LA MARCHESA COLOMBI
RACCONTI
DI
NATALE

MILANO
LIBRERIA EDITRICE GALLI
DI
CHIESA E GUINDANI
1890

PROPRIETÀ LETTERARIA

Milano, 1890 — Tip. Enrico Trevisini.

Mio caro Zio,

Permetta ch'io metta il suo nome, come un augurio, come una benedizione, in testa a' miei Racconti di Natale. Più che un lavoro letterario, sono un lavoro d'affetto.

In casa mia il Natale era una solennità seria: ci trovava tutti commossi perchè segnava l'epoca d'un grande avvenimento di famiglia. Nè i miei fratelli, nè io ne eravamo stati testimoni; era accaduto molti, molti anni prima che noi nascessimo. — Ma lo conoscevamo per tradizione, ed in quegli anni giovanili ne risentivamo una specie di sgomento.

Sul Novarese la vigilia di Natale alle dieci di sera, la campana maggiore delle parrocchie suona a festa. La chiamano il campanone.

Mio padrigno, che aveva passati gli ottant' anni da un pezzo, aveva l'abitudine di coricarsi alle nove ogni sera, e la vigilia di Natale gli si dava la buona notte a quell'ora, ed egli si ritirava in camera come al soliro.

Ma noi altri ragazzi quella sera là, invece di andare a letto, aggiungevamo tizzoni al fuoco, e mettevamo a bollire la cogoma del caffè.

Aspettavamo un'ora. — Quando s'udivano i primi tocchi del campanone, mia sorella metteva il caffè nell'acqua bollente; io accomodavo i cuscini sulla poltrona del babbo, mio fratello si accostava al suo uscio, stava ad origliare un momento, poi diceva sommesso:

— Eccolo — È qui.

Era il babbo che tornava tutto commosso, co' suoi vecchi occhi imbambolati.

Qualche volta aveva il berretto da notte, che di solito era per noi un argomento d'ilarità inesauribile. Ma quella sera sapevamo perchè il babbo tornava, e neppure il grottesco fiocchetto bianco, che gli faceva ogni sorta di bizzarre evoluzioni sul cocuzzolo, non ci faceva ridere.

— Oh, siete ancora alzati, ragazzi? — diceva mio padrigno andando a sedere nella sua poltrona.

— Sì, babbo. Non abbiamo sonno.

Egli picchiava un poco i tizzoni in silenzio, tanto che gli passasse il gruppo che aveva alla gola, poi ripigliava:

— E neppur io, vedete. Finchè suona questa campana non potrei dormire. Me lo ricordo come fosse adesso. Mio padre aveva le petecchie; le aveva prese curando i poveri colpiti dall'epidemia. Nei piccoli paesi come Ceràno, i contadini preferiscono chiamare il farmacista che il medico, e tutti venivano in farmacia a chiamare mio padre: — an — che perchè a lui non pagavano le visite. Così s' era preso quei malanno, e s'era messo a letto anche lui.

Il babbo parlava a frasi staccate, con molte pause. Quando aveva detti quei preliminari per preparare la scena che doveva narrare, rimaneva un pezzo guardando la vampa colla fronte corrugata come se ci vedesse dentro quel malanno a cui non poteva perdonare.

Noi stavamo tutti zitti, ascoltando con raccoglimento il nacconto doloroso, che udivamo ogni anno e conoscevamo al pari di lui.

— Io lo assistevo sempre, ripigliava finalmente. — Era stato malissimo; lo avevo vegliato parecchie notti di seguito. Però la vigilia di Natale pareva che stesse un po' meglio, e sull'imbrunire s'era addormentato. Io era seduto accanto al letto. A poco a poco, tra pel silenzio, l'oscurità, le lunghe veglie, mi sentii sopraffatto dalla stanchezza. Posai il capo sul letto… e m' addormentai anch'io!

Diceva questo con un grande rammarico; pareva che si rimproverasse quell'atto di debolezza come d'una colpa. Metteva dei lunghi sospiri. Diceva due o tre volte:

— Ma!… Ma!… — poi tornava a narrare:

— Ad un tratto un rumore mi destò in sussulto. — Era il campanone. Il lume da notte era in terra ai piedi del letto, e la camera era quasi buia. Mi sentii tutto intirizzito; il babbo dormiva sempre; ma a quell'ora dovevo dargli una medicina; bisognava destarlo. Lo chiamai sommesso:

— Babbo! — Non rispose. Chiamai deccapo:

— Babbo! Babbo!… — Non rispose ancora… Non rispose più…

A quel punto parlava singhiozzando addirittura, povero vecchio. Gli sgocciolavano le lagrime, e tremava tutto, come se la scoperta orrenda la facesse in quel momento; e per nascondere un po' quella grande commozione si rizzava in piedi, andava fin in fondo all sala, poi si fermava davanti alle imposte chiuse, come se avesse potuto vederci attraverso il campanone del Duomo che stava dirimpetto; e sospirava:

— Ed intanto il campanone suonava a festa!…

Gli pareva che anche il campanone avesse avuto torto, avesse commesso un delitto a suonare a festa in quel momento, come lui a dormire, povera anima amorosa e giusta!

Noi eravamo tutti sgomentati. Non osavamo parlare dinanzi a quel grande dolore, che dopo più di cinquant'anni si rinnovava sempre così vivo.

Soltanto dopo qualche minuto, quando il babbo si avviava per rientrare nella sua stanza, mia sorella, che era la maggiore, s'arrischiava dire pian piano:

— Babbo, prenda una tazza di caffè. Ha pigliato freddo; questo la riscalderà un pochino!

Ed egli rispondeva tornando indietro:

— Oh, bravi ragazzi. Avete pensato a farmi il caffè? Vi sono obbligato; vi sono obbligato.

Era la sua solita parola di ringraziamento, e ce la prodigava a proposito di qualunque inezia.

Non era un uomo nervoso; gli eccitanti non avevano presa sulla sua tempra robusta. Pigliava il suo caffè, poi si coricava e ci dormiva sopra.

Ed il giorno dopo ci faceva dei doni, invitava gente a pranzo, per far dimenticare a noi e dimenticare egli stesso quell'ora triste.

Ma ne rimaneva sempre una traccia, un'ombra di malinconia che aggiungeva solennità a quella grande festa di famiglia.

D' allora è passato molto, molto tempo; sono avvenuti molti cambiamenti; il povero babbo nonagenario riposa da dodici anni nel campo santo. Ma ad ogni Natale la sua ricordanza cara, che ho sempre viva in mente, si fa anche più viva. Ricordo lui come egli ricordava suo padre; ricordo la mia sorella maggiore, giovinetta e bella, che anch'essa se n'è andata; ricordo la mia povera mamma, che è morta nella settimana di Natale.

Ho serbata l'abitudine di famiglia di dare grande solennità a questa festa, di celebrarla con auguri e doni. Ma ne ho serbato pure quel senso di commozione e di raccoglimento che mi inspirava nella mia prima gioventù.

Codesto spiega l' aria di gravità e di malinconia che spira da questi racconti di Natale. Non avrei potuto farne un lavoro gaio. Mi sono anzi proposto di scrivere qualche cosa non affatto inutile.

