— Bastiano — disse con voce ferma — andate ad avvertire il procuratore del re, che il conte Raul Adalberti ha assassinata la moglie. (Pag. 8.)



CUORE DI DONNA
RACCONTO STORICO SOCIALE
DI
CAROLINA INVERNIZIO

FIRENZE
ADRIANO SALANI, EEITORE
Viale Militare.



ALLA MEMORIA ADORATA
DI MIO PADRE
CAV. FERDINANDO INVERNIZIO
MIO PRIMO MAESTRO E DUCE
SUL SENTIERO SPINOSO DELL' ARTE
MIO DOLCE CONFORTO
NELLE AMAREZZE DELLA VITA
RAPITOMI
QUANDO MAGGIORMENTE SENTIVO IL BISOGNO
DEL SUO AFFETTO DELLA SUA PAROLA
CONSACRO QUESTO MIO NUOVO LAVORO
BENCHE NON SPERI IN TAL MODO
DARE AL SUO NOME AMATO
UN PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
DI QUELLO ERETTO
NEL MIO

Carolina Invernizio

Firenze, 1889

Tipografia Salani — 1901.

La giornata era fredda, tetra, monotona. Una di quelle dense nebbie che s' inalzano dal Po, sul finire di Ottobre, avviluppava, per così dire, tutta la città.

Nella sala della Corte d' Assise erano stati costretti ad accendere i lumi.

E quella luce rossastra faceva un singolare contrasto con la scialba luce del giorno, che passando attraverso i vetri delle finestre metteva delle ombre mobili, dei riflessi giallognoli sul viso delle persone che assistevano palpitando al dramma, che si svolgeva loro dinanzi.

La folla era immensa; ma la sala non era stata invasa solo dal popolino e dai semplici borghesi. Anche le classi privilegiate erano accorse al clamoroso processo, che avrebbe fatto epoca negli annali giudiziarî.

Si è che la brillante società torinese vi era personalmente interessata, giacchè si trattava di veder condannare od assolvere un uomo distinto per la bellezza e lo spirito, ricchissimo, legato in parentela con le primarie famiglie dell' aristocrazia; il conte Raul Adalberti accusato e confesso di aver assassinato la moglie.

Il movente di quel delitto era un mistero per tutti.

La contessa Miranda Adalberti, come lo dichiarava lo stesso accusato, era stata la più fedele, la migliore delle mogli, delle madri, delle donne.

Raul l' aveva sposata cinque anni prima a Firenze e, condottola a Torino, la contessa Miranda seppe ben presto, colla sua grazia e bellezza, la delicata coltura dello spirito, la grandezza del cuore e della mente, procacciarsi, come un omaggio di giustizia, l' ammirazione di tutti.

La sua condizione le avrebbe permesso di brillare, di frequentare tutte le feste, ove sarebbe stata regina, ma la contessa Miranda modesta e riservata, preferiva una vita domestica, ritiratissima, abbellita dall' amore del marito e dai sorrisi infantili della sua bambina, un angioletto di quattro anni, che i due coniugi idolatravano.

Qual causa dunque poteva aver spinto il conte Raul ad un così orribile delitto?

Forse la gelosia? Ma per chi? I domestici assicuravano che nessun uomo, nell' assenza del conte, era mai stato ricevuto dalla contessa, che questa non era mai uscita sola dal palazzo, che le lettere ed i giornali che pervenivano al suo indirizzo, passavano prima per le mani del marito.

Forse Raul era stato colto da un accesso di pazzia? No, perchè nel momento in cui il conte venne arrestato presso la sua vittima, conservava il suo sangue freddo, mostrava di essere pienamente in sè.

Solo, mentre confessava cinicamente il suo delitto, si rifiutava dire il motivo che l' aveva spinto. A tutte le domande rivoltegli, le labbra di Raul rimasero costantemente chiuse, suggellate, mentre il suo volto si era coperto di un pallore tutto uguale, uniforme, che l' avresti detto una maschera di marmo.

I domestici dichiararono che la notte del delitto il conte era rincasato verso le undici.

Pareva calmo come di consueto, solo il suo domestico osservò che aveva la cravatta sgualcita, come se Raul avesse cercato strapparla per respirare e che due volte si appoggiò ai mobili della camera, come se fosse stato assalito da una vertigine.

Il cameriere gli chiese rispettosamente se si sentiva male, se gli abbisognava qualche cosa.

Il conte rispose che stava benissimo, diede alcuni ordini per l' indomani e, licenziato il cameriere, passò nell' appartamento della moglie.

La contessa Miranda era ancora alzata e si trovava nel suo salotto da lavoro.

La governante della piccola Maria disse, che la contessa sedeva su di una poltrona, presso ad un tavolino, sul quale erano alcuni giornali di mode e dei libri illustrati e teneva sulle ginocchia la bambina, che, colle mani giunte, il viso rivolto alla madre, ripeteva con gravità infantile una di quelle soavi preghiere, che sono tutto un poema d' amore, d' ingenuità, di fede!

Per il solito, quando il conte Raul sorprendeva quel quadro delizioso, casto, si fermava silenzioso, commosso, sulla soglia della stanza, finchè la preghiera non era terminata.

In quella notte invece si avanzò subito e dirigendo la parola alla governante:

— Perchè non avete ancora messa a letto la bambina? — chiese bruscamente.

A quella voce, che suonava improvvisa alle orecchie della piccina, questa mandò un piccolo grido e troncando la preghiera, si strinse spaurita al seno della madre.

La contessa Miranda alzò con sorpresa il capo.

— Sei tu, Raul? — esclamò con accento dolcissimo. — Le hai fatto paura. Guarda, Maria, è il papà, digli che non sgridi Nany, perchè è colpa mia se tu sei ancora levata..

La piccina guardò il padre fra intimidita e sorridente.

Il conte le stese le braccia: la fisonomia infantile di Maria s' illuminò. Battè le piccole mani in atto di gioia, poi, arrampicatasi sulle ginocchia della contessa, sollevandosi sulla punta dei piedini, giunse ad afferrarsi al collo del padre.

Egli si chinò per baciarla ed intanto le disse:

— Va a letto Maria, sii buona.

— Sì, va, va, mio amore — aggiunse la contessa — il papà ha ragione: è tardi.

La piccina obbedì, si lasciò prendere dalla governante.

— Buona notte, papà, buona notte, mamma — esclamò appoggiando la testina sulla spalla di Nany — domattina verrò per tempo a svegliarti.

— Sì, sì, mio angelo — disse la contessa con quel sorriso ammaliante, che guadagnava tutti i cuori — buona notte, Maria; Nany, abbiatene cura.

Furono le ultime parole che la governante sentì pronunziare dalla sua padrona.

Nany si ritirò, l' uscio del salotto fu chiuso.

Quello che avvenne nell' appartamento della contessa non fu possibile saperlo: il dramma non ebbe testimonii: nessuno fra i domestici udì gridare o lamentarsi.

Non era passata un' ora dacchè marito e moglie si erano ritirati ed i domestici stavano per coricarsi, quando un colpo d' arma da fuoco partì dalle stanze della contessa.

In un momento tutto il palazzo fu sottosopra: i domestici accorsero spaventati.

Nany tolse adagio adagio la sua mano dalla manina di Maria, che si era appena addormentata, chiuse con cura le tende del letto ed uscì senza rumore per non svegliarla.

L' uscio del salotto della contessa era sempre chiuso.

Bussarono: nessuno venne ad aprire. Chiamarono: nessuno rispose.

I domestici si guardarono pallidi, spauriti, non sapendo che risolvere. Ma il cameriere del conte, più coraggioso degli altri, girò risoluto la maniglia e l' uscio si apri.

Allora, avanzando la testa, guardò nel salotto. Il lume era sempre acceso sopra la tavola, ma nella stanza non vi era alcuno.

In quel momento udì come un gemito partire dalla camera della contessa: l' udirono parimenti gli altri e ristettero immobili, atterriti.

All' opposto il cameriere del conte s' inoltrò freddamente. La porta della camera della contessa era spalancata, ma dal salotto nulla si poteva distingere.

Giunto però il domestico sulla soglia della camera, rimase colpito di terrore alla scena che si offrì al suo sguardo.

Stesa sul tappeto, a due passi dal letto, giaceva il corpo esanime della contessa Miranda.

Ella vestiva l' abito bianco che aveva indossato lungo il giorno e portava ancora nella cintura dei fiori, che vi aveva posti la sua bambina.

Ma quei fiori erano macchiati di sangue e di sangue velevasi inzuppato tutto il lato sinistro del petto.

La povera contessa era stata colpita al cuore: era caduta fulminata!

Il suo viso aveva già preso il lividore proprio dei cadaveri, la bocca semiaperta mostrava i denti serrati convulsivamente, e, per una contrazione orribile, gli occhi erano rimasti spalancati, terribilmente fissi e parevano imprecare all' assassino.

Il conte Raul si teneva dritto, presso il cadavere della moglie, tormentando con ambe le mani una pistola.

La luce della lampada notturna gli scendeva sul viso, nel quale batteva neppure un muscolo.

Aveva le guancie di uno spaventevole pallore e pareva che il sangue si fosse ritirato anche dalle labbra di lui.

La presenza del domestico lo scosse, richiamò la sua attenzione. Allora, sollevando altera ed intrepida la fronte:

— Bastiano — disse con voce ferma — andate ad avvertire il procuratore del re che il conte Raul Adalberti ha assassinata la moglie.

Il domestico fece un passo indietro con manifesto stupore… poi, dominando la sua commozione, mediante la forza di volontà, si fece daccapo innanzi.

— Signor conte — mormorò.

— Siete ancora qui? — l' interruppe Raul con gesto e tono imperioso — andate, vi dico, sapete che quando do un ordine, voglio che sia eseguito!

Bastiano si ritirò barcollando come un ubbriaco.

Il conte Raul non ismentì mai la sua terribile calma.

Egli assistette impassibile a tutte le verificazioni legali, che avevano per iscopo, non gia di mettere in luce l' assassinio, ma di ritrovare le cause per cui si era compiuto.

Non si commosse neppure alle grida strazianti della sua bambina, che era stata portata nella camera della vittima per ordine del procuratore del re e chiamava, piangendo, la mamma, che più non poteva rispondere.

Il conte Raul Adalberti era dunque un mostro di scelleratezza, d' ipocrisia?

La pubblica opinione si era scagliata contro di lui per quel vigliacco delitto, che non poteva essere attenuato che da una violenta gelosia o da un accesso di pazzia.

Ma il conte Raul era nella pienezza delle sue facoltà mentali e la contessa Miranda non gli aveva mai dato alcun motivo di dubitare di lei.

Di qui la curiosità, l' interesse di questo processo, giacchè tutti speravano che all' ultimo momento, il conte avrebbe fatta qualche rivelazione.

Quando egli apparve sul banco degli accusati, vestito inappuntabilmente di nero, in atteggiamento calmo, dignitoso, e volse sulla folla uno sguardo altero, quasi sprezzante, si udì un mormorìo, subito represso dal campanello del presidente.

Il conte Raul Adalberti ascoltò l' atto d' accusa senza battere ciglia, con un' impassibilità di morte.

Il suo interrogatorio fu breve. Egli ripetè di aver assassinata sua moglie, ma rifiutò dire il motivo che l' aveva indotto ad un così orribile delitto.

— Difendetevi almeno — gli disse il presidente. — Non capite che col vostro silenzio vi perdete? Distruggete quell' accusa di assassino che pesa su di voi, che macchia il vostro nome, che sarà una triste eredità per vostra figlia. Vi sono delle circostanze che possono fare scusare un delitto, che possono commuovere gli animi a favore del reo. Gli abissi del cuore umano sono impenetrabili: una folle gelosia, per esempio, può far commettere il più vile attentato.

Tutti gli occhi erano fissi ansiosamente sul conte. Si aspettavano un sussulto, un trasalimento, una parola!

Ma Raul rimase muto, impassibile!

La lunga tratta dei testimonii non portò alcuna luce su quel mistero, non sollevò alcun lembo del velo, che copriva il sanguinoso dramma.

L' avvocato difensore, una delle prime celebrità del Fòro torinese, sostenne che l' accusato non doveva essere in sè quando commise il delitto. E lo provava la stessa imperturbabilità del conte, in presenza del cadavere della moglie. Anche il più cinico assassino, dopo aver colpita la vittima, prova un misterioso ribrezzo, sente mancarsi il cuore, non ha nella mente che un unico pensiero: fuggire.

Il conte Raul invece, gentiluomo educato a miti sensi, che fino a quel momento aveva dato prova di squisitezza d'animo, che aveva adorata sua moglie, era rimasto impassibile vicino al cadavere insanguinato di lei, non aveva cercato togliersi da quella stanza, nella quale ogni oggetto gli favellava della donna distesa ai suoi piedi, non aveva posto alcun vivente fra lui e la morta ed aveva atteso solo, tranquillo, che venissero ad arrestarlo.

Poi il celebre avvocato descrisse in una maniera semplice, toccante, la felicità domestica del conte, durante cinque anni di matrimonio. Nessuna nube era mai apparsa sul sereno orizzonte dei due sposi: essi venivano citati ad esempio, erano ammirati, invidiati!

Era possibile che il conte Raul distruggesse, scientemente, di un colpo, tanta felicità?

Per ultimo l' avvocato commosse l' uditorio fino alle lacrime, parlando della piccola innocente, che sarebbe rimasta sola al mondo, con una memoria sanguinosa che più non si sarebbe cancellata dalla sua mente, e coll' atroce dolore di una condanna infamante per l' uomo, che il suo cuore di figlia non poteva credere colpevole e sulla cui fronte ella avrebbe cancellata colle labbra la taccia di assassino…

E chiedeva per la povera fanciulla la pietà dei giurati.

Durante la lunga difesa, l' accusato stette sempre colle braccia conserte, la testa china, inerte come una statua di marmo.

Nessuno vide la lacrima che gli sgorgò dagli occhi e cadde sulla sua mano, lasciandovi l' impronta, come se vi fosse caduta una goccia di cera ardente. E tutti si dicevano:

— Quell' uomo non ha coscienza, non si meritava di essere così ben difeso.

Il giurì emise un verdetto affermativo, mitigato da circostanze attenuanti. Il conte Raul Adalberti venne condannato a dieci anni di casa di forza.

Il suo difensore lo sollecitò a ricorrere in Cassazione.

— A che prò — disse amaramente il conte — dal momento che confessai il mio delitto? Non chiesi pietà, ma giustizia…

— Pure se aveste voluto…

— Non più — l' interruppe freddamente Raul — io non ho da rendere conto dei miei pensieri… che a Dio!

L' avvocato non insistette, sapendo bene che sarebbe stato inutile.

Alla procedura criminale tenne dietro la procedura civile, per stabilire sulla sorte della piccola Maria Adalberti, la povera fanciulla, che il destino colpiva fatalmente nella più tenera età.

Ella venne affidata al conte Leo Adalberti, zio paterno di Raul e padrino della fanciulla.

Il conte Leo decise di stabilirsi colla sua figlioccia e pupilla in una delle sue ville che possedeva sul lago di Como. Ma non volle privare Maria dell' ultimo saluto, dell' ultimo bacio del padre. E chiese ed ottenne di visitare il prigioniero.

Il conte Raul non si attendeva quella visita e quando vide apparirsi dinanzi la piccina, vestita a bruno, col visino pallido, smunto, i grandi occhi spauriti, come se ancora vedessero un' orribile visione, mandò un grido disperato, da pazzo e fece l' atto di slanciarsi su di lei.

Maria ebbe paura ed avvinghiatasi alle ginocchia del padrino, balbettò con voce convulsa:

— Portami via…. portami via, è lui che ha uccisa la mamma, ucciderà anche me…

Raul ristette come fulminato: un sudor gelido gli bagnò la fronte ed invano cercò un grido, una parola, che non potevano uscire dalla sua gola divenuta di pietra.

Il conte Leo Adalberti cercava rassicurare la piccina, ma questa tremava sempre più e supplicava piangendo a toglierla da quel luogo.

Con un supremo sforzo, Raul pervenne ad aprire le labbra.

— Sì… portatela via — disse con una voce che non aveva più nulla del suo consueto accento — io le faccio orrore, ma quando ci rivedremo, Maria, tu sarai grande, potrai comprendermi ed allora giudicherai tuo padre in maniera ben differente da quella d' oggi: sino allora… addio!

Chinò il capo per non vedere più la figlia che si allontanava in braccio al padrino.

Ed in quell' atto scorse a terra il fazzoletto che Maria aveva lasciato inavvertentemente cadere.

Allora il conte Raul, dominato, smarrito, si lasciò cadere sulle ginocchia ed afferrando quel fazzoletto ancora bagnato di lacrime, lo portò alle labbra, rompendo in strazianti singhiozzi, che parevano squarciargli il petto.

Era la prima volta che egli dava sfogo ad una piena da tanto tempo repressa, soffocata, nascosta gelosamente a tutti.

Era la prima volta che Raul piangeva!

E quelle lacrime che scorrevano copiose, abbondanti dai suoi occhi aridi, disseccati, egli le doveva a sua figlia!

Era già suonato mezzogiorno e la bella contessa Livia Edvald si trovava ancora a letto, ma non dormiva. Stesa in un grazioso disordine sotto le lenzuola finissime, con un braccio nudo appoggiato al guanciale di trina, era intenta a leggere un romanzo assai in voga, ma che non meritava certo la fama che si era acquistata.

La contessa Livia Edvald aveva già toccata quell' età che la donna non vede avvicinarsi senza un fremito. Era sui quarant' anni, eppure vedendola anche in pieno meriggio, nel disordine della toelette, nessuno gliene avrebbe dati più di trenta.

Sulla sua fronte, di una bianchezza di marmo, non eravi una ruga; le labbra rosee, fresche, sembravano non fossero mai state tocche da baci; gli occhi di un azzurro così profondo, da parere quasi neri, risplendevano di tutto il fuoco della gioventù; la stupenda, ricca capigliatura bionda, avrebbe destata l' invidia di una fanciulla.

Erano due anni che la contessa Livia aveva preso dimora a Torino, dominando da sovrana l' elegante società, che non sapeva di lei che quel tanto le era piaciuto far conoscere…

Era vedova con un' unica figlia di sedici anni, educanda in un rinomato collegio.

Nessuno aveva mai veduta quella fanciulla, eppure si diceva che fosse meravigliosamente bella: una perla incastonata in un capitale di parecchi milioni.

Poichè la contessa Livia Edvald passava per milionaria e lo confermava l' oro che ella gettava a capriccio, a piene mani.

Frequentava tutte le feste, le passeggiate, i teatri: si citavano le sue toelette, i suoi gioielli, i suoi cavalli: riceveva nel palazzo, che teneva in affitto in una delle più belle vie di Torino, in maniera veramente regale, il che non impediva fosse generalmente biasimata. La dicevano di uno spirito cattivo, mordace; di un carattere volubile, capriccioso; di modi sprezzanti, imperiosi all' eccesso, forse perchè abituata a veder tutti inchinarsi dinanzi a lei.

Aveva una folla di adoratori e non le mancavano le richieste di matrimonio; ma la contessa Livia, mentre accettava sorridendo gli omaggi tributati alla sua bellezza, rispondeva che amava troppo la sua libertà per contrarre un nuovo legame, giacchè la Provvidenza l' aveva così opportunamente sbarazzata del primo.

In quella mattina adunque, la contessa Livia se ne stava a letto tutta intenta a leggere un romanzo, quando si aprì pian piano un uscio celato da una ricca portiera, e sul morbido e folto tappeto della camera, una giovane pose il piede cauta e timida.

Era la cameriera della contessa. Ella arrivò senza far strepito vicino al letto.

Livia non se ne accorse.

— Signora contessa — domandò a voce bassa la cameriera.

Livia sollevò bruscamente il capo.

— Che vuoi? Perchè vieni a disturbarmi? Io non ti ho chiamata.

— Lo so, signora, nè io mi sarei permessa di venire, se un giovane che si trova in anticamera, non insistesse per parlarle.

— Parlare a me? Sarà qualche importuno, m' immagino, mandalo via…

— Ho cercato di farlo e non ni è riuscito.

— Mandalo via, ripeto, non voglio vedere alcuno.

La cameriera si ritirò. Livia si ripose a leggere, ma non erano trascorsi due minuti, che la giovane ricomparve.

Livia aggrottò fortemente le ciglia.

— È così che vengo obbedita?… Vuoi farti scacciare?

— Perdoni, signora contessa, ma quel giovine mi ha così pregata di portarle questo biglietto….

Livia lo strappò con rabbia dalla mano della cameriera, ma appena l' ebbe svolto, gettò il libro e con voce agitata:

— È sempre in anticamera quel giovane?.. chiese.

— Sissignora.

— Ebbene, fallo passare nel salotto azzurro, digli che attenda… poi torna ad aiutarmi a vestire… Va… fa presto…

La cameriera uscì correndo.

Livia senza aspettarla, in preda ad una straordinaria agitazione, gettò indietro le coperte, balzò dal letto, infilò le calze di seta, color cielo, mise i piedi in due pantofoline, ricamate in oro e perle, e stava indossando una vestaglia, tutta ricoperta da trine finissime di Bruxelles, quando la cameriera fu di ritorno.

— Ebbene? — chiese con vivacità la contessa.

— Ho fatto quanto mi ha ordinato: il giovane aspetta… Vuole che la pettini?

— No… no — rispose Livia sollevando da sè stessa la sua splendida capigliatura, torcendola e fermandola sulla nuca con un pettine tempestato di brillanti — Sta' piuttosto attenta a quanto ti dico. Io debbo parlare d' affari con quel giovane e mentre mi trovo in salotto con lui, che nessuno entri e peggio per chi trasgredirà i miei ordini.

— Nessuno si azzarderà a farlo, signora contessa.

Questa gettò un rapido sguardo su di un altro specchio di Murano che le mostrò una abbagliante figura e ripreso il suo atteggiamento da regina, passò nel salotto.

Ivi l' attendeva in piedi lo sconosciuto.

Era un giovane di forse trent' anni, di statura mezzana, ben proporzionato, vestito con una certa ricercatezza di nero, ciò che faceva spiccare ancor più il suo viso color di cera, un viso a prima vista insignificante, ma che osservandolo bene, vi si scorgeva l' impronta della furberia, della malizia ed una certa qual malignità.

Vedendo la contessa fece un profondo inchino e continuò a rimanere in piedi col cappello fra le mani.

— Siete proprio voi, Michele?

— Io in persona, signora contessa.

— È dunque accaduto qualche cosa di grave, perchè voi stesso siate venuto da me?…

— Ho voluto essere il primo a darvi l' annunzio dell' irreparabile sventura che ci tocca.

Livia si fece pallida come una morta.

— Una sventura? — ripetè con accento convulso, afferrando il braccio del giovane che le stava dinanzi — che volete dire?

Egli chinò il capo sul petto e con voce quasi spenta:

— Voglio dire — balbettò — che il vostro e mio benefattore… è morto!

La contessa barcollò, stette per cadere: la voce le moriva soffocata in gola: un gelido sudore le stillava dalla fronte.

Pur tuttavia cercò reagire.

— Morto?… No… non è vero: Michele, voi mentite.

— Così piacesse a Dio, signora contessa.

Ella si portò le mani alle tempia e crollando il capo con un gesto di pazza disperazione:

— No… non può essere — ripetè con voce spaurita — mi ha scritto ancora la settimana scorsa… Morto? morto! Ma se così fosse sarebbe la rovina per me, la miseria per mia figlia.

Livia era caduta su di una poltrona, come annientata: il suo petto sibilava come se avesse il rantolo, il suo sguardo era smarrito.

Michele, sempre in piedi, la fissava in silenzio. Forse non trovava parole per consolare quel dolore, forse attendeva che quello sfogo passasse.

La contessa batteva i denti come se fosse colta dalla febbre: le labbra si contraevano convulse.

— Morto… morto! — ripetè un' altra volta con accento di supremo terrore.

Poi balzò di nuovo in piedi e i suoi occhi saettarono un lampo sinistro, quasi feroce.

Michele rimaneva imperterrito.

— Si è almeno ricordato di me? — chiese con voce rauca e strozzata. — Ha parlato? Ha scritto qualche cosa?

Michele scosse lentamente il capo e con accento che pareva commosso:

— Non ne ha avuto il tempo, signora contessa — rispose. — Egli è stato colpito da un travaso di sangue al cervello… ed ha chiuso gli occhi senza riconoscere alcuno, senza pronunciare parola. Io credetti mio dovere venir qui a darvi questa notizia, la quale domani sarà diffusa in tutti i giornali della penisola.

— Va bene — disse Livia con accento debolissimo, come se non avesse più la forza di parlare — vi ringrazio, Michele.

Egli fece un passo per avvicinarseie.

— Se io potessi qualche cosa… — disse con voce storzzata dall' emozione e con una premura che mal celava una insensata speranza.

La contessa arrossì sino al bianco degli occhi e lanciò al giovane uno sguardo fiero, in cui lampeggiavano il rimprovero ed il disprezzo.

— Voi non potete far nulla per me — disse freddamente, con gesto altiero — grazie di nuovo e… addio.

Era un congedo, ma il giovane non parve comprenderlo, non si mosse. Il suo sguardo dapprima dolce e triste, prese ad un tratto un' espressione assai singolare, si fece scintillante come la lama di un pugnale.

— Un momento, contessa — disse risoluto — non ho finito.

Livia sollevò il capo con impeto.

— Che avete ancora a dirmi? Forse qualche cosa che riguarda quel… morto?

Davanti allo sguardo altiero della contessa, Michele non chinò gli occhi.

— Non si tratta di lui — disse — ma di me…

— Di voi?… Io non v' intendo.

— Mi spiego subito. Vi ricordate che cosa ero io la prima volta che venni incaricato di un messaggio delicatissimo da parte di quell' uomo?

“ Un povero diavolo goffo, rosso, raccolto per carità da un gran signore, al quale avevo giurato di consacrare tutta la vita.

Ero contento della mia umile condizione e della confidenza che il mio benefattore mi dimostrava.

Vi vidi e da quel momento la mia sorte fu cangiata, la mia mente si empì di progetti ambiziosi, il mio cervello si popolò di sogni insensati.

Volevo provarvi che il povero diavolo che voi trattavate con bontà, ma dall' alto del vostro trono, poteva valere qualche cosa.

Del mio signore non ero geloso: sapevo bene che non l' amavate, ma egli era ricchissimo, potente, e qualunque altro vi sarebbe parso meschino accanto a lui, l' avreste disprezzato, deriso, scacciato!

Potevate abbassare il vostro sguardo fino a me? Ma io volevo inalzarmi fino a voi.

Se prima mi ero attaccato al mio benfattore per riconoscenza ed affetto, dopo mi avviticchiai a lui per conseguire lo scopo che avevo sognato…

Mi abbisognava molta pazienza ed una indomabile volonta. Per quasi dieci anni ho sofferto, ho lottato, col sorriso sulle labbra, senza che mai una parola, un gesto, rivelassero il supplizio delle mie notti, le torture dei miei giorni, lo strazio della mia anima.

Il mio benefattore è morto senza conoscere il mio segreto, ma adesso che voi siete libera e che io mi trovo in grado di offrirvi una discreta fortuna, non voglio che altri prenda un posto che a me solo spetta… e posso finalmente dirvi… che… vi amo! ”

La contessa aveva ascoltata quella lunga confessione, senza interrompere il giovane.

Forse sarebbe stata disposta a perdonare l' amore di Michele, perchè la donna è sempre generosa coll' uomo che le dimostra una passione spinta all' eroismo; ma le ultime frasi di lui la rivoltarono, le fecero l'effetto di un insulto.

Ella squadrò il giovane freddamente, da capo a piedi, e nei di lei occhi brillava un orgoglio indomabile ed un' espressione di supremo disprezzo contraeva le sue labbra.

— Avreste fatto meglio a risparmiare anche a me la confessione del vostro amore — disse con accento così insultante, che il giovane indietreggiò come se fosse stato morso da un aspide — perchè io non ho affatto l' intenzione di compensarvi di ciò che avete sofferto, nè sono ancora caduta così basso da accettare le vostre offerte.

E prima che Michele fulminato potesse rispondere, Livia tirò con violenza il cordone di un campanello ed al domestico apparso subito:

— Accompagnate il signore — disse con una clama più spaventevole del furore.

E senza più degnare Michele di uno sguardo, volse le spalle, ritornò nella sua camera, chiuse l' uscio con forza e lasciandosi cadere bocconi sul letto scoppiò in pianto convulso, morse rabbiosamente il guanciale, mandò sordi gemiti, si sfogò in minaccie, in imprecazioni, in maledizioni!

Aveva l' inferno addosso: il suo petto era gonfio di rabbia, la testa piena di rumori confusi.

— Ah fui bene imprudente — balbettava, colle labbra fatte bianche per l' ira, l' emozione — mi sono fidata troppo del destino, e questo si è burlato di me.

“ Che mi rimane ora della mia relazione con quell' uomo? Non altro che il disgustoso ricordo di un legame illegittimo e la vergogna di vedermi messa a prezzo da un vil servo. Oh! sia tre volte maledetto! ”

Così per lei era finito tutto! La ricchezza le sfuggiva, e Livia sarebbe stata balzata da quel piedestallo dorato, sul quale imperava da tanti anni.

Ah! no! La contessa Edvald non avrebbe subìta una simile onta, una tale umiliazione. Nessuno doveva conoscere il suo segreto, godere della sua disfatta!

Non era riuscita a nascondere, mentre quell' uomo ancora viveva, il suo illecito legame, la fonte delle sue ricchezze?

Morto lui, non sarebbe più rimasta in una città, che aveva assistito a tanti suoi trionfi e che ora sarebbe stata testimone della sua rovina, avrebbe indovinato il vero!

Bisognava ad ogni costo allontanarsi da Torino.

Presa questa risoluzione, Livia balzò dal letto e andò a collocarsi dinanzi allo specchio.

Aveva negli occhi un bagliore felino, sul volto un pallore affascinante.

Si guardò un momento, attentamente, mormorando:

— Sono ancora bella ed ho una figlia di sedici anni, che dicono meravigliosa: tutto non è ancora perduto.

Si mise a ridere. In quel momento il riso di Livia era terribile! Tutto il fondo della sua anima corrotta veniva a galla!

Ella agitò di nuovo con violenza il cordone di un campanello.

La cameriera accorse.

— Che sia attaccata subito la mia carrozza di campagna — ordinò. — E tu preparati a seguirmi: vado a riprendere mia figlia.

Due fanciulle nella primavera della vita, nell' età dei sogni deliziosi, passeggiavano a braccetto in un viale solitario del vasto giardino che faceva parte dell' educandato di X, posto circa a tre chilometri da Torino, sopra un poggio delizioso, dal quale si godeva una vista magnifica, vi si respirava un' aria purissima e la quiete non veniva turbata dai rumori mondani della città.

Era l' ora della ricreazione. Per gli altri viali del giardino si udivano allegri scoppii di risa e quelle grida di gioia spensierate, proprie della fanciullezza felice.

Le due fanciulle invece che si erano isolate, parevano assai tristi e da qualche minuto non avevano scambiata una sola parola.

Malgrado il modesto abito da educanda e la semplicità della pettinatura, le due fanciulle apparivano meravigliosamente belle, di quella bellezza che si direbbe appannaggio esclusivo della razza aristocratica.

Erano però due tipi affatto differenti: una pallida e bionda come una fantasia alemanna; l' altra bruna, ideale come una vergine del Murillo.

La bionda si chiamava Miranda Clementi; la bruna Tecla Edvald.

— Ti dico che ho dei tristi presentimenti — esclamò ad un tratto Miranda, mentre il pallido viso le si coloriva di un riflesso di vita — Mio fratello non ha mai lasciato trascorrere due mesi senza scrivermi.

— Ma tu sai che l' ultima volta, mentre ti annunziava la sua promozione a tenente, ti diceva pure che doveva partire per la Sicilia — rispose soavemente la bruna, stringendo nelle sue le mani dell' amica.

Miranda sospirò: una lacrima brillava nei suoi occhi.

— Purchè non corra qualche pericolo — disse con emozione.

— Ma no, non t' inquietare così, vedrai che prestissimo avrai sue nuove…

— Che il cielo ti ascolti — mormorò Miranda. — Tu sai che a me non resta altri al mondo che mio fratello come a te non resta che la madre.

Fu la volta di Tecla di diventar triste.

— Ella pensa assai poco a me — disse — eppure io l' amo tanto. Ho veduto una sola volta tua madre, ma non potrò mai dimenticarla! — esclamò ingenuamente Miranda. — Com' è bella! Che aria maestosa, da regina! Io tremavo dinanzi a lei…

Tecla non disse parola, ma nelle sue pupille, a mezzo velate, scorse una rapida fiamma.

Miranda continuò:

— Tu non le assomigli affatto, eppure sei bella come tua madre, più di lei: se io fossi un re, ti offrirei in ginocchio la mia mano, la mia corona…

Un sorriso melanconico sfiorò le labbra di Tecla.

La due fanciulle, così parlando, erano giunte ad una panchina che rimaneva nel mezzo di una breve spianata, che un folto d' alberi circondava.

— Sediamoci qui — disse Miranda.

— Come vuoi — mormorò Tecla.

La bionda circondò col suo braccio sinistro la snella vita dell' amica.

— Guardami, Tecla…. — esclamò sorridendo.

La fanciulla fissò i suoi begli occhi in viso a Miranda.

— Ti guardo… e poi…?

— Voglio leggere nei tuoi occhi quello che ti passa nell' anima, perchè tu mi nascondi qualche cosa.

Tecla si scosse.

— Io?…

— Sò, tu. Da qualche tempo sei triste, come non lo sei stata mai, e posso anche dirti da quale giorno hai cambiato carattere.

Tecla senti che il suo cuore raddoppiava i battiti, pure cercò sorridere.

— Tu sei pazza — disse scherzosamente.

— No… no… ho tutto il mio senno — rispose con gravità Miranda. Ricordati come eri allegra un mese fa, prima del tuo incontro col giovine cavaliere, che ci salvò, per così dire, la vita, perchè senza di lui, quel giorno che alla passeggiata fummo colte da quell' orribile temporale, che ci disperse come due pecorelle spaventate, noi due si sarebbe cadute nel fiume…

Tecla era diventata pallida, ed i palpiti precipitosi del suo cuore sollevavano il suo corsetto da educanda.

Le sue labbra però rimasero chiuse.

Miranda aggiunse:

— Quel giovane cavaliere era proprio l' ideale, che appariva nei tuoi sogni e del quale spesso, ridendo, mi facevi il ritratto… Venticinque anni al più, fronte pensosa, e due sottili baffi biondi sul labbro superiore…

— Taci, pazzerella — interruppe Tecla sospirando.

— Dimmi almeno che non mi sono ingannata, che tu pensi più che non dovresti al misterioso cavaliere… senti come batte il tuo cuore; la cosa è dunque più grave di quello che pensavo: tu l' ami?…

La bella testina di Tecla si chinò sulla spalla dell' amica.

— Io non ti comprendo, Miranda — mormorò — amore… cos' è mai l' amore?

— Io non ne so più di te, ma ritengo sia il contento che si prova vicino ad una persona, che sembra far parte della nostra esistenza….

— Quello adunque che provo per te?

— No, non è lo stesso. Se io ti parlo di me, il tuo viso rimane sorridente, tranquillo, i palpiti del tuo cuore sono regolari; se ti parlo invece di quel giovane cavaliere, le tue guancie si accendono.

— Miranda!

— È proprio così… il tuo cuore batte forte… forte… e scommetto che se anche tu chiudi gli occhi, vedi sempre dinanzi come una visione del cielo, la persona a cui pensi. Tutto questo vuol dire amore.

Tecla ascoltava commossa, palpitante, quelle teorie dell' amica.

Miranda aveva indovinato! Dal giorno del suo incontro col misterioso cavaliere, Tecla non riconosceva più se stessa. L' avreste fatta stupire riproducendole la semplice analisi delle sue sensazioni.

Non sapeva: sentiva. La figura di lui così dolce ed altera al tempo stesso, Tecla la rivedeva sui quadri dell' altare, sulle pareti della scuola, nell' ombra del dormitorio…

Ma ella ignorava che la gioia arcana che provava pensando a quel giovine, il quale non le aveva rivolte che poche e sconnesse parole, fosse un sintomo d' amore, di quell' amore che comincia con un semplice sguardo e dura fino al sepolcro… e continua nei cieli; di quell' amore che costituisce tutte le speranze, le felicità di una vergine; che dà un' idea della vita degli angeli, che fa disprezzare le cose materiali e trasporta l' anima verso un' incognita sfera….

Due lacrime pure, limpide, come due goccie della rugiada di maggio, caddero dagli occhi di Tecla sulla mano dell' amica.

Miranda spaventata stava per chiedere la causa di quel pianto, quando una voce aspra di donna chiamò Tecla ad alta voce.

Era una maestra sorvegliante, che veniva a cercarla per condurla dalla direttrice.

— È giunta vostra madre — disse ripigliando a stento il fiato, perchè aveva fatta una lunga corsa — sembra che voglia portarvi via dal collegio.

Tecla si drizzò bruscamente, mandando un piccolo grido.

Miranda impallidì! Che sarebbe di lei separata dalla sua unica amica?

— Su… su… venite presto — esclamò la maestra sorvegliante, che non pose mente alla commozione delle due fanciulle — vostra madre ha detto, che non ha tempo di aspettare.

— Vengo anch' io con te? — chiese Miranda, con voce strozzata.

— Certamente — rispose Tecla con vivacità — mia madre sarà lieta di vederti.

La contessa Livia Edvald stava spiegando alla direttrice la necessità in cui si trovava di togliere sua figlia dal collegio, non potendo più vivere separata da lei.

Sul volto della contessa non si scorgeva alcuna traccia delle strazianti emozioni sofferte la stessa mattina. Era invasa da un fervore tutto nuovo, che avvivava le sue guancie e rendeva scintillanti i suoi occhi.

Parlava con calore e ad ogni suo movimento, un dolce, delicato profumo, si sprigionava dai suoi ricchi abiti, rendendo l' atmosfera, di quel gabinetto, inebriante.

Il rumore dell' uscio che si apriva fece volgere con vivacità la contessa.

Entrava la maestra sorvegliante seguìta da Tecla e da Miranda.

Era quasi un anno che la contessa Edvald non aveva veduta sua figlia e per quanto si aspettasse di trovarla bella, rimase colpita per la sorpresa.

Quel volto pallido, dagli occhi voluttuosi, che pareva vagassero nell' infinito: quella fronte altera, coronata da una magnifica capigliatura bruna, quel nasino dalle narici mobili, palpitanti, quella bocca dalle labbra rosse come il sangue, dai denti di perla, quella persona slanciata, flessuosa, elegante, facevano di Tecla la più deliziosa apparizione, qualche cosa cosa di fantastico, di divino!

La contessa Edvald divorò cogli occhi sua figlia e mandando un grido la strinse come forsennata fra le sue braccia.

Ma quel grido le era stato strappato dal profondo egoismo che tutta la dominava.

Tecla era ormai per lei un' àncora di salvezza e nulla più. Il cuore di quella madre non era capace di un più nobile sentimento.

La fanciulla però fu commossa a quel trasporto che non si aspettava ed abbandonandosi fra le braccia della contessa:

— Mamma… cara mamma! — mormorò.

— Mia cara, perdonami di averti dimenticata per tanto tempo… ma le circonstanze gl' interessi…

Tecla le chiuse la bocca con un bacio.

— Questo momento mi compensa di tutto — disse.

— Ma adesso tu non mi lascerai più… verrai con me: è tempo che tu faccia la tua entrata nel mondo.

Tecla lasciò sfuggire un lievissimo sospiro, che colpì la contessa. Questa aggrottò involontariamente le ciglia.

— Ti reca tanto affanno venire con me? — chiese con una certa concitazione.

La direttrice intervenne e con voce commossa e dignitosa al tempo stesso:

— Tecla, ne sono più che certa, è felice di non dovervi più abbandonare…. Ma dimostrerebbe di non aver cuore se lasciasse senza rimpianto questo collegio dove è cresciuta, dove tutti l' amavano, dove si sperava rimanesse per qualche anno ancora… non è così, figlia mia?…

Tecla rivolse sulla direttrice i begli occhi offuscati dalle lacrime:

— Ah! non dimenticherò mai gli anni qui passati — esclamò — e sopratutto voi che mi avete fatto da seconda madre… e Miranda ch' è stata per me più che una amica, una sorella.

Miranda, che fino allora si era tenuta in disparte, intimidita, piangente, sentendosi nominare da Tecla, si precipitò al collo di lei e per qualche minuto non si udì nel gabinetto che il suono dei loro baci, dei loro singhiozzi…

La contessa Edvald si mordeva leggermente le labbra. Quella scena la turbava, l' infastidiva.

La direttrice dovette usare una dolce violenza per staccare le due amiche.

— Tu mi scriverai… non è vero, mi scriverai? — diceva Miranda.

— Certamente — rispondeva Tecla — ricordati che per qualunque cosa ti avvenga, la mia casa ti sarà sempre aperta come le mie braccia, e mia madre diverrà la tua.

La contessa Edvald, così direttamente interpellata, per accaparrarsi sempre più l' anima della figlia, strinse a sua volta Miranda al petto e la baciò in fronte con una tenerezza veramente materna.

Mezz' ora dopo, Tecla saliva nella carrozza che doveva trasportarla in città, e Miranda, ritta sulla soglia del collegio, non si mosse finchè la vettura non scomparve.

La contessa Edvald lasciò che sua figlia si sfogasse silenziosamente in lacrime in un angolo della carrozza.

Ed intanto la donna egoista, che al calcolo posponeva gli affetti, faceva tra sè mille progetti, ordiva mille intrighi.

E guardava Tecla non con l' occhio della madre ansiosa e fremente dell' avvenire della propria figlia, ma della madre altera e senza cuore, che di quella fanciulla voleva farsi un' arma, uno sgabello alla propria ambizione!

Tecla i primi giorni del suo arrivo al palazzo della contessa rimase alquanto stordita, confusa, trovando tutte le sue abitudini mutate ad un tratto. Ella passava di meraviglia in meraviglia. Sapeva sua madre ricchissima, ma non aveva mai sognata tanta raffinatezza di lusso, di eleganza.

La camera che sua madre le aveva destinata sorpassava ogni immaginazione. Era tutta parata in seta cilestre ed oro: i mobili parevano doversi spezzare al tocco della mano: il tappeto era un' aiuola di fiori, il letto un fiocco di neve. Ma nessun quadro della Madonna vedevasi appeso alla parete, mancava l' inginocchiatoio.

Però vi erano a profusione dei ninnoli moderni, costosi, e vi si respirava un profumo acuto e delizioso, che faceva nascere un sentimento indeciso di mollezza, di languore, assai pericoloso per una fanciulla.

Gli abiti del collegio furono posti da parte e le stoffe le più ricche, le mode più capricciose, i gioielli più rari, si successero senza interruzione dinanzi agli occhi abbagliati di Tecla.

Era una vera valanga sotto la quale la contessa tentava seppellire ogni rimembranza del collegio dall' anima di sua figlia.

Tecla però conservava un'invincibile mestizia e la contessa Edvald cercava invano scoprirne il motivo.

— Hai dunque un segreto per tua madre? — le disse una mattina che la sorprese colle lagrime agli occhi. — Non sei dunque contenta di essere vicina a me? Perchè quel velo di tristezza che impallidisce così il tuo bel volto! Tecla…. mia Tecla, se tu sapessi come mi fai soffrire vedendoti così…

La giovinetta gettò le braccia al collo della contessa e la baciò.

— Perdonami, mamma cara…. si…. io vedo che sono un' ingrata, ma non ho nulla, te l' assicuro.

Livia ne fu sollevata.

— Ed allora sorridi, mia cara — esclamò stringendo al suo cuore la figlia e con accento veramente materno — ed ascolta la dolce nuova che ho da darti. Veramente volevo farti una sorpresa, ma mi sembra meglio prevenirti.

Tecla guardava la contessa senza comprenderla. Livia continuò:

— Non hai notato in questi giorni un vivo movimento nel palazzo, un andirivieni di operai?

— Sì, mamma…

— E non ti sei chiesta che cosa venissero a fare?

— No.

— Ebbene, te lo dirò io. Essi venivano ad ultimare la decorazione di un appartamento che aprirò domani sera in occasione di una gran festa da ballo, che darò per te e nella quale tu sarai regina.

— Oh! cara mamma, come sei buona con me.

— Sei adunque contenta?

— Senza dubbio.

— Ho già diramati tutti gl' inviti e sappi che alla nostra festa avremo anche un principe.

Tecla sorrideva per non turbare la gioia di sua madre.

— Un principe? — esclamò con vivacità. — Giovane o vecchio?

— Giovane e ricchissimo. Egli possiede una di quelle sostanze colossali, delle quali è impossibile farti un' idea: ha palazzi in tutte le grandi città europee, non si contano le sue ville, i suoi possedimenti.

— È ammogliato?

— No, e malgrado tutte le sue ricchezze, conduce una vita assai ritirata e modesta.

— Ma allora — esclamò Tecla con ingenuità — è poco probabile che accetti il tuo invito.

— Il principe Cars è troppo gentiluomo per rifiutare l'invito di una gentildonna colla quale ebbe già l' occasione di trovarsi in un Circolo di beneficenza, e scambiò molte cortesi parole.

Tecla abbracciò sua madre.

— Tu l' avrai affascinato colla tua grazia e bellezza, come del resto succede a tutti quelli che ti avvicinano.

— Adulatrice! — mormorò la contessa scoprendo in un sorriso voluttuoso i denti bianchissimi ed uniti. — Del resto, domani sera, sarai tu sola che terrai lo scettro della bellezza, della grazia, ed io andrò superba, orgogliosa dei tuoi trionfi. Guardati in quello specchio Tecla, e dimmi se non ho ragione!

Tecla alzò i begli occhi arrossendo. Lo specchio le rimandava un' immagine adorabile ed al paragone di tanta avvenenza, svaniva quella della contessa.

Livia con quegli occhi misteriosi, quella bocca sensuale, quelle forme superbe, faceva pensare alla terra.

Tecla aveva un non so che di casto, di angelico, che le irradiava intorno, che faceva pensare agli angeli, al cielo….

Il principe Cars aveva venticinque anni e possedeva una di quelle bellezze serie, melanconiche, che destano, al primo vederle, una vivissima simpatìa. I suoi occhi di un grigioturchino avevano una dolcezza incantevole; il suo sorriso era quello di un fanciullo; la sua persona mostrava la gioventù in tutta la sua forza e potenza.

Il principe Cars, come diceva la contessa Livia, appariva ai più misantropo, freddo, strano. Eppure chi lo conosceva intimamente sapeva che non vi era alcuno più di lui capace di provare emozioni nobili, ingenue, candide.

Non si poneva in mostra: le sue azioni le più generose, erano tenute occulte.

Egli si compiaceva andar da sè stesso in traccia della vera miseria, salire nei più infetti bugigattoli, cambiare come il buon Genio le lacrime in sorrisi, la disperazione in gioia, la sventura in un' improvvisa fortuna!

Quante famiglie torinesi, agglomerate in oscure soffitte, in lotta continua coll' avversità, videro ad un tratto cangiata la loro sorte, dopo la visita di un giovane, in abiti dimessi, da operaio, che con una scusa qualunque si era informato della loro condizione!

Quanti artisti, sepolti nell' ombra, videro la luce, sorretti dalla mano benefica del principe Cars! Eppure ben pochi erano quelli che sospettavano la verità, ed anche quei pochi benedivano in silenzio il nome del principe, sapendo che nulla l' avrebbe offeso di più che una lode pubblica, una gratitudine altamente dimostrata.

La palazzina abitata dal principe Cars aveva al di fuori un aspetto modestissimo; ma nell' interno era una meraviglia di buon gusto, d' arte.

Il principe era amantissimo dei fiori ed aveva speso somme enormi per riunire nella sua serra i più rari e preziosi arbusti.

Nella serra egli passava gran parte della giornata. Si sentiva penetrato da tutti quegli effluvî che lo circondavano; provava un benessere invidiabile, che spesso si traduceva sulla sua fisonomia serena, nel sorriso delle sue labbra.

I suoi domestici però avevano notato che da qualche tempo il principe Cars si era fatto più melanconico. Usciva tutte le mattine a cavallo, qualunque tempo vi fosse e quando ritornava era più triste che mai.

Ma nessuno avrebbe ardito indagare la causa di quella tristezza.

Verso le due pomeridiane di una splendida giornata, il principe Cars, che aveva fatto allora colazione, passò nella serra per prendere il caffè ed assaporare un po' di tabacco turco in uno di quei preziosi narghile, così duttili, che si avvolgono attorno al braccio, come le spire di un serpente.

Dalle ampie vetrate della serra entrava il sole, inondando a mo' di pioggia d' oro la sabbia finissima del pavimento: sulle piante pareva di veder brillare come tante gocciole di diamanti; uccelli di ogni specie e colore gorgheggiavano nell' ampia uccelliera dorata.

Il principe Cars, adagiato in una poltrona, sotto un' enorme papiro, pareva seguire con lo sguardo gli scherzi capricciosi del sole, ma il suo pensiero doveva essere altrove. Sotto il pallore della sua fronte, si presentiva una dolorosa mestizia che nulla valeva a distrarre.

Forse era in uno di quei momenti di tristezza che ogni uomo sente in fondo al cuore, che immerge l' anima nelle reminiscenze della vita passata e la predispone alle lacrime.

Vedeva come in un sogno il bel castello dove aveva passati gli anni della sua infanzia presso sua madre, una donna bellissima, pallida, seria, che usciva raramente dal suo appartamento e la cui gelida fierezza influiva su tutte le persone che la circondavano.

Suo figlio provava per lei una riverenza mista ad adorazione. Sotto quella glaciale alterezza, egli aveva indovinato una donna elevata, massime pel cuore. Ella doveva aver molto sofferto nella vita, ma non amava confidare ad alcuno i suoi dolori, che aveva racchiusi in fondo all' anima come in una tomba, della quale essa sola poteva sollevare la fredda pietra.

Il principe Cars aveva appena conosciuto suo padre, che era morto ancora giovanissimo per una ferita avuta in duello, in causa di una questione sull' antica nobiltà. Anche lo avversario aveva dovuto soccombere alle ferite. Dai giornali si fece allora un gran chiasso per questo duello, doppiamente fatale, che gettava nel lutto e nella costernazione due delle più nobili famiglie; poi nessuno ne parlò più, e la memoria del principe non rimase che nel cuore del figlio e più ancora in quello della principessa, che Cars sorprese sovente mentre bagnava un ritratto di lacrime: il ritratto di suo padre.

Il principe Cars si rivedeva quindi adulto, al fianco di un vecchio precettore, al quale l' aveva confidato sua madre, un uomo onestissimo fino allo scrupolo, savio, istruito, che l' amava come un figlio, e che egli pure ricambiava di vivissima affezione.

Insieme avevano visitata l' Europa, insieme percorsero l' Oriente. Ed il principe ricordava i suoi entusiasmi, i desiderî di nuove terre, di nuovi studî.

E fu in uno dei suoi viaggi, che ricevette come un fulmine la notizia della morte di sua madre.

E non averne potuto raccogliere l' ultimo bacio, l' ultimo addio, l' ultimo sospiro!

Volle però rivedere i luoghi abitati da lei, la camera che da molti anni più non lasciava, la tomba in cui dormiva il sonno eterno delle anime giuste.

Ed in quei luoghi il principe aveva ritrovate le lacrime, che credeva d' aver tutte esaurite.

Dette ordine che nulla fosse toccato di ciò che riguardava sua madre: quel castello sarebbe diventato per lui un santuario, un luogo di pio pellegrinaggio.

Ma i suoi dolori non erano finiti.

Lo stesso anno il principe Cars perdeva il suo precettore, che era stato per lui un vero padre.

Gli parve allora che nella sua vita tutto fosse finito, che il suo cuore si fosse chiuso per sempre.

Ciò durò più di un anno, poi il principe Cars si vide a Parigi, in mezzo alla società brillante, che lo ricercava, lo adulava, taluni per rispetto al suo nome, i più perchè lo sapevano favolosamente ricco.

Invidiato, incitato, lusingato, il principe riuscì per qualche tempo a stordirsi.

Ma i disinganni atroci che ebbe a provare gli fecere nuovamente sentire il bisogno della solitudine, dell' isolamento.

Sotto l' apparenza delle più ingenue inspirazioni, egli vi aveva rinvenuto sempre un secondo fine: gli amici l' adulavano per estorcergli del denaro; le più tenere espansioni delle donne, che aveva conosciute, erano state ignobilmente simulate.

Dappertutto aveva rinvenuto calcolo e bassezza, e ciò l' aveva reso diffidente, scettico. Ma adesso, riandando il passato, il principe Cars sentiva nell' anima come un desiderio impaziente, un turbamento profondo, un bisogno nuovo di godere, di sentire, di lacrime, di sorrisi, di baci di angeli, di carezze di fanciulli.

Era la sua natura giovane, ardente, vigorosa, che tornava a parlare: era la sua fantasia che cercava una soddisfazione ai sogni della mente…

La vetrata della serra aprendosi con un certo strepito, scosse il principe dalle sue meditazioni.

Entrava un domestico, portando su di un vassoio d' argento una lettera dalla busta rosata con una corona in rilievo.

— Che c' è di nuovo, Zilà? — chiese Cars dolcemente.

— Una lettera, mio principe.

Cars la prese macchinalmente con una specie di noia. Non ne riconobbe il carattere della soprascritta, ma capì che era stata vergata da una donna.

Ruppe il suggello e tolse dalla busta un elegante cartoncino sul quale stava scritto in carattere minuscolo:

“ La contessa Livia Edvald prega il principe Cars a farle l' onore di assistere alla festa che ella darà nel proprio palazzo domani sera. ”

Il viso di Cars espresse un doloroso stupore.

— Una festa dalla contessa Edvald? — pensò. — E non è scorsa una settimana che il duca di Laval è morto! Ma qual donna è mai la contessa? Non ha dunque nè anima, nè coscienza?…

Egli fece un gesto di ripugnanza e fu sul punto di strappare il cartoncino in quattro pezzi. Ma si contenne.

— Voglio vedere coi miei occhi fin dove giunga l' audacia di quella donna — disse. — Ella crede che tutti ignorino la relazione che ebbe col duca di Laval e sfida il mondo colla sua impudenza, mentre la sua vittima non è ancora sotterra. Quella donna è un mostro!

Si volse al domestico, che rimaneva diritto, impalato a pochi passi da lui e gli disse:

— Non è che un invito per domani sera; una festa da ballo.

— Ci andrete, mio principe?

— Sì… perchè prevedo che questa festa sarà una fonte di meditazioni per me… e mi gioverà una volta di più a conoscere il cuore umano… e sopratutto il cuore delle donne…

A tutti gli orologi di Torino erano suonate le dieci e già un compatto crocchio di gente stava ferma sul marciapiede dinanzi al palazzo della contessa Livia Edvald, in via Santa Teresa, per ammirare le belle invitate che scendevano dagli stemmati equipaggi ed il magnifico colpo d' occhio che anche all' esterno il palazzo presentava.

Era tutto sfolgorante di luci: il vestibolo pareva ridotto una serra, tante erano le piante ed i fiori ivi accumulati.

Ed arbusti rarissimi e vasi di fiori fiancheggiavano l' ampio scalone di marmo, ricoperto da un ricchissimo tappeto persiano.

Una moltitudine di servi e lacchè in livree fiammantì stavano al piede dello scalone e all' ingresso dell' anticamera.

Le splendide sale rigurgitavano già di invitati, ansiosi di conoscere la bella figlia della contessa Edvald, che in quella sera doveva fare la sua prima comparsa in società.

Tutta Torino elegante si poteva dire che era stata invitata alla festa della contessa, e ben pochi avevano mancato dal recarvisi: alcuni per passatempo, altri per rendere omaggio alla contessa Livia, i più per curiosità.

In fatto di donne, vi erano delle bellezze eccezionali, eppure Tecla venne proclamata regina.

Nessuna poteva starle a pari per l' espressione angelica, affascinante del visino da Madonna, per la purezza delle forme, messe ancor più in rilievo da un abito di una semplicità incantevole, ma di un gusto perfettissimo: un poema, un capolavoro.

Tecla non portava nè fiori, nè gioielli; ma i suoi occhi splendevano come i più preziosi brillanti: ella era il fiore più fresco, gentile, profumato di quell' ambiente.

Nessuno si ricordava di aver veduta la contessa Edvald più trionfante, felice. Sulla fronte bianchissima le splendeva una serena gioia, il suo sorriso affascinava.

Ella andava altera del successo di sua figlia, stringeva con effusione la mano a tutti quelli che venivano a congratularsi con lei di aver posto in mostra quel tesoro di grazia, di bellezza, di giovinezza, era raggiante di una piena felicità.

Era ancora forse possibile disperare dell' avvenire?

Tecla subiva senza avvedersene l' influenza magnetica di sua madre e non era insensibile all' ammirazione che destava. Si lasciò quindi andare a quel turbinìo che la travolgeva in un barbaglio di luci, in un' ebbrezza di fiori, in un' ondata di musica…

La festa era al suo apogeo quando giunse il principe Cars.

La sua presenza fu subito notata ed una viva agitazione di curiosità si destò fra le signore, che conoscevano solo il bello e misantropo principe di fama.

La contessa Livia mosse alcuni passi incontro a lui, e stendendogli la mano:

— Vi ringrazio, principe, di aver voluto onorare la mia festa — disse con un inebriante sorriso. — Mi chiamo davvero fortunata ed altera di annoverarvi fra i miei invitati…

Cars s' inchinò con la compitezza del gentiluomo.

La contessa aggiunse:

— E permettete che vi presenti mia figlia.

Il principe alzò gli occhi e divenne pallidissimo.

Tecla mandò un leggiero grido, che mise una specie d' ansia nell' anima della contessa.

— Vi conoscevate già? — esclamò vivamente.

— Sì — rispose Tecla con un' ingenuità e prontezza infantile — il signore un giorno ha salvata la vita a me… ed a Miranda…

— Permettetemi di dirvi, contessina, che esagerate — interruppe il principe. — Non ho fatto nulla che meriti una simile asserzione… Passeggiavo in campagna, fui sorpreso da un violento temporale, e mentre mi avvicinavo al luogo dove avevo lasciato il mio cavallo, vidi due giovani educande che essendosi allontanate dalle loro compagne, avevano smarrita la strada e piangevano, non potendo più ritrovarla… Io ebbi la fortuna di servir loro di guida, di rimetterle sulla buona via e nulla più.

— Ah! voi dite così per evitare i nostri ringraziamenti, la nostra riconoscenza — esclamò la contessa Livia con voce commossa — ma la mia Tecla non dimenticherà certo quello che avete fatto per lei, come il mio cuore di madre avrà sempre un battito di gratitudine per voi.

Il principe Cars non era tale da lottare con quella commediante di prima forza. Onde fu costretto a tacere ed accettare i complimenti che Livia gli rivolgeva.

Presto circolò per le sale l' avventura romanzesca del principe Cars e della contessina Tecla.

— Chissà che quest' avventura non termini con un matrimonio — disse una vecchia baronessa ridendo. — Quei due ragazzi mi sembrano proprio creati l' uno per l' altra.

Intanto il principe aveva approfittato della comparsa di nuovi invitati, che vennero a complimentare la contessa, per ritirarsi.

Sentiva il bisogno di essere solo, di sottrarsi a quella folla che lo circuiva.

Fece il giro delle sale e si trovò, senza saper come, sulla soglia di un gabinetto deserto, vicino alla serra, che non doveva essere aperta agli invitati che dopo la cena.

Il principe respirò: in quel gabinetto giungevano appena indistinti i rumori della festa.

Cars si gettò a sedere sul divano: egli era assai sconvolto.

Era possibile? Quella fanciulla dal viso così dolce e soave che l' aveva ammaliato al primo vederla; quella fanciulla che gli era apparsa come il casto ideale dei suoi sogni, che gli aveva fatto provare le dolci, inebrianti sensazioni del primo amore, era figlia della contessa Edvald, di quella donna audace, impudente, che ballava sulle ceneri ancora calde dell' uomo che le aveva date le ricchezze fino allora godute, che per lei aveva sacrificato la moglie, i figli?

It cuore di Cars si gonfiò: egli si sentiva avvampare le tempia e freddo alle mani.

Tecla aveva forse l' anima di sua madre? Conosceva il passato di quella donna alla quale doveva la vita? Sapeva da qual fonte venivano quelle ricchezze di cui fruiva?

No… no… bastava guardare la fanciulla per convincersi della perfetta innocenza di lei.

Il contrasto con sua madre era troppo evidente. Negli sguardi splendenti della contessa si leggevano le cattive passioni dell' anima; in quelli di Tecla vi era la calma di un cuore celestialmente puro.

Tuttavia poteva Cars pensare alla figlia di una donna come la contessa Livia?

Fra lui e Tecla vi era un ostacolo assai più insormontabile della differenza della sostanza, del nome! Egli era superiore a tutti i pregiudizî sulla nobiltà e sulla ricchezza, ma non transigeva in fatto d' onore.

Bisognava quindi fuggire, dimenticarla!

La sua via e quella di Tecla erano tracciate troppo discoste l' una dall' altra.

Un' amarezza senza misura colmava l' anima di Cars, gli turbava la mente!

Avrebbe voluto allontanarsi subito da quel luogo, da quella festa…

In quel momento udi un fruscìo dietro di lui, e, balzato in piedi, si vide dinanzi Tecla.

Quando la figlia della contessa riconobbe nel principe Cars il cavaliere misterioso che l' aveva salvata, la cui immagine riempiva tutto il suo cuore, provò una di quelle potenti sensazioni che raramente è dato gustare due volte nella vita. Ed i suoi occhi avevano brillato di una vivissima luce, un dolce incarnato le colorì le guancie, un celeste sorriso le sfiorò le rosee labbra.

Oh! se Miranda fosse stata vicino all' amica, come le avrebbe sussurrato all' orecchio:

— Dirai ancora che non pensi a lui? Comprendi adesso il dolce, sublime mistero dell' amore?

Ma la freddezza del principe Cars, la precipitosa ritirata di lui dalla sala, fecero ricadere Tecla da quel luminoso cielo a cui era ascesa.

Si fece alternativamente rossa e pallida: la luce dei lampadarî si offuscò ai suoi occhi, i suoni dell' orchestra le riuscirono molesti, desiderò un po' di calma e di quiete.

Un' imperiosa forza l' attirò verso quel salotto stesso nel quale si era rifugiato il principe.

Ma Tecla non pensava di trovarlo. Forse se l' avesse saputo non vi si sarebbe recata.

Quando se lo vide all' improvviso dinanzi, arretrò d' un passo vergognosa, smarrita.

— Scusate — balbettò — non sapevo….. mi ritiro…

— Tocca a me cedervi il posto — disse il principe inchinandosi, pallido come un morto.

E stava per andarsene, ma Tecla lo fermò con un grido soffocato.

— Oh! no… non partite in tal guisa — esclamò senza rendersi conto di quello che diceva, inscientemente, cedendo, per così dire, ad un sentimento al quale non potè resistere.

Il principe sentì un fremito percorrergli le vene.

— Che volete da me….. contessina? — chiese con voce leggermente tremante.

Tecla alzò verso di lui quegli occhi così limpidi, nei quali passava l' anima tutta intiera.

— Volevo — rispose con semplicità e con voce che parve a Cars un incanto, una melodia nuova — ringraziarvi io stessa di quello che faceste per me… e la mia amica Miranda. Vicino a mia madre, in mezzo a tanta gente, non seppi trovar parola…

Si fermò angustiata, vedendo il principe aggrottare le ciglia.

Tecla giunse le mani con atto adorabile.

— Vi dispiace dunque così tanto che io vi…. serbi…. gratitudine?

Cars l' osservava con profonda attenzione.

— No — disse vivamente commosso — perchè ciò mi dimostra che avete del cuore.

Tecla lo guardò con ingenuo stupore, ma la sua fisonomia si era rischiarata: il suo dolce sorriso da bambina mostrava il contento.

Vi fu un momento di silenzio. Entrambi sedettero senza accorgersene. Tecla al posto lasciato dal principe, questi su di una bassa poltroncina in faccia a lei.

— È da molto tempo che siete uscita di collegio? — chiese il principe per mutare discorso.

— Oh! no — rispose Tecla con un sospiro melodioso — sono pochi giorni, eppure mi pare un secolo, e se non fosse per mia madre vorrei ritornarci.

— Non amate dunque la società?

— La conosco così poco, mentre là dentro vissi i giorni più belli della mia infanzia, della mia adolescenza, lasciai un' amica che mi è più cara di una sorella.

— Avete conosciuto vostro padre? — disse il principe dopo altri pochi secondi di silenzio.

— Assai poco, ero bambina, bambina affatto quando morì. L' ultima volta che lo vidi, me lo ricordo sempre, era di notte: dormivo e sognavo appunto di lui. E mi pareva di vederlo triste, triste in viso, colle labbra scolorite, gli occhi luccicanti di lacrime. E mormorava sommesso: “ Povera fanciulla, povera fanciulla! ” Perchè? Non lo so. Ma ad un tratto lo vidi chinarsi e sentii sulla fronte l' impronta di un bacio. Provai una tale impressione, che mi destai all' improvviso: mio padre era proprio vicino a me. Stavo per gettare un grido di gioia, ma egli mi chiuse la bocca con un altro bacio. Poi mi disse pian piano: — “ Zitta, non svegliare la mamma; torna a chiudere gli occhi, figlia mia, e che Dio vegli su di te. ” — Pochi giorni dopo il papà era morto!

La voce di Tecla si era fatta tremante: le lacrime riempivano i suoi occhi.

Eppure in fondo la fanciulla si sentiva felice di aprire l' anima sua a quell' uomo che pareva così buono, l' ascoltava con adorazione, la fissava con tanta pietà e tenerezza insieme.

— E foste subito posta in collegio? — chiese Cars con voce commossa — Perdonatemi, ma io sono indiscreto come un bimbo.

Ella gli sorrise attraverso le lacrime.

— Oh! mi fa tanto bene dirvi tutto — continuò lentamente — sì, fui posta in collegio poche settimane dopo la morte di mio padre. La mamma, povera mamma, doveva viaggiare per interessi, doveva recarsi lontano lontano a raccogliere un' eredità ed io le sarei stata d' imbarazzo. I primi giorni piansi nel trovarmi lontana, ma le mie piccole compagne asciugarono coi loro baci le mie lacrime, le maestre mi dimostrarono tanto affetto, che finii per sentirmi completamente rassicurata, tranquilla, felice.

— Vostra madre sarà venuta spesso a trovarvi?

Un' ombra di mestizia velò la fronte di Tecla.

— Passai degli anni senza vederla — rispose mestamente — ma la colpa non era sua, me lo diceva anche ieri, ebbe tanti fastidî per alcune liti con parenti, liti che non si sono ancora risolte.….

Il principe non poteva più dubitare della perfetta ignoranza di Tecla sul passato di sua madre.

Ma perchè la contessa, che mai si era curata della figlia, la ritirava dal collegio appunto quando la morte del duca di Laval veniva a troncare la sua ambizione, le sue speranze, il suo avvenire?

Perchè quella pomposa mostra della fanciulla in società? Perchè quella grandiosa festa da ballo, quello sfarzo di lusso, di ricchezza, al momento della sua rovina?

Il principe temeva d' indovinarlo, ed una tempesta di sensazioni, di pensieri si suscitò nella sua anima.

Tecla, l' innocente fanciulla, era minacciata da un grave pericolo. Cars comprendeva che la contessa Edvald non avrebbe esitato un istante a sacrificarla. Ed egli che vedeva il pericolo ed amava quella fanciulla con tutta l' anima, diceva a sè stesso che sarebbe stata opera generosa salvarla.

Non s' ingannava sul sentimento che aveva ispirato a Tecla: non poteva rifiutarsi all' evidenza: mille inezie significantissime gli davano la misura di un amore, che forse la fanciulla ignorava ancora. L' emozione provata da Tecla al primo vederlo, il ricordo che serbava di lui, l' essere divenuta improvvisamente mesta, quando egli si era ritirato senza chiederle il favore di un ballo, quell' attrazione che l' aveva condotta in quel solitario boudoir le ingenue confidenze di lei, quei rossori improvvisi quando la guardava, erano altrettante rivelazioni.

Che risolvere? Il principe Cars temeva che una parola arrischiata, prematura, potesse distruggere la calma, la felicità di Tecla.

Stette alquanto assorto nelle sue riflessioni, colle sopracciglia aggrottate, il viso divenuto improvvisamente severo, senza accorgersi degli sguardi d' ansia rivoltigli dalla fanciulla, che non poteva capire la causa di quel rapido cambiamento.

Finalmente si scosse e come spinto da un subitaneo impulso afferrò ambe le mani di Tecla e le strinse con forza fra le sue dita nervose.

— Avete fiducia in me? — chiese.

Ella lo guardò con quegli occhi così ammalianti e sorrise dolcemente.

— Me lo chiedete? — esclamò con lievissimo accento di rimprovero.

— Avete ragione, se non v' ispirassi fiducia non sareste qui. Ascoltatemi: fra pochi minuti io lascierò la festa.

Tecla sussultò, divenne mesta. Il principe prosegui:

— Voi dovete promettermi di ritirarvi subito nella vostra camera.

Il viso della fanciulla s'illuminò.

— Oh! ve lo prometto! — replicò Tecla con ingenua espansione. — Senza di voi, oramai la festa non avrebbe più attrattive per me…

— Grazie! — mormorò Cars.

Poi aggiunse quasi sottovoce:

— Se vostra madre vi chiedesse il motivo per cui rinunziate al ballo…

— Le dirò — interruppe briosamente Tecla — che non mi diverto.

— No… no, piuttosto che ella sappia avervi io stesso pregata.

— Posso adunque ripeterle anche il colloquio che ebbi con voi?

— Certamente…. ed intanto io cercherò un mezzo per assicurare la vostra felicità, dalla quale dipende anche la mia.

Tecla non comprendeva troppo, ma provava un dolce incanto nel sentire il principe parlare così.

— Forse starete qualche giorno senza vedermi — disse ancora Cars — ma fino allora non dovete mostrarvi in alcun luogo con vostra madre… Ah! non guardatemi così stupita ed abbiate un' assoluta fiducia in me…

— Io farò tutto quello che mi chiedete.

Il principe portò con impeto la mano della fanciulla alle labbra, poi si alzò per non mostrare la potente emozione dalla quale era invaso, e salutando silenziosamente lasciò il salotto.

Tecla non fece più alcun movimento per trattenerlo, ma appena si trovò sola, disse alzando gli occhi con uno sguardo inesprimibile di gioia:

— Oh! Miranda, perchè non sei vicina a me? Ti direi quanto… quanto sono felice!

Ad un terzo piano di una bella casa in via Nuova, ora Roma, in una stanza elegantemente addobbata, un giovane seduto presso ad un tavolo pareva assorto in così profonda meditazione da non udire nè il rumore della folla che si agitava nella strada, nè il frastuono delle vetture.

Nella sua fisonomia vi era qualche cosa di tetro, di sinistro; le sue labbra mormoravano quasi inconscie:

— No, è impossibile, non posso darmi pace: scacciato da lei, dopo aver tanto lottato, sofferto, devo dunque seppellire tutti i miei sogni di amore, di felicità, non rivederla più?

Si alzò agitatissimo, convulso.

— E dire che non ebbi più il coraggio di presentarmi al suo palazzo; eppure ieri sera girai come un folle in quei dintorni… Ah! se non avessi veduto coi miei occhi, non ci crederei. Si ballava in casa di Livia! Dunque le sue smanie, le convulsioni all' annunzio della morte del duca non erano che finzioni; forse ella aveva già in mira un successore…

Il viso gli divenne di porpora, digrignò i denti, e stava per uscire in qualche imprecazione, quando fu bussato all' uscio.

Il giovane si ricompose.

— Avanti — disse.

Entrò una giovinetta modestamente abbigliata, dalla fresca e leggiadra fisonomia.

— Ah! siete voi, Santina; cosa desiderate?

— Si è… signor Michele — rispose arrossendo la giovine — che vi cercano.

Il giovine fece un brusco movimento, poi ad un tratto, come se si risovvenisse di qualche cosa:

— Ho capito… — disse — è un domestico.

Santina scosse il leggiadro capo.

— Mi sembra invece un signore.

— Ebbene, chiunque sia, fatelo passare.

Attese in piedi, cogli occhi sulla porta. Il visitatore entrò. A Michele sfuggì un grido di stupore.

— Voi… da me, principe? Ma dovevate mandarmi ad avvertire, che sarei corso subito al vostro palazzo.

Aveva assunti modi umili, ossequiosi: ripresa una fisonomia bonaria.

— Grazie, Michele — rispose Cars sedendo sulla poltrona, che il giovane gli offriva — ti sono grato della premura, ma per alcune ragioni mie particolari, ho preferito venir qui: siedi.

Michele rinchiuse bene l' uscio e si affrettò ad obbedire.

— Pochi giorni fa — replicò il principe — sei passato da me, perchè volevi parteciparmi la morte del tuo padrone e mio ottimo amico.

— È vero, signore, ma siccome il vostro domestico Zilà mi disse che eravate assente, ho creduto bene di lasciare il mio indirizzo, nel caso vi abbisognasse qualche cosa.

— E, come vedi, ne approfittai subito: prima di tutto per sapere i particolari della morte del duca, che ancora due settimane or sono mi scrisse.

Il viso di Michele si oscurò.

— La catastrofe è stata così repentina — rispose — che ancora non posso pensarci senza fremere. Il mio padrone era tornato dalle corse di Longchamps di buonissimo umore, pranzò con appetito e stava per levarsi da tavola, quando improvvisamente cacciò un grido e cadde riverso sul pavimento. Fu rialzato, deposto sul letto, accorsero i medici, ma tutto fu inutile: il duca era già spirato.

Il capo del giovane si chinava mestamente; nella sua voce dominava una tal quale emozione.

— Tu l' amavi molto il duca? — chiese Cars che non gli staccava gli occhi di dosso.

Michele rialzò il capo con una specie di alterezza.

— Oh! sì — esclamò — perchè a lui tutto dovevo. Figlio del caso, mi trovai giovanissimo lanciato nel mondo, senza mezzi, senza avvenire, senza posizione. Eppure il desiderio di lavorare non mi mancava: la natura mi aveva data dell' intelligenza, dell' audacia, dell' ambizione, ma a nulla sarei riuscito, se il destino non mi faceva imbattere nel duca di Laval: egli mi prese a proteggere e da valletto da camera, passai suo segretario e confidente.

Il principe ascoltava con molta attenzione.

— Egli mi parlò sovente di te — interruppe — tu solo eri a parte della relazione che egli aveva, colla contessa Livia Edvald.

Michele trasalì, divenne rosso, infocato.

— È vero — mormorò.

— Vorrei sapere come è incominciata tale relazione.

Michele si rifece pallido e guardò con sospetto il principe… tuttavia compresse la sua emozione e rispose:

— Vi dirò tutto quello che è a mia cognizione. Una mattina, il duca mi fece chiamare nel suo gabinetto e appena si trovò solo con me:

— “ Io ho una missione delicata a darti — mi disse — ti senti il coraggio di eseguirla come si deve?

— Mettetemi alla prova, signore — risposi.

— Ebbene, ascoltami: io ho fatta la conoscenza di una giovane vedova, una contessa, che da qualche tempo conduce qui una vita brillante. Sembra che suo marito non l'abbia lasciata molto ricca e che ella ami il lusso, i piaceri, tutto ciò insomma che può dare la ricchezza. Le sono stato presentato da un mio amico e parve non mi vedesse di cattivo occhio; io rimasi colpito dalla sua bellezza… e vorrei dimostrarle l' effetto potente che produsse in me, ma del delicati riguardi per la mia famiglia, la mia posizione, m' impediscono farle altamente palese la mia ammirazione. Tu, Michele, potrai servirmi d' interprete… e sta pur certo, che non ti mancherà il vantaggio.

Sentii un fremito percorrermi le vene.

— Ciò che farò per voi — esclamai — è unicamente per mostrarvi la mia riconoscenza; ma permettete, duca, che io, vostro umile servo, vi faccia alcune lievi osservazioni. Se la duchessa, vostra moglie, così gelosa di voi, venisse a scoprire qualche cosa…

Il mio padrone alzò le spalle.

— Sarò prudente, non dubitare.

Così dicendo, mi porse un elegante cofanetto intarsiato ed una lettera, con sopravi il nome della contessa ed il suo indirizzo.

— Va, Michele — aggiunse — eseguisci quanto ti dico, se mi sei affezionato.

Ubbidii. La contessa Livia Edvald abitava in un elegante appartamento ammobiliato.

Appena mi feci annunziare come il segretario del duca di Laval, fui introdotto da lei…”

Michele si fermò. Per quanto cercasse di mostrarsi indifferente non gli riusciva: le sue labbra fremevano, il sangue gli saliva alla fronte che bruciava.

Il principe continuava ad osservarlo senza dire parola: il giovane proseguì:

— “ Vi confesso che al primo vedere la contessa rimasi abbagliato e compresi la passione che poteva destare.

Era in abito da mattina, semisdraiata su di un divano di stoffa color turchino, che faceva spiccare vieppiù le sue carni bianche come l' alabastro, i capelli biondi che le scendevano in disordine sulle spalle, sul petto seminudo.

Accoccolata sopra un tappeto di Smirne, giuocando con un cagnolino dal pelo folto e bianco, eravi una bambina bella come un amore, che non si scosse al mio entrare, non si curò di me…

Presentai il cofanetto e la lettera del duca.

Lesse questa attentamente, poi rendendomi lo scrignetto, senza aprirlo:

— Dite al vostro padrone — esclamò con voce dolcissima — che non sono usa a ricevere regali da alcuno. Ringraziatelo della lettera… ed aggiungetevi che gli risponderò in persona, se questa sera vorrà favorirmi a prendere il thè.

Mi ritirai subito, e corsi dal duca che mi attendeva con ansia febbrile… Si corrucciò perchè la contessa aveva rifiutato il suo dono, ma alla sera non mancò di recarsi da lei. Così cominciò la loro relazione. ”

— E poi? — disse lentamente il principe.

Michele atteggiò il viso a gravità.

— “ Voi sapete le spese pazze che il mio padrone ha fatte per lei, sapete i litigi accaduti in famiglia, la separazione avvenuta fra il duca e sua moglie, rimanendo a questa i figli, gli scandali suscitati dalla contessa.

Nulla valse a ritrarre il duca dalla sua fatale passione: quella donna esercitava su di lui un' attrazione irresistibile, il suo pensiero era continuamente rivolto a lei.

Capiva di operar male, prendeva delle saggie risoluzioni, ma bastava un cenno, una parola della contessa a fargli dimenticar tutto.

Solo dietro alcune denunzie anonime, che accusavano la contessa di prendersi giuoco di lui, il duca lasciò che ella partisse per Torino, tanto che ognuno credette che quel legame si fosse spezzato.

Ma una settimana appresso il mio padrone era partito per andarle a chieder perdono dei suoi ingiuriosi sospetti e scongiurarla ad amarlo ancora.

Ciò rese quella donna più potente; fece dei patti che il duca sottoscrisse con ambe le mani.

La contessa non si mosse più da Torino, il mio padrone veniva di nascosto ogni mese a trovarla; la morte improvvisa del duca ha tutto distrutto di un colpo. ”

Il principe aveva il viso atteggiato a profonda tristezza.

— Sei tu che hai portata la triste notizia alla contessa?

— Sì — mormorò Michele, tenendo gli occhi fissi a terra. — Appena la duchessa seppe la morte del marito, ritornò coi figli al palazzo; io fui licenziato al pari degli altri, ma per la generosità del duca, mi trovavo in grado di affrontare l' avvenire. Intanto siccome avevo fra le mani tutta la corrispondenza della contessa, venni a Torino per darle la lugubre nuova e rimetterle le sue lettere.

Il duca sussultò.

— Gliel' hai consegnate?

— Ella mi ha ricevuto così male, scagliò tante imprecazioni sul duca, che io mi ritirai subito inorridito.

— Sicchè quelle lettere sono sempre nelle tue mani? — chiese il principe.

Michele lo guardò fisso.

— Sì rispose.

— Ebbene, vuoi cederle a me?…

Il volto di Michele s' infiammò: una crudele apprensione gli strinse il cuore. E nella sua amarezza, lasciossi sfuggire una frase quasi insultante.

— Siete voi dunque che avete preso il posto del duca?

Il principe impallidì, ma senza chinare gli occhi.

— Tu mi giudichi ben male — disse con lieve accento di rimprovero.

— Ah! perdonatemi, perdonatemi — esclamò con calore Michele — non so qual folle pensiero ha ispirate le mie parole, ma io amavo tanto il mio padrone.

— Non scusarti, ti ho compreso — interruppe generosamente il principe. — Vuoi cedermi quelle lettere? In cambio non ti offro del denaro, perchè non l' accetteresti, ma ti dico invece: Ti ritrovi solo al mondo, senza parenti, senza amici: vuoi venire al mio servizio? Io ho fede nella tua onestà, nel tuo affetto.

Michele umile, dimesso, cogli occhi bassi, le mani tremanti, mormorò:

— Accetto… principe… e la mia riconoscenza per voi sarà eterna…

Mezz' ora dopo, il giovane si trovava solo: il suo volto era singolarmente animato, i suoi occhi brillavano. Egli aveva piena la testa di una trama macchiavellica, di una idea diabolica.

— Ho trovato ancora il mezzo di riavvicinarmi a Livia — mormorò — Ah! lo vedrà… lo vedrà se io sono da disprezzarsi: arrischio il tutto per il tutto: diventerò vile, bugiardo, malvagio, ipocrita, ma l' otterrò, perchè la voglio!..

E si fregò convulsamente le mani.

Con una certa trepidazione, la contessa Livia Edvald aveva notata la scomparsa di Tecla e del principe dalla sala da ballo.

Un sospetto balenò nella mente di quella donna astuta calcolatrice.

Credette che la figlia fosse meno ingenua di quello che apparisse, e d' intesa con Cars; che questi malgrado la sua aria grave, melanconica, cercasse di sedurre la fanciulla.

A quest' idea, Livia provò una violenta scossa. No, non era ciò che ella voleva! Non era quello il sogno fantastico che aveva concepito!

Nervosa, impaziente, stava per andare in traccia dei due giovani, allorchè il principe ricomparve. Egli veniva a prendere congedo da Livia.

— Partite digià? — chiese con animazione la contessa, fissandolo acutamente negli occhi.

Cars sostenne quello suardo senza chinare i suoi.

— Sì, contessa — rispose con calma — tuttavia vi chiedo il permesso di venire fra qualche giorno a farvi una visita.

— Sarete sempre il ben arrivato, principe — aggiunse Livia con un sorriso ammaliante — ma non volete salutare mia figlia?

Finse di cercarla con lo sguardo.

— L' ho lasciata in questo momento — replicò Cars sempre tranquillo. — A rivederci contessa.

Livia rimase per un istante sconcertata: forse non si attendeva tanta franchezza. Ella attese che gl'invitati passassero nelle sale del buffet e si diresse verso la camera di Tecla.

La fanciulla vi era entrata da pochi minuti, per togliersi l' abito da ballo. Si slacciava il corsetto nel momento che Livia entrava nella camera.

— Che fai? — esclamò vivamente la contessa, aggrottando le ciglia.

La fanciulla sorrise e gettando le braccia nude al collo della madre, la baciò con tenerezza.

— Lo vedi, mi svesto — disse allegramente.

— Ma tu sei pazza — rispose con una certa violenza la contessa, respingendo nella sua collera la figlia — che vuol dir questo?

Tecla rimase confusa, chinò gli occhi.

— Non voglio più ritornare nel salone — balbettò.

Livia le strinse con forza un braccio.

— Vi deve essere un motivo ben grave per prendere una simile determinazione — disse con asprezza e risentimento.

La fanciulla si sciolse dalla stretta febbrile della madre e guardandola con quegli occhi così limpidi, puri:

— Ti dirò tutto, mamma, se hai la bontà di ascoltarmi — mormorò.

— Parla.

Tecla ripetè il colloquio avuto col principe con un linguaggio ardente, animato, che ben rivelava l' amore che ferveva nella sua anima innocente.

La contessa lo comprese e durante l' ardita eppure ingenua confessione della figlia, mille confusi, sconnessi, incoerenti pensieri le turbinavano nella mente.

Quali intenzioni aveva il principe per Tecla? Perchè quella proibizione di ricomparire al ballo, di mostrarsi in pubblico, prima che egli fosse venuto da lei? L' incontro dei due giovani avrebbe servito alle sue mire?

Livia non era donna da cantare vittoria prima del tempo: dubitava sempre, andava guardinga.

Onde la ruga della sua fronte non si spianò.

— Dunque il principe ti ha fatta una dichiarazione? — disse quando Tecla ebbe finito.

Le guancie della fanciulla s' infiammarono.

— Oh! no, mamma no… solo… mi parlò con molta bontà.

— E come hai potuto promettergli tutte quelle sciocchezze, senza prima consultarmi? — interruppe bruscamente la contessa.

Tecla la fissò timidamente.

— Tanto… io… non mi divertirei al ballo senza di lui — balbettò — tutto mi darebbe noia.

Livia alzò le spalle.

— Non ti credevo così romanzesca, bambina — esclamò. — E se il principe non si curasse più di te, se si fosse preso giuoco della tua ingenuità?

Tecla divenne spaventosamente pallida.

— Non me lo dire, mamma — mormorò portandosi una mano al cuore — mi sembra di morire.

— Oh! non si muore così facilmente — replicò con un sorriso la contessa.

Ma vedendo spuntare le lacrime negli occhi della fanciulla:

— Suvvia — esclamò impazientita — non piangere ora e piuttosto che comparire con quel viso da funerale, rimani pur qui.

La lasciò nuovamente sola. Tecla si lasciò cadere affranta e vacillante sul letto e pianse per qualche tempo in silenzio.

Estranea ai tenebrosi progetti della madre, non poteva comprendere la freddezza di lei, ne soffriva, e provava uno strano commovimento.

Tuttavia a poco a poco il suo cuore riprese i battiti tranquilli, l' angoscia che la opprimeva cedette il luogo ad una vaga melanconia.

Pensava al principe, all' immensa felicità provata nel riconoscere in lui l' ignoto cavaliere, la cui immagine le era apparsa tante volte nell' ombra del dormitorio, al collegio.

Perchè non avrebbe fatto sapere a Miranda quello che le era accaduto, dopo averle promesso tante volte di metterla a parte di tutto?

Questo pensiero le ridonò forza e tranquillità.

E mentre nelle sale della contessa, la festa continuava rumorosa, brillante, Tecla, sola nella sua camera, scriveva all' amica:

Mia diletta Miranda,

Tu crederai certamente che io ti abbia dimenticata e mi pare di vederti passeggiare mesta, silenziosa, nel vasto giardino del collegio, sotto quei grandi alberi, pensando fra te che Tecla è un' ingrata, non ti ama più.

Ah! no… non lo credere: benchè io abbia atteso tanto a scriverti, benchè divise, il mio pensiero corre sovente a te, ti parlo coll' anima come se tu potessi ascoltarmi, rispondermi.

Nei primi giorni del mio arrivo a Torino, in casa di mia madre, stetti alquanto male. Sentivo amaramente la tua mancanza, quella delle mie compagne e maestre che mi amavano tanto: di giorno mi pareva essere stordita nel vasto appartamento della mamma, in mezzo a queste onde di trine, velluti, seta: di notte mi rivoltavo febbrilmente nel letto, senza prender sonno, mormorando a bassa voce il tuo nome…

Poi a poco a poco, sotto i baci di mia madre, che non pareva saziarsi di contemplarmi, di abbracciarmi, mi sentii più sollevata, incominciai a sorridere.

Tuttavia in fondo all' anima vi rimaneva un residuo di tristezza, qualche cosa di strano, d' indefinito, che non potrei spiegarti.

Se tu fossi stata vicino a me, forse mi avresti sussurrato all' orecchio: — Tu pensi sempre all' incognito salvatore, tu lo ami!

Ed io questa volta ti avrei risposto: ”

“ Ebbene, si, Miranda, l' amo… l' amo, ma egli non è più un incognito per me; poichè l' ho riveduto, gli ho parlato da pochi momenti e ti scrivo sotto l' impressione che ne ho provato.

Non lo sai, Miranda, l' eroe dei miei sogni, del mio romanzo, il bel cavaliere, è nientemeno che un principe!

Non spalancare quegli occhioni così raggianti, non sorridere Miranda: ho detta la verità… ”

Tecla si fermò un istante. Era affascinante in quel momento colle guancie accese, gli occhi pieni di lampi, la bocca socchiusa, che mostrava i dentini bianchissimi, uniti.

Sospirò, rivolse lo sguardo al cielo, poi riprese a scrivere.

Ella ripetè ingenuamente all' amica quanto aveva detto a sua madre.

“ Non so se ho fatto male — aggiunse — so che mi trovo assai felice di averlo obbedito.

Il principe Cars avrà una grande influenza sulla mia vita: lo sento. Il suo bel volto, talvolta freddo, quasi severo, io l' ho sempre presente: quando strinse la mia mano, sembrò che infondesse in me una forza sconosciuta.

Egli deve essere buono, generoso: mi ha parlato come un fratello e mi parve ridiventare bambina vicino a lui; avrei appoggiato con tutta fiducia il mio capo sul di lui petto, ero tanto, tanto felice.

Che mai accadrà, Miranda? Io non me lo domando: spero e temo. Il principe ha detto che parlerebbe con mia madre. Se i miei sogni si avverassero! A momenti mi sembra una follìa. Un giovane ricco a milioni, imparentato colle più illustri famiglie, potrà pensare a farmi sua… a deporre sul mio capo una corona di principessa?

No… no… io sogno, eppure anch' io sono nobile, ricca: dunque? Comunque sia, Miranda, io sento che non amerò altro uomo che lui; sua è la mia vita, il mio destino.

Perchè tu non sei qui vicina a me, che schiariresti i miei dubbî, recheresti un po' di sollievo al mio povero cuore oppresso?

Ma io sono egoista, parlo solo di me, mentre tu, cara Miranda, hai forse maggior bisogno di conforto, di tenerezze.

Il cuore mi dice che tuo fratello ha scritto: m' inganno? Spero di no, tuttavia, Miranda, te lo ripeto: In qualunque circostanza ti possa trovare, sappi che hai in me più che un' amica, una sorella, che la mia casa è tua.

Rispondimi presto… presto, ed abbiti i miei più caldi, ardentissimi baci.

Tecla. ”

Dopo quelle caste confidenze, quello sfogo coll' amica, la fanciulla si coricò serena, tranquilla e non tardò ad addormentarsi.

La contessa Edvald invece, terminata la festa, si ritirò nella sua camera, coll' anima agitata. Nella lotta che sosteneva, la sua energia e volontà si prostravano; con tutte le sue arti infernali, sarebbe ancor giunta a conquistare le ricchezze sfuggite?

Era il principe Cars così ricco, come si diceva? Sarebbe stato in sua mano lo strumento della sua cupidigia?

Per due giorni, la contessa Livia si mostrò nervosa, impaziente, sarcastica persino colla figlia, che, tutta assorta nei sogni deliziosi del suo amore, non se ne avvedeva.

La mattina del terzo giorno, mentre la contessa Edvald si trovava nel suo spogliatoio, le fu annunziato il segretario del principe.

— Fatelo passar qui — disse Livia con vivacità ed un sorriso altero, sdegnoso sulle labbra — e… lasciateci soli.

Dall' alto specchio, ella vide alzarsi il pesante drappo della portiera ed entrare un uomo, inappuntabilmente vestito di nero, che le fece gettare un grido d' indignazione e balzare vivamente in piedi.

— Voi ancora, Michele?… Come ardite presentarvi qui, a nome del principe Cars?

Egli sostenne freddamente lo sguardo scintillante della contessa.

— Da ieri sono il suo segretario — rispose con molta calma.

Un ardente rossore coprì le guancie di Livia.

— Voi conoscevate il… principe? — balbettò.

— Da lungo tempo — replicò con tono glaciale Michele — egli era l' amico intimo del duca di Laval.

La contessa Livia cercò riprendere la sua presenza di spirito.

— Ebbene, che desidera il principe… da me?

— Questo biglietto ve lo dirà — esclamò Michele con un ghigno beffardo.

La contessa lo afferrò con mano convulsa, lo svolse; non conteneva che poche righe:

Signora,

Avrei bisogno di un colloquio particolare con voi, perchè ciò che debbo dirvi non è bene che vostra figlia lo sappia e perchè da questo abboccamento deve dipendere la felicità di Tecla ed anche la mia. Favorite dirmi in quale ora posso presentarmi al vostro palazzo, trovarvi sola.

Cars. ”

La contessa stava ritta, colle nari frementi, gli occhi scintillanti, fissi sul foglio.

Michele la guatava cogli sguardi pieni di minaccia, le ciglia corrugate, attendendo con impazienza una risposta.

— Dite al principe — esclamò Livia alzando con moto superbo la testa — che stasera alle dieci non sarò in casa che per lui.

Ella s' interruppe: si bussava dolcemente all' uscio dello spogliatoio.

— Chi è? — chiese bruscamente Livia, deponendo il foglio che aveva in mano sul marmo della toeletta.

— Io… mamma — esclamò la voce fresca, melodica di Tecla.

E al tempo stesso l'uscio si spalancò e comparve la fanciulla animata e sorridente.

Ma alla vista dello sconosciuto indietreggiò alquanto.

— Perdonami — mormorò intimidita — ti credevo sola…

— Vieni, vieni — disse la contessa con un sorriso — il signore è il segretario del principe Cars.

Il viso della fanciulla si fece di fiamma, mentre Livia aggiungeva, rivolgendosi a Michele, con aria orgogliosa:

— Mia figlia.

Egli mormorò con sforzo un complimento. Era stordito, affascinato. La beltà della contessa svaniva completamente dinanzi a quella divina apparizione. Non si saziava dal contemplarla; ma Livia lo tolse ben presto da quell' incanto.

— Che volevi da me, Tecla? — chiese accarezzando la fanciulla.

— Volevo dirti che Miranda mi ha scritto: ecco la sua lettera.

— Bene, me la leggerai tu stessa fra poco; attendimi qui, intanto che io accompagno il signore.

Michele fece un profondo inchino a Tecla, che lo ricambiò con un timido saluto.

E quando si trovò sola mormorò fra sè:

— Perchè il principe ha mandato qui il suo segretario? Che avrà detto alla mamma?

Fantasticando così guardava colla curiosità d' una bambina i ninnoli sparsi sul marmo della toeletta e quasi tosto scorse il foglio abbandonato dalla contessa.

Lo prese macchinalmente e vedendo la firma di Cars, sussultò, il sangue le rifluì al cuore, e spinta dalla curiosità lesse avidamente il biglietto.

E quasi tosto impallidì, divenne pensierosa.

— Perchè questo colloquio segreto? — mormorò. — Che deve mai rivelare il principe a mia madre, che io non debba conoscere?

Il suo animo era agitato da mille superstiziosi timori.

— Come vorrei assistere a quel colloquio, ma in qual modo?

Sentendo i passi di sua madre nella stanza vicina, fu lesta a posare il biglietto dove l' aveva tolto e di un balzo andò a sedere al lato opposto della stanza e parve tutta assorta nel contemplare la lettera dell' amica.

Livia rietrò: era accesa in viso, ma sorridente. Si avvicinò a Tecla, baciandola in fronte.

— Ebbene, che ti scrive la tua amica? — chiese dolcemente.

La fanciulla alzò i begli occhi sulla madre.

— Mi dice che fra pochi giorni suo fratello la ritirerà dal collegio per condurla a Firenze e spera che egli acconsentirà a fermarsi un paio di giorni a Torino per presentarmelo e passare qualche ora con me: cara Miranda, quanto desidero riabbracciarla: vuoi che ti legga la lettera?

— Non importa, giacchè me ne hai detto il contenuto — esclamò la contessa stampando un altro bacio sulla fronte di Tecla.

Poi cambiando discorso:

— Che ti pare del segretario del principe? — chiese.

— Mamma… a dirti il vero, io non l' ho guardato.

Ed aggiunse con un sorriso malizioso:

— Che è venuto a dirti?

Livia si ricordò del biglietto di Cars e volse rapido lo sguardo sulla toelette. E vedendo il foglio al posto dove l' aveva lasciato, respirò, e con accento calmo:

— Mi ha portati i saluti del principe — rispose — e le sue scuse per non essere ancora venuto da noi, come aveva promesso.

Tecla non fece altre domande, ma pensava fra sè che sua madre mentiva.

Quel giorno la contessa non uscì di casa e verso le nove di sera, trovandosi nel piccolo salotto attiguo alla stanza di Tecla, la quale stava disegnando su di un album:

— Io vado a letto, perchè mi sento la testa un po' pesante — disse.

La fanciulla la guardò ansiosamente.

— Mamma… io veglierò vicino a te…

Livia si sforzò di sorridere.

— Ma no, mia cara, non è nulla di grave, mi è capitato più volte, e non ne feci mai caso: la solitudine ed il riposo basteranno a farlo dissipare e domani starò benissimo.

Tecla comprese che sua madre non diceva il vero, ma non insistette, anzi mormorò con apparente ingenuità:

— Anch' io andrò a letto, mamma, perchè sono alquanto stanca.

Ella vide un lampo di gioia brillare negli occhi della contessa.

— Addio, a domani, mio amore — disse Livia baciandola.

E si ritirò lasciando la fanciula pensosa, commossa, concentrata in sè stessa.

Una voce interna le sussurrava che in quella sera sarebbe venuto il principe.

Ciò bastò per restituirle la lucidità di mente onde riflettere quanto le rimanesse a fare.

Ella voleva assistere al colloquio di Cars con sua madre. Formato un tale pensiero, ideò i mezzi di porlo in esecuzione. Apri la finestra del salotto, dalla quale si poteva vedere i balconi dell' appartamento di Livia.

La camera di sua madre ed il piccolo boudoir azzurro, che la fanciulla aveva tanto ammirato, apparivano vivamente illuminati.

Allora era in quel salottino che la contessa avrebbe ricevuto il principe.

Oh! se l' avesse indovinato prima, la fanciulla si sarebbe nascosta dietro alcuni arbusti esotici, accatastati in un angolo e dietro ai quali una porticina celata dalla serica tappezzeria, metteva in un corridoio deserto e da questo nelle sale di ricevimento, che rimanevano per il solito chiuse.

Ma era ancora in tempo? Tecla volle tentare.

Chiuse adagino la finestra e con precauzione infinita si diresse, guidata sola dalla lieve luce della luna, i cui raggi tranquilli attraversavano le vetrate, verso le deserte sale.

Non si udiva nel palazzo alcun rumore, segno che la contessa aveva mandato i domestici a letto.

Tecla ammaccò alquanto le sue manine nell' aprire le alte ed elegantissime porte delle sale, ma riuscì nel suo intento.

A vanzandosi guardinga, fermandosi talvolta perchè le pareva udire delle voci confuse, giunse fino alla piccola porticina.

Un' emozione terribile le strinse in quel momento il cuore. Fu quasi per tornare indietro: le mancava il respiro, il sudore le scorreva sulla fronte.

Ma a poco a poco si rinfrancò, tese l' orecchio. Il silenzio era perfetto. Dunque il principe non era ancor giunto.

Con infinita precauzione girò la maniglia dell' uscio, l' aprì.

Il boudoir era splendidamente illuminato da due doppieri carichi di candele, ma non vi era alcuno.

La fanciulla respirò e rinchiusa la porticina, potè a suo bell' agio nascondersi nello spazio fra l' uscio e gli arbusti. Il suo abito scuro si confondeva in quell' ombra ed era impossibile che alla madre od al principe venisse l' idea di guardare in quel luogo e potessero sorprenderla.

In quel momento udì un fruscìo d' abito di seta e Livia entrò nel gabinetto seguìta dalla cameriera.

La contessa indossava un abito color paglierino che era un vero capolavoro di eleganza, di buon gusto: agli orecchi portava due brillanti di una grossezza meravigliosa: nei capelli, arditamente rialzati sulla nuca, scintillava pure un fermaglio di grossi brillanti.

— Ho pensato meglio — diceva alla cameriera — non lasciar accese che quelle due candele color rosa… spegni le altre, la troppa luce infastidisce.

Tecla provò un moto di gioia a quelle parole. Nella semioscurità del salotto ella sarebbe stata più sicura ed avrebbe anche potuto osservare Cars e sua madre.

La cameriera eseguì subito l' ordine di Livia: questa intanto guardava all' intorno per vedere se tutto era a posto e si avvicinò anche dipiù agli arbusti, dietro ai quali stava sua figlia.

Tecla rattenne il fiato per non tradire la sua presenza: ma si sarebbero quasi potuto sentire i palpiti del suo cuore.

La contessa ritornò vicino alla cameriera.

— Ascoltami — aggiunse con quell' inflessione di voce, che sapeva prendere in talune circostanze — quando avrai qui accompagnato il principe Cars, puoi recarti a riposare: io non avrò più bisogno di te. E adesso lasciami.

Rimasta sola, la contessa si lasciò cadere sul divano e parve immergersi in profonde riflessioni.

E non dovevano essere piacevoli, poichè la fronte aveva alquanto annuvolata, le labbra increspate.

Tecla, dal suo nascondiglio, la contemplava con ingenua ammirazione.

Come era bella sua madre! Come bene le si addiceva la splendida cornice che la circondava!

La bionda capigliatura di Livia luceva come oro purissimo sul velluto azzurro dell' ottomana. Un tappeto ricchissimo copriva il pavimento del boudoir, drappi orientali si panneggiavano in molli pieghe attorno gli altissimi specchi, statuine di marmo e porfido, vasi di Sevres, giardiniere dorate, mobili incrostati di madreperla e d' argento, tutto vi era artisticamente distribuito, producendo un effetto delizioso, sorprendente.

Tecla, assorta nel contemplare sua madre, non sentì i passi del principe nella stanza vicina.

Ma vide Livia alzare alteramente la testa e quasi tosto sollevarsi una portiera di velluto e comparire il giovane.

Tecla si compresse con ambe le mani il cuore, che pareva dover scoppiarle e fissò i suoi sguardi ardenti su Cars.

Il principe era pallidissimo, serio: strinse appena lievemente la mano che Livia gli tese ed inchinandosi alquanto:

— Grazie d' avermi accordato questo colloquio — disse — e vi prego credere che senza gravi motivi non avrei adoperato tanto mistero: siete intanto ben sicura che nessuno stia ad ascoltarci?

Un sorriso dischiuse le rosee labbra della contessa.

— Rassicuratevi, noi siamo affatto soli — rispose — e per entrar qui, non vi è che la porta dalla quale siete passato.

— Permettete — esclamò Cars con tòno grave.

Andò ad aprir l' uscio, guardò fuori, poi racchiuse di nuovo i due battenti, calò intieramente la portiera e sedette di faccia a Livia, che era sempre sul divano.

Tecla, dal suo nascondiglio, aveva assistito, grandemente attonita, a tutte quelle precauzioni prese dal principe, per timore che qualcheduno lo sorprendesse nel colloquio colla contessa.

Quali orribili rivelazioni stava per fare?

L' atteggiamento di Cars era così freddo, austero, che metteva nell' animo della fanciulla un gran turbamento.

Avrebbe quasi voluto allontanarsi, non sentir nulla, ma una forza ignota la teneva come inchiodata in quel luogo, ove rimaneva quasi senza respiro.

— Ora che sono sicuro che nessuno ci sentirà — disse il principe — vi prego, contessa, di accordarmi tutta la vostra attenzione.

Il sorriso era sempre sulle labbra di Livia.

— Parlate — rispose con semplicità.

— Voi dovete già aver indovinato che si tratta di vostra figlia — aggiunse Cars. — Il caso me l'ha fatta incontrare in un momento in cui il mio cuore sentiva il bisogno di un affetto sincero, puro. Non sapevo chi era, ma sentivo che avrei conquistato il mondo per un suo sguardo.

Negli occhi della contessa balenava il lampo del trionfo.

— Voi amate… dunque… Tecla? — interruppe con voce bassa, soffocata dall' emozione.

— Il passo che faccio in questo momento ve lo provi: io ho ceduto non solo all'irresistibile fascino della sua bellezza, ma alla semplicità ingenua della sua anima, eppure non ho ardito confessarle il mio amore….

— Perchè?

La domanda era fatta con una certa sfrontatezza, mentre gli occhi di Livia si fissavano scintillanti sul viso del principe.

Questi rimase per alcuni secondi silenzioso.

Lacrime di gioia scorrevano intanto sulle guancie di Tecla. Era dunque vero? Cars l' amava, soffriva per lei!

La povera fanciulla tremava a quella voce grave, melodiosa, che rivelava tanta passione ed avrebbe voluto slanciarsi fra le braccia di sua madre, e dirle:

— Oh! anch' io l' amo, sai, l' amo tanto.

Ma quel sogno di suprema felicità si ruppe ad un tratto.

Il principe aveva rialzato il viso divenuto ancora più pallido.

— Contessa — disse con accento un po' tremulo — conosce Tecla il vostro passato, la relazione che avete avuta col duca di Laval?

Livia divenne di porpora; le sue nari si dilatarono, il seno le si gonfiò.

— Principe! — esclamò con voce secca e imperiosa — voi m' insultate.

— Credete che soffro assai più io nel farvi tale domanda, che voi nel rispondermi. Ero l' amico intimo del povero duca, e so tutto quanto è successo fra voi e lui, di più, possiedo delle lettere che gli avete scritte.

Livia non seppe contenere la sua rabbia nel vedersi così smascherata.

— Ah! è quel miserabile Michele che ve le ha vendute — proruppe con impeto — è lui che vedendosi respinto da me, si è vendicato comunicandovi delle infamie.

Il principe scosse gravemente la testa.

— Michele mi ha parlato di voi col più grande rispetto — disse — e se io oso sollevare adesso bruscamente il velo che copre una colpa, della quale non ho nessun diritto di rimproverarvi, è per vostra figlia. Ve ne prego, dunque, calmatevi ed abbiate maggior confidenza in me. Conosce Tecla la verità?

Da rossa che era, la contessa si fece livida: un profondo solco le attraversò la fronte e bentosto proruppe in dirotto pianto.

Il principe Cars non turbò quella crisi: guardava Livia fra commosso ed irritato. Ma chi soffriva in quel momento era la povera Tecla. Se il fulmine fosse piombato vicino a lei, non avrebbe provato maggior terrore, uno sbalordimento più grande.

Sua madre, che ella aveva sempre adorata come una santa, era stata colpevole. Ma la contessa non si trovava libera, non era padrona di sè stessa? Perchè non aveva sposato quel duca, del quale il principe parlava? Che legame era esistito fra loro?

Attendeva con ansia la risposta di sua madre, ma intanto le lacrime di lei le scendevano al cuore.

D' improvviso Livia rialzò il viso, bagnato ancora di lacrime, e con voce rotta:

— Ebbene, non mentirò con voi. Tecla ignora tutto… e mi rispetta come una santa.

I lineamenti di Cars apparvero radianti di gioia.

— Basta così — esclamò — non sarò già io che le farò dimenticare il rispetto che vi deve. E ve lo dimostri, contessa, la richiesta che vi fo della sua mano.

Livia non potè trattenere un grido di allegrezza. No: non si sarebbe mai attesa a una simile richiesta, che superava tutte le sue aspettative, le sue ambizioni.

Tecla moglie del principe Cars? Ricca a milioni, rispettata, ammirata, invidiata?

— Non è un sogno? — balbettò dominata da una commozione più facile a comprendere che ad esprimere — Non m' ingannate?

— Perchè dovrei farlo? Io amo Tecla, ve lo ripeto, ed ella sarà certo per me una casta ed affettuosa compagna, saprà portare degnamente il mio nome. Tuttavia a questa unione annetto un' indispensabile condizione che voi, sono certo, accetterete per la felicità di vostra figlia.

Livia parve di botto strappata ai suoi sogni dorati e guardò con inquietudine il principe.

— Spiegatevi — mormorò.

Cars teneva gli occhi gravemente fissi sulla contessa.

— Appena il matrimonio sarà compiuto, vi ritirerete in un convento.

Queste parole, accentuate freddamente, che dissiparono le ultime ebbrezze del sogno di Livia, la fecero prorompere in una stridente risata.

— In un convento, io? Certamente avete voglia di scherzare, principe.

— Non ho mai parlato con maggiore serietà.

— Ed avete creduto — aggiunse la contessa con sottile ironia — che io mi sottometterei ad una tale condizione?

— Sì… perchè credevo amaste vostra figlia.

Livia crollò le spalle corrucciata.

— E perchè l' amo dovrò sacrificarle la vita? — proruppe con violenza. — Non ho già fatto anche troppo per lei? Che ha Tecla da rimproverarmi? Non fui sempre una buona madre? Le ho io lasciato mancare cosa alcuna? E perchè non dovrei a mia volta partecipare della sua grandezza e felicità?

— Perchè — replicò il principe squadrandola con marcato disprezzo — se Tecla non vi conosce, ve ne sono altri che sanno da qual parte vi provenivano le ricchezze, delle quali avete goduto finora, che si ricordano degli scandali suscitati a Parigi colla vostra condotta. Ed io non voglio che la principessa Cars porti la pena delle vostre colpe. E se vi stesse a cuore la felicità di vostra figlia, vi sacrifichereste senza esitare, con gioia, con entusiamo. Ma voi non avete viscere di madre, come non avete avuto viscere di moglie. La vostra anima è debole, le vostre risoluzioni di virtù non hanno maggior consistenza dei vostri capricci di libertinaggio…

Livia rizzossi, sfavillante ira dagli occhi, terribile di rabbia.

— Uscite, principe, uscite! — esclamò coll' accento della donna atrocemente ingiuriata — un uomo che osa insultare così la madre della fanciulla che dice di amare….. non è che un vile… Se Tecla qui fosse, vi imporrebbe ella stessa di ritirarvi, sarebbe la prima a rifiutare la vostra mano…

— Ma io le confesserei la verità, le direi che voi siete indegna di viverle al fianco…

Cars s' interruppe ed essendosi alzato, indietreggiò livido come un cadavere alla vista della fanciulla, che s' inoltrò verso di lui.

La contessa gettò un grido di terrore a quell' improvvisa, inaspettata apparizione e si lasciò cadere affranta su di una poltrona.

Tecla aveva rigettati all' indietro i capelli che si erano disciolti ed alzava il capo con atto di alterezza e di sdegno.

Ella appariva in tutto lo splendore della sua bellezza affascinante: il sangue le era affluito alle guancie e faceva scintillare stranamente i suoi occhi, le labbra aveva frementi.

— Principe — disse con un suono di voce che lo fece rabbrividire — mia madre ha ragione: io rifiuto la vostra mano, non mi separerò giammai da lei.

Cars aprì la bocca per parlare, ma Tecla con un gesto gl' impose silenzio ed aggiunse:

— Io non so cosa sia stata mia madre, nè voglio saperlo: non sta a me il giudicarla. Io le debbo tutto: ella ha diritto di disporre della mia vita.

— Non del vostro onore — interruppe il principe, senza pensare alla portata delle sue parole.

Tecla si fece pallidissima, ma la sua voce un po' tremula divenne più calma e sicura.

— Il mio onore, principe, so tutelarlo da me stessa, nè vi è bisogno di una corona per proteggerlo — disse freddamente, mentre il cuore le sanguinava nel dover quasi insultare l' uomo generoso che ella amava, che voleva salvarla — ecco la mia risposta.

Cars fece un brusco movimento: le sue labbra si aprirono ancora a metà per pronunziare qualche parola, che appena giunse agli orecchi della fanciulla.

— Tecla, voi firmate la vostra condanna e la mia.

Una serena alterezza illuminò la fisonomia della fanciulla.

— Io ho fatto il mio dovere e voi, principe, compirete il vostro coll' allontanarvi e dimenticarmi.

La contessa rimaneva sempre sulla poltrona, col viso nascosto fra le mani, lasciando sfuggire alcuni dolorosi singulti.

Ad un tratto sentì due braccia morbide cingerle il collo, due labbra ardenti sfiorarle il viso, mentre una voce soave, mormorava:

— Mamma… mamma, non piangere… io sono qui, non ti lascierò.

Livia con un atto quasi selvaggio trasse al suo petto la figlia, la baciò convulsamente bagnandole le guancie di lacrime.

Il principe che assisteva a quella scena comprese che nulla avrebbe rimosso Tecla da quella risoluzione, che la fanciulla avrebbe subìto il fascino fatale di quella madre disgraziatamente perversa, e disperato aprì la porta del salotto, fuggì senza un saluto, una parola.

Egli non avrebbe saputo dire come si trovò in istrada. Aveva il cervello in fiamme. Si era recato al palazzo della contessa con una dolce speranza e ne usciva col cuore straziato. Così doveva rinunciare a quella fanciulla, che amava tanto, la cui immagine gli appariva più bella che mai.

Aveva creduto la cosa agevole, aveva fatto sogni deliziosi ed ora ne subiva un doloroso incubo, e la ricordanza del suo colloquio con la contessa finiva intieramente d' abbatterlo.

Cars si figurava quanto aveva dovuto soffrire la fanciulla nell' ascoltare le sue rivelazioni sul conto della contessa.

E questa sapeva che la figlia era nascosta nel piccolo gabinetto? No, non era possibile, perchè fino dalle prime parole l' avrebbe fatto tacere.

E qual calmo e nobile linguaggio aveva usato Tecla, mentre la contessa invece si era mostrata brutale, insolente.

Poteva egli dare il suo nome alla figlia di una tal madre? A Cars sarebbe sembrato che la sua si alzasse dalla tomba per maledirlo.

Bisognava tornare alla ragione, fuggire, allontanarsi per sempre.

Il principe rientrò a casa come un ebbro. Michele l' attendeva: egli vide subito dal viso del suo padrone che qualche cosa di grave doveva essergli accaduto.

Ma non fece alcuna interrogazione: attese in silenzio gli ordini.

— Avverti Zilà che ho bisogno di lui — disse Cars, mentre passava nella sua camera.

Michele obbedì. Il fidato servo del principe accorse subito.

— Prepara le mie valigie — disse Cars — domattina parto.

Zilà s' inchinò in silenzio; Michele invece, che era entrato col domestico, sussultò:

— Lasciamo Torino? — chiese con vivacità.

Il principe si passò la mano tremante sulla fronte madida di sudore.

— Sì — rispose a stento — ti dispiace?

— Ecco, io credevo di rimanervi almeno per qualche tempo.

Cars era pallido come un cadavere.

— Anch' io lo speravo, ma adesso che farei ancora qui?

Michele gli si avvicinò.

— Dunque la contessa non ha acconsentito? — chiese con un' inflessione singolare di voce.

— È Tecla stessa che rifiuta di separarsi da sua madre.

— Ah!…

Michele non fece altra interrogazione, e poco dopo si ritirò nella sua camera.

Ma non si pose a letto: per alcuni minuti passeggiò tetro, taciturno, poi sedette ad un tavolino e preso un foglio scrisse:

Principe,

Io non posso abbandonare Torino, nè voi avete più bisogno di me. Vi lascio adunque senza rammarico, portando meco il ricordo della vostra generosità. Può darsi il caso ci faccia incontrare ancora, ma se ciò non avvenisse vi auguro almeno che siate felice, come lo desidera di cuore il vostro affez. servo

Michele. ”

Mise il foglio in una busta, vi scrisse sopra il nome del principe, poi lasciò la lettera sul tavolino.

Michele intendeva abbandonare il palazzo del principe senza avvertire alcuno. Egli aveva formato un tenebroso progetto, che voleva tosto porre in esecuzione.

Mentre siffatte scene accadevano a Torino, Miranda si disponeva allegramente a lasciare il collegio, dove la vita gli appariva così triste, monotona, dopo la partenza di Tecla.

Aveva bensì delle altre compagne che l' amavano molto, ma nessuna poteva prendere nel suo cuore il posto della sua amica adorata.

La lettera di Tecla la riempì di gioia: si credeva già dimenticata da lei e ne soffriva molto.

Nel sentire che l' amica si trovava felice al fianco della madre e che stava per realizzare il più bel sogno della sua vita, Miranda provò una sincera emozione, una purissima gioia.

E questa gioia si accrebbe nel riabbracciare il fratello, che da tanto tempo non aveva veduto.

Umberto Clementi non aveva ancora trent' anni, ma qualche' segreto cordoglio aveva increspata la sua fronte, messe delle rughe intorno ai suoi occhi grigiastri, dallo sguardo soave, dolce, affascinante.

Il suo carattere assomigliava quello della sorella, che Umberto adorava come una santa, perchè era l' unica persona cara che gli rimanesse sulla terra.

Orfani di entrambi i genitori, Umberto si era eretto a protettore, a padre di Miranda. Egli l' aveva dapprima posta in campagna presso una vecchia zia, donna di costumi severissimi, ma di una bontà angelica, che trasfuse tutti i suoi nobili sentimenti nell' anima della nipote. Morta la zia, Umberto non potendo, per la carriera militare, tenere Miranda vicino a sè, la mise in collegio.

Ma nel momento in cui stava per conseguire i gradi più onorifici, il giovane, senza spiegare ad alcuno la causa della sua decisione, dette le dimissioni e pensò di ritirare seco la sorella.

Quando rivide Miranda, così bella negli abiti di educanda, così lieta di stringerlo fra le braccia, Umberto pianse come un fanciullo.

Non si saziava di baciarla, di accarezzarla.

— Ci vieni volentieri con me? — chiese, guardandola con amore.

— E me lo chiedi? — rispose Miranda in tuono di dolce rimprovero — Io non ho al mondo chi ami più di te, e di Tecla.

Umberto sorrideva.

— È forse una tua compagna di collegio? — domandò.

— Sì… ma non vi è più, si trova a Torino con sua madre… e tu devi promettermi, fratel mio, di condurmi da lei.

— Con tutto il cuore, cara sorella.

Miranda lo baciò con trasporto.

Il giovane dovendo sbrigare alcuni interessi a Milano, lasciò ancora per una settimana la sorella in collegio.

Fu in questo frattempo che la fanciulla scrisse a Tecla, avvertendola della sua prossima visita.

Era una splendida mattinata, quando la carrozza che portava Umberto e Miranda si fermò dinanzi al palazzo, dove abitava la contessa Edvald.

Durante il breve viaggio la fanciulla aveva parlato con tanto infantile entusiasmo, tanto trasporto dell' amica sua, che Umberto era desideroso di conoscerla.

Ma quando scesero di carrozza, un triste presentimento invase l' anima di Miranda.

Fino dal vestibolo, l' aspetto del palazzo abitato da Livia, offriva un disordine straordinario.

Vi erano mobili accatastati quà e là: i facchini salivano, scendevano, urtandosi per l' ampio scalone: le porte dell' appartamento si mostravano spalancate e nelle stanze si aggiravano persone estranee toccando tutto, valutandone ad alta voce il prezzo, facendo le loro osservazioni.

Miranda si stringeva tremante al braccio del fratello.

— Che vuol dir ciò? — mormorava sbalordita.

— Adesso lo sapremo — rispose Umberto fermando una giovine svelta, affaccendata, che dava degli ordini ai facchini, come se fosse una padrona.

Era la cameriera di Livia.

— Scusate, ragazza — disse Umberto con bontà — non è qui che abita la contessa Edvald?

La giovine sorrise.

— Che vi abitava, signore — rispose — ma sono due giorni che è partita.

— Con Tecla? — aggiunse Miranda con accento così commosso che la cameriera sussultò, e guardando fissamente la fanciulla:

— Scusi — disse con vivacità — è lei la signorina Miranda Clementi?…

— Sì.

— Allora ho una lettera da consegnarle: la signorina Tecla me l' ha raccomandata colle lacrime agli occhi, e mi ha fatto promettere che se non avessi potuto eseguire la commissione durante il tempo che qui mi sarei ancora fermata, avrei distrutta la lettera senza aprirla.

— Oh! datemela… datemela subito.

— Non l'ho qui… è chiusa nel cassetto della camera della signorina, vengano da questa parte, troveranno meno ingombro.

Miranda sempre stringedosi al braccio del fratello, seguì la cameriera.

— Ma perchè questa partenza precipitosa? — chiese Umberto.

— È cosa che non potrei spiegarle, signore, perchè l' ignoro al pari di tutti. La settimana scorsa la contessa ha dato una grandiosa festa da ballo, che è riuscita una meraviglia.

— Me lo scrisse Tecla — interruppe con voce tremula Miranda — e si mostrava così felice…

— Infatti doveva esserlo, perchè la signorina appariva molto allegra, ma tre o quattro giorni dopo, la contessa fece una mattina chiamare i servitori, li congedò tutti, dicendo dover partire immediatamente. Un uomo che qualche volta veniva a far visita alla contessa, s' incaricò di far vendere i mobili all' asta ed io fui qui posta a sorvegliare. Non avevo ancora veduta la signorina Tecla e quando mi si presentò, ho stentato a riconoscerla. Era bianca, bianca come una statua, pareva una morta che fosse uscita dalla tomba. Le chiesi se si sentiva male; scosse il capo, poi mi consegnò la lettera.

— Che cosa le sarà mai accaduto? — balbettò Miranda con accento soffocato.

— È un mistero… nessuno ne sa nulla; tuttavia può darsi che a lei, signorina, lo abbia confidato.

Così dicendo erano giunti nella camera di Tecla. Quivi i mobili erano ancora tutti a posto, e sul piccolo tavolino incrostato di madreperla e oro, eravi un mazzolino di fiori appassito e dei guanti.

Gli occhi di Miranda s' empirono di lacrime, osservando la camera dell' amica.

Pareva che l' anima di Tecla vi spaziasse ancora, che ivi avesse lasciati i puri sogni, le celesti visioni, le gioie della sua vita…

La cameriera, consegnata la lettera, lasciò soli i due giovani.

Allora Miranda si gettò come smarrita fra le braccia del fratello.

— Non so perchè, ho paura — balbettò — povera Tecla, quale sventura improvvisa l' ha colpita…

— Vuoi che ti legga io la lettera? — disse Umberto impressionato all' alterazione del viso di Miranda.

— Sì… leggi… leggi… io non ne ho il coraggio.

Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Umberto, mentre spiegava il foglio scritto da Tecla.

Miranda si era appoggiata con una mano al dorsale di una poltrona per sostenersi.

La figlia della contessa Edvald non aveva vergate che poche righe con mano evidentemente convulsa, febbrile. Dicevano:

Mia adorata Miranda,

Ero troppo felice: Dio mi ha punita. Tutti i miei sogni sono stati distrutti dal soffio della fatalità.

Perdonami, Miranda, se non ti attendo, ma il mio dovere mi chiama altrove. Eppoi non avrei il coraggio di affrontate i tuoi sguardi sereni, mi sento indegna dei tuoi baci, come se la mia fronte fosse macchiata, od avessi commesso un delitto.

Eppure sono innocente, te lo giuro.

Ma non posso spiegarti nulla, aprirti il mio core. Ah! come la testa mi brucia, mi sembra di diventar pazza.

Miranda… Miranda, addio, noi non ci rivedremo forse mai più, ma sono certa che avrai sempre un pensiero per la tua infelicissima, sventurata

Tecla. ”

Le lacrime di Miranda non ebbero più freno: ella sì lasciò cadere singhiozzando sulla poltrona.

— E non poter saper nulla, esserle utile — mormorava.

— Noi andremo in traccia di lei — disse Umberto con una commozione, di cui egli stesso era sorpreso.

La sorella balzò subito in piedi.

— Dici il vero?… Ah! come sei buono, sì, noi la ritroveremo … ed allora Tecla mi dirà tutto quello che ha sofferto, verrà con noi…

Si esaltava parlando: le sue lacrime si erano asciugate.

Prese il mazzo di fiori appassiti, che era sul tavolino e lo nascose in petto.

— Povere violette — mormorò — io le conserverò sempre.

Poi come presa da un' improvvisa ispirazione:

— Ah! vorrei un' altra cosa da te, Umberto.

— Parla, mia cara…

— Non ha detto quella cameriera che tutti questi mobili si vendono all' asta?

— Sì.

— Ebbene io vorrei che tu acquistassi questi, perchè Tecla ritrovi ancora la sua camera.

Umberto strinse al suo petto la scrella.

— Il tuo desiderio sarà appagato: tu sei un angelo.

— Oh! non è vero, ma amo tanto Tecla perchè se lo merita, e quando te la farò conoscere, sarai del mio parere.

— Non ne ho alcun dubbio.

Andarono in traccia della cameriera per avvertirla dell' acquisto che volevano fare e per chiederle se sapeva dove las contessa Edvald si era recata.

— Io l' ignoro affatto, ma forse colui che si è incaricato di far vendere i mobili lo saprà — disse la giovine.

— Si può vedere quella persona?

— Adesso si trova assente, ma verso sera, se hanno la bontà di ritornare, sono sicuri di trovarla.

Umberto condusse la sorella all' albergo e pranzato che ebbero, il giovane propose una passeggiata per la città.

Miranda però era troppo agitata per accettare: preferì rimanere all' albergo, discorrere della sua amica, aspettando pallida di commozione, palpitante il momento di sapere dove Tecla si era rifugiata.

Quando ritornarono al palazzo della contessa Edvald, la cameriera corse subito loro incontro e gl'invitò a passare in un gabinetto, dove un uomo stava seduto presso uno scrittoio, riunendo alcume carte.

— Ecco i signori che desiderano parlarle — disse con vivacità la giovine.

L' uomo alzò il capo e guardò i visitatori con una specie di curiosità e diffidenza.

Era Michele.

Come mai era riuscito ad introdursi presso la contessa Edvald, a riconquistarne la confidenza?

Quando Livia rimase sola con sua figlia, dopo la partenza del principe, ebbe quasi paura.

Per la prima volta il rossore della vergogna le salì alla fronte, un brivido le corse lungo le vene.

Le sue mani si giunsero quasi inconscie.

— Perdono — mormorò — perdono… se tu sapessi…

Tecla guardava sua madre con una specie di terrore e pietà insieme.

— Non voglio saper nulla — interruppe. — Se tu hai fatto del male, non appartiene a me il giudicarti, condannarti; dopo tutto, mi hai amata.

— No… no… io sono una miserabile… se avessi accettate le condizioni di Cars, tu potevi essere felice.

Tecla scosse il capo.

— Io avrei sempre rifiutato, il mio posto è al tuo fianco.

— Ma tu ami… il principe?

Con un atto altrettanto semplice, quanto commovente, la fanciulla chiuse la bocca a sua madre.

— Io l' ho già dimenticato — disse con accento grave.

Ella mentiva per risparmiare un rimorso alla contessa.

Povera Tecla! Come soffriva! Qual lotta spaventosa avveniva nella sua anima!

Poche ore prima, ella credeva ancora all' affetto, alla virtù, all' onore.

Ed erano bastate poche parole del principe, di sua madre, a distruggere tutto.

No… ella non poteva divenire la compagna di un uomo onesto: le pure gioie della famiglia non erano per lei: quei sogni inebbrianti, rapidi, pieni d' intimi incanti, fatti in compagnia di Miranda, erano svaniti per sempre.

La contessa Livia si sfogò ancora in lacrime, in singhiozzi, balbettando con amarezza, con rabbia, con rancore:

— Ah! non credere a quanto il principe ha detto… egli deve avere il cuore ben cattivo, per insultarmi così; io ho amato tuo padre, lo piansi molto, e se il caso mi fece incontrare nel duca di Laval, la colpa non è mia. Lo credetti libero, come io lo ero, e se approfittai della sua generosità, fu per te, io ti volevo ricca, possente.

Tecla impallidì…

— Ti ringrazio, madre mia — mormorò con tenerezza e gravità — ma adesso avrai compresso come io disprezzi affatto le ricchezze; alla mia felicità basta la tua presenza, e se mi ami acconsentirai a quanto ti chiedo.

La contessa guardava la figlia un po' trepidante.

— Parla — mormorò a bassa voce.

— Prima di tutto, lascieremo questo palazzo.

— Ci avevo già pensato — rispose pronta la contessa — d' altronde ora che sai tutto, posso anche dirti che non potrei più sopperire a certe spese: il duca di Laval è morto.

A Livia si erano asciugate le lacrime; ritornava a parlare freddamente, discutendo sul da farsi, senza accorgersi dei fremiti di Tecla, che non osava nemmeno guardarla.

— Vedi, solo per il ballo — aggiunse — mi andarono più di ventimila franchi, che mi trovo imbrogliata a pagare.

Tecla si scosse.

— Venderemo tutto! — esclamò risoluta — E, pagati i debiti, ci ritireremo in un piccolo appartamento, ed io mi metterò a lavorare: conosco bene il ricamo, il disegno, il pianoforte.

Livia corrugò le ciglia.

— Rimanere qui in Torino? Far tutti testimonî della mia sconfitta?

— La povertà non disonora, madre mia, anzi inspira rispetto quando è sopportata con dignità; pure, se a te reca dispiarcere rimanere qui, ci ritireremo in campagna.

— Sì, sì, è meglio — proruppe la contessa abbracciandola — eppoi, chissà, ho un' idea… vedrai, vedrai.

Il sorriso era ritornato sulle sue labbra. Baciò ancora Tecla, lasciò che si ritirasse, poi si lasciò ricadere su di una poltrona, cupa, fremente, turbata.

Ritirarsi in campagna! Rinunziare a tutti gli agi, ai piaceri della vita!

La contessa non poteva sopportarne il pensiero.

— E tutto per quel maledetto principe! — mormorava — Come mi ha insultata, mi ha avvilita dinanzi a mia figlia! Ah! potessi vendicarmi!

Nessun rimorso era nella sua anima per aver distrutto l' avvenire di Tecla.

Non pensava che a sè stessa.

Trascorsero due giorni. Livia era ancora indecisa su quello che le rimanesse a fare, e sua figlia, intimidita alla ciera brusca della madre, non osava ripetere la sua proposta e provava una mortale inquietudine.

La mattina del terzo giorno, la contessa si era appena alzata, quando la cameriera le annunziò Michele.

Livia sentì il cuore batterle fortemente.

Se il segretario del principe veniva a lei, voleva dire che Cars, innamorato pazzamente di Tecla, avrebbe fatto delle concessioni.

E la contessa si sentiva disposta non solo a perdonare, ma indurre la figlia a dimenticar tutto.

— Che sia fatto passar subito — esclamò con impeto.

Si trovava in accappatoio, colle chiome in disordine, il viso pallido di commozione.

Michele entrò salutando con profondo rispetto.

— È il principe che vi manda? — chiese Livia con accento affannoso.

Il principe ha lasciato Torino — rispose Michele.

Ella si morse le labbra.

— E voi non l' avete seguìto? — disse a denti stretti..

— Io non ho voluto lasciarvi, signora: ve l' ho detto, sarò l' ombra del vostro corpo; in qualunque luogo andrete, sarò a voi vicino.

In tutt' altra circostanza, quando le sue speranze erano ancora vive, la contessa avrebbe licenziato subito l' impertinente, ma allora sentiva il bisogno di una persona a cui poter confidarsi, che le potesse giovare, onde sorrise in modo provocante.

— Orsù — replicò — anzichè dirmi delle sciocchezze, fatemi il favore di rispondere ad alcune mie domande.

— Sono pronto.

Sapete il motivo per cui il principe è partito?

— Mi disse che vostra figlia aveva rifiutata la sua mano.

— E null' altro?

— No.

La contessa guardava audacemente Michele.

— Siete ben voi che avete consegnato nelle mani del principe la mia corrispondenza col duca di Laval?

Michele non chinò gli occhi.

— È vero… volevo vendicarmi del vostro disprezzo.

Livia fece un brusco movimento.

— E ardite comparirmi ancora dinanzi?

— Perchè no? Il peggio che potete fare è di scacciarmi, ma mi ritroversete poi di bel nuovo sui vostri passi.

Un lampo sfolgorò negli occhi di Livida.

— Sicchè… a quanto pare — disse fra sorridente e sdegnosa — non mi resta che tenervi amico?

Michele s' inchinò.

— È il meglio, credetelo… e se mi presterete attenzione per alcuni minuti, vi convincerò della vertià del mio asserto … e vedrete che io sono l' uomo che fa ai fatti vostri, che potrà riconquistarvi la ricchezza, la potenza.

Sul viso della contessa eravi un' espressione di diffidenza, tuttavia esclamò con un gesto di civetteria:

— Andiamo, spiegatevi.

Il loro colloquio durò quasi un' ora e parve che Livia accettasse il mercato offertole da Michele, perchè le sue mani stringevano quasi teneramente quelle di lui.

— A proposito — disse Michele prima di andarsene — avete intenzione contessa, di disfarvi di quanto si contiene in questo palazzo?

— Voi che ne dite?

— La mia idea sarebbe la stessa; intanto coi vostri conoscenti, potete prendere il pretesto di un viaggio e ritirarvi in campagna. Passeggiando nei dintorni, ho veduto nella valle di San Martino, ad un mezzo chilometro dalla Madonna del Pilone, una casetta in affitto, che farebbe al caso vostro. Mi permettete d' incaricarmi di tutto?

Livia gli stese la mano.

— Vi do carta bianca — disse, dimenticando il consueto riserbo.

Ecco perchè Michele si trovava al palazzo della contessa Edvald.

— Che desiderano i signori? — disse in tuono piuttosto secco, continuando a fissare Umberto e Miranda, che avevano porvata una spiacevole sensazione alla vista di Michele.

— Si desidererebbe sapere dove si trova la contessa Edvald — rispose Umberto con una certa alterigia, un po' pùnto dai modi di Michele.

Gli occhi di questi rifulsero stranamente.

— Mi dispiace non potervi appagare — esclamò con freddezza — perchè non conosco affatto il luogo dove la contessa si è rifugiata.

— Eppure — interruppe Miranda perplessa — ci avevano detto che voi lo sapevate.

— Vi hanno ingannata, signorina.

— Oh! no, non lo credo — aggiunse ancora Miranda con accento commosso — se siete voi incaricato della vendita dei mobili, di sbrigare tutti gli affari della contessa, dovete conoscere dove si trova. Forse vi avranno proibito di palesarlo, però potrete fare qualche eccezione. Io sono l' amica intima di Tecla; ella attendeva una mia visita.

