ERMINIA FUÀ-FUSINATO

SCRITTI LETTERARI
RACCOLTI E ORDINATI
PER CURA
DI
GAETANO GHIVIZZANI
DELLA R. DEPUTAZIONE AI TRSTI DI LINGUA
CON UN DISCORSO DEL MEDESIMO
INTORNO LA VITA E LE OPERE DELL'AUTRICE

MILANO
LIBRERIA DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE
DI PAOLO CARRARA
Via S. Margherita 1104.
1882

PROPRIETÀ LETTERARIA DELL'EDITORE

Milano, 1882—Tip. del Patronato.

ALLA MAESTÀ
DI MARGHERITA DI SAVOJA
REGINA D'ITALIA

Rovigo, 16 ottobre 1871.—Questa sera mi sento poco bene.—Oh! l'ammalarmi ora che potrei, che dovrei occuparmi tanto! Questo freddo offese il mio petto repentinamente. —Povera creta! povero spirito che non la sai piegare al voler tuo!—Le mie sorelle stanno bene e così i loro cari.—Questi miei dieci nipotini sono sani e intelligenti.—Ecco i germi delle famiglie avvenire!—Ed io penso al passato; penso che, molti e molti anni or sono, mi mandarono, giovinetta, qui da'miei congiunti, a passare parte dell'autunno.—Mi accolsero bene, eppure rammento che, senza motivo, piangevo spesso—rammento che un dì, sorpresa piangendo, me ne scusai col dire che m'ero percossa nel capo casualmente.—Perchè piangevo? Mi sentivo sola —lontana da cose e persone care—e poi, già anche il piangere è un bisogno….

23 ottobre 1871, dal mio letto.—Il timore non era vano —passai tutti questi giorni a letto e molto sofferente. —Non volli se ne scrivesse ad Arnaldo, che avrebbe lasciato Firenze, dove la sua presenza è necessaria.— Almeno fosse finita! Talvolta non ho per la mia salute tutti i riguardi necessarî—parmi di apparire ridicola mostrando timore dell'aria e del sole. Eppure un'imprudenza, una fatica soverchia mi costa spesso ben cara! E mostrarmi malata a'miei diletti e l'essere qui inerte, quanto mi pesa!—So che il papà non dormì una notte, inquieto per me.—Ecco la consolazione che gli portai! Ed ora lo lascerò, andrò ancora più lontana…. oh, questi distacchi insanguinano il cuore!… Volevo vedere la mia bella Venezia dopo sette anni—la mia casa paterna, tutto ciò che mi ricorda l'età fuggita.—Vani sogni! Sia pure! Solo bramerei apparire serena a questi che mi circondano.—Arnaldo, i miei figli, stanno bene.—Molti amici e parenti verranno qui per vedermi—non chiediamo troppo alla vita.— Ed oggi un amico diletto mi scrisse parole di conforto e d'affetto.—Il freddo, come al fisico, così fa male al cuore: sotto il tepore del sole, come sotto quello dell'affezione sincera, io mi sento rivivere alla speranza.

2 novembre 1871.—Vennero a Rovigo i miei figli per salutarmi, prima di entrare, l'uno in collegio a Venezia. l'altro in casa del nostro cugino a Mantova.—Restarono due giorni con me.—Tutti e due furono buoni, affettuosi, rassegnati.—Amici e parenti vennero a levarli—eran circondati di cure e d'affetto—ma Guido disse una volta: Sono tutti buoni, ma non sono i genitori!—Povero e caro bambino! Quando penso che talvolta piangerà perchè lontano da noi, io mi domando s'era giusto imporgli questo dolore, se veramente ne avrà vantaggio.—Ma poi sento una voce che mi assicura della opportunità di tale determinazione, e confido che un giorno possa egli stesso ringraziare suo padre e la madre sua.

Firenze, 22 novembre 1871.—Questo giardino ormai è tutto tracciato, e al primo soffio primaverile si coprirà d'erbe e di fiori.—Casa e giardino vidi crescere, ed ora li abbandono. Come erano belli i tramonti da questa stanza! Eppure che vale l'abitazione, che vale ogni altra cosa quando il cuore è mesto?… La mia casa paterna m'è più cara d'ogni palazzo. La casa pure dove nacquero i miei figli, dove abitai otto anni. Altri cinque anni passai in quel quartierino di Borgo Allegri.—Lì pure quante memorie!… Pare di lasciare una parte di noi in questi luoghi, dove abbiamo e patito e sognato e sperato tanto….—E qui, oh! qui pure ritornerò spesso col pensiero.—Siamo pellegrini nella vita—avanti coraggiosamente!—Lasciamo un luogo con dolore, ma entriamo con la speranza nella abitazione novella che la sorte ci prepara.

O miei cari bambini, qui pure vi ho veduto dormire le tante notti, ed ora dormirò sola e sola sempre, ma col pensiero di voi, miei angeli custodi!

Roma, 30 novembre 1871.—Da pochi giorni sono tornata in questa città, dove passai l'agosto e il settembre in occupazioni diverse.—A Firenze nelle mie belle stanze abiterà nell'inverno una famiglia inglese.—È un vantaggio economico da non doversi transcurare.—Rividi persone care, mi congedai da tanti, lasciai Arnaldo, affidai la Te esita alle sue buone maestre, ed eccomi qui ad affrontare quest'ardua prova dell'insegnamento.—Sono agitata, incerta—temo di me stessa, mi sento sola, nuova a questo incarico che parmi superiore alle mie forze fisiche e intellettuali.—Vedremo!… * Tutti i passi che si trovano stampati tra due asterischi * sono ora per la prima volta. (Nota di G. G.) Ogni giorno la vita insegna qualche cosa—ma i suoi insegnamenti ci fanno più rassegnati che lieti.—Io lo confesso, sono troppo, troppo spesso, triste.—Duro fatica a parer lieta, e so farlo facilmente solo con le persone meno care, talchè coloro che più amo hanno il bel privilegio di vedermi più mesta.*

Ieri sera feci una visita strana.—Fui dall'imperatore del Brasile.—Egli desiderava conoscere Arnaldo e me.—Gli lessi i versi che m'ispirò la sua bella risposta al Manzoni.—Fu cortese, anzi cordiale, e non mi dava suggezione di sorta.—Si vede che pensa e sente assai. Tradusse il Manzoni e Dante, e mi lesse dei versi scritti anticamente dal Pellico per lui.—Ho piacere di averlo conosciuto.

Conobbi anche di persona la Percoto, donna semplice, quasi direi primitiva—ma quanta intelligenza, quanto cuore!—Si andò insieme dal ministro (1) Cesare Correnti. che ci aveva fissato un'ora per parlarci.—Che care cose egli ci disse! Si occupa dell'avvenire della donna con cuore paterno, con mente di filosofo, con aspirazioni di poeta: teme di far troppo, perchè teme la critica spensierata dei giornali sulle cose più serie e più sante. Teme di richiedere troppo alle donne impreparate ancora, fra noi, a forti studî.—Chiese aiuti e consigli. Egli a noi! «Mie signore, disse, io so che alla donna dobbiamo gran parte della redenzione nazionale, e da ciò che ha fatto, intendo quanto può e deve fare.» È una fortuna avere un tale ministro: peccato che la politica e tante altre cose lo distolgano dagli studî.—Egli mi parlò del Re—mi disse che una mattina chiamò a sè? tutti i ministri e narrò ad essi che, svegliatosi nella notte. mentre fremeva un temporale, s'era alzato ed aveva voluto «scrivere il discorso della Corona fra i lampi e i tuoni, come Mosè.» Che bella fantasia in quella soldatesca natura! Il discorso della Corona, il Correnti lo aveva scritto, e stupendamente. Tutti i ministri poi ci posero mano, e lo guastarono.—Il Re gli disse: «Ma qui c'è troppa poesia, ci sono troppe belle frasi, ed io non sono nè poeta nè letterato; io sono soltanto un galantuomo e un soldato.»

Ebbi il ritratto del mio Guido in uniforme.—Caro fanciullo! Il suo volto non era lieto—forse pensava a noi—nè il nostro è sereno, quando pensiamo a lui —e ci pensiamo ben di sovente! Quanto è buono, quanto ingegno manifesta! Come sono commoventi le sue lettere agli antichi maestri, i suoi consigli amorevoli ai fratelli!… Che Dio lo benedica e ce lo conservi.

25 dicembre 1871.—Questa sera voglio concedermi la soddisfazione di riandare il mese compiuto, e notarne gli avvenimenti per me più importanti. Conviene io confessi che nel complesso ho di che rallegrarmi e assai. —I miei figli non potrebbero condursi meglio; mostrano un senno e un cuore superiori alla loro età.—Dunque feci bene a prendere questa determinazione d staccarli per ora da me.—Oh, ma talvolta quanto mi pesa!—Al vedere un bambino che somigli ad uno di loro, il mio cuore si gonfia di lagrime… Coraggio!—Guido mi scrisse anche oggi. Caro fanciullo!—Arnaldo pure è contento di loro, contento di ciò che si fece, e delle cure e dell'affetto da cui sono circondati.—Si grida contro l'ingratitudine umana, e veramente ce n'è—ma io ho trovato della gente ben buona!—ed ora coloro, ai quali sono affidati i nostri figli, mi scrivono d'esser lieti di poterci mostrare in essi la riconoscenza che ci serbano per servigî che più non rammentavo d'aver loro resi.—Oh sì che ci sono dei buoni, e non pochi —e coloro che non lo credono devono essere o molto disgraziati o molto malvagi!—Un giorno ch'io mi lodavo di cortesie ricevute, rammento che il Correnti mi lisse: È lei che le ispira!—Ove ciò fosse, quanto mi terrei di questo privilegio!—E veramente di quanti tratti gentili fui confortata anche in questi giorni! Le mie alunne, non so in qual calendario, trovarono che ieri era giorno dedicato ad una Santa Erminia—e vennero a portarmi augurî cordiali. Queste care ragazze mi sono sì affezionate che la scuola mi torna ora ben grata! E dire che n'ebbi tanto sgomento che fui lì lì per ritirarmi dall'obbligo assunto!—Il buon Carbone, provveditore agli studî, mi confortò, e debbo a lui di aver persistito.— Ora sento il bisogno di studiare, ma incomincio a credere che potrò compiere non indegnamente il dover mio.

Ho qui davanti una bella paniera di fiori—in nessun luogo sanno disporli con tanta eleganza come a Roma.—Li amo tanto i fiori! E questi me li mandò ieri sera quella buona signora Schwabe—una Inglese che fonderà in Napoli, con denari raccolti fra i suoi concittadini, una scuola per le nostre popolane.— Ella mi è grata, di che?… Forse d'aver compreso che le dobbiamo gratitudine. *E inviandomi questi fiori mi scrisse: «Li raccolsi in ispirito pei miei figli, pei miei nepoti e per gli amici più cari dal simbolico albero del Natale. Li accetti come da una madre!» Come si fa a non volerle bene?*

Poi in questo mese mi acquistai, con ben poco merito e fatica, una nuova e sincera affezione. È una maestra, la G. M., inviatami dal Carbone, affinchè possa darmi consigli e norme per l'insegnamento.—Povera e cara ragazza! Venne di lontano con una sorellina per occuparsi e poter in seguito giovare alla vecchia madre. Nel lasciare il paese natío, compiè un sacrificio, che forse io non avrei saputo compiere.—Lasciò una persona che l'amava e che erale cara, perchè unendosi ad essa non avrebbe potuto più assistere economicamente la madre. E me lo disse come cosa naturale!… Dio mio, davanti a tanta virtù io chino la fronte umiliata!… Queste sono vittorie grandi e degne! E questi esempî che la Provvidenza mi pone davanti, li saprei io imitare?

Ed oggi ebbi un'altra consolazione. Venne a visitarmi il Sermoneta. Gli dissero che lo stimavo tanto, che l'avrei conosciuto volentieri—ed egli venne da me con tanta cortesia, con tanta bontà, nè volle che prima io stessa andassi da lui.—Mi parlò a lungo del paese— ne toccò le piaghe—riconobbe la necessità di curarle e mostrò fiducia nell'avvenire. «La poesia ha fatto l'Italia, mi disse, ora abbisognamo della prosa.»—È vero! ma poesia è per me affetto e virtù, non vane fantasie—e virtù e affetto non guastano nulla; potrebbero anzi giovare a tutto. Io la prosa, come la s'intende dai più, non la trovo che nella sfiducia, nell'inerzia, nella malvagità.—Del resto può esservi un raggio di poesia anche nelle cose più materiali, purchè si compiano con intendimento buono.—Stamani avevo scritto al Capponi—oggi conobbi quest'altro venerabile cieco, che per tante ragioni gli rassomiglia. —Il Capponi conobbi nel 1864. Rammento ch'ero triste d'aver lasciato il Veneto in condizione dolorosissima, e tanti miei cari carcerati. Perciò non volevo (parevami) affezionarmi a cose nuove—tutto il mio affetto lo volevo serbare ai più disgraziati. E il Capponi mi disse: «Le piace Firenze? che le pare delle sue bellezze d'arte, dei suoi ricordi storici?….»—«Li guardo. gli risposi, e me ne rallegro più che non me ne meravigli, poichè vengo da Venezia, dove tali ricordi non fanno difetto—e tanti più ne trovo, e tanto meno parmi di esserne lontana.» Era cosa poco cortese rispondere così, io sì poco nota, al Capponi sì degno d'ogni rispetto; ma il Capponi comprese il sentimento mio, ed esclamò vivamente: «Brava! il municipalismo del dolore è il solo che sia virtù!»—Quante volte poi venue egli a trovarmi e quante sue belle parole rammento!—Egli è rassegnato e sereno sempre.—La sua anima è candida, e serba ancora il fuoco giovanile. —Venerabile figura!

Il Sermoneta pure dev'essere assai buono—ma a lui la perdita degli occhi tornò, poveretto! più amara. —Li gira sempre, come volesse ad ogni patto godere d'un raggio di sole! Non è rassegnato a tanta sventura! —Il Tommaseo non parla mai della sua cecità—ma pare sia come per non confessarla—pare voglia persuadersi e persuadere che ci vede ancora.—Perciò dà maggior pena.—Tutti e tre però si occupano molto con la mente, e l'hanno illuminata d'un raggio che a noi non risplende.—Il Tommaseo è miracolo di operosità. —Dicono che sente troppo di sè.—E forse sarà vero. Ma ha poi tanta virtù! Egli è credente, profondamente credente, e parmi somma fortuna.—Se dovessi dire alcun che di speciale di questi tre ciechi, oserei forse asserire che il Capponi è quello che ha màggior bontà, il Sermoneta maggior senno, e il Tommaseo dottrina maggiore.—Sarà poi vero? Vero per certo si è che sono tre gran belle figure, e ch'io godo che sieno italiani e godo anche di averli conosciuti così davvicino.

Ho qui un fascio di lettere ben care ed affettuose!… L'Antonietta Pozzolini è proprio un angioletto! Ove il mio Gino avesse avuto dieci anni di più, quale sposa più degna avrebbe potuto trovare mai? Oh l'averla meco sempre mi tornerebbe ben gradito!—Dicono che non si trovano che disinganni; ma perchè lo dicono? Forse segue ciò a coloro che non fanno nulla per nessuno, e vorrebbero tutto da tutti. In quanto a me, se la vita mi dà dei dolori, oh! conviene che confessi che mi procura pure delle consolazioni profonde! E forse io le sento tanto, perchè le cortesie che mi si fanno, io non le pretendo, e le accetto come un dono, rare volte meritato. Ma è certo che di queste consolazioni godrei anche se fossi più vecchia, perchè non toccano la vanità ma il cuore.

25 dicembre 1871. Festa del Natale.—Oggi intesi censurare chi va alla messa in queste solennità.—Certa gente vuole la libertà per sè, affine d'imporre il proprio parare agli altri.—Io rispetto tutte le abitudini, tutte le credenze; ma osservo che coloro i quali si chiamano emancipati da queste pratiche religiose, una però ne serbano con rara costanza, ed è quella di santificare le feste, mangiando meglio e più, quanto più sono grandi —per cui si può dire che la loro religione si è condensata tutta nello stomaco.—«Mia madre, mia moglie, oggi faceva questo piatto, ci preparava questo dolce, la poveretta, e mi parrebbe strano non tenere la sua abitudine….» Ma la madre e la moglie pregavano anche e andavano in chiesa, e facevano qualche opera buona—e queste abitudini le serbate voi, o pietosi?… A voi basta ricordarle a tavola, anime caritatevoli!…

30 dicembre 1871.—Ho scritto lungamente a mio padre. —Poveretto!* Nessuna di noi tre gli rimase vicina!* Sognavo di poter averlo meco in una bella casa con un bel giardino, dov' egli potesse coltivare i suoi fiori, quei fiori che quand' ero fanciulla potevo dire:

«Che il buon Dio dal cielo «E sulla terra il mio padre m'educa!

Invece gli sono ancora più lontana!… In queste notti ho pianto spesso, e mi pesava tanto l'essere disgiunta da coloro che più amo! E poi avevo pensieri così funesti, dubbî così dolorosi!—ma tutto passa e lo spirito si rialza davanti al dovere.

1 gennaio 1872.—Non fui lieta negli ultimi giorni dell' anno—ma pure ebbi dei grandi conforti, e i migliori mi vennero dai figli mei.—Povero il mio Guido, che stampa i primi suoi passi nella via letteraria scrivendo versi a'suoi cari! Anch'io alla sua età scrissi i primi miei versi, ignara perfino del come si scrivessero.—* Quanto ingegno e quanto cuore in questo mio figliuolo! Leggendo le sue e le lettere de'suoi fratelli, io sento che ho torto di lamentarmi dei miei dolori, sento che dai figli mi deriverà il compenso di tutti e domando solo di meritarlo! Ed oggi ebbi tante cortesi manifestazioni di affetto, tante parole care, dette o scritte!—Oggi entrai nel nuovo anno con lieti auspicî, e ricordo che così non fu nel decorso.

30 gennaio 1872.—Un altro mese compiuto! E in esso ebbi dei giorni ben tristi.—La mia povera zia Giulia morì a cagione del male tremendo che da tanti anni la tormentava.—Poveretta! fu buona, paziente, operosa.—La ricordo al letto d'un fratello infermo tutta amore e carità—la ricordo come la guida, il conforto del marito quasi cieco e che pure, ora soltanto, comprenderà d'aver perso la luce. Fu buona assai anche con me, ed io spesso la trascurai, e me ne duole oh! tanto.— Ben disse un saggio che si dovrebbero trattare i nostri cari come se si fosse sempre alla vigilia di perderli!

E quella povera G. C. morta di vajuolo, preso esercitando un'opera pietosa! Era orfana infelice, piena di cuore e d'ingegno, e morì nel giorno in cui le veniva aperta una nobile via, le veniva accordata una posizione utile e onorevolissima.—Morì, come il Tasso, alla vigilia di quella che per lei poteva dirsi vera incoronazione!

Tutto ciò mi turbò profondamente.—Fui indisposta —ma Dio fece che mi riavessi tosto.—Oh! ammalarmi e doverlo dire a'miei cari lontani, e dover sospendere le mie lezioni, quanto mi affannerebbe!

Arnaldo fu a vedere i nostri figli—mi parve di vederli co'suoi occhi, di baciarli colla sua bocca.

E per altre cose pure fui mesta.—Un dì parvemi avere sfigurato con un'allieva per non averle risposto a dovere.—Ne fui sì mortificata! Temei se ne parlasse, mi esagerai tutto…. e non era nulla, o quasi.—Oggi una povera donna, la custode delle nostre scuole, mi disse delle parole che mi fecero tanto bene, appunto perchè venivano da persona così umile. Sapermi amata e stimata nella mia scuola, mi è sì caro!

Vivo tutta chiusa.—Che cos'è per me questo Carnevale che mi ferve d'intorno? Ne ho io goduto mai? E mi sarebbe più possibile goderne? Oh potessi sentirmi buona veramente, migliorarmi come talvolta sogno!—ecco l'unico conforto cui aspiro!—Ogni giorno si perde un'illusione—sostituiamovi un'occupazione—si finirà col non avere un istante disoccupato—ecco ciò che conviene. Lavorare, trovar la forza di lavorare sempre—la forza fisica e morale insieme.—Bastare a sè stessi e consacrarsi agli altri—ecco come si dovrebbe essere.—Ma io nol sono ancora; lo sarò un giorno?

Ho buone nuove de'miei cari, e in ciò mi conforto. Ma Arnaldo non è lieto; e non può esserlo a cagione della nostra lontananza e de'suoi interessi.—Io cerco confortarlo come posso.—Sento che certe affezioni si rassodano cogli anni—non sono più fiori di primavera, ma alberi che rimangono verdi anche col gelo, anche sotto le tempeste.—La lontananza non nuoce, insegna!

3 febbraio 1872.—Stamani conobbi il padre Giacinto. —N' ebbi la più cara impressione. Il suo volto risponde a'suoi scritti—manifesta molta bontà, ma una bontà intelligente. L'insieme della sua persona spira qualche cosa che direi d'angelico—ci offre quel tipo che amiamo formarci del vero pastore. Parla semplicemente ma con senno e cuore, guarda le persone con uno sguardo fermo, tranquillo, profondo.—Coloro che evitano l'incontro degli occhi altrui, che muovono sempre in giro i proprî, mi danno l'idea di persone incerte, turbate, scontente o tementi.—Il padre Giacinto disse molte cose belle e buone insieme.—Quella che pià mi colpì è questa: la signora Schwabe gli chiedeva se trovava possibile e opportuna una specie di associazione fra persone di nazione e religione diversa, per uno scopo pio. «Sicuro, egli rispose. L'appartenere a varie chiese, non deve dividerci nella carità: cattolici, protestanti, israeliti, possono unirsi per compiere un'opera buona. Si può osservare la propria legge religiosa, anche facendo del bene insieme a chi ne osserva una diversa. Stringiamoci intanto nell'amore del prossimo, e in altro tempo, in altro luogo, fidiamo di potere stringerci tutti anche in quello d'un solo Dio. Non voglio l'indifferenza, ma la tolleranza!»— Che sante parole!—Mi chiese molte cose sull'istruzione della donna fra noi—mi domandò se io ritengo che possa più agevolmente ed efficacemente diffondersi dall'alto o dal basso delle classi sociali.—Gli risposi che parmi legge naturale che la luce debba venire sempre dall'alto, ma che in oggi e fra noi il lavoro deve farsi contemporaneamente in tutti gli ordini sociali.—Gli dissi ch'io ritengo che l'istruzione, senza una sana educazione, possa anche pervertire, isterilire gli spiriti, poichè ogni cosa può intendersi, interpretarsi in più maniere; poichè ci sono le buone e le tristi letture, ed un animo retto si gioverà anche delle seconde, ed uno traviato non apprezzerà neppure le prime.—Non so cosa gli abbia detto, ma siccome mi mostrava affabilità e mi prestava attenzione e approvava i miei pensieri, così m'incoraggiai, e forse non dissi male.—Il farmi parlare più o meno, e più o meno bene, dipende piuttosto dalle persone con cui parlo che da me.—Se non m'ispirano stima, simpatia e confidenza, non dico nulla o non dico bene.

Più tardi andai dal duca di Sermoneta. Si lessero due canti di Dante—giovano più che un sermone.—Lo spirito si eleva, le miserie del presente, dell'individuo scompaiono, e noi ascendiamo, ascendiamo col poeta la montagna dove si purgano le anime.

3 marzo 1872.—È un mese che non metto parola su queste carte. E in questo mese conviene io riconosca che si compirono più cose a me utili e care.—Ebbi molte soddisfazioni del cuore e dell'amor proprio.— Le maggiori, le migliori, quelle che mi vennero dai figli, che stanno bene, studiano volonterosamente, e si acquistano l'affetto dei condiscepoli e dei superiori.— Il nome nostro, non discaro ai nostri concittadini, pare serva loro d'introduzione gradita nella società, e quelle benevoli parole, che taluno si compiace rivolgere ai genitori, pare sieno pei figli eccitamento al ben fare.—Oh! mai come adesso compresi, gustai la fortuna di poter godere della stima altrui, poichè questa stima si riverbera, si diffonde intorno ai miei figli.

Anche gli affari nostri ci fanno sperare in una sistemazione desideratissima.—Io cercai di agevolarne l'effettuazione, e forse l'opera mia non tornò vana.—Ne godrei più di tutto per Arnaldo, il quale ora è assai più tranquillo e domani sarà qui a visitarmi dopo tre mesi.—Poter vedere bene avviati i figli, contento Arnaldo, e assicurato un avvenire modesto, ma sicuro, alla famiglia, ecco la mia aspirazione.—I miei figli potranno, dovranno guadagnarsi col lavoro una posizione, ma abbiano almeno quel tanto che basti a dar loro da vivere, ove la salute o la fortuna precluda loro ogni via di guadagno.—E ciò, spero, sarà!… *Feci anche in questo mese alcune conoscenze simpatiche e gradite. Parlai per la prima volta al Cantù. Non si può dire che a primo aspetto dia l'idea di quel che è. Ma parlando ci guadagna sempre.—Mi disse che una volta una tale a vederlo esclamò: «Cosi piccolo!» Ed io gli soggiunsi: «E col pensiero avrà pur detto: «E così grande insieme!» «Badi, egli mi rispose, che colla sua lode mi provoca, e mi dà il diritto di dirle che io la credeva più vecchia e brutta, e mi ringrazî di usare il più in luogo del meno, e di dirle meno di ciò che vorrei». Non mi aspettavo dei complimenti, ma ben più di questo mi tornò gradito quello che mi fece per Arnaldo: «Anche ieri lamentai con alcuni amici che il Fusinato non scriva più versi….»*

24 marzo 1872.—Arnaldo giunse l'otto di questo mese e ripartì ieri.—Egli n'era triste ed io pure…—Ora mi sento più sola; ma nei giorni di tristezza la Provvidenza mi manda sempre qualche conforto.—Stamani ebbi una cara letterina del mio Guido.—Poi venne a trovarmi il buon Cairoli—l'unico superstite di quella famiglia di eroi e di martiri. Mi portò una mia lettera a sua madre, postillata da quella poveretta con parole ben care al mio cuore.—Mi disse che dopo la morte di lei mi aveva scritto una lettera (la prima che riesciva a mettere insieme) in risposta ad una mia—quella lettera non mi giunse, e ben me ne dolse!—Povero Benedetto! Quanto affetto e virtù, quanto ingegno e valore in quell'anima eletta! Mi parlò commosso del monumento che Napoli consacrava ai suoi cari, e ch'egli visitò e trovò coperto di fiori. Mi parlò di Mazzini che da Napoli corse a vedere a Pisa, e trovò già morto e contemplò lungamente con emozione profonda. Poi ne accompagnò, qui in Roma, il busto in Campidoglio. —Oh! Cairoli non ha partito davanti alla patria, e ne intende la grandezza, e mi piacque sentirlo dire ciò che io pure pensava, cioè che la dimostrazione fatta alla memoria di Mazzini non fu repubblicana, ma italiana.

L'anno passato in questi giorni ero a Napoli inviatavi dal Correnti ad esercitare per la prima volta l'ufficio d'Ispettrice. Quante cose pur memorabili si compirono in quest'anno!—Parmi talvolta d'essere come una povera navicella abbandonata in mare burrascoso; ma spero nel salvamento!—Non sono contenta in tutto di me; ma ho ancora un po'di fede nel bene, un po' di operosità e d'affetto…. Oh! d'affetto non solamente un poco!—Quando sono triste mi pare una voce mi dica:

Coraggio, coraggio! Nel dì che s'avanza Risplendere un raggio Potria di speranza.

E poi se un nuovo affanno o disinganno, ch'è peggio, mi affligge, dico a me stessa:

E sia così—che importa? Forse men bello è il sol, Forse natura è morta Perchè mi crebbe un duol?

Finchè e purchè i dolori non tocchino i miei figli, e non abbia a piangere la salute de'miei più cari, per me non importa—e benedico la sorte dei conforti che m'assente. —Oh, quando penso al Cairoli, come mi potrei lagnare?

8 aprile 1872, ore undici e mezzo di notte.—L'illuminazione del Colosseo è uno spettacolo così grandioso e fantastico, che ispira non soltanto il poeta, ma lo storico, il filosofo, il cittadino.—Quei fuochi di bengala a tre colori che si riflettono su quelle gigantesche rovine, che illuminano una folla varia, stipata, ammirante, mentre le bande musicali riempiono l'aria d'inni patriottici, di cui quegli archi vetusti tramandano l'eco; tutto ciò desta un sentimento sì intenso, sì nuovo che la penna non giunge a significarlo.—Era una festa che gl' Italiani davano agli ospiti illustri convenuti in Roma.—Ed io pensavo: da questo Colosseo, opera dei signori del mondo, tanta parte dei signori del mondo riconoscono oggi l' unità: della libera Italia. E quei fuochi che illuminavano le rovine del passato, mi pareva che rischiarassero ancora le speranze dell'avvenire; e che le glorie di più secoli rifulgessero insieme su questa Roma.—C' erano genti di tutta Italia in quel vasto recinto; ma non è più la Roma conquistatrice che ve le costringe, non è più la Roma del misticismo che ve le richiama; è l'Italia che le attira con la forza della libertà, che le affratella con la potenza del patriottismo. —E questi sovrani tornati ai loro paesi diranno di aver veduta la Stella d'Italia (1) Sulla torre del Campidoglio appariva illuminata dalla luce elet trica la Stella d'Italia. brillare dal Campidoglio, d'aver veduto il tempio della Pace arridere di nova luce all'alleanza delle nazioni, diranno che in mezzo a tanti raggi, a tanti suoni, a tanti viva, le antiche cornacchie, nascoste sulle sommità dei monumenti romani, fuggivano impaurite, come simbolo dell' oscurantismo davanti al sole della libertà.

Diran che Italia bella Di cui mirâr la stella. Con la sua stella in fronte, Con le sue schiere pronte, Passò di terra in terra, Passò di guerra in guerra, Finchè per sempre il soglio Fissò nel Campidoglio.

* 30 aprile 1872.—Fui a Firenze per tre soli giorni. Vidi la bambina in ottima salute e sviluppata pure nella mente. Anche Arnaldo sta bene e si rallegrò della mia visita. Fu per me un complesso di ricordi, di emozioni, che, come sempre, mi studiai di celare. I giorni, gli anni passano, e se l'avvenire non ci sorridesse pei figli, il passato li renderebbe ben tristi! Andiamo avanti! Coraggio ancora, finchè il viaggio trovi il suo compimento. Mio padre e i figli miei mi scrissero affettuose parole, gli amici mi festeggiarono largamente. Io ringrazio la Provvidenza del bene che m'assente—ma la mestizia non è volontaria nè colpevole.—Dio la intende e la perdona.—Addio aprile! addio mese delle illusioni e dei fiori! Quando il cielo è sereno e il suolo è verde, sorrido io pure alla lieta natura.*

10 maggio 1872.—Trovai un povero fiore quasi appassito, gettato sulla scrivania forse dalla mano stessa che lo aveva cólto, forse da chi lo aveva ricevuto in dono da altra mano che dovea essergli cara.—Non sapevo d'onde venisse; pure m'ispirò un senso di pietà.—Certo poche ore prima era preso sul cespo natío… Lo misi nell'acqua e si riebbe.—Quanti poveri cuori giovani e fervidi inaridiscono così per mancanza di affetto!… Vorrei possedere la virtù di farvi rivivere come il fiore, o poveri cuori!…

Venezia, 8 agosto 1872.—Quando la parola non basta ad esprimere ciò che si prova, è meglio tacere—e questo io feci.—Ora voglio segnare le date più memorabili pel mic cuore durante questi tre mesi.—Ammalai nel giugno.—Durante i quindici giorni che passai sofferente, ebbi la compagnia di Arnaldo e ne trassi conforto.—Il 31 luglio le mie allieve compirono felicemente i loro esami—mi diedero larghe manifestazioni d'affetto riconoscente e si staccarono commosse da me, non meno commossa.—Quella sera stessa partii per Firenze—non volevo togliere a'miei cari un'ora sola oltre a quelle che mi chiedeva il dovere.—A Firenze trovai Arnaldo e Teresita in ottima salute, *e il giorno 4 ho assistito ad un trattenimento dato dalle allieve dell'istituto Betti, nel quale Teresita si fece onore sonando il pianoforte, e recitando de'versi che le valsero grandi applausi singolarmente per l'affetto e la commozione che mostrò ringraziando le maestre e congedandosi dalle condiscepole.

Rividi la buona famiglia Pozzolini e passai un giorno con essa. Cara famiglia, operosa, onesta, intelligente, e veramente patriarcale—la sola forse in Firenze che mi desti affetto profondo e me lo ricambî ad usura—la sola dove mi pare non essere straniera.—Rividi le Collato, buone e brave tanto e tanto disgraziate!

E il dì 5 partii per Padova con Arnaldo e Teresita.

Ciò che si sente rivedendo, dopo molti anni e molte vicende, persone e luoghi diletti, è indicibile.—Le campane che udii da bambina, parmi abbiano un suono diverso dalle altre.—I fiori del mio giardino mi sembrano più belli degli altri—è mio padre che li coltiva! Quelle fisonomie che rivediamo dopo tanto tempo, ci sembrano come coperte da un velo, che tolga ad esse lo splendore della giovinezza—effetto del tempo e dei dolori, e questo effetto altri lo riscontreranno in noi!… *Il povero A…. mi parlò a lungo e amorevolmente assai.—Mi disse cose che mi commossero e che non dimenticherò. Mostrò di comprendere le difficoltà della mia condizione, di scusare quanto non feci di bene, di esagerare il poco bene che feci.—Egli è solo, triste e vecchio—eppure nulla posso per lui. È un'esistenza infelice, nè i più sanno quanto meriterebbe.*

Si festeggiò il 6 d'agosto, sedicesimo anniversario del mio matrimonio.—Il mio Gino ha compiuto 15 anni!

Il 7 giungemmo a Venezia e tosto visitai Guido, che aveva compiuti appena gli esami e riportato il 2.°ree; premio. —*Durante l'anno si mostrò buono e bravo, talchè si guadagnò l'amore degli insegnanti, dei condiscepoli e degli amici nostri.—Spero bene anche di lui.—La vita ordinata gli giovò pure fisicamente, e non è più quel bimbo delicato e sofferente che tanto mi fece tremare. *—Due giorni dopo giunse Gino da Mantova— ma un po'sofferente, a cagione forse dello studio indefesso degli ultimi giorni e forse anche delle abitudini e del clima diversi.—Oh! s'io fossi forte di corpo, di mente e di studî, non li staccherei dal mio fianco: ma Dio mi legge in cuore!…

Venezia, 11 agosto 1872.—Oggi per la prima volta vidi le nostre bandiere sulle antenne di piazza S. Marco, su quelle antenne dove sventolavano le gialle e nere, quando io venni l'ultima volta a Venezia a salutare il mio povero cognato, prigioniero a S. Giorgio.—Oh patria, quanto ci costi, e quanto ci sei sacra e cara! Onta a chi non ti onora, a chi ti funesta, chi cerca ottenebrarti la luce della libertà che finalmente ti è concessa!…

Venezia, 18 agosto, 1872.—Ho qui in Venezia anche mio padre e dovrei esser lieta; ma ormai i ricordi del passato e i timori dell'avvenire non mi consentono letizia. Condussi il mio Guido al collegio, dove resterà qualche giorno per prepararsi agli esami di concorso. Egli piangeva, ed io mi sentiva il cuore straziato, pensando a un distacco ben più lungo di questo. Povero figlio mio, se potessi farti felice col sacrificio d'ogni mio bene, lo farei: e allontanarti da me è un sacrificio ben grande! Io non so alle volte come trovare la forza di superare tutte le prove, tutte le amarezze che la vita ci prepara.

Venezia, 5 settembre 1872.—Passai questi giorni occupatissima. Vollero che presiedessi il Giurì pei lavori muliebri, al Congresso pedagogico—era una cortesia cui non potevo rispondere con un rifiuto. Ma mettere l'accordo fra tante persone era cosa ben ardua! Il più spero sia fatto. *Il mio Guido superò felicemente gli esami di concorso e fu il primo in merito. N'ebbi sommo conforto.*

Una delle più profonde e grate impressioni ch'io ricordi d'aver ricevuto, mi venne dalla visita dell'Istituto Coletti, dove si raccolgono i bambini vagabondi ed oziosi, il germe di ladri e d'assassini, per farne degli uomini operosi ed onesti. È un miracolo della carità.

Ieri con quell'egregio uomo ch'è il Tipaldo, si parlava del Tommaseo—se ne parlava passeggiando per la superba Riva degli Schiavoni, ricordando i tempi in cui il Manin e il Tommaseo ebbero tanta parte nelle glorie della Venezia. Ed egli mi diceva.—Il principio del Tommaseo è questo: «difendere i deboli.»—Principio generoso che illustra in modo ben degno le sue lodi, i suoi conforti ad ingegni appena mediocri—i grandi possono farne senza.—Ma il mondo accusa leggermente e cerca il male anche nel bene.

Venezia, 14 settembre 1872.—Stamani i due ragazzi partivano col loro padre per la campagna.—Per quanto tali distacchi sieno necessarî, o almeno convenienti, tornano sempre ben dolorosi.—I poveri bambini piangevano ed io mi sentiva assai male.—Madre suona martire, disse un sommo scrittore; ed io vado ognora meglio apprendendo quanto tale sentenza sia vera!

Venni chiamata alla Presidenza del Congresso—ne accettai la vicepresidenza, ufficio anche troppo grave, responsabilità anche troppo ardua per me. Quando mossi, incerta e confusa, al mio posto, ebbi tali manifestazioni di simpatia che ne fui commossa.—Non parlai, perchè donna, e il silenzio mio pare non dispiacesse.

In questi giorni rividi e conobbi tante brave persone! Ormai debbo percorrere la via dell'insegnamento, dove trovai sì larghi e dolci conforti.—Cerco di fare meglio che posso, cerco nella vita pubblica e privata di meritarmi veramente la stima e l'affetto che mi si concede; ma la salute, la poca dottrina e tante altre ragioni mi fanno diversa da ciò che vorrei.—E intanto sento il cordoglio della lontananza de'miei cari, che me ne fa ricordare e presentire altri più amari.—Oh figli miei, davanti l'affetto che vi porto tutto scompare, e non domando a Dio che il vostro bene, che vorrei acquistare a prezzo del mio sangue.

Venezia, 28 settembre 1872.—Parto da questa città, dove in due mesi vidi tante cose e persone, vissi tanto diversamente e, diciamolo pure, operosamente.—Lavorai con l'ago lunghe ore, e quasi direi con voluttà, che da tanto non mi occupavo di ciò, ed ora me ne occupavo pei figli.—Scrissi, lessi, conversai—insomma vissi—nè parvemi aver fatto male in modo veruno. Dunque parto non triste, fidando nell'avvenire.

Quando, or sono sette anni, lasciai questa città dopo visitato, a San Giorgio, il povero Clemente, ero già agitata—la giornata era triste, burrascosa.—Ora egli riposa a San Miniato—ma in grazia di chi riposa come lui, siamo liberi e uniti, e il sole della libertà splende, come questo bel sole che oggi ci rallegra.

1872-73 (Dal 28 settembre 1872 fino al luglio 1873 le memorie scritte si riassumono in questi semplici appunti.) —Partii da Padova alla metà di ottobre; rimasi più giorni a Rovigo, a cagione dello straripamento dei fiumi che rese impraticabili le ferrovie. Giunsi a Firenze dopo il 20 ottobre.—Fui occupata e triste per tante ragioni. —Il rivedere vecchi amici mi dava conforto.—Arnaldo arrivò con Gino alla fine di ottobre.—Guido era in Collegio.—Partii il 3 novembre con Gino e Teresita per Roma.—Alla fine di dicembre giunse Arnaldo—ripartì in febbraio e ritornò al chiudersi d'aprile. —Teresita ebbe la rosolía ed altri disturbi anche agli occhi.—Io mi rinforzai in salute, sebbene non lieta e spesso affaticata.—La scuola per contro mi pare vada abbastanza benino. Buone nuove sempre del mio Guido.—Il dì di Pasqua lo passai con Gino dal Correnti.—Il 27 aprile condussi le allieve del III Corse a visitare il sepolcro del Tasso a Sant'Onofrio; sarà il tema d'un componimento. Arnaldo ripartì in giugno.—Le lezioni nell'estate, a cagione anche della distanza, mi affaticarono assai; pure ebbi la fortuna di poter darle tutte. La mia pubblicazioncella degli scritti educativi venne accolta con favore anche da reputati periodici.

*N'ebbi lodi e ringraziamenti dal Sindaco, dal Ministro, da altre autorevoli persone. *—Gli esami semestrali andarono bene.—Si fece una Commissione per l'Istituto Superiore femminile, e c' entrano molti miei amici, anche per farmi cosa gradita. La morte di quel caro angioletto dell'Antonietta Pozzolini mi afflisse profondamente. —Morì alla vigilia delle nozze! Santa creatura! Perchè compiangerla? Morì colle sue illusioni. —Sei beata.

Luglio 1873.—Ecco la fine dell'anno scolastico!… posso dare le mie dimissioni senza mostrare bassi dispetti, ma solo dignità.—Ne sono lieta! Godo di aver perdurato finora, ma bastava.—Il cholèra nel Veneto mi tiene inquieta.—Povero figlio mio!—*Gino si fece onore agli esami. Dio voglia che riesca come io sogno!* —Ecco finiti anche i miei doveri, e bene.—Non sono più insegnante.—Ebbi la nomina di Direttrice pel futuro Istituto Superiore, e l'ebbi nel modo più lusinghiero, ad unanimità di voti segreti.

Firenze, 29 luglio 1873.—Eccomi ancora a Firenze. Passarono nove mesi da che ne partii.—Dio mio! quante cose, quanti avvenimenti inattesi!… Povera Catty, non ti vedrò più! povere orfanelle! Quanta tristezza!!…

Firenze, 4 agosto 1873.—Tornò il mio Guido e s'ebbe il premio.—L'avrò due mesi con me.

*9 ottobre 1873.—Partirò questa sera per Roma.—Passai qui quasi due mesi e mezzo, e mi fuggirono come un lampo fra tante cure ed emozioni diverse.—La Collalto è morta. Le povere orfanelle tornarono dalla sua tomba. A me non è possibile prenderle meco, ma cercai di adoperarmi pel loro avvenire, e spero che questo non sarà senza conforto. Ho avuto, più che la virtù, la fortuna di compiere qualche opera buona, e ciò mi dà coraggio per intraprendere la nuova e non agevole via che mi si apre. Avrò a lottare con molti ostacoli, e non tutti creati dal caso! I miei intendimenti sono, parmi, buoni, e non temo di nulla.—Purchè mi resti la forza della salute e la pace dell'animo!*

Roma, 11 ottobre 1873.—* Quanto mi afflisse lasciar Guido! Ma Dio mi vede in cuore. Fo pei miei figli ciò che parmi più opportuno per essi—fo quanto mi è possibile.—La mia salute si risentì di fatiche e di emozioni soverchie.—Temei una malattia, ma giunsi a superarla, e ne provo grande consolazione pe' miei cari, pe'doveri che devo compiere! Gl'interessi familiari parmi che sieno sistemati meglio che nel passato, e ciò pure mi consola.—Dunque coraggio e avanti in questo perpetuo cimento che si chiama la vita!*

A Firenze rividi il Capponi, sempre sereno, perchè buono sempre, sempre giovane di spirito e fidente nei destini della patria.—«Vada a Roma, mi disse, e cerchi di lavorare anch'Ella pel bene del paese. L'andare a Roma nel modo che volle o seppe il nostro Governo, non mi persuase; ma ora conviene starci ad ogni costo.» Parole degne di lui!—E ne rammento tante altre bellissime ch'egli mi disse. Un giorno, in cui, pentita di essermi lasciato sfuggire un: oh, se vedesse! tacqui di un tratto, egli, comprendendo la ragione del silenzio improvviso, esclamò: «Non si confonda per aver detto cosa che può ricordarmi la mia cecità. Ma ha da sapere che finchè ei vedevo non ero contento mai, perchè sentivo di non fare quanto avrei dovuto: ora invece parmi di fare quanto posso, e sono perciò più contento e non merito compianto!…»—Santo vecchio!

Rividi pure il Tommaseo invecchiato, e più forse pei dolori che per gli anni.—Mi fu ben cortese.—Pochi giorni dopo perdette la moglie.—Nella sua condizione, nel suo stato, quanto avrà sentito tal perdita!… Non ebbi coraggio di rivisitarlo; gli scrissi.

Rividi il Vannucci—anima antica, mente gagliarda, retta, profonda—sdegnoso solo del male, pronto a credere al bene, prontissimo a farlo.—È un carattere completo, e ne abbiamo sì pochi!… Due anni or sono fu con lui che visitai il Giannone, quell'altro venerando, cui egli cercava mitigare le amarezze della sorte, l'oblio di molte cose, le sofferenze dell'età, della salute logorata dalle prigionie…. Ora il Giannone è morto, ma il pensiero d'averlo veduto in intimi colloquî, mi conforta.

Ora è morto pure il Lambruschini, altra intelligenza vasta, culta, feconda d'utili e chiari insegnamenti. Rammento che una volta gli volevo dedicare certi versi ch'egli accettava di buon grado purchè ne modificassi la chiusa, in cui c'era qualche cosa contro la vita monastica.—Io non potevo mutare perchè si trattava non di forma, ma di principî; e lasciai inediti i versi.—Qualche mese dopo me li richiese (1) Ecco la lettera del Lambruschini:—Firenze, 14 marzo 1866.—Gentilissima Signora!—E quei versi che, ritoccati alquanto nella coda, dovevano venire a me come testimonianza della sua bontà, e ch'io avrei accolti con affettuosa riconoscenza, dove sono? Gli ha condannati a dormire, o si sono smarriti per la via? Io gli aspetto sempre, e però vengo a cercarli e destarli; e prego Lei a perdonarmi se, per acciuffare i versi ritrosi a venire, importuno la Musa che li generò, e deve dar loro la via.
Con rispettosa stima
R. LAMBRUSCHINI.
, ed io schiettamente risposi: «Resteranno inediti, perchè non voglio nè togliere ciò che penso, nè privarli del fregio del suo nome.» La cosa finì così, ma non me ne tenne rancore, perchè era superiore di troppo a tali meschini sentimenti.

*A Firenze mi confortai vedendo il Barellai lieto delle sue nozze. A 60 anni ne prova maggiore allegrezza d'un giovane a 30. La donna che scelse ha pochi anni meno di lui; lo ama, si chiama fortunata di unirsi a lui per la vita. O perchè ne ridono gli stolti? Forse che il cuore non può palpitare sempre, anche se il crine è canuto e la fronte solcata? Se vi sono tanti giovani vecchi, che vi sia anche qualche vecchio giovane, e purchè non sacrifichi una giovinetta, purchè cerchi una fida compagna alla vita, troverà delle gioie ignote al volgo dei libertini, che tutti e tutto disprezzano o canzonano o corrompono. Beati loro!

Che ho fatto in questi due mesi e più? Letterariamente ho scritto una breve biografia del povero abate Carlo Coletti—era un dovere! La pubblicheranno a beneficio del suo istituto: non speravo meritasse tanto.—Scrissi un compianto a guisa di coro, che si cantò e si canterà in ogni solennità dagli allievi e allieve delle scuole di Bivigliano, della signora Pozzolini, in onore dell'Antonietta, caro angiolo sepolto sì presto.—Scrissi pochi cenni biografici per la povera Catty—la Fisiologia del saluto per la strenna della Donna e la Famiglia—composi dodici brevi poesie per la Strenna della Mamma e riordinai quei pensieri aggiungendone altri.—Cose tutte da poco, ma che mi occuparono, e perciò ne provai soddisfazione.

La sera del 9 ottobre mi posi in viaggio con Gino e Teresita per Roma.—Lasciai Guido con Arnaldo che l'avrebbe condotto a Venezia in collegio. Oh quanto soffrii nello staccarmi da lui!

In Roma trovai ancora tutto da fare circa l'Istituto Superiore che fui chiamata a dirigere. Ostacoli di più maniere ne ritardano la sistemazione e l'apertura. Li vincerò, ma non senza fatiche e pene. E poi confido nell'aiuto intelligente, efficace dell'ottimo e bravo Pignetti, al quale devo pur tanto!—Credetti ammalare, ma potetti rifarmi di forze fisiche e morali. Cerco la forza per dovere e necessità.*

20 ottobre 1873.—Ho assistito alla inaugurazione del Congresso degli Scienziati profeticamente fissato a Roma, tanto prima che Roma fosse dell'Italia.—Parlarono Mamiani, Scialoja, Pianciani.—Il primo con più scienza, il secondo con più arte, il terzo con più cuore—tutti e tre bene.

*22 dicembre 1873.—Fui al Campidoglio.—Trovai il sindaco cortese e ben disposto per le nostre scuole. Lunedi p. v. comincerò a lavorare col Consiglio direttivo.*

31 dicembre 1873.—L'anno si chiude, ed io non dissi come, per me.—Eccomi ad abitare nell'appartamento annesso alla nuova scuola, che si inaugurerà il 6 di gennaio. *Quante fatiche per giungere a ciò!… È una compiacenza che cercherò di meritare. *—È uscito il volume de'miei versi, e già la stampa lo saluta benevola. —La nuova edizione della mia strenna, ampliata e corretta, è pure accolta favorevolmente—è più che non merito.

1 gennaio 1874.—Come s'apre triste quest'anno! Triste nel segreto del cuore, mentre apparentemente parrebbe lieto.—Arnaldo è a Firenze, dove lo incatenano i nostri affari.—Io sono sola.—Anche Gino desina fuori, e sarà più lieto che con me, che punto nol sono.—Io faccio ciò che posso, ma non è mia colpa se la tristezza m'opprime.—Che sarebbe la vita senza il lavoro per me?—Un altro anno finito!—è sempre una vittoria.—Guardiamo i poveri, pensiamo ai malati e ringraziamo Dio di quanto ci assente. Ma oggi aveva bisogno di parole di affetto e non ebbi che visite di cerimonia, con le quali è d'uopo mostrarsi liete sempre. —Entro con triste presentimento nell'anno nuovo.— Che domanderò in esso?… Il bene per i miei cari; per me il non far male, il trovare qualche conforto almeno nel bene altrui, il non aver disinganni novelli. Forse domando troppo!…

3 gennaio 1874.—Domani sarà qui Arnaldo per istabilirsi definitivamente in Roma.—Ne sarà contento? E fu saggio consiglio il metterci qui stabilmente? L'avvenire solo lo dirà. La mia vita fu strana; avvenimenti inattesi mi portarono ove non credevo.—Forse le mie risoluzioni non sono le migliori—ma c'è qualche cosa di fatale che mi spinse in questa via dell'insegnamento, ed io avevo d'uopo, ho d'uopo di occuparmi assai.— *Quando siamo tristi così, non si dovrebbe scriver mai. —E quante volte non scrissi per ciò!… Quante pagine avrei dettate e forse le mie migliori, ove non avessi voluto evitare ai miei cari la pena di sapermi così sconfortata! *—Dopo domani dobbiamo inaugurare l'Istituto. —Chi sa come riescirà il mio discorso!… Temo, eppure, convien dirlo, allo volte la Provvidenza prepara dei conforti ove altri vedrebbero delle fatiche.—Sia ora così anche per me, bisognosa tanto di pace.*

(Qui c'è una lunga lacuna nelle Memorie).

La sera del 6 maggio 1874.—Non cogli atti esterni ma con la mente, con l'anima, io solennizzo gli anniversarî degli avvenimenti più importanti della mia vita. —Domani si compiranno i 18 anni dal giorno ch'io lasciai la casa paterna per recarmi presso il fratello del padre mio a Venezia, ove ebbe luogo il mio matrimonio tre mesi dopo.—Quanto mi parve triste questa sera 18 anni or sono, e quante lagrime ho sparse! Diedi allora un dolore a'miei cari: mi sarà perdonato almeno adesso? Ed ora nuovi e gravi doveri e spesso poca forza per soddisfarli.—Scuola e famiglia hanno diritto ad ogni mia cura, ed io consacrerò ad esse la vita che ancora mi resta, e che così forse mi scorrerà confortata dal lavoro incessante.

Ieri rividi dopo lunghi anni il Maffei, sempre sereno, buono, affettuso sempre per me. In questa età di agitazioni, di lotte assidue, profonde, l'amore per l'arte assorbendolo intero, lo fa parere un essere nato e vissuto in tempi più tranquilli.—Egli vive coi grandi di cui traduce i lavori, e spesso scorda così le miserie che gli si svolgono d'intorno. Che Dio ce lo lasci ancora per lunghi anni! Al rivedermi si commosse, ed io del pari. —Mi conobbe giovinetta, mi vide quando mi sposai; il suo affetto ha qualche cosa di paterno come il mio di filiale.

Quest'ultimo suo volume che mi regalò, è dedicato con versi affettuosi alla moglie sua, da cui rimase sì a lungo diviso. Durante una grave malattia di lui, si riavvicinarono; le memorie della giovinezza risorsero, ma solo nella parte migliore, e il dolore e l'età ricongiunsero in qualche modo quelle anime, che forse le passioni avevano esacerbate e divise.—Meglio così! Poter compatire, perdonare è una cosa pur bella! È pur degno il riconsacrare, prima di morire, gli affetti anche meno felici!…

E il Tommaseo morì pochi mesi dopo la buona e fida sua moglie.—Aveva lavorato e patito abbastanza!—Riposa in pace, povero Tommaseo, e possa tu trovare oltre la terra quel premio che ti prometteva la tua fede immortale. Tu hai compiuto coraggiosamente il tuo cammino; semplice, altero, sobrio, arguto e perfino mordace sostenitore degli umili, inesorabile verso i potenti, insegnasti con la vita quanto con gli scritti: e perfino quelli, che taluni in te chiamarono difetti, erano provvidi esempî per questa generazione fiacca, corrotta, inerte, di cui non sapevi tollerare la indifferenza e i costumi. Ti parlai un'ultima volta nel decorso settembre, e mi fosti benevolo tanto.—Ora ripensarò a te, ricordando i grandi che più non sono.—Oh quanto mi sembrerà triste quella casetta in fondo al Lung'Arno delle Grazie!… Firenze ormai non mi desta che meste rimembranze.

La sera del 7 maggio 1874.—Bisogna riconoscere e ricordare le cose buone e care, per opporle alle tristi e dolorose.—Ebbi anche questi giorni delle consolazioni soavi.—Poter finalmente spedire alla povera Dall'Ongaro, vecchia e sconfortata, la somma raccolta per lei e per la famiglia sua in Venezia, mi riescì ben gradito!… Quella sventurata sta per mettersi in viaggio per la Sicilia, dove il nipote suo ebbe promessa di lavoro. —I suoi due nipoti stanno per istringersi in matrimonio, e mancava loro il denaro necessario a tante spese. Ora almeno possono far fronte alle urgenze maggiori. Oh quella povera donna che si allontana ancor più da'suoi paesi, da'pochi suoi parenti superstiti per recarsi in luoghi nuovi, fra genti ignote e di costumi diversi, con la morale certezza di non poter ritornare, di dover morire colà!… Come ricorderà affannosamente il fratello diletto, morto anzi tempo per l'iniquità degli uomini, per l'acerbità dei fati, il fratello con cui divise tutti i dolori dell'esilio, della miseria!… Egli cantò il Calen di Maggio. Ecco il Maggio che torna, ma il poeta morì! Povero Dall'Ongaro, giovane sempre e poeta, troppo semplice e schietto per essere creduto tale a questi giorni!

*8 maggio 1874.—Se io potessi avere la presunzione di credere che la Provvidenza si occupi di una misera creatura quale io mi sono, direi ch'Essa volle prepararmi un rifugio, un conforto nei dolori che mi affliggono, ponendomi nella doverosa necessità di occuparmi di molte cose diverse.—Quando sono assorta nelle cure del mio ufficio, dimentico me stessa. Quando insegno la morale, la sento più che mai; comprendo che l'insegnamento sarebbe inefficace ove non andasse unito all' esempio; comprendo che l'egoismo è il peggiore dei vizî, il sacrifio la prima delle virtù, e guardando a quelle giovanette innocenti, una calma insolita scende nell'anima mia.

E queste buone maestre che lavorano tanto ed hanno esse pure sì poche consolazioni!… Esse mi circondano d'affetto, ed io ti benedico, o Signore, perchè mi hai dato la potenza di farmi questa posizione, di creare un'istituzione utile a molte, dannosa a nessuno; e ti domando la forza di crescerle onore, di dirigerla con senno, giustizia e amorevolezza costante.

Nel passato quando qualche cosa mi addolorava profondamente, sentivo un desiderio grande di affidarla alle persone più stimate e care. Ora io mi dico: O esse non m'intendono, non se ne curano, e in tal caso forse le annoierei, forse sembrerei loro esigente e ridicola—ed allora la dignità, la convenienza, tutto m'impone di tacere. Oppure, nella ipotesi più confortante, esse soffrirebbero per me, mentre chi sa quanto già soffrono per sè stesse!… Oh! per ciò che non si può mutare, il silenzio soltanto è buono. Vi ha talvolta una specie di altera voluttà pur nel dire: Io non incomodo alcuno coi miei lamenti!*

*10 maggio 1874.—Rividi la signora D. S. Era afflitta, poveretta, per la morte d'un egregio suo conoscente; deplorava la perdita dei migliori; «pure» diceva «la memoria della loro virtù giova anche dopo che vi hanno lasciati!»—E perchè io mi doleva che i buoni debbono soffrire tanto quaggiù, ella, mite e dolce sempre, soggiungeva: «Ma hanno il conforto de bene che fanno, hanno l'ineffabile consolazione di sapere, di potere perdonare a tutti e sempre». Parole sante che è bene ricordare per cercare di metterle in pratica—ma ciò è ben arduo talvolta!*

16 maggio 1874.—È pur bella l'arte in ogni sua manifestazione! Mi tornano spesso davanti i maravigliosi gioielli del Castellani, dei quali ben può dirsi che la materia è vinta dal lavoro. Egli ha diviso i varî generi per epoche; c'è la storia dell'oreficeria italiana in quelle due stanze, che rinchiudono tesori forse invidiati indarno da're. Il Castellani rifiuta di vendere le cose che maggiormente pregia—piuttosto ne compra ove ne trova.—Con la modestia del vero ingegno egli mi disse: «Io non fo che copiare; beato quando riesco ad imitare i nostri antichi maestri.» Si mostra riconoscente pel Sermoneta che gli fu maestro, e al quale dedicò il suo libretto intorno all' oreficeria italiana. Quando stavo per partire, porgendomi una piccola ma elegantissima fibula, mi disse: «La tenga per mia memoria. Se avessi un giardino le darei un fiore, le do invece un lavoro mio.» Non amo i doni, ma non osai rifiutare questo per il modo col quale mi era offerto. Gli mandai quindi i miei versi—era l'unica cosa che potevo fare per mostrarmegli grata di tanta cortesia. È un vero artista gentiluomo.

*4 giugno 1874.—Oggi è il dì natale di Gino.—Che Dio lo benedica! Ripenso a quando nacque, alle sofferenze fisiche, alle inquietudini che mi costò bambino; ripenso a tante cose e piango… Che Dio benedica il mio figliuolo!…

5 giugno 1874.—La Società per la istruzione superiore della Donna mi elesse sua presidentessa.—Veramente questa Società posso dire di averla costituita io; nè risparmiai cure e brighe d'ogni maniera per riescirvi. Ad ogni modo l'onore che mi si volle fare è superiore al merito mio—lo conosco e lo confesso. Credo che questa Società debba tornare di qualche utilità alla donna, di qualche decoro a Roma. È la prima di donne italiane che si costituisce da sè, senza chiedere le proprie norme che a sè stessa. Finora le donne si radunavano o nelle sale da ballo, o nelle chiese—i due estremi, e spesso l'uno confondevasi coll'altro.—Che si divertano, purchè onestamente, che assistano alle funzioni religiose, purchè non sia con spirito di parte e di bigottismo, ma che abbiano pure un centro ove le attiri il desiderio d'imparare, di sviluppare le loro facoltà di mente e di cuore. Lo intendo: queste conferenze non saranno sufficienti a daro completa l'idea d'una scienza, ma se bastano ad ispirarne l'amore, a farne sentire il desiderio, a mostrare il modo di studiare, d'imparare anche da sè, non faranno un gran bene? E che farebbero le signore che vi assisteranno, nel tempo che vi consacrano? Quanto diverse potrebbero essere le risposte!

8 giugno 1874.—Andai, invitata, dalla Principessa Margherita.—Le avevo inviato la istanza del Comitato per l'Istituto che vuolsi fondare in Assisi, e m'era spiaciuto non averne risposta. Le mandai, dopo tre mesi, le strenne che le avevano dedicato, con una lettera forse un po'ardita. Si voleva ch'io chiedessi un'udienza; non volli, e, saputolo, spontaneamente mi invitò.

Fui accolta molto benevolmente; ebbi giustificazioni e ringraziamenti e lodi anche troppe.—La Principessa è amabilissima. Sarei curiosa di sapere l'impressione ch'ebbe dalle mie semplici e schiette parole. Curiosità che non sarà appagata!

9 giugno 1874.—Il cappellano di Corte venne a dirmi che la Principessa è stata contenta di me:—niente di meglio!

*10 giugno 1874.—Morì l'avvocato Bernardi. Ingegno gagliardo, si fece un nome ed una fortuna, ed ebbe poscia il tempo di scemar quello, di perdere questa. Soffrì grandi dolori—finì sconfortato, povero, disgustato di tutti, non credendo forse che al male, poichè è arduo credere al bene quando non si trova mai o non si sa trovare.

Ma non era un uomo comune.—In una condizione più elevata e felice, ove il suo giusto amor proprio fosse stato apprezzato, l'animo suo sarebbe apparso ben più mite e sereno.—Negando fede alla generalità degli uomini, rammento di averlo veduto credere con una quasi ingenuità all'individuo—rammento che egli, avvezzo ad occuparsi di cose ardue, alte, importantissime, scendeva volentieri ai minuti particolari della vita privata, anzi domestica.—Era semplice, frugale così che non lo si sarebbe in certi momenti creduto dominato da passioni potenti. Lo ripeto, era nato per esser buono, lo sarebbe stato ancor più se meno sfortunato. Il giudizio severo che pubblicamente manifestava su Daniele Manin (egli ch'era stato uno dei 40 esiliati) gli alienò gli animi dei Veneziani.—Se più astuto, non l'avrebbe significato; era sincero pur a suo danno e tanace… fin troppo.

La sua lite col B. fu l'ultima sua rovina.—Io lo piango col cuore, ma ove ne avessi la potenza, non lo richiamerei alla vita. Aveva sofferto abbastanza, nè oramai poteva avere soddisfazioni efficaci.—So (me lo diceva nella mia fanciullezza la mamma) ch'egli sdegnava le donne che si occupavano d'altro che della casa; pure con me fu sempre benevolo assai, e perciò cercai talvolta quando eravamo entrambi a Firenze di accoglierlo proprio come uno di famiglia. Povera la sua moglie! Semplice, buona, rassegnata, lo seguì dovunque, e quando s'era a furia di fatica accomodato un quartierino, doveva abbandonarlo e mutar paese! Oh quanta virtù in queste donne ignorate! Poveretta, poveretta, quel Dio in cui credi ti riconforti. E il figlio suo? poveretto anch'esso, malato, senza fortuna, con aspirazioni elevate, che farà egli ora?… Mio Dio, pietà di tanti infelici!*

Domenica, 14 giugno.—Oggi feci veramente festa anch'io. Fui ad ascoltare una bella lezione del Mamiani. —Vecchio, egli ha il vigore intellettuale e la fede e gli entusiasmi giovanili, che manifesta con la parola tersa ed elegante, con la sicurezza dello scienziato e l'amore dell'artista.—Oggi assistiamo ad uno strano spettacolo. I giovani ostentano una incredulità spaventosa, un'aridità di cuore, un dispregio per quanto un tempo più s'onorava, che addolora e sgomenta. Essi non possono essere persuasi, convinti delle dottrine di cui si vantano discepoli, ma intanto offendono le anime più delicate, turbano le più fidenti, e prendono la funesta consuetudine di deridere quanto non sanno rispettare. I vecchi invece, conscî che la vita senza la fede sarebbe tormento incessante, tengono sempre più alta la loro bandiera, si stringono sempre più alle loro credenze, e le difendono valorosamente con una convinzione che desta l'ammirazione verso chi la possiede, l'invidia più nobile nelle anime che hanno la sventura di esserne prive.—Il Mamiani combattè la teoria che ci farebbe pronipoti delle scimmie. La combattè e da cristiano, e da scienziato, con cuore, ingegno e dottrina; colla serietà del filosofo e col brio del poeta.—Non so cosa gli opporranno—ma mi desta penosa meraviglia il vedere come tali, che di religione e di scienza non si occupano mai, si riscaldino unicamente per questa questione, e mostrino quasi compiacimento nel sostenere la nostra affinità con gli scimmiotti. Io credo veramente ch'essi vi abbiano diritto; e forse sono essi medesimi il più valido argomento a favore di questa parentela.—Oh! ma non potrebbe pur essere che il genere umano avesse due origini distinte?… Notando certe disuguaglianze, sarei tentata a crederlo per ispiegarle.

Fui quindi alla sede della Società Geografica e v'intesi uno splendido discorso del Correnti, di questo Cellini della letteratura. Quanto di eletto in quell'anima! *Con tèma e intendimento diverso toccò egli pure della quistione più largamente svolta dal Mamiani, e non so se fossero degne di maggior lode le idee o le parole di lui.*

Venezia, 2 luglio 1874.—Quanto tempo che non iscrivo qui! Gli esami delle mie allieve mi occuparono assai, e mi diedero pure delle intime compiacenze.—Singolarmente l'ultima volta che le vidi riunite e diedi loro le classificazioni, e le vidi commosse e dolenti per dovermi lasciare, trovai largo compenso alle fatiche, alle ansie provate.—Partimmo il 9—ci fermammo solo poche ore a Firenze.—* Rividi le Collalto, le mie care e buone orfanelle, ma la salute dell'Emilia mi spaventa. *—Nel Veneto trovai i miei in buona salute. Nella mia vecchia casa paterna manca la domestica che vide morire mia madre, l'Emma, il mio povero Enrico. —Mi era sacra per questo. È un vuoto di più.—Ogni pietra, ogni pianta in quella casa, in quel giardino mi destano un ricordo…. e d'ordinario non lieto.

Per le feste Petrarchesche mi fecero molti, troppi onori.—È un caso, una stranezza ch'io mi abbia sì vive le simpatie de' miei concittadini; che, facendo sì poco, raccolga tanto plauso.—Sia come Dio vuole. Almeno superbia e vanità non—ho un po'd'alterezza, ma più per il mio carattere, che per l'ingegno reso spesso vano dalla scarsezza soverchia del sapere.—Trovai il mio Guido sano, vispo e lieto.—Oh! come mi fu caro il vederlo! Gino superò bene gli esami di licenza liceale; e l'avrò presto quì.—Ho qui pure mio padre, il dilettissimo padre mio!

Venezia, 5 agosto 1874.—Oggi partì mio padre, e giunse Gino che, compiuti gli esami di licenza liceale, fu per qualche giorno a Mantova e a Verona. Sta bene e sente ormai di non essere più un fanciullo.—Possa egli intendere anche tutti i doveri dell'uomo! È il miglior augurio da fargli.

Venezia, la sera del 9 agosto 1874.—Tornai da poco da una festa; dalla presentazione della bandiera nazionale, donata dalle signore veneziane alla fregata Venezia. In queste solennità patriottiche vi ha per me sempre qualche cosa che parla al cuore.—Vedere issare quella bandiera al suono della fanfara reale, al tuonar de'cannoni, ai viva di una folla di eletta cittadinanza, su quel legno pavesato e infiorato, fu cosa bellissima, imponente.—Dio benedica l' Italia!* Questa festa me ne ricordò altre cui presi pur parte di recente; le Petrarchesche.—Rappresentare in tale occasione il Comune di Roma fu per me un onore grandissimo, nuovo, credo, per una donna.—Temevo non piacesse a taluno, lo temevo non per me, quanto per coloro che mi avevano dato l'incarico e sarebbero rimasti mortificati se la cosa si fosse biasimata.—Fortunatamente la stampa e italiana ed estera mi fu oltre ogni dire benevola.—Nella via in cui la Provvidenza mi pose, è per me una vera fortuna questa benevolenza. Non è la vanità che ne gode, ma penso che così potrò meglio giovare alla famiglia adoperandomi al tempo stesso per il paese, per quanto le mie forze lo consentano. A Padova e ad Arquà rividi e conobbi illustri e care persone, e serbo grata ricordanza di quei due giorni.—Solo mi duole scorgere un triste fervore di fazioni politiche che si manifesta perfino nelle feste letterarie, che rammenta le antiche discordie cittadine, fonte di danno e vergogne alla patria.—Ciò mi fa temere poichè la gioventù è sì apatica che par non si scuota che per vilipendere, per demolire.—Oh patria, quanti pochi veramente ti amano!*

Venezia, 10 agosto 1874.—Rivisitai oggi dopo due anni la Mander Cecchetti, che trovai là nel suo letto di dolore, come l'avevo lasciata, sempre serena, affettuosa. gentile, se non che più magra e pallida che mai. Quanta rassegnazione e quanta fede, quanta virtù e quanto amore in quell'anima bella! Si direbbe che anche l'ingegno le si affina coi patimenti, ed i suoi ultimi versi mi parvero sì belli!

Quale insegnamento mi viene da questa donna, che si contenta di un raggio di sole veduto dal suo letto, di una bella pagina letta a stento, di una cordialità di un parente o di un'amica!… E noi che possiamo girare e godere di tante cose, noi sì ricchi di affetti e di conforti, osiamo lagnarci di quanto ci manca, mentre ella non si lamenta di quanto soffre!—Come si può credere vano il dolore, se, quando sofferto in tal modo, c'ispira tali affetti, tali pensieri? Lode a te, santa creatura, che del tuo letto ti sei fatta un altare, intorno al quale noi c'inchiniamo reverenti e commossi!

Venezia, 20 agosto 1874.—Ho voluto visitare alcune scuole di Venezia, tanto per sapere ciò che vi si fa, tanto per non rimaner del tutto estranea al mio paese. Si fa più che a prima vista non pare, ma si potrebbe fare assai più e per l'ingegno degli allievi e per la valentía dei maestri.—Ciò che fa difetto è il vigore della volontà, è singolarmente la tenacità dei propositi.—Anche nelle opere di beneficenza si potrebbe conseguire maggiori vantaggi con ciò che si spende.—L'Istituto Coletti mi strinse il cuore. Quanti urgenti bisogni manifesta! Povero Carlo Coletti!… Ho voluto assistere alla commemorazione che gli si fece pel primo anniversario della sua morte. Quale sventura perderlo sì giovane!… *Egli fece miracoli, ed altri ne avrebbe fatti; e l'educare, riabilitare, rendere atti al lavoro i ragazzi abbandonati, miserabili, tristi, è la cosa più santa e più saggia, l'unico riparo che si possa mettere alla furia delle ire di piazza, alle minaccie petroliere.*

25 agosto 1874.—Una compagnia di cantori Viennesi, tutti dilettanti, vennero a cantare per diletto e per beneficenza, a Venezia. Gli intesi sul Canalazzo. Quei canti tedeschi, cui rispondevano plausi e viva di questa popolazione, un giorno schiava e nemica dell'Austria, mi ridestarono tante, tante memorie! Oh! l'ombre dei nostri martiri potessero vedere questo trionfo della civiltà, dell'umanità e dell'arte!… E gli echi di Venezia ripetono le melodie tedesche!… Io penso e provo una compiacenza grave, profonda, solenne.

27 agosto 1874.—Ho letto la mia Laura a questo Ateneo. La sala era piena, c'erano molte signore, e mi accolsero e mi ascoltarono con benevolenza.—Pare siano rimasti abbastanza contenti.—A me, ora ch'è fatta, riesce caro l'aver dato un segno di affezione modesta a questo Ateneo, di cui sono socia, e al quale chi sa se leggerò mai più cosa alcuna.

2 settembre 1874.—Gino è a Schio. Vidi mio zio Benedetto, venuto qui per salutarmi.—Uomo laborioso, onesto e ordinato, dotto ed amabile, deve tutto a sè stesso. Egli m'insegnò a leggere quando ero bambina, scrissi per lui i primi miei versi—posso dirlo il primo, quasi il solo mio maestro, sebbene abbia potuto avere si poche lezioni da lui, spessissimo lontano e sempre troppo occupato.

3 settembre 1874.—Il papà è ripartito; lo rivedrò ancora a Padova per uno o due giorni, poi non più, chi sa per quanto.—Il dolore che provo nelle separazioni è superiore alla gioia dei ritorni—difetto forse dell'indole mia.—Ma questo dolore non mostro, chè temo lo si creda esagerato, poichè, singolarmente in chi scrive versi, ciò suole avvenire.

Mi sento affaticata e mesta. Durante queste vacanze non mi sono punto rinvigorita. Mi occupo quanto posso; ciò giova allo spirito, non sempre al corpo—mi stanco e non mi rallegro.—Solo mi allieto se riesco a fare alcuna cosa utile altrui. Raccomandai quella povera B…; era giusto e spero le gioverò.

Ebbi reiterate offerte per dirigere un Istituto a Lecce —mi si facevano splendide offerte, ma non accettai perchè mi sta troppo a cuore la mia Scuola di Roma. —Cercai altra direttrice per Lecce, e credo se ne troveranno contenti.

6 settembre 1874.—Dopo domani lascerò Venezia, e chi sa per quanto! Forse per sempre! Ci sarà il figlio mio, e ciò mi farà tornarvi spesso col pensiero.

Firenze, 14 settembre 1874.—Scriverò delle date soltanto, ma mi ricorderanno tante cose!—La sera dell'8 lasciai Venezia e Guido mio, che domani si recherà al congresso ginnastico di Bologna; quindi tornerà fra noi. —Il 9 andai con Arnaldo a Vicenza per trovarvi Quinto Maddalozzo, e passai caramente quella giornata.—Quinto mi pare, oserei dire, felice, nella pace domestica e nella saggia ed utile operosità intellettuale.—È buono e bravo—possa godere a lungo di questo stato.—Picchiai alla porta del povero Zanella—non lo potei vedere, ma lasciai a sua sorella per lui un saluto, un augurio d'affetto…—L'11 il papà ci accompagnò a Rovigo, e la mattina dopo ci siamo recati in campagna da mia sorella Eloisa con l'Elvira e coi suoi.—Fui contenta assai di trovarmi per qualche ora tra quelle due buone famiglie, ma ci fu un senso di tristezza nel lasciarci….

Arrivai iersera a Firenze un po'stanca e sofferente. Oggi mi occupai singolarmente per il mio Gino che partì ora per vestire a Roma la divisa del volontario. Che Dio lo accompagni!…

Fischia il vento, ed io penso agli assenti, a chi viaggia, e sento questo fischio freddo nell'anima.—Ma domattina splenderà il sole ed io mi rallegrerò vedendolo e ripensando a tutti i miei lontani e immaginandoli lieti.—Addio, miei diletti, addio!…

Firenze, la sera del 29 settembre 1874.—Fui non gravemente, ma a lungo sofferente.—È una spossatezza, un malessere generale che mi toglie la possibilità di occuparmi come vorrei e dovrei; perciò mi accresce tristezza.—Questa sera com'ero abbattuta, scorata! E venne il Vannucci, questo semplice e grande uomo, che mezzo malato pur mi rammenta e mi visita dovunque ci troviamo insieme.—La sua parola mi ritemprò.—Ero agitata, tornai calma; ero fosca, tornai serena. Potenza della virtù e dell'ingegno! Egli è vecchio ed ora quasi cadente; eppure quanto è più forte di me! Studiò, faticò tanto, e guarda ben dall'alto uomini e cose; eppure non parla con sprezzo mai, ma con quell'affetto che compatisce perchè intende, che nobilita, che avvalora con la parola, con l'esempio, con tutto!

*1.°ree; ottobre 1874.—Ebbi oggi due consolazioni. Scrissi quasi disperando dell'estio, al Ministro della P. l. perchè soccorresse il prof. R. cui non si dà stipendio nel tempo delle vacanze e muore quasi di tristezza e d'inedia—trovai parole che riuscirono efficaci, poichè tosto mi risposero esser dato l'ordine che gli venissero pagati d'un tratto i due mesi delle vacanze.

La seconda delle mie compiacenze deriva dall'avere inteso dal medico del collegio ove sta l'Emilia, che la povera orfanella finora non ha alcuna lesione organica, e dall'averlo potuto interessare affinchè le vengano usati quei riguardi, e le sia dato quel sostentamento di cui ha d'uopo.—Me lo promise—era per me un dovere, uno di quei doveri che non hanno altro codice che il cuore. Noto queste cose per trovar qui alcunchè che mi conforti se in ore meste riapro questi fogli.*

12 ottobre 1874.—Ieri ebbi d'improvviso la compiacenza di vedere mio fratello.—Mi disse che il papà sta bene, che gli avea fatto la sorpresa di fargli trovare le tende nuove nella stanza, tende che desiderava e che nostra sorella Elvira gli cucì.—Rammentai allora che la povera mamma aveva ne'suoi dì estremi il pensiero, il desiderio di rifare le tende nello studio di Eugenio, così com'egli le rifece ora nella stanza del padre nostro.—Le sono inezie, ma di quelle che si legano a memorie ed affezioni soavi, e che perciò ci diventano sacre per le emozioni che destano.—* Ebbi lettere da Roma.—Oh come sono buone le mie maestre assistenti! È una vera fortuna poter contare su animi così gentili! *Si sta sfacendo la casa che abbiamo venduta.—Conviene che lo confessi, non mi duole molto lasciare Firenze, dove soffersi tanto nel corpo e nell'anima! E poi molti esseri cari non ci sono più…. Povero Clemente! povera Collalto!… E tanti ne sono partiti.—Tornò a salutarmi il Vannucci, ma debole, cadente quasi. Poveretto! Spero si riavrà. Oh, come glielo auguro; come mi sento onorata dell'affetto suo!

Roma, 19 ottobre 1874.—Giunsi l'altra sera.—La casa e la scuola sono sossopra per i lavori di demolizione e di ricostruzione. Abbisognano sempre pazienza e coraggio.—Ho qui Guido, ma partirà fra poco.—Gino è volontario, e temo sempre che la fatica, cui non è uso, gli possa tornare funesta.—Mi sento prostrata più che mai di corpo e d'anima, nè ciò deve apparire. So che alla nostra scuola si muove guerra; sarà vana, pure mi affligge!

29 ottobre 1874.—Da che scrissi l'ultime linee fui sempre malata.—Ora sto meglio, la febbre mi lasciò, e solo mi resta una debolezza e qualche strascico di sofferenze, che non mi toglie la possibilità di ogni occupazione. —Ma ieri sera partì il mio Guido.—Piangeva, e mi spezzavano il cuore quelle lagrime sue. —Povero e caro ragazzo! Da prima era necessario allontanarlo da noi, chè non si aveva dimora comoda e sistemata; ora la credo tuttavia cosa utile per la sua educazione, ma parmi quasi una crudeltà, e, lungi dall'avvezzarmivici, sento sempre più grave il peso della sua privazione. Talvolta egli è vivace fors'anco di soverchio; ma allora mi dà l'idea del sole che talvolta può riscaldare di troppo, può offendere la vista co'raggi troppo luminosi; ma e che faremmo senza di esso?… Povero il mio sole! povero figlio mio! Vorrei le mie benedizioni avessero l'efficacia di quelle divine per inviartene d'infinite.. Ora egli sarà presso mio padre per un giorno.—Mio padre e il mio figliuolo! Dio li benedica, come il mio cuore!…

6 novembre 1874.—Vidi ieri dopo un anno, o quasi, la signora Salis Schwabe. Che santa donna! È un apostolo della carità, ha veramente la febbre del bene.—Eppure in una delle più elette fra le società della capitale, l'anno passato, vidi ridere di lei appunto per il suo zelo per le opere buone. Ho capito da ciò che i profeti, i santi, i martiri, farebbero oggi ridere di loro.

22 novembre 1874.—Oggi ebbe luogo la premiazione e la inaugurazione della nostra scuola.—Fu una festa solenne—v'intervennero la Principessa, i ministri, una infinità di'illustri persone.—Lessi il mio discorso che parve piacesse. La Principessa mi fu assai cortese, e così tutti.—Questa festa che gioverà alla riputazione della scuola, è un compenso alle fatiche, ai contrasti, ai dolori che questa mi ha costato e mi costa.—Ma purchè proceda sempre bene così, pazienza e coraggio!* Ebbi delle soddisfazioni profonde; l'istituzione sarà utile al paese; dunque si può ben lottare per vincere!*

25 novembre 1874.—La Principessa di Piemonte volle vedermi, e mi recai al Quirinale all'ora che il suo invito mi prescriveva.—Ella fu con me assai cortese.—Lodò il mio discorso, mi chiese della scuola, della società per le signore, ai corsi delle quali disse voler assistere. Mi parlò di Roma e d'Italia; si mostrò infine piena di affetto per il paese nostro, per la causa comune ai buoni Italiani.—Sarà una Regina che farà onore all'Italia.

30 novembre 1874.—Si chiude il mese, e domani si riapre la scuola regolarmente, e si riapre con più di 100 allieve. —Quanta fatica per giungere a ciò! Quanti ostacoli superati e da superare, quanta forza di volontà da esercitare!… E sono sofferente ancora, e tutto il mese pure lo fui e lo sono da tanto!… Oh il difetto delle forze fisiche è tormento doppio, ora che l'anima deve e potrebbe lottare!… Eppure i forti sdegni in questi giorni mi fervono in petto, chè davanti alla debolezza, alla malvagità, alla viltà umana, c' è in me qualche cosa che sorge a protestare, ad imprecare anche s' è d' uopo, e allora dimentico che son sofferente, che son donna, e parlo come si combatte quando generosa è la guerra.

*8 dicembre 1874.—La mia scuola va bene, ma la salute non ancora.—Mi guardai sempre dal dare importanza alle sofferenze nervose, ma ora spesso le sento più forti della mia volontà.—I nervi e i bronchi mi tormentano insiemo—ogni agitazione d'ogni specie mi costa delle sofferenze, e spesso pavento che le forze non mi reggano per l' intrapresa assunta.—Dio nol voglia!

Ieri diedi la prima lezione di morale. Come è fiorente la scuola! E quanto debbo all'assistenza, affettuosa, costante, instancabile del buon Pignetti! Abbiamo superato difficoltà grandi—così ci sia dato superare quelle che la sorte e l' invidia e la malvagità umana ci creano ancora d' intorno.

*5 febbraio 1875.—Da due mesi non scrivo più verbo.—Sofferenze, occupazioni, svogliatezza ed altre tristi ragioni me lo vietarono.—Eppure vidi qualche cosa di lieto anche in questo tempo: le nostre conferenze onorate dalla Principessa reale e da quanto ci ha di meglio tra le signore della città, la benevolenza di molte persone cortesi e stimabili, e sopratutto la buona salute e la buona condotta dei figli.—L'anno però non si chiuse lietamente per l'anima mia.—Se mi rallegro ormai, è del bene altrui.—Le questioni dei nostri interessi economici mi funestano; nuovi danni ci sovrastano e convien porvi riparo con nuovi sacrifizî. *Molti stanno peggio di me, e tra quei molti non pochi meriteranno più di me…—Spesso mi ribello, m'inquieto, mi sdegno per ragioni che non lo meritano, e ciò perchè il fondo è triste; e quando le acque sono agitate, anche i fiumi, anche i mari mostrano che il loro letto ha del fango—fango! ma fango morale io non ne porto.—Se nella quiete delle notti insonni io torno ad esaminare la mia coscienza, io mi sento tranquilla, sento di non aver fatto male ad alcuno… Ed allora perchè dovrei agitarmi così?—Il mio Guido l'ho temuto malato—per fortuna non era vero. Oh saperlo sano mi conforta tanto!*

18 febbraio 1875.—Di nuovo ricaduta malata! E dire che vivo sempre come un'inferma!* L'occupazione non posso lasciarla, e per il dovere e perchè giova assai all'anima mia—ma qualunque fatica per divertirmi mi è grave—neppure i passeggi solitarî camestri, in cui l'anima sente la natura e Dio, mi sarebbero concessi.* —Forse ora mi rimetterò—ma son tanti mesi che soffro!

Prima di chiudere questo fascicolo, che a me rappresenta quasi un anno di vita, voglio, per non parere ingrata verso la Provvidenza, ricordare alcune consolazioni che mi concesse.—Fra queste v'ha quella di saper Guido sano e saggio. Nel carnevale si fece onore anche nelle recite. —In quanto egli fa, mostra ingegno e cuore.—Il 24 del passato dicembre le mie allieve festeggiarono il mio onomastico.—Fu per me una vera sorpresa trovare, in giorno di vacanza, affollata la sala, vedervi una quantità sterminata di fiori, ricevere augurî, versi bellissimi scritti dal bravo prof. Castagnola; infine le più liete e calde testimonianze di spontanea affezione.—Cento erano le allieve, e tra quella gioconda corona, ch'io oso dire di averla composta di mia mano, provai un senso di emozione profonda; di compiacimento soave.—Fu una giornata che ricorderò a conforto perenne.

Domenica, 22 febbraio 1875.—Oggi Arnaldo ebbe la nomina che tanto desiderava e che tanto era contrastata. —È un'utile ed onorevole occupazione.—Tutti i nostri ne godranno; e questo pure m'allieta assai.

13 giugno 1875.—Gino parti stamani per Varese co'suoi compagni del campo. È sergente, e fra quattro mesi avrà compiuto l'anno di volontariato. Questa partenza m'afflisse e me ne ricordò altro amarissime.* Non è dato occuparsi mentalmente le prime ore dopo tali separazioni. Così rammento che fin da giovinetta, in circostanze simili, mi davo cura di riordinare la casa e singolarmente gli oggetti della persona alla quale avevo detto addio: per tal modo ingannavo il tempo facendo cose buone. E così feci stamani.*

16 giugno 1875.—Ebbi una lettera di Gino da Milano. —Rimase ammirato di Genova, e passò la notte con alcuni compagni in una barchetta errando per il Golfo. —Non ci fui mai, ma immagino quelle bellezze. I miei figli già fin d'ora s'ebbero più viaggi e diletti che io in tutta la vita; e ciò mi piace, purchè lo intendano e sappiano apprezzare i beni che la Provvidenza e la famiglia concedono loro.—Sopra tutto facciano conto della salute e dell'ingegno e del cuore.

Ebbi il dono del ritratto della Principessa di Piemonte con un autograso affettuoso.—Ella è gentile, buona, intelligente, e ne godo singolarmente per Lei, chè, nie tempi che s'appressano, senza tali doti i Principi non potranno regnare.

1 luglio 1875.—Oggi una nuova infausta.—È morta la Emilia Collalto, la povera orfanella non ancora ventenne, morta di consunzione, lasciando nel dolore la sua sorella. —Le avevo vedute entrambe bambine, e il loro avvenire pareva dovesse essere tanto felice! Oh la vita quante cose impensate e affannose ci appresta!

*2 luglio 1875, ore 10 di sera.—Il vedovo della povera Regina Landi, la quale io non conosceva che pe'suoi scritti, mi mandò una dedica in versi ch'ella mi aveva composta e non spedita poi per un senso di squisita soverchia modestia. Quelle affettuose, lusinghiere parole di un' estinta mi commossero assai.—Era un nobile intelletto, un cuore semplice, affettuoso.—Scrissi al vedovo—poveretto!—So che si amavano tanto; e quando uno di simili matrimonî si compie, quasi per assicurarci che può esistere ancora l'amore scambievole, duraturo, completo, ecco che la morte divide le care anime gemelle!… V'ha una felicità che ci possiamo rassegnare a non avere, solo quando si pensa che chi l'ha la può perdere!*

La sera del 3 luglio 1875.—Fu un giorno di lavoro, ma pure di nobili compiacenze. Gli esami delle nostre allieve progredirono bene.—Anche Teresita si fece onore, sebbene disgraziatamente, come le altre, si lasciasse vincere da eccessivo sgomento.—Gli esami giovano solo perchè servono a fare studiare di più, ma forse tra gente più seria e operosa si dovrebbe modificare il sistema. —Entrambi i figli lontani mi scrissero. Spero tutti e tre si ameranno sempre e si aiuteranno nella vita quando io non sarò più.—Ho riportato delle vittorie di cui, per loro sigolarmente, ne godo.—Quando penso a questo centro di vita intellettuale femminile creato nel centro di questa Roma, provo compiacenza grande. Orgoglio no!—Fu fortuna e tenacità; ma comunque sia, ho sofferto molto per riuscire, e mi resta molto da superare, e dalle cose vinte cerco trarre argomento e forza per procedere degnamente.

La sera del 13 luglio 1875.—Gli esami della nostra scuola pare sieno riesciti di pubblica soddisfazione.— Dico pubblica perchè molti furono gl'invitati ad ogni singola materia.—Fui occupata molto, ed ora sono stanca assai, chè tutt'oggi mi sono affaticata per i preparativi della partenza. Domattina, 14, partiamo per Firenze, dove ci chiamano i penosi e disastrosi affari del teatro. Quindi andremo nel Veneto.—Dio voglia che al mio ritorno in Roma possa scrivere in questo libro liete parole!

*Tra gli avvenimenti che più m'impressionarono in questi giorni devo ricordare quello che gittò nel lutto la famiglia del deputato Oliva. Il figlio maggiore della moglie di lui, già vedova, si tolse la vita. Con quanta pietà, con quanto amore egli rivelò alla sua donna la grande sventura. Aveva ragione il povero E. F.: L'Oliva è un'anima nobilissima, ed è sì sventurato!… Ma torna felice quando è presso alla donna sua, di cui è l'idolo, presso a lei che per esso soltanto trova la forza di sopportare tutto. Dio li benedica!*

Firenze, 16 luglio 1875.—Scrivo dalla casa Pozzolini, dove siamo ospitati, e dove tutto mi rammenta la buona e cara Antonietta, creatura soave, vissuta solo per il bene.—Quante opere belle, gentili e sante in quella vita sì breve! L'arte della pittura le diede di lasciarci l'immagine sua e di tutti i suoi più cari; quella dello scrivere le concesse di lasciarci intera l'immagine dell'anima sua. Le molte memorie, che sua madre trovò scritte da lei, e che ora amorosamente rilegge per concederne alcuna al desiderio degli amici, rivelano quanto di grande e di santo eravi in quell'eletta…

*Oggi scese de Bivigliano la madre sua che lasciò le sue scuole per vedermi. Quanto gliene sono grata! E qui si parlò tosto dell'Antonietta, e mi disse di aver trovato e concesso anche alle Letture di famiglia alcune pagine ove la cara perduta mi ricordava.—Non so se sia giusto pubblicarle—non conviene confondere ciò che può dettare un sentimento di cortese benevolenza col freddo giudizio dello scrittore. Io dal fondo del cuore ringrazio quello spirito soave di avermi creduta meritevole della sua stima e del suo affetto, e prego di esserne degna.*

Due giorni prima di partire da Roma vidi il Solimbergo che si prepara ad un viaggio per le Indie, ove spera anche di trovare le ossa del povero Bixio. Il Solimbergo è un buono e bravo giovine, non trattato bene dalla sorte. Mi fu sempre cortese, mi parlò del suo amore alla madre, e penso a quella poveretta trepidante al certo di questo viaggio pauroso.—Volli dargli il mio ritratto—mi pare che in terre straniere non gli abbia ad essere discaro rivedere l'immagine di persona amica. —Egli scriverà i suoi ricordi, parlerà a noi di genti e costumi mal noti, e in età più tarda gli riuscirà gradita la ricordanza di sì lungo pellegrinaggio. Amante della natura, della scienza e dell'arte, quante mai cose potrà studiare, ammirare!—Ch'egli torni più sereno, più robusto e meglio preparato alle lotte di questa nostra vita civile, certo non meno aspre di quelle della vita selvaggia.—Non s'incontra sovente un amico, e di tali, che parta per le Indie; ond'è che pensai a lui, e volli il suo nome rimanesse fra questi intimi appunti.

*Firenze, 18 luglio 1875.—Domani vedrò a Padova mio padre, dopo domani il mio Guido a Venezia. Oggi visitai il buon B… quanto diverso da due anni fa!… Magro, pallido, triste, quasi misantropo. Sofferenze fisiche e morali l'assalirono insieme…—Misteri del corpo e dell'anima insieme!… Quando lo rammento vivace, operoso, pieno di arguzie, fidente nel bene ad ogni patto, patriota ed amico fervente, non mi so rassegnare a tale metamorfosi, e penso ad altro amico, parimente e più sfortunato, l'ingegno del quale pare oramai reso sterile alle opere della scienza e dell'arte.