Nei Sogni dorati ho cercato di mostrare ai lettori poveri e laboriosi le contentezze che possono trovare nel loro stato modesto, ed i pericoli dell'emigrazione. Cavar sangue da un muro dovrebbe insegnare la previdenza con cui si assicura in gioventù il pane della vecchiaia. E gli altri due racconti, che ritraggono un mondo signorile, sono messi là per far vedere che nella ricchezza non c'è gran cosa da invidiare; che anche là vi sono delle grandi miserie, quando non si agisce con giustizia, o non si sente l'amore della famiglia.

Alcuni diranno che tutto questo è pedantesco; — pazienza. Quello che mi cruccia è il timore di non aver raggiunto il mio intento. Ma lei ed il pubblico faranno come fa Iddio, mi terranno conto dell'intenzione.

Sono pochi anni che siamo parenti, che sono entrata nella sua famiglia; — e non ci siamo ancora veduti. Ma la giudico dalle sue lettere affettuose, dalla sua accoglienza cortese e paterna, e me la figuro buono, cordiale come il mio povero padrigno; ed è per ciò che dedico a lei, con cuore di figlia, questo lavoro inspirato a quella memoria venerata e cara.

Buon Natale, zio. Buon Natale.

MARIA.



Noi si viveva a Fontanetto, un piccolo villaggio della provincia di Novara.

Domando di non descriverlo per varie ragioni.

Prima, perchè non vi sono bellezze peregrine.

Seconda, perchè noi (e quando dico noi intendo parlare del babbo, della mamma, di due fratellini e di una sorellina minori di me) eravamo così poveri e relativamente occupati, che, giunti all'età di poterlo fare, non avevamo più tempo da fermarci ad ammirare i punti più o meno pittoreschi del paesaggio.

Si vivea dunque a Fontanetto. Quando io vi nacqui, la mamma vi abitava già da parecchio. Era maestra comunale, e guadagnava cinquecento lire all'anno.

Il babbo era organista della parrocchia ed aveva seicento lire di stipendio.

Già, si era poverini, perchè eravamo sei a vivere su quelle mille e cento lire. Tuttavia, si tirava innanzi, e per noi bimbi, non ce ne accorgevamo nemmanco che vi fossero strettezze in casa.

A tavola ci si andava le sue tre volte al giorno, come gli altri del paese. — S'avevano, è vero, vestitini molto rattoppati per tutti i giorni alla scuola. Ma la festa si portava roba buona. E l'inverno eravamo ben coperti, e le scarpe si facevano rimpedulare e si comperavano a tempo.

Tutt'insieme non c'era maluccio, ed avevamo tutti buona salute e cuor contento.

Per molti riguardi di convenienza la mamma, avendo la scuola, non poteva allattare i suoi figli da sè.

Ma, a misura che uno tornava dalla nutrice, se lo portava in iscuola ogni mattina, e ve lo teneva tutto il giorno per poterlo sorvegliare.

Io, che ero la più grandicella, gl'insegnavo a reggersi ed a camminare: e quando lo mettevo a sedere in terra per andarmene allo studio, i fratellini o gli scolaretti più piccoli gli ballavano un pochino dinanzi, e giocavano per divertirlo.

Ed il bimbo cresceva, mangiando, dormendo e galloriando, senza nemmeno sospettare che vi fossero al mondo altri bimbi più fortunati, a cui si danno pappe meglio condite, con un cucchiarino d'argento, da una bambinaia che costa danaro.

Noi venivamo su quasi senza spesa. Costavamo soltanto cure e fatiche ai nostri parenti.

Ma essi non ci amavano meno, e noi non istavamo meno bene per questo.

Una volta eravamo tutti a tavola: mancava soltanto il babbo.

Era la vigilia di Natale ed io avevo otto anni.

Il babbo si fece aspettare un pochino, poi giunse tutto rosso in viso. E nel mettersi a sedere, non badava alla minestra che aveva tanto buon odore, nè a tutti noi, che, per soverchiare ciascuno la voce degli altri, gridavamo a squarciagola:

— Addio, babbo! Buon appetito, babbo!

Non badava a nulla. Pareva guardare davanti a sè qualche cosa che noi non vedevamo, e le sorrideva di quel sorriso appena percettibile e preoccupato, con cui si sorride ad un progetto lontano ma caro.

Appena i quattro rispettivi cucchiai ebbero chiuso la bocca a me ed a' miei fratellini, egli disse alla mamma:

— Sai che è arrivato lo zio Lorenzo di Borgomanero?

— Davvero? È arrivato dall' America? — esclamò la mamma.

— Già; dall'America. Sono già due settimane che è a casa sua. Quello l'ha pensata bene più del mio babbo e di me, sai? Ritorna ricco; nientemeno!

— Ha fatto fortuna?

— Altro che fortuna! Ma già, laggiù la fa chi vuole la fortuna. Finchè stette come commesso di negozio di un altro guadagnava dugentocinquanta lire al mese. Era uomo d'ordine, sai. Non spendeva mica tutto. Mise sempre qualche cosa da parte, e, quando ebbe una piccola somma, cominciò a negoziare per suo conto. Si faceva mandare i guanti, le tartarughe, le lave, i coralli da Napoli, i nastri da Lione, i pizzi da Valence e da Bruges. E malgrado il caro del porto ci guadagnava quanto voleva. Ah! quello è vivere! A quarant'anni può già rimpatriare, far vivere i suoi genitori comodamente, e se prenderà moglie non la condannerà alla miseria, nè al lavoro. Così avrei dovuto fare anch'io.

— Tu non sei nato pel commercio, Vittorio; — non sai calcolare l'opportunità delle speculazioni. Avresti fatto cattivi affari…

— Ma che affari! Avrei suonato. Dice lo zio che chiunque sa un po' di musica può guadagnare quanto vuole. Gli Americani, che di gusto musicale non ne hanno punto, sono tutti melomani: e pagano un dollaro ogni nota giusta e due dollari ogni nota falsa.

— Via, allora dàtti pace, chè tanto non avresti trovato gran fortuna; perchè tu nè all' organo nè al violino, di note false non ne fai, — rispose la mamma che aveva sempre una grande opinione dei talenti musicali del babbo.

Ma egli non si lasciò lusingare da quel benevolo complimento.

— Sì eh! — le ribattè. — Tu la prendi a scherzare; ma io ci penso seriamente, sai? Un uomo ha tutti i diritti di un altro uomo. Quando mio nonno ha mandato lo zio a diciassette anni in America, perchè non ci ha mandato anche il mio povero babbo, che era suo fratello ed era maggiore di lui? Perchè ad uno aprire la strada della fortuna, e l'altro tenerlo qui a perpetuare la razza dei musicanti poveri?

— Ma, perchè il tuo povero babbo aveva disposizione per la musica come tuo nonno, e suo fratello no. E poi, perchè il tuo povero babbo a vent'anni, quando lo zio partì per la prima volta, aveva già moglie, e tu stavi per nascere.

