COLLEZIONE STORICO-LETTERARIA

EPISTOLARIO
DI
CATERINA FRANCESCHI FERRUCCI
EDITO ORA LA PRIMA VOLTA
CON LETTERE DI SCRITTORI ILLUSTRI A LEI
PER CURA
DI GIUSEPPE GUIDETTI.

VOLUME UNICO
CON RITRATTO E FAC-SIMILE.

IL PIÙ BEL FIOR NE COGLIE.

REGGIO D'EMILIA
TIPOGRAFIA EDITRICE UBALDO GUIDETTI.
1910.

EPISTOLARIO
DI
CATERINA FRANCESCHI FERRUCCI
ACCADEMICA DELLA CRUSCA.

Non fur
Senz'onestà mai cose belle o care
PETRARCA, Son. 204.

Giuseppe Guidetti.

Il presente volume, in carattere minuto e compatto, secondo il programma già noto è più che completo. In fine di esso però s'aggiungerà l'Albo al fabetico de'Signori favoreggiatori dell'edizione; il quale verrà spedito ai medesimi entro l'anno corrente. Intanto qui noteremo che nella bella schiera di que' Cortesi, che animarono a compiere l'edizione primeggiano insigni Cardinali, Senatori, Letterati, Professori, Scienziati, Voscovi, Superiori d'Ordini religiosi, non che autorevoli Direttori e Direttrici di Collegî-convitti ed Educatori; i nomi de' quali saranno tutti descritti nel promesso Albo alfabetico.

PROPRIETÀ LETTERARIA DEL COMPILATORE.

ALL'ECCELLENTISSIMA DAMA
PRINCIPESSA
MARIANNA ALTIERI ROCCA-SAPORITI
PRESIDENTESSA
DEL PATRONATO DELLE GIOVANI OPERAJE
IN REGGIO D'EMILIA
OSSERVATRICE E PROPAGATRICE
DE' PRECETTI
CHE GESU CRISTO, REDENTORE DIVINO,
LASCIO AI RICCHI E A' POTENTI
IL COMPILATORE
OSSEQUENTE E DEVOTO
OFFRE E DEDICA
IL PRESENTE EPISTOLARIO INEDITO
DELL'INSIGNE SCRITTRICE
CATERINA FRANCESCHI FERRUCCI.

Queste lettere rispecchiano l'animo della Ferrucci, mirabilmente poetico e ricco di fede e di affetti santi.

Io la conobbi di persona, moltissimi anni addietro, e ancora ricordo con compiacimento com'Ella fosse semplice, modesta e insieme geniale e colta. Ella potrebbe essere anche oggi un bel tipo di donna italiana degna di essere imitata.

Napoli, Gerolomini, 17 sett. 1910.

Alfonso Card. Capecelatro.

***

Caro e pregiato sig.re Guidetti.—Voi che da molto tempo attendete con intelligenza ed affetto a rimettere in onore quegli scrittori del passato secolo, che più di proposito difesero coi consigli e coll'esempio la purezza e italianità della nostra lingua, bell'opera avete tolta, e della quale vi deve esser grato chiunque ama il proprio paese.

Dopo le pubblicazioni da Voi fatte di molte lettere inedite del benemerito padre Cesari, e mentre siete intento a raccogliere e riprodurre i suoi scritti minori, illustrandone le origine e le vicende, del che avete già dato parecchi lodevoli saggi, vi siete testè fatto coraggiosamente editore dell'Epistolario di Caterina Franceschi Ferrucci, conservato dal suo degno nipote don Filippo Ferrucci.

E dico coraggiosamente, però che l'alta e diffusa fama di che Ella giustamente godette per gran parte del passato secolo, cioè d'una delle piu valenti e dotte educatrici e delle più forbite ed eleganti prosatrici che annoveri la nostra letteratura, è andata, dopo i recenti rivolgimenti italiani e l'inondazione delle dottrine e dei principii pedagogici dall'estero, alquanto diminuendo, e poco sono lette o considerate le sue tante e nobili scritture, quasichè contenessero pensieri comuni o invecchiati, espressi in forma retoricamente affettata.

Eppure questa egregia scrittrice fece la delizia, fra gli altri illustri moltissimi, di Vincenzo Gioberti, suo instancabile ammiratore e lodatore; essa fu dotata dei più caldi affetti patriottici, a tal segno, che nel 1848 incoraggiava il marito ed il figlio ad accorrere sui campi lombardi in difesa d'Italia e poi a trattenervisi ancora, dopo la dolorosa sconfitta delle armi toscane; essa, fondata, come ben poche fra le donne, sugli esemplari greci e latini, e sui migliori nostri, ebbe una coltura profonda ed estesa. E il suo scrivere, lontano da ogni affettazione od arcaismo, e frutto non solo delle sue letture, ma anche della lunga dimora in Toscana, scorre limpido, abbondante e florido, avvivato da immagini e concetti peregrini e venusti, si che ella potea dire con verità (Epistol., pag. 266): «Io appartengo alla scuola de' Classici; onde, oltre alla bontà intrinseca del concetto, amo la splendidezza e la leggiadria della forma». E forse i nobili e generosi pensieri delle sue opere, vengono meno apprezzati dai fanatici seguaci del nuovo, perchè sono significati colla schietta e modesta lingua dei Classici, anzichè con quel gergo convenzionale che spesso fa sembrare nuove e di gran sostanza le idee più comuni o più rancide.

Intorno a tal donna, come testè dissi, si è fatto da qualche tempo quasi il silenzio, nè ciò torna certo ad onore d'Italia. Ma voglio sperare che a ravvivar la sua fama debba giovare non poco questo Epistolario scelto, che Voi state pubblicando e che, per vostra gentilezza, mi avete comunicato sulle bozze di stampa. In esso si rispecchiano infatti il suo bell'animo, e la sua fede cristiana insieme e patriottica, che mai non vacillò nè piegò, non ostante le ingiuste accuse e le molestie sofferte sia da retrogradi intolleranti, sia da esagerati novatori (vedasi la nota a pag. 324 e la pag. 317 e segg.): e vi si rivela a passo a passo la sua lunga e laboriosa vita, prima negli anni giovnili, quando con tanto amore coltivava i begli studj, che per essi avrebbe rinunziato, occorrendo, a fidanzarsi col suo amatissimo Michele (vedi la Lett. 13); e successivamente nell'insegnamento della patria lingua e letteratura dato a Ginevra e altrove; e negli anni agitati del primo risorgimento nazionale, di cui favori e promosse il buono zelo, ma ne deplorò gli eccessi; e nella dolorosissima perdita della sua Rosa (1857); la quale decise oramai per sempre del suo avvenire, ritiradola quasi affatto dagli studj letterarî, benchè d'altro lato fruttasse quel libretto [1] Rosa Ferrucci e alcuni suoi scritti ec., di cui si parla qui oltre a pagina 299 e segg. [nota del Compilatore]., unico nel suo genere, con cui eresse un modesto ma imperituro monumento alla dilettissima figlia.

Io conobbi la egregia Donna, pochi anni prima di tale sciagura, nel 1855, quando, incominciato a Pisa il corso degli studj, mi recavo alcune sere alla sua dotta conversazione, frequentata dai più illustri professori di quella Università, e da lei ebbi preziosi consigli nei primi passi che davo sulla carriera letteraria. E di nuovo mi trovai con essa negli ultimi anni della sua vita, dopo che ella, rimasta nel 1881 vedova del prof. Michele, si era ritirata a Firenze, fra le cure affettuose del suo nipote Filippo, che indi a poco, con grande soddisfazione di Lei, vesti l'abito ecclesiastico. E ancora, per quanta glielo consentisse una dolorosa paralisi che la tormentava, trovava qualche consolazione nei suoi diletti studj e soprattutto in quella pietà che sempre l'aveva guidata e sorretta.

Potete quindi pensare, caro sig. Guidetti, che questo Epistolario non giunge nuovo alla stima e alla divozione che fin dai primi anni nutrii verso Caterina Ferrucci, di cui mi diceva ogni bene l'ottimo padre mio [1] Luigi Fornaciari mio padre era antico e affezionato amico ed ammiratore della Ferrucci. Le poche lettere da lei indirizzate a lui dovevano far parte di questa raccolta. Ma, per non so qual fatale smarrimento, nè gli originali, nè le copie di esse non si sono potute finora ritrovare. Restano bensi, per chi volesse vederle, le missive o responsive di L. Fornaciari, inserite da me nell' Epistolario di lui (Firenze Sansoni, 1899).; e che ho goduto assai nel percorrerne le Lettere, molte delle quali bellissime, e tutte squisitamente morali, educative e piene, come direbbe Feo Belcari, d'una celeste melodia.

E mi giova sperare che esse riuscrianno utilissime non solo ai giovani di ambedue isessi, presso ai quali dovrebber trovare larga accoglienza, ma altresi ai letterati, che in quelle, e nelle note biografiche di cui Voi le avete ampiamente corredate, vedranno come uno specchio di quel periodo letterario in mezzo al quale fiori la Ferrucci, stretta, com'ella era, in corrispondenza coi più benemeriti e illustri scrittori e cultori del buono stile, vissuti nella prima metà del decorso secolo; e di alcuni de' quali sono inserite qui varie lettere alla Ferrucci [1] Vero ornamento di questo volume sarebbero state le lettere, che l'illustre scrittore Luigi Fornaciari (1798—1858) diresse alla Caterina nostra. Ma poichè furono già edite nel cit. Epistolario di si raro uomo d'antica probità, ci contenteremo di riprodurre qualche brano di esse, in che vengono rilevati i pregi dell'autrice nostra. Il 12 agosto 1846 le scriveva: «Catarina mia, veramente Catarina di costumi, di lingua, di stile! Belle, stupende, divine quelle vostre canzoni!…». Il 28 agosto 1847, a proposito della canzone a Maria Vergine, dopo il terremoto del 1846: «Piena di nobilissimi spiriti e di affetto e di classica eleganza trovai la canzone vostra, che vi conferma la fama di alta mente e di alto cuore». Il 23 febb. 1848, dopo letto e riletto il canto su Le donne italiane agl'Italioni redenti, le rivolgeva queste parole:» Quando noi per la più parte eravamo fanciulle e non uomini, voi eravate uomo e non donna. Ma vieppiù uomo divenite ogni dì nei magnanimi sentimenti vostri e nella potenza del significarli. In voi trovo dell'anima d'Omero, di Dante, dell Petrarca e direi ancora del Filicaia, se dopo quegli altri nomi, questo non paresse alquanto piccolo. Mi rallegro con voi, con l'Italia. Quando le donne pensano, scrivono come voi, si dee attendere miracoli». Lodi consimili il Fornaciari diriggeva alla Caterina, con lettera del 10 maggio 1848; nella quale leggonsi pure queste parole: «Quando ero in Firenze, comprai l'opera vostra sull'Educazione morale della donna, e l'ho letta con quel gusto che provo leggendo i moralisti di Grecia, di Roma, e alcuno di quelli del cinquecento. Anche in questo libro non parete nè donna nè moderna, almeno quanto al senno e allo stile. Che dirò della cara forza di quelle vostre parele, uscite poco fa nell'Italia? Voi, Caterina mia, siete maravigliosa. Mi rallegro altamente con voi, col vostro sesso, con la nazione italiana, e mi onoro della vostra benevolenza». E devesi notare che i detti encomî del valentissimo magistrato lucchese, senatore avv. Luigi Fornaciari, non sono esagerati, chè consuonano perfettamente col giudicio del Giordani, del Leopardi, del Mamiani, del Puccinotti, del Lambruschini, del Giuliani, del Carducci, del Gioberti…
[Nota del Compilatore.]
.

Abbiatevi per tanto, o mio sig. Guidetti, le dovute congratulazioni da chi si pregia dirsi vostro divoto ed affezionato

Firenze, 9 settembre 1910.

Raffaello Fornaciari.

Se fra le valorose Donne italiane del secolo decorso una si può annoverare, che abbia sostenuto l'onore della Patria con la santità della vita, con la purezza de' costumi e con la sapienza della parola, ella è senza dubbio Caterina Franceschi Ferrucci, la scrittrice «più erudita e vigorora» dell'Italica letteratura; classica nella lingua e nello stile; cristiana, sincera e fervente, nell'animo e nel pensiero, nella dolce e nell'amara fortuna della sua lunga vita terrena. Tali pregi e sì rare virtù m'indussero amorevolmente a procurare l'edizione di quest'Epistolario, del quale parlerò dopo aver toccato di corsa alcuni fatti, che all'Autrice si riferiscono.

I.

Nell'amara fortuna della nostra Scrittrice sta pure il fatto della cecità, che per oltre sei anni ebbe a soffrire nella sua fanciullezza (veggasi nelle pagine 2, 89, 125, 213, e 214); per cui nella mestizia e nella solitudine essa trascorse gli anni «più lieti della vita»; per cui «tardissimo» potè imparare a leggere. La stessa «disgrazia» la rese «infermiccia», non più bene accolta dalle sue vispe compagne, quindi costretta ad aggirarsi sola e melanconica, lungi da liete brigate. Ella però, dotata di bell'ingegno, trovò nello studio un vero conforto; e con l'ajuto del suo dotto e affettuoso maestro Francesco Fuina, ricordato qui oltre a pag. 10 e 11, apprese pure l'idioma lation; e con la guida del coneittadino Andrea Cardinali si esercitò con profitto nel greco (pag. 56, 81, 98). Ricca inoltre di fervida e poetica fantasia scrisse Inni, Elegie ed altre poesie; per le quali riscosse le lodi e il plauso de' migliori letterati, che allora fiorivano, fra cui Salvatore Betti e Luigi Biondi in Roma, Francesco Cassi e Terenzio Mamiani in Pesaro; il quale ultimo nel 1823 le indirizzò una canzone laudatoria, come s'è detto qui entro a pag. 159 e 160. E un discepolo dello Schiassi in Bologna, il giovane latinista e professore Michele Ferrucci, s'invaghì di essa, senza vederla, per la bell'anima, che mostrava nelle sue dolci, armoniose ed eleganti poesie; onde chiese ed ottenne di averla in isposa, come testificano le lettere, che leggonsi qui entro, dirette a lui e al conte Francesco Cassi. Indicibile fu l'allegrezza che la Caterina provò nel conoscere el futuro sposo un uomo di ottima indole, un fervido cultore de' classici studj com'era il Ferrucci. Indizio ne sia una lettera, esclusa da questo volume, in data del 24 dicembre 1823, che suona cosiù «…Mi rallegro conoscendo che siete tutto inteso ad arricchire la mente di belle ed alte dottrine. Certo finchè durerà in voi l' amore della sapienza condurrete vita riposata, e tutta piena di soavissime consolazioni. Chè a me pare solo beato colui, il quale rivolge l'animo allo studio, e così impara a disprezzare tutte quelle vanità, che ai ciechi sembrano beni veraci. Anzi io stimo che l'amore per le dotte occupazioni sia il solo mezzo per aggiungere la felicità. Perchè lo studio della sapienza non è altra cosa che lo studio della virtù, la quale è donatrice di permanente beatitudine a chiunque la desidera fortemente, e la pratica con in vitta costanza.»

Ho detto che i versi della giovane Caterina riscossero la lode e il plauso dei migliori letterati contemporanei; ed a suggellare la verità delle mie parole mi varrò della somma autorità di Giacomo Leopardi, che il 5 giugno 1826, da Bologna, scriveva al prof. Francesco Puccinotti in questo modo: «Io parlo qui spesse volte, e sento parlare della Franceschi, che ha mossa di sè un'aspettazione grande. Se i tuoi consigli possono, come credo, nell'animo suo, confortala caldamente, non dico a lasciare i versi, ma a coltivare assai la prosa e la filosofia. Questo è quello che io mi sforzo di predicare in questa benedetta Bologna, dove pare che letterato e poeta, o piuttosto versificatore, sieno parole sinonime. Tutti vogliono far versi: ma tutti leggono più volentieri le prose. E ben sai che questo secolo non potrebbe esser poetico, e che un poeta, anche sommo, leverebbe pochissimo grido: e se pur diventasse famoso nella sua nazione, a gran pena sarebbe noto al resto dell'Europa: perchè la perfetta poesia non è possibile a trasportarsi nelle lingue straniere, e perchè l'Europa vuol cose più sode e più vere che la poesia.

«La Franceschi, datasi agli studi così per tempo, e con tale ingegno, potrà farsi immortale se disprezzerà le lodi facili degli sciocchi: lodi che sono comuni a tanti e che durano tanto poco; e si volgerà alle cose gravi e filosofiche, come hanno fatto e fanno le Donne più famose nelle altre nazioni. Ella sarà un vero onore dell'Italia, che ha molte poetesse, ma desidera una letterata.»

Chi mai avrebbe immaginato, o affermato, che le solenni parole del Leopardi influissero potentemente sull'animo e sul oriterio letterario della giovane Caterina Franceschi? Nessuno, certamente. Eppure queste lettere, fin'ora inedite, mostrano luminosamente, che il fatto sta proprio così; poichè la Caterina in quella del 7 gennajo 1827 fa conoscere al promesso sposo Michele Ferruoci il proposito di dedicarcsi in eramente allo studio della morale Filosofia, e il progetto di scrivere varie operette, tendenti alla scienza medesima, conchiudendo: che siffatto studio preferisce a tutti gli altri, come quello ch'è più confacente al proprio animo e addatto ai bisogni del secolo, «al quali deve sempre por mente» chi vuol scrivere cose utili (pag. 78 e 80). Il Ferrucci di buon grado aderi a' desiderî della sua Caterina, anzi la confortò a proseguire ne' prediletti studj: di che ne assicura la lettera dell'8 febb. 1827, a Salvatore Betti (pag. 83—84). Ma classicista e purista com'egli era non si ristette dall'incitarla precipuamente a studiare con diligenza la lingua nostra negli Scrittori dell'aureo secolo; ne' quali esse non era ancora bene entrata; giacchè gli rispondeva il 6 marzo 1827: «Io non ho mai letto i Fioretti di S. Francesco. Però avrò caro che voi mi procuriate il modo di studiare in questo classico libro». E il 24 aprile successivo gli riscriveva: «Ho da varî giorni cominciata la lettura dei Fioretti di S. Francesco: e sono innamorata della cara semplicità, e delle schiette grazie di quello scrivere veramente d oro. Nè per questo tralascierò la lettura del Bartoli | Daniello |, poichè voglio gustare le divine bellezze di quello scrittore, che con colori si forti, e terribili dipinge alla mente e commuove il cuore. Meglio poi mi diletterò in esso, quando sarò teco, ed ascolterò dalla tua bocca i divini tratti di quella meravigliosa eloquenza».

Pei conforti del Ferrucci, singolarmente, e di Salvatore Betti, la Caterina scrisse pure un Ragionamento sull'imitazione dei Classici, che rimase inedito (pag. 98), e continuò lo studio del latino e del greco. Divenuta sposa del Ferrucci il 27 sett. 1827, prese dimora in Bologna, ove conobbe di persona que' che ammirava per fama: Paolo Costa, Dionigi Strocchi, Carlo Pepoli, Francesco Orioli, Giovanni Marchetti, Massimiliano Angelelli, Giuseppe Mezzofanti, Filippo Schiassi, Giacomo Leopardi e altri letterati, che si trovavano nella felsinea città. Quivi il 14 settembre 1828 ebbe pure il vanto di conoscere il celebre fiologo. Antonio Cesari, in casa del conte avv cav. Luigi Salina; il quale aveva invitato a mensa i più cospicui bolognesi, tra i quali i comagi Ferrucci, per onorare il sommo letterato veronese; il quale, mentre viaggiava nell'Emilia e s'accostava a Ravenna con ardente desiderio di venerare il sepolero di Dante, fu colto da febbre, e quindi spirò la notte innanzi al 1.0 d'ottobre 1828, nella villa suburbana del Collegio de' Nobili, in S. Michele, fra le braccia dell'amico monsignor prof. Pellegrino Farini. Questo luttuoso avvenimento diede argomento a Michele Ferrucci di scrivere e stampare una di quelle stupende Elegie, nella quale con la consorte Caterina piange l'eternale partenza del massimo restauratore della lingua e del culto di Dante [1] Tale Elegia, diretta al conte avv. Luigi Salina, leggesi nel mio libro: Antonio Cesari giudicato e onorato dagl' Italiani e sue relazioni coi contemporunei; Reggio d'Emilia, tip. Artigianelli, 1903, pag. 156 e segg..

Il fatto ora accennato sarebbe sufficiente a conoscere quale stima godessero in Bologna i coniugi Ferrucci, e quanto il giovane latinista avesse meritato, nel 1827, di essere eletto, come fu, professore-sostituto d'arte oratoria e poetica, latina-italiana, con diritto di successione, nella bolognese Università. E il fatto successivo, che egli nel 1829 fu pure eletto dottore del Collegio filologico nell' Ateneo medesimo, mostra abbastanza come il Ferrucci fosse degno di promozione onorifica e proficua. Ma al sopraggiungere de' moti politici del 1831, che fruttarono l'esilio a Paolo Costa e ad altri valorosi scrittori (veggasi a pag. 368 e 369), i coniugi Ferrucci, Michele con epigrafi e Caterina con Inni, avendo in qualche modo aderito alle idee liberali, col desiderare «buone leggi, savi provvedimenti ed una temperata maniera di governo (veggasi a pag. 117 nella lettera al Betti, 28 dicembre 1831), caddero in sospetto de' reggenti la città; sicchè il prof. Michele fu sospeso dall'ufficio universitario «per qualche mese, «e poco appresso, nel 1832, fu escluso dal succedere nella cattedra d'archeologia allo Schiassi, suo prediletto maestro e benefattore», il quale, appunto per favorirlo, aveva chiesta la giubilazione (pag. 106—107). Non valsero, in tale bisogna, le commendatizie a favore del Ferrucci, come quelle del principe Pietro Odescalchi, del march. Luigi Biondi e di Salvatore Betti in Roma; chè quel'ultimo confessava: il tutto dipendere dall'eminentiss. cardinale Oppizzoni, arcicancelliere dell'Università bolognese (pag. 118—119). Al qual proposito il nepote dell'Autrice nostra dott. d. Filippo Ferrucci osserva: che quantunque non si sappia quale fosse il voto dell'Oppizzoni, può tenersi favorevole al Ferrucci, cui era grandemente benecolo; che «invece le brighe di un tristo, che non nominiamo, furono quelle che attraversarono al Ferrucci la via, mettendolo in voce di liberale per aloune epigrafe dettate nella rivoluzione del 1831».

Le cagioni che impedirono al Ferrucci l'accennata promozione, tolsero pure speranza alla dotta Caterina nostra di salire essa medesima, secondo gli augurî cittadini, sulla cattedra Universitaria, già occupata con tanto decoro dalla defunta e illustre giovane Clotilde Tambroni. Laonde i coniugi Ferrucci, non potendo altrimenti «mutare in buona la rea fortuna» (pag. 127), determinarono di scegliere la via dell'esilio, co' figliuoletti Antonio e Rosa, trasferendosi a Ginevra, in Isvizzera, ove nell'Accademia Michele accettò la cattedra di letteratura latina e d'archeologia, offertagli onorevolmente, in seguito alle premure di Carlo Boucheron e del conte Camillo di Cavour, amicissimi ed ammiratori di lui (pag. 13 e segg.). In quella città giunsero su la fine del settem. 1836; e vi trovarono «cortesia ed amorevolezza» e quell'onesta agiatezza di vivere, che loro mancava in Bologna (pag. 146 e segg.). Quivi pure salirono in fama per virtù e per valore: e la Caterina nostra fu richiesta e aderì d'inseguare pubblicamente la lingua e la letteratura italiana. Frutto di quell'insegnamento furono le Lezioni su I primi quattro secoli della Letteratura italiana, dal secolo XIII al XIV, che in due volumi videro la luce assai più tardi (Firenze, Barbèra, Bianchi e comp. 1856—58). In quella terra straniera la Caterina si dedicò quasi interamente all'educazione pubblica e alle eure della propria famiglia; onde sertsse pochissimo; potè solo terminare le Vite degl'illustri Bolognesi, che già prima ben innanzi avea condotte. Colà rimase come spentà la sua vena poetica; ed io che ben conosco le sue Poesie, edite ed inedite, e le ho gia tutte ordinate cronologicamente per una futura edizione, veggo che nessuna ne compose nel tempo della sua dimora in Ginevra. E la causa della sterilità del suo ingegno, così poetico, così vigoroso, nutrito ed elegante, si compendia nell'amarezza, ch' essa provava nel vivere lungi dalla patria, (pagg. 141—146, 151—154 e 179), che rivide poi con esultanza nell'anno 1843, allorchè il suo prediletto consorte fu chiamato nell'Università di Pisa quale professore di letteratura latina e d'archeologia (pag. 177—180). Presa dunque ferma dimora in questa città, potè, anche riprendere la sua cetra, cantando nel 1846 l'esaltazione di Pio IX al sommo Ponteficato romano e l'amnistia concessa dal medesimo (pag. 181). E più presto avea ripresa la penna a scrivere quell'opere morali, filosofiche, educative, che, pei conforti di Giacomo Leopardi, avea ideate fin dall'anno 1827 (pag. 79), cioè: Dell'educazione morale della donna italiana (Torino, Pomba, 1847); Della repubblica in Italia, considerazioni (Milano, Vallardi, 1848); Dell'educazione intellettuale (Torino, Pomba, 1849—51); Letture morali ad uso delle fanciulle (Genova, tipografia Sordo-Muti, 1851—52); Regolamento per l'Istituto femminile delle Peschiere in Genova, del quale fu ispettrice (1850—51); e Degli studj delle donne (Torino, Pomba, 1853).

In queste Opere, e nell'altre minori, Ella usò tutta l'arte di scrittrice, senza nuocere alla spontaneità e limpidezza del dettato; il che si arguisce chiaramente dagli autografi, che io ho veduti e in parte trascritti, e dalle stesse sue lettere. In una del 24 giagno 1826, esclusa da questo volume, diretta a Salvatore Betti: «Non ti maravigliare, se tanto ho indugiato a mandarti questo componmento [l' Inno alla sapienza]: io non sono mai molto sollecita nel comporre, ed auzi pecco di lentezza, perchè amo assai la fatica della lima». Lo stesso proposito ella mantenne sempre; e le due lettere all'editore Le Monnier, che stanno qui entro, ne sono prova evidentissima (pag. 398 e 407). Onde giustamente le dette Opere, si pel contenuto e sì per la forma, destarono l'ammirazione de' più celebri Italiani (tra' quali Vincenzo Gioberti, pagina 371—74); tanto che l'Autrice fu poscia, nel 1871, annoverata fra i componenti il sommo senato della lingua italica, la r. Accademia della Crusca. Il qual onore incomparabile, non prima conseguito da nessuna donna (e ne' fasti della celebre Accademia fiorentina non mai registrato) scosse tanto l'animo senile della nostra Caterina, che potè, benchè in malferna salute, ripigliare la pena e con giovanile coraggio scrivere il famoso libro degli Ammaestramenti religiosi e morali ai giovani italiani (Firenze, Le Monnier, 1877), che soleva appellare, e fu purtroppo, il suo testamento.

E per conclusione si deve osservare: che in esse Opere la Donna insigne, rara in ogni secolo, se non unica, stemperò, si può dire, tutto il suo animo, tutto il suo pensiero: il suo affetto di sposa, di madre, di cittadina e di educatrice. Quivi sparse i più dolci ricordi della sua vita: de' genitori, del maestro, delle sorelle, per esempio, porge vivo ritratto, commovente ricordo. Sicchè que' libri contengono pure, si può dire, la sua autobiografia: onde in complesso sono e saranno sempre, per la presente e futura generazione, quel tesoro di dottrina morale, linguistico-letteraria, che tanto piacque agl'italiani nel decorso secolo, e che fece nascere in me il desiderio di porre in luce le presenti Lettere; a proposito delle quali dirò, brevemente, quanto mi sembra necessario ed opportuno.

II.

Prima ch'io volgessi le mie povere cure alla raccolta di quest'Epistolario, ho voluto rileggere meglio nella vita e nelle opere dell'Autrice. Considerando però la sublimità e varietà degli Scritti della Caterina nostra e le assidue cure che ella ebbe per la famiglia, per l'educazione de' proprî e altrui figliuoli, per i poveri e per gli sventurati (pag. 244, 245, 339, 340), ho supposto che essa non potesse essere sollecita e attiva corrispondente epistolare; e la supposizion mia è divenuta realtà quando mi son posto a leggere le sue Lettere. In una scritta da Ginevra, in data del 28 agosto 1842, diretta al dottore e professore Domenico Santagata, esclusa da questa raccolta, e che si conserva con altre nella Biblioteca comunale dell' Archiginnasio Bolognese, si leggono queste precise parole: «Poco vi scrivo, perchè m'è impossibile di essere regolare nella corrispondenza. È un difetto, ma non m'è facile l'emendarmene, e conviene, che i miei amici siano indulgenti» Più tardi, nel 1850, riservava solo la domenica per la corrispondenza epistolare (pag. 245). E in altra lettera, del 23 novembre 1871, alla pronipote Rosa Bianchi: «Perdonami, se ho tanto tardato a scriverti. Io sono sempre molto occupata, e spesso mi manca il tempo a scrivere lettere» (pag. 361). Persino nelle lettere a uomini insigni lasciava trapelare quel suo difetto (se tale si può chiamare), benchè le scuse addotte possono sembrare altrimenti (pag. 335, 370, 400, 401).

A tutto ciò devesi aggiungere, che la Caterina, dopo la morte della figlia Rosa [1857], da lei pianta per tutta la vita, si ritirò quasi totalmente dall'arringo letterario; preferendo il vivere solitario. A questo fine verso il 1834 dimorò il più che potè in campagna, a S. Michele in Escheto (prov. di Lucca), dove il marito aveva comprato un podere, e affidatone a lei il governo. Essa tanto piacere provava, vivendo fra quella «buona gente», che s'adattava persino ne' campi a vendemmiare l'uva e in cantina a farne il vino. Quest'ultima occupazione (che a me fin da fanciullo piacque senza fine, come l'orticoltura e l'agricoltura in genere) le cagionò una malattia reumatica, che accrebbe in lei la neurastenía; di che quindi scriveva, il dì 8 novembre 1877, a Francesco-Paolo Ruggero: «Sono sempre in casa, perchè dolori nervosi-reumatici, che mi molestano da più di due anni, mi impediscono di uscire…» (pag. 411). E al can. prof. Federico Balsimelli, il 10 novembre 1879: «Sono malata da più di quattro anni: e il mio male aumenta d'intensità di mese in mese. Onde he dovuto rimunciare al conforto, che mi davano gli studj, non potendo la mia mente in essi occuparsi in mezzo ai continui dolori reumaticinervosi, che mi molestano giorno e notte» (pag. 417). Poi anche il senso visivo non le serviva bene; di che è pure argomento in alcune lettere escluse da questo volume. Il 21 nov. 1882 a Carmina Bartalena: «Vorrei scriverti tante cose, ma debole e la mia vista, debole la mano, onde lo scrivere mi è di gran fatica». Il 4 genn. 1884 all'amica medesima: «Non posso più scrivere per gli occhi deboli, e la mano dolente, quindi non ti ho scritto da varî mesi». E nell'anno stesso (pag. 443) confessava ancora di non aver «più facoltà di scrivere, nè di comporre», causa i «dolori alle ossa», che le si fecero «più vivi» nel 1883 (pag. 445), e la condussero all'eterna vita pochi mesi appresso, cioè la sera del 28 febbraio 1887, come si legge qui oltre a pag. 23, ov'è la descrizione degli ultimi momenti della sua preziosa ed esemplarissima vita terrena.

Per siffatti motivi mi pare logico affermare, che la buona Caterina nostra non può avere scritto molte lettere. Tuttavia l'affettuosissimo nepote di lei, il dott. don Filippo Ferrucci, un discreta raccolta ha saputo farne, avendo egli avuto questo proposito fin da quando la Caterina lasciò questo misero e ingrato mondo; del che vo' dare pei prova la seguente lettera a lui diretta dall'illustre latinista Tommaso Vallauri [1805—1897].

«Torino, 22 giugno 1887.

«Ill.mo e rev.do Signore.—Trasmetto a V. S. assai di buon grado tre lettere della illustre sua Nonna. Ne ho ricevuto altre: ma non mi è riuscito di trovarle. Avendo già da qualche tempo trasferito il mio domicilio in Roma, le lettere indirizzatemi ora a Torino, ora alla capitale, sono in grande disordine. Vane eziandio riuscirono le mie indagini per avere le lettere scritte dalla celebre donna al Boucheron e al Sauli.

«Si fece a suo tempo nell'Accademia nostra la solita Commemorazione della Accademica corrispondente. Ad ogni modo La ringrazio delle notizie, che mi manda, le quali mi serviranno per confortare in altro modo la memoria di una donna rara, che ebbe sempre la mia profonda stima, principalmente per la sua cultura classica, della quale pochi uomini si possono vantare ai nostri giorni in Italia. E Dio volesse, che le cose nostre, in opera di coltura, migliorassero per l'avvenire! Ma i nostri studi sono caduti si basso, che fra non molti anni i metodi germanici avranno imbarbarita l'Italia.

«V. S. pubblicando le lettere di Caterina Ferrucci mostra il suo affetto e la sua pietà verso la Nouna, e fa onore alla patria nostra. Accetti le mie congratulazioni e le mie lodi. Haec raptim,—Il suo dev.mo ed affmo T. Vallauri.»

L'influire dei «metodi germanici» nella coltura italiana, giustamente lamentato dal Vallauri, non ha fin'ora, mercè un drappello di valorosi, precipitato gli studj nostri nella temuta barbarie; e credo fermamente, che tanto eccesso non avverrà, se gl'Italiani ricorderanno quali amari frutti apportarono in Italia le cose straniere; se terranno impresso nella mente, che l'indipendenza e l'unità d'Italia ebbe inizio dalla lingua e dal pensiero. E un antidoto pronto ed efficace contro l'influsso dei metodi pedagogici stranieri in Italia sarebbero le accennate Opere della Caterina nostra, come previde già Vincenzo Gioberti fin dall'anno 1848. Onde ben fece il degno nepote dott. don Filippo Ferrucci, raccogliendo queste Lettere dell'illustre Donna; poichè se non altro richiameranno alla memoria l'utilità ed i beneficj, che arrechò all'Italia coll'Opere sue già stampate. La raccolta di queste Lettere (già prèannunciata da Cesare Guasti nel 1887) è vero che esce in luce un po' in ritardo; ma è poi altrettanto vero, che il ritardo medesimo ha lasciato agio al Ferrucci di renderla più ricca che non fosse, cioè di oltre 500 lettere. Alcune di quelle dirette al prof. Michele Ferrucci, fidanzato e poi consorte dell'Autrice, furono già pubblicate per festeggiare le nozze di Paolo Ferrucci e Teresa Tabarrini (Sei Lettere di C. F. F. (Rimini, tip. Malvolti, 1887, opuscolo in-8), Altre (ventidue) di quelle, in maggior numero, dirette al marito Michele e al figlio Antonio, quando nel 1848 si trovavano sui campi Lombardi, alla battaglia di Curtatone, furono messe in luce, ma non integralmente, dalla signora prof. Ida-Eugenia Ciancarelli, col titolo Una Donna italiana nel 1848 - lettere inedite di C. F. F. (Rieti, tip. Trinchi, 1907). Di quest'opuscolo diede ragguaglio copioso ed esatto il chiariss. prof. cav. Vittorio Cian in un articolo, Patriottismo femminile del Risorgimento, stampato nel Fanfulla della Domenica, Roma, num. 17 del 26 aprile 1908. Il quale articolo meriterebbe di essere riprodotto qui; poichè mette in bella luce l'animo della nostra Scrittrice, ed i motivi pei quali fu già annoverata fra i poeti dell'italico risorgimento.

Affinchè la raccolta di queste Lettere addivenisse ricca, come ho detto, diede pure sue diligenti cure l'eccellentiss. sig. colonnello comm. Paolo Ferrucci, comandante il Distretto militare in Bologna, altro affezionato e degno nepote dell'Autrice nostra; il quale, d'accordo col prelodato tratello dott. d. Filippo, si compiacque affidare a me la raccolta medesima. Prima però di imprenderne la stampa io credetti opportuno e doveroso di avvertirne gl'Italiani studiosi, affinchè mi agevolassero le ricerche, che ho fatte in ogni parte d'Italia, per raccogliere altre lettere della Caterina nostra. Non sono riuscite vane le mie preghiere, chè varî Italiani, amanti del retto pensare e del puro scrivere, senza mendicare oltr'alpe, hanno corrisposto fruttuosamente al mio desiderio: sicchè ho potuto accrescere vie più il numero delle Lettere. Non è stato però possibile rinvenire quelle, che la Caterina diresse a Vincenzo Gioberti, a Luigi Biondi, a Carlo Boucheron, a Paolo Costa, a Pietro Giordani, a Terenzio Mamiani ed a qualche altro illustre letterato. È vero però, che tali lettere non sarebbero molte, nè di grande importanza, se si volesse pregiudicare dalla lettura di quelle, che gli stessi letterati diressero a Caterina, e che nella Biblioteca universitaria di Pisa si conservano. Laonde io credo, che non avrebbero aggiunta una gran varietà alla presente edizione, che, così com'è, racchiude senza dubbio le più intime e affettuose, come son quelle a Salvatore Betti, a Marco Minghetti (co' quali ebbe lunga e costante amicizia), al fidanzato, al marito ed ai figli.

Accennate queste cose, dirò poscia quali criterî io abbia seguito nell'ordinare, scegliere e riprodurre il presente Epistolario.

L'ordine cronologico in un libro parmi utilissimo ad ogni studioso; sia per conoscere il progresso fatto dall'autore nell'arte difficilissima dello scrivere proprio e disinvolto; sia per conoscere meglio i fatti, l'origine e la data di essi; sia per comprendere lo svolgimento del pensiero. Ond'io tale ordine ho preferito nel disporre qui entro le Lettere di Caterina Franceschi Ferrucci; delle quali solamente quattro o cinque ho posto fuor di luogo, perchè in ritardo giunsero nelle mie mani. E a prescegliere l'ordine cronologico mi ha pure indotto la necessità, ch'io aveva di procedere ad una scelta diligente e scrapolosa delle lettere medesime. Nelle Opere stampate la Caterina abbonda pure di pensieri e giudizj linguistici e letterarî, nelle Lettere invece troppo scarseggia; e non so ben comprenderne la cagione, se già non fosse spiegabile nella lettera del 27 gennajo 1872 a Franceschina Sofio Curci, ove dice: «Ricevo spesso molti libri, ma non oso di dare il mio gîudizio sopra di essi, reputandomi priva dell'autorità necessaria a ben giudicare le opere altrui…» (pag. 417 e seg.). Abbonda però, in queste Lettere, di pensieri e giudizj religiosi, morali e politici, e vi si mostra coraggiosa e risoluta come nelle Opere stampate. Ma poichè alcuni di questi pensieri e giudizj sono naturalmente ripetuti, più o meno, secondo le varie persone cui sono manifestati, io ho dovuto fare una scelta di tali Lettere, accogliendo in questo volume le più importanti e caratteristiche, senza però trascurare le rimanenti, dalle quali ho tolto varî pensieri, ponendoli in nota alle prime; ma solo quelli propriamente utili e necessarî a rispecchiare intero e preciso l'animo e il sapere dell'Autrice nostra.

Della forma onde sono scritte queste Lettere, dirò pure quel che debolmente ne sento. Le giovanili, e specialmente quelle dirette al fidanzato prof. Michele, mi sono parute le più pulite ed eleganti; ma per evitare monotonia ho dovuto anche in esse scegliere parcamente. Le rimanenti sono più sciolte e spigliate; e talvolta un po' trascurate nel dettato; il che è naturale conseguenza del fatto, già accennato, che l'Autrice non pretese e non volle essere attiva, accurata nella corrispondenza epistolare. Quindi scriveva le Lettere frettolosamente, in mezzo a molte preoccupazioni: gli antografi nella più parte lasciano intravedere che la penna scorreva rapidamente sulla carta. Se dunque la Caterina teneva in sì poco conto le sue lettere, dovevo io senza discrezione formare questo volume? giudicheranno i saggi lettori.

Quanto alla riproduzione e correzione del testo mi sono attenuto fedelmente, ma non servilmente, agli autografi o alle copie favoritemi dai signori Nepoti dell'Autrice o da altri. Ho conservata la punteggiatura, anche laddove abbondano e sono talora superflue le virgole. Ho ommesso solo la moltiplicità delle lettere majuscole negli aggettivi e appellativi uniti al sostantivo, e gli accenti che l'Autrice soleva porre sulle parole prò, frà, sò nò, fà, Rè, sù ed altre consimili. Non ostante la diligenza usata mi sono sfuggiti alcuni errori, perchè talora non ho potuto correggere le bozze con la calma che sarebbe sempre necessaria. In fine del volume però ho data l'errata-corrige. Se qualcosa mancasse in essa, che purtroppo è facile, gradirò d'esserne avvertito e scusato dai Lettori cortesi e benevoli; ai quali auguro lunga e vera felicità.

III.

Affinchè la presente edizione fosse possibilmente compiuta in ogni sua parte, e gli studiosi non avessero a desiderare molto di più dalla diligenza mia, ho altresì ornato il volume di un fac-simile e del ritratto dell'Autrice. Pel ritratto si fecero vive richieste fin dal 1827; il che risulta da due lettere (qui ommesse), che la Caterina, da Macerata, diresse al fidanzato prof. Michele Ferrucci, e che con altre conservano autografe i prelodati Nepoti. Nella prima, in data dell'8 febbrajo 1827, si leggono queste porole: «La Mamma vi attende anziosamente, e brama di presto parlarvi…. Non so poi cosa rispondere intorno al desiderio che dimostrate di avere il mio ritratto. Io ho avuto sempre una certa ripugnanza per fare ritrarre queste mie povere sembianze, che da me stessa conosco essere bruttissime. Quando era qua la Claudina Valerj mi fece dire cortesemente, che mi avrebbe voluta ritrattare, ed io non accettai le sue gentili proferte. Pure se voi vorresto presto non mi opporrò ai vostri desideri.» Nell'altra del 21 febbrajo 1827: «Quando saprò che la vostra venuta è vicina, farò lavorare il ritratto, che con tanta gentilezza mi richiedete. Qui non vi è alcuno che sappia miniare bene: però avrete una brutta copia di un bruttissimo originale; ma voi non la disgradirete, poichè tanto mi amate.»

Era mio desiderio di ornare il presente volume dell'accennato ritratto giovanile della Caterina nostra; ma il nepote di lei, dott. d. Filippo Ferrucci, non lo possiede, e neppure sa di averlo mai veduto. Mi ha quindi favorito quello che l'Autrice si fece fare nell'età muliebre, e che io ho unito all'altro del suo diletto consorte, come vedesi qui innanzi al frontispizio. L'uno è l'altro è tolto da due fotografie, eseguite verso l'anno 1850, ora molto sparute; per cui la riproduzione di esse non è molto nitida ed espressiva: tuttavia fa conoscere a sufficienza quali fossero le sembianze principali della famosa letterata e poetessa.

Dirò da ultimo: che avevo ideato di riunire in un volume le Prose e Poesie, inedite o rare, di Caterina Franceschi Ferrucci (pag. 42, 58, 85). Ma quest'impresa non dipende solo dalla mia volontà, sempre pronta, sì più dal voto de' veri Italiani; il quale terrò favorevole, se essi, come spero, faranno buona accoglienza al presente Epistolario.

Di Reggio nell'Emilia, il di 10 ottobre 1910

Giuseppe Guidetti.



Pisa, 21 marzo 1883.

Mai cara Amica.—Antonio non può sopportare più a lungo la lontananza da me, dopo la nostra grande disgrazia, e si dispone al ritorno, e forse è già in mare. Ne sono contenta, e afflitta, poichè tomo la lunga navigazione, e sono molto agitata. Non scrive quando partirà, anche per non tenere in pena durante il suo viaggio. È afflittissimo per la perdita del caro suo Babbo, e desidera di riabbracciare almeno sua madre. Prega per lui, e per me. Appena avrò altre notizie ti scriverò.

C. Ferrucci.

Rosadi Giovanni [avvocato e deputato al Parlamennaz.] —In morte di Caterina Ferrucci, in La Nazione num. 76 del giovedì 17 marzo 1887 (Firenze, tip. success. Le Monnier).

Miraglia Bice. -Neorologia di Caterina Franceschi Ferrucci; in La Mammola - La Violètte—Italia France, anno II, num. 19 del 15 marzo 1887 (Firenze Tip. Bencini).

Matteo Ricci. Ritratti e profili politici e letterarî con una raccolta d'iscrizioni edite ed inedite, II. edizione. Firenze, alla Galilejana, 1888, pagg. 241—278.

Lo scritto su la Ferrucci è quello che si legge qui oltre a pag. 1—32.

Angelo Valdarnini, Storia della Pedagogia, di G. Compayrè. lezione XX.

Allievo Giuseppe. La pedagogia italiana antica e contemporanea, Torino 1900.

Ida Mancinelli Scatena: art. Ferrucci, in Dizionario illustrato di pedagogia.

Cesare Guasti. Rapporti ed Elogi accademici, Prato, tip. succ. Vestri, 1896, parte II. da pag. 523 a 553.

Natalina Baudino: Conferenza in Commemorazione di Caterina Franceschi-Ferrucci, Torino, Bona, 1888.

Amalia Zanardi: La donna nella storia della Pedagogia; Padova, 1892, da pag. 186 a pag. 208.

Ciancarelli Ida Eugenia: Una Donna Italiana nel 1848 (Lettere inedite di Caterina Franceschi Ferrucci). —Rieti, Tip. Trinchi, 1907.

Cian Vittorio [prof. della r. Università di Pisa]. Patriottismo femminile del Risorgimento: in Fanfulla della Domenica, anno XXX, N. 17 del 26 aprile 1908.

Giovannini Mangonio G.—Italiane benemerite del Risorgimento nazionale—Biografie—Milano, L. F. Cogliati, 1908.—In questo vol. oranto puredi ritratti, si parla di donne vissute dal 1781 al 1900, tra le quali Caterina Franceschi Ferrucci.

Gerini (PROF. DOTT. G. B.)-Gli Scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono: Torino, G. B. Paravia, 1910, da pag. 500 a pag. 525.

(1866.)

Questo scritto è tolto da un foglio, tutto di pugno del marchese Giovanni Eroli, che vi premise questa dichiarazione: «Caterina Franceschi in Ferrucci scrisso a richiesta del suo concittadino Giov. Eroli alcune brevi notizie sopra di se stessa, e gliele mandò per mezzo del proprio marito Michele prof. Ferrucci nel 1866. L'autografo della Caterina fu pei donato dall'Eroli a mons. Giuseppe Angelini viceger. del Vicario di Roma, noto e ricco collettore di autografi. Ma la sua raccolta fu quindi venduta dagli eredi ad altro a me ignoto. Sieguono le copie delle notizie anzidette, e della lettera del Ferrucci, con cui l'ebbe accompagnate e dirette all'Eroli». Nel margine sinistro della prima pagina di detto foglio si leggono pure quest'altre parole: «La presente copia fu cavata per mano di me Giovanni Eroli da quella istessa, ch'io feci sugli autografi. —Narni 29 aprile 1888.—G. Eroli».—Ecco pure la letterina di Michele Ferrucci che accompagnava l' Autobiografia, e che sta pure nel cit. foglio dell'Eroli:

«Al concittadino Giocanni Ecoli, a Todi.

Pisa 10 maggio 1866.

«Eccole mantenuta la mia promessa anche più largamente di quello che io ed ella potessimo sperare. Troverà con questa mia lettera la Biografia succitata di mia moglie scritta da lei stessa, alla quale aggiungerò qui poche notizie eronologiche, che credo non le riesciranno discare. Essa mia moglie nacque in Narni, se non erro nel 1803. Io la sposaî in Macerata, ove allora il padre di lei era medico primario, il di 27 7bre 1827 Sino al settembre del 1836 vivemmo in Bologna, ove io era aiuto in Biblioteca al cel. Mezzofanti e prof. e dottore Collegiale Filologo. Dall'ottobre 1836 sino all'agosto 1844 dimorammo in Ginevra, ov'io era stato chiamato a professore di letter. latina e poi anche di Archeologia in quella celebre Accademia, di cui sono sempre Professore emerito. Dal 1844 in poi siamo in Pisa…Co' saluti di mia moglie ho l'onore di confermarmi

U. mo dev. mo servo
M. Ferrucci.»

Il dottore Antonio Franceschi era medico in Narni quando da Maria Spada sua moglie ebbe Caterina. Questa per una sventura perdè la vista nella prima sua fanciullezza, e cominciò a fare versi mentre era cieca (1) Tale sventura è deseritta qui entro nella lettera del dì luglio 1848 a Prospero Viani. Quindi recuperata la vista, si dette agli studi che coltivò con grande amore: imparò la lingua latina, si esercitò nella greca, e delle italiane lettere molto si piacque. Maritata al professore Michele Ferrucci, dimorò per alcuni anin in Bologna, poscia a Ginevra, e quindi recossi a Pisa, ove il marito suo è professore di lettere latine e bibliotecario. La Caterina attese agli studi, per quanto glielo consentivano le cure della casa e l'educazione de' suoi figliuoli. Scrisse e pubblicò molte poesie di vario argomento. Pensando che la buona educazione fa gli uomini buoni, e che la libertà può consegnirsi e mantenersi solo dai popoli di virtuosi costumi, si dette a scrivere intorno all'educazione. Pubblicò da prima un libro sulla educazione morale della donna italiana, quindi due volumi sull'educazione intellettuale, e un volume sugli studi delle donne. Essendo stata chiamata a Genova per fondare un'istituto di giovanette scrisse un libro di letture momorali per uso di quelle. Ma poco tenne quell'ufficio per sue speciali ragioni. Siccome a Ginevra aveva dato due corsi di lezioni in francese sulla letteratura italiana, ella volle pubblicare un altro suo lavoro in italiano intorno allo stesso argomento, in modo però diverso. Pubblicò due volumi su i primi quattro secoli della nostra letteratura, e avrebbe continuato a scrivere sino alla fine del secolo XVIII, se una grande sventura non l'avesse fatta rinunziare per sempre agli amati studi, Ella perdè nel giorno 5 febbrajo del 1857, l'unica sua figliuola, la sua buona Rosa, che per virtù, per ingegno, per maravigliosa erudizione prometteva di sorpassare le speranze che la madre prese di lei sin dalla sua fanciullezza. A dare segno di onoranza e di amore alla diletta figliuola Caterina Ferrucci ne pubblicò gli scritti e ne fece la biografia. Questo libro ha avuto quattro edizioni in Italia, ed è stato due volte tradotto in francese, prima abbreviato, poi per esteso.—Ora la Caterina vive mesta, e solitaria, occupata dell'educazione di un suo nipote [2] Filippo Ferrucci, di cui si parla qui oltre in nota allo lettere a lui dirette.: figlio di Antonio Ferrucci, unico superstite di tre figliuoli, che ella ebbe.

[1] Questo Discorso letto al Circolo Filologico di Firenze, la sera del 4 aprile 1887, fu pubblicato ne La Rassegna Nazionale di Firenze, fascicolo del primo maggio 1887, e ristampato dall'autore ne' Ritratti e profili politici e letterari…, seconda edizione ampliata e corretta, Firenze, Tip. Galilejana, 1888, pag. 241—278.—Il march. Matteo Ricci, accademico residento della Crusca, nacque a Macerata il 5 decembre 1826 e mori in Firenze il 10 febb. 1896.

Signori,—Non pochi di voi forse meraviglieranno (e mi daran quasi carico) di venire qui stasera a parlare di un soggetto, mentre si era diffuso da un pezzo per il Circolo il romore (non falso) che io avevo preso l'impegno di parlare di un altro [2] Cioè di Marco Minghetti (1818—1887), bolognese, uomo di Stato, socio dell'Istituto di Francia, eloquentissimo oratore politico e amicissimo di Caterina Franceschi Ferrucci.

Intanto dunque che io aveva la mente occupata di queste idee, succedeva in Firenze la morte di una Donna così raccomandata allo ossequio e all'ammirazione dei posteri dalle virtù dell'animo, dallo splendore dell'ingegno, dalla celebrità degli scritti, che mi si affacciò subito al pensiero la strettissima convenienza che a Donna tale si dovesse rendere, nel più breve tempo possibile, in questo luogo, il tributo di lode e di rimpianto che meritava. Avrei per altro creduto di mancare quasi a me stesso, se non avessi assunto io medesimo l'ufficio di questo rimpianto e di queste lodi, attesi i vincoli di particolare amicizia e di antichissima consuetudine che mi legavano a Caterina Ferrucci; e non potendo specialmente dimenticare che la Ferrucci fu la più intima, la più affettuosa, e quasichè inseparabile, compagna di gioventù della mia povera madre [1] La contessa Elisa Graziani, morta il 5 maggio 1832, nella verde età di 25 anni; sul cui sepolero fu scolpito un epitaffio dettato dalla Caterina Franceschi Forrucci.; la cui memoria durava sempre alla buona Caterina così profondamente fissa nel cuore, che (anche dopo lunghi anni) essa non la ricordava mai senza pianto. Non vorrei nientemeno che voi credeste che io sia per fare qui a Caterina Ferrucci un Elogio funebre, nello stretto senso della parola. Non è questa la mia intenzione: e il Discorso correrà forse, in qualche parte, molto più libero e sciolto che ad un'Orazione funerale non si addirebbe. Metto (come si suol dire) le mani avanti, perchè poi non mi succeda di essere incolpato di non aver fatto quello che non ho voluto fare. E ciò premesso, vi dirò anzitutto, o Signori, in qual guisa a me sembri che noi dobbiamo in certo modo ricostruire la persona di Caterina Ferrucci, per mettercela tutta intera e quasi viva dinanzi agli occhi, quale essa era veramente, e così appunto come l'anno sempre veduta ed ammirata tutti quelli che la conobbero. Figuratevi una Donna continuamente intenta a formarsi un'idea chiara e precisa dei suoi doveri, con volontà fermissima di compirli. Figuratevi una Donna che perciò non trascura diligenze, non perdona a fatiche, rompe tutti gli ostacoli, supera ogni disgusto. Figuratevi una Donna sovrabbondante d'ingegno e ricchissima di studi, che scrive e stampa, non per uno sfogo insulso di vanita ma per l'intimo, sincero convincimento di poter dire cose buone, e utili soprattutto alle crescenti generazioni. Figuratevi una Donna di spiriti ardenti, tutta piena l'animo di religione e di patria, ispirata di tanto in tanto da questi suoi prepotenti e sublimi amori a cantare versi che dureranno. Figuratevi, finalmente, una Donna così abile nella conciliazione dei contrari, così dalla natura disposta a dare nella sua vita unità armonica alle cose più disparate, da riuscire per questo conto addiritura un prodigio. Caterina Ferrucci, di fatto, passava con una semplicità, con una scioltezza, con un garbo unico, dal rivedere, per esempio, la spesa del cuoco e dal misurare la carne in cucina al leggere un libro di Cicerone; dal leggere un libro di Cicerone al fare un lavoro di maglia; dal fare un lavoro di maglia allo scrivere una canzone petrarchesca; dallo scrivere una canzone petrarchesca all'insegnare l'abbici ai bamnini; dall'insegnare l'abbici ai bambini al presiedere un crocchio di Letterati. I quali intorno a Lei in effetto numerosi convenivano, e con piacere si trattenevano, allettati come erano dal conversare di una Donna spiritosa e cultissima; ma che non aggravava mai alcuno colla dimostrazione dei suoi meriti, e col peso della sua dottrina. E mi pare tuttavia di vederla quella cara Signora, in mezzo all'accolta dei suoi amici, ragionare con rara intelligenza di un po'di tutto, senza affettazione di frasi, senza studio di atteggiamenti, ma sempre semplice e nel discorso e nel tratto; naturale a tal punto riservata e modesta, che non c'era mai caso che ella entrasse a parlare delle sue opere se non tirata quasi per forza. Ma (secondochè dicevo pur dianzi) la nota più distinta e più degna di osservazione, nel carattere di Caterina Ferrucci fu senz'alcun dubbio quell'intimo e meraviglioso congiungimento che si vedeva in lei, di una rara potenza speculativa temperata, e come corretta, da un senso pratico il più squisito.

Il buon Michele, consorte della Caterina, non ebbe certamente mai ragione di gridare come il Crysale delle Femmes savantes: L'on me brûle mon rôt, en lisant quelque histoire.

Ma si può scommettere qualunque cosa che l'arrosto in casa Ferrucci non è mai bruciato per colpa della padrona; la quale, da buona massaia, tutto vedeva, di tutto s'informava, sopra tutto vigilava da se medesima, introducendo per conseguenza una tale puntualità, un tale assetto, in ogni funzione della famiglia, che la casa Ferrucci (vivente lei) era ragionevolmente guardata e amn. irata da tutti come un modello di ordine e di economia. Imperocchè la Caterina con quel fine giudizio, con quel discernimento fermo e sicuro che possedeva, sapeva benissimo quanta parte di sapienza sia nell'apprezzare e trattare ciascuna cosa di questo mondo secondo il suo proprzionato valore; nel dare ad ogni momento, e (sto per dire) ad ogni minuto della giornata le destinazione che gli conviene; nel non lasciarsi mai abbagliare o sedurre (nella pratica della vita) da certe apparenze e da certe lustre in pregiudizio della sostanza. Di natura che ho più e più volte inteso dire alla Ferrucci: che il maneggio dei libri e l'esercizio letterario, non avevano in fondo agli occhi di lei un'importanza più rilevata che lo scoperchiare a tempo e luogo le pentole e il rimendare le calze.

Descritta così come meglio ho potuto, la figura morale di Caterina Ferrucci; e posciachè avete in tal maniera, o Signori, dinanzi a voi il ritratto (per quanto imperfetto possa essere) di questa Donna singolarissima; sentirete, mi accerto, un desiderio non piccolo di conoscere eziandio qualche cosa delle vicende e delle varie fortune della sua vita. Vi dirò, dunque, che la nostra Caterina nacque a Narni, ai 26 di gennaio del 1803, dal dottore Antonio e da Maria dei conti Spada di Cesi. Adolescenza e prima gioventù le passò quindi fra Osimo e Macerata, avendo essa incontrato in Osimo a maestro un tal sacerdote Fuina (1) Il sac. don Francesco Fuina, letterato di valore non comune, diresse pure la Caterina nello scrivere pootico: di che si ha prova in una Cantica inedita in morte del colebre Antonio Canova, ove sono alcune varianti» autografe del Fuina. A tale proposito il dott. don Filippo Ferrucci, degno nepote di Caterina, mi scriveva il 25 maggio di quest'anno 1910: «Francesco Fuina fu professore di Belle lettere nel Collegio Campana di Osimo, e pregato dal dott. Antonio Franceschi insegnò per alcuni anni alla Ceterina, la quale lo ricordava sempre cou grando riverenza, facendo grandi lodi della sua abilità come insegnante. Chiamato ad Ancona come segretario di quel vescovo Card. Riganti continuò ad ammaestrare la sua alunna per lettera… La Nonna diceva che ad Ancona stava mal volentieri, perchè lo travagliava la nostalgia: del resto il Card. Riganti visse poco in Ancona, essendo morto nel 1823 o in quel torno, nè ercdo che il Fuina rimanesse col Vescovo successore». E nell'opuscolo su le Onoranze rese in Osimo a Gius. I. Montanari (Osimo Tip. Bettini 1903), dov'è l'elenco dei Professori del Collegio e Seminario Campana, si leggono questi conni: «Fuina d. Francesco, di Osimo, professore di cloquenza e socio di parecchie Accademie, ebbo un distinto posto fra gli uomini di lettere. Molte sono lo composizioni di lui in prosa e in verso italiano o latino, parto a stampa, in vario raccolte, e, in parte maggiore, inodite. Egli sentivasi inclinato particolarmente all'imitazione dei classici latini e italiani, e per le scritture sue ottenne la stima di molti principali letterati del suo tempo, e specialmente del chiarissimo Pietro Giordani. Una delle sue glorie è certamente l'avere indirizzato nel cammin delle lettere una delle più distinto poetesse viventi, Caterina Franceschi Ferrucci.», il quale indovinato l'ingegno e le rare disposizioni della sua alunna, le diede un'istruzione letteraria molto più larga e solida che non si pratichi ordinariamente colle fanciulle. Egli di fatto si applicò a promuovere con ogni sforzo il genio nativo della Caterina per le lettere; le insegnò il latino: la innamorò dei classici; la indirizzò nello scrivere: e insomma fu lui che gittò, in un terreno fortunamente dispostissimo, quei primi germi, i quali erano poi destinati, nel progresso del tempo, a frutrificar così bene. Ma se la Caterina dovette al buon Prete d'Osimo la cognizione del latino, essa ebbe obbligo a Michele Ferrucci (divenutole più tardi marito) di sapere anche il greco (1) Da varie lettere risulta luminosamente, che la Caterina studiò il greco idioma coll'ajuto di Andrea Cardinali di Macerata (veggasi qui oltre a pag. 56 e 81), letterato che ebbe carteggio anche co' più famosi contemporanei, come il Giordani, il Foscolo, il Leopardi ec., il che mi riferisce un nepote di lui che dimora a S. Pietrangeli (Ascoli) e che porta il nome dell'avo suo: Andrea.: a Michele Ferrucci, da lei conosciuto in Macerata, mentre la Caterina seguì là la sorte del padre (che come medico-condotto passava da una città all'altra), e Michele, sebbene laico, leggeva Retorica in Seminario. Essi si sposarono quindi ai 23 di settembre del 1827: e vissero poi insieme sempre felicissimi, concordissimi, come due anime in un nocciolo; e in una perpetua (direi quasi estatica) ammirazione l'uno dell'altro, per cinquantaquattro anni! Ma proseguendo la narrazione, secondo l'ordine dei tempi, soggiungo immediatamente; che i coniugi Ferrucci, nello stesso anno del loro matrimonio, lasciarono Macerata per trasferirsi a Bologna; dove Michele era stato nominato professore sostituto, nell'Università, di Arte oratoria e poetica, latina e italiana, con diritto di successione. E fu appunto a Bologna che incominciò ad acquistare maggior grido il nome della Caterina, frequentata, ammirata, celebrata, da tutti quei chiari uomini che a quei tempi l'abitavano, o di quando in quando ci convenivano; dai Marchetti e dai Costa, dai Giordani e dai Leopardi, dagli Strocchi e dagli Angelelli.

Ma (specialmente dopo la rivoluzione del 1831) i tempi correvano torbidi nello Stato ecclesiastico; infiniti i sospetti, meravigliose le paure, l'inquisizione continua. Ci voleva poco ad essere denunziato per liberale; e ci voleva anche meno a sentirne le conseguenze colla destituzione dagl'impieghi, colla carcere o coll'esilio. Dall'altro lato gli spiriti fervidi e l'amor patrio della Caterina Ferrucci erano noti a tutti: essa parlava alto, troppo alto, e Michele le teneva tenore: onde non deve far meraviglia se, verso il 1836, i buoni coniugi si persuasero a non dubbi segni, e a replicate avvertenze, della cattiva aria che spirava loro dintorno; e quanto specialmente pericolasse al Professore la conservazione del grado e dell'emolumento universitario. Vieppiù facili e pronti furono quindi i Ferrucci ad accogliere un grazioso invito, che precisamente in quel torno veniva loro da Ginevra, dove Michele era chiamato ad occupare la cattedra di Eloquenza latina in quella, così detta, Accademia, ossia, Università ginevrina. Nè conferirono poco di certo a troncare gli ostacoli ed a sciogliere ogni dubbiezza, in una risoluzione così gelosa, gli eccitamenti e i conforti del celebre storico Sismondi [1] Gian Carlo Sismondi de' Sismondi, nato a Ginevra nel 1783 e morto ivi nel 1842., il quale si trovava appunto allora in Bologna per i suoi studi, ed era entrato in molta intrisechezza con i Ferrucci. Ma chi di voi (che non abbia letto un volume venuto in luce di fresco) indovinerebbe mai, che l'uomo il quale diede, forse e senza forse, l'ultimo e decisivo crollo alla bilancia nella elezione del Ferrucci per parte del, cosi detto, Senato dell'Accademia ginevrina, fu nientemeno che il conte Camillo di Cavour? Eppure ciò risulta evidente da due lettere, che si leggono nel v volume dello Epistolario di lui edito dal Chiala. Codeste lettere sono indirizzate al cugino ginevrino del Conte, Eugenio De la Rive [1] Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour, raccolte e illustrate da Luigi Chiala (Torino, Roux e Favale, 1886), vol. V, pag. 46 e segg.—A gus to do La Rive, fisico illustre, professore nell'Accademia di Ginevra, socio straniero dell'Istituto di Francia, visse dall'anno 1801 al 1873, e fu parente del conte Camillo Cavour.: e giacchè esse appariscono di una grazia, di una leggiadria, di una festività di stile meravigliosa, giacchè esse ci danno un bellissimo documento di quanto fosse giusto e penetrante il discernimento di Camillo Cavour [2] Camillo Benso di Cavour, torinese, presidente del primo ministero italiano, autore di nuovi metodi agrarii, di riforme economiche e di nuove instituzioni politiche nel Piemonte,«oracolo della diplomazia Europea», visse dal 10 agosto 1810 al 6 giugno 1861. I discorsi parlamentari di lui, raccolti e pubbl. da Giuseppe Massani (Torino, Botta, 1863 e segg.) per ordine della Camera dei Deputati, mostrano l'ingegno, l'animo singolare di chi li scrisse.- La città di Torino gli inaugurò un grandioso monumento nel 1873, opera del famoso scultore Giovanni Duprè., non solo nella politica, ma in qualunque soggetto, anche menomo, che gli venisse alle mani; mi saprete grado, spero, o Signori, se io vi leggerò testualmente gl'interi passi di dette lettere che a Michele e a Caterina Ferrucci si riferiscono:

«(Turin, 23 décembre 1835).

Mon cher ami,—Un professeru d'éloquence latine n'est pas chose facile à trouver par le tems qui court, même en Italie. Les erprits s'étant passionés du positif, et les arts s'étant faits romantiques, l'étude des grands classiques de Rome a partout dégénéré, au point que jusque chez nous on trouverait plus facilment dix analystes distingués qu'un latiniste premier ordre. Pour vaincre les difficultés pue présente la commission que vous m'avez donnée, ie n'ai trouvé d'autre moyen que d'aller consulter le professeur Bucheron (1) «[Carlo] Boucheron (1773—1838), sin dal 1814 era professore di eloquenza greca e latina nel R. Ateneo torinese.» (Nota di L. Chiala)., l'oracle de la latinité en Piémont et qui est sans rivaux en Italie et probablement en Europe. L'article de la Gazette ne vous aurait rien servi, car l'homme que vous cherchez n'est pas de ceux qu'un prospectus fait éclore, ou qu'on découvre au moyen d'une annonce.»

«J'ai bien expliqué à MrBucheron quelles étajent les intentions de l'Académie de Genève; et qu'il ne s'agissait pas d'un Rhéteur de province, mais d'un savant capable de' professer aux yeux de l'Europe. Il m'a répondu qu'un seul homme en Italie pouvait répondre à votre attente: c'est Mr Ferrucci, professeur à Bologne. Lui seul parmi les jeunes littérateurs est dans le cas pe parler le langage de Cicéron, de' manière à ne pas être désavouè par ce grand maître; et plus qu'amcum autre il est dans le cas d'en faire connaître les finesses et les beautés. Mr Ferrucci a trente deux ans, il professe depuis longtems et il s'est fait connaitre par plusieurs ouvrages jouissant d'une réputation méritée; nul en Europe ne vous conviendrait mieux que lui; mais Mr Ferrucci n'est jamais sorti d'Italie, et quoiqu'il sache fort bien le français, il l'estropie à la Bolognaise en le parlant. Voyez, mon cher, si ce seul défaut est suffisant pour faire rejeter par le Sénat académique, un homme qui est sans contredit supérieur à tous les latinistes de France et d'Angleterre, et probablement aussi à ceux de l'Allemagne et de la Hollande. En attendant votre réponse comme le Pr. Bucheron ne poùvait pas me garantir l'acception de Mr Ferrucci qu'il considérait seulement comme fort probable, je l'ai prié de lui écrire pour le sonder vaguement sur ses intentions par rapport à une chaire à l'étranger».

«Je vous dirai pour vous intéresser davantage à mon Bolognais, qu'il a une femme aussi savante que lui, et qui de plus est douée d'une imagination brillante et du génie des arts et de littérature. Elle serait peut-être dans le cas d'animer par sa verve et son esprit méridional la grave et prudente société Genevoise, ce qui ne serait pas un grand malheur, vous me l'avoueres, tout roissannable que vous êtes [1] La signora. Caterina Franceschi Ferrucci, della quale si parla qui, e giustamente con tanto entusiasmo, vive ritirata a Pisa, da tutti tenuta in grandissima stima perle elette qualità della mente e dell'animo…». [Nota di L. Chiala].. Je vous dirai finalement que vous ne pouvez jamais espérer ni de trouver un Italien qui dès l'abord parle bien français, ni un étranger qui parle bien le latin; et que puisqu'il faut se résigner à voir une des deux langues estropiées par le professeur d'éloquence il vaut mieux que ce soit celle qu'il n'est pas chargé d'enseigner. D'ailleurs Mr Ferrucci est jeune, il possède à la perfection le génie des langues, et il y aurait bien du malheur si dans un an ou deux il ne parvenait pas à former ses grosses lévres Bolonaises, à prononcer le francais presqu'aussi bien que plusieurs de vos professeurs académiques…».

(Torin, 29 mars 1836).

«Cher ami, un petit séjour que j'ai fait à la campagne pour préparer les semailles du riz m'a empêcheé de répondre plutôt à la lettre que vous m'avez écrite au sujet du professeur d'éloquence latine. À vous dire vrai, il m'avait paru d'aprés le peu de lignes que vous m'aviez écrites cet hiver que vous n'attachiez pas un trés grand prix à ma proposition. La lettre que je vous avais écrite à cet égard contenait d'assez nombreuz détails sur Mr Ferrucci; détails suffisans pour vous mettre à même de juger de la convenance de ce savant pour remplir la place que vous avez à donner. Cette fausse idée m'a empêché de donner suite à cette affaire. Mr Bucheron à ma demande avait écrit dès le mois de janvier à Mr Ferracci pour lui faire part des recherches que l'académie de Genéve fesait. Mr Ferracci en homme prudent, avant de se commetre définitivement, a voulu bien connattre le terrain sur lequel on lui proposait de s'engager, et a adressé en réponse à Mr Boucheron un tas de questions qui ont effrayé mon professeur un tant soit peu épicurien; et ont refroidi son zéle pour oette affaire.»

«D'ailleurs je voyais une immense difficulté dans l'obligation imposée de professeur en français, et dans le désir d'avoir un omme habile dans les deux langues. Je craignais que ce ne fût un obstacle invincible au choix d'un Italien résidant dans sa patrie; et en prèsence de cet obstacle je craignais m'engager trop loin avec un homme de premiére force comme Mr Ferrucci. Maintenant que j'ai va que vous tenez effectivement beaacoup à voir un habile professear d'eloquence latine, je suis revenu à la charge auprès de Mr Bucheron qui m'a de nouveau répété qu'il ne connaissait que Mr Ferrucci qui pût vous convenir. Comme vous pouvez avoir perdu ma première lettre je m'en vais vous mander une seconde fois les notions sur lui qui peuvent vous intéresser.»

«Mr Ferrucci est un homme de 35 ans au plus qui professe l'eloquence latine a Bologne. Il possède cette langue à perfection, non seulement sous le rapport de l'èrudition, mais il la manie soit en l'écrivant soit en la parlant comme il n'est donné de le faire qu'à quelques rares individus en Italie. Il est sans comparaison le plus fort latiniste de son âge. Bucheron dit naïement qu'apres lui c'est ce qu'il connaít de mieux. Si vous attiriez Mr Ferrucci à Genève vous auries par dessus le marché sa femme, qui a plus de génie et d'amabilité que lui, qui réunit toutes le qualilités qui distinguent les Italiennes, et quis aura chez vous les plus grands succès si jamais votre société vient à lui pardonner deux défauts qu'elle a touyours réputés capitaux: c'est de parler haut, et de faire des vers. Le seul inconvénient que je trouve á Mr Ferrucci pour vous, c'est qu'il ne parle pas très bien le français, que son accent Bolonais est très pronouce, et que pour un an ou deux il aurait besoin à cet égard de l'indulgence de ses écoliers.»

«Si les notions que je vous donne tentent, alors je suivrai en personne cette affaire, car devant aller á Trieste je passerai si vous dèsirez à mon retour à Bologne, où je verrai Mr Ferrucci, et j'arrangerai avec lui son voyage préparatoire à Genève. Je n'ai pas le tems d'attendre votre réponse à Turin, envoyez-la moi poste restante à Trieste. Je ferai tout ce qui dépendra de moi pour vous seconder dans cette affaire: seulement je vous avertis que Mr Ferrucci excepté, je n'ai pu découvrir personne en Italie qui puisse vous convenir. Pour vous envoyer une médiocrité cela n'en vaut pas le peine; et les sommités sont rares ici comme ailleurs…».

I coniugi Ferrucci andarono, dunque, e si fermarono per vari anni a Ginevra, acquistando anche negli Svizzeri quella stima e quell'affetto che per la dottrina e per le virtù loro si meritavano. Mentre Michele insegnava Eloquenza latina nell'Accademia, la Caterina insegnava lingua e letteratura italiana privatamente, con molta frequenza di alunne, e con molta lode. Ma frattanto vacò (e proprio nel 1843) la cattedra di storia e archeologia nello Studio pisano; cattedra tenuta fino allora dal celebre Rosellini; e il Granduca di Toscana chiamò a succedergli il professore Ferrucci.

In questo modo Michele e Caterina rividero finalmente, e con somma loro allegrezza, il cielo italiano: e in Pisa eglino passarono poi molti anni placidi e lieti, tutti assorti nei loro studi, tutti occupati nei figli, della cui bontà e dell'ingegno, più di ogni altra cosa del mondo, si predicavan felici, e mirabilmente si compiacevano. Ma tanta beatitudine dei Ferrucci doveva essere purtroppo interrotta, anzi troncata per sempre, da quel fiero caso che li colpiva ai dì 5 di febbraio del 1857, colla morte quasi improvvisa della loro figliuola Rosa. Di che specialmente la povera madre ebbe come dimezzata la vita, e ne istupidi di dolore, a tal segno da rimanere per qualche tempo esclusa da ogni conforto, e incapace di qualunque, anche menoma, occupazione. Ma risentitasi alla fine da quel letargo, la nostra Caterina cercò e trovò all'interno tormento lo sfogo più degno della sua anima. Ella cantò sulla tomba della figliuola pietosissimi versi: ella scrisse (sotto forma di Lettera a monsignor Charvaz, arcivescovo di Genova) una breve vita della Rosa, donde spira un olezzo di religione così profondamente sentita, e nobilmente significata; donde si ritrae tanta copia di begli esempi e di utili ammonizioni, che la fortuna di quel libruccio è stata veramente grandissima: talmentechè egli fu impresso più e più volte in Italia, e fu tradotto in tutte le lingue culte d'Europa. Ma la povera Caterina (obbligata a viver lontana dall'unico figlio che le restava) non potè dire ciononostante di avere perduto tutto nel mondo, finchè le durò l'appoggio e la dolce conversazione del suo Michele. Mancatole però anche l'adorato marito nel 1881; e fattasi una completa, desolante solitudine intorno a lei; essa si ripiegò sempre più in se medesima, si fissò tatta in Dio: e in tale disposizione dell'animo, la santa Donna riparò a Firenze, dove ella trascorse gli ultimi sei anni della vita, quasi ignorata dal mondo, veduta da pochissimi, e ogni giorno più diminuita nell'intelligenza e nelle forze vitali dai malori e dagli anni che l'aggravavano. Buon per lei nien edimeno che essa trovò qui in un saggio e diletto nipote un compenso raro alla solitudine, e un conforto invidiabile in tante pene [1] Di sì degno nepote dell'autrice nostra si ha pure un ricordo dell'aureo scrittore prof. Federico Balsimelli (1826—1899), in questa isorizione: «Filippo Ferrucci | figliuolo primegenito | al comm. Antonio e a Silvia Brighenti | avvocato | per ingegno dottrina e rara bontà | reputatissimo | di vita illibata sin dalla prima giovinezza | e sinceramente religioso | abbandonato il fôro | e datosi alla ecclesiastica milizia | oggi 8 di giugno 1884 | nella età di anni trentadue | in santo Ambrogio di Firenze sua patria | offre all'Eterno la prima volta | l'incruento sacrificio | O novello levita | novello ornamento della cattolica chiesa | consolazione de' tuoi genitori | della illustre tua avola | Caterina Franceschï Ferrucci | e de'tuoi fratelli congiunti ed amici | accogli i rallegramenti del cuore | dal canonico Federico Balsinnelli riminese | che ti conobbe fanciullo | e ti pregiò sempre ed amò». Poi che Filippo Ferrucci si dimostrò veramente alla nonna per caldezza d'affetto, e assiduità di cure, più che figliuolo: egli la osservò con riverenza, la guardò con gelosia, e fu sempre pronto ad ogni suo desiderio; non istaccandosi mai da lei, fino a tanto to che nella sera del 28 di febbrai 1887, ne doveva essere disgiunto per sempre, abbracciandola moribonda, e raccogliendone devotamente l'ultimo spirito [1] Avendo il compilatore di questo volume mostrato desiderio di sapere qualcosa della morte della scrittrice nostra, ricevette dal prelodato nepote di essa, in data del 29 maggio 1910, questi cenni:
«Quanto agli ultimi momenti della Nonna vi dirò, che la sua malattia fu breve, essendosi alzata anche il sabato 26 febbraio, sebbene non si sentisse bene: ni quel giorno, se non erro, si conféssò e ricevè alcuni amici fra cui il prof. Carlo-Franc. Gabba (ora senatore) che venendo ogni settimana a Firenze, veniva sempre a trovarla, e con esso conversò, come al solito. La domenica peggiorò, ma solo sulla sera si manifestò imminente il pericolo, onde mio padre fu avvisato per telegrafo, e le fu amministrato il Viatico: nella notte, continuando il peggioramento, chiese l'estrema unzione, che ricevè in piena conoscenza: sul far del giorno perdè la favolla, ma sembra riconoscesso il figlio, giunto da Roma, si aggravò quindi sempre più, senza però aver gravi sofforenze, e alle 4 della sera spirò placidamente, assistita da me, e da mio padre. Avendo essa ordinato che il suo trasporto funcbre avesse luogo senza pompa, e nelle prime ore della mattina, ad esso presero parte pochissimi intimi, ed aleuni sucerdoti: il 3 marzo le fu fatto un decoroso funerale alla sua parrochia di S. Ambrogio, un altro il settimo nella chiesa di S. Martino la Palma. e il xxx una esposizione solenne del Ss. Sacramento nella Chiesa de' Filippini, ove fu esposta la epigrafe del ch. P. Ricci: ebbe sepoltura nella cappella gentilizia di questa villa [S. Martino alla Palma, presso Firenze], con una semplice lapide, ov'è incisa-la isorizione del suo veochio amico Ranalli. Tanto-sulla bara quanto sul catafalco ai due-funerali fu posta la decorazione dell'ordine di S. Carlo, che le era stata conferita dall'infelice Massimiliano d'Austria, imperatore del Messico, e che essa non aveva mai voluto portare in vita. Questo è quanto posso dirvi, ajutato dalla memoria della fine e della morte, veramente edificante, di quella donna illustre.»
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Ma se vi doveva premere ragionevolmente, o Signori, di risaper qualche cosa della vita di una donna come era Caterina Ferrucci, vi deve premere ancora più (credo) di sentir discorrere un poco delle sue Opere: di quelle Opere per l'appunto che collocarono la Ferrucci in un luogo cosi eminente fra le altre donne; di quelle Opere per le quali essa fu ricercata da tanti dotti, fu esaltata da tante penne, fu acclamata da tante Accademie: fra le quali primeggia la nostra Accademia della Crusca, che nell'anno 1871, con esempio nuovo, iscrisse il nome della Caterina fra'suoi soci corrispondenti; onore non mai sortito da verun'altra donna dalle origini dell'Accademia fino a noi. Ne mancarono neppure alla Ferrucci, in merito dei suoi lodati lavori, i fregi cavallereschi, avendola l'infelice Massimiliano d'Austria, mentre era imperadore del Messico, insignità dell'Ordine di s. Carlo.

Vincenzo Gioberti, nell'Apologia del Gesuita moderno, esce un tratto in queste testuali parole: «Citerò ad esempio il libro recentissimo di Caterina Ferrucci (Dell' educazione morale della Donna italiana), il quale mi pare l'opera dottrinale più perfetta che in argomento pedagogico sia stata scritta in questi ultimi tempi». Fra le tante cose, in vero, in prosa ed in versi, pubblicate dalla Ferrucci durante la sua lunga vita, non mi pare dubbio che i libri pedagogici furono quelli che la levarono a maggior grido, eche dettero con ragione un fondamento più stabile alla sua fama. Ella appoggia e, come a dire, impernia il sao sistema sopra alcuni dati speculativi di precipua importanza, sottilmente e maestrevolmente ragionando delle diverse potenze dell'amma; della finalità umana determinata dal suo principio divino; del valore necessario e assoluto per consegnenza della legge morale messo in concordia col libero arbitrio dell'uomo; della intrinseca diversità, infine, del buono e del cattivo nelle azioni degli esseri intelligenti, considerata come un'illazione logica dei principi sovradescritti. Filosofemi tatti (come è facile di comprendere) in perfettissima consonanza colla dottrina ortodossa, e coi dogmi più noti del Cristianesimo. Ma se il sistema della Ferrucci è indubbiamente religioso, egli comparisce nonostante tutt'altro che quetistico. Basta, infatti, vedere come essa in lunghi capitoli sapientemente e compiacentemente discorra della civiltà cristiana, guardata come il termne più perfetto di coordinazione e, come a dire, di vincolo, fra il moto presente e la quiete futura, fra il progresso nella prova e l'immanenza del premio, fra la terra e il cielo, fra il tempo e l'eternità. Onde ogni uomo che vive è strettamente tenuto a farsi continuo e attivo cooperatore del disegno divino nel creato, sviluppandone (per quanto è da sè) ogni germe di perfezione ed estrinsecandone ogni bellezza; così negli ordini della famiglia come in quelli dello Stato, nell'economia e nell'industria, nella scienza e nella meccanica, nelle arti e nelle lettere, nei rapporti fra gli uomini e nel signoreggiamento della natura.