Ieri fui al viale dei colli, la più amena passeggiata che forse vanti l'Italia.—Fra tanto splendore di natura e di arte mi assalirono mesti pensieri.—Ricordai una mattina in cui feci questa passeggiata coi miei, e non potei gustarne la bellezza perchè turbata potentemente dal timore di una immaginaria sventura.—Perchè io spesso mi affanno per cose che non sono, e che il solo affetto mi fa paventare?…*

Padova, la sera del 19 luglio 1875.—Sempre la stessa impressione, cara e mesta insieme, nel rivedere dopo lunghi mesi, dopo nuove prove, questi luoghi, queste persone!—I miei di famiglia stanno bene. Vidi un istante alla stazione di Rovigo mia sorella Eloisa con i due figli maggiori.—Ella ha pure gravi cure di famiglia e si studia compiere nel miglior modo gli ardui doveri di moglie e di madre.—Sabato la rivedrò, con gran parte de'nostri, qui in Padova, dove verrò io pure da Venezia per festeggiare il natalizio del papà. Povero papà!… Dio ci conceda di festeggiare per lunghi anni questo giorno!… Tutti mi accolsero col solito affetto. Come è dolce sentirsi amati!…—Questa sera visitai i Coletti.—Poveri Coletti! Non li avevo veduti dopo la morte del loro primogenito ventenne, di quel caro giovinetto, tutto cuore, che tante volte mi tenni sulle ginocchia. Rammento che gli ricamai la prima cuffietta—rammento che giocò col mio Gino.—Ormai era un uomo e morì!… Il dolore di quei poveretti è straziante.—Egli, l'uomo dotto, il cittadino modello, si affoga nel lavoro per trovar modo di vivere. Ella vive assorta nel suo lutto, cercando i ricordi di lui, vivendo della sua memoria.—Unico conforto il trovarsi ben di sovente nel giorno insieme —e insieme piangerlo e confortarsi a vicenda con l'intendersi e coll'amarsi, con la persuasione che la vita è un dovere, che l'accettarla in tale condizione è una virtù.

Oh amici miei, il mio cuore vi compiange, e prego possiate vivere e morire insieme, chè solo l'essere insieme vi è vero conforto!…

Venezia, 20 luglio 1875.—Giunti appena a Venezia, ci siamo recati al Collegio per vedervi Guido. Caro ragazzo! come fu lieto al vederci! Sono queste le emozioni più care della vita. Mi pare robusto, assennato, studioso e insieme allegro e vivace. Venne a pranzo con noi e si mostrò felice. Caro ragazzo!

Venezia, 24 luglio 1875—ore 11 di notte.—Torniamo ora da Padova, dove siamo stati a festeggiare il natalizio di mio padre—73 anni! Per fortuna è ancora robusto, con la mente limpidissima e il cuore pieno d'affetto. —Al vedere intorno a sè i quattro fratelli, i quattro figli che gli restano, i mariti delle figlie ed i nipoti, mi pareva ringiovanito.—Fu una gioconda festa di famiglia. Che Dio ce ne conceda molte di simili!…

25 luglio 1875.—Teresita andò per qualche dì a Chioggia con mia sorella Elvira.—Amo ch'ella si trovi in mezzo alle cugine, di cui è maggiore, e giuochi e studi e lavori un po'con esse, in luogo di cercare altri luoghi meno confacenti all'età sua. Amo si occupi un po', imitando la zia nelle modeste ma sante faccende domestiche, disprezzando le quali la donna perde il suo vanto migliore. Io non le trascuro, ma non posso occuparmene quanto dovrei, e me ne occupo più nelle ore in eui gli altri di famiglia o riposano o sono fuori.—Così è bene che, durante almeno le vacanze scolastiche, Teresita si avvezzi a considerare i doveri d'una buona massaia, e intenda quanto sono efficaci e stimabili.

*Tornò il nostro carissimo ospite Tonoli.—Noi siamo come in casa nostra qui da lui, nè si potrebbe sognare ospitalità più fraterna.*

Venezia, 30 luglio 1875.—Rividi Maffei, che ha ancora l aspetto sano e quei suoi bei capelli lunghi e bianchi che armonizzano coi baffi e col pizzo, e che gli danno un'aria dolce e venerabile.

Come hanno torto coloro che si tingono! Pare non si sentano degni di venerabilità; pare vogliano fingere anche nell'aspetto, vogliano giustificare con l'apparenza giovanile le leggerezze d'un'età da molto tempo trascorsa.

Maffei è un tipo di quella mitezza d'animo e cortesia di modi che non si usa più. È corretto, elegante, armonioso così nella conversazione come nel verso.—Ha bisogno d'ingentilire, forse anche talvolta di soverchio, ogni pensiero ed affetto, pur traducendo.—È logico, temperato, parco sempre, sempre classico, e ciò ora dalla così detta nuova scuola o scuola dell' avvenire non si perdona. «Ma chi sono, ebbe a dire egli un giorno, questi poeti dell'avvenire? Per me sono fanciulli dell'oggi.»—E disse tanto giusto che l'epigramma pungente merita di non essere dimenticato.

Vidi la Codemo Gerstembrandt, donna di molto ingegno, di grande operosità, di schietta morale, ma nelle sue abitudini non sempre in armonia coi luoghi e i tempi in cui vive.—M'han detto senta un poco di sè; ad ogni modo è ambizione nobilissima. È artista, ma nell'arte non appare finita sempre.—Tutto il vero non è bello, e certe cose poste in evidenza urtano quel senso di delicato buongusto, che fa rifuggire da certe descrizioni che, pur vere, sanno di triviale.—

Questo però non sempre, e nella sua nuova opera (Pagine famigliari, ecc.), pubblicata ora, parmi vi sieno cose buone e belle in quantità. Parmi siasi migliorata; certo fa onore al paese—e poi è veramente buona, ed io le voglio bene e mi compiaccio dell'amicizia che mi professa.

Visitai la Mander Cecchetti. L'anno passato temevo averla veduta per l'ultima volta. Fortunatamente, dopo un'operazione lunga, difficile, straziante, sopportata con rassegnazione e coraggio sublime, evangelico, ella può dirsi salvata.—Che cara donna! che dolcezza, che ingegno, che bontà! Ella risorride alla vita che stava per perdere. È grata a quanti si prestarono per lei, quasi non fosse un dovere, un bisogno per ognuno che la sapeva apprezzare! Che gusti semplici, che gaiezza infantile per le consolazioni che risultano dal cessare di spasimi atroci!… Come mi vergogno delle impazienze mie davanti a tanta virtù! Ecco ciò che fa grande veramente la donna—e il vederla tale, giova più che non giovino le dissertazioni delle più valenti emancipatrici. —La donna deve valersi in tutto e sempre della bontà, della grazia, dell'affetto; solo con tali armi potrà conquistare degnamente dei diritti che, ottenuti in modo diverso, gliene farebbero perder altri, di cui non sempre sa apprezzare l'importanza.

31 luglio 1875.—Vidi Giulio Tipaldo che da due anni non avevo più riveduto. Parmi persona stimabile per ogni rispetto. Nato e cresciuto in Grecia, è da pochi anni in Italia, eppure l'ama quasi come patria vera. Partì dalla Grecia per non entrare nella vita politica in cui volevano spingerlo il Re e gli amici suoi. L'anima sua nobilissima rifugge da quelle mene di partito che straziano la Grecia.—Egli, vero patriota, non vuol essere politico. Ama l'arte, e nell'arte sente che Grecî e Italiani sono fratelli pur tuttavia.—Mi è caro aver tradotto nella lingua nostra due sue poesie. Egli mi ringraziò per averle trovate nel volume de'miei versi.—Si parlò di tante cose:—con lui si possono toccare anche questioni alte, delicate.—Si parlò della vita futura, e mi colpì di lieta maraviglia l'udire ch' egli accetta, segue, direi, quella teoria ch'è il mio sogno e che mi farebbe credere l'anima umana abbia a trasmigrare in altri mondi superiori a questo, che la vita che qui incomincia dal polipo e termina nell'uomo, abbia altrove altri anelli di ricongiunzione. Il bene, la perfezione dev' essere il fine di tutto, e quando si pensa, si crede a ciò, si possono accettare serenamente sacrificî e dolori. Egli lo crede, e mi disse di due grandi scienziati francesi, che manifestarono in opere pregiate tale concetto. Se la scienza si unisse alla fede, il materialismo perderebbe ogni forza, ed io l'invoco per il bene di tutti!…

1 agosto 1875.—Questa mattina visitai la scuola di disegno applicata alle arti industriali, per gli operai. Era un invito cortese che mi fu caro accettare. Vuolsi, e non a torto, che l'istruzione nel popolo sia come un'arme a due tagli—giova o nuoce moralmente, socialmente, a seconda della morale dell' individuo.—Ma l'insegnamento del disegno che, addestrando la mano, ingentilisce l'anima, che quadra la mente, che dà la possibilità di meglio ammirare i nostri capolavori, non può fare che bene.—Le discussioni che può provocare saranno intorno ai meriti di una scuola o di un'altra.— Discussioni nobili, degne, educatrici!—E qui, trattandosi di artigiani che consacrano a tale studio le ore di libertà, che altrimenti impiegherebbero chi sa come, qui questo insegnamento è doppiamente utile, ed è giusto lodare, ringraziare coloro che vi si dedicano con cuore di padri e con intelletto d' artisti.—Una scuola simile lodai in Roma, e l'anno passato fui lieta di dare al Direttore di quella una lettera pel Direttore di questa.—Echert e Stella si conobbero e si apprezzarono tosto, come sogliono i buoni e valenti.—Di ritorno dalla scuola, visitai Guido che trovai bene; venni quindi verso casa e vi trovai il papà e mio fratello.— Quasi li aspettavo, ma mi fu gratissima visita, ed ora sono lieta di avere il papà (Eugenio partì) per qualche giorno tra noi.

3 agosto 1875.—È strano il senso che mi fa l'intendere entro l' armadio di questa stanza il rodere del tarlo che vi abita da quattro anni. Questo tarlo l'anno passato m'ispirò alcuni versi, e i sentimenti in essi espressi li provo ancora, li proverò ogni volta ascolti questo occulto rosicchiamento.

7 agosto 1875.—Ieri Guido finì gli esami e tornò in famiglia per passarvi l'autunno.—È tutto lieto, e n'ha ragione, chè meritò il premio. *Queste sono le consolazioni più sante che possa dare la vita, ed io le accetto come compenso ad ogni privazione, ad ogni dolore.— Trovarmi tra il papà e Guido, che non aveva riveduto da nove mesi, mi fece molto bene.*

Mi visitò Alberto Errera, uomo operoso, erudito, facile agli entusiasmi più nobili.—Ora è professore a Milano dove si trova bene; ma gli duole viver lontano dalla madre per la quale è sì affettuoso. Con me fu buon amico sempre.—Egli fondò qui varie utili istituzioni popolari, oggi fiorenti.—Scrisse pagine, libri degni d'encomio, ed ora pubblicherà Daniele Manin, opera storica dettata dal cuore. Possa avere le soddisfazioni che merita!

Domenica, 8 agosto 1875.—Arnaldo andò a Chioggia con Guido che deve farvi con altri delle esercitazioni ginnastiche. —Ricondurranno la Teresita.—Fui stamani col buon Maffei ad ascoltare un bel discorso del professor Galanti intorno alle opere del Tintoretto.—Il Galanti è accurato, coscienzioso, limpido ne'suoi scritti. Lo accusano di poco calore d'affetto—è affetto temperato il suo; rifugge dalle esagerazioni oggi di moda. A me pare tratti lo studio come un sacerdozio, e quanto fa gli costa assai. Egli aiuta grandemente l'ingegno coi sussidî che derivano dalla scienza, dalle lettere e dall'arte. Questo discorso sarebbe piaciuto più se avesse potuto dirlo con voce più gagliarda, con vivacità maggiore. Ad ogni modo piacque assai ai più intelligenti.

Fui quindi a fare alcune visite.—Ricordo con piacere quella alla Pascolato, cara donnina piena di buon senso e di grazia.—L'ospitai a Firenze nella sua luna di miele. Era raggiante di speranzosa gaiezza.—*Suo marito ha egregie qualità d'ingegno e d'animo. È uno dei migliori cittadini e avvocati di Venezia, ed uno dei nostri amici più cari. Rammento che un dì pensavo a stabilirmi in questa città, e, purchè mi avessero offerta una condizione conveniente nella carriera che intrapresi, ci sarei forse rimasta. Ne chiesi consiglio a Pascolato che me ne distolse… Io che qui non ho a dolermi di nulla e di nessuno, giudico spassionatamente; ma se non fossi donna, o se fossi almeno in condizione diversa e con più gagliardo ingegno, vorrei per carità cittadina invocare la gran musa Pariniana per iscuotere questa gente che pure, volendo, potrebbe tanto!*

10 agosto 1875.—Il Comitato Ariosteo mi mandò la medaglia coniata pel Centenario del sommo poeta dal Ministro della Pubblica Istruzione.—È un dono procuratomi dai pochi versi fatti per tale occasione e che ebbero fortuna maggiore assai del merito.

Ho scritto una saffica per gli ottimi Coletti, ispiratami da una lettera di lui, in cui dicevami di aver portato alla tomba del suo figliuolo alcuni fiori del mio giardino paterno. Da quel giardino quanti ne avevo colti per quei buoni amici in ben più liete occasioni!… Scrissi cosa semplice, modesta, ma sentita e che perciò non sarà discara a quei derelitti.

12 agosto 1875.—Visitai con Fambri e con Arnaldo le carceri femminili alla Giudecca.—Per poco che si senta e pensi, tali visite producono sensazioni profonde. Le recluse sono 231—una metà delle Provincie meridionali, l' altra delle rimanenti Provincie d' Italia.—Strana, ma eloquente prova della potenza dell' educazione, della civiltà sulla morale!… Forse si potrà dire che in paesi e classi più educate i reati si commettono con tanta astuzia da deludere il Codice penale. E talvolta è vero—l' ipocrisia e la destrezza che derivano dalla conoscenza di ogni fina arte sociale, possono nascondere, falsare, assolvere anche, ma i delitti di sangue almeno non restano di sovente e a lungo impuniti; e tra le carcerate napoletane e siciliane molte ne sono ree…. Una donna che uccide!… Parecchie condannate per infanticidio!—Con quanta maggiore giustizia si sarebbero dovuti condannare coloro che trassero alla colpa le donne illuse, ignare, innamorate così da obliare sè stesse!… quelle poverette che nei dolori della maternità avrebbero dovutò avere l' espiazione, l' assoluzione d' un istante d' abbandono che ai loro complici nulla è costato!…

Tutte le carcerate sono guardate, custodite, ammaestrate da solo 18 suore della Carità. Non c'è altro personale nella carcere vastissima, non c'è altra forza che la morale, altra arme che il Crocifisso. Queste 231 donne, omicide, ladrè, colpevoli tutte, e in gran parte robuste, si trovano libere nell'interno della carcere— e si piegano come bambine alle 18 pietose che tentano renderle attive e buone. È uno spettacolo edificante. —Mi assicurò la madre superiora, donna intelligente ed amabile, che mai vi ebbe un attentato contro la disciplina—che le segrete stanno per anni vuote—che tutto si fa con ordine costante.—Lavorano, fanno il bucato, attendono all'orto e alla cucina per turno, e sempre guidate da una delle suore.—Dal loro lavoro si ricava quel tanto che occorre al mantenimento di tutte, ai riattamenti del locale, alle biancherie, alle vesti, ecc., ecc., poichè il Governo dà soli 80 centesimi al giorno per ogni detenuta, e le suore non hanno stipendio di sorta.—Esse tengono anche l'amministrazione e in buon ordine. Queste pie che troviamo nelle careeri, negli ospedali, sui campi di battaglia, da chi potrebbero essere sostituite?… Rispondano coloro che di mala voglia le tollerano negli ufficî pietosi…. Perchè giudicare di tutto sistematicamente? Conviene che dalla società nostra escano donne anche migliori di queste, per poter dire: di queste non abbisognamo!…—*Alla superiora che mi rispondeva doversi compiangere le condannate, benchè abbiano vitto e lavoro in comune e siano trattate relativamente bene, non fosse altro perchè più non hanno la libertà, io soggiunsi: «Ma voi pure, o Madre, voi tutte sottoponete la vostra alla volontà altrui; vivete con loro, per loro, non siete libere mai, eppure siete non solo incolpevoli, ma purissime.» —«Ma noi» risposemi ella «è per volontà che perdiamo la libertà nostra. Noi possiamo sciogliere e rinnovare i voti ogni anno, noi crediamo di avere una missione da compiere.» Che rispondere?… Il mondo non vuol suore; ma la società odierna consentirebbe un marito, una famiglia, un pane sicuro, una vita tranquilla a queste che nulla chiedono a nessuno e tutto fanno per carità?… Le troppe fanciulle che non trovano marito perchè prive di dote, le troppe donne perdute dalla miseria, rispondano.—Io non so che cosa s'abbia a fare per correggere, per migliorare: ma guardo, penso…. e non vorrei si distruggesse ciò che giova ai miseri!*

13 agosto 1875.—*Gino mi scrive da Sesto Calende. Fece una marcia di 32 chilometri.—Fatica allegramente. e pare che nè i disagi nè il caldo gli danneggino la salute. —È una grande fortuna!… Conta di chiedere il permesso di un giorno per visitare il Cairoli a Belgirate. —Sono tanti anni che gli avevamo promesso una nostra visita—si abbia almeno quella del nostro figliuolo.*

18 agosto 1875.—Ho assistito al Saggio dell'asilo infantile di S. Marziale, diretto dalla signora Veruda. —È gratuito—vi si accolgono bambini e bambine poverissime, eppure sembrano intelligenti e fecero molti progressi. Vi ha qualche neo, ma vi ha molto buono. Fu cosa commovente e cara a tutti. Queste sono le feste migliori.

19 agosto 1875.—Voglio riscrivere al povero Alessandro Lampugnani, che è fieramente malato. Egli si ritirò dall'amministrazione e dalla redazione di quei giornali che per lunghi anni furono suoi e di cui fu l'anima.—È il più antico in questo genere di giornalisti: ed è triste vederlo finire la sua carriera così miseramente. —Lavorò con costanza indefessa, propugnò buone idee, pagò i suoi collaboratori onestamente (lo dico, conscia che Arnaldo potè lodarsene sempre anche da questo lato) e spesso argutamente canzonava le esagerazioni di quella moda, ch'egli stesso era obbligato a diffondere. Ricorderò sempre la grata, la festosa impressione che ricevetti dal vedere per la prima volta i suoi giornali.—Era nel 52. Avevo conosciuto appena Arnaldo, il quale mi propose di dare qualche mio piccolo componimentino poetico a quei giornaletti—e quasi per eccitarmi a ciò, mi fece spedire la Ricamatrice e le Ore casalinghe.—C'erano bei disegni per ricami, bei fiori, belle immagini. Nella modesta mia solitudine nulla avevo veduto mai di simile—fu proprio una festa! Fu su quei fogli che si stamparono infatti i primi miei versi—e quei fogli settimanali e bimensili non mi mancarono d'allora mai più; mi seguirono nei varî soggiorni, mi narrarono cose care, mi portarono liete e meste canzoni d'amici; mi giunsero per più di ventidue anni come il saluto cordiale di un memore e fido amico.—Da un mese non li vedo più—da un mese il povero Lampugnani è come morto per le sue antiche pubblicazioni. Quanta tristezza proverà anche da questo, egli che si ritirò quasi povero da un lavoro che, per meno leali, sarebbe stato una larga speculazione!… È un uomo un po'originale—lo vidi solo una volta a Milano da gran tempo—ma con me fu buono (e credo sia stato tale con tutti); anzi l'affetto, la stima che mi mostrò crebbero sempre.—Gli sono grata delle care impressioni, che gli ho dovuto fino dalla mesta mia giovinezza, gli sono grata di tutto, anche di questo dolore che adesso m'ispira, e che mi prova almeno che pure nell'anima mia vi ha la riconoscenza e l'affetto leale.—Vorrei potere alcuna cosa per lui.—Ma se non altro gli posso scrivere. Chi sa quanti pochi lo faranno!… Temo sia prossimo alla fine: con vigoria fisica non avrebbe accettato questo sacrificio…. dev'essere esausto. Possa trovar pace!

22 agosto 1875.—*Gino mi scrive dal campo presso Somma. Dice di star bene, ma si capisce che è un po' stanco di una vita sì disagiata. Dorme sotto tende anguste e basse, e con altri cinque compagni!… Io ne morrei! Egli è giovane e robusto, ma temo per lui. Oh finisca presto questa sua aspra prova!*—Ho assistito al saggio del Giardino Fröbeliano del prof. Pick. Il sistema, e chi nol sa? è eccellente, ma però non si può svilupparlo a sufficienza, e parmi vi sia gelosia, invidia, gare meschine anche fra i pochi Asili o Giardini che esistono in città.—Sempre così da noi! Chi ha torto? chi ha ragione?… Tutti hanno e l'uno e l'altra, ma nessuno intende abbastanza che sul terreno dell'educazione bisognerebbe far sparire l'io davanti al principio, all'interesse dei più.

31 agosto 1875.—Si riparte per Padova.—* Il povero zio torna solo e se ne affligge.—Rammento avvenimenti per me solenni, ne'quali presi parte cordiale.—Rammento la povera moglie sua, e mi duole che egli sia ora così deserto d'affetto, e con l'infermità d'occhi costretto a bastare a sè stesso!… *Rividi con lui la Mander.—Non feci visite a grandi dame, cui forse le avrei dovute, non accettai inviti cospicui, ma non volli partire senza risalutare questa poveretta che ha tanto patito, che meritò tanto e che Dio ci ha, per così dire, ridonato.

Padora, 2 settembre 1875.—Sono qui fra tanti miei cari ed ho passato qualche mezz'ora, sola, nel nostro giardino.—Mi pareva rivedervi Enrico, l'Emma, la povera Mamma!… Guido è partito pel Congresso ginnastico di Treviso. Quanto era lieto! Che indole gaia e serena!…

Rividi Cesare Sorgato.—Bella intelligenza, anima leale, modesta, intemerata.—Operosissimo e pieno di sapere, campa a stento colla sua famiglia col frutto d'un lavoro costante. Ricordo che, ventidue anni sono, venne per la prima volta da noi per cercare del papà, cui lo univa uguale amore alle piante, ai fiori.—Venne con in mano un giglio dal lungo stelo, e a noi, ragazzini, parve una specie di Sant'Antonio.—Era giovanetto anch'esso, un poimpacciato, ma simpatico per una cert' aria di schiettezza primitiva.—D' allora si divenne amici. Si sta degli anni senza vedersi, senza scriversi; poi, quando ci si rivede, ci si trova sempre uguali.—Ha moglie e figli.—Conosciuto da una cerchia ristretta, apprezzato da pochi quanto merita, giova, gioverà sempre e assai a moltissimi giovani, nè questi forse intenderanno, ricorderanno quanto gli devono!—E il meglio si è ch'egli di nulla si vanta, perchè sa di fare solo il proprio dovere.—Ma lo fa intero. Quanti pochi lo imitano!

4 settembre 1875.—Sul punto di partire per Schio, mi giunse da Roma la triste novella della morte della povera Emilia Gould. (1) Arnaldo trovò fra le carte i materiali che l'Erminia aveva raccolti per iscrivere la biografia di questa egregia donna.

Fu una delle prime conoscenze che feci a Roma.—Americana, evangelista, d'animo elevato, di carattere forte, d'intelligenza vivace, di sapere svariato e in certe materie profondo, era una individualità spiccata e benefica. Ella lasciava ogni agiatezza e pompa e diletto mondano, per amore delle proprie scuole, di quelle scuole Italo-americane che a spese proprie e degli amici suo, aveva inaugurate appena si liberò Roma, e seppe far progredire tanto, sebbene tra guerre di partito e difficoltà economiche incessanti. Ella non sarebbe forse morta i ove si fosse curata meglio e prima, ove la fatica fosse stata minore, ove Governo e Municipio l'avessero assistita in qualche modo, per tener viva una istituzione che ormai formava parte della sua vita e che le vicende bancarie di America, da cui ne traeva il sostentamento, le rendevano ormai troppo arduo il mantenere.—La vidi per l'ultima volta in casa mia a Roma sulla metà circa del giugno decorso—fu l'ultima visita che potè fare.—* Poche ore dopo si gittava in letto, di dove non usciva che per recarsi a Perugia, ove sperava ritrovar salute, e ritrovò quella pace che oramai era la sola a lei possibile in terra. *—Ha fatto del gran bene. Aveva una morale profonda, ben poco comune fra noi! —Io la benedico dal fondo dell'anima per le opere pietose che compì a pro'dei poveri fanciulli nostri italiani. Vorrei il suo spirito mi alegiasse d'intorno, per vedere che io sento, ch'io scrivo di Lei che mi amò e per cui nulla potei fare…. Sia lode, pace, benedizione a Lei!

Padova, la sera del 6 settembre 1875.—Abbiamo passato la giornata a Vicenza, dove anche Guido, reduce da Treviso, ci aspettava, presso l'ottimo cugino Maddalozzo. —Ottimo veramente! ed io gli debbo assai per l'amore con cui scrisse di me e delle cose mie, per la indulgenza de'suoi giudizî. Lo rammento giovane assai e so fra quante angustie passò la sua giovinezza. Ri cordo che mi narrò come un dì in Firenze si fosse determinato a chiedere un posto di guardiano nel Palazzo Pitti, per non mancare di pane e non gettarsi in Arno.—Un suo professore in quel punto lo incontrò, seppe in quali condizioni era, e lo propose come direttore d'una farmacia a due suoi fratelli. Ma tra le cure dell'ingrato ufficio, studiava pur sempre e scriveva cose veramente lodabili, come la biografia di Dante Alighieri, che caramente rammento.—Poi fu professore a Potenza, poi lasciò l' insegnamento per seguire nel 1866 Garibaldi.—Finita la guerra, ottenne la nomina di professore nell' Istituto Professionale di Vicenza, dove si acquistò la stima e l'affetto dei migliori. Ora ha moglie e due angiolette. Lo ammiro per l'ingegno e la coltura, ma più ancora pel suo cuore di marito e di padre.

Schio, 8 settembre 1875.—* Il papà è ospite di A… che rividi con piacere, singolarmente perchè mi si mostrò affettuoso e memore di quel passato in cui si visse insieme a Castelfranco. Quante cose egli col solo aspetto mi ricordò!… E le memorie quasi sempre fan piangere, chè se sono di cose liete, duole queste cose sieno passate; se di tristi, se ne rinnova il dolore. Oh gli anni scorsi a Castelfranco!—A… parmi abbastanza contento della condizione propria. Ne godo, chè gli serbo affetto e mi dispiaceva che languisse la nostra relazione. Rammento la prima sera in cui giunsi sposa a Castelfranco.—Rammento ch'era d'agosto, ed egli passava le vacanze del seminario presso la povera Colonna.—Lo chiamai el tosetto (1) Il fanciullino., e mi piaceva vederlo servigevole e amoroso colla famiglia.—Poi la carriera ecclesiastica non gli piacque.—Chi avrebbe potuto onestamente forzarlo a seguirla? Non io.—Si fece quanto si potè perchè facesse invece gli studî universitarî. Vi riescì.—Il papà l'ospitò in Padova secondando il mio desiderio, ed egli passava qualche ora con la povera Emma, con la povera mamma. —Dottore in medicina, sposata la figlia dell'amico nostro carissimo L…, andò medico a Schio ove ebbe i suoi tre bambini, ed è amato e stimato e vive contento.— Ne fui lieta, e fui lieta pure che il papà ne accettasse l'ospitalità, che si riannodassero antiche affezioni: la vita non ha nulla di migliore. *—Visitai le principali fabbriche del Rossi in Schio e fuori. Quanta operosità e quale potenza d' iniziativa in quest'uomo ammirabile!… Il suo ingegno, che pure si eleva alle sublimi regioni dell'arte, è pratico e positivo così che niuna delle molte imprese gli andò fallita. Questi paesi, Schio, Torre, Piovene, per lui sono sorti a nuova vita. Scuole, casse di risparmio, società di mutuo soccorso, sono tutte opere sue già prosperose. Eppure ha dei malevoli molti, degli invidiosi implacabili. Egli è superiore alle piccole guerre di partiti meschini; pure avrà dei momenti dolorosi!… Meno male che allora può ripensare al molto bene che fa, può riposare in seno alla propria famiglia ch'è degna di lui!…

*Padova, 10 settembre 1857.—Dopo sette anni rividi il dottor Del Vesco, questo bravo medico che tante volte fu al mio letto a Castelfranco durante le mie sofferenze. È un patriarca della scienza e della famiglia.—Ha lavorato sempre, ed è povero sempre. Eppure è lieto, o per meglio dire sereno per consuetudine, e pare si sia avvezzato a contentarsi di quel pane quotidiano che con tanta fede domanda a quel Padre che è nei cieli, pei figli e per sè.—Egli amò dalla culla i miei figli, e fu buono paternamente per Guido che spesso tenne seco in campagna.—Cose di un'altra età tutte ma che mi parvero d'oggi, quando lo rividi.—Chi sa se lo rivedrò ancora?… Sia ciò che Dio vuole!… Intanto mi fu una consolazione stringergli la destra e vedere che mi vuol bene ancora—poichè è ben dolce serbarsi l'affetto di antichi e venerati amici!*

11 settembre 1875, ore 11 di sera.—Ho bisogno grande di remaner sola con me.—Ho tanti affetti e pensieri che mi agitano all'idea di ripartire da questi luoghi, di tornare a Firenze dove passai giorni sì mesti, dove ancora dovremo occuparci di affari disgustosi…. E dappertutto ricordi di assenti e di cari estinti, e sempre il timore di non più rivedere i diletti che si lasciano.

Tutto ciò che osservo mi pare strano.—Veggo, odo certe cose che mi stupiscono, e dubito del mio giudizio, che potrebbe essere troppo severo, nè so, nè posso trovarne uno di spassionato, sicuro.—Intanto i bisogni varî della famigia m'incalzano.—C'è molto da fare, da provvedere, da sistemare per far progredire questa povera navicella che vorrei condurre al porto. —Così le necessità pratiche della vita forse mi sono utili, perchè mi tolgono a meditazioni affannose.— —Vedere bene istruita e poi bene collocata mia figlia, avviare ad una professione onorata e proficua i figliuoli, assicurare una florida esistenza a quest'altra diletta mia figlia, la scuola, e poi ritirarmi da tutto per finire, se è possibile, senza nuove contrarietà e nuove lotte, la vita nei tranquilli silenzî d'una campagna, ecco ciò solo cui posso, e debbo aspirare!…

Quanti dolori mi veggo d'intorno!… Delle mie conoscenti prime chi resta? chi è relativamente felice? Forse la S… la più mite e modesta.—Che insegna, mento!

Per credere alla felicità altrui, gioverebbe guardare tutto superficialmente.—L'osservazione profonda manifestandoci invece miserie, che a prima vista non si rivelano, ei dà argomento a confronti che dovrebbero. farci riconoscere anche i beni della nostra condizione. —Ciò tento di fare, ma non sempre vi riesco.—Eppure soltanto per via dei confronti si può giudicare se i beni superano i mali per noi stessi.—Senonchè sorge la questione della diversità di sentire, di vedere, di pensare.—Ciò che può affliggere me, non turberebbe un istante altri. E sembra che ci vorrebbe sì poco a farci contenti! Sembra a me, ma sarebbe?… Povera umanità!…

13 settembre 1875.—Arrivò oggi improvvisamente il mio Gino con un permesso di pochi giorni… Erano insieme tutti e tre i miei figliuoli, che si amano e confido si ameranno sempre così.—Oggi al vedermeli accanto col loro padre che li accarezzava, obliai ogni amarezza e sentii che si può essere felici estrinsecamente, proprio della felicità di coloro che più ci son cari.

Domani lasceremo Padova e il Veneto, ed è una partenza sempre mesta.—Povero papà mio!

Firenze, 15 settembre 1875.—*Ieri alla stazione di Rovigo vidi le mie due sorelle. Potei scambiare poche parole, ma mi fu caro assai poterle salutare. Vidi a quella stazione altri miei cari, e C. R., che considero come di famiglia per l'interessamento fraterno che mi dimostra. *Il viaggio fu felice.—Giunti qui alle 9 1/2, avremmo potuto godere dello stupendo spettacolo della illuminazione fatta per le feste Michelangiolesche, ove per l'incuria di un incaricato non ci si fosse trovati senza casa a quell' ora e in un giorno in cui Firenze riboccava di forestieri.—Dovetti starmene due ore in un caffè coi figli e coi bagagli, mentre il povero Arnaldo correva in cerca d' un alloggio per quella notte. Finalmente lo si trovò, ci strozzarono nel prezzo; ma, grazie a Dio, si potè riposare. *Invitati alle feste, con molti amici che ci offrivan la casa, non si godette di nulla e per poco non si rimase senza tetto! Quante cose strane succedono, e come la trascuranza di uno può danneggiare molti!*

Firenze, 23 settembre 1875.—Fui tutti questi dì malata e sono tuttavia sofferente.—Questa mancanza di vigore fisico è una gran pena.—Toglie di fare, di godere tante cose!… Rammento che un tempo, quando vivevo d' una vita tutta e solo di famiglia, trovandomi malata dissi fra me e me:—È meno male che sia a letto io che altri obbligati al lavoro.—Ma adesso io pure dovrei lavorare!… ed ho pensieri gravi e non posso fare neppure quegli studî che vorrei, per non essere impari alla condizione mia.—Coraggio e avanti! tutto finisce, e i patimenti di quaggiù non sarebbero vani per chi li sapesse sopportare degnamente. Io troppo spesso non lo so!…

*Firenze, 24 settembre 1875.—Mi visitò il M… intelligenza vasta, indole vigorosa, cuore schietto, appassionato. Gli eventi e le convinzioni lo resero repubblicano, ed ora la sua tinta politica (come dicono) gli vieta di avere, come di accettare, un ufficio governativo. Altri non gli si offersero, talchè trovasi con la famiglia nelle più dure condizioni economiche. Intanto è preoccupato dalle contrarietà incessanti, dalle difficoltà insormontabili; non può fare quanto l'ingegno e il sapere gli consentirebbero, ed è danno grande per esso e per tutti. Ne sono afflitta e per il bene che non può fare e per ciò cui potrebbe indurlo lo sdegno contro una sorte che chi potrebbe non vuole mitigare. Cose basse, indegne non può farne—ma potrebbe nuocere con l'imprecazione tremenda contro fatti e persone… E la buona sua moglie è malata!—Povera famiglia!*

*27 settembre 1875.—G. Gh… parte pel Cairo ove fida trovar fortuna come avvocato e professor di lettere.—Parmi ardimento grande.—Ha ingegno potente e dottrina molta. Ma è strano e non fermo nei propositi suoi. Vede spesso uomini e cose dal lato peggiore, e tali li dipinge, facendosi così dei nemici, o almeno non facendosi amici.—Per vivere un dì da signore si condanna a vivere da miserabile un mese.— Lavora una settimana di giorno e di notte e ne passa poi dieci nell'inerzia.—Strana natura!—Se la fortuna gli arriderà, diranno che sono stravaganze da perdonarsi all' ingegno, altrimenti avrà il biasimo di tutti e la compassione di pochi. Tale è il mondo. Io lo compiango perchè è veramente buono, e compiango la madre sua che l' ama di un amore infinito.—Povera donna che rinunzia ora a vederlo perchè non si sente la forza di ridirgli addio!…*

31 settembre 1875.—Rinunzio al pensiero di assistere alla inaugurazione del Collegio-Convitto d'Assisi, e perchè i medici me lo consigliano, e perchè veramente temerei esacerbare la tosse che tuttavia mi molesta.— Povera la mia salute, che mi obbliga a privazioni incessanti, eppure insufficienti a rinvigorirla!… Volevo vedere quella bella chiesa di S. Francesco a me ignota—volevo dire da me i versi che feci per questa occasione. *Ero invitata così cortesemente, avrei avuto l'opportunità di viaggiare come una regina, e facevo la strada che ad ogni modo debbo fare per recarmi a Roma. Pazienza! i miei versi * li dirà invece il sig. Franchetti, che gentilmente mi si offerse.—Tentai significare che le istituzioni si trasformano, ma che (quando lo scopo è buono) il sentimento è sempre lo stesso. Ogni età ha il proprio còmpito, ma non dobbiamo sconoscere la virtù del passato, chè il passato preparò il presente. Tramutando in iscuole i conventi, parmi non siavi profanazione di sorta, parmi le anime de' frati antichi debbano benedire le nuove generazioni che ricoverano in qualche modo sotto a' loro auspicî.—Amore leghi il passato al presente e all'avvenire!

Roma, 28 ottobre 1875.—Venuta qui, stetti quindici giorni imprigionata in casa. Domenica, essendo giornata mitissima, mi permisi il lusso e lo spasso di fare una trottata alla Villa Borghese e al Pincio con Arnaldo e coi figli.—Come torna grato rivedere la bella, la lieta natura dopo qualche sofferenza! Che cara impressione se ne riporta, e come ci si ripensa nella solitudine delle notti insonni!… Oh! i campi verdi, il cielo sereno, i fiori, i colli, il sole, le fontane, gli augelli!… E vogliono fare dei templi a quel Dio che creò tutto questo!… Tutto questo è suo tempio!—Ora bisognerebbe mi preparassi dal fondo dell'anima per le mie lezioni di morale.—Bisogna disporsi alla bontà, bisogna esercitarla sempre, per poter ispirarla altrui. Ed io talvolta m'inquieto, mi sdegno, mi lascio trasportare senza riflettere, e ciò è male, e tutto in me non è buono.— Dio voglia che possa divenirlo!

Ieri il mio Guido è partito; mi occupai tutto il dì per superare la mia tristezza, ma questa pena non cesserà finchè egli non torni—e più la sentirò, quando sarò sola. *Povero figlio mio!… Ch'io possa trovar forza di proseguire, forza d'animo e di corpo, chè talvolta mi sento rifinita.—Oh la vita!… Speriamo sia preparazione ad esistenza più serena!…*

2 novembre 1875.—* Guido è oramai rientrato nel collegio, ed egli e noi abbiamo superato il primo dolore del distacco.—Le sue nuove sono ottime, e questo è conforto grande. Oramai le occupazioni mie sono tante che le giornate mi paiono brevi, e solo nelle ore della sera e della notte ripenso alle cose mie più intime e care. L'altro giorno feci una passeggiata nella bella Villa Borghese con gli ottimi Pignetti. Si parla quasi sempre della nostra scuola e dico nostra perchè è con l'aiuto indefesso di questo egregio amico che ho potuto crearla.—Ieri visitai la casa Ribighini.—Amalia non v'era, ma vi trovai la sorella, eccellente pianista, e le due vecchie zie. Amalia e la sua sorella mantengono la famiglia con l'opera loro—povere e buone ragazze! Amalia da alcun tempo mi pareva afflitta e sofferente. —Perciò io che non esco mai, che non faccio mai visite, volli darle una prova d'interessamento che non le sarà forse discara.—Bramo tanto renderla contenta in quanto posso! Ella e la Muller, la mia cara Muller, mi furono allieve, ora mi sono assistenti, e m'è ben dolce l' averle meco!… *L'altro giorno ho assistito alla premiazione degli Asili Infantili Israelitici—cerimonia sempre cara, ma che, trattandosi d'Israeliti, e qui in Roma, pareva quasi strana.—Oh! la tolleranza, la vera fratellanza, l'amore comune alla comune istruzione, che cosa santa e bella! E si voleva far credere che Iddio, il padre di tutti, potesse condannare chi non l'adorasse in un dato modo, benchè buono di cuore, benchè santo nelle opere!… Oh quanto questa età è più felice delle passate!

3 dicembre 1875.—Vidi oggi, dopo quasi un anno, quella santa donna della Schwabe.—Parlandomi della questione della religione, mi disse: Io adoro la fede di Abramo, la saggezza di Mosè e l'amore del Cristo— ecco la mia Trinità.—Se in ogni città nostra vi fosse una di queste donne così operose nel bene, l'Italia sarebbe moralmente redenta. Mi vergogno del poco che facciamo per aiutarla in ciò ch'ella fa per noi.—Quanto siamo da meno di Lei!

Domenica, 19 dicembre 1875.—Oggi fui alla inaugurazione della esposizione dei lavori d'ago e di matita delle Scuole Comunali in Campidoglio. C'è qualche cosa pure della nostra scuola, e l'albo dei componimenti e quello dei campioni dei lavori femminili e alcuni disegni ci fanno onore.

* La Principessa Margherita, giunta presso la nostra mostra, mi cercò cogli occhi, e poichè me le avvicinai, mi rivolse cortesi parole. Le sue dame d'onore vollero conoscermi e il prefetto Gadda fece cortesemente e con molto buon garbo la presentazione.—Infine ebbi molte prove di benevolenza e di stima.

La Principessa già mi aveva invitata a visitarla il 12, e ci fui, e tenni con lei lunga, intima. importante conversazione; si trattò di varî argomenti d'interesse attuale, e mostrò senno e cuore e promise di venire, e venne ad assistere alla bella conferenza che il prof. Belviglieri, aderendo alle mie preghiere, diede a beneficio del Collegio Convitto di Assisi.—Trattò di Cesare Balbo e piacque a buon dritto. *

24 dicembre 1875.—Oggi vollero festeggiare il mio onomastico. Fu una festa improvvisata dalle allieve, dalle loro famiglie, dalle maestre.—La nostra gran sala, alle 12, era piena zeppa di bambine e signore.—Tutte le Ispettrici, tutti gli insegnanti, le madri, le allieve. —Queste mi cantarono un coro scritto per me dal maestro d'Este. C'erano centinaia di mazzi di fiori stupendi. Pareva una splendida primavera!… *Mi dissero cose ben care. Risposi commossa.—Ci sono delle manifestazioni d'affetto che compensano di tanti dolori, di tante fatiche, di tante privazioni!… E forse per quelle fanciulle non è vano l'espandere così un sentimento gentile. —Penso a ciò per sentir meno il timore di non avere abbastanza cercato di evitare questa dimostrazione. Ma veramente l'avevo cercata? *Questa giornata m'affaticò per le emozioni soavi ma profonde—visite, lettere, versi, una processione, un caos!—ma ne serberò cara ricordanza!…

1 gennaio 1876.—È con noi l'ottimo Tonoli, che riguardo come il secondo padre di Guido mio.—Quanto mi è grato l'averlo qui!—L'anno incomincia meno triste per me—proprio per me non potrebbe essere veramente lieto.—Ma anche l'altrui letizia può essermi cara.

10 gennaio 1876.—Il 6 ebbe luogo la premiazione delle nostre allieve.—La cerimonia andò bene—il breve discorso che lessi ebbe più lodi che non ne potessi mai sperare.—La Principessa assistè alla cerimonia e appuntò le medaglie alle premiate. Fu cortese oltre ogni dire.

Eppure non so se questa pubblicità, questo abbondare ne' premî giovi veramente alle giovanette. Si desta un'emulazione forse soverchia, qualche invidia, qualche dispetto, qualche vanità… e si mortifica troppo quelle che non possono primeggiare. Questo più che tutto mi dà pena. Voglio pensarci sopra per l'anno venturo. (1) Sul finire dell'anno aveva deciso di abolire la solennità della premiazione.

*12 gennaio 1876.—Guido ci diede una prova dell'ottimo suo cuore. Avendo ottenuto il premio per condotta e profitto, il Rettore mise a sua disposizione 60 lire che dovevano servirgli per comperarsi un oggetto che gli fosse piaciuto. Egli volle dedicarle a noi e le diede in acconto delle sue spese trimestrali all'economo. —Questo tratto di generosità spontanea ce lo significò con parole sì affettuose da renderlo più caro. Risposi che avrei messo da parte quella somma per fare una gita campestre con lui e co'suoi fratelli.*—

20 gennaio 1876.—Lampugnani è morto.—Ne lessi a caso un breve annunzio in un giornale.—Passò senza che il mondo vi ponesse mente. Lavorarono per le sue pubblicazioni: Dall'Ongaro, Gazzoletti, Nievo, Ciconi ed altri che più non sono.—Belle anime, ingegni eletti. —Patì molto per la salute e per una concorrenza ingenerosa del giornalismo. Egli non era ciarlatano e dovette rimaner vinto per ciò nella lotta.—Ora riposa!… Io che lo conobbi di persona appena, io lo ricordo e lo compiango, mentre tanti l'obliano, mentre nessuno gli rende quell'onore che pure meritava. Povero Alessandro Lampugnani!

4 febbraio 1876.—Arrivarono mio padre, lo zio Tommaso ed Eugenio. La loro vista mi rallegrò e sono lieta di averli qui per qualche settimana.

22 febbraio 1876, ore 10 di sera.—Or ora partirono per Firenze i tre cari ospiti nostri.—Eugenio si fermerà a Firenze per attendere ai nostri interessi; il papà e lo zio andranno a Padova direttamente.—Caro papà! alla sera rimaneva qui in questo stanzino, presso il fuoco che facevo accendere per lui.—Ora mi sembrerà di vederlo qui sovente, d'intenderne le parole spesso scherzevoli e argute, affettuose sempre per me. *Povero papà! Lo accompagno col pensiero nel viaggio che spero gli sarà felice.

Ieri fui alla villa Pamphili Doria co'miei. Che splendore di natura! Ne portai lieta ricordanza, e quando per giorni e giorni dovrò rimanermene qui rinchiusa e non lieta, ritornerò con l'immaginazione a quel luogo di delizie.*

23 febbraio 1876.—Ho assistito alla Messalina del Cossa. Vi si scorge l'ingegno potente dell' Autore anche nella forma, nel verso ammirabile, ma duolmi, per il senso morale, che si mettano sulla scena certi personaggi, certi fatti.—Come non amerei mi mettessero davanti dei dipinti rappresentanti mostruosità fisiche, così non vorrei che l'ingegno si adoperasse per rappresentarcene delle morali, che già è troppo abbiano veramente esistito.—Forse avrò torto, ma così mi pare.

27 febbraio 1876.—Andai dal Ministro Bonghi convalescente, per fargli una raccomandazione a favore di… Fu cortese, ma ci conosciamo sì poco, che non posso pretendere alcuna cordialità.—È uomo di alto ingegno e di vasta dottrina.—Lo dicono, ma io non lo credo, ambizioso ed appassionato. Certo è energico ed operosissimo. —Forse in tali ufficî, per reggervi, è ormai d'uopo esser tali.

6 marzo 1876.—Incominciarono oggi gli esami della metà dell'anno scolastico, per le nostre allieve.—Oggi si aprì dal Re il Parlamento ed ho assistito a questa solennità nazionale, che non ha più l'entusiasmo dei primi tempi. Peccato! Guai per noi se anche il sentimento di patria languisse! Che resterebbe?

Ebbi improvvisa la nomina di Presidentessa del Comitato di Signore per la Lega dell'Istruzione popolare. —È un onore poco meritato per la mia dottrina.

12 marzo 1876.—Gli esami procedono abbastanza bene, e la Scuola anch'essa, ma ho a lottare con ostacoli grandi, devo superare influenze funeste!—Alessandro Rossi scrisse sull'Albo della scuola: «Coraggio, Erminia!» e veramente ne ho bisogno, e ne avrò!

La Principessa di Piemonte, venuta anche oggi alla Conferenza, mi disse d'aver letto il mio lavoro su Laura e di averlo trovato buono.—E aggiunse: «Solo una donna poteva scrivere tali cose, e sono lieta le abbia scritte Lei.»—E perchè io le spiegavo le ragioni che mi avevano persuaso a giudicare Laura onesta sempre e nobilissima nel suo amore, finì col dirmi: «Ha fatto bene! Credo che la storia non le possa dar torto; ma in ogni caso Ella avrebbe ragione ugualmente di aver tenuto alto il prestigio di tanta virtù, di averci serbato questo ideale purissimo, ora che tutto si vorrebbe gittare nel fango.»

14 marzo 1876.—Fui alla inaugurazione della grande Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele, e vi trovai molti conoscenti.—Bello e, più che bello, dotto il discorso del Bonghi. Disse molte verità scientifiche e filosofiche.— Ove fosse stato un po'più breve e la voce e l'arte dell'oratore avessero meglio piaciuto, il discorso avrebbe destato entusiasmo.—Il Bonghi ha fatto in breve tempo molte grandi ed utili cose.—La riforma dell'Università di Napoli, l'Istituto d'Assisi, questa Biblioteca, ecc., ecc. Forse tutto non sarà perfetto: ma potrebbesi trovare la perfezione nelle opere tutte d'un uomo operoso, quando son tali? Io non so perchè, senza conoscerlo di persona, non avevo per l'ingegno di lui quella benevolenza che certo si meritava.—Perciò mi piace rendergli onore entro me stessa. Domani non sarà forse più ministro, perchè è uso che se cade un ministro debbano cader tutti, anche quelli che non entrano punto nella questione. Sarà pur questo effetto di quella che chiamano disciplina di partito. Quante contradizioni!… Io penso al paese, e mi domando: Che uscirà da questo mutamento?… La questione individuale che mi fa?… Guardo la nazionale.

15 marzo 1876.—Perchè in queste pagine non feci cenno della morte di quell'eletto che si chiamò Gino Capponi?… Ne parlavano tanto tutti, che forse mi parve vano consacrargli la parola mia.—Ho bei ricordi di lui nella mente e nel cuore.—In un'ora di pace li scriverò, spero.

19 marzo 1876.—Il Ministero rassegnò al Re le proprie dimissioni dopo un voto di sfiducia.—La Sinistra salirà al potere, poichè il Re incaricò Depretis di formare il nuovo Ministero.—Sarà un bene? sarà un male?… Quale scontento e sdegno da un lato, quante ambizioni ridestate e vanitose speranze dall'altro! Strane vicende! Ed io penso alle famiglie di chi era ieri ministro!… Parmi vedervi visi scontenti, mortificati, udire parole irose, invide, appassionate.—L'equità, la serenità ove sono?… A qual caro prezzo si può pagare una passeggiera soddisfazione d'amor proprio! Taluno rimarrà tranquillo, perchè gli resterà la coscienza d'aver fatto il ministro degnamente, e perchè, pure senza essere ministro, sentirà di poter ancora adoperarsi per il bene della patria e proprio. Oh! ma altri!… Non inetti, non tristi, ma ambiziosi e leggieri, quanto debbono soffrire!…

Vidi Cairoli—buono sempre e grande.—Con la ferita riaperta salì tutte queste scale per istringermi la mano, per parlarmi di cose mie!… Fra tanti fiacchi, poltroni, egoisti, apatici, oh la bella, la nobile figura!

* Rividi il Provveditore Nisio—quello che era a Napoli quando vi fui per la ispezione degli educandati femminili. Ricordammo quei tempi e quei luoghi.—Passarno cinque anni. Al rivedere uno dopo tanto, pare che tutti gli avvenimenti seguiti in quel periodo ci tornino d'un tratto davanti.

È una confusione, un' oppressione, un affanno per chi sofferse e vorrebbe obliare. Questa sera potevo andare al teatro, ed ero invitata, attesa in una casa d'amici dove si festeggiava l'onomastico del padrone. Non seppi determinarmi ad uscire. Un poco perchè stanca e un po'debole e svogliata, e assai più per una ragione tutta morale, pel desiderio d'essere quieta e sola. Io ho spesso bisogno di starmene con me, di ripensare a tante cose!… Ricordo persone che immagino meste, e perciò solo perdóno e compiango, pure non aspettando che oblío. Ma siamo come possiamo, e gli uni sì diversi dagli altri!*

Domenica, 26 marzo 1876.—Morì dopo pochi giorni di malattia, il prof. Mezzetti ch'ebbi collega alla scuola normale. Era buono e bravo. Aveva dignità d'insegnante e di sacerdote. Il suo fisico robusto e d'una età non molto avanzata facevano credere dovesse vivere ancora parecchi anni. Lasciò grata e dolorosa memoria in quanti lo conobbero; lasciò due nipoti cui pensava con cuore paterno. Pace all'anima sua.—* Stamani fui alla riunione per la rielezione di alcuni membri del Consiglio Direttivo della Lega per l'istruzione del popolo.—Si agitò una questione seria, complessa, se cioè si dovesse giovarsi per lo scopo prefissosi dalla Società, di danari derivanti da balli e da pubbliche lotterie. Sollevare tali questioni può ad ogni modo giovare al senso morale: ma pur troppo nei più questo senso è ben fiacco. *

Il nuovo Ministero di Sinistra è formato. Il paese è incerto nel giudizio, ove non è eccitato dalla passione di parte.—Il momento è grave e lo sarà più, se tale gravità non s'intende.

4 maggio 1876.—Gino ebbe oggi il suo brevetto di ufficiale di complemento, avendo conseguito 19 punti su 20 e risultando così il primo fra 45 esaminati. È cosa che gli fa onore, e che perciò mi rallegra.

Mio fratello è a Firenze per noi, per concludere la vendita del teatro. L'opera sua è per noi d'una incalcolabile utilità.

Sono spesso stanca e sofferente—perciò qui scrivo poco.—La famiglia, la scuola, la società annessavi delle signore, le relazioni che, per necessità e dovere, m'è d'uopo coltivare, assorbono tempo e forze.—In questi giorni mi occupai per far rendere giustizia a due miei amici—di due partiti diversi, direbbero gli uomini politici—è vero! ma d'un partito identico, dico io, quello della onestà, che per me sta sopra tutti e tutto!… Nè forse la mia voce sarà vana, e sperar ciò m'è caro, chè sarebbe doppia e giusta riparazione.

* 7 maggio 1876.—Tabarrini fece una splendida lettura alle nostre signore intorno a Gino Capponi. Lo dipinse vero, intero. Pensieri, affetto, stile, tutto ammirabile! Che caro uomo! Quanto ingegno, quanta bontà!*

10 maggio 1876.—È firmato il contratto di vendita di quel disgraziato teatro, che ci recò tanti danni e dolori. Possa il ricordo di questa malaugurata speculazione giovare ai figli! Si contentino essi di vivere con una rendita modesta, ma sicura, e l'accrescano col frutto d'un onesto e coscenzioso lavoro!* Mio fratello ci rese pure in questa occasione grandi servigî col più completo disinteresse, col più sincero affetto congiunti a senno ed operosità. Possano ricordar ciò sempre i nipoti!*

12 maggio 1876.—Conobbi personalmente il Sella, e parlai mezz' ora con lui.—L'ingegno s'impone sempre. Il fisico risponde in lui al morale. Forte, reciso negli atti e nella parola come nel carattere, serio, schietto, non può spiacere che per partigianeria o per amore del lezioso. —Potrà errare anche lui, ma ha la coscienza di quanto fa. Gli uomini piacciono tali, singolarmente nelle cose pubbliche. Una parola di lode da lui vale per un volume d'altri!

* Avemmo per la prima volta un'ispezione governativa nella scuola. Fu una vera fortuna che uno dei due professori inviatici fosse il Della Vedova, sì intelligente e cortese e buono. Pare abbiano riportata favorevole impressione della scuola, ed io ne godo per il Comune, per tutti gl'insegnanti ed anche per me.*

21 maggio 1876.—* Oggi si chiuse solennemente l' annuo corso delle nostre conferenze. C' era S. A. R. e molte altre signore e molti signori. La sala era piena, ed il pubblico dei più scelti. Ho dovuto fare un breve resoconto morale della società, che venne accolto assai benevolmente. Quindi il Berti, benemerito tanto di questa istituzione, fece la'sua bella conferenza intorno alla cultura femminile.—Parlò bene e piacque, e chiuse degnamente le conferenze.*

2 giugno 1876.—Le mie lezioncelle intorno alla famiglia, fatte per le allieve e stampate sulla Maestra elementare italiana, vennero raccolte in un opuscoletto che regalai alle discepole e a poche care persone.—N'ebbi bella ricompensa nella gratitudine di queste fanciulle e in parecchie lettere d'uomini egregi. Fra tutte ho gradite quelle, tanto benevoli, del Vannucci e del Gabelli (1) Ecco le due lettere:
Firenze, 21 maggio 1876.—Ebbi già la gentilissima visita della sua bella Laura, e più volte mi trattenni molto piacevolmente con essa. Ora mi giunge la sua Famiglia, che mi empie l'animo di dolcezza col suo elegante e semplice eloquio, e coi suoi sapienti e amorosi e veramente materni precetti. Grazie affettuose di questi carissimi doni, e congratulazioni vivissime alla sua bella e buona operosità. Sento spesso parlare molto bene di lei, e godo che i suoi ufficî di madre affettuosa e sapiente a coteste tante figliuole, sieno degnamente apprezzati. Le auguro di poter continuare lungamente e gagiiardamente in quest'opera santa.

Anni ti dian gli Dei. Chiedo sol questo, Perchè da te saprai prendere il resto.

Le mando tanti saluti, le stringo la mano e sono
Devotissimo affez. suo
ATTO VANNUCCI.
Illustre e gentile Signora.—Sto leggendo con vero piacere e con profitto il suo bello e santo libro, in cui ammiro tante cose, ma sopra tutte quell'arte che nasce spontanea da un cuor retto e fortemente convinto, di rendere amabile e far apparire tanto facile l'adempimento del dovere.
La sua morale è bellezza ed è grazia; è qualche cosa di eletto, di fino, di signorile e di elegante; è tutto ciò insomma che ci vuole per rendere la virtù gradita'e cara, spogliandola di quell'austerità che le diminuisce gli ammiratori e i seguaci.
D'altra parte il suo libro risolve il quesito fondamentale, quello da cui dipendono tutti gli altri, perchè chi è buono in famiglia, e tutti i giorni e a tutte le ore, non può essere cattivo nelle relazioni sempre brevi e fuggevoli ch'egli ha cogli altri, mentre non è vero l'opposto. Per tutto ciò La ringrazio per conto mio, ma non posso a meno di congratularmi pel bene ch'Ella fa al nostro paese….
Roma, 1 giugno 1876.
ARISTIDE GABELLI.. *—R… ha dovute rassegnare le sue dimissioni di segretario al Ministero.—Era questione di dignità. Si trovò in condizione analoga a quella in cui mi sono trovata io quando rassegnai le mie dimissioni allo Scialoia!

Oh lo spirito di parte!

R… meritava altro trattamento.*

12 giugno 1876.—In questi giorni, più avvenimenti. Ebbi un invito dalla Principessa Margherita, che affabilmente mi diede così il suo addio prima di partir per cinque mesi de Roma. Mi baciò con affetto.—È cara e gentile —portà fare del bene assai al paese. purchè i tempi permettano ciò! Io le prego lieto l'avvenire. È sì delicata che Dio sa se reggerebbe alle procelle!…—Ebbi una visita inaspettata della buona signora Gesualda Pozzolini. —Quanta vita in questa pietosa e intelligente signora! Fui con lei dalla signora Correnti e al Parlamento. —Ella s'interessa di tutti gli amici, di tutte le cose del paese—pare una protesta vivente contro l'inerzia di tanti più giovani e robusti—* e con la saggezza del consiglio pare una protesta pure contro le pazze intemperanze partigiane sì degli uni che degli altri che furono e sono gli estremi della politica. *

Ebbi due altre visite ben care: il Cairoli e il Vannucci. —Che anime grandi! l'amicizia di loro mi conforta, mi onora.

Gino partì ieri sera per il Veneto, per fare i suoi tre mesi d'ufficiale. Sarà una consolazione per Guido che lo aspetta ansioso.

Morì Giorgio Sand—n'ebbi impressione penosa.—Carattere singolarmente vivace ed indipendente, anima elevata, ma nella giovinezza facile di soverchio agli entusiasmi, ingegno potente, profondo, parmi che, così dal lato della mente come da quello del cuore, abbia migliorato sempre, abbia sempre meglio fatto omaggio a quel bello che è splendore del buono, e sia morta senza aver dovuto rimpiangere parte di sè stessa.

Perfino chi la disapprovò giovane, dovette ammirarla nei tardi anni.—L'amore, anche quando era in opposizione coi costumi nostri, ossia con quelli che si vuol chiamare i nostri costumi, parve fuoco di purificazione per l'anima sua.—So che più volte, dopo lette opere sue, fui tentata di scriverle—non l'ho osato —ma, fra gli ingegni contemporanei, fu quello che più m'interessò.—Le sue Memorie mi commossero, i suoi romanzi che parlano delle bellezze campestri, mi colpirono.—Intendeva la natura e l'arte mirabilmente. E tali spiriti dovrebbero svanire nel nulla?…

18 giugno 1876—* Gino e Guido furono insieme a Venezia. —Povero Guido! Dopo tanti mesi che è diviso dalla famiglia, con quanta consolazione ha riveduto il fratello! *—Stamani rividi il Correnti—uomo egregio, nobilissimo.—Mi fu benevolo assai, e ricordai i giorni in cui mi chiamò a Roma.—Infine è a lui che debbo l'iniziativa di quei provvedimenti, che mi posero nella via nella quale ora mi trovo.—E a lui devo forse anche la salute che mi resta. Glielo dissi e parve ne godesse.—Peccato la politica lo assorba.—Sarebbe tanto più grande nelle lettere, nella scienza, nell'arte, nelle questioni di morale più alte ed astruse!

Nel Consiglio Comunale si discute il Regolamento di questa scuola; molte persone valenti se ne occupano benevolmente.—Per me riesce una soddisfazione, anche personale, questa prova di stima e di fiducia che mi si rende e che si manifestò sì chiaramente.—Cercherò di meritare sempre meglio tanta benevolenza.

12 luglio 1876.—Oggi vennero a congedarsi le allieve, oggi il Sig. Assessore convocò gl'insegnanti e significò loro le attribuzioni e gli stipendi assegnati dal Consiglio.

La scuola venne aspramente, villanamente attaccata da qualche giornale.—Ebbi io pure offese, che sento non meritate, e che provocarono benevole, spontanee, pubbliche attestazioni di stima.—Siamo riusciti, ma non senza fatiche e pene, non senza sacrificî.—* Il prof. Pignetti dovette per delicatezza, per dignità, per convenienza cedere l'ufficio d'insegnante che teneva nella scuola. Egli stesso propose in suo luogo il Belviglieri. —Certo è un nome caro, un acquisto prezioso—ma a me dolse il sacrificio imposto a persona sì degna. Altri interessi furono lesi e mi trovai fra molti lamenti e recriminazioni. *Come è ardua questa via!… Io avevo offerto di dare gratuito l'insegnamento, che si mostra desiderio io abbia a continuare.—Non vollero—scrissi indarno al Sindaco due lettere che vennero lette al Consiglio, (1) Ecco le due lettere:
Illustriss. Sig. Sindaco.—Roma, 3 luglio 1876.—La proposta che Ella ha in animo di fare all'on. Consiglio Comunale, perchè mi venga affidato l'insegnamento di morale e di pedagogia nei due bienni di questa scula, è per me un nuovo segno di fiducia e di benevolenza, del quale grandemente La ringrazio.—Proponendomi per tale insegnamento, Ella certo intendeva darmi modo di svolgere il concetto espresso nell'articolo 7°ree; del nostro Regolamento, ove si dice, che gli insegnamenti di Morale e di Pedagogia riguardino specialmente i doveri della donna nella famiglia.—E questo io cercherò di fare in quella misura che mi sarà concessa, limitandomi peraltro a dare il solo insegnamento della morale nel 1.°ree; biennio. E a tale proposito le fo'anzi due preghiere: la prima che per quest'ufficio, ch'Ella mi permise di tenere finora, non mi venga assegnato neppure in avvenire speciale compenso;—l'altra che non mi si imponga come un'obbligo, perchè mi resti la compiacenza di fare di mia volonta qualche cosa, che provi il mio amore alla scuola e la mia riconoscenza a coloro che me ne affidarono la direzione.
E. F. F.
Illustriss. Sig. Sindaco.—Roma, 6 luglio 1876.—Giorni sono Le chiesi di poter continuare l'insegnamento della Morale come feci finora, ma solo nel primo biennio.—Ove però la nomina di un nuovo insegnante per tale materia potesse in questo momento recare imbarazzo, potrò, se a Lei piace, provarmi a darlo pure nel biennio superiore, rinnovandole peraltro la preghiera che non mi venga imposto come un dovere, e che non si pensi a gratificazione. Questa accetterò quando le tasse scolastiche supereranno la somma degli stipendî per il personale insegnante, e la mia fede nella scuola è tale, che questo giorno non mi sembra lontano.—
E. F. F.
ma la retribuzione accordatami mi crescerà gl'invidi… Ho trepidato, patito, e moralmente mi sento stanca.—Speriamo che si potrà sistemar bene ogni cosa… Dio lo voglia! chè io vorrei mostrare coi fatti la mia affezione a questa scuola, a questo Comune che mi considera quale figlia sua!

Padova, 20 luglio 1876.—Si partì iersera da Roma. Il viaggio, fatto d'un fiato, mi stancò, e risento qualche sofferenza delle mie solite. Arnaldo andrà domattina a Venezia—io resterò e per la salute del papà, che trovai sofferente, e per la mia.

23 luglio 1876.—Vidi Gino mio—fu qui per poche ore —questa notte alle 2 parte col Reggimento per Cividale. —La vita militare pare gli vada a genio, così che quasi vorrebbe abbracciarla.—Sarà determinazione tenace? e saggia? Vedremo.—Contrariarlo non gioverebbe. Desidero solo il meglio per lui.

* 24 luglio 1876.—Vennero gli zii e le sorelle mie per la festa natalizia del papà. Egli parve lieto tra la corona dei suoi.—Dio ci assenta per molti anni ancora la gioia di averlo con noi! *

Venezia, 25 luglio 1876.—Guido finalmente ha compiuti gli esami di licenza liceale; è con noi e ci resterà. —È una consolazione verace.—Sono qui ancora in questa casa ospitale dell'egregio amico, che fu il padre di Guido per questi cinque anni scolastici oggi compiti. Quanta riconoscenza gli debbo!

Lagosto 1876.—Rividi egregi amici.—Lo Zanella risanato dalla cupa tristezza, che da lungo tempo lo travagliava. Era malato d'anima e di corpo insieme. Disinganni e sventure si erano accumulati su lui. Chi sa quali lotte si sono agitate in quella nobile mente!… Ora mi conforta rivederlo sereno e guarito.

Rividi pure il Maffei, operoso sempre e gentile: per me anzi il dire gentile è poco; è più giusto cordiale.

Qui, in quest'armadio, il tarlo che v'intesi negli anni passati più non si sente—e n'ho piacere.—È uscito? è morto?

* Furono qui il papà, l'Elvira ed Eugenio. Mi fu caro vederli riuniti, e la giornata passò lieta.

Gino mi scrisse a lungo. Fatica e soffre dei disagì, ma sta bene. *

6 agosto 1876.—Oggi si compiono i venti anni del mio matrimonio.—Come volarono!… Il vecchio ed ottimo amico Maffei mi fece una lunga visita; ricordò il passato, ricordò quando mi vide fidanzata—e a tali ricordi si commosse.

16 agosto 1876.—Fui stamani, dietro invito, dalla Principessa Margherita ch'è da qualche giorno a Venezia e che mi accolse, come sempre, cortese.—Mi disse sapere che ho un figlio nell'esercito e che al suo Reggimento gli vogliono bene.—Accennò ai versi di Arnaldo che lesse in passato—mi parlò della scuola, del paese; volle sapere molte cose che m'interessano e mostrò interessarsene.

Questa sera lasceremo Venezia, la mia bella Venezia! Il mio povero zio resterà solo, chè perde anche la compagnia di Guido * cui fece per cinque anni scolastici una fedele visita settimanale. *—È vecchio, solo, quasi cieco, e avrebbe bisogno di affetto, luce del cuore, come della luce degli occhi—povero zio!

Arsiè, 19 agosto 1876.—Ieri abbiamo lasciato Padova per recarci qui, dove ebbe origine la famiglia di Arnaldo, e dove egli veniva, fin da fanciullo, a passare l'autunno.—Il paese è molto modesto, ma la gente schietta, e buona, e tutta cordiale per noi.—Aria ed acqua eccellenti—libertà campestre; infine mi è caro esserci e che i figli si trovino, talvolta almeno, lontani dagli artificî, dalle convenienze, dalle vanità cittadine, e viso a viso, per dir così, coll'immensa natura.—Abbiamo ottimo alloggio in casa di parenti affettuosi.—Volevo venisse meco il papà; non vi sono riescita! * Passando per Bassano, dove rimasi qualche ora, ricordai quel buono e caro Roberti, amico prezioso, morto sì presto…! Oh tali rimembranze tolgono gaiezza ad ogni cosa!…*

20 agosto 1876.—Ieri sera la musica del paese venne a suonare sotto le nostre finestre per festeggiare il nostro arrivo. —Sono tutti operai che, dopo aver lavorato l'intera giornata, consacrano la sera e i dì festivi allo studio di quest'arte gentile.—E quelle ore, tolte all'ozio o al vizio, valgono così a nobilitare le anime loro.—Questo segno di stima cordiale, datoci da gente così modesta, vale più di molte e molte dimostrazioni ufficiali.—Dovevo partire per Levico e per Roncegno oggi—mi sentii poco bene nella notte e preferii rimanere. Non poteva arrischiarmi alla possibilità, e ora quasi alla probabilità, di trovarmi sola e malata, tra gente nuova.—I bagni ormai temo non potrò farli.—Almeno potessi rimettermi un poco!

9 settembre 1876.—Fui malata, benchè non a letto, per quindici giorni.—Scrissi alcuni versi che Arnaldo trova buoni, ma che hanno bisogno ancora di qualche ritocco. —Ora sono rimessa dalle sofferenze avute e mi sento abbastanza bene.—Potessi rendermi a Roma e all'ufficio mio in buona salute!—La pace di questi luoghi mi gioverebbe allo spirito, come queste arie purissime al corpo. Ma incomincia l'autunno, e per me qui potrebbe far troppo freddo, potrei risentirmene; e mi affianna troppo il pensiero di dovere, per ragion di salute, mancare a'miei doveri.—Se avrò qualche anno di vita, potrò, sistemati i figli e gli affari di casa, e consolidata la prosperità della mia scuola, recarmi a vivere in un paesello tranquillo, ove l'aria sia mite, la natura ridente, e possa gustar pace prima di morire. —Per ora m'è forza rituffarmi nel mondo, e lo farò, ma triste assai, chè ogni dì ne intendo meglio i danni!

15 settembre 1876.—Domattina torneremo a Padova da questi luoghi che avevo visitati di volo, or sono quasi diciassette anni, quando portavo in grembo il mio Guido. —Quanto tempo e quanti avvenimenti da allora! L'Italia compiuta! noi da Castelfranco a Roma!… E questi monti, lì, eterni, impassibili, contemplano le vicende che mutano, le generazioni che passano.

Padova, 22 settembre 1876.—Domani ripartiremo per Firenze e Roma.—Dio voglia che ci possa arrivare senza che si accrescano le sofferenze che mi molestano! —L'idea di ammalare, mentre mi attendono tante e sì gravi occupazioni, mi è più penosa del male! Doversi misurare l'aria, tremare e soffrire sì di sovente per chi ama la vita attiva, i cieli e i campi aperti, l'aria, il moto, la luce!…

Mi affligge, più che d'ordinario, lasciare questi luoghi. —Temo che non ci tornerò, ove non mi ci chiami un alto dovere, perchè troppo mi spaventa la prospettiva di ammalare (come sì spesso in'avvenne) fuori di casa.—Lascio tante persone care, tante anime afflitte!… Il papà sente omai i molti anni; non può avere l'assistenza, i conforti, che gli sarebbero necessarî.—Ma anche vicina, a che gli potrei giovare con la mia scarsa salute?…

Saluto questi luoghi, questi esseri diletti, come fosse per l'ultima volta che li rivedo!—(1) E fu pur troppo l'ultima volta! Otto giorni dopo non era più!

(1) Lesse questo discorso la Fusinato all'Ateneo Veneto il di 27 di agosto 1874, e su la prima volta stampato, due anni dopo, nella Favilla, giornale letterario diretto in Perugia dal chiar. sig. Leopoldo Tiberi.
(Nota di G. G.)

Non senza trepidazione io mi accinsi a scrutare l'intima vita dell'amata del Petrarca, perchè, forse più ancora della reverenza per il soggetto nobilissimo, e già degnamente trattato da eletti ingegni, mi turbava la tema di veder illanguidire, sotto la fredda analisi dei fatti, lo splendore di poesia e di virtù di cui ci è grato contemplare ricinta questa cara immagine di donna.

Ma a grado a grado ch'io m'addentrava nei particolari di questa immortale storia d'amore, sentiva accrescere anzichè scemare l'ammirazione per la sua leggiadra eroina; talchè se d'una cosa pur tuttavia mi duole, è di non poter dirne in modo migliore e quanto il cuore vorrebbe.

Parve a taluni, eruditissimi, di poter asserire che questa Laura, intorno alla quale vi ha tanta discordia anche nel determinare i natali, morisse nubile, consunta da ingenito malore; e nel sostenere la loro opinione con sottigliezza d'ingegno, maggiore forse delle ragioni della storia, si direbbe fossero mossi principalmente dal desiderio cortese d'ispirare con tale persuasione una simpatia maggiore per colei che, se pur diede la mano di sposa al De Sade, lo fece ben prima che le fosse apparso il suo futuro poeta. Il dotto Sir Bruce nelle sue illustrazioni ai ricordi sulla vita di Messer Francesco Petrarca e di Madonna Laura, scritta da Luigi Peruzzi loro contemporaneo, sostiene l'opinione che la Laura del Canzoniere nascesse dalla casa De Sade e morisse zitella, e a prova di ciò cita le parole con le quali il Fantoni Castrucci nella sua Istoria di Avignone narra che molti illustri personaggi, e fra questi il sommo Pontefice, desideravano di vedere congiunte in matrimonio quelle due rare persone; ma che il Petrarca rifiutò ogni offerta di dispense apostoliche e di pensioni ecclesiastiche, adducendo ad unica ragione del suo rifiuto, che non voleva divenir marito per non lasciare d'essere amante. In verità che ove potessi acquistare la penosa convinzione di questo fatto, essa distruggerebbe la mia fede nella potenza di quell'affetto, e mi farebbe quasi disprezzare quell'incanto di poesia, che non avrebbe altro merito fuori di quello di eoprire le finzioni della mente e l'aridezza del cuore. Poichè se la passione era tale e tante le pene che ne derivavano, e le virtù di Laura erano quali ci vennero cantate, come persuadersi che il poeta, in età sì giovanile, paventasse distrutto ogni amoroso prestigio da quel nodo ch'è il premio e la consacrazione dell'amore verace? Chi può crederlo parmi avrebbe torto d'occuparsi d'avvantaggio di questa che più non si dovrebbe riguardare che come una novella amorosa.

Ma, pur rispettando ogni opposto giudizio, io, e per elezione e per convinzione, m'attengo alla credenza che Laura sia stata e moglie e madre, persuasa che l'aver saputo soddisfare appieno a questi ardui doveri, sebbene amasse il Petrarca, abbia a considerarsi la massima delle sue virtù, singolarmente da chi si compiace onorare tali doveri sopra ogni cosa terrena.

Era costume degli antichi poeti di scegliersi liberamente la donna che meglio loro piacesse, qualunque ne fosse la condizione, per farla soggetto dei loro canti.

Un aspetto vago e giovanile, una cortesia di parola e di atteggiamenti, una speranza, per quanto indeterminata, di riescirle graditi, era quanto esse solevano chiedere alla donna dei loro pensieri, l'immagine della quale, trasportata negli aerei campi della fantasia, diveniva per essi l'esemplare d'ogni perfezione, e tale poteva lungamente serbarsi, poichè, i costumi d'allora non assentendo generalmente frequenza e famigliarità di ritrovi fra conoscenti di sesso diverso, le nude realtà della vita non potevano distruggere d'un tratto le illusioni dei fantastici vagheggiatori.

Per tal modo la donna, soggetta sì spesso a vedersi ora umiliare, ora esaltare più che non comporti la sua natural condizione, ora mentre nella famiglia era avuta quasi schiava senza pensiero, trovavasi divinizzata nei versi di chi probabilmente ignorava le sue doti veraci. Quale turbamento dovesse produrle un contrasto sì grande, tornerà agevole comprendere quando si pensi alla ignoranza in cui, salvo alcune splendide eccezioni, ella era tenuta, alle superstizioni d'ogni maniera che dovevano quindi dominarne lo spirito, ed all'eccitamento della fantasia, che suol essere più forte e funesto ove difetta il sano nutrimento dell'intelletto e la sua saggia operosità.

Oggidì reca per buona sorte maraviglia non poca l'apprendere come neppure i mariti stimassero non correr rischio la pace loro, nè la dignità coniugale scemare, pei poetici incensi che si ardevano alle loro donne.

Il secolo non era contemplativo, e chi si struggeva in poetiche lamentazioni per tale da cui nulla osava sperare più che uno sguardo, un sorriso, un fiore, forse carpito, non d'altro reputavasi meritevole che di pietà o di derisione, secondo il pregio in che si tenevano le sue canzoni amorose. E intanto il marito, sicuro che colei cui aveva dato il proprio nome non lo avrebbe macchiato mai nella realtà della vita, pareva poco o punto curarsi d'indagare se anche spiritualmente egli n'era il signore, o, se mentre l'aveva daccanto, la mente della sua bella compagna non seguisse le malinconiche fantasie d'un innamorato poeta. Strana condizione che, involando allo sposo un tesoro ignorato o non a sufficienza apprezzato da lui, rendeva la moglie, nel fatto incolpevole, la musa conscia e idoleggiata di tale che, avverando l'ideale più splendido de'suoi sogni virginali, doveva indurla ad un paragone non credo certo benigno al marito a cui forse l'aveva legata una volontà che non era la sua.

E a chi dubitasse che nel decimoquarto secolo le spose più caste potessero senza vergogna palesemente assentire alle aspirazioni platoniche di cosiffatti adoratori, basterà leggere (Vedi De Sade pag. 118) come Agnese di Navarra, moglie al conte di Foix e celebrata qual donna virtuosissima, scrivesse dei versi appassionati per il poeta Guglielmo De Machant, e saputolo geloso di lei, gli mandasse il proprio confessore affine di accertarlo della sua fedeltà e del suo affetto. Che se tal donna poteva giungere a tanto, e lo stesso padre spirituale di lei acconsentiva ad esserle messaggiero amoroso, non solo non è da far colpa a Laura d'un affetto ch'ella si studiò di combattere e di celare costantemente, ma neppure dobbiamo troppo maravigliare che il Petrarca, insignito di ecclesiastica dignità, pubblicasse senza riserbo alcuno il Canzoniere.

Questo volli specialmente mandare innanzi a giustificazione e ad onore di Laura, per chi dalla persuasione ch'ella fosse maritata e che non abbia offuscato mai il decoro di moglie, vorrà trarre nuovo argomento per compiangere il suo amore infelice e per ammirare quella virtù che in lei significò veramente Potenza di sacrificio.

Ma le singolari ragioni che, a mio credere, la resero degna di gloria, non perderebbero molto del loro valore quando fosse pur manifesto essere ella rimasta sempre donzella; poichè resterebbe ad ogni maniera accertato che un impedimento grande frapponevasi tra i due amanti, e ch'essi, impotenti a superarlo, lo vollero e seppero rispettare pur sempre.

Era naturalmente impossibile che Laura, d'animo gentile ed elevato, fuggisse alla potenza di quell'amore che a nullo amato amar perdona: e ove ella avesse risposto al suo cantore con indifferenza, o ne avesse lusingato la passione non per altro che per gloriarsi della gloria de'suoi carmi, non è a credere che il poeta. onorato da pontefici e da imperatori, cercato dalle donne più amabili e colte, rimanesse devoto, fin oltre la tomba di lei, a quella che o lo avesse disprezzato sempre, o non l'avesse saputo intendere mai.

Ella lo amò: ma benchè parimente accesa e più debole tanto di lui, è suo il vanto di aver resistito al fascino esercitato da quell'ingegno sì vasto e potente, da quel cuore sì fervido che non aveva mai palpitato così per altra donna. Tra il sacrificio e il rimorso, elesse il sacrificio. Presaga della immortalità serbatale dal poeta, della immortalità volle rendersi degna vivendo per ben più di vent'anni di poi sì giovanilmente casta la vita davanti al pensiero di lui, ch'egli ne ricogliesse dopo la sua morte ancor più belle e più vive le fantasie e le immagini ch'ella gli avea destate nella giovinezza.

Perciò se in vita ella n'ebbe l'amore, potè averne oltre la tomba l'adorazione; e a lui parve di renderle nulla più che un doveroso tributo cantando:

E se mie rime alcuna cosa ponno, Consacrata fra i nobili intelletti Fia del tuo nome qui memoria eterna.

Sonetto 283 in morte di M. L.

L'intiero Canzoniere, nonchè buona parte delle prose petrarchesche, ci assicurano della reracità, purezza e costanza dell'affetto di Laura; e da queste tre qualità si mostra tutto il valore di quest'eletta, valore cui nulla cresce nè scema il saperla nubile o sposa, quando il figurarla nubile o sposa non può idearlo maggiore.

Nè degli argomenti che mi convinsero essere ella figlia di Audeberto di Noves e moglie di Ugo De Sade, intendo tenere qui parola, e perchè già da altri più che a sufficienza discussi, e perchè all'opera delle citazioni, dei commenti e delle contestazioni troppo sento ribelle l'ingegno.

Mi si conceda pertanto di considerarla tale sulla fede di giudizî e documenti ben noti (V. De Sade, Mezières ed altri); ed ella s'abbia come tale il mio tenue omaggio di postuma ammirazione.

Della lingua nostra, della nostra poesia fu prima e costante ispiratrice la donna; e come Dante per Beatrice, così il Petrarca compose i suoi primi versi italiani per Laura (1) Ed i primi versi latini egli li scrisse in morte della madre (Eletta Canigiani) nel 1326, quando avea ventidue anni. Sono versi pregevoli più assai per l'affetto che per l'arte: amore e dolore lo fecero poeta. cui temeva forse che nell'idioma del Lazio i suoi pensieri riuscissero meno limpidi ed i suoi versi meno armoniosi. Si può dunque asserire che l'amore e l' ingegno poetico del Petrarca si manifestassero ad un tempo; ma ciò che indusse più d'uno a dubitare della veracità del sentimento che informa il Canzoniere è la lindura, l'artificio che vi si trova bene spesso, mentre sembra che, quando il cuore prorompe, il lavoro della mente non possa, e quasi non debba, essere condotto con istudio così paziente e perfetto. Giova peraltro considerare come il Petrarca abbia durato tutta la vita nella correzione di quelle rime, e come la stranezza e l'esagerazione che oggi si nota in molta parte de'suoi concetti, trovino la più efficace giustificazione nell'indole letteraria del decimoquarto secolo; e noi, ricordando le costumanze della scuola e della vita d'allora, possiamo intendere, e forse anche ammirare, perfino l'adorazione del lauro, il quale, grazie alla favola mitologica di Dafne (alloro) rendeva il nostro poeta rivale di Apollo: mentre, secondo le dottrine platoniche cui il Petrarca si mostrò, nonchè reverente, devoto, potevasi supporre la trasmigrazione dell'anima di Dafne in Laura medesima.

Caduto il regno leggiadro della mitologia, surta una scuola che più non s'appaga di cercare il bello nel vero, ma pretende ancora che ogni vero sia bello, torna più arduo intendere gli entusiasmi destati da un tronco, da una fronda, financo da l'aura commossa, sebbene in tal poeta peressero a quel tempo naturali, e si avessero il plauso anche dei più sapienti ed austeri.

Ma dopo la funesta inondazione dei petrarchisti, che tolse alle lettere nostre ogni vigore, era fatale che pure il maestro portasse la pena dei danni generati dal decadimento della propria scuola.

Senonchè il cantore di Laura fu pur quello dell'Italia, e come il suo cuore sentiva tutti i nobili affetti, così la sua cetra possedeva tutte le corde atte a significarli con maravigliosi concenti; e se altri lavori, più meditati e sapienti, lo resere chiaro a quanti dotti ebbe il mondo, egli deve al Canzoniere la gloria, forse più umile ma a lui non men cara, di essere perpetuamente ammirato da quante anime devote d'amore ne possono intendere i pregi.

Ai moderni Catoni che trovano quelle rime e quelle lodi soverchie per un'unica donna, si potrebbe rispondere che pochi furono forse i poeti i quali non ne abbiano dettate altrettante sopra argomenti consimili, e che la prima diversità che corre tra costoro e quel grande, proviene dal non aver essi raggiunto alcuno di quei pregi che derivano, più ancora che dall'ingegno e dallo studio, dal cuore; la seconda dall'aver essi mutato sì di sovente l'oggetto degli amorosi sospiri, che spesso, e in ispecie a questi giorni, troviamo in un breve volumetto sei o sette Laure, le varie virtù e bellezze delle quali sono tutte riunite con identica tenerezza da Melibei forse non peranco ventenni.

Ma si direbbe quasi che la scuola petrarchesca si fosse proposto lo strano intento di menomare con l'artificiosità della veste o con l'abbondanza e l'esagerazione delle iperboli l'efficacia dell'affetto, all'opposto della scuola odierna, la quale col realismo della forma, con la schiettezza talora perfin troppo arida della parola, con la meditata sobrietà delle immagini, riesce a far parere, sulle prime, sincero e profondo qualche affetto fantastico o superficiale.

Tale non era al certo l'affetto del Petrarca. Egli, innanzi d'incontrare Laura, non andava già in cerca d'un amore che fosse di argomento a'suoi versi; s'innamorò casualmente, e obbedì al desiderio prepotente di cantare le grazie e le virtù della sua diletta, se non quali erano, quali per certo egli le vedeva e le giudicava allora e sempre.

Egli non ebbe già in animo, almeno durante la vita di Laura, di cercare un tipo di cui ella gli prestasse l'aspetto ed il nome, ma questo tipo parvegli averlo in lei sì perfetto, che lamentò anzi più volte di non riescire a significarne tutto lo splendore:

Ma trovo peso non dalle mie braccia Nè ovra da polir con la mia lima; Però l'ìngegno, che sua forza estima, Nell'operazion tutto s'agghiaccia.

(Sonctto 18 in vita di M. L.)

La prima parte del Canzoniere non è opera premeditata e ordita di fatti e di sentïmenti ideati e disposti a seconda d'un disegno prestabilito; essa è piuttosto un diario del cuore, in cui troviamo fedelmente e cronologicamente registrate le vicende di una passione vera, lunga, d'una passione potente, di cui non osiamo neppure deplorare l'infelicità, grazie alle prove di virtù ed alle opere stupende di cui questa stessa infelicità la rese feconda.

Laura non è dunque affatto una creazione del Petrarca, bensì l'ispiratrice vivente delle sue rime migliori; ella vive della propria esistenza, brilla di luce propria, mirabilmente riflessa nelle pagine che per lei n'è dato ammirare. Solo dopo ch'ella ha lasciato la terra e che per rivederla il poeta deve librarsi ai voli più arditi della immaginazione, ha cominciamento la parte puramente fantastica del Canzoniere; e in questa Laura sì mostra ed opera nel modo che all'autore doveva sembrare il più conveniente all'indole ed alla vita di lei. Perchè tale era stata sulla terra, doveva esser tale nei cieli; ecco il concetto dei Trionfi, consentanco così alla morale platonica come alla fede cristiana.

Laura è una realtà cui il Petrarca non altro aggiunse che i fiori divini della poesia e l'aureola della propria gloria. In quale misura quei fiori e quell'aureola furono meritati da lei?

Giovane, tormentato da un'anima ardentissima, in seno ad una società corrotta e corruttrice, che di lui voleva farsi un idolo, che sarebbe divenuto il Petrarca senza questo amore nobile e costante?… Non è dato nascondere, nè ormai gioverebbe tacere, che un altro e ben diverso affetto lo strinse a donna di cui gli piacque nascondere perfino il nome, e che lo rese padre. Ma il velo di cui coprì tale traviamento, ben ci prova il rimorso che n'ebbe, ed i doveri della paternità sì degnamente osservati lo assolvono da un errore che si può ritenere in lui unico, passeggiero. Ed è forse deplorando questo che indarno avrebbe voluto cancellare, ch'egli comprende e confessa come in sè stesso non avrebbe trovato la potenza di persistere nei forti studî, di darsi a meditazioni profonde per lunghi mesi di completa solitudine, senza la brama di tornar degno di Laura, purificando il proprio cuore d'ogni sentimento men che divino:

Gentil mia donna, i' veggio Nel mover de'vostri occhi un dolce lume Che mi mostra la via che al ciel conduce, E per lungo costume Dentro là dove sol con Amor seggio Quasi visibilmente il cor traluce. Quest'è la vista che a ben far m'induce, E che mi scorge al glorïoso fine, Questa sola dal mondo m'allontana. Nè giammai lingua umana Cantar potria quel che le due divine Luci sentir mi fanno…….

(Canzone 19—In vita di M. L.)

Il Petrarca fu uno degli eletti di cui più si conoscono la vita e le opere, e più ci sembrano grandi e ci divengono cari. E poichè il miglior modo di rendergli onore parmi sia quello di prestar fede alle parole sue, in luogo d'ostinarsi a trovarvi un significato diverso dal più semplice ed evidente, o di voler dedurne più o meno di quanto gli piacque renderci manifesto, io mi compiacqui nel cercare e nell'accettare in molte delle sue lettere famigliari, e singolarmente in quella a Giacomo Colonna (IX lib. 2,) le prove della potenza dell'amore che questo amico suo voleva indarno persuadersi il lauro e non già Laura gli avesse ispirato.

Ma più che in ogni altra sua opera, è nel Secreto, in quelle intime confessioni le quali nella mente dell'autore non dovevano forse venir giammai pubblicate, è nel terzo di quei dialoghi tra il poeta e Sant'Agostino, che si svela, quasi involontariamente, tutta la forza di quella passione che dopo sei secoli serba tuttavia la virtù di commovere i cuori, ridestandovi le speranze o le memorie dell'età giovanile.

In quelle pagine il peccatore non può nascondere al suo Santo quanto suo malgrado rimaneva di terreno nell'amore suo; ma i sacrificî, i pentimenti, i dolori furono tali e tanti, ch'ei può sperar pietà non che perdono! Egli sentivasi tratto a cercare la sua donna per poi sfuggirla, e quindi ricercarla per istaccarsene tosto di nuovo ed indarno, chè l'immagine di lei lo perseguiva tra il tumulto del mondo come nel silenzio dei deserti, or mesta or lieta, ora sdegnosa ora benigna, ma atteggiata pur sempre a quell'onesta alterezza che per lui si mitigò solo allora che:

…Fra lor che 'l terzo cerchio serra La rivide più bella e meno altera.

Uno degli episodî più commoventi del Canzoniere parmi quello che diede argomento al Sonetto 197, in cui il poeta incomincia col dolersi del mal d'occhi di Laura, e finisce rallegrandosi perchè quel male passò d'un tratto negli occhi suoi, e gli divenne un bene, una grazia di cui Amore non gli aveva peranco concessa l'uguale.—Puerilità! sclamerà forse qualche rigido filosofo; e sieno pure puerilità, ma ad ogni modo son tali che ricevono dalla stessa loro natura l'ingenua impronta del vero, son tali che pochi sanno concepirle e pochissimi manifestarle in guisa da far palpitare chiunque ha intelletto d'amore, come al Petrarca appunto è riescito.

E Laura ben sapeva apprezzarli quei soavi sentimenti espressi in versi sublimi, e inconsapevole gioiva nell'incontrarne l'autore talvolta nei passeggi campestri, tal'altra nei lieti ritrovi delle adorne brigate, dove pei nobili natali, per la leggiadria della persona e pel cantar che nell'anima si sente (Sonetto 159) veniva sopra tutte ammirata e pregiata, a quel modo che il Petrarca avea vanto sovra tutti i cavalieri del tempo, talchè ben si potea dire di loro: Non vide un simil par d'amanti il sole (Sonetto 297).

Se non che la gelosia maritale, che non si può affermare con sicurezza venisse dal Petrarca o da tal altro ispirata, non permetteva a Laura l'uscire ad onesti sollazzi con fide compagne; che se questa gelosia giungeva a persuaderle assai ritegni che pur dovevano qualche volta apparire a quanti avevano desiderio della compagnia di lei, oh! chi può dire quali tormenti infliggesse nel segreto della casa a quell'anima squisitamente gentile? Nè possiam credere che prepotenza d'amore valesse a scusare quegli ingiuriosi sospetti, da che amore non tolse al de Sade di sposarsi ad altra donna e così presto dalla morte di lei, onde forse la segreta ragione di quei versi:

Ove giace il tuo albergo e dove nacque Il nostro amor, vo' ch' abbandoni e lasce Per non veder ne'tuoi quel ch'a te spiacque.

