferivi dei prenci all' amor; Tu qui posi! e a colui che rendevi Ad un tempo beato e infelice, Di onorar tua memoria non lice Con quel carme che Italia onorò! Eri tu di mia mente la luce, Tu la stella cui sempre mirai; Te in Sofronia dipinsi e cantai Con quel verso che mai non morrà!… Or che farmi del tardo trionfo Che mi appresta la splendida Roma? Se un alloro bramai sulla chioma, Fu per farmi più degno di te. Tu sei spenta! e con te si spegneva D' ogni gloria terrena il disio. Teco oh! tosto, bell' angelo mio, Or mi appella alla pace del ciel. Teco io venga ove ai crudi tiranni, Che d' Italia governan le sorti, È vietato dell' alme consorti I legami innocenti spezzar. Là, dall' ire d' Alfonso securi, Ci amerem nell' eterno sorriso, E sui danni dell' italo eliso Pregheremo pietoso il Signor. »

Aci Reale, il giorno 10 Marzo dell' anno 1853.

Bello, sublime, d' immortal memoria Porgeste ai pronti versi miei subbietto, Di poema dignissimo e di storia, Non dí fugace povero concetto; Pur, così forte ogni italiana gloria Mi agita e scuote ad alti sensi il petto, Che far mi sento a me stessa maggiore, E sciolgo il carme come detta il core. Tra il delirar della trascorsa etade Giacea l' Italia de' suoi servi serva; Tra il cozzo alterno di straniere spade, Altra peste il destin crudo le serva. I regni del pensier libero invade Tosco che di ogni suo vigor lo snerva; Straniere usanze, e modi, e vesti, e detti, Gl' itali cuori ebber stranieri affetti. Sulle dipinte scene favolose Molli accenti sciogliean molli cantori; E degli antíchi eroi l' alme famose Si pingevan delire in folli amori. Grecia rejetta e i dommi suoi; sdegnose Poche voci si alzâr tra i vili errori, Quando di Alfier la Musa onnipossente Sorse di bile e patrio affetto ardente. Qual astro alzossi luminoso e solo, Ben d' altra etade e d' altro suolo degno; Non versò pianto di vergogna e duolo, Ma di Alighieri fece suo lo sdegno. Calzò il coturno, e nell' ellenio suolo Si spinse a vol dell' ispirato ingegno; E di Sofocle, e di Eschilo gli alteri, Fremendo, interrogò spirti severi. Quei dall' avello, ove dormian, riscossi, Surser di fosca luce incoronati, E poi che gli occhi eber d' intorno mossi, Li reclinaro al suol mesti e turbati; Poscia col gesto a lui che umil chinossi, Il plettro ed il pugnale insanguinati Mostràr dicendo: « Dopo secol tanto Tu di trattarli sei degno soltanto! » E Agamennòne, e il matricida Oreste, Itali accenti in maschio stil parlaro; E invidia quasi la novella veste Fece all' antica, ed ei sen glorïaro. Di Filippo le cupe ire funeste, E di Garzia l' ingiusto fine amaro Poi sceneggiando, fu sì vero e fosco, Che scolpiti apparîr l' Ispano e il Tosco. L' itala libertà ch' íva spirando Poi dei Pazzi pingea nella congiura; Ma a nuovo si librò volo ammirando Per regïon più spazïosa e pura, Quando le sacre pagine scrutando Della verace ed immortal Scrittura, D' un re invasato, a Dio ribelle ed empio, Cantò le furie e il provocato scempio. Oh! cotant' alto e luminoso seggio Ti meritò quel sovrumano canto, Che tra gli emuli tuoi nessuno io veggio Degno d' aver suo loco a te d' accanto; Indarno ad essi il dir robusto io chieggio, E i forti sensi, e l' ira, per cui tanto Sovraneggi ogni petto; ahi! solo resti Nell' arduo aringo che primier schiudesti! Deh! se la prece di un' umíl donzella, Che basso ha il carme, ma non basso il core, Eco far può alla nobile favella Di un di te degno altissimo cantore, Provvedi tu, che in questa patria bella Nuovo serpeggi artistico vigore; E, te seguendo, italïana e sola Fra noi trionfi la verace scola.

Aci Reale, il giorno 10 Marzo dell' anno 1853.

Oh farfalletta, vaga, gentile, Che ai rai fulgenti del novo sol, Quando più gajo sorride aprile, L' ali dipinte dispieghi al vol; Dimmi, ove tendi? perchè leggiera Passi dall' uno all' altro fior, Nè tra i più belli della riviera Un fior per nido scegliesti ancor? Vedi l' anemone, l' immacolato Giglio, la rosa, il gelsomin; Ciascuno un talamo t' offre odorato, Perchè dal volo non posi alfin? Ma tu non m' odi, e irrequïeta, Come di zeffiro molle sospir, Voli cercando ascosa meta Di cui ti stringe ansio desir. Deh almen del florido natío boschetto Incauta troppo non ti scostar; In cittadino splendido tetto Deh! no, infelice, non penetrar! Chè, là, di un vago notturno lume Innamorata allo splendor, Incenerite ne avrai le piume, Troppo appressandoti al suo fulgor. — Oh farfalletta, cosi sovente A te, bambina, rivolsi il dir; E sul tuo fato una innocente Pietosa stilla diedi, e un sospir. Ma in quella dolce età primiera, Scevra di folli cure e dolor, Dell' alma nostra la immagin vera In te conoscere non seppi ancor. Ma tosto, al vario confuso affetto Che venne a scuotermi il vergin sen; All' ansia indomita dell' intelleto, Ch' errava libero, schivo di fren; Al desiderio dell' infinito, Cui dato attingere all' uom non è; Al disinganno, che scolorito Fece il fantasma diletto a me; Conobbi come di te non meno Audace e improvvida, nata a soffrir, L' alma che ferve in questo seno A te somiglia ne' suoi desir. Forse, o farfalla, la nostra sorte Non solo in vita pari sarà; Ma alla tua simile anco la morte Folle ardimento a me darà. Chè, se di un lume ti attira il raggio, E me de' canti arde l' amor; É pari il rischio; ma dal coraggio Nell' affrontarlo io spero onor.

Aci Reale, il giorno 31 Marzo dell' anno 1853.

E te, sublime, smisurato ingegno, Novo d' Italia mia decoro e vanto, Te il verso mio, di tanta gloria indegno, Invocherà tra desiderio e pianto. Deh! ch' oggi almen tocchi onorato segno, Per te, signor del desolato canto; Vagliami il lungo studio, ond' ho costume Vegliar le notti sopra il tuo volume. E tu nascesti a far più certa fede Che dei sommi retaggio è la sventura; E Dio si eccelsa e schiva alma ti diede, Che non toccò della mortal sozzura. Chi la cagion del duolo arcano chiede, Che contristò la tua gentil natura, Non sa che solo a chi il creò potea Svelarsi il cor che nel tuo petto ardea. Fosco degli anni tuoi sorse il mattino, D' un di più fosco ancor tristo foriero; Dotto del greco e del saper latino, Eri al tuo proprio secolo straniero. Struggea tue membra gracili il divino Foco dell' alto creator pensiero; E insiem con Bruto, nel dolor profondo, Virtù, sclamavi, è nome vano al mondo! Ma crederò che tu, tu stesso, esempio Di celesti virtù, di patrio amore, Dal cor mandassi il grido infausto ed empio Che l' ateo parla, ma non sente in core? No! della luce della mente è scempio Chi 'l disse pria, chi confermò l' errore, Uom che sugli altri al par di te s' ergea, Sublimemente in Dio creder dovea! E tu credevi; ma diserta e muta Era agli sguardi tuoi la terra intera; E pareati tra gente sconosciuta Trarre i dì, lungi dalla patria vera; Chè in questa grama d' ogni onor scaduta, Nei figli scemi di virtù guerriera, Non ravvisavi più l' augusta donna, E i forti eroi che le facean colonna. Però funereo, disperato il verso Dall' imo fondo del tuo petto uscia; Ma quando lieve, a te nel duolo immerso, Una angelica forma ne venía, Azzurri gli occhi come il ciel più terso, Mesta il volto, la voce un' armonia, E dolcemente a te posava accanto, E col bel vel ti rasciugava il pianto; La tua canzon suave e raddolcita Parea la sospirosa aura d' aprile; E confortavi l' anima smarrita In quella cara visïon gentile. E benchè indarno alla terrena vita Donna chiedessi a quella pia simíle, Pago, sclamasti in quella idea consorte: « Due cose belle ha il mondo, amore e morte. » E morte alfin, quasi pietosa amica, Gli occhi ti chiuse alla perpetua pace, Là nella valle dilettosa e aprica, Che dell' igneo Vesevo al piè si giace. Ma sul colle gentil, dove l' antica Fronda verdeggia che più onora e piace, Di Virgilio sull' urna, a Sannazzaro Riposi accanto, nè di quei men chiaro. Ed io sovente al tramontar del sole Sulla incantata collinetta ascesi, Ed un serto di pallide viole Divotamente ai freddi marmi appesi. Deh! il tributo di povere parole, Ch' oggi a te, o grande, a piè dell' Etna io resi, Accogli, é un raggio di tua luce manda Su questo suolo, cui fa il mar ghirlanda.

Aci Reale, il giorno 31 Marzo dell' anno 1853.

1 Villagio alle falde dell' Etna. Oh vezzosa, che in fertile piano Ombreggiato dall' Etna gigante, Stai qual rosa che vaga e fragrante Sovraneggia in ben colto giardin; Tu, cui nome diè il limpido fiume In cui fu per pietate converso Quel pastor, che il Ciclope perverso Nel geloso suo sdegno schiacciò; Aci, e vuoi ch' io ridica gli affetti Onde scosso ebbi il fervido seno, Là di Ballo sull' arso terreno Alle falde dell' Etna feral? Ah! non già nelle povere rime Che son parto di subito ardore, Ma nel verso che tuona e non muore Or vorrei le tue brame appagar. Non le vaghe incantate regioni D' oliveti e di aranci gremite, Non i colli ove folta la vite Impromette di Bacco i tesor; Non le vaghe campestri magioni, Nè gli spessi villaggi ridenti, Ma di lave nericce squallenti Un deserto i miei sguardi attirò! Stupefatta alla vista tremenda, Stetti immota qual pietra gelata, Chè da troppi pensieri agitata, Niun ne seppi in quel punto esternar. Ahi che duol, che ineffabil ruina Dall' aperta voragine emerse! Di che manto funereo coperse I bei luoghi sorrisi dal ciel! Quanta speme distrutta in un punto! Quanti, ahimè, per l' orrendo flagello Erran privi di pane e d' ostello, La fraterna invocando pietà! Oh vegliardo dell' Etna! scolpito Qui nel cor m' è rimaso il tuo aspetto: « Mira, è quello, dicesti, il mio tetto, Circondollo il torrente feral! Del Signore la provvida mano Mi fe' ricco, or mi volle mendico: Io devoto al Signor benedico; Come nacqui, ora ignudo morrò. » Oh vegliardo dell' Etna, tu forte Non piangevi, io per te lacrimai; Ma lo sguardo atterrito levai Quella vetta tremenda a mirar. Era cinta di squallide nubi, E tra' ghiacci, onde brulla apparía, Negro fumo vêr l' etra salía Interrotto da spessi balen. Sotto i piè mi tremavan le spente Lave, e in suono di cupo lamento S' udía il fischio lontano del vento Nelle inospiti selve infuriar. Sommo Iddio, questa terra infelice De' tuoi sdegni è l' obbietto! sclamai; Ma lo sguardo in quel punto avvallai, Ed un Eden d' amor mi si offrì. Oh Sicilia, oh sirena dei mari! Co tuoi fasti, con l' alte tue glorie, Con le cento tue sacre memorie, Con le altere vetuste città; Tutta ai piè mi ti vidi distesa, E un fraterno saluto ti volsi; Sui tuoi mali, sommessa, mi dolsi, T' implorai miglior fato dal ciel! Spera! eterna dell' Etna è la fiamma, Benchè ognor non si versi sui campi; Ne' tuoi figli, benchè non divampi, Vive ancora l' antica virtù.

Aci Reale, il giorno 31 Marzo dell' anno 1853.

Nella valle del mísera esiglio, Contristato di cure e di pianto, Ho due beni, la prece ed il canto, Con che sfido l' avverso destin. Ho due beni che l' invido sdegno Degli umani a rapirmi non vale; Due tesori che l' alma immortale Arricchiscon di gaudio divin. Solo in loro dell' umil mia vita È rinchiuso ogni affetto e pensiero: Canto, e prego; la luce del vero Invocando alla mente ed al cor. Debbo l' uno alla donna amorosa Che a quest' aure vitali mi diede, Che col latte i principii di Fede Immutati nel cor m' istillò. Ed all' alba, e al tramonto, prostrata Presso l' umil romita mia culla, I pensier della ingenua fanciulla Alla prima Cagione innalzò. L' altro è dono superno di Dio, Dato a pochi nell' italo suolo, Fonte arcana di nobile duolo, D' ignorati celesti piacer. L' ebbi insieme alla prima scintilla Di ragion che irradiommi la mente; Con la prima preghiera innocente Si confuse il mio canto primier. Fosca nube alcun tempo mi ascose Del mio genio la stella romita; E fu grama, angosciata la vita Per me rósa da un ansio desir. Ma la prece, oh! la fervida prece Nel dolor non omisi giammai; E cotanto un di piansì e pregai, Che il Signor quella nube sgombrò. Or, s' io canto, il mio canto è preghiera Che s' innalza all' Eterno Fattore, Col concento di grazie e d' amore Che il creato tributagli ognor. Canto e prego coi vispi augelletti Che salutan l' aurora nascente, Canto e prego col bronzo dolente Che rimpiange il tramonto del sol. Ed allor che sul mondo le stelle Versan luce sì tremola e pia, Come un' eco all' eterna armonia La mia prece prorompe dal cor. Oh potessi quell' estasi arcana Prolungar sino all' ultimo giorno! Oh potessi non far più ritorno Alla terra dai gaudii del ciel! Mi cogliesse invocata la morte, Per tuo cenno, benefico Iddio, Mentre implora pel suolo natio Il mio verso favore e mercè! Tu fa almen che la casta sorgente, D' onde muove, nel carme trapeli; Ogni nota un affetto riveli, Di Te degno, d' Italia, e di me. Ed allor che al Tuo cenno supremo Fia ch' io lasci il mio fragile ammanto, Negli accordi di un ultimo canto La mia prece sollevisi a Te.

Lecce, il giorno 12 Gennajo dell' anno 1855.

Estro de' carmi, or guidami Alla vetusta Roma, A lei che di pacifico Serto si ornò la chioma, Poi che il superbo imperio Dell' orbe le sfuggi, E sul suo crine il bellico Alloro inaridi. Oh come mai mutaronsi L' opre, i desir, le pene! Roma potente e barbara Prostrò la colta Atene; Roma civile, e vedova D' onor che il brando dà, Dell arti estinte in Grecia Sua sola gloria or fa. Nato nel grembo florido Della città gentile Che al Ghibellin magnanimo Diè cuna, ed estro, e bile, Calda la mente e l' anima Di patrio eccelso amor, Cinge il gran manto un inclito Dell' arti protettor. Egli è Leon, quel Decimo Ed immortal Leone Che al suo famoso secolo Il suo gran nome impone; Quei che la man benefica Stende, che il ciel può aprir, Pennel, scalpello, e cetera E sesta a benedir. Oh! la virtude italica, A tal novo conato, Viva, improvvisa, indomita Si desta in ogni lato, Come da secchi cespiti, Di un' aura allo spirar, Fiamma gigante mirasi A un tratto divampar. Oh qual di sommi artefici Stuol glorïoso e bello, Cui guida è Michelangelo, Lionardo e Raffaello, Fan serto intorno al soglio Del successor di Pier, Che Religion fa auspice Dell' italo pensier! Oh Vaticano! Oh reggia Due volte eccelsa e santa! Oh quanti e quai miracoli In te la terra vanta! Del Campidoglio i memori Fasti e i cruenti allôr Oblio, se di tua gloria Mi affiso allo splendor. Gli arredi tuoi, le fulgide Istorïate sale, I marmi che mentiscono Quasi moto vitale, Dell' arti son miracoli Accumulati in te, Dell' arti a cui precipuo Sprone Leon si fe'. Oh! de' celesti numeri, Dei dotti aurei sermoni Che il Bembo, il Tasso, l' inclito Guarini, e il Castiglioni, E Pico da Mirandola, E Bembo, e Fracastor, E Tolomei qui sciolsero; L' eco risuona ancor! E l' Arïosto, l' aquila Che avanza ogni altra al volo, Anch' ei miro procedere Tra 'l glorïoso stuolo; E ognun del Grande encomia La patria carità Che la cristiana reggia Tempio dell' arti fa. Oh benedetto l' angelo Di Urbin, che il maestoso Volto eternò del Decimo Leone generoso! Quest' opra sola fossegli Piaciuto a noi lasciar, Grazie immortali i posteri Dovriangli tributar! Chè nel mirarla ogni Italo Scuoter si sente il core: Dell' arte nel prodigio Sogna una età migliore, E di Leon lo spirito, Ch' ivi trasfuso appar, Invoca, della patria Il vanto a rinnovar.

