VERSI
DI
ERMINIA FUÀ-FUSINATO



VERSI
DI
ERMINIA FUÀ-FUSINATO

SECONDA EDIZIONE
CON AGGIUNTE DI POESIE INEDITE

MILANO
LIBRERIA DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE
DI PAOLO CARRARA
1879

Il sottoscritto editore milanese crede inutile mandare innanzi a questo volume dei Versi di Erminia Fuà-Fusinato una nuova prefazione, sicuro che quella premessa dall'Illustre Marco Tabarrini alla edizione fiorentina e il nome solo dell' Autrice bastino a raccomandare la presente accurata edizione nella quale furono aggiunte molte poesie tuttora inedite.

Milano, 1.°ree; novembre 1879.

Paolo Carrara.

Allor che l'alma mia È vinta dal dolor, Perchè men triste sia, Volo in mezzo a' miei versi ed a' miei fior. Non v'ha sconforto o noia Ch'io non oblii fra lor; Provo ineffabil gioia Quando son fra' miei versi e fra' miei fior. E s'io vivessi sola, Sola col mio dolor, Una gentil parola Avrei pur da' miei versi e da' mìei fior. Se nel giardino assisa Leggo il divin Cantor, L'alma s'imparadisa Di que'versi all'incanto e di que' fior. Miei fior! miei versi! oh come E quanto v'ama il cor! No, di gentile il nome Non s'addice a chi sprezza i versi e i fior. Pompe non ha la terra Ch'io non posponga a lor: Ai grandi si fa guerra. Non a me che ho soltanto e versi e fior. Rapire a quei felici Può il mondo ogni tesor. Posson morir mendici Senza un verso pietoso e senza un fior: Ma del destino avverso Io sfiderò il rigor, Finchè mi suoni un verso. Fin che m'assenta il suo profumo un fior. Perfin mi parrà bello Di morte lo squallor. Se sul modesto avello S'incida an verso, si deponga un fior.

Padova, 1852.

Festoso ogni augelletto Batte l'ali d'intorno, E tu che fai soletto Sull'umile veron del mio soggiorno ? Ogni mattina, all'ora Che dalle piume io sorgo, Col raggio dell'aurora Sulla finestra mia posar ti scorgo. E col dolce garrir, Augelletto gentile, Par tu mi voglia dir: « Sorridi, o giovinetta, ecco l'aprile! » Ma quando la mia mano Carezzarti vorria, Per qual terrore arcano T'involi ognor dalla finestra mia? Schiavo non vo' già farti; Desio mi prende solo Di più presso mirarti…. Augelletto gentil, ferma il tuo volo! E fuggi ancor?… Perchè?… Arresta, arresta i vanni; Erminia al par di te, Augelletto gentile, odia i tiranni!

Padova, 1852.

Sono cieco! ognor m'aggiro Fra una notte interminata; Prego invano, invan sospiro… È la luce a me negata! E mi dicono che il sole Fa sorrider cielo e terra, Che le rose e le viole Col suo bacio egli disserra; Che nell'ore, in cui si stende Sovra il mondo un bruno velo, Un più mite astro risplende E inargenta terra e cielo; Che, lucenti pellegrine Per le vie del firmamento, Nello spazio senza fine Van le stelle a cento a cento; E mi dicon che la stella Più lucente del creato, La più cara, la più bella, È la terra ov'io son nato. Purchè fossemi concesso Di poterla contemplar, Vista e vita al punto istesso Sarei pago d'immolar.

Padova, 1852.

Quando creava l'iride, Arra di pace e oblio, Mandò dal ciel fra gli uomini, Di lor pietoso, Iddio Queste sorelle gemine Che il soffio suo vestia Di sembianze angeliche: Musica e Poesia. Venner — le genti attonite Arsero ad esse incensi, E degli umani parvero Farsi più miti i sensi. Tutto il creato il magico Influsso lor sentia, Nè a noi più s'involarono Musica e Poesia. Furon conforto al misero Nel dubbio e nel dolore; Ne' fieri petti accesero Fede, virtù, valore: Le forti geste ai secoli Col metro e l' armonia Eterne tramandarono Musica e Poesia. Fra quante terre stendonsi Dall'uno all'altro polo Han prediletto l' italo Bello e infelice suolo. Tesori qui profusero Non mai concessi in pria, E qui lor tempio alzarono Musica e Poesia. Di sovrumane imagini Creatrice sublime, Dal più profondo pelago Alle più eccelse cime. A te risponde un fremito Che l' universo india E al cielo erge lo spirito, O vergine Armonia. Oh! quante volte a piangere Mi sforza un mesto suono, Quante al pensier ridestami Glorie che più non sono!… Or mi solleva a splendidi Sogni la fantasia, Or sensi malinconici M'infonde l'Armonia. Quando al giocondo raggio Del mattutino albore Dei più soavi palpiti Batter mi sento il core, Quando mi vien col vespero Una tristezza pia. Sempre t'invoca l'anima, Divina Poesia! Vieni, deh! vieni, ispirami Caldo d'affetti il canto; Meco dividi il giubilo, Meco t'effondi in pianto; Togli pietosa i triboli Che scontrerò per via, Fammi sperare e credere, Divina Poesia! A noi, cui tante glorie Vieta il destino avverso, Oh! resti almen quest'ultima Dell'armonia, del verso! — Scorda l'esilio il profugo, L'oppresso i ceppi oblia, Se a lui benigne arridono Musica e Poesia.

Padova, 1853.

Ecco il sol che s'allontana, Ecco il giorno che scompar; Già del vespro la campana S'ode mesta risuonar. In quest'ora che agli affetti Dolcemente schiude il cor, Corron tutti i fanciulletti Alla madre, al genitor. Noi…. siam soli! Il sen materno Che al dolor ci partorì, D' ignominia un marchio eterno Sulla fronte ci scolpì. E in quest'ora che agli affetti Dolcemente schiude il cor, Per chi mai questi reietti Offriran voti al Signor? Oh sì! preghiam pei miseri, Cui la sventura opprime, Per tutti lor che, esempio Di carità sublime, Al povero e deserto Capo del trovatel Hanno l'asilo aperto D'un benedetto ostel. Preghiam per lei che figlio Il figlio suo non chiama! Forse, di noi più misera. Essa lo cerca e l'ama…. Forse, nell'ora istessa Ch'ei la sospira invan, Prega, deserta anch'essa, Pel figlio suo lontan. Sì, prega, o madre! e il fervido Suon della tua preghiera Tu pur confida ai placidi Silenzî della sera; Congiunte in una speme Le nostre anime allor, S'incontreranno insieme Nel bacio del Signor!

Padova, 1853.

Quando l'angiol della vita M'animava del suo spiro, Una stella è pure uscita Sulle volte dell' empiro; A vegliar la verginella Fu creata quella stella. Col suo raggio ella discende Nei recessi del mio core, Il mio giubilo comprende, La mia speme, il mio dolore, E, « Non pianger — mi favella — Finchè brilla la tua stella! » Quando il cor si sente stretto Da mestizia alta e profonda, Un leggiero nugoletto D'improvviso la circonda; Ed allor nel cielo anch'ella Par che pianga la mia stella. Ma se l'alma s'abbandona Alla speme ed al sorriso, La mia stella s'incorona D'un fulgor di paradiso, Ed allora oh come bella Mi risplende la mia stella! Quanto l'amo!… E mane e sera Dal profondo del cor mio Questa fervida preghiera Io sollevo infino a Dio: « Deh! la vita ognor m'abbella Col mio amore e la mia stella! » Quando il cielo è seminato De' suoi mille astri vaganti, Su quel mare interminato Di pianeti sfavillanti Io la timida fiammella Cerco sol della mia stella. Sia che il sole il mondo investa Ne' suoi vortici lucenti, Sia che scorra la tempesta Sulle fosche ali dei venti, La romita verginella Vede sempre la sua stella. Mesti cantici d'affetto Col suo raggio ella m'ispira, Col suo raggio dal mio petto Fuga il demone dell' ira, Perchè, agli angeli sorella, Ama tutti la mia stella. Mentre gemo all'empia guerra Che da secoli lontani Tien divisa sulla terra La famiglia degli umani, Il bel dì che ci affratella M' impromette la mia stella. Niun ti vede, o stella mia, Tu risplendi a me soltanto; Niun comprende come sia L'amor nostro arcano e santo, E niun sa perchè più bella Brilli adesso la mia stella.

Padova, 1854.

ALL'ILLUSTRE POETA JACOPO CABIANCA (1) Il gentile Poeta battezzava col nome d'Erminia un nuovo Dianto (garofano) della sua bellissima collezione di fiori.

Quanto mi è caro e come Quel vincolo gentil, Che mi stringe col nome A un fiorellin d'april! Io d'un affetto istesso Tutti gli amava i fior; Te predilige adesso, O mio Dianto, il cor. Se nell'aiuola mia T'avessi, o fiorellin, Solo di te vorria Farmi ornamento al crin. Io ti sarei vicina Per quanto è lungo il dì. Dal vento e dalla brina Ti guarderei così. Ma se mi sei lontano, O prediletto fior, T' educherà la mano D'un vigile cultor. Presso il gentil poeta Che il nome mio ti diè, Sorte tu avrai più lieta Ch'io dar non possa a te. Pur senti, o mio Dianto: Quando Ei ti vien vicin. Armonizzando un canto Tra i fior del suo giardin, La tua corolla schiudi, O mio Dianto, allor E nel tuo sen racchiudi L'inno del tuo cultor. E se avverrà che in dono A me ti porga un dì, M'apprenderai quel suono Che dal suo labbro uscì.

Padova, 1854.

PER UNA FIERA DI BENEFICENZA A FAVORE DEGLI ASILI INFANTILI DI PADOVA

O bambini, o bambini, io v'amo tanto, E tanto caro mi discende al core Del vostro dolce favellar l'incanto E i vezzi ingenui e il virginal candore, Che vi guardo siccome Di mortal non aveste altro che il nome. Quando al cader d'una placida sera, Composti in atto reverente e pio, Vi ascolto mormorar quella preghiera Che chiede il ben de'vostri cari a Dio, Parmi che il ciel si pieghi Per udir più d'appresso i vostri preghi. Oh quanto v'amo! Se allor che il sorriso Ho sulle labbra e l'anima serena, Mi si affaccia un bambin che d'improvviso Sfoghi col pianto l'infantil sua pena, Una pietà infinita Mi stringe l'alma e a lagrimar m' invita. Ma se nell'ore che lo spirto oppresso Di dolorose fantasie m'inonda. Veggo repente comparirmi appresso D'un festoso bambin la testa bionda, Tutto che m'addolora Oblio d'un tratto, e torno lieta ancora. Se sul labbro dell'uomo il caro accento Odo di fede, d'amistà, d'amore, Pria quasi credo, ma poi lento lento Un freddo dubbio mi discende al core, Chè una parola santa Ahi! troppo spesso la menzogna ammanta. Ma se un fanciul mi parla e m'accarezza, Se i labbri suoi corre a posar sui miei, Tutta compresa da una pia dolcezza, « Tu m'ami — io grido — e mentitor non sei! » E con subito affetto Io pur lo bacio e me lo stringo al petto. Quando, dagli anni e dal bisogno affranto, Scorgo un tapin che mi domanda un pane, Pietà mi prende, ma nel core intanto M'odo suonar queste parole arcane: « Forse un antico errore Quel misero a scontar danna il Signore! » Ma se gemer talor veggo un bambino Fra le angoscie del freddo e della fame, Io maledico agli uomini e al destino, E grido al mondo: « Tu sei tristo e infame, Se a questa solitaria Lampada nieghi l'alimento e l'aria. » In quell'istante sol, nobile e grande, Sento un bisogno di dovizie anch'io, E l'ôr, che in stolte vanità si spande, Vorrei pur fosse tuttoquanto mio, Chè a quei diletti allora D'un dì miglior prometterei l'aurora. Ma se tant'ira e tal pietà mi desta Dei fanciulletti la miseria e il pianto, Più crucciosa non son, non son più mesta, Se volgo un guardo a quell'asilo santo, Ove ad essi dispensa Carità cittadina e tetto e mensa. E spontaneo dal cor m'esce un accento Le industri a benedir donne pietose Che, in nobil gara e generoso intento. Di ricche strenne e di leggiadre cose Recan l'offerta, in questa Di vera civiltà splendida festa. Ed io, fanciulli, che mal destra sono All'opere dell'ago più gentili, Poichè darvi non so più vago dono, V'offro, o fanciulli, questi versi umíli — Mi chiamerò felice Se il dono mio tutto il mio amor vi dice.

Padova, 1854.

Sì! non appena la mia giovin mente Comprese il gaudio, la speranza, il pianto, Un affetto mi vinse alto e possente Per questa ispiratrice arte del canto, E una voce secreta: « Canta, — mi disse, — tu sarai poeta! » E poetica un'onda e armonïosa Confusamente mi fremea nel core; Ed una stella fra le nubi ascosa, Un suon di vento, un augelletto, un fiore, Per eterei sentieri Il volo sospingean de' miei pensieri. Ma dietro i lampi della pronta idea Ritrosa e tarda la parola uscia; E poi che al mio pensier non rispondea L' incerto accordo della cetra mia, « Ardua — dissi — è la mèta…. Gitto la cetra, ch' io non son poeta! » Fu allor ch' io ti conobbi, e dal tuo labro M'ebbi il conforto di codesti accenti: « Non t'impauri il faticoso e scabro Magistero dell'arte; ai voli ardenti Dispiega pur le penne…. L'estro del canto dal Signor ti venne! » E poi che a lungo sulle dotte carte Avrai vegliato di color che sanno, E schiusi a te della difficil arte I molteplici arcani appien saranno, In più leggiadri suoni Scorrerà l'onda delle tue canzoni. » Siccome pellegrin smarrito e lasso, Che cerchi nelle tenebre la via, Manda un grido di gioia e affretta il passo Colla speranza e col vigor di pria, Se vede un fil di luce Che sul noto cammin lo riconduce; E così la tua provvida parola Fu il raggio che il mio cor pregava a Dio; Ed è per te che più fidente or vola La farfalletta dell' ingegno mio, Nè più sì mesto e scuro L' orizzonte m'appar del mio futuro. Or spero e canto — Oh! ma perchè i miei carmi S' informino soltanto al bello e al vero, La secura tua man stendi a guidarmi Fra i mille error di questo arduo sentiero, E la mia musa ispira Col vario suon della tua facil lira. Io l'amo, io l'amo il tuo limpido verso Ch'or sì lieta mi rende ed or sì mesta; L'amo, se il vuoi di lepidezze asperso, Se le glorie che fûro in me ridesta, Se a lagrimar m'apprende Sui tristi casi delle tue leggende. Sotto l'egida tua, vate gentile, Io canterò siccome il cor mi spinge, Del mio ciel canterò l'eterno aprile E il grande amor che a questo ciel mi stringe…. Tuo vanto fia se un giorno Suonerà il verso mio men disadorno.

Padova, 1854.

PROMESSA SPOSA

S'io vivere potessi a te d'appresso E fidarti il dolor che mi martella, Nel tuo conforto, nel tuo dolce amplesso Quanto la vita mi saria più bella! Ma se tanto dal ciel non m'è concesso, O diletta al mio cor come sorella. Serbami l'amistà che m'hai promesso Fra i gaudi della tua vita novella. Tu, che sai penetrar nel mio pensiero Come raggio di sole in limpid' onda, Mi vorresti narrar per qual mistero, Quand'io son lieta, il mio pensier sen vola Delle amiche allo stuol che mi circonda, E, quando mesta io son, sempre a te sola?

Padova, 1854.

— « Senti, sorella mia, Son tanti e tanti dì Che l'usata allegria Tutta da me fuggì. E la ragion funesta Voi tu saper qual' è? Che tu pensosa e mesta Non giuochi più con me. Dimmi, onde mai quel pianto, Que' tuoi lunghi sospir?… Dimmi, se m'ami tanto, Ciò che ti fa soffrir! » — — « Sì, t'amo, o mia bambina, Quanto si puote amar; Siedimi qui vicina, Tutto ti vo' svelar: Un giorno io colsi un fiore, Di cui più bel non v' ha, E da quel dì nel core Sempre il dolor mi sta. Cerco il sorriso invano, Non trovo che sospir…. Dio! questo fior arcano Quanto mi fa soffrir! » — — « Se un fior, sorella mia, Ti dà tanto dolor, Chè non lo gitti via Quel disgraziato fior? » — — « Gittarlo?… ei che d'incanto La vita mia vestì? Se vuoi che t'ami tanto Non mi parlar così! Con questo duol tenace Che mi conturba il sen Non scambierei la pace Del viver tuo seren! » — — « Se tali son le ambasce Di che t'inonda il cor, Insegnami ove nasce, Chè colga anch'io quel fior! » — — « Cara, quel fiore arcano Cespo non ha nè stel, E tu lo chiedi invano Se nol consente il ciel. Ma senti: i dì verranno Ben presto anche per te. In cui ti parleranno D'altar, d'eterna fè; Poi, supplicando il cielo Che arrida al tuo destin, La mamma un serto e un velo Ti comporrà sul crin. Bello dei fior più belli Quel serto a te parrà; Ma, se intrecciato a quelli L'arcano fior non v' ha, Lo togli dal tuo crine, Gittalo via da te; Quel serto è tutto spine, Quando quel fior non v' è! » — — « Ma s'io nol vidi ancora, Se il nome suo non so, Come fra gli altri allora Quel fior ravviserò? » — — « Senti! quel fiore arcano Quaggiù si chiama amor…. L'occhio lo cerca invano, Ma lo indovina il cor! » —

Padova, 1854.

PRIGIONIERO A JOSEPHSTADT INVIANDOGLI ALCUNI VERSI CHE MI AVEVA RICHIESTI

Itene, o versi miei, A quella solitaria alma cortese Che nel suo duol vi chiese, E per cui più leggiadri io vi vorrei; Ditegli che parola Di plauso mai non mi fu cara tanto Come la mesta e sola Che a lui vi chiama disïosi accanto, E, purchè un solo giorno Fargli men fosco fosse a voi concesso, Vorreste in quel soggiorno, Oblïati da, ognun, morirgli appresso.

Padova, 1854.

Perchè ognor mi ripeti, o giovinetta, Che noi fummo creati al duol soltanto? Tu, non anco trilustre, a ognun diletta, Tu, cui sorte e Natura arriser tanto, Chiami la vita, che conosci appena, Che angoscie non ti diè, d' angoscie piena? Oh! quel gioir che non si muta in duolo Fra le pompe del mondo invan lo speri! Volgi altrove lo sguardo, e allora solo Che alle cure muliebri ed ai severi Studî tu ponga un operoso amore, Avrai paga la mente e lieto il core. E perchè ti sia chiaro, o mia fanciulla, Come spesso quel ben che indarno implori, Più che tra gli ozî cittadini, ha culla Nella vita dei campi e fra i pastori, Odi la breve e benedetta istoria Che vive sculta nella mia memoria. Era il settembre — per gli Euganei colli, D'un rugiadoso velo inargentati, Dolcemente spiravano le molli Aure d'autunno, e via pei verdi prati Al sol nascente preludeva intanto Della giuliva allodoletta il canto. E noi fanciulle, in numeroso stuolo, Come sciame di vispe farfallette Che a un solo fior drizzan concorde il volo, Correvamo su e giù per quelle vette, Segnando un premio per colei che prima Ora questa toccasse, or quella cima. Così correndo ci vedemmo a fronte, Sugli altri tutti rigoglioso e bello Di vigneti e d'ulivi, ergersi un monte. Posammo alquanto, e con vigor novello Il piè volgemmo a quella vetta audace, Che del prossimo ciel sentia la pace. Qui, stanche dal cammino e dall'arsura, D'un ruscello movemmo alla conquista, E, pel monte vagando alla ventura, D'una casetta ci trovammo in vista, Che le bianche pareti avea vestite Dei serpeggianti tralci d'una vite. D'un tratto dalla rustica casetta Una voce di donna a noi venìa Che, improntata di grazia umile e schietta, Del cor scendeva a ricercar la via; E la sete, il disagio e i rai del sole Scordammo nell'udir queste parole: — « Benedetto colui che serba l'anima Eguale ognor, Nè col mutar della fortuna instabile Muta d'amor! » Era la Linda una fanciulla povera, Bella e gentil, Ed amava un garzon figlio del popolo Povero e umíl. » Un dì, la morte d'un annoso profugo Fama narrò, Che a Linda il nome e le ricchezze innumere Tutte legò. » Poichè fu ricca, le offrîr duchi e principi La mano e il cor, Ma col mutar della fortuna instabile Non mutò amor. » All'oscuro garzon figlio del popolo Ella s' unì, E il Signor, cui son cari e ricchi e poveri. Li benedì. » Benedetto colui che serba l'anima Egual ognor, Nè col mutar della fortuna instabile Muta d'amor! » — Tacque la voce e, mentre a noi commosse Dalla dolce armonia sorgeva in core Il desiderio di saper chi fosse Lei che cantava la canzon d'amore, Della casa s'aprì la porticella E donna ci apparì giovane e bella. Con quella cortesia che non s'impara, Entro ne addusse all' ospital suo tetto; In limpidi bicchier fresc'onda e chiara Per noi mescè sovra un umíl deschetto, E insiem ne offerse con solerte cura Le varie frutta che autunno matura. Due pargolette al suo grembial sospese Timidamente nascondeano il viso Fra le vesti materne, e la cortese, A noi rivolta con gentil sorriso, Dicea: « Queste angiolette e il padre loro, » Ecco la mia famiglia, il mio tesoro! » Le cercammo il suo nome e la sua vita: « Io porto il nome di Maria — rispose — Sono al mio Carlo da cinque anni unita. E son la più felice in fra le spose. Fin d'allora che gli occhi apersi al giorno Ebbi fra questi monti il mio soggiorno.» » Povera nacqui e povera ancor sono; Ma, purch'io viva a' miei cari vicina, Il nido mio non darei per un trono, Nè i miei fior per un serto di regina! Oh! ne' miei preghi io non domando a Dio, Fuor di queste, altre gioie al viver mio! » Tacque, ciò detto, e al sen le figlie strinse, Ambo imagine sua bella e verace — E noi partimmo; ma per lei mi vinse Un affetto sì pronto e sì tenace Che, fin ch' io vissi fra que' monti, a lei Eran sempre rivolti i passi miei. Quanto amore splendea ne' suoi grandi occhi. Allor che alle due bimbe in sulla sera Apprendea sull'altar de' suoi ginocchi Il primo suon dell'infantil preghiera, E stillava in quell'anime il primiero Senso che adduce all' immutabil Vero! Non sa di studî, ma dal suo linguaggio Non la diresti inculta pastorella; È in rozze lane, ma nel suo villaggio Più aggraziata non v' ha donna o più bella; È poveretta, ma il mendico ognora Riporta un pane dalla sua dimora. Quando mi tolsi a te, buona Maria, Il cor mi strinse un'ansia dolorosa; Oh! alla tua fosse egual la sorte mia, Oh! anch' io vivessi fra i tuoi monti ascosa Con la tua ricca povertà, che avanza Ogni tripudio che nel mondo ha stanza! Deh! non scendere in questa, angelo santo, Cerchia fatal di cittadine mura; Qui fra le colpe, le sventure e il pianto La tua si offuscherebbe anima pura; Soffri pure lassù per venti e gelo, Ma resta sempre sì vicina al cielo!

Padova, 1855.

A' piedi tuoi, di lagrime Riconoscenti asperso, Venga, o mia Santa, il povero Tributo del mio verso. Splende di tenue raggio L'estro che Dio mi diè, Ma lo ravviva il palpito Dell'amor mio per Te. Oh! la virtù ineffabile De' tuoi sublimi accenti, Oh! le tremende istorie D' occulti patimenti, Quanta nel cor mi destano Ira, dolor, pietà, E quanta fè nel libero Tempo che pur verrà! Per te, per te, con l'anima Quasi da me divisa, Tremo, dispero, supplico Colla fuggente Elisa; Gemo all' estremo anelito Del martire che muor, Maledico il carnefice Che insulta al suo dolor. Poi, curva sulle coltrici Dell' egra Evangelina, L'ultimo spiro a coglierne Il labbro mio s' inchina; E sulle penne agli angeli Parmi seguirla in ciel, Per invocar sui miseri L'alba d'un dì novel. E il dì verrà! — profetico È del tuo sdegno il grido; Rapido come folgore Corre di lido in lido, E un invincibil fremito Di prepotente amor Verso le inulte vittime Tutti sospinge i cor. Simile al suon dell'ultima Tromba, che a nuova vita Dal silenzio de' secoli L' ombre dei morti incita, Della tua voce il sonito A più sereni dì Il calpestato popolo Richiamerà così. Noi tutte, che a benefiche Opre il Signor dispose, Nel tuo pensiero unanimi. Madri, fanciulle e spose. Sotto la tua bandiera Noi moveremo il piè, Santa e gentil guerriera. Tutte a pugnar con te! Vincerem con le lagrime Le verghe e le catene, Apprenderemo ai despoti La voluttà del bene; Con l' Evangel dell'anima, Con la ragion del cor, Dissiperem le tenebre Del secolare error. Deh! cessi omai l' infamia Del pregiudizio stolto: Suggel dell'uomo è l'anima, Non il color del volto; Iniquamente oltraggia L'umanitade e il Ciel Chi posa il piè sul povero Capo del suo fratel. Veggo spuntar la splendida Ora del gran riscatto! Tutti son stretti gli uomini Tutti ad un solo patto! E del redento popolo La filïal pietà T'alza, o mia Santa, un tempio Nelle venture età!

Padova, 1855.

BALLATA

I.

A te, pensosa vergine, Che t'assidi sovente All' ombra malinconica Del salice piangente, Io narrerò siccome Esso dal pianto ha il nome. — Là dove il ciel di Napoli Splende d'un riso eterno E dentro l' onde specchiasi Del golfo di Salerno, Ebbe modesta culla Una gentil fanciulla. Nell' orticel, che l'umile Suo tetto circondava, Il dì che nacque un salice Il genitor piantava, Siccome monumento Di quel felice evento. Crebbero insieme — il salice I rami suoi stendea, Ed ogni giorno accorrere All' ombra sua vedea, Ognor più vispa e bella, La sua giovin sorella. Quando una sera, all'ultimo Raggio del sol morente, Come una dolce musica Udì sommessamente Salir tra ramo e ramo Queste parole: « Io t'amo! » Della tremante vergine Curvo ai ginocchi, Uggero Le rivelava il palpito Dell'amor suo primiero. E di quel casto amore Arse pur ella in core. E il confidente salice Sempre da quella sera, Come una dolce musica. Udia la lusinghiera Voce tra ramo e ramo Che ripeteva: « Io t'amo! » Ma passò ratto il gaudio Dei numerati istanti Che Dio concesse ai palpiti Dei giovinetti amanti. — Il genitor d'Elvira Cadde al suo prence in ira. Ahi sventurato! il vindice Del suo signor comando Della diletta patria Lo condannava al bando, E per pietà di figlia Elvira pur si esiglia. Oh! quanta fu l'ambascia Di quell' estremo addio, Che la toglieva ai placidi Gaudî del suol natio, Che distruggea l'aprile Di quell'amor gentile! Ma del pietoso esiglio Fra i duri patimenti Le confortavan l'anima Questi soavi accenti, Che Uggero profferia Il dì ch' ella partia: « Senti! ogni giorno al conscio Rintocco di quest' ora Visiterò il tuo salice, Quasi vi fossi ancora, Fino che il lieto giorno Spunti del tuo ritorno. » Come una pia reliquia Ella chiudeasi in core Questa solenne ed ultima Promessa del suo amore, Cara, segreta, e sola Speme che la consola.

II.

« Chi mi dona d'Italia un concento, Un sorriso dell'italo sol?… Oh quest'aere sì grave, sì lento, Non è l'aere del patrio mio suol! » Là ogni fiore racchiude un profumo, Ogni core un tesoro d'amor; Sulla terra dov' io mi consumo Langue il fior, non ha palpiti il cor. » Non v'ha estraneo che volga lo sguardo Al mio suolo, al mio cielo seren, E nol lasci pensoso e mal tardo, Benchè rieda al suo patrio terren. » O gran Dio, tu che fêsti sì bella Quella terra che tolta mi fu, Non voler che la tua verginella, O gran Dio, non la vegga mai più! » Il mio suolo è un' eterna armonia, È un sorriso divino il mio ciel…. Chi mi torna alla terra natia, Al mio salcio, al mio sposo fedel? »

III.

Un anno dopo, del tramonto all'ora, Sedeva Elvira al noto salcio appresso. Ma perchè a dirle ch' esso l'ama ancora Non torna Ugger come le avea promesso? Perchè afflitta è così? perchè di questa Ella si cuopre luttüosa vesta?… Ahi poveretta! sotto il ciel straniero Dal duolo affranto il genitor moría; Fra mille stenti, per lungo sentiero Orfanella alla patria alfin redía, Sorretta dal suo amor santo e profondo, Unico ben che le rimane al mondo. Ma quando, giunta al suo natal paese, Tutta fidente nell'antico affetto, D' Ugger che fosse trepidando chiese, Seppe sposo ad un'altra il suo diletto: Sì! ad altra donna la sua mano ei diede, Spergiurando così l'antica fede. Ahi poveretta! a che ti giova adesso Questo tuo cielo che invocasti tanto?… Nessun ti schiude un amoroso amplesso, Nessun ti terge il disperato pianto, E dovunque t'addita il tuo dolore Una tomba recente e un traditore. « Oh fosse qui — dicea la dolorosa — Qui fosse almen del padre mio l'avello! E notte e giorno con cura pietosa Lagrime e fiori spargerei su quello; Sul sasso che le sante ossa rinserra Più sola non sarei sovra la terra.» « Tutto che un giorno mi rendea contenta Il destino crudel me lo rapía; Questo salice sol, che mi rammenta Il più bel sogno della vita mia, Questo salice solo oggi mi resta, Memoria cara e insiem tanto funesta.» « Povero padre! Il giorno ch'io nascea Qui di tua mano l'arboscel piantavi, E allor che d'anno in anno esso crescea E me assisa alla mite ombra guardavi, Oh chi detto l'avría che in tanto duolo Conforto estremo mi sarebbe ei solo?..» « Sento che lenta lenta omai s'appressa L'ora suprema che anelando io chiamo….. Oh! morire potessi all' ora istessa, Nel loco istesso ov'Ei mi disse: io t'amo!— Almeno avrei l'estrema ora bëata Morendo a questo mio salcio abbracciata.» E Dio l'intese! — Un vespro assisa ell'era Presso il salcio, col guardo al sol rivolto, E a mano a mano che scendea la sera Sempre più bianca si facea nel volto, Finchè insieme pel fosco aere svanîro L'ultimo raggio e l'ultimo sospiro. —

IV.

È fama che quel salice I rami allor curvasse, E sulla cara esanime Pietoso lagrimasse. Sia favola od istoria Nol ti so dir, ma so Che da quel giorno il salice Piangente si chiamò.

Padova, 1855.

Dimmi pace in tua favella,
Pellegrina rondinella.

T˙ GROSSI.

Quante volte alla rondin pellegrina, Che trasvolava al mio tetto vicina, « Del tuo vate — io diceva — o rondinella, Dammi novella!» Ed essa al suono dell'inchiesta usata Raccoglieva la pronta ala spiegata, E parea dirmi con note giulive: « Ei canta, Ei vive! » Ma questa mane ai primi albôr redía Con tardo vol la rondinella mia…. Al flebil metro della sua canzone Schiusi il verone. « Perchè — le dissi, quand'io l'ebbi vista — Altre volte sì lieta ed or sì trista?» « Il mio cantor — rispose in suon di pianto — È in camposanto!» È in camposanto!… Oh allor che in primavera Tu riedi, sulla sua croce ogni sera Pòsati, e digli « pace » in tua favella, O rondinella! — Così anch'esso moriva, e così questa Stella d'amor, tanto soave e mesta, Dal pallido orizzonte scomparía D'Italia mia. Sovra la fossa del gentil Cantore Piangi, o Milano, ma del tuo dolore Il tributo non sia, non sia soltanto Inutil pianto. D'eterno monumento alla memoria Raccomanda il tuo lutto e la sua gloria, E insegna al mondo che i suoi grandi ancora Italia onora. Itali vati! se la vostra lira Del triste evento alla pietà s'inspira, Concordi offrite sull'altar funesto L'inno più mesto. E voi che quanto v'ha di grande e bello Fidate all'opra del divin scalpello, La cara imago che ci fu rapita Tornate in vita. E su quel marmo, che al Cantor diletto L'arte consacra e il cittadino affetto, Scenderanno a depor l'eterna fronda Bice e Ildegonda.

Padova, 1855.

Addio fanciulle! è presso L'irrevocabil giorno Che vi richiama alla città natia; Invano un altro amplesso Ed il vostro ritorno Chiede la disïosa anima mia. Deh! se così pur sia Come il destin lo vuole, Poichè v'amo cotanto, Delle meste parole Voi non fatemi colpa e del mio pianto; Chè in altra guisa il core Significar non puote il suo dolore. O Chiara! In te, gentile Decenne pargoletta, Cui presaga la madre il nome impose All'anima simíle, Oh! tutto in te m'alletta: Quelle grazie infantili e quasi ascose, Quelle luci amorose, Quell'ingenuo sorriso Che somiglia un sereno Raggio di Paradiso, Quella inscïenza d'ogni error terreno, E quella facil fede Che tutto bello e tutto santo crede. Oh! come al pensier mio Tu richiami sovente I primi dì dell'età mia fanciulla, Quando al mite desio Dell'anima innocente Bastava un bacio, una carezza, un nulla!… Quando presso alla culla Un angiol mi vegliava, Che preci ai labbri miei Ed al mio cor tante virtù insegnava! Oh! mia seconda madre, io ti perdei;(1) La mia avola paterna. Morte a noi t'ha rapita, E ognor ti piango con l'età fuggita. Vienmi accanto, Maria! Rimembranze funeste M'assalgon spesso, e allor più del giocondo Sorriso amo la pia Mestizia, onde si veste Il tuo bel volto — Oh! col tuo amor profondo Il doloroso pondo M'allevia, oh! mi favella Di conforto e di pace. Se mi chiami sorella, Il morso del dolor s'acqueta e tace, E, gaudio immenso e novo, Nel tuo core il mio cor tutto io ritrovo! È dunque ver che parti? Che da me lunge andrai, Nè udrò più il suono della tua parola?… Perchè, perchè lasciarti, S io t'amo or più che mai, Se ogni dolcezza il tuo partir m'invola? Deh! non volermi sola!… E tu, tu ancora, Elisa, Le devi esser compagna, Ond'io, diletta, da te pur divisa Più amaramente il passato ripiagna?… Chiara, Elisa, Maria, Quanto è triste per voi l'anima mia! A me non cal dei tanti Gaudî che il mondo appresta, Se quei gaudî nessun párte con me. Fuggo i fallaci incanti, Vivo romita e mesta Co'miei carmi, il mio amore, e la mia fè. Gran Dio! sol chieggo a Te Ch'ove la sorte amara Mi danni al pianto, almeno Io possa d'una cara Pianger talvolta sovra il conscio seno, E confidare a lei La breve istoria degli affanni miei. Che se, quai cose nove, L'anime pure e schiette Son fatte peregrine della terra, Se l'amore, che move Da quelle benedette, Tanta quaggiù felicità disserra E a questo amor fa guerra Un avverso destino, Che a noi le toglie e chiama Per un altro cammino, Il Ciel, pietoso a chi sospira ed ama, Ci lasci almen la speme Che presto e sempre torneremo insieme. Redite, a me redite, O bei giorni passati, Gioie tanto invocate e brevi tanto, Dolci sere fuggite In colloquî fidati, Quando, rapite da un ignoto incanto, Tutto che sa di pianto Sparía per noi dal mondo, E alla speme secura D'un avvenir giocondo L'alma s'abbandonava ingenua e pura, Mentre dal labbro, come Inavvertito, ne sfuggiva un nome!… Sogni fugaci! Ognora Del giorno che fuggia Men felice n'appar l'oggi e men bello. Perchè troppo talora Il nostro cor desia, Sconsoláti scendiam nel freddo avello. Ma Iddio che dopo quello Apre ai mortali eletti Altra vita migliore, Pose nei nostri petti La fè, la speme, la virtù, l'amore, Care guide e conforto Al viver nostro travagliato e corto. Chiara! se tu vedrai Illanguidir le rose Dell'aprile tuo primo ed innocente, Non pianger, ch'altre assai Più belle e più odorose Della vergine al crine Iddio consente. — E tu, Maria, turbata Se mai l'anima senti, Non disperar, ma credi Anche nei dì dolenti; E l'angiol, che ne'tuoi sogni intravvedi Di tanta luce adorno, Lo incontrerai sul tuo cammino un giorno. Elisa! a te s'appressa Forse l'istante, in cui Lascerai di donzella il dolce nome, E la tua madre istessa Baciando gli occhi tui D'un bianco serto ti ornerà le chiome. Ma di qual gioia e come Sovra ogn'altra beäta Sia la novella sposa Amante e rïamata, Il verso mio dirti non sa nè l'osa; Tu, Elisa, a me il dirai, Quando quel nome e quelle gioie avrai! Canzon nata d'amore, Nei mesti dì, nei lieti Suona nel cor delle tre dolci suore E ad esse ognor ripeti, Quante volte il vorrei, Tutto l'affetto e tutti i voti miei.

Padova, 1855.

Se a questa cetra, che silente or posa, Chieder potessi di letizia un suon, Tu avresti adesso, o giovinetta sposa, La più gioconda delle mie canzon. Ma poi che vano è il desiderio, accetta Quel voto almeno che mi vien dal cor: La vita, che invocasti e ch'or t'aspetta, Ti scorra eterna tra i profumi e i fior! Faro di luce ai travagliati umani, Astro che splende in procelloso mar, Amor ti schiude i suoi tesori arcani, Amor ti adduce all'invocato altar. Vanne, o felice! e se talvolta riedi Alle memorie dei passati dì, Un fraterno al tuo cor palpito chiedi Per la fanciulla che t'amò così.

Padova, 1855.

I.

Dio, qual notte d'orror!… Scroscia la pioggia, Romba il tuon cupamente, impetüosi S'urtano i venti scatenati, il fulmine Guizza e rompe le tenebre. Sconvolta È la natura, ed il suo fosco aspetto Alle lugúbri fantasie risponde Del mio pensier, che medita il tramonto Di un'altra inclita vita. Il cor mi batte Sotto tante memorie, e una penosa Foga d'affetti m'agita e domanda Lagrime e canti. — E sia! di pianto asperso T'offro l'omaggio del mio carme, o Silvio; Ma se la musa mia, povera musa, Librar secura non sa il volo, al core, Spirto eletto, dal ciel guarda e perdona!

II.