Tutto ch'egli narra di lei, vale a farcela sempre meglio compiangere ed apprezzare; ma nel Trionfo della Morte si compiacque mettere in singolare evidenza quella virtù femminile così costante e sapiente nel provvedere alla fama propria nonchè a quella dell'amato, ponendo freno alla passione scambievole; ed ecco come il poeta, memore e grato, fa ch' ella stessa ne apprenda i suoi ingegni e le sue arti:

Ma voglia in me ragion giammai non vinse, Poi se vinto ti vidi dal dolore, Drizzai in te gli occhi allor soavemente Salvando la tua vita e 'l nostro onore. E se fu passïon troppo possente E la fronte e la voce a salutarti Mossi or timorosa ed or dolente, Questi fur teco mie' ingegni e mie arti, Or benigne accoglienze ed ora sdegni; Tu'l sai che n'hai cantato in molte parti.

E come negar fede a tale linguaggio che dopo la morte ne rivela la parte migliore della vita di Laura? Vi ha un verso nello stesso Trionfo, il quale ne prova come quella bell'anima fosse dotata pure d'una pudica ritrosia, che non avrebbe voluto i più intimi secreti d'amore rivelati ai profani. Ma come poteva Laura privare le lettere di quei carmi stupendi? Come contrastarne al suo poeta la gloria? Se non che egli riconosce la delicatezza di tal sentimento e gliene sa grado così che le pone dopo morta sulle labbra, già sì discrete, questo mite affettuoso rimprovero:

…e mentre in atti tristi Volei mostrarmi quel ch'io vedea sempre, Il tuo cor chiuso a tutto il mondo apristi, Quinci 'l mio gelo.

Ecco la tarda ma solenne ricompensa a quella rassegnazione, a quel silenzio ch'ella seppe sempre serbare, forse anche per timore di far palese pur con un lamento la grandezza del proprio affetto.

Solo una volta sembra che in uno sguardo, in un detto di lei il Petrarca leggesse il suo timore di esser male intesa, obliata o posposta ad altra, e quel timore egli dissipava ben tosto indirizzandole la canzone 34ma:

S' io il dissi mai, ch'io venga in odio a quella Del cui amor vivo e senza 'l qual morrei…

Essere dimentica da lui era forse il solo affanno ch'ella non sapesse sostenere, e forse fu il solo che le risparmiasse la sorte.

Scorrevano gli anni e, mentre parevano crescere vigore a quello scambievole affetto, lo toglievano visibilmente alle delicate membra di lei, già sì fiorenti, talchè il Petrarca spesso la piangeva sofferente, ne scorgeva languire anzi tempo la splendida bellezza, e vedendola impallidire ogni volta ch'egli era in sul partirsi da Avignone. non poteva non intendere come la causa vera di quel precoce decadimento fosse l'amore di lui, fosse la doverosa necessità di nascondergli il proprio. «S'io non l'amassi che per le sue doti fisiche, egli scrisse, questo amore sarebbe di già ben scemato, ma sono quelle dell'anima che più mi vinsero, e rendono imperituro il mio affetto!»—

E tale ella lo meritava. Oh! quante volte, durante i suoi lunghi viaggi in lontani paesi, ella lo avrà temuto afflitto da morali e da fisiche infermità, o minacciato da altre fortunose vicende, e avrà nascoste, soffocate quelle trepidazioni, non osando chiederne novelle agli uomini nè invocare da Dio il suo ritorno!

Che se il tempo, la lontananza, le cure, i doveri e le affezioni domestiche riescivano ad acquetare quelle ansie, ed ella, tremando e pregando insieme di non più rivederlo, sforzavasi di sopportare la vita priva di tanta luce d'amore e di poesia, ecco che il plauso tributato ad una nuova opera di lui, la malía di un altro canto ch'egli le consacrava, il suo ricomparire in Avignone, la precipitavano ancora nelle angoscie d'un amore in contrasto con tale virtù, che se trovò sempre la potenza di frenarlo, non giunse a vincerlo mai, poichè egli stesso era omai una virtù.

Questa interna lotta, più ch'altro, esauriva le sue forze vitali, facendo che in lei la sensibilità dell'anima trovasse riscontro sempre maggiore nella fisica, talchè il giorno in cui ella diede al Petrarca l'addio che parea presagisse l'estremo (novembre 1346), gli si mostrò oltre l'usato dolorosa e benevola, commovendolo di quella tenerezza ineffabile che dopo la morte di lei gli facea dire:

Mente mia… Agli atti, alle parole, al viso, ai panni Alla nova pietà con dolor mista, Potei ben dir, se del tutto eri avvista, Questo è l'ultimo di de'miei dolci anni.

E difatti il morbo che nel 1347 infierì in Avignone l'ebbe tra le prime sue vittime; e forse anche men tremendo flagello sarebbe omai bastato a troncare quel tenue filo di vita.

Il giorno della sua morte fu il sei d'aprile, lo stesso in cui ebbe i natali e in cui vide per la prima volta colui che la destava alla vita del cuore, colui che dovea renderla anche in terra immortale.

Il Petrarca non si confortò mai di tanta perdita; egli era giovane tuttavia, eppure Amor che a cor gentil ratto s'apprende tentò indarno invaghirlo d'altra donna; l'immagine della sua Laura gli stava fitta per tal guisa nel petto che mai come allora manifestò l'altezza di quel sentimento; e le poesie in morte di lei sono il commento, la conferma di quelle dedicatele in vita, sono bella prova che le affezioni sincere non si troncano davanti ai sepolcri, ma là incominciano a divenire celesti.

Non furon poche le donne rese famose dall'amore di grandi; ma se dalla nobiltà e dalla costanza di questi amori devesi argomentare della virtù di chi gl'ispirava, nessuna più di Laura si dovrebbe reputare terrenamente degna di gloria. E piacquemi dire terrenamente perchè, ove si osasse paragonare l'amore del Petrarca a quello dell'Alighieri, dovremmo confessare che, mentre quest'ultimo fu tutto e sempre divino, il primo non seppe di tratto in tratto nascondere l'ansie delle passioni terrene. E al pari di quello dei due poeti, doveva per conseguenza differenziare l'amore delle loro amate; difatti, se Beatrice non si mostra per un solo istante meno che angelica, Laura, quantunque castissima, spesso si sente e si rivela donna, sebbene nel significato più alto della parola.

Gli angeli non partecipano degli umani deliramenti, nè alcuno pensò mai che Beatrice potesse nutrire per il suo cantore altro che un'affezione serenamente pietosa, nè che egli potesse sognare felicità maggiore di quella di contemplarla come in cielo i Beati.

Egli non la vide sorridere quaggiù che un istante, e tosto ne trasportava l'immagine nei firmamenti, quasi a sottrarla da ogni profanazione terrena.

Di Beatrice come donna, come amante, ben poco ci è noto; perfino la Vita Nuova, che ci narra quanto Dante provasse per lei, nulla dice di ciò ch'ella provasse pel suo poeta; talchè noi la vediamo quasi a traverso d'un velo di poesia, di fede, di virtù soprannaturale. Il suo amore è una vittoria senza battaglie, è cosa sì eterea che la consideriamo quasi religiosamente, ma pure con emozione men viva di quella che ci desta l'amore di Laura, nel quale troviamo il sublime di ciò che noi stessi siamo atti a provare.

All'Alighieri bastò l'estasi dischiusagli dall'apparizione di un essere perfetto tanto da poterlo prendere a modello per plasmare, con insuperata sapienza, quella figura divina che potè, senza offesa, porre accanto alla Regina dei cieli.

Il Petrarca contemplò più lungamente, più da presso l'amata, ne indovinò i palpiti, ne sorprese le lacrime ed i sospiri; le incertezze di lui furono tempestose, dalle sue speranze, dai dubbiosi desiri, raccolse amari pentimenti, onesti e costanti dinieghi; eppure non conseguì intera la vittoria che dopo un contrasto lungo quanto la vita di colei, che con i segni di tale vittoria vide ascendere a Dio.

E noi ammirando pur sempre quelle due stupende immagini femminili, che ci sorridono nelle creazioni del genio o dal sommo dei firmamenti, se deploriamo che troppo di rado simili spiriti scendano a peregrinare sulla terra, troviamo peraltro nuovo conforto nel considerare come il secolo nostro, persuadendosi di dare alla donna una istruzione più piena e più efficace, e concedendole maggior larghezza negli uffici della vita e familiare e civile, la faccia capace e degna di esercitare il primo de'suoi diritti, quello cioè di giudicare da sè medesima della convenienza di quel nodo, che, non potendosi sciogliere quaggiù, lega e governa tutta la vita di lei.

Noi ci atteggiamo a preghiera davanti a Beatrice, proviamo una mesta ed affettuosa ammirazione alla memoria di Laura, sappiamo compiangere e compatire le Selvaggie, le Eleonore, le Alessandre e perfino le Fornarine; ma ci auguriamo che l'ideale delle generazioni novelle sia quello della sposa che vede compiersi ogni suo voto nell'uomo che si elesse liberamente a compagno, non solo del talamo, ma della vita intera, dell'uomo che a lei si stringe in comunanza di speranze e di cure, di dolori e di gioie.

E se a Laura fosse arrisa la sorte di andare sposa a tale che avesse saputo intenderla ed amarla come seppe il poeta, ho per fermo che la Laura del Petrarca, archetipo delle donne fantastiche dei poeti passati e futuri, sarebbe stata l'esemplare delle mogli e delle madri di tutte l'età e di tutti i paesi, di quel vero angelo della famiglia, di cui pure in quei tempi, fra quei costumi e fra tanti dolori, ella ci lasciò intravedere l'immagine.

(1) Queste lettere furono stampate la prima volta nella Gazzetta d'Italia, che vi mandò innanzi queste parole:
«La seguente lettera ci venne da Napoli nei giorni decorsi, e ne indugiammo fino a oggi la pubblicazione, perchè volevamo che le chiassate carnevalesche non le togliessero quell'attenzione che merita.
«E una vivace e veridica pittura delle condizioni di Napoli, delineata alla brava, e, perchè la persona che ci scrive giungeva in Napoli da pochi giorni, le impressioni sue hanno tutta l'attrattiva dell'impensato e del nuovo.
«Ci piace che il nostro egregio corrispondente, dal quale attendiamo con impazienza altre lettere, si sia intrattenuto a discorrere alquanto delle condizioni dell'istruzione femminile e maschile. È un tema cotesto che in Napoli, forse più che altrove, merita d'essere attentamenta studiato; e le considerazioni del nostro corrispondente tanto più giungono opportune in quanto che sappiamo che quelle due illustri donne, le signore Erminia Fuà-Fusinato e Giannina Milli, inviate dal ministro Correnti a ispezionare le scuole femminili di Napoli, hanno già incominciato ed egregiamente proseguono l'opera loro.»

Napoli, febbraio 1871.

….. Napoli, per chi ama la bella natura, è un vero incanto. Me l'avevano tanto magnificata! eppure la trovai maggiore d' ogni lode, e le porsi largo tributo di ammirazione entusiastica.—Dietro il bello si nascondono molte cose che sono il rovescio della medaglia, ma questo segue sempre nel mondo; e poi tali cose vanno mano mano scomparendo, vinte dal lavoro incessante della civiltà, che fa sentire dappertutto il suo impulso benefico, che progredisce lentamente forse, ma sicuramonte anche in queste contrade, anche fra questa gente, nella quale la vivacità dell' ingegno lotta spesso con l'inerzia confortata dal clima, e da qualche cosa di contemplatiro che questo cielo, questo mare, questo suolo, infondono nei Napoletani. Rammento ciò che disse il Giusti, nell' epistolario, di questo bel paese, dove pare che gli estremi si tocchino, dove trovi l'ignoranza più completa presso al raggio più splendido di un ingegno dotto e profondo. E questi contrasti si trovano in tutte le classi, in tutte le questioni, in tutto!

Qui la parte dei liberi pensatori più spinti ha di fronte i clericali più inviperiti. Qui l' estremo della miseria, e il colmo della opulenza. Codini che non transigono, e repubblicani che fanno altrettanto. Il Municipio in guerra con la Prefettura. Sindaco e Prefetto, bandiera entrambi delle due parti avversarie—e fra loro i veri interessi del paese trascurati spesso per manifestazione politica. È cosa dolorosa, ma forse l' esperienza mostrerà un giorno come torni dannosa a tutti; e allora le gare spariranno… almeno quando si tratti del pubblico bene! L'aristocrazia, in parte, inerte e fiacca. Il basso popolo, poco amante di ogni occupazione. Fuori che nelle strade più popolate, tutto si fa all'aria aperta; e tutto vuol dir proprio tutto!

Ma è d'uopo convenire che nessuna città d'Italia ha l'aria di città capitale che ha Napoli. Soltanto il numero delle carrozze, che tutto il giorno sono in movimento, sbalordisce. Il Museo è un paese. E le reliquie pompeiane gli danno un valore straordinario. La villa di Capo di Monte offre delle viste stupende, rinchiude molte belle cose artistiche moderne, ed anche come pa lazzo ha del pregio ed una imponenza di proporzioni e di solidità non comune.

Il passeggio della Villa, in città, è un paradiso. Vi crescono rigogliose le palme; ci si vede una folla di gente composta di tutte le nazioni; con le belle giornate i bambini vi sono in numero inflinito e la rendono più bella.

Si fabbrica continuamente, benchè con assai meno ardore che a Firenze e con assai minor buon gusto. Ma vi ha sommo bisogno di case, e queste si pagano a carissimo prezzo.

Il benessere non è conosciuto; quando fa freddo, si deve sentirlo grandemente, perchè qui non deve venire, epperciò non se ne riparano. Mangiano male, anche spendendo molto, per incuria, per incapacità, per abitudine.

Ho visitato alcune scuole, fra le altre quelle che si trovavano nel cosiddetto Albergo dei poveri, grande, immenso edificio fabbricato da Carlo III, e che accoglie molti rami di beneficenza. È un piccolo mondo che contiene un'infinità di istituzioni diverse ed ha delle dipendenze anche al di fuori. C'è, per esempio, il ricovero delle vecchie, delle sordomute, ecc. C'è una specie di collegio'convitto, diretto da suore di carità francesi (in numero di sedici), le quali insegnano a molte giovanette orfane e povere mille cose diverse. Qui si fanno dei fiori artificiali che possono stare al confronto di quelli di Francia e che certo superano in bellezza quanti altri se ne fanno in Italia. Si fila, si tesse, si fanno calze, vestiti, biancherie, ricami d'ogni specie, fino alla perfezione, così in tela come in seta, con lane, con oro, ecc. L'istruzione intellettuale letteraria è da minor tempo, e solo da poco incominciò ad avere ordine e a dare qualche buon risultato. Conviene però pensare alle tenebre del recente passato, per contentarsi del presente e sperare nell'avvenire. Qui bisogna cercare di incoraggiare, di eccitare, di far sentire il soffio della vita nuova anche fra queste vecchie mura, anche sotto i cappelloni bianchi delle suore; ma bisogna tener conto di tutto, pensare cosa erano, di dove vengano queste bambine, pensare come pensano (dovevo dire non pensano!), come parlano (sembrano turche!), e fra quali e quanti pregiudizî son nate!

Intanto in questo ricovero imparano a lavorare, risorgono moralmente e, uscendone (volendo, a 20 anni), hanno il modo di vivere onestamente, e portano seco un libretto della cassa di risparmio, che rappresenta la somma meritata col più o meno assiduo e pregiato lavoro. Io vorrei poter dire: Non le occupate unicamente del Vecchio Testamento, per tante ragioni arduo, oscuro, e per sì poche di pratica utilità; raccogliete l'insegnamento in sugli Evangeli, in sulla parte che il Cristo rese sì sublime e che meglio parla al cuore. Sarete intesi, non avrete equivoci da evitare, oscurità da esplicare, barbarie da nascondere, privilegî da giustificare.

Restringete l'insegnamento dei dieci comandamenti ai primi cinque, lasciando gli altri che non possono, che non devono venire compresi: da giovanette. Date qualche idea dei doveri di famiglia e di patria, e che Dio vi benedica!

Cerchiamo di togliere qualche abuso, di introdurre qualche piccola riforma, e per le radicali aspettiamo a seminarle in un terreno meglio preparato a fecondarle.

Ho anche visitata la parte maschile di questo Albergo dei poveri, e vi ho trovato cose importanti, confortanti e bellissime. Tutti gli allievi vestono una divisa semplicissima, ma non inelegante. Hanno una disciplina militare, esercizî ginnastici, un insegnamento (abbastanza ristretto) letterario—una specie di quello che si dà alle femmine, e varie scuole d'insegnamenti diversi, come di disegno, di scultura, di musica, di declamazione, e perfino di lavori in corallo!—Ci sono sarti, calzolai, legnaiuoli—là dentro si provvedono d'ogni cosa da loro.—Vidi disegni, statuine e mobili bellissimi. —Sonarono in modo da sorprenderci.—Questa orchestra diede il direttore al San Carlo, e dà il capo a molte musiche militari. Insomma è un tutto insieme che impone e che fa piacere. Anche qui il ricavato dei varî lavori va in parte a beneficio dei lavoranti.

Ho veduto il palazzo reale. La grande scala è bellissima; c'è una vasta terrazza, a guisa di giardino pensile, che presenta la vista incantevole di gran parte della città e del golfo. Ammirai la leggiadra culla offerta al Principino reale: è un gioiello; ma la bella ed elegante descrizione del Settembrini me l'aveva figurata per modo che mi parve vederla per la seconda volta. Anche gl'intagli in legno sono stupendi.

Vidi molte porcellane dell'antica fabbrica napoletana di Capo di Monte. Cose tutte preziose, che si pagherebbero a peso d'oro, e che fanno imprecare a coloro che distrussero questa industria utile tanto e pregiata. Ci sono degli arazzi di Gobelin assai belli. Anche di pittura, hanno lavori pregevolissimi. Gli appartamenti son vasti, belli, spesso ricchi ed eleganti, ma nulla vi ha di straordinario. I ricordi borbonici sono a Caserta.

Ritorno al tema dell'educazione per manifestare il desiderio che qualcheduna di queste signore si occupi un poco dell'istruzione e della educazione femminile. Ma è cosa ardua, perchè le codine non ne vogliono sapere, e le altre hanno la vita elegante che ruba loro il tempo.

Concludo con una frase usitatissima: Quante belle e preziose cose vi sono in Napoli! e con quanto poco si potrebbe migliorare, perfezionare l'istruzione, rendere più efficace la somma ingente di danaro quivi dedicata alla beneficenza, e questa più equamente distribuire e più degnamente largire col lavoro!… Se una raccolta di pii desiderî potesse dar frutto, oh! quanti ne crescerebbero convertiti in opere buone su questa terra stupenda!

Napoli, 26 febbraio 1871.

Sono stato invitato con alcuni amici ad assistere stamani all'ammissione di dodici fanciulle orfane e povere nel collegio di San Vincenzo Ferreri. E noi ci siamo andati come ad una vera festa, alla festa della carità. Entrammo nella chiesa addobbata per la lieta solennità. Nel recinto dell'altar maggiore presero posto il duca Crivelli, commissario straordinario del pio luogo, e varî rappresentanti della stampa, dell' insegnamento, della beneficenza e del Governo. Incominciarono una messa cantata, e la voce delle giovinette ricoverate si alzava dolcissima dietro le grate dell'organo e si spandeva per la chiesa e penetrava nei cuori, invitandoli alla preghiera. Pregavano esse pure cantando, per le nuove sorelle che dovevano accogliere in quella grande famiglia, per quelle poverette che vi chiedevano un asilo, un pane, un'istruzione colla quale potere in seguito procurarsi uno stato nel mondo. Povere orfanelle! che sarebbe di esse ove la pietà illuminata non tenesse loro le veci di madre?… A ciò io pensavo ascoltando quelle voci, e la religione mi pareva una poesia, e la poesia diveniva così una religione sublime!

Il sole penetrava nella chiesa, inondava di lieta luce le immagini dei Santi, i quali parevano sorridere essi pure con noi, e quei raggi che si rifrangevano nei cristalli delle lumiere, stampavano sulle bianche pareti dei prismi bellissimi. Insomma io non so qual cosa o persona in quel momento non fosse, o almeno non sembrasse, commossa, entro quel piccolo tempio.

Finita la messa, le dodici fanciulle novellamente elette a far parte della pia casa, entrarono in bell'ordine entro il recinto dell'altare, guidate da ventiquattro fra le più giovanette ricoverate, che stavano al loro fianco tenendole fraternamente per la mano. Fecero il giro del breve recinto, e, passando davanti al Duca, si ebbero una ad una la carta d'ammissione; indi uscirono dalla chiesa sotto la scorta della direttrice e delle maestre. Forse in quel momento qualche parente avrà inviato un bacio e un saluto a quelle care che abbandonavano una povera casa, di cui erano il solo fiore vivente, il solo costante sorriso. Ma l'affetto vero non è mai egoistico, e le lacrime degli amorosi parenti si saranno raddolcite al pensiero degli infiniti vantaggi fisici e morali che le loro dilette conseguiranno fra quelle mura ospitali.

Tutta la famiglia e gl'invitati si raccolsero poscia in una sala terrena del Conservatorio, ed ivi il signor duca Crivelli con un opportuno discorso significava alle nuove venute come esse non entrino già in un convento ove si pensi a staccarle dagli affetti e dai doveri del mondo, per innamorarle delle beatitudini dell'isolamento e della contemplazione, ma bensì in una casa di educazione che risponde a ciò che i tempi richiedono e che le preparerà ad essere buone madri e buone operaie. Rivoltosi poscia l' illustre oratore agli invitati, espose come egli venisse chiamato dal Prefetto, or sono pochi mesi, a compiere una radicale riforma in questo già convento, oggi collegio di San Vincenzo Ferreri. E disse che d'ora avanti non sarà più permesso che delle donne le quali hanno toccati i venticique anni, perchè indossarono un abito monastico, abbiano ancora diritto ad essere mantenute con le rendite dell'istituto, come da prima si usava, ma dovranno lasciare il luogo ad altre giovanette, tenendo così in vigore il concetto primo della istituzione.

E soggiunse che aveva voluto separare le vecchie monache dalle giovani educande, l'istruzione delle quali è ora interamente affidata a buone maestre laiche e ad una egregia direttrice. Parlò della scuola di sarta, di stiratrice, di ricamo, e perfino di disegno, tutte novellamente istituite—dei contratti fatti coi mercanti di mode per vendere loro direttamente i lavori, senza dover temere, come in altri luoghi, che parte del ricavato vada a beneficio d'istituzioni clericali, avverse alle aspirazioni del paese.

Disse infine come l'insegnamento letterario verrà impartito con ispeciale zelo e come abbia voluto non escludere la scuola di canto ivi esistente, sapendo come e quanto una bella voce possa giovare all'avvenire di una giovinetta.

Ecco tutto ciò che si è sostituito al lavoro dei guanti, unica e meschina industria esercitata pel passato nel conservatorio!

Dopo questo discorso, vivamente e universalmente applaudito, una delle fanciulle ricoverate rivolse con brevi versi un affettuoso saluto alle nuove sorelle, le quali vennero baciate da tutta la famiglia, nella quale lietamente si confusero.

Allora si passò alla visita dell'interno edificio. Le scuole, i dormitorî, le sale, tutto era risplendente d'ordine e di nettezza. Nelle classi si vedevano esposti i singoli lavori. In quella di disegno avevamo da congratularci con l'egregio professore Toma del profitto che seppe ottenere in pochi mesi di lezione. In quella di sarta abbiamo veduto eleganti vestiti, cuciti con la macchina, nuovo progresso accettato nel collegio. In quella di stiratora erano esposte le più graziose parti dell'abbigliamento muliebre, e quelle trine, quelle gale tutte cannoncini e piegoline sempre precise, candide, leggiere, parevano stirate da esperte maestre, e non da allieve di poche settimane. Tanto può fare chi sa ispirare l'amore d'ogni utile lavoro!

L'ultima sala che visitammo fu la scuola di canto, dove maestre ed alunne ci aspettavano per farci sentire un coro festoso. Erano le limpide voci udite nella chiesa; soltanto ora l'intonazione pareva ancora più gaia e manifestava sentimenti più terreni, ma non meno cari.

Furono pur recitati nuovi versi, rivolti questa volta al buon duca, vero duce e padre di quelle buone fanciulle. Semplici versi, quali potevano e dovevano essere da quelle giovinette; quali esse li avrebbero dettati, sapendoli dettare. E coi versi porsero fiori, due cose che stanno sì bene insieme e che la gioventù unisce sì volentieri! Indi si scese al pian terreno e si visitò la cucina. Sì signori, anche la cucina, anche il refettorio, stanze nuove del tutto, perchè fino ad ora le ricoverate allestivan tutte per conto proprio il loro nutrimento, con quanto danno dell'economia, del tempo, della disciplina e della nettezza, ve lo lascio immaginare!

Ora, cucina e refettorio sono tali da fare invidia ad ogni più elegante istituto, ed in ogni loro particolarità meritarono le lodi degli invitati, perchè rispondono ad ogni bisogno, ad ogni desiderio d'una intelligente massaia.

Napoli, 12 marzo 1871.

Ogni qualvolta ci avviene di visitare e studiare, per non brevi giorni e pensatamente, una parte d'Italia, di cui non ci era ben nota la condizione, nè l'indole degli abitanti, dobbiamo deplorare che sovente coloro che debbono trattarne i bisogni non si prendano questa briga.

Ogni questione di qualche importanza non dovrebbe venir giudicata che dopo averne indagate le origini spassionatàmente e in mezzo alle cose ed alle persone che la fecondarono. Pur troppo degli errori delle regioni sorelle sono più che persuase le altre e più lontane regioni, ma delle loro virtù, dei loro bisogni, dei loro dolori, non è così; chè l' affetto nazionale non è ancora tanto generoso da farci credere a quanto non pesa sopra di noi, fino a che non l'abbiamo toccato con mano. E questo non dico solo per le provincie meridionali, ma in genere per tutte le provincie italiane, benchè oggi sieno le meridionali che me ne danno argomento.

Passata la nostra luna di miele con la libertà, a mano a mano che ci andiamo allontanando dai sanguinosi ricordi della tirannia e che ci andiamo persuadendo che questo grande miracolo cho si chiama l'unità d'Italia gli è proprio un fatto, ci sentiamo sempre più impazienti delle pene che ci costa questa patria, e perfino qualche volta vi ha qualcheduno che osa asserire che si pagò un po'cara. E doveva essere così!… La mala signoria doveva lasciare questi semi funesti, e la più degna e difficile opera sarà appunto quella di estirparli e distruggerli. Ma fatalmente siamo in un periodo, nel quale gli uomini nostri sono troppo inferiori degli avvenimenti, in cui le passioni politiche tengono luogo delle opinioni, e in cui le turbe inerti, inette, impazienti, fanno una colpa a chi dovrebbe guidarle anche di ciò ch'essi non sanno fare.

Di tutti i diritti che la libertà consente, più largamente si esercita il giudicare di tutto e tutto condannare; e così facendo ci sembra di mostrarci superiori a tutto!… La condizione dei popoli oppressi, togliendo loro la responsabilità delle loro azioni, li abituava ad una inerzia, il riscuotersi degnamente dalla quale non è mai agevole e spesso torna impossibile per difetto di volontà, e perchè il non te ne incaricare napoletano risponde troppo bene al bugia nen piemontese, al lascia andare toscano, e trova un riscontro infine in tutti i dialetti d'Italia. C'è chi fa, ma non sono sempre i più disinteressati, nè i migliori… ed ormai ne siamo tutti convinti. I tiranni ebbero la potenza di spogliarci d'ogni, come oggi dicono, iniziativa; il Governo nazionale non ha la virtù d'ispirarcene ora novellamente!…

E dunque?… Oh! se una conclusione e buona la potessi trovare da me, non invidierei nè chi inventò la polvere, nè chi pose in atto la forza motrice che ci trasporta in brevi ore da un capo all'altro di questa bella ma difficile Italia! Io non posso che deplorare le piaghe presenti che non sono fresche, mentre pure confido che a poco a poco col senno e con l'operosità le potremo sanare. Io ci credo sempre a questo sentimento potente che ci univa tutti, e sono convinta ch'esso non verrà mai meno.

Ma è pur doloroso lo spettacolo al quale oggi assistiamo anche qui!… È pur doloroso non vi sia una voce tanto autorevole, una mano tanto ferma, da por fine alle intemperanze dei partiti, da reggere sicuramente il freno di questa amministrazione importantissima e trascuratissima!… Poichè qui ci sarebbe stoffa per fare cose stupende! L'indole di queste popolazioni è vivace ed affettuosa, le doti del cuore rispondono a quelle della mente, ma non furono nè sono sviluppate bastantemente, e nessuno fa quanto potrebbe, quanto dovrebbe. In molta parte delle persone anche istruite, vive ancora la credenza che la rimanente Italia non apprezzi, non ami quanto lo meritano queste provincie, le quali ritengono sieno riguardate quasi come conquistate! È vano dire quanto sia assurda tale credenza, ma distruggerla non è agevole cosa!

Ora, avendo più vicina la sede del Governo e potendo esercitare sopra di questo una più diretta azione, non avranno ragione di insistere in tale idea, ma ricordino invece che appunto da questa nuova autorità che terranno, verrà loro una nuova responsabilità, e che i rappresentanti di tutte queste città dovranno ormai essi soli rispondere verso i proprî elettori degli interessi morali e materiali loro affidati. Si mostrino degni del loro ufficio, e sieno persuasi e persuadano che nello stato suo presente l'Italia avrà veramente il Governo che si meriterà, e l'onta o la gloria di questo sarà onta o gloria comune!…

Una delle quistioni locali che maggiormente agitano la città, è oggi quella dei possedimenti della Casa Reale ceduti al Demanio.

Gli è un fatto ben riconosciuto che la Casa Reale non è obbligata a sostenere il grave peso dell'amministrazione che le verrebbe da tutte le ville e dipendenze varie già appartenenti ai caduti Governi. Ma forse non è ingiusto il desiderio di vedere questi stupendi edifizî, questi parchi deliziosi consacrati sempre ad intendimenti benefici ed al vantaggio comune. Nessun sovrano al mondo avrà niai più tante reggie, nè potrà mai più mostrarsi così splendido, secondando insieme le ispirazioni dell'animo generoso ed una saggia economia così parzialmente, come pubblicamente efficace. E ciò si è fatto molte volte ed in molti luoghi. Ma ora si vorrebbe che anche la bella villa di Portici col bosco che le appartiene, in luogo di vendersi spezzatamente a privati dal Demanio che ne tiene possedimento, venisse ceduta al Municipio e al Consiglio provinciale, che vorrebbero metterci una scuola agraria; e così il vantaggio ed il decoro si unirebbero insieme, e tutti sarebbero soddisfatti, poichè si dice che questo signor Demanio venga troppo di sovente beneficato dalla generosità della Casa Reale, e si dice pure che esso vorrebbe concedere la dimora di questo palazzo di Portici a patti straordinariamente favorevoli a persone di sua simpatia, ai così detti consorti, talchè i più (i quali sono sempre anche i più malevoli) ci trovarono ragione di acri censure.

Io non so quanto ci sia di vero; ripeto ciarle troppo note in Napoli, ma che è bene non s'ignorino fuori, perchè gioveranno forse o a togliere qualche abuso, o a scoprire qualche verità.

Figuratevi che mi si narrò ancora come allo stesso Demanio venisse o regalato o ceduto a patti assai larghi lo stabilimento dei bagni che il Borbone facevasi fabbricare alle terme dell'isola d'Ischia, col relativo palazzo, ecc., ecc., e si aggiunge che alcun tempo dopo, avendo non so qual generale inviati a detto stabilimento alcuni soldati bisognosi di quella cura balneare, i rappresentanti demaniali rifiutassero loro l'ospitalità, obbligandoli così ad occupare gli stabilimenti privati, con grave danno dei cittadini.

Questioni consimili ci furono tra Municipio e Demanio anche a proposito del famoso Castello dell'Uovo, ed il Municipio finalmente potè ottenerne la proprietà, e, valendosi di una lista di quel terreno, sta costruendo un viale, e pare costruirà in seguito delle case. Ripeto che non sono bene istruita di tutto ciò: mi si potrà correggere: ebbene! ne sarò lieto, perchè avrò volta l'attenzione di qualcheduno sopra argomenti importantissimi per questa città, e sono certo che questa città sarebbe lieta di vedere che ci occupiamo de'suoi bisogni col cuore di fratelli! Dio mio! come torna penoso il vederla tanto trascurata in ogni sua parte!… Come torna penoso il veder crescere l'erba sugli antichi monumenti tanto municipali, quanto governativi, come, per esempio, sulle antiche mura del Castello Nuovo!…

È tutto così, capite, proprio tutto così! ciascuno fa ciò che vuole; ciascuno fa ciò che non gli garba! Figuratevi che anche ieri sera le signore si recarono al teatro San Carlo, dov'era promesso lo spettacolo, ed alcuna veniva anche ben di lontano in carrozza; ebbene, senza nessun avviso, giunti alla porta, la trovate chiusa! e questo segue sovente, nè si impongono multe, nè ci si mette regola. Viva la libertà! ma che libertà! Viva il dispotismo degl'impresarî e la bontà del pubblico.

E passan do, come il mio solito, da uno ad un altro argomento, da uno ad un altro, e questa volta ben più grandioso spettacolo, qui il vulcano ci regala un'eruzione sempre più abbondante e di un aspetto sempre più pittoresco. Ma pur troppo questa singolarità che tanto commuove chi per la prima volta l'ammira, esercitò un fascino funesto sulla eccitata fantasia di un giovane straniero (credo un francese), il quale, spinto dalla curiosità, entrò nell'onda della lava, certo inavvertitamente, e tosto vi fu travolto e morì. Un abitante del vicino paese di Resina mi disse d'averne veduto ieri mattina il cadavere carbonizzato!

Napoli, 12 marzo 1871.

Si può descrivere Pompei, non già l'impressione che essa ci desta nell'animo. Pare che la natura circostante serbi tuttavia il ricordo, l'impronta di quella immensa catastrofe, e che ne sia ancora sbalordita e commossa.

La vegetazione è fiorita, il paesaggio è stupendo, ma c'è qualche cosa che ti dice: Pompei è qui! prima ancora che tu n'abbia scoperte le mura diroccate. Oh! tutte quelle traccie di vita, quando la vita è scomparsa, tutto quell'apparato di ricchezza, d'arte, di felicità, dove la rovina e la morte piombarono inattese e tremende, come ci fanno meditare e compiangere la sorte di tanti infelici! La prima casa della città venne scoperta nel 1755, Ora tutti sanno il progresso di questi scavi, oggetto di ammirazione e di curiosità a tutta l'Europa, argomento di studio ad artisti e scienziati d' ogni paese. Io passai ore ed ore fra quelle reliquie, ripetendo colla mente le lettere di Plinio il giovane, trasportandomi a quei giorni, e provando quasi l' emozione delle vittime….

Alfine rubai un sassolino da un pavimento sconnesso, un ramoscello ad una pianta cresciuta fra le pareti di una di quelle abitazioni, e partii da quel gran cimitero, passando appunto dalla via dei Sepolcri, elegante sepolcreto ove quegli infelici avevano deposte le ossa dei loro cari e fidavano indarno poter deporre le proprie!

E il vulcano è sempre qui, eterna minaccia e fonte eterna di danni; eppure, più che la paura, può in questi abitanti l' amore del natio loco—e tutti i paesetti vicini dopo le eruzioni e i terremoti, si ripopolano come prima, e vedi ogni famiglia ritornare alla propria casa, esaminarne ansiosamente le offese che pativa, ripararle con cura diligente, e poi, obliando il vicino passato, sfidare con animo tranquillo le probabili sventure che nuovamente le appresta un non lontano avvenire! Oh! ma questo suolo è si fecondo, questo mare e questo cielo sono sì belli e sorridenti, che non è da maravigliare se chi vi nacque vicino non se ne sa togliere neppure per cercarsi asilo più sicuro.

Da Napoli a Torre del Greco, chi voglia lasciare la strada ferrata per la postale, trova una continuazione di abitazioni che gli fa credere d'essere pur sempre in una via di Napoli. A Portici vediamo la bella, vasta e grandiosa villeggiatura borbonica, ora ceduta da Re Vittorio al Demanio, il quale pensò (e parmi non abbia pensato male) di affittarne i varî appartamenti a chi preferisce questo ameno soggiorno a quello più costoso e fragoroso di Napoli, da cui pochi minuti lo dividono.

Fra Portici e Torre del Greco, alla fine della strada maestra di Resina, si trova la Favorita, altra abitazione reale estiva, edificata dal duca Beretta, e quindi comperata dal principe Jaci siciliano, poi abbellita con ogni cura dai Borboni. Il suo nome dice l'affetto che vi portavano gli antichi signori. È meno splendida assai dell'altra, ma forse più gaia; senza sfarzo di architettura, ma tutta fresca ed elegante pei doni della natura e dell'arte; promette meno, ma forse ricrea assai più dell'altra, come tante cose nel mondo che superano l'apparenza e l'aspettativa!

Torre del Greco è una vera città; conta oltre a diciannovemila abitanti. La pesca del corallo è la principale, e potrebbesi chiamare l'unica ripresa del paese, dalla quale deriva, o per dir meglio, alia quale si aggiunge la manifattura corallina. Alla prossima mostra marittima in Napoli, Torre del Greco figurerà anch'essa degnamente, grazie appunto al suo esteso e lucroso commercio della pesca del corallo.

Il golfo di Napoli con tutta questa ghirlanda di colline e di fabbricati che lo cinge, ammirato da una eminenza di Torre del Greco in una serena giornata, mentre nel porto sottoposto un numero infinito di legni sta per salpare, e lo vedi brulicare di persone d' ogni età e d'ogni sesso, e ti giunge un confuso rumore di voci, qua di saluto, là di comando, dappertutto vive e commosse, ti dà un insieme di impressioni tutte nuove e da non dimenticare mai più nella vita. E se pensi a questa gente che una parte dell'anno sfida le lave del Vesuvio, e un'altra le onde del mare, eppure ti si mostra tranquilla, fiduciosa e lieta, tu ti senti portato in un affetto con essa e ti senti ben soddisfatto di dire: Grazie a Dio siamo tutti italiani; ci sentiamo tutti fratelli!… E quando ti si dica che a Torre del Greco v' è un asilo infantile, quasi interamente mantenuto col residuo delle collette nazionali, offerte a questo paese dopo la tremenda eruzione del 1861, quando sotto il patronato di Maria Pia vi si fondarono delle nuove scuole, quando gli Italiani, ancora divisi, facevano la carità anche per dimostrazione patriottica, oh! allora, per poco che tu abbia contribuito a quelle collette, quanto benedirai quello slancio pietoso, e come ne sarai ricompensato vedendo quanto sia tornato fecondo!

Pausilipus suona in greco cessazione d' affanni, e veramente chi percorre questa collina ed ha intelletto d'artista, dimentica, almeno, per poco, quante miserie si trovano nel mondo!

Qui la bellezza delle ville che svariate e frequenti ci si presentano, la vista del mare che si muta a ogni piccol tratto di cammino, i ricordi di tante cose antiche e famose trasportano la fantasia ad altri tempi, la sollevano dalle cure della vita di tutti i giorni.

Ma più che della Grotta di Pozzuoli e di quello che, non si sa con quanta ragione, i ciceroni chiamano il sepolcro di Virgilio, rimasi commosso alla vista della tomba del povero Leopardi, che si vede appunto passata appena la Grotta, e che dice tante cose la cuore d'ogni Italiano! Povero Leopardi! fra tanto riso di natura, morto sì presto e sì miseramente dopo sì misera vita! Oh! con quanta forza gridai su quella pietra modesta: Questa tua patria è libera tutta, ma i tuoi versi mi dicono che la voce nostra non ridesta la polvere degli estinti, nè il loro spirito l'intende!

Nisida, chiamata così dal greco per la sua piccolezza, è l'isola più pittoresca che si possa ideare.

Al tempo dei Romani faceva parte della gran villa di Lucullo, e, secondo Cicerone, fu scelta per tenervi un ritrovo Marco Bruto e gli altri uccisori di Cesare.

Ora il Castello di forma circolare che si eleva nella parte più culminante dell'isola, ci rammenta le vittime borboniche che tanti anni vi patirono la più dura prigionia, e così un pensiero di dolore, d'ira e di riconoscenza si mesce alla nostra contemplazione e ci toglie al nostro entusiasmo.

Pozzuoli è per certo una delle più singolari contrade della terra.

I vulcani estinti, la solfatara, le cave delle pietre vulcaniche, la ricchezza delle acque minerali, le Grotte del cane, di Seiano, le reliquie della via Appia, sono tutte cose che ti colpiscono e ti fanno pensare a ciò che vi è di più memorabile nella storia fisica e nell'antica storia romana.

L'anfiteatro Puteolano, ove venne rinchiuso il vescovo S. Gennaro per essere esposto alle fiere nel 305, si dissotterrò intieramente nel 1848. La sua forma esteriore è magnifica. È più vasto di quelli di Pompei e di Verona. È degno dell'epoca che ci ricorda.

Poi si visitò il tempio di Giove Serapide, che è il più importante fra i monumenti di Pozzuoli, e deplorammo le ingiurie che patì dal tempo, dagli elementi, dai barbari e perfino dagli abitanti, perfino dagli amatori dell'arte antica… in casa propria, che lo depredarono di quanto fu loro concesso portar seco!

E poi mille altre reliquie dei secoli lontani e della grandezza avita visitammo ammirando.

Ma da quell'unione di rovine mi veniva una tristezza profonda; e poichè i miei compagni, sposi novelli, fra tanta desolazione del passato, mi parlavano di ciò che di più lieto dà il presente, di ciò che di più bello promette l'avvenire, tornai con essi alla spiaggia del mare fra la vita, la festa della natura, cui per essi univansi le armonie dell'amore.

Questa sera potei godere di uno spettacolo veramente stupendo. Il cielo, da ogni altra parte sereno, sopra il vulcano era qua e là coperto di nubi, illuminate dal riverbero dell'eruzione abbondante e dalla luce della luna che appunto sorgeva dietro il Vesuvio. Il fumo vulcanico saliva in lunga e nera colonna, e tratto tratto la luna ne rimaneva nascosta. La lava scendeva per un largo solco e luminoso che giungeva fino quasi alle falde della montagna. E là vicino le torcie delle guide, le comitive degli stranieri, confusi rumori, un insieme fantastico, sorprendente.

Chiese di Napoli. San Lorenzo, chiesa edificata verso il 1340 dagli Angioini. Abbondanza di marmi, di sculture, di dipinti pregevolissimi. L'altar maggiore è opera di Giovanni da Nola, scultore di cui l'Italia non conosce il pregio e l'operosità ch'ebbe grandissima.

Dietro l'altar maggiore, oltre il coro presente, ve n'ha in gran parte dell'antico, da lungo tempo diviso dalla chiesa e abbandonato. Là vedi monumenti rovinati, marmi sepolcrali con belle sculture sparsi qua e là…, memorie d'arte, di uomini forse buoni, forse grandi, tutto confuso, obliato… qualcosa che ti stringe il cuore!

Nella chiesa havvi una gran cassa di vecchie tavole, dove da lunghi anni sta come una morta una statua del professore Tito Angelini, quello che fece ora il monumento a Dante per la piazza del Mercatello. La stastua incassata era destinata a celebrare la cosiddetta pace del 15 di maggio 1848, la pace della reazione!

Ma il monumento ideato per ciò dal Borbone, oggi si tramutò in quello dei martiri della patria, che si erigerà nella piazza che ne prese anche il nome!… Ma intanto perchè la statua è condannata all'oblio? L'opera dell'arte non ha suggello di Caino, e la pace si può risalutare con gioia, ora che speriamo torni ad arridere alla povera Francia. Ma il Municipio di Napoli, è una specie della madre nella famiglia Benoîton, è quasi un'araba fenice, che vi sia ciascun lo dice, dove sia… qualcun nol sa!

La chiesa di San Severino sorgeva nel secolo decimoquinto. Il coro è arricchito da moltissimi e bellissimi intagli di un frate, del quale non si seppe dirmi il nome, intagli che non temono il confronto di quelli del veneto Brustolon. Profusione di marmi in tutto il tempio, e specialmente nel pavimento. Nella cappella di S. Severino si vedono le tombe e le statue dei tre giovani fratelli avvelenati da una parente per avidità di censo. Storia pietesa e tremenda, illustrata anche da tre iscrizioni. In questa chiesa c'è una lapide che rammenta dove cadde e morì Belisario Corenzio, mentre ne dipingeva la volta.

Alcuno crede che la sua caduta non fosse accidentale, ma procurata da un allievo geloso.

Vorrei che tal credenza fosse una menzogna, vorrei che simili sospetti non deturpassero i ricordi dell'arte.

Dello stesso Belisario Corenzio ammirai un dipinto a fresco (che mi pareva una tela) nell'antico refettorio dei Benedettini, ora sala diplomatica degli archivî generalï delle provincie meridionali.

E di questi archivî quanto non ci sarebbe a dire! L'edificio è bello e vastissimo, i corridoi principali hanno la lunghezza di 200 metri ciascuno, e le loro pareti sono tutte tutte coperte di armadî colossali per altezza e profondità, pieni dall'alto al basso di scritti che contengono l'istoria di questa bella parte d'Italia, incominciando dai duchi, e proseguendo per le monarchie dei Normanni, degli Svevi, degli Angioini, degh Aragonesi, poi giù giù fino ai dì nostri. È un insieme che ti sbalordisce, ma ogni cosa è regolata per modo che ciascuno dei custodi può prendere e recarti quei documenti che desideri, senza la perdita di un minuto. Il comm. Trinchera, presente direttore di questo emporio di documenti, aggiunse nuovo lustro a questi archivî, dove vengono a studiare tanti stranieri d'ogni parte del mondo… e ben pochi Italiani! C'è una collezione di pergamene e di suggelli antichissimi, fino dal tempo del ducato di Benevento e di quello di Salerno. Ci stetti mezza giornata, guardando sempre e partii con la coscienza di non conoscere che una minima parte di ciò che vi ha di prezioso.

La chiesa di San Domenico Maggiore darebbe argomento per un volume. Ora non voglio rammentare che una sola cosa, che mi fece impressione profonda. Tutto all'ingiro della parte superiore della sagrestia corre una specie di ballatoio, dove stanno due ordini di casse mortuarie, quasi tutte contenenti gli scheletri degli Aragonesi. Nessuno mi seppe dire da quanto e perchè stieno lì; certo è uno spettacolo ben triste e strano! Volli salire da una stretta scala a quel sepolcreto, e vidi che il primo di quei feretri conteneva non già lo scheletro di un Aragonese, ma quello di Antonello Petruccio, segretario di Ferrante Carafa, strozzato in seguito alla scoperta di una congiura. Vollero sollevare il coperchio della cassa, e vidi lo scheletro che mostrava tuttavia lo spasimo della morte violenta; vidi le contrazioni dei denti e delle ossa del volto perpetuate dalla immobilità della morte. Ed ora, congiurato e tiranno, carnefice e vittima sono là tutti e due, in due casse eguali, a pochi passi l'uno dall'altro… Oh! gl'insegnamenti della storia per chi li sapesse apprezzare!

E nel mezzo di questa numerosa schiera di feretri, proprio nel mezzo della galleria, v'è un piccolo, ben piccolo feretrino, su cui leggi il nome d'una principessa di Savoia, nata qui in Napoli nel 1800, e morta venti giorni dopo, quando i Francesi invadevano il Piemonte, quando la famiglia sabauda trovavasi in Napoli come in una terra d'esilio. E fra tanti ricordi tirannici di un odioso passato, questo nome pareva posto qui dalla Provvidenza come segno, come promessa di un miglior avvenire. Pareva quasi che quella angioletta si ergesse fra gli odiosi spettri che la circondavano per gridare loro: «Io sono apparsa appena e scomparvi, ma tornerò, ed il vessillo della mia casa sventolerà solo da un capo all'altro della terra ove nacqui…» Oh! gli insegnamenti della storia per chi li sapesse apprezzare!

Napoli, 13 marzo.

Aveva la presunzione di credere che il lavoro della fantasia potesse in gran parte fornirmi l'idea dell'aspetto che offre il Vesuvio visto da vicino. Era proprio una superba presunzione! Ieri in una eletta comitiva che rappresentava più nazioni d'Europa e più regioni d'Italia, abbiamo fatto la desiderata ascensione. La giornata era splendida, Ove pure il vulcano non esistesse, metterebbe conto di toccare l'altezza di questo monte per godere della vista incantevole che presenta. Arrivammo presso il vulcano nell'ora del tramonto. Dal nuovo cratere laterale, apertosi da poco, usciva una grande colonna di fumo candidissimo. Dal cratere antico e più vasto, sorgevano di tratto in tratto globi immensi di un fumo più denso e scuro, che si svolgevano poscia nelle più bizzarre figure. E queste due colonne di diversa forma e colore, finivano col riunirsi nell'alto di un cielo tutto azzurro, e parevano—l'ho da dire?—parevano a me la personificazione del bianco e del nero. del bene e del male; i due genî che lottano eternamente quaggiù, e le cui ispirazioni contrarie, ieri, in quell' ora, in quel luogo, sognavo si contendessero così anche gli spazî celesti. E dalle due colonne scintillavano di tratto in tratto dei lampi fugaci, e gli ultimi raggi del sole vi si rifrangevano lievemente e ne crescevano la bellezza fantastica.

Mi rivolsi al mare. Non vidi mai tramonto più splendido! Tutta Napoli, tutte le colline ed i paesi che le fanno corona, potevano abbracciarsi con un solo volger d'occhi. Le tinte più svariate, e non mai vedute sotto cieli diversi, si succedevano rapidamente. Davanti al globo solare passavano rapidissime delle nubi leggiere, leggiere, pari a candidi cigni. Il mare scintillava commosso. Per tutto il golfo era un lieto movimento di barchette, e qua e là si vedeva il solco che il movimento di un legno a vapore segnava nelle acque, e la traccia fumosa che spandeva per l'aria. Qualche canto, lontano lontano, rompeva il silenzio contemplativo che si sarebbe detto imposto ad ogni persona, ad ogni cosa, dalla solennità dello spettacolo incantevole. Alfine il sole scomparve, lasciando dietro di sè una splendida onda di luce, saluto e promessa del prossimo ritorno. Ed io guardai intorno a me. Eravamo in un deserto di lara. Le varie eruzioni si distinguono l'una dall'altra per la lucentezza e fragilità, che la materia va mano mano perdendo per opera delle intemperie e degli anni.

L'ultima lava uscita era proprio della sera innanzi, e serbava ancora il calore vulcanico. Fissando questi campi di pietra, pare di scorgervi, e veramente vi si scorgono, maravigliose figure. Ora è una tempesta che rovesciò alberi e tetti, i quali ti vedi scomposti d'intorno, ed ora ti sembra che l'ira sua si sfoghi in sul mare e ne scorgi le onde accavallate e furiose che si congelarono, perpetuando nella loro immobilità il furibondo impeto della procella.

Più là vedi un campo di battaglia, e sono cadaveri mutilati, monti d'armi e di cavalli, abbandonati, dispersi—qua una testa, là un tronco, e in ogni dove il silenzio della morte, la desolazione della natura—e il pensiero corre ad altri campi testè fatti teatro a battaglie veraci, e confondendo e confrontando quasi gli uni agli altri, impreca ben più alla ferocia meditata degli nomini, che a questa cieca del fuoco vulcanico!

E veramente, ove non vi fossero delle vittime umane da deplorare, converrebbe riconoscere che il Vesuvio sa ricompensare in parte questi paesi, o per dir meglio. i loro abitanti, dei danni materiali che di sovente vi reca.

Oltre al vantaggio incalcolabile che deriva dal continuo accorrere di nostrani e di stranieri, vi ha quello pur considerevole della vendita appunto della lava stessa, la quale, dopo un dato periodo, serve stupendamente a lastricare le vie (e tutte quelle di Napoli ben lo provano) nonchè a molti altri usi importanti. So a proposito di ciò, che nell'anno passato ebber luogo trattati per mandare la lava a Marsiglia, appunto per lastricarne parte delle vie. Sopravvenne la guerra, e non se ne parlò più; ma ciò prova il molto pregio in cui si tiene questa pietra, leggiera e insieme compatta e tenace, poichè si troverebbe conveniente il servirsene, anche aggiungendo al suo valore locale quello, certo non indifferente, del trasporto per una tanta traversata di mare.

E convien pure conoscere che in questo suolo ferace, una eruzione, ove non sia stragrande, non toglie per molti anni il raccolto campestre, poichè, assodatasi appena la lava, il contadino la ricuopre d'un nuovo strato di terra, e sopra questo, come nulla fosse, sparge le sementi, e le sementi producono anche con un fondo di soli pochi palmi di terra, mentre il colono alla fatica e al fugace danno subíto trova efficace conforto, pensando che dopo alcuni anni la lava sepolta nei suoi campi si potrà scavare e vendere ad alto prezzo pei soliti usi. Ecco adunque che qui pure esiste quella inalterabile legge di compensazione che governa e paesi, e popoli, e tutto!

Ma l'eruzione ieri sera non ci fu, e se ne provammo rincrescimento potete pensare! Dopo quasi un mese era proprio la prima sera che non colava la lava! Però vedemmo dei fuochi sorgere tratto tratto dal grande cratere, e udimmo dalla cavità della montagna delle profonde detonazioni che trovavano un eco nella valle sottoposta

La cima del Vesuvio è in parte ricoperta da un leggiero strato bianco che da lontano ci pareva neve, e da presso si conosce essere invece una cenere mescolata allo zolfo, che uscì nelle eruzioni recenti.

La lava nel complesso è di colore oscuro, ma vi si trovano molte gradazioni, come vediamo dagli eleganti lavori di bottoni e di spilli che ormai inondarono mezzo il mondo. È strano scorgere presso a queste estensioni ch'essa ricopre, un campo, una zolla, una pianta fiorita. Vidi un fiorellino proprio solo nel mezzo di queste pietre ancora tiepide—il fuoco aveva rispettato questo conato gentile di una vita fugace!… Quanti pensieri, quanti ricordi e confronti mi empivano il cuore! Quanto siamo piccini davanti a spettacoli tali, e come tutte le nostre vanità e molte delle nostre preoccupazioni ci destano vergona e compassione al cospetto di tanta grandezza della terra, del mare, del cielo… e della morte!…

Entrammo nell'Osservatorio meteorologico edificato dal Borbone, e diretto dall'illustre P. Palmieri. Fummo accolti con quella cordialità che in Italia rare volte fa difetto. Il professore è un uomo un po'inoltrato negli anni, e tutto semplice, modesto e sereno, come sogliono essere coloro che vivono domesticamente con la scienza e la natura. Le affettazioni ridicole e le borie ciarlatanesche, non si trovano che nelle menti ristrette e ignoranti. Ammirammo il sismografo inventato da questo egregio, ed altre sue scoperte. Assaggiammo il Lacryma Christi che serba pei visitatori, e ci mettemmo in cammino.

Ogni cavalcata, ogni carrozza, viene accompagnata da qualche guida con torcie a vento, ed anche ieri sera, benchè non vi fosse eruzione, c'erano molti visitatori d'ogni parte d'Europa, e forse del mondo, e quel saliscendi, per quelle vie tagliate nella lava, quel chiarore vagante delle torcie, quel rumore dei cavalli, delle ruote, delle guide nel silenzio della notte stellata, facevano un incognito indistinto che sarebbe impossibile definire.

Guardando sotto a'nostri piedi, scorgevamo Napoli illuminata, spettacolo anche questo bellissimo. Una linea non interrotta di fanali che seguita la verde riviera, disegnandone i pittoreschi contorni, e poi quella infinità di chiarori che presenta l'interno della grande città coi suoi colli vicini essi pure ricoperti di case tutte più o meno rischiarate, e sotto il mare che rifletteva insieme e la luce delle stelle e quella della terra, e rivoltandosi e guardando sopra di noi potevamo scorgere di quando in quando una viva fiammata del Vesuvio, accompagnata sovente da una cupa detonazione.

Figuriamoci poi quale impronta deve dare a tuttociò un fiume di fuoco che scende dalla bocca del cratere!… All'avvicinarsi della lava, le piante stridono e cadono incenerite, gli animali fuggono, la terra tutta manda, inaridendosi, quasi un suono di lamento, e la lava procede, procede, lenta, muta, tremenda… Povere casette, di cui vedemmo le rovine!… Povera gente, affezionata a quelle pareti, che forse vi videro nascere… Chi contempla simili rovine, ne serba indelebile la memoria!

Dopo più di un'ora di discesa per quelle anguste e ripide vie, ritrovammo la vegetazione rigogliosa di questa natura feconda, ritrovammo i boschetti d'aranci e di cedri, ed anche nel buio della notte si discernevano le loro frutta copiose.

Ecco Resina, ecco Portici, ecco questa strada di più miglia tutta lastricata al pari di una via di città.

Ed ecco il rombo dei confusi rumori della capitale (non dico capitale politica, ma Napoli è tale veramente e sempre sarà per se stessa!), ecco le sue carrozze, i suoi edificî. Siamo giunti, e tutti sani e salvi, sebbene fosse il tredicesimo giorno del mese, sebbene la nostra brigata si componesse appunto di tredici persone!

Non mi rispondono, ma forse m' intendono!
M. DE STAËL.

Eccoci anche in quest'anno al giorno sacro alla commemorazione dei morti. Noi tutti pellegrini della vita, a mano a mano che andiamo inoltrandoci per questa via, cosparsa di triboli più assai che di fiori, ci troviamo abbandonati da qualcheduno di coloro che tanto ci confortava l'avere compagni, e ad ogni anima cara che vediamo mancarci ci cresce la mestizia e l'affetto per questo giorno che divene pur suo.

Si! tributiamo ai nostri poveri estinti una memoria, una lagrima, una preghiera. Ghirlanda più degna non possiamo offerire ad una tomba venerata e diletta; questa ghirlanda non patisce per tempo o per gelo, ma serba eterna la sua verginale freschezza e il suo umile profumo. Nè mai come in quest' anno, nè con più divoto raccoglimento, dobbiamo noi Italiani osservare la religione dei morti.

E voi mi comprendete, o sorellei Voi ben sapete che tutti dobbiamo prender parte all'affanno della madre che diede e perdette per la patria comune il proprio figlio, poichè da quell'istante solenne la patria intera si gloriò di chiamarlo. il figlio suo! Sono mille e mille le famiglie nel lutto, ed assai più ancora sono quelle ch'hanno figli, i fratelli e financo i padri, Iontani dal loro tetto e vestiti d'una gloriosa assisa. Ed ahi! queste famiglie mentre guardano compassionando alle prime, van chiedendo ansiosamente a sè stesse se non saranno meritevoli d'una simile compassione…

Oh perchè mai lo spettacolo della morte e il lutto di tanti innocenti non bastano ancora a rendere impossibile ogni guerra e a farci amar tutti come fratelli?…Deh! pensando al dolore che la nostra perdita recherebbe al cuore dei parenti, non dimentichiamo che quella dei nostri nemici apporterà un dolore uguale ad altre creature, le quali, senza colpa alcuna, sconteranno così i funestissimi effetti di queste ire tremende!

Se a ciò si pensasse, la terra non avrebbe più a gemere nè per oppressi, nè per oppressori, ma un'unica e santa legge d'amore stringerebbe tutte insieme le genti. Che se questo è fatalmente destinato ad essere nulla più cho uno sterile voto, deh! almeno in tal giorno, bando all'odio, bando allo sdegno! Come dopo una grande e sanguinosa battaglia gli eserciti combattenti si concedono reciprocamente una tregua per dare sepoltura agli uccisi, e così noi profondamente commossi per tante stragi recenti, trepidanti per altre che forse ne sovrastano, chiediamo che queste brevi ore, da una pia e antichissima costumanza chiamate dei morti, non ci vengano contaminate da un sol pensiero che non sia di compianto e d'affetto. Chiediamo a tutti di pregare per tutti!

E qui mi tornano al pensiero quattro desolate famiglie cui mi stringe stima ed amicizia profonda, e che si videro tutte rapite in quest'anno degli esseri che formavano la loro gioia e la loro pace. E poichè voi, mie cortesi lettrici, parte per un'amara esperienza, e parte per gentile intuizione del cuore, sapete comprendere queste irreparabili sventure, io vi chiederò di versare una lagrima pietosa su queste povere vite di cui tre furono improvvisamente recise, l'altra, ed era la più giovanetta, languì lentamente e si consumò quasi fiore cui a poco a poco vien meno la scarsa onda del vaso.

Per ragione di tempo io dirò primamente di Augusta Fareni-Puppati, che per soli quattro mesi colmò d'ogui possibile contentezza il diletto marito, ed a cui veniva rapita allora appunte che egli concepiva l'ineffabile speranza di vedere dalla nascita d'un figlio ribenedetto quel suo dolce nodo d'amore. Il dolore dell' infelice fu tale da spaventare i suoi genitori che avevano indarno sognato d'assicurare con un'unione sì bene compita la felicità degli interi suoi giorni. Ma dite, non è cosa da perder il senno vedersi oggi da canto un'adorata creatura tutta virtù o giovinezza ed affetto, e al domani trovarla freddo cadavere?… Oh! piangete, piangete per essa e più ancora per Lui!

Adolfo Azzi! il tuo nome suona in oggi pari a quello d'un eroe, e verrà registrato in una pagina di cui la storia d'ogni grande nazione può vantare ben poche d'uguali. Tu avevi sortita dalla natura un'indole troppo forse irrequieta, una mente troppo forse esaltata. La tua prima giovinezza pareva mancare d'un sicuro avviamento. Nessuna via t'appariva ancora esser quella a cui un sentimento ancora incompreso, arcanamente ti chiamava; e l'ardente e indomabile anima tua, quasi presaga dell'avvenire, si ribellava alla forzata tirannia d'uno sterile scoraggiamento presente. A te non bastavano più, e te ne incresceva molto, le miti affezioni della famiglia. Sentivi il bisogno d'infrangere una catena, e talvolta non ti accorgevi di scambiare con questa quei vincoli che dalle esigenze della tua condizione e dai doveri del tuo stato ti venivano imposti. Ma il cuore che si serbò sempre buono e generoso, si scosse finalmente ad una voce imperiosa che t'eccitava a correre sopra un campo di ben ardue battaglie. E tu l'ascoltasti quella voce potente, e benchè nuovo nelle armi, non ti mostrasti secondo a nessuno esperimentato guerriero, e Calatafimi vide la prova suprema del tuo valore.

Fu colà che Garibaldi, il prediletto tuo generale, ti prometteva il titolo di Capitano, ma fu colà ancora che una palla, infrangendoti il ginocchio, ti condannava entro pochi giorni a morire. Un'ospitale famiglia di Palermo ti accoglieva ferito. Ma nè le cure più amorose ed assidue, nè l'arte medica, nè le soddisfazioni che il tuo amor proprio continuamente riceveva, poterono prolungare la tua giovine vita, e dopo l'amputazione della gamba, e scrivendo calde ed affettuose parole di speranza a'genitori, chiudesti gli occhi all'eterno riposo. —Te vollero sepolto con gli onori di Maggiore, ed il tuo nome fu grandemente onorato da Italiani e da stranieri.

A soli 21 anni, unico figlio e tanto amato da'tuoi, oh la morte ti avrebbe dovuto risparmiare! Ma quante e quante lunghe vite non si spensero invocando indarno un unico raggio di quella gloria che sul tuo letto di morte rifulse in tutta la sua splendida luce!

E se pur v'ha conforto che possa mitigare l'angoscia disperata d'un padre, non deve forse esser questo?…

Pace e gloria al tuo nome!

E tu, o Maria de Lutti, candida e soave angioletta, tu pure ci fosti, ed oh quanto anzi tempo, rapita! La pura anima tua non sapeva che compatire ed amare, la tua mente pareva il nido delle idee più ridenti e gentili. Pareva che Iddio ti avesse affidato il sublime ufficio di rendere meno amara alla tua inconsolabile famiglia la perdita del migliore dei mariti e dei padri. Ed era, quasi ch'egli senza qualcuno di voi si trovasse solo perfino nel cielo, ora egli ti ha voluta con sè!

O sventuratissima madre, chi come essa asciugherà adesso il tuo pianto?… chi come essa saprà costringerti ad un grazioso sorriso?… E chi t'ispirerà ora, o Vincenzo, quelle soavi armonie che sulle labbra della tua perduta sorella pareano rivestirsi d'un novello ed irresistibile incanto?… E tu, mia Francesca, poichè si chiusero quei begli occhi che per te erano due raggi di vergine poesia, d'onde trarrai tu le peregrine imagini di cui ingemmavi i tuoi bellissimi carmi?…

Oh l'angelo, la musa, la delizia di quella povera casa, non è più che un nome, una memoria, un affanno per quanti la conobbero!

Mio Dio, mio Dio! e non ho dunque ancora finito di rammentare sventure che mi toccano sì da vicino da crederle mie?… Ecco un'altra famiglia che geme sopra un'altra recentissima tomba. È una donna, specchio delle spose e delle madri, sono sette figli, già vanto di lui ch'hanno perduto, e tutti piangono infranta la colonna che sosteneva la loro casa, estinto colui ch'era la guida, il conforto, l'amico intimo e prediletto delle anime loro.

O Eleuterio Vicentini, io vorrei che tu potessi udirla questa mia voce che ti manda un ultimo e mestissimo addio!—Io vorrei che tu potessi leggermi in cuore quale affettuosa e riconoscente memoria io serbi delle giornate per me sì brevi e gioconde, che passai sotto l'ospitale tuo tetto nella tua bella Verona. E fu colà che, confusa nella schiera de'tuoi figli, io poteva ammirare l'infinito amore che tutti v'univa, e quella tua aria dignitosa e insieme benevola, e quel tuo fare veramente patriarcale che tanto mi ti rese venerabile e caro. Ahi! la morte ti tolse improvvisa come fulmine, e non ti fu concesso di veder sorgere quel giorno che da sì lunghi anni invocavi, per la terra ove bevesti le aure di vita e da cui da più mesi t'era forza esulare.

Riposa nella pace dei giusti! La tua memoria sarà lungamente custodita e benedetta da quanti videro come sapesti serbare sempre eguali la saggia amorevolezza del marito e del padre, la cordialità dell'amico e l'inalterabile alterezza del cittadino.

Altri forse non mi perdonerebbero d'avere parlato sì a lungo di persone che pure non vanno famose per chiare opere dell'ingegno. Ma a noi donne, a noi che prima e più che ad ogni altra cosa guardiamo alle doti del cuore, sia concessa il rammentare almeno una volta fra noi chi l'ebbe tale da lasciare quaggiù sì larga e preziosa eredità d'affetti.

Una delle più valide prove di fratellanza nazionale, che offre ora agli occhi meravigliati del mondo questa nobile e grande famiglia italiana, che pure per sì lunghi secoli si tenne forzatamente divisa d'opere e d'affetti, è per certo la parte viva, efficace che tutte le nostre città prendono così ad ogni allegrezza come ad ogni lutto d'una città sola e talvolta d'una sola famiglià.

A tale proposito ci ricorrono alla mente commossa gli splendidi funerali dei fratelli Dandolo spontaneamente celebrati a Torino, e quelli de'non meno illustri e compianti fratelli Savio, ai quali, quasi a pietoso ricambio, accorrevano in giorni meno funesti i più eletti cittadini della risorta Milano.

E in oggi pure dobbiame annoverare con mesta compiacenza due altri simili e pietosi fatti, che non saranno cancellati più mai dai nostri intimi annali di patrie ricordanze.

Mentre la gentile Firenze accompagnava alla tomba il suo Vieusseux con tale una larghezza di onoranze e d'affetto che pochi re forse se l'ebbero eguale, anche Milano voleva nel modo più toccante e solenne, dare l'estremo addio alla spoglia d'un'anima giovane o fervidissima, che l'aveva la tante volte ricreata coi frutti d'una ingegnosa e vivace immaginazione. E noi, mentre sentiamo il bisogno di deplorare anche in queste pagine la perdita immatura di une scrittore valente, di un ottimo nostro concittadino, vogliamo pure come Veneti, rendere pubbliche grazie a quanti, onorando l'estinto, intesero onorare l'intero nostro paese. E questo paese è ben riconoscente a chi volle, per così dire, personificarlo nella viva memoria di quel suo figlio prediletto e compianto, mentre lo spirito di Teobaldo Ciconi, acceso sempre del sublime amore di patria, esulta dal cielo, al veder perfin la sua morte resa argomento d'una gloriosa e fraterna dimostrazione nazionale.

Il nome e le opere del Ciconi sono ormai conosciute da tutta Italia, e la sua fama n'avrebbe un giorno varcati i confini, ove la morte non ce lo avesse rapito a soli 38 anni. Ma se le opere sue son tanto note fra noi, non è parimente la tempera di quell'ingegno e di quel cuore, che pochi furono in grado di pienamente comprendere ed apprezzare, e che noi tenteremo ora descrivere con brevi ed imparziali parole. Brevi, perchè, conoscendo pure a un tempo la sua vita famigliare e civile ed ogni parte della letteraria, ci mancano però que'minuti e precisi particolari indispensabili alla compilazione d'una narrazione completa e imparziale; perchè davanti alla solenne maestà della tomba noi sapremmo contenere ogni moto di particelare predilezione che no spingesse ad oltrepassare d'una linea sola i confini del giusto e del vero!

Questa imparzialità d'altra parte non potrebbe per nessuna guisa riescirne incresciosa, avendo egli saputo vivere e morire così da lasciarci la sua memoria integra ed immacolata siccome un bel sogno di fede e d'amore.

Teobaldo Ciconi nacque a S. Daniele di Friuli, terra amenissima, che sorge sopra un colle dove spirano l'aure più pure, dove si aprone le vedute più pittoresche che mente e penna di poeta possano ideare e descrivere. Se non fosse a sufficienza provato come l'elevatezza del suolo contribuisca non poco a quella dell'intelletto, noi diremmo ora che non per nulla il nostro Teobaldo nacque e visse gran parte de'suoi giorni in un'aria oltre ogni dire elastica e serena.—Perdette giovanissimo la madre, e questo primo e inconsolabile dolore lasciò un fondo d'inesaurabile tristezza nell'animo suo.

Questa tristezza però, appunto perchè sacra e profonda, nulla aveva d'ostentato e d'artifiziato: era una specie di culto interno e romito a colei che aveva perduta e che si estendeva come un'aureola di soave malinconia su tutte le cose a lui più caramente dilette, ma che d'altra parte non gli toglieva nè la mite e schietta giovialità, nè l'ameno e affabile conversare che a quanti lo avvicinavano rendevano graditissima la sua compagnia.

Di fisonomia geniale ed espressiva, di sguardo dolce ad un tempo e vivace, ora sprigionato ed ora raccolto dal folto arco del bruno sopracciglio, nell'insieme della persona elegante e spigliata mostrava però qualche cosa di gracile e dedicato che nascondeva forse il germe della fatal malattia, da cui doveano esser lentamente logorati i suoi giorni. Educato con-zelo da precettore degno di tal nome, egli veniva dal padre destinato fin dai primi anni alle discipline legali. Se non che la natura del suo ingegno, indipendente e vivace lo rendeva ritroso ad uno studio che sì male gli si affaceva, e finalmente lo induceva ad abbandonare del tutto quelle aride dottrine, nelle quali solo per filiale condiscendenza aveva tentato, ammaestrarsi.

I primi versi ch'egli pubblicava negli anni 1845-46 e seguenti, e che poscia riuniva in un volume nel 1853, erano ricchi d'armonia e facilità di ritmo, di gentilezza d'affetti e di pensieri, e di nobili intendimenti, ma non potevano ancora vantare la precisione e l'evidenza del concetto e della forma, nè la purezza della lingua e dello stile, a cui egli sarebbe certamente pervenuto, ove alla foga della creazione avesse congiunto una più paziente limatura, ed ove, più che quella di alcuni moderni, avesse seguita la scuola di antichi o almeno più sobrî e castigati scrittori. Ma queste mende erano difetti più dell'età e del tempo che suoi, e non lasciavan per nulla dubitare della maggior vigoria che avrebbe poscia spiegato il nascente e già riconosciuto sue ingegno. Egli s'ebbe in quei giorni esagerate le lodi come anco le censure, che però noi crediamo volessero mostrarsi soverchiamente severe appunto per correggere l'effetto funesto che si poteva temere da quelle.

Ma chi lo conobbe da vicino può attestare che l'animo suo, ben lungi dal lasciarsi abbagliare dalle prime, si mostrava invece troppo forse profondamente scorato dalle seconde, prova questa solenne di quella sua vera e non mai smentita modestia, che senza togliergli la coscienza di sè, pareva fargli incessante rimprovero di non aversi ancora saputo prefiggere un migliore e più fermo inviamento.

Seguendo sempre questo bisogno di levare a più alto volo la fantasia, insofferente d'ogni freno, egli si cimentò in varî generi di componimenti e in versi ed in prosa; e so critici severi ma giusti troveranno in tutti alcun che da censurare, dovranno pure riconoscere in tutti non pochi nè scarsi argomenti di lode. Il Ciconi cercava una via che per lungo tempo non gli si aperse allo sguardo e che un'intima convinzione gli diceva che avrebbe rinvenuta: e quando ci fu dato leggere il suo primo lavoro drammatico «Le pecorelle smarrite», presentimmo aver egli ormai traveduta la vera meta della sua vita letteraria; e il lieto successo che si ebbero poscia tutte le sue opere teatrali, confermò interamente quella nostra facile previsione.

Non ci stimiamo tali da poter giudicare del merito più o meno grande delle sue opere; diremo soltanto che se, oltre a produrre un tanto effetto scenico, esse hanno ia virtu di dilettare anche con la spassionata lettura, ciò viene naturalmente a dimostrare esservi in esse elementi non solo di prestigio teatrale, ma sì ancora di vero e squisito gusto e di criterio dell'arte. D'altra parte i lavori che ci restano di lui, lavori ideati e condotti sotto l'assidua pressura di fisiche e morali sofferenze, non sono che un saggio di quanto egli avrebbe fatto: ed ove la vita non gli fosse sì presto mancata, il suo nome sarebbesi un giorno congiunto a quello de'più celebrati autori di commedie italiane. Vorremmo perciò poter infondere in ciascheduno la fede che serbavamo nel suo avvenire, perchè questa fede, afforzandosi, ancor meglio che sulle opere già esistenti, sulle future, gli reca una fama superiore d'assai a quella che naturalmente gli spetta.

Questo sia detto del letterato e dell'artista; pel figlio poi, pel fratello, pel cittadino e l'amico, noi temiamo non saper trovare parole bastevoli a significare tutto quel bene che coscienziosamente dovremmo. Una sentenza antichissima dice che niuno è profeta in patria; ma noi, testimonî del come egli fosse riverito ed accarezzato nel suo natale Friuli, noi possiam dire il Ciconi essere in tal caso una fra l'eccezioni che servono forse di conferma a questa regola per tutti amarissima Quanti lo conobbero, l'amarono, e tanto più fu amato quanto più conosciuto; per la qual cosa questo amore che generalmente ispirava poteva dirsi un fuoco vivissimo che, ardendo nel bel mezzo del suo focolare paterno, irradiava di luce e di calore fino al più lontano limite cui giungeva il suo nome.

Perciò non è da stupire se i suoi conterranei trovarono una possente ragione di comune dolore, quand'egli, seguendo le aspirazioni del patrio amore e dell'ingegno, allontanavasi da quelle contrade, e se il giorno vanamente invocato del suo ritorno, sarebbe stato salutato da quelle buone famiglie siccome quello che rendeva ad esse un figlio, un amico, un fratello. E ciò serva ad elogio così dell'estinto come de'superstiti.

Noi non possiamo, nè potendolo pure vorremmo, frugare nel suo intimo cuore quella parte d'affetti che ogni anima benigna e gentile ama ravvolgere d'un pudibondo mistero. Ciò solo possiam dire, valendoci, più che d'altro, di quella virtù divinatrice che talvolta consente una vera amicizia, che anche in questa come in tante altre cose, egli deve essersi sentito ben poco felice. E infelice poi oltre ogni misura noi lo comprendiamo, pensando come l'istante supremo lo cogliesse lontano dalla sua casa, dal padre e perfin da quella sua dolce ed unica sorella nella cui anima, che ben degnamente gli rispondeva, egli aveva tutto trasfuso quel tesoro di tenerezza ereditato dall'adorata sua madre. Oh se pure un solo istante egli avesse potuto squarciare il velo del fosco avvenire, quando or volgon cinque anni abbandonava tutto ciò che gli rendeva più cara la terra natale, oh! come di buon grado avrebbe sacrificati gli omaggi e i trionfi che gli prometteva l'ingegno, solamente per fermarsi a morire colà dove aveva avuto la culla! Ma quel morire esule in suolo italiano… oh povero, povero amico!

Ora il suo paese, rispondendo con mirabil concordia al pietoso pensiero ed alla spontanea offerta d'un generoso e nobile artista (1) Il capo comico Boldrini. (Nota dell'A) oblia per un istante le miserande condizioni in cui geme, per raccogliere una somma che basti ad ergere un busto a quella benedetta memoria. E quei cuori affettuosi prescelgono forse il semplice busto ad ogni altra specie di monumento, perchè questo nel modo più semplice e vero presenti loro l'immagine che non vogliono neanche i posteri ab biano ad obliare.

Non ignoriamo come in questi ultimi, ma che pur noi diremmo primi suoi tempi, siasi mosso all'Italia il rimprovero di voler soverchiamente largheggiare in monumenti di letterati e d'artisti. Ma nel caso nostro potremmo dire di sentirci moralmente convinti come il Friuli, offerendone uno al Ciconi, intenda onorare, non meno che un suo illustre scrittore, un esempio simpatico e raro di modestia, d'affetto e d'ogni civile virtù. In ogni modo risponderemo per tutti non esser colpa dell'Italia se trova fra i suoi figli tanti uomini meritevoli d'onoranze e d'amore.

Castelfranco di Treviso, maggio 1863.

Su questo giornale (1) Fu scritto per un giornale di educazione femminile. (Nota di G. G.) destinato a porgere alla donna pratici e morali precetti, si volle con saggio e pietoso intendimento onorare la memoria di egregie donne a noi rapite dalla morte. Perciò vengo anch'io a deporre sulle sue pagine il nome di una diletta defunta, vengo à domandare per essa un palpito di simpatia a quelle buone e cortesi che sanno intendere e prender parte anche agli affanni delle sorelle sconosciute.—Una raccolta di scritti umile quale questa, è la cornice che meglio si confà alle utili e modeste virtù che resero sì pregievole e cara colei ehe deploriamo perduta.

Laura Maresia Alvisi, nobile di casato, ma più ancora di mente e di cuore, spirava a soli 87 anni nel decorso mese in Firenze, logorata da lunga e penosa malattia che rese vane le cure della scienza e del più vigile affetto.

Ella aveva passata tutta quasi la vita alternando il soggiorno fra Venezia e Belluno. Nell'anno 1859 imperiose ragioni di sentimento la consigliarono a seguire l'egregio consorte lungi dalla tèrra natale. Al consorte da lei stessa prescelto, la stringeva una stima, un'affezione profonda che egli ben sapeva ricambiare. A lui solo compiacevasi rivelare tutta intera la rara potenza dell'ingegno fin dai primi anni nutrito d'estesa e svariata cultura e lui solo ammetteva nell'intimità dell'anima sua, cosicchè a somiglianza del geranio notturno, che non concede il tesoro del suo olezzo che al raggio della luna, ella pareva serbare unicamente per lui, ch'era il suo raggio d'amore, i profumi dell'intelligenza e dell'affetto.

Non so nè posso biasimare la donna che porge agli amici ed alla civil società i frutti della propria mente, ma mi conviene però confessare nulla esservi per me di più verecondo e sublime nel mondo di colei che, dotata di un eletto ingegno, lo tiene in pregio soltanto perch'esse valo a renderla, più cho ad altri, cara all'uomo del suo cuore.

Nè si creda che tale riserva derivasse in lei da indifferenza o disdegno del mondo, da fiacchezza od inoperosità di natura. Potrei io stessa far fede che persino in certi studî ardui così che noi donne ben di rado li osiamo imprendere, ella giovava coll'opera e col consiglio il marito, il quale, sebbene espertissimo conoscitore di scienze e di lettere, valutava grandemente l'acuto criterio della donna sua.

E se questo basta a provare l'operosità e la versatilità dell'intelletto, io serbo pure intime e soavi reminiscenze ch' esaltano l' eccellenza del suo cuore. So che quando nell'anno 1855 si manifestava il cholera nelle provincie venete, e l'Alvisi, siccome medico onorario, accorreva spontaneamente al soccorso dei poveri concittadini, ella che pur tanto tremava per quella vita diletta, lungi dal dissuaderlo dal generoso proposito, volle anzi ad ogni patto seguirlo dove più il morbo infieriva e più scarseggiavano i provvedimenti igienici, e Dio solo conosee quanto la pietà della denna abbia allora avvalorate le cure e le prescrizioni del medico!

E ancora so ch'ella prese parte con forte e deliberato animo ad altri pericoli cui per patriottico impulso vedea cimentarsi lo sposo, pericoli spaventosi, incessanti, che dopo averli sordamente minacciati per lungo tratto di tempo, li costrinse alfine all'esilio. Ma anche nell'esilio ella seppe trovar modo di rendersi utile alla causa medesima, consacrandole con l'opera del pensiero il frutto d'una carità larga, industriosa, sagace.

Il bene che faceva si palesava di rado, e sempre contro sua voglia. Ma i suoi fratelli di patria e d'esilio avrebbero troppo perduto, ove nel vedovo marite ella non avesse lasciato un degno erede de'suoi magnanimi intendimenti.

Compiva gli atti più santi, i più grandi sacrificî com'altri usano compiere i più semplici e comuni doveri; e doveri ella li stimava, ed erano forse, ma, esercitati in tal modo, assumevano l'aspetto di commoventi virtù, tanto più vere e preziose quanto meno offuscate dallo sguardo e dalla lode terrena.

La sua casa era il ritrovo non solo de'migliori fra i suoi compaesani e fra i nuovi concittadini, ma ancora d'elette donne e di uomini insigni che d'ogni parte d' Italia convenivano in questa gentile Firenze.

Il conversare ella aveva facile sempre ed elegante, ma più espansivo ed ameno quanto più stretta era la corona che le si formava d'intorno. Il questo credo derivasse da uno studio costante di sfuggire le occasioni atte a mettere in mostra il naturale festoso suo ingegno e la sua speciale cultura. Pareva temesse di togliere ad altre l'opportunità di farsi ammirare, e forse allora il parlare di rado ed il tacere frequente, provevenivano dall'intima coscienza d'una superiorità ch'ella sentiva soltanto quando il tenere celato il proprio merito giovasse a far meglio apparire l'altrui.

Di salute debolissima e spesso sofferente, non ricordo avere udito mai dalla sua bocca parola di lamento. Segno pur questo assai raro di forte rassegnazione e di squisita cortesia che le vietava di turbare gli altri: col racconto delle proprie infermità.

Ricca di nascita e liberale per indole, non esigeva nulla per sè stessa, benchè accettasse con riconoscenza ineffabile le cure e gli agî di cui l'amoroso consorte si studiava abbellirle la vita. Il culto delle cose più sante e gentili appariva intorno a lei, anch'esso non ostentato ma vero, poichè per quell'anima il bello altro non era che un corollario del buono.

Riassumendo in poco le mie parole, direi che fra l'essere ed il parere sembrava avesse fatto una scelta assoluta e definitiva, talchè è ben probabile che quanti la conobbero di vista, o non ebbero molta consuetudine seco, non l'abbiano punto conosciuta. Pure fra i molti che usavano nella sua casa non vi fu un solo il quale, per quanto poco godesse della sua intimità e potesse apprezzare le recondite qualità di quella donna singolare, non abbia seguito con affannosa sollecitudine il progresso deila sua malattia, e non ne abbia intesa la morte, sebbene vaticinata, con cordoglio profondo. E questo cordoglio, come cosa da lei ispirata, fece che quanti ne furono partecipi rivolgessero sul vedovo inconsolabile l'affetto ch'ella aveva lasciato in essi, e gli si racogliessero tutti d'intorno con tali manifestazioni di eloquente pietà, che certo valsero a richiamare un palpito di riconoscenza in quel cuore esulcerato e deserto.

Noi Venete, vestite di quella gramaglia che ogni dì più ci si addice, l'abbiamo accompagnata piangendo al luogo degli eterni riposi; è in quei solenni momenti abbiamo meglio compreso come debba essere straziante il morire lontani dal proprio paese, e come sia duro il perdere nell'esilio una fra le migliori concittadine.

Oh! perfino nel giorno in cui, compiuto il voto comune, potremo tornare tutti alla nostra Venezia, noi penseremo con rammarico che un tanto bene non venne concesso a colei che più d'ogni altra forse ne aveva il diritto!…

Firenze, giugno 1856.

L'essere dotato d'ingegno è caso, è fortuna; valersi del proprio ingegno a profitto del bene, è mostrare di meritarlo; e nessuno lo meritò meglio della compianta Emilia Zccchini Rondoni, la quale tutto lo converse in virtù.

Torno ora dalla chiesa di Sant' Ambrogio dov'ella avrà le tante volte pregato, e dove oggi si pregava per lei.

In quel modesto tempietto vidi rappresentate tro generazioni, le quali insieme piangevano questa donna schietta, semplice, operosa, che spese l'intera sua vita tra la famiglia e la scuola, e nella famiglia fu maestra e nella scuola fu madre.

Vi erano le sue coetanee, che vedevano svanire con lei uno dei più soavi ricordi delia loro giovinezza; vi erano le prime sue allieve, annoverate adesso fra le migliori hostro insegnanti; vi erano infine le giovanette alunne delle Scuole normali, che amavano e riverivano nella estinta, oltre alla propria, la maestra delle loro maestre.

Andate ad assistere ad una messa celebrata con pompa mille volte maggiore di questa, per un qualsiasi ricco e nobile trapassato, e vi parrà di trovarvi ad un freddo ricevimento di gala, e il vostro cuore non s'aprirà a nessun affetto pietoso, la vostra mente non s'ispirerà a nessun pensiero sublime, e no uscirete impassibili. Ma ove alla santità del luogo ed alla solennità del rito possiate aggiungere la contemplazione di un uditorio femminile tutto raccolto e commosso, ove la memoria ivi evocata sia quella di un essere intemerato e benefico, che nulla chiese nè volle delle pompe mondane e si logorò anzi tempo la vita nell'esercizio dei più alti ed ardui doveri, oh! allora anche lo stato dell'animo vostro sarà ben diverso! Allora voi vedete risorgervi davanti la cara immagine della estinta, e la vostra fantasia ne ritesse l' istoria e si studia di leggere dentro quel cuore che avrà avuto anch'esso chi sa quali e quante lotte angosciose, eppure tutte le superò, senza lasciarne esternamente apparire il benchè minimo indizio. E voi ben comprendete che il segreto di quella forza e tranquillità d' animo consisteva tutto nell'occuparsi incessantemente, efficacemente degli altri e per gli altri; consisteva nel procurare a'suoi diletti quella felicità che forse ella non aveva goduta mai. E a poco a poco vi sentite trascinati irresistibilmente ad istituire un confronto tra lei e voi stessi; ma il riconoscervi tanto da meno, lungi dallo scoraggirvi, v'ispira il bisogno della carità, la virtù del sacrificio, il desiderio d'una operosità che possa apparire simile alla sua.—Per tal modo a colui che compie delle opere buone noi dobbiamo attribuire larga parte del merito anche del bene che induce a fare, con la virtù dell' esempio, perfino dalla tomba!

E a me nel compimento di quel mistero pareva rappresentato quello della vita di lei, e quando, al momento della elevazione, intesi diffondersi intorno una musica mesta, ma dolce e quasi divina, io credetti assistere veracemente alla elevazione di quell'anima eletta ad un mondo migliore, nè ciò parve forse a me sola poichè da molte di quelle ciglia abbassate vidi scorrere abbondante e soavissimo il pianto.

Ella non aveva che 54 anni.

Non era bella, ma simpatica, attraente. Pareva creata per raffigurare ad un tempo l'umiltà e la serenità. Riuniva in sè le qualità proprie di due epoche, di due condizioni ben diverse, quella della monaca e quella della maestra, fuse insieme dall'amor di Dio, della Patria e della Famiglia. Andava alla scuola come un tempo andavano alla chiesa, insegnava come solevasi un tempo pregare.

Nessun avvenimento straordinario ne rese singolare la vita; la sua singolarità consisteva soltanto nel fare assiduamente e per bisogno del cuore ciò che altri fanno di rado e spinti dal dovere.

Figlia tenerissima di quell'esimio cittadino che fu Zanobi Zucchini, del quale, per unica lode, basti il ricordo della stima e della amicizia che gli portava G. B. Niccolini, e il nome di Aristide novello col quale lo chiamò Francesco Benedetti in una sua bella poesia, l'Emilia ebbe dal padre un'istruzione svariata e profonda, che le permise poscia d'usare sì nobilmente la vita, ed una educazione che le arricchì il cuore di quegli affetti e di quelle virtù che a coloro che meglio la conobbero la resero sempre più cara (1) «… è qui to Zucchini con l'Emilia, che per le affettuose cure che ha pel cieco suo padre, ti fa ricordare d'Antigone…» Vedi Lettere di G. B. Niccolini, raccolte da Atto Vannucci. Vol, Il, pag. 3.

Moglie affezionata, gustò per soli due anni le gioie materne, e quando le venne a morire l'unica sua bambinella, quasi presaga che più non le sarebbe concesso di esercitare per conto proprio l'ufficio desiderato di madre, seppe cercarne conforto consacrandosi, più ancora che nol facesse per il passato, alla istruzione ed alla educazione delle figlie altrui. Fino da giovinetta insegnava privatamente, anche a straniere, la lingua nostra, essendo ella versatissima e nella francese e nella inglese.

Dal 59 fino a'suoi ultimi giorni insegnò Storia e Geografia nella Scuola normale di Firenze, ma era peritissima in molte altre materie, e tornata dalla Scuola, seguitava l'insegnamento fra le pareti domestiche, dove l'animo suo non le permetteva mai di respingere alcuna delle moltissime che la richiedevano incessantemente d'assistenza, di consigli e di conforti. Era la maestra di tutte, e questo nome e quest' ufficio ricordavano in lei non indegnamente Colui che non volle altro nome, che non trovò altro ufficio più sublime nel mondo.

Scriveva con cuore di donna, con grazia di fiorentina, con senno d'istitutrice; i suoi raccontini sono gemme che brillano anche presso a quelle del Thouar—e quella specie di vita del padre suo, ch'ella intitolava Ricordo agli amici, è cosa semplice tanto ed affettuosa, da bastare per sè sola a farci conoscere ed amare l' animo dell' autrice.

Fu d'indole ordinariamente mitissima, ma tenace, irremovibile nei suoi propositi, nelle sue convinzioni, appunto perchè e convinzioni e propositi ritraeva dalla coscienza. Ebbe il vestire, le consuetudini, i modi, i gusti semplici, dirci quasi, patriarcali.

Però, sebbene conducesse vita ritirata e uniforme, mostravasi quasi sempre ilare e sorridente, persuasa che la virtù nulla acquista assumendo aria arcigna, ma invece ha ragione e diritto e dovere di apparirci paga e serena, non fosse altro per amicarsi l'animo dei giovani facilmente attratti alle esteriori apparenze.

Non credo parlesse nè mostrasse occuparsi mai della questione intorno alla emancipazione della donna;—ma nessuna donna, per certo, si seppe emancipare più completamente di lei da quanto ha di men buono l'umana natura, ed ella forse pensava che in certi casi i fatti possono convincere meglio delle parole; perciò in luogo di perorare, fece, e senza pretenderlo, senza osare forse di sperarlo, fu con l'opera una piena e splendida conferma d'ogni femminile diritto.

Intendeva la carità nel suo significato più largo e più alto. Oggi che troppo di frequente le nostre signore annoverano con la massima serietà fra le piaghe sociali la disattenzione e la disaffezione dei servi, ella della sua donna di servizio aveva saputo farsene un' amica, una discepola devota ed amorosa cosi che la vediamo piangere la morte della padrona col dolore di una figlia, e ciò perchè questa padrona alla mercede del denaro soleva aggiungere quella dell'affetto.

E sotto il medesimo tetto dove un essere, di condizione così umile. l'aveva saputa pur tanto apprezzare, ella da molti anni ospitava uno dei più benemeriti fra i nostri patriotti e dei più illustri fra i nostri scrittori, il Senatore Atto Vannucci, già amico e confortatore del padre di lei, al quale non dispiacerà ch'io ponga il suo bel nome presso e dopo quello d'una povera donna per significare coll'efficacia degli opposti, come, per impulso del cuore, la più modesta intelligenza possa talvolta indovinare in una persona diletta quelle virtù che formano l'ammirazione d'un ingegno dotto e potente e possa consacrarle con esso un affetto nobile e profondo.