Ora, una filosofia simile non potrà mai evidentemente condurre gli uomini alle sterilità del quietismo, ai fervori solitari di spirito, o allo studio di beatitudini anticipate: una filosofia simile, per contrario, signinca nel più alto grado, operosità, movimento, impeto, vita. Noi vediamo però come la Ferrucci impieghi un intero Capo per dimostrare alle madri di famiglia, quanto male provvelerebbero alla salute della loro anima chiudendosi troppo in se medesime, e dandosi tutte alla devozione e ad ascetismi saperlativi. Usino pure discretamente a Chiesa (dice insomma la Caterina); preghino a tempo e luogo; sta bene: ma non rubino, con una specie di religione intesa a rovescio, un tempo prezioso all'adempimento dei loro primari doveri; quali sono, il governo assiduo della famiglia, e l'educazione diligente dei figliuoli. E nella forma e nell'indirizzo appunto della educazione della prole, soprattutto maschile (come la Ferrucci questa educazione concepisce e vuole), risulta più che mai chiaro lo spirito fecondo, e la nura sovranamente civile dei snoi sistemi. Imperocchè (secondo lei) non si debbono già, mediante i sapienti e adattati ordini educativi, formare unicamente uomini buoni per sè, e capaci un giorno dell'eterna beatitudine; ma eziandio uomini utili al mondo, forti e virtuosi cittadini. Riflettendo poi la nostra autrice all'influenza ordinariamente maggiore che ha l'azione materna in confronto della paterna, per il modo più soave, e perciò più penetrativo con cui s'insinua; essa desidererebbe molto di vedere anche le madri farsi compite e ascoltate maestre di virtù civili ai figliuoli. Al quale effetto la Ferrucci non dubita di esortarle a lunga e grave preparazione…

Molto meglio ragiona, a parer mio, la Ferrucci quando ella si fa a dimostrare la convenienza di una solida e larga cultura nella donna, per altri capi: affermando con molta sagacia, a modo d'esempio, che un certo equilibrio di cultura fra marito e moglie, è forse il mezzo più valido per afforzare la concordia degli animi, accrescendo la riverenza; e introducendo (per natural portato delle cose) fra i coniugi una più stretta comunanza d'idee, una più ricreante e più abituata conversazione. Nè minor peso certamente tribuisce la Ferrucci alla cultura donnesca considerata come un mezzo indispensabile acciò le madri di famiglia possano indirizzare e vegliare e (fino a un certo punto almeno) operare anche da se medesime l'istruzione dei propri figli…

Ma tornando alla Ferrucci; se i suoi Trattati pedagogici contengono alte e buone teorie, essi sono anche molto osservabili in tutta quella parte che, si potrebbe dire, sperimentale Bellamente, per esempio, e maestrevolmente ci si ragiona delle varie maniere con cui le volontà ostinate si rompono, le volontà riottose s'imbrigliano, le volontà fiacche si scuotono, le volontà capricciose si raddrizzano: e domina soprattutto nei sistemi pratici della Ferrucci uno spirito, costantemente, potentemente, fieramente virile. A tal segno che qualche volta si dà in eccesso; come quando, per esempio, la nostra autrice vorrebbe che le ragazze anche in età da marito (senza distinzione di casi, di condizione, di circostanze) si allevassero sempre sprezzanti di ogni moda, schive di ogni divertimento, aliene da ogni mondanità, e con un grande odio dello specchio. Mi perdoni la cara memoria della signora Caterina. ma in quest'odio dello specchio c'è una forte esagerazione; come c'è un'esagerazione fortissima in quel tanto ripetuto e inculcato da lei dispregio della moda. O non sapeva forse la brava Ferrucci, che una ragazza (posta particolarmente in certe condizioni sociali) la quale non siegua (giudiziosamente e discretamente, sia pure); ma non siegna inscmma a passo a passo il variar delle mode, arrischia assai di tirarsi addosso il riso di tutto il mondo; e che una ragazza la quale sappía niente mente di ridicolo, può rinanziare al matrimonio per tutta la vita? Ma già, in certe rigidità fuor di luogo, nello studio troppo frequente dell'eroico, e in un cotale sforzo di virtù lambiccate, mi è parso sempre che stieno i principali difetti dei libri pedagogici della Ferrucci: difetti nonpertanto assai tenui in confronto delle molte bellezze che ci risplendono.

Venendo poi, finalmente, a dire qualcosa della Ferrucci, come scrittrice, non dubito di affermare da prima che essa ha tenuto senza dubbio in Italia un luogo cospicuo fra i prosatori più puri e più garbati di questi tempi… Ed io ho lodata la maniera di scrivere della Ferrucci, appunto per questo che nel sao stile ella si mostra sempre corretta senza stitichezze, elegante senza smorfie, pura senza anticaglie, fedele ai classici senza idolatrie; e schiva soprattutto di quei parlari, quanto bizzarri altrettanto insulsi, che sono piuttosto da ascrivere all'infelice trovato di qualche retore che non al buon giudizio di scrittori considerati. Come sarebbero, per figura, tutte quelle curiose desinenze, che tanto piacevano a Terenzio Mamiani; il quale, si sarebbe fatto piuttosto tagliare un dito, anzichè usare (come fanno tutti i galantuomini) le parole intervento, splendore, significato, tentativo, disperazione, maturità: ma egli invece scriveva sempre intervenimento, splendenza, significanza, tentamento, disperanza, maturezza (1) Ad un parlatore erudito, ad uno scrittore mondano e inelegante, qual fu Matteo Ricci, va pure condonata l'infelice oritica sul classico scrittore Terenzio Mamiani (1800—1885).. Di affettazioni, di leccature simili (per grande fortuna) nei libri della Caterina Ferrucci non c'è neppar l'ombra: ed anche il giro de' suoi periodi, quantanque fabbricati d'ordinario con molta industria, comparisce sempre lucido e piano. Che se poi alcuno mi domandasse quale sis fra le diverse Prose di lei quella che io preferisco: non dubiterei di rispondere: le Vite degli illusri bologuesi, dove mi pare che essa abbia toccato davvero il colmo dell'eccellenza.

Ma se le Prose di Caterina Ferrucci hanno quei rari pregi che abbiamo detto; commetterei un'ingiustizia, e un'omissione imperdonabile, se non toccassi anche un poco dei suoi Versi, alcuni dei quali in particolare mi sono parsi sempre ottimi, e meriterebbero di essere anche oggi letti e studiati più di quello che non si faccia. (2) A questo punto il Ricci riproduce, «come saggio» poetico della Ferrucci, «quella bella canzone intitolata I flori e le stelle», che si legge a pag. 367. 378 del vol. Prose e Versi di C. F. F. (Firenze, Le Monnier, 1873) e che qui si omette per economia di spazio. Il qual volume, che por la parte poetica, scolta, abbraccia lo pag. 279—485, ci diede l'autrice in seguito ai conforti di valorosi oritici, de' quali due soli ne eiterò. Cesa re Guasti, scrivova all'autrice il 12 del 1873: «I suoi Versi alla. Vergine mi hanno commosso là dove Ella parla de' suoi primi anni con tanto sentimento. Oh quando vedromo raccolti in un volumo i suoi Versi? Ella sa ch'è un antico mio desiderio». E quando poi ricevette dalla Caterina il cit. vol. Prose e Versi le diresse la lettera, del 4 dicombro 1873, che leggesi puro qui oltro. L'altro critico (che vale per melti) è Giosuè Carducci, che fin dal 14 nov. 1861, no la Nazione di Firenze, parlando della Canzono | Per messa novella, che ora leggesi a pag.. 385—388 del ricordato vol. Prose e Versi della Forrucci, allega di questa alcuni versi, e li giudica «Versi di pucata armonia in limpida forma»: o, per conclusione. soggiunge: «Ma qui il sentimento di religione prorompe sincero da uno spirito provato dai mali, gentile spirito della cui dolicatezza nulla han pure sfiorato gli studi meglio che virili. E all'egregia donna la carità cristiana non è argomento da sole rime, e ben altre consolazioni essa ne ritrae che della lode letteraria. Tuttavia non le spiaccia un voto e un ricordo; pensi un poco anche agli amatori della bella e sana letteratura, che de' suoi versi aspettano con desiderio una raccolta». Opere di Giosuè Carducci | Ceneri e Faville | serie prima | 1859—1870. Bologna, Zanichelli, 1891, pag. 213—214,

Per l'esposizione del ss. Saoramento nel trigesimo:
epigrafe del p. Mauro Ricci….

AI DEFUNTI NELL'AMPLESSO DI CRISTO
IMPLORATE LA BEATA IMMORTALITÀ
PIÙ VIVAMENTE RACCOMANDANDO
LA RIMPIANTA DA TRENTA GIORNI
CATERINA FRANCESCHI FERRUCCI
CHIARA PER NOBILE INGEGNO
NEGLI EDITI VOLUMI
SEMPRE FERVIDA DI SINCERA PIETÀ
FERVIDISSIMA DINANZI AL SACRAMENTO
NEGLI ULTIMI ISTANTI.

Epigrafe di Ferdinando Ranalli: sul Sepolcre, nella cappella gentilizia della villa Ferrucci in San Martino alla Palma, presso Firenze.

A Px O
Qui Riposa in cristo
Caterina
Di antonio franceschi e di Maria Spada
nata in Narni il 26 gennajo 1803
Morta in Firenze il 28 febbrajo 1887
Moglie per 54 anni a Michele Ferrucci
Oonna per ingegno e virtù rara in ogni tempo
Quasi unica nel nostro
il figlio antonio ed il nipote filippo
Alla madre ed all'ava ottima desideratissima
Con molte lacrime
P. Q. M.

[1] Salvatore Betti nacque in Roma l'anno 1792, ma la sua famiglia era delle primarie e più antiche della terra di Orciano nel ducato d'Urbino, eve ebbero i natali Cosimo suo avo e Teofilo suo padre, uomini letterati di bella fama nel tempo loro. Salvatore studiò belle lettere nella città di Pesaro (dove la sua famiglia passò a dimorare sul principio del secolo xix) sotto la disciplina di Giulio Perticari; ed ivi conobbe Vincenzo Monti. Nel 1819 andò a Roma, ove èntrò subito nell'amicia del Canova, del Mai e del Biondi, e gli venne affidata la principal parte della compilazione del Giornale Arcadico. Nel 1829 fu eletto segr. perpetuo e prof. di storia e mitologia nella pontificia Accademia romana di s. Luca. Fu socio corrispondente dell'Accademia della Crusca e di varie altre d'Italia e fuori. Fu cav. dell'ordine di s. Gregorio e consigliere di Stato sotto il pontefice Pio IX. In tutti gli Scritti, nobili ed eleganti, il Betti si mostra caldo sostenitore dei Classici studj. L'opera principale di lui è L'illustre Italia, edita la prima volta nel 1841, una serie di dialoghi, ne' quali si illustrano le glorie del bel paese in ogni parte del sapere. Il Betti lasciò questa vita il 4 di ottobre dell'anno 1882.

Macerata, 26 febb. 1824.

Mio pregiatissimo amico.—Se meno mi fosse manifesta l'amicizia vostra non ardirei certamente mandarvi, siccome faccio, i miei poveri versi, o almeno ve l'invierei piena di timore. Ma tutta mi conforto pensando, che se mal si conviene svelare agli occhi de' lodati opere prive d'ogni leggiadria, nulla si deve tenere celato agli amici. E che voi siate fra i miei più cari lo sento profondamente nella più viva parte del cuore. Eccovi adunque il canto di cui vi scrissi altra volta [1] Un canto all'Italia, in terza rima, che vorrà pubblicato nel futuro vol. delle Prose e Poesie, inedite o rare, dell'Autrice nostra.. Possa acquistargli alcuna grazia presso voi il santissimo amore di questa misera patria nostra! chè già per altri riguardi esso non vale a venirvi in istima. Correggetelo adoperando quella franca libertà, che cammina d'un passo con la vera amicizia: e ricordatevi, che usando meco le parti di censore farete opera di gentile e pietoso: perchè io rendo immagine di quel cieco, che si aggira vagando per oscuri e forti sentieri: e certo egli si perde, se non trova il soccorso di una guida benigna. Parlando a discreto e prudente credo inutile l'avvertirvi di tenere in gran riserbo il mio canto, perchè suona cose troppo diverse dalla moderna viltà.

Le tristi novelle di vostra salute mi hanno messo una gran pena nell'animo. Sono veramente in ogni parte sfolgorata dalla rea fortuna, dacchè le sventure degli amici miei mi cagionano nuovo argomento di tristezza. Che se mi fosse almeno concesso di vedere in buona contentezza le persone a me care, andrei con questo dolce temprando il molto amaro della mia vita. Abbiatevi ogni possibile riguardo, e fate, ch'io abbia cagione di rallegrarmi nel sentirvi risanato Non mi è riuscito di avere l'opera della contessa Fachini: ne ho fatte ricerche in Ancona, ed in Pesaro, ma sempre indarno [1] L'opera qui acconnata, ha questo titolo: Prospetto biografico delle Donne Italiane, rinomate in letteratura, dal secolo decimoquarto fino a' giorni nostri, di Ginevra Canonici Fachini, ec. Venezia, dalla tipografia di Alvisopoli, 1842.. Io rimango maravigliata dalla singolare cortesia di questa Signora, che ha voluto porre fra tanti illustri il mio nome oscurissimo, e sento immensa gratitudine per un atto di tanta gentilezza. Addio, mio caro Amico, tenete sempre nell'amor vostro—la grata e sincera amica

Caterina Franceschi.

[1] Il conte Armaroli, senatore in tempo del regno italico, fu, a suoi giorni, letterato di mediocro valore: notizie maggiori di lui invano ha desiderato il compilatore di questo volume. Macerata, 10 aprile 1824.

Mio pregiatissio Amico—Veramente potrete essere additato per un miracolo di cortesia, se vi durerà l'animo a soffrire la continua noja delle mie lettere. Vi scrissi con la posta di martedi, ed ora lo faccio nuovamente, prendendo soverchia fidanza nella gentilezza, che in tanti incontri mi avete dimostrato. Ma io sono di una certa natura, che non so troppo stare in su convenevoli, ed uso di trattare con gli amici liberamente, e senza tante cerimonie. Onde riflettendo ciò, abbiatemi per iscusata, e sofferite di buon grado, che io venga spesso per lettera a visitarvi. Appena ho potuto disgravarmi di quegl'incomodi di salute, che per qualche giorno mi hanno tenuta in un ozio involontario, mi sono provata di correggere que' versi, che nella mia Terzarima dispiacquero al vostro perfetto giudicio. Temo però di essermi affaticata senza pro, perchè quelle benedette dive d'Ippocrene ora più che mai mi fanno niego del loro favore, ed a ciò si aggiugne, che per me il correggere è forse impresa più malagevole dell'inventare, massimamente in Terza rima, dove le rime sono tutte collegate insieme, e se avviene di doverne cambiare alcuna è una pena, che ti opprime l'animo. Ecco adunque, come ho cangiato quei luoghi, che vi sembrarono giustamente degni di emenda.

Il terzo verso della prima terzina godasi il vanto di essere raddrizzato per opera del gentilissimo sig.r Betti, onde mi piace sommamente, che si legga a seconda del suo consiglio Che bella, ed alta siede in nobil core. Per diminuire la bruttezza delle altre due Terzine che seguono, ne ho dovuto aggiungere un'altra, se pure, siccome io temo, il rimedio non è peggiore del male.

Terz. 2. Versate il pianto al mio cantar, che fioco Risuona, impresso de l'interno affetto, E pe' lunghi lamenti è fatto roco.

ovvero O Italia, o suol dell'alma mia diletto O Italia, o dolce suolo a me diletto Sì caramente, tu pietà m'ispiri, E d'immenso dolor m'aggravi il petto.

Perchè mesta ti veggio, e ne' sospiri L'ore traendo d'allegrezz prive In fra Tombe, e ruine il passo aggiri. Ahi quante faci, che fiammelle vive &c.

Per togliere la ripetizione della voce sospiri, mi parrebbe di cangiare in questo modo il terzo verso della sesta terzina: Che a lagrimar ne invita, e al cor discende. In luogo di dire, che la Morte è fatta, come un vento, scrivasi, se più vi aggrada, simile ad un vento.

Io non ho mai letto il Frugoni, e quindi non ho potuto prendere da lui quella frase delle vie del vento. Mi avete fatto cosa gratissima con avvertirmi, che quello non è modo proprio e giusto di esprimere il limpido sereno del Cielo. Penserei, che potesse accomodarsi il verso così: Ei vola sì che folgor vien più lento. Qui però trovo luogo a dubitazione pensando, che Dante ha usato folgore come femminino, quando introduce nel C. 14. dell'Inf. il superbo Capaneo, che dispettoso, e fiero esclama: Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui—Cruciato prese la folgore acuta. Trovo per altro nel Petrarca adoperata la stessa voce come mascolino, allorché dice in uno dei trionfi: Ei due folgori seco di battaglia—Il maggiore, e il minor Scipio Africano. Se però vi sembrasse meglio di seguire le vestigie di Dante, potrebbe anche dirsi E vola sì, che dardo vien più lento. Nè saprei, se questo verso fosse da ritenersi, perchè fatto a simiglianza di quello dello stesso altissimo Poeta: Che saetta previsa vien più lenta. In tutto mi rimetto al vostro finissimo discernimento ed a quello del sig.r Betti, in cui il valore dell'ingegno pareggia la gentilezza dell'animo. Egli ha scritto al sig.r Ferrucci una lettera piena di espressioni tanto cortesi verso di me, che mi ha ricolmata della più viva gratitudine. Aveva formato pensiero di scrivergli, per rendergli le debite grazie, ma poi ho cambiato consiglio, temendo di dargli noja. Voi però fategli conoscere, che mi giungono all'animo tratti si fini di cortesia, e che, se ora le lodi, onde si degna meritarmi, non si convengono alla magrezza del mio ingegno, mi serviranno di grandissimo incitamento a tentare di arricchire la mente di belle dottrine.

In caso che vi piacesse di pubblicare la mia composizione, e che trovaste in essa novelli errori, e pur troppo ve ne saranno, correggeteli senza riserbo, e neppure occorre, che me ne facciate parola.

Non dimenticate di darmi le nuove di vostra salute. Quando pensate di far ritorno? Io desidero, che avvenga di corto, perchè vivo in desiderio della vostra dolcissima conversazione. Fate di star sano, ed abbiate sempre presente, che io sono con tutto l'animo vostra —aff.ma obbl.ma amica—Caterina Franceschi.

Macerata, 23 settembre 1824.

Mio gentile Amico—Sia pure le mille volte benedetta la cara amicizia vostra, che mi è stata cortese di tanti belli avvertimenti. Oh! ve ne ringrazio colla più viva tenerezza del cuore per la franca schiettezza con la quale mi avete parlato. Veri sono i vostri consigli e ben si pare ch'essi partano da una mente ripiena del più savio e perfetto giudicio. Io mi appresi a quella gretta maniera di volgarizzare Cicerone per esser breve e restringere in poche parole i concetti di quel divino [1] Allude al volgarizzamento che essa fece del dialogo De Amicitia di M. T. Cicerone, il quale potrebbe aver luogo nel venturo volume delle Prose e Poesie, inedite o rare, dell'Autrice nostra.. Ora però conosco che io tenni una mala via e che ricoprii di vesti rozzissime il nobile scrittore dell'antichità. E ponendo mente al molto ingegno, che si richiede per un tanto lavoro, sono disperata della buona riuscita in questa mia fatica. Tuttavia ho voluto provarmi a correggere le mie passate bestialità, ed ho fatto questo non perchè mi confidi di saper far meglio, ma per una certa estimazione propria dell'animo mio che soffre mal volentieri il vedere che la buona volontà sia vinta dalla miseria dell'ingegno. Vi mando alcuni capitoli di questo nuovo volgarizzamento, e ve li mando acciocchè mi diciate l'avviso vostro con liberissima sincerità e senza alcuna paura di offendermi, perchè la buona lealtà è parte dell'amicizia, anzi è più veramente l'animo di questo nobile affetto. Io già sono persuasa, che questo volgarizzamento è, siccocome il primo [1] Il primo è un Ragionamento, inedito, intorno la più degna gloria dello scrivere, che avrà pure luogo nel volume ricordato nella nota precedente., ripieno di ogni bruttura, e quando sentirò il vostro parere mi leverò interamente da questa vana fatica che è di troppo grave peso per le mie deboli forze. Non mi è stato permesso di stampare il mio ragionamento, perchè un tremendo censore l'ha ritrovato demeritevole da essere proibito, quantunque il Vicario e l'Inquisitore non ci avessero veduta alcuna cosa di male. Ma ciò non è bastato a chi presiede all'alta ragion politica. Poco mi sarebbe importata questa cosa se non avesse dato cagione ai maligni di aguzzare le loro lingue e lacerare il mio povero nome. Si è detto che in quello scritto vi erano delle proposizioni Massoniche, che io consigliava i popoli ad ordinarsi in Repubblica, e che mi ero macchiata dell'eresia di Pelagio. Vedete gentilezza di nomi! Farmi divenire in un momento una eretica ed una settaria, senza che io abbia neppure una minima notizia, nè di quelle congiure politiche, nè di questi errori religiosi. Ormai incomincio a tener per vero, che si diano le idee rimate, giacchè tanta malizia doveva essere in me da prima ch'io nascessi, perchè dopo non l'ho al certo imparata. Nè a questo si sono tenuti contenti i miei tremendi censori: chè hanno ripreso fieramente quella prosa anche riguardo al suo merito letterario; e jeri mi giunse una lettera di un certo sig. Lauri, dove mi diceva esser quella una scrittura vuota di senso, tessuta con idee tanto distorte che la rassomigliava al labirinto di Creta, e poi aggiungeva, che il mio stile era uno stile asiatico, che il ragionamento si potea paragonare ad una donna laidissima coperta di robe preziose, e infine mi consigliava a deporre il pensiero di scrivere in prosa. Veramente questi signori vogliono togliere le cerimonie dal mondo, giacchè procedono villanamente a dire ingiurie contro chi non li ha richiesti del loro parere, e che intende a se stessa, senza prendere briga con alcuno. Quando verrete qui vi farò leggere quella censura, che forse non risponde molto alla gravità d'un giudice tanto severo.

Quantunque molto mi consoli nel vostro giudicio, pure queste ciance mi hanno colmata di amarezza, e mi fanno stare di un pessimo umore. Io passo il mio tempo studiando, perchè trovo in questa occupazione una infinita dolcezza, non cerco lode, nè mi curo che alcuno faccia stima della cose mie; ma però molto mi noja il vedermi fatta segno alla maldicenza de' tristi, e delgi oziosi, che tanto abbondano in questa misera Italia. Scrivetemi presto, giacchè le vostre lettere, mi rallegrano di carissimo piacere, ed esse sole saranno capaci di togliermi quella nera tristezza, che mi si è cacciata nell'anima.

Abbiate cura della vostra sanità, per la quale sono in molta afflizione. Vedete di affrettare la vostra venuta, e ricordatevi che io vi voglio in casa mia, e che molto mi dispiacerà, se non vorrete soddisfare questo mio desiderio. Raccomandatemi alla bontà del sig. Staccoli, gradite i saluti de' miei genitori che vi aspettano, e credetemi vostra—aff.ma amica Caterina Franceschi.

Macerata, 4 agosto 1825.

Mio gentitissimo Amico.—Oh cara e sospirata lettera vostra! Essa mi ha rallegrata di un piacere puro, dolce, soavissimo, come sono tutti i diletti che si derivano dall'amicizia. Nè saprei dirvi quanto grande fosse il desiderio in che io stava di alcuna vostra lettera: onde pensate qual prezioso regalo mi abbiate fatto con lo scrivermi. Mi sono tutta confortata nel sentirvi in lietissima sanità: intendete a fiorire sempre più, datevi buon tempo, e ristorate con l'ozio e con la quiete del vostro ritiro le cure, e le molestie della città. Giacchè siete tanto cortese da tener care le mie lettere io verrò spesso a visitarvi con esse: nè già saranno sole, ma vi manderò versi e prose, e vedrò di stancare la vostra pazienza, fosse ancora infinita. Avrei voluto inviarvi con questo corso di posta un mio componimento, ma non ho avuto tempo di trascriverlo, e poi oggi ho tanto faticato, che appena posso scrivere questa lettera. Veramente ho molto da travagliare, poichè mi sono messa in una prova, per la quale non mi bastano le forze. Vedete ardire, o piuttosto temerità! Mi si è fitto in capo di volgarizzare la soavissima operetta di Cicerone intorno all'amicizia, e volgarizzarla perchè si faccia di pubblica ragione, volendo io consacrare questo lavoro ad una mia dolcissima amica, che va a marito nei primi giorni di ottobre [1] Tale volgarizzamento, ricordato qui dietro, pag. 42, gli inviò poi con lettera del 2 settembre successivo, dicendogli, che «in alcuni luoghi» di esso avea «ampliato un poco la frase, per ricavarne un senso chiaro».. Oh! è pur grande la mia audacia, ed io stessa me ne faccio beffe. Anzi prevedo che si risolverà in nulla questo mio pazzo consiglio, perchè io non sono da tanto. Pure quando l'avrò tradotta per intero ve la invierò, e dal vostro giudicio mi lascierò in tutto regolare. Tenete a mente, che io voglio una vostra visita, ed una visita ben lunga; però governate in maniera le vostre cose, che mi possiate compiacere. Scrivetemi presto. Mi tratterei più a lungo con voi, ma mi sento la testa tanto confusa, che non so trovare le parole. Tutti di mia casa si raccomandano alla vostra benevolenza. Addio, credetemi sempre vostra—aff.ma obb.ma amica —Caterina Franceschi.

Macerala, 9 sett. 1825.

Mio gentile amico—La vostra lettera ha ricreato l'animo mio di una vera consolazione…

Vi è occorso alle mani uno scritto del Forti intitolato Dante rivendicato? [1] Lo scritto qui accennato dovrebb'essere di Francesco Forti, nato a Pescia nel 1806 e morto in Firenze il 1838, avvocato, autore di Istituzioni di diritto civile, chiamato anche, per mera opportunità, filologo e scrittore elegante. Io l'ho letto con una indignazione, che quasi teneva del dispetto, giacchè mi è sembrato una cosa villana e da infiammare di grandissimo sdegno quanti sono teneri dell'onore italiano. Oh! in esso quel miserabile [1] Il compilatore supponeva, con la precedente nota, che «quel miserabile» potesse essere Francesco Forti, perchè nella copia della presente lettera, fatta sull'autografo (che si conserva nella R. Biblioteca nazionale Vittorio-Emanuele di Roma coll'altre al Betti dirette) leggesi proprio «del Forti». Ma il sig. dott. don Filippo Ferrucci, nepote degnissimo dell'Autrice nostra, al quale è giunto il precedente foglio, definitivamente impresso, ha osservato che lo scritto su Dante rivendicato «è di Francesco Torti [1763—1842] di Bevagna, autore di alcune opere, ora giustamente dimenticate, fiero avversario del Monti e del Perticari». Di fatti nel libro, giudizioso e forbito, del prof. Ciro Trabalza Della Vita e delle Opere di Francesco Torti ec. (Bevagna, tip. Properziana, 1896), si cita un vol in-8. di pag. 162, fra le opere del T. col titolo Dante rivendicato, lettera al cav. Monti, stampato in Foligno, pel Tommasini l'anno 1825. Onde con questa nota resta annullata la precedente. vitupera senza rossore il nome del gentilissimo Perticari [2] Il conte Giulio Perticari (1779—1822), filologo pesarese, che «colla pura eleganza de' suoi scritti giovò moltissimo alla restaurazione delle buone lettere»; e specialmente coll'Amor patrio di Dante, col Trattato de' Trecentisti e con altre scritture. Queste sono una perpetua smentita per chi ha osato affermare, che la fama del Perticari sta più che altro nell'esser egli il genero di Vincenzo Monti, di cui sposò la figlia Costanza; donna capricciosissima, cruccio indicibile., onde è venuta sì bella gloria alla nostra nazione. È vero che le grida degl'ignoranti non offendono neppure in minima parte la fama de' sapienti; ma tuttavia è una gran passione il vedere che quei sciagurati si sforzano di ricondurre le menti all'errore, e si erigono a difensori della stoltezza. Ma per certo travagliano in una vana fatica, chè le parole del Perticari e di tanti altissimi ingegni suonano bene altrimenti che le loro povere strida, e noi Italiani non siamo tanto privi di senno che chiudiamo gli occhi alla vera luce quasi ci tenessimo beati nelle tenebre. Ma di ciò non voglio dire più avanti, perchè m'avvedo che proromperei in parole fiere e sdegnose, e queste non debbono aver luogo allorquando converso con il mio dolcissimo amico…

Il Ferrucci è partito per Lugo dove si tratterrà 2 mesi. Intendete a stare sano… Ma non vi lasciate allettare dalla placida quiete del vostro ritiro, che abbiate a ritardare la vostra venuta. O ricordatevi che vi aspetto, e meco vi desiderano e aspettano i miei Genitori e gli Amici.

Addio, tenetemi nella vostra benevolenza e non cessate mai di credermi—Vostra aff.ma amica—Caterina Franceschi.

[1] Monsignor Carlo Emanuele dei conti Muzzarelli, decano della sacra Rota Romana, nacque di padre ferrarese in Bologna il 9 aprile 1797; fu accurato scrittore, in verso e in prosa, i cui Inni sacri ebbero parecchie edizioni. Fu tenerissimo de' classici studj; e la sua casa poteva dirsi il tempio delle Muse, il ritrovo della giocondità. Ma egli, avendo preso parte al governo di Roma, dopo la fuga di Pio IX, fu esiliato; onde morì povero, cieco e privo di senno, nella villa Cristina di Torino, il di 12 aprile dell'anno 1856. Una raccolta scelta delle sue Opere sarebbe testimouianza sincera del suo sapere e del suo volore nell'uso della lingua nostra gloriosa.

Macerata, 10 dicembre 1825.

Monsignore venerat.mo ed Amico gent.me

Io già conosceva che il suo ottimo cuore fosse la sede di tutte le più belle virtù; ma non sapeva che l'animo suo gentile fosse tutto divampato dal santissimo fuoco del patrio amore. Ora che le sue nobili rime mi fanno certa che ella ama questa nostra bellissima Italia, quanto ama la bontà e la sapienza, diviene sempre più grande la riverenza e la meraviglia, che hanno in me da lungo tempo destato le rare doti del suo animo generoso e virile. Prosiegua dunque a nutrire affetti così santi e gentili, e soccorra a questa misera patria con il libero suono delle sue alte parole, che rampognando i tristi, e magnificando quelle virtù, ohe a' nostri tempi già sono divnute antiche, ravvivano in petto spiriti forti, magnanimi, eccelsi, e tutti lontani dalla pessima usanza moderna.

Mi contido che le sia pervenuta quella mia povera prosa [1] Tale Prosa sarà forse una di quelle, che formeranno il futuro vol. delle Prose e Poesie inedite o rare., che inviai al sig.r Pieromaldi, affinchè avesse la bontà di trasmetterla a Lei.

Avrò poi in conto di grande onore, che il mio Inno al Sole venga letto nell'adunanza dei coltissimi Tiberini [2] Il Sole-Inno di C. F. fu pubblicato la prima volta nel Giornale Arcadico di Roma, nel sett. del 1825, con prefazione di Salvatore Betti.. Veramente era assai meglio, che invece delle misere mie parole si udissero in quel consesso gli eleganti suoi versi: io però le sono oltremodo grata e riconoscente, perchè ha voluto che quell'incolto componimento tenga luogo alle sue nobili rime.

Si ricordi ch'ella promise inviarmi alcune Epigrafi Italiane.

Mi scriva spesso, ed accolga gli ossequj di tutti i miei.—Me le raccomando.—D.ma obbl.ma s. ed amica Caterina Franceschi.

[1] Michele Ferrucci nacque a Lugo il 29 sett. 1801. Studiò in Bologna sotto i professori Mezzofanti, Orioli e Schiassi. Insegnò a Fermo e a Macerata In questa città conobbe la Caterina autrice nostra, ma è noto che se ne invaghì «prima assai di vederla «per la bell'anina che apparica nei bellissimi versi» di lei. La fece sua sposa, come vedremo qui oltre, nel 1827; la condusse in Bologna, ove egli sarebbe succeduto allo Schiassi nella cattedra dell'università, se l'aver aderito con essa alle idee liberali ne'moti del 1831, non l'avesse indotto ad accettare l'insegnamento di lettere latine nell'Accademia di Ginevra, ove dimorò dal 1836 al 1844. In quest'anno fu nominato prof. di letteratura latina e d'Archeologia nella R. Università di Pisa, ove finì questa vita a' 27 dicem. 1881. Altre notizie di quest'insigne latinista si daranno qui entro.

Macerata, 13 marzo 1826.

Mio pregiatissimo Amico.—Io viveva in gran desiderio di vostre lettere, e però quella che ho ricevuto a questi ultimi giorni mi ha confortata di meravigliosa allegrezza. E più ne sono venuta lieta, perchè in essa ravviso nuevi argomenti della vostra amicizia, che io tengo in quel pregio in cui si vogliono avere tutte le cose più gentili e leggiadre. Solo mi duole che l'animo vostro sia combattuto da fiera melanconia. Oh il Cielo vi doni una volta quella pace, che è il primo bene degli uomini in questa misera terra, e per la quale il buon Sapiente si ride di tutte le umane stoltezze! Voi intanto ponete cura a sollevare l'animo travagliato con soavi speranze, e con virili ed alti pensieri. E sopra tutto voglio che prendiate a considerare, esser la riposata calma della mente necessarissima a coloro che danno opera ai gentili studj, ed alle arti venerande della sapienza.—E certamente sarebbe una grande disavventura, se il vostro ingegno cadendo al peso della mestizia, si lasciasse vincere dall'ozio, e cosi rendesse vane le belle speranze che ha di sè dato con la sua rara bontà. E cotrale infortunio non toccherebbe solo voi e gli amici vostri, ma tutta quanta l'Italia, che dai soli magnanimi simili a voi nell'altezza dello intelletto attende gloria e conforto.—Coraggio adunque, mio buono amico: combattete virilmente la contraria fortuna, e se il vivere presente vi reca noja ed affanno consolatevi con la certezza di aggiungere quell'altra vita nobilissima ed immortale, che rende eterno il nome de' valorosi, ed innalza la fama dell'umile sapiente sopra quella de' Re, e de' superbi Conquistatori.

Avrò caro in eccesso il vostro libro, del quale già vi ringarazio le mille volte. E cosi ancora porto obbligo immenso alla vostra cortesia per le lodi, onde mi onorate, che io però ben conosco di non meritare in modo alcuno.

Salutate con grande affetto per me il dotto ed amatissimo conte Cassi, e ditegli, che io mi raccomando alla sua benvolenza, della quale non saprei immaginare niuna altra cosa più desiderata, o più cara. Oh! Egli è per certo uno de' pochi che onorano altamente le Italiane lettere. Perchè unisce alla eccellenza dello ingegno quella rara gentilezza di cuore, che rende l'uomo veracemente degno della sua divina natura.

Tutti i miei vogliono essere ricordati alla vostra bontà, e tutti vi dicono cento cose amorevoli.—Il Betti mi scrisse ultimamente, che vi salutassi da parte sua.—Scrivetemi presto, che per tal modo mi cagionerete sommo piacere. Poichè vi porterò sempre quella vera amicizia, che non si muta col mutarsi della ventura, ma dura ferma ed eterna, niente perdendo della sua celeste bellezza.—State sano, e me nella vostra buona grazia tenete.—La vostra obb.ma aff.ma amica—Caterina Franceschi.

Macerata 20 settt. 1826.

Mio gentile amico—Avevo in pensiero di scriverti assai prima d'ora, ma non ho potuto farlo per assoluta mancanza di tempo, giacchè il molto studio che io faccio del greco non mi lascia un minuto d'ozio [1] Studiò il greco coll'ajuto di Andrea Cardinali, di Macerata, al quale scriveva, il 29 maggio 1826, d'aver cominciato a tradurre i giorni di Esiodo, o terminata la spiegazione della Teogonia. E al fidanzato Michele Ferrucci scriveva il 12 giugno 1827 nel modo seguente: «In questi giorni ho ripreso con impegno il mio studio del greco, che aveva dovuto quasi tralasciare perquel benedetto volgarrizzamento. Non puoi immaginare il piacere che provo nello studiare una lingua tanto ricca, e tanto piena di armonia e di dolcezza». E al medesimo, il 24 dicembro 1826:» Io sto sana e studio senza posa nel greco. Ho già spiegate tutte le Opere di Esiodo, alcuni dialoghi di Luciano, gl'Idillj di Bione, e gran parte di quelli di Mosco. Non vi so dire però quanta fatica mi costi un cotale studio. Lo faccio quasi senza guida (giacchè Cardinali fino dalla passata Quaresima non è più venuto da me, quantunque mi prometta sempre di venire); ma pure non mi spavento».. A questo così duro travaglio mi conduce la mia triste condizione di vivere in paesi ove si manca d'ogni mezzo d'insegnamento, e per chi sente desiderio d'imparare qualche cosa, e per sequestrarsi da coloro che mai non son riri, convien durare un'estenunate e lunga fatica. Oh se la fortuna non me lo contrastasse vorrei mettere le ali per fuggire da queste terre e non tornarvi mai più. Ti ringrazio del cortese giudicio che hai portato su quelle opinioni che ti esposi intorno ai Romantici. Dopo avere molto meditato su questo argomento ho raccolto alcuni pensieri che mi fornirebbero materia per un ragionamento. Nel quale vorrei provare che nel nostro secolo piu che in alcun altro debbono i poeti essere insegnatori di rettitudine e di virtù, e che i romantici mancano a questo nobilissimo fine. Quindi mi proporrei di mostrare che si debbano imitare i classici non per vana superstizione; ma perchè in essi si trova sempre espresso il bello morale, che fu da questi profondamente sentito e dipinto non verità, in forza della condizione dei tempi ne' quali vivevano. In somma a me pare, che prendendo a difendere la moralità della poesia, alla quale niente hanno riguardo questi novelli bardi, si potrebbe in tutto vincere la prova, dopo che tu hai egregiamente difesa la parte filologica e metafisica. Se io avessi quella dottrina di che tu abbondi mi confiderei di esporre queste verità in modo da guadagnarmi la vittoria: ma perchè sono affatto povera d'ingegno non spero di fare cosa che abbia un qualche valore. Pure, per il gran desiderio, che ho di combattere in favore della buona causa, mi ci proverei così per privato mio studio, non con intendimento di pubblicare questo scritto [1] Tale scritto, rimasto inedito, è intitolato Discorso su l'Imitazione de' Classici, e vorrà pubblicato nel futuro volume di Prose e Poesie, inedite o rare.. Prima però di cominciare a distenderlo voglio sapere se a te sembra che questo sia argomento da trattarsi. Scrivimi adunque che ne pensi, ed io mi conformerò al tuo parere, giacchè tu sei il mio maestro.

Ti mando un'ode che ho scritta ne' passati giorni: vedrai che è cosa disadorna e senz'arte. Io l'ho composta per trovare un qualche conforto in mezzo all'aridità dello studio della lingua greca, ed ho espressi in essa quegli affetti che mi sentiva nel cuore. Però te la mando non perchè creda di ravvisarvi un qualche pregio poetico, ma perchè secondo le leggi dell'amicizia ti siano manifesti i miei pensieri.

Ho ricevuto il bel libro dell'Odescalchi, al quale scrissi jeri ringraziando di questo dono che ho avuto carissimo… Quel volgarizzamento a me sembra bellissimo e nobilissimo [1] I Frammenti de' sei Libri della Repubblica di M. T. Cicerone, volgarizzati dal principe D. Pietro Odescalchi, ristampati anche a Milano (Tip. Giov. Silvestri, 1830), e poco prima scoperti dal celebre card. A. Mai.. Credo poi che l'Odescalchi sia da meritarsi di lodi non solo per l'eccellenza del suo lavoro, ma sì ancora per l'utile esempioche ha dato a quei superbi patrizi, i quali si tengono di una natura differente da quella di tutti gli altri, solo perchè sono copiosi di titoli e di ricchezze. Certo costoro si ricrederanno delle loro follie, vedendo che un signore tanto gentile di sangue, qual'è l'Odescalchi, si affatica negli studj per acquistare quella nobiltà che sola è vera e degna di essere avuta in pregio. Chè già i tempi delle illusioni sono finiti; e gli uomini ora si stimano solo per quello che sono e non per le vane apparenze. Onde i nostri nobili dovranno imitare l'Odelscalchi se pure desiderano di vivere a modo d'uomo, e di essere liberati dalla noja, che il Cielo diede per giusto supplizio a chiunque marcisce nella ignavia e nella mollezza. Dopo aver letto il volgarizzamento del tuo degno amico, io mi vergogno di averti mandato quello che feci del Lelio di Cicerone [1] Il volgarizzamento del dialogo De Amicitia, ricordato qui dietro a pag. 42.. E già lo vorrei emendare, ma prima desidero di avere le tue Osservazioni, le quali ti prego a mandarmi tosto che potrai, se pur quel mio lavoro ti sembra capace d'essere ridotto ad alcuna bontà. Quando poi tu stimi che sia da gittarsi alle fiamme dimmelo francamente. Dammi le nuove della tua sanità. Scrivimi presto. Tutti i miei ti salutano. Io mi raccomando alla tua benevolenza e con tutto l'animo ti dico addico.

Macerata, 20 8bre 1826.

Mio gentile amico.—Ogni vostra lettera mi è apportatrice di molto conforto. Perchè sempre mi scrivete tante cosa umane e gentili che io ne rimango altamente commossa nel cuore. Onde vedo che la fortuna non mi è sempre nemica, poichè adempie uno de' miei più caldidissimi desiderj l'unica suprema dolcezza della vita, ed il solo conforto alle tante umane miserie, desiderai ardentemente di godere la benevolenza di molti buoni e leali amici. E già è fatta paga questa mia brama: e voi sopra ad ogni altro mi fate gustare l'indicibile soavità che si deriva dalle sante amicizie. Perciò vi rendo solenni grazie, e vi giuro che prima perderò la vita anzi che la memoria delle vostre grandissime cortesie.—Ho ricevuto il bel libro dell Oratore: e già lo tengo sempre meco perchè questo dono mi ricorda la bontà dell'animo vostro, e gli obblighi infiniti che a voi mi legano.—Vi sono egualmente grata per la premura che dimostrate per la mia sanità. La quale va piegando al buono, e già gli occhi mi danno meno travaglio.—Conosco che i vostri consigli sono savi e discreti: e bene vorrei promettervi di seguitarli: ma non ardisco di farlo per timore di mancare alla mia promessa. Chè lo studiare è per men una espressa necessità: ed è tanta la dolcezza che ne ritraggo, che non posso temperare la voglia ardentissima di applicare molte e molte ore. Tuttavia m'ingegnerò ad infrenarla, giacchè vedo bene che senza una giusta moderazione posso studiare solo pochi mesi, ed altri molti debbo vivere in ozio [1] In altra lettera a Salvator Bottì, del 10 ottobre 1825, dice: «Io trovo ne' sacri studj tutta la pace dell'animo, e senza questo conforto la mia vita non sarebbe che pianto e malinconia. Oh! se mai ho avuto bisogno di riparare dalle tempeste della vita al porto doleissimo dello lettere, ora certamente ne ho una vera necessità». Oh! perchè il Cielo non mi concede una florida sanità! Dia pure ad altri le ricchezze ed ogni più cara delizia; ed a me sia largo solamente di pace! Certo io non invidierei la sfolgorata potenza di un Re se potessi vivere sempre co' miei libri nella mia cameretta senza pensieri, e senza avari desiderj. E forse nell'imparare non è riposta la suprema beatitudine? Chè i libri ci tolgano dalla noja, eterna compagna dell'ozio: per essi si perfeziona il nostro intelletto, e da umano diventa divino: essi infine c'insegnano a governarci direttamente; e a disprezzare tante stoltezze che ha molte menti ingannate sembrano beni veri e necessarissimi per vivere beatamente. Allorchè io penso alle infinite utilità che si derivano dallo studio mi accendo in tanto desiderio d'intendere ad esso che già non posso tenere a freno il caldo impeto dell'animo mio. Però vedete che; tornerò all'usato modo quando la mia sanità diverrà di bel nuovo fiorente.—Solo mi grave che sono costretta a vivere in Paesi dove è affatto spento ogni luce di sapienza, e però non è possibile a ritrovarvi nè maestri nè altri conforti per rendere meno difficile l'imparare. Voi sapete quanto qui sia infelice la condizione de' buoni Studj. Che le lettere non vi ritrovano alcun vero cultore: perchè già non chiamo amanti della gentilezza del dire quegli stolti che vanno gridando come un miracolo e ventose ciance di Cesarotti, o di Bettinelli [1] Melchiorre Cosarotti (1730—1808) padovano, e Savorio Bettinelli (1718-1808) mantovano, prosatori e poeti di molto ingegno, anticlassici troppo arditi, non affatto privi di ottime sentenze; ma licenziosi nello stile e nella lingua.: e bestemmiano chiunque pre carità mostra ad essi l'inganno delle loro povere menti. In quanto alla filosofia io credo che non sia possibile di stare peggio. Ed in vero quale altra bestialità è da paragonare alla pazzia di questi matti insegnatori di sapienza, i quali credono d'insegnare il vero e diritto modo di ragionare col tornare in campo gli entimèna le soriti, i sillogismi e tutte le altre barbarie degli Scolatici? Oh misera gioventù, che da questi sciagurati è precipitata nell'errore, mentre le promettono di guidarla alla verità! Se fossi libera di me stessa vorrei mettere l'ali per fuggire da queste terre infelici, e venirmene alla beata Bologna, vera madre di sapere e di gentilezza. Godo che siate tutto inteso ai vostri nobili studj; e che andiate ravvolgendo nell'animo di comporre una nuova Opera. Io so bene di non avere alcuna copia di dottrina, e perciò conosco di non potervi ajutare: ma se pure vi piacesse di darmi qualche fatica, per la quale si richiedesse più schiena che ingegno, io mi offero interamente: ed anzi avrò sommo piacere di potermi impiegare in vostro servigio.—Lessi alcuni versi da voi scritti per Annesio Nobili, ed ammirai in essi quello stile tutto d'oro, e leggiadrissimo che vi fa parere nato in mezzo al beato secolo di Augusto…

La Mamma vi saluta: essa è malata da molti giorni: oggi si leverà dal letto, e mi confido di vederla presto guarita. Il mio Giovannino, e le sorelle vi dicono cento cose amorevoli. ..—Ricordatemi alla bontà del fretello vostro, e comandatemi senza cerimonie.—State sano,—La vostra aff.ma obb. amica—Caterina Franceschi.

Macerata, 1.o novembre 1826.

Mio gentile Amico—Mi saria d'uopo molta eloquenza per significarti il piacere che mi è corso dentro dell'anima leggendo il tuo dotto e leggiadrissimo scritto. [1] Lo scritto acconnato qui, initolato Il Tambroni, o sia de' Classici e de' Romantici, si legge a pag. 73-128 delle Prose di Salvatore Betti… (Milano, per Giov. Silvestri. 1827); a proposito del quale l'Autrice nostra scrisse pure allo stesso Betti il 22 ottobre 1826: «Fa di mandarmi presto il tuo dialogo: che io sono in desiderio ardentissimo di leggerle, e tengo per fermo che la tua grave eloquenza mi colmerà di tanto diletto che sarò ristorata dalla lunga noja sofferta. In vero hai tolto una bella impresa entrando in campo a combattere le stoltezze del romanticismo, pel quale rimarrà del tutto spenta ogni luce di poesia se gl'Italiani non fanno senno una volta e non lasciano ai burbari queste gentilezza che solo possono piacere ai barbari.—Quando mi avviene di leggere un qualche scritto romantico faccio contro me stesso gran meraviglia, vedendo che una sì pazza scuola trova segnitatori e lodatori in Italia. E parmi impossibile cho questo accada sotto quel Cielo sotto cui nacquero Virgilio, Danto, Potrarca. Oh grande vergogna de'nostri tempi! Quasi che ci sembrasse piccola ignominia l'aver perduta la gloria dell'Armi, e le care dolcezze della libertà, vogliame perdere unche il solo onore che ci avanza per parte delle lottere, e della gentilezza del nostro bollissimo idioma»... Perchè tutta italiana è la bellezza della favella, italiani sono i concetti nobilissimi e gravi; ed italiana è quella franca libertà di giudicio, che niente servendo alle correnti opinioni intende solo alla ricerca e alla difesa del vero. Però la tua fatica ti frutterà, ne son certa, una splendidissima lode, e per essa ti cresceranno l'amore giustissimo i magnanimi che tengono in pregio la dignità della nostra nazione. Che secondo il mio debole avviso combatte e suda per l'amore e per la virtù chi rompe guerra ai romantici. I quali non pure tolgono alle lettere quella modesta bellezza che le fece per lunghi secoli reverende e gentili; ma bruttano ancora la santità dei costumi e mentre si travagliano per condurre gli uomimi ad altezza di pensieri o ad operare grandi fatti.—Cosicchè invano cercheresti ne' poemi de' novatori quegli utili esempi di perfetta e rara virtù che ad ogni passo si trovano nelle scritture de' nostri classici. Che nelle opere di costoro l'ardire diventa un'audacia sfrenata: lo sdegno un'ira furibonda: la religione una stolida superstizione [1] Con qualche eccezione avrobbe forso parlato, se avesse potuto connoscere quanto scrisse di poi Alessandro Manzoni, il cui romanzo I Promessi Sposi fuda Antono Cesari (1760-1828) giudicato, ripetutemente, libro «utilissimo», libro «grande e più là», perchè «la religione e la virtù viè posta e conservata nel maggior lume», perchè può produrre troppo più frutto, che nessun altro quaresimale». Cfr., per altri giudizj, il vol. Antonio Ceeari giudicato e onorato dagl'Italiani e sue Relazioni coi Contemporanei con documenti inediti, per G. Guidetti (Reggio d'Emilia, Collezione Letteraria, 1903), pag. 530 e seg.
Ho detto, che l'Autrice nostra, parlando de' Romantici, avrebbe fatto qualche eccezione pel Manzoni; ed ora conosco che la supposizion mia è proprio conforme a verità; chè la Caterina nelle sue Lezioni su I primi quattro secoli della Letteratura… (Firenze, Le Monnier, 1873), vol. 1, pag. 391, loda il romanzo I Promessi Sposi, perchè in esso «lo scrittore obbedisse sempre alle leggi della morale e dell'arte, all'indole della quale ripugna i, brutto ed il turpe, essendo nuta dal bello, ed avendo ufficio di condurre con gli onesti suoi allottamenti gli uomini al bene». E aggiunge pure: «Loderò adunque che alcuno scriva romanzi. benendosi sulla via del Manzoni…».
. E tanto falsano, anzi deturpano la faccia delle cose, che l'amore non è più un affetto, tutto pieno di gentilezza e di soave mestizia ma un sentimento tanto mistico che non l'intendi; è una passione cosi impaziente d'ogni legame che precipita l'uomo nella vergogna e perfino l'induce a togliersi da se stesso la vita, onde non abbia a gemere sotto il peso degli infortunj. Viltà miserabile e affatto indegna del senno umano. Laonde a me pare che questi nuovi maestri abbiano veramente perduto il lume della ragione; perchè mentre gridano essere l'utile il fine principale della poesia, si fanno dannosi alla buona morale col proporre non imitabili esempi, e promettendo di condurre al diletto per mezzo del vero, si dipartono dal bello senza il quale non può trovarsi diletto. Che la dipintura del vizio non è bellezza ma deformità: onde niuno avrà l'anima rallegrata di vera letizia leggendo i fatti di uomini nequitosi, come niuno sentirebbe piacere dal riguardare un dipinto in cui fossero oggetti lordi e turpi.

Ma qui forse alcuno rispondera; aggiungere anzi i romantici per questo modo il secondo fine della poesia cioè l'utile: perchè la bruttezza del vizio induce gli uomini ad averlo in orrore, ad adoperarsi nelle arti contrarie della rettitudine e della giustizia. Oh veramente egregia sapienza! Deh quanto adunque mio Salvatore andarono ingannati que buoni antichi che adornarono gli atri delle case con le imagini de' famosi per alto valore e per civile sapienza, onde i posteri fossero da quella vista incitati a farsene imitatori! Quanto adunque fu cieco il consiglio degli Spartani allorchè istituirono che solo di cose buone e gloriose si ragionasse alla presenza de' giovanetti! Certo dovevano invece appendere alle pareti e forche e croci ed ogni altro instrumento di pena; e rammentare non i premi de' virtuosi ma soltanto i supplicj onde furono puniti gli scellerati. Io credo bene che questo modo si convenga ai tiranni che mentre si affaticano di spegnere ne' petti umani tutti i più nobili affetti vi tengon vivo solamente il terrore: ma non già ai filosofi ed ai poeti, i quali invece devono portare sempre nella memoria quell'aureo detto di Cicerone: Virtutem hominibus instituendo, et persuadendo, non minis, et vi ac metu tradi. E così crederò sempre che grave danno torna ai nostri costumi per questi nuovi trovati de' romantici. E ciò penso considerando che a tener l'uomo lontano dal vizio non basta il dipingerlo siccome cosa cattiva, perchè questo si adorna di tanti allettamenti, e di si fine lusinghe che spesso apparisce sotto l'aspetto di bene; onde molti ingannati da tali vane apparenze le prendono a seguitare, e vedono aperta la loro stoltezza solo allorquando si sono cacciati nella infamia e nella miseria. Ma perchè a tutti non incontri questa sventura si vuole ispirare un forte amore per la virtù, insegnando che in essa è riposta ogni suprema beatitudine e che i veri piaceri non sono già quelli onde i sensi vengono dilettati, ma bensi quelli che infondono nell'anima una pace tutta lieta e soave, e una così pura allegrezzache non dà luogo a pentimento, o a rimorsi. E questo appunto adoperarono i nostri classici con l'adombrare la verità sotto piacevoli finsioni, e col ritrarre ne' loro eroi la possibile perfezione del bello morale. Nel quale nobile avviso, io credo che si debbano imitare da tutti i buoni, se non vogliano che i moderni costumi, non pure diventino vili ma scellerati. E non saria forse l'estremo della miseria che la virtù quasi bandita dall'uso della vita civile fosse spenta ancora nelle carte degli Scrittori?—E se ciò avviene chi sarà che ci richiami a pensieri degni dell'umana natura! Che certo questo non fanno nè l'educazione nè le leggi nè le costumanze presenti: anzi pare che tutto congiuri per furci divenire ciechi nello intelletto e affatto barbari ne' costumi. Perciò ti conforto a spendere le forze del potente tuo ingegno per tornare in onore la scuola de' veri sapienti, e cosi non solo meritare bene degli studj gentili, ma si ancora di questa patria divina.

Senza avvedermene ti ho scritto una lunghissima lettera, ed ora mi accorgo che forse per essa potrei incorrere negli odiosi numi di saccentella e presentuosa. Onde se scrivessi ad alcuno meno di te cortese l'avrei subito lacerata: ma perchè parlo teco che mi sei legato di tanta amicizia, la lascio correre liberamente.

Il prof. Puccinotti [1] Francesco Puccinotti (1794-1872), famoso scrittore Urbinate, che insegnò modicina nell'Università di Macorata, poscia in quella di Pisa e da ultimo in Fironze; il quale stimava oltre modo la Caterina nostra, e la chiamava «brava giovane pootessa nel 1826, celebre Catcrina» nel 1871. ha letto il tuo dialogo e lo ha giudicato cosa grave, onde te ne invia mille rallegramenti. Vuole poi che io ti preghi a pubblicare presto nel giornale quell'articolo del prof. Speranza, che già ti feci avere.—I miei occhi vanno risanando ma con lentezza. Se non ti è grave consolami presto con una lettera, e fa di scrivermi a lungo, togliendo esempio da me… Tutti i miei ti salutano. Tu sta sano e mi ama—la tua amica—Caterina Franceschi.

[1] Il conte Francesco Cassi fu elegante poeta e prosatore pesarese; visse dal 4 giugno 1778 al 5 giugno 1846; e gode tuttavia bella fama, specialmente per il suo Volgarizzamento della Farsaglia di Lucano, il cui primo saggio pubblicò nel 1826, riscuotendo pure la lode e il plauso di Antonio Cesari e di Alessandro Manzoni. Quest'ultimo in una lettera, del 21 luglio 1829, allo stesso Cassi confessava di ammirare «la pellegrinità e naturalezza, l'efficacia e la temperanza dello stile, il verseggiar dolce insieme e risoluto», che nel detto volgarizzamento si scorge; e che «questi tali ed altri pregi» aveva «ammirato col sentimento particolaro di chi affaticandosi intorno a questa benedetta professione dello scrivere, argomenta la fatica dell'ottonerli…».

Macerata, 15 novembre 1826.

Mio pregiatissimo Amico.—Le tante gentilezze, onde mi avete sempre colmata, già mi facevano certa della vostra benevolenza, e mi avevano a voi legata con una vivissima gratitudine. Ora poi che ricevo novella testimonianza della vostra amioizia si accresce ancora la mia riconoscenza; nè saprei con parole significarvi quanto questa sia vera ed immensa. Solo vi dirò che la sento proprio nel cuore, e che non saprò dimenticarla giammai. Perchè la vostra graziosa premura mi tocca veramente l'animo: onde io vi avrò sempre fra gli amici miei più singolari e più dolci. E per darvi una prova dell'amicizia, che per voi nutro, vi aprirò con tutta sincerità i pensieri dell'animo mio.

La dolcezza che provo nello studio ha sparsa la mia vita di così pura soavità, che non aveva mai desiderato di cambiare il mio stato. Onde se alcuna volta mi si è offerta occasione di collocarmi io mi sono sempre rifiutata, perchè vedevo apertamente che le persone, le quali mi si proponevano, non mi avrebbero lasciato intendere alle mie carissime occupazioni. E quantunque avvisassi che rimanendo in casa sarei col tempo caduta in gravi infortunj, pure ho preferito una vita povera e tranquilla ad uno stato più comodo, ma che mi toglieva il conforto, onde mi ricreano i libri. Al quale io non potrò mai rinunziare, perchè le usanze che si contraggono nella puerizia diventano in noi una seconda natura: ed anche perchè ho conosciuto che nell'acquisto della sapienza è riposta ogni possibile felicità di questa misera vita. Quindi se voi mi aveste proposto una persona meno studiosa di Ferrucci [1] Da questa lettera si rileva che il Cassi fu quegli che, per primo mostrò all'autrice il desiderio espresso da Michele Ferrucci di avere in isposa la valorosa Catorina. io vi avrei francamente detto di no: ma perchè rifletto che questo buon giovine, essendo preso di tanto amore per gli studj gentili, avrebbe caro che anch'io vi dessi opera, sono entrata in speranza che il mutare stato non potrebbe togliermi in tutto alle mie occapazioni. Ma intorno a questo ho bisogno del vostro consiglio. Ditemi voi schiettamente, se maritandomi mi sarà dato di proseguire i miei studj. Io non pretendo di spendervi l'intera giornata: chè questo non ho fatto neppure per il passato: ed anzi la Mamma [2] La Mamma della scrittrice nostra era Maria de' conti Spada, su la quale veggasi qui oltro, in nota alla lettera del 30 marzo 1849. ha voluto che mi assuefacessi a prendere cura anche delle cose domestiche; ma vorrei solo qualche ora di libertà. Voi che avete tanto senno e tanto amore per il mio bene, potete meglio di me conoscere se questo mi sarà possibile. Però attendo la vostra risposta, ed a questa conformerò i miei pensieri.

In quanto a Ferrucci io non vi trovo la menoma difficoltà, ed anzi non saprei inunaginare unà scelta migliore. Perchè lo stimo infinitamente per la eccellenza dell'ingegno, e per quel suo carattere tanto buono e leale. So che egli è dotato di ottimo cuore; onde ho tenuta sempre dolcissima la sua amicizia. Ed ora poi gli sono grata all'estremo della bonta'che mi dimostra, e maggiormente gli sono grata perchè ben veggo di non meritarla.

Ho fatto leggere la vostra lettera alla Mamma; perchè non avrei ardito di pensare a disporre di me stessa senza il suo consiglio ad ancora per potervi scrivere alcuna cosa rispetto alla dote. Essa per mezzo mio vi ringrazia delle vostre gentili premure, per le qualivi porterà obbligo eterno. Mi ha fatto mille elogi di Ferrucci, che le è carissimo per lasua rara bontà. Intorno alla dote mi ha detto che Papà ha fermato di dare mille scudi in denaro, oltre il corredo, e che egli si propone di pagare questa somma in diverse rate, non volendo lasciare vincolati quei pochi fondi che abbiamo.—Ha quindi soggiunto, che se mai si dovesse trattare questa cosa con fondamento sarebbe necessario il sapere quali sono le circostanze domestiche di Ferrucci. Voi che ne avete conoscimento potreste avere la bontà di soddisfare al desiderio della mia cara Mamma.

Sento con somma allegrezza, che siete in sul pubblicare il primo fascicolo del vostro volgarizzamento [1] Il volgarizzamento della Farsaglia di Marco Anneo Lucano, il cui primo saggio vide la luce in Pesaro, co' tipi di Annesio Nobili, l'anno 1826.. Oh il prezioso dono che fate alla nostra Italia! Da Ferrucci ho saputo che questa opera è cosa veramente egregia: e che supererà l'aspettazione che di essa tutti hanno grandissima. Io vi giuro che non vedo il momento di leggerla; non solo per ricrearmi con tante bellezze, ma per sentirvi lodato da tutti i veri sapienti. Chè certamente le lodi, onde vengono meritati gli amici, sono un balsamo che ristora soavemente l'animo nostro.—Perdonate la noja di questa mia lunga lettera.—Intanto vi prego nuovamente ad essermi cortesse dei vostri consigli, i quali mi toglieranno ogni dubbiezza. State sano, e gradite che io vi assicuri della mia vera affezione, e della eterna mia gratitudine.—La vostra aff.ma obb.ma amica

Caterina Franceschi.

[1] Era già stampata la nota nella pagina 53, quando il nepote dell' Autrice, dott. don Filippo Ferrucci, ha fatto pervenire alcuni cenni sul proprio avo, i quali suonano cosi: «Michelo Ferrucci, nato a Lugo il 29 settembre del 1801, dopo essere stato educato nel celebre Seminario di Faenza, studiò lettere e antichità nell'Università di Bologna sotto due sommi maestri, il Mezzofanti e lo Schiassi. Dopo aver inseganato letteratura in varî luoghi, e spocialmente nel Seminario vescovile di Macerata, ove conobbe la Franceschi, che divenne sua moglie il 27 settembre del 1827, fu nominato professore sostituto e aggiunto al Mezzofanti nella Biblioteca Universitaria di Bologna. Dal 1836 al 1844 fu professore di lettere latine nell'Univorsità di Ginevra, d'onde fu dal granduca Leopoldo Il chiamato ad insegnare storia e archeologia nell'Università di Pisa, ove poi tenno la cattedra di lettere latine e archeologia, e l'ufficio di Bibliotecarìo fine alla morte, avvenuta il 27 dicembre 1881. Egli fu eccellente scrittore latino, ed epigrafista di gran valore; e perciò fu amato e stimato da' maggiori letterati, non solo d'Italia, ma di Europa. La sua modestia gl'impedì di dare nobili saggi della sua valentia nelle lettere: ma i pochi scritti da lui pubblicati (oltre le moltissime epigrafi) mostrano quanto egli fosse profondo nella conoscenza della letteratura latina e dell'archeologia».

Di Macerata, del 1827.

Mio caro Ferrucci.—La vostra ultima lettera mi offre argomento della benevolenza, in che mi tenete; e di questa vi sono grata con tutto il cuore. Onde vi prometto, che se avverrà che io debba condurre la mia vita con voi farò di tutto per testimoniarvi co' fatti la mia riconoscenza, e la sincera affezione che vi porterò sempre. So che siete virtuoso, e dabbene; però vi stimo, ed avrò carissima la vostra compagnia, che a me potrà essere sommamente giovevole pel progresso de' miei dolci studj. Ai quali tengo per certo, che mi farete consecrare di baona voglia: ed anzi spero che mi lascerete pienissima libertà intorno al genere di essi. E perchè fino da ora possiate meglio conoscere quale sia il mio pensare intorno a questo rapporto, vi manifesterò, che io ho in animo di dedicarmi interamente allo studio della morale Filosofia. Già da lungo tempo tutte le mie meditazioni sono volte a questa, ed ho fatto in mente il progetto di scrivere varie operette, tendenti alla moralità della filosofia. Non ho mai recato ad effetto questi miei disegni, perchè devo ad essi premettere alcuni altri studj, che qui avrei fatti con molta fatica, e che a Bologna mi saranno più agevoli. Cioè voglio applicarmi alla Ideologia, e alla cognizione di ciò che riguarda la legislazione, e la politica dei Popoli. A questo amerei di unire lo studio delle scienze naturali, per potere poi discorrere con fondamente su tutto quello che ha riguardo ai vizj, e alle virtù dell'umana generazione. Lo studio della filosofia morale è da me preferito a tutti gli altri, perchè lo trovo confacente alla natura dell'animo mio, che in esso trova meraviglioso diletto, ed è adattato ai bisogni del nostro secolo, ai quali deve sempre por mente chi scrive, onde trattare cose utili [1] Frutto degl'ideati studj sono le Opere che essa mise poi in luce: Dell'educazione morale della donna italiana; Degli studj delle Donne italiane; A i giecani italiani ammaestramenti religiosi e morali, &ce..—Ho speranza che voi loderete questo mio consiglio; e che avrete caro, che io seguiti rispetto agli studj quello che più mi piace. E voi stesso conoscerete essere necessaria una tale libertàper iscrivere cose che valgono, giacchè solo si può riuscire con lode nelle nostre fatiche, quando non si contrariano le naturali tendenze. Ho voluto esporvi quello, che io penso rispetto al genere degli studj, ai quali voglio dare opera; e questo ho fatto affinchè conosciate apertamente quale io sono nel più intimo dell'animo, e de' pensieri.—Quando voi troviate onesta la libertà, che io vichiedo; gradirò che me ne assicuriate; e la vostra promessa mi renderà tranquilla. Non vi scrivo nulla intorno agl'interessi, perchè combinerete con mio padre: e credo che per parte sua non vi troverete difficoltà.—Mi sarà doleissimo l'entrare nella benevolenza dei vostri Parenti, dalla quale troverò conforto al dispiacere che mi cagionerà lo stare lontana da' miei carissimi Genitori, e dalle sorelle, che tanto amo. Se non credessi che voi mi potete rendere felice non m'indurrei giammai a dividermi da loro.—Seriverò, se vi aggrada, ai vostri di Casa, ma proverei gran piacere, se alcuno di essi fosse il primo a scrivermi.—Mi pare, che ciò sarebbe più conforme all'usanza che comunemente suole tenersi in tali affari, ed anche lo desidero per togliermi da quell'imbarazzo, che mi cagionerebbe il dovermi per la prima dirigermi ad essi. Non crediate che io vi dica questo, perchè non voglia obbedirvi: anzi farò sempre la vostra volontà; ed anche in questo la seguirò, quando a voi non sembrino giuste le mie riflessioni.—Jeri a sera finalmente rividi Cardinali [1] Andrea Cardinali, di Macerata, che fumaestro alla Caterina nostra nello studio del greco. Il medesimo ajuto ebbe pure dal futuro sposo Michele Ferrucci, quando questi dimorò in Maccrata come professore di quel Seminario vescovile., il quale lesse alcune delle traduzioni letterali, che ho fatte dal greco. Esso si mostrò di me contentissimo, ed ebbi la compiacenza di sentirmi dire, che aveva fatto grandi progressi in questa lingua.—Mi consigliò a portare in verso italiano gl'Idilij di Bione e di Mosco. Forse seguiterò il suo consiglio, perchè sono innamorata delle schiette e semplici grazie di quelle Poesie: ma non mi ci so indurre per ora, giacchè la fatica del tradurre mi è odiosa, non trovando in essa quel piacere che provo quando espongo i miei proprj pensieri.—Parmi ancora che per essa la mente insterilisca, e venga meno la facoltà immaginativa.—Ho letto ultimamente un discorso di Giordani intorno alle traduzioni, che mi ha convinta della giustezza de'miei pensieri su questo proposito [1] Il discorso accennato si legge nelle Opere di Pie tro Giordani… Firenze, Felice Le Monnior, 1846, vol. 1, pag 258; ed è intitolato Volgarizzamento di vn discorso della baronessa di Staël: sulla maniera e la utilità delle Traduzioni (1816).,—Avrò molto caro l'Omero, e di esso vi anticipo mille ringraziamenti. Quando lo avrò ricevuto scriverò al Mezzofanti [2] L'insigne poliglotta, poi cardinale, Giuseppe Mezzofanti, era stato maestro di Michele Ferrucci, e si mantenne sempre molto benevolo a lui ed alla moglie, alla quale donò l'Omero su ricordato, che come prezioso ricordo di quel grande conserva tuttavia il nopote dell'Autrice nostra dott. don Filippo Ferrucci..—Salutate in mio nome vostro Fratello, e ditegli che io me gli tengo obbligatissimo per la bontà, che mostra verso di me.—Vi prego di trovare modo, onde io possa avere le riflessioni del Costa [3] Paolo Costa (1771-1836), poeta, filosofo e filologo ravennate, professore di eloquenza ne' licei di Treviso e di Bologna, ove salì poi la cattedra dell'Università. intorno al mio Inno: ne sono proprio desiderosa; sono certa di ricevere savi e dotti consigli da quest'uomo che è tanto profondo in ogni maniera di dottrina.—Sa mi volete fare lieta, scrivetemi il più presto che potete. Poichè non mi è dato di vedervi, fate che possa rallegrarmi con l'avere vostre lettere.—La Mamma e Papà vi salutano caramente.—Voleva aggiungere a questo molte altre cose, ma in questo punto è venuto da me il Can.co Hercolani, onde conviene che io lasci.—State sano, vogliatemi bene, e siate certo che io sono vostra con tutto l'animo. Addio.—Vostra affez. amica—Caterina Franceschi.

Macerata, 8 febb. 1827.

Mio gentile Amico.—Incomincio dal chiederti mille volte perdono, se tanto ho indugiato a scriverti. Spero però che per questa tardanza non mi vorrai querelare di poca amicizia, e che sarai certissimo esserti io sempre sincera amica, quale insomma si conviene ai tuoi rari meriti, e alle grandi obbligazioni che ti professo. Ma senza allungarmi in parole onde scusare il mio silenzio, ti confiderò un mio segreto che è stato ancora la cagione di esso. Sappi adunque che fra qualche mese io mi mariterò e che Ferrucci è la persona che ho eletto a compagno perpetuo della mia vita. Io conosco che questi è un giovane di una bontà vera, nè temo d'ingannarmi nel mio giudicio, perchè l'ho fermato quando egli non pensava a me ed io neppure a lui, e però vedeva le cose senza ombra di prevenzione. La rettitudine adunque de' suoi costumi mi ha fatto accettare di buon grado l'offerta della sua mano: e per la sicura speranza che non avrò a pentirmi giammai di una tale deliberazione. Egli mi promette che mi farà proseguire i miei studj ed anzi a questo mi conforta e mi sprona. Veggo che a Bologna avrò tutti i mezzi per imparare e ciò mi rallegra infinitamente. Non so se tu approveri il partito a cui mi sono appigliata; ma che volevi che io facessi? Una donna non può vivere sola nella società, essa è bisognosa di un appoggio, ha necessità di un amico che divida seco i beni e i mali della vita, e però non può attenersi al celibato senza esporsi al pericolo di essere infelice. Io più di ogni altra sono bisognosa di un collocamento perchè le fortune della mia casa sono assai ristrette. Io confesso ciò apertamente, pensando che tu mi sarai largo di compassione e non vorrai per questo accusarmi siccome di animo troppo molle e rimesso. Nel tempo in cui egli si è trattenuto qui con noi ho meglio ancora di prima conosciute le virtù dell'animo suo, e quindi si è in me di molto accresciuta la stima e la benevolenza che gli porto. Scrissi a lui del gentile invito che mi facevi; e n'ebbi conforti nell'opera. Egli vuole che ti saluti in nome suo, e per parte ancora del fratello Luigi [1] Luigi Crisostomo Ferrucci (1797-1877), altro valente lastinista, che accompagnò ed assistè il fratello Michele a Macerata nelle nozze con la Caterina Franceschi.. A settembre lo rivedrò nuovamente, perchè allora accadranno le nostre nozze…

Non posso per ora inviarti il noto ragionamento [2] A tale proposito in altra lottera, del 17 marzo 1827, gli scrive cosi: «Ho dato opera a quel ragionamento intorno alla imitazione dei Classici: ma in questo lavoro procedo assai lentamente. Appena che l'avrò condotto a fine to lo invierò, e tu me ne dirai la tua opinione». Esso rimase inedito, e verrà pubblicato nell'ideato volume di Prose e Poesie, inedite o rare, dell'Autrice nostra.. Su di ciò riporterò quelle parole che in proposito di Didone innamorata scrisse Virgilio: Pendent opera interrupta.

Oh il gran tristrarello che è questo amore Vorrebbe per sè quasi tutti i pensieri e non lascia che la mente dia opera ai gravi e nobili studj. Ma già tu ridi di me, onde su questo mi taccio.

Scrivimi il più spesso che puoi, e tienimi sempre nella tua buona amicizia. Addio; sta sano.—La tua aff. amica—Caterina Franceschi.

Di Macerata, 11 febb. 1827.

Mio carissimo Michele.—Poichè vi ho una volta assicurato del sincero amor mio, potrete da voi medesimo immaginare quanto sia grande il piacere che m'infondono nel cuore le care lettere vostre. Oh! certo questo è d'una estrema soavità, ed io non trovo cosa a cui si possa paragonare. Fin dal momento in cui vi conobbi, io vi stimava per le vostre ottime qualità, e vi portava una leale amicizia: ma la bontà del vostro cuore, che sapete così bene dipingere nelle vostre lettere e le tenere espressioni onde queste son piene hanno aperto l'animo mio al più caro, al più gentile di tutti gli affetti. E siccome voi non cessarete mai di essere buono ed amerevole, così quei sentimenti che mi avete inspirati dureranno in me al pari della mia vita. Le anime nostre s'intendono perfettamente; esse armonizzano tra loro: che altro adunque dovremo bramare per essere felici! Lo lo sarò senza dubbio: e tutte le mie cure saranno rivolte a rendere tale anche voi [1] A tale proposito, la Caterina in una lettera, del 29 aprile 1848, al prof. Prospero Viani scrive: «Sono venti anni, che sono maritata: nè mai un giorno solo è passato senza che io non dovessi ammiraro la bontà, la sincera affezione, le tante virtù domestiche del mio buon Michele».. La vostra mutua benevolenza, unita all'amore che portiamo agli studj, ci farà gustare quella pace pura e serena, in cui è riposta ogni vera beatitudine. Da tutto quello che vi dico conoscerete essere da me tenuta per accordata la nostra trattativa. Non mi sembra possibile che si possa sciogliere per quella condizione, che pone mio Padre intorno ai duecento scudi. Nel resto, egli si accorda interamente con le vostre intenzioni, e non vi ha trovata la menoma difficoltà. Poichè volete che vi apra senza reticenze i miei pensieri, vi dirò che a me sarebbe stato cagione d'infinito rammarico il sapere che mia Madre avesse per ne contratto un obbligo, che dovrebbe soddisfare quando sarà colpita dal più grande degli infortanj. Poveretta! Dio sa in quali circostanze potrebbe ritrovarsi. Forse il pagamento di quei frutti le toglierebbe alcuno dei comodi necessarj, ed io, a questo pensiero, mi sentirei morire di dolore. Se mai Papà le mancasse (tolga Iddio tanta sventura) prima che siano collocate tutte le mie sorelle [1] Avea tre sorelle: Rosa, Giacinta e Costanza: esse si maritarone; ma poi lasciarono il mondo in età ancore verde., il poco che abbiamo le basterebbe appena per sostentarsi. Ed io le dovrei togliere alcuna parte di quel poco! Oh! non sia mai! Perchè non posso io stessa provvedere ai bisogni della sua vecchiezza, non voglio esserle cagione di aggravio. Iddio che mi vede il cuore, sa quante volte mi sono lamentata di non essere nata del miglior sesso, e di non poter dimostrare co'fatti all'adorabile madre mia la gratitudine che ie Le porto. Se fossi stata un uomo, avrei voluto faticare incessantemente e consacrare tutto intero il frutto de' miei travagli a questa carissima donna, alla quale debbo la vita non una volta, ma cento. Poichè essa mi ha salvata dalla morte con la sua amorevole assistenza; e nel più bel fiore della sua giovinezza, è per me vissuta molti mesi, chiusa in una stanza, senza vedere un raggio di lace, quando io per fatale disgrazia aveva perduta la vista [1] La fatale disgrazia, per cui essa aveva perduta la vista, è descritta qui oltre nella lettera la prof. Prospero Viani, del 12 luglio 1848.. Benchè allora fossi assai piccoletta mi ricordo benissimo che la mia Mamma non mi lasciava un momento; pranzava presso al mio letto: dormiva con me: non andava neppure a messa e sempre mi bagnava delle sue lagrime. Mi sta sempre fisso nella memoria che quando per la prima volta riapersi gli occhi, vidi pallidissima è magra all'estremo quella che prima aveva veduta vegeta e bella. Quante volte mi torna a mente un tal punto della mia vita mi sento l'aima piena di tenerezza e di gratitudine, ed ora piango nello scrivere queste cose. Nè solo debbo alla Mamma la conservazione della mia vita fisica. Se ho qualche amore per la virtù, essa è stata quella che me lo ha inspirato. Ed ora quali nuovi argomenti di riconoscenza mi offre con la saggezza de' suoi consigli! Oh se la sentiste, quali utili avvisi mi dona per il governo della futura mia vita, ne rimarreste incantato! Permettete adunque, caro Michele, che Papà non le lasci alcun obbligo, e compiacetemi in questo che desidero si vivamente. Avrò la vostra condiscendenza in luogo della magggior prova d'amore che possiate darmi; ed io cercherò di compensarvene con l'aumentare la mia tenerezza per voi, e col procurare di esservi a carico il meno che mi sarà possibile, limitando do in tutto i miei desiderj. Voi avete un cuore dolce e riconoscente: sentite la forza dell'amor figliale, e però sono certa che vi piegarete alle mie riflessioni. Quando ciò sia, mi piecerebbe che concludeste la cosa da voi: a vostro Padre non potrà dispiacere la condizione richiesta dal mio, quando voi ne siate soddisfatto. Se dovrete riscrivere ed aspettare nuove risposte, la cosa andrà molto in lungo: torneremo nelle passate incertezze, ed io perderò di nuovo quella calma, che ho con sì gran piacere riacquistata. Perdonate la soverchia franchezza con cui vi parlo. Ma già perchè io debbo chiedervene perdono? Voi dite, ed io lo ripeto, che noi dovremo avere un'anima sola, e però è giusto che sappiate anche il menomo de' miei pensieri. Leggendo la lettera di Papà ho visto che fisssa il valore de miei libri, quando sararanno terminate le associazioni, a 400 scudi. Non so se ascendono proprio a questa somma: ma è certo che a lui costeranno poco meno. Della Biblioteca storica, e Collana Greca sono pubblicati 123 volumi, ed ogni volume è valutato qualche cosa più di uno scudo. Manca ancora molto, perchè la collezione sia completa. Papà me la compirà… Io conosco che la mia dote è poca: ma conosco altresì che voi avete un animo superiore a quelle basse vedute che ingannano il più degli nomini. Sa'pete bene, che la felicità non è riposta negli averi, ma nella pace del cuore e nella rettitudine della vita. Aspetto con grande ansietà una vostra risposta, per la quale mi si dichiari il vostro assenso alle proposizioni di mio padre. Quando vi picciono, e vogliate proseguire nella trattatativa (giacchè di più Papà non può darmi), fate stendere subito la scrittura privata, la quale potreste portare voi stesso per evitare maggiori indugi. Voi sapete che io vi amo, e quindi potete immaginare quanto desideri di rivedervi. Papà vi scrive che sarebbe di suo piacere che le nostre nozze si effettuassero in ottobre [1] Le nozze avvennero il 27 settembre 1827; veggasi in proposito qui nella pag. 88.. Su di ciò potrete meglio combinare insieme, e sono certa che Papà farà a vostro modo: intanto, capirete bene che a me non si conviene il mettere parola su questo proposito. Spero che oggi riceverete la lettera che vi scrissi giovedi. Mi duole che abbiate tante brighe: per amor mio risparmiate la vostra sanità, e pensate che se cadeste malato, io mi sentirei lacerare il cuore. Ringraziate e riverite in mio nome il Prof. Mezzofanti ed il Cav. Salina. Certo sarà per me una grande fortuna il coversare con persone tanto dotte e gentili. Non vi prego di amarmi, perchè sono certa che lo fate. Intanto io vi assicuro che il mio cuore è tutto vostro, e che mi terrò beata quando potrò vivere sempre con voi. La Mamma vi saluta con affetto. State sano e pensate continuamente a me, siccome io mai non cesso dal pensare a voi.

Addio con tutta l'anima.

La vostra Caterina.

Di Macerata, 4 marzo 1827.

