LETTERE
DI
DONNE ITALIANE
DEL SECOLO DECIMOSESTO
RACCOLTE E PUBBLICATE
DA
BARTOLOMMEO GAMBA

VENEZIA
DALLA TIPOGRAFIA DI ALVISOPOLI
MDCCCXXXII

Al principio del secolo decimosettimo appartiene questa valentissima Ebrea veneziana, di cui però non mi è riescito conoscere nè l'anno della nascita nè quello del suo passaggio tra i più. Che fosse donna scienziata, perita nella musica, buona rimatrice, e degna di ammirazione nello stile epistolare tutto ciò puossi arguire dall'importante carteggio che tenne con Ansaldo Cebà genovese, le cui risposte soltanto si pubblicarono colle stampe in Genova, 1623 in 4.to. Havvi tra le Lettere del Cebà qualche gentile Componimento poetico composto dalla medesima, e così pure una lettera del Cebà a Giacobbe Sulam marito di Sara per eccitarlo ad abbracciare la cattolica fede. Ma sì il marito che la moglie sembra che non abbiano secondate le mire del Genovese, pertinacemente rispondendo la bella Ebrea:

Che chi'l vecchio cammin pel nuovo lascia Spesso s'inganna, e poi ne sente ambascia. E' grande peccato che delle Lettere al Cebà scritte da Sara non siasi fatto conserva; tanto più quanto che dalla corrispondenza di lui scorgesi che dovean essere non solo molto importanti, ma quanto può mai immaginarsi affettuose. Ebbe principio col dì 19 Maggio 1618, e termine col dì 30 Aprile 1622.

L'unica lettera che di Sara m' è riuscito di scovar fuori, e che per difendersi da impertinenti accuse ella avea fatto imprimere in Venezia l'anno 1621 in 4.to, è la seguente, ch'io riporto, quantunque appartenga al Secolo decimo settimo, per coronare con un documento di vivace sposizione e di giusto e solido raziocinio la presente Raccolta di Lettere d'illustri antiche donne italiane.

Scrisse il Bonifacio un Discorso dell'immortalità dell'anima, impresso in Venezia, per Antonio Pinelli, 1621 in 4. indirizzandolo a Sara Copia per detestare la supposta di lei opinione di negare la immortalità dell'anima. La giovane Ebrea per disendersi da tale calunnia scrisse e stampò srettolosamente la seguente Lettera, intitolata: Manifesto di Sara Copia Sulam hebrea nel quale è da lei riprovata e detestata l'opinione negante l' Immortalità dell'anima, falsamente attribuitale dal signor Baldassare Bonifacio. In Venezia appresso Joanni Alberti, 1621 in 4. Con delicato sentimento vi premise la dedicazione ai Mani del padre suo.

L'anima dell'uomo, signor Baldassare, è incorruttibile, immortale e divina, creata ed infusa da Dio nel nostro corpo in quel tempo che l'organizzato è reso abile nel ventre materno a poterla ricevere; e questa verità è così certa, infallibile, indubitata appresso di me, come credo che sia appresso ogni Ebreo e Cristiano. Il titolo del vostro libro, dove vi siete accinto in farsetto a discorrere di tal materia, mi ha fatto sovvenire il detto di quel galante Romano, il quale essendo invitato a voler andare ad ascoltar una orazione in lode di Ercole, disse: ecquis Hercules vituperat? A tale imitazione dissi anch'io: Che bisogno v' è ora, e massime in Vinegia, di tal trattato? a che proposito stampare tra Cristiani simili materie? Ma quando poi, leggendo più a basso, trovai che'l Discorso era a me diretto, con falsissima supposizione ch'io sia quella ch'abbia contraria opinione alla chiarezza di tal verità, non potei non prendere grandissima ammirazione e sdegno insieme della troppo audace calunnia, che affermativamente e senz'alcuna eccezione mi date; quasi che voi siate perscrutatore de'cuori umani, e sappiate l'intimo dell'animo mio, solo a Dio noto. Che se pure in alcun discorso io vi ho promossa alcuna difficoltà filosofica o teologica, ciò non è stato per dubbio o vacillamento ch'io abbia mai avuto alla mia fede, ma solo per curiosità d'intendere da voi, con la soluzione de'miei argomenti, qualche curiosa e peregrina dottrina, stimando ciò essere concesso ad ogni persona che professi studi, non che ad una donna, e donna ebrea, la quale continuamente viene posta in questi discorsi da persone che si affaticano di ridurla, come voi sapete, alla cristiana fede.