Lecce, il giorno 12 Gennaio dell' anno 1855.

Chi fia quell' uom, che sulle sacre carte, Che in suo saper dettò lo stesso Iddio, Tutto raccolto medita in disparte, E il mondo par che posto abbia in oblio? Ecco, egli sorge; ha chiome incolte e sparte, Gli occhi raggianti d' immortal disio; Or ratto muove, ora sofferma il passo, Figgendo il guardo sovra informe sasso. È Buonarroti: ah! tal nome soltanto Scuote a sensi di onor gl' itali petti; Io sempre che di lui ragiono o canto, Sorgo di me maggior ne' miei concetti; E benchè indarno l' immortal suo vanto Cerchi adeguar negl' improvvisi detti, Pur non indegna di mostrarmi anelo Di questa patria cui donollo il cielo! Dove, oh! dove repente or lo trascina Del forte immaginar l' arcana possa?… Non è la vetta dell' eccelso Sina Quella che cinta appar da nube rossa?… Dell' arcana al tuonar voce divina Trema la terra dai cardini scossa; Si avvallan le colline riverenti, Guizzan gli accesi in ciel folgori ardenti. Proni i Cherúbi ai rilucenti volti Si fan velo dei vanni dispiegati, Mentre dal dito del Signor son scôlti Gl' infrangibili dommi venerati; Di luce splendidissima ravvolti, Eterni, come Quei che li ha segnati, Mosè base faranne alla futura Civiltà che ne' tempi si matura. Ei li riceve; e una gran parte in faccia Della Divina maestà serbando, Dalla vetta del monte ecco si affaccia, Severo il guardo di lassù avvallando. Oh di qual lampo d' ira e di minaccia Sfavilla in volto, il popolo mirando Che a lui spergiuro, il vero Dio scordato, Offre incensi ad un idolo insensato! Ansio, anelante Buonarroti il mira E il possente scalpel si reca in mano. È il Nume di Mosè quel che lo inspira, Ei degl' ingegni animator sovrano. Già quel marmo per lui palpita e spira, Già forme assume e aspetto sovrumano, Già nello sguardo minaccioso e fero D' Israel si ravvisa il Condottiero. L' opra conpiuta: è desso, è desso ei grida; Così lo vidi scendere dal monte; La stessa maestade in lui si annida, È quello il doppio raggio di sua fronte. Così comparve alla sua gente infida Ch' ebbe il Nume a oblïar voglie sì pronte; Con quello sguardo ai tracotanti in core Il rimorso trasfuse ed il terrore! Or parla dunque!… E in cosi dir scagliava Sull' alta immago il suo martel pesante; Chè da entusiasmo anch' ei scosso pensava Foss' ella invero aura vital spirante. Lieve scheggia dal marmo si staccava, Ed ei fessi di foco nel sembiante; E di quel colpo ancora il segno resta Che dell' arte il prodigio al mondo attesta. Salve, o più che mortal e angel divino, Salve, sublime smisurato ingegno; Basti tu solo all' italo giardino Perchè dell' arti sia chiamato il regno. Deh! s' altro vanto a noi vieta il destino, Se d' altra gloria n' è conteso il segno, Questa, almen questa, invïolata e pura Per noi si serbi ai dì della sventura!

Lecce, il giorno 12 Gennaio dell' anno 1855.

Ah! vorrei l' immortale pennello Che famoso rendea Tintoretto; Vorrei pinger sul funebre letto La figliuola del sommo pittor. Vorrei pingervi ei stesso, allorquando Delle faci funeree al chiarore, La contempla nel cupo dolore Che parole, che pianto non ha. Cinta ancor della candida vesta Che indossava nel di che fu sposa, Bianca, fredda, la faccia vezzosa Che l' ingegno animava e l' amor, Come in placido sonno raccolta, Tra le mani serrando la croce, Par che aspetti a destarsi la voce Cui dagli anni primieri obbedì. Tal la mira; ed illuso un istante A baciarla egli curvasi anelo, Ma al toccar quella fronte di gelo Balza indietro ricolmo di orror…. Ahi! ben tosto da mano crudele Fia dagli occhi paterni sottratta, Quella cara sembianza disfatta Della tomba nel gelo sarà! Ed ei ch' ebbe a eternare di tanti Le fattezze col divo pennello, Soffrirà che distrugga l' avello Di sua figlia la cara beltà?!.. Ah! nol puote!… a una nitida tela Ei distende la destra tremante; Dell' angelico immoto sembiante Gli stupendi contorni segnò. Quello è il fronte, è ben quello il suo crine, L' atteggiar della vaga persona; Odi, quasi l' accento sprigiona Dalla bocca dischiusa al sospir. Ma quegli occhi!… Ahi quegli occhi velati Più l' antico linguaggio non hanno; Mentre addoppian del padre l' affanno, Più non posson l' artista ispirar! Ve' ch' ei sosta, il pennello abbandona, Il riprende, alfin lungi lo scaglia; Quale, oh quale tremenda battaglia Di quel misero rugge nel cor! L' ideal de' suoi vaghi dipinti, Di sua gloria la erede e seguace, L' angel suo di speranza e di pace, Il sostegno de' tardi suoi dì; Tutto ell' era per esso, e perduto Seco ha tutto che al mondo il legava; Ahi! la morte che a lui la strappava Perchè seco colpito non l' ha?… Al blasfema esecrando la bocca Quasi schiude insensato e feroce…. Ma la figlia mirando, e la croce Che, morendo, si strinse sul cor, Cade al suol genuflesso, e prorompe: Deh perdona a un demente, o Signore! Tu mi désti quest' angel di amore, Tu mel togli e il riponi nel ciel! Io mi acqueto al giudizio tremendo Che i miei falli quaggiuso han mertato…. Ma quel volto, oh quel volto adorato Dammi forza, o Signore, a ritrar! Fra i portenti che ammira l' estrano In quest' itale piagge leggiadre, Fia portento l' immago che un padre Della estinta sua figlia compì. E a colei che a te presso or si allieta, Più felice parrà la sua sorte, Se pel duol che mi costa sua morte Può di un vanto la patria arricchir.

Brindisi, il giorno 25 Gennaio dell' anno 1855.

Santa virtù, benefica Diva, che in questo esiglio Splendi, qual faro al naufrago, De' dolorosi al ciglio, Dote primiera e gaudio Dell' alme accette al Ciel; Fiducia in Dio! deh! ispirami Oggi l' ingenuo canto, Che, da te mosso, adornasi Sol del tuo casto vanto, Quasi pudica vergine Del suo modesto vel. Come le stille eteree Dell' alba rugiadosa Avvivan sovra il tremulo Stelo languente rosa, Così i tuoi detti avvivano La speme in ogni cor. Nè possa v' ha che l' unica Possanza mai pareggi Onde un eletto spirito Ad ardue imprese reggi; Chè il braccio suo fortissimo Iddio ti presta ognor. Fiducia in Dio!… potrebbero Per te spostarsi i monti, Potrian retrorso correre I fiumi invêr le fonti, E il foco e l' onda gelida Unirsi in amistà. Fiducia in Dio!… pel popolo Ebreo che mai non festi?… Dell' Eritreo tra i vortici Il passo gli schiudesti, Lungo il deserto inospite Lo difendesti ognor. Per te rifulse immobile Il sole in occidente Fin che la sua vittoria Compì l' eletta gente, E del trïonfo il cantico Giuliva sollevò. Ma perchè appresso al gelido Sasso che l' onda diede, Per un istante il dubbio Macchiò sua lunga fede, Nel suol promesso e fertile Non incedea Mosè! Ma nel narrar prodigii Forse esaltarti io spero?… Nel mar delle tue glorie Si perde il mio pensiero, Come lo sguardo perdesi Le stelle in noverar. Oh stolto, oh vile, oh misero Chi non ti alberga in core! A qual sostegno reggesi Ne' giorni del dolore? Ove a' frementi turbini Rifugio cercherà? Mali vi son cui molcere Non può conforto umano; Mali a cui sola un balsamo Tu appresti, e ogni altro è vano; E senza te dividerne Dovrianci a brani il cor! Deh! che non mai l' amabile Tuo raggio a noi si asconda; Ne cingerebbe, ahi! miseri, Notte infernal profonda, E il dubbio orrendo báratro Ne schiuderebbe al piè. Favella a noi nell' iride Che siegue la tempesta; Nel sol che l' atre tenebre Fuga e il creato desta; Nel fior che, sciolte l' orride Brume, si schiude al di. Reggine tu fra i triboli Del cammin breve e rio: Dinne che, se terribile, Misericorde è Iddio, Che a lungo, no, percuoterne Nell' ira sua non può. E noi dal suon dolcissimo De' tuoi divini accenti Apprenderem quel gaudio Che dolci fa i tormenti, E all' ineffabil premio Tratti sarem per te!

Brindisi, il giorno 25 Gennaio dell' anno 1855.

E a te fu patria il riso tutto quanto Delle dilette al sol greche contrade, Ma qui ricetto, qui favella e vanto Avesti, cui tempo o livor non rade. Di Pindaro e Tirteo l' anima e il canto Ereditavi in tralignante etade; Ma fu italico il cor che in sen t' ardea, E dal sommo Alighier l' ira attingea. E le due terre il fato anco accomuna Nella sventura qual già fûr nel regno! Grecia e Italia, ahi! ludibrio di fortuna, D' invidia furo, or di pietà son segno. Questa il carme ti diè, quella la cuna, Ad ambe hai sacro il cor, la man, l' ingegno; E di lor pensi, e sopra lor sospiri, Quando là fra' sepolcri ansio ti aggiri. Oh! dai sepolcri squallidi rejetti, Dai sguardi lunge e di onoranza privi, Dove confusi stan de' forti i petti Co' petti di color che mai fur vivi, Dove non suono di amorosi detti, Pianto non è che un umil fiore avvivi, Oh qual mai fonte di severa e bella Itala traggi pöesia novella! « Dal di che nozze, e tribunali, ed are Diero alle umane belve esser pietose, » I morti avanzi delle spoglie care Tenuti fûr sì come sante cose; Di sculti marmi e d' ombre amene e rare L' ultimo asilo ad essi si compose, E fu sacro, temuto il giuramento Sul funereo degli avi monumento. Allor, tornando da lontana guerra, Ivi appendea le vinte spoglie il prode; E agitarsi le amate ossa sotterra Udiva, e detti mormorar di lode; Ivi all' amor della materna terra, Alla virtù del patrio ben custode Educavansi i figli, ed are a quelli E testimoni a' fasti eran gli avelli. Ahi! con l' onor che venne meno all' urna, Mancò la virtù prisea e l' ardìmento; Ora esposte alla fredda aura notturna Bagna l' ossa la pioggia e muove il vento. Sol la romita luna taciturna Piange su lor dal suo trono d' argento, Mentre con vol silenzïoso e tetro Metton le strigi luttuoso metro. Ma dal triste oblïato cimitero Dove trasvoli, o portentoso ingegno?… O Fiorenza! tu sola al suo pensiero Sorridi, e allevii il suo nobil disdegno; Di Santa Croce tu nel tempio altero Gl' Itali accogli a eterne laudi segno; Colà Vittorio, a' patrii numi irato, Il severo attingea carme ispirato. E là, fortuna in questo almen seconda, Abita eterno al Machiavello appresso. Ma questi che accrescea di un' altra fronda L' unico serto che ti è ancor concesso, Questi ramingo andrà di sponda in sponda Da fortunosi acerbi casi oppresso; E veglio, stanco, sul Tamigi, indarno Le belle invocherà piagge dell' Arno. E indarno, ultima speme, ultimo voto, Implorerà che sia composto in pace Nel tempio ove solea da ognun remoto Dell' ingegno avvivar la sacra face. Ei tra' Britanni dorme; e, se devoto Un Italo si accosta ov' egli giace, Fremon quell' ossa, e par dolgansi ancora Di quella che sortîr strania dimora.

Brindisi, il giorno 27 Gennaio dell' anno 1855.

Ahi! come è duro il chiudere Al sonno eterno il ciglio Lontano dalla patria In doloroso esiglio!. Come è tremendo all' ultima Ora bramare invan, Che terga il sudor gelido Di morte, amica man! L' esilio! Oh! quale iliade Di angosce e di tormenti È per color che a nobili Pensier nudrîr le menti! Ah! sol per quei che ontarono L' onor del proprio suol, Dovrian le fonti schiudersi Di cosi acerbo duol! Fiorenza! il vel dei secoli Che vi trascorser sopra, Non fia che la memoria Del fallo tuo ricopra. Eterna, come il cantico Che Dante tuo vergò, Fia l' onta della patria Che un figlio tal scaccio. Pur Ei ti amava, e il fervido Onnipossente ingegno A te sacrò nel vindice Bollor di santo sdegno, Mentre mendíco e profugo Giva accattando un pan, Ch' egli bagnò di lagrime Dai cari suoi lontan! Or che agonizza, misero! Sotto straniero tetto, Siccome in speglio immagini, Su quel consunto aspetto Due forti affetti pingonsi Che l' agitâro ognor: La carità di patria, Il suo primiero amor! Come facella languida Cui manchi l' alimento, Lo sguardo suo sì vivido Or quasi sembra spento; Pur si riaccende e si anima Quel guardo in un balen, Come chiaror di lampada Anzi che venga men. Quale pensier nell' animo Del moribondo sorse? E quale oggetto l' avido Suo sguardo errante scôrse? Ei si solleva, i cubiti Punta sull' origlier, E sovra i labbri pallidi Erra un sorriso altier. È il libro in cui trasfusesi Tutto il suo nobil sdegno Contro color che Italia Fean di sciagura segno; È il libro in cui dipingere Seppe con stil novel Quanto di orrendo ha il Tartaro, Quanto di bello ha il Ciel. — Che altro fruttârvi, o perfidi Persecutori miei, Le trame ond' io fatto esule Ogni mio ben perdei, Fuor che l' immensa infamia Che il carme mio vi dà, Quel carme in cui perpetua La gloria mia starà? E tu, madrigna rabida Del figlio tuo più amante, Fiorenza! a te ogni ingiuria Perdono in questo istante. Possan del pari i posteri Amarti, ed oblïar Qual m' ebbi ingiusto premio All' alto mio pensar. E se sdegnasti accogliere Me, vivo, fra tue mura, Morto, mi avrò fra stranie Genti la sepoltura; E pentimento inutile Avrai tu udendo un di: Dante non ebbe il tumulo Dove il natal sortì!

Brindisi, il giorno 27 Gennaio dell' anno 1855.

O Concetta nel divo pensiero Pria che fossero il sole e le stelle, Infra tutte le umane donzelle Scelta all' alto mistero di amor; Deh! al mio labbro che umíle or t' invoca Per lodarti gli accenti tu dona, « Se più bella la eterna corona Della gloria sul crine or ti sta! » Io dal dì che la prima preghiera Balbettando a disciorre imparai, Te, o Divina, mai sempre onorai Sotto il titol che altera or ti fa. Il tuo simbol d' Intatta, a custodia Invocai della fragil persona, « E perfetta stimai la corona Della gloria che al crine ti sta. » Dio lo disse all' antico serpente: — Se cedendo a te perfido astuto Una donna gli umani ha perduto, Una donna te un dì vincerà! Dal suo piè virginale depresso Di resister la speme abbandona: Fia terribil com' oste, e corona Sul suo crine di Soli starà. — Pur quel tristo, con arti nascose, Mosse il dubbio di molti in pensiero, Se te immune del fallo primiero Concepía la materna virtù. Così basso dell' uom l' intelletto, Se il Signor non lo ispira, ragiona, « Che rapiasi a tua nobil corona Il giojel che più ricco vi sta! » Se Colui ch' è la stessa purezza Ogni labe a deterger scendea, Come albergo presceglier potea Maculato dal pristino error? Non la madre redimer doveva Pel cui mezzo Ei redime e perdona, « O men bella saria la corona Della gloria che al crine le sta. » Ma fu certo divino consiglio Che in un secol di dubbio e di guerra, Tra i maligni che attristan la terra Crudi influssi di arcano malor, Si svegliasse nel petto di Pio Quel disir che a far domma lo sprona « La credenza che il vanto corona Di colei che in ciel Donna si sta. » Come ai dì che l' onor del trïonfo Si apprestava a guerrier cittadino, Attendea la città di Quirino Ansïosa il decreto final. Qual di un Angelo alfine la voce Del supremo Gerarca risuona, « E a Maria la immortale corona Più lucente sul capo si sta. » O concetta senz' ombra di colpa, Per tal vanto che a ogni altro è maggiore, Per la gioja devota che il core Empie a tutto il tuo popol fedel; Deh! preserva le nostre contrade Dal flagel che da lunge ancor tuona…. « Se più bella la eterna corona Della gloria sul crine or ti sta. » Questa terra è a te sacra, lo sai, Protettrice e Regina ti appella; Deh! che sempre in te, Vergine bella, Trovi scudo allo sdegno del Ciel! E da me non sdegnar questo serto Dei più labili fior di Elicona; « Se più bella la eterna corona Della gloria sul capo or ti sta! »

Napoli, il giorno 24 Aprile dell' anno 1855.