Mio dolcissimo Michele.—Io non so chi vi detti quelle care parole di cui sono tutte soavi le vostre lettere. Se noi vivessimo nei tempi dell'antica mitologia io penserei che lo stesso Amore ve le insegnasse, e ch'egli ponesse nei vostri concetti quella ineffabile soavità, che mi fa languire di tenerezza. Ma poichè quelle credenze sono finite, stimo invece che la virtù v'ispiri nello scrivere, e che dalla bontà del vostro cuore riceviate la celeste dolcezza delle tante amorevoli espressioni onde mi consolate. Oh sì che queste mi sono d'indicibile conforto! Poichè veggo in esse ritratto il vostro cuore; quel cuore che è tanto gentile, amoroso, e dolce, e candido d'un candore non umano, ma angelico. Oh me beata, che sarò di esso perpetua posseditrice! Non cangierei questo tesoro con tutte le ricchezze dell'Asia, con la superba fortuna dei Re. Perchè simili vanità non mi potrebbero rendere felice; ma il vostro amore può solo farmi interamente beata. Io ne sono così certa, che già pregusto nel mio pensiero tutta la dolcezza che sentirò quandò vivremo insieme. Gia immagino tutto il diletto che ne consolerà allorchè potremo parlarci, e non saremo giammai divisi. Se i; pietoso Iddio ci donerà una qualche lieta ventura noi ne proveremo più vivo il piacere, perchè ce ne rallegreremo ambedue: e quando avvenga che per i soliti mutamenti delle umane cose la fortuna ci ponga in alcuna gravezza, noi ne sentiremo meno il peso, perocchè ci andremo consolando l'un l'altro, o almeno piangeremo insieme. Io credo che in questa comunione perfetta di pensieri, e di desiderj debba essere riposta la suprema felicità della nostra vita. Però non pregherò mai Iddio, che vi ponga in alto stato, e vi faccia dono di grandi ricchezze: ma bensi mi raccomanderò sempre a lui, affinchè vi conservi in ogni tempo così buono come siete ora, e non faccia mai spegnere in voi quell'amore che mi portate. Deh quanto sarei misera se lo perdessi! Vorrei piuttosto morire, che incontrare tanto infortunio. Ma neppure per un momento voglio pensare a sì grande infelicità, dalla quale non è possibile che sia percossa, perchè noi ci ameremo sempre. Anzi il nostro amore durerà più ancora di questa breve vita mortale: chè quando le nostre anime ritorneranno al loro principio, quando esse saranno accolte in quell'abisso di luce, di bontà, e di sapienza, noi ci ameremo ancora, ed il nostro affetto sarà immortale come Dio, e durerà finchè dura l'infinito, e l'eternità. Questo pensiero mi è così dolce chè spesse volte lo medito nella mia mente, nè già egli nasce da un trasporto di fantasia, ma è fondato nella Religione, cioè nella più certa delle verità. Sforziamoci adunque di adormare l'animo nostro con ogni lodato costume, e con l'acquisto della virtù: poichè solo per questa potremo godere quelle sempiterne delizie, ed avremo qui in terra un saggio delle beatitudini che dai celesti si provano Ed a conseguire questa virtù donatrice di tante allegrezze io credo che ne gioverà grandemente quel desiderio che ambedue abbiamo di vivere ritirati, in una placida solitudine. Poichè in questa l'animo conosce meglio la sua natura, ed ingagliardisce le proprie forse, onde possa quindi vagheggiare solamente il bene, ed il vero. Finchè ci picerà stare lontani dallo strepito del gran mondo il poco ci sarà bastante, perchè pochi saranno i nostri desideri, nè mai verrà a turbare la nostra pace la cupidigia di avere, o l'invidia di coloro che presso il volgo sono in voce di beati. Nella soavità degli studj, e nella calma della vita domestica noi troveremo tutti quei beni, che tanti stolti si credono di rinvenire nella grandezza della fortuna. Io quasi deliro di contentezza pensando a tutti questi piaceri, che ci aspettano. Venerdi ebbi una lettera di vostro fratello, che mi consolò assai, tante sono le gentili cose ch'egli mi dice. Sono gratissima alla sua cortesta ed a quella del padre vostro, che si degna riguardarmi con tanta bontà. So bene di non meritarla: ma tuttavia mi sforzerò a diportarmi in maniera, che nessuno dei vostri si abbia giammai a pentire della vostra scelta. Io li amerò, così come amo i miei proprj parenti, e cercherò di mostrarmi ad essi sempre grata ed obbediente. Quando voi verrete voglio scrivere al Padre vostro, ed allo zio, ed esprimere ad essi in alcun modo la mia affezione e riverenza. Nella lettera, che mi mandò vostro fratello e trascritto un Epigramma composto per onorare la memoria di un certo Zuffi, che fu institutore della vostra puerizia. Mi era venuto in mente di scrivere al fratello vostro, per ringraziarlo di questo dono, e per pregarlo nello stesso tempo a farvi compagnia quando vi recherete a visitarci [1] Luigi Crisostomo accompagnò davvero il fratelle Michele com'è accennato a pag. 78. e 92.. Non ho poi condotto ad effetto il mio pensiero temendo d'infastidirlo con una nuova lettera. Ditemi voi se il mio timore è falso, e quando mi consigliate a scrivergli un'altra volta lo farò senza indugio. .. La mia cara mamma vi saluta teneramente, e mi parla sempre di voi con affezione veramente materna. Oh quanto è mai buona! Quanto posso imparare dal suo esempio, che è una continua scuola di prudenza, e d'ogni più bella virtù! Se il cielo me ne darà forza io la voglio imitare; e terrò sempre fissi nella memoria gli utili ammaestramenti con i quali mi esorta a vivere lodevolmente. Quando sarà che da voi mi si annunzi essere vicina la vostra venuta? Deh! fosse presto, ed avesse fine una volta il mio lungo desiderare! Avrò caro che m'indichiate il giorno del vostro arrivo; nè temete che io sia per manifestarlo ad alcuno…Addio, mio soavissimo Michele; siate certo che io penso sempre a voi, e che vi porto nel cuore, e nelfondo dell'anima mia. Amatemi adunque, chè la vostra Caterina null'altro vi chiede, che amore. Addio. Addio.

Macerata, 21 luglio 1827.

Mio gentilissimo Amico.—Non ad una, ma a due lettere io debbo risponderti. Vedi eccesso di negligenza! Tu però mi perdonerai con l'usata tua cortesia, ed avrai per certo che il mio poco scriverti non è affatto segno di menomata amicizia. Onde credi pure che io sempre a te sono riconoscente oltre modo, e che ti stimo quanto meriti di essere stimato, cioè sommamente. Ti ringrazio poi con tutto il cuore del favorevole giudicio, che hai portato intorno al mio volgarizzamento dell'Egloga terza [1] Il detto volgarizzamento fu stampato nella raccolta intitolata: Le dieci Egloghe di P. Virgilio Marone, testo latino con versione italiana di altrettanti autori viventi; Roma, pe' tipi di Vincenzo Poggioli, 1827. Traduttori delle altro Egloghe sono: Domenico Malajoni, Giuseppe Antinori, Dionigi Strocchi, Enrichetta Dionigi Orfei, Giuseppe Salvaguoli, Luigi Biondi, Cesare Arici, Angelo Maria Ricci e Ippolito Pindemonte.. Io veramente non aspettava le tue lodi ed anzi credeva che neppure sarebbe stata pubblicata con le altre traduzioni la mia poverella. Tanto mi pareva priva di eleganza, ed indegna di rendere italianamente le divine bellezze dell'originale. Ho letto nel giornale il tuo bellissimo articolo sulle odi di Pindaro volgarizzate dal Lucchesini [1] Cesare Lucchosini, patrìzìo Lucchese (1756—1832), scrittoro puro e grecista valente, maestro dell'Illustre Luigi Fornaciari.. E già da te stesso potrai immaginare quanto mi sia piaciuto quel tuo scrivere così elegante, e ripieno di gravi sentenze, e di utilissimi ammaestramenti. Fa spesso alle lettere di tali doni, e mostra al mondo che assai più dei tanti volumi pubblicati da uomini poveri di senno, e di dottrina, valgono poche righe scritte da chi ha stustudiato ne' libri «di color che sanno». Chè i nostri Classici solamente sanno davvero; e quelli che da essi si dipartono presumono di sapere, mentre poi nelle povere loro zucche non hanno una dramma sola di vera dottrina. Quando scrivi al marchese Biondi ringrazialo della cortese memoria, che di me serba, e fagli per me riverenza. Pregalo poi a salutare in mio nome il marchesino Raggi, al quale sono molto tenuta della sua gentilezza. Le mie nozze, se sarà in piacere d'Iddio, avverranno verso la metà di settembre. Così almeno si è stabilito [1] Le nozze tanto sospirate, si celebrarono in Macerata il dì 27 settembre 1827. In tale evento il conte Mario Valdrighi (* 1857), letterato modenese, pubblicò alcuni scritti di Torquato Tasso; di che Antonio Cesari lo ringraziava il 31 ottobre 1828: «Ricevo ora da Lei il caro libretto per le nozze del sig. Ferruzzi: il che m'è un troppo soprabbondare di cortesia. Ben foce Ella di donare al mondo questi avanzi che erauo rimasi dell'immortal nostro epico, il Tasso: e certo gli sposi ne debbono essere assai contenti». Presero dimora in Bologna, ove il Forrucci era professore e dottore collegiale filologo ed assistonte al celebre poliglotta Mezzofanti nella Biblioteca. Quivi la Caterina, novella sposa, conobbe Paolo Costa, Dienigi Strocchi, Carlo Pepoli, Francesco Orioli, Giovanni Marchetti e molti altri di «que' gentili che danno tanto onore» alla Felsinea città;e da tutti ricevette «molta attenzione»; ond'Ella scrivea al Betti, il 29 dicembre: «Mi convinco sempre più che ho creduto il vero, pensando che i cultori delle lettere acquistano con la sapienza soavità dí costumi e di affetti». Nella stessa Bologna la Caterina conobbe pure il celebre p. Antonio Cesari, negli ultimi di sett. 1828 della cui morte, avvenuta il 1. d'ottobre successivo, Michelo Ferrucci si dolse in versi latini, pei quali l'autrice nostra esclamava:« La tua Elegia in morte del P. Cesari mi è sombrata cosa bellissima, e tutta piena d'affetto, e di vonustà. L'ho già letta più volte, e sempre con nuovo piacere. Ti ringrazio poi dell'avere in essa fatto ricordanza di me, la qual cosa dimostra sempre più chiaramonte, che tu mi porti sempre ne' tuoi pensieri». Al marito così essa scriveva il 19 novembre 1828, da Macerata, ove nella casa paterna si recò e rimase per 3 or 4 mesi per essere nel parto «meglio assistita dalla sua buona mamma». In altra lettera, del 23 novembre stesso gli diceva: «È questo un giorno assai tristo, assai doloroso per me, poichè in esso si compie un mese, che tu partisti. Oh come in ricordare tutta l'angoscia che io provai nel lasciarti sento commuoversi tutta l'anima mia!…». In altra lettera, del 18 genn. 1829, gli raccomandava che non terminasse di ringraziar Iddio per il buon parto concessole; che stava sana, che aveva molto latte, e l'allevare il bambino, Antoniuccio, non erale d'incomodo, ma di consolazione. Negli ultimi giorni d'aprile 1829, circa, ritornò a Bologna coll'amatissimo consorte; e la terra natia rivide nell'anno seguente, per assistere e piangere il proprio genitore nell'eternale partenza, come risulta dalla lettera seguente.. Se potrò ritrovare un momento d'ozio vorrei prima di partire da Macerata dar termine a quel mio ragionamento intorno alla imitazione dei Classici. Temo però che il mio desiderio sarà vuoto di effetto, poichè più che la penna ora mi conviene trattar l'ago. Ricordami all'Odescalchi, al Muzzarelli, all'Amati, e al Malvica, se è ancora in Roma.—Tu gradisci i saluti de' miei, e sta sano, e lieto. Addio.—La tua aff.ma obbl.ma amica—Caterina Franceschi.

Macerata, 11 agosto 1830.

Mio carissimo Michele.—Io credo che tu avrai già l'animo preparato a una terribile disgrazia, e temo che l'incertezza ti renda ancora più inquieto. Ma purtroppo ogni dubbiezza è finita. La tua povera Nina non ha più padre in questo mondo. Jeri egli spirò nella pace del Signore, dando a noi sicura certezza, che da questa terra infelice sarà passato alla beatitudine eterna, così santa è stata la morte sua. Fra le angustie, che ora sento nel cuore, una delle principali mi è cagionata dal pensare, che tu grandemente sarai afflitto della nostra sventura, e che forse ne risentirà danno la tua sanità. Michele mio, fatti animo, confortati, e vivi per me, chè in te solo in terra posso ritrovare compenso alle perdite immense che ho fatte. Se tu pure ti ammali, come potrò io vivere? Pensa che in venti giorni ho avuto tali afflizioni, che basteranno a togliere per sempre ogni allegrezza dalla mia mente; e se ne avessi delle altre per te, sento che le forze mi mancherebbero, e cadrei oppressa sotto il peso di esse. Ora Iddio mi fa dono di tale fortezza di cui non mi credeva certo capace: ma conosco, che un altro colpo solo atterrerebbe in me affatto e coraggio e sanità. Fino dal momento che infermò l'adoratissimo padre mio si temè della sua vita, ma grandi ancora erano le speranze della guarigione: però nulla ti scrissi del suo pericolo, chè troppo mi era grave affliggerti. Venerdì a sera peggiorò a segno, che tutte le lusinghe svanirono, e ieri a un'ora dopo mezzodì egli cessò di vivere. Noi siamo ora in una campagna, dove ci fermeremo fino al terminare della settimana. Lo stato di Mamma, e delle sorelle caverebbe il pianto dai sassi. Sono così pallide, e smunte, che non si riconoscono più: ma l'animo loro è rassegnato, perchè la religione lo sostiene. Mamma è certo santa: ha perduto il compagno suo, il nostro padre diletto, il sostegno della famiglia, e pure essa benedice il nome del Signore, e come Giob bacia la mano, che la percuote. Per quanto essa si rassegni la naturamostra la forza sua, e se non si divaga non può vivere a lungo. Ho adunque pensato di condurre meco queste infelici per qualche mese. Nulla perderemo nell'interesse…Non ti muovere da Bologna, chè, quando tu lo permetta, veniamo noi fra non molti giorni, cioèsubito che il Consiglio avrà presa qualche risoluzione. Già parmi di vederti commosso, e desiderare, che Mamma venga con noi. Oh quanto te ne ringrazio, Michele mio caro! Te ne bacio le mani, ti abbraccio le ginocchia, e ti chiamo mio vero consolatore. Quante lagrime ho sparso, Michele mio, quanti sospiri! Che notti, che giorni terribili! E pure sono sana. Gran perdita hai fatto tu pure! Esso ti amava come figliuolo, e ti benediceva perl'amore che mi porti. Antoniuccio (1) Antoniuccio: il primogenito della Caterina, del. quale si parla qui oltre in nota alla lettera del 27 aprile 1839. è con noi, e consola mamma. Cammillo Bianchi [2] Cammillo Bianchi vedovo, di Rosa, sorella dell'autrice, alla quale il padre sopravvisse pochi giorni. parti jori. La nostra casa è abbattuta, ma il caro. Papà disse a Giovanni, che risorgerà, ed iotengo le sue parole per una profezia. Non ti affiggere te ne scongiuro. Vivi per me ed amami anche con l'amore del povero padre mio [1] Della partenza del genitore da questo mondo si dolse anche nelle lettere all'amico Salvatore Betti. In una da Bologna, del 9 gennajo 1831, si leggono queste parole: «Se nel tuo giornale [Il Giornale Arcadico] potessi fare una parola di onore intorno al mio povero papà quanto te ne sarei obbligata! Egli fu buono di bontà vera, amico dell'umanità; benefico anche con i nemici, padre eccellente, marito impareggiabile e nell'arte sua portò un cuore compassionevole ed una monte perspicace e profonda. Se puoi darmi questa consolazione, dammela tu stesso. Io aveva incominciato a scriverne la vita; ma tutte le volte che mi metto al lavoro sono presa da così forte dolore che non posso seguitare; nè so se col tempo avrò forza di condurre a fine questo scritto che mi turba l'animo sì fieramente». Non continuò l'accennata Vita; ma del proprio genitore e di altri congiunti fece ricordo nelle rime Il Canto della Sera (1831) e negl' Ultimicanti, ristampati nel vol. Prose e Versi (Firenze, Le Monnier, 1878), pag. 316 e 424..

Torino, li 30 marzo 1831.

Pregiatiss.a Sig.ra—Ed io pure insieme colla nipote stava grandemente sollecito degli ottimi ospiti nostri come seppi delle cose di Bologna, nè osava scrivere per la condizione de' tempi. Ora Ella ci ha tranquillati molto opportunamente sulla salute loro, del che la ringrazio. Ma se più non temo di altri sinistri accidenti, non sono tuttavia esente di amarezza nell'udire le molestie del marito. [1] Le molestie del marito; cioè le noje, che per cagioni politiche, dovè sopportare il Ferrucci con la consorte, Caterina allorchè in quel tempo dimorava in Bologna come professore filologo ed assistente al celebre prof. Giuseppe Mezzofanti nella Biblioteca universitaria. A chiarire le dette molestie citerò un opuscolo di pag. 84. in-8, stampato però senza data ed anno, col semplice titolo Raccolta | di Lettere | ad un amico | (e sono cinque), dove a pag. 48 e segg, si parla dei «pessimi impiegati» di Lugo (Ravenna), liberali e ribelli. Se no ricordano singolarmente due, i quali «sebbene abbiano a Bologna e non a Lugo l'impiego, hanno cagionato però grandissimo danno alla patria loro; ed ai quali non si può pensare senza inorridire, considerando che continuano ancora ne' loro impieghi. e che sono tutt'ora maestri della gioventù». L'uno di tali impiegati, soggiunge l'anonimo cronista, «è Silvestro Gherardi, che dà lezioni di fisica nella Università di Bologna…L'altro è Michele Ferrucci, impiegato nella Biblioteca dell'Università, e professor sostituto in Bologna…Era stato' protetto dagli Ecclesiastici, e da loro dovea ripetere la sua qualunque fortuna: ma ciò non ostante si volle scagliare contr'essi colle sue iscrizioni latine stampate ne' tempi di sovvertimenti, permettendo inoltre alla moglie Franceschi che lo imitasse cogl'inni suoi. In Lugo si ricordano ancor con ribrezzo le inique lettere che egli scriveva a suo zio Basilio Malerbi, e che questi andava per di lui commissione a leggere a quel magistrato, che perfino anch'esso rimaneva scandalizzato. Si sa che ha sempre durato a pensare, a parlare, a declamare da perfido liberalo entusiasta, e si sa quanto dice e fa tutt'ora di male. Eppure? eppure gli valgono le sue simulazioni; eppur si mantiene in impiego». Fu poi sospeso solo per qualche mese da esso impiego; ma non riuscì a conseguire la richiesta promozione, di che si parla nelle seguenti lettere. E qui bisogna osservare che le intenzioni del Ferrucci, giudicate tanto malefiche dall'anonimo cronista, si possono comprendere dalla lettera che la consorte Caterina diresse al Betti in data 28 dicembre 1831, e che leggesi qui oltre. Creda a me, pregiatissima sig.ra che le sue parole mi sono scese addentro nel cuore, e se mai ho desiderato di poter cosa veruna, egli fu appunto per rispetto loro. Ma giova credere che i buoni portamenti del marito vinceranno la malignità degli uomini! Che se le circostanze fossero migliori, io non lascierei nulla d'intentato per farne acquisto alla mia patria. Ma sebbene il novello Re Carlo Alberto che il cielo ci concede, abbia con chiarissime prove manifestato la somma sua propensione a favorire i buoni studj, non potrei nel primo mese del suo regno e in tanta scarsità di posti confidarmi per ora di servirlo. Io aveva proposto il Costa (1) Paolo Costa (1771—1836), di cui si è parlato qui dietro a pag 82., che mi duole grandemente di veder esiliato, ma, come gli fu scritto d'ordine del magistrato sotto il passato regno, le scuole vennero chiuse e non ci fu rimedio. Ora si spera che saranno riaperte, ma ognuno opera per sè e non sarà maraviglia se si vorrà un Piemontese per la cattedra d'eloquenza italiana. E questa è la sola alla quale l'ottimo S.r Michele potrebbe aspirare, chè le altre cattedre inferiori sono di sì poco momento, che mi vergognerei di parlare di un illustre letterato per cosa sì vile. Non creda con questo ch'io voglia tormi d'impaccio con vane parole, ma è la pura verità e tutti gli amici miei sanno quanto volentieri io mi adoprerei per sì care persone. Stammi tuttavia innanzi agli occhi quella gentilissima col suo Ercolino in braccio, nè mai saranno cancellate dalla mia memoria le grate accoglienze fattemi dal degnissimo S.r Michele. Tali ricordanze che m'assediano il cuore mi rendono vieppiù amara la circostanza di non poter loro dimostrare co' fatti quanto io le ami, e le giuro se mi verrà il destro col Re di… approfittarne [1] Tali puntini ollottici sono pure nell'autografo, che conserva il nepote della Caterina.. Ma il Cielo patrio è si dolce, e forse forse passate le presenti vicende non gli reggerebbe l'animo di lasciare la tepida Bologna per venire nell'aggliacciato Piemonte. Saranno poi elleno eterne le ire e non si potrà sperare alleviamento e ravvedimento negli uomini? Il Biondi non potrà in Roma cosa nissuna? Ecco quanto mi giova sperare, e le sarò tenutissimo se ella vorrà passo passo ragguagliarmi dell'avvenuto. Intanto gradisca i complimenti della nipote e la perpetua divozione colla quale ho l'onore di dirmi

Dev.mo obb.mo serv.

Carlo Boucheron(2) Carlo Boucheron, insigne latinista, visse in Torino dal 1763 al 1838, ove fu segretario di Stato in età di 22 anni, poscia professore di letteratura latina e greca nell'Università. Scrisse con lode di epigrafia latina; diresse e curò l'edizione dei Classici latini del Pomba. Scrisse le Vite di alcuni illustri Picmontesi, tra' quali l'ab. Valperga di Caluso, le Orazioni accademiche, lo prefazioni ai Classici latini ed altre opere, non di gran mole, ma insigni per classico sapore..

[1] Questa lettera si legge a pag. 471—72 del volume: Scritti vari | inediti | di | Giacomo Leopardi | dalle | carte napoletane |. Firenze, Success. Le Monnier, 1906.—G. Leopardi, visse del 1798 al 1837. Fu poeta e filologo meraviglioso; ma l'infermità che l'accompagnò al sepolcro lo rese filosofo falso e pericoloso. Egli conobbe la Caterina in Bologna; e rispose alla presente lettera di lei, da Roma… 1831. in questo modo: «…Delle cose tanto gentili, che ella mi dice, non toccherò nulla, perchè l'accettarle e il rifiutarlo potrebbe egualmente parer superbo. E per verità la sua lode facilmente potrebbe farmi insuperbire, venendo da persona cosi lodata, e d'animo così leggiadro. Piacesse a Dio che mi si desse l'opportunità di mostrarle col fatto quanta gratitudine io le porti di tanta sua bontà! Non parlo della stima e dell'ammirazione che mi cagionano il suo ingegno e le sue virtù, non volendo correr pericolo di offendere la sua candida e ingenua modestia. Si compiaccia ricordarmi al suo valentissimo consorte e di tenermi raccomandato alla sua amicizia…». Epistolario di Giacomo Leopardi, raccolto e ordinato da Prospero Viani; quinta ristampa ampliata e più corretta; Firenze, successori Le Monnier, 1892, vol. II, p. 434.

Bologna, 20 settembre 1831.

Chiarissimo Sig.r Conte.—Egli è poco tempo, che mi venne alle mani l'aureo volumetto de' suoi canti; e nel leggerlo sentii tanta dolcezza, e meraviglia, che feci pensiero di scriverle, per significarle pure una parte della mia altissima stima. Ma sapendo, che la mala sanità e la fortuna la tengono in continuo travaglio (del che le porto grandissima compassione) mi rimaneva dall'adempiere il mio desiderio per timore d'infastidirla. Ora poi le scrivo senza sospetto di darle noia, poichè la mia lettera la sarà presentata da un gentiluomo così culto, e cortese, che certo Ella mi saprà grado dell'avergliene procurata la conoscenza. Questi è il Sig.re Cav.e Sauli di Torino, caldo amatore degli studj, e de' letterati, e fornito di tutte quelle rare doti di mente, e di cuore, che si convengono ad un vero Italiano. Egli si reca a Firenze, ed avrà gran piacere di conoscere lei, Sig.r Conte, cui tutti i buoni tengono in riverenza ed amore. Io ho pregato il Sig.r Cavaliere a farle fede del mio profondo rispetto, ed ora prego lei a tenermi nella sua grazia. Curi la sua sanità, e si conforti pensando, che la sapienza è maggiore di tutti gli umani casi, e che la fortuna così potente negli animi volgari non ha forza di abbattere i nobili e grandi ingegni. Porto speranza, che il Signore Iddio le sarà finalmente donatore larghissimo di ogni desiderabile consolazione: e dove ciò avvenga ne avrò allegrezza, siccome di una mia propria felicità. E senza più fastidirla me le offero, e raccomando.—D.ma obb.ma serva—Caterina Franceschi Ferrucci.

[1] Edita a pag. 680 del vol. Poesie postume di Diodata Saluzzo contessa Roero di Revello aggiunte alcune lettere d' illustri scrittori a lei dirette. Torino Tipografia Chirio e Mina, M. DCCC. XLIII, in-8.—Diodata Saluzzo nacque in Torino nel 1774 e fu educata dall'abate di Caluso. Si sposò al conte Roero nel 1799 e ne rimase vedova tre anni dopo. Fu accolta nell'Accademia di Torino e quella di Fossano le eresse un busto in bronzo essendo tuttora vivente. Scrisse e pubblicò alcune Poesie liriche, l'Ipazia o l'amor della Filosofia poema, le Novelle lodate dal Tommasèo per aver scelto argomenti patrii e trattati con patrio amore. Morì nel 1840. Così scrisse di lei Gianfrancesco Rambelli in Brevi scritti precettivi e cenni storici d' illustri scrittori italiani; Parma, Pietro Fiaccadori, 1861, pagina 119.

Bologna, 20 settembre 1831.

Non appena incominciai a prendere amore alle lettere italiane, sentii tosto commuovermi ad altissimima ammirazione verso il suo raro ingegno, cui il cielo fu largo dispensatore di squisiti ed eletti doni. E quante volte mi occorse di leggere alcuna delle nobili sue poesie, tante volte ringraziai la fortuna, che in lei ha dato si bello ornamento alla presente età, ed al nostro sesso. E bene aveva il desiderio di significarle in alcun modo la somma mia stima, ma veggendomi cosi povera e di studii e d'ingegno, non ardiva farmele innanzi con una lettera. Ora poi il signor Cavaliere. …[1] Edita cosi; ma invece de' puntini si dovrebbe leggere conte Ludovico Sauli, del quale è la lettera, che sta quì oltre, pag. 121, in data 5 dicembre 1832., cui tengo ad onore avere conosciuto, vuole che prenda animo ad offrirle alcune mie rime; ed io mi presto al voler suo, e la prego ad accogliere questi versi, benchè affatto privi d'ogni bellezza, siccome una testimonianza della mia sincera venerazione. La signora Enrichetta Orfei mi ha parlato più volte della cortesia dell'animo suo; epperò in questa prendendo fiducia, spero che non mi darà nota d'ardita se, senza avere il piacere di conoscerla, mi faccio a scriverle. Io amo sopra tutte le cose, la gloria della mia patria, e quindi tengo carissimi i buoni ingegni che ad essa rendono onore. Ella è certamente tra questi, onde le sarò sempre devota, e mi terrò fortunata se le piacerà di ricevermi nella sua grazia, alla quale molto mi raccomando. —[Caterina Ferrucci.]

[1] Domenico Vaccolini, letterato classicista, autore delle Osservazioni sul bello esposte in vari discorsi (II, ediz., Lugo, Melandri, 1836) e di altri scritti storioi, filologici, poetici ec, visse in Bagnacavallo (Ravenna) fino al 1849. La presente lettera ebbi dalla cortesia del prof. Aldo Pasi, bibliotecario comunale in Bagnacav.

Di Macerata, 7 giugno 1826 (*) Questa lettera giunse in ritardo per essere collocata qui dietro colle altre dell'anno 1826..

Stimatissimo Signore.—Ella è meco tanto largo di cortesia, che io non trovo parole bastevoli a significarle la mia gratitudine.

Solo le dirò che io non merito in verun modo le gentili espressioni onde mi onora nel suo leggiadro Sonetto, e che serberò eterna memoria della sua mirabile benignità. Avrei voluto risponderle con alcun verso, ma in questi giorni mi trovo più che mai in ira. alle Muse: onde la prego ad avermi per iscusata, e ad accogliere le povere mie parole come una testimonianza dell'obbligo che le porto.—Certo io provo molta allegrezza vedendomi onorata dalla stima di persona, siccome ella è, tanto valorosa, e tenera de' buoni studj. Del che io ringrazio unicamente la fortuna, e la bontà dell'animo suo, alla quale caldamente mi raccomando.

Stia sono.

D. ma obb. serva
Caterina Franceschi.

[1] Francesco Capozzi, lughese, «poeta di bella fama e assai fecondo», visse dall'anno 1812 al 1886, ed appartenne alla buona scuola fiorita in Romagna. Col titolo di Opere poetiche pubblicò i suoi versi (Bologna, Tip. delle Muse, 1868—69), in 3 vol.; e fin dal 1850 pubblicò un volume di lodate Iscrizioni (Imola, tip. Galeati). Debbo queste ed altre notizie alla cortesia del signor dott. Borea-Buzzaccherini di Lugo.

Di Bologna, 12 8bre 1831.

Gentilissimo Signore.—Le sono gratissima pel bel dono, che mi ha fatto delle sue rime, e più ancora per la cortese memoria, che tiene di me. E molto con lei mi rallegro, perchè invece di condurre il suo tempo ne' diletti e nell'ozio, intende ai nobili studi che sono la sola consolazione della vita. Prosiegua adunque a confortarsi colle lettere, e colla divina arte delle Muse. Io non merito alcuna delle lodi, onde mi onora: [1] In altra letterina, da Pisa, 12 apr. 1857, essa lo ringrazia d'una Canzone in morte della figlia Rosa, osservando che l'immagine in essa usata non è rispondente al vero; perchè «la povera figlia non ebbe lo sposo accanto al letto, e assorta in Dio non pensò ad esso». e però ne so grado alla sola sua gentilezza, alla quale quanto più posso mi raccomando.

Stia sano.

Dev.ma obb.ma serva
Caterina Ferrucci.

Di Bologna, 28 dicembre 1831.

Mio caro e gentile amico.—Ti ringrazio della cortese accoglienza fatta a' miei versi, nei quali non ho potuto porre alcuna arte, poichè la mestizia e il grande affetto me lo impedivano. Più volte aveva tentato di comporre alcuna cosa intorno alle mie disgrazie, ma l'ingegno è sempre stato vinto dal troppo dolore; e finalmente ho fatto forza a me stessa per compiacere la madre mia, la quale diceva che avrebbe trovato una qualche consolazione, se io avessi consacrato alcune rime [1] Le rime accennate si leggono a pag. 316 e segg. del vol. Prose e Versi dell'autrice (Firenze, Le Monnier, 1873), col titolo Il Canto della sera. alla memoria delle care anime che partendosi dal mondo mi hanno lasciata in così nera afflizione. Gli auguri che mi fai mi sono certa testimonianza dell'amicizia tua, che mi sarà sempre molto pregiata. Anche io ti desidero ogni bene, non solo per l'anno venturo, ma per tutto il tempo della tua vita. Dalle tue parole vedo che a Roma non si sa il vero intorno agli avvenimenti di questi paesi. Qui non si vuole sciogliere il freno alla plebe, ma si desiderano buone leggi, savi provvedimenti ed una temperata maniera di governo. Questo è il voto di tutti gli uomini savi e prudenti e dove, come spero, si ottengano una volta le desiderate riforme, cesserà ogni ira, ogni sdegno e il sovrano sarà amato da queste genti come un padre da buoni e reverenti figliuoli.—Attendi a stare lieto e sano e ricordati alcuna volta di me. Ricevi i saluti di Michele ed abbimi sempre per tua aff.ma amica—Caterina Franceschi.

Bologna, 13 agosto 1832.

Amico carissimo—E tanto tempo che non ho più vostre nuove che voglio richiamarmi alla memoria vostra dalla quale spero di non essere sbandita… Prima di tutto vi dirò adunque che il prof. Schiassi [1] Il can. Filippo Schiassi (1763-1844), celebre latinista, del quale Michele Ferrucci fu prima discepolo. essendo giunto a tempo in cui gli è lecito dimandare riposo dalle sue fatiche durate ben quaranta anni, desidera che Michele gli sia sostituito nella sua cattedra d'archeologia, siccome quegli che da lui stesso è stato ammaestrato in tali studj, nè male ha corrisposto alle suecure. Di questa cosa Michele sarebbe lietissimo, e però chiede al S. Padre e alla suprema congregazione degli studj che gli sia tramutata la sua nomina di prof. sostituito alla cattedra di Eloquenza che ebbe, ora volge il 6.°ree; anno, in quella di sostituto alla Cattedra di Archeologia. A me sembra che questa cosa non dovrebbe essere difficile ad ottenersi, perchè non si chiede un nuovo impiego, ma solo una mutazione nel genere d'insegnamento. Vi prego adunque a porre in opera ogni buon ufficio ed ogni pratica che stimerete giovevole perchè Michele sia consolato nella sua dimanda. E con ciò farete un gran bene alla mia famiglia, la quale ha bisogno di un impiego che sia meno scarso di profitto, di quello che ha ora Michele. Ne altro su questo [1] A tali preghiere il Betti rispose il 29 agosto 1832: «Il celebratissimo prof. Schiassi non potrebbe avere nell'Università un successore più degno del tuo Mithele, sia per vera bontà d'animo e cortesia, sia per profonda dottrina ed eleganza di lettere. Tutto però dipende dalle informazioni e dagli uffici dell'E, mo Card. Opizzoni, arcicancelliere di essa Univorsità: il cui voto la S. C. degli studi avrà per gravissimo. Questo so dalla S. C. medesima». Quale possa essere stato il voto del Card. Opizzoni s'ignora: quest'è certo che i Ferrucci non ottennero quanto impetrarono.. Riceverete un manifesto d'associazione per la stampa di quell'antico volgarizzamento del Livio, di che altra volta vi feci parole. Giovateci in quest'impresa che è d'indicibile fatica e di spesa non lieve, mentre la stampa è per nostro conto. Mi pare che se bene si consideri la qualità del libro, e l'utile che ne può derivare non dovrebbe mancare un buon numero di associati, ma siccome anche le cose eccellenti e belle non sono spesso conosciute, se un qualche valentuomo ad altri non le mette in grazia, o non ne addita i pregi, cosi noi vi preghiamo perchè a voce ed anche in iscritto nel vostro giornale, troviate favore a questo libro [1] Nel detto Manifesto d'associazione, firmato dai coniugi Michele e Caterina Ferrucci, si riportò pure un brano di quell'antico e aureo volgarizzam., affine di trovare più facilmento favoreggiatori all'ideata edizione, che rimase un mero desiderio de' coniugi medesimi; forse perchè il Betti osservò scrivendo loro, che illavoro non sarebbe riuscito perfetto senza aver prima ben consultati i Codici vaticani di quel volgarizzamento”. L'opera stessa venne poscia in luce più tardi con questo titolo: La prima deca di Tito Livio, volgarizzamento del buon secolo, pubblicato dal manoscritto Torinese ece., per cura del professor Claudio Dalmazzo. Torino, stamperia reale, 1846; voll. 2., in 8., con tavole in rame. Cfr. Francesco Zambrini in Le opere volgari a stampa del secoli xiii e xiv, indicate e descritte; Bologna, Zauichelli, 1884, pag. 998.. Perdonatemi se vi reco tante molestie. Michele vi saluta con affetto. Riverite per me il chiarissimo signore Odescalchi e l'Amati. State sano e ricordatevi alcuna volta della vostra aff.a obb.

Caterina Franceschi Ferrucci.

Torino, 5 dicem, 1832.

Pregiat.ma e Car.ma Signora.—Benedetta la mia signora Caterina, e benedetta la sua carissima lettera.—Di simili giojelli non si vogliono defraudare gli amici, e perciò l'ho letta l'altra sera in un crocchio dov'erano i più valenti: ivi si è ammirato il di lei accorgimento nel distinguere gli umori delle persone, il senno nel giudicare del merito degli autori; il sentimento nel conoscerne le intenzioni; e poi s'e ringraziato lei della giustizia mercè della quale ci ha vendicati nel pensier suo, dalla calunnia onde vorrebbe gravarci quel tale come se fossimo ottentoti selvaggi. Egli non è un cattivo no, ma non so davvero con chi sia avvezzo a conversare per poter dire che la Storia del Botta è stata male accolta in Piemonte [1] Parla del celebre Carlo Botta, nato a S. Giorgio in Piemonte il 6 nov. 1766; storico per eloquenza, purità di lingua e potenza narratrice e descrittrice, detto il Livio italiano”, morto a Parigi il 10 agosto 1837.. Creda piuttosto a me, che verso tra le file dei galantuomini e sappia che qui se n'è fatto e se ne fa uno smercio grandissimo, che ognuno la legge con piacer singolare, e i più difficili quando vogliono trovarvi a ridire si lamentano che il Botta non ha citato i fonti dai quali ha ricavata la materia de' suoi racconti, che questi non già per malizia dello Scrittore, ma per poca diligenza usata nell'investigare la verità non di rado sono alquanto alterati, che troppo si sofferma nel dipingere minutamente certi vizi e certi peccati, sui quali se lo Storico non può stendere un denso velo, dee però passare con rapida e grave modestia, e finalmente che ha biasimato con soverchia asprezza e in massa il medio evo in cui sono molte parti da lodarsi anzi che da riprendersi. Ma poi ad onta di ciò lodano a cielo l'ordine, la rapidità delle narrazioni, la vivezza e la varietà dello stile segnatamente nelle descrizioni in cui non so e non credo ch'altri lo arrivi. E vide il Botta co' propri occhi il piacere destato nell'animo de' suoi concittadini dalla lettura di quella Storia; perchè fu alcuni brevi giorni qui insieme con noi; io lo vidi e gli parlai, ch'egli è il più buon compare che vi sia, e so da' suoi più intimi famigliari che partendo aveva l'animo commosso dolcissimamente per le accoglienze oneste ed affettuose fattegli e da chi ab antico lo conosceva, e da chi lo ammirava senza conoscerlo. Queste cose io gliele scrivo per conto mio e per conto di quegli amici uditori ed ammiratori della sua lettera, tra i quali era il Cav. Bisceron [1] Per celia così egli forse chiamava il suo maestro e amico cav. prof Carlo Boucheron, su cui veggasi qui dietro a pag. 105-109. che faceva coro con gli altri e solo si rodeva per la rabbia ogni volta ch'io ripeteva con compiacenza e senz'ombra di modestia le espressioni troppo gentili usate da Lei a mio riguardo; poichè convien sapere che dopo il ritorno del Baruffi arde un'aspra contesa tra il Bisceron e me, perch'egli dice d'essere da lei amato più assai ch'io non lo sia, ed io non glielo comporto in pace, essendo mio natural costume d'accendermi in gelosia per quei sentimenti che sovr'ogni altro apprezzo.—Ma lasciate le celie tutti gli stessi amici la confortano a proseguire l'incominciato lavoro. In quanto a me rimasi maravigliato che abbia cominciato dalla prefazione. Questo vuol dire che il suo libro ella l'ha già bell'e fatto nella testa, e quando è così non può mancare nè di profondità nei pensieri, nè d'ordine, nè di chiarezza, nè d'unità nell'esecuzione.—Non si sgomenti alla debolezza della Sua mente.—Oh se avessi la sua facilità e la sua grazia nello scrivere! appiccherei dei voti a tutte le cappelle. In lei sono i mezzi onde rendere accetta la lettura del suo libro; possa cosi ella trovare docilità nell'eseguire i precetti ch'ella sta per dare, proporzionata al piacere col quale l'universale si farà a leggerla; chè allora lagioventù Italiana avrà quella buona educazione di cui ora per la maggior parte difetta. Che scopo utile e sublime sta ella mai per ottenere!

I prelodati amici miei ed io in particolare vedremo con molto piacere il suo Michele, quando verrà in Torino; ma a tutti rincresce ch'ella non possa accompagnarlo, e questo rincrescimento più d'ogn'altro io lo pruovo, perchè nissuno mi vince nell'ammirarla, e per quantum licet nell'amarla con tutte le facoltà dell'anima mia.—Il suo dev.mo servo ed amico affezionat.mo—L. Sauli [1] Il conte Ludovico Sauli nacque in Ceva il 10 novembre 1794. Fu letterato, storico; e tra le altro opere scrisse la Storia della colonia dei Genovesi in Galata; Sulla condizione degli studi nella monarchia di Savoia sino all'età d'Emanuele Filiberto, lezioni (Torino, stamperia reale, 1843). Nel 1848 fu commissario piemontese a Modena; fu ministro degli esteri sotto Carlo Alberto, e quindi appartene al senato. Diresse la Classe di scienze morali nell'Academia delle Scienze di Torino, ove morì nel 1874. Per maggiori notizie veggasi nelle Rem iniscenze della propria vita, commentario del conte Ludovico Sauli d'Igliano, edito per cura di Gius. Ottolenghi (Roma, Società Dante Aligh., 1909). Nel vol. ii, pag. 169 il Sauli parla in questo modo: «In Bologna ebbi la fortuna di conoscere la signora Caterina Franceschi-Ferrucci ed il marito di lei, applicato alla Biblioteca dell'Università degli studi, discepolo del famoso Morcelli, che fu maestro e modello dello stilo in cui vogliono essere dettate le latine iscrizioni. La Caterina poi, sotto il velo di singolare modestia, celava un cuore della miglior tempra possibile, un tesoro di rara dottrina, un peregrino ed elegantissimo ingegno. Trastullandosi da giovinetta insieme con altre bimbe, venne forita in un occhio, e perchè era infermiccia, e non era più bene accolta dalle suo vispe compagne, era costrotta adagirarsi melanconica e sola lungi da quelle festive brigate, sicchè, presa in compassone da un suo congiunto, fu da lui ammaestrata nella lingua latina e greca e nell'arto dello scrivere italianamente. Nè le doti del cuore sono in lei inferiori a quello dell'intelletto; chè difficilmente trovar si potrebbe una sposa più amorevole, una madre più tenera; avventurato può chiamarsi chiunque abbia il diritto di salutarla col titolo di amica. Con un'anima solo capace di affetti, non potea rimanersi indifferente a quelli ond'erano agitati allora gli animi degli Italiani. Innocente come una colomba non potea immaginarsi che retto e degno della nobil causa non fosse tutto ciò che per essa si andava operando…»..

Bologna, 16 ottobre 1833.

Mio caro Betti.—Quantunque di rado io ti scriva, pure la mia amicizia è sempre eguale ad un modo, e già tu sai ch'io penso non doversi fra gli amici misurare l'affezione dalla maggiore o minore frequenza delle lettere. Forse non ti sarà ignoto come io sia stata sul punto di morire nel maggio passato. Ora sto meglio, ma per essere incinta non godo mai di perfetta sanità. Essendo dunque sicura della costante benevolenza verso di noi, ti prego di un favore che mi sarebbe carissimo l'ottenere. Michele ha saputo da persona autorevole che tra i nomi di coloro che furono proposti al Granduca di Toscana per essere eletti in luogo del Zannoni vi è anche il suo [1] Gio. Battista Zannoni, letterato e archeologo, vissuto in Firenze dal 1774 al 1832, segretario dell'Acsademia della Crusca, e antiquario della R. Galleria. In quest'ufficio desiderava succedere il prof. Michele Ferrucci. E siccome i Ferrucci, fatti abitatori di Lugo verso la metà del xv secolo, si chiamarono in Romagnolo Ferruzzi (in tal modo la Caterina nostra scriveva nelle prime lettere al futuro sposo), così essi in quest'occasione o poco di poi, fecero riconoscere che appartenevano alla famiglia Ferrucci di Firenze, onde più facilmente ottenere quanto desideravano.. Ciò lo ha messo in qualche speranza di migliorare la nostra condizione, la quale è per certo poco lieta. Ti prego adunque di scrivere al Niccolini [1] Gio. Battista Miccolini (1785-1861), toscano; poeta e prosatore, accademico residente della Crusca, che «stimò il nobile ingegno dell'illustre donna», la Caterina zostra, colla quale ebbe poi relazioni, come vedesi in Ricordi della Vita e delle Opere di G. B. N. per Atto Vannuci (Firenze Le Monnier, 1866), voll. 2., dove leggonsi due lettere a lei dirette dal Niccolini. raccomandandogli caldamente Michele. E se tu stesso o per mezzo dei tuoi amici potrai ritrovare a Firenze qualche altra buona protezione ci farai un vero beneficio del quale ti serberemo obbligo eterno. Michele per la qualità dei suoi studi e per l'amore da lui posto alle cose archeologiche si confida che non senza onore potrebbe tenere il luogo di Zannoni, è certo egli impiegherebbe ogni cura e fatica, perchè uguali all'ufficio si mostrassero le forze della sua mente. Qui non si offre alcuna comodità per mutare in buona la rea fortuna: la nostra famigliuola si accresce: le fatiche che Michele deve sostenere sono continue, insopportabili e nojose: e sarebbe per noi gran ventura il godere di qualche agio maggiore e di una onesta tranquillità. Parla di questo al chiarissimo cav. Biondi e all'Odescalchi; e adoprati per noi con quella sollecitudine e con quella caldezza che è proprio dell'animo tuo buono e gentile. Forse una raccomandazione per il Ministro Austriaco a Firenze, pel Fossombroni o qualche altro di quei diplomatici, potrebbe giovare. Insomma mi ti raccomando con tutto il cuore. Sta sano e tienmi sempre nella tua cara amicizia.—La tua aff.ma amica—Cat. Fran. Ferrucci.

[1] Edita la presente lettera ne La Gioventà, giornale di letteratura e d'istruzione, vol. iii, 1865, pag. 163 e seguente.

(Parma) 25 ottobre (1834).

Cara signora Caterina.—La ringrazio molto della sua lettera del 6; e di avermi fatto conoscere il sig. Ranalli [2] La Ferrucci fece conoscere Ferdinando Ranalli al Giordani. Il Ranalli andò da Roma a Bologua nel 1833, e vi si trattenne parecchi mesi, conoscendo e frequentando quanto di più illustre era allora in quella città, ed era molto; vivendo il Costa, il Marchetti, l'Angelelli, lo Schiassi, ed altri più: e vi dimorava la Illustre donna Caterina Franceschi Ferrucci, della quale il Ranalli divenne insieme ammiratore ed amicissimo. Indi andando a Parma, e andando per vedere e conoscere il Giordani, ebbe da lei lettera di presentazione. È da notare che il Ranalli, allora ventenne, era tanto desideroso di conoscere il Giordani, perchè le prose di questo scrittore erano state le primissime, appena andato a Roma nel 1832, a mettergli nella mente e nel cuore l'amore al libero pensare e insieme allo scrivere italiano, che infino allora non vi era entrato per la possima educazione ricevuta negli Abruzzi dove nacque, e nelle Marche ove fece i primi studi. In fine fece quel che più o meno è toccato di fare a tutti o ai più, disimparare l'imparato.. Non potei vederlo al suo ritorno da Milano, e parlargli del suo Petrarca: però, a sua istanza, prego lei di fargli avere questa rispostina.

Vorrei ringraziare caramente il nostro monsignor Muzzarelli, e scrivergli due righe: ma non so dove trovarlo, se in Bologna, o Ferrara, o Roma. Prego lei di farmelo sapere sicuramente.

So che è pubblicato un volume d'Iscrizioni del signor Michele: ma in questa buca non viene luce. Io la prego, quando abbia buona occasione, a mandarmi quel libro, che mi sarà di molta consolazione.

Sa dove sia ora il Brighenti? la prego a ringraziare tanto l'ottima contessa [1] La contessa Anna Pepoli di Bologna, donna colto, amica del Marchese di Montrone e del Giordani., per la costante benevolenza: e dirle che ebbi il libretto di Lampredi, e la ringrazio. Ma so che Montrone pubblicò un discorso [2] Essendo stato nominato il Montrone [Giordano de Biauchi, detto marchese di Montrone] intendente a Bari, nel prender possesso del nuovo uffizio, lesse un discorso, il quale corse poi molto lodato l'Italia, e che è quello cui accenna appunto il Giordani.; così mi disse Ranalli: e credo certo che la detta Nina ne avrà avuto una copia dall'autore per me; e a lei mi raccomando per averla.

Baci il carissimo Tonino carissimamente per me: seguiti pure ad istruirlo, senza faticarlo, e per modo di conversazione, che è il più efficace. Mi riverisca tanto il signor Michele: e mi creda sempre suo vero amico

pietro giordani.

Di Bologna, 30 Nov.e 1835.

Gentilissimo conte Cassi,—A lei, che con tanta felicità coltiva i nobili studj, sarà certo gratissima la conoscenza del sig. Regaldi, giovine ingegnoso e valente nel poetare improvviso, che qui ha date molte prove della virtù sua [1] Giuseppe Regaldi nacque a Varallo, studiò nol Collegio dei Pp. Gesuiti ed acquistò fama grande come improvvisatore. Fu esiliato dall'Italia per le sue idee liberali: onde nel 1839 passò a Marsiglia e a Parigi, dove improvvisò con plauso, ottendendo pur lode dal Lamartine; poscia per alcuni anni viaggiò in Oriente, singolarmente in Grecia. Ritornato in Italia visse a Novara e a Tormo; fu professore a Parma ed a Cagliari; e da ultimo insegnò storia nell'Università di Bologna, ove morì il 14 febb. 1883. Delle sue opere varie vanno ricordate specialmente le prose su la Storia e letteratura (Livorno, Vigo, 1874); L'Egitto antico e moderno (Firenze, Le Monnior, 1882), per le quali Giosuè Carducci scrisse la prefazione; e le Poesie (Firenze, Le Monnier, 1874) per lo quali Eugenio Camerini feco altrettanto.. Glielo presento adunque, e spero che sarà da lei accolto con quella cortesia, che in lei è naturale: e la prego ancora di far conoscere il sig. Regaldi ai dotti di codesta città.

Avrò in conto di singolare favore le gentili accoglienze ch'ella si compiacerà fare al Regaldi, e già gliene significo la mia riconoscenza. Mio marito la saluta con affetto. Mi ricordi alla signora Elena [2] La contessa Elena Cassi. e ai nepotini, e con sincera amicizia mi creda—la sua obb.ma ecc.—Caterina Franceschi Ferrucci.

Torino, li 8 di luglio 1836.

Il Segretario della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche alla signora Caterina Franceschi Ferrucci, a Bologna.

Prestant.ma Signora P.rona Col.ma,—Mi reco a dovere di partecipare alla S. V. prestant.ma che la Classe delle Scienze morali, storiche e filologiche della Reale Accademia, nella sua adunanza ordinaria dei tre del corrente mese, e sulla proposizione degli Accademici cav. Sauli, cav. Carena e mia, ha eletto la S. V. chiariss. e pregiat.ma a Socio corrispondente.

I conosciuti ed ammirati poetici talenti de' quali Ella è abbondantemente fornita, e che La collocarono meritamente e di buon'ora fra i più distinti cultori di un'arte che gli antichi, a buon diritto, chiamarono Divina, già da lungo tempo avevano richiamata l'attenzione della Classe, cui rincresceva che per la sua costituzione, la quale esclude la semplice letteratura e la poesia, non le fosse permesso di darle un pubblico attestato dell'ammirazione e stima in cui teneva il genio di Lei. Tale ostacolo venne tolto fortunatamente alla lettura delle Vite dei due celebri Bolognesi Aldrovandi e Marsigli da Lei dettate con prestante dottrina senza pedanteria, con uno stile sciolto e purgato, e con proprietà e sceltezza di lingua ammirabili [1] Le accennate Vite di Ulisse Aldrovandi e Luigi Ferdinando Marsigli, ristampate dall'autrice nel cit. vol. Prose e Versi (Firenze, Le Monnier, 1873), pagine 9-25. Ivi leggonsi altre otto Vite d'illustri bolognesi, le quali si trovano pure nel vol. intitolato Le Vite e ritratti di trenta illustri Bolognesi. Bologna, lit. Zannoli e tip. del Nebili e com., 1836..

Io mi compiaccio quindi sommamente dell'onorevole incarico di recarlene l'avviso uffiziale (riserbandomi di inviarle poscia e per occasione il Diploma accademico) nella certezza ch'Ella sarà per gradire questo attestato spontaneo del sommo pregio in che l'Accademia tiene la sua persona, le sue qualità morali ed i preclari talenti suoi; e pregandola di voler accettare eziandio le mie sincere congratulazioni, sono col più distinto ossequio—della S. V. chiar.ma—devot.mo obblig.mo servo e collega—Cav. Costanzo Gazzera segretario [1] L'ab. Costanzo Gazzera nacque a Bene (Mondovi) nel 1779 e morì a Torino nel 1859. Fin dal 1819 era stato chiamato dal conte Prospero Balbo alla direzione della Biblioteca della r. Università di Torino. Fu membro della r. Accademia delle Scienze nel 1826, e, dopo la morte di Giuseppe Grassi (1831), segretario perpetuo della Classe delle scienze morali, storiche e filosofiche. Nel 1833 venne nominato anche membro della r. Deputazione di Storia patria e della Giunta di Antichità e Belle Arti nella stessa Città..

Bologna, 12 luglio 1836.

Sig.r Cavaliere veneratissimo.—Egli è certo di grande conforto e di dolcissimo diletto cagione avere lodi, ed onore da quelli, che nella bontà dell'animo, e nella sapienza trapassano la condizione comune: ma quando chi queste lodi riceve è dal credibile testimonio della coscienza propria avvertito di non esserne meritevole, il piacere, ch'egli ne prende è di gran lunga superato dalla vergogna. Che ciò sia vero jeri stesso in me medesima io feci esperienza. Poichè l'allegrezza, che sentii nel leggere la sua lettera [1] La lettera che leggesi qui dietro a pag. 132 e seg. in data 8 luglio 1836. fa tosto turbata dal pensiero, che a me rozza d'ingegno, e negli studj infelice mal si conviene il fare parte di un'Accademia, nella quale sono tanti uomini per dottrina in Italia, ed in lontane terre famosi. Ma quanto più mi avvedo di non avere meritato un sì grande onore, tanto in me cresce la gratitudine verso coloro, che per sola umanità, e gentilezza me lo conferirono. Rendo adunque alla S. V. chia.ma immortali e sinceri ringraziamenti, e le dò fede nel tempo stesso, che solo con la vita perderò la memoria del favore segnalato che singolarmente da lei ho ricevuto. Accolga Ella con la benignità, che l'è propria, queste mie parole, ed insieme gli ossequi di mio marito, e tenga ambedue noi nella preziosa sua grazia, e benevolenza.—Di Lei chiariss.mo Sig. Cavaliere—dev.ma obbl.ma serva Caterina Franceschi Ferrucci.

[1] Questa lettera è stampata in Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour, raccolte ed illustrate da Luigi Chiala (Torino, Roux Favale, 1884), vol. I, pag. 302 e segg. Ivi leggesi, sul'«illustre latinista» M. Ferrucci, una nota che dice: «Nominato nel 1827 profes. sostituto di arte oratoria e poetica latina e italiana nell'Università di Bologna con futura successione, nel 1836, per le idee liberali manifestate nel 1831, e che stimava avere espiate con la sospensione dall'ufficio inflittagli per qualche mese, si vide escluso dal succedere nella cattedra d'archeologia allo Schiassi, suo prediletto maestro e benefattore; che allora appunto per favorirlo aveva chiesta ed ottenuta la giubilazione. Il Ferrucci determinò di accettare senz'altro la cattedra di letteratura latina nell'Accademia di Ginevra, ove insegnò sino al 1844».

(Leri [Torino], agosto 1836).

Illme signor Professore.—Troppo gentili e non meritate sono le espressioni che ella usa a mio riguardo. Io non ho nessun titolo a quei sensi di riconoscenza ch'ella mi esterna: nell'adoperarmi con ogni mezzo in mio potere ad assicurare la sua nomina, le assicuro avere avuto in vista non meno il vantaggio che sarebbe per derivarne alla città di Ginevra, cui io considero come una seconda patria, che il piacere di far rendere giustizia ai meriti d'un mio concittadino, che venivano indegnamento negletti nella poco fortunata nostra patria. Ma se non mi è possibile l'accettare proteste di una non meritata riconoscenza, mi sta a cuore l'ottenere in cambio sensi di amicizia ed affezione cui mi lusingo di vedere sviluppati e cementati da una conoscenza più intima. Quando la sua nomina fu assicurata, il De La Rive [1] Il prof. Eugenio De La Rive, illustre fisico, su cui veggasi qui dietro a pag. 14., che più d'ogni altro vi aveva contribuito, mi scrisse onde le facessi tenere alcuni avvisi sul modo di condursi nelle circostanze presenti: mi affrettai di comunicare questa sua lettera al nostro Boucheron [2] Il prof. Carlo Boucheron dell'Università di Torino, di cui s'è parlato a pag. 109,, che per certo gliene avrà fatto conoscere il contenuto. Non le ripeterò alcuno dei suggerimenti del De La Rive, solo le farò osservare che esso, non solo, ma anche tutti quelli che si sono impegnati in suo favore e nominatamente il signor Boissieur [3] Decano della facoltà di Lettere in Ginevra., decano della facoltà, insistono fortemente onde ella lavori a mettersi in istato di parlare il francese con tanta facilità quanto l'italiano, cosa ch'ella non durerà fatica ad acquistare.

Conosco a fondo la società ginevrina, dovrei darle qualche nozione sui principali personaggi con cui ella avrà a trattare; ma sarebbe troppo a lungo il farlo in questa lettera, e mi riservo di metterla a viva voce, quando passerà da Torino, al fatto di quanto le importa però di conoscere. Intanto mi restringo a dirle, che arrivando a Ginevra appoggiato al signor De La Rive ed al pastore Munier [1] Il Munier era pastore della Chiesa Svizzera., ella non ha da temere di far cattiva strada. Questi due chiarissimi individui sono le persone le più fatte per darle il migliore indirizzo per il modo di condursi nella nuova sua carriera. Io ho nel loro senno e nei loro lumi la più intera confidenza. Al suo arrivo a Ginevra, ella andrà a trovare il De La Rive, che subito le farà conoscere tutte le persone con cui ella sarà chiamata a vivere e le darà quelle norme di condotta che la prego di considerare come sicurissime. Ella troverà in questo mio cugino e nella sua famiglia un'accoglienza che le farà dimenticare dal primo giorno d'essere su d'una terra straniera.

Non si spaventi sulla carezza del vivere a Ginevra. Le cose di lusso e d'apparato sono care assai: ma si può vivere con decoro senza grandi spese. Il vitto e l'alloggio sono forse più cari che in Italia, ma il vestirsi e le derrate coloniali sono a vilissimo prezzo, stante l'assoluta franchigia di cui gode la repubblica. Le assicuro che il prodotto della sua cattedra universitaria, che ascende a quattromila franchi di Francia, basta per assicurarle un'esistenza piacevole ed onesta. D'altronde, come mi scrisse De La Rive, ella potrà col dare dei corsi e lavorare ad uno o due giornali letterari che si pubblicano a Ginevevra, guadagnarsi una egual somma. È pur certo che nella nuova sua patria, la signora sua moglie troverà ad impiegare utilmente quelle singolari sue doti, di cui sento che essa è sì copiosamente fornita [1] Veggasi qui dietro, a pag. 16-17, su la Caterina nostra, quanto scriveva al De La Rive il Cavour medesimo.. In ogni modo non dubito che in poco tempo ella si assicurerà a Ginevra una esistenza tale da poter vivere con un convenevole decoro ed assicurare la sorte futura dei suoi fanciulli.

Scriverò pel prossimo corriere al De La Rive, onde si occupi di far preparare un alloggio per lei e la sua famiglia [1] Gli scrisse veramente, cioè il di 4 settembre 1836: veggasi nella cit. raccolta dello Lettere Cavouriane, vol. V, pag. 62 e segg.. Egli eseguirà con tanto maggior piacere questa commissione, che già si era spontaneamente esibito di fare i preparativi necessari al suo stabilimento in Ginevra.

Spero che non andrà molto prima ch'io abbia il piacere di far la sua personale conoscenza. Il Boucheron mi ha assicurato di farmi sapere al giusto il giorno del suo arrivo in Torino: non mancherò di trovarmici per assicurarla di viva voce dei miei sensi di stima e devozione e presentare alla sua signora moglie i miei distinti ossequi.

Gradisca intanto l'assicurazione della mia considerazione affettuosa, colla quale sono, ecc.

Bologna, 19 settembre 1836.

Mio caro ed ottimo Amico.—Tardi rispondo alla vostra lettera perchè in questi giorni non ho avuto libero un momento solo di tempo. Vorrei però che foste persuaso essere nel mio cuore tanto vivo ed affettuosa la gratitudine per l'amicizia onde ne date sì chiari segni, che le parole non bastano a significarla. Vi ringrazio che non abbiate voluto lasciarmi partire senza darmi un addio, e sono poi commossa insino all'anima dal dolore che mostrate per la mia partenza [1] Parla della propria partenza dall'Italia per trasferirsi a Ginevra; di che è argomento la precedente lettera del conte Camillo di Cavour.. Oh quanto a me pure è grave lasciare l'Italia e i parenti dolcissimi e i provati amici, e quella terra perfino dove riposano le ceneri benedette del padre mio, della mia sorella, del mio caro figli uoletto. E sì ch'io sperava di potere un giorno riposare con essi insieme e di chiudere gli occhi in quel paese dove prima gli apersi. Mio caro Betti, ho l'animo si pieno d'amarezza, che appena trovo le parole per scrivervi, e piuttosto sarei pronta a dare in un largo pianto. Ma perchè contro la necessità non è rimedio alcuno ed è da vili il cedere all'affizione, raffreno le lacrime e invece prego il Cielo a fare che il mio presente dolore (il quale non passerà certo col tempo) non sia senza alcun bene avvenire pei miei figliaoli. Se mio marito avesse potuto vivere quì con onore, e senza essere costretto a durare fatiche non comportabili per dare sostentamento alla Famiglia, certo noi qui saremmo rimasti, e ci sarebbe stata più cara una mezzana fortuna in seno alla patria che un comodo e ricco stato fra genti straniere. E veramente Michele niuna cosa ha lasciata che potesse ajutarlo a migliorare la sua condizione. E forse se l'onestà della vita, l'amore allo studio e un ingegno non al tutto volgare bastassero a meritare la grazia dei potenti egli doveva confidarsi di possederla: ma la cosa è stata altrimenti, e noi non d'altro ci lamentiamo che della nostra avversa fortuna. Siate pur certo che io prima perderò la vita che l'amore alla nostra patria e che l'ultimo mio sospiro sarà per la felicità dell'Italia come pel suo bene sono stati sempre tutti i miei desideri. Già ripeto spesso al mio Tonino [1] Il figlio primogenito Antonio Ferrucci, cui sono dirette alcune lettere della presente raccolta. che egli, vivendo in suolo straniero, ha più che mai debito d'essere buono e di volgere la menta ai nobili studi, affinchè veggano i forestieri non essere spenta la gravità e il senno italiano e durare in noi mente e cuore capaci di grandi cose.

Riverite per noi il chiarissino Odescalchi e il M.se Biondi, e pregateli a non dimenticarci: dite a quest'ultimo che le sue anacreontiche sono di tale bellezza da sembrare cosa greca e nata in altri tempi che non sono questi nostri pieni di superba ignoranza e non d'altro paghi che di novità. Io ebbi carissimo il dono di quei leggiadri versi, e quante volte li ho letti tanto ne ho sentito più vivo il piacere. Addio, mio ottimo amico. Io mi allontano da voi colla persona, ma con voi e con gli altri miei cari rimane sempre il cuor mio, rimangono sempre i miei pensieri: e perchè in essi non ha potere alcuno nè il tempo nè la fortuna, noi saremo in realtà meno lontani di quello che sembrerà all'apparenza. Forse partiremo fra 6 giorni. A Torino ci fermeremo alcun poco, e trovandoci in mezzo a' buoni amici che ivi abbiamo proveremo qualche consolazione. Michele vi abbraccia, e meco vi assicura della nostra vera e costante amicizia. Addio. State sempre lieto e sano ed amateci.—La vostra aff.a obb. amica—Caterina Franceschi Ferracci.

[1] Rosaspina Francesco, insigne incisore, nacque a Moutescudo (presso Rimini) il 2 genn. 1763. Fu professore e direttore della Scuola d'incisione in Bologna e membro della consulta di Lione. Dalla sua scuola uscirono Gajani, Asioli, Jesi, Marchi, Paradisi, Guadagnini ecc., e dalla sua mano parecchie ilcisioni famose. Mori il 2 sett. 1841 in Bologna.

Ginevra, 23 dicembre 1836.

Mio carissimo Amico.—La vostra lettera mi ha recata dolcissima consolazione, e m'è giuuta quando io già aveva in animo di scrivervi. Solo mi è dispiaciuto, che mi abbiate scritte sì poche righe. Quando, vivendo in paese lontano, ricevo una lettera di persona cara, come voi siete, la quale sia troppo breve provo un'allegrezza mista di dispiacere, e parmi sentire più vivo il dolore dell'assenza, poichè vorrei sapere tante, e tante cose, e il mio desiderio non può essere soddisfatto. Insomma mi pare di ricevere la visita d'un amico, il quale non si trattenga, che per pochi minuti, quando io vorrei averne la compagnia almeno per qualche settimana. Ricordatevi adunque, che io voglio lettere lunghe: parlatemi della salute vostra, dei piccoli nipoti, di tutti i figliuoli e figliuole vostre, e se questo non vi fornisce materia ad empire il foglio parlatemi delle vostre piante, dei vostri fiori, di tutto insomma che vi riguarda, e siate certo che leggerò la vostra lettera con sempre nuovo piacere. Sebbene io qui mi trovi assai bene, pure le antiche affezioni tengono potentemente l'animo mio e col pensiero vivo quasi sempre oltre le Alpi, e più che altrove in Bologna. Oh potessi mettere le ali, e venirne alcuna volta col corpo dove sono così sovente con l'anima! Se fossero state vere le scoperte intorno alla luna vorrei inviare una supplica a que' pipistrelli uomini affinchè mi prestassero di quando in quando le loro ali. Ma pur troppo bisogna, ch'io mi contenti di riavvicinarmi agli amici, e ai parenti miei, con la immaginazione, e con l'affetto del cuore.

La nostra salute è buona, e Antonio e la Rosa diventano ogni di più grassi e robusti. L'emicrania mi dà noia assai spesso, ma siccome è una vecchia malattia, e che d'altronde passa assai presto, così non me ne do pena, e non ne faccio alcun conto. Michele è contento, anzi contentissimo della sua condizione, nè potrebbe essere altrimenti. Egli si vede amato e stimate universalmente, può intendere più che non faceva ai suoi studi, e non è costretto a sostenere quella grave e continua fatica che durava in Bologna. Ogni giorno più sente diminuire la difficoltà che gli cagionava la lingua francese: nei suoi colleghi ha degli amici amorevoli e sinceri, e l'aria aperta che quì si respira gli torna assai profittevole alla salute.

Anche io ricevo moltissime cortesie, e se mi lasciassi meno governare da una fantasia che con troppa vivacità mi dipinge le dolcezze delle terra natale, nulla mi mancherebbe ad essere felice. Vado spesso in Società, poichè non potrei senza offendere l'urbanità ricusare gl'inviti che mi si fanno.

Trovo queste persone buone, colte, amorevoli: non hanno il fuoco italiano, hanno più ragione che immaginazione, sono insomma differenti in alcune cose da noi, ma questa diversità di carattere non è tale che metta ostacolo alla simpatia o all'amicizia. Lo spirito di questa piccola repubblica è aristocratico e così la classe nobile fa società da sè. Per la posizione di mio marito, che facendo parte dell'accademia fa parte ancora del ceto aristocratico, io ho fatto fra questa classe di gente tutte la mie relazioni. Hanno le idee molto giuste, ma credo che abborrano tutte le innovazioni politiche, e tutti i fautori di queste [1] La Ferrucci soleva raccontare di aver conosciuto nella società ginevrina il celebre barone d'Haussez, uno degli ultimi ministri del buono e sfortunato Re Carlo X, il quale era molto cortoggiato dall'aristocrazia ginevrina. (Nota del nepote dott. d. Filippo Ferrucci.). Del resto le leggi sono buone: la sicurezza perfetta, la moralità grandissima. Tutti lavorano, tutti hanno ciò che basta a vivere senza stento, e non si vede un miserabile nè un accattone. La tolleranza religiosa è quale si conviene ad una popolazione colta e civile. Noi cattolici abbiamo la nostra chiesa, che è sempre piena di gente: il governo pensa al mantenimento dei ventisei curati cattolici, che sono nello stato, e certo niuno potrà dire che l'intolleranza venga dai protestanti. Il clima sino ad ora è stato assai temperato, poca neve e solo per breve tempo, il cielo spesso sereno e se non spirassere sovente venti fortissimi potrei quasi credere d'essere in Italia. Ho fatto qualche passeggiata fuori di Ginevra, e veggo che i suoi contorni sono deliziosi. La primavera [1] «La primavera»: vorrà diro Nelta primavera, ossia In primavera. poi deve essere un piacere andare a spasso sulle rive del lago, o salire alcune delle vicine montagne. Anche nell'interno della città. e vicino proprio alla mia casa, vi sono passeggiate amenissime, riservate ai ragazzi, impedite alle carrozze. Però i bambini non passono nessun pericolo e possono correre e saltare a loro piacere.

Della mia casa vi dirò che ne sono abbastanza contenta.

È pulita e piuttosto comoda sebbene sia ristretta: ma gli appartamenti qui sono oltremodo cari, onde bisogna contentarsi, quando si può abitare decentemente. Vivendo con economia non si spende molto e anzi trovo che quasi spendo quello che spendevo a Bologna, eccettuata però la spesa della casa, quella della legna, che sono maggiori. I mobili e gli oggetti di vestiaro e i generi coloniali si hanno a miglior prezzo, che tra noi. Alcune signore, che già conoscevano l'italiano, hanno desiderato, che dessi loro un piccolo corso di letteratura, e lo faccio con piacere. Vengono in casa mia, e siccome insegno loro cose, che già conosceva, così non ho bisogno di fare alcuna fatica. Da molti era stata richiesta di dare un corso pubblico di letteratura italiana, e credo, che ne avrei tratto profitto grande, ma per quest'anno non accetterò l'offerta: voglio essere più padrona della lingua francese, per essere sicura di non avere a superare altra difficoltà, che quella, che viene dall'esporre la materia presa a trattare chiaramente, ed ornatamente. Intanto mi esercito a scrivere in francese, e forse fra non molto pubblicherò un articolo nella Biblioteca Universale [1] In altra lettera, del di 12 stesso mese, al dott. Domenico Santagata di Bologna, dice le stosse cose, ma soggiunge: «Intanto ho a cuore le vite de'Bolognesi e in breve manderò la vita della [Laura] Bassi..

Vedo spesso Mad.e Muuier che è una abilissima pittrice, e sopratutto valente nel disegnare a lapis. Fa i ritratti a perfezione; e guadagna immensamente. Il paesaggio è assai studiato in questo paese, e mi pare, che vi siano molti buoni paesisti. Almeno i loro quadri sono d'effetto; e a parer mio hanno della verità. Eccovi una letterona: voi rispondetemene un'altra di eguale lunghezza, e datemi le nuove degli amici, e poi ancor quelle del paese e dell'università. Che fa Foschini? È a Bologna, o in Romagna? Trovate modo di fargli avere le nostre nuove e i nostri tenerissimi saluti. In queste lunghe sere di'inverno penso spesso con mesto desiderio alle nostre conversazioni degli inverni passati. Dio faccia, che possiamo un'altra volta trovarci tutti riuniti! Qui la vecchiezza è ordinariamente robusta e lunghissima: conosco un signore che ha ottantasei anni il quale passeggia solo, si ricorda di tutto, studia, compone, ed è lieto, come un giovinotto di vent'anni. Sento che questa non è cosa rara, e che chi muore a settant'anni muore ancorgiovine. Che bell'usanza, quando vedo alcuno di questi vecchioni, o sento parlarne, pense subito a voi, e desidero, che lo rassomigliate [1] A proposito di vecchiaja, in una lettera al dott. Santagata scriveva: «Credo che mi troverete invecchiata di animo e di corpo. Questo paese è tanto grave e serio, che l'ilarità dello spirito passa come la freschezza della persona, a cui nuoce credo quest'aria tanto sottile, e incostante..

Avete mai veduto mia sorella? Gradirei che le faceste sapere, che stiamo tutti sani, e che presto le scriverò. Che nuove avete della famiglia Toschi? [1] Paolo Toschi di Parma, incisore di gran fama, come il Rosaspina, ed intimo amico del Giordani. Salutateli tutti per noi, e pregateli a tenerci nella memoria. E così ricordatemi alla signora Marianna, alle figlie, ai nipoti grandi e piccoli, al signor Afragnoli ed a quanti avranno la bontà di pensare a noi alcuna volta.

Buone feste: buon capo d'anno, ed ogni possibile felicità.

Siate certo, mio ottimo amico, che vi tengo e vi terrò sempre nella memoria. Mi dimenticavo dirvi, che la signora Negri mi è somma consolazione con la sua vera amicizia. Ella sta bene: la vedo tutti i giorni, e finchè resterà a Ginevra non mi parrà di essere al tutto lontana dal mio paese. La Lenina [2] Maddalena Negri moglie di Filippo Minghetti (fratello di Marco). diventa savia e si fa sempre più bellina. Non finirei mai di scrivervi, tanto è il piacere che provo nel trattenermi con voi. Michele e Antonio vi fanno mille, e mille saluti. Antonio già parla il francese, ed è sempre docile, e savio. Addio, state sano, è ricordatevi sempre della vostra aff.ma amica Caterina Ferrucci.

Fate i nostri saluti a Costa [1] Paolo Costa, del quale si parla qui oltre a pag. 155., del quale desidero vivamente le nuove. Le ho dimandate più volte, e sempre inutilmente.

Ginevra, 9 gennajo 1837.

Caro Betti.—A voi mio vero e provato amico scrivo senza velo e col cuore aperto. Oggi abbiamo saputo che il P.re F. Grilli di cui Michele era sostituto è morto son pochi giorni. Tosto il desiderio degli amici e l'amore della terra natale si sono risvegliati sì vivi nell'animo nostro che ne siamo fuori di noi stessi. Dunque avremmo potuto avere onorato provvedimento a Bologna! Dunque non ci sarebbe stato negato di finire la vita nella terra dove la sortimmo, e avremmo potuto consacrare alla nostra nazione le fatiche e l'ingegno! Oh mio Betti, noi abbiamo trovato qui cortesia ed amorevolezza: le lezioni di Michele piacciono più di quello che potevamo sperare: il guadagno è buono e sarà sempre maggiore, ma pure non possiamo pienamente godere del bene che Iddio ci concede. Sentiamo parlare una lingua che non è la nostra, viviamo fra genti che hanno opinioni, credenze, affetti e sentimenti differenti dai nostri, e tutto ci ricorda che siamo in terra straniera. Partimmo da Bologna perchè ci era impossibile di mantenere la nostra famiglia con i soli 14 scudi e mezzo che aveva Michele dal suo impiego. Egli cercava di supplire al bisogno dando delle lezioni, ma se ogni di più aumentava la fatica il profitto diventava sempre più scarso: per 24 lezioni al mese di più di un'ora l'una non riceveva che 15 o 20 paoli. Giudicate voi stesso, se poteva continuare una vita sì affaticata e sì priva di compenso e di onore. L'eminentissimo Polidori [1] Paolo Polidori lorotano, nato a Jesi il 4 gennajo 1778, creato cardinale il 23 giugno 1834 e morto in Roma nel 1847, fu uomo di molta dottrina e di grando pietà. Egli era amico di Michele Ferrucci fino dal 1824, e gli si mantenne sempre benovolo: se non potè giovargli in questa circostanza ne furono causa le male arti di un tristo, che aspirava alla cattedra di Bologna, che però non potè ottenere, come non la ottenne il Ferrucci, sebbene a favor suo si adoprassero, oltre al card. Polidori, il Betti, il Biondi e mons. Tosti tesoriere, poi cardinale, come si vede da molte lettere del Biondi ai Ferrucci, che si conservano presso i loro eredi. (Nota del nepote dott. d. Filippo Ferrucci). ha fatto scrivere a mio marito che ha sempre in animo di farlo richiamare in Italia. Presentatevi a lui, supplicatelo a non lasciare passare un'occasione che non tornerà più, e ditegli che abbia compassione di noi che sopra tutte le cose amiamo il nostro paese e che si adoperi perchè noi siamo costretti dalla necessità a tenerci stranieri alla patria che Iddio ci dètte. Agite con prontezza, con calore e da vero amico. Se oltre al cardinal Polidori potrete trovare altra via da giovarci non lasciate nulla intentato. Vi ripeto che il bisogno ci costrinse a partire. Quantunque vivessimo lontani dal mondo, senza lusso, senza delicatezza, pure non era possibile di mantenere la famiglia con lo scarso frutto delle nostre fatiche. Dico nostre perchè anche io cercava di ajutare mio marito il meglio che poteva.

La preghiera che faccio a voi la faccio ancora al principe Odescalchi. Giovateci, e pensate che potete farlo adesso o mai più. Che dite della sventura del povero Costa? Ne piango amaramente come se fosse morto mio padre [1] Paolo Costa (ricordato a pag. 82) poeta, prosatore e filosofo, nato in Ravenna il 13 giugno 1771 e morto in Bologna a'20 dicembre 1836; del quale la Caterina nostra parla pure in una lettera a Marco Minghetti di Bologna, così: «Più penso alla perdita che abbiamo fatto nell'ottimo Costa, vero esempio di leale amicizia e di vera sapienza, più ne sento vivo il dolore. Non avrei mai creduto che dovesse mancarci sì presto. Bologna, anzi l'Italia, anzi la verità e la ragione hanno perduto il loro splendido decoro, il loro più saldo propugnatore». Ed il Minghetti riferendo tale giudizio ne I miei Ricordi (Torino, Roux, 11 ediz. 1888, vol. 1, p. 54), soggiunge: «Questo parole non erano dicerimonia, ma intime e sincere, anzi esprimevano non solo il suo ma anche il nostro sentimento, e perciò le riferisco. Essendo il Costa morto povero io e il Mattei ci ponemmo a capo di una sottoscrizione per innalzargli un monumento, e riuscimmo a raccogliere più che seimila lire. Il monumento fu eretto nella certosa di Bologna, e vi si legge che gli uditori e gli amici posero questa memoria al filosofo ed al poeta…». La iscrizione latina fu dettata da Michele Ferrucci, per desiderio espresso dal Costa medesimo poco avanti la sua morte. Le sue Opere camplete (ossia l'edizione più completa) fu stampata in Firenze, per cura del Formigli e del Fraticelli, l'anno 1839: in 4 voli. in 8.. Michele vi si raccomanda, non perdete un momento e siate certo che la nostra riconoscenza sarà eterna. Addio.

La vostra
Caterina Franceschi Ferrucci.

Torino, 26 di ottobre 1837.

Amica dolcissima.—Questo esemplare del mio volgarizzamento delle opere di Tibullo non è simile agli altri; perocchè non gli sono state troncate le parti pudende, come accadde ad Ati: che Dio ne liberi ogni buon cristiano, e massime l'egregio Michele, per suo bene, e per bene vostro. Lo Scaligero, o qual altro barbassoro ei si fosse (che non l'ho bene in memoria) soleva prima di leggere i versi di Tibullo piegare le ginocchia a terra, e pregare Iddio che non lo facesse cadere in peccato per gli allettamenti di quella lettura. E voi pure, prima di gettar l'occhio e sulla ottava e sulla nona elegia del libro primo, inginocchiatevi a ginocchia nude, e datevi la disciplina, siccome fanno i cappuccini, ed altri cotali; sebbene vi abbia chi dice che quel frustarsi non ispenga, ma dia libidine. Io, castissimo come sono, non ho fatto tirare che piccolissimo numero di questi esemplari non resi eunuchi, nè niuna donna gli avrà, da voi infuori; perocchè voi siete una di quelle poche, le quali dagli antichi erano chiamate, non foemine, ma viro; e comechè la vostra bella persona sia graciletta anzi che no, candidissima, e tutta gentile; pure avete maschio cuore, e virile ingegno.

Lunedi prossimo mi avvierò versa Roma. Non farete, io spero, che la lontananza mi vi tolga dalla memoria. Addio: salutate il Ferrucci, l'Antonino, la Rosina e la Carlotta.

Il vostro Biondi [1] Il marchese Luigi Biondi nacque in Roma il 21 settembre 1776 ed ivi fini questa vita il di 3 settembre 1839. Fondò coll'Odescalchi, col Perticari e con altri, il Giornale Arcadico, ove sono di lui molte prose, dotte e pure. Scrisse anche versi eleganti, come mostrano le sue Anacreontiche, e le versioni del Sannazzaro, di Tibullo, della Georgica e Bucolica di Virgilio..

[2] Il conte avv. Federico Selopis, giureconsulto e storico, visse in Torino dal 10 gennaio 1798 all'8 marzo 1878. Scrisse la Storia della legislazione italiana; tenne per molti anni la presidenza dell'Accademia delle scienze di Torino, e fu senatore e presidente del senato del Regno d'Italia.

Di Ginevra, 28 ottobre 1837.

Sti.mo Sig.r Conte.—Colle persone piene di gentilezza e di bontà vera io non soglio fare complimenti: però senza premettere alcuna parola, che senta la cerimonia io le raccomando il Sig. Velini, il quale le recherà questa lettera. Egli è nostro amico, e degno della stima de' buoni per le sue rare qualità: torna in Piemonte, e va a stabilirsi a Casale, per darsi al fôro. Siccome desidera di fare alcuna conoscenza che possa tornargli utile, ed onorevole io lo presento a lei, e la prego a mostrargli, che una mia raccomandazione non è senza effetto. Ella avrà qualche amico nel nuovo Senato instituito a Casale: ove possa farlo, senza troppo disagio, scriva una a ga ad alcuno di essi, onde il Velini trovi benevolenza e favore nel suo nuovo soggiorno. Intanto rendo a lei vivi ringraziamenti, per tutto quello che vorrà fare pel nostro amico. Dopo essere stata non poco tempo malata comincio a ristabilirmi e spero, che in breve godrò di una perfetta sanità. Noi stiamo sempre contenti di Ginevra, e dei Ginevrini. Mio marito la riverisce, e meco la prega a ricordarci alla benevolenza della sua Signora madre, vero specchio di cortesia e di bontà.