Le lacrime velavano gli occhi della fanciulla, la sua voce era soffocata.

Michele non ne sembrò commosso.

— Mi dispiace, singorima, dovervi dare un rifiuto, ma, vi ripeto, io non so nulla.

Umberto fece un gesto d' impazienza.

— Vieni, Miranda — disse alla sorella — troveremo qualche altra persona più gentile, meno interessata, che saprà darcene contezza.

Il viso di Michele si fece scarlatto. Il tono con cui furono pronunziate quelle parole, gli risuonarono all' orecchio come un insulto.

— Signore! — balbettò.

Umberto gli lanciò una tale occhiata, dinanzi alla quale Michele chinò gli occhi.

— Che volete? — chiese il giovane freddamente.

Una leggiera contrazione sfiorò gli angoli delle labbra di Michele.

Egli represse il suo furore.

— Volevo avvertire la signorina — rispose con accento divenuto quasi umile — che tutto ciò che potrei fare per lei, è di incaricarmi di una lettera per la contessina Tecla.

— Davvero, posso scriverle? — escalmò gioiosamente Miranda.

Umberto avrebbe voluto rifiutare l' offerta di quell'uomo, che fra sè giudicava impertinente e vile, ma vedendo tanta schietta gioia nella sorella, non ne ebbe il coraggio.

— Grazie! — disse in tuono asciutto a Michele.

Questi si affrettò a cedere il suo posto a Miranda e pose a lei dinanzi carta da lettere e delle buste.

Poi si accinse a ritirarsi. Umberto lo fermò.

— Scusate — disse — intanto che mia sorella scrive, vorrei mostrarvi alcuni mobili che desidero acquistare.

— Sono a vostra disposizione, signore.

Uscirono entrambi dal gabinetto, dove Miranda rimase sola.

Ella stette per alcuni minuti pensierosa, con la fronte appoggiata alla mano, poi si mise a scrivere rapidamente:

Tecla,

La tua lettera mi ha spaventata. Che mai ti è accaduto di così orribile, da non poter rivelarmelo, da farti fuggire con tua madre dal palazzo, dove mi dicevi trovarti tanto felice? Perchè non ti confidi a me? Se una sventura mi avesse colpita, se il mio cuore fosse torturato, forse non troverei un sollievo nel dirti tutto… tutto…?

Tecla, io ho lasciato il collegio con mio fratello e sono qui venuta con una sola speranza: quella di abbracciarti. No, non posso partire da Torino senza averti riveduta, il cuore mi dice che tu non sei lungi da me, ma dove?

Mi hanno promesso di farti pervenire questa lettera e, se è vero, appena l'avrai letta, rispondimi o vieni tu stessa da me. Io sono alloggiata all'albergo, “Feder” ed ivi mi fermerò per molti giorni ancora, colla speranza di vederti.

Ti ricordi di avermi spesso ripetuto che in qualunque occasione, se un pericolo o una sventura mi avessero minacciata, avrei dovuto rifugiarmi presso di te, che tua madre sarebbe stata la mia?

Ora a te dico lo stesso e se tu mi darai una madre, avrai nel mio Umberto un fratello, ed io ti amerò più che se fossi mia sorella.

Vedi, ho cominciata questa lettera piangendo, ora invece che la speranza di rivederti m' invade l' anima, sorrido quasi tranquilla.

Tecla, io ho preso sul tavolino della tua camera un piccolo mazzo di violette appassite, che tu avevi abbandonate e le conserverò, come se tu stessa me le avessi date.

Addio, Tecla, ho voglia ancora di piangere, perciò finisco, giacchè desidero deporre in fondo al foglio piuttosto un bacio, che una lacrima.

Miranda. ”

La fanciulla aveva appena chiusa la lettera nella busta, quando Michele ed Umberto rientrarono.

— Ho tutto combinato per avere i mobili che desideravi — disse il giovane Clementi.

Miranda gli rivolse uno sguardo di riconoscenza.

— Ed io ho finito di scrivere — esclamò.

Poi volgendosi a Michele:

— Mi promettete di far consegnare questa lettera proprio nelle mani di Tecla? — chiese.

— Lo spero — rispose Michele — e quando non mi riuscisse, siate sicura che ve la ritornerei.

— Grazie, signore, grazie.

Egli accompagnò i due visitatori fin sullo scalone, e quando ritornò nel gabinetto, aveva i muscoli del viso contratti, un sogghigno sulle labbra.

— Quel giovane mi ha trattato come un servo e senza la presenza della sorella, sarebbe trasceso ancor più — mormorò — ah! non lo dimentico. Forse egli è un innamorato di Tecla e me lo prova il desiderio di acquistare i mobili della camera di lei, ma ci sono io ed egli non raggiungerà l' intento.

Si fregò le mani e crollò il capo.

— Ora capisco perchè Tecla ha rinuziato al principe — aggiunse. — Ne aveva un altro degli innamorati e la sorella serviva d' interpetre; è bene saperlo. E Livia che credeva in buona fede, che la figlia si sacrificasse per lei, ah… ah! il sangue non degenera. Intanto la lettera di quella signorina potrà servirmi a qualche cosa.

La nascose nella tasca del soprabito e dopo aver dati alcuni ordini alla cameriera, discese in scuderia, attaccò un cavallo ad un piccolo calesse e salitovi, prese le redini e si allontanò dal palazzo.

Fino a che pervenne al Borgo Po, permise al cavallo di rallentare il passo, ma oltrepassate le ultime case, si mise a sferzarlo e giunse di corsa fin presso al cancello di una villetta di apparenza modesta, ma graziosa.

La casetta aveva tutto l'aspetto di essere abbandonata, perchè le persiane della facciata principale erano ermeticamente chiuse, come pure le porte del pian terreno.

Ma fatto il giro del giardino si scorgeva subito dall'altra parte, che la viletta era abitata.

I lumi brillavano nelle stanze al primo piano e si udiva il suono di un' arpa.

Era Tecla, che avendo trovato quello strumento nella villetta e conoscendolo alquanto, si divertiva a trarne delle note soavi, melodiose.

La contessa, sdraiata su di un divano, ratteneva a stento uno sbadiglio.

La saletta in cui si trovavano, illuminata da una lucerna appesa al soffitto, aveva un' apparenza assai leggiadra, ma era ben lontana dal lusso che si riscontrava in tutte le stanze del palazzo Edvald.

È vero che Tecla vi aveva supplito con dei fasci di fiori, che ella stessa andava a raccogliere, prima che la madre si svegliasse; ma il secondo giorno, Livia trovò che quei profumi acuti le producevano l' emicrania ed i fiori furono subito tolti.

La contessa si annoiava, eppure non voleva dimostrarlo, per non render triste la figlia, il cui viso pallidissimo, gli occhi abbattuti, palesavano abbastanza la lotta che continuava nella sua anima.

Ad un sospiro un po' forte di Livia, la fanciulla abbandonò l' arpa e si avvicinò alla madre.

— Forse ti davo noia? — mormorò chinandosi a baciarla.

— No, cara figliuola, continua pure.

— Preferisco discorrere con te.

— Che vuoi dirmi?

— Mi sembra — rispose con voce commossa e tremante — che tu non sia contenta.

La contessa arrossì, celò uno sbadiglio.

— T' inganni — rispose — mi trovo felicissima.

Il suo viso smentiva le sue parole. Tecla divenne pensierosa, imbarazzata.

Così le sorprese Michele. Quand' egli entrò, sebbene assumesse modi ossequiosi, fece corrugare le ciglia alla fanciulla, che chinò appena lievemente il capo, e si ritrasse presso ad un tavolino, dov' erano libri e giornali.

Livia invece si sollevò subito sul divano: il suo viso era tornato sorridente.

— Mi portate qualche buona nuova? — esclamò stendendo la mano a Michele, che la strinse con una certa famigliarità. — La vendita procede bene?

— A meraviglia — rispose egli gettando uno sguardo obliquo a Tecla, che si era messa a leggere — anzi oggi ci fu un giovinotto, che desiderò acquistare tutto il mobiglio della camera della contessina.

Un vivissimo rossore si diffuse sulle guancie della fanciulla: tuttavia non sollevò gli occhi dal libro.

— Un giovinotto — ripetè la contessa con fatuità — forse un ammiratore della tua bellezza, Tecla.

Questa alzò lo sguardo limpido, profondo sopra la madre.

— Io non merito i tuoi elogi — disse con accento quasi grave — e nessuno può certamente occuparsi di me.

— V' ingannate… signorina… — rispose Michele — quel giovine parlò anzi molto di voi…

La contessa Livia fece un gesto d' impazienza.

— Insomma, sapete il suo nome?

— Umberto Clementi.

Tecla lasciò sfuggire un grido di lieto stupore, un adorabile sorriso dischiuse le sue labbra.

— Il fratello di Miranda! — esclamò.

Livia aggrottò le ciglia.

— Tu lo conosci?

— No, ma la mia amica mi parlò sovente di lui.

Ed aggiunse con un' inquietudine e con un' angoscia, che le fu impossibile nascondere:

— Avete parlato, signor Michele, anche con Miranda?

— No, signorina — rispose egli audacemente.

Tecla chinò il capo in atto di sconforto.

— Ed avete forse detto a quel giovine che noi eravamo qui? — chiese bruscamente Livia.

— No, rassicuratevi… non parlo che quando me lo comandate.

Tecla non disse più nulla, ma era divenuta pallidissima ed assai triste.

Dopo poco si ritirò nella sua camera.

Livia rimase sola con Michele: questi assunse subito un tuono più famigliare.

— Ah! ah! comprendete ora il motivo per cui Tecla ha sdegnato il principe? — disse con riso quasi crudele.

La contessa era divenuta accesa in volto.

— Che? Credereste forse che mia figlia ne amasse un altro? — chiese con voce rauca, tremante.

— Ne sono sicuro, quel ganimede ne parlava con troppo calore.

— Sciocchezze, ragazzate — esclamò Livia stringendosi nelle spalle — Tecla asserisce di non aver mai veduto il fratello della sua amica.

— E voi lo credete?

Ella assunse un tono altero.

— Michele, voi offendete mia figlia.

— Che il cielo me ne guardi; del resto, voi potrete accertarvi della verità leggendo questa lettera, che Miranda ha scritta per la sua amica.

Livia lo guardò fissamente mentre egli le porgeva il foglio suggellato.

— Miranda era adunque col fratello? — mormorò a voce bassa, agitatissima.

Michele raccontò quanto era avvenuto, aggiungendo:

— Adesso che ho appagata la vostra curiosità, leggete.

Livia strappò febbrilmente il suggello della lettera, la svolse, la percorse coll' occhio.

Ella comprese subito che sua figlia doveva aver scritto a Miranda, e temette che le avesse in parte rivelata la verità.

Parve presa da terrore: diventò prima pallida come una morta e poi rossa come il fuoco.

E sollevando con impeto il capo:

— Guai a voi, Michele — disse con voce sorda — se vi lasciate sfuggire con coloro dove ci siamo ritirate.

— Oh! non temete, ho troppo caro di rendere pan per focaccia a quell' Umberto Clementi, che mi trattò come un servo, mi ha offeso, insultato.

Livia strappò a minuti pezzi la lettera di Miranda e non si accorse che Michele aveva presa la busta caduta a terra e furtivamente nascostala.

— Parliamo d' altro — esclamò la contessa — Io qui mi annoio mortalmente e non vedo l' ora di andarmene; quando credete di poter ritirare da tutta la vendita?

— Pagati i debiti, vi rimarranno forse ventimila franchi.

La contessa schiuse le labbra ad un ironico sogghigno.

— E con tale somma si può forse vivere? Posso assicurarmi l' avvenire?

Michele le afferrò una mano, che Livia si lasciò prendere macchinalmente.

— Se vi foste contentata di una posizione modesta, voi lo sapete, Livia, avreste potuto far calcolo su di me. Io che vi ho amata, vi amo come un pazzo, vi ho offerta la mia mano, il mio oscuro nome, il peculio che avevo con tanti sforzi riunito.

— Non ne parliamo più — interruppe Livia con aspro accento — voi avete fatti dei sogni impossibili….

— Lo so, eppure, vedete, avremmo potuto essere così felici.

— Ancora? Vi ho pur detto che se volevate essere mio amico, mio alleato, ero pronta a tendervi la mano, ma non sperate di più… pensateci.

Michele sorrise amaramente.

— Vedete che ci ho pensato, accettando la vostra amicizia, diventando il vostro consigliere, segretario. Sono io che vi dissi di realizzare tutto quanto possedevate.

Gli occhi della contessa scintillarono.

— E mia figlia spera che io voglia ridurmi in una piccola città di provincia, metterci entrambe a lavorare; è poco generosa.

— Eppure mi avevate detto che si è per voi sacrificata.

Livia si mise a ridere forte.

— Perchè io, illusa, ho creduto che Tecla rinunziasse al principe Cars per il ridicolo sacrifizio che egli mi aveva impsto; ma adesso… credo… invece che sia stato perchè innamorata di un altro… uno spiantato.

— Il signor Umberto Clementi mi sembra assai ricco — disse Michele.

La contessa fece un atto di disprezzo.

— Un reddito di otto o dieci mila lire — rispose — ed una sorella sulle spalle, alla quale sarà obbligato dar la metà il giorno che prenderà marito… no… no, se Tecla si è messa in capo un simile capriccio, glielo farò passar io.

Era irritatissima: aveva assunto modi sgarbati, triviali.

Michele non batteva palpebra, ma la contrazione delle sue labbra si accentuava ancora più.

Intanto Tecla, ritiratasi in camera, si era abbandonata a dolorose riflessioni, che turbavano la sua anima. Le parole di Michele sul fratello di Miranda l' avevano fortemente scossa, come lo sguardo che il confidente di sua madre le aveva rivolto.

Ella aveva paura di quell' uomo: le sembrava dovesse portarle disgrazia.

Ma la sua angoscia si accresceva ancora più pensando a sua madre. Quel pensiero le amareggiava il cuore, guastava le sue speranze.

No, la contessa non si sarebbe mai adattata ad una vita di sacrifizî, di lavoro. Nei primi giorni della sua esaltazione, forse anche vergognosa dinanzi a sua figlia, Livia aveva tutto promesso, cercava di far dimenticare la brutta impressione, che doveva essere rimasta nell' anima di Tecla; ma poi la fanciulla capì che sua madre si annoiava, che i sorrisi di lei nascondevano l' amarezza e che per conquistarla, la battaglia sarebbe stata aspra e violenta.

E la lotta stava certo per cominciare.

Oh! come Tecla si sentiva infelice, sola al mondo! Come l' avvenire le appariva triste, cupo! E dire che tutti quegli strazî li doveva alla persona che più amava e venerava al mondo: a sua madre!

Mentre la figlia della contessa Edvald cercava invano trovare un po' di calma, Miranda attendeva con ansia impaziente, il momento in cui avrebbe potuto sapere se la lettera era stata consegnata all' amica.

Onde quando la fanciulla si diresse all' indomani col fratello al palazzo di Livia, il cuore le batteva da uscirle di petto e provava un' agitazione straordinaria.

Michele li ricevette con maggior gentilezza della prima volta, ma sul suo viso era diffusa una specie di tristezza.

— La vostra lettera, signorina — disse a Miranda — a quest' ora è nelle mani della contessina Tecla, ma ella non potrà certamente rispondere, perchè ha lasciata l' Italia con sua madre.

— Oh! mio Dio! — mormorò con angoscia la fanciulla — io non la rivedrò più!

— Calmati, cara sorella — sussurrò Umberto — chissà… forse quando meno te lo aspetti, avremo sue nuove.

— Ma a me sembra che Tecla stia per correre qualche pericolo? — disse ancora Miranda.

— Posso assicurarvi, signorina, che la vostra amica sta benissimo — esclamò — e non vi è cosa alcuna a temere per lei.

Umberto si sarebbe sentita la voglia di schiaffeggiare l' insolente, ma per amore della sorella si contenne, e si ritirò con la fanciulla.

Egli avrebbe voluto partire la sera medesima; però Miranda tanto lo pregò, che acconsentì a rimanere ancora a Torino qualche giorno.

Umberto, che prestava poca fede alle parole di Michele e capiva che un segreto doveva celarsi in quell' improvvisa sparizione della contessa e della figlia, cercò di assumere informazioni in altra parte.

Ma tutti ignoravano dove Livia si era rifugiata; però alcuni sapendo che anche Cars aveva lasciato Torino, trovarono un misterioso accordo in quella doppia partenza.

Tanto che Umberto finì per dire alla sorella:

— Vedrai che se un giorno ritroverai la tua amica, ella avrà sul capo il serto di principessa.

Miranda scosse il capo.

— Se così fosse — rispose — Tecla non me l' avrebbe celato: invece la sua lettera risente lo sconforto, l' amarezza, il dolore. Ah! io temo pur troppo che i miei tristi presentimenti non m' ingannino, che a Tecla sovrasti un immensa sventura.

E nascondendo la testolina sulla spalla del fratello, ruppe in dirotto pianto!

Quasi a metà del Borgo del Rubatto, eravi una di quelle osterie, che Eugenio Sue descrisse con tanta abilità e naturalezza, dove si radunava un elemento eterogeneo, guasto, corrotto, posto sotto la sorveglianza speciale della polizia.

Tuttavia in quel bugigattolo dalle pareti umide, ammuffite, dal suolo a mattoni, tutti sconnessi, dai tavoli bisunti, con accostovi delle pancaccie zoppicanti, si guadagnava assai più che nelle osterie di ricca apparenza.

La padrona del negozio, un donnone alto e robusto come un granatiere, sebbene avesse oltrepassata la sessantina, soprannominata la Borgna, malgrado gli occhi ancora vivissimi, si diceva che possedesse un buon gruzzolo ed avesse qualche terra al sole.

La Borgna era proprietaria esclusiva della taverna e vi regnava senza contrasti.

Ella non si scuoteva per cosa alcuna.

Due volte erano successe liti spaventose fra alcuni avventori ubbriachi, avevano posto mano ai coltelli e la Borgna, seduta tranquillamente dietro il banco, con un gatto sulle ginocchia ed un giornale in mano, non smesse di leggere l' appendice, finchè una bottiglia, lanciata per isbaglio da uno dei litiganti, le fischiò agli orecchi e andò a rompersi contro il muro.

Eravamo all' ultimo giorno di carnevale, due anni dopo le scene narrate, e l' osteria della Borgna presentava il più animato e fantastico spettacolo. I tavolini erano pieni di bevitori, alcuni colla giubba lacera, sporca, altri in camiciotto, chi infine con abiti da maschera formati di cenci a vivaci colori, rattoppati insieme. Due mariuoli imberbi si pavoneggiavano in vesti da donna.

L' allegria era al colmo, i bicchieri si urtavano, risate pazze, motti, facezie correvano fra le diverse comitive, misti ad abbracciamenti, spinte, percosse.

La Borgna, dietro al suo banco, in mezzo a quell' infernale baccano, rimaneva impassibile, dava freddamente gli ordini, ritirava il denaro dai due garzoni avventizî e sgridava, senza scomporsi nè alterare la voce, una grossa servente, giovane, butterata dal vaiuolo, che colle maniche rimboccate serviva gli avventori, senza mostrarsi offesa delle lepidezza ardite, dei pizzicotti che riceveva.

Mentre il frastuono era al colmo, la porta si aprì con impeto ed una fanciulla coi neri capelli sparsi sulle spalle, col viso alterato dallo sapvento, le mani stese innanzi, si slanciò dentro, gridando:

— Aiuto, soccorso!

E prima che avessero pensato a sostenerla, cadde riversa, smarrendo i sensi.

In un momento l' osteria fu a soqquadro: tutti facevano cerchio attorno alla giovine che pareva morta, e la contemplavano estatici, giacchè nessuno aveva mai veduta una creatura più bella.

La Borgna si fece largo e dopo aver esaminata a sua volta la sconosciuta:

— Orsù — disse con voce aspra ed un tono di comando — qualcuno mi aiuti a sollevarla; non vedette che è solo svenuta? Volete lasciarla morire?

— Ma dove si deve trasportarla? — chiesero due giovanotti ai quali i fumi del vino non avevano ancora ottenebrata la mente.

— Sul mio letto: seguitemi.

I due giovanotti obbedirono e carichi di quel gentil peso attraversarono la stanza e dalla retrobottega salirono dietro la Borgna per una scala di legno che li condusse in una vasta camera, la cui finestra dava su di un cortile.

Intanto nell' osteria era entrato un altro gruppo di maschere avvinazzate che bestemmiavano, barcollanti, piegando le ginocchia.

— Dov'e è la piccina? Noi vogliamo la piccina: è entrata qui.

— Ah! siete voi che la seguivate e l' avete spaventata? — chiesero due o tre altri.

— Sì… siamo noi… in persona — gridò con voce rauca uno dei mascherati, agitando le braccia — chi prima arriva… prima alloggia, la piccina l' abbiamo… trovata… noi… la vogliamo…

Un uomo con la giacca a brandelli e due spalle da gigante, gli rise sul viso.

— Quella fanciulla non è un boccone pei tuoi denti — disse in aria di sfida.

— Lo sarà… pei… tuoi…

— Perchè no?

— A me… amici… diamo una lezione… a costui — esclamò il mascherotto andando incontro all' uomo in giacca — orsù, fammi largo.

L' altro con un sonoro pugno sullo stomaco, lo mandò a ruzzolare fra le gambe delle maschere.

Allora incominciò una zuffa terribile; ognuno si armava di quanto aveva sottomano: bottiglie, bicchieri, sgabelli; alcuni trassero il coltello.

Per fortuna l' intervento di alcune guardie e di due carabinieri fece cessare, in sui primordî, la rissa. Il locale fu sgombrato, e i due rissanti, che vollero ribellarsi, furono tratti in arresto ed uno, ferito al mento da un pezzo di bottiglia, condotto all' ospedale.

Le guardie chiesero alla padrona, ritornata abbasso, il motivo di quel chiasso.

Ella non lo nascose.

— Conoscete quella fanciulla? — dissero.

— Sì — rispose audacemente l' ostessa — è una buona ragazza che se ne andava tranquilla per la sua strada ed insultata si rifugiò qui: io ne resto garante.

La Borgna mentiva, ma senza sapere il perchè; una strana simpatia l' aveva subito assalita per quella sconosciuta che aveva cercato asilo, protezione nella sua osteria, e le ripugnava immischiarla colla polizia.

Onde, soddisfatta del ripiego trovato, quando fu certa che l' ultimo avventore era uscito, fece mettere gli sporti al negozio, licenziò i garzoni, mandò a letto nel sottoscala la serva, e salì con un certo battito di cuore nella sua camera, dove aveva lasciata l' incognita sempre svenuta.

Si avvicinò al letto nel momento che la fanciulla apriva gli occhi e volgeva attorno gli sguardi smarriti.

— Dove sono? — mormorò con voce fioca e con un principio d' angoscia.

— In casa mia — rispose l' ostessa con un accento dolcissimo, insolito in lei — non vi spaventate, siete al sicuro…

La fanciulla si portò le mani alla fronte, poi un grido le sfuggì dalle labbra:

— Quegli uomini.. quelle maschere… che m' inseguivano… mi avevano afferrata là… dal ponte — balbettò come in delirio — Dio… Dio… che sogno orribile, ho sentito una mano posarsi sulla mia bocca… poi un braccio mi avvinghiò… e non so quello che sarebbe successo di me, se la disperazione non avesse raddoppiate le mie forze; mi svincolai, fuggii come una pazza… le strade erano buie, deserte… ma ad un tratto sentii un rumore di voci… che venivano da una porta socchiusa… la spinsi… mi trovai sulla soglia… di un' osteria… poi, non so più nulla…

La Borgna aveva ascoltato avidamente.

— Povera ragazza, calmatevi — replicò — la padrona di quell' osteria sono io, che vi ho raccolta, trasportata al sicuro… per questa notte potete riposare tranquilla… e domattina, se volete, io stessa vi accompagnerò a casa.

Un singhiozzo convulso straziò il petto della fanciulla.

— Io non ho casa — mormorò.

Un' ombra di diffidenza passò sul volto dell' ostessa.

— Ma di dove venite? — chiese.

La sconosciuta giunse le mani in atto supplichevole.

— Oh! non me lo chiedete, non potrei rispondere — balbettò. — Ma, ve lo giuro, sono una fanciulla onesta… la fatalità mi ha gettata nel mezzo di una strada… volevo uccidermi…

Quelle parole ripercotevano nell' anima dell' ostessa come un' eco dolorosa, straziante.

Non si era mai sentita così commossa. Se la splendente bellezza della fanciulla l' aveva a prima vista colpita, le sofferenze morali che sembrava sopportare, le toccavano il cuore.

— Non sapete che è un delitto togliersi la vita? — disse con voce tremante — alla vostra età poi, sarebbe orribile… non bisogna disperare… Se voi siete sola al mondo, lo sono io pure: avevo un marito e morì quando meno me lo aspettavo, un figlio e ringraziai il cielo quando me lo tolse perchè avrebbe finito male. Sono di un carattere un po' irascibile, brontolona, ma del cuore non me ne manca, perciò vi dico: volete rimanere con me?

— Con voi? — ripetè la fanciulla, come se temesse di aver mal compreso.

— Sì, io non so fingere, vedete, e vi dirò la verità tutta intiera. Voi mi avete destato molto interesse, e sarò lieta se potrò giovarvi in qualche cosa, se non rifiuterete la mia offerta…

— Accetto… oh!… accetto, giacchè se voi mi respingeste, andrei a cercare la morte in fondo al fiume.

L' ostessa sorrideva ed aveva le lacrime agli occhi.

— L' acqua è un po' troppo fredda in questa stagione — disse commossa — e starete assai meglio in questo letto, abbastanza grande per contenerci entrambe. A proposito, sarebbe troppa indiscretezza chiedervi il vostro nome di battesimo?

Una nube passò sulla fronte della fanciulla, pure rispose a bassa voce:

— Tecla.

— Un bel nome. E adesso riposate, mia cara, se potete: qui nessuno vi disturberà.

Tecla pareva spossata; si stese sotto le lenzuola, affondò la testa nel guanciale, chiuse gli occhi.

Ma non poteva dormire: il cervello aveva popolato di fantasmi, le ritornavano in mente i fatti avvenuti con una lucidità straordinaria.

Tutto era pace nella stanza dell' ostessa: la lucerna ardeva quietamente dinanzi ad un quadro della madonna; la Borgna si era addormentata di un sonno profondo.

La figlia della contessa Edvald, giacchè era proprio lei, si lasciava andare in balìa dei proprî pensieri.

Le pareva di aver vissuto tanto dal giorno in cui sua madre, realizzato tutto il suo avere, la condusse a Livorno, riprendendo la vita brillante di prima. Tecla le aveva fatto osservare timidamente come non mantenesse le sue promesse. La contessa Edvald alzò le spalle.

— Vi è sempre tempo a lavorare — disse — ora non voglio che ti logori la salute, sei mia figlia, mi devi obbedienza: forse è il tuo capriccio per il fratello di Miranda, che ti ha ispirate delle poetiche risoluzioni?…

Tecla sentì empirsi gli occhi di lacrime.

— Oh! mamma, ti ho pur detto che io non conoscevo quel giovane — mormorò — non amo, non voglio amare alcuno…

— Ah! capisco — interruppe con ironia la contessa — ne sei indegna, per causa di tua madre…

Tecla impallidì.

— Quanto sei crudele! — mormorò con un singhiozzo soffocato.

Da quel momento la fanciulla, sebbene vedesse con spavento le pazzie di Livia, non osava più fare alcuna osservazione.

D' altra parte, la contessa, che aveva sperato di celar sempre la verità a sua figlia, si sentiva colpita nella sua fierezza, quando il principe l' aveva smascherata dinanzi a Tecla.

E quando vedeva la fanciulla guardarla mestamente, trasudava, arrossiva e finiva per abbandonarsi a crisi nervose che spaventavano ed intimidivano sempre più Tecla.

Un altro supplizio per la fanciulla era la presenza di Michele.

Come mai il segretario del principe Cars non le aveva più abbandonate, non era partito col suo padrone?

Quali rapporti aveva con sua madre?…

Perchè se lo trovava vicino ad ogni passo, fissandola con occhi pieni d' ironia?

Tecla non avrebbe saputo spiegarselo.

Una sera, la fanciulla si era appena ritirata nella sua camera, quando sentì il rumore d' una discussione e tendendo l' orecchio, distinse perfettamente la voce di Michele e di sua madre.

— Siete pazzo — diceva la contessa — arci-pazzo.

— Rifiutate adunque? — rispondeva Michele.

— Certamente, ho per le mani qualche cosa di meglio.

— Comprendo, vi fa gola il vecchio ebreo…

— Perchè no?

— Ebbene, possiamo aggiustarci amichevolmente: per voi il ricco ebreo, per me, vostra figlia.

Un fremito d' orrore percorse le vene di Tecla: ella attese con ansia la risposta.

— La volete sposare?

— Sono pronto.

— Dov' è andata adunque la passione, che dicevate nutrire per me?

— E sparita dal giorno che vidi Tecla — rispose con brutale franchezza Michele.

La fanciulla ascoltava livida dall' angoscia; ella si attendeva un rimprovero dalla madre.

Ma sentì Livia prorompere in una sonora risata, poi un bisbiglìo sommesso, quindi la voce della contessa, che diceva:

— Siamo intesi, ma usate cautela, buona notte!

Ed una porta si richiuse con violenza e nella casa subentrò un profondo silenzio.

Tecla non ebbe più desiderio di porsi a letto.

Pensava alla sua triste situazione.

Se sua madre l' avesse voluto, la fanciulla avrebbe lavorato notte e giorno pur di vivere senza arrossire, pur di portar alta la fronte.

Ma capiva che ormai l' insaziabile desiderio del piacere, delle ricchezze si erano radicati così nell' anima della contessa, che ella non si sarebbe più ritratta dalla vita condotta fino allora.

E quello che è peggio voleva travolgere la figlia nell' abisso.

L' idea di cadere in balìa di Michele, raddoppiò il terrore della fanciulla, ed ella decise di abbandonare segretamente quella casa, dove le sovrastava una sventura.

Così risoluta, riunì poca biancheria ed alcuni denari che aveva messo in serbo e allo spuntar del giorno, impaurita, commossa, se ne fuggì e mosse alla stazione, al momento che un convoglio stava per partire alla volta di Firenze.

L' intenzione di Tecla era di far ricerca della sua buona amica, che certo non l' avrebbe respinta dalle sue braccia.

Prese un biglietto di seconda classe e salì in uno scompartimento, dove eravi un vecchio di ciera benevola con una giovinetta che pareva sua figlia.

La faccia sbigottita di Tecla, la sua beltà e giovinezza, destarono un po' di sorpresa nel vecchio, che le rivolse alcune interrogazioni.

Ma la fanciulla rispose con monosillabi, imbarazzata, col viso coperto di rossore.

Quando giunse a Firenze, nello scendere dal treno, Tecla si guardava attorno con aria di spavento, quando un uomo, dalla fisonomia burbera, le si avvicinò.

— Scusate, signorina: siete la figlia della contessa Edvald? — chiese.

La fanciulla, interpellata così bruscamente, fece un balzo, divenne pallidissima, e non seppe mentire.

— Sì — balbettò.

— Allora favorite venire con me.

La fanciulla retrocesse spaventata.

— Con voi? Chi siete?… Io non vi conosco.

— Vi conosco ben io, ho i vostri connotati, mi hanno telegrafato: “ Tecla Edvald, minorenne, fuggita di casa. ”

Ella lo guardava sbalordita, tremante.

L' uomo l' afferrò per un braccio.

— Orsù, venite colle buone, o sarò costretto ad adoperare la forza.

Il sangue salì al cervello di Tecla: una reazione avvenne in lei.

Mentre attorno le si formava un cerchio compatto di persone, avide di sapere quello che succedeva, la fanciulla si svincolò da quella stretta brutale, e con accento indignato:

— Sì, sono Tecla Edvald — esclamò — fuggii di casa per mie ragioni particolari, ma non so perchè debbo venire con voi.

L' uomo sogghignò.

— Perchè io sono un delegato di Questura — rispose — ed ho l' ordine di arrestarvi. Credete che alla vostra età si possa girare il mondo senza il permesso della madre, avere una volontà propria? V' ingannate, e speriamo che la lezione vi serva per l' avvenire.

Tecla era fulminata, si lasciò condurre via macchinalmente, pur tuttavia sentì che qualcuno degli astanti diceva:

— È una giovinetta traviata, peccato, così bellina!

Tecla avrebbe voluto gridare, ma nessun suono uscì dalla sua gola inaridita.

Fu fatta salire in una vettura pubblica, in mezzo ad una folla di curiosi, e condotta in Questura, ed ivi dopo aver di nuovo fattole ripetere il suo nome da un ispettore, un uomo dalla figura asciutta e fredda, dallo sguardo esprimente il sospetto, fu condotta nella camera di custodia, una stanza bassa, a vôlta, lastricata a mattoni, con un' angusta finestra, dai vetri coperti di polvere e ragnateli, con nessun altro mobile che due sedie di paglia ed un tavolo.

Quivi la fanciulla fu lasciata sola e potè alfine dar sfogo al dolore che l' opprimeva.

Lacrime di vergogna, di amarezza, le corsero lungo le guancie.

Ella, che per salvare il suo onore, la sua felicità in pericolo, era fuggita di casa, passava invece per una giovinetta traviata, perduta!

E non poter parlare, non poter difendersi, non rimanerle altra prospettiva che un matrimonio odioso, o la morte.

L' infelice giovinetta scoppiò in pianto doloroso, e nella sua disperazione, alzando le mani sul capo, esclamò:

— Dio mio, mio Dio, non avrete pietà di me? Nessuno verrà in mio soccorso?

Allora si ricordò di Miranda e bastò questo pensiero per richiamare le sue forze, il suo spirito.

— Se io facessi ricerca di lei o di suo fratello — mormorò — forse accorrerebbero in mio aiuto, mi toglierebbero di qui.

Risoluta, Tecla picchiò con forza contro la porta chiusa della stanza.

Quasi tosto comparì una guardia.

— Che volete, signorina? — chiese, sbirciandola con aria d' ammirazione.

La fanciulla assunse una fisonomia grave.

— Vorrei parlare col vostro superiore — rispose.

— Vado subito a chiamarlo.

Un momento dopo compariva l' uomo stesso che l'aveva arrestata.

— Che desiderate? — disse con voce burbera.

— Mi sarebbe permesso mandare in cerca di una mia cara amica, che desidererei vedere.

Il delegato scosse il capo.

— Voi non potete vedere alcuno, finchè non giunga vostra madre.

Tecla ebbe un brivido.

— E se mia madre non giungesse?

— Ella ha telegrafato che sarebbe qui col treno di mezzogiorno, onde abbiate pazienza ancora per poco, ed intanto se volete far colazione…

— No, non voglio nulla.

Il delegato alzò le spalle ed uscì borbottando.

Tecla fu colta da un profondo scoraggiamento: quella vaga speranza, quasi subito svanita, finì per abbatterla: si lasciò cadere sulla seggiola, che era presso alla tavola e pianse di nuovo.

Poi si assopì di un sonno febbrile, agitato, da sogni lugubri, nei quali si mischiavano dei gemiti di agonia, misti a tristi suoni di catene.

Un rumore improvviso che si fece nel corridoio la destò ad un tratto e non ebbe il tempo di riordinare le proprie idee, quando la porta si spalancò con stridore, e nella stanza comparve sua madre, seguìta dall'ispettore, dal delegato e da Michele.

Tecla fece per alzarsi, ma ricadde sulla seggiola.

La contessa Edvald corse a lei e stringendola fra le sue braccia.

— Ah! cattiva, cattiva, quanto mi hai fatto soffrire — esclamò. — Fuggire di casa, tutta sola, per fortuna me ne accorsi subito: dimmi, che ti si è fatto per agire così? Puoi lamentarti di tua madre?

La fine della sua frase, si perdè in uno scoppio di pianto.

L' ispettore ed il delegato la fissavano con pietà, mentre guardavano con corruccio la fanciulla, nei cui occhi le lacrime si erano inaridite e rimaneva solo spaventosamente pallida.

Michele osservava tutto con aria cupa e sarcastica insieme.

— Ah! ringrazio Dio — balbettò la contessa — di essere giunta ancora in tempo. Dove volevi recarti? Rispondi, rispondi.

Le labbra di Tecla rimanevano chiuse.

— Ah! cattiva, cattiva figlia — replicò Livia — Vuoi dunque vedermi morire?

— Mamma — mormorò la fanciulla.

E non potè aggiungere altro, perchè i singulti la soffocavano.

La contessa Edvald la baciò con frenesia, le disse che tutto le perdonava, che avrebbe dimenticata quella scappatella da bimba, poi chiese il permesso di ritirarsi con lei.

Tecla dovette subire ancora una paternale dall' ispettore, e vergognosa, tremante, sbalordita, seguì la madre e Michele, che la condussero in carrozza, in uno dei migliori alberghi della città.

Durante il tragitto, Livia non le rivolse mai la parola e la fanciulla, rincantucciata in un angolo, non osava neanche guardarla.

Quando furono chiuse nella camera dell' albergo, mentre Michele era sceso per dare alcuni ordini per il pranzo, la contessa Edvald si volse a sua figlia.

Il suo volto aveva preso un' espressione dura, minacciosa, che Tecla non aveva mai notata in lei.

— E così — disse con voce aspra — negherai ancora che andavi in traccia dell' amante?

La fanciulla arretrò atterrita.

— Io non ho amanti — balbettò.

— Ti rechi adunque alla ventura, fuggendo da tua madre, che per te ha già tanto sacrificato? — aggiunse Livia ironica, stizzosa. — Perchè allora sei venuta a Firenze? Perchè hai chiesto al delegato di vedere la tua degna amica Miranda, prima di me? Era lei o suo fratello che cercavi?

— Oh! mamma, mamma, cessa per pietà! — gridò con accento disperato Tecla.

Michele rientrava in quell' istante: egli aveva assunta un' aria mestissima.

— Di grazia, signora — disse con rispetto alla contessa — non la spaventate con un eccesso di severità, scommetto che la signorina a quest' ora ha riflettuto e si pente del passo fatto.

La fanciulla non potè rattenere un grido di rivolta.

Colle guancie imporporate dallo sdegno, gli occhi brillanti, si rivolse a Michele.

— Io non mi pento che di una cosa — esclamò — di non essere riuscita nel mio intento, che era quello di sfuggire la vostra odiosa presenza.

Due macchie rosse apparvero sulle guancie livide del segretario.

— La sentite com' è sfrontata? — interruppe con violenza la contessa. — Invece di ringraziarvi, vi ingiuria, si ribella a sua madre, ma vi porrò presto riparo.

Il volto di Livia tradiva una specie di risoluzione, che impaurì, suo malgrado, Tecla.

Michele non rispondeva, rimaneva come avvilito.

— Avete dato gli ordini per il pranzo? — chiese Livia senza più badar alla figlia.

— Sì, contessa.

— Va benissimo: il treno a che ora riparte?

— Alle otto.

— Guardate che non abbiamo a perdere la corsa…

E rivolgendosi a Tecla:

— Tu tienti pronta a seguirci — aggiunse — e non sperar già di fuggire altra volta.

La fanciulla divenne livida; le parole aspre della contessa, unite alle emozioni subìte in quel giorno, la fecero cadere svenuta ai piedi di sua madre, prima che avesse potuto rispondere!

Se la contessa Livia Edvald aveva veduto dapprima nella figlia un' alleata, uno strumento pei suoi progetti d' ambizione, di ricchezza, delusa nelle sue speranze, non scorse più in lei che un ostacolo, del quale bisognava sbarazzarsi.

Livia era ritornata inaecessibile ad ogni umano sentimento.

Il principe Cars non s'ingannava dicendo che quella donna non aveva visere di sposa, nè di madre.

Un profondo egoismo la dominava. Dopo aver finito di dissipare quanto le era rimasto della generosità del duca di Laval, la contessa aveva cominciato ad intaccare il grosso capitale di un banchiere olandese, che era rimasto affascinato da quella provocante bellezza e si mostrava docile ai minimi capricci della sirena.

Ma dopo un anno della loro relazione, il banchiere le significò che i suoi interessi lo richiamavano a Rotterdam e propose a Livia di seguirlo.

Questa fece dapprima una dispettosa smorfietta, ma il timore di perdere nuovamente la fortuna, di cadere in un' assoluta, irreparabile rovina, la decisero ad accettare.

Però chiese due mesi di proroga, volendo sistemare sua figlia con Michele.

In realtà voleva sbarazzarsi d' entrambi, tanto più che il banchiere si mostrava geloso del segretario, e Tecla era per lei un rimprovero vivente, continuo…

La fanciulla non si era più allontanata dalla madre: nessuna parola di rimprovero, nessun lamento erano sfuggiti dalle sue labbra; ma nè le seduzioni, nè le minaccie, nè le ingiurie, valsero a farla partecipare alla vita brillante della contessa.

Passava i giorni intieri ritirata nella sua camera, assorta nei suoi pensieri, cercando invano a sè dintorno un cuore fedele, devoto, che potesse giovarle.

Michele ella l' odiava ogni giorno più, per quanto egli si mostrasse rispettoso, riservato con lei.

Livia aveva finito per lasciar credere fra i suoi conoscenti che Tecla era alquanto tocca al cervello.

Dopo un lungo colloquio col segretario, la contessa partì con lui e la figlia per la villetta isolata, che avevano sempre conservata in affitto presso Torino.

Tecla non potè rientrare in quella casa senza provare un' indefinibile inquietudine, i più tristi presentimenti agitavano l' anima sua e le stesse premure, delle quali la faceva segno da qualche giorno sua madre, non venivano accolte che con diffidenza dalla fanciulla.

Una mattina che Tecla pallida, cogli occhi pesti, nel vano di una finestra contemplava il giardino spoglio di fiori, le piante delle acacie dai rami nudi, secchi, la contessa entrò nella camera.

La fanciulla era così assorta ne' suoi pensieri, che non s' accorse di lei.

— Tecla! — chiamò la contessa.

Ella fece un balzo e si volse.

— Mamma — disse a stento.

La contessa la fissava con sguardo sdegnoso.

— Ti faccio paura, adesso?…

Tecla arrossì.

— Oh! mamma, che dici mai?

— Hai qualche motivo di rancore con me…? Già ho compreso… per vederti sorridere avrei dovuto rinchiudermi in un chiostro… lasciare che tu sola godessi….

— Quanto t' inganni, mamma… vedi… se tu me lo permettessi, vorrei io stessa ritirarmi in un convento…

Livia sorrise con ironia.

— Sì… per passare da martire, perchè il mondo si scagli contro di me — esclamò. — Chi ti vedesse, direbbe che ti sacrifico, mentre sei tu che rifiuti tutto… Ma questa volta farà d' uopo che tu mi obbedisca.

Tecla rimase immobile, cogli occhi supplichevoli, atterriti…

— Che debbo fare, mamma?… — balbettò.

— Ora lo saprai. Ma prima è necessario ti dica che io debbo partire e non posso condurti con me.

La fanciulla fece un atto di terrore.

— Mi lascierai qui sola? — chiese con voce spenta.

— Dipende da te l' avere un compagno… e questo te l' offro in un uomo, che dovresti aver già sposato.

Tecla mandò un grido di terrore.

— Vuoi parlare di Michele? — chiese agitata.

— E chi altri di lui può curarsi di te? — esclamò Livia con aria beffarda.

Le labbra della fanciulla furono agitate da un impercettibile fremito.

— Preferisco mille volte il convento, la morte, che divenire moglie di quell' uomo.

— Sei una pazza, ma io saprò ridonarti la ragione — interuppe bruscamente la contessa.

La fanciulla non rispose: si sentiva soffocare.

Se non era pazza, era almeno presso a divenir tale.

Il giorno stesso fu presa da febbre violenta, con delirio.

Nella sua allucinazione, le pareva di vedere Michele in atto di afferrarla e mandava grida strazianti, lamenti che avrebbero passato il cuore di un' altra madre, che non fosse stata la contessa.

Tecla non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimanessa a letto, solo le sembrò che da quello stato febbrile, da quell' esaltazione nervosa, fosse caduta in una specie di assopimento.

Aveva bensì gli occhi chiusi, il corpo immobile, ma sentiva perfettamente quello che avveniva intorno a lei.

Vi fu un momento che sentì il soffio di un respiro presso al suo volto ed una mano morbida posarsi sulla sua fronte.

Poi la voce della contessa Edvald, mormorò:

— Dorme sempre, buon segno, vuol dire che è al tutto fuori di pericolo

— Meglio così, credevo proprio mi sfuggisse — rispose un' altra voce, che Tecla riconobbe per quella di Michele.

Tuttavia rimase perfettamente immobile.

— Tecla non vi sfuggirà, se farete quanto vi dissi — ripigliò la contessa — io sono costretta a partire fra un' ora: Rodan non ammette altre dilazioni ed è mio interesse non irritarlo. Voi mi accompagnerete fino a Torino, poi tornerete qui.

Livia abbassò così la voce, che la fanciulla non potè intendere altro; però comprese che le si tendeva un agguato.

— Ah! — mormorò fra sè la disgraziata — io non mi fermerò più qui in mezzo ai pericoli…. voglio partire…. e, se non mi riesce salvarmi, mi ucciderò!

Aveva presa la sua risoluzione. Quando fu certa che Michele e sua madre si erano allontanati, aprì gli occhi.

Era notte.

Tecla scese con precauzione dal letto. Il pericolo le aveva restituite le forze e la presenza di spirito.

Pensò a quello che doveva fare.

La contessa ed il suo segretario dovevano aver lasciata la casetta; i domestici, la cameriera, col permesso della padrona, si erano recati fino dal mattino in città per far baldoria, essendo l' ultimo giorno di carnevale.

Non doveva esserci che il giardiniere, il quale forse a quell' ora dormiva.

Tecla si vestì dei primi abiti che trovò, e senza pensare di coprirsi il capo, senza prender lume, scese in giardino.

Non incontrò alcuno, tuttavia stette alquanto accoccolata dietro dei vasi, finchè, sicura di essere sola, si avvicinò al cancello, chiuso da un solido cantenaccio, che tuttavia ella riuscì a far scorrere negli anelli, ed aprì.

Libera si slanciò subito sulla strada, correndo all' impazzata, non d' altro bramosa che di frapporre un grande spazio fra sè e quella casa, dove nella notte le sarebbe sovrastata sventura.

La via era deserta: nessuno l' aveva seguìta.

I suoi timori si calmarono alquanto: indagò collo sguardo il luogo dove si trovava e si vide presso il ponte di ferro.

Allora il desiderio di morire sorse in lei più violento.

Ella era pallida come un cadavere, ma i suoi begli occhi esprimevano la rassegnazione, la calma.

Non rimpiangeva la vita: aveva goduto così poco… e tanto sofferto…

Inviò un muto pensiero a Miranda e si avanzò con passo fermo verso la riva del fiume.

La notte era freddissima. Il Po scorreva lento, limpido, sotto il cielo tempestato di stelle.

Tecla non avrebbe mancato di compiere l' atto fatale, ma ad un tratto, prima che ella potesse comprendere da qual parte fossero sbucati, si vide circondata da alcuni uomini in abiti mascherati, uno dei quali colla mano nuda e callosa le accarezzò la fredda e livida guancia, dicendo:

— Oh! la bella ragazza, che bocconcino…

Quel contatto, quelle parole, fecero mandare un grido alla fanciulla, che tornò al sentimento della realtà.

— Lasciatemi… lasciatemi — esclamò.

Ma l' uomo l' aveva afferrata per la vita ed alle suppliche di lei, rispose con una sghignazzata, mentre gli altri dicevano:

— Su… portiamola al sicuro.

L' orribile pericolo che le sovrstava ridonò alla fanciulla tutto il suo coraggio. Con uno sforzo sovrumano, si liberò dalla stretta dello sciagurato, si mise a correre pazzamente, chiamando in aiuto Dio, la Madonna.

Le bestemmie, le minaccie dei persecutori che l' inseguivano a stento, barcollando sulle gambe rese deboli dal vino, non facevano che accrescere la rapidità della corsa di Tecla.

Ma finirono per mancarle le forze, i singulti la soffocavano, le lacrime le impedivano di discernere dove metteva i piedi.

Si sentiva morire.

Le maschere ubbriache, vedendola rallentare la corsa, mandarono un grido di vittoria… Ancora pochi passi e l' avrebbero raggiunta.

Tecla rivolse al cielo un ultimo appello disperato.

Fu in quel momento che ella scorse la porta semichiusa dell' osteria della Borgna, e fu l' ultimo suo sforzo quello di precipitarsi dentro, chiedere aiuto.

Poi perdette la conoscenza di tutto.

E adesso trovandosi al sicuro in quella modesta stanza, sotto la protezione dell' ostessa, Tecla sentiva una gioia soave, immensa, investirla tutta.

Le pareva impossibile di essere salva; volgeva intorno gli sguardi ancora un po' smarriti, poi giunse quietamente le mani sul petto, e spossata da tanti sforzi, si addormentò.

Quando riaprì di nuovo gli occhi era giorno chiaro e Tecla vide l' ostessa già vestita e che la rimirava con affettuosa premura.

— Come vi sentite, figlia mia?

Un vivo rossore colorì le guancie della fanciulla.

— Oh! sto benissimo, grazie a voi! — esclamò con ingenua riconoscenza — Ah! quanto vi debbo!

— Voi mi dovete nulla, mia cara; ve l' ho detto: sono lietissima di aver potuto esservi utile, e, vedete, stamane ho mandati al negozio la serva ed i garzoni, ma io non sono ancora scesa, perchè attendevo che vi svegliaste.

La commozione di Tecla si manifestava sul suo bellissimo viso.

— Come siete buona! — mormorò.

La Borgna sorrise.

— Non tutti mi dicono così, però mi fa piacere sentirlo dalla vostra bocca — rispose — ormai però vi siete occupata anche troppo di me: sarebbe meglio pensare a voi. Ve l' ho detto fino da stanotte; non desidero sapere i vostri segreti, ma vorrei solo che mi diceste ciò che intendete fare.

La fanciulla non interpetrò bene quelle parole, e divenne ancora pallida.

— Vorreste scacciarmi? — balbettò.

— Ma che idee vi pigliano? — interruppe l' ostessa crollando il capo con dolcezza. — Io vorrei anzi che non vi separaste più da me: non avete detto che siete sola al mondo?

La fanciulla non potè frenare un gesto doloroso.

— Ho mentito con voi ed ho fatto male, ma non vi conoscevo, e mi sentivo così sventurata! — disse. — Io ho una madre, ma ella è partita per un lungo viaggio, lasciandomi in balìa di un uomo, che odio e che vorrebbe sposarmi per forza.

L' ostessa si era messe le mani sui fianchi.

— Oh! venga qua a prendervi e vedrà di che sia capace la Borgna.

— Io non vorrei più vederlo, incontrarmi con lui — mormorò la fanciulla tremante.

— Ma non vorrete sempre star nascosta. E se vostra madre vi ricercasse?

— Ella non pensa più a me.

— Deve avere il cuore cattivo, scusate se vi parlo così, ma se io avessi avuta la fortuna di avere una figlia bella come voi, l' avrei adorata.

Tecla chinava il capo sul petto.

— Ah! meglio fossi nata un mostro — disse, come parlando a sè stessa.

Poi soggiunse fissando gli occhi umidi in viso all' ostessa:

— Io vorrei allontanarmi da Torino — replicò — raggiungere un' amica carissima, nella cui casa sarei affatto sicura dalle persecuzioni di colui, al quale mia madre mi ha affidata.

— Bel protettore, ma ascoltate un mio consiglio. Prima di mettervi in viaggio, andare alla ventura, non potreste scrivere alla vostra amica per essere almeno certa che ella vi accolga come sperate? Se poi non ne aveste risposta, penserò io al mezzo di mettervi al sicuro… intanto voi non vi moverete da questa stanza, dove salirò io sola a portarvi quanto vi è necessario. Lascierò credere a quelli che mi chiederanno di voi, che siete partita sul far del giorno, in tal guisa nessuno verrà ad importunarvi…

— Accetto con gioia, con riconoscenza! — esclamò Tecla, i cui grandi occhi scintillarono.

Ed afferrata una mano callosa dell' ostessa, la portò alle labbra, prima che ella potesse impedirlo.

— Suvvia, rimanetevi tranquilla — esclamò con voce grossa, per non lasciar trapelare la sua commozione — ed oggi statevene a letto tutto il giorno.

— No, no, mi sento forte, in grado di alzarmi e scrivere alla mia amica, come mi consigliate.

— Fate quello che volete: ora scenderò un istante abbasso… poi vi servirò di tutto…

Tecla le sorrise con una dolce e schietta espressione di gratitudine e mentre l' ostessa se ne andava, balzò svelta e leggiera dal letto.

Nella notte, sotto il peso del dolore, dello spavento, la povera fanciulla credeva per lei tutto fosse finito; non desiderava che morire; tutte le sue illusioni erano sparite, spenta la fede del suo cuore, annichilita la sua volontà.

Ma sotto l' influenza delle dolci parole dell' ostessa, una lieta speranza tornò a confortarle l' anima, il sorriso ricomparve sulle sue labbra.

Sì, ella era decisa; prima vergognosa, tremante, aveva cercato di fuggire l' amica, parendole di essere indegna di lei: adesso, abbandonata dalla madre, col pericolo di cadere nelle mani di un birbante, Tecla avrebbe ricercata la protezione, l' appoggio di Miranda.

La lettera che la fanciulla scrisse, rivelava parte dei suoi dolori, le sue tristezze, i suoi pericoli e finiva con un “ appello straziante all' amicizia di Miranda. ”

“ Da te sola aspetto la salvezza — concludeva — se tu esitassi, che ne sarebbe della tua povera Tecla? ”

La fanciulla diresse la lettera a Firenze, ma non conoscendo l' indirizzo della casa di Miranda, ebbe timore che non le pervenisse.

L' ostessa la rassicurò.

— Chissà quante volte la vostra amica manderà a ritirare le lettere alla posta — disse.

Tecla si scosse.

— Avete ragione — rispose con vivacità.

Poi guardando timidamente la Borgna.

— Non vi è stato alcuno a chiedere di me? — domandò.

L' ostessa scosse il capo.

— Finchè siete qui non avete nulla a temere, ne rispondo io — rispose.

La fanciulla le gettò le braccia al collo, baciandola con veemenza sulle rugose guancie.

Passarono due giorni di crudele alternativa per la povera Tecla.

Pure ella cercava sorridere, mostrarsi grata alla premura dell' ostessa, i cui avventori si palesavano stranamente sorpresi di non vederla che raramente dietro il banco.

— Che ne è della Borgna? — chiedevano ai garzoni ed alla serva — sembra preoccupata.

Costoro si stringevano nelle spalle.

— Non ne sappiamo nulla, ma ci deve essere sotto qualche cosa, perchè ha proibito di mettere piede nella sua camera.

— Vi avrà nascosto qualche tesoro.

— Uhm… può darsi benissimo: l' abbiamo veduta spesso maneggiare dell' oro.

Due mariuoli in giacca strappata, che avevano un litro dinanzi, si urtarono col gomito.

— Sì… sì… gatta ci cova — soggiunse ancora la serva — perchè la padrona da due notti mi manda a dormire in casa di una vecchia qui vicino.

— Non ha paura a rimaner sola? — chiesero due o tre degli avventori.

La serva stava per rispondere, quando nell' osteria entrò un fattorino del telegrafo, portando un telegramma d'urgenza.

Era diretto all' ostessa.

Lo stupore degli avventori fu al colmo: si scambiarono le loro osservazioni a bassa voce.

— Io non posso portarlo di sopra — diceva intanto la serva al fattorino — la padrona me l' ha proibito.

— Ebbene… andrò io… indicatemi la porta.

— Ma… non so…

Il fattorino fece un gesto d'impazienza e stava per prorompere in qualche frase ardita, allorchè comparve la Borgna.

Appena le fu consegnato il telegramma, l' ostessa cercando simulare indifferenza:

— Ah! so cos' è — esclamò.

E mettendo il foglio in tasca, diede tranquillamente alcuni ordini ai garzoni, poi risalì nella sua camera.

Tecla sedeva vicino alla finestra, che guardava in un cortiletto pieno d' immondizie ed era così assorta nei suoi pensieri, che non sentì il passo dell' ostessa, la quale rientrava nella sua stanza.

La Borgna le si accostò pian piano, la baciò sulla bruna testa.

Tecla si scosse, il di lei volto si rasserenò tosto, le sue pupille brillarono, volgendosi riconoscenti alla vecchia.

— Se mi promettete di essere tranquilla — disse questa sorridendo — vi farò leggere qualche cosa, che deve essere per voi, sebbene a me indirizzata.

Tecla mandò un leggero grido, il viso le si colorì, le mani si stesero.

— Una lettera della mia amica?

— No… un telegramma.

La fanciulla tremava nell' aprirlo, ma appena l' ebbe svolto, percorso coll' occhio, esclamò con trasporto, con delirio:

— Ah!… sono… salva… salva: ascoltate:

Dite a Tecla che sarò domani a Torino con mio fratello.

Miranda. ”

E la fanciulla, così leggendo, aveva la fronte raggiante, il sorriso sulle labbra, mentre l' ostessa chinava abbattuta la testa e sentiva il cuore invaso da una profonda melanconia, perchè pensava che l' arrivo di quella giovinetta sarebbe stata per lei la perdita di Tecla, che incominciava ad amare come se veramente fosse sua figlia.

Quei due anni trascorsi così penosamente per la figlia della contessa Edvald, erano invece passati assai presto per Miranda, vicino al fratello, che ella amava con tanta tenerezza, tanto ardore.

Tutti i conforti, le speranze, le dolcezze della sua vita non le erano venuti da lui?

Quante gioie fra loro divise, quante lacrime insieme mischiate!

Miranda si era consacrata tutta ad Umberto: per quante ricerche avesse fatte, non avendo più avute nuove di Tecla, credette che l' amica si fosse scordata di lei… oppure fosse morta, vittima di un fatale destino.

Pianse molto, ma il fratello finì con asciugare coi baci quelle lagrime.

Egli si era allontanato a poco a poco dalla società e gustava le più soavi gioie domestiche al fianco di Miranda.

La sfolgorante bellezza della fanciulla non poteva però passare a lungo inosservata: presto si parlò di lei ed ebbe più di una richiesta di matrimonio.

Miranda rifiutò tutti recisamente.

— Eppure tu non potrai rimanere sempre ragazza — le disse Umberto.

— Perchè no, dal momento che mi trovo felice!

— Ma se tu amassi?

— Io non amo che te.

— Eppure verrà un giorno che il tuo cuore parlerà a favore di un altro.

— Ebbene, finchè non venga quel giorno, lasciami così: sono tanto contenta.

Umberto l' abbracciava commosso.

Miranda si era accorta che suo fratello doveva nascondere qualche segreto dolore, che non voleva confidarle.

Ella rispettava quell'afflzione, ma quando vedeva la fronte del giovane accigliarsi, il capo di lui chinarsi pensoso sul petto, avrebbe dato non so che per consolarlo.

Una sera, mentre Miranda lavorava quietamente, Umberto, seduto presso il caminetto, leggeva ad alta voce un giornale di Roma.

Aveva incominciato un articolo — Nozze cospicue — ma dopo poche parole si fermò, divenne pallidissimo in volto, girò attorno gli occhi smarriti, strinse convulsivamente il foglio fra le mani.

Miranda sorpresa a quell' interruzione, volse lo sguardo sul fratello e, spaventata, gettò il lavoro e gli corse vicino.

— Che hai? — chiese affannosa, ponendogli una mano sulla fronte, bagnata di freddo sudore.

— Nulla… nulla…

— No… no… Umberto, tu devi sentirti male…

Egli la guardò con disperata angoscia… Forse sentì in quel momento il desiderio irresistibile di espandere il suo cuore con quella dolce e buona creatura, che l' avrebbe compreso: forse nella sua improvvisa eccitazione, non ebbe più timore di rivelare i proprî sentimenti.

— Sì… soffro — mormorò appoggiando la testa al petto di lei — ma il mio male è tutto nello spirito: leggi quell' articolo e comincierai a comprendere: io ti dirò il resto…

Miranda raccolse il giornale che era caduto e, sedutasi vicino al fratello, lesse con voce tremante:

“ Ieri, con gran pompa d' invitati ed uno sfarzo di toelette inusitato, si celebrarono gli sponsali del duca Giglio d' Alba colla contessina Minia Navarra… ”

Miranda guardò il fratello, ritornato livido.

— La conoscevi forse costei? — mormorò.

— L' ho amata come un pazzo, l' amo ancora — esclamò quasi con violenza Umberto.

“ L' avevo incontrata a Napoli, nella stagione dei bagni: ero stato presentato nella sua palazzina sulla riva di Chiaia, da un mio amico…

Viveva con una vecchia zia, che aveva assoggettata ad ogni sua volontà…

Era bellissima, bruna, slanciata, con grand' occhi azzurri, i denti di perla…

Mi sedusse al primo vederla: dopo pochi giorni l' immagine di Minia riempiva tutto il mio cuore…

Ella accoglieva sorridendo i miei omaggi, sembrava accordarmi una particolare attenzione, ed avendole io parlato di te, mostrò desiderio di conoscerti…

Incoraggiato dai suoi sguardi e sorrisi, una sera, che eravamo rimasti soli su di una terrazza, che guardava il mare, le rivelai il mio amore, le chiesi se voleva unire la sua sorte alla mia…

Mi guardò un istante fissa.

— Siete nobile? — mi chiese con un accento in cui mi parve scorgere una lieve tinta d' ironia.

Sentii il sangue salirmi al capo.

— Sono un uomo onesto — risposi con alterezza.

Ella giuocherellava con un ventaglio di piuma.

— Nessuno lo pone in dubbio — mormorò — pure nella nostra casta vi sono certi pregiudizî…

— Assurdi, insensati — interruppi con impeto. — Sarebbe meglio che anzichè la nobiltà del nome, si pregiasse un po' più la nobiltà del cuore, dell' ingegno. Eppoi oggidì i titoli si creano a piacere: conosco un tale che si fa chiamare barone, guarda la plebe con disprezzo ed ha il padre che veste il camiciotto da facchino; una contessa che chiama la povera gente canaglia, ed è figlia di una rivendugliola del mercato…

Minia alzò con una mossa sprezzante le spalle.

— Io non voglio entrare in discussione con voi sulla differenza dei titoli — disse con aria dileggiatrice — ma dirò solo, che per conto mio, non amerò mai, nè sposerò un uomo, che non abbia una corona sul suo stemma, del sangue nobile nelle vene…

E prima di darmi tempo a rispondere ancora, fuggì via… ”

— Oh! la cattiva fanciulla — pronunziò Miranda, guardando afflitta il fratello — e tu hai continuato ad amarla, sebbene ti avesse fatto parte di quei sentimenti?

Umberto si passò una mano sulla fronte.

— Ebbene… sì… non ho potuto strapparmi l' immagine di Minia dal cuore, per quanto abbia fatto…

“ E nota, che da quel momento, ella già così gentile, scherzosa, vivace con me, divenne fredda, altera, sprezzante.

Voleva mostrarmi che le nostre vie non erano le stesse, che fra noi vi era la differenza della stirpe!

E non avevo coraggio di ritirarmi. Mi bastava vederla, perchè tutte le mie buone risoluzioni svanissero…

Speravo che Minia si ricredesse, tornasse a me…

Ma non fu così…

Un giorno, senza ragione, mi fu chiusa la porta della sua palazzina.

Offeso nella mia dignità, chiesi ed ottenni un colloquio colla vecchia zia.

Ella mi disse recisamente che la mia assiduità presso sua nipote aveva dato luogo a maligni commenti e per evitarli mi pregava di cessare le mie visite.

Fui così sciocco da avvilirmi dinanzi a quella vecchia fino a supplicarla ad intercedere presso Minia, perchè mi accordasse la sua mano.

Mi rispose asciuttamente che era inutile.

Temendo di lasciarmi trasportare dall' indignazione, mi ritirai.

“ Avevo la febbre, idee funeste mi correvano per la mente.

“ Ah! se tu fossi stata allora vicina, se avessi potuto piangere!

“ All' indomani, nell' uscire di casa, cogli occhi ancora brucianti per la veglia della notte, una vettura singorile mi passò quasi sui piedi.

“ Guardai macchinalmente e sentii una profonda ira bollirmi in petto.

“ In quella vettura eravi Minia colla zia ed un uomo non molto giovane, brutto, che sedeva dinanzi alla fanciulla e le parlava sorridendo.

“ Era un duca, statole presentato pochi giorni prima. ”

— Quello che ha sposato? — interruppe Miranda.

— Sì… l' ambizione di Minia è stata soddisfatta: a lei poco importò il sapere che quel duca era un libertino, un uomo triste, che non aveva mai rispettato nulla, nemmeno il nome che portava, le bastò il titolo per sconvolgerle il cervello.

“ Allora compresi perchè io ero stato allontanato.

“ Ed una violenta collera si impossessò di me.

“ Nella mia rabbia e gelosia avevo concepito un' idea violenta.

“ Uccidere Minia, poi far guistizia di me stesso. ”

— Umberto! — grdiò Miranda con dolore, monstrando al fratello il viso sconvolto — non pensavi dunque a me?

Egli se la strinse al cuore.

— Fosti tu che mi salvasti — mormorò. — Quel giorno stesso ebbi una tua lettera: tu mi aprivi tutta la tua anima; eri sconfortata per la lontananza dell' amica e chiedevi il mio appoggio, la mia tenerezza, ti mostravi desiderosa di riunirti a me.

“ Le lacrime scesero in gran copia sul tuo adorato foglio … mi pareva in quel momento di sentire la voce di nostra madre che mi diceva: — “ Umberto, io ti ho affidata in custodia tua sorella: vuoi tu abbandonarla? Ella ti aiuterà a sopportare le tue pene e tu dedicherai a lei i tuoi giorni. ”

“ Rimasi oppresso, ansante, colle labra incollate sulla tua lettera.

“ Quando alzai il capo, avevo fatto il giuaramento di vivere per te, di dimenticare… ”

Miranda gli gettò le braccia al collo.

— Fratello, caro fratello… sì, tu dimenticherai… quella fanciulla era indegna di te — escalmò.

— Hai ragione; vedi, mi pareva già di avere obliato. Diedi le mie dimissioni per allontanarmi da Napoli, fuggirla, non vederla più.

E nelle tue ingenue carezze, nel tuo affetto ritrovavo ogni giorno una dolcezza nuova, una pace domestica, quale io desideravo; ma l'annunzio di quel giornale mi sconvolse di nuovo, sento che la mia fertia non è ancora rimarginata… l' immagine di Minia mi riappare seducente.

Miranda passò con atto affettuoso la sua bianca manina sulla fronte del fratello.

— Adesso più che mai non devi pensarci — disse in tono affettuoso, ma grave — tu lo comprendi meglio di me.

— È così bella! — mormorò Umberto.

Poi all' improvviso, alzando la testa:

— Aspetta — disse — volgio mostrarti il suo ritratto.

Levò il portafoglio dalla tasca del soprabito, l' aprì, ne tolse una fotografia nascosta fra un piego di carte.

— Eccola — esclamò.

Miranda mandò un leggero grido di sorpresa.

— Come rassomiglia a Tecla — disse — ma la mia amica è ancora più bella ed ha il cuore di un agnelo. Fratello mio, se mi ami, distruggi questo ritratto.

Umberto esitò un istante: una lacrima brillò negli occhi della sorella.

Allora il giovane prese la fotografia ed il piego di carte ched aveva nel portafoglio e gettò tutto sulla fiamma viva del caminetto.

Poi stringendo Miranda al suo petto:

— Sei contenta così? — esclamò.

— Oh! sì, fratel mio — rispose con gioia schietta, infantile — ora credo al tuo affetto… e sono certa… che sepellirai il ricordo… di quella giovinetta, che ha rattristata per un instante la tua vita, sotto quel mucchio di cenere.

Ed a sua volta la fanciulla gettò sul fuoco il giornale.

All' indomani Umberto pareva un altro.

Era scomparsa la nube che veleva la sua fisonomia e lavorava attorno ad un disegno per sua sorella, cantando allegramente, sorridendo all' opera sua.

Si trovava solo nel salotto, ma ad un tratto entrò Miranda correndo.

— Fratello… fratello, una lettera di Tecla, ne ho riconosciuta la scrittura… Ah! finalmente!

Era agitata; le si sollevava con impeto il seno.

— Di dove viene? — chiese Umberto, avvicinadosi alla sorella.

— Da Torino — rispose la fanciulla, osservando la busta — non vi è che il mio nome, ma il postino l' ha portata egualmente coi tuoi giornali. Cattiva Tecla, farmi sospirar tanto un suo scritto.

— Te ne dirà bene il motivo: leggi.

Miranda strappò in fretta la busta e ne tolse un foglio piegato in quattro, che svolse febbrilmente.

La lettera non era che di poche righe. Ma l' appello disperato di Tecla alla sua amica, il grido di soccorso che sembrava aver lasciato un' eco su quel foglio, bagnato di lacrime, mentre straziarono il cuore di Miranda, le fecero subito prendere una risoluzione.

— Fratello, bisogna partire, salvarla — disse con fermezza.

— Volevo proportelo io — rispose Umberto fortemente commosso.

Ella gli rivolse uno sguardo di profonda riconoscenza.

— Intanto che io preparerò una valigetta — aggiunse — tu andrai al telegrafo ed avvertirai Tecla della mia risoluzione. Ma bada di non idirizzare il telegramma a lei, ma alla donna che l' ha ritirata: eccoti la lettera, vi è il suo indirizzo.

Dava gli ordini con voce ritornata calma.

La speranza di riverdere l' amica, di salvarla, aveva rasciugate le sue lacrime, la sua tenerezza per lei si era accresciuta.

Ah! Tecla non aveva scritto invano. Miranda si proponeva di non più abbandonarla e mentre il fratello era uscito, ella vagheggiava i più belli e rosei sogni dell'avvenire…..

— Povera Tecla, quanto deve aver sofferto per scrivermi così — mormorava — E mi parla appena di sua madre… dice che l' ha abbandonata; perchè? Tecla mi spiegherà tutto, noi non ci lascieremo mai più, saremo felici, felicissimi.

Sorrideva a quest' idea, aggiungendo:

— Se Tecla fosse libera, potrebbe aiutarmi a compire la guarigione del cuore di Umberto. E perchè no? La mia amica assomiglia a Minia ed è tanto più buona!

Con che ansia Miranda attese l' ora nella quale sarebbe partita!

Umberto divideva l' agitazione della sorella senza sapere il perchè, ma durante il viaggio nessuno dei due ardì scambiare le proprie impressioni.

Partiti col diretto della sera, giunsero a Torino sul far del giorno. Si recarono subito all' albergo e dopo essersi rinfrescati il viso e presa una buona tazza di caffè, ordinarono una vettura da piazza per farsi condurre all' osteria della Borgna.

La mattinata era freddissima; il cielo nuvoloso; le colline circostanti a Torino si mostravano coperte di neve; il Po, simile ad uno specchio, riposava immobile sotto un ampio strato di ghiaccio.

Miranda, tutta stretta nella sua pelliccia da viaggio, guardava ad ogni istante dal finestrino della vettura per vedere se erano giunti.

Arrivati infine nel borgo del Rubatto, la carrozza rallentò il passo, poi si fermò dinanzi ad una porta chiusa, che portava al disopra l' insegna di un' osteria.

— È qui — disse il vetturino.

Alcune persone erano vicine alla porta e discutevano. Umberto scese dalla vettura, dando la mano alla sorella.

— Ancora chiusa a quest'ora? — esclamò Miranda sentendosi stringere il cuore da un funesto presentimento.

Erano allora suonate le dieci.

— È quello che si stava dicendo noi — proruppe una donna male in arnese, spettinata, in ciabatte — la signorina cerca la padrona di quest' osteria?

— Sì — affrettossi a rispondere Umberto, mentre bussava un colpo alla porta.

— Vedrà che non le risponderanno — replicò la donna — abbiamo già provato anche noi, e si teme sia successa qualche disgrazia alla Bergna, che le altre mattine apre sempre il negozio alle sei.

Miranda tremava, sentiva mancarsi il respiro.

— Mio Dio… mio Dio… — mormorò — io ho paura!

Umberto, vedendo la sorella fatta segno agli sgaurdi delle donnicciuole che le si aggruppavano intorno, fece un lieve moto di impazienza.

— Torna all' albergo, Miranda, lasciami qui solo; vedraì che non sarà nulla, forse l' ostessa avrà dovuto uscire per qualche cosa.

In quel momento uno dei garzoni dell' osteria, a testa nuda, arrivò a corsa.

— Ho voluto andar a vedere dalla parte del cortile — disse con piglio stravolto ed accento affannoso.

— Ebbene? — chiesero parecchie voci, mentre Umberto e Miranda tendevano avidamente gli orecchi.

— Ebbene… la finestra della camera è chiusa, segno che la padrona non si è ancora levata… e, se è in casa, vuol dire che le sarà successo qualche cosa… Con quello stare sempre sola…

— Ma vi era una giovinetta con lei — interruppe Umberto, che si era ancor più avvicinato.

Il garzone, vedendo quel giovane pallidissimo, elegante, assume subito modi ossequiosi.

— Il signore forse s'inganna — disse — dalla mia padrona non ho mai veduto alcuno.

— Oh! non è possibile — replicò Miranda che si sentiva agghiacciare il cuore — la giovinette che cerchiamo si trova proprio qui…

— Scommetto — esclamò un uomo in giacchetta — che la signorina parla di quella bellissima fanciulla che l'ultima notte di carnevale entrò nell' osteria a chieder soccorso… e che la Borgna fece trasportare nel suo letto…

Miranda non potè proferire un accento, ma si afferrò convulsa al braccio del fratello.

Umberto cercava frenarsi per quanto era possibile.

— Dite… dite… buon uomo — soggiunse con voce soffocata — com' era quella fanciulla?

— Bellissima, glielo dissi, con dei capelli neri che la coprivano quasi tutta, bianca come la carta da scrivere, diciotto o venti anni al più…

Un sudor freddo scorreva sulla fronte di Miranda.

— È lei… è lei — balbettava.

— È una nostra parente — aggiunse Umberto.

— Ma la padrona — disse il garzone — assicurò la mattina seguente, quando scese in negozio, che aveva ricondotta la fanciulla ai suoi genitori…

— Intanto, con tutte queste chiacchiere, non si sa che sia avvenuto della Borgna.

— Adesso lo sapremo… ecco le guardie.

Qualcuno doveva averle avvisate: esse giungevano in compagnia di un delegato e di un fabbro.

La folla andava sempre più ingrossando.

Umberto scongiurò di nuovo Miranda perchè ritornasse all' albergo, ma la fanciulla, mostrando un' energia che non aveva mai avuta, insistè per rimanere.

Dalla porta dell' osteria era impossibile entrare, perchè sprangata di dentro.

Bisognava quindi passare per la finestra, che dava su di un corticello di una casa vicina.

In un attimo il cortile fu pieno di gente.

Una scala di legno fu appoggiata a quella finestra e vi salirono per i primi il fabbro, seguìto dal delegato e da una guardia.

Tutti gli occhi erano rivolti su di loro, tutti i respiri sospesi.

Miranda era livida: un doloroso termito le agitava il corpo: si teneva appoggiata al braccio del frattello, che aveva ripreso tutto il suo vigore morale ed attendeva fredamente quello che sarebbe avvenuto.

Il rumore di un vetro che si rompeva sotto un pugno del fabbro, fece trasalire Miranda e produsse un mormorìo nella folla.

Il braccio dell' operaio era pertanto sparito dall' apertura: una stanghetta fu alzata, la finestra si spalancò, ed il fabbro per il primo penetrò nella stanza, seguìto dal delegato.

Si udì come un grido soffocato: la folla si precipitò contro la scala, per voler salire: le guardie rimaste abbasso si opposero.

Quale spettacolo si era offerto agli sguardi degli uomini entrati nella stanza?

Uh quadro orribile.

Rovesciata al suolo, immobile, stecchita, col petto nudo, squarciato da una ferita di coltello, era la sventurata ostessa.

Negli occhi vitrei, spalancati eravi ancora un' espressione di supremo terrore: la bocca aperta pareva in atto di gridare, le unghie delle mani sembravano raspare il pavimento, come dovevano averlo fatto nell' ultima convulsione.

Sul letto, seminuda, con una ferita pure di coltello al petto, eravi Tecla.

Il sangue aveva bagnate le coperte e, lambendo i mattoni, si univa con quello dell' ostessa, che ne era inzuppata in tutto il corpo.

Il viso però di Tecla non aveva la tinta cadaverica di quello dell' ostessa e dalle labbra di lei uscì un lievissimo gemito, che fu sentito dal delegato.

— Questa giovinetta respira ancora — escalmò — presto un medico.

La notizia di quello che là dentro accadeva circolò subito nella folla e fu appresa da Miranda ed Umberto.

— Dio… Dio… una giovinetta ferita che sta forse per morire, è lei… voglio vederla… ho del coraggio…

— Ma come entrare lassù?

— Hanno aperta la porta dell' osteria… sono giunti degli altri agenti della Questura — disse uno della folla.

— Vieni adunque, cara sorella, vieni — replicò Umberto.

Quell' uomo aveva ragione: l' osteria era stata aperta e dinanzi vi stazionava una folla enorme, trattenuta da un cordone di guardie.

Umberto declinò il suo nome, confermò la sua parentela colla giovine assassinata e fu subito fatto entrare.

Però una guardia disse con rispetto a Miranda:

— La signorina non potrà resistere a quello spettacolo: si fermi qui abbasso.

— No, no, voglio seguire mio fratello.

Era decisa. Se Tecla moriva, che avesse almeno avuto il conforto di un' ultima parola amica.

Povera Miranda! La testa le ardeva, i lineamenti aveva contraffatti, il corpo in sudore.

Pure non serebbe tornata indietro.

Voleva veder Tecla ad ogni costo.

La camera dove era avvenuto lo spaventevole delitto era piena di persone, ma nessuno parlava.

Tutti attendevano in silenzio quello che avvrebbe detto il medico, un uomo dai capelli bianchi e dagli occhiali cerchiati d' oro, che stava esaminando Tecla.

Quando alzò il capo, un brivido percorse le vene di tutti.

— La ferita è pericolosa, non mortale — disse — il moltissimo sangue sparso l' ha fatta svenire.

— Credete che riavendo i sensi sia in grado di parlare? — chiese il delelgato.

— Per qualche ora bisogna lasciarla tranquilla.

— Ma, non si potrebbe trasportarla fuori di qui? — disse Umberto, dopo avere scambiata qualche parola sottovoce con un ispettore.

— Ne andrebbe della sua vita — rispose senza esitare il medico.

— Oh! allora che qui rimanga — intervenne Miranda con accento sommesso; ma però togliete quel cadavere.

Additava inorridita, presa da ribrezzo, il corpo sanguinoso della Borgna.

— Appena compiute le formalità necessaire, quel cadavere, signorina, sarà trasportato abbasso.

Miranda non rispose: si rivolse ansiosa verso l' amica, che il medico cercava di far rinvenire.

Intanto si procedeva immediatamente ad un primo esame, per cercare di mettere un po' di luce in quel doppio delitto.

Per la povera ostessa non vi era più nulla a fare: il colpo di coltello le aveva squarciato il petto, fulminata all' istante.

Sul corpo irrigidito fu gettato un lenzuolo, nel mentre che si rovistava per la camera.

Il delitto aveva avuto per scopo il furto: non c' era dubbio. Lo mostravano l' armadio aperto, i cassetti rovesciati, la biancheria tolta da un cassone e sparsa per terra.

Ma da qual parte i ladri erano entrati?

A prima vista, la cosa era assai singolare, misteriosa.

La porta di quella camera metteva ad una scaletta di legno, dalla quale si scendeva in negozio, chiuso, sprangato per di dentro.

Nella retrobottega non vi era alcuna apertura: la finestra della stanza, come sappiamo, era chiusa.

Mentre si davano a nuove investigazioni, Umberto fece osservare un uscio semiaperto, che nessumo aveva ancora notato, perchè dinanzi vi era posto un portamentelli, carico d' abiti.

Quell' usciuolo metteva in uno stanzino oscuro, tanto che fu d' uopo accendere una candela per penetrarvi.

Allora scorserso nel fondo un' altra porta, la cui serratura era stata abilmente staccata.

Quella porta metteva in comunicazione con alcune stanze vuote, deserte, del casamento vicino.

Era quindi facile comprendere quello che era avvenuto.

I ladri ed assassini, giacchè uno solo non avrebbe potuto compiere quel colpo ardito, dovevano conoscere perfettamente il locale, sapere che quell' alloggio vuoto, comunicava colla camera della Borgna.

E da quella parte erano entrati ed usciti tranquillamente compiuto il misfatto.

Non poteva esservi l' ombra del dubbio, perchè sul muro della vuota anticamera, che metteva sul pianerottolo della casa vicina, eravi l' impronta sanguinosa di una mano.

Un' ora dopo, nella camera della sventurata ostessa non vi erano più che Umberto, Miranda ed il medico, assitendo silenziosi Tecla, che due volte era rinvenuta, non balbettando che poche parole, ma dando segni di un indicibile terrore, poi aveva nuovamente smarriti i sensi.

La camera non presentava più l' aspetto spaventevole di prima.

Il cadavere della Borgna era stato tolto, rimessi a posto i mobili, sparsa molta segatura sul sangue, cambiate confinita precauzione le coperte del letto, profumato con aromi salutari l' ambiente.

Miranda, vicino all' amica, tenendo una mano di lei fra le sue, ne spiava ogni minimo movimento, facendo sforzi per non piangere.

Umberto, seriamente impressionato, scambiava, di quando in quando qualche parola a bassa voce col medico, che tentennava il capo ripetendo:

— No, la ferita non è grave; il coltello non ha leso nessun organo vitale; ma lo spavento puù averle pordotto un grande sconcerto interno, turbate le facoltà metnali.

Umberto si stringeva la testa fra le mani; non poteva sopportare l' idea che quella fanciulla dovesse smarrire la ragione.

Per fortuna Miranda non aveva sentite le parole del dottore.

Povera Tecla! Non era salva da un pericolo, che cadeva in un altro.

Ma chi erano mai coloro che avevano commesso l' orribile assassinio?

La fanciulla li conosceva?

E come mai la figlia della constessa Edvald poteva essersi ricoverata in quell' osteria?

Tali erano le congetture che faceva a sè stesso Umberto, mentre i suoi sguardi si fissavano, pieni di pietà, di dolcezza, d' interesse, su Tecla.

Questa fece un movimento imperecettibile.

L' amica avvicinò quasi le sue labbra a quelle di Tecla.

Le scoppiava il cuore, ma all' apparenza si manteneva abbastanza calma.

— Guardami, riconoscimi, sono io, la tua Miranda, che chiamavi in aiuto, e non ti lascierà più.

Le labbra della contessina Edvald si schiusero: i suoi lineamenti espressero di nuovo una straziante ambascia: nei suoi occhi spalancati, fissi, senza sguardo era un terrore indicibile.

— Lasciatemi, lasciatemi, che volete da me? — balbettò — Non so nulla, era lui, l'ho veduto, voleva afferrarmi, trascinarmi, Dio, Dio, quanto sangue!

Il dottore, che stava agitando una bottiglietta, che Umberto stesso era corso a prendere alla più vicina farmacia, ne versò il contenuto in un cucchiaio ed accostatosi al letto.

— Cedetemi il posto — disse a Miranda.

Questa obbedì. Il medico passò dolcemente la mano sinistra sotto la testa di Tecla, gliela sollevò alquanto ed accostò il cucchiaio alle labbra di lei.

Il contatto del metallo le fece gettare un grido.

— Non voglio, non voglio — disse in preda ad uno spasimo che le fece tremare in tutto il corpo — aiuto, aituo!

Fece uno sforzo come se volesse alzarsi, ma ricadde sul letto gemendo e chiuse gli occhi.

— Oh! mio Dio — balbettò con voce stranziante Miranda.

— Non vì spaventate, non è nulla — interruppe il medico, che intanto aveva introdotta la medicina nella gola di Tecla — essa non corre alcun pericolo; vedrete che fra poco sarà più tranquilla; riprendete il vostro posto.

Miranda si chinò a baciare la fronte dell' amica.

— Come ha cambiato! Quanto ha dovuto soffrire, povera Tecla — pensò — ah! se almeno potessi salvarla.

Il respiro della contessina Edvald si era fatto più regolare, tranquillo: la sua livida faccia esprimeva, per così dire, i suoi pensieri.

A momenti si vedeva illuminarsi, sorridere, poi i lineamenti tronavano ad offuscarsi, la bocca si contraeva con un moto nervoso.

Gli occhi però rimanevano chiusi.

Di quando in quando, un agente saliva a chiedere notizie e tornava abbasso sconfortato.

Più tardi giunse il Procuratore del Re. Tecla riposava in quel momento tranquilla e Miranda, peigato il capo sul capezzale, si era pur essa assopita.

Umberto col medico ed il magistrato si ritirarono quindi a discorrere pian piano vicino alla finestra.

Clementi delcinò di nuovo il suo nome e non tacque quello di Tecla Edvald.

Il Procuratore del Re fece un moto di sorpresa.

— La fanciulla che hanno tentato d' assassinare è la figlia della contessa Livia? — ripetè. — Come mai si trovava in questo luogo?

Umberto fissò sul magistrate i suoi limpidi occhi.

— L' ignoro io pure — rispose con franchezza. — Da quanto vi avranno detto i garzoni dell' osteria, è dall' ultima notte di carnevale che la fanciulla si è rifugiata qui per salvarsi da alcune maschere avvinazzate che l' inseguivano, ma non so altro.

Il magistrato pareva riflettere.

— E voi, signore, come siete venuto qui a cercarla? — chiese.

— Mia sorella ha ricevuta una sua lettera — rispose Umberto senza esitare — in cui diceva correre un gran pericolo e ci scongiurava a salvarla. Siamo partiti subito, ma pur troppo arrivammo tardi.

Queste parole, dette con voce chiara e breve, sebbene profondamente triste, scossero il magistrate.

— In tutto ciò vi è qualche cosa che non comprendo, ma che ci sarà spiegato da quella poveretta se, come afferma il medico, sopravvierà alla ferita. Sapete intanto dove si trova la contessa Edvald?

— L' ignoro affatto — rispose Umberto.

— A me pare di aver sentito dire da una mia cliente — esclamò il dottore — che la contessa si era riveduta qualche tempo fa a Torino.

— Allora la figlia sarebbe presso di lei? — mormorò Umberto.

Il Procuratore del Re rimaneva pensieroso.

— Basta, prima di fare delle deduzioni, dei commenti — esclamò — bisogna sentire quelle fanciulla. Quando credete, dottore, che si possa interrogare?

— Fino a domani non ve lo prometto. Ed intanto toglietemi una curiosità: si ha qualche indizio sugli assassini?

— Si sono operati diversi arresti dì persone sospette, che frequentavano l' osteria della Borgna, ma si protestano innocenti e finora non ci sono prove in contrario.

— Zitti — disse vivamente Umberto — la fanciulla rinviene, guardate, cerca alzarsi.

— Il medico si accostò vivamente al letto, dove Miranda faceva ogni sforzo per rattenere l' amica.

— Lo sentite questo rumore? — diceva con una specie d' ostinazione la contessina Edvald — vogliono entrar qui, fuggiamo, deve essere lui, Michele, che viene in traccia di me.

Umberto ebbe una scossa.

— Questo nome mi par di averlo già udito pronunziare — mormorò.

Il magistrato l' afferrò per un braccio.

— Tacete, ascoltiamo.

Tecla agitava le braccia: gli occhi si volgevano attorno smarriti.

— Non andate a vedere, rimanete qui; ah! chi sono quegli uomini che entrano? Che volgiono da noi? Aiuto, no, non colpite lei che mi ha salvata, io la difenderò con tutte le mie forze… ah!…

Ricadde sul letto gemendo, spossata.

Miranda piangeva.

— Non bisogna turbarla — disse il medico — la minima imprudenza potrebbe tornarle funesta.

— Io mi ritiro — aggiunse il Procuratore del Re — tornerò domani per sapere come la giovinetta ha passata la notte: se nascesse qualche complicazione, mandatemi a chiamare.

Umberto accompagnò fuori il magistrato.

Il dottore si avvicinò a Miranda.

— Voi pure, signorina — mormorò sottovoce — dovreste ritirarvi.

La fanciulla lo guardò con occhio inquieto.

— Vi è forse qualche pericolo? — chiese con voce alterata.

Il dottore scosse il capo.

— Se ne avessi il minimo dubbio, vi pregherei di rimanere.

— Grazie — mormorò Miranda — ma io resto lo stesso, perchè avrei troppo rimorse se dovessi abbandonarla prima che mi abbia riconosciuta.

— Fate come credete, ma vi avverto: non cercate di farla parlare, di destare in lei alcunna emozione, datele ogni ora un cucchiaio di quella bevanda, io tornerò stasera a vederla.

— Partite? — disse Miranda con accento supplichevole.

— Qui per ora non ho da far nulla, ed altri ammalati mi attendono, signorina, però, ve lo ripeto: tornerò.

Quando il medico uscì dall' osteria, s' incontrò in un uomo dal viso pallidissimo, dalla ciera un po' stavolta, che lo fermò.

— Scusate — disse con voce che cercava invano di render ferma — come sta la giovinetta che hanno tentato di assassinare questa notte?

Sul volto del dottore apparve stupore, diffidenza.

— La conoscete forse?

L' altro pareva aver vinta un' interna lotta; alzava più quieto la testa, gli brillavano le pulpille.

— No — rispose.

— Allora io non posso dirvi nulla — replicò il dottore alzando le spalle ed allontanandosi.

L' uomo digrignò i denti.

— Se avessi il coraggio di entrare — brontolò — infine potrei dire benissimo… che sono mandato dalla contessa Edvald…. ah! se non mi fossi compromesso con quei mariuoli…

Stava fermo, dinanzi alla porta chiusa dell' osteria, colle pugna strette, la collera sul volto. Poi l' assalse un fremito doloroso, mandò un cupo brontolìo, e si allontanò.

Quell' uomo era Michele.

In quella notte, in cui aveva accompagnata la contessa Livia in città, invece di far subito ritorno alla piccola casetta, si recò al veglione dello Scribe.

Sentiva il bisogno di stordisis, di eccitarsi, far tacere un' idea, che gli si affacciava lugubre alla mente.

Tecla era alfine in sua balìa: egli ormai, autorizzato dalla malvagia madre, aveva pieni poteri su di lei, e capiva che un colpo ardito glie l' avrebbe data nelle mani.

La fanciulla più non si sarebbe ribellata, l' avrebbe accettato per marito.

Tuttavia ciò non sarebbe avvenuto senza lotta: però voleva disporsi a subirla con fermezza, senza alcuna pietà per il pianto, la disperazione di lei.

Allo Scribe vi era uno strepito, una confusione, un tumulto infernale.

Michele si trovò spinto qua e là da quella folla ebbra, rumorosa e finì per refugiarsi in un angolo, inqueito, irresoluto, in preda ad una specie di vertigine, assordato.

Dopo una mezz' ora non ne potè più e lasciò il teatro, ed entrato nella prima trattoria che vide aperta, ordinò da cena.

Mangiò poco, ma bevette copiosamente, ciò che non contribuì certo a ristabilire in lui la calma; anzi non fece che accrescere il desiderio ardentissimo, che gli coceva nelle vene.

L' immagine di Tecla gli apparve circondata da mille seduzioni inebbrianti.

Si alzò da tavola stordito, e con un sogghigno sulle labbra. Le sue guancie, di un pallore terreo, facevano spiccare ancor più il fuoco de' suoi occhi.

L' aria frizzante della notte gli fece riacquistare un po' di lucidità di mente.

Salì in una vettura da piazza per farsi condurre all' isolata casetta.

Durante il tragitto si addormentò, tanto che il vetturino dovette scuoterlo assai bruscamente quando fu il momento di scendere.

Erano allora le quattro del mattino.

Michele si stropicciò gli occhi, cercò riordinare le sue idee, pagò il vetturino, dandogli anche una buona mancia, poi, barcollando, entrò in casa.

Nessun rumore turbava il silenzio di quel luogo.

Michele accese uno stoppino di cera e salì alla sua camera, con passi gravi, disuguali, che mostravano il suo stato.

— La piccina deve sempre dormire — mormorò — è il momento propizio.

Si munì d' una candela e si diresse con infinita precauzione verso la stanza di Tecla.

Tre o quattro volte urtò contro la parete del corridoio, eppur si sostenne sulle gambe che vaccillavano.

L' uscio della camera era aperto.

Dopo un momento di esitanza, Michele entrò: la sua attitudine paurosa, sospettosa, contrastava col viso abbietto, schifoso pei fumi dell' ubbriachezza.

Si avvicinò al letto, ma chinandosi per guardare, cacciò una lurida bestemmia.

Il letto era vuoto.

La candela cadde di mano a Michele e si spense: egli stringeva i pugni.

— Ah! dove si è nascosta? — balbettava con voce rauca, affiochita — Aspetta, aspetta, ti troverò… ah… credi sfuggirmi… lo vedrai.

Cercò tentoni di rinvenir l' uscio, ma le gambe malferme lo fecero urtare contro un mobile, gli si piegarono le ginocchia.

Cadde sul tappeto e non gli riuscì di rialzarsi. L' ubbriachezza aveva vinto.

Borbottò alquanto, poi principiò a russare.

Quando si svegliò, era giorno chiaro. Dapprima si stropicciò gli occhi, guardandosi attorno, credendo di sognare.

Poi ad un tratto si ricordò e di un balzo fu in piedi: aveva però le membra indolenzite, le ossa rotte, la testa pesante.

Ma aveva ricuperata la sua presenza di spirito, e dopo un momento di stupore, corse fuori della stanza per fare ricerca di Tecla.

Invano rovistò tutta la casetta: la fanciulla non c' era. Aveva dunque approfittato della sua assenza, di quella della madre, per fuggire ancora? Non poteva essere andata lontano, perchè dopo avere ispezionata minutamente la camera della fanciulla, Michele si accorse che nulla aveva portato con sè.

Dove si era ricoverata?

Un pensiero gli corse rapido per la mente e lo fece trasalire. Se Tecla si fosse uccisa!…

Assalito da questa idea, corse fuori come un pazzo e si avviò direttamente verso il ponte di ferro.

Camminava lesto, a capo basso, irritandosi contro se stesso, perchè era andato al Veglione.

Giunse al fiume senza notare nulla d' insolito e stette un istante immobile, colle braccia incrociate, guardando fissamente le acque, tanto che due o tre passanti si fermarono, credendo che quell' uomo dall' aria cupa, sconfortata, meditasse un suicidio.

Vedendosi fatto segno a sguardi curiosi, Michele si allontanò. Dinanzi a lui, sulla strada che seguiva, erano due giovanotti mal vestiti, colla biancheria sporca, il cappello a sghimbescio, le mani entro le tasche dei pantaloni: due tipi da barabba.

Parlavano gesticolando e Michele, senza volerlo, pose mente ai loro discorsi.

— Ti dico — esclamò il più giovane strizzando l' occhio al suo compagno — che mancò poco che per quella ragazza mi buscassi una coltellata.

— Lo meritav a almeno? — chiese l' altro, ridendo.

— Non dico di no, ma, giuraddio, non val la pena di arrischiare la pelle per una donna: ce ne sono tante!…

E, tolto di tasca un mozzicone di sigaro, si mise a masticarlo.

L' altro si era fatto pensieroso.

— Sei proprio sicuro che la Borgna abbia mentito dicendo che la mattina dopo la ragazza si era allontanata?

— Sicurissimo, a me non si dà ad intendere… colei non è più uscita dall' osteria.

L' altro cacciò una bestemmia.

— Perdio, che il nostro piano debba andare a monte?

Il compagno sputò il mozzicone.

— Si può saldare il conto a tutte e due.

L' altro si volse ed avendo scorto Michele urtò col gomito l' amico.

Il segretario della contessa Edvald si era loro avvicinato.

— Scusate, amici, vorrei parlarvi.

I due barabba esaminarono con una specie d' inquietudine ed aria sospettosa l' uomo a loro sconosciuto, ed il più giovane rispose con spavalderia e modi insolenti:

— Credete forse che noi abbiamo il tempo di discorrere?

Michele sorrise.

— Ne sono certo, quando vi venga pagato bene, e con me non perderete la vostra giornata.

I due barabba scambiarono un' occhiata, ed il più anziano, calcandosi il cappello a larga tesa:

— Sulla strada non è prudenza parlare d' affari — disse con fine malizia — se volete venire all' osteria, forse ci intenderemo meglio.

— Andate avanti, vi seguirò…

Essi si diressero verso la Madonna del Pilone ed entrarono in una bettola di discreta apparenza, in quell' ora deserta.

Michele non esitò a seguirli e sedutosi con loro ad un tavolo nell' angolo più isolato della vasta stanza, ordinò una colazione per tutti e tre.

I due barabba si toccarono colle ginocchia.

Mentre il garzone apparecchiava sollecito, Michele fece alcune domande banali; ma appena furono serviti e si trovarono soli, disse senza preamboli:

— Siete voi tali da rispondere francamente alle domande che posso farvi?

— La franchezza è il nostro maggiore difetto — rispose il più giovane — non è vero Cecchino?

Questi strizzò l' occhio in modo confidenziale.

— Metteteci all prova — disse, vuotando di un fiato un bicchiere di vino.

— Ero dietro a voi sul ponte e vi ho sentiti parlare di una ragazza, che una certa Borgna aveva ricoverata: ora io vorrei i connotati di quella giovane.

— Confesso che non l' ho veduta — rispose Cecchino — ma qui il mio amico Tonio può informarvi minutamente.

Il barabba, interpellato, si affrettò ad ingoiare un grosso boccone ed a pulirsi la bocca colla mano, poi facendo scocchiare la lingua:

— Quella è un bocconcino da signori — ecslamò. — Ha una faccia da dipingersi, e badate che l' ho veduta solo alla luce fumosa della bettola, dove si è svenuta.

Michele aveva appoggiati i due gomiti alla tavola e fissava su Tonio sguardi scintillanti.

— Si è svenuta! — ripetè. — Perchè? Di dove veniva?

Il barabba raccontò quanto era successo.

Michele lo guardava con aria cupa, poi abbassando ad un tratto la voce:

— Siete proprio sicuri che quella ragazza sia sempre nell' osteria?

— Si potrebbe giurare.

Michele sturò un' altra bottiglia che aveva fatta portare ed empiè i bicchieri dei due barabba.

Poi volse un' occhiata rapida all' ingiro e fatto certo che nessun altro stava ad ascoltarlo:

— Se non m' inganno — disse — quella fanciulla è la stessa che io cerco e mi è sfuggita…

Cecchino lo guardava co' suoi occhi un po' loschi.

— È forse vostra parente? — chiese.

— Mi è stata affidata da sua madre.

— Quand' è così, potete andare a richiederla alla Borgna.

Michele scosse il capo.

— Se tentassi anche la prova non riuscirei, perchè la fanciulla mi odia e rifiuterebbe seguirmi e se l' ostessa ha prese le sue ditese sarebbe capacissima dirmi, come agli altri, che la ragazza è partita. Non voglio rivolgermi alla questura, perchè l' ho fatto una volta… e basta…

— Allora vorreste servirvi di noi? — mormorò Cecchino.

Michele riempì di nuovo i bicchieri.

— Sareste capaci di un colpo ardito?

I due barabba chinarono insieme la testa verso quella del segretario.

— Secondo come ci viene pagato — disse Cecchino.

— Guarda di non prenderti qualche brutto affare sulle spalle — aggiunse Tonio — prima bisogna sapere di che si tratta.

— Invece è meglio conoscerne l' utile, imbecille che sei — ribattè il compagno. — Vediamo, quanto volete spendere?

— Un centinaio di lire — rispose Michele.

— Allora si tratta di cosa facile.

— Bisogna impadronirsi della ragazza.

— Nespole! — esclamò Cecchino — Credete sia un colpo da poco?

— Non gridate in questo modo — brontolò Michele con atto d' impazienza — sentiamo, quanto pretendete?

— Ecco — riprese Cecchino in tono confidenziale, ma con una certa importanza — trattandosi di un affare eccezionale, aggiungete altri dieci marenghini ed avrete la ragazza nelle mani.

— Che mi si appicchi, se non lo faremo — aggiunse Tonio.

— Ed è un lavorare per nulla — replicò il compagno — ben inteso che voi dovrete aiutarci…

Michele si scosse.

— Come?

I due barabba si scambiarono una rapida occhiata.

— Ecco… dovete sapere… che l' osteria della Borgna si trova nel borgo del Rubatto… noi abbiamo delle conoscenze nel vicinato… e sappiamo il mezzo per entrare di notte in casa della vecchia.

— Parla più piano — brontolò Tonio gettando uno sguardo diffidente all' intorno.

Cecchino alzò le saplle.

— Nessuno ci sente, non temere. Dicevo dunque che noi sorprenderemo la ragazza di notte e mentre Tonio farà tacere la Borgna, io metterò il bavaglio alla piccina. La faccenda è un po' scabrosa, e se non avessimo a nostra disposizione qualche cosa che ci può servire, saremmo fritti.

— Insomma, io che debbo fare? — chiese Michele, pervenendo a dominare la sua voce.

— Voi dovete sostenerci coll' attenderci con una vettura a pochi passi dell' osteria.

— Ma si potrebbe far nascere dei sospetti!

— In chi? Con questi freddi da lupi, neppure i cani mettono fuori di notte la coda; non darete nell' occhio a nessuno, statene certo; del resto, se vi piace l' affare in tal modo, tocchiamo il bicchiere; diversamente, amici come prima.

Michele non pensò a rifiutare. La resistenza che gli opponeva Tecla, l' odio stesso che gli aveva dimostrato la fanciulla, non erano che incentivi alla sua passione.

La contessa Edvald l' aveva un giorno respinto, rifiutato, ed egli si vendicherebbe sulla figlia. Gli era necessaria quella fanciulla, e l' avrebbe ottenuta a costo di un delitto.

— Accetto! — disse riempiendo ancora i bicchieri.

I due barabba non dissimularono la loro gioia.

Toccarono insieme e bevettero di un sorso.

— Quando credete si possa fare il colpo? — chiese Michele.

— Perdio, ci vorrà qualche giorno; prima faremo le nostre indagini — rispose Cecchino, che pareva il caporione — cotesto è affar nostro; preparato tutto, vi avvertiremo: dateci il vostro indirizzo.

Michele increspò le labbra, ma fu un lampo.

— Non ci è bisogno — disse con calma — ci troveremo qui tutte le mattine.

— Come volete, a quest' ora nessuno ci disturberà, non è vero Tonio?

— Lo dico anch' io, ed il signore non la pensa male.

— Guardate di sbrigarvi — mormorò Michele — e sarete contenti di me.

— Faremo il possibile per soddisfarvi, ma, intendiamoci, prima dell' affare dovete darci metà del pattuito — disse ancora Cecchino.

— Farò quello che volete.

Il discorso finì lì, perchè erano entrati alcuni carrettieri, che volevano desinare e presero posto al tavolo vicino.

Michele saldò il conto e si congedò dai due barabba, dando l' appuntamento per l' indomani.

Si sentiva spossato: confuse idee gl' ingombravano il cervello, nè si accorse, tornando alla villetta, che Cecchino lo pedinava da lungi.

La cameriera ed i domestici appena lo videro gli chiesero conto della padrona e della contessina, che non avevano più vedute dall' ultima sera di carnevale.

— Hanno dovuto partire improvvisamente — disse il segretario — anzi la contessa mi ha lasciato del denaro perchè saldassi i vostri conti, non ritornando forse più da queste parti e non avendo quindi bisogno di voi.

Essi protestarono con sguardi e parole di corruccio.

Michele volse loro sprezzantemente le spalle e si ritirò nella sua camera, per gettarsi sul letto vestito, e non tardò ad addormentarsi profondamente.

Due o tre colpi bussati fortemente all' uscio, lo risvegliarono di soprassalto.

Aprì gli occhi: era tutto buio. Doveva esser notte.

— Chi è là? — chiese bruscamente Michele.

— Sono io, signore — rispose la voce di un domestico.

— Avanti.

Il servo entrò nella camera con una candela accesa.

— Che vuoi? — chiese Michele.

— Vi è un giovinotto che dice averle da parlare per un affare di premura.

Michele provò come una scossa elettrica e sollevatosi sul letto:

— A me? — domandò.

— Sissignore.

— Ti ha detto il suo nome?

— Cecchino.

Michele aveva una tempra d' animo fortissima e nei momenti più scabrosi sapeva conservare il suo sangue freddo.

— Ah! capisco — disse al domestico con calma — fallo passar qui.

Appena il servo si ritirò, il segretario si morse le labbra per lo sdegno.

— Come ha potuto sapere dove abito? — mormorò balzando dal letto.

In quella il domestico ann unziava Cecchino.

Il barabba entrò rigirando il cappello fra le mani.

— Vogliate avermi per iscusato, signor Michele, se vì disturbo a quest' ora.

Il segretario, invece di porgli mente, attese che l'uscio fosse chiuso, poi afferrò per un braccio il mariuolo.

— Come sai tu il mio nome e come ti trovi qui? — chiese in tuono minaccioso.

Cecchino non si sgomentò, si pose a ridere e rispose:

— Io non lavoro mai per altri senza averne una garanzia: stamani vi ho pedinato e quando vi vidi entrare dal cancello della villetta, ritornai sui miei passi, per aver qualche cosa da riferirvi questa sera. Il vostro nome me l' hanno detto i domestici, quando diedi loro i vostri connotati. Capperi! Adesso che so chi siete vi servo più volentieri.

Il barabba rise di nuovo: la faccia di Michele rimase cupa.

— Orsù, giacchè sei qui, hai qualche cosa a dirmi?

— Che la piccina è proprio sempre nascosta in camera della Borgna e che il colpo fra me e Tonio è combinato.

Nemmeno uno dei muscoli del viso di Michele si contrasse.

— Per quando? — chiese freddamente.

— Per sabato notte. Se vi sarà qualche cosa in contrario, io o il mio amico verremo ad avvertirvi, senza che vi disturbiate a ritornare all' osteria.

Gli occhi di Michele lampeggiarono un istante, poi ripresero la loro espressione fredda, crudele.

— Va bene — disse — non c' è altro?

Cecchino rigirava il cappello fra le mani.

— Volevo avvertirvi che io non ho in tasca il becco di un quattrino ed avrei da fare delle spese.

Michele parve turbato e corrugò la fronte; tuttavia trasse da un portafoglio due biglietti da dieci lire e li pôrse a Cecchino, che seguiva ogni suo movimento col sorriso sulle labbra.

— Ti bastano questi?

— Certamente, per ora — rispose il mariuolo con un cinismo, che impensierì Michele.

Un momento dopo il barabba si accommiatò ed il segretario, abbandonatosi su di una sedia, rimase assorto nelle sue meditazioni, finchè il domestico che aveva riaccompagnato Cecchino fu di ritorno e gli chiese se voleva cenare.

Michele accennò di sì col capo, ma il suo spirito era talmente preoccupato, che assaggiò appena le vivande che gli posero dinanzi.

Bevve però moltissimo, poi si coricò.

La mattina dopo, pagata e congedata la servitù, si recò in città e non ritornò alla villetta che alla sera.

Ma i giorni seguenti non si mosse di casa; era però agitatissimo, non trovava riposo; aveva il viso accigliato e le sue pupille mandavano una luce sinistra.

La sera del sabato, Cecchino tornò in compagnia di Tonio.

Michele li ricevette in una stanza a terreno e si guardò bene dal dire che si trovava solo.

— Sono venuto io ad aprire — esclamò — per non dare sospetti.

— Avete fatto benissimo — rispose Cecchino — e noi veniamo ad avvisarvi che tutto è preparato per questa notte.

Michele divenne livido e un' espressione d' inquietudine gli passò sul viso.

— Badiamo di non commettere imprudenze — mormorò.

I due barabba alzarono le spalle.

— Non abbiate paura — disse Tonio — quando abbiamo combinata una cosa noi, è andata sempre bene: voi non avete nulla a temere ed a noi preme troppo il collo.

L' emozione di Michele era stata istantanea: egli tornò padrone di sè stesso.

— Volete regolare i conti? — chiese tranquillamente.

— Se non vi incomoda — rispose Cecchino — ma prima diteci: avete pensato alla vettura?

— Ho un calesse assai comodo che guiderò io stesso, e servirà a meraviglia.

— Tutto va dunque per il meglio — replicò Cecchino — e giacchè non vi scomoda contarci il denaro…

Michele aveva già tolto il portafoglio di tasca.

— Abbiamo detto cento lire anticipate.

— Duecento, signore — esclamarono ad un tempo i due barabba.

— Non è questo il convenuto — aggiunse Michele.

— Eh! per un signore vostro pari che fa qualche cosa di più, o di meno? — interruppe Cecchino — E se veramente desiderate tanto di avere in vostro possesso quella, fanciulla, non state a lesinare sul prezzo; dovete pensare che noi per soddisfarvi arrischiamo la pelle.

Michele ormai era preso al laccio da quei due mariuoli, e capì che la resistenza sarebbe tornata a suo danno. Provò un fremito d' ira e di ripugnanza, ma si contenne, nè protestò. Stese invece un biglietto da cento lire a ciascuno dei due barabba.

Gli occhi loschi di Cecchino scintillarono di una fiamma di cupidigia: quelli di Tonio si chinarono al suolo, mentre cacciava lestamente il foglio di banca nella tasca dei pantloni.

Quand' essi si furono allontanati, Michele provò come un sinistro presentimento.

Avrebbe voluto richiamarli indietro, ma non era più in tempo.

Riandava con un segreto fremito il passato è mormorava:

— E dire che avrei potuto vivermene tranquillo, quieto, con quanto avevo raccolto dalla generosità del duca… Perchè mi venne l' idea di rivedere quella donna fatale? Perchè ho conosciuta sua figlia?

Aveva la tentazione di credersi zimbello d' un sogno. Nonostante, dopo alcuni momenti di perplessità, riprese la sua baldanza, e non pensò più che al desiderio di avere in suo potere la contessina Edvald. Chiuse gli occhi come se proprovasse un abbagliamento.

— Mia, mia per sempre! — mormorò.

A mezzanotte, Michele uscì dalla villetta nel suo calesse: l' aria era pungentissima, ma egli non parve accorgersene.

L' oscurità era intensa, tanto che si distingueva a malapena la strada. Giunse senza inconvenienti al Borgo del Rubatto. Il buio era ivi talmente fitto, che dovette passare due volte innanzi alla bettola della Borgna per scorgerne l' insegna e andò ad appostarsi a circa cento passi, nel luogo designatogli da Cecchino.

Il silenzio era perfetto: ciò rese un po' di tranquillità al suo animo contrubato.

Rimase nel fondo del calesse, tendendo l' orecchio ai minimi rumori.

D' improvviso gli parve di sentire come un acuto grido che fendesse l' aria.

Ascoltò tremante e credette essersi ingannato.

Il grido non si ripetè. Passò un' altra ora, e Michele incominciava a perdere la pazienza, perchè il freddo gli aveva irrigidite le mani, paralizzandone i movimenti, quando scorse due ombre avvicinarsi rapidamente.

Erano Cecchino e Tonio: il primo di essi teneva un fagotto nelle mani.

— Ebbene? — chiese Michele con voce rauca, sporgendosi all' infuori.

— Il colpo per questa notte andò fallito — rispose Cecchino, con tono convulso — non ci è riuscito a far tacere l' ostessa, nè mettere il bavaglio alla piccina; abbiamo dovuto fuggire, perchè temevamo di essere sorpresi, ma io ho tolti alcuni abiti perchè possiate vedere se appartengono alla fanciulla che cercate, domani verremo a riferirvi il resto, per ora è meglio che vi allontaniate subito.

Gettò il fagotto nel calesse, e prima di dar tempo a Michele di rispondere, il barabba si allontanò correndo coll'amico.

Michele, stordito, bestemmiando, sferzato il cavallo, riprese la via della casetta. Così nulla gli andava a seconda: tutto congiurava contro di lui.

Quando si trovò nella sua stanza, svolse il fagotto consegnatogli da Cecchino, e riconobbe l' abito di Tecla. Ma vi era altresì un fazzoletto ed un paio di calze grossolane, che non potevano appartenere alla contessina.

— Non importa — mormorò il segretario fra i denti — ormai sono certo che i due barabba non si sono ingannati… è proprio lei che è nascosta in casa della Borgna.

Michele non dormì nella notte ed attese con impazienza il giorno, per sapere da Cecchino i particolari dell' avvenuto.

Ma le ore passavano ed i due mariuoli non comparivano.

— Che sia loro accaduto qualche cosa? — mormorò fra sè, passeggiando agitato per la stanza.

Infine, non potendo più dominare la sua impazienza, uscì di casa pensieroso e cupo, come chi teme la fatalità, si diresse verso il borgo del Rubatto.

Vi era appena giunto, che vide la folla accalcata dinanzi alla porta dell' osteria.

Il corpo di Michele fu agitato da un tremito convulso.

Cos' era mai accaduto? Interrogò alcune donne e seppe i particolari del dramma avvenuto nella notte.

I capelli si drizzarono sulla fronte del segratario.

— Dite che la fanciulla non è morta? — balbettò con voce strozzata.

— Nossignore — rispose una popolana, soffiandosi sulle dita agghiacciate — però si accerta che vi sia poca speranzo; oh! ecco il dottore che se ne va.

Fu in quel momento che Michele, colto da un vertiginoso terrore, senza forse avere la coscienza di quello che si facesse, erasi avvicinato al medico per interrogarlo.

Ma allo sguardo sospettoso rivoltogli dal dottore, alle risposte brevi e secche, il suo spavento aumentò.

Voleva allontanarsi da quel luogo, ma qualchecosa più forte della sua volontà lo tratteneva.

Malediva gl' infami mariuoli che lo avevano ingannato, giurava di denunziarli ed al tempo stesso ripeteva fra sè:

— Perchè non vado a reclamare Tecla? Infine io sono il segretario di sua madre… ho pieni poteri sulla giovine, che non ha altri ormai per proteggerla all' infuori di me…. siì, ho deciso.

Ed a passo fermo rifece il cammino verso l' osteria.

La camera era lievemente illuminata da una lucerna posta in un angolo; su di una vecchia poltrona a bracciuoli stava Umberto, che all' apparenza sembrava sonnecchiare.

Presso al letto, colla testa appoggiata al capezzale dell' amica, si teneva sempre Miranda.

Dal momento che il dottore era partito, la contessina Edvald non aveva più fatto che qualche leggiero movimento. Ad intervalli le sue labbra si aprivano come se volesse parlare, ma non ne usciva che un incomprensibile mormorìo.

Miranda aveva sorbita qualche tazza di brodo, ma senza mai muoversi dal suo posto, studiando i movimenti dell' amica con estrema attenzione, toccandole la fronte con la sua fresca mano, facendole sorbire a goccia a goccia la medicina ordinata.

Così era trascorsa quasi tutta la notte: all' alba tornò il dottore, e potè constatare nell' ammalata un certo miglioramento.

La febbre era quasi scomparsa, il respiro meno penoso; dormiva tranquilla.

— Quando si sveglierà — disse piano il medico all' orecchio di Miranda — vedrete signorina che sarà tornata pienamente in sè

La giovinetta trattenne un grido di gioia, ma la sua mano strinse quella del dottore.

Il vecchio commosso si allontanò dal letto per avvicinarsi ad Umberto, che si era alzato.

— Non sta peggio? — mormorò il giovane.

— Va anzi meglio… e ve n' è proprio bisogno, per scoprire la verità. Sapete che si sono fatti diversi arresti, fra cui quello di un certo Michele, che si dice segretario della contessa Edvald ed il cui nome era sulle labbra della delirante.

Lo sguardo di Umberto scintillò.

— Come avvenne l' arresto?

— Ecco quanto ne seppi dal delegato. Quel Michele si era presentato a reclamare la fanciulla. Naturalmente fu trattenuto ed interrogato per sapere in qual modo la sventurata si trovava qui. Le sue risposte incomprensibili, le contraddizioni in cui cadde, la sua stessa aria stravolta, insospettirono il delegato, che pensò bene con una scusa ritenerlo, e giunto un superiore, fu per ordine di questi posto in osservazione. Colui urlò, strepitò tanto, insultando gli agenti, che fu creduto pazzo, ma avendolo minacciato di condurlo al Manicomio e mettergli la camicia di forza, si calmò subito, ed ora, sorvegliato da due guardie, dorme tranquillamente in una stanzetta oscura, attigua all' osteria.

Umberto aveva ascoltato con viva attenzione: si era fatto pallido.

— Perchè non l'hanno condotto in carcere? — chiese fremendo.

— Eh! mio caro, non vi sono prove contro di lui, e perciò si attende che quella fanciulla torni in sè.

Umberto, senza saperne il perchè, sentì crescere l' antipatia segreta, che già aveva provata per Michele.

Rimase in silenzio.

Poche ore dopo, Tecla apriva gli occhi.

Miranda che si era chinata ad osservarla, la chiamò dolcemente a nome.

Tecla la fissò dapprima con uno sguardo inquieto, gettandosi indietro i folti capelli, che coprivano quasi tutto il guanciale, facendo spiccare ancora più il suo viso alabastrino, poi, a poco a poco, quegli occhi dilatati, fissi, si animarono, un raggio di gioia si diffuse sul di lei viso, dalle labbra le sfuggi un grido acuto:

— Miranda!

L' amica l' avvolse colle sue braccia, le appoggiò la bocca sulle guancie:

— Sì, sono io, che non ti lascerò mai più.

Tecla cercò parlare, ma quella gioia improvvisa, troppo forte per lei, la fece svenire.

Miranda la vide rinchiudere gli occhi, e si spaventò.

— Dottore, dottore!

Il vecchio accorse.

— Non è nulla — disse appena ebbe gettato lo sguardo su Tecla — si riavrà subito, e badate, signorina, ora ci attendiamo molto da voi.

— Che debbo fare?

— Cercare che la vostra amica vi riveli quanto è qui successo: credendosi sola con voi, non esiterà, noi non ci faremo vedere.

Miranda assentì col capo, il dottore si allontanò subito e dopo scambiate poche parole con Umberto, lasciò un momento la stanza.

Quando ricomparve, era in compagnia del Procuratore del Re.

I tre uomini si ritirarono nello stanzino stesso che aveva servito agli assassini.

La lucerna si era spenta e un debole raggio di luce mattutina illuminava la camera.

Tecla non tardò a riaversi: un po' di sangue le tinse le gote, le sue labbra ripeterono:

— Miranda.

— Sono qui, guardami.

— Ah! dunque non sogno, sei proprio tu…. che vieni a salvarmi… oh! quanto ti ho chiamata, se tu sapessi gli orribili pericoli corsi.

Si era sollevata alquanto sul letto. Miranda le coprì le spalle colla sua pelliccia.

Tecla si guardava attorno inquieta.

— Ma dove sono?

Ad un tratto parve ricordarsi, ed un' espressione di terrore contrasse i suoi lineamenti.

— Dio, Dio mio, ho forse sognato? Hanno uccisa la mia benefattrice, io stessa fui colpita.

Si guardò il petto, si accorse di essere fasciata e sulla benda vi erano macchie di sangue.

— Ah! è la realtà, adunque, egli è entrato qui.

Miranda ebbe uno spaventoso sussulto.

— Tu conosci l' assassino?

— Sì… sì… voglio dirti tutto, non consigliarmi di tacere, bisogna che parli, perchè soffoco… e poi… quella povera donna che mi aveva salvata deve essere vendicata… lo voglio… promettimelo…

Miranda l' abbracciò.

— Te lo prometto… ma calmati, Tecla, del resto non avrai forze bastanti per farmi la tua confessione.

Un indefinibile sorriso sfiorò le labbra della fanciulla.

— Ne ho avuta per fuggire, per sottrarmi all' orribile destino che mi sovrastava — rispose — perchè, tu non lo sai, mia madre è partita… lasciandomi in balìa di un uomo che io odiavo… un uomo che voleva abusare della mia posizione per perdermi, per costringermi a sposarlo…

— Oh! mio Dio… e tua madre lo permetteva?

— Mia madre!!

Quest' esclamazione di Tecla rivelò tanto strazio, che Miranda si sentì squarciare l' anima ed i tre uomini che ascoltavano ne furono dolorosamente sorpresi.

— Io avevo promesso di tenere questo segreto sepolto in fondo al cuore — aggiunse la fanciulla — ma soffocherei se non lo rivelassi a te.

E con parole, frasi interrotte, a momenti vibranti d' indignazione, la fronte corrugata, lo sguardo cupo, in altri pieni di amarezza, di sconforto, che le facevano salire le lacrime agli occhi, raccontò tutto quanto era seguìto, l' odioso attentato, di cui stava per esser vittima.

Miranda er fuori di sè; nella sua vita tranquilla, non avrebbe mai sognato in creature umane, tanta bassezza, tanta perfidia.

Ed era così nobile il suo animo, che trovò ancora una parola d' indulgenza per quella madre perversa.

— Chissà che ella non sia stata istigata dal suo segretario — interruppe in un momento, in cui Tecla prendeva un po' di riposo. — Chissà con quali arti si era impadronito della volontà di tua madre, piegandola alla sua?

— Hai ragione, è lui il vero colpevole… ed io, piuttosto che cadergli nelle mani, preferivo la morte… se quelle maschere non mi avessero inseguita, io non mi sarei rifugiata qui.

Miranda l' interrogò con ansia.

— E Michele giunse a scoprirti? Fu lui che uccise quella disgraziata ostessa ed attentò alla tua vita?

Tecla provò un brivido di terrore, i suoi occhi si dilatarono smarriti.

— Sì, sì — ripetè con voce affannosa — eppure mi sembra ancora di aver fatto un sogno spaventevole, e tutto ciò che mi accadde è così confuso nella mia mente, che se non sentissi il dolore della ferita, non vedessi questo sangue, non mi trovassi in questa camera, con te vicina, non crederei fosse vero.

Miranda la baciò.

— Cerca di schiarire i tuoi ricordi, Tecla, e se non ti senti stanca, dimmi ciò che è qui accaduto.

Tecla abbandonò la sua mano in quella dell' amica.

— Oh! è orribile, sai, è orribile — esclamò.

“ Eppure mi ero coricata così felice, sapevo che tu saresti giunta all' indomani e mi ritenevo salva.

“ Tu avevi udito il grido disperato della tua povera amica, accorrevi in suo soccorso….

“ Io ti benedicevo dal profondo dell' anima e parlavo di te colla Borgna, che mi ascoltava mesta, colle lacrime agli occhi.

“ — Che avete? — le chiesi con dolcezza abbracciandola.

“ — Oh! scusatemi — balbettò — sono egoista, ma che volete: avevo incominciato a volervi bene come se foste mia figlia e nel pensare che domani partirete colla vostra amica e non vi verdrò più, mi sento come un nodo alla gola e…

“ Non finì: si mise a piangere. Ero commossa e baciandola vivamente:

“ — Credete che io possa dimenticarvi? — le dissi. — Vi scriverò spesso, verrò a trovarvi e quando vi deciderete ritirarvi dal commercio e Miranda avrà marito, andremo insieme ad abitare in campagna…

“ La povera donna finì per tergere le lacrime, sorridere.

“ Però, sentendosi spossata, fece chiudere l' osteria alle dieci, licenziò, come al solito, i garzoni e la serva, cenammo insieme, poi si andò a letto.

“ La Borgna non tardò ad addormentarsi; io, pensando a te, a stento riuscii a chiudere gli occhi.

“ Avevamo lasciata accesa la lucerna sul tavolino.

“ Non so da quanto tempo dormissi. Mi svegliai ad una scossa del letto ed aprendo gli occhi, vidi scenderne l' ostessa.

“ — Vi sentite male? — chiesi ansiosa.

“ Ella si volse.

“ — No, no, mi è parso di udire un rumore nel camerino, voglio accertarmene.

“ — Saranno i topi — esclamai sorridendo, senza muovermi.

“ Ma il riso mi si gelò sulle labbra, perchè in meno che io te lo racconti, due uomini, col viso coperto da un fazzoletto, si slanciarono nella stanza.

“ Uno di essi, armato di coltello, balzò subito sull' ostessa: udii un tonfo, un gemito, mentre l'altro si gettava su di me, cercando imbavagliarmi.

“ Feci uno sforzo potente per liberarmi da quella stretta: riuscii a gettare un grido.

“ — Tacete, o ne va della vostra vita — disse una voce rauca, soffocata — sono Michele — lo sapevate bene che mi sareste sfuggita invano, che vostra madre vi aveva affidata a me, che adesso vi condurrò via.

“ L' idea di cadere nelle mani del miserabile, raddoppiò le mie forze, ero riuscita a liberarmi da lui, ed ansante, smarrita:

“ — Soccorso, soccorso! — gridai.

“ Non ebbi il tempo di aggiungere altra parola, che mi sentii squarciare il petto, il sangue mi spruzzò sul viso, poi non ricordo più nulla. ”

Miranda, atterrita, stringeva l' amica fra le braccia.

Nella stanza entrarono il dottore, Umberto ed il Procuratore del Re.

Tecla, vedendo quei tre uomini serii e gravi, ebbe paura e fremette in tutto il corpo.

Miranda si affrettò a rassicurarla.

— Calmati, tu non hai nulla a temere — disse con soavità — questo è mio fratello, col quale ho parlato così spesso di te e desiderava tanto conoscerti.

Il viso di Tecla si colorì; ma la sua confusione era così evidente, che Umberto si affrettò ad aggiungere:

— Mi rincresce però di essere giunto in un momento così luttuoso, tutavia qui il dottore assicura che siete affatto fuori di pericolo.

— Sì, figliuola mia — replicò il buon vecchio — e dovete scusarci, se ci presentiamo senza permesso, ma si aspetta che voi illuminiate la giustizia, perchè l' assassino della sventurata Borgna ed il vostro non vadano impuniti.

Presentò a sua volta il Procuratore del Re, il quale le disse gravemente:

— Signorina, dovete pure perdonarci se abbiamo usata l'indiscrezione di ascoltare nascostamente il racconto dell'accaduto fatto alla vostra amica.

Tecla, ricordando le sue rivelazioni, si nascose il viso fra le mani ed un singulto le sfuggì dal petto.

Miranda, commossa, la baciò.

— Non affannarti così, sii calma, tu non hai nulla da dover arrossire.

— Oh! mio Dio, se si arresta l' assassino, si saprà che mia madre mi ha lasciata in sua balìa, ed io passerò per un cattiva figlia.

Ed alzando bruscamente il capo.

— No, non è vero che quell' uomo fosse Michele — proruppe. — Come potevo riconoscerlo, se aveva il viso coperto da un fazzoletto?

— Povera fanciulla — rispose il Procuratore del Re, mentre Miranda strinse affannosa fra le braccia l' amica che singhiozzava — voi temete di compromettere vostra madre; ma essa non poteva sospettare l' orribile delitto di stanotte, come non avrà creduto quell' uomo un miserabile affidandovi a lui.

— Oh! no, no, — rispose subitamente la giovinetta, il cui viso si rischiarò di una luce di speranza — mia madre è stata una vittima di Michele.

— Una ragione di più — interruppe il magistrato — pur denunziare il colpevole, vendicherete in tal modo anche vostra madre…

Il cervello di Tecla era ancora un po' debole, risentiva l' impressione di terrore provata nella notte.

Volgeva gli occhi smarriti su Miranda.

Questa faceva ogni sforzo per mantenere il suo sangue freddo.

— Tu non hai nulla a temere — le sussurrò con dolcezza — ed è assolutamente necessario, che un delitto così grave, non vada impunito.

Tecla soffocò un singhiozzo.

— Ebbene, confermo la mia deposizione — balbettò.

— E sosterreste un confronto con quell' uomo?

Tecla gettò un grido, stese le braccia.

— No, non voglio vederlo, morrei….. Salvami, Miranda, salvami da lui.

Si svenne fra le braccia dell' amica.

— Bisogna cessare l' interrogatorio — disse gravemente il medico — questa fanciulla ha duopo di riposo, di molta tranquillità. Ormai Michele non vi può sfuggire, e non vi sarà difficile ritrovare il suo complice.

Il magistrato si ritirò con Umberto ed il dottore rimase a prestare le sue cure a Tecla.

Lo svenimento fu breve, ma la poveretta era spossata. Aperti languidamente gli occhi, mormorò:

— Ho sete.

E, ingoiato che ebbe un cucchiaio di medicina, si assopì.

— Per oggi non bisogna più turbarla — disse il medico ritirandosi.

Umberto risalì poco dopo. Miranda l' attendeva, e, attiratolo vicino alla finestra, gli gettò le braccia al collo e proruppe in lagrime.

Il giovane ne fu profondamente commosso.

— Non piangere così — mormorò baciandola — ormai la tua amica è fuori di pericolo.

— Ma… hai sentite le sue orribili rivelazioni? — replicò Miranda cercando frenare i singhiozzi — Ah! fratel mio, bisogna impedire che il nome della contessa Edvald venga pronunziato, cercare di difenderla, perchè la macchia di lei non si estenda alla figlia… avvertirla, sviarne le ricerche…

Umberto si era seduto ed aveva attirata la fanciulla sulle sue ginocchia.

— Io avevo già pensato, cara sorella, a tutto quello che tu dici, ma l' inchiesta è incominciata…

— Che importa? Si può dare un giro differente alla causa, parlar solo del delitto della Borgna.

— Se si potesse fare, credi che si esiterebbe? Tuttavia ti prometto fare il possibile.

— Oh! quanto, quanto sei buono, — esclamò con effusione Miranda, — quanto ti dovremo io e Tecla…

E guardando furtiva verso il letto e vedendo l' amica dormire, sempre tranquilla:

— Ebbene, che ne pensi di lei?

Umberto si fece un po' rosso ed abbozzò un sorriso.

— Che la sua bellezza è mille volte superiore a quella di Minia, sebbene la rassomiglianza sia sorprendente, e che Tecla ha la tua bell' anima e purezza.

Miranda avrebbe mandato un grido di gioia, se non avesse temuto di risvegliare l' amica.

Si contentò quindi di abbracciare affettuosamente, in silenzio, il fratello, mentre pensava:

— Chissà che da questa sventura debba nascere la felicità di entrambi!

Michele, come sappiamo, era chiuso e guardato a vista in una stanzetta attigua all' osteria. Dapprima aveva gridato, protestato, ingiuriate le guardie, poi finì per calmarsi, per lasciarsi cadere sopra un vecchio divano, che scricchiolò sotto il suo peso.

Il delegato gli aveva detto:

— Se ho un consiglio da darvi, è quello di rimanere tranquillo, fino a quando la poveretta si troverè in grado di contermarci quanto ci avete detto.

Michele comprese che aveva ragione. Infine, diceva fra sè, che Tecla non poteva negare di essere la figlia della contessa Edvald, e che era fuggita di casa senza alcun motivo, giacchè egli non aveva mai usati verso di lei che dei modi rispettosi e la fanciulla doveva ignorare i suoi accordi con Livia.

Di più, Tecla non poteva sapere che gli assassini della Borgna ed i suoi, fossero ivi entrati per impadronirsi di lei.

Michele aveva veduto nello stanzone vicino, il cadavere dell' ostessa, il cui volto uon era stato ricoperto dal lenzuolo.

Quegli occhi, smisuratamente dilatati, esprimenti ancora il terrore, pareva che si fossero posati con orribile fissazione su di lui: quella bocca semiaperta, contorta, livida, sembrava volesse muoversi, maledirlo.

Michele aveva rivolto il capo per sottrarsi a quello spaventoso spettacolo.

Ma lo sguardo vitreo della morta lo perseguitò tutto il giorno: non poteva pensare ad altro.

Verso sera fece chiamare il delegato per sapere se Tecla aveva ripreso conoscenza.

— Credo di sì, ma non si trova ancora in grado di parlare.

— Dovrò dunque passare qui la notte? — chiese Michele, cercando invano frenarsi. — Non sentite che par di essere in una ghiacciaia?

— Bisogna che abbiate pazienza e vi contentiate di una coperta di lana, che vi verrà subito portata.

Michele lasciò sfuggire un segno di assentimento disdegnoso, poi aggiunse freddamente:

— Non mi sarà permesso nemmeno mangiare?

— Oh! in quanto a ciò, potete ordinare quello che volete.

Chiamò una guardia perchè lo facesse servire. Michele gli consegnò un biglietto da dieci lire, e mezz' ora dopo sul tavolo zoppicante, che era innanzi al divano, fu stesa una tovaglia, sopra cui un garzone di locanda pose due piatti fumanti, del pane, una bottiglia di vino.

Poi accese una lucerna ad olio.

Michele non trovò altro partito a prendere che mangiare con appetito e vuotare la bottiglia, dopo di che, avviluppatosi nella coperta, si distese sul divano ed oppresso dal sonno e dalla stanchezza, si addormentò.

Ad un tratto si sentì scuotere bruscamente ed aprendo gli occhi scorse alcune guardie, una delle quali lo teneva ancora per un braccio e gli disse:

— Favorite, signore, alzarvi e seguirci: abbiamo l' ordine di condurvi con noi.

Michele, senza sapere il perchè, rabbrividì e alcune goccie di sudore gli corsero sulla fronte.

Tuttavia, rialzandosi, rispose con fierezza:

— Vi seguirò, ma non toccatemi: dove dobbiamo andare?

— Lo vedrete.

La breve, secca risposta, infiammò il cervello di Michele. Però avendo la mente più riposata del giorno prima, essendo in grado di riflettere, non pensò a far resistenza.

— Andiamo — riprese con una certa sfrontatezza.

Due guardie gli si posero ai fianchi, due altre lo seguirono.

Gli fecero nuovamente attraversare l' osteria. Dinanzi alla porta, custodita da altre guardie, vi era una vettura di piazza che attendeva.

Un gran numero di persone erano fermesul marciapiede, ingombrando la strada.