Come una stilla eterea Sul mattutino albore Nell' odorato calice Posa di niveo fiore, E all' aleggiar dell' aura Lene tremando va; Così tra i lini candidi Dell' odorata culla, Presso al materno talamo Riposa una fanciulla, A cui tre soli infiorano La vergine beltà. Al raggio incerto e languido Che eburnea lampa rende, A contemplarla in estasi Su lei la madre pende, Come di un rio sul margine Pende a specchiarsi un fior E un' onda di letizia, Di riboccante affetto, Accelerando i palpiti Le va del casto petto, Mentre un suave cantico Mormora in basso suon: Dormi, amor mio; sollecita Veglia su te la madre; Di fior, di augelli, e di angeli, Di cose alme e leggiadre I sonni tuoi rallegrino Le visïoni ognor. Oh come su quel vivido Tuo labbro è bello il riso!… Forse a un fraterno spirito Beato in paradiso Così sorridi, e all' etere Brami con lui redir? Ah no! sei mia…. risvégliati, Volgi alla madre i rai. Quante ansie, e cure, e palpiti Mi costi, ah tu nol sai!… Dell' infinito è immagine Il mio materno amor. Da che il tuo primo debile Vagir per me si udío, Da che piangente ed ilare Ti strinsi al petto mio, Scordai me stessa, e a vivere Incominciai per te! Ti amai per Dio che diedemi In te di madre il vanto; Ti amai per quei che fecemi Sua nel gioír, nel pianto; Ti amai pel suol che a patria Amico il Ciel ne diè! Altre, mentr' io qui vigilo Tuoi sonni, o mia bambina, E l' alma tutta inebbrio Di voluttà divina, Tra danze e feste anelano A labili piacer. E i figli, i figli oblïano Fidati a man venali!… Ahimè! cagion qual cercasi Altra dei tanti mali Che da lung' ora aggravansi Sull' italo giardin?… O figlia mia!… sia prospero Il fato, o avverso e scuro, Degna del ciel, del patrio Suolo educarti io giuro! Iddio di madre italica Detta i doveri a me. Or dormi: il corso placido Dell' età tua primiera È apri a giorno limpido Di lieta primavera, Che il fiorellino ingenuo Educa in sullo stel. Dormì, o fioretto…. il soffio Tu pur del turbo udrai; Ma, se col tuo buon angelo La madre appresso avrai, Ambo sapran difenderti Fin che si plachi il ciel.

Napoli, il giorno 24 Aprile dell' anno 1855.

O dell' argentea onda tirrena Innamorato fiotto gentil, Suavi aurette che appena appena Cullate i fiori che schiude april; Astri, che, i balli eterni e lieti Dal ciel tessendo, il pio chiaror Sui verdi lauri ed i roseti Di Posilippo piovete ognor; Deh! pari al mesto nobil subbietto Piacciavi il pronto verso ispirar A me, cui spesso devoto affetto Tragge su questo colle a vagar. Oh! ancor bambina, fu il mio più caro Sogno prostrarmi sovra il terren Che di Virgilio e Sannazzaro Le sante ceneri racchiude in sen; E, poi che sorse al loro accanto Anco l' avello di quel Signor Del desolato funereo canto, Novo, sublime d' Italia onor; Non è famosa piaggia, o sì pio Tempio, o prodigio che l' arte oprò, Che i miei pensieri sollevi a Dio Come quel loco che li albergò! Oh quante volte, nella vagante Vita, a cui spinsemi fato crudel, A notte bruna, tornò l' amante Alma di questi sommi all' avel! E le lor grandi ombre invocai, Se tetra inerzia strinse il pensier; Per questo loco li supplicai…. E un lor sorriso credei veder! Oh chi, chi disse che non qui il frale Posa di quegli che Enea cantò?… Chi smentir osa quell' Immortale Che pe' tre regni Duce il chiamò?… È stolto adunque il grido antico Che a questo colle un culto dà? E quell' alloro, col rezzo amico, Ignote ceneri proteggerà? Ah no!… qui intorno freme il vocale Del buon Virgilio spirto di amor; L' ansioso affetto che qui mi assale La sua presenza rivela al cor. L' odo, ei mi parla: « La mia Sirena Invan vorrïasi di me frodar; Qui poso in pace, su quest' amena Vetta, e mi piaccio su lei vegliar. Qui l' ombra fida del mio Sincero, Qual figlio a padre, presso mi vien; Ma ancor solingo, triste, severo Di Bruto il vate lunge si tien. » O tu, di Dante maestro, e duce Di que' che sanno, sublime autor, M' odi, ti supplico per quella luce Che a te contende l' antico error. Desta, ravviva ne' nostri petti La sacra fiamma che ti animò; Oh! non sian torpidi qui gl' intelletti Dove il tuo cenere santo posò! Da quella tomba che lo racchiude Eterco un raggio divampi fuor Che della propria possa e virtude Conseii qui renda i nostri cor. Così raddotti al vero fine Della bell' arte figlia del Ciel, Non sacrilegio saranne il crine Cinger del lauro che orna il tuo avel.

Napoli, il giorno 24 Aprile dell' anno 1855.

Terra fatal che l' Alpe e il mar circonda E parte lo scosceso arduo Apennino, Di sapienti e di eroi madre feconda, Tempio ove l' arti s' han culto divino; Salve, o tu cui più bello il sol gioconda, Salve, o di Europa florido giardino; Deh! non sdegnar ch' oggi il mio facil canto Di Sanzio inneggi al sommo ultimo vanto. Tal mi son io, che, benchè umíle oscura, Dannata forse a inonorato oblio, Così in seno avvampar fervida e pura Sento la carità del suol natio, Ch' ove un italo fasto o una sciagura S' offra argomento al pronto verso mio, Fatta di me maggior tolgo la lira, E noto, e canto come amor m' inspira. Ecco l' Angel di Urbino, il giovinetto Cui rise un raggio dell' eterna idea, Che in visïoni arcane l' intelletto Cupidamente si feconda e bea. Scosso al baleno di un divin concetto, L' opra maggior del suo pennello ei crea; L' opra che tocca il perfettibil segno, Cui trascender non può mortale ingegno. Or sulla tela, or sulle sacre carte, In cui s' ispira, ei figge il guardo ardente, E nel delirio agitator dell' arte A ogni umano pensier tolto si sente. Treman sue membra, e sulle chiome sparte Un' aureola di luce appar repente…. L' aureola del martirio, a cui votato È l' uom del raggio creator dotato! Oh chi, chi gli mostrò la portentosa Scena che il vel de' secoli copria?… L' unica in cui raggiò la glorïosa Maestà di Colui che al duol venía?… Oh felice arditezza e generosa, Degna ben dell' eccelsa fantasia Di quel divino che di amor sull' ali Poggiò al cielo a ritrar forme immortali! Ve' del Taborre nel selvaggio orrore, Quando l' ombra maggior copre il creato, Lungi dall' alto popolar clamore L' Uom-Dio discioglie il priego infervorato; E ai suoi seguaci colmi di stupore In un baleno appar trasfigurato, Neve le vesti e il volto rilucente, Come in limpido ciel sole nascente. E a' due Profeti apparsi a Lui d' appresso, Ossequïosi e riverenti in atto, Future cose parla in suon sommesso Di abbbandono, di duol, d' infame patto; Mentre dall' etra scende il grido istesso Che presso l' onda del fatal riscatto Tuonar si udi, quand' Egli umile in vista Il battesmo prendea dal pio Battista. Oh mira, mira! di quel grido al suono Cadon da sonno oppressi i tre fedeli, Mentre tra i lampi ed il fragor del tuono Si dilegua pel vasto arco dei cieli. Oh Sanzio, oh Sanzio!… E tu smarrito e prono Innanzi all' opra tua cadi, e ti veli Con le tremole mani il bianco viso, Quasi giglio da gel côlto improvviso?… Ah! tu, tu stesso, al sovrumano incanto, Di quel divino tuo dipinto illuso, Non ritratto, ma vero il Cristo Santo Vi scorgi, e il cielo sovra lui dischiuso! Oh! che più brami?… Ed a qual altro vanto Più sublime aspirar puoi tu quaggiuso? Qual prodigio maggior compier potresti, Se qui te stesso a superar giungesti?… Ma di un riso gentil celestïale Atteggiarsi i tuoi bei labbri vegg' io; Sazio, oh! sazio sei tu della mortale Gloria, e all' eterna or volgi il tuo disio. Angel di amore! Ahi! sul tuo muto frale Dolorerà ben tosto il suol natio; Ed oh! quai plausi desterà, quai pianti Quel tuo dipinto al tuo ferètro innanti!

Napoli, il giorno 24 Aprile dell' anno 1855.

Da che l' alba col dolce suo lume Tutte cose ridesta alla vita, Fino all' ora solenne e romita Che di pace favella e di amor, Per le vie più remote si aggira Una donna mendíca e diserta; « Scalza il piede, di cenci coperta, Chiede un pane all' umana pietà! » Gonfi i lumi di pianto represso, Curvo il capo, procede a rilento; Tratto tratto le sfugge un lamento, E una prece rivolge al Signor. Mai non è che dei ricchi alle soglie I suoi passi fidente converta: « Par che sdegni, di cenci coperta, Dei felici implorar la pietà. » Il colono, il modesto operajo, Non aspettan che sciolga il dimando; Ma, al suo volto sparuto mirando, Parton seco dei figli il nudrir. Vi è tra lor chi sciogliendo un sospiro Le protende la povera offerta; « E la grama di cenci coperta Con rispetto contempla e pietà. » Ahi! la man che or si tende ai fratelli, Scarso pane a implorar tremebonda, Mille volte si stese gioconda Ai fratelli il suo pane a partir! La persona che or stanca si addorme Spesso all' aria notturna ed aperta, « Non fu sempre di cenci coperta, Nè ricovro chiedea per pietà. » Oh! chi sa che imprevista sciagura La condusse a sì misero stato! Oh! chi sa quanti strazii ha durato Pria di esporsi ai rifiuti, al rossor! Forse quei che colmò de' suoi doni Con l' oblío sua bontate or rimerta: « E la grama di cenci coperta Seaccia, senza rimorso e pietà. » Quando, all' ora del bruno tramonto, Infra i rami dei verdi arboscelli Si appollajan cantando gli augelli, Il ritorno ad attender del dì; Ella il guardo dal pianto appannato Volge lento pe' piani, per l' erta, « E affannata, di cenci coperta, Così implora di Dio la pietà: » O Signor, che la fera e l' augello E di nido e di cibo provvedi, Senza nido nè cibo deh! vedi La mendica pel mondo vagar. Come foglia del turbo in balía, Vo del loco ove posi inesperta; « Scalza il piede, di cenci coperta, Chieggo un pane all' umana pietà! » Quante volte con duro rimbrotto Vien respinto il mio priego angosciato!… Quante volte ho il congiunto scontrato Che al vedermi lo sguardo stornò!… Fin nel tempio, ove tutti siam pari, Vengo a stento ed accolta e sofferta…. « Perchè scalza e di cenci coperta Chieggo un pane all' umana pietà! » Ma tu pur fosti povero e mesto, O Signor che nel tempio adoriamo; E dicesti che il povero e il gramo Son più cari al paterno tuo cor. Questa santa celeste parola Suona forse incompresa od incerta? « La mendica di cenci coperta Ahi! non trova dai ricchi pietà! » Han giaciglio i lor cani e pastura Quali io spesso a invidiar son costretta!… Oh Signor, non ti chieggo vendetta, Ma perdono per essi e pietà! Tu, sì, premio a' miei stenti darai Nella vita durevole e certa; « La mendica di cenci coperta Nel tuo regno beata sarà. » —

Napoli, il giorno 14 Agosto dell' anno 1855.

Vorrei le lievi tinte amorose Che il cielo abbellano in sul mattin, Vorrei le note armonïose D' innamorato gramo augellin. Se a me arridesse di tanto Iddio, La pura luce di tua beltà Vorrei dipingere, Angiolo mio, Nel pronto verso ch' Egli a me dà. Dal dì ch' io venni in questo esiglio, Tra l' esultanza dei genitor, Indivisibile guida e consiglio, Celeste amico, io t' ebbi ognor. Te la innocente alma fanciulla, Nei rosei sogni, talor mirò; Te vidi assiso presso la culla Allor che il sonno da me sgombrò. E di te chiesi la madre mia, Che, sorridendo, mi strinse al cor; E dopo l' Ave sacra a Maria A te insegnommi volgermi ancor. Trascorser gli anni, e indefinita Una tristezza, vago un desir Mi divorava la giovin vita, Nè la mia brama sapea ridir. E tu con voce suave e pia In fondo al core parlasti a me: Canta! è la possa dell' armonia Quella che occulta s' agita in te! E sciolsi il carme puro, innocente, Da te ispirato, Angle fedel; Ed alla fervida accesa mente Dischiuso allora apparve il ciel. Ah! sì, te sempre, spirto immortale, Sostegno io trovo nel mio cammin; E sento il fremito di tue bell' ale Lieve agitarmi il bruno crin! Odo tua voce nel pio concento Che fan le squille sul tramontar; L' odo nel lieve spiro del vento, Dei fiumicelli nel susurrar. Veggo il tuo riso nello splendore Del sol che illumina e terra e ciel; Veggo il tuo riso nell' umil fiore Che olezza aperto in sullo stel. Tu, se all' errore chino il pensiero, Retaggio infausto del fragil vel, Mi volgi il guardo mesto e severo, E del rimorso m' infondi il gel. Tu, se mi vince ira o sconforto, Se il dubbio m' ange, qual nave in mar, È il Ciel, mi gridi, dell' alme il porto, Là solo il vero potrai trovar! Ah sì! tu sempre mi veglia, o santo; Puro il mio gaudio, sìa puro il duol; Negli estri ardenti sia puro il canto, Degno del nostro fecondo suol. E tu pietoso lo spirto mio Reggi, nell' ultima pugna crudel. Teco, inneggiando, ch' io torni a Dio, O mio diletto Angel fedel!

Napoli, il giorno 2 Decembre dell' anno 1855.

Poichè trepido in cor de' dubbi eventi Della pugna vicina indarno alzava L' iracondo Saul le sanguinenti Mani a Dio che da lui l' occhio stornava, E sul labbro de' pavidi veggenti L' agognato responso si attutava, Del vero ad accertar l' alma presaga Di Endor si volse alla vegliarda maga. Fra l' ombre d' una notte procellosa, Di spessa selva nell' orror profondo Ne venne a lei, che là vivendo ascosa L' inferno evoca all' arti sue secondo. Ahi! che non tenta l' uomo, e che non osa Quando sia d' empietà caduto in fondo! Saul l' inferno evoca, ei che sentìo Il fatidico un dì spirto di Dio! In negra vesta, la pupilla ardente Di fosca luce, i piè nuda e le braccia, Una pallida face in man stringente, Sparsa la chioma e squallida la faccia, La maga rea misterïosamente Per obliquo sentier seco lo caccia, E li precede per la cieca e nera Aër di strigi lamentosa schiera. Scorti dal raggio della fioca lampa Penetran ambo d' atra grotta in seno; Or si scolora ed or nel volto avvampa Saul di tema e di rimorsi pieno. Con nera verga allor la maga stampa Misterïosi segni in sul terreno, E le chiome scuotendo ispide incolte, Intorno ad essi aggirasi tre volte. A bassa voce le magiche note Ella susurra, ed ecco un subitano Tremor la grotta paurosa scuote, E la irradia un baglior funerco e strano. Come d' onda precipite in remote Piagge, un fragor si ascolta, e a mano a mano Si appressa e incalza, e alfin rombo somiglia Di tempesta che tutto urta e scompiglia. Si fende il suolo, e dal suo sen la testa Erge un' ombra che cresce lenta lenta; Nella sacerdotal candida vesta È avvolta, e tetri sguardi intorno avventa. Sulla sua fronte veneranda e mesta Dello spirto di Dio brilla l' imprenta; Nel re si affisa, e tra sdegnosa e pia Queste tremende al cor voci gl' invia: A che vieni, o Saulle? E perchè mai Il riposo turbarmi ti consiglì?… Che Dio teco non è, forse nol sai Da che a seguir togliesti empi consigli?… Sappi che tu doman vinto morrai, Teco morranno i tuoi guerrieri figli, E a quel David che insidii a te fedele Dio lo scettro darà sopra Israele. — L' ombra di Samuel disse, e avvampando Di fosca luce ringrottossi e sparve. Cento allor dalle tenebre sbucando Il loco popolâr squallide larve. Fresco sangue da piaga ampia stillando Fra tutte Abimelec gigante apparve. Saul dà un urlo, e tal tema lo invade « Che cade come corpo morto cade. »

Napoli, il giorno 26 Giugno dell' anno 1856.