Inconsiderata dunque è stata senza dubbio la vostra calunnia, ed io avrei potuto, conforme al merito di essa, con altre difese che con quella della penna, farne risentimento, potendo il vostro libro ricever anche querela di Libello famoso; ma la pietà della mia legge mi sa pietosa della vostra semplicità, la quale vi ha fatto credere di rendervi immortale di fama col trattare della Immortalità dell'anima; e non avendone alcuna occasione, ve l'avete finta da voi medesimo. E però, in vece di venire ad altri cimenti, mi sono disposta, con la breve fatica di due giorni, atterrare quanto da voi m'è stato macchinato contra con le inutili vigilie quasi di due anni, facendo constare pubblicamente al mondo per mezzo della presente mia Scrittura, che falsissima, ingiusta e fuor d'ogni ragione è la imputazione da voi datami nel vostro Discorso, che da me sia negata la immortalità dell'anima. Il che sarà solo per giustificarmi e sincerarmi appresso tutti coloro li quali, non conoscendomi, potessero prestare qualche credenza alla vostra accusa in quanto appartiene alla religione che io professo; chè nel resto lascio al giudizio di qualsivoglia persona di mediocre intelligenza, quanto sia atta a poter torre o dar fama la vostra penna. E poi a rimovere ogni dubbio intorno alla mia opinione su questo, dovrehbe bastare il mio preservarmi ebrea; perchè quand'io credessi come voi dite, e non temessi di perdere la felicità dell'altra vita, non mi sarebbono mancate occasioni, col cangiar legge, di migliorare il mio stato: cosa nota a persone di molta autorità che l'hanno istantemente procurato e tentato.

Ma ora che con queste poche righe credo di avere cancellata abbastanza quella nota d'empietà che, forse inconsideratamente, avete preteso dare al mio nome, desidero mi facciate piacere che discorriamo tra noi in questo proposito un poco più alla libera e familiarmente. Ditemi dunque di grazia, signor Baldassare, che cosa vi ha mosso a far quel trattato, a stamparlo e ad imbrogliarvi il mio nome? Voi dite, con i versi di Virgilio, che Dio vi ha eletto a questo. Grande arroganza veramente! Dunque non aveva il Signore Iddio per materia sì sublime e sì importante un ingegno più elevato e un ministro più dotto di voi? voi solo ha scelto fra la schiera di tutt'i letterati siccome atto a trattare sì degno soggetto? Se la immortalità dovess'essere inserita negli animi non con altra forza che di umane ragioni, mal fornita al sicuro si troverebbe se non avesse altre ragioni che le vostre; le quali, abbenchè da voi sieno state cavate da dotti autori, sono però sempre mal intese e peggio riportate; e'l trattar debolmente materie tanto importanti è un invigorire le ragioni avversarie. Potreste dirmi, che spesso Iddio si serve di mezzi bassi e vili ad operar cose grandi per maggiormente far constare la sua onnipotenza, e che fino all'asina di Balaam una volta parlò. E'vero, ma in tali casi gli effetti stessi sono apparsi divini, e la viltà degli stromenti non ha loro punto pregiudicato. Voi, che scioccamente avete preteso di profettare da voi stesso senz'altra inspirazione che di una troppa arroganza, avete mostrato gli effetti della crassisima vostra ignoranza piuttosto che alcuna maravigliosa virtù divina; onde potevate, in vece dei versi di Virgilio, appropriarvi quelli di Dante:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Chè la diritta via avea smarrita.

Potreste anche dire, che lo stato, in che vi trovate, di sacerdote e di persona esemplare vi spinge a prendere tutte le occasioni che vi si presentano di giovare con la dottrina e con le opere al prossimo. Ah, signor Bonifacio, quand'anche zelo religioso vi avesse mosso, non conveniva però che presumeste più oltre di quello che le vostre forze comportavano:

Voi, che scrivendo ognor v'affaticate
Di guadagnarvi un onorato nome,
Prendete a'vostre forze ugual soggetto,

E quel che segue.