La serva dell' osteria, colla faccia ancora stravolta, le mani sui fianchi, perorava in mezzo alle comari, alle quali non era riuscito vedere il cadavere sfigurato della Borgna e descriveva l' orribile spettacolo con dei colori così foschi da far venire la pelle d' oca.

Ma quando Michele comparve in mezzo alle guardie, la donna si tacque, e tutti gli sguardi si portarono su di lui.

Michele vide quelle pupille infiammate, notò dei gesti di minaccia e sentì alcune voci che dicevano:

— È l' assassino!

— Canaglia, veste come un signore.

— Bisognerebbe levargli la pelle.

— Birbante!

Michele stordito, fulminato, non trovò una parola per reagire.

Si lasciò cacciare macchinalmente in vettura, dove lo seguirono tre guardie: una quarta prese posto accanto al cocchiere.

Lo sportello fu chiuso, rialzati i vetri e la carrozza si allontanò tra i fischi, le imprecazioni della folla, che pareva volesse far giustizia sommaria di Michele.

Livido, febbrile, egli si domandava se non era in preda ad un sogno, e fissava gli occhi smarriti su l'una o l' altra guardia, non osando interrogarle.

Poi un rapido pensiero gli attraversò la mente.

Cecchino e Tonio erano forse stati arrestati e per salvarsi facevano cadere la responsabilità di quel delitto sulle sue spalle?

Sì, doveva essere così!

Ma Tecla, il cui stato, aveva sentito dire, non era così grave come dapprima pareva, ricuperando le forze, la lucidità di mente, avrebbe pure asserito che l' assassino non era lui.

Quest' idea lo rinfrancò alquanto, gli fece riprendere la sua presenza di spirito.

Non disse una sola parola durante il tragitto dall' osteria alle carceri cellulari, non si degnò interrogare le guardie.

Tuttavia, quando la vettura si fermò dinanzi alla prigione e fu invitato burberamente a discendere, provò un' orribile stretta al cuore, un brivido ghiacciato gli percosse le vene, ebbe paura.

Le guardie, senza cerimonie, appena Michele fu introdotto nella stanza che serviva da cancelleria, si affrettarono a vuotargli le tasche.

Egli si lasciò spogliare macchinalmente, senza muovere alcuna lagnanza, e condurre alla cella designata senza mostrare nè stupore, nè dispiacere.

Ma quando si trovò solo cadde abbattuto su di una seggiola.

Egli era sicuro che i suoi complici erano stati arrestati e che a loro doveva la sua prigionia. Questo pensiero gli faceva bollire il sangue, gli poneva addosso la febbre….. Invano cercava rivolgere tutte le facoltà della mente a cercare un mezzo di togliersi d' impaccio, di essere rilasciato libero: uno strano presentimento gli ripeteva che Cecchino e Tonio lo avevano perduto.

Quando gli fu portato da cena, il vitto stesso della prigione, non avendo chiesto altrimenti, Michele cercò rivolgere qualche interrogazione al carceriere.

Questi lo guardò senza dir nulla ed uscì dimenando il capo.

Passarono tre giorni d' ansia, di torture per Michele. Nessun cambiamento si era effettuato nella sua posizione, nessuno chiese di lui.

Credette di essere dimenticato, ma alla mattina del quarto giorno, mentre non era ancora ben svegliato, nè aveva avuto il tempo di riordinare le proprie idee, fu da due guardie condotto dalla sua cella all' uffizio del giudice istruttore.

Michele ne provò quasi un sollievo. Era stanco di quel mistero che l' avviluppava, ne desiderava ardentemente la spiegazione.

Appena entrato nel gabinetto, disse con aria spavalda:

— Ebbene, signor giudice, fin quando fate conto di tenermi prigioniero? La contessina Tecla non s' è ancora riavuta? Non mi sarà dato vistiarla?

Il magistrato che sedeva dinanzi ad una pesante scrivania, carica di scartafacci, alzò appena il capo.

— Signore, ricordatevi che siete qui per essere interrogato, non per interrogare: sedete.

Gl' indicò una sedia a breve distanza e fece un cenno allo scrivano che si pose ad un piccolo tavolino, nell' angolo più oscuro della camera.

Michele impallidì a questi preliminari, e si mise a tremare come una foglia, sebbene senza ragione.

Però non volle dare a divedere i suoi timori.

— Ma io credo — esclamò — di avere diritto a chiedere, perchè mi si trattiene in carcere.

— Un po' di pazienza e lo saprete. Intanto ditemi il vostro nome, età, luogo di nascita.

— Il mio nome è Michele Colombo, ho trentadue anni, credo di essere nato a Milano, ma non posso affermarlo: sono dell' Ospizio dei trovatelli e registrato come figlio d' ignoti genitori.

— Non avevate alcun segno sopra di voi che potesse un giorno farvi riconoscere?

— Nessuno.

— Come avete scorsa la vostra infanzia?

— Fui allevato da una contadina dei dintorni di Gallarate, una buona donna che mi amò come se fossi suo figlio, mi fece imparare a leggere, a scrivere, e che forse sperava sarei stato il sostegno della sua vecchiaia.

La voce di Michele si era fatta lievemente commossa, però riprese subito con una certa asprezza:

— Fu mia la colpa se la natura mi aveva dotato di una testa di fuoco, messo nell' anima delle ambizioni secrete, inesplicabili?

“ Quando coi calzoni laceri, scamiciato, esausto di forze per aver lavorato sotto i cocenti raggi del sole, mi sdraiavo all' ombra di una pianta, invece di abbandonarmi al sonno, guardavo l' orizzonte lontano, sospiravo, sognavo ad occhi aperti nuove contrade, una fortuna colossale, immensa…

“ Leggevo avidamente le storie di tutti coloro che dal nulla erano riusciti ad inalzarsi al disopra degli altri, ad accumulare ricchezze, farsi un nome…

“ — Perchè non potrei riuscire anch' io? — mormoravo.

“ La mia esistenza monotona, sempre eguale, finì col stancarmi. A furia di stenti, avevo raggranellato una cinquantina di lire, che allora mi parvero un tesoro ed un giorno me ne fuggii chetamente dalla povera casa, che mi aveva ospitato per sedici anni. ”

Michele si fermò per fissare gli occhi sul magistrato, che non l' aveva mai interrotto.

— Devo continuare?

Il giudice istruttore fece un sogno affermativo.

Michele pareva evocare con piacere quei ricordi, mostrare come era riuscito a crearsi una posizione.

“ — Il mio sogno era di recarmi a Parigi — continuò. Come vi giunsi, il tempo che v' impiegai, mi troverei imbrogliato a spiegarvi.

“ Ricordo solo che quando mi trovai in quella grande città, dove non conoscevo nessuno, dove non sapevo neppur leggere il nome delle vie e mi riusciva difficile spiegarmi, provai un immenso sconforto, un momento di disperazione.

“ Entrai in una chiesa deserta, sedetti su di un gradino di pietra e nascosto il volto fra le ginocchia, mi misi a piangere.

“ Ad un tratto sentii battermi una mano sulla spalla ed alzando gli occhi lacrimosi, vidi un prete ancora giovine, dalla faccia pallida, melanconica.

“ — Che avete, figliuolo? — mi chiese con bontà.

“ — Sono un disgraziato italiano — balbettai alla meglio in francese — che venni qui per tentare la fortuna e mi trovo privo di mezzi, di tutto; perciò cercai un rifugio nella casa del Signore.

“ — Ed io, suo umile servo, vi offro a nome suo asilo e protezione — mi rispose il prete — venite con me.

“ Mi condusse alla sua abitazione, mi tratto come un fratello.

“ Nulla io gli tacqui del mio essere, non gli nascosi le mie speranze.

“ Mi rimproverò per essere fuggito dalla mia benefattrice, ma vedendo la ferma risoluzione di giungere a qualche cosa, mi propose di rimanere per qualche tempo presso di lui, per completare la mia istruzione.

“ Passai sei mesi, a capo dei quali, il buon prete, assalito da grave malattia, morì; ma ebbe il tempo di vergare alcune righe, colle quali mi raccomandava al duca di Laval. ”

Michele si fermò ancora.

— Ed in casa del duca siete rimasto moltissimi anni? — disse il giudice istruttore svolgendo alcune carte.

— Fino alla morte di lui.

— Perchè siete venuto a Torino?

Michele sostenne imperterrito lo sguardo del magistrato.

— Perchè dopo la perdita del mio benefattore non potevo più vedermi a Parigi.

— E sceglieste di preferenza questa città?…

— Non avevo ragione di sceglierne un' altra, perchè la mia idea, coi denari acquistati per la generosità del duca, era di aprire un negozio… e Torino, città commerciale per eccellenza, mi parve adattatissima ai miei intendimenti.

— Che però non poneste in opera — replicò il giudice istruttore.

— Perchè il destino volle m' incontrassi nel principe Cars, amicissimo del mio defunto padrone, che mi conosceva e mi offrì di prendermi come segretario.

Il magistrato non gli staccava mai gli occhi di dosso.

— Il vostro servizio non è durato molto a lungo — disse — e lasciaste il principe Cars, per la contessa Edvald.

— È verissimo, signore, non lo nego. Io non volevo ritornare in Francia col mio nuovo padrone e siccome la contessa Livia lo seppe ed aveva bisogno di una persona a cui affidare i suoi interessi, mi propose di passare da lei…

— Dite piuttosto che essendovi recato più volte al palazzo della contessa da parte del principe Cars ed avendo notata la bellezza della signorina Tecla, formaste il progetto di possederla.

Un rossore ardente salì al viso di Michele.

— Non è vero — esclamò.

Il giudice non parve badare a quell' interruzione.

— Con quell' arte finissima che è una delle vostre prerogative, cercaste d' impadronirvi dell' anima della contessa mostrandovi docile, sottomesso, premuroso, istigando le sue debolezze, assecondandola in tutto, adoperando insomma tutti i mezzi, che vi sembravano adatti per ottenere un giorno quanto desideravate.

Michele si morse le labbra per non lasciar sfuggire qualche ingiuria; disse semplicemente:

— È falso.

— Non è vero adunque che eravate innamorato della signorina Tecla?

Il segretario fece un movimento.

— Ebbene, non lo nego: gli uomini non sono sempre padroni del proprio cuore. Ma l' amor mio per Tecla era tanto grande, quanto onesto: io volevo fare di lei mia moglie.

— E vedendovi respinto non mutaste per questo la vostra risoluzione, e pensaste di ottenere con la forza ciò che l' amore non vi avrebbe mai dato, nè vi fece ostacolo la gioventù, l' innocenza, l' avversione stessa che quella fanciulla vi dimostrava.

Michele volle parlare, ma il giudice istruttore proseguì con impeto:

— Approfittando della lontananza della contessa, che certo aveva ancora troppa fiducia nel vostro onore e leggermente vi affidava la figlia, voi concepiste un piano criminoso.

Ma la fanciulla che si sentiva in pericolo, che spiava ogni vostro gesto, ogni parola, comprese il tranello che volevate tenderle, quando l' ultima sera di carnevale inviaste i domestici e la cameriera in città.

L' idea di rimanere in vostra balìa, spaventò talmente la signorina Tecla, che cercò uno scampo nella fuga e fu in quella notte che si ricoverò nell' osteria della Borgna.

Michele aveva il viso di porpora, i capelli irti sulla fronte.

Eppure ebbe ancora della sfrontatezza.

— Se voi siete così ben informato, perchè interrogarmi? — chiese.

Il sembiante del magistrato si fece severissimo.

— Per sentirlo confermare da voi, per farvi confessare Il vostro delitto.

Michele dette un balzo sulla seggiola.

— Il mio delitto? — ripetè.

— Sì, voi avete saputo che la signorina Tecla si trovava presso la sventurata ostessa: perchè non vi siete presentato a reclamarla?

Michele questa volta s' imbrogliò.

— Io ignoravo dove si fosse rifugiata — disse.

— Allora in qual modo siete venuto a cercare di lei il giorno dopo l' assassinio?

— È facile a comprendersi; mentre andavo in traccia di Tecla sentii parlare del delitto commesso nel Borgo del Rubatto, e dai connotati che mi dettero della fanciulla ferita, ho subito presunto che si trattasse della contessina Edvald.

Un sorriso ironico sfiorava le labbra del magistrato.

— Negherete dunque di aver preso parte a quel delitto, di esserne stato anzi l' agente principale?

— Io! Io! — esclamò Michele alzando di botto la faccia stravolta.

— Sì… voi… che in compagnia di un complice penetraste di notte nella camera della Borgna, passando da un appartamento vuoto della casa vicina, servendovi di grimaldelli, che furono trovati sul luogo, nascondendovi il viso con un fazzoletto.

A Michele si stralunavano gli occhi, stridevano i denti.

— È falso… è falso!

— Tacete, abbiamo le prove. La vostra intenzione era di sorpendere l' infelice ostessa e la fanciulla nel sonno; d' impadronirvi di questa e di mettere l' altra in grado di non opporsi; ma la Borgna si svegliò al rumore che faceste, balzò dal letto e non avrebbe mancato di dar l' allarme. Il vostro compagno, più lesto di voi, la fece tacere con un colpo di coltello che la freddò all' istante, voi credeste chiudere la bocca alla signorina Tecla, pronunziando il vostro nome, ma la sventurata tutto tentò per liberarsi da voi, che esaltato, furente, la colpiste a vostra volta.

Quel cumulo di accuse che piombavano ad una ad una sul suo capo, fulminavano Michele.

Per qualche minuto non si trovò in grado di pronunziare parola, ma i suoi denti mordevano le labbra, delle rughe profonde attraversavano la sua fronte, gli occhi avevano degli strani bagliori.

— È falso… è falso! — ripetè a stento.

— Come va allora che nella perquisizione ordinata alla villetta, tenuta in affitto dalla contessa Edvald, si trovò nella vostra camera il fazzoletto che servì a mascherarvi, l' abito che indossava la signorina Tecla quando fuggì, alcuni oggetti appartenenti alla Borgna?

Il terrore di Michele era al colmo: un sudore copioso gli correva lungo le guancie.

— Persistete ancora a negare? — aggiunse il magistrato.

— Più che mai… interrogate Tecla.

— Non avete ancora compreso che è la vostra vittima che vi accusa? Ah! voi credevate di averla uccisa o per lo meno che lo spavento le avesse alterata la ragione, ma per un fortunato evento la giovinetta sopravviverà per vostra punizione.

— Ah! ella cerca di perdermi perchè mi odia — urlò Michele — ma, vivaddio… io vi svelerò la verità, dovesse pure tornarmi a danno.

Raccontò senz' altro il suo incontro coi due barabba e quanto era avvenuto.

— Io volevo impadronirmi di Tecla — esclamò — ma giuro al cielo che non l' avrei mai fatto con un delitto.

Il magistrato rimaneva grave, severo.

— Se anche ciò che mi raccontate fosse vero — disse — credete per questo d' essere meno colpevol? Voi foste in ogni caso la mano che ha diretto il colpo; coloro di cui parlate, non furono che vostri strumenti, vostri complici.

Michele volle aggiungere altre parole, ma il giudice l'interruppe, e suonato un campanello, ordinò alle guardie accorse di ricondurre il prigioniero alla sua cella.

Tecla era stata trasportata in un' elegante camera, che faceva parte di un appartamento ammobiliato, preso in affitto da Umberto Clementi, in via delle Rosine.

Nella stessa camera eravi un altro letticciuolo, nel quale dormiva Miranda.

Tecla non si trovava ancora in grado di alzarsi, tuttavia passava molte ore del giorno sollevata sui guanciali a discorrere coll' amica, ad ascoltare la lettura dei giornali fatta da Umberto.

La ferita del petto era quasi rimarginata, ma quella assai più dolorosa dell' anima sanguinava sempre.

Non era stato possibile conoscere il luogo di dimora della contessa Livia. Si scrisse alle autorità di Rotterdam, ma ebbero per risposta che ivi non esisteva nessun banchiere del casato designato, che avesse condotta dall' Italia una nobile e bella signora. Si fecero altre ricerche inutili, tanto che si ebbe il sospetto che Livia fosse stata assassinata e ne avessero sepolto nascostamente il cadavere.

Tecla prima di lasciare l' osteria della Borgna aveva dovuto subire diversi interrogatorî ed un confronto con Michele.

Ci volle tutta la dolcezza di Miranda e la promessa di Umberto di starle vicino, perchè acconsentisse a rivedere quell' uomo.

Quando comparve in mezzo alle guardie, seguìto dal giudice istruttore, dal cancelliere, gli occhi di Tecla diventarono fissi, si dilatarono orribilmente, le sue labbra impallidirono, tremarono.

Dal canto suo Michele, vedendo vicino alla fanciulla Umberto e la sorella, non potè trattenere un grido di rabbia; i suoi occhi scintillarono sinistramente in fondo alle loro profonde orbite; le labbra si contrassero.

Se fosse stato libero, si sarebbe lanciato sul giovine, ma trovandosi impotente si mise a scagliare un violento insulto.

— Mi avete fatto venir qui, perchè vedessi la signorina col suo ganzo! — esclamò.

Tecla non lo comprese, tanto era il terrore che la dominava, ma Miranda impallidì, mandò un' esclamazione di dolore, mentre Umberto, conservando la sua freddezza, con la fronte alzata, lo sguardo fermo e leale.

— Le vostre ingiurie — disse — non possono toccare nè la signorina, nè me, che non ci abbasseremo a raccoglierle.

Michele aprì di nuovo la bocca per rispondere, ma il giudice istruttore gl' impose silenzio.

Lo sguardo del prigioniero s' iniettò di odio, ma rimase muto.

— Signorina — disse allora il giudice istruttore a Tecla — sostenete in faccia a quest' uomo quanto avete deposto, che fu lui che entrò in compagnia di un altro in questa camera, che vi colpì?

Vi fu un silenzio terribile di alcuni secondi.

La figlia della contessa Edvald ebbe un fremito in tutta la persona, ma i suoi occhi non si chinarono dinanzi a quelli infiammati di Michele, le sue braccia rimasero tese e con voce chiara, vibrata.

— Sì, — esclamò — è lui che ha tentato assassinarmi, perchè io rifiutai seguirlo; egli ha potuto nascondere il suo viso, non la sua voce, che ho riconosciuta.

— Ella mènte — urlò Michele — mènte per sbarazzarsi di me.

— Dio mi è testimonio che dico la verità — aggiunse con fermezza Tecla — se voi aveste colpita me sola, avrei taciuto; ma per voi una povera innocente, che mi aveva salvata, è morta assassinata, ed io vi denunzio!

La scena drammatica che ne seguì saremmo impotenti a descriverla.

Michele fu assalito da una tal furia violenta, che sei guardie bastarono appena a tenerlo, a portarlo via.

Miranda, malgrado la sua forza d' animo, si era svenuta. Tecla, ricaduta sul letto, mandava gemiti da straziar l' anima.

Umberto cercava contenersi, far riavere la sorella, ma il suo viso era livido, gli occhi aveva pieni di lacrime.

Poche ore dopo, la calma era ritornata in quella stanza ed il giorno seguente, dopo un lungo colloquio col Procuratore del Re, Umberto aveva fatto trasportare Tecla e condotta la sorella nell' alloggio preparato.

Di quante cure era fatta segno l'ammalata da quei due nobili cuori! Come cercavano prevenire ogni suo minimo desiderio; quanta delicatezza in ciascuno dei loro atti, delle loro parole!

Tecla non aveva espressioni bastanti per ringraziarli.

— Come siete buoni con me — mormorava una sera la fanciulla, stringendo una mano all' amica e volgendo lo sguardo riconoscente ad Umberto — per voi sono ritornata alla vita, posso ancora sperare nell' avvenire.

— Tu lo devi, mia cara — rispose Miranda — però bisogna che tu scacci la tristezza, i cattivi ricordi, ormai hai acquistata una famiglia; noi non ti lascieremo più.

Una lacrima tremolò sulle palpebre della fanciulla.

— Che farei senza di voi? — replicò.

Ah! perchè non posso dimostrarvi tutta la gratitudine che sento.

— Sì, che lo potete — interruppe Umberto, commosso.

Gli occhi di Tecla sfavillarono.

— In qual modo? — domandò.

— Col ritornare il sorriso alle vostre labbra, col riacquistare la salute dello spirito, mostrarci che noi possiamo ancora rendervi felice.

La fanciulla si fece rossa e con un' adorabile confusione.

— Non lo sono mai stata come in questo momento — sussurrò baciando l' amica e tendendo la manina ad Umberto, che, nello stringerla, si fece un po' pallido.

Quella sera, quando il giovine si fu ritirato nella sua camera, Miranda sedette sulla sponda del letto di Tecla e passandole un braccio dietro le spalle e guardandola con tenerezza:

— Che ne pensi di mio fratello? — chiese con un dolce sorriso.

— Che è il più nobile, il migliore degli uomini — rispose Tecla senza esitare.

— Credi che egli possa rendere felice la fanciulla che sceglierà in inposa?

La figlia della contessa Edvald trasalì e guardò inquieta l'amica.

— Ne sono sicura — disse.

Miranda la baciò.

— E, se Umberto, dovesse scegliere te?

— Me? Me? — esclamò.

Si era sollevata sui guanciali, col viso coperto di ardente rossore, gli occhi umidi, il seno anelante.

— Oh! non dirlo nemmeno per ischerzo — aggiunse affannosa — io non posso essere la moglie di alcuno.

— Perchè? Forse ami ancora il principe Cars?

Tecla scosse tristamente il capo.

— No — rispose con voce ferma — Ma tu dimentichi la mia confessione.

— Essa è stata udita anche da Umberto e per questo non ha cessato di altamente stimarti, d' interessarsi a te.

— Oh! sì, egli si è mostrato buono, generoso — replicò la fanciulla tremante — ed il mio cuore fa caldi voti per la sua felicità.

Miranda l' abbracciò ancora.

— Tu sola gliela puoi dare — aggiunse. — Umberto ti ama.

Tecla le chiuse la bocca con la piccola mano, e guardando l' amica in atto d' implorare la sua pietà:

— Oh! non aggiungere altra parola: io non voglio, non debbo ascoltarti; la mia risoluzione è irrevocabile, io non posso essere per Umberto che una sorella: egli troverà un' altra donna degna di lui, che saprà renderlo felice come si merita.

Pronunziò queste parole con espressione tanto affettuosa, commovente, che Miranda non insistè.

Ma si rialzò pallidissima e volse altrove il capo per dissimulare la sua emozione. Il colpo le giungeva doloroso, perchè distruggeva tutti i suoi cassti sogni, perchè vedeva l' avvenire di Umberto perduto.

Ella era certa che il fratello amava Tecla e per quanto cercasse di vincere e combattere quella passione, capiva che non vi sarebbe facilmente riuscito.

L' immagine di Minia era affatto svanita dalla mente del giovine; quello era stato un amore più dei sensi che dall' anima, mentre in Tecla apprezzava non solo la bellezza perfetta, ma la nobiltà del cuore, dei sentimenti, e sarebbe andato orgoglioso di darle il suo nome, di farla sua per tutta la vita.

In quella mattina stessa ne aveva fatto qualche allusione colla sorella.

Miranda l' aveva ascoltato con gioia ingenua, sincera.

— Non è vero che ella è degna di te? — esclamò.

— È degna di qualsiasi uomo onesto — rispose gravemente Umberto. — Tecla è forse responsabile di ciò che ha sofferto per le colpe di sua madre? Certamente, avrei provato molto dispiacere nel vedere mischiato il nome dell' innocente fanciulla in un processo che non avrebbe mancato di attirare la curiosità generale; la pazzia di Michele ha risparmiata una vergogna alla contessa Edvald ed all'innocente Tecla.

— È dunque proprio pazzo?

— Furioso… sicchè il processo per ora rimane sospeso, tanto più che il suo complice ha avuto tutto il tempo di prendere il volo, nè sarà facile il ritrovarlo. E quando anche ciò avvenisse, colui non deve rendere conto che dell' assassinio della Borgna e del furto.

— Dunque, Tecla non ha più nulla a temere?

— Per ora no!

— Ah! come mi sento sollevata: quel Michele mi aveva fatto tanto paura per te, per lei…

— Ora non potrà più nuocere ad alcuno.

Miranda non volle portar subito tal nuova all' amica, ma attese la sera per cercare di mutare i sentimenti di lei verso Umberto.

La risoluzione della fanciulla troncava quindi tutta la sua gioia, i bei sogni creati dalla fantasia.

E qual dolore ne avrebbe provato suo fratello!

Miranda non sapeva come togliergli ogni illusione: le pareva crudeltà.

Tecla non tardò ad accorgersi di un lievissimo mutamento dell' amica a suo riguardo. Non già che le dimostrasse meno premura, la trascurasse; ma diveniva spesso pensierosa, concentrata, il riso non compariva più così schietto sulle sue labbra e più di una volta sorprese gli occhi di lei umidi di lacrime.

La figlia della contessa Edvald sapeva quale adorazione Miranda avesse consacrato al fratello: intuiva quindi la causa di quel cambiamento.

— Ah! sono pur infelice — pensava fra sè con disperazione — sia maledetta questa bellezza funesta, che è cagione di tutte le mie angoscie, delle mie sventure. Mio Dio, perchè impegnarmi in lotte continue, mentre non ho la forza per resistervi, per sostenerle? Già pensavo di finire vicino a Miranda i miei giorni… e dovrò invece di nuovo avventurarmi per il mondo. Coraggio: qualunque possa essere il mio destino, non muoverò un lamento, perchè sono io che lo voglio.

Avendo appreso già da tempo a soffrire, Tecla seppe nascondere, dissimulare il suo dolore, continuò a mostrarsi grata ad Umberto e Miranda, pur cercando di non alimentare le loro speranze.

Ella aveva saputo della pazzia di Michele e ringraziò il cielo, perchè così evitava un processo, in cui doveva necessariamente comparire, ripetere le sue accuse a carico di quell' uomo.

La giustizia divina le risparmiava un nuovo dolore: meglio così.

Tecla si ristabilì a poco a poco completamente e la sua bellezza parve farsi più completa, più splendida.

Umberto, già così espansivo, gioviale con lei, non le parlava che raramente, per nasconderle il tremito della sua voce, il suo turbamento.

Pure una sera, essendo rimasto solo con lei, vicino alla finestra aperta, le disse con dolcezza:

— Vedo con piacere che la vostra salute rifiorisce ogni giorno; nonostante io e Miranda abbiamo pensato di condurvi per alcun tempo in campagna.

Ella lo fissò con riconoscenza.

— Voi siete molto buoni per me — mormorò con un sorriso da martire e con un' espressione di tenerezza ineffabile — e forse mi troverete un' ingrata, non accettando più a lungo le vostre offerte.

Umberto divenne pallido.

— Che vuol dir ciò? Abbiamo forse mancato di qualche riguardo verso di voi?

— Oh! non lo dite: io non fui mai così tranquilla, felice; ma ora mi avvedo che questa felicità non è fatta per me….. io ho un dovere da compiere: voglio andare in cerca di mia madre.

Egli la fissava con insistenza.

— Così… sola… sola!… Ah! non lo pensate, è vero?

Eppoi dove vorreste cercarla? Sapete pure come a nulla sia riuscita l' autorità. Tecla, ve ne prego, riflettete…

— L' ho fatto da lungo tempo e la mia determinazione è presa.

— Quand' è così, permetterete che io e Miranda veniamo con voi.

Ella mandò un leggero grido, si fece di porpora.

— Ah! no… non è possibile…

Il giovane parve dolorosamente sorpreso.

— Dite adunque che volete abbandonarci. Pensate che lo meritiamo?

Tecla era agitatissima, tremante.

— Ah! no — proruppe alzando sul giovane gli occhi bagnati di lacrime — io dovrei inginocchiarmi dinanzi a voi ed a vostra sorella per ringraziarvi di esservi mostrati così generosi con me.

Umberto le prese una mano, che la fanciulla gli abbandonò.

— Confessate allora — mormorò in tono più basso, commosso — che sono io che vi faccio fuggire, perchè vi siete accorta dell'amore santo, infinito che mi avete inspirato, del mio desiderio di offrirvi col mio cuore la mia mano, la vita!

L' accento di suprema tenerezza, di nobile dolore che trasparivano da ogni parola di Umberto, colpirono profondamente Tecla. Ella sollevò con impeto la testa.

— Ebbene… voglio essere franca con voi, come lo siete stato per me: sì, io ho compreso il vostro amore, la lotta che sostenete ogni giorno, il desiderio di tutto rivelarmi… ed ho sofferto molto, perchè, come già dissi a vostra sorella, non posso… essere vostra…

Egli era spaventevolmente pallido, ma calmo.

— Miranda mi ha ripetute le vostre parole ed il motivo che vi consigliava ad agire così — esclamò. — Ciò non ha fatto che accrescere il mio amore, la stima grandissima che avevo di voi. Tecla, se il vostro cuore è libero, accettate la mia offerta, non vi lasciate acciecare da un fanatismo di abnegazione, che sebbene io ammiri, non posso dividere… Tecla, pensateci bene, voi avete avuto campo di conoscere il mio carattere, i sentimenti che mi animano; voi sapete che se domani vostra madre tornasse ed acconsentisse a vivere con noi, sarebbe circondata dalla nostra stima, dal nostro affetto… e sono certo che ella non mi respingerebbe per figlio.

Tecla, in preda ad una lotta crudele, non poteva, nè sapeva rispondere.

Il giovine continuò con crescente passione:

— Vedete, io avevo fatto un così bel sogno: con voi e mia sorella… mi pareva non avessi a desiderare più cosa alcuna. Tecla, lasciatemi almeno sperare, lasciate che io cerchi di guadagnarmi il vostro cuore…

Tecla non resistette più e porgendo ambe le mani ad Umberto, disse con voce soffocata dall' emozione:

— Voi non potete guadagnarlo, perchè è già vostro.

Il giovane mandò un' esclamazione di gioia e coprì di baci quelle mani che la fanciulla non aveva ritirate.

Nello stesso tempo l' uscio della stanza si aprì con impeto e Miranda venne a gettarsi fra le braccia dell' amica.

— Ah! come saremo tutti felici! — esclamò.

Da quel momento infatti per quelle tre persone la vita apparve un incanto.

Tecla, stordita, inebriata dalla gioia che vedeva risplendere sul volto di Umberto e della sorella, sembrava pienamente lieta…

Eppure in fondo alla sua anima eravi qualche cosa di triste, d' indefinito che ella non avrebbe saputo spiegare.

Quando domandava a sè stessa se il sentimento che la spingeva verso Umberto era reale, si sentiva quasi spaventata, temendo d' ingannarsi.

No, per lui non aveva quelle dolci trepidazioni, quegli affanni secreti, quelle ansie provate, dopo il suo primo incontro col principe Cars.

Ella risentiva per Umberto un affetto tenero, ma tranquillo: gli era riconoscente delle continue prove d' amore che le dava, della venerazione di cui l' aveva circondata.

Ma quando gli abbandonava con un sorriso le mani, quando ripeteva a Miranda che attendeva con ansia il giorno del matrimonio, Tecla non era sincera.

Eppure non trascorsero tre mesi che la figlia della contessa Edvald portava il nome di Clementi.

Oh! quel giorno delle nozze Tecla non lo avrebbe dimenticato più!

Quando Miranda le pose sul bruno capo il velo da sposa e la corona di fiori d' arancio, Tecla provò una strana sensazione, una nube le velò gli occhi.

Pensava ai sogni fatti in collegio!

Quanta poesia, quanto amore fervevano allora nella sua anima, quale ingenua confidenza nell' avvenire!

E quell' ora trascorsa presso di Cars, in quel solitario salotto, in mezzo al profumo inebriante dei fiori, coll' accordo della musica lontana, che aggiungeva una specie di fascino alle dolcezze di quel colloquio.

Ma era bastato un attimo a dissipare le ebbrezze di quei sogni, a strappare le sue illusioni!

E l' avvenire le si era presentato in tutto il suo orrore: le aveva fatto desiderare la morte!

L' entrata di Umberto scosse Tecla dal suo fantasticare.

Le parve una colpa ricordare in quel momento il passato e si sforzò a sorridere, a tendergli le mani.

Miranda lasciò soli i due giovani.

Umberto era assai pallido, ma un' espressione di suprema felicità irradiava la sua fisonomia.

— Tecla — disse con voce leggermente tremante — siete voi certa di non aver mai a rimpiangere questo giorno? Mi amate veramente tanto da sacrificarmi la vostra esistenza?

La figlia della contessa Edvald appariva fortemente commossa.

— Voi avete tutte le delicatezze — rispose con dolcezza — perchè il sacrifizio in questo caso è solo da parte vostra. Io vado orgogliosa di appartenervi, di portare il vostro nome, perchè vi amo.

Egli provò un irresistibile impeto di stringere la giovane al suo petto, ma per un sentimento gentile se ne astenne…

Solo dischiuse le labbra ad un inebriante sorriso e strinse vieppiù le manine di lei.

— Tecla, Tecla, non sapete quanto bene mi fanno le vostre parole. Ah! vi giuro che quanto dipenderà da me per rendervi felice, lo farò.

Umberto s' interruppe. Miranda rientrava allegra, vivace, come non la si era veduta mai.

— Presto, presto! — esclamò — le carrozze sono pronte, i testimoni, gl' invitati sono giunti. Tecla, Umberto, datemi un bacio, poi andate: sapete che io non posso seguirvi, dovendo oggi fare gli onori di casa, tenervi luogo di madre, di tutto.

Le lacrime le venivano agli occhi, e per nasconderle si gettò prima al collo del fratello, lo baciò con impeto, poi passò nelle braccia di Tecla, che la premette fortemente al seno.

Quando gli sposi si furono allontanati, seguìti dai testimoni e da un numero di ristretti amici, Miranda diede gli ordini opportuni per la colazione, poi si ritirò nella sua camera.

Sentiva un potente bisogno di piangere, eppure non era mai stata più felice. Non vedeva finalmente brillare la gioia sul volto di Umberto, non vedeva l' avvenire di lui assicurato, tranquillo? Oh! sì, certamente, ma le anime delicate, anche in mezzo alla gioia più completa, non possono raffrenare il pianto: è lo sfogo dell' ebbrezza ineffabile che l' invade, è la piena della felicità che trabocca.

Ben presto Miranda si riebbe e sollevando lo sguardo umido sopra il ritratto d' una donna giovane e bella che le rassomigliava:

— Oh! madre mia — esclamò con voce alterata — benedici in questo momento dal cielo i tuoi figli, fa' che il giuramento solenne che Umberto e Tecla pronunzieranno sia mantenuto per tutta la loro vita… e che nulla venga a turbare la loro dolce unione.

Proferendo questa preghiera, le corse suo malgrado il pensiero alla contessa Edvald.

Viveva ancora od era morta? Sarebbe un giorno ricomparsa, pentita, a riabbracciare sua figlia o non l' avrebbero più riveduta?

Mentre Miranda si perdeva in mille congetture, gli sposi facevano il loro ingresso in chiesa.

L' altare maggiore appariva splendidamente illuminato: molta folla riempiva le navate.

Tecla ed Umberto s' inginocchiarono sopra splendidi cuscini di velluto ricamato in oro, al momento stesso che il prete compariva per celebrare la messa, che sembrarono ascoltare devotamente.

Ma quanti diversi pensieri si agitavano nell' anima dei due giovani!

Umberto si sentiva il cuore pieno di soavi speranze, di una gioia divina, infinita.

Dire che quella bella creatura, che tutti ammiravano, che aveva l' anima candida come il viso, gli sarebbe in breve appartenuta per sempre, per sempre…

Ah! la vita trascorsa vicino a lei sarebbe stata un incanto: egli sentiva che ad un cenno di Tecla, ad una parola, avrebbe dato l' esistenza.

Una violenta battaglia si impegnava nell' anima della figlia di Livia. Ella si sforzava di allontanare tutti i pensieri importuni per non pensare che all' uomo onesto, che l' amava tanto, da farla sua moglie.

— Io l' amerò, perchè egli se lo merita — mormorava — Dio, Dio, fate che possa renderlo felice!

Alzò il capo con una specie di alterezza e il suo viso apparve irradiato da un raggio sublime, sulle labbra le passò un sorriso.

Ed al momento di pronunziare il sì solenne, la sua voce non tremò, la sua mano strinse lievemente quella di Umberto.

La cerimonia religiosa era terminata; la folla faceva ala agli sposi, che risalirono in carrozza per recarsi al municipio.

Anche colà la sala era affollata ed ai piedi dello scalone si notava molta gente del popolo, fra cui un uomo che mostrava sul viso emaciato, negli occhi luccicanti, in tutta la persona dei segreti, terribili patimenti.

Nessuno badava a lui, nè egli si curava di alcuno; ma quando Tecla, splendida di bellezza, apparve sullo scalone, col braccio stretto a quello di Umberto, lo strano individuo mandò un' esclamazione gutturale, spingendo coi gomiti due o tre donne per mettersi in prima fila.

La figlia della contessa Edvald, rossa, confusa, fissava macchinalmente gli sguardi su quel gruppo di persone.

Ma quando i suoi occhi s' incontrarono in quelli dell'uomo, che la fissava con avidità e ferocia, sembrò colta da terrore, vacillò e sarebbe caduta, se Umberto non la sosteneva.

— Che hai, mia cara? — chiese con ansia.

— Una lieve vertigine, ma è già passata — rispose vivamente Tecla, che si era subito rimessa.

Ed i suoi occhi, brillanti di una specie d' orgoglio, andarono nuovamente in traccia dell' individuo, che l' aveva spaventata, ma egli era scomparso.

Quando giunsero a casa, mentre Umberto riceveva le felicitazioni degli invitati, Tecla si ritrasse con Miranda per cambiare d' abiti.

Ed appena fu sola con la cognata le si gettò fra le braccia e con accento convulso:

— Ho paura… paura — esclamò.

Miranda divenne pallida.

— Mio Dio, che ti è mai successo?…

Tecla provò un fremito.

— Ho veduto Michele.

Miranda si rassicurò e baciando il viso sconvolto della cognata:

— Non è possibile — disse con calmo accento — ti sei ingannata, quell' uomo ha esercitato una così funesta influenza su di te, che ti sembra vederlo dappertutto.

— Oh! questa volta non ho preso abbaglio, era proprio lui.

Miranda scuoteva dolcemente il capo.

— Non dire così, rassicurati: è stata un' allucinazione della fantasia. Michele è nel manicomio di Collegno, sorvegliato continuamente.

Tecla sospirò.

— Ah!… vorrei essermi illusa, ma quegli occhi li ho sempre presenti. Chi altri poteva guardarmi in tal modo?

Miranda affatto tranquilla sorrise.

— Chissà quanti oggi ti avranno ammirata — esclamò — Ma dimmi, Umberto ha veduto colui, che la tua immaginazione dice Michele?

— No, nè io glielo dissi.

— Hai fatto bene, l' avresti turbato senza ragione: hai spaventata anche me.

E Miranda diceva tutto ciò con voce così dolce, soave, baciando la cognata, che questa finì per rasserenarsi e quando riapparve nella sala, dove era preparata una splendida refezione, il suo leggiadro viso non portava più alcuna traccia delle emozioni sofferte.

La sera stessa i due sposi con Miranda partivano alla volta di Firenze. E all' indomani, i giornali di Torino parlavano della fuga di Michele dal manicomio di Collegno. Non vi erano ancora i particolari sull' ardita evasione, ma tutti sostenevano che il miserabile aveva mostrata coscienza dei proprî atti e sostenevano che la pazzia era stata abilmente simulata.

Si aggiungeva che malgrado tutte le ricerche, il furfante, all' ora in cui scrivevano, non era stato ritrovato.

Così Tecla non si era ingannata! E pur troppo la libertà di Michele doveva essere la sventura per coloro che aveva cominciato a perseguitare!

Un orologio a pendolo, che posava fra due statuine di bronzo, sopra la mensola dorata di un caminetto, suonò le cinque pomeridiane.

Un uomo che pareva sonnecchiare su di una poltrona, si scosse, aprì gli occhi, guardandosi un momento attorno come smarrito.

— Ah! non era che un sogno — mormorò.

Balzò in piedi ed avvicinossi alla finestra. La luce morente del sole rischiarò il viso pallidissimo, ma sempre bello del principe Cars.

Era lui che si trovava in quella stanza, splendidamente addobbata, ma col gusto un po' barocco delle stanze d' albergo. E difatti il principe alloggiava in un sontuoso appartamento dell' Albergo della Pace, sui Lungarni di Firenze.

Erano trascorsi sei anni dal giorno che aveva lasciato Torino, sperando dimenticare la fanciulla, che egli non avrebbe mai potuto possedere. Dopo un breve soggiorno a Parigi, annoiato, in preda ad una profonda melanconia, se ne partì per recarsi a Londra.

Ma ivi pure non si fermò a lungo: sentiva una smania di movimento continuo e si diede a tentare dei viaggi pericolosi, mostrando un coraggio temerario all' eccesso, senza che egli se ne accorgesse, perchè il suo pensiero pareva spaziar sempre fra le nubi.

Cars sembrava avesse cambiato persino carattere. Era divenuto di un egoismo, di una insensibilità cinica, mentre in fondo all' anima sentiva invincibili tendenze a tutti i sentimenti generosi.

Lo studio più non bastava ad occupargli la mente, tutta piena dell' immagine di Tecla.

E più cercava scacciarla, più vi ritornava invincibile, ed ogni giorno che trascorreva sentiva di amarla più appassionatamente che mai.

Una sera si trovava in un caffè di Lisbona, quando entrò una giovinetta vestita di pochi cenci, pallida, che accompagnandosi colla chitarra, cantò alcune soavi canzoni italiane.

Il principe Cars non vi aveva badato, ma quando la fanciulla, terminato il canto, si avvicinò col piattello al tavolino, mormorando un timido:

— Signore…

Cars alzò gli occhi e rattenne a stento un grido.

La fanciulla aveva una vaga somiglianza con Tecla.

Il principe le gettò sul piattello alcune monete d' oro e quando la giovine cantatrice sbalordita, ma raggiante di gioia, uscì dal caffè, la seguì, l' interrogò.

Si chiamava Ginetta, era un' italiana e faceva parte di una compagnia di suonatori girovaghi.

Non aveva mai conosciuto padre e madre: era sotto un padrone, che la trattava assai duramente, le faceva soffrire la fame.

Il principe le propose di andare con lui; la fanciulla lo guardò fra ardita e timorosa.

— Se il padrone mi scoprisse, mi accopperebbe — disse.

— Parlerò io col padrone.

Due ore dopo un contratto veniva conchiuso.

Con cento scudi, Cars aveva acquistato il diritto di portarsi seco la fanciulla.

Ginetta pareva folle dalla gioia.

Il principe la condusse in uno dei suoi castelli, le diede abiti e gioielli, non si saziava dal contemplarla, illudendosi al punto di credere d' avere vicino Tecla.

Ma ahimè! Se il fisico della giovine cantatrice poteva produrgli qualche emozione, quanto differiva dal morale!

Ginetta era viziosa per natura, essendo cresciuta in un ambiente d' infamia; era gelosa, astuta, bugiarda.

Presto si annoiò della compagnia del principe, che non sapeva far altro che ammirarla.

Lo trovava troppo serio, noioso per la sua età.

Ella amava ridere, divertirsi, cantare, e spesso sfuggiva alla sorveglianza del principe, per correre pazzamente nei boschi, all' aria libera, lasciando lembi d' abiti appesì ai rami degli alberi, cui si arrampicava per togliere nidi di uccelli o cogliere frutta acerbe.

Il principe la sorprese un giorno in istretto colloquio col figlio del suo giardiniere, bel giovinotto, ardito, allegro, intraprendente.

Per un momento si sentì invaso dalla collera, e parve non trovare espressioni abbastanza insultanti per la giovinetta che contaminava l' ideale incantevole dei suoi sogni.

Ma quasi tosto riprese la ragione. Non era un pazzo ostinandosi a voler trovare in quella fanciulla vagabonda, senza principî, le perfezioni, le delicatezze, l' altera onestà di Tecla?

Cars si rivolse al figlio del giardiniere che rimaneva muto, istupidito, mentre Ginetta si sfogava in pianto, e gli disse:

— Tu hai dunque così poca stima di lei e di te stesso per agire così?

— Oh! principe… punitemi — mormorò il giovane con accento supplichevole — me lo merito.

— Io ti perdono invece e perdono costei, ma ad un patto.

— Ordinate, principe — proruppe con calore il giovinotto — sono pronto a tutto.

Ginetta aveva asciugate le lagrime e i suoi occhi scintillanti si fissavano con inquietudine su Cars.

Questi rivolgeva sempre la parola al figlio del giardiniere.

— Ami tu costei?

— Non posso negarlo — rispose il giovinotto, con franchezza modesta ed ingenua.

— Sei pronto a sposarla?

— Quando voi l' ordinate…

Ginetta fece una smorfia.

— Ma io non lo voglio: preferisco rimanere con voi, principe.

Egli la fissò con uno sguardo severo.

— Fra un' ora io parto e non ti condurrò già con me. Scegli adunque, o andare moglie a Matteo, coll' assegno di trecento scudi l' anno, o ritornare col tuo antico padrone.

L' accento del principe non ammetteva esitazioni.

— Resto con Matteo — proruppe Ginetta premurosamente.

Il principe lasciò la sera stessa il castello e riprese la vita vagabonda di prima.

Era una specie di febbre.

Vi fu un istante in cui vinto, abbattuto da quell' amore che lo straziava senza posa, decise di rivedere Tecla, richiederla in moglie, di umiliarsi dinanzi alla contessa Edvald.

Non aveva più orgoglio; l' anima era fatta a brani.

Tornò a Torino: quivi nessuno potè dargli nuove della contessa, ma a furia d' indagini seppe che Tecla si era maritata e viveva felice a Firenze.

Dire quello che Cars provasse a quella scoperta, sarebbe impossibile.

Tecla maritata! Ah! quando adunque respingeva la sua mano, non era già per sacrificarsi alla madre, come pareva, ma perchè amava un altro….

Ed egli aveva ciecamente creduto all' ingenuità di lei, si stimava l' unico amato!

Un riso sinistro corse sulle labbra del principe a questo pensiero.

— Ah! ella è proprio figlia di sua madre — esclamò al colmo dell' ira, della vergogna. — Ed io le avevo consacrato un culto così profondo, l' adoravo come cosa santa! Ma chi è suo marito? Un altro povero illuso forse… come me…

Si rizzò quasi minaccioso, cogli occhi scintillanti, le guancie pallidissime.

— Oh! lo saprò… perchè voglio rivederla, mostrarle lo sprezzo che si merita, dovesse costarmi la vita.

Formato questo progetto, il principe Cars partì per Firenze, conducendo seco il suo fidato Zilà.

Le fattezze del volto di Cars non erano cambiate; ma in lui esisteva un non so che di triste, di truce, che agghiacciava il cuore.

Quella sera, che lo vedemmo alzarsi con impeto dalla poltrona, compiva un mese dacchè si trovava a Firenze e non aveva ancora scoperta traccia di Tecla.

Inutilmente aveva frequentate le passeggiate, i teatri, i luoghi pubblici.

L' avevano adunque ingannato dicendogli che si trovava col marito a Firenze?

— Io non posso più chiudere gli occhi senza sognare di lei — esclamò Cars ritraendosi dalla finestra, alla quale, come sappiamo, si era avvicinato — è un incubo che finirà per schiacciarmi.

L' entrata di Zilà lo distolse dai suoi pensieri.

— Il pranzo è pronto, principe — disse.

Cars passò in un salotto vicino, dov' era una tavola splendidamente apparecchiata.

Ma il principe non fece che assaggiare le vivande che un cameriere dell' albergo porgeva a Zilà, e questi poneva dinanzi al suo padrone.

Bevve anche pochissimo e quando ebbe sorbito il caffè, ripassò nella stanza di prima, accesse un' avana e sdraiatosi sulla poltrona, chiuse gli occhi e parve voler addormentarsi.

Rimase così per due ore, poi suonò il campanello.

Zilà comparve.

— Dammi il mio soprabito ed il cappello — disse con freddezza — voglio uscire: se a mezzanotte non sono tornato, vattene a letto.

Zilà chinò il capo in atto di assentimento.

Il principe uscì e si diresse verso le Cascine. Passando sul Corso Vittorio Emanuele, vide una lunga fila di lumi a gaz e delle carrozze correre rapide per fermarsi dinanzi ad alcune porte affollate.

Era l' ingresso al Politeama. Cars gettò macchinalmente lo sguardo sugli enormi affissi che erano ai lati.

Si trattava di una prima rappresentazione di una Compagnia equestre.

Il principe entrò colla folla, prese un biglietto di poltrona e andò svogliatamente a sedersi al suo posto.

Lo spettacolo non era ancora cominciato: le gradinate, i posti distinti erano affollati, ma i palchi e le poltrone si mostravano vuoti.

Cars, dopo aver gettato uno sguardo all' intorno, sedette.

In quel momento un bel giovane dalla fisonomia simpatica, ardita, prese posto vicino a lui.

Il primo sguardo reciproco fu indifferente, ma quasi subito la fisonomia del principe si rischiarò, la sua voce prese quasi un accento commosso, mentre esclamava:

— Clementi!

Il giovine a sua volta lasciò sfuggire un leggero grido di gioia:

— Voi principe!

Le due mani si stesero, si strinserocordialmente.

Essi si erano conosciuti a Napoli. Cars vi si trovava di passaggio per qualche giorno, Umberto vi era di guarnigione: si trovarono anche allora vicino al teatro e cominciarono a discorrere dell' opera che si rappresentava, della musica, dei cantanti.

Il principe mostrava di essere uomo di molto criterio, di gusto, d' esperienza. Umberto l' ascoltò con vivo piacere, ed a sua volta mostrossi pieno di spirito, di amabile semplicità.

Quando uscirono dal teatro, il principe offrì all' ufficiale un posto nella sua carrozza.

Umberto accettò ed a sua volta invitò Cars nel suo piccolo appartamento da scapolo, onde fargli ammirare alcuni disegni, dei quali avevano parlato.

Così incominciò la loro conoscenza e sarebbero divenuti stretti amici, perchè i loro caratteri andavano molto d' accordo, se il principe non avesse dovuto lasciare Napoli.

D' allora non si erano più riveduti, nè certamente Umberto pensava che l' uomo del quale aveva parlato Tecla, il giorno che ella fece la sua confessione all' amica, fosse Cars.

La fanciulla non ne aveva pronunziato il nome, nè Miranda ne parlò mai.

Umberto, per una squisita delicatezza, non aveva mai fatto alcuna allusione su quell' uomo.

D' altronde avrebbe potuto rimproverare a Tecla quel primo e soave moto dell' anima, che si apriva alla vita?

Egli stesso non ne aveva amata pazzamente un' altra prima di lei?

— Oh! quanto sono lieto di questo incontro — esclamò Umberto con sincero entusiasmo — io non dimentico, principe, le gentilezze da voi usatemi e spero di poter adesso ricambiarvele, giacchè, non mi sfuggirete così presto.

— Spero di no — rispose sorridendo Cars — ho alcuni affari che mi tratterranno qui per qualche tempo; ma mi sembra strano di non avervi mai incontrato in un mese che mi trovo a Firenze.

Una lieve nube oscurò la fronte di Clementi.

— È questa la prima sera che mi prendo un po' di spasso — replicò — Ebbi mia moglie gravemente ammalata.

— Avete preso moglie?

— Da due anni…. e mi trovo felicissimo.

— Mi congratulo sinceramente con voi. Ma come avete preso dimora a Firenze?

Umberto sorrise ancora.

— E la mia città natale — rispose — e dacchè ho lasciato l' esercito, mi sono qui stabilito definitivamente in una palazzina, che mi diverto ad abbellire di mio gusto, dove trascorro i miei giorni come in un piccolo paradiso, con mia moglie e mia sorella.

Clementi s' interruppe: incominciava lo spettacolo e la musica assordava così, che era difficile scambiare qualche parola.

Cars era divenuto serio, non già che invidiasse la felicità dell' amico, ma perchè pensava che egli non avrebbe più potuto godere di tali purissime gioie.

Poche altre parole scambiarono Umberto ed il principe, durante lo spettacolo; ma uscirono dal teatro insieme e Clementi accompagnò Cars alla porta dell' albergo, dove egli disse essere alloggiato.

Nel lasciarsi, Umberto esclamò con calore:

— Dunque, siamo intesi: domani alle due verrò a prendervi colla mia carrozza: mi tarda di presentarvi alla mia Tecla.

Se il principe si sostenne in piedi e potè rispondere che non avrebbe mancato, fu un vero miracolo.

Il suo cuore palpitava con tanta violenza, che quei battiti gli riuscivano dolorosi.

A stento si ridusse nella sua camera.

Tecla! Era proprio quello il nome pronunziato da Umberto? Ebbene… sì… ma che importava?

Cars poteva benissimo illudersi; quante donne portavano quel nome, e perchè sentirsi così commosso, perchè subito presentire che si trattasse della figlia di Livia?

No… non era possibile… eppure…

Oh! come il cervello di Cars si era infiammato! Le sue arterie battevano così da scoppiare.

E se fosse stata lei?… Questa idea gli cagionava dolore, vergogna, amarezza ed al tempo stesso un' ardente bramosìa di vendicarsi.

Clementi si trovava felice… felice… ed era Tecla che gli procurava tanta felicità, che metteva tanto sorriso sulle labbra di lui, un così vivo splendore negli occhi?

Per alcuni secondi provò un' irritazione astiosa, una gelosia violenta, poi cadde in una specie di cupa tristezza, di sconforto indicibile.

Passò una notte d' inferno.

La mattina seguente era livido come un morto, ma tranquillo. Se veramente quella Tecla che cercava era la moglie di Clementi, poteva sostenerne la presenza senza venir meno?

Attese con impazienza l' ora in cui Umberto sarebbe venuto a prenderlo.

Miranda si trovava nella sua camera da fanciulla, una cameretta addobbata con una semplicità quasi claustrale.

Erano le dieci del mattino. La giovinetta, licenziata la cameriera, stava ripassando alcuni fogli di musica, cantando a bassa voce.

I suoi lineamenti fini, delicati, esprimevano la gioia: gli occhi brillavano del più puro splendore.

Miranda si trovava felice: la devozione, la tenerezza illimitata per suo fratello, la compagnia di Tecla, bastavano al suo cuore: nessun altro affetto sino allora ne aveva preso il luogo, nè ella pur pensava che un nuovo sentimento potesse farle cangiar vita, separarla dalla famiglia.

Vi sono pure dei cuori così semplici, retti, cui basta un caro ritiro, un puro affetto a renderli felici. A loro sono ignoti i delirî delle passioni, le febbri cocenti dei desiderî, gli spasimi, le ebbrezze dell' amore, i conflitti della civetteria; nessun irradiamento attrae i loro sguardi, li spinge a fantasticare: del dovere si fanno una religione, dell' onore un culto sublime, e seguono la loro via, col sorriso sulle labbra, la fronte serena, la pace nell' anima.

Miranda era uno di questi cuori retti, di tali anime elevate.

Quella mattina era allegrissima e il suo viso di una purezza così ideale splendeva di nuova luce.

Ad un tratto udì un cigolìo e volgendosi vide l' uscio spalancarsi ed entrare Tecla.

Indossava ancora l' accappatoio da notte, le cui ampie pieghe non bastavano a celare le sue splendide forme.

Da tutta la persona della giovine donna appariva in quel momento una straordinaria agitazione, tanto che Miranda ne fu impressionata.

Ella gettò subito su di un tavolo i fogli da musica e con accento vivace:

— Che hai? — domandò.

Tecla si era lasciata cadere su di una seggiola.

— Ero troppo felice — rispose con voce alterata — e non poteva durare.

Miranda ebbe un sussulto nervoso.

— Cosa ti è successo? Hai avuto qualche cattiva notizia?

Tecla teneva il capo chino sul petto.

— Una notizia che mi ha tutta sconvolta — ripetè. — Mi ero appena svegliata, quando vedo Umberto entrare nella mia stanza tutto allegro, con dei fiori che era andato a raccogliere nella serra per me. Lo ringraziai con un bacio, aggiungendo che mi rincresceva di non averlo sentito ritornare dal teatro perchè dormivo.

“ — Lo so — aggiunse Umberto sempre ridendo — e non volli disturbarti, sebbene avessi desiderio di farti parte di una gioia che ebbi ieri sera.

“ — Mi dirai adesso ciò che ti ha procurato tanto piacere.

“ — L' aver ritrovato un amico carissimo, che oggi avremo qui a pranzo: è un uomo eccezionale, di un' indole leale, generosa, di un' intelligenza elevata ed un' indomita energia e credo non esagerare dicendoti che difficilmente si trova un gentiluomo più compito del principe Cars. ”

Il gentil viso di Miranda si era fatto pallido.

— Il principe amico di Umberto! — esclamò. — Egli non me ne ha mai parlato; m' immagino, Tecla, il colpo che ne risentisti.

— Un vero spavento: il nome del principe risuscitava un passato, che io volevo obliare… E poi, tu lo sai, Umberto non mi ha mai chiesto, nè io gli dissi mai il nome dell' uomo che avevo amato e che pure respinsi: tu stessa non l' hai pronunziato… Ah! nulla poteva riuscirmi più doloroso della notizia che Umberto mi dava, mi sentii morire.

— E dicesti che conoscevi Cars?

— Sì, non avrei potuto negarlo, ma celai la parte importante che ebbe nella mia vita.

Miranda afferrò con ansia le mani della cognata e fissandola negli occhi:

— Ti sembra di provare ancora per lui qualche residuo d' affetto? — chiese con voce tremante.

Tecla provò un involontario brivido.

— No, te lo giuro — rispose — io non amo che Umberto, nessun' altra immagine che la sua vi è nel mio cuore.

— E allora di che temi? — replicò Miranda con un sorriso, sebbene non si sentisse ella stessa pienamente rassicurata — io sarò al tuo fianco, il principe da vero gentiluomo, quando vedrà chi sia la moglie del suo amico, saprà il suo dovere; che dicesti ad Umberto?

— Che l' avevo conosciuto a Torino, ad un ballo dato da mia madre.

— Si turbò?

Tecla scosse il capo.

— Sai quanta sia la sua fiducia in me — balbettò.

Miranda era seria e grave.

— Ne ha ragione — rispose.

— Umberto si mostrò anzi allegrissimo della scoperta e replicò con bontà che certo il suo amico non si aspettava tale sorpresa.

Un ignoto turbamento dominava l' anima di Miranda.

Senza che le fosse possibile lo spiegarsene il motivo, le pareva che la presenza di quell' uomo a lei ignoto dovesse portare qualche cangiamento a quella vita fino allora così tranquilla, alla pace della casa.

Tuttavia rimase in volto serena, per non accrescere lo spavento di Tecla.

— Te lo ripeto, non mi sembra il caso di allarmarsi in tal modo — riprese, accarezzando i bruni capelli della cognata — siccome tu non hai nulla a rimproverarti, così devi cercare di mostrarti calma e ricevere il principe con quella grazia ed alterezza insieme che così bene ti si addicono. Se ti mostrassi agitata, metteresti il sospetto nell' anima di Umberto e faresti credere a Cars di non averlo interamente obliato: tu conosci qual sia adesso il tuo dovere.

Tecla l' abbracciò con effusione.

— Sei tu che me l' additi ed io ti ringrazio con tutta l'anima: tu hai ragione, vicino a te, coll'amore di Umberto, che riempie tutto il mio cuore, che ho io d' aver paura? Ma le sventure passate mi hanno lasciate queste impressioni subitanee: ora pero sono ritornata forte, sicura di me medesima.

Sollevò il capo con moto ingenuo ed ardito al tempo stesso, mostrando gli occhi scintillanti, le labbra sorridenti.

Dopo poco si ritirò, lasciando Miranda sola.

Il lampo di contento che poco prima l' aveva animata, disparve: era divenuta mesta, pensierosa.

— Che accadrà da questo incontro? — pensava — Sarà Tecla così forte come si vanta? Oh! ma io non la lascierò un solo istante, troppo mi preme la pace di Umberto, di tutti.

L' ora in cui doveva giungere Cars con Umberto trovò Miranda e Tecla dietro le cortine di una finestra.

Parevano calme.

Il loro sguardo seguiva le carrozze, che si scorgevano da lontano, nell' ombra del viale.

Tecla aveva indossato un abito scuro di fattura semplicissima.

Miranda portava un abito azzurro stretto alla vita da un cordone di seta bianca.

Non parlavano, come se avessero timore di scambiarsi i proprî pensieri.

Però Miranda, che teneva alzata la cortina, esclamò ad un tratto, lasciandola ricadere:

— Eccoli.

Guardò in faccia alla cognata, ma questa appariva così tranquilla, che la giovinetta ne fu consolata.

La carrozza si era fermata al cancello della palazzina.

Una cameriera corse ad aprire.

Umberto scese per il primo: il suo viso raggiante, contrastava assai in quel momento colla faccia pallida, i tetri lineamenti di Cars.

Questi ormai sapeva che non aveva più da illudersi.

Durante il tragitto fatto in carrozza, Clementi aveva detto con semplicità, sorridendo:

— Proverete certo una sorpresa nel vedere la mia signora, perchè la conoscete.

Cars fece un movimento.

— Veramente?

— Me l' ha detto lei stessa, parlandole di voi: disse avervi incontrato ad una festa di ballo.

Il principe respirava appena, pure sorrise mestamente.

— Può darsi — rispose. — Mi direste il suo nome da fanciulla?

— Allora non sarebbe più una sorpresa — replicò vivamente Umberto.

— Avete ragione.

E cambiarono discorso: ma Cars rispondeva macchinalmente all' amico: nel suo animo agitato, si confondevano ignoti sentimenti, gli sembrava di aver perduto in quel momento la sola speranza che ancora gli rimanesse e fu di nuovo assalito da quegli impulsi cattivi, che tentavano trionfare dei suoi principî.

Pure, a misura che s' inoltrava, dietro all' amico, nel giardino della palazzina, le sue sembianze prendevano una serenità grave: forse egli aveva vergogna della propria debolezza: forse la sua natura franca, generosa, prendeva il sopravvento.

Miranda e Tecla attendevano in salotto.

La giovinetta si avanzò per la prima verso i due uomini.

Voleva così sviare per un momento l' attenzione del principe e dar tempo alla cognata di rinfrancarsi.

Ma Umberto aveva già presa la mano di sua moglie e conducendola verso Cars, disse con giulivo accento:

— Mia cara, permetti che ti presenti il mio buon amico, che dicevi di conoscere…

— Infatti anch' io adesso ricordo di aver incontrata la signora nella casa di sua madre — disse il principe fissando uno sguardo profondo sulla giovine donna, che sorrise con grazia e dignità, chinando leggermente il capo.

— Così torna inutile la presentazione — aggiunse sempre gaiamente Umberto — e mi limiterò a quella di mia sorella.

Il viso di Miranda esprimeva la schiettezza, la vivacità, e stendendo la mano a Cars con graziosa disinvoltura:

— Un amico di Umberto non può essere considerato come uno straniero — disse — quindi ogni complimento mi pare superfluo.

Il principe ringraziò con tono affabile, commosso, ed in breve tutti si sentirono liberi da ogni soggezione e turbamento.

Tecla prese viva parte alla conversazione, mostrandosi ora seria, ora brillante, ma senza che nei suoi sguardi si potesse leggere altro che una perfetta indifferenza verso l' uomo, che tanto aveva fatto un giorno battere il suo cuore.

Tale almeno fu la persuasione di Miranda, che senza parerlo studiava avidamente ogni moto della cognata.

Tale pure era l' idea del principe e ne soffriva assai.

Dunque egli si era sempre illuso… Tecla non l' aveva amato mai… il sentimento che un giorno credette di aver destato nel cuore di lei non proveniva che da ingenua riconoscenza.

Che aveva dunque da rimproverare a quella donna? Con qual diritto ne avrebbe preteso l' amore? Non aveva Tecla mostrato di sprezzare la fortuna che le aveva offerta, il suo gran nome?

Come Cars si sentiva ferito, umiliato nel suo orgoglio ed al tempo stesso quanto Tecla gli appariva più leggiadra, risplendente di bellezza, di felicità!

Pur troppo nella vita avviene sempre così. Si pregiano sempre più le cose che si sono perdute, di quelle che si posseggono. Un uomo rinuncia talvolta ad una fanciulla, che pure avrebbe potuto renderlo felice, realizzare i suoi più bei sogni, schiudergli il più ridente avvenire. E se il caso lo fa più tardi imbattersi in lei, di cui tutti ammirano lo spirito, le attrattive, moglie di un altro, allora per una contradizione fatale, sente che darebbe la vita per possederla, per dirla sua!

Descrivere l' amarezza dei sentimenti di Cars, quando alla sera fu di ritorno all'albergo, sarebbe cosa impossibile.

Aveva creduto di tornare guarito dalla sua passione, e si avvide invece con dolore che il suo amore per Tecla diveniva tanto più forte, inquantochè non avrebbe potuto essere appagato mai.

La miglior cosa che il principe avrebbe potuto fare era di partirsene subito, di frapporre molta distanza fra lui e Tecla; ma come l' abisso attira, così egli si sentiva inevitabilmente trascinato verso di lei.

Eppure non avrebbe mai pensato a sedurla.

Dunque che sperava? Egli stesso non avrebbe saputo dirlo.

Partito il principe, Clementi aveva continuato a discorere di lui colla moglie e la sorella, quando Miranda accorgendosi come a Tecla tornava penoso quel colloquio, esclamò allegramente:

— Il tuo amico ha promesso di ritornare… avremo quindi tempo a conoscerlo meglio; per oggi ce ne siamo occupate abbastanza; parliamo d' altro.

Umberto sorrise e Tecla ringraziò con uno sguardo la cognata.

Appena si trovarono sole, il viso di Miranda si fece serio.

— Ebbene… che impressione ti ha fatta il principe? — chiese con una specie di gravità.

— Nessuna — rispose pian piano Tecla.

— Allora non vi è più nulla a temere — replicò Miranda con gioia — posso vivere tranquilla.

Tecla aggrottò con lievissimo moto le ciglia.

— Perchè ti saresti altrimenti turbata? — disse con una certa energia ed impazienza. — Mi avresti creduta capace di coltivare un pensiero indegno di me?

Miranda rimase per un momento perplessa.

— No, mia cara — rispose quindi con voce un po' tremante — ma è il desiderio della tua pace, che mi ha fatto parlare così.

Tecla non replicò, nè respinse le carezze della cognata: rimase fredda e muta.

Perchè in fondo sentiva di non essere stata sincera.

E quando taluno ha qualchecosa da rimproverare a sè stesso, incomincia sempre col prendersela cogli altri.

Tecla, malgrado l' indifferenza di cui voleva far pompa, aveva provata una profonda sensazione rivedendo il principe, accorgendosi del cangiamento operato nei suoi lineamenti, in tutti i suoi modi.

Si figurava, fremendo, quanto egli avesse dovuto soffrire il giorno in cui si era veduto respingere, disprezzare da lei che tanto l' amava, e sentì un vivo moto di pietà per il giovane e di collera verso sè stessa e la contessa Edvald.

Meritava questa il sacrifizio che aveva fatto? La brutale, insolente risposta rivolta al principe?

E così aveva distrutto di un colpo tutte le sue illusioni e Cars, ritrovandola moglie di un altro, senza sua madre, aveva dovuto crederla menzognera, cattiva, ingannatrice.

Perciò si sentiva irritata e, non volendo confessarlo, si sfogava con dispetti assurdi, puerili verso Miranda.

Dimenticava in quel momento quanto doveva alla giovane e in conseguenza della mala disposizione della sua anima, trovava che Miranda era egoista, non pensando che al proprio fratello.

Non era già abbastanza aver ceduto alle preghiere di lei, ed acconsentito ad essere moglie di Umberto, facendo ogni sforzo per renderlo felice?

Che pretendeva di più? Perchè quegl' ingiusti sospetti? Quella diffidenza verso di lei? Che cosa poteva rimproverarle? Non era strana colle sue continue inquietudini, quelle ombrose diffidenze?

Tali furono i pensieri che si succedettero nell' animo di Tecla, e la fecero quella sera ritirarsi assai presto in camera, senza accorgersi quanto Miranda rimanesse dolorosamente colpita da quel contegno.

La povera giovinetta pianse assai in quella notte, ma Dio solo raccolse quelle lacrime, fu testimone di quei sospiri.

Che aveva infine detto perchè Tecla si lasciasse andare a un trasporto inconsiderato? Non aveva pensato che solo l' affetto che Miranda per lei nutriva era stato cagione di quella semplice e innocente domanda?

Poteva credere che in essa vi fosse una malevola insinuazione?

Il giorno seguente trovò Tecla più ragionevole, tanto che, pentita del suo moto di sdegno, sentì il bisogno di riconciliarsi con Miranda.

Credeva che la giovinetta le serbasse rancore: invece la trovò affettuosa, carezzevole come sempre.

— Mi perdoni? — le sussurrò Tecla, baciandola.

Miranda le rese con trasporto il bacio.

— Io non ho nulla a perdonarti, nè sono affatto in collera con te: non ci pensare dunque più.

Tecla l' ascoltò riconoscente, confortata: il suo viso un po' pallido, abbattuto, si rischiarò di gioia: ella si strinse di nuovo al petto della cognata e per qualche minuto rimasero così abbracciate.

La cameriera entrando sorprese quel gruppo così grazioso.

— Perdoni, signora Tecla, se disturbo — disse.

La giovine donna si volse con vivacità, e sorridendo disse:

— Che vuoi?

— Vi è una signora che cerca di lei.

Tecla fece un movimento di sorpresa.

— Di me! Ti ha detto il suo nome?

— La contessa San Secondo.

— Non la conosco affatto, e tu Miranda?

È la prima volta che sento pronunziare un tal nome.

Tecla si rivolse alla cameriera:

— Che vuole quella contessa da me?

— Dice che ha bisogno di parlarle.

— Ebbene, rispondile che non ricevo persone estranee.

La cameriera uscì, ma tornò quasi subito.

— La contessa di San Secondo mi prega di dirle che viene da parte della contessa Edvald.

Tecla impallidì; Miranda lasciò sfuggire un leggiero grido.

— Va, va subito… — esclamò — e, se hai bisogno di me, fammi avvertire.

Tecla non rispose, tanto era commossa, ed a passi vacillanti si diresse verso il salotto, dove la signora l' attendeva.

La visitatrice stava in piedi presso una poltrona, premendola nervosamente con la mano destra coperta di un guanto di pelle un po' sgualcito.

Vedendo entrare Tecla mandò un sospiro di sollievo e con voce ironica, mordente, sprezzante:

— Da quando in qua ti sei resa tanto preziosa? — disse.

La giovine donna ristette fulminata. Più che dalla persona, aveva riconosciuta dalla voce sua madre.

La contessa Edvald si era tinti i capelli e le sopracciglia in nero, ciò che dava alla sua fisonomia un' espressione più vecchia, qualchecosa di marcato, di duro. I modi alteri, decorosi, in certo qual modo delicati che altra volta imponevano ancora una certa soggezione, rispetto, le davano l'aria di una dama dell' alta società, si erano cangiati in modi liberi che arrivavano fino alla sfacciataggine e in ardita loquacità.

Accorgendosi dell' effetto prodotto in sua figlia, diede in una risata triviale.

— Non ti aspettavi certo di vedermi trasformata in una contessa di San Secondo — disse sedendo sul divano, dove Tecla prese pure macchinalmente posto — ma che vuoi? Ho cangiato nome per non avere seccatura, ed ho anche modificato un po' il viso: che ti sembra?

— Perchè mi lasciasti tanto tempo senza tue nuove? — balbettò con voce tremula Tecla. — Io non ho mancato di far ricerca di te.

— Già… per condurmi dinanzi ad un magistrato, accusarmi d' averti perduta.

A Tecla si offuscarono gli occhi.

— Ma no… mamma, t' inganni, anzi io volevo prevenirti che il tuo nome non sarebbe stato pronunziato.

La contessa alzò le spalle.

— Bah! Hai pure accusato Michele!

Tecla fu colta da un doloroso stupore.

— Come! difenderesti quel miserabile, mamma?

A Livia si arrossarono le guancie.

— Non ne parliamo più, è assai meglio — borbottò.

Basta, ho saputo tutto quello che ti è accaduto, e se non mi feci viva, n' ebbi le mie ragioni: d' altronde non mi trovavo io stessa in buone acque: avevo seguìto uno sciagurato mascalzone, che mi aveva fatto mille promesse; poi oltre stiracchiarmi il denaro, mi ha battuta…. un mostro ti dico!

Aveva alzata la voce, senza accorgersi dell' estrema agitazione che le sue parole producevano in sua figlia.

Non mai come in quel momento Tecla si era vergognata di sua madre. Quelle rivelazioni la ferivano profondamente al cuore, l' umiliavano.

Come presentare la contessa a Miranda, ad Umberto?

Tuttavia non poteva discacciarla, nè vi pensava.

Rimaneva muta, stordita. Livia aveva assunto un certo che di alterigia.

— Capirai che ne ebbi abbastanza. Lasciai quel tirchio col quale avevo sempre viaggiato, e da tre mesi mi trovo stabilita qui.

Tecla si sentì mancare il cuore.

— Da tre mesi? E soltanto oggi vieni a vedermi? — balbettò sottovoce.

— Perchè prima volevo prendere informazioni sul tuo conto. E così, sei felice adesso che sei riuscita a sposare il tuo antico innamorato?

— Oh! mamma, mamma — mormorò Tecla con accento straziante, mentre una lacrima invano trattenuta le correva sulla guancia.

Livia non ne apparve commossa.

— E così, vorresti anche adesso negare? Io non insisto, solo ti chiedo se ti trovi contenta?…

Tecla impallidiva, tremava.

— Lo sarei stata mille volte più se tu non mi avessi abbandonata.

La contessa non comprese il vero significato di quelle parole.

— Dunque non sei felice? — replicò — Eh! lo credo anch' io, con a fianco una cognata, che deve essere un cerbero.

— Oh! mamma, mamma, taci; Miranda è un angelo.

Livia fece un gesto di disprezzo.

— Puah! Scommetto intanto che non sei padrona di un soldo, tanto che se mi trovassi in bisogno…

Rideva forte, alzando le braccia, facendo risuonare i braccialetti, dei quali aveva adornati i polsi, guardandosi nello specchio che aveva dirimpetto.

— Mamma — balbettò con voce commossa — 10 spero che d' ora innanzi non avrai più bisogno di cosa alcuna, perchè rimarrai presso di me.

— Per morire dalla noia — ripetè ironicamente Livia — o per sentire delle prediche dal mio genero, no, no… anzi tu devi nascondere assolutamente a tuo marito ed a Miranda, che io mi trovo in Firenze, lo voglio capisci!… Dirai soltanto loro che ho conosciuta tua madre all' estero, e che stava benissimo e null' altro.

— Ma come potrei sostenere lo sguardo leale di Umberto?

— Perdio, sei ancora ben ingenua e non sembri proprio mia figlia: ti ripeto, non voglio ricomparire nel mondo col mio proprio nome, mi sono fatta conoscere da te, perchè mi sarebbe tornato inutile il negare; venni qui perchè ho bisogno di un migliaio di lire, ed in questo momento non saprei a chi altri rivolgermi.

L' ultima molla che poteva ancora vibrare nel cuore di Tecla si spezzò. Dunque non era l' affetto che aveva spinta sua madre a riceverla. Se avesse saputo dove trovare altrove il denaro di cui abbisognava non si sarebbe a lei rivolta.

Dapprima la giovine donna si era curvata sotto il sentimento della vergogna, ma passato quel momento di supremo dolore rialzò la testa con aria dignitosa, fiera.

— Dammi il tuo indirizzo — disse con freddezza — stasera avrai la somma richiesta.

La contessa chinò per un istante gli occhi sotto lo sfolgorante sguardo di sua figlia.

— Se credi, posso io stessa venire a prenderlo — disse piano.

— No, dal momento che non vuoi farti riconoscere — rispose seccamente Tecla.

— Non mi permetterai adunque di venire qualche volta a vederti?

Tecla fece un movimento d' impazienza e corruccio.

— No, — rispose — perchè non amo i sotterfugi.

Bisogna dire che Livia avesse proprio bisogno di sua figlia per mantenersi calma.

— Ebbene, sia fatto come vuoi: eccoti il mio indirizzo.

Tolse da una borsetta di pelle un biglietto di visita, che porse quasi timidamente a Tecla. Questa se lo mise in tasca senza guardarlo, poi si alzò per far capire a sua madre che non aveva più nulla a dirle.

La contessa divenne rossa fino alle orecchie e si alzò essa pure.

— Non mi stringi la mano? — domandò.

Tecla toccò appena colla punta delle dita quelle della contessa, senza guardarla.

Quando rientrò nella stanza dov' era Miranda, la giovane donna era pallidissima, aveva le labbra scolorite, gli occhi smarriti.

— Quella contessa di San Secondo ti ha forse recata qualche cattiva nuova di tua madre? — chiese ansiosa.

— No, mia madre sta benissimo e l' ha incaricata di richiedermi un migliajo di franchi — rispose con una risata ironica, che fece assai male alla giovinetta.

Ma per una reazione naturale, quasi tosto Tecla si coprì il volto fra le mani e dal petto le uscirono singulti strazianti.

Miranda l' allacciò fra le sue braccia, la trasse a sedere vicino a sè, l' accarezzò dolcemente sulla candida fronte.

Tecla stette per qualche minuto silenziosa, come oppressa, stretta al petto della cognata.

Di quando in quando mormorava sommessamente:

— Quale vergogna!

— Parla, confidati in me — le disse Miranda. — Se è per il denaro che ti affliggi, non ci pensare: mio fratello non mancherà di dartelo.

— Dirlo ad Umberto? Confessargli che mia madre la prima volta che fa chiedere mie nuove è per cercare di spogliarmi? No, no.

— Ma non potrebbe quella contessa San Secondo essere un' intrigante, aver mentito? Io vorrei far chiedere informazioni su di lei.

Il rossore accendeva le guancie di Tecla, che si riscosse, gettò sulla cognata uno sguardo inquieto.

— No, torna inutile — balbettò — l'ho riconosciuta: veniva da mia madre: è incapace di mentire.

Abbassò la testa, non potendo continuare: grosse lacrime le caddero dagli occhi.

— Non piangere così, mi fai male — esclamò con angoscia Miranda — tanto più che è una cosa alla quale si può rimediare. Non diremo cosa alcuna ad Umberto ed io ti darò il denaro.

Tecla, ricordando il disprezzo con cui la contessa aveva parlato di Miranda, sentì crescere il suo dolore, e provò un moto d' indignazione contro sè stessa.

— No, non accetterò mai — esclamò. — Mi parrebbe commettere una cattiva azione privandoti di una somma che ti è necessaria, per chi non lo merita.

Miranda le chiuse la bocca colla sua delicata mano.

— Non dire così: tu mi obbedirai — replicò con un tale accento al quale era impossibile resistere — del resto crederò che tu mi nasconda qualche cosa, o manchi di fiducia in me.

E siccome Tecla pareva volesse rispondere, la giovinetta si alzò.

— Non voglio obbiezioni — aggiunse — altrimenti vado in collera con te e confesso tutto a mio fratello.

Questa vaga minaccia produsse sulla giovane donna maggior effetto di una preghiera.

Ella non ebbe più alcuna esitanza.

— Accetto — balbettò con espressione di riconoscenza — ma ti giuro….

La fine della frase si perdette in un lieve mormorìo, perchè Miranda non volendo sentir altro era corsa subito via.

Il giorno stesso Livia Edvald riceveva in una busta, portata da una cameriera, i mille franchi richiesti. Non vi era unita neppure una riga di scritto.

— Mia figlia fa l' altera — pensò fra sè la contessa, che pure non seppe celare un certo turbamento.

Ma poi scuotendo le spalle:

— Intanto il denaro è venuto — aggiunse — ed è quello che importa.

Livia avrebbe voluto interrogare la cameriera, ma questa, secondo gli ordini ricevuti, appena consegnata la busta, si era subito ritirata.

La contessa si trovava in un salotto abbastanza elegante, sebbene i mobili tradissero il lungo uso e fossero ricoperti di polvere.

Sentendo tossire nella stanza vicina, celò rapidamente i biglietti di Banca nel corsetto: poi, nel tempo che stava per distruggere la busta, l'uscio si aprì e comparve un uomo di una figura abbastanza spiacente.

Una barba lunghissima, ispida, folta, gli contornava il viso giallastro, dalle labbra scolorite, contratte da un movimento nervoso; portava grossi occhiali affumicati, che mal nascondevano certi bagliori rapidi, di due occhi vivissimi, profondamente incavati: in capo teneva un berretto di seta nera, colla visiera molto sporgente. Vestiva un abito color grigio ferro, portava una grossa catena al panciotto ed uno spillo caratteristico alla cravatta. Figurava una testa di morto, ma nelle vuote occhiaie ci erano incastonati due brillanti.

All' apparenza quell' uomo dimostrava di essere giunto alla maturità, ma forse senza quella folta barba e gli occhiali, sarebbe apparso assai più giovane.

Entrando pareva molto allegro, giacchè si fregava nervosamente le mani con un moto rapido, regolare.

— Vi è qualche novità? — chiese Livia osservandolo con la coda dell' occhio, mentre faceva della busta una pallottola e la gettava nel caminetto spento.

— Sì, mia caruccia, qualche cosa che non ti aspetti — rispose l' uomo camminando per il salotto — ho fatto un incontro che mi ha stordito.

Livia ebbe un gesto d' impazienza.

— Avanti, sbrigati: hai forse veduta mia figlia?

L' uomo arrossì impercettibilmente.

— No — disse a voce bassa, facendo il cipiglio — ma ho incontrato suo marito, in compagnia del principe Cars.

La faccia della contessa divenne convulsa: le sue narici si dilatarono.

— Cars a Firenze? In compagnia d' Umberto Clementi? Michele, tu hai avute le traveggole.

— Sta' pur certa che non mi sono ingannato.

Livia si era rimessa in una quieta attitudine.

— Ebbene, ammettiamo che tu dica il vero, non comprendo allo stesso modo la tua allegria.

— Mi comprendo ben io.

La contessa gli volse uno sguardo sdegnoso.

— Oh! badiamo che tu non commetta qualche imprudenza. Se acconsentii a fare ancora lega con te, malgrado la taglia che ti pesava addosso, e il pericolo al quale mi esponevo se ti avessero riconosciuto, si è perchè tu potevi essermi utile, come io lo fui a te; la forza delle cose ci ha riuniti di nuovo, ma tu mi hai promesso di agire nell' ombra, senza far scandali.

— Via, via, non agitarti tanto, o vado in collera; non ho nessuna intenzione di fare del chiasso, che tornerebbe a mio danno: ma dal momento che ho scovata la selvaggina, alla quale facevo la posta da molto tempo, non voglio lasciarmela sfuggire. Ti ho pur detto che sarebbe venuto un giorno che avrei reso ad usura ad Umberto, a sua sorella, a Tecla, il male che mi hanno fatto.

Livia si strinse nelle spalle.

— Nè io te l' impedisco; però esaminiamo il piano che hai concepito…. e vedrai che ha d' uopo di qualche modificazione.

Si erano seduti vicini e si guardavano attentamente in viso.

— Dapprima — proseguì la contessa — ti era venuta l' idea di farti giustizia il giorno stesso del matrimonio di mia figlia con Clementi?

Michele lasciò sfuggire un sonoro e stridulo riso.

— Veramente non avrei agito che da pazzo come mi credevano — rispose — Ma se il colpo andava fallito? La mia testa non sarebbe stata più sicura sulle spalle. Pensai quindi che il meglio che restava a fare era di allontanarmi. E poi all' offesa atroce che mi fu fatta non bastava una vendetta ordinaria. Tua figlia, per sbarazzarsi di me, mi aveva accusato d' assassinio, e quel miserabile di Clementi la sosteneva.

Tacque un istante, senza che Livia l' interrompesse: si passò una mano sulla fronte, indi riprese:

— Non so ancora come giunsi a sfuggire tutte le ricerche, ma fu una vera fortuna che t' incontrassi in quell' albergo, dov' eri alloggiata sotto il falso nome che ancora porti.

— Non vi è duopo di ricordar tutto ciò, che so meglio di te; ad entrambi interessava avere un complice e ci siamo uniti, io sentivo il bisogno di vendicarmi del marito di mia figlia, perchè forse senza di lui Tecla non avrebbe avuto tanti scrupoli, di Miranda che mi ha attraversata la via, del principe Cars che mi ha umiliata… E siamo giunti ad intenderci, ma per molto tempo tutti coloro ci sono sfuggiti.

— Oggi però conosco il loro asilo e sono soddisfatto; tu devi dunque aiutarmi, tu che puoi introdurti in casa di tua figlia!

Ella abbassava gli occhi sul tappeto.

— Io non andrò, nè voglio correre il rischio di farmi riconoscere. Cerchiamo un altro mezzo.

Michele rimaneva pensieroso.

— Non so, saremo ispirati dalle circostanze; lasciami riflettere.

La contessa si alzò e volgendo il dorso a Michele per guardarsi nello specchio:

— Non ti sembra che questi capelli neri mi stiano orrendamente? — chiese.

— Tutt' altro, anzi ti danno una vaga rassomiglianza con Tecla.

Livia si volse a lui sorridendo.

— È forse per questo che è risuscitata la tua antica passione?

— Può darsi! — ripetè Michele sbadigliando.

La contessa gli lanciò uno sguardo di dispetto, che egli non avvertì, perchè aveva abbassato il capo sul petto e pareva meditare.

Allora Livia lasciò il salotto, senza aggiungere altra parola.

Michele non la vide andarsene, ma il rumore dell' uscio che si chiudeva, lo scosse, come se si risvegliasse da un sogno e lo fece guardare all' intorno con occhi smarriti.

Vedendosi solo, sorrise, poi avvicinatosi al caminetto si chinò a raccogliere la pallottolina che Livia aveva gettata e adagio adagio la svolse.

Quando i caratteri della busta gli caddero sotto gli occhi, Michele non potè trattenere un grido.

Non s' ingannava: era la scrittura di Tecla!

Ella aveva dunque scritto a sua madre? Sapeva che Livia Edvald si nascondeva sotto il nome di San Secondo? Ma perchè questa mentiva con lui? Giurava di non aver riveduta sua figlia?

Oh! egli la sapeva vile, abituata al vizio, alla vergogna, ma trovarla anche menzognera!…

Un' ira sorda ribolliva nella sua anima; egli non amava più Livia, perchè la disprezzava troppo; però aveva bisogno di lei e dissimulava il suo disprezzo con mille artifizî, che potevano ingannare la natura frivola e capricciosa della contessa.

Ma adesso a questa repugnanza interna, si univa una specie di rancore, d' odio.

— Oh! — mormorava stringendo fra le dita nervose la busta — lascia che mi sia servita di te per i miei fini, eppoi troverò il mezzo di perderti. Tu sola, Livia, sei la prima cagione della mia rovina, e non posso ritornare indietro, mutare il passato; ma per tutti coloro che mi hanno fatto del male, saprò attraversare la via, gettando a piene mani il terrore, l' onta, la disperazione. Nessuno più forse si ricorda di me, io però non dimentico, ed Umberto, Tecla, Miranda, mi troveranno sempre attraverso i loro passi e senza che se ne accorgano, senza che abbiano pure un lontano sospetto che io li colpisco. Nella mia vendetta travolgerò anche degli innocenti, come il principe Cars, che mi ha fatto del bene. E sia: gli uni pagheranno per gli altri.

Dopo questa frase enigmatica, Michele si diresse verso la camera della contessa, volendo aver tosto una spiegazione con lei, obbligarla a mostrargli la lettera di Tecla.

Ma Livia era uscita, e per quel giorno il suo complice non potè appagare l' ansia, la curiosità che lo divoravano.

Miranda aveva mantenuta la sua promessa. Nessuna allusione era uscita dalle sue labbra sulla contessa di San Secondo ed Umberto ignorò affatto la visita di costei ed il turbamento che aveva cagionato a Tecla.

Trascorsero quindici giorni all' apparenza tranquilli. Il principe era tornato alla palazzina di Clementi e nessuno certo sentendolo discorrere con una certa vivacità e gaiezza, avrebbe compreso il segreto del suo cuore, avrebbe creduto alle lotte che egli sosteneva, non potendo vincere quella passione, che l' affascinava sempre più.

Nell' anima di Tecla non vi era minor combattimento: ella soffriva per cercar di spegnere quell' amore che si ostinava a risollevare le ceneri, e tremava si scoprisse l' identità di sua madre.

Per quanto cercasse sorridere, mostrarsi allegra, la giovine donna non vi riusciva; il suo viso tradiva le sofferenze interne, le notti passate insonni, i palpiti crudeli del cuore.

— Come sei pallida, mia stella — le disse un sera Umberto, quando si furono ritirati nelle loro stanze — ti senti forse male?

Ella arrossi alquanto.

— Ma no, sto benissimo.

— Eppure ti ho osservata più volte durante la conversazione con Cars e mi pareva che tu soffrissi.

Il cuore di Tecla batteva celeremente, ma le sue labbra si schiusero al sorriso.

— Ti sei ingannato — rispose con un tuono di voce dolce — io non ero che annoiata.

— Eppure il principe parla assai bene e quando racconta dei suoi viaggi, non mi sazierei di sentirlo.

— Questione di gusti — interruppe Tecla con una certa impazienza, che sorprese alquanto Umberto.

Il giovine si era persuaso che sua moglie provasse una forte antipatia per Cars e gli dispiaceva, giacchè da parte sua si sentiva avvincere ogni giorno più d' amicizia per il principe.

Egli si era accorto che quando eravi presente il suo amico, Tecla diveniva pensierosa, volgeva altrove gli sguardi, come se le dispiacesse incontrare quelli di Cars.

Umberto risolse di chiedere a Miranda il motivo di quell' antipatia.

Attese la mattina e prima che Tecla fosse alzata si recò nella camera della sorella.

La giovinetta era appoggiata al davanzale della finestra per respirare l' aura pura e fresca del mattino.

Umberto le si accostò pian piano, e la baciò sulla nuca.

Miranda gettò un leggiero grido, ma volgendosi e veduto il fratello, gli occhi le scintillarono di gioia, il sorriso le dischiuse le labbra.

— Tu, alzato a quest' ora? — esclamò.

Poi con una certa ansia:

— Tecla si sente forse male? — aggiunse.

— Ella dorme tranquillamente, ma è appunto per chiederti qualche cosa di lei, che ho approfittato del suo sonno, per venire da te.

Nulla apparve sul viso di Miranda che indicasse la potente sensazione provata a quelle parole.

Rimase calma, sorridente.

— Non ti comprendo — disse.

Umberto le fece parte dei suoi pensieri, le spiegò come il contegno freddo di Tecla verso Cars, gli facesse male.

Miranda non ismentì la sua calma.

— Là, là — esclamò ridendo — voialtri uomini siete proprio tutti uguali. Se Tecla si fosse mostrata troppo cortese col principe, ti sarebbe forse dispiaciuto; non provando per lui quella simpatia che tu senti, ti mostri quasi offeso: come contentarvi? Del resto, parlerò io a mia cognata.

Umberto si era già rasserenato.

— Oh! non le ripetere quello che ti ho detto: convengo che il torto è mio — replicò allegramente.

Quando lasciò la stanza della sorella, questa divenne subito seria.

— Ahimè, io temo che Tecla non abbia dimenticato — mormorò — purchè i miei presentimenti non m' ingannino.

Ella cercò la mattina stessa d' interrogarla destramente.

Tecla chinò il capo come una colpevole.

— Sì, forse ho torto nell' agire così — mormorò.

E quando il principe fu di ritorno, la giovane donna si mostrò con lui più espansiva, vivace.

Cars al dolce suono di quella voce, che da tanto tempo non gli risuonava più così carezzevole all' orecchio, sentì destarsi la memoria di quella notte in cui si era intrattenuto colla fanciulla nel solitario salotto, e gli parve di essere pagato di tutto ciò che aveva sofferto, provò un momento di ebbrezza, che gli fece dimenticare la posizione di Tecla e la sua.

La figlia della contessa Edvald, si lasciò pure andare al fascino di quell' istante, pareva si svegliasse come da un sogno, si sentiva il petto gonfio di entusiasmo, le corde dell'animo suo, teso da sforzi continui, si rallentavano voluttuosamente.

Non mai era apparsa più bella, più affascinante.

Umberto sentendola parlare con tanto spirito, vivacità, ne provava gioia ed orgoglio, e di quando in quando la fissava con uno sguardo di riconoscenza.

Miranda però soffriva a quell' eccitamento della cognata: forse comprendeva quello che si passava nell' anima di lei ed un triste presentimento le strinse il cuore: la sua sublime fiducia verso Tecla andava svanendo, il dubbio si faceva strada nella sua anima.

Volle rompere l' incanto.

— Tecla — disse con forzata gaiezza — lascia a mio fratello ed al principe le scabrose discussioni sui diversi sentimenti che agitano l' umanità; per noi donne il sentimento più grande che deve animarci, sorreggerci in ogni evento della vita, è il dovere.

Mentre la giovinetta parlava, sul volto della figlia di Livia si dipinsero a vicenda confusione, rossore, sdegno.

Non pensò più quanto dovesse a Miranda, si sentì pùnta, offesa e facendo vibrare un po' più la voce:

— Il dovere, sì, va bene — rispose — ma talvolta per seguirlo strettamente, la donna si sacrifica, si rende egoista.

Ed alzatasi tutta fremente, con una lieve scusa, lasciò la sala, non tanto presto però da non udire la voce soave di Miranda, mormorare:

— Povera Tecla, talvolta la sua eccitazione nervosa la fa prorompere in frasi che non pensa, la rende ingiusta anche verso sè stessa, così virtuosa, irreprensibile.

L'accento di compassione che traspariva dalle parole di Miranda, accrebbe il dispetto della giovine donna, la colpirono nella sua fierezza e dignità.

La contessa Edvald aveva dunque ragione? Ella non poteva muovere un passo senza avere al fianco sua cognata, che commentava ogni suo gesto, sguardo o parola.

La cosa finiva per diventare insopportabile. Non poteva più godere un momento di gioia, di dimenticanza, senza che Miranda la turbasse.

Cupa, accigliata, Tecla discese in giardino per abbandonarsi liberamente a' suoi pensieri.

Come agire? Umberto la voleva allegra, espansiva col principe; Miranda le imponeva il silenzio, l' indifferenza. Col marito era ormai troppo tardi per confessare la verità, col pregarlo a congedare Cars; con Miranda non poteva rivoltarsi essendo a parte dei segreti del suo cuore.

Era dunque destinata a soffrir sempre? Che aveva mai fatto per essere tanto disgraziata?

Ad un tratto si fermò quasi rientrando in sè. Si trovava vicino al cancello della palazzina e dietro ad esso un uomo barbuto, dai grossi occhiali affumicati, pareva intento a guardarla.

La giovine donna ebbe paura, fece per retrocedere.

— Signora Tecla — mormorò lo sconosciuto.

Ella fu stordita sentendosi chiamare a nome, e mosse alcuni passi verso il cancello.

— Che volete, signore? — chiese con curiosità.

— La contessa di San Secondo mi ha incaricato di consegnarvi questo biglietto.

Aveva passata la mano attraverso ai ferri, glielo porgeva.

Tecla diventò livida, pensò rifiutare.

Ma il timore di essere sorpresa, l' idea che quell'uomo potesse darlo ad altri, la fecero risolvere diversamente.

Afferrò quasi con violenza il biglietto e fuggì via.

Nel vestibolo sentì la voce di Umberto e di Cars: il passaggio era oscuro. Tecla si appiattò in un angolo, e i due uomini passarono poco distante senza vederla.

Il principe diceva:

— La saluterai da parte mia.

— Certamente, e devi perdonarle quegli improvvisi scatti da bambina — rispondeva Umberto — ma dacchè è stata tanto ammalata, è divenuta impressionabilissima.

Parlavano di lei. Un' onda di sangue salì al volto di Tecla.

Tutti adunque la credevano nervosa, la compativano!

Ella ritornò nella sua camera con lo sguardo fisso, le labbra increspate, e chiuso l' uscio a chiave, trasse dal corsetto, in cui l'aveva nascosto, il biglietto di sua madre.

Diceva:

“ Figlia mia, trova un mezzo di venire a me…

“ Sto tanto male e vorrei parlarti: non mi negare questo favore.

“ So di averti recato molto dolore, e me ne pento: è la fatalità che fece di me lo strumento della tua sciagura… e della mia.

“ Tu, così pura e buona, non respingerai la mia preghiera; non tardare: potresti più tardi averne un rimorso. ”

Tecla rilesse due o tre volte il biglietto: si sentiva turbata, presa da terrore.

Se le fosse pervenuto poche ore prima, si sarebbe consultata con Miranda.

Ma in quel momento respingeva simile idea.

— Infine non sono padrona anch' io qui… o devo sottostare agli ordini di mia cognata? — mormorò — Forse che ella può opporsi che io esca sola?… Mi sarà impedito anche di recarmi da mia madre?..

Dimenticava lo sdegno provato, quando Livia le aveva chiesto il denaro e stabilì di recarsi da lei il mattino seguente.

Per il solito dormiva fino verso le dieci: nessuno la sturbava prima di quell' ora.

Miranda usciva colla cameriera per recarsi alla messa od a fare le sue piccole spese.

Umberto amava le passeggiate mattinali, fuori della cinta daziaria, nell' aperta campagna.

Tecla risolse di approfittare di quell' ora ed appena il marito e la cognata si trovarono fuori, si abbigliò modestamente, coprì il volto di un fitto velo e lasciò la palazzina, dicendo al domestico di Umberto, che se questi chiedeva di lei, gli rispondesse che si recava dalla sarta.

Quando fu sul viale, provò quasi un lieve rimorso ed ebbe l' idea di ritornare indietro.

Ma arrossì quasi tosto della sua debolezza.

— Mi renderò dunque sempre schiava degli altri? — mormorò.

Lu sua andatura si fece più rapida, poi vedendo una vettura vuota che passava, fece cenno al cocchiere e vi salì, dando con voce tremula l' indirizzo della contessa.

Quando la vettura si fermò davanti alla porta della casa abitata da Livia, la giovine donna provò un trasalimento doloroso…

— Debbo aspettarla? — chiese il vetturino che aperse lo sportello.

Ella fece un cenno affermativo col capo e spiccato un salto a terra, s' avanzò nell' oscuro corridoio, in fondo al quale faceva capo la scala.

A misura che saliva, la luce che veniva dall' alto rischiarava i suoi passi.

Al secondo piano si fermò, comprimendo i battiti del cuore.

Era pallidissima, impacciata… ed esitò un istante prima di tirare il cordone del campanello, che pendeva da un lato dell' uscio, sul quale un biglietto di visita, fermato da quattro piccoli chiodi, portava scritto in lievi caratteri litografici: “ Contessa di San Secondo. ”

Un passo che risuonò sulle scale la fece risolvere: ella suonò con violenza.

L' uscio si aprì quasi subito e sulla soglia comparve lo stesso individuo che le aveva consegnato il biglietto.

Senza dire una parola, egli si ritrasse alquanto per lasciarla passare.

— La contessa San Secondo è in casa? — chiese Tecla agitata.

Egli accennò di sì col capo ed introdusse la giovine donna nel salotto che conosciamo, ritirandosi subito.

La figlia della contessa Edvald rimase dritta, ansiosa, palpitante.

Le parve di sentire come un rumore di voci nella stanza vicina, ma non potè distinguere le parole…

Poi un uscio si aperse con impeto e Livia apparve avvolta in una veste da camera, tutta a fronzoli, coi capelli scarmigliati, gli occhi un po' abbattuti.

— Ah! sei proprio tu, non volevo crederlo — esclamò.

E come presa da un impeto d' affetto, strinse la giovane donna fra le sue braccia e baciandola, aggiunse:

— Mi trovavo ancora a letto, scusami d' averti fatta aspettare.

Tecla era stordita.

— Perchè alzarti? Ho creduto, dal tuo biglietto, che stessi male.

La contessa impallidì alquanto, ma si rimise ben presto.

— Sì… infatti — replicò — ma ora sto assai meglio e la tua presenza mi fa risanare completamente… Ah! non ti aspettavo… no: come hai potuto sfuggire alla vigilanza di tuo marito e soprattutto di tua cognata?

Sembrava parlare con semplicità e naturalezza, ma si sentiva un' ironia pungente in ogni frase di lei.

Tecla ne soffriva.

— Non ho bisogno di chiedere ad alcuno il permesso di uscire — disse con una certa alterezza.

La contessa parve provarne sollievo.

— Ah! meglio così… però non avresti ragione di lamentarti anche se fosse diversamente… hai fatto tanto… per riuscire a sposare quel Clementi, di cui eri innamorata…

Sorrideva con bonomia, ma dai denti serrati le usciva come il fischio della vipera.

Malgrado la volontà di rimanere calma, Tecla non vi avrebbe a lungo resistito.

E guai se nei combattimenti morali la donna non sta sempre sulle difese e si lascia vincere un istante dalla debolezza: è perduta…

— Ti dico di no, mamma — esclamò quasi con violenza — io non ho mai amato Umberto.

Ed abbandonandosi con fatale scoraggiamento alla desolazione, anzichè tentar di combattere, si nascose il volto fra le mani e lasciò sfuggire un singhiozzo.

Livia che conosceva per esperienza il cuore della donna, capì che era giunto il momento opportuno d' esercitare la sua triste influenza sulla figlia, facendole penetrare nell' anima un veleno mortale, i cui rapidi progressi dovevano lasciar Tecla disarmata in faccia alle complicazioni, che avevano per scopo di perderla.

Ah! le nature perverse, come quella di Livia, finiscono sempre ad insozzare col loro contatto i cuori più generosi.

Bisogna diffidare delle loro lacrime, del loro affetto, talvolta più pericoloso dell' odio più intenso.

La contessa finse di provare un improvviso ed acuto dolore.

— Ah! povera figlia mia, ti sei adunque sacrificata, e per colpa della tua disgraziata madre? — proruppe.

Ed in mezzo ad un diluvio di lacrime, parlò del passato, si accusò d' essere stata cattiva, egoista, e picchiandosi il petto, fra mille lamenti, disse che era stata un' infame a non accettare la proposta di Cars.

— Perchè tu l' amavi, non lo negare — aggiungeva l' astuta — il tuo cuore aveva parlato in suo favore. Ah! che marito appassionato sarebbe stato per te, un vero principe, che vita di ebbrezze ti avrebbe procacciata!

Tecla abbassava la testa arrossendo…

— Anche Umberto mi circonda di cure, di venerazione — balbettò — nulla mi manca.

— Ah! cara figliuola — soggiunse Livia con espansione — ma tu non l' ami…

E parlò della felicità di due cuori animati dalla stessa passione con un linguaggio ardente, con tutte le finezze di cui era capace, fingendo non accorgersi che la manina di Tecla fremeva nella sua, che il seno di lei era anelante, gli occhi le luccicavano di una luce nuova, improvvisa, che la trasformava, irradiava il suo sembiante, la rendeva sovranamente bella.

Poi con un abbandono, che altra volta l' avrebbe spaventata, Tecla passò le braccia attorno al collo di sua madre… appoggiò la testa sulla spalla di lei… e pianse…

— Tu l' ami ancora… povera figlia mia! — mormorò la contessa, tutta trionfante nello scorgere il turbamento, l' angoscia di Tecla.

Un' indicibile commozione che stringeva la gola della giovane donna, le impedì di rispondere.

Livia la baciò sulla fronte.

— Dimmi, se Umberto dovesse morire, lo sposeresti il principe?

Queste parole, accentuate freddamente dalla voce sorda della contessa, dissiparono ogni ebbrezza di Tecla, la ritornarono alla realtà.

Con un grido d' angoscia, di orrore, si svincolò da Livia, balzò in piedi.

— Che dici mai, madre mia? — proruppe con indignazione — Oh! che Umberto viva… e non mi parlare mai più del principe — non voglio, nè debbo ascoltarti.

La madre pareva commossa.

— Perdonami, ti vedevo soffrir tanto, forse se tu fossi stata la moglie di Michele…

Tecla l' interruppe con un gesto d' orrore.

— Mamma, per carità… non farmi un confronto fra Umberto e quel miserabile: avrei preferito mille volte la morte che portare il suo nome.

Si udì un rumore nella stanza vicina. La giovine donna si volse vivamente.

— Qualcuno di là ci ascolta — disse.

— No, non temere… in casa non vi è che l' uomo che tu vedesti.

Tecla fece una smorfia di ripugnanza.

— Come puoi tenerti vicino un simile mostro? Mi ha fatto paura al solo guardarlo.

— È un povero disgraziato, quasi cieco, che mi ha servita d' interpetre nei miei viaggi all' estero e che non mi ha più lasciata — disse Livia — ma non occupiamoci di lui. Sei ancora in collera con me?

— No… ma te ne prego, non parlarmi più di Cars.

— Non lo farò se ti dispiace, ma tu lo vedi sovente, non è vero? Umberto non è geloso di lui?

L' interrogava con arte, destramente.

— Mio marito nulla sa.

— Come… come, gli hai nascosto che lo conoscevi? E Miranda non ha parlato?

Tecla sedette di nuovo presso sua madre e a poco a poco finì per confidarle tutto.

La contessa ascoltava in apparenza assai calma, ma la fiamma che le ardeva negli occhi avrebbe dovuto impensierire la giovine.

— Tu hai fatto benissimo a non lasciarti imporre da Miranda — mormorò con accento grave ed altero. — Crederti capace di mancare ai tuoi doveri, tu così onesta?

Quindi abilmente tornò a parlare del principe, non lasciando però sfuggire alcuna parola che potesse mettere in apprensione la figlia.

Un pendolo che suonava le undici fece trasalire Tecla.

— Mio Dio… già così tardi — esclamò alzandosi un po' pallida e sconvolta — Umberto e Miranda devono essere ritornati… saranno in pensiero per me…

— Non hai lasciato detto che andavi dalla sarta? Non devi quindi loro altre spiegazioni: vuoi che mandi a prendere una vettura?

— Ne ho già una che mi aspetta abbasso, l' avevo dimenticato.

Ed arrossendo vivamente aggiunse:

— Non vorrei scendere dinanzi alla palazzina… ed ho lasciata la borsa a casa per pagare il vetturino.

— Che diamine, non ci sono io? — disse ridendo la contessa — Hai pure dimenticato il debito che ho con te?

— Non me ne parlare, mamma.

Livia tolse dalla sua tasca una borsettina in velluto rosso, con fermaglio d' argento.

— Qui dentro vi saranno una ventina di lire — esclamò — ti bastano?

— Sono anche troppe.

— Prendi, prendi anche la borsa: dove vuoi mettere il denaro?

Tecla accettò. Livia volle accompagnare la figlia fino sul pianerottolo e la baciò più volte, dicendole:

— Torna presto.

— Sì… sì, te lo prometto.

Scese di volo le scale ed uscì dalla casa colla testa china sul petto, smarrita, tutta soffusa di rossore.

Il vetturino aveva aperto lo sportello della carrozza e Tecla stava per salire, quando si sentì chiamare a nome.

Si volse soffocando un grido.

Era Miranda, in compagnia della cameriera.

— Vattene — disse a questa — io torno a casa con mia cognata.

Quando la carrozza prese la corsa, Miranda afferrò una mano di Tecla.

— Non sei mica in collera con me per esserti venuta incontro — esclamò. — Allorchè tornai a casa e mi dissero che eri andata dalla sarta, capii che dovevi essere invece dalla contessa di San Secondo per saper nuove di tua madre… e non mi sono ingannata; mi feci condurre da queste parti da Rosina e giunsi in tempo a prenderti.

Tecla era divenuta pallida, aveva le labbra convulse.

— Tu non mi rispondi? — aggiunse Miranda.

— Non ho nulla a risponderti — disse Tecla con voce secca, aspra — solo mi sembra strana questa continua sorveglianza che eserciti su me…

— Sorveglianza! — ripetè la giovinetta con espressione di dolore. — Ma io l' ho fatto per tuo interesse, perchè potevi aver bisogno di me…

Tecla alzò le spalle.

— Sposando tuo fratello — aggiunse con ironia — non credevo di dovermi ridurre una schiava, tanto da non poter fare un passo senza essere seguìta, dire una parola, senza trovarvi un commento: quando mi lascerete una buona volta in pace?

Miranda la guardava con aria meravigliata. Era proprio Tecla che parlava a quel modo colle guancie arrossate, gli occhi scintillanti di collera, la voce sdegnosa?

Al dolore vivissimo, subentrò nella giovinetta un senso di pietà… Con un accento che avrebbe commosso chiunque:

— Povera Tecla — mormorò — tu devi sentirti male…

L' irritazione della figlia di Livia divenne violenta.

— E per colpa tua — proruppe — se non mi tormentassi tanto, ciò non succederebbe.

La povera Miranda si sentì colpita al cuore da quell' offesa che non meritava, pure rivolse sulla cognata uno sguardo pieno di bontà, di compassione.

Tecla aveva chinata la testa e così rimase, immersa in un silenzio pieno di rabbia, di livore.

La giovinetta non la turbò: sul suo viso così sereno era apparsa una nube.

Si mise a riflettere.

Perchè Tecla inveisse in tal modo contro di lei, doveva esservi stata spinta da qualcheduno…

Ed un nome le corse sulle labbra: la contessa di San Secondo.

Chi era quest' amica della madre di Tecla? Perchè la cognata che aveva mostrata dapprima una specie di repugnanza, di dolore per aver ricevuta quella donna nella loro casa, ora si recava ella stessa a visitarla?

Miranda avrebbe voluto venire in chiaro di tutto, perchè intravedeva un pericolo per la moglie di suo fratello.

Ma come riuscirvi non potendo confidarsi ad alcuno, se Tecla stessa si mostrava astiosa, diffidente?

Quando le due cognate giunsero alla palazzina, trovarono Umberto che le aspettava.

Era stato fino allora ansioso, preoccupato, sentendo che sua moglie era uscita sola, ma vedendola ritornare colla sorella, riprese l' allegro sorriso, la solita vivacità e non fece alcuna domanda.

Egli non si accorse che da quel momento i rapporti fra le due cognate si erano, per così dire, rallentati, che non regnava più fra loro la schietta amicizia e sincerità di prima.

Tecla era divenuta risoluta, calma: quando Umberto non era presente, si ritirava nel suo appartamento, dando ordini perchè nessuno la disturbasse

Miranda, amorosa e buona, taceva, aspettando ansiosamente che Tecla le rivolgesse la parola, pregando Dio perchè nulla turbasse la felicità di suo fratello.

Il suo pudore, la sua naturale alterezza le vietavano qualunque lotta, qualsiasi rampogna alla cognata.

Ella l' amava sempre come prima e le sarebbe bastato un dolce sguardo per stringerla fra le braccia, dimenticar tutto.

Un giorno che Umberto era uscito, fu annunziata la contessa San Secondo.

Tecla diede ordine di farla passare subito.

Miranda, avvertita dalla cameriera, ebbe appena il tempo di vederla entrare nel salotto della cognata, che l' uscio si chiuse.

La giovine ne provò una viva confusione.

Ella avrebbe voluto vedere quella donna in viso, parlarle, studiarla.

E Tecla, per impedirglielo, chiudeva la porta del suo appartamento.

Cogli occhi velati di lacrime, mal reggendosi in piedi, Miranda si ritrasse nella sua camera, lasciossi cadere presso ad un tavolino.

Anche in quel momento non accusava la cognata. Vi doveva essere una causa indipendente dalla sua volontà per agire così e quanto più ci pensava, tanto più era convinta che proveniva dalla contessa di San Secondo.

Sentendo la voce di suo fratello, Miranda balzò vivamente in piedi, rasciugò gli occhi e si accinse ad andare incontro a lui, per impedirgli di entrare all' improvviso da Tecla.

Ma aprendo l' uscio, vide questa parlare animata con Umberto.

La contessa doveva essere già partita, senza che il giovane l' avesse incontrata, perchè non facevano alcuna allusione a lei.

Scorgendo Miranda, la figlia di Livia esclamò con vivacità:

— Vieni un po' a persuadere tuo fratello di non lasciarci.

La giovinetta fissò entrambi con stupore.

— Perchè dovrebbe farlo? — domandò.

Umberto sorrise.

— Si tratta di raccogliere un' eredità — rispose — dello zio Raldo, che io e tu, Miranda, non abbiamo mai conosciuto, ma che la povera mamma mi disse più volte essere uno strambo, il quale lasciò giovanissimo il paese per recarsi a cercar fortuna.

— È morto dunque molto lungi di qui? — chiese con un sussulto la fanciulla.

— Alla Spezia, dove sembra fosse domiciliato da qualche tempo, ho avuto un momento fa un avviso, mi si prega a partir subito; posso rifiutare?

— Verremo con te — disse Miranda.

Umberto scosse il capo.

— La stagione non è propizia — rispose — eppoi mi sembra più conveniente andar solo; del resto il viaggio è brevissimo e fra una settimana al più sarò di ritorno: in questo frattempo non vi mancheranno le visite e le cure del mio amico Cars, che ho pregato di venire a tenervi compagnia e che si metterà ai vostri ordini per quanto può occorrervi.

Bisogna dire che Tecla avesse imparato a dissimulare qualsiasi sensazione, perchè rimase calma e serena.

Miranda invece si turbò alquanto. Ma doveva dire al fratello che avrebbero fatto a meno delle visite del principe?

Vi era da mettere un sospetto nell' anima del giovane ed al tempo stesso vedere Tecla alterarsi.

Perciò si tacque proponendosi solo di vegliare assiduamente, di non abbandonare un solo istante la cognata.

Umberto partì verso sera e Tecla trovandosi imbarazzata dinanzi a Miranda, temendo che questa le chiedesse della visita della contessa, disse che le doleva assai il capo, perciò si ritirava nella sua camera.

— Veglierò accosto a te — esclamò Miranda con slancio appassionato.

Tecla arrossì, chinò gli occhi.

— Grazie — rispose — non ho bisogno di cosa alcuna: la solitudine, il riposo, basteranno a risanarmi.

La giovinetta non aggiunse parola, e quando la cognata si ritirò, scese in giardino per dissipare la sua tristezza.

L' aria era frizzante, ma il cielo sereno tempestato di stelle.

Miranda sedette sulla panchina dove tante volte si era trattenuta con Tecla e pensando alla dolce intimità ed espansione di quelle ore, si sentiva invasa da un profondo dolore.

Quale cambiamento strano, inesplicabile nella cognata. E non poterne indovinarne il motivo!

Mentre così rifletteva fu suonato il campanello della palazzina. Un domestico accorse subito, ma la fanciulla, che si era vivamente alzata, gli ordinò di ritirarsi.

— Vado io stessa ad aprire — disse.

Era il principe Cars. Un' ispirazione corse tosto alla mente della giovinetta.

— Se mi rivolgessi a lui! — mormorò.

Cars fu sorpreso vedendo aprire il cancello da Miranda.

— Voi signorina? — disse salutando profondamente.

La giovinetta sorrise, e stendendogli la mano:

— Io, principe — rispose — mio fratello è partito, Tecla è andata a riposare ed io sono scesa un po' in giardino e confesso che desideravo vedervi.

Parlava con tanta semplicità e candore, che Cars ne fu quasi commosso.

— Posso esservi utile in qualche cosa?

— In molto — rispose Miranda — datemi il braccio, faremo il giro del giardino e vi dirò quello che mi aspetto da voi.

Il principe, sebbene un po' sorpreso, fece quanto la giovinetta desiderava.

Per alcuni minuti passeggiarono in silenzio; ma giunti all' estremità di un vialetto, Miranda volse il suo sguardo limpido su Cars ed a voce bassa:

— Voi che frequentate la società — domandò — conoscereste una certa contessa San Secondo, o l' avete almeno sentita nominare?

Il principe parve riflettere.

— No — rispose quindi con franchezza.

Miranda sospirò.

— Ed io che pensavo per mezzo vostro di sapere chi fosse…

— Se tanto vi preme, farò di tutto per soddisfarvi: ditemi solo se abita in Firenze?

— Certamente e so anche la via.

— Allora la cosa è facillissima, e domani stesso potrò darvi i ragguagli che desiderate.

— Oh! quanto ho fatto bene rivolgermi a voi — mormorò a voce bassa, con accento commosso — però dovete promettermi un' altra cosa.

La sua voce risuonava in cuore a Cars. Egli la guardava così semplice, graziosa, seria.

— Dite, signorina…

— Vorrei che questa cosa rimanesse fra noi, che mia cognata e mio fratello nulla ne sapessero. Per avvertirmi mi scriverete un biglietto.

Il principe le strinse dolcemente il braccio.

— Farò tutto quello che desiderate.

Miranda si era completamente rasserenata: ella guardò Cars con riconoscenza e con un giocondo sorriso sulle labbra.

— Grazie — esclamò — non sapete il bene che mi fate colla vostra promessa: ed ora volete che rientriamo?

— No, signorina, perchè desidero avere domani una risposta a darvi.

Ella non lo ritenne, l' accompagnò fino al cancello, tornando sola in casa, senza avvedersi degli sguardi pieni di malizia, indagatori, rivoltile dal domestico, che trovò in anticamera.

Intanto il principe si allontanava fantasticando su quell' idea della giovinetta di conoscere la contessa di San Secondo, della quale gli aveva dato l' indirizzo.

Quale interesse la spingeva a chiedere simili informazioni all' insaputa di Umberto, di Tecla?

Ricordando questo nome, i pensieri di Cars presero subito un altro corso. Egli non voleva confessare a sè stesso che si era recato alla palazzina solo per vedere la giovine donna e se con un' abile scusa aveva rifiutato di fermarsi, fu perchè aveva sentito che Tecla si era ritirata e non sarebbe comparsa.

Il principe era incapace di un' azione perfida e vile, non pensava certamente di tradire la fiducia dimostratagli da Umberto, tuttavia non avrebbe cessato di rivedere Tecla.

Sembrava provare un' acre voluttà nel vuotare l' amaro calice della disperazione fino all' ultima goccia, nell' inasprire la ferita che aveva al cuore.

In certe nature d' uomini le impressioni soavi e tristi, dolorose e gioconde, si succedono, si contraddicono ad ogni istante.

Sono ad un tempo dolori e speranze, rimembranze cocenti o vergognose, amori vivissimi o rimorsi terribili, desiderî infrenabili di ottenere la persona tanto desiderata o indefinibili terrori.

Il principe Cars, in alcuni momenti, provava una gioia deliziosa per l' intimità con cui veniva accolto in casa di Clementi. Si compiaceva della tenerezza di Umberto, della dolce vivacità di Miranda, dell' espressione tenera, incantevolmente melanconica di Tecla.

Ed allora tutti i pensieri che si suscitavano nella sua mente erano nobili, serî, elevati.

Si dioeva che egli non sarebbe stato che un fedele amico per tutte quelle care persone, si sentiva purificato del sacrifizio che intendeva fare del suo affetto, non provava che il sentimento d' un sacro dovere.

Ma in altri istanti, per una contradizione dell' anima, l' amicizia di Umberto gli sembrava insopportabile, la presenza di Miranda lo infastidiva, il suo amore per Tecla si cambiava in una bramosia ardente di conquistarla, anche a costo di un delitto.

In quella sera, Cars, pensando a Tecla, non provava che una tranquilla melanconia, un' impressione casta e soave.

La fiducia mostratagli da Miranda l' inteneriva.

Egli rivedeva quella graziosa apparizione della giovine dietro al cancello, con quell' abito di casimiro azzurro che faceva vieppiù spiccare la bianchezza nivea della carnagione, i bei capelli d' oro, che facevano aureola ad una fronte serenamente altera.

E da tutta la persona di lei emanava tanto splendore di grazia, di bellezza, di purità, da sentirsene attratto.

— Scommetto — mormorava Cars — che sotto quella ricerca della contessa di San Secondo, si nasconde un' opera di carità. A Miranda sarà stata raccomandata quella signora, forse per tristi eventi caduta al basso, e prima di soccorrerla, vorrà sapere chi sia e si è confidata a me. Ebbene, adempirò il delicato incarico con scrupolo e con qualche pretesto mi recherò io stesso dalla contessa.

Questo pensiero esercitando una benefica influenza sull' anima nobile del principe, gli occupò la serata, e lo fece sognare tutta la notte. Alla mattina si svegliò, fermo nell' idea di recarsi egli stesso da quella sconosciuta contessa.

La pioggia cadeva dirotta e fredda: la giornata era tetra.

Livia si era appena alzata ed incurante del disordine della sua toeletta, a cui l' arte non era ancora venuta in aiuto, sorbiva una tazza di cioccolatte, discorrendo con Michele, che a sua volta prendeva il caffè.

— Non sei punto chiaroveggente, mio caro — diceva la contessa — ti ripeto che la condurrò dove voglio io… intanto vedi che ha già fatte più concessioni, stamani verrà a vedermi.

La tazza del caffè tremava nelle mani di Michele.

— Ed io uscirò — interruppe — perchè quando la vedo mi sento tentato di gettarmi su di lei, farmi riconoscere: se debbo nascondermi come un ladro, un furfante, mascherare il viso, alterare la voce, è per cagion sua.

Livia s' impazientiva.

— Me l' hai già ripetuto più volte — riprese — ma io conosco più di te mia figlia: ella ti odia molto, non ti perdonerà mai ciò che considera un tradimento, un delitto, ma non ti avrebbe accusato, se il tuo complice in quella notte non avesse pronunciato il tuo nome, credendo rassicurarla.

Michele parve alquanto rabbonito.

— Ammettiamo anche questo — disse — con ciò non m' impedirai di vendicarmi.

— Non mi hai già spiegato il tuo piano? Non ti sono venuta in aiuto? Non ti ho promesso il mio appoggio? Adunque, che continui a borbottare? Vattene, credo anch' io sia il meglio.

Michele uscì dalla stanza senza replicare.

Allora la contessa tracannò tutto di un fiato il resto della cioccolata, quindi passò nel suo gabinetto di toeletta e mentre stava consultando inquieta lo specchio, che le mostrava gl' insulti del tempo e le stimmate dei vizî, sentì suonare il campanello.

— Che Tecla sia già qui? — pensò.

E coi capelli in disordine, l' accappatoio slacciato, andò ella stessa ad aprire.

Era il principe Cars. Livia lo riconobbe subito e credette che sua figlia gli avesse confessato tutto, e dato ivi un appuntamento.

Un sorriso di contentezza le gonfiò il petto.

— Voi, voi, principe? — esclamò. — Che siate il benvenuto.

Cars arretrò colpito da stupore: l' aveva riconosciuta alla voce.

— Contessa Livia!

La sua sorpresa appariva così sincera, che un vivo rossore colorì le guancie della madre di Tecla.

— Mia figlia vi ha detto nulla?

— L' avete veduta?

Prima di rispondere a quella domanda, Livia l' invitò ad entrare e lo condusse nel salotto.

Cars la seguì aggrottando le ciglia. No, non si sarebbe mai atteso un simile incontro: la contessa Edvald in quella casa, sotto il nome di San Secondo? E Clementi l' ignorava, mentre Tecla doveva saperlo, aver parlato a sua madre.

Perchè quel mistero? Miranda sospettava forse qualche cosa, volendo far prendere informazioni sulla contessa?…

Cercò ricuperare il predominio sopra sè stesso e vi riuscì.

Sedette perfettamente calmo. Livia prese posto vicino a lui.

— Non vi aspettavate di vedermi? — chiese in tuono leggermente beffardo.

La faccia di Cars si atteggiò a gravità.

— Confesso di no — rispose.

— E allora chi venivate a cercare?

— La contessa di San Secondo.

— Sono io — esclamò Livia con ardimento.

Poi aggiunse ridendo:

— Via, siate franco con me. È Tecla che vi ha qui mandato; voi sostenete la vostra parte tanto bene, che ne sono stata presa; adesso nulla vi deve importare di dirmi la verità.

Il principe si riscosse, parve offeso da quel tuono impudente.

— Io non sono uso a mentire, signora — replicò — vostra figlia non mi ha mai parlato di voi.

Livia stette un momento perplessa, e Cars ne approfittò per aggiungere:

— Vi assicuro che sono assai stupito nel ritrovarvi sotto un altro nome, e non comprendo il motivo per cui non vi siete presentata a vostro genero, che ha fatto tante ricerche di voi e vi avrebbe accolta con molta espansione.

In tutt' altra circostanza, la contessa avrebbe potuto trovare impertinente il principe, che s' immischiava così della sua vita privata, ma in quel momento non se ne adontò e rispose con schiettezza.

— Io amo la mia libertà, e sebbene non mi trovi nella più florida condizione, non ricorrerò mai a Clementi, non andrò a vivere sotto il tetto della cognata di mia figlia. Non voglio rendermi la schiava di nessuno… abbastanza Tecla si è sacrificata…

Cars fece un brusco movimento.

— Sacrificata! — ripetè macchinalmente.

La contessa prese un atteggiamento doloroso.

— Non lo sapevate? — ripigliò con accento commosso — Ah!… è vero… Tecla è un cuore nobile, capacissima di morire piuttosto che rivelare il martirio della sua anima: ma io indovinai le sue torture… ed a me… sua madre… ha pur detto che si trova la più infelice delle donne.

E Livia ruppe in dirotto pianto, nascondendosi il volto fra le mani.

Cars era in preda ad una viva agitazione; tuttavia, pensando tosto che la contessa mentisse, disse seccamente:

— Ma io non vi comprendo; temo che vi inganniate. Non ha Tecla sposato Clementi di sua volontà, per amore?

Livia si passò il fazzoletto sugli occhi umidi di lacrime.

— No — rispose con accento debolissimo, quasi vergognoso — fu in un esagerato trasporto di riconoscenza, di amicizia per Miranda, che si lasciò indurre ad un'odiosa catena, che ora vorrebbe infrangere, perchè non passa giorno senza che la cognata l' umilii, le rinfacci l' affetto che Tecla nutriva per voi.

Quelle parole così abilmente calcolate produssero un effetto potente su Cars.

— Che dite? — balbettò col cervello sconcertato, fremendo.

— La verità.

Poi chinando gli occhi, come se volesse rattenere un segreto pronto a sfuggirle.

— Non so perchè vi parli così. Mia figlia, se lo sapesse, andrebbe in collera con me; ma sentivo il bisogno di uno sfogo e non ho altri altri amici, sono stata calunniata, orribilmente e perchè? Lo meritavo forse? A chi ho fatto del male? Oh! se avessi il coraggio di dirvi tutto!

Ella pareva far sforzi per reprimere i singhiozzi, la sua voce era dolorosamente alterata.

Il principe, malgrado la triste opinione che aveva di quella donna, fu preso all' amo.

— Parlate, parlate — mormorò.

Egli non si accorse del lampo di trionfo, che strisciò negli occhi della contessa.

— Io non scuso il mio passato — mormorò — so di essere stata colpevole; ma quando allo stordimento dei piaceri mondani è successa la riflessione, quando riconobbi la desolante vanità delle mie gioie, pensai a quella figlia che avevo contribuito a rendere infelice, sentii il bisogno del suo perdono: ma crivellata com' ero di debiti, senza alcun credito, dovetti per forza cambiar nome, fisonomia, per ciò mi presentai alla palazzina di Tecla, senza farmi conoscere.

— E vi era Clementi? — interruppe con interesse il principe.

— No, non vidi neppure la sorella… fui introdotta da mia figlia. Credevo di trovarla allegra, felice… ed invece mi apparve così pallida, mesta, triste, che mi sono sentita stringere il cuore.

Il principe cercava fare il possibile per dissimulare la sua potente emozione.

— Ma quanto mi dite è così strano… che mi sbalordisce — balbettò.

— Oh! anche per me è stato un colpo impreveduto — rispose ipocritamente Livia — e compresi subito che mia figlia aveva qualche segreto che la torturava e non voleva rivelarmi. Alle mie prime domande si sdegnò, ma poi, cambiando accento, a poco a poco mi mise a parte di tutto; povera Tecla… fu allora che io non volli più che mi presentasse a suo marito ed alla cognata, e scongiurai mia figlia a dir loro che io ero un' amica di sua madre che le aveva portate sue nuove, ma che mi sarei allontanata subito da Firenze. Tecla venne pochi giorni dopo a trovarmi.

Si fermò un istante, gli occhi le scintillarono di corruccio, di sdegno.

— E non sapete? Sua cognata ebbe il coraggio di spiarla, di seguirla, tanto che quando mia figlia uscì di qui, trovò che l' aspettava; si può dare maggiore schiavitù?

Abbassò la voce e con tono quasi timoroso:

— Se sapeste quanto Tecla ha sofferto, quante lacrime ha versate! Anima semplice ed ingenua, si è lasciata accalappiare da una finta amicizia. Miranda non pensava che alla felicità di suo fratello, il quale le aveva detto che senza mia figlia sarebbe morto.

E lasciando errare sulle labbra un sorriso di amara indignazione:

— Eppure Tecla le aveva confessato il suo amore per voi, sapeva che sareste stato l' oggetto costante di una passione fervida ed infelice.

Quella rivelazione, fatta in modo così repentino, fece traboccare il cuore di Cars.

— Oh! no, non ditemi così, vi siete ingannata!

— E se Tecla stessa me l' avesse confessato? — disse precipitosa.

E soggiunse con vivacità:

— Ah! pur troppo lo so che adesso torna inutile… ella morirà martire dell' amicizia per Miranda, del suo dovere per Umberto e dell' amore profondo, inalterato che le avete ispirato… Sì, fra voi e lei si frappone non solo un marito, ma una cognata ostile, invidiosa, egoista… ecco il destino della povera Tecla!

— Oh! basta… basta… vi prego — interruppe il principe fuori di sè — se il giorno che venni a voi aveste accettata la mia proposta, tutto ciò non sarebbe accaduto!

La contessa lo fissava con occhi ardenti.

— Lo credete? — esclamò con voce cupa — Tecla vi avrebbe rifiutato lo stesso, schiava di un giuramento fatto all' amica.

In ogni affare di cuore, si dice che il più importante si è di colpire vivamente ed occupare l' immaginazione: e per giungere a siffatto scopo non vi ha mezzo più potente dei contrasti, per quanto dolorosi.

Il cuore del principe a tutte quelle impreviste scoperte, provava uno strazio grandissimo.

Dapprima sentendo che Tecla l' aveva amato, l' amava sempre, gli era parso come d' impazzire.

Poi una specie d' odio gli s' infiltrò nell' anima per Clementi e soprattutto per Miranda.

Come la contessa Edvald conosceva a fondo gli uomini! Come aveva saputo colpir bene quella natura buona, debole contro la passione, sollecita di prestarsi, proteggere, sacrificarsi!

Ella stava per fare altre confidenze, quando fu suonato il campanello.

Livia fece un atto di spavento.

— È mia figlia — disse — come spiegare la vostra presenza qui?

Cars era divenuto pallido come un morto.

— Non la spiegherete affatto, perchè io mi ritiro.

— In qual modo? Non vi è altra uscita… piuttosto sentite: avete fretta?

— No.

— Ebbene, entrate lì dentro, attendete; la visita di mia figlia non sarà lunga e voi potrete accertarvi della verità dei miei detti.

Cars ebbe una contrazione in tutti i lineamenti, che provò quanto era commosso. Tuttavia esitava, ma ad un' altra scampanellata la contessa lo spinse in un oscuro gabinetto dalla porta a vetri, che rinchiuse subito.

Poi corse ad aprire a Tecla.

Al principe ripugnava un tale sotterfugio, tuttavia non era ormai il caso di poterlo dimostrare. Egli passava dai brividi dell' angoscia agli impeti della speranza, e quando la voce di Tecla giunse a lui, si portò ambe le mani al cuore, che pareva scoppiargli.

La giovane donna entrava in sala, parlando concitata con sua madre, lasciando errare sulle labbra un sorriso di amara indignazione.

— Se ho potuto sfuggire? — diceva — Ah! se avesse avuto il coraggio stamane d' impedirmelo, l'avrei io fatta vergognare…. se tu sapessi….

Si torceva le manine inguantate, mostrava sul viso bellissimo tutti i segni della collera, dell' ira pronta a prorompere.

— No, non me lo sarei mai aspettato — aggiunse, lasciandosi cadere su di un divano.

Livia la guardava sbalordita.

— Su, via spiegati meglio — mormorò con voce insinuante, sedendo accosto a lei, passandole un braccio intorno alla vita.

Il principe scorgeva Tecla di profilo e gli pareva che fosse pallidissima, agitata.

Ah! l' opera infernale della contessa portava i suoi frutti.

Forse alla povera giovane pareva di trovar dappertutto insidie, precipizî.

— Or bene, ascolta mamma — disse con voce rotta dall' affanno — ti ho detto che Umberto è partito ieri sera ed io mi ritirai subito nella mia camera, temendo una visita del principe; tu lo sai quanto il suo sguardo mi turbi, come mi senta debole vicina a lui.

La gioia ed il dolore ad un tempo che provò Cars a quelle parole, sarebbe impossibile esprimerli.

— Non potevo riposare — riprese Tecla dopo una breve pausa — spensi il lume ed aprii la finestra per esporre la fronte ardente all' aria fresca della notte. Dopo alcuni minuti, sentii suonare il campanello: provai un' emozione violenta: doveva essere Cars.

Mi ritirai alquanto, pur non perdendo di vista il cancello, dietro il quale scorgevo l' ombra d' un uomo.

In quel momento sentii la voce di Miranda che intimava al domestico di ritirarsi, poi la scorsi, come un bianco fantasma, attraversar rapida il giardino, ed aprire il cancello…

— Fin qui non vedo nulla che debba allarmarti — interruppe la contessa.

— Non ti ho peranco detto tutto: io era persuasa che mia cognata ricevesse il principe in casa, oh! no, in parola d' onore, non mi sarei creduta che la virtuosa Miranda approfittasse dell' assenza del fratello per abbandonarsi ad un idillio amoroso, lungi dagli occhi dei servi, in un angolo oscuro del giardino.

La contessa inquieta volse un rapido sguardo alla vetrata, che si era lievemente scossa.

Tecla non vi badò.