Come donna che piange e favella Or mi è forza proromper nel canto, E ciascun fia che pianga a quel pianto Che dal core sul ciglio mi vien. Pur ch' io possa nel turbo di affetti Che or m' insorge nel petto angoscioso Dìr di te, chiaro spirto amoroso, Desiderio del patrio terren. E fia ver che in quest' aula non sei, O cortese onorando vegliardo?… E fia vero che invano lo sguardo Spingo intorno cercando dì te?… Chi mi affida or nel trepido istante Che di me fatta inconscia procedo? Il tuo riso benigno non vedo Che fiducia soleami ispirar. Oh! il tuo plauso era premio al mio verso, M' era scorta a una meta migliore, Dell' amplesso del mio genitore Tenea loco quel plauso al mio cor. E cadesti…. Ed io cinta tuttora Di gramaglie pe' cari ch' io persi, A tua bara prostrata proffersi Il novissimo vale quaggiù!… Ma perchè di me sola mi dolgo, Se all' udir di tua ratta partita, Qual da pubblico danno colpita, Tutta quanta una gente plorò? E a chi noto non eri? a chi mai Fosti avaro d' aïta o conforto? Chi non t' ebbe benefico, accorto Consigliero, ed amico fedel? Chi tra noi non gustò l' armonìa Di tua musa festevole e arguta, Che ogni speme, ogni gloria saluta Della bella sebezia region? Gli anni molti, che amica salute Ti abbelliva, la mente ed il core Ti arricchìr di novello vigore Nè i senili fastidii ti dier. Oh! era bello vederti ricinto Da uno stuol di garzoni fiorenti, Che a te vèglio solean confidenti De' lor primi lavori narrar; A te amico, ed amabile duce Dell' età più gentile e festosa, Che l' ingegno e la vita operosa Consacrasti con fervido zel Ad un' opra che il plauso e l' affetto D' ogni padre al tuo nome assecura, Poi che d' ogni virtude più pura All' infanzia maestra si fe'. E in quest' opra vivrà la tua fama Sempre bella, onorata e gradita, Finchè il suol che n' è sede fiorita Un affetto ci desti nel sen. Deh! s' è ver che de' vivi alla prece Chinan facile orecchio i celesti, Per la patria che cara sì avesti Or lassuso tu implora il Signor. Veglia tu sovra i giovani ingeni Che al ben far drizzin l' opra e la mente; Di me pur ti ricordi sovente, Or che leggi più addentro al mio cor. Di me parla con gli angeli miei Che di poco precesser tua sorte…. Teco entrambi si faccian mie scorte Per la valle dell' aspro dolor. Nè pensar che per tempo o fortuna In noi langua tua sacra memoria: Vive eterna del Giusto la gloria Se può quella del vate perir.

Napoli, il giorno 26 Giugno dell' anno 1856.

Siccome libero gentile augello Pe' spazii azzurri uso a vagar, Dal primo sorgere del dì novello Insino all' ora del tramontar, Stanco nel nido alfin si posa, Poi che all' occiduo sole mandò La più suave e armonïosa Di quante note mai gorgheggiò; Tal, spensierato, ricco di affetto, D' indefinite spemi e desir, Si addorme placido il giovinetto Vate, fidente nell' avvenir. E sogna…. sogna da pria la stanza Dove alla vita i lumi apri, E i baci, e i detti, e la sembianza Di lei che tenera madre il nudrì. Poi sogna i floridi orti, e i vïali Ove sua gioia fu l' inseguir La farfalletta che pinte ha l' ali, O errante lucciola sull' imbrunir. Poi sogna i primi studii, e l' arcana Vaghezza insorta nel suo pensier Ai primi lampi della sovrana Fiamma che è faro del suo sentier E il dolce riso delle donzelle Simili all' Angelo che lo vegliò; E i boschi, i fiori, l' alba, e le stelle, A cui fanciullo vate cantò. Melliflui accenti ode: « Il diletto È meta all' arte, altra non n' ha; Ai soli lascia l' arduo concetto, Grande è il poeta se piacer sa. » Dubbioso ei pensa…. ma già la scena Cangiasi; e sotto oscuro ciel, Al mar da presso, diserta arena Calca, e imperversa turbo crudel. Ghignanti Lemuri, e streghe impure E nudi scheletri ode intuonar: « Grande è il fantastico, sogni e paure Narra, ed insegna a disperar. » Freme il garzone, e di sua pia Alma s' indonna ribrezzo e orror; Ma d' una italica maschia armonía Ecco il riscuote l' alto tenor. Non più su gaia fiorita piaggia Stassi, nè in riva del torvo mar; Ma in aspra e forte selva selvaggia A lui di Dante l' aspetto appar. « E, m' odi, dice: de' tristi o inetti Vati la turba non crescer tu: In me t' inspira, ne' miei concetti, Fonti di patria civil virtù. Contempla Italia…. cantar vorresti Snervati affetti, nordici orror, Mentre ella volge pensier sì mesti, Sotto il suo cielo, riso d' amor? Ah no! de' fati suoi, di sua fede Canta, e sii degno di lei, di me. Sublime scopo all' Arte diede Chi tanto impero sui cor le diè. » E il giovinetto d' amor compunto Le sue ginocchia tenta abbracciar; Selamar si sforza: Padre, in tal punto Giuro tue sante orme calcar! Ma dall' ardenza troppa riscosso S' agita, ed ecco che desto è già, E del suo sogno, ansio, commosso, Tra sè lung' ora pensando va. Or qual sentiero fia ch' ei presceglia?… Più non ondeggia quel giovin cor. E l' Angel Santo che Italia veglia In lui ne educa degno cantor.

Napoli, il giorno 26 Giugno dell' anno 1856.

Donna, che all' arduo culmine Di tua bell' arte ascesa, Di quante ti precessero Tanto maggior sei resa, Quanto per luce vivida Maggior d' ogni astro è il sol; A te, di cui sì splendido Il grido intorno suona, Poi che sul crin t' intrecciano Doppia gentil corona Le Dee che il socco e il tragico Coturno t' impartîr; A te, per culla ed anima, Ed ingegnoso vanto, Figlia immortal d' Italia, Volgo un saluto e un canto, Io che alle patrie glorie Sento infiammarmi ognor. Te non vid' io; la magica Del gesto tua potenza, L' accento irresistibile, La sovrumana ardenza Del guardo tuo che affascina E gioja infonde o duol, Da lungi sol mi appresero Mille vergate carte, Che te regina appellano, E novo onor dell' Arte, « Che finti casi e favole Pingendo è scuola al ver. » Oh! ben gentile e nobile Nudrir tu devi il core! Ben dèe regnarvi indomito Onnipossente amore Per questa cara ed inclita Terra che al sol ti diè; Per questa che all' assiduo Straniero oltraggio freme, Pur dignitosa e tacita L' ira nel petto preme; E a chi scortese e garrulo Anco insultarla ardì, Risposta altera ed unica, Di lei ben degna, invia Qualche novel prodigio Che nel suo sen nudria; E lo smodato umilia Orgoglio altrui così. Oh! del pensier nel rapido Irresistibil volo, Ben io sovente spingermi Seppi nel franco suolo, Quando rapita, attonita All' alto tuo valor, Di trïonfali plausi Ti fea Lutezia omaggio; O che rendessi l' inclita Sembianza e il pio coraggio Della Stuarda, vittima Di femminil livor; O che pingessi amabile Donna che scherza e piace, Del Veneziano Plauto Interprete verace; O Sofonisba intrepida Che a Roma insulta e muor. Ma quando osavi fingere Lo scellerato affetto Di Mirra, a cui con l' ultimo Spiro l' infame detto Sfuggiva, onde l' attonita Natura abrividì; Scarsa ogni umana laude Parve al tuo sommo merto; Pur mentre te gridavano Degna di eterno serto, D' Alfier, d' Alfieri osavano Il lauro insidïar!… Oh! se tu sei magnanima, Qual ti vagheggio e spero, Sdegnar dovesti il plauso Dell' invido straniero, Quando al tuo fiero Allobrogo Sacrilego insultò!… Deh! l' ira sua terribile Alcuno italo accenda; L' inverecondo Mevio, E ognun che il segue, apprenda Che vive in sen de' posteri D' Alfieri la virtù. E tu, sublime interprete Dell' Astigiano immenso, Che già non miri a labile Grido o a vulgar compenso, Ma più lodato premio Vagheggi nel pensier, Tu dell' ingegno italico L' itale sponde onora. Vieni, la mia Partenope Ansia ti aspetta ancora. Qui d' oro e plauso estranio Premio ti avrai miglior.

Napoli, il giorno 26 Giugno dell' anno 1856.

Oh! mi recate un serto olente Di bianchi gigli schiusi al mattin; Simbol del carme puro e innocente Fregiarne io voglio il bruno crin. Di gigli adornisi l' intatta lira Che manda suono casto e gentil, Pari ad un aura che leve spira In una placida notte di april. Come nel grembo di bianca rosa Bianca farfalla sul far del dì Tal nel pudico letto riposa La giovinetta che si assopì. Schiuso ha il ridente labbro rosato, Le belle mani congiunte al sen, Le fa un' aureola il crine aurato Intorno al candido fronte seren E sogna…. sogna le dolci amiche Che sul tramonto dianzi abbracciò; E i fiori côlti in piagge apriche Di cui ghirlande vaghe intrecciò. Sogna l' amplesso della diletta Madre, e la voce del genitor, Che il ciel guardando l' ha benedetta D' immensa gioia ricolmo il cor. Poi sogna di angeli un lieto coro, Lucente come raggio di sol, Che al dolce suono dell' arpe d' oro Seco per l' etra la tragga a vol. E mentrè parle che ardimentoso Con essi il volo spieghi pel ciel, Un più leggiadro spirto amoroso A lei d' appresso move fedel. Ella lo guarda, e un noto aspetto Le sembra in esso di ravvisar; Ignoto palpito le scuote il petto, Mentre sorella s' ode chiamar. Oh! quella voce la udì talora Quando all' occaso s' inchina il dì, Nel flebil canto di augel che plora La sua compagna che si smarrì. La udì nel murmure del queto rio Che lento scorre tra l' erbe e i fior, La udì dell' aure nel susurrìo, La udì tra gl' inni sacri al Signor. Ma solo in sogno ella intravide Quel vago aspetto che ugual non ha, Che dolce parla, e dolce ride, E il vergin seno balzar le fa. Indarno volge lo sguardo aneto Su quanti incontra nel suo sentier, Nessun somiglia Colui che il cielo Ne' easti sogni le fa veder. Oh! giovinetta, dormi tranquilla Nell' innocenza del tuo candor: Troppo non figgere la tua pupilla Su quella cara larva di amor: Chè forse in vana speranza, o bella, Tua vita intera correr dovrà, Nè mai quell' anima a te sorella Da te nel mondo s' incontrerà! Dormi tranquilla, fin che la madre Te con un bacio venga a destar, Quando le tenebre notturne ed adre Verrà l' aurora a disgombrar Tra le sue braccia t' inebbria, o cara, Di una tranquilla pia voluttà: Dormi! di gioje la vita è avara…. È sol ne' sogni felicità!

Roma, il giorno 3 Maggio dell' anno 1857.

E il tramonto, ma premon la terra Anzi tempo funeste tenèbre: Quasi involto da coltre funèbre Del dì l' astro nel mar si celò! Mugge il flutto e s' infrange agli scogli Poi sul lido si spinge e rinversa, « La procella che rugge e imperversa Lo scompiglio trasfonde nel cor. » Presso al lido, sull' uscio dischiuso D' una umíl peschereccia capanna Una sposa tremante si affanna Pel suo caro che vaga sul mar. Alla fragil barchetta ch' ei guida Forse il flutto il ritorno allraversa…. « La procella che rugge e imperversa Di spavento ricolma il suo cor. » Ogni gonfio maroso che lunge Sovra gli altri s' innalza rubello A lei sembra il ben noto battello Che contrasti con l' onda crudel. Ella chiama il suo sposo, ma resta La sua voce inudita, dispersa; « Tra 'l fragore del mar che imperversa Si confonde il sospir di quel cor. » Torna alfin tra le fide pareti; E cospersa di lagrime amare, Alla Vergin ch' è stella del mare, Di una lampa tributa il chiaror. Genuflessa, congiunte le mani, All' effigie devota conversa, « Tra 'l fragore del mar che imperversa, Così espande l' oppresso suo cor: » Santa Vergin, che il candido piede Sovra l' arco dell' Iri riposi, Tu che imperi di un guardo ai marosi Ed ai nembi che offuscano il ciel; Deh! proteggi il mio sposo che pugna Or con l' onda adirata ed avversa; « Tu dal mar che sconvolto imperversa Salvo il rendi all' ansante mio cor! » Tu ben sai ch' ei non chiede tesori A quest' onde volubili e insane; Dalla pesca ei non tragge che un pane, Co' suoi stenti, pel figlio e per me. Senza lui, tutta umana speranza Per entrambi quaggiù saria persa! « Tal pensiero tra 'l mar che imperversa Deh! rafforzi il suo braccio ed il cor. » Ah! non sia che il mio tenero figlio, Che al tramonto pel padre ha pregato. Con l' aurora novella destato Chiegga indarno: il mio padre dov' è? Nè la madre risponder potrebbe, Da una estinta pel duol non diversa…. « Ah! del nembo che rugge e imperversa Questa idea più tremenda è al mio cor! » Oh! se il priego di un duce guerriero Valse il sole a fermar nel suo corso Una sposa che implora soccorso Il ritorno ora affretti del sol! Di que' raggi onde il ciel ti ha vestita, Fra quest' ombre un sol raggio tu versa…. « Oh! Maria, mentre il Ilutto imperversa. In te sola confida il mio cor! » — Tal pregava, e la debil fiammella Brillò a un tratto di luce più viva; Sorse, e un guardo rivolto alla riva, De letizia credette morir. Salvo giunto rimira il suo sposo Dalla barca tra l' onde sommersa; « Chè Maria, mentre il nembo imperversa, Ode il grido di un supplice cor! »

Roma, il giorno 3 Maggio dell' anno 1857.

O gran padre Alighier, se mai da quella Beata sede ove s' insempra amore, Volgi lo sguardo a questa Italia bella Che ti crebbe alla gloria ed al dolore; Se cosi dolce ancor della favella Materna il suono ti discende al core, Tanto or mi reggi, che in non basso stile Dir possa della tua Bice gentile. E tu, pia crèatura avventurosa, Non ti sdegnar se in disadorno verso Invocata sarai, tu cui famosa Fe chi descrisse fondo all' universo. Nell' ora più gentil silenzïosa Che schiaran gli astri il ciel limpido e terso, Io di te penso e canto, e nelle rime Ti vagheggio del tuo vate sublime. E cosi viva e vera ivi tu sei, O celeste beltà, pinta e scolpita, Che alla mente non sol, ma agli occhi miei Ti mostri quale esser dovesti in vita. L' onesto altero portamento, i bei Lumi amorosi io veggo, e alla rapita Alma, qual suon di musici concenti, Suonano i casti tuoi graditi accenti. In quella età che ancora uom non intende Della vita le doglie amare e tante, Amor, che a cor gentil ratto si apprende, Per te si apprese al cor del sommo Dante, Come la stella che più vaga splende Gli apparve il dolce tuo vergin sembiante, E nell' ardor dell' innocente affetto Sublimarsi ei sentì l' alto intelletto. Ahi! giunto appena al caro april degli anni Spari dal mondo il tuo suave raggio; Tra civili tempeste, e trame, e inganni Quasi smarría la sua costanza il saggio. Ma tu già tratta agl' immortali scanni Sostenevi del tuo fido il coraggio, E al mezzo della vita infausta e rea Del gran poema ebbe per te l' idea. Il gran poema, che bastar potria Solo alla gloria della terra nostra; In che a note indelebili scolpía Dell' età sua la lunga orrenda giostra. Di santo sdegno cittadin bollía Quel cor pingendo la tartarea chiostra; Ma solo amore lo ispirava allora Ch' ei dipingea la celestial dimora. Sopra candido vel cinfa di oliva Tu gli apparisti, sospirata amica, Vestita di color di fiamma viva, Del sacro fiume sulla sponda aprica; Fissa in te appena la virtù visiva, Conobbe i segni della fiamma antica, E nelle luci tue serene e liete Potè sbramarsi la decenne sete. Teco al superno ciel di stella in stella Poggiò l' alma dai sensi peregrina, E ogni animata eterëa fiammella La salutò futura cittadina. Ivi alla dolce angelica favella Armonizzò la sua mente divina, E qual per opra tua col guardo affisse La portentosa visïon poi scrisse. Di te dunque, o gentil, la cui virtute All' arduo volo gli reggea le penne, Mai non saranno itale lingue mute Eccelso in tributarti onor perenne. Deh! mira come della sua salute Questa terra a voi euna in forse or venne, Questa terra per cui lagrime tante Esule sparse il tuo fedele amante. Deh! con lui prega fine agli odii, al lutto Che ai colpi del destin l' han fatta segno. Prega rinverda, e glorïoso frutto Porti la pianta dell' ausonio ingegno. Prega che quell' amore ond' arse tutto Dante, de' nostri cor si tenga il regno: Ch' ove gentile e verecondo è amore, Ivi tornan le genti al prisco onore.