— Come me! E dire che, perchè un uomo ha fatto un passo falso in principio, perchè non ha indovinato che la sua strada era quella là, perchè s' è creata una famiglia troppo presto, sarà legato qui, qui per sempre; e non potrà andare a guadagnarsi un'agiatezza che gli altri ottengono tanto facilmente!…

— Che vuoi farci, caro? Vuoi rimpiangere d'avermi sposata e d'aver dei bambini?

— Non dico questo…

— Non lo dici: ma si crederebbe che lo pensi.

La mamma diceva codesto senza guardare il babbo, con gli occhi intenti nel suo piatto, come se le premesse di scorgerne il fondo traverso la minestra. Ma io vedevo che quegli occhi erano pieni di lagrime, e non voleva alzarli per non farsi scorgere.

Però il babbo se ne accorse dalla sua voce che tremava, e le rispose:

— Sai pure che non posso lagnarmi di te, Maria; che ti voglio bene. Anzi dovresti comprendere che, se mi duole d'essere rimasto nella povertà, è per amore di te e dei bimbi: soffro di vedervi vivere di privazioni.

— Ma, da quando in qua ti sembriamo tanto miserabili, Vittorio? Qui la vita costa poco. Noi non ne facciamo di privazioni.

— Sfido, poveretta, lavori tutto il giorno!

— Io lavoro volentieri. Amo la mia vecchia scuola, e non aspiro a lasciarla. Qui si vive con poco, e, lo vedi, i bimbi non hanno punto l'aspetto di chi patisce la fame. Sono tutti grassi e robusti. Ed anche a noi la fatica non fa male. Grazie al Cielo non s'è mai malati nessuno.

— Ci vuol altro!

— Cosa ci vuole? Per noi che abbiamo provato giorni assai più difficili, dobbiamo riconoscere che la nostra condizione è migliorata, dacchè abbiamo riunito i nostri guadagni.

— E l'aumento della famiglia non lo conti? Ti pare che ci sia proporzione col piccolo aumento dello stipendio?

— Io so che quando non avevo che quattrocento lire, e con esse la solitudine, l'isolamento d'una vita senza affetti, ero ben più sfortunata! E tu pure colle povere cinquecento lire che avevi allora…

— Sì, ero povero, ma ero libero.

— Ti pare che fosse un vantaggio l'esser solo, senza vincoli di famiglia?

— Era un vantaggio, perchè potevo tentare la fortuna.

— Allora non pensavi così. Trovavi triste la tua vita solitaria, dacchè il tuo povero babbo era morto e la tua mamma pure. E quando ci sposammo con novecento lire all' anno fra tutti e due, mi dicevi:

— « La mia casa non è più fredda e nuda. Le nostre due povertà riunite ci formano un' agiatezza. L'unione è la forza… »

— È vero, è vero. E tu mi rispondevi: « L'unione è l' amore » — soggiunse il babbo commosso da quelle memorie, e forse più dal confronto, poco glorioso per lui, tra la costante e rassegnata soddisfazione della mamma e la sua intelleranza.

Egli proseguì:

— Hai ragione, Maria. Tu sei sempre più ragionevole di me.

— Perchè io ti amo sempre…

— Ed anch'io ti amo sempre; puoi dubitarne? Ma domani sentirai lo zio! L' ho invitato qui a far Natale con noi. Sentirai quante meraviglie racconta dell' America; e come vi si è accolti, e come vi si guadagna molto e presto, e com' è facile arricchirvisi. Sentirai, e mi compatirai di essermi lasciato esaltare un pochino.

E le stendeva la mano per domandarle perdono.

La mamma, che era commossa da quel contrasto, e dai terrori vaghi che le aveva inspirati e dalle memorie evocate, e sopratutto da quelle ultime parole tanto soavi al suo cuore sensibilissimo, non potè rispondere nulla; nemmeno di sì, che perdonava; tanto si sentiva il pianto alla gola. Ma, oh! se perdonava!

Ella s'accontentò per allora di prendere in silenzio la mano che le era stesa, di baciare il babbo, poi di baciarci tutti noi. E, soltanto quando fu giunta all' ultimo, disse con voce ancora oscillante:

— Guarda che bei bambini, Vittorio. Non è una benedizione? Non possiamo essere contenti così?

L'indomani fu un gran Natale.

Lo zio d'America c' insegnò l'Albero, che noi non s'era mai nè fatto, nè veduto.

Lo rizzò egli stesso; lo guarnì di lauro, ed anche un po' di ginepro, di sabina, di cipresso, di tutto quello che tra me ed il mio fratellino maggiore riescivamo a portargli.

Si sa: la mattina di Natale non potevamo andar tanto lontani a raccogliere i rami, nè metterci per le strade del paese con un carico verdeggiante sulle spalle. Ma domandammo il permesso ad un vicino di traversare il suo campo, che era dietro la nostra casa: e per di là, avanti e indietro a prendere tutto quanto c' era di verde nel bosco.

E, mentre la mamma s'affaccendava in cucina intorno al tacchino e al risotto, che formavano tutto il nostro pranzo di gala pel Natale, lo zio lavorava all'albero ed il mio fratellino più piccolo gli porgeva man mano le erbe, la cordicella ed i bicchieri coll'olio pei lumicini.

La bimba era seduta nel vano dell'uscio tra la cucina ed il salotto, per non toglierle di godere la vista di quell'apparecchio, e farla stare al tempo stesso sotto gli occhi della mamma. Ella tripudiava, batteva le manine a quell'insolito movimento.

Noi, ad ogni viaggio, deposto il nostro carico di verdura, osservavamo il progresso dell' interessante lavoro, e poi via a discorrerne cammin facendo, ed a domandarci l'un l'altro che doni vi si appenderebbero quando l'albero sarebbe tutto verde e tutto ornato di lumicini.

Mio fratello sognava cavallini e tamburelli, e fruste, e fino, nei voli più arditi della sua fantasia, un piccolo velocipede, come ne aveva veduti parecchi alla fiera di Borgomanero.

Quanto a me, ero già più grande; e sapevo che la mamma non soleva spendere in balocchi, e quando ci vedeva intenti a guardarli con invidia, ci diceva:

— Se fossi ricca ve ne comprerei. Ma non lo sono, vedete. Non potrei darvi dei balocchi senza privarsi per essi di cose necessarie. Pazienza! mi privo io del piacere di offrirveli, potete privarvi anche voi di quello di riceverli.

Quando il babbo tornò dall'organo dopo le funzioni del mattino e la messa cantata, trovò l'albero compiuto, e disse allo zio:

— Ah! si usa anche in America codesto? Ne ho letto infatti nei racconti di Carlo Dickens. Ma questi sono paesi di miseria. Non si fanno alberi di Natale fra noi. Potremmo appenderci patate per doni di ceppo.

— Ma che, Vittorio! — gridò la mamma dai fornelli dove stava. — Vuoi farci più poveri di quanto siamo? Quando mai s'è passato un Natale qui, senza che vi fossero i doni pei bimbi ed anche per noi? Non mi hai portato l'anno scorso il mio bello scialle di flanella a righe? — Ed i vestitini da inverno pei bimbi, e gli abiti azzurri delle bambine, non furono i doni dello scorso Natale?