Sono piena di riverenza, e di gratitudine
sua dev.ma obbli.ma serva Caterina Franceschi Ferrucci.

[1] Edita in Commemorazione di Caterina Franceschi Ferrucci scritta da Cesare Guasti (Atti della R. Accadem. della Crusca, adun. dell'a. 1887, pag. 70 e segg.). Ivi afforma «che il Mamiani conservò per la nostra Ferrucci una stima grande e affettuosa», e che da lei aspettava nel 1838 dei Canti, che facessero popolari le memorie patrie: di che è prova la presento lettera».
Il conte Terenzio Mamiani della Roere (poeta, filosofo, senatore del Regno, ministro dell'interno a Roma nel 1848, ministro della pubblica istruzione nel 1861, nato a Pesaro nell'anno 1800 e morto in Roma il 20 maggio 1885), ebbe in grande estimazione la Caterina Franceschi, alla quale nel 1833, prima che fosse sposa, intitolò una Canzone sopra un Inno di Lei; nella qual Canzove leggonsi pure queste strofe:
Segui, Spirito gentile, ed apri al vero
Meno angusto sentiero:
Mal de' liberi carmi il vol ritardi.
Vibra di Cirra i dardi,
Ora par ti comandi Italia nostra:
E sol di lei nel casto ingegno accesa.
A tutte genti mostra
Di gemino valor leggiadra impresa.
Alla gentil ch'orna i romani lidi
E il cui volto non vidi,
Sebben del desiderio entro io sfaville,
Canzon, t'apressa e dille:
—Pel caro suon della tua dolce nota
Sa il mio signor come quaggiù s'adora
Cosa allo sguardo ignota,
E com'anco per fama uom s'innamora.

Parigi, 1.o agosto 1838.

Carissima signora… Il Boneschi mi riferisce ch'Ella gli fa promessa di scrivere qualche ballata o canzonetta nel genere di quelle già pubblicate dal Carrer [1] Luigi Carrer veneziano, visse dal 12 febb. 1801 al 23 dicembre 1850: fu scrittore di molto valore; e come poeta può dirsi il rinnovatore delle cosidette Ballate.. Quanto mi abbia rallegrato questa nuova non posso dirle, perch'io tengo le canzoni popolari per cosa di molto maggiore importanza che non si suole. Ò per ferma opinione che il suo ingegno tanto delicato e la vena del suo verseggiare tanto spontanea e affettuosa riusciranno in quella maniera di poetare mirabilmente. È campo nuovo in Italia, e promette a chi lo coltiverà bene un immensa fama popolare, che è la più ambita e la più durevole delle glorie. Dico campo nuovo, perchè il Carrer, per quello che io ne sento, non imprime nelle sue ballate nessun carattere nazionale, e si potrebbero domandare così italiane come tedesche o francesi. Del medio evo dipinge i costumi feudali, e non i repubblicani d'Italia: ma, grazie a Dio, se per l'altre nazioni non v'ànno memorie antiche, salvo che di castelli merlati, di baroni coperti di ferro e di plebe schiava e mendica; noi italiani possiamo ricordare le ringhiere e i comizi; il popolo adunato sotto le insegne delle Arti, e la gioventù che armeggia sulle piazze i giorni di festa; gli eserciti cittadini che escono a battaglia al suono della squilla, traentisi dietro il venerando Carroccio, bello di stendardi e di scudi; le galee cariche d'armi e d'armati correnti per tutti i mari, dominatrici del levante, visitatiric d'ignote regioni. Ma si riusccirebbe tediosi a voler numerare tutti i costumi e le foggie e gli istituti propri del medio evo italiano, ciascua de' quali mi sembra fornito di molta bellezza poetica. Chi volesse opporre che que' costumi sono caduti affatto dalla memoria del popolo, io risponderei, O non sono caduti altrettanto i costumi feudali? e se il popolo ignora le geste, i riti e gli usi degli avi suoi, è debito appunto de' poeti sollevarlo a quella cognizione con la dolcezza del verso e del canto: tutte poi le tradizioni antiche non sono spente, durano in buona parte a Venezia, durano a Genova, e in Toscana ne rimangono molte vestigia. Ma lasciamo la Storia: forse che il cielo d'Italia, l'indole e le maniere de' suol abitanti, la forma della città, l'aspetto del luoghi, la religione, le arti, gli spassi, ogni cosa, in fine, non si diferenzia notabilmente dalla natura degli altri popoli? Ma il Carrer o descrive cose straniere, o esprime affetti e ritrae immagini tanto indeterminate che, dallo stile in fuori, niente à d'italiano. E quanto è pure allo stile, mi sembra che si debba pigliare speranza di far molto meglio, massime dal lato della grazia e della semplicità. A me sta in capo che una gran corona d'alloro è preparata oggidi in Italia a colui, il quale saprà i nuovi pensieri e i nuovi affetti significare con la lingua di Metastasio: hoc opus, hic labor. A costui quanta lode dovrà l'Italia e quanta riconoscenza! Ò sott'occhio una raccolta di canzoni popolari spagnuole e un'altra d'italiane stampate a Lipsia. Le prime sono quasi tutte in buono castigliano antico; le seconde presso che tutte in dialetti: le prime sfavillanti d'amor di patria, rammentano le geste de' re d'Aragona e de' lor paladini, le vittorie ottenute sui Francesi e sui Saraceni; le seconde non ragionano che d'amori lascivi, di solazzi, di desinari, di burle ed altri nonulla. Doloroso riscontro, che prova da per sè solo in quanta pochezza d'animo sia caduta la plebe italiana. E perciò appunto, egregia signora, io l'incoraggio a questa forma di poetare; che sarà al tempo stesso un lume nuovo dell'arte e un atto di civile virtù…

Di Ginevra, 26 marzo 1839.

Carissimo conte Cassi.—Con grande allegrezza rividi i suoi caratteri, e intesi poi con grandissima consolazione essere Ella intenta a dare compimento a quel nobile lavoro della Farsaglia [1] Accenna al Volgarizzamento della Farsaglia di Lucano, di cui s'e parlato qui dietro a pag. 72.. Io la conforto a non rimuoversi da così lodevole proponimento, dal quale le deriverà bella gloria, e sarà cresciuta, la stima, in che già la tengono tutti gli studiosi de' nostri classici. I quali, la Dio mercè, non son pochi, ad onta di questo diluvio di pessimi prosatori, e poeti, che tentano di far delirare gli Italiani dell'ottocento, come delirarono quelli del seicento. Certo è un vero dolore il leggere le follie, che sono prodotte da que' poveri cervelli: e mette nell'animo sdegno, e dispetto il vedere come molti rinnegano le bellezze della nostra lingua, e delle nostre lettere, per deliziarsi nelle gonfie stranezze settentrionali. Ella veramente più che altri mostra a costoro come sono ingannati, poichè il suo scrivere è di tanta bontà, che al tutto è cieco chi non la vede.—E se tutta eleganza sono i suoi versi, elegantissima è la prosa da lei dettata, del che fa fede il nuovo manifesto di associazione. Per quanto io abbia pensato ora non mi ricordo quali fossero gli associati, che ebbi la fortuna di trovare; ma cercherò di tornarmeli alla memoria, e procurerò ancora di farne de' nuovi.—Io spesso penso a lei; e sa Ella quale è la cosa, che più spesso me la ritorna in mente? È la felicità che io provo vivendo col mio Michele, il quale è ottimo per ogni rispetto, ed ogni giorno più merita la mia stima e la mia gratitudine. Si che quante volte di tanto bene ringrazio Iddio, tante ne ringrazio par lei, che fu primo autore e consigliatore della nostra unione. Alla quale crescono dolcezza due carissimi figliuoletti. Il primo, che ha compiuti di poco i cinque anni, mostra tanta bontà e tanto ingegno che di sè mette meraviglia in ciascuno. L'altro, che ormai ha tre mesi, è bello e robusto, ed io lo allatto con infinito piacere.—Mi ricordi alla cara signora Elena ed ai nepotini. Michele le fa molti amorevoli saluti, ed io pregandola a farmi sempre lieta della sua benevolenza, me le offero a raccomando.—La sua aff.ma obb.a s. ed amica—Caterina F. Ferrucci.

[1] Antonio Ferrucci, figlio primogenito dell'autrice, nacque a Macerata il 4 genna io 1829. Mentre i Ferrucci dimoravano a Ginevra collocarono questo fanciulle in Collegio: di che la Caterina scriveva al dott. Sangata a Bologna: «Spendiamo molto per mantenere Antonio in Casa di Educazione; ma per un figlio non dee guardarsi all'economia». Bitornati in Italia, i Ferrucci, Antonio studiò matematiche nell'Università di Pisa, e divenne, a 20 anni, professore al Liceo Militare di Firenze. Ascritto poscia al corpo degl'Ingegneri fu per molti anni ispettore del Genio Civile, ove si occupò di strade forrate. Sposò, nel 1852, Silvia, Brighenti (figlia del prof. cav. Maurizio, idraulico di Rimini), la quale mori il 12 sett. 1900. Antonio sopravisse alla madre circa 20 anni e mori a Roma il 4 agosto 1906. Di lui parve sempre soddisfatta l'autrice, chè scrive, va, il 29 aprile 1848, a Prospero Viani: «Sono 19 anni, che sono madre, nè una volta sola il mio Antonio ha ingannate le mie speranze: anzi le ha tutte vinte, anzi ha superato il desiderio materno, che non è certo facile ad appagarsi».

[Ginevra], 27 aprile 1839.

Mio caro carissimo Antonio.—Voleva aspettare una tua lettera prima di scriverti, ma non posso resistere al desiderio di trattenermi con te almeno per lettera, poichè per ora non mi è permesso di farlo della persona. Tu sai, che io ti amo con tutta la tenerezza dell'anima mia, e però è inutile, che io ti dica, che molto sono trista vivendo senza di te. Ma poichè spero, che questa tua assenza sarà utile al tuo progresso, mi vi rassegno, non avendo io altro desiderio, che il vederti crescere buono, savio, e ingegnoso. Antonio mio, in te ho riposte tutte le mie più dolci speranze fino dal primo istante, in che sentii per te la consolazione dell'esser madre: pensa a questo ogni giorno, mio caro figlio, ed abbi per certo, che io morrei di dolore, ove tu invece di profittare delle qualità, che Iddio ti ba dato, e delle cure, che ci prendiamo per educarti, ti dasti all'ozio, ed alla pigrizia. Compensami del sacrifizio, che io faccio privandomi di te colla bontà, colla diligenza, e col meritarti l'amore de' tuoi maestri, e dei tuoi compagni. Serivimi a lungo, e dimmi tutto che ti riguarda. Non mi tacere cosa alcuna, poichè oltre all'essere la tua mammetta, siccome tu dici, sono e sarò sempre la tua migliore amica. Se qualche cosa ti dispiace non me la nascondere: in somma scrivimi come se mi parlasti, e fa che ancor da lontano io possa legger nel secreto dei tuoi pensieri. Dimmi in che modo sono distribuite le tue ore. Sii rispottoso, e gentile con tutti, e in quanto all'intrinsechezza che potrai contrarre con alcuno dei tuoi compagni ricordati di ciò, che ti dissi il giorno precedente alla nostra separazione: cioè, che tu devi stimare cattive tutte quelle cose, che ti sono proposte con mistero, e che quando fosti stimolato a fare o a dire cosa di nascosto de' tuoi maestri, e degli altri tuoi compagni, tu devi ricusarti di farlo. Niuno ha vergogna di fare in palese ciò che è bene, e solo per le cose cattive si cerca il secreto Ma bada di non estendere troppo oltre questo mio consiglio, ed abbi cura di non farti mai rapportatore dei fatti altrui. Non mentire giammai: meglio qualunque male, che una bugia: sii pulito, esatto, economo del tuo tempo, benevolo con tutti, e vedrai, che tutti saranno contenti di te, e che tu stesso troverai la ricompensa del tuo operare nell'allegrezza o nella pace dell'animo tuo. Osserva con esattezza i doveri della tua religione, va tutte le feste in chiesa, ed ogni giorno innalza il tuo cuore a Dio con qualche breve ma fervorosa preghiera. Dimmi se i tuoi maestri si mostrano soddisfatti di te. Mad. Sillig mi raccomandò di dirti, che devi avere piena confidenza in Lei, e che se tra giorno hai fame devi dirlo liberamente. Rosa sta bene, parla spesso di te, ed è piuttosto savia. Papà ti desidera molto… Se hai bisogno di qualche cosa scrivilo a mamma tua. Figlio mio caro, amami, sta sano, e pensa, che io sarò la donna più felice del mondo quando saprò, che tu sei lieto, e che ti fai onore. Addio, mio carissimo. Iddioti benedica, come ti benedice la mamma.

28 sett. 1830. Ginevra.

Mio caro Betti.—Grande e vero dolore mi ha cagionato la morte dell'ottimo nostro Biondi [1] Il marchese Luigi Biondi, poeta e prosatore, di cui si parla qui dietro a pag. 157.: la quale tanto più mi è stata grave quanto era meno aspettata. Uomo d'indole egregia, di cuor generoso e di alto ingegno abbiamo perduto, nè so che al pari di lui ci potrà essere caldo e devoto amico. Immagino la vostra afflizione e con voi la divido, e a voi mi unisco per benedire la sua memoria e pregar pace a quell'anima cara ed onorata. Oh come la vita diviene triste quando siamo costretti a vederne partire quelli che più ci siano cari! Pure convien rassegnarsi che questa è legge universale dell'umanità. Seppi a caso l'acerba perdita che fatta abbiamo e lascio a voi pensare con qual cuore la intesi. Michele anch'egli n'è afflittissimo e meco porterà eternamente nel cuore la rimembranza del nostro amico. S'egli vivesse avrei a lui presentato il sig. barone de Tearrille che vi recherà questa mia: perchè il nostro Biondi più non è a voi lo presento; a voi che nel mio cuore tenete quel luogo che riserbo agli amici cari e provati. Questo cavaliere del Belgio viaggia l'Italia per amore della Sapienza: fate che trovi in voi quell'accoglienza che i dotti debbonsi fra loro e che nella vostra cortesia ammiri una delle più belle qualità della nazione italiana. Per quello che farete per lui, ve ne porterò obbligo eterno. Presentatelo all'Odescalchi agli altri vostri amici: credete poi sempre alla sincera affezione della—vostra Caterina Franceschi Ferrucci.

Ginevra, 16 ottobre 1839.

Mio carissimo Antonio.—Non prima di stamattina ho ricevuto la tua cara e desiderata lettera dei 14, la quale siccome le altre, mi ha cagionato immenso piacere. Tu cominci a scrivere con maggiore scioltezza e facilità, e le tue lettere sono meglio dettate e più corrette delle prime. Continua a porre diligenza anche in queste, e sii certo che prenderai un abito utilissimo a te e gradevole agli altri. Niente più facilmente persuade, e diletta di una lettera bene scritta; spesso anzi avviene, che chi sa scrivere con candore, e con non affettata eleganza si guadagna in modo l'animo di chi lo legge, che ottiene quanto desidera, e sopratutto si concilia l'altrui benevolenza. Ma per avere un buono stile epistolare non si deve cercare di fare periodi sonanti, e frasi armoniose: bisogna versare nella lettera la nostra anima, dipingerne i pensieri e gli effetti, come si farebbe parlando senza studio, ma altresi senza negligenza, poichè le persone educate gentilmente debbono avere polito, e grazioso anche il parlare. E poi, vuoi sapere, Antonio mio, quale è la cosa che rende accetto il nostro scrivere, e che ne fa padroni dell'animo altrui? Essa è l'avere un cuore nobile, e generoso, ed una mente bene ordinata! Chi sente altamente non deve certo mendicare i concetti suoi, chè ne ha la sorgente ricca, e vive in se stesso: e chi ha preso l'uso di legare con cura le proprie idee non ha bisogno di studio, perchè il suo ragionamento sia seguito, ed efficace [1] In altra lettera, del 14 novembre 1850, alla figlia Rosa: «Tu hai ingegno, sai già molte cose: molte più ne imparerai: quindi è necessario, che impari a ben maneggiare la nostra lingua: chè chi serive male pensa pur male: e quando ciò non sia egli non ha virtù di rendere lucidi e persuasivi i pensieri suoi».. Vedi dunque, figliuel mio, che l'essere virtuosi ne rende eziandio capaci di dare vaghezza, e lucidità ai pensieri nostri: chè senza virtù indarno il cielo ne avrebbe concesso un alto sentire e un amore istintivo del bene: chi lascia inoperose per negligenza o per malo uso le belle qualità, di che lo ha Dio fornito, può rassomigliarsi a un terreno fertile, ma incolto, nel quale le male erbe soverchiano troppo le buone: e per tornare all'ordine delle nostre idee, anche questo procede in parte almeno dall'armonia morale, di che ti parlai in altra mia lettera: perchè quando l'uomo è turbato dalle passioni, e si lascia in preda ai desideri sfrenati non può ordinatamente riflettere, e saggiamente pensare. Trasportato qua e là, in guerra con se stesso, e con altri pensa senza ordine, come sente senza generosità e senza misura.

Io torno sempre a parlarti della necessità che abbiamo di perfezionarci in tutta la nostra vita, e tratto di questo sotto varii aspetti, e in tutte le circostanze, perchè voglio, che l'amore dell'onesto diventi sangue del tuo sangue, vita della tua vita, e principio d'ogni tua azione. Tutto può perdersi nel mondo: molte speranze vanno a mancare: molte ingiustizie travagliano i buoni: ma colui, che ha la pace della coscienza, e la certezza di avere adempiuto ai suoi doveri non è mai veramente infelice, e trova in se stesso potente e largo conforto. Ma per oggi porremo fine alle osservazioni morali, e ti parlerò delle cose della vita positiva.

Abbi pazienza con le stravaganze del tuo compagno. Bisogna essere indulgenti verso i difetti degli altri, onde gli altri lo siano con noi. E poi spesso avviene, che una organizzazione viziosa, o debole ne fa essere imbecilli, inquieti, o strani, sicchè alcuni difetti sono più della natura, che nostri. A quel che intesi quel ragazzo ha la testa non bene conformata, onde conviene compatirlo, e cercare di vincerlo colla dolcezza. Ama, Antonio mio, e sarai amato: questa è la massima, che ti ripeterò sempre, poichè un cuore affettuoso non è mai privo di consolazioni. Quando ti scrivo mi lascio in guisa trasportare dal piacere di conversare teco, che non cesserei mai. Ma la carta finisce, e conviene deporre la penna. Ama sempre Mamma tua, che ti stringe al suo cuore e ti benedice.

[Ginevra], 30 gennaio 1840.

Mio carissimo Antoniuccio.—Le tue buone nuove ci sono sempre di grande consolazione, ed io sono tutta lieta, quando ricevo una delle tae lettere, nelle quali altro non mi dispiace, che la brevità…

Ho piacere, che abbi incominciato la storia antica. Cerca di non contentarti solo di sapere i fatti, ma per quanto la tua età, e la mente tua tenerella il comportano procura di indagare le cagioni di essi. Vedrai che le più grandi nazioni sono divenute deboli quando si sono corrotte ne' costumi: così avviene degl'individui: finchè l'uomo si conserva buono, e moderato può liberamente, e con frutto usare delle sue facoltà, e sperarne gloria ed utilità: ma se si lascia vincere dalle ree passioni tutto gli va male e perde il frutto delle belle qualità, che Iddio gli avea dato: forse questo non si vede esteriormente: che in apparenza molti buoni sono infelici, e molti tristi avventurati: ma chi potesse guardare al fondo vedrebbe come la realtà è diversa da ciò che pare: poichè i primi hanno la pace della coscienza, bene inestimabile, vera sorgente di felicità, mentre gli altri sono rosi dal rimorso e dal sentimento di meritare la collera d'Iddio, e il disprezzo degli uomini….

Amami e ricevi mille benedizioni da mamma tua.—Addio. Addio.

[Ginevra], 4 marzo 1841.

Mio caro Antonio.—Il giorno stesso, in che deve esserti giunta l'ultima mia lettera, io ricevetti la tua, e così mi posi in calma. Ho ricevuto ancor l'altra scritta domenica, con il resumé, nel quale tutto mi piace, tranne quella osservazione, che tu sai. Voglio ben credere, che tu abbia copiata la tua lezione, senza intenzione d'ingannare: ma bada bene, figlio mio, che anche l'ombra dell'impostura, e della finzione macchia il carattere di un onesto uomo. La franchezza è la principale delle qualità: senza la verita non esiste virtù. Fa dunque attenzione ad essere sempre franco e leale: pensa che è meno male l'essere incolpato di finzione, e in avvenire preferisci in qualunque caso il sacrificare il tuo amore proprio al mancare la verità. Spero, che mi darai ascolto, e che conoscerai da te stesso la utilità dei miei consigli [1] In altra lettera, del 21 aprile successivo, gli scriveva: «Non posso mai ripeterti abbastanza la necessita della modestia, e della dolcezza; tanto più, che se prendi l'uso di essere vano, e di cattive maniere non potrai più tardi perdere tale abitudine, e vedrai a tuo danno, come questa ti renderà difficile ed amara la vita. Credi a me, che vedo le cose al lume della esperienza, e ti amo troppo per illudermi a tuo riguardo».… Tutti ti salutano. Papà che ti abbraccia, ti ripete i miei avvertimenti. Scrivimi regelarmente, e sii sempre buono. In questo tempo di Quaresima consacra qualche momento ogni giorno ad un pensiero religioso, e vivi più che mai nella presenza d'Iddio. Credi a me, figlio mio, la religione è necessaria non solo al nostro bene spirituale, ma sì ancora alla nostra felicità su questa terra, e però coltiva in te il sentimento religioso, che è sentimento di pace, di tolleranza e di amore…. Addio.

Ginevra, 9 luglio 1843.

Mio caro Betti.—Ricorro alla vostra antica e provata amicizia per un affare che mi sta sommamente a cuore. Mio marito è fra i concorrenti alla cattedra lasciata vacante in Pisa dal chiarissimo Rosellini (1) Fra i concorrenti erano uomini valorosi, tra cui un altro esule, Michele Amari (1803-1889), insigne storico siciliano, poi ministro d'Istruzione e senatore del regno d'Italia. Ma la scelta cadde sul consorte dellautrice nostra, del quale il vivente sen. Alossandro D'Ancona (prof. giubil. della stessa r. Università pisana) scrisse i seguenti cenni, che si leggono a pag. 45 del vol. in del Carteggio di M. Amari, (Torino, Roux, 1908). «Michele Ferrucci successore al Rosellini nell'insegnamento dell'Archeologia e della storia, poi di latino nell'Università di Pisa, nacque in Lugo ai 29 settembre 1801. Fu allievo prediletto del celebre latinista Schiassi. Attese all'insegnamento in piccoli istituti dello stato ponteficio, e nel 1836 su proposta del Boucheron e coll'intermedio del conte di Cavour, venne chiamato a insegnar lettere latine nell'Accademia di Ginevra. Ivì colla moglie Caterìna Franceschi, coltissima donna, e coi figli, dimorò finchè nel '43 venne chiamato a Pisa ove fu anche Bibliotecario dell'Università. Nel '48 prese parte alle guerre nazionali, come capitano del battaglione universitario, e scrisse un nobile indirizzo latino agli Ungheresi, che militavano nelle schiere avversarie. Qualche anno avanti avova composto, ispirato da quei sensi di giustizia, che ora gli facevan prendere le armi in difesa del diritto italiano, i versi latini da porsi al monumento che la Germania ergeva ad Arminio, e che cosi suonano:
Heic ubi Romuleo rubuerunt sauguine valles,
Duxque datus terna cum legione, neci;
Hostibus heic terror post saecula multa resurgo,
Vindex Germani nominis Arminius.
Mori compianto dagli amici o colleghi per la bontà
dell'animo e la dottrina di molte cose, ai 27 dicembre 1881. La bibliografia dei suoi seritti a stampa trovasi nell'Annuario Scolastico dell'Università di Pisa pel
1882-83».
. Siccome egli si è sempre occupato di storia antica e di archeologia cosi crede di non presumere troppo di sè domandando questa cattedra. Sappiamo da Firenze che persone autorevoli sono disposte in suo favore, ma siamo consigliati d'inviare commendatizie e testimonianze di uomini dotti. Quindi mi rivolgo a voi onde scriviate al Niccolini [1] L'illustre scrittore Gio. Batt. Niccolini (1782-1831), ricordato a pag. 127; il quale donò alla Ferrucci un esemplare delle sue tragedie con indirizzo autografo di molta lode. in modo ch'egli posa mostrare la vostra lettera al Cav. Giorgini presidente degli Studi. Voi non ignorate avere lo Schiassi designato mio marito per suo successore alla cattedra di Archeologia: nè certo quel santissimo Vecchio sarebbe stato indotto a ciò da cieca benevolenza se la sua coscienza non si fosse trovata d'accordo con le sue affezioni. Sempre abbiamo desiderato di tornare in Italia, ora poi lo bramiamo più ardentemente perchè questo clima è molto nocivo alla mia salute. Mi raccomando a voi caro Betti onde scriviate con quell'eloquenza che viene dalla persuasione e dal cuore. Non parlate con alcuno in Roma nè di quella mia domanda, nè del concorso di Michele, poichè non vorrei che ciò portasse danno ad una pratica già cominciata a Bologna. Ma l'impiego che mio marito vi potrebbe avere renderebbe si scarso frutto, che avremmo appena di che campare la vita. Io mi ricordo sempre di voi, con infinita dolcezza, e se a Dio piace che i nostri voti siano esauditi verrò certo a vedervi essendo la distanza da Pisa a Roma sì breve, che non potrei negare a me stessa il piacere di visitare la dominatrice del mondo e stringere a voi caramente la mano. I miei figli stan sani, ma vorrei ridurli in Italia, perchè vivendo in terra straniera non conosceranno mai l'amore del paese natale che e il più santo di tutti gli affetti. Michele vi saluta e vi si raccomanda ed io sono vostra di cuore— Caterina Ferrucci.

Pisa, 4 agosto 1846.

Mio caro Betti.—Ho la vostra amorevole del 30 alla quale tosto rispondo pieno il cuore di quella riconoscenza che indarno si vorrebbo significare a parole. Non potete eredere quanto mi consola di vedere per prova che la vera e costante amicizia non è un sogno e una vana speranza siccome molti dicono non possibile a trovarsi ai di nostri quando i cuori siano buoni, e le menti ne comprendano la santità. Sono più di 20 anni che non vi ho visto: al mio cuore sembra però di avervi lasciata jeri; tanto ho viva la memoria della bontà vostra, tanto è sincera la gratitudine che vi porto.

Noi e la Toscana intera con noi, benediciamo ogni giorno il santo nome di Pio IX: a me avviene di piangere quando sento marrare della sua clemenza, del suo amore per i suoi popoli, del suo pietoso e vivo zelo per la giustizia [1] Pio IX (Giov. Maria Mastai Ferretti), nato a Sinigallia il 13 maggio 1792 da nobile famiglia, fu eletto Papa il 16 luglio 1846 e visse fino al 7 febbrajo 1878. Di sì gran Pontefice si parla qui entro in diverse lettere: quindi ogni elogio sarebbe superfluo.. È una prova della protezione d'Iddio, questo pontefice, venuto a consolare tante miserie dopo tempi si calamitosi: io vi scorgo la mano visibile della provvidenza.

Ho tanto piena la mente ed il cuore di venerazione e di amore verso questo santo Pontefice che ho scritto due canzoni, ripigliando cosi l'arte, quasi dimenticata, di comporre versi. Una di queste era nel piego che vi mandai, l'altra fu scritta in un momento di commozione profondissima in me destata dalll'editto di amnistia. Voi riceverete queste 2 canzoni stampate [2] Si leggono pure nel cit. vol. Prose e Versi di C. F. F. (Firenze, Le Monnier, 1873), pag, 337-342. La prima di esse canzoni è su L'esaltazione di Pio IX al Ponteficato, 16 giugno 1846; l'altra su L'amnistia, 16 luglio 1846, concessa dal Pontefice medesimo.: ve ne aggiungo un'altra pel sommo Pontefice; vorrei (domando forse troppo?) che gliela presentaste voi stesso e che con poche parole lo faceste certo non esser questo un'omaggio fatto a un potente, ma la significazione di un'ossequio profondo; d'un'affettuosa venerazione per una virtù che è la più bella, la più splendida, la più consolante, la più caradi tutte le virtù che abbiano mai fatto maravigliare la terra. Vorrei pure che gli diceste non dovere la Santità sua guardare ai versi (povera e misera cosa!) ma al cuore di chi li ha dettati, il quale venera in lui l'ideale della perfezione cristiana, l'inviato d'Iddio, il padre vero di quanti soffrono, e credono, e sperano.

Io non pensava che in questa nostra età potessero esistere uomini capaci di destare in noi l'entusiasmo e la meraviglia. Ma Pio IX ne fa vedere che io m'ingannava. Ci vedremo, ci vedremo certo, mio caro Betti, che io voglio con i miei venire a Roma per vedere la venerata e santa faccia di questo uomo del Signore.

Addio. Ripeto quello che già vi scrissi. Non vi chiedo scuse perchè vi ho in conto di un vero amico. Addio.—Caterina Franceschi Ferrucci

P. S. Il libro di che vi feci parola, se piace a Dio sarà finito prima dell'uscire di quest'anno. È intitolato: Dell'educazione morale della donna Italiana. Tratta poi anche dell'educazione morale degli uomini allorchè discorro del modo con cui la madre deve educare i figliuoli al bene comune. Non so come avrò trattato un soggetto il quale è certo utilissimo. Vi ho posto tutto lo studio e l'affetto di che sono capace. Voi sarefe uno dei primi a vederlo. Addio.

[1] Questa lettera dedicatoria leggesi a pag. VII-XI del trattato Della educazione morale della Donna italiana, libri tre di Caterina Franceschi Ferrucci… Torino, Giuseppe Pomba e Com., 1847.

Di Pisa, 12 ottobre, 1846.

A' MIEI FIGLI.—Fino da quell'ora, in che per la prima volta vi strinsi l'uno e l'altro fra le mie braccia, io desiderai, e volli educare te, Antonio mio, alle forti, sincere ed operose virtù, alla dignità civile ed alla vera sapienza; e così pure ebbi in animo d'infondere nel tuo cuore, mia cara Rosa, i pensieri e gli affetti che più si convengono all'ufficio e alla nobiltà della donna italiana. Quindi presi a considerare i vizi e gli errori dell'educazione presente per evitarli; e trapassando a ricercare le cagioni, onde la bontà dei fanciulli è non dubbia promettitrice di larghi beni alle famiglie e di bella gloria alla patria, io fui condotta dalla natura delle mie osservazioni a pigliare in alto concetto la qualità dei doveri assegnati e imposti alle madri. E da ciò conchiudendo, che gli uomini saranno buoni e giusti, ed acconci a ricevere i benefizi della civiltà vera, quando da madri sinceramente buone e veramente civili siano educati, tenni per fermo avere in questi tempi le donne della nostra nazione meravigliosa opportunità da mostrare con qual fede ciascuna di esse ami il bene, e con qual efficacia aspiri a restaurare, per quanto è in lei, la gloria e la grandezza d'Italia.

Ma perchè spesso si vede, che il non sapere fa contrasto e pone ostacoli al buon volere, stimai essere opera utile e pietosa ad un tempo, esporre e dichiarare alle italiane donne i principii della scienza dello educare, tanto nobile e bella, e tanto indegnamente sconosciuta all'universale, e dai più ai nostri giorni con danno e con vergogna negletta. Quindi dopo alcuna riflessione deliberai di ordinare insieme le varie idee che intorno a quella da lunghi anni volgo nell'animo, e di esse formare un libro, al quale la bontà dell'iutenzione, e la eccellenza e la utilità del sogetto, facesse volentieri perdonare da chi legge la rozzezza dell'arte e il povero stile.

Due forti e potenti affetti m'inspirarono adunque nell'immaginare e nel condurre a fine questo lavoro; l'amor materno, e la carità della patria; il desiderio di crescere voi alla virtù, e la speranza di ajutare gl'Italiani a tornare nell'antico onore. E dove l'ultima avesse l'effetto che sino ad ora ebbe il primo, io non veggo quale più largo premio e quale più degna e splendida lode potessi aspettare alle mie fatiche e ai miei studi.

Nel pubblicare che ora faccio questo mio libro lo intitolo al vostro nome, o figliuoli miei, siccome cosa che in gran parte a voi si appartiene. Troverete in esso raccolti non pochi dei ragionamenti che avvemmo insieme; onde io vi prego di leggerlo con l'animo e con la fede, con che avete sempre ascoltato le mie parole. E quando non altro io sarò per voi che un pietoso affetto, una cara e melanconica rimembranza, non vi rincresca di averlo spesso alle mani, e di affisarvi amorosamente l'occhio e il pensiero. Chè vedendo in esso quasi viva e spirante l'immagine del mio cuore e della mia mente, sarete indotti con dolce inganno a pensare, non essere io del tutto separata da voi, nè la mia voce avere cessato di risuonare alle vostre orecchie; ma gridare allora postuma e rediviva, siccome grida al presente: non è uomo chi perde il senno e l'onore nella ignoranza e nell'ozio; non è italiano chi non intende a promuovere la gloria e la civiltà dell'Italia.

Ho certa fiducia che, la natura dell'animo vostro continuando ad essere nel futuro quale si fu nel passato, renderete nella giovinezza mature quelle speranze, che in questo primo e nuovo fiore dell'età vostra cosi liete e candide a me porgete. Dal che a tutti rimarrà aperto essere buoni, diritti e veri i principii che ho posto per fondamento all'educazione.

Altri scrittori s'abbiano pure il vanto di indagare coll'acuto ingegno, e di scoprire con l'audace intelletto arcane e insolite verità; altri ottenga la lode di rappresentare nuovi concetti e mirabili fantasie con lamepeggiante eloquenza, e col magistero di quell'arte animata ed animatrice che sempre eguaglia espesso supera la natura. A me basta, che dopo avere letto il mio libro e posto mente alla qualita de' vostri costumi e della vostra vita, figliuoli miei, alcuno dica in se stesso: costei fu degna del santo ufficio di madre, e dimostrarne alle altre donne la nobiltà e l'eccellenza, poichè seppe educare al vero ed al bene i figliuoli suoi, e pe' loro esempii acquistò fede alle sue dottrine.—Vostra madre.

[1] Marco Minghetti, insigne scrittore e uomo di Stato, nato in Bologna agli 8 novembre 1818, da Paolo Costa e dalla nostra autrice apprese il buon gusto delle classiche lettere: fondò, con altri amici, Il Felsinco, pel qual giornale scrisse pure la Ferrucci; e visse fino al' 10 novembre 1886. Per copiose notizie veggasi il Manuale della Letteratura ital. di A. D'Ancona e Orazio Bacci (Firenze, Barbèra. 1906), vol. V, p. 730 e segg.

Pisa, 24 gennajo 1847.

Mio caro Marchino.—Leggo sempre con gran piacere il Felsineo, onde bramo averle sempre regolarmente; per ciò vorrei mi poneste fra gli abbonati…Le vostre cronache sono dettate con vero senno, con molta dottrina delle cose e del mondo e con stile e pensieri italiani. Me ne rallegro di cuore ed auguro al vostro paese, che perseveriate. Il Giusti [1] La Caterina nostra ebbe relazioni e carteggio anche col poeta Giuseppe Giusti (1809—1850); nell' Epistolario del quale (vol. II. p. 568—69), ristampato recentemente in 3 voll. per cura di Ferdinando Martini, vi è una lettera diretta ai coniugi Ferrucci, in data del 6 sett. 1847, ove loda essi coniugi per animo e bravura. darebbe volentieri alcune sue poesie inedite (credo sieno sette), ove in Bologna si trovasse alcuno che prendesse l'incarico di pubblicarle: già capite come il mondo non ne dovrebbe saper nulla. La cosa intanto rimanga fra noi, e se vi pare eseguibile, scrivetemi l'avviso vostro, e quanto avrete operato ed io ne riferirò al nostro amico.

Anche un'altra confidenza, e questa più che mai fatta a voi solo. La censura di Torino pone inciampo alla pubblicazione del mio libro [2] Il libro qui accennato uscì con questo frontispizio: Della educazione morale della Donna italiana, libri tre di Caterina Franceschi Ferrucci, socia corrispondente della R. Accademia delle Scienze di Torino.—Torino, Giuseppe Pomba e comp. 1847. È un vol. di pagg. XX-410, in-16, dedicato ai figlio Antonio e Rosa Ferrucci con la procedente lettera.; si spera però che gli oppositori si lascieranno persuadere. Io tempo assai del contrario; intanto tacio perchè parmi essere il silenzio commandato dalla prudenza: almeno finchè la cosa non è chiara e certa. Ove quel mio lavoro possa vedere la luce, vi troverete alcune idee che si conformano a quelle del nostro buon A. Montanari (1) Antonio Montanari, direttore del giornale Il Felsineo. e alle vostre sul Patronato, anzi vi ho accennato alcune idee intorno alla educazione delle fanciulle povere, che forse in seguito potrei estendere e meglio spiegare, e chi sa che non fossi indotta per quasi necessaria conseguenza de' miei pensieri a comporne una specie di trattatello di morale ad uso delle classi popolari. Ma se il mio primo lavoro rimane inceppato, perdo l'animo e la volontà e torno a fare la calza.

(2) Edita cosi, senza la parte finale, ne I miei Ricordi di Marco Minghetti (Torino, Roux, 1888), vol. I, pag. 232—233.…Caterina Franceschi Ferrucci.

(1) Edita in Lettere di Gino Capponi e di altri a lui, raccolte e pubblicate da Alessandro Carraresi: Firenze, Successori Le Monnier, 1882. ecc.
Il marchese Gino Capponi, nato in Firenze il 14 settem. 1792, amico intimo del Foscolo, Niccolini, Giusti e di altri letterati, fu membro dell'Accademia della Crusca, presidente della consulta di Stato nel governe provvisorio del 1818, poi senatore del regno d'Italia. Scrisse la Storia della Repubblica di Firenze, ecc. ecc. e mori in Firenze ai 3 di gennajo 1876.

Pisa, 26 dicembre 1847.

Gentilissimo Signore.—Accetti siccome pegno di gratitudine, di ossequio, e di sincera affezione il libro (2) Dell'educozione morale della Donna italiana, libro descritto qui dietro a pag. 188—189., che le offero, e con esso accolga i miei voti pel nuovo anno, anzi per tutta la vita sua, tanto preziosa all'Italia, tanto cara a tutti i buoni. Povero è il libro, siccome povero è l'ingegne dil quale è uscito; ma se il desiderio acceso del beme può essere degna scusa alla meschinità della mente io spero, che ella perdonerà i difetti del mio lavoro avendo riguardo alla qualita della mia intenzione. E senza più con animo affettuosamente devoto me le raccomando

Sua devotma obbl.ma serva—Caterina Franceschi Ferrucci.

(1) La marchesa Isabella Fransoni, nata de' Principi Pio di Savoia, già signori di Carpi, fu moglie del marchese Domingo Fransoni, ricco e colto patrizio genovese, che dimorava a Firenze.

Pisa, 10 marzo 1848.

Carissima Amica.—Ho rispettato il suo giusto dolore, e perciò non le ho scritto prima: nè sapeva che dirle, se non ch'Ella aveva ragione di piangere, e di piangere amarmente. Queste non erano parole di conforto: ma il mio cuore non avrebbe saputo suggerirmene altre. Ho sovente pensato a lei, e sempre con quella pietà, che si conviene alla sua grande disavventura. Alla quale tutte le umane consolazioni sono scarse. Iddio solo può alleviare il suo dolore: ed ella avrà certo fatto ricorso a lui, siccome a quello da cui viene ogni conforto, ed ogni speranza. Pensi alla brevità della vita: alla incostanza de' casi umani: ai subiti rivolgimenti della fortuna, di che abbiame ora dinanzi agli occhi così terribili esempi. Bisogna distaccare, per quanto si può, il nostro cuore dal mondo, ove non è bene, che duri, nè che appaghi l'innato desiderio di essere felici, che è in tutti i cuori: bisogna essere persuasi, che questa nostra vita terrena, passa siccome il lampo, ed è piena di tanti affanni, e di tante tempeste, che non deve essere riguardata dai savii, che come un momento di prova, e di battaglia. Io le dico questo ammaestrata dalla esperienza: chè anche a me è toccata non lieve parte delle miserie di questa terra: e di tutte le persone, che amai per natura, e per elozione nel lieto tempo della mia giovinezza, non me ne rimangono, che una, o due, e queste lontane, e separate da me, se non di cuore certo di fortuna, e di luogo. Desidero avere le sue nuove, e quelle della sua povera Mamma, che mi fa tanta pietà. Coraggio, cara Isabella: la morte è spaventosa agl'increduli, non ai cristiani: saremo un giorno tutti riuniti, e per sempre: e la pazienza usata nel sopportare le pene a noi toccate in sorte, ne renderà più facile questa beata riunione, a cui dobbiamo aspirare, siccome a bene supremo. Noi abbiamo pregato in famiglia secondo ch'Ella volle: ma che sono le nostre preglriere? E poi Iddio ne' suoi giudizi fa quello, che più torna giovevole alle anime de' suoi eletti: e spesso è un dono, ciò che a noi pare un castigo. Baci per me i suoi cari bimbi, e saluti con affetto il sig. Domingo, nè lasoi di ricordarmi alla mamma sua. Vorrei sapere come stanno quelle care bambine. Ella cerchi di farsi onore anche pe' suoi figli: la sua salute è buona, ma non fortissima, e l'afflizione prolungata fa più male di una infermità vera. Rosa le manda un bacio. È stata in lette unfreddata, ma ora è guarita. Mi voglia bene, e preghi per noi. Sia certa, che le sono affezionata di cuore.

(1) L'ab. prof. Giuseppe Arcangeli, illustre letterate, nacque a S. Marcello nelle montagne di Pistoio l'anno 1807 e mori di colera il 18 sett. 1854. Studiò belle lettere nel seminario di Pistoja con Atto Vannucci, ove si fece sacerdote. Fu vice-segretario dell'Accademia della Crusca, poeta, commentatore e traduttore di Classici latini e greci, di molto valore: le sue migliori Prose e Poesie, vennero pubb. per cura degli amici Enrico Bindi e Cesare Guasti (Firenze, Babèra, Bianchi e Comp., 1857, in 2 volumi.

Prato, 3 aprile 1848.

Pregiatissima Sig. Caterina.—Scrivo a Lei di commissione del Basi per accertarle che nella seduta solenne dell'Accademia della Crusoa fu presentato il suo bellissimo libro con parole, scritte dal Basi (1) Il prof. can. Casimiro Basi, vissuto in Prato e in Firenze dal 1794 al 1853, accademico della Crusca, par lò del libro descritto a pag. 188, nella nota 2. medesimo, molto vive e molto sentite da tutti. Alle quali soggiunsi a viva voce quello che io sentivo di Lei da lunghi anni, accennando principalmente alle lezioni sulla Letteratura Italiana pronunziate a Ginevra, le quali io non dubitai punto di paragonare alle bellissime di Villemain sulla letteratura Francese.—Questo le scrivo, non per farmene bello, ma per narrarle un semplice fatto.

Mi dice il Basi che l' Accademia ne darà il suo giudizio, ma che non potrebbe proporre nulla al Governo per la gratificazione di cui mi parlava Michele. Se tale gratificazione ebbe la Rosellini (2) Massimina Rosellini, della quale si parla qui oltre a pag. 203., fu cosa tutta particolare del Principe e l'Accademia non vi ebbe parte veruna. Però non potrebbe prendere in questo l'inziativa. Ben potete far ciò presentando al Principe un libro di tanto merito e citare anche il voto dell'Accademia, il quale son certo che non riuscirebbe inutile affatto.

Ella dirà al prof. Michele che non comosco punto il Le Monnier e non mi posso valere del Salvagnoli (1) L'avv. Vincenzo Salvagnoli (1802—1861), toscano, imprigionato dai Granduca per aver preso parte ai moti politici del 1831 e '33, ministro del Culto con Bettino Ricasoli, poi senatore del regno d'Italia. amico di lui perchè egli è assente come Ella sa: ma credo che se ne potrebbe aver risposta non favorevole ora che tutti son volti alla politica dei fogli volanti.

Perdoni la lunghezza di questa lettera: saluti tanto Michele e la sua famiglia, e mi creda con antica stima e venerazione—Suo dev. servo ed amico—Giuseppe Arcangeli.

P. S. Nello scrivere questo Prato maledico alle catene che mi vi tengeno e invidio il Vannucci (2) Atto Vaunucci, filologo, storico, dantista, accadomico della Crusca, poi senatore del regno, nato a Cobbiana il 1810 e morto a Firenze nel 1883., che mi scrive cose portentose da Modena. Oh perchè non posso cessere anch'io in quelle file a tirare una schioppettata ai Tedeschi!!

(1) Brunelli Pietro, bolognese, sposò Giacinta Franceschi, sorella dell'autrice, che perdè prestissimo, dopo averne avuto tre figli. Fu direttore dell'azienda dei Tabacchi nel governo pontificio, al quale si mantenne devotissimo, per cui il nuovo governo lo destituì, dandogli una tenue pensione. Morì più che ottuagenario in Bologna. [Nota del dott. d. Filippo Ferrucci].

Pisa, 2 giugno 1848.

Caro Pietro.—Antonio e Michele sono, la Dio mercè, sani, e salvi, e si sono coperti di onore nella battaglia del 29, avendo combattuto a lungo in mezzo ad una grandine di palle, bombe, razzi ecc. (2) Nella battaglia del 29 maggio 1848, a Curtatone, nella provincia di Mantova. Veggasi in proposito la nota 1 nella pag. 199.. Michele ha salvato alcuni feriti. Antonio ne traeva seco uno ferito in un piede, quando questo infelice è caduto ferito nell'altro. Vi ripeto, si sono fatti un immenso onore, ma sono vivi per miracolo. Erano il 30 a Goito, per ripiegare sopra Brescia. Combatterono nella proporzione di uno contro dieci senza artiglieria, e abbandonati dai vilissimi dragoni Toscani. Io sono fuori di me…(1) Il conte Ludovico Sauli, ricordato qui dietro a pag. 121—24, scrive in proposito alla Ferrucci (21 giugno 1848): «Ho pianto lèggendo nelle Gazzette le prove di valore fatte dal vostro Michele e dal figliuolo Antonio. Quanta virtù nei combattenti! quanta poca nei ciarlatani! Fin'ora Domeneddio ha protetto questa santa causa; ma molti ci sono, i quali si affaticano a mardarla in rovina. Voi avete combattuto i più funesti fra gli avversari: vi ho letta con attenzione, vi ho lodata e benedetta e vi ho nel cuor mio proclamata come il più gran galantuomo che ci sia, perchè l'opera vostra è degna di qualsivoglia statista»..

Date le nuove de' miei alle seguenti persone: professore Silvestro Gherardi (pregatelo a darle al mio suocero, cui scrissi ieri. ma forse la lettera potrebbe tardare, avendola mandata a Luigi, a Firenze), iugegnere Giuseppe Berti e Gaetano Berti, Adele Zambeccari Roncaglia (ditele che non ho forza di scriverle, ma che ho pensato, e penso a lei), ingegnere Maurizio Brighenti, se è a Bologna, e scrivetegli, se è a Rimini. E poi a tutti i nostri amici. Non ne posso più dalla emicrania. Un bacio ai cari bimbi. Addio.

Fate pregare i vostri bimbi per Michele, per Antonio, e per Camillo. Datemi le nuove di questo, e fate sapere alla Valdem, che ieri Giuseppe le scrisse, e che questi è un portento di attività, di sangue freddo, e di amorevolezza. Ieri la mia casa era piena digente. Tutti venivano a sapere notizie. Giuseppe era pronto a soccorrere tutti: insomma m'incantò con la sua bontà, e presenza dispirito.

(1) Il Palagi, can. della Metropolitana di Firenze, ecclesiastico venerab. per gli aurei costumi, per il suo ardente zelo e per la sua evanglica carità, finila vita a 45 anni nel settembre 1870, mentre sembrava destinato a degnità più eminente. [Filippo Ferrucci].

Pisa, 5 giugno 1848.

Caro Guido.—Seppi dal cav. Giorgini che i vostri fratelli erano salvi, e me ne rallegrai, come di mia propria felicità. Anche i miei lo sono per somma misericordia d'Iddio: e si sono coperti di onore. Amendue hanno fatto vedere, che non sono degeneri discendenti del gran Ferruccio. Dirvi l'emozioni di questi giorni è impossibile. Ho sempre la mano tremante. Ma sono pur contenta! Che santa gioja è la mia! Ma piango amaramente le altrui sventure, ed anzi queste mi tolgono dirallegrarmi, come dovrei.—Non vi ho scritto prima perchè non ho potuto, e perchè il giorno stesso, in che ricevetti la tremenda novella (1) La battaglia di Curtatone (prov. e distretto di Mantova) avvenuta il 29 maggio 1848, fra 1867 toscani e napoletani, alla quale presero parte come volontari il marito e il figlio della Ferrucci e con tal valore, che ebbero entrambi la medaglia di bronzo, ed il prof. Michele anche quella d'oro, con la scritta «Fedelta e valore». Il battaglione era sotto il comando del conte Laugier; i nemici Austriaci 35,000 sotto il col. Benedek. Dopo cinque ore di resistenza i nostri furono vinti, lasciando oltre 200 morti (fra cui Leopoldo Pilla, napoletano, professore di geologia, e molti studenti, Universitari) e oltre 1000 prigionieri, fra cui il prof. Giuseppe Montanelli e il dott. Giuseppe Barellai., pregai il cav. Giorgini a darmi le nuove vostre, e a darvi le mie.—Gradite l'opuscoletto che v'invio, pubblicato a Milano la metà dello scorso mese (2) «L'opuscolotto» ha questo titolo: Della Repubblica in Italia: considerazioni di Caterina Franceschi Ferrucci; Milano, presso gli editori Pietro e Gius. Vallardi, 1848, in-8, di pag. 20; e verrà inserito nel futuro vol. Prose e Rime, inedite o rare. Di esso opuscolo parla pure la Caterina al marito ed al figlio, in una lettera del 27 giugno 1848, cosi: «Vorrei cercare di serivere un'altro opuscolo politico. Quello che pubblicai a Milano ha fatto un grande incontro per tutto; meno a Pisa, dove le mie povere cose non sono mai degnate nè d'una parola, nè d'un guardo. È vero però che il Rosini me ne disse molto bene; solo avrebbe voluto che ci avessi aggiunto un aneddoto intorno a monsieur Necker e le sue famose teorie sulla costituzione inglese. Eppure sento la mancanza del buon Rosini. È un ottimo galantuomo, e se ha i suoi errori, ha però un cuore eccellente».. Baciate per me cente volte la cara Mamma, di cui comprendo il sacrifizio, e il dolore. Se scrivete alle vostre zie date loro le felici nuove dei miei.—Rosa pure è sempre melto agitata. Addio.

Ho buone novelle di mio fratello da Padova [1] Il dott. Camillo Franceschi, ultimo de' fratelli dell'autrice, valente medico, che si trovava nel Veneto colle milizie pontoficie, e che mori nel 1863 a Fano, in età di 15 anni.. Si è battute a Treviso, quantunque medico.

(Pisa), 14 giugno 1848.

Carissimi.—Sono turbata per la nuova, che mi dà Lucia Vecchietti in una sua lettera del 12 della Capitolazione di Vicenza. Rosa ne ha pianto di dolore; ed io ne ho l'animo fortemente commosso. Poveri Vicentini! Quanto hanno patito! Ed ora debbono accogliere di nuovo nelle loro mura lo straniero! E tanti valorosi crociati, che sono morti per difesa della città! E tanto sangue sparso!… Oh! Dio è giusto, ma i suoi giudizi sono arcani per noi. Benedetto sia sempre quando c'innalza e quando ci umilia: ma il cuore si risente, e l'amore di patria è poco docile alla rassegnazione. Godo che stiate bene: duolmi però che il battaglione si sciolga quando la sua esistenza era tanto onorata. Tutti, almeno i non vili, biasimano il ritorno dei giovani: fino i popolani e le donniciuole nel loro grosso buon senso li chiamano imbecilli, ed aggiungono: poverini non sapevano quello che fosse una battaglia, ora che lo sanno temono di trocarcisi un'altra volta. Se voi tornate, ve ne prego, siate gli ultimi di tutti. Prendiamo con pazienza questa dura separazione: ma l'onore, e il dovere sono sempre da preferirsi a tutto. Ormai io non temo di vacillare nella ubbidienza, che ogni buono deve ad essi prestare. Poichè resisto virilmente a questa durissima prova: ve lo ripeto: se non seguissi che l'affetto vi richiamerei subito a me vicini: ma non è indarno che sino dalla mia fanciullezza mi sono nudrita di alti sensi, e di generosi pensieri: non è indarno, che ho fatto professione da lungo tempo di amare l' Italia con fede, e di sacrificare tutto al dovere.

Non crediate, che poco io vi ami perchè ora non v'invito al ritorno. Con questo so di esporre la mia propria vita, la quale non darerebbe più della vostra. Ma questo è tempo di sacrifizi, è ne' sacrifizi trovo una mesta è santissima voluttà. Ma neppure con ciò vi dico di rimanere ad ogni patto: anzi non vorrei che vi esponeste, senza stretta necessità, ad altri pericoli: ma vi dico solo «tornate più tardi degli altri universitarii», e se intanto potete trovare modo di giovare alla patria più col senno, che con la mano, rimanendo qui impiegati in qualche stato maggiore, fatelo e non guardate alle nostre angoscie, le quali certo non sono leggere… leri vidi in casa della Piria, ove andai a consolare la buona Tommasina, un giovane pisano, un certo Fanfara, reduce dal campo, al quale in meno di venti giorni sono mancati due fratelli, l'uno in battaglia, l'altro di malattia. Mi parlò con onore di voi due: mi pare un ottimo giovane, che m'inspirò molta stima, e somma pietà. Seppi da lui buone nuove del Pierotti, e subito corsi a darle alla madre, la quale mi accolse per questa lieta novella con una festa indicibile. Vedo proprioche se non mi fossi maritata la mia vocazione sarebbe stata di essere sorella della Carità, poichè provo tanta consolazione nel confortare gli afflitti, e nell'essere in quel pocoche posso di sellievo agli altri, che tutte lemie pene mi diventano leggere. Qui tutti sono in moto per le elezioni. Se potete fate stanpare la mia risposta alle donne lombarde. Qui. ha fatto molto incontro! Fu pubblicata ieri. nell Italia con 64 firme (1) Il fatto medesimo è chiarito meglio in altra lottera, 12 giug. stesso, così: «Vi mandai la copia della risposta, che feci per commissione della Palagi alle donne lombarde. Giunse troppo tardi a Firenze: l'aveva già fatta la Rosellini. Oh che stile! Che lingua! E come è fredda! La mia si stamperà (almeno lo credo) in nome delle donne pisane…Ho firmato anche io quella della Rosellini per mostrare, che non mi sono offosa della preferenza. Ma che roba!»—Massimina Rosellini, figlia della celebre improvvisatrice Fortunata Sulgher Fantastici, nacque in Firenze nel 1788: fu guidata alla letteratura dal prof. ab. Pietro Bagnoli, ed acquistò bel nome come scrittrice e poetessa; ma dal Bagnoli non poteva, certo, apprendere molto buon gusto in fatto di lingua e di stile. Essa morì nel gennajo 1859. Ho avuto commissione da Guido in nome delle signore fiorentine di fare una specie di dedica di un magnifico album, che doneranno al Gioberti. Ho gettato stamane qualche cosa in carta, ma non ne sono contenta (1) In altra lettera, del 15 stesso mese, al marito ed al figlio, mentr'erano al campo, accenna pure a tale scritto: «Stamattina ho finito quella specie d'indirizzo al Gioberti: vedremo se sarà accettato. Non so davvero come io faccia a scrivere in mezzo a tante agitazioni». Tale scritto spedì poi, il dì 19 successivo, al canonico Guido Palagi, a Firenze.. So da varie parti, che il mio libro sulla educazione è letto, e giudicato utilissimo. Questo e il maggiore compenso, che io possa desiderare alle mie fatiche. Vorrei fare un po' di bene nel breve tempo, che mi rimane a vivere: non vi spaventate di questa parola breve; la vita è tale per sè, ed io ne he trascorsa di già gran parte. Sopra tutto vorrei aiutare con le mie deboli foreze il risorgimento d'Italia, il quale durerà poco, o sarà imperfetto se non è fondato su i buoni costumi, e su i forti studi. Aveva già letta la lettera del ministro agli universitari. Oh che ragazzi! Non hanno saputo perseverare. Infine le perdite del battaglione sono piccole, piccolissime rispetto alla gloria da esso acquistata. V'ha chi scrisse da Brescia, che al pessimo caso, rimarrà sempre una compagnia rappresentante del corpo universitario. È egli vero? E se lo fosse dovrei desiderare che foste in essa? A dirvi il vero non ho fede nell'organizzazione delle truppe toscane, e però più volentieri vi vedrei seguire il progetto di cercare un impiego nello stato maggiore piemontese, Michele per qualche tempo, Antonio per qualche mese di più. Ma se tornate non vi chiaderemo certo le braccia. Che ne dite? Oh il ritorno sarà pure lieto! temo solo, che le forze mi manchino per l'eccessiva allegrezza. Io credo, che se queste mamme, e mogli toscane leggessero le mie lettere mi chiamerebbero snaturata: ma io non era fatta per vivere in questi tempi di affetti egoisti, e di fiacchi pensieri. M.r Ouy mi diceva ieri che dovete ritornare decorati. Io credo che tu Michele ti sii di già meritata una croce, ed Antonio una medaglia, ovvero una promozione (1) Veggasi in proposito qui dietro a pag. 199, nella nota prima.. Gli onori dispensati dai principi non hanno per me pregio alcuno: ma grandissimo ne hanno quelli guadagnati con la intrepidezza, e con la virtù. Insomma, ve lo ripeto: per voi sono antbiziosa. La carta finisce. Vi abbraccio, vi bacio, e vi benedico.

Pisa, 28 giugno 1848.

Caro Guido.—La vostra carità è instancabile: lo so, e quindi ne profitto senza timore di darvi noia. Vengono a Firenze i Pilla, fratello, e sorella. Il loro nome ricorda grandi glorie, e grandi sventure (1) Allude a Leopoldo Pilla, nato il 20 ottobre 1805 a a Ventro, nella prov. di Napoli (professore di geologia e mineralogia nell'università di Pisa, autore di alcuni libri su tali scienze), che nel 1848 combattè alla testa degli studenti e fu ucciso da una palla di cannono il 29 maggio nella battaglia di Curtatone, descritta qui dietro a pag. 199. Del Pilla recitò l'elogio latino il prof. Michele Ferrucci nella riapertura dell'Università l'anno 1848; e fu più volte stampato.. Pregate la Mamma (2) La contessa Adele Spada de' Medici, vedova Palagi, dama di compagnia della Granduchessa di Toscana. a presentare la giovine Pilla a s. altezza la Granduchessa, e voi siate cortese di consiglio, e di raccomandazioni a Virginio Pilla, il quale vorrebbe essere impiegato in Toscana, non potendo con sicurezza tornare a Napoli dopo che ha combattuto per la santa causa in Lombardia. Vi raccomando am bedue questi giovani, tanto buoni, quanto infelici. Fate per essi ciò che fareste per me.

Quanto mi è piaciuto il discorso della corona! Viva il buon Leopoldo, ottimo dei Principi! (1) A Leopoldo II granduca di Toscana scrisse una Canzone nel 1848, che potrà aver luogo nell'ideato vol. di Prose e Pime inedite o rare. Fate che si gridi di nuovo Viva Pio IX, tutti dimenticano il buon Pontefice e credo ch'egli ne soffra. Un'anima come la sua ha bisogno di amore, e se la lasciano in preda ai suoi dubbi le porte dell'inferno prevaleranno contro di noi. Parlatemi del Gioberti (2) In altra lettera al figlio Antonio Ferrucci (29 giugno 1848). scrive: «Oggi ai Georgofili si recita alla presenza del Gioberti il proprio suo panegirico. Dimani anderà alla Crusca».. I miei soldati stanno sani. Furono a Valleggio: videro il Re (3) Carlo Alberto re di Sardegna (1798—1749)., che allora montava a cavallo per Lazise. Michele però ebbe l'onore di parlargli, e lo trovò gentilissimo. Antonio è meravigliato de' soldati piemontesi, e dice, che con tali truppe l'Italia vincerà certo.

Tante cose alla Mamma, e alla zia. Addio caro Guido.

Pisa, 10 luglio 1848.

Carissimi.—Ho la vostra dell'otto, e con nostra grande consolazione vediamo da essa che state sani…

E qui il Gioberti.—Il buon Centofanti, che vi saluta con tenerezza, è venuto a chiedermi se voleva con altre signore trovarmi in sapienza, ove i Professori presenteranno al Gioberti il diploma di professore onorario [1] In altra lettera del 12 stesso mese: «Avrete veduto nell'Italia di jeri in qual modo cortese il Gioberti ha parlato di voi nel suo discorso ai Professori di Pisa».. Ho risposto di no. Mi ha detto, che probabilmente il Gioberti verrebbe a vedermi, e mi ha chiesto; se mi dispiacesse, che alcune signore si trovassero da me per conoscerlo. Anche a questo ho risposto di no: e il Centofanti ha trovato ottime le mie ragioni. Una donna dee conservare sempre la sua dignità mi pare che l'avrei offesa, ove fossi andata a fare complimenti ad un uomo, per quanto grande egli sia: e se avessi permesso ad alcune signore di aspettare il Gioberti in casa mia, mi sarei esposta al ridicolo, ove questi non venisse; e venendo avrei mostrato che esigeva la sua visita, poichè mi era preparata a riceverlo. Comportandosi con modestia, e semplicità non si perde mai nulla. Di salute sto bene: molto meglio che nella settimana scorsa… Addio, cari miei. Vi abbraccio, e vi bacio con tutto il cuore.—C. F.

(Pisa), 11 luglio (1848).

Miei carissimi.—Indovinate dove andremo Sabato? In Antignano alla solita villetta Colombo.. Ieri venne a vedermi il Gioberti: venne solo, in un legnetto, e si trattenne un'ora: vennero a riprenderlo lo Sbragia, il Gonfaloniere, e il suo amico, compagno di viaggio, di cui uon mi ricordo il nome. È un prete piemontese. Il Gieberti mi piacque assai: è uomo semplice, modesto, e mi pare d'un seuno raro, e d'una vera religione. Mi parlò del mio libro con troppa bontà, e in quanto allo stile, se dovessi credergli, dovrei pensare di me ciò che non ho mai pensato [1] Il trattato Della educazione morale della Donna italiana, descritto nella nota 2, della pag. 188, del quale Vincenzo Gioberti (Apologia del libro intitolato il Gesuita moderno; Brusscles e Livorno, 1848, pag. 277) diede questo giudizio: «Mi pare l'opera dottrinale più perfetta che da penna femminile sia stata scritta in questi ultimi tempi».. Mi disse di salutarvi; gli dolse di non vedervi, ma ne lodò assai la cagione… Rosa e Giuseppe [2] Giuseppe Valdem compagno di studio a Rosa Ferrucci, figlia dell'autrice. furono contentissimi di conoscere l'uomo del secolo. Non so come i Seminaristi seppero che il Gioberti era in nostra casa: si fermarono innanzi alla porta quando il Gioberti uscì, gli si strinsero intorno a baciargli la mano, e la quiete della nostra strada fu rotta da molte evviva… So che in paese si parla molto della visita che mi ha fatta il Gioberti. Sono desiderosa di sapere come è andata la rivista del vostro piccolo esercito fatta dal Re. A dirvi il vero niuno di noi crede che torniate presto: nè con ciò intendiano di biasimarvi: anzi per un rispetto vi lodiamo. Quante cose avremo a dirci quando ci rivedremo! Spero, caro Michele, che avrai presentato Antonio a Sua Maestà. Io sono ambiziosa, te lo ripeto, pel nostro figlio: non già che io creda essere le ricchezze e gli onori necessarii alla felicità, ma perchè vorrei ch'egli avesse tale grado nella società da potere nobilmente usare in utile al trui le sue virtù, ed il suo ingegno…Il Gioberti mi disse che mio fratelle pel primo gli annunziò che Montanelli era vivo, del che egli fu veramente consolato. In confidenza si lagnò meco (e ciò non dite con alcuno) delle indegne calunnie, che i Toscani hanne sparso contro di lui. Oh questi Toscani sono pure leggieri! Caro Antonio mio, se puoi, volgiti al Piemonte: ivi è senno, ivi sono virtù civili, ivi in fine è l'avvenire d'Italia (1) In altra lettera scriveva:«Se Antonio crede di non potere tornare vada sotto il Piemonte e la mia benedizione l'accompagnerà, ma con la Toscana, no. Si deve dare volentieri la vita alla Patria, ma perderla per l'altrui negligenza, è ignoranza e pazzia, è delitto Vi abbraccio e vi benedico»..

Stamane alle sei tutta la guardia civica era in moto, ed ha accompagnato il Gioberti alla stazione di Lucca. Non conto di rivedervi che fra parecchie settimane. M'inganno? Se potremo passare tutti riuniti un pajo di mesi in campagna certo ne sarò lietissima… Cari miei, vi abbraccio, e vi bacio con tutto il cuore. Arrivederci quando potrete tornare… Viva l'Italia, e Dio vi benedica.

(1) Prospero Viani, appellato «lume delle lettere italiane», nacque in Reggio d'Emilia il 19 aprile 1812. Fin da giovane rivolse suo studio singolarmente alla lingua d'Italia, seguendo in ciò il celebre Pietro Giordani, che nella vicina città di Parma visitava spesso. Dimorò a Torino dal 1840 al 1843, e nel 1848 fu de' più fervidi propugnatori per l'unione della città di Reggio al Regno Sardo, come emerge da un suo discorso, che pronunciò il 21 maggio. Nel 1849 emigrò a Spezia e a Firenze, per non soffrire la prepotenze del Duca di Modena, che nel 1850 lo richiamò qui nella città natale. Nel 1851 si recò a Genova, chiamatovi dalla scrittrice nostra, la Ferrucci, como insegnante di lettere italiane nell'Istituto delle Peschiere, dove rimase fino al 1854. Dai primi del 1835 al 1860 dimorò nuovamente in patria, lavorando più che mai al suo famoso Dizionario dei pretesi Francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua italiana, che uscì in due volumi (Firenze, Felice Le Monnier, 1858). In seguito ai rivolgimenti politici del 1859 fu, deputato, con il Chiesi e il Bolognesi, a presentare al re Vittorio Emanuele la conferma del patto per la dedizione di Reggio al Piemonte; e più tardi fu segretario dell'Assemblea modonese, decretante la decadenza degli Estensi. Poco dopo venne nominato preside del civico r. Liceo Spallanzani; e il Municipio, confermando la elezione fatta fin dal 1848, lo pose alla Direzione della Biblioteca Comunale; il qual ufficio tenne fino al 1867 in che fu trasferito alla presidenza del r. Liceo in Bologna. Nel 1881 passò a Roma nel r. Liceo Umberto I; nel 1884 si recò a Firenze come Direttore della Biblioteca Riccardiana; ma nel 1838 fu colto da quella malattia che lo costrinse a ritornare in patria fra le braccia dei congiunti ed a lasciare questa vallo di esilio; il che avvenne il dì 11 settembre 1892, qui in Reggio d'Emilia nel palazzo della Banca Popolare, posto sul Corso Garibaldi, ove abitava il figlio di lui sig. rag. cav. Gaetano, tuttora vivente. Il carteggio, i manuscritti e vari libri con postille dell'illustre letterato si conservano ora in questo R. Archivio di Stato; ed è desiderabile che sì compia il tempo determinato, dopo il quale gli studiosi possono usufruire, senza riserve, di un tanto tesoro storico-letterario-politico, com'è pure nel cortese desiderio del signor dott. cav. Umberto Dallari, direttore dell'Archivio medesimo, che mi concesse trarre copia delle Lettere della Ferrucci, dirette al Viani, qui entro stampate. Cfr., per maggiori notizie, sul Viani, il chiariss. prof. Giuseppe Ferrari in Italia centrate, n. 254 del 18 sett. 1892, e il prof. Fausto Lasinio in Atti dell' Accademia della Crusca, Firenze, Cellini, 1893, della quale il Viani fu il III socio reggiano, dopo il Lamberti e il Paradisi: il che conferma solennemente il suo valore letterario come lo attesta l'essere egli stato vice-presidente della R. Commissione pe' Testi di lingua, residente in Bologna; e più assai lo mostrerebbe ai posteri una raccolta, completa ed ordinata delle sue opere.

(Pisa), 12 luglio 1848.

Mio caro, e gentile Amico.—La sua lettera mi ha veramente afflitta, e compatis co con tutto l'animo alla sua grande sventura, come pure sinceramente porto vivissima compassione al suo figliuolo.—Quello è il caso, in cui posso dire con verità «non ignara mali miserie succurrere disco». Anche io nella mia fanciullezza ebbi la disgrazia di perdere il vedere dall'occhio destro per una ferita che mi fece un ragazzo, il quale giuocave meco in un giardino. E quella ferita mirese cieca per più di sei anni, onde tardissimo potei imparare a leggere, e passai nella solitudine, e nella mestizia gli anni più lieti della vita, che a parer mio sono quelli della fanciullezza [1] Del fatto medesimo si parla pure qui dietro nelle pagine 89 e 125.. Riacquistata a poco a poco la facoltà visiva nell'occhio sinistro, che si era chiuso a cagione della infiammazione, cominciai a vivere, e a godere i piaceri della mia età, e presi in amore sopra tutte le altre cose le bellezze della terra e del Cielo, e il lieto aspetto della campagna, che aveva potuto vedere sì tardi.—Ora ho la vista sempre alquanto debole, ma buona abbastanza. Leggo, lavoro, purchè nella stanza sia poca luce, in somma con un'occhio solo faccio quello che gli altri fanno con due. Questo le dico perchè ne pigli conforto. Forse il suo povero figliuolo dovrà patire per molto tempo: ma forse gli avverrà ciò che a me avvenne, e tornato sano in tutto, o almeno in parte, potrà senza impedimento darsi agli studi [1] Il fanciullo Gaetano (ch'era il figliuolo del prof. Viani), guarì perfettamente dalla ferita nell'occhio; e narra, a proposito, di avere tuttavia felice il vodere.. Le ripeto, che tanto per lei quanto pel fanciullo, e per la Signora sua sento la più sincera pietà: e vorrei esserle vicina per assistere il povero infermo, e dare loro qualche conforto.

Mio marito, cui scrissi della sua sventura, vi è dolentissimo… Le cose nostre non vanno bene. Io sono del suo avviso: temo meno i barbari degl'interni nemici. I quali sono fieri, e coperti dall'ipocrisia tutto ardiscono, e nulla rispettono, e nulla temono. Poi i popoli non mostrano quell'animo che dovrebbero. Si mossero per entusiasmo, e col mancare di questo mancano alle loro promesse. L'entusiasmo è buono, ma se non è accompagnato dalla ragione, se non parte da profondo convincimento non fa frutto, e presto muore e svanisce. Fu qui il Gioberti: mi onorò di una sua visita: ammirai in esso la bontà dell'animo, e la modestia, come ne' suoi libri aveva ammirato lo straordinario ingegno, e la più che rara sapienza [1] In altre lettere parla pure del Gioberti. In unadel 14 luglio 1848 al conte Camillo Sizzo, a Siena: «Ebbi immenso piacere nel vedere il Gioberti, così buono, e modosto, e cortese quanto è famoso e sapiente. Mi pareva parlando seco di averlo sempre conosciuto. Venne solo, e rimase forse un'ora. Gli sono gratissima del modo con che ha parlato di mio marito: nelle parole, di che m'ha onorato è più cortesia, che verità di giudizio».. Dica per me tante cose alla Signora sua, e le faccia cuore, e la induca a liete speranze. Vedendo i miei stringa loro affettuosamente la mano per me. Mi tenga nella sua benevolenza, mi dica le nuove del caro figliuolo, e con affetto mi creda—la sua—Caterina Ferrucci.

Antignano, 17 luglio 1848.

Miei carissimi.—Siamo alle solite dei giorni scorsi: eggi non ho avuto vostre lettere, sebbene sia certa che mi avete scritto, e che la lettera debba essere alla posta di Livorno… Si dice che parecchie migliaia di tedeschi siano giunte a Ferrara. E intanto gl'italiani se ne stanno a easa! Vergogna eterna! Non vi è che il Piemonte che conosca la gravità delle circostanze, e ad essa conformi le opere sue. So che a Torino non vi sono più che donne, vecchi e fanciulli: i validi sono tutti al campo. E qui intanto i partiti riternano, i rimasi lacerano la fama dei pochi perseveranti, e dei difensori veri d'Italia, quali sono i piemontesi; e molti, anche non pochi deputati, levano a cielo i sacrifizi fatti dalla Toscana perchè dicono, che essa in questa guerra non ei guadagna nulla. E l'indipendenza? E l'onore nazionale? E la difesa del vero, della giustizia, della dignità umana conculcata dai barbari, sono dunque un nulla agli occhi di costoro? E poi parliamo di filosofia, di civiltà, e di progresso! Generazione fiacca e imputridita è la nostra: il battesimo del sangue si dà mal volentieri alla patria da chi è corrotto; e mentre tutti tengono in serbo la loro inutile e oziosa vita, quasi cosa preziosissima, dànno alla patria le loro ciance. Vi giuro, che se fossi in altra fortuna vorrei rinchiudermi in una villa posta sopra un monte lontano affatto dal consorzio degli uomini, e là passerei i miei brevi giorni con voi, anime generose, ed elette, e con qualche buon libro… Che Iddio vi venedica.

(1) Edita ne' Miei Ricordi di Marco Minghetti (Torino, Roux, 1889) vol. II, pag. 408 e seg.

Pisa, 25 novembre 1848.

Mio carissimo Amico.—Lessi ieri a sera nella Patria che avevate lasciato Roma, e rinunziato alla deputazione. Ve ne lodai, e ve ne benedissi in cuor mio. Oggi leggo nell'Alba turpi e svergognate parole, con che si cerca contaminare la vostra fama, e quella dei vostri due generosi compagni Ranzi e Bevilacqua. Abbiatele come un attestato di virtù e di sapienza, come un segno d'onore.

Siamo venuti a tale, che i buoni e i dotti non altro possono aspettare da questa plebe ignorante, che si chiama popolo; e dai suoi ipocriti aggiratori, i quali si dicono liberali, non altro che vituperii e scherni e calunnie. Noi tutti sempre più vi stimiamo, e vi amiamo, e se vi fossi vicina, con animo di madre imprimerei un bacio di riverenza su quella onorata fronte, che non si piegherà innanzi alle calunnie, come non si è piegata innanzi al nemico.

L'assassinio di Rossi (1) Pellegrino Rossi, insigne economista e diplomatico, n. a Carrara il 13 luglio 1787, ministro di Pio ix, ucciso da un sicario, con pugnale, il 15 nov. 1848, del quale la Ferrucci il 5 dicembre successivo scriveva pure al Minghetti: «Non posso levarmi dinanzi agli occhi il povero Rossi [lo chiama uomo pratico e santo]. Che perdita! Che infamia per tutta Italia! E il Ministro romano non ha avuto neppure una parola di biasimo, neppure un grido d'indignazione! A che giova il darsi nome e qualità di filosofo quando manca all'animo il coraggio del vero, e lo zelo della giustizia? Caro amico, sono prostrata, affitta, disgustata degli uomini, e quasi direi della vita, se non avessi una eccellente famiglia, pochi ma veri amici, e i miei dolci studi…». è un marchio d'infamia alla nostra età, e la gioia da cannibali mostrata dal popolo di Roma e di Livorno su quel cadavere ancor palpitante, mostra quanto sia decaduto il senno italiano, e come anche l'affetto in noi sia corrotto.

Qui è stata violata la libertà di coscienza nella libertà del voto. Meno di cinquanta mascalzoni, che pure si vantano rappresentare il popolo sovrano, rovesciarono prima le urne elettorali, poi le gittarono in Arno, bruciando le schede, e i registri, e appuntando uno stile al petto d'uno scrutinatore. Evviva la libertà! Mi farei mozzare il capo piuttosto che sopportare in silenzio tali ribalderie.

Caro amico, l'oltraggio fatto a Pio IX, l'ingratitudine del popolo, e il cinismo dei giornali mi riempiono d'orrore, o piuttosto mi fanno schifo. Scrivete e protestate altamente contro la tiranide, che ci si vuole imporre a nome della libertà. E poi si dice che i Gesuiti sono partiti! Oh che Proteo e lo spirito umano! Piglia tutte le forme, tutti i colori, ma, a chi vi guarda bene a dentro, apparisce sempre lo stesso in coloro che non amano nè la giustizia, nè la sapienza, benchè n'abbiano sempre i nomi alla bocca.

Vi scrissi non appena seppi le cose di Roma, perchè mi tardava di avere vostre nuove, e quelle di Montanari e di Mattei; vi salutiamo tutti carissimamente. So che avete pabblicato nell'Unitò un bell'articolo sull'assassinio di Rossi. Mandatemelo. Laltro sulla Costituente è in tutto degno di voi. Caro Marchino, ringraziamo Iddio di averci fatto conoscere il vero ed amare il bene. Quanto sono più di noi infelici tutti questi sofisti ad onta de' loro portafogli e dei loro onori! Più crescono gli ostacoli, più si addensano le tempeste, e più in me si accende e si evviva l'amore della libertà, della giustizia e del vero. Sento in me la fede de' martiri, e credo ne avrei il coraggio. Questo è il mio conforto. Rosa, Michele, Antonio, Giuseppe vi stringono con affetto la mano, e vi mandano lodi e benedizioni in cambio delle infamie del Contemporaneo e dell'Alba, di cui Rosa non vuole neppure sentire parlare, perchè nella verginità de' suoi affetti ha un culto di venerazione e di amore per voi e per Carlo Alberto. Vi salutano il Rosini e i nostri buoni Arconati che ho rivisto con gran piacere. Almeno con loro si può parlare a cuore aperto. Desidero vivamente notizie del nostro ottimo Montanari. Addio carissimo, scrivetemi presto, anzi subito ed amatemi.—la vostra—Caterina Ferrucci.

[1] Giuseppe Massari, appellato «biografo del risorgimento italiano», nacque a Bari l'anno 1821. Fin da giovinetto csulò in Francia, dove divenne segretavio di Vincenzo Gioberti, col quale ritornè in Italia l'anno 1848. Esule sempre si fermò in Piemonte; ove pubblicò il Carteggio del Gioberti e le biografie del Cavour, di Vittorio Emanuele, di La Marmora ec. Fu corrispondente di giornali italiani e stranieri; e dal 1860 quasi sempre deputato attivo del Parlamente nazionale. Morì in Roma, poverissimo, il 12 maggie 1884. La presente lettera a lui diretta è tolta da una copia di Prospero Viani, che si conserva nell'Archivio di Stato in Reggio, fra le lettere della Ferrucci indirizzate al Viani.

Pisa, 26 dicembre 1848.

Gentile e caro Signore.—Voglio procurarle un piacere facendole conoscere il sig. Prospero Viani di Reggio, nobilissimo cultere delle nostre lettere, e d'ingegno e d'affetti vero italiano. Egli lasciò Reggio, sono già vari mesi, per non patire l'iniqua signoria dell'Estense, ed ora abita Firenze, ove dà opera a pubblicare le lettere del Leopardi. Ella troverà nel Viani cuore generoso e mente elevata; e sono certa che subito si sentirà preso da benevolenza, da stima verso di lui. Mio marito ebbe in casa sua una amorevolissima ospitalità, quando andò in Lombardia col battaglione; e noi abbiamo avuto il piacere di avere con noi il Viani per queste festo. Abbiamo insieme parlato di lei, ed io l'ho pregato a recarle questa letterina, ricordo di affezione e di amicizia sincera. Le feci dire dall ottima marchesa Arconati che il Sauli è in desiderio d'una sua lettera. Gli scriva, se già non lo ha fatto. Esso le vuol molto bene, e la stima assai. Faccia di venire a Pisa prima di andare a Napoli. Riverisca per me l'avvocato Salvagnoli, e se non gli è grave, procuri al Viani l'onore di conoscerlo di persona. Mio marito, e i miei figli vogliono esserle ricordati, e meco le augurano pel nuovo anno ogni contentezza. Ma chi può sperare che i voti di felicità, per quanto siano sinceri, possano avere effetto? Tempi son questi luttuosi a'buoni, ne' quali ogni lieta speranaza è un sogno. Ma forse dopo tanto male avremo un po' di bone! Mi riverisca gli Arconati, e di cuore mi creda—Sua affma—Caterina Ferrucci.

[1] Francesco-Silvio Orlandini, nato nei pressi di Poggibonsi il di Il maggio 1806; si stabilì a Livorno nel 1836, dove fino al 1859 fu professore, poi, com'egli diceva, maestre che porta lezioni a domicilio. Sugli abbozzi rimisce insieme, col suo buon criterio, il Carme alle Grazie di Ugo Foscolo, del quale curò con Enrico Mayer le Opere complete, edite dal Le Monnier. Nel 1859 fu nominato direttore del r. Liceo di Firenze, ove morì il 24 dicembre 1835.

Pisa, 29 del 1849.