Ad un'antica istoria La fantasia risale; Sotto le vôlte penetra D'una prigion fatale E, d'un misero letto Curva sull'origlier, Contempla il macro aspetto D'un giovin prigionier. Dimmi, d'angusto carcere Nel tenebroso gelo Perchè mutato il tepido Sorriso del tuo cielo? Dunque l'affetto arcano Di patria in te punîr, Quando da lei lontano Ti trassero a languir? Oh! ma che val?… chiedetelo A Dante ed a Torquato, Perchè in retaggio al Genio Sempre il dolor sia dato; Scrutar non è concesso Le leggi di lassù…. Od esule od oppresso Visse chi grande fu. E più che in altri, in Silvio Potè la rea fortuna; Egro egli giace e all'anima Requie non trova alcuna; Niun che al suo letto assiso Vegli sul suo dolor, Che gli accarezzi il viso Col bacio dell'amor! Ai lunghi dì succedono Più lunghe ancor le notti, Turba febbril delirio I suoi sonni interrotti; Che se in fugace calma Posa un istante sol, A contristargli l'alma Torna più fiero il duol. Perch'ei sognava i rosei Del nostro sol tramonti, I nostri mar, la splendida Cerchia dei nostri monti, L'amplesso della madre, La sua casetta umíl, Le vergini leggiadre, I fior del nostro april. E poi che, desto, affacciasi All'agitata mente Con le perdute gioie Tutto il dolor presente, E ineluttabil s'alza A lui d'incontro il ver, Terribile gli balza Nell'anima un pensier. Truce pensier che, simile A visïon ferale, Con larve spaventevoli La fantasia gli assale, Che in maledetti accenti Tenta il suo cor così: « Esci da'tuoi tormenti, Tronca i tuoi foschi dì!» Ma nell'estrema angoscia, Ond'è quel cor turbato, Ecco due forme angeliche Scender si vede a lato; L'una raggiante in viso Regge una cetra d'ôr, L'altra con pio sorriso Stringe una croce al cor. Del prigioner s'assidono Al doloroso letto, Le coltri gli compongono Sull'affannoso petto. — Toccò la cetra l'una, L'altra la croce alzò, E per la vôlta bruna Quest'armonia suonò.

III. LA RELIGIONE

« All'odio la terra ti crebbe e al dolore, D'un serto di spine ricinse il tuo crin…. Oh! scorda la terra, ti volgi al Signore, Ei solo dei cieli ti schiude il cammin! « Se pensi a'tuoi giorni già liberi e belli, Non dir « Maledetto chi a me li rapì! » Perdona, perdona; son pur tuoi fratelli Color che infelice ti voglion così! « Deh prega e perdona! null'altro consola Siccome il perdono, siccome la fè; In mezzo ai tormenti non vive più sola Quell'alma che amore per odio rendè! »

LA POESIA

« Allor che il poeta dannato è al dolore, Un serto la Gloria gli posa sul crin. Se l'estro lo infiamma che vien dal Signore. Non sente le spine dell'aspro cammin. Oh canta l'istorie di giorni più belli, I grandi, i gagliardi, che morte rapì; Le glorie oblïate rammenta ai fratelli, E gloria novella t'arrida così. « Se un'alma deserta ravviva e consola Il genio dei carmi che il Cielo le diè, Oblia le sue pene, non vive più sola, Rinasce all'amore, rinasce alla fè.»

IV.

Discende al cor di Silvio La melodia celeste; I ceppi ei scorda, un'estasi Purissima lo investe; Spera di nuovo e crede, Crede in un Dio d'amor; Gli estri d'un giorno ei chiede…. Torna poeta ancor! Forte del suo martirio, Seren tra i lunghi affanni, Vide così travolgersi L'un sovra l'altro gli anni; Chè a quello spirto affranto Dolce conforto e sol Sono la prece e il canto Nel rassegnato duol. Libero alfine, il limpido Suo ciel rivide ancora, E ancor s'assise ai margini Della natia sua Dora; Ma quella vita stanca Che tutta al Cielo offrì, Qual fiaccola che manca Si consumò così. Grande infelice! Italia Mestamente commossa Di riverenti lagrime Onora la tua fossa; Mentre la candid'alma, Sciolta dal fragil vel, Vola a raccôr la palma Del suo martirio in ciel.

V.

È serena la notte — orma nessuna Del recente uragano omai non resta. Nell'azzurro de'cieli a mille a mille Splendon le stelle, e in mezzo ai fior nascenti Söavemente spirano le molli Aure primaverili. — Una celeste Melodia si diffonde infra i notturni Silenzî del creato, ed una voce Mite siccome il tremolante raggio Di quegli astri remoti, armonïosa Come il sospir di quelle aure, soave Come l'effluvio di quei fior, nell'alma, Da pie memorie affaticata, un blando Senso distilla d'insüeta pace. Ed io l'intendo questa voce! al trono Modulata di Dio, gli raccomanda I suoi fratelli e la sua patria. Oh grazie Spirto gentile! una profonda e lieta Speme m'affida, poichè in ciel recasti Il tanto amor che a questo suol t'avvinse!

Padova, 1855.

Quando alla Senna, eletta crëatura, Dell'arte nostra il molto amor ti spinse, Un senso d'ineffabile paura Il cor mi strinse. Temea che Francia con l'usata boria, Fredda al prestigio degli accenti tuoi, Sconoscesse il fulgor di questa gloria Che invidia a noi. Ma per te, così bella e sempre grande, O Francesca o Maria, Mirra o Medea, Forse gli applausi suoi, le sue ghirlande Negar potea? Quando il Genio che t'agita e t'ispira, Gli sguardi, i gesti, gli accenti t'apprende, Ogni cor che non piange e non t'ammira, Non ti comprende. Ma poichè sempre l'invida straniera Perfin nel plauso esser vuol prima o sola, Qui non compresa proclamò l'altera La tua parola. Qui non compresa? al doloroso oltraggio Rispondi tu! Se non di gemme un serto, Di' qual tesor di verecondo omaggio T'abbiamo offerto. Che se da fosche rimembranze oppresso Il tuo suol non sorrise a tale incanto, Di' che sogliono i mesti il gaudio istesso Tradur col pianto.

Padova, 1855.

(CALICANTUS PRECOX)

Mentre ogn'altro a lui vicino Langue e muore sotto il gelo, Solo un fior nel mio giardino Si dischiude sullo stelo; Questo fior, caro a me tanto, Vien chiamato il Calicanto. Nei dì lieti, quando il sole Vita suscita e colori E s'allegrano le aiuole Nel profumo de'lor fiori, Al tepor che lo feconda Solo ei mette qualche fronda. Ma al redir del verno, allora — Oh miracolo gentile! — Cade il verde ed ei s'infiora, Quasi fosse nell'aprile; Or chi piange l'altra spoglia, S'ei dà un fior per ogni foglia? Non hai duopo di cultura, Non t'offende il gelo, il vento: Qual chi trae dalla sventura E la vita e l'alimento, Tu così sui rami ignudi Sotto il vento e il gel ti schiudi. La tua tinta gialla e nera È pur squallida, è pur mesta; Mi ricorda una bandiera Troppo agl'Itali funesta…. Ma poichè sì dolce odori, Io perdono a'tuoi colori! M'han narrato ch'ogni fiore Un'istoria in sè racchiude Di speranza o di dolore, Di vendetta o di virtude, E la musa d'un cortese Già più d'una a me n'apprese. Ma del fior devoto al verno È l'istoria a me un arcano; Ne' suoi stami non la scerno; Nello stel la cerco invano; La richiesi a lui talvolta Ma non parla e non m'ascolta. Perchè in mezzo al gel s' infiora? Perchè forte e mesto è tanto? Dove nacque e come odora? Perchè il chiaman Calicanto?…. Chi narrarlo a me saprà, De' suoi fiori un serto avrà.

Padova, 1856.

I. IL CARNOVALE

POVERA

« È il verno, la stagion che al poveretto Addoppia l'ansie, la miseria, il duol, Felice ancor se lo ricovri un tetto, Se lo riscaldi un pio raggio di sol. Sola e vecchia la madre a me rimane, Che di fame e di freddo è là che muor, Poichè a darle non basta il fuoco e il pane La mercede del mio lungo lavor. Dalla stanzetta squallida e romita, Dove piango e lavoro, io chieggo al ciel, O che mi serbi quella cara vita, O che mi chiuda nello stesso avel! Perchè men grave la tua croce sia Io ti nascondo, o madre, il mio patir; Così a nessun l'oppressa anima mia, A nessun sulla terra io posso aprir! Mi fosse almeno in tanto duol restato Del mio povero Carlo il fido amor! Vana lusinga! lo chiamâr soldato, E si rinchiuse nel suo lutto il cor. Oh Carlo, oh madre!… Ma quai suoni? quale Infinito di genti ire e redir?… È il suono delle danze, è il Carnovale Ch'altri le gioie sue chiama a fruir. No! benchè al fondo d'ogni duol, non io Al fasto e al gaudio altrui sorgo a imprecar, Sol che non voglia, come il mondo, Iddio Questa povera afflitta abbandonar! »

RICCA

« È il verno, la stagion che seco adduce Lo splendor delle danze e dei piacer; Qual farfalletta a quell'allegra luce Me pur sospinge il giovanil pensier. Io l'amo il verno! Che mi cal se il suolo Più non fa pompa de' suoi mille fior, Finchè al mio crine ne riserba un solo L'arte che sfida l'invernal rigor? Che mi cale se il sol fulge men bello E un deserto di neve il mondo appar, Finchè m'è dato nel mio ricco ostello Un'eterna d'aprile aura serbar? Sì, lieta io sono! la fortuna al mio Nascer sorrise e i suoi tesor m'aprì, E se un gaudio è l'amore, oh! forse anch'io Saprò trovarlo questo amore un dì. Duolo alcun non provai — l'ora del pianto Per me pure suonar forse potrà, Ma il ben ch'or godo nella vita è tanto Che a quell'ora il mio cor creder non sa. Ed a che giova il limpido presente Con lugúbri fantasmi intorbidar? Godiam dell'oggi, chè all'umana mente Non è dato il futuro indovinar. Con tenace follia spesso il mortale Si crea gli affanni e si danna a soffrir; Bando ai foschi pensieri! è Carnovale…. Corriam le sue fugaci ore a gioir!» E così sempre! in un contrasto eterno L'onda si volge degli umani eventi: Se all'un di gaudî apportatore è il verno, È nunzio all'altro di dolori e stenti, Tal che spesso in un suon par si confonda Dei mesti il pianto e la canzon gioconda. Fanciulle avventurate, a cui la sorte Tuttequante largía le gioie umane, Non oblïate che alle vostre porte Batte il tapino a domandarvi un pane: La carità che fate al poverello Della vostra ghirlanda è il fior più bello.

II. OFFICINA E PALAZZO

POVERO

« Perchè innanzi a quest'umile officina Tanta pompa di lusso e di piacer? L'ozïosa opulenza a chè vicina Alla miseria dell'ignoto artier? Se de' miei pari medito la sorte, Forse tra loro il più felice io son, Ma se m'affiso in quell'illustri porte, Mi cruccia il doloroso paragon. Dunque quel grande, sol perchè dagli avi Uno stemma e poderi ampî redò, Trarrà splendidamente i giorni ignavi Fra gaudî che neppur fingermi io so? A lui l'omaggio di cento vassalli, L'onoranza de' suoi pari e l'amor, E conviti perpetui e caccie e balli E tutto che la mente alletta e il cor. Nell'ozio e nel piacer, come un dorato Sogno, la vita sua scorre così, E a me le assidue veglie e il pan sudato Nelle lunghe e penose ore del dì. Fino il fiore divin dell'intelletto Che al ricco apre ogni Bello ed ogni Ver, Spesso indarno è concesso al poveretto Che lo sente avvizzir nel suo pensier. E così l'arte e la scïenza anch'essa, Doppio dono che il mondo a noi negò, Sorgon barriera fra una gente istessa Che ad amarsi concorde il ciel creò. Tutto, tutto a costoro! e a noi talvolta, Negandoci il lavor, negano il pan…. Ma dunque il Dio che di lassù n'ascolta Dio di giustizia fia chiamato invan?…»

RICCO

« Allor ch'io sorgo dal morbido letto, Dove il sonno sovente imploro invan, Sempre innanzi mi veggo il bruno aspetto Di quel gagliarde e vigile artigian. L'incessante lavoro egli accompagna D'un festevole canto popolar: A mezzo il dì la sua fedel compagna Con lui divide il sobrio desinar. Sei dì lavora e, quando vien la festa, Con un'aria di schietta ilarità Rimuta la sua tunica modesta E a diporto co' suoi cari sen va. Oh! quai conforti in quella oscura vita Che pur taluno misera chiamò; Qui un vuoto orrendo, un'ansia indefinita, E là una pace ch'io trovar non so! Su que'volti abbronzati orma non stampa La gelid'ala della tarda età, Mentr'io, siccome moribonda lampa, Sento la vita che mancando va. Oh il sorriso che val della fortuna Se di nullo desío si nutre il cor?…. Se i molli ozî snervâr fin dalla cuna Delle membra e dell'anima il vigor?… Meglio, oh! meglio ignorar le vacue gioie Ch'anzi tempo la sorte a me largì, Se nel supplizio d'incessanti noie Mutar sì presto si dovean così! Oh chi potrebbe immaginar che assiso Dell'avita magione in fra i tesor, Invidio come un ben di paradiso Quella vita di pace e di lavor? » Così povero e ricco favella, Quando ignorano entrambi del par La virtù sì feconda, sì bella, Che ne insegna a compiangere e amar. A noi tutti la vita riserba Scarse gioie, infiniti dolor; Ma le impronte del duol disacerba Il compianto fraterno e l'amor. Vidi angoscie, che il povero ignora, Fra le pompe d'illustre magion, Vidi gaudî in meschina dimora Non concessi all'altero Epulon. Spesso l'oro non è che un orpello, Che ne occulta un tremendo soffrir: Deh! lo sappia chi al ricco fratello L'ore invidia d'un fatuo gioir. Quante volte anelando ad un bene Caro più finchè il vieta il destin, Non curiamo le gioie serene Che germoglian sul nostro cammin! Chi redò nome illustre e tesori Non li muti in penoso fardel, Ma di gloria novella s'onori Soccorrendo il mendico fratel. La virtù del lavoro ei comprenda Mecenate d'ogn'arte gentil, E la man generosa protenda All'impulso d'ogn'opra civil. Ed allor che il suo esempio fia scuola D'alti affetti e di nobile ardir, Chi gli volse un'amara parola Al suo nome saprà benedir!

Padova, 1856.

E perchè questo dì, dolce fratello, Che sì a lungo co' miei voti affrettai, Più non mi sembra avventuroso e bello Quale il sognai? Donde viene la tema e lo sgomento, Che mi stringono il core e d'una stilla Bagnano, che celarti indarno io tento, La mia pupilla? Al mio nascer, bambino io ti trovai Sorridente alla mia culla d'appresso, E al crescer nostro il nostro amor, lo sai, Cresceva anch'esso. Teco io vissi l'infanzia, e teco i primi Giochi e studî ho divisi, e i nostri petti Si aprîr concordemente ai più sublimi E santi affetti. Teco il mio cor, che non sa batter solo, Partía le gioie e gli parean più care, E m'erano con te l'ore del duolo Men lunghe e amare. Ma fanciul più non sei! ti chiama adesso A nuove cure il tuo nuovo destino, E ti dischiude a più severo incesso Altro cammino. Lunge forse n'andrai da questo ostello, Dove il tuo trascorrea viver giocondo; E chi sa dirmi ciò che a te, fratello, Prepari il mondo? Se un forte ingegno e un'anima serena Fosser soli dell'uom ricchezza e vanto, Non sentirei questa secreta pena Che informa il canto; E pel sentier, che un altro a noi diletto Con lungo studio e molto amor fornia, Io ti direi cou più giocondo aspetto: Fratel, t'avvia! Segui questa scïenza onnipotente Che tempo e spazio ed elementi vinse, Ed in fraterno vincolo ogni gente Concorde strinse. All'arduo studio delle sue dottrine Con tenace proposto t'abbandona, E un giorno forse ti vedrò sul crine Altra corona. Che se, tranquillo come tu lo sogni, Non troverai sovra la terra un porto…. Ma perchè ti sconfido or che abbisogni Sol di conforto? Spera, o fratello! di te stesso altero Sèrbati ognora, e ognor qual sei deh! resta; Vile chi per salir cangia il pensiero Come la vesta! Che se il mondo talor tristo e mal fido, T'appresti un giorno disinganni amari, Come colomba affaticata al nido, Torna a'tuoi lari. E allor saprai che per un cor ch'è solo Gioia al mondo non v'ha, non v'ha sorriso, Che valga mai la voluttà del duolo, Quando è diviso.

Padova, 1856.

ALLO STESSO(1) Questi versi scritti nel 1870 non sarebbero al loro posto fra quelli del 1856; ma, perchè collegati intimamente coi precedenti, si fece un'eccezione all'ordine cronologico del volume.

Dolce fratello mio! dopo lunghi anni Queste carte riveggo, e tu sei morto, Mentr' io la vita co' suoi novi affanni Ancor sopporto. Sei morto! e me sovra lontano suolo Teneva intanto la nemica sorte, Nè ti diedi un saluto, un bacio solo Pria della morte; Nè seppi mai significar col verso Qual rimanessi alla fatal novella…. Oh! quando il core in tanto lutto è immerso, Più non favella. Tacqui, ma vive ancor nel mio pensiero Di te la miglior parte, e di mia vita Con te la miglior parte in cimitero Fu seppellita. Or la mia gioia rassomiglia il fiore Che s'apre sulle tombe, e la mia pace È stanchezza che vien quando il dolore Vigila e tace. Dimmi. o fratello, l'armonia che attira Gli astri fra loro, attira anco gli spirti? O sogno è questo dell'alma delira Che vuol seguirti? Oh! se a me non rispondi e non conforti Della tua vista l'affannosa brama, Non crederò che mai tornino i morti A chi li chiama!

Firenze, 1870.

Alta è la notte, è fulgida ogni stella, Canta fra i rami il flebile usignuolo Mai la natura m'apparì sì bella… Ma il mio core, il mio core è oppresso, è solo. Dolce mestizia che mi tempri il duolo, Mia musa, mio conforto, mia sorella, Scendimi accanto con rapido volo, Parlami con la tua mite favella. Quando lunge tu sei, mi stringe il core Questa fatale, gelida tristezza, Nunzia (oh! fosse bugiarda) di sventura. Tu m'ispiri soavi inni d'amore, Le corde della cetra ella mi spezza…. Salvami da costei che n'ho paura!

Padova, 1856.

AD ARNALDO FUSINATO

Ero mesta, scorata, e a Dio rivolta Così, tutta piangente, io l'invocai: « O Signore, Signore, alfin m'ascolta, Concedimi quel cor che un dì sognai! » E quando gli occhi per la prima volta Malinconicamente in te fisai, Compresi allor che la mia prece accolta Era dal cielo, e per qual modo il sai. Dolce or s'è fatta la mestizia mia, E se negli occhi mi brilla un sorriso, Egli è un sorriso che mi vien dal core. Il creato è per me luce e armonia Poi che in terra m'aperse un paradiso Chi tutto move e tutto può: l'Amore!

Padova, 1856.

Poco ahi! poco di me forse tu sai, Se mi conforti di sì dolci accenti, E forse il tanto, ch'or per me tu senti, Gentile ossequio illanguidir vedrai. D'una raminga luccioletta i rai Ti sembrano talor stelle lucenti; Ma, se afferrarla nel suo vol t'attenti, Povero insetto nella man t'avrai. Pur, se qual mi prometti, a me concedi Quasi di padre l'indulgente affetto, Forse ognor mi vedrai quale or mi vedi. Chè questo amor, che solo non ragiona, Agli errori perfin del caro oggetto O non guarda, o non crede, o almen perdona.

Castelfranco Veneto, agosto 1856.

Se il dolor che ti strazia, o poveretta, Trova conforto nell'altrui compianto, A te ne venga, come il cor lo detta, Questo mio canto. Orbate madri cento volte intesi Plorar le gioie d'un perduto amplesso; Ma quella santa angoscia io non compresi Mai come adesso; Adesso che a me pur freme nel petto Ineffabil speranza, e una secreta Voce m'affida che il materno affetto Mi farà lieta. Ed è perciò che della tua sventura L'affannoso pensier sì m'affatica, E, più ch'estranea, il cor ti raffigura Sorella e amica. Perciò alla fossa, ove il tuo amor sta chiuso, Malinconica inoltro il passo mio, E un memore giacinto, a'tuoi confuso, Depongo anch'io. Quando dai marghi dell'Olona a questo Lido scendevi così lieta un giorno, Oh! chi detto t'avría che tanto mesto Fôra il ritorno? Chi detto avría che qui dove romita Sì tranquille e gioconde ore traesti, Qui la parte miglior della tua vita Lasciata avresti? Oh piangi pur! chè ben di pianto è degno Il duol che frange d'una madre il core, Quando vede rapirsi il primo pegno Del primo amore. Ma forse il ben che con la tua sepolta Temi per sempre nell'avel disceso, Dal Ciel pietoso una seconda volta A te fia reso. E se un giacinto la mia man depose Sovra la fossa della tua fanciulla, Verrò quel giorno a inghirlandar di rose La nova culla!

Castelfranco, agosto 1856.

A te straniera la mia musa un giorno Di conforto profferse una parola; Or, fida amica, al tuo lieto soggiorno Lieta rivola. E quel serto di rose allor promesso, E la più dolce d'ogni sua canzone, Della seconda tua angioletta appresso Ella depone. lo lo predissi che quel ben perduto Ti avrebbe un giorno ridonato Iddio, E con te il benedico or ch'è compiuto Il voto mio. Con più vivo desio, cara, t'aspetto A questo suol che di tue grazie abbelli, Onde ne' figli nostri il nostro affetto Si rinnovelli. E chi dirci potria che, gentil esca Di questi cari all'innocente core, L'amor nostro fraterno un dì non cresca Un altro amore? E, prima che a rapirci al loro amplesso La novissima suoni ora di morte, Vederli stretti non ne sia concesso In una sorte? Ma fra tanta letizia e tanta speme Della morte perchè surge il pensiero?… Deh! mi perdona, e ritorniamo insieme Al dolce vero. Caro, invocato, ma pur arduo, il sai, È questo incarco che il Signor ne diede, Chè figli di sè degni Italia omai Piangendo chiede. E se non cresca più gagliarda gente Che a Lei d'altri color vesta la gonna,(1) Si ricorda che questi versi furono scritti nella Venezia, dove sventolava la bandiera giallo nera, Colori esecrabili A un italo cor. Steril prega piuttosto eternamente Ogni sua donna. Ma tu m'intendi! tu con me dividi E con cento altre questo forte affanno, E desïando ai bei giorni sorridi Che pur verranno! Oh questa fede che per duol non langue, Che d'alte e generose opre è feconda, Nel cor dei nostri figli, anzi nel sangue Per noi s'infonda! E poi che saggi cresceranno e onesti, Alla patria ed a noi vanto e decoro, Giorni più degni noi vedrem di questi Sorger per loro. E se dai sogni di miglior ventura Finora ahi! non cogliemmo altro che pianti, Forse per essi l'avvenir matura Vittorie e canti. Oh se a noi pur nei tardi anni di vita Giungesse un raggio della nova luce!… Ma dove mai la fantasia rapita Dove mi adduce? L'avvenire è di Dio — mistico un velo A noi lo asconde — ma tu spera intanto, Poichè un angiol per te prega dal cielo, L'altro t'è accanto.

Castelfranco, agosto 1857.

IMITAZIONE DAL TEDESCO

Sul bianco marmo d'un romito avello Mezzo ascoso dai fior, Dove a pianger traea col dì novello Lida il perduto amor, A lagrima che un dì dalla pupilla Di quella mesta uscì, Cadde d'appresso rugiadosa stilla E le parlò così: « E non vergogni, o lagrima negletta, Di mostrarti vicin A me, perla brillante e prediletta Del nascente mattin? Non vedi qual m'irraggia e m'accarezza Tutto festoso il sol, Mentre te non avverte, anzi disprezza, Figlia oscura del duol? » Tacque l'offesa: al disonesto vanto E che potea mai dir?… Ma in quella un soffio d'aria a lor daccanto Passa come un sospir; E mentre l'una con le rapid'ale Disperde sull'avel, L'altra, d'affetto simbolo immortale, Seco trasporta in ciel. Chi m'assecura che quel soffio d'aria, Sceso così fra lor, Non fosse, o Lida, l'alma solitaria Del tuo perduto amor?…

Castelfranco, 1857.

LA MADRE ALLA SPOSA

Anco un bacio, o mia figlia, anco un amplesso Pria che all'ara d'amor tu volga il piede, Pria che all'uom del tuo core abbi concesso Di sposa il nome e l'immutabil fede. Al vederti partir, nè tu, ned esso, Ma Iddio soltanto quel che soffro vede, Ei che a compir tal sacrificio adesso Insperata virtude a me concede. Ma non pianger, mia figlia. — Oh! tu nol sai Che questo giorno, in un sì lieto e mesto, Dal tuo nascere io stessa, io l'invocai. erò che fin d'allora altro desio Non ebbe la materna alma che questo, Di vederti felice, angelo mio!

Castelfranco, 1857.

PEL NUOVO ANNO 1858

« Fa che stringa col nuovo anno, gran Dio, Quanti hai figli nel mondo un solo amplesso, E nel ricambio d'un fraterno oblio Vivan congiunti in un affetto istesso! » Tal era in questo giorno il voto mio, Quando dal vergin core, illuso anch'esso! Si sprigionava il fervido desio Incontro un ben che non ne fu concesso. Ma, poi che il disinganno a noi sol resta De' carezzati un dì sogni ridenti, L'unica prece ch'or sollevo è questa: « Se Italia mia d'ogni dolor vuoi stanza, A'suoi figli, o Signor, deh! almen consenti La virtù di soffrire e la speranza. »

Castelfranco, 31 dicembre 1857.

**(1) Che in un suo bello e gentile Sonetto mi rimprovera il lungo silenzio poetico.

Perchè da sì gran tempo è muto il verso, Mentre mi parlan tanti affetti insieme? Perchè il mio spirto, in altre cure immerso, Del doppio incarco or si conforta, or teme. Di sposa e madre nei pensier converso, Pur del paterno ostel desío lo preme, Ed oblia quante gioie ha l'universo De' suoi cari nel duolo o nella speme. Però, mel credi, allor che ti parea Questa mia musa neghittosa o morta. A me nuovi d'amore inni apprendea. Ma gl'inni appresi, mentre il figlio mio In dolce contemplava estasi assorta, Ridir non seppi che a suo padre e a Dio.

Castelfranco, agosto 1858.

SUL TEATRO DI CASTELFRANCO LA PARTE DI AZUCENA

Finora in meste fantasie racchiusa, All'agil trillo d'una facil gola Non volse mai la casalinga musa La sua parola. Ma poi che sovra le tue labbra intese Sonar sì vero e appassionato il canto, Di quest'arte gentil per te comprese Tutto l'incanto. E non l'incenso d'un bugiardo omaggio Per te domanda alla ritrosa lira, Ma un plauso t'offre nell'umíl linguaggio Che il cor le spira. Oh! quando ne'tuoi grandi occhi balena L'odio che informa il tuo selvaggio accento, Al fianco tuo sulla temuta scena Tratta mi sento. E il tremendo ruggir della tua voce Così dentro nell'anima mi scende, Ch'io divido con te l'ira feroce Che sì t'accende. E gli affannosi fremiti divido Delle tue fosche rimembranze, e il core Par mi si rompa nel materno grido Del tuo dolore. Santo dolor, che nel tuo volto infinto Non sembra no, ma al guardo mio rivela Quanto di madre impetüoso istinto In te si cela. Oh! quando l'arte si presenta a noi Sotto sembianza così bella e grande, Si profondano pure a'piedi suoi Plausi e ghirlande. E anch'essa allor la casalinga musa All'arte volge, più che all'agil gola, Benchè in dolenti fantasie racchiusa La sua parola.

Castelfranco, settembre 1858.

Allor che ogn'altro gaudio La giovinetta ignora, Volge serena e placida De'giorni suoi l'aurora; E infin che il primo fremito Non la scuote d'amor, I miti affetti bastano Ad appagarle il cor. Non la togliete all'estasi Della sua facil fede Per trarla quasi vittima D'ara non chiesta al piede! Lieta dell'oggi, inconscia Dell'incerto avvenir, Vive, e non sa l'ingenua Che cosa sia soffrir. Ma è legge irrevocabile Che quanto il mondo chiude, Tutto l'arcana e provvida Senta d'amor virtude; Ed essa pur la vergine Creata per amar, Apprenderà quel palpito Che non si può scordar. Allor le pie memorie De' gaudî primi e santi Come larve fuggevoli Passano a lei davanti; Nel dolce ostel, nel tempio, Nel duolo e nel piacer, Non vede che una imagine Non serba che un pensier. Oh! ma se il fato e gli uomini All'amor suo fan guerra, Non troverà che triboli La poveretta in terra, E quasi colpa avvolgere In tenebroso vel Ella dovrà quel palpito Cui benedisse il Ciel! Sì, sventurata! ascondilo Il tuo dolor profondo: Perchè sei bella e giovane Lieta ti vuole il mondo; Ei che i tuoi fieri spasimi Chiama follie del cor, Vuol ne'tuoi sguardi il giubilo, Vuol sul tuo crine i fior! « Di che ti lagni? mèndichi Un pan forse, od un tetto? » « No! ma mi strugge l'ansia D'un contrastato affetto » « Oblia!…. Altre obliarono! » « Chi oblia mai non amò! » « Amor?… vano fantasima Cui la ragion dannò! » Oh la ragion! sagrifica A questa Dea di gelo Quanto d'ardente e libero T'ebbe concesso il Cielo! Senza illusione e palpiti Mi saprai dire un dì Quai gioie e quali glorie A te la vita offrì. Lina! tu pur ascondere Nel travagliato core Dovesti un invincibile E combattuto amore, Ma il Dio che delle vergini Premia il dolor, la fè, Di tante angoscie il premio Ora concede a te. Non evocar le imagini De' tuoi passati giorni, Scorda che più quei placidi Gaudî non han ritorni; Che se dato rivivere Ti fosse in quella età Invocherebbe l'anima Il tempo che verrà. Dunque sorridi e slanciati Dove il tuo amor t'invita, E quando pur di lagrime Sia sparsa la tua vita, No non chiamarti misera, Fin che ti resta un cor In cui le sante effondere Malinconie d'amor.

Ottobre, 1858.

Se potè nel passato Italia nostra Chiamar perduto il gran libro per noi, Ora che ad essa la tua Musa il mostra Fatto più bello negli accenti suoi, A palesar come t'onori e t'ami, Non più perduto, conquistato il chiami.

Castelfranco, ottobre 1858.

Quando l'alma del sommo anglo cantore Fu tra i cherubi che descrisse in pria, Nel vederli pensò: Non fece errore Pingendoli l'accesa fantasia; Ma non somiglia il loro inno d'amore All'idïoma della patria mia: E a te rivolto « Oh! tu, disse, l'incanto Della favella tua dona al mio canto; Così l'accento avrò imitato anch'io Che degli angeli al labbro apprese Iddio! »

Castelfranco, ottobre 1858.

È veggente il Poeta! Or voi l'udite, Genti di poca fede: — Quel Dio, che ve la diede, Dissiperà l'angoscia in cui languite; Perchè tremar che il verno Ci perpetui il suo gelo? Perchè tremar ch'eterno Sul nostro ciel stendan le nebbie un velo? Arde tal fiamma del Poeta in core Ch'estinguerla non puote Di cento verni nordici il rigore; E mentre ne percuote Questa fatal bufera, Ei vede i fior di un'altra primavera, Vede sull'emisfero Il nostro italo sol splendere intero! —

Castelfranco, gennaio 1859.

DOPO LA PACE DI VILLAFRANCA

Angelo ignoto ancora e già sì amato Che nel mio seno palpitare io sento, Dimmi, provi tu pur tutto il tormento Onde mi strazia della patria il fato? Oh quante volte il pianto ho soffocato Per te, amor mio, che conturbar pavento! Ma poi quel pianto, come foco lento, Nel profondo del cor m'è ripiombato. E sia pur! così i nuovi itali figli Aborriran fin dal grembo materno L'empia che ancor su noi stende gli artigli. E questi, che il dolor lungo degli avi Ricorderanno e il mal patito scherno, Nel sognato avvenir chi terrà schiavi?…

Castelfranco, luglio 1859.

Ahi disgiunta da te! parola amara, « Amara tanto che poco è più morte! » Quei che l'avversa unì, perchè separa La lieta sorte? Dal dì fatal che il novo disinganno, O sorella, nel cor m'ebbe colpita, Trascino avvolta in un orrendo affanno L'egra mia vita. Come colui che da un'eccelsa cima Nel soggetto burron cadde repente. Resta attonito sì che alcun dapprima Dolor non sente; Ma poi, se tenta di rizzarsi e il piede Trova mal fermo e sfracellate l'ossa, Dallo spasmo crudel qual sia s'avvede La sua percossa; Tal fu di me, o sorella! — e piansi tanto Sull'estrema sciagura a cui m'han tratto, Che in terra e in ciel bastar dovea quel pianto Al mio riscatto. I fior strappai che m'avea posto in testa Nel santo giorno della gran promessa; Poi dell'antico mio lutto la vesta Mi son rimessa. Color che amarmi prometteano un giorno, Or mi vôlser le terga, e sola io sono: Ma ad altri infamia, a me non frutta scorno L'empio abbandono. Chè i miei figli più degni, ahi rimembranza! Quei che il braccio e la mente avean migliore, Io mi staccai nei dì della speranza Tutti dal core. E a sfidar li esortai nuovi perigli Là tra il furor delle irrompenti squadre: Ed ora oh dove son?…. poveri figli! Povera madre!…. O sorella, se alcun di quegli erranti A chiederti venisse un pane e un tetto, Deh! ricòrdati ancora i nodi santi Del nostro affetto. Ricorda i dì che fûr, quando il soave Vincolo ne stringeva, or mal reciso, Quando fino il servir n'era men grave, Perchè indiviso. Amami sempre! e se l'amplesso mio Non ti fosse per lunghi anni concesso, D'altre sorelle almen t'assenta Iddio L'atteso amplesso. Così in questo dolor, che non fia eterno! Più rassegnata aspetterò quell'ora, Che insiem con l'altre al tuo bacio fraterno Mi torni ancora.

Castelfranco, agosto 1859.

Eccoti là, sfinito, moribondo, Quasi anelando all'ultima tua ora, Anno fatal, che dalla prima aurora Trasalir fêsti e meditare il mondo.(1) Si allude alle parole rivolte il primo dell' anno da Napoleone III all'ambasciatore d'Austria. Di falsa speme e di dolor profondo M'hai colmo il petto che ne geme ancora; Pur, qual d'amico, il tuo partir m'accora, Perchè d'alti pensier mi sei fecondo. L'arduo retaggio tuo, fiero gigante Come raccoglierà l'anno nascente Che al tuo scettro inalzò la man tremante? L'ardir tuo lo avvalori e il tuo consiglio, Tal ch'io m'abbia da lui, se il Ciel lo assente, Una libera patria e un degno figlio.

**(1) Questi versi accompagnavano la bandiera che le signore patavine offrivano in dono alla Brigata Bologna, composta pressochè tutta di emigrati veneti.

A voi, gagliarda schiera, Delle venete madri onore e vanto, Questa sacriamo tricolor bandiera Che abbiam trapunta fra la speme e il pianto. Al par di voi furtiva, Quasi fuggente schiava, Ricovra adesso alla vietata riva; Ma quando tuoni ancora Delle battaglie l' ora, Come l'ignea colonna un dì guidava Il profugo Israello, alla promessa Terra vi guidi trïonfanti anch'essa!

Padova, marzo 1860.

Se fra questa di nomi aurea corona, Dove ogn'Arte, ogni Scienza addita un vanto, Il mio nome, che chiaro anco non suona, Oso intrecciare e il povero mio canto, Femminil vanità no non mi sprona, Ma un sentimento generoso e santo, Che, mentre nella mesta alma ragiona, M'inonda gli occhi d'ineffabil pianto. Agli esuli fratei che svolgeranno Questi fogli, dal cor mando un addio A cui forse dal cor risponderanno. E prego che una sola ora d'oblio Non li colga di noi, cui cresce affanno Della contesa libertà il desio.

A LORENZO PUPPATI

Poichè m'affidi che torni gradita Al figlio tuo che geme La ricordanza della sua rapita, « Parlarne e lagrimar m'udrai insieme, » Chè il duol che lo percosse, Nel profondo del cor me pur commosse. Povera Augusta! Non dovea, vestita D'un riso lusinghiero, Per Lei sì bella incominciar la vita, Se a vent'anni attendeala il cimitero! Morte forse è men dura Per chi nacque soltanto alla sventura. Riede memore ancor la fantasia A quella prima volta Che la mia mano alla sua man s'unia, Ed una gioia sì verace accolta Era ne'suoi bei rai, Che parea dir: non sarò mesta mai! Sol, nè il tacerlo più mi giova adesso, Mentr'io la riguardava, Un altro aspetto, oh quanto dolce anch'esso! Qual per incanto innanzi a me tornava: Era di giovin sposa Che d'oltre un anno nell'avel riposa.(1) Adele Foramiti Barisan, vero angelo di bontà, di rassegnazione e d'amore, rapita a' suoi nell'età di soli vent'un anno. E nel core la strana somiglianza Tosto gittommi un gelo. Ma chi dirmi potea che a Lei pur stanza Ahi così tosto! diverrebbe il cielo?…. Gioia, salute, amore Durâr per essa quanto dura un fiore. Pur se la vita le fu tronca, almeno Dalla funerea bara A un gaudio Ella passò che mai vien meno; Ma gl'infelici che l'avean sì cara Quando mai troveranno Fine non già, ma tregua al grave affanno? Forse tuo figlio può trovarla appresso Ai due poveri mesti Che il lor bene miglior gli avean concesso; E tu, Lorenzo, deh concedi a questi C' hanno patito tanto Di divider con Lui memorie e pianto. Nè dêi temer che quei deserti amando Men tu gli sii diletto. Amore è vita a cor che sente, e quando Virtù lo informa ad un pietoso affetto, Par che più arda e cresca, Siccome fuoco per novella esca. Così, mel credi, nello spirto afflitto Del tuo vedovo figlio, A poco a poco cesserà il conflitto Ch'or ti spaventa, e il tuo saggio consiglio E l'amor tuo potente A idee men fosche gli apriran la mente. E quando del dolor che lo funesta Non gli rimanga omai Che una memoria dolcemente mesta, « Oh mio buon padre, allor dirti l'udrai, Privo del tuo conforto, Nel dì ch'Ella moriva io sarei morto! »

Luglio 1860.

A MARIA PIA — LA VENEZIA(1) Questi versi furono scritti per una Strenna pubblicata a scopo di beneficenza e sotto gli auspicì di S˙ A˙ R˙ Maria Pia di Savoia, dall' Associazione filantropica delle donne italiane.

Regal Fanciulla, se al tuo santo invito Ogni terra d'Italia un fior t'offria, Questo fiore di lagrime nutrito T'offre la mia. Fior nol diresti di quel suol beato Che tanta di profumi aura ti manda, Ma nella mesta solitudin nato D'arida landa. Pur se sapessi con qual ansio affetto E notte e giorno al cespo suo vegliai! Dal nordico aquilone io col mio petto Lo preservai; Degli occhi miei gli fu rugiada il pianto, Se la rugiada gli negava il cielo; Del mio respir lo riscaldai, se affranto Era dal gelo. Così per lungo verno io lo contesi Alle assidue minaccie della morte…. Fu miracol d'amor, se alfin lo resi A men ria sorte. Nunzio di giorni avventurosi allora S'appressava l'aprile — ed al tepente Bacio del sol parve animarsi ancora Il fior morente. Quanto fui lieta! della vigil cura, Del molto duol, dell'incorrotta fede, Omai coglier credetti una secura Larga mercede. Ma fu breve l'april — la sferza estiva Su quel misero fior troppo infiería, E come lampa d'alimento priva Ei mi languía. Se al vederlo piegar sul gracil stelo Non tremai per quel fil tenue di vita, Tanta forza al mio cor certo dal Cielo Venne largita. Or sotto le autunnali aure riprese Una larva del suo prisco vigore; Ma del verno sfidar le nove offese Potrà il mio fiore? Qual madre inferma a provida nutrice Abbandona gemendo il caro figlio, Io così, perch'ei trovi aer più felice, Da me lo esiglio. E tu, Pia veramente e dolce e buona, Non isdegnar, bench'ei sia mesto tanto, D'aggiungere alla tua fresca corona Il fior del pianto. E confortato del tuo sguardo e appresso A più serene e libere sembianze, Chi sa che un giorno non ritrovi anch'esso Tinte e fragranze!