— Lo so, Maria. Ed anche il mio soprabito, di cui non parli, e di cui mi facesti sorpresa, sa il Cielo a che prezzo di veglie laboriose e di privazioni, anch'esso fu il tuo dono di ceppo. Ma, vedi, sono cose indispensabili, che noi aspettiamo a comperare in questa circostanza per chiamarle doni. Io vorrei invece poterti fare dei doni veri; perchè li meriti meglio di tante altre che li hanno. Vorrei rizzarti un albero di Natale con abiti eleganti, e braccialetti e monili; ed in cima a tutto, il dono dei doni, vorrei che fosse un bel foglio di carta da bollo, colla tua dimissione dalla scuola. Questo vorrei, vedi; ed è questo che meriti, e non le miserie che ti può dare il mio miserabile organo di chiesa.

— Ebbene, lascialo il tuo miserabile organo di chiesa! — entrò a dire lo zio. — Io mi son fatto un po' di ben di Dio laggiù. Coraggio! fa altrettanto: è la tua volta. L'America è là colle sue città affollate di Yankee, che non domandano meglio che di spendere i danari che gonfiano loro le tasche; col suo commercio fiorente; co' suoi dollari bene arrotondati perchè circolino meglio. Sei giovane, che diamine! Hai paura di qualche mese in mare, e di qualche anno di separazione dai tuoi? Quando si tratta di fare il loro bene…

— Ma no, zio! Non glielo dica, — pregò la mamma. — Non vede che Vittorio è come un ragazzo? che si scalda la testa? Sarebbe capace di pigliarla sul serio codesta storia dell'America. Lei quando è partito non si lasciava dietro nè moglie, nè figli. Mio marito invece, veda! — ed additò la tavola a cui noi quattro facevamo corona; poi continuò cambiando tono:

— Via, sediamo a pranzo. A lei, zio: si metta in capo di tavola.

E mentre lo zio sedeva, ella girò dietro la tavola, ed andando a baciare il babbo prima di sedersi tra noi, gli disse:

— Buon Natale, Vittorio. Sta di buon animo; vedrai che quando si vuol bene si arriva a tutto: che, senza i dollari degli Americani, lo guarniremo anche noi di qualche regaluccio il nostro albero di Natale. E se invece di superfluità saranno cose necessarie, tanto meglio. Voi altri uomini lo dite pur sempre, ed in latino anche, che bisogna mescere l'utile al dolce.

La mamma, col suo umore sereno, ed il suo cuore amoroso, aveva sempre un grande ascendente sul babbo. Egli lasciò andare le sue fantasie transatlantiche, ed abbracciandola con una espansione tutta italiana, le disse:

— Sei una gran brava donna, veh!

E la mamma fu contenta, di quel contento profondo che ha la sua radice nel cuore; fu allegra e loquace, e tutti facemmo onore al suo buon pranzo di Natale, e poi uscimmo per andare ai vespri: il babbo su in alto nell'organo, e noi in chiesa.

Dopo il vespro la mamma uscì prima di noi, ci disse di aspettare il babbo alla porta prima d'avviarci a casa, e se ne andò correndo colla bimba in collo.

Al nostro ritorno trovammo l'albero illuminato, e tra lume e lume pendevano guantini di lana, giubbini, scarpine colla pelliccia, gonnelline imbottite e quaderni e confetti. Ed in cima a tutto un gran librone verde su cui si leggeva a bei caratteri d'oro: Don Carlos.

Era uno spartito che il babbo desiderava da un pezzo, e che l' amore e l'operosità della mamma erano riusciti a collocare su quell'albero di Natale.

— Tu arrivi a tutto, mia buona Maria — le disse il babbo, — ed io sono indegno di te. Me ne vengo a mani vuote. Avevo messo da parte qualche solduccio per farti il mio piccolo dono, ma avrei potuto comperare così poca cosa, che non osai farne nulla.

— È ancora un effetto della febbre americana — rispose la mamma sforzandosi di sorridere. — Gli altri anni non avevi queste eccessive modestie, e queste aspirazioni grandiose. Finirò per odiarlo quel paese di cifre e di banque-notes. Ma per ora gli perdono, perchè non t'ha impedito di mandar a casa i chicchi pei bimbi.

Il babbo si fece rosso a quel discorso:

— Merito il tuo rimprovero, — disse. — Ma potrò ancora rimediarvi, nevvero? Doversi farmeli prestare da chi ne ha troppi… — e voleva uscire.

Ma la mamma lo trattenne:

— Oh, dove vai?

— A cercar dei chicchi per quei piccini. Se non troverò la bottega aperta, ne domanderò ai conoscenti; vedrai che rimedierò, sai…

— Ma se li hai presi i chicchi! Se sono là sull'albero! Guarda!

— Ebbene, ce li hai, messi tu, povera donna. Io sono un miserabile, ho dimenticato il dono di Natale pe' miei figli…

— Ma che hai, Vittorio? Non ti ricordi più? Non stai bene? Li hai mandati tu quei chicchi a casa — diceva la mamma tutta impaurita e sorpresa.

Ma lo zio entrò di mezzo e spiegò tutto.

— Via, Vittorio, non esagerare. A' tuoi figli ci pensi anche troppo. Se hai dimenticato i chicchi, me ne son ricordato io. Son io che li ho mandati. Non saranno meno buoni per questo, nevvero? — soggiunse volgendosi a noi.

Quanto a me, pensavo che dovevano essere veramente meno buoni, ed intanto li desideravo meno dachè non era il mio babbo che li aveva portati.

Anche la mamma ne fu dispiacente. Tuttavia, vedeva il babbo così afflitto di quella trascuratezza, che fingeva di non farne caso e di essere allegra, per consolarlo.

Quando si trattò di distribuire i confetti, gli disse:

— A te, Vittorio. Li staccherai tu. Sono i chicchi dello zio, ma è il babbo che li dà. Così sono doppiamente dolci.

Ed il babbo sì rasserenò del tutto: ci baciò tutti quanti; giuocò con noi: fece saltare la bimba sulle sue ginocchia finchè vi rimase addormentata; ed allora la porse alla mamma, che andò a coricarla: ed egli prese il suo bello spartito, lo aperse sul pianoforte e si pose a suonare la sinfonia.

La mamma rientrando gli andò dietro, ed appoggiandosi alla spalliera della sedia gli susurrò:

— Ci pensi più all'America?

Egli spinse indietro il capo per guardarla in viso, e le rispose:

— Ma che American! Fin sul letamaio di Giobbe, guarda, bisognerebbe esser felice con una moglie come te.

Ma lo zio non la pensava così. Era un uomo di calcolo; e poichè il calcolo gli era tornato bene, vi si attaccava sempre più.

A lui, che omai s'era avvezzo a più larghe spese, non pareva più possibile l'esistenza d'una famiglia numerosa come la nostra, con mezzi tanto ristretti: ed il nostro avvenire gli faceva paura.

Egli si alzò un po' disgustato da quella espansione del babbo, e pigliando il suo cappello disse:

— Badate bene, che per questa via ci si va davvero sul letamaio di Giobbe. Se non vi date d'attorno per guadagnar di più, pensate che quattro bimbi, e quelli che forse verranno ancora, non possono vivere di tenerezze domestiche. Io ho i miei vecchi da mantenere, ho dei progetti per me, e non posso provvedere ad altri. Pensateci, ragazzi. Perchè l'amore passa ed i fastidi restano. E l'avvenire è lungo.