Roma, il giorno 5 Maggio dell' anno 1857.

Spesso io pinsi del cieco la sorte, E infelice fra tutti il chiamai, Perchè il cielo contese a' suoi rai Di natura la varia beltà. Pur a quei che d' udito e loquela Nacque privo, il destin fu più avverso; « Non ha un suono per lui l' universo, Nè un acconto il suo labbro dar può. » Erra il cieco tra fitte tenèbre, Degli umani egli ignora l' aspetto, Ma con essi conversa, e l' affetto Dall' accento indagarne ben sa. Quegli ignaro de' sensi d' altrui, Benchè il sol vegga limpido e terso, « È solingo nell' ampio universo, Chè una voce ascoltarvi non può. » Infelice! la gioja primiera, Che nell' alma infantil si fa via, Che dell' alta celeste armonia Sembra un eco al sopito bambin, Egli ignora; chè a lui non sonava Il materno dolcissimo verso; « Muto venne nell' ampio universo, E un accento ascoltarvi non può. » Quando apprese a discerner col guardo La sua madre, il suon buon genitore, Volle esprimer l' affetto del core, Ma un singulto il suo labbro mandò; Un singulto da ignobil guaito D' una belva sol poco diverso; « Parlan tutti nell' ampio universo, Egli solo spiegarsi non può. » Talor vago per floridi campi, Al venir della placida sera Dal cor sente venir la preghiera, E la lode all' eterno Fattor. E congiunte solleva le mani All' eterea regione converso: « Ma coll' inno dell' ampio universo La sua voce mischiarsi non può. » Quando alcun gli si appressa, ei lo mira Fisamente nel volto, e ansïoso, Un ricambio d' affetto pietoso Par ch' ei voglia col guardo implorar. E se scorge che quei d' una stilla Lacrimosa abbia il ciglio cosperso, « Ha una gioia per lui l' universo Tal ch' ei solo comprender la può. » Ma più spesso a crudele motteggio Fatto è segno, o a malèfica frode: Ahi! quel mesto l' insulto non ode, Dagl' inganni schermirsi non sa. Pur talor gli fa noto un istinto Chi lo insidia spietato e perverso: « Piange allor, chè l' intero universo Un amico offerirgli non può. » Ah! toccata si misera sorte Al malèdico fosse od al vile, Che alla serpe strisciante simile Tende lacci alla pura virtù; O a colui che i malvagi adulando Nei lor vizii e nell' oro sta immerso! « Ma di Quei che creò l' universo Gli alti fini indagare chi può? » Chi può dir, se costui ch' io compiango Degno invece d' invidia non sia, Se in età così stolida e ria La loquela gli manca e l' udir? Di vigliacche proteste egli è puro, Non udi nostro vanto disperso; « Noi già donni dell' ampio universo Vilipesi egli udire non può. » E quel Dio che gli umani dolori Giusto premia di eterni contenti, Ai celesti immortali concenti Il suo orecchio dischiuder saprà. Là concorde degli angeli all' inno Fia l' accento dal mutolo emerso: « L' armonia dell' intero universo Ivi allora comprender potrà. »

Perugia, il giorno 24 Giugno dell' anno 1857.

Cara, gentil memoria Del dolce suol natío, Dove ai primieri battiti Il vergin cor s' aprío, Nel riso interminabile Del puro italo ciel, Chi mi darà sì flebili Armonïosi accenti, Perchè i pensier mestissimi Ridir nel carme io tenti, Che nutri tu nel misero Che vaga in suol stranier? Come dinanzi al popolo Ch' ebbe Mosè redento, Iva la notte un igneo Baglior pel firmamento, Che in biancheggiante nuvola Cangiavasi al mattin; Così perenne, assidua, Ovunque volga il piede, Del suol natío l' imagine L' esule afflitto vede, E in lei mirando struggesi Di desiderio e duol. L' esilio! Ah! sol pei perfidi Che la virtù calcàro, Che d' empietà, di laidi Spergiuri si bruttàro, Sol per costor l' esilio È poca pena ancor! Ma troppo acerba lliade D' angoscie e di tormenti È per color che a nobili Sensi nudrìr le menti, Ed erran mesti e profughi Per altrui reo livor. Oh!… una vagante nuvola, Il canto d' un augello, Il negro fumo ch' ergesi Da villereccio ostello, Un fior che vizzo incurvisi Sopra non suo terren, Dicon ch' errante e inconscio Come la nube vai, C' ha l' augelletto un proprio Nido che tu non hai, Che più al tuo foco assiderti Non è concesso a te. E il fior che solitario Langue fra stranie piante, È del tuo stato misero Imagine parlante; Com' esso in mezzo a stranii Cuori dovrai languir. O verdi colli, o floridi Piani d' Italia mia, O ruscelletti limpidi, O sol che d' armonia Versi torrenti all' anima Nel vivo tuo fulgor, Sere incantate e tepide, In che al chiaror di luna, In riva al mar più placido Di placida laguna, D' un adorata vergine Stringea la destra al cor, Può mai d' oblio cospargervi Dell' esule la mente? Ah! finchè resti un soffio Di vita al cor dolente, Per voi frequenti palpiti E desiderii avrà! Vaste e famose ei visita Città, ville e castelli, Ma v' han stranieri popoli La sede, e in mezzo a quelli Indarno cerca un cognito Volto, o un sorriso almen. A feste ei va: le stranie Donne leggiadre sono; Ma i labbri lor non mandano L' armonïoso suono Della favella angelica Ch' egli fanciul parlò. Uno è il desir, l' assiduo Voto ch' ei forma, un solo: Mandar l' estremo anelito Là nel natal suo suolo, Dei padri suoi nel tumulo Le stache ossa posar! O almen, siccome il savio Mosè, cui fu concesso Di rimirar nell' ultimo Suo giorno il suol promesso, A vista ei della patria Render lo spirto al ciel.

Perugia, il giorno 24 Giugno dell' anno 1857.

Offerto all' Autrice contemporaneamente da gentil signorina un mazzo di fiori, e dagli Accademici del teatro un serto di alloro, alla richiesta che permettesse esser di questo incoronata, rispose:

Datemi fiori: a me di fior soltanto L' umile chioma cingere s' addice: Labili i fiori son, siccome il canto Che arcana possa da' miei labbri elice; Ma al sacro allôr che desiò cotanto, E sol morto ottenea Tasso infelice, Ah! mai non fia che con orgoglio insano Avida io stenda ambizïosa mano! Del vostro affetto, o generosi, un pegno Io grata accolgo nei largiti onori; Premio soave al verecondo ingegno, Il pondo allieverà de' miei dolori. Ma voi, cortesi, a più nobile segno Serbate austeri gl' immortali allori, Nè profanate offrendo a capo imbelle Quel serto, premio d' opre eccelse e belle.

Perugia, il giorno 24 Giugno dell' anno 1857.

Così temprato a mesti affetti Iddio nel seno mi pose un cor, Che fin dai lieti d' amor soggetti Traggo un accordo ch' è di dolor Però non suona il verso mio D' Imen la tenera gaia canzon, Ma d' una vergine sposa l' addio Canta alla dolce natia magion. Pur ora al raggio di mille e mille Faci, tra folto plaudente stuol Le languidette brune pupille Modestamente chinate al suol, Tutta ravvolta nel bianco velo, Dall' ara pronuba ritrasse il piè, E appena al dolce compagno anelo Fugace e timido un guardo diè De' suoi virginei casti riposi La solitaria stanza cercò, Là degli innocui anni gioiosi Le pie memorie tutte evocò. E mentre il pianto dal ciglio abbonda, Come rugiada sui fior d' april, Il fido seggio bacia, e la sponda Del letticello candido umìl. Alfin cadendo sopra i ginocchi In atto pieno d' ansio fervor, Leva a un' imagine divota gli occhi Di Lei ch' è madre al primo Amor. E in te, pregando dice, in te, o bella Del ciel regina, fida il pensier; Che ancor t' invochi qui verginella Sovrana scorta del mio sentier! Da questo loco a te, amorosa, Non fia che il priego sollevi io più: Deh insiem col nome d' itala sposa Dammi tu d' itala donna virtù. Dammi che meco la nuova stanza Perenni alberghino l' onor la fè, E la serena maschia costanza Che alla sventura oppor si de', Nè sia di vile ozio snervato Del mio consorte fomento al cor Quel verecondo amor bennato, Cui benedisse dianzi il Signor. Il dolce sogno de' miei verdi anni, Ei fu il mio timido primo sospir; Deh ch' io gli allevï ognor gli affanni, Ch' io gli raddoppi sempre il gioir! Co' fragorosi diletti il rio Mondo non turbi a me il pensier; Ma, saggia ed umile, il voler mio Del mio consorte pieghi al voler. Deh tu che udisti sull' empia vetta L' addio del figlio a te parlar, Reggimi, mentre la mia diletta Madre mi appresto oggi a lasciar. Seco il cadente padre, le amate Suore, e i fratelli pianger vedrò: Oh a te confido quelle adorate Alme, e a Chi tanto, madre, ti amò! Da queste soglie ogni sventura Tenga lontana il tuo poter, E fa ch' io sempre di colpe pura Lieta le torni a riveder! Sorgea, tergendosi dagli occhi il pianto, Quando un sospiro lieve ascoltò, E la sua madre si vide accanto, Che inosservata con lei pregò. Tra le sue braccia slanciossi, e ancora Piansero insieme molto, e pregâr; Maria sovvenne ambe in quell' ora Che gemebonde si separâr. Tutte sue grazie su quella cara Ingenua sposa profuse ognor; Ebbe la vita e lieta e amara, Ma puro sempre mantenne il cor.

Perugia, il giorno 12 Luglio 1857.

O memoria del suolo natìo, Del paterno dolcissimo tetto, Dove il core si schiuse all' affetto, E innocenti delizie libò; Deh! conforta lo stanco pensiero Del signor della mesta armonia; Vesti tu d' un' arcana magia L' ora in ch' egli s' appressa a morir. Come verde gentile arboscello Abbattuto sull' arido suolo, Tale ei giace sul letto del duolo Atteggiato d' un ansio desir. Lacrimoso ed inteso a' suoi cennì Gli fa cerchio uno stuolo di gente, Ma il suo sguardo inquïeto e languente Sembra alcun che non trova, cercar. Cerca, ahi lasso! un fraterno sembiante, Cerca un raggio dell' italo sole, Cerca un suon di fraterne parole, Il profumo d' un italo fior! O Sicilia, o regione famosa Per antica, per gloria novella, Nel tuo grembo quest' anima bella L' aure dolci di vita spirò! Del tuo ciel nella vivida luce, Nel sospir de' tuoi tiepidi venti, Nel susurro de' rivi fluenti, De' tuoi monti nell' igneo fervor, Ispirossi alla cara armonia Che ha sui cuori ineffabile possa; Ed or certo dall' alma commossa A te volge l' estremo pensier. Oh! vorrei che suonasse il mio canto Dolce come la prece votiva, Che alla casta nottivaga diva La fatidica Norma snodò. Io ridir di Bellini vorrei Il supremo mestissimo detto, Quando acceso l' angelico aspetto D' un' estrema favilla d' amor, L' azzurrina pupilla rivolge Sovra quei che da presso gli stanno, Ed esclama: La morte m' è affanno Perchè muojo su stranio terren! Oh mia patria! scolpito ho nel core Quel bel giorno in che lieta e festosa Accoglievi, tu madre amorosa, Il tuo figlio già cinto d' allôr. Della patria è più bella la lode, Della patria il sorriso è più santo, È più dolce il fraterno compianto Che l' applauso d' un popol stranier. Cara Italia! nè avrai la mia spoglia Tu d' illustri figliuoli feconda!… Fia di lauro straniero la fronda Che sul muto mio sasso starà. Ah! perchè le tue rive lasciaí, Io di gloria bramoso, anelante?… Ahi! periscon le italiche piante Trasportate nel nordico gel! Ma tuo sacro retaggio è la mesta Melodia che dettava il mio core; Sol chi avvampa d' italico amore Può la mente a quei suoni ispirar. Ecco io moro, e m' è solo conforto Il membrar che l' altero Francese, Viva Italia, proromper s' intese, Quando i nuovi miei cantici udì. Ma con me non fia morta la gloria Di quest' arte che i cuori governa; Io dal cielo, o mia terra materna, Del mio foco altri accender saprò. Disse, e l' angel pietoso di Dio Ne raccolse lo spirito anelo, E pei poggi sereni del cielo Fra i siderei concenti il guidò. Ma quei prima pietoso uno sguardo Volse al frale già rigido e immoto; Disse vale, ed un ultimo voto Mormorando, il suo duce seguì.

Perugia, il giorno 12 Luglio dell' anno 1857.

Dolce, siccome il sonito D' un' arpa lusinghiera, Che ne' silenzii placidi Di vaga estiva sera Lontan lontano ascoltasi Sull' aure tremolar, Vorrei che fosse il facile Mio non pensato canto; Vorrei che insinuandosi Negli altrui cuori, il pianto Sopra ogni ciglio splendere Facesse di pietà. Chè la più grave e orribile Delle sciagure io pingo, Or che un' ingenua vergine Nel pronto verso fingo, Che l' ineffabil raggio Della ragion smarrì. Eccola: ha il volto pallido Come la luna in cielo, Il gracil corpo incurvasi Qual fior sul proprio stelo; I suoi grand' occhi ceruli Sì dolci e lieti un dì, Or foschi lampi avventano Ai circostanti in viso; I labbri suoi dischiudonsi A un insensato riso…. Riso che invita a piangere, Sì tetro e infausto egli è. Oh! sventurata! il sorgere Del mattutino albore, Il raggio melanconico Del giorno che si muore, Degli astri il lume tremolo Nel silenzioso ciel, I fior, l' auretta tepida Che le careggia il crine, L' augel dal canto querulo, Le linfe cristalline, L' agreste solitudine, Il cittadin fragor, Nulla più avverte, e mutola L' anima sua si resta; Perfin la voce tenera Dell' accorata e mesta Madre, più omai non penetra Dell' insensata in cor! Fissa, perenne, assidua Sola una idea la tiene; Un nome sol sui pallidi Labbri talvolta viene A mezzo; chè interrompela Un flebile sospir. Talora a un invisibile Ente ragiona, e piange; E d' un affetto indomito, D' un voto che s' infrange, D' un tradimento perfido, Parla in confuso suon. Indi dal sen traendosi Un appassito fiore, Lo mira, e in baci stempravi Quasi l' afflitto core, E il riso tra le lagrime Sovra il suo volto appar. Ma poi sdegnosa e rabida Quel fior sfoglia e calpesta; Sul fronte che corrugasi, Dell' alma la tempesta, Siccome in speglio imagine, Tutta in un punto appar. Onta al crudel che addussela A così fero stato! Se la mortal giustizia Per così vil reato Pena non ha, non credasi Impune il traditor. No! i dolorosi báttiti Di quel virgineo core, La speme ed il delirio Del suo tradito amore, La luttuosa tenebra Che il suo pensier coprì, Dio segna nel terribile Libro di sua vendetta!… Per lui sarà supplizio Quant' ora più lo alletta, E tutto fiagli un tacito Rimprovero nel cor. E mentre la sua vittima Si avrà il comun compianto, E fia soggetto flebile De' patrii bardi al canto, Per lui ciascuno un fremito D' orror, di sprezzo avrà.

Perugia, il giorno 12 Luglio dell' anno 1857.