Dicembre 1860.

A MARIA SUA SORELLA

Sì! lo rammento ancor, dolce Maria. Quel giorno benedetto Ch'ospite festeggiata io mi venía Al tuo paterno tetto; E mestamente mi sovvien siccome Un carme ed il mio nome Per te m'ebbe richiesto Quel gentil che a lasciarci ahi! fu sì presto. Io gliel promisi, e tal promessa in core L'ho pur sempre guardata; Ma qual turbin d'eventi e di dolore Dopo quella giornata! Quante speranze che a noi fûro inganni, Quante miserie e danni Ci addussero a quest'ora, In cui sol per soffrir siam vivi ancora! E la musa, che al duol patrio risponde, Sulla ritrosa lira Tentava indarno le armonie gioconde Che l'amistade ispira; Ed indarno attendea, con l'agonia Di chi altrui colpe espía, Che col mutar dei fati Le fossero i suoi primi estri ridati. Non sapea che dell'oggi ognor più fosco Saría surto il domane; Che sì a lungo per noi di sale e tosco Saprebbe il nostro pane; Che quella meta, cui l'illusa mente Toccar credea sovente, Altro non fôra anch'essa Che un'oasi nel deserto invan promessa. Non sapea che quel tuo dolce fratello, Che abbandonava un giorno Fervido di speranza il fido ostello, A noi faría ritorno Dopo cinque anni d'aspettanza amara Entro funerea bara, A raddoppiarne il lutto Che su tutti qui impera e sovra tutto. Quanti argomenti di dolor n'appresta La sua morte immatura! Schietto e fervido core, anima onesta, Mente eletta e secura, Egli era tale — e perchè tale Egli era, Oggi l'Italia intera Le gramaglie ne indossa E si reca a plorar sulla sua fossa.(1) Molte fra le principali città italiane celebrarono i funerali di T˙ Ciconi poeta e autore drammatico reputatissimo. Ma più di me, o Maria, non v'ha chi intenda La tua doglia mortale, Chè una piaga ho nel cor del pari orrenda E piango un pianto eguale: Dal morbo istesso che l'ebbe consunto, Quasi allo stesso punto Che il tuo fratel moría, Moriva anch'essa una sorella mia. Tredici anni di vita, e tredici anni Contò di patimenti, Quando spiegò la stanca anima i vanni Al Dio degli innocenti…. Oh! se un premio lassù sperar ne lice Per chi visse infelice, Quale avrà in ciel corona Ella infelice tanto, e tanto buona! Emma, mia Emma, oh chi l'avria predetto Allor ch' io pur fanciulla Sol con un bacio, una carezza, un detto T' addormentava in culla, E nell'amarti presentiva il core Tutto il materno amore, Che non tu gli occhi miei, Ma chiudere que' tuoi dolci occhi io dovrei? Vedi, Maria! l'angoscia che ti preme Io pure or la sopporto; Deh! il nostro lutto confondiamo insieme E ne trarrem conforto, Sacro conforto che dai conseî avelli C' inspirano i fratelli, Cui questo duol tenace Conturba forse la suprema pace. Torna, afflitta Maria, nel camposanto, E curva sulla croce Che il cener guarda di chi amasti tanto, Digli con mesta voce: « Mentre di te piangea E l'amaro suo pianto al mio mescea, Memore e fida amica Scioglieva Erminia la promessa antica. »

Castelfranco, 1861.

**(1) La versione di questa e della seguente poesia è tratta dagl' Inni a Dio di tutti i tempi e delle principali nazioni, raccolti e in parte tradotti ed illustrati dal sig. Lorenzo Puppati.

CANTO DI FEDERIGO AMEDEO KLOPSTOCK. (LIBERA VERSIONE DAL TEDESCO)

Non io, non io m'immergo Nell'oceano de'mondi interminati, Non io sui vanni del pensier m'adergo Fra i primi enti creati, Fra i giubilanti figli della luce, Che Amore in fervid'estasi Ad adorar profondamente adduce! Solo intorno alla stilla, Che sull'orlo del vaso ignota brilla, A soffermarmi un pio desir m'invita. Osanna a Dio! anche quest'umil goccia È dalla mano onnipotente uscita. Quando il divino Artefice Mondi creava e mondi, E torrenti di luce ampî e profondi Alle Pleiadi fûr principio e vita, Tu pur, modesta goccia, Sei dalla mano onnipossente uscita. Quando un torrente uscì come da un monte Di nubi e d'Orïon cinse la fronte, Quando di luce agglomerato vortice Al nostro sol diè vita, Tu pur, modesta goccia, Sei dalla mano onnipossente uscita. Qual nome han le mirïadi D'esseri impercettibili, operosi, Che fûro e sono in questa goccia ascosi? Ed io che mai son io? Osanna osanna a Dio, Poichè maggior mi sento Dei mondi ch'Ei plasmava e delle Pleiadi Che ingemmano di raggi il firmamento. E tu, figlia d'aprile Crisalide gentile, Cui d'oro e di smeraldo al sol risplendono Nel folleggiante vol le fragili ale, Tu vivi e ahimè! non sei forse immortale. Per inalzarti, o mio Signor, un canto Io sono uscito e non versai che pianto! Perdona anche alle lagrime Di chi perfetto nè felice è mai, Tu che ognora lo fosti e lo sarai. Tu che le oscure porte M'aprirai della morte, Tu schiarirai le tenebre Del mio chiuso intelletto, E allor saprò se un'anima Tu concedesti anche al dorato insetto. Primaveril crisalide, Se altro non fossi che organata polve, In polve pur convèrtiti Che per l'aura si sparge e si dissolve, O, per arcani tramiti Di Dio seguendo l'infallibil norma, Rivesti pure una seconda forma. Or voi, miei occhi, lagrime Ancor versate, ma di gioia e amore; E tu con lieti cantici Esalta, o mia fedele arpa, il Signore! Di palme redimita Di nuovo ecco risuona Sotto l'impulso delle conscie dita L'arpa che meco del Signor ragiona! Qui son — d'intorno a me fisso le ciglia E tutto è onnipotenza e meraviglia. Compresa d'ineffabile Reverenza la mente, il guardo io giro, L'ampio universo ammiro, Nè cerco più perch'ei sia tal nè come, Se lo creava quel divino Artefice Per cui lingua mortal non trova un nome. O molle aura balsamica, Che alle mie guancie ardenti Il bacio delle fresche ali consenti, Quel soffio avvivator chi t'ha largito? Ei fu il Signore, l'Essere infinito! Ma appena un languid'alito Or mandan l'aure, chè le infiamma il sole. Rapidamente elevasi Di dense nubi una rotante mole….. Sulla terra, ove a Lui tutto si prostra, Già discende l'Eterno, ecco Ei si mostra! Le nubi ecco s' aggruppano, Poi si stendon rombando cupamente; Fischiano i venti in turbinosi vortici, S'agita la foresta in suon gemente; Freme e si gonfia il flutto, E in tutto e dappertutto Visibil ne ti fai quanto è concesso….. L'Infinito Tu sei, sì Tu sei desso! S'incurva la foresta, Giù precipita il fiume spaventoso, Nè io chino la testa, O Dio misericorde, o Dio pietoso? Già ti sento vicino….. Grazia! di me pietà, Padre divino! Sei tu in ira, o Signor, perchè d'oscura Notte t'ammanti? Alla stanca natura Questa notte ridà calma e riposo….. No, adirato non sei, Padre pietoso! Essa si avanza, e di novel vigore S'avviva il grappo che ne allegra il core: Essa si avanza e sullo stelo adergesi Il grano rigoglioso…. No, adirato non sei, Padre pietoso! Al venir tuo, silenzio D'intorno si diffonde; Devotamente taccionsi Il ciel, la terra e l'onde; Intenta quasi ad ascoltar, sospendesi Fin la farfalla sulle immobili ale…. Forse chiude essa pure alma immortale? Glorificarti, esprimerti, Mio Dio, perchè non posso Tutto che sente questo cor commosso? Signor, sempre più splendido A noi ti mostri! intorno a te profonda Più la notte s'intenebra E più di benedette opre è feconda. Vedete voi la folgore Del Dio presente testimonio e prova? Udite per l'acceso aere prorompere Il tuono di Iehòva? Tuono di Dio, tremendo Scotitor della terra, io ben t'intendo! Signor benigno e grande, Dovunque il divo tuo poter si spande, Da tutti i labbri e i cori Sia esaltato il tuo nome, ognun t'adori! Soffiano i venti burrascosi e traggono Nel loro grembo il tuono: Come la selva scorrono! Come lontan ne romoreggia il suono!…. Tacciono alfine, e delle nubi il velo A poco a poco si dirada in cielo. Ecco novi e patenti Indizî che il Signor qua ridiscende: Già si schiudono un varco i rai lucenti, Già il tuon di Dio dall'alto ciel s'intende E il suo venir ne attesta….. Fuma, tocca dal fulmin, la foresta! Ma intatta sorge ancora La nostra umil dimora! Ad un cenno di Dio sul nostro ostello Passa e non scende il distruttor flagello. Già scroscia la benefica Pioggia ed i solchi inonda: Come tutta s'esilara E la beve la terra sitibonda! Que' benedetti umori Ravvivano le piante, i frutti, i fiori. Ecco Iehòva a scendere s'appresta Non più nella tempesta; Ei scende a noi nel fremito D'aure soavi — e sotto il divin piede L'iri di pace balenar si vede!

Castelfranco, 1861.

V˙ Mines d'Orient.

VERSIONE

A te che sì l'inebrii offro il mio core, A te l'anima mia, Diva Bellezza; E'l sacrifizio è tuttoquanto amore, Tutto dolcezza. Arduo è ritôrti un cor che a Te si diede, Una mente che a Te solo s'inchina, Mentre effonder l'intera alma al tuo piede Cosa è divina. Il sentier che m'adduce a Te daccanto Di cento scogli è seminato e cento, E il delirio d'amarti è tale e tanto Che par tormento. Noi siam tuoi schiavi; il core a Te proferto Fra le mani teniam, teniamo intenti Gli sguardi a' cenni tuoi, l'orecchio aperto Ai divi accenti. Vuoi tu la pace?…. quasi miti agnelle Dolci affetti t' offriamo, opre tranquille: Vuoi tu la guerra?…. e le nostr'alme anch'elle Mandan scintille. — Qual chi cerchi una cosa unica e cara, In quell'ultima notte andava errante, Finchè il fervido cor de' Magi all'ara Trassemi innante. Lungi il guardo profano! Io vidi un loco Tutto romito ove tal luce ardea Che illuminato da sidereo foco Quasi parea; Del foco istesso che sul sacro monte A Mosè sfolgorava, allorchè Iddio « Togli, a lui disse, dalle ambasce e l'onte Il popol mio. » Viva la fiamma in quel divin soggiorno Tenea un Vegliardo dalla faccia austera. Cui di giovani accoliti d'intorno Stava una schiera. Tenean fisso in soave estasi il ciglio, La lor voce sonava armonïosa, Avean le guancie del color del giglio Misto alla rosa. Quanto il senso più alletta e il cor sospira, Ivi era accolto: e dapi ivi e licori, Arpe e timballi; ivi e salterio e lira E aromi e fiori: Ivi eletti coppier, belli siccome Il raggio del notturno astro d'argento, Stillanti muschio le lucenti chiome Disciolte al vento. Ivi esperti cantori in bianca veste Disposavan del verso all'armonia Una voce ineffabile e celeste Che al cor venía. E coppieri e cantori e sacerdoti E fanciulli e Pontefice, ad un guardo, Ad un cenno accorrean pronti e devoti Di quel Vegliardo. Compreso di vergogna io sol frattanto, Perchè straniero a quell' ardente fede, Volgea del tempio al più riposto canto Furtivo il piede. Pur quel Veglio mi scòrse, e « Chi, richiese, Chi è codesto stranier? » — « Esso è un amante Tristo, smarrito!…. » il labbro mio riprese Tutto tremante. Ma benigno Ei soggiunse: « A lui si dia Colma una tazza di licore eletto, Benchè, inatteso, penetrato ei sia Nel pio ricetto. » Tosto un giovin coppier, fervido Guebro, Nel mio nappo versava un foco ardente: Lo vuotai sitibondo e come un ebro Caddi repente. Allor fede, empietà, gioia e tristezza, Memorie, affetti, in me tutto vanía…. Dir ciò che intesi in quella santa ebbrezza Uom nol potría. Ma il mio spirto, il mio corpo, il sangue mio Ripeteano in arcana estasi e nova: « Ei solo esiste, Ei sol, ned altro Iddio V'ha che Iehòva! »

Castelfranco, 1861.

1861(1) Questi versi servirono di Prefazione all'opera del Nievo Le confessioni di un Ottuagenario, 2 vol. Firenze, Successori Le Monnier, 1867.
I.

Alla nuova funesta indarno il core Si ribella gemendo! Ogni speranza Svanisce innanzi al paüroso vero Dei compiuti destini. — È morto, è morto Agli umani dolori, ai gaudî umani, Ei che tanti educava incliti sensi Entro il petto magnanimo. Lo spirto Tornò rapido al cielo, e il mar ci niega Perfin la salma che vestì — perfino Sul cener suo pregar n'è tolto, come Dato è pregar sovra ogni estinto!…. Or solo Di Lui ne resta il nome e il canto…. Oh il canto! Chè non poss'io disciorne un che all'altezza Tocchi di quella mente?…. Io vedrei lieta Languir dopo la mesta opra lo scarso Ingegno mio, sol che non fosse impári All'arduo incarco che il dolor gl'impone. Ma, qual su tela alcuna alcun pennello Non seppe nè saprà ritrar la furia Dell'uragan, così l'arte dei carmi Tutta non può significar l'ambascia Che l'abbandon d'eletta alma c'ispira.

II.

Egli fu tal, che al disperato pianto De' suoi cari dovria mescersi il lutto D'Italia intera. D'infecondo amore, O patria, Ei non t'amò, ma dai prim'anni Dispettando il servaggio abbominoso, Libero il carme ti rivolse, e, come Nel fior celasi il frutto, ivi era il germe Del poema di Spartaco.(1) Fra i manoscritti lasciati dal Nievo avvi una pregevolissima tragedia intitolata: Spartaco. Ed insieme Alla penna ispirata a te sacrava, Cara patria, un acciar, quando a tre lustri, Del Tirreno alle sponde (ove lo trasse Necessità d' eluder la schernita Vigilanza straniera) apprender seppe Al tedesco invasor quanto è gagliardo D'un giovanetto il braccio, allor che il guida Amor di libertà.

III.

Qual lungo tratto Di terre e tempo col pensier trasvolo!…. Uomo or s'è fatto il garzoncello; ha fama Di poeta e d'eroe; forse gli appresta Doppio Italia un allôr, come d' Alceo E di Körner al crine un dì lo cinsero Grecia e Lamagna. Ed Ei la santa ed ardua Via seguitando, allor che al più famoso Italo condottier spontanea accorse La gioventù fremente, anima e braccio Consacrò a quell'invitto, e alla conquista Trasse con Lui delle comensi vette. Ed Ei, che legge per virtù d'amore De'suoi fidi il pensier, più assai che duce Gli fu amico e fratello, e d'ogni ardito Divisamento a consiglier lo elesse. Con quai tinte veraci e quanto affetto Il fervido cantore allor ne pinse L'amato Capitano, e i lieti Amori Garibaldini! Entro quei versi spira Sacro un alito ancor, che le speranze Italiche ravviva!….

IV.

Han vinto! È nostro L'ampio suolo lombardo. — Oh, ma non tutta Ancor libera è Italia, e ancor non posa Il Leon di Varese! All'armi, all'armi! A Marsala, o animosi!…. — E millo prodi A quel grido han risposto, e fûr bastanti All'impresa titanica! — Fra i primi Del bel numero Egli era e, disfidando Novi stenti e perigli, ivi mieteva Novi e splendidi allori. — Ei che le geste Dei compagni cantò, perchè ne tacque Le glorïose sue?…. Modesta, ahi! troppo Fu quell'anima eletta, e molta parte Di sua luce ne ascose. — Eppur la fama A noi narrava come un dì, sul colle Ch'ebbe nome dal pianto, Ei del suo petto Fece al Duce immortal valido usbergo Contro il ferro nemico. Ahi! che gli valse Da sì fieri cimenti a'suoi diletti Più diletto tornar, se l'attendeva Pronta, imprevista, orrida morte?…. Oh amara Ironia del destin, di quel destino Che al primo carme e alle parole estreme Che ci restan di Lui, volle argomento Il mare, il mar che (perfido ricambio A tanto amore!) nell'infido grembo Gli dischiuse la tomba!…. Oh come innanzi All'evento funesto il cor si stringe Di dolorosa maraviglia!…. Eguale Maraviglia m'assalse il dì che sovra L'estremo foglio del volume estremo Ch'Ei ne lasciò, leggea, siccome tèma Di futura Canzon, queste parole: « Partenza per Sicilia, » indi interrotti Punti, e alla fin quel punto che domanda Una risposta all'avvenire…. e l'ebbe! Era caso o presagio?…. A noi risponda Quei ch'intese perchè sul breve libro Dal gran Côrso vergato a rammentargli Nomi d'isole e scogli, ultimo il nome Di Sant'Elena è scritto!….

V.

Un sentimento Dolce insieme e crudel nel dì del lutto Bramosamente a ricercar ne astringe Ogni gioia perduta, onde più cara Ci torni al cor la voluttà del pianto. Così da tant'ambascia anch'io rivolo Ad altri tempi, ad altri luoghi. — I giorni Concordemente m'abbellian d'un riso L'amore e l'amistà, chè tu volevi, O Arnaldo mio, la nostra nuzïale Festa compir, traendomi ove spira, Più presso al cielo, aura più pura. Ai monti Del Friùli ridente e all'ospitali Case del Nievo noi movemmo. Lieto Ippolito n'accolse ed ai fratelli D'incontro ne guidò, come due novi E diletti fratelli. Oh! forse ancora Il vetusto Castel di Colloredo Rammenta il conversar di quel giocondo Stuolo d'amici, e gli agguati innocenti Apparecchiati a festeggiar l'arrivo Di caro ospite atteso,(1) Il compianto Teobaldo Ciconi. e quell'assidua Mite allegria che si pascea di giochi Quasi infantili, perchè impressa d'una Quasi infantile ingenuità. — Che ameni Pellegrinaggi si compîr per valli E colline ridenti, ove, con gli occhi Vôlti al levarsi od al cader del sole, Talor muti posammo, e in fondo al core Ne fremea l'agitata onda del verso. Anco il sole in quei giorni, e l'erbe e i fiori. Il riso delle stelle, il volo e il canto Degli augelletti, e n'appariva tutto Lassù più bello!…. Ed Ei talvolta, arguto E sapïente interprete, godea Le pie tradizïoni e le leggende Strane narrarci, da mille anni e mille Ivi serbate dalla facil fede Dei semplici pastor. — Ma la mestizia (Del ver presaga!) che turbò il commiato Ultimo nostro, con la speme indarno Volemmo dissipar d'altri convegni Pel prossimo avvenire. — O illusi, è questo L'avvenir che l'improvvido desio Ciecamente affrettò! ma il fido amico Se pur ci attende, ahi! non ci attende in terra.

VI.

Il supremo dolore e la suprema Gioia mortal, con un sorriso ed una Lagrima s'appalesano che nome Non han qui nè riscontro. È quel sorriso Primo che volge al suo novello nato La madre giovanetta; è quella stilla, Unica, muta, disperata, ch'Ella Sparge sulla sua morte. — E tu, cui madre Ippolito nomava, oh! tu ben sai Se verace è il mio dir! La lunga istoria Nessun mi disse degli affanni tuoi; Pur, guardando i miei figli, io l'indovino. Di tre vispi garzoni e d'una bella Pargoletta il Signor ribenedia Il marital tuo nodo; e tu nei figli Lieta vivevi, e in quell'affetto, in quelle Cure assidue, infinite, era il tuo mondo, Il cielo tuo. Sovente inebrïata Dei loro baci, tu sclamavi: « Oh sempre Serbar fanciulli io vi potessi! E quale, Qual'altra età sì brevi l'ansie, e tante Gioie materne mi può dar?…. Dal primo Palpito vostro all'ultimo pensiero Della mente irrequieta, un giorno adulti, Mi direte la fonte?…. E a me fia dato Con un bacio appagar, con un accento Sempre il vostro desir?…. Vegliarvi sempre Così mi sarà dato?…. » — E ratto giunse Il dì caro e fatale, in cui la figlia Ti tolse Amore, e i tre garzon ti chiese La salute d'Italia. Un solo istante Non esitavi e, te oblïando, all'arduo Dover tuo t'immolasti. E poi che il serto Nuzïale ad Elisa e ai figli il brando Di tua mano cingesti, e tutti e quattro Per vie diverse si partîr, dal petto Sciogliendo una repressa onda di pianto, « Dammi (pregasti a Dio), dammi che tutti Reduci li rivegga, o almeno io prima Nella fossa discenda! » — Indarno! il Dio Ch'esaudirti si piacque allor che ingegno Tanto e tanta virtù gli addomandasti Per quei diletti, non accolse il novo Tuo prego, o derelitta, e nella parte Più cara delle tue viscere aperse Insanabil ferita. — Eri tu conscia Del futuro destin, quando di gioia Ebbra e d'amor dicevi ai figli: « Oh sempre Serbar fanciulli io vi potessi?…. »

VII.

E un'altra Misera donna io so, che al suo morire Pianse così, come le fosse morta Ogni speme con Lui. — S'ella mai legga Queste pagine meste, oh! non la prenda Nessun timor che il suo pudico arcano Al mondo io sveli. La dimora, il nome, E ignoro fin l'aspetto suo. — Quel breve Raggio d'amor, ch'Ei m'additò, simíle Parvemi al raggio di stella cadente, Ch'onde venga e si volga è ignoto, e ognuno Segue con disïoso occhio quel ratto Apparire e sparir, poscia rimane Più mesto che non era….

VIII.

E noi nel mondo Dunque mai più nol rivedremo! È triste, Ben triste tal pensier; pur non è il solo Che per esso m'affanna. Infin che l'aure Vitali Egli spirava, un mutuo senso D'intima ritrosia dirgli mi tolse Che il forte ingegno suo compresi, come Forse compreso anco nessun l'avea. Ma dacchè morte col freddo suggello Vieta che giunga a quell'amato capo La voce nostra, quei repressi accenti Sì mi pesan sul cor, che alfin prorompe Fatto più santo sul mio labbro il vero. Sì! vidi impressa in quella vasta fronte Del Genio crëator l'orma raggiante. La vita ahi! gli fallì, prima che intero Altrui si rivelasse, e i mille fiori Di pöesia che rivestîr di gloria Sì precoce il suo nome, eran promessa D'innumeri e stupende opre, che il germe Fecondatore in quella infaticata Mente avean posto. Arte e scïenza aperti Molti gli avean splendidi calli, e, spinto Da foga giovanile, Ei discorreva Da questo a quel, ma inesplorato forse Quell'un rimase che immortal n'avrebbe Fatto il bel nome!….

IX.

Ippolito, perdona! Il volume sublime erami ignoto, Ove del core le battaglie e gli estri Divini del pensier depositasti. Qual saluto e conforto a noi disceso Per tua pietà da più giocondi cieli, Queste pagine accolsi, e poi che in esse Molta luce del tuo fervido ingegno Trovai riflessa, Ippolito! perdona; Meno anche acerba m'apparì la morte Che immaturo ti colse. E a qual poteva Monumento miglior raccomandarsi Il tuo nome diletto? Oh di', fu il voto Ultimo tuo, ch'ove negasse il fato Che la patria redenta un giorno solo Contemplar non dovessi, almen nel giorno Della sua libertà pòrto le fosse Questo dono supremo? — Ecco si compie Il desío generoso e in ogni parte Della bella contrada, a mille a mille Palpiteranno i cor dei sacri affetti Che qui significasti. — Un pio legame D'amor, di glorie e di dolor, ne stringe Dall'Alpi al mare. Oh non temer che indarno Tanto sangue scorresse! Empî profeti Vaticinâr ch'anco discorde e indegna Della sorte novella, apparir possa La patria nostra. Oh non temer! Cadranno Gare, dubbî ed error sempre dinanzi Alla vostra memoria, o benedetti, Che moriste per noi! — Vedi?…. risponde Al pianto della tua dovunque il pianto Delle madri sorelle. Odi?…. Siccome Nella natale, il nome tuo risuona Per ogni itala terra. — Oh siam fratelli! E, com'arra d'amor, fraternamente Stretti così, dell'immortal corona Che posar sovra il tuo capo n'è tolto, Cingiam, commossi, alla Gran Madre il crine.
Senti, o cara! Alla giovin tua mente Già si schiude una vita novella; Quell'etade che pensa e che sente, O fanciulla, incomincia per te, Ed a cure più gravi m'appella L'arduo incarco che il Cielo mi diè. Al tuo sguardo gli antichi trastulli Van perdendo l'incanto primiero; In que' giochi sì cari ai fanciulli Più non trovi le gioie d'un dì, Poi che innanzi al tuo incerto pensiero Un ignoto orizzonte s'aprì. Al Signor le tue preci confidi Ed ignori la fede che sia; Col tapino il tuo pane dividi Nè comprendi che sia Carità; Nè ben sai, tu pudica, tu pia, Che dir voglian Pudore e Pietà. A me dunque, a me sola, o diletta, Quest'ufficio soave d'amore; A me sola guidarti s'aspetta Nel cammino di tua gioventù, Educando nel docil tuo core Questi germi di sante virtù. Ti dirò di che lutti fronde Son le gioie del mondo fallace, Ti dirò quanta insidia s'asconde Di quei vani piacer sotto il vel, Ti dirò che la fede, la pace Vivon sol nel domestico ostel; Che disgiunte da un'alma gentile Non han pregio le grazie del viso, Poichè breve degli anni è l'aprile Com'è breve del lampo il baglior, Mentre splende d'eterno sorriso L'immortal giovinezza del cor. Non vorrò che il tuo pronto intelletto S'alimenti di vacue letture Che nell'alma disfioran l'affetto Mentre ammaliano il facil pensier, Ma ben d'altre più semplici e pure Che ti schiudan le fonti del Ver. Tu così crescerai, mia bambina, Buona, saggia, modesta, operosa; E se il Cielo a te pure destina Altre gioie nel chiuso avvenir, In quel dì che ti chiamino sposa Potrò almen senza tema morir.

Castelfranco, 1861.

Mi portano i venti Giulivi concenti; E adorne di fiori, Di gemme, d'allori, Le libere e belle Mie cento sorelle Al patrio tuo lido, Quai rondini al nido, O Figlia di Re, Rivolgono il piè. E al dolce pensiero Che in suolo straniero Di gaudî vestita Ti corra la vita, Più meste non sono Del lungo abbandono, Cui tu le prepari, E innanzi agli altari, O Figlia di Re, Si prostran con Te. Ad esse è pur dato Venirti da lato, Bëarsi al sorriso Del caro tuo viso! E a questa reietta Che freme, che aspetta Nel lutto, nel pianto, Di correrti accanto, O Figlia di Re, Concesso non è. Eppur t'ama anch'essa La povera oppressa! Ma indarno il suo core Si strugge d'amore, Chè tu non li senti Quei palpiti ardenti, Nè mai la parola Che al labbro le vola, O Figlia di Re, Può giungere a Te. Deh! un' ora di festa Lasciate alla mesta, Cui solcan le vene Le infami catene!…. Ma chi, chi l'ascolta La povera stolta? Per lei che già spira In fremiti d'ira, O Figlia di Re, Più festa non v'è! — Perdona se il verso Di lagrime è asperso, Se il voto del core È suon di dolore! Ma il dì che i miei figli Fien tolti agli artigli Dell'austro ladrone, Ben altra canzone, O Figlia di Re, T'aspetta da me!

Castelfranco, 1862.

Se la penna trattar potessi anch'io, Come tu tratti il magico pennello, Oggi al tuo dono disïato e bello Saría degno ricambio il verso mio. Ma, se mi niega tal virtude Iddio, E l'ingegno, già scarso, or m'è rubello, Tu, benevolo a me quasi fratello, Sdegnerai, perchè vano, anco il desío? Credi, o gentil! più che all'immagin schietta Che lo speglio mi dà, vôlti avrò gli occhi A quest'opera tua tutta perfetta. E mirando così l'effigie mia, Non di me, ma un pensier fia che mi tocchi Di chi, pingendo il ver, pur m'abbellia.

Castelfranco, 1862.

T'arrisero concordi, o mia fanciulla, Salute, agî e diletti: Vegliarono su te fin dalla culla I più soavi affetti; E forse, perchè ognor d'egual sereno Brillarono i tuoi dì, Il ben che provi non comprendi appieno, E pensi ogni mortal lieto così. Pur ben pochi, o fanciulla, hanno nel mondo I tuoi giorni ridenti. Godi! ma grazie del gioï profondo Rendi al Cielo e ai parenti. Se un cruccio avrai, deh! non mostrarlo in viso, Non crederlo un dolor; Serba costante il limpido sorriso Che rasserena degli afflitti il cor. E se la madre tua vedi pensosa, Non chiederne il perchè; Anco intender non puoi l'ansia affannosa Ch'ella nasconde a te; Ma in dolce atto d'amor sièdile accanto E l'accarezza e taci, Chè delle madri a rasciugare il pianto Iddio dei figli destinava i baci!

Castelfranco, 1862.

No, bimba mia, tu non sei già cattiva, Pur ti vorrei migliore; Pronta la mente a te il Signor largiva E generoso il core; Perciò chi nella mente e in cor ti vede Molto da te richiede: Non far mal per istinto è facil cosa, Ma bontà vera è la bontà operosa. Hanno lor sede eterna il Bene e il Male Sovra due opposte rive, E in mezzo alla corrente ardua il mortale Nasce e lottando vive. Ben sovente lo spinge il vento e l'onda Verso l'infida sponda, O stanco e sfiduciato egli si getta Sovra un'angusta sterile isoletta. Ma chi della virtude ha l'ardimento Là dove il Bene ha stanza, Abbiasi pure avversi e l'onda e il vento, Infaticato avanza: Il sofferto travaglio a lui par corto, Quando guadagna il porto; E a chi mal regge di que' flutti all'ira La mano stende e il suo vigor gl'inspira. Torci dall'empia riva, o mia diletta, Gli occhi e i passi inesperti, Nè t'alletti la sterile isoletta Rifugio degl'inerti. Dove l'uomo non soffre ed affatica, Cresce il pruno e l'ortica, Ma il fior della Virtù s'apre soltanto Per chi lo bagna di sudore e pianto.

Castelfranco, 1862.

Nè per benigna o ria Sorte giammai, nè per novelli affetti Venir meno potría De' figli vostri nei concordi petti Quel tesoro infinito D'amor santo, soave e reverente, Che col primo vagito La nostra vi sacrava alma innocente. Lungi adunque il pensiero Che quale un tempo io più non v'abbia in core Or che del cor l'impero Tien di sposa e di madre il doppio amore; Ch'anzi in quel dì soltanto Che a me il rivolse un biondo bambinello, Appresi come e quanto Di madre il nome sovra ogn'altro è bello. Quante da voi fanciulla Ebbi carezze, allora io rammentai, E alla vegliata culla Degli angioletti miei le rinnovai, Sol richiedendo ad essi, Di tante cure ad unico conforto, Quei sentimenti istessi Che a voi, diletti, dalle fasce io porto. Il caro vostro nome In queste tenerelle anime ho sculto, Ed esse omai, siccome La stessa anima mia, v'offrono un culto Per tal guisa nell'ora Che un pargolo novello Iddio mi dona, Un fior s'aggiunge ancora Dei figli vostri alla genial corona. Oggi, benchè divisa, Ma non col cor, dalle paterne case, Al vostro desco assisa Mi vedete, chè amor sì mi süase. Ed al natio soggiorno, Ove splende la gioia in ogni viso, Volli in sì lieto giorno D'altri figli apportarvi i baci e il riso. In queste conscie stanze Quanti aspetti già noti io veggo accolti! Che dolci rimembranze Nel mio pensier ridestano que'volti! Sono gioconde istorie Di un'età che a me quasi or sembra antica, Son vergini memorie Legate ad un fratello o ad un'amica. La terza volta è questa Che una figlia vien tolta al vostro seno, Ma, poichè amor le appresta Pari alle suore un avvenir sereno, Con noi ribenedite Questa gentil necessità d'amore, Che ha per lei pur compite Le più söavi fantasie del core. Con lei gioite, e intanto Sperate da lei pur nuovi nepoti; In questi anni di pianto Figli invoca la patria a sè devoti, E ognun di noi, cui scorre Stilla di sangue vostro entro le vene, Per virtù innata abborre Quanto in lutto la patria anco mantiene.

Padova, 1863.

Nessun nodo di sangue a lei mi unia, Ma un dover sacro, un reverente affetto: Il fido angel custode Ella apparia Del nostro tetto. Mite, semplice e umíl, qual viva e vera Imagin della donna del Vangelo, Si diffondea sulla sua vita intera Raggio di cielo. Di voglie ardenti, impetüose ignara, Pur compativa ad ogni umano errore, Chè non mai di perdon la donna è avara, Se puro ha il core. Sotto il pondo degli anni avea serbato La virginale ingenuità dell'alma; Dalle ambascie sofferte avea redato Mesta una calma. Quando Ella pur con infantil sorriso Si mescea ne' sollazzi ai figli miei, Un'aureola io vedea in Paradiso Sovr'essi e Lei. Niun volume m'apprese e niuna scola L'amor che soffre e perdona tacendo, Come l'esempio suo, la sua parola Che ancora intendo. Se nel mio sen talor succede al pianto D'un dubbio il gelo, o d'uno sdegno il foco, Con quella fede che s'invoca un Santo Sempre io l'invoco. E il travagliato cor tosto ritrova Quella virtù che gli parea già morta, E scende in esso una quïete nova Che il riconforta. Spesso alle angoscie che improvvise, ardenti Ci travolgono l'alma e l'intelletto, Farmaco sono i palpiti nascenti D'un altro affetto; Ma v'ha un dolor che all'anima romita Lento lento s'apprende, e a lei si mesce, E vive della sua povera vita E con lei n'esce. Provai questo dolor, quando la morte Il suo mi tolse benedetto amplesso; Ma forse di quel dì più vivo e forte Lo sento adesso. Paga ognor di sì poco io vidi e intesi Chiamarsi quella pia donna amorosa, Ch'io, che tanto le debbo, ahimè! le resi Ben poca cosa. Di ciò mi strugge un'amarezza tarda, Quasi per colpa ch'espïar non posso, S'Ella, spirto benigno, or non mi guarda Nel cor commosso. Due reliquie dal dì che ascese al cielo Care mi son sovra ogni cosa cara, L'anello suo di fidanzata e il velo Che cinse all'ara. Quell'anello l'ho già congiunto al mio, Perchè vegli all'amor di madre e sposa, E quel suo vel, quando m'accosto a Dio, Sul crin mi posa. Se indocile quest' alma e irrequïeta Al precetto divin tarda si piega, Esce dal velo suo voce secreta Che dice: prega! E parmi rivederla in quell'istante, Come ai dì più solenni e a Lei più cari, Avvicinar col suo passo tremante I conscî altari. E in quella visïon l'alma s'accende Di arcana fede che da Lei deriva, E con Lei parlo che dal ciel m'intende Siccome viva. Fin che queste reliquie io m'ho daccanto, Vivo sommessa al lor soave impero, Nè potrei concepir meno che santo Un sol pensiero. Alla mia figlia che il suo nome porta, Legherò questo anello e questo velo, Perchè sieno a lei pur promessa e scorta Dal mondo al cielo.

Castelfranco, 1863.

**(1) Per una raccolta di versi che alcuni scrittori veneti pubblicavano a benefizio degli insorti Polacchi.

Qual, se un sonno agitato alfin succeda A veglia increscïosa, E perigliar nel sogno ansio si veda Una diletta cosa, Si slancia l'alma dal desío compresa Di porgerle difesa, Ma invan, chè ad essa il vieta Il grave incarco dell'inerte creta; Tal io, dal giorno che le geste prime Del tuo valore appresi, A Te, d'incliti eroi madre sublime, Il cor tratto m'intesi; E mentre il sangue mio darti vorrei, Quello de' figli miei, Immota ahi! qui mi tiene L'immane pondo delle mie catene! Fûr distrutte le mie splendide navi, Maraviglia alle genti; Fin la gloria scontar mi fan degli avi Quest'invidi potenti! Or volgono quattr' anni, e le ritorte Una benigna sorte Infranse alla mia suora, E me oblían terra e cielo, e servo ancora! De' miei figli la parte ahimè! più eletta O soccombeva in guerra, O nel carcere langue, o fu costretta Vagar di terra in terra. I vetusti palagi, i chiostri, i tèmpi M'invasero quest'empi. Tutto m'han tolto, tutto, E irridon profanando anco al mio lutto! Bello è il cadere in un aperto campo, Mentre l'errante sguardo Saluta ancora dei moschetti al lampo Il vincitor stendardo; — Ma servir sempre ed attendere invano, Morire a brano a brano, Oh! quest'angoscia è tale Che il pensiero non può finger l'eguale. Pur s'io potessi al tuo reciso crine, Martire illustre o santa, Le sparse gemme ricomporre alfine Della corona infranta, Pel sublime gioir di quel momento Saprei senza lamento Soffrir per anni ed anni Fin la verga de' miei sozzi tiranni. Ma se tal gioia e gloria tal m'è tolta, Se nulla offrirti io posso, Questi poveri canti almeno ascolta Figli d' un cor commosso: L'ira dei tristi e l'ironia dei fati Tarpâr l'ali a' miei vati, E i fiori del pensiero Crescon senza profumo in cimitero. Ma nè l'ira dei tristi o il fato avverso Farà languir l'affetto Ch' io mal tentai significar col verso Umil tanto e negletto! E se giorno verrà che il voto mio Alfin coroni Iddio, Oh allora sol sapraí Quanto piansi per te, quanto pregai!

Castelfranco, 186 .

I. ADDIO

Addio, angeli miei! per brevi giorni Ai vostri baci ritrosa m'involo, E ancor pria di partir sento che solo Lieta l'ora mi fia, che a voi ritorni. Vano desío di liberi soggiorni Me all'oppresso non toglie amato suolo: Pure il pensier di voi fa sì che in duolo Ogni gaudio sognato ora mi torni. Ai parenti, agli amici io v'accomando Come reliquia prezïosa e cara: L'amor, ch'hanno per me, per voi domando. Addio, angeli miei, per poco addio!…. Ahi! tal parola quanto adesso amara Giammai non risuonò dentro il cor mio.

Castelfranco, aprile 1863.

II. LONTANANZA

Perchè fra tanta onda di vita e tante Maraviglie che a lungo idoleggiai, Una malinconia viva, incessante, Di lagrime talor mi vela i rai? Se mi rammenta un infantil sembiante Quei cari che piangendo abbandonai, Perchè tosto si turba il cor tremante, Qual non avessi a rivederli mai? Perchè fino i riposi a me contrasta Un presagio funesto e menzognero, Mentre periglio alcun non mi sovrasta? Lungi, o figli, io vi son — ma il mondo intero A divider da voi, cari, non basta L'anima della madre ed il pensiero.