E se ne andò.

Fu un triste saluto. Il babbo chiuse il piano e rimase pensoso.

La mamma mi coricò piangendo in silenzio.

A me pure s'era stretto il cuore. Per la prima volta in sette anni, dacchè ero tornata dalla nutrice, mi coricavo una sera di Natale senza osare di domandar i miei doni da tenermi sul letto nella notte per rivederli subito il mattino, e neppure ci pensavo.

Udivo nella stanza vicina il babbo passeggiare sospirando, e la mamma piangere, ed avevo voglia di piangere anch'io.

E quando finalmente m' addormentai, sognai che la nostra povera casetta rovinava e rimaneva sepolta sotto una pioggia di dollari. E noi tutti seppelliti dentro, non s'aveva più fiato.

L' indomani non era più Natale, e non era nemmeno festa. Ma era una festa soppressa. In chiesa c'era grande solennità. Così il babbo ebbe appena il tempo di alzarsi e correre all'organo.

Ed intanto la mamma s'affrettò ad ordinare la casa, tutti noi e sè stessa; preparò la colazione; mangiò un boccone in fretta; e poi via alla scuola colla bimba in collo, senza aver potuto scambiare una parola con suo marito.

E là, dalle otto del mattino fino alle quattro del pomeriggio, tra i sillabari, i quaderni di scritura scarabocchiati e laceri, i numeri, gli elementi di grammatica, i lavori d'ago e di maglia sucidi e malfatti, passava quella e le altre giornate, senz'altro sollievo che l'ora di ricreazione.

Dolce sollievo, in cui le quaranta voci d'una scolaresca dei due sessi l'assordavano, e gli odori diversi e confusi delle quaranta colazioni rinchiuse nei panierini, e dei quaranta abitini poco puliti, le toglievano l'appetito.

Eppure essa l'amava, povera donna, quell' atmosfera nauseabonda della scuola, dove guadagnava per metà la vita della sua famiglia. Fino a quel giorno l' avevo veduta sempre serena sulla sua cattedra; ed onestamente orgogliosa delle sue utili fatiche, canterellava al ritorno quando preparava il desinare.

Poi a tavola condiva con tutte le attrattive d' una conversazione intelligente, espansiva e buona, i magri intingoli che ci serviva. Ed il babbo l'ascoltava e le rispondeva con tanto interessamento, che poco badava a quanto aveva nel piatto; mangiava con appetito ed era sempre contento.

Era lui che soleva venire ad incontrarci alla porta della scuola, e portava la bimba fino a casa.

— La mattina sei riposata puoi portarla tu, — diceva alla mamma, — ma a quest' ora sei stanca della scuola. Il mio lavoro è meno faticoso del tuo. Vorrei poterti aiutare davvero, e non solo portarti la bimba.

Per un cuore come quello della mamma bastavano quelle parole a dissipare ogni stanchezza. Ella viveva d'affetto. Un' espressione espansiva la ritemprava; le dava un coraggio sovrumano.

Quel triste giorno di Santo Stefano, nevicava a larghi fiocchi. Le strade erano molli di neve sciolta e di fango. Ed il babbo non era là ad aspettarci.

Bisognò che la mamma s'ingegnasse a rialzarsi gli abiti, ed a portare l'ombrello e la bimba.

— È festa in chiesa; i vespri non saranno finiti, — diceva la povera donna per consolarsi. Ma sapeva bene che i vespri erano finiti e tremava piu di angoscia che di freddo.

Giunta a casa, s'affrettò ad accendere il fuoco ed a preparare un desinare spiccio cogli avanzi del Natale.

Alle cinque la minestra fumava sulla tavola; ma il babbo non era per anco venuto. La mamma mi mandò alla farmacia che era accanto a noi per vedere se si fosse fermato là a discorrere. Ma non c'era.

— È passato alle due e mezzo tornando dai vespri — mi dissero. — Andava in su verso Borgomanero.

Tornai con quella notizia.

— Allora avrà pranzato dallo zio — disse la mamma.

E diede la minestra a noi che avevamo fame, e sopratutto avevamo bisogno di riscaldarci con quel poco brodo. Ma essa non volle mangiare.

— Non posso, — diceva. — In dieci anni che sono maritata non mi sono mai messa a tavola senza aspettar Vittorio, a meno che lo sapessi impegnato altrove. Poichè non m' ha avvertita, sono certa che verrà presto.

Quella sera per altro si fece aspettar molto. Alle sei non era ancor toranto. Ad un tratto si udì una carrozza. A Fontanetto una carrozza è un avvenimento. Noi tutti corremmo alla porta per vedere.

La mamma sola non si mosse. Ella sapeva bene che suo marito non verrebbe in carrozza.

Quella veniva dalla strada comunale di Borgomanero, ed appena entrata in paese allentò il passo e si fermò alla nostra porta, che era tra le prime.

Allora la mamma accorse, pallida e spaventata. In quella il babbo metteva piede a terra.

— Mio Dio, Vittorio! Cosa t'è accaduto? Non istai bene? Ti sei fatto male?

— Ma no, ma no, Maria. Non agitarti. Sto benissimo, — rispondeva il babbo.

— Eppure… sei venuto in carrozza…

— Ero in ritardo; e non avevo potuto avvertirti che andavo a Borgomanero. So che tu t'inquieti, che non pranzi; ed ho preso una carrozza per non farti aspettare.

— Oh! se era solo per riguardo mio, potevi risparmiare quella spesa. Mezz'ora più, mezz'ora meno…

Noi eravamo tutti attoniti, cogli occhi sbarrati a quel grande avvenimento. A nostra ricordanza non s'era mai fatto lo sfoggio di prendere una carrozza.

Il farmacista, il medico, il segretario che stavano tutti lì presso, erano usciti sulle rispettive porte coi lumi, seguiti dalle loro famiglie. I bimbi scappavano alle mamme, e coi piedi nella neve, correvano a guardare il cavallo ed a toccarlo: noi eravamo un po' superbi che quel cavallo fosse, pel momento, del nostro babbo.

— Le giungono forastieri, signora Maria? — gridava la moglie del farmacista. — Se ha bisogno d'un letto, sa ch'io l'ho di troppo. Ne disponga, veda…

— No, grazie, — rispondeva la mamma. — È Vittorio che torna da Borgomanero.

— In carrozza? S' è fatto male? — domandarono parecchie voci con accento di sincera premura. Ed i lumi s'avanzarono un poco verso di noi.

— No, no, sto benissimo; — rispose il babbo un po' confuso. — Ma vi sono delle strade, che non si può camminare a piedi.

E colla scusa del desinare che aspettava, si affrettò ad entrare in casa.

A me era subito venuto in mente che il babbo aveva pagato quella corsa in carrozza coi danari destinati al dono di ceppo della mamma; e pensavo che aveva fatto male.

Forse la mamma aveva lo stesso pensiero, perchè aveva l'aria afflitta, sebbene volesse dissimularlo. Rientrando evitò di parlare di quella malaugurata carrozza.