E a te, gloria immortal del patrio suolo Cui la placida bagna onda tirrena, Aquila ardita, il cui sublime volo Non basta a seguitar vista terrena; A te, cui tanto riverisco e còlo, L' ardor degl' improvvisi estri mi mena, Sovrano autor della Scïenza Nova, Che l' eterno ideal cerca e ritrova. La luce a te dell' immutabil vero, Tra l' ombra dell' ignavia oscena e scura, Viva rifulse nel divin pensiero, Come raggio di sole in onda pura. Vedesti un mito nell' antico Omero; E tra le fasi alterne di natura, La fatal degli eventi ardua catena Avvicendarsi sull' umana scena. Simile a quei che d' un novello mondo Ebbe sospetto e 'l ricercò animoso, Lunghi e lunghi anni in meditar profondo Tu passasti solingo, o generoso; Alfin di nove idee bello, e fecondo, D' ogni tesor più ricco e prezïoso, Siccome incenso sugli altari a Dio, Offerivi il tuo libro al suol natìo. Ed oh! potessi cancellar col pianto Una pagina almen della tua storia! Quel libro onde immortal starà il tuo vanto, E benedetta ognor la tua memoria, Quel che lodar non può penna nè canto, Così che adegui la mertata gloria, Qual delirio di scemo egro intelletto, Ti fe' di scherno e di pietade obbietto. Lo scherno e la pietà!… Deh! come amaro Scender doveati il lor sogghigno al core! Tasso sel seppe, a cui destino avaro Della mente a insidiar giunse il vigore; Il seppe Galileo, che vide chiaro Il vero, e confermar dovè l' errore; E Colombo, che insulti anco sofferse Quando l' alta sua speme altrui scoperse. E nel conflitto d' una umíl palestra Te riprovò superba ignavia ardita!… E poco andò che l' onorata destra Non istendessi a mendicar la vita! O Patria, o Patria! e ancor non t' ammaestra Il biasmo, onde a ragion l' estranio addita Te, le cui glorie invidïando merca, Non madre ai grandi, ma crudel noverca?… Nè, perchè alfin ti si mostrasse aperto L' alto valor del tuo Vico divino, Hai quell' onore alla sua spoglia offerto Che a lui vivente ricusò il destino: Sovra umil sasso, senza fregio e serto, Maravigliando legge il pellegrino Di Vico il nome che l' Europa onora, E riverente ivi si prostra e adora. Adora i sacri tuoi Mani, o immortale Sebezio Sofo ch' or t' insempri in Dio. Deh! se la nobil tua pianta vitale Fiori e frutti diè in copia al suol natío, Or la difendi, e le benefich' ale Stendi sovr' essa innamorato e pio, E sia centro de' tuoi raggi quell' una Terra diletta che ti diè la cuna.

Perugia, il giorno 12 Luglio dell' anno 1857.

Come rivo di limpida vena Sgorghi il verso dall' ansio mio petto; É sublime, gradito il subietto Che al mio carme impensato si diè. L' arti io canto, l' eterne Sorelle, Che dai poggi sereni del polo, Nell' Ellenio, nell' Italo suolo Venner sede gioconda a fermar. Grecia e Italia! oh regioni famose Sovra l' altre dal cielo sorrise! Nella gloria, nel duolo indivise Il pensiero contemplavi ognor. Ambo un giorno sul mondo imperaste Colla possa del brando guerriero, E se alfine il feroce straniero Ad entrambe lo scettro strappò, Queste Dive che venner benigne A sgombrar dell' ignavia l' orrore, V' irradiaron di nuovo splendore, Vi dier nuovo pacifico allôr. Ed il barbaro ei stesso, che imposta V' ebbe un dì del servaggio la soma, Ai prodigi di Atene e di Roma Riverente la fronte inchinò. Ma chi dir può gl' innumeri beni, Il celeste purissimo incanto, Che ai figliuoli dell' ira e del pianto L' Arti Belle pietose arrecâr?… La Divina che i carmi m' ispira, Fu primiera maestra alle genti; L' Armonia co' soavi concenti I ferini costumi addolcì. Altra i tempii ai Superni sacrati, Archi, circhi, palagi fastosi, Obelischi giganti, famosi Monumenti di gloria innalzò. Quella, stretto l' industre scalpello, Dallo scabro macigno ed informe Trasse umane mirabili forme, Tipo eccelso d' eterea beltà. Questa, i varii colori stemprando, A miracol si accinse novello, Scorrer fe' sulla tela il pennello, E la varia natura imitò. Tutte il pigro pensier del mortale Irradiando col lume divino, Lo riscossero all' alto destino, Cui creollo l' eterno Fattor. Taccio i mille prodigii, i trionfi Che già colser sull' arbitra possa; Ove l' orma stamparon, percossa La barbarie per sempre fuggì. Oh! salvete, o voi solo conforto Dell' umano diviso lignaggio; Varie l' opre, ma un solo è il linguaggio Con che al guardo parlate ed al cor. Tutte al bello immutabile e al vero Sollevate l' estatiche menti; Deh! giammai queste piaggie ridenti Non private del vostro splendor! Sorridete alla schiera animosa, Che le seste trattando, e i scalpelli, E l' armoniche cetre, e i pennelli, Qui vi onora di culto e d' altar. Ricordate che sede dell' Arti Si nomò questa terra fiorita: Se la gloria di un tempo ha smarrita, Questo vanto rimangale almen!

Siena, il giorno 1°ree; di Settembre dell' anno 1857.

Oh! se vi cale il fervido Estro m' accenda il seno, E ch' io prorompa in numeri Veloci qual baleno, Da incanto irresistibile Quasi rapita in ciel, Fate che nel silenzio Di bella notte estiva Sull' ali lievi e tepide Dell' aura fuggitiva, D' un' arpa malinconica Giunga il concento a me! L' arpa!… L' ardita e mobile De' bardi fantasia Dalle sue corde scorrere Fa l' onda d' armonia, Che del superno empireo Empie le volte ognor. E le sustanze angeliche Sposano ad essa il canto, Col qual continuo inneggiano All' Increato, al Santo, Assorte nell' estatica Ebbrezza dell' amor. L' arpa!… di quai memorie Favella al pensier mio!… Dai più remoti secoli Posta tra l' uomo e Dio, Stette sublime interprete Dei sensi di lassù. Chè al suon dell' arpa i savii Veggenti d' Israello Cantando profetavano Al popolo rubello Le sorti, che aspettavanlo Nei secoli avvenir. Dei prigionieri il flebile Lamento accompagnava: Sull' Eritreo di gloria Concenti a Dio mandava; Del peregrin le trepide Speranze confortò. Sol l' armonia che Davide Dall' arpa sua traea, Dell' invasato Saule L' ira calmar potea; E quando regia porpora Il pastorel vestì; Quando tra 'l fasto splendido Del suo novello stato, Sentía rimorso e strazio Dell' empio suo reato, Che sopra tanto popolo L' ira di Dio chiamò; I penitenti cantici Sciolse sull' arpa d' oro; Innanzi all' arca viderlo Guidar danzando il coro De' pìi Loviti, al sonito Dell' arpa sua fedel. Oh! dell' eccelso Libano Ardue sacrate cime, Da voi deh! un' eco vengami Dell' armonia sublime, Che di Sionne i liberi Trïonfi celebrò. Ahi! sol la malinconica Afflitta anima mia Percuote il suono flebile, Ond' ansio Geremia Il carme lamentevole Di morte accompagnò! Oh! l' arpa santa, il genio Di Geremia vorrei; Sovra i tuoi mali, o nobile Mia terra, io piangerei, In suon che i cor più barbari Faría pietosi a te! Ah! perchè donna, e povera Mi fe' d' ingegno Iddio?… Pari all' ardor che m' agita E all' immortal disio, Perchè, diletta Italia, Il canto mio non è?… Ma pur se fiochi suonano I subiti concenti, Non son devoti ai perfidi, Ai vili, ed ai potenti, Nè per superbo imperio Mai sgorgheran da me! E da te sempre, o armonico E nobile strumento, Conforto suavissimo Venir nell' alma sento; E se di luna al pallido Raggio, in negletto vel, Veggo una mesta vergine, Che assisa all' arpa innanti Sposa alle corde tremule Innamorati canti, Come ispirata, i vividi Occhi rívolti al ciel, Un' onda di letizia Correr mi sento al core; Ed oblïato il misero Albergo del dolore, Tratta mi credo ai lucidi Soggiorni di lassù. Deh! allor che presso all' ultima Inevitabil ora, Infra l' eterna orribile Notte e l' eterna aurora, Fra speme immensa e dubbio Perplessa ondeggerò. D' arpa risuoni un tenero Accordo a me vicino; Ed assopita l' anima In un sentir divino, Al suon dell' arpe angeliche In ciel si desterà.

Siena, il giorno 1°ree; di Settembre dell' anno 1857.

Chi fia quel Garzone dal guardo ispirato, Che pari al devoto che al tempio sen va, Del carcer, che accolse l' eccelso Torquato, Sull' uscio dischiuso commosso ristà? Straniero ha l' aspetto, l' accento straniero, Non nacque d' Italia nel fertile suol; Ed ora che cerca con tanto mistero Nel loco che membra un italo duol? Ei spiacque alla patria; sdegnoso un addio Le volse, e si spinse sul turgido mar; Fantastico, altero…. il guardo di Dio Può sol di quell' alma nel fondo scrutar Eppur dell' eterna scintilla fatale Quel Dio, ch' ei non cura, sua fronte irradiò! Eppur quella bocca, che il genio del male Al riso dell' ateo sovente atteggiò, Se gloria od amore rischiaran sua via, Se scosso è a fraterno dolente sospir, D' un angel disserra la dolce armonia, Ma d' angel che avvampa d' umano desir! I tempii, gli avelli, le mura corllanti Interroga acceso di santa pietà; E il sol, che sorrise agl' itali vanti, La fiamma dell' estro crescendo gli va. Oh! quante fiate, quest' atra magione, Che ai vivi per tomba l' orgoglio scavò, Sul nido natale dell' umido Albione Il giovine Bardo fremendo sognò!… Oh! come varcando la soglia ferale, Gli palpita in seno il fervido cor!… Qui visse sett' anni il Vate immortale, Che Italia ricinse dell' epico allôr! Oh! il vile abbandono del secol codardo, Che in preda lasciollo di sorte crudel, Sospinge sul labbro dell' Anglico Bardo Un riso ricolmo di sprezzo e di fiel. Ei s' agita, ei freme, nel bujo passato Si slancia col volo del forte pensier; E il pallido viso del sommo Torquato Nel loco diserto gli sembra veder. Oh è desso, ben desso! ha lacero il manto, Il volto solcato dal lungo patir; E pargli ch' ei mandi in suono di pianto Tai voci interrotte da spessi sospir: — « O larve gioconde, o larve adorate Di gloria raggiunta, di fervido amor, Ah! dove ne giste? — ternate, tornate A illuder quest' alma, cui strazia il dolor. Diviso dal resto di tutti i viventi, Chi amico conforto mi porga non v' è. Italia, che poltre tra feste e concenti, Non ode il suo Tasso, che chiede mercè! Non l' ode il tiranno, che fin l' intelletto In premio dal canto mi volle rapir; Ma forza non ebbe da trarmi dal petto Colei, per cui dolce mi sembra il soffrir. Oh mia Leonora! gentil visïone, Te spesso vagheggia quest' alma fedel, E allor si tramuta l' orrenda prigione In piaggia fiorita sorrisa dal ciel. Ah! vieni, diletta; quest' ombre di morte Rischiara col raggio dell' occhio seren; T' invola alle pompe di perfida corte, Che in mezzo alle rose nasconde il velen! Oh gioja! leggiadra al par dell' aurora, Su nube rosata ti veggo apparir; Ripeti che m' ami, ripeti, Eleonora, Quel detto, che in seno mi accheta il martir. Ascolta! non odi qual levasi intorno Di plausi frequenti giulivo clamor? Per me del trïonfo è sorto il bel giorno, Italia a Torquato decreta l' allòr. È Roma: l' altera, la splendida Roma, Che esulta alla gloria del sacro Cantor. Tu stessa, Eleonora, mi cingi la chioma Dell' epico serto, sospiro del cor! Su via! ma tu piangi, dilegui gemendo!!… Ahi! teco la bella visione mancò!… Nel carcere io sono, nel carcere orrendo, Che d' ombra e d' algore funesto addoppiò. Oh ingegni frementi, mirate, mirate Qual premio ha chi s' erge dei canti nel vol! Oh ingegni frementi, in me vi specchiate; Le cetre neglette, gittatele al suol! » — Torquato, Torquato! — prorompe il Britanno: Ma i detti gli tronca un sacro terror; Dilegua il pietoso fantastico inganno, E solo ei si trova nel loco d' orror. Allor di sublimi, gagliardi concetti Un fervido carme dal core gli uscì; E il sommo Torquato dal sen degli eletti Al Bardo straniero sorrise e plaudì.

Siena, il giorno 1°ree; di Settembre dell' anno 1857.

O sacro ed immortal spirto severo, Che solo a Dio fosti quaggiù secondo, Poi che per te legislator primiero L' alba di civiltà sorrise al mondo; Deh! ti-rivela al mio caldo pensiero, Se di tua gloria l' oceán profondo, E 'l doppio c' hai sul crin raggio lucente, D' affissarti a mortale occhio consente. Fin dall' infanzia tua meraviglios Per man ti resse di Giacobbe il Dio: Egli del Nilo in mezzo a' giunchi ascosa La tua culla a regal donna scoprío; Ei la rese vèr te mite e pietosa, E presso al trono dell' ingiusto e rio Oppressore del suo popol diletto, Educò te, già a liberarlo eletto. E ti volle Ei de' sapïenti esperto Miti, onde parve il senno egizio adulto; Perchè più bello ti splendesse e certo Il ver tra l' empie astruse fole occulto Ei ti spinse nell' arabo deserto, Poi che un fratello non soffristi inulto Là, dal roveto inconsumato e ardente La prima volta a te fessi presente. Oh degno, oh grande, oh generoso incareo Che di sua bocca a te l' Eterno affida! Vanne! A Israel, d' indegne some careo Di' che Jeova pietoso udì sue strida. Co' prodigii e i flagelli aprigli il varco La tiranna a fuggir rabbia omicida; Va, chè al tuo cenno obbedïenti omai Le rupi, i venti, e l' oceáno avrai! Oh! che a me giunga almen l' eco del canto, Che in riva all' Eritreo dal cor ti emerse! Popol d' Abramo, oh come giusto, oh quanto Potente è il Dio, che duce a te l' offerse! Rozzo ed ignaro, del primiero e santo Culto l' imago omai per te si perse; Ei nel deserto a ramingar ti spinge, E leggi e culto a statuir s' accinge. Fra i turbi, i lampi ed il fragor del tuono La vetta ascende dell' eccelso Sina; E Colui, che s' annunzia: Io son chi sono, E sul dorso dei Chèrubi cammina, Sovra alato gli appar fiammante trono In sua tremenda mäestà divina; E a lui, che il suolo con la fronte tocca, Detta i suoi dogmi di sua propria bocca. Oh! chi dubbiar potria ch' essi non sièno Parto dell' immortal senno ammirando? Guai, guai pe' tristi che al vitello osceno Prestàr stolido culto abbominando! Da un guardo sol travolti in nulla ei fièno Del mäestoso veglio venerando, Quand' egli irato scenderà dal monte, Tanta parte di Dio recando in fronte. E tu, Israele, a lui ribelle ed empio, Ricalcitravi qual destrier sfrenato: Ed ei pur minacciando estremo scempio, Nel nome del Signor da te oltraggiato, Le prime basi del futuro tempio Ergea nel tabernacolo sacrato, Dove il simbol locò di tua speranza, Nell' area della mistica alleanza. Pur questo invitto, che al crudel servaggio Ti tolse, e leggi e libertà ti diede, Sulla terra promessa a te in retaggio Non poserà l' affaticato piede! Ahi! tanto Iddio che l' ama ebbe ad oltraggio Che un istante mancasse in lui la fede; Tanto Egli vuol che tra i più dubbii e mesti Casi, indomata la speranza resti! Ma del suo servo a consolar l' estrema Ora, del monte il tragge in sulla vetta; E a sua pupilla di vigor già scema, Mostra la fertil terra, ivi soggetta; Egli, oblïando della pugna estrema L' ansia affannosa che lo incalza e affretta, Ambo le braccia a lei tende, sospira, Poi nel seno di Dio s' inchina e spira. E Dio medesmo, ove non mai mortale Occhio pervenne, i resti suoi depose. Oh! chi di te più grande, Uomo immortale? Chi più di te compì stupende cose? Io sento al mio pensier già tronche l' ale, E taccio, e adoro, al rimembrar che pose Il tuo senno l' inizio al sacro patto, Che poi Cristo sancì col gran Riscatto.