Torino, aprile 1863.

III. RITORNO

Dilette creäture, eccomi ancora I baci a domandarvi e le carezze, Per cui ritrovo in questa umíl dimora I tesori del mondo e le dolcezze. Oh no! la madre che così v'adora Non vi siete ad amar già disavvezze; Ben per voi me ne affidano in quest'ora Gli aspetti vostri e le vostre allegrezze! Ond'io più assai che per le illustri, altere Città ammirate, e le accoglienze oneste, E le armonie che m'abbellîr le sere, Il tempo dell'assenza ho benedetto, Perchè m'apprese ogni virtù di queste Gioie materne e del materno affetto.

Castelfranco, maggio 1863.

PER LA MORTE DEI DUE VALOROSI SUOI FIGLI CADUTI SOTTO ANCONA E GAETA

« Stanchi noi siam di trascinar coteste Aborrite catene, in trame occulte Siam stanchi omai di logorar la vita! La brama ardente, il disperato amore Di patria e libertà forza è trabocchi O ne soffochi il cor. Sorgiamo tutti Ad aperto cimento, e se vittoria Non ci consenta glorïosa vita, Ne incoroni di gloria almen la morte! » In tali accenti irruppero concordi Gl'itali figli, e alla suprema lotta Come a festa s'accinsero. Il tesoro D'un odio a stilla a stilla accumulato Negl'innumeri, eterni anni trascorsi In vile schiavitù, squarciar pareva I magnanimi petti. Erano tigri Orbe dei figli — figli eran che, a forza, D'inverecondi abbracciamenti avvinta, Vider la madre. Chi frenar può l'impeto Dell'oceano in tempesta? e chi la rabbia D'un popolo domar surto a vendetta?.. Cento fûr le battaglie e furon cento Luminosi trïonfi. — Oh inorgoglite Dell'opra vostra! la divisa terra, Che a noi fu culla, e pur n'era delitto Patria nomar, coll'invincibil braccio Di sè arbitra féste, e omai le arride Quell'avvenir da tanti anni invocato. Un'ultima al valor vostro e solenne Prova or si chiede, e dal Cenisio al Faro Saluterà l'Italia un sol vessillo. Sacro, o fratelli, e in un severo dritto È libertà! La via erta e scoscesa Che v'adduce al suo tempio, è seminata, Più che di lauri, di cipressi. Oh! all'ombra Di quei cipressi soffermiam talvolta Pensosi il passo, e rileggiam scolpito Incancellabilmente in auree cifre Il nome d'ogni eroe che in olocausto Die' il suo sangue alla patria. — E sovra tutte Benedetta, compianta, invidïata, Sarà in eterno la memoria vostra, O giovinetti Savio. Ahi! voi cadeste Allorquando apparía più sfavillante L'itala stella. — A vent' anni, leggiadri Come un sogno d'amor, cari a ciascuno Quasi figli o fratelli, e per la madre Pari a cosa di ciel, perchè, gran Dio, Ambi estinti così?…. Tu, Alfredo, primo Sempre fra i primi, sui tonanti spalti Ti spingevi d' Ancona, e l'ardimento Del fiero animo tuo propizie forse A noi le sorti in quella memoranda Pugna rendeva. Ma l'estrema palla Che il nemico avventava, ahi! l'animoso Tuo petto trapassò. Quanti han plorato Sulla tua morte! ma il pianto di mille E mille afflitti non fu pari al pianto Che la madre su te sola spargea! Da quel giorno nefasto, e speme e orgoglio E forsennato amor, tutto trasfuse Nel superstite figlio; e desso pure Sacro aveva alla patria, e desso pure Per la patria cadea!!…. Qual labbro umano Potria ridir la disperata angoscia Della misera donna?…. Oh noi daremmo Parte del sangue, della vita nostra Per te, o deserta! — Allor ch'avido il guardo E tutto amore rivolgiamo ai cari Figli, e i lor detti e i baci lor c' infondono Per ogni fibra una celeste ebbrezza, Ratto il pensiero a te corre, e davanti Al tuo lutto proviam quasi sgomento D'un ben sì grande: la pietade istessa Che tu c'ispiri ne divien tormento, Se impotente a lenir tanto dolore. Pietà simíle, in più funesti giorni, Prodigò Italia all'infelice madre Dei due Bandiera, perocchè sull'ara Della patria immolati anch'essa vide Ambo i suoi figli, e a lei perfin conteso Era il conforto che men duro fato A te concesse. Poichè a morte infame Da infami sgherri trascinati, almeno Que' tuoi cari non fûr, ma in campo aperto, Capitanando impavide legioni, Essi caddero entrambi, e il sospirato Grido della vittoria a lor l'estrema Ora allegrava. Ecco il pensier che solo Può confortarti l'infinito affanno! Non odi un grido di fraterno affetto Venirti pel commosso aer dalle cento Città?… Pietosamente in te conversi Non vedi i lagrimosi occhi di tutte L'itale madri?… Con virtù sublime La rassegnata tua fronte solleva, Quella fronte su cui, quasi suggello Del riscatto vicin, già sfolgoreggia Un'aureola di gloria e di martirio Che alla madre del Cristo or t'assomiglia!

Castelfranco, 1863.

PER NOZZE

Ferve la nuzïal festa — una eletta Di parenti e d'amici Invoca alla gentil coppia diletta Lunghi giorni e felici; Ma fra tanta letizia io non discerno Il sembiante materno…. Oh perchè alle gioconde Carezze de' suoi figli Ella si asconde? Io m'appresso alla sua stanza silente, E la porta socchiusa Lei che ricerco contemplar m'assente: La faccia Ella ha soffusa Di quel lieve pallore, onde s'ammanta Una mestizia santa; Al suol proni ha i ginocchi, Giunte le palme e al Ciel conversi gli occhi. E così prega: — « Benedica Iddio In questo dì solenne La mia lieta dimora, il sangue mio, E quel garzon che venne Novellamente assunto alla corona De' miei figli, e cui fido Questa candida e buona Colomba, che per lui lascia il suo nido. » Questa è la stanza memore e romita, Dove sposa io venía, E qui spirò le prime aure di vita La pargoletta mia. Qui in un sol punto al core e alla memoria Si affolla oggi d'intorno Di lunghi anni l'istoria, Quasi fosse l'istoria d'un sol giorno. » Oh quante volte, mio buon Dio, prostrata In questo loco istesso La tua aita superna ho supplicato! Pur mai, mai come adesso Non ne provò tanto bisogno il core, Il cor che si sepára, Sol per virtù d'amore, Dalla parte di sè più dolce e cara. » Oh tu solo, mio Dio, tu solo il sai Con qual gelosa cura L'angelo che mi desti ognor guardai! Culta, leggiadra e pura Io me la crebbi, e, se il materno orgoglio È colpa agli occhi tuoi, A te celar nol voglio, Sovente ho inorgoglito ai pregi suoi. » Io le dischiusi il vergine intelletto Al giusto, al bello, al vero; Di patria io le trasfusi il sacro affetto, Il fervido pensiero, Sì che tutta quest'anima riflessa Nell'alma sua vedea, E in una fede istessa D'una stessa esistenza in lei vivea. » Ed or che il giglio mio tutta dischiude La sua nivea bellezza, E nell'intatta virginal virtude Söavemente olezza, Al nativo suo cespo altri lo toglie, E fra poco, gran Dio, Nelle vedove soglie Sol la memoria ne vivrà e il desio. » Concedimi, o Signor, forza che basti Al distacco fatale; Sia muto il mio dolore e non contrasti La gioia nuzïale; Che la diletta mia non vegga il pianto Nelle materne ciglia, E dello sposo accanto Non la conturbi la pietà di figlia. » Se il sacrificio, ch'io volente accetto, Mi val qualche mercede, Deh! ch'ella trovi sotto il novo tetto. A cui rivolge il piede, L'amor che dal suo dì primo io le porto; Chè il saperla felice Fia supremo conforto Al duol della deserta genitrice! » Qui tacque e, come dentro il cor le scese Forza e virtù novella, Fra i suoi cari esultanti alfin si rese E parve lieta anch'ella; Nè chi allora vedea splenderle in viso Un placido sorriso, Imaginò l'interna Lotta della commossa alma materna.

Venezia, agosto 1864.

EMIGRATA VENETA

Siccome amoroso cultore ripara Fra i miti tepori che ad arte prepara, Appena biancheggiano le brine sui prati, I fior dilicati, Noi pure percossi da súbito verno, Con pio sacrificio al suolo fraterno Fidammo i fior nostri più cari e più belli, E fosti fra quelli. Ma il nembo, creduto sventura d'un giorno, Più al nordico cielo non fece ritorno, E qui s'addensarono del nordico cielo Le nebbie ed il gelo. Pur dopo il Gennaio sorride l' Aprile, E un fiore lo annunzia su tutti gentile, Lo annunzia la rondine che torna a' suoi nidi Dai tropici lidi. Se come la rondine, se come quel fiore, L' April della patria presenti nel core, Ritorna! e conforta la terra diletta Che piange e t'aspetta.

Venezia, agosto 1864.

Addio, terra ospital, che m'accogliesti Nova sposa, e che in pianto ora abbandono; Addio, casa diletta, ove di questi Angioletti d'amor Dio mi fe' dono. Quai speranze, quai sogni or lieti, or mesti, Quali eventi per me sculti qui sono!… Oh mia casa, non dir quanto vedesti, Nè di quai voci ti percosse il suono. Però che allor dalle tue fondamenta Rovesciarti potria la tedesca ira, Nè ancor quell'ira t'apparrebbe spenta. Taci, ma ne'tuoi novi ospiti inspira L'ansia di libertà che mi tormenta, E nell'esiglio — oh! breve sia — mi tira.

**(1) Questi versi furono letti in un' Accademia data in Firenze per cura della nobil donna Teresa Pulski a benefizio d'un giovine artista. Vi si rappresentavano alcuni quadri viventi, illustrati da altrettante composizioni poetiche. Il quadro finale: Armonia delle Arti, epilogava il concetto dei quadri precedenti, e a questo si riferisce la presente poesia.

Culto eguale a voi s'offra, Arti divine, Ed inni e serti eguali. Fiori in mezzo alle spine, Le tristi confortate ore ai mortali; Nulla consente di più casto il mondo Del sacro estro fecondo, Che ai vostri eletti in terra Tanta parte di Ciel talor disserra. Quando il sommo Allighier sentia più grave L'ingiusta ira del fato, In visïon soave, O pie sorelle, gli scendeste allato; E bench'Egli chiedesse ad una sola La veste e la parola, Pur ne' suoi carmi brilla Il saper di voi tutte e la scintilla. Onde la tela e l'armonia talfiata Grazia avesser novella, Per gli occhi dell'amata Parlaste al Tasso, al Lippi, allo Stradella; Così l'arte e l'amor mandâr concordi I più sublimi accordi, E tele e suoni e carte Fûr prodigî così d'amore e d'arte. Eque ultrici di colpe, e non avare Di premio al giusto offeso, Oggi ha per voi l'altare Più d'un che visse povero e incompreso, Mentre di tanti che portâr corona Il nome anco risuona Sol perchè o tela o verso Ne bandivan l'infamia all'universo. Ma questa età, che più serena splende A più liberi ingegni, Di generose ammende V'invoca auspici alfin più che di sdegni. Perchè a una mèta sol drizzi la mente La nova Itala gente, Deh! in noi fate migliore La concordia fraterna e il patrio amore. Concordia e amore omai tutti ne stringa In una fede istessa; Concordia e amor ne spinga A sciorre i ceppi di Venezia oppressa, E alla diva armonia dell'indiviso Italo Paradiso Risponderà più bella L'armonia di ciascuna arte sorella.

Firenze, febbraio 1865.

**(1) Dopo la pace di Villafranca ogni primavera era attesan dai Veneti come apportatrice di guerra e di libertà.

Di primavera il sol spande sul monde De' suoi raggi il tesor, E lo saluta universal, giocondo Un fremito d'amor. Si schiude il germe ad una vita nova, Torna al canto l'augel, E l'ape un fiore, e il core un cor ritrova Aman la terra e il ciel! Fin nell'erme prigion, nei chiostri oscuri La speme entra e il desir, Quasi a tutti il novel raggio maturi Più sereno avvenir. Pur v'ha una donna derelitta e mesta Che al sorger d'ogni april Con crescente dolor chiude la testa Nel manto vedovil. Oh questo sole, che dovunque splende Fa germogliare un fior, Perchè quel fior, che da tanti anni attende, Non le concede ancor? « Bagna, le han detto, di sangue e di pianto L'inaridito suol; Il fior ne sorgerà che invochi tanto, Nè più vivrai nel duol. » E di pianto e di sangue Ella con cieca Fede quel suol bagnò, Ed ahi! neppure il sesto april le reca Il fior che invan sognò. La speme al cor, la vita al germe riede, Riede al canto l'augel; Ma la deserta rinverdir non vede Quell'appassito stel. Onde a noi, che dal suo grembo materno I fati empî scacciâr, Questo riso di ciel sembra uno scherno Al suo lungo penar. Oh! chiuso è il nostro core anco alla festa Del rinascente april, Finch'Ella vive derelitta e mesta Nel manto vedovil!

Firenze, aprile 1865.

NELL'OCCASIONE DELLE FESTE PEL CENTENARIO DI DANTE(1) « …. Meglio d'ogni altra cosa valse a distrarlo la simpatia che lo prese per una donna giovane e bella — la Gemma di messer Donati, che avea la casa a tergo di quella di Dante, la quale divenne sua moglie nel 1292. Della nobiltà dei Donati stimo inutile di parlare; troppo è nota nelle istorie nostre, ecc. » — LUIGI PASSERINI, Della famiglia di Dante.

Città dei fiori, oh! sei pur bella e lieta Or che fra il plauso dell'accolta gente Festeggi il tuo Poeta, Come la nova libertà ti assente. Mentre ogni cetra le virtù ridice Di Dante e Beatrice, Tu delle stesse frondi Di Beatrice e Dante il crin circondi. Si! presso al suo cantor concedi un'ara A quella vereconda alma cortese; Ma non perciò discara Ti sia la donna ch'ei per sua si prese, Colei che il lutto dell'amor primiero Tornavagli men fiero, E gli addolcía gli esigli Crescendogli d'intorno incliti figli. Nè t'incresca, se a lui seconda musa Ella non fu di cantici immortali, Ma pensa che, rinchiusa Nei domestici sacri penetrali, Quanto poteva dar tutto ella ha dato A quell'unico amato, E umilmente sommessa Visse per lui della sua vita istessa. Di quante angoscie, che nessuno avvisa, Fu segno allor quell'esistenza oscura! Con lo sposo indivisa, Gloria no, ma soltanto ebbe sventura. Dello splendor delle paterne case Nulla più a lei rimase, Languì povera e mesta; Pur nessuna pietà di lei si desta! Oh! quante volte, mentre intenta solo Alle miti apparía cure materne, Forse seguiva il volo Del suo Poeta per le vie superne, E se di un'altra mormorare il nome L'udiva, oh! chi sa come Invidïò la sorte Della rival temuta oltre la morte. E forse allora, un gemito profondo Reprimendo a fatica, i lagrimosi Occhi sul capo biondo Dell'ultimo suo nato avrà nascosi, Perchè quelle gelose ansie tremende, Che sol chi ama intende, Non turbasser la cara Alma che l'affliggeva, e n'era ignara. No, non piangere, o Gemma, e a te sia noto Che, mentre ai carmi il nome dell'amata Affida il Vate, ignoto Brama il nome di lei cui fè ha giurata: Questo ei scrive del cor nell'ima parte, Non sovra dotte carte, E quel cor per te vale Più del poema suo, benchè imm ortale. Ma intanto il mondo, che intender ricusa Questa d'amor pudica ritrosia, D'una bugiarda accusa Pria t'offese vilmente, ed or t'oblia: Talchè nel giorno consacrato al rito Di chi ti fu marito, Ahi! per te il mondo intero Un accento non ha, non ha un pensiero. Pur s'appo te, cui la dolente vita Sol confortâro i domestici affetti, Di un'anima romita Trovino grazia i poveri concetti, Nel nome d'ogni madre e d'ogni sposa, Pia qual fosti e amorosa, T'offro un canto e un saluto, D'affetto reverente umil tributo. Perchè a noi donne, che onoriam del paro La virtù oscura o ricinta di gloria, Di Gemma il nome è caro Come di Beatrice la memoria : Ambo errar le vediam col lor Poeta Di pianeta in pianeta, E questa d'Arte, e quella Di Famiglia soltanto a lui favella. Ed all'Arte ei sorride e alla Famiglia Con pari affetto e con egual sorriso; Poi, quasi padre a figlia, A me parla così dal Paradiso: « Fra i mille fior dell'immortal corona Che Italia oggi mi dona, Porrò l'umil tuo fiore, Sol perchè alla mia donna hai fatto onore. »

Firenze, maggio 1865.

No! il mio povero ingegno non s'attenta Di quel Sommo cantar che a' sommi è duce; Ma il gran subietto, che sì mi sgomenta, Amor di patria a meditar m' induce. Tal voce che a seguir non mai son lenta, Ch'è dell'anima mia tormento e luce, La cara voce di Vinegia bella Sì mi parla in mestissima favella: « — Con le città sorelle a me si vieta Dar culto all'ombra d'Alighier nel suolo Che a lui fu culla. — Oh almen non sia segreta L'empia condanna che m'addoppia il duolo! Tu, che fosti altra volta il mio poeta, Ergiti dunque a più gagliardo volo, E a piè del glorïoso monumento Offri il tributo almen del mio lamento. » Tu ben lo sai di quale amor cortese Mi amò quel Grande, cui si presta onore, E pur t' è chiaro che per me si rese Largo ricambio al suo fecondo amore. Ei, che pel primo l' Italo paese Pensò unito nei gaudî e nel dolore, Non chiegga perch'io sol manchi alla festa Che la redenta Italia oggi gli appresta. » Tutta gli narra la mia trista sorte, Le promesse bugiarde e i disinganni; Di' quante volte ho scosso le ritorte Che a' polsi m'annodâr da cinquant'anni. Di' che ne' dritti miei secura e forte Guardo impavida in faccia a' miei tiranni, Di' che spinsi alle guerre e negli esigli, Perchè schiavi non fossero, i miei figli! » Commosso Ei forse alla lugubre istoria Farà forza a Colui che al giusto cede, Perchè m'assenta libertà e vittoria A premio del dolor lungo e la fede. Se un raggio ancor della passata gloria Alla povera oppressa Iddio concede, Oh! anch'ella mostrerà quant'ama e come Il cor di Dante, I'intelletto e il nome! — » Qui tacque e pianse — e che più dir poss'io Languid'eco de' suoi fervidi accenti?…. Al suo pianto si mesce il pianto mio E mi vieta il dolor fino i lamenti: Sol nel dì che a compir l'alto desio Surgano (e tempo è omai!) I' Itale genti, Questa cetra fedel fia che ritrovi Più degno un canto pe' suoi giorni novi.

Maggio 1865.

**(1) Una delle cento bandiere che le Città italiane mandarono a Firenze per festeggiare il centenario di Dante.

Poi che al divo Cantor del tuo saluto Rendesti il pio tributo, Vanne, e al tuo suol diletto Per noi favella di fraterno affetto. Di' che la festa di Fiorenza ell' era Festa d' Italia intera, Che nell'amor di Dante Il patrio amore si mostrò gigante. Oh! di' che quando, in bruno vel ravvolto, Del popolo raccolto Al disïoso sguardo Il veneto si offrì sacro stendardo, Un fremito d'amor corse per l'ossa Della turba commossa, E mille voci in una La martire acclamâr della Laguna. Parve in quel grido la risorta gente Sì concorde e possente Che omai le fia viltade Soffrir l'estranio nelle mie contrade! Deh! reca questa fè santa e profonda Alla Iapica sponda; E ad innovar t'appresta Sull'Adria ancor la grande Itala festa!

Firenze, maggio 1865.

**(1) Con questo titolo, un illustre nostro diplomatico dedicava una barcarola all'Imperatrice Eugenia, alla quale l'augusto sposo aveva offerto in dono un'elegante gondoletta fabbricata in Venezia. — La barcarola terminava colle due seguenti strofette: Donna, se a caso il placido
Tuo lago a quando a quando
Teco verrà solcando
Il muto imperator,

Digli che in riva all'Adria
Povera, ignuda, esangue
Soffre Venezia e langue,
Ma vive… e aspetta ancor.

VENEZIA

Qui pur in onta ai vigili Sgherri che m'ho daccanto, Qui pur giungeva il canto Che in cor sacrasti a me. Oh! se fra gente estranea Il mio lungo dolore Destar potesse amore, Forse il potria per te! Ma nell'orrendo, assiduo Squallor che mi circonda Una pietà infeconda Più m'inacerba i dì. Sappi che a me il servaggio Crebbe l'antico orgoglio, E la pietà non voglio Ch'Anglia al Polacco offrì. Sempre delusa e credula, Sacro all'Italia ho tutto, Nè a prezzo d'un suo lutto Vo' libertà raccôr; La libertà giuratami Da estranî e da fratelli E ch'io da questi e quelli Attesi invan finor. M'addoppia la miseria Ira, ardimento e gloria… Io della patria istoria Vanto sarò primier. Se mi disertan gli uomini, Se non m'ascolta Iddio, Tu questo orgoglio mio Rivela allo stranier.

Firenze, luglio 1865.

Entrambe i marmi, i fior, l'aer sereno Della tua lascerem città nativa; Tu le sponde vedrai del mar Tirreno, Dell' Adria io rivedrò la mesta riva. Tu col virgineo cor parti ripieno D' ogni speranza dell' età giuliva, Io chiuderò nel combattuto seno L'amor di patria, cui l' esiglio avviva. Poi torneremo — e forse al tuo ritorno Avverarsi vedrai nelle tue mura Il più bel sogno ch'or t'aleggia intorno. Sogni quest'alma più non ha e non cura; Chieggo sol che riposi anche quel giorno «Sotto l'usbergo del sentirsi pura.»

Firenze, luglio 1865.

**(1) Louisa Grace, nata a Bristol nel 1818, morta a Pistoia nel 1865, coltivò le lettere e la poesia con rara felicità. Amò l'Italia come patria, e s'ebbe affetto e stima da molti illustri Italiani. Le sue traduzioni e i suoi lavori originali, raccolti e pubblicati dalla Tipografia Le Monnier per cura dell'egregio marito di lei, ingegnere Francesco Bartolini, s'ebbero le lodi dei nostri più reputatiperiodici.

Lieve comparvi, e sparirò siccome
Pallid' ombra invernal senza compianto
D'esto suol d'armonia, di dolce incanto.

L˙ Grace--Bartolini.

Non sparirai così! se innanzi sera Tu fosti a queste blande aure rapita, Nella tua pöesia dolce e severa V' ha un alito di vita, Alito che raccoglie ogni cortese Donna del bel paese, E farà tua memoria e viva e chiara, Finchè ingegno e virtù s'abbiano un'ara. Quell' amor, più che d'ospite, di figlia, Che portasti dai primi anni al mio suolo, Per te, che mai non vidi, or mi consiglia Pie lagrime di duolo; E poi che ho scôrti ne'tuoi carmi impressi I miei pensieri istessi, Perchè sul mio cammin, dissi, giammai Quello spirto gemello io non trovai? Deh! se ti giunge lo mio dir, perdona Questo che orgoglio pare ed è sgomento. Culta tu fosti e pia, soave e buona Più assai ch'io non mi sento; Ma anch'io sopporto un'affannosa guerra Che non s'acqueta in terra; Dell'ignoto mi punge alto desio, E anelo a un ben che non m'assente Iddio. E gemo e piango, e il mio pianto discende Sovra il materno tumulo recente, E invidia del riposo allor mi prede Della sepolta gente…. Ahi! Io sconforto di quest'ore strugge La gioventù che fugge, E, fuggendo dal cor, sovra il mio viso, Quasi amara ironia, lascia il suo riso. E questo affanno, che d'un velo nero Stende l'ombra per me sull'universo, Sempre vario di forma e sempre vero Palpita nel tuo verso; Amor dell'arte e carità di donna Per te gli fêr colonna, Ed ora, a premio del tuo santo zelo, S'è fatto aureola che ti cinge in Cielo. Sia laude a te che il fervido intelletto Piegasti alla virtù mite e verace, Che più assai della gloria entro il tuo tetto Cara avesti la pace, Quella pace che pur fuggía sovente Dall' agitata mente. Ma per affetto altrui serbar costante Solevi, o pia, sul pallido sembiante. Sì di te mi parlò tal che ti pinse Siccome una perfetta opra di Dio, E per tal modo il suo parlar mi vinse Che t' alzo un priego anch'io: «Se amore eguale al suolo istesso e all'arte Dritto al tuo amor m'imparte, Del raggio più modesto oh! fammi erede Del valor tuo, dell'immortal tua fede! »

Firenze, gennaio 1866.

Tu mel narravi! allor che il tuo pensiero Forma cercava al suo divin concetto, Nel sogno t'apparì scolpito, intero L'arduo subbietto. E col fido scalpel tu ritraesti Pieno d'ardor la visïon novella, Tal che l'opra, ideata dai celesti, Di lor favella. Oh! quando l'Arte al Ciel tanto s'appressa Che il Ciel si schiude per mostrarsi a lei, Credi, il tributo è troppo umíl per essa De' versi miei! Lasciami contemplar senza un accento La tua Pietà che mi süade al pianto : Perchè dir non saprei quello ch'io sento, Di te non canto. Sol canterò, se il Genio animatore Che infondeva la vita in questi marmi, Ispiri alla mia mente, anzi al mio core, Condegni carmi.

Firenze, marzo 1866.

Ecco, voglioso anch'io
Ad onorar nostra risorta madre
Porto quanto mi lice,
E mesco all'opre vostre il canto mio.

G˙ Leopardi.

Esultate, fratelli! Oh non è questa Fallace larva che il desío colora! Dal suo letargo qual leon si è desta Italia nostra ancora, E intorno ad un vessillo, unico e santo Segno del suo riscatto, Quanti han sperato e pianto Si strinser tutti in un fraterno patto. Deh! per qual modo palesar potrei Questo delirio di gioia ch'io sento?… Voi l'avrete una patria, o figli miei! Voi con lugubre accento Imprecar non dovrete ad ogni nato, Perchè, tremenda vice! Non gli consenta il fato Che d'esser schiavo o profugo infelice. Ben mille volte avventurati noi, A cui la vita in quest'età sorride; Chè tal senno e valor ne'figli suoi Italia anco non vide! Fia meraviglia ai secoli futuri Di questi di l'istoria; Splenda ad esempio e duri, Finchè il mondo starà, la sua memoria! Nessuna gente t'offrirà un amore Del nostro, o Patria, più fecondo e forte. Il pianto e il sangue, che versiam dal core, Rodon le tue ritorte! A te lieti sacriamo ogni più cara Cosa ne serbi il mondo, E in questa nobil gara Solo è dolente chi riman secondo. Nè compianto vogliam se ancor l'offesa D'un despota n'aggrava invan feroce; Chè, portento novel! più a noi non pesa Sugli omeri la croce.— Senza che il piede ne vacilli, l'erta Guadagnerem del monte…. Quando la mèta è certa, Oh! chi guarda al sudor della sua fronte? Si compianga colui che al benedetto Giorno, de'nostri voti ultimo segno, Questa vindice udrà voce nel petto: « Sei di tal giorno indegno! » Che straniero ei rimanga all'esultanza Dei redenti fratelli, E sulla sua sembianza Sol morte la voluta onta cancelli. Vile chi cede a ignobili paure, Vil chi muta pensier secondo il vento! Noi vogliam generose alme a secure Nel supremo cimento. — S'alzi dall'Alpi al mar l'inno di guerra, E non la spada sola, Ma nell'insorta terra Anche l'idea combatta e la parola! Da una sorte miglior fatti migliori, O Patria, ne vedrai! Le cittadine Ire fien spente, e di novelli allori Cinto il regal tuo crine : Il lavoro virtù, vanto gli affetti Del domestico lare, Saggi i costumi e schietti, E sol di caritade arca l'altare! — VIVA L'ITALIA UNITA! il grido è questo Che fra gli artigli della rea nemica L'ultimo anello infrangerà ben presto Della catena antica; Ed all'amplesso della gran famiglia Che le braccia le stende, Ridonerà la figlia Che guarda in volto a'suoi tiranni, e attende!

Firenze, maggio 1866.

Benchè nel corpo e più nell'alma afflitto, O Benedetto, da un dolor sì fiero, Tu pur movi fremendo al gran conflitto, Che torrà la mia patria allo straniero. Ed io t'ammiro, e a te m'inchino, o invitto; Poi, volgendo alla tua casa il pensiero, Prego che un nuovo duol non venga inflitto A Lei che in ogni figlio ebbe un guerriero. Dio ti serbi alla madre, o Benedetto! E in breve, cinto di novella fronda, Con gli altri figli Ella ti stringa al petto. Talchè la gioia sua, santa e profonda, Surta dal sacrificio e dall' affetto, Alla gioia d'Italia alfin risponda.

Firenze, giugno 1866.

Sì, è vero, è vero! non temer d'inganni, Apri alla gioia il cor, martire santa; La verga, che t'offese ahi! cinquant'anni, Già cade infranta. Esulta alfine! Questa gran vittoria, Che Italia ancora non comprende intera, Tu la cogliesti, e la civil tua gloria Su ogn' altra impera. Deserta, inerme, di catene avvinta, Un' arma ti sei fatta anco del lutto, E tutta Europa col tuo pianto hai vinta, E vinto hai tutto. Oh! pêra il dritto della Forza, e il dritto Della Giustizia omai segga sui troni! Tal legge, che finor parve delitto, Tu al mondo imponi. E, mentre al mondo tu avvilita appari, Perchè ai destini tuoi Francia ti rende, Tu il vindice di Dio decreto impari, Che per te splende. Sì, è Dio che vuole che il nepote istesso Di colui che, non sua, ti diè all' estrano, Libera e grande ti confermi adesso Con la sua mano. E tu, libera alfin, libero esponi Il tuo gran voto ed all' Italia assenti: No! non ti dona alcun, tu sol ti doni A' tuoi parenti! Purificata d'ogni antico errore, Insegnamento dagli altrui ricevi, Chè al giovin Regno novo senno e amore Recar tu devi. Noi che sfidammo per tuo amor la morte, Noi che viviam della tua vita istessa, Ti preghiam grande nella nuova sorte Qual fosti oppressa.

Castelfranco Veneto, ottobre 1866.

Sui patiboli infami, entro le mura Di Mantoa dolorosa altri son morti, Altri pugnando con l'ardir dei forti Cadder sulla funerëa pianura. Forse ignoti fra lor, ma d'una dura Schiavitù stanchi tutti, e tutti insorti; Speranze ebber comuni, e affetti, e sòrti, E costanza, e martirio, e sepoltura. Ma il sangue loro fecondava il seme Di libertade, ed or che il seme è frutto, Qui la patria li piange e onora insieme. Ogni sdegno fraterno oh! sia distrutto, E noi stringa un amore ed una speme Innanzi a tanta gloria e a tanto lutto

Firenze, 1867.

I. LA SPERANZA

In pria confusa e poi distinta e cara Tu sorridi al fanciul fin dai primi anni, E tessi un velo de'tuoi rosei vanni Alla sua mente d'ogni danno ignara. Poi quando adulto la sventura impara, Virtù gl'infondi a sopportar gli affanni, Vieti che il nudo ver lo disinganni, E più bella gli splendi oltre la bara. Eppur, trista mercede alla materna Pietà! tu dagli ingrati umani cuori Il nome hai sol d'ingannatrice eterna. Ma per questo gentil che bella tanto Ti sculse, all'uom perdona. Ahi! se tu muori Nel cor, non è la vita altro che pianto! —

II. LA MODESTIA

Quasi a schivare un occhio desïoso, Che non vede ma in sè pur sente fiso, Nel bianco velo tiene il volto ascoso, E incerta par fra il pianto ed il sorriso. Il guardo abbassa in atto timoroso Qual non s'attenti sollevare il viso; A cosa umana somigliar non l'oso, Sol può averne d'eguali il Paradiso. La verecondia sua tanto è verace Che par senta vergogna anco di quella Ineffabile grazia onde altrui piace. Però, temendo udir mi possa ed ella N'abbia turbata la virginea pace, Non vo'significar quanto sia bella.

Firenze, marzo 1867.

Grazie, mio Gino! Con pensier gentile Per me cogliesti un fiorellin del prato, E qual saluto del novello Aprile Me l'hai recato. Messagger più innocente e più diletto Per me non ebbe mai la primavera, Nè mai m'infuse nel materno petto Gioia più vera. Però che solitaria un dì gioiva Della natura alla nascente festa, Ed ora il core a quel piacer s'avviva Ch'essa ti desta. E gioïr del tuo bene è un ben profondo Sì che null'altro gli somiglia, o caro, E d'ogni angoscia che mi vien dal mondo Vince l'amaro. Provvida legge dell'Eterno! allora Che aneliamo alla tomba egri c scorati, Di questa vita ancor ci rinnamora Nei nostri nati. Che se mi vieti un dì l'età cadente Venirti accanto ovunque movi il piede, E vigilarti con quell'ansia ardente Che tutto vede, Il core ed il pensier ti seguiranno Sempre, o diletto, ove non basti il guardo, E sempre il tuo ritorno invocheranno Che non sia tardo! Poichè ho d'uopo, fanciul, del tuo sorriso Più che del mio tu non avesti mai; Pur nol dirò, quando da me diviso Lieto sarai. No, nol dirò! ma poi che, te lontano, Fin l'april mi sarà gelo e squallore, Ch'io m'abbia allor raccolto di tua mano Com'oggi un fiore.

Firenze, aprile 1867.

Nel timor ch'ardua fosse alla mia mente La tua Scïenza, e in petto Mi avesse a isterilir precocemente Ogni più caldo affetto, De'gravi studî, che t'aprîr le penne A tanto vol, digiuna Restai — strano sgomento al cor men venne Come a fanciul da una foresta bruna, Sgomento che dovea Scemar con gli anni, eppur con lor crescea. Ma quel giorno, o gentil, che a me porgesti Il tuo dotto volume,(1) Saggio sulla Filosofia dello spirito. Vinta dai modi tuoi dolci e modesti, Da quel dir che süade o non presume, « Alla donna, diss'io, non si disdice La profonda dottrina, Se in Lei che n'è cultrice Non sol l'ingegno ma il sentire affina, Se di grazia novella, Senza offuscarne la natía, l'abbella.» Ed occhi e mente con avida brama Nel libro tuo fissai, E la ragion per che salisti in fama Appresi ed ammirai. La tua parola aperse al mio pensiero Un mondo sconosciuto; Arido e astruso non m'apparve il vero Come l'avea temuto….. Oh! il ver, che tu riveli, Non ci rabbuia, ma ci schiara i cieli! — Tu guardi all'Arte, e ne favelli e senti Qual ne sente e favella Anch'esso il vate, e al par di lui le assenti Una mèta novella. La Scïenza, ch'è tua, dunque nemica A Pöesia non viene, Anzi entrambe soggioga ed affatica Uguale amor del bene, E la pensata rima Spesso i responsi di Sofia sublima. Immensa scala è la Scïenza, tesa Fra terra e ciel; le genti D'ogni gradino all'affannosa ascesa Scopron novi portenti: Del più nobile sangue indarno aspersi Veggiam quei santi acquisti, Indarno al Genio eternamente avversi Veggiam gli stolti e i tristi; Il Genio ognor procede, Perchè sa che là in alto il Dio risiede. Nè paventa quel Dio, come i bugiardi Suoi sacerdoti, il vero. Egli è fonte di luce ai nostri sguardi, Non tenebre e mistero! Provvido e non avaro, Ad ogni età sol quanto merta Ei dona, Perchè, sudato più, le sia più caro L'allôr che la incorona; Ed or l'età prepara Ch'abbian Fede e Saper soltanto un'ara. Tale è il Nume che adori? e al Nume istesso Io pur la prece porgo. Dritto eguale nell'uom, grande od oppresso, Tu scorgi, e teco io scorgo. Non già licenza, ma ragion severa La Libertà tu chiami, E anch'io l'intendo intemerata, altera, E l'amo qual tu l'ami, Lieta che alfin su noi Invocata diffonda i raggi suoi. Legge comun, del comun ben sorgente La Virtù dici e pensi; All'amor di famiglia onnipotente Ardi i più puri incensi, E venirti compagna in tali affetti M'è insiem gloria e contento; Sol mi perdona se de'tuoi concetti Ad uno io non assento, A quell'un che la lieta Fè d'una pace universal ci vieta. Sol questa fede a confortar discende Di mille afflitti il core, Quando l'empio spettacolo l'offende Di chi uccide e chi muore. Gli Eroi della Palestro, a cui l'omaggio Rendi dal cor profondo,(1) La marchesa Florenzi rammenta, in questa sua opera, la morte gloriosa del Cappellini nella battaglia di Lissa, e ne fa degnamente i debiti elogi. Non morían sol pel Veneto servaggio, Ma per il ben del mondo, Chè ogni redenta terra Affretta il fin d'ogni fraterna guerra. Oh! chi fia che al fratel la man non tenda Gli odî oblïando e i lutti, Quando a ciascun la patria sua si renda E il ver brilli per tutti?… Mente di Sofo e core di Poeta Natura a Te largia, Perchè narri che ai mondi è guida e mèta Amore ed Armonia; E tu puoi dir fallace Sogno la fede di sì bella pace? —

Firenze, maggio 1867.

UNA PREGHIERA(1) Un fratellino della sposa, poco tempo avanti le nozze, chiedeva alla mamma una piccola moneta per comperare dei fiori ed offerirgli alla Madonna perchè facesse contento il babbo.

« Oh s'egli è ver, Madonna benedetta, Che per amore del Figliuol divino, Il pietoso tuo cuore i voti accetta D'ogni bambino, Madonna benedetta, oh! fa che torni Al mio buon padre la letizia in viso, Fa ch'ei sorrida, come in altri giorni, Al mio sorriso. Reduce appena dalla scuola, in festa Corro a posarmi sovra i suoi ginocchi, Ma s'ei mi guarda con la faccia mesta, Ho il pianto agli occhi. Felice il rendi! ed alla mamma mia Richiederò d'altre monete il dono, Per recar novi fior, Santa Maria, Al tuo bel trono. No! più ninnoli e chicche io non desío, Ma fior soltanto per prestarti omaggio, E sarò, se fai lieto il padre mio, Docile e saggio!» Pregava a questo modo il fanciulletto Commosso da un pensier santo e profondo, Nè corse molto che il paterno aspetto Tornò giocondo. Tornò giocondo or che la figlia cara Gli è dato salutar sposa novella, Ma il pio fanciul, mentre accompagna all'ara La sua sorella, Tra i fior del serto che l'Amor compose, Quei fiori stessi riconoscer crede Ch'ei della Madre del Signor depose, Pregando, al piede.

Firenze, maggio 1867.