— Ecco: lo sapevo bene che tu non avresti mangiato, — disse il babbo vedendo la salvietta della mamma intatta sul tondo. — Via, mangia, ch' io ti terrò compagnia discorrendo.

— Hai pranzato dallo zio?

— Sì. Un pranzo meglio del vostro.

— Com'è che ci sei andato oggi? l'avevi ve duto soltanto ieri.

— Ma se n'era andato un po' in collera… sai…

La mamma arrossì, e si vide che le veniva da piangere quella dolorosa allusione. Il babbo se n'avvide, e per mutarle idee riprese:

— E poi, per fargli raccontare dell'America. Mi diverte.

— Bada, Vittorio, che quello è un divertimento pericoloso…

— Ma che! Mi prendi per un ragazzo, che ha voglia di naufragare perchè ha letto il Robinson Crusoè?

— No: ma quei discorsi di grandezze ti fanno perder di vista la nostra posizione. Ti danno idee grandiose. Vedi? Tre giorni fa, non avresti neppur pensato di sprecare uno scudo in una carcozza per tornare mezz'ora più presto…

— Oh! se poi mi rimproveri anche di usarti delle attenzioni; di non badare ad uno scudo per risparmiarti un'ora d'inquietudine… — rispose il babbo, un po' troppo forte e bruscamente.

La mamma arrossì, gli occhi le si gonfiarono, ma non rispose.

Io trovai che il babbo era ingiusto. Sarebbe stata una miglior attenzione, per la mamma, quella di non andar via con quella giornataccia, di non lasciarla sola con noi a pranzo in un giorno così solenne; di non farla tornar dalla scuola in tanto disagio, senza venire a prenderci ed a portare la bimba. E tutto questo l'aveva fatto senza bisogno, unicamente per ascoltare le ciarle dello zio. E spendeva per la carrozza mentre non aveva fatto il dono alla mamma…

Sì, il babbo aveva torto: ed avrebbe dovuto domandarle scusa, e non lasciarla piangere in silenzio, e farsi merito di quel procedere scortese come d'un' attenzione per lei; e tenerle il broncio per quel lieve rimprovero come se l'offeso fosse stato lui.

Lo trovai ingiusto, e sentii un grande trasporto d'affetto per la mamma, ed un vero bisogno d'andarla ad abbracciare.

Ma ella mi disse subito:

— Va a dare la buona notte al babbo. È ora che vi corichiate, bambini.

Sperai ch' egli prendesse quell' occasione per riappiccare discorso colla mamma. Invece ci baciò tutti in silenzio, e noi ce ne andammo a dormire mortificati.

Il giorno dopo, nè l'altro, il babbo non venne ancora a pigliarci alla scuola. E d'allora, ne perdette l'abitudine.

Lo trovavamo a casa, o vi giungeva subito dopo di noi, sempre di ritorno da Borgomanero.

La sera di Capo d'anno tornò con una larga torta, tutta ornata di zuccaro a vari colori e di confettini.

Quando la scartocciò sulla tavola, i bimbi si posero a gridare ed a batter le mani per la gioia. — Ma io vidi la mamma farsi tutta rossa, ed indovinai che quella era una spesa mal fatta.

— Ti sarà costata parecchio codesta torta? — disse ella timidamente.

— Dieci lire. Ma almeno oggi non si dirà che ho dimenticato i chicchi pe' miei bimbi come a Natale.

— Te ne sei ricordato troppo oggi, mio caro. Sarebbe bastato spendere molto meno.

E la mamma diceva questo sforzandosi di sorridere, per togliere a quelle osservazioni l'apparenza del rimprovero.

— Eh, via! — rispose il babbo. — Ho preso la mesata ieri.

— E ce ne hai rimesso un quinto nella torta. E poi ti offendi se ti dico che qualche volta sei un ragazzo. Non hai pensato che abbiamo da rifare la provvista della legna, da saldare la mesata del panattiere, da comperare le scarpe a Mario ed a Vittoria, e da vivere tutto il mese prima di poter prendere altro danaro? Cattivo! mi toccherà fare dei miracoli d'economia questa volta per bastare a tutto.

— Ah, per Iddio! ha ragione lo zio! — esclamò il babbo battendo i piedi in terra e mettendosi a passeggiare per la camera. — Così non si tira innanzi. Le spese sono grandi, ed i guadagni sono addirittura nulla. Non si può vivere! Non si può vivere!

— Via, Vittorio. — Abbiamo vissuto finora… Ma già, bisogna far economia ed accontentarci della nostra posizione. Ed invece, dacchè è tornato lo zio Lorenzo, ti avvezza alle sue idee più larghe…

— Sì, eh! C'è proprio da averne di idee larghe qui. Per dieci miserabili lire che ho speso, non per me ma pe' miei figli, mi tocca di sentirmi rimproverare… Credo di far un piacere, e faccio un dispetto!

— Ma no, Vittorio. Pensa se ti rimprovero! Se mi fai dispetto! Sono sempre felice delle tue premure pei bimbi, e della loro gioia. Soltanto, vorrei che tu non uscissi da quella misura che ci permette la nostra posizione…

— Ebbene, la cambieremo questa pezzente posizione, che ci fa imbecillire e contar dei centesimi! O se la cambieremo! se la cambieremo!

Quelle scene violente, ed i malumori che ne seguivano, facevano un gran male alla mamma. Ella adorava suo marito, e dirgli una parola che potesse dispiacergli, che non fosse un' approvazione, le era assai più doloroso che di sentirsi disapprovata, rimproverata ella stessa.

— Da quel giorno cessò di fare osservazioni, checchè il babbo facesse. Egli era sempre avanti e indietro a Borgomanero, ed a misura che si famigliarizzava colla casa e colle abitudini dello zio, trovava sempre più meschine la nostra casa e le nostre abitudini.

La mamma faceva di tutto per rimettere le cose com' erano prima. Alle volte si alzava prima di giorno, per preparare qualche buon piatto, e la sera lo metteva in tavola cercando di apparire sorridente e dicendo:

— Oggi vi tratto.

Ma il babbo, invece d' accoglierlo come una volta, rispondeva:

— Lo chiami un trattamento codesto? Se tu vedessi dallo zio! Quelli son pranzi! E che tavola! piatti colle cifre, cristalli, posate d'argento…

Alla povera mamma mancava il cuore. Era ben sicura che gli sforzi, i sagrifici, l' economia, il lavoro di tutta la sua vita, non la condurrebbero mai agli splendori dei piatti colla cifra e delle posate d' argento.

Omai le era entrata nell' anima la triste convinzione che il suo sposo era malcontento accanto a lei; che ella non era più in grado di appagare neppure la più modesta delle sue aspirazioni.

Tuttavia, coraggiosa ed amante, non veniva meno all' ardua bisogna. Continuava a lavorare giorno e notte in casa e fuori. E malgrado la pena che aveva nel cuore, l' ordine più scrupoloso regnava sempre nelle stanze e sulle nostre persone.

Ma non osava più fare il menomo tentativo per dare alla tavola ed alla casa un'aria di festa come faceva prima.

Io mi provai qualche volta, la sera della domenica, a dirle:

— Mamma, è un pezzo che non si fa più serata.