Siena, il giorno 1°ree; di Settembre dell' anno 1857.

Addio, vetusta ed inclita Siena, ove pura e bella Risuona la dolcissima Italica favella; Cuna di Lei, che in mistico Nodo il Signor sposò. Addio; se rozzo e povero Fu il canto mio, perdona; Pari all' ardor che m' agita Se il verso oggi non suona, Pensa che i fati osteggiano Ogni sublime ardir. O donzelle, se gli anni più gai Non vi annebii rimorso o dolore, Deh! non desti sol vano splendore Di bellezza in voi l' ansie di amor. Vi rimembri la povera Lisa, Lisa incauta, che in misere spoglie « Qual mendìca del padre alle soglie Va di un pane il soccorso a implorar. » Fu leggiadra, qual sogno pietoso Che la patria ad un esul riappella; Lei di un prode la maschia favella Quasi un angel tra l' armi invocò. Ahi, non angel! fu donna e leggiera; E altro amor che or di senno la toglie, « Fuor la spinse da queste sue soglie Qual mendìca soccorso a implorar. » Sventurata!… Oh ritolta alla terra Dio ti avesse con mite consiglio, In quel dì che da prima il tuo ciglio Di un malvagio lo sguardo incontrò! Oh di quale tremenda sciagura Nel tuo amore il mal seme si accoglie! « Poco è ancor che a le proprie tue soglie Venga un pane mendìca a implorar. » Chi può dir quanta pugna durasti Fra timore, vergogna e speranza, Pria che fuor della squallida stanza Ti spingesse un supremo terror?… Il terror per la vita del figlio Che sovrasta le mille tue doglie…. « Ah! per lui fin del padre alle soglie Ti trascini soccorso a implorar! » Ma chi fia che ti ponga sul labbro Per placarlo pietosi lamenti, Mentre il guardo ricordi e gli accenti Con che irato da sè ti scacciò?… Oh! al pensarne tue gracili membra Treman, come per vento le foglie, « E prostrata sull' umide soglie Non ardisci soccorso implorar! » Pur fra te, come illusa, ragioni: Oh! non duran gli sdegni di un padre! Se a un nemico son moglie, io son madre, E il mio figlio delitto non ha! Il mio figlio…. ah! mentr' io, vile, ondeggio, Ei per fame in lamenti si scioglie…. « Padre, oh padre! mi schiudi le soglie; Io per esso ti vengo a implorar! » — Padre, ho fame!…. — E il tuo grido penètra, Quasi punta di ferro guerriero, Fin nel core del vecchio severo Che dal seggio tremando balzò!…. Tramutato nel pallido aspetto, Seco pugna tra opposite voglie…. « Ecco, ei muove a dischiuder le soglie Ove t' ode soccorso implorar. » Oh infelice! a che mai di speranza Il tuo cor nel mirarlo si accende?… Non le braccia, ma un pane ei ti stende, Nè a mirarti lo sguardo abbassò! Carità cittadina indomata Dal perdono quell' alma distoglie…. « D' un Pallesco sei donna, e le soglie D' un de' Lapi t' è vano implorar! » Piangi, piangi, rejetta!.., ma quanto Più di questo crudele abbandono Ti fia un giorno tormento il perdono Ch' ei placato al tuo fallo darà! Disïar quante volte dovrai Che a te, e al vil che ti disse sua moglie, « Non si fosser mai schiuse le soglie Dove or segui pietade a implorar! » Chè per lui, per tuo mezzo, fia tratta Questa terra al temuto servaggio, Ed il libero estremo suo raggio Col tuo padre sul palco morrà! Pur da te ciascun biasmo severo La pietà del tuo fato ritoglie; « E i nepoti, varcando tue soglie, S' odon pace al tuo spirto implorar. »

Firenze, il giorno 26 di Settembre dell' anno 1857.

O Tu, che sei l' anelito Del Primo Amor fecondo, Che, tratti i mondi innumeri Dal cäos infecondo, L' umana argilla ignobile D' alma immortal dotò, Tu che la luce e il gaudio Sei che riempie il cielo, E il Forte, l' Infallibile, Sotto caduco velo, Offristi al Padre, vittima Santa del primo error; O Carità, se gli angeli Presso al supremo trono Di te continuo inneggiano Dell' arpe eterne al suono, Più giusto è ben che gli uomini Cantin tue laudi ognor. Chè tu sei l' invisibile Anel del laccio areano Che noi pusilli e miseri Stringe al Fattor Sovrano, Sei legge cara ed unica Ch' Ei nel Vangel dettò. Sei la virtù che germina Ogni gentil virtute, Il vanto onde sol puotesi Per noi sperar salute, La face ardente e mistica D' eterna Civiltà! Di un guardo solo il gemino Ampio emisfero scerni; Viva in temprate e fertili Piagge, o fra ghiacci eterni, O là dove più fervidi Vibra i suoi raggi il sol, Dell' uom che soffre il gemito A Te, beata, arriva; Nè indarno mai, chè indomita, Santa, operosa e viva, Reggie e tugurii penetri, Voli al deserto e al mar. È lieve fumo, è sibilo D' aura fugace e vana, Solco che in mar dileguasi, La sapïenza umana; Luce infedel che devia L' incauto passeggier, Se in Te non prende origine, Se a Te nel fin non mira; Pianta è sfrondata e sterile, Sotto di cui sospira, Invan rïarso, esausto, Lo stanco peregrin. Oh forte, oh grande, oh savio Chi sol tua voce ascolta! Chi disdegnando il tumido Fasto, e ogni ebrezza stolta, Delle asciugate lagrime, Del perdonato error, Fa suo diletto; e al povero L' obol pietoso stende, La vedovetta e l' orfano Dall' oppressor difende, Gli egri conforta, il carcere Allevia al prigionier; E fin le mute ceneri Curando del fratello, Prega l' eterna requie Sul suo diserto avello; E verecondo involasi Dell' altrui plauso al suon! Chè non domati imperii, Nè acquisto di tesori, Nè d' arti alti prodigii, O numeri canori Vanto ne fian, nell' ultimo Inevitabil dì; Ma ogni tuo moto, ogni opera, O Carità superna, Posta nell' infallibile Di Dio bilancia eterna, Un pondo avrà che superi Quello di grave error. Per Te l' Eterno Giudice Dirà vêr noi rivolto: « Qui molto a voi perdonasi, Sol perchè amaste molto: Amor dal nulla trassevi, A me vi rende amor! »

Firenze, il giorno 26 di Settembre dell' anno 1857.

Pria che le varie terrestri belve, Col suo possente spiro d' amor, A popolarne e valli e selve, Crëasse il sommo divino Autor, Voi foste, o vaghi gentili augelli, Insiem coi muti figli del mar; E il sole e gli astri raggianti e belli I primi foste a vagheggiar. Voi della vergine ampia natura, Che inconscia ancora parea di sè, Foste la prima voce più pura, Che a Dio dell' essere rendea mercè! E voi feriste col dolce canto La bella coppia che al sesto dì, Dalle immortali mani del Santo, D' ogni prodigio compendio, uscì. In voi, siccome ne' vaghi fiori Di che la fertile terra smaltò, Di mille varie forme e colori L' ampie ricchezze Iddio spiegò. E istinto indomito di libertade Dandovi, i vanni vi diede al vol, Si che scorrete l' eteree strade E raro accoglievi il basso suol. Or boschi, or monti, or piani aperti Vi prescegliete ad abitar; Or gl' infocati vasti deserti, Or le infeconde rive del mar. Tra voi; chi fermo al suo natale Loco del verno sfida il rigor; E chi in autunno spiegando l' ale D' aëre più mite cerca il tepor. Chi solitario all' alba e a sera Si piace flebili note snodar; E chi festoso in lunga schiera Co' suoi fratelli gode vagar. Chi con mirabile industre stento Il nido ai figli intesser suol; E chi tra nude rupi contento Per tempo il guardo ne avvezza al sol. Ma quell' amore che infuse Iddio In tutti gli esseri ch' Egli creò, L' amor pel santo loco natío, Pel suol che primo ne sostentò, In voi possente vive, e ne siete Parlante esempio ad ogni cor; Chè mentre libero lo spazio avete, Se lungi al verno migrate ancor, Appena ridere si scorge Aprile, E voi nel dolce natío terren Con amorosa ansia gentile Al proprio nido tornate in sen. E là soltanto, tra' bei concenti Che a voi del riedere detta il gioir, Le vostre compionsi nozze innocenti Delle novelle piante al fiorir. Oh Augelli! Oh! fino dai dì felici Che incerte l' orme segnava il piè, Siccome ingenui leggiadri amici Voi foste sempre diletti a me. Sempre mi piacqui nella fedele Stanza vedervi meco abitar; Ma in troppo angusta prigion crudele Non mai vedervi volli penar. Cagion di semplici gioje e di pianto Mi siete, e irridermi taluno osò…. Ma questi ignora che in voi soltanto Vano trastullo amar non so!… Ah! poi che il Bello e il Ver di un velo La terra ingombra, v' ama il mio cor, Perchè vi alzate più presso al cielo, U' il Bello e il Vero splendono ognor!

Firenze, il giorno 26 di Settembre dell' anno 1857.

O dell' itale glorie ostello antico, Vaga Città che ben dai fiori hai nome, Poi che perpetui nel tuo suolo aprico Il sol li educa a inghirlandar tue chiome; Io nel mirarti esulto, e benedico Dio che mi trasse in grembo a te, siccome, Giunto alla meta, peregrin divoto Si prostra al tempio, e vi discioglie il voto. Dal ciel, dall' aura che suave aleggia E l' onda increspa che ti lambe il piede; Dalle moli, ove, come in propria reggia, L' Arte, vanto d' Italia, altera siede; Da' monumenti in cui vivo grandeggia L' onor de' sommi, che il Signor ti diede, Par che areana virtù si parta, e spiri Mille di gloria al cor novi desiri. Forse, o padre Alighier, l' immenso affetto Che a te stringe la schiva alma romita, Grazia trovò dinanzi al tuo cospetto Or ch' io calpesto la tua terra avita?… Ah sì, tu sei che il povero concetto Mi afforzi, mentre io timida e rapita Guardo la soglia dell' ostel vetusto, Dove nascesti al secol fero e ingiusto. Oh sacre mura!… Oh primo e dolce nido Di quel Divino tra gli umani ingegni, A cui non fu confin terreno lido, Ma fuor del mondo si creò tre regni; Voi dunque udiste l' infantil suo grido, Voi dell' amor, de' generosi sdegni Che dier vita a sue rime eccelse e meste, I primi lampi sfavillar vedeste!… M' inganno, o l' eco di dolcezza pieno Qui susurra il bel nome ancor di Bice?… Oh! quanta speme si chiudea nel seno Del giovinetto in quella età felice! Sognando allor l' angelico e sereno Volto, e gli accenti che ridir non lice, Cantava Lei, che d' umiltà vestita, Bëava ognun che la conobbe in vita. Ma tosto in cupe fantasie dolenti Voi lo vedeste, o antiche mura, immerso; Poi che fu assunta alle bëate genti Quella gentil, dal secolo perverso. Vide iniqui di parte odii frementi Sorger, come sul mar turbine avverso, E infierir cruda fratricida guerra Tra que' che un muro 'ed una fossa serra. Oh! mi narrate voi, conscie pareti, L' ire, l' ansie, il dolor del cittadino, Che i suoi be' colli dilettosi e lieti Guastar vedea da Guelfo e Ghibellino. Ditemi voi quanti sospir segreti Sparse, pensando all' italo destino, E l' error che annebbiava il gran pensiero Quando aïta invocò dallo straniero! Ma no, non qui quel sommo italo figlio A sì vana speranza aperse il core; Ma quando il senno e il libero consiglio Ne calunniò degli emuli il livore, Ei spinto in crudo immeritato esiglio, Le discordie imprecando in suo dolore, Si dipingeva, illusïon gradita, Sotto l' Impero Italia forte e unita.

Manca una stanza non raccolta.

Ma noi, già troppo tralignanti omai Dal robusto sentir dell' Alighieri, Non l' eco a te degli amorosi lai, Ma quel chiediam de' suoi forti pensieri. Oh! qui, qui venga chi di molli guai Empie le carte, o chi d' aspri stranieri Modi e sogni le insozza, o chi con vile Animo scïoglier suol carme servile! Oh! no, non v' è sì fiacca alma venale, Che, rimirando sull' antica soglia Sculto il nome dell' Esule immortale, Di vergogna alcun senso non accoglia. E i pochi invitti, cui del suol natale Il santo zelo ad ardui fatti invoglia, Qui, nel pensiero del Sovran Poeta, Drizzan l' ingegno a glorïosa meta.

Firense, il giorno 26 di Settembre dell' anno 1857.

Ecco già solca il liquido elemento, E un Angiol siede sopra il suo naviglio; Ei contempla le vie del firmamento, E sol dal genio suo prende consiglio. Non lo sgomenta il furïar del vento, Non de' compagni il torbido cipiglio, Sfida animoso ogni più crudo stento, E mostra asciutto, anzi sereno il ciglio. E tocca alfin la disïata sponda, A cui nol guida avidità dell' oro, Ma sol pensiero di pietà profonda. Pur ceppi acquista, non plausi ed alloro, E mentre Iberia fa ricca e gioconda, Ei sol di sue virtù serba il tesoro.

Firense, il giorno 26 di Settembre dell' anno 1857.

Filiale amor, oh fervido E sacrosanto affetto, Che la natura provvida Instilla all' uom nel petto Insiem coi primi battiti Dell' innocente cor; Filiale amor, che l' anima Tutta di te m' accendi, Sola, pudica aureola Che sul mio fronte splendi, Scopo sublime e premio Di tutti i miei sudor; Deh! ne' miei versi effonditi, Siccome aura gentile, Che sospirando aleggia All' apparir d' aprile Fra gli odorosi calici De' variopinti fior. Col primo accento tenero Della materna bocca, Col primo bacio fervido Che in fronte ella ne scocca. Col primo riso ingenuo Commisto al pianto ancor; Con la primiera ed ansia Sollecita sua cura, Con che i bisogni, i gemiti Di prevenir procura Al pegno soavissimo Del suo fecondo amor, Del figlio in sen, che il vivere Ignora ancor, la pia Natura un senso sveglia D' arcana simpatia, Per lei che in grembo accolselo, E lo produsse al dì. Nei lunghi sonni placidi Dell' età sua fanciulla, Fra visïoni d' angeli Che la fiorita culla Soavemente ombreggiano Con le bell' ali d' or, Due volti d' ineffabile Affetto accesi ei mira; E quando risvegliandosi I lumi intorno gira, Di que' due volti incontrasi Nel pio sorriso ancor. Ed essi impara a scorgere Fra cento volti e cento; Per essi acqueta il piangere, Per essi è il primo accento, Per essi il primo candido Suo priego al Creator. É allor che giunto al florido Mattino della vita, Fra mille affetti ondeggia L' irrequïeta, ardita Alma, che vede in roseo Dipinto l' avvenir, Qual più secura scegliere Potria guida, o consíglio, Qual cor per lui più tenero, Qual più vegghiante ciglio, Sia che il piacer sorridagli, O lo contristi il duol, Di quei, che in lui rivivere Si sente, ed agi, e sede In glorïosa patria, E religion gli diede, E col nome trasmettegli Degli avi suoi l' onor? Oh bello, oh santo il giubilo Che inonda a un figlio il core, Quando in soavi lacrime Immerso il genitore Vede in udir l' encomio Ch' ei meritar cercò! Ah no! non sia chi dicami Che spesso il sol rischiara Mostri che ai padri rendono Triste la vita e amara, E maledir gli astringono Di lor nascenza il dì. Udir nol vo'; sacrilego, E troppo empio è il reato: Nè di sì trista immagine Il carme innamorato Bruttar vogl' io, nè pingerla Saprei, volendo, ancor. Oh! a me l' amor che ressemi Alla virtù finora, Consolator benefico La vita irraggi ancora; E quando presso a sciogliere Sarò l' estremo vol, Deh! ch' io rimiri, i languidi Occhi volgendo intorno, Quei volti che sorrisero Alla mia culla un giorno; Del bacio lor nel gaudio Mi accoglierà il Signor.