Voi trattare dell'anima? voi della immortalità? materia la più difficile ed ardua che abbia la filosofia, la quale vi resterebbe forse in qualche parte avviluppata se non fosse il concorso della teologia? Sapete pure in coscienza vostra che non siete nè filosofo nè teologo, e, se non erro, di vostra bocca ho udito dire, che tali scienze non sono di vostra professione; eppure così audacemente avete voluto metter mano in pasta su materia sì alta? e vi siete assicurato a stampare il vostro discorso con titolo sì sublime? Con tutto che mostriate di far tanta riflessione sopra quella famosa sentenza: Conosci te stesso, sapete pure che Orazio dice nella Poetica, se pur l'avete veduta:

Il primo fonte e'l rio del scriver bene
Senza dubbio è il saper
(trad. del Dolce)

poichè la vera gloria non si procaccia con la ostentazione, ma con la fatica; ed è sentenza del medesimo Autore:

Vedesi, che colui che giugner tenta
Alla meta ch' ei brami nel suo corso,
Molte cose patì sendo fanciullo,
Sudò sovente, e provò caldo e gelo.

Ma la importanza è, che anche in voi può quella pestifera opinione:

A me par brutto in vero esser lasciato
Indrieto da color che dotti sono,
E convenirmi confessar in tutto
Non saper quel che mai non imparai.

Dovea in questo almeno farvi alquanto ritenuto l'esempio di Aristotile, al quale non è quasi bastato l'animo di lasciarsi intendere chiaramente in tal materia. Io, per me, non vi parlo in questa guisa per fare la maestra, o la filosofessa nell'insegnarvi, come voi per ischerno mi dite nel medesimo tempo che venite a farmi il pedante, poichè confesso d'essere assai più ignorante di voi in questa scienza; ma vi parlo per riferirvi quello che odo da tutti coloro che vedono il vostro libro.

Altro ci vuole, Signor mio, che'l titolo di Juris utriusque Doctor per trattare della immortalità dell'anima! Ma per farvi accorgere della poca pratica che avete sì delle scritture spettanti al teologo, come delle ragioni spettanti al filosofo, basti rammentarvi la stessa calunnia che a me date nel principio, nella quale, supposto falsamente ch'io neghi la immortalità, dite ch'io sola tra gli Ebrei dopo tante migliaja di anni sono trascorsa in tal errore; nel che, se pure non avete vedute le altre scritture, e Gioseffo Flavio storico che le varie opinioni dell'ebraica nazione riferisce, vi scuso, ma non vi scuso già che non abbiate a mente l'Evangelio della vostra fede, poichè vi sareste ricordato che in san Matteo al Cap. 22 li Saducèi, una setta di Ebrei che negava l'immortalità, andarono a promoverne anche difficoltà a Cristo, dal quale fu saviamente data soddisfacente risposta e posto silenzio alle loro interrogazioni.

Soggiugnete ancora: Che io nego fede all'infallibil chirografo che scrisse Dio di sua mano. Io non so che altro chirografo si trovi nella Sacra Scrittura dalla mano di Dio scritto, fuorchè il Decalogo, al quale io non solo aderisco con la fede ma anco con le opere, per quanto posso. Se voi aveste alcun'altra Scrittura fatta dalla mano di Dio in proposito della immortalità, avrei caro di vederla.

Ma veggiamo quanto bene, e con quanta pratica della lingua e della scrittura ebraica vi siate anco valuto della voce Ruach per formarne argomento a vostro proposito. Dite che nella Sacra Scrittura significa propriamente questa voce la mente umana, l'angelica e la divina. Io qui potrei chiedervi strettissimo conto di siffatta interpretazione, se aveste parlato di vostro sentimento, ma perchè so che voi non avete mai veduto lingua ebraica, e che da altri è stato soffiato nella vostra ciarabottana, dirovvi solo, che da questo fate conoscere chiaramente, che anche le altre cose tutte che avete dette vi siete assicurato di dirle senza intenderle. Almeno in questo particolare, parlando voi con una Ebrea, dovevate farvi imboccare da chi meglio intendesse la proprietà della lingua, poichè Ruach altro di sua proprietà non significa che l'aria, il vento, il fiato col quale noi respiriamo; onde si può vedere quanto bene calzi la vostra conseguenza, mentre pretendete per tal voce provare che l'anima sia assolutamente incorporea e immateriale: ma già a voler pure trovare quello che in tal luogo concludete vi abbisogna altra logica che quella di Aristotile.