La nostra serata consisteva nell' accendere due lampade a petrolio, che costituivano tutta l'illuminazione della casa; far un buon fuoco, e mettervi a cuocere una pentola di castagne. Noi bimbi si giocava mentre la pentola bolliva; e la mamma ed il babbo discorrevano, interessandosi di quando in quando ai nostri giochi, o leggevano dei giornali illustrati, o qualche libro nuovo. Poi mangiavamo le castagne; poi il babbo suonava fino all'ora di coricarsi. Era una cara festa di famiglia, ed il babbo la godeva come noi. Ma omai egli riguardava con tanto disprezzo la nostra povertà, che la mamma non osava più proporre quel modestissimo spasso.

— A che servirebbe? — mi rispondeva — il babbo non ci si diverte più.

Ed i giorni si succedevano tristi, laboriosi, monotoni.

Il carattere del babbo non era giocondo, anzi era piuttosto taciturno, e rideva di rado. Era soltanto l' inesauribile serenità della mamma, era il brio intelligente della sua conversazione, che lo teneva divertito.

Ma se la forza d' animo e l' attività della buona donna resistevano ai suoi segreti dolori, il suo umore gioviale era svanito colle prime umiliazioni. Quel vedersi disprezzare una sorpresa preparata con molto amore e molta fatica, quell'udirsi vantare godimenti ch' ella non potrebbe mai offrire, quel sentir infruttuoso e non curato ogni suo sforzo per ricondurre la letizia nella sua casa modesta, l' aveva profondamente ferita nella sua delicatezza. Si trovava avvilita, depressa; lavorava, ma dell' arduo lavoro cui non compensa un sorriso; non osava più scherzare, parlava poco. Anche il suo spirito sembrava depresso.

Ed il babbo, che attingeva in lei la sua poca serenità, dacchè ella era triste, diveniva cupo affatto, e s' irritava.

Entrava in casa salutando appena. La mamma, che gli leggeva in volto il malcontento, non osava corrergli incontro per timore di vedersi male accolta o respinta. Era timidissima. Incoraggiata dall' affetto e dal sorriso altrui, era l' anima della casa; ma uno sguardo freddo, un volto accigliato bastavano ad intimidirla. Allora non osava più nulla, si raggruppava in sè stessa, e pareva fredda ed altiera, mentre era invece impaurita.

E però, all freddo e serio saluto del babbo, ella rispondeva con un saluto peritante. Egli, non avvezzo a vederla così, la credeva in collera; se ne irritava; sedeva a tavola senza parlare, e mangiava di mala voglia e con disprezzo. La povera mamma, che aveva fatto tutto quanto poteva per preparargli un pranzo discreto, si sentiva umiliata, scoraggiata di vederlo accolto a quel modo. L' affanno le stringeva il cuore, e non poteva più mangiare.

Allora il babbo, che in fondo l' amava sempre, e soffriva di vederla crucciata, la sgridava:

— Che ella era sempre di malumore, che si atteggiava da martire. — E che cosa le aveva fatto lui perchè fosse sempre tanto malcontenta? Egli non diceva mai nulla. Non la rimproverava, non si lagnava…

— E neppur io mi lagno, nè ti rimprovero — singhiozzava la mamma, troppo lungamente tormentata per poter imporre a sè stessa e frenare le lagrime irrompenti.

— Non ti lagni; ma piangi, sospiri, vegli la notte, non vuoi mangiare. Fai di tutto per ammalarti, per metterci tutti nell' imbarazzo… E poi si dirà che sono io che ti faccio ammalare…

— Ma no, Vittorio; non mi ammalerò. E se accadrà non dirò nulla; nessuno lo saprà; non si faranno commenti; continuerò a lavorare.

— Ecco! ora pare che io dica questo, che curi la tua salute, unicamente per timore che tu non lavori! Ma sono dunque un mostro, da sentirmi dire tali cose? Quando mai t' ho obbligata a lavorare se non ti sentivi di farlo? Quando mai ho ricusato di curarti se stavi male? Mi pare di non essere un tiranno, d' averti sempre trattata bene.

— Oh, mio Dio, Vittorio, non prender le mie parole in mala parte. Se te l'ho detto che non mi lagno di nulla; che non ho motivo di lagnarmi. Tu fosti sempre buono con me. Ho passato degli anni felici. E se soltanto non ti lasciassi influenzare da tuo zio…

— Ah ecco! È qui che t' aspettavo! Tu hai preso ad odiare il mio povero zio, perchè è un uomo positivo, che ci vuol bene davvero, e pensa al poi, e mi consiglia pel nostro meglio a non istarmi a neghittire così nella miseria…

— Ma ci stavi pure così, prima che tornasse lui, e non eravamo nella miseria… ed io ero felice.

— Perchè tu sei una donna sentimentale. Ti basterebbe ch'io passassi la vita a farti la corte; e non pensi all' avvenire, non pensi ai figli che cresceranno…

Queste parole crudeli ferivano profondamente quel povero cuore materno. Il suo pianto diveniva spasmodico e convulso. Il babbo, che pur avrebbe voluto calmarla perchè gli doleva di vederla infelice, sia pel suo umore serio, sia per la tensione dei loro rapporti, vi si appigliava male; ed invece di rivolgerle qualche buona parola, le diceva di non far scene.

Era un' offesa di più. E così, di puntura in puntura, si offendevano, si tormentavano continuamente; ed amandosi sempre, si rendevano a vicenda infelicissimi.

Era tornata la primavera, tutta verdura, sorrisi, speranze; ma non aveva portato nè una speranza, nè un sorriso nella nostra casa, da cui era fuggita la pace.

Era giunta la state colla sua gloria di sole, coi suoi ardori; ma non aveva portato un raggio di luce benefica nel pensiero del babbo, nè aveva riscaldato il suo cuore.

In quell' atmosfera di freddezza, di discordia coniugale, noi poveri bimbi rimanevamo impauriti; non osavamo far chiasso, nè cinguettare come prima. Sebbene la mamma ci spingesse continuamente a correre incontro al babbo, a fargli festa, e ci parlasse di lui quand'era assente, con tutta l'ammirazione ed il transporto del suo cuore innamorato, noi eravamo troppo continuamente testimoni della freddezza con cui egli la trattava, per non comprendere che era lui che la faceva piangere.

Senza punto ragionarci sopra, i nostri giovani cuori soffrivano di quello stato di cose.

Il sentimento di giustizia, innato nell' anima umana, ci faceva istintivamente sentire che il babbo aveva torto: e l'istintiva generosità ci attaccava sempre più alla mamma, che soffriva ed aveva bisogno di conforto.

Là trovavamo l'espansione d'un affetto caldo ed esclusivo; e non sapevamo comprendere quell'altro affetto, potente anch'esso, vero e generoso, ma celato sotto un' arida scorza, che si esprimeva con malumori e contrasti, e coll' aspirazione di abbandonarci, per procurarci, stando lontano da noi, un'agiatezza che non desideravamo nemmanco, dacchè non ne avevamo idea.