All'invito che volgermi ti piacque Lieta assento, o Maria, Perchè la Musa nacque Sorella all'Armonia, E ovunque ella diffonde I celesti concenti, Come un'eco amorosa a lei risponde Il vate ognor con gl'ispirati accenti. Tu per terre lontane Peregrinasti lungamente, o cara, E mille genti estrane E plausi e lauri t'hanno offerto a gara. Ma più di ogn'altro ami pur sempre il suolo Che ti diede la culla, Dove fin da fanciulla Spiegar sapesti a tanta altezza il volo, E nessun giorno t'apparì più bello Del giorno che tornasti al patrio ostello. E bearci t'è grato anco una volta Con la magía degl'irrompenti suoni, E il plauso di ciascun che qui t'ascolta È a te più caro che d'un rege i doni. Ben a lungo invocata hai questa festa Di patria e di famiglia, E il gaudio che t'appresta A niun gaudio terren si rassomiglia! Un gaudio egli è che ti commove il petto D'orgoglio no, ma del più dolce affetto. I tuoi fratei, come li spinse il core, Venner concordi al genïal convegno, E al tuo convegno altri cresceano onore Con l'opra egregia del lor culto ingegno: Così Talía il tributo T'offrì d'un fiore nel tuo suol cresciuto. Che se una larva di tristezza nova Vela a ciascun la fronte, Pensa, o Maria, che di ben dura prova Oggi siam pesti a fronte: La dolcezza perfin de'tuoi concenti Che al pianto ne süade, Non può tôrci il pensier dei foschi eventi Ch'ora affliggono forse altre contrade. Negra nube, foriera di tempeste, Il nostro ciel coverse…. Ma il nostro ciel quant'altre, e più funeste, Non ne ruppe e disperse?… Sì, splenderà più luminoso il raggio Di quest' unico sole, Perchè fede e coraggio Avvaloran la balda itala prole, E al coraggio e alla fede Portentosi trionfi Iddio concede. E tu, o gentile, nei giorni sereni Che ne matura Iddio, Deh! ancor ritorna a questi luoghi ameni Dove lasci di Te vivo il desío. Vieni a inneggiar co'tuoi divini accordi All'alba della Gloria e della Pace! Allor tutti concordi, Noi ti direm quant'oggi il labbro tace, E anch'ei più degna e lieta La sua canzone t'offrirà il poeta.

Castelfranco, novembre 1867.

Me giovinetta (benchè ignote ancora L'una all'altra d'aspetto, e in suol diverso) Così come per fama uom s'innamora, Innamorava il candido tuo verso. Al desío di vederti e dirti suora, Ben sovente il mio spirto era converso, Ma solo adesso, e solo ahi! per brev'ora, Al mio voto si piega il fato avverso. Avventurata madre Iddio mi fece, E te di cento misere orfanelle Pose la Carità di madre in vece. Io de'miei figli per innato amore, Tu per sola virtù madre di quelle….. Quanto oh! quanto di me tu sei migliore! —

Firenze, 1867.

I.

Quando un diniego che l'amor consiglia O un'ammenda ti vien da'tuoi parenti, Fanciullo mio, non aggrottar le ciglia, Non disciorre dal labbro amari accenti. Fonte d'ogni tuo bene è la Famiglia E per lieve cagion più nol rammenti, Nè sai di quanta sconoscenza è figlia L'improvvid'ira, onde avvampar ti senti. Piega il voler benedicendo a questi Che per te vivon, che ti diêr la vita, Che ti son guida a lieti giorni e onesti. Quanti ai paterni accenti han chiuso il core, Poi che tal guida a lor venne rapita, Visser nel pentimento e nel dolore.

II.

Quando mesto sei tu, più non vorresti Che la gioia brillasse ad altri in viso, E quando lieto, sfuggir tenti i mesti Che rispondon col pianto al tuo sorriso. I pensieri e gli affetti ahi! non son questi, Da cui fidavo il tuo bel cor conquiso, Nè la provvida legge anco apprendesti Ond'è il viver tra il gaudio e il duol diviso. Nei dì ridenti la sventura onora, E se vuoi ch'alte cose essa t'apprenda, Pensa che per ciascun fissata ha un'ora. Nel dolor l'altrui gaudio oh! non t'offenda, Ma la fede nel cor t'infonda ancora Che il ben smarrito l'avvenir ti renda.

III.

D'ogni bellezza d'arte e di natura, D'ogni diletto che ti vien concesso, O mio fanciullo, con gelosa cura Serba il ricordo nella mente impresso. E se l'umana sorte, ahi! mal secura, Ti voglia solo e di mestizia oppresso, Una fonte di gaudî intima e pura Tu potrai rinvenir sempre in te stesso: Di svanite armonie, di fior nel verno, Di cari accenti, e d'amorosi volti Può ridarti il pensier conforto alterno. Ma il conforto miglior nei dì men belli Ti verrà dai ricordi, oh! sieno molti, Del ben reso agli afflitti e ai poverelli.

Firenze, gennaio 1868.

Di Bivigliano al placido soggiorno, Di cui vita tu sei, gioia e decoro, Sovente col pensier per te ritorno Che quasi madre onoro. Eran squallide lande — era una gente Selvaggia ancor, come la fe'Natura; Vôlser brevi anni, e già doppia semente Nel suol, nei cor matura. Cresce nei campi, che il sudor feconda Di quanti al pertinace ozio togliesti, Nei cor germoglia che di fè gioconda Tu ravvivar sapesti. Come oprasti cotanto? Ignota e nova Dove in odio al colono era il signore, Come vincesti la stupenda prova Ed ottenesti amore? Intendo, sì! L'esempio benedetto Dei figli ch'educavi a te simíli, La solerte virtù, l'ardente affetto, I sensi alti e gentili, Fûr l'arti e l'armi onde la guerra pia Sostenevi, o animosa, e i tuoi nemici Mai com'or che li tieni in tua balía Non si sentîr felici. D'Italia il sacro nome, un dì schernito, Comprendere ed amar fêsti in brev'ora, Tal che un ribelle volgo oggi al tuo invito Le patrie leggi onora. Gl'intelletti offuscava un vel tenace D'ubbíe tessuto e di strani spaventi; In un Dio di terrore e non di pace Credean quell'egre menti. Ma suonò la tua voce, e fu compresa Come un dì l'evangelica parola; Vera scuola per lor fêsti la Chiesa, Tu, cui la Chiesa è scuola. Nei dì festivi dall'attiguo Tempio Movono alle tue case, ove il tesoro D'util saper col labbro e con l'esempio Apri a ciascun di loro. E il bene e il male, e i dritti e i dover primi Ad essi apprendi, e i più soavi affetti; Tu il sacrificio ed il lavor sublimi, Perchè ciascun li accetti. Pur semplice e modesta, ogni tuo merto Sembra ignori tu sola, e il ben che fai, Siccome stella che di raggi ha un serto Nè il sa, nè il vide mai. Nei dì remoti, quando al ver fêa velo Di falsi sacerdoti il culto arcano, Sarebbe apparso il tuo fecondo zelo Prodigio sovrumano. Il secol nostro, al ver tolte le bende, D'ogni prodigio la ragion richiede, Ma se virtù pari alla tua gli splende, Arde di nova fede.

Firenze, gennaio 1868.

PARLA LO SPIRITO DEL DEFUNTO ALLA MADRE

Se revocar potesse umana cosa Leggi eterne, che all'uom sembran severe, Lo potrebbero, o madre dolorosa, Le tue preghiere. Ma se quanto ai mortali asconde il Cielo Potessi aprirti, oh! allor tu non vorresti Ch'io ripigliassi più quel fragil velo Che un dì mi desti. L'alma che dal terren carcere è uscita, D'affannosa pietà, deh! non far segno; Solo chi vive della vostra vita Di pianto è degno! Fatal contrasto! Ai vostri giorni amari Ci rivorreste con desío fallace, Mentre noi supplichiam pei nostri cari La nostra pace. Ma son vani del par gli opposti prieghi, E ognuno corre la prefissa via. Pur non dolerti dell'Eterno ai nieghi, O madre mia. Sappi che nè una lagrima, nè un solo Palpito del tuo core andrà perduto; Sappi che il Cielo delle madri al duolo Mai non è muto. A un fato che non rompe il nostro affetto Ribelle indarno non mostrarti, o cara, E la speranza al padre mio diletto Sperando impara. Dimmi: rammenti quando pargoletto Le miti ammende mi rendean migliore? Miglioran parimente ogni intelletto Dolore e Amore. Dolore e Amor saran l'ali veloci Che qui t'innalzeranno ov'io t'invoco, Sol che animosa le gravi tue croci Regga per poco. —

Firenze, febbraio 1868.

AGLI SPOSI

L'inno più bello in questo dì nel core A voi lo canta Amore; Non inni adunque io vi darò, ma sola Un'umile parola, Una parola vereconda e schietta Che, fida Musa, l'amistà mi detta. Nel Tempio ove la sposa orò fanciulla, Nel suol che vi fu culla, Il lungo delle vostre alme desío Alfin consacra Iddio, E al caro nodo, fra giocondi auspicî, Plaude lo stuolo dei festanti amici. Pur non sognate che una volta insieme Tutto sia gioia e speme, Che virtude d'Amor dai vostri passi Tolga le spine e i sassi; Serba ad ogni dolor dolci conforti, Ma non muta l'amor le umane sorti. E poi ch'alma perfetta in petto umano Cercar ne torna vano, Deh! un facile perdon date a vicenda Ad ogni lieve menda, Ed a vicenda ogni piacer più grato Scordar vi piaccia per l'oggetto amato. Amore è un raggio che languir si vede, Quando langue la fede; È un'arcana armonia che più non suona, Dove il dubbio ragiona; È un profumo di ciel che fugge via, Se Virtù nol rattiene e Cortesia. Raggio, profumo, ed armonia serbate Nell'alme innamorate, E vi sarà di pie gioie lenita L'ambascia della vita. Amore all'alma è come Sole al fiore; Quando gli manca, isterilisce e muore!

Firenze, febbraio 1868.

RISPETTI

I.

Non le vedeste? Quando al nostro lido Giungeano finalmente le tre bare, Tre colombe ne uscîr come dal nido Ed insieme si misero a volare. Volarono alla Piazza, e sotto l'arco Si fermâr della chi esa di San Marco: Poi gaie si levarono e leggiere In cima all'asta delle due bandiere: Alfin l'ho viste che raccolser l'ale Sopra un veron del palazzo ducale.

II.

No, non mi dite che gli è un sogno il mio, Nè tornan l'alme degli estinti al mondo: A quelle tre lo permetteva Iddio In premio del dolor santo e profondo. E quando si fermâr presso la chiesa, Volean dir che anco Roma a noi fia resa; E quando alle bandiere han mosso il volo, Volean dir ch'avrem pure Istria e Tirolo, E dir volean dalla magion ducale: Non più Doge, ma un Re che ben lo vale!

Firenze, 22 marzo 1868.

LA MARGHERITA

I.

Gli è ritornato finalmente aprile A rifiorire la collina e il prato, Ma per me de'suoi fiori il più gentile È questo bianco dal botton dorato; Somiglia ad una stella, ed è sì umíle Che con occhio d'amor va riguardato; E chi nol guarda con occhio d'amore Spirto di cortesia non chiude in core, Spirto di cortesia non ha nè intende Chi un amoroso culto non gli rende.

II.

E non è ver, sapete, e'non è vero Che questo fior sia di profumi spoglio; Gli asconde a chi non l'ama, o gli è straniero, Per verecondia, e non già per orgoglio. Ma nell'ore dell'ombra e del mistero Quant'esso odori nol so dir nè il voglio; Non so dir quanto odori, e non vel dico, Perchè non lo consente il fior pudico; Sol vi dirò che i suoi profumi ottiene Quel cor che più l'apprezza e gli vuol bene.

III.

M'han narrato che tutto il bel paese Di sè rallegra questo fior diletto, E gli svela ogni vergine cortese I dolci arcani del suo primo affetto. Per virtù che dal Ciel forse gli scese, Ne sa dir ciò che pensa un caro oggetto; Vi sa dir se a voi fido è il vostro damo, Ma gli è per sè ch'oggi risponde « io t'amo! » « Io t'amo! » all'amor suo dice e ridice, E il fior d'amore è nell'amor felice.—

IV.

E tutti i fior, dal mare all'Alpi estreme, Vennero ad ammirar la Margherita, E in una fede e in una sola speme L'han vista al Giglio di Firenze unita. (1) Il Municipio di Firenze offri alla Principessa un diadema composto di un giglio e di una margherita in diamanti, in occasione de'suoi augusti sponsali. L'han vista appena, e tutti i fiori insieme Regina l'han chiamata e riverita. Umile in tanta gloria Ella restava, E regina ogni fior la salutava, Ed ogni fior dall'Alpi alla marina La Margherita salutò regina!—

Firenze, aprile 1868.

Ricambio umíle al tuo canto soave, Ti promisi il mio canto in dì remoto, Nè più il rammenti, o pensi a me sia grave Scioglier quel voto. Ma in quest'ora, che il vecchio anno suggella Ed apre il novo, per costume antico Ogni promessa il mio pensier rappella Fatta ad amico, E la disciolgo quasi omaggio pio Offerto all'Amistà, perche ai dì novi Ogni affetto gentil l'animo mio Pago ritrovi. Però al tuo suolo ed alla tua dimora Vola la mente, e a te scolpite in fronte D'un recente abbandon che t'addolora Vede l'impronte. Ahi! tu rimpiangi la fanciulla cara Che quasi figlia ti vivea d'appresso, Che, sull'april degli anni suoi, la bara Tolse al tuo amplesso. E il saluto, l'augurio, e il don modesto Domandi invan ch'Ella t'offría quel giorno, E quel giorno t'appar più vuoto e mesto Il tuo soggiorno. E nel suon che l'orecchio ora ti fiede, Nella stella che più timida splende, S'Ella ti parla il cor sperando chiede, S'Ella t'intende. Speme gentil, retaggio del poeta, Cui spesso il volgo e la scïenza irride, Perchè un vantato arido ver ci vieta, Che l'alma uccide. Speme gentil, ch'eterna e disacerba Un duolo a noi più del gioir diletto, Ch'oltre l'avello provvida ci serba Virtù d'affetto. Solo il pensier che un benedetto estinto Legger possa nel nostro intimo core, Combatte in esso ogni malvagio istinto E il fa migliore. Amico! mentre al volgo infausti auspicî Pel nuov'anno sarien codesti accenti, Fién arra a te di giorni più felici O almen fidenti. Dei defunti il pensier solo impaura Chi non vede oltre a questa un'altra vita: Per costoro è la fin la sepoltura, Per noi l'uscita!

LE DUE MADRI

ALLA SPOSA

Mentre saliva a più serena stella Quella pia che ti diede il nascimento, Con materno e divin discernimento Ricercava per te madre novella. E vista un'alma all'alma sua sorella, « Per te, o figlia, pensò, più non pavento! » E il suo affetto trasfuse in quel momento Nella madre di Lui ch'or t'inanella. Poscia dei figli in cor le genitrici (Mai la tua non t'oblia nel paradiso!) Poser d'uguale amor salde radici. Sorridi, o sposa, nel tuo bianco velo, Chè rispondon concordi al tuo sorriso L'una madre quaggiù, l'altra dal cielo! —

Firenze, gennaio 1869.

Madre! quando ripenso al tuo tormento, Un affanno mi stringe intimo e novo, E per correrti accanto il passo io movo, Ma il rispetto m'arresta e lo sgomento. Con immagini usate e usato accento Potrei forse narrar questo ch'io provo?…. No! se un canto di te degno non trovo, La mia voce si perde in un lamento. Ma taccio a forza e del tacer m'adiro, E mille volte a te chieggo perdono Di questo che oblío sembra ed è martiro. Guardami in cor, vedi per te qual sono!… Come cosa di ciel t'amo e t'ammiro, E, se non carmi, lagrime ti dono!—

Firenze, marzo 1868.

ALLA BARONESSA F˙ W˙

Dal dì che la visiva a te fu tolta, D'altra virtù ti si addoppiò il vigore, Come allor che in un sol punto è raccolta, Più calor dà la fiamma e più splendore. Noi chiamáti veggenti, oh! noi talvolta Inganna un guardo che impromette amore; A te, d'esterïor tenebra avvolta, La vigil alma non consente errore. Così al tuo fato ti piegasti, o cara, Che qual darti dovria fede e speranza, Da te la fede e la speranza impara. Bella il pensier ti pinge ogni sembianza, Di quanto offende gli occhi nostri ignara, Non vedi spine, e senti ogni fragranza!—

Firenze, marzo 1868.

O leggiadra angioletta, o il più gentile Di tutti i fior d'aprile, Perchè, perchè tu muori Ora che april tutti ravviva i fiori? Qui nol sapesti, ma nel ciel saprai Di quale amor t'amai, E come la tua morte Mi rinnova un affanno intimo e forte. Ahi! del tuo nome, e cara e dolce anch'ella, Io m'ebbi una sorella, Che pur mi fu rapita Nell'aprile dell'anno e della vita. E da quel giorno, quando april risplende, Più vivo il duol mi prende, E bagno del mio pianto I fior novelli ch'ella amava tanto. O tu, cui sorte ugual tolse dol pari Al bacio de'tuoi cari, Tu che ne avesti il nome E gli occhi neri e le dorate chiome, Col pensiero di lei tu nella mente Mi tornerai sovente, E ad ogni april novello Darò lagrime e fiori anche al tuo avello.—

Firenze, aprile 1868.

**(1) La pietosa e verace istoria di questi fanciulli venne per la prima volta narrata dallo stesso prof. Barellai nella sua Memoria Sugli Ospizî marini gratuiti, letta alla Società medicofisica florentina, nell'adunanza del 12 giugno 1858.

AL PROF˙ CAV˙ GIUSEPPE BARELLAI

Nulla si perde! V'ha una legge arcana, Cui ben più della mente il core intende, Che d'ogni umana angoscia il premio rende Alla famiglia umana. Il martirio di lui che sotto il pondo Di non sue colpe rassegnato langue, Pari al seme del Genio, e pari al sangue D'Eroi, spesso è fecondo.— Due bimbi accolti nella pia dimora Che dalla Madre del Signor s'appella,(2) Lo Spedale di Santa Maria Nuova in Firenze. Con la faccia sparuta ed ancor bella Attendean l'ultim'ora. L'età, la patria, i patimenti affini Li strinsero così d'amore intenso, Che il sol vedersi era conforto immenso Ai poveri bambini. Quando, assentendo a quel fraterno affetto, I letticciuoli lor poser dappresso, Un sorriso di ciel brillò riflesso Da l'uno a l'altro aspetto. Uno di lor, per breve ora soltanto, Quella dolce e serena aria perdea Nel dì che un fior, ch'ei dalla madre avea, Più non trovossi accanto. Ultimo dono del materno amore, Per lui di baci e lagrime nutrito, Quante cose dicea quel fior smarrito Del fanciulletto al core! E il fido amico, di quell'alma il muto Improvviso tormento indovinando, Anch'ei con l'ansio sguardo iva cercando Il fiorellin perduto. A tal vista piangea feconde stille Colui che invan li contendeva a morte, E, se non lor, giurò da simil sorte Salvar mille egri e mille. Poi che ad esso ispirâr l'alto desío Quasi lor missïon fosse fornita, I due angioletti abbandonâr la vita Paghi tornando a Dio. Ma l'imagine lor non lasciò pace A chi tanta pietade in cor n'accolse, Fino al dì benedetto, in cui disciolse La promessa tenace. Quel dì un Ospizio agli egri poverelli Qui, sulle sponde del Tirren, s'apriva, E al chiaro esempio Italia in ogni riva Ospizî ergea novelli. Che se a lenir dei pargoli i dolori Il ricco le invocate arche ha dischiuso, Per essi Arte e Scïenza hanno profuso I lor sacri tesori. O madri, cui la bella opra serbava L'unico ben, per cui la vita è cara, Se rammentate quale istoria amara La bella opra ispirava, Per voi di que' due martiri i sembianti Che un alto ingegno sulla tela ha resi,(1) Il professore Stefano Ussi. Sieno alle mura d'ogni Ospizio appesi Quasi imagin di Santi. E benedite a questa legge arcana Che il cor materno pria d'ogni altro intende, E d'ogni umana angoscia il premio rende Alla famiglia umana.

Firenze, agosto 1869.

Quando ripenso alla tua vita oscura, Bella di sacrificî e affetti santi, A te, povera sempre e sempre pura, Sacro i miei canti. Ancor fanciulla a lavoro penoso Docile induri l'inesperta mano, E spesso l'ora del comun riposo Ti giunge invano; Poichè quell'ora con virtù precoce Sacri alle cure dell'umíl dimora, O trastulli col gesto e con la voce La minor suora; O all'inferma tua nonna e dolorosa Un fiore, un bacio ed un sorriso apporti, Conscia ch'è l'amor tuo l'unica cosa Che la conforti. Sorella il fratel tuo, moglie il marito Di piacer che non hai fruir tu vedi; Pur, se l'affetto lor ti vien largito, Altro non chiedi. Langue il fior del tuo ingegno e non si schiude, Muore anzi tempo il fior di tua bellezza, Ti rimane il tesor della virtude, Ma niun lo apprezza. Ai fratelli, ai figliuoli ed ai nepoti Madre tre volte ed in tre età ti senti; Non per te, ma per lor sono i tuoi voti, I tuoi lamenti. Amare e lavorar, questo è il tuo fato! Felice assai, se pari amor t'è reso, Se un pane dal lavoro assiduo, ingrato, Non t'è conteso. Benedetta la tua fede sincera Che ti sostiene in tante ambascie il core, Che t'impromette in più serena sfera Vita migliore! In varie terre, in varia etade e sorte Ti conobbi, t'intesi, e t'ammirai; Il tuo esempio mi fe' credente e forte, Nè tu lo sai. Se quante crebber tra le feste e l'oro Guardassero alla tua vita di stenti, Quai conforti per te, quali per loro Insegnamenti! —

Firenze, agosto 1869.

Nell'ore mie serene Le parole dei tristi io non pavento, Ma sulla via del bene Con la parola mia ridurli io tento. Che se talor mi lice Dov'era il dubbio seminar la fede, L'alma altera e felice Non sogna al mondo una miglior mercede. Ma nell'ore più amare D'un disinganno o d'un fugace sdegno, Cerco l'anime care Che tutto alla virtù sacran l'ingegno. L'opre lor, le parole Spiranti una divina aura d'affetto, Sono il raggio di sole Che il cor mi scalda e snebbia l'intelletto. Che s'io sola mi trovo, Nè un detto ascolto che mi dia conforto, A ricercarlo movo Tra i fogli d'un amico assente o morto. Oh qual soave lume, Quanta fede e vigor novo m'infonde La virtù d'un volume Che ai segreti del cor sensi risponde! Ma se per poco all'alma Perfin del meditar la possa è tolta, Chieggo conforto e calma Ai mari, ai campi, alla siderea volta. E l'onda, e il fior che olezza, L'aura che spira e la stella che splende, M'infondono un'ebbrezza Che sol lo spirto che la prova intende. Le tele pinte, i marmi, Un'imago, un ricordo, un'armonia Valgono a trasportarmi Nei dì più lieti della vita mia. — Questi conforti arcani Che mi vengon dal core e non dal mondo, Agli occhi dei profani Come cosa celeste io li nascondo. Nè fino all'ultim'ore Mi potranno fallir questi conforti Che m'assentono al core Natura ed Arte, i miei vivi e i miei morti.

Firenze, novembre 1869.

**(1) Vedi Il Paradiso e la Peri di Tommaso Moore, tradotto dal cav. Andrea Maffei.

ALLA MADRE CAIROLI (Per l'Albo a lei offerto dalle Donne italiane)

Per colpa ignota, ma che sol potea Esser colpa d'Amore, Alla Peri dolente il ciel chiudea L'Angelo del Signore; Ma tocco dall'ambascia alta, infinita Della immortal pentita, « Reca, Ei le disse, dell'Eterno al trono Un prezïoso dono, E forse allora, del tuo fallo assolta, Potrò schiuderti il cielo un'altra volta. » E la raminga con desío cocente Scende ratta alla terra, E più d'un reca al ciel sacro presente, Nè il ciel le si disserra: Alfin dell'empio vïator, che riede Alla primiera fede, L'espïatrice lagrima raccoglie Che le rïapre le invocate soglie. — Peri novella, dal terrestre eliso Di libertà reietta Per lunghi error del suo popol diviso, Questa Italia diletta La pietà del Signor — povera schiava! — Da secoli tentava, Offrendo a prezzo del perduto bene Il miglior sangue delle proprie vene. Nè fu vano olocausto a lei fremente Nella ingiusta sventura; Fu pioggia ch'apre il suolo alla semente, Ma non sol che matura. Ed ella, ognor fidente e ognor ribelle, Offriva ostie novelle, Nè i lutti, i disinganni e le ritorte Scoteano la sua fede antica e forte. Fede che da' portenti non nascea, Ma creava i portenti, Che sovra il trono impallidir pur fêa I feroci potenti, Che, face arcana, irradïò la culla D'un'inclita fanciulla, E, poi che Amore a lei commosse il petto, Arse sull'ara e il nuzïal suo letto. E fu lieto quel talamo e fecondo D'una gagliarda prole, Che del suolo natio l'amor profondo Sua stella unica vuole. Tuoi son, madre, quei sensi e quei consigli Che fan grandi i tuoi figli! — Italia guarda e figli e madre, e attende…. E la sua fede più serena splende. Poichè ben ella sa che un dono appresta Caro su tutti a Dio: Non è il pianto del reo che all'altra mesta Ridiede il ciel natío, Pianto è di donna che i suoi figli a patto Darà d'un gran riscatto, Che quattro volte per il patrio amore Si strapperà dal sen materno il core. Ecco! il maggior dei cinque eletti appena Regger puote l'acciaro, Che Italia impazïente ogni catena Scote dall'Alpi al Faro. Povera madre! già il tuo sangue arrossa La via della riscossa… La Peri di quel sangue al ciel fa dono, E il riscatto intravede ed il perdono. Lo intravede, ma pur quai lutti e quanti Graveran questo suolo, Pria del gran dì che sovra i ceppi infranti Surga in un regno solo! Madre! è fatal ch'ogni novo cimento Ti sia novo tormento, Che il sangue tuo d'ogn'itala vittoria Prezzo supremo sia, suprema gloria. Quattro martiri avesti!… Oh il Santuario, Dove han pace i tuoi morti, È della patria fè novel Calvario, Il Tempio è dei risorti. Qui vivi, o madre, nel dolor sublime Che labbro non esprime, E qui, come oggi noi, pietosi voti Sciorranno un giorno i memori nepoti.—(1) Le salme dei quattro fratelli Cairoli riposano nel sepolcreto della famiglia in Groppello, e la madre dimorava presso le tombe de'suoi cari, quassi fossero vivi. Torna la Peri alle lucenti soglie Del già vietato eliso; Ma innanzi al tuo dolore il vol raccoglie, E si fa mesta in viso. Di gramaglie ricinta e di cipresso Pianga il tuo pianto istesso, Finchè un lauro incruento alla sua chioma L'ultimo de' tuoi figli intrecci a Roma!(1) L'estreme parole di Giovanni Cairoli furono: « Benedetto Roma! »

Firenze, gennaio 1870.

NEL GIORNO NATALIZIO DELLA FIGLIA SUA

Dal dì solenne che un figliuol ci nasce, Nova luce la vita a noi rischiara, Ed affetti e pensier novi c'impara Quel bambin che sorride entro le fasce. L'anima nostra si trasfonde e pasce Nell'esistenza di quell'alma ignara; In quella gioia, la più santa e cara, Vènia trovan le offese, oblío le ambasce. Per somigliarle ritorniam fanciulli, E a guadagnarne l'intelletto e il core Facciam nostri i suoi studî, i suoi trastulli. La nostra età divien la sua: se al crine Le aggiunge ogni anno, che si compie, un fiore, Non è vero che a noi restin le spine! —
D'ogni straniero fior bello e gentile Godi arricchir l'italico giardino, E nostro rendi ogni fior peregrino Col tuo cor, col tuo verso e col tuo stile. Poscia con le odorose aure d'aprile Scendi dall'Alpe e varchi l'Appennino, Ed a questo dell'arte altar divino Rechi il dono superbo in atto umíle. E qui per l'arte, del tuo nome altera, Un lauro ad ogni tuo novo tributo T'offre d'amici una plaudente schiera. L'april pria che tu venga a noi par muto, Ma sorridono ed Arte e Primavera, Or che il vate e l'amico alfin saluto.

Firenze, aprile 1870.

RISPETTI

I.

Che siate i benvenuti, o fior novelli! S'apre con voi di mia salute il fiore; Non v'ho mai visto tanto freschi e belli, Mai tanta gioia mi recaste al core: Qual più caro dirò, qual più gentile Tra il fior della salute e il fior d'aprile? Del par sono gentili e a me son cari, S'aprono insiem…. forse vivran del pari!

II.

Voi non fate per me, fiori di serra; Poco v'ho amato sempre, or vi rigetto; Or vi rigetto e dall'inculta terra La mammola raccolgo ed il mughetto. Sempre e solo quel fior coglier m'è grato Che spontaneo si schiude in bosco o in prato, Perch'io ben so che, quando s'apre a stento, Il fior, come l'amore, è presto spento; E quando è spento il fior, come l'amore, Resta una spina che ci punge il core.

Firenze, aprile 1870.

Era un meriggio limpido di maggio. — Sola ed assorta in un mesto pensiero, Entrai nel Cimitero Che dagli Angli s'appella, E cui pietoso intendimento e saggio Di marmi e fiori abbella. In quel meriggio lieto Somigliava un giardin quel sepolcreto. Sopra un avel recente, di vïole, Di giunchiglie e di rose inghirlandato, E difeso dal sole Da un vestuto cipresso, Prosteso e addormentato Vidi un uomo — e quel sonno era sì forte Che solo allora che gli fui dappresso Mi persüasi che non fosse morte. Il piccon là deposto e il rozzo saio Mel dissero operaio.(1) Nel cimitero degl' Inglesi a Firenze si costruivano le nuove mura di cinta. E parea, benchè avesse il crin già bianco, Più per gli stenti che per gli anni stanco. Quasi fossero piume, egli premea Le sculte pietre dell'avel fastoso, E il sudor dalla fronte gli cadea Sullo strano guancial del suo riposo. E così due che per sentier diversi Guidò il capriccio del mortal destino, L'uno all'altro vicino Vidi in quell'ora in vario sonno immersi. Forse il vivo opprimea nell'uom defunto Tal, da cui venne oppresso? O forse a un pio benefattor congiunto Ei si trovava in quell' inconscio amplesso?… Qual si fosse, senz'odio e senza amore Un cor battea dove taceva un core. L'un moriva anzi tempo, e pompe vane Gli fûr dovizie avite, arte e sapere, Mentre l'oscuro artiere, A cui mancan talvolta e tetto e pane, Stentar dovrà per lunghi anni nel mondo…. Dar gli potessi con magici carmi (Pensai) di que' due sonni il più profondo, E chiamar l'altro dai funerei marmi! Ma così come vano, anco fallace Forse era il voto mio — forse gli affanni, Che del ricco sepolto il fior degli anni Miseramente han spento, Del povero la pace Mai non turbâr ch'ivi dormia contento. Io debil crëatura Che far potea?… Come gli augelli il canto, L'olezzo i fior, su quella sepoltura Diedi al vivo ed al morto e preci e pianto.

Firenze, maggio 1870.

Quando il cor le battea più lieto e forte, Glielo freddò la morte, Nel giorno atteso per vederla all'ara, La vider nella bara. Ma seco si portò dentro l'avello Ogni sogno più bello, Al ciel portò quello che il Ciel le diede. Tesor d'affetti e fede. La miglior parte dell'umana vita Le sorrise fiorita; Ma il tramonto seren come il mattino Serbavale il destino? Chi sa da quanti affanni ella fuggia Per quella occulta via, Dove i saggi narrâr che giovinetti Iddio chiama gli eletti? Noi, che ignoriamo qual sarà il domani, Sappiamo noi gli arcani Della Morte, e se rea fosse o pietosa Mietendo questa rosa? Nulla sappiamo!… Eppur, pensando a lei, Piangono gli occhi miei, Benchè non l'abbian vista una sol volta La vergine sepolta. Ma so che quella terra a lei fu culla, Dov'io vissi fanciulla, Ch'indi a questa sen venne, e questa anch'ella Chiamò patria novella. E un'altra havvi ragione intima e mesta Che per lei mi funesta…. Oh! madre io sono, e del materno duolo Non reggo il pensier solo. — Mio Dio, mio Dio, perchè volesti al mondo Questo lutto profondo, Che in sè tutti comprende e vince tutti Dell'universo i lutti?… Mio Dio, mio Dio, tu ispirami un accento Per lenir quel tormento, Però che domandarlo a me non vale Al linguaggio mortale!

Firenze, maggio 1870.

Fra i ricordi che a me fan cara tanto Della intellettüal vita l'aurora, Suona qualche tuo canto Che allor dettavi e che imparai d'allora; Canti soavi e schietti In cui vanno i pensier pari agli affetti, Che con gentil malía Entran nel cor per non andar più via. Nè furon versi ognor, benchè ognor fosse Pöesia vera e bella Quella che per te m'ebbi e mi commosse La mente verginella. La tua rimembro Tricolor vïola Omaggio alla onestà povera e sola, Ed altre assai che fantasie tu chiami, E son pie storie che adombrar tu brami. E così da'tuoi scritti ebbi argomento D'indovinar qual sei Pria di quel giorno che tuttor rammento, In cui ti posi fra gli amici miei, Quel giorno che m'hai stesa La man siccome a una sorella attesa, E vidi che il pensiero Pinto a me non ti avea miglior del vero. Poi conobbi la tua vita e la pura Fè che tieni alla patria, alla famiglia, E dentro alle tue mura Ammirai la virtù che ti consiglia. Padre ti vidi ai figli dei fratelli, Pietoso ai poverelli, Chè negli esilî tuoi bene apprendesti Come ha spesso onestà povere vesti. T'imbianca il crin, ma sul pensoso volto Rimane il raggio giovanile impresso, E par del foco, accolto Nella mente e nel cor, vivo riflesso; Foco ch'è premio e pena Alla tua infaticata alma serena, Retaggio unico e degno Che non fallisce alla virtù e all'ingegno. Così concordi ad una stessa mèta — Esempio alto e severo — Incedono per te l'uomo e il poeta, E mentre col lavor del tuo pensiero Io ti veggo campar co'tuoi diletti, Ricco di generose opre e d'affetti, La sorte io benedico Il cui rigor ti fe' più grande, o amico. —

Firenze, maggio 1870.

RISPETTI

I.

O mamma, o mamma mia, che bella festa! C'eran nobili e ricchi e sapientoni, Nè un sol, fra tanti, avea la faccia mesta, Eran tutti contenti e tutti buoni! E lo Statuto l'han solennizzato Premiando i bimbi che più avean studiato; Chè i bravi bimbi, ce l'han detto loro, Un dì alla patria cresceran decoro. « Studiate!, ci gridò il Gonfaloniere, Che volere è poter per chi ha sapere! »(1) Parole testuali del Sindaco comm. Ubaldino Peruzzi.

II.

Al Re voleano una corona offrire Per dimostrargli che gli voglion bene; Ei ne fu grato, ma mandava a dire Che la vecchia gli basta e gli conviene; Che la gli basta nè la vuol mutare, Avesse l'altra quante perle ha il mare; Che la gli basta nè mutar la vuole, Splendesse l'altra quanto splende il Sole, Perchè un Re galantuomo, un Re alla buona Mai non muta la fè nè la corona.

III.

Vuoi saperlo a qual uso il Re destini Tutti i denari per quel don raccolti? Ad un Ospizio ove i ciechi bambini Saranno alfin pietosamente accolti. Saranno accolti e i ricchi e i poverelli Come fossero eguali, anzi fratelli. Così dalla scïenza e dall'affetto Avran la luce almen dell'intelletto, Così anche i ciechi il dì dello Statuto Il cor del nostro Re l'hanno veduto!

Firenze, 5 giugno 1870.

(Giorno della inauogurazione degli Ossari di Solferino e San Martino)

Eran tre vegli — uno dall'Istro, ed uno Dalla Senna venía; l'ultimo solo Nascea nel nostro suolo. Mesti eran tutti, eran vestiti a bruno, E giunti al Santuario che rinchiude L'ossa dei prodi morti a San Martino, L'uno all'altro vicino S'inginocchiâr su quelle pietre nude. Crescea decoro a quelle curve teste Il crin canuto, e sulla calva fronte Avean, con quelle dell'età, l'impronte Che degli affetti lascian le tempeste. E tempesta tremenda inver quei petti Commossi avea del paro, E vuotato un egual calice amaro Aveano tutti e tre quei poveretti. Su quelle stesse zolle, Ch'oggi onorano insiem diverse genti, Dove il tempio s'estolle, I figli loro eran caduti spenti; Ed or che, dopo dieci anni, quell'ossa Ebber rito solenne, Pria di calar nella invocata fossa, A visitarle ognun di lor sen venne. Scorrevan l'ore, e delle stelle il fioco Raggio sulle recenti arche piovea, Nè ancora si togliea La triade mesta dal funereo loco. Proni ed immoti, qual di senso privi, Stavano i pii vegliardi, E il mover muto delle labbra vivi Sol li diceva, e i lagrimosi sguardi. Ciascun di lor con l'egra fantasia L'amato estinto rivedea bambino, E intero ne seguía Il breve giro del mortal cammino; Poi le vane speranze, il vale estremo, Le lunghe veglie, il lento Volger dei giorni e quel dolor supremo, Che il dì li prese del funesto evento. A quello schianto il cor materno, e forse D'una tenera sposa il cor non resse, E l'una e l'altra nell'avel precorse Questi che i figli piangono con esse…. — Povere quercie fulminate e ancora Contrastate alla morte, Meglio se un fine istesso, alla stessa ora Dei nostri cari ci assentia la sorte! — Così pensavan quegli afflitti, quando Lenta suonò la squilla della sera Che dir pareva: Io mando Dalla terra ai defunti una preghiera. Sursero i tre vegliardi e, come scossi Da un sentimento repentino istesso, Palpitanti e commossi Si strinser tutti d'un fraterno amplesso. E, mentre confondeano il pianto loro, Io non so se da quelle arche o dai cieli Surse mistico un coro Sol manifesto a quei tre spirti aneli. Eran soavi, angelici concenti Pria non uditi al mondo, Nè ponno umani accenti Renderne intero il senso alto e profondo: I figli si scontrâro un dì soltanto E s'ucciser quel dì, Scontrârsi i padri alla lor fossa accanto E s'abbracciâr così. Gli uni ignoti s'odiâro, e gli altri ignoti Affratella il dolor…. Resti retaggio ai liberi nepoti Questo inizio d'amor. — O della patria o del dovere eroi, Fu a noi gloria il pugnar, Oggi sia gloria ancor più grande a voi L'amare e il perdonar. Sovra quello di patria havvi un affetto Che più s'accosta al ciel, Quando un nemico vi stringete al petto Chiamandolo fratel. Ogni vittoria che il sangue suggella Qui si domanda error, Nè il pianto vostro quell'error cancella, Poveri genitor! Qual braccio più nemici abbia distrutti Rammemorar che val? Tutti abbiam vinto, abbiam perduto tutti In quel giorno fatal. Qual fosse l'oppressor, quale l'oppresso, Non si chiegga all'avel, Or che stan l'ossa in uno spazio istesso Come stan l'alme in ciel. Se gli odî estinse, infranse aspre ritorte, E tre popoli unì, Sia benedetta l'immatura sorte Che ognun di noi colpì. Col sangue nostro noi spargemmo il seme Di concordia e d'amor, Ma il pianto, o padri, che versate insieme Or ne matura i fior! —

Firenze.