— Ora comprendo tutta la trama di Miranda — proruppe con impeto. — Ella doveva essere innamorrata di Cars fino dal nostro primo incontro con lui: io, più credula, semplice, le confidai l' impressione che su di me aveva fatto il giovane, ed ella fingendo la più costante amicizia ne approfittò per i suoi fini. Ora comprendo le sue smanie, perchè divenissi moglie di Umberto, la premura continua dimostrata per il fratello, i dispetti, le gelosie, i sarcasmi lanciati contro di me, dopo l' arrivo di Cars.

La contessa cercava frenarla.

— Ma tu puoi esserti ingannata.

— No, mamma, no, li ho veduti coi miei occhi passeggiare stretti stretti in giardino, si credevano soli, non sospettavano la mia presenza, non sentirono il rumore dei singhiozzi che mi straziavano il petto. Ingannata da entrambi! Perchè se io avevo fede in Miranda, ero quasi certa che il principe non mi avesse dimenticata, ed invece…

Non potendo proseguire, interrotta dalle lacrime, Tecla nascose il bel volto fra le mani, mormorando con accento straziante:

— Ah! come vorrei morire!

La vetrata si aprì con impeto, e Cars sconvolto, agitato, comparve nella sala.

Prima che Tecla avvertisse la sua presenza, egli era ai piedi di lei, esclamando:

— Perdono, vi siete ingannata, io non ho amato, non amo che voi…

La giovine donna gettò un grido acuto riconoscendo il principe.

Fece per respingerlo, balzare in piedi, ma Cars la ritenne.

— Ah! lasciate almeno che mi giustifichi — mormorò — poi scacciatemi pure dalla vostra presenza, mi allontanerò senza un lamento, ve lo giuro.

Ella pareva non avere inteso e con una esaltazione crescente:

— No, no, andate in nome, del cielo, oh! mamma, mamma, sei tu che mi hai tradita…

La contessa fu ammirabile per calma e simulazione.

— Sei tu che entrando non mi desti il tempo d' avvisarti che il principe qui si trovava, ma infine, se egli ti chiede di spiegarsi, devi ascoltarlo, l'hai pure accusato.

Tecla non aveva più forza di rispondere.

Cars riprese con accento appassionato:

— Voi avete potuto credere, che io amassi Miranda?.. Mi prendete per un infame?… Non avete alcuna fiducia in me? È vero, sì, vostra cognata ieri sera mi attendeva; con lei passeggiai in giardino, ma sapete che voleva da me? Che io le dessi qualche informazione sulla contessa di San Secondo.

— Ora comprendo perchè siete qui venuto — interruppe Livia con ironico sorriso — ma spero che non le direte la verità sul conto mio.

— Uscito di qui, io partirò.

— Voi partirete? — chiese Tecla con un'angoscia indefinibile, fissando il suo umido sguardo in quello del principe.

Si potevano udire i battiti del cuore di Cars.

— È necessario, perchè mi respingete, ed io nulla posso fare per mostrarvi che vi amo come un forsennato.

— Voi partite? — ripetè Tecla con una voce che sembrava uscire dal profondo dell' anima straziata. — Anche voi mi abbandonate?

La giovane non comprendeva che quelle parole valevano una confessione.

Non aveva più coscienza dei suoi atti: il suo segreto, troppo a lungo trattenuto, le sfuggiva, strappatole da un'agitazione convulsa, febbrile.

— Volete che io rimanga? — balbettò il principe con voce fioca, indistinta.

— Lo voglio! — rispose debolmente Tecla.

Ed abbandonò le mani in quelle di Cars, senza accorgersi dello sguardo maligno e di trionfo rivoltole dalla madre.

Chi può dire la gioia di quella creatura perversa, nel vedere la figlia sull' orlo di quell' abisso, dove ella era precipitata da tanto tempo?

Una lieve spinta ancora, e Tecla vi sarebbe pure caduta, e allora la contessa era sicura d'averla nelle sue mani per sempre.

Miranda, dopo il suo colloquio col principe, era andata a letto e si era placidamente addormentata.

Fosse un po' di abbattimento morale o stanchezza fisica, il fatto sta che il suo sonno si prolungò fin verso le dieci del mattino.

Risvegliandosi, trovò che era giunto un telegramma di Umberto, ma siccome era diretto a Tecla, Miranda rimproverò la cameriera perchè non glielo aveva portato subito.

— Ho bussato due volte dalla signora e non mi ha risposto — rispose la donna un po' confusa, arrossendo.

— Ebbene, andrò io.

Miranda si diresse verso la camera della cognata. L' uscio era chiuso. Picchiò leggermente, senza resultato.

Allora girò risoluta la maniglia ed aprì.

La camera era vuota. Passò nel gabinetto di toeletta, poi nel salotto.

Nessuno.

Miranda chiamò la cameriera.

— La signora è uscita — disse quando la donna fu comparsa — e non mi hai avvisata?

— Io non lo sapevo; la signora non mi ha chiamata stamane e siccome si alza sempre tardi, ero persuasa che riposasse ancora e non ardii disturbarla.

Miranda era alquanto agitata, ma non volle dimostrarlo.

— Va bene — esclamò — puoi andartene…

Rimasta sola, aprì il telegramma. Suo fratello annunziava semplicemente di aver fatto un viaggio felice ed inviava mille baci alla moglie ed alla sorella.

— Se Tecla l' amasse come egli se lo merita — mormorò la giovinetta — con quale ansia avrebbe attese sue nuove. Ed invece approfitta dell' assenza di lui per uscirsene sola, furtiva. Ah! ella si mostra ben ingrata all' affetto che io le porto, a quanto abbiamo fatto per lei.

Gli occhi della povera giovine si riempirono di lacrime.

Ah! riesce pur doloroso strapparsi dal cuore una cara, soave illusione! Allorchè si è contratta un' amicizia nella fanciullezza ed è andata cogli anni crescendo, se avviene che ad un tratto si rallenti o si spezzi, si prova una di quelle scosse violente, che spesso apportano una triste influenza su tutta la vita.

Miranda era quasi sicura che sua cognata si trovava dalla contessa di San Secondo, ma non pensava di andarle incontro.

— Se il principe mantiene la parola, dentro oggi saprò alfine chi sia quella donna! — mormorò.

Attese quindi assai calma il ritorno di Tecla. Giunse l' ora della colazione e la giovine donna non era peranco tornata.

Miranda non discese in sala, avvertendo che non avrebbe mangiato senza Tecla.

Finalmente questa giunse: la giovine le andò incontro e provò un' impressione spiacevole vedendola accesa in viso, cogli occhi stranamente luccicanti, ciarliera, vivace.

Abbracciò Miranda, dicendo gaiamente:

— Scusami se ho tardato, ma sono andata per fare diverse compre, però non ho trovato nulla di mio gusto, mi sono stancata inutilmente.

Ed atteggiando le labbra ad un sorriso nervoso:

— Attendi che vada a cangiarmi d' abito — aggiunse — ti raggiungerò in sala.

L' agitazione di Tecla contrastava tanto col suo solito contegno, che Miranda comprese che qualcosa di anormale doveva esserle accaduto.

Tuttavia non fece alcuna interrogazione: si limitò a dire con lievissimo accento di rimprovero:

— Non mi chiedi se sono giunte nuove di Umberto?

Tecla arrossì.

— Hai ragione… scusami.

— Eccoti un suo telegramma; era diretto a te, ma siccome tardavi, mi sono permessa di aprirlo.

— Facesti benissimo: grazie!

Lo prese, ma non lo lesse in presenza di Miranda: si ritirò nella sua camera.

Quando ritornò in sala, la giovane le parve di notare nella cognata un nuovo cangiamento.

Era ritornata triste: pareva avesse pianto: mangiò poco, parlò meno, non rispondendo mai a tòno su quanto Miranda le chiedeva, non osservando il di lei sguardo severo, indagatore.

Finita la colazione, accusò stanchezza, e si ritrasse di nuovo nel suo appartamento.

Verso le due, fu portato a Miranda un biglietto del principe.

Era di un laconismo che colpì la giovinetta.

Diceva:

“ La contessa San Secondo è una signora della buona società, di spirito distinto, molta coltura, esperta del mondo, ma superiore a qualsiasi maldicenza. ”

Null' altro.

Miranda scosse la bionda testa con aria di sconforto. Quel biglietto non apportava alcuna luce nella sua anima, non rischiarava i suoi dubbî.

Che la contessa San Secondo fosse una signora della buona società, la giovinetta ne era persuasissima. Ma se nulla vi era di anormale nella vita di lei, perchè Tecla non gliel' aveva presentata, non ne faceva mai parola con lei, si mostrava timorosa che Umberto scoprisse quelle visite?

— Malgrado questo biglietto, io non sono tranquilla — disse risoluta Miranda — e dovessi pure mettermi in urto con Tecla, ella non si recherà più dalla contessa di San Secondo senza di me.

Non volle recarsi subito dalla cognata a farle nota la sua decisione, e fu bene.

La giovinetta si sarebbe spaventata nel vedere Tecla in preda ad una tremenda esaltazione nervosa, che la faceva delirare.

Il suo cuore era stato agitato da emozioni così diverse, immense, che le idee si cozzavano confuse nella sua mente, miste a terribili rimorsì, a crudeli sofferenze.

Era proprio lei che aveva prestato orecchio alle parole appassionate di Cars, che gli aveva ordinato di rimanere?

Ella, così altera, che aveva detto un giorno al principe di non aver bisogno di alcuno per tutelare il suo onore; che era fuggita per difendere la sua virtù, aveva portata sempre alta la fronte, sarebbe stata costretta d' ora innanzi ad arrossire, a chinare gli occhi davanti allo sguardo leale di Miranda, a quello di Umberto? Oh! no… no; nelle frasi che le erano sfuggite, il suo pensiero non vi aveva contribuito nella benchè minima parte.

Era sua madre che l'aveva spinta, ma Tecla giurava che non avrebbe più riveduto il principe.

Si gettò spossata sul letto, nascose il viso nel guanciale per sottrarsi alle immagini deliranti che le sconvolgevano la mente.

Cure inutili! Tecla aveva sempre presente il volto del principe, quei suoi sguardi così supplichevoli, sentiva ripetersi alle orecchie quelle parole sommesse, che rivelavano tutte le torture da lui sofferte e si agitava affannosa, inquieta, febbricitante.

Ah! se la risoluzione di Tecla di non rivedere più Cars fosse stata sincera, quante sventure avrebbe evitate!

Forse per qualche tempo avrebbe sofferto, ma nell' adempimento rigoroso dei suoi doveri, nell' affetto sincero del marito, nella devozione della cognata, non le sarebbe mancato un balsamo alle sue pene.

Ma non tutte le donne sanno uscire trionfanti da queste lotte fra l' amore e il dovere; qualche volta si lasciano inevitabilmente trascinare da ciò che esse chiamano destino, senza pensare che arrischiano la loro felicità, l' avvenire, quello dei loro figli!…

Quando le due cognate si rividero all' ora del pranzo, Miranda appariva calma, dignitosa, quasi serena; Tecla apparentemente si mostrava tranquilla.

Mangiarono in silenzio. Servito il caffè, la cameriera si ritirò chiudendo l' uscio. Le due cognate si trovarono sole.

— Tecla — disse Miranda con somma dolcezza fissando sulla giovane donna il suo limpido sguardo — domattina fai conto di uscire ancora?

— Forse che me lo proibiresti? — chiese irritata.

— Tutt' altro, mia cara, ma ti accompagnerò.

Tecla fece un brusco movimento. Ricominciavano le ostilità.

— E se io bramassi andar sola? — esclamò con energia, pronta alla lotta, risoluta a non cedere.

— Te l' impedirei — rispose pacatamente Miranda.

Quella calma della giovinetta accrebbe la stizza di Tecla.

— Tu non parli sul serio… — disse beffarda.

— Non ho alcuna volontà di scherzare. Io ho promesso a mio fratello di non allontanarmi dal tuo fianco durante la sua assenza, e manterrò la mia parola.

— Dunque io sono qui prigioniera? — interruppe Tecla battendo un piede con violenza — ma io mi ribello alfine a questa sorveglianza, che è un insulto per me: uscirò.

Miranda la guardava con istupore profondo e doloroso.

— Tu non lo farai — rispose senza alterare il suono della sua voce — Torna in te, rifletti: per un puntiglio di cui non so indovinare la ragione, vuoi turbare la pace che finora abbiamo goduta? Ti ricordi come mi pregavi perchè io ti fossi sempre vicina? Che ti ho fatto per trattarmi così? Ti sono divenuta tanto odiosa? Ti pesa la vita tranquilla che io ed Umberto abbiamo cercato procurarti?

Tecla sentiva la giustezza di quei rimproveri, ma per un amor proprio male inteso non voleva dimostrarlo.

L'accento però di Miranda era così dolce, toccante, supplichevole, che non osò rispondere.

La giovinetta si alzò dal suo posto, si avvicinò a lei per abbracciarla.

— È vero che sei sempre la mia Tecla di una volta? sussurrò — Che mi obbedirai?

Ella la respinse sdegnosa, e perdendo ogni misura:

— Ti ho obbedita abbastanza, sposando tuo fratello, che non amavo — esclamò — Ora non voglio rendermi più oltre tua schiava.

Miranda si alzò indignata.

— Sei tu che parli così? Non pensi che avrei diritto a ricordarti le lettere che mi scrivevi e quanto feci per te? Qual cattivo consigliere ti ha ispirata ad insultare l' uomo che ti diede un nome onorato, e l' amica che avrebbe sacrificata la vita per salvare la tua? Mio fratello ti ha forse strappato un consenso colla forza? Anche all' ultimo momento non potevi rinunziare a lui, se lo volevi? E adesso che sei sua moglie, intendo che tu lo rispetti, che nessuna ombra venga ad offuscare il nome che porti e tu, lo voglia o no, non uscirai senza di me.

Tecla alzò le spalle.

— Veramente? — chiese riacquistando più forza innanzi alle minaccie che alle preghiere, e con atroce ironìa: — E perchè tu non chiedesti la mia compagnia ieri notte, quando passeggiavi col principe in giardino?

La fronte di Miranda non si chinò.

— Non ne avrei avuto bisogno — rispose gravemente — se invece di ricevere o visitare segretamente la contessa di San Secondo, l' avesti lealmente presentata. Chi ha timore e si nasconde, deve aver qualche cosa a rimproverarsi.

Tecla si era pure alzata e guardava con aria di sfida la cognata.

— Ti proibisco d' ingiuriare quella signora.

— Ed io di riceverla qui o recarti a visitarla, senza che Umberto lo sappia.

Tecla non si conteneva più.

— Farò quello che mi parrà meglio — esclamò.

Miranda impallidì.

— Va… non hai cuore — disse gravemente, crollando il capo — e Dio voglia che tu non abbia a rimpiangere di non avermi ascoltata.

Ella si ritirò, senza che Tecla facesse una parola per trattenerla.

La povera giovinetta giunse a stento nella sua stanza e cadde oppressa su d' una seggiola, piangendo sommessamente, chiamando Umberto, supplicandolo di tornare, come se egli potesse sentirla.

Poi a poco a poco si calmò, potè riflettere. Era possibile che Tecla si fosse ad un tratto così cambiata? Chi le aveva insegnato quei modi insolenti, insinuati quei desiderî di libertà, di ribellione? Doveva avvertirne il fratello? Che dirgli? Perchè torturargli l'anima senza una grave ragione?

Miranda finì per rimproverare sè stessa d' essersi mostrata troppo severa: doveva prendere la cosa con maggiore accortezza, senza urtare la suscettibilità della cognata.

Nondimeno Tecla l' aveva ferita crudelmente al cuore, aveva persino lasciato balenare un ingiurioso sospetto su lei ed il principe.

Ma chi l' aveva avvertita del suo colloquio con Cars? Forse il domestico, che aveva rimandato in casa?

Miranda pregò Dio di darle forza d' animo, rassegnazione e pazienza.

Non poteva coricarsi coll' idea che Tecla fosse in collera con lei. Si diceva che nell' esaltazione del momento, la cognata si era lasciata sfuggire delle parole di cui forse si era già pentita.

Mentre così pensava, entrò la cameriera.

— Ah! venite, signorina, venite — esclamò.

Miranda fu subito in piedi.

— Cosa c' è?

— La signora deve sentirsi male: ero entrata in camera per chiederle se le abbisognava qualche cosa e la trovai a letto colle guancie accese, gli occhi spalancati, stravolta; l' interrogai, non mi rispose e sono corsa ad avvertirvi.

— Vengo subito — disse Miranda con voce ferma, ma col cuore stretto dall' angustia.

La cameriera aveva ben descritto lo stato della sua padrona.

Tecla era coricata e mostrava un viso alterato, lo sguardo aveva fisso, la pelle scottante: un sudore ghiacciato le scorreva sulla fronte.

Miranda la chiamò dolcemente a nome: non ebbe risposta: le prese una mano, ma Tecla non fece alcun movimento.

Allora giudicò la situazione gravissima e mandò subito in cerca di un medico.

Intanto non trascurò le cure che erano del caso; le rinfrescò la fronte con acqua ed aceto, gliene umettò le nari e fregò leggermente i polsi.

Tecla guardò la cognata, ma non doveva averla riconosciuta, perchè rimase chiusa nel suo mutismo, senza un gesto, mentre i battiti delle tempia e dei polsi si facevano più rapidi e violenti.

Il medico, giunto in breve, dopo un attento esame, dichiarò trattarsi di una congestione cerebrale.

— Vi è pericolo di vita? — balbettò Miranda con voce spenta.

— Se aveste tardato a chiamarmi direi di sì, ma spero di essere giunto in tempo a salvarla.

Diede alcuni ordini rapidi, precisi, che furono all' istante eseguiti, e per quanto durò la notte, nè egli, nè Miranda si tolsero dal capezzale di Tecla.

— Credete sia il caso di avvertire mio fratello? — chiese la giovinetta con voce soffocata dalle lacrime.

— No, attendiamo ancora.

Qual notte! Miranda ne faceva un paragone con quella passata nella locanda della Borgna! Ma allora Tecla, rinvenendo, aveva mandato un grido di gioia, le aveva stese le braccia, mentre adesso l' avrebbe forse respinta, mostrato paura di lei.

Verso l' alba, la giovane donna fu assalita dal delirio e due o tre volte pronunziò il nome di Miranda.

— Ella vi chiama — disse il medico.

Grosse lacrime irrigavano il volto della giovinetta e caddero sulle guancie della cognata.

Ma ella non le sentì: continuò a discorrere ora sommessamente, or forte, finchè a quell' esaltazione subentrò un inerte torpore, il febbrile rossore del volto si cangiò in una specie di lividezza.

Miranda guardò spaurita il medico:

— Sta peggio?

— No, anzi va meglio: adesso garantisco della vita di lei.

Una soave calma scese in cuore a Miranda, subentrando all' ambascia di poche ore prima.

— Però — aggiunse il dottore — non conviene in alcun modo turbarla, mi raccomando: oscurità e silenzio.

— Nessuno trasgredirà i vostri ordini, perchè io sola rimarrò in questa camera.

Il medico se ne andò e Miranda chinossi ad osservare la cognata.

Sembrava riposare tranquilla, sorrideva, il viso si era come trasfigurato, le labbra si agitavano.

Ma la giovinetta non potè afferrare alcun suono.

Tuttavia si sentì vieppiù rassicurata. La posta del mattino le recò una lettera di Umberto.

Era a lei diretta, onde la lesse subito avidamente.

Il fratello le annunziava che lo zio aveva lasciata una sostanza che non si sarebbe mai sognato, che egli era occupato a liquidare la successione, quindi la sua assenza si sarebbe prolungata oltre il mese. Aggiungeva che se Tecla fosse rimasta sola, a costo d' imbrogliare gli affari, sarebbe ritornato subito, ma sapendola vicina a lei, rimaneva tranquillo.

“ Come tu sei stata il mio buon angelo — diceva in un punto della lettera — lo sarai anche il suo: a te sola noi dobbiamo la nostra felicità, e non passa giorno senza che io ti benedica dal fondo dell' anima, come ti deve benedire Tecla. ”

Seguiva un poscritto per la moglie, pieno di tenerezza, di passione.

Miranda era tutta sconvolta e una violenta emozione le agitava il seno.

— Povero Umberto! Se sapesse! — mormorò lasciando cadere sulle ginocchia le mani che tenevano la lettera.

La sua fronte, già così serena, si chinava con tristezza, le sue labbra scolorite si sforzavano invano al sorriso.

— Ah! meglio che egli rimanga qualche tempo lontano. Tecla, ritornando in salute, trovandomi assidua, amorosa vicino a lei, comprenderà se io l' amo, saprà discernere l' accento della verità, non respingerà i miei consigli, il mio appoggio.

Portò alle labbra la lettera del fratello, mormorando:

— Non temere, Umberto, non ti sei invano affidato a me: io farò per Tecla quanto mi permettono le mie deboli forze, continuerò la mia missione per quanti inciampi possano attraversarmi la via, purchè ella resti degna di te: Dio mi aiuterà.

I suoi grand' occhi illuminati da una luce divina si alzarono ad un crocifisso che pendeva vicino al letto, e con uno sguardo pieno di fiducia, commovente, parve chiedergli la forza necessaria per resistere alle lotte, che non le sarebbero mancate.

In quel mentre sentì bussare pian piano.

Nascose la lettera in tasca, si levò e schiuso l' uscio, chiese a bassa voce alla cameriera:

— Che vuoi?

— Vi è quella contessa già stata qui altre volte, che chiede di parlare alla signora Tecla.

Miranda provò un sussulto.

— Le hai detto che mia cognata sta male?

— Sì, e mi ha risposto che non poteva essere vero, ed aggiunse con mal garbo di avvertire la signora, che aveva assoluto bisogno di vederla.

— Andrò io, dove l' hai lasciata?

— Nel salotto a terreno.

— Va benissimo, tu prendi qui il mio posto, e non muoverti finchè non sia di ritorno.

Miranda passò un momento nella sua camera per rimettersi alquanto prima d' affrontare un colloquio con quella contessa di San Secondo, che desiderava tanto conoscere.

Era il cielo che gliela mandava in quel momento.

La giovinetta si guardò in uno specchio.

Era pallidissima, il suo viso portava le traccie della notte insonne, dolorosa, che aveva passata, i capelli le cadevano in disordine sulle spalle.

Si riordinò alquanto e serena in volto, ma altera, scese nel salotto.

La contessa attendeva seduta su di una poltrona: ella non degnava di uno sguardo i mobili eleganti della stanza, le belle giardiniere cariche di fiori, i libri e i giornali illustrati, sparsi sui tavolini.

La fronte aveva increspata, una febbrile impazienza le agitava le mani, un cupo fuoco le lampeggiava negli sguardi.

Udendo il fruscìo di una veste diede in un sospiro di sollievo e i suoi occhi si portarono all' uscio per il quale ella stessa era entrata.

Una manina candida sollevò la portiera e la contessa essendosi alzata si trovò a faccia a faccia con Miranda.

Lo stupore, il dispetto, la resero muta, la fecero arrossire fino al bianco degli occhi.

— Voi aspettavate mia cognata — disse Miranda con squisita gentilezza — ma per oggi, signora, vi sarà duopo rinunziare di vederla: il medico ha proibito disturbarla.

— Ma è dunque proprio vero che sta male? — chiese con impeto Livia.

La sua voce, che non aveva pensato alterare, rese Miranda incerta, smarrita, confusa.

Ella guardò più attentamente la contessa, poi mandò un' esclamazione di gioia.

— Voi, voi, signora! — disse stendendole ambe le mani, che Livia afferrò macchinalmente — ah! perchè nascondervi così? Non sapete la gioia che avreste procurato a me ed a mio fratello, se vi foste fatta riconoscere prima?

La contessa Edvald non ebbe più animo di negare: anzi i trasporti ingenui della giovinetta, le fecero macchinare nuovi progetti.

Assumendo un sembiante melanconico:

— Oh! tacete — mormorò — io ero indegna di vivere sotto il vostro tetto e se cambiai nome, è appunto perchè preferivo che voi e vostro fratello mi credeste morta, in tal modo non avreste arrossito di me.

Vi era tanta sincerità in quegli accenti, che Miranda fu tratta al laccio.

— Che dite mai, signora? — rispose vivamente baciandola — Noi saremmo stati felici, orgogliosi, se aveste acconsentito a vivere con noi. Ma sedete: Tecla, poveretta, in questo momento riposa.

— Ma che le è adunque successo? Come mai è caduta così improvvisamente ammalata, mentre ieri la lasciai che stava benissimo?

Miranda era divenuta mesta.

— Era dunque venuta da voi? — mormorò. — E me l' ha nascosto! E quando le dissi che non sarebbe più tornata a visitarvi senza di me, montò su tutte le furie, mentre con una semplice parola mi avrebbe tranquillizzata.

La contessa aveva presa un' aria compunta, umile.

— La colpa è mia — esclamò — sono io che feci promettere a Tecla di non rivelarvi chi ero; perdonatemi, e non formate un cattivo concetto di me: vi spiegherò la mia condotta. Voi eravate a parte di tutti i segreti della vostra amica, avete saputo quanto ha sofferto per me, ed era impossibile che mi vedeste di buon occhio. Voi ed Umberto avete un nobile cuore, lo so, Tecla me lo disse; ma quando fossi stata presso di voi, non avreste mancato di ricordarvi qualche volta il mio passato…

Miranda cercò interromperla.

— Oh! signora…

— Non m' illudo — mormorò la contessa crollando il capo e con una voce che parve un lamento — conosco troppo il mondo io, e sarebbe venuto un giorno di pentimento, di rammarico per voi e forse di noia e di disperazione per me… No, no, per la vostra tranquillità, per la mia, lasciatemi così; è vero, ho fatto male non dirvi tutto questo il primo giorno che venni qui, forse si sarebbe evitato qualche screzio fra voi e Tecla; ma adesso che sapete chi sono, mi permetterete che io venga ad abbracciare qualche volta mia figlia o che si porti da me; io non avrei più diritto di contare sul suo affetto, ma Tecla ha l' anima bella, pura come la vostra, e mi ha perdonata.

Livia si passò un fazzoletto sugli occhi.

Miranda era commossa.

— Ah! signora — esclamò — questa casa vi sarà sempre aperta, in qualunque ora, in qualunque giorno vogliate trovar vostra figlia; io credo anzi che la vostra presenza avrà una benefica influenza su di lei, le gioverà più di qualsiasi medicina e se volete vi condurrò al suo letto.

— In questo momento?

— Sì…

— Ah! quanto siete buona, accetto, oh! accetto con riconoscenza.

Miranda pareva trasfigurata dalla gioia.

In lei si erano dileguati tutti i lugubri pensieri: il suo sguardo grato e dolce pareva ringraziare la contessa.

Vi era troppa enfasi nei trasporti di Livia, perchè fossero sinceri; ma la sorella di Umberto aveva l' ingenuo candore della gioventù e vi prestò fede…

Ella precedette la contessa fino alla camera di Tecla e quando fu sulla soglia posò un dito sulla bocca per raccomandare il silenzio.

Livia, trattenendo il fiato, colle labbra strette, fissava l' ardente sguardo per la stanza, come se volesse esaminarne gli oggetti, che intravedeva appena nell' oscurità.

Di faccia alla porta trovavasi il letto di Tecla. Le ricche tende ne erano state rialzate e sul capezzale bianchissimo scorgevasi la bella testina della giovane donna cogli occhi chiusi.

Dormiva sempre.

La cameriera che si trovava accanto al letto si avanzò in punta di piedi incontro a Miranda e con voce sommessa:

— La signora non si è mai svegliata — disse.

— Meglio così: queste ore di riposo sono preziose per lei, ma tu ora puoi andartene.

Poi afferrando una mano di Livia la trasse vicino alla figlia.

La contessa cupa e pallida la fissò con uno sguardo pieno d' indicibile espressione, mentre negli occhi di Miranda brillava la più viva tenerezza.

— Mi concedete di rimanere qui fintanto che ella si svegli? — sussurrò debolmente Livia agli orecchi della giovinetta.

— Vi cedo il mio posto, signora, perchè vostra figlia aprendo gli occhi possa subito provare un po' di gioia: io mi ritiro nel salotto vicino, se vi abbisogna di me chiamatemi e se Tecla ha ricuperata, come spero, la lucidità di mente, ditele che mi perdoni, che l' amo sempre.

Livia le strinse in silenzio una mano.

Rimasta sola, uno sprezzante sorriso sfiorò le sue labbra, dando un' espressione stranamente sinistra al suo mobile volto.

Poi chinandosi a guardare la figlia:

— Qual contrattempo! — mormorò. — Purchè ciò non valga ad alterare le sue idee, a farle cangiare sentimenti: bisogna battere il ferro finchè è caldo.

Tecla fece un lieve moto: volse e rivolse la testa sul capezzale, ed alcune parole inarticolate le sfuggirono dalle labbra.

— Cars… Cars… — mormorò — sì… vi amo…

Queste parole produssero una specie di vertigine nella contessa, che ansiosamente tendeva gli orecchi.

Si drizzò spaventata, guardandosi all' intorno, come se qualcun altro avesse potuto sentirle.

— Se Miranda fosse stata ancor qui! — mormorò — Ah! è una brutta cosa parlare in sogno, non si è mai sicuri dei proprî segreti.

Tecla alzava le palpebre, Livia si chinò su di lei.

— Sono io — disse baciandola.

Le idee della giovane donna erano confuse, credeva di sognare.

Non era possibile che sua madre fosse vicino a lei, la voce che sentiva non poteva essere la sua.

— Guardami… guardami — bisbigliò ancora la contessa — non t' inganni sai, sono proprio io.

Ella rivolse alquanto il capo, richiuse gli occhi ed interamente si assopì.

Il viso della contessa espresse il corruccio: ella fece un atto dispettoso.

— Quanto mi toccherà rimaner qui! — pensò — Mancava anche la malattia per imbrogliare i miei affari: possibile che nulla più di bene mi riesca?

E sospirando con amarezza, si gettò a sedere su di una poltrona.

Il principe Cars era ritornato alla sua abitazione colla testa in fiamme, il cuore che gli batteva con violenza, l' anima sconvolta da una tempesta di sensazioni e di pensieri, che cresceva ad ogni momento e che egli invano cercava domare.

Zilà non l' aveva veduto da molti anni con un viso così animato, raggiante. Il riso scettico che increspava sempre le sue labbra si era cancellato per dar luogo ad una espressione di suprema bontà.

Egli si ritirò subito nella sua camera, ne chiuse l' uscio ed il domestico lo sentì per qualche momento camminare su e giù, poi tutto fu silenzio.

Cars si era avvicinato alla finestra aperta, aveva appoggiati i gomiti al davanzale e teneva fissi gli occhi in una nuvola bianca che vagava per il cielo.

Forse, avvolta in quella vaporosa nube, gli pareva di vedere la figura angelica di Tecla e provava per tutte le fibre agitate uno spasimo delizioso.

Era proprio lei che gli aveva detto con un accento dolce come una carezza di non partire? Era lei che gli aveva fatto comprendere che l' amava?

Questa parola santa, arcana, la ripeteva fra sè con istupore, sgomento e allegrezza! Sotto quel prepotente fascino, sembrava aver dimenticato ogni cosa.

Ah! perchè tali momenti passano così rapidi! E quasi tosto vi subentra la nuda realtà.

Ora il principe capiva che andava incontro a mille patimenti.

Tecla si era lasciata sfuggire la confessione del suo amore profondo e tacito. Ma a che gli valeva? Ella era moglie di un altro, e per quanto sacrificata a Clementi, aveva il cuore troppo altero per abbandonarsi a lui: una caduta l' avrebbe uccisa.

La figlia della contessa Edvald non sapeva affettare la ipocrisia che salva tante colpevoli indegne di perdono: soffriva, non trovando in sè che debolezza: si sarebbe tradita, accusata coll' espressione del viso, cogli sguardi, le parole.

Così pensava Cars e si sentiva assalire da profonda amarezza e gli ritornava il desiderio di fuggire.

Ma la tentazione era troppo potente, eppoi forse che da lontano non l' avrebbe amata lo stesso e sofferto?

Ah! no, no! A costo di tutto sarebbe rimasto, avrebbe riveduta Tecla, assaporata la gioia di stringerle la mano, parlarle, ascoltare quella voce deliziosa, leggere negli occhi di lei l' amore.

Alla sera, i suoi passi lo portarono verso la palazzina di Clementi, ma quando fu vicino al cancello, non ebbe il coraggio di suonare.

La sua commozione era troppo forte, profonda. Si contentò di osservare i lumi che brillavano attraverso i vetri chiusi, ma sentendo il rumore di una vetrata che si apriva si allontanò precipitoso.

Passò una notte triste. La mattina appresso si recò dalla contessa di San Secondo, ma per quanto suonasse il campanello, nessuno gli aprì.

Allora si dispose a recarsi in casa dell' amico. Infine, non gli aveva egli stesso affidata la moglie e la sorella?

Eppure provava un involontario turbamento.

Il domestico che gli aprì lo fece passare in un salotto, dove si trovava Miranda.

Com' era pallida la giovinetta! I suoi occhi non avevano più la loro serena luce, le labbra si sforzavano invano al sorriso.

Ella pôrse la manina al principe, dicendo con voce sommessa e tronca:

— Vi sono obbligatissima del disturbo che vi siete preso di scrivermi quel biglietto; grazie!

E chinando la fronte, aggiunse sospirando:

— Mi dispiace che anche oggi non possiate vedere mia cognata: si trova a letto con la febbre.

Cars fece uno sforzo per contenere la sua agitazione.

— Ma non sarà nulla di grave — disse respirando a stento e alzando su Miranda gli occhi stralunati.

— Spero di no — proseguì la giovinetta, mentre le scorreva sulla guanica una lacrima.

Il principe aveva il cuore stretto da uno strano sgomento, da un affanno non mai provato.

Tecla era ammalata, febbricitante in quella stessa casa, ed egli non poteva vederla… essere vicino a lei.

La vista di Miranda gli faceva male, quella giovinetta era stata fatale a Tecla; se questa soffriva, lo doveva a sua cognata.

Il volto di Cars, invece di un sentimento di benevolenza, esprimeva severità, freddezza.

— Non vi è alcuno al suo fianco?… — chiese con far glaciale.

La giovinetta lo guardò fisso negli occhi.

— La contessa di San Secondo — rispose.

Cars non fece alcun movimento.

— Del resto — soggiunse Miranda — Tecla, dopo un lungo delirio, è caduta in una specie di benefico sopore, e adesso riposa.

Cars impallidì. Tecla nel delirio avrebbe forse parlato e rivelato quanto le era accaduto il giorno prima?

Se così era successo, Miranda teneva in mano il segreto della giovane donna, il suo!

Egli non rimase lungo tempo presso alla giovinetta.

Quando uscì dalla palazzina si diede a percorrere innanzi e indietro il viale per attendere la contessa, volendo sapere da lei quanto era successo.

Aspettava con impazienza affannosa ed inquieta.

Ma trascorsero lunghe ore e Livia non apparìva.

Tecla stava dunque proprio male? Quella donna che era più della sua vita correva un pericolo ed egli non poteva arrecarle soccorso?

Questi pensieri l' assediavano, lo torturavano crudelmente.

Ritornò a casa in preda ad un' inquietudine che sarebbe impossibile esprimere, ed alla sera si recò di nuovo dalla contessa San Secondo.

Questa volta venne lei stessa ad aprire. Ah! finalmente, Cars sarebbe stato informato di quanto era accaduto.

Livia l' accolse con un trasporto di gioia.

— Se non venivate da me — disse, mentre lo faceva passare in sala — sarei venuta io da voi.

Il principe tremò.

— Forse Tecla sta peggio? — chiese.

— Se fosse così, non l' avrei lasciata, perchè io vengo di là, sapete.

— Lo so, fui oggi stesso alla palazzina.

Si erano seduti vicini, si guardavano negli occhi.

— Miranda vi ha parlato di me? — mormorò.

— Mi disse solo che la contessa di San Secondo si trovava al letto di Tecla. Io seppi contenermi, dissimulare la mia sorpresa per non mostrare alla giovinetta che vi conoscevo più di quello che l' avessi informata.

— Avete fatto benissimo, e vi assicuro che sono ancora sbalordita per quanto è successo. Mi ero recata da mia figlia perchè…

S' interruppe, abbassò la testa.

Cars, che pareva sospeso alle sue labbra, la guardò sbalordito.

— Non continuate?

Un lampo passò negli occhi della contessa, ma bentosto li rialzò sul principe.

— Ah! non avrò alcun segreto con voi — proruppe. Mi trovavo in bisogno di denaro.

— Perchè non vi siete rivolta a me?

— Non avrei mai osato.

— Per qual ragione? Non sono vostro amico? E non saprei fare della mia fortuna uso migliore di quello di venirvi in aiuto.

— Ah! principe — esclamò la contessa con impeto — voi siete l'uomo più grande, generoso della terra.

— Tregua alle adulazioni, sapete che mi dispiacciono; piuttosto continuate a raccontarmi quello che è successo.

Livia represse il suo entusiasmo e riprendendo un accento quasi mesto, replicò:

— La cameriera che m' introdusse in salotto, mi avvertì subito che Tecla stava male; non ci prestai fede, credetti fosse una scusa qualunque per non ricevermi e dietro le mie insistenze, finì per dirmi di attendere. Credevo dopo poco di vedere mia figlia, ed invece mi comparve dinanzi Miranda.

Cars osservava la contessa.

— Vi riconobbe subito? — chiese.

— Appena aprii la bocca, nella situazione in cui mi trovai, non ebbi l' avvertenza di alterare la voce.

E raccontò l' accoglienza della giovinetta, ma non volle dimostrare che Miranda era stata spinta da generosità d'animo, da buon cuore, ma piuttosto dal rimorso, perchè era stata la sola cagione della malattia di Tecla.

— In qual modo? — chiese il principe anelante.

— Sembra che al suo ritorno da casa mia, l'abbia fortemente rimproverata, si sia lasciata sfuggire delle ingiurie — rispose con impudenza la contessa — la mia povera figlia, per non tradirmi, stette in silenzio, ciò che inasprì vieppiù Miranda, la quale le significò in modo assoluto che non avrebbe più fatto un passo senza di lei. Tecla soffrì tanto nel vedersi così maltrattata, che fu subito assalita da una febbre violentissima. Ora Miranda non ha più il coraggio di stare al letto della cognata, ma per sgravio di coscienza, riconoscendomi, mi ha aperte le braccia e concesso di recarmi presso mia figlia.

Livia diceva tutto cìò con semplicità e commozione, certa che il principe sarebbe rimasto persuaso della sincerità di quelle perfide insinuazioni.

Ed aveva ragione. Cars la credette, ed ascoltandola il suo viso era divenuto livido, le sue labbra increspate lasciavano vedere i denti, che digrignava, mostrando l' esasperazione della sua anima.

— E adesso Tecla come si trova? — balbettò.

— Va un po' meglio — disse Livia abbassando la voce e levando uno sguardo espressivo al cielo — ah! Dio mi ha bene ispirata facendomi andare da lei; è stata una fortuna che io sola fossi vicina al suo letto, perchè la disgraziata, nel delirio, vi chiamava a nome, confessava il suo amore, la gioia infinita provata nel rivedervi, nel sapersi tanto amata da voi…

Le vene della fronte e del collo di Cars erano gonfie, come se stessero per spezzarsi, le sue labbra tremavano.

— E il delirio ora è cessato? — pronunziò a stento, con affannosa impazienza.

La contessa provava una gioia infernale nel vedere il buon esito delle sue menzogne.

— Sì, — rispose sempre sottovoce. — Mi ha riconosciuta, e non vi so dire la sua gioia nel trovarmi presso di sè: fu lei stessa che mi sussurrò di avvertirvi di quanto era successo, e la poveretta pianse al pensiero di non potervi tanto presto rivedere.

— Ah! se sapesse che darei la mia vita per esserle al fianco! — proruppe con esaltazione il principe — E non potere! Ah! maledette le convenienze, i doveri. Se chiedessi a Miranda di vedere sua cognata, forse non me lo negherebbe, ma starebbe presso di me, ed io potrei tradirmi.

La contessa era rimasta pensierosa, alzò il capo con vivacità.

— Potete scrivere a Tecla — disse — m' incarico io stesso di portarle la lettera. Ah! non giudicatemi male — aggiunse vedendo il viso di Cars oscurarsi — se mia figlia non fosse così ammalata vi giuro che sarei la prima a pregarla di dimenticare; ma vedendola sofferente, sacrificata, il mio cuore non sa resistere.

Egli le porse la mano con un gesto pieno di gratitudine.

— Vi credo e vi ringrazio dal fondo dell' anima — disse — sì, le scriverò, non posso sopportare l' idea che ella mi chiami… senza che almeno io le risponda con una parola di conforto.

La contessa Edvald gli rivolse un' occhiata incantevole e si affrettò a disporre dinanzi a lui quanto occorreva per scrivere.

Quindi, per maggior riserbo e delicatezza, si trasse da parte a leggere un giornale.

Il principe nelle poche righe che vergò mise tutta la sua anima, tutta la tenerezza di un amante appassionato, senza accorgersi degli sguardi maligni, beffardi, rivoltigli di traverso da Livia.

Quando ebbe finito, si alzò col volto acceso e con accento profondamente commosso:

— Se questa lettera poteste consegnargliela stasera, ve ne sarei molto riconoscente — mormorò.

— Fra un' ora l' avrà: ho promesso di vegliare la notte accanto a lei… domattina tornate qui… e forse troverete una risposta.

Il principe le strinse la mano con forza… e prima d'andarsene:

— A proposito contessa — disse — spero che non mi dimenticherete in qualsiasi circostanza; sarei offeso se trovandovi in bisogno vi rivolgeste ad altri…

— Per mostrarvi che tengo troppo alla vostra amicizia — rispose Livia senza esitare — vi dirò che mi occorrerebbero tre mila lire per far fronte ad un impegno.

— Posso darvele subito, giacchè credo di tenere assai più nel mio portafoglio.

Pochi minuti dopo, il principe si era allontanato e nella sala entrava Michele.

Livia si scompisciava dalle risa.

— Come sono creduli gl' innamorati! — esclamò palpando colle dita i biglietti di banca, che Cars le aveva consegnati.

Michele la fissava con insultante disprezzo.

— Egli paga il disonore di tua figlia — disse.

Livia divenne rossa dalla collera.

— Non è da te, che mangi il mio pane, che vorrei simili rimproveri — esclamò.

— E chi ha dissipate le mie sostanze?

— Mi rinfaccieresti tali miserie? Se non eri tu, vi sarebbero stati cento altri, ben felici ancora di rovinarsi per me.

Il viso di Michele si contrasse, ma non rispose.

La contessa, che doveva aver bisogno di lui, aggiunse rabbonita:

— Del resto… hai prestato fede a tutte le frottole che raccontai al principe?… Ma bisognava tirassi l' acqua al mio mulino.

— Consegnerai quella lettera a Tecla?

— Sei pazzo; ella la respingerebbe ed io non voglio compromettermi per così poco: a quella lettera risponderai tu.

— Io!?

— Sì… non hai capita ancora la mia idea? Tu sei abilissimo nel contraffare tutte le scritture.

Michele fece un gesto quasi di terrore.

— Anche falsario? No, no… mai: rifiuto.

La contessa gli andò incontro quasi coi pugni sul viso.

— E volevi vendicarti di Tecla, che ti disprezza, ti odia, di Clementi, di Miranda? Va… che sei un pusillanime, un vile!

— Livia!

— Oh! non mi fai paura — replicò con sorriso insultante — forse che non ti conosco! Hai in mano tanto da poter perdere i tuoi nemici… e tremi…

Vi fu un momento di silenzio, durante il quale i due complici si guardarono biecamente. Michele si contenne, parve cedere.

— Dammi la lettera — disse — farò meglio che potrò.

— Sia lodato Dio: ti sei scosso; guarda che la risposta sia pronta per domattina.

Michele le troncò la parola con un freddo gesto: si era ricacciato dentro con violenza ogni pensiero ostile ed al suo slancio collerico, era subentrata una stoica calma.

Si ritirò nella sua camera, sedette presso un tavolino. E rimase per qualche momento senza muoversi, cogli occhi fissi sulla sopraccarta della lettera che avea dinanzi: due macchie rosse gli erano apparse sulle gote, facendo spiccare ancor più il colore bilioso della pelle.

— Ella getta il denaro per la finestra — mormorò — quindi, per raccoglierlo, s' arrabatta in mezzo a traffici infernali … vende il suo sangue… E parla di vendetta! Io che davvero non ho altro scopo, disprezzo l' oro del principe, sebbene del mio non abbia più nulla.

Tolse la lettera dalla busta, la svolse, ne percorse le prime linee:

Tecla,

“ Soltanto in questo momento seppi della vostra malattia e non vi so dire ciò che prova il mio povero cuore. È dolore, rimorso, disperazione.

“ Mi sembra di essere la sola cagione delle vostre sofferenze e chiedo a Dio perchè mi punisca così.

“ Ah! perdonatemi se oso scrivervi… so di non averne alcun diritto, ma se non potessi dirvi tutto ciò che soffro, non essendomi dato avvicinarvi, ne morrei…. ”

Un sorriso astioso, irritante, dischiuse le labbra di Michele.

— Ecco a quali reti le donne si lasciano accalappiare — mormorò — Un uomo che parlasse coll' accento semplice della verità, non sarebbe creduto, ci vuole un linguaggio fiorito, artificioso, appassionato. E non si avvedono del serpe che fa capolino in mezzo alle rose.

Le macchie rosse che aveva sul viso si erano accese ancor più: riprese a leggere:

“ Non ho che voi al mondo: tutti i miei pensieri, le mie speranze si riassumono in un solo nome: Tecla!

“ Sono forse colpevole se vi amo tanto… e se mi limito a chiedervi di permettermi di condividere sinceramente le vostre pene, le gioie vostre?

“ Io mi contenterò d' inviarvi silenziosamente tutti gli ossequî del mio cuore, il mio spirito sarà continuamente vicino a voi…. ”

Michele gettò con rabbia il foglio: la sua fronte si era tinta di un rossore ardente e con aria di profondo disgusto:

— Tutti così — mormorò — piangono come bambini, si atteggiano a vittime, mostrano orrore di tutto… e intanto meditano l' inganno, tradiscono l' ospitalità, l' amicizia, i doveri più sacrosanti…

Diede in uno scroscio di risa.

— E sono io che voglio atteggiarmi a moralista! — proruppe — Anzi… dovrei gioire di ciò che succede. Clementi la tolse a me e vi saranno altri che la toglieranno a lui… e sarò io che farò la parte di Tecla; intanto eccomi di nuovo segretario!

Tolse un portafoglio dalla tasca ed apertolo ne trasse un pacchetto di carte. Erano alcune soprascritte e dei ritagli di lettere vergate dalla mano di Tecla, ma fra esse vi era pure una busta sgualcita, fatta gialla dal tempo, che Michele osservò con evidente soddisfazione.

— Verrà un giorno che mi servirò anche di questa — rispose — Miranda avrà la sua parte.

Prese uno dei piccoli ritagli, lo esaminò minutamente, vergò due o tre parole, facendone un confronto, ed apparve raggiante di contento.

Allora sopra un nitido foglio di carta da lettera scrisse:

Principe,

“ Le vostre parole mi hanno profondamente commossa. Non vi ho detto io stessa di non dimenticarmi?… Ed essendo così separati, è per forza, che ci scriviamo.

“ Voi lo vedete, Cars, ho tanta fede nella vostra delicatezza, nell' onor vostro, che non esito un istante a rispondervi, sebbene il mio corpo sia ancor debole, la penna mi tremi nelle mani.

“ Capisco che la legge sociale troverebbe una colpa in questo scambio di soavi confidenze, in queste espansioni della più schietta amicizia; ma dacchè mi trovo così infelice, dacchè non vedo a me dintorno che persone disposte a procacciarmi male, io non conosco più altra legge che quella del cuore e v' invoco come il mio buon genio, il solo conforto dell' anima mia.

“ Perchè temete dunque tanto?

“ Tecla. ”

Michele firmò senza esitazione, poi un sorriso ignobile e crudele gli agitò la pelle della faccia.

— Sfido il più abile perito-calligrafo a trovare una differenza fra questa scrittura e quella della figlia di Livia — esclamò — Ella stessa non potrebbe giurare che la lettera non sia sua.

E piegandola in due la mise in una larga busta, che si guardò bene dal suggellare.

La pace, la tranquillità parevano ritornate alla palazzina di Clementi. Tecla cominciava ad alzarsi ed appoggiata al braccio di Miranda scendeva per qualche ora in giardino: il suo volto, ancora un po' abbattuto, sembrava rinascere all' aria libera, al sole.

Le due giovani parevano aver dimenticato affatto i loro rancori, le inquietudini passate.

Ogni tanto Miranda guardava soavemente la cognata chiedendole se si sentiva stanca, se voleva tornare in casa, e Tecla con un sorriso di tenerezza scuoteva la testina, e mormorava a bassa voce:

— Si sta così bene qui, è così deliziosa quest' aria tepida, profumata.

Avevano scritto ad Umberto, ma senza far parola della malattia, che aveva per un momento gettata la costernazione nella palazzina.

Il principe Cars era venuto due volte a visitare la bella convalescente, e trovò Miranda al fianco di lei.

La prima volta ne aveva provato dispetto, e rimase per pochi minuti in loro compagnia, mostrandosi freddo, serio, irritato: la seconda provò una spiacevole sorpresa.

Miranda si era alzata per andare a prendere un ricamo, e Cars sentiva già il suo cuore battere con violenza al pensiero di rimanere un momento solo con Tecla, quando questa volgendo lo sguardo languido alla cognata:

— Fermati — disse con voce dolcissima — che bisogno hai ora di lavorare? Non è forse meglio discorrere?

Che voleva dir ciò? Temeva la giovane donna di restare con lui? Eppure in una lettera ricevuta il giorno prima, Tecla gli scriveva:

“ Ah! quando mi sarà dato potervi stringere la mano senza testimonî, sentirmi ripetere da voi che mi amate? ”

Egli le rivolse però un' occhiata di muto rimprovero, che la giovine donna non sembrò comprendere.

Era strano: dopo quell' improvvisa esaltazione, pareva che la presenza del principe le fosse divenuta importuna.

Miranda aveva pure osservato che Tecla non riceveva più la madre, che ormai veniva tutti i giorni, con l' espansione della prima volta.

Pareva provare una specie di malessere alla sua presenza ed ogni qualvolta usciva da un colloquio colla contessa, a Miranda sembrava che la cognata avesse gli occhi rossi, proprî di chi ha pianto.

Che succedeva? La giovinetta si sarebbe guardata bene dall' interrogare Tecla, sebbene questa tornasse a mostrarsi espansiva, confidente con lei; ma attendeva una occasione propizia per scoprire la verità.

Un dopo pranzo, le due cognate scesero in giardino e ne avevano già fatto due volte il giro, in silenzio, quando Telca lo ruppe per la prima.

— Almeno tornasse presto Umberto — disse sospirando.

Miranda guardò la cognata con gratitudine.

— Egli ha promesso di essere qui la settimana entrante.

E con una specie di timidezza aggiunse:

— Sono adunque scemate le tue prevenzioni contro di esso?

Tecla arrossì.

— Non parlarmene, sono stata pazza; ma ora ho riacquistata la mia intera ragione.

La giovine donna fu interrotta dal suono di un campanello.

— Deve essere tua madre — disse Miranda — andiamole incontro.

Tecla si lasciò condurre, ma la gioia che aveva animato un istante il suo viso si dileguò, impallidì ad un tratto.

Era proprio la contessa Livia che giungeva: ella nascose sotto un sorriso il dispetto provato nel vedere la figlia al braccio di Miranda.

— Mi rallegro di trovarti così bene — esclamò baciando Tecla, che aveva arrossito sotto il suo sguardo pertinace.

Poi strinse la mano a Miranda e si unì a loro per passeggiare in giardino, parlando di una cosa e dell' altra con volubilità non priva di grazia.

Miranda l' ascoltava con piacere, ma Tecla che conosceva troppo bene le gradazioni della voce, della fisonomia della contessa, pur cercando sorridere per non dar sospetti alla cognata, si sentiva sulle spine, provava una specie di malessere.

La conversazione di Livia langui a poco a poco; due volte le sue distrazioni erano state notate da Miranda; infine i suoi lineamenti si alterarono così, che la giovinetta le chiese con premura se fosse indisposta.

La contessa si turbò.

— Ma niente affatto, sto benone — riprese — solo temo che a mia figlia non faccia molto bene rimanere qui… la ricondurrò io in casa: non vi disturbate, Miranda, tanto debbo darle alcuni consigli sulla sua salute, cose che le ragazze non debbono sapere…

Sorrideva maliziosa, fingendo non accorgersi che Tecla aveva inarcati alquanto i delicati sopraccigli e le guancie di Miranda si erano fatte vermiglie.

— Andate pure, signora — disse la giovinetta con vivacità — fate il vostro comodo, io rimango qui.

Ma appena Tecla e sua madre furono scomparse, alcuni dubbî, soffocati da qualche tempo nel suo cuore, si risvegliarono in Miranda forti, possenti.

Le pareva di vedere un secondo fine in quelle premure della contessa: le tenere espansioni che dimostrava verso la figlia, le sembravano ignobilmente simulate.

Capiva che la cognata stessa soffriva a quei baci e carezze, e le sembrò che una vera trama si svolgesse dinanzi ai suoi occhi.

Ma come scoprirla?… Non vi era altro mezzo che sorprendere un colloquio di Livia con Tecla.

La cosa era un po' odiosa e ripugnava a Miranda; ma nella disposizione d' animo in cui si trovava, ella non provò nè vergogna, nè esitazione.

Rientrando in casa seppe che la contessa e Tecla si erano chiuse nella camera da letto.

Quella camera aveva un' ampia vetrata che dava sul balcone dal quale si poteva scendere in giardino.

Miranda pensò di recarsi da quella parte. Si era fatto scuro ed ella potè giungere al balcone senza che alcuno la scorgesse.

Il colore del suo abito si confondeva in mezzo al fogliame che si arrampicava lungo la balaustrata.

La vetrata, ricoperta di ricche e pesanti cortine, era socchiusa, e da quell'apertura, la giovinetta potè vedere quello che succedeva nella stanza.

In quel momento madre e figlia rimanevano in silenzio.

Ma il loro atteggiamento ostile colpì la giovinetta.

Tecla stava in piedi, presso il caminetto, il cui sporto in velluto e oro, reggeva due candelabri accesi.

Sul suo bel viso, eravi un' espressione di sdegno, di sprezzo schiacciante, che le dava un' impronta maestosa, quasi minaccevole: i suoi occhi scintillanti si fissavano con sicurezza, fieri sulla contessa.

Livia aveva la faccia imporporata dalla collera, e pareva cogli sguardi voler fulminare la figlia.

— Tu non me lo dai ad intendere — proruppe ad un tratto — Rimorsi? Evvia, ci è sotto qualche altra cosa che io scoprirò.

— Te ne supplico, vattene — rispose Tecla con voce angosciata — non farmi dimenticare il rispetto che ti devo; si, te lo ripeto, io ho rimorso di quell' istante di debolezza; mi pare ancora un sogno di aver sospettato della lealtà di Miranda, della bontà di Umberto, di aver dimenticato il mio pudore al punto di pregare il principe a rimanere in Firenze. Ma ho aperti in tempo gli occhi e non porrò più il piede in casa tua, per non aver un giorno a rimpiangere la mia pace perduta, od a trovarmi lordata di una colpa, il cui solo pensiero mi desta ribrezzo, orrore…

Miranda ascoltava con smarrimento quelle parole, che le rivelavano tutta l' infamia di Livia, la ferivano nei suoi affetti, le mostravano la doppiezza di Cars.

Così quelle scappate di Tecla in casa della falsa contessa San Secondo, avevano per iscopo d' incontrarsi col principe, e mentre questi fingeva ignorare chi era quella donna, si serviva di lei per un basso, vile intrigo, per sedurre una povera creatura, che aveva un giorno avuto la debolezza di amarlo.

Miranda fu presa da una profonda nausea per lui e la contessa, e non pensò che a salvare Tecla, la quale sembrava crudelmente stretta dai rimproveri della sua coscienza, veramente pentita.

Livia, all' improvvisa rivolta di quella volontà, che credeva d' aver sottomessa, non seppe frenare la sua rabbia.

— Oh! oh! che parolone — esclamò — un' altra più sciocca di me si lascierebbe cogliere… ma io ti capisco, vuoi sbarazzarti con tal pretesto di tua madre, tanto più che hai il comodo di aver vicino il principe quando vuoi…

— Taci!… — interruppe imperiosamente Tecla — Come può l' idea di tanta bassezza penetrarti nell' anima?… Lasciami, te lo chiedo in grazia… le tue parole mi uccidono….

— Non si muore per così poco — aggiunse la miserabile — non m' imporre silenzio, non t' obbedisco, mi allontanerò, ma quando avrò detto tutto.

Ed avvicinandosi vieppiù alla figlia e dopo essersi guardata attorno:

— Sappi — aggiunse cogli occhi accesi ed il viso coperto di rossore — che io ho chiesto in imprestito al principe ed a tuo nome una forte somma.

Tecla mandò un grido d' indignazione.

— Tu hai fatto ciò? — disse con espressione di suprema angoscia — È impossibile, mènti…

— Dico la verità.

Tecla si coprì il volto colle mani, e dal petto le uscirono singulti strazianti.

La contessa non ne parve scossa.

— Ormai la cosa è fatta — esclamò — e se non vuoi perdermi, ti convien fare buon viso al principe.

S' interruppe: Miranda aveva aperta con impeto la vetrata e si ergeva fiera, imponente dinanzi alla contessa.

— Il principe non metterà più piede qui, come ne scaccio voi stessa — esclamò.

— Mi scacciate dalla casa di mia figlia? — gridò con accento stridulo Livia.

— Questa è casa mia e di mio fratello — disse la giovinetta pallidissima, malgrado la sua calma — ed io non sopporterò più a lungo l' ingiuria della vostra presenza… solo, prima d' uscire, mi direte la somma chiesta al principe in nome di Tecla.

— Avevo dimenticato che la signorina è solita ad ascoltare dietro le porte — esclamò con fare insolente Livia.

Miranda non raccolse l' ingiuria.

— Orsù, dite quanto dovete a Cars? — replicò.

— E se non volessi dirvelo?

— Vi smaschererei.

L' attitutine della giovinetta era tanto determinata, il suo sguardo così grave e severo, che la contessa comprese che non minacciava invano.

Allora si rivolse a sua figlia e con tono spietato:

— E tu — disse — che imploravi il mio aiuto per difenderti da tua cognata, lasci adesso che insulti a tua madre?

Tecla accasciata, prostrata sulla poltrona, dava l' immagine della più straziante disperazione.

— Io pure sono colpevole al pari di te, e merito di essere scacciata — mormorò — non chiedo grazia, ma pietà!

— Non so chi mi tenga dallo schiacciarti sotto i piedi — proruppe Livia al colmo della rabbia.

Vedendo di nuovo crollare il tenebroso edifizio, che nei suoi iniqui progetti aveva inalzato, la contessa non ebbe più modi, nè freno e sfogava con un' ultima bestemmia la sua cinica collera.

Ah! pur troppo se ne trovano delle madri così sciagurate che cercano speculare sulla bellezza e virtù delle proprie creature ed esercitando sulle sventurate la loro nefasta prevalenza, le forze del dispotismo, finiscono col perderle.

Per buona sorte tali donne perverse, viziose, di un egoismo implacabile, feroce, sono poche, e il più sovente il nome di madre è la personificazione di ciò che vi è sulla terra di più bello, santo, sublime, è il compendio di tutte le virtù, di tutti gli eroismi!

La contessa Edvald dopo quell' invettiva contro sua figlia, si volse a Miranda e sfavillante ira dagli occhi, terribile di empietà:

— Vado — esclamò — ma può darsi che ci rivediamo ancora… intanto, giacchè fate l' apostolo della carità, pagate pure il debito della vostra virtuosa cognata: sono diecimila franchi.

E gettando ad entrambe uno sguardo beffardo, insultante, uscì dalla stanza.

Tecla non volse la testa; ma appena sentì il rumore dell' uscio che si chiudeva, cadde sulle ginocchia e congiungendo le mani:

— Uccidimi… Miranda… uccidimi — gridò con accento straziante e la contrazione dei suoi lineamenti mostrava quanto soffriva — io me lo merito, perchè spinta da un' eccitazione nervosa e da perfidi consigli, ho osato meditare una colpa e poco mancò dimenticassi ogni senso d' onore, di dovere. Merito la morte, ma risparmiami la vergogna di arrossire dinanzi a tuo fratello.

— Sono queste cose da dirsi? — interruppe Miranda con inesprimibile tristezza, sollevando Tecla fra le sue braccia. — Umberto nulla saprà, ma a me, tu confesserai tutto.

La giovine donna alzò il viso di una pallidezza terrea.

— Nulla ti nasconderò — disse con grave accento — tu sarai il mio giudice; ah! non tremare Miranda, non credermi più colpevole di quello che sono.

La giovinetta si rimise subito.

— Se tu non avessi avuto il diritto di portar alta la fronte — esclamò — non saresti più rientrata sotto questo tetto, ne sono certa.

— Ah! è vero, è vero — gridò con esplosione Tecla — avrei preferito morire. Io non fui che stolta: il mio pazzo cervello aveva fatto dei tristi sogni, ma fui risvegliata in tempo; ascoltami dunque Miranda.

Ella nulla tacque di quanto le era accaduto, delle tentazioni irresistibili alle quali si era trovata in preda, delle confidenze fatte a sua madre, senza indietreggiare dinanzi ad alcuna verità, per quanto dolorosa ed umiliante le tornasse.

Parlò del suo colloquio col principe, accusandosi amaramente per avergli lasciate concepire delle speranze.

— Vorrei redimere quel momento di oblìo a costo della vita — mormorò con voce quasi spenta — appena ebbi lasciata la casa di mia madre, provai un terrore ed un' angoscia insopportabili, e quando di ritorno, tu mi parlasti così dolcemente, io invece di leggere nelle tue parole l' affetto nobile e grande che ti animava, non sentii che l' ironia, l' offesa. La mia immaginazione, già così colpita, s' infiammò e mi sopravvenne la febbre, il delirio.

“ Quando rinsensai, trovando mia madre vicina al letto, provai un sentimento di gratitudine verso di lei. Credetti che il suo cuore si fosse commosso, ma invece di parole di consolazione, anzichè cercare distruggere le mie prevenzioni contro di te, non fece che aumentarle.

“ Ti ricordi come il giorno seguente, il medico chiedesse di rimaner solo un momento con me?

“ Restai attonita, tremante, non sapendo che dovesse rivelarmi; ma alle prime parole di lui, avvenne nella mia anima un completo rivolgimento, un raggio di gioia celeste, infinita, che m' inondò il cuore, fece scorrere in gran copia le mie lacrime.

“ Il medico mi aveva annunziato che io sarei madre…

— Madre! — gridò Miranda con uno slancio di gioia, fissando con amore la cognata. — E tu me lo nascondevi?

Tecla rialzò la fronte raggiante di sublime alterezza.

— Io non volevo confidarlo che ad Umberto — disse con semplicità candida e serena — mi pareva di dovere a lui questa prima gioia, che procurò in me uno slancio d' amore incommensurabile per mio marito. Pregai il medico di tacere, ed appena egli mi lasciò, fu in me un trasporto di folle tenerezza, di aspirazioni ardenti, di calde preghiere.

“ Ma nello stesso tempo fui assalita da amari terrori, da crudeli rammarici.

“ Ah! ero stata ben folle, ingrata; ma il velo che mi ottenebrava la mente si squarciò: compresi tutta la delicatezza della tua affezione e più ricordavo ogni tua frase ed espressione, più restai persuasa della purità dei tuoi sentimenti, mentre i disegni perversi di mia madre, mi apparivano in tutta la loro cruda realtà.

“ In uno slancio di dolore, tu mi avevi detto, Miranda, che io non avevo cuore…. Ah! tu forse in quel momento avevi ragione, ma se tu sentissi come si è risvegliato, quali battiti frenetici, dal momento che seppi di esser madre…

“ Da quell' istante pure mi giudicai severamente, compresi che meritavo una punizione.

“ Eccoti detto tutto, Miranda. Ora da te attendo la mia condanna, da te che ho così crudelmente offesa. ”

Si era chinata avvilita, colla fronte rossa di vergogna.

Miranda la strinse fra le sue braccia: un sorriso d'angelo le schiudeva le labbra.

— Tecla — mormorò con voce carezzevole e mesta ed uno sguardo tutto dolcezza e pietà — tu non mi hai offesa, ma afflitta; ma puoi ancora ritornare la serenità sul mio volto, riparare la tua momentanea follìa, far sì che niuna nube venga più a turbare la serenità della nostra casa; lo vuoi?

La giovine donna sollevò la testa con impeto.

— Se lo voglio! — esclamò — Comandami, e ti ubbidirò in tutto, tu che m' insegni la virtù, che sei tutta perdono ed affetto: io non mi lagnerò, qualunque patto mi proponga.

— Io non voglio che una promessa da te — rispose con voce ferma, penetrante Miranda. — Tu non devi rivedere più nè il principe Cars, nè tua madre.

Tecla alzò lo sguardo sicuro in viso alla cognata e stendendo una mano:

— Sulla memoria di mio padre, per la creatura che porto in seno, te lo giuro! — esclamò.

Il suo accento era così sincero, che Miranda baciò con trasporto la cognata, aggiungendo:

— Ti credo, e adesso dimentico tutto. Tua madre, ne sono certa, non ardirà più presentarsi qui; in quanto a Cars, gli scriverò io stessa, pagherò il debito che la contessa ha contratto con lui.

— Come farai? — balbettò Tecla, che aveva obliata quella circostanza.

— Tu sai che io posso disporre delle mie rendite, e non mi sarà difficile radunare, dentro domani, quella somma.

Tremante, Tecla non ardiva più parlare, ma i suoi occhi pieni di lacrime, le mani giunte convulsivamente, erano più eloquenti di qualsiasi discorso.

Più Miranda mostravasi nobile, benigna, più la giovane donna si sentiva assalita da uno spaventevole rimorso.

Ah! ma d' ora innanzi la sua vita sarebbe stata divisa fra l' amore di Miranda, di Umberto e della sua creatura.

Di quante cure tenere e delicate avrebbe circondato la giovinetta, per cicatrizzarle la ferita fatta al suo cuore.

E chissà forse avrebbe ancora ritrovati quei momenti di fiducia e di espansione che allietano le anime oneste. Forse anche Miranda, che le aveva letto nell' anima, si era persuasa che i suoi cattivi pensieri non erano stati che l' eco involontaria delle massime immorali della madre.

La giovinetta, vedendo la cognata sciogliersi in lacrime, la baciò di nuovo con tenerezza.

— Perchè piangere? — le mormorò. — Dubiti ancora di me? Non hai fiducia nella tua Miranda?

— Ah! non dire così, per pietà; piango di dolore e di felicità insieme. Il tuo perdono mi ha dischiuso il paradiso, la tua bontà per me mi fa apparire più colpevole.

Miranda l' abbracciò ancora più strettamente.

E quando la giovinetta si trovò sola nella sua cameretta, estenuata da tutti gli sforzi durati, si lasciò cadere sopra una seggiola, senza piangere, senza lamentarsi, ma con una profonda tristezza in cuore. Così senza di lei, in quella casa tranquilla, onorata, sarebbero entrati il disonore, la vergogna, la disperazione! Qual terribile responsabilità pesava sul suo biondo e giovine capo! Nella lontananza del fratello, a lei toccava vegliare sull' onore del nome, a lei provvedere, perchè nessun scandalo trapelasse al di fuori. Riandando l'accaduto soffriva crudelmente. Aveva sempre dinanzi agli occhi la figura minacciosa, ironica di Livia e quella di Tecla, colle braccia tese, supplice, pazza dal dolore.

E quale contrapposto! Il sentimento della maternità aveva resa abbietta, vile la contessa Edvald, mentre aveva dato a sua figlia la forza di lottare contro la propria debolezza, l' aveva salvata!

L' ambascia di Miranda non durò a lungo e si rialzò più forte, sicura di sè stessa.

Ormai il pericolo era passato e la giovinetta ringraziava Iddio, perchè Umberto era lontano, tutto ignorava. Al suo ritorno egli non avrebbe ritrovati che sorrisi, consolazioni, pace.

Questo pensiero finì di sospendere ogni tormento di Miranda: le si riscaldò il cuore, le ritornarono sulle guancie i colori della salute.

Si coricò tranquilla, ed al suo risveglio trovò vicino a sè la cognata.

Ebbe un moto di spavento…

— È successo qualche cosa?… — chiese.

La bocca leggiadra di Tecla sorrideva.

— No — disse con toccante espressione — ti rincresce che io sia qui?

Per tutta risposta, Miranda la baciò.

La giornata era splendida: l' aria tepida, confortante… un profumo vaghissimo di fiori saliva dal giardino.

Tecla pareva ridestarsi a vita novella e chiedeva a sè stessa perchè avesse tanto pianto, tanto sofferto, mentre avrebbe potuto godere da lungo tempo così tranquille delizie, un' allegrezza così gentile, raccolta.

Le due cognate fecero colazione insieme, poi Miranda disse con un sorriso:

— Se vuoi venire con me, andremo dal nostro avvocato per sbrigare dentro oggi quell' affare…

Tecla tremava.

— Quando penso al sacrifizio che fai per cagione mia… — balbettò rabbrividendo di spasimo.

— Non devi neppur parlarne — proruppe Miranda con un sorriso.

— Ma tuo fratello non ti chiederà conto di quel denaro?

— Non lo farà, e se pure accadesse, quando gli risponderò che è servito per una buona azione, non potrà che lodarmi: dunque vuoi venire con me?

— E me lo chiedi? Fra cinque minuti sarò all' ordine.

Uscirono in carrozza, ma dall' avvocato non salì che Miranda: quando ridiscese pareva contrariata.

— Fino a stasera non potrò avere tutta la somma — disse a Tecla — sicchè solo domattina potrò inviarla a Cars: questo ritardo mi disturba.

Giunte a casa, Miranda diede ordine ai domestici ed alla cameriera di dire a chiunque si presentasse, non escluso il principe e la contessa di San Secondo, che le signore non ricevevano.

Le ore trascorsero lestamente quel giorno, fra intime espansioni e dolci confidenze.

Miranda parlava della gioia che avrebbe provato il fratello all' annunzio di essere padre. Tecla formava già mille progetti sulla creatura che doveva venire al mondo, e questi pensieri, espressi con semplicità e candore, parevano riscaldarle l' anima, renderle l' amore, rivestirla di nuova bellezza.

Le due cognate si separarono alle undici, scambiandosi un affettuoso bacio.

Miranda prese la candela ed entrò nella sua camera.

Ma quivi giunta, invece di porsi a letto, dopo una fervida preghiera, spense il lume ed aprì la finestra.

Di fuori, come nell' interno della palazzina, tutto era quiete.

Miranda al contatto dell' aria fresca, che le percuoteva il viso, provava un benessere infinito.

Era felice, riposata: scorgeva l' avvenire ridente. Un bel sentiero contornato di fiori, cui percorreva con Tecla, Umberto ed un leggiadro angioletto.

Miranda non pensava affatto a sè: la gioia degli altri era la sua, come era stato il dolore.

Era suonata la mezzanotte: la giovinetta pensò di ritirarsi.

Però d' improvviso giunse a lei, nel silenzio, un rumore indistinto: pareva che si tentasse di aprire il cancello, da persona non pratica.

Tese l' orecchio: il rumore era cessato.

— Mi sarò ingannata — pensò Miranda.

Si accingeva a chiudere la finestra, allorquando, sulla bianca arena del giardino le parve veder passare un' ombra nera, che si dirigesse verso le stanze di Tecla.

La giovinetta si sentì mancare il respiro, alcune goccie di sudore le scesero dalle tempia lungo le guancie: un' orribile emozione la colse.

— No, non è possibile — mormorò — sarebbe troppa infamia: questa volta non potrei perdonare.

Si sporse sul davanzale, guardò ancora: l' ombra era sparita.

— Che fosse un' allucinazione la mia? Voglio assicurarmene.

Riaccese la candela e si diresse senza esitare alla camera di Tecla.

Era appena entrata nel salotto, che la voce di sua cognata giunse a lei.

Quella voce era ansante, minacciosa.

— Uscite, signore, uscite — diceva — o griderò al ladro, susciterò uno scandalo…

— Siete voi sola che vi perderete, Tecla — rispondeva un' altra voce, che Miranda riconobbe, con strazio, per quella del principe. — Perchè m' invitaste a venir qui?…

— Io! Io! — gridò la giovane donna con tale accento d' indignazione, che Miranda sentì un fugace sollievo.

Ella attese prima di entrare nella stanza: l' uscio ne era chiuso, ma le due voci giungevano perfettamente alle sue orecchie.

— Via… Tecla — disse il principe — perchè trattarmi così… dopo le vostre lettere…

— Le mie lettere? — replicò con voce rotta, piena d' indicibile soffrire. — Ma io divento pazza:… scrivervi io?…

— Non comprendo lo scopo di queste vostre negative… guardate, ecco qui le vostre lettere: questo è l' ultimo biglietto che ricevetti stasera. Non è vergato da voi?

Miranda capì che Tecla svolgeva febbrilmente quei fogli, poi l' udì mandare un grido soffocato e cadere di piombo a terra.

La giovinetta si slanciò nella stanza al momento stesso che il principe rialzava la giovine donna svenuta.

Vedendo Miranda ergersi severa, imponente dinanzi a lui, fece un passo indietro, divenne orribilmente pallido.

— Lasciate questa sventurata… non tocca a voi soccorrerla — disse la giovinetta, sostenendo a sua volta la cognata e deponendola sul divano.

E siccome Cars faceva l' atto di ritirarsi.

— Fermatevi — aggiunse la giovine — voi non uscirete come siete entrato, al pari di un ladro; ora Tecla non è più sola, e voi ci direte in qual modo vi siete introdotto qui, ci spiegherete la vostra terribile accusa.

Il sangue freddo della giovinetta, la sua aria altera, dignitosa, imposero a Cars: egli se ne stette silenzioso in disparte.

Miranda si accostò alla vetrata che dava sul giardino, la rinchiuse, poi riavvicinatasi a Tecla cercò farla rinvenire.

Il principe, preso da vergogna, tremante, guardava con occhi smarriti ora la giovinetta, ora Tecla.

Anche a lui pareva di perdere il cervello. Il giorno stesso di ritorno dalla passeggiata, aveva ricevuto un pacco al suo indirizzo.

Apertolo vi aveva trovata una chiave ed un biglietto, così concepito:

“ A mezzanotte vi attendo: per maggior precauzione v'invio la chìave del cancello; salirete dalla balconata e picchierete due volte ai vetri della mia camera.

“ Tecla. ”

Cars provò una specie di vertigine: non gli passò neppure per la mente quanto vi fosse di singolare, di audace in quell' invito.

Non sentiva che di essere amato, non vedeva che realizzarsi il sogno più inebbriante della sua vita.

Dimenticava tutte le torture sofferte per Tecla, le dure lotte subìte, gli ostacoli impreveduti.

Le corde tese dell' anima sua si rallentavano voluttuosamente: l' uomo grave, serio, preoccupato, ridiveniva fanciullo, impetuoso, entusiasta.

Poche ore ancora ed egli avrebbe stretta fra le sue braccia quella donna tanto amata, desiderata, avrebbe potuto sentir ripetere dalle labbra di lei quelle dolci parole, che hanno la soavità di una carezza, che formano il più bel poema dell' esistenza.

Passò il resto del giorno febbrilmente, attendendo con ansia, con delirio, l' ora del convegno.

Contava i minuti, i secondi: temeva e sperava a vicenda. Si era ritirato assai presto nella sua camera, sdraiato su d' un divano; ma di tanto in tanto si alzava, andava alla finestra a guardare il cielo, poi ritornava a sdraiarsi, rimettevasi a fantasticare.

Quando suonarono le undici il principe si scosse di soprassalto, fece una rapida toeletta ed uscì.

Camminava a passo svelto, colla testa alta, le narici frementi, il cuore in palpiti, felice di vivere.

Giunto vicino alla palazzina si accorse di aver fatto troppo presto e si mise a camminare sul viale.

Non si accorse di un uomo e di una donna, questa velata, l' altro col cappello calato sugli occhi, che gli passarono due volte vicino a braccetto.

Suonò mezzanotte. A quei tocchi lenti, misurati, un brivido lo percorse dal capo alle piante.

Si avvicinò al cancello e la mano gli tremò leggermente nel mettere la chiave nella serratura.

Volse la testa per timore che qualcuno lo spiasse: non vide nulla.

Cars ritrovò un po' di forza, girò la chiave, s' introdusse in giardino.

Per un momento si soffermò, onde calmare l'oppressione del petto, i palpiti precipitosi, poi strisciando come un' ombra si diresse verso la gradinata, dalla quale si saliva al balcone della camera di Tecla.

Sebbene sulla vetrata chiusa fossero tese le cortine, la stanza essendo illuminata, Cars scorse la giovine donna inginocchiata, intenta a pregare.

Non poteva vederla in viso, ma dal movimento delle spalle pareva piangesse.

Il principe provò una penosa impressione: gli venne quasi il pensiero per un momento di non turbare la pace di quella creatura adorata, che forse già si pentiva del biglietto inviatogli.

Ma quel suo generoso proponimento non durò un secondo.

No… era impossibile rinunziare a lei, dopo aver tanto sofferto e sentendosi amato…. Non tentò di resistere: picchiò due colpi precipitosi sui vetri.

Allora vide Tecla alzarsi sbigottita, asciugare rapida gli occhi, poi avvicinarsi alla vetrata ed aprirla.

Cars pensava che la giovine donna, scorgendolo, si sarebbe gettata con impeto appassionato, nelle braccia di lui.

Invece vedendolo, Tecla aveva mandato un grido soffocato di terrore: era indietreggiata pallida, smarrita.

E quando egli aveva fatto per avvicinarsele, la giovane donna stese le braccia con fiera ed irremovibile energia, fissandolo con uno sguardo così truce, sdegnoso, che lo gelò in un subito.

Che voleva dir questo?

Cars se lo chiedeva, mentre Miranda era intenta a far rinvenire la cognata.

Egli scosse la fronte infuocata, quasi volesse scacciare un opprimente pensiero.

Era annichilito, soffriva crudelmente, il suo doloroso stupore era al colmo.

Tecla aveva finto col timore di essere sorpresa o diceva il vero?

Eppure quel giorno, dalla contessa Edvald non si era lasciato sfuggire il segreto del suo amore, non gli aveva detto che rimanesse a Firenze?

E quelle lettere che egli riceveva regolarmente ogni giorno, così timide, appassionate!

Tecla era svenuta al solo guardarla, dopo avere con indignazione detto che non gli aveva mai scritto.

Non poteva prestarci fede, tuttavia alla vista di quel corpo inanimato, di quel povero viso così livido, sofferente, Cars provava un dubbio spaventoso, sentiva al pari di Miranda, che era necessaria una spiegazione.

E come l' intimidiva quella giovinetta, che sotto un' apparenza delicata mostrava una energia sovrumana, ergevasi fra lui e Tecla come un' immagine celeste, eroica, invincibile!

Ella sola, tranquilla, in mezzo a quelle terribile scena, prestava le più affettuose cure alla cognata.

A poco a poco le guancie di Tecla si tinsero di lievissimo rossore, la sua testa si rivoltò più volte sul capezzale, mandò un lamento, poi gli occhi le si riaprirono errando qua e là, come se avesse cercato qualcuno.

Miranda si chinò su di lei.

— Eccomi qua — disse pian piano.

— Ma vi era un altro — balbettò la giovane donna con accento di orribile ansietà.

E sollevandosi alquanto, i suoi occhi incontrarono quelli del principe.

Fu un' impressione profonda, straziante.

— Mandalo via, Miranda — gridò — egli ha mentito, mi ha ingiuriata!

Cars non disse una sola parola in sua difesa.

— Calmati — mormorò soavemente la giovinetta — io stessa ho voluto che il principe rimanesse qui, perchè ci deve una spiegazione, onde evitare uno scandalo. Sei in grado di alzarti?

— Lo sono — rispose Tecla ardita, scendendo senza aiuto dal divano ed accostandosi a Cars con la fronte sollevata, lo sguardo calmo:

— Signore — esclamò — voi mi avete detto di essere entrato qui da me invitato, mi avete mostrato un biglietto e delle lettere che sembrano vergate dalla mia mano; voi foste al pari di me vittima di una trama, ma per l' onor mio, fa duopo che tutto ciò venga in chiaro; parlate, dite da chi vi furono consegnate quelle lettere, come avete fatto a penetrare fin qui?

Il principe rimaneva inerte, silenzioso, non comprendendo che il suo contegno era un' accusa per la disgraziata, che gli stava dinanzi.

Doveva confessare che quelle lettere le aveva avute da sua madre? Miranda certamente ignorava che sotto le spoglie della contessa di San Secondo si nascondeva la contessa Edvald. Ed egli si sareb be avvilito agli occhi della giovinetta, rivelandolo.

L' agitazione di Tecla ritornò spaventevole.

— Non vedete che il vostro silenzio mi uccide? — esclamò vacillando, tanto che Miranda fu costrett a sostenerla.

Ed a sua volta la giovinetta, fissando severamente il principe:

— Se siete un uomo d' onore — aggiunse — non lascierete mia cognata sotto una terribile imputazione.

Cars con la testa intronata, le mani serrate convulsivamente, parlò.

Benchè Tecla e Miranda già avessero il sospetto che in quell' intrigo vi era la mano della contessa, il loro cuore sanguinò nel sentirlo confermare dal principe.

— Quale infamia! — mormorava la giovane donna mentre ripassava le lettere vergate da Michele e che sembravano veramente scritte da lei.

Ella temeva che nel cuore di Cars, come in quello della cognata, ci fosse ancora un dubbio.

— Miranda — diss' ella con un tale accento che fece fremere Cars — mi credi tu capace di aver vergate queste lettere e di aver fatto entrare di notte il principe nella mia camera?

— No, non lo credo — rispose con fermezza Miranda.

Tecla mandò un lieve grido di gioia, poi rivolgendosi al principe, col volto infiammato:

— Io non ho il diritto di rimproverarvi — aggiunse — perchè ai vostri occhi mi sento colpevole; se la sola volta che v' incontrai in casa di mia madre, non avessi avuta la debolezza di lasciarvi una folla speranza, non mi avreste mai creduta infame al segno di dimenticare ogni senso di pudore, di rispetto verso me stessa, al punto di scrivervi ed invitarvi sotto il tetto stesso di mio marito. Ho espiato ed espio amaramente quell' istante d' indegna debolezza; ma al mio ritorno a casa ero già pentita, e Miranda, a cui nulla ho nascosto, conosce le lotte da me sostenute, il mio sincero pentimento. Io non vi ho mai scritto, nè vi avrei riveduto più, lo giuro!

Trascinata dalla sua agitazione, Tecla disse quanto era successo.

Miranda lo confermò ed aggiunse che aveva in pronto il denaro che la contessa Edvald, aveva chiesto in nome di sua figlia.

Il principe, sempre ritto in piedi, al pari delle due cognate, le aveva ascoltate senza interromperle.

Provava una sensazione come se gli torcessero il cuore; oppresso da un rammarico schiacciante, assisteva al rovinio di tutte le sue speranze, di tutte le sue illusioni.

Era persuaso dell' innocenza di Tecla, ma l' idea di essere stato così indegnamente ingannato da Livia, il pensiero di essere creduto vile, infame dalla giovane donna e da Miranda, l' oltraggio che capiva infine di aver recato a Clementi, il suo migliore amico, che tanta fiducia aveva avuto in lui, lo gettavano in tale stato, che credette dover morire di vergogna, di disperazione e di rimorso.

Egli cadde ginocchioni dinanzi alle due cognate.

— Se la contessa Edvald, colla sua implacabile falsità, hacompìta un' azione infam e, che non merita perdono — mormorò con doloroso abbattimento — io pure non merito che disprezzo ed odio; ma la mia vita espierà un momento di delirio, d' insensatezza.

Miranda scosse gravemente il capo.

— Non è così che si ripara una colpa — disse. — Voi avete agito molto male, tuttavia potete ancora dimostrarci che, senza le arti della contessa, non sareste mai giunto al punto di disconoscere l' amicizia, di abusare dell'ospitalità accordatavi da mio fratello.

— Oh! è vero, è vero — esclamò Cars guardando la giovinetta con emozione penosa, mentre due lacrime gli scorrevano sulle pallide guancie.

— Ebbene, voi potete ancora meritare il nostro perdono — aggiunse con ineffabile bontà Miranda.

— Oh! ditemi, ditemi in qual modo! — proruppe con veemenza Cars.

— Allontanandovi per sempre, cercando di non più rivederci — replicò con calma la giovinetta.

— Lo farò, ve lo giuro! — disse il principe con forza — però non posso partire senza farmi rimettere le mie lettere dalla contessa Edvald, che deve tenerle, se le hanno servito a falsificare queste che io consegno, con la chiave che adoprai per introdurmi in giardino.

Tecla si mise una mano sugli occhi.

— È la stessa — balbettò — che io aveva consegnata a mia madre, la quale mi diceva non voler disturbare i domestici ogni qualvolta veniva da me. E dire che invece….

— Non ne parliamo più — interruppe la dolce voce di Miranda — la contessa Edvald deve essere abbastanza punita nel veder sventate tutte le sue trame.

Si fermò come atterrita, porgendo orecchio.

Avevano suonato al cancello della palazzina.

Tecla si sentì mancare il respiro.

— Chi può venire a quest' ora? — mormorò, non potendo dissimulare il suo terrore.

Il principe si era alzato e nei suoi occhi eravi un' inquietudine angosciosa.

Miranda sola non perdette il sangue freddo.

— Vado a vedere e torno — disse con vivacità.

Tecla si comprimeva con ambe le mani il petto, tenendo gli occhi fissi a terra.

— Ah! quanto sono mai disgraziata! — mormorò con accento soffocato.

Impallidendo, Cars fece un passo innanzi.

— Ed a me lo dovete — disse con terribile ansietà — Questo pensiero mi fa disperare: voi non potrete mai perdonarmi.

La giovane donna non ebbe tempo a rispondere. Miranda si precipitava ansante nella camera.

— È Umberto — disse con animazione — presto Tecla, mettiti a letto, spegni il lume, e voi, principe venite con me.

Lo afferrò per una mano e lo trasse seco, fino alla propria camera.

— Rimanete qui, senza muovervi, io andrò incontro a mio fratello — aggiunse affannosa — questo suo improvviso ritorno mi è sospetto, ma io saprò rassicurarlo: a rivederci.

Uscì subito, rinchiudendo l' uscio.

Il principe non si rendeva più conto dei suoi stessi pensieri: sentiva le pulsazioni alle tempia farsi più rapide e rimbombare nel capo come colpi di martello.

Intanto la giovinetta era scesa nel vestibolo al momento che Umberto vi entrava, seguìto da un domestico.

— Sei proprio tu? — gridò Miranda, slanciandosi al collo del fratello e baciandolo con impeto convulso — Non volevo credere ai miei orecchi, quando ho sentita la tua voce.

Il giovine fece un brusco movimento.

— Ma non mi avvertisti di partir subito?

Miranda lo fissò con uno sgnardo tranquillo.

— Io? — ribattè dolcemente, cercando di non perdere la sua calma — Perchè avrei dovuto farlo?… Certo la tua presenza mi rende felice ed ancora più lo sarà Tecla, ansiosa di abbracciarti, ma non ti avrei imposto di ritornare senza un motivo.

Così parlando erano entrati nel salotto a pian terreno, ed il domestico, dopo avere deposto il lume sulla tavola, li lasciò soli.

— Allora mi hanno fatto uno scherzo di cattivo genere — esclamò Umberto — perchè… guarda… ecco il telegramma, che ho ricevuto.

Miranda lo svolse senza che le sue mani tremassero, senza che il suo viso tradisse alcuna inquietudine.

Il telegramma diceva:

“ — Necessita tua presenza stanotte palazzina: scoprirai cosa non ti aspetti.

“ Miranda. ”

— Indovino da chi ti è pervenuto — disse la giovinetta alzando gli occhi soavi in viso al fratello.

— Ah! — esclamò Umberto fissando con incertezza il bel viso di Miranda.

Questa, trascinata dal suo cuore generoso, volendo impedire che il fratello scoprisse la spaventevole verità, rispose con un dolce sorriso:

— È cosa semplice: te lo dirò, ma a patto che tu ten ga il segreto.

Umberto pendeva dalle labbra della sorella.

— Lo terrò, ma spiegati — disse sulle spine.

Ella lo guardò con sicurezza.

— Questo telegramma è di Tecla — rispose senza esitare.

Il giovane fece un atto di meraviglia, mentre la sorella continuava:

— Ella mi aveva confidato il desiderio che tu ritornassi, impaziente di metterti a parte di una nuova, che la rende tanto felice.

— Ha forse ritrovata sua madre? — chiese Umberto ansioso.

Si pentì quasi della sua domanda, perchè vide le labbra della sorella tremare leggermente e il suo volto farsi pallido.

— No — rispose abbassando la voce — ma sarà madre lei stessa.

Oh! come la fisonomia di Umberto apparve irradiata! Con qual trasporto afferrò le mani di Miranda, stringendole forte forte nelle sue!

— Ed è pur vero? Non si sarà ingannata?

Miranda lo guardò con tenerezza.

— No… Umberto — replicò con accento commosso — il medico stesso gliel' ha assicurato… e Tecla non si conteneva più, voleva avvertirti per lettera… poi disse che la sua gioia sarebbe stata maggiore rivelartelo a voce, con un bacio… e si mostrava nervosa perchè tardavi… a tornare… e nella sua impazienza ti ha spedito quel telegramma… Cara Tecla, ella non pensava certamente di turbarti; in certe cose sai… è sempre bambina.

Umberto era troppo felice e convinto di quanto gli diceva la sorella, per conservare qualche dubbio.

Tuttavia chiese:

— Perchè Tecla non mi è corsa incontro, come tu hai fatto, se mi attendeva?

Miranda sorrise con ingenua malizia.

— Allora avresti capito tutto — ribattè — e poi, può darsi, che malgrado la sua buona volontà di attenderti, si sia addormentata: ella si coricò, mentre io mi trovavo ancora nella sua camera: si sentiva debole, sfinita, e se vuoi accettare un mio consiglio…

— Dillo, mia cara.

— Tu non devi parlarle subito del telegramma, lascia che ella stessa te lo confessi, ed ora andiamo a sorprenderla nel sonno.

Tecla in preda ad un terrore profondo, si era tosto messa a letto, come le aveva suggerito Miranda.

La sua agitazione era intensa, tremenda: che sarebbe mai accaduto? Umberto sapeva di trovare in quella notte il principe nella palazzina? Chi l' aveva avvertito? Forse sua madre per vendicarsi?

A questo pensiero, la giovane donna provò una di quelle scosse sorde, repentine, la cui commozione va dritta all' anima e fa dolorosamente trasalire il corpo.

— Ah! la sciagurata — mormorò — non vi ha dunque cosa alcuna che la commova? Non ha proprio viscere d' amore materno? Mi vedrebbe, senza dolore, disonorata, morta!… I più grandi dispiaceri della mia vita li devo a lei: non è contenta finchè non mi ha uccisa.

L' infelice Tecla chiuse gli occhi, assalita da una suprema spossatezza, ma le sue orecchie stettero intente ai minimi rumori.

Il suo visino abbattuto conservava sempre un' espressione di terrore: le sue bianche mani si raggrinzavano sulla coperta. Aveva sentito un aprire e chiudersi di porte, un rumore di voci, poi tutto era tornato in silenzio.

E nessuno compariva. Perchè quella lentezza così crudele per lei? Miranda si era forse ingannata?

Ella già stava per crederlo ed i battiti del suo cuore si fecero più regolari, un lungo sospiro le sollevò il petto, i suoi occhi si riaprirono.

Ma un momento dopo sentì la voce della cognata presso all' uscio: diceva:

— Fai più adagio, Umberto, se no la sveglierai di soprassalto e si spaventerà, sebbene sappia, col telegramma che ti ha inviato, come tu debba arrivare.

Tecla rinchiuse gli occhi. Oh! che istante terribile per lei! E di che telegramma si parlava? In ogni modo, ella così avvertita, si sarebbe tenuta in guardia.

Capì che entravano in punta di piedi, poi un alito infocato le sfiorò il viso.

Non seppe resistere. Alzò le palpebre, e il suo sguardo umido, riconoscente, s' incontrò nello sguardo leale di Umberto.

In un trasporto di pazza gioia, sentendosi salva, Tecla gettò le nude braccia al collo del marito, lo contemplò con delizia, se lo strinse al seno.

Non gli chiese perchè era tornato, non paventava più.

Miranda, dietro al fratello, la rassicurava con un dolce sorriso.

L' accoglienza della giovine donna fu per Umberto un conforto impareggiabile; sua sorella doveva aver ragione. Era Tecla certamente che gli aveva inviato il misterioso telegramma. Se così non fosse stato, si sarebbe mostrata tanto lieta, espansiva?

E rispose con un lungo bacio alle delicate carezze della giovane donna, che gli ripeteva:

— Ah! quanto lo desideravo questo momento, se sapessi quale sorpresa ti ho preparata.

Miranda si accostò.

— Io vi lascio in libertà di farvi le vostre confidenze — disse — mi sento stanca, vado a letto.

Scambiò un bacio con Tecla, strinse la mano al fratello e si ritirò.

Se Umberto l' avesse seguìta sarebbe rimasto dolorosamente impressionato, vedendola appoggiarsi ai mobili della stanza vicina, come se si sentisse venir male.

Povera Miranda! Ella era colta infatti da spossatezza per tutti i terrori, le angoscie provate in quella terribile notte.

Ma il suo còmpito non era finito; ella lo sapeva e rialzò quasi tosto la fronte pura, che parve illuminarsi di un raggio vivo di intelligenza, di bontà.

La palazzina era ritornata silenziosa; si erano tirati i catenacci alla porta del vestibolo, il domestico era andato a letto.

Miranda tornò nella sua camera.

Il principe l' attendeva con ansia, trepidazione. La giovinetta entrando, guardò quell' uomo affranto sotto il peso di un disinganno potente, di un' atroce umiliazione, e provò un sentimento di pietà, di tenerezza.

— Rassicuratevi, principe — disse — Tecla è salva!

Cars chinò la testa dinanzi alla coraggiosa fanciulla, che per un momento aveva quasi odiata, mormorando a stento:

— Grazie!

Poi cercando riprendere un po' di forza:

— Era proprio vostro fratello? — aggiunse.

— Sì, — rispose dolcemente Miranda — la contessa aveva ideata una ben trista vendetta.

— Ah! ella me la pagherà cara.

Il bel viso di Miranda assunse un' aria severa, imponente.

— Non è ciò che avete promesso — esclamò — Ringraziate piuttosto il cielo che l' infame trama sia andata dispersa.

— Ma credete che Livia non ne tenterà qualcun' altra?

— Non la temo più — disse Miranda con un sorriso tutto grazia e mestizia — Contro chi dovrebbe adesso dirigere i suoi attacchi? Di tecla sono sicura, voi sapete qual sia il vostro dovere.

— Siete voi che me l' insegnate, nobile creatura, che avreste il diritto di calpestarmi sotto i piedi, ed invece vi mostrate clemente, generosa, mi confortate con parole altissime, piene di carità.

Un' onda di tenerezza gl' invadeva il cuore, gli si empirono gli occhi di lacrime.

— Quando sarò lontano — seguitò — non pensate a me con disprezzo. Ah! credetelo, senza l' inganno di quella donna perversa, io non avrei mai commessa un' azione, che adesso mi pare un delitto, che maledico.

Dinanzi al vostro casto sguardo, ho compresa tutta l' indegnità della mia condotta, ho arrossito di me stesso…

L' espressione di quelle parole era così sincera, commovente, che Miranda gli stese la mano.

Ella comprendeva che Cars era stato più sventurato che colpevole, che non mentiva con lei.

La voce imperiosa del dovere parlava nuovamente in lui. Quella forza arcana che ci addita la via da seguire durante la lotta, il turbamento dei contrarî affetti, ritornava in Cars ferma, efficace.

E ciò non è da tutti! La percezione del giusto, dell'onesto non è sempre facile e sicura: le passioni, gl' istinti, fanno velo sovente al giudizio, dominano la volontà al pari che l' intelligenza.

Il principe prese quella mano con rispetto e portandola alle labbra, provò una sensazione forte, ignota, che raddoppiò il suo coraggio, gl' infuse in cuore una vaga speranza.

— Ah! lasciatemi credere — esclamò — che io possa un giorno riconquistare la vostra stima. Sorretto da questo forte pensiero, la mia esistenza mi parrà meno triste, avrò maggior forza per vivere e lottare.

Cercava commosso nei grandi occhi sereni di lei, uno sguardo d' incoraggiamento.

— La mia stima l' avete riconquistata dall' istante che ho letto sul vostro volto, il pentimento dell' anima — rispose con soavità Miranda — Io faccio voti perchè i giorni che verranno apportino al vostro cuore la pace.

Egli l' ascoltava con riverenza e si sentiva ricondotto alle nobili ispirazioni della sua giovinezza, alla fede ingenua della prima età.

Per un momento restarono silenziosi l' uno in faccia all' altra.

Ad un pendolo suonarono le due di notte.

Cars fece un movimento.

— Bisogna che io vada — disse — se tardassi ancora, potrei essere scoperto e compromettervi.

— Attendete un minuto — rispose la giovinetta.

Si accostò ad un tavolino e dal cassetto trasse una busta suggellata.

— Qui vi è il denaro che la contessa Edvald vi chiese in nome di sua figlia — replicò Miranda — accettatene da parte di Tecla la restituzione.

Il principe fece un gesto per rifiutare, ma il viso della giovine apparve così severo e addolorato, che egli stese la mano, mormorando:

— Grazie!

E nascose febbrilmente la busta nella tasca del soprabito.

— Adesso venite con me — aggiunse Miranda con ingenua franchezza — ma fate piano.

Uscì per la prima, col lume in mano, camminando con precauzione. Attraversata una larga galleria, scesero la scala, che conduceva al vestibolo.

Ma ivi giunta, Miranda comprese che era impossibile aprire la porta d' ingresso, senza far rumore, senza destare qualcuno.

— Bisogna passare dalla finestra del salotto, per scendere in giardino — disse Miranda cercando mostrarsi calma, sebbene desiderasse togliersi subito da quella pericolosa posizione.

Il principe pure sentiva il bisogno di essere fuori, all' aperto, di potersi abbandonare alla foga dei suoi pensieri, di allontanarsi da quei luoghi, che gli erano stati così funesti.

E seguiva impaziente i passi di Miranda. Ella entrò nel salotto, depose il lume sul tavolino ed aprì la finestra.

Dapprima stette alquanto in orecchio, poi appoggiata una seggiola al davanzale vi salì e discese dall' altra parte, senza rumore.

Cars fece altrettanto. Allora attraversarono silenziosamente il giardino, come due fantasmi.

Miranda, che era sempre innanzi, stava per aprire il cancello, quando indietreggiò soffocando un grido.

— Che avete? — chiese a bassa voce, ma con vivacità Cars.

— Là, dal viale, ho vedute due persone immobili, come se stessero a spiare — sussurrò atterrita, quasi all' orecchio di lui.

Il principe pensò subito a Livia. Ma chi poteva essere l' altra persona?

Si avvicinò a sua volta al cancello, ma per quanto spiasse al di fuori, nulla vide.

— Vi siete ingannata — disse — non vi sono che le ombre degli alberi.

Miranda si rassicurò: il cancello fu aperto.

— Signorina… volete darmi ancora una volta la mano? — replicò Cars dolcemente con l' accento di una preghiera — Sapete bene che non ci rivedremo mai più.

Ella alzò i grandi occhi al cielo e con quello sguardo parve volesse dire:

— Noi ci troveremo nella patria degli onesti e dei martiri: lassù soltanto comprenderete quanto siano serene, grandi, le gioie del sacrifizio!

Ma le sue labbra stettero mute e la piccola mano si stese.

Cars vi posò le labbra ardenti e quell' ultimo bacio fu come il suggello di una solenne promessa, che egli avrebbe ad ogni costo adempiuta.

Poi, scostandosi rapidamente, disparve lesto nell' ombra cupa dei viali.

Miranda ritornò lentamente nella sua camera ed appena chiuso l' uscio, cadde sulle ginocchia e dando alfine sfogo alle emozioni da tante ore represse, scoppiò in dirotto pianto.

La coppia misteriosa che passò due volte vicino al principe, allorchè questi stava per entrare nella palazzina Clementi, non erano che Livia e Michele. Entrambi rimasero in silenzio, palpitanti, finchè il principe non disparve fra gli alberi del giardino. Allora Michele si rivolse rabbrividendo alla sua complice:

— Che succederà adesso? — mormorò. — Se Tecla non aprisse a Cars o si mettesse a gridare?

Livia lo guardò con freddezza e disprezzo.

— Ti spaventi per così poco? — rispose — Se i domestici accorreranno, il principe saprà trarsi d' impaccio: se Tecla non sarà compromessa, lo sarà bene Miranda, giacchè si crede che Cars frequenti la casa per la sorella di Clementi: vedi quindi che in ogni modo saremo vendicati.

— Ma — ripetè michele un po' confuso — se invece vi fosse una spiegazione fra il principe e Tecla e questa gli giurasse di non aver mai ricevute sue lettere, nè scritte…

— Oh! lo stupido che sei, non comprendi che prima siano finite le spiegazioni, giungerà il marito? Ho calcolato bene le ore, quindi ti prego di tenere le tue sciocche riflessioni per te.

Michele chinò il capo, balbettando alcune parole incoerenti.

La contessa Edvald si era appoggiata ai ferri del cancello e tendeva l' orecchio al minimo rumore.

Nella sua odiosa vendetta, nella sua atroce rabbia ed invidia, avrebbe voluto veder suscitarsi uno scandalo, comprisi una tragedia.

Che le importava dell' onore, della vita di sua figlia? Non pensava che a sè. Era stata scacciata e si vendicava spargendo a piene mani, attorno alle povere ed innocenti vittime, l' obbrobrio, la sciagura, il delitto….

Non era una donna: era un mostro.

Fedele al suo sistema di doppiezza, di menzogna, trovava che tutti i torti erano di Tecla e Miranda, gettava su loro ogni colpa, ogni responsabilità di ciò che sarebbe successo.

Michele invece, in certe cose, confessava la propria impotenza. Odiava con tutte le forze dell' anima, desiderava il male, avrebbe voluto veder morti Clementi, Tecla, quanti l' avevano condannato a quella misera esistenza; ma al tempo stesso aveva strane paure, non sapeva da solo concepire un tranello, ideare una vendetta.

A vederlo, vicino a Livia, pallido, curvo, con la fronte rugosa, le guancie infossate, lo sguardo incerto, produceva un contrasto strano, un effetto quasi ripugnante.

Ciò che rendeva il miserabile soverchiato, confuso, rialzava invece la sfrontatezza di Livia, la faceva apparire più. sicura, audace!

La palazzina rimaneva quieta, silenziosa, tanto che chiunque, guardandola al di fuori, avrebbe invidiata la calma, la gioia, la felicità di quelli che vi abitavano.

Passò una mezz' ora, senza che Michele e la contessa scambiassero una parola.

Finalmente Livia non seppe frenare una risata ironica.

— Via, via, confessiamo la nostra ingenuità — esclamò. — Nessun grido, nessun allarme e forse non vi sarà nemmeno alcuna spiegazione. Il falco è entrato nel nido e la colomba non è fuggita via spaventata; si sono intesi alla prima. Ah! ah! ah! Tecla è più furba di tutti noi, io sono stata al pari di Miranda accalappiata dalle sue lacrime e smanie; ho creduto ai suoi rimorsi: tutta polvere per gli orbi… e si direbbe quasi che indovinai la sua idea mandandole il principe… Vorrei poter gettare uno sguardo in quella stanza e sono sicura che vedrei un quadro che a te, Michele, farebbe poco piacere. Ah! ah! ah!…

Il complice di Livia non rispose; si abbrancava convulso ai ferri del cancello, digrignava i denti, tremava per tutto il corpo.

La contessa Livia sembrava provare una gioia crudele nel torturarlo.

— Ah! se tu fossi entrato invece di Cars, non dico che Tecla sarebbe stata zitta — continuò scherzando — tu le hai sempre fatto paura.

Rideva di cuore, ma il suo complice le volse un tale sguardo, che il riso le si gelò sulle labbra e la sua voce si fece meno stridente.

— Suvvia, non andiamo in collera adesso, tanto più che vi è qualcuno che ti vendicherà di Tecla e del principe.

Michele continuò a rimanere muto. Era forse trascorsa un' ora.

Lontano si udì uno stridore di ruote: una carrozza giungeva alla corsa. Le due lanterne accese, che parevano due enormi occhi rossi, formavano due solchi luminosi sulla strada che percorreva.

Livia si era subito staccata dal cancello.

— Deve essere il marito che giunge — disse — ritiriamoci dietro quell' albero, se vogliamo godere qualche cosa senza essere veduti.

La carrozza si fermò sul viale, dinanzi alla palazzina.

I due complici, dal loro nascondiglio, ne videro uscire Clementi con una piccola valigia, pagare il vetturino, poi avvicinarsi al cancello e suonare.

— Che imbecille! — pensò Livia — Non ha seco la chiave e prima che vengano ad aprire, il principe ha tempo di svignarsela: che fatalità!

Clementi dovette infatti suonare due volte, poi si vide un domestico col lume in mano e nella penombra del vestibolo, Livia, col suo occhio di lince, scorse una figura di donna.

— Deve essere Miranda — brontolò — forse Tecla e Cars nulla hanno sentito e si lasciano cogliere in trappola.

Un' esclamazione di gioia, poi un rumore di un bacio, giunsero alle orecchie dei due complici, poi tutto ritornò nel silenzio.

— Ora viene il bello — esclamò ridendo Livia — all' erta, Michele.

Questi si riscosse, la sua ciera si fece ancora più fosca, il respiro ansante, come se l' aria gli mancasse.

Per sottrarsi a quella specie d' incubo, fece per muoversi, ma Livia l' afferrò per un braccio.

— Non ancora, attendi — disse.

Egli restò lì immobile, atterrito.

Il tempo passava: il viale rimaneva silenzioso, deserto, la palazzina quieta.

Livia non sapeva che pensarne: nella sua esaltata fantasia, si creava grandi illusioni, larve spaventose.

Le pareva udire dei gemiti repressi, dei pianti soffocati.

Il respiro stesso di Michele la sgomentò ad un tratto, la fece volgere vivamente.

— Che vuoi?

— Non ho parlato…

— Senti qualche cosa?

— Nulla, aspettiamo…

Suonarono le due e non si udiva che il sussurro del vento fra i rami delle piante, qualche grido d' uccello notturno, che colle ali tese s' inalzava nel buio aere.

Livia si era avvicinata di nuovo al cancello ed aguzzando lo sguardo, vide aprirsi le persiane di una finestra a pian terreno e scorse una cosa stranissima, a cui l' oscurità esterna e il chiarore della stanza, davano un non so che di fantastico, di singolare.

La figura di donna, veduta poco prima, salì sul davanzale e balzò in giardino.

Dietro a lei, apparve l' alta persona del principe.

— Uno scioglimento impreveduto — pensò Livia — sì… non m' inganno, è Miranda con Cars.

Non fece a tempo a nascondersi, come Michele, che era dietro a lei.

E fu in quel momento che la giovinetta avvicinandosi al cancello, vide quelle due persone ed ebbe paura, indietreggiò, soffocando un grido.

Livia, con rapido movimento, trasse Michele dietro all' albero, ed entrambi rimasero appiattati, senza respirare.

Così poterono assistere all' ultima scena fra Miranda e Cars, vedere la giovinetta tendere la mano al gentiluomo e questi baciarla con impeto, con ardore, poi fuggirsene subito.

La contessa Edvald sentì una prepotente voglia di dare in uno scroscio di risa, mostrarsi, e si contenne a stento.

Un' ondata di sangue le era salita alle tempia, che batterono violentemente; la sua mano, che teneva afferrata quella di Michele, divenne scottante; i suoi occhi brillarono nell' oscurità, come quelli di un gatto.

Cars era scomparso e Miranda si era ritirata, ma Livia non si moveva dalla sua posizione.

— Giuocàti! — esclamò con rabbia convulsa — Le due cognate se l' intendevano a meraviglia ed il principe stesso ha saputo farmi un bel tiro; ma che hai?

Questa domanda era rivolta a Michele, che svincolatosi da lei, senza rispondere, si avvicinò al cancello, e chinatosi, fece passare un braccio attraverso i ferri e raccolse un oggetto bianco che spiccava sulla sabbia oscura.

— Che cos' è? — chiese ancora la contessa.

— Lo vedi, una lettera abbastanza voluminosa ed ancora suggellata — rispose Michele trionfante — Era già da qualche minuto che questa busta larga, bianca, perlacea, attirava i miei sguardi, ed ero curioso di sapere che fosse; ma vieni Livia, a casa saremo più liberi di esaminarne il contenuto.

La contessa era smaniosa al pari di lui di sapere a chi fosse diretta quella lettera e da chi vergata. Onde lo seguì senza resistenza.

Dal giorno prima, Livia aveva voluto cambiare alloggio perchè sicura che il principe, vedendosi mistificato, sarebbe andato a chiederle una spiegazione, che voleva evitare, finchè non conosceva il risultato della sua vendetta.

Se Tecla, veramente pentita della sua debolezza, scacciava Cars, ella si sarebbe allontanata, perchè la tempesta non si scaricasse su di lei; se la figlia invece, innamorata, vinta, cedeva al principe, allora ella sarebbe ricomparsa per sfruttare l' uno o l' altra, colla minaccia di perderli.

In un quarto d' ora Michele e Livia, giunsero al nuovo alloggio, un quartierino ammobiliato, libero, situato in una strada remota, in una casa tranquilla ed onesta.

I due complici passavano per marito e moglie e siccome la contessa Edvald sapeva assumere un contegno dignitoso, grave, quando voleva, e Michele appariva così timido e malaticcio, nessuno pose in dubbio la loro asserzione.

Livia e Michele si facevano portare il pranzo da una trattoria, nè tenevano alcuna persona di servizio.

Appena entrati nel loro appartamento ed acceso il lume, Michele osservò avidamente la soprascritta della lettera.

— Oh! che fortuna — esclamò, mentre il viso gli s' illuminava ed un fosco e rapido lampo gli avvampò la pupilla — è di Miranda e diretta al principe.

Una straordinaria agitazione invase la contessa.

— Di lei? — ripetè — Non t' inganni?

— Guarda.

— Hai ragione, ma vediamo dentro.

Michele strappò subito la busta e tosto ne sfuggirono alcuni biglietti di Banca.

Livia rimase confusa.

— Ho capito — disse rialzando il volto scomposto — è il denaro che io chiesi a Cars in nome di Tecla, e Miranda glielo restituisce… non vi è altro?

Michele brandì in aria con pazza gioia un foglietto bianco, piegato in due.

— Leggi, leggi — esclamò anelante Livia.

Veduti in quel momento i due infami, colle teste avvicinate, curve su quel foglio, che parevano divorare, cogli occhi scintillanti di una fiamma d' inferno, erano spaventevoli.

Miranda scriveva:

Principe,

“ È all' uomo d' onore, che mi rivolgo, giacchè il cuore vi ha ingannato, vi ha fatto dimenticare il vostro dovere.

“ Non metto in dubbio che abbiate una coscienza: ma mi avete dato il diritto di non più credere alle vostre virtù private.

“ Ebbene, per il vostro onore, la vostra coscienza, ve ne scongiuro, non mettete più piede nella mia casa. Del resto come spiegherete la vostra condotta all' amico, al fratello che ebbe in voi fiducia, come oserete trovarvi ancora in faccia a me, dopo avermi turbata l' anima, offuscata la serenità della mia vita?

“ Se siate colpevole, o no, lascio giudicarvi a Dio: io vi punisco coll' imporvi di allontanarvi: non resistete, se non volete che vi creda l' ultimo degli uomini.

“ Del denaro che vi accludo, potete farne un uso migliore di quello che prima avete fatto, giacchè, sapevate bene, che anzichè venir adoperato ad un fine onesto, serviva ad un' infamia!

“ Miranda. ”

Livia volle leggere due volte la lettera.

— Ah! l' incauta — disse con un sorriso di scherno — vi è qui tanto da comprometterla: non abbiamo stanotte perduto tutto.

In quell' ora stessa, la povera Miranda pregava Iddio perchè toccasse il cuore di quella madre perversa.

Ella sentiva che Livia era inevitabilmente legata alla sua esistenza e le avrebbe portata sventura: e tremava più ancora per Tecla ed il fratello, che per sè stessa.

La figlia della contessa Edvald cercava invece sfogare le tumultuose impressioni provate in quella notte, mostrandosi col marito tenera, loquace, affascinante.

Umberto soggiogato, inebbriato, non avvezzo a quelle espansioni per parte di Tecla, lasciava andare l' anima sua, la contemplava in estasi, non sentiva più la stanchezza del viaggio, provava un benessere, una riconoscenza infinita.

— A proposito — domandò dopo una breve esitazione — non mi hai mai parlato di Cars nelle tue lettere, e neppure Miranda; che ne è di lui?

Tecla spalancò gli occhi con vero terrore e fu in procinto di scoprirsi.

Umberto notò l' improvviso pallore che le si era sparso sul volto.

— Che hai? — chiese con ansia.

Ella, con sforzo violento, si rimise in calma, sorrise.

— Non è nulla, Umberto, e tu devi avvezzarti d' ora innanzi a questi improvvisi malesseri… perchè…

Appoggiò la guancia ardente a quella di lui, sussurrando con dolcezza e commozione:

— Non sai che il tuo desiderio, il mio, verranno infine realizzati, che avremo un figlio?

Egli la baciò con trasporto; la risposta era buona anche contro un sospetto, ed Umberto non aveva sospetti.

— È questa adunque la novità che mi attendeva al mio ritorno? — esclamò gioiosamente con accento di caldissima adorazione. — Ma credi vi fosse bisogno di quel telegramma sibillino, per farmi dimenticare gli affari, correre nelle tue braccia?

Tecla non rispose, perchè non avrebbe saputo cosa dire; si contentò di stringersi al petto del marito, di ricambiarne i baci.

Poi si alzò di botto e mostrando il viso sorridente:

— Tu mi hai chiesto del principe Cars — disse ostentando indifferenza — ma io non l' ho mai veduto durante la tua lontananza, è stato bensì a farci visita due volte, ma, trovandomi incomodata, l' ha ricevuto Miranda.

Tecla diceva tutto ciò, non sospettando che le sue parole potessero tornare a carico della cognata. Era persuasa che Miranda l' avrebbe approvata. Ah! ciò che aveva fatto in quella notte la giovinetta, Tecla non l' avrebbe dimenticato più.

Al sorgere del giorno, Umberto, vinto finalmente dal sonno, si addormentò profondamente.

Tecla scivolò pian piano dal letto, e senza togliersi il lungo accappatoio di notte e coi piedini nudi nelle pantofole di raso, si avviò alla stanza di Miranda.

La giovinetta era già alzata, e sebbene un po' pallida, mostrava sul volto una dolce serenità.

Senza una parola, le due cognate si gettarono l' una nelle braccia dell' altra e stettero così avvinte per qualche minuto.

— Quanto ti debbo! — balbettò infine Tecla — ah! senza di te, tutto sarebbe stato perduto.

— Non ne parliamo più — rispose Miranda baciandola — ora il pericolo è passato, nè tornerà; guarda, ho finito adesso di bruciare le lettere che il principe mi lasciò e che chiunque avrebbe credute scritte da te.

Tecla giunse le mani, le alzò al cielo.

— Ma possibile — mormorò con un singhiozzo — che vi siano delle madri che possano concepire simili infamie per perdere le loro creature? Ah! meglio mille volte che io non fossi nata, che avere una tal madre.

La sua amarezza risorgeva: pensando a Livia, la giovane donna provava rossore, vergogna, terrore; tutto il suo cuore si sollevava contro di lei, che aveva cercato perderla, che nascondeva un' anima così vile, scellerata.

Miranda accarezzò i bruni capelli di Tecla.

— Non ti affliggere così — replicò — non ci pensar più; la sola testimonianza materiale che poteva perderti, se fosse caduta nelle mani di Umberto, come vedi, è distrutta; il principe, stanne certa, noi non lo rivedremo più.

E le confidò in qual modo aveva potuto farlo fuggire, la promessa solenne da lui data.

Tecla, dal canto suo, le rivelò quanto aveva detto ad Umberto.

— Hai fatto benissimo — rispose Miranda — e non abbiamo che da ringraziar Dio, che tutto ci sia andato a seconda.

Quella giornata passò allegramente. Umberto parlò dell' eredità fatta, s' intrattenne con gioia dell' avvenire ridente che li aspettava.

— Manca però una cosa alla mia felicità e quella di Tecla — disse il giovane, mentre si trovavano a pranzo.

— E quale? — chiese sorridendo Miranda.

— Quella di vederti sposa felice.

Ella scosse graziosamente la testa.

— Temo che il vostro desiderio non venga appagato — esclamò allegramente — il mio sposo ha ancora da nascere.

— Eppure se tu volessi ve ne sarebbero tanti felici di dedicarti l' esistenza — disse il fratello.

— Umberto ha ragione — aggiunse Tecla con vivacità — come mai un uomo potrebbe vederti, conoscerti, senza adorarti?

Miranda rimaneva sempre ilare e minacciando entrambi scherzosamente col dito:

— Siete due adulatori — proruppe. — Ma ammettendo anche diceste il vero, che m' importa si sospiri per me, quando il mio cuore resta tranquillo? Io non ho mai amato altri che voi e credo durerà sempre così. Del resto è proprio necessario che io prenda marito? Sto tanto bene così, non penso ad altro, nè ho paura di rimanere zittellona. Fra poco un nipote od una nipotina occuperà tutte le mie ore, mi dedicherò intieramente al nuovo e dolcissimo affetto, e faremo a gara fra me e voi chi l' amerà di più.

Il suo sembiante appariva così sereno, illuminato, che Umberto ne fu commosso.

— Tu non sei una donna, ma un angelo — disse.

— Peccato che mi manchino le ali — ribattè Miranda, che pur aveva gli occhi umidi di lacrime.

All' indomani, Umberto si trovava nel suo gabinetto a porre in sesto alcune carte importanti per la sua nuova successione, mentre le due cognate erano uscite insieme, quando sentì bussare all' uscio.

— Avanti — disse il giovane senza voltarsi.

Era un domestico che portava alcune lettere, giunte colla posta del mattino.

— Mettile sullo scrittoio e lasciami — aggiunse Umberto.

Finì di riordinare le carte, le chiuse in un cassetto, poi diede un' occhiata alle lettere arrivate.

Lo clopì soprattutto una, dalla busta larga, gialliccia, il cui indirizzo era scritto a caratteri grossolani e che veniva dalla città.

— Di chi può essere? — pensò Umberto attonito, rompendone immediatamente il suggello.

Dentro vi era la lettera scritta da Miranda al principe Cars.

Umberto si fece alternativamente rosso e pallido nel percorrere quel foglio. Era stato proprio vergato dalla sorella? Che mistero si celava in quelle frasi per lui enigmatiche? Che era successo fra il principe e Miranda durante la sua assenza? Chi aveva avuta in mano quella lettera e gliela mandava?

Guardò di nuovo la soprascritta e non ne riconobbe il carattere. Rilesse la lettera e il viso gli si coprì di un livido pallore.

— Non posso afferrare il senso di queste frasi — mormorò fremente — ma mi fanno male. Che ha mai fatto il principe per alterare la pace del cuore di Miranda, la serenità di lei? A che infamia ha servito il denaro che mia sorella gli restituisce? Perchè gl' impone di partire? Ah! mi sembra di perdere la testa.

La sua voce era divenuta fioca, gli si erano effuscati gli occhi.

— Il principe mi darà una spiegazione — esclamò balzando in piedi — la lettera porta solo la data di ieri l'altro, egli non sa che io sono arrivato, e lo ritroverò.

Un' amarezza senza misura gli ricolmava l' anima, gli turbava la mente.

Si mise il foglio in tasca, si vestì in fretta ed uscì per recarsi dal principe.

Cercava scacciare i tristi pensieri, che gli ottenebravano la mente, senza riuscirvi: il suo volto impallidiva sempre più, le labbra venivano agitate da un movimento febbrile.

Giunto alla dimora di Cars, seppe che questi era partito fino dalla sera prima. Aveva preso il treno diretto dell'Alta Italia, conducendo seco il fedele Zilà, il solo che avrebbe potuto dire dove il principe aveva deciso fermarsi.

Umberto ritornò alla palazzina e durante il tragitto ebbe il tempo di dominare completamente la sua emozione, di tornare in apparenza calmo.

Trovò Tecla e la sorella allegrissime, che gli mostrarono diverse compere fatte per la creaturina, che doveva ancora vedere la luce.

Durante la colazione, fu portata una lettera per Miranda.

Ella se la mise in tasca senza leggerla, esclamando con un sorriso:

— So cos' è.

Umberto però si era accorto che la sorella aveva trasalito, era divenuta un po' pallida; ma nulla disse.

Più tardi Miranda si ritirò nella sua camera. Con quell' istinto del cuore, che inganna di rado, la giovinetta avendo riconosciuto sulla soprascritta della lettera il carattere del principe, presentì qualche cosa di grave.

Cars invece l' avvertiva soltanto che lasciava Firenze per obbedirla, ma partiva a malincuore non avendo potuto ritrovare la contessa e farsi rimettere le lettere che sapeva. Diceva inoltre che nella scomparsa di quella malvagia dubitava di qualche perfidia, quindi si tenesse bene in guardia.

Nella lettera non vi era alcuna allusione ai fatti successi, non faceva menzione di Tecla.

Miranda la strappò in minutissimi pezzi e stava per gettarli dalla finestra aperta, quando la voce di suo fratello la trattenne.

— Si può entrare, Miranda? — chiedeva dal di fuori.

— Avanti — rispose la giovinetta, mettendo i foglietti in tasca.

La porta si aprì: Umberto comparve.

— Non disturbo?

— Tutt' altro… vieni… — esclamò Miranda, che tuttavia provò uno stringimento di cuore, perchè le parve che la voce del fratello avesse perduto l' accento gaio di prima.

Il giovine chiuse la porta e andò a sedere vicino alla sorella.

— Tecla non verrà a disturbarci — disse senza pream boli — l' ho indotta a mettersi un po' sul letto: si sentiva stanca ed io desideravo parlarti…

Miranda provò un palpito indicibile.

— Si tratta di cosa grave? — mormorò…

— Non lo so ancora, tutto dipenderà dalla tua schiettezza alle mie domande…

— Io non ti capisco: che significa ciò? A che debbo io rispondere?

— Miranda — disse con voce soavemente triste il giovane, prendendo una mano della sorella — io sono, credo, il tuo migliore amico a questo mondo ed avresti torto non confidarti a me. Ho io mancato una sol volta di fiducia con te?

Ella cercava superare la propria agitazione.

— Ma, fratello… non so… perchè mi parli così? — balbettò con voce tremula, gli occhi luccicanti di lacrime.

— Per la tua felicità… Miranda, perchè ti amo tanto e non voglio che tu abbia dei segreti per me…

Egli la guardava così fissamente, che la giovinetta non potè sopportare il peso di quegli sguardi e chinò la testa come una colpevole.

— Ma… io non so — ripetè.

— Lo so ben io — disse più dolcemente Umberto — tu hai amato il principe Cars, forse l' ami ancora.

Quanto vi era in Miranda di pudore, di orgoglio femminile, si rivoltò all' improvviso.

— Io! Io! — esclamò con una specie di esaltazione.

— Non lo negare, mia cara: se così non fosse, come avresti potuto scrivere questa lettera a Cars?

E gliela mise sotto gli occhi.

Impossibile esprimere la terribile impresione provata da Miranda a quella vista.

Per un istante rimase muta, come se la folgore l' avesse colpita, poi con accento disperato:

— Sono innocente — proruppe — sono innocente…

— Ma io non ti accuso, Miranda — disse il giovane guardandola con mestizia — solo vorrei che tu mi spiegassi le frasi di questa lettera, giacchè è proprio tua, non è vero?

La disgraziata non era in grado di rispondere. Umberto continuò:

— Non ti faccio rimproveri, ma aspetto fiducioso una tua confessione. Se il principe ha dei torti verso di te, ha turbata la pace del tuo cuore, a me solo tocca punirlo.

Sul bel viso di Miranda apparve un' espressione di supremo dolore.

— Non parlare così — balbettò atterrita — il principe nulla mi ha fatto…

Umberto si alzò impazientito…

— Perchè allora gl' imponesti di partire? — esclamò camminando agitato per la camera.

— Non posso spiegartelo, non mi chiedere altro.

Umberto le si riavvicinò.

— Tu non sai il male terribile che mi rechi colle tue reticenze — replicò commosso. — Ricusando di rispondere alle mie domande, alimenti i miei sospetti, e mi obblighi a far ricerca del principe per strappare a lui la verità: vedi intanto che il tuo segreto è noto a qualcun altro, giacchè Cars non può avermi inviato questo foglio che l' accusa. A Tecla non posso chiedere alcuno schiarimento, perchè mi ha giurato di non aver mai veduto il principe durante la mia assenza.

Miranda, annientata, ebbe nondimeno la forza di rispondere debolmente:

— È vero…

— Vedi dunque che tu sola puoi togliermi l' orribile peso, che da più ore mi schiaccia il cuore: parla…

Miranda aveva abbassata la testa e piangeva.

Umberto le sedette vicino, la cinse colle sue braccia, l' accarezzò come quando era bambina, mormorando:

— Tu non hai timore di me, eh? Ti ricordi quante volte, seduti vicini così, abbiamo promesso di confidarci tutti i pensieri, di consolarci a vicenda? Quando mi trovavo tanto infelice, per causa di una funesta passione per una giovinetta indegna di me, non fosti tu che mi ridonasti la calma, m' insegnasti il dovere, mi desti la felicità? Ora perchè non dovrei fare altrettanto con te? Se hai amato il principe, se il tuo cuore si è sentito attirare verso di lui e provasti qualche disinganno, qual colpa ne hai tu, mia povera sorella? Non sei sempre sicura del mio affetto? Non tocca a me cercare i mezzi di ritornarti felice?

Ella sollevò quegli occhi così limpidi, dolci, e fissandoli con sicurezza in viso al fratello:

— La mia felicità io l' ho trovata vicino a te — disse — non chiedo altro. E tu non interrogarmi di più, perchè nulla ho da risponderti.

Umberto si staccò da lei con aria severa.

— Sei ostinata, fai male a tacere — esclamò — e Dio voglia che tu non abbia a pentirtene.

Uscì dalla stanza, stanza che Miranda facesse un gesto per rattenerlo. Ma essa si mostrava così smarrita in volto e disperata, che se Umberto l' avesse osservata, ne sarebbe stato crudelmente colpito.

Così la sua generosa azione tornava a suo danno!

Povera Miranda! Ella cercava invano sottrarsi alla disperazione dalla quale si sentiva presa.

L' idea che suo fratello la credesse colpevole, le cagionava una violentissima scossa, più forte di tutte quelle già ricevute.

Come poteva provare la sua innocenza? Come spiegare il significato di quella lettera? Ma chi l' aveva tolta al principe ed inviata ad Umberto?

La contessa Edvald aveva forse dei complici al servizio di Cars? Ah! Dio l' aveva ispirata, non facendole nominare Tecla in quel foglio… del resto…

Ella immaginava la scena terribile che sarebbe successa, vedeva Tecla stesa a terra, implorante invano pietà dal marito offeso nell' onore.

Miranda si celò il volto fra le mani. No, no, a costo di tutto avrebbe taciuto, non si sarebbe giustificata.

Infine ella era libera di sè stessa, non aveva da rendere conto che a Dio delle sue azioni!

Mentre si dibatteva in quei timori, in quelle lotte della coscienza, l' uscio si spalancò con impeto ed entrò Tecla pallida, delirante, smarrita.

Senza una parola, si gettò fra le braccia della cognata e ruppe in lacrime.

Alla vista di quel dolore, Miranda dimenticò il suo.

— Che hai? — chiese vivamente — Che ti è acccaduto?

— E me lo chiedi, generosa creatura, che ti sacrifichi per me?

— Io!

— So tutto, sai, ti si accusa di essere l'amante del principe, ma io parlerò.

Miranda le chiuse con impeto la bocca.

— Non una parola di più, te lo proibisco!

— Ma io non posso permettere che tu venga calunniata — disse con precipitazione Tecla.

— E preferisci disonorare, uccidere Umberto, veder maledetta la creatura che porti in seno! — esclamò Miranda con un accento che fece fremere la giovane donna. — Per me non hai cosa alcuna a temere: sii adunque prudente. A questo solo patto ti perdono.

Ed il suo sguardo ebbe tale espressione di preghiera, di speranza, di tenerezza, che Tecla, vinta da quella grandezza d' animo, piegò le ginocchia dinanzi a lei, coprendole le mani di baci e di lacrime….

Un' elegante carrozzella, tirata da un vigoroso cavallo, si fermò dinanzi alla porta di un palazzo, stato da poco abbellito, rimesso a nuovo.

Un giovane ne scese, varcò lestamente la soglia dell'ampio portone sali al primo piano e premè con impazienza il bottone dorato del campanello.

Una vispa e bruna servotta gli aprì.

— Sono giunto un po' in ritardo — disse il giovane dando un colpettino sulla guancia della brunotta.

Ella si mise a ridere.

— Sempre in tempo per la cena — rispose.

— Maliziosa! — replicò il giovane, mentre dall' anticamera passava in uno spogliatoio per togliersi il soprabito ed il cappello.

La servotta lo seguì.

— Stanotte abbiamo più gente del solito — aggiunse intanto — e non vi sarà tempo di annoiarsi.

— Meglio così: io le adoro queste veglie eccentriche… e tu che ne dici?

L' ilarità della brunotta si accrebbe.

— Per la parte che vi prendo io… — esclamò scrollando le spalle.

— Ma non conti le mancie che ricevi da tutti gli adoratori della contessina…

La brunotta fece una smorfia ed avvicinatasi quasi all' orecchio del giovane:

— Credete voi a tutta la nobiltà dei miei padroni? — mormorò con ironia — io la so più lunga di quello che credete intorno a loro.

Il giovine era stuzzicato dalla curiosità.

— Fanne parte anche a me — disse — tanto qui nessuno può ascoltarci.

La servotta moriva dalla voglia di parlare.

— Ebbene, vi dirò che Pallina è nipote della contessa San Secondo quanto lo sono io, me l' ha confidato lei stessa in un momento d' espansione. È una vagabonda, fuggita dalla casa paterna con un amante, che dopo averla esposta ad ogni repentaglio, nutrita di busse più che di pane, finì per piantarla nel mezzo di una strada. Era ridotta grama, macilente. Per più mesi fece un po' di tutto, onde campare la vita, finchè un giorno s' incontrò nella contessa di San Secondo, che le offrì di prenderla con sè, di farla passare per sua nipote.

— È ricca la contessa?

La servotta abbassò ancora più la voce:

— È un' avventuriera furba come il diavolo: Pallina credette bene, in principio, di essere caduta nelle mani di una donna onesta, che volesse fare la sua fortuna, invece non ha servito che di zimbello…

S' interruppe con un lieve grido: aveva udito dei passi in anticamera.

Fece rapidamente un gesto per raccomandare il silenzio e corse via.

Il giovine, sorridendo, uscì dallo spogliatoio e si diresse verso una sala, dalla quale partiva un suono vivace di pianoforte.

Quando egli vi entrò, la sala era affollata, i doppieri accesi, e qua e là si vedevano preparate delle tavole da giuoco.

Era proprio Livia che abitava in quell' appartamento e faceva gli onori di casa, insieme alla sua falsa nipote.

Pallina era una bella ragazza non molto alta di statura, ma fatta a pennello, con una carnagione di latte, due fossette sulle guancie, che rendevano più grazioso il suo sorriso.

Pallina era il capriccio personificato, senza ragionevolezza di pensare ed operare; a momenti era adorabile, di un' ingenuità che rapiva, in altri scoppiava in collere violenti, in ghiribizzi di cattivo genere, in atti di un impero contradicente a tutto.

Il lavoro le destava ribrezzo, e purchè la si vestisse elegantemente, trovasse la tavola pronta e non le mancassero i divertimenti, non pensava ad altro.

Era proprio il tipo che conveniva alla malvagia contessa, che la sfruttava in tutti i modi.

In quella notte, c' era dunque veglia in casa di Livia. Però si contavano pochissime donne, ed anche quelle poche avevano tutte un passato equivoco e prodigavano il presente con una spensieratezza, che poteva far credere, che nessuna di esse si curasse dell' avvenire.

Livia pareva molto soddisfatta di sè stessa: era ingrassata, colorita, portava un' alta pettinatura di treccie nere ed una corona di riccioli sulla fronte: sembrava scoppiare nello stretto busto. I suoi occhi vivaci correvano ora in traccia di Pallina, ora andavano cercando Michele.

La giovine indossava un abito di stoffa leggerissima, aderente, di una tinta pallida, che contrastava coi colori vivaci delle altre donne.

Stava in mezzo ad un gruppo di giovanotti, discorrendo con vivacità, lasciando di quando in quando sfuggire certe risate birichinesche, civettando con gesti e moine, che mostravano la sua natura viziosa, corrotta.

Michele coi suoi folti baffi, la sua lunga ed arruffata barba, un caschettino dalla visiera abbassata sulla fronte, le mani immerse nelle tasche dei calzoni, andava dall' uno all' altro tavolo da giuoco, e quando passava vicino a Livia la guardava un istante, senza amore, con perfetta indifferenza.

Egli non provava più la minima emozione vicino a quella donna.

L' aveva ardentemente amata ed ancor più abborrita, poi temuta. Quindi dileguatisi tutti quei sentimenti, non era rimasto in lui che dell' apatia.