E la Rondoni, più ancora che ammirata, fu amata, ed ebbe ed ha, più ancora che lodi, benedizioni. Che s'ella ora vedesse il vuoto irreparabile che lasciò nella sua casa e nelle sue scuole, le dorrebbe per la prima volta di essersi resa tanto necessaria e diletta, e di avere forse abusato, per il bene altrui, della non robusta salute, tacendo e nascondendo per lungo tempo quelle sofferenze che la trassero immatura al sepolcro.

To la riguardavo come il modello delle insegnanti, e la stima e l'infinita riconoscenza che nutro per quanti si consacrano coscienziosamente e questo ufficio sì grande nella sua modestia, fanno sì che adesso, rendendo omaggio alla memoria di lei, mi sembri di renderlo ancora a tutti coloro che ne seguono l'orme.

Onore a voi tutte, anime affettuose e caritatevoli, intelligenze ignorate e perseveranti, che durate perpetuamente le fatiche di chi semina, senza conseguire mai le compiacenze di chi raccoglie!—L'eroismo suscitato in un'ora di forti entusiasmi, in una occasione solenne, e sulla vasta scena del mondo, cede davanti al perpetuo eroismo vostro, che sostiene e mente fredda e nell'oscura cerchia d'una povera scuola in ogni giorno una nuova battaglia, lasciando ai vinti tutto il frutto delle proprie vittorie! Seguendo l'esempio, proseguendo l'opera della buona Rondoni, non cercate nel mondo, com'ella non cercò mai, un'equa ricompensa alle sante vostre fatiche.

Per voi la ricompensa più bella sarà la soddisfazione della coscienza, l'affetto di chi vuole e sa intendervi; sarà infine il vedere, che, in grazia vostra, è di già grandemente diminuito quel numero spaventoso d'analfabeti che fu il più funesto retaggio lasciatoci dalla dominazione straniera e il maggior dolore e la vergogna maggiore dell'Italia risorta.

(1) Di questa veramente cara giovanetta parla più volte la Fusinato nei suoi Ricordi, e specialmente alla pag. 53.

…E parea cosa che fosse venuta
Di cielo in terra a miracol mostrare.
Dante.

Non pareva fatta per questa terra! Ecco ciò che diranno quanti la seppero comprendere ed ammirare, e diranno il vero! Da essi nessuna lode tributata alla cara perduta può apparire soverchia, poichè non si videro mai congiunte in sì mirabile accordo le doti della mente a quelle del cuore. Ingegno pronto, acuto, versatile, che spandeva grazia e luce novella su quanto prendeva a trattare; culto appassionatamente gentile per ogni bellezza della natura, della scienza, dell' arte; bisogno prepotente, incessante d' opere pietose; completo oblio di sè stessa pel bene altrui, tale era l'ANTONIETTA POZZOLINI. La sua squisita virginale modestia non consentiva in sulle prime di intenderne ogni pregio; ma questi a poco a poco crescevano e maravigliosamente crescevano agli occhi di chi poteva stringersele d'intima consocenza, così come le stelle per le lenti dell'astronomo.

Ma poichè era schiva di lodi quanto pronta e cortese nel lodare, spesso, per non turbarla, conveniva tacerle che se ne comprendeva il valore.

La pietà delle sofferenze altrui sovente le velava gli occhi di lagrime, ma nel medesimo istante il desiderio di rasserenare gli afflitti le faceva fiorire sulle labbra il sorriso. I celesti non avrebbero diverso atteggiamento davanti alle miserie dei mortali!

La compiacenza ch'ella visibilmente provava nel beneficare, pareva ispirarle gratitudine pel suo stesso beneficato; che se non le tornava possibile largheggiare in conforti, era lei che conveniva confortare!

Degna allieva del Thouar, scriveva con la naturale eleganza con cui soleva parlare, e trattava argomenti affettuosi e soavi come l'anima sua. Le preghiere de'congiunti, d'amici, esaudite pur sempre da lei, in una sola cosa non furono, nell' indurla cioè a raccogliere in un volumetto e mandar per le stampe quegli aurei suoi componimenti, ove i fiori del nativo idioma toscano leggiadramente s'accoppiano a quelli dell'ingegno e del cuore. Ma ora che tanta modestia non può esser più offesa dalla lode mortale, voglia la madre sconsolata appagare questo voto d'ogni sua amica; e le giovinette italiane possano così porre presso a quelli di Rosa Ferracci gli scritti d'Antonietta Pozzolini.

Nel suo lieto studietto d'artista e nella stanze ove più di sovente si raccoglie la sua famiglia, vediamo i molti ritratti dei parenti e degli amici più cari ch'ella aveva saputo condurre con somma perizia ed amore, e ne'quali era riescita a trasfondere il raggio più vivo, l'espressione più bella che animasse coloro di cui ritraeva il sembiante.

Le sue opere ci parlano di lei; la penna, la tavolozza l'attendono, ed ella ahi! non è più!…

Interprete valente anche della divina arte del canto vediamo lo strumento cui disposava la voce limpida e insinuante; ecco la romanza che ultima apprese; ecco i fiori ancor freschi che prediligeva; tutto la ricorda e la chiama; ma ella ahi! più non risponde!…

Alla vigilia delle nozze desideratissime, d'improvviso infermò, e diede così per la prima volta argomento di dolore a coloro che si rassegnavano a staccarsene solo per compierne la felicità. Così la corona che doveva essere di nozze ne iufiorò invece la bara!…

Come descrivere il lutto de'genitori, dei fratelli, del fidanzato amantissimo?…

Chi la conobbe e l'amò, ben lo comprende, ma non lo saprebbe significare!…

Chiuse la sua vita d'angelo con una morte eguale. Ma dalla vita non conobbe che la parte migliore; perciò se ne partì fidente e serena. Oh! Antonietta, io credo che non tu, ma chi più t'amava sia degno di maggiore compianto!…

Nessuna fantasia di poeta, nessun cuore di madre potrebbe sognare, desiderare creatura più perfetta. Il Beato Angelico n'avrebbe fatta una Santa Cecilia, l'Alighieri uni sorella a Beatrice: noi non possiamo che ripetere: Ella non era per questa terra!

Firenze, maggio 1873.

(1) Intorno a questo benemerito sacerdole si può veder pure ciò che ne scrisse la Fusinato a pag. 42 dei suoi Ricordi.

L'abate Carlo Coletti morì il 19 dello scorso agosto, sul fiore degli anni, mentre il suo Istituto destava, prosperando, le più belle speranze, e veniva benedetto come la provvidenza del paese.

Molti diranno di lui, e più e meglio ch'io non possa dire, ma pur tuttavia sento il bisogno di rendergli io pure una pubblica testimonianza di riconoscenza e di venerazione, sento il dovere di proclamarlo, salutarlo anch'io benemerito della patria.

Quest'nomo che tutti piangiamo, era il vero apostolo della carità; o l'ammirazione che nessuno gli sapeva negare, prova come sieno amati anche fra noi i buoni sacerdoti.

Nato a Venezia, da famiglia del Cadore, studiò nel seminario di quella città, e fu prefetto de'giovani chierici.

Quest'ufficio gli ispirò tale amore per la gioventù, che fin d'allora fece il proponimento di consacrarsi al bene di essa; e riconoscendo gli effetti salutari che una saggia educazione produce anche nei figli di persone civili ed agiate, presentì quelli ben maggiori che si sarebbero potuti ricavare da quei giovanetti i quali non hanno chi li guidi nel mondo.

Uscito quindi dal seminario, pensò e ripensò al miglior modo di poter giovare ai fanciulli singolarmente poveri ed abbandonati.

Enel 1869 l'abate Coletti, saputo come il nostro codice provvede ai giovani vagabondi, fondò a proprie spese la casa di ricovero a S. Giobbe, nella fede che il Governo vorrebbe valersene anche per suo conto. Difatto, quando gl'intendimenti e l'opera di questo magnanimo vennero a cognizione di chi presiedeva in Venezia alle pubbliche faccende, il Coletti venne invitato a stringere un contratto con lo Stato, assumendosi di mantenere, educare e istruire cento ragazzi e più ove al Governo del Re piacesse e la capacità del locale lo consentisse. con una retta di soli 80 centesimi per giorno.

I programmi ed i regolamenti del Coletti vennero approvati interamente dalle autorità, e l'Istituto, che si aprì con due fanciulli, ne conta oggi circa trecento.

I mezzi di rigore furono pochi e raramente si usarono; qualche ora di reclusione, e qualche giorno, per le trasgressioni più gravi, la privazione di quella qualità e quantità di cibo che si potesse togliere senza alcun danno della salute: ecco i più forti gastighi, cui ben di rado ricorse l'egregio educatore.

Ogni ragazzo, oltre all'imparare a leggere e scrivere ed a far di conto, oltre all'assistere agli esercizî ginnastici e militari fatti in comune, viene obbligato a scegliersi un mestiere od un'arte speciale; e in questa scelta, secondando l'inclinazione del giovanetto, cercasi illuminarlo paternamente, affinchè sia tale da riescire acconcia alle forze fisiche e intellettuali di lui.

Parte di ciò che ogni allievo guadagna con l'opera propria si tiene in serbo, perchè all'uscire dell'Istituto sia padrone di un mestiere e di quanto abbisogna per mettersi in grado d'esercitarlo tosto e comodamente: così quello cui la natura e la fortuna condannarono alla miseria e alla colpa, rendeva operoso, utile e felice.

La qualità essenziale dell'Istituto Coletti era questa: non vi entravano che tristi, non ne uscivano che buoni.

Seguendo le massime evangeliche, il pio istitutore non solo disse: Lasciate venire i pargoli a me, ma preferì i reietti, e non attese, ma cercò le pecorelle smarrite e il prodigo figliuolo per ricondurli all'ovile.

E tanto esempio fruttò. Nel 1872 la vicina Padova, che grazie al legato d'un generoso suo cittadino, il Camerini, poteva aprire un Istituto di beneficenza, ne affidò l'ordinamento e la direzione al Coletti, ben sapendo che in tal guisa avrebbe pienamente conseguito l'intento desiderato.

Il Coletti accettò con lieto animo l'incarico, riserbandosi quella piena indipendenza, che gli assentisse di mantenere e svolgere sempre meglio i proprî concetti. Così la sua instancabile carità pateva esercitarsi in un nuovo campo, senza abbandonare quello che da sè stesso erasi aperto.

Io non conobbi persona più attiva, mente più pronta a concepire e a provvedere d'un tratto a tante cose diverse, non conobbi anima più generosa e affettuosa insieme ed energica. La carità intendeva nel senso più largo, alto, completo. Rendere atti al lavoro gli inetti, farne sentir loro la forte compiacenza, nobilitarli davanti a sè stessi perchè si rinobilitino quindi agli occhi di ognuno, ecco il suo fine supremo; pel quale affaticava senza tregua, logorando la povera creta impotente a contenere a lungo lo spirito che l'agitava. Egli commoveva con una sola parola quei cuori dianzi rozzi, freddi, abbrutiti.

L'affetto che ispirava non era fiacco, passivo, indefinito, ma vigoroso sempre ed efficace. Il suo sguardo, per lo più dolcissimo, a qualsiasi mancanza diveniva severo, sfavillante, imperioso: tutto piegavasi davanti a quella volontà onnipotente, perchè rivolta unicamente al bene.

L'autorità che deriva dalla coscienza di sè, dalla forza d'una natura intemerata, questa autorità, che sì raramente si esercita oggi fra noi, non ebbe mai manifestazione più intera, spontanea, solenne.

Non aveva solo il nome di sacerdote, ma serbava la fede più pura, più ardente nella legge del Cristo, e appunto perciò era non solo tollerante, ma rispettoso delle credenze altrui; non imponeva molte pratiche religiose, non abusava del culto delle immagini, cercando invece d'imprimere nel cuore degli allievi l'immagine d'un Dio di Carità e d'amore. Trattava tutti con uguale benevolenza. Nella rettitudine dell'anima sua aveva risoluto agevolmente, nettamente la questione che turba ancora tanta parte del clero, e senza esitazioni, senza ipocrisie, s'era inchinato in Roma prima alla Santità del Pontefice, poi all'autorità del re d'Italia. Onorava il capo della Chiesa, e preparava dei soldati gagliardi al capo dello Stato, facendo spesso risonare i vasti cortili del proprio Istituto della fanfara reale. Visitai più volte quel provvido ricovero, e ne partii sempre intenerita, e vidi uomini dotti e venerabili uscirne anch'essi con le lagrime agli occhi.

D'ordinario questi moti di carità sono passeggieri negli anni giovanili, in cui sembrano talvolta un tentativo sublime per cercare di attutire in opere e affetti divini la tempesta delle, passioni terrene: ma così non era nel Coletti: la pietà, l'amore del prossimo erano la sua vita. Egli non aveva nulla nè da obliare, nè da fare obliare, e portava nella sua opera rigeneratrice tutto l'ardore della giovinezza insieme colla tenacità ed il senno dell'età matura.

Ciò che maggiormente ti commoveva nel suo Istituto era l'aspetto severo e sorridente di quei fanciulli tolti al trivio e alle carceri, era il buon volere con cui lavoravano, l'affezione confidente, ineffabile che portavano al padre.

Pareva una famiglia più che una scuola, una casa di premio più che di pena. Udii narrarmi dei fatti che m'empirono prima d'orrore, poscia d'ammirazione. Vidi dei pentimenti così pronti e sinceri che mi parvero miracoli; udii dei genitori chiamare singhiozzando il Coletti la provvidenza propria e dei figli; vidi ancora centinaia di figli venerare, dopo le sue parole, i genitori, innanzi oltraggiati e fuggiti.

Ecco quanto seppe e volle fare l'abate Coletti… ed ora è morto!… Piansi, per amor della patria e dell'umana famiglia, sulla tomba di letterati, di scienziati, d'artisti e d'uomini di spada e di Stato, illustri e potenti, ma non provai tanto dolore per lo sparir d'una gloria, quanta ne provo per la morte di quest'uomo sì poco noto, che lottò contro il male col volere degli eroi e con l'annegazione dei martiri, che aveva consacrato tutto il non iscarso suo censo, tutto sè stesso, alla redenzione morale del nostro popolo.

O mia povera Venezia, la sventura che ti colpisce ne compendia in sè d'infinite; ma tali uomini lasciano come eredità un grande dovere da compiere: quello di seguirne l'esempio! Non pensare nè a pompe nè a monumenti; egli li sdegnerebbe; il monumento che solo devi serbargli è l'Istituto che ne porta il nome.

Guai a noi, guai alla patria tutta se la perdita dei migliori non ispirasse che sterile cordoglio; guai a noi se non si cercherà di riempire degnamente il posto lasciato nel cuore del popolo da questo che dobbiamo ricordare come il vero esempio del sacerdote dei nuovi tempi.

Settembre 1873.

Amare, lavorare e soffrire, in queste tre parole si compendia la vita di questa egregia donna, morta di tisi, non ancor quarantenne, il giorno 26 del passato settembre, in una piccola terra del Veronese, sotto il tetto ospitale della nobile famiglia Vicentini, e tra le braccia delle due figlie desolate.

Chi sapesse dire quanto ella meritò per l'ingegno ed il cuore, per le virtù e le sventure, scriverebbe pagine molte, commoventi, sublimi.

A me non tornerebbe ora possibile narrare intera questa vita che mi fu sì cara, nè tenere un silenzio che se per pochi sarebbe prova del più verace dolore, potrebbe apparire a molti tiepidezza d'affetto.

Però chieggo a questo periodico, che ha per iscopo precipuo (1) Fu scritta per un periodico d'educazione, e credo stampata in un giornale intitolato La Cornelia. Di questa brava e sventurata donna parla più volte la Fusinato nei suoi Ricordi, come pure delle figliuole, e fra le altre alla pag. 26. l'onoranza della donna, una pagina per codesta che delle figlie, delle spose, delle madri fu nobilissimo esempio.

Nata a Mestre, presso Venezia, da famiglia agiata, colta e gentile, manifestò precocemente l'amore per ogni leggiadra disciplina. Scriveva e versi e prose con elegante semplicità, disegnava, sonava, eseguiva i più difficili e svariati lavori d'ago con gusto e perizia d'artista. E dalle occupazioni di un ordine elevatissimo, la vedevi tornare con ispontanea sollecitudine alle cure più umili della casa, e tutto sapeva condure con tal gusto e perfezione, che l'avresti detta nata e cresciuta unicamente per quella delle sue molte occupazioni, a cui in quell'istante la vedevi dedicata.

La conobbi giovanissima nel 1850, quando gli Austriaci le imprigionarono il padre, esimio giureconsulto, accusandolo di soverchio amore alla patria. Rammento ancora l'espressione dolorosa del suo volto simpatico e intelligente; rammento la sua pietà per la madre, alla salute debolissima della quale temeva troppo funeste quelle agitazioni paurose; e il desiderio di confortarla m'ispirò allora un'amicizia, che nè tempo nè lontananza valsero mai a scemare, perchè fecondata dalla stima, cresciuta nella sventura.

E rammento che pochi anni appresso ella mi annunziava le sue prossime nozze, cui assentiva di lieto animo perchè desiderate dai parenti, perchè l'univano a tale, che fino da bambina stimava e che, essendole superiore di età, le poteva esser guida sicura nel periglioso cammino della vita.

Ed altro argomento di consolazione le derivava dal pensiero che mutando nido non avrebbe mutato paese; così potè infatti per alcun tempo godere delle dolcezze di figlia, pur soddisfacendo ai doveri di sposa, cui aggiunse ben presto quelli invocati di madre.

Che lieti auspicî salutarono la nascita così dell'una come dell'altra delle due fanciulle, oggi orbate d'entrambi i genitori!

La madre loro perdeva, ben giovane anch'essa, la propria madre, alla quale, come nei molti pregi, ahimè! somigliava pure nella gracilità delle membra; e con quella morte ebbe principio la non mai interrotta sequela di sventure che la trasse anzi tempo al sepolero.

Rovesci di fortuna, sopportati e scongiurati indarno con forte animo, l'obbligarono a lasciare ogni cosa più cara, per seguire in altre provincie il marito, di cui fu sempre la confortatrice, la provvidenza terrena. Da quel giorno, per lunghi anni, non la rividi; pure la sapevo occupata sempre della casa, delle figlie che iniziava da sè nei lavori donneschi, nelle lettere, nelle arti, cui ella stessa consacrava i pochi momenti che le rimanevano liberi dalle cure più doverose. Gl'interessi del consorte, che professava l'ingegneria con acutezza di dottrina e d'intelletto, la condussero a vivere ora in popolose città, ora in villaggi deserti, ma si serbò in ogni luogo la stessa; in ogni luogo casalinga, operosa e serena, si procacciò sempre non che la stima, l'ammirazione di quanti ebbero la fortuna di conoscerla, di poterla intendere appieno. Vi sono di quelle virtù costanti, di quei sacrificî ad arte occultati al mondo e perciò più meritorî, che neppur dopo la morte di colei che li compiva osiamo rivelare, parendoci di vederla risorgere davanti a noi e soffusa del rossore di una squisita umiltà mettersi un dito sulle labbra per dirne: taci!—E sia; d'altra parte a che ti gioverebbe ormai il plauso terreno?…

Nel 1867, in Pisa, le moriva per repentino morbo il marito, lasciandola sola con le due tenere figlie e pressochè sprovvista d'ogni bene di fortuna.

Allora quell'essere debolissimo, che pareva non si poter reggere senza un sostegno, trovandosi nella necessità di sostenere da sola le figlie, diè prova d'una vigoria di propositi, di cui non pareva capace e che solo l'amore materno le poteva ispirare. Cangiaudo consuetudini, affrontando disagî, sottoponendosi a prove penose anche per le giovanette avviate all'insegnamento, in pochi mesi seppe acquistarsi il diploma superiore normale, e prese stabile dimora in Firenze, assumendo l'incarico di direttrice degli studî nel collegio delle Giovacchine, incarico che disimpegnò con zelo ammirabile, conciliandosi l'affetto delle suore, delle alunne e degli egregî che tutelano la pia istituzione.

Ma il frutto di quelle sue nobili fatiche era insufficiente al sostentamento della famiglia, ond'ella concorse al posto, allora istituitosi, di maestra di disegno in queste scuole comunali, e ottenutolo, lo coprì con generale soddisfacimento. Ella, un tempo sì ritirata, passava così giornalmente da uno ad un altro insegnamento da una in un'altra scuola, compiendo da sola il lavora di due maestre; e nelle ore che altre danno agli svaghi od al riposo, cuciva, ricamava, ornava le vesti delle figliuole e proprie, chè tutto s'aveva a fare in casa, e il buon gusto e la eleganza della fattura doveva compensare, e compensava, l'umiltà della stoffa.

Nè è dire che col mutare di condizione l'animo suo mutasse mai. Ella sentiva che quanto faceva, lungi dallo scemarle, le cresceva dignità, sentiva che, insegnando ad altre, dava alle figlie la più efficace d'ogni lezione, e vedendole crescere saggie ed operose, sognava per esse, e forse anche per sè, un avvenire più riposato e più lieto. Nè le avversità le scemarono un'aria sempre giovanile, una freschezza direi quasi virginale di pensieri e d'affetti, uno spirito pronto e amabilmente arguto, ch'era il risultamento armonioso delle migliori qualità de'suoi perduti parenti.

Ma alla gagliardia dell'animo e dell'intelletto, quella del corpo sempre più manifestavasi impari.

Le sofferenze, già antiche, divenivano più acute e frequenti, e indarno ella cercava di trionfarne, illudendosi intorno la loro gravità; indarno vi si rassegnava, preferendo vivere, anche fra i tormenti, all'abbandonare le figlie. E forse, perpetuando i prodigî dell'amore materno, sarebbe ancora fra noi, ove altri dolori morali non l'avessero colpita, ove non le avesse fallito d'un tratto una speranza da molto tempo vagheggiata per l'avvenire delle figlie dilette.

A tanto non resse, e nel giugno decorso cadde in condizioni sì miserevoli di salute, che disperandone la guarigione, il medico consigliava, ultimo espediente, un cambiamento di clima. E la poveretta che diceva, guardando le sue creature: «Io non debbo, non voglio morire!» si lasciava condurre, già esausta di forze, nel Veneto e nel seno fidato dell'ottima famiglia che l'accoglieva con ineffabile affezione.

Ivi, se le cure più assidue, sapienti e cordiali l'avessero potuta risanare, ella sarebbe risanata; ma il morbo aveva omai fatti guasti troppo profondi, irreparabili; e gli amici non poterono che mitigare le pene dello spirito, mentre il medico anch'egli reverente e devoto, studiavasi di mitigare quelle del corpo.

Visse finchè il dolore ebbe esaurita ogni potenza vitale, talchè venne a morire, senza quasi avvedersene, tra il compianto a l'ammirazione dovuta ai martiri del dovere, dell'affetto, della sventura.

Brevi anni ancora, e avrebbe veduto le figlie primeggiare nella schiera più eletta delle giovani maestre, e ne avrebbe trovato largo compenso a tante fatiche, a tanto esempio!…

Ma, se il pensiero delle due orfanelle, degne per ogni ragione di una diversa fortuna, induce noi a tanta pietà, elle ben sapeva d'essere vissuta abbastanza per innamorarle d'ogni virtù, e perchè il ricordo di lei fosse da solo potente a serbarle quale ella seppe essere ognora.

Oh! ma che sarebbe ora di loro e di noi, senza la fede che la sua anima consegua altrove quel premio, che meritò sempre e che le fu sempre negato nel mondo?…

Firenze, ottobre 1873.

Dolente che una penna migliore non l'abbia già fatto, e non per altra ragione, porgo io la notizia d'un libro che in breve diverrà, io ne son certa, una delle vostre più care, dilettevoli ed utili letture.

L'illustre ed infaticabile Andrea Maffei, che già fece italiane tante stupende opere tedesche ed inglesi, dava ora alla patria una splendida traduzione del Paradiso Perduto di G. Milton. La bella edizione venne eseguita in Torino dall' Unione Tipografica Editrice, e la diligente correzione che in essa si ammira, chiaramente dimostra siccome l' occhio esperto e paziente dello stesso autore l'abbia amorosamente vegliata dal principio alla fine.

Prima gemma di quest'aureo volume sono quattro dolci ed affettuosi sonetti del cavalier Andrea Maffei, che, dedicati al sommo epico inglese, gli dicono qual lungo studio e quale infinito amore egli abbia posto nel compiere la versione di questo suo prediletto poema.—Vengono dietro poche ma bellissime parole, parimenti del traduttore, che ci fanno conoscere qual metodo eccellente egli tenesse in quest' arduo lavoro, e perchè egli abbia voluto arricchire il libro dei cenni classici di Chateaubriand intorno la vita e le opere di G. Milton. Così il poema viene condegnamente preceduto.

E qui vorrei e dovrei forse parlarvi delle maravigliose bellezze che si trovano ad ogni pagina di questo volume e dirvi del vario e pur sempre ammirabile magistero del verso che or piano, or rotto, or dolce e soave, or aspro e fiero, compie e rinforza il valore del concetto originale. Sarei tentata a citarvi un qualche passo che potesse in parte almeno mostrarvi quanta e quale sia la classica dignità dello stile, l'eleganza purissima della forma che indurrebbe a credere venisse quest' opera pensata e scritta nella nostra stessa favella.

Se non che la mia mente, abbagliata e confusa da tanto splendore, non osa arrischiarsi alla difficile scelta; poichè tutto qui è perfetto, sorprendente, sublime. Leggete adunque il poema, l'intero poema, confrontatelo con quante altre versioni ne vennero mai fatte in Italia, e fuori d'Italia, e quando avrete assistito col più grande fra i nostri traduttori alla pugna terribile dei celesti, e alla superba caduta di Satana, quando avrete con lui percorsi i cieli, l' abisso e la giovine terra, quando avrete veduto com egli abbia saputo ritrarre i misteri della creazione e divinare il linguaggio del Signore e quello degli Angeli (già da lungo tempo a lui noto) (1) Vedi gli Amori degli Angeli., quando i vostri cuori avranno inorridito alla feroce bestemmia, all'ira maledetta del nemico del bene, e palpitato soavemente agli amorosi colloquî dei nostri primi padri, allora rivolgetevi a lui che ci diede di poter gustare tali e tante bellezze, e con l' anima ripiena della più sincera riconoscenza ditegli meco:

Se potè nel passato Italia nostra Chiamar perduto il gran libro, per noi, Ora che ad essa la tua musa il mostra Fatto più bello negli accenti suoi, A palesar come t'onori ed ami, Non più perduto, conquistato il chiami.

Nel parlarvi dell'Epistolario del Foscolo e di quello del Giusti, io sono ben lungi dal voler dettare un articolo di critica.—Tale assunto sarebbe soverchio per me, ed ho troppa coscienza nelle mie forze per non averlo pienamente compreso. D'altra parte già a suo tempo, ed in questo stesso giornale, una penna ben più esperta e provetta seppe compiere il difficile incarico e seppe compierlo in modo da far eader d'animo ogni altro che venisse dappoi.—Amai farvi questa dichiarazione perchè essa varrà, io spero, a spogliare le mie parole d'ogni aria, non certo volontaria, di sentenziare, e ad accertarvi com'io non intenda che esporvi con l'usata fidente familiarità alcuni fra i varî sentimenti provati nella ripetuta ed alternata lettura di queste opere, che sono l'emanazione di due anime grandi e generose del pari.

Ma prima di toccare tale argomento m'è forza palesarvi un pensiero, che voi probabilmente avrete comune con me, che lo scrutare cioè avidamente gli arcani d'una vita, che forse amava rimanere, almeno nella più intima parte, ignorata, non potè a prima vista sembrarmi nè rispettoso, nè giusto. A coloro che spontaneamente ci facero dono dei frutti più eletti del loro sapere, dei lampi più splendidi del loro ingegno, mi pareva indiscrezione il domandar di più, come sarebbe in colui che, reso ardito da una larga beneficenza usatagli, pretendesse poi, pel solo diritto che l'altrui bontà gli concesse, il pieno godimento d'ogni proprietà del suo benefattore. Non potrei significare con parole il sentimento che mi prese quando per la prima volta ebbi fra mano quei preziosi volumi. Era ansiosa di pascermi in quella lettura, d'udire dalla loro bocca medesima come veramente sentivano, pensavano quegl'illustri ch'io da tanti anni onorava, ma non sapeva risolvermi ad aprire quello pagine, e rimasi per più tempo peritosa, esitante. Che più?… mi pareva d'essermi, benchè a malincuore, indotta ad origliare presso un uscio socchiuso, e da cui da un momento all'altro potessero uscire coloro di cui spiavo gli accenti, a cogliermi in quell'atto tutta vergognosa e confusa.—Forse a taluno questi miei appariaranno scrupoli esagerati e superflui, e in ispecie a coloro che, trovando un po'insipidi i condimenti paesani, si abituarono a cercare più acre solletico al poco sensitivo palato in certe piccanti salse oltramontane, come sono, per esempio, le notissime biografie che Monsieur de Mirecourt pubblicava a Parigi negli anni decorsi e che, se non alla sua fama, a giudicarne dal grande spaccio avutone, per certo devono aver recato non lieve ristoro alla sua borsa (1) Il presente scritto era già dettato da qualche tempo, quando venne alla luce la relazione della morte del sig. de Mirecourt e della povertà che lo afflisse ne' suoi ultimi anni. Ma neppure per questa dolorosa verità possiamo mutare un'opinione che l'esperienza dei fatti serve anzi a convalidare. L'aspetto di una tomba non può ispirare che un sentimento di perdono e di compianto, e vogliamo credere che da un tale sentimento abbiano ad essere compresi anche coloro che, reputandosi offesi dalle biografie dell'estinto, hanno voluto trarre acerba vendetta facendolo segno di quell'incessante persecuzione che tanto ebbe a riuscirgli fatale. Possa il tristo esempio sconsigliare chiunque fosse tentato di cercarsi voga o pecuniari risorse ripetendo tali sconvenienti pubblicazioni.
(Nota deur Autrice)
. Ma alle meraviglie che le mie titubanze potessero destare in costoro, si potrebbe a buon diritto rispondere, che noi qui, in Italia, non siamo per fortuna giunti ancora a quel supremo grado di civiltà che tende a rendere oggetto di permessa e divertente curiosità perfino lo scandalo, nè crediamo andare errati asserendo che neppure in Francia può esistere uomo di sì spregiudicato indifferentismo che gli consenta di trovar giusto quel tributo che il sullodato scrittore pretende a nome dei suoi lettori da chiunque e per qualsiasi particolare talento si acquisti una qualsiasi celebrità, e che consiste nel rendere di pubblica ragione i più minuti particolari, i misteri più occulti della sua vita privata.

Ma lasciando questo signore e le sue più o meno oneste industrie letterarie, bisogna però confessare, anche per non essere tacciati di parzialità verso il nostro paese, che pur fra noi abbiamo a lamentare talvolta peccati simili.

E per non uscir di proposito, mi basti citare la vita d'Ugo Foscolo scritta da Giuseppe Pecchio, libro sfavorevolmente accolto, perchè tentava di abbassare quel piedistallo di gloria su cui gl'Italiani posero concordemente colui che sì per l'altezza dell'intelletto che per quella dell'onorata sventura, fu degno della loro devota riconoscenza.

Nè al Pecchio valse di giustificazione il dire che la stessa amicizia ch'egli nutriva per quell'illustre gl'imponeva parlarne senza alcuna riserva e con severa imparzialità, poichè parve a molti che non fosse imparzialità soltanto, e fu d' avviso ognuno che ben altri doveri gli venissero imposti da quella vantata amicizia.

E primo fra tutti era certamente quello di coprire d'un pietoso oblio quanto non avesse a parergli degno di tant'uomo, astenendosi da opinioni e commenti che sono poco onesta cornice a certi fatti che anche allora furono interpretati ben diversamente e poi universalmente riconosciuti. Che quando pure una falsa convinzione o l'ignoranza di importanti avvenimenti, ignoranza non mai perdonabile in chi si fa scrittore d'una vita pari a questa, non gli avessero consentito nè una piena giustificazione nè un prudente silenzio, egli avrebbe potuto proferire alcune di quelle saggie parole che il Niccolini, quell' nomo venerabile meno ancora per l' età che per la mente, la natura ed il cuore, rivolgeva a tale proposito all' editore della Lettera apologetica del Foscolo e dodici anni prima che questo documento della più nobile fierezza venisse a rivelarne la luce sfolgorante del vero.—E «cuopriamo d'un velo, egli allora diceva, qualche errore di quel grand'uomo, s' ei non fu sempre coerente ai principî di quella civil letteratura che professò.» Oh quanto sarebbe desiderabile che ogni qualvolta il mondo volesse conoscere tutto ciò che passò nel corso d'una cara esistenza, quest' istoria fedele gli fosse porta da quello stesso che ne fu il protagonista, e che possiede bastante onestà per non cercare appoggio o discolpa che in sè stesso e nel vero! Per tal modo vedremmo qualche giusto apprezzatore della disconosciuta virtù ricredersi con gioia da penose dubbiezze, esclamando come il Niccolini dopo la lettura della Lettera Apologetica:

«Egli s'è rivelato tutto, e chi non l'imita pronto a morire sulla paglia, per non rinnegare i suoi principî, non vivrà benedetto nella memoria degli uomini!…»

Perciò adunque, più ancora che per il diletto ch'essi ci porgono, sia lodata la pubblicazione degli epistolarî degli uomini illustri, e sopra tutto quando la compilazione ne venga affidata a chi sia capace di compierla con la guardinga circospezione, con la vereconda riserva e con il culto amoroso, di cui seppero usare gli egregî raccoglitori di questi due.

Con quanta compiacenza ci assicuriamo che quei nostri poeti prediletti furono anche per le civili e famigliari virtù pienamente meritevoli della fama intemerata ch'ora godono! Se lo scrittore e l'uomo vuolsi omai una cosa sola ed indivisibile, se ogni generoso sentimento che spira da'suoi scritti esigiamo trovarlo posto in pratica in ogni sua azione, oh! guardate pur questi due, e vedrete che son tali da appagare queste doppie esigenze, vedrete che se l' ammirazione che nutrite per lo scrittore v'induce a cercare qual fosse l'uomo, l'uomo alla sua volta v'astringe a stimare ed amare maggiormente lo scrittore.

Queste lettere, più si leggono e più ci diventano care, e allo staccarsi da esse proviamo quello stesso rincrescimento che ci assale nel dire «addio» ad un amico fidato da cui non ci supremmo partire senza la certezza di rivederlo ancora. E poi quante volte non ci troviamo noi in condizione da sentire il bisogno di riconfortarci, di ritemprarci colla parola, coll'esempio dei grandi! Ed a queste fonti purissime nessuno viene indarno ad attingere «la virtù di soffrire e la speranza».

Il Foscolo e il Giusti ci rappresentano una eguale idea in due epoche che, sebbene non lontane l'una dall'altra, pure ci appaiono molto diverse fra loro. Il primo riassume in sè quanto v'era di grande nella generazione passata, il secondo nella presente. Nell'uno si scorge più altezza che espansione, più delore e disprezzo che perdono e pietà del presente, più sfiducia che speranza nel vicino avvenire. Nell'altra invece vediamo brillare di sovente, anche frammezzo all' immortal sogghigno quella fede intuitiva in una prossima risurrezione, che gli veniva arcanamente ispirata dall'avvicinarsi dei meravigliosi avvenimenti, al cui svolgimento, pur troppo, non gli doveva esser dato d'assistere.—Per definire i sentimenti ch'essi ci destano, oserei dire che mentre pel Foscolo serbiamo una reverenza profonda, un'ammirazione forse maggiore, verso il Giusti noi ci sentiamo attratti da una simpatia più espansiva, da un'amore meno contegnoso e perciò appunto più confidente e quasi fraterno.

Consideriamoli ora entrambi per un istante nella vita politica. Nei fatti memorabili che si compirono sotto ai loro sguardi ed ai quali essi non potevano rimanere impassibili spettatori, li troviamo caldi d'un eguale effetto per la patria comune, frementi d'un ira eguale, d'un eguale disprezzo per quanto sapesse di viltà o di fazione, fosse questa tirannica o demagogica.

Chi mai può fermarsi nell'epoca in cui il primo Napoleone sceso trionfante in Italia ne rimaneggiava a suo talento gli nomini, del pari che i destini, senza rimanere colpito, abbagliato dalla ferma e mirabile condotta del Foscolo?… È dovere il dirlo: fra tanto strisciare d'uomini codardi o stolti, malvagi o ambiziosi, che per buscarsi un impiego, una gratificazione, una croce, si struggevano nell'adulare, nell'incensare il grand'idolo, o studiavano di rannichilirsi affinchè potesse risaltar maggiormente l'altezza di lui, nessuno serbò intemerato il nome e l'ingegno al pari del Foscolo, nessuno al pari di esse si rese dogno degli onori che a lui solo perciò non furono largiti.

Oh, ma non era un uomo solo, per quanto potente, bensì tutti i suo fratelli e la patria che doveano riconoscerlo ed onorarlo!—Il suo volume di prose politiche, composte presso che tutte in quell'epoca, è uno studio che non sarà mai a sufficienza raccomandato a noi Italiani, poichè da esso più che da ogni altro possiamo apprendere quella dignità individuale, da cui può derivare soltanto la dignità dell'intera nazione.

Quest'unico esempio e quest'unico libro basterebbero a rendere il Foscolo meritevole della gloria che ricinge il suo nome.

E ritornando ora al Giusti, e senza parlare degli altri pregî delle sue immortali poesie che sono una lotta coraggiosa ed incessante ch'egli sostenne contro ogni principio avverso al bene del proprio paese, chi non rimane amaramente sorpreso nello scergere siccome a lui, al poeta che, mentre tutti dormivano od almeno tacevano, ardiva altamente e acerbamente rinfacciare i loro torti così ai popoli come ai monarchi, si osasse apporre nel 48 la taccia ridicola di retrogrado e di codino?… E ciò perchè? perchè come dal dispotismo, fosse purè sfacciatamente feroce od ipocritamente paterno, egli rifuggiva parimenti da quel partito estremo che soleva chiamare una frotta febbricitante e che sotto il manto d'un bastardo repubblicanismo destò semprè discordie funestissime a questa povera terra.

Il contegno tenuto da entrambi in quelle due epoche memorande, parmi il punto della loro vita in cui maggiormente risulti tutta quella somiglianza di carattere ch'è nei due grandi poeti. E il ritirarsi del Giusti dalle pubbliche cariche—fiero, come egli disse, della propria enestà e abborrendo le mene d'ogni setta, le ambizioni d'ogni colore e gli ipocriti d'ogni mantello quando vide la sua giusta moderazione battezzata per tiepidezza, e per libertà la bordellesca licenza—parmi si possa a ragione vantare come la prova più luminosa dell'integrità dell'anima sua e di quel civile coraggio che molti anni prima induceva lo stesso Foscolo a prescegliere la libertà e l'esilio piuttosto che costringere la casta e fierissima musa ad una sola parola che sapesse d'adulazione e che pure con lusinghe d'ogni maniera si tentava carpigli.

E questi uomini che fra uno svergognato prostrarsi ed un frenetico sconvolgersi di genti, le quali non giungevano nè a rispettarli, nè a contenerli, seppero sempre serbarsi grandi ed incontaminati, a noi ora si presentano come due figure giganti che stieno contemplando, con quell'amara espressione che par sorriso ed è dolore, il convulso agitarsi d'una ridda scomposta che una moltitudine cieca d'ebbrezza meni loro vertiginosamente d'intorno.

Furono entrambi infelici, ma certo quella del Foscolo fu sventura di gran lunga maggiore: peraltro in una sola cosa (ma quanto vitale per il cuore!) il Giusti a ragione lo avrebbe potuto invidiare. E fu nell'amore di una donna atta a comprenderlo, a mitigarne o dividerne almeno gli affanni, a confortarlo nollo studio dell'arte, ed a raccogliere, come cosa di cielo, le calde e severe ispirazioni del suo forte intelletto.

Non è possibile non sentirsi tocchi da una dolorosa pietà nel leggere, dallo stesso Giusti narrato, benchè con velate e non mai irose parole, per qual modo gli falliva la lusinga d'aver rinvenuto quest'anima gemella alla sua, quest'anima cui anelava affidare ogni pensiero, ogni affetto. Si direbbe che mai per tutta la vita gli si potesse rimarginare la profonda ferita che quell'amaro disinganno gli aperse nel cuore. E quelle poche volte ch'egli, lasciando il pungolo severo, ci parla senz' ombra di quel sarcasmo e di quell'ironia tutta sua e inimitabile, noi rileviamo da un'arcana malinconia che traspira da ogni suo detto, come mai non cessase di rimpiangere le perdute illusioni, nè mai gli venisse meno il desiderio, il bisogno di una tale affezione. Talvolta nelle sue lettere l'udiamo promettere al padre, agli amici, a sè stesso di voler crearsi più dolci e stretti legami di famiglia. Oh! ma avrebbe egli potuto donare la sua mano ed il suo nome a chi non sapesse comprendere tutto il prezzo d'un simil dono?.. Così visse e morì privo di questa soave compagna che avrebbe dovuto col proprio affetto lenirgli le molte angoscie de' suoi ultimi anni, che avrebbe schiuso una nuova fonte d'inspirazioni al poeta, aggiunta una nuova corda, e la più soave, alla sua lira.

Egli è perciò che quando noi, ripensando alla tempestosa vita del Foscolo, siamo presso ad imprecare contro il suo avverso destino, la dolce immagine della sua donna gentile ci fa invece richiudere il labbro con una benedizione. E sia pur sempre ammirato ed onorato il tuo nome, o eletta creatura, per il tanto bene che tu facesti a quell'illustre, quando, esule, povero, sofferente, nessun altro conforto egli aveva che quello che tu, o pia, benchè tanto lontana, pur con gli amorosi tuoi scritti, gli sapevi istillare!—Le poche lettere tue che ci è dato leggere accanto a quelle dell'uomo che ti fu amante, amico, fratello e tutto, sono reliquie preziose che verranno gelosamente custodite dalla memore riconoscenza dei più tardi nipoti. Tu chiudevi in cuore quanta sublimità d'affetto, quanta virtù di sacrificio può trovarsi qui in terra, e noi ti riguardiamo come l'ideale, la poesia della donna. Per chi sa intenderti, è cosa meravigliosa, e che vince quasi la forza concessa a noi mortali, quel tuo magnanimo rifiuto di dividere come sposa la sorte di lui che sopra ogni cosa apprezzavi, di lui di cui avresti voluto essere l'ombra per seguirlo dovunque, senza tema d'avergli mai a riescire d'inciampo nella perigliosa carriera. Non era nè sola amicizia, nè solo amore il tuo, bensi l'essenza più pura d'ogni affetto più sacro. Ma chi potrebbe trovar parole che ti pingessero così dolce, così nobile, così grande, come ti pingono le lettere che dirigevi al tuo Ugo?… Oh sì! tu sola potevi degnamente parlar di te stessa!

Ogni volta che il pensiero ci riconduce a questi incomparabili cittadini e poeti, noi ci chiediamo con verace rammarico, perchè ad essi ed agli altri pochi che loro assomigliarono, Dio non concesse l'esistenza in questi tempi ch'hanno pur tanto invocati. Oh! se da una vita migliore potessero ora vederci, essi saprebbero almeno come il seme prezioso del loro sapere, del loro ingegno, della loro virtù, non sia caduto sopra un terreno infecondo. Sì, noi lo riconosciamo opera che in gran parte fu vostra il maturarsi di tanti eventi che parevano sogni; e questa confessione, questa riconoscenza, questo culto che vi professiamo, vi sia prova che noi siamo presso finalmente a non demeritare

«Il fiero incarco della vita nova.»

raccolti ed in parte tradotti ed illustrati dal D.r Lorenzo Puppati. (Volume primo, parte antica).—Lettera alla Redazione del giornale La donna e la famiglia

Ci gode l'animo nel potervi venire dinanzi con un eletto fiore or ora sbocciato in questo nostro paese. Ahimè! corre da gran tempo per noi una sì rigida e fosca stagione che, non che altro, ne rimangono perfino intorpiditi gli ingegni, nè osiamo quasi prestar fede a'nostri occhi se in mezzo a tale e tanto squallore vediamo di tratto in tratto escire un qualche degno saggio di operosa e splendida vita intellettuale. Questo senso di meraviglia lieta tanto e spontanea che il solo apparire del suo libro ne suscita nell'anima, sia la prima manifestazione di ringraziamento e di lode che noi, a nome pure dei nostri concittadini, amiamo offerire all'egregio autore, dottor Lorenzo Puppati.

Quest'opera è preceduta da una dedica che a noi sembra commendevolissima, perchè congiunge felicemente alla più stretta concisione dell'epigrafe tutto il patetico dell'elegia.—Ma prima che vi gettiate sopra lo sguardo, concedeteci di farvi un breve cenno sull'oggetto, pur troppo perduto! a cui è indirizzata; essere amoroso e soave, rapito nel più bel fiore dell'età a due famiglie inconsolabili, a due paesi fratelli che ancora se ne contendono la memoria ed il lutto. E ciò vogliam fare non solamente per soddisfare ad un bisogno del cuore, ma pur anche per sottoporre alle nostre lettrici un'immagine che per noi è l'ideale più bello, più santo della donna.

Beatrice Puppati-Ruzzini era un' anima creata unicamente per gli ineffabili affetti della famiglia. Quantunque un' educazione profonda ed austera, largitale dallo stesso suo padre, avesse adorno il suo forte intelletto di più vaste cognizioni che non sogliano generalmente vantare le nostre donne, pure sì vera e perfetta modestia era la sua, che mai non avrebbe, nonchè fatto mostra, ma neppure dato il più lieve sentore di quel tesoro di sapere e d'ingegno che teneva nascosto gelosamente in sè stessa, in quella guisa che la conchiglia si nasconde nel seno la sua perla preziosa. Nè mai alcuno al vederla tanto umile e tutta e sempre intenta, benchè cresciuta nelle agiatezze, alle famigliari incombenze, farsi quasi uno studio di schivare ogni occasione che potesse far risaltare le speciali sue doti, nessuno, diciamo, avrebbe mai potuto concepire l'idea che quella giovane donna, semplice, ingenua e rispettosamente pieghevole alle altrui opinioni e giudizî, si dilettasse nelle scarse ore che concedeva a sè stessa, di letture alte e severe per modo che ben poche le avrebbero prescelte siccome studio e molte le avrebbero a stento subíte quasi una pena. E questo che diciamo della sua mente e del suo cuore, dobbiam pure ripeterlo della sua persona, poichè nessuna donna, per quanto spoglia d'attrattive, avrebbe potuto essere così scevra della benchè menoma ambizione come questa poveretta che pareva del tutto ignorare l'indicibile incanto delle sue belle e soavi sembianze. Figlia, sposa, madre imparoggiabile, tipo di tanto vereconda virtù da temere di offenderne con questa, per quanto sincera parola di lode, la delicata suscettività fin nella tomba. Uno di quegli spiriti infine che non scendono in terra che per patire ed amare… ed oh quanto ella ha patito ed amato!

Ed ora che conoscete colei che l'ispirava, ora voi pure leggetelo questo sfogo commovente di dolore e di affetto esalato dal cuore d'un padre sulla fossa recente dell'unica e adorata sua figlia, e diteci se questo libro non è il monumento più degno cui potesse raccomandarsi cotale intemerata memoria, e diteci se alcuno più di lei poteva apparir meritevole d'innalzare al Signore gl'inni di tutti i mortali.

E poichè tocchiamo ai morali intendimenti dell'autore di questo volume, diremo che non è questo il solo atto pietoso con cui egli ha voluto impreziosire la presente pubblicazione, essendochè l'intero profitto ne è devoluto a beneficio del civico Ospedale di Castelfranco.

Oh! per certo mentr'egli vergava piangendo quella dedica riboccante di tenerezza angosciosa, l'anima riconoscente della figlia veniva ad aleggiargli d'intorno e gli susurrava siccome questo dono genoroso ai poveri sofferenti sia un nuovo e il più sublime dei cantici che possano indirizzarsi al buon Dio.

Sappiamo già che da varî anni il Puppati faceva il proponimento di compiere la collezione che oggi ci porge. Che se le pubbliche e private vicende e le lunghe e minuziose indagini fatte affinchè l'opera non avesse a presentare imperfezioni o lacune, e la fatica durata negli ardui studî ne facevano ritardare, contra sua volontà, la desiderata pubblicazione, ora che il lavoro è nella sua prima parte compiuto, la copiosa ed eletta messe raccolta compensa ad usura gli amici dell'autore del ritardo patito.—La rara erudizione del Puppati sì nelle: storie che in moltissime lingue, venne in tale occasione nel miglior modo esercitata.—E in ciascuna delle traduzioni ch'Egli ci offre, ma particolarmente in quella d'Ermete Trismigiste, nell'altra del Gayatri, e nelle varie ottave che noi quasi diremo ariostesche, ben riconosciamo l'esperto poeta che con tanta altezza di sentimento e di concetto e con sì mirabile maestria di stile e di ritmo, seppe trattare l'arduo poema della Vita e della Morte. E degna d' ugual lode che il verso ci sembra pur anco la prosa sì del discorso preliminare che delle illustrazioni varie di cui questo libro va adorno.

Dopo avere così reso giustizia al buon gusto del nostro autore, ci sembra del tutto superfluo il soggiungere che anche quale compilatore egli seppe compiere perfettamente il non agevole ufficio. Le traduzioni che prescelse sono per lo più lavori di nomi così conosciuti da non aver d' uopo che noi ardiamo loro davanti il nostro grano d'incenso. E a provarlo ci basti citare quello di N. Tommaseo, di B. Varchi di G. C. Parolari, del prof. Bernabò Silorata, di A. Mauri, ecc., ecc. —Resistiamo al desiderio di riprodurvi qualcheduna di queste preziose versioni nella lusinga che sì pel loro merito che per l'indole stessa del nostro giornale, abbiate in breve a farne gustare parecchie alle vostre associate, e perchè possiate farlo senza indugio o fatica v'inviamo anzi questo primo volume.

Così vedrete da voi come una tale opera che, per quanto a noi consta, è unica nel suo genere, offra largo pascolo sì al filosofo che al sacerdote, tanto allo storico quanto al poeta. Essa non impiccolisce menomamente l'idea di quell'Ente Supremo cui son volte le aspirazioni e le preci dell'intero universo. Qui in ogni pagina, in ogni parola noi troviamo l'uomo il quale, compreso della propria dignità e potenza sopra ogni cosa creata, pure si riconosce un nulla di fronte a Colui cui tutto deve, e a significare questo sentimento, che gli è fonte non già d'uno sterile conforto ma d'una devota ammirazione, egli domanda a quanto vi ha di bello, di grande, di vero sulla terra e nel Cielo, un ïmmagine, un'espressione che non sia impari all'inno in cui vuole esaltare il suo Creatore.—E perchè crediamo aver compreso come il Puppati si prefiggesse in quest'opera il doppio scopo di togliere la gioventù, sì dal fatale sentiero dello scetticismo, come da quello, non meno terribile, d' un gretto bigottismo e d' una degradante superstizione per ricondurla a questa splendida e sublime religione d'un Dio di misericordia e d'amore, noi ci siamo trovati paghi della sua pubblicazione e invochimo di poterne ammirare in breve la seconda parte che per la sua attualità potrà forse tornarci più ancora interessante e gradita. Tale nostra aspettazione, oltrechè da questo primo saggio, è fatta ancor più sicura dalla promessa dell'autore il quale si esprime in proposito con queste parole: «Deesi avvertire che, trattandosi di inni a Dio, non possono comprendersi nella presente raccolta quelli del Manzoni, del Borghi, del Mamiani, ed altri inni sacri a ragione celebrati; in luogo dei quali, allorchè si tratterà degli Inni italici, sperasi di offerirne alcuni, anche recentissimi, non inferiori in merito ai sovraccennati.» E noi gli prestiamo piena fede, quantunque a prima giunta, e colpa certamente la nostra inscienza, non ci ricorrano alla mente nomi di moderni autori d'inni sacri «non inferiori in merito ai sovraccennati.»

Nè abbia a credere il Puppati che la stima verace e la rispettosa amicizia che professiamo all'onesto cittadino, al tenero padre, al benevolo amico, ne faccia velo al giudizio, così da infrenarei sul labbro quella qualsiasi parola di biasimo che da un qualche punto del suo lungo lavoro ci potesse venir suggerita. Oh no! noi ci vantiamo d'una sì scrupolosa imparzialità di opinione da imporci anzi da noi stessi l'obbligo d'usare tanto più severamente d'una piena sincerità, quanto più ne son cari i legami che ci stringono a coloro contro cui la dobbiamo esercitare. E vogliamo pure aggiungere che, appunto perchè lo conosciamo intimamente, non possiamo ignorare come il Puppati ben lungi dall'offendersene farebbe anzi tesoro d'ogni severa, purchè assennata e sapiente, parola di critica. Ma questa potrà forse venirgli da chi meglio istruito di noi in quei difficili studi potrà porgergli anche, per la medesima ragione, una più autorevole e valida lode.

In quanto a noi amiamo però confessare apertamente che ci troviamo, almeno per questa volta, quasi lieti di non possedere quella cavillosa erudizione la quale non sempre consente di giudicare di un' opera più che con lo scandaglio calcolatore del critico, con l'espansivo discernimento del cuore, e ci sgrava così dal sacro ma pur penoso dovere di gettare la benchè menoma parola di biasimo su ciò che nel nostro modesto ma pur franco criterio sentiamo di poter liberamente e caldamente encomiare.

Castelfranco, li 6 gennaio 1863.

Prendiamo volentieri la penna per annunciare alle lettrici di questo periodico un libro che ad esse, e come donne e come italiane, deve riuscire doppiamente gradito.—La Sig. Colet parla dei nostri paesi, delle cose nostre e di noi con tale entusiasmo d'affetto che noi ce ne sentiamo ben di sovente commossi, rivolgendoci col pensiero all'epoca memorabile e non per anco remota in cui ella faceva il suo artistico e patriottico pellegrinaggio per questa che a buon diritto volle chiamare l'Italia degli Italiani.

Non possiamo però tacere che a prima giunta, e per quanto esso ci torni lusinghiero dalla penna d'autore francese, a questo titolo solenne tanto e specioso non ci sembrava propriamento rispondere un libro ch'altro non è che una descrizione particolareggiata d'un lungo viaggio, e di quanto in quel periodo di tempo accadde d'intorno alla narratrice e ne'suoi rapporti con le egregie persone che l'avvicinarono. Ma quando progredendo nella lettura ci sentiamo ognor più allettati da quella verve che qui dobbiamo dire tutta francese, quando l'autrice manifesta tanta ammirazione e simpatia per le cose nostre da giungere perfino a rinfacciare al proprio paese e a' suoi concittadini ciò che le sembra in essi una mancanza ed una colpa verso di noi, quando finalmente e quasi a giustificare con la miglior ragione possibile il titolo di questo libro, Ella ci dice, come questo titolo le veniva suggerito da un discorso del Re d'Italia al suo Parlamento e ne chiama il Re il padrino, oh! allora noi non troviamo più nulla a ridirle, se non fosse una novella espressione di riconoscenza e di affetto. Così pure non saremo al certo noi Italiani che oseremo appuntarle qualche sua inesattezza che ben potrebbesi chiamare poetica, nè qualche benigna esagerazione intorno a luoghi e persone che ci appartengono, e meno ancora potremo noi donne muoverle censura per qualche digressione su fatti o sentimenti del tutto individuali e di ben poco interesse per altra classe di lettori, ma che a noi, abituate a vivere in una cerchia più intima e ristretta, riescono gradite, poichè ci fanno interamente conoscere quella che tanto dobbiamo ammirare.

Che se le sue calde parole non sono sempre bastanti a farci partecipare e qualche troppo lusinghiera illusione ch'ella serba della nostra rispetto alla sua nazione, non vorremmo per questo spezzare il prisma dorato dietro il quale ella ebbe il vantaggio di contemplarci e noi quello di venir contemplati.

Leggiamo nel suo primo volume una ben triste descrizione ch'ella verbalmente faceva all'illustre Manzoni di quella ria Crucis, che si chiama la carriera dell' artista, e che tanto più è dolorosa quanto più desso, e specialmente se donna, trovasi obbligato a provvedere alla propria esistenza coi frutti del'ingegno. E così in versi come in prosa l'udiamo lamentare con toccante eloquenza, ella nata in sontuoso palagio, gli avvilimenti e lo privazioni patite, rivolgendo amare ma pur giuste parole di sdegno a quella genía insensibile, ingorda e spudorata che tiene colà il monopolio d'ogni letteratura. Povera donna! aveva veramente diritto di aspirare a più lieta fortuna!—Ma se è vera quella sua credenza che a noi pare intravedere da'suoi scritti, se cioè ella sogna che l'Italia possa offerire una sorte migliore che non la Francia al letterato e all'artista, noi desideriamo che a serbare sì bella fede, non abbia mai bisogno di esperimentarla col fatto. Le basti il disinganno sofferto in grazia di quella terribile principessa di cui n'offerse un sì incisivo e tremendo ritratto!… Cause diverse ci condussero pure ad uguali effetti, e s'ella con studî e fatiche e dolori d'ogni specie pur giunse a procurarsi in patria una modesta e decorosa esistenza, abbiamo ragione di dubitare che fra noi nè fatiche, nè studî, nè patimenti le sarebbero bastati a guadagnarsi quel pane quotidiano che ogni suo confratello ha più bisogno d'ogni umana creatura di richiedere mattina e sera, ed anche sul mezzogiorno a quel Padre nostro ch'è ne'cieli.—Ma perchè, diremo adunque con lei, perchè mai di tutti gli operai, e più ancora di tutte le operaie, le sole non retribuite saran quelle dell'ingegno? Perchè l'opera della penna se, degnamente condotta, non dovrà essa fruttare per lo meno quanto quella dell'ago?

Un illustre e filantropico scrittore francese, il celebre Karr, rimpiangeva in una serie di bellissimi articoli questa poca gentilezza de' nostri costumi che toglie alla metà più debole e spesso più misera della società, gran parte di quelle occupazioni e di quei proventi che dovrebbero essere suoi, per affidarli a mani ed a menti che dovrebbero prestarsi a ben altre cose!

Per amor del cielo, che alcuno non supponga che intendiamo parlare soltanto di letteratura! Oh no, questo campo è libero a quanti si sentono fatti per ispaziarvi, e noi anzi sappiamo benissimo non essere generalmente nè specialmente il nostro. Ma ove per caso—e questi casi non son rari in Italia ora che col rinnovarsi dei nostri destini si rinnovarono così degnamente i nostri costumi, ora che la parte più eletta delle nostre donne si compiace nel consacrare alla coltura dello spirito e dell'intelligenza quel tempo che le nostre avole, bisavole, trisavole dedicavano più volentieri ai nei, al minio, alla cipria e alle galanterie—ove per caso, dicemmo, qualcheduno fra noi, al pari della Colet in Francia, avesse attitudine e diritto d' usufruttare quel capitale d'ingegno che la Provvidenza, a compenso forse d'altri tesori di felicità o di ricchezza, le avesse concesso, e perchè non l' otterrà ella come cosa onorifica e sua?… E non sarebbe pure una grande e nobile compiacenza quella che proverebbe una madre cui fosse dato di largire per tal modo a'suoi figli la seconda e splendida vita della mente e del cuore che si chiama l'educazione, e che forse le avarie della fortuna non le avrebbero altrimenti concesso di fornir loro vasta ed intera?

Ma queste cose le diciamo, questi voti li facciamo fra noi, ben lieti d' altra parte che la Sig. Colet li creda invece per noi pienamente compiuti, e di questo ideale compimento volga anzi rimprovero alla patria che relativamente, bisogna pur convenirne, in questo caso almeno non ne meritava.

La Sig. Colet ebbe la fortuna da lei sì ben meritata di potersi far conoscere ed apprezzare da pressochè tutti i più illustri uomini italiani, vuoi per ingegno, per nascita o per ricchezza, e, cosa ben rara, da molte e molte elette creature mascoline e femminine che riuniscono in sè queste tre qualità, le quali sogliono fatalmente andar quasi sempre disgiunte sulla terra! Non è dunque in lei un torto se nello schierarci tanti bei nomi ella si mostra un pochino orgogliosa dicendoci: «Tutti costoro mi prodigarono ogni sorta di cortesie e si chiamarono lieti di potermele prodigare.» Ed ella poi dal suo canto li ricambia tutti largamente e quasi vorrem dire regalmente (regalità d'artista, ben s'intende) facendo con le sue parole partecipare i suoi mille lettori alla tanta riconoscenza che ne serba nel cuore.

Attendiamo ora il terzo volume che ci promette. E noi siamo certi di seguirla anche in questo con quello stesso vivo e costante interessamento con cui l'abbiamo seguita per questi due lunghi volumi, interessamento che tutto non deriva dal piacere che si prova nell'intrattenersi della gloria e delle gesta della propria nazione, ma a cui potentemente contribuiva quel tanto studio e amore ch' ella pose nel visitare le varie città italiane. E di tutte ella parla con simpatia ed ammirazione; ma lo speciale entusiasmo e la pietà infinita che le ispirò quest'unica Venezia, le suggerirono delle pagine e dei versi che toccarono profondamente l'animo di quanti Veneti li poterono gustare.—Ed essi ora fan voti ond'ella che la conobbe in ogni miseria, abbia un giorno a rivedere nella gioia questa sirena che le apparve perfin nelle gramaglie tanto nobile e bella, e si ripromettono di apprestarle in allora quella festa nazionale e fraterna che ben l'è dovuta per aver saputo comprendere con tanta verità ed esprimere con tanta forza quei sentimenti da cui tutti si sentono commossi.

Castelfranco, ottobre 1863.

«Un cattivo libro.—Le ragioni stesse che ci fanno reputare utile e debito il dare annunzio de'buoni libri che si vengono via via pubblicando, ci persuadono della utilità eziandio e del dovere che ci incombe di additare quei libri che possono riuscire dannosi. Noi non vogliamo per fermo annoverare ad uno ad uno tutti e singoli i libri cattivi che sbucano fuori a contaminare e a corrompere; vogliamo però accennare a quelli singolarmente che, inorpellandosi di titoli bugiardi e indirizzandosi più specialmente alle donne, potrebbero agevolmente trarre in inganni funesti.

Fra cotali libri ve ne ha uno che da qualche tempo fa mostra di sè nelle vetrine de'librai ed è così intitolato: L'educazione delle madri di famiglia, e dell' incivilimento del genere umano per mezzo delle donne: opera di L. Aimè Martin premiata all'Accademia francese e tradotta in italiano da Silvio Baccellato sopra la 7a edizione. Firenze, Bettini 1862.

Cotesto libro ci era capitato tra mani anni addietro e avevamo avuto la pazienza di leggerlo, e leggendolo ci eravamo rallegrati assai che fosse pochissimo noto in Italia.—Ed ecco che al signor Buccellato salta il ticchio di regalare alle madri italiane cotesto gioiello; detto fatto, lo traduce in quel gergo barbarico che non è nè francese nè italiano e appiccatavi sopra una certa sua dedica alle madri di famiglia, lo manda alle stampe.

A noi pare che sarebbe tempo che dovesse aver tregua cotesta maledizione e cotesta vergogna di andar raccattando dagli stranieri idee e dottrine, e prendere gli stranieri a pedagoghi e noi farla da scolaretti e snaturare l'indole nostra con tanto forestierume e imbarbarire e imbastardire le menti nostre e la letteratura e le costumanze. Egli è costesto un disconoscere la dignità nazionale, la carità di patria; egli è un voler essere perpetui mancipî degli stranieri.

Cosa difficilissima, anzi impossibile, sarebbe il dire di che parli il signor Aimè Martin nel suo libro. Per lo più egli parla a casaccio di un po'di tutto, eccettuato però di quello che avrebbe dovuto parlare se avesse voluto serbarsi fedele ai titoli che si è perso la briga di scrivere in cima ai diversi capitoli nei quali ha diviso il suo lavoro. Il discorso (se pure merita un tal nome) va innanzi scucito, saltante, scapigliato, sparso di errori grossolani e massicci, di contraddizioni manifeste e capitali. A quando a quando s'incontra qualche pagina in cui si trovano delle belle e buone cose, le quali giovano mirabilmente a fare spiccare le castronerie profuse con dovizia miseranda.

Non vogliamo annoiare davvantaggio noi e le nostre lettrici; il fin qui detto credianio basterà perchè le madri di famiglia italiane facciano a meno di educatori quali il signor Aimè Martin e il sig. Buccellato.

Che se alcuno mostrasse meraviglia all'udirei criticare un libro del quale fuorono fatte sette edizioni e che per giunta venne premiato dall'Accademia francese, noi risponderemo: Che il numero delle edizioni non può a patto alcuno essere indizio del merito di un libro, e che chiunque conosca un tantino le idee e le cotumanze parigine, segnatamente del tempo in cui cotesto libro venne premiato, intenderà agevolmente quale stima debba farsi di certi giudizî dell'Accademia francese.»

«DOMENICO CAPRILE.»

Noi leggemmo questo articolo nel N. 11-1863 del periodico mensile di Genova: La donna e la famiglia. Se prima di conoscere il libro dell'Aimè Martin (Education des mères de famille) non ci fosse caduta sott'occhio quest'acerba sentenza che lo danna all'ostracismo, è certo che noi non avremmo voluto leggerla mai, tanta è la stima che c'ispiravano i varî scritti che, segnati dal nome del sig. Domenico Caprile, apparvero nel suddetto riputatissimo giornale.

Ma il libro dell'Aimè Martin era invece una cara e vecchia conoscenza per noi, poichè nel giorno che, non per prammatica, dobbiam dire il più bello di nostra vita, esso ci veniva offerto da un diletto congiunto nostro amico, siccome una guida per la nuova via che ci si apriva dinanzi.

E noi l'accogliemmo con riconoscenza, e ci pareva che quella lettura ne raffermasse viepiù nell' amore della famiglia ch'è sprone ad ogni virtù, nella fede del bene ch'è la fede in Dio.

Dopo quella prima lettura altri studî ed altre cure ci impedirono d'occuparcene davvantaggio, non togliendoci però dal serbarne una grata ricordanza che andava dolcemente congiunta a quella d'un dono affettuoso e della festa nuziale.

Fatta questa premessa, si comprenderà di leggieri la dolorosa meraviglia che provammo nel vedere scagliato su questo da noi ingenuamente creduto e bello e buono, il titolo fulminante e bruscamente riciso di cattivo libro. Dubbiosi però sempre del nostro giudizio quand'esso sia interamente opposto a quello di persone che onoriamo, e riflettendo pur anco che quanto ci pareva degno d'encomio or fa sette anni, ci potrebbe benissimo in oggi apparire sotto un aspetto del tutto diverso, abbiamo voluto riprenderne la lettura, non più come un diletto, ma come un dovere, non più per richiederne consigli, ma per giudicarne (se la parola non è troppo superba) i concetti e modificar poi, ove ne fosse d'uopo, la nostra prima impressione. E questa lettura l'abbiamo rifatta e diligentemente, ma sull'opera originale; per cui nulla possiamo dire intorno alla versione del sig. Buccellato, se non che egli ha la disgrazia di aver trovato un censore il quale in fatto di gusto o di amore per la nostra lingua può dire le sue ragioni senza tema d'essere contraddetto.

Tornando dunque a ciò che più ci preme, confesseremo francamente che durante quella fredda e ponderata disamina ci si manifestarono in fatto qualche contraddizione patente, qualche inesattezza notabile, e, ciò che ci sembra più grave, varie esagerazioni del tutto fantastiche, che, permesse forse o tollerate in altro genere di scritti, sono da riprovarsi ove si trattino cose di sì reale importanza, come è il progresso intellettuale e morale dell' umanità; tèma questo in cui converrebbe esprimersi con una percisione, per così dire, matematica, e non lasciarsi trasportare da astratte utopíe che rendono incerta, a chi legge, la via che sperava già bella e tracciata. E quest' ultima è, a nostro credere, la colpa cardinale di tale lavoro, il quale, inalzando splendidi edifizî e più splendide teorie, dimentica troppo spesso di suggerirne la pratica attuazione.

Questa specie di ritrattazione che noi facemmo in parte con noi stessi, e che ora spontaneamente e senza credercene punto umiliati, rinnoviamo davanti alle nostre lettrici ci conceda di poter dire al signor Caprile che, ove egli pure non isdegnasse rileggere un libro che confessa aver percorso, al pari di noi, molti anni addietro, potrebbe forse ricredersi e fornirci per tal modo la compiacenza di trovarci concordi con lui anche in questa, come ci piace di essere in tante altre convinzioni e in tanti altri giudizî.

Del resto dobbiamo soggiungere che gli alti intendimenti manifestati dall'autore e i non pochi nè scarsi pregî di cui fece ricco il suo lavoro, c' inducono per parte nostra a condonargli ben volentieri gli accennati difetti, che noi ci guarderemo ben bene dal chiamare castronerie. E noi abbiamo: avuto anzi per un istaute il pensiero di pubblicare sopra queste pagine le molte osservazioni critiche che ci occorsero alla mente durante questa lettura, sperando che avessero da apparire saggie e imparziali, e solo ce ne sconsigliò la tema che avessero a riescire di poco valore e rubare senza adeguato compenso uno spazio consacrato a più nobili e dilettevoli argomenti. Perciò come fu sommaria la condanna che, fulminando questo libro quasi anatema in ogni sua parte, tronca la via ad ogni parziale discussione, tale sia del pari la difesa che noi ora ne tenteremo.

Signor Caprile! quest opera venne consacrata alle donne di famiglia, e perciò solo osiamo alzare la voce in suo favore. L' autore n è morto, e qui nessuno de' suoi concittadini potrebbe rispondere per lui, nè ci resta lusinga che dopo tanti mesi di silenzio taluno de'nostri voglia omai farlo per essi. E poi soggiungeremo ancora, che portando e, voglia pur crederlo, degnamente portando il nome italiano, ci piace, poichè la libera coscienza c'invita, di scrivere qualche linea a pro d'un libro straniero, ove non foss'altro, per acquistare il diritto di biasimarne altri, se la coscienza stessa ce lo suggerisce. La nazione francese, e specialmente la parte più colta, ebbe in passato verso di noi torti tremendi. Ma in oggi una schiera d'illustri pubblicisti, un gran numero di generosi libri dettati unicamente a nostro vantaggio, ci indussero a gittare sopra quelle antiche offese un denso velo d' oblio, e noi, sempre inclinati al perdono ed all'amore, ove tali sentimenti non contrastino colla dignità nazionale, noi abbiamo accolta nel modo istesso con cui ne veniva profferta la nobile riparazione de' nostri fratelli di Francia. Non perciò accetteremo quale articolo di fede ogni idea che ci venga d'oltr'Alpe e d'oltre mare; non perciò inviteremo i nostri giovani a preferire la straniera alla letteratura italiana. Che Dio ci guardi da simili profanazioni! Si riaccenda pur sempre il culto benedetto delle cose nostre e queste sieno pur sempre le elette e dilette! Prima di tutto e sopra tutto noi dobbiamo, noi vogliamo essere Italiani. Ma se vi fu un tempo, ahi! quanto doloroso, in cui quasi ci prostrammo dinanzi a quanto portava un'impronta straniera, dovremo forse in oggi, precipitando all'estremo opposto, gridare la croce contro ogni cosa che non nacque fra noi?… L'Italia sa ormai da sè quanto meglio le conviene; e degnamente onorando le opere che ereditò da' suoi padri e serbando fede in quello che le matureranno i suoi figli, non può d' altra parte sconoscere come i prodotti dell'ingegno, più che d' una nazione, sieno proprietà del mondo, e perciò presta i suoi e riceve, ove le piaccia, quelli che le offrono le nazioni sorelle. Non c'incurviamo noi già a guisa d'ingenui scolaretti ad esotici pedagoghi, nè temiamo d'imbastardire o imbarbarire lingua e costumanze, se di tratto in tratto ci prende il ticchio di guardare a ciò che fanno gli altri, mentre non ignoriamo che, almeno da qualche tempo, altri si prendono la pena di guardare a quanto facciamo noi stessi. Questo, signor Caprile, ci parve non poter tacere a risposta del suo lamentare negli Italiani l'abuso (che fortunatamente ora non ci apparisce) di libri stranieri, ed a' suoi eccitamenti (d'altronde onorevoli nell'intendimento) ad occuparsi esclusivamente di quelli nostrali.

Circa poi al poco conto in cui ella ci assicura doversi avere, e le sette edizioni fatte in Francia dell'opera di Aimè Martin, e il premio di cui lo coronò l'Accademia francese, sebbene noi pure siamo soliti a giudicare da noi e non secondo il giudizio altrui, e quand'anche potessimo convenire con lei che queste non sieno prove sufficienti a far fede dell'eccellenza di tale lavoro, ella dovrà pur sempre convenire con noi che sono ancor meno che sufficienti a provarlo tristo o meschino.

Non è nostro voto che le madri italiane preferiscano per l'educazione de'loro figli le norme d'autori stranieri (compresovi, se vuole, l'Aimè Martin) a quelle che per esse dettarono e la Ferrucci e il Lambruschini e il Thouar e Gino Capponi e il Tommaseo e molti altri venerati Italiani, ma non vogliamo che esse abbiano neanche a credere che la luce non isplenda che per noi e sopra di noi, e che nel caso nostro la lettura dell'Aimè Martin avesse a corrompere la loro anima e travolgere il loro intelletto, e sian tratte così a condannarlo, senza neppur conoscerlo, come inspirato da falsi principî e da bugiarde dottrine. L'indice e il veto non rubarono mai a'libri censurati nemmeno un lettore, se per avventura non ne procurarono invece qualche migliaio!

Per le ragioni già esposte, non entriamo in veruna analisi nè morale, nè religiosa, tanto più che, ove si tratti di credenze, noi rispettiamo o tolleriamo quelle d'ognuno, fino a tanto almeno che ognuno rispetti o tolleri le nostre. Ci sia solo permesso l'assicurare che un libro, il quale cou sapere e con coscienza si fa scudo e puntello delle massime evangeliche, non può, per logica conseguenza e per quanto ne sian larghi i principî, predicare una sconveniente e pericolosa morale. E a noi sembra che accettato questo codice di virtù, ch'è il più bel vanto della Religione di Cristo, tutto il resto da questo lato sia ben secondario e non bastante, quando pure mostri divergenze di sistemi e di sentimenti e quando pure abbiasi a notare un qualche errore (e qual mai libro, toltone quest'unico Evangelo, può dirsene esente?), non bastante, diciamo, per slanciare pari scomunica sopra un autore che pure nutrì desiderio e speranza di cooperare sempre coll'intelletto e col cuore al bene della società.

Ecco detto brevemente quanto ci pesava di non dire, non già per ostile e pedantesca velleità di recriminazioni e polemiche, ma perchè questa rivendicazione ci pareva doverosa quanto è sincera. Però sentiamo di non aver d'uopo di giustificazioni, quantunque anche in tal caso si possa accennarne una del tutto irrecusabile e sempre pronta, ed è: che, vedendo noi come adesso in Italia i dibattimenti e le proteste sieno, come dicono, all'ordine del giorno, e incominciando nei parlamenti terminino non meno vive e calorose nei teatri, non è a meravigliare se anche noi altri, poveri paria, a cui, checchè se ne dica, scorre nelle vene lo stesso sangue italiano e abbiamo indiviso cogli altri fratelli almeno quel cielo, su cui non si giunse pèranco a tracciare confini, dobbiamo essere naturalmente soggetti a quella stessa influenza atmosferica, che c'invita al pari degli altri a manifestare senza tema e senza reticenze quanto avesse per avventura a non darci pienamente nel genio. C'è inoltre a calcolare essere ben raro il caso in cui possiamo senza gravi pericoli esprimere qui la nostra poco riverita opinione. E quando un tal caso ci si offre, noi l'accettiamo con transporto indicibile a mo'di valvola di sicurezza, che libera per un istante la povera anima nostra, perennemente e tristamente racchiusa, dal perpetuo pericolo d'irrompere o di soffocare.

Del resto abbiamo pur anco veduto che tutti que'nostri litigiosi fratelli d'oltre. Mincio usano sempre por fine alle loro frequenti disputazioni con una franca e cordiale stretta di mano, e in verità non vi sarebbe veruna ragione che ella, signor Caprile, non acconsentisse adesso di fare mentalmente lo stesso con noi.

Dal Veneto, 16 giugno 1863.

Discorso di Paolo Lioy per la distribuzione dei premî agli Operai delle scuole serali gratuite di Vicenza, 1864

Dell'influenza delle donne sull'istruzione del popolo—Opuscolo del prof. Giusto Bellavitis.

L'amico del popolo—Strenna per l'anno 1864.

Il popolo—Carme del sig. Angeloni Barbiani.

Io ho qui dinanzi questi quattro opuscoli, diversi per volume e nella forma, ma che pur trattano un istesso argomento, che vennero ispirati da un medesimo desiderio e mirano tutti e quattro ad un identico scopo. Egli è perciò ch'io mi compiaccio ora congiungerli in un nodo fraterno, facendovene contemporaneamente un sol cenno e rispondendo così in qualche modo al cortese vostro invito.

Benedetto, oh! mille volte benedetto l'ingegno che si consacra ad opere di carità cittadina! E quale fra queste opere potrà chiamarsi più degna e più santa di quella che tende a togliere dal doppio abisso della miseria e dell'ignoranza il nostro popolo?… Confessiamolo tutti! Lunghe sventure, disinganni incessanti e poi fede fallace d'un imminente e più felice avvenire, ci tolsero per anni, ahi troppo lunghi, d'occuparci come si sarebbe dovuto di questo argomento, per noi doveroso, per altri vitale. Militano, egli è vero, in nostro favore delle potenti giustificazioni; ma là dove queste abbisognano, si confessa esservi almeno l'apparenza d'una colpa, e la colpa esiste per noi, e già ne proviamo gli effetti funesti. Però, se non ci è dato cancellare il passato, affrettiamoci a prendere una larga rivincita sul presente, edifichiamo per l'avvenire. Coloro cui pubbliche e private calamità non consentono di prender parte ai teatri, alle feste, consacrino alla redenzione dell'operaio l'obolo che ad essi economizza il dolore, e ricordino che ogni civico lutto si profana con l'inerzia, si perpetua con l'indifferenza; ricordino che il prato incolto non produce che ortiche! Occupáti di un'unica idea, tormentati da un'ispirazione cocente, abbiamo trascurato ciò che, lentamente sì, ma sicuramente avrebbe concorso al suo completo trionfo. Abbiamo fidato più nell'irrompere di certi avvenimenti che nel graduale svolgimento del sentimento e dell'intelligenza, e lamentando pur sempre la materiale mancanza d'ogni mezzo atto a far riconoscere i nostri diritti, abbiamo lasciato pressochè inoperoso il solo e potente che niuno avrebbe osato negarci, quello cioè dell'istruzione e dell'associazione del popolo.

A ciò poneva ben mente il nostro Paolo Lioy quando nello scorso giugno, in occasione della distribuzione dei premî nelle scuole serali gratuite per gli operai, istituite dall'Accademia Olimpica di Vicenza, di cui egli è l'onorario e veramente onorevole Segretario, rivolgeva a quegli alunni un discorso in cui la molta e profonda erudizione è vestita di tale e tanta semplicità di affetto, che le anime di que'buoni operai ne rimasero tocche per modo da non poter rispondergli che col pianto della riconoscenza.

Ed è il pianto che sgorga spontaneo dagli occhi di quanti leggono alcuni punti di questo commovente discorso, vera apologia della carità e del lavoro, la sola e la più bella manifestazione di lode che possa venire indirizzata a quel sì giovane e già sì valente scrittore.

Vicenza, città illuminata e cortese, primeggia nelle nostre provincie per simili filantropiche istituzioni; ed io so già di una schiera di donne culte e pietose che colà studiano il modo di porre in pratica l'ottimo divisamento di fondare una società di mutuo soccorso anche per le operaie. Mentre faccio voti per il compimento di questo santo disegno, vorrei che le lodi tributate alle sue autrici valessero ad accendere una nobile gara per i nostri paesi, vorrei persino che la moda si ponesse al servizio della beneficenza, talchè le sue più fervide seguaci ne fossero le più valide propagatrici. Nè devesi apporre a presunzione soverchia nella donna s'ella pure intende cooperare alla risoluzione di sì alte questioni. Poichè noi donne non possiamo sconoscere come più che la scienza sia il cuore che deve concorrere ad iniziare questa grande riforma sociale; e con la piena coscienza di volere e poter compiere il nostro mandato, noi gridiamo a coloro che possono indirizzarci ed illuminarci: «Valetevi dell'opera nostra! noi non vogliamo rimanere inerti mentre c' è bisogno delle forze di tutti; noi vi appelliamo perchè voi ci appelliate!» Non vi ha paese, direi quasi, non vi ha villaggio in questa terra diletta, che non vanti qualche intelligenza elevata, e molti cuori generosi e gentili. Ebbene, questi cuori e queste intelligenze si associno ora tutti fra loro, senza distinzione di grado e di sesso. Cessino le vanità da un lato come le soverchie timidezze dall'altro. Si fondino, ovunque tornino effettuabili, delle società di mutuo soccorso, si migliorino le scuole comunali, si facciano delle letture serali, od almeno festive, di libri semplici e piani ch'aprano la mente, che tocchino il cuore delle donne e dei fanciulli del popolo, non solo nelle città, ma pur anco nelle campagne. Il raggio dell'intelligenza e la scintilla dell'affetto non mancano in verun luogo, in veruna classe fra noi, ma urge sviluppare il primo, ma bisogna ravvivare la seconda. Mentre uomini eruditi e filantropici si dedicano al benessere materiale ed all'educazione elementare degli artigiani, si veggano donne illuminate e pietose non isdegnare occuparsi della parte più debole di quelle stesse famiglie. Apprendano esse a questi esseri ignari di tutto i doveri della loro posizione, lo scopo della loro esistenza, facendone amare le scarse gioie e tollerarne i molti ma purificanti dolori. E così questa idea sublime di vera fratellanza posta in pratica da persone a cui si ritengono sotto ogni aspetto di tanto inferiori, non solo solleverà dal fango quelle povere genti, ma, facendo trovare ad esse la benevolenza d'un amico dove non s'aspettavano forse che la superba burbanza d'un superiore, le condurrà a poco a poco a partecipare a quelle nostre idee, a quei nostri voti ai quali finora le popolazioni delle campagne si mostrarono, e forse per ira a noi, indifferenti od avverse. E nelle città in cui le distanze sociali tornano di necessità più notevoli e in cui l'operario si trova diviso dalle altre classi, quasi appartenesse ad una razza diversa, nelle città pure noi dovremmo tentare un relativo riavvicinamento che tornerebbe poi a reciproco vantaggio.—E ciò, se non erro, si giungerebbe ad ottenere in gran parte mandando i nostri figli che toccano i 7 od 8 anni per qualche ora ed a guisa di ricreazione ed esercizio ginnastico, nelle officine degli operai ad apprendervi almeno i rudimenti d'uno dei loro mestieri. Si sa quanto G. G. Rousseau raccomandasse tali esercizî ai giovanetti, e noi non possiamo sconoscere che se i figli del popolo crescono di tanto più sani e robusti dei nostri, ciò è quasi esclusivamente dovuto al manuale esercizio. Non temete, o buone madri, che la vostra prole si faccia rozza e triviale per simili contatti. Il figlio dell'operaio tenterà sollevarsi all'altezza dei vostri angioletti, per cui essi non ne dovranno discendere. Il lavoro li unirà, li nobiliterà tutti, e voi ben sapete che la corruzione alberga, ben più che nelle officine, nelle sale dorate, ben più che sotto il ruvido saio, entro l'aristocratico abito di gala! Forse poi nelle lunghe sere del verno i vostri fanciulli vi chiederanno di ricambiare il dono dell'istruzione ricevuta, insegnando a leggere ai loro piccoli e poveri amici. Come è bella l'idea del mutuo insegnamento per instringere i legami sociali!

Il prof. Giusto Bellavitis, quest'uomo che si può a buon diritto chiamare un patriarca della scienza e della famiglia, quest'uomo uso a spaziare nelle più sublimi regioni dei calcoli matematici, ed il cui nome suona riverito persino sulle rive di quella Senna cui sì di rado approdano nomi stranieri, quest'uomo non isdegnava di scendere, o per dir meglio, non istimava discendere dalla sua altezza, occupandosi, in un suo discorso letto all'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova, deil'educazione elementare del popolo. A tale proposito egli manifesta, fra gli altri, il desiderio che questa educazione venga affidata alle cure più amorose e pazienti della donna, desiderio ispirato e sostenuto dai più semplici e validi ragionamenti. E sulla dura posizione sociale della donna nelle classi indigenti egli ha parole di compianto che si mutano in consigli per coloro che dovrebbero tentare almeno di migliorarne la sorte. Chi, infatti, per poco che vi mediti, non sente la sconvenienza di abbandonare a mani maschili, che potrebbero ben meglio esercitarsi in più civili fatiche, l'incarico, per esempio, di sciorinare dietro ad un banco nastri, fiori, trine, velluti ed altri simili oggetti che per necessità d'abitudine la donna più che l'uomo può giustamente apprezzare?… Ricordo su questo argomento medesimo varie pagine belle d'arguta sapienza e ricche di pratica scienza in cui il celebre A. Karr in un noto suo libro intitolato «Les Femmes» satirizza quest'uso ed abuso scortese ch'elegge a sacerdoti e dispensieri della moda, entro a que'varî recessi che ne rappresentano i tempî, tanti giovanotti profumati ed azzimati, i quali dovrebbero arrossire di usurpare occupazioni esclusivamente dovute a quel sesso a cui rubano perfino quelle arti che li rendono ridicoli, in luogo di farli gentili. Dovunque una mano femminile può tornare sufficiente, perchè richiedere o tollerare quella d'uomini i quali si trovano aperte dinanzi tante altre vie di onesti guadagni precluse alla donna?… Ci pensino i nostri concittadini—ed ora che stan per ischiudersi ad essi nuove e gloriose carriere, cedano a queste poverette alcuno di quegli ufficî meno lucrosi e poco dignitosi ch'ora sogliono tenere, ed avranno tolta così qualche infelice alla miseria e fors'anco all'infamia! Noi non aspiriamo a vedere nei nostri paesi, come si veggono presentemente in America, le donne assunte a pubblici impieghi, all'esercizio della medicina femminile e a tanti altri altissimi e nobilissimi incarichi che pure ci assicurano esse riescano a compiere nel modo migliore. La nostra non è questione d'amor proprio, ma unicamente e semplicemente di umanità, sebbene, a dir vero, da che Messer Lodovico scrisse:

Le donne son venute in eccellenza In ciascun'arte ov' hanno posto cura,

abbiamo una specie di diritto di non crederci inette anche ad ufficî diversi da quelli a cui finora ci confinava la consuetudine o, a dir meglio, la grettezza dei pregiudizî sociali.

Il discorso del professor Bellavitis è sempre così opportuno ed assennato che mi sentirei quasi tentata a ripetervene intero il concetto dalla prima all'ultima pagina. Ma, non volendo togliere l'originale impronta a queste belle parole facendone un sunto, voglio almeno inviarvi l'opuscolo di cui forse regalerete un qualche brano ai vostri lettori, i quali non esiteranno a riconoscere nei nostri costumi e nelle nostre superstizioni l'esistenza degli errori che con tanta evidenza egli rivela e con tanto cuore deplora.

L'Amico del popolo è un libriccino serio, senza essere grave, piccolo soltanto di mole, ma ricco d' affetto, di pensieri e d'erudizione. È un opera immaginata, condotta e quasi interamente compiuta da alcuni giovani di Venezia, ai quali dopo questo primo saggio si può sin d' ora sicuramente pronosticare una luminosa carriera, benedetta dall'amore e dalla riconoscenza della patria. Incominciando dalla bella prefazione dovuta alla penna valente del giovinetto Marcello Memmo, pressochè tutte queste pagine trattano del popolo operaio, dei suoi bisogni e dei suoi diritti, e chi le scorre, sente un impulso generoso che lo spinge ad occuparsi di tali questioni, e fare qualche cosa a prò di chi incessantemente travaglia per noi e dal suo quotidiano lavoro a mala pena ricava il pane!—Oh stendiamo la destra a questi nostri fratelli che formano la più solida base del nostro sociale edificio. Concediamo loro un'equa compartecipazione ai profitti del lavoro, come n'insegna ed efficacemente n'esorta la bella mente e l'ottimo cuore dell'egregio ingegnere Romano. Istituiamo prontamente e dovunque quelle società di mutuo soccorso di cui tesse con tanta ragione l'elogio l'esimio prof. Luigi Luzzati.

Offriamo una recente e più gloriosa pagina all'istoria delle società operaie in Italia, narrataci in sì bel modo da quell'Alberto Errera a cui chi senza conoscerlo leggesse queste sue pagine assegnerebbe per certo il doppio della sua verde età. Facciamo infine che anche fra noi trovino degno riscontro, almeno ripartite nella generalità, quelle sublimi virtù che Enrico Castelnuovo ci rappresenta con degne parole mirabilmente congiunte nella vita evangelica dell'americano Guglielmo Channing. Sia lode a voi giovani valorosi! Non per una sola via si può apportare lustro e vantaggio al proprio paese, e voi ben l'avete compreso.

Progredite animosi nell'intrapreso cammino. La gioventù fidente ed operosa non inalbera mai indarno il vessillo della beneficenza, ed oltre al bene ch'essa compie da sè, noi dobbiamo pure attribuirle il merito dell'emulazione che ispira e già le aggruppa d'intorno un'eletta di concittadini, i quali, ammirandola, cercano d'imitarne l'esempio.

Sotto altro aspetto, ma con non dissimili intendimenti, il signor Antonio Angeloni-Barbiani pubblicava recentemente un suo carme intitolato «Il popolo»; sono giusti e nobili concetti espressi in versi limpidi ed armoniosi. In questo, siccome nell' altro canto Alla mora poesia, mostra il signor Angeloni-Barbiani aver compreso ed assunto l'ufficio di vero poeta civile. I suoi lavori non vanno, io credo, per le mani di tutti e rimangono ignorati da quel popolo ch'egli ama tanto e onora non poco: ma lo conoscono ed apprezzano assai gli studiosi della buona poesia, e gli sanno or grado di aver meditato anche una volta sopra questo popolo diletto, sulle glorie che ebbe sui dolori che prova, e sull'avvenire che aspetta.

L'avvenire! Noi usiam dire esser celato nella mente di Dio. Ma questo voler tutto riporlo in lui, parmi un voler quasi spogliarci d'ogni nostro dovere, e mi ha della parte di Pilato che noi con ipocrita esagerazione di ascetismo ci compiacciamo rappresentare. L'avvenire è nostro più che non il presente; e in gran parte dipende da noi, chè i figliuoli nostri raccorranno ciò che abbiamo seminato e di qui avviene che i peccati dei padri ricadano su i figliuoli e su i tardi nepoti. Ricordiamolo bene ed accettiamo secondo coscienza una responsabilità che è colpa sconoscere e viltà rifiutare. L'operosità, la beneficenza, la concordia siano fondamenti, i principî del nostro avvenire.

Il Maffei, quest'uomo sì benemerito e caro alla nostra letteratura, ci presenta egli stesso il nuovo lavoro della Lutti, accompagnandolo d'un semplice e sapiente discorso nel quale, con la giusta compiacenza dell'istitutore, tesse la storia dello sviluppo di questo ingegno singolare, da lui con tanto amore avviato pel difficile sentiero dell'arte.

A pochi altri sommi maestri venne dato cogliere sì bel frutto dalle pazienti loro fatiche, e mentre ci rallegriamo al vedere tanto degnamente riuscite quelle dell'illustre Maffei, il nostro pensiero viene gradevolmente preso da una sublime analogia di studio e di buon successo, che ci ricorda i nomi immortali di Brunetto Latini e di colui che guidò il pennello al divino Urbinate. Poi ci domandiamo se, anche nel caso presente, dobbiamo esser maggiormente grati al Maffei per quanto egli ci diede di suo, o per quanto insegnò alla valorosa sua alunna; e la mente ed il labbro, in luogo d'una risposta, ripetono una doppia parola di riconoscenza e di lode.

L'Alberto è insieme un bello e santo lavoro, e si può dire senza tema d'errare, che in esso l'ingegno ed il sapere vennero posti al servizio, più ancora che dell'arte, della virtù. L'amore del giusto e del vero risplende in ogni parte di quest'aureo volume, e tanto più è doveroso notarlo in quanto che coloro che hanno la fortuna di conoscere ben da vicino l'Autrice, sanno che ella così scrivendo seguì unicamente i nobili impulsi dell'anima sua. Che se talvolta ne giova dimenticare la condotta privata dell'uomo per poter maggiormente apprezzare lo scrittore, perciò appunto ne torna a mille doppî più caro il compenso che ci viene concesso quando possiamo assicurarci, così come oggi nella Lutti, che lo scrittore e l'uomo s'informano quasi e si compiono a vicenda.