Veneratissimo Signore.—Il caro e prezioso dono, che dal signor Mayer ho ricevute in suo nome, ha destato in me viva e sincera riconoscenza. La quale è fatta maggiore dalla certezza, in che sono, di non avere in alcuna maniera meritato dalla S. V. una prova sì bella di cortesia: onde ne so doppiamente grado alla bontà sua, e la prego ad avere per fermo, che ne serberò costante ed affettuosa memoria. Ella ha donato all'Italia, ora così povera di ogni cosa buona [1] Che direbbe ora la donna illustre, vedendo le nostre lettere cadute molto più in basso di quello che allora non fossero? [Nota del dott. d. Filippo Ferrucci]., un capolavoro di eleganza poetica tale da parere piuttosto impossibile che mirabile. E tutti quanti viviamo in questa misera terra con cuore, ed intelletto italiano, dobbiamo di ciò ringraziarla. Questo lavoro del Foscolo [2] Il Carme le Grazie di Ugo Foscolo, poeta e prosatore, nato presso Zante nel 1776 e morto a Londra nell'anno 1827. dovrebbe ricordarci quello, che fummo, e fare pensare a ciò, che noi siamo. Ma forse i più sono al presente incapaci di simili riflessioni. Ella ha tuttavia adempiuto a un tanto dovere verso la memoria del Foscolo e verso la patria: onde se dalla sua fatica non verrà all'universale quel bene, che se ne dovrebbe aspettare, ne sarà la colpa non sua, ma de' tempi e della fiacchezza dei nostri ingegni.

Prima le avei scritto se non fossi stata indisposta. Sono anche oggi infreddata assai; pure non ho voluto tardare più oltre a significarle la mia gratitudine, onde l'indugio non avesse a parere scortesia. Ove Ella venga alcuna volta in Pisa mi procuri l'onore di conoscerla di persona: si aggiungerà con questo un nuovo obbligo agli altri, che già le porto.

E senza più alla sua gentilezza mi raccomando.

(Fisa), 22 febbraio 1849.

Mio adorato Michele.—Piango a lagrime inconsolabili la nostra grande sventura, e con viva fede mi prostro innanzi a quel santo, che certo pregherà Iddio per noi. Gran dolore è il mio! Lo amava, come padre [1] Allude alla morte del nonno Filippo; di che il marito Michele scriveva al prof. Viani il 24 marzo 1849; «Io ho perduto mio padre [19 feb. 1849], e questa perdita mi ha grandemente afflitto. Era così buono, così onesto, che ha lasciato in tutti che lo conoscevano un mestissimo desiderio di sè. È morto come un vero patriarea, come un Catone cristiano. Io non dimenticherò mai la sua santa e tranquilla morte.. Beato te, che lo hai riveduto! Benedetti i disagi, che hai patiti nel tuo rapido viaggio! Abbiamo un dolore di più, che ci è comune. Siamo ambedue senza padre! Ma i nostri genitori santi ci benedissero prima di morire: anche io vidi il mio povero padre levare al cielo la sua mano fredda per la morte vicina, e benedirmi… Michele mio, non so quello che scrivo. Non sospettava neppure una tale disgrazia. Sia fatta la volontà d'Iddio. Ti amerò anche per tuo padre, e ambedue pregheremo il Signore a farci morire in mezzo ai nostri figli. Abbiti riguardo: fatti cuore, pensando alla santità di quell'anima, e alla sua beatitudine. Vorrei non avere scritte la lettera, che ti scrissi lunedì. È tutto dimenticato, ed il mio amore è, e sarà sempre per te, degno figlio di quel santo. Lo Sbragia si salvò con la fuga: non so se sia in sicuro. Dicono fuggito anche Bista [1] Bista era il prof. Gio. Battista Giorgini, che ebbe in moglie la Vittorina figlia del celebre Alessandro Manzoni.: non è vero che per Bista vi fosse l'ordine d'arresto. Povera Vittorina. Scrivi per una prorega al Ministero; e torna solo quando io te lo dirò. Per noi non vi è nulla da temere. Se però gli Austriaci invadono Lago ostilmente, riparati altrove: prendono ostaggi… Passò Viani [2] Il prof. Prospero Viani, di cui si parla pure a pag. 212 e seguente., gli detti una lettera per Torino, e parlai in essa del nostro affare… Oggi sono stati sospesi i pagamenti agl'impiegati. Vivi tranquillo per noi: ti scriverò tutti i giorni: o almeno scrivimi più che puoi. Accomoda gli affari secondo quello, che puoi conoscere, essere stato in piacere di papà. Caro Michele mio, vorrei esserti vicina per darti mille baci, per piangere teco. Non dimenticare di chiedere il permesso a Firenze. Addio: non posso scrivere di più. La tua Nina.

[1] Luigi-Crisostomo Ferrucci nacque a Lugo (Ravenna) il 31 dicem. 1797; studiò legge a Bologna (coltivando nel tempo stesso l'archeologia, l'epigrafia e il greco idioma) ove divenne poi avvocato della Corte di Appello. L'amore agli studj letterari gli fece poscia preferire l'ufficio di Bibliotecario comunale nella sua Lugo, indi quello di professore di eloquenza in Pesaro. Dimorò, in seguito, dodici anni in Firenze; passò a Roma l'anno 1854, chiamatovi da Pio IX, come scrittore aggiunto della Biblioteca Vaticana. Il Granduca di Toscana, nel 1856, chiese al Papa di aver il Ferrucci alla Direzione della Biblioteca Mediceo-Laurenziana in Firenze, ove finì questa vita nell' agosto del l'anno 1877.

Pisa, 22 febbraio 1849.

Caro Luigi.—Mi pare di avere un'altra volta perduto mio padre; non era il vostro anche il mio? Lo piangeremo tutta la vita. Fate cuore a Michelel e per ora non lo fate tornare.

Scrivo subito a vostra figlia. Beati i morti nel Signore! Addio.

(1) Maria de' conti Spada, di Cesi nell'Umbria, vedova del dott. Antonio Franceschi, morta in Pisa di anni 93 il 19 febbraio 1870, fu donna di molto ingegno naturale, e di grande virtù, avendo con cristiana fortezza sopportato molte sventure, e specialmente la perdita del marito e di ogni bene di fortuna, e quella di tre figlie già maritate, e di un figlio nel fiore della virilità, e delle speranze. Visse gli ultimi anni della travagliata sua vita presso la figlia ed il genero Michele Ferrucci, che colle affettuose loro cure, le rosero dolci gli estremi momenti del viver suo. (Nota del nepote dott. d. Filippo Ferrucci).

Di Pisa, 30 marzo 1849.

Carissima Madre.—Nell'intitolare al suo nome questo mio libro (2) Questa lettera dedicatoria si legge a pag. VII. X del vol. I Della educazione intellettuale, libri quattro indirizzati alle madri italiane per Cateriua Franceschi Ferrucci…, Torino, Giuseppe Pomba e Comp., 1849., io aveva deliberato d'indirizzarle alcune parole di affettuosa riconoscenza; e ritornando con la memoria al tempo lontano della mia fanciullezza renderle grazie delle cure, che a me, cieca ed inferma, prodigò per lunghi anni con infaticabile amore, e dirle, siccome ho sempre presente l'immagine sua diletta e quella del venerando mio padre (1) Della morte del proprio genitere parla qui dietro a pag. 102 e 105; e nel cit. volume Prose e Versi, pag. 321, leggesi questa nota: «Il dottore Antonio Franceschi, medico pieno di dottrina e di carità. Amò quanto in terra ò degao di amore, mori nel 1839, pochi giorni dopo la sua figlia Roso, lascialdo di sè inconsolabile desiderio nella sua famiglia e in quanti lo conobbero»., cui debbo diavere imparato ad amare Dio e l'Italia, la giustizia e la verità. Ma in mezzo alla terribile angoscia, di che le inaspettate sciagure della patria comune mi hanno colpita, le idee mancano alla mia mente, l'ingegno rimane attonito, vinto dalla violenza d'un dolore, che non ha pari, ed è fatto più acerbo dall'ira e dalla ignominia. Mio padre, uomo di antica semplicità, cuore e senno veracemente italiano, vede or dal cielo la fiera ambascia, che travaglia l'anima mia, e certo ne ha compassione, e per me prega e per quanti non partecipano alla codarda infamia de' tristi, che inetti al bene, paurosi contro al pericolo, sono audaci soltanto nel calunniare. Ella, che pure tanto amò sempre l'Italia, mi darà cortese perdono, se in luogo di ringraziarla de' quasi innumerabili beneficj, che ha in me operato, e della sagacia onde mi condusse a ricercare negli studi il conforto dolcissimo della vita, il bene supremo dell'intelletto, io prorompo in lagrime amare e in dolorose querele. Questo è tempo di piangere, poichè non vogliamo che sia tempo da combattere e da morire: questo è tempo da coprirsi con le mani la faccia per la vergogna. Vantatori magnifici di parole gridammo libertà per le piazze, levammo voci di guerra presso al domestico focolare; e quando venne l'ora della gran prova ce ne stemmo oziosi a vedere le altrui battaglie: senza sdegno efficace, senza maschio coraggio, senza vero amore di patria credemmo, che i detti superbi tenessero luogo del valoroso operare. Un gran popolo ed un gran Re soli presero la difesa del conculcato onor nazionàle. Quello cade oppresso e non domo; questi volontario spezza lo scettro, gitta da sè la corona, ed è pronto a dare la vita per una idea.

La storia, che registrerà tanti errori, tante colpe, tanti delitti dell'età nostra, ricorderà in eterno il valore del popolo subalpino, ed al magnanimo Carlo Alberto darà le lodi, che ha date a Fabie e a Scipione. La virtù non si misura dalla fortuna; e la gloria de prodi tanto è più bella quanto furono maggiori i sacrifizi che quelli sostennero a meritarla.

Questo pensiero addolcisce in parte la mia afflizione; in esso mi affiso, siccome in quello, che solo alquanto può confortarmi. Quindi non altro aggiungo al poco, che ho detto rispetto a Lei, e a ciò che le debbo. Ella legge dentro al mio cuore, e ne scorge in aperto gl'intimi sensi. Però son certa, che farà benigna accoglienza a questo mio libro, col quale intendo darle solenne testimonianza di ossequio filiale e di sincera venerazione. Vegga in esso i frutti, comecchè poveri e scarsi, della sua diligenza e delle sue cure; vi ravvisi i non dubbj indizj dell'indomabile amore, che porterò all'Italia finchè in me duri spirito e lena, e con quell'affetto con che tante volte presente mi ha benedetta, lontana mi benedica.

La sua Caterina.

(Pisa), 30 aprile 1849.

Mie care Viani.—La vostra lettera c'è giunta tanto cara, quante era desiderata. Già da molti giorni pensavamo al modo da ricevere vostre nuove, e non sapendo a qual partito appigliarci eravame afflitti, ed incerti. Ora siamolieti, poichè voi siete in luogo sicuro, e tranquille, per quanto i tempi il comportano…

Ho letto l'epistelario del Leopardi con infinito diletto. [1] Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e le lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani: Firenze, Felice Le Monnier, 1849, volumi 2, in-16. L'ultima edizione in tre volumi è quella descritta qui dietro a pag. III.—A proposito di Epistolari l'autrice scriveva a Bartolina Bertagnini, VII ott. 1858: «Leggo anche il secondo volume delle Lettere del Rosmini, che mi edificano, e mi istruiscono, Egli era un vero santo». E il 15 giugno dell'anno 1858, all'amica medesima: «Leggi le lettere [cioè l' Epistolario] di Silvio Pellico. Sono edificanti per religiosi sentimenti, e consolanti molto per noi. Egli è così persuaso dell'unione tra i vivi, e i morti, che ne parla con la certezza della evidenza. E anche io più vi penso. e più ne sono convinta. Nulla di quanto ha Dio creato perisce. L'anima ha vita immortale; essa perciò deve conservarue le sue facoltà, ed i suoi affetti…». È una corrispondenza da compararsi alle più famose de' nostri Classici. Alcune lettere hanno però suscitato cattivi umori. Il Rosini è furente per quella, in che il Leopardi parla del suo romanzo [1] Il romanzo La Monaca di Monza di Giovanni Rosini (1778—1855), nato a Lucignano (prov. di Arezzo), romanziere, poeta, storico, filologo, che tenne per molti anni la cattedra di letteratura nell'Università di Pisa, spiegando il suo facile ingegno in ogni genere di scrittura sì poetica che prosastica. Esso è ricordato anche qui dietro a pag. 200.. Lo accusa di slealtà, poichè dice, avere esso approvato con alte lodi quel suo lavoro quando glielo facea leggere a mano a mano, che il componeva [2] Il Leopardi non è sempre sincero quando giudica gli scrittori e le opere; e di questo suo peccato bisogna ricercare l'origine nella sua infelicità corporale. Un fatto consimile a quello ricordato qui dalla nostra scrittrice si legge in Studj Leopardiani di Giovanni Mestica; Firenze, suce. Le Monnier, 1901, pag. 53.. Ciò rimanga fra noi. Riverite per me il sig. Pellegrini, del quale ho carissima la bella, e pietosa canzone… Scrivetemi e conservatemi la vostra cara amicizia.—C. Ferrucci.

(1) Edita ne' Miei Ricordi di M. Minghetti, Torino Roux, 1889, vol. II, pag. 446—49.

Pisa, 31 maggio 1849.

Mio caro Marchino.—Ho tardato a scrivervi, perchè in questi giorni non ho di mio neppure il pensiero; esso soggiace alla forza della più nera melanconia che io abbia provata dacchè sono al mondo. Il passato mi fa dolore e vergogna: del presente ho ribrezzo, e spavento dell'avvenire. Non già che io mi lasci atterrire dalla nemica fortuna: so che questa è mutabile e che gli uomini possono sovente formare a se stessi il loro destino. Ma ciò che mi affligge e mi sdegna è l'umana bassezza, è l'universale decadimente, è la dimenticanza che veggio presso che in tutti della dignità individuale, e de' doveri imposti da questa. Ho sempre cercato di fondare la mia felicità in parte dove non giungesse la prepotenza de forti, nè quella del fato: quindi mi sono avvezzata a trovare in me conforto e difesa contro gli avversi eventi, e a racchiudermi nel mio interno quando le cose del mondo mi davano noia e dolore. Ora però non posso rientrare in me stessa senza che ne accresca l'intensione e la vivacità del mio sdegno. Troppo gli uomini e le cose d'oggidi sono diverse da quell'esemplare del giusto e del buono, che sentiamo dentro la mente; e più in me sento indomito e forte l'amore del re'to e del vero, più sento dispetto e tedio di questa misera vita Caro amico, non siete anche voi stomacato da tante turpitudini? da tante viltà? Forse tra voi il senso morale sarà meno corrotto; ma qui è affatto perduto; onde si grida viva a chi ieri gridossi muoia, e intemperanti nell'amore e nell'odio, senza pudore e senza rimorso, costoro s'inchinano innanzi alla forza, quasi fosse una stessa cosa con la giustizia. Vorrei distrarmi collo studio, ma non mi riesce applicare l'animo a qualche pensiero grave, e seguito. Mi pongo a cucire, e sento che il lavoro manuale mi stanca e non mi dà alcun conforto. Leggo i giornali, e il mio dolore se ne accresce; voglio presto andare in campagna (ma forse non prima di un mese), e credo che là soltanto troverò pace e consolazione. La natura ha su di me lo stesso potere, che aveva negli anni felici della mia giovinezza; e quando veggo una bella montagna, una selva, una solitaria valletta, mi riconcilio colla vita e col mondo, e perdono agli uomini tutte le loro stoltezze. Domenica fui a vedere una villetta, che mi piacque; è un luogo appartato, a pie' d'un monte, e parmi che là passerò giorni tranquilli. Se vi andremo, come pare, vi scriverò il nome del luogo, affinchè veniate a rallegrarci d'una vostra visita.

Siamo tutti in gran pena per la malattia del Re di Piemonte. Grazie a Dio, egli va migliorando, e spero che presto tornerà sano. Ogni italiano deve essere affezionato a que' due rari giovani, che tanto fecero e tanto patirono per darci una sorte migliore. La gratitudine è oggidi fuori di moda; io pure in questa come in molte altre cose, sono tagliata all'antica, e non seguo l'esempio dei più.

Sono affatto all'oscuro di ciò che avviene in Ancona, ove ho tutta la mia famiglia. Alcuni giornali affermano che quella città fosse bombardata, altri che siasi arresa. Io vivo in una crudele ansietà, e darei il mio sangue per avere una lettera di mia madre…

Perdonatemi questa lettera, che ora soltanto m'accorgo esser lunga: l'ho scritta in un momento di abbandono, come se vi parlassi, e se la carta non fosse al fine scriverei ancora. Rispondetemi presto e datemi novelle di costì e di Ancona. Ricordatemi con affetto all'ottima mamma vostra, a Filippo e a Lenina. Caro Marchino, se tornate in Piemonte disponete le cose in modo da poterci donare qualche giorno. Il vostro arrivo è per tutti noi una grande allegrezza, perchè tutti vi amiamo con tutto il cuore. Addio. Dov'è Montanari? Che pensa? Che dice?—C. Ferrucci.

[1] Il dott. Giovanni Lotti, pisano, fu amico di molti letterati del suo tempo, ed egli pure coltivò le lettere con amore, ma fu più degno di ammirazione per la sua grande carità.

(Dalla Grandiana), 27 luglio 1849.

Mio caro Lotti.—Ebbi alquanto ritardata la vostra lettera… Sarei mol o contenta della mia dimora, se qui potessi restringere i miei pensieri. Ma non he mai vissuto a me sola, nè ora il potrei: e questa patria comune tanto infelice mi commuove a varì e contrari affetti, tutti mesti, e pietosi, non sensa però alcuna mistura d'indiguazione. Avrei voluto mandarvi il mio libro (1) Dell' Educazione intellettuale della Donna italiana, descritto qui dietro a pag. 229, nella nota 2.: ma ne ho sì poche copie! E il mio editore n'è tanto avaro!… Tristi anniversari sono quelli che si compiono in questi giorni. Quante speranze svanite! Quanti errori commessi! Quante stoltezze, quante follie! Le elezioni di Piemonte sono tali da fare nascere grandi timori per l'avvenire. È come è possibile, che gl'Italiani non facciano mai senno, e che escano sempre senza riportarne alcun frutto dall'amara scuola dell'esperienza? E che dite dello Statuto proibito a Roma da un Generale della Repubblica Francese? Non mi sono mai illusa rispetto a codesti ausiliari del buon Pio IX, e guai all'Italia se durerà a confidare nell'ajuto Francese. Per noi non vi è altra salute, che rimanere fedeli alle instituzioni Costituzionali, e nella pace migliorare i nostri costumi (e quale opera è questa!), diradare le tenebre dell'errore dalle nostre menti, ed impararare ad essere veramente cristiani, e liberi veramente nel cuore, e nell'intelletto. La falsa filosofia ci ha perduti: la filosofia religiosa, cioè il vero cattolicismo, solo può risanarci: ma chi sinceramente ricorre a questo divino rimedio? Caro Lotti, ormai dispero del presente, e dell'avvenire. Non vedete? Mazzini e compagni con l'instituire la setta dell'Europa futura già tendono a contaminare i nostri figliuoli e i nostri nipoti. Sciagurati! Non basta loro avere rovinato al presente, vogliono estendere la loro malefica forza anche su i posteri inconsapevoli, ed innocenti! Voleva quasi maledirli, ma mi ricordo invece di essere cristiana, e loro perdono, e prege il Signore ad illuminarli (1) In altra lettera, del 13 agosto 1849, stampata ne' Miei ricordi di Marco Minghetti; Torino, Roux, 1889, II, 435, scriveva: «Senza gli stolti e scellerati repubblica ni avevamo una libertà onesta, una santa concordia tra il popolo ed il principato, e si poteva ìn fine sperare che l'armonia tra il diritto e il dovere fosse stabilita, e per sempre. Mazzini [Giueppe, 1805—1872] e gli altri faziosi ci hanno precipitati in un abisso, di cui niun occhio umano può vedere il fondo».. Le parole del buon Leopoldo (2) Il granduca di Toscana Leopoldo II, vissuto dal 1792 al 1870. al Municipio di Firenze sono degne di lui, e della sua fama. Questa è nuova prova di ciò che ho sempre creduto essere, cioè da bontà la più preziosa d'ogni dete, di che il cielo si piace a esser largo ai mortali. Il nostro Principe è fedele alle sue promesse: dimentica, ama, e perdona, perchè è sempre stato buono veramente. Quando verrete a Pisa per le vacanze ci farete, spero, una visita.

…Addio, buon Lotti. Scrivetemi presto… Addio.—C. Ferrucci.

(Dalla Grandiana), 19 agosto 1849.

Carissimo Guido.—Prima di tutto vi dico, che io sono Cristiana-Cattolica-Apostolica-Romana, e che tale con l'aiuto del Signore voglio vivere e morire. Poi, che non ho mai amato Rousseau [1] Rousseau Giovan Battista (1670—1741) poeta lirice francese; le cui opere sono un misto di sacro, di profano e di lurido, secondo la volubilità dollo scrittore.: ne ho letto alcune opere saranno almeno 18 anni, ma i paradossi, che vi trovai me ne disgustarono. Quindi l'avere citato Socrate come il più giusto, e Gesù Cristo come il più santo degli uomini è idea tutta mia, o almeno, che a me, senza avere esempio d'altri alla memoria, è venuta in mente. E notate, che sebbene in quel luogo non parli della divinità di G. C. pure questa è implicita in ciò che siegue: «l'altro da tutti i viventi e salutato per padre e per salvalore, e il suo nome risuona da un estremo all'altro del mondo, siccome pegno di perdono, di speranza, di pace e di redenzione». Un uomo non avrebbe potuto essere il salvalore, nè il redentore dell'uman genere: e però in quelle due parole è inclusa l'idea della divinità di G. Cristo. Tuttavia vi prometto, che se in seguito dovessi fare una seconda edizione del libro, emenderei quel luogo, secondo, che voi pensate [1] Il libro di cui si parla qui è intitolato: Della educazione intellettuale della Donna italiana, opera in due volumi, pubblicata in Torino, da G. Pomba, nel 1849, della quale non si è fatta altra edizione. L'autrice stava correggendola, per stamparla di nuovo, poco prima di morire, come afferma il nepote di essa dott. Filippo Ferrucci.—Il luogo, che avrebbe emendato, suona così: «Il più giusto e il più santo di quanti furono sulla terra, socrate e Cristo, ebbero il veleno e la croce in premio delle dottrine insegnate agli uomini ingrati. Ma il genere umano s'inchina alla memoria dell'uno, siccome all'esemplare della sapienza perfezionata dalla virtù: l'altro da tutti i viventi e salutato per padro e per salvatore; e il suo nome risuona da un estremo all'altro del mondo, siccome pegno di perdono, di speranza, di pace e di redenzione.» (Educazione intellettuale, vol. I, pag. 448)..

Addio, buon Guido. Vogliatemi hene.

[1] Gilvestro Gherardi, lughese come il consorte della Caterina nostra, visse dal 1800 al 1879. Fu professore di tisica nell'Università di Bologna e di Genova, e finì questa vita in Firenze. Ebbe in moglie Lucia Ricci, pure lughese, ottima madre di famiglia.

Firenze, 25 aprile 1850.

Mio caro Gherardi.—Una vostra lettera, dopo tante, e cosi triste vicende, è stata una vera consolazione per tutta la mia famiglia…

Io mi darei volontieri all'ufficio di educatrice, non già che io mi stimi atta ad esercitarlo degnamente, ma perchè credo, non potere l'Italia risalire all'antica gloria, se la generazione crescente non viene educata al culto del vero, del giusto, e del bello. Onde vorrei, secondo le mie povere forze, contribuire all italiano risorgimento, il quale sarà possibile solo quando tutti gl'Italiani mutino affetti e pensieri, e lasciate le fazioni, e le sette si volgano a cercare la libertà nel rispetto alle buone leggi, e stimino la grandezza della nazione essere fondata su i buoni costumi. Ildio mi terrà conto del desiderio: ma credo purtroppo, che non mi sarà concesso di recarlo ad affetto, perchè i miei antichi e naturali doveri mi impedìscono di assumerne di nuovi.

Caro Gherardi, significate a tutti i Signori per commissione de' quali mi scriveste, la mia eterna riconoscenza, e il dolore, che lo provo nell'essere costretta a ricusare le cortesi, e onorevoli loro profferte. Confortateli a continuare nella loro nobile impresa…[1] Accenna alla fondazione dell Istituto femminile, detto delle Peschiere, in Genova, pel quale l'autrice nostra era richiesta come direttrice..

Io abito nel Corso de' Tintori—in casa Vettori—N. 8012 al sccondo piano… Addio.—C. Ferrucci.

Firenze, 5 maggio 1850.

Mio caro Gherardi.—… Voi sapete come sia usata ad occuparmi delle cure materiali della famiglia. In questo ogni giorno consumo non poco tempo: poi do qualche lezione a mia figlia, ed ho pure i miei studi, che spesso trascuro per necessità, ma che coltivo sempre per elezione. Ora mi sta a cuore di finire il 2.o volume della Educazione intellettuale, intorno al quale ne' mesi scorsi ho pochissimo lavorato per molte cagioni. Poi he in animo di condurre a termine altri libri, già pensati, e in parte studiati. Però, riserbando allo studio i giorni della settimana, lascio alla corrispondenza epistolare la Domenica. Ma dove la necessità lo voglia, scriverò anche in altri giorni.

Quanto al libro, che le Signore fondatrici desiderano ch'io faccia per l'Istitato, non oso dare promessa assoluta. Prometto però loro d'avere l'intenzione di farlo: ma chi può assumere un obbligo esplicito in ciò che riguarda i lavori dell'intelletto? Può forse la volontà sola condurli a fine? No per fermo; che una certa disposizione della mente a ciò si richiede, e questa non è sempre in facoltà nostra di avere [1] E in altra lettera, 22 ottobre 1873, al prof. Giuseppe Barellai (1813—1884), istitutore degli Ospizi marini, scrive: «E a me è avvenuto sempre, che dove il pensiero non nasca spontaneo invano l'ho cercato con studio, e fatica».. Spero di fare il libro, e di farlo entro l'anno venturo, o in quel torno, e cercherò di addattarlo all'indole, ed al bisogni dell'Istituto [1] Il libro, che fece poi davvero, è quello ricorda qui oltre in una lettera, del 20 aprile 1852, al prof. Paravia, e che fu stampato con questo frontispizio: Letture morali ad uso delle fanciulle; Genova, Tip. Sordo-muti, 1851—52; volumetti 3, ristampati col titolo Una buona madre-Letture per le giovanette, Firenze succ. Le Monnier, 1884.

Oggi però con questa testa così stordita dal dolore non posso raccogliermi in me stessa per riflettere.

Rendete le più sincere, e riconoscenti grazie in mio nome a codeste Signore, e voi amatemi sempre.—Tutti i miei vi salutano.

Vostra amica C. Ferrucci.

Firenze, 29 giugno 1850.

[2] Questi punti ellittici, e gli altri che seguono, si trovano nella copia, che si conserva presso i nepoti dell'autrice. In essa manca pure il nome e l'indirizzo del destinatario; ma il dott. d. Filippo Ferrucci dice che dev'essere diretta a Bianca Rebizzo, della quale si legge un cenno biografico qui oltre, a pag. 255—56. Ho supposto, che l'Istituto abbia se non cento allieve, certo molte. Ove in questo anno ne abbia poche ridurrete. tutte le proporzioni ad una scala più piccola.

Ho conservata la Divisione del Progamma in tre periodi educativi, ed ho dato a ciascuno il numero d'anni che mi par necessario a ben fondare, a condurre ordinatamente, e a perfezionare l'educazione [1] Parla in questo lettera del Regolamento o Programma da essa dettato per l'Istituto delle Peschiere, di cui Vinconzo Gioberti le scriveva il 29 dicembre 1850 con sincera compiacenza.. Se le fanciulle entreranno nell'Istituto in età maggiore di sei anni (ho supposto che vi entrino a questa età) si farà loro un interrogatorio, e secondo il risultato di questo, si faranno entrare nel 1.o 2.o 3.o o 4.o anno della prima classe. Parmi indispensabile che l'instruzione delle fanciulle si continui almeno fino ai 16 anni, e meglio fino ai 18. Perchè siano in grado di fare studi solidi (e questi soli fanno il sapere modesto e buono) bisogna dare al corpo, e alla mente il tempo, che si richiede, perchè l'uno e l'altra acquistino vigore e maturità.—Non vi spaventate del numero delle maestre e dei professori. Per ora non avremo affatto la 3.a classe, in cui le fanciulle non potranno mai entrare innanzi ai 13, o ai 14 anni; dunque prima di formarla avremo già bene stabilite le due precedenti, e se l'Istituto meriterà la fiducia de parenti, il numero delle allieve ci renderà possibile di tener molti e bravi maestri.—Credo che ogni fanciulla debba imparare l'inglese o il tedesco, niuna ambedue queste lingue.—Sarebbe troppo dispendioso per l'Istituto avere due maestre per ciascuna di esse (una sola non potrebbe bastare a tutte le allieve) e le fanciulle avrebbero troppe cose a studiare ad un tempo, perchè tutte le studiassero bene. Parmi che tutte debbano imparare unpo' di disegno. Lo studio di questo avvezzal'occhio alle proporzioni, inspira l'amore del bello, dell'ordine, dell'armonia, ed è anche utile ad una madre di famiglia; la quale potrà con maravigliosa facilità nell'ordinare ad un operajo mobili o altri utensili, dare a questo a comprendere il suo intendimento quando sappia fare un po' di disegno. Ove si vegga che alcune delle fanciulle non hanno naturale disposizione a dipingere o a disegnare si faranno volgere ad altri studj; ma gli elementi del disegno li darei a tutte. Vorrei però, che le giovinette (tranne quelle che avessero rara temperatura di mente) non attendessero a un tempo alla musica ed al disegno, o a meglio dire non coltivassero quella e questo come arte. Che sappiano pure i principii, e della musica studino tutte il solfeggio; ma chi si sente inclinata alle arti espressive del bello dipinga e disegna; e chi ha bella voce, mano agile, e orecchio armonico e delicato, suoni o canti. Così ciacuna avrà tempo bastante per esercitarsi nell'arte da lei preferita. Se faremo tutte le nostre allieve disegnatrici o suonatrici faranno tutto mediocremente: noi serviremo forse alla vanità de' parenti loro; ma non al bene delle fanciulle: che in tutto è da ricercare la perfezione.— Vedrete, che ho la speranza di poter dare tre corsi diversi alla 3.a classe. Nè perchè questa non possa essere per ora nell'Istituto ionimarrò inoperosa. Ove mel permettiate, darò qualche lezione alle maestre, ed anche alle fanciulle. E poi nei primi anni avremo tanto a fare! Nello scrivere il Regolamento ho veduto con maggiore chiarezza quanto sia grande e difficile la nostra impresa.—Non ne impaurisco: chè confido in Dio, il quale assiste le persone di buon volere: ma certo sono compresa della grandezza e vastità dell'assunto. Il bene però, che uscirà dalle no stre cure sarà anche maggiore degli ostacoli vinti, e delle fatiche darate. Amica mia, educando bene, cioè religiosamente, italianamente, con sapienza, con dignità le fanciulle, noi possiamo mutare i costumi e la fortuna della nostra nazione. Questa e la vera rivoluzione: e questa non costa lagrime, non produce ruine, non passa come le altre: ma reca letizia agli individui, pace alle famiglie, ordine e felicità negli Stati. Oh faccia Iddio, che noi possiamo cominciarla! e certo non avremo vissuto indarno. Ma torniamo al nostro Regolamento. —Non so se vi parrà, che le pene da me stabilite siano troppe leggiere, e non abbastanza splendide le ricompense. Pure credo, che difflcilmente potremo elegerne altre senza risvegliare i cattivi is'inti nelle fanciulle. —Il nobile della nostra educazione deve essere il dovere: dunque è pena per le fanciulle ogni cosa, che mostra loro come da questo siansi allontanate: ricompensa quanto del contrario le fa convinte. So che in molti Istituti si tolgono alle giovinette in punizione della loro negligenza le frutta o altri cibi. Questa è pena che è buona per una educazione che ha il suo principio nella filosofia sensista: e lo stesso dite delle altre pene, e degli altri premii, che tolgono o dànno alle fanciulle un piacere. L'indole umana nel generale non è cattiva: chi sa profittare delle molte parti buone chè sono in essa la volge al bene; e ve la ferma: ma per fare questo bisogna operare sulla ragione, salla volontà, sull'affetto, e mettere in uso buoni mezzi, ad ottenerne buoni risultati. Poche pene, pochi premj, e quelle e questi d'una natura e d'una tendenza morale. Siano applicati congiustizia e con ragionata severita. A volere però che producano l'effetto loro è ne essarioche l'animo delle fanciulle sia preparato a sentirne il pregio e la forza. Quindi le maestre debbono sovente parlare con esse de' loro doveri, del fine e della santità della vita, della bellezza delle virtù. Le maestre debbono rendere imagine di buone madri. Ove le fanciulle non d'altro siano istruite, che di cose relative agli studi, ove si lascino senza l'ainto delle amorevoli ammonizioni, senza il conforto dei pietosi e savi consigli, non riusciranno quali le vorrei al bene loro e della nostra patria comume.—Bisogna che in un Istituto siano osservate le consuetudini d'una bene ordinata famiglia. E come in questa la madre di tempo in tempo chiana a sè quello de' suoi figliuoli che ha mancato in alcuna cosa, o che a lei sembra bisognoso di guida speciale e di conforti maggiori, così le maestre debbono avere con le fanciulle quelle conversazioni, per il cui senno di chi più sa si trasfonde in quello che sa meno, e di due cuori si forma un cuor solo. Ma dove troveremo noi queste maestre? Avete pensato a trovare chi nella mia assenza possa fare le mie veci? Io non mi tengo da più di un'altra: ma perchè tanto amo l'Italia nostra, e quindi per essa quest'opera santa dell'educare, sento che mi consacrerò ad essa con tutta l'anima: ma non posso ciò fare a lungo: ora vorrei che tenesse il mio ufficio una persona d'animo eguale al mio, cioè che avesse uguale amore per la patria e pel buon governo dell'Istituto. ..

C. A.—Ho riletto rapidamente il Regolamento e veggo di avere ommesso di rendervi ragione di varie cose.

Non mi piace, che le fanciulle entrino durante il giorno ne' dormitorj per motivi d'ordine, di polizia, e di morale.

Ho dato alla fanciulla più diligente della sua classe l'ufficio di sorvegliare le altre nelle ore di studio, perchè parmi che sia bene coltivare ne' giovani cuori il sentimente della dignità umana, e della responsabilità delle nostre azioni. Se nelle sale di studio potesse alle porte porsi come un'occhio di vetro, dal quale le maestre potessero vedere senza esser viste, volentieri lascierei, che le fanciulla della 2.a e 3.a classe qualche po' di tempo studiassero sole senza sorveglianza.

Regolerete voi tutte il modo delle visite dei parenti. Abbiate cura di raccomandare a questi, massime alle madri, di recarsi nell'Istituto in abito semplice e modesto. Ho visto alcuni… di certe case di educazione in cui le madri dànno alle loro figliuole lezioni di parure, e di vanità. Non amerei, che i fratelli, cugini ecc. visitassero di sovente l'Istituto, e voi ne indovinate le cagioni.

Non ho proposto l'uso della lettura durante il pranzo: temerei che le fanciulle non facessero attenzione a ciò che si legge; e poi è usanza monacale, contraria ai costumi del mondo, secondo i quali, nelle cose buone, vogliamo educare le nostre fanciulle. Piattosto amerei, che una allieva delle due classi maggiori facesse gli onori della tavola alle sue compagne, e questo a tarno, e se ne potrebbe fare una specie di ricompensa. Lasciate pure che le fanciulle parlino durante il pranzo e la colazione. Solo è da guardare che non parline troppo ad alta voce, nè tutte ad un tempo: e quando ciò facciano s'imponga il silenzio. Sia pure loro proibito di parlarsi all'orecchio. —Vi piace il modo che ho proposto intorno alla corrispondenza delle fanciulle? In altri Istituti la Direttrice legge tutte le lettere scritte o ricevute da queste. Parmi usanza cattiva che in animi delicati dee generare risentimento e ripagnanza. Bisogna lasciare alle fanciulla una libertà onesta, e mostrare di fidarsi nella loro probità. Quando la Direttrice sa quale è la persona che scrive, e riceve tutte le lettere da mandarsi alla posta, parmi che non ci sia nulla a temore.

Non ho parlato le'bagni: questi però vi debbono essere, e il loro uso sarà frequente.

Vorrei, che gli studj cominciassero e fimissero in Dio; quindi ho proposte le due solennità religiose, che vedrete accennate nel Regolamento. La Religione doe unirsi a tatte le nostre azioni per santificarle tutte: e già intendete che io parlo della cattolica religione, non di quella devozione ipocrita e sdolcinata che guasta e fiacca in luogo di purificare e afforzare.—Addio, o piuttosto a rivederci. .. Sua dev.ma—C. F.Bianca Rebizzo, «nacque a Milano il 21 ottobre 1800, eresse e diffuse in Genova colle sue ricchezze gli asili infantili, fondò l'Istituto delle Peschiere e compi altre opere di beneficenza. Morì in Albaro 29 ottobre 1869.» Dizionario universale di geografla, storia e biografia, compilato da E. Treves e G. Straforella (Milano, Treves, 1885). Di essa lasciò alcuni ricordi il senatore Domenico Berti ne' proprii Scritti vari (Torino, Roux, 1892, vole. II, pag. 109-111, i quali suonano così: Come la casa di Adelaide Plezza in Torino, così quella di Bianca Rebizzo serviva di convegno in Genova agli artisti, ai letterati e agli uomini politici. Essa era frequentata quotidianamente dal Mamiani [Terenzio]; e non passava per Genova uomo insigne per meriti che non cercasse di esservi ammesso. L'autorità che la Rebizzo sï acquistò col suo ingogno fu grandissima… Conosceva egregiameute la letterat, italiana ed era assai vorsata nella storia politia. Seriveva come pochi possono scrivere. Semplice, vera, ma ad un tempo riservata, riuniva le grandi doti che creano o cementano le amicizie… Appena le cose politiche volsero a male, essa consacrò tutta se stessa all'educazione delle giovanette fondando un istituto in Genova che poteva stare a paro dei migliori, e nel quale spese somme enormi. Alla direzione di questo istituto, che fu forse il primo in cui l'educazione femminille avesse modernità e bontà d'indirizzo, chiamò una delle prime donne d'Italia, Caterina Ferrucci. Ma all'istituto delle Peschiere, com'esso appellavasi, il quale avrebbe dovuto suscitare l'ammirazione dei veri intenditori dell'educazione italiana, fu fatto il rimprovero di troppo concedore alla ragione ed all'amor di patria e troppo poco alle tradizioni empiriche e volgari; perciò la Rebizzo dovette chiuderlo… Quest'ultimo fatto, che ella considerò sempre come la sua maggiore sventura, le riempiè di amarezza la vita. Il mio tramonta è triste, la mia casa è in rovina, mi diceva un giorno alludendo all'Istituto; Dio faccia che la speranza del Risorgimento italico mi accompagni al sepolcro. E questo conforto l'ebbe, e molti di noi. più felici di lei, possiamo, in nome della patria redenta, deporre un fiore sulla sua tomba, glorilicandone le virtù e sopratutto il patriottismo».

(1) Edita ne' cit. Mici Ricordi di Marco Minghettá (Torino, Roux, 1890), vol. III, pag. 313-14.

Viareggio, 13 agosto 1850.

Carissimo Marchino…—Secondo la promessa che ho fatta, andrò a Genova ogni anno due volte, per esercitare nel nuove Istituto l'ufficio di ispettrice, e in tutto vi rimarrò circa tre mesi e mezzo. L'anno venturo vi farò i bagni e andrò per l'apertura. Che dite dell'intollerante fanatismo che nega i religiosi conforti ai morenti, che confessati e assoluti muojono nella fede cattolica? A quali tempi viviamo! (1) Alludo alla negata amioinistazione dei sacramenti a Pietro Derossi, conte di Santa Rosa, ministro d'agricoltura, industria e commercio, morto in torino il 5 agosto 1850, in età di 45 anni. Io inorridisco a tanta empieta; chè empia cosa è violare la santità della religione per le passioni terreni. Forse il desiderio mi inganna, ma io credo ad alti fati chiamata dal cielo la dinastia di Savoia; i nemici d'Italia la temono troppe, e quindi tanto s'armano d'inganni e d'ipocrisia per abbatterla. Ma tutto sarà indarno, e Dio farà di nuovo vedere che gli uomini giusti, intrepidi, coraggiosi formano a se stessi la loro fortuna. Carlo Alberto ci rappresenta l'idea del sacrificio ed un gran principio; Vittorio Emanuele, la costanza indomabile di chi si è fatto difensore della giustizia. Guardino gli italiani a questi due grandi, e da essi impareranno le virtù che ci mancano, e che solo possono liberarci da tanti mali. Io conduco vita non lieta. E chi è italiano e può rallegrarsi? In questo sabbioso ed arido luoge si balla, si pensa alle toelette, alle mode come si farebbe a Parigi. Oh povera Italia! La leggerezza delle donne e dei giovani è la più grande di tutte le sue sventure. Studio poco, e male, senza diletto. Vengo preparando lentamente un altro volume, che vorrei pubblicare dentro l'anno (1) Il vol, II Della educazione intellettuale (descritto qui dietro a pag. 229, nota 2), che uscì in Torino dal Pomba, con la data del 1851.. E voi che fate? Di quali studi vi occupate? Verrete a Firenze? Scrivetemi, caro amico, ho bisogno di conforto, e grandissimo ne traggo dalle vostre lettere. Vogliatemi bene, ricordatemi alla mamma, agli amici, e credetemi—Vostra aff.ma amica—C. Franceschi.

(2) Su l'unica figlia Rosa, morta il 5 febbrajo 1857 (già vicina alle sue nozzo), l'Autrice scrisse e mise in luce un libro, al quale mando i lettori, che desiderassero copiose notizie. Esso ha questo frontispizio: Rosa Ferrucci e alcuni suoi Scritti, pubblicati da Caterina Ferrucci sua madre; Firenze, tipografia Barbèra, Bianchi e C., 1858. Di questo volume di pag. 303, si hanno varie ristampe, tra le quali una fatta in Napoli nello stesso anno 1858. In Francia se ne stamparono tre traduzioni, e nel giornale di Parigi Le Francais, e nella Revue Catholique comparvero «articoli bellissmi» intorno a Rosa Ferrucci, dal cui nome venne pure intitolato il primo dormitorio del nuovo Qspizio Marino in Viareggio. Di tutto ciò l'Autrice nostra si compïaceva; ma il suo dolore intenso, per la perdita della figliuola, non scemava; onde quasi «trascorse a cioca disperazione». Ciò confessa ella stessa qui oltre nella lettera 26 luglio 1865. Nuovo sconforto ella ebbe, quando conobbe, che l'avv. Gaetano Orsini di Livorno (fidanzato della sua Rosa, già passata in cielo: deliberò di sposaro altra giovane. Ecco come essa ne scriveva all'amica Bartolina Bertagnini, il 4 ottobre 1859: «Domani compiono 32 mesi dalla morte della mia Rosa. Tempo lungo, e breve per me? lungo, perchè l'ho passato nel dolore, breve, perchè la piango, siccome il giorno, in cui mi lasciò per tornare al seno di Dio. Ho avuto da che non ti ho scritto un'altra cagione di mestizia. L'Orsinï mi annunziò il 6 dello stesso mese, il suo matrimonio con una signorina di Firenze. Non lo biasimo, non lo accuso: ma questa sua deliberazione mi ha fatto pena. Tacio, gli ho scritto amichevelmente; tengo a me il mio dolore, ma sempre più vedo, che ogn'umano appoggio ci manca, e che dobbiamo fidare soltanto in Dio. Ciò per te sola». Poveretta!… Ella confidò quindi in Dio; e si sostenne nell'indicibile dolore, che l'accompagnò per tutta la vita mortale, come si conosce da lettere varie, singolarmente da quelle stampate qui entro.

(Genova), 10-11 novembre (1850).

Mia cara Rosa.—Ho alcuni momenti liberi, e ti scrivo, per dirti, che io penso a tutti voi ad ogni istante, e che il tempo mi sembra di una lunghezza interminabile. Stamane mi sono levata al solito alle [ore] 5, 30: ho pregato, e poi mi sono posta a correggere alcune pagine del povero mio libro, che veramente non so quando, e come potrò finire: alle 7, 30 ho preso un po' di cioccolata col caffè: alle 8 sono andata alla messa, quindi ho condotto a passeggiare le mie bimbe, in compagnia della Gori, che non ho voluto condurmi appresso uno stuolo di maestre. Avevo promesso alle bimbe di farle passeggiare oggi, e siccome esco dopo il mezzodi, e non torno alle Peschiere, che dopo le sette ho voluto mantenere la mia parola la mattina per tempo. Quindi, non appena sono tornata, è venuta la Gherardi, che ha lasciato qui la Teresa. Poi si sono chiamate tutte le maestre, ed ho letto loro il regolamento [1] Il Regolamento per l'Istituto delle Peschiere, popotrà aver luogo nell' ideato vol. Prose e Poesie, inedite o rare, della scrittrice nostra. che jeri feci per esse. Se lo ponessero in esecuzione sarei proprio contenta. Ma… Vengono dimande da altre parti: vedremo poi, se tutte avvranno effetto. Credo, che per bene dell'Istituto dovrò qui rimanere ancora qualche tempo: almeno finchè le classi sono avviate. E poi se si sapesse, che io sono partita, forse si rallenterebbe in molti l'ardore; e il numero delle allieve non crescerebbe. Ciò rimanga sempre fra noi. Ieri fui a Pegli da una signora Bixio, la quale mi fece pensare, che la vera cortesia, non è conosciuta in questi paesi. Quanto sono più gentili i Toscani! Ama, Rosa mia, questa terra ospitale, che ci ha raccolti con tanto amore, e non credere, che le persone, o le cose, le quali da lontano ci sembrano più belle, e migliore di quelle, che abbiamo dinanzi agli occhi, siano, esaminate ben da vicino, simili al tipo ideale, che ne avevamo dentro la mente. P. es I soldati Piemontesi sono certo valorosi: ma non hanno aspetto militare, perchè sono sudici nel vestire, non si tengono bene diritti della persona, ed hanno gesti volgari, e portamento privo affatto di dignità. I nostri granatieri Toscani fanno miglior figura. Lascio per ora, Rosina mia, perchè mi portano la colazione… Pretendono queste Signore avere un'ora per la toelette oltre il tempo dato a tutta la comunità per vestirsi, e per pettinarsi. So che mi tacciano di severità eccessiva: è vero che io qui faccio le leggi: ma è vero altresi, che io sono la prima ad osservarle, anche quando nol potrei. Vedremo: e poi si piglierà partito. Si è aperto l'istituto con una messa udita in Chiesa: poi nella Cappella si è cantato il Veni Creator; il Sacerdote, che è professore di Religione, ha fatto un commoventissimo discorso. Io ho pianto di tenerezza a questa funzione, e ti giuro, Rosa mia, che sono penetrata profondamente della importanza, e della santità del mio ufficio. Appunto per questo, se potessi rifare il fatto, non lo accetterei, chè a compierlo degnamente non basterebbe che vi dedicassi l'intera mia vita. E al modo, con cui sono le cose, forse non sarò salto che una bandiera. Ciò può bastare forse all'incremento dell'Istituto, perchè qui hanno un concetto esagerato, ed in parte falso della povera mia persona; ma ciò non basta alla mia coscienza, e me ne turbo, e ne sono internamente agitata. Onde rinunzierei subito, se non fossi certa, che cagionerei un dànno immenso a queste Signore. Le cose fatte a mezzo non mi sono mai piaciute. Come potrò educare bene queste fanciulle, quando devo e voglio stare separata da loro almeno due terzi dell'anno? L'educare è opera continua: dimanda annegazione intera, amore immenso, istancabile diligenza. Di queste cose mi sentirei capace; ma io ho altri doveri, altri affetti; e forse morrei presto se mi lasciassi trasportare dal desiderio di condurre a fine l'opera incominciata. Chè lontana da voi l'anima mia è come inaridita. Nessuna cosa mi piace; se per un momento mi distraggo tosto ricado nella mia usata mestizia. Chè, te lo ripeto, mi affligge il pensiero di non potere fare qui il bene, che sento, che intendo, e che sarebbe di tanto vantaggio a tutta la patria nostra, e mi agita il desiderio di tornarmene al luogo del mio riposo… Ho piacere, che tu prenda lezione di ballo con le Signorine * * * [1] È veramente curiosa con tale concessione alla figlinola, se si pensa, che in una lettera al fidanzato Michele Ferrucci, del 24 aprile 1827, si mostra in vece di parere contrario con queste parole: «Il tuo coccone… dice che per ora non può insegnarmi il ballo, poichè è occupatissimo per le prove dell'Otello. Quando osso sarà libero, mi presterò per obbedirti a prendere questa lezione. E ti dico che lo farò solo per obbedirti, non essendo ciò di mio piacere. Onde allorchè ci penso, vado fra me ripetendo: Oh Signore! dovrà dunque una donna di tavolino imparare a ballare. Intanto mi studierò ad andare diritta, e quando mi rivedrai, non devrai più lamentarti della mia goftagiue.».. Rileggi un capitolo del mio libro sull'Educaz. morale; deve essere il 1.o del II libro: assicurati, che quanto io vi dice sulle amicizie tra giovini è vero: dunque rifletti, e pondera, e pensa innanzi di stringere nuove amicizie. Sii gentile, semplice, affettuosa con le Signorine, che avranno con te comune la lezione di ballo; ma non ti abbandonare troppo al tuo cuore, il quale ha bisogno di amare, siccome ne fa fede l'entusiasmo, che avesti per la Matilde. Io non ti disdico di avere un'amica: desidero solo, che tu sia guardinga nello eleggerla. Non credere di essere in obbligo di aprire l'animo tuo al modo usato tra i veri amici ad una fanciulla; cui dài del tu: la famigliarità del linguaggio non ha per conseguenza immediata l'unione de cuori, e la comunione intera degli affetti, e de' pensieri. Anche questo sia per noi sole: o solo per la famiglia… Addio, carissima figlia mia, cresci sempre in bontà. Presto desidero che tutti vi andiate a confessare: mi sarà caro di saperne il giorno [1] In altra lettera, del 31 ott. 1850 (è forse la seconda che scrisse da Genova, ove ginuse il 29d'esso mese), le scrive pure: «Non dimenticare di dire ogni mattina le consuete orazioni. Io le dico non appena levata, e vi ho aggiunto le litanie, perchè la Madonna Ss. cicustodisca tutti…». Ciò raccomando in modo speciale al mio Antonio. Vi benedico tutti.

[1] Questa lettera non ha data: ma il Pieri ho notato su la medesima: «Risposto ai 4 decembre 1850». Mario Pieri nacque a Corfù il 21 Febb. 1776. Fu scolaro del Cesarotti, in Padova; e sagret, della repubblica di Corfu. Insegnò belle lettere in Treviso e dal. 1815 nell'Università di Padova. Preso poscia stabile dimora in Firenze, ove morì il 20 maggio 1852. Lasciò, una copiosa Autobiografia e varie Prose e Versi, edite dal Le Monuier in Firenze. La Ferrucci parla della morte del Pieri qui oltre in una lettera, del 22. maggio 1852, al prof. Pier-Alessandro Paravia.

Mio caro Professore.—Due sole righe, perchè al solito sono stretta da mille e diverse cure. So ch'Ella va di tempo in tempo a visitare la mia Rosa e la mia Mamma, e di ciò la ringrazio, siccome di singolare favore. So eziandio, ch'ella ha la bontà di tenermi nella memoria, e di questo meco medesima mi rallegro. Vorrei tornare presto: mala conscienza mi dice, essere bratta cosa lasciare a mezzo l'opera incominciata. Onde rimarrò finchè qui non vegga le classi bene ordinate, e sicura l'obbedienza alle nostre leggi. Chè ho dovuto fare anch'io uno Statuto fondamentale, e prescrivere regole, e norme alle maestre, alle alunne, alle domestiche [1] Ciò ella fece per l'Istituto delle Peschiere in Genova, ov'era come ispottrice o direttrice.. Non sono triste, nè lieta: anzi piuttosto inclinata alla mestizia, che all'allegrezza. Desidero vivamente i miei figli, mio marito, mia madre, i miei amici, la mia famiglia: ed anche senza tutte queste cose carissime desidererei la Toscana, ove è tanta bontà, tanta gentilezza. Qui conosco poche persone: e queste sono da bene e cortesi: ma io appartengo alla scuola de' classici: onde oltre alla bontà intrinseca del concetto amo la splendidezza e la leggiadria della forma.—Suona la campana, e mi chiama in classe, dove si dà una certa lezione, cui io debbo assistere. Mi ricordi al venerando Capponi con vivo affetto e con speciale ossequio. … Tante cose alla marchesa Farinola ed ai Gherardini… Le raccomando la mia famiglia: e mi voglia bene.—La sua C. Ferrucci.

(Genova), 24 novembre 1850.

Mia carissima Rosa.—Penso con mesta tenerezza, e con melanconico desiderio al giorne di domani, in cui ho sempre da tutti voi ricevute tante prove del vostro amore… Abbiamo spesso, anzi sempre, parlato insieme nelle nostre lettere, o degli affari di casa, o di ciò che riguarda i tuoi studi e la tua persona. Non ti ho mai chiesto di ciò, che più importa: cioè dello stato dell'amino tuo. Tu hai molte e molte buone qualità (e di ciò rendi grazie a Dio): un solo difetto ho sempre in te notato, che quelle offusca, e potrebbe un giorno turbare la tua felicità, e renderti meno accetta alle persone, che forse formeranno per te nell'avvenire una nuova famiglia. Già comprendi, che io voglio parlare di quell'estrema vivacità, con cui suoli ricevere le osservazioni, e gli avvertimenti degli altri. Sei più caduta in questo difetto? Non ho voluto chiederne alla Mamma, nè al Babbo, nè ad Antonio, perchè voleva domandarlo a te stessa, onde obbligarti a rientrare nel tuo interno, ed a giudicarti con l'imparzialità della tua retta e timorata coscienza. Più volte ho detto fra me: Rosa continuerà a mostrar dispiacere delle riprensioni giuste, e amorevoli, che le fa alcune volte il fratello? Seguiterà a ricevere con un po' di dispettuccio le correzioni, ch'ei le fa, quando esercita con essa l'ufficio di maestro? Rispondi tu stessa, mia diletrissima Rosa, alle interrogazioni, che io he rivolto a me più e più volte. Sappi, che ho pregato, e prego il Signore a darti spirito di mansuetudine, e di pazienza: e che ogni mattina molto prima dell'alba mi inginocchio, e prego per tutti voi. Ma le mie preghiere saranno di scarso effetto, ove la volontà di voi tutti non si conformi alle mie intenzioni. Voglio sperare, anzi vorrei credere, che dacchè sono partita tu abbia vigilato con tanta attenzione sopra te stessa, che hai represso ogni moto d'impazienza e di vanità. Pure ti prego ad esaminare bene il tuo cuore: e a scrivermi se veramente le mie speranze hanno avuto effetto: e dove fosse altrimenti fa ogni sforzo, adopera ogni diligenza per emendarti. E affinchè questo ti riesca più facile piglia la consuetudine di esaminare ogni sera la tua coscienza, e di notare in un libretto le variazioni del tuo umore. Voglio dire, che segnerai in quello come, e perchè, e quante volte ti sei lasciata vincere dall'impazienza, o da un occulto sentimento d'orgoglio; poichè devi sapere, mia cara, che un po'di superbietta, un po' di vanità entra sempre in quella specie di cruccio, che ci cagionano le altrai riprensioni. Vedrai, che vigilando bene sopra te stessa, e sulle cagioni, che ti fanno, o ti fecero essere intollerante, in poco tempo diventerai mansueta, umile, dolce, paziente, cioè quale deve essere una fanciulla cristana, e una fanciulla istruita: chè senza umiltà non è vera religione, ed è più degli altri umile chi più sa, e quindi meglio conosce quanto siano grandi le imperfezioni della nostra natura (1) Tali ammonimenti riuscirono efficacissimi sull'animo della giovinetta Rosa, che poscia «divenne mansueta, e dolcissima», come narra l'autrice nostra, qui oltre, nella lettera del di 13 agosto dell'anno 1852, al nepote Filippo Ferrucci..

Voleva scriverti ieri, per dirti le cose, che ora ti dico, onde la mia lettera ti giungesse il giorno della mia festa, e fosse per te il più bello dei doni, siccome quella, che racchiude un buon consiglio. Ma passò l'ora della posta prima, che io potessi scriverti. Forse neppure oggi la mia lettera potrà partire. … Becio te, Mamma, Antonio e saluto Giuseppe mio, e Angiolo e Giuseppa. Ti benedico con tutta l'anima.

[1] Giovanni Ghinassi visse dal 1809 al 1870. Come letterato appartenne alla «pura o gentile» scuola letteraria della Romagna; e fu dovoto scolaro di Dionigi Strocchi, di cui pubblicò l'Epistolario e gli Scritti postumi. Nel 1860 il ministro Terenzio Mamiami lo nominò presido del r. Liceo in Faenza sua patria, nel qual ufficio durò fino al 1867. Per maggiori notizie veggasi l'opuscolo del ch. prof. d. Filippo Lanzoni, intitolato Discorsa della vita e degli Scritti di Giovanni Ghinassi, Faenza, 1872.

Faenza, addì 12 febbrajo 1851.

Onorandissima Signora.—Ammiratore qual sono delle maravigliose opere in verso e in prosa, onde suona per tutto il Bel Paese caro e riverito il nome della S. V., ardisco venir Le innanzi con un Saggio de' miei poveri studi, confidando ch'Ella sarà ad accoglierlo benignamente, e con quella cortesia, che rado, si scompagna da nobile intelletto. O come beato io mi chiamerei, se avessi una sola scintilla di quel raro ingegno, ond'Ella ha scemato il grido di Vittoria Colonna, di Tullia d'Aragona, della Gambara e della Stampa e di quante altre poetesse vanta l'Italia, e, quel ch'è più, non teme stringersi al paragone colle Edgeworth, colle Sauvan, e per tacermi d'altre con le più sapienti educatrici, che furono e sono in Europa! Con tali sentimenti, che non vengono già da una bassa adulazione, da cui l'animo mio altamente rifugge, ma da profonda ed intima persuasione, nella sua cara grazia mi raccomando, e pieno di osservanza mi dichiaro—della S. V. chiarissima— U. mo dev.mo servitore—Giovanni Ghinassi.

[1] Il Conte Giovanni Galvani, modenese, visse dal 1806 al 1872. Raffaello Fornaciari (illustro critico vivente) sorisse del Galvani queste parole: «Fu acute fiologo e iusigne provenzalista, come mostrano il suo libro Sulla poesia dei Trovatori, le Ricerche sulle genti in Italia e sulle loro favelle (nel tomo XIV del. 'Archivio storico), la dissertazione Dubbj sulla verità delle dottrine perticariane, il Glassario modanese, o per tacer d'altro, varie versioni dall'antico francese».—Il conte Galvani soleva appellare la nostra scrittrico « la Tarquinia Molza del suo secolo» e le dedicò l'Osserrazioni |sulla| Poesia de'Trovatori |e sulle| principali maniere e forme di essa | confrontate breremente | colle | antiche italiane | Modena | per gli Eredi Soliani | tipografi reali | 1829 (vol. in-8, di p. 528). E tale dedica fecele con lettera, del 1. gen. 1829 (che leggesi a pag. 1-6 di essa opera), di cui si riproduce qui la parte sostanziale. «Quando non è molto tempo, trovandomi costì per alquanti mesi in Bologna, (trattovi solamente dal grande amore ch'io porto alle lettere latine, e del grido che ha in osse a si buon diritto ottenuto il vostro deguissimo e virtuosissimo marito Michele Ferrucci, prediletto alunno di quel nome immortale di Filippo Schiassi), ebbi la ventura di conoscervi, e di ammirare le vostre virtù, ne provai allora di queste quella meraviglia, che suol venire delle cose singolari, e mi parve di vedere in voi, virtuosissima Signora, ritornata all'Italia alcuna di quelle nostre gran Donne del cinqucento. E già io non potrò qui ridirvi la contentezza che mi veniva nell'animo, quan lo io in casa vastra, cioè in mezzo agli studi, passava i miei giorni felicissimi, sebben lontano dalla patria: perciocche o vi faceva tesoro dei precetti del ch. marito vostro, che io chiamerò sempre l'amico e il maestro mio; o in voi, non tanto nella nostra lingua volgare, quante nella latina e nella greca veramente dotta, vedeva quella moglie, che non solo poteva dire con quella di Filone: esserle sufficiente ornatura la virtù del marito, ma che anzi rappresentava la compiuta donna di Crate, il cui mondo muliebre doveano essere gli abiti onesti dell'animo uniti alla vera sapienza. E mi restano sempre alla mente, e mi resteranno, credo, sin che avrò vita, fra le più gradite ricordanze, quelle lunghe sere d'inverno, in cui io con voi, o Signora, ragionando de' nostri studi, e leggendo a canto il fuoco quelle divine Filosofiche di Cicerone, ingannavamo così il tempo, che ci pareva non dovere invidiare alle maggiori delizie delle allegre brigate. Ma in quelle bellissime sere non sempre stemmo con Cicorone; voi, se ben vi ricorda, mi andavato tontando a discorrervi della lingua provenzale, allo studio della quale sapevate ch'io da parecchi anni passati aveva volto l'animo, e vi compiacevate di sentirne, o quello che io ne riteneva, o que' cenni, distinzioni, ed esempi che mi trovava aver scritti, ed anzi cosi valeva in voi o la vostra natural gentilezza, ovvero la naturale allegrezza e novità di questa lingua, che, almeno riguardande a questa novità, mi confortavate a ordinare le mie schede, e a darle fuori a diletto comune. Voleste di più dar opera per alcun tempo ad esseo provenzale, e tanta è la felicità dell'ingegno vostro, che certo vi faceste per allora progressi grandissimi, e di questi Trovatori vi compiaceste mirabilmente. Io allora vi contessso, o Signora, che non poco restai commosso dal e vostre parole, alle quali pure si univano quelle di alcuni amici miei, che avevano meco voluto tentar questo studio, e pensai allora per la prima volta non inutili affatto, quelle meschine esservazioni, che a diletto mio aveva racolte, e ad invio di colore che qui in patria studiano ne' Trovatori: le quali nulla mono io non avrei mai pensato di pubblicare, se non mi fosse soccorso all'animo, che, intitolandole a voi, e Signora, avrci fatto, ciò che raro ad altri suole intervenire, due beni. Dico un bene a me primamento, attestando cosi al mondo la somma reverenza in che io vi ho, e servendo, nella mia povertà, almeno da banditore delle vostre singolari virtù; a queste mie lettere poi spezialmente, comechè io creda che nessun miglior beneficio potessi io procurar loro, di quello che se col mezzo di questa mia operetta potesse avvenire, che quelle amore che già ci poneste, lo accresceste poscia per modo che voleste darvi a pubblicare alcune fra le rime de' Trovatori, tradurle, e con quella vostra ricca e profonda poetica facoltà mostrarle nella sua lingua all'Italia.».

Genova, 2 settembre 1851.

Gentilissimo Sig.r Cavaliere.—Il sig.r Prospero Viani, che torna per breve tempo alla sua famiglia, ha la speranza di vederla, e di farle riverenza. Io voglio dargli questa lettera per lei, onde con essa mi richiami alla sua memoria, nella quale, confido, che la sua cortesia mi serberà sempre l'antico luogo. Ella forse saprà come io qui abbia l'ufficio di sopraintendere ad un collegio di educazione novellamente aperto per le zitelle in questa città. Se Dio mi ajuta spero, che ne usciranno giovani ornate d'ogni gentil costume, redigiose, modeste, e quali si possono desiderare da ogni buona, e savia madre. Il Viani m'ajuta in quest'opera, insegnando lettere italiane, e storia alle nostre fanciulle, le quali negl'esami hanno ora dato di sè bella prova. La mia coscienza mi dice, che reggendo questo instituto faccio opera buona, e veramente cristiana.

So che alcuni interpretano male le mie intenzioni, o piuttosto quelle di chi fondò l'istituto [1] Veggasi, in proposito, qui dietro a pagina 256.. Ove anche a lei fossero giunte tali voci le abbia per mendaci; e quando avvenisse, che al Viani si volesse dare carico di tenere l'ufficio, che qui tiene, Ella lo discolpi con l'autorità sua. Egli ha condotto vita solitaria, e ritiratissima; nen occupandosi in altro, che ne' suoi studj, ed al pari di me ha fuggito di vedere gente, di frequentare la sociètà, e di pigliar parte alle passioni, che agitano vanamente quasi tutte le menti in questi infelicissimi tempi. Di ciò io gli faccio solenne testimonianza, e la faccio a lei, dal quale la mia parola sarà per certo creduta. Io non temo, che il Viani possa incontrare molestie, nè dispiaceri: ove però in alcuna cosa l'autorità sua potesse giovargli io a lei lo raccomando, siccome persona proprio da bene, ed amicissima di tutta la mia famiglia. Partirò per Toscana fra due giorni: s'ella vuol comandarmi non mi risparmi; chè mi terrò onoratissima di fare cosa, che a lei sia grata. Ed augurandole di cuore ogni bene mi dico con vero ossequio—Sua dev.ma obbl.ma serva—Caterina Franceschi Ferrucci.

(Firenze), 18 ottobre 1851.

Mio caro Giovani.—Grezie dell'amorevolissima letterina, alla quale non avrei tardato a rispondere, se non avessi avuto l'animo molto affitto e turbato. La coscienza, e la cura del mio onore m'hanno costretta a deporre il mio officio di Genova. Ciò ha costato molto al mio cuore, ma non poteva fare altrimenti. Ora mi scrivono, che verrà un Signore del Consiglio per trattare del modo, col quale sarà fatta palese la mia risoluzione, e mi si chiedono prove luminose di affetto verso l'Instituto. Viltà pari alla ingratitudine! Non mancherò mai al vero, perchè non posso far cosa contro coscienza. Siano contente se annunzio, senz'altro, che non ho più in quel luogo ingerenza alcuna. [1] La rinuncia di Caterina all'ufficio di Ispettrice nell'Istituto femminile delle Peschiere in Genova, doveva essere pubblicata il 28 ottobre 1851 nella Gazzetta Piemontese, nella Gazzetta di Genova e nel Risorgimento. Gianni mio, e pur difficile, se non impossibile, fare un po' di bene in mezzo a questo turbine di passioni ond'è travolta la società. La vanità e l'invidia da una parte, le mie opinioni politiche e religiose dall'altra hanno suscitato le nimiezie, onde ho patito si fiera guerra [1] La «fiera guerra» le venne da alcune maestre sue dipendenti, come si arguisce anche da ciò ch'essa scrivova alla figlia Rosa fir dall 10-11 nov. dell'anno 1850, (pag. 261). Ed il ne, ote dell'autrice dott. d. Filippo Ferrucci mi scriveva in proposito, il 20 luglio di quest'anno 1910, che Prospero Viani «beneficate dalla Ferrucci, che lo fece nominare professore all'Istituto delle Peschiere, le fu ingratissimo, facendo lega co' suoi nemici per costringerla ad abbandonare la direzione di quello, e rompendo con ici ogni amicizia!» Ma qui non è da tener conto della «Pessima indole» del Viani, chè troppo è nota nel suo Dizionario dei… Francesismi, ove «con linguaggio facchinesco vitupera quanti non pensavano come lui». Piuttosto è da ricordare, che l'autrice nostra fu osteggiata capricciosamente e ingiustamente pel suo zele, pel suo retto operare. Un fatto solenne lo conferma; cioè la «costante amorevolezza» ch'ella ebbe dalla eccellentissima donna Adelaide Plezza, nata Cavallini, moglie del senatore Giacomo Plezza, ministro di Carlo Alberto nel 1848, «esempio della donna buona, amabile, cristiana», morta nel marzo del 1854. Costei, che aveva collocato nell'Istituto delle Peschiere le proprie figliuole, Elona e Clelia, le ritirò subito, dopo che la Ferrucci ne rinunciò la Direzione, e le affidè alla Ferrucci stessa in Firenzo, affinchè alla sua scuola quotidiana s'istruissero rettamente. E la Ferrucci se ne compiaceva oltremodo. In una lettera al prof. Paravia, del 29 aprile 1852, scrive: «Lo fanciulle Plezza mi fanno molto contenta: sono giovinette d'indole soave, di acuto ingegno, e studiosissime». E come la Plezza fecero altre distinte famiglie, tolsero le figliuole dall'Istituto dopo che la Ferrucci parti. La Bianca Rebizzo, fondatrice, non potè convincere la Ferrucci a rimanere alla Direzione: sperava sostituirla con altra donna valente e illustre. Andò quindi a Pinerolo «per pregare la signora Giulia Colombini» (1812-1879), nota anche per alcuni scritti assai lodati, offrendo: e l'ufficio «con 5. mila franchi» all'anno; ria la signora Colombini ricusò; onde non passò molto tempo, che l'Istituto fu chiuso per sempre, come s'è detto qui dietro a pag. 256.. Ma io non arrossirò mai d'esser buona cattolica, nè mai rinunzierò alle opinioni mie moderate per dare negli eccessi delle fazioni. Beato voi, che ve ne state costà ne'vostri menti! Cosi potessi esservi anch'io! Avrei proprio bisogno di quiete, di solitudine, di campagna.

Quando verrete vi narrerò per minuto tutta questa turpe storia di Genova, e ne proverete sdegno, e pietà. Antonio, grazie a Dio, sta bene: lietissimo della sua sposa [1] Su Antonio Ferrucci e la sua sposa Silvia Brigenti, veggasi qui dietro a pag. 166., amatissima da tutti i nuovi parenti suoi. La Mamma, Rosa, Geppe e Michele vi salutano caramente… Addio, caro Amico. Vogliateci bene.

La vostra C. Ferrucci.

[1] Pier-Alessandro Paravia nacque a Zara (Dalmazia), il 15 luglio 1797. Fu letterato e scrittore insigne; insegnò in Venezia e Padova; e nel 1831, per opera del conte Francesco Galcani Napione, fu chiamato prof. di eloquenza nell'Università di Torino, dove insegnò pure la storia e la mitologia, amato e stimato dagli scolari numerosi, dai colleghi e da tutti i dotti del suo tempo, co' quali ebbe corrispondenza, fra cui il Cesari, il Monti ecc. Fece dono a Zara della sua cospicua biblioteca, raccolta da lui con grande amore e pazienza. Morì in Torino il 18 marzo 1857, lasciando molti scritti inediti. Nella Galeria Superiore dell'Università di Torino fu scolpita la sua erma dal Rinaldi, e la sua Vita fu scritta da mons. Jacobo Bornardi.

Firenze, 20 aprile 1852.

Mio caro e venerato Signore.—Se di rado le scrivo, penso però di frequente a lei, e con desiderio ricordo il piacere, che provava quand'Ella era qui tra noi, e ci rallegrava delle sue visite. Faccia, che questo piacere ci si rinnovi, e venga e Firenze per le future vacanze. Noi le faremo la festa, che si conviene a caro, e veneratissimo amico.—Ho letto la sua eloquente Orazione, e la non meno bella Prelezione: nè so dirle quanto ne abbia goduto l'animo vedendo come il Piemonte abbia in lei un caldo amatore delle antiche eleganze, un magnanimo difensore della classica letteratura, un coraggioso sostenitore di quelle dottrine, che già ne dettero tanta gloria, e che ora dai più sono neglette, o dimenticate. Quel ch'Ella dice intorno all'abuso dello spirito, e al mal'uso della stampa è verità incontrastabile: vorrei che le sue parole si scolpissero nelle menti di tutti i giovani. In somma io ho ammirato ugualmente il suo senno, e la sua facondia: solo avrei desiderato, che il suo libro fosse di maggior mole, perchè il mio piacere non venisse menosi tosto…

Io potrei star meglio in salute. Ma sopporto senza lagnarmi i miei incomodi, e cerco dimenticarli studiando. Dimani mando a Genova la 3.a ed ultima parte delle mie Letture morali. La 2.a è in corso di stampa. Farò ch'Ella abbia questi libretti, i quali, siccome il primo, raccomando alla sua bontà.

Addio, caro Signore. Perchè mai siamo così lontani? Il Pieri sta meglio assai: venne una sera a vederci col Capponi. Mille cose ai comuni amici. La mia famiglia le si ricorda con grande affetto, ed io sono di cuore —Sua aff. serva ed amica—C: Franceschi Ferrucci.

[1] Di Giov. Battista Niccolini, prosantore e poeta, ricordato pure qui dietro a pag. 127 e 178, ogni elogio sarebbe superfline, dopo la presento lettera della Ferrucci.

Pisa, 8 maggio 1845 (*) Questa lettera giunse troppo tardi per essere collecata al luogo dovuto, sotto l'anno 1845..

Caro e venerato Signore.—Un ginevrino nostro amico, il sig. Ouy, dotto, buono, e cortese non vuole lasciare l'Italia senza avere salutato alcuno di quei, che ne tengono viva la gloria: onde soddisfare a questo suo desiderio, io lo presento a lei, cui tanto devela nostra nazione; a lei, che unisce tanta bontà a tanto ingegno, e a tanta sapienza. Questa bontà, per la quale ognuno che la conosce l'amadi grande affetto, mi fa esser certa, ch'Ella accoglierà amorevolmente l'amico nostro, che per ogni rispetto è degnissimo di essere da lei conosciuto. Non so quando potrò fare una corsa sino a Firenze: uno dei maggiori piaceri che ne ritrarrei, sarebbe il rivederla, e il passare alcune ore con lei.—Perchè Ella non viene e Pisa? Sarebbe un'allegrezza per tutti gli amici saoi. Mio marito la riverisce con singolare affetto. Noi viviamo contenti in questa pace Pisana, lieti delle dolcezze della famiglia, e della compagnia di pochi amici.—Addio, caro Signore, mi tenga nella sua memoria, e sia persuaso della mia vera, e affettuosa devozione.—La sua Caterina Ferrucci.

Firenze, 22 maggio 1852.

Mio caro, e venerato Amico.—Apportatrice di grande, e giusto dolore le sarà certo questa mia lettera. Il nostro Pieri [1] Il prof. Mario Pieri, di cui si parla a pag. 265. non e più. Egli spirò il giorno 20 alle ore 7, e 10 minuti della sera, dopo una brevissima malattia. È compianto da quanti lo conobbero,

o intesero commendare le virtù sue. Io non so darmi pace della sua morte, avendo perduto in esso un provato, e leale amico, un raro esempio di vera, e forte bontà. Come prima seppi, ch'egli era in grave pericolo della vita corsi a vederlo, e a profferirgli l'assistenza, e gli uffici d'una sorella. Non volle permettermi di rimanere vicino a lui: mi ringraziò, mi disse, che non poteva reggere a lungo alla fierezza del male, e che se dovea morire, bramava uscir presto di pena. Gli parlai di lei, e mi rispose con fioca voce: «Lo riverisca tanto in mio nome».—Il giorno appresso fece dire a una donna, che per me chiedeva delle sue nuove: «Riferisca alla Ferrucci, che già sono quasi nell'altro mondo». E in fatti un quarto dopo più non viveva! Mio figlio giunse pochi istanti dopo la sua morte, e lo vide composto nel sonno eterno in atto placido e dignitoso.—Povero Pieri! Parea guarite, usciva, passeggiava, leggeva, in somma non era punto mutato da quello degli anni scorsi. Sabato andò al Parterre fuori di Porta. S. Gallo, ebbe caldo, si assise all'ombra, e vi rimase buon tempo. Tornato a casa pranzò con appetito, ma in sulla sera fu preso da molto affanno con molta tosse, e con febbre. Pare, che il suo male sia stato una violenta infiammazione di petto. Ha lasciato la sua Biblioteca alla sua patria: i manoscritti ad una Biblioteca di Firenze: il suo poco denaro ad una sorella: le masserizie di casa alla donna, che lo ha servito per 12 anni con meravigliosa affezione. Sarà sepolto a Livorno, non essendo qui il Cimitero per la sua nazione.—Spero, ch'Ella ricorderà in alcuno di codesti giornali quanto buono e sapiente fosse l'amico nostro. Egli ha sempre desiderato la gloria: e non poca ne verrà certo alla sua memoria dove sia lodato da lei.

… Faccia di venire a Firenze nelle prossime vacanze, mi voglia bene, e viva all'onore delle nostre lettere, e della patria… Saluti gli amici miei, e mi creda—la sua aff. C. Ferrucci.

(Firenze), 10 novembre 1852.

Mio caro Marchino.—Avrete forse ricevuta una mia lettera… Io sono sempre più afflitta della morte del Gioberti [1] L'ab. Vincenzo Gioberti, celebre filosofo ed eloquente scrittore (nato a Torino il 5 aprile 1801 e morto in Parigi il 26 ottobre 1852), e ricordato pure qui dietro nelle pagine 204, 207—11, 216, 222 e 247.. Abbiamo fatto una perdita irreparabile, nè so chi potrebbe ristorarcene. Non mi è riuscito di scrivere una linea, nè di studiare quietamente dal giorno in che mi fu data l'infausta novella. Egli era molto buono per me: sempre m'incoraggiava, sempre mi dava sprone a continuare gli studi miei [1] In altra lettera, del dì 5, gli scriveva:» Io sono afflittissima per la morte del Gioberti. Non so veramente darmene pace. Oltre alla riverenza che gli portava, e gli porto, io ho per lui molta gratitudine, avendomi sempre mostrato tanta bontà. quanto io certo non merito».. E poi siamo rimasi in buia notte, senza neppure una stella. Anche a me pare che i più non abbiano sentito il grave danno, a che soggiace per la morte d'un sì grande uomo l'Italia, e la filosofia. Secolo di vane parole e di affetti meschinissimi è questo nostro! Secolo in vero di donnicciuole! Io ne sono scorata, e tra lo sdegno e il dolore perdo la voglia di fare il poco che io posso. Inoltre non mi sento bene, nè sono lieta. Ma tiriamo innazi, chè ogni giorno più ci avviciniamo all'estremo, e al fine avremo pace in un altro mondo assai più giusto, e più felice del nostro…

C. Ferrucci.

[1] Franceschi Teodolinda in Pignocchi, nata a Civitella di Romagna l'anno 1816. fu «celebre improvvisatrice e scrittrice, di cui vuolsi che facesse versi ad Il anni e prendesse marito a 14». Fu direttrico della scuola normale femminile in Bologna, ove fini questa vita nell'anno 1894. Di questa poetessa furono pubblicate le poesie in 2 volumetti: Rime di T. F. P. (Bologna tip. Fava e Garagnani, 1869), e Nuove Rime di T. F. P. (Bologna, tip. Fava e Garagnani, 1873). La prima raccolta, dedicata ai genitori dell'autrice, dott. Michele Franceschi e Demenica Versari), ha una prefazione di di Francesco Zambrini. Una scelta di Poesie di questa scrittrice diede pure Prospero Viani (Firenze, co' tipi del Le Monnier, 1859), alla quale antepose un elegante avvertimente, ove afferma, che la Pignocchi «nobilitò sempre», anche i temi più comuni «con utili ed opportuni pensieri, traendo l'arte non a vane o superbe adulazioni, come fanno gl' ingegni sterili e dappochi, ma sempre ad uffizio vicile, ad amore patrio, a morali e casalinghe virtù.»

Cervia, 1.o luglio 1840 (*) Questa lettera giunse troppo tardi per essere collocata al luogo dovuto, sotto l'anno 1840..

Egregia signora Caterina.—Sono undici anni, che io da Lei ricevetti una cortesissima lettera in riscontro ad una mia, indirizzatale in Bologna, e fin da quel tempo ho sempre nutrita vivissima tenerezza di stima pel suo bell'animo, e per le sue belle virtù. —In quell'epoca appena io toccava il tredicesimo anno, età nella quale si ricevono sì fortemente le impressioni nel cuore da non cancellarle più mai.

Le rare, e veramente sablimi di Lei poesie, in m'accendono spesse volte nel desiderio della fronda onorata, che non mi verrà dato di cingere giammai, per mille obbietti insormontabili, chè da questo basso fondo ove giacio, anco la vista m'involano dell'erto giogo di Pindo.

Pure fe' tanta forza alla mente il leggiadro Inno da Lei composto all'Armonia, che potei, dietro a continue sollecitadini altrui, serivere un Ode a Domenico Donzelli, ben degno d'altra penna che della mia. La poesia incontrò nella censura de' revisori, che rinvennero nazionale, e provvidente all'umana famiglia, e a me fu d'uopo modificarla, così togliendole quel po' di merito, che avea sortito col nascere.

E perchè ispirata ad un pensiero nobilissimo della S. V., così povera com'è ardisco inviarla a Lei. Possa un Suo riso racconsolarda, e meritare a me un ricambio d'affetto, che io per Lei sento ardentissimo.—Volesse una buona fortuna degnarmi della Sua vista anzichè io muoja; allora oblierei per cotanto bene, le triste cure dell'animo, che ora mi rendono infelice la vita.

Due miei piccoli figli già di Lei riveriscono il nome: Ella se ha di questi dolci pegni d'amor coniugale, loro rammenti come io pure con quel nome mi chiami, e presenti la mia ossequiosa stima al Suo chiarissimo Sposo.

Ella continui a dar saggi del Suo raro ingegno a gloria della nostra misera Patria, e non dimentichi me, che mi terrei avventurata ogni volta, che mi giungesse una produzione dell'onorata Sua musa.—E intanto, colla riverenza che le si deve, gradisca sebbene in tanta distanza, un tenerissimo bacio.—Sua aff.ma e dev.ma ammiratrice—Teodolinda Franceschi Pignocchi.

Pisa, 21 novembre 1853.

Mio caro Marchino.—Rispondo senza indugio alla amorevolissima vestra del 91….