Il giovane che era entrato nella sala, andò subito a stringere la mano della contessa.

— Credevo che avreste mancato questa notte — disse Livia col più amabile dei sorrisi. — E il vostro amico Ettore?

— Non ha voluto seguirmi — rispose il giovane, stringendosi nelle spalle — quel ragazzo è innamorato sul serio.

— Chi è innamorato? — chiese una voce fresca, beffarda dietro il giovane.

Egli si volse vivamente:

— Ah! siete voi, Pallina — esclamò fissandola con ammirazione, perchè non gli era mai apparsa così seducente.

Ella fece un gesto di stizza.

— Su via, rispondete alla mia domanda.

— Si parlava di Ettore.

— E chi è la bellezza che gli ha fatto girare la testa e gl' impedisce di venir qui? — aggiunse Pallina ironica, fissando il giovane con uno sguardo sfrontato.

— Se anche ve lo dicessi, voi non la conoscete.

— Chi sa!

— È la signorina Clementi.

Livia guardò fisso il giovane: le si scorgeva l' ansia negli occhi.

— Non v' ingannate? — soggiunse con voce, non affatto scevra di emozione.

— Niente affatto, me l' ha detto lo stesso Ettore, il quale sembra voglia perdere la testa dietro quella signorina.

Pallina si mordeva le labbra.

— Oh! non bisogna contar troppo sul suo fanatismo — disse con mal repressa violenza — si sa quanto vale e quanto dura.

— Questa volta durerà a lungo per due ragioni: la prima perchè è difficile accoppiare tanta bellezza e virtù, per cui si distingue la signorina Clementi; la seconda perchè la giovine sembra non curarsi affatto di lui, nè di alcun altro, giacchè ha sempre rifiutati tutti i partiti, che le furono offerti.

Livia sorrideva con un' ironia sfacciata.

— E non vi siete domandato la ragione di ciò? — chiese scherzosamente.

L' amico di Ettore guardò con stupore la contessa.

— Mai! Forse che voi la sapete?

Livia finse una certa reticenza.

— So, e non so, e credo sia meglio tacere — disse — perchè non vorrei che si dubitasse aver io qualche rancore contro la signorina Clementi, che non conosco neppure di vista.

— Da chi allora l' hai saputo? — chiese con aria maligna Pallina.

— Da un giovane col quale io ero molto in relazione e che parecchi di voi debbono aver conosciuto: dal principe Cars.

Si era formato un cerchio intorno alla contessa e tutti sembravano ascoltarla con curiosità.

L'amico di Ettore fece un brusco movimento.

— Il principe Cars — replicò — non è quello sparito improvvisamente dalla società saranno cinque mesi?

— Proprio lui — disse Livia col suo diabolico sorriso — e la cagione della sua sparizione è stata precisamente la signorina Miranda Clementi: egli ne era l' amante.

Si udirono due o tre esclamazioni incredule.

Pallina si volse infuriata.

— Che ci trovata tanto di strano? — esclamò.

— Via, non m' interrompere, Pallina — disse con bonarietà la contessa — sai che in questo mondo si vive solo di apparenze; una giovinetta che si mostri allegra, capricciosa, piena di spirito, è subito battezzata per civetta, mentre quelle che hanno l' arte di mascherarsi in sommo grado, di celare i loro vizî, vengono apprezzate e stimate come virtuose. Miranda è una di costoro: pare il compendio di tutte le virtù e non ha che della falsità. Il principe, lo ripeto, è stato suo amante: lo riceveva di notte nella sua camera; ma una notte vi fu sorpreso dal fratello: seguì una scena terribile fra loro due, perchè Clementi pretendeva che il principe sposasse la sorella; pare che Cars gli dimostrasse le ragioni per cui non la voleva, e per evitare lotte maggiori, se ne partì insalutato ospite, e Miranda rimase colle pive nel sacco.

Pallina rideva come una matta e volgendosi all' amico di Ettore:

— Oh! oh! c' è proprio d' avere della superbia per corteggiare simili signorine — esclamò con una scioltezza disinvolta e pungente — dite ad Ettore che gli faccio i miei complimenti!

La conversazione su quel soggetto terminò lì, ma l' infame giudizio di Livia e quanto ella aveva detto sul conto di Miranda, doveva portare i suoi frutti. Nulla vi è al mondo di più triste, di più vituperevole di una calunnia; dal momento che essa si è scatenata sopra una persona, non l' abbandona più, tanto che le sue azioni migliori, come le più indifferenti, le sue stesse buone qualità, tutto le viene rivolto contro con incredibile perfidia e solo quando la disgraziata, incapace di sostenere una lotta contro i suoi denigratori, cade vittima e muore, allora il mondo la compiange!…

Pallina non si era mai mostrata così fantastica, capricciosa, come in quella notte.

Rise molto, troppo, finchè lasciata ad un tratto la sala si rifugiò nella sua camera.

Livia ve la trovò, distesa sul divano, scarmigliata, piangente, agitando con furia le braccia.

— Ebbene, che ti prende adesso?… Che hai?…

Pallina scattò in piedi con le mani sui fianchi, lanciando sulla contessa uno sguardo di fuoco.

— Ho che non conosco quella Miranda — disse con piglio stravolto — ma l' odio, l' odio perchè mi ha rubato il cuore di Ettore…

— Sciocca, stupida, e ti disperi per così poco — esclamò Livia con una smorfia di sprezzo. — Sta' pure sicura che quando Ettore saprà la storia di quella giovane, ritornerà a te.

— Non mi basta, voglio vendicarmi di lei.

— Lo sarai: ti aiuterò io — disse Livia, sorridendo con cinismo.

Pallina la guardò con un' espressione strana.

— La conoscete adunque?

— Ti dico di no — rispose la contessa aggrottando le ciglia — ma anch' io, al pari di te, ho rabbia di vedere portata alle stelle una giovane, che non vale la punta del tuo dito mignolo.

Pallina le saltò al collo: il suo cattivo umore era sparito ed ella si affidava ciecamente alla contessa, che le prometteva vendicarla….

Pochi giorni ancora e Tecla sarebbe stata madre. Questa soave speranza la rianimava, faceva salire un po' di colore alle sue guancie, le infondeva coraggio.

La disgraziata aveva molto sofferto nella sua gravidanza: negli ultimi mesi non potè quasi muoversi dalla stanza e rimase per giornate intiere sdraiata sul letto, languida, spossata, incapace di fare un movimento, cogli occhi fissi nello spazio, senza dire una parola.

Miranda l' abbandonava di rado, pareva compiacersi in tutte le minute cure che usava alla cognata: in quell' incessante occupazione, nel lavoro continuo, cercava soffocare un' idea, che le era di peso e di tormento insieme.

Dal giorno che ella si era rifiutata a dare una spiegazione ad Umberto, questi non aveva più fatto alcuna allusione sull' accaduto; ma la giovine sorprendeva sovente gli sguardi del fratello fissi su di lei. E quegli sguardi erano severi, contenevano un muto rimprovero, che straziava il cuore della povera Miranda, costretta al silenzio.

Clementi aveva fatte molte indagini per sapere dove il principe si era ritirato e per ritrovare la persona che aveva inviata quella lettera fatale, ma a nulla era riuscito.

Però il suo carattere si era leggermente alterato: si lasciava trasportare facilmente dalla collera e spesso un tremito l' investiva tutto.

Il suo immenso affetto per Tecla, le sue cure per lei, non vennero meno un solo istante e la gioia gli brillava negli occhi, quando accarezzando inquieto la giovane donna, le domandava se soffrisse ed ella con un sorriso tutto amore, con profonda tenerezza, gli rispondeva che non si era mai sentita tanto felice.

Miranda provava un' intima, orgogliosa soddisfazione nel vedere che nessun sospetto era mai balenato alla mente d' Umberto sul conto di Tecla. Poi a poco a poco si era rassicurata intorno alla contessa Edvald.

La malvagia donna doveva essersi allontanata da Firenze, e forse non l' avrebbero riveduta più. Miranda ne pregava fervorosamente il cielo.

La fanciulla aveva notato come da qualche tempo un giovane la pedinasse, mentre ella si recava in chiesa colla cameriera e come passeggiasse più volte al giorno dinanzi al cancello della palazzina.

Dapprima non se ne curò, poi quell' assiduità le dispiacque, infine riunziò ad uscire di casa ed a scendere in giardino.

Due giorni prima della veglia in casa della contessa Edvald, Clementi aveva appena terminato di far colazione, quando un domestico l' avvertì che un signore chiedeva di parlargli e gli pôrse un biglietto da visita.

Umberto vi gettò uno sguardo:

— Ettore Danieli — mormorò — non lo conosco affatto.

E dopo un momento di riflessione si volse al domestico:

— Fallo entrare in sala — disse — vengo subito.

Il giovine che attendeva di parlargli, era lo stesso che faceva la corte a Miranda.

Poteva avere venticinque anni, era di una corporatura sottile, snella, bruno di carnagione, con capelli e baffi neri come l' ebano e gli occhi turchini.

Quando vide entrare nella sala Umberto, salutò profondamente, poi con accento commosso:

— Scusate — disse — se vi disturbo in un' ora forse inopportuna e se mi presento in tal modo; ma la cosa che qui mi guida ha tale interesse per me e dipende così da voi, che non ho più avuta la forza di attendere.

Umberto sembrò alquanto stupefatto di quell' esordio; tuttavia invitando cortesemente il giovane a sedere, gli chiese in qual modo poteva tornargli utile.

Ettore Danieli un po' confuso, impacciato, balbettò:

— Perchè voi, signore, poteste perorare la mia causa presso vostra sorella, che amo e della quale vi chiedo la mano…

Lo stupore di Umberto si accrebbe.

— Mia sorella? — esclamò — La conoscete?

— L' ho veduta più volte in chiesa, dove ho potuto contemplarla a mio agio, senza che ella sospettasse nemmeno l' attenzione di cui era fatta segno — proruppe Ettore con accento dolce, appassionato — E non soltanto la sua bellezza mi trascinò irresistibilmente verso di lei, ma il mio amore fu reso più grande dalla modestia e semplicità che traspariva da tutti i suoi atti, dal velo soave di melanconìa che le adombrava la fronte…

Vostra sorella non mi badò mai, nè io avrei osato rivolgerle una sola parola che potesse turbare il suo pudore, suonare offesa alle sue orecchie: ecco perchè mi sono a voi rivolto. Il mio nome forse vi è ignote, ma voi potete prendere tutte le informazioni che volete sopra di me. Sono figlio unico, non ho più che mia madre e possiedo una sostanza abbastanza considerevole.

Clementi non l' aveva mai interrotto, e, mentre Ettore parlava, l' osservava attentamente.

Era un bel giovane, di molta distinzione, di fisonomia schietta. Perchè Miranda non avrebbe potuto amarlo?

Sarebbe stato per Umberto un gran sollievo nel vederla unita ad un uomo che sapesse renderla felice.

Ma il cuore di sua sorella era libero? Amava sempre il principe, l' aveva amato?

Questo dubbio spaventoso, che da tanto tempo gli torturava l' anima, non si sarebbe mai dissipato?

Umberto rimaneva serio, grave in volto.

— Signore — disse quando il giovane si tacque — io mi tengo molto onorato dalla vostra domanda, ma capirete che non posso rispondervi senza aver prima interrogata mia sorella…

— Nè io pretendo a lei impormi, signore — rispose Ettore con voce commossa — nè mi lusingo di aver attirata la sua attenzione; ma voi potete dirle che sono un uomo onorato, felice di consacrarle la vita.

Umberto fu vivamente impressionato dall' accento con cui furono pronunziate queste parole.

— Vi ringrazio della franchezza con cui mi fate conoscere i vostri sentimenti — disse con effusione — ed in quanto a me vi dirò, che se anche non riuscissi in ciò che desiderate, e che io pure vedrei volentieri, sarò sempre lieto di avervi conosciuto.

Ettore lo ringraziò con calore e quando si allontanò dalla palazzina era raggiante.

Umberto, pensieroso, salì alla camera della moglie. Tecla, che non aveva mai dormito nella notte, in quell' ora riposava tranquilla.

Egli la contemplò un istante, desideroso di posare le sue labbra su quella bocca sorridente, da cui sfuggiva un respiro esile, regolare.

Ma per timore di svegliarla, si trattenne e andò in traccia della sorella.

Miranda stava lavorando una trina a maglia, presso la finestra della sua camera, allorchè Umberto entrò.

Era da lungo tempo che non si erano trovati così soli, onde la fanciulla fu agitata da un tremito inquietante, come se il fratello venisse ad annunziarle una sventura.

Pure l' accolse con un sorriso.

— Tecla dorme, eh? — chiese.

— Sì, ed io ne approfitto per venire a discorrere un po' con te — rispose il giovane baciandola sulla fronte e sedendo vicino a lei.

Miranda continuò a lavorare: un' onda di tenerezza le invadeva il cuore, ma non sapeva come dimostrarla.

— Parla pure, Umberto, ti ascolto — disse.

— Cara sorella — mormorò il giovane — tu non sei in collera con me per averti trattata altra volta un po'sgarbatamente: ma avevo passato delle ore di terribile agonìa.. mi pareva che tu mancassi di confidenza in me.

Sorrideva con gran dolcezza, ma la voce gli tremava.

Miranda non alzò gli occhi, e si sforzò di prendere la cosa in ischerzo.

— Le ragazze, sai, hanno sempre qualche cosa da nascondere — replicò.

— È male — rispose arditamente Umberto — perchè tu non sai quanto possa talvolta costare una mancanza di fiducia.

Miranda rimase silenziosa, senza cangiare attitudine, tantochè Umberto non si avvide di alcune lacrime cadute sulla trina, che ella lavorava.

Seguitò:

— Pensa un po' mia cara, se invece di tuo fratello, fossi stato tuo marito…

— Io non mi mariterò mai — mormorò pian piano la fanciulla.

— Anche se io ti offrissi un giovane che riunisse in sè tutte le qualità per farsi amare?

Miranda rialzò gli occhi sul fratello, e con un' espressione indescrivibile:

— Tu non vorrai già sacrificarmi? — disse.

Il rimprovero andò dritto al cuore di Umberto.

— Miranda! — esclamò — E puoi solo pensarlo?

La fanciulla si gettò nelle braccia di lui.

— Perdono… perdono… ho avuto torto… ma sentendo alludere ad un marito, non ho potuto soffocare un tal grido… No… non parliamo più di alcuno… io rimarrò sempre vicina a te.

— Ma non sarebbe necessario separarci — insistè Umberto, accarezzandola — nella nostra palazzina potrebbero benissimo vivere due famiglie. Non ti sorride l' idea di una felicità uguale a quella di Tecla? Non abbassare il capo così… guardami… ah! voglio vederti mammina ancora tu. Ascoltami. Vi è un giovane che mi sembra onesto, il quale vorrebbe passare la vita intera ad amarti, ed è venuto a chiedermi la tua mano…

Miranda fece un atto di spavento.

— E tu glie l' hai accordata?

Umberto si sforzò a sorridere.

— Non l' avrei mai fatto senza il tuo consenso; però gli ho promesso di parlarti in suo favore. Non so se tu lo conosca… è un giovane che da qualche tempo interviene alla chiesa dove vai…

— L' ho veduto e mi sono accorto della sua assiduità nel seguirmi — disse gravemente Miranda — ma Dio mi è testimonio che io non l' ho mai incoraggiato, neppure con uno sguardo.

— Lo so, egli l' ha detto… e non si lusinga certo che tu lo corrisponda: tuttavia spera che il suo sincero affetto per te finisca a commuovere il tuo cuore. È assai giovane, si chiama Ettore Danieli, possiede una bella sostanza….

Miranda, che teneva la testa inclinata sul petto del fratello, la sollevò mostrando il viso pallidissimo.

— Umberto — disse con mestizia — tu hai sempre fatto per me le veci di un padre, ti devo tutto, quindi accetterò l' uomo da te scelto senza lamentarmi.

— Ma non è così che voglio — proruppe con impeto il giovane — Che importa a me di colui che ieri ancora non conoscevo? È la tua felicità che disidero.

— Ebbene, se vuoi proprio vedermi contenta, lasciami come sono.

Umberto non potè celare un movimento di sconforto, di amarezza, che colpì Miranda e ricondusse il turbamento nella sua anima.

Non rattenendo più il pianto:

— Se poi — aggiunse — la mia presenza ti è importuna, lascia che io mi ritiri in un convento.

Umberto gettò un grido di dolore.

— Ah! cattiva… cattiva sorella — esclamò stringendola come forsennato — non mi ami più, adunque, per darmi delle prove così crudeli? Io, essere stanco di te? Sono cose che non dovresti neppure pensarle: al diavolo tutti i pretendenti, se per essi debbo vederti piangere.

La sera stessa Clementi inviò un biglietto ad Ettore Danieli, significandogli il rifiuto di sua sorella.

Il giovane innamorato non stette pago: scrisse direttamente a Miranda:

Signorina,

“ Perdonate il mio ardire, ma non posso sopportare il pensiero di vedermi così respinto da voi, che formate tutte le gioie, le speranze della mia vita.

“ Prima di avervi veduta, io non conoscevo tutte le emozioni supreme, le soavi trepidanze dell' amore. Vi adorai da lontano come una santa, avrei voluto prostrarmi dinanzi a voi, dirvi il segreto del mio cuore, supplicarvi ad amarmi.

“ So bene che non potevo credere di essere da voi corrisposto, non avevo tanto orgoglio. Ma il vostro reciso rifiuto è una condanna per me, e non posso sopportarlo.

“ Signorina, non siate senza pietà, datemi una parola, una sola parola di conforto: lasciate che io possa sperare di giungere un giorno a toccare il vostro cuore, a conseguire la vostra mano.

“ Il mio affetto per voi sarà calmo, profondo, eterno: esso eguaglierà la mia riconoscenza.

“ Ancora una volta, non mi respingete, se non volete rendermi il più misero dei mortali.

“ Ettore Danieli. ”

La fanciulla gettò senza esitare la lettera sul fuoco e non rispose.

Ettore ne scrisse una seconda, che gli fu rimandata chiusa.

Egli credette impazzire, ma poi al fiusso tumultuoso dei pensieri che gli assalsero e turbarono il cervello, successero lo scoraggiamento, il disgusto, l' indignazione.

Una settimana appresso, Umberto riceveva dal giovane il seguente biglietto:

Potevate dirmi subito che vostra sorella era impegnata col principe Cars, e questi aveva tutti i diritti su di lei: mi sarei tosto ritirato. Non si prende così a gabbo, nè si umilia in tal modo un galantuomo, quale ha l' onore di essere

“ Ettore Danieli. ”

Ad Umberto si corrugò la fronte: un rossore acceso gli salì alle guancie.

Il nome dunque di sua sorella correva sulla bocca degli sfaccendati, insieme a quello di Cars? Che vi era stato fra Miranda ed il principe?

Interrogare la giovinetta diveniva inutile: ella non si sarebbe mai lasciata sfuggire il suo segreto. Cars era irreperibile, ma Umberto avrebbe punito Danieli, che osava così arditamente insultarlo.

Faceva d' uopo di una lezione severa, per insegnare agli altri a rispettare sua sorella, il suo nome.

Trovava infine davanti a sè un uomo, sul quale sfogare la sua collera, i suoi affanni, il suo martirio.

Quest' idea gli mise addosso una specie di febbre.

Si vestì per uscire, benchè fosse l' ora del pranzo.

Tecla non si moveva dalla camera. Il giovane si recò da lei e vi trovò anche Miranda.

— Mi dimenticai di dirvi stamani che sono stato invitato a pranzo da un vecchio amico di reggimento, che è qui di passaggio — disse — e non posso rifiutare.

— Perchè non l'hai piuttosto fatto venir da noi? — chiese timidamente Tecla.

— Prima di tutto perchè non voglio disturbi in casa nello stato in cui ti trovi e poi perchè egli pure ha famiglia.

E si chinò per baciare la moglie. Ella lo ritenne spaventata.

— Umberto, tu non devi star bene, sei pallido come un cadavere — mormorò ansiosa — non è vero, Miranda?

— Tecla ha ragione — rispose la giovinetta, che aveva già notato il viso sconvolto del fratello.

Umberto si mise a ridere.

— È la mezza luce di questa camera che mi fa apparire così — esclamò — perchè mi sento benissimo.

— Voglio crederlo, pure mi rincresce vederti allontanare — ribattè Tecla con grazia e tenerezza — torna presto sai, in questi momenti vorrei sempre averti vicino.

Egli se la strinse al cuore tacendo, indi si volse a Miranda e la baciò in fronte.

La giovinetta provò una sensazione penosa: le labbra del fratello erano ghiacciate.

Umberto se ne andò subito… e salendo nella prima vettura vuota che incontrò si fece condurre da un suo amico di reggimento, che da alcuni giorni si trovava in permesso a Firenze.

Mentre la vettura correva, il giovane dovette abbassare i cristalli, perchè sentiva mancarsi l' aria, abbruciare la fronte.

Però quando discese alla porta dell' amico, si trovava abbastanza calmo.

L' ufficiale stava per uscire di casa, allorchè gli fu annunziato Umberto.

Egli l' accolse con sincero trasporto.

— Se oggi non ti vedevo, sarei passato domani a trovarti — disse — Come mai ti sei reso così prezioso?

— Lo sai, mia moglie si trova molto incomodata.

— Me l' hai detto che fra poco saresti padre…. uomo felice….

S' interruppe, perchè vide Umberto farsi orribilmente pallido, e lasciarsi cadere abbattuto su di una seggiola.

— Che hai? — chiese con vivacità.

— Un lieve capogiro, ma è passato.

Poi stendendo la mano all' amico:

— Renzo — disse con mestizia — tu sei sempre stato buono con me.

L' ufficiale lo guardò sbalordito.

— Ti ho voluto sempre bene, perchè lo meritavi — rispose schiettamente.

— No, è perchè tu avevi cuore, ed io potevo confidarti i miei pensieri, certo di averne da te aiuto, conforto.

Renzo, che si era seduto vicino ad Umberto, lo guardava fissamente.

Hai forse bisogno ancora di me? — disse.

— Sì, — rispose Clementi con voce più bassa e tremante — tu puoi rendermi un gran servigio.

Renzo gli strinse fortemente la mano.

— Parla, e in tutto quello che posso, sono pronto.

Umberto ebbe un sorriso melanconico.

— Tu devi servirmi da padrino in un duello.

Renzo fece un atto di dolore.

— Ti batti al momento di essere padre? Non è possibile, nè può trattarsi di cosa grave: accomoderò io la faccenda.

— Non lo tenterai nemmeno — esclamò con gravità Umberto — sono stato insultato nell' onore.

— Quand' è così, non aggiungo altro; sono ai tuoi ordini.

— Non dubitavo meno del tuo affetto per me e adesso ti confiderò la ragione per cui desidero avere una soddisfazione.

In quell' ora stessa, Ettore Danieli, chiuso nella sua camera, si mostrava stranamente agitato, inquieto.

Dall' amico intervenuto in casa della contessa Edvald aveva saputo i particolari raccontati da Livia su Miranda.

Dapprima aveva rifiutato di crederci. Era impossibile che quella giovinetta dalla fronte altera, dallo sguardo candido, sicuro, avesse ricevuto di notte, nella sua camera, un amante.

Poi il dubbio cominciò a farsi strada nella sua anima ed infine il disprezzo dimostratogli dalla fanciulla, lo convinsero che avevano detta la verità sul conto di lei.

E nella sua collera trovò un sollievo nell' inviare quel biglietto insultante ad Umberto.

Ma per quanto facesse non poteva scacciare l' immagine di Miranda, che si presentava ad ogni istante al suo pensiero, ed allora quanto vi era in lui di ardente, di entusiasta, si faceva strada framezzo a tutte le altre preoccupazioni.

Un lieve bussare all' uscio, lo distolse dai suoi pensieri.

Andò ad aprire. Era un domestico che lo avvertiva come una signora chiedesse di parlargli.

Ettore fece un movimento di stupore.

— Una signora? — ripetè.

— Giovane ed assai bella — aggiunse sorridendo il servo.

Ettore fu preso da un indicibile tremito.

— Introducila nel salotto — disse con vivacità.

Egli non tardò a seguire il domestico, ma appena entrato in sala fece una smorfia leggera di disappunto.

Era Pallina, un po' ansante, sorridente, con le labbra schiuse per meglio respirare, in costume elegantissimo da passeggio, coi piedini calzati di stivaletti in pelle dorata.

— Tu qui? — chiese Ettore mentre il domestico usciva richiudendo con cautela la porta.

— Dal momento che tu mi fuggi, sono io che vengo a cercarti — rispose con franca arditezza la giovane, sedendo su di una poltrona.

Ettore, malgrado il suo cattivo umore, si mise a ridere.

— Vorresti forse che ti stessi attaccato sempre alle gonnelle? — chiese rimanendo in piedi dinanzi a lei.

Pallina alzò le spalle.

— Non ho tante pretese, ma in ogni modo sarebbe meglio che perdere il tempo dietro a quelle smorfiose, che si ridono di te con altri amanti — replicò altera, sgarbata.

Il volto di Ettore si contrasse.

— Che ne sai tu? — chiese con voce asciutta.

— Più di quello che credi — ribattè Pallina ironica — ma è proprio vero che gli uomini si attaccano sempre al peggio.

Ettore stava per rispondere con altrettanta insolenza, quando il domestico, dopo avere discretamente bussato, rientrò, per avvertire che due signori chiedevano di parlargli.

E porse i biglietti di visita. Ettore si sentì scosso nel posarvi gli occhi. In uno vi lesse: “ Renzo Donati, ufficiale. ” nell'altro “ Piero Leoni, ingegnere. ”

— Dove li hai lasciati?

— In anticamera, dicendo loro che non sapevo se potevate riceverli. Allora uno di essi, soggiunse:

— Ditegli che veniamo da parte del signor Clementi.

Pallina sussultò, ma stette muta.

— Falli passar qui — disse Ettore quasi alteramente — e tu, Pallina, entra nella mia camera e non ti muovere, finchè non venga io stesso a prenderti.

La giovinetta ubbidì senza replicare. Ettore rimase in piedi ad attendere i visitatori.

Quando entrarono, fu scambiato un cortese saluto, poi Renzo prese per il primo la parola.

— Siamo venuti qui — disse con compitezza, ma nello stesso tempo con un fare serio, dignitoso — da parte del nostro amico Clementi, per chiedervi spiegazione di questa lettera, da lui ricevuta.

Ettore assunse un contegno altero.

— Dite al signor Clementi che io non ho nulla a spiegargli — rispose.

— Capirete che il nostro amico non si accontenta di una tale risposta e noi siamo incaricati di avvertirvi che in caso di un rifiuto da parte vostra, esige una soddisfazione colle armi.

— Sono pronto a dargliela.

E consultando il suo orologio:

— Sono le due — aggiunse — alle tre i miei padrini saranno da voi, se vi compiacete lasciarmi il vostro indirizzo.

Renzo e il suo amico si erano appena ritirati, che Pallina si lanciò come una bomba nel salotto.

— Ho sentito tutto — esclamò — e non voglio che ti batta, perchè io t' amo!

— Non dir sciocchezze e soprattutto lasciami — rispose Ettore di malumore — non ho tempo da perdere con te.

— Mi mandi via? — replicò amaramente la giovine.

— Sì, sì, non hai ancora capito? Non cercare di commuovermi, non ci riusciresti… addio.

Le volse le spalle per entrare in camera.

Pallina era verde dalla bile.

— Ah! è così che mi tratta — esclamò con impeto, esasperata da quel marcato disprezzo del giovane — e tutto per colei. Ed io lo compiangevo! Ma adesso vorrei che il fratello di quella pettegola lo punisse come si merita.

Con quest' augurio, la giovane se ne andò sbattendo fortemente la porta.

Seduto dinanzi ad uno scrittoio, al lume di una lucerna, che proiettava all' intorno un debole chiarore, Umberto scriveva. Nella pallida trasparenza delle sue guancie, nell' opaco languore degli occhi, leggevasi le emozioni da cui era torturato il suo animo; tuttavia nessun avvilimento o prostrazione eravi in lui; sulla fronte severa brillava un' indomita energia.

La notte era a metà del suo corso: Tecla e Miranda dormivano tranquille: il silenzio della palazzina non era interrotto che dal battito lento e regolare di un pendolo, che segnava il corso del tempo.

Umberto scriveva alla sorella:

Miranda,

“ Traccio queste linee, poche ore prima di battermi: può darsi che quando tu le legga, io non sia più; ebbene per questa vita che sacrifico volentieri ad un sacro dovere, ti chieggo, cara sorella, di mostrarti forte, altera, perchè vi sono delle persone, che avranno bisogno dei tuoi conforti, che io ti raccomando: la mia povera Tecla la migliore, la più virtuosa delle mogli, delle madri, e la creaturina che deve venire al mondo, e portare il mio nome.

“ A te sola si aspetta di proteggerle, consolarle, a te che hai sempre occupato il primo posto nel mio cuore, nella mia vita. Il còmpito che t' impongo è ben grave, ma tu lo sopporterai per amor mio.

“ Miranda, in quest' ora, io non posso farti rimproveri, nè invocare dolorose rimembranze. Riandando i giorni trascorsi insieme, non ricordo che la tua immensa bontà, i generosi esempi che mi desti.

“ Mi sono inquietato a torto con te: non ti credo colpevole; se hai taciuto, dovevi averne un giusto motivo ed io rispetto il tuo silenzio, e ti benedico. ”

Umberto s' interruppe, lasciò cadere la penna, il sangue gli si sconvolse.

L' uscio del gabinetto si era spalancato e sulla soglia appariva Miranda, più bianca dell' accappatoio che indossava, i capelli scarmigliati, gli occhi lacrimosi.

Umberto si alzò in piedi, si pose dinanzi allo scrittoio ed aprì le braccia.

Miranda vi si precipitò ed intrecciando le braccia al collo di lui, baciandolo come folle:

— È vero — disse piangendo — che devi batterti in duello con quell' Ettore Danieli?

Umberto lasciò trasparire un vivo turbamento.

— Chi te l' ha detto?

Invece di rispondere alla domanda, la fanciulla rialzò lo sguardo turbato verso il fratello, ripetendo:

— È vero?

Umberto cercò sorridere.

— Ebbene, sì — rispose — ma non devi allarmarti.

— Non allarmarmi — replicò con strazio Miranda — mentre ti batti per cagion mia? Ma io non voglio che tu esponga la vita per me.

— Via, Miranda, calmati: tu non sei affatto responsabile di quanto succede. Io mi batto contro Danieli, perchè ha osato credermi un mentitore, mi ha insultato.

— Ma io ne sono la causa, so tutto; ebbi un anonimo biglietto, che mi ha avvertita — disse la giovinetta fra i singhiozzi. — Ah! no, no, questo duello è un delitto, che io non potrei mai perdonarmi. Umberto, Umberto, abbi pietà di me, non impormi tanto rimorso.

La disgraziata pareva aver perduta tutta la sua calma: era stravolta, impetuosa, e cercava commuovere il fratello, ora appoggiandosi come forsennata al petto di lui, ora cingendolo colle sue braccia, ora guardandolo supplichevole, cogli occhi pieni di lacrime.

Il giovane era pallidissimo, ma si manteneva impassibile.

— Non ne parliamo più — disse con somma dolcezza, ma con voce ferma — tu non vuoi già che mi credano un vile?

Miranda tentò d' insistere, ma vedendo inutili le sue preghiere, si strinse colle mani le tempia, che parevano volessero scoppiare.

— Oh! come soffro! — mormorò.

Poi con subita veemenza:

— No, non è possibile che ciò succeda, andrò io stessa da quel giovane, gli dirò che sfoghi la sua collera su di me, diverrò sua moglie, ma che rinunzi a battersi, ti risparmi…

— Miranda! — interruppe con voce sorda Umberto — se tu facessi ciò, ti maledirei!

L' accento del giovane era tale, che la povera fanciulla sentì spezzarsi il cuore e rimase come fulminata.

Umberto la prese per mano, la fece sedere al suo fianco sopra un divano, le cinse con un braccio la vita.

— Sii forte — mormorò — non piangere, nè disperarti così, se vuoi che ti perdoni. Tu non c' entri in ciò che accade, quindi non farne più parola: ben altro mi aspetto da te. Avevo incominciato a scriverti, ma giacchè sei qui, ti dirò a voce quanto puoi fare per consolarmi.

Ella ascoltava anelante, fuori di sè, incapace di pronunziare parola.

Umberto la baciò.

— Sii calma, te ne supplico — aggiunse con mestizia — noi abbiamo bisogno di tutto il nostro sangue freddo: ascoltami, Miranda, non dimenticare mai quello che ora ti dirò.

Un freddo sudore stillava dalla fronte della fanciulla.

— Ti ascolto — balbettò — ma, vedi, è cosa che supera le mie forze.

— Tu le ritroverai, se mi ami. A chi dovrei affidarmi, se tu mi mancassi?

La disgraziata abbassò la testa. Egli le rivolse uno sguardo d' amore, e con accento dolce e penetrante:

— Tecla deve ignorare la verità — disse — nello stato in cui si trova, ogni emozione potrebbe tornarle fatale. Io sono quasi certi di ritornare fra le vostre braccia: ma se il cielo avesse disposto altrimenti, tu, Miranda, farai le mie veci presso Tecla, l' esorterai a vivere per la sua creatura.

Il bel corpo di Miranda era scosso da movimemti convulsi; un singhiozzo le lacerò il petto.

Umberto l' attirò vicino a sè.

— Lo farai? Me lo prometti?

Ritrovò a stento la parola per pronunziare un sì.

Una lacrima solcò tacitamente le guancie di Umberto,

— Grazie! — mormorò.

Poi rimettendosi:

— Tu e Tecla siete state i due soli amori della mia vita — ripigliò — da voi ebbi tutte le mie gioie e felicità…. No, non credere che io ti abbia serbato rancore per ciò che rifiutasti di dirmi: il segreto del tuo cuore lo rivelerai a Dio… io non ti credo colpevole… ti amo sempre…

Le baciò a lungo la bionda testa, che si chinava sul suo petto.

— Tu fosti così buona con me — le sussurrò — ed io ringrazio Dio di averti qui condotta a quest' ora; vedi, mi sento molto più forte, confidente: le mie idee tristi si involano… no, non ci separeremo, Miranda, vedrai… ritornerò.

Un lieve incarnato aveva ravvivate le guancie di Umberto: sorrideva.

Poteva pensare alla morte, mentre sovrabbondava in lui tanta vita, tanta gioventù, mentre stringeva fra le braccia la sorella?

Miranda stette ancora per un' ora vicino a lui, senza aver la forza di parlare, di piangere, ma ascoltandolo religiosamente, imprimendosi nell' anima ogni sua raccomandazione.

Finalmente egli stesso la ricondusse in camera.

— Va a riposare — le disse baciandola ancora — ne hai bisogno.

Ella lo fissava cogli occhi ardenti, sbarrati.

— Ti rivedrò prima che tu esca? — chiese macchinalmente.

— Sì… sì… te lo prometto.

La baciò di nuovo, la lasciò sola. Voleva terminare di mettere in ordine alcune carte, poi passò in camera della moglie.

Tecla dormiva tranquilla: un sorriso inesprimibile errava sulle sue labbra un po' scolorite: le manine bianche, affilate teneva giunte sul petto.

Umberto, contemplandola, si sentiva spezzare il cuore. Era forse quella l' ultima volta che la vedeva?

Si chinò sul letto, sperando di poterla baciare senza destarla, ma Tecla aprì gli occhi.

— Sei tu? — chiese con giulivo accento. — Perchè non ti trovi a letto?

— Avevo da scrivere, ed ho finito soltanto adesso — rispose il giovane. — Come ti senti?

— Benissimo, sognavo di te.

Umberto ebbe la forza di restar calmo, sorridere. Poco doco Tecla si riaddormentò ed Umberto, gettatosi su di una poltrona, finì per assopirsi.

Ma alle cinque era già in piedi abbigliato ed usciva dalla palazzina, mormorando con angoscia:

— Vi ritornerò?

Non era più passato in camera di Miranda, che stava pregando dinanzi ad un crocifisso, offrendogli la sua vita in cambio di quella del fratello.

Il padrini di Umberto ed un medico l' attendevano con la carrozza ad uno svolto del viale.

Il duello doveva aver luogo in un villino di proprietà dell' ingegnere Leoni, a due chilometri dalla Porta Romana.

A pochi passi della Porta, eravi ferma un' altra carrozza con entrovi Ettore Danieli, i suoi due secondi ed un chirurgo.

Le due vetture si posero insieme in cammino.

Il duello era alla sciabola, e senza esclusione di colpi.

Durante il tragitto, Umberto cercò discorrere con gli amici, ma questi notarono con dolore in lui una specie di accasciamento.

Si è che dinanzi alla mente del giovane appariva ora l' immagine sconvolta, disperata di Miranda, ora quella fiduciosa, sorridente di Tecla. Le avrebbe ancora rivedute?

Ma quando si trovò sul terreno dinanzi all' avversario, ricuperò ogni sua calma ed appena ebbe la sciabola in mano ed i padrini ordinarono di mettersi in guardia, il suo sguardo offuscato si rischiarò, un riflusso di sangue gli salì alle guancie.

Ettore Danieli era più pallido di lui, ma si mostrava disinvolto, risoluto.

Non era molto esperto nella scherma, pronto però, e sveltissimo.

Umberto invece era schermidore e possedeva un' incontrastabile superiorità su Ettore; tuttavia, dopo alcuni assalti, mentre con maestrevole finta al capo tirava un colpo di figura, ferendo leggermente sulla guancia sinistra l' avversario, questi, anzichè parare, veduto Clementi scoperto, andò a fondo, vibrandogli una puntata al petto, che gli perforò il polmone destro.

Renzo ebbe appena il tempo di sostenerlo, che Umberto gli cadde nelle braccia, versando dalla bocca un rivo di sangue.

Ettore, tornato in sè, pentito, disperato, si avvicinò:

— Signore, perdonatemi — disse a stento.

Il ferito gli tese la mano, ma in quello sforzo si svenne.

Umberto fu disteso sull' erba ed i medici scandagliarono la ferita, giudicata mortale.

Ed entrambi furono di parere di non trasportare il giovane in città, per evitare una improvvisa catastrofe.

L' ingegnere mise a sua disposizione la villetta, che si trovava deserta.

Clementi fu sollevato con ogni precauzione e portato su di un letto, in una spaziosa stanza a pian terreno.

Quando il giovane aprì gli occhi, vide due uomini chini su di lui: l' uno curava la sua ferita, l'altro lo aiutava amorevolmente.

— Renzo — mormorò Umberto con voce fioca.

— Non parlare, non affaticarti — rispose l' ufficiale — hai duopo di molta tranquillità.

— Il vostro amico ha ragione — aggiunse il medico — è necessario il più assoluto silenzio.

Umberto non gli diede retta.

— Dove sono? — chiese, guardandosi attorno.

— In casa di Leoni — si affrettò a rispondere Renzo — ti abbiamo trasportato qui, per prodigarti subito le nostre cure.

Umberto fissava il medico.

— Ditemi il vero, la mia ferita è gravissima, pericolosa?…

— Non lo nego — rispose schiettamente il dottore — tuttavia, coll' aiuto di Dio, spero salvarvi, purchè mi obbediate in tutto.

— Ma fa d' uopo che io faccia alcune raccomandazioni a Renzo per la mia famiglia; concedetemi quindi, che parli ancora un poco.

— Ebbene, fatelo, ma non vi esaltate troppo o accelerete la febbre; io mi ritiro nella stanza prossima, tornerò fra breve.

Un lieve sorriso di riconoscenza sfiorò le labbra di Umberto, poi una lacrima gli bagnò le ciglia, mentre volgeva gli sguardi verso Renzo, che si chinava su di lui, dicendogli sottovoce, con dolcezza:

— Che hai dunque a dirmi, amico mio?

Quando Miranda si accorse che il fratello aveva lasciata silenziosamente la palazzina, fu ripresa per un istante dalla disperazione. Soffriva tanto che sperò di morire.

Questo nuovo dolore faceva anche per contraccolpo rivivere tutti i dolori passati.

Eppure la nobile creatura non aveva una sola parola di rancore per coloro che la facevano tanto patire.

Nell' ineffabile bontà del suo cuore, non accusava che sè stessa, per essere stata poco previdente ed aver rifiutato il giovane Ettore.

Un profondo scoraggiamento l' assalse e mentre così si trovava, la cameriera l' avvertì che Tecla chiedeva di lei.

Miranda sentì un brivido glaciale scorrerle per le vene, ebbe però il coraggio di comprimere quella violenta sensazione e rispondere:

— Dille che vengo subito.

Quella chiamata bastò a rialzare il suo morale.

Ricordò le raccomandazioni del fratello, la sacra promessa fatta.

No, ella non aveva più il diritto di pensare al suo dolore, mentre Tecla abbisognava dei suoi conforti, mentre aveva duopo di essere sostenuta, consolata.

Da quel momento nessuna contrazione più apparve sul viso di Miranda; non versò più una lacrima, ma calma, rassegnata si diresse alla camera di Tecla…

La giovane donna era sollevata sul letto e sorrideva.

— Hai veduto Umberto? — chiese appena Miranda fu entrata.

— Sì, — ripose la giovinetta dominandosi — è uscito che tu dormivi ancora; aveva promesso a quel suo amico ufficiale, di passare lamattinata insieme.

Tecla scosse dolcemente la testa.

— Fortuna — replicò sospirando — che quel giovane è solo qui di passaggio, del resto andrei in collera con lui, che mi toglie tutte le ore di mio marito…

Miranda la fissava pensierosa.

— Perchè mi guardi così? — chiese Tecla.

— Perchè mi sembra che tu oggi stia assai meglio — rispose con vivacità la giovinetta.

— Infatti è vero, mi sento riposata, tranquilla, ho sognato la mia creaturina, è una femmina, vedrai, e le darò il tuo nome. Non ti pare già di vederla, bella come un amorino, tenderti le piccole mani, cercare di afferrarti? Ma tu non mi ascolti.

Un leggerissimo rossore coprì gradatamente le guancie di Miranda.

— T' inganni, mia cara, io non perdo una sola delle tue parole e sono contenta di vedere in te tanto entusiasmo materno, di leggere nei tuoi occhi la felicità.

Tecla le stese con un sorriso di angelica confidenza la mano.

— Non lo debbo a te? — mormorò. — Io non posso consacrarti tutta la mia vita, perchè è parte di un' altra, ma qualunque cosa tu mi comandassi di fare, io ti obbedirei….

— Può darsi che debba ricordarti queste parole — aggiunse Miranda con una dolce stretta.

Poi, siccome temeva di tradirsi, si appressò alla finestra.

Di mano in mano che passavano le ore, l' anima di Miranda piegava sotto il peso di un' orribile inquietudine.

Quale esito avrebbe avuto il duello? Sarebbe tornato ancora Umberto?

La gioia di Tecla in alcuni momenti le faceva male, la turbava.

Ah! se almeno la povera fanciulla avesse potuto dividere la sua ansia, la sua angoscia con qualcuno!

Ma doveva soffocar tutto dentro di sè, sorridere mentre aveva tanto desiderio di piangere.

Verso mezzogiorno, la cameriera avvertì Miranda, che un signore chiedeva parlarle.

Ella stava facendo colazione con Tecla, nella stessa camera di questa, non essendosi la giovane donna alzata.

— Chi può essere? — chiese Tecla curiosamente.

Miranda si era alzata vacillante, smarrita: aveva sentito come una gelida mano stringerle il cuore.

— Vado a vedere, e torno subito — mormorò a stento.

Il visitatore, che chiedeva di lei, era Renzo.

Miranda non lo conosceva, ma appena lo vide, comprese che colui doveva venire da parte di suo fratello.

— E Umberto? — chiese con grave dolcezza, che dissimulava l' ambascia, dalla quale si sentiva penetrata.

— Voi siete sua sorella, è vero? — disse a sua volta l' ufficiale.

— Sì.

— Ebbene, egli mi ha incaricato di consegnarvi questa lettera, da passare alla signora Tecla e di dire in particolare a voi, che spera di rivedervi presto.

— Ma dove si trova? È ferito? — balbettò sempre oppressa, ansante.

— Sì, signorina, ma non dovete allarmarvi troppo. Egli non presenta alcun pericolo ed è in luogo dove non gli mancherà l' assistenza.

— Non potrei recarmi da lui?

— In questo momento sarebbe un'imprudenza, ma state pur certa che appena Umberto si troverà in grado di alzarsi, ritornerà a casa.

— E se egli peggiorasse?

— Vi giuro che vi renderei subito avvertita; del resto ogni giorno avrete sue notizie.

Un lampo di riconoscenza brillò nello sguardo di Miranda.

— Grazie… oh! grazie — esclamò — se non m' inganno, voi siete l' amico di mio fratello, il suo compagno di reggimento, il signor Renzo…

Questi s' inchinò.

— Avete indovinato, signorina — rispose più commosso di quello che volesse parerlo — e adesso sapete di poter contare su di me…

Quando Miranda tornò dalla cognata, si mostrava meno oppressa, sebbene in cuore non si fossero affatto calmate le sue tristi apprensioni.

— Era un conoscente di mio fratello — disse — che portava questa lettera per te.

Tecla fece un atto di stupore.

— Non torna adunque oggi a casa? — chiese affannosa.

— Sembra di no: leggi.

La giovine donna ruppe la busta e ne trasse un foglio un po' spiegazzato, sul quale Umberto, Dio solo sa con quanti sforzi, aveva scritto:

Mia Tecla,

“ Non ti allarmare troppo se mi sono allontanato senza avvertirti e rimarrò assente per qualche giorno. Un mio carissimo collega ha bisogno assoluto della mia assistenza. Ti spiegherò più tardi tutto. Arrivederci presto con mille baci per te e Miranda. Vi amo. ”

Tecla non parlò, rimase pensierosa.

Miranda, che l' osservava attentamente, disse simulando un po' di collera:

— Al suo ritorno lo sgriderò ben bene. Per un amico non si abbandona la moglie, specialmente nello stato in cui sei.

— Umberto avrà pensato che vi è tempo ancora — mormorò Tecla.

Il suo sorriso, pieno di rassegnazione, commosse Miranda, le andò all' anima.

Discorsero insieme del giovine, senza che nulla tradisse l' inquietudine alla quale era pure in preda la fanciulla, malgrado le parole consolanti, le assicurazioni di Renzo e quel biglietto stesso vergato dal fratello.

La mattina seguente si alzò ancora più presto, onde recarsi a pregar Dio per la salute di Umberto.

Credeva che Tecla dormisse, invece la giovine donna era stata tormentata tutta la notte da un' indefinibile malessere, che non le aveva lasciato chiudere un' occhio.

Si era alzata parendole di star meglio, di respirare con minor pena, allorchè una cameriera entrò ad avvertirla che una signora, che andava questuando per i poveri, aveva chiesto di Miranda e sentito che la giovinetta era uscita, aveva mandato a vedere se la signora Clementi poteva riceverla.

— Certamente — rispose con dolcezza Tecla — intanto potrà attendere Miranda.

— La signora vuol riceverla qui?

— No, introducila nel salotto, vengo subito.

Cercò la sua borsa di denari e le capitò fra le mani quella stessa che le aveva data la madre, la prima volta che si era recata da lei.

Un rossore vivissimo le salì alle guancie, ma rimettendosi quasi subito, empì la borsetta d' oro, mormorando:

— Servirà per i poveri.

E passò nel salotto. La signora che attendeva alzò il doppio e fiorito velo che le copriva il viso e Tecla credette morire di spavento nel ravvisare sua madre.

— Ancora voi? — esclamò con incredibile energia, stendendo fieramente un braccio, come se volesse impedirle d'avvicinarsi.

Livia non si mosse: la guardava fissa, con sguardi maligni, beffardi.

— Non cercavo di te — disse con orribile cinismo — sei tu che hai voluto ricevermi.

— Perchè mi avete ingannata, come sempre? — ribattè con forza Tecla. — Perchè sapevate che pronunziando il vostro nome non avreste potuto porre il piede qui dentro. Che volevate da Miranda? Forse ancora del denaro, eccovene… voi riconoscerete forse la borsa che lo contiene… l' avevo destinata per i poveri.

Nella sua collera, nella sua indignazione, la disgraziata Tecla non misurava più le parole; aveva ricuperata tutta la sua forza, non chinava più gli occhi dinanzi allo sguardo fulmineo della contessa.

Questa si avanzò verso la figlia con una specie di violenza, aveva sulle labbra un crudele sorriso e il suo sguardo spietato piombava su Tecla come una sentenza di morte.

— Sciagurata che m' insulti, sai perchè sono venuta?

— Non voglio saper nulla, abbastanza ne avete fatte delle commedie con me; lasciatemi, io non potrei più senza orrore darvi il nome di madre; non vi riconosco, ciò che ho sofferto per voi, vi sarà contato, non avete saputo che farmi piangere: andate.

— Non andrò senza darti prima nuove di tuo marito.

Tecla trasalì dolorosamente.

— Qualche nuova menzogna — esclamò — non voglio saper nulla.

— Infatti — disse Livia ridendo — non è già per te che si è battuto in duello… e rimasto ferito a morte.

Tecla mandò un grido ed avanzandosi contro la contessa cogli occhi dilatati, scintillanti:

— Tu menti… tu menti — replicò con accento d' indicibile soffrire — dillo che non è vero… non lo vedi… infame che mi uccidi…

Madre e figlia si trovavano così vicine, che i loro volti quasi si toccavano.

Sul viso di Livia non vi era alcuna emozione, sebbene indovinasse l' orribile dolore che recava a Tecla: non chinò gli occhi. Assetata di vendetta, rabbiosa, malvagia, pronunziò con voce lenta:

— È la verità. Umberto ha data la vita credendo con essa di riparare l' onore della tua casta cognata, l' amante del principe Cars…

Le parole di Livia giunsero all' orecchio della giovane donna, come un ronzìo confuso, volle aprire le labbra, non potè, rivolse alla madre un' occhiata che parve una maledizione, e cadde riversa sul pavimento.

Senza cercare di rialzarla, la contessa uscì subito dal salotto, ed abbassando il velo, chiamò aiuto.

La cameriera accorse.

— Alla vostra signora è venuto male — disse con aria ipocrita — andate subito, io avvertirò gli altri.

Miranda, coll' anima fortificata dalla preghiera, rientrava più tranquilla nella palazzina, quando l' avvertirono che la cognata, assalita da uno strano, improvviso malore, stava per divenir madre. Presso al letto di lei, vi erano già un medico e la levatrice.

Tecla non riconosceva alcuno. Il suo viso, spaventosamente alterato, faceva male a vedersi, e mentre il corpo le si contorceva nei dolori della maternità, si udiva lo schianto doloroso dei singhiozzi usçirle dal petto.

Miranda rimase per un momento come annichilita, le lacrime l' acciecavano e sentiva morirsi sotto i colpi della più cruda disperazione.

— Come è ciò accaduto? — chiese a stento alla cameriera.

Questa raccontò quello che sapeva. Miranda provò uno strazio indicibile.

— Chi era la signora che ha chiesto di me? Ha detto il suo nome? Non l' avevi veduta altra volta? — domandò.

— Alla figura mi parve la contessa di San Secondo — rispose la cameriera — ma portava un velo così fitto in viso, che era impossibile riconoscerla.

— Ah! si, doveva essere lei — pensava Miranda — La disgraziata aveva dunque osato ritornare alla palazzina? Che scena successe fra Tecla e sua madre?

Non era certo il momento di scoprirlo; primieramente bisognava cercar di salvare la giovane donna.

Ma il medico aveva un' aria così pensierosa, abbattuta, che ogni speranza si dileguò nel cuore di Miranda.

— Credete ci sia pericolo per lei? — chiese con terrore.

— Non posso rispondervi cosa alcuna — ribattè il medico — ma sarà bene che facciate avvertire vostro fratello!

Quelle parole finirono di atterrire Miranda. Qual situazione orribile era mai la sua! Ella volse al medico un viso bagnato di lacrime.

— Mio fratello si trova presso un amico, ma non so dove — balbettò nella massima perplessità.

Ma ad un tratto sollevò la bella testa con un atto pieno di ardimento. Aveva presa una decisione subitanea, inaudita. Ella si ricordava dell' indirizzo di Ettore Danieli e sarebbe andata da lui, l' avrebbe costretto a dire la verità sullo stato di Umberto, a rivelarle dove questi si trovava.

— Signore — ripetè pallida come una morta, ma con voce ferma — credete che ci vorrà ancor molto prima che Tecla sia madre?

— Un' ora e forse anche più, ma non posso assicurarlo: in ogni modo, io non mi muoverò di qui.

— Grazie, io vi lascio per andare in cerca di mio fratello: non tarderò a tornare.

Ella aveva qualche cosa di così cupo e risoluto sul viso, che il medico la guardò stupefatto, senza replicare.

Miranda in pochi minuti si trovò fuori della palazzina e, salita in una vettura da piazza, si fece condurre alla casa di Ettore.

Il giovine stava facendo le valigie per lasciare Firenze. Era agitato da una trepidazione interna, sentiva un rimorso per i fatti accaduti ed aveva risolto di allontanarsi per cercare un po' d' oblìo.

Si trovava solo quando suonarono il campanello. Andò egli stesso ad aprire e nel vedersi dinanzi Miranda, indietreggiò di repente, muto, fulminato.

Ella entrò vivamente, rinchiuse l' uscio, poi rimase ritta, respirando con sforzo, cogli occhi sbarrati su di lui, pallida, inflessibile come una statua.

— Indovinate perchè son qui? — disse con voce talmente soffocata, che si sentiva a malapena — Vengo a chiedervi che avete fatto di mio fratello.

Ettore ebbe una contrazione in tutti i lineamenti e fece un gesto di disperazione.

La presenza di quella fanciulla nella sua casa finiva di opprimerlo, di schiacciarlo.

Ah! non era più quel volto tanto dolce, soave, che gli aveva fatto pensare agli angeli, gli aveva sconvolto il cervello, quello che ora gli stava dinanzi.

I lineamenti di Miranda manifestavano la più crudele angoscia: gli occhi avevano perduta la loro serena luce, le labbra pallide avevano qualche cosa di fiero, di energico.

— Perdono, signorina — mormorò Ettore, sopraffatto.

Miranda fece un atto di spavento.

— Sarebbe egli morto?

— No… non lo dite; lo salveranno, e vi giuro che solo la fatalità…

Ella l' interruppe subito:

— Ditemi dove si trova mio fratello — esclamò — non sono qui per sentire i vostri lamenti.

Ettore chinò il capo.

— L' hanno lasciato nella villetta stessa dove ci siamo battuti — disse — e che appartiene ad un suo amico… l'ingegnere Leoni…

— Ah! so dov' è, vi ringrazio!

Gli volse le spalle, aprì la porta.

— Non mi perdonerete? — balbettò Ettore, stendendo le mani come se volesse trattenerla.

Miranda gli volse un tale sguardo, che gli agghiacciò le parole sulle labbra.

Ella si allontanò rapida, risalì nella vettura ed in breve fu di ritorno alla palazzina.

Tecla era nello stesso stato in cui l' aveva lasciata. Ed in sala l' attendeva Renzo.

Se fosse giunta mezz' ora prima, le avrebbe risparmiato il dolore di recarsi dall' avversario di suo fratello.

L' ufficiale, apprendendo ciò che succedeva nella palazzina, rimase tremante, turbato.

— Io ero venuto a prendervi — disse a Miranda — perchè Umberto ha sempre sulle labbra il vostro nome.

— Sta egli peggio? — chiese la fanciulla reprimendo con uno sforzo di volontà il pianto che la soffocava.

— No, ma la febbre lo rende agitato…

— Ed io che stavo per scrivervi onde lo avvertiste a poco a poco dello stato di Tecla! Io non posso muovermi dal fianco di lei… Ah! mio Dio…. che abbiamo mai fatto perchè la sventura piombi così su noi?

— Coraggio, signorina, li salveremo entrambi.

Miranda crollò con mestizia la testa: non sperava più!

Eppure, benchè il suo volto si mostrasse abbattuto, squallido per il pianto e per la fatica, si notava ancora in lei quell' energia sovrumana, che l' aveva sempre sostenuta, finchè gli altri avevano bisogno del suo aiuto.

Erano già trascorse due ore. Miranda risalì alla stanza della cognata e, fino dal salotto, le pervennero all' orecchio i gemiti di lei.

Entrò pian piano, senza che il medico e la levatrice avvvertissero la sua presenza.

L' uno rimaneva a destra, l' altra alla sinistra del letto cercando contenere Tecla, il cui viso color di morte spiccava luminoso fra i capelli neri, disciolti, scarmigliati.

I suoi occhi, vôlti verso il fondo della stanza, restavano fissi, vitrei, con un' espressione disperata di terrore.

Miranda si avvicinò al dottore, guardandolo affannosa, inquieta.

— La salverete, non è vero, la salverete — sussurrò con accento straziante.

Invece di rispondere, il medico interrogò:

— E vostro frattello?

— Non può adesso venire…

Il volto austero del dottore si abbuiò.

— È male — disse — è male.

Poi pregò Miranda ad uscire dalla stanza.

— No… non mi muoverò più di qui, sono apparecchiata a tutto — disse con accento di risoluzione disperata.

I dolori di Tecla si facevano sempre più strazianti: urli soffocati le uscivano dalla strozza, un freddo sudore le inondava il corpo…

Ed il più terribile si era, che non comprendendo il suo stato, cercava di gettarsi dal letto, si dibatteva per liberarsi dalla stretta del dottore e della levatrice.

Le cameriere eseguivano gli ordini di questa, in silenzio, stentando a reprimere il pianto.

Miranda procurava pregare; ma quanto è difficile la preghiera nell' ora del martirio!

Era una scena dolorosa, spaventevole.

Un grido più forte degli altri partì dal petto di Tecla. Ella fece per rizzarsi, ma cadde inanimata sull' origliere, al momento in cui veniva alla luce una bambina morta.

Il legame che avrebbe potuto ancora slavare l' infelice madre era spezzato: lo spavento, il dolore, avevano uccisa la povera creaturina prima di nascere. Tecla l'avrebbe seguìta.

Ella rimase più ore senza dar segno di vita. Era venuto il prete, l' aveva benedetta, senza che avesse fatto un sol movimento.

In un angolo della stanza, in una culla tutta a trine, da più mesi preparata, coperto da un candido lenzuolo, era il corpicino freddo della bambina.

Miranda si credeva in preda ad un incubo atroce. Ora guardava come istupidita la piccola morticina, ora i suoi occhi si fissavano intensamente su Tecla.

— Ah! per pietà, salvate almeno mia cognata — aveva gridato con strazio.

Il dottore non rispose, perchè dando una speranza averebbe mentito.

Verso sera Tecla si scosse, gli occhi le si apersero, la bocca tremolò.

Miranda che si teneva chinata su di lei, l' udì mormorare:

— Maledetta!

Poi gli occhi rimasero immobili, la bocca semiaperta, leggermente contorta.

Tecla era spirata, uccisa da sua madre, maledicendola!…

Vi hanno dei fatti così inauditi, che la mente invano si sforza a crederli veri. Dopo un terribile urto che scuote, contunde ogni fibra delicata del cuore, l' anima rimane così affranta, annichilita, che non le permette neppure più di accorgersi delle piaghe che la straziano. Poi a poco a poco il pensiero succede alla vertigine ed allora solo si comincia a contemplare in faccia il dolore e ci appare in tutta la sua orribile realtà.

Così succedeva a Miranda.

La morte improvvisa della cognata, quella della creaturina, che non aveva neppure aperti gli occhi alla luce, lo stato di suo fratello, tutto ciò si confuse in un solo peso tremendo che l'oppresse, la rese per qualche ora come istupidita.

E fu bene per la sventurata. Così non udì i maligni commenti dei domestici, che le attribuivano tutte quelle sventure. Si era saputo che Umberto era stato ferito in duello da un giovane che corteggiava la sorella.

Ed era bastato questo a coloro, per fabbricarvi sopra la più assurda delle storielle.

Dicevano a bassa voce che Miranda, all' apparenza così ingenua, onesta, aveva avuto più di un amante, che essi stessi l' avevano sorpresa in giardino col principe Cars, e che questi veniva di notte a trovarla.

Che partito il principe, Miranda si era subito rivolta ad un altro vagheggino, ma il fratello li aveva sorpresi e siccome il nuovo amante si rifiutava di sposarla, i due giovani si erano battuti in duello.

Che Tecla, alle parole di condoglianza di una pia signora, che la credeva informata di tutto, si era svenuta e per lo spavento provato, nello stato in cui si trovava, vi aveva lasciata la vita colla propria creatura.

Così la virtù la più pura, l' onestà più altera, veniva senza riguardo gettata nel fango, calpestata, fatta segno ai dubbi più odiosi, alle più abbominevoli interpetrazioni.

I pochi conoscenti ed i molti indifferenti che erano accorsi alla palazzina, più per curiosità che per dispiacere dell' accaduto, degnarono appena di uno sguardo, di una parola la povera Miranda, che non si riscuoteva dalla sua perplessità, e guardava quell' andirivieni di persone con occhi smarriti.

Ma poi, per una reazione naturale, tornò in sè ed allora solo potè comprendere tutta l' immensità della sventura che la colpiva.

E non era più in tempo a stornarla da sè: tutto era finito.

Lacrime cocenti le scesero dagli occhi, ma in breve si calmarono e Miranda parve acquistare nuovo vigore.

Ella pensò ad Umberto. Le rimaneva di salvarlo, e lo avrebbe fatto.

In quella lotta suprema, Miranda ritrovò il coraggio perduto e quella fede che si accende più viva, quanto più grave è il pericolo, più angoscioso il dovere.

Da quel momento, la giovinetta assistette a tutti i preparativi per i funerali, che dovevano aver luogo l' indomani.

La camera di Tecla era stata trasformata in cappella mortuaria.

La giovine donna era stata distesa sul letto, tutto drappeggiato di nero ed argento, e coperto da uno strato di fiori.

Ella appariva ancora più bella così morta di quello che lo fosse stata in vita.

Le avevano chiusi gli occhi e vestita di bianco: le sue mani, incrociate sul petto, tenevano un crocifisso d' argento.

Presso a lei, sopra un cuscino di raso bianco, coperta di veli, era la sua creaturina.

Sembrava un Gesù bambino in cera; attorno al letto ardevano alti candelabri di argento.

Miranda volle vegliare da sola i due cadaveri: nel salotto vicino pregavano alcune suore.

La notte era alta, il silenzio solenne. Miranda sedeva presso al letto funebre, con un libro di preci nelle mani.

Ma non leggeva.

I suoi occhi stavano fissi sul volto immobile, gelido di Tecla, parendole impossibile che non dovesse più aprire gli occhi, agitare le labbra…..

E risaliva col pensiero gli anni passati con lei, e ritornava tra quei ricordi coll' anima affranta, col cuore spezzato.

Rammentava i dolci sogni fatti con lei su quella creaturina tanto desiderata e che aveva subito spiegate le ali al cielo, dove la madre l' aveva raggiunta.

Tutte le credenze infantili ritornavano allo spirito di Miranda.

La tristezza del luogo, dell' ora, contribuiva a farla entrare in un mondo di visioni, di sogni.

E pensava a quella madre snaturata, che forse in quel momento, in mezzo ai tripudî, scherzava, rideva, mentre la figlia da lei spinta alla tomba, giaceva inanimata su quel funebre letto.

Quindi ricorreva coll' immaginazione al fratello, che ignaro di tutto, chiedeva, nel delirio della febbre, l' adorata consorte.

E di lei non avrebbe più ritrovata che una lunga treccia nera, da Miranda stessa recisa.

Le ore passavano lentamente: di quando in quando un lieve soffio d' aria, entrando dalla vetrata socchiusa che dava sul balcone, agitava la fiamma delle candele, gettando delle ombre mobili sul viso della povera morta.

Ad un tratto pervenne agli orecchi di Miranda come un lungo, doloroso sospiro.

Lo credette effetto della fantasia, perchè era sicura di essere sola nella stanza.

Tuttavia si alzò e ne fece il giro, ma non trovò nulla.

Tornò a sedere al suo posto e poco dopo il sospiro si ripetè.

Miranda, malgrado il suo coraggio, tremò alquanto e volse uno sguardo quasi timido sul cadavere di Tecla.

Rimaneva rigido, nell' immobilità solenne della morte.

Ritornò a fare il giro della stanza ed alzata l' ampia tenda che copriva la vetrata, indietreggiò sbalordita, colta da terrore.

Un uomo era dietro a quella tenda, un uomo dall' abito dimesso, dalla barba folta, arruffata.

Miranda era per chiedere aiuto, ma lo strano individuo, che si era avanzato, la fermò.

— Non parlate, non gridate, non voglio farvi male — esclamò con accento convulso, stendendo supplice le mani.

Miranda si era subito rimessa ed ergendosi dinanzi al letto funebre:

— Chi siete?… Come osate profanare questo luogo sacro alla morte?

L' uomo invece di risponderle fissava lo sguardo stralunato sul viso di Tecla. E vi era della disperazione, della collera, della minaccia in quelle pupille ardenti.

— Ma è proprio morta? — balbettò con voce gutturale e profonda — E dovevo ritrovarla così?

Miranda ascoltava con ansietà, guardando quel viso disfatto, che non riconosceva.

— Chi siete voi? — ripetè.

Egli si volse e le pupille minacciarono tremende.

— Siete voi… e vostro fratello che l' avete uccisa — esclamò — ed io vi odio entrambi, vorrei vedervi al suo posto. Chi sono, dite? Oh! certo, voi non riconoscete più questi lineamenti lividi, alterati, ma guardatemi bene, e vi ricorderete di Michele, l' uomo che un giorno accusaste di assassinio per liberarvi di lui, che vi dava ombra, che faceste rinchiudere nell' ospedale dei pazzi.

Miranda non volle mostrare lo spavento, dal quale, suo malgrado, si sentiva invasa, e nello stesso tempo, in faccia a quella morta, a lei sacra, a colei che aveva tanto odiato Michele, non avrebbe tollerata la di lui presenza.

Sollevando altera ed intrepida la fronte:

— Signore, ve ne prego, andatevene — replicò — io non dirò ad alcuno d' avervi veduto, non chiamerò aiuto, ma lasciate subito questa stanza.

Michele non si mosse: stralunò gli occhi nelle orbite affossate, e strinse così insieme le mani, da farne scricchiolare le ossa.

— Sì, fu lui che ti rubò a me, mi ha colpito nel cuore, ma vivo ancora e sono libero — disse.

Miranda provò indignazione, ribrezzo.

— Andate, andate.

Michele non le dava retta, pareva non accorgersi nemmeno che la giovinetta gli stava presente.

Parlava alla morta ora con tono basso, rauco, ora con una specie d' enfasi drammatica.

— Ti ho amata tanto e tu mi hai odiato; eri come tua madre, una sua parola avrebbe potuto un giorno salvarmi e non l'ha pronunziata. Se ella non mi avesse disprezzato non avrei pensato a te; di Cars non ero geloso, forse che un principe avrebbe sposata la figlia di Livia, della mantenuta del duca di Laval?

Miranda l' interruppe, scuotendolo per un braccio.

— Io non posso tollerare una simile profanazione — disse freddamente — se non vi ritirate subito, vi faccio scacciare dai miei domestici.

Alla minaccia della giovane, Michele rispose con un sorriso insolente ed una stretta di spalle.

— Io rimarrò qui a vostro dispetto — esclamò con fare stravolto — ora non è qui vostro fratello a contendermela.

Fece un passo per avvicinarsi di più al letto mortuario.

Miranda lo respinse con energia, gridando aiuto.

Michele cercò farla tacere, gettandosi furente addosso a lei; ma l' uscio si aprì ed egli ebbe appena il tempo di slanciarsi sul balcone, che le suore entrarono nella stanza.

Miranda giaceva come svenuta su di una seggiola. Le suore corsero a lei, le chiesero cosa fosse accaduto.

La fanciulla sollevò la bionda testa; si era alquanto rimessa.

— Non so, mi ero assopita — rispose — quando, svegliatami di soprassalto, mi parve di vedere un uomo vicino al letto; ma ora comprendo che è stata un' allucinazione prodotta da un brutto sogno, che avevo fatto.

Le suore la credettero, non avvertirono che la vetrata, sotto la tenda, si trovava aperta, spalancata.

Michele era sceso in giardino, agitando furiosamente la testa, coi pugni chiusi, ripetendo a bassa voce:

— Me la pagherà.

Il cancello era sempre aperto, perchè nello sbalordimento in cui si trovavano i domestici ponevano da banda ogni precauzione.

Michele uscì senza che nessuno l'avvertisse e si allontanò con lentezza, dirigendosi verso la sua abitazione.

Di quando in quando si arrestava, per mormorare fra sè qualche parola, poi scuotendo la testa, riprendeva il suo cammino.

Quando fu giunto dinanzi alla sua casa, udì il suono del pianoforte e scorse le finestre illuminate.

Vi era veglia da Livia. Michele l' aveva dimenticato. Ma quei suoni che riempivano l' aria di una vibrazione sonora, allegra, provocarono in lui un accesso violento di collera.

— Ella danza sul cadavere della figlia — mormorò in tuono lugubre, soffermandosi anelante, molle di sudore, colla schiuma alle labbra.

Poi diede in una risata subitanea, stridula, e la sua fisonomia si cambiò del tutto.

Salì risoluto le scale, aprì la porta, la serrò senza alcun fracasso e senza togliersi il cappello, colle mani nelle tasche dei calzoni, entrò in sala.

Era più affollata del solito: si rideva, si giuocava, si cantava.

Livia, in un abito audacemente scollacciato, ascoltava con le labbra composte ad un sorriso di finezza beffarda la dichiarazione appassionata di un vecchio barone, pieno di acciacchi.

Pallina, presso al pianoforte, accompagnata da un giovinotto mingherlino, etico, cantava un' arietta popolare, piena d' audaci sottintesi, che facevano sbellicare dalle risa alcune giovani donne, in seriche vesti, sdraiate su molli cuscini.

L' entrata di Michele non fu notata.

Egli si avviò difilato verso Livia. Questa aggrottò alquanto le ciglia, notando il disordine dei suoi abiti, il cappello a sghimbescio, ma non vide quanto egli era pallido e come aveva terribile lo sguardo.

Una sedia era libera accanto a lei.

Michele vi sedette, incrociò una gamba sull' altra e si mise a dondolarsi.

Il vecchio barone lo guardò con attenzione curiosa, trovando strano che un conte, come credeva Michele, benchè padrone di casa, si permettesse tanta libertà.

Livia fulminò Michele collo sguardo.

— Di dove venite? — chiese con brusco piglio.

— Vengo dal visitare una bella morta — proruppe a voce alta il complice della contessa — anzi due morti.

Quelli che lo sentirono si accostarono.

— Una coppia addirittura! — esclamò un giovinetto che faceva le sue prime armi in quella società — Sono forse due innamorati, che non potendo vivere insieme, hanno almeno voluto essere uniti nella tomba?

Uno scoppio di risa vivaci l' interruppe.

Pallina aveva cessato dal cantare e si mischiava nel gruppo, che andava facendosi più compatto attorno a Livia.

— Sareste voi capace di seguirne l' esempio? — proruppe la vivace fanciulla.

— Perchè no, se voleste essermi compagna?

Pallina si strinse con un leggero brivido nelle spalle.

— Cercatene un' altra — mormorò — amo troppo la vita.

Michele ascoltava quei discorsi con aspetto freddo e sprezzante. Livia, al contrario, era alquanto turbata.

— Con queste chiacchiere — esclamò — non sappiamo intanto chi siano i due suicida!

— E chi vi ha parlato di suicidio o d' innamorati? — replicò Michele con flemma — I morti che ho veduti io erano…

Troncò la frase per soffarsi tranquillamente il naso.

Alcuni risero, altri fecero un moto d' impazienza.

Livia parve in preda ad un' agitazione febbrile.

— Erano? — domandò con accento convulso.

— Madre e figlia — ribattè Michele gonfiando le gote.

Livia rimase perplessa: non capiva, nè sapeva che pensare di quelle reticenze.

— Li hanno forse assassinati? — chiese Pallina senza emozione.

— Sono morti di miseria?

— Ma niente affatto — ribattè pian piano Michele — la madre era una giovine donna, di una bellezza ideale, bruna come una madonna del Murillo e che molti di voi avranno spesso incontrata alla passeggiata delle Cascine.

— Il suo nome? — chiesero più voci.

— Un po' per volta, signori — soggiunse Michele con calma dignitosa e benissimo simulata, adocchiando Livia, che aveva cambiato più volte colore — la bella giovane in questione era figlia di una donna famosa per la sua vita galante, che l' età non le ha fatto smettere.

In Livia fu un movimento subito represso.

Era possibile che Michele alludesse a lei? Un' onda di freddo le corse nelle vene.

— Sua figlia le assomigliava? — interruppe Pallina ridendo.

— Quanto una colomba può assomigliare ad uno sparviero — disse Michele senza batter ciglio — la madre era tanto vile ed abbietta da porre all' incanto la propria creatura; la figlia preferiva la miseria al disonore.

— Era una fanciulla romantica — ribattè con noncuranza Pallina.

Michele le rivolse uno sguardo indefinibile di disprezzo: quella frase gli parve il colmo della sfacciataggine ed un insulto alla morta.

Ma trattenne sulle labbra le orrende parole che gli vennero alla mente: continuò ad essere freddo, ironico.

— Certo non aveva il tuo spirito — ribattè con un accento che non potè colpire la giovinetta, la quale non lo comprese.

Livia combatteva con energia il proprio turbamento, ma nei suoi occhi leggevasi l' ansietà, le sue labbra scolorite si muovevano senza lasciarne uscire alcun suono.

— Orsù — aggiunse ancora con tono sguaiato Pallina — quella fenice aveva infine trovato marito?

— Se avesse voluto poteva sposare un principe, che le offrì in ginocchio la sua mano — proferì con energia Michele — ma ella scelse un giovane del quale era innamorata.

— Il nome di quel fortunato mortale? — chiesero alcuni, stanchi di quell' aspettativa, che finiva per togliere ogni interesse al fatto.

Michele girò i pollici, e guardandosi la punta degli stivali:

— Non tanto fortunato — rispose con voce roca e stridula che echeggiò fra il silenzio assoluto — perchè egli si trova moribondo per una grave ferita al petto, avuta in duello…

Livia fece un balzo sulla seggiola e guardò il suo complice: tutta l' anima le era passata negli occhi.

— Indovino di chi si tratta — esclamò Pallina con franchezza ed impeto — È Clementi, l' avversario di Ettore.

Il cerchio compatto che era attorno a Michele non stette più fermo e muto: molti si agitarono, sorsero diverse voci.

— E dite che sua moglie è morta?

— Come è ciò accaduto?

— Ettore deve averne un gran rimorso.

Livia sola non parlò, ma i suoi occhi, sempre fissi su Michele, scagliavano acerbe minaccie, erano pregni di collera.

— Adagio… signori… un po' per volta risponderò a tutti — replicò Michele, la cui voce pareva essersi fatta commossa — sì… Pallina, hai indovinato; è proprio di Clementi che si tratta. Sua moglie ignorava che egli si fosse battuto in duello e cercavano tutti nasconderglielo, trovandosi la disgraziata in istato d' inoltrata gravidanza.

La faccia di Livia era divenuta spaventosa: le sue mani convulse strappavano le ricche trine dell' abito. Ma nessuno badava a lei, tutti intenti al racconto di Michele.

Le donne sembravano commosse. Anche Pallina si era fatta seria e cambiò accento, domandando:

— Ella lo seppe lo stesso?

— Chi ebbe tanto coraggio di dirglielo? — chiese un'altra.

Una risata crudele cadde dalle labbra del complice di Livia.

— Chi? — proruppe con forza. — Ma… sua madre; eppure ben sapeva che quella rivelazione avrebbe uccisa sua figlia e la creatura che la sventurata aveva in seno.

Un fremito d' orrore circolò fra quel gruppo di uomini e donne, pure avvezzi ad assistere con noncuranza ai drammi della vita, scettici, buontemponi.

Con uno sforzo supremo Livia si rizzò ed appoggiando la mano sulla spalla di Michele, disse con voce tronca, affannosa, irriconoscibile:

— Tu menti, menti!

Gl' invitati la guardarono stupefatti. Michele solo rimase impassibile e battendo le mani sulle ginocchia:

— Perchè dovrei mentire? — chiese con placidezza alzando gli occhi su di lei, senza spaventarsi alla terribile minaccia, che eravi nei lineamenti contraffatti della contessa — Ah! capisco, al tuo cuore deve far male questa rivelazione, tu che saresti stata una madre così tenera, se avessi avuto una figlia…

Livia ricadde sulla seggiola, senza aggiungere parola, ma nei suoi sguardi eravi dipinta l'ira arrivata all' eccesso. Michele aveva trovato modo d' insultarla vieppiù crudelmente, avendo l' aria di darle lode.

Gl' invitati pensarono che la contessa, impressionabile per natura, avesse manifestato in tal modo l' orrore provato per l' azione di quella madre infame; ma Pallina in quello scatto improvviso, intravide un mistero.

Non era la contessa, infine, che aveva provocato quel duello fra Ettore e Clementi?

Non era lei che le aveva promesso di vendicarla di Miranda? Qual era il motivo dell' odio di Livia contro quella fanciulla?

Certo la contessa Edvald non aveva mai sfogliato dinanzi a Pallina il libro della sua vita e la giovane ignorava il passato della sua falsa parente; ma nella sua malizia e perspicacia, comprendeva che quel passato doveva essere molto nero.

Ella pertanto cercò con malignità di stuzzicare ancora Michele, per vedere se poteva scoprire qualche cosa.

— Insomma, per causa di quella madre snaturata, la signora Clementi è proprio morta? — domandò.

Livia rivolse la sua collera contro Pallina:

— Che ne importa a te?

— Ed a voi?

Gli sguardi delle due donne s' incrociarono ed in quelli della contessa eravi una flamma così ardente, che Pallina chinò le ciglia.

Vi fu silenzio.

Il cerchio a poco a poco si disgiunse e nessuno si curò più della lugubre avventura.

Michele lasciò il suo posto ed il vecchio barone ricominciò i suoi assalti contro Livia.

Ma la contessa, per quanto cercasse mostrarsi disinvolta, non ci riusciva. Le lumiere rischiaravano la sua livida faccia, le si scuoteva il corpo con moti convulsi, moveva le labbra in un tremito.

Michele non aveva mentito? Sua figlia era proprio morta? Ella se la vedeva dinanzi immobile, stecchita, ma cogli occhi sbarrati, fissi su di lei, colla mano tesa in atto di maledirla.

Non provava dolore, rimorso, ma paura: non pensava a rivolgerle un sospiro di compianto, un pensiero di compassione, ma avrebbe voluto vederne il cadavere, assicurarsi coi suoi occhi che tutto era finito.

Pallina era ritornata al pianoforte, cantava, ma dallo specchio che aveva davanti non perdeva un gesto, un cambiamento della contessa.

L' espressione sinistra di quei lineamenti le produceva in certi istanti un moto di stupore, in altri le gelava il cuore, l' intimidivano, la gettavano in un mondo di idee, di supposizioni.

Ad un tratto Pallina cercò con lo sguardo Michele e non lo trovò. Dove poteva essere andato? Era curiosa di saperlo.

Approfittando di un momento in cui Livia si era avvicinata ad una tavola da giuoco e non badava a lei, sgusciò inavvertita dalla sala e si diresse all' oscuro verso la stanza del falso conte.

La porta era socchiusa e da quell' apertura usciva un filo di luce. Pallina sporse la testa e guardò.

Michele era seduto sopra una piccola branda, coi gomiti appuntati alle ginocchia e la testa fra le mani. Egli mandava confusi lamenti, balbettava parole indistinte, fra le quali parve alla giovinetta di udir più volte pronunziare il nome di Tecla.

Pallina rimaneva immobile nell' ardente brama di scoprire qualche cosa; ma quasi tosto sentì un fruscìo d' abito dietro le spalle e rivolgendosi si trovò dinanzi la contessa Edvald.

Ella era livida dalla collera: i suoi occhi si fissavano sulla giovinetta freddi, duri, minacciosi.

— Che fai tu qui? — domandò.

Pallina arrischiò una sguardo timido, pauroso: un tremito l' aveva investita.

— Nulla — rispose cercando invano assumere un'aria disinvolta.

Livia con un gesto imperioso le additò la porta che dal corridoio si passava in sala.

— Vattene — esclamò — e ti proibisco di muoverti di là finchè io non te l' ordini.

Pallina ebbe come un impulso di ribellione.

— E se io non volessi obbedirvi? — soggiunse procurando mostrarsi ardita, mentre le tremava la voce.

Livia le calcò una mano sulla nuda spalla.

— Vuoi dunque ti ricacci nel fango donde ti ho tolta? — soggiunse con tale accento che dominò la giovinetta, le fece chinare umilmente il capo.

Pallina ricordava troppo le sofferenze patite prima d' incontrarsi con Livia e non sentiva il desiderio di provarle ancora. E capiva che la contessa era capacissima di fare quanto diceva; la paura la vinse sulla curiosità, perciò si affrettò ad andarsene.

Livia s' inoltrò freddamente nella stanza di Michele, ne chiuse l' uscio.

Al rumore che fece, il suo complice alzò gli occhi, ma non parve affatto commosso alla terribile minaccia che si leggeva sui lineamenti scomposti della contessa, non si alzò.

— A noi due — disse Livia, piantandosi ritta dinanzi a lui.

Michele non si degnò risponderle.

Livia fremè di rabbia.

— Ah! tu cerchi ancora sfidarmi. Ma non lo sai, miserabile, che se io voglio, posso questa notte stessa farti arrestare?

Michele volse su di lei un gelido sguardo, e non dette altro segno di emozione, che un lieve tremolìo delle labbra.

La contessa proseguì:

— Tu pensavi stasera colle tue fole spaventarmi?

Michele incrociò le braccia sul petto e con un sogghigno crudele:

— Ah! tu speri ancora che siano fole? — esclamò — ma io l' ho veduto il cadavere di tua figlia, che dannasti a morte colla sua creatura… Ah!… tu non eri contenta fino a che non avevi la sua vita: io l' odiava, ma a costo di tutto avrei voluto vederla viva.

Per un momento, Livia rimase immobile, senza poter fare un gesto, o proferire un accento: le vene del'e tempia aveva enfiate, gli occhi fissi le s'iniettavano di sangue.

— Tu l' hai veduta? — replicò con voce soffocata, battendo i denti — E come hai potuto entrare nella palazzina?

— Ho seguìte le indicazioni che tu desti un giorno al principe Cars — rispose Michele con un riso stridulo, befardo — mi sono introdotto nella stanza di Tecla… Ah! non era un convegno d' amore che mi attendeva; io la vedo, sempre là, distesa, gelida, muta. E sei tu che hai commesso il vile assassinio.

Si era alzato ed aveva afferrata Livia per un braccio, stringendolo colle dita ferree, in modo da lasciarvi un' impronta.

Aveva le pupille infuocate.

— Non so chi mi tenga dallo strozzarti — balbettò.

Livia non mostrava alcuno spavento.

— Ebbene, e poi — disse ritrovando la sua calma — forse che la faresti rivivere? Mi accusi, ma chi mi ha spinta ad andare a lei, se non tu?

— Mènti — rispose infuriato Michele — io ti avevo riferito l' esito del duello e suggerito di recarti da Miranda; era lei che volevo colpire, lei che è sorta di nuovo stanotte fra me e la morta, che mi avrebbe fatto scacciare dai servi, se non mi fossi allontanato.

Michele abbandonò il braccio di Livia per stringere il pugno: la contessa riprese il suo vigore morale.

— E le hai detto chi eri? — chiese anelante.

— Sì…

— Ti sei condotto proprio da fanciullo, ed è per rimediare alla tua sconfitta che pensasti ingiuriarmi, che mettesti nell' anima di Pallina un fiero sospetto?

— Io? — gridò Michele, la cui voce espresse un trasporto di collera tosto represso.

— Sì, tu… e vedi, se quella fanciulla sapesse domani chi si nasconde sotto le spoglie del conte e della contessa di San Secondo, non esiterebbe a venderci… e vuoi giuocare così la tua libertà, la tua vita, lasciando trionfare la nostra principale nemica, Miranda…

Michele chinò la testa. Livia lo guardò con disprezzo.

— Orsù… questo è il momento di mostrarsi forti, di prendere un partito decisivo.

— Io so già quello che mi resta a fare — disse Michele.

Livia fece un movimento

— Lo dirai anche a me…

Ella s' interruppe, perchè vide il volto di Michele animarsi, gli occhi divenirgli brillanti.

— A te? E pensi che potrei ancora viverti vicino? — esclamò — T' inganni, Livia: la morte di tua figlia spezza ogni nostro legame, io ti sopportavo perchè nutrivo la speranza di riavvicinarmi per mezzo tuo a Tecla: ero quasi sicuro che una volta sgombrata la via da Clementi e sua sorella, tua figlia si sarebbe rifugiata presso di noi! Ma adesso…

Rise lugubremente e con supremo disdegno:

— Io ti odio, ti abborro — seguitò — non posso guardarti senza orrore, tu mi hai minacciato di farmi arrestare … ed hai creduto intimidirmi… ti sei sbagliata, Livia… io non ti temo… ed anelo anzi il momento di poter rivelare innanzi a tutti il nostro passato, i nostri fini, i tuoi delitti…

La contessa stringeva le labbra con moti convulsi. Oh! non vi era da pensare che la minaccia di Michele fosse vana: capiva che egli avrebbe mantenute le sue promesse; pure rispose:

— Non ti comprendo: se minacciai, tu oltraggiasti, ma qualunque cosa possiamo aver detto l' una e l' altro in un momento di agitazione, non è una ragione per odiarci e perderci.

— È però necessario che ci separiamo — disse Michele con una certa alterigia.

Livia cambiò ad un tratto accento.

— Ma dove vuoi andare? — chiese quasi con dolcezza, mentre i suoi occhi fissi su di lui avevano perduto il loro lampo schernitore, per assumere un' espressione tenera.

— In qualunque luogo dove non possa incontrarti.

Ella si morse le labbra.

— Michele, tu giuochi una cattiva partita.

Uno scroscio di risa fu la risposta di Michele.

— Sempre migliore, che se dovessi vincerla con te — disse quindi con insolenza. — Tra noi non v' è più questione di amore, di interesse: i nostri conti sono regolati, ci siamo ingannati abbastanza a vicenda: la mia risoluzione è presa, nè sarai già tu Livia che mi farai recedere.

Ella voleva aggiungere parola, fare un ultimo tentativo affinchè non l' abbandonasse.

Michele, però, senza più degnarla di uno sguardo, aprì l' uscio della camera ed uscì.

La contessa volle richiamarlo, ma il furore violento dal quale era dominata le strozzava in gola la voce.

Quando potè aprire la bocca, mandò una terribile bestemmia, un' imprecazione.

La contessa Edvald, la snaturata madre, aveva già dimenticato che la povera Tecla era morta per lei; ma quei due cadaveri avrebbero gridato vendetta al cospetto di Dio!

Umberto riposava alquanto tranquillo, dopo una settimana di febbre, di delirio.

Il chirurgo in quella stessa mattina, dopo un attento esame, aveva assicurato che se la cura ordinata continuava ad essere eseguita con regolarità e se avessero evitata ogni emozione al ferito, egli avrebbe garantito per la sua vita.

Certo il polmone destro era gravemente offeso, ma poteva cicatrizzarsi ancora e sebbene Clementi non dovesse sperare di riacquistare la forza, la vitalità di prima, tuttavia non vi sarebbe stato da temere per la sua esistenza.

Umberto era sempre nella villetta del suo amico, una casina semi-nascosta da piante di acacie, dove non si udiva alcun rumore, un ritiro prezioso per un ammalato.

Erano le dieci di sera ed il ferito dormiva sempre. Una lucerna posata in un angolo della stanza, lasciava il suo viso nell' oscurità.

Presso al letto eravi una figura bianca, che di quando in quando si chinava per sentire il respiro del ferito e rialzandosi, i suoi occhi si rivolgevano con espressione di riconoscenza al cielo.

Quella bianca figura era Miranda. Come avesse potuto resistere a tutte le scosse provate, ella stessa non avrebbe saputo dirlo.

Forse era stata sostenuta dalla calma della sua coscienza, dalla fede in Dio, dall' amore fervente per il fratello.

Miranda aveva date tutte le disposizioni per i funerali di sua cognata e dell' angioletto, che l' aveva preceduta in cielo. Assistè a tutti i preparativi, senza far echeggiare le stanze delle sue grida, dei suoi singhiozzi; il suo dolore era muto, concentrato, lo sguardo aveva pieno di amara tristezza, di profonda rassegnazione.

Prima che il cadavere di Tecla e della sua creaturina fossero racchiusi nella cassa, Miranda li baciò a lungo, mormorando pian piano delle parole, che Dio solo doveva raccogliere; poi in una vettura chiusa, seguì il convoglio funebre al cimitero, assistette al seppellimento delle due salme, che furono deposte in una tomba preparata presso quella dove riposavano da lunghi anni i genitori di Miranda.

Quando tutto fu finito, la giovinetta non frenò più i singulti.

Pianse a lungo, con spasimo, bagnando di lagrime quelle fredde pietre, che racchiudevano tante persone care al suo cuore.

La cameriera che l' aveva accompagnata, cercò allontanarla da quel luogo.

— Pensate a vostro fratello, signorina — le disse.

Miranda si scosse e, volgendo gli occhi abbattuti verse di lei:

— Hai ragione — mormorò — è l' unico vincolo che mi resta, e Dio non sarà così crudele da spezzarlo.

All' indomani, in compagnia di Renzo e della sua cameriera, si recava alla villetta dell' ingegnere Leoni.

Umberto in preda alla febbre, non riconobbe la sorella.

Miranda potè contemplarlo a suo bell' agio: come era cambiato in pochi giorni!

Il medico non le nascose che le conseguenze della ferita, già quasi esternamente rimarginata, apparivano minacciose, ed ordinò le più rigorose cautele.

Miranda fece tacere le sue tremende angoscie e si pose al capezzale del fratello, giurando fra sè, che l' avrebbe ad ogni costo salvato.

E in quella notte, vedendolo così calmo, la giovinetta apriva il suo cuore alle più soavi speranze. Eppure la sua fronte non era sgombra da ogni nube di melanconia, i suoi occhi non nascondevano l' inquietudine e la tristezza.

Ella desiderava e temeva al tempo stesso il risveglio del fratello. Riconoscendola, egli non avrebbe mancato di chiederle nuove di Tecla.

Ed era affatto impossibile rivelargli la verità; bisognava sostenere le più grandi menzogne.

Avrebbe Miranda indietreggiato dinanzi a ciò? La forza, l' abnegazione di cui aveva dato prova sino allora, avrebbero continuato a sostenerla?

Umberto, anche in mezzo alla febbre, aveva distinto più volte un pallido viso che si chinava amorosamente sul suo letto ed aveva sentito una mano morbida, fresca, posarsi sulla sua fronte.

E credeva fare un caro sogno.

Quante immagini sorvolavano dinanzi al suo cervello, quante gradite visioni avevano occupati i suoi brevi sonni!

Anche nel delirio, aveva sempre sulle labbra i nomi di Tecla o di Miranda.

La giovinetta non voleva fidarsi a veruno per rimanere vicino ad Umberto.

Piuttosto, quando la stanchezza l' opprimeva, si assopiva sulla poltrona presso al letto, pronta a balzare in piedi al minimo rumore, ad aprire gli occhi ad ogni movimento.

La cameriera entrò portando una tazza di brodo sopra un vassoio.

Miranda col dito fece segno di non far rumore, poi riguardò il fratello.

Egli si agitava: un po' di sangue gli salì alle gote. Stava per svegliarsi.

La cameriera, posato il vassoio su di un tavolino, si ritirò pian piano.

Umberto aprì gli occhi. Benchè la camera fosse quasi al buio, egli ravvisò tosto i lineamenti della sorella.

— Miranda — esclamò stupefatto e lieto — tu qui?

Ella si sforzò a sorridere, mentre sentiva le lacrime salirle agli occhi.

— Ho rotta la consegna — disse, abbracciandolo — per assicurarmi che il tuo amico non mentiva, ed il tuo stato non era così grave come temevo.

— Infatti, io mi sento quasi guarito — esclamò Umberto, sollevandosi alquanto sul guanciale, senza soverchio sforzo.

Miranda lo guardò con tenerezza, poi gli fece bere alcuni sorsi di brodo.

— E Tecla? — chiese intanto il ferito con ansia.

Il sorriso non abbandonò le labbra di Miranda.

— Ella ignora sempre che tu sei ferito — rispose — Ha creduto al tuo biglietto; però avendo udito una parte del mio colloquio col signor Danieli, le sono venuti dei sospetti, dubita che tu sia ammalato e, per tranquillizzarla, ho dovuto prometterle di recarmi qui, non potendo farlo ella stessa, per non nuocere alla creatura, che deve venire al mondo.

Umberto ascoltava con attenzione la sorella, non togliendo gli occhi dal viso di lei.

La giovinetta non chinò un solo istante la fronte, il suo sguardo rimase dolce, profondo, il suo sorriso soggiogò l' anima del ferito.

— Cara Tecla — mormorò il giovine — ella deve soffrire ad aspettarmi, però tu ritonerai a lei per dirle che la mia malattia è una cosa da nulla e conto fra pochi giorni di esserle vicino, non lasciarla più.

— Ho prevenuto già il tuo desiderio — rispose con semplicità Miranda. — La mia cameriera, che qui mi ha seguìta, le ha già portate tue nuove. Tecla sa che tu non corri alcun pericolo; nonostante mi ha scongiurata di non togliermi dal tuo fianco, rimanendo così più tranquilla. Rosina va e viene ogni giorno da Tecla a noi, e se tua moglie avesse bisogno di me, mi troverei subito pronta. Io non ho potuto resistere al desiderio di recarti le mie cure: lontano da te, morivo d' inquietudine.

Umberto la strinse fra le sue braccia, la baciò ripetute volte.

— Sei proprio convinta — le sussurrò — che per Tecla non abbiamo nulla a temere?

Un nervoso pallore, prodotto da una straziante emozione, si diffuse sul bel viso di Miranda.

— Senza dubbio — rispose con vivacità, tenendo abbassato il capo, che appoggiava al petto del fratello — se così non fosse, sarei così tranquilla, rimarrei qui?

Umberto ne fu persuaso ed allora non mostrò più che la gioia ineffabile che provava nell' avere presso di sè la sorella.

Rimase sorpreso nel sentire che era stato per tanti giorni colla febbre, in pericolo, parlò delle delicate premure del suo amico Renzo e della prodiga ospitalità dell' ingegnere Leoni.

Poi, preso l' abbrivo, ricominciò a discorrere di Tecla, della sua creatura, dell' avvenire he tornava ad apparirgli luminoso, ridente.

Di quando in quando beveva un sorso di brodo, che diceva fargli così bene, ma non ascoltava Miranda, che con dolcezza gl' imponeva silenzio.

— Oh! lascia che io mi sfoghi — esclamava Umberto, sempre più affettuoso — mi trovo così felice, in questo momento…

La presenza di sua sorella ridestava in lui un' intera serie di sensazioni sopite, lo conduceva fra le gioie del passato, gli apriva l' anima alle più care speranze.

Finalmente le sue forze s' indebolirono, la voce gli divenne velata, e ricadendogli il capo sul guanciale, si addormentò.

Miranda non avrebbe potuto fare lo stesso.

Lo stato del suo animo era deplorevole. Aveva potuto resistere, era uscita trionfante dalla prima prova, ma a prezzo di quante torture, di quali strazî!

La notte fu lunga per la povera fanciulla, che senza mai chuidere occhio, mulinava sempre nella mente di trovare un mezzo per far palese a poco a poco lo verità al frattello.

Questo pensiero volteggiava senza posa nella sua testa indolenzita, cagionandole molto dolore, senza trovare una soluzione.

Eppure Miranda non si lagnava, e per risparmiare una lacrima al fratello, si sarebbe condannata a qualsiasi supplizio.

Il medico giunse alle nove del mattino, quando Umberto si risvegliava e rimase assai soddisfatto.

L' aspetto del ferito era quieto, il colorito meno acceso, il polso regolare.

— Ah! quanto vi debbo, dottore — disse il giovine con un sorriso di gratitudine — senza di voi, ero spacciato.

— Dite piuttosto che sono stato secondato a meraviglia: tutti hanna avuto per voi un' istancabile premura; vostra sorella poi è stata un angelo d' abnegazione.

Miranda rossa, confusa, chinava gli occhi.

— Io non ho fatto che il mio dovere — disse.

— Ma non tutti sanno eseguirlo come voi, signorina — interruppe il dottore — però di una cosa devo lamentarmi.

Miranda lo guardò con ansia, ma il medico rivolgeva in quel momento il discorso ad Umberto, ed ella non potò notarne l' espressione del viso.

— Sono otto giorni — continuò il dottore — che vostra sorella non va a letto.

Umberto si scosse

— Otto giorni — replicò. — E tu me lo celavi, Miranda?

La giovinetta si era rinfrancata.

— Ma io ho dormito benissimo su quella poltrona.

Il dottore scosse il capo.

— Non basta: voi dovete essere sfinita ed è tempo che andiate a prendere un po' di riposo.

— Il dottore ha ragione — esclamò con dolcezza e premura Umberto — e mi faresti molto dispiacere, se tu non l' obbedissi.

— Tanto più — aggiunse il medico — che non vi mancherà il tempo di assistere vostro fratello, giacchè, colla mia solita franchezza dirò, che se sono assai contento dell' andamento della malattia, egli non può dirsi intieramente guarito, e gli abbisognerà ancor molta cura e prudenza. Per oggi qui potrà surrogarvi la vostra cameriera, che mi sembra molto svelta ed abile; il signor Renzo, che vidi prima di venir qui, verrà a passarvi la nottata.

— Quanti disturbi per me — replicò Umberto.

Ed aggiunse con vivacità:

— Quando credete, dottore, che io possa ritornare alla mia palazzina? Ho mia moglie che mi aspetta.

Miranda volse uno sguardo straziante al dottore. Questi, senza osservarla, rispose con calma:

— La rivedrete appena sia chiusa la ferita: adesso sarebbe porsi ad un rischio inutile, e vostra moglie stessa non vi approverebbe…

— E quello che dissi anch' io — soggiunse Miranda.

E rassicurata da una rapida occhiata del medico, lo lasciò solo col fratello, per dare alcune istruzioni alla sua cameriera.

Un momento dopo, ritornava al capezzale del ferito.

— Non vai a riposare? — le chiese Umberto.

— Fra poco — rispose Miranda, nella quale la stanchezza, l' emozione si facevano manifeste nella voce — attendo il ritorno di Rosina.

Il medico lasciò alcune nuove prescrizioni e promise di ritornare verso sera.

Umberto prese un cordiale ammanitogli dalla sorella, dicendo con un sorriso:

— Mi sento così in forze che vorrei alzarmi, e per quanto dica il dottore, non rimarrò qui più a lungo.

— Lo spero anch' io — esclamò Miranda non volendo togliergli quella dolce illusione.

Poco dopo si sentì un rumore di passi e si bussò all' uscio.

— Avanti — disse Miranda.

Era Rosina un po' rossa e commossa.

Gli occhi di Umberto brillarono nel vederla.

— Mi porti nuove di Tecla? — esclamò.

— Sissignore — rispose la cameriera tentando sorridere.

— Dimmi subito come sta.

— Benissimo, signore, ma non si muove dalla camera. Però il dottore assicura che vi sarà ancor tempo prima di essere madre. La signora attende sempre con ansia sue notizie e prega la signorina Miranda di scriverle, ma di non muoversi di qui.

— E chi rimane presso a Tecla? — chiese Umberto volgendosi alla sorella.

— Di giorno vi è una suora di carità, stata nostra compagna di collegio — rispose Miranda senza esitare — alla notte dorme presso di lei Rosina: è vero?

— Sissignora.

— Vedi adunque che non hai da metterti in apprensione — aggiunse la giovinetta — e devi pensar solo a guarir presto.

— E tu a prendere un po' di riposo — aggiunse Umberto, gettando uno sguardo triste sulla sorella, che era pallidissima e si reggeva a stento.

— Ti obbedisco, Umberto — disse baciandolo con affetto.

Poi, rivoltasi a Rosina, le spiegò le cure che doveva prestare al ferito, durante la sua assenza; quindi, salutato di nuovo il fratello, si ritirò.

Umberto si era posto a sedere sul letto, sostenuto dai guanciali, e guardava intorno alla stanza con un debole sorriso.

— Apri la finestra, Rosina — disse ad un tratto — un po' d' aria mi farà bene.

La cameriera obbedì.

La camera, dove era stato posto Clementi, come sappiamo, era a pian terreno, la finestra poco alta dal suolo.

Umberto, dal suo letto, poteva osservare il modesto giardino, le aiuole sparse di fiori, i cespi di malverose, di geranii, seguire il volo delle farfalle, aspirare l' aria pura della mattina, che gli rinfrescava il sangue, gli poneva in cuore una dolce serenità, una pace profonda.

Non si udiva il minimo sussurro, all' infuori del dolce tubare dei colombi e del garrito degli uccelli. Frammezzo alle acacie, il sole proiettava i suoi riflessi d' oro.

Appoggiato ai guanciali, collo sguardo fisso su quel delizioso quadretto della natura, Umberto godeva di un riposo squisito. Il respiro gli sollevava regolarmente il petto, ancora fasciato da finissime e larghe bende.

Rosina, che si era seduta in un angolo, lo guardava con una commozione, che non le era possibile dissimulare.

Umberto si volse per chiederle da bere. Ella si affrettò a porgergli un bicchiere pieno di latte, colla mano che le tremava.

Il giovane si accorse che la cameriera era assai pallida: pareva sofferente.

— Hai fatta la strada a piedi per venir qui? — le chiese.

Il viso di Rosina si fece rosso.

— Ho presa la diligenza fino al poggio — rispose.

— Mi sembri un po' stanca.

— Oh! niente affatto.

— Quando tornerai dalla mia signora?

— Appena la signorina Miranda si sarà alzata.

— Mia sorella ha duopo di molto riposo — disse con tono affettuoso Umberto — e non bisogna disturbarla.

— Io non lo farò certamente — esclamò con vivacità Rosina.

— Tu devi recarti lo stesso dalla mia Tecla…

Rosina fece un movimento e sembrò impacciata.

— Non posso già lasciarlo solo.

— Parli per me? Sto molto meglio e di nulla mi abbisogna; rimarrei assai più agitato se tu tardassi a far ritorno a Firenze lasciando in pensiero mia moglie.

L' impaccio di Rosina si accrebbe.

— Ma la signorina Miranda mi ha ordinato di non muovermi di qui.

— Mia sorella non ti sgriderà, stanne certa, giacchè le dirò, che sono stato io ad inviarti da Tecla: guarda… metti qui alla portata della mia mano quel bicchiere, poi prendi quel libro legato che vi è sulla tavola, mettivi sopra un foglio di carta bianca e dammi una penna; voglio scrivere una riga, che porterai a mia moglie.

Rosina, dinanzi alla manifestazione di quella volontà ferma e decisa, dovette obbedire.

Umberto vergò con mano un po' tremante poche parole piene di passione; ma quando fu il momento di consegnare il foglio a Rosina, rimase sorpreso vedendole gli occhi pieni di lacrime.

— Perchè piangi? — le chiese.

La cameriera cercò superare la sua emozione.

— Di nulla, signore — balbettò — sono contenta di vedervi star così bene….

— Povera Rosina, ti ringrazio; bada di non perdere quel biglietto, e fa' a modo mio, vattene subito, te ne sarò tanto grato e vedrai la tua padrona contenta: io non ho bisogno d' altro.

Rosina uscì assai turbata e passò nella camera dove si era ritirata Miranda.

La giovinetta si era gettata vestita su di un letto e, vinta dalla stanchezza, si era profondamente addormentata.

Rosina non ebbe cuore di svegliarla e lasciata pian piano la stanza, si ridusse in un salotto attiguo alla camera del ferito, così si sarebbe trovata pronta per qualsiasi evento.

La brava ragazza sedette su di una poltrona, abbandonandosi a tristi riflessioni.

Ella si era assai affezionata ai suoi padroni, e all' idea dell' inganno in cui bisognava lasciare Umberto, al pensiero della parte che le toccava sostenere, soffriva molto.

Il tempo passava e poco alla volta la testa di Rosina si era rovesciata indietro e nella tiepida atmosfera del salotto, fra il silenzio che vi regnava, si addormentò.

Umberto si era messo a sfogliare il libro, che gli aveva servito di appoggio per scrivere a Tecla.

Era un giornale illustrato. Dapprima prese un vivo interesse alle accurate incisioni, poi si trovò stanco e preferì abbandonarsi alla contemplazione di prima, a guardare gli scherzi del sole tra le fronde degli alberi, a seguire il volo capriccioso degli uccelli.

Ed intanto formava i più deliziosi progetti.

— Se Leoni volesse vendermi questa villetta, l' acquisterei volentieri — pensava — Miranda e Tecla amano la campagna; l' aria fresca, pura, rinforza i fanciulli… e chi mi dice che io non debba averne col tempo una nidiata?

Sorrideva, parendogli di vedere quei piccoli angioletti rincorrersi fra le aiuole del giardino, sorvegliati da sua moglie, adorabile nella maternità, affaccendata, vivace; di Miranda, tenera, buona, affettuosa, ma dolcemente severa coi nipotini.

Ed egli se ne sarebbe stato spettatore di quelle intime scene domestiche, nè avrebbe cercate altre distrazioni, contento delle gioie di famiglia.

E mentre il pensiero del ferito correva dietro a questi bei sogni, egli vide sul viale che scendeva verso le aiuole, un uomo avanzarsi con precauzione.

Dal suo posto Umberto poteva seguirne ogni movimento. Chi era colui?

Non Renzo, nè Leoni, perchè più basso e vecchio di entrambi. Forse qualche amico dell' ingegnere, o un villeggiante dei dintorni, che aveva scavalcata la siepe dietro i campi ed ora si aggirava curioso intorno alla casina.

Più s' inoltrava verso la finestra, più Clementi poteva esaminarlo.

Indossava un abito tutto nero; aveva il cappello abbassato sugli occhi, muniti di lenti; una lunga barba gli incorniciava il viso, di un terreo pallore.

Due o tre volte, quell' uomo si arrestò per guardarsi intorno, poi i suoi occhi essendosi soffermati sulla finestra aperta, vi si avvicinò risoluto, come per gettare uno sguardo nell' interno.

Un raggio di sole lo colpì in quell' istante in viso ed Umberto allora potè osservare come il sembiante di quell' uomo, dall' apparenza signorile, fosse assai tetro e feroce. Clementi, benchè ferito, non mancava di coraggio ed appena lo strano individuo si mise a guardare nella stanza, gli chiese con vivacità:

— Chi andate cercando, signore?

L' interpellato fece un movimento di stupore e di gioia insieme, e veduto come nella stanza non vi fosse che Umberto, prima di rispondere, scavalcò il davanzale.

— Venivo appunto in cerca di voi, signor Clementi — disse freddamente.

Umberto trasalì.

— Di me? Mi conoscete?

L' uomo si tolse il cappello e le lenti.

— E voi mi avete dimenticato? — chiese a sua volta.

Nel riconoscere Michele, il viso del ferito si coperse di un pallore mortale. Quell' assassino, quel pazzo sfuggito a tutte le ricerche della giustizia, era invero da temersi.

Tuttavia Umberto si ricompose subito e fissando sul segretario uno sguardo sprezzante:

— Voi! — esclamò. — Siete forse venuto per uccidermi?

— Può darsi — rispose ghignando Michele — ma prima voglio sfogarmi, chiedervi perchè vi siate trovato sui miei passi, e abbiate distrutta tutta la mia felicità. Non mi guardate con quegli occhi così spalancati, il mio cervello è a segno, sebbene mi abbiano rinchiuso fra i pazzi.

Michele parlava con voce cupa, senza che Umberto cercasse interromperlo.

— Fino dalla prima volta che vi vidi, vi odiai — continuò il complice di Livia — presentivo che mi avreste arrecato sventura.

— Io non ho mai cercato farvi del male — disse Umberto con fermezza.

— Ah! fu dunque un bene — proruppe Michele con selvaggia ironia — quello di togliermi la fanciulla che amavo?

Umberto fece prova in quel momento di una gran forza d' animo.

— Tecla non vi ha mai amato — replicò con calma — e preferiva la morte, che appartenervi.

Michele si avanzò verso il letto, cogli occhi scintillanti.

— Perchè voi mi avete fatto apparire ai suoi occhi un miserabile — proruppe con una voce tanto aspra, che fece sussultare Umberto — perchè vi siete posto come barriera fra noi. Io mi sarei forse rassegnato a non essere amato da Tecla, ma vederla vostra, no, non potevo sopportarlo.

Sebbene Clementi soffrisse molto e provasse una viva indignazione al cinismo di quell' uomo, non lo dimostrò: il suo volto rimase immobile.

— Quali arti abbiate usate per trarla a voi, non so — disse ancora Michele. — Vostra sorella Miranda, lo capisco, lo fece per sbarazzarsi di una rivale, perchè sapeva bene che il principe Cars, non l' avrebbe mai preferita a Tecla.

A questa dolorosa, inaspettata rivelazione, Umberto rimase dapprima come sbalordito, poi, ad un tratto, un pensiero terribile, pungente, gli attraversò il cervello, e con una specie di spavento:

— Quali fandonie mi andate contando? — replicò. — Come osate insultare così mia moglie e mia sorella?… Voi ne approfittate, perchè mi vedete in questo stato.

Il beffardo sorriso di Michele gli spuntò sulle labbra.

— Quand' anche foste sano come me, non vi risparmierei. È giunto alfine il momento di dirvi tutto. Forse che voi ignoravate che Tecla e Miranda conoscevano il principe fin da quando erano in collegio? Forse non sapevate che Cars aveva chiesta la mano della figlia di Livia, e che la fanciulla si sacrificò invece all' amicizia, per non spezzare il cuore di vostra sorella?

La spaventevole emozione dalla quale si trovava dominato Umberto, gl' impediva di formulare parola.

Ma dinanzi alla sua mente sbalordita, apparvero i ricordi del passato, rammentò i primi rifiuti di Tecla, perchè nell' anima di lei regnava sempre l' immagine di un altro. Ed era Cars, colui che aveva ospitato come un amico, per il quale aveva tanto sofferto e si era battuto a morte!

Ora comprendeva perchè Miranda aveva taciuto. Ella aveva mentito sempre con lui ed anche Tecla, che utto sapeva, che forse amava sempre il principe.

La testa gli ardeva: un acuto dolore gli straziava il petto.

— No, non è vero — balbettò a stento.

— Chiamate vostra sorella e ditele che mi smentisca — ripigliò Michele, avido di rendere Umberto tutte le torture da lui provate. — Chiedetele chi vi era nella camera di vostra moglie la notte che siete giunto dal vostro viaggio.

Umberto afferrò per un braccio Michele con tal forza, da cacciargli le unghie nella carne.

— Chi vi era? Rispondete — esclamò, mentre il cuore gli sanguinava sotto i colpi portatigli.

— E non l'avete indovinato? — rispose Michele con orrida ironia — Il principe Cars.

— Se mentite, non uscirete vivo dalle mie mani — proruppe con veemenza inaudita Umberto.

— Non tenterò neppure difendermi — rispose con freddezza Michele, senza chinare gli occhi. — Tecla ormai non potete più interrogarla.

— Perchè non lo posso? — interruppe con indignazione Umberto.

Michele proruppe in un riso nervoso, che esaltò fino al delirio il ferito.

— Sareste forse voi che me l' impedireste? — aggiunse con accento di minaccia.

Michele lo guardò con spavento. A Clementi era forse dato di volta il cervello?

— Io! — disse con più calma. — ma sareicurioso di sapere, come potrete far rispondere una morta.

Umberto lasciò cadere le braccia, guardando Michele con occhi così smarriti, che il miserabile indietreggiò:

— Chi è morta? — ripetè piano.

— Ma lei, vostra moglie, colla sua creatura; forse che vi hanno nascosto anche questo?

Umberto cacciò tale un urlo, che fece impallidire Michele.

Questi indietreggiò fino alla finestra, mentre Clementi, con un sovrumano sforzo, balzava dal letto per slanciarglisi addosso.

Il miserabile, colto da terrore a quella figura sconvolta, seminuda, dal petto sanguinante, che batteva l' aria con le braccia contorte, scavalcò di nuovo il davanzale per fuggire.

Umberto cacciò tali grida acute, che Miranda e Rosina accorsero esterrefatte.

Ed ebbero appena il tempo di sostenerlo, che svenne.

Fu tosto deposto sul letto e Miranda guardò con spavento i lineamenti convulsi, alterati, irriconoscibili del fratello.

Dalle pupille semiaperte si scorgeva l' occhio atono e sanguigno, la bocca aveva coperta di schiuma: dalla ferita del petto grondava sangue.

— Che è dunque successo qui, mentre io riposavo? — chiese Miranda severamente.

— Io non so nulla, signorina, mi ero allontanata — balbettò con voce rotta la cameriera.

— Disgraziata, erano questi i miei ordini?

— Signorina, io non ne ho colpa, è stato vostro fratello che ha voluto rimaner solo.

— Dovevi venire ad avvertirmi, o vegliare nella stanza vicina.

— L' ho fatto, ma ero così stanca che mi sono lasciata cogliere dal sonno.

Miranda non l' ascoltava più, intenta a prestare le sue cure al fratello.

Nel frattempo chiedeva a sè stessa la ragione di quello spaventevole ed improvviso cambiamento. Era stato Umberto colto dal delirio? Che volevano dire quelle grida di lui? Perchè era balzato dal letto?

Rosina le raccontò quanto sapeva, le diede il biglietto scritto da Umberto alla moglie, le ripetè tutto ciò che egli le aveva detto.

Non venne neppure un sospetto alle due donne, che qualcuno fosse entrato dalla finestra aperta.

Michele si era allontanato a precipizio, spaventato di quanto era successo. Possibile che Clementi ignorasse la morte di Tecla? Ed egli sarebbe riuscito con Umberto, come la contessa Edvald con la figlia? Senza bagnarsi le mani di sangue, erano entrambi divenuti assassini.

Si arrestò un istante e volse verso la casina, che appena distingueva fra le piante, un' occhiata torva.

— Sarei così sciocco da provarne rimorso? — mormorò. — Forse che non mi recai là per ucciderlo? Finchè Tecla viveva, accarezzavo sempre una speranza, che frenava il mio odio; ma ora perchè dovrei risparmiare gli altri, mentre io in nessuna guisa fui risparmiato?

Quest' idea gli ritornò il vigore, gli fece riprendere con più calma il cammino verso la città.

Umberto non rinvenne che per abbandonarsi ad uno spaventevole delirio. Miranda, che cercava invano trattenerlo, ascoltava al colmo del terrore le parole incoerenti, che gli si affollavano alle labbra.

Erano confidenze inaspettate, terribili, che le colpivano gli orecchi.

Umberto si scagliava contro il principe Cars, parlava del suo tradimento, quindi il furore e lo sdegno traboccando dal cuore del ferito, rampognava Tecla, Miranda, per i loro inganni, le loro menzogne; poi l' espressione feroce del suo viso passava a quella della più crudele angoscia e chiamava singhiozzando la moglie morta, la sua povera creaturina.

Miranda sentiva il sangue ghiacciarsele nelle vene, le abbisognavano forze sovrumane per contenere il suo disperato dolore.

Rosina tremante, a bocca spalancata, fissava sopra Umberto gli occhi spauriti.

— Qualcheduno ha parlato — disse Miranda vivamente — sei stata tu?

— No, ve lo giuro — rispose Rosina.

In quel momento Umberto alzava le braccia, come se volesse respingere qualcuno, balbettando:

— Indietro, indietro, Michele: perchè mi dite tutto ciò? Non vedete, le mie forze sono all' estremo.

— Quel miserabile è adunque venuto qui — mormorò Miranda. — Ma in qual modo è entrato?

— Forse dalla finestra aperta — disse Rosina.

— Hai ragione, e da quella parte deve essere pure fuggito — soggiunse la giovinetta — Perchè mi sono allontanata? Oh! i miei presentimenti, i miei presentimenti!

Quando giunse il medico e vide lo stato del ferito, aggrottò fortemente le ciglia.

Fu giuocoforza rivelargli quanto Miranda credeva fosse avvenuto, senza però poterlo accertare.

Il dottore raccoglieva ogni particolare con viva attenzione.

— Se voi mi aveste lasciata qui — disse Miranda colle lacrime agli occhi — tutto questo non sarebbe avvenuto; ma voi lo salverete ancora, eh?

Il dottore non rispose all' ansioso sguardo della giovinetta, intento a scrivere alcune prescrizioni.

Miranda sentì lacerarsi il cuore.

— Oh! per pietà — mormorò con voce debole come un soffio — datemi una parola di speranza.

— Bisogna sottomettersi alla volontà di Dio! — mormorò il medico.

A Miranda parve udire una lugubre sentenza e provò un tale schianto, che la penna è impotente a descrivere.

Ella rialzò il viso sconvolto, bagnato di lacrime.

— Se Dio è buono, misericordioso — balbettò — avrà compassione di me. Non fui provata abbastanza? Vorrà Egli separarmi anche da mio fratello, dall' unica persona che mi rimanga al mondo? Oh! no, sarebbe orribile: Signore… Signore, per quanto ho sofferto, salvate mio fratello.

I singhiozzi le soffocarono la voce. Il dottore, fortemente commosso, dati i suoi ordini a Rosina, ritornò a prestare le sue cure al ferito. Ma ahimè! Egli capiva pur troppo che non avrebbe potuto prolungare che per poche ore l' esistenza di lui.

Renzo, giunto sul tardi, rimase come fulminato a quella notizia, nè seppe trovare una parola di conforto per la sventurata Miranda.

Umberto era in uno stato dei più deplorevoli: alla sua esaltazione era successa una debolezza estrema. Rimaneva annichilito, lasciando solo sfuggire dalle labbra un respiro clamoroso, rotto, soffocato.

Il dottore fece ritorno in città per ritornare poche ore dopo in compagnia di due altri medici, giacchè Miranda desiderava un consulto, che Renzo approvò.

Ma il consulto, accettato con gran cuore dal vecchio medico, non ebbe per risultato che di confermare la nessuna speranza di salvezza per Umberto.

Non era più in potere della scienza di strappare il giovine ad una morte imminente.

Ci voleva un miracolo. Ma non era nei decreti di Dio che fosse compiuto.

Tuttavia dopo quello stato di completa prostrazione, si dichiarò nell' ammalato una crisi violenta, passata la quale entrò in un periodo quasi di calma.

Miranda e Renzo aprirono l' anima ad una soave speranza, ma il dottore si fidò poco a quel miglioramento, che gli faceva prevedere una terribile ricaduta.

Erano verso le sei di sera, ma nella camera del ferito pareva notte completa.

Le imposte delle finestre, ermeticamente chiuse, non lasciavano passare la luce del giorno. A destra del letto, stava Miranda tenendo fra le sue mani, una mano del fratello: alla sinistra era il medico: ai piedi Renzo e la cameriera.

La lucerna posta sul tavolino da notte, rischiarava tutte quelle fisonomie tristi, disperate.

Il ferito teneva chiusi gli occhi: sembrava dormire. Del giovane così brillante, forte, dal cuore ardente, dai concepimenti alti, grandiosi, non rimaneva che un moribondo, affranto sotto il peso dei dolori fisici e morali. Ogni tanto rivoltava faticosamente la testa e mandava un profondo sospiro, per ricadere quindi in una spaventevole immobilità.

— Ora non v' è nulla a fare — disse il medico, allontanandosi alquanto dal letto — può darsi che rimanga in tale stato tutta la notte.

Miranda alzò la testa che aveva appoggiata al capezzale del fratello.

— Ma voi non partirete, è vero? — disse con accento supplichevole. — Potrebbe succedere una nuova crisi.

— Io rimarrò qui fino a giorno — aggiunse il dottore. — Solo per non disturbare troppo l' ammalato, io e il signor Renzo ci ritireremo nella stanza vicina.

Miranda assentì col capo e riprese la posizione di prima.

Rosina sedette in un angolo della camera e si nascose il viso fra le ginocchia, non potendo rattenere le lacrime.

Passarono così alcune ore; il dottore era tornato due o tre volte a vedere il ferito e trovandolo nello stesso stato, aveva sussurrato pian piano alla fanciulla:

— Speriamo!

Ella aveva alzati gli sguardi verso il cielo.

Alle due di notte Umberto aprì gli occhi, ma tosto alzò la mano, perchè la fiamma della lucerna, colpendolo in pieno viso, gli tornò dolorosa.

Miranda se ne accorse e si affrettò a mettere il lume a terra. Aveva appena finito, che si sentì chiamare a nome.

Ella si calcò convulsamente sul petto ambe le mani ed avvicinatasi subito al ferito:

— Eccomi qua — pronunziò a stento.

Clementi la fissava coi grand' occhi smarriti.

— Miranda, sei proprio tu? — ripetè.

— Sì, Umberto, non riconosci la mia voce? — disse la giovinetta con accento di passione e d' orribile ansietà, impossibile a descriversi.

Lo sguardo del ferito s' illuminò ed egli fece un rapido moto colla testa.

— Ah! sì, ti riconosco — mormorò sottovoce — e mi ricordo tutto: un uomo entrato qui mi ha rivelato ciò che tu mi nascondevi… Tecla amava il principe Cars, l' aveva ricevuto durante la mia assenza; in quella notte che io giunsi alla palazzina, egli era nella camera di lei… rispondi…

Parlava con una fermezza strana in un moribondo, con una lucidità straordinaria.

Miranda comprese lo strazio di lui nella domanda che le rivolgeva e con accento commosso, ma fermo:

— Umberto — esclamò — per la sacra memoria di nostra madre, per la mia salute eterna, ti giuro che Tecla è innocente: la sola colpevole in tutto ciò che è successo fu una donna, che nutriva un odio spietato contro di noi, che ha voluto vendicarsi. È questa la verità, ne chiamo Dio in testimonio e se tu puoi ascoltarmi, ti dirò tutto.

Umberto faceva ogni sforzo per ritenere la sua ragione che smarriva: troppo debole per voltare la testa, guardava attorno cogli sguardi.

— Siamo noi soli? — domandò.

Miranda fece un segno a Rosina, che uscì silenziosamente.

— Sì — rispose quindi, chinandosi vieppiù sul fratello.

— Ebbene, parla.

Miranda narrò in poche parole, con una ingenuità straziante, quanto era successo: dell' apparizione della contessa Edvald sotto le spoglie di San Secondo e dei mali di cui era stata cagione.

Umberto ascoltava avidamente, e parve ad un tratto che le sue forze fossero ritornate.

— Perchè nascondermelo? — mormorava — È impossibile tanta perversità in una donna, in una madre?…

Poi, ricordando l' ultima rivelazione di Michele, fu preso da un tremito indicibile.

— Tecla… è morta, non è vero? È morta. Chi l' ha uccisa? Forse quel miserabile che è qui venuto? Ah! non poterla strappare a lui… eccolo… che mi deride… ancora…

Ricominciava ad invaderlo il delirio.

Miranda cercava invano calmarlo.

— Umberto, Umberto, guardami, io ti rimango — balbettava nel suo disperato dolore. — Vuoi abbandonarmi anche tu? Eppure lo sai quanto ti amo, come senza di te non posso vivere.

Clementi non l' intendeva, cercava slanciarsi fuori del letto. Il medico e Renzo, accorsi alle grida della giovinetta, cercarono trattenere il ferito, ma egli li respinse con gesti violenti.

— Lasciatemi, voglio vendicare Tecla e mia sorella, non mi trattenete, non vedete… laggiù… quell' uomo, che si ride di me?

La parola gli rimase soffocata in gola, la forza momentanea l'abbandonò, ed egli ricadde sul letto, chiamando Miranda con una voce così straziante, che la fanciulla si sentì squarciare il cuore; poi rimase immobile, cogli occhi chiusi, le braccia abbandonate lungo il corpo.

Miranda gettò un grido.

— Mio Dio, è forse morto? — balbettò.

— No, non ancora — disse gravemente il medico.

Queste parole tolsero ogni illusione alla giovinetta. Se tanta sventura l' avesse colpita, che mai sarebbe stato di lei?

Soffriva tanto, che per un istante ebbe la speranza di morire insieme al fratello.

Renzo, dopo poche parole scambiate a bassa voce col dottore, era uscito in fretta dalla stanza con Rosina.

Miranda di nulla si accorse, chinata sul fratello, ascoltandone l' esile respiro, mentre il medico andava ricercando il polso del moribondo.

Umberto aprì gli occhi, e nell' incontrare l' amato volto della sorella, sorrise.

Ella lo baciò sulla fronte, mormorando:

— Come ti senti?

Umberto mosse adagio le labbra per rispondere.

— Non soffro più, sono stanco, stanco… vorrei dormire.

— Ebbene, riposa, io veglio presso di te — replicò Miranda, che a quella calma, a quella ragionevolezza, cercò di sperare ancora.

Il medico nulla disse, e si ritrasse alquanto. Ormai egli aveva più nulla a fare, ma era meravigliato della calma sopravvenuta al moribondo: si attendeva un' agonìa tormentosa e cercava fra sè il mezzo per allontanare Miranda.

Un profondo sospiro sfuggì dal petto di Umberto e con voce appena percettibile:

— Riposerò presso Tecla e la mia bambina, perchè vado a ritrovarle — disse.

— Oh! no, non parlare di morire — interruppe Miranda cercando invano nascondere il tremito che le agitava le membra e le grosse lacrime che le cadevano dagli occhi — tu vivrai per me…

— Lo vorrei, ma non lo posso, la vita mi sfugge; Miranda, non piangere, io non ti lascio, la mia anima sarà sempre presso di te…

— Ah! non morire, non morire — ripeteva fra i singhiozzi la giovinetta — Che sarà di me quando non ti vedrò più? Io mi ucciderò!

Negli occhi del moribondo apparve un' espressione straziante: con uno sforzo afferrò le mani della sorella e con accento che parve una preghiera:

— Non parlare così, non darmi questo dolore — balbettò. — Tu così pia e religiosa, devi rassegnarti ai voleri di Dio; non lo vedi, che Egli mi concede una grazia col chiamarmi a sè? Avrei sofferto troppo vivendo ancora, e tu forse non saresti riuscita a lenire i miei dolori. La nostra separazione non sarà eterna, e giacchè Dio è così buono da conservarmi in questa ultima ora tutta la mia lucidità di mente, ascolta la mia preghiera e promettimi di esaudirla.

Sebbene col cuore lacerato dall' angoscia, Miranda balbettò:

— Parla, parla.

— Ricordo tutto quanto mi hai detto: la persecuzione di cui fu fatta segno Tecla da parte di sua madre, gli avvenimenti successi e tremo pensando che quei miserabili vivono sempre, e forse rivolgeranno le loro armi contro di te. Ebbene, promettimi che, morto io, venderai la nostra palazzina e ti ritirerai in luogo sicuro dalle loro persecuzioni.

La voce di Umberto si affievoliva, egli era allo stremo delle forze, dell' energia.

— Me lo prometti? — ripetè con accento appena percettibile.

Le lacrime sgorgavano in gran copia dagli occhi di Miranda.

— Sì, sì, ma tu vivrai.

— Povera sorella, io vorrei fermarmi ancora con te, ma la mia volontà non basta…

Rimase un istante in silenzio, come sfinito.

Miranda aveva passato il suo braccio sotto la testa di lui e teneva appoggiata la sua umida guancia a quella del morente.

No, non poteva credere che anche suo fratello sarebbe morto, che fra poche ore ella stessa avrebbe ricoperta quell' adorata testa col funebre lenzuolo.

Il medico rimaneva in piedi presso il letto: la fanciulla lo guardava attraverso le lacrime, ma non osava più nulla domandargli.

Quando Renzo fu di ritorno, era in compagnia di un prete. Prima di passare nella camera del ferito, fece chiamare Miranda.

Un sudore d' angoscia scorse sulla fronte della giovinetta, quando si trovò dinanzi quel ministro di Dio, che si era assunto l' incarico di consolare la povera fanciulla, dopo aver portata una parola di pace al moribondo.

— Non vi ha dunque più speranza alcuna — esclamò la giovinetta con profonda emozione — ah! nessuno è mai stato colpito al pari di me da dolori così grandi, terribili: non so come non sono ancor morta.

— Non dite così, figliuola mia — rispose dolcemente il prete — Dio vi sosterrà: volgete lo sguardo in alto, ricorrete alla preghiera.

— Non ne ho più la forza.

Basta il desiderio.

Miranda curvò il biondo capo dinanzi al prete, che vi posò la mano mormorando:

— Coraggio, Dio vi ha assegnato un còmpito grave e dei dolorosi sacrifizî, perchè vi sa cristiana e vi ha annoverata fra i suoi martiri. Non lasciatevi abbattere dalla debolezza… e pensate piuttosto a disporre vostro fratello a ricevermi.

Ella alzò il viso pallido e alterato.

— Voi mi richiamate al dovere — disse — ed io cercherò di adempirlo sino all' ultimo: pregate Dio per me…

Umberto accettò con gioia l' intervento del prete.

Con uno sguardo commosso ringraziò la sorella.

— Hai prevenuto il mio desiderio — disse con voce rotta — oh! venga, venga subito.

All' alba, Umberto aveva ricevuti tutti i conforti della religione: la sua calma, la sua rassegnazione non si erano più smentite.

Egli non poteva più parlare, ma un lampo di vita si effondeva ancora nel suo sguardo, fisso sulla sorella, che teneva una mano di lui, sopra il suo cuore.

Poi quello sguardo parve offuscarsi e più lieve si fece la stretta della sua mano.

— Umberto, Umberto — chiamò Miranda con voce soffocata, appoggiando le sue labbra a quelle ghiacciate di lui.

A quel contatto, la bocca del morente ebbe un fremito, ed in mezzo al silenzio della stanza, la sua debolissima voce, mormorò:

— Miranda, ti benedico!

Poi chiuse dolcemente gli occhi, come se volesse addormentarsi e così rimase.

Era spirato

Nello splendido appartamente del marchese Carini, gentiluomo fiorentino, scapolo e milionario, cultore appassionato delle scienze geografiche, si festeggiava con un sontuoso pranzo il ritorno del conte Raul Adalberti, torinese, un bel giovane ricco e padrone di sè, che, preso dalla smania delle esplorazioni affricane, era vissuto per quasi tre anni in quelle regioni inospiti, in mezzo a quel clima letale, correndo i più gravi pericoli, provando le più amare disillusioni.

Tornato in Italia, si fermò a Firenze presso il marchese Carini, che l' attendeva con ansia, giacchè si era molto interessato ai viaggi del giovane.

Ma questi non aveva, come tanti altri eroi moderni della scienza, da raccontare delle avventure meravigliose, inaudite, di combattimenti di fiere, di amori di principesse affricane, di stragi con negri, di scoperte di cadaveri di viaggiatori italiani… Della sua lunga permanenza in Affrica, non aveva riportata che una profonda noia, una specie di apatìa, che traspariva da tutti i suoi modi, dalla sua persona.

Eppure Raul Adalberti era uno dei più belli e simpatici giovani che si potessero incontrare. Il suo colorito abbronzato dal sole affricano, rendeva più brillanti i suoi occhi, pieni di un fascino singolare; il suo sorriso scopriva dei denti di una bianchezza meravigliosa; tutto il suo esteriore, infine, predisponeva favorevolmente verso di lui.

A tavola sedeva al fianco del marchese Carini, che l'assaltava di domande, senza mai trarne una risposta concludente.

I commensali non erano numerosi: dieci appena, tutti uomini.

Il pranzo era stato sontuosamente imbandito in una sala splendida per ornati e pitture: la luce delle lampade si rinfrangeva nei calici dorati, nelle fruttiere di cristallo: un profumo delicatissimo di fiori e vivande saturava l' aria.

— Dite dunque la verità — esclamò il marchese Carini, volgendosi sorridente a Raul — se doveste tornare in Affrica, vi rinunziereste?

— Confesso di sì, — rispose con franchezza Adalberti — e forse la colpa di questo sconforto è tutta mia. Sono Partito con troppe illusioni: sognavo cose molto seducenti e poetiche, non avevo che della poesia nella testa. Sono bastati pochi mesi per ricredermi, ed ora non comprendo l' entusiasmo di taluni per quelle terre inospiti, nè l'utilità di tutte le esplorazioni geografiche.

— Quella di portare la civiltà in nuove terre, fra nuovi popoli — osservò gravemente uno dei commensali, un uomo panciuto, in occhiali, il cui viaggio più lungo era quello che faceva ogni anno da Firenze ai bagni di Montecatini, e viceversa.

Venne sulle labbra di Raul una risposta pungente, ma se la mandò in gola, e disse con semplicità ed indifferenza:

— Meglio lasciarli nella loro beata ignoranza.

Uno scoppio di risa fu la conclusione del discorse.

Si vuotarono i bicchieri e si mutò argomento. Raul si sforzava a mostrarsi gaio, disinvolto, ma di quando in quando una ruga leggerissima gli attraversava la fronte, e si capiva che ratteneva a stento uno sbadiglio.

Era una strana natura quella di Raul.

Pieno di fuoco, di entusiasmo, mostrava però all' apparenza un freddo riserbo, sorrideva a fior di labbra e con espressione di profonda melanconia.

Le persone che l'accostavano, gli stessi suoi amici, lo credevano innamorato. Invece il conte Adalberti era giunto a ventisei anni senza aver mai amato. I capricci che gli si presentavano non avevano la durata di una settimana, un mese: esaltavano la sua fantasia, gl' infiammavano i sensi, ma gli lasciavano freddo il cuore.

Egli diceva che per lui l'amore sarebbe stato una grande sventura, che l' avrebbe condotto a mal fine.

Ed intanto si annoiava di tutto e di tutti.