A tarda notte, mentre tutto dorme, Oblío talvolta quanto il mondo serra, E rivedo de' miei cari le forme Che andâr sotterra. La mia povera madre, i miei fratelli, Gli amici primi e più fidati e cari Tornano a ricordarmi i dì più belli, Perchè più ignari. Nè l'anima rifugge impäurita Dalla invocata compagnia dei morti, Ma tragge più da lor che dalla vita Fede e conforti. E in questa notte visïon novella L'alma presaga a visitar discese, Ed era ben la giovinetta bella Che il Ciel riprese! Dalla serenità, che nel suo viso Per arcana virtù si diffondea, Della serenità del paradiso Colsi l'idea. Madre! l'aurea sua chioma, un dì tuo vanto, Intrecciata parea dalle tue dita, E del color che in lei ti piacque tanto Era vestita. E, in me figgendo i grandi occhi celesti, Con voce che parea suon di liuto, Dissemi: — Per quel ben che a me volesti Io ti saluto! Rammenti? è un anno che su questo suolo Ci siam scontrate per la prima volta. Oh! come presto dall'umano duolo Iddio m'ha tolta! Pure Ei lo sa che, per pietà verace Di lor che i giorni miei sì dolci han resi, Di richiamarmi alla suprema pace Mai nol richiesi. Sorrisi in terra, e in ciel piango per loro, Chè gli oblïati sol vince l'oblío; Tu ad essi il narra ond'abbiano ristoro Dall'amor mio! — Tacque e sparì come una nube in cielo, Ma di sè tal desío lasciommi in core Che ognor, fidando rivederla, anelo Le notturne ore.

Viareggio, luglio 1870.

RISPETTI. (Offerti dal Municipio florentino alla Deputazione romana apportatrice del Plebiscito, il giorno 8 ottobre 1870)

I.

Io ti saluto, o lungamente attesa; Madre, amica, sorella, io ti saluto! Beato il giorno che ne fosti resa, Beati gli occhi che l'hanno veduto! Alfin gridar ti fu concesso « Io voglio Il primo Re d'Italia in Campidoglio! » E ad accogliere il tuo voto solenne Qui l'Italia festante oggi convenne; Qui col suo bacio ogn'itala sorella Il tuo voto d'amore oggi suggella.

II.

Or che sei nostra, a te lieta ritorno Questa corona che per te guardai: Me l'affidâr l'altre sorelle un giorno; Senza gioia e sgomento io l'accettai. Sì! senza gioia, perchè avea compreso Della onoranza inaspettata il peso; Senza sgomento, perchè il peso grave Amor di patria mi rendea soave. Così serena, e onestamente altera, L'opra fraterna io l'ho compiuta intera.

III.

Vo' dirti ancor che il serto glorïoso Per me non offuscò macchia nessuna, Che notte e giorno con occhio geloso Noverai le sue gemme ad una ad una. E sai tu per qual modo ed in qual giorno D'una gemma novella il vidi adorno? Quando libera fosti, io tutta in festa Questo tuo serto mi levai di testa; Piansi, e perchè di gioia era soltanto, In quella gemma si converse il pianto.
Or che gli eventi onde stupì la terra E stupirà l'istoria, Senza gli orrori d'una lunga guerra Ci han dato i gaudî d'una gran vittoria,(1) La presa di Roma. Per ogni duol che ci risparmia il fato, Pel sangue non versato, Perchè il nostro gioïr nessuno offenda, Nessun più ne contenda, Deh! soccorriamo tutti. Per tutta Italia, della Francia ai lutti. Se i nobili suoi figli un dì ci diêro — Sol essi! — e braccio e vita, Pietà feconda e compianto sincero S'abbiano almen, se non eguale aita. Se tra due genti avverse Italia siede, Per dover d'equità, muta e pensosa, Non romperà la fede Dando ai vinti una lagrima pietosa! E chi fia ch'oltre il sangue oggi ricusi Ad essi il pianto, e di pianger n'accusi? Noi donne, ignare, estrane A ragioni di Stato, a leggi, a dritti, Là dove son più afflitti L'opra nostra portiam, l'affetto, il pane. E preghiam che il conforto, ora largito All'infelice popolo fratello, Dallo stesso flagello Lungamente preservi il patrio lito, Se arrida al nostro zelo D'Europa il senno, e la pietà del Cielo. Se affetto ardente e carità verace Bastassero a placar gli uomini e i fati, Fra gli eserciti armate Ci getteremmo a domandar la pace, Sfideremmo coi prodi ogni periglio, Non per recar la morte, Ma per salvare ad una madre il figlio, A una sposa il consorte…. Oh! ma che val? l'aurora Di tai vittorie è ben lontana ancora! Ma il cor, s'altro non puote, a noi süade, Mentre ai vinti guardiamo e ai vincitori, Del popolo che cade Rammentar le virtù, scordar gli errori. Il cor, libero, illeso « Da servo encomio e da codardo oltraggio, » Rende pietoso omaggio A chi provò della sventura il peso, E vuol ch'oggi si porti Balsami ai vinti più che lauri ai forti. Segna una stella per l'eterea via Dei popoli gli eventi, E, quando langue, forse piange o espia Le colpe delle genti. Ma so che ogn'astro che nel ciel declina Avrà un'alba novella, So che quando più splende, è più vicina All'occaso ogni stella, E a chi cade e a chi sorge insiem rammento Che se un astro scompare ei non è spento! Che brami tu? per quella grazia onesta Onde si abbella il giovanil tuo volto Chiedi, e la terra al tuo voler fia presta; Prega, e fia in cielo ogni tuo voto accolto. Pria non ti vidi, e pur la tua mi desta L'imagin d'una età, lontana ahi! molto, Che di vergini sogni era una festa Che un ben m'imprometteva ancor non còlto. Se la parvenza di quel tempo istesso Tu sei, ritorna a confortarmi il seno, E concedimi alfin quanto hai promesso. Mi ascolti e taci?… Oh ch'io ti guardi almeno, E nel sorriso tuo vegga riflesso De' miei primaverili anni un baleno!

Firenze, ottobre 1870.

**(1) Nella notte del primo dicembre al confluente del Mugnone coll'Arno componevasi dai 14 Indiani che seguivano il giovine Ragià di Kolapur nel suo viaggio per istruzione in Europa, un rogo pel loro giovine signore, morto, dopo brevissima malattia, nel fiorentino Albergo della Pace. La funebre cerimonia veniva regolarmente compiuta secondo l'antico rituale vedico, nel cospetto degli ufficiali del Municipio e dei cronisti de' giornali di Firenze.

Qui dove l'Arno più solingo bagna La selvosa campagna, L'alte tenèbre della fredda notte Stranamente son rotte, E baglior mesti, e nugoli d'incenso Si diffondono insiem per l'aere immenso. E sovra un rogo ch'indico costume Erge lunghesso un fiume, Di gemme ornata e di regali spoglie Una salma si accoglie, La salma tua, giovin stranier, che il fato Sol per morirvi ha in questo suol guidato. Te desio di saper, fervido ingegno Tolse all'avito regno, E ovunque arte e scïenza han chiara sede Lieto volgesti il piede, Meditando instaurar ne' tuoi paesi E leggi, e studî, e nuovi ordini appresi. Ma qui, ov'altri salute a chieder venne, Qui morivi ventenne, Con l'ultimo sospir vòlto a'tuoi lari, Agli inconscî tuoi cari, Pensosi forse in quel momento istesso Del tuo ritorno al lor fidato amplesso. Che fia di loro, quando smorti e lenti I seguaci dolenti Là recheranno nel funereo vase Quanto di te rimase, Quanto del tempo inesorato all'ira Pietosamente sottraea la pira? Sotto ogni cielo, eguale in ogni petto Vive il materno affetto: Ed io, donna regale, il tuo tremendo Dolore appien comprendo, E un compianto t'invio che sperde il vento Come gl'incensi del rogo già spento.
Santa Lucia! se guardi ogni mortale Ch'abbia il tuo nome o che l'avesse in pria, Altra non trovi a questa cara eguale, Santa Lucia. Giammai povero a lei si volse invano, Ma spesso anco il pregar ne prevenia…. Quante lagrime terse la sua mano, Santa Lucia! Il Bello ha un culto nella sua dimora, Un culto ha il Bene in quell'anima pia; Chi onora lei tutte virtudi onora, Santa Lucia. Fa che ognuno fra noi le sia cortese, Che un fior trovi dovunque, un'armonia, Tal che non pianga il suo natal paese, Santa Lucia. Rendile il ciel seren, tepidi i soli, Tutto le assenti quanto ella desia, Ma fa che dal mio suol più non s'involi, Santa Lucia!

…. che se più molli
E più tenui le membra, essa la mente
Men capace e men forte anco riceve.

G˙ Leopardi.

Re del dolor, di donna il canto umíle Non ti commova a sdegno! Capace e forte assai men del virile Dicesti, nè m'offende, il nostro ingegno. Sol chieggo a te che per virtù d'affetto Ugual ci assenta il core, Se il saper non ci assenti e l'intelletto, E dal cor parlo a te, re del dolore. S'aggravò sul tuo spirto il fascio immane Di tutti i disinganni, Di tutte quante le miserie umane. Se del pensier sui vanni T'abbandonavi a fantasie serene, Con vigor nuovo il morbo t'affliggea Che occulto serpeggiò per le tue vene, E il genio le tarpate ali chiudea. Patria ed Amor, queste due gioie sole Chiedesti invano all'avara tua sorte, Ma non t'arrise il sole Di libertà, e cantasti Amore e Morte. Per qual merto o virtude a te straniera Siamo liberi noi? Tal ben chi apprezza Al pari della tua anima austera? Chi del tuo canto toccherà l'altezza? Nè mai donna t'amò di quel potente Amor, di cui ti strusse invan la speme, Di cui la sete ardente Solo s'estinse alla tua vita insieme. Così, sempre deserto e mai compreso, Chiedesti al verso una vendetta amara, Di cui l'amaro peso Sente ogni donna che il tuo verso impara. Tal che s'uom ne s'affaccia, a cui noverca Sia, qual ti fu, Natura, Di te pensando, il nostro cor ricerca La dura sorte sua render men dura. Se, mentre gli occhi nostri in lui son fisi, Il tuo spirto ci vede, Pel pianto che versiam, di quei sorrisi Ch'altre un dì ti niegâr, darai mercede! Perdona a noi! Perchè fra noi son molte Languenti al par di te prive d'affetto, E l'ansie in cor sepolte Sfioran ad esse pur la mente e il petto, Nè ad esse è dato quel martirio ascoso Significar col canto, Perchè d'ogni pietoso, Siccome l'ebbe il tuo, s'abbia il compianto. Perdona a noi! chè una lusinga infida È sovente a noi pur fatal retaggio. Verso un'alma sovente Amor ci guida Muta al divin suo raggio, E, mentre il disinganno essa ne appresta, A noi forse daccanto e inavvertita Avvene un'altra vereconda e mesta Che invan per noi di fiamma arde romita. Dove abbondano insieme affetto e mente Soffrir spesso è fatale; Sol quando meno sa, medita e sente, Immutabile ottien pace il mortale; Ma tu, cui genio e cor ressero il volo A così eccelsa mèta, Per riviver quaggiù scevro di duolo Rinnegheresti e genio e cor, poeta? Ai grandi affanni onde più grande sei Però non ti sdegnar s'io non impreco; Bene impreco ai pigmei Che a' tuoi lamenti fêr languida un'eco. Sull'orme tue no che a ciascun non lice Cantar sogni infecondi in vacuo stile ; Di sè ci narri e sè chiami infelice Chi per mente e destin ti sia simíle. A te fu il duolo ispirator del canto, L'arte non fu che t'ispirò il lamento, Del dubitar non ti sei fatto vanto, Ma ben fiero tormento, Tal che l'angoscia istessa, Che del nulla al pensier pungeati il core, Parmi arcano desío, parmi promessa Che col nostro morir tutto non muore.

Firenze, gennaio 1871.

RISPETTI

I. LA PARTENZA

Sentilo come freme e fischia e rugge…. Guardalo, mamma, com' è brutto e nero! Più rapido del vento ahimè! ne sfugge, E un fumo denso ne segna il sentiero. — Ferma! Vo' dirgli qual dolor mi strugge: Ferma!… Ma invan che mi dia retta io spero: Par che un demone il guidi, e n'ha l'aspetto Or che mi ruba il garzon mio diletto! D'un demone ha l'aspetto, e tale il chiamo Or che lunge da me porta il mio damo!

II. IL RITORNO

Eccolo! ei vien tra nugoli d'incenso…. Ei fischia — oh senti che armonia gioconda! Par che il mare, la terra e l'aere immenso Con un lieto saluto a lui risponda. Come s'appressa! Il desiderio intenso Alfin comprende che il mio cuore innonda. Mamma, ei mi sembra un angiol del Signore Or che mi rende lo mio dolce amore; Un angiol del Signor, mamma, ei somiglia Or che il suo damo rende alla tua figlia.

Napoli, febbraio 1871.

I.

Cosa più bella io non so imaginare Nè mente umana imaginar potria, D'esto suol, d'esto cielo e d'esto mare Tutto luce, profumi ed armonia. Ma quando il mio pensier carco è di duolo, Più non discerno se fiorito è il suolo; Ma quando il pianto agli occhi miei fa velo, Parmi pure che un vel ricopra il cielo; Ma quando la tempesta ho in fondo all'alma, Quasi m'offende anche del mar la calma.

II.

Da' miei figli lontana e dal mio tetto, Non m'arride una sola ora serena; In dolor si converte ogni diletto E fin colpa m'appar questa ch'è pena. Còlti dai figli miei quanto più belli Mi sembrerieno questi fior novelli! Oh! quanto i baci di quest' aure miti Coi baci lor mi tornerien graditi! Più che il riso del cielo, il lor sorriso Riflettersi potria sovra il mio viso!

III.

Ciel senza stelle, giardin senza fiore, Fior senza olezzo, usignuol senza canto, Ben rassomiglian d'una madre al core Quand' essa i figli più non ha daccanto. Ma col redir della stagion novella Di stelle il cielo e il suol di fior s'abbella, E tra le nove frondi aprendo il volo, Ritorna al canto il flebile usignuolo. Oh! venga aprile e i figli miei mi renda Perchè il suo raggio anche al mio cor risplenda.

Napoli, marzo 1871.

Sotto il Vesèvo il villico fidente S'erge un tugurio e il campicel lavora; Ma di lava infocata ampio torrente Le mura abbatte e la messe divora. Piange il tapin, ma con fè rinascente Rifà i solchi e le mura inalza ancora, E ripercosso dal flagel, pur sente Il desio di lottar fin l'ultim'ora. Tale i gagliardi contro l'urto fiero Di fosche passïon pongono a freno La virtù d'un volere alto e severo. E veglian più quando quel fren vien meno, E se pace non han che in cimitero, Con la fede nel ben muoiono almeno!

Napoli, marzo 1871.

Deserta era la sala, ed io daccanto Alla immagine tua, grande infelice, Mi sentia vinta da un segreto incanto Che dir non lice. E tale mi parea quel tuo sembiante, Tal l'ingegno, il cor tuo mi parea tale — Che non potesse amar, chi ti fu amante, Altra mortale. Ritessei la tua storia, e tutto tutto L'amor tuo divinando e il duol tenace, — Oh provvido, sclamai, si aperse il flutto A darti pace! — Ma una voce tuonò: — Dunque tu ancora Creder puoi che un amor simile al mio, Quando l'alma immortal muta dimora, Trovi l'oblio? Amor con l'alma dopo il fatal salto Si detergea d'ogni labe terrena; Pur quando l'alma più si spinge in alto, Amor la mena. Il volgo dei mortali ahi! non intese La sacra fiamma che struggeami invano; Prima e dopo la morte ahi! ben m'offese Il volgo insano. Vive amor senza gloria; io le corone Della gloria senz'esso ebbi a disdegno; Un guardo non valea del mio Faone Tutto il mio ingegno. Vedi? or sono immortal; pure all'idea Dell'ardente mia fiamma e del suo gelo, Sento il delirio che allor m'invadea, Perfin nel cielo!(1) Parla Saffo pagana. Tal fui, tal son; non pianger la mia sorte: D'obïar, pur potendo, avrei dispetto; Narra, se il sai, che in me più della morte Potè l'affetto.

Napoli, marzo 1871.

I.

Tu preferivi, o pietoso augelletto, Ai boschetti d'aranci e al ciel sereno L'ostel dei poverelli e il mite aspetto Delle deserte che raccoglie in seno. Il tuo canto le loro opre accompagna, Ma da lungi l'udia la tua compagna, E fida ti raggiunse e nelle case Delle orfanelle al fianco tuo rimase; Col canto ambo allegrate ogn'opra loro E me allegrano insiem canto e lavoro.

II.

Preghiera è il canto, ed è il lavor preghiera Che più di ogn'altra a Dio sale gradita; Spera chi canta, e chi lavora spera; Speme, prece e lavor, quivi è la vita. O povere fanciulle, a voi l'invia Quel Padre ch'è nel ciel, tale armonia. Egli che all'orfanelle il nido appresta Vi manda gli augellini a farvi festa, E fin la libertade, a voi vicini, Scordano, al par di voi, questi augellini!

Napoli, marzo 1871.

**(1) In alcuna delle più notabili case di Pompei sul pavimento del vestibolo si legge scritto in mosaico la parola: Ave!

Ave! dopo due mila anni il cordiale Saluto sembra qui per noi risuoni, Sembra che un fido amico a noi ragioni Sul limitar della casa ospitale. Ogni età che trapassa un motto eguale Consacri all'altra nelle sue magioni, E i vivi ai morti e fino i tristi ai buoni Sian da un Ave congiunti… o almen da un vale! Mentre io men vo per la morta cittade, Dove l'arte sì vasta orma imprimea, Quanta, oh quanta pietà l'alma m'invade! E come tal pietà non le sia grave, L'anima di ciascun che qui vivea Mi si aggira d'intorno e ripete: Ave!

Pompei, marzo 1871.

**(1) È uno dei più grandi e famosi affreschi di Raffaello nel Vaticano.

PER LA SOLENNE TORNATA DELL'ACCADEMIA RAFFAELLO IN URBINO NEL 13 APRILE 1871 A RICORDO DELLA NASCITA DEL DIVINO PITTORE

L'amor, che per lunghi anni arse il tuo petto, A te guidò il pennello, Quando pingendo il desïato aspetto Trovar ti parve l'armonia del bello. Forse muti al balen d'alti pensieri Fûr que' grandi occhi neri, E il guardo loro, sì dolce e fatale, Sol perchè t'arridea fêsti immortale. Ma il ricordo di lei che ti diè vita,(2) Di Magia Ciarla, madre di Raffaello, ci rimangono pochi, ma soavi ricordi. Il Vasari racconta com'ella, d'accordo col marito, non volesse dare a balia il figliuoletto, ma lo nutrisse al suo seno. Giovanni Santi, padre di Raffaello, in una Vergine col Bambino, dipinta a fresco nel cortile della propria casa, ritraeva l'imagine della moglie e del figlio, e questo ricordava sovente negli angeli de' suoi dipinti. Poscia gli angeli di Raffaello ebbero il tipo dei paterni. Sentivano potentemente l'amore della famiglia, e la buona Magia, morta in età giovanile, lasciò di sè un desiderio profondo ne' suoi diletti. Non d'altra il cor ti vinse, Quando di grazia e d'umiltà vestita La Vergin Madre la tua man dipinse. Tu per lei col divin rendevi eterno Il pio culto materno, E trova in quelle immagini leggiadre La madre il figlio e ogni figlio la madre. E mentre ti si apriva ogni mistero Della difficil' arte, Cercavi il Bello che s'accoppia al Vero Della terra e dei cieli in ogni parte. No! l'artista non sale a tanta mèta Senza un cor di poeta; E ben n'avesti l'intelletto e il core Tu che al cantor d'Orlando hai fatto onore.(1) Raffaello amava e stimava tanto l'Ariosto, che talvolta lo richiedeva di consiglio pe' suoi dipinti. (Vedi Passavant). L'altrui volere al genio tuo sovente Tèma imponeva e norma, Ma dal pennello tuo, dalla tua mente Tutto acquistava nova luce e forma. Dei prischi miti la virtù gentile Rinacque nel tuo stile, E ancora Galatea stupita chiede Qual portento la vita a lei ridiede.(2) Il trionfo di Galatea, che si trova nella Villa Farnesina, viene reputata una fra le migliori opere raffaellesche. Egli la terminava nel 1514. Tu dei maestri di color che sanno Nutrito alle dottrine,(3) Raffaello venne chiamato anche da'suoi contemporanei il pittore filosofo. D'ogni ben cerchi il fonte e d'ogni danno, Di tutte cose l'origine e il fine; Poi nel pensier fondendo in una sola D'ogni sofo la scola, Col valor che al subbietto arduo conviene Tu la scola, o divin, pingi d'Atene. E poi che dallo stile attico hai tolto Le movenze e le vesti, Ad alcun di que' Saggi il caro volto D'illustre amico o fratel d'arte presti; Così vuoi che d'amor sia premio e pegno Ogn'opra del tuo ingegno, E l'effigie di loro appo i futuri Possa durar quanto quell'opra duri. Con l'Arte alla Ragione omaggio hai reso Come la Grecia antica, Nè appieno il secol tuo forse ha compreso Questa civile e splendida fatica;(1) Subito dopo la morte di Raffaello pare si perdesse il vero significato di questa composizione al punto di scambiare Platone e Aristotele per gli apostoli Pietro e Paolo che predicano il cristianesimo ai filosofi greci. (Vedi Passavant). Pur essa è tal che ad ogni età novella Parrà più grande e bella, E attesterà che il tuo genio securo Scrutò il passato e divinò il futuro: Nel giorno che si schiuse e che fu spenta Tua vita innanzi sera,(2) Nacque il 6 aprile 1483, morì il 6 aprile 1520. Che Italia tutta il valor tuo rammenta E chi t'agguagli posseder dispera, Prego che ognuno all'arte tua devoto, Siccome a sciorre un voto, Presso la Scuola a meditar sen vegna Che fu degna d'Atene e di te degna.

Roma, aprile 1871.

IN OCCASIONE DELLA DISTRIBUZIONE DEI PREMI AGLI ALUNNI DELLE SCUOLE COMUNALI DI FIRENZE PER SOLENNIZZARE LA FESTA DELLO STATUTO(1) A quel tempo era già incominciato il trasferimento della Capitale.

« Il premio a tutt' e due, che cosa bella! Tu a Roma il porti, io qui lo serbo, o cara: Questo è il ricordo che più n'affratella, Che la partenza ci fa meno amara. Un novo premio alla stagion novella Per te nel Campidoglio si prepara, Ma se tu l'otterrai nel Campidoglio, Qui anch'io il secondo conquistar mi voglio! » « Sì! ognor, sorella, al dì dello Statuto Cogliendo il premio renderemo onore: La nuova tu n'avrai col mio saluto, Segno costante di fraterno amore. Addio, sorella! il giorno gli è venuto Che insiem temeva e disïava il core…. Rammenterò queste parole tue: Il premio ce l'han dato a tutt' e due! »

Firenze, giugno 1871.

Non lo dir, non lo dir! l'ultima volta Esser questa non può ch'io ti saluto; Ma pur, se il mesto vaticinio ascolta, Si fa gelido il core e il labbro muto. Già volsero più lustri e volse molta Onda di duol dal dì ch'io t'ho veduto; Ma l'amistade nel mio petto accolta Con l'età e i disinganni ha insiem cresciuto. Quante cose mutâr! quanti a me cari D'allor perdei!… Fra i pochi oggi mi resti Più fidi a me nei giorni miei più amari. Padre d'arte e d'affetto a me ti fêsti: Vivi! e da te lascia ch'io meglio impari La virtù degli ingegni alti e modesti.

Firenze, 20 giugno 1871.

ALLA DONNA GENTILE(1) La donna gentile, signora Quirina Mocenni-Magiotti, alla quale e della quale troviamo lettere affettuossime nell'Epistolario Foscoliano, oltre ai tanti atti d'intelligente e squisita pietà esercitati verso l'infelice poeta, ebbe pure il merito sommo di dedicarsi per tre anni interi all'ardua impresa di decifrare gli scomposti manoscritti delle Grazie a lei affidati per volontà dell'Autore. L'egregio F˙ S˙ Orlandini nella prefazione alle Grazie medesime, pubblicate per cura di lui nel 1848, parla con viva lode dell'opera di questa benemerita e deplora che la morte immatura le abbia tolto il conforto di vedere stampati quegl'inni divenuti per lei, dopo la perdita del Foscolo, l'oggetto delle cure più costanti e dei voti più cari.

…. L'anima mia ed il mio spirito
Ti cercheranno pur sempre ….

Ugo Foscolo, Alla donna gentile.

Raggio del nostro sol, forma e armonia Della favella italica e dell'arte, All'esul fra le nebbie angle venía Dalle tue carte. Quando, travolto da magnanim'ira, Della vita ei sentia cupo il tormento, Quale a Saúl di Davide la lira, Gli era il tuo accento. La voce sua che alla fortuna avversa E ai codardi imprecò fiera e sdegnosa, Se a te volgeasi, oh quanto era diversa, Quanto amorosa! Se un affetto il turbava acre e bugiardo, Quasi fantasma in affannoso sogno, Ben tosto del tuo amore ei più gagliardo Sentia il bisogno. E il soffio del tuo amor santo e profondo Dal suo petto fugava il breve errore, Come stilla di ciel da fimo immondo Deterge il fiore. Nè sol pel lustro che all' Italia ei rese Con gli alti sensi e il terso attico stile, C' è caro ancora, perchè a noi t'apprese, Donna gentile! Il tuo affetto era un culto, era un'essenza Tratta d'ogni virtù dal miglior seme, Tenerezza di madre e sapïenza E genio insieme. Ei ben l'intese, e te de' suoi pensieri, Presago del morir, custode elesse, Oh! le Grazie chi fia, se tu non eri, Che a noi rendesse? Quando vegliasti sulle sparse carte, Cotanto il core t'affinò l'ingegno Che, dopo tre lunghi anni, in molta parte Toccasti il segno. Tutto che ad Ugo tuo cresceva onore, Prima e dopo la tomba, oprar ti piacque; Pur da tante pietose opre un sol fiore Per te non nacque. Chè povero ei moría nel suolo estrano, Visser le Grazie poi che fosti morta, E il dì tardo e solenne hai chiesto invano Ch'or noi conforta. Ma se memoria dell'amor terreno Sorvive nello spirito immortale, Guarda e sorridi dal tuo ciel sereno Al suol natale. Mentre dei fati ci opprimea la guerra E la comune ignavia, e i fiacchi intenti, Provvida ricovrò l'anglica terra L'ossa frementi. Redenta Italia, le reliquie care Mille voci han richiesto in una voce, Perchè s'abbiano alfin riposo e altare In Santa Croce. Oh! se un altro desio che il cor mi preme Trasfondere potessi in ogni petto, Il tuo col cener saria posto insieme Del tuo diletto. Così d'amor, di genio e di sventura, Di forti esempî e di miti consigli Parlerebbe la doppia sepoltura D'Italia ai figli. Ma, se non l'ossa, la memoria e il nome Congiunti avete, nè fu donna o fia Che mertar possa gloria egual, siccome Tu merti, o pia. E laudi nei miei carmi altre otterrai, Se a lui che segui fra gli spirti eletti Ridir, poi ch' io non l'oso, oggi vorrai Questi miei detti: — No, immemori non son gl'Itali o ingrati, Se ripetono al tuo cenere accanto: Primo alla vita nova ei ci ha chiamati Coll'opra e il canto! —

Firenze, giugno 1871.

L'itala poesia gli Dei bugiardi Seppe immolar del Cristo alle dottrine; La molle Arcadia disertò più tardi Vòlta a più nobil fine. Delle foggie e dei fior d'altro paese Talora acre desio nel cor le nacque; Talor d'erranti cavalier le piacque Narrar le audaci imprese. Cantò storie di spettri e di paure Con vacua pompa di lugúbre stile, Poi risentì di fantasie più pure L'amor prisco e gentile. E tornò al vero, e quanto è di più degno Santificando nella vita umana, Non disdegnò siccome cosa vana Il femminile ingegno. E voltasi alla donna, immantinente Promessa ebbe d'amore in quel sorriso Che splende nell'età prima e innocente Alla vergine in viso. E i sogni della vergine segreti Ella vestì d' imagini celesti, E le parlò nei dì giocondi e mesti Come parla ai poeti. Allora i cieli, le tempeste, i soli, Una fronda, un effluvio, un'armonia, L'alma della fanciulla ergono ai voli D'ingenua poesia. Gl'indistinti pensieri in chiari accenti Significare anco non sa ned osa, Ma dentro il petto come fiamma ascosa Le fervono i concenti. In quanto di più bello e grande vede, L'opra del Cielo reverente ammira; La poesia, che il fiore è della fede, A lei la fede ispira. Crede comun retaggio dei mortali Quella virtù che le si annida in core…. Deh! non sperdan del tempo invido l'ali Il suo pietoso errore! Ma volgon gli anni, e dell'umana vita La realtà difficile comprende: Pur la sua poesia, d'amor nutrita, Serena ognor le splende. Tenera amica, pia sorella e figlia, Trova un dovere accanto ad ogni affetto: Essa è la musa del paterno tetto, L'angel della famiglia. Finchè un'ora solenne e cara e mesta Al sen materno trepida la toglie; Sotto altro tetto alla diman si desta…. Ieri fanciulla, or moglie Pur nei cimenti della vita nova Tutti ella serba i miti affetti primi, Ed un tributo d'armonie sublimi Per tutti in cor ritrova. Presso il talamo suo sorge una culla, Ove riposa un angioletto biondo; Ella assidua lo veglia e lo trastulla E per lui scorda il mondo. Da chi gl'inni apprendea che in dolce guisa E varia sempre a lui solo ridice?… L'amor materno è fiamma ispiratrice, E inconscia ella improvvisa! Benedetto il tuo canto, e l'ansie, e i sogni Che, nato appena, il tuo figlio t' ispira, Gioie e glorie per lui di già tu agogni, E una spada e una lira…. Povero eroe, che nelle fasce avvolto Tanta speme le désti e tanta téma, Ella del viver tuo tutto il poema Sente nel cor raccolto! Deh! ch'esule non sia, che non sia oppresso, Ch'abbia una patria glorïosa e forte!…. Pugnar vorria, vorria spezzar per esso Le straniere ritorte. Ma poi che tanto non l'è dato, almeno Canta lo strazio del terren natio, Nè son vani quel canto e quel desio Al suo natio terreno! Redenta è Italia! al portentoso evento, Prova solenne di voler concorde, Anche la cetra sua mesce il concento Delle commosse corde. Se l'alme inerti, sconfortate e sole, Quanto val libertà scordan talvolta, Lo ascoltino da lei, mentre l'ascolta Intenta la sua prole! Nè giammai per civili opre ella sdegna Della sua casa ogni modesta cura; Là gli affetti più sacri onora e insegna Sempre serena e pura. Pur mentre il cibo o la veste prepara Al bimbo che tra i fior scherza e l'appella, Dal cor le irrompe la canzon più bella Che il bimbo intende e impara. Fida alla patria, alla famiglia, al nume, Cui serve assidua esercitando il bene, Più che le sue, rammenta per costume E canta l'altrui pene. Spesso, intenta ai doveri, i dritti oblía, Più che la gloria la virtù l'è cara; Paga, se le diran dopo la bara: « Ella fu buona e pia! »

Firenze, giugno 1871.

Io son tanto piccina e tante cose Grandi già intendo con senno profondo; Intendo già perchè il buon Dio mi pose In questo mondo. Come il profumo al fiore, Egli il sorriso Per conforto dei mesti a me concede; Rinasce in core a chi mi guarda in viso Speranza e fede. M'invocarono tanto i miei parenti Che, a compensarli del lungo desio, Oh! sempre, sempre li farò contenti Con l'amor mio! D'immenso amor ciascun di loro è degno E ricambio è fra lor d'immenso amore, Poichè ad ambo il Signor pari all' ingegno Concesse il core. Allor che stanco di sue cure gravi Torna il mio babbo a queste fide mura, Scordar gli fo' co' miei baci soavi Ogni sua cura. Amo su tutte I'ora mattutina, Perchè seco in quell'ora io mi trastullo, E l'uom di Stato per la sua bambina Torna fanciullo. Molto apprendo da lui, ma quell'affetto Che i dotti accenti suoi sempre colora, Forse vien dal ricordo del mio aspetto E di quell'ora. Deh! quell'ora non sia dunque sì breve, Doh! nessuno giammai me la contenda, Perchè poscia quel ben che ne riceve, Ad altri ei renda!

Firenze, giugno 1871.

I.

Mare! io ti vidi or procelloso e fiero, Or queto e come in festa, E tale sul mio cuore avesti impero Che ognor qual eri tu, fui lieta o mesta. Sull'alba, nel meriggio e nei tramonti, Dal sole e dalla luna illuminato, Dal vertice dei monti E dai margini tuoi t' ho salutato. Talor per l'onde tue sciolsi le vele, Talor nell'onde scesi, E, qual d'amica voce eco fedele, Il lor soave mormorio compresi. Chi sa dir se al nuov'anno A te verrò? Se lieta O affaticata da un novello affanno?… Ogni cura segreta A te fidai, chè ogni segreta cura Fida il poeta all'immensa Natura, E con linguaggio che a niun altro suona, Sovente la Natura a lui ragiona. Nel volgersi d'un anno oh quante cose Vedrem compirsi e liete e dolorose! Quanti a te riederan chiudendo in seno Un'ansia nova e una speme di meno! Nè sempre basterà la tua virtute A ridonar salute Alle affralite membra Di chi un bel sogno, che svanì, rimembra! Pure accolgon pietosi i conscî flutti La turba dei dolenti, Cui dir tu sembri: « Degli umani i lutti Somiglian l'onde allo scoglio rompenti. Infrante e sparse in spumeggianti stille Tornano al mare e si rifan tranquille; Bella per l'ocëán, come per l'alma, Senza procelle non saría la calma! » E spesso nel tuo seno L'angosciato mortal torna sereno; Ma, dal tuo grembo fuori, Co'suoi panni ei riprende i suoi dolori Forse perciò sovente, Pietoso più quanto più crudo appari, Entro gli abissi tuoi traggi e ripari Tanta affannosa gente!…. Ma con la morte almen doni l'oblio? O di questa è più forte Nello spirto immortal mortal desio? Povera Saffo, ti diè oblio la morte?…

II.

Trassi una sera sulla spiaggia aperta Dov'era più deserta — Sola con la Natura Vedea da un lato la pineta oscura, Vedea dall'altro lato Il mare interminato, Ned altro suono udiva Che il suon dell'onda quando giunge a riva. Splendea il Faro lontano, E per l'immenso piano, Notturni vïatori, Spiegavano le vele i pescatori; Mite spirava il vento, Era tutto stellato il firmamento, E sovra l'onda bruna Tremava un raggio della nova luna. Assisa su quel lito Pensava… all'infinito, Quando mi tolse al meditar profondo Un mormorio giocondo; E in grembo alla marina Cosa vid'io sì bella e peregrina, Che per ritrarla in carte Dell'Albano vorrei l'ingegno e l'arte. In quel tratto di mare, Dove la luna si vedea brillare, Tre bambini e tre donne, In corte e bianche gonne, Correan su e giù così che avean sembianza D'intrecciare una danza, E l'onda rotta dallo strano ballo Splendeva più del nitido cristallo. Tuffavano i bambini Nell'acqua i biondi crini, Abbandonavan le candide forme Sull'onde chete come suol chi dorme, Poi guizzavan festanti Liete risa mescendo a lieti canti, E in mezzo ai canti e al riso Spruzzavan l'onda alle tre madri in viso Ed io con la memoria Dei prischi miti ritessea l'istoria, E imaginar mi piacque Che quelle fosser Deità dell'acque; Ma temendo il mio bel sogno distrutto Al loro uscir dal flutto, Qual persona inseguita, Senza volgermi indietro io son fuggita.

III.

Il cielo era sereno, Ma l' oceano in tempesta; Pur di quelle agitate onde nel seno Entrò una barca piccioletta e presta — V' erano due fanciulli, e, perchè uscita Trovar potesse al varco periglioso, Altri due trascinandola dal molo Con lunghe funi le davan aita; E, ottenuto l'intento faticoso, Ambo d' un salto solo Si slanciâr nella barca, Che di quattro fanciulli allor fu carca. Indarno dalla spiaggia, Armato d' un randello, Li minacciava con aria selvaggia Un fiero vecchierello; L' uom sfidavano insieme e gli elementi Gl'impavidi fanciulli — in un desio Pareano unico intenti. Conscî che su di lor vegliava Iddio. — Giunti all'aperto mare, Un canto sciolser tutti, Ove d'Italia il nome udii suonare Attraverso il fragore alto dei flutti; Poi, perchè remi non avean nè vela, Per ritornare alla lontana riva Spiegarono una tela, Su cui pinta appariva Fra i tre colori, amor d'Italia e gioia, La Croce di Savoia. Ritti e con baldi aspetti Reggeanla ai quattro canti Gli audaci fanciulletti, Della patria iterando i dolci canti. Propizio a quell'improvvido ardimento La sacra vela rigonfiava il vento; Gía la barchetta più sempre veloce, E, dopo un lieto e corto Viaggio, entrò con la sabauda Croce Trïonfalmente in porto. Ed io che dalla sponda Con un'ansia profonda Misurati n'avea tutti i perigli, — O barchetta, pensai, tu ben somigli A questa Italia bella, Che pur senza nocchiero in gran procella L'ardir dei forti e del Ciel la pietade Addusse in securtade, Sotto quel segno istesso Che in securtà te conduceva adesso. Barchetta avventurata, Il Dio che t'ha guidata I suoi portenti prodigar non usa, E il folle ardir, che trova Nella tenera età perdono e scusa, Più agli adulti non giova. Ei, che veglia i bambini, Vuol spesso arbitro l'uom de'suoi destini.

Viareggio, luglio 1871.

NEL SUO GIORNO ONOMASTICO

Padre! un nuov'anno del tuo viver caro Oggi si schiude, e coi fratelli anch'io Scevro tel prego d'ogni giorno amaro, O padre mio! Lo spazio e il tempo che a tant' altri affetti Tolgon sovente la virtù migliore, Reser sempre miglior ne'nostri petti Il nostro amore. E perfino il dolor, perfin la morte Che tant'alme dilette a noi togliea, Questo affetto divin sempre più forte In noi rendea. Nei giorni miei più sfiduciati e mesti, Quando tutto mi turba e m'impaura, Torno, al solo pensier che tu mi resti, Lieta e secura. E in ogni evento che m'appar felice, In ogni ora gioconda, o almen serena, Quel ben, che teco partir non mi lice, Si cangia in pena. E m' è pena maggior che, mentre invano Vorrei sparger di fiori il tuo cammino, Sempre e tanto da me ti vuol lontano L'aspro destino. Ma, se il destin lungi da te mi tiene, Non giunge il suo potere oltre la creta, E a ritrovarti l'anima or sen viene Libera e lieta. E tra i figli, i fratelli ed i nepoti Io già ti scorgo alla mensa festiva, E i miei confondo ai lor giocondi voti, Ai loro evviva. Lo vedi, o padre?… in un pensiero unite Tre età diverse oggi ti fan corona; L'amor della tua vita in tante vite Oggi ragiona. Vivi ai fratelli, cui rammenti i tempi Che, più lontani son, più ci son cari: Vivi ai nepoti che a severi esempi Tu pur prepari; Vivi a noi, padre! e la gioia profonda Che assenti a me, quando « figlia! » mi chiami, Tutte di madre le virtù m'infonda Che in me tu brami!

Firenze, 21 luglio 1871.