È una delle tante tribolazioni della mia vita il non avere mai un momento a me, l'essere sempre con altri, anche quando mi piacerebbe di favellare liberamente con un amico. Ora vi dico che ie non sono lieta, che non mi sento bene, e che vado di giorno in giorno perdendo il più caro conforto che avessi al mondo, quello cioè di conversare coi miei pensieri e di darmi tutta ai mici dolci studi. Ho troppo a fare; ho troppe cose che, o mi turbano, e mi affaticano; e poi sone sconfortata ponendo mente alla qualità de nostri costumi. Ove sone que' tempi in cui i giovani cercavano con amore umile e fervente la verità? In cui gli uomini maturi la pubblicavano senza paura, ed era in tutte le persone civili riverenza della virtù, e desiderio di bella fama? Ora si pensa solo al guadagno; non d'altro si tien conto che del piacere, e siamo divenuti barbari, non per naturale rozzezza, ma per superba ignoranza e per dispregio d'ogni cosa nobile ed alta [1] In altra lettera, del 23 giug. 1872, a Lucile Perrevve a proposito dell'assedio di Parigi e delle sventure della Francia: «Dio è sdegnato col genere umano, perchè i costumi sono dovunque corrotti, il materialismo piglia il luogo della religione, e gli uomini vivono solo per loro utile, e pe' loro piaceri. Anche da noi si prega, ma i più sono cristiani di nome, pagani, e peggio, di cuore»..

Io morirei contenta se vedessi risplendere almeno un barlume di tempi migliori, cioè di più onesti e di meno corrotti. Ma ormai ne ho perduta la speranza, e me ne affliggo, e ne piango nel mio secreto, poichè mi manca perfino il conforto di comunicare ad altri i miei desideri ed i miei dolori. Ho finito di scrivere un libro intorno agli stadi delle donne, ch'è il compimento dei miei diversi lavori intorno alla educazione (1) Degli siudii delle donne, libri quattro di C. F. F..; Torino, eugini Pomba, 1853, vol. in-lo.. Se ora potessi trovare un argomento che mi piacesse, forse scrivendo vincerei la mestizia che ho nell'animo e nella mente. Voleva dettare in italiano, ampliandole e variandole in molte parti, quelle lezioni che feci e lessi a Ginevra intorno alla nostra letteratura. Ma è un lavoro che farei con la testa e non col cuore, e per ciò temo mi riuscirebbe noioso (2) Tale lavoro fece poi davvero, ed è quello su I primi quattro secoli della letteratura italiana dal secolo XIII al XVI; Firenze, Barbèra, 1856—58, in 2 volumi..

Mi è venuto in pensiero di scrivere un trattato di morale per le donne e per le persone che non sono versate in filosofia [1] Il libro ideato dall'Autrice è certo quello che vide la luce, vari anni dopo, con questo titolo: Ai giocani italiani: ammaestramenti religiosi e morali; Firenze, Sucessori Le Monnier, 1877.. Questo soggetto mi piacerebbe, perchè consuona con lo stato dell'animo mio, desideroso di fare il bene o almeno di consigliarlo. Ditemi, ve ne prego, l'avviso vostro, e se vi cade in mente un altro argomento che fosse da me, scrivetemi, ed io comincierò a pensarci. Scusate la lunghezza della mia lettera. Voleva scrivervi brevemente ed in pochi minuti ho già pieno il foglio. Parvemi di conversare con voi, non lontano, ma presente. Addio, carissimo amico. State sano ed amatemi.—Vostra aff.ma

C. Ferrucci.

[2] Edita così da Averardo Pippi in un opuscolo sul Bicchierai.—Zanobi Bicchierai, nato in Prato il 1. dicembre 1816, fu insegnante di letteratura in alcuni Istituti fiorentini; fra l'altre cose pubblicò un'Antologia poetica, nella quale si trova la Canzone della Ferrucci I fiori e le stelle; e morì nell'anno… Il Pippi, nel detto opuscolo, fa una chiosa così: «Questa lettera rispecchia tutto l'animo nobile e semplice dell'egregia donna che la scrisse. Povera signora Caterinal Anch'essa è scesa tostè nel sepolcro a raggiungervi la figlia tanto pianta, il marito tanto desiderato, col quale era vissuta cinquantaquattro anni nel più completo accordo, avverando la bella e pietosa frase di Tacito: vixerunt mira concordia, per mutuam caritatem, invicem se anteponendo. Da sei anni si era ritirata a Firenze dopo aver vissuto col marito a Bologna, a Ginevra, a Pisa, onorata dagli uomini più illustri l'Italia, e d'Europa, corrispondendo degnamente alle alte speranze che di lei giovinetta avevan concepito il Leopardi e il Puccinotti, e mostrando nelle opere sue, in prosa e in verso, maturità virile d'ingegno, fantasia potente e serena. Ora viveva quasi dimenticata, e una dolorosa malattia la rendeva quasi impo tente a muoversi, ma il suo eloquio nobilissimo rivelava la grande superiorità dell'animo, e tutte le volte che ti accadeva di entrare nella modesta stanza, dove passava rassegnata e paziente le sue lunghe giornate, tu ti sentivi levare in un'atmosfera alta, e ne uscivi confortato di buone speranze e purificato di affetti. Ho voluto additarla a voi giovinette, perchè ne imitiate le virtù, e cercate con essa nei buoni studi un nobile alimento allo spirito».

(Pisa,… 1855).

Pregiatissimo Signore.—Ho ricevuto da mio figlio la bellissima Antologia e le rendo infinite grazie non solo l'un dono sì eletto, ma più ancora della bontà con che Ella ha portato giudizio intorno ad alcune mie povere rime, ponendole nella sua raccolta, nella quale fanno l'effetto delle macchie nel sole. Or quanto io meglio d'ogni altro ne conosco la povertà, tanto più mi reputo obbligata alla rara sua cortesia. Ella ha fatto opera di buon italiano, dando ai giovani studiosi raccolte tante e sì nobili rime. E dove voglia continuare l'opera sua pubblicando altre antologie di prose e massime di prose morali, mentre a lei ne crescerà onore, ne verrà pure grandissimo beneflzio alla patria nostra, la quale sopratutto ha bisogno di buoni studi e di buoni affetti.

[1] Questa lettera si conserva nella Biblioteca Roncioniana di Prato (nel Carteggio del Benini). Giuseppe Benini nacque in Prato (prov. di Firenze) il 23 gennajo del 1799, ove fece i primi studi. Nel 1815 passò all'Università di Pisa, e si laureò in giurisprudenza il 7 giugno 1819. Visse poscia alcun tempo in Firenze, facendosi amico dell'avv. Vincenzo Salvagnoli, del giureconsulto Vincenzo Giannini e di altri, tra cui Gio. Pietro Vieusseaux e il Tommasèo. Ritornato in Prato si dedicò tutto agli studi storici-letterari e al bene de' propri concittadini, che lo perdettero il 15 dicembre dell'anno 1866. Veggasi, per maggiori notizie, le Biografie di Cesare Guasti; Prato, tip. succ. Vestri, 1895, pag. 172—181.

Pisa, 19 settembre 1855.

Preg.mo Signore.—Da vari giorni voleva scriverle, e così mio marito, per significarle il vero, e profondo dolore, che abbiamo sentito, e sentiremo sempre per la sua nuova, immensa sventura. Era anche nostro devere di ringraziarla di essersi ricordato di noi in mezzo alla sua afflizione. Ma afflitti e tremanti noi pure per i nostri Figli di Firenze abbiamo indugiato a dirle come sia sincera la nostra compassione, come vivo il rammarico per quell'angelica vita spenta nel suo primo fiorire [1] Allude al colera, che anche in Prato s'ora manifestato, e per cui perirono vari abitanti, fra cui il prof. ab. Giuseppe Arcangeli (di cui si parla pure a pag, 193—194) e due due figlie dello stesso Benini.. Ora una lettera di mia nuora m'induc a scriverle subito. Essa ci annunzia, che il nostro caro e venerato amico Giuseppe Arcangeli ha ricevuto l'estrema unzione. So dal prof.e Centofanti, che è in casa sua. Ci rimane ancora un filo debole di speranza: ne dica, se possiamo a questa abbandonarci, o se dovremo spargere nuove lagrime! Mio marito è così sopraffatto dal dolore, che a me ha dato l'incarico di esprimerle la sua pietà, la sua riconscenza, e di farle una preghiera, che renderà questa più viva. Egli ama, e stima molto l'Arcangeli, e non può sopportare il pensiero di perderlo [1] In altra lettera, del 18 stesso mese, goli scriveva: «La morte dell'Arcangeli sarebbe una pubblica sventura essendo egli de' pochi, che fanno onore alla Toscana». Morì precisamente nello stesso di (18 sett. 1855). Onde in altra lett. del dì 24, al detto Benini, lamentava la perdita dell'amico come «pubblica calamità»; desiderosa di onorarlo, «sebbene egli non abbia bisogno, che altri onori il suo nome, avendolo da sè onorat».. Ah caro Signore! Iddio ci percuote: sia benedetto! ma la debole umanità si risente, e sebbene rassegnati non ci è disdetto di piangere. Quindi io piango con lei mentre mi dico—Sua dev.ma obb.ma serva—Caterina F. Ferrucci.

[2] Il senatore Marco Tabarrini, nacque a Pomarance nella Maremma Toscana l'anno 1818. Laureato in legge, prese parte alla guerra del 1848, quindi tenne diversi uffici civili nel governo toscano ed itlaiano, del quale fu presidende del consiglio di Stato e vice, prosidente del Senat. Scrisse alcuni lavori storici, assai stimati per la forma eletta e per la dottrina, onde divenne accademico residente della Crusca, poscia segretario, indi arciconsolo. Morì in roma il 14 gennaio dell'anno 1898. Fra le opere del Tabarrini è notevole il vol., edito in Firenze da G. Barbèra, nel 1884, col titolo: Vite e Ricordi d'Italiani illustri del secolo XIX.

(Pisa), 26 febbraio 1857.

Mio caro Tabarrini.—Grazie della parte, che prendete al nostro dolore, immenso quanto era immensa la bontà della mia Rosa [1] Rosa, figlia dell'Autrice nostra, che mori ventiduenne ai 5 febbraio del 1857, e fu sepolta in S. Croce di Firenze.. Avete ragione, Non è rotta la catena di affetto, che a lei mi univa. La sento nell'anima mia, la vedo nel mio cuore: piego la volontà ai decreti d'Iddio, ma piango, e piangerò sempre. La mia vita è spezzata: non sono che un'ombra di quella, che io fui. Compiangetemi: ho perduto la parte più intima di me stessa. Rosa fu un angiolo in vita. fu santa in morte. Mi benedisse, e mi esortò a cercare consolazione nelle opere di carità. Senti l'amarezza del sacrifizio, che Dio voleva da lei: ma chinò il capo disse con fed, fiat volontas tus, e con una voce, che pareva celeste, intuonò le litanie, e dopo fu tutta del Signore. Che Dio vi preservi da sventure eguali alle nostre. Salutate l'Adele, le buone Targioni, e vogliatemi bene. Addio.

[1] La presente lettera fu edita in Memorie di un editore, pubblicate dai figli, Firenze, G. Barbèra, 1883, pag, 547.—Gaspare Barbèra, editore, nacque in Torino nel 1818: giovine si recò a Firenze presso la tip. di Felice Le Monnier, di cui diresse la famosa raccolta e Bibloteca nazionale. Nel 1855 fondò con Celestino Bianchi ed altri la casa edit., che del suo nome ritenne iltitolo. Morì in Firenze a'13 marzo 1880; e lasciò scritte le sue Memorie sopra indicate.

Pisa, 3 maggio 1857.

Pregiatissimo Signore,—Finalmente Lescrivo, e non per dirle che ho in pronto il volume, anzi per dirle che lo stato della mia mente e del mio cuore ora è tale, che se ponessi mano a terminarlo farei un lavoro da fare arrossire me a Lei [2] Allude alla propria opera, che vide la luce col titolo I primi quattro secoli della letteratura italianadal secolo XIII; Firenze, Barbèra e Bianchi, 1856—1858, in 2 volumi.. Non ho più memoria, non ho più intelligenza, nè fantasia. Non posso pensare che alla mia Rosa: piango, mi struggo nel desiderio di rivederla ove più non mi sarà tolta. Se potrò riacquistare le facoltà della mente, mi proverò a finire il volume. Quando? Dio solo lo sa. Ove fra qualche mese mi trovi sempre così smemorata, così stordita, le proporrò, se le piace, di stampare ciò che ho fatto con una mia nota in fine, in cui si spieghi la cagione dell'interrotto lavoro. Ora non potrei fare nemmeno questo; perchè devo correggere un terzo del manoscritto, ricopiarlo, porvi molte citazioni, e la mia povera testa non n'è capace. Già glielo scrissi: Se Rosa muore, la mia vita intellettuale è finita. Glielo scriveva, perchè sapeva quello che la sua morte avrebbe fatto in me. Viveva in essa, e sono morta con con lei. Ora ho desiderio vivissimo di pubblicare certi suoi piccoli scritti religiosi e morali, in cui si vede la bellezza dell'anima sua. Voglio premettervi una breve notizia della sua vita. Credo che potrò fare questo lavoro, perchè lo farà da sè il mio cuore. Mi pare che facendo una edizione con caratteri simili a quelli del mio libro, ed anche un poco più grandi, in tutto verrebbe un volumetto di circa duecento pagine. Lo farò a mio conto, per dispensarlo copie. Se ne avrò forza (ogni parola che scrivo mi costa una lagrima) desidero di avere in pronto il manoscritto per i primi di giugno p. v. e di pubblicare il volumetto pel di 2 luglio, giorno in cui la mia povera flglia avrebbe compiti 22 anni. Vuole Ella farsi mio Tipografo? E a quali patti? Se le conviene, e che a me convenga la spesa, le manderò il manoscritto appena lo avrò in prondto, ed Ella poi mi manderà lebozze (1) In altra elttera a Pietro Bruneli, del 27 agesto 1857, parlando della morte della figlia Rosa, scrive: «Fra tre settimane circa, sarà pubblicato un volumetto in cui è una biografia di Rosa con alcuni suoi, scritti. Il Card. Arcivescovo [il piissimo arcivescovo primaziale di Pisa Cosimo dei Marchesi Corsi], che seppe dal cofessore di rosa la santità della sua morte, e alcuni particolari della sua vita, mi pregò andassi da lui, e mi esortò a scrivere la biografia di essa, sperandone edificazione per le giovanette, Vi ho inserite molte delle sue lettere allo sposo…». Tale volumetto uscì poi con questo frontispizio: Rosa Ferucci e alcuni suoi scritti, pubblicati per cura di Caterina Ferrucci sua madre; Firenze, Barbèra, 1857, in-16. Di esso parla Cesare Guasti e Cesare Cantù nelle due lettere seguenti. E Raffaello Lambruschini in una lettera (7 nov. 1857) alla Caterina nostra, lo chiama «prezioso libro», che «muove all'ammirazione e al pianto». Luigi Venturi (1812—1890), le scrisse pure (6 ottob. 1857); e confessava di ammirare nel detto libro «potenza d'ingegno e dirittura di mente e forza di studi e bontà d'animo singolarissim». Il medesimo afferma inoltre, che il libro racchiude «tutta l'eloquenza d. I dolore, e tutto il fuoco dell'amore materno», che «per fermo debba aversi per una buona azione»; perchè racchinde «belli ed utili insegnamenti di storia, di critica, di fiologia»; e perchè «spira da esso una purità di sentimenti e una dolcezza di cristiana virtù, che porta seco la persuasione del precettto, mentre innamora con la facilità dell'esempio». E per suggello va riferito il giudicio dell'eminentiss. Card. G. Baluffi vescovo di Imola, che in una lettera, del 14 ott. 1857, al cav. prof. Luigi-Crisostomo Ferrucci, scrive: «Lessi per intero la Biografia scritta dalla mano materna e dal materno pianto bagnata; lessi in parte qua e là gli Scritti della pia Giovinetta. Le confesso che fui poche volte con pari violenza trascinato a tanta comozione di tenerissimi affetti, come in veder quasi, leggendo, le virtuose ed amabilissime qualità della Rosina, le cui ingenue e soavi Scritture escludono la presumibile esagerazione della pena materna. Quest' afflittissima Donna ha, direi, stemperato l'anima sua sopra quelle carte; e non temo asserire che se essa con altri componimenti colse nobili palme specialmento per elegaza è nitidezza di stile, il pieno trionfo sul cuore de' leggiteri l'ottenne sol questa volta, trionfo che incontrastabile le concede l'appassionata dipintura della sua figlia». E conchiude col desiderio che i «coltissimi» Coniugi, «in tant'ambascia» cerchino «conforto nella loro Diletta, le cui virtù come avranno, lo spero, intessuto al suo capo un serto glorioso nel Paradiso, cosi l'avranno resa intercoditrice possente per i carissimi Gonitori, acciò abbiano a raggiungerla un giorno lassù e bearsi con lei nel Signore, ove non più curanti di que' classici studi, che li hanno fatti sì chiari nel mondo, ascolteranno ed apprenderanno arcana verba, que non licet homini loqui.» Tra le mie pene è il pensiero del danno che le reco col ritardo del secondo volume. Se potessi, farei uno sforzo: ma comedebbo fare, se non ho più niente? Ella è padre, e mi compatirà, ne son certa.—La riversico, e sono di cuore—Sua devotissima obligatissima serva—C. Ferrucci.

[1] Cesare Guasti, nacque a Prato il 4 sett. 1822, ove studiò sotto il can. Giuseppe Silvestri, di cui scrisse la vita. Ivi ajutò il suo genitore Ranieri, tipogra foeditore. curando la stampa di varie opere, tra cui tutte le Opere Sacre e morali di Antonio Cesari, in 6 voluni, in-8. Pubblicò pure lavori proprii. che gli acquistarono buon nome in Italia, e per cui nel 1850 fu chiamato a Firenze, come archivista dell'opera del Duomo. Nel 1852 fu assistente degli Archivi toscani, e nel 1874 successe al Bonaini nell'ufficio di sopraindenete. Nel 1853 fu eletto accademico della Crusca, della quale fu segretario dal 1874 fino alla sua morte, che avvenne ai 12 febbraio 1889. Fu scrittore «eruditissimo» e di «candida e schietta eleganza». L'edizione completa delle sue Opere è in vari volumi: in quello intitilato Iscrizioni e Versi di Cesare Guasti (Prato, tip. succ. Vestri 1902), si logge pure un Sonette a Caterina Ferrucci in morte de sua figlia Rosa.

Di Prato, il 23 d'ottobre 1857.

Stimatissima signora Caterina.—Le meste pagine in cui ella ha ritartto il cuore e la mente della sua cara Rosina, hanno lasciata in me una tale impressione che il tempo non potrà mai cancellare (1) Parla del libro di cui è argomento nella nota 1 della pag. 299.. Quanta ragione di piangere per una madre! ma quanta ragione di consolarsi per una cristiana, che sa di avere educata pel cielo un'anima santa! La natura porta a lamentarci di un ingegno sì bello perduto, di un cuore ricco di nobilissimi affetti che ha cessato di battere; ma chi vorrà lamentarsi che il Signore abbia richiamato a sè innanzi tempo una creatura ch'era fatta per lui? Quei sentimenti, quell'indole avrebbero travata una piena corrispondenza quaggiù? Noi lo credevamo; e lo credeva pur la Rosina, che aveva collocato il suo affetto in un giovane buono (2) L'avv. Gaetano Orsini di Livorno, che si laureò in giurisprudenza nell'Università di Pisa.. Ma è certo che a Dio n'è parso altrimenti; e chiunque legge i pochi ma preziosi framenti ch'ella ci ha lasciato, è costretto a pensare, che non vi sarebbe stato in terra uomo capace di comprendere uno spirito che avea tanto in sè del divino. Voglia dunque consolarsi, ottima signora Caterina; e ringraziare il Signore che ha voluto rendere il suo dolore così fruttuoso. Era questa una delle ultime preghiere della cara figliuola; ed ella non poteva cooperar meglio all'adempi mento di quel voto, che mettendo alla luce un libro, dove chi ha un po' di cuore imparerà ad amare Dio, ed a prendere con rassegnazione tutto quello che da lui ci viene, e che talora si suole stoltamente chiamare disgrazia. Quanto a me, sento di doverla molto ringraziare: nè meno di me la ringrazia questa mia buona compagna, che ha letto con profonda commozione queste pagine dettate da una figliuola così cara e da una madre così degna di lei.

Mi rammenti all'egregio prof. Michele, e mi tenga sempre per il suo aff.mo ed obb.mo servitore ed ammiratore

Cesare Guasti.

[1] Il comm. Cesare Cantù, nacque a Brivio nel 1805, e mori a Milano l'anno 1895. Il nome di questo «grande storico» è troppo noto, perchè di lui si debba fare l'elogio, che gli è fatto dalle sue moltissime opere, precipua delle quali è la Storia universale, tradotta in varie lingue, e pubblicata molte volte; che gli procacciò in tutto il mondo fama straordinaria, e l'amicizia e la stima dei più ragguardevoli letterati, fra quali non ultima fu la nostra Ferrucci, colla quale per oltre 40 anni fu amico sincero e costante.

Milano, 21 gennaio 1858.

Cara sig.a Ferrucci.—Venne da voi il gentile pensiero di comunicarmi il vostro compianto per la povera Rosa? Oh ve ne son temuto, e siate certa che già prima v'avea tanto compatita nel cuor mio come non ignarus mali; e che nessun certo più di me partecipa del vostro dolore. Tutto quel poi che metteste di naturale nell' esprimerlo, fa del vostro un di que' lavoretti, [2] 2 Accenna al libro descritto qui dietro a pag. 299, nella nota 1. che son carissimi perchè rari nella nostra letteratura, che vuol mettersi in manichini fin quando «va significando ciò che Amore spira». Tocca a voi donne l'insegnare fin dove si sublimi uno colla semplicità.

Ed ora il tempo, gran rimedio a tutto, verserà sulla ferita vostra quel balsamo, che invano cercherebbesi dalla ragione, e che voi imploraste dal Cielo e dalla certezza di colà raggiungerla. Oh come io l'ho presente, quale a Ginevra e a Milano!

Al sig. Michele vogliate rammemorare e l'affetto e la riverenza mia, d'antica data. Voi arricchite la letteratura d'opere, che riparino al guasto e del buono stile e del buon gusto, recato da costoro, che or sistematicamente piangono, or sistematicamente ghignano. E ricordatevi d'avere un caldo estimatore nel Vostro obblig.mo

C. Cantù.

Pisa, 30 gennajo 1858.

Caro Betti.—Debbo rispondere a due vostre. Perdorerete il mio lungo indugio. Tutto dai buoni si perdona agli afflitti. Ho conosciuta la sig.a Milli, mirabile per ingegne e per graziosa semplicità di maniere [1] Giannina Milli poetessa (ricordata pure nella lettera seguente) nacque a Teramo l'anno 1827; improvvisò versi fin dall'età di 5 anni; e questo suo valore fece conoscere nelle principali città italiche. Nell'insegnamento fu pure pregiata, ed occupò un impiego nel Ministero dell'istruzione pubblica per le scuole femminili. Diede alle stampe varie sue poesie, alcune assai belle, come l'Arpa, l'Orfana, la Demente &c. Essa morì in Firenze il dì 8 ottobre 1888. Il ch. prof. Giuseppe Petraglione pubblicò il Carteggio di G. M. con Luisa Amalia Paladini; Teramo, 1895, in-8; e l'ed. più ricca delle Poesie di G. M. è quella che diede F. Le Monnier (Firenze, 1862), in 2 vol., in-16, di pag. XXVIII-488 427.. Non andrò all'Accademia, che sarà tra breve, perchè io conduco vita malinconica e solitaria. Ho tanto perduto, mio caro Betti! Più che la vita! Ma il nostro esilio non dura sempre, e vi è un luogo dove non entra la morte. Michele vi ha mandato due copie del volumetto di Rosa mia, che consegnerete a chi ve le chiederà, in nome del sig. Fiorini. Caro Betti, molte cose vorrei dirvi, ma il dolore è muto, e il mio dura da tanto tempo, che mi ha reso anche stupida. Vi dirò solo che vi stimo e vi amo sinceramente. Pensate qualche volta alla mia Rosa e pregate per lei. Sono di cuore—vostra aff. amica

Caterina Franceschi Ferrucci.

[1] Il prof. Filippo Parlatore, nato in Palermo l'8 agosto 1816, fu valente botanico; insegnò nel Museo di fisica e storia naturale in Firenze dal 1842, e da ultimo fu direttore dell'Istituto modosimo sotto il regno d'Italia. Il suo nome è raccomandato alla Flora Italiana (1848—1872), rimasta incompiuta al vol. V, e continuata dopo la sua morte dal prof. Teodoro Caruel, successore di lui nell'ufficio medesimo.

Pisa, 7 febbrajo 1858.

Mio caro Amico.—Grazie della visita, che mi avete fatta con l'affetto nel giorno del mio dolore. Ieri si celebrò in S. Sisto l'anniversario della mia povera Rosa. Vi conosco, e però sono certa, che se foste stato a Pisa vi sareste unito a quelle anime buone, e pietose che vi assisterono per piangere, e pregare con noi. È passato un anno: ma l'anima mia la piange, come se ieri ella fosse morta. Non so quello che farò nell'avvenire. Ora, anche volendo, non potrei studiare, perchè ad ogni piccolo sforzo di applicazione il sangue mi sale al capo con mia grave molestia. Vivrò come a Dio piace, ma fino all'ultimo della vita serberò affettuosa memoria di voi, mio ottimo amico. Ho conosciuto con piacere grande la sig.a Milli [1] Giannina Milli, [ricordata pure nella precedente lettera], fu presentata alla Ferrucci dal suo illustre amico prof. Salvatore Betti, e mi piace qui riferire un brano di una sua lettera [30 magg. 1857]: «Vo' farvi il maggiore regalo che un italiano oggi possa ad una italiana: regalo bellissimo, e tale che ho non solo fiducia, ma certezza d'esserne da voi ringraziato. E questo è il conoscere di persona la sig. Giovannina Milli da Teramo, giovane poetessa delle prime d'Italia, nobilissima per patria carità, per altezza di mente, e per bontà di stile e di lingua, anche quando una prepotente divinità le agita ed accende la santa fantasia. Essa ha qui (in Roma) maravigliato tutti così del suo stupendo ingegno, come de' suoi costumi veramente aurei. Propostasi ora di viaggiare pel bel paese arde di desiderio di venire a Pisa non per altro che per presentarsi a voi, reputandovi giustamente, qual siete, onor del sesso e dell'Italia. Fatele dunque il buon viso che fareste a una musa di quelle che propiro seggono con Apollo in Parnaso, usandole quante cortesie solete usare alle persone più meritevoli e care». E veramente la Ferrucci, come anco da questa lettera al prof. Filippo Parlatore è fatto palese, fece alla Milli accoglienze oneste e liete: ma, per opera di alcuni malevoli, letterati di Napoli, non andò guari che la valente poetessa divenne della Ferrucci nemica, reputando esser colpa di lei il non avere ottenuto un ufficio in Napoli, che già ad altra era stato dato da chi ne aveva l'autorità. Con tutto ciò la Ferrucci ebbe sempre verso la Milli anomo benevolo, parlando sempre di lei con stima affettuosa, quantunque sapesse essere ben diverso il modo, che verso di lei teneva la poetessa di Teramo. [Nota del nepote dott. d. Filippo Ferrucci]., mirabile tanto per il suo portentoso ingegno, quanto per la sua rara semplicità. Non l'ho per visitata, perchè io no faccio più visite ad alcuno, nè ho intenzione di farne mai più. Se ne facessi una sarei obbligata a rendere le moltissime, che ho ricevuto. Nella solitudine, e nel silenzio ritrovo un poco di pace: dunque vivo solitaria, e raccolta. Verrete a Pisa per udire la Milli? Mi sarebbe caro di dirvi a voce, che vi amo, e vi ringrazio. Pensate alla mia Rosa.

Sono di cuore ecc.

(1) Giulio Brunelli figlio di Pietro e di Giacinta Franceschi, è stato ufficiale nel R. Esercito, ed ora vive ritirato in Bologna. Il fratello di lui Augusto (qui pure ricordato), ingegnere e ispett. del Genio civile, è morto il 29 luglio 1910, in età di 74 anni.

Pisa, 7 agosto 1858.

Mio caro Giulio.—Ti avrei subito ringraziato della tua amorevolissima lettera se non avessi creduto ti fosse caro sapere le nuove del nostro viaggiatore… A te adunque le prime notizie dello zio, al caro Augusto darò le seconde, che spero avere fra un paio di giorni. Voi due mi avete lasciato una cara e dolce memoria. Amo la gioventù accompagnata dalla modestia, dall'ingenuità, dall'affetto semplicemente sentito, e semplicemente manifestato. Quindi amo molto voi due che siete schietti e modesti. Ti inganni, ottimo Giulio, pensando, che io rassomigli alla madre tua [1] Ciacinta Franceschi in Brunelli, terza sorella dell'autrice nostra, che con affettuosissime parole è ricordata pure con l'altre due nell'opera cit. Dell'Educazione morale della Donna italiana (Torino, Gius. Pomba, 1847), pag. 158.. Essa era buona per volontà, e per natura: era buona in tutto e con tutti, e la sua bontà fu sì pura, così armoniosa, perchè derivava da Dio, al quale quell'anima santa fu sempre unita. Io ho un'indole debole. .. Quindi spesso faccio il male in luogo del bene, e il bene stesso lo faccio non come dovrei. Ti dico ciò non per umiltà, ma perchè mi dorrebbe, che nella mente tua rimanesse come adombrata l'immagine di tua madre, se mai pensasti di vederne in me, sua sorella, quasi il ritratto.—Dirai al caro Augusto che a lungo risponderò alla sua lettera e che intanto lo ringrazio. Io sto sempre al solito, anzi direi che ogni giorno si aumenta la mia mestizia, perchè in me il desiderio, è l'amore della mia Rosa cresce ogni giorno; Dio però ne usa infinita misericordia. Egli mi na tratta a sè, quando tutto vacillava sotto ai miei passi sopra la terra. Egli mi fa sempre più chiaramente sentire quanto sian vere le seguenti parole dell'Evangelio: «Venite a me voi tutti, che siete affitti, e gravati, ed io vi consolerò». Ogni mattina mi levo più oppressa del giorno innanzi, e a certi moti, che sento agitarsi dentro il mio cuore, mi accorgo, che cadrei in quella turpe, e codarda disperazione, che non deve mai entrare nell'animo del cristiano. Stanca, abbattuta corro alla Chiesa; mi prostro dinanzi a quello, che ivi nell'amorosa sua Maestà si porge padre benigno a tutti i fedeli. Là piango e prego, e dopo la preghiera mi sento forte, mi sento piena di una divina speranza, che quasi mi fa benedire la mia sventura. Non è senza ragione che io ti svelo, mio caro Giulio, i segreti dell'anima mia. Voglio che dalla bontà, che il Signore mi usa per solo effetto della sua immensa misericordia, tu impari a fidare in esso, come nel solo verace amico che abbiamo. Amalo, caro Giulio, amalo con l'ingegno, col cuore, con le opere, co' pensieri; e amando Lui compirai santamente e ordinatamente tuttii doveri di cristiano, di figlio, di fratello, di amico, di cittadino. Tu non sei stato felice; ti sono mancate le materne carezze, hai visto morire sul fiore degli anni chi ti era più che sorella. E credi che sarai felice nell'avvenire? Mi duole il dirtelo: ma la felicità è un'ombra, la quale si dilegua dinanzi a noi quando ci pareva di averla in mano, siccome cosa vera. Le illusioni della giovinezza sono dolci; anche io ne fui lusingata; ma presto conobbi la vanità. Se ora il Signore ti concede qualche giorno lieto godine, ringrazialo, ma pensa al tempo della sventura, che sempre pende sul capo ad ogni mortale, e pernon rimanere schiacciato sotto il suo peso alimenta nel tuo cuore la fede, e l'amore di Dio. La preghiera sola tiene in noi salda la fede, e nutre quel santo amore. Prega dunque sovente e con tutto l'affetto dell'animo tuo. Certo ogni mattina e ogni sera deve il cristiano prostrarsi innanzi al Signore; e nel tacito e devoto raccoglimento de' suoi pensieri adorarlo. Ma in tutto il corso della giornata possiamo, e dobbiamo pregare. Il che faremo tenendo la nostra mente rivolta in Dio, e cercando di operar bene per dargli gloria, di servirlo e amarlo nei poveri, di lodarlo col nostro ingegno usandolo in bene. Così fecero la mia Rosa, la quale pregò sempre, benchè tanto studiasse, e tanto fosse sempre occupata. La sua vita fu una continua preghiera, per cui ebbe qualità e forma dalle verità religiose. Poverina! Che le avrebbero mai giovato i suoi lunghi studii, se non avesse amato il Signore? Quando si avvide che la morte veniva a strapparla dalle mie braccia, quando si accorse che per lei tutto finiva nel mondo, quando senti a vuoto cadere i suoi dolci affetti, e le sue speranze, animosa si strinse al Dio crocifisso, e il suo crocifisso le tenne luogo di madre, di sposa, di fratello, e di quanto amava qui in terra. Rileggi la narrazione della sua morte [1] Cioè nel libro, descritto qui dietro a pagina 299, nella nota 1., vi scorgerai un portento operato da Dio a rincuorarne la fede e la carità di quella moribonda; imparerai da essa a far centro e fine dei tuoi pensieri e del tuo operare la religione, poichè la religione sola ci offre le braccia, quando tutto qui ci abbandona. E noi, senza pensare all'utile che ci viene dall'osservare le sue leggi, dobbiamo amarla, perchè essa è luce rivelatrice di Dio, perchè ci trasporta dal contingente all'eterno, dal mutabile all'intinito, e perchè l'anima nostra non è creata per contentarsi dei falsi, o caduchi beni terreni. Non senti in te stesso una voce, che autorevole e dolce ti invita al Cielo? Non senti come tendiamo naturalmente ad una felicità, che non potremo vivendo mai conseguire? E non ti avviene alle volte di stimarti simile a un prigionero, il quale non si contenta del debole raggio di luce, che penetra dal piccolo foro dentro al suo carcere, ma vuole liberamente godere del sole, e sospira piangendo al tempo in cui potrà di nuovo ammirarlo nella pienezza del suo splendore? Caro Giulio, la vita è per tutti noi una prigione, e il sole della verità si mostrerà a noi senza ombre, quando finirà questa lenta morte che sogliamo noi chiamare vita. Se spesso tu e Augusto mi scriverete ne avrò piacere; io vi amo perchè siete buoni, perchè siete figli della mia cara Giacinta, e volentieri verserò nel vostro cuore la piena di quell'affetto materno, che ribocca sempre nel mio, anche dopo l'improvvisa partenza della mia Rosa; dico partenza, perchè ella ha mutato casa, ma non è morta…

Già s'intende, che non dovete leggere ad alcuno le mie lettere. Vi scrivo come a figlioli, secondo detta l'affetto. Date un bacio per me alla cara orfanella. Addio, caro Giulio; addio, Augusto mio. Pregate per la povera Rosa e per me; che ho tanto bisogno di forza per tollerare la mia sconsolata vita. Addio. La vostra zia C. F.

[1] Henry Perreyve, nacque nel 1831 da Enrico, valente professore di diritto. Si laureò anch'egli in leggo, ma, sentendosi chiamato alla vita ecclesiastica, vestì gli abiti clerical, e fu ordinato prete nel 1858, e indi a non molto chiamato a succedere a mons. Lavigerie, poi cardinale, nella cattedra di storia ecclesistica alla Sorbona. Amico dell'Ozanam e del p. Lacordaire, questi gli procurarono l'amicizia della famiglia Ferrucci, che frequentava assiduamente durante un soggiorno fatto a Pisa per curare la sua vacillante salute. Avendo, in quella circostanza, conosciuta la Rosa, figlia della Ferrucci, giovane colta e virtuosa, morta a 21 anno il 5 febbraio 1857, ne scrisse in francese un'affettuosa biografia, più volte pubblicata. La rara bontà e dottrina promettevano al Perreyve, un avvenire splendido; ma la malattia che da molto tempo lo travagliava, lo tolse alla speranza di questo mondo per procurargli la ricompensa immortale nel giugno del 1835. La sorella di lui, Lucile Perreyve, fece stampare un libro col titolo Les Lettres de l'abbe Henry Perreyve, 1850—1865; del quale la Cateterina nostra scriveva alla stessa Lucile, il 23 giugno 1872: «In quel caro volume sono, come in terzo specchio, riflessi l'ingegno, e il cuore del suo santo fratello… Come sono belle tutte le lettere del suo Enrico!»

(Pisa), 21 febbrajo 1859.

Mio caro e venerato Amico.—Non mi accusi di scortesia, nè d'ingratitudine, perchè non ho subito risposto alla sua carissima lettera. Mi giunse nei giorni, in cui era come vinta dal dolore per le rimembranze del passato. Pure avrei fatto forza a me stessa per iscriverle subito, se avessi saputo che doveva rispondere alle sue dimande. Aspettai la venuta di Antonio per intendere qualche consa da lui intorno alle opinioni dei nostri sulla guerra, che sembra imminente. Egli però non mi disse cosa, che meritasse di essere scritta. Io non vedo più alcuno: non leggo più giornali: vivo nel mondo, come se fossi morta, e sepolta: e in questa solitudine mi riesce di trovare un poco di pace. Dal poco, che ho sentito, parmi d'intendere, che i più desiderino la guerra, e sperino nella Francia. Il nostro clero si limita a pregare, e a desiderare, che la volontà del Signore si compia in noi. Ch'Ella scriva sull'Italia mi è caro: tempo però (e qui le parlo con sincerità di madre) che ai buoni preti italiani non possa piacere un discorso guerriero in bocca di un sacerdote. Dello stesso avviso è il prof. Savi, che è sola persona, con cui parlo qualche volta a cuore aperto [1] Il prof. Pietro Savi, figlio del celebre botanico Gaetano e fratello del naturalista Paolo, nacque a Pisa nel 1811 e successe al padre nella cattedra di Botanica, che tenne fino alla morte, avvenuta nel 1871. Fu uomo di molta pietà, caritatevolissimo, e cooperò la Ferrucci, della quale fu amico fino dalla venuta di lei a Pisa, a molte opere buone (Nota del nepote dott. d. Filippo Ferrucci)..

In quanto ai libri, di che mi scrive non glieli mando, perchè non sono più dei tempi. L'opinione pubblica ha molto variato dal 1848 in poi. Allora si sperava nel popolo e nei principi: ora l'esperienza ha mostrato, che le concessioni fatte da questi per necessità non sono durevoli, e che l'altro distrugge, non edifica, desta tumulti, ma non vale a fare cosa di utilità nazionale. Il Primato del Gioberti posa sopra un principio, che più non ha fondamento [1] Questo giudicio su Vincenzo Gioberti mostra, lumiuosamente, come la benevolenza e l'amicizia del celebre scrittore non facosso mai velo alla schiettezza e serenità dei pensieri e de' giudizj, che la Ferrucci ebbe in cuore e manifestò qui entro e nelle proprie opere già stampate.. Egli voleva capo il Pontefice della guerra italiana. Gli eventi hanno mostrato, che il suo progetto fu sogno o vana speranza. Il Balbo [2] Il conte Cesare Balbo (1789—1853), illustre storico e scrittore torinese. proponeva di rendere nell'Oriente all'Austria ciò che bonariamente ella perderebbe in Italia. Il Rosmini [3] Antonio Rosmini Serbati (1797-1857), letterato, filofo e scrittore celebratissimo, fondatore dell'Istituto della Carità o de' PP. Rosminiani. scrisse due opuscoli politici, che furono messi all'indice, ed egli si sottomise umilmente. Gli altri opuscoli pubblicati nel '48 portano tutti l'impronta delle passioni del tempo. Io la ringrazio, e di cuore, dell'affetto, che ha per la mia patria: ma siccome nel suo futuro riordinamento dovrà trattarsi anche degli stati di Sua Santità non amerei, ch'Ella pubblicamente entrasse in quistioni, che possono dispiacere alla S. Sede [1] E in altra lettera a Lucile Perreyve, in data del 23 giugno 1872, scriveva: «La partenza di mio figlio da Firenze è per noi un dolore continuo. Per fortuna egli è nel Ministero de' lavori pubblici, e il suo ufficio è affatto estraneo alla politica. Ma io, che pure amo la patria, e la libertà, prevedo che la presa di Roma ci recherà grandi sventure, perchè Dio non può benedire le opere ingiuste». Questi pensieri intimi fanno vedere come la Ferrucci fosse cattolica-apostolica-romana, sincera e fervente, come tale confessave di essero anche nella lett. 19 agosto 1849 (vedi a pag. 241).. Mi perdoni, se ardisco parlarle con tanta achiettezza: ma facio con lei quello, che farei col mio Antonio.

Ho in pronto una copia del mio lavoro sulla letteratura italiana per lei [2] L'opera su I Primi quattro secoli della Letteratura italiana, descritta a pag. 297 nella nota 2.. Se non trovo occasione glielo manderò per la posta. Attendo con impazienza le copie del suo bellissimo articolo, delle quali la ringrazio affettuosamente. Desidero pure molto di leggere le sue meditazioni sulla Via Crucis. Affretti il sig. Dumont a mandarci questi libri.

Io sto al solito, perchè la memoria delle passate dolcezze mi riempie di un dolore, che lingua umana non può spiegare. Mi rassegno alla volontà di Dio, ma soffro molto, e non trovo più nel mondo cosa, che mi consoli o mi piaccia. Ora intendo, come alcuni si facciano Certosini dopo una grande sventura. Se fossi stata libera di me mi sarei già da molti mesi chiusa in un chiostro. Ma tale non è il volere di Dio: lo adoro, e patisco in silenzio il mio lungo, e lento martirio…

Mi scriva presto, e si ricordi, che ha in me un'amica sincera e riconoscente.

[1] Anna Vaccà Berlinghieri, della città di Pisa, fu «donna assai colta, che dopo avere insegnato in patria, fu istitutrice in case di nobili famiglie».

Pisa, 15 dicembre 1860.

Mia cara sig. Annina.—Ho vergogna di avere tardato tanto a risponderle. Domando il suo perdono, e spero di ottenerlo, perchè Ella è buona, e compatisce alla mia, mestizia, che mi rende pigra a compiere i miei doveri. Non saprei in che modo consigliarla su ciò, che forma il soggetto principale della sua lettera. Procuri d'infondere religiosi, e morali principii nel cuore delle sue alunne, e con la sua carità, con la dolcezza de' suoi modi le innamori della virtù cristiana. Nel correggerle cerchi di non mostrare mai alcuna passione sua propria. Se le mancano di rispetto le corregga non perchè hanno offeso lei, ma perchè hanno mancato all'obbligo loro. Sappia conciliare la bonarietà con la dignità, la dolcezza con una giusta severità. Sopporti in pace molti fastidii, e dia loro esempio di pazienza, e di tolleranza. Se poi scorgerà in esse difetti notevoli ne parli liberamente alla madre. Essa ha il diritto di esserne informata, e dove il suo parlare le dispiacesse Ella non dee turbarsene, sapendo di avere adempito ad un suo stretto dovere. Non tolleri mai i discorsi spiritosamente maldicenti, che sono in uso nel mondo: e a preservarne le sue alunne spieghi loro quanto sia grande la nostra fragilità, e come noi dobbiamo guardare ai falli altrui con indulgenza pensando ai nostri. Una educazione seria, e cristiana può sola correggere certe cattive abitudini. Parli al cuore delle sue alunne quando si tratti di persuaderle a rispettare, e ad amare veracemente i loro genitori. Ella poi preghi, domandi lume al Signore, non operi mai per amor proprio, ma sempre con l'intendimento di migliorare, e saviamente, e santamente educare le sue fanciulle. Sarebbe bene che queste prendessero amore alle opere di misericordia. Perchè non propone ad esse di lavorare per i poveri? Perchè non darà loro in premio della ubbidienza ai suoi consigli la consolazione di distribuire con le loro mani ai poveri i lavori fatti per essi? A Genova io aveva introdotto quest'uso, e ne fui contenta. In certi giorni alcuni poveri erano chiamati all'Istituto, e le migliori alunne davano loro vesti, e camicie. La carità è fuoco divino, e può mutare i cuori. Poi è bene, che chi vive nel lusso conosca le miserie dei poverelli. Ne trarrà argomento di gratitudine verso Dio, e sarà più moderato ne' desiderii. Le scrivo confusamente, perchè ho male al capo. Ma non ho voluto più tardare a liberarmi da un rimorso, destato in me dalla mia negligenza in risponderle. Le auguro ogni bene per le prossime s. feste, e per l'anno avvenire. Se posso servirla mi comandi, e mi creda ecc.

[1] Il prof. Felice Laudadio, sacerdote assai colto, di Mola di Bari, ammiratore della Ferrucci, ebbe con lei corrispondenza epistolare, come molti altri letterati della regione napolitana, ove il nome della scrittrice nostra era popolarissimo.

Pisa, 10 febbrajo 1861.

Pregiatissimo Signore.—I giorni passati sono stati giorni per me di più intensa mestizia. Quindi l'indugio mio nel risponderle. Torno a ringraziarla delle sue lodi, segno della sua cortesia, da me però non meritate. Ciascuno, ove l'amor proprio non lo acciechi, è retto giudice di se stesso: onde io schiettamente dichiaro, poco più del buon volere doversi pregiare ne' miei lavori.—Ella dee aver mal letto una parola della mia lettera. Non ne ho copia, perchè scrivo ad un tratto: ma so di certo che vi si dee leggere infelici paesi, non infelici preti, non conoscendo io la condizione del clero in codeste parti, nè avendo mai avuto il pensiero di censurarlo o solo di compassionarlo. Ho una pessima scrittura, e la mia mano corre rapidamente: onde tutta mia è la colpa del suo errore. Ho però stimato debito di coscienza l'avvertirlo.

La quistione italiana ora è quistione complessa. È naturale, che molti ecclesiastici non osino unirsi agli amatori d'Italia, che amano forse nel loro cuore, a cagione degli avvenimenti Romani. Preghiamo il Signore, che presto torni la concordia fra la Chiesa, e lo Stato, e allora molte coscienze timorate saranno tranquille [1] In altre lettere ripete le cose medesime. In una del 31 magg. 1860, a Bartolina Bertagnini: «Le discordie tra la Chiesa e lo Stato accrescono la mia tristezza. Vorrei il trionfo delle carità e della fede. Noi povere donne non possiamo… fare altro, che pregare: preghiamo adunque, cara amica». In altra, del 28 mag. 1861, alla stessa: «In questi giorni sono anche più mesta per le discordie sempre crescenti fra la Chiesa e lo Stato. Nella mia mente mi pare di avere ben divise le due idee: amo la mia patria, ne pregio i diritti; amo la cattolica religione, e ne conosco la verità. Ma il popolo sa egli fare queste distinzion?… Quando verrà questa concordia tanto e così inutilmente desiderata? Preghiamo cara amica, preghiamo, e abbiamo fede nella bontà del Signore…»..

Mi duole, ch'Ella soffra persecuzione da alcuni de' suoi. Vuole impor loro silenzio? Vuole mutare lo sdegno in amore? Si mostri con essi vero seguace di Gesù Cristo [1] In altra lettera, del 31 magg. 1860, a Bartolina Bertagnini, scrive: «È pur bella la religione di Gesù Cristo! Sono pure venerabili i suoi ministri, quando sono veramento informati dal suo spirito!…». Risponda col silenzio della mansuetudine alle accuse: non biasimi alcuno, e a tutti perdoni. Faccia, che ogni opera sua, ogni sua parola siano improntate della evangelica carità. L'odio non deve mai entrare nel cuore del cristiano, anche allorquando esso sembra nascere da zelo della giustizia. Predicando, e scrivendo fulmini il vizio, ma non prenda mai di mira i viziosi. La moderazione è segno di forza, e nel perdonare le offesse è vera grandezza. Poniamo ancora, che i nostri offensori siano tristi, con per questo dovremo cessare di amarli, o di compatirli. I cattivi mi hanno sempre ispirato grande pietà. E poi molti vizi della volontà hanno la radice loro nella ignoranza, nei pregiudizi, e in cento altri errori dell'intelletto, il quale spesso scambia il vero col falso, e giudica e torto.—Mi perdoni questi avvertimenti. Ella è giovine, ed io sono quasi vecchia: dunque l'età sarà di scusa al mio ardire.

Scrissi in verso; ma non ho tenuto copia di quelle poesie, che in varii tempi furono publicate. E ciò perchè ho sempre stimato che rime e prose da me composte non rispondessero all'ideale del bello, che aveva nella mia mente. Ora non scrivo più: non ne sento più il desiderio: trovo la mia pace in una vita solitaria, e nascosta, e cerco di prepararmi alla cosa più importante per l'uomo, cioè a ben morire. Se avessi di me l'opinione, che a lei per sua bontà piace avere, farei violenza a me stessa, e porrei di nuovo mano allo scrivere, poichè so non esser lecito non fare il bene a chi può farlo. Ma siccome non mi faccio illusioni sul conto mio, non credo di privare gli altri di qualche utilità, tralasciando gli studi.

Ella mi chiede notizie della mia vita. Parmi che sul mio sepolcro si potria porre quella iscrizione, che leggevasi sulla tomba di una matrona romana: Domum servavit, lanam fecit [1] Sul suo sepolcro nella Cappella gentilizia della villa di S. Martino alla Palma, presso Firenze, fu posta l'iscrizione che leggesi qui dietro a pag. 32, dettata dall'insigne letterato prof. Ferdinando Ranalli, amico intimo della defunta da circa 60 anni, nella quale in poche parole si fa'il vero e giusto elogio della scrittrice nostra, che tanto ha onorata l'Italia con i suoi scritti e colle sue virtù.. Ho vissuto sempre solitaria: e se non ho filata la lana mi sono molto occupata del buon governo della mia casa, e specilamente della educazione de' miei carissimi figli.—Ho studiato nelle ore, che mi rimanevano libere, e ho studiato per forte impulso dell'animo, per gagliardo amore del vero, non mai colla intenzione di esserne lodata. Ho amato, ed amo l'Italia, per la quale nel '48 combatterono mio marito, e mio figlio, allora assai giovinetto [1] Su ciò veggansi qui entro le lettere dell'anno 1848.. Spero però, che in questo amore non siano entrate mai le passioni estreme, e che esso sia sempre andato unito nel mio cuore all'amore della giustizia. Non pensi adunque a scrivere la mia vita, ch'è vita oscura: non mi citi in esempio alle donne del suo paese: preghi per me, e per la mia Rosa, con la quale si spense il mio povero ingegno. Dico male si spense. Ella vive, e d'una vita più piena, più felice, più bella di questa, che noi meniamo fra le tenebre del senso, e i dolori, e gl'inganni del mondo. Ella è beata, ed io, mentre la piango lontana, mi rallegro di vederla nel porto.

La prova, a cui l'ha sottoposta il Signore, privandola de' suoi genitori, è assai penosa, ed io la compatisco sinceramente. Ma in Lui si confidi. Egli benedirà i suoi orfanelli. Cerchi di educarli alle cristiane, e alle civili virtù, e non si sconforti.—Quando mi onorerà delle sue lettere, o de' suoi commandi mi farà cosa gradita. Mi creda ecc.

Pisa, 14 marzo 1861.

Cara signora Annina.—Mi perdoni, se ho tardato a scriverle. La ringrazio della pietosa memoria, che ebbe della mia Rosa nel giorno del mio dolore. Mi duole, che la sua quiete sia stata turbata. Ma che? Vuole dar peso a tali miserie? L'opinione pubblica, cioè quella delle persone gravi, e assennate, è da rispettare: ma non è così della opinione del bel mondo. Essa si forma da pregiudizi: ha fondamento su piccole passioncelle: è un misto di leggerezza, e di vanità. Non s'inquieti adunque per ciò, che l'è avvenuto. Anzi dia esempio alle sue alunne di savio giudizio col disprezzarla. Non dico, che questo disprezzo debba nascere da risentimento: no: ma dal convinmento, che i giudizi della società oziosa, ed elegante sono spesso ingiusti; e mai infallibili. Le persone, che la compongono, saranno, lo credo, buone, assennate, presa ciascuna da sè: ma quando sono riunite insieme si lasciano dominare dallo spirito del mondo: e giudicano male, perchè giudicano sopra falsi principii. L'ufficio d'istitutrice non solo è rispettabile, ma è santo: gli eleganti non lo stimano tale. Che fare? Rimaner quiete, e riferirsi all'opinione delle savie persone.—Se la Marchesa [1] La marchesa Malvina Costabili Containi, nata Mosti di Ferrara, presso la quala la Ferrucci aveva collocata la Vaccà come istitutrice delle sue figlie. Qui il lettore potrebbe forse desiderare notizie dell'istitutrice signora Anna Vaccà Berlinghieri; ma neppure il degno nepote dell'autrice dott. don Filippo Ferrucci ha potuto favorirne dopo la nota che si legge a pagina 320. la conduce in società mostri col suo contegno che andandovi intende di adempire uno degli obblighi suoi. E non pensi più all'avvenuto, ed eviti di parlarne.

Mi ricordi con affetto alla Marchesa, e alle sue alunne, e mi creda ecc.

[1] Bartolina Sforza nacque a Montiguoso di Lunigiana nel 1810, ed a 14 anni sposò Pietro Bertagnini. Fu donna di molto ingogno e coltura, e seguace di Antonio Rosmini nella filosofia, cui visitò a Stresa ed ospitò a Montignoso. Apri nel 1840, in casa propria, una scuola gratuita, insegnandò a 50 ragazzi del contado più che 14 anni. Fu amica del Manzoni, che nel 1858 si dolse con vive parole della morte del figlio di essa, Cesare Bertagnini, successore al prof. Piria nella cattodra di chimica dell'Università di Pisa. Essa morì il 9 sett. 1896. Vedi, per altre notizie, l'Epistolario di Gius. Giusti, a cura di Ferdinando Martini (Firenze, suco. Le Monnier, 1904), vol. 11, pag, 318-19.

Pisa, 4 luglio 1861.

Mia cara Amica.—Sento con vero dolore, che tu sia stata ammalata. Abbiti cara, e pensa, che i mali dell'animo sono meno tollerabili quando as essi si aggiungono quelli del corpo. Ne' giorni scorsi allorchè ho pianto, e proprio di cuore, la morte del conte di Cavour [2] La morte del conte Camillo Benso di Cavour, avvenuta a Torino il 6 giugno 1861, del quale s'è parlato a pag. 14. ho pensato a te, e dai miei ho fatto ragione de' tuoi sentimenti. Grande sventura è stata quella per l'Italia: anzi per l'Europa: anzi per tutto il mondo civile: e noi non potremo mai onorare abbastanza la memoria di un uomo così grande, e così veramente buono. Si lodano molto le persone caritatevoli: quale lode non sarà dovuta a chi ci ha fatto la più splendida carità, che sia possibile immaginare, a chi ha dato una paria ad una nazione, che da secoli molti più non l'aveva? Bellissima è stata la morte sua. È spirato tra le braccia del Redentore, ch'egli si sforzò d'imitare, fondando in Italia il regno della libertà, e della giustiza.

Quanto alla religione non temo. Avremo qualche tempesta, ma sarà passeggera. L'Italiano è temperato in modo, che ha bisogno di credere, forse perchè ha bisogno di amare. Non vedi? Sorge evento felice? E il popolo spontaneo si aduna in Chiesa, o dove può, e canta un Te Deum. Siamo colpiti da pubblica sventura? E il popolo si prostra devoto dinanzi a Dio, e canta il Miserere. In somma la fede c'è, o almeno il sentimento religioso: lascia, che si quietino queste discordie politico-religiose (e una volta dovranno certo quietare) e noi vedremo tornati i tempi, ne' quali l'idea di Dio, e della patria s'uniranno insieme per santificare e nobilitare tutti gli affetti…—Addio, cara Amica. —Amami sempre la tua—Caterina Ferrucci.

Pisa, 4 gennajo 1862.

Pregiatissimo Signore.—Oggi ho un poco di tempo libero, e ne profitto per ringraziarla della sua lettera, e degli augurii, che in essa ha voluto farmi. Rispondo in breve alla sua dimanda. Io credo che Dio ci dia prova di sua bontà, quando ci manda il dolore.

Perchè senza di esso l'animo umano di venterebbe troppo fiacco, e troppo amante di quanto ha l'apparenza di bene, perchè lusinga i sensi, o alletta la fantasia. Interrogando me stessa sento, che la scuola della sventura mi è stata utilissima, avendo in essa imparato a tenere in pregio la libertà della mente, in cui è riposta la dignità della nostra natura. Certo il dolore fisico, o morale non è tollerabile a chi non gusta la dolcezza ineffabile della Croce: ma il patimento è caro al cristiano, che vuole, secondo le sue deboli forze, seguire l'esempio del divino nostro Maestro. E poi questa vita è il principio della vita vera, e perfetta. Il dolore ci fa persuasi della vanità di quasi tutti i nostri desiderii: ci mostra quanto caduche, quanto deboli siano le nostre forze: ci pone in chiaro la fugacità della nostra, vita, e ci prepara a lasciarla non solo senza rammarico, ma con tutta l'allegrezza dell'esule, che prende la via, per cui ritornerà alla sua patria [1] In altra lettera all'avv. Benini, del 24 sett. 1855: «La vita è breve, e per noi cristiani la morte non è altro che la unione dell'anima al suo principio, e in lui alle persone che tanto amammo».. Dunque non si contristi quando sa, che ho l'amimo afflitto, o malato il corpo: preghi il Signore a darmi il dono della pazienza, che è la più necessaria d'ogni virtù.

Allorchè le giornate saranno meno brevi penserò alla promessa, che le feci. Ora il tempo mi manca a tutto, dovendo impiegarne una buona parte nella educazione. ed istruzione del mio Pippo [2] Pippo, cioò il nepote ora dott. d. Filippo Ferrucci.… Accetti i miei voti sinceri di felicità pel nuovo anno, or ora cominciato, e per sempre.—Mi creda ecc.

[1] Alfonso Capeelatro nacque a Marsiglia il 5 febbrajo 1824 da Francesco duca di Castel Pagano, patrizio napoletano, e da Maddalena Santorelli. Fece i suoi studj in Napoli, quando per opera del famoso marchese Basilio Puoti fiorivano più che mai gli amatori e cultori delle classiche lettere, e singolarmente della lingua del secolo di Dante. Nel 1840 entrò nella Congregazione dell'Oratorio dei Padri Filippini, nella quale coprì tutte le cariche fino a quella di Preposito. In quest'ultima fu confermato successivamente sino al 1879, nel qual anno fu chiamato a Roma come prelato domestico di s. s. Leone XIIII e sotto bibliotecario di s. romana Chiesa. Il dì 20 agosto 1880 fu promosso arcivescovo di Capua, ove risiede tutt'ora, e nel concistoro del 27 luglio 1835 la s. m. di Leone XIII lo creò Cardinale, poscia Bibliotecario di s. romana Chiesa. Questo venerabile Porporato è pure il più insigne de' componenti le Congregazioni dell'Indice, de' Sacri Riti e degli Studj; è membro della Commissione cardinalizia per gli studj storici; è Protettore della Biblioteca apostolica vaticana ecc. E le sue Opere stampate, in più che venti volumi, mostrano (più che i detti titoli) e mostreranno al mondo la sublimità e il candore dell'animo, l'operosità cristiana-apostolica dell'onorabile vegliardo; la quale diviene vieppiù meravigliosa nel leggere gli Scritti, che dalla sua mente divina escono tuttavia alla pubblica luce, portando ne' problemi, oggidi più vitali e dibattuti, una discussione ampia, logica, trionfante, benefattrice. In somma: Egli è, a buon diritto, appellato il Principe degli Scrittori classici viventi in Italia, venuto dalla scuola del Puoti e ritemprato quindi, giudiziosamente, a quella del Manzoni. E tale onore gli è confermato, indirettamente, anche dal fatto, ch'egli fu annoverato, fin dal 14 luglio 1891, fra i pochi italiani scrittori componenti il sommo senato della lingua italica, la reale Accademia della Crusca.

Pisa, 23 del 1862.

Veneratmo Signore.—Non misuri la mia riconoscenza dal tempo, che è corso dal giorno, in cui ebbi l'onore di ricevere una sua lettera, ed un suo bellissimo scritto intorno alla gran Madre di Dio. Quando mi giunse quel suo caro dono io aveva in casa malato un mio nipotino; poi cadde inferma mia madre, e quindi il rossore, che aveva di essere stata così scortese, e ingrata con Lei, mi fece ritardare di giorno in giorno l'adempimento del mio dovere. Eccole intera la mia confessione. Vuole Ella perdonarmi? Lo desidero, e lo spero, perchè negli uomini di santa vita, e di rara dottrina, la bontà dell'animo si concorda con la nobiltà dell'ingegno.

Lessi con somma edificazione, e con grande diletto il suo opuscolo. Io già aveva ammirata l'elevatezza della sua mente, e la sua sapienza leggendo la sua opera intorno a S. Caterina da Siena. Ella porta un troppo benigno giudico de' miei poveri scritti. Non ho mai potuto studiare, quanto avrei voluto: chè nella mia giovinezza era spesso malata, e divenuta moglie, e madre, più che de' libri mi sono occupata de' miei figliuoli, e della mia casa. Ora poi da cinque anni non scrivo più: è come morto il mio ingegno nel giorno in cui morì la mia Rosa.

Seppi ieri da una lettera della mia cara Martina Martini, che Ella dirige la sua coscienza [1] La signora Martini, pisana, era a Napoli come direttrice del primo real Educandato ai Miracoli (ora si chima R. primo Educatorio «principessa Maria Clotilde» di Miracoli). In tale ufficio venne nominata «per raccomandazione della Ferrucci», e vi rimase «con lode per molti anni».. Ne presi consolazione. Poveretta! trova in mezzo e due battaglie, ed ha veramente bisogno di consiglio, e di conforto. A Lei molto la raccomando. Io la tolsi alla quiete, di cui godeva in Cremona, esortandola ad accettare la direzione del R. Educandato. Se avessi potuto immaginare, che avesse dovuto tanto soffrire, certo non le avrei fatta la proferta di quell'ufficio. Ma in esso la buona Martini ha fatto già molto bene, e più ne farà nell'avvenire, ove le riesca di piegare alla ubbidienza gli animi ora indocili. Mi perdoni di averle scritto così a lungo, e senza cerimonie; ed abbia anche in questo un segno della sincera mia riverenza. Si ricordi nelle sue preghiere di me, e della cara anima della mia Rosa, e mi creda—Sua dev.ma obb. serva Caterina Franceschi Ferrucci.

[1] La marchesa Brigida Tanari (ava paterna dell'enorando conte dott. Nerio Molvezzi, senatore del Regno, che mi favorì copia di questa letterina), «donna colta, favorevolmente nota ai letterati italiani, ammirata per fervido patriottismo», nacque in Bologna 1'8 ottobre 1802 dal conte Niccolò Fava e da Gaetana Mariscotti. Sposò il marchese Giuseppe Tanari e morì a Firenze nel febbrajo 1877. Di lei scrisse la biografia il ch. prof. Gino Rocchi, edita nella Nuova antologia. Il libro, di cui parla la Caterina Furrucci, è intitolato: Preghiere | destinate | ai givvinetti dei collegi | per accenderli | all'amore di Dio e della patria | Firenze | Tipografia Galileiana | di M. Cellini e C. | 1862.

Pisa, 27 marzo 1862.

Mia cara Marchesa.—Volevo scriverle jeri, ma ne fui impedita dalla mia solita emicrania. Ho letto con vero piacere il libro, e lo scritto: il primo è pieno di santi affetti, l'altro di nobilissimi. Pippo fa le sue preghiere col suo libro. Sarei troppo ardita chiedendogliene un'altro pel mio nipotino Paolo? Ella è così buona, che con lei faccio a sicurtà. Mia madre la riverisce, e io sono di cuore sua aff.ma

C.a Ferrucci.

Pisa, 16 febbrajo 1862.

Caro Gianni.—Il Signore Iddio vi rimeriti del bene fatto ai miei poveri. Essi vi mandano mille ringraziamenti, e benedizioni. … Debbo confessarvi un mio peccato. Da molto tempo non sono stata dalla sig.ra Bool. Ella ha avute moltissime visite, ed io non posso trovarmi in mezzo a molte persone, e dirò anche non devo. Sapete, che non rendo mai visite, e pure molte ne ricevo, avendo queste signore verso di me una bontà, che non merito. Se però m'incontrassero in altre case, potrebbero averselo a male, quasi che io usassi con altri la cortesia, che non uso con loro. Poi in questo inverno ho quasi sempre il sangue al capo, che spesso mi duole. Tutti i giorni sono occupata sino al mezzogiorno con Pippo, [1] Il nepote Filippo Furrucci, ora dottore-sacerdote. spesso con varie Signorine sin dopo le due: ciò mi stanca, e quando ho finito ho bisogno di starmene ferma, e quieta. Ma dentro la settimana vedrò la sig.ra Bool, cui feci fare le mie scuse dalla contessa Pompei di Verona. Vorrei invitarvi a un'opera di carità, ma non oso. Pure vi dirò in breve di che si tratta. Seppi, che una giovinetta, spinta dalla miseria, era andata più volte alla chiesa protestante, ricevendo un franco per ogni volta [2] A proposito di Protestantesimo in altra lettera del 24 marzo 1849, a Prospero Viani, scrive: «Provo ora… ciò che provai in Ginevra, ove il vivere tra i protestanti mi fece divenire più fervente Cattolica, che prima non era».. La feci venire da me: l'indussi a confessarsi, ed ora la istruisco nella nostra religione tutte le domeniche [3] Quale e quanta premura avesse la Caterina per la religiosa educazione delle fanciulle, alle sue cure affidate, si arguisce anche da altre lettere. In una al ca. Guido Palagi del 6 giug. 1852: «Quando cresimeremo le nostre bimbe? Ho già il permesso del Priore. Vorrei sapere in tempo il giorno per condurle a confessarsi. Sperava che oggi ci avreste favorite… Pregate il Signore per noi e state sano». Si è pentita del suo errore, e credo che il Signore glielo abbia subito perdonato, anche per la sua grande ignoranza. Essa appartiene ad una cattiva famiglia. Una sorello di lei ora ha partorito per la seconda volta, ed il suo seduttore non la sposerà, a quanto mi vien detto. Questa disgraziata fanciulla, che viene da me, vive in mezzo ai cattivi esempi, e a' mali trattamenti, non essendo amata dalla madre. È quasi nuda: ora però sarà rivestita, anche perchè possa andare alla dottrina, e frequentare i Sacramenti. Un giovane la sposerebbe, e così essa sarebbe levata da una famiglia scandalosa. Ma non ha dote, e l'averla è difficile: poi sono cose lunghe; e qui bisognerebbe far presto. Il giovine si contenterebbe di un piccolo corredino: mi pare, che si farebbe con una quarantina di franchi. Potreste far voi questa carità? Se potete, scrivetemene, vi manderò la supplica, ed io stessa penserei e fare questo corredino [1] La Caterina nostra fu veramente donna di gran cuore e molto amorevole cogl' infelici. Allo poverelle, che andavano a lei ogni Domenica, inseguava persino la «Stroria santa, traendone ammaestramenti morali» (lettera al prof. cav. Pietro Savi, 5 agosto 1831). E alla donna, di nome Assunta, che la servi per parecchi anni (assistendo anche amorevolmente la figlia Rosa nell'ultima malattia), quando, a motive di una grave operazione, fu costretta a lasciare il servizio, le assegnò una pensione, che fini alla morte le fu corrisposta; mentre il caritatevole prof. Pietro Savi (di cui si narla qui dietro a pag. 317) diede in casa propria ricovero alla poveretta (lettera cit. 5 agosto 1861). Come poi la Ferrucci si comportasse colle fantesche, che aveva in casa propria, si vede da altra lettera, da Genova diretta al marito e ai figli nel 1850. In essa leggonsi queste parole: «Ho visto da una frase dell'ultima lettera, che le nostre donne non sono sempre d'accordo tra loro. Ciò mi dispiace assai. Non cerco, e non cercherò chi abbia torto, o ragione. Per me ambedue hanno torto, poichè debbeno soppertarsi a vicenda, ed essere ambodue umili, mansuote, pazionti. Antonio, o Michele le chiami, o dica loro, che io non voglio assolutamente cattivi umori, e discordie. Io non manderò mai via di casa l'una di esse, finchè fanno il loro dovere verso i padroni, perchè non sono di accordo insieme. E dove questo liti andassero troppo avanti piuttosto mi deciderei a privarmi di tutte e due, che darla vinta ad una di esse. Dunque si tengano avvertite, e stiano in pace, e si ajutino a vicenda, ed io le amerò ambedue. Dopo questo salutatele anche in nome di Rosa». E trovandosi in una sua villetta (presso Lucca), fra i contadini, ne scriveva al P. Alfonso Capecelatro così: «Qui tutto e solitudine, semplicità, tutto è pace: viva è la fede in queste buone genti: e quando le vedo così lietamente durare continue fatiche, e considero la loro pazienza provo per esse un senso di rispetto sincero».. La Mamma vi ringrazia, e vi saluta. Io sono con tutto il cuore—vostra aff.ma—C. Ferrucci.

[1] Del celebre card. Alfonso Capecelatro si è parlato a pag. 334—35; e qui si dà l'elenco delle principali Opere di lui, edite in Roma dalla Tip. Desclèe Lefebvre.—«Storia di santa Caterina da Siena e del Papato del suo tempo—Newman o la Religione Cattolica in Inghilterra—Storia di san Pier Damiano e del suo tempo—Gli errori di Renan nella Vita di Gesù—Vita di Gesù Cristo—La Dottrina Cattolica—Vita di san Filippo Neri—Sermoni ed Omelie—Lettere pastorali e Discorsi accademici e d' occasione—Opuscoli di vario argomento—Scritti vari—Vita del padre Ludovico da Casoria—Vita di sant' Alfonso Maria de' Liguori—Nuovi Discorsi, Omelie e Lettere pastorali—Problemi moderni», &cc.
Da tutte queste Opere, sarebbe desiderabile che venissero estratte, ordinate e ristampate, in volume separato, le Prose che si riferiscono alla lingua e letteratura nostra, nel cui ristoramento e rinnovamento ebbe tanta parte l'insigne Scrittore. Ed è pure da augurarsi, che gl'Italiani provveggono find'ora a raccogliere, da ogni parte dell'orbe cattolico, le Lettere dell'eminentiss. Principe, affinchè non molto sia ritardata la stampa del suo Carteggio, pel quale apparirà, in tutto il suo splendore (ciò che del resto provano le dette Opere), l'efficacia ch'Egli ebbe nel propagare e nel propugnare la Religione di Gesù Cristo nel corso burrascoso del secolo decimonono.

Pisa, 8 agosto 1862.

Mio venerato Signore.—Leggo con grange edificazione, e diletto la sua bella Storia di san Pier Damiano e del suo tempo. Il suo libro parmi mirabile per dottrina, per rettitudine di giudizj, e per bontà di dettato. Lo credo utilissimo ai tempi nostri, ne' quali in molti vien meno la fede ne' Santi di Gesù Cristo [1] In altra lettera senza data le scriveva: «Ella da lontano ha letto ne' miei pensieri: come non ho letto il Renan, non ho letto alcuno de' libri scritti intorno ai suo miserabili errori. Spero che il Signore Iddio lo farà ravvedere, e provo per lui grande pietà. Poichè dove essere molto infelice non avendo fede nella divinità del nostro amorosissimo Redentore. So però, ottimo Padre, che il suo libro è di grande bellezza, e son certa che farà molto bene». Questo libro è intitolato: Gli errori di Renan nella Vita di Gesù.. Oh se il mondo meglio intendesse certe anime, che vivono in Dio, e della carità sono accese, certo si terrebbe in riverenza maggiore la religione, e il vivere umano sarebbe più ordinato e felice. La ringrazio poi caramente del bel dono, che mi ha fatto. Non è de' miei studj così poveri, ed umili, il parlare pubblicamente del suo dotto lavoro; ma si troverà persona, che degnamente ne parli: e ciò non per lei, che non ha bisoguo di lode, ma per utilità degl'Italiani, i quali hanno tanto bisogno d'innamorarsi di buom libri. Già sapeva della guerra mossa alla Martini. E subito ne scrissi (ciò rimanga fra noi) alla moglie del ministro Matteucci [1] Matteucci Carlo, scienziato forlivose (1811—1868), allora ministro della Istruzione Pubblica, poi senatore del Regno d'Italia., che conosco da molti hanni. Avuta poi la sua lettera tornai a scriverle: anzi mi servii di quella per appoggiarmi sulla sua autorevole testimonianza, e perchè il Ministro a parte a parte conoscesse gli orditi intrighi. Mentre era in corso la mia seconda lettera la Signora mi scrisse, non essere giunto a Torino ricorso alcuno: il Ministro essere preparato a ribattere le calunnie: avere egli piena fede in persona da me proposta.—Le scrivo questo per dirle tutto, e non per vanità.—Io spero, che i nemici della buona Martini ormai si daranno per vinti. Intanto Ella la conforti ad accogliere con più riserbo i discorsi, che le vengono riferiti. Si riassicuri sulla sua buona coscienza, e non si lasci sgomentare da vane minacce.—Non scrissi direttamente al Ministro, perchè trattandosi di affare delicatissimo cercai la via, che mi faceva sperare maggiore segretezza. E della signora Matteucci pienamente mi fido.

Faccia i miei saluti al signor Alfonso Casanova [1] Il marchese Alfonso Della Valle di Casanova, napoletano, «insigne per sapere e per bontà», morì nel 1872 nella verde età di 42 anni. E l'autrice nostra in altra lettera, del 27 genn. 1872, a Franceschina Sofio Curci, lo ricorda così: «Riverisca in mio nome il P. Capecelatro: lo ringrazi del suo bellissimo elogio del povero Alfonso Della Valle, angiolo in terra di carità, e lo preghi a raccomandarmi al Signore Iddio…».. Già gli scrissi: intanto, gli dica, che da un amico inviai la sua pietosa lettera ai poveri Barsotti.

Mi conservi la sua benevolenza, per me preziosa: si ricordi di me nelle sue orazioni, e mi creda—Sua dev.ma obb. serva

C.a Ferrucci.

[2] Su Filippo Ferrucci (ricordato in più luoghi di quest' Epistolario, da lui in gran parte raccolto) riferirò testualmente i cenni che mi scrisse egli stesso con sua gentile letterina, 9 luglio di quest'anno 1910.—«Io sono nato a Firenze il 19 dicembre 1852 da Antonio e da Silvia Brighenti. Di poco più di 4 anni essi mi affidarono ai nonni Caterina e Michele per consolarli nel dolore per la perdita della figlia Rosa, e con essi rimasi, e da essi fui educato ed istruito. Sebbene avessi mostrato fin da giovanetto vocazione al sacerdozio, per opposizione del nonno, che voleva mi accasassi, non potei sccondarla, e studiai legge, laureandomi a Pisa nel 1873, e divenendo avvocato nel 1875, professione, che esercitai a Firenze, dettando anche molti scritti giuridici in giornali e riviste. Dopo la morte del nonno seguii il corso di Teologia sotto la guida del dotto P. Ambrogio Luddi de' Predicatori, ora vescovo di Assisi. Ordinato sacerdote il 7 giugno del 1884 [vedi a pag. 22 l' epigrafe dettata dal prof. Balsimelli in tale occasione] fui tosto impiegato nella Curia Arcivescovile, ove ora sono primo Cancelliere. Ho pubblicato nel 1900 un Compendio di Storia della Chiesa, in tre volumi, che serve di testo in alcuni Seminarii, e che ora è esaurito. In passato ho anche predicato, tanto in Firenze, quanto nelle campagne, ed anche in altre città; ora, per l'età e per le cresciute occupazioni ho tralasciato di predicare, ma continuo ad impiegarmi nel ministero delle confessioni». L'autrice ricorda questo degno nepote anche in altre lettere, omesse per la loro lieve importanza. In una a Salvatore Betti, del 18 dicem. 1878: «Vi presento mio nepote Filippo allevato e cresciuto in casa nostra, a noi caro come figlinolo. Egli vi stringerà la mano per me e per Michele… Vedendo Filippo fate conto di vedere noi due. Egli si tratterà a Roma fino ai primi dell'anno. È un giovane di illibati costumi, di molto ingegno e di moltissimo studio; desidero caro Betti che prendiate ad amarlo». In altra del 6 luglio 1875, all'avv. Leopoldo Galeotti (1812—1884), notissimo giureconsulto fiorentino: «Gran ventura è stata per Pippo, il fare le sue pratiche nel suo studio, ove in Lei e nel signore avv. Brunetti ha trovato dotti maestri, e guide sicure al cominciare della sua carriera… Egli venne in casa nostra bambino di quattro anni per consolarmi nella mia grando sventura. È sempre stato buono, e studioso: nè ora certo sarà dal passato diverso. La consolazione che ci ha recato il suo ottimo osame è così grande, che non so con parole significarla…». E il 4 genn. 1884 all'amica Bartolina Bertagnini: «Mio nipote Filippo, secondando una vocazione, che aveva da molti anni, presto spera di essere sacerdote: ha già da circa due mesi preso gli abiti ecclesiastici, ed è tranquillo e sereno, ond'io stimo che al nuovo stato sia veramente chiamato da Dio. Prega per lui, e per me…».

Pisa, 13 agosio 1862.

Mio caro Pippo.—Quando jeri sera tornò il Nonno gli feci molte domande su tutti voi, che tanto mi siete cari. Gli chiesi ancora se tu eri sempre buono, tenendo per fermo, che mi avrebbe risposto «Pippo è buonissimo». Con mio dispiacere seppi invece, che avevi fatto due bizze, e due sciocche bizze, perchè a un ragazzo ragionevole deve essere indifferente il passeggiare in un luogo, o in un altro. Il nonno soggiunse, che subito ti eri pentito: ma ciò non basta. Io voglio, e lo voglio per il tuo bene, che ta raffreni l'impeto delle tue passioncelle, che tu sappia sottomettere la tua volontà, a quella degli altri, e preferire l'altrui piacere al tuo proprio. Di ciò, se te ne ricordi, ti ho parlato più volte, spiegandoti il senso della parola egoista. E tu saresti egoista se volesti fare ciò che ti piace solo perchè ti piace. Pensa poi, Pippo mio, che un fanciullo non può educarsi, se non è obbediente. Dunque, mio caro, veglia sopra te stesso. Fatti una legge di obbedire sempre, e di obbedire volentieri. Se non ti emendi ora de' tuoi difetti difficilmente più tardi te ne potrai correggere. La mia povera Rosa era d'indole assai vivace: divenne mansueta, e dolcissima: e sai come fece? Si raccomandò molto al Signore, tenne conto de' miei consigli, fece violenza a se stessa, e diventò un modello di bontà perchè volle veramente esser buona. Imitala. Io posso mostrarti quello che è bene, e quello che è male. Ma dipende da te solo il mettere a profitto i miei ammonimenti. Sai, Pippo mio, quanto io sono afflitta, anzi non lo sai perchè nell'anima mia è un dolore noto a Dio solo, e che niuno al mondo può immaginare. Tu solo puoi darmi consolazione: ma non con le tue carezze, e neppure con il tuo ingegno: mi consolerai veramente se sarai buono. Te ne scongiuro, mio caro Pippo, obbedisci subito, sii compiacente, sii dolce di maniere. Sarai più amato da tutti, e sarai anche più felice; poichè non sentirai l'amarezza del rimorso. Prego il tuo Babbo a tenere nota della tua condotta. E prego te a non disprezzare i miei consigli, che sono dettati da un sincerissimo amore. Studia ogni giorno, non trascurare nè il latino nè il francese Dà in tutto buono esempio a Paolino. La nonna Maria, e il nonno vi salutano tutti caramente. Io abbraccio, e benedico te, Paolo, e il mio Antonio.

[1] Lucile Perreyve, sorella del prof. Enrico, al quale fu compagna nel suo soggiorno a Pisa, ed ove essa pure contrasse affettuosa e costante amicizia con la famiglia Ferrucci.

Lucca, 26 luglio 1865.

Mia cara, e sventurata Amica.—Appena seppi dai giornali la dolorosa notizia, ebbi in animo di scriverle, ma me ne mancò il cuore. Sulle prime, pensai che l'annunzio fosso falso: poi convinta della sua verità, piansi con lei da lontano, ma non seppi trovare parole da indirizzarle [1] Accenna alla morte del prof. can. Enrico Perreyve, di cui si parla a pag. 315.. Se guardiamo a noi, grande è stata la nostra sventura; ma se pensiamo alle rare virtù di quell'anima eletta; se leviamo lo sguardo al cielo ove essa è certo di già beata, sentiamo una celeste soavità temperare l'amarezza delle nostre lagrime.

La ringrazio di avermi mandato la pietosa narrazione degli ultimi giorni passati in terra dal suo dolce fratello, e dal mio venerato amico [2] Les derniers jours de l'abbè Henri Perreyve par M. l'abbè Bernard.. L'abbiamo letta in famiglia, piangendo di dolore, di tenerezza, e di cristiana edificazione. Io poi vi trovo molti punti di rassomiglianza con le ultime ore della mia Rosa. Essa era una semplice, innocente fanciulla; nè può essere paragonata al dotto, e santo sacerdote di Gesù Cristo. Ma la carità eguaglia le anime e lo Spirito del divino Maestro parla negli umili come nei grandi.

Ora penso che il suo fratello, da me amato come figlio, loderà Iddio insieme con la mia Rosa, ed ambedue pregheranno per noi. Vorrei rivolgere parole di consolazione a lei, cara Amica, e ai suoi genitori; ma che posso dire, che loro non abbia già detto la fede? La parola umana avrà forza in quelli, che odono dentro di sè la parola ineffabile del Salvatore? Le dirò solo, che piango insieme con loro, e che non dimenticherò mai il suo fratello, al quale mi legano tanti obblighi. Oltre alla gratitudine che tutti noi gli portiamo per l'onore da lui fatto alla dolce memoria della nostra diletta Rosa, io ho verso di lui speciali motivi di eterna riconoscenza. Se il mio dolore non trascorse a cieca disperazione, lo debbo a lui solo. Egli nella pietosa visita che mi fece, sostenne l'anima mia; Egli m'indicò in qual modo io doveva impiegare la mia vita, privata a un tratto di quella che era la mia speranza, ed il mio conforto. Oh quanto bene egli mi fece! Ne sia sempre benedetto! e in ricompensa della sua carità, il Signore gli accresca gloria e beatitudine.

Le lettere, la Chiesa hanno fatto una perdita immensa; ma un santo di più è nel Cielo! Verrà il giorno felice in cui tutti saremo lassù riuniti; ma intanto siamo rassegnate nella carità e nella fede. L'abbraccio con tutto il mio cuore ed anche la sua povera madre. Che Iddio le sostenga e le consoli.