Le quattro bellissime ottave in cui la Lutti offre alla patria l'omaggio del suo poema, spirano un affetto ed un dolore che profondamente commuovono quanti serbano ancor vivo il ricordo dell'abborrito dominio straniero.

Nell' Alberto è dipinto un giovane d'alta mente e di generoso sentire, posto in lotta con tutte le aspirazioni più care della sua giovinezza, le quali ad una ad una egli sacrifica all'amore della famiglia, o gli vengono contese dalla malvagità degli uomini e del destino.

Ma è bello il vedere come quell'anima travagliata non cada d'animo neanche ne'suoi più tristi momenti, nè si lasci andare allo sterile scetticismo della disperazione. Essa combatte coraggiosamente, e non per individuale egoismo, ma per il bene comune, e pare acquisti forza novella dagli ostacoli che le crescono intorno, dalle sanguinose vittorie che riporta sopra sè stessa, e dalla incrollabile magnanimità die proprî intendimenti.

Perduta la speranza d'un primo e fervido amore (iniquamente deriso e sacrificato alla prospettiva dei pecuniarî vantaggi d'un matrimonio cui meglio s'addirebbe il nome di turpe contratto), egli abbandona, vinto dal disinganno e più dal desiderio paterno, le splendide e dilette regioni della poesia, e tutto consacra a sollievo degli ammalati quell' ingegno che pure sentiva inclinato a ben diversa meta. Il pensiero di riescire utile a tanti infelici, e di giungere fors'anco a ringagliardire la salute materna, gl'infonde l'energia necessaria al compimento d'un ufficio tanto solenne, e solo nell'esercizio di questo trova un soave conforto alle intime afflizioni. Trova conforto ma non già pace, poichè essa ben di rado sorride agli spiriti intelligenti ed operosi assetati indarno del desiderio d'amore.

Oppugnatore costante d'ogni pregiudizio, d'ogni ipocrisia, lotta penosamente ed a gran stento trionfa delle paurose ubbie stoltamente eccitate nei poveri villici, ai quali, in uno alla forza del corpo, vorrebbe rinfrancare pur anco quelle della ragione.

Pieno di sentimenti gagliardi per la disgraziata sua terra, mal soffre le boriose ostentazioni d'un nobile e ricco signore che ad arte si fa bello d'un simile affetto, con l'unico e gretto proposito di accrescere così la propria popolarità ed influenza sui vassalli e sui pari suoi.

Da tutto ciò ad Alberto, di condizione umilissima, e non per anco quanto basta apprezzato come medico e come cittadino, vengono nuove e forti amarezze cho trovano alimento perfino dallo stesso suo padre, il quale è ben lungi dal poter comprendere tutte le doti di quel carattere animoso e leale.—Se non che, dopo altre dure prove subíte nella vita e nella scienza, la fortuna pare finalmente gli arrida quando egli s'incontra in un dotto e vecchio seguace d'Esculapio, il quale tosto ne riconosce l'ingegno, il cuore e la molta dottrina, e lo vuol soco nella sua Venezia, dove prende ad amarlo quasi figliuolo e dove apre un più vasto e degno campo alla sua fama che ogni giorno s'estende e rifulge più bella.— E qui Alberto vivrebbe, se non felice, almeno tranquillo ed in gran parte soddisfatto di sè stesso e della sorte, ove il nuovo tormento d'una seconda e parimente mal collocata passione non gli togliesse la possibilità di godere quel poco bene che a sì caro prezzo s'aveva acquistato. —Così gli rinascono l'ansie amorose e i gelosi sospetti, e tutte infine l'angosce che un sentimento potente, per poco incoraggiato dal capriccio d'una avvenente e lusinghiera fanciulla, suol destare in un cuore che non sa porre un limite alle proprie affezioni.— Assai più tardi e dopo esser passato per una lunga trafila d'affanni che gli valsero intera l'amara esperienza del mondo, Alberto riconosce alla fine e risponde ad un amore timido, verecondo, immutabile, che spargerà di consolazioni veraci il sentièro della sua esistenza.

Questo non è che l'ombra della figura bellissima intorno alla quale armonicamente s'aggruppano le molte altre delineate dalla Lutti con meravigliosa sicurezza ed evidenza.

L'autrice, svolgendo nell'Alberto tutta intera una vita nelle sue esterne ed intime relazioni e rapporti, mostra una conoscenza profonda del cuore umano, di tutte le miserie che lo affliggono e deturpano, come d'ogni virtù che lo sublima.

Vi sono nel poema degli episodî stupendi, e d'una opportunità somma, ma pur sempre collegati sapientemente all'insieme del lavoro.

Il canto che s'intitola dalla pellagra, ci dipinge in modo straziante, perchè vero in tutto, una delle piaghe più atroci che tormentino i nostri villici, piaga che sarebbe forse meglio curata, ed in gran parte guarita, ove le classi agiate non avessero la certezza che questa malattia è esclusivo retaggio della miseria, e perciò non ne temessero gli effetti spaventosi, dalla vista dei quali torna facile e comodo sottrarsi, come da cosa che nè ci tocca nè ci appartiene.

La carità evangelica, quella che informa la vera religione del Cristo, viene posta a fronte dell' pocrisia d'ogni specie, nè potevasi farlo in modo più efficace e più degno.

Piace e trasfonde nuova anima ed attrattiva al lungo lavoro, una certa ironia fine e spontanea che ci ricorda caramente la manzoniana, e questo ricordo che l'autrice fa destare, le valga più d'ogni altra lode.

Parlare dello stile e del verso ci sembra inutile ove si tratta della scuola, apprezzata tanto quanto è conosciuta, del nostro Maffei; diremo solo che ci colpì il vedere come la Lutti abbia saputo trattare delle cose e degli avvenimenti più comuni nella vita, senza che mai il suo dire da semplice si faccia triviale: e fu questa forse la prima volta in cui la poesia abbia tentata in tal modo tale difficoltà, e l'abbia superata così che ai profani dell'arte non parrà che la difficoltà ci fosse e sì ardua.

La superbia mascherata dalla finzione più astuta, il capriccio, la vanità e l'assoluta mancanza d'ogni più nobile affetto, ci disgustano sì efficacemente in quella sirena che l' autrice chiamò Malvina, che mentre il nostro cuore fa voti perchè la bellezza, la ricchezza e l'ingegno non vengano concessi quali mezzi d'oblique vittorie a simili creature, il nostro sguardo corre a ripararsi in quelle due altre ben diverse e simpatiche figure di donna, che portano i cari nomi di Elisa e d'Agnese. —Ma nulla vi è che vinca la soave venerazione ispirataci dalla pia ed intemerata madre d'Alberto, la quale è per noi l'ideale più perfetto della madre, e di cui certo la Lutti non disegnò la dolce figura senza guardare commossa alla madre sua.—Questa donna non solamente guida, compatisce e conforta incessantemente i due figli (Alberto ed Elisa), ma è frutto dell'opera sua perfino quella felicità ch'essi possono conseguire dopo la deplorata sua morte.

E il poema si chiude appunto con la preghiera che i due fratelli, accompagnati da coloro che di recente associarono alla propria esistenza, vengono ad innalzare sulla tomba di quella benedetta di cui credono sentirsi aleggiare d'intorno l'anima ispiratrice di miti affetti e di pietosi propositi.

È l'idea della famiglia che ripullula dalla fossa per incarnarsi novellamente in due connubî novelli—è una promessa, anzi una prova, che il bene genera il bene, e la virtù trova. qualche premio anche sopra la terra.

Compiuta attentamente la lettura del poema, si acquista la coscienza che l'autrice della Maria, di Rosa e Stella, e del Giovanni, ci offerse ora nell' Alberto ancor più vasto saggio della potenza del suo ingegno, e dell'eccellenza dei suoi studî, e ci fornì un nuovo libro che possiamo porre fra le mani anche alle nostre giovinette, non solo perchè n'abbiano diletto, ma ancora perchè apprendano che oggi la letteratura è pur essa un sacerdozio, il quale sublima e santifica la donna che lo voglia e sappia esercitare così come la Francesca Lutti lo esercita.

Firenze, agosto 1867.

Il prof. Mario Rapisardi, lodato autore della Palingenesi, pubblicò di recente coi tipi dei fratelli Nistri di Pisa un elegante volume di versi che con nome collettivo gli piacque intitolare Ricordanze.

Nei molti pregî e perfino nei rari difetti, egli si rivela poeta.—In quanto alla forma ci piace notare ch'oltre allo studio della lingua nostra, essa palesa pur quello della greca e della latina.—Perciò è puro sempre ed elegante, ed il verso scorre facile ed armonioso. Più ancora che i pensieri, abbondano in questi canti mesti ed amorosi gli affetti che sono sempre gentili, freschissimi e proprî del giovine poeta nato fra l'Etna ed il mare.

Imitando l'esempio dell'Heine, il Rapisardi a metà del suo volume ci offre un intermezzo intitolato: Francesca da Rimini, fantasia drammatica. È il solo componimento di questa raccolta in cui il poeta introduce dei personaggi; in tutti gli altri è egli stesso che parla e ci manifesta la fervida anima sua. Egli immagina che a Francesca scenda nell'inferno un angelo ad offerirle il perdono, che la madre le impetra da Dio; ma quando la desolata sta per ascendere a quel Cielo dove a Paolo non è dato seguirla, l'amore e la pietà di lui la commuovono per modo che ripiomba abbandonatamente al suo fianco per non lasciarlo più mai.

Il pensiero era ardito, nè forse piacerà a tutti.— Certo è però che havvi potenza grande di sentimento, vivacità di colorito e bellezza di verso, tre doti che non è facile rinvenire riunite. Sappiamo che il Rapisardi scrisse due tragedie storiche che vorremmo vedere pubblicate, poichè questo suo saggio ne prova che può riescire anche eccellente autore drammatico.—Sappiamo pure che egli sta terminando un lavoro in prosa che gli assegnerà un nuovo posto fra gli eruditi filologi, e facciamo voti perchè questo ingegno giovane, versatile e brillante, trovi quelle soddisfazioni cui ha pieno diritto, e possa così proseguire sicuramente la sua via per le serene regioni della scienza e dell'arte.

Recandosi ad assistere alla prima rappresentazione di un lavoro drammatico, noi vorremmo che ciascheduno fosse o vergine d'ogni prevenzione, o ben conscio del vero scopo prefissosi dall'autore.

E noi crediamo che ove, per esempio, il pubblico del Niccolini giudicando Le Amiche del prof. Sünner fosse stato preventivamente persuaso che questa commedia non è nè pretende essere altro che una scena della vita nostra reale, destinata a porre in evidenza certe male consuetudini e certe pericolose tolleranze che troviamo troppo di sovente nella società, e tutto ciò senza gran colpi di scena, senza il rinforzo di un fuoco artificiale di frizzi, senza lo spettacolo di grandi sacrificati e di grandi sacrificatori, senza infine tutto quell'apparecchio usato da chi antepone l'effetto scenico all'effetto della vera e sobria arte italiana; noi crediamo che se il nostro pubblico avesse saputo o indovinato ciò, avrebbe anche accolta con minore freddezza questa produzione che, a nostro giudizio ed a quello ben più autorevole del pubblico milanese, è ricca di moltissimi pregî.

Noi siamo teneri prima di tutto dell'imparzialità, e subito dopo di quella benevolenza, la quale, senza adulare la nullità, può nondimeno incoraggiare un giovane autore a ritentare una prova, forse per la prima volta, fallita. E appunto perciò ci siamo più volte uniti a coloro che vollero mostrarsi più cortesi che giusti verso altri nuovi lavori d'altri giovani commediografi, sperando che l' indulgenza valesse ad incoraggiarli ad opere migliori; ma siccome non abbiamo due pesi e due misure, così non possiamo disconoscere che, fatto un confronto tra i lavori sopraccennati e questo del signor Sünner e l'accoglienza avuta da questo e da quelli, ne risulta una parzialità forse soverchia per gli uni, ed una severità certo non meritata per l'altro.

Pare a noi che le Amiche ricordino per modo le schiette e belle tradizioni goldoniane da apparire in certi punti opera di quel maestro immortale.

E ben ci sorprese che lo scopo prefissosi dall' autore rimanesse per molti incerto o franteso, e che molti potessero trovare quasi un argomento di scandalo in qualche carezzevole parola scambiatasi fra un marito ed una moglie nel vederli entrare insieme nella stanza matrimoniale. Comprendiamo perfettamente che queste possono chiamarsi abitudini un po'troppo borghesi e patriarcali, ma davvero non arriviamo a comprendere come possano scandalizzare una società avvezza a tollerare sulle scene lo spettacolo di quanto sarebbe desiderabile non esistesse nel mondo.—Il sig. Sünner deve avere studiato profondamente le consuetudini della gente che pone sulle scene, per saper dipingerla con una tale evidenza che gli procurò la strana accusa di starsene troppo fido alla verità se non che questa accusa, in luogo di combatterla, noi consiglieremo l'autore delle Amiche ad accettarla come il migliore degli elogî.

Questa commedia è per noi un lavoro grazioso, forbito e, nelle sue modeste proporzioni, completo.

L'onestà appare riconosciuta e compresa anche da chi non l'esercita sempre, e chi l'esercita la sa far rispettare perfino dal colpevole; chè se il colpevole non riceve intera quella punizione che meriterebbe, egli ci lascia invece la speranza di una riparazione che non avrà costato disinganni a chi non n'intravide gli errori!

Perciò lo scioglimento soddisfa, a nostro credere, e l'arte e la morale, sebbene possa lasciare scontento chi ama più una inverosimiglianza che affascina, che una semplicità che convince. Noi pure apprezziamo i voli d'una immaginosa fantasia dove si tratta di lavori i quali non tendono ad uno scopo sociale, ma in questo che lo ha, lo segue e lo raggiunge, siamo grati all'autore di non avere mai oltrepassati i confini di quella verità senza la quale il suo scopo sarebbe rimasto vano.

Le Amiche potranno non destare forse gli entusiasmi dei varî pubblici che le ascolteranno, ma esse verranno rappresentate sempre con amore dagli artisti intelligenti, come furono da questi bravissimi della Compagnia Bellotti-Bon, e saranno sempre gustate dai non numerosi ma eletti ingegni che serbano un culto a tutto ciò ch'è buono, bello e vero, così nella famiglia come nell'arte.

(1) Questo scritto fu stampato nella Rivista friulana del di 12 di maggio 1861 (anno III. N. 19), la quale in alcune parole che vi mandò innanzi scrisse che l'autrice lo «proferse indarno alla redazione di un giornale italiano esclusivamente dedicato al gentil sesso, perchè quella Redazione non stimò ben fatto di pubblicarlo, temendo non i dolorosi veri che questo scritto rivela, avessero a turbare i sonni ed i nervi delle sue troppo sensitive lettrici» Il giornale di cui si parla La Ricamatrice, come mostra lo scritto stesso della Fusinato. Sebbene non sia veramente una rassegna bibliografica, pure perchè l'autrice le die già luogo nelle rassegne bibliografiche e perchè dettato a proposito di un opuscolo stampato, anche noi lo poniamo qui dietro alle altre.

È un opuscoletto in sedicesimo, il quale non conta che sole 38 pagine; ma queste 38 pagine sono così piene di giuste considerazioni, di dotte nozioni, di prova vidi consigli, da non sapere io vincere il desiderio di tenervene parola. A voi, dolci e gentili creature, a voi dalla natura unicamente informate alle soavi emozioni, ai sentimenti più cari ed all'ammirazione del bello, parrà forse a prima vista inopportuno e quasi scortese che La Ricamatrice, usa a recarvi i geniali trapunti, i semplici e morali racconti, le norme d'una vita casalinga e beata, venga ora a palesarvi con gravi parole una delle piaghe più spaventose e terribili che addolorino la classe più operosa e più povera della nostra popolazione. Ma chi, non arrestandosi all'esteriore apparenza, che vi mostrerebbe essere troppo pure, troppo tenere, troppo delicate così da non poter entrare nelle più tristi e nude realtà della vita, sa penetrare direttamente nel vostro cuore, e lo vede inspirato da un costante e compassionevole affetto per ognuno che soffre, egli non puè esitare a volgere su questo infortunio un raggio della vestra pietà, di quella pietà che non può tornare infeconda nè in terra nè in cielo.

Il nome dell'egregio scrittore di questo utile libriccino non suonerà più nuovo, ma riuscirà bensì più simpatico e caro alle lettrici della Ricamatrice, quand'esse apprendano come fosse appunto la sua iniziale quella che segnava i preziosi articoletti igienici che negli anni passati ornarono le pagine di questo giornale, e ch'esse seppero accogliere con tutto quel favore che per ogni ragione era loro dovuto. Ma allora era di gran lunga diverso e assai più facile e gradito l'ufficio assunto; poichè doveva parlare a voi, a voi che sapevate valervi dei suoi consigli con riconoscente intelligenza, e a cui la sorte largiva ogni agevolezza per condurre quel metodo di vita più confacente e più efficace al vostro benessere e a conservarvi l'inestimabile tesoro della salute. Oh! ma qui è ben altra la gente, sono ben altri i mali su cui egli prega l'attenzione e la pietà d'ogni anima illuminata e benefica.

La pellagra, questo tremendo flagello che sempre maggiormente infierisce contro il povero colono, la pellagra più che da ogni altra cagione e miseria, deriva dalla prava, esclusiva, ed insufficiente alimentazione del contadino. Ecco quanto ci provano chiaramente le sue erudite parole, ed appunto per ciò l'autore, meglio che a'suoi colleghi, di rado bisognosi d'esortazioni, si rivolge ai po sidenti, nelle cui mani soltanto riposa la sorte, la salute e la vita del contadino. Nutriamo dunque speranza che questi possidenti non rimarranno sordi alla pia esortazione ed al loro stesso tornaconto, e tanti voti generosi, tanti studî profondi non torneranno perciò infruttuosi a quella gente infelice.

E poichè ministro di carità nel santuario d'ogni famiglia è sempre la donna, non dubitiamo ch'ella abbia anche in tale occasione a sentirsi compresa dal dovere e dal bisogno insieme di cooperare con l'esempio e colla parola alla pronta applicazione dei provvidi suggerimenti ch'or ne vennero offerti, e che tutti si compediano in questo non arduo e brevissimo: migliorare, accrescere e saggiamente variare il nutrimento del contadino. È vergogna grandissima, ma sarà parimente giusta espiazione il confessarlo: l'egoistica immunità della pellagra nelle classi civili è forse il motivo unico, per cui non si pensò finora a porre argine a questo flagello crescente; che se potesse esservi, non dirò il pericolo, ma il sospetto che l'orribile malattia avesse un giorno a giungere fino a noi, oh in tal caso è certo che non le avremmo lasciato agio di compiere tanti spaventosi progressi ch'or dobbiamo deplorare. Ma tale pericolo, tal dubbio (e sarei tentata a dire: pur troppo!) non esiste affatto, per cui fino a questo punto la voce dei molti che, assistendo d'appresso a queste sofferenze e trovando la scienza e il proprio buon volere insufficienti ad estirparne il fomite, fecero appello a chi doveva e poteva rispondere, quella voce rimase presso che inascoltata. Pare, come nella vita dell'individuo, così in quella della civil comunanza, v'abbiano tempi in cui essa apparisce più che pel consueto aperta e sensitiva alle impressioni e al desiderio del bene; e se rivolgiamo lo sguardo intorno a noi, molti fatti generosi ci confermano nella cara speranza che questo abbia ad essere appunto uno di quei tempi avventurati.

Un fiocco di neve può farsi valanga, una lieve scintilla basta ad accendere gran fiamma, e questa rivelazione tremenda, questa autorevole esortazione ad una istituzione tanto benemerita e filantropica, non può forse, e con più ragione, divenire il seme, la base di necessarie riforme che saranno nello stesso tempo per noi una doverosa riparazione?… Poichè, nè varrebbe il nasconderlo, fino ad ora la massima parte dei possidenti non valutò quella razza reietta che come la macchina che lavora i suoi campi, e non ricordò la sua esistenza che al tempo destinato alla riscossione delle derrate. E ciò nel ceto medio; chè se ci volgiamo più alto, se guardiamo ai grandi possidenti, troviamo da lamentare in essi una durezza verso i poveri contadiri, la quale per essere il più delle volte indiretta non è perciò meno riprovevole, come non ne sono meno responsabili coloro che la lasciano esercitare. Molti fra i ricchi si eleggono un fattore, un agente cui affidano l'intera amministrazione delle loro sostanze. Non stiamo ora ad esaminare se tale scelta, difficilissima, sia sempre d'onesti, e poniamo anzi che gli eletti a questo ufficio sieno generalmente dotati d'una probità che loro non consenta di esercitare giammai per conto proprie nè soprusi, nè angherie sopra i coloni.

Ma è però evidente, nè a stretto rigore può in essi chiamarsi ingiusto, che a cattivarsi sempre maggiormente la benevolenza del loro signore, questi agenti non lasciano intentato verun mezzo per riscuotere al tempo debito il fitto che il contadino si è obbligato a pagare. Alle volte corre è vero una triste annata, e il prezzo dell'intero raccolto non basterebbe a compiere tal somma. Ma che perciò?… quella somma è un debito pel contadino, cui non rimarrà in quest'anno il necessario nutrimento. Onde il bravo agente, se non può pareggiare altrimenti le partite, confisca e vende il poco bestiame del disgraziato contadino, e lo priva così dell'unica ricchezza, dell'unica risorsa che gli rimaneva. Che se non trova animali, nè derrate, se non trova assolutamente nulla, allora, sempre spinto dal dovere e forte del proprio diritto, egli si troverà costretto a dargli lo sfratto dal podere, lasciandolo probabilmente carico di numerosa famiglia, senza pane, senza tetto, poichè non è in sua facoltà usare d'una misericordia che tornerebbe dannosa all'interesse del suo padrone. Questi soltanto potrebbe e vorrebbe forse esercitarla, se si prendesse la pena di vegliare sulla povera gente, cui la sola fortuna, imponendogli obblighi ch'esso mai non conobbe, gli rese soggetta.

Presso molte altre famiglie vige invece la costumanza dei grandi affitti, dei così detti affitti impresarî. Con questo mezzo il ricco si libera e dalla noia dell'amministrazione, e dalla spesa d'un amministratore. Egli ha fatto i suoi conti una volta per tutte, e s'è poscia assicurato da un solo ed agiato fittaiuolo una somma di denaro pressochè uguale a quella che ritraeva a stento da più e più contadini. Che se il possidente fa per tal modo un vantaggioso affare, il grande fittaiuolo pure trova in simile contratto un considerevole interesse, poichè con una vigilanza continua, con migliorie ed innovazioni, con un inesorabile rigore verso i poveri villici, cui affitta di seconda mano quei campi, egli giunge a ricavarne un profitto che sorpassa di gran lunga quant'egli s'è obbligato a deporre nelle mani del proprietario.

Ma se entrambi costoro trovano il proprio conto in tale affare. v'è un terzo che porta da solo il peso della doppia speculazione, e questo terzo è appunto il contadino. Rotte le relazioni che lo stringevano al proprietario di quelle terre che da tanti anni lavora, egli non ha più a fare che con uno sconosciuto ed avido industriale che a mala pena gli assente quella poca quantità del peggior grano turco della raccolta che basti a tenerlo in piedi. E qui ognuno può immaginare la miseria crescente, i patimenti continui, da cui vediamo poscia derivare il progressivo infiacchimento e il fisico e morale malessere del contadino, cui troppo di sovente succede la fatale pellagra.

Non si sognino, nè si propongano utopie, non s'entri nel campo dell'impossibilità, nè dell'esagerazione per cercare un mezzo atto a migliorare la condizione di questi sventurati. La civil società non si cangia—lo sappiamo —ma sappiamo pur anco ch'essa vuole e può migliorare; e chi crede in questo necessario miglioramento, lungi dall'imprecare pei mali presenti, s'affida sicuramente ai validi rimedî che saprà recarvi un non lontano avvenire.

Nè perchè i nostri coloni tornino a godere di quella modesta agiatezza, di quella frugale abbondanza, di quella robusta salute, di cui, è un fatto, non ebbero mai a mancare sotto i nostri avi, crediamo necessario che i possidenti abbiano a compiere gravi sacrificî.

Sarebbe forse bastante ch'essi rimettessero in vigore alcune costumanze dei nostri avi medesimi, e queste, non disgiunte dalle nuove esigenze dei tempi, riuscirebbero ad appagare i bisogni sì nostri come dei nostri soggetti ed a respingere la insorgente minaccia di trovarsi un giorno mancanti di braccia atte a lavorare le terre. Nè questa idea di un ritorno al lontano passato deve sembrare incresciosa a coloro che soltanto dal nuovo s'aspettano ogni sorte di civile progresso; poichè progresso, per chi sa intendere nel vero senso questa grave parola, non indica già lo scorrazzare impazienti di tregua per ignoti sentie i, ma bensì il tentare saggiamente e prescegliere la via più agevole e più sicura. Meglio sarà pur sempre il confessare un errore e rifar pochi passi che andare innanzi ostinatamente per quella via che ognor più ci allontani dalla meta invocata. Che se i possidenti trattassero da loro stessi i proprì interessi, oh noi sappiamo che il colono non avrebbe più a pagare collo sfratto la pena, quasi n'avesse la colpa, d'un meschino raccolto; noi sappiamo che il cuore d'un nipote, d'un figlio non sopporterebbe che la miseria uccidesse sopra i suoi campi una famiglia che viveva ben altrimenti sotto a'suoi padri.

E qualche visita a quegli umili casolari, oh come porrebbe in evidenza agli occhi del ricco l'indigenza d'una gente pur tanto costumata ed operosa! E mentre quel doloroso spettacolo l'indurrebbe ad istituire un confronto fra quanto egli ha di superfluo e quanto ivi manca di necessario, gli ispirerebbe una pietà che gli sarebbe feconda di non ardui sacrificî e di compiacenze ineffabili. Da molti si diffida del contadino, lo si predica bugiardo, ingannatore, testardo, inaccessibile al vero, e frattanto egli nasce, vive e muore sempre più sventurato e miserabile; e noi, noi che usiamo di sovente chiamarci vittime della sua mala fede, noi per tutto rimedio ce lo teniamo quanto più n'è possibile lontano, e, senza sognare che alcun dovere n'abbia a stringere ad esso, seguitiamo a vivere tranquillamente la nostra comoda vita. E dopo ciò noi osiamo lagnarci perchè esso (che tanto ci deve) non prende parte ai nostri sentimenti, alle nostre aspirazioni, perchè non sorge a difendere diritti che in esso non abbiamo nè riconosciuti, nè rispettati giammai!…

No, non è possibile, lo ripetiamo come dovere di coscienza, non è possibile fermarsi a meditare un istante sulla sua condizione, sulle privazioni d'ogni genere che soffre pazientemente, sul molto che gli dobbiamo, e sul disprezzo che in cambio di tante fatiche universalmente gli è reso, senza trovare in tutto ciò una grande ingiustizia, che la sola, purchè concorde, nostra benevolenza basterebbe a fare scomparire.

Vi sono, è vero, alcune poche famiglie che non vollero rinnegare le antiche e patriarcali tradizioni dei buoni loro antenati; e muove le lagrime udire le benedizioni che spargono sovr'esse i riconoscenti coloni. —Oh! ma qual numero infinito di tristissimi esempî da contrapporre a quelle rare eccezioni!

Perdonatemi, se indottavi da quel sapiente e filantropico opuscoletto, troppo mi dilungai sopra questo rustico argomento. Ma ai nostri giorni in cui si può dire che ogni vizio e ogni delitto trovi gratis il proprio avvocato, non dev'essere forse concesso di consacrare due colonne di giornale a questa classe tanto numerosa, onesta, povera e laboriosa, da noi per sì lungo tempo e sì ingratamente obliata e negletta?

Questo vostro giornale, gentili Signore, mi è da tanti anni e per tante ragioni simpatico e caro, che non fu senza rimorso ch'io lasciai passare sovente i mesi e i mesi senza offrirgli il povero tributo di qualche mio componimento, che pure mi veniva talora benignamente richiesto. Pure, ad onta dei miei rimorsi e dirò anche dei miei buoni proponimenti, lo sa Iddio quanto lungo e pertinace sarebbe stato ancora il mio silenzio, al quale d'altra parte trovava una facile scusa nelle geniali occupazioni della famiglia! Ma il benevolo giudizio dei compilatori vorrebbe ora persuadermi che la mia cooperazione, per quanto meschina ella sia, possa valere in qualche modo a riempiere l'increscevole lacuna che l'assenza di alcuni fra i vostri più fidi scrittori ha lasciato nel giornale stesso.

In questo caso il rifiuto, più che modestia, potrebbe sembrare scortesia, e perciò solo io tenterò di prendermi il difficile incarico, sperando di trovare in voi quella rassegnata indulgenza che un colto pubblico suol sempre avere verso una povera comprimaria, la quale per indisposizione della prima donna assoluta è disgraziatamente obbligata a sostenerne le veci. Posta così al coperto delle vostre legittime esigenze, obbedirò con minor soggezione al ripetutomi invito e, quasi fossi in familiare colloquio con voi, gitterò sulla carta tutto quello che il cuore o la fantasia mi verranno dettando. Non dovete perciò meravigliare se dalle alte e serene regioni della poesia io ardirò trasportarvi fra le più aride realtà della vita, perchè a'miei occhi nulla è spregevole se viene abbellito dall'affetto, e l'affetto per me, siccome la presenza di Dio, si trova in ogni luogo, in ogni cosa. Così voi non isdegnerete d'essermi ora compagne in una gita campestre, ora in un'occupazione domestica, ora in una visita pia ed ora in una fantastica contemplazione. Non isdegnerete di provare anche voi le varie impressioni che mi avranno destate una pagina, una pittura, un'armonia, una prospettiva degna d'ammirazione.

E per incominciare questa corrispondenza, ch'io amerei chiamare amichevole, vi parlerò oggi delle care emozioni che mi fecero provare due generosi pensieri del signor dall'Ongaro nell'ultimo numero di questo giornale. Oh! quanto è nobile e bello quel sentimento che l'induceva a promettere a sè stesso di dedicare ogni anno il frutto d'uno dei suoi pregiati lavori letterarî a sollievo di qualche povero e sofferente bambino cui potrà essere così ridonata coi bagni di mare la perduta salute! Non vi sarà madre o sorella che perciò non gli doni una lagrima di riconoscenza! E se questa non avesse a sembrare soverchia arditezza, io vorrei pregarlo di accettare per uno scopo sì santo, qualche verso mio e di pochi altri miei amici, che non lo vorranno certamente negare a quei poverelli. Ed oserò ancora porgergli in vostro nome una parola di ringraziamento per avervi offerto il mezzo d'essergli compagne in quest'opera di vera carità che riescirà più efficace sotto il vostro valido patrocinio, come pure per avere scelto ad amministratore di quegli infelici l'egregio ed ottimo compilatore di questo foglio, essendo noto a noi tutte per prova, come i loro interessi non potrebbero venire affidati a mani migliori.

Ed ora, sperando di poter essere in questo pienamente esaudita, passerò a significarvi l'altra e ancor più splendida idea che in quell'articolo sì profondamente mi colpiva. Oh ditemi voi, voi donne italiane, non vi sentiste tocche quasi da elettrica scossa, allorchè leggeste dell'alto proponimento, che solo poteva sorgere nella mente del Buonarroti, di dare cioè a quel picco che su tutti torreggia fra le montagne di Viareggio, la maestosa figura di Dante?… Io, lo confesso, io l'ignorava quel sublime concetto, e forse è perciò che ne rimasi abbagliata, nè potea saziarmi di ripensarvi per tutte le ore del giorno in cui primamente lo appresi; forse è perciò che in quella notte, appena chiusi gli occhi al sonno, quasi la mente non si sapesse staccare da immagine sì grande e sì bella, mi parve di essere trasportata d'un sol tratto su quella spiaggia a voi già sì bene dipinta, e di là io lo vedeva esaudito questo voto magnanimo, di là io l'ammirava scolpito quel monumento degno veramente del nostro primo poeta. Ma quel sogno che tanto mi deliziava non poteva terminare sì breve e tranquillo. E difatti a me parve che il cielo in un attimo si facesse oscurissimo; i venti e la tempesta mi mugghiavano intorno, e il guizzo di spessi lampi e sanguigni, andava a ripercuotersi sinistramente su quella gigantesca figura. E allora il suo volto non era più freddo e d'insensibile macigno, ma quei grandi occhi a poco a poco si aprivano e si volgevano al firmamento, quelle labbra parevano mormorare una calda preghiera, ed ambe le sue braccia tese verso questa terra mostravano di voler farle schermo alla fiera procella. Oh l'espressione che allora animava quella fisonomia non mi si cancellerà mai dal cuore, e a me parve tale da non dovere stupire se giungesse a scongiurar gli elementi, a far forza al cielo che, quasi ad esaudir la sua prece, ritornava subitamente tranquillo; e allora si ruppero e si dissiparon le nubi, si calmarono i venti, e le stelle, la luna rifulsero più che mai malinconiche e belle. Ma i miei sguardi non sapevano distaccarsi da Lui e, a mano a mano che la burrasca cessava, io vedeva mitigarsi l'ansia affannosa di quel sembiante, che lentamente atteggiavasi ad un mesto sì, ma pur divino sorriso. E qui la scena mutavasi ancora. L'orizzonte, senza attendere la gradazione dell'aurora, s'illuminava in un baleno del più splendido sole, del sole d'Italia! L'aria spirava molle, fresca, odorosa, e tutto era verde sulla terra, tutto azzurro nel cielo e sul mare. La spiaggia pur dianzi deserta m'appariva allora affollata d'un popolo infinito ma che sembrava strettamente congiunto; si sarebbero detti mille e mille individui componenti una sola famiglia qui convenuta ad una solenne e domestica festa; e la gioia severa e insieme schietta e verace che brillava in quei volti faceva fede che nessuno, nessuno mancava al fraterno convegno. Ed io pure mi sentiva fra loro, e già parevami di appressare il nostro gran padre e tutto il sangue affluivami al cuore, e le mie braccia si tendevano a Lui e le mie labbra anelavano d'imprimere su quel marmo il devoto lor bacio; ma il sogno non resse alla violenza dell'immaginazione, ed io mi destai, e non vidi più nulla!… Oh non perciò rimasi scoraggiata, chè quando un popolo vuol tutto intero compiere una grande opera nulla, nulla può impedirgli la via: nè questa terra fu mai degna come adesso di dirsi La terra di Dante.

La solenne cerimonia è compiuta: le ceneri di Ugo Foscolo, cittadino e poeta, oratore e soldato illustre, riposano in questa città dove scriveva di voler venire, per esser almeno seppellito in questo Tempio di Santa Croce di cui prima fece col pensiero e col canto ispirato il gran Panteon italiano.

Fra il monumento dell'Alighieri e la tomba dell'Alfieri egli si ebbe sede degnissima. L'arte abbellirà ben presto il suo avello; oggi la patria, rappresentata da quanto ha di più eletto, gli dava stanza gloriosa in questo tempio—testimonianza solenne di affetto e di riconoscenza, e di profondo dolore insieme, per non avere o saputo o potuto consolar meglio la vita di colui al quale sente oggi il debito di tributare questo postumo omaggio di reverenza e d'amore.

La grande sala della stazione delle nostre ferrovie presentava stamani uno spettacolo ben gradito, e tale da commuovere ogni cuore italiano.

Letterati, scienziati, artisti, uomini di Stato e di guerra, ogni ordine di cittadini, ogni scuola, ogni accademia, ogni corporazione con la propria bandiera era a ricevere ed accompagnare al suo ultimo asilo il sacro deposito che la civile Inghilterra custodì sì degnamente mentre eravamo oppressi e divisi, e sì cortesemente rese a noi liberi e uniti. E la virtù vera, il vero significato della festa stava appunto nella riunione di tante valorose intelligenze, di tanti cuori generosi, i quali tutti cooperarono con la varia opera loro alla ricostituzione della patria, e davanti a questo feretro sentivano maggiore la compiacenza di avere la grande e bella ventura di godere ora, prezioso tesoro, la libertà, e il dolore che tanto bene venisse negato a quel grande che pure lo aveva sì lungamente invocato e n'era forse più degno di ogni altro. E questi pensieri tutti significavano gli uni con gli altri in un saluto, in una stretta di mano, in uno sguardo alla bara e un altro al vessillo nazionale.

Non appena Firenze venne fatta città capitale, essa celebrò per la prima volta degnamente il centenario dell'Alighieri.

In questo giorno, l'ultimo nel quale il Parlamento italiano teneva le sue sedute nell'aule de Palazzo dei Priori e le chiudeva con una parola di affettuoso saluto, di giusto encomio a Firenze, Firenze celebrò il ritorno in patria delle reliquie del Foscolo.

Questi due nomi, Alighieri e Foscolo, aprirono e chiusero così nel modo più splendido questa breve ma feconda età di cittadine virtù, di gloria civile per la nostra Firenze; e se il ricordo di alti esempî fosse stato necessario a farle compiere alti sacrifici, avrebbe avuto gli esempî più severi e solenni che la Provvidenza potesse porgerle nella vita del divino poeta, poscia in questo che, almeno nel sentimento di patria, non ne teme certo il paragone. Ma l'esempio non era mestieri, e la nostra città aveva in sè stessa quanto abbisognava per sostenere con senno meraviglioso l'ardue glorie e le gravi prove che il suo destino le preparava. Firenze oggi più che mai meritava l'onore di accogliere l'urna del cantor dei Sepolcri.

E quando stamani nel Tempio di Santa Croce udii narrarmi dal cieco e ottuagenario Gino Capponi, degno erede del nome e delle virtù avite, dell'ultima volta ch'egli in Londra, nel 1820, abbracciava l'esule Foscolo, di cui ora si compiaceva anch'egli onorare il ritorno in patria, e la voce del vecchio e illustre cittadino e scrittore si commoveva nella memoria dell'amico poeta, io avrei creduto sentirne lo spirito aleggiarci d'intorno per ricambiare il saluto amoroso di quest'uomo che è certo tra i pochissimi che l'avevan compreso, di questo uomo che, non potendo vedere, volle almeno gl'imponessero la mano sulle spoglie mortali di tanto amico che gli pareva un sogno poter sapere in tal luogo, in tal giorno, fra tali avvenimenti ricondotto trionfalmente in patria.

La vita del Foscolo se gli fu, a cagione dei tempi procellosi e della combattuta anima sua, sempre feconda di molti dolori, gli concesse almeno il conforto di grandi ed altissimi affetti. Il suo stesso Epistolario ci manifesta quanto fosse amato: e non senza una gradevole meraviglia apprendiamo l'amicizia profonda consacratagli da Silvio Pellico, il celebre autore delle Mie Prigioni. Come mai, ci domandiamo, quell' anima mite e soave comprendeva e si disposava sì caramente alla fiera e disdegnosa del Foscolo? Si direbbe che l'uno cercasse dall'altro la tempra e il compimento della propria; e forse se l'ira degli uomini e dei fatti non li avessero divisi, chi sa quale vantaggio avrebbero scambievolmente ritratto da un'intima comunione di pensieri e d'affetti! E poichè tanta parte della travagliata esistenza del Foscolo venne consacrata all'amore, ricordiamo oggi due donne, due soltanto, ma che compendiano quanto di più santo la donna gli seppe ispirare.

Consacriamo adunque prima una parola alla madre sua, e sappia ogni figlio che Ugo, il bollente, l'indomito guerriero e poeta, toglieva, e custodiva gelosamente, dalle lettere materne quella benedizione con cui la sua lontana genitrice soleva sempre terminarle, e basti questo solo a far comprendere il culto ch'egli le serbava.

Ed ora un saluto a te, o donna, cui egli dava il battesimo di gentile e che come tale non v'ha alcuno tra gli ammiratori passati, presenti e futuri del Foscolo che non debba conoscere e riverire.

Più lo sapeva infelice e più lo amava; pareva che per essa la sventura fosse alimento all'amore. Nessuna non solamente fra le amate da lui, ma fra quante donne furono amate da grandi, si mostrarono più meritevoli della riconoscenza dei contemporanei e dei posteri.—Questo affetto non fu per lei che virtù e sacrificio incessante e sublime. Per lei e da lei vennero nell' esilio i maggiori e migliori conforti. Il Foscolo sarà stato forse più appassionatamente amato; ma nessuno gli spirò affetti più puri, pensieri più alti. Ella aveva compreso come a quell' ingegno e a quell' indole singolari, si dovesse condonare per ossequio alla prepotenza della fantasia e dell' ingeguo ciò che ad altri non si condona. E s'ella seppe giungere a tal punto, chi fra noi avrà l'ardimento di sollevare con mano sacrilega il velo della storia d'intime e dolorose vicende?

Siano la tua adunque, o gentile Quirina, e quella della madre le sole immagini di donna che oggi ci sorridano davanti a quella del nostro poeta, e a lui siano grazie anche dell'averci appreso a conoscervi e ad ammirarvi.

Era la donna gentile venuta al mondo con l'ufficio di sublimare il sacrificio. Giovanetta, la pietà l'indusse a dare la sua mano a tale cui fu più amica e madre che moglie: donna, consacrò al Foscolo tutto ciò che di più alto e di più puro aveva nella mente e nel cuore, talchè egli la ringrazia dell'averlo a forza d'amore condotto ad amarla, e a lei promette che l'anima sua ed il suo spirito si cercheranno pur sempre. Ma quando saputala vedova egli mostrava il desiderio e la possibilità di darle il suo nome, come unico premio degno di tanto affetto, la generosa ebbe il sublime coraggio di rifiutare il nome di lui per la stessa ragione che un dì aveva accettato quello del morto marito, per la virtù del sacrificio. Oh gli uomini possono vantare di molte vittorie cui la donna non vuole e non può aspirare, ma vittorie consimili non le può conseguire che un cuore di donna. E non contenta dei conforti di cui le era stata larga in vita, per tre anni continui dopo la morte del Foscolo, ella si diè tutta a decifrare gli sparsi fogli ove racchiudevansi i versi di quell'attica penna, i versi che erano un carme alle Grazie, a lei confidato tra le altre carte dalla volontà del poeta. E come l'opera sua fosse diligente e amorosa e tornasse feconda, ben ne rende testimonianza l'egregio Orlandini nel discorso mandato innanzi al carme medesimo ch'ella non ebbe neppure il conforto di veder pubblicato prima di chiudere gli occhi. Ma non la compiangiamo, poichè la coscienza di aver compiuto intero quello che le pareva suo debito, sarà stata la soddisfazione e la ricompensa più bella.

Fu pensiero opportuno e bellissimo quello di chiudere la giornata consacrata alla memoria del Foscolo con la inaugurazione della lapide posta alla villa di Bellosguardo, dov' ebbe principio il carme alle Grazie; ed ivi, dopo un dotto e forbito discorso del Comm. Francesco Perez, il venerando Andrea Maffei, questo elegante e gentile poeta, leggeva un sonetto che tanto meglio piacque a chi meglio l'intese.

E come tornò gradito il vedere il Maffei delegato dal nostro ministro di P. I. a ricevere ai confini italiani le reliquie del Foscolo, del pari mi piaceva udire onorata la memoria del Foscolo anche dalla sua musa.

Il Maffei, discepolo, ammiratore ed amico devoto del Monti, rappresentava, a parer mio, in questa occasione il maestro e l'amico, e parevami vedere cancellate così le ricordanze delle brevi ire che malauguratamente divisero quei due ingegni elettissimi. Parevami che, mentre il Maffei rendeva omaggio al Foscolo, l'anima di questo dovesse da un mondo più bello additarlo commosso al cantor di Basville. E l'arte e la patria si conforterebbero tanto di questi loro trionfi!

Ma tutti non sentono, o almeno non sentono sempre così, e compiuta la cerimonia di Bellosguardo, chi si recò alla Arena Goldoni, applaudi ad un dramma (Ugo Foscolo) che, dopo avere per dieci anni percorso con poca fortuna i teatri italiani, l'opportunità dell'argomento faceva trovare degno di lara lode. Io non intesi questa recita, ma se è vero che l'autore per innalzare il Foscolo abbassava il Monti, oh non potrei congratularmi seco neppure di uno splendido successo a tal pegno conseguito.

«Oltre il rogo non vive ira nemica,»

e solo col ricordare le loro virtù si debbono onorare i grandi!

Gli è perciò ch'io, senza sapere se l'idea potrebbe convenire a chi tratta lo scalpello od il pennello, amo raffigurarmi il Foscolo nel vigore dell'età e dell'ingegno, tra il Parini vecchio ed il Niccolini giovinetto: al primo egli porge rispettosamente il braccio con carità di figlio per sorreggerne il passo vacillante, largheggiando all'altro consigli e conforti per chi arditamente inceda nella via della gloria. Mi parrebbe concetto in cui sarebbe pienamente significata la virtù che il Foscolo ricolse dal secolo che moriva e la nuova che infuse al secolo veniente.

(1) Nei primi di settembre 1871 scriveva queste pagine la Fusinato in Viareggio, dove nel luglio dell'anno stesso aveva scritto i versi che col titolo Bozzetti marittimi sono stampati a pag. 235 dei suoi versi (Milano, Carrara 1879).
(Nota di G. G.)

Viareggio è una grossa terra della provincia di Lucca, ricca d'oltre 9000 abitanti, di costruzione regolare e assai elegante, ed è posta in sito ridente e propizio a chi voglia intraprendere una cura efficace d'aria e di bagni di mare.

La spiaggia, che discende con dolce declivio nel mare, è tutta coperta di finissimo e profondo strato di sabbia che permette ai bagnanti di tuffarvisi per entro come nel mare, e questi tuffi alternati d'acqua e di rena sono appunto i più consigliati dai medici ai linfatici ed agli scrofolosi. Nè qui si rimangono i vantaggi del luogo, chè dai due lati opposti del paese sorgono due vaste pinete le quali offrono deliziosi passeggi anche nelle ore meridiane dei mesi estivi, nè ormai nessuno ignora come le esalazioni resinose dei pini vengano specialmente raccomandate ai sofferenti di petto. Dal lato opposto alla spiaggia si presenta allo sguardo una stupenda catena di monti, fra i quali primeggia quella cui Michelangelo ideava di dare la figura di Dante (1) Vedi a questo proposito ciò che la Fusinato stessa dettò nello scritto: Intorno duepensieri di Francesco dall' Ongaro ecc., a p. 245.

Da Viareggio in poco più di due ore possiamo trasferirci a Firenze, ed in tempo assai più breve a Pisa, a Lucca, a Livorno, alla Spezia, ecc. E insieme al beneficio della prossimità di tanti luoghi importanti per pubblica vita, Viareggio ci dà pure tutti o quasi tutti gli agî delle grandi città, senza imporre alcuna delle fittizie molestie cittadine che mal si accordano colle cure di che abbisogna una malferma salute. Non pertanto la mano dell'uomo non ha per anco saputo giovarsi di tutti i tesori che la natura profuse su questa simpatica terra, e alla spiaggia, alle vie, alle piazze, e alle pinete furono sin qui recati ben pochi di quei miglioramenti che vi si sarebbero facilmente potuti recare affin d'uguagliare i più eleganti e famosi ritrovi di bagni. Se non che traspira da questi luoghi una quiete così piena e campestre e un non so che di primitivo, che per taluni ha ben maggiori attrattive di certe artefatte raffinatezze odierne le quali talvolta tolgono, tanto ai luoghi quanto alle persone, la loro impronta originale, per appiccicarvi sopra una mostra senza gusto e senza indole propria alcuna, e che vale unicamente a trasportare sulle rive marine e fra gente non sana gli usi e i passatempi meno salutari della vita cittadinesca. Ma benchè adagíno adagíno, ogni nuova stagione reca a Viareggio, con sempre maggior numero di bagnanti, novelli abbellimenti, sicchè possiamo presagirli, senza tema di ingannarci, un lietissimo avvenire. Non pertanto, meglio ancora che per la salubrità della sua aria temperata fra i monti ed il mare, più che per l'amenità della sua posizione e la conformazione tanto opportuna delle sue rive e l'onestà patriarcale dei suoi abitanti, noi dobbiamo un affetto singolare ed una particolare riconoscenza a Viareggio perchè appunto nel suo seno sorgeva nel 1861 il primo ospizio marino d'Italia. Ed a'lettori di questo periodico, che fu tra i primi a divulgare e raccomandare questa pia istituzione, non spiacerà forse che se ne tenga nuovamente discorso, ora che i desiderî furono sì meravigliosamente recati in atto.

È ormai dir cosa a tutti nota, che promotore e fondatore di questi ospizî, è il prof. G. Barellai, medico fiorentino, il quale, a forza di buon cuore e di buona mente e di buona volontà, riuscì a diffondere per tutta Italia la sana e santa istituzione, la quale è una delle poche cose che oggi anche gli stranieri lodano ed imitano da noi. Sarebbe però ben lungo il dire per quale mirabile concorso di provvide circostanze di cui si valse la sua pietà favore degli ospizî, riuscisse il Barellai a fondare questo primo a Viareggio, áuspici il re ed i principi reali Se i primi passi, i progressi primi sogliono in ogni impresa importante riuscire sempre malagevoli ed ardui, si pensi come ebbero ad essere in questa che ricorrova unicamente alla carità cittadina, e che apparve, ben a torto, a taluni una specie di concorrenza fatta ad altre istituzioni benefiche e liberali, di cui invece doveva essere, ed è, il naturale compimento. Ma le opposizioni e gli impedimenti, per quanto ardui, ingiusti e penosi, non devono svigorire i propositi di chi ha la coscienza di lavorare a vantaggio degli infelici, e il Barellai resistette e vinse perchè seppe e volle. Talchè oggi noi gli siamo grati non soltanto del bene che ha fatto da sè, ma sì ancora di tutto quello che altri fecero dietro il suo esempio; e chi sa quanti, incorati dal buon esito ch'egli ottenne, ritorneranno animosi ad adoperarsi pel trionfo d'un'altra nobile idea che già stavano per abbandonare temendo di non riuscire. Oh se tutti coloro che mostrano temer tanto il contagio dell'inerzia e della perversità, confidassero maggiormente in quello che oseremo chiamare parimenti contagio dell'operosità intelligente, quante benefiche istituzioni abortite nel nascere, non vedremmo risorgere, e quanto più prospera non sarebbe la condizione fisica ed intellettuale dello nostre popolazioni!

Non voglio ora offendere la verace modestia di quei magnanimi uomini e di quelle elette donne che cooperarono e cooperano tuttodì col Barellai per compiere il vasto edificio di questi ospizî, corredarlo d'ogni conveniente agiatezza e comodità e sopravegliare al regolare andamento igienico ed economico delle cure balneari. Ciò che essi fecero e fanno è ben maggiore della povera ricompensa d'una pubblica lode, e il solo e degno premio cui aspirano e conseguono largamente ad ogni stagione estiva, è la prova evidente degli effetti benefici della loro carità sui poveri bambini scrofolosi.

Oggi per la terza ed ultima volta in quest'anno ho veduto partire la schiera dei piccoli bagnanti.—Dopo un mese passato nell'ospizio e dopo 60 bagni circa, oh come e quanto erano cangiati! Son pur questi i miracoli non immaginati da cieca superstizione, ma compiuti da illuminata beneficenza, che ci riconducono a credere nel bene ed amare i nostri simili, non più con ascetiche e sterili contemplazioni, ma con l'opera feconda e concorde dell'intelletto e del cuore. Nè devesi credere che la Religione, la schietta e vera Religione del Vangelo venisse bandita da questo Ospizio, chè anzi l'interna direzione n'è affidata a poche donne pictose le quali di lor cuore vestirono l'abito di suore di Maria, non per togliersi ai dolori ed alle fatiche della vita comune, bensì per avere il diritto di soccorrere i poveri sofferenti.

Io vi trascrivo il Pater noster e l'inno nazionale posti in versi e in musica per quest'Ospizio, le cui mura tre volte al giorno, durante questi tre mesi, ne ripercossero l'eco che risuonava dolcemente nel cuore, come una parola di saluto e di ringraziamento che quest'anime innocenti innalzavano al Signore ed alla Patria.

E confortante pensare che reduci alle loro case, e rimescolandosi ai fanciulletti della loro età, questi bambini rammenteranno e diffonderanno pur sempre gl'inni e le canzoni che fino dal primo aprirsi dell'Ospizio v'impararono e vi ricevettero stampati, in premio della buona condotta o per qualche bella azione verso i compagni.

Possano questi e simili canti a poco a poco prendere presso i figli del popolo il luogo di certi altri ch'essi sogliono sventuratamente ripetere prima ancora di comprenderne la vanità e la turpitudine che in sulle loro bocche suona ancor più dolorosa. E mi gode l'animo di poter aggiungere che le cure veramente materne, e la dieta sana e abbondante e succulenta che si apprestano giornalmente nell'Ospizio, sono tali che più famiglie cospicue, se non per ricchezze, certo per coltura e per bella rinomanza, non isdegnano affidare all'isttiuto i loro figli bisognosi di bagnature marine; per la qual cosa vi ha fra quelle mura una mischianza di classi veramente atta ad accrescere la gentilezza dei sentimenti e dei modi, e l'amorevole fratellanza, che debbono essere i fondamenti più stabili della forza d'ogni nazione civile. Con tale intendimento viene concesso ai maggiori e migliori fra i bambini bagnanti l'ambíto incarico di dirigere le squadre nei passeggi, nei refettorî, e nei dormitorî, nè vi ha cosa più commovente del vedere questi fanciulletti fare per i compagni più teneri e meno istruiti l'ufficio di segretarî e scrivere a loro nome care ed ingenue parole di saluto e d'affetto alle famiglie lontane.

Da questa comunanza e da questa scambievole assistenza nascono spesso tratti sì commoventi che coloro che passano in quel luogo qualche ora intendono tosto l'eccellenza della istituzione, che non so se sia di maggiore beneficio al fisico od al morale della crescente generazione.

E della utilità degli ospizî marini, tutti, dal più al meno, si mostrano ora convinti, come lo prova il loro aumentarsi continuo; ma chi ebbe agio di usarvi di continuo e di pienamente studiarli e conoscerli, e vi raccolse affetti e compiacenze non lievi, prova un bisogno che gli par quasi dovere, di volgere ancora una parola di riconoscenza a chi ne ideava la istituzione, ed un'altra di esortazione a quanti l'hanno in pregio, affinchè questo ospizio di Viareggio possa in breve salutarsi anche internamente compiuto possa così bastare a tutte le crescenti domande a cui non basta oggi lo spazio del luogo. In quest'anno vi furono accolti meglio che quattrocento bambini, e gli ultimi son partiti stamani innalzando l'usato canto a Dio ed alla patria! E domani quattrocento famiglie, nella sola Toscana, riabbracceranno i rinvigoriti figlioletti e insieme con essi benediranno alla carità cittadina che loro concedeva questa santa, e non prima sperata, allegrezza.

Oh gli ospizî marini, sorti con la redenzione d'Italia, han con lei preso vita e incremento, e, prosperando con lei, resteranno uno dei suoi monumenti più degni!

Avanti di por fine a queste povere mie parole, mi sia concesso trascrivere qui le due iscrizioni che, dettate da due illustri Italiani, furono apposte a quest' edificio, l'una a memoria del suo principio, l'altra nel giorno del suo compimento:

I.

IL Dì 14 D'OTTOBRE 1861
IL PRIMO ANNO DEL NUOVO REGNO D'ITALIA
CON GLI AUSPICÎ DEL MAGNANIMO RE VITTORIO EMANUELE
E ALLA PRESENZA DEI REALI PRINCIPI SUOI FIGLI
UMBERTO E AMEDEO
SI PONEVA IN VIAREGGIO CON SOLENNE ARMONIA
LA PRIMA PIETRA DI UN EDIFIZIO
DESTINATO AD ACCOGLIERE I FIGLIUOLI DEL POVERO
AFFETTI DAL MORBO SCROFOLOSO
PER ESSERE CURATI
E RINVIGORITI CON L'ACQUA E L'ARIA DEL MARE.
L'ARTISTA COL DONO DELLE OPERE DEL SUO INGEGNO,
L'OPULENTO CITTADINO COL DENARO
AIUTARONO QUESTA NUOVA ISTITUZIONE
FRUTTO ANCH'ESSA DEL VANGELO
E DI QUELLA CIVILTÀ CHE FA SUO STUDIO E SUA GLORIA
LO SCEMARE OGNI GIORNO UN DOLORE
O ACCRESCERE ALCUN BENE ALL'UMANA FAMIGLIA.

II.

QUESTO EDIFIZIO
PER GL'INDIGENTI SCROFOLOSI
COMINCIATO NEL 1861
RAMMENTA LA FONDAZIONE
DEL REGNO D'ITALIA
E COMPIUTO
IL 29 MAGGIO 1869
ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA
DI CURTATONE E MONTANARA
VISIBILMENTE DIMOSTRA
CHE LIBERTÀ E CARITÀ SON SORELLE.

Da che i recenti disastri della Francia ci hanno dimostrato quanto precipitosamente un gran popolo dall'apice della potenza possa cadere nel fondo d'ogni miseria, e possa essere ad un tempo autore e vittima di atti e fatti che ci rammentano età ben lontane, noi sentiamo più che mai il bisogno di provare novamente ed efficacemente a noi stessi ed al mondo che libertà, civiltà e progresso non sono vane parole. Noi vorremmo che il raggio di queste tre divinità, che si fondono in una sola, distruggesse ad un tratto perfino il ricordo delle tenebre funeste che minacciarono di coprire quel paese da cui si diffondeva sì larga onda di luce. E questo pensiero, questo desiderio fece a noi tutti più bella e più cara la festa che si celebrò il 2 ottobre nel Campidoglio.

A tout seigneur tout honneur. L'idea di solennizzare con la premiazione degli alunni delle scuole comunali l'anniversario d'un grande avvenimento nazionale venne primamente concepita ed effettuata dal Municipio di Firenze, che ogni anno nel dì dello Statuto ci dà questo lieto spettacolo nel chiostro stupendo di Santa Maria Novella. Forse anche senza questo esempio il Municipio romano avrebbe presa simile deliberazione, ma a nessuno spiacerà che (in omaggio al vero) ne tributiamo la lode dell'esempio alla gentile Firenze.

Il Campidoglio! quanti ricordi al solo suo nome!… Un tempo esso fu il teatro di ben altre feste! Roma conquistatrice del mondo vi coronava i suoi eroi; era gloria, era grandezza pur quella, ma il pianto ed il sangue, che non sempre si facevano spargere per giustizia e per necessità, addoloravano quei trionfi. Oggidì son schiere di giovanetti e giovanette che cantano le lodi non più della conquista ma della libertà, non più delle vittorie della guerra ma di quelle della pace, non più della forza delle armi ma del pensiero! Anche oggi si piange, e piangono madri e figli insieme, ma è il pianto di una gioia sublime, ineffabile e nuova. In mezzo del Campidoglio s'innalza la statua dell'imperatore Marco Aurelio. Nessuno pensò forse in quel momento alla grandezza di quest'uomo, il quale, meglio ancor che guerriero, si mostrò filosofo e moralista e sommo scrittore, e fu d'indole mitissima e protesse le belle lettere, così che potè dirsi l'esempio della civiltà pagana. E a me pareva che quella figura fosse la più degna del mondo antico, e che, davanti al moderno, s'inchinasse sorridente alla civiltà nuova cui è stretto da indissolubile anello. Vicino a quella di Marco Aurelio avrei salutata volentieri la statua di Camillo Cavour; nè più degno compagno, parmi, l'età nostra potrebbe mettergli accanto. Perfino le cime dei più alti monumenti che circondano il Campidoglio erano tutte ricoperte di giovani popolani desiderosi di vedere, sovrastando, tutta la festa, talchè pareva veracemente che la vita si fosse trasfusa anche nei marmi, dai quali partivano entusiastici saluti alla patria e intorno ai quali s'agitavano le teste e le braccia dei vivi strette a quelle gigantesche figure.

Ben pochi per la vastità dell'aperto luogo intesero le parole degli inni; ma che importa! la poesia la rappresentavano i fanciulli che cantavano; i sentimenti li diceva la musica bellissima, la quale ricordava le più care melodie che condussero alla vittoria i nostri soldati, che salutarono l'entrata del Re eletto nella città capitale d'Italia, che risonarono in tutte le feste della risorta nazione. Anche i bei discorsi letti dal Sindaco, dal Comm. Placidi e dal Ministro della pubblica istruzione vennero intesi da pochi per la stessa ragione; ma si sarebbe detto che mentre le parole sfuggivano, se ne ricogliesse il significato, quasi per amorosa divinazione, dalla folla plaudente; si sarebbe detto che quelle molte migliaia di persone non sentissero che con un solo cuore, non comprendessero che con una sola mente; miracoli che non sono frequenti nella vita d'un popolo. Dopo gl'inni ed i discorsi venne la dispensazione dei premî, e fu cortesia che avesse principio dalle fanciulle. Care creature! Or è un anno, e le poche che andavano alla scuola vi trovavano la noia e l'incresciosa tetraggine del conveto. L'istruzione scarsa e non buona, l'educazione del cuore agli affetti del mondo pressochè vana, e quelle poverette dovevano spendere lunghe ore in preghiere che non intendevano, pativano punizioni dolorose e brutali per errori involontarî o lievissimi, crescevano come fiori all' ombra, tremando di tutto, abituandosi a credere la vita sociale un dannarsi, la solitudine la sola via di salvezza; ed ore hanno una gran patria che ripone in esse la sua più bella e maggiore speranza, che ne fa il suo primo amore, che dischiude loro la scuola, non più come una pena ma come un premio, che solennizza con loro e per loro il suo giorno più bello. Care creature! La luce, i canti, i fiori e le bandiere, quanto di più eletto ed elegante e gentile si può immaginare, tutto era là a salutarle, a plaudirle. Ed esse erano decentemente vestite con bianchi veli in testa e ghirlande sul capo. A me pure fu dato il grato ufficio di fregiarle del nostro segno del massimo onore. Con quanta compiacenza l'appesi in su quei petti che vedevo palpitare di gioia! E quando scendevano dal palco e passavano tra le due file della guardia nazionale, si vedeva talvolta uno dei militi deporre per un momento il fucile per sollevare fra le braccia e baciarsi piangendo la sua figliuola premiata.

Non è disciplina militare questa, l'intendo bene, ma giurerei che nessun generale punirebbe questa infrazione, giurerei perfino che ogni generale in tal caso avrebbe fatto e di gran cuore altrettanto! Ce n'era una fra quelle bambine che, ricevuto il libro di premio, pareva non sapesse risolversi a ritornare al suo posto; i suoi begli occhi erano gonfi di lagrime, e si mostrava tanto agitata, incerta e scontenta ch' io finalmente le dissi: Che fai, bimba mia, e che cosa t'affanna? A queste mie parole ruppe in un gran pianto, e con voce concitata rispose: A me non me l'hanno data la coccarda, eppure la mi viene per diritto, glielo assicuro, e lei dovrebbe accordarmela. Poverina! c'era tanta sincerità, tanta ribellione di dignità offesa nel suo accento, ch'io mi lasciai persuadere; e, sfidando le possibili recriminazioni superiori, le appuntai l'ambíto nastrino sul petto dopo di averle asciugate le lagrime e baciate le guancie. Come fu lieta! come scappò lesta a farsi vedere dalle compagne e dalla sua mamma! Ma io rimasi pensosa; avevo commesso propriamente un arbitrio, un abuso di potere: ma la bimba non arrivava ancora agli otto anni e aveva gli occhi pregni di lagrime, e bastavano quelle fettuccie ad asciugarle; e poi io pensai che nel peggior caso nou sarà il primo segno d' onore sprecato, e non vi sarà nessuno anche fra i distributori più severi di croci e di nastri che si senta la coscienza sì pura e sicura da scagliarmi la prima pietra. E tali considerazioni mi fecero tranquilla sulle conseguenze della mia illegale condotta. I gran despoti che sono i fanciulli!

Incominciava intanto la premiazione dei maschi. Portavano quasi tutti il berretto militare, ed alcuni ne avevano ancora la divisa; marciavano e salutavano con un'aria così marziale da farci sicuri che, ove per disgrazia ne sorgesse il bisogno, la patria avrà in essi un futuro esercito di valorosi. Gli esercizî ginnastici, sciogliendo e rinforzando le membra, infondono loro una agilità e una sicurezza di movimenti che ben contrasta con l'andatura impacciata e forzatamente raccolta degli alunni di certe istituzioui clericali. Anche per la scuola di ginnastica c'erano dei premî che consistevano in eleganti bandiere sui nastri delle quali leggevasi, in gran caratteri d'argento, il nome dei premiati. Oh quelle bandiere con quanta allegrezza venivano accettate e portate trionfalmente in famiglia!

Da ultimo si presentavano gli allievi delle scuole serali; ce n'erano d'oltre vent'anni, tutti artigiani che passano il giorno lavorando faticosamente con le braccia e consacrano le sere al lavoro dell'intelligenza. Ad alcuni fra questi appuntai, commossa, la coccarda, vedendo com'erano confusi dell'ammirazione, degli applausi della folla, e cercavano a stento una parola per rispondere alle congratulazioni, agli incoraggiamenti di tutti. Proporsi d'imparare a leggere a vent'anni è cosa che vale veramente una lode. Vincere la vergogna di presentarsi alla scuola sì tradi, per superare l'onta e il danno di non esservi andati presto, è atto ben degno di liberi cittadini. Ecco come il volere può divenire potere e sapere!

Le cerimonia durò quattro ore; eppure al suo finire la folla non era meno fitta che al suo aprirsi, benchè lo starsene lì in piedi e tanto pigiati non dovesse dare poco disagio. Ma l'affetto e l'allegrezza superavano tutto, e nessuno si dolse di nulla, e tutti tornarono soddisfatti alle loro case benedicendo la fausta solennità del plebiscito e questo primo e degno suo anniversario. Viva Roma, viva il Re, viva l'Italia!

FINE.



ERMINIA FUÀ-FUSINATO

SCRITTI LETTERARI
II.



ERMINIA FUA-FUSINATO

Erminia Fusinato potè per l'ingegno e il cuore suoi conseguire, scrivendo, lode non comune, e tornare esempio singolare all'età nostra di libera e savia educatrice: ma la Scuola superiore femminile, che da lei ebbe vita in Roma ed oggi ha il nome, non avrebbe sì speditamente raggiunto il meraviglioso incremento, perchè or va da tutti sì giustamente ammirata, se non si fosse disposato all'opera della Fusinato l'alto favore della MAESTÀ VOSTRA, che rifiorisce ed ispira ogni cosa, che delle sue grazie e del suo affetto carezza e feconda.

E l'affetto e le cure che la MAESTÀ VOSTRA si ebbe per quella Scuola ben si mostra negli scritti, che della Fusinato io ho in questo volume raccolti, e nella vita, che della illustre donna ho tentato, secondo mie forze, mandar loro dinanzi. Il perchè io ardisco alla MAESTA VOSTRA intitolare questo volume, seguendo pure un vivissimo desiderio dell'operoso e valente editore Paolo Carrara da Milano, certi che non vorrà sdegnare il suo favore a quegli scritti, in cui Erminia Fusinato continua pur morta la feconda opera sua, la quale appunto vorrà acquistare virtù nell' augusto nome della MAESTÀ VOSTRA.

A me poi serà ben lieta ed onorata ventura poter per novella degnazione dell'Augusta mia Signora e Reina con profondo ossequio publicamente ancor rassegnarmi della MAESTÀ VOSTRA,

Di Reggio nell'Emilia, addì 29 di luglio 1882,

devotissimo obbedientissimo

Gaetano Ghivizzani.

La Maestà di Margherita di Savoja Regina d'Italia, con lettera del suo Cavaliere d' onore Marchese di Villamarina in data del dì 31 di dicembre 1882, degnavasi accettare la dedica di questo volume.

Di Erminia Fusinato hanno scritto non pochi con vario ingegno e varia misura; tutti con pari e grandissimo affetto; nel quale affetto la sua lode più bella, imperciocchè ella abbia saputo ispirarlo, come disse a lei stessa Cesare Correnti, cui si lodava di cortesie ricevute. (1) E. Fusinato, Ricordi, stampati nel volume degli Scritti letterari a pag. 10 e seg.—(Da qui innanzi, quando vorremo di questi Ricordi citare la ristampa da noi fattane in questo volume, useremo soltanto le parole: E. Fusinato, Ricordi). E di lei scrissero uomini pure assai addottrinati e autorevoli, il perchè vorrà parer soverchio, non che ardito, che noi diciamo novamente di lei. Ma se può essere ardimento in noi, non vuole certo esser soverchio tornarne a scrivere cinque anni dalla sua morte, chè quetato alquanto il dolore, che all'improvvisa novella della sua morte quanti animi gentili vi hanno in Italia percosse, e, appagato il desiderio di prontamente in qualche modo disacerbarlo, dicendone di presente le virtù e le lodi, possiamo oggi ricoglierne e dirne molte cose, che in sì grande e subito sbigottimento dall' animo allor non fu dato; e possiamo eziandio per la stampa dei molti suoi scritti, che allor non erano ancor publicati, e per i molti particolari della sua vita che il continuo favellarne ha fatti a mano a mano sapere, scrivere di essa mettendoci quella pienezza che niuno primo potea, e per che avviene che nell'una vita sieno cose che nell'altre non sono. L'aver poi avuto agio, per la benevola fiducia di lui, che ci commise il grave ma dolce ufficio di raccorre e ordinare i suoi scritti, di potere non solo amorosamente cercare e studiare quelli che publicati abbiamo, ma molti altri che a noi è parso non dovere stampare, ed eziandio vedere le lettere familiari che ella scriveva, e tutti i documenti officiali che la sua vita e il suo insegnamento riguardano, ci ha cresciuto animo a dire di lei, potendo alcun valente averne aiuto a scrivere, quando che sia, degnamente e compiuto. E, a questo intendendo, ci siamo appunto persuasi a dettar queste pagine, nelle quali, più che un reciso giudizio intorno i fatti e le opere della Fusinato, abbiamo inteso raccorre quanto di più notevole fu di lei già scritto e detto, ovver potuto abbiamo avere dalle lettere e dagli altri documenti che abbiamo avuto tra mano. Ma non per ciò ne abbiamo voluto accattare franchigia a passare misura: e abbiamo cercato, pur essendo compiuti, di correr spediti e serbar brevità, ponendo in nota molte di quelle cose che gli studiosi, cui giovi, potranno ben leggere, giacchè vi hanno nella vita de'nonnulla che sono per chi deve poi scrivere quasi rivelazioni che ne trasformano i giudizi.

Ma anche senza legger nota, vorrà bene apparire come ciò che più di tutto ha fatto lodata ed ammirata la Fusinato sia stato quel suo serbarsi figlia, sposa e madre esemplare in tutta la sua vita, e in mezzo alle lodi della poesia, e fra la dignità degli onorevoli uffici, e fra i plausi insidiatori delle moltitudini. E cercando la Fusinato nella famiglia, nella scuola e nelle lettere, apparirà chiaro come in queste tre forme vi sia sempre la donna, la stessa donna.

Una cosa sola noi non potremo ritrarre come vorremmo e come sentiamo: la dolcezza dell' indole di questa donna; il soave e pur mesto sorriso con cui infiorava tutte le cose, e che, quasi un qualche cosa d'etereo, l'avvolgeva anche nelle più umili faccenduzze; nè ritrarre potremo la grazia dolcissima con che facea benigna sino la severità, e che noi che le fummo sì gran tempo da presso, più di tutti sentiamo, e, quanto più sentiamo, più disperiamo ricogliere.

Comunque sia noi scriviamo col cuore, chè, scrivendo di lei, noi scriviamo della donna, che, dopo nostra madre, ci era la più diletta. Certamente noi vorremmo poter trasfondere in queste pagine lo spirito, la mente, il cuore di Erminia Fusinato: di Erminia che quetamente si avvolge nel suo secolo e vi opera più e meglio di tante e molte, che vi si agitano rumoreggiando e irrequiete. Ma chi ciò? Non certo noi.

E noi ci staremo contenti a ricogliere e narrare, chè se lo spirito dell'Erminia non è più sulla terra, nè noi possiam richiamarlo, chi ne voglia ancora sentire un soffio potente lo troverà nei Ricordi, se abbia cuore, e col cuore li legga (1) Publicati la prima volta dal Molmenti nel 1877 coi tipi del Treves, ristampiamo con molte giunte nel volume degli Scritti Letterari..

Sassari, ottobre 1881.

Gaetano Ghivizzani.

§ I. Nacque Erminia in Rovigo il dì 23 di ottobre 1835 da Marco Fuà, medico valente, e da Geltrude Bianchi. Tutta graziette e sorrisini, di non appena sei mesi fu portata a Padova, ove la famiglia sua, per cittadinesca e agiata condizione assai creduta nel Veneto, prese stanza; e la cara bambina apparve tosto un fiorellin di bellezza e un picciol portento d' ingegno, secondo scrisse lo zio Benedetto, il quale narra che, bambinetta ancora, tra le carezze dei genitori e i fiori del paterno giardino, che erano la sua delizia, si allegrava al suono dei versi che udiva, e tentava imitarlo con la infantile favella (1) In Molmenti P. G., Erminia Fuà Fusinato e i suoi Ricordi, pag. 2., così che poi potesse altri dire che la poesia era in lei nata con essa (2) Carlo Fontanelli, Ricordo di Erminia Fuà Fusinato, Firenze 1877., Certo si è, se crediamo allo zio, che sin da bambina si mostrò assai disposta a far versi, e che assai profitto mostrò iitrarre dalle lezioni, che, a quando a quando, egli le dava, il quale fu tutto il maestro che l'Erminia si ebbe (3) Perchè ingegnere di strade ferrate, dovea lo zio Benedetto Fuà essere spesso lungi da Padova, e perciò le sue lezioni non poteano esser continue. Pur vi rimase assai lungo tempo due volte, e la prima appunto quando la Erminia era bambina, e di quel tempo così narra lo zio: «Non eran lezioni le mie, ma conversazioni, le più liete ed allegre, e tanto più efficaci. Ricordo che gli esemplari per la calligrafia eran sempre due versi rimati, che io improvvisava, indicanti una massima, un pensiero, e che singolarmente piacevano all'Erminia. Ognuna di quelle improvvisazioni era una festa, ed un ridere dei lieti bambini,» (chè già essa avea altri fratellini e altre sorelline) «me compreso, che facevo ogni studio per pormi al livello di quella incipiente e già tanto promettente intelligenza. L'onda, il numero, il metro specialmente divertivano la bambina» (In Molmenti, Ricordi, pag. 2).. Noi non ci indugeremo a ripetere tutti i miracolucci, che, come si suole di tutti coloro che vengono in fama, della loro infanzia si narrano e che si moltiplicano ripetendo; e non diremo nulla di un dialoghino in versi che di appena dieci anni compose, e che, senza che alcuno pur immaginar potesse, con meraviglia di tutti recitò una sera a mo' di ringraziamento con alcune fanciulline sue amiche, dopo aver rappresentato una graziosa commediola con esse (1) Ecco per chi dilettasi in questi miracolucci infantili come narra la cosa lo zio: «Il suggeritore era seduto sopra uno sgabellino. Gli intimi di casa, e noi di famiglia formavamo il pubblico. La recita andò spedita e gaia fino alla fine, e stava per calare il … (anzi, no, perchè il sipario mancava), quando il suggeritore ingranchito stava per levarsi da quella incomoda posizione, si fermò d'un tratto confuso e meravigliato, sentendo che le geniali attrici continuavano. Era un ringraziamento al cortese pubblico, dialogato in versi a strofe rimate, così spontanee, così bene adattate al soggetto ed alle simpatiche fanciulle, alle quali tutte era toccata la lor parte, che riescì assai gradito, e riscosse vivi applausi. È inutile il dire che il gentile componimento era dell'Erminia, fanciulla di dieci anni; nessuno, tranne le piccole attrici, era stato messo a parte del segreto religiosamente custodito; io stesso, suo intimo confidente, non ne sapeva nulla. Il padre d'Erminia alzatosi e rivoltosi a me, esclamò: «dove diamine ha trovato fuori quest roba» non disse come l'Estense all' Ariosto queste corbellerie, perchè in verità tali non erano. Più che una sorpresa fu una rivelazione. Per me fu bensì una sorpresa, ma non una rivelazione, io aveva già molto prima indovinata quella mente poetica ed ancora tanto giovanetta, ecc.» (In Molmenti, op. cit., pag. 56).. A noi piace meglio notar di presente come la buona fanciullina dovesse sino dalla primissima giovinezza esser tutta occupata nelle dimestiche faccende, e prender quell'abito o consuetudine di vita che la fece pio sì ammirata e stimata nella casa del marito e nella scuola, e per cui anche, venuta in bella rinomanza per studii, per facili e soavi rime, per onorati uffici, e da tutti applaudita e vezzeggiata, seppe essere anzi tutto moglie e madre esemplare, e non mai posporre una famigliare e secreta compiacenza ad una pubblica e risonante lode (1) «Nè si creda,» ci narra il buon zio, «che gli studi ed i lavori della fervida fantasia la distogliessero un solo momento dalle cure, alle quali essa e le sue sorelle in ragione di età erano state educate. L'Erminia, dopo aver dato il bacio della sera alle minori sorelle, vegliava la notte, Dio sa fino a qual tarda ora, e la sua salute tanto rigogliosa non se ne risentì mai; eppoi quella mente lavorava sempre, anche di giorno in mezzo alle facende di casa. Racconto una cosa, che sembrerà assai prosaica a qualche donna; un giorno io, entrato in casa e sentendo nella cucina le argentine voci delle mie care nipotine, mi vi recai per salutarle. Le trovai tutte occupate, compresa ben inteso l'Erminia, alla fabbrica del pane. Vedendomi, l'Erminia mi corse incontro con la pasta fra le mani, e mi disse all'orecchio tutta giuliva: Zio mio, facendo il pane mi vennero in mente due belle quartine; son corsa di sopra a scriverle e te le farò leggere». (Molmenti, op. cit., pag. 6).. Ma non solo la Erminia dalla tenera età rivelava poetica fantasia, ma operosità di mente speculativa e riflessiva; ed allo zio dimandava un giorno in che differisca un'idea poetica da una prosastica, dicendogli aver desiderato ciò sapere da lungo tempo, ed essersi indugiata per non aver mai trovato parole a bene esprimere la sua dimanda: non sappiamo davvero se lo zio riuscisse a meglio significare la sua risposta: a lui parve «di essersi sufficientemente spiegato,» ma l'Erminia, cui dimandava se lo avesse abbastanza compreso, rispose: «Se forse non ho tutto compreso, ho però tutto perfettamente sentito» In Molmenti, op. cit., pag. 6. 7.. Parole mirabili, che valgon di certo tutte le spiegazioni del buon maestro, e che mostrano ben più dei primi versi quale fosse sin da quell'età la mente dell'Erminia.

§ II. Giovinetta ancora sentì sonarle intorno i canti dei poeti frementi di riscossa e di libertà; giovinetta ancora vide oscurarsi le fronti dei suoi diletti parenti e degli amici carissimi (che molti usavano in casa il padre), alla vista dell'austria che soldatesche, e serenarsi alla più lieve speranza di liberi giorni. I rivolgimenti politici dei tempi nostri furono prima di tutto letterari e scientifici. Caduto Napolenone, come ben scrisse il Settembrini, «finiva la rivoluzione operante e cominciava la rivoluzione ripensante, che si dilargò in tutta Europa, e ne riunì i popoli coi nuovi trovati delle scienze, le vaporiere, le ferrovie, i telegrafi elettrici, e coi grandi principii di diritto pubblico e di filosofia. Per legge necessaria dello spirito contro il materialissimo e l'incredulità del secolo passato, sorse l'idealismo filosofico e la fede religiosa, e dove fede non c'era risurse la superstizione e l'intolleranza» (1) Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, 1872, pag. 302..

Le lettere tra noi si erano partite in due campi: in Lombardia le capitanava il Manzoni, che, voltosi al cielo, predicava la rassegnazione, e scriveva I Promessi Sposi: le capitanava in Toscana Giovambattista Nicolini, che, mandando fuori l'Arnaldo, più che scrivere un dramma, combatteva una tremenda battaglia. Nonostante ciò, tutti erano in politica uniti, perchè tutti concordi in volere la indipendenza e la liberta d'Italia, ogni differenzia venendo di religione, la quale l'Italia sempre mai unì e mescolò con la politica, non per istudio di quella, ma in servigio di questa, immaginando gli uni di conseguir la libertà per opera del papa, mentre gli altri ripetevano la famosa sentenza del Machiavelli, che, della disunione e debolezza d'Italia, dicea dover gl'Italiani aver obbligo con la Chiesa e non con altri (2) Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cap. xxi..

Non pertanto negli anni che di poco precessero i rivolgimenti del 1848 prevalse in varie parti la gioventù, e specialmente in Toscana, dove uno scolare sorgeva «interprete degli sdegni e delle speranze che gli fremevano intorno» (3) Giusti, Versi editi ed inediti. Firenze, Felice Le Monnier, 1852, prefazione.. E pur nella Venezia la gioventù si animava, mentre i poeti cantavano in versi ciò che l'Austria non permetteva dire in prosa.

E non solo sentì i canti dei poeti la Erminia, e udì le ardite speranze e i fieri propositi, ma vide la veneta gioventù correre in armi a far libere le patrie contrade dallo straniero servaggio, e udì l'eco dei moschetti e il rimbombo dei cannoni nella disperata difesa di Mestre, dove Alessandro Poerio cadeva dicendo le solenni parole: «Perdono a tutti, non ai nemici d'Italia.»

In questi tempi e in compagnia d'italici spiriti cresceva naturalmente l'Erminia nell'affetto della patria; e la patria le spirava i versi quasi infantili, che andava a quando a quando scrivendo; e fra gli altri che fece a quei dì, «udendo i Crociati sonare un inno, tentò farne il motto, e caso volle che una strofa, la quale diceva:

Al petto la croce, Al fianco la spada, Qual sia la contrada Che a voi si opporrà?..

fosse presso a poco come una che il Giusti in quei giorni improvvisava a Pisa, e che la Fuà lesse molti anni dopo con quella compiacenza, con quella meraviglia che è facile indovinare » (1) G. Maddalozzo. Erminia Fuà Fusinato e i suoi scritti. Estratto dagli atti e letture della Accademia Olimpica di Vicenza (1 gennaio 1874). Vicenza, tip. naz. Paroni, pag. 6..

Andava pure in quei di a visitare la casa del Petrarca in Arquà, e, invitata, scriveva nell'albo che ivi è, un'ottava, e il suo verso volgea, non al cantore degli amorosi versi, sibbene a lui, che «Italia mia» cantava un giorno; e nel 1855 quando Adelaide Ristori tornava carca d'allori raccolti in sulla Senna, e l'invida straniera, che

Per fin nel plauso esser vuol prima e sola,

gridò che noi non la comprendevamo, la Erminia, volgendosi con nobile ira alla Ristori stessa, esclamava:

Qui non compresa? Al doloroso oltraggio Rispondi tu! Se non di gemme un serto Di' qual tesor di verecondo omaggio T'abbiamo offerto. Che se da fosche rimembranze oppresso Il tuo suol non sorrise a tale incanto Di' che sogliono i mesti il gaudio stesso Tradur col pianto (1) E. Fusinato, Ad Adelaide Ristori, strofe 6 e 7, in Versi, ed. cit., pag. 49.—Notino i giovani che non corretto è l' uso di tradurre nell'ultimo verso per esprimere, significare, ecc..

Leggendo intanto i libri buoni, che le procacciava lo zio Benedetto, e studiando alla scuola, non certo bastevole ma amorosa di lui, passava ella il tempo, che le rimanea dalle famigliari occupazioni, le quali furono sempre la sua prima cura, e che si erano fatte più gravi per la lunga e disperata malattia della madre.

Tale fu la sua maniera di vita sino alla quaresima del 1852, in cui una sera le fu recato in sua casa Arnaldo Fusinato, ch'ella da molto tempo, mossa dalla lettura di quei suoi versi, che in veste scherzosa erano strale feroce agli oppressori, avea desiderato conoscere, e mai non avea potuto, perchè Arnaldo, cui erano in fastidio le letterate, conoscendo quanti e quali sogliono esserne i difetti, non ne avea mai voluto sapere. Pur quella sera, piovendo assai, e non potendo tornare al suo Castelfranco, per non aver di meglio, si lasciò trascinare in casa Fuà. Non fu egli dinanzi alla gentil giovinetta, che sì ne fu preso e vinto ch'e' credè di sognare tanto gli parve diversa da ch'ei immaginava.

Era venuto a lei, sapendo di venire a giovinetta bellissima, dal vivace ingegno e dal gentile costume, ma non avea immaginato la ingenua schiettezza della persona, non la soave modestia degli atti, non il quieto lume degli occhi, in che tutta s'accogliea l'anima pura; e quando in voce soave e piana la udì carezzargli le orecchie, egli si sentì attratto a lei, e comprese come sì gentile creatura dovesse vivere tra i versi e tra i fiori

(1) Allor che l' alma mia È vinta dal dolor, Perchè men triste sia, Volo in mezzo a' miei versi ed a' miei fior. (E. Fusinato, Versi e fiori, in Versi, ed. cit., pag. 3.)

. Da quel dì Arnaldo non fu beato se non vicino all'Erminia: e a canto a lei sentia confortarsi l'animo, tre anni prima fieramente percosso e dal ritorno della mala signoria straniera e dalla morte di una giovanissima sposa fior di grazia e di bellezza; onde si era tolto dai rumori del mondo, in cui avea già vissuto spensierato e ridente. E a più spesso vederla gli giovò non poco prender veste ed ufficio di maestro; e, insegnandole le bellezze delle lettere nostre e svelandole i segreti dell'arte, ogni dì più era preso di lei, la quale, non solo avea conforto allo scrivere dalle parole del poeta, ma sentia venirne dolcezza al cuore, che si schiudeva alla vita, e provava il bisogno e la potenza di amare. E alla scuola di Arnaldo scrisse versi per forma non spregevoli, e tutti affetti gentili, come a suo luogo parlando della poesia di lei andremo vedendo.

Se non che l'Erminia pure avea trovato in Arnaldo l'uomo dei suoi vergini sogni, l'amante, lo sposo, il marito desiderato, e a lui stesso in un soave sonetto manifestava l'animo suo (2) È stampato a pag. 63 delle sue Poesie, ediz. cit.. L'amore avea legato quell'anime sì, che ormai non poteano più vivere disgiunte: se non che gravissimo impedimento si era alla loro unione in matrimonio la differenza di religione, chè la famiglia di lei, e specialmente il padre, non avrebbono voluto mai sostenere ch'ella, israelita, andasse sposa a uomo di religione cattolica. Se non che l'Erminia amava e fortemente amava Arnaldo, e non era donna da piegar l'animo agli altrui voleri, checchè patir ne dovesse. E quanto patir dovesse l'animo suo mostrano le parole ch'ella scrivea ad un'amica diletta, quando la sorella Eloisa venia in quel tempo fidanzata ad un giovane e bravo ingegnere secondo il desiderio dei genitori: «Invidio le ragazze che possiedono la virtù d'appagare anche in questo (nell'andare a marito) il desiderio dei genitori, ma duolmi sentire ch'io non potrei dare la mia fede ad uno che non avesse il mio cuore» (1) E. Fusinato, Lettere inedite. Ad Anna Mander. S. D..

La ragione che persuadea i parenti della Erminia a non assentire al suo matrimonio con il Fusinato era per fermo delle più gravi che imaginar si possano; e sebbene i venti anni che poi visse col suo Arnaldo in sì viva concordia di affetti, di desiderii, d'intendimenti, che imaginar non possiamo maggiore, facesse quel matrimonio, non solo ammirato, ma persino invidiato, noi non vorremmo dar conforto alle giovani nostre che imitar la volessero e del suo esempio farsi ragione. E questo diciamo senza voler qui dar sentenza del fatto dell'Erminia, e perchè i tempi sono troppo mutati, e perchè la potenza e diciamolo pure la prepotenza della religione di quei tempi nelle famigliari e civili istituzioni è giustamente e non poco scemata, e perchè finalmente in quelli stessi tempi prendea la religione nell'animo dell'Erminia singolarissima forma, che venia dalla rara bontà del cuore e dall'altezza della mente. Ella sentiva e adorava Iddio, un Dio di tutti e che è padre di tutti (2) Questo suo interno convincimento ben manifestano alcune parole, che ella scrisse tornando da una dispensagione di premi fatta agli asill infantili israeliti in Roma, e che appunto, per essere d'Israeliti ed in Roma, avea dovuto a taluno parere la strana cosa: «Oh! la tolleranza, la vera fratellanza, l'amore comune alla comune istruzione, che cosa santa e bella! E si voleva far credere che Iddio, il padre di tutti, potesse condannare chi non l'adorasse in un dato modo, benchè buono di cuore, benchè santo nell'opere!… Oh quanto questa età è più felice delle passate!» (E. Fusinato, Ricordi, pag. 76).. Questo essendo, non era nell'Erminia l'amore, come suole soventi volte accadere, che, operando sul suo sentimento religioso, la portava a cambiar di religione; era invece il suo natural giudizio e sentimento nelle cose di quella, che l'avea disposta ad eleggere in suo sposo chiunque per onestà, per ingegno, per cuore, per opere, per costumi avesse creduto degno di lei, senza guardare a che religione avesse appartenuto.

E non potendo vincere la resistenza dei genitori, e sì vero, come suole sempre avvenire, prendendo da quel loro contrastare vigoria di proposito e ardimento di opera, il giorno settimo di maggio del 1856 (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 31., accompagnata da un amico antichissimo di famiglia, uscì dalla casa paterna, e fu a Venezia, ove ebbe rifugio da uno zio paterno, che la tenne seco tre mesi, poichè nel dì sei di agosto dell'anno stesso, nella chiesa di san Salvatore, celebrò quietamente le nozze, fuori di ogni pompa e mondano rumore, ma prendendovi parte, benedicendo, la già veneranda figura di Andrea Maffei, che lei aveva conosciuta giovanissima, e il cui affetto per essa aveva del paterno come quello di essa per lui del filiale (2) Così ella scrisse di Andrea Maffei: «Mi conobbe giovinetta, mi vide quando mi sposai; il suo affetto ha qualche cosa di paterno come il mio di filiale.» (E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 32)..

Sebbene la condizione dei tempi in che quegli amori avvennero (non picciola cagione dell' ostinazione dei parenti a niegare il desiato assentimento) e il niego dato, forse crudele davanti a tanta tenacità di proposito, fossero non poca scusa al suo uscire dalla casa paterna, pure noi, cui la benedizione dei genitori ci sembra l'augurio e il principio di ogni felicità nel matrimonio, non ne la vorremo lodare; e ben ci è caro poter dire che la benedizione dei genitori, anzi che mancare fu solo indugiata, chè, non ancora compiuto un mese dalle nozze, con gran festa di tutti, ma specialmente di essa, a lei si riapriva la casa del padre e della madre, che omai più non potevano reggere al desiderio di rivederla, di ribaciarla e di ribenedirla. E più di tutti ne fu commossa e beata la Erminia, che tante lacrime avea versato nel pensiero degli addolorati genitori (3) Così dopo la morte di lei, scriveva Arnaldo al Molmenti, che con tanto affetto ne raccoglieva e pubblicava i Ricordi: «Quanta fosse beata quel giorno (che si riconciliò co'suoi) io solo posso dirlo che tante volte le aveva asciugato coi miei baci le lagrime, che le strappava il pensiero degli addolorati parenti.» (Molmenti, Ricordi, pag. 16)., e che di aver dato quel dolore ai suoi genitori fu sì fattamente straziata allora da non sapersene consolare mai più, così che dopo ben diciotto anni la vigilia dell'anniversario del suo matrimonio scriveva queste parole che è tenerezza il leggere: «Quanto mi parve triste questa sera diciotto anni or sono, e quante lagrime ho sparse! Diedi allora un dolore ai miei cari: mi sarà perdonato almeno adesso?» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 31.. Leggano, leggano, le giovanette italiane queste sante parole e ne trarranno amaestramento prezioso alla vita.

Ma è tempo che noi continuando speditamente la vita dell'Erminia, la seguiamo nei suoi nuovi uffici di moglie e in breve di madre, in ambo i quali è singolarrissimo esempio che noi vorremmo vedere da tutte le donne italiane imitato.

§ III. Non appena compiuto il sacro rito, condusse Arnaldo la inanellata fanciulla a Castelfranco, ove egli abitava insieme con la madre della sua prima moglie, Teresa Colonna, contessa; donna di costumi e virtù antiche e di una bontà di cuore, che può essere uguagliata, superata non mai. Come la nobile donna vide la giovine sposa, fu sì presa e vinta dal soave aspetto di essa, in che la bontà dell'anima tutta dolcemente apparia, che in lei pose l'amore che avea nella figlia perduta. Ma con quale affetto, con quale reverenza non si strinse l'Erminia alla mirabil signora, a cui fu più che figlia negli anni che ancora ella visse: «e forse furono questi,» scrive a ragione il Molmenti, «gli anni più belli di quella buona e venerabile vecchia, che volle, prima di morire fra le braccia di Erminia, ripeterle ancora, colla voce rotta dall'agonia, il grande amore che le aveva portato vivendo» (2) P. G. Molmenti, Ricordi, ed. cit., pag. 18.. E quanto l'Erminia l'amasse ben significò alla morte di lei, la qual morte fu uno stianto al cuor suo, dettando un'ode saffica, che è tutta un dolcissimo suono d'amore (3) E. Fusinato, Poesie, Alla benedetta memoria della Contessa Teresa Colonna, ed. cit. pag. 119..