Delle ragioni spettanti al filosofo, quanto voi siate intelligente veggasi nello stesso bel principio, dove dite, che Lucrezio chiama a torto Sole de'filosofi Epicuro, il quale negava la immortalità dell'anima; ed a me, che voi stimate della stessa opinione, dite che conviene a ragione il nome di Luna delle filosofesse. Quale sia la proporzione di questa ragione lascio considerarlo a chi legge, abbenchè io creda che quella comparazione sia stata da voi posta per occasion di scherzare insipidamente, come in altro luogo, quando affermate che la corruzione non si fa senza moto; cosa altrettanto pregiudicante alla gravità della materia che si tratta, quanto alla modestia conveniente alla vostra condizione ed alla professione che fate di religioso. Nè posso contenermi di notare anche un altro luogo, appresso me tanto degno di riso quanto voi lo fate di compassione. Ed è a car. io del vostro Libro nel fine, dove dite: Piacesse a Dio che piuttosto da burla che da buon senno si morisse; modo di parlare che esprime il vostro desiderio, il quale sarebbe di non morire ancorchè crediate l'anima immortale! Eh, signor Bonifacio, a che gioco giochiamo? Credete fermamente quello che predicate, o no? Se l'anima con la separazione del corpo acquista miglior condizione di essere, come voi provate, e com'è certo, perchè dunque posponete mal volentieri questo stato a quello? d'onde deriva il vostro affetto più alla presente che all'altra vita? E' pur vostro argomento (car. 14) che la morte, secondo la retta ragione, è alcuna volta da desiderarsi e preporsi alla vita, massime per le operazioni di fortezza e d'altre virtù, come voi ne apportate gli esempi e l'autorità di Aristotile. Avvertite che questo contraddirsi è cattivo segno!

Se non fosse per me digressione nojosa, mostrerei tante di queste sciocchezze e luoghi contradditorii che non resterebbe alcuna vostra proposizione intatta; ma ciò è fuori del mio proponimento, perchè non vorrei che alcuno potesse credere che con oppugnare le vostre ragioni io m'opponga in maniera alcuna alla verità della vostra conclusione; oltrechè a mostrare i difetti e le imperfezioni della vostra scrittura altro volume vi bisognerebbe che un breve foglio, non avendo essa altro di buono che la causa che difende: nel resto è così piena di false intelligenze di termini, di storti e malintesi sentimenti di scritture, di false forme di sillogismi, di cattive connessioni e strani passaggi d'una in altra materia, di spropositate citazioni d'autori, e finalmente di errori di lingua che nessuno potrà continuare a leggerla senza aggiugnere qualche titolo al suo compositore.

Finora però non abbiamo scoperto la cagione che vi ha potuto movere ad intraprendere sì notabile impresa. Non posso credere essere stata malignità, poichè di questa pare che mi assicuri la vostra amicizia e la piacevolezza della vostra natura. Potrebbe forse dirsi essere stato l'istesso non sapere, attesochè mi ricordo avere letto nel Galateo, che tra le inciviltà che commettono gli uomini, una è il voler fare ostentazione di se stessi in quello in che manco valgono; e però, dice egli, si trovano molti i quali non sapendo cantare, o avendo cattiva voce, prorompono sempre in qualche cantilena mentre si trovano nelle conversazioni; e chi non sa ballare suol sempre fare lo snello e 'l leggiadro ne' movimenti, il che si può credere che facciano per essere tenuti scientifici in quello in che sanno d'essere più ignoranti, e non s'accorgono che non solo accrescono il concetto della loro ignoranza, ma disgustano la conversazione. A questo proposito può applicarsi anche l'esempio di coloro i quali, avendo qualche parte diffettosa, cercano sempre adornarla di vestimenti vaghi, come alcuno che avendo le gambe storte procura portarvi sempre calze di vaghi colori, quasi per fare che la bellezza esterna compensi il diffetto interno; e non s'avvede che in tale guisa fa maggiormente riguardevole esso diffetto e invita gli occhi de'riguardanti a considerarlo. Se da tal movimento avesse avuto origine la vostra opera, signor Baldassare, faccio giudice voi stesso se sarebbe essa da sottoporre alla disciplina del Galateo.