Il pranzo era al termine: i commensali passarono in altra sala per prendere il caffè ed i liquori, così che per qualche minuto il conte Adalberti ed il marchese Carini si trovarono soli.

— Voi rimarrete qualche giorno con me — disse il gentiluomo fiorentino, offrendo a Raul un eccellente sigaro avana.

— Non ve lo prometto — rispose il giovane sorridendendo — perchè a Torino ho dei parenti, che mi aspettano.

— O piuttosto qualche gentile fanciulla, che deve aver pianto per la vostra lontananza ed attende con ansia di rivedervi.

Raul scosse il capo.

— Vi assicuro, caro marchese — esclamò — che nessuna donna ha versato lacrime per la mia partenza, giacchè non avevo vincoli con alcuna ed il cuore mi batteva perfettamente libero.

— Via, via, alla vostra età, e coi tanti doni dei quali vi fu prodiga madre natura….

— Eppure è così.

— Possibile! Non avete ancora amato?

— Mai e forse sarà sempre così, perchè sarà difficile che m' imbatta nella donna che io vorrei.

Il marchese rideva e lanciando al soffitto dorato una boccata di fumo:

— Vi siete dunque formato un alto ideale?

— Tanto, alto, che non lo raggiungerò mai: quelle bambole dipinte che s'incontrano nella nostra società, che parlano solo di feste, di mode, di gingilli, che non comprenderanno mai la santa missione di una moglie, di una madre, non sono fatte per me. Io voglio una donna che mi ami; che mi preferisca ai suoi abiti, gioielli, carrozze, pronta a qualsiasi sacrifizio per me; una donna tutta mia, colta, gentile, onesta, senza ostentazione, leziosaggine, che possa rallegrare la mia solitudine, formare del focolare domestico un piccolo angolo di paradiso.

Si era infiammato così parlando: i suoi begli occhi splendevano: il petto aveva anelante.

Il marchese schiuse le labbra ad un ironico sorriso.

— Sono chimere le vostre che bisogna lasciare ai ragazzi — disse. — Coll' educazione che s' imparte al giorno d' oggi, tali fenici di donne non si riscontrano più.

L' entusiasmo di Raul si era già raffreddato.

— Ed è perciò — aggiunse con finezza — che io rinunzio all' amore, al matrimonio.

— Non direte più così fra qualche anno.

— Sarò sempre dello stesso parere: del resto, voi che difendete così a spada tratta le nostre signore, perchè siete rimasto scapolo?

— Perchè amo la mia libertà.

— No, dite piuttosto che siete di difficile contentatura come son io.

Il marchese gli battè una mano sulla spalla.

— Può darsi che abbiate ragione — esclamò — ma non è meglio che lasciamo da parte queste melanconie e raggiungiamo gli altri?

— Volevo proporvelo, marchese.

La serata finì allegramente. Raul si coricò assai tardi; nonostante all' alba era già in piedi ed usciva tutto solo dal palazzo del marchese.

Non aveva una direzione fissa, ma era bramoso di respirare un po' d' aria libera ed uscito dalla porta di San Miniato, decise salire fino al Monte alle Croci.

La giornata si annunziava splendida; l' astro del giorno cominciava ad affacciarsi, diffondendo a grado a grado la sua luce dappertutto: le piante esalavano odorosi effiuvî: l' aria echeggiava di dolci canzoni.

Raul camminava a testa alta, il respiro libero, lasciando libero corso alla sua fantasia.

Ma quando pose il piede nella basilica di S˙ Miniato, ove regnava un profondo silenzio ed una semi-oscurità, la sua fronte si fece pensosa, una soave melanconia s' impadronì di lui.

Egli pensava alla sua giovinezza senza gioie, senza i baci di una madre, le carezze di un padre, che l' uno e l' altra gli erano stati rapiti in tenera età; pensava alla sua esistenza vuota, inutile, senza un affetto sincero, un dolce conforto, e sentiva le lacrime salirgli agli occhi e venirgli quasi meno il respiro.

Per sottrarsi a quell'oppressione, uscì dalla deserta chiesa e si mise a vagare pel cimitero.

Un fruscìo di vesti ed un rumore di passi che sentì dietro sè, gli fecero volgere il capo. Vide allora una figura di donna alta, snella, vestita completamente a bruno e con un velo talmente fitto, che era impossibile scorgerla in viso. Ma dalle treccie bionde ricadenti sulle spalle, dalle mani bianchissime, affilate, che tenevano due corone di rose, si capiva che doveva essere giovane e forse anche bella.

Dietro a lei veniva una donna di mezza età, succinta, severa, che aveva l' apparenza di una governante.

Raul si ritrasse alquanto per lasciarle passare. La giovine chinò lievemente il capo, quindi a passo frettoloso si diresse verso una specie di bassa cappella, dove eranvi più tombe coperte di fiori ed aperto da se stessa il cancello di ferro, s' inginocchiò su di una lastra di marmo, la baciò con trasporto, poi alzatasi appese vicino alle altre ghirlande anche quelle che aveva portate, mentre la governante in disparte, raccolta, silenziosa, pareva pregare.

Raul aveva assistito a questa scena senza essere scòrto, ritirato dietro una tomba.

Sarebbe stato curioso di vedere quella giovane in viso; egli aveva ammirata la grazia del suo incedere, l' abbigliamento severo, di una perfetta eleganza e, senza sapere il perchè, sentiva battere fortemente il cuore.

La sconosciuta era tornata ad inginocchiarsi ed aveva alzato il velo. Allora una radiante visione apparve dinanzi agli occhi abbacinati di Raul. Era un' ideale di grazia e di giovinezza, un tipo da madonna, dalle dolci e quiete sembianze, dallo sguardo profondo, soavemente pensoso, dal sorriso melanconico, rassegnato.

Nel conte Adalberti si accrebbe il desiderio di conoscere chi ella fosse. Certo di non essere veduto, il suo sguardo non si staccava da lei. Ne provava un' ammirazione sincera, mista ad una certa pietà. Per chi pregava la giovane? Di chi erano quelle tombe coperte di fiori?

Ella non guardò una sol volta all' intorno, ma trascorso qualche tempo, la donna che pareva una governante le si avvicinò e chinandosi le disse qualche parola all' orecchio.

La giovine fece un segno impercettibile col capo, baciò le lastre della cappella, si segnò devotamente ed abbassato il velo, si alzò.

Raul non si mosse dal suo posto, ma quando la giovine, rinchiuso il cancello, gli passò vicino, fece un movimento che lo scoprì.

Ella diè in un piccolo sussulto, ma rimettendosi subito, si allontanò con rapido passo, seguìta a stento dalla governante.

Il conte Adalberti le tenne dietro cogli occhi e la vide fermarsi col custode, che le era andato incontro, facendole un profondo inchino e sberrettandosi. Parve a Raul che la giovine desse qualche ordine a quell' uomo, perchè egli faceva ripetuti segni col capo.

Il conte attese che l' incognita fosse uscita dal cimitero, poi si avvicinò a sua volta al custode. Voleva interrogarlo sul conto dell' incognita, ma per non dare sospetti gli chiese alcuni ragguagli intorno al cimitero ed alle tombe principali.

Il custode era un uomo affabile, ciarliero e visto che si trattava di un signore forestiero, si mise di buon grado a fargli da guida.

A passo a passo attraversarono il cimitero ed il custode si fermava ad ogni istante ora per mostrare a Raul qualche bella iscrizione, ora facendo le sue osservazioni sulle tom be lasciatein abbandono.

— Vedete quel monumentino che ha ancora appese due corone appassite? — diceva — L' ha fatto erigere la vedova inconsolabile, come per il solito si legge sugli epitaffi: guardi, guardi, vi è scritto sotto: “ fedeltà eterna. ” E sa quanto ha durato? L' anno del lutto. Adesso la vedovella è passata ad altri sponsali ed il povero morto è dimenticato. Sotto quell' altra tomba, dove vi è scolpito quell' angiolo, dorme una fanciulla di sedici anni, morta per amore. Non rida, è così… ed ho veduto io il suo innamorato venir qui a disperarsi… e voleva uccidersi ed essere seppellito con lei, e mi ricordo che a stento ho potuto rattenerlo che non si spaccasse il capo contro quella pietra: era meglio l' avessi lasciato fare; quattro mesi dopo passeggiava qui per il cimitero con un' altra a braccetto ed ebbe il coraggio passando vicino a quella tomba, di dire ridendo: “ È di quella sciocchina che è morta per me. ”

Il custode avrebbe continuato chissà quanto su questo tono, se Raul non l' avesse interrotto.

— Vi è però ancora — disse — chi ha sacro il culto dei ricordi. Vedo là delle tombe ricoperte di fiori freschi.

E indicava colla mano la bassa cappella, dove era entrata la giovane.

Il custode si era fatto serio.

— Eh! se tutti fossero come la signorina Miranda — mormorò — i poveri morti non sarebbero dimenticati.

— Chi è la signorina Miranda? — chiese a bassa voce, con un tremito, Raul.

— Non ha veduto un momento fa una bionda alta, vestita a bruno?

— Sì, mi pare.

— Ebbene, quella è la signorina Miranda Clementi, una giovane che non ha più nessuno al mondo. Povera figliuola! In quella cappella, vede, ha seppellito il babbo, la mamma, una cognata, un piccolo nipotino e il fratello, che fu l' ultimo a estinguersi, saranno ora diciotto mesi.

La signorina non ha mai mancato una mattina di venir qui e mi raccomanda sempre di aver cura dei suoi fiori… ah! quella giovane è proprio un angelo: peccato che non prenda marito.

— Perchè?

— Mi disse la sua governante che dopo la morte del fratello, conduce una vita da monaca: viene al cimitero, va a far delle visite a povere famiglie, poi si ritira in casa e non si vede più fino alla mattina seguente. Ella vuol seguir presto i suoi cari.

Raul ascoltava con una specie d' emozione questi particolari.

— Forse quella signorina soffre di qualche malattia ereditaria? — chiese dopo un momento di titubanza.

— Ma che? — rispose con vivacità il custode — Gode anche troppa salute, malgrado si logori colle preghiere e colle lagrime. E poi babbo e mamma erano sanissimi: è vero che sono morti giovani, ma che vuol dire? Io avevo un figliuolo, robusto come un Ercole, ed una febbre maligna me lo portò via in pochi giorni.

La cognata della signorina Miranda è morta di soprapparto colla sua creaturina, ed il fratello in conseguenza di una ferita avuta in duello.

Raul era commosso.

— Povera fanciulla — mormorò — quanto deve aver sofferto! E dite che viene qui tutte le mattine?

— Sì.

— Deve abitare vicino?

— Ecco una domanda alla quale non posso rispondere. Io conosco la signorina di nome, so qualche particolare di lei, per avermelo detto la cameriera, ma non ho mai chiesto ed ignoro affatto dove abita.

Raul non fece altre interrogazioni, ma quando rientrò al palazzo del marchese Carini era in uno stato di esaltazione febbrile.

Il gentiluomo l' attendeva per far colazione.

— Siete andato a vedere a spuntare il sole sulle colline, che usciste così per tempo? — chiese.

— Tale era la mia intenzione — rispose Raul — ma la mia passeggiata è finita al cimitero.

Il marchese fece una smorfia.

— Non vi sarà certo venuto appetito?

— Non ne so nulla, vedremo a tavola.

Mangiò infatti assai poco, ma discorse molto. Quando passò coll' amico nel salotto da fumare, non potendo più contenersi, domandò:

— Conoscete qualcuno a Firenze di nome Clementi?

Il marchese pensò un poco, poi rispose:

— Mi pare di aver sentito pronunciare altra volta questo nome, ma non ricordo.

— Forse in causa di un duello.

— Avete dato nel segno, sì, adesso mi sovvengo, fu un duello fatale, nel quale un certo Clementi morì in conseguenza di una ferita, ne parlarono i giornali, vi fu un processo, ma l' avversario ne uscì con pochi mesi d' esilio. Del resto non so altro, nè conosco famiglie di tal nome.

Raul lasciò cadere il discorso, ma per tutto il giorno e la notte, non fece che pensare a Miranda.

Alla mattina seguente non potè resistere al desiderio di rivederla. Ma invece di entrare nel cimitero, l' attese al di fuori.

Quando la scorse venire da lontano provò in cuore come una vaga angoscia, un timore puerile. Ebbe paura che ella si offendesse vedendosi spiata e fece qualche passo più innanzi.

Miranda entrò nel cimitero senza vederlo e quando ne uscì, non scorse che egli la seguiva da lungi, ammirando la nobil grazia del suo incedere, col cuore pieno di palpiti, la testa ardente.

Come Raul l' aveva preveduto, la giovine abitava non molto lungi, in una casina che pareva di recente costruzione, con annessovi un piccolo giardino, separata dal viale da un muro non molto alto, rivestito di verde fogliame e in cui si apriva una porticina semplice al di fuori, ma foderata internamente da una sottile lamina di ferro.

La porta si era aperta e rinchiusa dietro le due donne e Raul a poca distanza non toglieva gli occhi da quella casetta, non si risolveva a muoversi da quel posto.

Il conte Adalberti non avrebbe saputo dire egli stesso ciò che volesse, ciò che sperasse.

Ma sentiva che quella giovane doveva avere gran parte nella sua vita. Ella era solo al mondo ed anche lui si trovava solo.

Ammirava non soltanto la bellezza di lei, ma capiva che doveva avere un' anima nobile e grande, uno spirito eletto, un cuore d' angelo.

Un sentimento dolce, castissimo si faceva strada nell'anima del conte.

Quella fanciulla che rinunziava a tutte le gioie del mondo, che conservave così alto il culto delle memorie, che rifuggiva dalla società, era proprio l' ideale che egli aveva sognato.

Ah! se fosse riuscito a farsi amare.

Raul non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimanesse guardando la casina che aveva tutte le finestre chiuse, sognando ad occhi aperti, immaginandosi di essere accanto a Miranda, di raccontarle a bassa voce la storia del suo cuore e sentir quella dei suoi dolori, di essere entrambi trasportati verso un' incognita sfera.

La sera stessa, il conte Adalberti toglieva congedo dal marchese Carini, ma invece di lasciare Firenze, prendeva in affitto alcune stanze in una casa poco distante da quella ove abitava Miranda.

Quando la povera Miranda comprese che per Umberto tutto era finito e che ella sarebbe rimasta sola al mondo, si abbandonò ad un tale eccesso di disperazione, che si temette per la sua ragione.

Abbracciava convulsa il cadavere, chiamandolo coi più dolci nomi, scongiurandolo a risponderle.

Non poteva credere che anche suo fratello fosse morto: provava un terrore vago, disperato, un' angoscia insopportabile.

Cercarono di toglierla dalla stanza mortuaria, ma quando Renzo le si accostò, Miranda si pose dinanzi al cadavere, come se temesse che volessero portarglielo via, e con voce sorda:

— Che si vuole da me? — domandò.

Renzo era pallidissimo, ma calmo.

— Voglio togliervi da una contemplazione triste che accresce il vostro dolore — rispose. — Io vi conobbi già così forte, coraggiosa.

— Non ho più forza, volontà, coraggio: tutto è morto con lui — replicò, mostrando con un gesto semplice e solenne il fratello.

— Non dovete dire così.

— Silenzio, lasciatemi; o, piuttosto uccidetemi, voglio morire! L' avevo pur detto a Dio che se voleva una nuova vittima mi prendesse e risparmiasse Umberto: non mi ha ascoltata.

E il suo sguardo, già così dolce, prese un' amara e cupa espressione, e gettandosi in ginocchio, nascose il capo nel lenzuolo che ricopriva il povero morto.

Renzo si ritirò a testa china. Dopo di lui si accostò il prete, che aveva confessato Umberto, e posata la scarna mano sul biondo capo di Miranda:

— Bisogna accettare con rassegnazione i decreti di Dio — mormorò con voce grave. — Vostro fratello è in cielo a pregare per voi.

— Ma io non lo vedrò più — interruppe Miranda con disperato dolore. — Perchè mi lasci così sola, sola, Umberto? Eppure lo sai quanto ti amavo. Com' è possibile farsi coraggio, mentre il cuore mi si spezza?

E calcandosi le mani sul petto:

— Non ne posso più — ripete — non ne posso più!

E si svenne. Quando si riebbe, si trovò stesa sul divano del salotto vicino, ed accanto a lei eravi Rosina che seguiva con ansietà il ritorno alla vita dell' amata padrona.

Miranda vide gli occhi della povera ragazza pieni di lacrime e la sua memoria ritornò.

— Umberto, Umberto! — esclamò sollevandosi — è proprio vero, tu sei morto?… Perchè mi hanno condotta qui?… Voglio ritornare vicino a lui; credi tu, Rosina, che io lo lasci rinchiudere nel feretro, senza vederlo ancora?

— Lo vedrete, signorina; ma prima cercate di riprendere un po' di forza.

Miranda non l' ascoltava più: si era alzata dal divano e ritornava nella stanza vicina.

Il cadavere era stato lavato, rivestito e posava disteso sul letto colle mani incrociate, coperte di guanti bianchi.

Pareva dormire e sorridere.

Miranda rimase colpita a quella vista: i suoi singulti ricominciarono, le sue lacrime non ebbero più freno.

Ma il suo accesso di dolore non fu così violento come prima: ascoltò le parole del sacerdote con umiltà, col capo curvo e le mani giunte.

Solo quando si dovette farle noto che bisognava procedere all' autopsia del cadavere, perchè l' autorità giudiziaria, informata del duello e della morte di Clementi, voleva conoscere se era avvenuta a cagione della ferita, Miranda ebbe un momento di rivolta, protestò; ma infine dovette rassegnarsi.

I funerali, quindi di Umberto, non ebbero luogo che sei giorni dopo, sicchè Miranda ebbe la sua settimana di passione, salì come la Vergine tutti i gradini del dolore, da cui l' anima sua doveva uscirne ancora più forte, grande.

Il sacerdote non l' aveva abbandonata che di rado, ed i conforti paterni di quell' uomo semplice, buono, la fecero quasi vergognare della debolezza del suo dolore.

Non parlò più di morire: sollevò gli occhi al cielo con espressione rassegnata e pensò che un giorno avrebbe potuto rivedere lassù il suo adorato Umberto, tutte le persone che le erano care.

Dopo aver rivelato in confessione al degno prete i fatti successi, chiese a lui un savio consiglio.

— Seguite quello che vi diede vostro fratello — disse con semplicità.

Allora Miranda si rivolse al suo avvocato, un uomo di una scrupolosa onestà e segretezza a tutta prova, ed un mese dopo la morte di Umberto, Miranda abitava la solitaria casina sul viale dei Colli e aveva venduta la sua palazzina, che racchiudeva memorie troppo nefaste, dolorose.

Nella nuova dimora, ella non aveva condotto con sè che Rosina ed una sorella di questa, una donna già matura d' anni, vissuta sempre austeramente, tanto che era tenuta in concetto di santa.

Rosina faceva da cuoca, cameriera e giardiniera: Grazia, sua sorella, accompagnava Miranda quando usciva, le serviva da governante.

La giovane si era rinchiusa nella solitudine di quella casina come in un chiostro.

Ella non riceveva altre visite che quelle rarissime del vecchio sacerdote e qualche volta del suo avvocato, che veniva per parlarle di affari.

Renzo era ritornato al suo reggimento: la contessa Edvald e Michele dovevano aver lasciato Firenze.

Tutte le lacrime versate da Miranda, non erano bastate a velare il dolce splendore dei suoi occhi, ad alterare i suoi lineamenti.

La sua bellezza si era, per così dire, ancor più idealizzata.

Ma ella poco si curava di farne pompa, che anzi l' occultava quanto più poteva, come sapeva celare in fondo all' anima i suoi dolori, discorrere con tranquillità, mentre fissava lo sguardo melanconico nell' orizzonte, quasi a cercarvi i suoi cari perduti.

Un giorno l' avvocato le annunziò che vi sarebbe stato il processo di Ettore Danieli per il duello con Clementi e le tristi conseguenze che ne erano derivate.

Credeva che la giovine si sarebbe costituita parte civile, ma ella vi si rifiutò fermamente.

— Io ho perdonato a quel giovane, come gliaveva perdonato Umberto — disse — non parlatemi quindi più di lui.

E quando seppe che Danieli era stato condannato a pochi mesi di esilio, ne fu contenta.

— No, non è lui che l' ha ucciso — pensò.

Il tempo che passava aveva condotto una certa serenità d' animo in Miranda. Ormai si era formata il suo avvenire, e attendeva con calma e rassegnazione l' istante di raggiungere i suoi cari.

Quando s' incontrò in quella mattina con Raul, Miranda non badò a lui, ma allorchè lo rivide immobile, pensoso, con un' espressione di profonda melanconia nel viso, comparire dietro una tomba, provò un leggiero sussulto. Forse in quell' ora di dolore, la giovinetta sentiva più compassione per coloro che soffrivano. E quell' uomo dal viso pallido, bruno, pieno di sentimento, che si trovava nel cimitero non era certo per curiosità e soddisfazione, ma forse veniva egli pure a pregare sopra la tomba di una persona amata, innanzi tempo perduta.

Dopo pochi giorni l' incontrò ancora. Miranda arrossì sotto il velo e provò un moto di gioia. Ma non avrebbe saputo spiegare il perchè.

Spesso le giovinette sono ignare di ciò che esiste in fondo al loro cuore. L' amore vi s' infiltra a loro insaputa, senza che esse possano persuadersene.

Alla notte, Miranda sognò l' incognito vicino al fratello. Umberto sorrideva dolcemente ed additandole il giovane le diceva:

— Ecco un braccio forte che sosterrà la tua debolezza, un uomo che ti riscalderà il cuore, realizzerà i sogni che io feci per te.

Miranda si svegliò agitatissima e trovandosi sola nella sua austera cameretta, si sentì riprendere dallo sconforto: l' immagine di Raul disparve ed ella si rimproverò quasi la felicità provata in sogno.

Il conte Adalberti ormai si recava egli pure tutte lo mattine al cimitero.

Miranda lo ritrovava ora appoggiato ad una colonna, ora intento a leggere qualche epigrafe, sempre inappuntabilmente vestito di nero, ciò che rendeva più spiccata la grazia elegante della sua persona, il viso bruno pieno di dolcezza e sentimento.

Miranda non si sentiva più sola nella vita. In quelle ore di profondo sconforto, di sofferenza, si persuadeva di avere accanto a sè qualcuno che la comprendeva, soffriva forse al pari di lei.

Una mattina la giovine stava disponendo con semplicità e rassegnata espressione di dolore un fascio di fiori sulla tomba dei suoi cari e Raul poco distante la guardava con attenzione e riverenza, quando l' orecchio di entrambi fu colpito da alcune grida strazianti di donna.

Per un impulso subitaneo, generoso, i due giovani, seguìti da Grazia, la governante di Miranda, si slanciarono da quella parte e tosto scorsero una donna giovanissima, stesa sopra un fresco monticello, coperto di ghirlande, e che si dibatteva in un accesso di dolore, gridando con accento disperato:

— Figlia… figlia mia!…

Raul tentò sollevarla, le rivolse qualche parola di conforto, che esasperò ancor più la violenza della sua disperazione.

— Lasciatemi… chi siete voi? — gridò volgendo gli occhi accesi sul conte Adalberti — io non vi conosco: potete rendermi mia figlia? Aldina… Aldina… angelo mio, no, tu non puoi rimanere sotto questa terra, che ti pesa, ti schiaccia… io ti porterò via…

E furiosa raspava colle unghie ii monticello umido, stracciandone i fiori, insanguinandosi le dita.

Miranda si era avvicinata a sua volta, si era messa ginocchioni e con ineffabile tenerezza, con quella voce che scendeva all' anima:

— Povera madre — mormorò — piangete che ne avete ben ragione, nessuno potrà surrogare nel vostro cuore la figlia che avete perduta.

La giovane donna alzò la testa, guardando Miranda con aria smarrita.

— Non la rivedrò più — balbettò — ed era così bella; come mi sorrideva, chiamava mamma, e adesso sulla sua culla non vi è che un bianco lenzuolo, e la mia Aldina sta qui sotto.

— No, povera donna — replicò Miranda — ella è volata in cielo, e di lassù, vedete, vi sorride ancora, prega per voi.

Al suono di quelle parole ispirate, grosse lacrime scesero in copia sulle guancie della giovane donna: i suoi sguardi si portarono al cielo.

— È lassù? — ripetè sommessa, pensosa.

— Ne dubitereste! — aggiunse Miranda con soave commozione. — E quando il Signore vi chiamerà a sè, la vostra Aldina vi verrà incontro, bella come l' avete lasciata.

La povera madre l' ascoltava estatica: le si asciugavano le lacrime negli occhi.

— Oh! venga presto quel momento — balbettò — e che voi siate benedetta per la speranza che avete infusa nella mia anima. La rivedrò? Potrò baciarla ancora? Ah! se Dio volesse, potrebbe prendermi subito con sè.

Le si rischiarava il sembiante: l' angoscia di prima aveva dato luogo ad un po' di calma.

Miranda si era rialzata e la sua bella fisonomia appariva turbata e commossa.

Raul, che era rimasto in piedi vicino a lei, mormorò sottovoce, come se temesse commettere un' indiscrezione:

— Voi siete una santa.

Miranda arrossì vivamente, ma con una semplicità dignitosa:

— No — rispose — appartengo anch' io alle creature terrestri, che hanno molto sofferto; però ho compreso lo strazio di quella povera madre e come dovesse riuscirle di conforto una parola di speranza.

Si erano staccati di alcuni passi dal monticello, dove la giovane madre sedette, per riunire in ghirlanda i fiori sparpagliati.

Il custode si era allontanato e Grazia si fermò a breve distanza dalla sua padrona.

Il conte Adalberti abbassò ancora più la voce.

— Perchè allora non ne date qualcuna anche a me? — disse.

L' altero pudore di Miranda non fu allarmato da queste parole. Ella fissò i suoi occhi mesti su Raul.

— Avete forse perduta qualche persona amata? — chiese con accento di pietà.

— Sono solo al mondo…

Miranda chinò il capo e stette in silenzio, ma un sentimento confuso l' agitava.

La somiglianza della sua situazione con quella del giovane, la riempiva di turbamento.

— Avete forse anche voi seppelliti qui tutti i vostri cari?

— No, signorina; io ho perduti i miei genitori a Torino, dove io pure nacqui; poco v' importerà sapere il mio nome, essendovi sconosciuto. Mi chiamo Raul Adalberti.

Miranda rialzò il capo, guardandolo con una specie di meraviglia.

— Non mi siete tanto straniero quanto credete — rispose con ingenua franchezza — Se non m' inganno, avete fatto parte di una spedizione, partita qualche anno fa per l' Affrica e della quale parlarono i giornali…

Il giovane apparve commosso.

— È vero — rispose con semplicità — ma in tale spedizione ho arrecato da parte mia così poco vantaggio alla scienza ed alla civiltà di quei popoli, che arrossisco nel sentirla ricordare da voi.

Egli s' interruppe; parlando si erano messi lentamente a camminare ed erano giunti presso la cappella della famiglia Clementi. Un senso d' infinito rispetto assalì il giovane, m entre la fanciulla era ritornata pallida, seria.

— Voi mi avete fatto dimenticare per un momento i miei morti — mormorò — Vedete, se io non venissi a trovarli ogni giorno, non potrei vivere.

— Ma non diceste a quella povera donna che gli spiriti di coloro che ci hanno amati sopravvivono, e ci sorridono dalle alte sfere? — replicò piano Adalberti — Sotto quelle tombe non rimangono quindi che fredde spoglie; le anime dei vostri morti, come dei miei, ci seguono invisibili dappertutto, sono sempre vicini a noi. Quando, spossato da lungo cammino, io mi stendevo sul nudo suolo africano e fissavo lo sguardo in quei mondi luminosi, che scintillavano sopra il mio capo, pensavo che in una di quelle stelle vi era forse mia madre e mi sentivo confortato e le inviavo dei muti baci. Qui sotto i corpi dormono l' eterno sonno, ma lassù le anime vivono pure eternamente.

Miranda riportò il suo sguardo commosso su Raul.

— Avete ragione — disse — nonostante mi parrebbe un sacrilegio, se dovessi abbandonare queste tombe.

E fatto un leggero inchino col capo, entrò nella cappella seguìta dalla governante.

Il conte Raul si allontanò.

Da quel giorno i due giovani s' incontrarono spesso; ma nel recinto dei morti non scambiarono più una sola parola.

Raul attendeva Miranda all' uscita del cimitero e l' accompagnava per un tratto del viale.

I loro discorsi erano semplici, ingenui come quelli di due fanciulli e trascorse più di un mese, senza che Raul azzardasse una sola parola, che mostrasse a Miranda lo stato del suo cuore.

Eppure egli l' amava come un pazzo. Sin da quando aveva parlato per la prima volta a Miranda, sin da quando ella l' aveva guardato con quegli occhi così limpidi, puri, che riflettevano l' anima tutta intiera, Raul comprese che la sua vita sarebbe stata indissolubilmente legata a quella di lei.

Il suo scetticismo era caduto: tutti i suoi dubbî, i suoi sarcasmi sull' amore, la fedeltà delle donne, erano svaniti, dal momento che quell' immagine soave di fanciulla aveva preso possesso del suo cuore.

Con quale impazienza attendeva ogni giorno il momento in cui poteva vederla, parlarle!

Erano colloquî di pochi minuti, ma bastavano per renderlo felice per il resto della giornata.

Una mattina, il conte Adalberti attese invano la giovinetta: ella non si recò al cimitero.

Raul passò una giornata d' inferno. Per lunghe ore passeggiò dinanzi alla casina, le cui finestre si mostravano intieramente chiuse.

Sperava di vederne uscire qualcuno, ma attese inutilmente.

Alla sera ritornò, non sapendosi allontanare da quel luogo, che racchiudeva tutto il suo cuore.

Passò rasente il muricciuolo, stette in ascolto presso la porticina, ma nulla udì.

La casina rimaneva sepolta nel silenzio, e nell' oscurità.

Eppure Raul non si mosse, finchè il vento notturno portò sulle sue ali i dodici colpi di mezzanotte, suonati agli orologi della città.

Passò una notte agitatissima, febbrile. All' indomani fu la stessa cosa ed egli era già deciso a porre da banda ogni timore e presentarsi a Miranda, quando nell' avvicinarsi alla porta della casina, vi vide entrare un prete.

Che vi andava a fare? La fanciulla era forse ammalata? A questo pensiero sentì dilaniarsi il petto.

— L' attenderò — disse fra sè — Egli non potrà ricusarmi di rispondere; oh! almeno non tardasse tanto.

Ed appoggiandosi ad un albero del viale, incurante della pioggia che bagnava i suoi panni, gli sferzava sul viso, attese che il prete uscisse dalla casina.

Miranda non era ammalata, ma aveva lo spirito inquieto, agitato, si trovava in una singolare situazione d' animo.

Ella amava Raul. Forse le circostanze nelle quali si era incontrata col giovine, avevano contribuito a commuovere il suo cuore, a sviluppare un sentimento fino allora a lei ignoto.

La giovinetta non cercò di dominare subito le proprie sensazioni, nè compresse i palpiti del seno.

Non era già una di quelle passioni sfrenate che spezzano qualunque argine, che sconvolgono talvolta il cervello di una fanciulla; ma un amor soave, olezzante della più squisita poesia, un amore immenso, ardente, capace dei più eroici sacrifizî.

Quando Miranda non potè più nascondere a sè stessa che amava il conte Adalberti, provò un infantile terrore.

Ella si tenne chiusa per un giorno intero nella sua camera, si astenne dal recarsi al cimitero per evitare l' incontro del giovane, ma checchè facesse, non potè schermirsi dal pensare a lui: il suo cuore, già tanto esulcerato, aveva troppo bisogno di espandersi, di amare.

Ma a chi confidarsi? Ella pensò che nessuno sarebbe stato più degno del prete, che conosceva così bene lo stato della sua anima, che l' aveva così spesso consolata colle sue pietose, sante parole.

E lo mandò ad avvertire che venisse a lei.

Quando don Ambrogio, così si chiamava il dabben sacerdote, fu introdotto nella saletta dove Miranda stava lavorando, questa arrossì vivamente e i suoi occhi brillarono di una chiara luce.

— Grazie di esservi arreso alla mia preghiera — disse baciandogli la mano — ma avevo tanto bisogno di voi.

Don Ambrogio sorrise mestamente.

— Quand' anche non mi aveste mandato a chiamare, figliuola mia — rispose sedendo vicino a lei — mi avreste oggi veduto, perchè venivo a raccomandarvi un' altra povera famiglia, che per la morte improvvisa del suo capo, si trova ridotta nella più assoluta miseria.

— Sapete bene, don Ambrogio, che la mia borsa è a vostra disposizione.

— So che nessuno ricorre inutilmente a voi — replicò il prete — e siete una di quelle poche creature, che fanno credere all' esistenza degli angeli.

Le guancie di Miranda si fecero scarlatte; ella si ricordava che Raul le aveva detto un giorno le stesse parole.

Ma tosto divenne seria, e con accento grave:

— Io invece mi accorgo — mormorò — di appartenere alla debole umanità, e ne giudicherete voi stesso, se avrete la bontà di ascoltarmi.

— Parlate, figlia mia…

Miranda, senza esitare, con semplicità e fermezza insieme, gli fece la confessione del suo amore, gli aprì il cuore come avrebbe fatto con una madre; provava una inaudita commozione, pure nel sentimento che l'invadeva, pareva attingere novella forza e vigore.

Don Ambrogio l' ascoltò serio in viso.

— Credete che tutto ciò che vi disse quel giovane sia la verità? — chiese, dopo un momento di riflessione.

— Perchè avrebbe dovuto mentire?

— Povera fanciulla, voi non sapete di quali arti si servono gli uomini per far cadere nei loro lacci le innocenti, che hanno segnate; tuttavia voglio credere che colui sia un uomo onesto, io me ne informerò, lasciate fare a me. Siete sola al mondo, bella, ricca e troverete forse più di uno che cercherà di affascinarvi; ma state in guardia, figlia mia, andate cauta prima di lasciar parlare il vostro cuore.

Miranda alzava la bionda testa con un' aria graziosa ed altera insieme.

— Io non ebbi finora nella vita altro amore che quello di mio fratello e delle persone che ho perdute — disse con accento commosso — e credevo che il mio cuore non avrebbe mai più battuto, io avrei finiti qui i miei giorni, isolata dal mondo, dalla società, che non mi attirò mai. Molti giovani ho conosciuti, mi sono passati vicino, senza che il mio cuore accrescesse un sol battito, ma da quel giorno che nel cimitero incontrai quell' uomo pallido, triste, al pari di me, mi parve che un divin raggio m' irradiasse l' anima.

E pregando sulla tomba di mio fratello, chiesi se era una colpa in me pensare a quello sconosciuto, aprire l' anima ad altri affetti. E mi parve di sentire la voce di Umberto che mi rispondesse: “ Non rimproverarti la gioia che provi, amalo, se è degno di te. ” — Pensai allora che Dio tòcco dalle preghiere dei miei cari, mi avesse mandato un cuore devoto, fedele, per proteggermi, confortarmi. E lasciai che il mio cuore si espandesse, poi ebbi paura.

Il prete non l' aveva mai interrotta.

— Vi ha egli parlato d' amore?

— No, — rispose francamente Miranda, mentre la fronte le s' illuminava di una celeste fiamma — ma io lo lessi nei suoi occhi, come egli deve averlo letto nei miei. Ora ho voluto consigliarmi con voi. Se il giovane sarà indegno del mio affetto, per quanto possa costarmi, vi prometto dimenticarlo.

— Brava! — esclamò don Ambrogio con sincera emozione — Voi mi consolate colle vostre parole, perchè mi mostrano come in voi il dovere sia ancora sempre più forte dell' amore, cosa rara ai nostri giorni. Ed io, dal canto mio, vi prometto di non indugiare un istante ad occuparmi di voi e, se Dio mi esaudisce, sarò il primo a benedirvi, figli miei.

Quando don Ambrogio lasciò la fanciulla, questa si ritirò subito nella sua camera per pregare.

E pensava alle parole del prete, e quanto le sarebbe riuscito doloroso strappare tutte le illusioni che si era formate sul giovane.

Anche all' indomani non si fece vedere e verso sera se ne stava pensierosa in compagnia di Grazia e Rosina, quando fu suonato dolcemente il campanello.

Senza sapere il perchè, il cuore di Miranda battè con forza.

— Chi può mai essere a quest' ora? — disse con vivacità.

— Forse don Ambrogio — rispose Rosina — vado a vedere.

Era proprio il buon prete, ma non solo: con lui vi era Raul.

Quando entrarono insieme nel salotto, la fanciulla a bella prima credette venir meno: dovette portarsi una mano al petto, agitato dai precipitosi battiti del cuore, e rimase muta, immobile, inebriata come in un sogno, che temeva veder dileguarsi al minimo movimento.

Il conte Adalberti, dal canto suo, avrebbe voluto slanciarsi ai piedi della giovinetta, dirle quanto l' adorava, mostrarle tutta la felicità di cui si sentiva invaso.

Ma le grandi emozioni sono sempre mute, forse perchè nessuna parola varrebbe ad esprimerle.

Don Ambrogio, benchè commosso, presentò il giovane a Miranda, aggiungendo queste parole:

— Amatelo, egli è degno di voi.

Le ore di quella sera scorsero come un lampo: un luminoso riflesso raggiava in volto a Miranda, cui la tetra melanconia non aveva mai abbandonata dalla morte di suo fratello.

Raul, che fino allora aveva ammirato nella fanciulla la bellezza, la semplicità, fu soggiogato in quella sera dalla sua coltura ed intelligenza.

Potè trattare molti argomenti con lei e n'ebbe sempre risposte piene di assennatezza e perspicacia.

Il giovane non aveva mai provata una così completa felicità. Pensare di essere amato da quel tesoro di grazia, d' innocenza, poterla dire in breve sua, era non avere da desiderare più cosa alcuna al mondo.

Miranda dimenticava in quel momento le dure ambascie che avevano posto a crudeli prove la sua vita, aveva un'assoluta e serena fede nell' amore di Raul e nei suoi limpidi sguardi brillava l' affetto profondo, che egli le aveva ispirato.

Don Ambrogio presentò pure il conte Adalberti all' avvocato che curava gl' interessi della fanciulla ed egli si congratulò di quel matrimonio, perchè conosceva il censo di Raul ed era in rapporti con parecchi della sua illustre parentela, sicchè trovò che la signorina Clementi non poteva fare una scelta migliore.

Il matrimonio fu combinato per tre mesi dopo. Intanto Adalberti si sarebbe recato a Torino per preparare un appartamento degno della giovane sposa, che doveva abitarlo.

Certamente a Miranda le rincresceva lasciar Firenze, ma Raul promise che tutti gl' inverni sarebbero venuti a passare un mese nella città dei fiori, e la fanciulla ne fu contenta.

D' altronde i morti a lei tanto cari, non sarebbero stati trascurati, nè dimenticati. Grazia e Rosina non avrebbero abbandonata la casina sul viale dei Colli, e tutte le mattine le tombe della famiglia Clementi, sarebbero state coperte di fiori freschi.

Il marchese Carini e pochi altri amici di Raul seppero dell' unione che stava per contrarre il conte e se ne congratularono con lui, non senza lasciarsi sfuggire qualche barzelletta, qualche frizzo piacevole.

— Avete rinvenuta infine la fenice che cercavate? — gli chiese sorridendo il marchese.

— Spero di sì — rispose Raul con giovanile entusiasmo — e ne giudicherete voi stesso quando ve la presenterò; frattanto io sono il più felice degli uomini.

— Tanto meglio: io vi auguro che duri sempre così.

Dei parenti della fanciulla non fu avvertita che una vecchia zia, che aveva conservato ancora buoni rapporti con Miranda, mentre gli altri, dopo le catastrofi successe, la fuggivano, incolpandola come la sola cagione delle sventure accadute.

Il tempo che i due fidanzati stettero divisi, se fu da una parte doloroso, non fece però che rendere più intenso, grande, forte il loro amore. La lontananza accresce sempre un sincero affetto, mentre estingue i capricci del cuore.

Miranda e Raul si scrivevano tutti i giorni. E le loro lettere non erano piene di quelle vane, ampollose frasi, che sono per lo più il linguaggio di coloro che amano colla fantasia; ma spiravano una schietta semplicità, un profumo soave d' innocenza, che mostravano la bontà di cuore, la mente elevata dei due giovani.

Miranda le pareva che lo spirito di suo fratello si rallegrasse per quell' unione: le sembrava di compiere il supremo voto di lui; però la calma, la serenità erano nella sua anima e ritrovava le gioie pure della sua fanciullezza, e le sue preghiere si alzavano al cielo con ardore appassionato.

Giunse così il giorno del suo matrimonio.

Quando la vecchia zia le pose sul biondo capo il velo da sposa, Miranda provò per un momento uno stringimento al cuore.

Si ricordò del giorno in cui ella aveva adempito allo stesso uffizio con Tecla. Quanti avvenimenti da quel giorno! Quanti dolori, lotte e disperazione!

Una lacrima spuntò nei suoi occhi, ma la voce soave di Raul, che la chiamava, l' asciugò subito… ed un sorriso irradiò il suo volto di una bellezza angelica, affascinante.

Il marchese Carini, che aveva accettato di far da testimonio allo sposo, provò una viva ammirazione, unita a profondo rispetto, dinanzi a quella splendida incarnazione di gioventù, purezza, beltà, quale appariva Miranda.

— Va'… siete proprio fortunato — mormorò a Raul — bisognava veniste voi dall' Affrica a scovarla ed a rapircela…

Compiuta la cerimonia religiosa e civile, e dopo una splendida refezione, i due giovani sposi furono lasciati soli.

Era la prima volta che potevano, senza testimoni, espandere liberamente i loro cuori.

Miranda, già vestita dell' abito da viaggio, giacchè dovevano partire col treno della sera, sedeva sopra un basso divano; Raul, vicino a lei, le cingeva con un braccio la vita.

Per alcuni minuti non pronunziarono parola, ma il respiro ardente di Miranda, gli sguardi brillanti di Raul, mostravano la piena della loro felicità.

— Come sei bella — mormorò infine il conte — quanto ti amo. Ripetimi che sei contenta di avere il mio nome, di essere mia moglie?

— Lo sono, Raul — disse con sublime schiettezza la giovine sposa — il mio cuore, che non ha mai battuto d' amore che per te, prova in questo giorno una gioia infinita, che non potrei spiegarti. Io non ho mai tentato di celarti il sentimento che mi facesti provare la prima volta che t' incontrai, ti ho amato, e ti amo con tutta l' anima mia: sono tua adesso e per sempre.

Raul la strinse sopra il suo cuore: aveva le lacrime agli occhi.

— Come è dolce il suono delle tue parole — le sussurrò — ah! Dio è buono, perchè mi ha concesso l' amore di uno dei suoi angeli… in te ormai ho comprese tutte le gioie, tutte le speranze della mia vita, noi non ci separeremo mai più.

La baciò dolcemente sui biondi capelli per un sentimento gentile, delicato. Nessun pensiero terreno turbava in quell' istante il loro purissimo amore.

Un' ora prima di partire, i due giovani erano inginocchiati nella cappella della famiglia Clementi. Miranda prima di alzarsi, prese un fiore che era sulla tomba di Umberto e se lo nascose in seno.

— Sarà il mio talismano — disse.

Raul l' imitò.

Il momento di separarsi da Grazia, don Ambrogio, Rosina, fu un po' doloroso per Miranda. Pure vedendo le lacrime negli occhi di tutte quelle buone persone, cercò sorridere.

— Tornerò presto — disse — e non vi dimenticherò mai. Don Ambrogio, pregate per me; Grazia, ti raccomando le tombe dei miei cari; Rosina, non piangere così, lo vedi, sono tanto felice.

Ella aveva ragione e le lacrime furono presto rasciugate.

Tuttavia, quando Miranda si trovò sola con Raul nel compartimento del treno che partiva per l' Alta Italia provò una vaga angoscia, come se non dovesse più tornare a rivedere quei luoghi, a lei tanto cari.

Ma un bacio di Raul fugò quella nube ed ella si strinse al petto lui, fidente in quell' amore devoto, in quella protezione sicura, che ormai era tutta la sua vita, il suo avvenire….

— E così, non è ancora tornato il signore?

— No, madama, e venivo appunto a chiederle, se dovevo far mettere la minestra.

— Attendiamo ancora cinque minuti.

Questo dialogo avveniva in un salone, abbagliante dallo splendore degli specchi e delle lumiere, addobbato con un lusso chiassoso, che faceva vivo contrapposto con l' esteriore semplicità della casa, posta in uno dei più vecchi quartieri di Torino.

I quadri che adornavano le pareti della sala, rappresentavano dei soggetti che avrebbero fatto arrossire la donna meno pudica, come certi libri illustrati sparsi sui tavolini, avrebbero prodotto nausea e ribrezzo nell' uomo il più cinico.

Ma una delle persone che parlava, stando seduta sopra un' ampia poltrona presso un camino, dove ardeva un gran fuoco, non aveva mai conosciuto il pudore, e pareva anzi compiacersi di quelle turpi mostre, dell' oscenità che la circondava.

Era la contessa Livia tanto ingrassata, che non pareva più che un ammasso di carne biancastra, molliccia, col viso che portava l' impronta di tutti i vizî, colle mani cariche di anelli, che si compiaceva far scintillare alla fiamma del camino.

In verità quella donna era un tipo da studiarsi. A parlarle di coscienza, di rimorso, c' era da vederla scoppiare in una risata; non pensava che al male, non sapeva che farne. Spesso veniva colta da furori nervosi, che la facevano prorompere in violenze, ingiurie, bestemmie, ma finiti quegli accessi ritornava ciarlona, con una dolcezza artefatta, peggiore delle sue collere.

Quando Michele l' ebbe lasciata, si mostrò così aspra, tempestosa, esasperata, che Pallina, tremante di paura stette per più giorni giorni rifugiata nella sua camera, temendo che quella burrasca si scatenasse su di lei.

Ma infine Livia parve ritornare in sè, e guardandosi attorno stordita, con occhi di bragia, chiese a sè stessa, che le fosse avvenuto.

Alla morte della figlia non ci pensò più. Tanto che le importava? Da quella parte non avrebbe più potuto ritrar nulla.

Meditava sul da farsi e intanto continuò a tener ricevimenti, giuoco, a porre in mostra Pallina, allorchè le fu presentato un individuo, che ebbe subito su di lei molta influenza.

Lo chiamavano Quattroventi, non si sapeva di dove venisse, ma passava per ricchissimo.

Forse era una spia, perchè la Questura non l' aveva mai molestato.

Quattroventi doveva essere prossimo alla sessantina, ma i suoi capelli e baffi, oltremodo tinti, erano neri e lucenti come l' ebano: vestiva colla massima eleganza e faceva pompa alla cravatta, alle dita ed ai polsini, dei più bei brillanti.

Fino dalla prima sera, egli fece una corte assidua a Livia: una settimana dopo era con lei nella maggiore intimità e sul finire di una cena succulenta in due, se qualcuno avesse origliato alla porta, avrebbe inteso Quattroventi dire alla contessa, con dolce confidenza:

— Oh! rassicurati, così non avrai da comprometterti e guadagneremo da ambe le parti: era da lungo tempo che cercavo una donna come te, e non mi era mai riuscito trovarla. Ti ho svelati tutti i miei progetti, perchè desideravo convincerti; tu sola adesso conosci la mia esistenza; quand' anche non accettassi la mia alleanza, sono sicuro che non mi tradirai.

La voce di Livia risuonò chiara, vibrata.

— Ma io non esito un istante ad accettare — esclamò.

— No, non voglio farti prendere all' improvviso un impegno, di cui potresti poi pentirti: rifletti.

— Ho già riflettuto — replicò Livia sorridendo — e non ho paura del successo. In fondo poi si tratta di far la vita da gran signora, e sarei una sciocca se rifiutassi. Che m' importa se qualcuno verrà compromesso o si perderà per cagion mia!… Non ho scrupoli, nè rimorsi.

Quattroventi la fissava con cinica ammirazione.

— Quà la mano — aggiunse con impeto — dunque sei decisa?

— Sì.

— Bada però che ci vuole fedeltà da ambe le parti e che del nostro segreto non sia messo a parte alcuno.

— Se ti occorre un giuramento…

— No… no, ho fede in te…

Gli occhi di Livia scintillarono dal piacere.

Un mese dopo questo discorso, la contessa abitava un sontuoso appartamento fattole addobbare da Quattroventi a Torino.

Anche Livia aveva assunto un nuovo nome; la chiamavano madama Flora.

In poco tempo fu rinomatissima fra la gioventù titolata e dorata torinese, che nelle sale di lei trovava il modo di sperperare allegramente il patrimonio.

In casa di madama Flora si giuocava moltissimo e si era sicuri di trovarvi sempre qualche fiore esotico, che Quattroventi, nei suoi viaggi misteriosi, trasportava a Torino, dove non tardava ad essere posto in mostra.

Madama Flora doveva avere però qualche altro lucroso provento, oltre quello che le preveniva dalle belle ragazze, alle quali dava generosa ospitalità, e dai viziosi giuocatori, perchè faceva una vita splendida, scialacquava il denaro.

Ma nessuno si curava di sapere di dove le pervenisse.

Pallina, che cominciava ad appassire, e dopo una lunga malattia si era trovata quasi dissanguata, coi lineamenti plumbei, il corpo sfiaccolato, e soffriva di quando in quando delle emicranie terribili, era stata da Livia elevata alla carica di guardarobiera ed aveva lei sola il maneggio di tutta la biancheria, e spadroneggiava alquanto nella casa, senza che madama Flora se ne mostrasse adontata.

Una mattina la contessa rientrava a casa dopo una lunga passeggiata in carrozza, allorchè fu raggiunta sotto il vestibolo da un mendico, sordido di panni, che le chiese l' elemosina.

Madama, che era di buon umore, si volse sorridendo.

— Vieni su — disse — te la darò.

Ma fu sorpresa, vedendo il mendìco indietreggiare, guardandola con occhi ardenti.

— Livia! — balbettò.

— Michele! — esclamò dal canto suo la contessa — Ah! ah! lo pensavo che un momento o l' altro dovevamo incontrarci ancora, ma non avrei mai creduto di vederti in tale stato.

Michele rimaneva come inebetito, incapace a rispondere.

— Orsù — replicò Livia — malgrado il modo poco gentile che mi trattasti l' ultima volta, non ti serbo collera: vieni, muoio di voglia di discorrere con te.

Michele la seguì a stento, sbalordito fino dal primo entrare nell' appartamento della contessa, inciampando nei folti tappeti, vergognoso di vedere la sua immagine riprodotta negli alti specchi.

Madama Flora sgridò in sua presenza i domestici che non si trovavano nell' anticamera, pronti a riceverla e ad una cameriera accorsa, ordinò che portasse nel piccolo salotto una bottiglia di barbera e dei biscotti.

Il piccolo salotto era un nido civettuolo, imbottito di raso celeste e pareva creato per degli innamorati.

Livia vi fece entrare Michele, che non si azzardava neppur sedere, e il cui sbalordimento andava crescendo.

— Se avesti dato retta a me — disse la contessa slacciandosi i nastri del cappello di velluto, carico di piume e posandolo su di una poltroncina, insieme all'ampio copri-tutto, foderato di pelliccia — non ti troveresti in tale stato. Ma ora non voglio farti rimproveri: siedi e mesci un bicchiere di barbera per entrambi.

Egli eseguì macchinalmente: la bottiglia tremò nella sua mano, tanto che un po' di vino scorse nella sottocoppa.

— Malaccorto! — aggiunse Livia ridente.

Sedette vicino a lui, con aria trionfante, le guancie infiammate.

Bevvero.

Michele sentì tosto come se un nuovo sangue gli circolasse per le vene e quasi inconscio, balbettò:

— Come fa bene.

Poi soggiunse sottovoce:

— Ho molta fame.

Livia pareva ascoltarlo con una compiacenza infinita.

— Mangia quei biscotti — disse — poi ti farò preparare qualche cosa di più solido; vedi che vuol dire avere della superbia; sembrava che tu, senza di me, dovessi riuscire a qualche cosa di grosso: dimmi adesso, chi dei due ha vinta la partita?

Michele taceva, vergognoso, umiliato, ma divorando avidamente i biscotti.

Livia continuò:

— Vedi pure che io non sono quella trista che tu dicevi: dove saresti finito stasera, se io avessi finto di non riconoscerti?

— Passiamo oltre — interruppe Michele.

Madama Flora gli mescè ridendo un bicchiere raso.

— Hai ragione, non ci bisticciamo prima di essere giunti in fondo alla bottiglia. Dimmi piuttosto che è stato di te, dopo che ci siamo lasciati.

Michele rimase un istante interdetto, senza rispondere; poi scuotendo lentamente la testa:

— Non lo so — riprese — ho idee confuse nel cervello — mi pare di aver camminato molto per il mondo, d' aver cercato del lavoro, poi di essermi annoiato, infine di essere giunto qui vagabondando, senza saper che fare di me stesso, digiuno da più giorni, quasi deciso di recarmi alla Questura, e costituirmi prigioniero.

— Ed io mi sono trovata in tempo sulla tua strada, per impedirti di commettere una tale corbelleria — disse Livia, cui il vino bevuto e l' aspetto del miserabile infondevano una dolcezza straordinaria. — Malgrado il modo indegno che usasti con me, io dimentico tutto ed invece di metterti a pan secco ed acqua pura, potrai qui bere ogni giorno, comodamente, la tua bottiglia di vino scelto, e non ti mancheranno i cibi delicati. Hai ancora delle osservazioni da fare? Tieni sempre in serbo i tuoi scrupoli?

Durante questo discorso, Michele si guardava attorno, come soggiogato da quel lusso che lo circondava, da quella beatitudine che gli si prometteva. Poi riportava i suoi sguardi su Livia, trovandola di una freschezza superba, con quel seno prominente, quella carnagione di latte.

Ed era tutto intenerito e quel poco di coscienza che ancora gli era rimasta, si assopì. Dètte uno sguardo ai cenci da cui era ricoperto, strappati, inzaccherati di fango, alle scarpe sfondate e ne fece un confronto con l' abito di seta, la morbida pelliccia indossata da Livia e sorrise stranamente con una gaiezza triviale ed apatica al tempo stesso, e mormorò:

— Fa' di me quello che vuoi, purchè non mi scacci.

Livia ebbe un' esclamazione di trionfo.

La sera stessa, Michele riposava in un bel letto a baldacchino, morbido, caldo, in una camera elegante, con armadio a specchi, tavolini, sofà imbottito, col pavimento coperto di tappeto ed un caminetto dove ardeva costantemente il fuoco.

Livia, coi domestici, le cameriere e lo stesso Quattroventi, fece passare Michele per un suo lontano parente, che le disgrazie avevano gettato sul lastrico.

Pallina però lo riconobbe subito, ma le premeva troppo il suo posto per menar la lingua, quindi tenne in sè le sue riflessioni e fece buona cera a Michele, che dal canto suo pareva averla dimenticata.

Nei primi giorni, preso da vertigini e da nausee, egli potè appena trangugiare qualche cucchiaiata di brodo e rimase a letto, con una febbre gagliardissima.

Quando tornò in sè, scorse Livia al suo capezzale, che gli disse ridendo:

— Credevo volessi tirare le cuoia, ma si vede che hai una natura robustissima, perchè adesso ogni pericolo è passato.

— Sono stato adunque male?

— Piuttosto, però le mie assidue cure…

Michele diventò rosso, tentò ringraziarla.

— Stattene quieto — rispose Livia — ed ascoltami. Fra due o tre giorni, sarai al caso di alzarti, ed io ti ho già procurato un impiego presso di me. Cercava appunto un uomo di fiducia che mi aiutasse nel disbrigo degli affari, durante l' assenza di Quattroventi.

Egli la guardava stupefatto.

— Chi è costui?

— L' uomo al quale devo la mia presente fortuna: se ho fatto lega con lui, è appunto perchè ci ho trovato il mio tornaconto. Del resto a che pro' fare adesso delle inutili ciancie? Tu mi servirai in quanto ti ordinerò, senza chiedermi il perchè di una cosa e dell' altra. Puoi fare il signore con poco lavoro, che brami di più? Credo non farai la pazzia di rifiutare.

— Tutt' altro!..

— A proposito: levami una curiosità: hai saputo più niente di Miranda? Ho letto tempo fa sui giornali di un processo per duello, in cui si parlava della morte di Clementi: anche lui se n' è andato, ma della sorella ignoro la sorte; non ebbi tempo a pensarci, occupata in cose più serie.

Gli occhi di Michele restavano spalancati, fissi sulla contessa. Il suo volto rugoso, screpolato, come quello di un vecchio, aveva subìto una leggiera trasformazione.

— Non ne so più di te — balbettò — Miranda ha venduta la sua palazzina a Firenze ed è sparita, senza lasciar traccia.

Livia si mise a ridere.

— Scommetto che indovino dove si è recata.

Michele ascoltava attentamente e alcune goccie di sudore stillarono dalla sua fronte.

— Dove? — chiese con voce bassa, incisiva.

— A raggiungere il principe Cars.

Michele non replicò.

Una settimana dopo, il complice di Livia passeggiava per gli appartamenti della contessa, sorvegliando tutto, colla carica di maggiordomo, di cassiere.

Era vestito tutto a nuovo, ed aveva voluto un abito nero, con berretto uguale.

Pareva uno spettro, non rivolgeva mai la parola ai domestici e spesso restava seduto presso al fuoco, come dimentico di sè stesso, collo sguardo fisso sulla fiamma, non riscuotendosi, che quando Livia veniva a battergli sulla spalle e lo chiamava a nome.

Michele capì in breve tempo da qual fonte impura provenissero le ricchezze di Livia, il benessere di cui godeva. Ma in quella gran casa equivoca, dove povere ragazze venivano perdute, dove si vendevano alla Questura gli altrui segreti, si concludeva ogni giorno un patto infame, egli aveva trovato un asilo inviolabile.

Non ne provava più ribrezzo, non aveva più il minimo desiderio di mettersi in lotta coi bisogni della vita. Forse anche aveva perduta la chiara e rapida percezione delle cose e si dava in balìa ad impulsi estranei alla sua volontà.

Un solo ricordo era persistente, abituale, quotidiano in lui. Il ricordo di Tecla morta e di Miranda che lo privava dell' ultimo sguardo alla donna tanto pianta, tanto adorata.

E più gli si risvegliava cocente febbrile il desideric di quella morta, più sentiva di odiare Miranda.

Tutto il resto lo lasciava indifferente.

Livia non lo tormentava, era troppo lieta d' averlo riacquistato, e sopratutto di avere un uomo, al quale poteva con tutta sicurezza affidare il suo denaro. Ella lo preferiva sempre a Quattroventi, sebbene questi esercitasse su di lei una influenza straordinaria.

Il commercio della contessa andava prosperando: ella impinguava, dandosi nessun pensiero delle conseguenze delle sue malvagie azioni. Passarono così cinque anni.

Quel giorno, in cui Livia attendeva Quattroventi, per mettersi a tavola, era di buonissimo umore; ma poi al placido sorriso che schiudeva le sue labbra, subentrò un increspamento nervoso.

— Metti in tavola — disse alla cameriera — e peggio per chi rimane fuori.

Si alzò a stento dalla poltrona, avendo le gambe indolenzite. Il suo portamento, già così altero, era divenuto goffo; il busto pareva incapace a ritenere quel corpo enorme, dondolante.

Ella passò nel salotto da pranzo, tappezzato in stoffa grigia a fiori, col soffitto dipinto ad amorini.

Era preparato per tre coperti, ed al posto di madama vi era un ampio seggiolone a molle.

— Chiama Michele — disse, dopo che fu seduta.

La cameriera uscì in fretta.

Il complice di Livia non tardò a comparire, stretto nel suo abito nero, che lo faceva sembrare più magro, col berretto calato sugli occhi.

— Si vede che oggi nessuno ha fame — esclamò la contessa con un sogghigno malizioso e crudele. — Non sapevi che era l' ora del pranzo?

— L' avevo dimenticato.

Livia mostrò i bei denti con una lunga risata.

— Sei dunque sempre nelle nuvole? Pensi forse ancora a tutte le sciocchezze del passato? — domandò.

Michele non rispose; teneva gli occhi fissi sul piatto, moveva le labbra in un tremito.

Livia era ritornata contenta come una pasqua; mangiava, dandogli la baia, perchè egli aveva assaggiati appena i cibi, buttandogli sul viso motteggi, scherzi, insulti. Michele si stringeva tacitamente nelle spalle.

Verso la fine del pranzo, giunse Quattroventi. Era di cattivissimo umore e si mise a bisticciarsi con madama.

Michele approfittò di quel contrattempo per lasciare i nosservato il salotto e, passato nella sua camera, si tolse il berretto, vi sostituì un cappello a cilindro, indossò con molta cura un soprabito impellicciato, mise i guanti e l'occhialino ed uscì di casa.

Non aveva direzione fissa, ma passando dinanzi al teatro Scribe si fermò per curiosità a leggere il cartellone. Vi agiva una compagnia francese e in quella sera si rappresentava un dramma di Dumas.

Mancava ancora una buona mezz' ora, prima che cominciasse lo spettacolo; nonostante Michele entrò, prese in affitto un palchetto di terza fila, verso il proscenio, e si mise macchinalmente a passare in rassegna l'elegante società, che andava riempiendo poco a poco il teatro.

E pareva proprio che tutte le notabilità torinesi si fossero in quella sera ivi dato convegno: era un barbaglìo di brillanti, di acconciature vezzose, di spalle nude; un concerto di risa, di armonici mormorii.

Michele pensava fra sè, che fra tutte le signore che vedeva, nessuna poteva paragonarsi a Tecla, al suo ideale svanito, alla povera morta, che dormiva sotterra.

E trasportato dalle sue melanconie, si diceva che forse molte di quelle splendide figure, che sorridevano all' ombra dei palchetti, sembravano felici, avrebbero avuta una fine tragica, lugubre.

L' alzarsi del sipario, gli fece appostare l' occhialetto alla scena e stette intento al primo svolgersi del dramma, non perdendo un gesto, una parola degli attori.

Finito l' atto, lasciò di nuovo errare le pupille indifferenti da un palchetto all' altro. Ma ad un tratto i suoi occhi si arrestarono fissi, lampeggianti, e tutta la sua persona fu assalita da un tremito.

In un palco di seconda fila, aveva veduta una figura bionda, soave di donna, che subito riconobbe.

Era Miranda.

La commozione di Michele fu profonda, fortissima. Sperò un istante di essersi ingannato, chiuse gli occhi, ma quando li riaprì, Miranda era sempre dinanzi a lui, più bella che mai, colle guancie freschissime, rosse, la fronte calma e serena, le labbra sorridenti.

Ella vestiva un abito di raso bianco accollato, ma che tuttavia non nascondeva le sue forme, fattesi più sviluppate, perfette.

Una collana di perle le cingeva il collo: agli orecchi aveva due brillanti di una grossezza meravigliosa ed un pettine, tempestato pure di brillanti, sosteneva le sue bionde treccie.

Vicino a lei eravi un bel giovane, dalla figura maschia, espressiva, dal sorriso dolcissimo, dagli occhi raggianti di fiducia, di amore. Egli parlava di quando in quando con Miranda, fissandola con tenerezza, mentre la giovine donna gli sorrideva con grazia ineffabile.

Forse se Michele avesse ritrovata un giorno Miranda triste, afflitta, ammalata, avrebbe sentito calmare il suo odio contro di lei; ma rivedendola felice, amata, ammirata, la sua avversione, il desiderio di vendetta si accrebbero.

La giovine si era dunque maritata? Ma con chi? Come si trovava a Torino? Vi era di passaggio o vi abitava? In quali circostanze era avvenuto quel matrimonio?

Tutte queste domande si faceva Michele, non distogliendo un solo momento lo sguardo da lei. Il dramma continuò senza che egli vi ponesse più la minima attenzione: tutti i suoi sguardi, i suoi pensieri, erano concentrati in quel palchetto, che racchiudeva due felici.

Ogni sorriso di Miranda accresceva l' irritazione astiosa di Michele, che mormorava fra i denti:

— Godi, godi, ne avrai per poco. Tu forse mi hai dimenticato, mi credi morto. Ma vivo ancora e non dimentico io!

Con ansiosa impazienza, attese che lo spettacolo finisse.

Poco prima discese nell'atrio ed aspettò che le belle spettatrici, avvolte negli eleganti mantelli impellicciati, gli sfilassero dinanzi. Di tanto in tanto, sentiva gridare il nome di un felice fortunato che possedeva una carrozza propria, e rapida una coppia usciva sul marciapiede, saliva e la carrozza prendeva la corsa.

Miranda discese delle ultime. Si appoggiava al braccio del marito, che le parlava sommesso, sorridendo. Colla destra, la giovane donna sollevava il lungo strascico, ornato di trina.

Nel passare accanto a Michele fu lievemente urtata nel gomito. Si volse e il suo sguardo si posò per un secondo sulla livida faccia del complice di Livia.

Non lo riconobbe. Michele chinò lievemente il capo come per chiedere scusa, ma la giovine donna non badava già più a lui.

Una voce gridò:

— La carrozza del conte Adalberti.

E Michele, pieno di sbalordimento, vide Miranda salire col marito in un' elegantissima vettura, tirata da due focosi cavalli, che partirono al trotto.

Michele ebbe il pazzo pensiero di seguire la carrozza alla corsa, ma ad onta del suoi sforzi, non riuscì a raggiungerla e gli scomparve presto dinanzi.

Egli ebbe un movimento d' ira, ma quasi tosto si rifece calmo.

— Che m'importa di seguirla? — disse. — Ora so il nome del marito e Miranda non mi sfuggirà più.

Ed asciugandosi il sudore, che, malgrado il freddo pungente della notte, gli scorreva sulla fronte, si diresse lentamente verso casa.

Miranda era felice. Da quasi cinque anni che si trovava maritata, nessuna nube era venuta ad offuscare il sereno purissimo del suo amore.

Raul l' adorava. Egli aveva trovata in lei non solo una dolce compagna della sua esistenza, ma una donna di mente elevata, che sapeva comprenderlo, aveva formato del focolare domestico, un piccolo angolo di paradiso.

La gioia dei due sposi si accrebbe colla nascita di una bambina: un amore, che fino dai primi mesi sembrava promettere tesori d' intelligenza e di letizia.

La piccola Maria crebbe sulle ginocchia della madre, vezzeggiata continuamente dal padre, cui la nascita di quella creaturina aveva ispirato un nobile orgoglio, gli era stata promessa di un ridente avvenire.

Miranda, felice, altera della sua maternità, pareva ritrovare per quella fanciullina nuove forze, delicatezze e vigore. Quante volte, mentre ella sedeva con Maria stretta al seno, il conte Raul si era fermato a contemplare estatico quell' adorabile gruppo ed aveva quindi stretto madre e figlia in un solo, inebbriante amplesso…

Raul non era più l' uomo triste, burbero, annoiato di tutto, mal compreso, imbarazzato.

Pareva ringiovanito, aveva ritrovata la vivacità dell' infanzia, e dimenticando i suoi rischiosi progetti di altra volta, s' inebriava al contatto di quell' angelo di devozione e candore, che Dio gli aveva destinato.

In quella sera, appena tornati da teatro, Miranda e Raul, tenendosi per mano, entrarono pianamente nella camera, dove la loro bambina dormiva presso la governante.

Una lampada, col lucignolo a metà abbassato, illuminava fiocamente la stanza.

Maria dormiva nel suo piccolo letto a baldacchino, stesa in un grazioso disordine sotto le lenzuola ricamate, con un braccino nudo appoggiato al cuscino, sostenendo la testina, seminascosta dai copiosi e lunghi riccioloni. Il respiro tenue, regolare, mostrava la tranquillità di quel sonno dell' innocenza.

La governante vegliava ancora, intenta a porre in ordine l' abitino bianco, le calze di seta celeste, le eleganti scarpuccie della bambina.

Raul e Miranda rimasero per un momento a contemplare estatici la loro creatura, le sfiorarono un ricciolo con un lieve bacio e si ritirarono in silenzio.

Ma giunti nella loro camera, la giovine donna gettò le braccia al collo del marito e con un sorriso tutto affetto:

— Non ti pare che la nostra Maria si faccia ogni giorno più bella? — disse. — Essa ti assomiglia tutto.

Raul baciò sulle labbra la moglie.

— Di' piuttosto, mio tesoro, che è il tuo ritratto — rispose. — Ed è quello che desidero, perchè non potrà riuscire che una perfezione.

Ella fece un gesto pieno di grazia.

— Adulatore! — esclamò arrossendo.

— Tu sai bene che dico la pura verità — replicò Raul con manifesta esaltazione, stringendo appassionatamente la moglie al petto — ma siccome la tua modestia ne soffre, non ne parliamo più e dimmi piuttosto quando credì che si possa partire per la nostra gita annuale a Firenze?

Miranda si fece lievemente mesta.

— Quando tu lo vorrai — disse.

— Allora io direi di metterci in viaggio la prossima settimana, giacchè la stagione è così propizia e Maria si trova in ottima salute.

Egli s' interruppe, perchè vide gli occhi di Miranda empirsi di lacrime.

— Che hai? — domandò con vaga inquietudine.

— Nulla, mi sembra di essere troppo felice; tu sei così buono con me, tutto ci va così a seconda, che temo sempre debba accadermi sventura.

— Bambina — soggiunse Raul sorridendo ed accarezzandola dolcemente.

— Forse hai ragione, ma tant' è, non so vincere tali debolezze che pur riconosco indegne di me e talvolta provo degli strani presentimenti, delle impressioni dolorose, che mi producono un' improvvisa tristezza, perchè mi sembra di scorgere in essi come un avvertimento del cielo e mi profetizzano una prossima, inevitabile sciagura.

— Non lo dire — mormorò Raul con accento commosso — tu così buona e pia, non dovresti prestar fede a stoltezze prive di base, e che possono avere influenza non solo sul morale, ma alterarti la salute.

E l' attirò di nuovo al suo petto, baciandola con tenerezza sugli occhi umidi, finchè la vide sorridere ancora.

Miranda dimenticò ben presto quella fugace e triste impressione.

Il conte Adalberti si recava quasi ogni sera al Circolo a passarvi un' ora, a fare una partita cogli amici, a leggere i giornali.

Una sera s' impegnò una discussione fra lui ed un vecchio generale in ritiro, sulle armi da fuoco. Cominciarono a parlare di fucili, poi di pistole.

— Voglio mostrarvene una, che non ha mai fallito il colpo — esclamò Raul.

— La tenete addosso? — chiese il vecchio generale.

— No, no, porto difficilmente delle armi con me, perchè mi conosco troppo. Io sono facilissimo ad irritarmi e talvolta mi sono inasprito così, che se avessi avuta una pistola indosso, non avrei esitato a far fuoco. Meglio quindi che eviti ogni occasione di giuocare per imprudenza, o per un moto di collera, la felicità della mia intiera vita, tanto più adesso, che mi trovo marito e padre fortunato…

— Allora come mi mostrerete la vostra pistola? — interruppe il generale, al quale poco importava la tirata sentimentale di Raul.

— Ve la porterò domani sera.

Ed infatti all' indomani, il conte Adalberti se la mise in tasca. Ma il vecchio generale aveva già dimenticata la discussione avvenuta e la promessa di Raul, e non si trovava al Circolo.

Il conte si disponeva a leggere i giornali, allorchè gli venne consegnata una lettera, che ivi era stata indirizzata.

Quella lettera portava il bollo della Posta di Torino.

Raul ebbe un movimento di stupore: ne esaminò la sopraccarta. Il carattere gli era ignoto.

L' aprì e ne trasse due foglietti. Il primo che spiegò lo rese quasi fulminato: aveva riconosciuto il carattere di sua moglie, ma un po' alterato, come se Miranda avesse tracciate quelle righe, sotto l'impulso di un senso di terrore.

Raul dominò con sovrumano sforzo l' emozione che l' aveva ad un tratto investito. Lesse:

Principe Cars,

“ Voi mi avete perduta e mio fratello sta per tornare. Come nascondergli la mia colpa? Mi sembra di diventar pazza. Salvatemi, o mi uccido.

“ Miranda. ”

Il biglietto portava la data di sette anni prima.

Raul rimase un istante senza forze, senza voce, con l' occhio atono, fisso su quei caratteri, che parevano danzare a lui dinanzi una spaventosa ridda.

Poi si strinse fortemente la fronte fra le mani convulse, rialzò il capo con l' atto di una belva pronta a lanciarsi sulla preda.

— Non sogno, non sogno! — balbettava.

Spiegò l' altro foglio: non era firmato e conteneva queste parole:

Conte,

“ Chiedete alla vostra virtuosa moglie, quanti amanti si ebbe prima che le deste il vostro nome. Quante volte ha ricevuto il principe Cars, di notte, durante un' assenza del fratello. Con chi si è battuto questi, e perchè. Sono certo che rimarrete edificato, come sono persuaso che la casta Miranda, si sarà guardata bene dal farvi palese il suo vergognoso passato, a meno che la ricchezza di lei vi abbia reso indulgente… ”

Il conte Adalberti cercò di strapparsi la cravatta che gli cingeva il collo, perchè si sentiva soffocare.

Non aveva mai sofferto così spaventosamente: il rossore della vergogna gl' imporporava la fronte.

Per fortuna che in quel momento si trovava in una sala deserta del Circolo.

Nessuno poteva vedere le sue smanie, assistere alla sua disperazione.

No, non pensò che quel biglietto anonimo fosse un tessuto d' infamie, di menzogne: il foglio vergato da Miranda attestava che colui o colei che gli scriveva si basava sul vero.

E così era stato giuocato da una giovinetta creduta pura, innocente, da un prete che stimava onesto, venerabile.

Oh la rara fenice che aveva rinvenuta! Quella donna dal volto candido, celestiale, non era adunque che un impasto di doppiezze, di vergogne.

Era per questo che si teneva nascosta in quella casina, lungi da tutti gli sguardi. E non era il dolore che la traeva ogni giorno alla tomba del fratello, ma il rimorso d' averlo colla sua infame condotta tratto alla tomba.

Tutte queste idee passarono confuse, disordinate nel cervello di Raul, mentre un ruggito gli gorgogliava in petto, le sue unghie facevano a pezzi i due biglietti.

Quando si accorse di averli distrutti, provo un moto d' ira, ma poi al turbine delle violenti emozioni successe un po' di tregua.

Lasciando il Circolo appariva quasi calmo, ma cupi ed incerti lampi brillavano ogni tanto nei suoi occhi, la sua mano destra stringeva con forza la pistola che aveva nella tasca destra del soprabito ed era manifesto che accadeva nel suo interno una lotta formidabile, che doveva avere un drammatico risultato.

Raul, come sappiamo dal prologo del nostro racconto, si presentò un po' bruscamente nel salotto di Miranda, spaventando la piccola Maria.

Dopo avere mandata a letto la bambina, si ritirò colla moglie.

La giovane contessa comprese che qualche cosa di strano avveniva nell' animo del marito, ma era ben lungi dall' immaginare la spaventosa verità, ed appena si trovarono soli, gli appoggiò con atto grazioso le manine sulla spalla, e cercando di guardarlo negli occhi, disse con dolcezza:

— Stasera non sei del solito umore: che ti è accaduto?

Il conte Adalberti ebbe un movimento di collera. Il contatto di quella leggiadra donna, della quale aveva ciecamente creduto essere l' unico amato o che adesso reputava colpevole, gli fece dimenticare la volontà di rimaner calmo. Gli parve d' essere stato il ridicolo zimbello di lei, e crudelmente irritato:

— Non ho nulla — rispose — lasciami.

Il volto sorridente di Miranda si fece oscuro: ella lasciò cadere le braccia, pur guardando ansiosa, preoccupata il marito. Negli occhi di lui, nel tremito della voce, capì che doveva esserci qualche cosa di grave.

Sedette silenziosa.

Raul passeggiò alquanto per la camera, poi fermandosi all' improvviso dinanzi alla giovine donna, senza alzare od alterare la voce:

— Dimmi un po' perchè si è battuto tuo fratello, e con chi? — chiese — Credo bene aver diritto di saperlo.

Miranda divenne pallida e lo guardò con gli occhi spalancati per lo stupore e l' ambascia.

— Io non te l' avrei nascosto se tu me l' avessi chiesto — rispose con far triste, rassegnato — Ma hai sempre evitato di ricordarmi così dolorose memorie e te ne ero grata. Ma se ora vuoi saperlo, tal sia. Il mio povero Umberto si è battuto con un giovane, che l' aveva insultato.

— E tu lo conoscevi quel giovane? — aggiunse il conte Adalberti, concentrando la sua collera in una fredda ironìa.

— Sì — replicò risoluta Miranda, benchè il cuore le palpitasse forte, non sapendo comprendere la ragione di quelle domande — egli mi aveva fatta inutilmente la corte e chiesta la mia mano, e siccome mio fratello gli dichiarò francamente che io non volevo saperne, il giovane l' insultò.

— È assai strano: dunque fu per cagion tua, che tuo fratello si è battuto in duello… ed è morto?

Miranda si portò le manine alla fronte.

— Non me lo ricordare, te ne prego — balbettò — mi fa troppo male, oh! non sorridere per amor del cielo, Raul, soffro atrocemente, tanto più che non comprendo questo cambiamento in te così buono, affettuoso.

— Aggiungi piuttosto stolido e cieco.

Miranda lo guardava con smarrimento: si alzò in piedi e con un gesto supplichevole:

— Raul, Raul, dimmi che io sogno — esclamò — è impossibile che tu mi faccia un male così orrendo senza, ragione: devono avermi calunniata presso di te; ebbene dimmi tutto e se hai qualche prevenzione, qualche sospetto, io li distruggerò con una sola parola.

La sua voce si era fatta così dolce, pietosa, che doveva toccare il cuore del conte.

Ma egli era troppo prevenuto contro di lei e senza osservare quelle angeliche sembianze, che manifestavano la più crudele angoscia:

— Nessuno ti ha calunniata — esclamò — non si falsa la verità… E non è forse vero che tu hai conosciuto il principe Cars, che lo ricevevi di notte nell' assenza di tuo fratello?

E Raul si era avvicinato a lei e la fissava cogli occhi ardenti, minacciosi, attendendosi uno scoppio di rivolta, d' indignazione, oppure un grido di dolore, di protesta.

Nulla! La disgraziata donna era rimasta come fulminata; il suo viso livido faceva pietà a vederlo: gli occhi, ingranditi dal terrore, sembravano voler schizzare dalle orbite: la gola, secca, stretta, non lasciava uscire alcun suono.

Eppure nella sua anima avveniva una lotta spaventevole. Doveva ripetere a Raul quello che un giorno aveva raccontato al fratello? Avrebbe il conte creduto? E non sarebbe stato profanare la memoria d' una morta?

Quel silenzio fece affluire il sangue alla testa di Raul: le sue arterie battevano così da scoppiare.

— Rispondi, rispondi: non sei tu stata l' amante del principe Cars? — ripetè con indicibile violenza.

L' infelice martire, con uno sforzo disperato, si portò le mani alla gola, come per far comprendere che si sentiva soffocare, che non le era possibile pronunziare parola.

E quel silenzio fu la sua condanna, perchè il conte, al colmo del furore, non la comprese e, convinto della colpa di lei, con un atto più rapido del lampo, trasse la pistola che aveva in tasca e fece fuoco.

Miranda, colpita al cuore, cadde fulminata ai piedi del marito.

Raul la fissò occhi stralunati, la bocca increspata.

Compiuto l'assassinio, era tornato di repente in sè.

Non provava rimorso: gli pareva d' aver fatta giustizia.

Miranda per lui era colpevole; non vi era più ombra di dubbio.

E con quali arti aveva saputo ingannarlo, farsi credere la più pura di tutte le donne!

— Ha preferito morire che scolparsi — mormorò — ah! la miserabile, che ha distrutta tutta la mia esistenza. E dire che l' ho tanto amata!…

E pensò a quei cinque anni passati vicino a lei, alla felicità che gli aveva data.

Poi scosse fortemente il capo:

— Che non mi abbia ingannato anche in questo frattempo — mormorò — avevo troppa fiducia in lei.

Poi pensò che altri era a parte di quei segreti, che forse si ridevano di lui e cacciò un gemito di rabbia.

Fu in quel momento che entrò il suo cameriere.

Il resto lo sappiamo. Raul aveva fatto egli stesso avvertire il Procuratore del Re, che aveva assassinata la moglie, assistette impassibile a tutte le perizie, si lasciò condannare, senza trovare una parola per giustificare la sua condotta, senza confessare il motivo che l' aveva indotto a compiere il suo delitto.

E dire che il vero colpevole, l' autore della lettera infame, assisteva freddamente al processo, senza mostrare alcuna commozione, senza un rimpianto per la fine della sventurata Miranda…

Quell' uomo, inutile il dirlo, era Michele.

Egli si era infine vendicato ad usura della povera martire, senza però rivelare alla contessa Edvald il suo segreto.

Madama Flora ignorava quindi affatto che l' eroe di quel clamoroso processo, di cui ella leggeva avidamente il resoconto nei giornali, era il marito della signorina Clementi.

A Raul Adalberti pareva impossibile che l' autore dell'anonima lettera, non si fosse rivelato durante il suo processo, e quando fu ricondotto in carcere, dopo la sua condanna, incrociando le braccia sul petto, col capo chino, mormorò:

— Ebbene, lo troverò io quando avrò scontata la mia pena, come andrò in cerca del principe Cars. La mia sete di punizione non si è estinta colla morte di Miranda, e in dieci anni di reclusione avrò tempo a meditare le mie vendette.

Eravamo nel mese di maggio. La giornata si annunziava deliziosa: il sole incominciava a far capolino dietro le creste dei monti e gli uccelli salutavano il suo risveglio con gorgheggi di gioia; un capriccioso venticello scherzava tra i fiori, rubandone il profumo.

Tutto era poesia e vita sulle splendide colline che circondano il bel lago di Como.

Molte delle ricchissime ville mostravano i balconi già spalancati, segno che gli abitatori amavano ricevere il primo bacio del sole primaverile, le prime fragranze della natura.

Sopra un viale fiancheggiato da piante annose e fronzute, che conduceva all' ingresso di una sontuosa villa, camminava lestamente una fanciulla di forse quindici anni, una di quelle figurine incantevoli, che sembrano create per ispirare l' estro di un poeta o infiammare la fantasia di un pittore.

Nulla di più corretto ed espressivo del suo sembiante; nulla di più soave dei suoi occhi, che parevano riflettere tutto l' azzurro del cielo.

Ella era vestita di una specie di tonaca color paglierino, annodata alle spalle con nastri color ciliegia, e di un bianco guarnello tutto a volanti di trina, che lasciava scorgere delle calze di seta color crema e le scarpine di marrocchino nero, ricamate d' oro.

Il capo non aveva altro ornamento all' infuori della splendida, lucida capigliatura, color castagno dorato, divisa in due grosse treccie, che le cadevano al disotto della vita pieghevole, sottile, di una squisita eleganza.

Quella fanciulla era Maria Adalberti. Il conte Leo Adalberti, suo zio, dopo la visita fatta in prigione a Raul, era partito subito con sua nipote per quella villa, che egli stesso aveva fatto fabbricare qualche anno prima e dove certamente non credeva di ritirarsi, dopo un così funesto avvenimento.

Il conte Leo Adalberti era scapolo ed aveva condotto una vita gaia, tempestosa, da allegro buontempone.

Ma dal giorno che Raul era stato condannato e la piccola Maria gli venne affidata, il conte Leo la ruppe col mondo intiero: tutta la sua esistenza fu assorbita da quella fanciulla che adorava e dalla quale era ardentemente amato.

Per due anni Maria dette a temere per la sua vita. L' impressione suscitata in lei dal tragico avvenimento che aveva funestata la sua infanzia, il terrore che aveva risentito alla vista del padre, influirono sul suo delicato organismo.

Dormiva a stento e spesso si svegliava con delle grida acute, chiamando la mamma con voce ansante, smarrita, non calmandosi che quando il conte la circondava del suo braccio, la stringeva al cuore, dicendole che non l' avrebbe mai lasciata.

Pure a poco a poco nell' aria pura della campagna, sotto le cure incessanti del conte Leo e di Nany, che aveva seguìta la fanciulla, questa potè riacquistare la salute ed il vigore, e se ricordava sempre le scene succedute, il suo dolore non era più così acuto, la sua amarezza così angosciosa.

Il conte Leo, in unione a Nany, completarono l' educazione della fanciulla.

Maria era avida di sapere: non trascurava nessuno degli insegnamenti che le venivano dati: il suo intelletto si andava sviluppando in modo mirabile.

Il conte andava entusiasta di sua nipote: vicino a lei provava un benessere così profondo, così soave, che non rimpiangeva certamente le emozioni tumultuose del suo passato.

In quella fanciulla regnava un incanto così misterioso e verginale, che attraeva quanti l' avvicinavano.

Aveva compiti i quattordici anni, quando una sera, dopo cena, mentre eseguiva sul pianoforte una melanconica romanza, s' interruppe ad un tratto e corsa a sedere su di uno sgabello di velluto, che era ai piedi della poltrona, dove il conte stava seduto, nascose il viso sulle ginocchia di lui e scoppiò in dirotto pianto.

Il conte Leo ne fu spaventato.

— Che hai Maria, mio amore? — chiese, cercando sollevarle il capo.

Ella lasciò sfuggire un singulto.

— Via, parla, parla — aggiunse il conte con angoscia.

— Oh! zio, se tu sapessi — balbettò Maria a stento — mentre svolgevo quella pagina di musica, che non avevo mai prima suonata, mi parve che una rimembranza si ridestasse in me: quelle note io le aveva già sentite quando ero piccina, ed era la mamma che l' eseguiva.

S' interruppe, lasciò ricadere la testa sulle ginocchia dello zio e continuò a piangere.

Il conte non la turbò: si accontentava di quando in quando accarezzarle dolcemente i capelli.

A poco a poco Maria si calmò ed alzato il viso soave:

— Zio — disse con voce quasi ferma — tu devi saperlo, perchè il papà ha ucciso la mamma?

Le ciglia del conte si aggrottarono ed il suo volto espresse una vaga perturbazione.

— È un segreto fra tuo padre e Dio — rispose gravemente — quello che posso dirti, Maria, si è che io non lo credo colpevole.

— Non ha confessato egli stesso l' assassinio? — interruppe la fanciulla con impeto.

— Sì, ma ciò non basta a provare la sua colpa. Non potrebbe darsi che il colpo gli sia sfuggito inavvertitamente? Ho veduto spesso tuo padre maneggiare senza prudenza delle armi da fuoco.

Maria scuoteva la testa.

— Se così fosse stato — mormorò — l' avrebbe detto e si sarebbe affrettato a chiedere soccorso, avrebbe pianto, ma invece io la vedo sempre la mamma stesa a terra col suo abito bianco tutto coperto di sangue, vedo un uomo vestito di nero, prendermi dalle braccia di Nany e porgermi verso mio padre, esclamando:

“ — Lo direte alla vostra piccina perchè le avete uccisa la mamma. ” — E il papà volse la testa dall'altra parte e non rispose.

Il conte Leo rimaneva pensieroso.

— Eppure il papà l' amava, la mamma — seguitò la fanciulla con voce mestissima, velata di pianto — la baciava sempre prima di me, quando veniva a casa o ci stringeva al petto insieme. Vedi, zio, nel mio cuore sono rimaste impresse tutte quelle memorie e non si cancelleranno più!

— Io non ti dico di obliare, perchè il culto dei ricordi è sacro ad ogni anima gentile — esclamò il conte sospirando — ma bisogna rassegnarsi e sopratutto fa duopo tu pensi che rivedrai un giorno tuo padre.

Maria si fece pallida e provò suo malgrado quel brivido di terrore che s' impossessava di lei quando era bambina.

— Rivederlo? Ah! non ne avrò mai il coraggio.

— Maria! — disse severamente il conte — Qualunque sia la colpa di tuo padre, non puoi erigerti a suo giudice. Dio ti punirebbe.

La fanciulla curvò la bella fronte.

Ella capiva di far male, sentiva di non avere il diritto di odiare l' uomo al quale doveva la vita; arrossiva di quei pensieri come di una colpa che avesse commessa; ma vi erano ore nelle quali la sua anima esulcerata si ribellava, e dal cuore le usciva questo grido angoscioso:

— Non l' amo, non posso amarlo: ha uccisa mia madre!

In quella mattina, che percorreva il viale che conduceva all'ingresso della villa, Maria pareva aver ritrovata l'allegria della sua età.

Aveva i piedini lesti, la fronte alta, gli occhi vivaci, il sorriso sulle labbra, e pareva felice di respirare quell' aria mattinale, che le rinfrescava il viso, le metteva in cuore mille buoni e giocondi pensieri.

Un bel cane levriere, dal collarino d' argento, correva innanzi e indietro, saltellando, facendo mille festeggiamenti alla bella padroncina, che di quando in quando lo sgridava con dolcezza.

Ma non erano giunti al cancello che l' intelligente bestia partì come una freccia, in un salto ne varcò i ferri e andò a posare le sue sottili zampe sull' abito di un giovinotto, in elegante abito da mattina, che si avvicinava all' ingresso della villa, guardandosi attorno, come se avesse timore di essere spiato.

Il viso del giovinotto era proprio degno di ammirarsi. Aveva una carnagione rosea e fresca come quella d' una fanciulla: capelli ed occhi nerissimi, una deliziosa bocca sormontata da due mustacchi nascenti, dei denti abbaglianti. Era alto e spigliato, e non sembrava avere più di diciotto anni.

Maria, vedendolo, si fece assai rossa ed apparve impacciata e confusa.

Il giovine, dal canto suo, era evidentemente imbarazzato, e si sfogava ad accarezzare e baciare il levriere.

Poi si fissarono con uno sguardo che era una carezza ed essendosi entrambi avvicinati al cancello, si toccarono la mano attraverso i ferri, mormorando:

— Signorina Maria!

— Signor Vittorio…

Poi rimasero per un momento silenziosi.

Non vi era bisogno di molto acume per comprendere che i due giovinetti si amavano di quel primo e puro amore che è un' emanazione del cielo, l' unione di due anime pure.

Essi si erano conosciuti due mesi prima, in un modo abbastanza romantico.

Maria era uscita in compagnia della sua governante ed avevano presa una stretta viuzza di campagna, allorchè si videro venire incontro un grosso cane da pastore, con irto il pelo, l' occhio sanguigno, la bocca spumosa.

La fanciulla gettò un grido di terrore e indietreggiò, fuggendo verso la villa…

Nany, pur essa impaurita, la seguiva a stento. Tuttavia il cane si avvicinava sempre più e stava per raggiungerla, quando si udì lo sparo d'un fucile e mentre la bestia ruzzolava al suolo, raspandolo colle zanne, nelle supreme convulsioni dell' agonìa, un giovinetto, con ancora l' arma fumante in mano, sbucò fuori da una siepe, esclamando:

— Finalmente l' ho colto, è da mezz' ora che gli davo la caccia.

Nany e Maria si erano fermate, l' una guardando con ribrezzo il cane che rimaneva immobile, l' altra il giovane cacciatore, che si era tolto rispettosamente il cappello.

— Era forse arrabbiato? — chiese la governante con un brivido.

— Sissignora — rispose il giovane arrossendo, perchè Maria continuava a guardarlo — e giorni che si aggira da queste parti e ne avevamo le traccie…

— Ah! senza di voi ci avrebbe — esclamò la governante commossa — io ho avuto una gran paura, non tanto per me, quanto per la mia signorina.

Il giovane salutò di nuovo, mentre Maria conuna vocina un po' tremante:

— Quanto vi dobbiamo — esclamò con uno sguardo di riconoscenza — quando mio zio lo saprà, vorrà attestarvi la sua gratitudine.

— Non glielo dite allora, signorina — interruppe il giovane vivamente e con voce turbata — perchè ciò che io ho fatto non merita davvero un ringraziamento.

Dopo qualche altro scambio di complimenti, Nany e Maria ripresero la strada della villa, non senza però aver chiesto il nome del loro salvatore. Egli voleva sottrarsene, ma la fanciulla gli rivolse uno sguardo così tenero, che disse arrossendo:

— Mi chiamo Vittorio e sono l' unico figlio del principe Cars, che abita in quella villa che si scorge anche di qui.

E le additò colla mano un grandioso fabbricato, che si elevava su di un' altura.

— Ed io mi chiamo Maria — rispose a sua volta la fanciulla — e vivo presso mio zio e padrino, il conte Leo Adalberti, che abita in quella villa laggiù.

La presentazione era fatta. Maria, tornata a casa, parlò con vivacità dell' accaduto e chiese al padrino se conosceva il principe Cars.

— Sì, lo conosco, ma non l' ho mai avvicinato — rispose il conte — è un orso, che non esce quasi mai dalla sua tana; non visita, nè riceve alcuno. Suo figlio gli deve assomigliare.

— Oh! tutt' altro, zio — rispose vivamente la fanciulla — il signor Vittorio è un giovanotto amabile, gentile, ed ha dato prova di molto coraggio.

— Converrà ch' io scriva a suo padre per ringraziarlo.

Lo fece infatti, ma ne ebbe in risposta un biglietto così secco, che poco mancò facesse salire il sangue al cervello del conte.

“ Mio figlio non ha fatto che il suo dovere, nè vi era d' uopo che vi disturbaste a ringraziarmi ” aveva scritto il principe Cars.

— È proprio un orso — ripetè il conte, aggrottando le ciglia.

Ma guardando la nipote, che Vittorio aveva salvata dai denti di un cane arrabbiato, la sua fronte si spianò subito.

— Fortuna che il figlio non gli rassomiglia! — aggiunse.

Intanto i due giovinetti si rividero, si parlarono e nacque fra loro una specie di casta intimità.

Era un idillio soave, pieno di freschezza, che, per il solito, non aveva altro testimone che l' immensa campagna, inondata di luce e di vapori, piena di quelle meste armonie che rispondevano così bene allo stato della loro anima.

Tanto il principe Cars come il conte Adalberti non abbandonavano nella rigida stagione le loro ville; ma la brezza pungente invernale, la neve che riempiva le strade, non impediva che i due giovanetti s' incontrassero e potessero scambiare qualche parola.

A poco a poco si erano fatti meno timidi e più confidenti.

Un giorno Maria con ingenua semplicità chiese a Vittorio se il di lui padre fosse veramente così selvaggio, come dicevano.

Il viso del giovinetto si fece mesto.

— Mio padre è un uomo che deve avere molto sofferto nella vita — rispose — epperò il suo carattere è divenuto tetro, diffidente. Ma quando parla con me, se lo vedeste Maria, il suo viso sembra che subisca una specie di trasformazione: egli mi adora, come io ho per lui il più grande amore, la più viva ammirazione. Mio padre è stato il mio solo maestro.

— E la mamma non l' avete? — chiese ancora Maria.

— È morta che io avevo otto anni, ma la ricordo sempre — rispose Vittorio. — Mi pareva una di quelle statue bianche, che si mettono sui ricchi mausolei. È sempre stata ammalata ed io non la vidi mai passeggiare, uscire dalla villa: rimaneva continuamente distesa, e parlava poco. Io mi recavo a baciarla, poi mi sedevo in silenzio vicino a lei e non le toglievo mai gli occhi di dosso.

“ La mamma non faceva alcun movimento ed era proibito di alzare la voce in quella stanza, tanto che io ne uscivo sempre col cuore serrato, e rimanevo triste per tutto il giorno.

“ Una mattina, invece del cameriere, venne mio padre stesso a prendermi per portarmi dalla mamma.

“ Fui sorpreso di vederla coperta di un gran velo bianco e con dei lumi accesi attorno al letto. Guardai fra curioso ed impaurito: il viso della mamma era tranquillo come il solito, solo gli occhi erano chiusi e la bocca pareva sorridere.

“ — Baciala — disse mio padre — sarà per l' ultima volta!

“ Compresi allora che mia madre era morta e piansi tanto; ma i baci di mio padre asciugarono presto le mie lacrime ed io era troppo giovane per abbandonarmi lungamente al dolore. ”

Maria non rispondeva ed i due giovani rimasero per qualche tempo silenziosi.

Poi Vittorio chiese a sua volta:

— E voi, signorina Maria, li avete perduti entrambi i vostri genitori?

La fanciulla rossa, tremante, chinò il capo e con voce che parve un soffio, mormorò:

— Sì.

Vittorio era troppo delicato per fare altre domande.

Comprese che vi era un segreto in quel rossore, in quelle reticenze; ma lo rispettò.

In quel mattino i due giovani rimasero più silenziosi del solito. Eppure Maria aveva tante domande da fare a Vittorio, che da una settinana non aveva più veduto. La colpì però il cambiamento che notò subito in lui.

Benchè il giovane si sforzasse a sorridere, la sua fronte era più pensierosa del solito, lo sguardo triste.

— Mi perdonerete, signorina Maria — mormorò Vittorio con voce dolcissima — se vi ho fatta inutilmente aspettare per tanti giorni: ma non è per colpa mia, credetelo. Mio padre è stato gravemente ammalato.

Il visino di Maria, che già aveva preso una lieve espressione di corruccio, si fece tosto commosso.

— Oh! mio Dio — rispose — quanto avrete sofferto. E adesso come si trova?

— È fuori affatto di pericolo e stamani ho approfittato del suo sonno tranquillo per correre qui, giacchè il cuore me lo diceva che vi avrei veduta.

— Anch' io lo pensavo — esclamò ingenuamente Maria con un grazioso chinar di capo, tanto che una delle sue treccie sfiorò la guancia del giovinetto, che ne risentì una soave impressione.

Poi la fanciulla con un sorriso malizioso raccontò come fosse sfuggita alla sorveglianza della governante, che non voleva lasciarla scendere in giardino.

— Ma quando si accorgerà che l' avete fatto, avrete una sgridata — disse Vittorio preoccupato.

— No, non lo temete. Nany mi ama troppo per serbarmi collera.

— E da lungo tempo che l' avete con voi?

— Credo da quando sono nata — esclamò la fanciulla. — E Nany che da piccina mi raccontava certe storie meravigliose, che io poi sognavo dormendo. È lei che io vedevo per la prima al mio svegliarsi e mi sgridava quando ero cattiva, dicendomi che non avrei più riveduta la mamma in cielo.

Vittorio ascoltava Maria con ingenua ammirazione, e ad un tratto come spinto da un impulso subitaneo dell' anima:

— Lo sa la vostra governante che noi ci amiamo? — mormorò.

La fanciulla ebbe un trasalimento. Era la prima volta che il giovane si spiegava con tanta chiarezza, onde tutta confusa e arrossendo:

— Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo — sussurrò pian piano — perchè temevo m' impedisse di vedervi.

— Ed io pure — sospirò Vittorio — non ho ancora ardito parlarne a mio padre.

E facendosi serio e grave:

— Pure conviene uscire di questa situazione — aggiunse — voi mi amate, è vero, Maria?

Essa lo guardò con tenerezza ingenua ed appassionata insieme.

— Non avete bisogno di chiedermelo, Vittorio — rispose con franchezza.

Il giovinetto, al colmo della gioia, portò alle labbra una treccia di lei.

— Voi mi date il coraggio che mi mancava — esclamò — adesso non avrò più timore di parlare a mio padre.

— Ebbene — interruppe con gioia Maria — io pure mi farò forte e lo dirò allo zio: se sapeste come mi vuol bene!

— Ed io sono certo del consenso di mio padre, perchè egli mi ripete sempre che vuole la mia felicità… ed è pronto ad appagare qualsiasi mio desiderio. Ora io non desidero altro che di farvi mia moglie.

— Oh! come saremo felici! — esclamò la fanciulla, cogli occhi scintillanti di gioia.

Le teste dei due giovinetti si erano avvicinate attraverso i ferri del cancello: i loro aliti si confondevano.

E tacquero entrambi, immersi in un' ebbrezza deliziosa, dimentichi del mondo, smarriti nell' eternità dell' amore.

E non si accorsero di un uomo, che nascosto in una siepe vicina, sul sentiero dove stava Vittorio, non perdeva alcun loro movimento, alcuna parola di quel confidente colloquio.

Era un uomo giovane ancora ma dal volto di una pallidezza cadaverica, solcato da rughe profonde, che mostrava come egli avesse provati dei grandi dolori, delle forti sofferenze morali.

Una lunga barba, alquanto brizzolata, dava un' aria ancora più cupa e sepolcrale alla sua fisonomia: sotto la tesa del cappello, i suoi occhi avevano un luccichìo quasi sinistro.

Vestiva però con una certa accuratezza, aveva della biancheria finissima e portava i guanti.

I suoi sguardi si rivolgevano di preferenza a Maria e talvolta prendevano un' espressione di estatica ammirazione; tal' altra scintillavano di corruccio.

Quando il volto dei due giovinetti si era avvicinato quasi a toccarsi, lo sconosciuto fece un brusco movimento e dopo un minuto d' esitazione, balzò fuori dal suo nascondiglio.

A quell' improvvisa comparsa, Maria gettò un piccolo grido e fuggì via come un' allodola spaventata.

Vittorio invece rimase fermo al suo posto, ma commosso, tremante, come un colpevole colto sul fatto.

Lo sconosciuto salutò con quel modo serio e distinto che dinota l' abitudine della buona società, dicendo gentilmente:

— Perdonatemi, se vi ho disturbato, ma sono forestiere in questi luoghi e mi trovo in un brutto impaccio.

Vittorio aveva già ripresa la sua disinvoltura, e salutando a sua volta:

— Se io posso esservi utile in qualche cosa, signore — rispose con una timidità tutta grazia — disponete pure di me.

— Vi ringrazio. Volendo visitare i dintorni di Como, ho finito a perdermi tra le frane e le boscaglie, e non so più ritrovare la strada.

Vittorio, certo che per quel giorno non avrebbe più potuto vedere Maria, aggiunse con un sorriso:

— Se volete seguirmi, vi rimetterò io stesso sulla retta via.

— Non vorrei però recarvi disturbo.

— Non mi disturbate affatto, perchè non ho nulla a fare, e devo percorrere la stessa strada per ritornarmene a casa.

— Quand' è così, accetto con riconoscenza.

E lo sconosciuto, la cui fisonomia si era come per incanto illuminata, si mise in cammino col figlio del principe Cars.

Quell' uomo apparso in modo così strano e repentino, era il conte Raul Adalberti, il padre di Maria.

Se egli aveva commesso un delitto, l' aveva ben espiato durante i dieci anni di reclusione.

Parlava raramente con le persone, e spesso cadeva in tetri vaneggiamenti, che finivano per accasciarlo, per renderlo più debole di un fanciullo.

Raul non aveva più voluto rivedere alcuno, nè tenere qualsiasi corrispondenza. Pareva volesse spezzare ogni relazione col mondo intiero.

Solo quando alla notte non poteva dormire e colla testa appoggiata al capezzale, in una triste immobilità, gli occhi fissi nel vuoto, leggeva colla memoria nel passato, le sue labbra mormoravano sommesse, con passione, il nome della figlia, poi toglieva disopra al cuore, dove posava notte e giorno, il fazzoletto lasciato cadere da Maria, lo teneva alcun tempo sotto le sue mani incrociate, poi lo portava alle labbra coprendolo di baci e lacrime.

Egli non pareva più che l' ombra di sè stesso, quando si moveva col suo triste ed uniforme passo.

Il tempo che lentamente trascorreva non aveva calmata la piaga sanguinante del suo cuore. Il mondo aveva già dimenticato il suo nome e il lugubre processo di cui era stato protagonista; ma Raul non obliava, no!…

Non si pentiva di aver uccisa Miranda, perchè la riteneva colpevole; ma l' uomo che aveva armata la sua mano, aveva distrutta la sua vita, era ancora più colpevole della moglie.

E se lo figurava nel pensiero quell' uomo e diceva a sè stesso che solo il principe Cars, quell' ignoto che aveva amato Miranda, poi abbandonata, forse avendola ritrovata moglie felice di un altro, aveva usato quel mezzo vile per distruggere la sua felicità.

Difatti chi altri poteva possedere quel biglietto vergato da Miranda al principe?

E su Cars si concentrò tutto l' odio del conte Raul Adalberti. No, non bastava una vendetta ordinaria, una punizione volgare! Bisognava cercare qualche cosa di atroce, che valesse a colpirlo nel cuore, e farlo soffrire quanto egli aveva sofferto.

E nel silenzio, nell' isolamento del carcere, Raul meditava i suoi piani, si compiaceva nel pensiero di poterli un giorno mettere in esecuzione.

Quando Adalberti ebbe scontata la sua pena, si recò prima di tutto dal suo avvocato.

Questi lo riconobbe a stento, tuttavia l' accolse con gioia e si affrettò a mettersi a sua disposizione.

Raul seppe da lui in qual luogo il conte Leo Adalberti aveva condotta sua figlia.

Il desiderio di rivederla era grande nel conte; ma non si sarebbe fatto riconoscere: non ne era ancora tempo.

Raul dal suo avvocato si ebbe inoltre le chiavi dell'appartamento, che aveva abitato con Miranda.

Nessuno più vi era entrato dopo la sua condanna. L'avvocato si offrì di accompagnare il conte, ma questi rifiutò con un triste sorriso.

— Voglio essere solo colle mie memorie — mormorò.

Nel riporre il piede in quelle stanze parve a Raul di sentirsi cadere come un mantello di ghiaccio sulle spalle: provò un malessere indefinito, tanto che restò per qualche momento nel vano di una porta aperta, come se temesse d'entrare.

Finalmente si fece forza e percorse con moto febbrile tutte quelle camere deserte, che sembravano ancora piene di un' immensa mestizia, che avevano come un' eco funebre.

Quando fu nella camera da letto, Raul posò il lume sul camino e si lasciò cadere su d' una poltrona.

Degli acuti profumi erano stati sparsi in quella stanza per cacciarvi l' odore del sangue, e malgrado gli anni trascorsi, essendo sempre stata la finestra rinchiusa, quei profumi gli salirono al cervello, gli produssero una specie di vertigine, tanto che si alzò barcollando e andò ad aprire i vetri e spalancare le persiane.

Un soffio d' aria fresca lo colpì, lo ravvivò. Il conte si mise a respirare a pieni polmoni, quindi tornò a sedere.

Allora potè esaminare con più calma gli oggetti. I mobili erano ricoperti di un denso strato di polvere; fra i cortinaggi del letto erano stese delle gran tele di ragno, il tappeto portava ancora l' impronta delle macchie sanguinolenti, che vi aveva lasciate il corpo della vittima.

E su quelle macchie specialmente stettero fissi gli occhi del conte, tanto che pareva aver dimenticata ogni altra preoccupazione.

E a poco a poco gli si ricostruiva nella mente tutta la scena di quella notte. E dire che era bastata una lettera anonima per distruggere, schiacciare in un momento una famiglia, che così dolcemente riposava nell' avvenire. Ah! qualunque punizione non sarebbe mai stata bastante per il miserabile.

Perchè il conte l' amava sempre la donna che aveva uccisa. Non poteva perdonarle, ma ogni giorno che passava qualche dolce, soave ricordo, lo riconduceva collo spirito a lei.

Per cinque anni, Miranda era stata la gioia della sua casa, il suo orgoglio, la sua passione. Su quel guanciale che ora vedeva là coperto di polvere, fra l' ombra dei cortinaggi, ella aveva posata la sua bionda testa. E quante volte la notte aveva passate delle ore intiere a contemplare quell' angelico sembiante, fatto ancora più bello dal sonno.

Ed era possibile che quella giovine donna, dalla fronte così serena, dal sorriso tanto calmo, fosse stata colpevole ed avesse sempre mentito con lui?

Raul cadeva in quei dubbî tremendi, che erano la sua continua tortura. Di quando in quando, forse senza neppure che egli stesso se ne accorgesse, si passava una mano sugli occhi pregni di lacrime.

Per tutta quella notte, Raul non si mosse da quella camera. Il giorno lo sorprese livido come un cadavere, col volto solcato dall' angoscia, gli occhi fatti rossi e gonfi dal pianto versato.

Egli aveva vuotato l' amaro calice della disperazione sino all' ultima goccia.

Tuttavia ebbe senza dubbio vergogna del suo scoraggiamento, della sua debolezza, perchè a poco a poco rialzò l' altero volto ed i suoi sguardi ebbero una fiera espressione.

Egli rimase per qualche tempo a Torino, senza vedere altra persona che il proprio avvocato.

Una sera questi si portò da lui alquanto imbarazzato. Aveva ricevuta una lettera dal conte Leo Adalberti e non poteva rispondere, senza prima consultare il suo cliente.

Ma siccome nella lettera si trovava qualche frase che poteva dispiacere al conte, così l'avvocato non sapeva come contenersi.

— Se non è troppa indiscretezza la mia — disse — vorrei chiedervi dove fate conto di andare, lasciando questa città.

— Voglio prima di tutto rivedere mia figlia — rispose il conte, alquanto sorpreso da quella subitanea domanda.

— Quand' è così — replicò l' avvocato risoluto — non posso nascondervi la lettera, che ebbi stamane da vostro zio.

Raul impallidì spaventosamente, senza avere il coraggio di prendere il foglio, che l' altro gli tendeva.

— Mio Dio, vi annunzia forse qualche disgrazia?

— No, no, rassicuratevi — interruppe l' avvocato — prendete pure.

La mano di Raul tremava, era oppresso, sentiva inumidirsi gli occhi.

Pure si contenne e lesse vivamente il foglio.

Nelle prime righe non si parlava che di interessi, ma poi venivano le frasi seguenti:

“ Io credo che a quest' ora mio nipote sarà uscito di prigione e verrà certamente a Torino.

“ Se a voi si rivolge, se mostra desiderio di vedere Maria, avvertitemi, perchè io possa a poco a poco prepararla a riceverlo.

“ L' impressione subita dalla povera fanciulla nella sua infanzia è stata troppo forte, perchè ella possa dimenticare.

“ Per quanto io abbia cercato, per quanto Maria stessa me l' abbia promesso, quando sente nominare suo padre, diventa pallida pallida, un tremito l' assale ed invano si sforza mostrarsi forte. ”

Il conte lasciò cadere la lettera e restò per alcuni secondi come inebetito.

Poi un vivo rossore gli salì alla fronte, le sue tempia batterono, i suoi denti stridettero per il dolore, la vergogna.

— Sempre la stessa avversione per me — mormorò — Ah! no, non mi attendevo tanta giustizia severa da parte di mia figlia!

Una ruga profonda traversò la sua fronte, e volgendosi all' avvocato, che non trovava una parola da dire e rispettava in silenzio il dolore di quel padre.

— Risponderete a mio zio che io ho lasciata l' Italia — esclamò — e che non ho cercato di rivedere mia figlia.

Raul mentiva. Pochi giorni dopo, egli partiva per il lago di Como e prendeva in affitto una villetta, distante forse un chilometro da quella del conte Leo. Egli si era qualificato per un certo Rodolfi, pittore paesista. Lo stesso giardiniere che aveva in custodia la villa, s' incaricò di fargli i servigi, nè Raul prese seco alcun altro domestico.

La stagione era assai rigida: la più gran parte delle ville deserte.

Ma che importava al conte? Egli sapeva che suo zio non avrebbe abbandonati quei luoghi neppure d' inverno, e si riprometteva quindi di rivedere Maria.

Una mattina, quando meno se l' aspettava, l' incontrò che andava a passeggiare collo zio.

La potente emozione provata dal povero padre, è impossibile descriverla.

Si appoggiò vacillando ad una pianta e stette immobile finchè essi furono passati.

Nè il conte Leo, nè Maria, intenti a discorrere, si accorsero di quell' uomo, che li divorava cogli occhi.

Il vecchio gentiluomo si appoggiava sorridendo alla nipote, che giungeva all' altezza della sua spalla.

Maria indossava un abito di velluto turchino attillatissimo e portava sulle spalle un mantello di finissima pelliccia di un color grigio: le manine inguantate aveva strette nel manicotto e dalla piccola cappotta di velluto, orlata pure di pelo, sfuggivano le sue bellissime treccie.

Al conte parve di rivedere Miranda. Erano gli stessi lineamenti, aveva del pari dolce lo sguardo, calmo il sorriso.

La scossa violenta che nel corso di qualche minuto l'aveva agitato, si calmò a poco a poco e diede luogo ad un'espressione di ebbrezza.

Così quella bella creatura, che pareva appena sfiorare il terreno coi piccoli piedi, era sua figlia.

Ah, quanto volentieri avrebbe dato gli anni di vita che gli rimanevano per correre a lei, stringerla fra le braccia, coprirle il volto di baci, sentirsi dire che era amato, sentirsi chiamar padre!

E invece Maria aveva paura di lui e se le fosse apparso davanti all' improvviso, ed avesse pronunziato il suo nome, avrebbe forse indietreggiato atterrita, si sarebbe nascosta come per il passato fra le braccia del padrino, scongiurandolo a portarla via.

Ah! no, no. A costo di tutto, egli non l' avrebbe mai fatto. Si sarebbe tenuto nascosto, godendo intimamente della felicità di vederla, ammirarla.

L' avrebbe protetta da lungi come un genio benefico, un angelo tutelare.

Così dispose. Maria ignorava affatto che quel padre, al quale non poteva pensare senza un fremito, era tanto vicino e lei.

Qualche volta aveva incontrato quell'uomo pallidissimo, dalla barba fluente sul petto, che la fissava con occhi tristi, pieni di tenerezza; ma era ben lungi dall' immaginare la verità, ed a sua volta rivolgeva il capo con un moto di dispetto, come se quello sguardo le dispiacesse, la turbasse.

Il conte Raul scoperse l' idillio dei due giovinetti in una fredda mattinata di febbraio.

Maria e Vittorio si erano ricoverati sotto una capannuccia abbandonata, che la neve, di cui era ricoperto il tetto di stoppia, non aveva rovinata.

Il figlio del principe Cars aveva acceso un po' di fuoco e Maria vi sedeva vicino, stringendosi tutta nel suo mantello di pelliccia.

E mentre dalla bassa apertura della capanna si scorgeva al di fuori la natura cupa, desolata, avvolta nel suo manto invernale, al di dentro i due giovinetti si scambiavano i loro pensieri con quel dolce mormorìo che è il primo inno dell' amore ingenuo, ignorato.

Il conte Raul passando vicino alla capanna udì le risate gioconde di Maria. Si fermò dapprima sorpreso, quindi ponendo l' occhio ad una lieve fessura, soffocò un grido.

Aveva veduto sua figlia seduta a terra, vicino a Vittorio, che le teneva una mano, cercando riscaldarla col suo alito.

Chi era quel giovine? Come si trovava solo con Maria, in quella remota capanna?

Facendosi queste domande, Raul divenne tetro, feroce nel sembiante.

Quella fanciulla, dall' aspetto così angelico, delicato, timido, aveva forse ereditate le tendenze di sua madre? A veva già un amante alla sua età e sfuggiva alla sorveglianza dello zio e della governante?

Un tremendo palpito di cuore invase il conte: alcune goccie di sudore gli scorsero sulla fronte.

— L' ucciderei! — mormorò.

Una forza invincibile l' inchiodava al suolo.

Per tutto il tempo che i due giovinetti rimasero nella capanna, Raul vi stette appoggiato vicino, non perdendo alcun loro gesto, alcuna parola.

Respirò quando si fu convinto dell' innocenza di quel colloquio. È vero che i loro sguardi erano tutti una carezza, i loro sorrisi contenevano mille dolci promesse; ma le frasi che si scambiavano, erano pure come la loro anima: gli atti ingenui, rispettosi. Eppure i due giovinetti si credevano soli, lungi da tutti….

Il conte non si ritirò che quando li vide separarsi. Tornò alla sua villetta un po' alterato: andava ripetendo fra sè:

— Si amano, non c' è dubbio, ma il loro amore è innocente. Devo io turbarlo? Cercare di separarli?

Riflettè a lungo, combinando molti piani, poi distruggendoli. A momenti, avrebbe voluto mostrarsi crudele col giovane che gli toglieva i pensieri, il cuore di sua figlia; in altri avrebbe desiderato stringerli entrambi fra le sue braccia, prodigar loro le più dolci carezze, dire sorridend:

— Amatemi, io realizzerò i vostri sogni, vi farò felici.

Poi gli occhi gli si gonfiavano di lacrime e sentiva mancarsi il cuore.

— Può ancora essere felice la figlia di un assassino? — pensava. — Lo sa quel giovane chi sia il padre di Maria?

E sentì il sangue congelarglisi nelle vene ed incominciò ad abbrividire, tremare come un fanciullo.

Da quel giorno assistè molte volte ai colloquî dei due giovani, senza che essi se ne accorgessero, senza turbarli: ma in quella mattina, sentendo che entrambi erano decisi a svelare l' uno al padre, l' altra allo zio il loro amore, il conte disse fra sè:

— Ecco il momento di comparire, bisogna bene che io sappia infine chi sia colui, che vuol rapirmi mia figlia.

Ed era balzato fuori della siepe, fingendosi un viaggiatore smarrito.

Maria era subito fuggita e Vittorio aveva offerto graziosamente a Raul di fargli da guida.

Si misero in cammino.

Il sole si era alzato ed il tempo appariva magnifico. Le cime dei monti si disegnavano nell' azzurro del cielo: l' aria era impregnata da quelle vaghe, infinite armonie, da quei deliziosi effluvî, che scaturiscono dalla natura in fiore.

Il conte fece alcuni passi in silenzio con gli sguardi immersi nello splendido panorama, che gli si stendeva dinanzi.

Vittorio lo guardava.

— Se non è troppa indiscrezione la mia — disse ad un tratto — vorrei chiedervi se venite molto da lungi.

Raul si scosse.

— Vengo da Firenze — rispose. — Non ci siete mai stato?

Il giovane scosse il capo.

— Non conosco che questi luoghi — replicò — dove vi fui condotto da bambino e non ho più abbandonati.

— Vi annoierete qui, alla vostra età?…

Vittorio arrossì.

— No — disse vivamente — perchè io amo la campagna.

— Anche d' inverno?

— Sì…

— Ma in questi monti non ci resterà alcuno?

— È vero, all' infuori di qualche vecchia famiglia che ama la tranquillità e la solitudine, la più parte dei villeggianti, ai primi freddi ritornano in città.

In quel punto giungevano sopra un largo sentiero.

— Ecco — s' interruppe Vittorio fermandosi — la strada più corta che potete prendere per andare a Como. Però se non avete tanta fretta, mi permetto di offrirvi da colazione nella mia villa. Mi dispiace che mio padre si trovi ammalato, e non possa egli stesso farvi gli onori di casa, ma io cercherò di supplirlo, per quanto mi sia possibile.

Raul appariva commosso.

— Siete invero gentile, signore — replicò — ed io non vorrei abusare della vostra bontà.

Vittorio sorrideva con schiettezza.

— Oh! vi prego a credere che non ne abuserete affatto, giacchè è un piacere che mi procurate.

Il conte era un po' impacciato. Da una parte avrebbe accettato volentieri l' invito per meglio conoscere il giovane amato da sua figlia: dall' altra temeva tradirsi, o suscitare qualche sospetto.

Vittorio si accorse di quell' indecisione e l' attribuì a timidezza. Onde suggiunse:

— E procurerete anche un po' di svago a mio padre parlandogli di Firenze, dove ha dimorato per qualche tempo. E forse chissà che non l' abbiate conosciuto, perchè allora mio padre conduceva una vita più mondana, e portava più brillantemente il nome di principe Cars…

Vittorio s' interruppe. Il conte aveva mandato un grido sordo e aveva fatto improvvisamente un passo indietro, come se avesse subìta una scossa elettrica.

— Che avete? — chiese il giovinotto stupefatto.

Raul si era prontamente rimesso.

— Oh! una cosa da nulla — rispose con tono leggermente convulso — una puntura qui al cuore, ne soffro qualche volta, ma è già passata.

Poi ringraziò di nuovo il giovane della sua gentilezza e lo pregò a scusarlo se non poteva accettare il suo invito.

E si allontanò a passi rotti, incerti, precipitosi: sembrava un pazzo.

Camminava a caso: egli stesso non avrebbe saputo dire dove si dirigeva. Sentiva un confuso ronzìo nel cervello, come se sul capo gli avessero data una mazzata; una nube di sangue gli velava la vista.

Quel giovine era il figlio del principe Cars, l' uomo da lui così profondamente odiato, di cui andava in cerca da tanto tempo?

E come si trovava da quelle parti? Era ammogliato?

A queste domande fatte a sè stesso, Raul si fermò livido come uno spettro, col sudore alla fronte, i denti stretti.

Quel giovane, che non poteva avere più di diciotto anni, era forse figlio di Miranda?

Il conte si battè con impeto la fronte.

Qual tremenda giustizia! Doveva proprio quel figlio della colpa innamorarsi di Maria? Raul fu ripreso da un esaltazione terribile; continuò a procedere a casaccio, facendo gesti violenti con le mani, parlando a voce alta, con una durezza che svelava l' idea di una cattiva azione, fors' anche di un delitto.

Finalmente si lasciò cadere sul margine di un fossato, ed a poco a poco parve ritornare padrone di sè stesso: il suo sembiante riprese la sua tranquillità.

— Ho trovato — mormorò — ora so anch' io come colpirlo e lo farò senza titubanza, senza misericordia; il suo cuore dovrà sanguinare, come da tanti anni sanguina il mio. È la giustizia di Dio che si compie per mia mano.

Ed alzatosi, orribilmente calmo, si diresse verso la sua abitazione.

Lasciando Firenze come gli aveva imposto Miranda, il principe Cars si diresse a Milano.

Aveva preso un biglietto di prima classe e nello stesso scompartimento, viaggiava un signore di matura età in compagnia di una giovine bellissima, ma di una pallidezza eccezionale e dall' aspetto assai sofferente.

I due viaggiatori si erano salutati lievemente col capo, poi Cars si ritirò in un angolo e s' immerse in una profonda meditazione.

Ad un tratto fu scosso da un lieve gemito e volgendosi scorse il vecchio signore, che sollevava fra le sue braccia la giovine per distenderla sopra alcuni guanciali.

Pareva morta. La sua faccia pallidissima oscillava da una spalla all' altra: gli occhi aveva chiusi.

Il principe Cars si sentì commosso a quella vista.

— Mio Dio, cos' è accaduto alla signorina? — chiese con accento d' interesse e premura.

Il vecchio volse su di lui gli occhi umidi, abbattuti.

— È stata colta da un deliquio — rispose — ed ormai per un' ora e forse più rimarrà così insensibile; non c' è da farci nulla, io ci sono avvezzo; però, quando partii, stava così bene, che ella stessa non acconsentì che io prendessi, come sono solito, un coupè riservato.

— Povera giovinetta! — mormorò con tono compassionevole Cars, gettando un lungo sguardo su quel gentil corpo inanimato — È forse vostra figlia?

— Sì, è l' unica creatura che io abbia al mondo, che ami. Se dovesse morire, la seguirei.

Parlava con semplicità, convinzione, suscitando nell' animo del principe una immensa pietà.

— Ella guarirà, ne sono certo — disse — è così giovane!

— Non ha ancora vent' anni, ma sua madre è morta dello stesso male. I medici mi dicono di sperare ed invece ogni giorno che passa mi toglie una nuova illusione. Pertanto non cesserò di lottare fino all' ultimo, di contrastarla passo passo alla morte, e se questa vincerà, allora tutto sarà finito anche per me.

Quel dolore così vero, così sentito, che non prorompeva in collere, minaccie contro il destino, ma aveva l' accento sublime della rassegnazione, produsse un effetto potente su Cars.

Cosa erano mai le sue sofferenze morali in confronto di quelle del povero padre, che vedeva lentamente consumarsi dinanzi agli occhi la propria creatura, tentando invano colla forza dell' amore, della disperazione, di salvarla.

Una viva simpatia nacque tosto fra il disgraziato vecchio ed il principe Cars. Questi aveva tolto dalla sua borsa da viaggio una bottiglietta d' essenze, dicendo:

— Provate un po' a sollevare il capo di vostra figlia: io le farò respirare di questo aroma e può darsi le faccia bene.

Il padre acconsentì. Sarebbe impossibile esprimere con quale ansia i due uomini attesero il risultato di quell' aspirazione.

Fosse effetto del caso o per qualche altra influenza, il fatto stà che la giovinetta mandò subito un lungo sospiro, agitò le braccia e le mani, aprì gli occhi.

Ella incontrò lo sguardo di Cars ed un debole rossore le salì alle guancie.

Il padre che la fissava con occhi avidi, desolati, ne senti una dolce impressione.

— Bice, figlia mia — esclamò — è il signore che ti ha fatta rinvenire.

— Oh! il merito non è affatto mio — rispose con un sorriso Cars — nonostante sono felice di vedervi rimessa.

Bice gli stese la sua manina bianca, delicata.

— Vi ringrazio, signore — rispose con una voce oltremodo armoniosa — tanto per me, quanto per il papà, che soffre molto per cagion mia.

— No, no, ora sono lieto, perchè ti vedo sorridere, discorrere — rispose vivamente il vecchio — vedrai che ti guariremo.

Bice arrossì di nuovo, mentre si sollevava senza aiuto sui guanciali.

— Il viaggio vi stancherà — disse il principe, che si era seduto dinanzi a lei.

— Non tanto, eppoi sono impaziente di giungere in campagna.

— Andate molto lontano?

— Nei dintorni di Como — rispose con vivacità il vecchio — vi ho comperata l' anno scorso una villa, che forse conoscerete: quella del conte Varna, lo strambo milionario, che si è rovinato al giuoco.

— L' ho conosciuto ed ho anche visitata la sua villa, che è in posizione assai ridente, salutare. Ricordo che è stato per me un soggiorno assai gradito.

— Perchè non vi ritornereste ancora? — replicò con calore il vecchio — Forse i vostri affari vi chiamano altrove?

— Io viaggio senza scopo per sottrarmi alla noia, che mi prende dappertutto. Non ho affari, sono solo con un fidato servo, che ha preso posto vicino ai miei bagagli, non ho alcuno al mondo. Forse il mio nome non vi sarà perfettamente ignoto: sono il principe Cars…

— Oh! papà — esclamò Bice con un' ingenuità e prontezza infantile — non è di lui che ci ha parlato lady Isabella?

— La conoscete la mia vecchia amica? — interruppe sorridendo Cars.

— Abbiamo passato un mese nel suo castello di Windsor — aggiunse il vecchio — forse da lei avrete sentito qualche volta nominare il duca di Palma.

— È verissimo; se non m' inganno, è una nipote di lady Isabella, che ha sposato il duca…

— Precisamente, ed era mia moglie, la madre della mia Bice.

I due gentiluomini s' inchinarono scambievolmente, e si strinsero con espansione la mano.

Negli occhi di Bice passò un lampo di contento.

La presentazione era fatta.

Il duca di Palma invitò di nuovo il principe nella sua villa, e la giovinetta, arrossendo di timidezza e d' impaccio, aggiunse:

— Certo non vi troverete molto svago, ma quando vi sarete annoiato, ci lascierete.

— Allora sono sicuro di rimanere molto tempo vostro ospite — rispose galantemente Cars.

Egli ebbe ragione. Due mesi dopo si trovava sempre alla villa del duca, fatto segno a tutte le premure, alle più squisite delicatezze.

Ed è strano! La sua presenza esercitava un effetto così benefico su Bice, che durante quei due mesi non ebbe che alcune leggerissime crisi, senza conseguenza. A poco a poco la giovinetta aveva ripreso il suo vigore, le sue guancie si erano colorite, il suo spirito ravvivato.

Il duca di Palma sorpreso, inebbriato di tale cambiamento, spesso stringeva le mani di Cars con un sentimento d' ineffabile riconoscenza.

— A voi debbo la vita di mia figlia — diceva — e per quanto facessi, non potrò mai mostrarvi la mia profonda gratitudine.

Cars protestava, dicendo che era opera del caso e che egli non aveva alcun merito.

Però il principe provava un' intima e dolce soddisfazione: egli non si rendeva più conto del passato, dei suoi voti, delle sue speranze. Aveva concentrati tutti i suoi pensieri su quella giovinetta, che desiderava salvare.

Ma un giorno s' accorse con sorpresa e turbamento che Bice l' amava.

Erano seduti entrambi sopra una terrazza ricoperta di fiori, dalla quale si godeva una stupenda prospettiva sul lago.

Bice sfogliava distrattamente alcune rose colte in giardino: Cars fissava lo sguardo nell' orizzonte lontano.

Restarono alcun tempo senza parlare, poi il principe fece un moto repentino, come se si svegliasse da un sogno, e mormorò:

— Quando sarò lontano di qui, mi dispiacerà assai.

Bice trasalì, si fece pallidissima.

— Vorreste lasciarci? — balbettò coll' espressione di una dolorosà sorpresa, lasciando cadere le mani sulle ginocchia.

— Lo è pur necessario un giorno — aggiunse il principe.

Ella fissò su lui uno sguardo velato di lacrime.

— Volete dunque ch' io muoia… — mormorò.

E, confusa da quella frase che si era lasciata sfuggire, si alzò di botto e corse via.

La sera stessa fu colta da una violentissima crisi. Il duca di Palma era disperato. Egli corse dal principe, che si era già ritirato in camera, e colle lacrime agli occhi:

— Mia figlia muore! — gridò — e voi solo potete salvarla!

— Io?… Che debbo fare?…

— Salvatela, salvatela! — ripetè il povero padre con voce straziante — abbiate pietà di me, di lei, che vi ama…

Cars chinò per un momento il capo. Egli amava Bice come una sorella, sentiva per lei una di quelle pure, tranquille affezioni che hanno un carattere d' amicizia, ma non avrebbe mai pensato di farne una moglie.

Ma ella l' amava l' infelice giovinetta, e sarebbe scesa nella tomba, se non le porgeva una mano per ritrarla.

Gli parve grande, generoso, sacrificarsi per quella creatura gentile, soave, ed il suo partito fu irrevocabilmente preso.

— Andiamo — disse al vecchio desolato, che spiava avidamente la sua fisonomia — io salverò vostra figlia.

Oh! quale sguardo di gratitudine, di gioia, brillò attraverso le lacrime, che inondavano gli occhi del povero padre! Con qual sentimento d' ineffabile riconoscenza il duca di Palma portò alle labbra la mano del principe!

Poi lo trasse nella camera di Bice.

La fanciulla stesa sul letto non dava segni di vita: il suo viso pallido spiccava framezzo alle ciocche dei neri capelli, che le cadevano disordinati all' intorno. I suoi occhi semichiusi, cinti da un profondo cerchio turchiniccio, lasciavano vedere la pupilla semispenta: dalle labbra aperte si scorgevano i denti serrati convulsivamente.

— Vedete in che stato si trova! — sussurrò il duca.

Cars senza rispondere prese una delle mani di Bice e, stringendola fra le sue, chiamò la fanciulla a nome.

Ella rimase immobile. Il principe allora chinandosi posò le sue labbra sopra quelle di lei, e v' impresse un lungo bacio.

Bice provò una scossa repentina: parve rinascere alla vita: il suo volto si rischiarò, gli occhi si aprirono, splendettero; un sorriso d' angelo le sfiorò la bocca.

— Io non partirò più — disse il principe, con voce commossa — perchè ti amo. Guarisci presto, Bice, se vuoi divenire mia moglie.

Risuonò un grido di gioia delirante. La fanciulla si era sollevata, gli tendeva le braccia.

— Cars, Cars, io pure ti amo e sarei morta per te — esclamò — sei tu che mi salvi.

Il duca di Palma stentava a reprimere i singhiozzi.

Egli unì insieme le mani dei due giovani.

— Figli miei — balbettò — che Dio vi benedica!

Da quel momento, Bice parve ricuperare la sua intiera salute; le rose rifiorirono sulle sue guancie, i suoi occhi erano ravvivati dall' amore.

Cars più studiava quel carattere candido, leale, che aveva ancora tutta l' ingenuità dell' infanzia, più si sentiva lieto del suo sacrifizio.

Vicino a Bice, provava un benessere così profondo, così soave, che gli faceva porre in dimenticanza le tumultuose emozioni del passato.

Il duca di Palma sembrava ringiovanito.

Ben presto fu tutto disposto per il matrimonio dei due giovani. Se Cars portava un nome illustre ed era straricco, Bice non era indegna di lui.

La loro unione fu celebrata senza pompa, in uno dei possessi del principe; poi i due sposi, insieme al vecchio duca, partirono per un lungo viaggio.

Quando ritornarono in Italia, Bice era madre. E questa fase della vita della donna, che per molte è la salute, fu invece la rovina per la moglie di Cars.

Ella fu ripresa da languori opprimenti, da debolezze invincibili, che rendevano il suo corpo languido, inerte, abbattuto, tanto che il più lieve movimento, le cagionava noia e dolore.

Furono consultati i più valenti medici, ma le cure ordinate non facevano che peggiorare il suo stato.

Ora il duca di Palma non era più solo a soffrire: il principe Cars pareva disperato.

Egli aveva trovata tanta bontà e tenerezza in sua moglie, che ogni giorno che passava sentiva sempre più che ella era necessaria al suo cuore.

Sotto la dolce influenza di lei, i suoi sentimenti si erano elevati. Ora comprendeva quanto folle era stata la sua passione per Tecla, come si era mostrato sleale, spregevole verso Clementi e quanta ragione avesse avuta Miranda.

E quando quei ricordi si sollevavano contro di lui, lo tormentavano, correva vicino a Bice, trovando nei sorrisi di lei un ineffabile conforto, la forza per dimenticare.

E l' amore per sua moglie aveva finito a riempire così il suo cuore, da scacciarne ogni altro sentimento, da fargli apparire la sua vita anteriore come un ricordo confuso, un sogno svanito.

Quindi l' idea di perdere quel suo angelo custode, gli faceva in alcuni momenti quasi smarrire la ragione.

Bice desiderò di ritirarsi ancora nella sua villa di Como, sentendo bisogno di solitudine, di silenzio e riposo.

Fu esaudita. Il piccolo Vittorio già incominciava a balbettare qualche parola, ma viveva, si può dire, lontano dalla mamma, perchè la povera donna era diventata di nervi, così eccessivamente delicati, che bastava un lieve grido del fanciullo a farla cadere in convulsioni.