Ma ben si vede davvero quanto amasse l'Erminia la suocera di suo marito, e quanta e quale bontà fosse in questa, in alcuni ricordi, che ella ne scrisse per i suoi figliuoli a cui volea tramandarne la memoria, e che noi come cosa assai incompiuta non abbiamo creduto pubblicare nel volume dei suoi Scritti letterari (4) Chi volesse vedere alcun passo di questi ricordi potrà vederli pubblicati dal Molmenti nel libro già da noi citato Erminia Fuà Fusinato e i suoi Ricordi, a pag. 14 e 15..

Nell'autunno dell'anno stesso del lor matrimonio condusse Arnaldo la moglie sua a fare un viaggetto. È omai nuovo costume in Italia (chè gli antichi nostri usavano nel primo tempo del matrimonio con savissimo consiglio gire in villa, la cui amena e lieta solitudine ben si affà al pudore di giovani spose), è omai costume nuovo in Italia menare in mostra le giovani spose, non sì tornano dal rito nuziale, di una in altra città, togliendole a quel pudico raccoglimento che dovrebbe essere il principio della nuova lor vita, lasciando sien fatte trastullo ai motti festivi e ai non rado licenziosi frizzi dei servi degli alberghi. Arnaldo volle invece che nei primi mesi del matrimonio rimanesse nella casa di Castelfranco insieme con la suocera di lui, e quindi nell'autunno la condusse al castello di Colloredo, ove andarono ospiti d'Ippolito Nievo, il cui ingegno mostrano sopratutto le Confessioni di un ottuagenario (1) Libro di molte bellezze e valore, di cui ella persuase la stampa al Le Monnier, che la compì nel 1871., e del cui valore furono testimoni Varese, Como e Marsala, e che poi miseramente perì il dì 4 di marzo 1861 nel terribile naufragio che fece l'Ercole nel venire da Palermo a Napoli.

Là vide anche in quei dì, ospite gradito, un altro poeta, mancato pure assai presto all'Italia, Teobaldo Ciconi; e quivi passarono in festiva brigata giorni beati, ch'ella ci ricorda nei versi gentili che scrisse per la morte di lui (2) E. Fusinato, Versi, ed. cit. pag. 103 e 104..

Tornata a Castelfranco a rallegrar con Arnaldo la buona Colonna, giunse il dì 4 di giugno 1857, in cui ella sentì bearsi l'anima nel dolce nome di madre: e in quella dolcezza ella sostiene serena la grave febbre miliarica che le travaglia il prolungato puerperio, e che tre anni poi dovea di nuovo assalirla in Venezia, lasciandole, come suol dirsi volgarmente, il segno, ossia, come scrisse il Molmenti, «quel germe fatale che dovea molto più tardi, condurla al sepolcro» (3) P. G. Molmenti, Ricordi, ed. cit., pag. 20.: molto più tardi sì, ma pure ahimè troppo presto.

Riavutasi,

Presso il talamo suo sorge una culla Ove riposa un angioletto biondo; Ella assidua lo sveglia e lo trastulla E per lui scorda il mondo (1) E. Fusinato, La poesia della donna, strofa 16, in Versi, ed. cit., pag. 230..

Intanto, tra le cure del pargoletto e delle dimestiche faccende, vivea tranquilla e contenta insieme colla buona vecchia e il marito, il quale, in sullo scorcio del 1857, desiderò che ella fosse di una brigata di filodrammatici, al che ella di buon grado assentì, purchè al diletto si aggiungesse la beneficenza (2) «Ho dovuto per compiacere il mio Arnaldo dedicare * Meglio Dare. qualche ora allo studio drammatico, per prendere parte ad una nascente società di dilettanti di cui egli è il maestro ed il capo. E qui trovai modo di unire l'utile al piacere, pregando si volesse ** Avrebbe dovuto dir Volessimo dare, ovvero fossero date. dare queste recite a beneficio dei poveri del paese; cosa che passò a pieni voti, e che mi valse una di quelle gioie sì grandi e sì pure che la sola beneficenza può darcl.» (E. Fusinato, Lettera inedita Ad Anna Mander, del di 15 di gennaio 1858)..

Ma questa pura compiacenza le fu presto turbata: la prima suocera di Arnaldo, la Teresa Colonna, quella ch'essa chiamava «la vecchia ed ottima mamma,» improvvisamente ammalava, ed ella era continua al suo letto, ove si sentiva «incatenata dal dovere e più ancor dall'affetto.»

In questa due altri figli venivano a crescerle le gioie materne, l'uno maschio cui dava il nome di Guido, l'altro femmina, e battezzava in quello di Teresita per affettuosa ricordanza della suocera di suo marito (3) Nasceva Guido il dì 15 di febbraio 1860: la Teresita nel dì 14 luglio del 1863.: e nella famiglia vivea, e nella famiglia si ritemprava, facendosi sempre più donna vera, quali certo se le figurava il Leopardi quando esclamava:

Donne, molto da voi la patria aspetta.

E sino dal 1859 scriveva della sua vita aver nulla a dire, essendo tutta casalinga, e i giorni tutti d'un colore, il quale pur non stancava «essendo una tinta rosa in un cielo di speranze» (1) E. Fusinato, lett. ined., Ad Anna Mander, del dì 20 di dicembre 1859.: ed erano speranze nei figli e nei destini della patria. E pur troppo la sua vita non era se non di speranze, chè, vagheggiata sì da vicino in quei giorni, quale certissima cosa, la liberazione del Veneto, il franco imperatore con le prime provvisioni di pace del dì 12 di luglio dello stesso anno ritornava nel dolore e nello sconforto i miseri Veneti, cui null'altro rimanea che sperare, e continuarsi in quell'opera santa e ardita, che potesse, quando che fosse, liberare l'infelicissima terra dal selvaggio straniero, e paresse, se non altro, pietosa manifestazione de'suoi italici spiriti e del suo desiderio di libertà e d'indipendenza. Opera ardita e santa, cui prese parte, come a suo luogo vedremo, secondo donna, la Erminia. E qual fosse la sua vita fino al 1862, chi volesse sapere, altro far non dovrebbe che leggere ciò che ne scriveva nel gennaio del 1863 alla sua amica diletta, Anna Mander (2) E per chi voglia leggerla, qui la trascriviamo, anche per dare un saggio della facilità e semplicità con che ella scrivea le sue lettere familiari, qual for tanto si addice. Delle quali lettere, non poche bellissime, ci sarà pur grato, seguitando il desiderio del bravo ed operoso editore Paolo Carrara, con discreto giudizio raccorre in un volume le migliori, che non solo ne apparira sempre meglio la virtù della Erminia, e la cara figura sua, ma ne vorranno raccorre bel frutto, leggendo, le giovinette italiane in ispecie.—Ed ecco ora la lettera in discorso:
«Se in luogo d'inviarmi delle affettuose parole e dei dolcissimi versi, voi mi aveste diretto delle acerbe linee * Ricorda che invece di Linee va detto Righe. di rimprovero, o vi foste chiusa in uno sdegnoso silenzio, io vi confesso pur troppo che avrei dovuto darvi ragione, tanto la coscienza mi rinfaccia i molti torti che ho verso di voi. Pure se posso trovare una qualche giustificazione, questa stà solo nella storia mia particolare di questi ultimi mesi, e perciò io voglio dirvela intera.—Appena compiuto il puerperio, io mi recai in Tirolo dai nostri ottimi amici i Lutti, e passai con loro e con Arnaldo e con Gino, ed altri nostri comuni conoscenti, un mese di vera pace in un'amena villeggiatura che que' signori hanno nelle giudicarie.—Colà ripresi un po' di forze, poichè la gravidanza penosissima e il parto faticoso all'estremo, mi aveano gittato in una notevole prostrazione fisica.
» Sul mio partire da quei luoghi mi giunse una vostra mestissima lettera, in cui mi porgevate il doloroso annunzio * Meglio avrebbe detto novella, chè l' annunzio è di cosa che deve accadere. della morte del vostro povero suocero.—Oh! non crediate che io rimanessi insensibile ** Insensibile per non commosso, sebbene abbia esempi moderni, non è certo elegante. davanti a quel vostro santo domestico affanno! La sarebbe questa la più grave pena che potreste darmi per quel mio disgrazia to silenzio! Ma era lì sulle mosse, e dissi fra me: «Oh le scriverò ben io una lunga lettera nella tranquillitá della mia casa!» Ed invece a casa con me venivano i miei cognati, e mia sorella, e la famiglia dei nostri amici Coletti—ed io mi trovai occupatissima nelle funzioni di padrona di casa, senza esperta nè abile servitù, per modo, che, essendomi di soverchio affaticata, mi prese un forte riscaldo *** Dirai riscaldamento, che questo mozzicone riscaldo non esiste davvero nella lingua nostra. di petto, che mi obbligò a subirmi due generosi salassi col relativo seguito di medicine, e più di quindici giorni di letto. Avea la casa piena di ospiti, tre bambini piccoli; e trovarsi in simile stato senza servitù, su cui potere menomamente contare, *** Meglio, molto meglio, sarebbe stato dire: fidare, fare assegnamento. lascio a voi dire che pena l'abbia ad essere! Intanto il mio cognato partiva, e, due soli giorni dopo ne giungeva la novella del suo arresto! ***** Clemente Fusinato fu arrestato come sospetto di aver preso parte in mene politiche, nel dicembre 1862 in Venezia. A tale notizia potete credere che io non mi poteva trovare che maggiormente malata, e difatti mi ricomparve la febbre, che era lì per cessare, e dovetti rassegnarmi per nuove sofferenze e nuove cure.—Così, entrando nel verno debole, con un po'di tosse quasi permanente, e tanto male disposta d'animo, posso dire che ad ogni cangiare di tempo me ne risento, ******Anche qui sarebbe stato più corretto scrivere: ne soffro. e anche adesso sono tre settimane che non esco di casa, nè d'appartamento.—Per di più ebbi la mamma malata gravemente—Arnaldo lungamente lontano—insomma compatitemi perchè ho molto patito in tutti i modi, e volea aspettare un quarto d'ora men triste per potervi scrivere una qualche confortante e lieta parola.—Oh! ma io mi ho qui davanti la vostra lettera, ed essa mi assicura che io vi faccio torto solamente nel richiedervi perdono, perchè il vostro bell'animo prima ancora che io mi giustificassi * Giustificarsi, per scusarsi, scolparsi non userai bene. mi ha assolta. Grazie, mia buona e cara amica, di tanta benevolenza, e credete ch'io l'ho per una prova grandissima del vostro affetto, che mi è tanto prezioso.—Benchè, a dir vero, un po'tardi, pure oso inviarvi un sincero voto di felicità per quest'anno novello, voto che riguarda pure il marito vostro e la sua mamma, la vostra famiglia e quella simpatica vostra cognatina, che spero non avrà che a lodarsi del nuovo stato. Voi tutti avete molto patito, e questo stesso dolore vi è promessa di giorni più sereni, poichè cosa sarebbe di noi se il male non si alternasse col bene!… Voi siete buona, voi avete ingegno quanto cuore.—Oh che il cielo vi doni quel bene, che degnamente corrisponda alle doppie vostre doti!—Ne' vostri versi rimarcai, ** Correttamente scrivendo avrebbe dovuto dire: notai. come sempre, affetto, verità ed eletta semplicità:—vi ringrazio d'avermeli fatti gustare.
» Ricordatemi a tutti, tutti i vostri cari, e credete che in mezzo alle mie colpe vi sono e vi sarò sempre veracissima amica.» E. Fusinato. lettera inedita Ad Anna Mander Cecchetti, del di 11 di gennaio 1864).
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La Musa della Fusinato si fece in questi anni raro sentire, chè, amor di patria spirando i suoi versi, sarebbe stato sprovveduto consiglio mandarli attorno (1) In quanto a me, se alle volte scrivo qualche verso, lo lascio poscia come m' esce dalla penna, essendo cose, che non si possono nè cangiare, nè mostrare ai più, e che si gettano sulla carta per solo sfogo del cuore.» (E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander, del di… di dicembre 1859)..

Ma se si astenea dalle vane e sprovvedute mostre, non perciò le mancava l'ardimento dell'opera consigliata ed efficace: e si mostrò donna degna d'Italia, e del marito e del cognato, che, non sì furono tornati gli Austriaci nella Venezia, furono tra i più gagliardi e feroci sommovitori degli animi contro il selvaggio straniero, chè della loro casetta di Castelfranco facean la fucina in che si avvivava il sacro fuoco della libertà, come con rapida efficacia bravamente narrò il Pascolato nella sua commemorazione della Fusinato (2) «In cima ai pensieri di quanti albergavano sotto quel tetto stava la redenzione della patria: ivi ogni devoto alla causa nazionale era accolto come fratello: ivi mettevano capo molti delle fila di que' Comitati nazionali, di cui la polizia austriaca andava sempre in cerca senza mai giungere a scoprirli. Quanti secreti di morte furono confidati a quelle mute pareti!…
» Promuovere l'emigrazione delle nostre provincie per formare soldati alle patrie schiere, toglierne alle nemiche favorendo la diserzione,—approntare disegni e piani delle venete fortezze,—sovvenire le famiglie di profughi e di prigionieri di Stato,—avviare e mantenere con questi corrispondenze difficillissime, per frustare i processi e provvedere allo scampo di complici che la polizia non aveva ancora scoperto,—raccogliere armi e denaro,—acquistare alla causa i servigi o i silenzi di carcerieri, di commissari, di giudici,—diffondere libri, opuscoli, proclami,—disporre pubbliche manifestazioni,—tali erano gli offici di quei Comitati, che sfidavano ogni giorno carceri e patiboli. In queste imprese niuno vinse l'audacia dei fratelli Fusinato: due tempre diverse, due cuori scaldati dal medesimo affetto. Clemente portava in quella lotta gl'impeti d'un'anima fiera ed indomita, mentre Arnaldo non ismetteva lo scherzo e avea pronta sempre la beffa pei nostri nemici.» (A. Pascolato, Commemorazione di Erminia Fuà Fusinato, Venezia, tip. del Rinnovamento, 1876, p. 11).
. Erminia fu tutta con que' due, e, sebbene per loro tremasse continua, pur non mai una parola che di lor potesse scemare l'audacia: e, donna italiana, senza rompere il femminile costume, al marito e al cognato fu aiuto grandissimo, sia scrivendo e copiando, e mandando avvisi e manifesti, sia accompagnando il marito per non poche città del Veneto e del Trentino, a fine di ordire le file di una efficace cospirazione (1) P. G. Molementi, op. cit., pag. 43.. Nè smarriasi per l'arresto del cognato, ma, fattosi animo, addoppiava le forze sue e del marito, e, non contenta di aver fatto risonare il doloroso grido di Venezia a Maria Pia di Savoia, facendo scriver la Mander Cecchetti, la Gerstembrand e varie altre nella strenna, che all'augusta sabauda offrirono le donne venete, trentine ed istriane (2) E. Fusinato, lettere inedite Ad Anna Mander Cecchetti, dei di 18 e 22 di ottobre 1860, e 20 di novembre 1861., e in cui ella scrisse pietosissimi versi (3) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 111., volle nell'aprile del 1863 andare a Torino a visitare il Re Galantuomo, e narrargli il pianto e le speranze dei Veneti (4) Narra il Madalozzo (Erminia Fuà Fusinato e i suoi scritti, op. cit., pag. 14) che, essendo la Erminia dal Re Vittorio Emanuele, e avendogli detto di essere stata a Superga per pregare in sulla tomba di Carlo Alberto, affinchè questi ispirasse il figlio a liberare il Veneto che il Re surse, e gridò «Non ce n'è bisogno, sapete, chè l'amo quanto voi… E vostro cognato quale condanna ha?—Sedici anni Sire.—E non saranno, esclamò Vittorio, ve lo giuro, sedici mesi.—E fu vero, fu parola di re… galantuomo.». Tornata nel suo Castelfranco, e dovendo il marito, per ingannare la vigilanza della polizia austriaca, tuttodì piazzeggiare e andare e stare in mostra per le botteghe di caffè, e per i passeggi; ella tutta sola nella sua cameretta forniva l'opera delle secrete corrispondenze, e per secreti messi le facea pervenire cui era mestieri. E con quale e quanta avvistatezza, con quanta imperturbabile sicurezza dell'animo ella fosse sempre in opera tanto perigliosa e difficile, varie volte mostrò; e ancor sono popolari nelle veglie e nei ritrovi di Castelfranco alcuni fatterelli bizzari che in quel tempo le occorsero, e che mostrano quanto ella sapesse stare sopra di sè e mai non smarrirsi dell'animo (1) Varii di questi fatterelli raccolse, e con spigliato stile narrò il Molmenti, e noi qui trascriviamo:
«Un dì si sparse voce a Castelfranco esser giunto colà il delegato della provincia, e per una strana combinazione quel giorno stesso erano convenuti in casa Fusinato alcuni amici dei diversi paesi per provvedere alla diffusione di certe circolari, in cui si esortavano i comuni di astenersi da qualunque atto di adesione all'esecrato governo. Le carte stavano lì ammonticchiate sul tavolo, quand'ecco si sente un'imperiosa scampanellata, che fa balzar dalle sedie i congiurati. Erminia raccomanda il silenzio, avverte la domestica di non aprire, si affaccia frettolosa alla finestra, e vede scintiilare l'elmo acuminato di un gendarme, che stava piantato dinanzi alla porta. Erminia a quella vista non si sgomenta, pone un dito sulle labbra e a mezza voce dice:
» Per carità faccia piano: ho il bambino malato che dorme…. Che cosa desidera?
» E il gendarme, facendole il saluto militare:
»—Perdoni, signora, il signor Delegato mi ha mandato a vedere se si trovasse in sua casa l'assessore comunale conte S… perchè avrebbe bisogno parlargli per affari d'ufficio.
»—Son due giorni che non lo vedo, nè saprei dove potreste trovarlo.
»—Che sia fuori di paese?
»—Può essere, va spesso a Venezia.
»—Grazie, signora, e scusi se l'ho disturbata.
»—Niente caro. E quando parte il signor Delegato?
»—Fra un paio d'ore.
»—Buon viaggio.
» E, chiusa la finestra, corse ridendo a narrare agli amici la strana avventura.
» Quando il governo austriaco impose ai comuni del Veneto la nomina del deputati da spedirsi al Reichstadt, a Vienna, fra i sette comuni del distretto di Castelfranco, quello solo di Vedelago eleggeva il suo rappresentante, e la notte stessa tutte le case di quel villaggio erano segnate con larghe croci giallo-nere, sotto le quali a grosse lettere di stampa si leggeva: Morte a Vedelago. Il giorno appresso un fittaiuolo di Arnaldo partiva da Vedelago e andava a Castelfranco in casa del Fusinato. Il contadino tutto sgomento narrò i casi della notte, aggiungendo che in un fossato poco lontano dal villaggio i gendarmi avevano scoperto un cartellone che avea servito di stampino alla terribile iscrizione: Morte a Vedelago. Gino, il vispo bambino dei Fusinato, a queste parole diè un balzo, e, battendo allegramente le mani, si diè a gridare:
» Tò, tò, mamma, il cartone che hai intagliato ieri mattina colle forbici in compagnia del babbo.—La mamma gli pose una mano sulla bocca, e le labbra di Erminia e di Arnaldo s'incontrarono sorridendo sulla bionda testina dell' enfant terrible. Ed era proprio un fanciullo terribile il piccolo Gino.
» Stava un giorno sull'uscio di casa. Passa un sergente tedesco, e s'inchina per fargli una carezza. Il bambino gli volta le spalle inferocito.
»—Ti faccio forse paura!—gli domanda il sergente.
»—Non paura, ma rabbia.
» La mamma ode il breve dialogo, scende le scale e stampa un bacio sulle rosse guance del suo piccolo Gino. Così crescceva Erminia i suoi figli.
» In una perquisizione notturna, il commissario perlustratore trova fra i soldatini di stagno alcune coccarde tricolori, e:
»—Che è questo? domanda sogghinando all'Erminia, che era presente.
» Ed ella, fissandolo freddamente negli occhi, risponde:
»—Sono i balocchi che io sono solita regalare ai miei figliuoli.
» La fama di patriotta ardente e coraggiosa era tale in paese che le popolane la chiamavano, per antonomasia, il quàrantotto.
» In una festa da ballo giunse un ufficiale della marina austrica. La Fusinato con mille pretesti ricusò sempre ballare con lui, ma al cotillon, non potendo in altra guisa riflutare la mano all'ufilziale, finse di sdrucciolare e si lasciò cadere. Alcune sue amiche un po'maliziose, che avevano capito il pretesto, osservarono che essa aveva bensì evitato di dar la mano ad un nemico d'Italia, ma lo avea evitato cadendo.
»—Sì, care, rispose la Erminia, ma io, cadendo, sono rimasta più ritta di tutte voi.—
» Il giorno dopo questa scena, una fruttivendola, a cui Erminia passava vicina, esclamò ad alta voce:
»—Se tutti fossero come lei, non ce ne resterebbe più uno di quei cani lì,—e accennava del capo ad un gruppo d'ufficiali che sedevano al vicino caffè.
» La Società filodrammatica di Castelfranco era andata ad Asolo a dare una recita di beneficenza. Si rappresentava la Figlia di un Corso pi David Chiossone, e, dopo la rappresentazione, andarono a complimentare l'Erminia dicendole:
»—Ce ne congratuliamo con lei che fece piangere persino i due gendarmi che stavano all'ingresso della platea.
» Erminia, rivolgendosi ad Arnaldo, rispose sorridendo:
»—Va bene saperlo; se verranno ad arrestarci reciteremo la Figlia di un Corso.
» Una mattina piovigginosa d'ottobre del 1864 Erminia visitava nel carcere militare dell'isola di San Giorgio il cognato Clemente. All'ufficiale de guardia che l'aveva lasciata largamente esposta alla pioggia, disse sdegnosamente:
» A Vienna si co nosceranno e si applicheranno bene tutti i codici, ma non certamente quello della creanza,
«L'ufficiale tacque ed arrossi.» (Op. cit., pag. 44—50).
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Andò la Erminia visitando più volte il cognato sostenuto nel carcere militare di San Giorgio a Venezia in quello che si avvisava ai modi di liberarnelo. E quando in una notte del febbraio del 1864, eletta alla sua liberazione, Arnaldo erasi là a tale effetto recato, l'Erminia, rimasta sola, ondeggiando tra il timore e la speranza, vegliava, e vegliando, improvvisava alcune strofe di cui ancora due ricorda il marito:

Oh come son lunghe, penose quest'ore! Oh chi, chi sa dirmi se l'opra mancò, Se ancor sotto il giogo dell'austro oppressore, O libero alfine saperlo potrò. Oh notte invocata, discendi, t'affretta, Coperta di nembi, di venti, di gel; Fra il dubbio e la speme fremendo t'aspetta Dal carcere orrendo l'amato fratel.

Ma la fuga non ebbe effetto, chè la mattina stessa, nella cui vegnente notte dovea esser tentata, venia posto in libertà (1) Una sentenza del superior tribunale di Vienna annullava quella del tribunale di prima istanza da cui egli aveva appellato.. Breve libertà, chè, passati appena tre mesi (2) Il dì 20 di giugno 1864., fu di nuovo menato in carcere, ove rimase sino al principio dell'anno vegnente, in cui, fallendo le prove di sua reità, fu dall'accusa prosciolto, e invitato a uscire fuori di Stato. Se non che in questo processo essendo stato pur mescolato il nome d'Arnaldo, egli ed i suoi doverono venirne in grande timore quando, chiamato dal magistrato, che avea per ufficio di compilare il processo, dalle dimande fattegli non solo vide di esser sospettalo di aver avuto gran parte nel preparare la imaginata fuga del fratello, ma di essere eziandio uno dei principali sollevatori del Veneto, a cui non pochi facevano capo. E i gravi timori avvaloravano fidati messi, recando che la polizia facea continuamente forza perchè venisse incarcerato, accertando lui essere principe dei ribelli, e tra gli ardenti ardentissimo, audacissimo tra gli audaci; ma non pertanto il giudice, sebben militare, aver rifiutato, perchè mancavan le prove secondo richiedevan le leggi: pur le prove cupidamente cercarsi e grande soprastare il pericolo. Questo udendo, parenti ed amici lui consigliavano a prestamente lasciar la patria e le cose più caramente dilette. E secondo il consiglio, dimandò Arnaldo ed ottenne il passaporto, e sarebbe andato a Torino, ove allora si trovava l'amico suo Luciano Beretta, avvocato di assai ingegno, e direttore della effemeride La Legge, se non ne avesse da lui avuto avviso di recarsi invece a Firenze, ove egli stesso si andava. E così fece, e con quanto più denaro potea, secondo pur l'avea consigliato l'amico, fu in sul finire di agosto a Firenze.

§ IV. L'andata di Arnaldo a Firenze, e i consigli che là si ebbe dal Beretta furono principio di cose che ebbero gran parte nei casi della vita sua e dell'Erminia, ond'è necessario qui ne facciamo pur brevemente parola.

Era stata in questo tempo, ministro il Minghetti, fermato con Francia il convegno per lo quale i Francosi avrebbero infra due anni lasciata libera Roma, e l'Italia entro sei mesi recato la sede del governo a Firenze. Era un patto segreto; pur ne fu tosto spillato qualche cosa, e un diario fiorentino, avendone dato notizia, fu quasi officalmente smentito: e, sebbene quel diario durasse nel recisamente affermarla vera, non sapea quasi niuno darle credenza. Fra i pochissimi che poterono esserne anzi gli altri veramente certi fu Arnaldo Fusinato, che ebbe appunto la novella dall'amicissimo Beretta, cui l'avea confidata il Vacca, allora guardasigilli, col quale usava famigliarmente. Ciò saputo, avendo il Beretta, siccome colui che avea sortito di natura animo volto alle industrie e ai subiti guadagni, o, come oggi dicono, speculazioni, avvisò tosto esser questa facile e propizia natura di ammassar ricchezze, e ne fu insieme col suo Arnaldo, che preso tosto alle dolci parole di lui, e menato alla cara speranza di crescere il non ricco, ma pur sufficente patrimonio, e in questo studio consolare alquanto il dolor dell'esilio, accomunò con lui buona somma di denaro, e con lui varie case a vil prezzo si ebbe, quali comprando, quali prendendo in affitto, certi, che, pel gran prezzo in che sarebbero venute non tosto saputa vera la notizia della traslazione della sede del governo, ne avrebbero avuto i grossi guadagni. Ne scrisse subito all'Erminia, che al bisognevole usata, e del bisognevole contenta, non si allegrò nè delle speranze, nè dei propositi del marito; ma sì bene ne provò dolore temendo che egli avrebbe dovuto rimaner lungi da lei, anco quando cessata fosse la prima ragion dell'esilio, se pure non avesse ella dovuto andare a lui con i suoi figlioletti, lasciando i suoi paesi, il padre, le sorelle, i fratelli, gli amici le cose tutte più caramente dilette; sicchè, quando il dovere andare a Firenze non era che un lontanissimo sospetto, scriveva: «Oh ma non sarebbe con lieto animo che io lascerei per necessità questi poveri e cari paesi» (1) E. Fusinato, lettera inediis A Gactano Ghivizzani del dì 23 di settembre 1864.. E intanto scriveva lettere al marito con tale una soavità d'affetto e moderazion di consiglio, che sono una tenerezza a leggere. «Ora veniamo a noi,» gli scrivea «cioè a te ed a tuoi affari.— Non ti nascondo, e te lo scrissi anche jeri, che le tue speculazioni, per belle che siano, mi portano una agitazione continua. Tu sei padrone del tuo, ned io intendo imporre alla tua volontà, ma credo di aver diritto e dovere di dirti ciò che penso, ned è possibile che tu te n'abbia a male. Tu non sei uomo d' affari (1) Non è modo italiano: la vera parola da usare è Faccendiere. Né invaghirti di slanciarsi, così usato come due righe sotto., te lo ripeto.—Spesse volte ti pesava occuparti dei pochissimi tuoi—come vuoi e potrai slanciarti ora che non sei più giovane, nel cerchio delle grandi speculazioni?… Tu hai ottimo cuore, ma ragioni più con questo che con la mente, e negli affari non ci vuol sentimento, ma calcolo.—Tu ami me e i tuoi figli, e moriresti di dolore, se un giorno ti accorgessi di aver rovinato le nostre sostanze.— Perchè prendersi delle inquietudini incessanti, noi che possiamo vivere felici e tranquilli nella nostra aurea mediocrità? Arnaldo, ricordati che la fortuna ha i suoi capricci e che potrebbe stancarsi di favorirti.—Contentiamoci di quanto essa cì donava, e che pur sorpassa i nostri bisogni e l'aspettativa nostra.— Dobbiamo pensare ai figli nostri ed a noi. Tu fosti destinato a scrivere qualche cosa ben diverso che cifre di calcolo! Ora dimandi altri diecimila franchi, e questi come caparra di chi sa quanti mila altri che prometterai.—La comprendi tu tutta la responsabilità che ti assumi?—Edificare in Firenze?…. ma non vedi come si rodono le dita coloro che di fresco fabbricarono a Torino?… Chi ti dice che la diplomazia, il popolo, gli avvenimenti non rovescino da un dì all'altro quel piano (2) Più correttamente dirai: disegno., che a te oggi sembra incrollabile e quasi eterno?—Vuoi i denari? telegrafa, e, qualunque sia la mia opinione, li avrai, ma prima pensa un istante a ciò che ti dico io, a cui devi pur credere più che a tutti.—Nell'atmosfera in mezzo alla quale ti trovi, la tua mente non può calcolare (3) In vece di calcolare vorrebbe usarsi ponderare, misurare, e invece di atmosfera, usato poco sopra, sarebbe stato meglio compagnia, condizione. freddamente. Pensa che la pace dell'animo vale più che tutte le ricchezze del mondo.—Clemente forse ripeterebbe le mie parole. Sai quante volte ci diceva: L'agiatezza in cui siete nulla vi lascia a desiderare.—Per me se scriverai una bella pagina sarò più contenta di te, che non se facessi (1) Più regolarmente avrebbe dovuto scrivere farai. una buona speculazione» (2) Lettera del dì… di ottobre 1864, in Molmenti, op. cit., da pag. 205 a pag. 207.—Meglio qui e nell'altra pagina invece di speculazione, dire negozio..

Quanto senno, quanto affetto, quanta schiettezza di consiglio e quanta misura di riverenza! Ma in Arnaldo poterono più le liete speranze che non i savi consigli, e datosi tutto ai traffici ne ebbe i bei guadagni; e non fu buona ventura, chè i bei guadagni lo portarono al fabbricare del che si era nei primi tempi rimasto. Se non che dobbiamo dire il vero, vi fu in gran parte portato più dal caso che non per desiderio grande e anticipato proposito ch'egli ne avesse. Avea abitato due mesi in Firenze, e, già tutto desioso di rivedere la sua famiglia e i suoi paesi, avvisando che il governo austriaco lo lascerebbe omai senza molestie, credè potè tornare nel Veneto e ne diè avviso alla moglie, la quale tosto, mandato un messo fidato da Padova a Ferrara, lo fece avvertire per telegrafo che la polizia austriaca avea ordine di arrestarlo non sì avesse varcato il confine italiano. Per la qual cosa Arnaldo, omai avvolto negli affari, e pur desideroso di avere i suoi cari vicini, deliberò di prendere stanza con tutta la famiglia in Firenze, e alla moglie scrisse senz'altro, che, dato ordine alle dimestiche cose, a lui coi lor tre figlioletti venisse. E la buona moglie nel dolore di vedere pur troppo avverarsi ciò di cui avea tremato sol del pensiero, gli scrivea questa lettera, che la rassegnazione insoavisce: «Non sarà certo senza dolore e vivissimo che lascerò patria e famiglia ed amici.—Patria forse non avrei dovuto dire, ma fino che la sorte divide il Veneto dagli altri paesi italiani, io la chiamerò sempre la patria vera nostra.—La tua lettera, che mi fa intravedere prossimo il dì di questo abbandono, mi pose in un'agitazione morale che non so calmare. —Oh! non meravigliarti, nè addolarti, nè rimproverarmi di ciò,—sarà lo stesso forse anche per te, giunto a quel punto; e tu non hai il papà (1) Ricordati di scrivere sempre o babbo, o padre, secondo i casi. e gli altri, che ho io, da lasciare.—Ma la mia volontà sarà la tua, perchè so che non è il capriccio, ma la necessità che ti guida.—L'avvenire sarà forse più lieto a Firenze—pure una parte dell'anima nostra resterà sempre qui dove siamo nati, dove morirono e vivono i nostri, dove abbiamo preso ad amarci, dove nacquero i nostri bambini.—Sono triste, nè lo potrei celare.—Se tu fossi qui sarebbe forse altrimenti—ma sono sola e ciò influisce naturalmente sul mio cuore.—Del resto io sto bene, ed anche i nostri figli van riprendendo le belle tinte e la piena salute.— Ti prego (e perdonamelo!) di conservare in tutto e per tutto quella freddezza e ponderatezza necessaria ad un padre di famiglia. —Pensa che non fosti, nè sei, nè sarai fatto per essere uomo d'affari (2) Vedi la nota 1 a pag. 38..—Non gittarti in una via di cui non conosci bene l'uscita.—Ricordati che tutte le medaglie hanno un rovescio e cerca di rilevarlo intero. Temo che neanche i nostri sarebbero lieti che tu impiegassi (3) Sarebbe stato meglio che avesse scritto: mettessi. grandi somme in speculazioni (4) Vedi la nota 2 nella pag. dietro..—Tu sei padrone assoluto, questo è ben vero, nè sei obbligato a render ragione di che fai.—Ma a quei desideri e a quelle osservazioni che vengono dal cuore, si concede (5) Più secondo grammatica avrebbe usato: si concedono. i diritti del cuore e si risponde con questo come tu sempre facesti e farai.—Pensa a tutto ciò, indi segui il consiglio che ti verrà da sè stesso.—Addio, mio caro Arnaldo. Da che siamo maritati non fosti mai sì lontano da me—nè t'incresce, è vero? s'io lo comprendo.—I tuoi bambini ti baciano tanto, e dicono che non sono dieci ma venti i giorni che ne sei lontano. —Gli è che contano col cuore» (6) Lettera senza data, ma dell'ottobre 1864, in P. G. Molmenti, op. cit., pagg. 207-209. E nello stesso libro può, chi voglia, leggere un'altra, bellissima lettera che il di 4 di ottobre scriveva al marito l' Erminia..

E il tempo di lasciare il suo Castelfranco e il Veneto tutto, venne pur troppo e ben presto, e quale strazio si fosse per lei può intendere chi legga la lettera, che da Rovigo, ove necessità volle si rimanesse alcuni giorni, ella scrisse al suo Arnaldo, e che publicò il Molmenti insiem coi Ricordi (1) E perchè a molti può piacere il leggerla, qui la trascriviamo: «La è una gran brutta combinazione * Ben meglio scriverai qui: casualità, caso, accidente. questa che ci tiene ancora divisi?.. Se tu sapessi. Arnaldo mio, quanto furono mesti per me i giorni passati? A Castelfranco ebbi dai nostri più intimi tante prove d'interessamento ** Interessamento è voce, a dir del l'anfani, che scende in linea retta dagli Ostrogoti. Avrebbe dovuto dire: sollecitudine, simpatia. e d' affetto, che, al momento di partire, vedendo la carrozza circondata da tante persone piangenti, ricordava tutto ciò che si passò *** Nel senso che ha qui per grammatica, dovrebbe dir passammo. in quella cara e modesta casetta, dalla prima sera in cui ci entrai sposa e la buona nostra vecchietta sorridendo m'accolse e, quasi orgogliosa della sorpresa serbatami, mi offriva le sue gioie nuziali. Oh Arnaldo?… Sotto il peso di tali care e meste memorie, udendo gli addii di quelli che avevo d'intorno, il mio cuore si struggeva in pianto ed i tuoi figli piangevano meco.—Gino poi, oh! il povero Gino, che si lasciava dietro tutti gli amici, i compagni dei suoi giuochi e de'suoi studi, non fece che piangere lungo la via, ned io volli distrarlo da un dolore, che, certo, santifica ed istruisce il cuore del fanciullo alla vita dell'uomo.—E poi, Arnaldo, quando passai davanti al cimitero, e intravidi la lapide di quella santa creatura, che ci fu madre, oh! tu solo puoi comprendere quello che allora provai e le lacrime, che, tacendo, ho versato!…—E giunta a Padova, nell'accoglienze ancor più affettuose del solito, che mi prodigarono i miei, nella loro sollecitudine per tenermi compagnia, e nelle parole tanto dolci al mio cuore, che mi venivano dal papà, io trovava sempre nuovi argomenti di commozione e di dolore.—Mi pareva che allora soltanto avessi a staccarmi **** Distaccarsi e peggio staccarsi per separarsi, non difenderemo noi. veramente dalla famiglia, dalla patria.—Oh Arnaldo mio! e, quando giunta l'ora della partenza, vidi giungere lo zio Benedetto, che, arrivato da qualche ora dal Tirolo, si era affrettato a venire sino a Padova solo per salutarmi, e tutti, il papà, i fratelli, gli zii, mi baciarono piangendo, e quegli uomini, ormai fatti ai dolori della vita, pure non sapevano nascondere quello di vedermi partire da essi, oh allora non so se indovini tutto ciò che provai! So soltanto, che ho dovuto stringermi al seno i tuoi figli e pensare a te, per trovare la forza che stava per abbandonarmi» (In Molmenti, op. cit., pag. 211-213).. Non che le rincrescesse venire a Firenze, ma solo lasciare il Veneto, chè poco innanzi del partire pur ci scrivea: «quantunque io provi per questa sua bella città tutto l'affetto e la simpatia che le si deve, pure ella potrà facilmente comprendere tutta l'amarezza che provo nell'abbandonare i paesi ove nacqui, ove riposano e respirano tanti miei cari!…» (1) Lettera inedita A Gaetano Ghivizzani, del dì 27 di ottobre 1866.

Pochi giorni dopo ella era a Firenze, e con l'animo pieno del suo paese e dei parenti e degli amici lasciati, pur sorridea al sorriso dei colli di Belrisguardo, e si ammirava nei portenti dell'arte antica e moderna in compagnia dei pochi Veneti, allora a Firenze per varia ragione venuti, come l'avvocato Beretta, il conte Vecchia di Vicenza, l'architetto Lorenzo Seguso, il Senatore Tecchio e il deputato Alvisi oggi senatore, e pochissimi letterati toscani (2) Quale fosse il suo animo nei primi giorni che fu nella nuova città, mostra ciò che scrivea all'amica diletta Anna Mander con cui solea, quante meglio volte poteva, aprir l'animo suo: «Vi giuro, che, quando ci penso, quando chiudo gli occhi e mi prendo fra le mani la testa per sapere se sogno o son desta, io provo una confusione, uno sbalordimento come d' ubbriaca, nè so capacitarmi d'aver proprio lasciato il Veneto, e tutti i miei cari, e trovarmi ora qui in questa città sì bella, sì cortese, sì cara, ma che pure non è la città dove io son nata e dove desidererei di morire.
«Però, ad omaggio del vero, vi dico francamente, che adesso che ho superato le noie del viaggio, del trasporto di un'intera famiglia, e del riordinamento d'una nuova casa, adesso che ho avuto la opportunità e la fortuna di conoscere tanta parte del fiore intellettuale di questa nostra Atene, l'unica cosa, che mi conturbi il presente, e mi faccia desiderare il passato, si è precisamente l'idea viva e costante delle cose che lasciai e del come le lascial!… Del resto qui un clima che ci dona anche nel gennaio qualche giorno d' aprile. Qui monumenti d'arte e di storia veramente memorabili, qui bellezze interne della città, ed una corona di colli che la inghirlandano e che offrono mille varie e tutte deliziose passeggiate.—E poi qui v'è il mezzo di dare più larga educazione ai nostri figli, i quali non perderanno del tutto il vantaggio di vivere, almeno per qualche anno, presso la vera e viva fonte della nostra bella favella. Se a ciò aggiungeste la soddisfazione che proviamo nel potere di sovente trovarci fra un eletto cerchio di amici veneti, voi converrete con me che il pensiero della lontananza da'miei paesi si è il solo che possa gittare una stilla d'amore fra le dolcezze famigliari e sociali che pure riconosco essermi concesse.»
. E in Firenze presto tutti si seppero di sua bellezza, di sua cortesia, di suo ingegno, e così n'ebbe tosto le liete accoglienze e un desiderio in tutti di lei vedere ed udire; nè erano i più umili, nè i meno valenti che lei volevan vedere, ma queglino che per dottrina ed autorità maggioreggiavano allora in Toscana, come il Vannucci, il Tommaseo, il Capponi, il Mamiani, il Lambruschini e tanti altri che sarebbe lungo andar noverando. Oh come lieti que' valenti uomini di essere insieme con lei e farle corona (1) E sia concesso qui a noi ricordare il giorno in cui per le feste secolari di Dante, vinta alle nostre preghiere (chè per non esserci il marito in Firenze, non le parea dicevole, tanto era sinceramente modesta e ritrosa) venia a quel geniale banchetto che nostro padre, compiacendo al nostro desiderio, dava agli illustri scrittori del volume Dante e il suo secolo, il quale fu forse il più solenne monumento, e senza forse il più durevole che l'Italia sacrasse al divino poeta, e in cui nostro padre, ebbe parte principale, sebbene tutta la lode del compilarlo volesse lasciare a noi, che per altro non siamo mai riusciti nè ancor riusciamo a far nulla che ci manchi il suo aiuto. Ci sia permesso dunque ricordar questo giorno in cui, al levar delle mense, ella, vivamente pregata, con quella grazia, che era in lei singolare, e quella voce, che si potea dir veramente angelica favella, recitava i versi, già scritti ad istanza nostra, e intitolati A Gemma Donati, i quali commossero e vorremmo dire rapirono in lei gli animi tutti: e ad udirla vi erano uomini che si chiamavano Mamiani, Carducci, Lambruschini, Regaldi, De Renzi, Conti, Woghel von Woghelstein… Diremo solo che fu tale la commozione che vedemmo brillar due lacrime negli occhi di nostra madre.. E venia a gran festa accolta in ogni gentile ritrovo, sia che andasse alle veglie del poeta Dall'Ongaro, o della buona Gesualda Pozzolini, o della contessa Mozzi, che un dì della sua bellezza innamorava il primo imperatore di Francia, ossia della festiva Emillia Peruzzi, ovvero della contessa Teresa Pulscki per vigor di ingegno e d'animo degna moglie al magiaro Francesco; e in queste liete ragunanze di quanti nelle lettere, nelle arti e nelle scienze allora Firenze si avea come cara in sua modestia si pareva l'Erminia (2) E chi non fu preso di lei la sera appunto che in casa Pulsky, avendo luogo un'accademia di beneficenza rappresentandosi in più un quadro vivente intitolato l'Armonta delle arti, * E. Fusinato, in Versi, ed. cit., pag. 133. recitava alcuni versi intorno lo stesso argomento, e una sera di maggio del 1865 in cui recitava in un'accademia dantesca, ove Ernesto Rossi avea declamato il quinto canto dell'Inferno, i suoi versi A Gemma Donati, che tutti volevano udire e, uditi, riudire?.

Ma più di tutto si piaceva l'Erminia rimanere nella sua famiglia, nella cura dei figli e nelle faccende domestiche, e consigliando il marito, le cui industrie parevano riuscire a bene, così che assai lieta potè nell' ottobre del 1865 andare alcun tempo con la sua famiglia a Beldosso in un'amena villa dell'avvocato Beretta, dove con cari amici scorrevano i giorni, e noi pure passammo ore deliziose, e potè nell'anno vegnente passare il settembre e l'ottobre nel Veneto, e specialmente a Codego presso Castelfranco, omai essendo, per la battaglia di Sadowa, liberato dalla mala signoria austriaca. E sarebbe continuata a viver felice tal vita, se le imprese di Arnaldo avessero proseguite a volger bene, o, per dir meglio, non si fosse, come già di bel principio abbiamo accennato, messo a fabbricare.

Avea Arnaldo nella primavera del 1866 composte sue ragioni col Beretta, rimanendo unico proprietario di una grande casa, che poco dopo vendè con gran profitto, e di un guasto ma ampio edifizio detto delle loggie. E già era in sul vendere pur questo, quando alcun amico gli fisse in capo l'idea di murarvi un teatro, chè grandi ne sarebbono stati i guadagni. Fu da prima contrariissima a tal disegno l'Erminia, ma tante gliene dissero, che poi finì con l'acquetarvisi. E parve davvero aver fatto impresa ottima quando pei primi due anni ne ritrasse un utile di ben quarantacinquemila lire. Se non che a un tratto avvenne ciò che, sin dal giorno che Arnaldo era dal Veneto venuto in Toscana, avea l'Erminia temuto: la sede del Governo fu traslatata a Roma, e il teatro, in cui egli avea speso gran parte del suo avere, avea perduto ogni valore, e fallito era di ogni sua rendita. Si aggiugnevano altri dolori e non lievi, e la morte del diletto fratello Enrico (1) Il dì 13 di maggio del 1866 nella giovanissima età di appena trentasei anni., poi veder sofferente per non buona salute lungo tempo il suo Guido, e finalmente, per colmo di sventura, impazzire il cognato Clemente, mentre veniva a Firenze per passar lietamente nella famiglia d'Arnaldo le feste natalizie (1) Trascriviamo la iscrizione, che, dettata dall'Erminia, è nel camposanto di san Miniato e che già stampò il Maddalozzo (op. cit., pag. 31).
Clemente Fusinato—ingegno vigoroso tenace—cuore fervido schietto—oppugnatore assiduo—della straniera tirannide—due volte soldato delle patrie battaglie—due prigioniero per temute cospirazioni—duri sacrifici per l' Italia—eroicamente sostenne—visse infelice più infelice morì—ammirato compianto.—Nacque nel Veneto MDCCCXX—morì in Firenze MDCCCLXVII.
. E sperando un po' di ristoro alla salute percossa da tanti dolori fu nell'autunno dell'anno stesso a Padova e a Codego, e quindi di nuovo a Firenze, dove, guardando all'impresa del teatro e sentendosi stringere il cuore tra mille dubbi, rimase sino all'autunno del 1868, in che fu a Castelfranco, da cui tornò, se non gravemente, per ben lungo tempo malata, specialmente dei bronchi; cosicchè nel marzo del 1869 non potè recarsi, come era suo desiderio, a Pistoja pei Parentali di Cino, le cui poesie le «rallegrarono tante ore solitarie col loro fresco profumo di mestizia e d'amore» (2) E. Fusinato, lettera inedita A Gaetano Ghivizzani, del dì 25 di marzo 1869..

Intanto l'impresa del teatro pareva volgere in meglio e l'Ermiuia se ne consolava tutta sperando che presto potesse il suo Arnaldo «essere libero d'ogni fastidio» e «dall'esito delle sue cure avere una ricompensa condegna» (3) E. Fusinato, lettera inedita A Gaetano Ghivizzani del 25 di marzo 1869.. E un po' più consolata fu nell'agosto del 1869 a Viareggio, e nell'autunno dell'anno stesso nel Veneto; ma, quando tornò, dovè sempre più persuadersi che, pel nuovo trasferimento della sede del Governo a Roma, l'impresa del teatro non potea punto volgere in meglio come sperato si avea, e più di tutto l'affliggea lo scoramento in che n'era venuto il marito, e il non sapere come provvedere al male che ogni dì maggiore parea soprastare. Nè la condizione economica della famiglia, per il mal corso che avean preso i negozi di Arnaldo, non buona, era ignota agli amici; nè riusciva a lor nascondere l'Erminia l'affanno del cuor suo, per quanto si adoperasse a mostrarsi, non pur serena, ma lieta. E questo fu buona ventura. Chè proposto dal Re alla publica istruzione Cesare Correnti, il quale avea della Erminia grande opinione, e credea potersi con molto benefizio del paese valer dell'opera sua, avvisò subito poter riuscire nell'intento suo e nobilmente aiutare ai bisogni di essa. Se non che per la mala salute dell'Erminia, e perchè donna di modestia unica anzi che rara, e perchè tutta casa, non era facile torla al suo istituto di vita, sebbene non fosse che per continuare a beneficio degli altri le cure e i savi ammaestramenti di che ella facea sì bella prova coi figli suoi: per la qual cosa egli pensò, in bel modo e quasi senza che se ne addasse, a metterla per quella via, nella quale egli sapea che potea far tanto bene, e nella quale ella aggiunse poi a tale una lode, che, senza timore di magnificare, può esser detta gloria, guardando a quella scuola femminile che per lei surse in Roma, e ricordando il pianto che tutta Italia alla sua morte fece.

Una lettera officiale del Correnti avvisava la Fusinato, quando essa manco ciò si avrebbe creduto, di essere stata eletta a far parte della giunta, che, presieduta dall'illustre Terenzio Mamiani, dovea giudicare quali persone fossero meritevoli dei premi istituiti dal decreto del dì 25 di novembre 1896 (1) La lettera ha la data del dì 18 di agosto 1870, col Numero di partenza 8150..

§ V. Noi siamo pervenuti al tempo più operoso e più lodato della vita d'Erminia, in cui la potenza del suo cuore e del suo ingegno si manifestano in tutta la loro benefica virtù. Al tempo in cui la sua vita dimestica si avvicenda e s'intreccia con la vita d'insegnante; e, sebbene noi abbiamo già dichiarato di volere separatamente dire dell'Erminia nella scuola, pure ci occorrerà toccare, parlando qui di lei nella famiglia, anche alla scuola. Nè può esser diverso: la vita dell'Erminia è una sola: ella fu nella scuola per l'amor della famiglia, e fu nella scuola per le virtù che avea mostrato nella famiglia. Dovremo perciò accennare qui ad alcuna vicenda del suo insegnamento, come dovremo, parlando di lei nella scuola, toccare talvolta ai casi suoi famigliari.

Fu dunque la Erminia nelle ragunanze di quella giunta, a far parte della quale l'avea eletta il Correnti, e, secondo sua indole, negli atti modesta, e parlando raro, in sua voce soave, solo quando la parola sua potea avere alcuna buona efficacia, crebbe l' opinione del suo ingegno e del cuor suo in que' valenti uomini tra cui era, e che già non poca ne aveano.

Tutto lieto il Correnti di aver potuto, senza pur ella ben se n' addasse, inviarla ne' publici uffici dell' insegnamento, la deputava a sopravvedere le scuole e i femminili collegi della provincia napolitana insieme con Giannina Milli, che già vi era andata l'anno davanti (1) «Affinchè,» scriveva il Ministro, «visitandone il maggior numero possibile, proponessero quei provvedimenti che saranno apparsi al giudizio loro più confacenti per iniziare senza gravi difficoltà le riforme educative dei medesimi istituti» (Lettera officiale, del dì 29 di dicembre 1870, Num. di partenza 19484)..

Si recò a Napoli nel febbraio, e vi dimorò il marzo; e l'accurata relazione che fece di sua ispezione provò con quanta intelligente operosità e sollecita coscienza adempisse il suo ufficio: e, proponendo in essa ottimi provvedimenti, mostrò come vi sieno cose cui può solo avvisare una donna del cuore e della mente dell'Erminia nostra. E come essendo in Napoli ella poi tutto cercasse e studiasse, e tutto rettamente giudicasse, mostrano le lettere che ella dettò intorno le condizioni di Napoli (2) Furono la prima volta stampate nella Gazzetta d'Italia di Firenze del 1871, ed ora da noi negli Scritti letterari, da pag. 115 a pag. 141..

Se non che a Napoli le stringeva il cuore l'essere lungi dal marito e dai figlioletti suoi, nè l'acquetava il sorriso di quel suolo, di quel cielo, di quel mare

Tutto luce, profumi ed armonia;

e pensando ai figliuoli cantava:

Dai miei figli lontana e dal mio tetto, Non m'arride una sola ora serena; In dolor si converte ogni diletto E fin colpa m'appar questa ch'è pena (3) E. Fusinato, Lontananza, in Versi, ed. cit., pag. 216..

Ma, non appena tornata fra' suoi cari a Firenze, dovè tosto partirsene, che il Correnti, sempre più invogliato, per la prova fattane, dell'opera sua, volle nel giugno del 1871 andasse a visitare le scuole ed i collegi femminili di Perugia, ove ella recò seco l'Antonietta Pozzolini, giovinetta a quanti la conobbero, per ingegno, per istudi, per isquisito sentire, carissima, e morta due anni dopo nel fiore della giovinezza il dì innanzi le nozze (1) Vedi E. Fusinato, Mesti Ricordi, in scritti letterari, a pag. 172..

Intanto, mosso dalle lodi che da ogni parte si faceano dell'opera dell'Erminia, di lei onoratamente valevasi il Sindaco, deputandola a invigilare gli esami delle scuole elementari inferiori in Firenze, e a prender luogo tra gli esaminatori delle superiori nell'Istituto Fiorentino (2) Lettere del Sindaco di Firenze del dì 5 è del dì 13 di agosto 1871.. E mentre il Correnti volea che imprendesse una diligente ispezione dei femminili collegi della provincia di Rovigo (3) Lettera officiale del dì 7 di agosto 1871, col No. di partenza 6206., era invitata da Napoli a prender parte ai lavori del VII Congresso pedagogico, e il Correnti, avvisando opportuno che quel Congresso ponesse mente alle condizioni dello insegnamento nei collegi e nelle scuole femminili del Regno, dava ufficio alla Fusinato di proporre, secondo sua esperienza, le questioni, e i provvedimenti più efficaci affine quei collegi avessero da quel tempo in avanti «a rispondere meglio ai sani principii della civiltà moderna in relazione del buon governo della famiglia, ove ha tanta parte la virtù operosa della donna» (4) Lettera officiale del 18 di agosto 1871 col No. di partenza 1871..

Non pertanto non fu a Napoli, nè a Rovigo, perchè il ministero della publica istruzione, «desiderando di conoscere bene lo stato presente degl'istituti femminili d'istruzione e quelli di carità che sono nella città e provincia di Roma» (5) Lettera officiale del dì 19 di agosto 1871, col No. di partenza 6561., la pregava di andare, quanto più presto potesse a visitarli, intervenendo a un tempo a qualcuna delle conferenze magistrali, che si erano allora aperte con meraviglioso concorso in quella metropoli.

E a Roma giungeva l'Erminia il dì 28 di agosto, ove, secondo l'usato, il provveditore agli studi avea del suo venire dato avviso a tutte le direttrici delle scuole e dei collegi femminili, scemando così a queste ispezioni il pregio maggiore di loro efficacia, il giungere improvvise (1) È un avviso o istruzione in data del dì 29 di agosto 1871, col No. 1580, ma è sottoscritta: Pel regio provveditore agli studi dall'ispettore F. Cassone.. Non pertanto non erano senza efficacia quelle della Erminia, e speciale efficacia prendeano dalle savie e amorose parole ch'ella dicea alle maestre, e specialmente alle religiose, senza ombra di saccenteria, e usando con loro come con care sorelle (2) «Visito monasteri» scriveva essa al professore Bacci, «faccio discorsi morali alle suore, cerco di mettere qualcheduna delle idee, degli affetti nostri in quelle menti ristrette, in quei cuori soffocati dal nascere!…—Predicare a Roma questo è fare veramente qualche cosa d'ardito… ma io non mi sgomento, perchè, se non riuscirò a far del bene, ne avrò almeno il desiderio vivissimo» (Lettera inedita del 2 di settembre 1871).. Se non che un ufficio tutto nuovo vi aggiungeva con bell'accortezza il Correnti, di tenere cioè alcune conferenze pedagogiche alle allieve maestre ragunate in conferenze magistrali nella stessa città di Roma; chè, sì fattamente facendo, metteva l'Erminia nella via dell'insegnamento vero, e ve l'allacciava di suo cuore senza quasi se n'avvedesse, e riusciva così ad effettuare ciò che avea avuto in animo sino da quando la inviava a visitare le scuole di Napoli nel 1870. E d'altra parte l'intendimento del Correnti era più che mai aiutato dai casi e dalla condizioue di vita in che era l'Erminia e la sua famiglia.

Noi dovemmo già dire come la mala impresa del Teatro delle Logge avesse parso un poco volgere in meglio, e se ne fosse alquanto rinfrancata l' Erminia, lasciandosi andare, secondo suo cuore, a più liete speranze. Ma pur troppo furono con attender corto, che Arnaldo non era l'uomo a governar negozi, ove la fortuna volgesse contraria, e specialmente dopo che aveala assaggiata amica. E, vedendo il danno che ne venia alla economica condizione della famiglia, sebbene assai minore che non appariva e creduto era, ne venne in fiera melanconia, non vedendo modo di riparare a quel disordine e al pericolo in che erano parte delle cose sue. Stringeva il cuore alla povera Erminia il vedere avverarsi ciò che pur troppo ell'avea sin da principio temuto; ma non per sè se ne accorava, chè ella era presta ad ogni fortuna, ma pei suoi figlioletti, ai quali, innocenti ed ignari, a lei pareva venissero, senza lor colpa, a mancare di quegli averi che pur gli avrebbero aiutati, in ogni mala ventura, a serbare integre la libertà e la dignità umana; e più ancor l'accorava il pensiero del marito, che, omai vinto nel dolore, siccome smarrito aggiravasi fra le dimestiche pareti impotente al fare, e dandole a temere non poco della sua salute. Sentia straziarsi il cuore la virtuosa moglie ed ottima madre, ma non cadea d'animo, e andava pensando come argomentar si potesse in tanta dolorosa condizione del comun patrimonio. Che non fu allora vedere l'Erminia, ignara d'industrie è d'imprese, avvolgersi fra industriali e faccendieri, fra avvocati e mozzorecchi, e con meraviglioso intendimento, cercando in tutto e per tutto restringere le casalinghe spese, in ogni maniera provvedere a ristorare l'antica agiatezza della sua casa!

Non mal si apponeva il Correnti, che tutto sapea, avvisando esser giunto il tempo, che, portata la Erminia dal desiderio e dalla speranza di aiutare in ogni modo potesse alla famiglia, avrebbe consentito di prendere stabile ufficio nello insegnamento, al quale avea mostrato, nelle conferenze tenute a Roma, avere attitudine non poca. E, rotto ogni indugio, porse alla sanzione reale il decreto che eleggeva la Fusinato a insegnar lettere italiane nelle conferenze medesime con l'annua provvisione di lire duemiladuegento (1) Ecco le parole con cui gliene dava notizia il Ministro della publica istruzione nella lettera officiale del dì 26 di ottobre 1871: «Io sono ben lieto che la prefata M. S. abbia con R. Decreto del 15 ottobre corrente accolta la proposta della surricordata di lei nomina, perchè ella vedrà così come sieno stati tenuti in considerazione gli utili, distinti ed importanti servigi da lei resi alla publica istruzione, e perchè sono certo che le Alunne delle Conferenze magistrali, mercè il consueto zelo e le materne, amorevoli di lei cure, trarranno immanchevole profitto dall'insegnamento che le rimane affidato.». E mostrandole il bene che dall'opera sua sarebbe venuto all'insegnamento, e a nulla accennando della condizione della sua famiglia, la indusse ad accettare.

Se non pertanto l'opera della Fusinato nella publica istruzione era da molto tempo desiderata, non era da molti. Era desiderata da quanti aveanla potuta vedere nella sua famiglia, in mezzo alla quale avea potuto mettere in loro il desiderio vivissimo di aver una donna come lei nella scuola: questi erano pochi, ma tra questi pochi erano uomini di gran valore e autorità come il Vannucci, il Tommasèo, il Tabarrini, il Mamiani, il Dall'Ongaro, il Maffei, il Fanfani, il Tibaldo, e sopratutti ne l'avea vista il Correnti, che più di tutti provò il desiderio di valersi di lei, stimando doverne conseguire una delle lodi più sincere e più degne del suo governo, e una delle compiacenze più vive dell'opera sua. Se non che in un tempo che all'insegnamento officiale agevolano e adonestano l'elezione pur dei mediocri gli studii fatti e conseguiti sia nelle università, sia nelle scuole magistrali superiori o nelle inferiori, e stornano loro dal capo le tempeste degli sdegni e delle invidie dei non eletti; alle elezioni invece di coloro che non hanno un diploma, purchè sia conseguito, avvegnachè valentissimi, non giova il valore, e a chi elegger li deve il difetto di quegli studii officiali e di quel povero diploma o è impedimento, o è cagion di noie e molestie assaissime.

E la Fusinato era in voce sì di gentil rimatrice e di ottima madre, ma la più parte gente nulla si sapea quanto, nè come potesse valer nella scuola, e quella stessa sua lode del poetare, meglio che accattarle, volea scemarle fiducia; chè, per dir lo vero, la maggior parte delle donne, le quali si sono date a far versi, non sono quelle che hanno poi fatto prova di esser le migliori, non solo nell'educare i figliuoli altrui, ma pure i propri. La Fusinato era all'incontro in questa parte singolarissima, e ben sapevano coloro, che aveano consuetudine alcuna con lei; ma era mestieri che tutti se ne persuadessero. A questo, se non andiamo errati, avea posto mente il Correnti, e avea saviamente provveduto, dandole quei temporanei uffici delle ispezioni, che essendo più che altro in mostra di onoranza, senza realità di veri e durevoli beneficii, schivavano facilmente gli avversi e malevoli commenti; perchè la gente lascia facilmente onorare, sì vero quasi se ne compiace, chè la vanità umana di leggieri conduce a noi in qualche modo recare anche le lodi altrui, mentre parle sempre vedere negli altrui avvantaggiamenti un danno proprio, quasi sia tolto a sè ciò che agli altri vien dato.

La Fusinato accettò, sebbene il marito, cui era bene aperto il secreto intendimento di lei, e rimordendogliene la coscienza quasi egli ne fosse la cagione, cercasse dissuaderla; chè a lei, nodrita negli agi, di delicata complessione, e spesso malata di petto, temea non dovesse recar grave danno la nuova fatica, se pur sostener la potesse. Ma l'Erminia stette ferma, e mostrossi lieta di quell'ufficio, siccome quello che ben rispondeva alla sua natura e ai desiderii suoi.

Fu intanto, nell'ottobre, a Rovigo, ove il freddo improvviso le offese appunto il petto, cosicchè scriveva: «Oh! l'ammalarmi ora che potrei, che dovrei occuparmi tanto!» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 4.. E pur troppo ammalò e dovè stare più tempo in letto, senz'aver neppure ad assisterla il suo Arnaldo, che, per le domestiche brighe, era rimasto a Firenze, e che ella non volle avesse alcuno avviso della sua malattia (2) Ivi, id., id..

Ma un ben fiero dolore, che fu strazio al cuor suo di madre dovè sostenere nel novembre di quest'anno, quando, dopo un lungo contrasto tra desiderii e affetti diversi, avvisò, per miglior consiglio, insiem con Arnaldo, separarsi dai suoi due figliuoletti, mandando Gino a studio in Mantova, presso il cugino Giovanni Fusinato, professore di storia in quel regio liceo, e Guido, il piccolo Guido, che avea tocco appena l'undecimo anno, in collegio a Venezia. Solo chi vide l'amor che ponea nei figli altrui, e come li educasse, può intendere qual dura necessità la forzasse a separarsi da' suoi. Ma la debil salute e il non avere un' ora di tempo per sè, chè quasi tutte occupate l'avea nell'insegnamento, non le consentiano tener dietro, come volute avrebbe, e l'età lor richiedea, a tre figliuoli a un tempo, chè v'era pure la Teresita, la quale di cure avea d'uopo non poche. «Oh s'io fossi forte di corpo, di mente, di studi, non li staccherei (3) Staccare per separare, non vorrai usare. mai dal mio fianco; ma Dio mi legge in cuore» (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit.. pag. 22.. E da Rovigo, essendo in casa di una sua sorella, li vide piangendo partire (1) Vedi come essa notava pietosamente la sua separazione da loro nei Ricordi (Ed. cit., pag. 4)..

E da quel giorno la sua mente è sempre con loro. È d'uopo leggere i suoi Ricordi, le sue lettere agli amici per vedere com'ella visse in loro e per loro! come della loro buona condotta, del loro studio, dei loro progressi si allegrasse, e ne traesse conforto al gran sacrificio fatto di separarsi da loro. «I miei figli,» scriveva poco dopo, «non potrebbero condursi meglio; mostrano un senno e un cuore superiore alla loro età.—Dunque feci bene a prendere questa determinazione di staccarli (2) Meglio molto avrebbe scritto: separarli. per ora da me.—Oh ma talvolta quanto mi pesa!» (3) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 7.. Come si beava nelle loro lettere, leggendo le quali, «sentia che avea torto di lamentarsi dei suoi dolori, sentiva che dai figli le sarebbe derivato il compenso di tutti, e domandava solo di meritarlo» (4) Ivi, ivi, ivi.. Dopo un anno Gino ritorna in famiglia, ma non il picciolo Guido; ei rimane in collegio; ed essa corre a lui nelle vacanze, e seco lo toglie mentre che durano, ma non per questo si racconsola, che, ogni volta che essa lo riconduce al collegio, sente sempre più l'amarezza dal dipartirsene, del doverne rimanere lontana (5) «L'avere il mio Guido lontano mi è una gran croce, ma la porto per il bene di lui, e questo pensiero me la rende men grave» (Lett. inedita Ad Anna Mander). Ma non è vero: la porta sì per amore di lui, ma tutto il peso ne sente: basta solo leggere ciò che scriveva nei suoi Ricordi..

Ed ella cercava abbreviarne la distanza, a lui volando in ispirito. Ha scritto la Fusinato che il collegio «deve divenire una degna sostituzione della famiglia, ma non potrà esserlo finchè non s'ingentilisca con la benefica opera materna» (6) E. FUSINATO, Famiglia e collegio, in Scritti educativi, ed. cit., pag. 331.: se ora collegio potè essere ingentilito dall'opera materna fu certo quello in che era il suo Guido. Chi, leggendo le lettere che gli scriveva in quel tempo non vede pure quali aure gentili dovessero di quei dì in quel collegio aggirarsi? Con esse vola al lettino del suo Guido, e tutte le sere gli dà un bacio, un saluto, una benedizione (1) P. G. Molmenti, in Ricordi, lettera del dì 2 di novembre 1875, a pag. 104.. Quali massime sante non sono in quelle lettere, e in quelle scritte a Gino quando pure lungi dal tetto materno! Di quali nobili ammaestramenti, di quali affettuosi consigli e soavi correzioni non sono esse ripiene! Quale virtù d'amore non le governa!

Nè creda per avventura persona che questo amore sì vivo e possente fosse opera della separazione e della lontananza, di cui nulla ci fa spesso conoscere meglio i pregi di una persona e di una cosa, e nulla desiderarla meglio che il non più possederla. No; no; ella era venuta invece in quel fiero dolore perchè quei due figliuoletti aveva sempre smisuratamente amati insieme con la loro minor sorellina, la vispa Teresita, che era in quell'età, come sogliamo dire, un vero e bel diavoletto. Come non già li amasse, ma li adorasse ben dicono le lettere ch'ella scriveva parlando sempre di loro: «Noi stiamo bene,» scriveva alla sua Mander al principio del 1874, «Gino è un fiore di salute, di allegria ed anche di furfanteria. La piccolina è bianca, rossa, grassa e grossa: ha due grandi occhi neri, e tanti ricciolini biondi.—Insomma dicono che sia bella,—io la trovo buona, ma per ora non mi offre occasione di dirvene di vantaggio» (2) E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander, del di 25 di febbraio 1864.. E nel giugno dello stesso anno: «I miei bimbi stan bene, ed anche madamigella Teresita comincia a farsi una donnina di garbo, e promette co' suoi grandi occhi neri e i suoi biondi e ricci capelli di fare delle gran vittime nella generazione crescente. Gino è un piccolo uomo, grave e compassato, ma d'altra parte ingenuo e buono più di quel birbo di suo fratello, che ha vivacità e furberia per dieci. Il primo vi saluta; del secondo poi non aspettatevi complimenti, ma bensì, ove non lo assecondaste in tutto, un qualche grosso pizzicotto, ed anche un sonorosissimo stiaffo!.. È nato nel 59!!!» (3) E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander, del dì 9 di giugno 1866..

Noi ci stiamo di gran cuore dimorando alquanto a parlare della Fusinato tra i suoi figliuoletti, e con tale piacere che dir non sappiamo; e niuno ce ne vorrà far rimprovero, il quale pensi esser d'uopo vedere e pienamente considerare la Erminia tra i figliuoli suoi, per intendere come potesse divenire educatrice meravigliosa che fu degli altrui. E chi voglia sapere appieno com'ella visse per loro, è d'uopo che legga le sue lettere e i suoi Ricordi: allora saprà che «le maggiori e le migliori soddisfazioni le veniano dai figli che stavano bene, studiavano volonterosamente, e si acquistavano l'affetto dei condiscepoli e dei superiori» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 24.; che per essi si piace che il nome suo e del marito non sia discaro ai loro concittadini, e che per essi gusta la fortuna «di poter godere della stima altrui perchè questa stima si riverbera, si diffonde intorno ai suoi figli» (2) Ivi, ed. cit., pag. 15.; allora saprà che, tosto può lavorare, lavora lunghe ore, e dice «con voluttà» perchè lavora pe' figli suoi (3) Ivi, ed. cit., pag. 24.; e che riusciva a istituire e vedere prosperare quella scuola (che or dal suo nome s'intitola), pensando ai suoi figli (4) «Ho riportato delle vittorie di cui per loro (i suoi figli) singolarmente ne godo,» scriveva la Fusinato dopo gli esami del dì 3 di luglio 1875. (Ricordi, ed. cit., pag. 51).; saprà che per essi portava in pace i dolori, che pochi, nè lievi non erano, dicendo: «Finchè e purchè i dolori non tocchino i miei figli, e non abbia a piangere la salute dei miei più cari, per me non importa, e benedico la sorte dei conforti che m'assente.—Oh quando penso al Cairoli, come mi potrei lagnare?» (5) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 18. Ma dove la piena del materno affetto trabocca è in queste parole che sono proprio un grido di supremo amore che dal profondo dell'anima irrompe: «Oh figli miei, davanti l'affetto che vi porto tutto scompare, e non domando a Dio che il vostro bene, che vorrei acquistare a prezzo del mio sangue» (6) Ivi, ed. cit., pag. 24..

Oh leggano, leggano le madri italiane queste parole: se buone diverranno ottime, se men buone torneranno migliori.

Ma alcun non sia il quale creda che l'amor grandissimo che noi vediamo avere avuto l'Erminia pei figli scemasse la materna autorità, e, facendo velo in su' loro difetti, menasse a dannose condiscendenze, e ad ammollare quel giusto rigore, senza che è vano sperare riescano quali la patria e la famiglia dimandano. Nessuna madre nella propria famiglia mostrò meglio di lei, come, in usando coi figli, tra la soverchia austerità dei tempi passati e la soverchia dimestichezza dei presenti, vi sia un giusto mezzo, che, non scemando l'affetto, cresce la riverenza dei figli verso i genitori (1) Vedi in proposito E. Fusinato, Collegio e famiglia, in Scritti educativi, edizione citata a pag. 331..

E la sua virtù nell'educare, e l'indole buona dei figliuoli soltanto le fecero risparmiati quei castighi, ch'ella diceva dovere, «come i premi, aver per unico scopo quello di commovere il cuore dei fanciulli, persuadendoli all'adempimento dei loro doveri» (2) E. Fusinato, Dei premi e dei gastighi (Lezioni pedagogiche VI) in Scritii educativi, ed. cit., pag. 180., e che all'uopo avrebbe saputo usar bene. E saperne usare mostrò se rarissima volta le ne porsero ragione: se non che, gastigando, sapea trovare una singolarissima forma, che è meravigliosa manifestazione della sua mente educatrice, sì che spesso pur ciò che parea premio sapesse volgere a correggimento e castigo, addoppiandone l'efficacia su chi avesse avuto animo gentile (3) Ci piace riportarne un esempio: Era nel giugno del 1876, e ricorreva il dì natalizio di Gino, il quale, seguitando i tempi in che la nostra gioventù si place stare un po'troppo in su l' amorosa vita, avea il difetto di sfoggiar nelle vesti, più ancora che la sua civil condizione non portasse, e, per appagare a questo suo mal vezzo, si era lasciato andare a far un debito col sarto. La madre, che dai debiti con gran ragione aborriva, pagò; e all'ora del pranzo gli fe'trovare il conto con la quitanza sotto il suo salvietto, con queste parole: «E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», E la buona madre, scrivendo questo fattarello all'altro figliuol suo.
lo volgeva eziandio ad ammaestramento di lui: «… io gli feci trovare (a Gino) sotto la salvietta saldato un certo conticino ch'egli diceva di voler pagare da sè e che veramente si potea risparmiare. Ma io debiti non ne voglio a nessun costo—il non averne è il solo mio lusso, e il dì in cui i figli ne dovessero fare di troppo forti per le nostre forze, sarebbe un dì veramente nefasto.—Insomma ho pagato, e sopra la busta ho scritto: Erimetti, ecc.—Spero che Gino un'altra volta ci penserà un po' più prima di ordinarsi dei vestiti» (Lett. del dì 4 di giugno 1876, in Molmenti, Ricordi, pag. 198-199). Non sappiamo se Gino abbia più fatti debiti, ma non dovrebbe, chè non potea ricevere ammonimento più efficace di questo.
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E se e quanto questa educazione valesse e buoni frutti menasse, hanno mostrato i figli cresciuti buoni di cuore, bravi d'ingegno, operosi nelle scuole, primi sempre negli esami, e ora ambedue sì bene inviati nel cammin della vita da poter bastare a sè stessi (1) Al liceo e all' università, Gino e Guido sostennero sempre gli esami con grande lode, riportandone i primissimi premi, e conseguendo per concorso vari posti di studio. Ed ora per concorso vinto, il dott. Guido ne ha potuto andare a studi maggiori in Berlino, mentre pur per concorso l' avv. Gino ne ha conseguito l' ufficio di sotto segretario nell'amministrazione delle Finanze dello Stato., sicchè se la madre vivesse vedrebbe compiuto il vivissimo dei desideri suoi (2) Vedi nei Ricordi, ed. cit., pag. 71.. Ma più di tutto la sua virtù di madre e di educatrice si mostra nell'affetto che seppe infondere nei figliuoli suoi verso i lor genitori e la loro famiglia.

E qui cade in acconcio dire come di questo affetto ai genitori l'esempio più vivo ed efficace ne avessero in quello della madre loro verso suo padre, il quale quanto forte e riverente si fosse è difficile cosa dir con parole; anche chi l'abbia come noi veduta sovente nel suo salottino con lui in Firenze ed in Roma, quando egli venia sospirato a stare con essa, con Arnaldo, coi suoi nepotini alcuni giorni che scorrevan veloci; ovver nelle vacanze in Padova con lui, e sempre a lui attorno piena di cure, di vezzi e di grazie, e il buon vecchio ringiovanire, e lei quasi tornare bambina. Ma se noi dir non possiamo lo dicono i suoi Ricordi, ove quasi ad ogni pagina son parole di smisurato affetto per esso. «Poveretto!» esclamava lontana da lui, «nessuna di noi tre gli rimase vicina! Sognavo di poter averlo meco in una bella casa con un bel giardino, dov'egli potesse coltivare i suoi fiori, quei fiori che quand'era fanciulla poteva dire:

«Che il buon Dio dal cielo «E sulla terra il mio padre m'educa!

invece gli sono ancora più lontana» (3) Ricordi, ed. cit., pag. 11 e 12..

E quando, dopo sette anni di lontananza, rivedeva la casa paterna che le era «più cara d'ogni palazzo» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 5., scriveva: «Ciò che si sente rivedendo, dopo molti anni e molte vicende, persone e luoghi diletti, è indicibile.—Le campane che udii da bambina parmi abbiano un suono diverso dalle altre.—I fiori del mio giardino mi sembrano piû belle degli altri;—è mio padre che li coltiva!» (2) Ivi, ed. cit., pag. 5.. E ritornando in Venezia da Padova ove era stata a festeggiare l'anniversario della nascita del padre, in quelle carte, ove affidava il segreto dell'anima sua, scrivea: «Torniamo ora da Padova, ove siamo stati a festeggiare il natalizio di mio padre—73 anni! Per fortuna è ancora robusto, con la mente limpidissima e il cuor pieno d'affetto.—Al vedere intorno a sè quattro fratelli, i quattro figli che gli restano, i mariti delle figlie ed i nepoti, mi pareva ringiovanito.—Fu una gioconda festa di famiglia, che Dio me ne conceda molte di simili!» (3) Ivi, ed. cit., pag. 56.. Ma pur troppo è destino

Che l'estremo del riso assaglia il pianto,

e alla gioia del rivedersi seguita sempre un dolore anche più grande, quello delle separazioni. «Il dolore che provo nelle separazioni,» scriveva essa, «è superiore alla gioia dei ritorni» (4) E. Fusinato. Ivi..

§ VI. Se non che è ora che noi riprendiamo il filo interrotto dei fatti e delle vicende della vita della Fusinato. Da Rovigo fu pochi giorni del novembre 1871 a Firenze, ove la strinse nuovo dolore, quel di lasciare la bella casa che vi aveano murata nelle vicinanze del torrente Mugnone, ove comincia la via che mette ai ridenti colli di Fiesole (5) Vedi a pag. 5 dei Ricordi, ed. cit., le commoventi parole che scrivea lasciando questa casa.. E non pure la casa ma Firenze lasciava con gran rincrescimento, perchè Firenze ella avea preso ad amare, dopo la sua Venezia, sopra ogni altra città d'Italia, ed il rincrescimento diveniale strazio per le manifestazioni di vivo dolore che ogni gentil persona faceale continuo negli ultimi dì anzi la sua partenza. E lo stesso gonfaloniere di Firenze, o come oggi chiamano elegantemente sindaco, Ubaldino Peruzzi, e a voce e per lettera onorata e gentile, le significava quanto a Firenze fosse doluto vederla partire (1) Ecco la lettera:
«Firenze, 14 dicembre 1871.
«Signora Erminia gentillissima,
» Sebbene a voce io avessi il piacere di dirle in Roma quanto mi fosse rincresciuta la di Lei partenza, e quanto conforto mi avesse dato la graditissima lettera onde le diacque onorarmi, pur io voglio profittare del primo momento che disponibile ho, per ripeterle in iscritto quello che le dissi quando c'incontrammo presso l'imperatore Don Pedro.
» Noi eravamo abituati a considerarla come uno dei più cari ornamenti di Firenze, talchè c'è parso davvero perdere una concittadina nostra; ma abbiamo un conforto nel sapere ch'Ella potrà rendersi costà più utile agli altri, e nella speranza che, adempiuta la nobile missione da Lei assunta, farà ritorno fra noi. Le assicuro che ciò è vivamente desiderato da molti; fra i quali primi siamo mia moglie ed io, che le porgiamo affettuosi saluti; nell'atto che ho il bene di confermarmi con vera stima ed amicizia
«suo devotissimo
«Ubaldino Peruzzi».
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Dopo pochi giorni, separatasi sino, per la prima volta, dalla sua Teresita, che affidò alle sue buone maestre, andò a Roma, dove sentendosi «agitata, incerta, temea di sè stessa, si sentia sola, nuova a quell'incarico, che pareale superiore alle sue forze fisiche ed intellettuali» (2) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 5..

Era non però venuto ad accompagnarla e rimaner seco qualche giorni Arnaldo, col quale il penultimo dì di novembre fu da Don Pedro d'Alcantara, Imperator del Brasile, uomo di grandi lettere e dei letterati amantissimo favoreggiatore, che di ambedue conoscere avea significato il desiderio, e a cui ella disse alcune stanze, che le avea ispirato la visita da lui fatta in Milano ad Alessandro Manzoni (3) Ricordi, ed. cit., pag. 6. Le stanze che la Fusinato disse all'imperatore sono stampate a pag. 251 dei suoi Versi, ed. cit..

Cominciò intanto con grande amore le sue lezioni, e con fatica non poca, secondo a suo luogo diremo; ma della fatica non curante, solo temea di dover riuscir nell'insegnamento men bene del desiderio; e tanto più ne temea che ella ormai pure vedea in quello un ristoro della famiglia, e un bell' esempio non pure ai figliuoli, ma eziandio al marito. Ed al marito che ogni dì più si sentia commover l'animo delle fatiche di lei, scrivea parole d'oro in lettere affettuosissime (1) Vedi tra le altre lettere, pubblicate dal Molmenti nei Ricordi, una del dì 30 di gennaio 1872.. Ma Arnaldo non s'acquetava, ed ella che il sapea afflitto anche per i domestici affari, che non certo ancora volgevano in meglio, avendole alcuno fatto sapere che egli era di mala voglia, scriveva: «Te ne prego, non esserlo più! ti giuro che io farò in modo che si riparerà a tutto, ma non mi togliere il coraggio con la tua sfiducia e tristezza.—Cosa sarebbe se io t'avessi imitato? Diamoci animo! Io sento che non c'è ragione di sgomentarsi… Vedrai che ripareremo a tutto, e che quest'anno di divisione non si ripeterà per noi» (2) Lettera del febbraio 1872 in Molmenti, Ricordi, pag. 216-217..

Intanto continuava le imprese lezioni, lieta dell'affetto delle sue scolare, e passando alcune ore in graditi parlari con amici illustri, e visitando sovente il dotto Duca Caetani di Sermoneta, che, tosto venuta a Roma, avea voluto conoscerla, ed era stato primo a visitarla (3) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 9., e con cui leggeva alcuni canti della Comedia di Dante, onde scriveva: «Giovano più che un sermone. Lo spirito si eleva, le miserie del presente, dell'individuo scompaiono, e noi ascendiamo, ascendiamo col poeta la montagna dove si purgano le anime» (4) E. FUSINATO, Ricordi, ed. cit., pag. 15—Nel marzo 1872 conobbe pure il Cantù. (Ivi, ed., pag. 16)..

La sera stessa in che ebber termine gli esami, tra le sincere manifestazioni di affetto delle sue scolare, partì per Firenze «non volendo togliere ai suoi cari un'ora sola oltre a quelle che le chiedeva il dovere» (5) Ivi, ed. cit., pag. 16., e questo notino bene le giovinette non solo ma i figliuoli tutti, chè non vi è atto nella vita della Fusinato, per picciolo che sia, il quale non racchiuda un fecondo insegnamento e un esempio da imitare. E questa è la ragione per la quale noi andiamo molte cose notando, che a chi ben non intenda posson parere superflue. E quivi presa dalle buone maestre la sua Teresita (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 20., insieme con Arnaldo furono a Padova, ove festeggiato il sedicesimo anniversario del suo matrimonio (2) Ivi, ed. cit., pag. 21., andò a Venezia che non vedea da sette anni, da quel dì che vi era andata per visitare il prigioniero cognato (3) Vedi le affettuose parole che scriveva nei suoi Ricordi, l'11 di agosto 1872, rivedendo, Venezia, a pag. 22., e che ora era divenuta libera terra italiana.

E da ogni gentil persona ebbe a Venezia onoranze. Non solo il giurì pei lavori femminili del Congresso pedagogico volle essere da lei presieduto, ma il Congresso stesso con unanime assentimento la elesse a suo presidente, seb bene ella, in sua modestia, non credesse potere accettare, e solo, per non pareere soverchio scortese, se non la vicepresidenza: alla quale movendo tutta trepidante e confusa «n'ebbe tale una manifestazione di simpatia che ne fu commossa» (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 23., pur non parlando, come le parve dicevole a donna, stimando poi quel silenzio non esser dispiaciuto (5) Ivi, ed. cit. pag. 23..

Grazie ch'a pochi il ciel largo destina

essere onorati vivi dal suo paese; e nel prendere la presidenza le tornarono forse in mente le parole con che, pochi anni prima, confortava l'amico Giovanni Procacci, alle cui buone opere contrastava, perfidiando, la città natia: «Il paese dove siamo nati non comincia ad apprezzarci da sè mai, e solo accetta come un fatto compiuto la fama che ci viene dal di fuori» (6) E. Fusinato, lettera inedita Al cav. prof. Giovanni Procacoi, del dì 4 di agosto 1867..

Da Venezia fu a Padova e a Rovigo, e quindi, alla fin di ottobre, a Firenze, ove alle dolorose cure delle dimestiche cose, si aggiunsero non meritati dispiaceri a cagion della scuola.

§ VII. Erano in quel tempo mutati gli uomini che reggevano le publiche cose, e al Correnti era succeduto lo Scialoia, non sappiamo dire con qual fortuna d'Italia, non certo buona per l'Erminia, che, volendo egli da buon napolitano favorire a Giannina Milli da Teramo (ingegno gagliardo e di forti studii, più che in improvvisatrice, avvegna famosa, non vogliano essere facilmente creduti), pure maestra in quelle stesse scuole ov'era l'Erminia, cercava in bel modo, sotto colore di voler megliorare la condizione di quella, levarla fuori, intendendo veramente a sgombrar la via alla Milli per farla direttrice di quella nuova Scuola normale, che sorgeva in luogo delle allora soppresse Conferenze magistrali; al quale ufficio era, sotto ogni aspetto considerar si volesse, ben più acconcia la Fusinato, la quale non si poteva ad ogni modo, senza peccar di sconvenienza, lasciar siccome prima maestra. A tal fine apparecchiò lo Scialoia il decreto che mandava la Fusinato a insegnar lettere italiane nella Scuola normale di Venezia, nella quale città credeva, o, per dir meglio, fingeva credere, che fosse desiderosa di andare, e ove diceva che avrebbe potuto avantaggiare la sua condizione «ricevendo dal municipio di Venezia altri incarichi» (1) Scialoia, lettera inedita Al Comm. Paulo Fambri, del dì 27 di settembre 1872.: e tutti sapevano che, per le condizioni di famiglia, non potea l'Erminia andar sì lungi da Firenze, ed avere, appunto per ciò, rifiutato l'ufficio di direttrice di quell'istituto superiore femminile, che pur le era stato offerto, e da cui l'avea anche dissuasa un sincero amico, a cui era andato per consiglio, e al quale Venezia pareva una morta gora (2) Intorno le parole dell'amico sono nel manoscritto dei Ricordi alcune dell'Erminia. Ad Arnaldo parve pietoso per Venezia non publicarle: a noi, memori delle parole che ci scriveva negli ultimi anni il Tommasèo, «esser cioè tempo di parlare il vero senza bugiardi infingimenti e senza rispetti umani», crediamo migliore il publicarle Ecco come scriveva l'Erminia: «Vorrei avesse torto (il dabben uomo): eppure più la considero (Venezia) e più temo.—L'aristocrazia è qui per lo meno ciò che è nelle altre città principali d'Italia, rispetto alla leggerezza, all' ozio, all'alterigia, appena talvolta mascherata dalla grazia veneziana. Ciò pie più—eccozioni vi sono, ma poche e tali da far meglio apparire i defetti della generalità. Questi eredi di gran nomi pare non sentano nè la grave responsabilità che con quei nomi impone loro il passato, nè i doveri dei tempi nuovi. Gli uomini giudicano per tal modo le donne in questa casta che par non ammettano, alcuna possa serbarsi ligia ai doveri di moglie e di madre. Ove apparisca una virtù che non si possa demolire * Uso erratissimo di demolire è questo; dirai invece offendere, offuscare, vituperare, gittar nel fango, e chi n'ha più, più ne metta. altrimenti, la si offende col ridicolo, arme qui sempre pronta e adoperata con perizia somma.—E le classi cittadine imitano, per darsi aria, questa che non amano, nè rispettano, anche perchè ne sono quasi respinti. Tale è la verità che non gioverebbe disconoscere e che duolmi sia tale! «Così scriveva, e possano queste parole che escono dalla sua tomba scendere feconde di nuova vita negli animi dell'aristocrazia veneziana..

E d'indurla ad accettare pregar lo Scialoia l'amico Finali e per lettera e per telegramma il Fambri (1) Scialoia, lett. ined. citata, e telegramma di Stato segnato co. N. 626., tardandogli aver la risposta: e breve e dignitosa risposta ricevea dall'Erminia, in cui li dicea non poter recarsi a Venezia, e preferire, alto aver non potendo, restare a Roma nell'insegnamento che avea. Per la qual lettera fu costretto lo Scialoia a non dare altrimenti effetto al decreto che la trasmutava a Venezia, e lasciarla a Roma: e gliene porgea la novella in una lettera sibillina e artifiziata (2) Scialoia, lett. inedita Ad Erminia Fusinato del dì 14 di ott. 1872. che empiva di sdegno la Fusinato, la quale presa subito in mano la penna gli rispondeva vivaci parole, che avrebbe senza fallo mandate se non fosse stata impedita da Domenico Berti (3) Perchè conservò l'Erminia quella lettera, per chi voglia saperla qui trascriviamo:
«Eccellenza,
» Torno al mio posto, grata all' E. V., che, non potendo mutare il mio ufflcio, nè migliorarne le condizioni, ha voluto lasciarmi la destinazione medesima, da me preferita per ragioni di antecedenza e di clima.
» L'essere io conosciuta appena dall'E. V. e il non averle potuto significare a viva voce quanto aveva nell'anima, diede luogo a malintesi dai quali derivarono all'E. V. delle noie, che io la prego di perdonare e obliare, ed a me delle inquietudini di cui non le dirò l'amarezza.
» Se l'E. V. vorrà accordarmi brevi istanti di udienza avrò il conforto di dirle quale significato io intendessi dare a parole che, per mia sfortuna, s'ebbero interpretazione diversa. Che se tanto non mi fosse concesso, attenderò che il tempo ed i fatti assicurino l'E. V. che io so tutto sacrificare al compimento di un dovere.
» Di Vostra Eccellenza,
«Firenze, li 28 ottobre 1872.»
» umilissima devotissima
» Erminia Fuà Fusinato.»
.

Ferma di adempiere al suo dovere si recò tosto al suo ufficio, che compiè con le cure e con l'amore dell'anno avanti se non maggiori e con fastidi e dolori ben più grandi; chè, per bontà avesse nell'animo, non poteva non esserle increscioso vedersi soprastare colei che l'anno prima le era uguale, e che niuna ragione adonestava le fosse ora stata, con tanta mortificazione della sua dignità, anteposta. E a meglio intendere i secreti patimenti dell'Erminia, giova dire come le due donne fossero d'ingegno e di natura diversissime. Di animo piuttosto virile anzi che no, più usata dell'altra al tumulto del mondo, di modi recisi che qualche volta scemar pareano la femminile grazia, non troppo forse apprezzatrice della quiete della famiglia, la Milli non era per avventura quella che potea riuscire la compagnia meglio acconcia della Fusinato; della Fusinato, semplice, schietta, modesta, che, notrita tra i fiori del suo giardino, ne avea rubato il sorriso a infiorarne la casa, nella cui quiete amorosa si teneva beata; della Fusinato, che del mondo non cercava se non l'opere belle, e s'atteggiava a mestizia se come un'eco lontana le feriva gli orecchi il grido delle colpe e delle vergogne di lui, e che era tanto inconsapevole di suo valore, da meravigliare dell'ossequio e delle onoranze che ricevea.

Ma se non mai avrebbe osato compararsi con lei, non per ciò ne segue che la Fusinato (ch'era sempre sì affettuosamente cordiale con qualunque persona fosse pur da meno di lei, e che parea si affliggesse che altri, tenendola da più, temesse sempre peccare di soverchia dimestichezza usando con lei) non ne segue, diciamo, che ella non dovesse sentir dolore chè la Milli volesse maggioreggiare, o ne avesse almen l'apparenze, giacchè noi non crediamo davvero che fosse per intendimento o proposito che ne avesse, ma per un cotal abito appunto che venia da natura (1) Una cosa ci piace qui maggiormente dichiarare, che la Erminia non avèa alcuna invidia della Milli, che sempre avea stimato ed amato; e nulla meglio a ciò mostrare che qui trascrivere alcune parole ch'ella scriveva all'amica Mander quando le raccomandava di raccogliere offerte per essa al tempo che l'Italia cercava di costituirle una rendita: «…anche se l'offerta non sarà abbondante, verrà accolta sempre con viva riconoscenza, tanto più che mai forse come oggi la povera Giannina si trovò bisognosa di soccorso, essendo da molto sofferente, e dovendo pure pensare al mantenimento della famiglia numerosa e malaticcia». (Lettera inedita del dì 13 di luglio 1864). La Milii non conosce certo questa lettera, ma se la legga, ne vorrà sentire commuoversi l'animo.. Ben può essere che, tanto maggior era la modestia della Fusinato e meglio appariva il valore del suo ingegno e la efficacia del suo insegnamento, e più quel valore e quella efficacia splendeano della virtù dell'animo, che ne avesse ingenerata una tal qual molestia per la Milli, che non avea forse caro che altri le stesse del pari, ma pur le venisse subito dietro.