(Del cav. Giulio Tipaldo)

VERSIONE DAL GRECO

La stella del mattin col primo raggio Preludeva all'albor; E l' aura parea dir « ben venga maggio! » Con l'olezzo dei fior. Pria che intrecciasser le carole, e i canti S'udissero echeggiar, Fra intatti fior tu m'apparivi innanti Come un angiolo appar. Alla chiesetta solitaria appresso Prima apparivi a me, Colà dove, o Maria, poscia sì spesso Teco rivolsi il piè. La chioma il niveo collo accarezzava Libera d' ogni fren, Ed una rosa virginale ornava Il virginal tuo sen. Con man tremante e in dolce atto d'affetto Porgendomi quel fior: « Serbalo! » mi dicesti, e forte in petto Sentii balzarmi il cor. Col nuovo maggio alla chiesetta appresso Volli, o Maria, redir, Nella stess'ora ed in quel giorno istesso Che ti vidi apparir. Ahi! non l'aerea forma e i divini occhi Dato mi fu incontrar; Solo una pietra in mezzo ai fior non tocchi Io vidi biacheggiar. Presso una bruna croce, e tutto solo Al cospetto del Ciel M'inginocchiai, baciando nel mio duolo Il tuo recente avel. E dei fiori ivi sparsi uno soltanto, Candido al par di te, Colsi in quell'ora e a quello il posi accanto Che la tua man mi diè. Così accoppiata la virginea rosa Al giglio virginal, Mi fieno insiem memoria dolorosa, Unica ed immortal. L'uno funesto simbolo di morte, L'altro di gioventù…. Sempre al dolor sorella (umana sorte!) È la gioia quaggiù!

(Dello stesso)

VERSIONE DAL GRECO

Presso il tramonto una fanciulla bionda, Col crin di fiori inghirlandato, appare, E sola e malinconica alla sponda Siede del mare. L' occhio, color del cielo, ha in ciel converso, Le sta innanzi lo specchio ampio dell'onde, E intorno a lei sorride il suol, cosperso Di fiori e fronde. Passa il figlio del Re — siccome suole, Del castello discende alla marina, E sotto il raggio dell' occiduo sole Le si avvicina. — « Sei leggiadra. o fanciulla! ed il tuo volto Un nuovo abbellirà dolce splendore, Quando d' amor l' arcano accento accolto Abbia il tuo core. « Te sola il mio pensier cerca e desia, Senza te il viver mio non ha dolcezze…. Vien meco! e ti darà la patria mia Gioie o ricchezze. « Pria che del tempo inesorato l'onte Offendano il tuo serto virginale, D'un altro io t'ornerò la nivea fronte Serto regale! » — — « Dolce è il sorriso tuo, di tua favella È ancor più dolce l'incantevol suono; Ma, dimmi, i fiori onde il suol tuo s'abbella Eterni sono? « Conosci il luogo, ove qual giovin sposa Sempre ride l'aurora al cielo e all'onde, E le sue perle all'erba ed alla rosa Lieta profonde? « Ove odorosa è ognor la terra, come Per virtude segreta entro il suo grembo Di mille olezzi, che non han qui nome, Chiudesse un nembo? « Se a quella m'addurrai terra felice, Colà ti seguirò — colà l'affetto Noi sentirem, più che quaggiù non lice, Crescerci in petto. » — — « M' è noto il luogo che tu brami tanto: Ogni suo colle ed ogni sua riviera So che riveste di perenne incanto La primavera. » — — « Sai tu il paese dove l' aura pura Mai non vela un sospiro di dolore, Dove all'anima ardente la Natura Parla d' amore? « Dove l' arcana melodia serena, Che si diffonde per l'immenso empiro, Rompe i silenzî della notte e mena Le stelle in giro?… « Se a quella m'addurrai terra felice, Colà ti seguirò — colà l' affetto Noi sentirem, più che quaggiù non lice, Crescerci in petto. » — — « Tutto io farò ch' è ad un mortal concesso Per crëarti qui in terra un paradiso, Perchè d'eterno aprile a me dappresso T'allegri il riso. » — — « Sai guidarmi ove occaso ed orïente Ignoti sono, e d' angeli uno stuolo Tra fiori aerei infaticabilmente Dispiega il volo? « Ove il fresco e sottile etere è pieno D' un' insolita luce, ed occhio umano L'astro non vede che le piove in seno Il raggio arcano? « Se a quella m' addurrai spiaggia felice, Colà ti seguirò — colà l' affetto Noi sentirem, più che quaggiù non lice, Crescerci in petto. » — — « Quanti son ti darò gaudî terreni, Ma dar non so ciò ch' il tuo cor desia…. Deh! lascia i vacui sogni e meco vieni, Fanciulla mia! » — — « Se guidarmi non sai, giovin cortese, A quella terra ove il desio mi chiama, Scorda l'affetto che di me t'accese, Ed un'altra ama! » — Parte il figlio del Re — mari infiniti E boschi ei varca e va lontan, lontano: Ritorna alfin, ma sui deserti liti La cerca invano. Ell'era morta la fanciulla cara, E in quel dì, quando in ciel l' alba apparia, Chiusa l' avean nella funerea bara, Mentr'ei redia. Ancor fioriva su quel volto bello Di giovinezza la virginea rosa, E un giglio crescea già sovra l' avello Dove riposa. — Sentì nel core il giovinetto un forte Desio di rivedere anco una volta Quella gentil che gli rapia la morte, Ch'ivi è sepolta. Scopre l' avel…. ma dentro alla profonda Oscura fossa, della cara morta Altro non trova che una treccia bionda, Che al labbro ei porta. L'angelica beltà là più non era, E dalla vuota sepolcral sua stanza Diffondeasi per l'aere una leggiera Di fior fragranza. —

Firenze, 1871.

Io vi saluto, o della nostra vita Dolci speranze e dell'età novella! Voi scesi al mondo quando in cielo è uscita L' itala stella! Quella messe per voi già si matura Che i padri vostri fecondâr col pianto; Nube nessuna quella stella oscura Che or splende tanto. I patiboli, i ceppi, duri esigli, La virtù del voler forte e tenace Render possan più sacre al cor dei figli Libertà e Pace! Se i padri, a conseguir l'arduo tesoro, Arti posero e studî in lungo oblio, Che all'antico per voi surgan decoro È il voto mio. Altri fanciulli nelle vostre scuole Da tutta Italia convenir vedrete: Oh! s'abbiano da voi baci e parole Oneste e liete. Di consigli sagaci e d'alti esempî Li confortate e di fraterno affetto; Tal che qui la Virtù dei prischi tempi Trovi ricetto. È in voi l' Italia ed a voi guarda il mondo… Degni non son di libertà gl' ignavi; Se di gloria non è, d'onta è fecondo L'onor degli avi!

Roma, 2 ottobre 1871.

CORO PER MUSICA

Dove un giorno han cinto il serto Della terra i vincitor, Ha corone il civil merto, Han gli studî il primo onor. Le belligere vittorie Festeggiavansi a quei dì; Altri fasti ed altre glorie Ora il Ciel ne consentì. Mille madri un giorno han pianto Su quei brandi e quegli allòr; Mille madri al nostro canto Benedicono dal cor! Roma antica al vinto mondo Riti impose e civiltà, Or s'innova al sol fecondo Della patria libertà. Nulla al mondo impone o chiede, Tutto cerca e trova in sè, Leggi nuove e nuova fede, Fede antica in nuovo Re. Viva Roma! il suo passato, Se non vinse, essa emulò, Quando il voto ha consacrato Che all' Italia la legò. Viva Roma, Italia viva! Viva il libero Voler Che novella Età ci apriva Di Concordia e di Saper!
Tu poeta e sovrano, Dei poeti al sovran desti la mano, E ti parve il fulgor di tanto ingegno Quello ecclissar d'un regno, E il nome tuo, che pur tanto si spande, Del suo ti parve assai men bello e grande.(1) Si ricorda la visita fatta da S˙ M˙ ad Alessandro Manzoni, e queste nobili parole che gli rivolse: « Pochi anni basteranno a far obliare il nome di Don Pedro d'Alcantara, mentre i secoli rispetteranno quello d'Alessandro Manzoni. » Sire! sovente, è vero, Non copre d' immortal gloria l'impero, E a molti, iniqui o stolti, Nell'oblio fia ventura andar sepolti, Però che le virtù come gli errori, Quanto più in alto stan, sembran maggiori. Ma tu perenne e chiara Gloria n' avrai, Don Pedro d'Alcantara, Poichè l'avito serto Non crebbe a te, ma per te crebbe in merto, Per te che primo nel vasto reame Abolisti dell'uom la tratta infame. E così in te risponde All'idea l' opra e son del par feconde; Sofo, prence e poeta, Securo incedi ad una stessa mèta, Poichè il culto del Bello a quel del Bene Strettamente congiunto in te si tiene. Ed or che il mio paese Percorri, pellegrin dotto e cortese, Prego che a te sorrida in ogni parte E la Natura e l' Arte, Che questo ciel, che pur sereno è tanto, Del tuo splendido ciel t'offra l' incanto. Roma altera ti mostra Le gran reliquie dell' istoria nostra; Dal secolar suo soglio Marco Aurelio ti attende in Campidoglio, E par che lieto ti saluti e dica: « In te rinacque mia virtude antica! »

EPISTOLA

Più d'ogn'altro oggi appar vulgare e vieto L'Inno di nozze; pur silente indarno S'affatica, nel dì che vi congiunge, Restar la Musa mia, sì di pensieri L'auspicato connubio, e in un d'affetti, Ineffabil tumulto in cor mi desta. Venitemi d'accanto! Impor la mano D'ambo vogl' io sovra il diletto capo Con amor di sorella e di poeta, Benedicendo. Non vi turbin queste Lagrime involontarie. Allor ch' io veggio Il giuro irrevocabile due care Alme annodar, così del santo rito Vincemi la virtù, che la preghiera Mi corre al labbro e agli occhi il pianto. A pochi Tante liete promesse in un congiunte Consente il Cielo: un' intima armonia Di sensi alti e gentili a voi süade D'accomunar la vita, e a voi la vita Roseo sogno parrà. Contempla, o Mario, La tua fanciulla; è un fior primaverile Delle Tosche contrade, e alla vivace Leggiadria del sembiante, in lei risponde Il fervor dell' ingegno. Alle modeste Cure della famiglia e dell' industre Ago all'opre sottili, essa dell'Arte E di nudriti studî il culto accoppia. Dote suprema e cara! in lei la grazia Di giovinetta, amabilmente adombra Saper, senno e virtude. Esempio vivo E costante conforto in te ritrovi A custodir l'eterëa scintilla Che nelle innamorate alme s'accende. Rammenta questo dì che tante e tante, Solo per te, care sembianze e cose Fûra agli sguardi suoi. Quel core un senso Di mestizia (che offesa a te non reca) Assalirà. Guai se alimento ei chiegga Sempre e solo all'amor! Siede alle soglie Del tetto nuzïal, vigile e muto Fantasma, il tedio. Ove le soglie ei varchi, Dall'opposto veron dispiega il volo Atterrito l'amor. D'opre incessanti, Gradite più pel vario ordine, pieno Abbia il suo dì la sposa tua. Pon mente Che al benefico oprar limite estremo Il domestico altare a lei non segni. Nova vita, e dover novi! Tal legge Chi viölar s'attenti, e patria offende E umanità. Giselda tua, siccome Angelo di pietà, scenda talora Alle pie case che ospital dischiude A conforto degli egri e poverelli La tua Catania: con gentil parola Molcerà l'altrui duolo, e il duolo altrui De' sommi gaudî che le assente Iddio Le apprenderà il valor. Ma più sovente Volger le piaccia ove la patria cresce A virtù la sua prole, e il dolce suono Della natía favella, e i consüeti Modi cortesi, in quelle virginali Alme un senso d'amor per la tua cara Ad inspirar fien pronti; ed ella, cui Del comun ben preme il tenace istinto, Delle cure materne al più sublime Culto devota, inizio tragga all'arduo Magistero di madre, ed ove il Cielo Il talamo fecondo a lei dinieghi, Dei figli altrui nel ricambiato affetto S'abbia compenso, o almen conforto. Degna Fia così del tuo nome, e così amore, Che suol languir fra molli ozî, più forte Crescerà da gentili opre nutrito. Il sai, Giselda, non fabro di versi, Ma poeta è il tuo sposo, e nel poeta S'agita e ferve tutto intero un mondo. Tal meco un giorno egli s' apria: « Rugiada Non è l'Arte per me, ma intenso foco. » Il ver dicea! La foga dell'affetto, I voli del pensier, l'estasi tutte, Vita del Genio, ad una ad una è forza Sconti il poeta con più grave affanno. Perdonagli, fanciulla; oh gli perdona Un tacer lungo, un impeto improvviso Di gioia o di dolor, di cui la fonte A te ignota è del par. Speme e sgomento, Illusïone e disinganno, assiduo Desio d'un ben quaggiù negato, è tale Del poeta la sorte. Eppur, fanciulla, Se a te cara non fosse, a te rivale Esser la Musa, aspra rival, potría. E se pur vinta un dì, morta in quel giorno Pianger dovresti la più eletta parte Di lui che t'ama. Gli è fatal piegarsi Della Musa al voler. Perpetua calma Più funesta che l'urto a lui verrebbe Di tempeste perpetue. Infiu la gloria Pena è per esso, ma ogni pena è gloria. Oh! t' inghirlanda de' suoi lauri, e belli Più gli parran; con lui parti l'offesa Degli ascosi lor pruni, e meno acuti Gli fian questi per te. Quando dall'alto De' suoi splendidi sogni egli ripiombi Nel nudo ver, protendigli pietosa Le fide braccia, e fra la terra e il cielo Trovi l'amplesso tuo! Anco una volta Fatevi a me d'accanto; impor la mano D'ambo vogl'io sovra l'amato capo Benedicendo, come in simil giorno Benedir sogno i figli miei. Famiglia, Amici e patria, con desio concorde Vi cingono di larga onda d'affetto. Gli eterei fior che giovinezza e ingegno V'assentono, dall'ira insiem guardate Dei malvagi e del tempo; il loro effluvio A voi d' intorno si diffonda e dica A qualche mesto o dubbïoso: Ancora Fede, amore e virtù, per l'alme elette, Di gioconda armonia brillano in terra.

Roma, gennaio 1872.

RISPETTI

I.

Di giovinette una leggiadra schiera Per guadagnarsi un pane ed un giaciglio, Dal sorgere dell'alba a tarda sera Tien su seriche stoffe e l'ago e il ciglio. Sta fiso il ciglio e l'ago ognor si muove A compor bei trapunti e fogge nuove; Or per conviti, per teatri e feste, Ed or per nozze apprestano la veste; Ma delle nozze e delle danze l'ora, O fanciulle, per voi non giunse ancora, E voi languite in sterili speranze L'altrui nozze pensando e l'altrui danze.

II.

Oh chi le sa le lagrime segrete Su quei veli cadute e su quei fiori!… Di Tantalo il supplizio ahi! si ripete, Ignorato da ognun, nei vostri cuori. Eppur, fanciulle mie, fra gemme e trine Si veggon lagrimar fin le regine; E tante pompe che durano un giorno Non dan che trista eredità di scorno!… Dalla virtù, fanciulle, e dal lavoro Vien la pace dell'alma e non dall'oro; Deh! non lasciate per desio fallace La veste poveretta e insiem la pace!

Roma, gennaio 1872.

Ferve una lotta dolorosa, eterna Tra lo spirto e la creta; Ma se virtù lo spirito governa, Raggiungerà la meta. Talor l' affetto più soave e pio Si converte in dolore, Se non l'arresti sul fatal pendio Che trascina all' errore. È il sacrificio il fior più bello e santo Che si schiude nel mondo, Poichè solo d'elette anime il pianto Può renderlo fecondo. A noi stanno di fronte il Male e il Bene; L'un di lusinghe infide, Recinto è l'altro d'infinite pene, Ma al ciel guarda e sorride. Arbitri siamo della nostra sorte; Schiuso è il doppio sentiere… Ma la Virtù comincia per il forte Dove cessa il Dovere.

Roma, gennaio 1872.

IN MORTE DELLA SUA MOGLIE

Spirava un'aria dalla sua persona, Che intenerito ognun che la vedea, Pria di dir: Quanto è bella! « Oh quanto è buona! » In cor dicea. Or son sett'anni, e giovinetta sposa La vidi primamente, a te da lato, Fra le tombe vagar muta e pensosa Di San Miniato. Certo in quell'ora le gemeva in seno De' perduti parenti un desio novo, Ma: « In te, diceati il guardo suo sereno, Tutto io ritrovo! » E tu infondesti in quell'alma cortese Della tua generosa alma il vigore, E dell'orfana il duol mite si rese Per lo tuo amore. Tal, se debil convolvolo si stende Sovra quercia robusta, ombra e sostegno Securo ei trova e co' suoi fior le rende Ricambio degno: Ma quando sul cader del breve aprile Più vita nel convolvolo non resta, La quercia senza l'ospite gentile Sembra pur mesta! Che, se oblïar potesse i fior di pria Per non soffrir di quell'acerba morte, Oh tu, Antonio, lo sai che nol vorria La quercia forte! Al ben perduto la tua angoscia è uguale, Pur tu l'avresti anco a tal prezzo accetto, E t' è conforto, chè lo fa immortale Memoria e affetto.

Roma, giugno 1872.

A'MIEI FIGLI

M'udite, o cari. Era un fosco mattino Di novembre; gemea sotto un'acuta Brezza quest'onda ch'oggi è specchio al riso Del cielo e al vostro viso, Ed io scendeva alla squallida e muta Isola del vicino Formidato San Giorgio, ove l'altero Fratel del padre vostro Dal vigilato chiostro L'ira sfidava del fatal straniero. Vederlo anco una volta M'era concesso, e il mio, Sotto lo sguardo dell' immobil scolta, Recargli ultimo addio. Ma innanzi agli oppressor fin la dolcezza Dei domestici affetti era contesa! D' insolita fierezza Io mi sentia compresa; Soffocavami il pianto e féa ritegno Alle irrompenti lagrime lo sdegno. Brevi parole ci scambiammo, e in mezzo Lasciarlo ahi! m'era forza ai truci sgherri: Io della febbre partia col ribrezzo, Ei sorridea tra i ferri…. In terra, in mare, in ciel, tutto in quel giorno Fremeva a me d'intorno. Da quelle antenne il nordico stendardo Insultava al mio sguardo; Desolata fuggii dal suolo oppresso…. Scorser sett'anni e vi ritorno adesso. E, fecondati da tanti dolori, Vi trovo i fior che vei raccoglierete: Su quelle antenne splendono le liete Bandiere a tre colori, Di San Giorgio le scolte oggi son figli Della patria redenta, Si schiuser le prigion, finîr gli esigli; Ciò che fu colpa un dì, gloria diventa. Ma nel tripudio della vita nova La lunga servitù quasi s'oblia; Ed oggi a voi rammemorar mi giova Ciò ch'altri furo, e che noi fummo in pria, Perchè con vigil cura Della invocata libertà il tesoro Serbar sappiate nell'età ventura E alla Madre comun crescer decoro. In lotte occulte e amare trepidanze Ratto languia di nostra vita il fiore; Per voi s'abbia vigore Di studî e di speranze: Or stranieri non più, ma figli inetti Son d' Italia i nemici, E a farla degna de' suoi dì felici I gagliardi intelletti Scopran concordi e con pietà verace Anco ai pusilli del saper la face. La face del saper, che vien dal Vero Che per diverse vie tutti ne guida, È muta ove s'annida L'ignavia del pensiero. L'ozio incolpevol d'un'età funesta Ora scontar ne giova; E colui che ploriam, siccome a festa S'accinse all'ardua prova, Quando, con quell'amor che pensa e vuole Novo al popol schiudeva ordin di scuole.(1) Clemente Fusinato, nel 1866, reduce dalle battaglie garibaldine, fondava in Venezia le prime scuole serali per il popolo. Ahi! l'operoso cittadin, l'audace Congiurator, l'intrepido soldato, Da cinque anni la pace Trovò…. ma in San Miniato! Sorga a compir dei grandi estinti l'opra Chi ne sospira i frutti, Perchè non ci ricopra L'antica infamia con novelli lutti. Figli! se a'tristi dì la patria chiede Un sacrificio, e poi Larga si mostri altrui della mercede Ch'era dovuta a voi, Deh! non cedete all'invido rancore Che isterilisce il core, Ma ognora più magnanimi e volenti Ritornate ai cimenti, E dei premî negati Basti a ciascuno il dir: Gli avea mertati! Oh! di chi finge e merca il patrio affetto, Di chi il deride nè giammai l' intese, Qual di rettile abbietto Le blandizie temete e non le offese. Tale nelle prigion, nell'aule, in guerra Fu colui ch'è sotterra, Che da San Giorgio ancor par che vi gridi: Fidi siate al mio esempio, a Italia fidi!

Venezia, agosto 1872.

I grandi estinti d'onorar men degna Credeasi Italia mentre in ceppi ell'era; Or che risurse, sulla sua bandiera Ad uno ad uno i bei nomi ne segna. E quei grandi onorando, ai figli insegna I novi a conseguir lauri che spera: Città del Brenta! tra l'eletta schiera Nobil posto al tuo Sommo oggi Ella assegna. Molto egli amò, seppe ed oprò, l'audace Sguardo figgendo negl' intimi arcani Onde al volgo son mute Arte e Natura. Il desio di saper non gli diè pace; Ma se il trasse a morir su lidi estrani, D'altra vita e immortal qui l'assecura.

Padova, 15 ottobre 1872.

**(1) Luciano Manara incontrò morte gloriosa il 30 giugno 1819, difendendo valorosamente contro i Francesi la porta di S˙ Pancrazio in Roma.

Ei pareva tra i molli ozî beato Senza fremiti d'ira o di desir, Immemore d' Italia e del suo fato, Degno di nascer schiavo e tal morir. Ma dei cinque gran giorni al primo albore, Quasi leon, ruggendo Ei si destò; Una man pose al fronte, una sul core E: « A te mi sacro, o patria mia! » giurò. Come ogn'opra ridirne?… Era un portento Di senno, di costanza e di valor: Sursero a tanto esempio a cento a cento Dell' eroica Milano i difensor. Stanche, non sazie, dell'empio macello Le straniere coorti indietreggiâr, E al quinto vespro su ogni torre e ostello Le patrie insegne libere ondeggiâr. Ma sui cruenti allôr pace non trova Quel generoso, e il fervido pensier A lui dipinge con angoscia nova, Strazio d' inermi e oltraggi di stranier. L'acciar riprese, un animoso stuolo Ratto raccolse, e al Re Sabaudo offrì; Ma inerte spettator d'onta e di duolo Restar non seppe e ad altro suol fuggì. Di Roma i ceppi, altre genti straniere Eran scese volenti a ribadir, Ond' Ei qui accorse con le fide schiere Al noto grido: O vincere o morir! Nemica al dritto ed al valor vittoria Parve in quei giorni, ond'Ei morte invocò; E l'ebbe, e tal, che simbolo di gloria Il suo bel nome ai posteri mandò. Ed or che sul Tarpeo sta lo stendardo, Ch'unico splende dal Cenisio al mar, I cinque dì del popolo lombardo Roma pietosamente ama onorar. S'oggi, o Manara, dal Tuo sonno eterno Dato Ti fosse un solo istante uscir, Poichè tal fecondava amor fraterno, Quanto benediresti al tuo martir!

Roma, aprile 1873.

Grazie, o gentil! Da troppi anni l' accento Ch'io gli volgea, sdegno suonava e pianto; Alfin per te soltanto Mi prorompe dal cor lieto un concento! Vien, t' affretta, o pietosa, Poichè amor ti süase, A ravvivar le sue deserte case. Dalle meste pareti Pendon serti di lauro e di cipresso, Arra di giorni lieti La ghirlanda di sposa Or vi deponi appresso. Non è auspicio funesto a nozze tali Rammemorar tai morti, È augurio che in virtù, non nelle sorti, Figli cresciate uguali. Di lei che fu la più felice e insieme La più misera madre, il miglior voto Ei figlio sì devoto Pur sembrava obblïar dell'ore estreme; Gemean gli amici che quel nobil core, Assorto in tanto lutto, Non s'aprisse alle dolci aure d'amore; Temea Italia distrutto Il prezïoso germe Che Lei divisa e inerme Cinse di tanta gloria, Che negli evi remoti, Se quelle geste sien mito od istoria, Stupiti chiederan forse i nepoti. Però te benedice oggi la schiera Beata de'suoi martiri, saluta Oggi l'Italia intera Co'suoi canti e i suoi fior la tua venuta. Ogni gaudio, ogni duol del tuo diletto È gaudio, è duolo ad ogn'italo petto, Tal che mentre con bieca arte s'offende Più chi più in alto posa, Intemerata splende La fama dell'eroe ch'or ti disposa; Al suo nome, alla schietta parola, Fin tra l'ire più sorde, Come un'anima sola Torna la patria in un voler concorde. Nè temo io già che l'amorosa cura Lo tolga all'opre che la patria chiede; Non può languir la fede Ch'ei le giurò nei dì della sventura! Ma quando, stanco dell'agon civile O afflitto da lugubri rimembranze, Riederà alle tue stanze, Fa prova della tua possa gentile; Il cor di tutti i suoi Da'tuoi labbri gli parli e da'tuoi sguardi; Tu il conforta, che il puoi, Di dolci affetti e di pensier gagliardi. Così fia che risplenda Sua grand'alma per te di virtù nova; Donna ch'ami ed intenda Gioia e gloria maggior sai che non trova. Altri opra il dica di cieco destino; A noi, cui resta ancora La lieta fede d'un voler divino, Creder più giova che alla tua dimora Il guidasse Colui ch'un sol lignaggio Ne diede e un sol linguaggio, Quasi promessa o arcano insegnamento Che a noi predice ed ai fratelli oppressi Il riscatto incruento Che alla gran Madre li ridoni anch'essi. Qual minaccia od offesa Sì bella fede a stranio Sir non suoni: Quando una gente a libertade han resa, Furon più forti e glorïosi i troni. Tu, cui natura e amor strinse del pari Agli oppressi e ai redenti, Parla a quei di speranze, Provvida desta in noi dei lunghi, amari Giorni la ricordanza, E dei mali presenti Sopporterem con animo giocondo, Ricordando e sperando, il vario pondo. Così maturi l'opra benedetta, Cui sacro è il tuo consorte, Che fin presso alla morte Stette in cima ai pensier di quella eletta Sovra ogn'itala madre, Di cui piacque al Signor ch'anco il sorriso E le sembianze serene e leggiadre Trovi lo sposo nel tuo dolce viso.

Roma, giugno 1873.

AD ACHILLE MONTI

PER LE FESTE DEL QUARTO CENTENARIO ARIOSTEO CELEBRATE IN FERRARA

Monti! se nella sua terra natia D'Orlando il gran poeta Onorar come l'anima vorria Caro dover mi vieta, Sull'ali del pensier teco men vegno, E anch'io plaudo alla festa Ch'oggi Italia, con quanto ha di più degno, A lui concorde appresta. Mentre onore gli fan Scïenza ed Arte E Popolo e Sovrano, Io vo'ammirar le prezïose carte Ch'ei vergò di sua mano. Quanto sudò nell'adornar l'eletto Verso che suona e crea! La parola all'imagine, all'affetto Come adeguar sapea! Fra i mille incanti ch'ei ci narra, incanto Pari al suo dir non trovo… Salve, o sirena, di cui dura il canto Insuperato e novo! Ecco il picciolo vase ov'egli intinse La penna portentosa, Ond'armi e cavalier, donne e amor pinse D'età per lui famosa. Vedi al sommo del vase un Amorino Che in bell'atto e discreto, Alle labbra appuntando il suo ditino Sembra intimi il secreto. Certo a caso non fu che simbol tale Ei volle innanzi al guardo, Ognor che il genio suo spiegava l'ale Al volo alto e gagliardo. Forse ei temea, vinto dagli estri audaci, Dolci arcani far noti, E Amor mirando che diceagli: taci! Del cor frenava i moti. Così tutta ravvolta in un mistero Che rispettar n'è bello, Quell'istoria, taciuta al mondo intero, Chiude con lui l'avello. Ma qual si fosse la gentil che il core Fidente gli dischiuse, Che sulla vita sua tanta d'amore Giocondità diffuse, Come gli antichi al Nume ignoto, omaggio Il mio cuore a lei rende: Forse dagli occhi sui movea quel raggio Onde il bel verso splende.

Roma, giugno 1873.

IL CAPO D'ANNO

Sotto un lenzuol di neve Riposa la natura, Ma fecondo vigor serba e riceve Che i germi apre e matura. L'anno si rinnovella; Ferve la vita nel paterno tetto Ch'oggi per te s'abbella D'augurî e doni, simboli d'affetto. Grandi cose t'insegna e ti consiglia Con l'opre, che il riposo non arresta, E natura e famiglia. Medita, o figlio, e a volgere t'appresta A meta eccelsa l'anima e l'ingegno: Ben verace non ha chi non n'è degno!

CARNEVALE

Vedi? ha vegliato fra le danze, e stanco Ne tornava all'aurora, Tal che il volto n'ha bianco E della scuola invan gli suonò l'ora. Altri le membra in più gagliardi ludi Esercitâr frattanto, O la mente arricchîr d'utili studî Che a lui gravi son tanto. Ahi! nel bene e nel male Fugge il tempo con vol per tutti uguale…. Ma quella parte di sua breve vita Ch'ei consumar si piace In gaudio sì fallace, Fra i suoi ricordi splenderà gradita? Dirà vero diletto Ciò che il corpo gli fiacca e l'intelletto?

QUARESIMA

Un tempo le due voci: sano e santo Parvero un senso compendiar soltanto, E parte anch'essa avea Ne' sacri riti Igea. Sobrio e semplice il vitto Dopo le gozzoviglie era prescritto; Dopo i gaudî profani Umili a Dio si rivolgean gli umani. Oggi l'uso perdura Ma la prisca virtù cangiò natura, E il magro cibo ed il sermon severo Più non sanano il corpo ed il pensiero. O giovinetto, al cielo Volgi lo sguardo e medita il vangelo, E apprenderai che dove il senso regna Perde lo spirto sua virtù più degna, Chè la legge di Dio vuol santo e sano Quanto nutre lo spirto e il corpo umano.

PRIMAVERA

Ecco sparito il verno E rinnovato il miracolo eterno! La natura, che morta Parve sì lungo tempo, è alfin risorta! Senti per l'aure tiepide Il profumo dei fior che si diffonde, Odi fra gli arboscelli Già rivestiti di novelle frondi In gaio metro gorgheggiar gli augelli. Perchè meno proficua all'uom non torni Della natura l'opra benedetta, Vedi? ai campi s'affretta L'operoso villan prima che aggiorni. Ma come, se il sudor suo non la bagna, Ben sterile di messi è la campagna, Senza studio profondo Anche l'ingegno uman resta infecondo. Il lavoro che afforza e braccio e ingegno, Non già del divin sdegno, Ma prova è a noi di quell'amor divino Che ne sorregge nel mortal cammino.

LA TEMPESTA

Nella stagion più bella Più spessa e minacciosa è la procella. D'un tratto essa ha distrutti I germi in mille fior di mille frutti; Recise i tralci della vite, il grano Orribilmente ha pesto; Vedi come n'è mesto Il povero villano?… Così ne'nostri petti Nell'etade migliore Infuriano gli affetti, Che il faticoso e lento Lavoro del sagace educatore Sperdono in un momento. Ma sol quando la calma Nel ciel riede e nell'alma Scorger possiam quanto tornò funesta Degli elementi e del cor la tempesta. Nel cor le leggi istesse Che reggon l'universo abbiamo impresse. Ma all'uom soltanto il don della ragione Diè Chi tai leggi impone, Perchè dalla ragion nel vostro seno Gli affetti abbiano un freno, Nè colla lor bufera Sperdano i fior di nostra primavera.

LA FESTA DELLO STATUTO

Dall'Alpi al mar, dal tugurio alla reggia Sai tu qual sia l'evento Che Italia oggi festeggia? Sai perchè a cento a cento Sventolan le bandiere E suonan gl'inni e sfilano le schiere? È la patria che dà l'annuo saluto Al sacro suo Statuto, Arra di libertade, arra di pace, Che di concorde affetto In vincolo tenace Popolo e prence, e terra a terra ha stretto. E sai perchè si vuole Ai più degni dar premio in dì sì bello Fra i giovanetti delle nostre scuole?(1) In Firenze e in altre città d'Italia la premiazione degli alunni delle scuole comunali ha luogo nel dì dello Statuto. Perchè sia chiaro alla crescente prole Che in questo d'alti eventi ordin novello Italia omai, più che valor d'eroi, Virtù chiede e saper ne'figli suoi.

GLI ESAMI

In un pensier che non gli dà mai pace Perennemente assorto, Veglia le notti, e spesso il sole è sorto Quand'ei spegne la face. L'estivo ardore e lo studio incessante Reser pallido e macro il suo sembiante: Mesta la madre lo sogguarda e spesso Con sospir mal represso Tacita pensa: Oh! se il tempo passato Revocar tu potessi, oh! come adesso Ti diresti beato! Almen per l'avvenir ti frutti, o figlio, Il materno consiglio, E l'ambascia ti giovi Che da sì lunghi giorni ohimè! tu provi. È bello sì quel serto Che fia concesso al tuo sudato merto, Ma olezzo alcun non manda Quell'ambita ghirlanda, Se della madre il core Vi cerchi invan di tua salute il fiore!

IL MARE

Al mare, al mar, che con l'aure e coll'onde Nuova salute infonde, Che, specchio al cielo e al lito, Dai terreni pensier leva la mente E la spinge a vagar per l'infinito!… L'onda or cheta, or fremente, Il sole quando nasce e quando muore, Del pescator la fragil navicella Che in Dio fidando affronta la procella, Tutto qui parla al core! In seno all'acqua d'esseri viventi Vedi immensa famiglia; T'apre occulti portenti Il polipo, il corallo e la conchiglia; Sorgi quindi e all'istoria Di quell'isole chiedi e di que'porti La fortuna e la gloria, E dei vivi saprai più grandi i morti; Saprai che sol quand'ella al mar ritorni, Splenderan per la patria i prischi giorni.

L'ALPE

Vieni, fanciullo, ascendi Quest'erta faticosa, Poi sulla vetta, ove vulcani orrendi Fiammeggiavano un dì, siedi e riposa! Quivi un tesoro disïato e vario Raccoglier puoi pel tuo modesto erbario: Niun questi fiori edúca, o figlio mio, Il lor cultore è Dio!… Del suol gli strati sovrapposti e queste Pietre, a chi studia e intende Rendono della terra manifeste Le perpetue vicende. Tutto, seguendo un'immutabil norma, S'agita e si trasforma, E a noi viventi di sì fragil vita Pur d'ammirare è dato Questa legge d'amor ch'è l'infinita Armonia del creato. Guarda! d'intorno a noi tutto si tace; Sul nostro capo solo L'aquila spiega il volo; Ma appiè dell'Alpe termina la pace, Poichè sdegni e dolor, speranze e affetti Fervono in mille petti. Figlio, guardate da codeste altezze, Che son le umane ebbrezze? Che giunge e che rimane Qui delle febbri umane? Fra i mortali scendiam, ma qui sovente Torna almen colla mente!

LA VENDEMMIA

Non mai tanto copiosa Vendemmia io vidi. Lieti i contadini Stan ricolmando i tini; Raccatta un bimbo sulla zolla erbosa I chicchi sparsi, un altro si riposa, Mentre la madre sua la chioma bionda D'un tralcio gli circonda, E tant'uva gli versa in grembo e intorno Che un picciol Bacco ei sembra. È sceso il giorno; Dietro i carri già carichi si avvia Ognun cantando all'ampia fattoria. La vecchia, arzilla oitre l'usato e gaia. La mensa apparecchiò nel mezzo all'aia, E corre incontro ai figli dei suoi figli. Quanti qui si raccolgono! e all'aspetto Sembran stretti di sangue o almen d'affetto, Chè i servi qui si chiamano famigli. Ma il frugal pasto è già finito. Suona Un rustico strumento: La gioventù alla danza s'abbandona: Splende ai rai della luna il crin d'argento Dei vecchi, schietto il riso Brilla ai giovani in viso, E vien da questa scena, Antica quanto il mondo e sempre nova, Una pace serena Che in più splendide feste ahi! non si trova.

IL GIORNO DEI MORTI

In guisa varia, ma ognor pia e gentile, Con un amor che ovunque s'assomiglia, Quest'umana famiglia, Perfin dov'è men culta e men civile, Onora i suoi defunti. In questo dì da vincoli più forti Noi ci sentiam congiunti Ai nostri cari morti. Affollato è il sentiero Che mena al cimitero. Quanti marmi e leggende e serti e ceri Su quei sepolcri sì ammirati! A questi Solitarî e modesti Amo accostarmi. In neri Veli la fronte avvolta, Piange una donna la figlia diletta, Piange una giovinetta La sua madre sepolta. D'ambe santo e profondo È il duol, ma dalla vita L'una avrà gioie ancor, l'altra dal mondo Non vuol conforti, chè conforto solo È a lei l'acuta voluttà del duolo. Dal mio compianto e da quell'ansia amar Quanto s'amino i figli, o figlio, impara!

LA FINE DELL'ANNO

Sovra l'anno che muore Meditiam, figlio, pria che il novo sorga, E ogni gaudio, ogni affanno, anche l'errore, Un consiglio ne porga. Tutto il ben che compir n'era concesso Compiuto abbiamo? Ad un desir fallace Più che al dover fu l'animo sommesso? Turbammo l'altrui pace? A chi esempio, conforto, amor ne diede, Qual rendemmo mercede? Ogn'anno aggiunge nel mortal cammino Un novello gradino: Infaticati salgono gli eletti Finchè giungono al ciel; scendono ognora Gli animi tristi e abbietti Verso la morta gora. Noi che abbiam fatto in questi lunghi mesi? Salimmo o siam discesi? Felice chi risponde a tai parole: « Fui come Dio ci vuole.» — L'anno cui volge l'ultimo saluto Per lui non è perduto, E se pur n'ebbe affanno, Dovrà in eterno benedir quell'anno.

Firenze. ottobre 1873.

Non fosti mai sovra un remoto suolo Ove straniero il tuo idïoma giunse, E non rammenti il duolo Che al vederti incompresa ivi ti punse? Così discesa da più eccelsa sfera L'anima tua fervente Parla un linguaggio, cui riman straniera Questa turba che poco e pensa e sente. Invan chiedi col pianto e coi sospiri Chi ti risponda con la tua parola, E crucciosa t'aggiri Sempre in mezzo alle genti e sempre sola. Invan tu imprechi a queste anime sorde Ad ogni poesia… Se ne infrangi le corde, Anche l'arpa ti niega ogni armonia. Una colpa non è ma una sventura Non udir la tua voce. Deh! li compiangi, e ti parrà men dura Della tua solitudine la croce. E come allora che dal lido estrano Alla patria redivi, Con gaudio sovrumano Risponder nella tua lingua t'udivi, Così, tornando alla serena stella D'onde ci sei venuta, T'inebrierai della immortal favella Cui tanta parte dei mortali è muta.

Como, dicembre 1873.

Come l'opposta imago arcanamente Sui preparati vetri imprime il sole, Così l'affetto imprime nella mente D'un'alma cara i sensi e le parole: Questi il labbro ripete assiduamente Nell'ore nostre più dolenti e sole, Nè alcun conforto potria darci il mondo Più soave, più santo e più profondo.

Roma, febbraio 1874.

Due spirti a un tempo da sventure eguali Posti a prova vid'io; L'uno la croce sua converse in ali Che l'adergono a Dio, E luminose impronte La sua virtude gli scolpiva in fronte. Ma l'altro, appena del pondo affannoso Il fastidio sentia, Cadde volente, per cercar riposo, Nel fango della via, Dove requie non trova Ma l'onta il copre d'un'angoscia nova.