Pure, a furia di cure e tenerezze, Bice potè riprendere un po' di vigore, tanto da riuscire a stare qualche ora alzata, a fare pochi passi in giardino, a scendere nel salone da pranzo.

Un giorno la campana del pranzo suonò, e il duca di Palma non comparve a tavola.

Era stato alla mattina a fare una passeggiata in barca sul lago e si trovava alquanto indisposto.

Bice volle recarsi vicino a lui: lo trovò spaventevolmente alterato in viso, sebbene il povero vecchio si sforzasse a sorridere, ripetendo che non era nulla.

Fu subito telegrafato a Milano e nella notte stessa giunse un medico, che trovò il duca nel massimo pericolo.

Era stato colto da una gagliardissima febbre.

La malattia progredì con rapidità terribile: si fecero diversi consulti, ma nessuno dei medici diede una parola di speranza.

La sera del quarto giorno, il duca era entrato in agonia.

Malgrado le suppliche del principe e dei dottori, Bice non volle muoversi dalla camera di suo padre. Il dolore che provava le concedeva un' energia fittizia, una forza, di cui nessuno l' avrebbe creduta capace.

Rimaneva in apparenza tranquilla, ma nei suoi occhi leggevasi una specie di disperazione, appunto più tremenda per la sua calma.

Al momento in cui il duca chiudeva gli occhi, Bice cadde senza un grido, una parola, fra le braccia del principe.

All' indomani quando, rinvenuta, si sforzò di parlare, non potè. Aveva la lingua paralizzata.

Da quel momento, la povera donna trascinò una vita assai infelice, sempre distesa su di un letto, immobile, muta, non avendo altro di vivo che gli occhi, coi quali sforzavasi far comprendere la sua volontà al principe, l' intenso affetto che nutriva per lui, il dispiacere di vederlo soffrir tanto per cagion sua.

Cars non l' abbandonava mai. Forse se quella donna fosse stata piena di vita, rigogliosa, vivace, non l' avrebbe amata con più trasporto, che vedendola così ridotta allo stato di un cadavere.

Per Bice dimenticava il figlio, il mondo intiero. Quando tutte le risorse della scienza per rianimare quel corpo furono esaurite senza risultato, quando comprese che solo a furia di tenerezze poteva prolungare quell' esistenza, ormai condannata, si pose egli solo a guardia di lei, non volendo che alcuno oltrepassasse la soglia di quella stanza, non lasciando che alcun rumore ne turbasse la profonda calma, non permettendo altro che al piccolo Vittorio che si recasse mattina e sera presso al letto di Bice, e vi rimanesse per qualche ora.

Cars aveva trasformato quella camera come un tempio: l' idolo era Bice.

Ella visse ancora per quattro anni e morì una sera tranquillamente, senza agonia, benedicendo al principe, raccomandandogli cogli occhi il figlio.

Cars non volle che alcuno toccasse quel cadavere, per lui sacro. Lo rivestì egli stesso degli abiti bianchi, lo circondò di fiori.

I suoi occhi non versarono una lacrima, ma il suo cuore era spezzato.

Bice fu sepolta nella cappella della villa, presso suo padre. Cars rimase una notte intiera inginocchiato su quella tomba, e quando all' alba tornò nella camera triste, deserta della moglie, pareva invecchiato di dieci anni.

Cedendo alla stanchezza, sedette su d'una poltrona, chinando la testa ardente, infuocata sul petto.

Di un tratto sentì due piccole braccia circondargli il collo ed una bocca fresca, carezzevole, posarsi sulla sua guancia.

Era il piccolo Vittorio, che, entrato tacitamente nella stanza, si era arrampicato su di una seggiola e coll'istinto dell'infanzia abbracciava suo padre, parendogli che questi dovesse provarne piacere.

E non s' ingannava. Cars lo guardò: il piccino assomigliava alla madre. Erano le stesse deliziose fattezze, il sorriso confortante.

Il principe lo strinse fra le braccia e si mise a baciarlo appassionatamente, con delirio, finchè scoppiò in dirotto pianto.

Quelle lacrime lo sollevarono. Da quell' istante Cars non si occupò più che di suo figlio. Aveva concentrato in lui tutta la sua attività, il suo pensiero, la sua vita: all' infuori della sua creatura, più nulla esisteva per il principe.

Egli formò il cuore di suo figlio, gli aprì la mente a tute le vaste cognizioni ch' egli stesso possedeva, gl' insegnò l' equitazione, la scherma, il nuoto.

Se il principe viveva in una grande riservatezza, senza ricevere alcuno, lasciava però a Vittorio la più ampia libertà, così necessaria al suo sviluppo fisico ed intellettuale.

Per molti anni nulla turbò l' esistenza del principe, nè la felicità di suo figlio.

Ma da qualche tempo Cars era impensierito, perchè sentiva mancarsi il vigore del corpo ed aveva spesso strane allucinazioni.

Il medico, che di quando in quando si recava a visitarlo, lo consigliò di distrarsi, di passare l' inverno a Milano.

Cars chiese a suo figlio se bramasse lasciare quella solitudine: ma Vittorio divenne così pallido, mostrò tale un dispiacere, che il principe non ne parlò più.

Intanto la sua debolezza si accrebbe, così che lasciava raramente la camera. E quando usciva da quello stato d' inazione, non era che per recarsi a visitare la tomba della sua cara defunta, pregarla a vegliare dal Cielo sul loro figlio.

Da sei anni il principe non aveva oltrepassata la soglia della sua grandiosa villa. Egli aveva fatto rottura col mondo intero. Molti, che si erano curati di lui sulle prime, finirono col dimenticarlo.

Vittorio era assai più conosciuto nei dintorni di quello che lo fosse suo padre.

In quella mattina, in cui il giovinetto si era incontrato col conte Raul, il principe si era svegliato subito, dopo la partenza del figlio.

Si sentiva in forze e chiamato il suo fedele Zilà, che mai l' aveva abbandonato, si fece vestire, ed aperto l' ampio balcone sedette in mezzo ai fiori, respirando con gioia l' aria fresca, primaverile, che gli dilatava i polmoni, gli poneva un senso di letizia nell' anima.

— Dov' è Vittorio? — chiese a Zilà, che tutto premuroso copriva le gambe del padrone con un' ampia coperta di velluto.

— L' ho visto scendere nel parco — rispose il servo.

— Sarà una sorpresa per lui trovarmi alzato — replicò sorridendo il principe — faremo colazione insieme; dammi intanto un sigaro, poi lasciami solo.

Zilà obbedì.

Cars volse i suoi sguardi sullo splendido panorama che gli si stendeva dinanzi. La primavera sorrideva dappertutto: gli zeffiri a lui trasportavano lontane armonie: dai boschetti fioriti esalavano i più deliziosi profumi.

L' incanto soave, di cui era ripiena la natura, ridestava nel cuore del principe cento vaghe rimembranze, gli richiamava alla mente le immagini di quelle che aveva amate, ammirate, gli avevano fatto credere negli angeli, nel cielo.

Tecla, Miranda, Bice! Che ne era stato delle due prime? Si trovavano felici? Avevano ancora sulle guancie le stesse rose, nel cuore pensieri così puri, divini?

Una commozione nuova agitava il principe, facendo brillare i suoi sguardi, dissipando le nubi che velavano le sue pupille.

Egli era così immerso nelle sue fantasticherie che, non sentì neppure il rumore dei passi di Vittorio, il quale era entrato nella stanza e si avvicinava al balcone.

— Papà — chiamò il giovane con voce squillante, allegra.

Cars si scosse; un sorriso spuntò sulle sue labbra.

— Vieni, Vittorio, ti attendevo.

E strinse il giovinotto in un lungo amplesso, dimenticando in un istante le sue commoventi e silenziose fantasie.

— Buon giorno, papà caro — disse Vittorio, ricambiando con ardore i baci del principe — come sono lieto di vederti alzato. Ti senti meglio?

— Mi pare di essere perfettamente guarito — rispose Cars, facendo sedere il figlio vicino a sè — come si sta bene qui.

— È vero, la mattinata è così bella…

E una viva fiamma gli scorse sul viso e fece risplendere i suoi occhi.

Cars l' accarezzava dolcemente.

— Non ti sei ancora stancato di questa solitudine? Non brami vedere altri luoghi, vivere in una grande città? — chiese.

— Oh! no, qui sono tanto felice!

— Ma non vedi mai alcuno?

Questa volta il turbamento del giovinotto apparve così evidente, che il principe ne trasalì e guardandolo fisso negli occhi:

— Vittorio, tu mi nascondi qualche cosa — disse. — Perchè non hai confidenza in me? Ti faccio io paura?

Una lacrima scorse negli occhi del giovinotto.

— Oh! padre mio — mormorò abbracciandolo.

— Andiamo, via, parla: cos' hai dunque? — aggiunse il principe con emozione. — Non sono il tuo migliore amico? Aprimi il cuore. Hai forse ricevuto qualche torto?

— Oh! no, no — disse il giovane risoluto — nessuno mi ha fatto cosa alcuna, sono io il colpevole.

Il principe gli strinse febbrilmente le mani.

— Tu? — esclamò.

— Sì… perchè da più mesi amo una giovinetta con tutte le forze dell' anima mia e non ho mai avuto il coraggio di confessartelo.

Cars lasciò cadere le mani del figlio, dolorosamente sorpreso.

— Chi è la fanciulla che ami? — balbettò — Forse qualche borghese dei dintorni?

— No, padre mio Ella è di sangue nobile al pari di me, e la più gentile giovinetta che tu possa ideare. Le si vede l' anima pura attraverso il volto, e tutto il tesoro di vezzi che la natura può prodigare ad una donna si trovano in lei riuniti.

L' entusiasmo di Vittorio fece, suo malgrado, sorridere il principe.

— Vedo che ella ti ha reso poeta — esclamò. — Ma tu sei ancora un fanciullo e spesso alla tua età, gli amori nuoiono così repentinamente, come sono nati.

Vittorio scosse la testa.

— Il mio amore per Maria — disse con tuono commosso — non cesserà che colla mia vita.

— Ah! ella si chiama Maria?

— Sì, ed è nipote del conte Leo Adalberti.

Il principe rimase per alcuni istanti profondamente pensieroso, mentre il figlio lo guardava inquieto, turbato.

— La fanciulla è forse orfana? — chiese quindi Cars.

Vittorio arrossì.

— Lo credo. Maria non mi ha mai parlato che di suo zio.

Il principe trasalì.

— Ah! vi siete adunque parlati? — disse con un specie d' impazienza.

— Non lo nego, padre mio, e Maria sa che il mio cuore è suo, come io so che ella mi ama. E ci siamo promessì a vicenda di ottenere il tuo consenso e quello di suo zio.

— Ebbene, attenderò che il conte venga a parlarmene, poi vedremo.

Vittorio abbracciò suo padre e sottovoce, quasi non avesse più la forza di parlare:

— Se tu facessi il primo passo — sussurrò.

— Io? — disse con voce lenta e triste. — No, non lo farò. Prima di tutto non conosco affatto il conte.

— Imparerai a conoscerlo e quando avrai veduta Maria, sono certo che l' amerai tosto, quanto ami me.

Il principe sorrise.

— Bene, bene, ci penserò — disse alzandosi a stento dalla poltrona. — Per ora dammi il braccio, e andiamo a far colazione.

Quando Maria lasciò, correndo, il cancello, si diresse verso la villa. Era spaurita, tremante, ricordando l' incognito apparso così all' improvviso.

— Chi è mai quell' uomo che si trova così spesso sui miei passi? — pensava — Che talvolta sembra spiarmi, come se avesse il diritto d' indagare le mie azioni? Non dirò nulla allo zio ed a Nany, perchè m' impedirebbero di uscire, ma colui mi fa paura.

La governante l' attendeva sulla gradinata.

— Ancora una scappata, signorina — esclamò minacciandola con un dito. — Avete approfittato del mio sonno per fuggire.

La fanciulla sorridendo l' abbracciò.

— Non mi sgridare, Nany; mi sono svegliata assai presto e la mattina era così bella, che non ho potuto resistere alla tentazione di scendere in giardino.

— Sì, sì, so ben io dove siete andata, e finirò col dirlo a vostro zio.

Maria prese un' aria gentile di sussiego.

— Risparmiatene la pena, Nany, perche glielo confesserò io stessa. È già alzato lo zio?

— Da più di un' ora.

Maria aprì la vetrata del vestibolo e salì di corsa le scale, che mettevano al primo piano.

Non vi era giunta, che sentì la voce del conte, il quale sgridava un domestico.

— Non è di buon umore — pensò Maria.

Tuttavia si avanzò pian piano.

Il conte Leo Adalberti si trovava nel suo scrittoio e percorreva alcune lettere, che gli erano giunte colla posta del mattino.

L' espressione dei suoi lineamenti, di una finezza aristocratica, era assai seria.

Quando l' avvocato di Raul rispose alla sua lettera, annunziandogli che il nipote, uscito dalla prigione, aveva lasciato l' Italia, ne provò non poco dispiacere.

Egli sperava di rivederlo, di riuscire a farlo amare da Maria, e sopratutto di strappargli il segreto del suo delitto.

Riscrisse ancora, pregando l' avvocato a non trascurare alcuna indagine, onde riuscire a scoprire in qual luogo Raul si era rifugiato.

E in quella mattina solo, dopo diversi mesi, il conte Leo si ebbe per risposta che tutte le ricerche non avevano prodotto alcun felice risultato, che Raul, cangiando paese, doveva aver cangiato anche nome, onde far perdere ogni sua traccia.

Il conte Leo non potè dissimulare il suo disappunto, la più viva commozione.

Vedendo entrare Maria, egli nascose la lettera fra alcune carte, poi si volse alla nipote, e con tòno un po' brusco:

— Dove sei stata finora a passeggiare tutta sola? — disse. — Così mi obblighi a sgridare la tua governante.

Maria arrossì vivamente e con accento fra timido e scherzoso:

— Nany non ne ha alcuna colpa — rispose — io sono fuggita senza dirle nulla.

La fronte del vecchio gentiluomo si oscurò.

— Ah! non va bene agire così — replicò — una fanciulla che cerca sfuggire alla sorveglianza della governante, vuol dire che ha qualche cattiva azione da commettere.

Maria chinò il capo e rimase per un momento pallida, oppressa, in preda ad un tremito nervoso.

Il conte Leo la trasse sulle sue ginocchia, le sollevò il viso con ambe le mani, la baciò sugli occhi.

— Andiamo, confessa a me dove sei stata — disse intanto.

La fanciulla sospirò.

— Ho paura che tu mi sgridi, quando lo sappia — rispose, eccessivamente imbarazzata.

Il conte esaminava con attenzione il volto leggiadro della nipote.

— No, non ti sgriderò, purchè tu mi dica la verità.

Maria fece un moto grazioso con la testa.

— Non te la nasconderò, sebbene non sappia come cominciare.

— La cosa è adunque così grave?

— A me sembra di no — rispose con un sorriso malizioso la fanciulla, mentre le sue gote s' imporporavano. — Ti ricordi, zio, di quel giovinetto che ha salvato me e Nany dai morsi di un cane arrabbiato?

— Lo ricordo: ebbene?

— D' allora in poi ci siamo veduti sovente, ci siamo parlati…

S' interruppe, vedendo lo zio corrugare le ciglia, divenire pallido.

— Ed egli ti ha forse detto d' amarti? E tu l'ami? — chiese con un misto d' impazienza, di collera.

Maria chinò spaurita il capo e una lacrima brillò nei suoi occhi.

— Parla, su via, — aggiunse il conte con la bocca increspata — e se quel giovane, approfittando della tua ingenuità, ha cercato di porre il turbamento nel tuo cuore, io saprò ben punirlo.

Maria gettò un grido.

— Zio, zio, non dire così, non sgridarlo — esclamò tremando d' inaudita commozione, ma attingendo nel suo amore la forza di parlare — se tu sapessi quanto egli è buono, leale, coraggioso: anche Vittorio non ha più la mamma, è sempre vissuto in campagna, non ha conosciuto altro affetto che quello di suo padre, come io non conobbi che il tuo. Stamane solo abbiamo scoperto d' amarci, e ci siamo detti che si sarebbe ben felici uniti insieme. E Vittorio mi ha promesso di parlarne tosto a suo padre, come io gli dissi che avrei chiesto subito il tuo consenso.

Non vi era alcun dubbio sulla veracità dei detti di Maria, sull' innocenza del suo amore.

Dalle sue pupille emanava una luce purissima: nessun turbamento agitava la sua anima verginale.

Eppure il volto del conte rimaneva offuscato e colle dita raggrinzate torceva le treccie di Maria.

— Povera fanciulla — mormorò — povera fanciulla!

Ella si scosse, lo guardò atterrita.

— Tu l' ami proprio molto? — aggiunse a voce più bassa il conte.

— Se dovessi rinunziare vederlo, mi pare che ne morrei.

Lo zio la strinse quasi furiosamente al petto.

— Ah! disgraziata non dire così — esclamò con trasporto — è questa la ricompensa che mi serbi per averti tanto amata? Ah! se avessi potuto prevedere quello che sarebbe successo, avrei fatta raddoppiare la vigilanza intorno a te, impediti i tuoi colloquî con quel giovane.

— Ma perchè? — balbettò la fanciulla.

— Perchè tu non puoi divenire giammai sua moglie.

Maria lo guardò smarrita.

Il conte era calmo, severo, risoluto.

— Hai tu già dimenticate le memorie della tua infanzia? — aggiunse. — Non ricordi ciò che fece tuo padre? E credi che il principe Cars permetterebbe che il suo unico figlio, sposasse la figlia di un condannato? Perdonami, mia povera fanciulla, se ti parlo con tanta asprezza e severità, ma lo faccio per tuo bene.

Ed il vecchio le passava con tenerezza una mano sul capo, senza che ella facesse il minimo movimento.

Era impallidita così, che pareva prossima a cadere in deliquio; ma poi si riscosse e mormorò:

— Hai ragione, zio, io avevo tutto dimenticato. Ma adesso ricordo e ti prometto di non più rivedere Vittorio!

E svincolatasi dalle braccia del conte corse a rifugiarsi nella sua camera.

La governante ve la trovò in preda ad una specie di delirio. Piangeva, si strappava i capelli e in mezzo al suo dolore, balbettava:

— Papà, papà, tu hai uccisa un giorno la mamma ed ora farai morire tua figlia!

Nany l calmò a stento e quando potè sapere dalla fanciulla ciò che era successo, si rimproverò di non aver vegliato abbastanza su di lei.

— Sono io la colpevole — pensava — ma chi poteva prevedere? Sono entrambi così fanciulli!

All' esplosione di dolore da cui fu assalita Maria, tenne dietro un tetro abbattimento.

Seduta accanto alla finestra, fissava lo sguardo cupo, inquieto sulla campagna, parendole che ad un tratto fosse divenuta triste, deserta.

Due o tre volte alzò gli occhi al cielo, mormorando il nome della mamma, pregando Dio a ricongiungerla con lei a paradiso.

Poi si diede a pensare a quel padre colpevole, che l' aveva resa così infelice, e disse fra sè che ormai doveva aver terminata la sua condanna.

E perchè non compariva? Malgrado il sentimento di terrore che egli le ispirava, avrebbe voluto vederlo, ricordando ancora quanto le aveva detto da bambina e che suo zio spesso le ripeteva: “ Quando sarai cresciuta, Maria, potrò rivelarti ciò che m' indusse a privarti della madre, ed allora invece di giudicarmi severamente, mi compiangerai. ” Perchè adunque non si faceva vedere? Che ne era stato di lui durante tutti quegli anni di condanna? Era forse morto in carcere? No, perchè suo zio non glielo avrebbe nascosto.

Pochi giorni prima, Maria non si sarebbe forse tanto interessata della sorte di suo padre, ma in quel momento sentiva il bisogno di pensare a lui.

Onde quando lo zio impensierito entrò nella camera di lei, la fanciulla gettandogli le braccia al collo, gli chiese febbrilmente:

— Quando rivedrò mio padre?

Il conte Leo trasalì. Toglierle ogni speranza, non voleva: nasconderle la verità, gli sembrava una colpa.

— Tuo padre per ora non lo rivedrai — rispose accarezzandola — egli ha lasciata l' Italia.

Maria fece un gesto di doloroso stupore: le sue mani tremarono in quelle dello zio.

— Partito! Come l' hai saputo?

— Me lo scrisse il suo avvocato.

Maria vacillò.

— E non ti parla di me? Non ha dimostrato il desiderio di abbracciarmi?

Il conte non rispondeva.

— Ah! vedi se egli mi amava! — aggiunse la fanciulla con voce soffocata dai singhiozzi — Ah! cattivo, cattivo padre.

— Non l' accusare — esclamò vivamente lo zio — chissà che nella sua risoluzione si nasconda qualche grave motivo, che un giorno sapremo: via, non piangere così.

La fanciulla cercava invano frenarsi, nascondendo il volto bagnato di lacrime sul petto dello zio.

— Oh! quanto sono infelice! — balbettò.

— Taci… taci, non vedi quanto mi fai soffrire — disse con angoscia il conte.

Maria ne risentì una profonda impressione.

Nelle parole del vecchio, che prorompevano dalla sua nobile anima, vi era qualche cosa di solenne, di commovente, che strinse il cuore della fanciulla.

Ella lo guardò con profondo affetto.

— Zio, zio, perdonami, non mi lamenterò più — mormorò.

Il conte le stampò un bacio sulla fronte.

— Non sta bene a piangere quando si ha la tua età — disse, cercando assumere un tono più allegro — Io voglio vederti ancora sorridere; perciò, anzichè condannarti a vivere continuamente in questa solitudine, ti porterò a Torino. Forse là potremo anche saper meglio le notizie di tuo padre.

Maria abbassò la testa e non rispose.

Durante il resto del giorno, la fanciulla fece degli sforzi per mostrarsi serena, ma, col pretesto di una grande stanchezza, si ritirò per tempo nella sua camera e non volle neppure che la governante l' aiutasse a spogliarsi.

La notte scese: il cielo era tempestato di stelle, ma non brillava la luna. La villa del conte spariva fra le tenebre: tutti dormivano, all' infuori di Maria.

Aperta la finestra, si era appoggiata al davanzale, fissando lo sguardo al cielo, come se cercasse in quelle stellate regioni un conforto all' intenso dolore della sua anima.

Così ella doveva rinunziare a tutti i sogni che l'avevano deliziata per tanti mesi, non doveva più rivedere Vittorio.

La figlia di un condannato non aveva diritto alla felicità all' amore. Quand' anche un padre avesse avute delle forti ragioni per commettere quel delitto, egli era sempre stato un assassino.

E il marchio d' infamia impress sulla sua fronte dalla colpa, si trasmetteva alla figlia. Terribile giustizia!

Perchè il mondo condannava lei innocente, che avrebbe data la vita per quella di sua madre?

Perchè erano a lei interdette le pure gioie delle altre fanciulle?

E Vittorio che ignorava il tutto, che l' amava, che forse in quel momento stesso pensava con dolcezza a lei…

— Oh! mio Dio — mormorò la povera Maria, chiamando a raccolta tutte le sue forze, per non scoppiare in pianto — io sono stata colpevole per avergli nascosta la verità, lasciate che soffra io sola: risparmiate a lui ogni dolore, fate che mi dimentichi.

Si tacque, rimase in un atteggiamento contemplativo, meditabondo.

In quel momento, una voce commossa, velata, che veniva dal basso, chiamò sommessamente:

— Maria!

La fanciulla diede in una repentina scossa, si fece pallida e si sporse istintivamente all' infuori.

Allora vide come un' ombra nera agitarsi sotto la sua finestra.

Non poteva essere che Vittorio, il quale, dimenticando ogni prudenza, veniva a lei a portarle la risposta di suo padre.

Ed ella non doveva ascoltarlo, rispondergli.

Per quanto le costasse, si ritirò dalla finestra. Ma allora sentì qualche cosa cadere sul tappeto e chinando gli occhi vide che era un sasso, il quale portava avvoltolato all' intorno una carta.

Una commozione straordinaria s' impadronì di Maria: un tremito irresistibile la fece abbrividire dal capo alle piante.

Con un movimento macchinale raccolse il sasso e colle dita tremanti, ne staccò il foglio, fermato con un piccolo nastro.

— È Vittorio certamente, che mi scrive — mormorò con adorabile candore — ebbene, sentirò quello che mi dice, ma non risponderò.

Il suo gentil volto rifletteva una graziosa severità: i suoi occhi si velarono di un' espressione di mestizia.

Ella svolse il foglio e corse tosto collo sguardo alla firma. Ed il suo volto si fece purpureo, le sue belle sopracciglia si aggrottarono. Aveva letto: “ Rodolfi, pittore. ”

— Chi è costui che ha l' ardire di scrivermi ed ha osato introdursi nella villa e venire sotto la mia finestra, chiamandomi a nome? — esclamò con una mal frenata agitazione.

Avrebbe voluto strappare quella carta senza leggerla, ma la curiosità la vinse sul dispetto.

E percorse lo scritto cogli sguardi. Ed a misura che leggeva, diveniva turbata, perplessa. Il foglio conteneva queste parole:

Signorina Maria,

“ Perdonatemi se, a voi sconosciuto, oso scrivervi; ma è il desiderio di giovarvi che mi guida: io conosco alcuni segreti importanti della vostra famiglia e specialmente di vostra madre. Non rifiutate di ascoltarmi: forse più tardi vi pentireste. Io sono un uomo d' onore, potete affidarvi a me: domani sera a questa stessa ora, io vi attenderò in giardino, sulla panca situata dietro la vasca. Per pietà, non mancate, e soprattutto non fate parola di questo colloquio: ne andrebbe della vita di qualche persona. ”

Maria aveva il cuore colmo di sorpresa e di terrore.

Quella strana lettera, gettatale in quel modo, poneva nella sua anima ingenua la più grande perplessità.

Ella poteva dunque da uno sconosciuto conoscere i segreti di sua madre, sapere il motivo per cui il padre l'aveva uccisa?

La tentazione era grande, ma lo era altresì il timore di trovarsi vicino ad un uomo che non conosceva. Perchè volerla vedere così di nascosto? Non poteva presentarsi a suo zio?

Ella ritornò alla finestra per guardare in basso, ma l'ombra nera era sparita, nè udiva il minimo rumore.

La fanciulla rilesse altre due volte il misterioso foglio, poi esclamò risoluta:

— Ebbene, mi recherò all' appuntamento. Voglio infine sapere ciò che ha fatto mia madre e fino a qual punto mio padre sia colpevole.

Maria si coricò con questo pensiero ed all' indomani si guardò bene dal mostrare la sua agitazione. Anzi si fece vedere calmissima e passò la giornata vicino allo zio ed a Nany.

Alla sera attese tranquilla che tutti si fossero coricati. Per andare dalla sua camera in giardino, non aveva che da attraversare un corridoio e scendere due scale.

La notte era buia, sebbene le stelle brillassero nell'azzurro del cielo. La fanciulla tremava alquanto ed a passi incerti si diresse al luogo designato.

Non vi era alcuno. Maria sedette sulla panchina, stringendosi nel mantello, di cui ebbe cura di ricoprirsi le spalle. Una leggiera brezza agitava le foglie degli alberi, si udiva il tranquillo mormorìo dell' acqua che ricadeva, zampillando, nella vasca.

Passarono alcuni minuti che per Maria parvero secoli: finalmente udì un lieve scricchiolìo e quasi tosto dinanzi a lei, vide l' uomo che tante volte l' aveva spaventata nell' incontrarlo.

Si sarebbero potuti, nel silenzio, udire i battiti del cuore di Maria.

Raul, giacchè era lui, la salutò profondamente commosso.

— Signorina — disse con voce tremante — non so come ringraziarvi della fiducia che mi accordate.

Ella lo guardò con due occhi eloquenti, che brillavano nell' ombra.

— Voi non mi dovete alcun ringraziamento, signore — rispose con vivacità — se non aveste fatto appello al nome sacro di mia madre, non mi vedreste qui.

Raul mandò un lungo sospiro.

— Io non volli che sospettaste un solo istante delle mie intenzioni — replicò — Ciò che debbo dirvi è assai grave ed è perciò che vi detti appuntamento alla luce delle stelle, sotto la salvaguardia di Dio.

E il conte Adalberti volse un lungo sguardo al firmamente, poi lo riportò commosso sulla fanciulla.

Regnò un breve silenzio.

Il conte Adalberti soffriva in quel momento una terribile espiazione.

Essere vicino a sua figlia, ascoltarne la voce soave, turbata, trovarsi solo con lei e non poterla stringere al petto, coprirle il volto di baci, farsi chiamare col dolce nome di padre.

Maria, dal canto suo, provava un sentimento indefinibile, che la teneva immobile, confusa.

Non si pentiva della sua imprudenza, non aveva più paura di quell' uomo, che le parlava con rispetto, con una specie di devozione. Onde la sua fisonomia si era rischiarata, i suoi sguardi erano più confidenti, tranquilli.

— Forse io non mi sarei mai decise a rivelarvi il segreto che riguarda la vostra famiglia — disse Raul lentamente — se voi non foste stata in procinto di correre un serio pericolo.

— Io! — balbettò Maria con stupore.

— Sì — rispose il conte, dando alla sua voce un' infiessione dura per renderla ferma — e perdonatemi adesso, signorina, se vi farò una domanda forse indiscreta: non vi offendete, io per l' età potrei essere vostro padre.

Queste ultime parole furono pronunciate con accento così commosso, che Maria rispose quasi tosto, con infinita grazia.

— Parlate, signore: se è cosa, alla quale possa rispondere, vi prometto di farlo.

Raul la guardò fissamente.

— Voi amate il figlio del principe Cars? — disse con tuono spiccato, solenne.

La fanciulla si scosse: il suo bel sembiante fu irradiato da un riflesso d' cogoglio e di fermezza.

— Non so mentire, signore — disse — l 'amo.

Quantunque Raul lo sapesse, quella confessione fatta con tanta ingenua franchezza, gli produsse al cuore uno spasimo angoscioso.

— Ebbene, a quest' amore fa duopo che rinunziate — mormorò — giacchè per voi è un delitto.

Le fattezze animate della fanciulla si velarono di un'ombra di profonda mestizia.

— Sapete voi pure della condanna di mio padre? — chiese debolmente.

Raul alzò con alterezza il capo: lo sguardo gli lampeggiava.

— Non è la condanna del conte Raul Adalberti — disse con gravità — che possa offuscare il vostro on ore, far tacere i moti del vostro cuore; ma un'unione col figlio dell'uomo, che è stato l' amante di vostra madre ed il solo colpevole della morte di lei.

La violenza con cui fu fatta questa dichiarazione, fece balzare in piedi Maria: lo sdegno le imporporava le guancie; i suoi grand' occhi si erano illuminati di una luce singolare.

— Voi mentite — esclamò — calunniate mia madre: la vostra è un' orribile invenzione, nè io debbo ascoltarvi altrimenti.

Fece un passo per allontanarsi. Raul la ritenne per un lembo del mantello.

— Fermatevi — proruppe — la mia non è menzogna, ma verità. Forse ve la rivelai un po' bruscamente, ma non ho potuto reprimermi.

Si tacque come soffocato. Maria tornò a sedere. Era agitata da un tremito convulso; continuava a balbettare:

— Non può essere, no.

— Ed a quale scopo mentirei? — disse cupamente Raul. — Del resto non accuso vostra madre. Quand' ella conobbe il principe Cars, era fanciulla e libera: fu lui il colpevole che la sedusse, l' abbandonò. E più tardi, quando vostra madre, dimentica del passato, si cullava nella gioia infinita di essere moglie di un uomo nobile e buono che l' adorava, di avere un' angioletta che le prometteva mille delizie per l' avvenire, il principe non la lasciò tranquilla, volle distruggere tanta felicità, rivelando a vostro padre ciò che questi ignorava, dilaniandogli il cuore, umiliandolo, armando infine la sua mano contro la disgraziata. Fu Cars il vero assassino, e voi ne amereste il figlio?…

L' effetto prodotto da questa frase fu violento per Maria. Un vivo rossore le sali al vìso: il cuore le battè da uscirle dal petto, le mani si strinsero insieme frementi.

— Come avete potuto sapere tutto ciò? — chiese con voce in cui trapelevano ansia e dolore.

Raul ebbe d' uopo di tutto il suo coraggio per sostenere imperterrito lo sguardo di sua figlia, che l' interrogava con terrore.

— Sono stato l'amico di vostro padre — rispose. — Lasciando la prigione, venne da me, e dietro le mie preghiere, mi confessò il segreto della sua colpa, l'onta che pesava sulla sua famiglia.

Maria non potè frenare un gesto di dolore.

— E perchè — chiese anelante — non ha cercato vendicarsi del principe Cars?

— Perchè ignorava il luogo dove egli si nascondeva — rispose vivamente Raul — Ah! se avesse potuto indovinare che si trovava in Italia! Ma dalle informazioni assunte, credette che il principe fosse in Normandia, in uno dei suoi vecchi castelli ed è partito per colà. Prima, però, di lasciarmi, vostro padre mi chiese, in nome della nostra antica amicizia, di venirvi a vedere di nascosto, di sapergli dare, all' insaputa del vostro padrino, qualche nuova di voi, mandargli il vostro ritratto. Ho accettato con gioia l' incarico e sono quattro mesi che veglio vicino a voi, senza che ve ne siate accorta.

Si fermò un istante per dominare la sua emozione, poi continuò:

— Spesso ho assistito ai vostri colloquî col giovinetto, che ignoravo chi fosse, ed ero già deciso a favorire il vostro idillio, a fare per voi la parte del buon genio, quando scoprii il nome del vostro pretendente.

Se il mio cuore ne sanguinò, figuratevi quello che avrebbe provato vostro padre venendolo a sapere. È perciò che volli parlarvi onde impedire una sciagura, fors' anche un delitto. Ora, che intendete fare?

Maria drizzò il capo. Ella aveva attinta nel suo cuore un' inattesa energia: gli occhi aveva lampeggianti, le labbra sdegnose.

— Voglio vendicare mia madre — disse.

— Povera bambina! — mormorò Raul con tono di tenera pietà — voi siete troppo debole per combattere con un uomo della forza del principe Cars. Suo figlio stesso ignora certamente le sue colpe.

— Che importa? — interruppe Maria con fiero accento — Il principe ama assai Vittorio e soffrirebbe molto nel vederlo infelice. Ebbene, io renderò infelice il figlio per colpire il padre.

Raul non seppe reprimere un irreflessivo movimento: con un gesto rapido, impetuoso, nel quale trasfuse tutta l'anima sua, attirò sua figlia al petto, le impresse un bacio sulla fronte.

— È in nome di vostro padre — esclamò quindi — se egli fosse qui e vi sentisse, andrebbe orgoglioso di voi, egli che darebbe tutto il suo sangue, la sua vita per un vostro bacio.

— Perchè non è venuto a darmelo? — mormorò la fanciulla più sorpresa che atterrita da quell' appassionato amplesso.

— Perchè aveva timore di esserne respinto ed ha giurato di non più chiamarvi figlia, che il giorno in cui avrà punito l' uomo che lo rese assassino, indegno di voi…

— Povero padre! — mormorò Maria alzando su Raul gli occhi molli di lacrime — ora comprendo di averlo mal giudicato.

Ci volle una gran forza perchè il conte si contenesse, non si rivelasse a sua figlia.

Per un secondo sentì mancarsi il respiro, rimase confuso, senza parole.

Poi, rimettendosi, mormorò pian piano:

— Egli vi benedirà, conoscendo la vostra determinazione. Ma pensateci, Maria: voi amate Vittorio…

Ella si pose una mano sul cuore, e con accento da commuovere una pietra:

— Qual merito avrei se non l' amassi? — disse — È vero: Vittorio è innocente delle colpe di suo padre, ma anche mia madre lo era ed il principe ebbe tuttavia l' infame coraggio di perderla; onde io non avrò pietà per suo figlio e più doloroso sarà il mio sacrifizio, più lo compirò con coraggio: preferisco squarciarmi il cuore, piuttosto che l'assassino di mia madre abbia ancora un istante di felicità.

La fanciulla era portentosa per energia: si era sollevata alquanto ed aveva incrociate con aria di sfida le braccia sul petto.

Il mantello, ricadendole sulle spalle, dava maggior imponenza alla sua leggiadra persona.

Raul la contemplava in estasi. Maria gli appariva ammirabile sotto quel nuovo aspetto. E per una seconda volta sentì una tentazione furiosa d' avvincerla nelle sue braccia, di lasciar prorompere il grido che aveva nel cuore:

— Figlia, figlia mia!

Ma gliene venne meno la forza….

Vittorio era felice delle buone disposizioni in cui aveva trovato suo padre. Il giovinetto era persuasissimo con due o tre carezze d' indurre il principe a fare il primo passo verso il conte Leo Adalberti, come era sicuro che la bellezza soave di Maria, avrebbe trionfato di qualsiasi ostacolo.

Però, all' indomani, Vittorio non attese che suo padre si svegliasse per recarsi alla villa del conte, sicuro che dietro il cancello Maria l' aspettava ansiosa, impaziente.

Prese una scorciatoia per fare più presto, non degnando di uno sguardo la natura che si risvegliava, per non distrarsi, pieno di una commozione più profonda di quella destatasi altra volta nel suo cuore.

Si è che ormai egli poteva parlare d' amore a Maria, fissare con più ardire gli occhi in quelli di lei per leggervi i puri pensieri della sua anima, stringerle le mani, sfiorarle le treccie con un bacio.

Trasportato da questi sogni, Vittorio affrettò i suoi passi e giunse in breve sul sentiero percorso il giorno prima.

Ma l' agile leviere non venne questa volta a dargli il primo saluto, a lambirgli le mani ed invano il giovinetto si mise a spiare dietro il cancello, lungo il viale che conduceva alla villa.

Tutto era tranquillo, deserto. Sembrava persino che i zeffiri non ardissero agitare le frondi per non turbare il silenzio di quei luoghi.

Il viso di Vittorio si coprì di una nube di melanconia.

— Che suo zio le abbia proibito di parlarmi? — pensò. — Che egli non approvi l' amore di Maria per me? Crede forse che io voglia ingannarla? Ah! si avvedrà ben presto della sincerità dei miei detti.

Rimase per quasi un' ora vicino al cancello, tendendo l' orecchio ai minimi rumori, poi fatto certo che in quella mattina non avrebbe veduta la fanciulla, riprese pensieroso la strada per tornarsene a casa.

Passarono tre giorni senza che fosse dato al giovinetto saper nuove di Maria.

Era diventato cupo, inquieto: una febbrile impazienza l' agitava, gli occhi aveva abbattuti, tristi.

Il principe lo sorprese la mattina del quarto giorno, mentre il giovinetto, appoggiato ai ferri della terrazza, da cui si poteva scorgere la villa del conte Adalberti, tacitamente piangeva.

Cars sentì stringersi il cuore.

— Oh! mio povero fanciullo — disse baciandolo con espansione — scommetto che indovino il motivo delle tue lacrime, ma io cercherò di farti sorridere. Siccome vedo che il conte Leo Adalberti non si fa vivo, forse perchè ha paura di me, essendomi sempre mostrato un po' selvaggio, così io per il primo l' inviterò a venir qui, per intendersi sulla felicità dei nostri figli.

Vittorio saltò al collo del padre.

— Oh! quanto sei buono! — esclamò, raggiante di gioia.

— Di' piuttosto che ti amo e desidero che nulla venga a turbare la serenità della tua esistenza.

Ed il giorno stesso, Cars scrisse una lettera gentile al conte, scusandosi di non potersi recare da lui a motivo della sua cagionevole salute e chiedendogli uffcialmente la mano della nipote Maria per suo figlio Vittorio.

Il principe inviò la lettera per mezzo del suo fedele Zilà e poche ore dopo riceveva questa laconica risposta.

Principe,

“ La vostra domanda mi onora grandemente, nonostante debbo rispondere con un rifiuto. Ho interrogata mia nipote ed ella mi ha significato che la sua simpatia per vostro figlio non giunge al punto da sacrificargli la propria libertà, che rinunzia alla sua mano, essendole impossibile amarlo. Io non ho altro da aggiungere, se non che spero resteremo lo stesso buoni vicini.

“ Leo Adalberti. ”

L' orgoglio patrizio di Cars si rivoltò. Il suo pallido viso divenne infiammato, nei suoi occhi passò un lampo minaccioso.

— E tu mi dicevi che quella fanciulla ti amava, era degna di te? — esclamò tendendo il biglietto a Vittorio, che lo fissava con sguardi angosciosi — tieni, leggi…

Il giovine percorse il foglio collo sguardo ed una subitanea indignazione scoppiò sul di lui volto.

— Il conte ti scrive una menzogna — gridò — No… non è possibile, che Maria gli abbia così risposto, ed io saprò la verità…

— Vittorio, ascoltami — esclamò il principe con accento severo, febbrile — se tu mi ami, non devi più cercare di rivedere quella fanciulla.

Il cuore del giovane batteva con violenza.

— Padre mio — soggiunse con l' accento della preghiera — io ti giuro di dimenticare Maria se avrò la prova di quanto suo zio asserisce, ma lascia che io cerchi di parlare con lei una sola volta ancora; non me lo negare.

Il principe sentiva calmare la sua ira alla voce angosciosa del figlio.

— Come lo potrai? — chiese macchinalmente.

— Lascia fare a me, ne troverò il mezzo e ti prometto, papà caro, di usare la più gran calma e prudenza. Vedi, se tu non mi permettessi ciò, impazzirei.

Si mostrava così pallido, risoluto, che il principe ne fu intenerito.

— Ebbene, acconsento — disse — Ma pensa, Vittorio, che se tu dovessi umiliarti innanzi a coloro, recheresti una ferita insanabile al cuore di tuo padre e se tu corressi un pericolo, io ne morrei.

— Non temere, papà caro, eviterò qualsiasi pericolo e in quanto al resto non dimentico che sono tuo figlio.

Il giovane cercava mostrarsi forte, ma aveva l' anima straziata.

Dopo aver veduto aperto il paradiso, assisteva in un istante all' annientamento di tutte le sue speranze.

Ma era possibile che Maria l' avesse così ingannato, si fosse preso giuoco di lui? No, no, il cuore di lei era un santuario d' innocenza, la sua anima candida, come i gigli che ella coltivava.

Però doveva esserci un mistero in quel rifiuto del conte e Vittorio giurava a sè stesso di scoprirlo.

Egli aveva in mente un progetto audace: attese la notte per metterlo in esecuzione.

Un po' prima delle dieci uscì dalla villa; il tempo era calmo, il cielo sereno. Vittorio prese una strada di traverso e varcando fossi, saltando cespugli, strisciando fra gli sterpi, giunse sul sentiero che conduceva direttamente alla sontuosa dimora del conte Adalberti.

La luna era sorta sull' orizzonte e illuminava quietamente la campagna. Vittorio, fatti alcuni passi, scorse distintamente un uomo che camminava sullo stesso sentiero, a pochi metri di distanza.

Senza sapere il perchè, il cuore del giovinetto battè con violenza.

Chi poteva essere quell' individuo dal portamento elegante, dall' abito distinto che camminava lestamente, zufolando un' arietta d' opera?

Vittorio avrebbe voluto vederlo in viso. Raddoppiò il passo, mentre l' altro lo rallentava.

A pochi passi dal cancello, lo sconosciuto si volse, come per assicurarsi se alcuno lo spiava.

Vittorio ebbe appena il tempo di nascondersi nell' ombra della siepe.

Ma intanto aveva riconosciuto quell' individuo. Era lo stesso che pochi giorni prima l' aveva sorpreso in colloquio con Maria ed al quale aveva insegnata la strada per recarsi a Como.

Vittorio non dimenticava il modo brusco con cui quell' uomo l' aveva lasciato, sebbene egli si fosse mostrato fin troppo cortese con lui.

Ora, come si trovava ancora sulla stessa strada?

Che veniva a fare? Tutto ad un tratto trasalì bruscamente e sentì un' ondata di sangue affluirgli alla testa.

Aveva veduto quell' individuo arrampicarsi lestamente ai ferri del cancello e sorpassarlo con un' agilità sorprendente.

Vittorio perdette la testa. Non pensò che quell' uomo, dai capelli già brizzolati, non poteva essere un rivale: un sospetto terribile gli balenò nel cervello: una gelosia insensata gli punse il cuore.

— Lo seguirò — disse con sorda irritazione — voglio sapere ciò che colui va a cercare a quest' ora nella villa del conte Adalberti. Se è un ladro, saprò dare l' allarme; se un amante, punirlo.

Sul viso bellissimo di Vittorio era una risoluzione implacabile.

Senza esitare, varcò egli pure il cancello e continuò a seguire quell' uomo che certo non pensava di essere spiato, perchè non rivolse più la testa.

Il cuore di Vittorio batteva a più non posso: gli pareva che un cerchio di ferro cingesse la sua fronte. Non perdeva di vista l' incognito, che, fatto il giro del viale, s' introdusse in giardino. Questo rimaneva pienamente illuminato dalla luna, mentre il viale era immerso nell' oscurità.

Onde Vittorio distinse chiaramente quell' uomo avvicinarsi alla vasca e rimase immobile, soprafatto, fulminato, scorgendo Maria, la sua fanciulla adorata, il suo idolo, avvicinarsi rapidamente allo sconosciuto e gettargli le braccia al collo.

Un grido soffocato gorgogliò nel petto del giovane: volle muoversi, non potè: le sue mani gelide strinsero la fronte.

— Io faccio un sogno orribile — balbettò — voglio destarmi.

Chiuse gli occhi, li riaprì, guardò.

Maria si era seduta su di una panchetta erbosa e l'incognito, vicino a lei, le cingeva con un braccio la vita. I loro volti quasi si toccavano.

Vittorio non ebbe più dubbî. Maria lo tradiva infamemente. Sotto quella fronte candida, giovanile, si nascondevano già la menzogna, l' impudenza, il vizio: quelle labbra dolci, soavi, erano già contaminate da baci impuri.

L' affanno del giovane non era già più tale da potere aver sollievo, speranza. Vi sono dei dolori che entrano a poco a poco nell' anima e la rendono abituata a soffrire. Ma l' infelicità era piombata di un sol colpo su Vittorio, nel colmo delle sue speranze, dei suoi desiderî.

Dal luogo dove egli si trovava non poteva udire le parole di Maria, ma vedeva i gesti concitati di lei, che per ben due volte posò la vaga testa sulla spalla del rivale.

Vittorio, riavutosi dal suo potente turbamento, divenne livido di furore. All' angoscia tremenda che aveva provata, subentrò nella sua anima una rabbia sitibonda di sangue: una sete ardente di vendetta lo colse.

— A lei tutto il mio disprezzo — mormorò — a lui il mio odio: lo ucciderò!

Senza alcuna esitanza e incertezza, senza cercare di smorzare il rumore dei suoi passi, si diresse arditamente verso il sedile dove si trovavano Maria e suo padre.

La fanciulla si vide ad un tratto dinanzi Vittorio pallido come un fantasma. Ma invece di mandare un grido o fuggire, ella si alzò come indignata e con accento secco:

— Che venite a far qui? — chiese — Come siete entrato?

— Per la stessa via che ha seguìto il signore — proruppe il giovine dominando il suo stupore — credevo avere lo stesso diritto.

Maria schiuse le labbra ad un risolino beffardo, armonioso.

— Quale diritto, signore? Spiegatevi, perchè in verità non vi comprendo.

Vittorio arrossì dalla vergogna, i suoi occhi s' infiammarono.

— Ah! non credevo che foste una civetta così astuta e sfrontata.

Questa volta fu Raul che si drizzò imponente, minaccioso.

— Sapete voi — esclamò — come si chiami un uomo che insulti in tal guisa una fanciulla?

Vittorio aveva perduta la testa.

— E voi una fanciulla che ogni giorno cambia d' amanti? — proruppe con atroce ironia.

Aveva appena compiuta la frase, che la mano del conte lo colpì sul viso.

— Siete un vile — disse intanto freddamente Raul.

Vittorio, cogli occhi iniettati di sangue, fece l' atto di scagliarsi sul suo avversario.

Ma questi l' afferrò per un braccio e lo tenne stretto così, che non gli fu possibile muoversi.

Due lacrime di rabbia corsero lungo le guancie del giovane e con accento soffocato:

— Ah! solo la vostra vita potrà pagare l'affronto che adesso mi fate — disse.

Raul lo lasciò andare; aveva riconquistata tutta la sua freddezza.

— Volete adunque battervi con me? — chiese.

— Lo voglio certamente — replicò furibondo Vittorio — e sarà un duello a morte.

— Credete forse che io desideri risparmiarvi? — proruppe Raul. — Lo vedrete sul terreno, perchè domani sarò a vostra disposizione.

Ed aggiunse con un fine sorriso:

— I vostri padrini potete inviarli qui dal conte Adalberti, dove saranno sicuri di trovarmi.

Vittorio non ascoltò altro: fuggì via pazzo di dolore, di disperazione.

Maria, che aveva assitito muta, immobile, in atteggiamento disdegnoso alla scena, appena il giovane si fu allontanto, si gettò piangendo fra le braccia di Raul, balbettando:

— Oh! papà mio, è proprio vero? Ti batterai con Vittorio?

Egli la guardò con immenso affetto.

— Temi per lui, o per me? — le chiese con soave tristezza.

La povera fanciulla era pallida come una morta; tuttavia ebbe la forza di rispondere:

— Oh! per te, per te solo.

Raul la baciò con impeto appassionato.

— Se Dio protegge le cause sante e giuste — mormorò — io non ti sarò tolto. Ma rientriamo, Maria, l'aria è fredda, potrebbe nuocerti.

La sostenne, la trasportò come una bambina verso la villa.

Raul si era dunque rivelato a sua figlia? Era stato necessario.

Dopo il suo primo colloquio con lui, la fanciulla si era ritirata agitatissima nella sua camera.

Sarebbe difficile riprodurre quello che succedeva nel suo vergine cuore.

Le ripugnava credere che il padre di Vittorio fosse stato l'amante di sua madre: avrebbe voluto dubitare ancora, ma già il dubbio le sembrava impossibile.

Poi le memorie del passato si affollarono rapide alla mente della fanciulla, e parve che ad un tratto una gran luce si facesse nel suo cervello.

Ella non ricordava più i lineamenti di suo padre, ma aveva sempre impresso in mente l' ultimo sguardo di lui, quando l' aveva visitato in carcere.

Ora nello sguardo di quell' uomo, che si diceva amico del conte, aveva ravvisate tutte le ineffabili tenerezze, la viva ansia dello sguardo di suo padre!

E se non fosse stato lui? Era possibile che un altro potesse occuparsi tanto di lei, conoscere quel segreto che il conte non aveva neppur rivelato allo zio, al padrino di sua figlia?…

Più rifletteva, più Maria era convinta che il suo misterioso protettore non era che suo padre.

Ad un tratto rialzò il capo e gettò un grido: aveva tanto fra le mani da conoscere la verità.

Attese con viva impazienza l' indomani ed appena si trovò sola collo zio, gli disse accarezzandolo:

— Guarda un po' se riconosci questo scritto…

E gli mise sotto gli occhi una striscia del biglietto gettatole da Raul.

Il conte Leo non ebbe bisogno di esaminarlo a lungo.

— È il carattere di tuo padre — rispose. — Dove l'hai trovato?

Sebbene Maria sentisse un gran desiderio di rivelargli la verità, si contenne.

— L' ho rinvenuto in una vecchia scatola, dove vi erano alcuni gingilli della mia povera mamma — esclamò.

Il conte non ebbe il minimo sospetto che Maria mentisse.

Questa corse subito nella sua camera a sfogare la sua ebbrezza. Ella che già aveva accusato suo padre di essersi dimenticato di lei, se lo ritrovava invece al fianco come il suo buon angelo tutelare.

Adesso Maria non l' accusava più.

Dal volto di lui comprendeva quale dolore segreto, atroce, profondo, avesse lacerata la sua anima.

E sua madre era stata colpevole?

No! Il principe Cars solo era il mostro, lo scellerato, che aveva portato l' onta, il disonore in una famiglia onesta, l' aveva segnata col suggello dell' infamia, della morte!

Suo padre aveva ragione. Qualunque castigo sarebbe stato lieve per il principe: bisognava colpirlo nel cuore, come egli aveva colpito gli altri.

La fanciulla si rimproverava il suo amore per Vittorio; in quel momento le pareva un delitto e diveniva implacabile verso lui.

Le sembrava che egli l' avesse oltraggiata, fissando gli sguardi sopra di lei.

— Forse in tal modo suo padre ha ingannata mia madre — mormorò.

Attese con ansia la notte, avendo un nuovo appuntamento con Raul, giacchè questi le aveva promesso d' insegnarle il mezzo per vendicarsi del principe.

Come la notte prima, s' incontrarono dietro la vasca; ma il conte si era appena inchinato dinanzi alla fanciulla, che questa gli si gettò come in delirio fra le braccia, esclamando:

— Padre, padre mio…

La cosa era succeduta con tanta rapidità, che Raul non trovò una parola da rispondere e parve soccombere ad una specie di accasciamento fisico e morale.

Era divenuto di una pallidezza cadaverica e cadde seduto sulla panchetta, tenendosi stretta la figlia.

— Non è vero che tu sei mio padre? — diceva questa con esaltazione — Rispondi, rispondi, di che temi adunque? Ti faccio io paura?

— Cara Maria — gridò il conte con una voce in cui vibrava tutta la sua anima — io non resisto più… Se t' ingannai si è perchè temeva di venir respinto da te.

Ella impresse nuovi baci sulle guancie di lui, ebbro di una gioia divina, sovrumana.

— È vero — disse intanto — io ebbi per molto tempo timore di te, mi faceva pena sentir pronunziare il tuo nome, t' accusavo, ma adesso non è più così: mi sembra che anche mia madre mi spinga fra le tue braccia, che mi sussurri che l' odiarti sarebbe un delitto, che Dio non potrebbe perdonarmi.

Lacrime ardenti scorrevano sulle guancie del conte, accrescendo ancora più la commozione della fanciulla.

— Io fui molto colpevole — mormorò Raul — ma tu sai chi mi ha spinto. Io amavo molto tua madre, l' amo ancora dopo averla uccisa. Ah! se ella mi avesse detta una sola parola, si fosse giustificata, ma no, ha sempre taciuto; eppure lo sapeva che sarebbe stata la sua condanna, conoscendo il mio carattere impetuoso, facile all' esaltazione. Ella non ha sofferto che un istante. Ma io trascino da tanti anni il mio dolore. Oh! le lunghe, tremende notti passate in prigione, segregato dal mondo, cercando invano scacciare l' immagine di tua madre, meditando le più atroci vendette contro il mio nemico, disperando di essere amato da te! E l' unica cosa che mi sollevasse era il portare alle labbra o tenere stretto al cuore un piccolo fazzoletto, che tu perdesti il giorno che lo zio ti condusse nel mio triste carcere, per darmi un ultimo bacio, che mi negasti.

— Te ne darò tanti adesso — replicò la fanciulla cogli occhi bagnati di lacrime e con un accento da cui trapelava ad un tempo l' entusiasmo, la melanconia.

— Cara Maria — mormorò Raul stringendola con ardore nelle sue braccia — questo momento mi compensa di tutto: i tuoi sguardi mi benedicono, mi sollevano, le tue parole dissipano ogni mia angoscia.

Si fermò: aveva sentito dei passi rapidi nel giardino e quasi tosto apparvero il conte Leo e Nany inquieti, indignati.

Un momento prima, la governante era entrata pian piano nella camera della fanciulla per accertarsi che il sonno di lei fosse tranquillo. Ma qual fu la sua paura nel trovare il lume acceso sopra il tavolino e il letto vuoto.

Nany scese precipitosa nell' appartamento del conte. Il vecchio gentiluomo era ancora alzato: leggeva.

Vedendo entrare la governante di Maria, provò una singolare emozione.

— E mia nipote? — chiese vivamente.

— La signorina non si trova più nella sua camera — rispose agitata — e credevo fosse qui.

— Sarà forse scesa in giardino: aspetta.

Aprì la finestra, guardò fuori. Non vide alcuno, ma alle sue orecchie giunse la voce di Raul, alla quale rispondeva quella di Maria.

La fronte di Leo si offuscò.

— Scommetto che ella sta parlando col figlio del principe Cars? — mormorò — Ah! voglio dargli una lezione a quel ragazzo, insegnargli come non si viene di notte, all'insaputa di tutti, nella casa di un gentiluomo a sedurre le fanciulle.

Si tolse bruscamente dalla finestra per discendere in giardino. Nany lo seguì, perchè indovinando la verità, voleva, nella sua sollecitudine materna, difendere almeno Maria.

Ma non erano giunti al luogo dove la fanciulla si trovava con Raul, che ella balzò in piedi con un grido:

— Zio… zio… guarda se tu lo riconosci, come l' ho riconosciuto io — esclamò.

Il gentiluomo guardò sorpreso quell' uomo dalla folta barba, che chinava la testa umiliato, confuso, e disse a stento:

— Raul…

— Mio padre — aggiunse a sua volta la fanciulla abbracciandolo.

Il colpevole fece l' atto d' inginocchiarsi dinanzi allo zio, ma questi lo sollevò, lo strinse al petto, balbettando per la commozione:

— Sei proprio tu che rivedo? Ma in qual modo sei entrato qui? Come ti sei fatto riconoscere da Maria?

— Ti dirò tutto più tardi — proferì Raul con tenerezza piangendo.

E rivolgendosi a Nany, che lo guardava con una specie di terrore.

— Voi che avete avuta tanta cura per mia figlia, volete darmi la mano? — disse.

La povera donna lo fece tremando, senza saper trovare una parola.

Un' ora dopo Maria, nel suo letto, confidava parte del segreto di suo padre a Nany, mentre Raul rivelava tutto a suo zio.

Per quella notte, egli rimase alla villa del conte Leo, ma all' indomani disse che sarebbe tornato alla sua dimora.

— Non voglio che si sospetti la mia presenza in questi luoghi, specialmente adesso che ho ritovato l' uomo che devo punire. Per ora rimango il pittore Rodolfi, innamorato di Maria Adalberti, rivale del figlio del principe Cars.

Sorrideva amaramente così parlando. Il conte Leo scosse la testa.

— Ah! mio povero nipote, vuoi perderti adunque un'altra volta?

— Oh! no, per Iddio, questa volta non è più un assassinio, ma un duello fra due pari — esclamò Raul.

— Tu vuoi provocare Vittorio, quel fanciullo?…

— Appunto, perchè sono certo che interverrà il padre, ed allora, a noi due. Ah! vedi, il solo pensiero di trovarmi forse in breve a faccia a faccia con lui, mi dà la febbre, mi produce una sensazione, come se del fuoco scorresse nelle mie vene. Forse che dovrei perdonare, dimenticare? No, non perdono, nè dimentico io. E adesso che mia figlia mi ama, mia figlia stessa mi seconda, credo che anche il Cielo sarà dalla mia parte.

Così parlando, le sue guancie si erano straordinariamente animate; dai suoi occhi parevano scaturire vive fiamme; le sue labbra fremevano.

Il conte Leo chinò il capo in silenzio.

Quando giunse la lettera del principe, che chiedeva la mano di Maria per suo figlio, Raul dopo averla avidamente percorsa, mandò un grido quasi selvaggio.

— Se egli a ciò si è indotto — disse — è certo che Vittorio ama con passione mia figlia ed il vecchio teme che egli ne soffra. Ah! incomincia bene la mia vendetta.

Maria, interrogata, volle ella stessa dettare la risposta allo zio, e lo fece con una calma ed una freddezza, che sorpresero suo padre e provocò in lui un moto di gioia.

— Che ella non l' ami, come io temevo? — pensò — Ah! meglio così, avrei sofferto troppo nello spezzarle il cuore.

Il conte Raul era certo che dopo quel rifiuto Vittorio, tradito nel suo amore, umiliato nel suo orgoglio, avrebbe cercata una spiegazione da Maria, avrebbe spiata sua figlia per parlare.

Onde ideò la scena, alla quale abbiamo assistito, cercò suscitare la gelosia del giovane, provocarlo, renderlo ebbro di furore, di disperazione.

Pertanto Maria, dopo la forza dimostrata, cadde in un' indicibile prostrazione.

Suo padre l' aveva trasportata in casa quasi svenuta, deposta sul letto e chino su di lei ne ascoltava l' esile respiro.

— Coraggio, Maria, coraggio — le sussurrò — sai bene che è troppo tardi per tornare indietro.

La fanciulla si coprì il viso con le mani tremanti e proruppe in lagrime.

Raul si sentì lacerare l'anima.

— Maria, Maria — aggiunse, pallidissimo, agitato — vuoi che rinuzî alla mia vendetta? Parla e lo farò, dovessi essere dichiarato il più vile degli uomini, venir calpestato ignominiosamente da colui stesso, che mi rese assassino.

Queste parole, pronunziate con accento straziante, scossero ogni torpore morale della fanciulla.

Ella si sollevò con impeto.

— Perdono, padre mio, perdono — esclamò — la mia debolezza è passata, nè tornerà più. No; io non riterrò la tua mano, e quando tu dovessi soccombere in questo duello fatale, sono io che ti vendicherò, vendicherò mia madre….

Raul mandò un grido di gioia, di ammirazione e stringendo Maria al suo petto, le coprì il pallido volto di baci.

Ormai era sicuro di sua figlia.

Pure se alcune ore dopo, fosse entrato all' improvviso nella camera di lei, che credeva addormentata, l' avrebbe veduta ginocchioni al suolo, giungere le mani con atto convulso, disperato, balbettando:

— Ah! disgraziata, disgraziata che sono, ho ingannato mio padre, perchè amo Vittorio; l' amo più che mai, ora che ho segnata la sua sentenza di morte!

Il figlio del principe Cars si era diretto alla sua dimora, barcollando come un ubbriaco, con gli occhi infiammati, la testa sconvolta, il cuore sitibondo di sangue.

— L' ucciderò colui, l' ucciderò! — balbettava.

Poi aggiungeva come in delirio, sentendosi morire d' onta, di rabbia:

— Come mi hanno insultato! E Maria ha riso ancora di me, dopo avermi tradito, ingannato. Oh! la sciagurata! E dire che io la rispettavo come gli angeli, osavo appena sfiorarle le treccie con un timido bacio. E quell' uomo invece la tenne stretta, sotto ai miei stessi occhi, fra le sue braccia.

Quest' idea fu per il giovinetto a mille doppi più straziante di tutte le altre evocazioni, tanto che mandò persino un gemito e sentì mancare la sua fisica energia. Tremava per tutto il corpo e si reggeva ritto a stento.

Ma fatti ancora pochi passi, vide farglisi incontro sul sentiero che batteva, un uomo alto, nero, che subito riconobbe.

Era Zilà.

— Tu qui? — chiese con subitanea emozione — Mio padre sta forse male?

Il domestico scosse il capo.

— Il principe era inquieto — rispose — Sapendo che vi trovavate fuori, desiderò che vi venissi incontro.

Il giovane non rispose, ma sentì un gelido sudore sulla fronte ed il cuore battergli con violenza.

Come avrebbe sofferto suo padre nell' apprendere la verità. E non era possibile nascondergliela: ripugnava troppo al povero ragazzo una menzogna, specialmente alla vigilia di un duello a morte.

— Mio padre è ancora alzato? — disse voce commossa.

— Sì, vi attende nella vostra camera.

— Non facciamolo aspettare — aggiunse Vittorio, cercando di riprendere il suo coraggio.

Ma quando entrò nella sua stanza, era così pallido, sconvolto, che il principe comprese subito che qualchecosa di grave era avvenuto. I presentimenti tristissimi che l' avevano assalito durante la lontananza del figlio, parevano realizzarsi.

Vittorio si sforzò a sorridere, mentre baciava suo padre.

— Ancora alzato per cagion mia? — gli disse, intanto — ah! non me lo perdonerò certamente.

— Ti ho già perdonato io, figliuol caro — rispose il principe con dolcezza, ritrovando tutta la sua presenza di spirito, facendo sedere vicino a sè Vittorio, e guardandolo con immenso affetto.

— Come sei pallido! — aggiunse con premura.

Vittorio gli appoggiò il capo sul petto.

— Soffro tanto, padre mio — mormorò.

Il principe ebbe come una vertigine.

— Hai dunque parlato con Maria? — chiese lentamente.

Un lampo d' ira surrogò negli occhi del giovine lo sguardo languido, abbattuto, di poco prima.

— Sì, ho parlato con lei e col suo amante — rispose con una sorda irritazione nella voce.

Il principe si scosse.

— Che vuoi tu dire? — balbettò.

— Che quella fanciulla che io adoravo, volevo fare mia moglie, è un mostro senza viscere, che mi ha dilaniato il cuore, si è presa giuoco di me, ha insultato il mio dolore. La trovai fra le braccia di un altro e, vedi, colui, per difenderla, ha osato alzare la sua mano su di me.

Arrossiva di vergogna a quel ricordo.

— Chi è il miserabile? — esclamò il principe con impeto, mentre i suoi occhi sfolgoravano di sdegno, le sue nari si dilatavano con un' espressione sinistra.

— È un uomo che domani ucciderò! — disse con un fiero sorriso Vittorio.

Il principe cercò nascondere la sua potentissima emozione.

— Raccontami quanto ti è successo? — replicò freddamente.

Vittorio non si fece pregare. Sentiva il bisogno di uno sfogo e con colori vivacissimi, fece il racconto dell' avvenuto.

Sentendo che l' uomo il quale si trovava vicino a Maria aveva schiaffeggiato suo figlio, Cars si raddrizzò bruscamente, le sue labbra s' incresparono e con accento fermo, irremovibile:

— Sono io che l' ucciderò — disse.

— Padre mio! — balbettò Vittorio scomposto.

Il principe non gli badava.

— Sì, sono io — ripetè — ah! perchè colui si è trovato dinanzi un fanciullo ha agito da miserabile, ma il padre vendicherà il figlio. Ancora ho il braccio forte, la mano ferma… e per Iddio saprò punire ad usura l' oltraggio che ti ha inflitto.

— No, padre mio, tocca a me battermi — interruppe Vittorio con ansia dolorsa — vuoi che quell' uomo creda che io abbia paura? Mi ucciderei dalla vergogna.

— Taci — gridò il principe con voce strozzata — Non pensi che le tue parole mi straziano l' anima? Ebbene, non prenderò il tuo posto, ma sarò il tuo padrino.

— Oh! questo sì, accetto — esclamò Vittorio, baciandolo con effusione — la tua presenza raddoppierà il mio coraggio e vedrai, padre mio, che se tuo figlio non ha saputo prevenire l' insulto, saprà però punirlo.

Cars e Vittorio rimasero ancora insieme per qualche ora, poi il giovane si coricò ed il principe si diresse verso la sua camera.

Zilà, che l' attendeva, fu sorpreso di vederlo entrare senza appoggio, colla testa alta, lo sguardo brillante come se avesse vent' anui.

— Domattina per tempo sellerai il mio cavallo — disse — debbo uscire.

Zilà ne fu strabiliato, ma avvezzo ad obbedire senza fare osservazioni, s' inchinò in silenzio.

— Ora puoi lasciarmi — aggiunse Cars — non vado ancora a letto ed ho bisogno di essere solo.

Zilà sparì senza dir verbo.

Il principe sedette su di una poltrona e piegando il capo sul petto, s' immerse in una dolorosa meditazione.

Riandava la sua esistenza passata e chiedeva a sè stesso ciò che avesse mai fatto per essere sottoposto a prove così dure e crudeli.

Il destino si era mostrato inesorabile con lui: l' aveva colpito continuamente al cuore.

E mai si era ribellato; ma ora si minacciava la vita del figlio ed egli sentiva ribollirsi il sangue nelle vene, cambiava la sua rassegnazione in collera, in dolore.

— Dovessi compiere un assassinio, Vittorio non morrà — disse, rialzando il viso con atto energico, risoluto.

Cars passò la notte in piedi, eppure al mattino si trovava sempre in forze.

L' amore per suo figlio gli dava un' incredibile energia, lo sosteneva.

Montò a cavallo col vigore di un giovinotto, nè permise che Zilà l' accompagnasse.

Conosceva benissimo la strada per recarsi alla villa Adalberti. L' aveva fatta tante volte in compagnia di Bice, quando la poveretta si trovava ancora in grado di muoversi, d' uscire. Ma quale differenza dai giorni passati, pieni ancora di poesia, di fede, al presente, tutto amarezza e sconforto!

Eppure il cielo era lo stesso, la natura così splendida, bella. Ma se i fiori tornavano a rinascere, ad aprirsi alla luce, in lui era morta ogni speranza, nè sarebbe sorto a nuova e rigogliosa esistenza.

Così pensando, il principe fece un gesto di rabbia, che poco mancò non lo facesse balzare di sella.

Poi si rimise, e conficcando gli sproni nel ventre del cavallo, allentò la briglia e partì al galoppo.

Pochi momenti dopo, scendeva presso il cancello della villa ed agitava risoluto l' elegante catena che comunicava col campanello di casa.

Non tardò ad apparire un domestico, che fissando sul principe due occhi scrutatori:

— Chi cerca il signore? — chiese.

— Il conte Leo Adalberti è in casa? — disse a sua volta alteramente Cars.

— Sissignore.

— Ebbene, ditegli che il principe Cars desidera parlargli.

Il domestico s' inchinò.

— Il signore viene forse da parte di suo figlio a cercare il pittore Rodolfi?

— Precisamente — rispose senza esitare il principe, quantunque ignorasse il nome dell' avversario di Vittorio e chiedesse appunto per ciò del conte Adalberti.

— Ebbene, si compiaccia seguirmi, signore.

Il domestico afferrò le briglie del cavallo e precedette il principe lungo il viale.

Giunti ad una spianata consegnò il quadrupede ad un altro servo ed attraversato il giardino fece salire al principe una gradinata a fiori e da un elegante vestibolo l' introdusse in un salotto dalle tappezzerie orientali, dai mobili di un lusso artistico, squisito, ed inchinatosi lo lasciò solo.

Il salotto era rischiarato da due ampie finestre che davano nel giardino, ma i vetri ne erano chiusi e le tende abbassate.

Il principe non volse neppure uno sguardo ai mobili del salotto, ma tutta la sua attenzione si riconcentrò su di un ritratto di donna, che rimaneva seminascosto fra alcuni drappi.

Al vivo stupore di Cars, subentrò una singolare emozione.

— Il ritratto di Miranda! — disse — Come mai si trova in questo luogo? Quale parentela esiste fra lei ed il conte?

Più l' esaminava, più la fisonomia del principe si faceva commossa.

— Felice l' uomo che avrà posseduto quella nobile creatura — pensava, ricordando l' ultimo colloquio avuto con Miranda. — Come si è mostrata grande, generosa con me, che pure avevo cercato recar offesa a suo fratello….. Ah! perchè conobbi troppo tardi la sua bell' anima?…

Due lacrime scorsero sulle dimagrite guancie di Cars, tanto assorto nella sua contemplazione che non s' accorse di un uomo entrato nella stanza, il quale lo fissava con uno sguardo terribile, minaccioso.

Era Raul, più pallido di uno spettro, più grave di un giudice, che stia per firmare una sentenza di morte.

Vedendo il principe in adorazione dinanzi al ritratto di Miranda, fece un atto di sdegno, e parve volere scagliarsi su di lui per toglierlo a quell' estasi.

Ma seppe dominarsi e si limitò a smuovere una seggiola.

Per quanto lieve fosse il rumore, bastò perchè Cars si componesse. E volgendosi si trovò in faccia a Raul.

Alla vista di quell' uomo, non più giovane, dall' aspetto tetro, quasi sinistro, Cars rattenne a stento un moto di stupore.

Poteva colui essere il rivale di suo figlio?

Egli nascose la sua impressione e si limitò a ricambiare il saluto dignitoso di Raul.

— Siete voi, o signore — chiese quindi senza preamboli il principe — che questa notte insultaste mio figlio?

— Sono io — rispose fieramente Raul — E spero domani dargli una lezione assai più grave, per insegnargli a rispettare una fanciulla onesta.

Il viso di Cars si era infiammato: l' accento insultante di Raul, il suo aspetto minaccioso, gli fecero perdere ogni sangue freddo.

— Una fanciulla onesta — disse squadrando il conte con aria sprezzante — non riceve di notte gli amanti in giardino.

— Chi ha ricevuto degli amanti? — ripetè Raul con tono feroce.

Cars ebbe un sorriso quasi beffardo.

— Voi lo sapete meglio di me — rispose — che vi siete eretto a difensore della contessina Adalberti.

— Principe — gridò Raul con indignazione — rispettate mia figlia!

Cars trasalì bruscamente.

— Vostra figlia! — replicò. — Ma allora non eravate voi questa notte in giardino con lei?

— Ero io — disse Raul fissando sul principe uno sguardo fulmineo — E l'attendevo… vostro figlio, perchè ero sicuro che non avrebbe degenerato dal padre, che al pari di lui avrebbe approfittato dell' ingenuità di una fanciulla, del suo amore, per sedurla, introducendosi di notte nella sua casa come un ladro.

— Signore — interruppe il principe frenandosi a stento — non so qual sentimento v' ispira ad oltraggiarmi così. Sappiate che il principe Cars non ha mai sedotto alcuno.

Raul non lo lasciò finire: un' espressione d' ira fulminea sconvolgeva il suo sembiante.

— Ed osate parlare così dinanzi alla vostra vittima? — gridò additandogli il ritratto di Miranda.

Il principe rimase per alcuni minuti a bocca aperta, muto, immobile, con lo sguardo stralunato.

— Ah! la vostra audacia si calma — aggiunse Raul sogghignando e con rabbia — adesso non alzate più gli occhi con tanta sicurezza.

Cars si fece rosso in viso per la vergogna di essere sospettato di vigliaccheria.

Stava per prorompere, ma si trattenne a tempo.

— Voi v' ingannate assai sulla causa della mia emozio

— disse — se impallidii, se tremo ancora, è solo per lo stupore di vedermi fatto segno ad un' accusa altrettanto ignobile quanto menzognera.

— Neghereste di essere stato l'amante di Miranda Clementi? — irruppe con furia Raul.

— Io? Io? — gridò il principe con tale accento, che scosse per un istante il conte.

Tuttavia continuò esaltato:

— Sì, voi, che fingete anche ignorare dinanzi a chi vi trovate. Guardatemi, guardatemi bene, non vi ricordate di avermi veduto altra volta?

— No, mai — disse macchinalmente il principe.

— Ed il mio nome nulla vi rammenta? — aggiunse beffardamente Raul.

— Non siete il padre di Maria?

— Non basta: fui anche il marito di Miranda, il suo assassino!

Il principe gettò un grido.

— No, non è possibile, io faccio un brutto sogno — balbettò — Miranda vostra moglie, assassinata da voi?

— Sì, da me — proruppe Raul con voce stridula — Ma chi è l' infame che mi ha spinto? Ah! quella lettera scrittavi da Miranda, che attestava la sua colpa, e che m' inviaste per squarciarmi il cuore, io l'ho sempre presente. Ho scontata la pena di dieci anni per il mio delitto, ma l' ora della punizione è venuta anche per voi. Comprendete adesso perchè insultai vostro figlio, lo provocai e voglio battermi con lui? Per colpirvi al cuore, come avete colpito me.

Il principe Cars ascoltava smarrito, in preda ad un'orribile vertigine.

Invano cercava dubitare, invano tentava respingere la straziante realtà, che gli si offriva così improvvisamente allo sguardo.

Era proprio vero quanto quell' uomo, da lui creduto dapprima pazzo, gli andava dicendo? Ed incolpava lui come il solo autore di tutto. Ma di quale lettera parlava? Quali infamie erano state ordite contro quella buona, santa creatura? E Miranda non seppe respingere, indignata, l'accusa? In quali circostanze era avvenuto l'assassinio?

Il principe Cars rimaneva soverchiato, tentando invano trovare un po' di luce tra le fitte tenebre in cui si dibatteva.

Ad un tratto rialzò con impeto il capo.

— Conte — disse con voce grave e ferma — io sono qui inerme dinanzi a voi, potete uccidermi, che non mi difenderò; mio figlio stesso io lo pongo nelle vostre mani, ma prima che abbiate saziata la vostra brama di vendetta, ascoltatemi.

L' accento nobile, triste di Cars, il suo volto esprimente dolore non paura, repressero per un momento l' ira di Raul.

— Che volete mai dirmi? — esclamò con un' inflessione mordace — Forse che Miranda è innocente?

— Lo è, lo giuro sulla testa di mio figlio.

— Che forse è il frutto della colpa — interruppe con amaro risentimento Ranl.

Il principe divenne pallido come un morto, ma i suoi occhi essendosi alzati sul ritratto di Miranda, mantenne la sua calma.

— Non raccolgo simile ingiuria, della quale voi stesso fra poco mi chiederete scusa. Sì, ve lo ripeto: Miranda era innocente, come io lo sono: la lettera che dite di avere ricevuta, è l'opera di una perversa creatura, che io credo conoscere, una donna che odiava la signorina Clementi, come il vizio odia la virtù.

Raul ebbe un lieve trasalimento, ma ricordando la scena successa colla moglie:

— Neghereste — disse a denti stretti — di essere entrato di notte nella palazzina abitata da Miranda, durante un' assenza del fratello?

Questa volta Cars fece un passo innanzi chinando il capo e con accento di suprema angoscia:

— Ecco la mia colpa — disse — ecco il rimorso che ha pesato lungamente sulla mia esistenza. Sì, è vero, io, l' amico di Clementi, abusai della sua fiducia, entrai di notte nella sua casa, durante la sua assenza, credendomi invitato da sua moglie, la donna che io avevo amato prima che divenisse compagna di Umberto.

Anche l' infelice Tecla era stata vittima di un abbominevole intrigo e senza Miranda, quella santa donna, Tecla sarebbe stata perduta, la mia fronte disonorata ed una perversa femmina avrebbe trionfato.

Il principe s' interruppe. Raul l' aveva afferrato per un braccio e con voce lacerante:

— Non era Miranda che amavate? — chiese.

— No, ve lo giuro ancora. E se mi ascolterete, vi farò un' intera confessione.

La dolce e pallidissima fisonomia di Cars, il suo sguardo melanconico, fermo, il sorriso straziante, posero il turbamento nell' anima di Raul.

Un sudor freddo gli corse sulla fronte: ebbe paura.

Si erano fino allora tenuti in piedi, ma in quel momento il conte additò con atto macchinale una poltrona a Cars e gli sedette di faccia.

Il principe parlò. Fu una rivelazione lunga, dolorosa dei fatti successi, dei quali era a cognizione e in cui vi aveva preso parte.

Fa d' uopo rinunziare a dipingere la fisonomia, l'attitudine, l' angoscia di Raul durante quella confessione.

Gli pareva d' impazzire.

Così egli aveva punita un' innocente. Credendo commettere un atto di giustizia, si era reso invece assassino.

E pensare, gran Dio, che amava tanto quella soave, angelica creatura, che per cinque anni aveva resa la sua vita così felice!

Per la prima volta, in quel momento, si persuadeva di tutta la grandezza, la generosità di quella donna!

Piuttosto che profanare la memoria di una povera morta, della moglie di suo fratello, si era sacrificata.

Solo in quell' istante, Raul comprese l' enormità del suo delitto.

E non era più in tempo a ripararlo: tutto era finito!

Le emozioni provate esaltarono siffattamente la sua sensibilità nervosa che, nascosto il viso fra le mani, scoppiò in dirottissimo pianto.

Il principe lo fissava con uno sguardo pieno d' immensa pietà, e con accento melanconico:

— Coraggio, conte — esclamò — quella santa a quest' ora vi ha perdonato, perchè sa che voi non siete stato il colpevole; l' infame contessa Edvald è la cagione di tutto. Ella è stata il mio genio malefico, come il vostro: perfida moglie, cattiva madre, femmina dissoluta, ha seminato intorno a sè il lutto, il terrore, la morte! E se Dio non l' ha ancora punita, saremo noi stessi che faremo giustizia.

Raul si scosse, alzò gli occhi rossi, infiammati e con espressione terribile:

— Ah! la ritroverò quella miserabile — disse — l'obbligherò a confessare le sue colpe. Miranda… giuro sulla tua memoria che non vi sarà più requie e pace per me fino al momento in cui potrò far conoscere a Maria, la tua completa innocenza.

— Ed io in memoria di quanto quella nobile vittima ha fatto un giorno per me — aggiunse il principe — giuro, conte, di aiutarvi in tutte le vostre ricerche, perchè non voglio che rimanga in voi il più lieve dubbio su di me e perchè bramo vendicare tutte le vittime di quella sciagurata: ho tardato anche troppo.

I due gentiluomini presi dallo stesso nobile impulso, si stesero spontaneamente la mano.

Un' ora dopo, il principe lasciava la villa del conte Adalberti, animato in viso, con un lampo strano negli occhi.

Non sentiva più i suoi dolori, pareva ringiovanito: un sorriso amaro increspava le sue labbra.

— Mi pare ancora un sogno — mormorava, mentre scendeva al trotto un ripido sentiero — Miranda morta assassinata, Tecla, Clementi da lunghi anni seppelliti, e tutto per colei, che forse vive sempre e si ride del destino. Ma la ritroveremo. Dio ci aiuterà!

S' interruppe.

Vittorio era comparso su di un crocevia; gli veniva incontro. Il giovinotto era pure a cavallo ed aveva un atteggiamento tutta grazia, melanconia.

Il principe nel vederlo si sentì inumidire gli occhi.

— E volevano uccidermelo — mormorò.

Vittorio gli si avvicinava.

Egli era così turbato, che non osò prendere per il primo la parola.

Il principe gli sorrise.

— Ebbene, figliuol mio — disse quasi giovialmente — temevi che io smarrissi la strada?

Vittorio arrossì.

— No, papà — rispose — ma ero impaziente di sapere….

— Come io ho compiutala mia grave missione? — interruppe Cars — Via, mettiti al paro e ti dirò tutto.

Il tuono calmo, quasi gaio del principe, sconcertava Vittorio: tutto tremante aspettò.

— Mio caro fanciullo — disse Cars volgendo il suo pallido viso verso il figlio, che aveva messo il cavallo a passo col suo — io ero andato alla villa del conte Adalberti per stabilire il tuo duello.

Vittorio trasalì.

— E non ci sei riuscito? — disse perplesso.

— Mi è stato giuocoforza ancora chieder scusa al tuo avversario.

La faccia di Vittorio si alterò e fece un tal balzo sulla sella, che fu quasi per perdere l' equilibrio.

— Delle scuse? — ripetè con accento soffocato dalla collera e dal dolore — E quali ragioni accampa colui?

— Egli dice che aveva tutto il diritto di castigar l' insolente che osava insultare… sua figlia!

La sorpresa che provò Vittorio a tale rivelazione fu potentissima. Da pallido che era, divenne infiammato in viso, poi un sorriso d' incredulità sfiorò le sue labbra.

— Suo padre! — esclamò — Ed aveva d' uopo di usare dei sotterfugi per parlare a Maria?

— È stato un laccio teso per te.

— Io non ti comprendo.

— Non posso per ora spiegarti tutto, giacchè il segreto non ci appartiene. Ti basti solo il sapere che il padre di Maria aveva un odio intenso contro di me, credendo che io avessi avuto parte in certe gravi sventure della sua vita, che un giorno forse ti rivelerò, e per vendicarsi, colpirmi, conoscendo il tuo amore per sua figlia, cercò provocarti. Ed è Dio che mi ha ispirato e mi diede la forza di andare a lui, perchè dopo una spiegazione violenta, il conte si è persuaso della mia innocenza e non solo ci siamo lasciati amici, ma ci uniremo insieme per ritrovare un nemico comune, che ci ha colpiti nell'ombra ed ha provocato quell'odio inguisto, crudele.

Vittorio sentì battersi fortemente il cuore.

— Maria dunque non è colpevole? — proruppe con forza.

— La figlia del conte Adalberti è un angelo al pari della sua povera mamma, che io conobbi e stimai altamente fanciulla e venero adesso come una santa — disse gravemente il principe — io ti permetto d' amarla, mentre ella ti ricambia con tutta la sua anima; ma la vostra unione si protrarrà fino al giorno in cui io e il padre di Maria, avremo compiuta la missione che ci siamo imposta. Noi partiremo insieme la prossima settimana.

— Non posso io seguirvi? — esclamò il giovinotto con trasporto, mentre sentiva inondarsi l' anima di una gioia divina, sovrumana, nel sapere che Maria era sempre degna del suo amore.

— No, figliuol mio — rispose il principe — tu rimarrai qui, sotto la sorveglianza di Zilà, che ti ama come un padre e nel quale ripongo la massima fiducia. Di quando in quando potrai visitare Maria, che non si separerà da suo zio, e attenderà, al pari di te con fiducia e coraggio, il ritorno di suo padre e il mio.

— Ma come puoi tu metterti in viaggio non trovandoti ancora ristabilito in salute? — mormorò commosso Vittorio.

— La mia malattia proveniva dall'inerzia dello spirito e del corpo — disse il principe sorridendo. — Mettendo in moto l' uno e l' altro, la guarigione è assicurata e tu stesso vedi quanto oggi io stia bene e mi senta in forza.

— È vero — disse Vittorio, volgendo uno sguardo carezzevole, pieno d' affetto, sul padre.

— Sii tranquillo, adunque, che non hai cosa alcuna a temere per me.

E il principe spinse il cavallo al galoppo, seguìto dal figlio tutto raggiante.

Intanto anche nella villa del conte Adalberti succedeva una scena commovente.

Maria aveva vegliato tutta la notte, piangendo, pregando. All' alba aveva aperta la finestra per esporre la sua fronte ardente all' aria fresca del mattino.

Passò due lunghe ore in tal guisa, riandando di nuovo gli avvenimenti del giorno prima, mormorando suo malgrado, con crepacuore:

— Vittorio, Vittorio, sono io che ti perdo!

Quando udì il suono del campanello della villa, trasali, le tempia le si bagnarono di un freddo sudore.

I suoi occhi smarriti si fissarono attraverso le piante, da cui si scorgeva il viale, che conduceva al castello.

Non andò guari che vide il domestico che teneva per la briglia un superbo cavallo e dietro, a piede, un uomo dall' apparenza nobile, altera, vestito severamente di nero, ciò che rendeva più spiccata la pallidezza del viso, illuminato da occhi profondi, dolcissimi.

Sebbene Maria non l' avesse mai prima veduto, indovino che quell' uomo era il principe Cars. Egli veniva dunque a chiedere mercè per suo figlio. Suo padre aveva indovinato.

E quell' uomo dalla fisonomia così dolce, leale, era stato l' amante di sua madre, l' aveva ingannata, tradita, aveva reso suo padre un assassino?

Maria fu colta da brividi di ribrezzo, di terrore. Avrebbe voluto togliersi dalla finestra, ritorcere il suo sguardo dal principe, ma una forza più potente della sua volontà la constrinse a rimanere al suo posto, fino a quando Cars, attraversato il giardino, scomparve dai suoi occhi.

Allora lasciò la sua camera; ne corridoio incontrò Nany.

— Dove si trova mio padre? — chiese Maria.

— Nel salotto a terreno: è venuto un signore a chiedere di lui.

Maria fece l' atto di allontanarsi.

— Dove andate? — chiese vivamente la governante.

— Scendo un po' in giardino — rispose la fanciulla con un sorriso forzato, correndo via per timore di essere trattenuta.

Ma giunta a pian terreno, Maria s' introdusse con cautela nella biblioteca, sapendo che quella stanza comunicava col salotto vicino.

Difatti, appena entrata, sentì la voce di suo padre.

Comprimendo i battiti del cuore ascoltò, non perdendo una sola parola di quel colloquio, in cui eravi interessata tutta la sua anima.

Nel sentire affermare altamente dal principe l' innocenza di sua madre, la propria, la fanciulla rialzò la fronte tenuta curva e un fiammeggiante riflesso le illuminò il volto convulsamente pallido; ma dopo la confessione di Cars, al grido di dolore, di disperazione mandato da suo padre, la fanciulla non seppe più resistere, e vinta da tante strazianti emozioni, si ripiegò sopra sè stessa e svenne.

Raul, lasciato il principe col conte Leo, al quale l' aveva presentato, informandolo in poche parole dell' accaduto, salì nella camera della figlia.

Non la trovò; ne chiese contezza a Nany, che ripetè quanto le aveva detto la fanciulla.

Ma in giardino non c' era. Inquieto, agitato da un inesplicabile presentimento, Raul passò nella biblioteca.

Maria era stesa al suolo, presso l' uscio del salotto: pareva morta.

Il conte non chiese aiuto, ma sollevata la figlia nelle sue braccia, la trasportò in camera, la depose sul letto.

E mentre cercava farla rinvenire, bagnandole le tempia e le nari con dell' acqua profumata, mormorava con voce commossa:

— Ora, io le farò orrore, mi odierà; ella deve aver sentito tutto, sa che sua madre era innocente; mio Dio, mio Dio!…

Maria aprì gli occhi a stento, le si colorirono le guancie, dalle labbra le sfuggì un sospiro.

Poi il suo sguardo brillò di un vivo splendore fissandosi sul volto pallido, emaciato del conte: le sue braccia si stesero.

— Ah! padre, padre mio, quanto devi soffrire! — esclamò.

Quelle parole della fanciulla, il suo atto, produssero in Raul una potente emozione, e una grande, subitanea gioia gl' invase l' anima.

Egli strinse con impeto la figlia fra le sue braccia.

— Non mi discacci da te? — balbettò.

— Perchè lo dovrei? — rispose la fanciulla commossa nel vedere l' ansia, la trepidazione con cui il padre accoglieva le sue parole — se mia madre è innocente come il principe Cars, vi è pure una persona che ti ha spinto al delitto.

— Hai ragione — interruppe con vivacità Raul — e credilo, Maria, se il pensiero di ritrovare quell' infame non mi sostenesse, mi ucciderei.

— Un altro delitto! — gridò la fanciulla atterrita, ma con slancio di sincero affetto — No, no, tu vivrai per me. Ah! perchè non posso seguirti dove andrai?

Raul aveva il cuore ulcerato, ma nei suoi sguardi brillavano lacrime di tenerezza, di riconoscenza.

— Tu mi attenderai qui, come Vittorio: adesso puoi pensare a lui senza rimorso: tua madre stessa approverebbe un tale amore, ti benedice dal cielo.

Maria, pallida per la commozione, piegò la testa sul petto del padre e con voce debole, che parve un sospiro:

— Mamma, mamma cara! — mormorò.

Un gruppo compatto di gente stava fermo dinanzi ad una di quelle case, tollerate in ogni tempo dalla polizia, po sta nel vicolo del Montone, a Torino.

Era un vecchio fabbricato a due piani, dalle mura annerite, crollanti, in pessimo stato. Vi si entrava per un cancello di ferro, al di là del quale, eravi un piccolo e lurido cortiletto.

Si saliva a mano sinistra una scaletta, e giunti al primo piano si attraversava una ringhiera, in fondo alla quale eravi la porta, che dava accesso alla sala principale.

Per il solito, da questa stanza, dove si riunivano sette od otto ragazze, più o meno avvizzite, sotto la sorveglianza di madama Flora, ancora la più appariscente malgrado gli anni passati, si udivano spesso uscire, nel silenzio notturno, delle forti risate, dei canti licenziosi.

Qualche volta pure quell' ammasso di femmine, dagli occhi pesti, abbattuti, dalla chioma scarmigliata, dalle guancie livide sotto il belletto, si accapigliavano dandosi gli epiteti più vituperosi, sputandosi in viso, finchè madama, che all' apparenza era tutto zucchero e miele, alzava così la voce, da far ammutolire tutte le altre.

Allora quelle ragazze infuriate si separavano a malincuore, lanciandosi di sottecchi certe occhiate asiose, sinistre, che mostravano l' odio che covava nel loro cuore.

Ma in quella notte doveva essere avvenuto qualche cosa di peggio, perchè il silenzio della strada fu ad un tratto rotto da grida orribili, strazianti di donna, da urla feroci di uomini.

Nella casa di madama Flora doveva succedere una terribile baruffa.

La gente aveva a poco a poco invasa la strada e si radunava attorno al cancello, ma nessuno osava entrare.

Ad un tratto si udì una voce, gridare:

— Fate largo, fate largo!

Ed apparvero due uomini scamiciati, sostenendo fra le braccia un giovane, dal viso contuso in più parti, e che perdeva molto sangue da una larga ferita di coltello in mezzo al petto.

Un grido di raccapriccio si sollevò fra gli astanti.

— È morto? — si chiedevano l' un l' altro.

— No, dove trasportarlo?

— Nel Caffè Piemonte.

Il caffè, che si trovava in fondo al vicolo, era ancora aperto. Il padrone accorso sulla porta alle prime grida, che si partivano dalla casa di madama, quando vide il ferito, esitò a ricoverarlo.

— Fatelo per carità — dissero i due uomini che lo trasportavano — non vi comprometterete, è un bravo giovinotto, fu provocato, si è difeso, ed ha avuta la sua parte.

Il padrone del caffè non fece altre obiezioni.

Il ferito fu deposto su di un vecchio divano, in una retrostanza e si cercò di stagnargli alla meglio il sangue con dei fazzoletti, quando videro il giovane alzare disperatamente le braccia, aprire la bocca, come se volesse articolare qualche parola, poi ricadere di peso sul divano, tendendosi nella rigidità della morte.

Intanto nella sinistra casa, le grida non cessavano. Nella gran sala, illuminata da due lucernoni a petrolio, alcune ragazze seminude, spaurite, tentavano di calmare madama, che si rotolava per terra in preda alle convulsioni, mandando urla rauche, selvaggie, che laceravano le orecchie, mettevano brividi nelle ossa.

Dall' altra parte un gruppo di uomini e donne circondavano il corpo inerte di un vecchio, crivellato di ferite.

Finalmente, in un angolo, accovacciata al suolo, cogli occhi dilatati dal terrore, era una giovinetta, quasi una bambina, bellissima, ma dalle forme ancora imperfette.

Ella tremava come una foglia scossa dal vento, perchè sapeva benissimo che solo per cagion sua, era successo tutto quel dramma.

La chiamavano la bella Nina, e Quattroventi l' aveva condotta tre mesi prima in casa di madama.

Aveva trovata la fanciulla, morente di fame, sopra una strada di campagna, dove l' avevano gettata alcuni parenti inumani, che dicevano non voler a loro carico una fannullona, buona a null' altro che a far delle monellate e con un appetito difficilmente saziabile.

Quattroventi le promise quanto mangiare voleva ed un ricovero caldo per l' inverno, che si approssimava.

Nina accettò senza esitare: si fece prostituta senza neppur aver coscienza del suo stato.

Lo spaccio dell' amore le pareva meno faticoso del vangare la terra; gl' insulti di taluni, meno dolorosi delle percosse ricevute dai parenti.

Eppoi avendo incontrata la simpatia di Quattroventi, veniva fatta segno a speciali deferenze e nel suo piatto vi era sempre qualche leccornia di più.

Ma un giorno Nina capì tutto l' orrore del suo stato. Si era innamorata seriamente di un bello ed onesto giovinotto, che la trattava con una dolcezza, una timidità, alla quale non era abituata.

Da quel momento, ella provò un' invincibile ripugnanza, una nausea orribile per il suo infame mestiere, e dichiarò recisamente a madama che avrebbe lasciata la casa.

Vi fu una lite spaventosa, in cui intervenne anche Quattroventi e Nina si ebbe la peggio.

Allora capì che non era cosa sì facile spezzare l' infame catena che la teneva ivi avvinta, e per dar sfogo alla sua rabbia, agiva così cogli intervenuti, che tutti si lamentavano di lei.

Madama e Quattroventi cercarono di ammansarla con delle promesse, ma furono inutili.

Allora tutto l' odio del vecchio padrone si concentrò sul giovane operaio, che era stato causa di quella ribellione e testarderìa di Nina.

Dapprima gli proibì di mettere piede nella casa, ma l' operaio, innamorato follemente della giovane, sapendo di essere corrisposto, si strinse nelle spalle, e vi andò lo stesso.

Allora fu madama che montò su tutte le furie e lo minacciò di denunziarlo alla Questura.

Il giovine le rise sul viso. La cosa non poteva finire bene.

In quella notte l' operaio, che da qualche tempo, in causa della passione che lo struggeva e della gelosia che cominciava ad invaderlo, si era dato al bere per scacciare le lugubri idee che l' assalivano, uscì un po' alticcio dall'osteria, dove si era recato con alcuni compagni.

— Andiamo a casa — disse uno di questi.

Il giovine ebbe uno strano sorriso.

— Voglio recarmi da Nina — rispose.

Gli altri lo dissuasero, cercando fargli comprendere che non era conveniente l' occuparsi tanto di quella sciagurata, che la lasciasse al suo destino e fecero un cattivo ritratto della fanciulla, onde condurre il giovinotto al punto in cui l'amore inasprito finisce col cambiarsi in disprezzo. Ma non raggiunsero lo scopo.

L' operaio s' infuriò ancora più.

— Voglio andare da Nina — ripetè con violenta ostinazione — e se qualcuno m' impedisce di vederla, come è vero che io esisto, gli buco la pelle.

Gli amici finirono per accompagnarlo.

Quattroventi era in quella sera di pessimo umore, giacchè da qualche tempo le sue cose si volgevano al peggio.

Oh! era ben differente la posizione di lui e di madama dieci anni prima!

Allora erano tenutarî di gran signori, adesso bisognava contentarsi del soldo borghese.

Quattroventi aveva impiegato un centinaio di mila franchi in una Banca, e questa era fallita. La Questura non aveva più fiducia in lui, nè in madama, perchè nell' atto dell' arresto di un pezzo grosso, un famoso furfante, costui corruppe i due spioni così, che quando le guardie penetrarono nella stanza, dove Quattroventi l' aveva ricoverato, si accorsero che l' uccello era fuggito.

Madama giurò, spergiurò che tanto essa, che Quattroventi non ne avevano colpa, ma due mesi dopo, arrestato il famoso briccone, questi aveva confessata la verità.

Così, di rovina in rovina, erano giunti al punto che si trovarono carichi di debiti, con poca speranza di poter mettere ancora insieme qualche gruzzolo per l' avvenire.

Però in quella notte, Quattroventi aveva per così dire, un diavolo per capello.

Quando vide entrare l' operaio con gli amici, mandò una lurida bestemmia e si alzò stringendo i pugni.

— Da' retta, Losca — disse ponendoglisi dinanzi — te l' ho pur detto di non venire, che non voglio vederti.

Il giovinotto si mise le mani in tasca e dondolandosi sui fianchi, rispose in tòno di beffa:

— Ed invece io sono qui e vi rimarrò finchè mi pare e piace: se non vuoi vedermi chiudi gli occhi, o vattene a letto; per me è lo stesso.

I compagni di Losca dettero in una risata.

Madama non pareva curarsi di quelle provocazioni, alle quali ormai era abituata: discorreva con Pallina, che aveva seguìte tutte le peripezie della contessa Edvald, e faceva ormai, per così dire, parte della sua esistenza.

Le due donne erano così intente a parlare d' affari, che non si accorsero dell' aria minacciosa assunta da Quattroventi, e che faceva presagire nulla di buono.

— Ed io ti dico che te ne andrai — esclamò con le labbra frementi — e se non intendi di rifare le scale, ti getto dalla ringhiera.

All' operaio si gonfiarono le vene del collo.

— Me?

— Sì, te.

— Ah! giuraddio!

Losca fece l' atto di avventarsi su Quattroventi, ma i compagni lo ritennero.

Il giovinotto sbuffava come un toro, si divincola a, ed il vecchio, dal canto suo, ritenuto da altri, bestemmiava come un turco, quando una giovane si precipitò verso loro, balbettando:

— Attenti, salgono delle guardie.

Per il momento la calma fu ristabilita. Quattroventi riprese il suo grave contegno di padrone di casa, gli altri sparirono chi da una parte, chi dall' altra, coadiuvati dalle Vestali del luogo.

Nina approfittò della confusione per afferrare una mano di Losca e trarlo via.

Ma la ragazza che aveva parlato di guardie, si era ingannata: non salirono che due soldati di linea.

Quattroventi si morse le labbra dal dispetto, tanto più quando seppe che l' operaio era uscito dalla sala con Nina.

— Va bene — brontolò.

Credettero che si fosse dato pace, ma invece il vecchio meditava un delitto. Seduto in un angolo del camino, mormorava sottovoce:

— La farò finita stanotte.

Madama si appressò a lui: veniva a rinfocolare la fiamma.

— Quel miserabile l' ha vinta — gli disse.

Quattrventi alzò gli occhi accesi su di lei.

— Per poco, te l' assicuro.

— Che gli vuoi fare?

— Ci ho già pensato.

Madama aggrottò le ciglia.

— Badiamo di non far sciocchezze, abbastanza la ci va male, non corriamo anche il pericolo di vederci chiusa la casa.

Quattroventi alzò le spalle.

Livia era per aggiungere altre raccomandazioni, ma essendo entrata in sala nuova gente, dovette allontanarsi.

Il vecchio rimase al suo posto, sbuffando dentro di sè, mentre sul volto scialbo non gli compariva che un' apatica calma.

Un po' prima delle due, ricomparve in sala Losca, coll'aria trionfante, e già stava per muovere le labbra ad una parola di scherno prima d' andarsene, quando si trovò di un impeto gettato a terra, calpestato furiosamente sul viso, prima che potesse difendersi.

Era Quattroventi che gli stava sopra feroce, ruggente. Losca con un urto potente si liberò dalla stretta del vecchio e potè riuscire a togliere di tasca un coltello.

Quattroventi fece altrettanto.

Allora sorse un tumulto nella sala.

Sulle faccie pallide, esterrefatte degli uomini si leggeva lo sgomento: le donne mandavano grida strazianti, invocavano l' aiuto della Madonna e dei Santi.

Livia urlava convulsa:

— Divideteli, si ammazzano!

Ma nessuno l' osava. Del resto la spaventevole lotta durò pochi minuti.

Quattroventi fu il primo a rovesciarsi all' indietro abbandonando il coltello, balbettando:

— Sono morto!

Due compagni di Losca, accorsi al rumore, ebbero appena il tempo di sostenere l' amico, che cadeva moribondo al suolo.

Nina, la causa principale di ciò che era avvenuto, si spinse paurosa nella sala, ma alla vista del giovinotto che amava, coperto di sangue, rimase come pietrificata dal terrore, cogli occhi smarriti, dilatati, come quelli di una pazza.

Livia, quando si accorse che tutto era finito per Quattroventi, divenne come una belva feroce. Non cedeva ad una tenerezza dell' anima, ad uno slancio di pietà, ma pensava che la morte di quel vecchio era la sua intiera rovina.

Non aveva proprio più nessuno al mondo cui affidarsi.

Eppure Michele viveva sempre presso di lei, ma egli non offriva neppur più l' aspetto di un uomo.

Era un essere abbrutito dai liquori e dal vino, un ammasso di cenci luridi, dalle scarpe rotte, sino al cappello sfondato, che mostrava il cranio quasi nudo.

Lo sguardo sempre vagante, irresoluto, il non avvedersi delle persone fra cui si trovava, il meccanismo degli atti, il respiro sempre oppresso ed affannoso, l' alito infocato, fetente, tutto risvegliava la nausea, il disprezzo.

Livia gli aveva concesso un angolo di soffitta, dove si ammucchiavano gli stracci della casa. Una sporcizia indescrivibile era incrostata sui muri, dove facevano baldoria i ragni; sui vetri della finestra eravi uno strato di muffa; il suolo non era mai stato spazzato.

Ed in questo letamaio stava lunghe ore sdraiato come una bestia Michele, finchè spinto ad un tratto da una irrequietezza di corpo, da uno scuotimento inconsapevole, si alzava, agitandosi un istante con atti e cenni senza costrutto, per rimettersi a giacere.

Livia si dimenticava spesso di quell' essere abbrutito, che pur era nella casa, e senza Pallina, che gli poneva in serbo gli avanzi di cucina, Michele sarebbe morto di fame.

In quella notte, ubbriaco più del solito, mentre abbasso si faceva un chiasso infernale, Michele dormiva tranquillamente in mezzo agli stracci della soffitta.

Nessuno pensò a lui, e meno di tutti Livia, la quale incominciò a sfogare la sua rabbia brutale, terribile contro Nina, tanto che le altre ragazze, pallide di terrore, si domandarono un momento se la loro compagna sarebbe uscita viva dalle mani della padrona.

Ma dopo alcune percosse, accompagnate dalle ingiurie più grossolane, dalle bestemmie più vituperose, madama era caduta a terra, dibattendosi in violente convulsioni.

Intanto erano accorse guardie, delegati di Questura ed avevano dichiarato l' arresto di tutte quelle donne, e l' immediata chiusura della casa.

Madama Flora venne condotta colle sue convittrici alle carceri delle donne, sulla strada di Nizza.

Furono tutte chiuse provvisoriamente in una vasta camera, e mentre alcune di quelle ragazze si raccoglievano in gruppo per far i loro commenti sull' avvenuto, altre rotte, stanche si ravvolgevano in logori scialli, si stendevano inerti sullo stramazzo, Livia, seduta su di una pancaccia, addossata al muro, colle braccia incrociate sul petto voluminoso, la testa china, pensava ai casi suoi, senza dare esternamente indizio della tempesta, che ruggiva nella sua anima.

Dal suo cervello erano svaporati i ricordi del passato. Non pensava che al presente e bestemmiava contro il morto, che non aveva voluto darle retta.

Per fortuna Nina era stata rinchiusa in un' altra stanza, del resto Livia avrebbe commesso qualche sproposito.

Così inasprita, positiva, si assorbì nei suoi calcoli.

Ormai era sicura che qualche giorno di prigione le sarebbe toccato, ma infine tornava libera, e se per qualche tempo le proibivano di esercitare il suo mestiere, ella avrebbe continuato lo stesso, in barba alla Questura.

Doveva forse morir di fame?

Però avrebbe voluto rimettersi più in grande. Ah! se quel maledetto Quattroventi non avesse gettato così malamente il denaro, non fosse stato così stupido da affidarlo ad una banca!

Beati i tempi in cui nelle sue sale bazzicavano i più ricchi signori della città e stranieri!

Non era mai successa la più piccola lite ed a lei nulla mancava degli agi dell' esistenza. Che pranzi e cene squisite, che eleganza di abiti, che sfarzo di mobili, di luce!

Oh! se avesse potuto ritornare da capo! Ma chi le avrebbe prestato il denaro?

Livia si passò la mano sul viso con moto involontario, poi fissò all' intorno uno sguardo sospettoso, sprezzante.

Alla lievissima luce del giorno, che cominciava ad illuminare le spranghe della finestra, vide le prigioniere ammucchiate nella sinistra stanza.

— Tutte stupide come oche — mormorò — Nessuna che abbia più cervello di un pulcino.

Una ragazza si staccò dal gruppo e venne strisciando presso di lei.

Era Pallina

— Costei è la più intelligente — pensò ancora Livia — ma ormai è in tale stato, che nessuno più la degnerebbe di uno sguardo.

Difatti Pallina, sebbene avesse quasi trent' anni meno della sua padrona, pareva più vecchia di lei.

La pelle aveva grinzosa, le reni floscie, gli occhi incavati e lividi.

— Madama — domandò con voce fioca, quando si fu accostata a Livia.

— Che vuoi? — rispose burbera la contessa, senza voltare la testa.

— Mi sono ricordata adesso che abbiamo lasciato Michele nella soffitta.

Livia le gettò uno sguardo scintillante ed aggrottò le sopracciglia.

— Ben gli sta a quell' ubbriacone — rispose — crepi pure di fame, me ne infischio. V' è di che sudar freddo a pensare ciò che è divenuto quell' uomo. Si può essere più bestia? E ti occupi di lui? Abbiamo da riflettere abbastanza ai casi nostri.

Sfogata la sua bile contro Michele, Livia riprese la sua apparente tranquillità, le sue fantasticherie.

Ma questa volta l' immagine dell' ubbriacone veniva a mischiarsi alle sue idee.

Quando l' aveva raccolto morente di fame, gli aveva dato presso di sè la carica di segretario, di factotum, facendolo passare per suo parente, Michele, sebbene di umore taciturno, tetro, era ancora ragionevole.

E poteva parlare con lui di affari, trattare delle questioni importanti, intendersela sugli interessi che la preoccupavano.

Ma un giorno, entrando all' improvviso nella stanza di Michele, lo aveva trovato aggomitolato come in un fascio a terra, cogli occhi chiusi, le orecchie turate da ambe le mani.

Dapprima Livia si era spaventata. L' aveva scosso, e Michele, sbarrando su lei gli occhi stralunati, si era messo a ridere come un'ebete, a rotolarsi al suolo, ripetendo:

— Finalmente: l' ho vinta, l' ho vinta!

Poi si era calmato in un subito. La contessa gli chiese una spiegazione su quelle stranezze, ma egli si rifiutò di dargliela.

Livia non insistè: aveva altro da pensare che a quelle scioccherie.

Ma poche sere dopo, trovandosi sola a cena con lui, la contessa venne a parlare di Miranda.

Non l' avesse mai fatto! Michele balzò in piedi, col coltello fra le mani, gli occhi fuori dell' orbita, gridando con una specie di frenesia:

— Indietro, indietro, non mi toccare!

Quindi si abbandonò alle più pazze risate.

Livia credette proprio che il cervello di quell' uomo avesse dato volta.

Ma all' indomani, Michele tornava a ragionare saviamente, le dava minuto conto del danaro, si mostrava così attento a quanto essa gli diceva, che madama non pensava più alle follìe del giorno prima.

Dopo il processo famoso del conte Adalberti, Michele, che aveva chiesto il permesso di assistervi, senza che Livia potesse sospettarne la causa, dava sovente in escandescenze e pronunziava tali parole, faceva dei gesti così violenti, da spaventare le ragazze della casa, che fuggivano appena lo vedevano.

Livia minacciò di mandarlo via.

— Sono stanca di tutte le tue pazzie — gli disse — non ti vergogni?

Egli la guardò intimidito.

— Oh! sì — rispose.

— Allora cosa significa ciò?

— È una volontà più forte di me che agisce.

Livia era rossa dalla collera.

— Se non vuoi essere messo sulla strada, saprai bene moderarti: tu mi screditi la casa.

Michele chinò il capo in silenzio. Da quel momento nessuno più l' udì prorompere in imprecazioni, nè gridare.

Ma il disgraziato aveva presa un' altra abitudine: si chiudeva nella sua camera e si ubbriacava.

Pareva voler affogare nel vino e nei liquori qualche penoso ricordo, scacciare qualche dolorosa rimembranza.

Ma il beone aveva finito per affogarvi anche le sue facoltà intellettuali.

— Non ho più la forza di sopportarlo — aveva spesso detto Livia.

Con tutto ciò, Michele l' aveva sempre seguìta. Ella aveva tentato più volte di risvegliare in lui le memorie del passato, ma nulla più scuoteva le sue facoltà, che la vista di una bottiglia d' acquavite.

Allora i suoi occhi affossati s' ingrandivano smisuratamente, i suoi muscoli si mettevano in moto. Afferrava la bottiglia, l' esaminava per tutti i versi, la fiutava come in estasi e finiva col portarla alla bocca.

E vi bisognava dei grandi sforzi per strapparla alle sue labbra.

E Livia doveva adesso prendersi pensiero di lui? Ah! il solo ricordarsene le cagionava nausea, disgusto.

— Se lo trovassero morto, sarebbe meglio per tutti — mormorò — È una bocca inutile a questo mondo.

Ed incrociate di nuovo le braccia sul petto, si assopì di un sonno interrotto e febbrile.

Il cielo era piuttosto scuro, procelloso, il vento freddissimo, pungente. Nonostante, i portici e le vie di Torino si mostravano affolatissimi, perchè si festeggiava il giovedì grasso, ed il Corso mascherato era splendido più del solito per equipaggi, carri trionfali, vetture piene di maschere. Fiori, confetti, balocchi, piovevano dalle finestre e dai balconi ed i monelli applaudivano con grida assordanti, cacciandosi tra le gambe delle persone o sotto le zampe dei cavalli.

Ma il trionfo di quel giorno doveva toccare al principe Cars.

Da molti e molti anni, Torino non aveva sentito più parlare di lui, e la sua improvvisa comparsa, in un modo piuttosto eccentrico, era in quei giorni il tema di tutti i discorsi.

Vi era stata una lotteria di beneficenza pei poveri della città: il principe vi era intervenuto in abito assai negletto, tanto che avvicinandosi al banco di una delle più eleganti e vezzose venditrici, la vide arricciare il naso con una graziosa smorfia di dispetto.

Tuttavia, fedele alla sua parte, dopo avere scambiato uno sguardo ironico, malizioso con tre o quattro zerbinotti, che stavano facendole la corte:

— Che volete, buon uomo? — chiese.

— Quel portasigari di velluto, che deve essere stato ricamato da una bella manina — rispose con aria di bonomìa Cars.

La venditrice ebbe un sorriso beffardo.

— Questo è un dono della duchessa Caraffa, e fu stimato ad un prezzo che forse non vi converrà.

— Ditelo.

— Dieci mila franchi.

— Per il lavoro di una duchessa è stato valutato assai poco — replicò Cars — Io rimedierò allo sbaglio, offrendovi per quel portasigari cento mila lire.

La venditrice fece un balzo: gli altri giovinotti si scambiarono uno sguardo di stupore.

— Non è il caso di scherzare — aggiunse la bella, squadrandolo un po' alteramente.

— Il principe Cars non ischerza mai, signora, specialmente quando si tratta di un' opera di carità — rispose freddamente il vecchio patrizio.

E tolse da un portafoglio di bulgaro un buono di centomila lire e lo gettò negligentemente sul banco, aggiungendo:

— Manderò poi a ritirare il portasigari.

E si allontanò, salutando con freddezza la venditrice umiliata.

La cosa si propalò il giorno stesso sui giornali e fece chiasso.

Ma lo stupore raddoppiò quando si seppe all' indomani, che il principe aveva fatta impiantare a sue spese una cucina economica e nel palazzo da lui preso in affitto, si distribuivano ogni giorno ai poveri i buoni per la minestra, la carne, il vino ed il pane.

Però quando il principe comparve al Corso in uno splendidissimo equipaggio alla Daumont, coi finimenti in oro, i postiglioni in ricco e bizzarro costume, sorsero nella folla entusiastiche acclamazioni.

Cars vestiva all' orientale. Ma più del suo abito scintillante di pietre preziose, la gente ammirava con rispetto e simpatia il suo viso pallido, sofferente, che pure esprimeva tanta dolcezza, benevolenza, energia.

A taluni parrà strano che un uomo, vissuto per tanti anni nell' inazione, ritrovasse di un tratto il suo vigore fisico e morale ad un tempo.

Eppure sono fatti che accadono ogni giorno e dei quali la scienza medica potrebbe citare migliaia di esempî. Ed a maggior conferma di quanto dico, citerò le parole scritte dal dottor Fernando Lagrance in un suo recente lavoro.(1). Fisiologia degli esercizî del corpo.

“ Il corpo, abbandonato a sè resta inerte, e non esce fuori dall' inazione, dal riposo, se non sollecitatovi da un eccitante.

“ L' eccitante abituale dei muscoli è la volontà. I muscoli hanno una potenza grande di vita e serbano a lungo la facoltà di agire, purchè ricevano un' eccitazione sufficiente. ”

A questo proposito citerò il fatto di una colta e buona signora, da me conosciuta.

Costei, al ricevere l' annunzio di morte dell' unico figlio, il quale si trovava in viaggio, cadde in tale stato di abbattimento, che i più rinomati medici dissero tornare inutile per lei ogni cura.

Alla povera signora era indifferente lasciare la vita. Per quattro anni non abbandonò più il letto: era divenuta un'ombra, non aveva più la forza di portare un bicchiere alle labbra.

Un giorno, un uomo reduce da Rio Janeiro, le portò una lettera del figlio adorato, il quale le chiedeva perdono di aver fatto spargere la notizia della sua morte, onde trovarsi libero da un impegno contratto con una fanciulla, che non amava, e domandava soccorsi, trovandosi privo di mezzi, ammalato in quella città lontana, fra gente sconosciuta

La povera madre, a quell' annunzio, ritrovò come per incanto le forze perdute, l' energia morale di una volta. Si alzò senza sforzo, dètte gli ordini per la sua partenza, affrontò risoluta tutti i pericoli di un viaggio, sempre penoso anche per una persona sana, giunse felicemente a Rio Janeiro, riabbracciò il figlio, e pochi mesi dopo ritornava con lui in Italia, a Torino, ringiovanita, sana, lieta, non ricordando più i suoi mali che come un sogno doloroso, dal quale si era risvegliata.

Così successe al principe Cars. La scossa sorda, repentina, direi quasi elettrica provata in un subito, gli andò dritta all' anima, agì sul suo fisico abbattuto, snervato da tanti anni d' inerzia, di ozio.

L' idea di vendicare sè stesso e le tante vittime della contessa Edvald, il desiderio di mostrare a Raul la propria innocenza, gli resero quasi tutta la gagliardìa di un tempo, riuscirono a vincere le sue sofferenze, a cancellare molte pene passate.

Seduto a fianco del principe, in un severo costume, nero ed oro, stava Raul Adalberti.

Si diceva che quell' uomo dall' aspetto cupo, che nessuno aveva mai veduto sorridere, fosse l' amico, il confidente di Cars. Si vedeva dappertutto col principe e si era notato che egli non parlava mai con alcun altro.

La vettura di Cars aveva appena fatto un giro per il Corso e si mostrava già coperta di fiori, bomboniere, gingilli, che piovevano sul vecchio patrizio da tutte le parti.

Il principe ringraziava con benevoli sorrisi e ad un tratto volgendosi a Raul:

— Che mi sia ingannato anche questa volta? — gli disse sommessamente, con triste accento.

— Lo temo anch'io — rispose il conte agitato — eppure ci hanno detto che la contessa si trovava sempre a Torino.

— E ci hanno indicate anche le triste case, in cui la sciagurata è stata padrona, sotto il nome di madama Flora.

— Ma la Questura ci ha pure avvertiti che, uscita di prigione, alienati gli effetti che le appartenevano onde pagare alcuni debiti, Livia aveva dichiarato ritrarsi dall' infame commercio, per vivere in pace i suoi ultimi giorni.

— La contessa avrà avuto qualche altra mira, tanto è vero che dètte un indirizzo falso della sua nuova abitazione: eppure io sono certo che non ha lasciata la città ed è perciò che volli mettermi in mostra e che desiderai oggi venire al Corso, sebbene questa mascherata mi pesi; ma il cuore mi diceva che avremmo incontrata la miserabile.

Raul scosse la testa.

— Temo che il vostro cuore vi abbia ingannato.

Il principe non aggiunse parola, ma apparve visibilmente preoccupato.

Il giro delle carrozze rimase per un momento interrotto, in causa della straordinaria affluenza.

L' equipaggio di Cars si trovava in via Po, nella fila a destra, andando verso piazza Castello.

Proprio di fronte, nella fila a sinistra, eravi una vettura a nolo a due cavalli, in cui stavano sdraiate due donne, in toeletta eccentrica, chiassosa.

Una di esse, dai capelli color carota, dal viso imbellettato fino agli occhi, indossava un paltot di velluto rosso fiammante, orlato di pelo bigio chiaro. Un berretto alla polacca dello stesso velluto, posava sull' alta pettinatura a riccioli, che incorniciava un viso, che vent' anni prima doveva essere stato bellissimo, ma che ormai, malgrado tutti gli artifizî della toeletta, non poteva che destare un sorriso di pietà.

La sua compagna, dai capelli bruni, ricciuti, dalle guancie terree, appassite, indossava lo stesso costume, ma in velluto verde.

Entrambe parlavano a voce alta, sghignazzando, rispondendo ai motti, alle insolenze delle maschere a piedi, dei monelli che circondavano la loro vettura, facendo risuonare le trombe di terra cotta.

Cars guardò macchinalmente quelle due femmine impudenti e ciniche, che si capiva subito a qual classe appartenessero, e quasi tosto trasalì.

— Conte — disse chinandosi vivamente verso Raul — guardate quella donna biondastra, dipinta che ci sta di faccia, guardatela bene, è lei.

Il conte si rizzò sui cuscini come di soprassalto; i suoi occhi brillavano di una viva fiamma, le narici tremavano.

— Principe, non v' ingannate?… — balbettò.

— No, no, è proprio lei — affermò di nuovo Cars — l' ho riconosciuta. Quando assunse il falso nome di San Secondo, cangiò pure il colore dei capelli, ma ora è ritornata bionda come una volta, solo ha caricata un po' più la tinta.

Raul divorava Livia cogli occhi: una ruga profonda attraversava la sua fronte.

— Ed è quella donna dal riso sfacciato, dal contegno abbominevole — mormorò sordamente — che si è mostrata così crudele, spietata con degli innocenti, che è passata sdegnosa sui cadaveri delle sue vittime?.. Oh! ma è giunta l' ora anche per lei…

— Guardate, guardate, conte — interruppe il principe — ella mi ha notato, riconosciuto.

Difatti la contessa Edvald, giacchè era proprio lei, dopo aver osservato il principe, l' indicò alla compagna, che non era altri che Pallina.

Questa parlò sommessamente agli orecchi di Livia, che, assentendo col capo, afferrò colla mano destra un mazzo di fiori e sollevatasi alquanto sulla vettura, lo gettò verso Cars.

I fiori non giunsero a destinazione, ma il principe vide l' atto, sorrise, e consegnata a sua volta una bomboniera a Raul, questi la lanciò con tal forza e sicurezza, che cadde proprio sulle ginocchia della contessa.

Livia divenne infocata in volto dalla gioia e mandò alcune pazze esclamazioni, agitando la bomboniera.

Le carrozze ricominciarono da quella parte a sfilare. La contessa si volse tre o quattro volte, sempre sorridendo al principe ed a Raul, che non le tolsero gli sguardi di dosso, finchè la vettura non fu fuori di vista.

— Questa volta l' abbiamo nelle mani — disse Cars con manifesta convinzione — vedrete, Raul, che quella donna avrà l' audacia di cercarmi, persuasa che io abbia posto in non cale il passato.

Una bianchezza cerea si era sparsa sui lineamenti del conte, facendo vieppiù spiccare il cerchio olivastro intorno agli occhi.

— Oh! se sentiste, principe, come il cuore mi batte all' idea di trovarmi a faccia a faccia con quel mostro di donna — mormorò piano. — Ma è possibile che esistano delle nature così perverse?

Ah! pur troppo la natura è piena di tali mostruosità! Senza richiamare alla mente le Messaline, Teodore passate, che senza viscere nè di mogli, nè di madri, facevano pompa dei loro feroci, sanguinarî istinti, vediamo ogni giorno mogli perverse che armano la mano dell' amante contro il marito, madri snaturate che vendono le loro figlie, femmine che uccidono i loro nati, vivono in mezzo alle orgie ed al sangue, donne, che per soddisfare le perverse tendenze calpesterebbero i cadaveri di coloro stessi dai quali ebbero la vita, sarebbero capaci di qualsiasi delitto.

Di quelle donne poi come la contessa Edvald, senza anima, senza coscienza, dall' indole corrotta, violenta, satanica, se ne incontrano dappertutto. I delitti che esse commettono sono di quelli cui difficilmente il Codice s' immischia, che passano inosservati anche alla gente; ma Dio li conta sul suo gran libro, raccoglie i lamenti delle vittime, non dimentica, e se la giustizia talvolta ritarda, è perchè serva di esempio salutare, tremendo, agli altri.

E difficile, credetelo, che chi ha vissuto nel male, abbia una fine lieta e gloriosa.

Il principe, alle osservazioni di Raul, sorrise mestamente.

— Anch' io — rispose — mi sono fatto più volte la stessa domanda, ma riandando le scelleratezze commesse da Livia, ho dovuto convenire che di tali creature perverse n'esistono forse più delle buone.

Raul chinò il capo convinto.

La sera si avanzava: il freddo si era fatto pungentissimo. Cars diede ordine ai postiglioni di tornare al palazzo.

— Come ritroveremo la contessa? — chiese Raul con febbrile accento.

— Ella stessa verrà a cercarci, lo vedrete — rispose il principe con dolcezza. — Ma è necessario, amico mio, che vi calmiate, se volete che raggiungiamo lo scopo che ci siamo prefissi. Con Livia bisogna giuocare d' astuzia, di scaltrezza, perchè è tal donna da indovinare i nostri progetti ed allora tutti i nostri sforzi riuscirebbero vani per iscoprire la verità.

— Avete ragione — replicò il conte con grave accento — ma io non sono mai riuscito a domare il mio carattere impetuoso: se così non fosse, la mia povera Miranda vivrebbe ancora.

— Abbiate almeno adesso la forza di reprimervi, giacchè vi siete imposto il dovere di vendicarla — ribattè Cars.

Raul fissò in volto al principe i suoi occhi divenuti umidi, poi gli stese con atto commovente una mano.

— Voi mi avete richiamato a me stesso — mormorò — grazie!

Due ore più tardi, Cars e Raul sedevano dinanzi ad una tavola sontuosamente imbandita e mangiavano in silenzio, ciascuno preoccupato dei proprî pensieri, quando entrò un domestico portando su di un vassoio d' argento una lettera per il principe.

Appena questi ebbe gettato uno sguardo sulla soprascritta, di un carattere femminile, della più finta eleganza, sussultò e sul volto pallido gli comparve un' espressione di gioia.

Il domestico si era ritirato.

— Guardate se sono indovino — disse il principe sorridendo, mentre porgeva al conte la lettera ancora suggellata.

Lo sguardo di Raul brillò.

— È forse della contessa? — chiese, con accento soffocato.

— Sì, leggetela forte.

Raul ne strappò con ansia la busta. La lettera era proprio di Livia e diceva:

Principe,

“ Se non avete dimenticata una donna che è stata assai colpevole verso di voi, ma si è molto pentita, recatevi questa sera in via Santa Teresa, al n. 7, secondo piano, scala a destra del primo cortile, e la troverete.

“ Oso credere di non sperare invano.

“ Livia Edvald. ”

— Ah! l' audacia di colei è proprio grande — esclamò Raul — Che pensate di fare?

— Fa d' uopo che voi andiate al mio posto a tale appuntamento. Fatto il primo passo, il resto vi riescirà più facile, se ascolterete i miei consigli.

Raul fece un gesto risoluto.

— Sono pronto — disse con energico accento — e state pur certo che non indietreggerò dinanzi a cosa alcuna per punire la miserabile, che mi ha reso assassino della più degna e amata delle mogli.

Il viso del principe aveva assunto una espressione quasi cupa.

— Ed io — aggiunse — non risparmierò colei che mi ha disonorato dinanzi ai vostri occhi, che fu cagione di molte sventure nella mia vita, e che poco mancò non mi privasse dell' unico mio figlio!

E i due uomini si strinsero fortemente la mano, come se volessero suggellare un patto di morte.

Sopra un divano coperto di una stoffa di crètonne, a fondo celeste sbiadito, stava sdraiata in un voluttuoso abbandono della persona la contessa Edvald.

Alla luce di una lampada a petrolio, il cui lucignolo era stato sapientemente abbassato, in modo da lasciare la stanza in una semi oscurità, Livia poteva ancora trarre in inganno qualcuno. Uno strato di cold-cream nascondeva le sue rughe: le labbra aveva coperte di cinabro e mostravano nell' aprirsi dei denti ancora bianchi ed uniti: i capelli erano disposti in capricciosi riccioli sulla fronte e sollevati in treccie sulla sommità della nuca, onde lasciare il collo grasso, bianchissimo, scoperto.

Livia indossava una veste di lana a righe celesti e color crema, con fiocchi e trine sul dinanzi e presso al gomito dove giungevano le maniche.

Nella stanza erano stati sparsi alcuni aromi per togliere l' odore di abbruciaticcio della cucina accanto, e della muffa del pavimento: nel caminetto ardeva un buon fuoco.

I mobili erano vecchissimi, ma facevano ancora la loro figura: due poltrone alquanto lacere, si mostravano coperte di trina antica: sopra un alto specchio, che la più accurata lavanda non era riuscita a ripulire, era stato steso un velo gialliccio.

Livia sognava in quel momento di divenire la favorita del principe.

Perchè no?

Infine se ella era invecchiata. Cars pareva aver venti anni più di lei. D' intesa con Pallina, nell' uscire di prigione, la contessa desiderò riacquistare la sua piena libertà.

Ne aveva sino agli occhi di quella società litigiosa, canagliesca, di quell' ambiente nauseante, da caserma, dove gli uomini erano sempre rozzi, sboccati, le donne facevano a gara nel mostrarsi grossolane, lercie, trasandate.

Livia voleva tornare da capo, cercare di ritrovarsi con gente di una classe più elevata, in un dominio che nessuno potesse contrastarle.

Quest' idea riempì il suo vuoto cervello, la fece mettere subito in moto. Pagati alcuni debiti colla cessione della sua triste casa, che Quattroventi aveva acquistata a nome di lei, col poco che le rimase, prese in affitto un piccolo appartamento in via Santa Teresa, sotto il suo vero nome di contessa Edvald. Aveva condotta seco Pallina, sua confidente e cameriera.

Per alcuni giorni le due donne, affaccendate attorno al loro piano, condussero una vita abbastanza ritirata, senza dare nell' occhio ai vicini.

Una sera, leggendo un giornale cittadino, Livia fece un moto di viva sorpresa. In un lungo articolo di cronaca si parlava del principe Cars, della sua avventura alla vendita di beneficenza, di tutto ciò che egli si era proposto fare pei poveri della città.

— E pensare — esclamò a voce alta Livia — che senza gli scrupoli esagerati di mia figlia, io sarei la suocera di Cars. Un principe milionario! Ma già Tecla non ebbe mai giudizio, e sarebbe stato assai meglio che egli si fosse innamorato di me…

— Siete rimasta in buone relazioni con lui? — chiese Pallina, che l' aveva ascoltata attentamente.

Livia scosse la testa.

— Gli giuocai un giorno un brutto tiro, che forse non ha ancora dimenticato — rispose — Eppure, infine non era che per compiacerlo, per renderlo felice come si meritava. Era così splendido, generoso, non lesinava, no, il denaro.

Gli occhi di Pallina scintillarono.

— Se vi rivolgeste a lui per un imprestito? Un uomo che getta centomila lire per un portasigari, sia pure a scopo di beneficenza, non si rifiuterà certo di aiutare un' antica amica, per quanto abbiate qualche torto verso di lui.

— Non dici male, ci penserò.

All' indomani era il giovedì grasso e Livia, nel recarsi al Corso con la fida compagna, non avrebbe mai immaginato ciò che sarebbe accaduto.

Tornò a casa come delirante.

— Ormai non temo più per il mio avvenire — esclamò — Hai veduto, Pallina, come mi ha sorriso? Cars non è più in collera con me; è lui stesso che ha consegnata la bomboniera nelle mani di quel signore, che gli sedeva accanto, un bellissimo uomo, molto gentile. Che diresti di fare?

— Battere il ferro finchè è caldo, scrivere subito al principe, dargli un appuntamento qui.

Livia battè le mani dalla gioia.

— Hai ragione: ben pensato — esclamò.

E si mise subito all' opera. Pallina stessa, vestitasi modestamente, s' incaricò di portare la lettera al palazzo del principe, ed al suo ritorno trovò Livia già abbigliata, intenta a mettere in ordine la stanza.

Pallina assunse il suo ufficio da cameriera.

Attendendo il principe, Livia correva dietro a pazzi sogni, che rendevano il suo viso oltremodo sorridente, gli occhi scintillanti di vivissima fiamma.

Pallina entrando la tolse da quell' estasi.

— Credi che verrà? — chiese Livia, con una specie d' ansia.

— Speriamo — mormorò Pallina ravvivando la fiamma del caminetto che si era alquanto spenta.

— Come ti sembra ch' io stia?

— Sembrate assai più giovane di me, e sono certa che lo stesso principe rimarrà sorpreso nel ritrovarvi così fresca, abbagliante.

Livia contrasse le labbra ad un fatuo sorriso.

In quel punto si udì suonare lievemente il campanello.

La contessa provò una strana emozione.

— Pallina — disse con voce alterata, sollevandosi sul divano — deve essere lui.

— Vado subito ad accertarmene — rispose la fida compagna, mentre usciva dalla stanza.

Livia tese avidamente gli orecchi. Sentì aprire l' uscio, un bisbiglio di voci e quasi subito Pallina ricomparve sulla soglia del salotto, seguìta da Raul Adalberti.

Il conte era vestito inappuntabilmente di nero, pallido, sentimentale, come un eroe di Byron, ed entrando fissò su Livia uno sguardo così scintillante, che questa dovette chinare gli occhi confusa, intimidita.

— Il principe Cars mi ha incaricato di portarvi le sue scuse, essendogli impossibile questa notte approfittare del vostro gentile invito — disse Raul con tono di voce dolcissimo — ed io ho colto volentieri l' occasione per conoscervi di persona.

Livia sembrava oltremodo sorpresa, lusingata, commossa.

Ringraziò il conte della sua gentilezza, lo pregò di sedere con tal modo e garbo, che se Raul non avesse saputo qual sorta di creatura gli stesse dinanzi, poteva essere facilmente da lei tratto in inganno.

Pallina si era ritirata. Nel salotto successe un istante di silenzio, rotto soltanto dal crepitare della fiamma nel caminetto.

Livia si era rimessa sul divano in una posa piena di abbandono.

Raul, seduto su d' una poltrona, vicino a lei, la contemplava fissamente ed i suoi sguardi parevano velarsi di melanconia; ma se Livia non fosse stata così commossa e l' avesse attentamente osservato, forse si sarebbe accorta che non di rado un lampo sinistro passava in quegli occhi e l' espressione del viso di quell' uomo diveniva quasi terribile.

— Siete l' amico del principe? — chiese la contessa con accento carezzevole, sorridendo.

— Sono il suo intimo confidente — rispose con franca disinvoltura Raul — e conosco, si può dire, tutti i suoi pensieri. Fu Cars che mi parlò a lungo di voi, m' ispirò il desiderio di vedervi. Ah! perchè non vi conobbi vent' anni fa; allora ero ancora giovane, mi dicevano bello ed avrei potuto lusingarmi d' ispirarvi un po' di simpatia.