Il perchè, essendo venutasene in gran malinconia, altro non dovea la Fusinato se non vivamente desiderare, che, pervenuta alla fine dell'anno scolastico, potesse risegnare il suo ufficio, senza ombra di dispetto, e pur mostrando come la dignità voglia esser serbata integra. E, aspettando che ciò fosse, volse tutto l'animo e tutte le cure a vedere di recare ad effetto un'idea che da più tempo, nel suo affetto a Roma e all'Italia, le s'aggirava nelle mente e signoreggiavale il cuore, la istituzione di una Scuola superiore femminile, la quale poi surse appunto per lei, e della quale, perchè l'opera maggiore di lei, diremo parlando della Fusinato nella Scuola.

Alla fine dell'anno scolastico resignava l'ufficio di maestra alla Scuola normale (1) Lettera inedita del dì luglio 1873, allo Scialoia, nella quale tra le altre parole, si leggono queste: «Al punto in cui stavano le cose non mi rimaneva che provare all' E. V. coi fatti, dopo avere indarno sperato di provarlo anche con le parole, come ogni considerazione individuale * Individuale in questo significato è errore: dirai Personale. per me sparisca di fronte ** Non certo elegante è l'uso di questo di fronte, e occorreva volgere in altro modo la frase.» al dovere. Non voglio però tacere all' E. V. che ciò che mi rendeva meno arduo il compimento di questo dovere era il proposito di rassegnare, come rassegno, compito l'anno scolasti co, all' E. V. le mie dimissioni *** Dimissioni, è voce brutta: di' Rinunziare, Rassegnare l' ufficio.»., e pochi giorni dopo (2) Il dì 25 di luglio 1873. ebbe la novella che il Consiglio comunale di Roma l'avea eletta direttrice della futura Scuola superiore, nel modo meglio onorifico, con pienezza cioè di voti secreti: ed essendosi omai saputa la cosa, lo Scialoia le scriveva una lettera in cui accettava la sua renunzia con una mellifluità di parole che non parea serbasse memoria di quanto era occorso (1) Lettera particolare inedita del dì 27 di luglio 1873, col N. 5301..

Se non che qui è ben da notare come, prima di accettare il nuovo ufficio, ella non solo ne andasse per consiglio al padre ed ai fratelli, ma ella lor dichiarasse non volere dipartirsi dal loro volere. È una meraviglia vedere con che affetto ne scrivesse al suo Arnaldo, ella, che omai fatto sacrificio della sua vita per salute della famiglia, potea parere a molti non avere più d'uopo di chiedere ad opere buone consiglio, e molto meno licenza. Ma l'Erminia avea fermo nell'animo non essere mai condizione di cose che scemi in donna la riverenza e i doveri di moglie e di figlia, e guai a lei che non ne porge continuo l'esempio ai figliuoli (2) «In quanto alla famiglia, tornando a Padova, fa di sentire il papà.—Povero uomo! io aveva indarno sognato di essergli vicino nella sua vecchiaia!… Insomma pensa al pro e al contro di questa possibile combinazione, e pensaci seriamente che finora siamo liberi di noi» (E. Fusinato, lettera Ad Arnaldo Fusinato, del dì 10 luglio 1873, in Molmenti, op. cit. pag. 218). «Parla coi nostri e decidi sull' accettazione o sul rifiuto.—Ti ripeto che io sto alla decisione tua e vostra…». (E. Fusinato, lettera Ad Arnaldo Fusinato, del dì 23 di luglio 1873, in Molmenti, op. cit., pag. 219).
Ma nulla meglio che qui porgere la savia ed affettuosa lettera che scriveva al fratello, avvocato Eugenio Fuà, la quale, siccome parla appunto dei casi occorsigli nella vita sua, i quali la portarono all'insegnamento, ci sembra di non poca importanza:
«Caro Eugenio,
» La tua lettera mi fece piacere, perchè mi prova il tuo affettuoso interessamento * Interessamento è orrenda parola; dirai: Premura, Cura, Pensiero. per me e per i miei. Premetto questo affinchè tu conosca che quanto ti dirò, e qualunque abbia ad essere la decisione che le circostanze possono persuaderci, serberò grata memoria di queste tue parole. Da molto tempo non ti parlavo di ciò che potrei fare, per due ragioni: primo perchè non erami stata fatta formalmente la proposta che il Municipio ha in animo di offrirmi: secondo perchè troppo mi duole che tu ed altri nostri, possano credere che io, domandando un consiglio, abbia la deliberata volontà di fare poscia ciò che mi garba. Le circostanze possono forzarci ad apparire poco logici, ma non avendo noi materiali interessi suddivisi, io non so come e perchè potrei fare simili ipocrisie. Credo che pensandoci tu non lo possa credere, e perciò non ne parliamo.—Ma è d'uopo, a sola mia giustificazione, che, prima del presente e dell' avvenire, io ti parli del passato: lo farò brevemente.
» Quando mi colpì un disastro economico, che sulle prime pareva ad Arnaldo fosse maggiore, tu sai, ed ora me lo ricord, che pensai di riunirmi a tutti voi. Fu il primo movimento, che se, oltre ai conforti morali, da questa unione me ne fosse derivato per la famiglia anche qualcheduno d'economico, io non l'avrei creduta cosa indelicata, * Indelicata, non esiste; poteo qui dire, Sconveniente, Men che onesta, ecc. perchè sarebbe resultata senza danno d'alcuno, e come frutto dell'unione, e dell'opera mia. Anche la diversità del clima non mi spaventava, appunto perchè, come tu dici, quello di Firenze poco mi si confaceva, e poco ci avevo a perdere. Tu anche su quel progetto * Progetto non è certo bello, e meglio è usare Disegno, Proposta, Intenzione secondo i casi. mi facesti delle considerazioni saggie, e sai che fu per giusti motivi, non per capricci, che quel progetto *** Vedi la nota innanzi. venne abbandonato. Ma io stavo male anche fisicamente, e in quel momento, poichè non faceva opportuno l'unirmi alla famiglia, sperai far bene accettando d'entrare nella nuova via spontaneamente dischiusami dal Correnti. L' aria di Napoli e di Roma mi guarì, e dal mio primo puerperio, in cui mi colse la miliare, passai finalmente due invernate senza tosse! Tu sai che prima un polmone cominciava ad essere leso. Accettai l' ufficio d'insegnante solo come scala ad altro meno faticoso, o, se non altro, superiore e meglio retribuito. Affaticai perchè nuova; pure la fatica non nocque alla mia salute. Cadde il Correnti, ma dopo quanto era seguito, e che sai, non potevo d'un tratto lasciare l'inseg namento, e far forse credere a meschini puntigli. Tornai, nè ad ogni modo mi dorrà di aver passato anche questo anno scolastico a Roma: 1.°ree; Perchè non ebbi un giorno di letto. 2.°ree; Perchè credò ai figli non possa nuocere il vedermi lavorare. 3.°ree; Perchè ho la coscienza di aver fatto il mio dovere, e di lasciare una memoria grata ed onorata come in seguito vedrai., Però a questo punto ho d'uopo di dirti una cosa: Parve che alcuno credesse che la vanita mi avesse spinta e mi tenesse in questa via. Ti prego di ricordare a chi potesse pensarci, ch'è il più grave torto che si possa farmi. La vita che sempre condussi no mostra?… Quando la condizione economica e l'età, e la benevolenza della società mi spingevano quasi a vita diversa, l'ho io mai tenuta?… Quando fu che mi gettai fuori dalle più casalinghe consuetudini Quando la possibilità di trovarmi povera me lo persuase. E che ho io fatto in questi due anni? Nota solo come scrittrice di versi, mancante d'istruzione ordinata e scolastica, da me solo trovai il modo d'insegnare, mi acquistai la riputazione di buona e seria insegnante, e la suggellai con una pubblicazioncella didattica già approvata dal Consiglio degli studi superiori di Firenze (e che presto ti spedirò) e mi trovo disegnata come la Direttrice del grande Istituto * Meglio Scuola, chè Istituto è Accademia. che si fonderà in Roma. Se questa è vanità nol so: a me pare d'aver fatto bene perchè son certa che Teresita farebbe all'uopo ciò che mi vide fare, perchè ajutai ad aprire una via onorevole alla donna, perchè lo scopo che mi vi spingeva era più che tutto quello della famiglia. Dalla mia dimora in Roma sai che derivò anche la fortuna dei Fidenti. Mi dolse di aver lontano Guìdo, ma questo, è giusto confessarlo, gli giovò grandemente, e fu senza peso economico. Se penso ad Arnaldo e penso al suo stato morale di due anni e mezzo or sono, trovo che il movimento, la speranza, l'occupazione l'hanno salvato da uno scoramento che poteva riescirgli funesto. La vita ritirata che condussi e conduco risponde a tutto il resto. Alvisi, Carraro, Pastro, ed altri mi volevano mandare in climi come questi per salute, quando quasi disperavano di vedermi sana del tutto. Ci venni chiamata per lavorare, eppure mi giovò egualmente. Non posso averne la coscienza tranquilla? Ricordo tali fisiche sofferenze che parmi un sogno averle superate.
» Venendo al presente già ti è noto che questo ufficio ad ogni modo nol terrei che fino alla fine dell'anno scolastico, il che significa fino a luglio. Ma c'è da considerare s'io debba rifiutare il posto che mi si offre. Credilo! Una decisione non l' ho presa. Correnti ed altri amici si misero a capo della Commissione promossa dal Municipio affine di affrettare per me questa istituzione. Correnti (non tel nascondo) mi dice che rifiutaria sarebbe opera di cattiva ciitadina, e dannegerebbe la salute e le famiglia mia, non tanto materialmente quanto per l'influenza ** Influenza per Autorità è già uno strafalcione; qui poi è un doppio strafalcione perchè tirato a un significato che non ha neppure nel suo mal uso, cioè di Amici e Amicizie potenti, autorevoli., ecc., ecc.—A me potrebbe restare la speranza che, ora che non tosso da mesi, neanche un clima più freddo potesse recar danno. L'essere vicina a voi tutti mi compenserebbe d'ogni soddisfazione non dirò di vanità, che te lo ripeto, spero non meritare che mi si creda così piccina, ma di giusto amor proprio.—La vita a Roma non mi costerebbe di più, perchè, pare, avrei l'alloggio ed una paga conveniente alla mia condizione, essendo che all'emolumento fissato alla Direttrice, si aggiungerebbe una somma per me personalmente. Nell'estate avrei tre mesi di vacanze, e potrei fissarli io, perchè nulla si farebbe senza il mio consentimento: si sa che questi tre mesi li passerei nel Veneto. Ma se questi sono vantaggi, ci sarebbe sempre il dolore di esser lontana da molti esseri cari, nè questo dolore può trovare compensi degni.
» Guardiamo dunque la possibilità di combinare * Combinare per Accordare, Accomodare, e anche se vuoi Concertare è errore. le cose in altro modo, poi spero tu stesso mi assisterai nel giudicarne. Venendo a vivere con la famiglia non crederei possibile l'abitare nella casa paterna, chè senza qualche ristauro, non si presterebbe ai molti bisogni di noi tutti, nè alle esigenze di una salute delicata che ha d'uopo del sole. Duolmi esser così, ma voglio star bene anche per non dar pena a voi tutti. E poi i miei figli, confrontati ad altri, non si possono dire cattivi; ma sono ragazzi, e se talvolta danno noja ai genitori, come potrei pretendere che altri ne tollerasse dì e notte l'irrequietezza pur necessaria? E poi v'è un' ultima questione che ti faccio come se ti parlassi, e vergognandomi di farla; ma ormai la vita mi ha insegnato troppo, perchè non indovini tutte le spine che può dare. Tu dici che all'Eloisa rifiutaste ciò che forse accordereste a me; questa preferenza potrebbe mai turbare quell'intima armonia che regnò sempre, che deve sempre regnare tra noi?… Lontani si va d'accordo senza virtù, nè fatica, vicini si veggono come macchie quei nei che a poca distanza vanno perduti e che tutti abbiamo!… E poi sentine un'altra delle cose che mi pungono il cuore: Asson, che amo e rispetto e cui serbo I iconoscenza incancellabile, crede che venendo a Padova si volesse speculare su lui. Egli è solo e di ciò si duole: perchè guardare dal lato peggiore un pensiero non formulatogli mai e che gli si sarebbe presentato solo quando altri tentativi consimili fossero a lui falliti, e senza danno d'alcuno, e con la persuasione, la convinzione ** Vocabolo nuovo che non ha e non può avere mai il significato di Persuasione, Credenza, Certezza. di fargli trovare qualche famigliare conforto?… Ma se l'offrirmi a' miei come compagna, figlia, sorella, e poter in tal modo non essere disutile anche ai figli, potesse parere un calcolo d'interesse * Calcolo usò anche il Giusti, ma fece male e va detto Per discorso di ragione, Ragionamento, e qui bastava dire «Per utile, vantaggio proprio,» chè anche Interesse non ha questo significato., oh! non sarebbe meglio ch'io lavorassi come posso fare, come mi si prega di fare da tanti che stimo?… Scordati che cosa mi sei, credi alla mia sincerità, rispondimi senza timore, nè reticenze. Una delle mie più grandi affezioni è per nostro padre; che mi gioverebbe il fingerlo? Essergli vicina ora che l'età gl'incomincia ad essere grave, mi sarebbe conforto grandissimo, specialmente ove da questa vicinanza egli avesse co nsolazione, non noje, ove mi potesse veder sana, non in un letto come tante volte.
» So che ogni condizione offre delle spine, perciò qualunque sia la risoluzione ch'io possa prendere, so che inevitabilmente avrò qualcheduna di quelle amarezze che non si possono evitare quaggiù. Ma una compiacenza vorrei ad ogni modo mi rimanesse: quella di non apparire nè capricciosa, nè vana, quella di convincere i miei che cerco di fare il meno male che posso, che i miei primi pensieri sono per la famiglia. Se un giuramento potesse crescer valore alle mie parole, potrei farlo per assicurarti che ti parlai senza badare che a ciò che io sento.
» Ma tu non puoi dubitare di quanto io dico, che se posso avere fatto qualche cosa che a tutti non potesse piacere nella vita, di finzione non mi si può accusare, e credo che in complesso se mai alcun errore commisi, lo si possa perdonare dopo che la sortes' incaricò di darne delle espiazioni forse non indegnamente portate.—Ti scrissi a lungo come suol far sempre chi scrive in fretta. Ma già avrai pazienza, e questa lettera non è che per te.
» Del resto intanto posso dirti che tutti stiamo bene, anche la piccola che è a spasso col babbo. Ottime nuove di Guido. Arnaldo ebbe da Meynadier padre una lettera nella quale gli dice che non sarà a Padova che in giugno. Ti prego di dire a Coletti che rimandai dal Ghivizzani e che l'affare nel Consiglio verrà trattato dal Mauri, cui già venne raccomandato. Ti riscriverò presto ma non tali lasagne. Tu pure scrivimi l'animo tuo e ad ogni modo te ne sarò grata. Bacia il papà, saluta tutti per tutti noi e credimi
» tua aff. Erminia.
» PS. Perchè tu vegga come finora non abbia non solo non accettato nessun impegno, ma come anche la mia se non decisione, propensione sia in famiglia, t'includo una lettera del Conte Guido Carpegna, assessore per l'Istruzione pubblica, cui avevo significato tale proposito, persuasa che in fondo, ove tutto si sistemasse per bene, e la mia salute non ne soffrisse, Arnaldo sarebbe lieto anch'esso di ritirarsi a Padova. Egli non s'è peranco deciso sull'impiego offertogli.
. E noi non sappiamo qual più bell'esempio proporre di questo all'italica gioventù, in un tempo, che, non anche quasi rasciutto il latte materno in sulle labbra, cercano scappucciare via, e, insofferenti di ogni freno, vivere a lor senno, quasi la libertà debba esser licenza, e non abbia principal fondamento nella paterna autorità e nell'ordine delle famiglie.

Fu intanto dal luglio ai primi di ottobre a novembre, godendo le buone aure fiesolane, ordinando i domestici affari, compiendo qualche lavoro promesso, e deliziandosi ad ora ad ora nella bella compagnia del Tommasèo, del Vannucci e del Capponi, che negli ultimi giorni anzi la partenza per Roma, diceale: «Vada a Roma, e cerchi di lavorare anch'ella pel bene del paese. L'andare a Roma nel modo che volle o seppe il nostro governo, non mi persuase; ma ora conviene starci ad ogni costo» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 27.. E tolta seco la sua Teresita e lasciato Guido ad Arnaldo, che ricondotto l'avrebbe al collegio in Venezia, venne a Roma ove l'attendeano fatiche maggiori che creduto non avea e dolori impensati, non mancando mai coloro, che, non capaci a ben fare, alle belle opere ingiuriosi contrastano.

Comunque fosse si apriva solennemente la Scuola il dì sesto di gennaio, e da quel dì l'Erminia non visse che per essa e per la sua famiglia. «Scuola e famiglia,» scriveva, «hanno diritto ad ogni mia cura, ed io consacrerò ad esse la vita, che ancora mi resta, e che così forse mi scorrerà confortata dal lavoro incessante» (2) Ivi, id. id., pag. 61.. E il lavoro era davvero il suo conforto (3) Ivi, id. id., pag. 39.. E se rimaneale alcuno spazio di tempo, ne usava per andare ad udire qualche lezione di dotto maestro, o fosse all'Istituto geografico uno splendido discorso di Cesare Correnti, ch'ella chiamava il Cellini della letteratura (4) Vedi Ricordi ed. cit., pag. 33., o fosse all'Università una bella lezione del Mamiani, ch'ella scrivea avere «il vigore intellettuale e la fede e gli entusiasmi giovanili, che manifesta con la parola tersa ed elegante, con la sicurezza dello scienziato e l'amore dell'artista» (5) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 38, e dell'andare ad udirlo diceva: «far veramente festa anch'essa.»; ovver si recava visitando gli stupendi monumenti di che l'arte pagana ancora meraviglia il mondo, e innamorata dell'arte le crescea diletto andar nello studio di valenti artefici (6) Le era segnatamente giocondo «andar vedendo i meravigliosi gioielli del Castellani, dei quali ben può dirsi cbe la materia è vinta dal lavoro,» e dove ella trovava «la storia della orificeria Italiana in quelle due stanze, che racchiudono tesori forse invidiati dai re.» (E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 42). Nei Ricordi, pagg. 34-35. della Fusinato puoi pure leggere come in una visita a questo studio ne avesse grazioso dono con gentilissime parole..

Ai primi giorni di luglio, terminato gli esami, che le procacciarono interne compiacenze (1) E. Eusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 11., andò con Arnaldo e Teresita a Padova per le feste secolari del Petrarca e poi a Venezia, ove subito vide il suo Guido, e poi riabbracciò Gino, che venia più tardi da Roma, in cui avea dato con gran lode gli esami di licenza liceale. Eravamo anche noi in quel tempo in Venezia e ricordiamo ancora le liete ore passate con lei, visitando scuole, ospizi, e ricoveri pii; e ancor ci tornano in mente le liete giornate passate al Lido, e le liete sere discorse o fra amichevoli crocchi in sulla stupenda piazza di san Marco, o solcando la laguna dietro a una compagnia di cantori viennesi venuti per diletto e per beneficenza a Venezia (2) Vedi nei Ricordi, ed. cit., pag. 42., o alle geniali veglie della contessa Labia, dove si accogliea il fiore degli ingegni, e venia allora tra gli altri Ernesto Rossi, che deliziava tutti declamando il Dante, e più spesso cantando arie ed ariette di opere buffe, dacchè allora si tenea molto della sua voce. Come tutti le facevano festa, e primo fra tutti il Maffei, «dai bei capelli lunghi e bianchi che gli danno un' aria dolce e venerabile!» (3) E. Fusinato. Ricordi, ed. cit., pag. 36.. Come intorno a lei si facea ogni cosa sereno e ridente! E che bel giorno fu quello che all'Ateneo Veneto leggeva, supplicata, il suo scritto intorno la Laura del Petrarca, davanti a una sala gremita di gente, chè quanto avea in quel dì, per istudi e per ingegno, di eletto Venezia, erano voluti venire ad udirla, e sino il valoroso poeta Angeloni Barbiani, che da anni e anni per salute non usciva di casa, fatta forza a sè stesso, volle essere del bel numero uno. E veramente fu dolcezza meravigliosa sentire quella voce armoniosissima con soavità di graziosa modestia ragionare di Laura, e in facile eloquio discorrere alti intendimenti di amore (4) E come era bella quel dì (9 di agosto 1874) che presentandosi alla fregata Venezia la nazionale bandiera, dono delle donne veneziane, mentre le altere patrizie venete (tra cui quella che osava rifiutare nel 1880 la sua soscrizione per implorar la grazia della Jesse Helfe dall'imperatore di Russia) se ne stavano in privilegiato luogo sopra coperta sdegnosamente appartate; come era bella quel dì che intorno a lei donnescamente graziosa facevan corona le più colte cittadine, e quanti v'erano eletti ingegni, pregandola a dire que' versi bellissimi ch' ella avea composto per l' occasione e che i sopracciò * Sopracciò. ci diranno che noi dovevamo scrivere soprintendente. Sapevamcelo: ma qui a noi piace usare il primo che dice quello che non dice l'altro. della festa, tutti intenti a corteggiare le divinità dell'Olimpo celeste, si erano dimenticati di invitarla a recitare. Chi può ridire gli applausi il trionfo che si ebbe? Era il trionfo dell' ingegno sulla povera boria della tarlata vanità veneta..

Ma se di questa vita traeva giovamento allo spirito, poco o nulla se ne rifacea il corpo, e, nulla rinvigorita, affaticata e mesta (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 43., venuto appena il settembre, andò a Firenze per occuparsi dei domestici affari, i quali (sebbene avessero volto in meglio, chè Arnaldo aveva potuto allogare a condizioni assai buone il teatro delle Loggie alla compagnia filodrammatica dei Fidenti) ancor volevano moltissima cura, e dove stette tra il letto e il lettuccio moltissimo tempo, e dove le fu assai doloroso veder partire il suo Gino per fare un anno di servizio volontario nell'esercito nostro (2) Id. ivi, pag. 44.. A mezzo ottobre fu in Roma, ove si sentì «prostrata più che mai di corpo e di anima» (3) Id. ivi, ed. cit., pag. 46., e dove una guerra sleale mossa alla nuova scuola ebbe non picciola parte a farla essere più giorni malata.

Pur si riebbe, e il dì 22 di novembre 1874 lesse il discorso per la riapertura della Scuola e la dispensagione dei premi; ma le fatiche del reggimento di essa, alle quali si era accresciuto l'insegnamento della morale, la fecero ben presto ricadere malata (4) Id. ivi, ed. cit., pag. 49.. E pur fra tanti dolori dell'animo ripensava le consolazioni, che Iddio le avea concesse, la buona condotta dei figliuoli, l'affetto delle scolare (5) Id. ivi, ed. cit., pag. 50..

Ma la vera e profonda consolazione l'ebbe davvero la Erminia nel dì 22 di febbraio 1875, la quale si potea dire l'effetto del suo esempio e dell'opera sua.

Fu detto che il buon marito fa la buona moglie; vero; ma non meno vero che la buona moglie fa il buon marito: essa avea scritto un giorno ad Arnaldo: «Il vedere che da un punto all'altro posso dire: mi guadagno il pane, è tale compiacenza che non la potrei significare» (1) E. Fusinato, lettera Ad Arnaldo Fusinato, del dì 10 di novembre 1874 in Molmenti, op. cit., pag. 222.. Nè dopo queste parole, Arnaldo, sebbene a lui (ce lo lasci dire che torna ad onor suo) non piacesse durare altra fatica, se non quella non lieve del non far nulla, avea troppo cuore e sentimento di sua dignità da rimanere inoperoso, e come prima potè avere un officio, e averlo onorato e degno di lui, accettollo (2) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 50. Era stato chiamato all'ufficio di Direttore della stampa al Senato del Regno.. Difficile è a dire quanto ne fosse lieta l'Erminia, e perchè le piaceva vederlo occupato e perchè vedea tornar certezza la speranza di acconciare le domestiche cose (3) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 50.: e veramente fu a ciò aiuto non poco.

Dati gli esami nel luglio, nei quali la sua Teresita si fece onore assai, fu a Padova al natalizio del padre, e, passato alcun tempo a Venezia, a Firenze, ove si celebravano le feste di Michelangiolo, e dove noi, portati dall'animo irrequieto a tentar la ventura sulle rive del Nilo, le demmo l'addio che doveva esser l'ultimo. E la sua salute impeggiò, e non potè andare alla festa del Collegio d'Assisi, per cui tanto si era adoperata, e anche giunta in Roma fu più giorni non bene.

Intanto la scuola fioriva; alcune lezioni morali intorno la famiglia, allora stampate le procacciavano gran lodi (4) Id., ivi, Ricordi, ed. cit., pag. 85.; la Principessa Margherita pria di partire per cinque mesi da Roma volea dirle addio (5) Id., ivi, ed. cit., pag. 86.; i dimestici affari eransi quasi pienamente acconciati; i figli, provando di sè, le incoravano le bellissime speranze (6) Vedi Ricordi, ed. cit., pag. 84.: la stessa salute parea rifiorirle; in una parola la vita parea un'altra volta sorriderle come forse neppure nella prima giovinezza arriso le avea.

E tutta lieta partiva da Roma il dì 19 di luglio 1876 per Padova, ove presto si sentì stanca e malatticcia: di lì andò a Venezia a riabbracciare il suo Guido, che, sostenuto l'esame di licenza liceale, dovea sempre rimanersi con essa; a Venezia, dove la visitarono e rallegrarono il padre, la sorella Eloisa, il fratello Eugenio (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 91., ove il Maffei, le ricordava il passato con dolce commozione (2) Id., ivi, ed. cit., pag. 91., ove Margherita di Savoia le parlava del figlio Gino, ufficiale nell'esercito, al quale la Principessa dicea tutti volere bene (3) Id., ivi, ed. cit., pag. 91.. Ma ella non stava bene e per salute andò ad Arsie, «dove ebbe origine la famiglia di Arnaldo; e dov'egli veniva, fin da fanciullo, a passare l'autunno» (4) Id., ivi, ed. cit., pag. 91-92., umile paese, se non per la schiettezza degli abitanti, per l'aria, le acque dolci e fresche e per la campestre libertà le era carissimo starvi, e che vi fossero i figliuoli «talvolta almeno lontani dagli artifici, dalle convenienze della vanità cittadina, a viso a viso, per dir così, coll'immensa natura» (5) Id., ivi, ed. cit., pag. 92.. Lì il suo arrivo e quel d'Arnaldo fu grandemente festeggiato da que' del paese con musiche e feste (6) Id., ivi, ed. cit., pag. 92.; ma ella era stanca e sorrideva ai medici che volean persuaderle le acque di Levico, temendo non aver le forze di andarvi (7) Id., ivi, ed. cit., pa 92.: le forze del corpo; chè non mai le mancarono quelle dello spirito; sì che, vedendo i giovani che, lietamente cantando, givano sotto le italiche bandiere, dettava la bella poesia I coscritti (8) Id., ivi, ed. cit., pag. 318., e, vedendo partire per l'America. non pochi montanari dei dintorni di Belluno, scriveva l'altra intitolata Gli emigrati (9) Id., ivi, ed. cit., pag. 320., e dopo poco I pastori (10) Id., ivi, ed. cit., pag. 322., e questo era l'ultimo suo canto, il canto del cigno.

Venia l'autunno, e temendo del freddo, e che per mala salute potesse venir meno ai doveri suoi, tornava a Roma, pur credendo sentirsi meglio (1) «O ra sono rimessa dalle sofferenze avute,» scriveva nei suoi Ricordi (pag. 92), a dì settembre 1876 «e mi sento abbastanza bene.—Potessi rendermi a Roma e all'ufflcio mio in buona salute.», ed era illusione che dal desiderio movea: e il male covava, e si facea pure a quando a quando sentire cosicchè lasciando le sue dilette venete terre scrivea: «Temo che non ci tornerò ove non mi ci chiami un alto dovere, perchè troppo mi spaventa la prospettiva (2)">Meglio avrebbe detto; Non vedendo altro avanti a sè che i segni di una malattia. di ammalare (come si spesso mi avvenne) fuori di casa. Lascio tante persone, tanti animi afflitti!.. il papà sente omai i molti anni; non può avere l'assistenza, i conforti che gli sarebbero necessari.—Ma, anche vicina, a che gli potrei giovare con la mia scarsa salute?.. Saluto questi luoghi, questi esseri diletti, come fosse l'ultima volta che li rivedo!» (3)">E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 93-91..

E pur troppo fu l'ultima volta: giungeva a Roma il dì 23 di settembre, e subito gravemente ammalava; i parenti tutti, in gran diligenza chiamati, erano attorno al suo letto, e in mezzo ai suoi cari l'ultimo giorno di quel mese spirava.

La novella della sua morte (non magnifichiamo, ma tentiamo aggiungere al vero) percosse tutta la città, e correndo l'Italia parve di nazionale sventura. «La povera Fusinato,» scriveva Domenico Berti (4) Lettera al comm. Pignetti in Luigi Cherici, Cenno necrologico di Erminia Fuà Fusinato stampato nella Rivista mensuale l'Istruzione Secondaria, anno 1.o, fascicolo 2.o, Firenze, Cellini e C., 1876, a pag. 113., «è tolta per sempre alle lettere, all'Italia, alla famiglia, agli amici. È un tesoro che si è perduto. Poche donne le potevano stare a pari per altezza di sentire, e per profondità e vastità di giudizio, pochissime e forse niuna l'uguagliava nel comprendere l'indole e la importanza della edu cazione e della coltura femminile. Senza di lei la Scuola della Palombella (5) La scuola superiore femminile così allora chiamata dalla strada in cui era posta. non sarebbe sorta, e Dio faccia che senza lei possa mantenersi salda e continuare con larghezza nella sua opera educatrice. L'ingegno della Fusinato era grandissimo, il suo criterio limpido e retto, il suo cuore profondamente affettuoso, la sua volontà energica e perseverante. Capiva con straordinaria facilità quanto le si esponeva, e le idee ricevute, maturava, chiariva e recava a perfezionamento. In tanto tempo che la conobbi non udii mai sulle sua labbra un paradosso; nè una parola che si scostasse dalla verità, e mai la vidi far atto che non fosse lodevolissimo. Quindi la perdita è molto maggiore di quello che proclamò la pubblica voce…»

Povera Erminia! Partendo da Arsiè, scriveva: «Se avrò qualche anno di vita, potrò, sistemati i figli e gli affari di casa, e consolidata la prosperità della mia scuola, recarmi a vivere in un paesello tranquillo, ove l'aria sia mite, la natura ridente, e possa gustar pace prima di morire» (1) E. Fusinato, Ricordi, pag. 93.. E invece ell'andava a Roma a posare in composanto, ove cento e cento giovanette l'accompagnavan piangendo, ove l'accompagnavan gli amici, fra cui quanti per ingegno, per istudii, per opere, avea allora di più eletto in Roma. Ma che dire le scolare e gli amici? Tutta Roma seguitava quel feretro, a cui i Padri sedenti in Campidoglio ordinavan publici onori, cosicchè Roma non avesse mai veduto i simìli per donna regale: tutti piangevano; e noi ora scrivendo abbiamo le lacrime agli occhi, noi che in straniero paese da te tanto lontani, o dolcissima Erminia, non potemmo essere al tuo letto prima che tu spirassi, non anche una volta contemplare quel tuo carissimo volto, non con i figli tuoi darti e ricevere l'estremo saluto… A noi giunse la novella della sua morte prima di saperla malata! (2) E pure (incredibile a dirsi) nel giorno stesso, che tutta Roma l'accompagnava piangendo all'estremo riposo, una maestrina, non oseremo nomarla donna, mandava al Sindaco di Roma una petizione, chiedendo di essere eletta in luogo della Fusinato a direttrice di quella Scuola femminile superiore. Il Sindaco Venturi stracciava sdegnato la invereconda dimanda..

§ VIII. Potrebbe ora parere ad alcuno che noi avessimo fornito il dir nostro intorno alla vita della Fusinato nella famiglia, se non che incompiuta riuscirebbe la narrazione di sue virtù se noi non toccassimo partitamente alla estimazione in che fu avuta, alle onoranze che in ogni tempo ricevve, e sovra tutto all'indole e ad alcune singolari qualità che questa carissima donna si ebbe; alla quale all'incontro il più gran piacere che potessero fare i suoi amici fu di farle conoscere i suoi difetti (1) E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander, del dì 26 di dicembre 1856., e la cui vita fu un sacrifizio continuo, e cui tutto solazzo a Roma era una passeggiata al Pincio o in villa Borghese (2) Vedi E. Fusinato, Ricordi. ed. cit, a pag. 51 e 75..

Nell'amicizie fu salda, non facile (3) «Io sono poco loquace,» scriveva, «poco espansiva, ma forse per conseguenza tenacissima nella memoria come negli affetti.» (E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander Cecchetti, del dì 25 di novembre 1878).: ma con tutti cortese, e, senza guardare a opinioni, nè a parti, a quanti meglio potea benefica. La cortesia era abito in lei, e sopra tutto la usava in famiglia (4) Per questa nelle sue Lezioni di Morale (Scritti educativi, ed. cit., pag. 89) si legge «che ciò che verso gli altri può parere sfoggio di cortesia e forse anche di virtù, non è verso i congiunti che puro dovere.». Il far del bene in lei era natura e bisogno; e la sua vita è un esercizio di opere buone, chè chi legga i suoi Ricordi e le sue lettere ai parenti e agli amici potrà farne un libro; noteremo solo questa: negli ultimi giorni di sua vita si studiava di far rendero giustizia a due uomini di parte diversa, e di loro scriveva: «di due partiti dirersi, direbbero gli uomini politici, è vero! ma d'un partito identico, dico io, quello dell'onestà, che per me sta sopra tutto e tutti!» (5) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 84.. Ma ella avea scritto per regola di sua vita: «Bastare a sè stessi e consacrarsi agli altri, ecco come si dovrebbe essere» (6) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 14.. E non solo fu caritatevole nell'opere ma nei giudizi, chè, non facile a credere il male, i men buoni si studiava scusare e creder migliori assai che non fossero. E così era larga dispensiera di suoi beni con gli altri, e i benefici suoi, non sì fatti, obliava; così degli altrui serbava stabil memoria, e sì magnificava che eziandio i picciolissimi le paressero grandi (7) Vedi nei Ricordi (ed. cit.) a pagine 48, 64, 75, 76, 78, 84..

E perche l'affetto in lei era natural fiamma e vera, non mai fe' mostra, nè mai discorse in quelle leziosaggini, di che tanto si piacciono certe nostre signore, le quali poche non sono. Tra la gente studiossi sempre parere lieta, avvegnachè dovesse durarvi fatica, onde dicea, che coloro che più amava aveano il privilegio di vederla più mesta (1) E. Fusinato, Ricordi. ed. cit., pag. 6.. E pur con questi se ne tenea, chè «vi ha talvolta una specie di altera voluttà pur nel dire: io non incomodo alcuno coi miei lamenti» (2) Ivi, ed. cit., pag. 34, e vedi anche a pag. 19..

Ebbe ingegno vivace, che spesso si manifestava conversando nei motti arguti e festivi, che poi correan le brigate e ancor si ricordano. Narra il Molmenti che in una brigata, ov'erano parlamentari di parte diversa, ella disse scherzosa: «Come andrebbero meglio le cose noste se voi destri foste un po'meno sinistri, e voi sinistri un poco più destri» (3) P. G. Molmenti, op. cit., pag. 55.. Udendo parlare di un ricco signore, che si mostrava molto devoto di ballerine esclamava: «È un Mecenate che ricorda molto quello d'Orazio: l'antico amava le arti belle, e il nostro ama i begli arti» (4) Anche questo tratto è narrato dal Molmenti, il quale narra pure che in sua casa in un crocchio d'amici, biasimandosi un di la profusione di croci, che in quel tempo facevasi con gli uomini senza merito, e nessuna se ne desse alle donne che meritata meglio l'avrebbero, ella ne uscisse un istante, e poi tornasse recando un fogliolino, che porgeva al marito, il quale vi lesse:

«—Dica, eccellenza, si potria sapere Perchè, mentre ogni grullo è cavaliere, Donna non v'ha per quanto abbia cervello, A cui si doni un cencio di bindello? —Perchè le donne, caro il mio stordito, Devon portar la croce del marito.»

. E di sali, di motti festivi e di versi improvvisati rallegrava sovente le lettere sue quando scriveale in un momento di buon umore (5) Alla Mander, che ad ogni costo volea le facesse avere dei versi dal marito, il quale riflutava, scrivea: «Ad ogni modo vi prometto di riparlargliene, ma senza responsabilità e con quasi certezza di averne la stessa risposta, che il Santo Padre suol dare a chi gli domanda la libertà di Roma. Sapete che la è curiosa questa mia idea di porre a riscontro mio marito col Santo Padre. Ecco uno di quei casi in cui si può ben dire che gli estremi si toccano». (E. Fusinato, lettera inedita del di 9 di giugno 1864)..

Ma cara sopratutto lei facea la semplicità della vita, chè prima d'ogni altra cosa provvedeva al governo della famiglia, così che non sdegnasse le più umili faccende domestiche, nelle quali pur volea si adusasse la sua Teresita, chè in disprezzandole «la donna perde,» scriveva, «il suo vanto migliore» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed cit., pag. 16. «V'ha persona che la vide più volte correggere le prove di stampa in cucina.» Maddalozzo, op. cit., pag. 31..

E non mai nulla in lei che mostrasse consapevolezza di suo ingegno, di suoi studi, di sue virtù; onde anche a coloro, che le letterate dispettano, avvenisse, come ad Arnaldo, di ammirarsi di lei ed averla carissima (2) E questo avvenne fra gli altri ad Achille Mauri, che nell'agosto del 1869 le scrivea: «Avevo una volta una specie di avversione con le signore letterate, in faccia alle quali provavo sempre un certo imbarazzo, che non mi sapevo spiegare. La povera Brenzoni e la Milli me lo scemarono di molto. Ed ella me l'ha levato del tutto con quel suo fare spigliato e benevolo, con quel suo discorrere così alla semplice e condito di un brio cosi schietto.» Lettera inedita del dì 24 di agosto 1869.. E più ammirabil cosa si facea in lei la modestia, più si faceano grandi e spessi i segni di estimazione e le onoranze che da ogni parte e dalle persone più autorevoli a lei veniano. Senza dire che la lega per la istruzione popolare la volle nel suo Consiglio, che il Consorzio per la istruzione superiore delle donne la elesse suo presidente (3) Avea eletto a suo presidente ad honorem S. A. R. la Principessa di Piemonte, oggi Regina d'Italia. Il Chierici (op. cit., pag. 111), dice che l'idea prima di questo Consorzio venne a Domenico Berti., ci sia concesso dire, pur notando le liete accoglienze e l'affettuosa dimesticheza che ebbe per lei quella che ora è Regina d'Italia, l'onore, singolarissimo in donna, e ambito certo da qualunque più illustre uomo avesse allora l'Italia, di essere prescelta dal Municipio di Roma a suo rappresentante alle feste solenni che nel quinto secolare anniversario della morte del Petrarca si fecero in Arquà il giorno 18 di luglio 1874, e il dì appresso in Padova (1) Accettò riconoscente, ma non superba dell'onore, e, compiendo l'incarico avuto con singolare modestia, fu da tutti lodata la scelta, ch'ella, sempre severa con sè, temeva potesse non piacere ad alcuno. Vedi nei Ricordi, ed. cit., pag. 49).
Ecco ora la lettera che il Sindaco di Roma, che era pure allora quel singolare esempio di libero cittadino e di tenaci propositi che èl'illustre amico nostro, conte Pianciani, le scriveva deputandola all'alto ufficio:
«V. S. perchè cultrice nobilissima delle buone lettere e perchè dimorante costì, è stata eletta a rappresentare il Comune presso cotesto Comitato per le feste del sesto centenario del Petrarca, e pregata a presentargli una copia della epistola di Sennuccio del Bene sulla incoronazione di lui nel campidoglio, la quale si è fatta appunto ristampare in soli cinquanta esemplari per cotesta solennità. Da quel medesimo Campidoglio, over si custodisce la memoria delle cose più grandi di ogni tempo, si conferisce a lei il mandato di ricordare al predetto Comitato che Roma onora anch' esso l'altissima memoria; laonde confida che questo invito le tornerà gradito.» (Lettera inedita).
. Ed onori grandi le fecero in Arquà ed in Padova, cosicchè ella scriveva essere stati troppi (2) È un caso, una stranezza ch'io mi abbia sì vive le simpatie dei miei concittadini; che facendo sì poco raccolga tanto plauso. «(E. Fusinato, Ricordi, pag. 89.)—Anche per le feste Ariostee in Ferrara fu invitata a scriver versi, che, fece leggere e furono uditi con gran plauso in quella solennità, e le meritarono il dono della medaglia che per quel secolare anniversario fece stampare il Ministro della Pubblica Istruzione (Ricordi, ed. cit., pag. 61), e poi la splendita stampa della relazione che di quelle feste fece fare il Municipio ferrarese nel dicembre del 1875. (Lettera inedita del vicepresidente del Comitato Ariosteo Ad Erminia Fusinato del dì 27 di dicembre 1875. La poesia di che parliamo e impressa nel volume dei suoi Versi, ed. cit., a pag. 227.) Molte illustri Academie vollero dei suo nome onorarsi; ma a noi par vano recar qui una litania di nomi..

E a lei non mancaron davvero le lodi dei più schietti e più valorosi italiani, quali furono il Tommaséo, il Giannone, il Lambruschini, il Capponi, il Fanfani, e sono il Correnti, il Mamiani, il Maffei, il Carducci, il Tabarrini, il Prati, il Mauri, il Zanella… e noi ci staremo contenti a qui recare ciò che le scriveva pochi dì innanzi la morte di lei «quel semplice e grand'uomo,» cem'ella chiamavalo (3) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 44., di Atto Vannucci, perchè parola più veramente autorevole recar non è dato: «Sento spesso parlare molto bene di lei, e godo che i suoi uffici di madre affettuosa e sapiente a coteste tante figliuole siano degnamente apprezzati.

» Le auguro di poter continuare lungamente e gagliardamente in quest'opera santa.

» Anni ti dien gli dei. Chiedo sol questo «Perchè da te saprai prendere il resto» (1) Atto Vannucci, lettera inedita, Ad Erminia Fusinato, dei di 2 di gennajo 1876..

Una cosa dobbiamo singolarmente notare. Abbiamo detto come lei pure grandemente onorasse la Principessa Margherita, e, parlando della Scuola superiore femminile, vedremo come questa a quella scuola prendesse affetto e desse favore: ma qui cade acconcio dire come di ciò fosse non picciola cagione la simpatia ch'ella nutria per la Erminia. Nè per vezzo cortegianesco noi qui adduciamo il nome dell'or Reina d'Italia, ma perchè gran valore hanno le grazie e le cortesie dei Principi, comecchè siano effetto e riprova certa della publica estimazione, i quali, singolarmente nei tempi liberi, si studiano il popol seguire e crescere appunto in popolar favore. Per ciò noi dobbiam dire come la Regal Principessa volesse più volte vedere la Erminia; e nel febbraio e nel novembre del 1874, e nel dicembre del 1875 in Roma, e nell'agosto del 1876 in Venezia, e tutte volte con lei si stesse in affettuosi e importanti colloqui (2) Vedi nei Ricordi, ed. cit., alla pag. 47, alla 77, e alla 91.. Ma ci piace qui specialmente ricordare la visita, che le fece in Roma nel giugno del 1874, perchè testimonio del libero e dignitoso animo della Fusinato, la quale avea già scritto di sè «superbia e vanità non ho—ho un pò d'alterezza ma più per il mio carattere (3) Avrebbe meglio usato: Naturale, Indole, ecc. che per l'ingegno, reso spesso vano dalla scarsezza soverchia del sa pere» (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 39. Le avea l'Erminia mandato un'istanza del Comitato femminile per la fondazione del Collegio Convitto pei figli degli insegnanti in Assisi, affine di averne soccorso all'opera pia, e non ricevutane risposta, come suole le più volte accadere cui si volge scrivendo alle Corti, le avea scritta «una lettera forse un pò ardita» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit. pag. 36. Fu allor mostrato all'Erminia desiderio che chiedesse un'udienza: essa non volle, e ciò saputo la Principessa, spontanea invitolla, e, andando, l'Erninia «fu accolta molto benevolmente; ebbe giustificazioni e ringraziamenti e lodi anche troppe» (2) lvi, ed. cit. pag., 36.. E sì che le parlò

Liberi sensi in liberi parole,

da dover quasi credere che non le fossero spiaciuti, com'ella stessa scriveva (3) Ivi, ed. cit., pag. 39. Ed ivi aggiunge: «Il cappellano di corte venne a dirmi che la Principessa è stata contenta di me:—niente di meglio!»Quanto non è detto in quel Niente di meglio!. E la Principessa dal canto suo, e sia detto a sua lode, cercò sempre meglio mostrarle la sua schietta benevolenza, e nel giugno del 1875 le mandava con affettuose parole di sua mano soscritto il proprio ritratto (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit. pag. 61..

Eppur questa donna d'ogni virtù sì adorna, che non parlava «con sprezzo mai, ma con quell'affetto che compatisce, perchè intende, che nobilita, che avvalora con l'esempio, con tutto» (5) Quanto a lei non si addicono quelle parole che ella scrivea del Vannucci! Vedile nei Ricordi. ed. cit., a pag. 45., nelle secrete pagine dei suoi Ricordi (6) Ed. cit., pag. 49. scrivea: «Spesso mi ribello, m'inquieto, mi sdegno, per ragioni che non lo meritano, e ciò perchè il fondo è triste; e quando le acque sono agitate, anche i fiumi mostrano che il loro letto ha del fango! ma fango morale io non ne porte.—Se nella quiete delle notti insonni io torno ad esaminare la mia coscienza, io mi sento tranquilla e sento di non avere fatto male alcuno…. Ed allora perchè dovrei agitarmi così?» (7) Vedi anche ciò che scriveva a pag. 13 e 75 dei Ricordi..

Parole che vengono di bontà che non par quasi terrena, e che non vuole essere facilmente intesa da chi non la vide viva. Pure nei suoi Ricordi, ove non è una riga, non una parola che non riveli in lei una nuova virtù un pio sentimento, può intenderla e assai bene ricoglierla chi abbia cuore e intelletto. Se non che fra i tanti, che di lei hanno discorso e scritto e in vita ed in morte, uno solo ci sembra aver detto una parola che racchiude l'essenza della sua natura, della sua virtù e delle opere sue: ed è di tale che le fu amico sincero, e che avea ingegno e cuore da intenderla appieno, un antico e diletto compagno della giovinezza nostra, da cui ci hanno pur troppo i casi della vita ancor troppo divisi, Giovanni Procacci. Egli scrisse di lei: «Che praticità d'esempi in tanto empito di sentimenti! Mai l'italianità dell'ingegno e dell'animo ebbe in donna piùspiccata e bella rappresentazione che nell'Erminia» (1) Giovanni Procacci, Vecchiumi.. Dopo queste parole aggiungerne è vano e noi ci staremo contenti, secondo le povere forze nostre, a dir di lei nella scuola e nelle lettere: pur se alcun volesse sapere della persona e della sembianza sua, diremo che fu del corpo nè grande, nè piccola, proporzionata in tutte le membra; breve e ritondetta la candida mano dalle schiette dita; ricolmo il seno nella veste ristretto; ritonde e nivee le braccia e le spalle, su cui si appiccava il collo svelto e tornito, dal volto soave, nel quale la vivacità dell'ingegno apparia tra lo scintillare degli occhi lucenti e il riso dolcissimo delle rosee labbra, da cui siccome soavissima armonia movea la favella: picciola, ma serena la fronte, alla quale pareano aureola i capei d'oro finissimi, mentre sembrava carezzarle il volto una lievissima aura di dolce malinconia, così che niuno scrittore avrebbe avuto parole a lei pienamente ritrarre, e solo potuto ripetere:

E par che dalle sue labbra si mova Uno spirito soave e pien d'amore Che va dicendo all'anime: sospira.

§ I. La Fusinato volse la mente al publico insegnamento e vi s'inviò seguendo il desiderio dei valenti uomini che sapevano il suo cuore e il suo ingegno nel 1870, come già detto abbiamo parlando della sua vita nella famiglia, e persuasavi della speranza di portar ristoro alle non buone condizioni economiche di questa. Qui dir non dobbiamo se non più particolatamente dell'opera sua nell'unsegnamento, dei principii che la governarono e dei frutti che produsse. E, come delle persone che ebber valore vero e belle cose e buone operarono, ne parleremo senza infingimenti e senza contorte reticenze secondo la mente nostra.

Diciamo dunque senz'altro che se la Fusinato avea da natura sortito singolare ingegno, e per bontà e candidezza di puri e possenti affetti (1) «Moltiplicando gli affetti puri moltiplicheremo i possenti,» avea scritto Nicolò Tommasèo. singolarissimo cuore, e tra l'uno e l'altro assai attitudine a forti studi; ciò non porta che questi studi fossero bastevoli in lei, sebbene non priva ne fosse, ad insegnare secondo la nominanza che già procacciata si era con le facili e affettuose sue rime, e secondo le speranze che avea incorate di sè in quanti la conoscevano: e più ancor degli studi volea mancarle la esperienza necessaria a bene ed efficacemente ammaestrare, il che non vuol dire che nelle nostre scuole non fossero allora, come tutt' ora pur troppo vi sono, maestre e maestrine che non aveano dei suoi cento pregi sol uno. E a vedere e a studiare quella parte dell' insegnamento che a lei potea fare difetto ben provvide il Correnti, mandandola a visitare scuole e collegi di varie provincie d' Italia; il qual ufficio per altro vogliam pur dire non sapea ancor ben intendere e mettere in opera, ma ben presentiva e anche sentia, onde se ancor non potea fare, come poi avrebbe saputo, lezione, potea non pertanto delle scuole e delle lezioni fare giudizio, chè più del fare fu mai sempre agevole cosa il giudicare. Ed è più agevole perchè a giudicare basta intendimento del buono e del bello, e molto soccorre acume d'ingegno; mentre a fare ci vuole eziandio studio, arte, esperienza. E ben fece pure il Correnti a commetterle di scrivere alcune relazioni intorno le scuole visitate avvisando ai provvidementi ch'ella credesse opportuni (1) Lettera officiale del Ministro della P. l. del dì 15 di aprile 1871., e invitandola a intervenire ad alcuna delle Conferenze magistrali in Roma, e a tenerne ella stessa alcuna di morale (2) Idem, del dì 18 agosto 1871., offerendole così modo di parlare in publico e prenderne l'abito.

La diffidenza di sè stessa con che si pose all'opera le valse poi e le giovò molto più che la balda presunzione con che oggi tante vanità, che paiono persona, credono di bastare a ciò che non sanno e di passare per ciò che non sono. Ella non presumeva mai di sè, ma aveva amor proprio, e questo le faceva raccogliere le forze, studiare e pensare; onde potè pure in queste prime lezioni (3) Sono stampate col titolo Lezioni pedagogiche nel volume degli Scritti educativi, ed., cit., dalla pag. 144 alla 202. ricorre lode non poca e giustissima per la saviezza degli ammonimenti dati; sicchè in gran parte dovettero sembrar cosa nuova per la semplice e affettuosa maniera in che erano porte, pure essendo in non picciola parte veramente nuove perchè ispirate dalla singolare virtù del suo animo e dalla mente sua, e da quella ricevevano forma. E singolarmente a noi pare da considerarsi la prima lezione, nella quale, bellamente toccando alle future maestre, espone le principali virtù dell' insegnare, quale chi ne ha piena la conoscenza nella mente e vivo nel cuore il sentimento. E, lieta tutto di vederla fare sì buona prova di sè sin da principio, le affidava il Correnti l' insegnamento delle lettere italiane nella scuola delle Conferenze magistrali.

Sapeva la Erminia esser gran divario tra il sapere per sè e il sapere per altri, chè a servizio proprio usa uno ciò che sa, mentre bisogna, insegnando, sapere quello che gli altri non sanno, e bene sapere quello che essi non sanno che male: e di ciò persuasa eccola maestra in iscuola e scolara in casa; agli amici sinceri e valenti chiedendo aiuto e consigli, passando ore ed ore con una brava maestra (procacciatale dal Carboni provveditore agli studi, per «darle consigli e norme nell' insegnamento» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 8. passando ore ed ore, diciamolo, negli studi della grammatica, fatti oggi tanto ameni dalle sciocche divisioni, suddivisioni, distinzione e nomenclatura degli industriali scolastici (2) «Stamani» scriveva ad Arnaldo Fusinato «feci la mia prima conversazione grammaticale con la maestra assistente mandatami dal Carboni.—È una buona e brava ragazza, grande ammiratrice de' miei versi.—Io lo sono invece della sua scienza sulle proposizioni composte, complesse, ellittiche, coordinate, soggettive, pleonastiche, esclamative, ecc. E con questo ti saluto (proposizione ellittica, perchè l' io è sottinteso)—Sta sano!»(come sopra, ma qui in luogo dell' io è sottinteso il tu), ma non è sottinteso il bacio che ti manda la tua Erminia. Lettera del dì 28 di novembre 1871, in Molmenti, (opera cit., pag. 221).; nei quali studi non fu mai certo scolara sì diligente, nè pronta, così che in brevissimo tempo passò la maestra. E di questa vita di scolara e di maestra ad un tempo ne trasse un altro giovamento, che, scolara, apprendea quali a queste le maestre abbisognano, e, maestra, quali queste le scolare vagheggino: onde potè riuscir maestra veramente-efficace ed amata, che non mai scolari tanto frutto ricolsero quanto le sue dalle udite lezioni, nè fu mai maestra quanto lei amata dalle proprie scolare. E la sua scuola era un esercizio di scambievole affetto; e se talvolta, in altre cure affannata, «ci andava alquanto mesta e svogliata, ritornava più lieta e in benessere, chè ciò che da prima la turbava non era l'idea di fare, bensì il dubbio di poter far bene (1) E. Fusinato, lettera Ad Arnaldo Fusinato del dì 1 di gennaio 1872, in MOLMENTI, op. cit.. pag. 213.—Della sua trepidazione nel far lezione basta dire che un dì poco mancò non ammalasse pel timore di avere sfigurato con un'allieva per non averle riposto a dovere, «e non era nulla o quasi.» (E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 13.);» e tutta contenta scriveva al marito che alcune signore chiedevano di andarla ad udire, e che ogni dì acquistava facile eloquio, il quale in gran parte da natura si ebbe, e che è sì dai Romani gradito (2) Lett. cit. Ad Arnando Fusinato del dì 1 gennaio 1872.. E le sue non erano solo lezioni di grammatica e di lingua, ma erano fonte di domestici e cittadini affetti, di nobili e generosi sentimenti, ispirazione di alti pensieri, culto di gloriose e venerate memorie (3) Ella solea talora condurre le scolare sue visitando i monumenti e le memorie di Roma, e ne' suoi Ricordi appunto (ed. cit., pag. 25) scriveva esser stata con loro visitando il dì 27 di aprile del 1872 il sepolcro del Tasso a S. Onofrio.. E vinta dall'attenzione con che le sue scolare l' ascoltavano, e dall'affetto che le aveano (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 8., ella avrebbe durato in quell' insegnamento quieta e tranquilla, se, come già abbiamo narrato (5) Vedi, Cap. I., succeduto lo Scialoja al Correnti nel governo della publica istruzione, non le avesse fatto ingiuria grandissima posponendola alla Milli, così che ella dovesse rimanere maestra dove l' altra venia innalzata a direttrice, sebbene ne dovesse assai soffrire in cuor suo, non mancando chi continuamente cercasse d'infastidirla con povere chiacchere di donnicciuole, mettendo in bocca alla Milli parole che ella certo non s'era nemmeno pensato. Se non che, comunque fosse, a durarvi tutto quell'anno le dette animo la dolce speranza, ogni dì crescente di poter vedere attuata un'idea che da molto tempo carezzava nella mente, e, effettuando la quale, avrebbe avuto bella occasione a manifestare i suoi intendimenti nella femminile istruzione.

§ II. Da molto tempo ella avea posto mente a una grave questione, alla educazione della donna, secondo i nuovi tempi e specialmente secondo le condizioni d'Italia richiedono; e in vari scritti, ma più propriamente in quello intitolato l'Educazione della donna (1) È negli Scritti educativi a pag. 317, e fu la prima volta stampato nella Gazzetta d'Italia del maggio 1871. e nell'altro Famiglia e Collegio (2) È negli Scritti educativi a pag. 323.. Avea porto occasione a dettare il primo uno scritto del Civinini il quale, in un suo articolo, publicato nella Nazione (3) E nel n. 71 dell'anno 1871, ed è sottoscritto Forsitan., avea rotto una lancia contro la emancipazione della donna, ed inneggiato alla madre che voglia accanto dell'amata culla, rappezzando gli abitini dei suoi figliuoletti; e nel suo giusto sdegno contro la emancipazione avea forse discorso un po' allegramente da potere a primo aspetto parere avverso alla femminile istruzione; e la Fusinato, che, quanto il Civinini, odiava la emancipanzione della donna, rispose con un breve scritto in cui chiaramente manifestava i suoi intendimenti intorno la istruzione della donna, la misura ed il fine che dovrebbe avere, parendo ad essa mostrarsi la donna «degna dei nuovi tempi emancipandosi con la virtù e col lavoro dalla ignoranza e dall'ozio, e da qualche cosa di peggio» (4) E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander del dì 26 di maggio 1871.. La sola emancipazione concessa alla donna, chè «la frase di donna emancipata non dee sonare equivoca che a quelli che la vogliono tale; per noi non deve dire e non dice già emancipazione dai sacri doveri, dagli affetti sacri della famiglia, bensì da quella inerte ignoranza che è fonte perenne, e forse unica d'ogni materiale e morale miseria» (5) E. Fusinato, L'Educazione della donna, in Scritti educativi, ed. cit., pag. 318.. Temea il Civinini non venisse la donna signoreggiata dall'amor della scienza, e rispondea la Fusinato, che «la scienza non verrà preferita alla famiglia, e potrà soltanto rendere meno sconsolata l'esistenza alla poveretta che ne sia priva» (6) Ivi, idem, idem, pag. 318.. E perchè il Civinini avea paura della pedanteria femminile, ella replicava: «Dio mio! ma crede forse che noi pure non l'aborriamo, e fra noi più ancora che fra gli uomini stessi,» e usciva in quest'aura sentenza: «I pedanti non sono già coloro che più sanno, bensì coloro che più vogliono far credere di sapere» (1) E. Fusinato, Scritti educativi, pag. 318.; e, maestrevolmente continuando nel suo discorso, venia a comporsi una donna, che, serbandosi fedele alle cure della famiglia, ne accresce il decoro e il benessere con l'opera propria, e che della istruzione e della scienza aiuta e feconda l'opera sua nella famiglia. Che per la Fusinato, nata e cresciuta negli affetti e nelle cure famigliari, ciò fosse una credenza, un profondo convincimento, niun dubbio: ma che i mali effetti di questa scienza sì temuta dal Civinini nella donna, avvegnachè forse ingranditi, non di rado si mostrino, non certo noi vorremmo negare.

La Fusinato, è vero, avea fatto dei versi sì, ma quasi senza saperlo; e, Se si era volta allo studio e a far procaccio di scienza, fu dopo che, sposa e madre, si era immedesimata nella famiglia. Ella intendea bene, e ciò vedremo fra poco, che la istruzione nella donna deve essere data a servigio e non a danno degli affetti e delle cure della famiglia: ma non tutte le madri, nè le maestre tutte sono la Fusinato, e pur troppo abbiamo visto che la istruzione non viene molte volte se non a crescere delle saputelle pedanti, le quali si scordano la famiglia dietro ai grilli della poesia e alle fantasticherie della politica, e che, facendo libercoli, disfanno i figliuoli. Ella dice, quasi a mo'di conclusione e di riprova del suo pensamento, che «quante sono tra le migliori scrittrici nostre, sono tra le figlie, le spose, le madri migliori» (2) Ivi, l. c., Scritti educativi, pag. 322., e ci reca esempi di tali. Lasciando se sieno tutti i migliori scelti a provar sua sentenza, noi non guarderemo alle poche che fanno sì bella prova acquistando con la scienza al governo della famiglia, sì bene porremo mente alle molte, che, andando dietro alla scienza, non aggiungono a questa, e si allontanano molto e male dalle famiglie loro. Ma ora vediamo l'altro scritto della Fusinato che da ambedue insieme germoglia e si compie il concetto suo.

Qualunque sia la educazione e la istruzione che dar dobbiamo alla donna, questa si compie o nella famiglia o nel collegio; e qual delle due migliore fu lungamente dagli scrittori cercato, i quali si partirono in due campi opposti, chi per l'uno, chi per l'altro tenendo; se non, a dir vero, si ebbe più sostenitori la famiglia. La Fusinato, dichiarando anzi tutto, che «non è certo suo intendimento tessere l'apologia del collegio a scapito della vita domestica» (1) E. Fusinato, l. c. in Scritti educativi, pag. 323., prende a dimostrare che nella condizione dei tempi presenti non si vuole scomunicare il collegio, chè il dire recisamente quale delle due educazioni meglio convenga non è facil cosa, variandone la ragione «secondo la famiglia e secondo il collegio di cui intendete parlare» (2) Ivi, idem, idem, idem.; ed enumera i benefizi del collegio, che nei tempi nostri è assai vôlto in meglio, e perchè tutti possono oggi vederlo e vegliarlo, e perchè «l' ordinamento disciplinare e didascalico si va gradatamente accordando da un capo all'altro della penisola» (3) Ivi, idem, idem, pag. 324.; e perchè meno separati dal mondo sentono un po' più la coscienza e la responsabilità di sè stessi» (4) Ivi, idem, idem, idem. e si avvezzano ad essere uomini, e perchè sono state levati via i perniciosi castighi dei tempi andati, e finalmente non più contrastati gli affetti di famiglia, chè «le corrispondenze coi congiunti alimentano le memorie e le speranze dei più cari» (5) Ivi, l. c., in Scritti educativi, ed. cit., pag. 325.. In molte famiglie all'incontro, se pur v'ha nei genitori l'affetto, non v'ha la istruzione, la quale occorre a bene educare: e, peggio ancora, in altre occupazioni costretti, lasciano i figli soli, mentre «le educazioni degli uomini a parte devono essere abolite, e guai pei figli di coloro che non lo intendessero ancora. La vita scolastica è la preparazione della vita civile» (6) Ivi, l. c., in Scritti educativi, pag. 328-329.; ricever gran danno dagl'intimi colloqui dei genitori, che parlano senza por mente ai figliuoli, i quali ascoltano tutto, e sentono spesso lamentare che costa troppo questa libertà, di cui odono pur ripetere con compiacenza la storia gloriosa; nella famiglia venir considerati i figliuoli «or come despoti, or come esseri passivi, e non dovere essere nè l'una cosa, nè l'altra» (1) E. Fusinato, l. c., in Scritti educativi, pag. 329.; al soverchio rigore di un altro tempo esser succesa mollezza soverchia; all'austerità severa una dimestichezza vergognosa (2) Ivi, l. c., in Scritti educativi, ed. cit., da pag. 330 a 331: in una parola mentre i nuovi tempi hanno con l' opera loro migliorato il collegio, la famiglia, nel fatto della educazione, non ha avuto vantaggio alcuno.

Ma non per ciò ne segue, secondo lo scrittore, che il collegio sia oggi perfetto; no; «tutti intendono,» dice, «che ivi manca ancora qualche cosa di caro e soave che taluni neppur sanno definire, e ciò che vi manca è la madre» (3) Ivi, l. c. in Scritti educativi, ed. cit., pag. 325.; e ne reca l'esempio di collegi stranieri, e specialmente degl'inglesi, ove i loro direttori «hanno nella buona moglie o nella buona sorella chi attende alla economia interna, chi veglia amorevolmente sugli allievi e provvede ai loro bisogni; li conforta se afflitti o malati, facendo lor veramente le veci della genitrice lontana, della lor provvidenza terrena. Ivi la gentilezza dell'affetto trova alimento perenne; ivi le consuetudini si serbano più semplici o miti; ivi la mente ed il cuore hanno sviluppo più compiuto e concorde» (4) Ivi, l. c., in Scritti educativi, ed. cit., pag. 335..

Ecco quali erano gl' intendimenti dalla Fusinato intorno il collegio; secondo i quali volea che il collegio e la famiglia s'intendessero, si studiassero, si perfezionassero a vicenda, e l' un l'altro compiesse. «L'uno deve venire una degna sostituzione dell'altra, ma non potrà esserlo appieno finchè non s'ingentilisca con la benefica opera materna». E noi quest' intendimenti dovevamo ben ricogliere e fare aperti, chè, sebbene in questo scritto più propriamente intendesse parlare del collegio maschile, sono pure in gran parte le idee che avea pel femminile, e nell'unione e nell'accordo di ciò che è detto in questa scrittura con ciò che è nell'altra, di che abbiamo sopra parlato, sono gl'intendimenti con cui ella da più tempo carezzava il pensiero di veder sorgere in Roma un grande collegio femminile, che tornar potesse d'esempio a tutte le altre città d'Italia.

§ III. Roma, diventata metropoli d'Italia, non avea ancora una scuola superiore per le giovanette italiane, quale le mutate condizioni dei tempi richiedeano; era difetto che facilmente si sentia, ma di cui niuno ne vedea, nè potea meglio vedere il danno e il bisogno di presto provvedervi, della Erminia; la quale, appena venuta a Roma, avea cominciato a dirne qualche parola agli amici suoi più autorevoli, e lor metterne il desiderio. Ma più di tutto ne incorò il desiderio con le sue virtù e con la bella prova fatta nell'insegnamento alla Scuola normale: e, quando poi ebbe publicato le sue prime lezioni pedagogiche, fu in tutti non solo un desiderio, ma un proposito di riuscire; e uomini illustri ed operosi furono insieme per istituire una scuola superiore femminile municipale, e, per far cosa gradîta alla Fusinato ed utile al paese, assentirono a esserne promotori non pochi, e primi il Tabarrini, il Mamiani, il Correnti e il Pignetti. E diciamo pure, chè diciamo il vero, i modi scortesi e disconoscenti, usati dallo Scialoja con la Erminia, furono non piccola parte nell'invogliare gli uomini più autorevoli, ch'erano allora in Roma, a efficacemente promuovere e recare ad atto la istituzione di questa scuola.

Gravi furono gli ostacoli (1) «L'Istituto superiore si aprirà, ma quanti ostacoli da vincere, quanta inerzia da superare, quanta contrarietà ad ogni piede sospinto. E tutto questo conviene non mostrarlo, e dare ad altri il merito di clò che si riuscirà a fare dopo fatiche lunghe e pazienti.» (E. Fusinato, lettera inedita A Giovanni Procacci del dì 2 di settembre 1873., e per opera specialmente della Fusinato superati, la quale fu ben contenta di aver rinunciato l'ufficio di maestra alla Scuola normale, quando il Consiglio Comunale di Roma con unanime consentimento la chiamò a governare la nuova scuola superiore, ch'ella avea proposto nell'amore del suo paese senza por mente a sè.

Accettato l'ufficio, riposatasi brevemente in Firenze, fu a Roma, ove si consacrò tutta alla scuola che dovea aprirsi al possibile presto; e tosto fu certo il giorno volle che da lei si recassero le nuove scolare per prepararle, per affiatarle tra loro, avvivare gli affetti gentili e accendere la emulazione tra quelle giovanette, di paesi, di usi, di famiglie, diverse, e nelle quali trovava subito e cuore e mente (1) E. Fusinato, lettera inedita A Giovanni Procacci del dì 23 di dicembre 1873..

Sofferente di salute «cercando la forza per dovere e necessità» (2) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 29., confidando «nell'aiuto intelligente ed efficace dell'ottimo e bravo Pignetti» (3) Ivi, Ricordi, ed. cit., pag. 29., direttore dell'ufficio municipale per la publica istruzione, lavorando continuo col consiglio direttivo della nuova scuola, giungeva al dì trentuno di dicembre, e s'allietava tutta pensando che sei giorni dopo sarebbe aperta la nuova scuola (4) Vedi nei Ricordi, pagg. 29-30.. E il dì sei di gennaio si apriva, ed ella in un lodato discorso manifestava gl'intendimenti di quella nuova istituzione; e quanti per dignità d'ufficio, per istudi, per ingegno, per sapere erano in Roma, insieme coi genitori delle nuove alunne, furono presenti alla festa, recandovi un augurio, e prendendone una lieta speranza. Quella speranza era in Erminia Fusinato, e non potea andare fallita. Da quel dì essa non visse che per la famiglia e la scuola, e l'opera sua fu maggiore della aspettazione, che non era poca davvero.

E qui comincia l'opera grave e feconda della Fusinato, in cui, come detto abbiamo, potrà veramente mostrare in atto il valore suo e quegl'intendimenti in gran parte manifestati nei due scritti, di che poco sopra tenemmo discorso: e la cui manifestazione ha, secondo a noi pare, compimento in queste savissime parole della sua prima conferenza pedagogica le quali ben qui giova trascrivere: «Dopo questa grande, portentosa redenzione nazionale, intorno quasi tutte le più gravi questioni noi abbiamo in Italia delle opinioni contrarissime. E parlando di noi donne rispetto appunto ai fatti solenni della nazione, vediamo taluni che ci vieterebbero volentieri perfino di aprire il cuore al sacro amor della patria, quasichè temano che non si possa essere buone cittadine senza divenire donne politiche, o che il nostro cuore non sia capace abbastanza da accogliere questo affetto senza danno degli altri. Come e perchè non ameremo noi questa Italia, per la quale i nostri padri, i nostri fratelli hanno tanto patito nelle battaglie, nelle carceri e nell'esilio; questa Italia alla quale dobbiamo educare una generazione degna dei lieti destini che finalmente la Provvidenza le assentiva?

»Ma se taluno ci contenderebbe questo affetto, altri vorrebbe che la donna, dimenticando la modesta riserva impostale dalla propria indole e dai casalinghi costumi, si slanciasse tra le file di certe scapigliate emancipatrici, le cui dottrine io non saprei definire. Per me la vera, la sola emancipazione possibile, è quella dall'ignoranza, fonte perenne d'ogni materiale e morale miseria.

»Io vorrei che fra queste opinioni estreme, fra questi estremi partiti, la donna sapesse trovare e tenere il giusto mezzo. Così potrebbe esercitare sovente nel segreto delle pareti domestiche quella parte di conciliatrice ch'è veramente la sua; così potrebbe convincere il mondo che il sentimento della patria, saggiamente inteso, non è in opposizione con alcun altro, ma anzi mirabilmente si accorda con quelli della religione e della famiglia, e che i doveri che la patria c'impone, non cancellano ma completano gli altri» (1) E. Fusinato, Lezioni pedagogiche in Scritti educativi, ed. cit., pagg. 152 e 153..

Con questi savissimi intendimenti, tre anni prima meditati, imprendeva la Fusinato la nuova sua opera; e non erano appresi in alcun libro, sì moveano dall'animo, siccome il desiderio del bene e la esperienza del vero ispiravano: «Educando i miei figli,» diceva, «mi parve riconoscere, nei bisogni loro, i bisogni, i difetti e le virtù di tutti gli altri fanciulli, come nei miei timori, nelle mie contentezze e ne' miei desideri materni, credei riconoscere i timori, le contentezze e i desideri d'ogni madre.»

E in niun libro in vero, come nella famiglia seppe, sarebbe riuscita ad imparare quest'arte difficilissima dell'educare, che in lei parve sì natural cosa, e in cui n'escì tanto singolare da far ogni dì meglio sentire quanto grave danno sia stata la perdita sua, che solo ella, vivendo, e lungamente vivendo, potea ingenerar la speranza che altri le s'accostasse, chè chi uguagliar la potesse sarebbe stato sempre vano sperare.

In una parola, ella voleva che la donna sapesse e prendesse del mondo e della vita esterna quel tanto che poteva giovare nella vita della famiglia, e dalla famiglia recasse nel mondo quel tanto, che, pur parendo poco ed essendo molto, giova alla civil comunanza, e vi opera così da governarla e non rado trasformarla. Tale essendo, voleva «stabilire tra scuola e famiglia una scambievolezza continua d'intendimenti, di desideri e d'affetti, talchè l'una sia verace complemento dell'altra, e possano unite aiutarsi vicendevolmente nel faticoso cammino che conduce verso la perfezione» (1) E. Fusinato, Discorso letto nella inaugurazione della Scuola superiore femminile di Roma il giorno 6 di gennaio 1874, in Scritti educativi, ed. cit., pag. 244.. Questo ella diceva in un suo discorso alla Scuola superiore, del quale furono grandi le lodi, e la cui virtù fu mirabilmente ricolta, tosto letto lo ebbe dalla penna di Giulio Tibaldi (2) E il giudizio di Giulio Tibaldo noi qui trascriviamo, perchè, aggiungendo autorità, si accorda col nostro: «La ringrazio pel piacere ch'ella ha voluto procurarmi, inviandomi il suo bellissimo discorso nel quale, con quella brevità che le veniva imposta dalla circostanza ella se non espone accenna in che deve consistere l' educazione della donna. Ella dice che scopo precipuo delle istituzioni educativi dev'esser quello di stabilire tra scuola e famiglia una scambievolezza continua d'intendimento, di desiderii e d'affetto, talchè l'una sia verace complemento dell'altra; che le allieve devono trovare nella famiglia quasi l' aria della scuola, e in questa quella schietta e soave amorevolezza che la fa parere una continuazione della famiglia… e che la dottrina non deve scemare nella donna l'effetto, nè velarne le grazie, rendendola saccente e sdegnosa di quelle umili cure casalinghe che noi stimiamo essere i suoi primi doveri.
» Queste parole a me sembrano sapientissime. Io credo che la donna può essere quanto si vuole istruita, ma che perciò non deve mai uscire dalla condizione di donna, e che deve essere più ispiratrice che materiale esecutrice di nobili azioni. Dal morbo choléra della pedanteria dice l'illustre Tommaséo, scampi almeno la donna e sia rifugio dalla scuola e dall'accademia almeno la cucina ed il talamo. * Ed ora altro che dalla scuola e dall' accademia! Che direbbe ora il Tommaséo vedendo certe signorine romane in sulle panche dell'Università non solo, ma laurearsi in leggi, fra gli strombazzamenti di gloria dei facili vagheggini cronisti, non che altre sedere in cattedra e spifferar conferenze? Eh saranno le brave ragazze, dal bell'ingegno e dai begli studi, ma, senza nulla giovare alla civil comunanza, non saranno buone per la famiglia, e la più parte cresceranno zitellone incresciose agli uomini savi e uggiose a sè stesse. Per cui savissimo consiglio fu quello d'affidare la direzione della Scuola superiore femminile di Roma a lei, la cui anima essenzialmente poetica farà sì che i dettami della scienza siano principalmente rivolti al cuore delle fanciulle, poichè meditati con essi rischiarano veramente l' intelletto.» Tipaldo, lettera inedita Ad Erminia Fusinato, del dì 22 di febbraio 1874.
Grandi lodi ella ebbe per questo discorso e molti uomini valorosi gliene scrissero lettere onorate: fra queste ci piace trascrivere quella di Pietro Dazzi, accademico della Crusca, e scrittore di carissime letture per bambini, in data del dì 24 di gennaio 1874.
» Lessi nei giornali. poi seppi dalla signora Mojolarini quanto era bello e quanto era piaciuto il suo discorso: ora lo tengo dalla sua solita gentilezza, e ho visto ch' ella non poteva dire cose più belle, nè in modo più affettuoso ed eloquente. Con lei la scuola fiorirà; io son certo che ella infonderà tutto il suo amore al bene, la sua fede; Ella è benedizione della nuova scuola, ed io più che con lei mi congratulo con i maestri e con le donne.»
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Istituendo questa scuola la Fusinato avea avuto in mente concetto ben arduo a recare in atto: ma se ciò sapea difficile, credea pure possibile: per questo non presumendo di sue forze, ma secura dei suoi intendimenti, con la coscienza di uno schietto e profondo sentimeuto morale, di un grande studio fatto intorno all'educare nella propria famiglia, e nella scuola (1) Quando faceva lezione alla scuola normale scriveva al Dazzi nel dì 2 di settembre 1873: «Questo mío noviziato nell'insegnamento mi ha insegnato le gran cose.» E a noi duole non aver potuto publicare le noterelle che dell'educare e istruire prendea in quel tempo, secondo le se ne porgea occasione, essendo solo prese per suo uso, non ordinate, non compiute, non collegate: ma ciò non toglie non siano in esse insegnamenti preziosi., ella entrava nel novello ufficio sapendo che non basta tenersi seco i figliuoli ma sì stare con essi, serbando, in eguaglianza d'amore e di maniere, temperanza di parole e castigatezza di costumi: vi entrava sapendo che la nostra generazione crebbe male educata, che la questione politica nocque nel tempo nostro alla religione. e che se l'affetto di patria riavvivò alcun tempo i nostri spiriti, oggi riperde la sua virtù vera, la sua efficacia, poichè lieti avvenimenti, l'un dopo l'altro succedendosi oltre la speranza, ci hanno fatto famelici delle forti commozioni, e, non trovando omai più libertà che basti, siamo alla licenza inviati. Entrava sì nell'insegnamento sapendo che abbiamo ingegno e cuore, ma «l'ingegno,» scriveva «non è bastantemente istruito, e il cuore non è sufficientemente educato; che non vi ha maestra che valga senza l'aiuto della madre, che sola può rivelare l'indole interna dei figli, additare i mezzi più acconci a correggerla e perfezionarla, vedere se lo studio imposto, e non la mala voglia, passi veramente le forze loro:»ella entrava nella scuola persuasa che «nel suo accordo con la famiglia dev'essere come un' appendice, dove l' insegnante fa le veci dei genitori, cercando con la istruzione compierne l'educazione, alla quale invano si argomenterebbe la scuola se non fosse nella famiglia» (1) E. FUSINATO, Pensieri inediti intorno all'educazione.. Volea in una parola l'istruzione, che, perfezionando la donna secondo sua natura, facendola grande e benedetta nella famiglia, la fa potente e riverita nella civil comunanza: non quell' istruzione, che falsandone l'indole, la scambia in uomo, e, non utile e incresciosa in casa, la fa disutile e ridicola fuori.

Chi ora dir porrebbe le cure, le fatiche del nuovo suo ufficio, chi l' affetto che vi pose e che parea l' aer respirabile delle nuove sue alunne? Esse ce lo hanno detto accompagnandola piangendo al sepolcro sì che pareano piangesser la madre. E non maestra, non direttrice soltanto, ma madre lor fu: e lo mostrarono subito al finir del prim'anno gli esami, che furono una consolazione pei parenti, una vera compiacenza per la Erminia. Ella avea detto nel suo discorso del cominciamento dí tentare una prova (2) Negli ultimi giorni di giugno e nei primi di luglio del 1874 ebbero luogo gli esami., ed era riuscita in sei mesi a far quasi un miracolo: a dar ciò una scuola mirabilmente fiorente (3) Ed era davvero opera sua. «Quando sono assorta nelle cure del mio ufficio dimentico me stessa,»ella avea detto nei suoi Ricordi (ed. cit.,) e pur troppo la sua salute sel seppe.. E grandi fatiche a ciò conseguire dovette durare, consolata pure dalla sollecitudine che tutti di quella scuola prendevansi, così che non solo uomini di stato, di scienze e di lettere, ma ben l' Altezza Reale della Principessa del Piemonte volesse esser presente alla prima dispensagione dei premi (1) E. FUSINATO. Ricordi, ed. cit. pag. 47.—I premi furono dati il dì 22 di novembre 1874., con gran compiacenza della Fusinato, non per povera vanità, nè misera cortigianeria, chè tai sentimenti non capivano nell'animo suo, ma perchè ben sapeva che del favore reale voleva crescere ad assai quel dei cittadini e quel del governo, ed essere un conforto al municipio a perseverare nell'opera sì bene incominciata.

Al nuovo anno le fatiche della Erminia si crebbero: non solo pel cresciuto numero delle scolare, ma perchè volenterosa si tolse il carico d'insegnar la morale nei primi due dei quattro anni in che era partito il corso degli studi in questa Scuola superiore. Se non che con la fatica sua crescea della scuola la lode: che se altri avrebbe potuto insegnar la morale con maggior dottrina, non certo nessuno con pari efficacia, ed esserne insieme sì vivo esempio (2) Vedi in proposito ciò che scrivea nei Ricordi, ed. cit., pag. 33.. E chi legga le lezioni, che poi furono stampate, vedrà come ogni loro parola sia insegnamento che porge ragione a un lungo commento (3) L'egregio PASCOLATO. parlando degli scritti didascalici della Fusinato: dice: che la modestia non valse ad impedirne la pubblicazione, (Commemorazione di E. F. pag, 14). Parrebbe quasi fossero stati da altri, lei non consapevole, publicate: confortata a ciò dagli amici per certo, ma di suo cuore le publicò, e niuno può meglio ciò sapere di noi, a cui, sebbene in istraniero paese, mandava le bozze per le correzioni.: e Andrea Maffei, quando si ebbe il saggio ch' ella diè fuori col titolo La Famiglia, le scrivea: «Ora mi giunse la sua famiglia, che mi empie l'animo di dolcezza col suo elegante e semplice eloquio, e ne' suoi sapienti e amorosi e veramente materni precetti» (4) Lettera inedita del dì 2 di giugno 1876 già stampata dal PASCOLATO nei Ricordi a pag. 171, con la data errata del dì 21 di maggio, e novamente da noi in Scritti educativi, pag. 85. Anche il Gabelli le ne scriveva una bella lettera pur dal Pascolato e da noi publicata, ed ella se ne allegrava scrivendo di queste lezioni e di queste lettere nei suoi Ricordi, ed. cit., pag. 86..

Intanto, prosperando, giugneva la scuola al fine del secondo anno, e compiuti gli esami, godendone pei figli suoi, scriveva: «Quando penso a questo centro di vita intellettuale femminile creato nel centro di Roma, provò compiacenze grandi. Orgoglio no!—Fu fortuna e tenacità; ma comunque sia ho sofferto molto per riuscire, e mi resta molto da superare, e delle cose vinte cerco trarre argomento e forza per procedere degnamente » (1) E. FUSINATO, Ricordi, ed. cit., pag. 52.. E pur troppo era venuto il tempo in che doveva far prova di tutta la virtù dell'animo suo: la scuola fioriva, il municipio ne andava altero,. il governo l'additava ad esempio; le madri ed i padri se ne compiacevano nelle loro figliuole; i suoi lavori comparivano nella mostra dei femminili lavori delle scuole del municipio nel Campidoglio; la Principessa Margarita se ne ammirava, e lodava la Fusinato (2) Ivi, ed. cit., pag. 77.; e pure le si moveva guerra (3) Ivi, ed. cit., pag. 26.: ma sino dal principio vi si era l'Erminia apparecchiata, che impossibil cose si è che alle buone opere

Fortuna ingiuriosa non contrasti;

ed ella avea detto: «i mie intendimenti sono, parmi, buoni e non temo di nulla» (4) Ivi, ed. cit., pag. 26.. Un nobile sdegno accendeva ed infiammava quell'animo sì per natura affettuoso e mite: scordava i suoi mali, scordava esser donna, e parlava «come si combatte quando generosa è la guerra» (5) Ivi, ed. cit., pag. 48.. E la guerra parve cessare e la Scuola fu vista, sempre meglio fiorendo, pervenire al suo terzo anno di vita, e potè la Fusinato, presente la Principessa di Piemonte, dire dei buoni effetti conseguiti, e di «quelle classi elementari, che, compiendo il voto di molte madri, il municipio istituiva come regolare inviamento alla Scuola superiore » (6) E. FUSINATO. Discorso nella solenne distribuizone dei premi, ecc in Scritti educativi, ed. cit., pag. 277., la quale iniziato avendo in questo anno il terzo corso, avrebbe aperto nel vegnente il quarto (7) Ivi, id., id., pag. 278.. Si aggiungea a crescer lode lo stabilimento di un gabinetto di fisica (1) E. FUSINATO, Ricordi, id., pag. 278., e di una biblioteca femminile (2) Ivi, id., id., id.. In sul volgere poi dell'anno scolastico due ispettori per la prima volta dal governo mandati suggellavan col loro severo giudizio le lodi di che le erano stati larghi quanti aveano cuore e senno (3) Ivi, id., ed. cit., pag. 85.: subito dopo, gli esami mostravano il frutto dei buoni studi, e il consiglio comunale discuteva e approvava il regolamento di quella scuola, nel quale ebbero parte valentissimi uomini, e grandissima l'Erminia, che con grande suo onore vollero ne aiutasse la compilazione, recando il tesoro dell'esperienza ricolta nei tre anni che quell'insegnamento durava (4) Ivi, id., ed. cit., pag. 89..

Tali essendo le condizioni di questa scuola ne dovrebbe sembrare che ogni guerra. per quanto sia la malignità di alcuni uomini, avrebbe dovuto cessare, e per sempre. Non fu così, e nel luglio del 1876 fu la scuola vilmente assalita dalle ingiurie di alcuni villani, e l'Erminia stessa ne ebbe offese, perdio, non meritate, e che furono cagione di publiche e spontanee dimostrazioni di sincera e meritata estimazione (5) Ivi, id., ed. cit., pag. 88.. Se non pertanto si vide in breve come i malevoli potessero avere contro la Fusinato e la Scuola sua più mala voglia che opera, pur le loro maligne insinuazioni ne lasciarono, come suol sempre accadere un qualche segno, e il valente Pignetti, che con tanta lode insegnava in quella Scuola la istoria dove cessarsene, proponendo in sua vece il Belviglieri, «nome caro, acquisto prezioso,» scriveva l'Erminia, «ma che non le togliea le increscesse il sacrificio imposto a persona sì degna» (6) Ivi, idem, edizione cit., pag. 89.—«La causa della prima guerricciuola fu la istituzione della Scuola elementare a pagamento premessa alla Scuola superiore, chè parve ad alcuni questa per quella in vilisse, mentre ne venia un securo e stabil fondamento appunto della superiore. Della seconda guerra cagione apparente fu la spesa che la Scuola superiore costava al Comune; segreta e vera il desiderio di tale di aver in essa l'insegnamento, che da prima senza alcuna mercede, poi con picciolissima rimunerazione, aveva il Pignetti. E questi rinunziò l'ufficio, ma non già per che cadesse dell'animo e lui le maligne accuse impaurissono: «Io rinunciai allora perchè vidi appormi a colpa quello che m'era sembrato aver qualche parte di merito, ma più specialmente perchè anche taluni consiglieri, amici miei, trovarono che quello che era stato buono nei primordi della scuola non poteva divenire definitivo, secondo il regolamento e l'organico da deliberare, cioè che il Direttore generale delle Scuole comunali, e però anche della Scuola superiore, fosse in una di questa anche insegnante e perciò in qualche modo anche soggetto alla Direttrice. Ma perchè non si voleva che lo accettare la mia rinunzia avesse neppure l'ombra di offesa, il Consiglio comunale deliberava in quella congiuntura «un voto di ringraziamento per l'opera da me prestata in prò della pubblica istruzione in Roma,—per modo che il lamento della Fusinato per la mia rinunzia esprime l'animo suo buono e gentile; ma io, tutt'altro che approvando il linguaggio tenuto dai giornali, non potevo non ritenere conveniente quella mia rinunzia, e lo averla il Consiglio accettata.»
Così ci scriveva il commendator Pignetti, e noi abbiamo creduto, a torre ogni equivoco, qui riportare le parole sue.—Del resto chi volesse le vere cagioni di queste guerre più o meno gravi, deve cercarle nelle donnesche gelosie, onde, senza che pur forse se ne avvedesse chi le facea, nascevan chiacchiere poco benevoli alla Erminia. Invidiavano vederla in quell'alto ufficio pur da meno del valor suo; invidiavano la riverenza con che si ascoltavano e si accoglieano le sue parole e le sue proposte; invidiavano la sua virtù, il suo valore fatti più singolarmente apparire per soavissima grazia.
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§ IV. Pur le male arti contrastar possono, non preterire il bene, e, tutta lieta speranze per la scuola, potè l'Erminia recarsi a passare l'estiva stagione a Venezia, sperando acquistar forze alle fatiche future, le quali nel nuovo anno scolastico si cresceano assai per aver tolto l'incarico di insegnare la morale anche nel terzo e nel quarto anno degli studi (1) Ella non volea per ciò remunerazione alcuna: ma al Consiglio comunale non piacque giustamente assentire al desiderio suo. A pag. 80 dei Ricordi, ed. cit., puoi vedere le due belle lettere che intorno a ciò scrisse al Sindaco di Roma..

Tornò a Roma; ma se rivide la sua Scuola non rivide le sue scolare, che solo poterono accompagnar all'estremo riposo la salma di questa donna, che era stata nella scuola quale nella famiglia.

E qui ci sia concesso dire che nella Scuola e nella famiglia fu miracolo di virtù, di amore, di opera, pel profondo e schietto sentimento ch'ella avea della religione. Torca la bocca chi vuole, noi lo diciamo franchi; e francamente aggiungiamo, che, a parer nostro, non può esser donna di vere virtù, nè familiari, nè cittadine, se non abbia vivo e profondo il sentimento della religione; religione, intendiamo dire, semplice e pura, che è certezza di virtù, fede nel bene. E l'Erminia sentiva Iddio, e l'adorava; e, vedendo i verdi campi, il cielo sereno, i fiori, i colli, il sole, le zampillanti fontane, gli augelli canori, esclamava: «E vogliono fare dei templi a quel Dio, che creò tutto questo!… Tutto questo è un tempio» (1) E. FUSINATO, Ricordi, ed. cit., pag. 75.: e si addolorava vedendo «i giovani che ostentano una incredulità spaventosa. Essi non possono essere persuasi, convinti delle dottrine di cui si vantano discepoli; ma intanto offendono le anime più dellcate, turbano le più fidenti, e prendono la funesta consuetudine di deridere quanto non sanno rispettare. I vecchi, invece, consci che la vita senza fede sarebbe tormento incessante, tengono sempre più alta la loro bandiera, si stringono sempre più alle loro credenze, e le difendono valorosamente con una convinzione che desta l'ammirazione verso chi la possiede, l'invidia più nobile nelle anime che hanno la sventura di esserne prive» (2) Ivi, id., ed. cit., pag. 38.. E tutta si allegrava intendendo il padre Giacinto dire: «l' appartenere a varie chiese, non deve dividerci nella carità: cattolici, protestanti, israeliti, possono unirsi per compiere un'opera buona. Si può osservare la propria fede religiosa, anche facendo del bene insieme a chi ne osserva una diversa. Stringiamoci intanto nell'amore del prossimo, e in altro luogo, fidiamoci di potere stringerci tutti anche in quello d'un solo Dio. Non voglio l'indifferenza, ma la tolleranza!» (3) Ivi, id., ed. cit., pag. 14. E in queste parole è l'animo della Fusinato. Leggano, leggano queste parole le giovanette che noi trascriviamo per loro (4) E leggi anche le belle parole, che contro certi, che intendevano censurare tali che andavano alla messa del Natale, scriveva nei Ricordi, ed. cit., pag. 11.. E a lei giustamente parea in educando esercitar cultò divino: «Trasmutando in iscuole i conventi, parmi le anime dei frati antichi debbano benedire le nuove generazioni che ricoverano in qualche modo sotto ai loro auspici» (1) E. FUSINATO, Ricordi, ed. cit., pag. 74.: e quando la Schwabe, parlandole appunto della religione, le disse: «Io adoro la fede di Abramo, la saggezza di Mosè e l'amor di Cristo—ecco la mia Trinità,»la Fusinato pensava che, «se in ogni città nostra vi fosse una di queste donne così operose nel bene, l' Italia sarebbe moralmente redenta» (2) Ivi, id., ed. cit., pag. 76.. Ma quali fossero le sue credenze ella mani festa appieno nella sua canzone alla Marianna Florenzi Waddington, che le avea donato il suo saggio intorno la filosofia dello spirito, e della quale giova riportar queste stanze:

Immensa scala è la Scïenza, tesa Fra terra e cìel; le genti D'ogni gradino all'affanosa ascesa Seguon novi portenti: Del più nobile sangue indarno aspersi Veggiam quei santi acquisti, Indarno al Genio eternamente avversi Veggiam gli stolti e i tristi; Il Genio ognor procede; Perchè sa che là in alto il Dio procede. Nè paventa quel Dio, come i bugiardi Suoi sacerdoti, il vero. Egli è fonte di luce ai nostri sguardi, Non tenebre e mistero! Provvido e non avaro, Ad ogni età sol quanto mèrta Ei dona, Perchè, sudato più, le sia più caro L'allor che la incorona; Ed or l'età prepara Ch' abbiam Fede e Saper soltanto un'ara (3) Ivi, in Versi, ed. cit., a pagg. 158 e 159..