Roma, febbraio 1874.

Ben pria, gentil Luisa, Che la giovin tua vita In così dolce guisa A quella fosse del tuo sposo unita, Io pel saper profondo, Pei sensi intemerati, Per l'ingegno fecondo, Tra i miglior l'ammiravo itali vati. Ma quando a te da lato Il vate imaginoso A me veder fu dato Tenero padre e avventurato sposo; E con amor sublime, Con fantasie serene Lo intesi in dolci rime Il dì ribenedir del vostro imene, Allor qual per l'ingegno Che lo rendea sì chiaro, D'onor mi parve degno Per le sole virtudi ond'ei t'è caro. E plaudo a te che tanto Gl'insoavisci il core, E dell'alloro accanto Fiorir gli fai le rose dell'amore.

Roma, febbraio 1874.

Ti sento ancor! mi spira Il tuo soffio odorato in tra'capelli; Tutto freme e sospira, S'aprono i fior, ricantano gli augelli. La tua virtù gentile Meno triste mi rende e più secura, Quasi il mio primo aprile Riviva nell'april della natura. Fiori dammi e profumi Come a'bei giorni dell'età fuggita; Sol mi risparmia i dumi Chè troppi già me ne apprestò la vita.— Splendi! l'olezzo effondi Che la mente m'inebria e al cor mi scende; Copri di fiori e frondi Tutto che il guardo e l'anima mi offende. Versa il tuo raggio ancora Sovra i deserti e le ruine, e pia L'avel modesto infiora Di chi visse solingo e il mondo oblia.— Fin tra le lave io vidi Fin tra l'aride sabbie un fiorellino, E ovunque tu sorridi Un desio sorge ed un pensier divino. Della terra gli amori Tu ci narri coi fior; sono per noi Gli affetti i fior dei cuori Che durano talvolta ahi! men de'tuoi. Del core il gel gli affetti Uccide, come i fiori il gel dell'anno, Ma più nei nostri petti Gli affetti come i fior non torneranno. Ahi! perchè il tuo sorriso Fugace è sì sulla terrestre sfera?… Chi sogna il paradiso Amor sogna perpetuo e primavera!

Frascati, maggio 1874.

**(1) Con questo Sonetto l'autrice offriva il volume delle sue poesie alle Signore di Piacenza che l'aveano richiesta di qualche verso per la festa accademica in onore delle illustri donne italiane.

Voi che congiunte in bel nodo d'affetto Crescete onore al femminile ingegno, E altrui porgendo il pan dell'intelletto Ogni cura volgete a nobil segno, In questo giorno a tanta festa eletto, Mentre io pure col cor tra voi men vegno, Questo accogliete con benigno aspetto Di reverente amor povero pegno. Esso a Voi narrerà la vita mia Dipingendomi appien qual fui, qual sono, Chè velo al ver non fè la poesia. Umíle è il don, ma quanto io m'ho vi dono, Onde un senso gentil di simpatia In Voi spero trovar nonchè perdono.

Maggio, 1874.

Era scesa a provar fino a qual segno Dei parenti l'amor giunga quaggiù, Poi degli spirti nell'occulto regno Bella tornò d'ogni mortal virtù. Eco di dolci suon, di fior fraganza Si diffuse per l'aer ch'Ella varcò: Pinta è nei fogli la gentil sembianza, Ma meglio è pinta in cor di chi l'amò. Di donna una soave anima eletta Che omai due mondi onorano del par, L'istoria ci narrò d'un'angioletta Nata sol per amare e confortar. Tutta compresa di pietà divina Struggeasi al duol che non potea lenir; Buona e vaga era sì l'Evangelina Che un bel sogno parea pronto a svanir. E svanì ratto!… ed or che a noi concessa Era una dolce crëatura ugual, Peregrina del ciel, rediva anch'essa Ai gaudî della sua vita immortal. Se a chi la vide per brev'ora solo, Di sè tanto desio lasciava in cor, Come ridir dei due deserti il duolo Cui gioia e luce e vita era il suo amor? L'ansie memorie del perduto bene La comune pietà forse lenì, Ma d'altri afflitti nel blandir le pene Avran conforti più efficaci un dì. A nuove opre pietose or li consiglia Il ricordo di lei che non è più: Vivranno ancor con la diletta figlia Nel culto delle sue miti virtù.

Roma, giugno 1874.

(RIMEMBRANZE INFANTILI)

Scendea d'autunno una limpida sera. Io de'fratelli tra la lieta schiera Pel giardino correa: — la nonna mia, Di cui rammento le sembianze appena, Come solea, serena Col guardo mi seguia. Bella e giovine allor, proprio da canto Mia madre le sedea; Il babbo qualche fior cogliea frattanto Che nel grembo alla nonna deponea; E ancor rammento che fra tanti fiori, Ricchi di tinte e di soavi odori, La vecchierella scelse il più modesto, Dicendo: « Figlio, a me il più caro è questo. » Ahi! la nonna, la mamma e due fratelli Da quel giorno perdei, Ed or neppur potrei Pianger sui loro avelli…. Pur, quand'io son più sola e più dolente, La gaia scena tornami alla mente; E tutte vi riveggo, anime care, E vivo ancor m'appare Quel tuo sguardo amoroso, o nonna mia, Che parea benedirmi e mi seguia Pei fronzuti vïali; ond'io tra i fiori Ricchi di tinte e di soavi odori Prescelgo il più modesto Però che il fior della mia nonna è questo.

Roma, giugno 1874.

IL PETRARCA IN ARQUÀ

I.

Forse qui t'arridea la rimembranza Di quella valle solitaria e chiusa Ove, ai verdi anni, fra tema e speranza, T'ispirò gli amorosi inni la musa; La musa, che di Laura avea sembianza, Che alle grazie di lei da pria sol usa, Commossa quindi da civil baldanza, Virtù novella in fiacche anime ha infusa. Tal di donna l'amor, se schietto e forte, Sprone e premio divien d'ogni opra bella Ed ha i trïonfi suoi fin dalla morte. Onor di carmi e di ghirlande a Quella Che ti rifulse nella varia sorte Purissima, costante, unica stella!

II.

Nella fe', nel voler, nel sacro sdegno Profondo, insuperabile, tenace, Quanto possano amor, virtude e ingegno Mostrasti a Italia che in te ancor si piace. D'ogni serto t'offrì Roma il più degno, T'offrîr sofi e monarchi onor verace, Ma, vôlto sempre a men superbo segno, Qui ricercasti e qui trovata hai pace. Pace dei grandi, non ozio ed oblio, Chè d'operoso amor fin l'ultim'ore La Patria amasti, la Scïenza e Dio. Ond'è ch'impètro dal profondo core Che omai l'esempio generoso e pio Qual si vive ne apprenda e qual si muore.

Padova, 18 luglio 1874.

Due anni si compîro, e in questa stanza Entro codesto armario per più mesi, Con feroce costanza, O vecchio tarlo, rodere t'intesi. Riedo, e vivente anco ti trovo e ascoso Nel mobile corroso, Da cui strapparti tenterebbe invano Chi ridur nol volesse a brano a brano. Spesso tra veglie amare Ascoltando il tuo metro Sì monotono e tetro, Ad un povero cor soglio pensare Ove pur penetrava un tarlo audace Che senza tregua roderlo si piace. Sol mentre ad ogni orecchio manifesto Rendi il tuo lavorío, Non conosce che Dio Quanto l'altro a quel cor torni funesto: Di fuori il riso e la vernice, e ognora Di dentro il tarlo e legno e cor divora. Allor che l'opra eccede, Dal fondo dell'armario una leggiera Tritura uscir si vede; Quando l'ambascia al cor scende più fiera, Sopra freddo guancial cadon le stille Di due stanche pupille. Questi celati roditori e lenti Così proseguon nello strano accordo: Dall'insensibil legno escon lamenti, E tace il core o il suo lamento è sordo. Lì materia consuma e qui la vita Il tarlo parassita, E quasi al par del legno si dissolve Il cor che pace avrà col legno in polve.

Venezia, luglio 1874.

Poichè un cortese questo dì m'addita Come quello che a Te, spirito eletto, Le prime concedeva aure di vita, T'offro il mio voto io pur fervido e schietto. Tu che all'ingegno e alla dottrina unita Serbi la fede d'ogni sacro affetto, E con occulta carità infinita L'orfanello conforti e il poveretto, Deh! per quel ben che altrui largir ti piace, Possa tu con la pia ch'ami cotanto, Viver lunghi anni di gioconda pace! E di questi anni la virtù e l'incanto La musa tua, che meditando or tace, Ridica a noi col desïato canto.

Venezia, agosto 1874.

STORNELLI

Fior di scogliera, La tempesta fremea nei petti e in mare, E il gran romito abbandonò Caprera. Gigli e vïole, Appena ei giunse alla città immortale, Si acquetâr le tempeste e tornò il sole. Fior del pensiero, Un nuovo patto d'un sol cor giurâro Il lëon di Marsala e il re guerriero. Fior d'amaranto, Quel patto ogni tapin farà contento, Darà lavoro e pan, non sangue e pianto. Fior di mughetto, Il pensarli discordi era delitto: Egual speme e valor chiudono in petto! Fior senza spine, Se pria di lauro entrambi ebber corone, D'ulivo entrambi or cingeranno il crine. Astro(1) Astro, genere di piante della famiglia delle corimbifere; se ne contano più di cento specie di cui una sola è pregiata più di tutte le altre insieme, ed è conosciuta comunemente sotto il nome di Regina Margherita. romano, Cresce la fede e ogni timor vien meno Or che i due forti si ridiêr la mano. Ite, o stornelli, E ai mar narrate e ai monti e alle convalli Che amor d'Italia li rendea fratelli.

Roma, fabbraio 1875.

MEMORIE E LAGRIME

Io lo rammento sempre! ai primi albori D'un dì remoto e ch'or parmi vicino, Lieta a coglier scendea quanti eran fiori Nel mio giardino; E ne composi con cura amorosa Mazzi leggiadri, che più gaio e bello Render dovean d'una novella sposa Il novo ostello; Di quella sposa che se amavo allora Per amor di colui che sua la fea, Poi, per propria virtù, cara qual suora Mi si rendea. Tra noi d'affetto messaggier cortesi Fûr spesso i fiori, e una picciola culla Ne inghirlandai, dopo non lunghi mesi, Io ancor fanciulla. Sposa e madre divenni, ed al fraterno Amor nostro informáti, i nostri figli Colsero insiem dal mio giardin paterno Le rose e i gigli. Ed altri fior mi lusingai che a loro Crescer potria del padre mio la cara Man, quando cinti li vedrei d'alloro O sposi all'ara. Ahi! pel maggior del giovinetto stuolo Oggi alcun fiore in quel giardin v'han côlto, E il recaste piangendo al sacro suolo Ove è sepolto!… Nell'età della speme e del sorriso, Con candid'alma e securo intelletto, Ad un tratto perchè, perchè diviso Da tanto affetto? Sorte funesta, a cui solo conforto Torna il pensier che provvida assecura Da un egual martir chi giace morto La sepoltura. Oh! ma l'esempio suo, gli ultimi accenti Furon d'amor, di rassegnata pace; Coi divini ei moria presentimenti, D'un ben verace! Di quella morte placida il pensiero Virtù v'ispiri a sopportar la vita, E la prece ch'ei fe', sì presso al Vero, Sarà compita. Ei li vede quei fior che voi gli offrite Molli del pianto vostro, oh! sì li vede: Su quell'avel più viva in cor sentite Quest'alta fede! L'angiol ch'ebbe da voi terrena veste, Nei sogni e nelle veglie, e notte e giorno, Memore di quel ben che gli voleste Vi aleggia intorno. Ed or lo sento a me d'appresso, e sento, Quasi eterea armonia, cotesti detti: « Lenisca l'amor tuo l'aspro tormento De'miei diletti! »

Venezia, agosto 1875.

(VERSI DI A˙ HOUGET)

LIBERAMENTE TRADOTTI DAL FRANCESE

Sorge al norte d'Italia un bel villaggio Lieto di vigne e d'ubertosi prati; Verdi colline, ove perpetuo è il maggio, Cingono i campi suoi di fior smaltati. Quivi abbonda il cipresso, e la montagna, Che giganteggia sopra i vasti piani, Dai venti tramontani Li difende e li bagna Coi freschi ruscelletti serpeggianti Che ne' suoi solchi aduna, E son speme e fortuna Di quei buoni abitanti. Lo chiamano Sant' Orso, e il suo gioiello È questa villa (opra d'ingegno eletto) Che di tutte virtù sembra l'ostello, Com'è l'ostello d'ogni degno affetto. Oh! quanto è gaio questo asil di Lui Che il dire amico n'è conforto e vanto! Qui fra gli amati sui Della famiglia ritroviam l'incanto; Qui ritorniam fanciulli, De' figli suoi mescendoci ai trastulli. Le culte aiuole ed i vïali ombrosi Offron passeggi ameni, Offron dolci riposi Che ci rendono i dì brevi e sereni. Nella propinqua Schio Ei che diè vita Nova all'industria onde il paese è in fiore, Fra una vece di cure ardua, infinita Tragge ogni dì lunghe ore. Ma quando il sol tramonta anch'ei sospende Il lavoro fecondo, E a presti passi ascende Questo colle giocondo; E qui il riposo, qui l'oblio ritrova, Qui sul labro e nel cor gli torna il riso, Chè una letizia cara sempre e nova Spira da questo Eliso. Nulla difetta qui: — presso la fresca Cascata d'acque limpide, l'olivo, La quercia, il pin par che spontaneo cresca; Saltellan le gazzelle a mezzo il clivo Presso l'indiche canne; — ecco un pomario Della China remota, e d'ogni suolo Ecco il frutto ed il fior più eletto e vario. Dei pesci il guizzo e degli augelli il volo Nulla qui turba, e al Dio Summan qui sacro S'erge in marmorea conca un simulacro, Che la salubre e tersa Per occulti meandri onda riversa. Lungo l'erta del colle Sorger tu vedi la cappella umile Devota al Santo, e a lei vicin si estolle L'aereo campanile Donde di Berga e dell'Euganea i monti Discerni appien nei limpidi tramonti, E in fondo, avvolta in nebuloso velo, T'appar fra terra e cielo Venezia. — Il guardo riposar si piace Sovra l'immenso pian che per tanti anni Fu preda del vorace Augel, che alfin volse alla fuga i vanni. Non è gran tempo che il Croato immondo Di quest'almo terren struggea le messi; Ma la Dea Libertà, scorrendo il mondo, Vide e compianse questi forti oppressi. Eran secoli omai che Italia intera Chiedeale indarno la possanza antica: L'intese alfin, levò la sua bandiera E l'estrania respinse oste nemica. Lutti or non più! Libera è Italia ed una Qual la sognava il suo Manin morente. Dall' Etna alla laguna Par che batta un sol cor, pensi una mente. Il popolo redento onora insieme Arte, Industria e Scïenza, portentose Divinità, nate dal sacro seme Che Libertade in questo suol depose.
Alfin conobbi il tuo ospital soggiorno, La soglia ne varcai che Salve! dice; E nel partir sogno un vicin ritorno Che qualch'altro mi dia giorno felice. Sempre e dovunque guiderammi il fato Avrò nel cor scolpito Questo che ti creasti asil romito Alla famiglia e all'amistà sacrato. L'ore rammenterò che vi passai Accanto a te, a'tuoi cari, E fin ne'giorni amari Mi fia conforto il ben che vi trovai.

Schio, settembre 1875.

ALLA MEMORIA DEL PROFESSORE RAFFAELLO ROSSI

Spirto gentil che per tornare a Dio Sì presto ahi! ne lasciasti, Vedi? adempiuto è il fervido desio Per cui novi d'amor prodigî oprasti; Ch'opra è d'amor soltanto Se al povero fanciullo e al veglio affranto Ricovero consente e studî e pace La dolce Patria nel fidato ostello Che al Divin Poverello Sacrò degli avi la pietà verace. Tu che vicino al Vero Soluto vedi ogni terren mistero, Tu ben sai ch'è talor con nova forma A nova età concesso Far manifesto il sentimento stesso Che in mortal petto Dio non vuol s'addorma; Fior che frutto divien, serba l'essenza Pur mutando parvenza; Tal, mentre tutto s'agita e procede, Uno è l'Amore, una del ben la Fede. Fra tempestosi affetti e lotte insane In foschi dì questa virtù divina Spenta quasi sembrò nell'alme umane; E parve una rovina Di tutte cose, e sgomento profondo Il cor del giusto in quelle ore assaliva. Ma invocata nel mondo Sempre la Fè del ben tornò più viva: Sua luce è guida alle belle opre, e in questa Sfolgora adesso benedetta festa. O voi che per lunghi anni agli altrui figli Padri foste d'affetto, e deste loro Di provvidi consigli E di nobili studì util tesoro, E più che dall'età, dalla fatica Domi, or chiedete trepidando al Cielo Se il pan che vi nutrica, Se il tetto che vi guarda almen dal gelo Tolto non vi sarà pria della morte, Oh! venite, venite a queste porte! Figli e orfanelli d'ignorati eroi Che in umil scuola logorâr la vita Ed una scuola dar non ponno a voi, All'angoscia infinita Dei padri vostri, viventi o sepolti, Anche il Ciel si commosse! ed ora accolti In questo almo ricetto Dove spira sì mite aere e sì puro, Largo avrete e securo Alimento alle membra e all'intelletto. Nelle celle, per gli atrî, ove divisi Da ogni cosa terrena I pii seguaci al Fraticel d'Assisi Traean la vita qual s'espia una pena, I dolci canti risonar s'udranno Che ai pargoli innocenti I ricordi e gli affetti inspireranno Del Signor, della Patria e dei Parenti. E forse le beate alme di loro Che qui pregâro un giorno, Degli ospiti novelli al lieto coro Soavemente aleggeranno intorno; E quì dove favella Di geste prodigiose ogni Arte bella, Qui tra ginnici giochi e studì gravi E fin nel misurato ozio giocondo Saran l'opre degli avi Perenne esempio di virtù fecondo. Le reliquie d'un mistico passato Che compì i suoi portenti, Diventan d'altro tempio fondamenti, A novello di cose ordin sacrato. L'Umanità peregrinante accetta Il retaggio de' secoli che furo, Ma sol per quel futuro Che presagendo aspetta; E Carità rinnova il prisco vanto A questo Asil che Povertà fè santo.

Ottobre, 1875.

(VERSIONE DAL TEDESCO)

I. LA MADRE CHE CONTEMPLA IL SUO PRIMO NATO.

Grazie, buon Dio! così come mi festi Sposa felice, ornando La vita mia col gaudio de' celesti, A eccelso onor tu mi levasti, quando Pel tuo voler superno ho dato al mondo Questo angioletto biondo. Oh sposo! oh padre! il simbolo più bello Egli è del nostro amore. Lo benedici! in questo bambinello Battono i nostri cuori in un sol cuore; Quanto ci stringe con legami eterni, Unito in lui discerni. O bimbo, che nascesti in mezzo al duolo, Sul nostro sen ti posa! Consacreremo a te, sempre a te solo Ogni cura amorosa: La nostra vita nella tua riflessa Custodiremo in essa. Divin Padre e Signor! prima sorgente Tu della vita, oh questa Fa che scorra per lui pura, innocente, Sempre sparsa di rose e sempre in festa; E unisci in Lui, poichè siam figli tuoi, L'amor di tutti noi!

II. LA MADRE CHE VIVE UNA SOLA VITA COL SUO BAMBINO

O bambinello mio vago diletto, Deh tu rivela al mio materno core Quale s'irraggia dal tuo dolce aspetto, Manifesta a me sol, luce d'amore, E si pinge pel tuo volto gentile Come l'alba d'un dì primaverile. « — È la Fede che a me brilla negli occhi, Poichè ognor mi sarai scudo fedel, E per qualunque avversità mi tocchi, M'addurrai per la via che guida al ciel. È l'Amor che ti parla col sorriso De' guardi miei, se li rivolgo a te; Quando il tuo bacio m'accarezza il viso, Tutto è luce e profumo intorno a me. È la Speranza che il mio cor ravviva, Che m'impromette un avvenir seren; Da questa il fonte, o madre mia, deriva Di quella pace che mi ride in sen. » Vien, mio tesor! l'anima mia tu sei; L'astro sei tu della mia vita ormai; Vieni, fisa i tuoi grandi occhi ne' miei, Con quella che non inganna mai; Gli occhi tuoi mi diranno i tuoi pensieri, E saprò quanto brami e chiedi e speri. Ed un giorno io dirò: con ansia cura Nel bambinello avventuroso il seme Io gittai dell'amore e della pura Fede che tutto spera e nulla teme; E la Fede, l'Amore, la Speranza Gli schiuderanno la siderea stanza.

III. LA MADRE CHE GIUOCA COL SUO BIMBO

Madre! nel dolce viso Del figlio tuo ti bea, Godi del paradiso Che l'amor tuo ti crea; E quella pace santa Che sol per lui ti vien, Trasfondi tutta quanta Del tuo angioletto in sen. « T'amo, mio bel tesoro, T'amo d'amor profondo, Più che le perle e l'oro Che potria darmi il mondo. Dimmi! tutti degg'io I vezzi noverar Che tosto il figlio mio Mi fanno ravvisar? Questo è il capo diletto Che ancor regger ti è grave E sul materno petto Posi in atto soave: Questa è la fronte e questi Son gli occhietti d'amor, Onde tanta mi desti Felicità nel cor. Ecco le rosee gote E le orecchie piccine, Ch'odon le dolci note Delle mie canzoncine; Questo è il nasin, la bella Bocca, amor mio, quest'è Che per nessun favella, Ma che favella a me. Il mento colmo e breve D'una fossetta è adorno, Che i baci miei riceve Le mille volte al giorno; E qual cornice al quadro, Le anella auree del crin Circondano il leggiadro Viso del mio bambin. Oh le manine bianche, Oh le piccole dita Di giocar non mai stanche Quando il desio le invita! Vieni! fra le mie braccia, Caro, ti vo'serrar, Vo' l'adorata faccia Nel grembo mio scaldar. Nel petto ampio s'asconde E palpita il tuo core…. Oh gioie vereconde S'abbia e nessun dolore: Sempre, al par de'tuoi sguardi, Sia placido e seren, Nè rompa in dì più tardi A insani affetti il fren! Queste gambe tornite, Ch'or ti reggono appena, Un giorno a corse ardite T'addoppieran la lena: Queste braccia rotonde Or debili così, Coll'impeto dell'onde S'affronteranno un dì. I ditini de'piedi Son dieci e non già nove, Chè il più piccin, lo vedi? Sotto gli altri si move: Ecco il bambino mio Tutto dal capo al piè, Così come il buon Dio Lo concedeva a me. Presto avrà un anno, e allora Col chiacchierío vivace, Del pensier, muto ancora, Rivelerà la face. Di quella face ascosa Già intravedo il fulgor, E il veglio con gelosa Cura, e devoto amor. »

IV. LA MADRE CHE VEDE CRESCERE IL SUO BAMBINO

Quando la madre il suo bambino vede Crescer più forte e bello ad ogni dì, « Dio lo protegga — supplicando chiede, — E lo vegli e lo serbi ognor così. » Ma se pago ella vuole il suo desio, Ai materni s'inchini ardui dover: Mentre dal ciel veglia il suo nato Iddio, Essa lo guidi nel mortal sentier. « — Il mio bambino un fiore rassomiglia Quando gli imperla la rugiada il sen, Sereno ha il volto e tra le brune ciglia Scintilla dei vivaci occhi il balen. Se intuono una canzon, gli orecchi intende, Le nari appressa se gli mostro un fior; Fiso mi guarda e dal mio labbro pende Se gli favello del mio santo amor. E quando chiude al sonno i suoi begli occhi, Come è dolce il suo lieve respirar! Oh nessuno di lui timor mi tocchi Finchè sì calmo ne' suoi sonni appar! »

Roma, novembre 1875.

CORO PER GLI ALUNNI DELLE SCUOLE DI TRASTEVERE NEL GIORNO DELLA PREMIAZIONE

Senza dottrina che val la mente? Senza virtude che puote il cor? Viva la Scola che a noi consente Questi, pei liberi, sacri tesor. La Scola è il faro che ognor ci addita Fra dubbî e tenebre la via del ver; La Scola insegna perchè la vita Con ogni dritto ci dà un dover. D'util lavor l'amor c'infonde, L'amor c'infonde del patrio suol; Per essa l'ore volgon gioconde, Scevre di tedio, scevre di duol. Forti di membra, d'animo forti, Di miti voglie, di retto oprar, Quali ci vogliono l'itale sorti Tali la Scola ne sa educar. Se novi lauri l'antica Roma Nei dì che sorgono coglier vorrà, Anche oltre Tevere per la sua chioma Più d'una fronda spuntar vedrà. — Fratelli! il germe di questi allori Con cura assidua guardiam così, Tal che preludio d'altri migliori Ne sia la festa d'un sì bel dì.

Agosto 1876.

I. COSCRITTI

Grida confuse e canti Onde mi sfugge il vario senso, ascolto; Veggo dalla finestra un drappel folto Di giovani esultanti: Tutti a festa vestiti, I cappelli han guerniti Di fiori e piume, tra cui spicca infitto Un bianco cartellino Che in fatal cifra scritto Di que'baldi garzon segna il destino. Sono i coscritti. Parte Prescelti fûro ai ludi aspri di Marte; Il natio campicello Bagneran gli altri di sudor novello. Del gaudio i segni in questi Appaion manifesti, Atteggian questi il viso A mendace sorriso, Ma di conserto vanno Ad affogar nel vin gioia ed affanno. All'umile casetta Riedono a notte, ove torcendo il fuso, Presso l'uscio socchiuso Trovan la madre che pregando aspetta, Lieta se alle sue preci ha Iddio concesso Che il figlio amato le rimanga appresso, Ma d'aspro duol conquisa Se indossar debba militar divisa. — A te, povera mesta, Che qui rimani trepidante e sola, Volta è la mia parola. Oh di conforto in questa Che sventura ti par valga il pensiero Che niun turbin di guerra Minaccia i figli della nostra terra, E ciò pur fosse, a pro dello straniero Pugnar non li vedrai. Sacro è soltanto Alla patria il lor sangue e il nostro pianto. A voler fermo e saggio Braccia piegando e menti, Apprenderanno in men rozzo linguaggio Dell'umano sapere i rudimenti. Così, dischiuso ad alti sensi il core, E all'obbedir devoti, Compier sapranno del materno amore I cari sogni e della patria i voti. Donna, sii forte! Oh guarda Il figlio tuo — ti passa ebro vicino Senza volgerti un detto, e sol gli tarda Sul giaciglio piombar. Pure al mattino Fia ch'ei senta, pensando al novo stato, La dignità dell'uomo e del soldato, E del tempo trascorso Nell'ignavia dell'alma onta e rimorso. Quando spirâr le prime aure di vita Questi ch'oggi la patria all'armi invita, Giorni ben tristi, il sai, Volgean per lei — pur, minaccie e promesse Freno non poser mai Al voler suo tenace. Dieci lustri d'angoscie! Alfin concesse A quell'afflitta il Ciel libertà e pace. Se indegna fosse di tal ben la prole, Meglio non nata e per noi muto il sole!

II. EMIGRANTI

Spettacol strano! e donne e pargoletti Ed uomini gagliardi e vecchi stanchi, A cui confin del mondo Ier dell'alpi pareano i brulli fianchi, Oggi, volenti, lasciano i lor tetti E con aspetto ed animo giocondo, Siccome a spiaggia nota, A te s'avviano, America remota. Vendettero degli avi il casolare, Le poche zolle, i poveretti arredi, Reliquie ultime e care; Ed or partir li vedi Senza un dubbio, un rimpianto, un mesto addio Al paesel natio, Sospinti solo dalla facil fede Di minor stenti e più larga mercede. Oh se voi più non punge il patrio amore, Dell'oceano i perigli, D'orrende fiere il morso, Il cieco di selvagge orde furore, Ignoti morbi cui non val soccorso, Temete almen pei figli!… Anche all'Italia, or libera e possente, Di terre incolte ampio tesor rimane Che a voi lavoro e pane Per lunga età consente. Perchè esular se Iddio nè un bene solo Dato all'altrui, negava al nostro suolo? Vano è il prego — seguîr l'arduo cammino!… Il cigolío dei carri appena ascolto, L'eco d'un canto, il vagir d'un bambino, E tutto nel silenzio è ormai sepolto. Oh di questi che fia miseri ignari?… Signor li guarda e guida; Preda non sien de'mari O d'una gente infida, E d'un tardo ritorno L'ansio desio non li contristi un giorno! Forse Tu il novo trasmigrar permetti Per fini ascosi al corto uman pensiero: Ne'superni concetti Patria forse al mortale è il mondo intero. Sia! ma le terre ove Colombo ignoti Veri diffuse con virtù celeste, Di Colombo ai nepoti Deh! non voler funeste. Stretti in tribù, saggie, operose e forti, Ch'essi liete, o Signore, abbian le sorti!

III. PASTORI.

Questo edificio immenso che architetto Divin s'ebbe e per noi mondo s'appella, V'apre ad ogni stagion stanza novella, Nomadi mandre. Negli estivi ardori Vi adducono per gioghi erti i pastori Sulle vette montane, ove ricetto Vi dan le sinüose Chine di valli ombrose, E più pingui vi fan quell'aure pure E le fresche pasture. Sceman gli ardori estivi, E vi guidan con provvido consiglio A pascolar pei sottoposti clivi. Poi se la brina imbianchi Alla montagna i fianchi, Scendete ancora, e al piano Pasto avete e giaciglio In chiuse stalle; dove il mandrïano, Mentre fischia il rovaio, a vegliar viene, E si scalda al tepor vostro le vene. E lì, in quell'aer greve, Di fumosa lucerna al lume incerto, Ei pensa ai gioghi, carchi ora di neve, Quando stavagli appiè, qual libro aperto, Tanta distesa di campi e di ville; E il muggir vostre e delle note squille Il tintinnío diverso, o la tempesta Che scotea la foresta Gli feriva l'orecchio, e il core udia Una nota indistinta eppur secura, Un'arcana armonia, L'alta voce di Dio nella natura. Allor la mente ignara Toccar pareva altezze prodigiose, E divinar le cose Che apprender le negò la sorte avara. Tutti, da quelle vette, amici, eguali Si fingeva i mortali; Vergin d'odî, d'invidie e voglie insane, Di fresco latte e d'ammuffito pane Vivea pago, e più forte indi e giocondo Da quei deserti egli riedeva al mondo. Ma più giuso scendea, ben più palese Il mondo gli apparia qual l'uomo il rese! Siccome al guardo suo, tale al suo core Si stringe l'orizzonte, E in atto di dolore Nella ruvida man chiusa la fronte, Le sue mandre sogguarda, e il loro aspetto Un senso di pietà gli desta in petto. Pensa che al rifiorir del novo Maggio Forse non più compagne Dei pini all'ombra e delle stelle al raggio Gli saranno per valli e per montagne! Deh! che un pietoso accento Tronchi i foschi pensieri, Nè più gli sien tormento Della vita e del cor gli ardui misteri. Non il bruto soltanto ora soggiace Alla ragion del forte — ahi! non ancora Di giustizia verace Surse per noi l'aurora! Pur le tue mandre, o buon bastore, adesso Son qual furo e saranno: è all'uom soltanto Tra il Bene e il Male, tra la gioia e il pianto, A meta eccelsa il progredir concesso. Tu che sì presso ai cieli Risalirai da cotanto squallore, Chiedi al Signor ch' Ei la ragion ti sveli D'ogni terreno errore: Dei semplici pastori Egli talvolta L'umil preghiera ascolta; Talvolta ad un'afflitta anima e pura Nei silenzî Ei parlò della natura.

Arsié di Belluno, settembre 1876.

FINE.

AI LETTORI pag. v

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE FIORENTINA DEL 1874. pag. VII-XVI

Versi e fiori pag. 1

Ad un augelletto pag. 3

Il cieco pag. 4

Musica e poesia pag. 5

La preghiera dei trovatelli pag. 7

La mia stella pag. 9

Il dianto pag. 11

Ai bambini pag. 13

Ad Arnaldo Fusinato pag. 16

All'amica C˙ R˙ pag. 18

Il fiore arcano pag. 19

Ad Alberto Cavalletto pag. 21

Semplice storia pag. 22

Ad Enrichetta Beecker Stowe pag. 26

Il salice piangente pag. 29

In morte di Tommaso Grossi pag. 35

A Elisa, Maria e Chiara Vicentini pag. 37

Alla cugina P˙ M˙ G˙ pag. 42

In morte di Silvio Pellico pag. 43

Ad Adelaide Ristori pag. 49

Il fiore del verno pag. 50

Dritto e rovescio. — I˙ Il Carnovale pag. 52

II. Officina e palazzo pag. 55

A mio fratello Enrico pag. 58

Allo stesso. Quattordici anni dopo. pag. 61

Mestizia e tristezza pag. 62

Amore pag. 63

All'egregio dottore I. Trevisan di Castelfranco pag. 64

Alla contessa Maria Martini-Garzoni pag. 65

Alla stessa. Un anno dopo pag. 66

La lagrima e la rugiada pag. 69

Per nozze. La madre alla sposa pag. 70

Due preghiere pel nuovo anno 1858 pag. 71

A Francesca De Lutti pag. 72

Alla signora G˙ M˙ Brambilla pag. 73

A Lina nel giorno delle sue nozze pag. 74

Ad Andrea Maffei pag. 77

Allo stesso pag. 78

Presentimento pag. ivi

Grido di madre pag. 79

Venezia a Milano pag. 80

Il 31 dicembre 1859 pag. 82

La bandiera della brigata Bologna pag. 83

Per un albo d'autografi d'illustri Italiani viventi pag. ivi

In morte di Augusta Fabeni Puppati pag. 84

Il fiore del pianto pag. 86

In morte di Teobaldo Ciconi pag. 88

La festa di primavera pag. 91

Inno a Dio pag. 97

In morte d'Ippolito Nievo pag. 100

Consigli d'una madre pag. 109

Venezia a Maria Pia pag. 111

Ad egregio artista pel dono del mio ritratto pag. 113

Ad una fanciulletta pag. ivi

Il bene ed il male pag. 114

A'miei genitori pag. 115

Alla memoria della contessa Teresa Coletti-Colonna pag. 118

Venezia alla Polonia pag. 121

A miei bambini. — I. Addio pag. 123

II. Lontananza pag. 124

III. Ritorno pag. ivi

Alla illustre donna Olimpia Savio-Rossi pag. 125

Per nozze. La madre della sposa pag. 128

Per l'albo della signora A˙ B˙ pag. 131

A Castelfranco pag. 132

L'armonia delle arti pag. 133

Primavera pag. 135

Gemma Donati. pag. 137

Pel centenario di Dante pag. 140

Al Gonfalone di Galatina pag. 142

All'autore dei versi: La Gondola Veneziana a Fontainebleau pag. 143

A Claudina Frullani pag. 144

In morte di Louisa Grace-Bartolini pag. 145

A Giovanni Duprè pag. 147

Viva l'Italia unita! pag. 148

A Benedetto Cairoli pag. 151

A Venezia pag. ivi

Ai martiri di Mantova, Curtatone e Montanara pag. 153

Per due busti in marmo dell'egregio scultore Argenti.

I. La Speranza pag. 154

II. La Modestia pag. ivi

A mio figlio Gino pag. 155

Alla marchesa Marianna Florenzi Waddington pag. 157

Per nozze. Una preghiera pag. 161

A Maria Serato pag. 162

A Felicita Morandi pag. 164

Consigli ad un fanciullo pag. 165

A Gesualda Malenchini nei Pozzolini pag. 167

In morte di giovinetto sedicenne pag. 169

Per nozze. Agli sposi pag. 170

Pel trasferimento in Venezia delle ceneri di Daniele Manin pag. 172

Per l'albo offerto a S˙ A˙ R˙ la principessa Margherita pag. 173

Al professore G˙ Procacci pag. 175

Per nozze. Le due madri pag. 177

Alla madre Cairoli pag. ivi

Per l'album d'una cieca pag. 178

In morte di Emma Pozzolini pag. 179

Origine degli Ospizî marini pag. 180

L'operaia pag. 182

I miei conforti pag. 184

La nova Peri pag. 186

A N˙ Tommaseo pag. 189

Ad Andrea Maffei pag. 190

Fiori d'aprile pag. 191

Due sonni pag. 192

In morte della nobil giovinetta C˙ Bianca Maldura pag. 194

A Francesco Dall'Ongaro pag. 195

La festa dello Statuto nei chiostri di S˙a Maria Novella pag. 197

Il 24 giugno 1870 pag. 199

In morte di Emma Maionchi pag. 202

Firenze a Roma pag. 204

Per la serata di beneficenza data a favore dei feriti francesi pag. 206

Per un dipinto rappresentante La Speranza pag. 208

Per il rogo del Principe di Kolapur pag. 209

Alla signora Lucia Alexander di Boston pag. 211

A Giacomo Leopardi pag. 212

Il vapore. — I. La partenza pag. 215

II. Il ritorno pag. ivi

Lonfananza pag. 216

Le passioni pag. 217

Pel ritratto della Saffo pag. 218

Per due augellini pag. 220

Ave! pag. 221

La scuola d'Atene pag. 222

Le due premiate pag. 225

Ad Andrea Maffei pag. 226

Pel trasferimento in Italia della salma di Ugo Foscolo pag. 227

La poesia della donna pag. 230

Per la bambina Adelaide Correnti. pag. 234

Bozzetti marittimi pag. 235

A mio padre pag. 240

I due fiori pag. 242

Il desiderio pag. 244

Per la premiazione degli alunni delle scuole Comunali di Roma. pag. 248

Pel primo anniversario del Plebiscito di Roma pag. 249

A Don Pedro II pag. 251

Per le nozze di Mario Rapisardi e Giselda Fojanesi. pag. 253

Per una scuola di cucitrici pag. 257

Il male ed il bene pag. 258

Ad Antonio Mordini pag. 259

Dopo sette anni pag. 260

Alla città di Bassano pag. 264

Luciano Manara pag. 265

Alla sposa di Benedetto Cairoli pag. 267

Il calamaio di L˙ Ariosto pag. 270

L'anno pag. 273

Gennaio pag. 275

Febbraio pag. 276

Marzo pag. 277

Aprile pag. 278

Maggio pag. 279

Giugno pag. 280

Luglio pag. 281

Agosto pag. 282

Settembre pag. 283

Ottobre pag. 284

Novembre pag. 285

Dicembre pag. 286

Il linguaggio di un'anima pag. 287

Le rimembranze care pag. 288

Un dolore in due anime pag. 289

Per l'albo della signora Luisa Occioni pag. 290

Alla Primavera pag. 291

Al Consiglio direttivo della Biblioteca educativa femminile di Piacenza pag. 292

A Teresa Francesconi pag. 293

Il fiore della nonna pag. 295

Il Petrarca in Arquà pag. 296

Il tarlo pag. 297

Al Conte Antonio Angeloni Barbiani pag. 299

Garibaldi a Roma pag. 300

A Ferdinando e ad Amalia Coletti pag. 301

Sant'Orso pag. 304

Ad Alessandro Rossi pag. 307

Nella inaugurazione del Collegio Convitto di Assisi pag. 308

Affetti di madre.

I˙ La madre che contempla il suo primo nato pag. 311

II. La madre che vive una sola vita col suo bambino pag. 312

III. La madre che giuoca col suo bimbo. pag. 313

IV. La madre che vede crescere il suo bambino pag. 316

La Scuola pag. 317

Bozzetti alpini. — I. Coscritti pag. 318

II. Emigranti pag. 320

III. Pastori pag. 322