Orsù, senza più andare affaticando il pensiero per investigare altre ragioni, a me dà l'animo d'indovinarne a questa volta la vera; e so che voi il confesserete alla libera. Altro non vi ha indotto a fare sì lunga e inutil fatica se non quella vana ambizioncella che vi fa correre volentieri alle stampe, credendo che la fama consista in aver fuori di molti volumi, senz'avere considerazione alla stima che ne fa il mondo, il quale, dovreste sapere per esperienza, che assai male si soddisfa di cose mediocremente buone, non che delle dozzinali e scioccamente composte. E però a non correre sì facilmente alla stampa ci fa avvertiti la medesima Poetica di Orazio:

Stimasi degno di riprensione
Qual che sia poema, ove l'autore
Consumalo non v'abbia lungo tempo,
E più volte mutata questa, e quella
Parte, finchè corretto e castigato
Al suo perfetto fin condotto il vegga.

Con tutto questo per siffatta cagione compatisco al vostro animo, il quale, cupido di gloria, va per così dire mendicandola per diverse strade, appagandosi del fumo ove non può avere la luce. La vana e immoderata sete di gloria indusse anche Empedocle a gittarsi nella voragine dell'Etna:

Empedocle bramoso
Di lasciar falsa opinione al mondo
Ch'egli fosse rapito vivo in Cielo
E raccolto nel numer degli Dei,
Gittossi d'Etna nelle ardenti fiamme.

Ma per si bel pensiero, a che prò sfidare una donna? e una donna che sebbene vaga di studi, non ha però tali scienze per sua professione? Bisognava, per mostrarvi intrepido e valoroso, che sfidaste gli Empedocli, gli Anassagori, gli Epicuri, gli Aristoteli, gli Alessandri Afrodisei, gli Averroe, e poichè non è loro conceduto venire dove campeggiate voi, andare voi a trovarli ne'loro steccati medesimi, che con altrettanta facilità avrebbono forse rintuzzato il vostro orgoglio, con quanta poca modestia voi sparlate di alcuni, dando loro sin anche il titolo di porci. Ma per quello che veggo, voi avete voluto fare, come si suol dire, il bravo in credenza, poichè non solo siete comparso in isteccato dove non è chi contraddica alla vostra querela, ma dove, quando anche aveste contradditore, (che non credo) non è conceduto il campo franco; di modo che, o valoroso sfidatore delle donne! il campo è tutto vostro. Passeggiate pure in esso altiero vibrando i colpi all'aria, o valoroso campione o generoso guerriero! e senza che s'oda altro strepito che della vostra rauca tromba, gridate pur da voi stesso, vittoria vittoria. E benchè al suono di queste mie brevi parole vi parrà forse d'avere trovato qualche incontro da poter intraprendere nuova giostra, vi replico, come di sopra vi ho dichiarato, che questo non è Cartello di risposta alla vostra disfida, ma semplice Manifesto per iscusarmi del mio non comparire, non essendo cagione di combattimento dove non è contrarietà di pareri nè in detti nè in fatti; sicchè per me potete deporre affatto le armi. Ancorchè mi provocaste di nuovo con mille ingiurie, non sarò più per contrapporvi alcuna replica, per non consumare inutilmente il tempo, massime essendo io tanto nemica di sottopormi agli occhi del mondo nelle stampe, quanto voi ve ne mostrate vago.

Vivete lieto, e sperate per voi giovevole quella immortalità che predicate, se viverete così osservatore della vostra cristiana legge, com'io professo d'essere della mia ebrea.