Firense, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

Oh! non fugate quei pargoletti, A me lasciateli tutti appressar; Dei Cieli al regno son essi eletti, In Ciel, chi spregiali, non speri entrar. Così, ai seguaci vôlto, dicea Quei che per tutti venne a soffrir, E la divina destra stendea Le bionde teste a benedir. E non dai ricchi adorni ostelli Venían gl' infanti al Redentor, Ma dai tuguri più poverelli, Là dove il pane bagna il sudor. Figli del popolo crescean fra' stenti, Ed Ei pel popolo visse, e morì; E nel diligere quegl' innocenti Ad imitarlo tutti ammonì. Oh! i poverelli!… in nuda stanza, Quand' essi i lumi schiudono al sol, Non il sorriso dell' esultanza Il lor vagito accoglier suol. Ma il primo bacio, che la languente Madre al suo figlio sul fronte dà, L' orma vi lascia d' una dolente Stilla di trepida ansia e pietà. Oh! chi sa, pensa, se avrà il suo petto Per nutricarlo fecondo umor?… Chi sa se sempre avrà quel tetto Per ricovrarvi quel suo tesor? Or bello è roseo ha il picciol volto, Dorme, e il dolore che sia non sa; Ma se da fiero morbo fia colto, Chi aita e farmaco gli appresterà?… E se l' assidue fatiche e i stenti Lo sposo opprimono, s' egro ei riman, Oh! verrà giorno che fra' lamenti Quel figlio un pane le chiegga invan! A tal pensiero quella pietosa Trema, ed al seno stretto il bambin, Corre a riprendere la travagliosa Opera appena spunta il mattin. Ma ohimè! che mentre suda il suo nato Di scarso cibo a provveder, Quei cresce all' ozio, abbandonato Pe' trivj, ignaro d' ogni dover. Il cieco istinto senza alcun freno I moti suscita del vergin cor, E i tristi esempj del vizio osceno La veste adombrano del suo candor. Guai se il bisogno un dì lo sprona A chieder l' obolo della pietà: Oh! non a lungo la sua corona Quell' angioletto conserverà! Oh miei fratelli, pietà, mercede Pe' fanciulletti che Cristo amò! S' è in voi d' un secolo miglior la fede, Se amor di patria muover vi può, Ai stenti, ai rischi strappar tentate I grami figli del poverel; Oh miei fratelli, di lor tremate Se in lor del vizio s' insinua il fiel. D' amor, d' indomita fede e costanza Vi giovi i teneri petti informar; Che in essi viva sia la speranza, Se a noi le fauste sorti mancàr! La speme è in essi; chi non li cura, Li soffre immersi nel cieco error, Quei con Satanno tristo congiura, Perchè il suo regno si estenda ancor.

Firenze, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

O sorelle, che al facil mio carme Amorevole orecchio prestate, O sorelle deh! meco intuonate Una lode all' eterno Fattor. Egli, allor che a redimer gli umani Scese in terra nel fragile velo, Noi co' dommi del santo Vangelo Doppiamente redense e inalzò. Quando a morte e a gravosa fatica L' uom dannava pel fallo primiero, Dio la donna sommise all' impero Di colui ch' ella indusse a fallir. Ma non disse: La luce io t' annebbio Del pensier che sorvola le stelle, E a te l' opre magnanime e belle Fia conteso nel mondo compir. Ei nol disse; chè mentre al servaggio D' Eva mesta le figlie dannava, Già Maria nel pensier vagheggiava, Che i lor nodi verrebbe a spezzar. Pur l' orgoglio dell' uomo, a misura Che incedea pel malvagio sentiero, Sulla dolce compagna l' impero Qual tiranno più sempre aggravò. Sol da' vezzi caduchi difesa, Qual strumento di facil diletto, O fra pompe di splendido tetto, O fra stenti di povero ostel; Sempre schiava, dall' uom, che geloso L' accerchiava d' ignavia e d' errore, Ripetea quasi dono l' amore, Che diviso era forza soffrir. E pur Dio del suo popol talora A una donna commise lo scampo; Formidabile Debora in campo D' Israello i nemici fugò. E Gìuditta, e la maschia Giaele Della patria fur gaudio e salvezza, E d' Amanno alla truce fierezza Ester bella sue genti strappò. Nè tra l' ombre idolatre fur scarse Grecia e Roma di eccelse Eroine; Ma se poche ebber laudi divine, Tutte schiave pur sempre restâr. Tutte schiave, finchè sublimate Nella Vergin Reina del Cielo, Quella voce che indisse il Vangelo Alla terra i lor dritti bandì. Oh il Vangelo! la legge d' amore, Che fa tutti gli umani fratelli, Che del povero i cenci fa belli Più del manto purpureo dei re; Il Vangelo che dice: Perdona Volentier, se perdono vorrai, Nè invidiar chi in tripudio vedrai, Chè Dio solo co' mesti sarà; Il Vangel, che gl' ipocriti tristi Rassomiglia a sepolcri imbiancati, Ed i cieli, ai superbi negati, Schiude agli umili e miti di cor; Il Vangel ne tornava, o sorelle, D' Eva pura nei dritti primieri; Ma il Vangelo a sublimi doveri Ad un tempo noi donne chiamò. Carità, che in sè tutti li assume, Sola vuol che ci avvampi nel core; A noi fonte di vita è l' amore, E sua legge fa santo l' amor. Non l' amor, che vigliacco e snervato Ai piacer fuggitivi ne sprona, Ma ben quel che al martirio è corona, E senz' armi la terra domò. O sorelle! è la luce il Vangelo: Non periscon per tempo i suoi detti; Nel tesor de' domestici affetti Ei ne affida l' umano avvenir. Santo ed alto deposito è questo, Chiude il fato del suolo natío; Oh! preghiam che il mandato di Dio Possa alfine la donna compir!

Firenze, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

O diletta al Signor terra fatale, Meravigliosa alle diverse genti, Sia che in te echeggi l' inno trionfale, O l' elegia degl' infelici eventi; Salve, o adorata mia terra natale, Ricca di onor, di affanni, e di portenti; Salve, o del verso che il dolor mi elice Invocata perenne ispiratrice! Tal mi son io, ch' ove altri sol t' appella Degna di pianto, e del tuo ben dispera, Io disperar non so, ma di novella Gloria confido rivederti altera; Ed aspettando pur che alla procella Succeda Iri di pace messaggera, Gli animi a rinfrancar nel prisco vanto, De' fasti tuoi più intemerati io canto. O Buonarroti, o Sanzio! e voi concessi A questa cara in tempi fortunosi, Voi non vilmente dal cordoglio oppressi Durar sapeste in ozi inglorïosi; Ma poi che stolta la speranza fessi Di tributarle allori sanguinosi, Sudaste a ornarle la vetusta chioma Del serto onde regina ancor si noma. D' aspetto, ingegno, e d' animo diverso, Grandi del par, la stessa età beaste; Ma l' un, quasi gigante, all' universo Par che severo in sua virtù sovraste; L' altro in eteree visïoni immerso Passa com' angiol tra le genti guaste; L' un stupor, riverenza induce ai petti, L' altro v' istilla sol celesti affetti. Quei, di Fiorenza altero cittadino, Nel verso eterno e nella sacra bile S' ispirò del poeta ghibellino, E conformovvi il grandïoso stile; Questi, nel riso della molle Urbino Nato, dal carme angelico e gentile Del buon Petrarca l' ideal modello Trasse del vero ed immutabil bello. Però nei marmi, nelle moli ardite, Nei dipinti e nei versi, il suo vigore. Buonarroti trasfuse, e le infiacchite Alme scuoter pensò dal vil torpore; E chi non freme nel fissar le ignìte Luci del grande Ebreo legislatore? O la scena in che tutti il Re superno Chiama a eterno martire, o a premio eterno? Certo ancor ei, fra i reprobi e gli eletti, Nuovo Allighieri, col pennel possente Veri dipinse conosciuti aspetti Di quei che Italia fean lieta o dolente. Ed ei pur difendeva i patrii tetti Nei perigli consorte alla sua gente; Ei come Dante ognor geloso e pio Al prediletto suo nido natío! In lui, già asceso a glorïosa altezza, Sanzio mirando interrogò il suo core; E quel rispose: A tal sublime asprezza Aspiri indarno, a te sia duce amore. Ama e dipingi: scala è la bellezza Che l' uom conduce a Chi del bello è autore: Per diverso sentier, da un solo zelo Accesi entrambi poggerete al cielo! E Sanzio udì del cor la voce, e pinse Mentre d' amor lo ardean fiamme immortali; E colei, che per sempre a sè lo strinse, In forme ritraea celestïali; Alfin nell' opra in cui sè stesso vinse, Non che quanti famosi ebbe rivali, Il più grande d' amor volle eternato Prodigio nell' Uom-Dio trasfigurato. O forti, o grandi, o glorïosi, o invero Del culto che vi è reso entrambi degni! Deh! un doppio raggio all' italo pensiero Scenda per voi dagl' immortali regni; L' un lo riscuota in sua grandezza altero, L' altro fiducia e carità gl' insegni; Chè se tanto da Dio voi ne ottenete, Non indegni di voi posteri avrete.

Firenze, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

Solo ed inerme, ei mosse acerba guerra Al tralignato popolo lombardo; E il viril carme, che il suo labbro sferra, Ben lo mostra italiano e degno bardo. Solo ed inerme ei combattè la terra, La terra col suo secolo bugiardo; Ed ora che l' avello lo rinserra, Suona il suo verso ancor bello e gagliardo. Con quante disciogliea parole amare, Con tante saettava il reo costume, Che signoreggia in queste sponde care. Ed ei brillò siccome etereo lume, E la sua gloria è vasto immenso mare, Su cui l' eternità batte le piume.

Firenze, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

In questi fior, che con gentil pensiero Offrite in premio al mio spontaneo canto, Il simbolo io ravviso unico e vero Di quel che a me si addice umile vanto; Ch' oltre la gloria mia duri non spero Del tempo che dei fior dura l' incanto; Ma deí fior che mi dona il vostro affetto, L' olezzo eterno io sentirò nel petto.

Firenze, il giorno 5 di Dicembre dell' anno 1857.

FINE DIL VOLUME, PRIMO.

Della Giannina Milli e delle sue Poesie Pag. I-XXVII

All' egregia donzella Teresa Gnoli. 1

Versi meditati.

Tre rose. — Stanze. 5

Alla signora N. Giardini, in morte di suo figlio. 11

Ad una stella. 13

A nobile ed egregia signora. — Sonetto. 17

Ad una giovinetta. — Sonetto. 18

La madre Canadese. 19

Stanze. 23

Il mio canto. — Romanza. 26

In morte di Salvalore Russo. — Sonetto. 27

A Ginseppina Torrisi Colonna. — Stanze. 28

Romanza. 32

Il Monomaniaco. 34

La madre. — Romanza. 37

Annina. 38

Sonetti. 40

Giulia. 43

In morte del pittore Giuseppe Bonolis. — Terzine 47

Alla nobilissima ed egregia signora Amalia Colonna. — Canzone. 51

Un desiderio. 54

Rimembranza. 55

Cambiando abitazione Pag. 58

La sorella moribonda. 59

Sopra una immagine di Maria 63

L' Orfanella. 65

Al chiarissimo Giulio Genoino. — Sonetto 67

Allo stesso. — Sonetto 68

A Messina 69

Al mio egregio maestro Stefano De Martinis. — Terzine 71

La Valle di San Corrado in Noto. 74

Il Mattino. 79

In morte di una giovane 80

Romanza 82

Alla memoria del sacerdote Nicola Galiani 84

La grotta di Santa Rosalia sul monte Pellegrino in Palermo 85

Romanza 88

Alle alunne dell' Istituto Batifort e Wembacher in Bari. 89

In morte di Nicola Jorio. 90

Alla signora marchesa di San Giuliano. 91

In morte di un giovine Magistrato. 93

A mia madre nel suo dì onomastico 94

Per una raccolta di versi in lode di una giovinetta defunta. 95

Alla signora N˙ N˙ in morte di suo figlio 96

Romanza. 97

Alla egregia Irene Valia 98

Per la prima pagina dell' album di una giovinetta. 101

Ad un giovane nel dì delle sue nozze. 102

Alla memoria di Amalia Melga. 103

Versi recitati da un fanciullino a' suoi genitori, nel giorno di Pasqua. 104

A Maria Santissima. 105

Alla benedetta memoria de' miei carissimi Enrico ed Adelaide 106

Ad una farfalla, in sul finir d' autunno. 107

La nascita di Maria Vergine 109

Il nome di Maria. 110

Al prodigioso fanciullo Giorlamo Majo. 111

Per monaca 113

Sul feretro di Giulio Genoino. 114

Versi letti nella solenne tornata dell' Accademia Pontaniana per onorare la memoria di Giulio Genoino 115

Offerta di un figlio alla memoria del suo genitore 118

Per la nascita di una bambina Pag. 119

Ad una giovane e gentile poetessa. 120

Addio a Napoli, muovendo alla volta della Sicilia 124

Al conte Tommaso Gnoli nel suo giorno natalizio. 127

Per la traslocazione delle ceneri di Torquato Tasso nel nuovo monumento. — Stanze. 129

Terzine sullo stesso argomento. 132

Alla mia Teresa Gnoli. 133

Agli accademici Filedoni di Perugia 139

Ad Enrico ed Annunziata Pernossi. 142

Visitando il sommo pontefice Pio IX la casa di Santa Caterina da Siena 144

Alla principessa Luisa Corsini 145

Al Padre Alessandro Checcucci. 150

Canti improvvisi.

Alfieri alla tomba di Dante. — Stanze 153

I fiori 157

Invito a Malvina a recar l' arpa ad Ossian. 160

Dante che da lontano guarda Firenze. — Stanze 163

Amore e gloria. 167

La Melanconia. 171

Le Rondini. 174

A Gaetano Donizetti 178

La solitudine 184

La tradita. 187

Il Poeta. 191

Luigi Rolla innanzi alla sua statua la Rachele. — Stanze. 196

Una madre sulla tomba dell' unico suo figlio. 200

La squilla della sera. 204

Le stelle. 207

La memoria delle gioje della fanciullezza 212

Agar nel deserto 215

Musica e poesia son due sorelle. 219

Una madre presso la culla dell' unico figlio cieco 224

Francesco Petrarca che vede per la prima volta Laura 228

L' Iride 232

Monti poeta e Gianni improvvisatore. 235

La morte di Lionardo Da Vinci. 238

Qual è il più bel pregio della donna. Pag. 243

Michelangelo che concepisce il Giudizio universale. 247

Il passaggio dell'Eritreo. 250

La preghiera mattutina di una vergine religiosa. 255

Il canto dell' orfana. 259

La sapienza ed il giudizio di Salomone. 263

Alessandro Manzoni alla tomba di Tommaso Grossi. 267

Fiori e spine. 271

Torquato Tasso che torna a Sorrento. 274

L' Arpa di Davide. 278

Le Suore della carità. 283

Raffaello e Belimi. 287

A Pietro Ciordani sopra il suo scritto sullo Sgricci. 291

Raffaello che sogna la Fornarina. 295

La preghiera degli orfanelli in un Asilo di Carità. 299

Torquato Tasso alla tomba di Eleonora. 302

Affieri e il suo Teatro Tragico. 306

La Farfalla immagine dell' anima. 310

A Giacomo Leopardi. 313

La Poetessa a Ballo. 317

Canto e preghiera di una giovane poetessa. 321

Leone X che protegge le Belle Arti. 324

Michelangelo che dice al suo Mosè: Parla!. 329

Il Tintoretto che ritrae la sua figliuola morta. 333

La fiducia in Dio. 337

Ugo Foscolo nato in Grecia, divien poeta in Italia, in Inghilterra. 341

Dante che muore in esilio. 345

Per la promulgazione del domma sulla immacolata Concezione di Maria. 349

Il canto di una madre presso la culla della sua bambina. 353

Un' ora a Posilippo presso le tombe di Virgilio e del Sannazzaro. 357

Raffaello che dipinge la Trastigurazione. 361

La Mendica. 365

L' Angelo mio. 369

La Maga di Endor. 372

Alla memoria di Giulio Genoino. 375

I sogni di un poeta giovinetto. 379

Un saluto ad Adelaide Ristori. 383

Il tipo ideale di una giovinetta a quindici anni. Pag. 388

La preghiera della moglie del pescatore in una notte tempestosa. 392

La Beatrice di Dante. 396

Il Sordo-muto. 400

Le memorie del suolo natio in chi ne è lontano. 404

Offerto all' autrice contemporaneamente da gentil signorina un mazzo di fiori, e dagli Accademici del teatro un serto di alloro, ec. 409

L' addio di una sposa alla casa paterna. 410

L' ultimo pensiero di Vincenzo Bellini all' Italia. 414

La Demente. 418

Giovan Battista Vico. 423

Le Belle Arti. 426

L' Arpa. 430

Giorgio Byron nella prigione di Torquato Tasso. 436

Mosè. 441

Addio a Siena. 445

Lisa de' Lapì che va a implorar soccorso alla porta di suo padre. 446

La carità. 450

Gli augelli. 454

La casa di Dante. 458

Colombo. 462

L' amor . 463

I fanciulli dei poveri. 468

La donna e il Vangelo. 472

Michelangiolo e Raffaello. 476

Parini. 480

Nell' atto che le veniva offerto ua mazzo di fiori. 481