Sua di cuore—Caterina Ferrucci.

[1] Varie lettere diresse l'autrice alla madre degl'illustri professori Pio e Michele Raina, che qui entro non hanno avuto luogo. Di sì degna amica della Ferrucci, riferirò i brevi cenni, che, il 5 agosto di quest'anno 1910, ottenni dalla gentilezza del prefato prof. Pio Raina. «Mia madre, Costanza Simonetta, era nata a Talamone [prov. di Grosseto] il 27 luglio del 1824. Perduti nel 1836 ambedue i genitori per causa del colera, fu educata a Como e andò poi sposa a Sondrio nel 1844. Dodici anni dopo era vedova; e cosi, quando, nell'autunno del 1864, io dovetti intrapprengli studi universitari, trasferi a Pisa la sua famiglinola. A Caterina Ferrucci la presentò poco dopo Giovanni Lotti, proprietario dello stabile dove noi andavamo a stare; e di casa Ferrucci fu poi sempre frequentatrice durante i cinque anni di soggiorno pisano. Passata con me da Milano a Firenze, sul declinare del 1883, mia Màdre ebbe il piacere di trovarci (pur troppo mal ridotta) la signora Caterina; e fu delle poche persone che la videro (vi andava normalmente una volta la settimana) in quell'ultimo periodo; delle poche che parteciparono ai funerali. Mia Madre mancò ai vivi il 1. marzo del 1907 ancora vigorosa. La uccise una polmonite».

S. Michele in Escheto, 17 luglio 1868.

Mia cara sig. Costanza.—Mio marito con affetto quasi paterno mi ha sempre tenuta informata degli esami del suo bravo e buon Pio: ed io ne ho provato sincera consolazione. Permetta, che me ne rallegri con lei, e con Pio, il quale sarà sempre l'onore della sua Mamma, So per propria esperienza quanto le consolazioni a noi date da' nostri figli siano vive, e durevoli. Anche il mio Antonio, dopo avere avuto pieni voti, e pieno plauso, in tutti i suoi esami, ebbe, come il suo Pio, menzione onorevole, e raccomandazione speciale al Governo. Mi ricordo, che versai lagrime tanto, ma tanto dolci a questa novella. Antonio mio ebbe subito impiego, e ha fatto rapidamente la sua carriera. Così avverrà del suo Pio [1] Pio Raina studiò nell'Università di Pisa, ove consiguì la laurea in filologia: fu quindi professore di storia comparata delle letterature neo-latine nell'Accademia scientifico-letteraria di Milano, ed ora con tale titolo insegna nell'Istituto degli studj superiori in Firenze, dov'è pure annoverato fra gli Accademici residenti della Crusca; il che conferma il suo valore di scrittore e di maestro., il quale al sapere, e all'ingegno unisce rara bontà, istillata in lui dalla madre. Queste, e altre cose vorrei dirle a voce: non potendo ora, le scrivo, e la prego a passare, quando più le piaccia, una giornata da noi con Pio, e con Michelino, [1] Michele Raina, ora dottore e professore di Geodesia ed Astronomia nella r. Università di Bologna. e con Arrigo. Li accoglieremo proprio alla buona, come si accolgono glì amici: ma Ella avrà la bontà di avvisarmi del giorno della sua venuta, perchè in questo luogo, massime quando, come ora, non vi sono villeggianti, si mancherebbe del necessario, senza una certa previdenza.

Cara signora Costanza, mi rallegro di nuovo con lei. Le faccio i saluti di mia madre, che, purtroppo, decade ogni giorno più. Questa è per noi grande afflizione. Mi ricordi a Pio, a Michelino, ad Arrigo, e alla sua Maria, e mi voglia bene.

[2] Giambatt. Giuliani, nato a Canelli (Asti) nel 1818, appartenne alla Congregazione de' Cherici regolari Somaschi. Innamorato di Dante, consacrò quasi tutta la vita allo studio della Dicina Commedia, spiegandola per vari anni nella cattedra dantesca dell'Istituto degli studj superiori in Firenze, cioè dal 1860 al 1884, in che morì. Per cura di lui l'editore Felice Le Monnier rístampò le Opere Minori di Dante con nuova commento; ma qui non sta tutta l'operosità dell'insigne Dantista, che parecchi lavori, specialmente linguistici, egli lasciò.

Cutigliano sulla montagna pistoiese
il
26 di giugno 1871.

Gentiliss. sig.ra Caterina.—Se v'era cosa che dovesse farmi specialmente gradire l'onore di far parte dell'insigne Accademia della Cruscoa, si è l'aver veduto il mio povero nome congiunto a quello di Lei[1] Il Giuliani fu eletto accademico della Crusea il 18 giugno 1871, e nel medesimo di furono pure elotti l'Autrice nostra, il domenicano p. Alberto Guglielmotti, e Francesco Zambrini. Da alcuni si propugnava l'elezione di Ercole Ricotti (1816—1883), storico piemontese e senatore del Regno, e anche quella di Luigi Settembrini (1813—1877), prof. di Letteratura italiana nell'Università di Napoli ma questi due ultimi non vennero mai eletti., cui tutta Italia rende lode d'ingegno singolarissimo e di elegante scrittrice e maestra d'ogni gentilezza. Me Le rallegro di cuore, e mi consolo che in Lei siano così rispettati ed esaltati i buoni studi e costami, onde la patria nostra può ricevere nuovo decoro. Le piacia di riverirmi l'egregio suo consorte, e nel ringraziarla della benevolenza ch'Ella non cessa di mostrarmi, godo di essere per intimo ed affettuoso ossequio—suo dev.mo Giambattista Giuliani.

Note[1] Questa lettera all'Arciconsolo ab. Raffaello Lambruschini fu edita da Cesare Guasti nella Commemorazione della Ferrucci, negli Atti della R. Accademia della Crusca; ma qui s'è riprodotta secondo una copia di pugno del dott. d. F. Ferrucci, nepote dell'autrice; copia che lievemente varia dalla cit. stampa.
Raffaello Lambruschini, nacque a Genova il 14 agos. 1788. Studiò a Roma e Orvieto presso lo zio, cardinale Luigi. Resosi sacerdote, nel 1816 si trasferì a Firenze: e rinunciando le promossioni e gli onori ecclesiastici, preferì lo studio delle scienze naturali, e dell'economia pubblica. Dopo il 1830 si dedicò tutto alla Pedagogia, nella quale divenne maestro autorevolissimo con la voce e con gli scritti, fra quali la Guida dell'Educatore (1836), cui segui il trattato Dell' Educazione (1849) e quello dell'Istruzione. Fu membro dell'Accademia de'Georgofili, arciconsolo dell'Accademia della Crusca, senatore del Regno e presidente dell'Istituto degli studj superiori e di perfezionamento in Firenze. Morì il dì 8 marzo 1873.

(Lucca, 21 settembre 1871).

Chiarissimo sig. Arciconsolo.—Quando io, nella già lontana mia giovinezza, innamorata dei nostri Classici, mi posi a studiare in essi la lingua nostra, e cercai d'imitare, per quanto era da me, il loro stile, siccome quello, che sempre con efficacia, con grazia, con eleganza è atto a significare tutti i concetti della mente, e tutti gli affetti dell'animo, non mai mi venne in pensiero, non mai sperai, e neppure desiderai, che dalla somma benignità di codesta illustre Accademia fosse data nuova e splendida ricompensa agli studii miei. Della quale mentre a Lei, signore Arciconsolo, e a tutti i signori Accademici rendo sincere grazie, meco stessa non poco mi maraviglio. Imperrochè per quale merito mio speciale a me donna è dato sedere in mezzo ai sapienti, che o con opere loro accrebbero decoro alla lingua, o vegliano a mantenerne incorrotta la nativa purezza e semplicità? Certo non è in me così stolida presunzione per credere, che per quanto io già scrissi mi fosse dovuto un premio da niuna donna mai conseguito. Penso adunque che se codesta dotta Accademia mi fece degna di tanto onore, essa in me volle ricompensare non l'ingegno, ma l'infaticabile amore verso i nostri sommi scrittori, e per l'esempio mio tacitamente esortare le gentili donne italiane a studiare più che non fanno comunemente nella bellissima nostra lingua, a leggere non forestieri romanzi, con danno della mente, e del cuore, ma i poeti, gli storici, e gli altri prosatori del trecento, e del cinquecento, traendo da essi norme sicure a bene scrivere, e a rettamente pensare. Certo a me sembra stoltissima l'opinione di quelli, i quali vorrebbero che le donne avvessero in comune cogli uomini gli uffici, e gli onori; sicchè in luogo di attendere ai casalinghi lavori, e ad allevare i loro figlioli perdessero in gare ambiziose la pace dell'animo, la verecondia, e la dignità della vita loro. Credo però che noi donne possiamo avere gran parte nel civile incremento delle nazioni, ispirando ne' nostri figli l'amore della giustizia, della libertà, della patria, la riverenza verso la religione, e formando in essi sino dai loro teneri anni puro il senso del bello, e retto il giudizio. Al che saranno di grande efficacia lo studio de' nostri Classici, maestri di civile sapienza, siccome d'ogni eleganza, e la cura posta a bene imparare la lingua nostra, a sentirne la proprietà per la stretta attinenza, che è tra la parola e l'idea da essa significata. Sperando adunque, che dall'insolito onore da codesta illustre Accademia a me conferito, siano le donne italiane a migliori, e a più forti studii incitate, io prendo di esso consolazione pari all'obbligo, che ne porto a Lei, signore Arciconsolo, e a tutti i signori Accademici. E questo avrei prima di oggi a Lei, e ad essi manifestato, se per un ritardo della posta di Lucca non avessi ricevuto qui in villa soltanto ieri il diploma, e gli statuti [1] In questa lettera, come in altre avute in copia dai nepoti dell'Autrice, manca la chiusa e la soscrizione..

Firenze, 27 settembre 1871.

Riverita Signora—La modestia di che è piena la sua lettera del 21 diretta a me, prova che l'Accademia della Crusca ebbe ragione di premiare in Lei un merito che Ella sola non conosceva: il merito di avere studiata con amore la nostra lingua e d'averla scritta come pochi uomini sanno. Non si può sperare che tutte le madri abbiamo tal perizia di questa nostra lingua maravigliosa da farsene custodi e da insegnare ai figliuoli e al pubblico tutto come si possono usare parole e modi italiani per esprimere merci ed abbigliamenti che ci reca continuamente la Francia, e donde viene una continua e male avvertita corruttela della nostra favella. Ma dove accada che di tali donne se ne possegga in Italia almeno una, quest'una preme grandemente onorare e proporre in esempio. E ciò tanto più quanto del pregio raro che si vuol riconoscere e premiare, la donna non ne faccia pompa e non lo anteponga alle virtù domestiche valor vero, vero ornamemto delle donne. Gli scritti di V. S. han fatto palese all'Accademia che in Lei spiccavano queste doti velate da quella umiltà che le rende più amabili e più degne di stima. Non doveva dunque l'Accademia lasciar fuggire questa occasione di premiare in Lei l'esemplare della donna italianamente istruita, e stimolare così le ragazze, che frequentano le nostre scuole femminili, a studiare ed amare la lingua nostra, erede delle bellezze della lingua greca e della latina.

Accetti dunque senza che se ne turbi la sua modestia l'onore che l' Accademia della Crusca ha intenso porgerle, chiamandola a sedere fra i suoi. E continuando a scrivere, come Ella ha fatto, confermi la speranza che l'Accademia ha posto nel suo tacito magistero.—Quanto a me godo d'aver cooperato a questo tributo di lode, e averle così dato prova di quella rispettosa stima, con che ora me le professo—devotissimo servitore

R. Lambruschini.

Note[1] Rosa Bianchi, figlia del prof. Luigi e Maria Brunelli, entrambi nipoti della Ferrucci, amò grandemente la vecchia pro-zia, che nelle sue lettere le dà consigli affettuosi intorno agli studj ed alla educazione.
[Nota del nepote dott. don Filippo Ferrucci.]

Pisa, 26 novembre 1871.

Mia cara Rosina,—Perdonami, se ho tanto tardato a scriverti. Io sono sompre molte occupata, e spesso mi nanca il tempo a scrivere lettere: ma le tue mi sono carissime, siccome di grande consolazione è l'affetto, che a me dimostri… I miei consigli non hanno altra autorità che quello di un affetto sincero, e del desiderio del tuo vero bene. Il quale è nell'adempimento dei tuoi doveri verso Dio, verso il tuo babbo, e verso te stessa. Sii religiosa, e cerca, che penetri nel tuo cuore lo spirito della dottrina di Gesù Cristo. Ama, e rispetta tuo Padre, e dàgli di ciò sicura testimonianza con la tua pronta obbedienza non solo ai comandi, ma ai desideri di lui. Fa che tornando a casa, o tralasciati i suoi studj, ti vegga sempre lieta, e che per le tue cure trovi tutte le cose bene ordinate.

Quanto a te stessa, coltiva con diligenza la tua mente, cercando di farvi entrare solo buone e utili cognizioni: e perciò in luogo di leggere i libri di solo diletto, come racconti e novelle, leggi libri di storia, e sulla scelta di essi chiedi il consiglio del Babbo [1] In altra lettera del 1 nov. 1873, la consigliava a leggere la Storia Romana scritta da monsignor Pellegrino Farini (1776—1849), nella quale «tatto è da commendare, ordine storico, e stile purissimo».. Anzi vorrei che tu non aprissi mai un libro senza l'approvazione di lui, perchè se dalla lettura ci vengono molti beni, da essa spesse derivano gravi danni. Procura poi, che niuna parte di tempo ti fugga oziosa Lavora, leggi, bada alla casa, passeggia, ma non rimanere mai disoccupata. Perchè nell'ozio la nostra mente spesso si pasce di sogni, e la fantasia ci dipinge il mondo quale non è, e quale la giovanile inesperienza se lo figura. Onde poi nascono amarissimi disinganni, e sovente funesti errori [1] In altra lettera, del 27 sett. 1871, le scriveva: «Continua ad occuparti di lavori, e di buone letture. Noi donne dobbiamo fuggire l'ozio, anche pel danno che da esso viene all animo nostro: poichè una donna oziosa è soggetta agl'inganni della sua fantasia, e a pascersi di vani pensieri; dai quali hanno spesso principio non buoni affetti. Sai perchè tante donne guastano il loro cuore, e i loro costumi leggendo romanzi? Perchè non hanno saputo, o voluto occuparsi utilmente». Ed è bene rendere noto che l'Autrice ebbe lo stesso pensiero fin dal 6 marzo 1827; e scriveva al futuro sposo Michele Ferrucci: «L'ozio a ben considerare la cosa, è la principale cagione di quel vituperevole dissipamento che si vede fra gli uomini di oggidi. Costoro non sapendo come passare il tempo, si perdono in mille ridicole vanità e contraggono quelle prave usanze, che poi li conducono a porsi sotto i piedi i più sacri doveri. A noi certo non accadrà questa sventura… poichè ci terremo ambedue lontani dall'ozio, e studieremo sempre affine di apprendere non, tanto la bellezza dello stile, e la profondità dei concetti, quanto per imparare a governarci nella vita, e a seguitare, con non mai vinta costanza, la virtù, che sola può renderci avventurati».. Voleva mandarti il libro della mia santa Rosa [1] Cioè il vol. Rosa Ferrucci e alcuni suoi Scritti ecc. di cui si parla in nota a pag. 299.: ancora però non ho potuto averlo: ma presto te lo invierò. Vedrai da esso come si nobiliti l'ingegno, come utilmente s'impieghi il tempo, e come ogni nostro affetto dall'amore di Dio, e del prossimo venga santificato. Tu porti il nome di lei: cerca d'imitarla, e sarai la consolazione del padre tuo, e da tutti i buoni sarai stimata, ed amata. Più cose ti direi, ma debbo finire. Ti ringrazio dei tuoi augurj: prega per me, e per tutta la mia famiglia; saluta il Babbo, ed amami sempre.—Tua affma zia

C.a Ferrucci.

Note[2] Il conte comm. Giovanni Sforza, ora direttore del r. Archivio di Stato in Torino, nacque a Montignoso nel 1846. «Fin da giovanetto mostrò grande disposizione per gli studj storici e letterari», ne' quali riuscì valente, come mostrano i molti lavori da lui messi alle stampe. Nepote della Rartolina Bertagnini fu da essa presentato alla sua amica Caterina Ferrucci, la quale lo ebbe carissimo. Grande ammiratore e cultore di Alessandro Manzoni ne pubblicò l' Epistolario e le Opere inedite o rare, ed ora va preparando il Carteggio completo del celebre scrittore.

(Pisa), 23 dicembre 1871.

Caro Giannino,—Vi ringrazio del caro dono. Belle sono le vostre parole, e la biografia del Pierantoni[1] Ricordi e lettere di Michele Pierantoni, lucchese; in Lucca, dalla tip. di B. Canonetti, 1871, in-8, di pag. 96; ediz. di soli xxx esemplari, fatta per cura di Giovanni Sforza suo genero.: bellissime le lettere del nostro suocero e i suoi ricordi alle famiglie. Vi sono gratissima di avermi mandato una copia di quel caro libretto, e ne rendo grazie anche alla buona vostra moglie. Auguro di cuore ogni felicità a lei, a Voi, ed alla vostra famiglia. Scrivo in fretta, ma sono di cuore—Vostra aff.ma

C.a Ferrucci.

Corfù, li 15 maggio 1831(*) Questa lettera giunse in ritardo, onde non potè avere luogo qui dietro coll'altre dell'anno 1831. Essu si conserva nella Biblioteca Universitaria di Pisa. nel Carteggio Ferrucci. Quivi esistono pure altre otto lettere di Paolo Costa, le quali sono contemplate nolla nota, che sta qui oltre a pag. 368—69..

Amica mia gentilissima.—Ieri il Sig. Alemanno mi recò la vostra lettera, nè avrebbe potuto recarmela prima perciocchè io giunsi in questa città solo il giorno quattordici, dopo essere stato trattenuto in mare dai sirocchi e dalla bonaccia trentasei giorni. Oh che penoso viaggio! Siamo giunti qui annojati, stanchi, affamati; ma non appena giunti siamo stati largamente ricompensati d'ogni nostro affanno per le accoglienze lietissime degli Inglesi, e de' Corfiotti. questa, o mia carissima, è la sede della giustizia, della libertà e della pace: io vivrei ora nella più grata felicità, se non mi travagliasse il pensare che tanti amici nostri sono nella miseria. E sarà egli vero che la divina provvidenza voglia permettere che tanti uomini sapienti e buoni non trovino chi gli ajuti e protegga? Non perdiamo la speranza e facciamo animo; e voi, che siete fornita di tante virtù, rassicuratevi, e se non trovate pace in coteste provincie disponetevi al viaggio per queste isole beate dove troverete ospitalità e favore. Io ho già parlato di voi e del vostro Michele al fratello di Miledi Adam e ad alcuni senatori, ed ho fede che sarete da loro amorevolmente accolta e protetta.

Per ora non posso dire di più; quando sarò certo che possiate avere un sufficiente numero di scolari e di scolare vi scriverò, e voi non tarderete allora a far vela all'isola de' Feaci, e prima che abbia termine l'autunno verrete meco ad assaporare le melarancie, che crescono in quella terra ove anticamente fiorivano i begli orti di Alcinoo[1] Al cinoo, fu re de' Feaci; e nel 'isola di Corcira ove possedeva giardini magnifici (descritti nell' Odissea d'Omero) accolse Ulisse quando ritornò da Troja.. Direte a Michele che qui non vi è nessun dotto latinista e che quindi non gli potrà mancare nessuna comodità della vita; e quello che io vi dico vi confermerà l'Alamanno. Salutate in mio nome i Marchetti e i Pistorini, e se vedete il Montanari ditegli che sempre mi ricordo di lui, e che non stia più in pena per me, che qui sono onorato da tutti ed amato. Fra pochi giorni andrà in scena il mio D. Carlo [2] Il don Carlo, tratto da Federico Schiller (1759—1865). e tra pochi mesi sarà stampata la mia ideologia[3] Il Trattato del modo di comporre le idee.; conosca egli da ciò se ho ragione di dire che queste sono le isole beate. Amatemi e credetemi che sarò sin che vivo—il vostro amico—Paolo Costa[1] Il nome di Paolo Costa, (1771—1836), ricordato a pag. 82 e 155, quando scoppiarono i moti politici del 1831 nelle Romagne, suonava già celebre in Italia per le varie sue opere scritte con classico sapore. Ma per certe idee manifestate in un suo Discorso intorno al Governo costitazionale per istruzione di quelli che non sono versati nelle scienze politiche, Bologna e Perugia, anno 1 della libertà, 1831, Tip. Baduel, cadde come molti altri nella disgrazia de' governanti, e in Bologna, ove dimorava, si vide in pericolo di perdere la libertà. Onde in età di quasi 60 anni, in malferma salute, per l' ignorato male della pietra, che poi lo condusse al sepolero, con dolore lasciò l'Italia, esulando a Corfù colla sua consorte, ove fu accolto lietamente come dice la presente lettera. In quell'isola famosa, dov'era già noto il suo nome, prose stanza, si dedicò all'istruzione della gioventù, scrisse e pubblicò l'elegante Trattato del modo di ben comporre le idee. Ma l'aria di quell'isola era funesta alla sua salute, onde cercò ed ottenne di poter ritornare nella prediletta Bologna, per riposarsi nella sua villa, luogo almeno detto il Cipresso, non molto lungi dalla città. Le 9 lettere di lui alla nostra Scrittrice, sono dettate appunto durante il tempo della sua peregrinazione a Corfù. E poichè da esse si arguisce, che la Caterina nostra e il consorte prof. Ferrucci erano come il Costa malvisti dai governanti (e per cui noll'ottobre del 1836, esularono a Ginevra), sarà bene il riportare da esse quelle notizie che a tale proposito dànno qualche lume; giacchè non è possibile stampare qui esse lettere nella loro interezza. Ed è pure da osservaro, che tre di dette lettere hanno nell'esterno quest'indirizzo: Al sig. Camillo Bianchi negaziante Ancona (forse per evitare che venissero intercettate), il quale, come vedovo di Rosa Franceschi, le trasmetteva alla cognata Caterina nostra. Nella II. del 7 luglio 1831, conforta i coniugi Ferrucci à seguirlo a Corfù, citta grande come Ravenna o Forli, circa, dove troveranno onorato luogo nell'istruzione e nell'educazione della gioventù. E soggiunge: «Dite a Michele che si faccia animo che qui avra fortuna, poichè molti desiderano un buono maestro, che faccia gustare Cicerone Livio, Orazio e Tacito. Ditegli che qui e perfetta libertà civile: si pensa, e si dice quello che si vuole, e i capi del governo sono persone le piu civili, e senza fasto. La polizia è solo pei ladri, e per i malviventi. La religione de' Latini è rispettata dai Greci. Così i Latini rispettano quella de' Greci. Il vescovo latino è monsig. Nostrano, uomo dabbene. vero cristiano, amato da tutti. Venite insomma che vi troverete contenta… Ditegli [a Michele] che non è difficile che fra breve io abbia qualche influenza in questa Universita e che in tal caso dandomisi l'occasione potrei giovare anche a lui in modo diverso da quello che ora faccio». Nella III, del 28 agosto 1831: «L'av. Villetta, che si è dato per voi molta premura, mi assicura che se la necessità vi obbligasse a lasciare Bologna potete essere sicura che venendo qui… potreste essere sicuri d'incassare subito tra voi e Michele almeno 60 scudi ognimese». E in un poscritto soggiunge: «Mi è riuscite impiegane nella stamperia l'Av. Ba… con trenta scudi di mensili, se Michele viene qui l'impiego con 40». Nella IV, del 22 nov. 1831, mostra di aver sperato ne' Governanti la città di Bologna e di poter rimpatriare, ma aggiunge: «Ogni mia speranza è andata delusa. Se sapeste quanto sia il desiderio, che noi abbiamo di conoscere gli avvenimenti d'Italia, dei quali qui giunge tarda, incerta e spesso contraffatta notizia, sareste verso di noi meno crudele. Rompete il silenzio e scrivetemi una lunga lettera…». Nella V, del 1. dic. 1831: «Io vivo qui prosperamente… ed ho ragione di sperare beni maggiori, nulla dimeno preferirei il vivere nel suolo nativo fra gli antichi amici a questo agiatissimo esilio, laonde desidero (vi dico queste cose all'orecchio) di sapere se io sia tra gli esclusi [allude all' amnistia], e se vi abbia fondata speranza che di qui innanzi non sieno da temere le sentenze arbitrarie, e le sorde persecuzioni. Quando non vi sia speranza di libertà preferisco l'esilio alla servitù. Dal vostro sonno aspetto profittevoli informazioni, e consigli… Ditemi ancora qualche cosa dell'Arcivescovo [il card, Opizzoni] e di que' giandarmi che mi diede per ospiti. E in un poscritto aggiunge, in proposito dell'amnistia: «So che non sono fra i 38, ma potrei essere escluso in segreto dalle menti della S. L.». Nella VI, del I. febb. 1832: «Ho letto ne' pubblici fogli le vostre venture. Prego Dio che le faccia liete». Seppe pure che non era fra gli amnistiati politici e neppure fra gli esclusi: onde «in buona fede» decise di moversi da Cortù per ritornare a Bologna, dove giunse il sabato innanzi alla prima domenica dell'ottobre 1833; e il motivo che l'indusse a lasciare Corfù descrive nella lettera VIII, scritta «dal Lazzaretto di Ancona», li II, maggio 1832, così:, Io mi sono partito da Corfù perchè il clima, o i cibi pessimi di quella città mi hanno cagionato una malattia di flatolenze continue al basso ventre, che mi rende noiosa e grave la vita. Ho lasciato colà la mia fortuna, perciocchè il governo, per trattenermi mi fece offrire una cattedra nell'Università a mia scelta. Erano scudi 60 al mese, che aggiunti a 90 di lezioni private mi facevano ricco; ma la sanità è il primo de' beni che si vuole cercare,. Poveretto! la sanità non potè più ricuperare: ignorava che le sue sofferenze provenivano dal male della pietra, per cui dovè ricorrere al chirurgo per estrarla, e 12 ore di poi svenire e quindi esalare l'ultimo respiro la notte del 21 dicembre 1836..

Di Parigi, 8 del 1848(*) La presente lettera giunse in ritardo; onde non pote essere collocata a suo luogo coll'altre del 1848..
19 Aleé d' Antini.

Gentilissima e ingegnosissima Signora. La sua opera sulla educazione[1] Dell' Educazione morale della donna italiana, libri tre di C. F. F. (Torino, Gius. Pomba e comp. 1847), opera ricordata anche qui dietro a pag. 210. è un capolavoro di senno pratico, di filosofia e di gentilezze. Non so se più si debba ammirare l'elezione giudiziosa e la purezza dei pensieri, o l'eleganza dell'elocuzione, o i colori e i lumi popoetici che la fioriscono; i quali fanno ricordare nella severa ed amabile educatrice la poetessa, che con tanto splendore testè cantava i natali della patria. La forma di educazione da Lei tratteggiata mi pare acconcia da ogni parte a instituire la perfetta donna italiana, quale oggi dee essere, in cui le prerogative incomparabili del suo sesso vengano contemperate dalla virilità nazionale. Io perciò Le sarei gratissimo della sua opera ancorchè non mi fosse venuta dalla sua mano; tanto è il diletto e l'istruzione che ne ho ricevuto. Or come potrò io degnamente ringraziarla, avendola avuta in dono da Lei proprio, e accompagnata dalla sua umanissima e dolcissima lettera? Un tal cumulo di favori non ha pago che basti; onde io La prego a leggermi nell'animo quella riconoscenza che mi procurerei invano a esprimerle in parole.

Spero bensì che avendomi onorato di tante grazie, sia per concedermi eziandio quella di collocarmi tra i suoi servitori; e di valersi di me, se in queste parti posso ubbidirla in qualche cosa. Mi affido del pari che il sig. prof. Ferrucci vorràaccogliere la mia profferta; come quegli che non solo è la parte più cara dell'anima sua, ma divide seco la gloria dell'ingegno e l'ammirazione dei coetanei.

Pregandola dunque a iscrivermi nella di Lui memoria e a mantenermi nella propria, mi reco a cuore di essere con profondo rispetto Suo umilissimo dev.mo e obblig.mo servitore

V. Gioberti.

P. S.—Il vivo desiderio che si tiene universalmente della seconda parte della sua scrittura, non ha d'uopo di esserle da me espresso dopo il pubblico testimonio dei giornali. Siccome però la mia debol voce riceve dalla sua cortesia un peso che non avria in se stessa, unisco le mie alle comuni istanze per sollecitarla al compimento del suo lavoro. Il discorso sugli studi sarà sovratutto di utilità grande; perchè, creda, da questo lato l'Italia non si diversifica gran fatto dalla Francia; dove per to più la sola regola che governa gli studi donneschi è la moda o il piacere, come quella degli studi maschili è il lucro e l'ambizione. L'amor del vero e del bene è escluso qui quasi sempre da tutti i calcoli; quindi la corruzione e la frivolezza[1] Questa lettera del Gioberti alla Ferrucci si conserva autog. nella r. Biblioteca Universitaria di Pisa con altro 5 dello stesso insigne scrittore. La prima di esse però, in data Di Parigi 24 sett. 1847, è diretta al prof. Corradini a Firenze, e contiene pure queste parole: «Ringrazi caramente i signori Ferrucci degli elegantissimi componimenti onde mi hanno gratificato. E mi tenga presente a sì degna coppia, che gareggia tanto mirabilmente nel mantenere viva alle lettere italiche la maestà della lingua madre e la dolcezza delle figliuole». Le altre, scritte pure da Parigi, sono dirette alla Ferrucci; e sono notevoli in esse alcuni pensieri e giudizj su la nostra Scrittrice. In quella del 9 settembre 1850, parla di Federico Bastiat, membro dell'assemblea nazionale di Francia, che si trasferisce in Toscana, al quale agevola il conoscere nella Caterina Ferrucci «un vivo e splendido onore della patria nostra». Nella penultima, del 29 dicembre 1850, afferma, che negli Scritti della Ferrucci «oltre l'ingegno e il giudizio squisitissimo, riluce tanta bontà». Nell'ultima del 1. agosto 1852: «Mi rallegro cordialmente seco del nuovo titolo acquistato alla gloria e alla gratitudine di tutti i buoni [allude al vol. II Dell'Educazione intellettuale della Ferrucci], e non solo lodo il suo proposito di scrivere eziandio sugli studi delle donne; ma perchè le mie deboli parole ricevano dalla sua gentilezza qualche efficacia, ve la conforto quanto so e posso, parendomi (e glielo dico colla massima sincerità) non trovarsi in Italia alcuna penna così idonea a compieroun tal lavoro come quella di D. Caterina Ferrucci».
L'abate Vincenzo Gioberti, «filosofo, estetico, polemico celeberrimo», che «chiuse in sè il sapere di molti uomini e molte età», nacque a Torino il 5 aprile 1801, e morì in Parigi il 26 ottob. 1852. Aggiungere parole intorno a sì famoso scrittore sarebbe proprio come portar acque in mare. Onde qui si riferisce solo questo fatterello: che egli, sacerdote come era di vita e costumi integerrimi, fu aggregato nel 1825 al Collegio Teologico di Torino; di che uno dei giudici dell'esame d'aggregazione ebbe ad esclamare: «Oggi abbiamo aggregato al nostro collegio un giovane che ne sapeva più di tutti noi». È vero, che le sue Opere, edite o postume, non sono scevre d'errori filosofici e politici; ma è altrettanto vero, che nessuna cosa umana può essere perfetta, e che gli errori in cui cadde il Gioberti furono cagionati sempre da desiderio del bene, e sono quindi più scusabili di quelli di qualche altro scrittore.
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Note[1] Questo brano di lettera leggesi nel volumetto Raccolta di alcune eleganze della lingua italiana fatta da Federico Balsimelli ad uso de' giovanetti; Gatteo, Tip. Istituto fanciulli poveri, 1893; terza ediz. con prefazione di Caetano Dehò.—Federico Balsimelli nacque nella città di S. Marino (antica e illustre repubblica) ai 3 di febb 1823 da Paolo, capo-maestro muratore stimatissimo, e da Margherita Bava riminese, Studiò nel seminario di Rimimi, ove fu ordinato sacerdote i. 18 sett. 1847. Fu curato, poi parroco zolantissimo in S. Mauro riminese per vari anni, e nel 1863 passò a Rimini arciprete-canonico di S. Maria in Corte. Nel 1874 fu promosso a pieni voti canonico-parroco della Cattedrale. Come professore insegnò belle lettere in Montescudo, in Rimini nel Collegio delle reverende Celibate, nella scuola Tecnica e nel Ginnasio pareggiato; nel Seminario vescovile insegnò pure la Storia della Chiesa. In Sinigaglia resse il Collogio convitto Bartoli, insegnò nel Ginnasio Pio e nel Liceo del seminario vescov. Tenne con lode varì altri uffici, come quello di esaminatore sinodale, di convisitatore vescovile ec. Fu presidente onorario dell'Accademia Dante Alighieri di Catania. Fu a tutti caro per modestia, integrità di costumi; fu pieno di carità e di zelo, comnassionevole e benefico verso i poveri; in una parola fu un vero sacerdote cristiano. Fu elegante e puro scrittore; e si compiaceva grandemente di seguire e propugnare le dottrine del celeberrimo Antonio Cesari, che ricorda in quasi tutti suoi libri, pregevoli per la forma classica, e lungi da affettazione; pregevolissimi pel contenuto, singolarmente la Storia della Chicsa in due volumoni, addottata come testo in molti Istituti e Seminari d'Italia, le Piccole Lezioni morali, le Iscrizioni italiane, le Conversazioni letterurie, ed altri scritti precettivi e storici, che lungo sarebbe ricordare, e che verranno uniti e ristampati in volume con molte sue Lettere; tanto più che le scritture di quest'illustre sacerdote riportarono persino l'approvazione e gli encomi degli eccelsi pontefici Pio IX e Leone XIII. E a conformare il valore e la squisitezza degli Scritti del Balsimelli basta ricordare, che fu scelto ésaminatore e giudice di circa novecento poesie italiane di altrettanti scrittori all'occasione del Giubileo sacerdotale di Leone XIII,,; onde come «benemerito delle opere ordinate a festeggiare quel glorioso avvenimento, ricevette dallo stesso Pontefice due grandi medaglie, una d'argento e l'altra d'oro, con l'effigie dell'augusto donatore,,. Dopo tante soddisfazioni, il Balsimelli passò alla vita eternale il 28 marzo dell'anno 1899. Per maggiori notizie veggasi le Memorre del professore Federico Balsimelli, scritte da lui medesima, pubblicate per cura di Giuseppe Guidetti; Reggio nell'Emilia, tip. Artigianelli, 1899; volume in 16 gr., di pagg. XVI-166.

(Pisa), 22 di decembre 1872.

La ringrazio del Suo frasario; a me sembra che questo sia di molta utilità a' giovanetti studiosi del buono stile italiano, del quale avendo essi esempi nelle prose da Lei pubblicate, da queste e dai buoni insegnamenti nella scuola vedranno, come lo studio de' Classici non generi affettazione nè pedanteria, ma dia al dettato semplicità ed eleganza…

Caterina Franceschi Ferrucci.

Di Pisa, 22 febbraio 1873.

Ai miei cari nipoti Filippo e Paolo Ferrucci[1] Questa lettera dedicatoria si legge a pag. 1.5 del libro Prose e Versi di Caterina Franceschi Ferrucci accademica corrispondente della Crusca; Firenze, successori Le Monnier, 1873. Vol di pagg. 440, pubblicato nell'ottobre del 1873 come risulta da una lettera della Caterina nostra, che qui entro è stata ommessa, perchè quasi inutile potrebb' essere considerata.
Paolo Ferrucci (che raccolse pure queste lettere) nacque in Firenze il 30 giugno 1855, ove fece gli studj presso i Padri delle Scuole Pie e al Liceo Dante. Passò poscia all'Accademia di Torino, dalla quale uscì ufficiale dei Bersaglieri nel 1876, rimanendo in quell'arma fino a quando fu promosso Colonnello comandante il 69 Reggimento Fanteria. Ora è comandante il Distretto militare di Bologna, cavaliere Mauriziano e commendatore della Corona d Italia. Egli ha fatto diverse conferenze di argomento storico-militare, ed ha pubblicato, in riviste e giornali, alcuni scritti su materie relative alla sua professione.
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Io voglio a voi intitolare questo mio libro, affinchè vi sia segno e ricordo dell'amor mio. A me, già vecchia, è dolce il pensare che in voi durerà sempre il decoro per antica probità di costumi dalla casa nostra acquistato: chè se questa non ha titoli, nè ricchezze, ha l'onore che dà alle famiglie la vita degnamente impiegata in buone e nobili cose, la integrità dell'animo e il culto della sapienza. Avete ne;'vostri nonni paterni e materni esempi tanto più commendevoli, quanto meno sono imitati nell'età nostra, troppo innamorata dell'utile per amare il vero e l'onesto sinceramente. Avete anche nel padre vostro un raro modello di vita incontaminata e studiosa: perciò, se vinti dalla indomita forza delle passioni, che l'uomo può e deve con la volontà libera raffrenare, o se ingannati da fallaci dottrine voi non continuaste per l'avvenire a esser buoni, sareste con vostro danno e vergogna degeneri da coloro che Iddio vi diede a guida e ad esempio. Ma di questo, cari nipoti, io non temo. Perchè nel nuovo fiorire della giovinezza mostrate senno e bontà, onde a noi già fate avere per fermo, che saranno da voi compiute ed eziandio superate le speranze dei nonni e de' genitori; le quali non tanto di ciò ch'è buono son paghe, che non aspirino all'ottimo ed al perfetto. Noi vi abbiamo posto nel cuore i semi del bene: ora è in voi il renderli fecondi. Poichè già conoscete quali siano i doveri dell'uomo, del cristiano, del cittadino, studiatevi di seguire sempre le norme della legge divina e della morale. Nè perchè dal violarle possano a voi venire il plauso popolare (spesso ai migliori negato), le dignità, le ricchezze, deh! non cedete mai ai perfidi inviti della voluttà, della cupidigia o della superbia: ma serbate al buono ed al vero intera e salda la vostra fede, tenendo per certo, che non è uomo ragionevole, non è degno di essere nato cristiano, o di avere per legge la qualità di libero cittadino, chi serve al senso e si sottopone al durissimo giogo delle passioni.

La costanza ne' giudizi, negli affetti, ne' desiderii, è ora virtù quasi impossibile a ritrovarsi negli animi voltabili ad ogni opinione, da cui possano in alcun modo sperare guadagni o fama: certo è però, che senza di essa la vita umana corre tempestosa ed incerta, nè mai giunge al sao vero fine. Io non ignoro, poichè a pieno conosco la povertà del mio ingegno, che voi da questo mio libro non potete trarre ammaestramenti ed esempio al ben comporre e allo scriver bene; ma (e di ciò mi assicura la mia coscienza) ardisco affermare che voi imparerete da esso la costanza nelle opinioni. Conciossiachè, avendo io sino da' miei primi anni venerato ed amato Dio, la religione, la patria, la libertà, la famiglia, non ho mai cessato di venerare e di amare queste santissime idee e questi nobilissimi affetti. E quantunque io abbia spesso veduto e veda, essere da molti con empia audacia avuta in dispregio la religione, o ipocritamente abusata a onestare passioni di parte; per alcuni l'amore di patria avere il valore che ha l'utile loro parti olare, per altri la libertà scambiarsi con la licenza, o separandola dalla giustizia, nella quale ha il suo fondamento, farla strumento ai disegni di cupidi e di ambiziosi, e tra noi essere offesa la santità, non mai inpunemente violata, della famiglia, da che in essa non è dai più rispettata, siccome un tempo, l'autorità de' maggiori, io non ho mai variato di affetti, nè di pensiero. Chè dalla lettura della storia e dalla mia propria esperienza ho appreso, la malizia o la ignoranza degli uomini contaminare anche le cose più sante: ma queste durare sempre in sè stesse belle e divine, perchè hanno nel vero eterno il principio loro. E l'avere io gindicato e sentito nel corso della mia vita, già lunga, sempre ad un modo, forse è cagione che ne' miei componimenti, massime nei poetici, non sia grande varietà d'immagini e di concetti. Avrei potuto di questo difetto emendarli: ma perchè io desidero che voi, cari nepoti, abbiate in essi una schietta e viva immagine del mio cuore, li pubblicò quali uscirano già da questo, avendo io sempre tratto la inspirazione da lui, nè mai cerceato altra lode che quella di esprimere con verità ciò che io pensava e sentiva. Quindi io posso a voi indirizzare, mutandole solo in parte, queste parole di Virgilio: Discite, pueri, constantiam ex me… Fortunam ex aliis. Abbiate però per certo, cari nepoti, che senza la religione e senza quelle virtù che ci aiutano a compiere degnamente i nostri doveri, voi non potrete essere mai felici, poniamo ancora che foste un giorno ricchi e famosi. Fate, adunque, che io sempre possa con fiducia sperare, che giunta al fine della mia vita io sia consolata dalla certezza, che voi avrete in ogni fortuna bontà di costumi e mente salda nel bene.—La vostra nonna

Caterina Ferrucci.

Pisa, 25 maggio 1873.

Mia cara Amica.—Perdonami il lungo silenzio: non mi sono sentita bene, ed ho quasi sempre gli occhi molto deboli, onde li risparmio il più che posso. Oggi ti scrivo per avere le tue nuove, ed anche quelle della povera Vittoria Giorgini. Se noi tutti siamo afflitti, per la morte dell' illustre Manzoni[1] Alessandro Manzoni, l'autore del famoso romanzo I Promessi Sposi e degl'Inni sacri (ogni parola sarebbe superflua in sua lode!), mori il 22 maggio 1873 in Milano, ov'era nato il 7 marzo 1785. Di lui parla pure qui dietro, a pag. 67, la nostra Autrice; e nel trattato Degli studii delle Donne italiane (II ediz. Firenze, Le Monnier, 1876), pag 242, scrive: «Io penso che noi dovremo confortare le nostre alunne a leggere e ad imparare a momoria le poesie, nelle quali il Manzoni espresse gli affetti che in lui spirava l'amore di Dio. Quantunque chi si conosce del puro stile italiano sia offeso in quelle da certe voci e da certe frasi o non proprie o poco eleganti, pure vi è tanta pienezza di sentimento, ch'egli ò impossibile di leggerle e non avere il cuore infiammato da santo zelo»., quale non deve essere il dolore di lei? Povera Vittoria! Quanto la compiango! Non ardisco scriverle, ma tu le farai sapere, che noi tutti ci uniamo alla sua afflizione, mentre piangiamo una sventura, che è sventura nazionale. Io ammiro l'ingegno del Manzoni, ma venero la sua bontà. L'aveva scritta in viso, e le sue prose, e i suoi versi ne sono testimonianza. E gli uomini buoni divengono sempre più rari, siccome rarissimi quelli, che per le qualità della mente facciano onore all'Italia. —È morto in breve nell'aprile un nostro carissimo amico, il consigliere Vanui: ne siamo sempre afflitti[1] Del cav. avv. Camillo Vanni, consigliere nella r Corte d'Appello di Lucca, la Ferrucci scrisse la Necrologia, che si legge a pag. 271—77 del cit. vol. Prose & Versi di C. F. F., Firenze, succ. Le Monnier, 1873.… Mio marito e Pippo ti si ricordano. Riverisci per noi il sig.r Gaetano, ed amami sempre. Tua aff.ma amica

C.a Ferrucci.

Di Firenze, il 4 dicembre 1873.

Gentilissima signora Caterina.—Quando il buono e bravo sig.r Filippo[2] Filippo Ferrucci nepote dell'Autrice, ricordato in vari luoghi di questo volume. mi portò il suo bel volume, io nel prenderlo in mano fui quasi per dire Me lo meritavo! Nol dissi però, temendo che il recatore mi potesse tacciar d'arroganza; dacchè e' non sa come da molti anni preghi le Muse a ispirare la signora Caterina di mettere insieme i suoi Versi e le minori Prose. Ecco esaudito il mio voto! ecco un libro dove si può andar sicuri di trovar sempre forme eleganti, pensieri alti, amor del buono e del bello! Ma perchè la sua modestia rifugge dalle lodi, non Le dispiaccia almeno di sentire che i suoi ultimi versi mi hanno toccata l'anima, che le sue Vite de' Bolognesi mi hanno fatto ripensare alle prose de' cinquecentisti; alle prose, dico, che son più ricche di pensiero e di affetto. Chè non vorrei far paragone, per esempio, colle orazioni del cavalier Lionardo Salviati; il quale chi sa che direbbe se potesse leggere sul frontespizio di questo libro che una donna per la prima volta s'intitola Accademica della Crusca! Ma il Tasso, che nello stile di questa donna troverebbe tanti pregi del suo, direbbe Benissimo! ed io mi unisco a Torquato[1] Al giudicio del Guasti, sul vol. Prose e Versi dell'autrice nostra, si potrebbe aggiungere quelle di varî altri letterati e critici, tra i quali Luigi Venturi, che il 4 dicem. 1873 scriveva alla Ferrucci, che sì ne' Versi come nelle Prose ammirava «la squisita dignità della forma, la nobità dei sentimenti e la potenza del suo ingegno eleganto». E soggiungeva:» Io vorrei che questo libro andasse, come gli altri suoi, por le mani de' giovani, che ne trarrebbero gran bene al cuore e saviezza alla mente».

La prego a salutarmi cordialmente l'ottimo Professore, e a tenermi sempre per Suo obb.mo ed affez.mo servitore—C. Guasti.

Note[1] La contessa Maddalena Noceti, «gentildonna di Pontremoli, conobbe la Ferrucci mentre dimorava in Pisa».

Pisa, 26 dicembre 1873.

Mia cara Signora,—… Continui ad occuparsi nell'aducare, e nello istruire le sue figliuole. La madre è la migliore delle maestre, e la voce materna penetra il cuore delle bambine, e così la sua virtù persuasiva le rende docili agli ammaestramenti pôrti da lei. Io senza fatica, anzi con sommo diletto, educai i miei figli: e ciò mi avvenne, perchè mi studiai di fare conoscere ad essi quali fossero i loro doveri verso Dio, verso il prossimo, verso se stessi. Quando ebbero inteso quello che erano obbligati di fare la cosa andò proprio da sè: bastava, che io loro dicessi: «Fate questo, perchè il vostro dovere ve lo impone», ed essi subito lo facevano: è un modo di educazione d'indole un po' austera; ma i bambini non se ne avvedono; perchè la dolcezza materna, e il materno affetto ne tempera la severità. Se potrà in molte cose instruire le sue figliuole sarà bene: se non potrà per la qualità del luogo da lei abitato non se ne addolori: il necessario per noi donne è di essere buone: e buone saranno le sue figliuole, ove Ella le faccia simili a sè. Le invio un mio Scrittarello premesso alla nuova edizione della vita della mia amatissima Rosa. Ho espresso in esso lo stesso concetto, di che le ho scritto[1] Tale scritto sta innanzi al vol. Rosa Ferrucci e alcuni suoi scritti…, descritto in nota a pag. 209.. La bontà è la nostra forza, il nostro principale ornamento, il nostro conforto[2] Lo stesso pensiero scriveva il 4 genn. 1862 al prof. can. Felice Laudadio:«La bontà è l'ornamento e il decero di noi donne». Per la sua grande e vera bontà la mia Rosa vive ancora nella memoria di quanti hanno il senso del bene. Ieri lessi nel Débats un bell'articolo del Lemôine, uno de' migliori scrittori francesi in lode di lei. Tanto è vero, che anche in tempi corrotti, la virtù riceve l'onore, che l'è dovuto…

Spero, che a primavera avrò il piacere di rivederla. Intanto preghi per me, e per la mia famiglia, continui a volermi bene, e mi creda—Sua obbl.ma aff.ma—Caterina Ferrucci.

Note[1] La marchesa Cristina Malaspina, nacque a Pisa dal march. Torquato e dalla nobile Vittoria Franceschi. Fu educata nel r. Istituto della ss. Annunziata di Firenze, ove studiò con amore le lettere, riuscendo assai bene anche nella poesia. Di che la Fernucci si congratulava con la letterina num. 119 del 10 luglio 1875. E in altra brevissima, del 5 magg. 1874, le scrive pure: «Ti prego di accettare come ricordo di affettuosa amicizia le parole, che mio marito ed io abbiamo scritto nel tuo Album. Ti conoscemmo bambina quasi lattante e in te amiamo g i ottimi tuoi genitori, che nella nostra sventura ci dimostrarono tanta benevolenza. Il padre tuo accompagnò al sepolcro la mia Rosa! Io poi ti amo per la tua bontà, e per l'amore che mi porti. Prega per me, cara Cristina. Ricordati spesso di me, e di Rosa. Io ti abbraccio, e con cuore materno ti benedico». Le parole che la Ferrucci scrisse nell'Album della marchesa Cristina, verranno pubblicate nell'ideato volume di Prose e Poesie, inedite o rare, dell'Autrice. Quale colta e ottima giovane fossa la marchesa Cristina Malaspina lo mostra luminosamento l'essere essa divenuta sposa dell'eccellentissimo signor marchese Filippo Torrigiani, patrizio fiorentino (ora senatore del Regno), e l'essere la medesima «avuta in couto delle più esemplari e colte dame» della città, che a Dante diede la culla.

(Pisa), 1.0 del 1874.

Mia cara Cristina.—Poichè, per tua bontà, tu mi scrivi di avere per me l'affetto di amorosa figliuola, io ringraziandoti del caro dono della tua benevolenza, lascio da parte ogni complimento, e con te prendo ad usare modi materni. Ti conobbi bambina: fui onorata dell'amicizia de' tuoi genitori, e quindi da molto tempo ti ho cara. Da che ti ho conosciuta si è aumentato il mio affetto verso di te, e in nome di questo mi permetto di fare alcune osservazioni sulla tua lettera, nella quale a chiari segni si manifesta il tuo cuore innocente e buono. Tu scrivi: Non sono felice, perche l'anima mia ha sete dell'inflniio. Lascia, che io ragioni un poco sa queste due proposizioni. Cristina mia, la felicità assoluta, vera, perfetta, non è di questo mondo. Volendola conseguire, l'uomo corre dietro ad un'ombra, e passa di disiganno in disinganno con grave turbamento dell'animo suo. Vero è, che noi possiamo giungere a couseguire una felicità relativa; cioè un senso di contentezza o più veramente di pace interna, per la quale diventa tollerabile ogni sventura, e portiamo in noi stessi il regno di Dio. Ma questa pace non si ottiene senza sforzi lunghi, e perseveranti. Giunge ad averla chi non si lascia mai vincere dalla fantasia, é dall'affetto: chi non mai eccede ne' desiderii, e rispettando l'autorità dei maggiori è pronto all'ubbidienza, prontissimo al sacrifizio: osserva giustizia con tutti: è mansueto co' minori: non si abbandona mai all'ira; cerca del continuo di coltivare la sua mente, affinchè la cognizione del vero gli renda più facile l'esercizio del bene: è caritatevole, religioso, paziente, vede Dio in tutto, e per amore di Dio tutti ama, rispetta, compatisce, e a tutti perdona. Da queste parole vedrai, mia buona Cristina, come abbia l'interna pace chi è virtuoso: e chi dice virtù dice sforzo, fatica, battaglia, nella quale a vincere f d'uopo avere cominciato a con. battere sino dalla giovinezza. Salle prime è grave assai il contrastare alla fantasia, ai desiderii, all'affetto, e l'obbedire soltanto alla ragione illuminata dalla fede, e alla coscienza, cui sono sicura norma le dottrine dell'Evangelo: ma a poco a poco la fatica cessa, e l'uso diu volere, e di fare soltanto il bene in noi diventa una secouda natura. Ma non avrà mai la pace interna chi pretende di trovare sulla terra quello che in essa non è; e qui mi cade in acconcio di dirti schiettamente, che quel desiderio dell'infinito, da cui è occupata l'anima tua, non ti darà mai la pace, che Gesù Cristo lasciò, eredità divina, agli eletti suoi. È vero: abbiamo dentro di noi una tendenza all'infinito, e all'eterno, perchè l'anima nostra è per ingenita forza portata a Dio. È giusto, è ragionevole adunque, che noi aspiriamo a que' beni, che non hanno termine, nè misara: ma è un inganno della immaginazione, o del cuore, lo sperare di possedere solo una minima parte di questi beni finchè pergriniamo nel mondo. Dunque, Cristina mia, procura di vivere nella realtà, e di desiderare solo il possibile. Tu sei nuova nel mondo: non lo conosci, e forse credi che uomìni e cose siano migliori, che poi in effetto non sono. Avvezzati a compatire agli umani errori, e alle umane imperfezioni; sii con tutti indulgente: fa' volentieri non solo ciò che ti piace (chè in questo non sarebbe merito alcuno) ma quello che ti è molesto: occupati in buone e savie letture, per tenere in freno la fantasia, che se è di ornamento alle lettere e alle arti gentili, è spesso dannosa al savio governo del viver nostro. Nel conversare procura di essere amorevole, non solo con le persone, che ti sono care, ma eziandio con quelle verso le quali ti può avvenire di avere antipatia. Gesù Cristo dice nell'Evangelo: «Se sarete cortesi con quelli che amate, farete ciò che fanno i Gentili»: il cristiano deve essere amorevole con tutti, e non avere mai, o almeno non mai manifestare, nè in atti, nè in parole, sdegno o avversione.

Perdonami, cara Cristina, questa lunga lettera, che ho scritta a volo di penna, in mezzo a molte interruzioni. Aggiungerei altre cose, ma il tempo mi manca.

Ringrazia per me il sig.r Fiaschi, e digli, che potrà avere le opere del Franciosi da Modena[1] Giovanni Franciosi, poeta e letterato toscano, uato a Ceppato in quel di Pisa il 26 ottobre 1843, allora professore nel r. Liceo e nella scuola militare di Modena e bibliotecario dell'Accademia modenese, «scrittore elegante e nobilissimo, dotato di un gusto squisito», come mostrano le varie cose che di lui abbiamo in istampa., chiedendole allo stampatore di esse.—Ti auguro ogni bene con l'animo pieno di aftetto verso di te. Prego il Signore Iddio a benedirti. Se alcuna volta ti sarà permesso di rallegrarmi di una tua visita, te ne sarò grata. Leggi il libro della mia Rosa[1] Il libro descritto qui dietro a pag. 299, in nota., e vedrai, come questa fu tanto buona, perchè seppe vincere se stessa. Ti raccomando d'imitarla, ma senza inquietitudme, senza ardore eccessivo. La perfezione è opera lunga, e non la può conseguire chi troppo si affanna per ottenerla. Addio.—Ti abbraccio, e ti rendo mille sinceri augurii, che farai da mia parte alla sig.ra Maria, e alla tua Institutrice.

Ho posto il tuo ritratto nella mia camera, e lo guardo con amore.—Addio. Ama sempre—la tua aff.ma amica—Caterina Ferrucci.

Lucca per San Michele in Escheto
21 settembre 187(*) Questa stessa letterà si legge qui dietro a pag. 356 col n. 107, secondo una copia del nopote dell'Autrice, ma qui si riproduce novamente secondo l'autografo esistente nell'Accademia della Crusea, in Firenze.

Chiarissimo sig.r Senatore Arciconsolo.

Quando io, nella già lontana mia giovinezza, innamorata dei nostri Classici, mi diedi a studiare in essi la lingua nostra, e cercai d'imitare, per quanto era da me, il loro stile, siccome quello, che sempre con efficacia, con grazia, con eleganza è atto in verso ed in prosa a significare, anzi a dipingere, con mirabile verità tutti i concetti della mente, e gli affetti dell'animo, non mai ebbi m pensiero, non mai sperai, nè desiderai, che dalla benignità di codesta illustre Accademia fosse agli studj miei data un giorno nuova e splendida ricompensa. Della quale, mentre a lei, sig.r Senatore Arciconsolo, e a tutti i signori Accademici, rendo sincere grazie, meco stessa non poco mi maraviglio. Imperocchè per quale merito mio speciale a me donna è dato sedere in mezzo a' sapienti, che o con le opere loro accrebbero decoro alla bella lingua Toscana, o vegliano a mantenerne incorrotta la nativa purezza e semplicità? Certo non è in me così stolida presunzione per credere, che a quanto io già scrissi fosse dovuto un premio da niuna donna mai conseguito. Penso adunque che codesta dotta Accademia stimandomi degna di tanto onore, in me volle ricompensare non l'ingegno, ma l'amore verso i nostri grandi scrittori; e per l'esempio mio tacitamente esortare le gentili donne italiane a studiare, più che non fanno comunemente, la bellissima nostra lingua, e a leggere non forestieri romanzi con danno della mente, e del cuore, ma i poeti, gli storiei i prosatori del trecento, del cinquecento, traendo da essi norme sicure a bene scrivere, e a rettamente pensare. A me sembra stoltissima l'opinione di quelli, i quali vorrebbero, che le donne, violando le leggi poste dalla natura, avessero in comune cogli nomini, gli ufficj, e gli onori; sicchè in luogo di badare alla casa, e ad allevare virtuosamente i figliuoli, perdessero in gare ambiziose la pace dell'animo, la verecondia, e la dignità della vita loro. Credo però, che noi donne possiamo avere gran parte nel civile incremento, nella felicità, e nella quiete delle nazioni, dove siano educate in guisa, che da noi venga inspirato ne' nostri figli l'amore della giustizia, della libertà, della patria, la riverenza verso la religione, e sia da noi sino dai loro teneri anni formato in essi puro il senso del bello, e retto il giudizio. Al che saranno di grande efficacia lo studio dei nostri Classici, maestri di civile sapienza, siccome di ogni eleganza, e la cura posta a bene imparare la lingua nostra, e a conoscere la proprietà dei vocaboli, per la stretta attinenza, che è tra le parole e le idee, onde spesso l'errore trae il suo principio dalla improprietà del parlare. Sperando adunque, che dall'insolito onore da cotesta illustre Accademia a me conferito siano le donne italiane incitate a migliori e a più forti studj, io di esso prendo consolazione pari all'obbligo, che ne porto a Lei, sig.r Senatore Arciconsolo, e a tutti i signori Accademici. E questa mia gratitudine avrei prima di oggi a Lei, e ad essi manifestata, se per un ritardo della posta di Lucca, non avessi ricevuto qui in villa soltanto ieri il diploma, e gli statuti. Mi abbia sempre, sig.re Arciconsolo, nella sua grazia, e mi creda

Sua dev.ma obbli.ma serva
Caterina Franceschi Ferrucci.

Pisa, 10 luglio 1875.

Mia cara Cristina.—I tuoi versi rendeno immagine del tuo cuore: semplici, affettuosi, gentili, fanno fede della bontà dell'anima tua. Lo stile è schietto e proprio. I concetti, quali si convengono alla innocenza di amabile verginella, se non sono peregrini, sono giusti e veri. Io conserverò queste rime per se stesse, e perchè sono tuo caro dono.—Mio marito, che ti si ricorda con affezione, mi ha detto, essere il Commento del Bianchi alla divina Commedia[1] La Commedia di Dante Alighieri fiorentino nuovamente rivedata nel testo e dichiarata da Brunone Bianchi, ristampata per la settima volta dall'editore Felice Le Monnier in Firenze, l'anno 1868. il più adattato per te, ed anche ti consiglia il Vocabolario del Fanfani, non quello però da lui pubblicato ultimamente insieme al Rigutini.

Addio, carissima Cristina. Saluta per me le due signore Marie, e rammentati alcuna volta della—Tua vecchia amica

C.a Ferrucci.

Note(1) Edita l'anno 1907 in Miscellanea storico-letteraria pubblic. da Giulio Pacini nel 50 anniversario dell'editoriato di Franc. Mariotti di Pisa.—Felice Le Monnier. editore della Biblioteca nazionale, nacque a Verdun (Mense) nel 1806, e morì in una sua villa di Bellosguardo, presso Firenze, nel 1884. Veggasi nella Rassegna nazionale, anno VII, vol. 23, uno scritto di Aurelio Gotti: Di Felice Le Monnier e della Biblioteca nazionale.

Lucca, 14 settembre 1875.

… Fine dall'anno scorso cominciai qui in campagna un nuovo libro, il titolo del quale è il seguente: Ammaestramenti religiosi e morali ai giovani italiani[2] Il libro, di cui si parla qui e nella lettera suocessiva del 13 dicem. 1876, fa parte della famosa Biblioteca nazionale dell'editore Felice Le Monnier, che lo pubblicò nell'ottobre 1872 in un vol. di pag. XLII-314, con questo titolo: Ai giocani—Ammaestramenti religiosi e morali di Caterina Franceschi Ferrucci.. Cerco in esso di combattere gli errori, che ora sono cagione di turbamento negli animi e nella società. Li combatto sempre in modo da riunire i due grandi principii, che sono il fondamento dell'ordinato vivere civile, cioè la religione e la libertà. Tratto in essi dei principali doveri che ha l'uomo verso Dio, verso se stesso, la famiglia e la patria. Sono già molto innanzi nel mio lavoro, il quale sarebbe compiuto se la mia salute fosse migliore. Vorrei pubblicarlo e presto: poichè sono vecchia e e il tempo per me ha brevi confini. Esso è come il mio testamento, poichè ha racchiuso le mie opinioni e i miei affetti, solo ricordo che possa lasciare a chi dovrà sopravvivermi. Spero di avere tutto pronto per la stampa verso la prossima primavera. Il lavoro di composizione mi prenderà appena un mese. Ne ho già corretto e ricopiato due buoni terzi. Secondo il mio costume lo ricopierò tutto la terza volta, perchè copiando vedo meglio i difetti de' miei libri, e con maggior cura posso emendarne lo stile. Se Ella vuole pubblicarlo prima della fine dell'anno le invierò l'indice dei capitoli, affinchè veda tutta la disposizione del libro, e la materia di esso.

Il carattere dovrebbe essere come quello della nuova opera del Ranalli[1] L'Italia dopo il 1859, edita dallo stesso Le Monnier in quell'anno 1875.. Per compenso chiederei il solito dei libri nuovi, cioè mille franchi. Ella risponda, senza impegno, finchè non avrà esaminato l'indice. La prego soltan'o di non farmi aspettare la risposta affinchè, se Ella rifiuta, possa combinare la stampa con altro editore. Rimandai le ultime prove della Educazione morale, ora mancano quelle ricorrette della prefazione. Quando il libro sarà pubblicato tengo per fermo di avere dalla sua cortesia un certo numero di copie, che desidero dare a parenti e a persone amiche.

Stia sano, mi conservi la sua benevolenza e mi creda ecc.

Pisa, 23 gennajo 1876.

Mio caro e venerato Amico.—Che penserete del mio lungo indugio a ringraziarvi della vostra cortese e affettuosa lettera? Deh non lo imputate all'animo ingrato. Sperando di guarire da una infermità, che mi affligge fino dal 3 di novembre, a voi tanto di me amorevole, volli risparmiare il dolore di sapere ch'io sono malata. Ma troppo tarda la guarigione desiderata e più a lungo non voglio avere con voi l'apparenza di sconoscente. Il mio male è un reuma nervoso. Sulle prime credei di essere colpita da paralisi[1] Così fu purtroppo: però la forma speciale di questo male, che non le aveva fatto perdere la sensibilità nelle membra inferme, fu causa ch'ossa ignorò sempre di esserne stata colpita. (Nota del nepote dott. don Filippo Ferrucci.), poichè svegliatami m'avvidi di avere intorbidita tutta la parte sinistra della persona, tranne la testa sempre libera. Ciò mi accadde in villa. Chiamato il medico questi dileguò i miei timori, perchè nella parte offesa era intera la sensibilità. Anche i medici di Pisa mi assicuravano. Ora sto meglio, cammino senza appoggiare, al dolore reumatico è succeduto il torpore. Con periodica alternativa un giorno sto meglio ed un altro peggio. Il medico che mi cura non sa risolversi a darmi il chinino, temendone gli effetti su' miei nervi tanto di già irritati.—Conduco una vita inerte e se non chiamassi a mio conforto la religione sarei veramente infelice. Ma Iddio mi sostiene, e procuro di fare mai sempre la sua adorabile volontà. Pregate per fog. 26. me, caro Amico[1] In altra lettera, del 30 marzo 1876, gli scriveva: «I medici aspettano la mia guarigione dai bagni terma i. Intanto ho molto migliorato nel generale: dormo quasi ogni notte tranquilla; posso attendere all'ufficio di massaia, passeggiare per le nostre stanze senza il bastone, e chi mi vede dice che ho racquistato l'aspetto di prima. Nell'anima poi sono tranquilla, chè indarno sarei cristiana, indarno avrei sino dalla iontana mia giovinezza studiato ne' libri de' nosstri antichi maestri, insigni di morale fortezza, se ora mi lasciassi vincere dal tedio e dalla paura della morte vicina a tutti, ed a noi vecchi vicinissima. Tema la morte chi non ha fede nell'immortalità dell'anima umana. Ma noi che in essa fermamente crediamo, noi che nel nostro Redentore vediamo santificato il dolore, noi non dobbiamo abbatterci perchè c'è venuta meno la sanità e ci accorgiamo che in brove saremo al termine del nostro viaggio mortale».. Io avevo l'uso di fare la calza leggendo; ora non posso, chè la mano sinistra è sempre debole. Leggo un poco quando la vista me lo consente. Allorchè caddi malata avevo quasi tinito un libro, che sarebbe stato come il mio testamento; poichè in esso lasciavo ammaestramenti e consigli ai giovani italiani, a cui le cattive dottrine offuscono l'intelletto e guastano la boutà de' costumi. Ancora 2 o 3 mesi di samtà e lo avrei finito, ricopiato e preparato per la stampa[2] E il libro di cuì è argomento la precedente lettera al Le Monnier, in data del 14 sett. 1876, e la susseguente del 13 dicembre 1876.. Pare che a Dio piaccia ch'io non lo termini, e mi acqueto ai secreti suoi. Voi giudicate delle cose mie da caldo amico non da quel savio che siete. Nulla o poco in me è da lodare, salvo l'amore e il desiderio del bene. Assai vi ringrazio delle benigne vostre parole. Michele sta sano ed è sempre occupatissimo. Vedo spesso il nostro Ranalli gi istamente indignato dal modo con cui giusta i nuovi regolamenti ei fu trattato. Ad uomo tanto buono e sapiente sarebbe scarso ogni onore[1] Il prof. Ferdinando Ranalli [di cui si parla pure a pag. 128], nacque a Nereto nell'Abruzzo il 2 febbraio 1813. Conobbe la Ferrucci nel 1834, e conservò a lei ed a' suoi, amicizia affettuosa e sincera; sì che quando dimoravano entrambi a Pisa, egli non lasciava passar giorno senza visitarla, benchè abitasse molto distante da lei. Sono notissime le sue opere scritte co classica lingua, e maravigliosa dottrina, e che meriterebbero di essere studiate dai giovani più che non sono. Morì a Pozzolatico presso Fironze nel giugno del 1894. [Nota del dott. don Filippo Ferrucci].. E invece… È meglio di non parlarne. La barbarie irrompe nelle lettere, l'empietà nelle scienze metafisiche e morali: la malvagità ne' costami. Iddio solo può mutare le menti degli uomini e i tempi con esse. Ma siamo meritevoli del suo ajuto?[1] Fin dal 18 dicembre 1873 gli scriveva pure: «Tento io che Michele e il Ranalli ci lamentiamo al pari di voi della barbarie nelle lettere ed arti. Veramente passa la voglia di scrivere in mezzo a gente che ha perduto il sonso del bello».—Addio, caro Amico … Vogliatemi sempre bene, che 10 tanto ne voglio a voi, e credetemi—Vostra aff. obb. amica—Caterina Ferrucci.

Note[2] Carmina Bartalena, nata in Pisa dal dott. Jacopo e dalla nobile Caterina Serrugli (che dimoravano nella stessa casa dolla Ferrucci), fu da questa amata fino dalla fanciullezza: e quando divenne adolescente fu da essa ammastrata nella letteratura e nella morale. Sposatasi al dottor Ugo Moretti, essa è riuscita ottima madre educando i figli secondo gl'insegna mento della Ferrucci.

Pisa, 1876.

Mia cara Carmina.—Nella mia solitaria, e melanconica vita quando col pensiero ritorno agli anni passati io veggo te fanciulletta crescere buona, e amorosa accanto alla madre tua. Sino da quel tempo io presi ad amarti, e desiderai che sempre amica fosse a te la fortuna. Ahime! Tornarono vani i miei desiderj, che nel nuovo fiorire della tua giovinezza, perdesti quella, la quale più di te stessa avendoti cara con gli esempii, e con le parole inspirava nell'animo tuo puri, dolci, pietosi affetti, e t'insegnava ad ornarti delle virtù, che in lei erano in parte dono d'Iddio, in parte avevano il loro principio nella volontà sua, rivolta sempre al buono, ed al vero Essa non è più teco qui nella terra: ma invisibile ti protegge dal cielo: e dove tu, come certo fai, abbi sempre nella memoria la sua immagine veneranda, non mancherai nè di guida nel cammino di nostra vita, nè di secrete consolazioni. Nel compiere i tuoi deveri dirai a te stessa: «cosi faceva mia Madre»; e quantunque alcuna volta essi ti sembrassero difficili, o troppo gravi, l'essempio di lei ti conforterà a bene adempirili. Ricorda come Ella fosse indulgente con gli altri, solo con se stessa severa, avara del tempo, aliena da vanità, e da superbia, schietta, religiosa, compassionevole d'ogni sventura. E tu sforzati di essere tale quale ella fa. Abbi sempre, come essa aveva, al tuo pensiero presente Iddio: e tenendo per oerto, che Dio è carità, dimentica i tuoi commodi e i tuoi piaceri per consolare chi piange, per soccorrere e compatire i mali dei poveri, e degl'infelici. Coltiva gli studi, e le arti gentili col solo intento di fuggire l'ozio, e di migliorare te stessa, non per averné la lode altrui. Tu già sei buona; ma siccome il cristrano dee sempre-tendere all'ottimo;ted al perfetto, a questo, e a quello ingegnati ti arrivare, stimando perduto il giorno in cui non ti sarai esercitata in buone ed utili opere. Sia la tua casa come il tuo regno. Non invidiare alle altre fanciulle le pompe del lusso, e gli svagamenti mondani, avendo per irrepugnabile verità, che l'uomo desidera indarno di essere felice, se non segue i dettami della coscienza, e non pone in atto gl'insegnamenti dell'Evangelo[1] In altra lettera, del-27 sett. 1871, alla pronepote Rosa Bianchi, scriveva: «Pericolosa è l'amicizia delle giovanette dedite alla moda, ai divertimenti, alle vanità. Certo una fanciulla dee amare l'elegante semplicità del vestire: ma male fanno quelle che vanno superbe di un nuovo vestito, c che si adornano per comparire belle»..

Se ti comporterai a questo modo, anzi se continuerai nella via, in cui ti mettesti sino dalla prima tua adolescenza, sarai sempre il più dolce conforto del tuo buon Padre, il quale crede di avere in te la sua diletta compagna recuperata, poichè scorge ritratto ne' tuoi costumi le belle virtù di lei.

Note[1] Edita in Miscellanea storico-letteraria, pubbi. da Giulio. Pacini nel 50 anniversarie dell'editoriato di Francesco Mariotti; Pisa 1907.

Pisa, 13 dicembre 1876.

Pregiatissimo Signore.—Ella deve sapere che non ho potuto mantenere la promessa, che le feci l'anno scorso, per una langa e penosa malattia reumatica-nervosa[2] Purtroppo il malore, di cui qui parla l'autrice, fu d'altra natura, chè trattavasi di una lenta paralisi, che negli ultimi anni la rese quasi immobile, pur conservandole vigorosa la salute del corpo e l'intelligenza, che ebbe lucidissima fino agli estremi momenti. [Nota del nepote dott. don filippo Ferrucci).. In campagna stavó assai meglio; ma da che la stagione è divenuta cattiva i dolori reumatici si sono fatti più vivi. Ho però riacquistato le forze, e nel generale buona è la mia salute; onde i medici mi permettono d'impiegare nello studio poche ore al giorno. Adunque spero di porre termine al libro, che fui obbligata di tralasciare, alla fine del prossimo febbraio. Esso ha per titolo: Ammaes. ramenti religiosi e morali ai giovani italiani. Ho cercato di combattere in esso gli errori onde sono corrotti i nostri costumi ed è messa in pericolo la quiete e la libertà dello Stato. Nel tempo stesso mi sono studiata di avvivare negli animi giovanili l'amore della virtù, per cui la dignità umana conserva la sua nobilità, si mantiene la pace nelle famiglie, e la civiltà della nazione non è apparente, ma vera, e fondata sopra gli eterni principii del vero e del buono. La condizione de' nostri tempi mi ha indotta a scrivere questo libro, che non è bello, ma certo sarà utile. È dettato con temperanza di opinioni, e vi è congiunto il rispetto verso la religione e la morale con l'amore della libertà e della patria. Se Ella mi promette di pubblicare questo libro appena le avrò mandato il manoscritto, che ora preparo per la stampa, gliene sarò gratissima. Sono vecchia e infermiccia; onde conto poco sull'avvenire. Vorrei da me stessa correggere le prove di caso libro, che forse produrrà un po' di bene. Non vi sono bigotterie, non eccessi di alcuna maniera. E dettato dalla coscienza e dal cuore. Mi pare che tre mesi dovrebbero bastare alla pubblicazione di esso. Lo gradirei con gli stessi caratteri dell'ultimo lavoro storico del Ranalli… Quanto al compenso le domando il consueto, ch'Ella dà ai libri nuovi; cioè mille franchi per il numero di copie da fissarsi, e per cinque anni di proprietà per l'editore. Se Dio mi prolunga ancora la vita preparerò in seguito la ristampa dell'educazione intellettuale.[1] Il trattato Dell'educazione intellettuale non fu ristampato da nessun editore; onde esiste solo l'edizione fatta in Torino dai Cugini Pomba nel 1849—51, in 2 volumi. e delle novelle morali[2] Le novelle morali, cioè Le Letture morali, indicate a pag. 246 nella nota prima, furono ristampate dal Le Monnier nel 1884, col titolo: Una buona madre—letture morali per le giovanette.. Mio mpote mi disse essere Ella disposta a farne una seconda edizione, del che la ringrazio. Se non le dispiace mi faccia avere al più presto quelle copie della ristampa degli studii delle donne[3] Il trattato Degli studi delle donne italiane fu pure ristampato dal Le Monnier, nell'anno 1876., che ha la bontà di favorirmi. Le ho promesse ad alcune mie parenti ed amiche, e vorrei ad esse inviarle in dono prima delle prossime feste. Mio marito la riverisce. Mi favorisca di una risposta, e mi abbia per Sua ecc.

Note[1] L'avv. Francesco Paolo Ruggero nacque in Napoli, il 4 aprile 1798, da Pietro, professore di medicina in quella Università, e da Matilde Sancio. Fu ministro degli Affari ecclosiastici e poi delle Finanze nel 1818, durante il regno costituzionale di Ferdinando II delle Due Sicilie. Sopraggiunta le reazione esulò, e fu condannato in contumacia a morte per falsa acccusa di aver combattuto contro le truppe borboniche nella giornata del 15 maggio. Visse in Toscana sino al 1860; e tornato a Napoli vi fu per qualche tempo consigliere comunale. Due volte fu pure Deputato al Parlamento del I. Collegio di quella città, ove tenne anche l'ufficio di Presidente del Consiglio dell'ordine degli Avvocati sino alla sua morte, che avvenne il 31 dicembre 1881.—Pubblicò vari scritti di giurisprudenza, di politica, di amministrazione d' economia pubblica e di letteratura. Fu amico del celebre marchese Basilio Puoti e degli altri valorosi letterati, che in Napoli cooperarono alla restauranzione della lingua italiana. Queste notizie furono favorite dal sig. Carlo Fiorilli, marito della signora Matilde Ruggero, figlia del suddetto valente giureconsulte, ricordata con affetto in questa lettura.

Pisa, 8 novembre 1877. Lungarno Mediceo. n. 1 - p. 3.

Mio caro Signore.—Io già sento di amare la sua Matilde: non solo per la bontà signolare, che ha per me, quanto per l'amore da lei pertato alla dolce e sacra memoria della mia Rosa, già consolazione ineffabile, ora continue, mestissimo desiderio dell'anima mia. Io sono in Pisa da circa un mese: sono sempre in casa, perchè dolori nervosi-reumatici, che mi molestano da più di due anni, mi impediscono di uscire, e solo quando il tempo è buono vado alla Chiesa vicina. Noi desiniamo alle tre; ci corichiamo verso le dieci; e però in tutte le ore rimanenti della giornata riceverò con sommo piacere la sua buona fighuola, e Lei nostro vecchio amico. Le rendo sincere grazie, perchè Ella dopo tanti anni, e tanti mutamenti di cose pubbliche e private, sempre con lo stesso affetto di noi si ricorda. Mi è di conforto il sapere che la sua Matilde ha tratto qualche utilità dai miei libri. Nè in ciò ha parte alcuna l'amor proprio di autrice; me ne conforto come donna onesta e cristiana, perchè avendo in tutta la mia vita, già lunga, studiato e scritto pel solo desiderio di fare un poce di bene, mi è caro che le mie parole non siano cadute a vuoto in anima buona e gentile.—Quando mi ammalia stava terminando un libro di «Ammaestramenti religiosi è morali ai giovani italiani»; dopo lunga interruzione, comandata dal medico, tornai al lavoro, vincendo la debolezza del corpo afflitto da intensi dolori con la forza della volontà. Nell'ottobre il libro fu pubblicato dal Le-Monnier. Ma potrò sperare che esso innamori del bene e della verità i poveri giovani traviati da false dottrine corrompitrici della società e dei costumi? Lo voglia Iddio. La condizione degl'intelletti e degli animi nel tempo presente assai mi affligge; e il vedere che la libertà, raggio d'Iddio, è dai più tramutata in licenza mi fa temere per l'avvenire mali peggiori di quelli, che già contruistarono la parte gagliarda e bella dell'età nostra[1] E fin dal 29 nov. 1876 scriveva al prof. Filippo Parlatore:«Che pensate dei nostri tempi? Tristi, caro Amico, tristissimi, e paurosi, secondo il mio giudizio. Più d'ogni altra cosa mi spaventa la corrutela morale del popolo: anzi d'ogni ordine del consorzio civile, salvo poche eccezioni. Io me ne affiggo, perchè amo sempre di amore vivissimo il mio paese… Ho detto, ed ho scritto che dove non è l'amore di Dio. e la riverenza di quanto è vonerabile. e santo. ivi non può essere libertà vera, nè probità nè giustizia, nè senso del bello, E i fatti dimostrano la verità delle mie parole». Ma lascio i lamenti, per dare una affettuosa stretta di mano a Lei e alla sua figliuola, e per dire ad ambedue che in breve li aspetto. Michele caramente La saluta, e io sono di cuore—Sua aff.ma amica

C.a Ferrucci.

Note[1] L'ab. Vito Fornari, illustre letterato e filosofo napoletano, nacque a Molfetta nel 1819, cirea. Fu prefetto della r. Biblioteca naziouale di Napoli, e autotore di opere lodatissime, fra le quali meritano speciale menzione il trattato Dell'arte del dire, Dell'Armonia Universale e la Vita di Gesù Cristo che gli procacoiarono il plause de' migliori critlci d'Italia, e l'onore d'essere ascritto a molte insigni Accademie, fra le altre quella della Crusca, ove lesse l'Elogio dell'amato suo maestro il celebre march. Basilio Puoti. Mori in Napoli il 6 marzo dell'anno dell'anno 1900; e di lui scrisse degnamente il prof. Francesco D'Ovidio in Rinpionti (Palermo, Remo Sandron, 1903), pag. 182—196; al qual libro si rimanda il lettore, che desiderasse ampie notizie e sereni giudizj.

Napoli, 31 novembre 1877.

Illustre e ottima signora Caterina—Il dono del suo libro, Ammaestramenti religiosi ec., mi è giunto assai gradito; ed è un caso insolito a me. Da più e più anni io ho in gran pregio il suo ingegno e il suo animo; e quest'ultimo suo libro, cosi sano di dottrina, di un dettato cosi soave, cosi coraggiose ed opportuno, mi conferma il mio giudizio. Iddio ne la rimeriti dove più Ella desidera, e ne benedica la virtuosa intenzione, per il bene di questa cara patria. Io sono dolente de' traviamenti della nostra generazione; ma pieno di fiducia in un avvenire non lontano.

In breve avrò dall'editore qualche esemplare del 2.0 libro della mia Vita di G. C., e gliene manderò uno.—Riverisco Lei e il suo degno marito.—Suo devotissimo

Vito Fornari.

Note[1] Il dottor Giovann Franceschi, fratello germane dell'antrice nostra, medico, filosofo e scienziato, nacque in Narni l'anno 1805. Fu «uomo d'ingegno non inferiore a quello della sorella Caterina, ma bizzarro ed ardito nelle sue idee, ed anco nella forma, con cui le vestiva», come ognun può vedere dallo varie scritture che di lui abbiamo stampate. Morì il 2 giugno 1884 in Bologna, ove nella r. Università era professore ordinario di Terapia e materia medica fin dalanno 1856. Veggasi, per maggiori notizie, nel Dizionario biografice degli scrittori contemporanei ornato di oltce 300 citreatti. diretto da Angelo De Gube rnatis; Firenze. coi tipi dei successori Le Monnier, 1879. pag. 462.

Pisa, 4 dicembre 1878.