E. così essendo, sempre più appare quanto irreparabile iattura fu la sua morte, chè quanto ancor di bene, vivendo, far potesse a quella sua Scuola, e in essa all'Italia dir non è dato: sa chi vide la cura che in quattro anni, da che era stabilita vi mise, tutto osservando, tutto studiando, tutto meditando, tutto notando. E le sue note erano sì savie, che, con mirabile rispondenza, non poche sono state recate ad atto dal Ministro Baccelli, che ha in poco tempo saputo con molto senno infonder vita novella nel publico insegnamento, e che vorrà recarlo a gloriosa meta se gl' irrequieti spiriti di parte gliene lascino il tempo. Oh che danno che lui proposto alla publica istruzione non sia più viva l'Erminia che avrebbe in lui trovato un aiuto sincero e gagliardo (1) Così ad esempio della proposta fatta nelle sue note volea che spiegando il catalogo «nelle scuole comunali non si andasse avanti del quarto comandamento, dicendo che degli altri torna inutile la spiegazione a'fanciulli, i quali naturalmente non possono nè ammazzare, nè giurare il falso testimonio»(Manoscritto inedito). Voleva che «spiegando certi punti della Storia Sacra, come, per esempio, quello di Giaele e di Giuditta, si usasse molta cura per non fare nascere nei bambini delle idee contrarie alla pietà, alla giustizia, e ai sacri doveri dovuti agli ospiti ed ai viventi. L'accennare sagacemente alla diversità dei tempi e dei costumi, ed al progresso della civiltà promosso e permesso da Dio, può agevolare al maestro una soluzione che non offenda nè le avite credenze, nè i nuovi doveri nè ciò che la civiltà richiede. «Si pensi,» continua la Erminia, «che i maestri che fanno il panegirico di Giuditta e di Giaele, dovranno un giorno farlo di Cammillo e di Fabrizio, e badiamo che non si trovino in contraddizione.» (l. c.) Voleva essa invece che venga spiegata largamente la Storia Sacra nelle scuole normali, affinchè le future maestre possano insegnarla più opportunamente» (Memorie scolastiche, ms. ined. pag. 19). E savi consigli dava intorno ai temi dei componimenti, «i quali devono giovar insieme alla mente ed al cuore, alla istruzione ed alla educazione» (l. c. pag. 18). E sino intorno ai quesiti aritmetici «i quali per lo più si aggirano ostinatamente e grettamente sopra aride speculazioni commerciali, mentre potrebbero elevarsi a qualche semplice pensiero di beneficenza e di cortesia, come doni agli amici ed ai poveri,» e desiderava che gli esami finali fosser fatti nel giugno affine di poter dare le vacanze nella parte più calda dell'anno» (l. c. pag. 3) come ha appunto provveduto il Baccelli.—Abbiamo voluto dir queste cose perchè speriamo sieno non senza frutto alle future maestre d'Italia..

Tra le considerazioni giudiziosamente fatte e notate dall'Erminia, una di tutte ci par savissima, e da qui recarsi: «Uno degl'inconvenienti,» essa scrive, «che maggiormente mi spiacque verificare in tutte quasi le scuole, sia governative come comunali, da me visitate, si è che gli alunni entrati in una classe dimenticano la massima parte di ciò che hanno appreso nella classe antecedente. Di questo inconveniente gravissimo dobbiamo fare principale rimprovero ai maestri, i quali, interpretando grettamente, poltronescamente il programma governativo, prendono per il tutto ciò che non è che un limite, e di altro non s'occupano all'infuori di ciò che è scritto, come se le cognizioni del fanciullo non dovessero essere una catena non mai interrotta, e il cui progressivo legame può unicamente mantenere l'ordine in quelle menti giovanette. Il maestro, appena riapre le scuole, per riparare al danno delle troppo lunghe vacanze, e per disporre opportunamente gli allievi ad apprendere le nuove materie, dovrebbe dedicare un mese e forse più, alla ripetizione regolare e costante delle materie già studiate, le quali poi devono tutte di tratto in tratto ripetersi nel corso ell'anno scolastico» (1) E. FUSINATO, Memorie scolastiche, ms. in. pagg. 12 e 13..

Alcun dirà: sapevamcelo: sì sono cose tutte che a udirle si sanno, ma che non mai si ripetono tanto che siano una volta poste in atto: giova sperare che il nome e l'autorità della Fusinato valga, in ripetendo, efficacia. Della Fusinato, che, parlando secondo esperienza grandissima e singolar riflessione, e sapendo come le picciole cose partoriscan le grandi, ne usciva pure in questa considerazione, la quale ci par tutta nuova e molto savia ed opportuna, la quale si è, che nelle scuole elementari venendo meno per ben una metà dell'anno l' insegnamento dei lavori femminili, per ciò solo che manca la materia prima in cui insegnare a lavorare, sarebbe buono che i maestri movessero i municipi ad allogare alle stesse scuole comunali la cucitura di biancheria della quale abbisognassero essi, o le opere pie da lor governate, o la publica beneficenza; dei quali lavori dovrebbero occuparsi tutte le fanciulle, senza nessuna eccezione in ogni dì che venissero alla scuola, niun lavoro recar potendo da casa loro (1) E. Fusinato Memorte scolastiche, pagg. 13 e 16..

§ V. Avanti di finire di parlare della Fusinato, quale educatrice, non possiamo non far motto di una mirabile istituzione che surse insieme con la Scuola sua e con lei prosperò, il Consorzio per la istruzione superiore della donna. Non standosi contenta a preparare all' Italia madri secondo i nuovi tempi, volea pure che le presenti imparassero i loro uffici e sentissero degnamente di sè: e questo consorzio sorgeva, ed essa scriveane nei suoi Ricordi queste mirabili parole: «È la prima associazione di donne italiane che si costituisca da sè, senza chiedere le proprie norme che a sè stessa. Finora le donne si radunavano o nelle sale da ballo o nelle chiese—i due estremi, e spesso l'uno confondevasi con l'altro.—Che si divertano purchè onestamente, che assistano alle funzioni religiose purchè non sia con spirito di parte e bigottismo (2) Meglio dirai Ipocrizia e Bacchettoneria, secondo i casi., ma che abbiano pure un centro (3) Sara bello questo uso di centro per Luogo, Istituzione, ma noi nol crediamo., ove le attiri il desiderio d'imparare, di sviluppare le loro facoltà di mente e di cuore. Lo intendo; queste conferenze non saranno sufficienti a dare completa l'idea d'una scienza, ma se bastano ad ispirarne l'amore, a farne sentire il desiderio, a mostrare il modo di studiare, d' imparare anche da sè, non faranno un gran bene? E che vi farebbero le signore che vi assisteranno (4) Assistere per Esser presente, non invaghirtene. nel tempo che vi consacrano? Quanto diverse potrebbero essere le risposte» (5) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pagg. 35 e 36.. E davvero non poteano spender meglio l'ora; chè ogni domenica, vari argomenti discorrendo, o di scienze, o di storia, o di lettere, là favellarono i piu eletti ingegni d'Italia: o fosse il Mamiani che vi ragionò intorno il bello; o il Tabarrini, che, parlando del Capponi, «lo dipingeva vero, intero» (6) Ivi, idem, ed. cit., pag. 84, come ne fa fede il bel libro, che poi intorno a lui ha stampato (1) Gino Capponi, i suoi tempi i suoi studi ecc. Firenze, Barbera, 1880.; o il Berti, che, parlando della femminile cultura, fece l'ultima conferenza, a cui potè esser presente l'Erminia (2) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 85.; o finalmente il Belviglieri che con bene ordinato disegno in spedito discorso compiutamente in dodici lezioni trattò della storia delle lettere italiane (3) Furono nitidamente publicate in Roma nel 1877 coi tipi del Galeati d'Imola..

Come fu bello vedere raccogliersi nell' aula maggiore della Scuola superiore ad udire quelle conferenze il fiore della borghesia e dell'aristocrazia femminile, ed esempio a tutte fra loro Colei che oggi è Reina d'Italia, che «cara e gentile» scrivea la Fusinato «potrà fare del bene assai al paese, purchè i tempi permettano ciò» (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 87, e aggiungeva: «È sì delicata che Dio sa se reggerebbe alle procelle!…». E come era dolce vedere in mezzo a loro l'Erminia «rasserenare,» secondo scrive il Belviglieri, «tutto ciò che la circondava col fulgore de' suoi occhi e l'incanto del suo sorriso, e, quel ch'è meglio, col lume del suo ingegno che si manifestava con una graziosa e arguta favella.» Quanto era dolce vederla quando i migliori luoghi di quelle conferenze «con quel moto di testa tutto suo si compiacea d'approvare… e… volgendosi intorno, parea volesse far notare e approvare da chi la circondava. Ella non gioiva tanto di sè e dei doni dal cielo a lei compartiti, quanto di ciò che anche mediocremente buono e bello s'affaticava di rilevare negli altri. E questa era la meno alta delle virtù che splendevano nella donna eminente, in cui non si sa se più lodare o la patriottica poetessa o la letterata modesta, o la operosa cittadina, o la sposa e la madre amatissima» (5) Belviglieri, op. cit., pagg. VIII e IX..

E farsi amare ed essere amata fu il suo desiderio, il suo bisogno, sì nella scuola come nella famiglia: e come nella famiglia fu nella scuola adorata, e questa viva corrispondenza d' amore fu tutta la sua compiacenza più bella (6) Leggi nei suoi Ricordi, ed. cit., pag. 8, con quanta dolcezza non ricorda il di 24 di dicembre 1871, in cui le allieve delle conferenze pedagogiche, trovato, in chi sa qual calendario, ch'era il giorno dedicato a una santa Erminia vennero a farle auguri cordiali, e con che satisfazione dell'animo rammenta questo stesso giorno nel 1874, in cui, essendo vacanza, senza nulla saperne, trovò nella grande aula della Scuola superiore ragunati di cheto, con le alunne e i lori genitori, ispettori e insegnanti, per recarle il saluto del cuore e udir cantare un inno per lei, posto in musica dal maestro D' Este..

E non pure le alunne e i maestri furono sempre presi dal desiderio di mostrarle affetto, e di farle quelle onoranze, che, più ella cercava sfuggire, e più le fiorivano e le si moltiplicavano attorno ovunque ella fosse, ovvero apparisse; ma i servi stessi venian presi dal desiderio di farle onore, ed erano avvolontati di poterle dire una parola d' affetto. E quanto non le era cara una dolce parola d'affetto! E quanto non le era cara la dolce parola di questa umile ma sincera gente, quasi in quella loro parola ella avesse la più secura prova della estimazione in che era tenuta! Ed è bello esempio alle italiche giovanette il sapere come questa donna, a cui eran larghi di laude non solo gli uomini più insigni e le più nobili donne d' Italia, ma la stessa Principessa Reale, che con lei si piaceva in famigliari colloqui dimorare non rado; è bello esempio vedere come si piacesse delle lodi di una povera donna, della custode delle scuole per le conferenze magistrali (1) «Oggi una povera donna, la custode deile nostre scuole, mi disse delle parole che mi fecero tanto bene, appunto perchè venivano da persona così umile. Sapermi amata e stimata nella mia scuola m'è sì caro» (E. Fusinato Ricordi, ed. cit. pag. 77)..

§ I. Dobbiamo ora a compimento del nostro lavoro intorno ad Erminia Fusinato, dire di lei nelle lettere; e serbandoci a dir poi dei suoi scritti in prosa, e quindi degli studi suoi, anzi tutto diremo delle poesie.

Di Erminia Fusinato, scrittrice in rima, con la potenza sua parlò quello scrittore che è Marco Tabarrini nella prefazione che mandò innanzi alla prima stampa, che dei versi di lei fece nel 1874 il Le Monnièr. Sebbene le parole nostre non vogliano in tutto e per tutto accordarsi col giudizio ch' egli ne fece, pur non possiamo nè vogliamo tacerne.

Da molto tempo in Italia il gran desiderio di cessare ogni fatica da noi ci ha portato ad allegramente giudicare anche in lettere e in arte con la mente altrui, e non ci par vero. Noi, bene o male che dir possiamo, ci piacciamo di cercare con la mente nostra le opere dell'ingegno, e, secondo nostro intelletto, farne giudizio. E, venendo senz' altro ai versi della Fusinato, candidamente diremo, che ella, meglio che tra i poeti, nel vero e prepotente significato della parola, ripor si dee tra coloro che furono detti dicitori in rima.

E qui occorre intenderci bene.

Il Tabarrini, giustamente distinguendo tra i poeti di vocazione e queglino di elezione, disse che la Fusinato era di vocazione, e disse bene. Ma basta egli la vocazione per esser un poeta? A parer nostro no, come non basta per essere nò un musico, nè un dipintore, nè uno scultore. Si nasce poeti, fu detto; ed è vero: ma non si apparisce, e non si rimane, senza l'aiuto necessario di molte, moltissime cose, fra cui principalissima parte hanno l'istituto della vita, il mondo in che viviamo, gli studi fatti.

Or bene; il mondo in che visse la Erminia fu assai ristretto; e fu sua gran ventura; ella potè in quel mondo ristretto serbare incorrotta la parte migliore della donna, e serbarsi donna meravigliosamente operosa e benefica nella famiglia e nella scuola. Nella casa del padre, come in quella del marito, non respirò se non affetti gentili e puri, mentre dalle socchiuse finestre l'aure vezzose le recavano i soavi profumi rapiti ai fiori del suo giardino: giovinetta ancora sentì con tutta la forza dell'animo gentile l'affetto del natio paese, ma non sentì, ovvero sentì ben da lontano, il fremito e la tempesta delle delire passioni. Imparò ad amare la sua terra natia e l'Italia tutta, e ad abborrir lo straniero dal padre e dai fratelli, e, più che da tutti, dall'amato sposo, che i propri affetti le riversava nel cuore in un'onda di poesia; chè Arnaldo Fusinato era nato poeta, e si era nudrito e cresciuto tale nel turbinio del mondo, sia che infastidisse in sulle panche dell' Università, sia che scorazzasse fra le allegre baldorie di capestrati compagni, sia che congiurasse cogli ardimentosi, ovver combattesse coi valorosi, secondo il tempo portava, pel patrio paese. L'Erminia in quei cari e brevi confini ristretta, sapeva che vi era un mondo corrotto, in cui le passioni si agitano violente, e furentemente abbattono, travolgono, trascinano: ma nol conosceva: come un'eco spiacevole le risonavano talvolta intorno; e pia e gentile, avrebbe quasi voluto non sentir neppure quell' eco; avrebbe voluto che fossero un inganno, un'illusione de' sensi; avea troppo senno da non vedere che il male ci doveva esser pur troppo, ma avrebbe voluto che non ci fosse. E di qui appunto nasceva quella sua ribellione a sentire parlare male di nulla e di nessuno, ed a noi stessi, che eravamo in filiale dimestichezza con lei, e a cui perdonava pur tante cose, non fu mai possibile, non solo sparlare di persona, ma neanche, come diceva il Berni, delle cose mal fatte dir male

Tale essendo, Erminia Fusinato, per vocazione avesse alla poesia, dovea questa in lei prender forma e misura dall' animo e dalla vita sua; a questa vita, a quest'animo doveano accordarsi i suoni della sua lira, e vi si accordarono stupendamente.

Ma ciò basta per dire di lei veramente, in tutto il potente significato della parola, fu Poeta?

Noi crediamo di no. Se ad essere Poeta bastasse venire in eccellenza in una tale o tal altra manifestazione di una special parte del mondo esteriore specchiata dalla fantasia, basterebbe. E, questo per avventura avvisando, potè il Tabarrini chiamare la Fusinato Poeta, e, con questa mente alle sue poesie risguardando, noi vorremmo esser d'accordo con lui. Ma noi dicendo Poeta, intendiamo ben altro. Per noi Poeta vuol dire esser gridato tale da tutta una nazione. E perchè una nazione gridi alcuno Poeta, essa vuol ritrovare nella poesia di lui specchiato l'universo, rappresentata intera sè stessa con la significazione di tutti i suoi sentimenti, di tutti i suoi affetti, di tutte le sue passioni, che sente ed intende, non solo, ma di tutti i sentimenti, gli affetti e le passioni ancora, che confusamente provò, e non sa sì chiaramente significare a sè stessa. La nazione per salutare alcuno Poeta vuole in lui un divinamento di sè stessa, vuole ch' egli raccolga da lei la idea monca, incerta, nebulosa per fargliela riapparire dinanzi intera, secura splendida. Allora lo saluta Poeta, e si compiace in lui, compiacendosi in sè stessa, chè ogni uom che legge ritrova in lui sè medesimo ingrandito, nobilitato, perfezionato.

§ II. Questo essendo, non vorremmo per poco dubitare se ci sia mai stata una donna, e ci voglia mai essere tra noi, la quale possa veramente essere detta Poeta nel senso che dichiarato abbiamo, e nel quale vorrebbe esser tale, non solo pel tempo suo, ma per tutti i tempi. Chi è oggi (salvo i non molti che studiano) i quali si sappiano delle rime di Vittoria Colonna, che ebbe pur tanta vocazione alla poesia, e che scrisse rime, molte delle quali non sdegnerebbe a lui fosser recate il Petrarca, e che scrisse con tanta leggiadria e purezza di dettato, che può esser forse uguagliata, superata non certo? E, se più popolarmente ricordata, Gaspara Stampa, non deve alle forse la sua nominanza, che ancor dura, ai suoi pietosissimi casi, sebbene i suoi versi avessero e possano aver ancora negli animi maggior rispondenza, perchè le miserie d'amore furono, sono e saranno, mentre duri il mondo, a moltissimi comuni?

Una donna vero Poeta non crediamo che possa facilmente sorgere, se pur non sorga quando sarà emancipata! Non perchè non possa avere la vocazione, l'ingegno, l'attitudine, e anche gli studi bastevoli, se vogliamo; ma perchè la donna ha suo regno nella famiglia, e, per esser Poeta, occorre avvolgersi nel mondo: e invero solo in gran parte smettendo l'abito e quasi la femminil natura, una donna francese potè venire salutata Poeta dalla sua nazione (1) Giorgio Sand.. Nulla di questo prova maggiore. Sì certo che nella famiglia vi ha un fonte inesauribile di soavissima poesia: che vorremmo appunto chiamare la lirica della famiglia nella quale la Fusinato fe' prova eccellente: ma gran divario è da questa alla lirica del Petrarca, onde questi a ragione è Poeta nel senso che detto abbiamo. E le parole nostre comprova la sentenza del Tabarrini quando dice che in lei il Poeta non ha ucciso la donna, sì bene aver dato maggior rilievo alle sue qualità: scrivendo questo ha dovuto il Tabarrini sentire essere quasi impossibil cosa alla donna divenire Poeta, nel pieno e vero senso della parola. senza cessare la propria natura.

Un grande ingegno dei tempi nostri (2) Vito Fornari, Arte del Dire, vol. IV. ha detto che la poesia è rifacimento dell'anima umana irradiata dalla divina bellezza: dell'anima umana, sì: ma che contempla la parvenza delle cose le raccoglie e le trasforma colla fantasia, vi si riposa con l'affetto, Di qui a nostro parere, vero Poeta colui, la cui anima speglia il mondo, lo fa suo, e, fatto suo, lo trasforma in nuove creazioni. Più è ristretta questa intuizione del mondo, e più saranno ristrette le creazioni del Poeta: sì certo che, se avrà vocazione poetica, e squisitezza di sentire, rifacendo questa o quella parte del mondo specchiato, ne uscirà poesia cara e ammirabile, ma non sarà vero Poeta, chè, nota essenziale della vera poesia, secondo intendiamo, è la universalità.

Il Tabarrini ha notato a ragione che in ogni componimento della Fusinato) si trova sempre una strofa, un verso che soltanto una donna avrebbe potuto scrivere così (1) Prefazione all'e lizione Fiorentina, in Erminia Fusinato, ed. cit., pag. XIII.. Certamente perchè il suo mondo è la famiglia, e la sua musa è l' amore di essa disposato a quel della patria, e, anche quando esce in argomenti che non sono dalla famiglia, sono argomenti ricevuti e carezzati nel grembo della famiglia, e rinnovati quasi e ravvivati in quell'onda di purissimi affetti, cui la famiglia dà vita e nutrisce.

Così pregata di dettare pel VI secolare anniversario dalla nascita dell'Alighieri alcuni versi, ella prendeva ad argomento Gemma Donati. Tutta Italia era piena del nome, dei gesti e delle opere di Dante: nel mondo esterno tutti, in varie guise, vedevano e in vari modi cantavano il poeta civile, tutti pensavano e carezzavano la sua gloriosa ispiratrice, la famosissima Portinari, ma niuno ricordava di Gemma: solo amorosamente cercata nello stretto mondo della famiglia da una donna, col cuore di sposa e di madre, risorgeva naturalmente a lei dinanzi, si abbelliva e illuminava la figura della

…donna ch'ei per sua si prese, Colei che il lutto dell'amor primiero Tornavagli men fiero, E gli addolcia gli esigli Crescendogli d'intorno incliti figli (2) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 137..

La gentile poetessa s'immedesimava allora nella Gemma, nel cuore suo; e usciva in queste stanze, in cui è tal gentilezza di pensiero squisito che non può imaginarsi l'uguale:

Oh quante volte mentre intenta solo Alle miti apparia cure materne, Forse seguiva il volo Del suo Poeta per le vie superne, E se di un'altra mormorare il nome L'udiva, oh! chi sa come Invidio la sorte Della rival temuta oltre la morte. E forse allora un gemito profondo Reprimendo a fatica, i lagrimosi Occhi nel capo biondo Dell'ultimo suo nato avrà nascosi, Perchè quelle gelose ansie tremende, Che sol chi ama intende, Non turbasser la cara Alma che l'affliggeva, e n'era ignara.

§ III. Dal già detto vuole apparir conseguenza necessaria della natura e della vita della Fusinato il prendere a soggetto dei suoi versi quell'argomento che spontaneo a mano a mano le si offeria; e ciò sino dalle sue primissime poesie, che, quasi tutte e sempre, si sentono avvivate dall'affetto di Dio e della Patria nel seno della sua famiglia.

Assisa tra i fiori del suo giardino, legge il divino cantore ed esclama:

Miei fior, miei versi oh come E quanto v'ama il cor! No, di gentile il nome Non s'addice a chi sprezza i versi e i fior (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 2..

Vede un augelletto sulla finestra, e, mentre con la mano vorria carezzarlo, sen fugge, ed ella dice:

Schiavo non vo' già farti, Desio mi prende solo Di più presso mirarti… Augelletto gentil, ferma il tuo volo! E fuggi ancor?… Perchè?… Arresta, arresta i vanni, Erminia al par di te, Augelletto gentil, odia i tiranni? (2) Ivi, Idem, Versi, ed. cit., pag. 3..

Quanta dolcezza prende qui nell'animo suo l' affetto della patria! l' odio stesso per gli oppressori di soavità par si vesta Jacopo Cabianca, chiaro poeta, battezza col nome della giovinetta Erminia una nuova varietà del Dianto ed ella subito la saluta in questi versi, profumo vero di soavissimo affetto:

Presso il gentil poeta Che il nome mio ti diè, Sorte tu avrai più lieta Che io dar non posso a te. Pur senti, o mio Dianto: Quand' ei ti vien vicin Armonizzando un canto Tra i fior del suo giardin, La tua corolla schiudi, O mio Dianto, allor, E nel tuo sen racchiudi L' inno del tuo cultor. E se avverrà che in dono A me ti porga un dì, M'apprenderai quel suono Che dal suo labbro uscì (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 11..

Ma Erminia Fusinato sente l'affetto potente del suo paese e ha vivo in sè il culto dei grandi che gli fecero onore: e ancor fanciulla alla morte di Tommaso Grossi esclama:

Itali vati! se la vostra lira Del triste evento alla pietà c' ispira, Concordi offrite sull' altar funesto L'inno più mesto (2) Ivi, idem, ed. cit., pag. 36..

E il primo Arnaldo rispondeva ispirato all'invito pietoso (3) Arnaldo Fusinato, Poesie, Vol. II., pag. 291.. Ancor fanciulla piangeva la morte di Silvio Pellico (4) E. FUSINATO, Versi, ed. cit., pag. 13., poi di Teobaldo Ciconi (5) Ivi, id. id., pag. 88., d'Ippolito Nievo (6) Ivi, id. id., pag. 100., di Luisa Grace (7) Ivi, id. id, pag. 115., e quando l'Italia commemorava solennemente il quinto anniversario secolare della morte del Petrarca, ella in due sonetti intrecciava il nome di lui con quello della diletta Arquà (1) E. Fusinato. Versi, ed. cit., pag. 296.. E in tutti questi versi è sempre un pensiero gentile, che, come in quelli a Gemma Donati, non potea venire che da essa, donna anzi tutto, e sempre donna sopra ogni cosa; e ben n'è prova la bellissima saffica, che, invitata dal gonfaloniere Peruzzi, scrivea pel ritorno delle ceneri del Foscolo, nel dì 24 di luglio del 1871, volgendola alla Donna gentile, che fu Quirina Mocenni nei Magiotti, a quella donna

Il cui affetto era un culto, era un' es enza Tratta d' ogni virtù dal miglior seme, Tenerezza di madre e sapienza E genio insieme (2) Ivi, id, ed. cit., pag. 228..

Non vi ha scrittore, e quanti non sono! che scrivendo libri e libercoli intorno al Foscolo abbia così bene compresi l'animo le cure, gli affetti di quella donna verso di lui, come l' Erminia in questa sua ode.

§ IV. E come non cantasse se non secondo il suo animo e l'animo suo fosse tutto nella famiglia, mostrano i versi scritti pel Leopardi, i quali furono «ispirati dal desiderio vivissimo di spargere una stilla di conforto nell'amaro che deriva dalla lettura di questo sommo poeta, che «crederei,» scrivea, «poter chiamare il Re del dolore. Ora mio figlio lo leggerà e vorrei che ne risentisse (3) Avrebbe detto meglio: Provare, Sentire. meno sconfortevole impressione vedendo cosa (4) Correttamente dovea scrivere: Che cosa. la sua mamma ne pensò e scrisse. È un argomento di troppo superiore alle mie forze, ma mi si perdonerà forse l'ardire in grazia degl' intendimenti» (5) E. Fusinato. Lettera inedita A Felicita Morandi, senza data (1871).. E col cuore di madre cantava:

Perdona a noi! chè una lusinga infida È sovente a noi pur fatal retaggio. Verso un'alma sovente Amor ci guida Mesta al divin suo raggio, E, mentre il disinganno essa n' apporta, A noi forse d' accanto e inavvertita Avvene un' altra vereconda e mesta Che invan per noi di flamma arde romita. Ai grandi affanni onde più grande sei Però non ti sdegnar s'io non impreco; Bene impreco ai pigmei Che ai tuoi lamenti fèr languida un' eco Sull'orme tue no che a ciascun non lice Cantar sogni infecondi in vacuo stile, Di sè ci narri e sè chiami infelice, Chi per mente e destin ti sia simile. A te fu il duolo ispirator del canto, L' arte non fu che t'ispirò il lamento, Del dubitar non ti sei fatto vanto. Ma ben fiero tormento, Tal che l'angoscia istessa, Che, del nulla al pensier, pungeati il core, Parmi arcano desio, parmi promessa Che col nostro morir tutto non muore (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pagg. 213 e 214, stanze 7, 9 e 10..

E vi è sempre la donna anche nei suoi versi non forse troppo bene detti politici, prendendo la parola nel significato che oggi comunemente suona, e i quali perciò noi vorremmo dire nazionali. La politica consuma e divide gli animi; il sentimento nazionale li afforza ed unisce: e in vero la Fusinato potè aver cari molti di parte diversa e aver consuetudine con loro purchè onesti e volonterosi del bene del loro paese. Sapeva e ponea mente alle politiche vicende del suo paese, ma non vi si mescolava, e più le considerava e più in lei ingeneravan disgusto (2) E ben lo mostrano le parole che, quando nel marzo del 1876 il Re dava ufficio al Depretis di creare un Ministero di parte sinistra, scrivea nei suoi Ricordi (pag. 83), e l'altre che seguono, eletto il Ministero stesso.. E con ben alti intendimenti, e non presa alle lusinghe di vane compiacenze, di subiti guadagni, di più facili onori, giudicava le cose (1) Così pensando alle condizioni della publica istruzione e a quel bene, che a lei pareva aver fatto in essa il Bonghi, quando il ministero ebbe dalla Camera elettiva un voto di biasimo, scrivea: «Domani non sarà forse più ministro, perchè è uso, se cade un ministro, debbano cader tutti, anche quelli che non entrano punto nella questione. Sarà pur questo effetto di quella che chiamano disciplina di partito. Quante contraddizioni!.. Io penso al paese, e mi domando:—Che uscirà da questo mutamento?… La questione individuale che mi fa?… Guardo la nazione» (Ricordi, ed. cit., pag. 81). E vedendo poi il Correnti tutto sollecito degli amici, e forse più che veramente nol fosse in effetto, e tutto occupato nei publici negozi, dicea di lui: «Con la saggezza del consiglio pare una protesta pure contro le pazze intemperanze partigiane sì degli uni che Correttamente deve usarsi: Come. degli altri che furono e sono gli estremi della politica» (Ricordi, ed. cit., pag. 87).. E ben potrebbe vedere quanto potesse in lei il nazional sentimento chi leggesse le lettere, che in ogni tempo scriveva ai fidati suoi amici; e a noi fra tutti ci piace qui in parte trascrivere quella ch'essa scrivea al Procacci dopo la vittoria di Sadowa, per la quale la Venezia ceduta alla Francia era da quosta restituita all'Italia: «Questi miei poveri paesi si rallegrano della presenza dei nostri soldati e quest'allegria per certo è santissima, ma io per dividerla (2) Dividere per prender parte ricorda non esser del buon uso. bisogna che mi distragga da tanti altri pensieri e sentimenti, che mi tormentano per amore d'Italia; e voi sapete come sia poca profonda una gioia alla quale non può abbandonarsi che a patto d' obliare un profondo dolore. Oh questa commedia che fanno ora giocare all'Italia è cosa che fa piangere amaramente ognun che comprenda la dignità nazionale. Ma parliamo d' altro; pensiamo ad altro, perchè almeno le parole amichevoli non si cangino in vani lamenti» (3) E. Fusinato, lettera inedita Al cav. prof. avv. G. Procacci, del dì 12 di settembre 1866.. Quanta conoscenza del proprio paese e della sua dignità in queste parole! Povera Erminia, che dieci anni dopo, essendo presente alla apertura del Parlamento, e vedendo che questa solennità nazionale non aveva più l' entusiasmo dei primi tempi, esclamava: «Guai per noi se anche il sentimento di patria languisse? che resterebbe?» (4) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 81..

§ V. Non per vana digressione abbiamo qui voluto recare questi tratti della vita della Fusinato, ma perchè ben giovano a mostrare quale lo spirito e lo intendimento di alcune sue poesie: non è la politica, ripetiamo, ma il sentimento nazionale quale deve sentirlo la donna, che pone suo regno nella famiglia. Di qui la ragione per che pure nelle poesie della Fusinato di argomento famigliare vi è sempre o una strofa o un verso che tocca alla patria e ne svela l'affetto, e in quelle che sono volte o alla patria o a fatti civili vi è sempre un affetto gentile e soave che rivela il cor femminile. Così per la nascita della bambina di una sua amica, ella, cantando, le rammenta

Che figli di sè degni Italia omai Piangendo chiede (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 67.,

e vedendo sventolare ancora sulla sua Venezia il giallo e il nero, le grida:

E se non cresca più gagliarda gente Che a lei d'altri color vesta la gonna Steril prega piuttosto eternamente Ogni sua donna (2) Ivi, idem, ed. cit., pag. 68..

Saluta l'anno che muore, e, sentendo palpitarle nel seno un nuovo figliolino, chiede all'anno che nasce

Una libera patria e un degno figlio (3) Ivi, idem, ed. cit., pag. 82..

Saluta piangendo, per gire a Firenze, la sua Castelfranco, e alla sua casa diletta, dopo aver detto di non dire ciò che vide ed udì, che rovesciar la potrebbe l' ira tedesca, chiude il bellissimo sonetto con questa terzina:

Taci, ma ne' tuoi nuovi ospiti inspira L'ansia di libertà che mi tormenta, E nell'esiglio (oh! breve sia) mi tira (4) Ivi, idem, ed. cit., pag. 132..

Così all'incontro, venendo alle poesie civili, nella bella canzone in morte di Teobaldo Ciconi, ella si volge alla sorella di lui e ricorda la propria, la sorellina Emma, morta quando «avea tredici anni di vita e tredici di patimenti.»

Emma, mia Emma, oh chi l'avria predetto Allor ch' io pur fanciulla Sol con un bacio, una carezza, un detto T'addormentava in culla, E nell'amarti presentiva il core Tutto il materno amore, Che non tu gli occhi miei Ma chiuder que' tuoi dolci occhi io dovrei (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 90..

E come bene gli affettuosi ricordi di famiglia non si avvicendano ai gesti gloriosi di Ippolito Nievo nel canto della morte di lui! (2) Ivi, id., pag. 100.. E chi, se non una donna, potrà finire le pietose strofe dettate in nome di Venezia a Maria Pia con questi versi?

Perdona se il verso Di lagrime è asperso, Se il voto del core È suon di dolore! Ma il di che i miei figli Fian tolti agli artigli Dell'austro ladrone Ben altra canzone, O Figlia di Re, T'aspetta da me (3) Ivi, id., ed. cit., pag. 112..

E chi se non donna e madre potea mescere tanta soavità di affetti negli sciolti a Olimpia Savio Rossi in morte di due suoi figliuoli, uno caduto ad Ancona, l'altro a Gaeta, e tanta gentilezza di affetto quanto è nei saffici per le ceneri del Foscolo recate in Firenze? Ma chi voglia vedere a che giunga l'ingegno, come l'amor della patria si disposi a quello della famiglia, valga un sonetto che scrisse dopo la pace di Villafranca, e che intitolato Grido di madre. è un vero grido di affetto, d'insuperabile affetto.

Angelo ignoto ancora e già sì amato Che nel mio seno palpitare io sento, Dimmi, provi tu pur tutto il tormento Ondo mi strazia della patria il fato? Oh quante volte il pianto ho soffocato Per te, amor mio, che conturbar pavento! Ma poi quel pianto, come foco lento, Nel profondo del cuor m' è ripiombato. E sia pur! così i nuovi itali figli A borriran fin dal grembo materno L'empia che ancor su noi stende gli artigli: E questi che il dolor lungo degli avi Ricercheranno e il mal patito scherno, Nel sognato avvenir chi terra schiavi?… (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 79..

§ VII. Ma l' Erminia cantava soltanto secondo l' anima sua commossa e i casi della vita e le vicende del mondo portavano: quando non era commossa, o che l' oppressore potea fare ricadere sino sugl'innocenti figliuoletti la colpa di manifestare l' animo proprio, tacea, o per dir meglio cantava, e i suoi versi celava: e mentre ne scrivea la cagione alla diletta amica la Mander, a Francesca Lutti, poetessa non volgare e fatta singolare dall'affetto del maestro suo Andrea Maffei, la quale di quel suo silenzio pur la rimproverava in un gentile sonetto (2) Perchè non mai stampato qui rechiamo il sonetto della Lutti:

Ad Erminia FuÀ Fusinato. Le dolcezze or di figlia ed or di sposa Ti spiravano al core e all'intelletto La poesia che luce ha dall'affetto, E sposa e madre tu non eri ancora. Ma poi che il nuovo e doppio amor t' infiora La vita e a gaudi ignoti apri il tuo petto, Perchè morta sei tù? perchè negletto Lasci quel canto che l'Italia onora? Rompi, Erminia, il silenzio, e a questo amore Che in te racchiudi come santa cosa, Concedi alfin la tua casta favella. Che se dolce sonò mentre donzella Tu fosti, or che sei madre e lieta sposa Quanto più dolce t'uscirà dal core!

Riva di Trento, 1857., rispondeva in un altro, in cui dice:

… mel credi, allor che ti parea Questa mia musa negliittosa e morta, A me nuovi d'amore inni apprendea. Ma gl' inni appresi, mentre il figlio mio In dolce contemplava estasi assorta, Rider non seppi che a suo padre e a Dio (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 72..

E i suoi versi più belli le furono invero ispirati dall'affetto dei figli e della famiglia. Come non sono belli i sonetti Ai suoi bambini quando, andando per la Venezia sua a visitare il Re d'Italia a Torino, dovè per alcun giorno lasciarli (2) Ivi, idem, ed. cit., pagg. 123 e 124. e, quanto non affettuosi quelli al suo Gino che le donava un fiore côlto per lei (3) Ivi, idem, ed. cit., pag. 155., e come cari quelli che intitola I miei conforti e nei quali esclama:

E l' onda, e il fior che olezza, L'aura che spira e la stella che splende, M'infondono nn' ebbrezza Che sol lo spirto che la prova intende. Le tele pinte, i marmi, Un'imago, un ricordo, un'armonia Valgono a trasportarmi Nei dì più lieti della vita mia.— Questi conforti arcani Che mi vengon dal core e non dal mondo, Agli occhi de' profani Come cosa celeste io li nascondo (4) Ivi, idem, ed. cit., pag. 185..

Oh essa non canta se il cuor non ispira (5) Al Bagatti che volea versi per nozze scrivea: «Versi per nozze è quasi impossibile a me farne de' discreti ove non abbia intera conoscenza degli sposi. E poi non ho tempo, nè voglia per la poesia» (Lettera inedita del dì 27 di maggio 1874).. E, perchè detta il cuore, ha un verso per il glorioso Giovanni Duprè (6) E. Fusinato, Versi, ed. cit., pag. 147., che scolpisce, meraviglia dell'arte. La Pietà, e ha un verso pel Maffei (1) E. Fusinato, Versi, ed. cit, pagg. 190 e 226. e pel Tommasèo (2) Ivi, idem. pag. 189. che provano la potenza dell' ingegno, e ha un verso per i feriti francesi nel 1870 (3) Ivi, idem, pag 206., come pel Convitto d' Assisi che accoglier deve i figli dei poveri maestri,

Figli e orfanelli d' ignorati eroi Che in umil scuola logorar la vita Ed una scuola dar non ponno a voi (4) Ivi, idem, ed. cit, pag. 308..

E così nei suoi ultimi giorni vedendo sulle Alpi partire le nuove cerne, che atteggiano il viso

A mendace sorriso, Ma di conserto vanno Ad affogar nel vin gioia ed affanno (5) Ivi, idem, ed. cit., pag. 318.;

e vedendo partire tanti e tanti uomini per stranieri paesi

Senza un dubbio, un rimpianto, un mesto addio Al paesel natio Sospinti solo dalla facil fede Di minor stenti e più larga mercede (6) Ivi, idem, ed. cit., pag. 30.,

e mirando i pastori

A pascolar pei sottoposti clivi (7) Ivi, idem, ed. cit., pag. 322.,

dettava, seguendo il suo cuore, le poesie intitolate Bozzetti Alpini.

§ VII. Se non che i pregi della poesia della Fusinato, per moltiplicar di parole, noi dir non potremmo com'essa stessa riuscì a dire nella sua saffica intitolata La Poesia della donna (8) Ivi, idem, ed. cit., pag. 230-233., la quale noi vorremmo dire stupenda, se oggi non si fosse finito col chiamar tutto stupendo dalla prosa del Machiavelli a quella dell'onorevole Coppino. La Poesia della Donna, è la piena, la compiuta esposizione della poesia della Fusinato, che, senz'addarsene, andava in quei versi significando e l'animo suo, e il suo ingegno, e i suoi estri, e l'opera sua. Sarebbe colpa imperdonabile qui non recarne la maggior parte:

…i sogni della vergine secreti Ella (la Poesia) vestì d'imagini celesti, E le parlò nei di giocondi e mesti Come parla ai poeti. Allora i cieli, le tempeste, i soli, Una fronda, un effluvio, un'armonia, L' alma della fanciulla ergono ai voli D'ingenua poesia. Gl'indistinti pensieri in chiari accenti Significare anco non sa ned osa, Ma dentro il petto, come fiamma ascosa, Le fervono i concenti. In quanto di più bello e grande vede, L'opra del Cielo reverente ammira, La poesia, che il fiore è della fede, A lei la fede ispira. Crede comun retaggio dei mortali Quella virtù che le si annida in core… Deh! non sperdan del tempo invido l'ali Il suo pietoso errore! Ma volgon gli anni, e dell'umana vita La realtà difficile comprende: Pur la sua poesia, d'amor nutrita, Serena ognor le splende. Tenera amica, pia sorella e figlia, Trova un dovere accanto ad ogni affetto: Essa è la musa del paterno tetto, L'angel della famiglia. Finchè un' ora solenne e cara e mesta Al sen materno trepida la toglie; Sott'altro tetto alla diman si desta… Ieri fanciulla, or moglie! Pur nei cimenti della vita nova Tutti ella serba i miti affetti primi Ed un tributo d'armonie sublimi Per tutti in cor ritrova. Presso il talamo suo sorge una culla Ove riposa un angioletto biondo: Ella assidua lo veglia e lo trastulla E per lui scorda il mondo. Da chi gl' inni apprendea, che, in dolce guisa E varia sempre, a lui solo ridice?… L'amor materno è fiamma ispiratrice, E inconscia (1) Non è certo una bella voce, ed è certissimo di bruttissimo suone. ella improvvisa. Benedetto il tuo canto, e l'ansie e i sogni Che, nato appena, il tuo figlio t'ispira, Gioie e glorie per lui di già tu agogni, E una spada e una lira… Povero eroe, che nelle fasce avvolto Tanta speme le désti e tanta téma, Ella del viver tuo tutto il poema Sente nel cor raccolto! Deh! ch'esule non sia, che non sia oppresso, Ch'abbia una patria gloriosa e forte!… Pugnar vorria, vorria spezzar per esso Le straniere ritorte. Ma poi che tanto non l' è dato almeno, Canta lo strazio del terren natio, Nè son vani quel canto e quel desìo Al suo natio terreno! Redenta è Italia! al portentoso evento, Prova solenne di voler concorde, Anche la cetra sua mesce il concento Delle commosse corole. Se l'alme incerti, sconfortate e sole, Quanto val libertà scordan talvolta, Lo ascoltino da lei, mentre l'ascolta Intenta la sua prole! Nè giammai per civili opre ella sdegna Della sua casa ogni modesta (1) Meglio che Modesta qui tornava Umile. cura; Là gli affetti più sacri onora e insegna Sempre serena e pura. Pur mentre il cibo e la veste prepara Al bimbo che tra i fior scherza e l' appella, Dal cor le irrompe la canzon più bella Che il bimbo intende e impara. Fida alla patria, alla famiglia, al nume Cui serve assidua esercitando il bene, Più che le sue, rammenta per costume E canta l'altrui pene. Spesso, intenta ai doveri, i dritti oblia, Più che la gloria la virtù l'è cara; Paga, se le diran dopo la bara: «Ella fu buona e pia.»

Quale meraviglioso esempio di donna! e dire che non vi è una parola, non una sillaba in questa poesia la quale non renda la viva imagine delle nostra Erminia (2) Crediamo che, appunto dopo letti questi versi, Jacopo Cabianca le mandasse il dì 31 di giugno del 1871 un gentile sonetto, il quale perchè non più stampato qui trascriviamo:

Ad Erminia FuÀ Fusinato. Bella e vispa cosi che rassomiglia, Allodoletta che canta sull'ale, Conobbi una fanciulla e l' ebbi quale Collè altre fosse una mia quarta figlia Ella fu sposa e madre, e sempre eguale Conforto degli amici e meraviglia: Perchè all' immenso amor della famiglia Quel della patria unì che tutti vale. D'allora ogni dì più crebbe in onore, E, alla donna plaudendo ed alla Musa. Italia oggi ripete il suo bel nome. Ed io lo stesso loco entro il mio cuore Le serbai sempre, e, a confessario, scusa Mi sono adesso le mie bianche chiome.

. Così essendo nella poesia della Fusinato vi è sempre affetto puro e vero, non mai delirate passioni: e perciò, come ben nota il Pascolato, «nei versi alla Polonia, in quelli per la morte di Teobaldo Ciconi, nel Fiore del pianto, i dolori di Venezia sono descritti con una verità che ancor ci fa trasalire: non fremiti, non declamazioni, in queste pagine le quali, appunto perchè vive e vere sfuggiranno al solito destino dei versi politici» (1) Alessandro Pascolato, op. cit., pag. 12.. Le quali ultime parole ci menerebbero ora a cercare se i versi della Fusinato dureran veramente.

«Voi scrivete la poesia dell'anima,» diceva l' Erminia in una sua lettera alla Mander, «e questa piacerà sempre» (2) E. Fusinato. lettera inedita Ad Anna Mander, del dì 2 di aprile 1864.. Se così fosse niuni versi dovrebbero rimanere più di quelli della Fusinato. Certamente che quando noi leggiamo certi versi, che oggi vanno per la maggiore in agghindate edizioncine elzeviriane, non possiamo non ripetere quel che il Maffei disse un giorno alla nostra poetessa: «Ma chi sono questi poeti dell' avvenire? Per me sono fanciulli dell' oggi» (3) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 87.. Non pertanto, non volendo di soverchio allungare il dir nostro, chè intorno a ciò occorrebbe lungo discorso, di gran cuore ci accordiamo (sebbene ricisamente affermare non osiamo) con ciò che dei versi della Fusinato sentenziava il Tabarrini ponendo fine alla sua prefazione: «Così com'è, questo volume mi pare che debba tornare accetto all'Italia e posse anche giovare all'educazione del cuore e alla coltura della mente delle giovanette che attendono agli studi delle lettere. È un libro che madri ed educatori possono porre sicuramente nelle mani delle loro figlie ed alunne. Ed anche questo non è pregio di lieve conto, quando si pensa al valor morale di tanti libri di quella letteratura che chiamano amena per darle un nome e che vanno per le mani della gioventù corrompendone il cuore ed il gusto, dopo averne pervertita la ragione» (4) M. Tabarrini, prefazione ai versi di Erminia FuÀ Fusinato, ed. cit., pag. XVI..

§ VIII. Detto delle poesie dir dobbiam delle prose, che quali sono educative, quali letterarie, e da noi secondo lor qualità in due volumi publicate. Delle prime non stimiamo dover qui ora tenere speciale discorso, perchè della più parte di esse, parlando della Fusinato nella scuola, abbiamo, come meglio er acconcio, discorso. Solo qui aggiungeremo che le Conferenze pedagogiche, e meglio ancora le Lezioni di morale sono scritte in un dettato semplice ed elegante così, che, come disse il Vannucci, empie d dolcezza, e che la lingua è corretta e piana come si conviene alle scritture didascaliche (1) Lettera inedita Ad Erminia Fusinato, del di 2 di giugno 1876.. Noi diremo qui invece di quelle prose che dal soggetto e dalla forma tengono più propriamente il nome di scritti letterari, e prima di tutti diremo della Laura del Petrarca, argomento non nuovo, nè facile, si bene vecchio e difficile chi volesse trattarlo avvolgendosi nelle gravissime questioni che han cagionato e ancor cagionano gli amori del Petrarca per essa: e occorrerebbe certo dottrina che non aveva la Fusinato, nè avere potea, chè forti studi non fece mai, e che, quando pur si mise a studiare, dovè più che altro a servigio dell'insegnamento e in quel poco tempo che le concedeano le altre sue gravi occupazioni (2) Nelle lettere agli amici quasi continuamente si lagna del difetto di studi, e nei Ricordi (ed. cit., pag. 73) scrivea: «Ho pensieri gravi e non posso fare neppure quegli studi che vorrei per non essere impari alla condizione mia.». Ed ella dicendo di Laura agevolò le difficoltà dell' argomento seguendo il suo cuore di donna, e pur cercando amorosamente i più autorevoli scrittori che della De Sade scrissero: ma la Fusinato nel sentimento di donna vera e di moglie fedele quale si era, non dovea vedere in Laura se non una moglie fedele, un miracolo di donna, a cui la vittoria sul senso femminile doveva aggiungere gloria: e posto da parte ogni scrittore «per elezione e per convinzione s'attiene alla credenza che Laura sia stata e moglie e madre esemplare, persuasa che l'aver saputo soddisfare appieno a questi ardui doveri, sebbene amasse il Petrarca, abbia a considerarsi la massima delle sue virtù, singolarmente da chi si compiace onorare tali doveri sopra ogni cosa terrena» (3) E. Fusinato, La Laura del Petrarca in Scritti letterari, ed. cit., pag. 99.. Per la Fusinato gli amori del Petrarca e di Laura sono aspirazioni platoniche a cui «nel decimo. quarto secolo le spose più caste potevano senza vergogna palesamente assentire,» e «dalla persuasione ch'ella fosse maritata e non abbia offuscato mai il decoro di moglie» trae «nuovo argomento per compiangere il suo amore infelice e per ammirare quella virtù che in lei significò veramente Potenza di sacrificio» (1) E. Fusinato, id. id., pagg. 100 e 101..

Ma non dobbiamo or credere che fosse cosa facile a ciò riuscire, e riuscirvi in modo, se non da persuadere altrui la sua opinione, da farla almeno avere possibile. E ciò potè conseguire non esagerando nel giudicio suo, e bellamente distinguendo tra Beatrice «che non si mostra per un solo istante meno che angelica» e Laura che, «quantunque castissima, si rivela donna nel significato più alto della parola» (2) Ivi, l. c., pag. 113.. E sì dovea essere il giudicio suo potendo in esso trovare «il sublime di ciò che noi stressi siamo atti a provare» (3) Ivi, l. c., pag. 113.. E a conseguire il suo fine si è saputa bene aiutare delle opere del Petrarca, cercando specialmente il Canzoniere, e riuscendo a notar cose che niuno saprebbe notare nè considerare, salvo una donna qual essa. E il lavoro suo non spiacqué ai doti, e ben piacque, come è natural cosa, alle donne gentili (4) E singolarmente piacque a quella Donna augusta che è di gentilezza a tutte rarissimo esempio, la Regina Margherita, che, tosto letta la ebbe, disse all'autrice: «Solo una donna poteva scrivere tali cose, e sono lieta le abbia scritte Lei;» e che udite le ragioni del suo giudicio, soggiunse: «Ha fatto bene! Credo che la storia non le possa dar torto: ma in ogni caso ella avrebbe ragione ugualmente di aver tenuto alto il prestigio di tanta virtù, di averci serbato questo ideale purissimo, ora che tutto si vorrebbe gettare nel fango» (E. Fusinato, Ricordi, ed. cit, pag. 81)..

§ IX. Tacendo ora delle spigliate e piacevoli lettere che scrisse Intorno le condizioni di Napoli (5) Sono stampate negli Scritti educativi, da pagina 115 a pag. 144. in cui di varie cose discorre, e d' opere d'arte e di naturali bellezze, e specialmente di scuole e di luoghi pii, sempre mostrando come tutto cercasse e amorosamente considerasse; e pur tacendo dei Mesti ricordi (6) In Scritti letterari, da pag. 145 a 182., brevi e cari scritture in che appare tutta l'affettuosa bontà dell'animo dell'Erminia, e di altri piccioletti lavori che, sono Rassegne letterarie (1) In Scritti letterari, da pag. 183 a 241. e Scritti per giornali (2) Ivi, da pag. 243 a pag. 243., tutti con assai garbo dettati; noi vorremo piuttosto parlare di alcune brevi prosette scritte per lettura di bambini e fanciulli. Sono queste, avuto riguardo al fine, stampate tra gli Scritti educativi (3) Sono da pag. 341 a pag. 407 degli Scritti educativi. Scritti letterarî.. col titolo di Letture giovanili; pure per la maniera e per l'arte dello scrivere vogliono essere considerate come vera operetta letteraria, e qui bene cade acconcio il parlarne.

Tra queste Letture giovanili, da noi per la prima volta publicate, sono prime le Conversazioni infantili, di cui non sapremmo imaginare la più cara cosa, di questo solo dolenti che non sieno per numero maggiori. Quanta verità, quanta grazia in loro semplicità! quanta soavita d'affetto! È forse umiliante il dire, ma, nel secolo nostro, non è stato scritto nulla per bambini, che uguagli, non che vinca, chè vincerle è impossibil cosa, queste Conversazioni infantili.

Non si è mai lamentato tanto, come nel tempo nostro, il difetto di letture per la infanzia, e non si è forse mai tanto provato da uomini e donne e scrivere per essi; ma non si è forse ancor mai riuscito meno d'oggi a scriver buoni libri per la gioventù in generale e per i bambini in specie. E le donne hanno fatto peggior prova che non gli uomini. Chi meglio di tutti è riuscito a dettare nel tempo nostro bellissime letture per i faciulli, fu certamente il Fanfani; e un mirabile gioiello sarà sempre La bambola, e una carissima lettura La Casa da vendere. Ma neppur queste sono prime letture per bambinini, e d'altra parte, chi ben le guardi, si vedrà sempre in esse che l'autore, è nel dettarle più che altro portato, senza pur se n'addia. dallo studio e dall'amore che han governato tutta la vita sua. lo studio e l'amore della lingua, e dal desiderio di mostrare com' egli sappia signoreggiarla, ed a sue senno volgerla ad ogni argomento, ad ogni intendimento, ad ogni eta acconciarla.

Il Fanfani cresciuto fra le lotte e le stizze letterarie, che, sebbene incruenti, sono le più feroci, non consolato se non dai gustosi manicaretti dei quasi giornalieri conviti, ignaro delle carezze e degli sgarbucci, dei sorrisi e delle lacrimuccie, e degli amorosi chiacchiericci, e dei dispettosetti silenzi, delle accorte sommissioni e delle ingenue ribellioni dei bambini, non poteva scrivere per loro, e non desiderava. E d'altra parte, per riuscire a scrivere per i bambini, occorre saperne il linguaggio, averne udito le prime parole, e seguito le altre sino all' età cui per essi si scrive. Di qui nessuno parrebbe poter meglio riuscire a scrivere per loro se non la donna: e invece, come detto abbiamo, la donna ha fatto ancor peggiore prova degli uomini; e pur non poche hanno scritto e scrivon per essi. Nè ciò dee far meraviglia, perchè, so vuolsi sapere, a scriver per bambini, il loro linguaggio, si vuole ancor meglio sapere la lingua nostra; occorre saper scriver in un dettato che non è il loro e che non è il nostro, ma che il nostro accorda col loro. Nulla difficile quanto lo scriver per bambini, e n'è gran prova il difetto appunto di letture per essi. E se qualcheduno appunto vi può meglio riuscire, è certamente la donna, quando compiutamente educata ai gentilissimi affetti, e bene istruita nella lingua nostra, se ne viva coi suoi bambini, e, come chi dicesse, tornando bambina con loro parli e pensi con loro, studiandone intanto i timori e i desideri, i vezzi e le smorfie, le bizze e le feste: e ben l'ha provato Erminia Fusinato. Niun' altra donna che non avesse la mente, il cuore, le lettere di lei, e non vivesse la vita ch' ella vivea, potrebbe darci di queste letture.

Non bisogna dimenticarlo: la Fusinato non sapeva nè voleva sapere di essere una letterata: era la scrittrice della famiglia per la famiglia, della scuola per la scuola, e di qui la virtù, la efficacia la bellezza di certi suoi scritti. Come non essendo veramente poeta, secondo detto abbiamo, ci ha dato dei versi bellissimi, così senza esser ciò che veramente fa lo scrittore nel solenne significato della parola, ella ci ha dato delle prosette che sono veramente un gioiello; e ce l'ha date senza sapere, senza volercele dare. Non le scrisse certo per istampare (1) Noi stessi a cui soleva far vedere tutte le cose sue non le sapevamo, e le abbiamo ritrovate, meravigliando, fra le sue carte dopo morta., ma come a ricereare fra il suo cuore materno soavi memorie della sua vita, dei suoi dialoghetti con il suo Gino, col suo Guido, con la sua Teresita; a studio di amore, e non pensava nè manco che potessero essere sì schiette e soavi; e non pensava esser diverso perchè scritte con lingua d'amore.

Quanta vita e verità non è in esse!

—«E perchè, mamma mia, tu che mi vuoi tanto bene, non fai sempre quel che desidero?»—le domanda il suo bambino; e ne nasce quella mirabile conversazione: IL PERCHÈ DELLA MAMMA (1) E. Fusinato, Scritti educativi, ed. cit., pag. 313., in cui riesce a spiegargli che non sempre i bambini chiedono ciò che è bene dar loro. con una graziosa e facile storiella. Un giorno lo vede trattare con brutte maniere le persone di servizio; e con quanto affetto e facilità non lo persuade a bene usare con esse (2) Ivi, id., ed. cit., pag. 345.. Un altro di non vuole andare a scuola, ed ella non ce lo manda: ma quale insegnamento ne ebbe quando la sera a lui, che in tutto quel giorno avea finito con l'annoiarsi per bene, tenne un discorsino che intitolato L'Ozio (3) Ivi, id., ed. cit., pag. 348., è una meraviglia di grazia e di esperienza materna? Se non che troppo lungo sarebbe annoverare i pregi di queste conversazioni che o s'intitolino L'Amor fraterno. o Amor proprio, o L'Accusa, o Pulitezza e Ricercatezza, o I Desideri, non sapremmo quale dire più bella. Solo ci piace notare la penultima intitolata Simpatie ed antipate (4) Ivi, id., ed. cit., pag. 380., perchè in essa si vede ancor una volta di quanta bontà fosse pieno il cuore e l'animo di quella donna. la quale, a meglio persuadere il suo bambino dei mali effetti dell' antipatia, le narra come ancora non abbia saputo consolarsi di essere stata crudele con una buona giovinetta che a lei voleva tanto bene, perciò appunto che non le era simpatica.

Le Letture poi per le giovanette sono tutte dello stesso cuore e con gli stessi intendinenti: pur due dobbiamo notarne: CittÀ rinnovata (5) Ivi, id., ed. cit., pag. 389., e lo SGOMBERO (6) Ivi, id., ed. cit., pag. 391., nelle quali è grande, grandissima parte dell' anima dell' Erminia. Chi se non essa potea emprici l'anima di tanta cara mestizia parlando del mutar casa? Noi uomini, in tali occorrenze, usciamo di buon mattino, e, lasciate le nostre donne che faccian esse, ce ne torniamo a sera borbottando se pure non è ancora ben rifatto il letto. Ma quanto meste e care ricordanze, quanti pensieri, quanti sospiri non muove in esse quel rovistare ogni cosa, quel tornare a mano tante cose per poco obliate! sono illusioni vanite, speranze deluse, amici, parenti, che più non vivono e par loro tornino innanzi. Quanti affetti poi, quanti gentili considerazioni non le desta il rivedere i luoghi, la casa, dove discorse gran parte della vita sua, mutati da ciò che erano sebbene in meglio: «Il tempo che fece invecchiare le persone ringiovanì la città, onde ne appare sempre più turbata l'armonia che fra quelle e queste regnava.

«I bimbi divennero giovanotti, i giovanotti uomini, questi vecchi, ed i vecchi sono morti; ed ora, per abbellirlo, hanno mutato faccia anche al cimitero che ne custodisce le ceneri» (1) E. Fusinato, Scritti educativi, ed. cit., pag. 390..

Chi altri che la Fusinato avrebbe saputo uscire in queste meste e soavi considerazioni? Meste e soavi considerazioni, che, mentre la turba folleggia in sulle ruine e si allieta delle rinnovellate cose, fanno pur tanto bene, temperando i focosi ardimenti e ravvivando gli antichi affetti. Emancipiamo, emancipiamo la donna, e perderemo in lei la parte più benefica, l'opera correttrice su noi, per avvolgerla nel turbine delle nostre corse sfrenate e delle tumultuose passioni.

Avea cuore la Fusinato, ma col cuore era la mente, e si mostra nei molti pensieri, che, secondo il tempo e gli accidenti della vita, le soccorrevano in mente e andava registrando nei suoi quaderni, e di cui essa non pochi con bell'avviso stampò già nella Strenna della mamma, ed ora noi raccogliemmo nel volume degli Scritti educatiri con altri non mai prima publicati. Non vogliamo certo dire che sono tutti peregrini, nè nuovi; ma possiamo francamente affermare che tutti son veri e buoni, e che anche i men nuovi, oltre che giova ravvivarne la memoria, prendono da lei una tal quale freschezza e facilità che te li fa spesso parer nuovi e sempre meglio gradire. Sì ve ne ha dei propri e bellissimi, e che rivelano come ella fosse fina osservatrice delle cose e delle persone con le quali avea consuetudinè di vita o le scorrevan dinanzi, e potremmo qui addurne parecchi: ma perchè, scrivendo della Fusinato, meglio che a dare saggio di sue scritture, intendiamo a invogliare e persuadere la lettura dei due volumi, che delle cose sue abbiamo raccolti, e specialmente invogliarne le giovanette, così desideriamo che tutti quei pensieri leggano, chè ne ricorranno buon frutto. E specialmente raccomandiamo quelli che essa dettò col titolo Ricordi ad una giovane sposa (1) In Scritti educativi, da pag. 333 a pag. 340., e che deveano esser publicati per le nozze di Antonietta l'ozzolini, che fu carissima giovinetta fior d'ingegno e di grazia, e che già nello scrivere e nel dipinger lodata, morì, come dicemmo, alla vigilia del dì in cui recar si doveva all'ara nuziale. Sono scritte con cuore di madre, e pensando certo alla sua Teresita e alle buone fanciulle che un dì avrebbero scelto in isposa il suo Gino e Guido suo. Sono un tesoro di senno e di esperienza ch' ella avrebbe certo dato lor di sua mano nel dì delle nozze: ma anche morta lo avranno, e il libriccino di quei Ricordi sarà il dono più santo che potrà aver Teresita, e che Gino e Guido alle elette del lor cuore potranno offerire.

§ X. Prima di por fine al dir nostro intorno la Erminia dobbiamo pur dire dei suoi Ricordi, i quali sebbene non sieno un' opera d' arte e senza alcuno studio dettati, pur sono la leggiadra e cara lettura. Molti scrissero fra noi la loro vita, e furono uomini valenti: ma nulla somiglianza e tra esse e i Ricordi della Fusinato. Sia pur una vita festiva e facile come quella del Cellini, o grave e tagliente come quella dell' Alfieri; e sieno le stesse Mie prigioni del Pellico, in cui pure fra tanta pietà che ti commuove tu non rado senti l'uomo che vuole, e sa parlarti di te. Nulla di tutto ciò nella Fusinato; ella non scrive una riga per altrui; ella registra di dì in dì ciò che avvenuto le è, e lo nota riflettendo, per poi tornarvi e meditarvi sopra. Questi Ricordi sono l'effetto di un ritorno dello spirito sopra sè stesso, e la parola che lo rappresenta non è pensata, non studiata, ma suona senza che quasi se ne addia la stessa scrittrice: per ciò la loro bellezza non sta nell' arte, ma nell' animo: bella e buona è l' anima sua; buoni e belli questi pensieri. Essi ti piacciono, t'innamorano, come ti piaceva, t'innamorava essa, e non sai dipartirti da loro, come non sapevi da lei. Non vi cerchi le grazie, le veneri della lingua, a quel modo che non ti addai delle mende, e sol ti allegri e piaci di potere essere ancora con lei, con lei pur viva, viva in queste schiettissime pagine. Sì vero la essenza sua si compie in questi Ricordi, che in essi ricogliamo eziandio la potenza della sua mente nel giudicare uomini e cose, il che non era facilmente dato conversando con lei, che, per modestia e benignità, era nei giudizi parchissima. E la benignità, essendo in lei virtù dell'animo, si mostra pure in questi giudizi scritti, come quando dice del Tommaséo che il suo principio era «difendere i deboli» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 23., mentre tutti sanno ch' egli era dispettosamente avverso a chiunque paresse aver ali da levarsi in alto, e si studiava ricoprire il difetto, lodando e stralodando i mediocrissimi, quasi temesse quelli e non questi dovessero scemare a lui fama, a sè procacciandola. Ma bei giudizi vi sono che mostrano pure assai acutezza di mente, come quando parlando del Capponi, del Sermoneta e dello stesso Tommaséo, dice: «Egli (il Capponi) è rassegnato e sereno sempre.—La sua anima è candida e serba il fuoco giovanile. Venerabile figura! Il Sermoneta pure deve essere assai buono, ma a lui la perdita degli occhi tornò, poveretto! più amara.—Li gira sempre come volesse sempre ad ogni patto godere di un raggio di sole! Non è rassegnato a tanta sventura.—Il Tommaséo non parla mai della sua cecità, ma pare sia come per non confessarla—pare voglia persuadersi e persuadere che ci vede ancora.—Per ciò dà maggior pena.—Tutti e tre però si occupano molto con la mente, e l' hanno illuminata d'un raggio che a noi non risplende … Se dovessi dire alcun che di questi tre ciechi oserei forse asserire che il Capponi è quello che ha maggior bontà, il Sermoneta maggior senno, e il Tommasèo dottrina maggiore» (1) E. Fusinato, Ricordi, ed. cit.. Ma troppo dilungar ci dovremmo se recar volessimo que' migliori giudizi ch' ella ne ha lasciato nei suoi Ricordi: pur ci sia dato trascrivere ciò che in essi si legge di Benedetto Cairoli, quando non anche la invidia avea sguinzagliato i puritani flutatori del poter del domani a coprirlo, se possibile fosse, di contumelia: «Oh Cairoli non ha partito davanti alla patria, e ne intende la grandezza, e mi piacque sentirlo dire ciò che io pure pensava, cioè che la dimostrazione fatta alla memoria di Mazzini non fu repubblicana, ma italiana» (2) Fusinato, Ricordi, ed. cit., pag. 47.—E perchè è di un uomo, a cui ci è grato poter publicamente attestare la nostra reverenza, ci piace qui recare ciò che ella scrisse di Atto Vannucci: «Anima antica, mente gagliarda, retta, profonda:—sdegnoso solo del male, pronto a credere al bene, prontissimo a farlo. È un carattereQui avrebbe dovuto più correttamente dire: Natura. completo e ne abbiamo si pochi!…» (Ricordi, edizione cit., pag. 27).—E non solo vi sono bei giudizi degli uomini, ma anche di loro opere, come in questo che scrisse tosto uscito dall'apertura del Congresso degli scienziati in Roma: «Parlarono Mamiani, Scialoja, Pianciani.—II primo con più scienza, il secondo con più arte, il terzo con più cuore—tutti e tre bene» (Ricordi, ed. cit., pag. 29). E, udita la Messalina del Cossa, scrivea: «Vi si scorge l'ingegno potente dell'Autore anche nella forma nel verso mirabile, ma duolmi, per il senso morale, che si mettano sulla scena certi personaggi, certi fatti.—Come non amerei mi mettessero davanti dei dipinti rappresentanti mostruosità fisiche, così non vorrei che l'ingegno si adoprasse per rappresentarne delle morali, che già è troppo abbiano veramente esistito. Forse avrò torto, ma così mi pare» (Ricordi, ed. cit., pag. 80 e 81)..

Quest di che abbiamo sin qui discorso sono le scritture che ci lascò compiute, e, come la sua opera nell'insegnamento, bastevoli alla lode sua, non al desiderio e al bisogno d'Italia. Altri lavori ne avrebbe compiuti, che già altri da più tempo volgeva in mente, come alcune brevi vite di donne, e solo di scrittrici (3) «La pittura l'ammiro ma non la saprei punto giudicare,» scriveva a proposito di queste vite.. Ma le gravi occupazioni e la mala salute impedironla, e non pose mano se non a quelle della. Vordoni e dell' Emilia Gould (1) Moglie al valentissimo medico Giacomo Bliss; nacque il dì 3 maggio 1822 in Nuova York, e, venuta in Italia nel 1860 per salute, vi fu tosto splendido esempio di publica beneficenza, fondando e mantenendo quasi solo del suo asili d'infanzia e convitti per fanciulli in Firenze e in Roma; nel 1874 moriva in Venezia spossata e vinta dalle fatiche. La Erminia l'amava smisuratamente, come mostrano le due pagine che le consacrò nei suoi Ricordi (ed. cit., pag. 67 e 68).. E, dopo la vita delle morte, avea pure in mente dir delle viventi, ed è danno che non abbia recato ad atto il suo pensiero, che ne avremmo avuto dei giudizi che non potevamo sperare se non da una donna del suo cuore e della sua mente, la quale non ad altro mirava, scrivendole, che a «fare onore al suo paese, mettendo in bella luce le virtù delle sue consorelle» (2) E. Fusinato, lettera inedita Ad Anna Mander nei Cecchetti del dì 26 di maggio 1871..

§ XI. Chi volesse or dire dello stile e della lingua della Fusinato dovrebbe anzi tutto distinguere fra i suoi scritti in verso e quelli in prosa, e di ambedue guardare al tempo in cui furono dettati. Essa non aveva non solo forti studi nella letteratura nostra, ma neppur nella lingua, che si mise solo a studiar veramente quando fu nel paese del parlar gentile, e meglio quando dovette insegnare. E di necessità furono studi frettolosi e senza quell' ordine che n' è la principale efficacia; provvedeva non pertanto al difetto la peregrina intelligenza e lo acume dell' ingegno, e quel natural sentimento e giudicio ch' ella avea del bello, onde dello scarso sapere allargava l'opera e i frutti; e molto in Firenze ed in Roma a lei giovò la compagnia di uomini che nei secreti della lingua e nell' arte dello scrivere erano assai valenti; chè ella dava loro a correggere ogni scrittura sua, ed essi amorosamente, o a voce o in scritto, le notavan le mende e delle correzioni le porgevan ragione. E quanti meglio stimava pregava di consiglio e di aiuto, e non era artifizio per pescar lodi, ma d'imparare vivo e natural desiderio (3) Niuno più di lei sentiva il suo difetto nella lingua: «Cerco di dire ciò che sento, ma l'arte è ardua e non so toccarne l'altezza,» scriveva nello scorcio della sua vita all'amica Anna Mander nei Cecchetti (Lettera inedita del dì 5 di dicembre 1875).: e per ciò ben volentieri a lei compiacevano i più valenti come il Maffei, il Vannucci, il Mamiani, il Fanfani, il Procacci, il Coletti ed altri che pur le scrivevano lunghe e bellissime lettere tornandole le poesie e le prose a loro per correzione mandate. Ciò essendo le Lezioni di morale, le Conferenze pedagogiche, la Laura del Petrarea e gli stessi Pensieri educativi, con pochi altri lavori minori, e per che scritti in Firenze e in Roma e pel molto studio e il grande amore che ci mise sono in lingua assai corretta, in stile facile e piano e spesso assai eleganti: e parimenti i versi che scrisse in quel tempo sono molto e per lo stile e pel dettato migliori che non quelli scritti nella sua giovinezza (5) Con ciò non vogliamo aver detto che ogni frase, ogni parola sia sempre buona nemmeno nelle sue ultime poesie; e chi consideri anche quei luoghi che ne abbiamo talvolta recato potrà facilmente vedere, e non le darà lode di avere scritto: Tradurre il gaudio in pianto, Il duolo diviso, Insieme alla, Dovunque per Ogni dove, Sepolcri modesti, Modesta cura, per Umile, Inconsuo, voce brutissima, Ma sono la più parte picciole mende, e raro occorrono negli ultimi suoi versi..

Dova la lingua non è abbastauza curata è nelle lettere famigliari, ch' ella scriveva senz' alcuno studio, ma che hanno invece una naturalezza tutta loro, e sono vero specchio dell' animo suo, e delle quali, seguendo il desiderio di non poche persone, daremo, eleggendo le migliori, un volume da cui sempre meglio apparirà come anzi tutto fu figlia, sposa e madre. Da questo come da ogni altra scrittura sua, apparirà come tutte governa dolcezza, e come ella non desiderava che la quieta vita della famiglia, in cui trovava la sua voluttà, e in cui sapeva di non offendere nessuno e piacere nobilmente a tutti.

Nell'amore della famiglia divenne donna di lettere e tenne il grido fra quanti ne ha avuto l' età nostra, senza pure averne consapevolezza. Lei tutti laudavano, e pure gli stranieri, venendo in Roma, volevan vedere, sino al coronato Don Pedro d'Alcantara; ed ella, meravigliando, in quel che li ricevea o andava da loro, per non parere superba, secondo le dicevano, con gli amici più famigliari solea poi tutta sorridente esclamare: «Che grulli!» E ci perdonino i grandi uomini, che lei voller vedere, se abbia no recato qui questa esclamazione che non tocca a loro, ma solo ritrae, come nulla potrebbe la ingenua bontà e meravigliosa modestia dell' Erminia.

E questo spiega com'ella. non solo non avesse i vezzi cascanti dei letterati, ma avesse le virtù che non sono, o raramente sono di oro. Ella avea cuore e amava la sua famiglia e il suo paese; e non avea invidie, nè piccole, nè grandi: ella tutta si allegrava vedendo sorgere chi del proprio ingegno mostrasse crescere onore al nostro paese, ed erale festa se potea incorare a perseverare nell'impresa via chi, fortuna ed invidia lui contrastando ingiuriosa, parea potere aggiungere a nobile meta (1) E quanto questo sia vero non rincresce fare saputo a Mario Rapisardi, che se ora venuto in bella bella fama, un di piangendo di dolore e di rabbia, quasi sgomento era per abbandonarsi dei primi propositi suoi, e avea dall'Erminia, non ancor celebrata come poi fu, il conforto e l' incoramento che gli negavano non pochi superbienti grandi uomini del tempo nostro, fra cui il Tommaséo, che la Erminia, in sua bontà sì largamente loda, e che come abbiam già detto, non iodava e stralodava quasi mai se non gli uomini senza valore, e i giovani che non promettean conseguirlo. E qui ci piace trascrivere appunto due lettere della Fusinato al Rapisardi da lui nobilmente mandateci, perche provano il detto nostro e tornano ad onor di ambedue.
I.
«Egregio e gentile Signore!
»Io serbava grata ricordanza di Lei, e dei versi bellissimi fregiati del nome suo: ora però a questa ricordanza si lega la più sentita riconoscenza pel dono carissimo che volle farmi e per le cortesi parole di cui lo accompagnava.
»Non dubito che il suo vasto ed elegante lavoro, ricco di nobili intendimenti, venga accolto favorevolmente in Italia.
»Il secolo non è avverso alla poesia, quando questa sa ispirarsi alle aspirazioni più sante che lo agitano. Parmi che ciò Ella abbia voluto e saputo operare.—Non dubiti adunque della ammirazione affettuosa dei suoi concittadini.
»Mio marito si unisce a me nell'augurarle un avvenire di gloria, el io sono lieta di dirmi
»Ferenze, li 27., 1., 68.
»sua obbligat. devotis.
»Erminia Fuà Fusinato.»
II.
«Viareggio, li 3 giugno 70
»Gentilissimo Signore ed Amico!
»Grazie della gradita e cortese sua lettera! Le auguro un felice ritorno in patria, el a me auguro rivederla fra qualche tempo in Firenze con l'animo suo più lieto.
»Per carità, non disperi, Lei si giovane, sì buono e valente, dell'avvenire! Quanti l'assomigliarono nell'ingegno e nel cuore soffersero al pari di Lei! A Lei è destinata una fama piena di gloria: non ne dubiti mai! Conviene far conoscere maggiormente quel tesoro d'ingegno che le ha dato Iddio, e quel tesoro di sapere che ha saputo procurarsi; ed allora, oh allora nessuno le negherà la giustizia dovuta a'suoi lavori stupendi
»Accetti un mio consiglio: faccia stampare o nella Antologia, o nella Nuora Rivista Europea, un alto del Manfredi ed un canto del Lucifero.
»Regalando, Regalando scriveva la Fusinato Ecco come dovea sperare il Rapisardi di veder accolto un suo scritto in quella Nuova Antologia, ove accanto ai lavori dei grandi uomini il Protonotari accoglie tutte le miserie dei più monchi neofiti, tenendoli a battesimo purchè siano di sua parte. non le rifiuteranno l' ospitalità e Ella si farà conoscere.
»Dall'Ongaro potrebbe, parmi giovarle in proposito. Io poco posso in ogni modo, ma ove le sembri che l'opera mia le possa tornare opportuna, mi scriva come ad una madre, come meglio le piace.
»Scrivo in furia, e già se ne sarà avvisto, ma non è la furia che mi toglierà di ripeterle come io la riguardi uno fra i pochissimi destinati ad onorare le lettere italiane, e di ciò mi rallegro col paese, e con lei, e con me stessa.
»Si abbia cura e confidi in sè stesso e nei molti che le serbano stima ed amicizia!
»Sua Erminia Fusinato.»

§ XII. E qui poniam fine al dir nostro intorno Erminia Fusinato. L'abbiamo cercata nella Famiglia, nella Scuola, nelle Lettere: nella Famiglia educò l'anima sua: nella Scuola, la infuse moltiplicandola in cento e cento sue giovanette, speranza d'Italia, che or le saluta e spose e madri operose e felici; nelle lettere ebbe consolazione a molti e gravi dolori: in tutte e tre acquistò lode vera e fama durevole. Noi non abbiamo inteso, e da bel principio dichiarato lo abbiamo, di scriverne una vita propriamente detta: noi abbiamo voluto amorosamete cercarla in ogni suo atto, in ogni suo affetto, in ogni sua parola, chè non vi è parola, non affetto, non atto della sua vita, che non sia, chi vi ponga ben mente, un nobile e singolare insegnamento. Per ciò abbondammo nel trascrivere luoghi delle sue prose, delle sue poesie, e delle lettere ancora inedite, nelle quali specialmente appare la donna quale veramente fu. E sì facendo crediamo avere assai agevolato ad altri speditamente discorrerne con altro ingegno, e noi stessi ne vorremo speditamente dire in capo a un bel libriccino che delle Lezioni morali e delle Letture giovanili manderà fuori il Carrara, e che dovrebbe essere in ogni scuola e in ogni famiglia.

Noi sappiamo bene, che, parlando della Fusinato, non siamo riusciti a dire quel che di lei si potea, ma più che a nostro biasimo, vuol tornare a lode di lei, di cui, per le singolari virtù, a pienamente dire, occorrerebbe singolarissimo scrittore. A noi è conforto e scusa aver posto nel parlare di lei lo studio e l' amore che potevamo maggiori. D' altra parte la memoria di essa non vuol venire più durevole per narrazioue della sua vita, di cui solo per ammaestramento alle giovinette italiane or detto abbiamo.

La memoria di Erminia Fusinato sta negli scritti che ci ha lasciato, e in quella Scuola, ch'ella stabilì in Roma, e che sarà da tutte le altre città italiane invidiata insino che le donne a cui sarà dopo lei commessa, o per imperizia o per presunzione non guastino il bene ch'ella fece, e non le turbin, guastandole, il riposo, nel sepolcro a cui Roma intera l' accompagnò lacrimando, e sovra il quale tutta Italia le aderse il Monumento sì bellamente dal Galletti scolpito (1) Vedi nell'Appendice le iscrizioni del Monumento, e il discorso del Senator Tabarrini per la sua inaugurazione..

Sassari, a dì 5 gennaio 1882.

G. Ghivizzani.

Il dì 11 di maggio 1882 s'inaugurava nel Campo Santo di Roma il monumento scolpito dallo statuario Stefano Galletti, e noi crediamo buono quì riportare il bel discorso, che alle molte illustri persone e alle giovanette della Scuola superiore là convenuti pronunciò l'illustre amico nostro il Senator Tabarrini, e dopo quello' trascrivere le iscrizioni, che, da noi dettate, nel monumento si leggono (1) Anche il chiaro prof. cav. Vito Tonti recitò davanti al monumento quel dì alcune affettuose rime che or si leggono a pag. 139 di un volume di Versi che col titolo Dilecta ha or ora publicati in Roma dalla tipografia del Senato, e in cui è anzi tutto una sudata traduzione del libro quarto dell'Eneade..

DISCORSO DEL TABARRINI.

«Gentili Signore e Signori,

«Il sentimento che ci ha condotti dinanzi a questo sepolcro, è così vero e spontaneo, che a me non occorrono molte parole a farlo manifesto. Estimatori sinceri dell' ingegno e delle virtù di Erminia Fuà Fusinato, abbiamo voluto che le fosse eretto un monumento in questa Roma ove si spense la sua nobile vita, consumata da affetti generosi e da operosità virile. Ci parve degna di questo onore una donna che seppe inalzarsi sopra molte coll' ingegno, senza perder nulla della modestia e del decoro femminile, accoppiando i sacri entusiasmi della poesia alle cure della madre di famiglia e della istitutrice. Questo bello esemplare di alte qualità morali unite alla pratica di umili virtù, merita di essere proposto alle nostre fanciulle; perchè come per l'avvenire della patria noi abbiamo più bisogno d'uomini che di scrittori, così per l'avvenire della famiglia, ci sembra che meglio di letterate, ci stringa necessità di spose e di madri, che uniscano alla coltura della mente la buona disciplina della vita, e la religione dei nobili affetti.

«Questo monumento alla Fusinato nella intenzione di quei pietosi che lo promossero e ne curarono l'esecuzione, è insieme omaggio di publica benemerenza, e memoria di affezione amichevole durata oltre la morte. E la Fusinato era degnissima di questa doppia testimonianza di onore.

«Dotata d' ingegno ben temprato, e di sentimento finissimo d'ogni cosa bella e gentile, essa trovò nella poesia la prima e più sincera manifestazione di sè stessa. I suoi versi non sono freddo prodotto dell'arte, ma voci interiori dell'anima, che erompono spontanee nella semplicità del concetto e della forma, come canto d'usignuolo in una notte d'estate. L' amore di patria fu uno degli affetti che più commuovessero il cuore della Fusinato; e quando era ancora più un desiderio che una speranza l'indipendenza e l'unità d'Italia, i suoi versi fanno coro con quel fremito di poesia nazionale che preludiò alle battaglie liberatrici. Venuto il tempo delle dure prove, la virile fortezza della cittadina non sment gli entusiasmi della poetessa; nè vi fu sacrifizio che le sembrasse grave per una causa sì santa. Raminga dalla città nativa, portò seco il fuoco sacro del patriottismo; e dovunque posò, lo accese nel sacrario della casa, prima ancora d'insediarvi i lari domestici. Sposa e madre, a questa scuola di esempi educava i figliuoli, a queste dolorose esperienze della vita continuava l'educazione di se stessa.

«Chi la conobbe in quei giorni, allorchè pendevano ancora indecise le sorti della sua Venezia, non dimenticherà mai le sue sollecitudini e le sue angoscie. Incuorare i timidi, frenare gli audaci, accordare i dissidenti, e consolare tutti di quella speranza sicura che le traluceva negli occhi prima ancora che fosse espressa nelle parole, era l'opera sua quotidiana, incessante.

«Nel cuore della Fusinato era un tesoro di affetti da benedirne una intiera generazione; nè i disinganni della vita erano bastati a menomarlo. Quando, con mirabile fortuna, l' impresa nazionale fu condotta a compimento, appena essa intravide affacciarsi il mal genio della discordia, antica sventura nostra, e porre in pericolo le sorti della patria, il suo animo non ebbe più pace; pregava, scongiurava, come una madre che vede minacciata la vita dei figliuoli.

«Nè queste sue insistenze amorose. per le antiche ed intime relazioni che essa teneva con patriottì di pensare diversissimo, riuscivano senza effetto; perchè non è mai ineflicace la parola di una donna, che senza gettarsì nella mischia indecorosa delle passioni politiche, chiede la concordia e la pace in nome della patria.

«Quello che la Fusinato sia stata quì in Roma, è storia tanto recente che appena abbisogna di essere rammentata. Voi l'avete veduta piegarsi dapprima agli umili uffici di istitutrice nella Scuola normale, per mettere a pari i sacrifizii fatti per la patria con quelli che a Roma le imponeva la famiglia. Col petto rotto dalla tosse, l'ho incontrata più volte sulla via di S. Maria Maggiore, e alla mia insistenza di curare la sua salute, rispondeva sempre:—Questo è il dovere mio, durerò quanto posso.—

«E fu allora che ad alcuni amici suoi venne il pensiero di quella Scuola superiore femminìle, che proposta al Municipio. trovò subito generosa accoglienza. E la Scuola della Palombella fu aperta sotto la direzione della Fusinato. Fu detto che la Scuola venne fondata per lei; e questo è troppo; ma se anche il favore che si volle usare a lei, giovò ad anticipare a Roma una istituzione scolastica di cui non sanno più fare a meno tutte le grandi città, chi potrebbe trarne materia di biasimo?

«Le difficoltà che incontrò la Fusinato per far prosperare la Scuola della Palombella, non furono nè poche, nè leggere.

«L'istituzione era nuova per Roma e guardata con sospetto. Era necessario di farla accettare, distruggendo le prevenzioni e conquistando la fiducia. La Fusinato seppe raggiungere questo fine, con una circospezione ed una prudenza veramente ammirabili. In breve tempo la scuola si riempì di fanciulle, le relazioni tra la direttrice e le famiglie dapprima contegnose, finirono per divenire cordiali. Essa aveva guadagnato tutti colla dolcezza dei modi, colla costante serenità di un'anima sicura di sè.

«Come istitutrice, la Fusinato aveva qualità rare, acquistate col molto pensare sui metodi vecchi e nuovi, e colla pratica fatta nell'adempimento dei doveri materni. Essa non era di quelli che credono non potersi sapere se non ciò che s'insegna, e pretendono traversare, come per alambicco, tutto lo scibile nella mente del fanciullo; ma era convinta di quell'assioma volgare oggi affatto dimenticato, che quello che si sa meglio, s'impara da sè. Perciò si contentava di dare alle sue alunne poco più che gli strumenti per apprendere, lasciando poi che si svolgesse liberamente questa arcana potenza che è in noi di fecondare i germi dell'insegnamento ricevuto.

«Oggi è sorta una nuova generazione di pedanti, i quali con intendimenti opposti a quelli dei pedanti antichi, vuol rifare l'uomo a sua immagine, e ne costringe il pensiero, e ne soffoca i sentimenti, considerando lo spirito, non come forza intelligente ed attiva, ma come materia adattabile ad ogni forma. Tale non era la Fusinato, che nelle sue alunne intendeva svolgere le facoltà native, dando loro quell' indirizzo morale che avrebbe poi formato la donna.

«Le stesse qualità, le stesse attitudini portò la Fusinato nella direzione della Scuola superiore della Palombella. Educò più coll'esempio che colle parole, e seppe rendere educativo tutto l'insegnamento, facendolo cospirare armonicamente al fine unico che dovrebbero avere tutte le scuole, di valersi dell'intelligenza per formare l' uomo morale; tutto il resto essendo poco più che orpello e vanità.

«Il credito in cui salì in pochi anni la Scuola della Palombella, onorata di un altissimo patrocinio, la fiducia crescente della famiglia, resero buona testimonianza della Direttrice; la quale vi spese tutta l'energia che le era rimasta dopo tante traversie e tanti patimenti; e potè avere il conforto di lasciarla, morendo, tanto bene avviata e tanto in credito da tenerne assicurate per sempre le sorti.

«E la Scuola è anche oggi fiorente, e per volere del Municipio s'intitola del nome di Erminia Fusinato; debita riconoscenza a lei, che ne fu, a così dire, fondatrice, e seppe in breve tempo farla meritevole della pubblica fiducia. E con la Scuola dura ancora una società di gentili signore da lei fondata, per la coltura della donna, unica a quanto io sappia in Italia, che con svariate letture, mantiene nelle famiglie agiate l'amore degli studii e il culto del bello.

«Non è da maravigliare se la Fusinato lasciò ricca eredità di affetti, come lo dimostra il pietoso pensiero di questo monumento, quando si ricorda quel senso di benevolenza che ella aveva per tutti, quella dolcezza pacata che non conosceva nè astio, nè rancore. Quello che ella fosse per gli amici. ognuno di noi lo sa. E prova maggiore di amicizia non poteva dare al misero Ippolito Nievo, di cui con pazienza infinita mise insieme e rese stampabili gli scritti postumi, ripetendo col Poeta:

Poichè la carità del natìo loco Mi vinse, radunai le fronde sparse.

«E gli amici che ne piansero la morte ora ne rammentano le virtù, contemplandone l'imagine scolpita al vero sul suo sepolcro.

«Voi la vedete, o Signori, ancor bella di quella bellezza che gli anni non distruggono. Le sue sembianze erane specchio fedele dell'anima: v'era forza in quella natura pacata che pareva fatta unicamente per amare e per compatire; quella voce armoniosa e quasi carezzevole, aveva pure i suoni aspri dei nobili sdegni e dei generosi eccitamenti; quegli occhi pieni di dolcezza, mandavano lampi quando si parlava di patria e di libertà: Dal suo conversare, tanto più gradevole quanto più intimo, si usciva migliori; tanto era puro l'ambiente che la circondava.

«Di onori ai morti non è difetto tra noi; anzi anche in questo tanto si è trascorso che talvolta ne viene profanata l' austera religione dei sepolcri. Neppur le lodi si sanno più contenere nei termini del vero; e sembra quasi che i vivi cerchino le tombe per farne sgabello alle loro vanita ed alle loro ambizioni.

«A noi che siamo qui convenuti a rendere omaggio ad una donna virtuosa. la quale non si atteggiò artificiosamente coi fronzoli della letteratura e colla veste succinta della politica compiacendo ai delirii del secolo, ma che obbediente alle ispirazioni del suo buon genio, giovò alla patria, ed ebbe una parola di amore e di concordia per attutire li sdegni e per far tacere rancori implacabili, non credo che possano toccare questi rimproveri. Che anzi mi compiaccio che in questa nostra società, la quale non può aver più che gioie e dolori d'un giorno, avvolta com'è in un turbine vertiginoso che non le consente di soffermarsi neppure un momento per vedere chi cade senza più rialzarsi, mi sia toccato iu sorte di parlare di Erminia Fusinato quasi sei anni dopo la sua morte, e dinanzi ad una eletta di persone sempre desiderose di lei, sempre devote alla sua benedeetta memoria.—

ISCRIZIONI

I.

Nel tato davanti:

A
ERMINIA FUÀ FUSINATO (1) L'Autore avea semplicemente scritto: Erminia Fusinato—Ma… Chi può spiegare tutti t ma?
LE DANNE ITALIANE

II.

Nel tato destro:

TRA SORRISI DELLA POESIA
NELLA PROPRIA FAMIGLIA
IMPARÒ IL MAGISTERO
CON CUI LE FANCIULLE ITALIANI
ALLA FAMIGLIA ALLA PATRIA
SI EDUCANO

III.

Nel tato sinistro

A SCUOLA SUPERIORE
PER LE CIVILI DONEELLE
DAL ROMANO MUNICIPIO FONDATA
DA LEI
EBBE VITA E INCREMENTO
ED ORA HA IL SOME

IV.

Nel lato posteriore:

ENTRE ROMA PIANGENDO
IL DÌXXX DI SETTEMBRE MDCCCLXXVI
NE ANNUNZIAVA LA MORTE
ROVIGO GLORIOSA
RICORDAV IL DÌ V DI OTTOBRI MDCCLXXXIV
AVERLE DATO I NATALI.

Dedica Pag. v

La Vita e le Opere di Erminia Fusinato. Discorso di Gaetano Ghivizzani ix

Ricordi della vita di Erminia Fuà-Fusinato scritti da lei stessa 1

Scritti letterari 95

La Laura del Petrarca 97

Intorno le condizioni di Napoli.—Lettere cinque,. 115

Lettera Prima 117

» Seconda 122

» Terza 126

» Quarta 131

» Quinta 139

Mesti ricordi 145

Augusta Fabeni-Pnppati—Adolfo Azzi—Maria De Lutti —Eleuterio Vicentini, il 2 due dicembre MDCCCLXXIV 147

Teobaldo Ciconi 153

Laura Maresia Alvisi 159

Emilia Zucchini Rondoni 164

Antonietta Pozzolini 170

L'abate Carlo Coletti 172

Caterina Rossetto-Collalto 177

Rassegne letterarie e scritti per giornali 183

Scritti per giornali 243

Intorno due pensieri di Francesco dall'Ongaro 245

Le ceneri d'Ugo Foscolo a Santa Croce in Firenze 249

Viareggio e il suo Ospizio marino 255

La festa del 2 ottobre in Campidoglio 262

A pag. XXVI è sfuggita una errata citazione di una canzone del Leopardi: invece di: Donne, molto da me la patria aspetta, deve leggersi: Donne, da voi non poco la patria aspetta.

A pag. CIX, riga 3.a deve dire nè un musico, invece di ne un musico.

A pag. CXXXIII, riga 33.a leggesi sa parlarti di sè invece di sa parlarti di te.

Così a pag. CXL, verso 21, si deve leggere guastandola invece di guastandolo.