Vi era una sottile ironia in quelle parole pronunziate con lentezza, ma Livia non se ne accorse.

Ella sentiva tutto il sangue affluirle al cuore: era stordita, inebbriata.

Non poteva alzare gli occhi senza incontrare lo sguardo di Raul fisso su di lei, e la fissazione di quello sguardo aumentava la sua commozione.

Livia non aveva amato mai nella sua vita: gli uomini che si erano fatalmente innamorati di lei, erano stati tutti sue vittime.

Ma era giunta ad un' età in cui le passioni si risvegliano ardenti, inestinguibili, feroci.

La beltà severa, maschile del conte, esercitò su di lei una specie di fascino.

E Raul si trovava vecchio, non osava parlarle d' amore?

Per un momento Livia restò quasi fuori di sè, poi a voce bassa, anelante:

— Mi avreste amata? — mormorò.

— Vi avrei adorata — rispose Raul con strano suono di voce, avvicinando ancor più la sua poltrona al divano — sareste stata il mio ideale. Ah! io l' ho spesso sognata una donna ardita vostra pari, coi vostri istinti, senza falsi scrupoli, intelligente, animata del mio stesso spirito, che mi avrebbe, per così dire, completato: ma adesso è troppo tardi.

Livia appoggiò il suo braccio seminudo alla spalliera della poltrona, tanto che Raul sentì correre sul suo volto l' alito infiammato di lei.

— Perchè? — domandò con un gesto di civetteria.

E siccome il conte tardava a rispondere:

— Se voi non siete più giovane, io pure non sono sul fiore dell' età — aggiunse — ma ho ancora l' energìa d' un tempo e forse potremo giungere ad intenderci.

Un vivo rossore era salito alle livide guancie del conte. Per un momento parve che la sua impetuosa indole prendesse il sopravvento.

Ma seppe reprimersi e con voce, che aveva quasi il tòno di una preghiera:

— Mi amereste, Livia? — mormorò.

La contessa si nascose il viso fra le mani come se non potesse sostenere lo sguardo scintillante del conte.

— Vi amo… digià! — disse pian piano.

— Ma badate, Livia — aggiunse con fiero accento Raul — di non ingannarmi… Siate franca con me. Il vostro cuore è libero?

Ella diede in uno scroscio di risa, che aveva qualche cosa di convulso e feroce.

— Lo è sempre stato — esclamò — Voi forse non mi crederete, ma è così. Ho veduto prostrarsi ai miei piedi i più ricchi e nobili gentiluomini: ho sentito vantare la mia bellezza, parlare d' uccidersi per me, senza che il mio cuore accrescesse un solo palpito, senza che la mia anima provasse la minima commozione.

Raul rimase cupo, stralunato e continuando a tenere fissi gli occhi sopra di lei:

— Adesso tu menti, Livia — disse con scherno feroce, con un moto di rabbia.

Ella apparve colpita da stupore.

— Io! — esclamò.

— Si… tu, che amasti un giorno il principe Cars, e lo ami ancora, perciò l' invitasti a venir qui.

E l' afferrò violentemente per una mano, aggiungendo con tono imperioso, mentre la sua bocca si atteggiava ad un orribile sogghigno.

— Non è la verità?

— No — rispose la contessa, senza questa volta abbassare gli occhi sotto l' acutezza dello sguardo di Raul — e se Cars vi ha ciò confidato, ha mentito. Egli non è mai stato mio amante, ma era innamorato pazzamente di mia figlia, tanto da volerne fare una principessa.

Il conte sentì sollevarsi l' animo da un enorme peso, udendo confermare da quella donna quanto gli aveva detto Cars. Ah! se avesse potuto strapparle tutte le altre verità. Ma bisognava andar guardinghi, perchè Livia non diffidasse di lui.

Onde, continuando a rimaner serio:

— Perchè non l' ha sposata? — chiese.

Un tremito investì Livia, il suo volto divenne livido sotto il belletto, come se qualche funebre rimembranza l' avesse scossa.

— È mia figlia che non l' ha voluto — disse cupamente.

Poi mutando tono e chinandosi vieppiù verso il conte, aggiunse con passione:

— Non mi chiedete altro, solo vi giuro che io non ho mai amato il principe. Voi mi dite di essere franca e lo sarò. Se l' invitai a venir qui, si è perchè conoscendolo buono e generoso, avevo in animo di chiedergli un soccorso, trovandomi, per tristi vicende, in assai cattive acque.

Raul l' interruppe con impeto.

— Nulla più ti mancherà se mi ami — proruppe. — Se Cars è ricco, io lo sono quanto lui, e ti renderò la più felice, invidiata delle donne.

Livia rimaneva colla faccia rivolta verso Raul, come in atto di adorazione.

Sognava od era realtà quanto sentiva?

Un lampo di diffidenza brillò nel suo sguardo.

— Volete prendervi giuoco di me? — balbettò.

— Oh! Livia quali brutti pensieri ti passano mai per la mente. Sono io forse in un' età da prendere ancora le cose a scherno? Ti amo e sono pronto ad appagare tutti i tuoi capricci. Da domani, se acconsenti, avrai un nuovo alloggio, abiti, gioielli, carrozza. Rifiuteresti quanto il mio cuore ti offre?

Il volto di Livia si era andato sempre più accendendo, i suoi occhi mandavano fiamme, il seno le ansava, un lubrico sorriso le correva sulle labbra.

— Accetto — gridò gettandogli le braccia seminude al collo — e per la vita, e la morte sarò tua schiava, pronta ad ogni tuo minimo desiderio, perchè ti amo, e ti amerò sempre!

Raul a quell' amplesso fu assalito da un tremito convulso e sentì come un pazzo desiderio di afferrare violentemente quella disgraziata pel collo e strozzarla.

Ma seppe dominarsi anche questa volta e svincolatosi dolcemente da quella stretta:

— Bisogna adesso che io ti lasci — disse — Dimenticavo che il principe mi attende per accompagnarlo dal duca Tornelli, che stanotte dà una gran festa di ballo. Ma domani ci rivedremo.

— Non fatemi attendere — mormorò Livia con voce rauca per l' ebbrezza da cui si sentiva invasa.

Volle ella stessa accompagnarlo fino sul pianerottolo e quando ritornò in salotto, si lasciò cadere sopra una poltrona, esclamando:

— Io credo di essere pazza!

Pallina osservava la contessa in silenzio: questa alzò gli occhi su di lei.

— Tu non sai quello che mi ha offerto l' amico del principe? — disse, cercando dominare la sua emozione

Pallina rimaneva calma, fredda.

— Ho sentito tutto — rispose.

— Ebbene, che ne dici?

— Non so, ma, se fossi in voi, non mi fiderei troppo di quell' uomo.

La contessa sporse con modo sprezzante il labbro inferiore.

— Perchè? — disse a denti stretti. — Forse ti sembra… che egli non possa essere innamorato di me?

— Non dico ciò: voi siete sempre in grado di poter far perdere la testa ad un uomo non più giovane, ma ho il presentimento che colui debba tendervi un tranello. Ha uno sguardo che non mi piace.

La contessa alzò con atto sdegnoso le spalle.

— Le tue paure sono affatto fuori di luogo — esclamò. — Che ho io da temere? Se tenessi in serbo del danaro e l' amico del principe fosse uno spiantato, si potrebbe stare in guardia; ma nello stato in cui mi trovo, bisognerebbe che fossi una stupida per diffidare di un uomo che dice d' amarmi e mi offre i mezzi per brillare e godere. No, non me lo lascerò sfuggire; infine sono sempre bella e posso essere amata ancora.

Ed alzatasi, strappò il velo che copriva l' alto specchio e si mise a guardarsi con compiacenza, senza notare il sorriso beffardo che sfiorava le labbra di Pallina.

Mentre queste scene succedevano a Torino, Vittorio e Maria, nella loro tranquilla solitudine, attendevano con mille sospiri di desiderio il giorno, in cui avrebbero potuto realizzare il loro casto sogno di felicità.

La prima volta che si rividero, in presenza del conte Leo, mostrarono entrambi sul volto i segni di un vivo turbamento.

Maria, ricordando la parte che aveva dovuto sostenere in faccia al giovane, arrossiva di vergogna e di dolore; Vittorio, pensando alle sue pazze gelosie, alla scena accaduta, non ardiva alzare gli occhi.

Ma il conte Leo, col suo tatto delicatissimo di gentiluomo, ristabilì a poco a poco la loro confidenza, il loro coraggio. Maria con un' adorabile ingenuità rivolse per la prima le pupille umide, dolcissime sul giovane ed il suo sguardo portò nel cuore di lui un' ineffabile felicità, gli fecero riprendere tutto il suo spirito vivo, ardente, ritrovare i suoi sorrisi.

Da quel momento la vita scorse per essi assai dolce, i loro dorati sogni ricominciarono con maggior fede di realizzazione.

Vittorio si recava ogni giorno alla villa del conte Adalberti e spesso la gentile coppia si vedeva trascorrere sotto gli alberi del viale, mentre da lungi il conte Leo li seguiva silenzioso, contento, sognando per loro un avvenire rallegrato dei più ridenti colori, dimenticando quasi la lontananza del nipote e lo scopo che questi si era prefisso.

Per sette od otto mesi, non ebbero che rare lettere da Cars e da Raul, che avevano cominciato il loro pellegrinaggio da Firenze.

Ma un giorno Vittorio portò a Maria una lettera di suo padre, in cui questi gli faceva noto che la sua missione e quella del conte stava per compiersi e concludeva:

“ Bacia a nome di suo padre la tua fidanzata Maria; il conte Raul te lo permette. ”

La fanciulla chinò vergognosa gli occhi e divenne così rossa che il conte Leo, che l' osservava, gliene chiese, ridendo, la cagione.

Ella gli stese con atto ingenuamente adorabile il foglio, che il vecchio percorse rapidamente collo sguardo.

— Ebbene, Vittorio, che attendi per adempire l' incarico di mio nipote? — chiese con aria maliziosa.

— Che voi e Maria me ne diate il permesso — esclamò con vivacità il giovinotto.

— Io non posso negarvelo; e tu che ne dici, mia cara?

La fanciulla per tutta risposta pôrse la rosea guancia a Vittorio.

Il conte Leo aveva pure ricevuta una lettera da Raul, che lo ragguagliava di quanto succedeva.

“ Abbiamo nelle mani quella donna infame — diceva — ma ancora non sono giunto a smascherarla.

“ Quando io cerco di far rivivere ìl suo passato, se ne schermisce con mille arti, e con quella foga da Messalina che mi nausea, mi ripugna.

“ — Che t' importa di ciò che è stato? — mi sussurra pian piano. — Godiamo il presente. Non t'amo io forse? Perchè non mi rendi intieramente felice?

“ Ah! se tu sapessi quali sforzi mi tocca fare per sostenere una così ignobile commedia!

“ Se non avessi vicino il principe, che mi sostiene, m' incoraggia, mi consiglia, qualche volta mi sentirei la voglia di schiacciare sotto i piedi quella donna, prima ancora di sapere la verità.

“ La contessa Edvald ha l' anima ancora più triste e perversa di ciò che mi ero immaginato, ed ella si crede sempre potente come una volta.

“ Del resto, veduta di sera, al chiarore di più doppieri, in un salotto civettuolo, che fa parte dell' appartamento in cui la misi, in un abbigliamento provocante al sommo grado, potrebbe ancora illudere qualcheduno.

“ Vi sono proprio delle donne che il tempo lascia eternamente giovani e per il solito ciò avviene quando una non ha cuore: è il morale che logora il fisico, sono le lacrime che invecchiano.

“ La contessa Edvald non ha mai pianto nella sua vita: nulla la commuove.

“ Ha poi un' arte grandissima nel dipingersi, disporre la sua capigliatura ancora voluminosa, nel far sparire le rughe delle tempia, e conserva dei denti meravigliosi per bianchezza, delle braccia e spalle scultorie.

“ Ma tutto ciò, lungi dal sedurmi, non fa che accrescere la mia avversione per lei.

“ La sirena non ha incanti per me: e nei suoi sorrisi, sguardi, modi, vi è qualche cosa di così impudente, ributtante, che talvolta non posso nemmeno sostenere il suo aspetto e bisogna che fugga per non tradirmi.

“ E la contessa mi crede innamorato di lei! Ma spero presto di strapparle quella lurida maschera dal viso, toglierle ogni illusione.

“ Ieri sera fui quasi sul punto di scoprire tutto.

“ Avevo cenato da solo con lei ed io le versavo da bere senza posa, finchè le vidi brillare gli occhi, imporporare la faccia.

“ — È tempo — dissi fra me — d' interrogarla.

“ Stavo per farlo, quando ella, che da ardita cominciava divenire sfacciata, mi stese le braccia, balbettando:

“ — Io ti amo, ti amo!

“ La respinsi bruscamente.

“ — Non ti credo — risposi. Tu continui a mentire con me: io ho cercato di far parlare il principe sul conto di tua figlia, gli rivelai quanto in parte mi dicesti, e Cars si strinse sdegnosamente nelle spalle, esclamando: Livia mènte. ”

“ La contessa volse su me uno sguardo infuocato.

“ — Ah! sono io che mènto! — gridò — Chiedi al principe se non è vero che io stessa, sapendolo tanto innamorato di mia figlia, ho cercato introdurlo di notte nella casa di lei, durante un' assenza del marito, invitandolo a nome di Tecla, con un biglietto.

“ Ascoltavo anelante.

“ — Tu falsificasti la scrittura di tua figlia? — chiesi.

“ — Non fui io, ma un uomo che viveva presso di me, che sapeva imitare a perfezione qualsiasi scrittura.

“ Provai un vivo sussulto, pure, cercando frenarmi:

“ — Racconta, racconta! — esclamai. — Se tu sapessi quanto m' interessa tutto ciò, perchè, vedi, mentre io non mi curo degli altri amanti che hai avuti, sono geloso del principe.

“ Un allegro scoppio di risa m' interruppe.

“ — E dire che Cars è stato l' unico uomo che accostandomi, non si è mai neppure degnato rivolgermi uno sguardo, nè farmi un complimento — disse la contessa. — Nella sua vita egli non ebbe che un unico amore: quello per mia figlia Tecla.

“ Continuai a mostrarmi diffidente.

“ — Ma perchè dessa non lo corrispose? Forse non lo amava?

“ Livia si fece d' un tratto seria.

“ — Mia figlia era una testa bizzarra — rispose — con degli scrupoli da educanda.

“ Si credeva indegna del principe perchè io amavo la vita allegra, non ostentavo la falsa virtù di tante altre signore. Eppoi Tecla aveva un' amica bacchettona, una certa Miranda Clementi, che le insegnò a disobbedirmi, l' allontanò da me, le fece sposare suo fratello.

“ Trasalii.

“ — Ed è forse per vendicarti di quella Miranda, che introducesti con un inganno il principe nella palazzina di Clementi? — chiesi.

“ — In parte avete indovinato; ma quella maledetta che intralciò sempre i miei passi, anche quella notte sventò il piano che io avevo concepito. Il principe, invece di trovarsi solo con mia figlia, si trovò di fronte la cognata, un Argo feroce per la virtù.

“ E l' infame si sganasciava dalle risa.

“ Ma il mio volto dovette certamente mostrarle quello che si passava nella mia anima, perchè il riso le si gelò sulle labbra.

“ — Che avete? — mi chiese timorosa, perplessa.

“ Trattenni ogni slancio, la mia prudenza si ridestò.

“ — Nulla — risposi — perchè?

“ — Avete assunto un aspetto così straordinario, che ebbi paura. Orsù, bevete.

“ Mi pôrse ella stessa un calice pieno, ma al contatto delle sue dita, fui colto da un tal fremito d' indignazione, che il bicchiere mi sfuggì di mano, spezzandosi sulla tavola.

“ — Decisamente non vi sentite bene — disse con premura la contessa.

“ — È vero — balbettai — forse ho bevuto troppo.

“ — Ed io ho finito di stancarvi co' miei discorsi. Mettetevi a letto.

“ — No, no, ho piuttosto bisogno di prendere aria: me ne vado; a rivederci.

“ Fuggii come un pazzo, ma appena fuori dell' uscio me ne pentii.

“ Se io avessi conservato il mio sangue freddo, quella forza d' animo che spesso ammiro nel principe, avrei potuto saper tutto in quell' ora stessa.

“ Ed invece bisognava cominciare da capo, nuovamente adescare quell' infame, per strapparle dalle labbra la verità.

“ Mi sarei dati dei pugni sulla testa, mi sentivo invaso da un terribile umor nero.

“ E quando, calmatomi, tornai da Livia, la trovai crucciosa, turbata, diffidente e capii che interrogandola di nuovo, le avrei messo nell' anima dei fieri sospetti.

“ Mi limitai a riprendere la mia orribile parte d' innamorato.

“ Ma ho l'inferno addosso: ormai voglio finirla!

“ Dell' innocenza di Miranda e del principe non ho più alcun dubbio; ma voglio sapere se è proprio alla contessa Edvald che debbo il mio delitto, ed allora non vi sarà grazia per lei.

“ Mi sembra che la povera morta debba gridare ella stessa:

“ — Puniscila! ”

Il conte Leo, leggendo quel foglio, aveva scosso più volte la testa.

— Ebbene — mormorò — a che gli vale la sua ira implacabile contro tutti coloro che sospetta abbiano armata la sua mano? Forse che la vendetta potrà estinguere il rimorso, o far rivivere la povera vittima? Meglio sarebbe stato che Raul, prima di giudicare quella santa, che per salvare gli altri non seppe salvare sè stessa, le avesse dato il tempo di difendersi, di far chiara la sua innocenza. Ora è troppo tardi.

Sulla fronte del vecchio era apparsa una fosca nube, ma quando i suoi sguardi s' incontrarono nel dolce viso di Maria, che tanto assomigliava alla madre, gli occhi del conte Leo tornarono a lampeggiare sereni, il sorriso ricomparve sulle sue labbra.

Livia era ritornata dal teatro ed attendeva Raul che doveva cenare con lei.

La tavola era imbandita: la luce dei doppieri si rifletteva negli specchi dalle alte cornici dorate, con fiori ed amorini.

La contessa Edvald non si era tolto l' abito che aveva indossato quella sera e che le aveva procacciata l' ammirazione degli uomini, l' invidia delle signore.

Era in peluche rosa pallido, con splendidi ricami in perle sul dinanzi e sopra le spalle.

Pallina, che l' aveva accompagnata, formava con lei un curioso contrasto. Vestiva severamente di nero, coll' abito abbottonato fino al collo, senza alcuna guarnizione.

Sulla faccia scolorita le appariva un certo disdegno, e nello sguardo che rivolgeva di quando in quando alla contessa Edvald, eravi della collera, dell' astio, della gelosia.

Livia non le badava: si mostrava inquieta, nervosa.

— Come tarda stasera! — esclamò — Non ti sembra Pallina?

— Non me ne accorgo affatto — rispose seccamente la giovane, intenta a guardare sulla tavola, perchè nulla mancasse.

— Perchè tu non sei innamorata — replicò la contessa sedendo sul divano, ed appoggiando un braccio nudo ad un cuscino di raso, a ricami d' oro.

Pallina non si degnò di rispondere, e quando ebbe veduto che tutto era all' ordine, disse con freddezza:

— Se non avete più bisogno di me, vado a letto, perchè cado dal sonno.

Livia si mise a ridere.

— Ciò ti succede sempre quando egli deve venire: sembra tu abbia timore d' incontrarti con lui.

Pallina alzò le spalle e, dopo aver augurata alla contessa la buona notte, si ritirò.

Ma, invece di porsi a letto, aprì la finestra e vi si affacciò.

La notte era fredda, ma bella.

— Ella crede proprio di essere amata da quell' uomo — mormorò con accento di sorda ironia — ah! la vecchia pazza, non ha voluto darmi retta e se ne pentirà.

Rimase un istante silenziosa, come assorbita in profondi pensieri, poi riprese:

— Se potessi almeno sapere quello che cerca, perchè egli deve avere uno scopo nel fingersi innamorato della contessa: vuol strapparle qualche segreto, ne sono sicura, ed io potrei aiutarlo.

Una luce sinistra brillava nelle sue pupille, e si comprendeva che Pallina avrebbe senza esitazione tradita Livia, se ciò poteva tornarle di vantaggio.

Si era attaccata alla contessa per non rimanere in mezzo alla strada, ma non l' amava, anzi nutriva in cuore un odio intenso per lei, ritenendola la sola cagione dei mali che le erano accaduti.

E se fosse riuscita a mettersi da parte una piccola fortuna, l' avrebbe tosto abbandonata.

Mentre così fantasticava, una carrozza venne a fermarsi dinanzi alla porta di casa.

Pallina si protese all' infuori e vide scenderne Raul. Ma questi prima di rinchiudere la portiera, parlò con qualcuno che era nell' interno della vettura, ed all' orecchio della giovane giunsero queste parole:

— Non più presto, siamo intesi: a rivederci.

La portiera fu chiusa dallo stesso conte, la carrozza si allontanò, e Raul disparve nel vestibolo della casa.

Allora Pallina rinchiuse la finestra e andò ad origliare all' uscio.

Bentosto sentì i passi di Raul nel corridoio, poi tutto fu silenzio.

Pallina apri pian piano, ed in punta di piedi si diresse verso la camera della padrona, mormorando fra sè:

— L' attenderò quando esce.

Intanto Livia, al rumore che fece Raul entrando, si alzò con impeto e i suoi occhi brillarono di viva gioia.

— Finalmente! — esclamò, tendendogli la mano grassa, bianchissima, dalle dita cariche di anelli.

Il conte la strinse appena: era accigliato.

— Non ho potuto venir prima — mormorò — e per cagion tua.

Livia rimase un momento sconcertata.

— Per me?

— Sì.

— Ma spiegati.

— Ci sarà tempo — brontolò Raul, perchè un domestico entrava, recando alcuni piatti — orsù, ceniamo.

Alla contessa ne era quasi passata la voglia.

Guardava di sottecchi Raul, come se dal suo viso potesse indovinare ciò che gli passava nell' anima.

Ma già la fisonomia del conte si era alquanto rasserenata, sorrise a Livia e si diede a servirla con molta premura.

Allora la malvagia creatura ridivenne tranquilla, cenò allegramente, vuotando, senza quasi avvedersene, i calici di vino generoso, che Raul si affrettava a riempire.

Era ritornata audace, cinica, tentatrice: pareva che nelle vene le corresse una vampa, che il suo sangue fosse diventato tutto una fiamma.

Il domestico, portate che ebbe le confetture, i liquori, si ritirò per recarsi a letto, come soleva fare ogni notte.

Allora Livia con un gesto pieno di civetteria afferrò una mano di Raul, dicendogli con un sorriso da sirena:

— Vieni qui.

Voleva che sedesse al suo fianco, sul divano.

Il conte non oppose resistenza. Ella gli si strinse vicino e fissandole con occhi ardenti:

— Adesso mi dirai cosa ti ho fatto — sussurrò con arditezza.

— A me, nulla — rispose Raul con la bocca increspata da una nervosa contrazione — ma sei stata ben fatale ad un uomo che questa sera incontrai, un uomo che credevo di non più rivedere.

Livia ascoltava fra attonita, irritata.

— Di chi parli? Spiegati, dimmi il nome di quell' uomo?

— Vuoi proprio saperlo? — chiese Raul con voce sommessa e rauca, chinandosi anelante sulla cortigiana.

Questa dètte in una grossa risata.

— Ma certamente — rispose — se, come dici, ebbi parte nella sua vita.

— Non provi nessun presentimento? Non temi indovinare?

— Niente affatto: aspetto calma che tu me lo dica.

— Ebbene, non te lo nasconderò più a lungo — disse Raul con la gola stretta — l' uomo che stasera incontrai è il conte Adalberti, colui che è stato condannato a dieci anni di reclusione per aver assassinata la moglie.

Raul si aspettava un grido, un trasalimento, un gesto di paura da parte di Livia, ma il volto di lei espresse solo la sorpresa.

— Il conte Adalberti? — ripetè. — Ma io lo sentii nominare la prima volta all' epoca del suo processo, ma non so neppure che viso egli abbia.

— Ed intanto l' hai pure spinto ad uccidere sua moglie? — interruppe Raul con labbro irato e viso convulso.

— O tu hai volontà di scherzare, od hai perduto il senno — esclamò Livia con un gesto d' impazienza, pur sorridendo. — Chi ha mai conosciuto il conte e sua moglie?

— Tu, che mènti adesso, come hai mentito sempre con me! — replicò rabbiosamente Raul.

E mentre dai suoi occhi sembravano scaturire foschi lampi:

— Ah! non conoscevi Miranda Clementi? — aggiunse con feroce ironia.

La contessa cominciava ad essere assalita da una strana sensazione, da un vago spavento.

— Che c' entra Miranda con la contessa Adalberti? — chiese turbatissima.

— Non sapevi che era la stessa persona…

Involontariamente Livia trasalì.

— Ma no, no — disse sconvolta — te lo giuro.

— Non giurare, mentiresti. Forse non è vero che hai odiata Miranda, cercasti sempre farle del male? Non tentare d'ingannarmi, te lo dissi; mi sentii attirato verso di te, appunto perchè seppi che eri una donna diversa da tutte le altre, perchè conobbi molti particolari della tua vita, ammirai la tua energia nell' odio, come nell' amore. Ed invece di mostrarti franca, fingi con me. Hai sostenuto di non essere stata l'amante del principe ed ancora non ne sono convinto, ora mi giuri di non essere stata la causa della morte di Miranda e della condanna di suo marito, e mènti!

Livia sollevò in viso al conte uno sguardo pieno di fermezza: ne' suoi lineamenti brillava un' aria di sovrana audacia, un sorriso contraeva le sue labbra.

— È la verità che disse — esclamò con energia — ho odiato Miranda, non lo nego, ed avevo un desiderio ardente di vendicarmi di lei; ma io ignoravo che ella fosse divenuta la moglie del conte Adalberti, ignoravo sopra tutto la sua fine.

— E falso, è falso! — proruppe Raul.

— Non mi conosci dunque ancora — disse a sua volta con impeto la contessa — non sai che donna io mi sia…. Ah! vorrei davvero essere stata lo strumento della morte di Miranda che non esiterei un istante a confessartelo, ne proverei quasi gioia: vuoi sapere tutto ciò che io ho fatto a colei, vuoi infine conoscermi intieramente? Parlerò, e vedrai se non sarò franca con te, se ti nasconderò qualchecosa.

— Ebbene, sia pure, ti ascolto — disse Raul contenendo a mala pena la sua agitazione, la sua violenta curiosità — che hai da farmi sapere?

— Ciò che io sono stata, quello che feci, onde il dubbio non ti faccia più soffrire, e non abbi a prestar fede a tutte le menzogne che ti spaccieranno sul mio conto: versami da bere.

Raul eseguì macchinalmente: ella vuotò il calice di un fiato, quindi posandolo sulla tavola, rovesciò la testa sul cuscino del divano, e guardando il conte con occhi accesi:

“ — Quando nacqui io — cominciò ridendo — il diavolo dovette suonare a festa, perchè veniva al mondo una sua creatura.

“ Eppure i miei genitori erano buoni, onesti, religiosi. Mio padre amministrava da sè stesso il suo ricco patrimonio, mia madre era tutta casa e chiesa.

“ Fino da piccina, feci mostra delle più cattive tendenze: ero golosa, cattiva, bugiarda, ambiziosa, ma ero pure così bella, che in grazia di ciò, mi si perdonava tutto.

“ Quando mio padre mi conduceva alla passeggiata, la gente si fermava estatica ad ammirarmi ed io sentivo sempre sul mio passaggio dei mormorii d' ammirazione, che mi ringalluzzivano tutta ed accrescevano il mio orgoglio.

“ Io non avevo rispetto per alcuno, mi prendevo beffe di tutti, e quando non mi si ubbidiva subito, facevo provare alle mie cameriere gli effetti della mia collera.

“ Mio padre e mia madre, spaventati dallo sviluppo del mio carattere perverso, ascoltarono il consiglio di taluni che proposero loro di mettermi in convento.

“ Dopo una settimana dovettero riprendermi.

“ Io avevo messo tutto a soqquadro, spaventate le monache, intimorite le educande.

“ Questa volta mio padre, oltre una severa riprensione, alzò la mano su di me.

“ Mi rivoltai, lo morsi, poi con alte grida corsi a rinchiudermi in camera, per rotolarmi sul tappeto come una furia.

“ All' indomani avevo la febbre e il delirio, ed i miei genitori, nel timore di perdermi, mi chiedevano perdono, piangendo.

“ Guarita, mi lasciarono libera di fare ciò che volli.

“ Avevo smania d'imparare, forte intelligenza, sicchè io stessa chiesi professori e maestre.

“ A quindici anni ne sapevo più di un uomo che avesse molto studiato.

“ Intanto mio padre era morto e mia madre era divenuta la schiava di tutti i miei capricci.

“ Bastava aggrottassi un po' le ciglia per vederla tremare.

“ Sicchè, quando un giorno mi chiese se era vero ciò che si diceva che io facessi all' amore col figlio del portinaio, un bel giovinotto, vivacissimo, ardito, io le risposi aspramente:

“ — E se fosse?

“ Mia madre ne soffrì tanto, che si ammalò. Per la prima volta ne provai un po' di dolore ed abbracciandola le promisi che avrei lasciato il giovine, che ormai mi era venuto a noia.

“ Mia madre fu contenta della mia promessa, e per compensarmi fece in quell' anno uno sforzo, per lei assai grande, avvezza a vivere ritirata, e mi condusse in società.

“ La mia entrata nel mondo elegante fece chiasso: non si parlava che della mia bellezza, del mio spirito, del fascino che mi attirava l' omaggio degli uomini, l' invidia delle donne.

“ Ma se molti mi facevano la corte, nessuno ardiva chiedere la mia mano.

“ Si è che prese le debite informazioni, si spaventavano al conoscere le mie tendenze, il mio carattere, che, del resto, io non ho mai cercato nascondere.

“ Vedi con che franchezza mi rivelo a te. ”

Si tacque un istante, e sollevandosi mescè un altro calice, che vuotò sorridendo.

Raul non disse verbo: il suo sembiante aveva preso un' espressione fredda, grave.

Ascoltava attentamente, non perdendo una sola delle parole di Livia.

Questa si rovesciò di nuovo all' indietro, e riprese:

“ — Il tempo passava, io vedevo tutte le mie amiche prendere marito, mentre io, più bella di tutte, rimanevo fanciulla.

“ Mi rodevo dalla rabbia, dal dispetto; cercavo di raddoppiare le seduzioni, ma se trovavo giovani pronti ad uccidersi per un mio bacio, almeno così dicevano, non vi era alcuno disposto a sacrificarmi la sua libertà.

“ Un giorno fui invitata con mia madre ad una festa campestre, che dava la marchesa Arcelli nella sua splendida villa.

“ Sebbene mia madre si trovasse alquanto indisposta, per non mettermi di malumore e tormentare i miei nervi, che da qualche tempo si erano fatti eccitabilissimi, mi accompagnò.

“ Io avevo una toeletta di circostanza, che accresceva la mia splendida bellezza: vestivo alla foggia delle contadine: un abito corto, rosso, mostrava i miei piedini calzati da basse pianelle allacciate alla gamba, coperta di una finissima maglia carnicina, con nastri a colori.

“ Un busto di velluto nero, a ricami d' oro, mostrava la camicia a trina, aperta a sbuffi sul petto: le braccia avevo nude fino al gomito: in testa non tenevo che un tralcio di fiori di campo, che andava a perdersi nelle treccie libere al vento. Un altro mazzo degli stessi fiori portavo al busto.

“ La mia comparsa destò un mormorìo d' ammirazione; certamente nessuna delle fanciulle intervenute alla festa poteva competere con me: mi trovai subito circondata da un nuvolo di adoratori.

“ Ma nel mentre passeggiavo lieta, trionfante, sotto gli ombrosi viali dello splendido giardino, una cameriera corse ad avvertirmi che mia madre era stata sorpresa da un deliquio.

“ Seguìta da molti invitati, io mi recai subito al padiglione dove era stata per il momento trasportata.

“ Mia madre era stesa sopra i cuscini di un divano. Un livido pallore le copriva il viso, pareva morta.

“ Presso a lei eravi un uomo sulla quarantina, dalla bella fisonomia e maniere squisite, che le teneva una boccetta di sali nari e le bagnava le tempia con dell' acqua profumata.

“ Siccome tutti gli sguardi erano rivolti su di me e mia madre, con tenerezza e pietà, così, sebbene non provassi in fondo al cuore che una vaga inquietudine, più che della commozione, mi feci largo fra la gente e andai a gettarmi ginocchioni presso la svenuta, piangendo, chiamandola coi più dolci nomi.

“ Mia madre non tardò ad aprire gli occhi: arrossì di timidezza e confusione, vedendosi fatta segno a tante cure, e sollevatasi alquanto:

“ — Non è nulla — balbettò — sto assai meglio… grazie a tutti, non vi disturbate per me.

“ — Non ci siamo disturbati affatto — disse il gentiluomo che l' aveva soccorsa — ma voi, signora, vi trovate ancora debole e sarebbe imprudenza rimanere alla festa.

“ Provai un sussulto di dispetto, intanto che la marchesa Arcelli, solo avvertita in quest' istante dell' accaduto, entrava ansiosa, dicendo a voce alta:

“ — Ma certamente hanno fatto male a trasportarla qui, mentre vi sono tante camere nella villa: venite, signora, vi troverete assai meglio in un buon letto.

“ — No, no, vi ringrazio, è già passato — esclamò mia madre con un dolce sorriso ed appoggiandosi a me per alzarsi in piedi.

“ Ma barcollò.

“ Il gentiluomo, che era a noi vicino, se ne avvide.

“ — Voi commettete un' imprudenza, signora — disse con gravità — non vi movete, vi faremo trasportare a letto.

“ — Ma no, no — ripetè mia madre arrossendo — vorrei piuttosto tornare a casa.

“ Mi morsi le labbra, pur non volendo dimostrare il mio dispetto.

“ — Ti senti dunque molto male? — chiesi.

“ — Non so che cosa ho, non mi riconosco oggi — rispose, sforzandosi a sorridero — mi sembra che sarei contenta di ritrovarmi a casa.

“ — Ebbene, se lo desiderate, signora — rispose il gentiluomo con un profondo inchino — vi offro la mia carrozza, che è assai comoda, e mi permetto d' accompagnarvi.

“ Quell' uomo era il conte Edvald. Non più giovane, nè ricchissimo, ma con un discreto patrimonio e soprattutto un nome assai stimato in società, solo al mondo, era, come suol dirsi, un eccellente partito.

“ Lo compresi dal momento che egli cominciò a frequentare la mia casa ed a mostrarsi assiduo presso di me.

“ Io non l' amavo, ma volevo un marito e nessun altro mi parve più conveniente di lui.

“ Mia madre stessa desiderava questa unione, perchè aveva conosciuto nel conte Edvald un uomo di cuore, e sperava, forse, che il contatto di lui mi avrebbe resa migliore.

“ Infatti, sembrava che io avessi cangiato carattere. Non cercavo più di recarmi in società, abbandonavo di rado mia madre, che dal giorno in cui era stata ricondotta a casa, non aveva più lasciata la sua camera.

“ Si alzava per qualche ora del giorno, ma si sosteneva a stento in piedi.

“ Il conte Edvald veniva ogni sera da noi ed io mi ero accorta che egli era innamorato pazzamente di me.

“ Eppure non ardiva dirmi una parola ed io giuocavo una commedia d' ingenuità, della quale ridevo a crepapelle quando mi trovavo sola.

“ Una sera che mia madre si sentiva più male del solito, disse in presenza del conte Edvald:

“ — Non mi rincresce di morire, ma il pensiero di lasciare mia figlia sola, mi strazia l' anima.

“ Io mi misi a piangere.

“ Il conte Edvald era pallido come uno spettro e con accento commosso, tremante:

“ — Se la signorina — mormorò — volesse accettare l' offerta di un uomo che l' ama, come forse nessuno saprà amarla, che la rispetta come una santa, io sono pronto ad offrirle la mia mano.

“ Mia madre mandò un grido di gioia.

“ — Ed è pur vero! — esclamò — Avrei una tale consolazione prima di morire? Rispondi, Livia: sei tu contenta?

“ Alzai gli occhi umidi in viso al conte e con accento pieno di candore:

“ — Egli sa bene che non l' avrei rifiutato — pronunziai.

“ Il conte mi cadde alle ginocchia.

“ Una settimana dopo mia madre chiudeva gli occhi felice, benedicendomi, ed il mese seguente, malgrado il mio lutto, io divenni la contessa Edvald. ”

Livia si tacque ancora: una singolare transizione si era operata ne' suoi modi: pareva commossa: si passò due volte la mano sugli occhi.

Raul non l' interruppe ancora.

— Dammi da bere — disse con voce rauca la contessa.

Raul ubbidì in silenzio.

Quando ebbe bevuto, le guancie le si animarono, dai suoi occhi parvero scaturire delle fiamme.

“ — Mio marito è stato uno sciocco — proruppe. — Se egli mi avesse amata meno, tenuta più in freno, forse riusciva ancora a farmi rientrare sulla retta via.

“ Ma egli non pensava che a compiacermi, ad ubbidirmi in tutto, a soddisfare i miei capricci, credendo con ciò di attirarmi vieppiù a sè ed invece non riuscì che ad allontanarmene maggiormente.

“ Se dapprima non l' amavo, finì quasi di venirmi in odio, quando dopo due mesi di matrimonio mi accorsi di essere madre.

“ Io che avevo sognata una vita brillante, tutta di feste e piaceri, mi trovai in un subito obbligata a starmene distesa su di una poltrona, debole, fiaccata, con una nausea continua alle labbra, con un pallore sul volto, che mi rendeva quasi deforme.

“ Ero irritata, astiosa, nervosissima, sopra tutto contro mio marito, che attribuendo quella continua eccitazione al mio stato, aveva per me una pazienza angelica, una costanza veramente degna di premio.

“ Egli era nato per essere il modello dei mariti e dei padri.

“ La venuta al mondo di mia figlia, mentre rendeva il conte quasi pazzo di gioia, lasciò il mio cuore affatto indifferente.

“ Temevo che ella avesse sciupata la mia salute e la mia bellezza, di cui andavo oltremodo orgogliosa.

“ Presi in casa una nutrice, ma perchè le grida della bambina mi davano ai nervi, la confinai in un appartamento lontano dal mio.

“ Allora vi fu una scena acerba fra me e mio marito. Per la prima volta egli osò rimproverarmi aspramente, con una certa violenza, mostrarmi i miei torti, insegnarmi i doveri di moglie, di madre.

“ Ed io esasperata, con accento soffocato dalla rabbia, risposi che i suoi consigli potevano accettarsi da una donna che avesse sposato un uomo per amore, non da me che non l' avevo amato mai. Era già troppo che gli avessi dato il diritto di dirmi sua, e bella come ero, non avevo sposato un vecchio per rinchiudermi fra quattro mura ad allattare i bimbi, che se egli possedeva il bernoccolo della paternità, poteva soddisfarlo.

“ Non so se le mie parole l' avessero ferito nel suo amor proprio o al cuore, ma il fatto stà che lo vidi divenire pallido, pallido, e volgendomi uno sguardo che non ho mai dimenticato, uscì dalla mia camera.

“ Da quell' istante, egli non vi ripose più il piede: dormiva vicino a sua figlia e non ci trovavamo insieme che all' ora dei pasti.

“ Non mi rivolse mai una parola di rimprovero, non mi chiedeva conto delle mie azioni ed io, colpita mio malgrado da quel contegno, mi frenai per qualche tempo.

“ Ma non ero donna da provare rimorsi, e ben presto, in mezzo ai piaceri ed alle feste, dimenticai affatto che avevo un marito ed una figlia.

“ Una mattina tornai da un ballo con l' inferno addosso. Una contessa russa mi aveva soppiantata; era stata la regina della festa.

“ Non si erano occupati che di lei, i miei più ferventi adoratori avevano portato al nuovo idolo il loro incenso.

“ E la contessa passandomi accanto mi aveva vôlto uno sguardo ironico, sprezzante.

“ Non so come potei frenarmi, e quando fui sola nella mia camera, mi strappai con frenesia gli abiti, le gioie che portavo, bestemmiando, delirando come una furia.

“ In quel mentre entrò un domestico per avvertirmi che il conte stava assai male.

“ — Ebbene, vada al diavolo… — proruppi.

“ Ma tosto mi ripresi, vedendo il servo guardarmi con una specie di terrore, e con più calma:

“ — Ha chiamato il medico? — domandai.

“ — Sissignora, fino da tre giorni fa, ma non volle si avvertisse, perchè diceva che la signora contessa si sarebbe troppo spaventata. Ma questa notte il medico ordinò severamente che si venisse a prenderla al ballo: il signor conte lo proibì; più tardi abbiamo richiesto il curato, ora il signor conte ha ricevuti i Sacramenti ed avendo domandato di lei, signora, sono venuto ad avvertirla.

“ — Sta bene, ora vengo.

“ Ero un po' sconcertata. Non mi aspettavo quella malattia improvvisa e, a quanto pareva, assai grave.

“ Indossai una veste da camera e mi diressi in fretta alla stanza del conte, mi precipitai con un grido verso il suo letto.

“ Giunsi troppo tardi.

“ Mio marito aveva chiusi gli occhi in quell' istante ed il sacerdote stava benedicendone il cadavere.

“ Provai una specie di stringimento al cuore.

“ Mi lasciai cadere ginocchioni, baciai la fredda mano del morto e scoppiai in singhiozzi.

“ Tutti credettero in quel momento al mio dolore, ad un sincero pentimento.

“ E non era che lo sfogo della crisi nervosa, alla quale ero stata in preda tutta la notte.

“ Vedi, Raul, che io non cerco presentarmi a te sotto un aspetto migliore di quello che fui, di ciò che sono.

“ Ti dico la verità, più di quello che farei con un confessore.

“ D' altronde non mi dicesti d' amarmi a cagione appunto della mia perversità? ”

Ella rideva cinicamente. Raul le versò un nuovo bicchiere di vino.

— Bevi, poi continua — disse. — E sopratutto sbrigati, perchè questa parte della tua confessione, non m' interessa più che tanto.

— Forse perchè non si tratta che di peccati veniali, pei quali un uomo di mondo ha sempre indulgenza — rispose con cinismo la contessa, vuotando allegramente il calice — ma non temere… che adesso avrai la parte drammatica, di circostanza.

Rise ferocemente, quindi tra seria e beffarda, proseguì;

“ — Il mio sogno, appena mi trovai vedova, fu di recarmi a Parigi, la città del lusso, dell' oro, dei piaceri.

“ Mio marito non mi aveva lasciata ricca.

“ Per me aveva dissipate quasi tutte le sue sostanze, ed alla sua morte non restava che una piccola rendita, intestata a mia figlia.

“ Era appena bastante per vivere. Ma le privazioni, il lavoro, non erano fatti per me.

“ Venduti i mobili, e quanto mi apparteneva, radunai una discreta somma, tanto da pormi in mostra per qualche tempo.

“ A Parigi condussi anche la mia bambina, che pareva aver concentrato in me tutto l' affetto, che aveva per suo padre, che pianse assai.

“ Andai a trovare alcuni parenti lontani di mio marìto che mi accolsero con trasporto, perchè non sapevano affatto la verità sul conto mio, e per mezzo loro, potei assumere esatte informazioni sulla società parigina, e su coloro dei quali più si parlava per censo e splendidezza.

“ Presi a pigione un elegante appartamento, mi misi su di un piede onorevole, in modo da poter dare nell'occhio senza parere.

“ Dopo pochi mesi, in tutte le società eleganti si parlava della mia straordinaria bellezza, del mio spirito, della mia coltura.

“ Fra i molti adoratori, quello che più mi piacque fu il duca di Laval, perchè si era subito appalesato gran signore, generosissimo.

“ Però, a quanto asserivasi, egli non aveva mai avuto altro amore che quello di sua moglie e nel mentre si mostrava splendido, galante colle donne, i suoi omaggi non oltrepassavano mai i limiti della convenienza, e non si comprometteva in nulla.

“ Bastò questo per farmi concepire l' idea di sedurlo, renderlo mio schiavo. Ci riuscii.

“ Il duca divenne così pazzo d' amore per me, da porre in non cale ogni riguardo, col mostrarsi dappertutto ove a me piaceva recarmi.

“ In breve tutta Parigi parlò della nostra relazione e mentre si biasimava severamente il duca, si parlava di me con disprezzo, molte porte mi furono chiuse in faccia, i parenti di mio marito non vennero più a visitarmi.

“ La duchessa di Laval, che fu l' ultima a saperlo, ma certamente quella che ne soffrì di più, venne a scongiurarmi a nome dei suoi figli, di abbandonare il loro padre.

“ — Neppur il diavolo me lo toglierebbe — esclamai audacemente.

“ — Voi non l' amate — mi disse allora la duchessa — perchè se così fosse, non esitereste a sacrificarvi per lui. È l' interesse solo che vi tiene legata al duca. Ebbene, io che sono ricca al pari di lui, vi cederò la metà delle mie sostanze, purchè lasciate mio marito.

“ Dètti in uno scoppio di risa, che la fecero diventar livida.

“ Però aggiunse ancora in tono solenne prima di ritirarsi:

“ — Che Dio non vi punisca come meritate!

“ Alzai le spalle con disdegno e quando venne il duca mi trovò in preda a violente convulsioni.

“ Egli tentava invano calmarmi.

“ — Tua moglie mi ha insultata — esclamai — mi trattò peggio d' una cortigiana… e tutto questo, perchè non seppi resistere all' amore ardente che m' ispirasti; uccidimi, uccidimi, ma non abbandonarmi.

“ — No, non ti lascierò, te lo giuro — balbettava il duca, asciugando coi baci le mie lacrime.

“ Nonostante, dopo pochi giorni, egli fu costretto a confessarmi che io non potevo più restare a Parigi, perchè la duchessa aveva sollevate contro di me molte persone influenti, che dicevano addirittura di volermi dare lo sfratto per mezzo della polizia.

“ — È meglio quindi che tu parta subito, di tua volontà — aggiunse il duca — io ti raggiungerò fra breve: intanto il denaro non ti mancherà, ne avrai a tua voglia.

“ Un' altra forse avrebbe ascoltato il consiglio, ceduto; io invece mi ribellai.

“ — Rimarrò a Parigi — risposi — e voglio vedere chi sarà capace di allontanarmene: se voi avete paura, lasciatemi: ne troverò cento altri, felici di prendere il vostro posto, rovinarsi per me, e vi è appunto il visconte di Beil, che non attenderebbe altro.

“ Il duca divenne pallidissimo, convulso: egli era geloso all' eccesso.

“ — Rimani qui, lotterò contro tutti — proruppe — ma per pietà, Livia, non preferirmi alcun altro.

“ Non ero così sciocca, giacchè non avrei mai trovato un uomo più splendido, generoso di lui.

“ Ma era di mio interesse torturarlo, mostrarmi pronta a troncare ogni nostra relazione.

“ Da questo colloquio risultò che il duca divenne più innamorato di prima, tanto che pochi giorni dopo, mi aveva stabilita in una palazzina presso ai Campi Elisi, sfidando così audacemente coloro che avevano sperato di vedermi lasciar Parigi.

“ Mandai mia figlia in collegio in Italia, qui presso Torino, e non pensai più che a godermi, per quanto era possibile, la vita; le nature come le mie non si arrestano mai a mezzo.

“ La duchessa di Laval lottò a lungo con me per strapparmi suo marito e mise in opera ogni mezzo per schiacciarmi, ma io ero più forte di lei, tanto che dopo un ultimo tentativo, fece ciò che le restava di meglio: si separò dal duca.

“ Fu un nuovo scandalo, che fece parlare molto la società.

“ Ma io non fui molestata.

“ Il duca non visse presso di me, ed io gliene ero gratissima perchè la sua presenza, come il suo amore, m'importunavano.

“ Ero però troppo abile perchè egli avesse da accorgersene.

“ Per diversi anni imperai assoluta sul suo cuore e sulla sua volontà.

“ Ma una circostanza fatale gli aprì in parte gli occhi.

“ Due giovani dell' alta società si erano battuti in duello per cagion mia. Dopo alcuni assalti ed una lieve ferita da ambe le parti, i duellanti si strinsero la mano, si riconciliarono sul terreno.

“ Ed allora si scoperse che entrambi erano stati da me favoriti, credendosi sempre l' uno preferito all' altro.

“ La cosa venne all' orecchio del duca, al quale aggiunsero che io non ero che un' avventuriera volgare.

“ Egli ne fu tocco al cuore e nell' orgoglio.

“ La sera stessa lo vidi entrare da me, pallido, severo come un giudice.

“ — Dopo quanto feci per voi — mi disse — non credevo di essere così ingannato…

“ Lo guardai con collera, risoluta.

“ — Io non vi comprendo, spiegatevi — risposi.

“ — Neghereste di essere stata l' amante del conte di Regant e del marchese di Vilmar, i due giovani che poco mancò non vi sacrificassero la vita in un duello?

“ Alzai freddamente le spalle.

“ — Nego — risposi.

“ Egli aggrottò le ciglia.

“ — Sappiate, signora, che ho vedute le lettere scritte di vostro pugno.

“ Divenni sempre più audace.

“ — Voi trovate un pretesto per sbarazzarvi di me — esclamai — ma, non temete, sarete libero prima che lo crediate: stavo appunto facendo i miei bauli per partire. Sono stanca di Parigi.

“ — Voi scherzate!

“ — È la verità e più nulla potrebbe ritenermi qui.

“ Divenne pallido, pallido.

“ — Orsù, via — balbettò con voce tremula — non mi fate la bambina.

“ — La risoluzione che prendo mi sembra debba dimostrarvi invece che sono una donna ragionevole — risposi alteramente. — Abbandono volentieri una città, dove non ebbi che dispiaceri e noie, vi lascio la vostra palazzina, e non porterò meco che i gioielli che mi regalaste, come ricordo dell' unico amore che io abbia provato, se però non volete riprendervi anche questi.

“ Il duca era accigliato e commosso, si capiva il suo desiderio di cadere nuovamente ai miei piedi, ma si contenne.

“ — Siete pazza — disse — io non rìprendo mai ciò che ho dato, e spero anzi che continuerete ad approfittare della mia borsa.

“ — Non voglio più nulla: mi avete insultata credendomi capace di tenere altri amanti oltre di voi, e non lo dimenticherò.

“ Uscii dalla stanza altera, dignitosa, senza degnarlo di uno sguardo.

“ Usavo nel mio procedere un' astuzia infernale.

“ Primieramente, se abbandonavo Parigi, era per raggiungere un giovane conte, che suo padre aveva creduto bene mandare per qualche tempo in Italia.

“ Se facevo la severa col duca, non era che per spingerlo a nuove pazzie per me.

“ La sera stessa m' inviò, per mezzo del suo segretario, un buono di centomila lire, pregandomi ad accettarlo come il ricordo di un amico devoto.

“ Ebbi quasi dispetto.

“ Speravo che egli avesse fatte nuove scene per ritenermi al suo fianco, ed invece, col suo dono, mi augurava un viaggio felice.

“ Non fui così sciocca a rifiutare il denaro e partii per Torino, credendomi affatto libera del duca.

“ Colla mia bellezza ed intelligenza, non disperavo di formarmi in breve una nuova brillante posizione.

“ Io volevo però conservar sempre le apparenze di una gran dama e giunta a Torino, dove non si conoscevano i miei scandali di Parigi e tenevo alcune relazioni nell' alta società, mi misi in testa di fare della mia casa il centro di riunioni brillanti, elegantissime, di uomini potenti per ricchezza e nome, per dominarli, maneggiare le loro ambizioni, affine di poterne approfittare per i miei fini.

“ Spesi tutto il denaro che avevo per circondarmi di una cornice dorata, che mi mettesse maggiormente in luce.

“ Avevo fatto ricerca del giovane conte, ma seppi in breve che egli aveva messo casa con una ballerina d' infimo rango, sicchè il mio capriccio si cangiò tosto per lui in avversione.

“ Non avevo ancora aperte le mie sale ad alcuna festa e da soli quindici giorni mi trovavo a Torino, quando una sera mi avvertirono che due signori chiedevano di me, rifiutando dire i loro nomi.

“ Mi piacque la singolarità del caso, li ricevetti subito e fui sorpresa di trovarmi dinanzi al duca e al suo segretario.

“ Questi si ritirò discretamente in altra stanza ed il duca cadde ai miei piedi, chiedendomi perdono dei suoi sospetti e scongiurandomi ad amarlo ancora.

“ Per un po' tenni duro, poi scesi a patti con lui.

“ Io non mi sarei più mossa da Torino, dove egli ogni mese poteva venirmi a trovare.

“ Ma tutti dovevano ignorare chi egli era, lo scopo delle sue visite, perchè io potessi mantenere il mio decoro in faccia alla società.

“ Il duca poi mi avrebbe rifornita di tutto il denaro che mi abbisognava per tener alta la mia posizione.

“ Dal canto mio gli promettevo di non avere altri amanti, di conservarmi unicamente per lui.

“ Il duca sottoscrisse tutto ciò che io volli e per due anni fui la donna più felice, invidiata, senza che mai alcuno sospettasse la fonte del mio denaro, la mia relazione col duca.

“ Ma un giorno mi cadde come una mazzata sul capo la notizia improvvisa della sua morte.

“ Era Michele, il suo segretario, che veniva a portarmela e quell' uomo, che io avevo sempre guardato d' alto in basso, ebbe il coraggio di propormi di prendere il posto del suo padrone. Lo scacciai indignata dalla mia presenza.

“ Ma intanto io ero perduta, rovinata per sempre. Fu allora che pensai a mia figlia… ”

Ella si fermò ed una fiamma improvvisa le corse sulla faccia.

Raul fissava severamente lo sguardo sopra di lei, ed aveva assunto l' aspetto di un giudice.

Livia, esaltata dal suo dire stesso, non vi badava.

— Datemi da bere — esclamò con voce rauca.

Raul le pôrse in silenzio un bicchiere, che ella vuotò, lasciandosi poi ricadere sul divano, come spossata.

Qualche cosa di nuovo doveva avvenire nella sua anima, perchè al sorriso pieno di scherno, cinico, era subentrata una specie di melanconia.

“ — Se io ero bella — proruppe — Tecla lo era ancora più di me. Chiedilo al principe Cars, che per la prima volta la vide in abito da educanda e se ne innamorò.

“ Mia figlia non mi assomigliava nel volto e ancor meno nell' anima. Bisogna le renda giustizia. Aveva ereditato il carattere mite e dolce di suo padre, lo stesso spirito di abnegazione, di sacrificio…

“ Innamorata del principe Cars, lo respinse, dopo aver sorpreso un mio colloquio con lui e scoperta così parte della mia vita, il segreto della nostra brillante esistenza.

“ Ella non aveva mai sospettata la verità… e le parve di essere divenuta indegna dell' uomo che amava…

“ Non ebbe però una sola parola di rimprovero per me. ”

— E voi, generosa madre — interruppe Raul incapace di contenersi — cercaste in cambio di perderla.

La contessa lo guardò con gli occhi spalancati, senza comprendere se ci fosse un rimprovero in quell' apostrofe o se Raul scherzasse semplicemente.

I fumi del vino cominciavano ad annebbiarle il cervello: il suo sguardo si velava.

“ — Se mi dava ascolto — balbettò — si troverebbe ancor qui; ma Tecla aveva delle idee strane, era ostinata; voleva lavorare per guadagnarsi da vivere; la rendita lasciata da suo padre era già sfumata: Tecla me l' aveva ceduta senza esitare, e voleva che io le promettessi, che non avrei accettato più nulla da alcuno.

“ Sì, la cosa andava bene finchè c' era del denaro, ma poi?

“ E perchè ella rifiutò Michele, il segretario del duca, che era venuto a vivere con noi? ”

Raul fece un atto di disgusto, ma Livia non se ne avvide.

“ — A me era venuta un' occasione di rifarmi delle privazioni, che subivo da qualche tempo — continuò — dovevo lasciarmela sfuggire?

“ Dirlo a Tecla era inutile, farle subire la mia volontà, capii che avrei lottato invano: preferii andarmene di nascosto, lasciarla libera di fare ciò che voleva. ”

— Così l' abbandonaste nel mezzo di una strada? — disse ancora Raul.

La lingua della contessa cominciava ad ingarbugliarsi: il suo sorriso diveniva stupido.

“ — No, no — rispose. Michele era con lei, ma la sciocca ebbe paura di trovarsi sola con quell' uomo, che pure l' adorava, e fuggì a sua volta; dopo le accaddero delle avventure meravigliose, tentarono d' assassinarla o che so io, e trovò in punto un salvatore, che finì collo sposarla. ”

— Era il fratello di Miranda — mormorò Raul, cercando dominare la sua emozione, il suo turbamento.

La voce di Livia era rauca per l' ebbrezza: i suoi occhi a momenti divampavano.

— Fu bene quella Miranda che mise in capo a mia figlia delle sciocchezze — esclamò — che le fece rinnegare sua madre, dicendole che io le davo cattivi esempi.

“ Quando trovai Tecla maritata, io non era in floride condizioni, avevo dei debiti e non era giusto mi rivolgessi a mia figlia?

“ Miranda si frappose sempre fra me e lei, spiava tutti i passi di Tecla e siccome seppe che questa si era incontrata in casa mia col principe, fece una scenaccia ad entrambi, proibì a Cars di presentarsi alla palazzina e mi minacciò di rivelare tutto a suo fratello, se ardivo ancora accostare mia figlia. ”

Nel dir ciò, Livia si era bruscamente sollevata sul divano e nella sua voce si sentiva tutta la rabbia, che altravolta doveva averla dominata.

“ — Ah! Miranda non mi conosceva ancora — disse aspramente — e Tecla doveva pur sapere che ascoltandola sarebbe stato peggio per lei.

“ Non ero donna da sopportare minaccie, umiliazioni.

“ E mia figlia, istigata da Miranda, ebbe l' ardire di scacciarmi da sè.

“ Fu allora che ideai la scena, che Cars vi raccontò. ”

Gli occhi di Raul giravano sinistramente nelle orbite: il suo volto era di un pallore inquietante.

— Ma per vendicarti di Miranda che facesti? È ciò che voglio sapere — disse con accento soffocato, minaccioso.

L'intonazione di quella voce, la fisonomia cupa di Raul, parvero far ritornare alquanto in sè Livia.

— Io non ti capisco — balbettò — Miranda è sempre sfuggita alle mie insidie e dopo la morte di Tecla e di suo marito, non ne seppi più nulla.

Il conte l' afferrò per le spalle, la scosse con furia.

— Menzognera impudente — esclamò con la schiuma alle labbra — giacchè non tacesti tutte le tue infamie, perchè non mi riveli la più perversa, perchè mi nascondi d' aver falsificata la scrittura di Miranda per vergare una perfida lettera, ed inviarla al marito, pur sapendo che avresti segnata la condanna di morte della disgraziata?

La contessa aveva il cervello troppo turbato, per capire tutto ciò che Raul le andava dicendo con quell' accento rotto, sibilante, pregno di minaccia.

Lo guardava colla stupida ostinazione degli ubbriachi e finì per dare in uno scoppio di risa convulse.

— È pazzo, è pazzo! — balbettò. — Che cosa dici? Io non comprendo.

— Ti farò comprendere io — tuonò il conte rovesciando Livia sul divano, afferrandola per il collo, e mettendole un ginocchio sul petto.

Ella non ebbe la forza di gettare un grido e chissà cosa sarebbe successo, se improvvisamente non si apriva la porta della stanza e non fosse accorsa Pallina.

— Signore, fermatevi — gridò essa — e venite con me. Io posso dirvi chi vergò quella lettera.

Raul era balzato in piedi e guardava la giovine tutto stordito.

— Voi sapete?… — balbettò. — Non è un inganno per lasciarmi risparmiare questa sciagurata?

— No — signor conte, ve lo giuro e se mènto potrete sempre averci nelle vostre mani.

Raul seguì interdetto Pallina.

Livia li vide uscire senza muoversi dalla sua posizione. Non comprendeva il pericolo al quale era scampata, non sapeva ordinare le sue idee.

Allungò una mano per afferrare sulla tavola un bicchiere ancora pieno.

Ma non potè venirne a capo. Era ubbriaca disfatta: gli oggetti le giravano confusamente all' intorno, provava come la sensazione di chi precipita in un abisso.

Stese le braccia, ma tosto le ricaddero lungo il corpo, chiuse le palpebre e si addormentò di un sonno pesante e rumoroso.

Michele si risvegliò di soprassalto sotto un calcio potente di una guardia di questura.

— Che fai qui, animalaccio? Alzati.

Egli girò all' intorno uno sguardo istupidito, poi volgendolo sospettoso sulla guardia, lasciò sfuggire dalle labbra un grugnito.

— Non mi hai compreso? — esclamò l' altro esasperato. — Alzati da quel letamaio, ti dico, non si respira qui dentro, seguimi.

Un riso strano e convulso dischiuse le livide labbra di Michele.

— Lasciatemi stare — balbettò — sono in casa mia.

— Bella casa in verità, un porcile sarebbe migliore. Se non vuoi muoverti colle buone, adoprerò degli argomenti più solidi.

Ed un nuovo calcio piombò sulle reni di Michele.

— Aiuto! — gridò questi con voce rauca.

— Pensi forse che qualcuno ti ascolti? — aggiunse la guardia. — Invece di gridare, dovresti ringraziarmi a mani giunte d' averti scovato; non so che idea mi venne di salire nelle soffitte, credevo vi si fosse trafugata qualcheduna di quelle donnaccie; perchè ridi, ti prendi scherno di me? Orsù, aggiusteremo i conti fuori.

Stette un minuto pazientando, ma visto che Michele continuava a guardarlo a bocca aperta, lo sollevò per il colletto della giacca, e lo spinse fuori della soffitta.

Ma nel corridoio, Michele si addossò al muro e con voce divenuta piagnucolosa.

— Dove mi conducete? — balbettò. — Io non ho fatto nulla.

L' altro lo spinse ancora.

— Avanti!

Michele ebbe come un istinto di ribellione, ma presto dovette curvarsi sotto la stretta della guardia, che l' aveva afferrato per un braccio.

L' ubbriaco provava stupore al silenzio che regnava nella casa; la sua fisonomia offriva un miscuglio singolare di flemma e d' inquietudine.

— E madama? — chiese sottovoce, come se temesse proferire tale parola.

— È in gabbia colle altre, e dove condurrò anche te — rispose laconicamente la guardia. — Che facevi in quella soffitta? Qual posto occupavi nella casa? Qual' è il tuo nome?

Michele si guardava bene dal rispondere. Sentendo che veniva tratto in arresto, allibì, si ricordò ancora della condanna che pesava sempre su di lui.

Come vi si sarebbe sottratto? Il miserabile si mise a piangere come un bambino.

— Io non so nulla, ho fatto nulla — disse con un gemito — sono un galantuomo.

— Tanto meglio se potrai provarlo — rispose la guardia colla sua aria dura e impassibile, mentre gli faceva scendere la scala a due gradini per volta.

Michele lo sogguardò con rabbia, mentre tremava per tutte le membra, colto da uno sgomento vago, indefinito.

In Questura fu condotto dinanzi ad un vecchio e burbero delegato, che stava ripassando alcuni fogli deposti su di uno scrittoio.

Degnandosi appena di alzare lo sguardo:

— Avvicinatevi — disse, quando la guardia ebbe fatto il suo rapporto.

Michele non si mosse.

— Ehi, dico a voi, siete sordo?

Nessuna risposta. Il delegato si volse alla guardia.

— Non ha lingua colui?

— Troverà il suo conto a non parlare, giacchè lo scilinguagnolo l' ha buono ed anche sciolto.

Michele stava zitto come una statua.

— Via, testa di legno — gridò il delegato — diteci il vostro nome.

Sempre silenzio. Il segretario di Livia aveva assunto l' aspetto di un cretino.

La guardia si sentì tentata d' applicargli il metodo usato quando lo svegliò nella soffitta.

Ma era trattenuta dalla presenza del superiore.

Questi, rosso dalla collera, fece un cenno alla guardia.

— Non ho tempo da perdere con quell' idiota — disse — qualche giorno di chiusura gli farà aprire la bocca.

Michele fu pertanto condotto alla Centrale e lasciato solo in una cella. La privazione del vino e dei liquori fu dura per lui, ma non bastò a muoverlo dal suo indomabile silenzio. Nè severità, nè durezze, nè digiuni, l' indussero a palesare l' esser suo.

Livia, cui era stato richiesto chi fosse quell' uomo trovato nella sua casa, si mise a ridere.

— Non l' avete riconosciuto? — disse. — È lo stesso che tenevo come segretario quando lavoravo in grande, un mio lontano parente, che si è ridotto in tale stato per il vino… e le donne.

— Ma il suo nome?

Livia disse che ella l' aveva chiamato sempre semplicemente Michele e non si ricordava del casato.

La Questura non fu contenta di queste spiegazioni, ma per il momento non vi era da saper altro.

Michele rimaneva tutto il giorno accovacciato in un angolo, chiuso nel suo mutismo implacabile.

Egli sperava, così continuando, che avrebbero finito per stancarsi di lui e gli si sarebbero riaperte le porte della prigione.

Intanto, colla forzata privazione delle sue bevande favorite, la sua mente riprendeva poco a poco la lucidità, le sue memorie si ridestavano.

Ed una specie di lamento usciva dalla sua bocca, i suoi occhi si accendevano, le mani si fregavano assieme con un movimento rapido, nervoso.

Il ricordo persistente di colei che aveva tanto amata ricompariva.

Le pareva di vederla là, nell' ombra del carcere, bianca, bianca come una morta, colle chiome scomposte, le pupille semispente.

Ed egli la contemplava in estasi, col polso febbrile, con un' oppressione che gli pesava sul petto.

E mormorava con ostinato ritornello:

— Tecla, Tecla, non sfuggirmi, io t' amo!…

Poi chiudeva gli occhi come abbacinato.

Michele non avrebbe potuto dire da quanto tempo si trovava in prigione, quando un giorno si aprì la porta della cella ed invece del solito secondino, apparvero due signori in abito nero.

Era il principe Cars, accompagnato da un ispettore.

Michele fissò su Cars, che entrava per il primo, uno sguardo indifferente.

Non lo riconobbe. Ma il principe distinse tosto in quel viso scialbo, disfatto, i lineamenti del segretario del duca di Laval ed anche suo.

— È lui? — chiese l' ispettore.

— Sì…. lo riconosco — rispose con vivacità il principe — Michele, guardami, sono io, che vengo a salvarti.

Il suono di quella voce parve destare come un' eco nel cuore del miserabile. Un gorgoglio improvviso, un' onda di parole disordinate gli salirono alle labbra.

Il principe Cars veniva a lui? Quell' uomo a cui aveva fatto tanto male, diceva di salvarlo, gli faceva rendere la libertà? Non era un sogno il suo? Oh! no certamente, perchè Cars, dopo un breve colloquio a bassa voce con l' ispettore, gli aveva stesa la mano, dicendogli:

— Orsù, Michele, vieni con me.

Il segretario lo seguì curvo, barcollando, incapace ad esprimere la sua gioia, colla testa sconvolta, smarrita.

Alla porta della prigione attendeva una vettura chiusa ed il principe lo fece salire con lui, dopo aver detto al cocchiere:

— Al palazzo.

E la carrozza prese subito la corsa.

Come era ciò avvenuto?

Quando Pallina trasse seco Raul, gli ripetè che ella poteva additargli l' uomo che aveva vergata la lettera di Miranda.

— Fatelo — esclamò il conte afferrando le mani di Pallina — e giuro che sarete ricca per il resto dei vostri giorni…

La giovine mandò un grido di gioia.

— Allora non vi tacerò cosa alcuna — disse cogli occhi brillanti di cupidigia — solo conducetemi in luogo dove possa parlare liberamente: sotto il tetto della contessa non mi sembra di essere sicura, mi mancherebbe il cuore.

— Ebbene, venite con me.

All' angolo della strada trovarono ferma una vettura a due cavalli.

Raul si avvicinò, aperse la portiera, e Pallina, che era dietro a lui, sentì che diceva a qualcuno:

— È da lungo tempo che attendete?

— Non più d' un quarto d' ora — rispose una voce nell' interno. — E voi?

— Vi dirò tutto strada facendo, ma non saremo soli: ho meco una donna, che ha delle importanti rivelazioni a farci.

— Ebbene, salite entrambi.

Pallina si trovò in breve collocata dinanzi ad un uomo, che nell' oscurità della vettura non potè scorgere bene in viso. Ma che glie ne importava?

Ormai il dado era tratto e non sarebbe ritornata indietro.

— Sull' onor mio — pensava — me l' attendevo che un giorno o l' altro i segreti di coloro mi avrebbero servito. Il momento è giunto e sarei una stolta se mi lasciassi sfuggire una così bella occasione d' assicurare il mio avvenire.

Mentre la vettura correva, Raul ragguagliò il compagno, che non era altri che il principe Cars, di quanto succedeva. Gli parlava in lingua inglese, tanto che Pallina non potè comprenderne una sola parola.

Ella si tenne silenziosa, ferma al suo posto.

La vettura non tardò a rallentare la corsa e ben presto i cavalli, infilando un' ampia porta, andarono a fermarsi ai piedi di un superbo scalone di marmo con statue e tappeto.

Pallina fu fatta salire al primo piano ed attraversata un' ampia galleria a fiori, fu introdotta in un salotto, che aveva l' apparenza di uno studio, e dove ardeva un buon fuoco.

Sulla mensola del camino erano stati accesi due doppieri.

Allora la giovane potè vedere il principe in piena luce, e fu tocca da quel sembiante nobile, pieno di malinconia.

— Sedete — le disse Raul con dolcezza — e parlate pure liberamente dinanzi a lui. Di nuovo vi prometto, che se mi direte la verità, vi farò ricca, e nessuno vi darà molestia.

— Oh! non ho intenzione di nascondervi cosa alcuna — rispose Pallina con manifesta emozione — e vi dirò subito che l' autore della lettera, che voi supponeste scritta da Livia Edvald, fu vergata da un certo Michele, ad insaputa della contessa.

Il principe trasalì.

— Michele! — esclamò.

Raul era al colmo della sorpresa.

— Qual motivo poteva egli avere per odiare Miranda o il conte Adalberti? — proruppe concitato.

— Ve lo dirò io — soggiunse Pallina — ma perchè meglio mi comprendiate, bisogna che io vi spieghi in qual modo venni a conoscenza del segreto di Michele.

— Parlate, parlate, vi ascoltiamo.

“ — Dovete sapere che da lunghi anni io vivo presso la contessa Edvald, dapprima in qualità di sua nipote, più tardi, deturpata da una malattia, come confidente e cameriera.

“ Ne seguii la buona e l' avversa fortuna, perchè non avevo altri al mondo e mi mancavano i mezzi per vivere.

“ Quando entrai nella casa di Livia, che allora si faceva chiamare contessa di San Secondo, io credevo, come tutti, Michele suo marito.

“ Ma dalle frequenti scene che avevano insieme, potei carpire qualchecosa dei loro rapporti.

“ Essi non erano che due furfanti, uniti in complicità per far del male, imbrogliare il prossimo, rovinare le disgraziate che capitavano nelle loro mani.

“ Michele era però meno peggiore della contessa. Egli viveva presso di lei perchè sperava sempre di riavere una donna di cui era pazzamente innamorato: la figlia di Livia.

“ Origliando agli usci, avevo sentito questa rimproverarlo per il suo pazzo amore, e dirgli che se Tecla gli era sfuggita, doveva attribuirlo a sè stesso, che non aveva saputo lottare contro la signorina Miranda Clementi, la quale gliel' aveva tolta dalle mani.

“ Michele proferiva le più atroci bestemmìe contro la povera signorina, e giurava sempre di vendicarsi. ”

— Ma era dunque Livia che lo spingeva? — interruppe Raul con violenza.

“ — In quel tempo, sì — ripigliò calma Pallina — ma dopo successero tanti avvenimenti, che la contessa aveva dimenticate le sue istigazioni e le minaccie di Michele.

“ Questi tornò una notte a casa febbricitante, convulso. Era morta la figlia della contessa, egli era andato per rivederne la salma e la signorina Miranda l' aveva scacciato dalla palazzina. ”

— Era nel suo diritto — esclamò severamente il principe — Michele era andato a compiere una profanazione.

“ — Ma egli non ne conveniva e dopo una scena spaventevole di delirio, lasciò la casa e per qualche anno nulla più si seppe di lui.

“ La contessa l' aveva affatto posto in oblìo, io non ci pensavo più; quando un giorno Livia, che aveva preso il nome di madama Flora, venne nella stanza dove io stavo ordinando della bianchera e mi disse:

“ — Pallina seguimi: voglio mostrarti un uomo che certo non ti attendi di vedere.

“ Era Michele, ridotto in tale stato da far pietà: lacero, scalzo, morente di freddo e di fame.

“ Livia, non per compassione, ma appunto perchè aveva bisogno di un suo pari che l' aiutasse nel disbrigo degli affari, che allora andavano a gonfie vele, lo accolse con trasporto, lo ritenne presso di sè.

“ Michele era divenuto più cupo, più taciturno che mai: non parlava con alcuno, faceva gesti da automa e quando si trovava solo, prorompeva in accenti e frasi che parevano di un uomo fuori di senno.

“ Egli dormiva in una camera attigua alla mia e spesso dal finestrino che eravi sopra l' uscio che dava nella mia stanza, io, stando all' oscuro, mi divertivo a spiarlo, a notare i moti, a sorprendere i suoi vaneggiamenti.

“ Una notte, sentendo un grande strepito nella sua eamera, salii al mio osservatorio e fui sorpresa di vedere Michele saltellare come un folle, battere le mani, nel sentirlo dire:

“ — Ah! finalmente l' ho trovata!… Moglie di un conte.. felice… Ah! la vedremo… io vivo ancora… ma fa d'uopo nascondere tutto a Livia, intralcierebbe i miei passi…. voglio sfogarmi da solo.

“ Da questi discorsi poco compresi; un momento dopo lo vidi rovistare in un tavolino, toglierne un portafoglio e mentre lo svolgeva, borbottare anelando:

“ — Eppure l' avevo… ah! eccolo qua… è stato scritto da lei, l' ho rubato a Tecla.

“ Brandì un pezzetto di carta, gialliccia, che mi parve una busta da lettera, l' agitò in aria con furia:

“ — Feci bene a conservarla! — gridava. — Miranda certo non si aspetta il cattivo tiro che le vado giuocando.. ed intanto mi vendicherò anche del principe, che Tecla amava. ”

— Miserabile!… — interruppe Cars con voce alterata — e dire che io l' avevo beneficato, lo credevo buono ed onesto.

— E dove si trova adesso l' infame? — aggiunse Raul, incapace di più contenersi.

Pallina rivelò quanto sapeva, ma nelle sue parole vi era dell' esitazione.

— Può darsi che lo troviate ancor vivo — disse — ma vi assicuro, signori, che perderete forse il tempo a spiegarvi con lui…

Non so se sia il rimorso delle colpe commesse, oppure l' impressione provata al processo del conte Adalberti, giacchè ora io stessa comprendo che la lettera falsificata in quella notte da Michele, e della quale ne rinvenni ancora una brutta copia nella cenere del camino, produsse l' assassinio della contessa Miranda; il fatto sta che quell' uomo è diventato peggiore di una bestia. Qualche volta, quando i fumi del vino e dei liquori gli vanno al cervello, rivela i pensieri dell' anima; ma un istante dopo è capace a contradirsi.

Il principe aveva assunto un sembiante severissimo.

— Perchè non avete denunziato Michele come la sola cagione del delitto del conte Adalberti, quando sapeste della condanna di questi? — chiese, corrugando fortemente le ciglia.

— Vi giuro, signore — disse Pallina con fermo accento — che io ignoravao affatto che la signorina Miranda Clementi fosse la contessa Adalberti. Avevo veduto la copia della lettera falsificata da Michele, non sapevo a chi l' avesse indirizzata.

Raul si era alzato bruscamente.

— Però la contessa ne sarà venuta a cognizione? — esclamò.

— No, ve lo giuro. Michele tenne il segreto per sè solo ed io non ne feci mai parola con Livia.

I due gentiluomini discorsero ancora a lungo con Pallina, intorno a ciò che conveniva fare per impadronirsi di Michele e sui precedenti di costui; poi la giovine fu condotta in una camera del palazzo di Cars, il quale non credeva conveniente lasciar Pallina libera, finchè non fossero venuti in chiaro della verità.

Il giorno seguente, dopo un lungo colloquio coll' amico, il principe si recò solo dal Procuratore del Re, che conosceva personalmente e chiestogli un' udienza, che gli fu subito accordata, s' intrattenne a lungo con lui.

Quando lo lasciò, era munito di un permesso speciale e di una carta per il Direttore della Centrale, onde lasciasse in libertà Michele, di seguire il principe.

E così avvenne. Il miserabile, alle scosse della carrozza che lo trascinava lontano da quelle mura abborrite, guardava stupidamente il principe e sè stesso, credendo di sognare.

— Ebbene, non ti aspettavi tale sorpresa? — gli disse Cars con bonomia.

Michele si nascose il volto fra le mani scarne, nodose, ed abbondanti lacrime scaturirono attraverso le dita.

Il principe non ne fu commosso.

— Perchè piangi adesso? — chiese.

Michele lasciò cadere le braccia lungo il corpo.

— Non lo so, non lo so — disse con voce strangolata — sono io libero, proprio libero?

— Lo vedi — disse con un sorriso il principe.

— E lo debbo a voi!

S'interruppe, e le sue sopracciglia si aggrottarono così, da nascondere il continuo aprirsi e chiudersi delle palpebre.

Dalle sue labbra uscirono alcune frasi, che non si poterono intendere. Poi si chiuse nel suo mutismo.

La carrozza non tardò a fermarsi dinanzi al palazzo del principe. Cars discese per il primo e scambiate alcune parole con un domestico, che si era inchinato, si rivolse a Michele, che metteva timidamente piede a terra.

— Segui il mio cameriere che ti condurrà a ripulirti alquanto — disse — quindi ci rivedremo.

E salutandolo con la mano, il principe salì rapido al suo appartamento, dove l' attendeva Raul.

— Ebbene? — chiese questi, ansioso, andando incontro all' amico.

— E fatto — rispose Cars con aria triste — quell'uomo è in nostro potere, ma Pallina ha ragione: è ridotto una specie di bruto.

— Potrete però giungere a fargli confessare il suo delitto?

— Lo spero; ma la punizione non sarà conforme ai nostri desiderî, perchè quell' essere abbominevole non è più in istato di comprenderne l' importanza.

— Tuttavia non bisogna usare alcuna generosità contro quello sciagurato — interruppe con energia Raul.

— Non ne ho alcun desiderio. Michele è già sfuggito anche per troppo tempo alla giustizia umana. E la perdita della libertà, l' isolamento in una cella carceraria, la privazione del vino, dei liquori, saranno per lui la più tremenda delle punizioni. Giacchè, nell' ubriachezza, egli non cercava che l' oblìo del passato, non tentava che soffocare i rimorsi, e privo di un tal rimedio, si risusciteranno nel suo cervello le spaventevoli allucinazioni, di cui ci parlava Pallina; rivedrà le sue vittime, il terrore s' impadronirà nuovamente di lui, lo perseguiterà senza tregua, nè posa, finchè non l' abbia ucciso.

Raul ascoltava con aria cupa, abbattuta e voleva rispondere, quando fu bussato all' uscio.

— Avanti — disse il principe.

Entrò un domestico, avvertendo che un signore chiedeva di lui.

— Mi ha detto che ella l' attende — aggiunse.

Cars scambiò un' occhiata col conte.

— Va bene… ora vengo — disse.

E mentre il domestico si ritirava:

— E il delegato che feci avvertire — aggiunse — giustizia sta per essere fatta. A voi Raul raccomando la calma, non vi mostrate prima che io faccia il segno convenuto. Il ritratto è a posto?

— Sì.

— Andiamo adunque, sono impaziente di finirla.

Mezz' ora dopo, il principe si trovava in una stanza dalle tappezzerie severe, seduto presso una tavola imbandita, su cui vi erano delle vivande fredde, dei dolci e diverse bottiglie di vino e liquori.

Sebbene fosse ancor giorno chiaro, le imposte della finestra erano state ermeticamente chiuse e nella stanza ardevano diverse candele di cera, in candelabri d' argento.

Il principe battè sopra un campanello elettrico e quasi tosto una porta si aprì, mostrando Michele condotto da un domestico.

— Avanti, avanti — gridò Cars — non mi fate attendere.

Michele restava come sbigottito sulla soglia, senza fare un passo, senza proferire un accento.

Egli era vestito d' abiti più decenti, ma che non bastavano a rendere il suo aspetto migliore.

Il domestico gli aveva chiuso l' uscio alle spalle, senza che il miserabile se ne accorgesse.

Cars rideva.

— Si direbbe quasi che hai paura di me — aggiunse — Eppure mi sembra di averti trattato bene: orsù, accostati.

Michele lo fece con esitanza e imbarazzo.

Egli non si era ancora chiesto in qual modo il principe avesse potuto sapere della sua prigionia e per qual motivo l' avesse richiesto presso di sè: si trovava stordito, come se avesse già trangugiati parecchi bicchierini di cognac.

— Siedi lì, non far complimenti — disse il principe additandogli una sedia vicino alla sua — ho voglia di discorrere un po' con te.

Il viso di Michele espresse dapprima un' ingenua sorpresa, poi una gioia quasi fanciullesca.

— Me lo permettete? — balbettò.

— Certamente, e perchè le tue idee si rischiarino, tieni, bevi.

Gli versò, da una boccia di cristallo, un colmo bicchiere di un liquore aureo, che esalava un aroma delizioso.

La vista di quella bevanda esaltò siffattamente Michele, che una vampa di sangue gli colorì i pomelli del viso, i suoi occhi s' ingrandirono smisuratamente, le sue mani si allungarono avide.

— Buono, delizioso — mormorò, con aria di beatitudine.

— Bevine a tua possa, intanto che risponderai alle mie domande.

Michele avanzò subito la mano per versarsi un altro bicchiere e, come il principe aveva previsto, si mostrò tosto più espansivo.

— Ah! se tutti fossero generosi come voi — mormorò — nessuno più soffrirebbe nel mondo.

— Lo credi tu? — esclamò Cars con ironia — Eppure la generosità è quella che partorisce l' ingratitudine ed il male.

Poi, cambiando discorso:

— Ma, dimmi, come ti trovi ridotto in così misero stato — aggiunse — mentre io ti conobbi in florida posizione, fiero, orgoglioso? Forse l' aver seguìta quella donna, di cui ricordo a mala pena il nome, ti portò sventura?

Michele manifestò una specie di terrore: dopo aver rivolta una bieca occhiata all' intorno:

— Sì, fu per lei, per lei — proruppe — Ah! principe, perchè vi abbandonai quando partiste da Torino?

Poi interrompendosi bruscamente:

— Ma già, che vale ricordare il passato? — disse — Ormai non si rimedia più a nulla.

— È vero, i morti non possono ritornare — proferì con tono solenne Cars.

Michele, che aveva il bicchiere in mano, lo lasciò cadere sulla tavola: i suoi occhi divennero stralunati, i capelli irti.

— Che ti prende adesso? — chiese con calma il principe.

Un' orribile smorfia scompose il viso di Michele.

— Nulla, nulla — rispose.

— Una volta mi giunsero notizie di te — riprese il principe, offrendo a Michele da mangiare.

Il miserabile rifiutò.

— Non ho fame — disse — ma sete: la gola è sempre secca.

— Ebbene, bevi, ripeto, non te lo proibisco; e, dimmi, se non isbaglio mi parve tu fossi coinvolto in un processo di furto e d' assassinio, ed essendoti finto pazzo, fosti rinchiuso in un manicomio, dal quale fuggisti.

— Non ero io, non ero io! — esclamò Michele gettando convulsamente indietro la testa ed il corpo, tanto che poco mancò rotolasse a terra.

Il principe non parve darsi pensiero di quel gesto di spavento.

— Perchè negare con me? Qui nessuno ci ascolta, e dopo quanto feci per te, credo di essere in diritto di avere le tue confidenze… Eri dunque tu?

— Sì, sì, ma per pietà, impedite che si sappia, perchè mi ripiglierebbero — disse supplichevole Michele.

— Non dicesti allora che eri innocente di quell' assassinio?

— Sì, e vi giuro che non mentivo.

— Ebbene, di che temi, se non hai altro sulla coscienza? Ma tu abbassi il capo: hai commesso qualche cosa di più grave?

Uno strano dubbio cominciava ad investire l' animo di Michele, che parve voler interrogare con lo sguardo smarrito il volto del principe.

Ma nelle sembianze di questi, nulla vi era da incutere terrore, nè confermare i suoi sospetti.

Tuttavia balbettò agitato:

— No, non ho fatto nulla… nulla.

— Via, bevi ancora per rinfrescarti la memoria e parlare con più franchezza.

Michele non rifiutò: i bicchieri andavano vuotandosi, ma il miserabile pareva chiudersi nel maggior riserbo.

— Non ti sembra di essere stato uno scellerato di primo rango? — chiese all' improvviso il principe.

Michele si agitò sulla seggiola.

— No, no — disse ancora con un sorriso sforzato.

— Senti: la tua stessa ostinazione nel negare, mi prova che non dici la verità; vuoi che io stesso enumeri i tuoi delitti?

Michele lasciò sfuggire una sorda esclamazione.

— Non fu forse per te che l' infelice figlia della contessa Edvald lottò, sofferse tanto? Non sei tu che la perseguitasti senza posa, costringendola ad invocare la morte, piuttosto che divenire tua vittima?

— Io l' amavo! — gridò Michele con accento impossibile ad esprimersi e subitanea esaltazione.

— Non pronunciare la parola amore, che sulle tue labbra è una bestemmia — disse con tono imponente il principe. — Tu la desiderasti, come già avevi fatto di sua madre, e, vedutala sfuggire, ti scagliasti su tutti gl' innocenti che, a parer tuo, te l' avevano tolta di mano. Così inveisti contro Umberto Clementi, e soprattutto contro sua sorella.

Michele era atterrito; il suo sguardo evitava d' incontrarsi con quello del principe.

Questi si alzò e battendogli una mano sulla spalla:

— Nega — disse con la voce solenne di un giudice — di avere con abilità infernale falsificata la scrittura di Miranda Clementi, vergando una lettera infame, che indirizzata al marito, conte Raul Adalberti, segnò la condanna di morte della sventurata, e fece apparir me come il più vile degli uomini?

Michele a quelle parole, sotto la pressione della mano del principe, fu assalito da uno spavento indicibile, che rese convulsi i suoi scomposti lineamenti.

— Grazia… grazia — gridò, con voce anelante — fu in un momento di rabbia, di follìa, che scrissi quella lettera, ma non credevo dovesse produrre un assassinio… no… ve lo giuro, e me ne pentii tanto… e da quel momento non ebbi più pace… grazia… pietà!

— Guarda a chi tu devi chiederla — esclamò il principe battendo insieme le mani.

Michele, cogli occhi schizzanti dalle orbite, si volse dalla parte che Cars gli additava ed un grido terribile gli uscì dalla strozza.

Nel vano di una porta, immobile, con le braccia incrociate, dardeggiando su lui degli sguardi infocati, stava il conte Raul Adalberti.

Vicino, framezzo ai panneggiamenti della tappezzeria, appariva la testa della contessa Miranda.

Il terrore inaudito, l' angoscia spaventevole da cui fu colto Michele a quelle apparizioni, lo fecero balzare fino dall' altra parte della stanza.

Allora si accorse che il principe era scomparso ed egli si trovava solo con quei due fantasmi, chè tali li credeva.

Fuori di sè, mandò un secondo grido.

— Aiuto… grazia… pietà!…

Raul Adalberti si avanzò verso il colpevole col braccio disteso.

— Non vi è grazia, pietà per te — disse con una voce che parve uscire da un sepolcro — per te che armasti la mia mano contro un' innocente. Per dieci anni espiai il mio delitto, ho passato le notti a piangere, a maledire, ad imprecare, mentre tu assassino, eri libero, e andavi tronfio della tua vendetta.

— Oh! mi pento — gemette con una specie di rantolo Michele — mi pento!

Un feroce sogghigno gli rispose.

— Il tuo pentimento non farà rivivere le tue vittime… e l' ora della punizione è suonata; non ti ucciderò, ma d' ora in avanti chiuso nella solitudine di una cella, che più non si aprirà per te, vedrai ogni giorno, ogni ora al tuo fianco gli spettri di coloro che dannasti a morte, e ti rinfacceranno i tuoi delitti, ti apporteranno il terrore, la disperazione, la morte!…

Michele, nel suo vertiginoso terrore, volse all' intorno uno sguardo disperato, come se cercasse una via di scampo.

Ma dinanzi a lui eravi fermo, inflessibile il conte Raul: più lungi, addossata alla parete, la contessa Miranda, che sembrava condannarlo con lo sguardo immobile e triste.

Ed il miserabile non tentò neppure un passo, ma caduto sulle ginocchia:

— Aiuto — balbettò — aiuto… uccidetemi!

Raul si avanzò ancor più presso di lui, sogghignando.

All' idea che quell' uomo, che nella sua tremenda esaltazione Michele riteneva per uno spettro, dovesse toccarlo, provò una sensazione così violenta, che la parola non varrà mai a descriverla.

Una smorfia orribile gli scompose interamente il viso, il suo corpo si scontorse in spaventevole guisa, poi rimase immobile, come irrigidito al suolo.

Il conte si chinò sul miserabile, credendolo morto.

— Ha sofferto poco — mormorò.

Gli pose con un brivido la mano sul cuore e si accorse che batteva ancora.

Allora respinse quel corpo col piede, ed avvicinatosi alla tavola, suonò il campanello elettrico.

Nella stanza ricomparve il principe, seguìto da un delegato in abito nero e due guardie in borghese.

— Potete portarlo via — disse Raul — che non opporrà alcuna resistenza.

Le guardie si affrettarono ad ubbidire.

— Vi ringrazio — esclamò il delegato a Cars e a Raul — d' averci dato nelle mani un così pericoloso delinquente. Se altro non vi abbisogna da me, signori, mi ritiro.

Il principe assentì col capo. Rimasto solo col conte, questi fece l' atto d' inginocchiarsi dinanzi all' amico.

Ma Cars fu pronto a rialzarlo, e stringerlo fra le sue braccia.

Raul proruppe in dirotto pianto.

— Oh! come soffro, come soffro! — balbettò — La punizione di quei miserabili non vale a far tacere i miei rimorsi, i miei disperati rimpianti!

— Coraggio, coraggio, amico mio, guardate come Miranda sembra sorridervi, dirvi: “ Ti perdono, pensa a nostra figlia ” — esclamò Cars, additando il ritratto della contessa.

Raul continuava a piangere.

Il principe lo strinse in un mesto e lungo amplesso.

— Coraggio — ripetè — il nostro còmpito non è finito. Se Michele meritava una condanna, vorreste risparmiare la contessa Edvald, la prima istigatrice, la cagione di tutto?

Il conte si scosse, si sollevò.

— Avete ragione — disse tornando freddo, severo in volto — l' avevo dimenticata. Livia è indegna di compassione, di perdono…

Il risveglio, dopo una notte d' orgia, è sempre confuso. La mente non può subito rendersi conto di ciò che è successo, il corpo rimane ancora languido, inerte…

Così accadde a Livia al primo aprire gli occhi, dopo il lungo sonno procuratole dall' ubbriachezza.

Un brivido di freddo le correva per le spalle ed il petto seminudo, ma non si sentiva la forza di muoversi dalla sua posizione.

I suoi occhi vagavano come istupiditi attorno al salotto e allo scorgere la tavola sempre imbandita, i bicchieri rovesciati, si ricordò di quanto era accaduto.

Allora si rialzò come galvanizzata sul divano, chiamando ad alta voce:

— Pallina!

Nessuno rispose. La contessa fu assalita da viva inquietudine. Adesso che l' ebbrezza non pesava più sul suo cervello, ricordava benissimo d' aver veduta la giovane entrare nella stanza, parlare a Raul ed uscire insieme.

Che voleva dir ciò?

Ella cercava raccogliere i suoi pensieri e ad un tratto fremette per tutto il corpo.

Vedeva il conte col viso spaventevolmente alterato, stringerla ferocemente alla gola per obbligarla a confessare una colpa che non aveva commessa.

Quella di aver falsificata la scrittura di Miranda, vergata una lettera, che aveva prodotto l' assassinio della giovane donna.

— Perchè tanto interesse per quella Miranda, di cui io ignoravo la sorte? — mormorò Livia.

Un' idea tremenda l' assalì, le fece gettare un grido.

— Se egli fosse?… Ma no non è possibile; perchè il marito di Miranda sarebbe venuto in cerca di me?

La contessa passò nella sua camera in preda ad un'orribile perplessità: nel suo cuore si combatteva un' aspra tenzone.

Ora voleva persuadersi che s' ingannasse sul conto di Raul, che questi l' amava pazzamente; ora il dubbio ritornava tremendo ed il nome del conte Adalberti le bruciava le labbra.

Poi, con una subitanea reazione, il suo spavento si convertì in rabbia contro Michele e contro Pallina.

— Oh! i furfanti — esclamò — Michele, lo scommetterei, è l' autore di quella lettera, è lui che ha fatto il colpo e me l'ha sempre nascosto; Pallina, per la gelosia di vedersi posposta a me, avrà inventato qualche calunnia a mio riguardo, ed io dovrò starmene tranquilla? Ah! la vedremo.

Superando lo scoraggiamento, suonò con furia il campanello.

Apparve un domestico, che, inchinandosi, simulò abilmente il ribrezzo destatogli dal viso di Livia, che in quell' ora del giorno, senza gli artifizî della toeletta, era ripugnante a vedersi.

Sulle guancie erano macchie livide; rughe profonde aveva alle tempie ed agli angoli della bocca, gli occhi si mostravano affossati.

— Dov' è la mia cameriera? — chiese con voce sibilante.

— Non l' abbiamo veduta stamani.

— Va bene, mi sia preparata la colazione, poi tenete pronta la mia carrozza.

Mentre il domestico si ritirava, mormorò fra i denti:

— Dove ha dunque passata la notte, quella maledetta? Voglio assicurarmi.

Andò nella camera di Pallina. Il letto era intatto, nulla era stato mosso dal posto.

— Dovrà ben ritornare la trista — brontolò Livia — ed allora l' avrà da fare con me.

Si cambiò d' abito, rimediò al disordine della sua acconciatura, ma non potè cancellare l' espressione cupa, minacciosa del volto. Mangiò poco e quando salì in vettura, ebbe un' idea:

— Se mi recassi dal principe?

Era una somma audacia da parte sua.

Ma la contessa non pensava alla sua abbietta posizione e si credeva ancora possente come una volta.

Ma al palazzo di Cars le dissero che il principe non c' era: chiese con un battito di cuore del suo segretario, e le risposero che era pure assente. Tornò a casa sconvolta, febbricitante. Pallina non si era veduta.

Come parve lungo il giorno a Livia! E quando scese la notte, la cortigiana sperò di veder Raul, e fece preparare la cena e indossò un abito nuovo, provocantissimo.

Ma il conte non si fece vivo.

Dire lo strazio e l' ira a cui si trovò in preda la contessa Edvald, sarebbe impossibile.

Pareva un' insensata: non voleva persuadersi che quanto le accadeva era la realtà; certamente sognava.

Se Raul l' abbandonava, ella sarebbe ricaduta nella miseria, nel fango! Eppoi ella l' amava quell' uomo, che si era presentato a lei sotto un' apparenza cosi misteriosa.

Che importava fosse stato il marito di Miranda! Ora egli sapeva la sua innocenza in quell' assassinio e non aveva più motivo di vendicarsi su lei.

Ah! quello era proprio l' uomo da cui avrebbe voluto essere amata. Quale fierezza ed energia! Ad un semplice sospetto aveva colpito senza scrupoli, senza esitare, si era reso assassino.

Livia diveniva gelosa di Miranda morta, come l' aveva odiata da viva.

Ella si gettò spossata sul letto, ma non potè dormire ed ora mordeva rabbiosamente i guanciali, ora vi nascondeva la faccia sconvolta, paurosa.

Tre giorni trascorsero senza che nulla sapesse di Pallina e di Raul, senza poter vedere il principe Cars.

E non aveva più denari e ritardava a vendere qualche oggetto per procurarsene.

Ormai trascurava anche di dipingersi; il volto era livido, avvizzito; un cerchio profondo andava formandosi sotto i suoi occhi, dallo sguardo cupo, minaccioso.

La mattina del quarto giorno, sentì una forte scampanellata, che la fece balzare vivamento.

Stava vestendosi per uscire e già aveva messi i guanti ed il cappello.

Entrò un domestico avvertendola che un signore chiedeva di lei.

Livia provò una strana palpitazione.

— Ti ha detto il suo nome? — chiese.

— Mi disse semplicemente, che era il padrone di casa.

La contessa fece un movimento di stupore, ma rimettendosi tosto:

— Introducilo in salotto — disse — ti seguo.

Vi si diresse infatti subito. Il padrone di casa l' attendeva in piedi, presso il caminetto. Era un uomo di mezza età, dal viso assai burbero.

— Vengo a sentire, signora — disse senza preamboli, salutando appena — quando fate conto di lasciare l' appartamento.

Livia fece uno sforzo violento per conservare il suo sangue freddo.

— Lasciarlo? Perchè?

— Da tre giorni non ricevo più l' affitto giornaliero, che mi mandavate da una persona di vostra fiducia per l' uso dell' appartamento, dei mobili, e della carrozza.

Livia era divenuta spaventosamente pallida.

— Ma tutto ciò non è stato acquistato, pagato dal segretario del principe Cars? — disse a stento, arrossendo.

— Non so che vogliate dire, signora. La settimana scorsa venne da me un uomo con un vostro biglietto di visita: eccolo….

Lo tolse da un gonfio portafoglio, lo presentò alla cortigiana. Era un elegante cartoncino con sopravi litografato il suo nome, sormontato da una corona di contessa.

— Non è vostro? — chiese il padrone di casa, sedendo senza complimenti su di una poltrona.

— Sì, è mio, ma non ricordo di averlo consegnato ad alcuno.

Quell' uomo si strinse nelle spalle.

— Non so nulla io — borbottò — Il fatto sta che colui mi disse, a vostro nome, che dovendo fermarvi per pochi giorni a Tornio, desideravate un quartiere intieramente montato, che nulla vi mancasse, compresa la carrozza ed il servizio, che avreste pagato giorno per giorno, ed intanto mi lasciavate una grossa caparra. Mi affrettai a compiacervi, voi non vi siete mai lamentata; ma siccome, ripeto, da tre giorni non sapevo più nulla, venni qui, credendovi già partita; anzi ho già affittato tutto ad un' altra signora, che verrà a prenderne possesso questa sera stessa.

A Livia pareva di fare un orribile sogno. Avrebbe voluto rispondere e sentiva una mano di ferro stringerla alla gola: le idee si succedevano nel suo cervello a sbalzi, con una vicenda vertiginosa.

— Sicchè mi scacciate? — pronunziò appena, con sforzo, fra i denti.

— Non dite così, signora, mi sembra di avere usata con voi la massima cortesia, ma ognuno deve pensare al proprio interesse.

Livia ebbe un lampo d' alterezza; non volle mostrare a quello sconosciuto il suo orribile dolore, la sua spaventevole delusione.

— Sta bene — disse fremendo — stasera l' appartamento sarà libero.

Rimasta sola, la rabbia le si accese più violenta nel sangue, la fece prorompere in bestemmie oscene, ritornare terribile come nei suoi più tristi giorni.

Così si rìtrovava di nuovo nel mezzo di una strada, senza risorse, amici, conoscenti, senza poter fare assegnamento su alcuno, sola, obliata…

Ella sentì come un brivido di freddo per le spalle.

Doveva accettare rassegnata la sua sorte, non rivoltarsi contro quell' uomo che l' aveva giuocata, contro Pallina che doveva essere stata la complice di lui?

No, ella non era donna di farlo. E bisognava prendere tosto una risoluzione: le ore si succedevano con una rapidità vertiginosa.

Decise di vedere ad ogni costo il principe e stava per uscire, quando fu avvertita che altre persone l' attendevano.

Erano il gioiellere, la sarta, la modista, tutta gente che diceva aver avuto un acconto da lei, mostravano il suo biglietto di visita, chiedevano di essere saldati del resto.

Livia divenne una furia, tanto che i suoi creditori ebbero paura di lei, vedendole il viso infiammato, stravolto, gli occhi luccicanti sinistramente.

— Pagherò tutti prima di sera — disse quasi urlando — ma adesso lasciatemi andare: vorreste forse ritenermi a forza, spogliarmi?

Non osarono contenderle il passo, ma nel mentre che usciva le gridarono dietro che, se non avesse pagato, si sarebbero rivolti a chi di ragione.

Livia non li sentì neppure: aveva un ronzìo doloroso nelle orecchie, la testa le vacillava, come se ancora fosse stata in preda ai vapori dell' ubbriachezza.

Salì nella prima vettura vuota che incontrò e si fece condurre al palazzo di Cars. Che sperava dal principe? Non avrebbe saputo dirlo. Andava trascinata da una volontà più forte della sua, ma a misura che si avvicinava, si sentiva invasa da una tetra paura.

Se Cars non la riceveva, a chi rivolgersi? Alla Questura? Ma se avesse raccontato quanto le succedeva, le avrebbero riso sul viso, senza contare che a lei sarebbe toccata la peggio.

Si sentì un tuffo nel sangue, tremò a tale idea. Intanto la vettura si era fermata.

Livia discese a stento: tutta la sua arditezza era scomparsa.

Si mostrava curva, debole come una vecchia, e fu con voce alterata, che chiese al guardaportone se il principe si trovava al palazzo.

— Sì — rispose quell' uomo, squadrandola dal capo alle piante — che volete?

— Vorrei parlargli.

— A quest' ora non riceve.

— Se provaste a fargli passare il mio biglietto — disse timidamente Livia, porgendogli il cartoncino stesso che le aveva lasciato il padrone di casa.

Il guardaportone vi gettò un' occhiata, poi rispose con minor sussiego:

— Attendete un momento: manderò a sentire.

Si avvicinò allo scalone, passò il biglietto ad un domestico in livrea a questi s' affrettò a salire.

Livia attendeva con uno spaventoso battito di cuore. Avrebbe voluto fare qualche domanda al guardaportone, ma le parole le rimanevano affogate nella strozza, mentre l' altro, senza neppur più guardarla, passeggiava imperturbabile su e giù del vestibolo.

Passò un quarto d' ora di ansietà tremenda, di crudele aspettativa.

Finalmente il domestico comparve al sommo dello scalone, dicendo a voce alta:

— Venite.

Ella salì con passo rapido, pur compresa da una profonda emozione.

Le furono fatte attraversare parecchie sale, sfarzosamente addobbate, in cui regnava un ambiente caldo, profumato, che solleticava i sensi, metteva un conforto nell' anima.

Livia si sentiva rinvigorire lo spirito, quando il domestico, alzando una portiera di velluto cremisi, le disse:

— Passate.

Ella aveva ricuperata tutta la sua franchezza.

Però non ebbe la durata di un lampo.

Appena attraversata la soglia dello splendido salotto, in cui veniva introdotta, un copioso sudore le corse sulla fronte, le ginocchia le si piegarono.

In quella stanza, sfarzosamente illuminata, colle pareti a specchi, in ciascuno dei quali pareva di vedersi ai fianchi la contessa Miranda, il cui ritratto era stato posto vicino all' uscio per cui entrò la cortigiana, stavano seduti presso ad un tavolo, severi, due uomini: il principe Cars e il conte Raul Adalberti.

— Che volete da me? — chiese il principe freddamente.

Livia pareva diventata di marmo e non ardiva alzare gli occhi, tanto era il suo spavento per la figura che si vedeva vicina.

Eppure la contessa era scettica. Non credeva ai morti vendicatori, alle loro apparizioni.

Ma in quel momento era in uno stato d' animo da temere di tutto.

Il principe rinnovò la domanda, aggiungendo:

— Sbrigatevi, non abbiamo tempo da perdere con voi: dobbiamo partire.

Queste parole la ritornarono in sè: il suo volto era sempre livido, ma gli occhi accesi mostravano il fuoco dell' anima.

— Ho chiesto di voi — esclamò con voce rauca — ma non era già voi che cercavo, bensì quell' uomo — aggiunse additando Raul — per chiedergli conto dei suoi inganni, del crudele scherzo che mi ha fatto.

— Non vi comprendo, signora — disse alteramente il conte, senza che alcun sorriso passasse sul di lui viso tetro e scarno.

Ella scattò crucciosa e fiera:

— Ah! non mi comprendete! Mi spiegherò meglio… o, per meglio dire, vi strapperò la maschera che vi copre il volto, giacchè adesso comprendo che il sospetto, che già si era fatto strada nella mia anima, è la verità. Voi non siete il segretario del principe, l' uomo di lui geloso perchè innamorato di me, ma l' assassino conte Raul Adalberti, che con raggiri ed inganni ha cercato di strapparmi il segreto di una colpa, che io non avevo commessa, che affatto ignoravo.

Raul rimase impassibile.

— Avete indovinato, signora — disse senza scuotersi — e mi sembra avreste dovuto capir subito che un uomo mio pari non poteva innamorarsi di una donna vecchia e sozza al pari di voi, e mi avreste così risparmiata una ripugnante commedia che, se Dio volle, ebbe termine,

— Ah! la prendete così — gridò Livia con voce strozzata dalla rabbia — E credete me ne contenti?

Raul le troncò a mezzo le parole.

— Tacete, miserabile — disse — e ringraziate che il principe si trova qui presente, del resto vi farei pagar cara la vostra sfrontatezza. È già troppo che vi abbiamo risparmiata, perchè, se voi non avete scritta la lettera infame, di cui ricercavo l' autore, siete però la prima, la sola cagione della morte di quella povera vittima. E ardite alzare la voce in sua presenza?…

Additava, così dicendo, la figura soave di Miranda, e la voce gli si fece commossa.

Allora fu il principe che prese la parola.

— E non è solo quella povera martire che grida vendetta contro di voi — esclamò — ma ricordatevi, Livia, di vostra figlia della quale non aveste pietà, di vostro marito, di tutti quelli che avete perseguitati, feriti nell' anima, cacciati in una tomba… Voi meritereste la morte, ma invece vi lascieremo vivere, perchè la vita sarà d' ora innanzi per voi un' espiazione, senza l' eco di una parola compassionevole, senza un affetto, un conforto che vi aiuti a soffrire; voi raccoglierete quello che avete seminato: il disprezzo, la noncuranza, l' oblìo.

Livia aveva ascoltate dapprima quasi con calma quelle parole lente, severe, che piombavano su di lei come la sentenza di un giudice tremendo, inesorabile; ma poi a poco a poco, sembrò ritrovare una specie di energia febbrile, e le ingiurie proruppero con veemenza, atroci, dalle sue labbra.

Il principe, senza nulla perdere della sua freddezza d' animo, suonò un campanello.

Apparvero due domestici.

— Quella furia sia gettata alla porta — disse additando Livia in preda alle più pazze smanie — e se resiste o si rivolta, siano chiamate le guardie: venite, Raul.

Livia, vedendoli uscire dal salotto, lenti, impassibili, fece l' atto di scagliars da quella parte.

Ma pronti i domestici l' atterrarono, la resero impotente, la trascinarono fuori.

Ella si dibatteva, urlava con quanto fiato aveva in corpo.

Dinanzi al palazzo si era formato un attruppamento di persone, che chiedevano il motivo di quelle grida.

E presto si diffuse la voce che si trattava di una donna, conosciuta per la sua pessima vita, che infuriata perchè il principe le aveva negato del denaro, si era rivolta contro il generoso benefattore dei poveri, l' aveva insultato.

Sicchè quando Livia apparve dibattendosi in mezzo ai servi, che la tenevano salda, fu accolta a suono di fischi, di alte imprecazioni.

La contessa Edvald, vedendosi esposta alla derisione della folla, rimase per un secondo come fulminata, ma riscuotendosi quasi tosto, strinse in atto di furore le mani come per minacciare quella gente che si rideva di lei.

Le fu risposto con un gran frastuono di sghignazzate.

Una vampa di fuoco le montò al capo, strinse i denti, aggrottò le sopracciglia ed essendo dai servi lasciata libera, si cacciò con atto violento, repentino contro quella folla che le sbarrava il passo, e fu tanta la furia di quell' atto, che due donne e diversi fanciulli furono rovesciati a terra.

Allora approfittando di quel momentaneo scompiglio ed anche aiutata da alcuni tipi di canaglia, che avevano in lei riconosciuta la famosa madama Flora, Livia potè aprirsi una via tra la calca, ricoverarsi in un andito buio di una casa vicina, dove ristette accovacciata, stringendosi le tempia con ambe le mani.

Non aveva paura delle grida di minaccia che sentiva ancora rimbombare nella via, non le udiva nemmeno.

Pensava solo all' avvenuto e più che mai diveniva furente.

— Ah! se il demonio mi offrisse i mezzi per vendicarmi — mormorò.

Le visioni si succedevano nel suo spirito con una rapidità vertiginosa, e tutto il suo corpo tremava come pel ribrezzo della febbre.

Poi sentì il bisogno di prendere aria: dovette fare uno sforzo enorme per alzarsi, sostenersi sulle gambe.

Tutto era buio, silenzioso, attorno a lei.

Si orizzontò con gran fatica e tremando, abbrividendo, giunse sulla strada.

Non si vedeva più alcuno: la notte era al colmo ed oscura.

Livia ebbe un respiro quasi di sollievo.

Passando accosto al palazzo del principe, ne vide il portone chiuso e vi battè col pugno sopra, proferendo un' imprecazione.

Quindi riprese il suo cammino, appoggiandosi ai muri, trascinandosi come se fosse ubbriaca.

Aveva le vesti in disordine, i capelli scarmigliati le piovevano sulla faccia livida, contratta.

Dove andava? Voleva ritornare al suo appartamento a prendere i pochi effetti che le rimanevano.

Poi?… Oh! non le sarebbe mancato un ricovero in qualche casaccia di mala fama, dove avrebbe meditata un' atroce vendetta contro il principe Cars, e Raul Adalberti.

Questi pensieri infernali le resero un po' di energia.

Man mano che si avvicinava alla sua abitazione, si sentiva sempre più in forze.

Alzando gli occhi alle finestre, fu sorpresa di vedere tutte le stanze illuminate.

— Che vuol dir ciò? — pensava Livia — Si crede forse che io non torni più? Si fa baldoria là dentro o mi aspettano i miei creditori?

Un angoscioso sudore le bagnò la fronte.

Salì con impeto le scale e suonò con violenza il campanello.

Un domestico, che ella non aveva mai veduto, aprì.

— Che desidera la signora? — chiese gentilmente.

Livia si sentì stretta alla gola.

— Entrare in casa mia — rispose con voce soffocata.

— Non comprendo: la signora deve ingannarsi.

Livia si morse rabbiosamente le labbra.

— Vi dico che qui ho la mia roba, entrerò — disse spingendo da un lato il domestico, ed attraversata come una freccia l' anticamera, aprì l' uscio del salotto.

Ella credette d' impazzire ad un tratto.

In quella stanza sfarzosamente illuminata, stava Pallina vestita di ricchi abiti, circondata da giovinotti, che ridevano, scherzavano allegramente.

Ma alla vista di quella sinistra figura apparsa sulla soglia del salotto, le risa si spensero, e tutti la guardarono fra curiosi, sprezzanti.

— Che volete voi qui? — le chiese con freddezza Pallina, squadrando la disgraziata dal capo alle piante.

Livia aveva la schiuma alle labbra.

— Ah! ribalda, ah! infame, dopo avermi tradita, mi derubi ancora e m' insulti, me la pagherai per tutti.

Era per avventarsi su di lei.

Pallina gettò un grido.

— Tenetela, è una pazza, aiuto, le guardie!

I giovanotti avevano cercato fermar Livia, ma questa si liberò da loro vomitando le contumelie più turpi, spezzando quanto le captiava fra mano, cercando raggiungere Pallina, che mandava grida disperate.

Era un baccano d'inferno, un casa del diavolo. Gli uomini facevano sforzi sovrumani per ritenere quell' ossessa, che inferocita ancor più, giunta ormai al parossismo del furore, strappava i loro abiti, li mordeva alle mani, alle braccia.

Ed era riuscita ad afferrare Pallina, a rovesciarla sotto di sè.

La disgraziata cacciò un grido orribile d' ambascia.

In quel momento irruppero nella stanza quattro o cinque guardie, che s' impadronirono della forsennata, la misero in grado di non più muoversi.

Pallina si sollevò col viso grondante sangue, ma salva.

Livia emise un ruggito di belva feroce, che si sente stretta nei lacci, e dopo essersi dibattuta in frenetiche convulsioni, stralunò gli occhi, si stese, rimase immobile.

Ma non era morta. Dio la risparmiava ancora per sua punizione!

Maria Adalberti aveva passata una cattivissima notte, l' ultima sua notte da fanciulla. Eppure quando si era coricata, il sorriso aleggiava sulle sue labbra, negli occhi le splendeva la gioia.

Ma poi vennero dei sogni penosi, delle strane allucinazioni che le interruppero più volte di soprassalto il sonno, la resero inquieta e triste, le parvero di cattivo augurio per le nozze che dovevano aver luogo l' indomani.

Pianse a lungo, pensò alla sua povera mamma assassinata, rivide le scene a cui era stata presente bambina, ed ella, alcune ore prima così lieta, sentiva nel cuore la profonda mestizia di quei ricordi.

L' alba la trovò colla bella testolina appoggiata al candido braccio, gli occhi aperti, rivolti in alto, come rapiti in tristi, silenziose fantasie.

Non si accorse neppure che l' uscio si apriva ed un uomo entrava guardingo nella camera.

Era il conte Raul. Dopo il suo ritorno, una specie di calma pareva essere succeduta in lui agli appassionati trasporti di dolore, di rimorsi. Ma quella calma non era che apparente: in fondo alla sua anima succedeva qualche cosa di spaventoso, che rovinava a poco a poco la sua salute, impediva che il sangue circolasse liberamente nelle sue vene, lo faceva cadere spesso in una triste e taciturna immobilità.

Nel suo sguardo offuscato, vagante, non scorgevasi più che un resto di vita: il conte non era più che l' ombra di sè stesso.

Il conte Leo ed il principe Cars atterriti a quel rapido deperimento, cercarono scandagliarne la causa e spesso chiedevano a Raul come si sentisse.

Egli sorrideva mestamente.

— Ma… benissimo, perchè?

— Ci sembri pallido.

— Lo sono sempre stato.

— Ti trovi debole?

— Tutt' altro: non ho mai avuto più forza.

Insistè perchè il matrimonio di Maria e Vittorio, ormai combinato, si compisse presto.

— Aspettiamo che tu sia ristabilito, papà — disse la soave fanciulla con toccante dolcezza.

— Ma io non sono ammalato, Maria, e non voglio ritardare più oltre il compimento del desiderio che hai in cuore.

Ella arrossì tutta vergognosa e tremante.

In quella mattina, Raul entrando nella camera della figlia, si fermò un istante sulla soglia a contemplarla.

Una commozione straordinaria pareva agitarlo.

Perchè quei sospiri profondi di Maria?

Perchè quei soffocati singhiozzi? Poteva il dolore avere ancora un' eco in quel cuore, all' alba della sua felicità?

— Maria, Maria, non sei forse contenta? — esclamò il povero padre, accostandosi al letto e chinandosi a baciarla.

Ella gettò un leggiero grido e nascondendo il viso sul petto di lui:

— Ho sognata la mamma! — mormorò.

Raul restò muto, interdetto: un livido pallore si diffuse sul suo volto, e fu colto da un tremito nervoso così forte, che Maria lo sentì.

E volgendo su di lui gli occhi abbattuti, ma sereni:

— La mamma che mi benediva — aggiunse a bassa voce — e tendeva la mano a te!

Il conte baciò in fronte Maria, lasciandovi cadere una lacrima.

— Credi che mi abbia perdonato? — disse con un sorriso straziante.

— Troppo hai sofferto per non meritarlo — rispose con islancio la fanciulla — Ed io non ne dubbito neppure.

— E tu, figlia mai?

Ella non lo lasciò finire: gli gettò le braccia al collo e con un accento che partiva dall' anima:

— Io ti amo! — esclamò.

Il conte si strinse convulsivamente al petto la figlia, e i suoi occhi, malgrado fossero pieni di lacrime, mandarono un lampo di fugace letizia, come raggio di sole attraverso la pioggia.

E per tutto quel giorno, il conte Raul fu visto sorridere.

Ma il principe Cars che l' esaminava attentamente, senza parere, crollava di quando in quando il capo, mormorando:

— Ohimè! temo che quell' allegria gli ripiombi sul cuore.

Il matrimonio di Vittorio e Maria, ebbe luogo alla presenza di pochi amici ed invitati.

Dopo un pranzo di famiglia, i due giovani sposi, accompagnati dal principe Cars, dovevano partire per la Svizzera.

Straziante fu il distacco di Maria da suo padre. Eppure seguiva un marito che amava. Ma al momento di partire, provava un' angoscia strana, indefinita.

— Vieni con me — disse al conte — la mia felicità così sarà completa.

— Ti raggiungerò presto, te lo prometto — rispose Raul — ma adesso non lo potrei. Mi restano alcuni affari da sistemare; eppoi, vedi, nulla vi è di più dolce per due sposi, nella loro luna di miele, che la piena libertà.

E sorrideva il povero padre, mentre le labbra gli tremavano convulse.

— Tu sei cattivo, non mi vuoi bene — aggiunse con una soave smorfietta Maria.

Il conte la serrò al petto con forza.

— Cara, cara figlia — esclamò — tu non lo pensi, è vero?

Poi abbracciando Vittorio, gli sussurrò debolmente:

— Amala molto, rendila felice, è la mia ultima preghiera.

— E potete star certo che sarà esaudita — rispose il giovane, profondamente commosso.

Quando la carrozza che portava gli sposi ed il principe si fu allontanata, quando l' ultimo invitato fu partito, Raul si rivolse al conte Leo, che silenziosamente piangeva:

— Stasera parto per Torino — gli disse.

Il vecchio sussultò.

— Mi lasci solo? — chiese con accento soffocato.

— Per pochi giorni, zio: ho deciso disfarmi di tutto ciò che potrebbe ridestare un giorno delle dolorose memorie a mia figlia, poi mi ritirerò qui.

— Vuoi che ti accompagni?

— Grazie: desidero di essere solo.

Il conte Leo non insistè: tuttavia ebbe come un triste presentimento, e la notte stessa coricandosi, si pentì di non aver seguìto il nipote.

— Lo farò domani — disse.

E difatti il giorno seguente si mise in viaggio. A Torino si fece subito condurre al palazzo, dove Raul riteneva sempre l' appartamento abitato con Miranda.

Chiesto al portinaio se aveva veduto il conte Adalberti, gli fu risposto che giunto la sera prima, si era ritirato subito, rifiutando i servigi offertigli ed ancora non era uscito di casa.

— Siccome quando il signor conte viene a passare un giorno o due nel suo appartamento — concluse il portinaio — fa sempre così, io non ci bado più che tanto.

Il conte Leo, un po' rassicurato, salì le scale e suonò con dolcezza il campanello.

Non ebbe risposta.

Suonò una seconda volta, più forte, una terza, ma inutilmente.

Allora un vivo terrore s' impadronì di lui.

— Gli deve essere accaduto qualche cosa — disse fra sè — non è possibile che alle mie insistenti scampanellate non risponda.

E ridiscese a far parte dei suoi sospetti al portinaio.

— Possiamo assicurarcene tosto — rispose questi — giacchè il signor conte l' ultima volta che venne, mi lasciò una chiave dell' appartamento perchè dessi aria alle camere verso corte.

— Andiamo, adunque — interruppe il conte Leo, sempre più agitato.

Entrando, chiamò il nipote a nome, ma la sua voce rimase senza eco. Fecero il giro di tutte le stanze: non vi era alcuno.

Non rimaneva da visitare che la camera dell' assassinata, il cui uscio si mostrava chiuso.

Il conte Leo ne girò la maniglia con un tremito nella mano.

Ma appena l' uscio fu aperto, gettò un grido.

Il conte Raul sedeva su di una poltrona, con le braccia conserte al petto, il volto sollevato, gli occhi spalancati, vitrei, fissi sul ritratto di Miranda, appeso alla parete di faccia.

Il conte Leo avvicinandosi, scorse la tìnta cadaverica del nipote, si avvide che egli non respirava più, che l' ombra della morte era scesa su quella fronte, lasciandovi una impronta di serenità, che lo zio non aveva mai scorta su quel volto.

Forse colei che Raul aveva tanto amata, alla quale chiedeva ogni giorno perdono del suo delitto, gli era apparsa, per avvertirlo che era perdonato ed attrarlo a sè.

L' ultimo sospiro di Raul doveva essere stato un sospiro di gratitudine, di speranza, di amore!

I giornali torinesi nel riportare l' annunzio di morte di Raul Adalberti rivelarono il segreto del suo delitto, quel segreto tanto indagato, che aveva suscitati tanti commenti all' epoca della condanna del conte.

Raul Adalberti non era dunque un volgare assassino, ma una vittima dell' altrui perfidia. I veri colpevoli erano quell' infame Michele e la perversa contessa Edvald, per cui, dicevasi, si stava istruendo un processo, che avrebbe messi in luce altri delitti.

Però agli splendidi funerali fatti al conte, intervenne tutto il fiore della cittadinanza torinese, che ridonava in tal modo la sua stima ad un uomo, che se in un momento di cieca collera era divenuto assassino, aveva però espiato duramente il suo delitto.

E le sue ceneri ebbero riposo accanto a quelle della santa che l' aveva tanto amato.

Michele aprì gli occhi sul lettuccio della prigione. Era solo. Il giorno cominciava appena ad albeggiare, rischiarando di un pallido riflesso le tristi muraglie, mute testimoni di tanti atti disperati, di torture infinite, di apparenti rassegnazioni, di violente rivolte.

Le mani dello sciagurato istintivamente si posero a tasteggiare sopra di sè, come per accertarsi se si trovava vivo ancora.

Poi rizzandosi ad un tratto in tutta la persona, fissò lo sguardo smarrito su di un punto della parete alquanto biancheggiante.

E mandò un grido così acuto e terribile, che accorsero due guardiani a vedere ciò che succedeva.

— Ebbene, che vi salta in testa? — esclamò uno di questi aspramente.

Michele additò con mano tremante quel punto della parete.

— Là, là, guardate, ella mi volge gli occhi minacciosi, le sue vesti grondano sangue, tenetela indietro, che non mi tocchi.

La voce gli soffocava nella strozza; tutto il suo corpo si contorceva in preda ad un profondo terrore.

Ma i due guardiani non si mostrarono commossi: proruppero anzi in un' insultante risata.

— Ah! ah! l' amico ha ancora i fumi del vino al cervello — disse l' uno.

— O piuttosto vorrà giuocare qualche farsa, credendoci gonzi abbastanza da prestarci fede: orsù, andiamo.

Michele non capì una parola di ciò che i due uomini avevano detto, ma, vedendoli dirigersi verso la porta, balzò loro incontro, esclamando:

— Non mi lasciate solo, non mi lasciate solo!

— Ah! ah! vediamo… bisognerà anche tenergli compagnia — disse il primo che aveva parlato, deridendolo — Paghi un mezzo litro?

Michele si frugò macchinalmente nelle tasche.

— Non ho nulla, nulla! — balbettò colla voce piagnucolosa di un fanciullo.

— Peggio per te; andiamo, compare.

— Non mi lasciate, non mi lasciate! — replicò Michele afferrando uno di essi per il braccio.

Ma il guardiano lo respinse con tal forza, che lo sciagurato andò a cadere come uno straccio sul lettuccio, che gemette sotto il suo peso.

Poi si ritirò ridendo col compagno, senza curarsi di osservare lo spaventevole sconvolgimento del viso di Michele, che credette di udire il gemito di un moribondo.

Un sudor freddo gli agghiacciò la midolla, colle mani tremanti si coperse il volto, mentre le sue labbra, come inconscie, balbettavano:

— Non mi toccate… perdono, perdono… mi pento!

La sua voce risuonava lugubremente sotto la bassa vôlta ed egli ne provò un nuovo spavento, che lo esaltò fino alla disperazione.

Poi successe un torpore inerte, che lo tenne di nuovo per qualche ora come svenuto.

Fu, per così dire, ridestato dalla fame, che gli rodeva le viscere.

Il giorno era intieramente spuntato e la cella appariva in piena luce.

Michele si guardò attorno rassicurato: i fantasmi erano svaniti.

Discese dal lettuccio e trovò del pane ed una brocca d' acqua.

Questo bastò per farlo ritornare intieramente alla ragione. Allora riandò le scene successe e pensando alle confessioni che gli erano sfuggite dalle labbra, mormorava fra sè:

— Son perduto!

Ma non era tanto il timore della condanna, come il doversi trovar solo in faccia alla sua coscienza, con quel fantasma che gli sorgeva dinanzi a ricordagli il delitto, e privo di quei liquori, coi quali riusciva a spegnere ogni rimorso, ogni intelligenza, qualsiasi ricordo. E ripeteva fra sè le parole inesorabili del conte Raul Adalberti, che gli era apparso dinanzi come uno spettro, insieme alla povera assassinata:

“ Ti troverai solo coi tuoi rimorsi, passerai attraverso a tutti gli orrori dell' agonia, con sempre dinanzi, inesorabile come la giustizia, l' ombra di quella vittima, che tu perseguitasti….

“ Ella ti apparirà dovunque, non ti lascierà più sarà senza pietà per te, finchè morirai di terrore, disperato: è questa la tua condanna…..”

— Io non credo alle ombre, non credo ai morti….. — gridò Michele con forza — è stata un' illusione la mia, hanno cercato spaventarmi, ma io li sfido…..

Sembrava riprendere coraggio. Quel giorno stesso gli fecero subìre un primo interrogatorio e Michele negò tutto quanto aveva già confessato.

Ma ricondotto nella cella, a misura che si approssimava la sera, il coraggio fittizio che l' aveva sostenuto per un istante svanì.

Quel punto bianco della parete rivestiva per lui l' aspetto di un' ombra.

Chiudeva gli occhi, li riapriva: quell'ombra era sempre là, e pareva andare allungandosi fino a toccare il soffitto.

— Soccorso… soccorso! — gridò ancora Michele.

Ma nessuno rispose al suo disperato appello, finchè lo sciagurato, tutto coperto di sudore, febbricitante, si gettò bocconi sul lettuccio, nascondendo il viso nella coperta.

E gli parve che l' ombra si avvicinasse, sentì come un soffio passargli sul viso.

L' impressione fu così acuta, che si svenne.

All' indomani Michele chiese per grazia di essere posto in una cella con altri condannati, ma gli fu rifiutato.

Allora incominciò davvero per lui un' espiazione terribile.

Finchè era giorno, il disgraziato cercava rinfrancarsi, rimaner calmo, ma appena cadeva la sera, la testa gli andava gironi, si sentiva soffocare, la sua persona si rattrappiva, gli occhi si fissavano in quell' ombra bianca, muta, immobile, che solo alla luce del girono svaniva, si dissipava.

Una mattina Michele, condotto nel gabinetto del giudice istruttore, si trovò faccia a faccia con Livia Edvald.

Doveva aver luogo un confronto fra loro.

Se la contessa rimase sorpresa al disfacimento fisico sopravvenuto in quell' uomo, che sembrava ormai un vecchio cadente, Michele provò pure una specie di stupore misto a ribrezzo dinanzi a quella donna floscia, dondolante, dagli occhi incavati, pesti, vestita in modo quasi ridicolo, che mostrava ancora in lei il desiderio di piacere.

Ella aveva fatto un moto, come per toccare la mano di Michele, ma questi si ritrasse con un gesto sprezzante, e fissandola con occhi divenuti di bragia:

— Non vi siete ancora pentita dei vostri delitti? — esclamò. — Non vi perseguitano l' ombre di coloro che avete uccisi? Perchè vi risparmiano, mentre colpiscono me, che senza di voi, sarei ancora un uomo onesto e non morrei di disperazione, di terrore?…

Livia ruppe in un riso sgangherato.

— Sei divenuto pazzo del tutto — rispose crudelmente — sono io forse che ti spinsi a far assassinare Miranda?

— Sì… sei tu, tu! — gridò Michele con le labbra gonfie di collera.

Allora successe una scena ributtante fra i due complici, che si scagliarono in viso le più atroci ingiurie, si accusarono a vicenda nel modo il più turpe, finchè una furia battagliera li assalse, tanto che si gettarono l' uno sull' altra.

A stento furono divisi e ricondotti in prigione.

Ma quel giorno stesso, Michele, fatto chiamare nella sua cella il giudice istruttore, fece un' intiera confessione della sua vita e di quella di Livia, non tacendo cosa alcuna, che valesse ad illuminare la giustizia.

Gli parve così di sentirsi più sollevato, gli sembrò che, toltosi quel peso di dosso, anche l' ombra di Miranda si sarebbe placata.

E accostandosi la sera dava certe occhiate alla sfuggita in quell' angolo della stanza nella speranza di non rivedere più la fantasma.

Ma l' apparizione biancastra, terribile, era sempre là.

Egli non era perdonato.

E mentre si istruiva rapidamente il suo processo, gli accessi furiosi si accrebbero, tanto che furono costretti a mettergli la camicia di forza.

Erano ancora indecisi d' inviarle al manicomio, quando una notte svegliò guardie e sentinelle con i suoi alti, terribili gridi.

Si accorse nella cella e si trovò Michele aggomitolato al suolo, con gli occhi chiusi, le orecchie turate con ambe le mani.

Fu deposto a stento sul letto, chiamato il medico; ma questi appena gettò lo sguardo sul disgraziato, disse che non gli rimanevano che pochi minuti di vita e sarebbe stato pericoloso trasportarlo anche solo all' infermeria.

Allora si chiese l' intervento del cappellano delle carceri.

Michele rimaneva immobile, cogli occhi sempre chiusi e senza dei lievi soprassalti lungo il corpo, si sarebbe già detto morto.

— Figlio mio — gli sussurrò con dolcezza il prete — volete riconciliarvi con Dio? Sapete pure che un istante di sincero pentimento basta a scontare una vita d' iniquità.

Non ebbe nessuna risposta.

Il cappellano non si scoraggiò, continuò a confortare il colpevole, a parlargli della clemenza di Dio, di perdono.

Michele era coperto di sudore e dal petto gli uscivano sordi gemiti.

Ed aprendo ad un tratto gli occhi, che avevano un' espressione d' indicibile terrore:

— Mandate via quel fantasma! — gridò — là, là!

Il prete si avvicinò alla parete, vi battè sopra con una mano.

— Vedete, figlio mio, che non c' è nulla: calmatevi e rivolgete il vostro pensiero a Dio…

Michele non l' ascoltava.

— Via quell' ombra… via!… Eccola che si avanza… guardate…. guardate…. ah!….

E lo sciagurato fu ripreso da terribili convulsioni, e bentosto i suoi trasporti divennero tali, che sei guardie non bastarono a tenerlo.

Lo sciagurato spirò nel suo accesso di delirio, senza sentire il sacerdote che continuava a porgergli le sue consolazioni, emettendo un grido straziante, segnando col dito scarno il punto della parete, su cui egli vedeva costantemente l' ombra della contessa Miranda.

Mancando i principali testimoni d' accusa contro la contessa Edvald ed essendo i suoi maggiori delitti di quelli che sfuggono alla giurisdizione umana, non venne condannata che ad un anno di carcere per truffa, ferimento di Pallina, e rivolta alle guardie.

Livia ascoltò la sentenza senza dare altro segno d' emozione che strappando colle dita nervose il fazzoletto, che teneva fra le mani.

Eppure aveva la bocca piena d' ingiurie, ma capiva che lasciandole prorompere non avrebbe fatto che aggravare la sua posizione. E si mostrò rassegnata.

Quando uscì di prigione era stremata di forze, ma in fondo alla sua anima, vi era sempre qualcosa di furioso, di esacerbato, un odio intenso per tutta la società, e soprattutto contro coloro che, a suo parere, erano stati cagione della sua completa rovina.

Ma ella non poteva più appagare il suo desiderio di vendetta.

Il conte Raul Adalberti era morto, nè Livia sapeva che egli avesse lasciata una figlia, sposa felice di Vittorio Cars.

Il principe si diceva che avesse abbandonata per sempre l' Italia, e poi era troppo possente per tentare di combattere con lui.

Michele aveva fatta una triste fine; di Pallina ne fece invano ricerca.

Così la miserabile si trovò sola coi suoi odii, co' suoi rancori, in lotta colla miseria, abbattuta dagli acciacchi, prodotti ancora più dai vizî che dall' età, e che finirono a toglierle ogni rimasuglio dell' antica bellezza.

Livia cercò d' impiegarsi in una casa di cattiva fama. La presero come serva, ma lo strapazzo di star alzata tutta la notte, lo sforzo di salire e scendere ad ogni istante le scale con delle secchie ripiene d' acqua, il cattivo nutrimento, i maltrattamenti di ogni genere, gli scherni osceni a cui era fatta segno, inasprirono così il suo umore acre, bilioso, che cadde gravemante ammalata.

Ora, uscita dall' ospedale, si è data a mendicare. Ma il suo aspetto da vecchia sibilla, gli sguardi torbidi, sinistri, le procacciano rifiuti e sgarbi da chiunque, tanto che i più dei giorni ritirandosi nella meschina soffitta, non ha raccolto abbastanza da potersi sfamare.

La miserabile vecchia non ha più alcuno al mondo che si curi di lei; persino i fanciulli la sfuggono, perchè a loro incute paura.

Nessuna voce pietosa consolerà i suoi ultimi istanti, nessuna lacrima di dolore scenderà sul suo cadavere.

Livia morrà sola, dimenticata!

Giustizia divina!

FINE.