Mio caro Fratello.—Ti ringrazio de tuoi amorevoli augurii per il mio onomastico, e ne ringrazio la cara Nunziata. Felicità per noi non è più in questo mondo. Altra allegrezza non cerco fuori di quella, che mi dànno la bontà, e la buona salute della mia famiglia, e degli altri miei. Ho letto la tua prolusione[1] La prolusione in parola dev'essere quella su La Morte, edita nel 1878, la quale è une degli ultimi fra i vari Scritti del germano fratello dell'Autrice. molto da lo larsi per i concetti, e per il fine a cui tende. Vi è logico ordinamento, vi è il calore, che nasce dalla persuasione di chi scrive intorno alle verità, di cui esso tratta. Faccia Iddio, che la guerra da te combattuta contro l'ateismo, e il materialismo, ti dia la vittoria su tanti errori, che ora offuscano il retto vedere nella comunanza sociale! Quanto a te ne avrai merito innanzi a Dio, il quale, a ricompensartene, ti darà coraggio per palesarti francamente cristiano, e mostrare come il deismo non basta a saziare nell'anima umana il desiderio del bene, e a farci trovare efficace consolazione nelle sventure. Il compimento della legge morale è nel Vangelo, e il vero conforto discende dalla virtù della Croce. Io non ho mai pensato, che le religione si unisca al bigottismo, e alla superstizione. Sono tollerante, ma sono, la Dio mercè, cristiana-cattolica, e se tale non fossi avrei dato in qualche eccesso di disperato dolore. Rassegnate, e persuasa, che Dio mi renderà quanto mi ha tolto la morte, aspetto, e con pazienza sopporto le vecchie, e le nuotribolazioni. Fra le quali pongo la nequizia e la corruttela dei nostri tempi: onde mi affliggo vedendo la libertà mutata in licenza, e tutte le più sante cose calpestate, e violate. Avrai saputo i casi di Firenze, e di Pisa. Qui le carceri non contengono più i tanti arrestati. Ma con la forza i disordini morali si reprimono per qualche tempo: a toglierli lunghi, e radicali rimedi sono necessarii…

Tu conservati sano, e spera nelle divine promesse… Addio, caro Fratello… Addio. Ama sempre ecc[1] Auche in questa lettera, tolta da una copia del dott. d. Filippo Ferrucci, manca la soscrizione.

Pisa, 10 norembre 1879.

Pregiat.mo Signore—Sono malata da più di quattro anni: e il mio male aumenta d'intensità di mese in mese. Onde ho dovuto rinunziare al conforto, che mi davano gli studi, non potendo la mia mente in essi occuparsi in mezzo ai continui dolori reumatici-nervosi, che mi molestano giorno, e notte. Quindi Ella mi scuserà, se non obbedisco al suo desiderio. Ho letto alcune pagine del suo libro, scritto con eleganza di stile, e proprietà di vocaboli[1] Il libro acconnato ha questo titolo: Conversaziozioni letteracie: dialoghi cinque in difesa della vera lingua italiana (Bologna, tip. Fava Garagnani, 1879), in. 8. Oltre che io non mi arrogo l'autorità di dare intorno ad esso un giudizio, non posso leggerlo con l'attenzione necessaria a scorgere la bontà del ragionamento, e il savio ordinamento delle sue parti[2] Fin dal 27 genn. 1872 scriveva a Franccschiua Curci, a Napoli, nepote del celebre p. Carlo Maria, autrice d'alcuni raccouti morali assai lodati: «Ricevospesso molti libri, ma non oso di dare il mio giudizio sopra di essi, reputandomi priva dell'autorità necessaria a ben giudicare le opere altrui… Ma forse io m'inganno anche perchè non ho mai fatto studio accurato intorno ai romanzi. Ella non si offenda della mia schriettezza»..—So-no debole, e sopravvivo, per cosi dire, a me stessa. Ella mi raccomandi-al Signore Iddio, e accetti i miei sinceri ringraziamenti. Scrivo con brevità, perchè lo scrivere affatica la mia mano. Mi creda con ossequio ecc.

Pisa, 29 aprile 1880.

Pregiatissimo Signore.—Se non fossi da più di quattro anni malata mi sarebbe stato assai caro tenere l'invito, che da Lei ho ricevuto, del quale La ringrazio, e la prego di rendere sincere grazie al Comitato, di cui Ella è degno presidente.

Non potendo in alcun modo prendere parte alle feste onde si rende pubblico onore alle celestiali virtù, e al sovrumano ingegno di S. Caterina, mi unisco col cuore ai cittadini sanesi, e innalzo fervide preghiere alla Santa affinchè nella sua terra natale, anzi in tutta l'Italia diffonda lo spirito delle sue eccelse dottrine. Le quali, insegnando, siccome l'uomo dalla considerazione della sua debole e corrotta natura, e della infinita perfezione, e bontà d'Iddio si solleva alla cognizione del sommo bene e della verità, e per essa acquista la libertà della mente, e la pace del cuore, lo portano a fuggire il vizio, e ad esercitarsi nelle cristiane, e civili virtù.

Oh se le dottrine di S. Caterina fossero intese ora da molti, e in esse avesse fondamento l'educazione morale de' giovanetti, certo avrebbero fine gli errori, che offuscano in questi tempi la luce del vero, e l'umana generazione sarebbe quieta e felice! Chè per esse la giustizia, e la carità modererebbero nobilmente e santamente affetti e pensieri, e le varie parti della convivenza sociale, ora divisa dalle gare ambiziose, e dalle intestine discordie, sarebbero insieme congiunte con saldo nodo dall'amore d'Iddio, e del prossimo.

Possa questo mio desiderio avverarsi, ed Ella prostrato innanzi all'altare della Santa lo chieda per la sua—C. F. F.

Roma, 2 del 1881.

All'onoranda sua Caterina Ferrucci. Lasciate, o incomparabile, che cordialissimamente vi baci la mano, rendendovi somme grazie di quella gentilissima letterina, colla quale vi siete compiaciuta favorirmi le presenti vostre notizie. Si grazie, grazie, grazie. Una di esse notizie però m'è assai dispiaciuta, cioè quella della imperfetta vostra sanità. Ma so d'altra parte che non è cosa punto da dubitarne.—Comunque sia mi rivolgo spesso a Dio pregandolo per voi con quel verso di Paolo Costa: Deh lungamente questo sacro ingegno, O Dio, ci serbi. E Dio lo serberà certamente all'infelice Italia in tanta necessità che ha di anime pari alla vostra sì bella[1] In altra lettera dell'11 aprile 1873 le scriveva: «Siete un vero miracolo di donna: sì dice, un miracolo: perchè tutto quello che pensate è divino: tutto quello che toccate colla penna diviene oro purissimo. Si è ciò veduto in quelle opere che avete date fin qui all'ammirazione dell'Italia: ed ora si vede nella insigne canzone in morte dell'Amalia Mordini. Quanta sapienza, quanta gentilezza, quanta pietà e quanta facilità difficilissima di poeia!» Altre parole consimili le scriveva in una lettera del 28 geun. 1876, ove chiama capolavori di sapienza e di stile classico le opere della Ferrucci; e conchiude: «Vi parla uno che da molti e molti anni… vi reputa cosa sacra alla famiglia, agli amici, alle lettere, alla morale, all'Italia».. Scrivo senza quasi l'uso degli occhi, che da molto tempo non vogliono più servirmi. E poveretti ne hanno forse ragione! Addio dunque, addio, o lume di bontà e di sapienza.

Salutatemi l'aureo Michele, il dotto dei dotti, e seco quell'altro spirito adamantino in tutte le cose non par letterarie, sociali: intendo del nostro amatissimo Ferdmando Ranalli.

Di nuovo addio, colla preghiera di ricordarvi di me anche fra gli estinti, co' quali sarò certo fra poco

Il tuttissimo vostro
Salvatore Betti[1] Sul Betti veggasi qui dietro nelle pagine 35—36..

Vi ripeto che non so proprio come scrivere quello che scrivo. Scusate.

Pisa, 8 dicembre 1881.

Alla carissima nepote Vittoria | quando sposava Giulio Vaccai | la nonna Caterina Franceschi Ferrucci[1] Questa lettera fu stampata nel 1881 in Rimini, dalla tip. Malvolti, e ristampata nella stesso anno dal dott. Bartolomeo Veratti negli Opuscoli religiosi, letter. e morali, serie IV, tomo XI, fasc. XXXI, pag. 113—116, ove in nota si osserva, che le nozze di Vittoria Ferrucci, nepote dell'autrice, sono state per l'avo cav. prof. Ferrucci «l'ultima consolazione dei suoi giorni nella fiora malattia che poco appresso [il 27 dicembre 1881] lo estinse». Quivi pure si chiama «cosa squisita e degna» la presonte lettera dell'«illustre e veneranda» scrittrice nostra; e a pagg. 117—121 è pure riprodotta la Necrologia del prof. comm. Michele Ferrucci con le seguenti parole innanzi di esso B. Veratti: «Non credo di poter meglio commemorare i pregi letterarj e morali di quest'uomo illustre, che mi onorava di sua benevolenza, e che imparai a conoscere e stimare sino dalla giovinezza sua e ranciullezza mia, che riportando pressochè interamente il discorso funebre detto dall'altro bel decoro della Pisana Università, prof. Ferdinando Ranalli, e col titolo di Parole dette sul feretro del Prof. Michele Ferrucci il dì 27 dicembre 1881, stampato in foglio volante dalla Tip. Vannucchi in Pisa».—Oltro la presente lettera altri scritti furono pubblicati nelle nozze Vaccai-Ferrucci: degna di essere riferita è la seguente epigrafe dell'aureo scrittore Balsimelli: Per le fuustissime nozze | degli egregi signori | cav. Giulio Vaccai e Vittoria Ferrucci | celebrate nella cattedrale di Romini | il 15 di dicembre 1881 | il canonico | Federico Balsimelli | che li unì in matrimonio | e li benedisse | quale amico e ammiratore | dei genitori dei fratelli | e degli illustri avi della sposa | fa a tutti manifesta | la sincera allegrezza dell'animo suo..

Mio cara Nipote.—Con l'animo stesso con cui mi proponeva di benedire le nozze della mia diletta figliuola Rosa, quando venne improvvisamente mutata in lutto la mia allegrezza, assisterei al tuo matrimonio, se non fossi da lunghi anni malata. Ad esso adunque sarò presente col cuore, angurandoti vera e costante felicità. Certo la bon'à tua e del tuo sposo mi assicurano, che gli augurii miei avranno effetto. Pure voglio darti in breve alcuni consigli, che renderanno più facile, e più compiuto l'adempimento de' miei desiderii.

Porta, cara Nipote, nella casa maritale il senno e le virtù, che tu sempre avesti nella paterna. E affinchè queste sieno durevoli tieni fisso in Dio il tuo pensiero, e invocalo, siccome principio e fine della tua vita. Non ti abbaglino certe false dottrine, promettitrici a noi donne, di libertà, che poi ci fanno schiave delle passioni.—Tieni per fermo, che sebbene per la nobiltà dell'animo e della mente noi siamo, in modo diverso, agli uomini eguali, dobbiamo però vivere soggette al marito, per conservare l'ordine e la pace nella famiglia; e perchè, mentre quegli attende agli uffici suoi, attendiamo noi a quelli che ci sono imposti da Dio, e comandati dalla natura. Fra i quali sovra gli altri importanti si debbono riputare l'istruire e l'educare i figliuoli, l'impiegare il tempo in utili lavori, ne' buoni studii, nella cura della famiglia, e nel ritrarre ne' nostri costumi la perfezione insegnata dall'Evangelo. Santo è il matrimonio cristiano allorchè i coniugati attendono ad acquistare le virtù religiose, le domestiche, le civili, affinchè le anime loro, dopo di aver passato in accordo armonioso di affetti, e di volontà il tempo la Dio concesso alla vita loro, si aprano l'adito al Cielo.

Il che non può avvenire a coloro; i quali in mezzo alle pompe del lusso, ed ai mondani piaceri non si ricordano essere perfettibile, ed immortale l'anima nostra. Perciò ti dico, cara Vittoria, fuggi l'ozio, la vanità, e vivi nella quiete della tua casa, senza temere che ti assalga la noja.

Grande e sempre nuovo è il diletto di vita in buone cose occupata, siccome d'infinita consolazione sono alla moglie l'affetto e la stima del suo marito. Ama questo non solo di schietto amore, ma porta ad esso pronta obbedienza, e rispetto: manifestagli, senza velo, l'animo tuo, il quale sia per lui somigliante a limpido lago, in cui riflessi si vedono gli alberi sulle sue sponde crescenti, e vi si specchiano in tremule, ed ondeggianti scintille gli astri del cielo.

Allorchè poi educherai nobilmente, e cristianamente i figliuoli tuoi, sentirai nella dignità di madre ad immortali speranze, ad alti, e pietosi affetti sollevarsi la mente tua. Oh! celestiali dolcezze dell'amore materno, chi può significarvi a parole? Quando io insegnava ad Antonio, e a Rosa l'amore di Dio, del giusto, della sapienza, del vero, fui certo la più lieta donna del mondo. Ed ora che da molti anni ho perduta qui nella terra la figlia mia, e Antonio vive da me lontano sotto altro cielo, la memoria della passata felicita albeva in parte la mia presente mestizia.

Adempi dunque, cara Vittoria, con perseveranza e con fede i santi doveri di moglie e quelli di madre, e ne avrai merito d'inanzi a Dio, e recherai giovamento alla patria nostra. Imperocchè quale utile ritrae una nazione della libertà scritta negli statuti civili, se mancano ad essa i buoni costumi? E come i costumi saranno buoni se non pigliano il loro alimento dalle verità religiose e dalle morali? L'Italia ha recuperata la indipendenza: ma non ha riacquistata la libertà vera, cioè quella che nasce dall'amore, e dal timore d'Iddio, dalla osservanza della giustizia, dalla fede nella vita futura, e dal rispetto dei diritti a tutti comuni, e dei comuni doveri.

Gli uomini divisi dalla cupidigia, e dalle gare di parte si dicono liberi, mentre servouo a disordinate passioni. Noi donne possiamo mutare in meglio la qualità dell' avvenire, educando all'onesto e al vero la nostra prole. E però tu, cara Nipote, quando giurerai fede eterna al tuo sposo innanzi all'altare, prometti a Dio ed alla patria d'inspirare ai figliuoli tuoi le virtù dei cristiani, de' buoni e liberi cittadini.

Se bellissimo è per te questo giorno, pure non poche lagrime spargerai nel separarti dall'amorosa tua madre, nel cercare con occhio desideroso, invano per ora, la cara presenza del padre tuo. Ma ti conforti il sapere, che largo cambio avrai reso a' tuoi genitori delle instancabili loro cure, che li consolerai della tua lontananza seguendone gli ammaestramenti, e facendo ad essi onore con la rettitudine della tua vita. Pensa spesso ai tuoi Nonni, che ti abbracciano, ti benedicono, e innalzano voti al Signore Iddio, perchè ti faccia sempre felice.—La tua affezionatissima nonna—Caterina Franceschi Ferrucci.

Pisa, questo giorno 27 dicembre 1881.

Alla illustre nobile donna | signora Caterina Franceschi Ferrucci | Pisa[1] Quest'indirizzo nell'autografo leggesi a piedi..

I Professori di Filosofia e Lettere congiunti quali da affetto fraterno, quali da affetto figliale col venerato commendatore Michele Ferrucci, convocati in adunanza all'anunzio doleroso della sua morte, hanno deliberato di esprimere collegialmente all Donna illustre, che con la fama negli studi e con la santità della vita ha accresciuto insieme col suo consorte lo splendore di questa città, quanto partecipino al profondo cordoglio, nel quale Ella è immersa; deplorando la peridita di un insegnante, dal quale per quaranta anni questa Università ha avuto lustro e decoro.

Il Presidente della Facoltà
Alessandro Paoli[1] Alessandro Paoli, filosofo toscano, allora professore di Filosofia nel'Universita di Pisa, nato a Signa presso Firenze nel 1839, autore di vari lavori su Aristotile, Socrate e Antonio Rosmini.
Michele Ferrucci, ricordato in più luoghi di questo volume, singolarmente a pag. 53, 77, 177 e 178, lasciò questo mondo nel dì 27 dicembre 1881, in età di 80 anni, più 2 mesi e 2 giorni. Per maggiori notizie, su lui e le sue opere, veggasi nel Dizionario biografico degli Scrittori contemporanei, ornato di oltre 300 ritratti, diretto da Angelo De Gubernatis. Firenze, coi tipi de'successori Le Monnier, 1879, pagg. 443—44. Quivi a pag. 442 è pure contemplata la Scrittrice nostra, e appellata «educatrice e poetessa, ingegno robusto e nutrito di eletti studii».
Lettere di condoglianza ricevette pure la Caterina dal Direttore de la Facoltà di lettere dell'Università di Ginevra, P. Vaucher, in data 30 dicembre 1881, in idioma francese, che qui si omette; come si omette quella di Marco Minghetti, in data del 1. genn. 1882, in parte illeggibile pel carattere proprio inumano. Tutta nitidezza è invece una lettera (Firenze, 30 dicembre 1881) del prof. Aurelio Gotti (1831—1904), accademico residente della Crusca, ne la quale afferma: che «Il professore Michele Ferrucci ha lasciato grande desiderio di sè in quanti lo conobbero»; che «il suo nome sarà ricordato con onore»; che «la fama in questo mondo è come quella strisicia d'argento che alle volto si lasciano dietro le navi che camminano lontane»; che «poi anche quella sparisce, ma quando la nave è in porto si ringrazia il Signore». E conchiude di aver parlato in famiglia dei coniugi Ferucci, come di quelli, che «vorremmo fossero a tutti di esempio per la virtù e per il sapere».
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V.o e si associa il Rettore
P. Duvaali.

Roma, il 29 dicembre 1881.

Illustrissima Sig.ra Caterina.—Sono dolentissimo dell'amara perdita, che abbiamo fatto colla dipartita da questo mondo del mio carissimo e antico amico Michele Ferrucci[1] Il Ferrucci «per 22 anni, dal 1857 al 1879, corresse ed emendò criticamente le bozze di stampa della nuova edizione pratese del Lessico del Forcellini, rifatto ed accresciuto dal De-Vit., è dal mie dolore argomento quale deva essere il suo di gran lunga tanto superiore, per tanti titoli e tale da non potersi descrivere. E chi potrebbe di fatto penetrare nel fondo dell'anima umana e leggervi i patimenti, le ambasce, le desolazioni dello spirito? Ah! sosolo Iddio può far questo, ed io lo scongiuro e lo supplico a farlo, visitando l'anima Sua, e quella dei figli e nipoti col soave balsamo della sua infinita bontà e misericordia, e a concederle, egli, che solo il può, quella santa rassegnazione ai suoi divini voleri, che ci fa tollerare per amor suo le più amare e desolanti distrette. Deh, così egli mi esaudisca, come di cuore lo prego, e farò, come anco feci all'annunzio della malattia, pregare pel riposo di quell'anima il più presto possibile in seno a Dio.

Questa è la nostra consolazione, mia venerata Signora, l'aver per fede, che chi ci ha preceduti, ne aspetta, e che tutti un giorno ci rivedremo per non più separarci in quella beata eternità.

Faccia presenti questi miei pensieri a tutti di sua famiglia e mi creda quale colla massima stima e consolazione me le raffermo

Suo devotissimo servo
Vincenzo de Vit[1] Vincenzo De-Vit. insigne latinista, archeologo e storico, nacque il 10 luglio 1811 a Mestrino (prov. di Vicenza) da genitori padovani. Negli studj classici ebbe pure a maestro l'illustre latinista Giuseppe Furlanetto di Padova, ove fu ordinato sacerdote nel 1836 e l'anno appresso laureato in sacra teologia. Fu profess. di grammatica latina, per circa 7 anni, nel Seminario di Padova, fino a che nel 1844 passò bibliotecario dell'Accademia dei Concordi di Rovigo, dove il vescovo di quella città, mons. Squarcina, lo elesse canonico teologo della Collegiata. Nel 1849 lasciò Rovigo e si aggregò all'Istituto della Carità, fondato dal celeberrimo Antonio Rosmini, dimorando quindi in Roma, e nell'estate d'ogni anno a Stresa o a Domodossola. In quest'ultima città egli morì il 18 agosto 1892. Come sacerdote «fu adorno delle più belle virtù» e «degnissimo di ogni stima ed affetto». La Caterina nostra lo ricorda in una lettera del 20 ottobre 1859, così: «Ho conosciuto in questi giorni d. Vincenzo De Vit, dell'Istituto della Carità del Rosmini. È un uomo dottissimo ed è un angiolo. Le sue parole mi hanno fatto del bene» [allude all' afflizione che ebbe per la morte della figlia Rosa]. Varî sono gli Scritti storici e archeologici del De-Vit, tra cui l' Elogio funebre di Antonio Rosmini, letto nel giorno trigesimo dalla deposizione (1 agosto 1855) nella Chiesa del sacro monte Calcario sopra Domodossola (edito in Milano nel 1857). De' lavori filologici del De-Vit basta ricordare il Lessico latino di Egidio Forcellini, rifatto, accresciuto e stampato in 6 volumi, in-4, e l'Onomasticon (Prato, tip Alberghetti, 1858—1892); per la quale fatica, singolarmente, meritò di essere ascritto a molte Accademie, fra esse quella della Crusca. Fu onorato della Croce di Cavaliere, poi di Ufficiale della Corona d'Italia; e dal sommo pontefice Leone XIII, cui avea presentato il Lessico e l'Onomasticon suddetti, ebbe, in segno d'incoraggiamento, una medaglia d'oro. Per notizie maggiori, veggasi il cit. Dizionario biografico degli Scrittori contemporanei, diretto da A. De Gubernatis (Firenze. suce. Le Monnier, 1879), pag. 378; e Fausto Lasinio in Atti della R. Accademia della Crusca, adunanza pubb. del 4 dicem. 1892 (Firenze. coi tipi di M. Cellini, 1893), pag. 18—24..

Pisa, 4 del 1882.

Illustre Signore.—Dolce conforto al mio profondo dolore è stata la pietosa sua lettera[1] Il celebre storico si condoleva, come altri Italiani, della morte del prof. Michele Ferrucci.. Debole, e di mal ferma salute non posso scriverle di mia mano. Detto perciò a mio nipote poche parole per mostrarle la sincera mia gratitudine. Ella, che ha tanta religione, preghi per quell'anima cara, ed anco per me rimasta sola, e in tanta afflizione quanta niuno può immaginare. Sono rassegnata ai voleri d'Iddio, ma soffro per l'inconsolabile desiderio del mio fedele compagno, col quale vissi in amorosa concordia per 54 anni! Mi compianga, e mi creda ecc.

Torino, il 5 di gennajo 1882.

Illustre Signora.—Dal dolore che ie provo per la perdita dell'Amico, posso congetturare l'angoscia che stringe il cuore di V. S. privata del marito, che era l'angelo suo consolatore, decoro dell'ateneo Pisano e gloria d'Italia. Nondimeno io credo, che nella grande sua sventura Ella debba ritrarre non lieve conforto dalle sue credenze religiose e dal compianto, con cui tutti i buoni onorano la memoria dell'egregio cittadino e letterato[1] Un altro valente latinista, Giuseppe Fracassetti (1802—1883), il traduttore e commentat. dell'epistolario del Petrarea, scriveva pure alla Caterina nostra, da Fermo il 26 del 1882, condolendosi perla morte di Michele Ferrucci, «uomo preclaro», come di «danno gravissimo» per gli amici, per la studiosa gioventù per «le latine e italiane lettere», cui venne meno uno de' più solenni cultori e maestri»..—La ringrazio assai dell'onore che mi fa, affidandomi l'incarico di scrivere l'epigrafe da incidersi suila tomba. Piacciale di notificarmi il nome dell'unico suo figlio e l'altezza e la lunghezza dello spazio, che sarà destinato alla iscrizione[1] Il Vallauri dettò veramente l'epigrafe pel sepolcro di Michele Ferrucci, e l'autrice nostra ne lo ringraziò con lettera dell'11 febbrajo successivo, esclamando: «Non avrei mai creduto di rendere al mio caro marito l'ufficio, che ora gli rendiamo. Giudizi arcani d'Iddio, sempre pietosi!». La mia Elisa pianse al tristo annunzio, e addoloratissima Le manda i suoi affettuosi saluti. Io pure offro i sensi della mia profonda ammirazione all'illustre donna, di cui si vanta meritamente l'Italia, e la prego a ricordarsi, che Levius fit patientia quidquid corrigere est nefas.

Di V. S. dev.mo aff.mo
T. Vallauri[2] Il prof. sen. Tommaso Vallauri, nacque a Chiusa di Cuneo nel 1805, e studiò nell'Università di Torino, ov'ebbe a maestri l'ab. Giuseppe Biamenti e Carlo Boucheron, di cui s'è parlato a pag. 109. Dopo avere insegnato belle lettere in alcuni collegi del Piemonte fu eletto professore di eloquenza latina nella detta Università, nel 1843; cattedra che tenne con plauso universale, «per la sua mirabile perizia nell'idioma romano e per la sua ciceroniana eloquenza», cioè fino alla sua morte, avvenuta nel 1897. Fu insigne scrittore latino e italiano: onde meritò di essere eletto accademico corrispondente della Crusca..

Firenze, il dì 11 gennajo 1882.

Alla chiarissima signora | Caterina Franceschi Ferrucci | accademica corrispond.te della Crusca | Pisa[1] Questo indirizzo nell'autografo leggesi a piedi..

Ch.ma Signora,—Nel pensare alla gravissima perdita che l'Italia ha fatto in Michele Ferrucci, e nel lamentarne il danno per le classiche Lettere, gli Accademici della Crusca erano pur tratti a considerare il profondo dolore di quella Donna ch'era a lui unita con doppio legame, per santo amore coniugale e per comunanza di egregi studj. E la prima volta che gli Accademici si sono trovati insieme dopo il triste annunzio, han voluto che dei loro sentimenti di condoglianza io facessi testimonio a Lei, chiarissima Signora, che tanto si onorano di avere nel loro collegio: persuasi che se non potrebbero compensarla della jattura, Le mostrerebbero almeno il desiderio che hanno di alleviarle la pena. Il che conseguendo, parrebbe ad essi d'avere provveduto anche al vantaggio delle nostre lettere: perchè, recuperata la calma dello spirito, Ella potrebbe darci ancora qualche pagina degna di quelle molte in cui la grazia della forma e l'altezza de' pensieri non si contendono già la palma, ma gareggiano amicamente congiunte nel mantenere le antiche ragioni del bello e del vero. Faccia Dio che, nel dare consolazione a Lei, abbiano da confortarsene anche gli studj di questa Patria; al cui nome, eziando presso gli strameri, fece tante onore il dotto Uomo, della cui morte l'Accademia con lei si conduole.

E certo che il pio ufficio sarà accetto alla S. V. ch.ma, godo confermarmi, con i sensi di un'antica e riverente amicizia,—suc affez.o e dev.o collega—C. Guasti segretario.

Pisa, 14 gennajo 1882.

Chiarissimo Signore.—Rendo grazie sincere a Lei, e ai miei illustri colleghi della pietà che Loro ispira la mia sventura, la quale è tanto grande quanto io non posso a parole significare. Le sono grata eziandio dell'onore che rendono alla memoria di mio marito, in cui l'amore del bello fu congiunto con quello del buono e del vero. Io fui con esso per lunghi anni felice, poichè la comunanza delle opinioni, degli studii e degli affetti fecero che in due fosse una sola mente, ed un sol cuore. Ed ora che sono divisa dal mio fedele compagno non so trovar pace qui nella terra: Dio me la conceda nel cielo!

E con distinto ossequio mi confermo—Sua dev.ma ed aff.ma—Caterina Ferrucci.

Note[1] Questa lettera fu edita nel giorn. La Mammola—La Violette—Italia France, num. 19, anno 11 (Firenze, 15 marzo 1887), cioè intercalata nella necrologia di Caterina Franceschi Ferrucci, scritta da B. Miraglia, direttrice di esso giornale per la parte italiana. Bice Miraglia era figlia di Biagio, poeta, letterato calabrese, già capo divisione nel Ministero dell'Interno e dirett. degli Archivi di Roma, poi r. Prefetto della provincia di Pisa circa il 1879, ove essa conobbe la F.

(Pisa, 26 febb. 1882).

Cara signora Bice,—Oggi sono due mesi, che ha scritto la gentile sua lettera, e domani sono pure due mesi da che mi colpi la più grande delle sciagure. Queste date le spiegheranno la cagione del mio indugio a ringraziarla. Sono stata e sono tanto afflitta che non ho libera la mente, nè tranquillo il cuore. Sebbene da varie settimane il mio caro Michele fosse dimagrato, pure affermava di stare benissimo, e durante i primi giorni di dicembre diede le sue lezioni, e adempi l'ufflcio di Bibliotecario. Otto giorni soltanto stette in casa, ed otto in letto. Onde la morte sua fu per me quasi improvvisa. Oh quale perdita ho fatto! Sono rassegnata al volere d'Iddio, ma sempre il mio desiderio richiama l'ottimo dei mariti, che m'è stato affettuoso compagno, dandomi prova ogni giorno della bontà sua. Mi pare impossibile che egli sia sparito dagli occhi miei. Due cose mi consolano. La venerata memoria, che le sue virtù hanno lasciato: l'avere io per divina misericordia avuta forza di assistere alla sua non breve agonia, e di vederlo morire nella pace dei Giusti, dopo di avere ricevuti i santi sacramenti. Ora sono qui sola: onde non potendo a lungo vivere nello stato, in cui sono, ho deliberato di riunirmi a mio nipote Filippo, da noi educato sino dall'età di qualche anno. Ho in esso un vero figliuolo, come tale fu sempre per il suo nonno. Ho già fissato in Firenze un appartamento, di cui parte è al sole, in Via di Mezzo, n.o 20, al primo piano, in casa Bertini[1] In detta casa la Caterina finì questa vita: ed il Municipio fiorentino fece porre una epigrafe nella facciata di essa per ricordo dell'illustre Donna.. Vandrò solo dopo la vendemmia, e lascerò Pisa al finire di aprile. Se ne ricordi, affinchè, se vivo, possa rivederla quando andrà in villa. Mi ami sempre.

Sua di cuore—Caterina Ferrucci.

Firenze, (23 dicembre) 1882.
Via di mezzo, n. 20, p. piano.

Mia cara Amica,—Se jeri non avessi ricevuta la tua lettera, ti avrei scritto oggi a Pisa, per condolermi con te nel giorno del tuo doloroso anniversario. Ho avuto sempre un vivo desiderio delle tue nuove: ma ho passato un bruttissimo autunno immersa nella mestizia. E poi temo, che presto non potrò più scrivere per debolezza degli occhi, e della mano, nè so se potrai leggere questa lettera. Con la morte di mio marito ho perduto ogni mia consolazione. Egli fu sempre tanto buono, tanto affezionato per me, che non posso assuefarmi a vivere senza di lui. Sono venuta a Firenze, perchè l'isolamento da tutta la mia famiglia mi era insopportabile. E certo trovo conforto nell'amorosa compagnia dell'ottimo mio nipote; che ha per me i modi, e il cuore di un figliuolo. Ho lasciato con dispiacere le amiche di Pisa. Sono sempre molestata da una nevralgia reumatica, che m'inpedisce di camminare. Appoggiata faccio pochi passi; ma qui non sono mai uscita, onde mi manca anche il conforto di recarmi alla Chiesa. La casa, che mi ha scelto Pippo ha tre stanze a mezzogiorno scoperto: onde sto sempre in casa, e non vi sento il freddo… Il 27 di questo mese compie l'anno in cui Michele mio mi ha lasciata nella desolata mia vedovanza. Quanti dolori abbiamo avuto nella nostra vita, Bartolina mia! Che Iddio pietoso ci dia grazia di sopportarli da vere cristiane! Tu prega sempre per me, ed io per te farò lo stesso. Saremmo morte o disperate senza la Religione. Questa è stata la nostra pietosa soccorritrice. Io vivo molto solitaria, ma senza doglia. Ho la compagnia de' mie cari morti: ho la memoria degli amici accanto: sono vecchia, e so, che tutto alla mia età dee avere durata breve. Leggo, ma lentamente, e solo quei libri, che possano giovare all'anima mia, e temperare con le immortali speranze la mia afflizione…

Ti scriverei più a lungo ma la mia mano è stanca. Bacia per me le tue bimbe, ed amami sempre, come io ti amo.—Aff.ma

C.a Ferrucci.

Note[1] Questa lettera dedicatoria leggesi nelle prime pagine del libro: Una buona madre | letture morali per le giovanette | di Caterina Franceschi Ferrucci: Firenze successori Le Monnier, 1884. Ed è pure riprodotta nella terza edizione dello stesso libro, riveduta e corretta dall'autrice, fatta dai medesimi editori nell'anno 1901.

Firenze, 1.0 marzo 1884.

Carissima Nipote,—I giorni che seguirono le tue nozze furono inaspettatamente per noi giorni di pianto: poichè perdemmo in essi il mio caro marito, Michele Ferrucci, decoro della nostra famiglia, metà dell'anima mia e del mio cuore. Priva della dolce sua compagnia, tengo sempre in lui fisso il pensiero, ricordo la sua schietta bontà, l'affetto costante che mi ha portato, e lui desidero sempre e di lui sospiro. Avrei voluto commendare la sua dottrina, e ritrarne in breve le virtù, ma il dolore mi opprime la mente, e indarno cerco parole degne di quelle. Dirò solo ch'egli si può comparare ai più lodati cinquecentisti per la sua perizia nella letteratura latina, e che mirabile era in lui la facoltà di concordare lo stile ai soggetti da lui trattati, negli umili e piani imitava la eleganza di Cesare, ne' gravi ed alti la eloquenza di Cicerone. Non ampolloso era lo stile delle molte epigrafi, ch'egli dettò nell'una e nell'altra lingua, e immagini della grandezza romana farono quelle fatte per serbare la memoria di uomini illustri, e di grandi avvenimenti. Egualmente da commendare furono i suoi costumi, dappoichè visse per bene adempire tutti gl'imposti doveri, e fu amico e padre dei suoi discepoli, religioso sinceramente, dimenticò le offese, tenendo memoria perenne dei ben eficii: tenerissimo de la famiglia, pose ogni cura, prima a bene educarla, poi a darle colle sue fatiche una sicura agiatezza. Sopportò con meravigliosa pazienza la sua infermità: tre giorni avanti la sua morte, da febbre gagliarda tratto in delirio, chiamava la nostra Rosa, morta già da varii anni, ed il nostro Antonio, che viaggiava in lontane terre, e quasi li avesse vicini, li prendeva amorosamente per mano, li abbracciava e li benediceva. Sarei morta all'adire la moribonda sua voce, ma volli assisterlo fino all'ultimo fiato, e questo fermo votere mi tenne in vita.

Non avendo più facoltà di scrivere, nè di comporre, e sdegnando il tedio dell'ozio, ho preparato la ristampa di un mio libro, la lettura del quale non fu senza frutto per molte fanciulle, e specialmente per la mia dilettissima figlia Rosa. A te lo intitolo, cara Nipote, affinchè un giorno possa leggerlo la tua Niccoletta. Io forse non la conoscerò, o solo per poco. Ti prego di parlare ad essa di me, e del tuo Nonno: dille che se ci avesse veduti in tanta concordia per oltre 54 anni, forse le sarebbe sembrato di godere in terra la pace del paradiso, e avrebbe visto come la vita casalinga e operosa di vera felicità sia cagione. A fare che la tua cara bambina sia in tutto bene educata, basteranno gli ammaestramenti della tua buona madre, e gli esempi tuoi: ma forse, per l'autorità che nelle savie famiglie sogliono avere i vecchi, quelli saranno più persuasivi se le nostre voci, uscendo quasi dai nostri sepolcri, la esorteranno ad essere sempre religiosa e buona, sicchè, recando ad effetto i consigli contenuti in questo mio libro, ella cercherà d'imitare la tua angelica zia Rosa.

Benedici, anco in mio nome, la tua Niccoletta, ed ama sempre la tua—affezionatissima nonna—Caterina Franceschi Ferrucci.

(Firenze), 25 marzo 1885.

Cara Amica.—Provo a scrivere; ma forse non potrò continuare. Sto male; ieri andai a letto prima di avere ricevuta la tua lettera. Ieri sera dovei coricarmi verso le cinque. Ti avrei scritto prima, ma sono stata poco bene. Lascio volentieri la vita: mi duole però di separarmi da mio figlio, da Pippo, e dagli altri miei cari, e da te. Tu pregherai per me, come io prego per te. Grazie dei libri, e della tua lettera di jeri: mi ha molto consolata. Ma la virtù di Rosa venne da Dio: non vi ha merito la sua povera madre. Vieni presto: parleremo dei tuoi dolori: ma di essi parla poco, solo a Dio. Io ho così fatto altre volte, e me ne sono trovata bene… Abbracia le tue pene come la Croce di Gesù Cristo. Non posso più scrivevere. Ti abbraccio. Rosa mia pregherà per te…

S. Martino la Palma, 27 giugno 1886.

Carissima Amica.—Desidero le tue nuove, come mi dicesti che desideravi le mie. Dimmi ove sei, e se stai bene. Io ho migliorato nella salute, essendomi passata la tosse, che mi affliggeva da quasi due mesi. I dolori alle ossa però si sono fatti più vivi, onde mi fanno molto soffrire. La villa ove siamo è bella, e la posizione è meravigliosa. A me però mancano le memorie del passato, e specialmente quelle del mio caro Michele. Abbiamo un bel giardino, ed una bella cappellina. Pippo[1] Pippo: il dott. d. Filippo Ferrucci, nepote affettuosiss. dell'Autrice, ricordato qui entro in varî luoghi. quando può mi ci diee la messa, e questo è per me un gran conforto[2] E fin dal 10 giugno 1881, scriveva a Bartolina Sforza Bertagnini: «La mattina di mercoledì 15 partirò per la campagna, onde preparare il ricevimento della processione del Corpus Domini triennale, che passerà il 19 per la nostra Villa. Per noi cristiani questa visita del Signore è tanto consolante, e santa, che ci dispiaccerebbe di non essere in casa».. Faccio una vita affatto solitaria. Penso spesso alle amiche lontane, ed a te, mia carissima… Ama sempre ecc.

FINE DELL'EPISTOLARIO.

I numeri corrispondono alle lettere.

Arciconsolo dell'Accademia della Crusca, 107, 118 his.

Armaroli marchese Leopoldo, 2.

Balsimelli can. prof. Federico, 113, 127.

Barbèra cav. edit. Gaspare, 87.

Bartalena Carmina, 122.

Benini avv. Giuseppe, 85.

Betti prof. comm. Salvatore, 1, 3, 4, 5, 8, 10, 13, 16, 22, 23, 25, 31, 33, 39, 43, 44, 90, 121.

Bianchi Rosa, 119,

Bicchierai prof. Zanobi, 84.

Brunelli Giulio, 92.

Brunelli Pietro, 50.

Cantù prof. comm. Cesare, 133.

Capecelatro p. card. Alfonso, 99, 102.

Capozzi Francesco, 21.

Capponi marchese Gino, 47.

Cassi conte Francesco, 11, 27, 37.

Ferrucci Antonio, 38, 40, 41, 42, 45, 52, 54, 55, 57.

Ferrucci dott. d. Filippo, 114.

Ferrucci prof. comm. Luigi-Crisostomo, 62.

Ferrucci prof. Michele, 7, 9, 12, 14, 15, 17, 52, 54, 55, 57, 61.

Ferrucci colon. comm. Paolo, 114.

Ferrucci Rosa, 45, 72, 74.

Ferrucci Vaccai Vittoria, 130, 141.

Franceschi prof. Giovanni, 126.

Fransoni marchesa Isabella, 48, 140, 141.

Galvani conte cav. Giovanni, 76.

Gazzera ab. cav. Costanzo, 29.

Gherardi prof. Silvestro, 68, 69.

Guasti comm. Cesare, 136.

Laudadio prof. can. Felice, 95, 98.

Le Monnier cav. Felice, editore, 120, 123.

Leopardi conte Giacomo, 18.

Lotti dott. Giovanni, 66, 77, 101.

Malaspina marchesa Cristina, 118. 119.

Massari deput. Giuseppe, 59

Minghetti comm. Marco, 46, 58, 65, 71, 81, 83.

Miraglia Bice, 137.

Muzzarelli mons. Carlo Emanuele, 6.

Nicolini prof. Giovan-Battista, 79.

Noceti contessa Maddalena, 117.

Orlandini prof. Francesco-Silvio, 60.

Palagi can. Guido, 51, 53, 67.

Paravia prof. cav. Pier-Alessandro, 78, 80.

Parlatore prof. Filippo 91

Perreyve can. prof. Enrico, 93.

Perreyve Lucile, 104.

Pieri prof. Mario, 73.

Presidente della Deputazione per le feste centenarie di s. Caterina da Siena, 128.

Rebizzo Bianca, 70

Rosaspina prof. Francesco, 32.

Ruggero avv. nob. Francesco-Paolo, 124.

Saluzzo Roero contessa Diedata, 19.

Sclopis conte cav. Federico, 35.

Sforza Bertagnini Bartolina, 97, 115, 138.

Sforza conte comm. Giovanni, 110.

Simonetta Rajna Costanza, 105

Spada Franceschi Maria, 36.

Tabarrini dott. comm. Marco, 68.

Tanari marchesa Brigida, 100.

Vaccà Berlinghieri Anna, 94, 96.

Vaccolini prof. Domenico, 20.

Viani prof. comm. Prospero, 56, 64.

Il numero è quello ordinale delle lettere.

Arcangeli prof. ab. Giuseppo, 49.

Betti prof. comm. Salvatore, 129.

Biondi marchese Luigi, 34.

Boucheron prof. cav. Carlo, pag. 105.

Cautù prof. comm. Cesare, 89.

Cavour conte Camillo Benso, 30.

Costa prof. Paolo, 111.

De-Vit prof. ab. Vincenzo, 132.

Fornari abate Vito, 125.

Franceschi Pignocchi Teodolinda, 82.

Gazzera ab. cav. Costanzo, 28.

Ghinassi prof. Giovanni, 75.

Gioberti abate Vincenzo, 112.

Giordani Pietro, 26.

Guasti comm. Gesare, 88, 116, 135.

Giuliani prof. ab. Giambattista, 106.

Lambruschini ab. sen. Raffaello. 108.

Mamiani conte sen. Terenzio, 36.

Paoli prof. Alessandro, 131.

Sauli conte Ludovico, 24.

Vallauri prof. sen. Tommaso, 134.

Baluffi card. Giuseppe, 300.

Berti Domenico, 256.

Betti Salvatore, 420.

Carducci Giosuè. 31.

Cavour conte Comillo, 16—17.

Chiala Luigi, 17.

D'Ancona Alessandro, 178.

Galvani Cesare, 272.

Gioberti Vincenzo, 210, 374.

Guasti Cesare, 31

Giusti Giuseppe, 188.

Lambruschini Raffaele, 300.

Leopardi Giacomo, 110.

Mamiani Terenzio, 160.

Niceolini Giambattista. 127.

Pippi Averardo, 292.

Sauli Ludovico, 125, 197.

Venturi Luigi, 300, 385.

Veratti Bartolomeo, 422.

I numeri indicano la pagina.

Arcangeli ab. prof. Giuseppe. 193, 194. sua morte 294.

Ballo o ballare dalla Ferrucci disapprovato per sè poi concesso alla figlia Rosa. 268.

Balsimelli can. prof. Federico, scrittore, moralista storico, epigrafista, 375—377.

Bettinelli ab. Saverio, sue ventose ciance, 63

Botta Carlo, celebre scrittore, sua storia d'Italia bene accolta, 121, 122.

Capecelatro p. card. Alfonso, scrittore; pregi delle sue opere, 324, 325, 342, 943.

Carlo Alberto ricordo del valore del popolo subalpiuo, rappresentante l'idea del sacrifizio, 232, 257.

Cavour co. Camillo, sua morte, 330, 331; sue commendatizie per i coniugi Ferrucci quando esularono a Ginevra, 14—20, 136—140.

Cesarotti ab. Melchiorre, sue ventose ciance, 63.

Chiesa e s. Sede: sue relazioni collo state, presa di Roma, 317—319, 324.

Classicisti e Romantici, loro scuola ed effetti, 57, 65, 70, 394—395.

Costa prof. Paolo, suo esilio e sua morte, 105, 368—371.

Dolori, miserie e travagli di questa vita, e frutto di essi, 191—192, 324, 325, 532, 333, 445.

Donna non può vivere sola e colice, 84.

Educazione morale e civile della gioventù e singolarmente delle fanciulle, 166, 168, 171—176, 183—187, 189, 262—264; 267—269; 320—322; 346—349; 362; 363; 378—382, 386, 387, 391—293; 395, 396, 405, 406, 422—427.

Fantesche e contadini, come fossero considerati dalla Ferrucci, 341, 342.

Felicità e contentezza in questo mondo difficile a conseguirsi, 312—314, 388—393.

Foscolo Ugo, suo carme le Grazie lodato, 225.

Franceschi Ferrucci Caterina, sua cecità infantile, 89, 213; suo ritratto morale, 7, 9; sue vicende e fortune 10—22; sue opere, 23—28; suoi pregi di scrittrice e poetessa, 29—31; suo studio del greco idioma, sue traduzioni e spiegazioni greche, 56, 81, 98; sue traduzioni dal latino, 60; sua preferenza per lo studio della filosofia morale, 79; piange la morte del genitore dott. Antonio Franceschi. 102—105, 230; si trova col celebre p. Antonio Cesari in Bologna; loda il marito prof. Michele per l'elegia che scrisse in morte dello stesso Cesari, 100, 101.

Fuina prof. don Francesco, maestro di Caterina Franceschi Ferrucci, 10—11.

Gioberti ab. Vincenzo, 207, 208; sua visita alla Ferrucci, 209—212, 216; sua inorte 284, 285, 318, 374, 375:

Giusti Giuseppe offre alcune poesie inedite da pubblicare, 188.

Indipendenza italiana: come nell'anno 1848 il marito e il figlio della Ferrucci presero parte alla battaglia di Curtatone, 193—203, 205, 211, 217, 218.

Italia ha recuperata l'indipendenza, ma non la libertà vera, 426.

Leopardi conte Giacomo, suo Epistolario e sincerità ne' giudizj, 233, 234.

Lettera bene scritta, quali pregi richiede, 170—172.

Libertà, «raggio d'Iddio», probità e giustizia come e dove esiste, 412, 413, 416.

Madre Cristiana: vedi in Sposa cristiana.

Manzoni Alessandro, suo romanzo i Promessi Sposi, 67; suo ingegno, sua bontà, sua morte, sue poesie, 398.

Mazzini Giuseppe e la sua setta, 240

Milli Giannina, poetessa; 305, 306, 308, 309.

Morte, spaventosa agli increduli non ai cristiani, 192 402.

Odescalchi principe Pietro, esempio del vero patrizio per la sua cultura e pe' suoi studj, 59.

Opinione pubblica, come deve essere considerata, 328. 329.

Ozio e romanzi cagione di pericolo per le donne e specialmente per le giovani, 362, 363.

Pellico Silvio, suo Epistolario, 233.

Perticari co. Giulio, vituperato, suoi scritti, sua fama imperitura, 48—50.

Pieri prof. Mario, sua morte. 282—284.

Pio IX, papa, nome santo, sua clemenza, suo zelo, suo amore per i popoli e per la giustizia, 181, 182, 207, 219, 220.

Poveri e traviati soccorsi dalla Ferrucci, 339—341.

Protestantesimo, e suo effetto nell'animo della Ferrucci, 339.

Ranalli prof. Ferdinando amicissimo della F., vieno da essa presentato a Pietro Giordani, 128, 129, 403.

Regaldi Giuseppe, esule, poeta, suoi scritti, 190 131.

Regolamente o Programma per l'Istituto delle Peschiere in Genova, 246—255.

Roma presa alla s. Sede: vedi Chiesa e s. Sede.

Rosini Giovanni furente per l'Epistolario del Leopardi, 234.

Rosmini Serbati ab. Antonio, sue lettere; 233.

Rossellini Massimina, scrittrice e poetessa, 203—204.

Rossi Pellegrino, assassinato; sdegno della Ferrucci, 219.

Scrivere. Chi scrive male pensa pur male, 172, disposizione a scrivere, 245.

Solitudine, calma e ritire necessario agli studiosi; frutti che ne derivano. 54, 95.

Sposa a madre cristiana, quale deve essere, 422—427.

Studio e sapere perfeziona l'intelletto, 62.

Viani Prospere, sua vita, sue opere e sue carte manoscritte, 212—214; commendate, 222, 226, 273; difeso 275, 277.

Vittorio Emanuele, difensore costante, indomabile della giustizia, 257.

Giudizio del card. Alfonso Capecelatro e del prof. Raffaello Fornaciari sull'Epistolario pag. IX

Prefazione del Compilatore… ” XVII

Cenni autobiografici di Caterina Franceschi Ferrucci (1866)… ” 1

Della vita e delle Opere di Caterina F. Ferrucci, discorso del march. Matteo Ricci.. ”5

Nel trigesimo, epigrafe del p. Mauro Ricci ” 31

Epigrafe di Ferdinando Ranalli sul sepolero di Caterina Franceschi Ferrucci… ” 32

1824.

Al prof Salvatore Betti… pag. 35

Al conte Leopoldo Armaroli… ” 38

Al prof. Salvatore Betti… ” 42

1825.

Al prof. Salvatore Betti… ” 46

Al prof. Salvatore Betti… ” 48

A mons. Carlo Emanuele Muzzarelli.. ” 51

1826.

Al prof. Michele Ferrucci… ” 53

Al prof. Domenico Vaccolini… ” 114

Al prof. Salvatore Betti… ” 56

Al fidanzato prof. Michele Ferrucci… ” 60

Al prof. Salvatore Betti… ” 65

Al conte Francesco Cassi… ” 72

1827.

Al fidanzato prof. Michele Ferrucci… ” 77

Al prof. Salvatore Betti… ” 83

Al fidanzato prof. Michele Ferrucci… ” 86

Al medesimo… ” 93

Al prof. Salvatore Betti… ” 98

1830.

Al marito prof. Michele Ferrucci… ” 102

1831.

Il prof. Carlo Boucheron a Caterina F. F. ” 105

Il prof. Paolo Costa a Caterina F. F.. ” 365

Al conte Giacomo Leopardi… ” 110

A Diodata Saluzzo co. Rovero di Revello ” 112

A Francesco Capozzi… ” 115

Al prof. Salvatore Betti… ” 116

1832.

Al prof. Salvatore Betti… ” 118

Il co. Ludovico Sauli a Caterina F. F… ” 121

1833.

Al prof. Salvatore Betti… ” 126

1834.

Pietro Giordani a Caterina F. Ferrucci. ” 128

1835.

Al conto Francesco Cassi… ” 130

1836.

La r. Accademia delle Scienze in Torino a Caterina Franceschi Ferrucci… pag. 132

Al cav. Costanzo Gazzera segretario della r. Accademia in Torino… ” 134

Il co. Camillo Cavour al prof. M. Ferrucci ” 136

Al prof. Salvatore Betti… ” 140

Al prof. Francesco Rosaspina… ” 144

1837.

Al prof. Salvatore Betti… ” 152

Il march. Luigi Biondi al Caterina F. F. ” 156

Il conte cav. Federico Sclopis… ” 157

1838.

Il conte Terenzio Mamiani a Caterina F. ” 159

1839.

Al conte Francesco Cassi… ” 163

Al figlio Antonio Ferrucci… ” 165

Al prof. Salvatore Betti… ” 169

Al figlio Antonio Ferrucci… ” 170

1840.

Al figlio Antonio Ferrucci… ” 174

Teodolinda Franceschi Pignocchi a C. F. F. 286

1841.

Al figlio Antonio Ferrucci… ” 175

1843.

Al prof. Salvatore Betti… ” 177

1845.

Al prof. Giovan-Battista Niccolini… ” 281

1846.

Al prof. Savatore Betti… ” 180

Ai figli Antonio e Rosa Ferrucci… ” 183

1847.

A Marco Minghetti… ” 187

Al marchese Gino Capponi… ” 190

1848

L'ab. Vincenzo Gioberti a Caterina F. F. ” 371

Alla marchesa Isabella Fransoni… ” 191

Il prof. ab. Gius. Arcangeli a Caterina F. ” 193

Al cognato Pietro Brunelli… ” 196

Al can. Guido Palagi… ” 198

Al marito prof. Michele ed al figlio Antonio Ferrucci… ” 200

Al can. Guido Palagi… ” 206

Al marito prof. Michele ed al figlio Antonio Ferrucci… ” 208

Ai medesimi… ” 209

Al prof. Prospero Viani… ” 212

Al marito prof. Michele e al figlio Antonio Ferrucci… ” 217

A Marco Minghetti… ” 218

A Giuseppe Massari… ” 222

1849.

Al prof. Francesco Silvio Orlandini.. ” 224

Al marito prof. Michele Ferrucci… ” 226

Al cognato comm. Luigi-Crisost. Ferrucci ” 228

Alla madre Maria Spada Franceschi.. ” 229

Al prof. Prospero Viani… ” 233

A Marco Minghetti… ” 235

Al dottor Giovanni Lotti… ” 238

Al canonico Guido Palagi… ” 241

1850.

Al prof. Silvestro Gherardi… ” 243

Al medesimo… ” 244

A Bianca Rebizzo… ” 246

A Marco Minghetti… ” 256

Alla figlia Rosa Ferrucci… ” 258

Al prof. Mario Pieri… ” 265

Alla figlia Rosa Ferrucci… ” 266

1851.

Il prof. Giov. Ghinassi a Caterina F. F. ” 270

Al conte Giovanni Galvani… ” 271

Al dottor Giovanni Lotti… ” 276

1852.

Al prof. Pier-Alessandro Paravia… ” 279

Al medesimo… ” 282

Al comm. Marco Minghetti… ” 284

1853.

Al comm. Marco Minghetti… ” 288

1855.

Al prof. Zanobi Bicchierai… ” 291

All'avvocato Giuseppe Benini… ” 293

1857.

Al comm. Marco Tabarrini… ” 295

All'editore Gaspare Barbèra… ” 297

Cesare Guasti a Caterina F. Ferrucci.. ” 301

1858.

Cesare Cantù a Caterina F. Ferrucci.. ” 304

Al prof. Salvatore Betti… ” 305

Al prof Filippo Parlatore… ” 307

Al nepote Giulio Brunelli… ” 309

1859.

Al canonico prof. Enrico Perreyve… ” 315

1860.

Ad Anna Vaccà Berlinghieri… ” 320

1861.

Al can. prof. Felice Laudadio… ” 323

Ad Anna Vaccà Berlingheri… ” 328

A Bartolina Sforza Bertagnini… ” 330

1832.

Al can. prof. Felice Laudadio… ” 332

Al p. Alfonso Capecelatro… pag. 334

Alla marchesa Brigida Tanari… ” 337

Al dott. Giovanni Lotti… ” 338

Al p. Alfonso Capecelatro… ” 342

Al nepote Filippo Ferrucci… ” 345

1865.

A Lucile Perreyve… ” 349

1868.

A Costanza Simonetta Rajna… ” 352

1871.

Il prof. ab. Giambattista Giuliani a Caterina Franceschi Ferrucci… ” 354

All'Arciconsolo della r. Accad. della Crusca 356

Al medesimo… ” 393

L'Arciconsolo della r. Accademia della Crusca a Caterina Franceshi Ferrucci ” 359

Alla pronepote Rosa Bianchi… ” 361

Al conte dottor Giovanni Sforza… ” 364

1872.

Al prof. can Federico Balsimelli… ” 375

1873,

Ai nepoti Filippo e Paolo Ferrucci… ” 377

A Bartolina Sforza Bertagnini… ” 382

Cesare Guasti a Caterina F. F… ” 384

Alla contessa Maddalena Noceti… ” 386

1874.

Alla Marchesa Cristina Malaspina.. ” 388

1875.

Alla marchesa Cristina Malaspina… ” 397

All'editore cav. Felice Le Monnier… ” 398

1876.

Al prof. Salvatore Betti… ” 400

A Carmina Bartalena… ” 404

All'editore cav. Felice Le Monnier.. ” 407

1877.

Al nob. avv. Francesco Paolo Ruggero.. pag. 410

L'ab. Vito Fornari a Caterina F. Ferrucci ” 413

1878.

Al fratello prof. Giovanni Franceschi.. ” 414

1879.

Al prof. can. Federico Balsimelli… ” 417

1880.

Al Presidente della Deputazione per le feste centenarie di S. Caterina da Siena ” 418

1881.

Il prof. comm. Salvatore Betti a Caterina F. ” 420

Alla nepote Vittoria Ferrucci… ” 422

La r. Università di Pisa a Caterina F. F. ” 427

Il prof. ab. Vincenzo De-Vit a Caterina F. ” 429

1882.

Al comm. Cesare Cantù… ” 432

Il prof. sen. Tommaso Vallauri a Caterina Franceschi Ferrucci… ” 433

La r. Accademia della Crusca a Caterina F. ” 435

Al comm. Cesare Guasti segretario della r. Accademia della Crusca… ” 436

A Bice Miraglia… ” 437

A Bartolina Sforza Bertagnini… ” 439

1884.

Alla nepote Vittoria Ferrucci Vaccai.. ” 441

1885.

Alla marchesa Isabella Fransoni… ” 444

1886.

Alla marchesa Isabella Fransoni… ” 445

FINE DEL VOLUME.

ERRORI CORREZIONI.

Pagina 3 linea 21 studi, studi.

“ 14 ” 20 Augusto Eugenio

“ 37 ” 28 1842. 1824.

“ 44 ” 1 demeritevole meritevole

“ 62 ” 15 ha molte a molte

“ 63 ” 22 entimèna entimèma

“ 70 ” 17 finsioni finzioni

“ 71 ” 1 natura! natura?

“ 88 ” 20 ie Le porto io le porto

“ 90 ” 13 figliale filiale

“ ” ” ” piegarete piegherete

“ 92 ” 24 pag. 88 pag. 78

“ 127 ” 22 Miccolini Niccolini

“ ” ” 27 Vannuci Vannucci

“ 169 ” 4 28 sett. 1830 28 sett. 1839

“ 181 ” 21 16 luglio 16 giugno

“ 193 ” 9 farsi onore farsi cuore

“ 208 ” 21 dignità dignità:

“ 229 ” 1 Michelel Michele,

“ 240 ” 28 1792 al 1879 1797 al 1879

“ 241 La nota su Rousseau Giovan Battista (1670—1741), si sostituisca così: «Ruosscau Gio. Giacomo (1712—1778) ginevrino scrittore, definito il più sottile dei sofisti, il più eloquente dei retori. il più impudente dei cinici.»

pag. 243 lin. 22 dal 1800 al 1879. dal 1802 al 1879.

“ 277 ” 5 le venne fu cominciata

“ ” ” 21 dopo le parole' «pel suo retto operare», aggiungasi: «e perchè essa non volle aderire alle idee repubblicane e antireligiose delle fondatrici dell'Istituto».

pag. 136 lin. 13 nepote pronepote

LETTERE INEDITE
DI
SCRITTORI ILLUSTRI ITALIANI

PUBBLICATE NEL DI DELLE
NOZZE
PAGANI-FABBARICI.

REGGIO D' EMILIA
COLLEZIONE STORICO-LETTERARIA
1907.

AFFINCHÈ PURE SIA NOTO
A QUE' CHE VERRANO DOPO NOI
L'ALLEGREZZA
PRESA DAI PARENTI ED AMICI
NELLE NOZZE DEL SIGNOR
AVV. PIETRO PAGANI,
EGREGIO CITTADINO REGGIANO
SINDACO DI NOVELLARA,
CON LA SIGNORINA
LUISA FABBRICI
NOVELLARESE,
FIOR DI BONTÀ, DI SENNO,
ADORNA IN VERO DI TUTTE LE DOTI
CHE FORMANO LA SPOSA CRISTIANA,
GIUSEPPE GUIDETTI
HA MESSO A STAMPA
QUESTE LETTERE INEDITE
DI CLASSICI SCRITTORI ITALIANI
CONGRATUALNDOSI VIVAMENTE
CON GLI SPOSI
E LORO AUGURANDO
LUNGA VITA E FELICE;
FELICE COME IL DI NUZIALE
4 NOVEMBRE 1907.

Fu sempre tenuto assai convenevole il mettere in luce gli Scritti de' grandi Letterati, che più non sono fra noi. Poichè così facendo, viene talvolta rinfrescata la loro gloria; e se non altro si viene a dimostrare in qualche modo la riconoscenza che loro si deve pe' servigj ch' essi resero alla patria e al mondo. Onde vo' sperare, che a niuno parrà disutile o sconvenevole, ch' io per una festa nuziale abbia, anche a tale uopo, messo a stampa queste brevi Lettere inedite.

La 1.a e la 2.a, del celeberrimo scrittore Antonio Rosmini-Serbati (1796—1856), il rinnovatore della filosofia in Italia, ebbi dall'innata cortesia del chiariss. dott. don Bernardino Balsari, preposito generale dell'Istituto della Carità in Domodossola (Novara), al quale degnissimo Ecclesiastico mi professo molto grato anche per altri motivi. La 3.a di queste Lettere è di Antonio Cesari (1760—1828), maestro e scrittore venerato dallo stesso Rosmini, della quale lasciò copia l' ab. Gius. Manuzzi. La 4.a, che si conserva autografa in questa nostra Biblioteca comunale, è di mons. Pellegrino Farini (1776—1849), scrittore della più candida eleganza, che nella villa s. Michele, a 5 miglia da Ravenna, ospitò il Cesari, che ivi spirò il di 4.o d' ottobre 1828. In questa stessa Biblioteca comunale si trovano pure autografe la 6.a di Pietro Giordani (1774—1848), il cui nome ha in sè il più grand' elogio, la 7.a di Michele Colombo (1747—1838), filologo, scrittore puro e venusto, e l' 8.a di Ruggero Bonghi (1826—1895), scolaro del Puoti e purista dapprima, poi manzoniano, filologo, filosofo, archeologo e storico insigne, che, come critico e autore del libro Perchè la letteratura non sia popolare in Italia, tu giudicato dal Carducci: capriccioso, fantastico, di eloquenza negativa, senza spansione, senza cordialità… (Cfr. Carducci G., Confessioni e Battaglie, Bologna, Zanichelli, 1902, p. 250 e seg.). La 5.a poi, che ebbi con altre dalla gentilezza dell' illustriss. sig. dott. cav. Francesco Parenti di Modena, è del tanto benemerito march. Basilio Puoti, vissuto in Napoli dal 27 luglio 1782 al 18 luglio 1847. Quel Puoti che, per oltre un ventennio, insegnò gratuitamente alla gioventù Napoletana la lingua di Dante; quel Puoti, la cui scuola diede all' Italia il Settembrini, il Fornari, il De Sanctis, per tacere de' molti minori discepoli di lui. Quel Puoti, che singolarmente nell' Italia meridionale rimse nel debito onore i classici scrittori italiani d' ogni secolo (nel 1829 ristampò pure i Promessi Sposi del Manzoni), come si pare luminosamente dal catalogo delle sue edizioni, che sono circa 50, comprese in tal numero le sue opere originali. Quel Puoti onorato e celebrato dal Giordani come «infaticabile maestro e scrittore valentissimo»; e che ebbe pure l' incomparabile onore di essere annoverato tra gli Accademici della Crusca. Quel Puoti encomiato e venerato dai Gioberti, dal Settembrini e dal De Sanctis come uno di «que' benemeriti cittadini che si affaticarono a restituire la lingua nella sua purità e ristorare gli studj delle cose nostre»; quel Puoti, che lo stesso Giosuè Carducci appella Letterato e scrittore «di gusto sempre finissimo». Quel Puoti che, in onta agli elogj riferiti, si trova escluso da un «Manuale della letteratura italiana, ristampato anche nel 1906 in Firenze; mentre ivi sono ammessi certi altri scrittori, come un Coco, un Torti, un Sanvitale, un Berchet, un Ciampolini, un Savi, un Sestini, un Bini, un Goracci, un Revere, un Tenca, un Mercantini, un Raffaeilli, un Cossa, un Gabelli, e persino due tratelli Maccari. Ma egli è vero che i pareri degli uomini non sono tutti egnali! Poichè il chiariss. prof. Francesco Torraca, della r. Università di Napoli, nel suo Manuale della letteratura nostra (stampato in Firenze dall'editore Sansoni) ha dato il debito onore a Basilio Puoti: e così pure ha tatto il chiariss. prof. Guido Mazzoni, che in più luoghi della sua storia L' ottocento celebra degnamente lo Scrittore napoletano; sul quale il prof. Giulio Salvadori, della r. Università di Roma, confortò il discepolo dott. Nazareno Caraffa, a scrivere il libro Basilio Puoti e la sua scuola (Girgenti, prem. stamperia Montes, 1906). E ancor più tavorevole e trionafante sarebbe forse il giudicio de' Letterati, se le opere dell' insigne Purista (ora disperse e rarissime) fossero raccolte, ordinate e stampate in un sol corpo. A ciò fare s' è già cominciato: onde resta solo (e resta il più), che tutti i veri letterati e studiosi siano larghi del loro favore.

LETTERE INEDITE DI SCRITTORI CLASSICI ITALIANI

Chiarissimo signore,—Dopo l' onore ed il piacere che io ho avuto d' esser con V. S. quella sera in Ala, più fiate m' è venuto a mente il suo desiderio di vedere alcuna cosa in rima del nostro giovanetto Giuseppe Stoffella da Camposilvano; ma essendomi scappata dalle mani l' occasione di don Turri, la quale Ella medesima m' avea indicato, per varie cagioni ho tirato innanzi senza nulla mandarle insino adesso. La bontà sua mi perdonerà, nè sdegnerà che io faccia almeno ora quello che dovea far prima. Le mando dunque questi quattro sonetti fatti, come può vedere, per la rinnovazione solenne de' voti di quattro monache del nostro convento delle Teresine.

Si rammenti che l' autor è giovanissimo, e che io non intendo di mandarle o cosa perfetta, o tale che possa esser parto d' un poeta fatto e di sperienza; ma solo d' un giovane di buona volontà e di qualche speranza. Non voglio che si pigli la briga di rispondermi, solo desidererei che scrivendo V. S. a don Beltrami aggiugnesse una parola del come Le sono paruti[1] Il Cesari rispose poi al Rosmini con lettera del 31 genn. 1816, nella quale confessa che lo Stofella ha buona disposizione; ma lo esorta a legger molto la prosa di maestà del 300, indi il Petrarca e da ultimo Dante. E tale lettera acchiuse in altra sua all' amicissimo Gio. Pietro Beltrami, ove gli dice: «Il Rosmini, Antonio, mi mandò questi 4 sonetti da carminare. Leggete la lettera a lui, e le postille a' sonetti… Poveri givoani! non hanno chi il dindirizzi: e tirano alla ventura.»; se poi Ella m' onorasse di una sua e si degnasse di venire al particulare e tôr per mano le cose singule e correggere e mutare; questo oltre che sarebbe caro all' autore, a me sarebbe carissimo per più conti, e particolarmente per l' ammaestramento che ne trarrei; il quale come da tutti, così molto spezialmente ho sempre agognato da V. S., cioè dal più purgato ed eccellente scrittore del nostro secolo, sebbene non abbia avuto insino ad ora si fatta ventura. Io tutto pieno di stima e di venerazione me le raccomando.—Suo umilissimo e devotissimo servitore Antonio Rosmini.

Rovereto, 10 gennaio 1816.

Reverendissimo Padre Antonio—Già pressochè tutte le cose erano ordinate, perchè io mi dovessi approfittare della sua dolcissima ed utilissima compagnia, anzi prendere vita filippina, a cui l'adito m'era aperto dalla loro singolar bontà: quando nuove considerazioni mi rimossero dal fatto divisamento, e mi persuasero di giovarmi in quella vece del Seminario di Trento, ove mi recherò a studio fra poco. Queste considerazioni furono principalmente i consigli del provveditor Traversi[1] Il dott. don Antonio Traversi era provveditore del Licco-convitto di Venezia, direttore dello studio filosofico e vice-presidente della dottrina cristiana nella diocesi di quella stessa città, poscia fu eletto vescovo e cardinale della Chiesa., che in tutte cose di spirito mi dirige e mi ha sempre diretto. Si consideri che renderei assai malagevole l' acconciarmi co' genitori, se mi dessi non solo allo stato ecclesiastico, ma oltracciò m' incorporassi a comunità religiosa. Nè solo perchè non amano troppo sì fatte cose; ma ancora perchè perdono in si fatto modo la speranza del mio ritorno fra loro[2] A diciasette anni il Rosmini aveva deliberato di abbracciare lo stato ecclesiastico; ma i genitori volevano altrimenti. Onde misero in opera ogni onesto mezzo per frastornarlo da tale pensiero; e per conseguire il loro intento adoperarono anche la parola di dotti e virgliare in casa Rosmini; ma indarno. Lo stesso Cesari ne rimase scosso; e voltosi di avversario in ajuto, approvò e rinfervoò la presa deliberazione del giovane, che poscia sperava pure con esso di fare un nobile acquisto alla Congregazione di Verona; e gli propose si facesse Filippino. Di che è testimonio la presente lettera del Roveretano.. Che se io, fatto prete, pensassi a ritornare, allora avrei aggravato della mia educazione la loro società partendo in quel tempo che da me aspettar si potrebbe di raccorre qualche servigio. S'aggiunge che l' entrare e l' uscire mal sonerebbe a chi non sa tutto, e io ci perderei di buon nome ne' miei paesi, sopratutto dove la gente giudica grossamente. Onde m' apposi al sentimento di quel mio direttore. Ben conosco la perdita imprezzabile ch' io fo, col privarmi della compagnia di lei, pienissima di dottrina e di bontà, di quella del reverendo P. Superiore Fusari, e degli altri ottimi loro confratelli: ma questo vuole Iddio, e così sia. Ringrazio poi la loro carità; e segnatamente quella di Lei e del detto P. Superiore, a cui bacio rispettosamente le mani, come anco a Lei, e mi raccomando alle loro orazioni, assicurandole che sempre m' arricorderò di quanto da loro ho ricevuto. Umilissimo e obbligatissimo servo

Rovereto, marzo 1821.

Antonio Rosmini.

Di Verona, li 18 di agosto 1827.

O factum bene! Come? una seconda lettera? Testè il Manganotti me ne portò una vostra. Vero: una, ed una fa due. O factum bene! due! due, che due? Due, vi dico: e voi non avrete a rimproverarmi, che vi sia avaro delle cose che avvengono. Egli ne sono avvenute, anzi avvenuti due. Ma che diavol di due? Insomma, leggete il brano chiuso qui dentro[1] Il brano chiuso qui entro era la letterina del proprio nepote Pietro Cesari riferita nella nota seguente.. Stamattina mi levo verso le sei: a bell' agio mi vesto: mi lavo. piglio l' abbrivo pel mattutino, de more (Aperi, ec.): apro l' uscio: ed ecco per le gretole della gelosia, che è alla porta, ed uscio della camera, veggo riuscire una cartuccia. la piglio, l' apro, leggo. trovo la lettera del conte[2] La lettera del Conte (così chiamava per celia il proprio nepote Pietro Cesari) consisteva nelle seguenti parole: «Dopo 3 ore di doglie è vanuto alla luce un bambolo: ma che? ne successe un altro. Se i dolori siano stati eccessivi è facile giudicarlo. ma sta bene la puerpera, e meglio i parti. Se Dio ha benedetto questo parto, credo che sia da dire una messa in ringraziamento. del che è pregata la sua carità. Verona 18 agosto 1827.». Che vorrà essere? Leggete, dico, e torno a dirvi due, due bei bamboccioni, che l' uno appo l' altro (credo io) sono usciti di casa nudi nati; che non vedeste mai meglio. Dico l' ufizio, cioè il mattutino: poi la messa: pro gratiarum actione. Vado a far la veduta, sopra la faccia del luogo. Due rabacchini, nella culla medesima, posti come due parallele; ma de' due l' uno con una coppa di due buone dita di lardo, tondo e paffuto, come un Padre Guardiano de' Zoccolanti. sicchè la Contea[1] Contea. Con questo nome il Cesari soleva chiamare un poderetto, detto Beccacivetta, in Castel d' Azzano, a 5 miglia da Verona, di proprietà del nipote Pietro, che lo comperò colla dote della moglie Luciolli Marietta. è oggimai assicurata, ed i feudi non ricadranno al fisco. La Marietta ebbe a combattere tre ore per regalarci questi due tozzoni: ma sta bene. Haec habui quae ad te referrem, ut puto non assurde… Vale.

Il vostro Cesari.

Mio carissimo Signore—Al dolore della perdita dell' ottimo P. Cesari, che a quando a quando mi sento pure molto acerbamente fitto nell' animo, mi è caramente di refrigerio tra gli altri pensieri anche quello della benevolenza sua, la quale conosco, che mercè la sua gentilezza non sarà per venir meno. Pel P. Cesari qui ancora non si è dato opera a niente, perchè aspettiamo M.r nostro Arcivescovo da Roma, il quale anche là pensa, e di là scrive intorno alle cose da farsi qui, in onore del P. Cesari, nel riverire e nell' amare la memoria del quale non cede a veruno. Certamente Ravenna non mancherà di onorarne le spoglie in modo, che i presenti, e gli avvenire vedano il conto, che essa ne fa; e il modo, quando sarà stabilito, lo sapranno costi quelli, che a noi le amate spoglie piangendo ne lasciarono. Ella mi fa cortesissima offerta di sè, e della Casa sua, e le ne sono gratissimo, e se per avventura venissi a cotesta Città, che non sarà facil cosa, non trascurerei di giovarmene. Io le offero qui quella misera cosa, che mi sono io, e mi sarà sempre di contentezza somma, se mi farà vedere, che alla mia povera proferta ha fatto buona accoglienza. Alla sig.ra Sua Madre La prego di tanti ossequj per mia parte, e con tutto l' animo mi dico— dev.mo ef aff.mo serv.e d. Pellegrino Farini R.

Revenna, 26 novembre 1828.

Ornatissimo Sig. Professore—La grande dottrina ond' Ella è adorna non può essere disgiunta dalla cortesia. Però non mi terrà certo soverchiamente ardito, se essendo io poco noto mi ardisco di scrivere a Lei, che è tanto chiara e pregiata. Ancora mi dà fidanza il pensare che gli uomini di lettere comechè disugali di valore, e di diverso paese, pur si deono considerare cittadini della medesima repubblica, e che io le arreco questo fastidio per il bene della lingua nostra, che è il solo vincolo che congiunge noi altri italiani, che la natura volle fratelli e la fortuna tien separati. Oltre a che come è debito di umanità che il più forte richiesto non neghi ajuto al più debole, così i dotti deono rischiarare co' loro consigli ed ajutar quelli che poco sanno, e desiderano di sapere. Laonde avendo proposto alcuni miei dubbi intorno all' uso della voce lusinga e del verbo lusingare in una nota che apposi all'ingegnoso discorso del chiarissimo abate Colombo, sul modo di arricchire la lingua senza alterarne la purità, ed avendo letto nelle sue dotte e graziose osservazioni al Vocabolario di Bologna, che Ella nè approva, nè disapprova al tutto il parere di quel valent' uomo, mi fo sicuro di inviarneli, perchè mi sia cortese di volerli esaminare, e di poi farmi aperto il suo avviso. Il quale, quando Ella avrà considerato le ragioni e gli esempi per me allegati, sento quasi di dover sperare che non debba essere opposto al mio; e l' accerto che se ciò avvenisse, io ne trarrei non poca gloria, e ne prenderei grande allegrezza. Che non mi procurerei al certo piccola lode se io, svolgendola dalla sua prima sentenza, la riducessi ad accordarsi meco in cosa pertinente alla nostra favella, nella quale ella è sì profondamente dotta; e mi godrebbe l'animo d'aver ancor io, benchè in sì piccola parte, dato opera a mantenere il suo patrimonio a quella lingua che tanto amo, e mai cesserò di studiare. Ma temo non mi abbia così a meritare nota di audace, come ella mi crederà certo audacissimo vedendo ch' io sono ardito d' inviarle anche la mia versione di una orazione di s. Basilio, che detti fuori non ha guari. Ed io quanto so e posso la prego a non dover far di me sì brutto giudizio, ed a tener per fermo che la nota al discorso del Colombo io la invio a Lei come ad uno dei più sicuri oracoli delle cose della lingua nostra e che le mando questo mio volgarizzamento solo perchè non mi penso altrimenti potere mostrarle la stima e la venerazione ch' io le porto, e l' osservanza mia verso di Lei, e senza più tutto me le professo e me le raccomando. —Devotissimo obbl.mo servitore

Napoli, 2 dicembre 1829.

marchese Basilio Puoti.

25 Luglio [1838].

Reverito e caro signor Ranalli.—Non ebbi le cose da lei mandate al Farvalloni: però è stato un santo pensiero di rimandarmene copia colla sua carissima dei 9; e gliene rendo grazie cordialissime. Mi è venuto gran desiderio di vedere i discorsi di Monsig. Mai, e l' ottimo bibliotecario mi ha promesso di farli venire. È una consolazione per me che quell'eccellente uomo non mi abbia dimenticato; e la prego di fargliene molti ringraziamenti. Io sto sempre aspettando di vedere effettuato quello che da un pezzo mi dice l'animo, ed ora dicono i giornali, di vederlo cardinale. Egli non ne ha bisogno; ma sarebbe un bene per molti[1] Il celebre ab. Angelo Mai fu eletto cardinale nel 1838; e morì nel 1854 d' anni 70..

Dal nostro monsignor Muzzarelli non ho avuto lettera; ma solo l' elogio del Pindemonte: e la prego di riverirmelo e ringraziarlo moltissimo. Che fa la gentilissima signora Maddalena? quanti figli ha? son molto grato a lei e al marito della ricordanza; e sempre ho desiderato loro ogni prosperità.

Si aspetta il cav. Toschi da Torino, dov' è da sei mesi, a disegnare il ritratto del Re, che deve incidere. Non mi maraviglio che in Milano non si lasci stampare del Cuoco[2] Lo scrittore napolitano Vicenzo Cuoco, nato il 10 ottobre 1770. Il quale avendo preso parte ai moti politici, fu imprigionato, condannato ed esiliato. Morì nel 1823, e lasciò fra l'altre cose un Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli che fu stampato a Milano nel 1801, al quale forse accenna il Giordani nella presente lettera.: si sarebbe potuto provare a Napoli: ma trattandosi di cose napolitane, vi farebbero le stesse difficoltà! Si vorrebbe un silenzio di morte dappertutto. Hanno in Roma romantici e romanticismo? Milano n'è pieno; e qui è entrato dappertutto, ne si trova altro. Addio, caro Ranalli; l'abbraccio e ringrazio di cuore, e voglia non dimenticarsi il suo aff.mo servitore

Pietro Giordani.

Preg.mo Signore,—Una malattia (la quarta da me sofferta in quest' anno) mi ha impedito infino ad ora di rispondere alla lettera di V. S.: ed anche al presente lo fo con istento per la estrema debolezza nella quale mi trovo. Come mai è possibile ch' io mi dimentichi, di Lei, la quale è sì meritevole d' ogni considezione, e da cui io sono stato sì gentilmente favorito d' una sua visita quando Ella passò per Parma? Ora poi la terrò più che mai nella memoria pel nuovo favore da Lei fattomi di mandarmi que' suoi tre eleganti componimenti che mi recò monsig.r Muzzarelli. Io me gli ho letti con infinito piacere, e n' ho avuta cagione di ammirare la felicità del suo ingegno e il valore della sua penna. La Repubblica delle lettere ha fatto di gran perdite in questi ultimi anni, ma essa ha grandi speranze, e molto bene fondate, di vedersene ben presto da un buon novero di eletti Giovani pienamente risarcita.

Io non posso altro che ringraziarla, come io fo con vero sentimento di gratitudine, della bontà con la quale Ella riguarda questo miserabile vecchio[1] Era in età di 88 anni, e morì nell'anno 1838., ed assicurarla di quella stima con cui mi pregio di essere di Lei, preg.mo Signore, dev.mo ed obbl.mo servitore

Michele Colombo.

Di Parma, a' 6 di ottobre 1835.

Note[1] L'indirizzo esterno sulla busta è scritto così: Onorevole Signore | Cav. re Ab. te Giuseppe Manuzzi | Firenze | Borgognissanti,, 50.

Roma, 26 Giugno 1875.

MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE GABINETTO PARTICOLARE n. 2779 Riservata

Molto pregiat.mo Signore[2] Curioso, per non dir altro, il molto pregiatissimo signore in una lettera d' un ministro d' istruzione come il Bonghi! Ma la lettera ha solo la soscrizione autografa e qualche ritocco in due o tre parole.—Piacque alla Maestà del Re di commettere allo scultore Balzico di Napoli una statua equestre che ad onorare la memoria dell' augusto fratelle il Duca Ferdinando di Genova dovrà erigersi in una pubblica piazza di Torino. L' artista con ardito concepimento scelse per l' opera sua il glorioso episodio della Bicocca, e proprio il momento nel quale cadutogli sotto il cavallo mortalmente ferito, il valoroso duca non cessa di inanimire coll'esempio e colla voce i soldati alla pugna. Il lavoro felicemente condotto, si trovò degno di essere fuso in bronzo, ed Ella potrà vederlo costà quando Le piaccia nella fonderia che ebbe capo il Papi. A compier l' opera non mancano ora che le due iscrizioni da apporre nella base del monumento; e per questo volle la prefata M. S. affidare a me la scelta della persona, adatta per ogni rispetto a far cosa degna del soggetto nobilissimo. Io avrei per ciò posti gli occhi sopra la S. V., la quale già donò all'Italia esempi di stile epigrafico tali, che il Muzzi ed il Giordani non avrebbero rifiutato.

Confido che la S. V., con la ben cognita sua cortesia, accetterà di lieto animo l' incarico di comporre le due iscrizioni anzidette[1] Il Manuzzi accolse l'invito e compose le iscrizioni seguenti, le quali vengono stampate, forse ora la prima volta, secondo l' autografo. S. a r. il principe Ferdinando di Savoia duca di Genova alla battaglia della Bicoca presso Novara nel 1849. Il quella fatale giornata il Principe ebbe due cavalli uccisi, ed uno mortalmente ferito. Il valoroso Generale, nulla curando la propria vita mentre scende da cavallo, anima le reliquie delle sue milizie ad una disperata, e pur troppo inutile difesa, proseguendo, a piedi, alla testa della medesime. Il cav. prof. Alfonso Balzico di Napoli scultore della r. Casa immaginò e modellò, Clemente Papi fuse in bronzo per commissione di s. m. il Re., e in questa fiducia Le porgo fin da ora i miei ringraziamenti sinceri. Mi creda tutto suo.

dev.mo
[Ruggero] Bonghi.