Così, dinanzi al cipiglio serio del babbo, noi tremavamo come se temessimo d'esser battuti. Nessuno osava più corrergli incontro, nessuno gli saltava più al collo, nè gli si arrampicava sulle ginocchia. Il cicaleggio giocondo con cui lo assordavamo prima era ammutito grado grado. Ed omai i nostri rapporti erano ridotti al buon giorno, alla buona sera, al ben tornato, a cui ci prestavamo timidamente e senza spontaneità, porgendo la fronte in silenzio.

Tutto codesto lo rendeva infelice, povero babbo! Anch' egli ci amava, ed il suo carattere concentrato ed un po' selvatico aveva bisogno più d'un altro di venir riscaldato con dimostrazioni d'affetto.

Quel cambiamento di modi gli faceva credere di non essere più amato dalla sua famiglia, lo affliggeva. Ed in lui l'afflizione non si manifestava colle lagrime, come nell' animo dolce e sensibile della mamma, ma lo rannuvolava, lo irrigidiva sempre più.

Era un bel pomeriggio di giugno presso al tramonto. La mamma aveva apparecchiato il pranzo, allestita la tavola, e poi s' era messa a sedere col suo lavoro sull'uscio del salotto, che dava in un cortiletto presso la porta di strada; e cuciva aspettando il babbo.

Io mi ero seduta accanto a lei, colla bimba sulle ginocchia, e raccontavo una fola ai miei fratellini aggruppati intorno a me.

Era una fola da ridere, ed i bambini se la godevano tanto, che certo si dovevano udire le loro risate sonore fin sulla strada. E la bimba, che non capiva nulla, divertita da quell'ilarità rumorosa, dimenava gambe e braccia in un vero tripudio. Ed io avanti a raccontare all'impazzata tutte le mattie che mi saltavano in mente, ed a ridere anch'io del mio meglio.

In mezzo a quel chiasso giulivo la porta di strada s'aperse, ed entrò il babbo, serio come sempre.

Le risa cessarono di botto. Io, intimidita d'udir la mia voce risuonar sola sola, dissi ancora poche parole sommesse, poi cessai affatto di raccontare.

La mamma alzò il capo a quel silenzio improvviso, e visto il babbo, si rizzò deponendo il lavoro:

— Addio, Vittorio. Bimbi, date il ben tornato al babbo.

— Ben tornato, babbo! — ripetemmo ad uno ad uno a bassa voce, andando a ricevere il suo bacio cogli occhi dimessi e quasi tremando.

— Ah, per Iddio! A questo sono ridotto? — gridò il babbo entrando dispettosamente e dando un colpo violento sulla tavola. — Faccio paura a' miei figli! Sono il terrore, lo spauracchio della mia famiglia! Non si osa più ridere; non si gioca più, non si parla più quando entro io. Questa è un'azione indegna, Maria. Tu mi alieni l'animo de' miei figli.

— Oh Vittorio, Vittorio! Te ne prego, ascolta…

Ma il babbo era sulle furie, non ascoltava più nulla.

— Se tu non puoi più soffrirmi, — continuava a gridare, — se ti sono venuto in odio, se preferisci piagnucolare da sola che intratten erti con me, pazienza! Mi sono rassegnato, e non ti dico più nulla. Ma lasciami almeno l'amore de' miei bambini…

— Oh mio Dio! mio Dio! — singhiozzava la mamma, incapace di giustificarsi in quella convulsione di pianto.

— Ci vuol altro che piangere! Sei cattiva, Maria. Non l'avrei mai creduto; ma ora lo riconosco. Sì, sei cattiva; hai impressionato i miei figli contro di me. Ma bada, sai! È l'ultimo bene che mi resta ancora, è l'ultimo vincolo che mi lega ancora a questo maledetto paese. Se mi togli questo, per Dio!…

E le andava contro col volto acceso e la mano alzata in atto di minaccia.

Io credetti che volesse batterla. Tutto quanto c'era di passione figliale, d' istinto generoso nel mio cuore, si rivoltò a quel pensiero. Mi slanciai tremante e convulsa dinanzi a lui, e facendo scudo alla mamma del mio piccolo corpo, gridai con terrore:

— No, babbo! per carità, non battere la mamma!

A quelle parole il suo volto divenne spaventevole di sdegno.

— Ah!… ah!… anche di batterla mi credono capace!… — e quella mano alzata tremò oscillando nervosamente in aria: poi cieco, demente d'ira, la lasciò piombare con impeto in volto a me, mentre un singulto, una specie di rantolo soffocato gli scoppiò dal petto.

La mamma mise un grido, balzò in piedi e corse a me. Un rivo di sangue mi grondava dal naso, e mi copriva la bocca, il mento e le vesti.

A quella vista la povera donna impaurita mi prese tra le braccia, come volesse difendermi da una bestia feroce, e respingendo il babbo che s'era accostato pallido e sgomentato anch' esso:

— Va via, brutale! — gli gridò. — Sei indegno dell'amore de' tuoi figli, sei indegno d'esser padre!

— Sì, sono un mostro. Ma sei tu che lo hai voluto. Tu che hai insegnato a' miei figli ad aver paura di me, e credermi vile e brutale. Ma giuro a Dio, che in questo inferno non ci voglio più vivere! Ah! sono indegno d'esser padre? Ebbene, me ne andrò. Non mi vedrete mai più.

E col volto acceso, gli occhi scintillanti, uscì correndo, e spinse con impeto la porta dietro a sè.

Passammo la lunga sera e la notte, i bimbi in un sonno agitato e pauroso, io e la mamma piangendo insieme, e porgendo angosciosamente l'orecchio ad ogni passo che s'udiva nella via.

Ma nessuno s'accostò alla nostra porta. E sole, nella tristezza della notte, pensavamo a quell'anima tempestosa e cara, errante solitaria nell'oscurità.

Appena fu giorno, la mamma mi disse:

— Vittoria, l' esperienza dei nostri crucci ti ha fatta savia prima del tempo. Ora posso fidarmi di te. Ti raccomando i bambini, e specialmente la bimba. Io debbo andare in cerca del babbo e ricondurlo tra noi.

Ma stette fuori molte ore, e tornò sola e piangente. Provvide in fretta per noi, poi uscì di nuovo; e di nuovo rientrò senza ricondurre il babbo. Ed i giorni succedettero ai giorni, i dolori ai dolori; ma nè preghiere nè lagrime valsero a richiamare il babbo alla sua famiglia.

Egli s' era rifugiato presso lo zio. Aveva abbandonato l'organo; alla parrocchia non lo vedevano più; non abitava più nel paese; alle lettere della mamma non rispondeva; ed un mese dopo si venne a sapere che lo zio gli avea prestato i danari del viaggio, ed egli era partito per l'America.

Allora cominciò per noi una vicenda di settimane e di mesi tristi, monotoni, angosciati.

Nei primi giorni dopo quella scena dolorosa, le autorità scolastiche del paese, che erano tutte buone persone conoscenti della nostra famiglia, avevano permesso alla mamma di sospendere la scuola.

Ma dopo meno d' una settimana, ella riprese quell' occupazione, che nelle circostanze attuali rappresentava l'unica risorsa di tutti noi, e vi si applicò, malgrado i suoi crucci ed i suoi pensieri, con attività ancora maggiore di prima.

Nell' afflizione profonda che le stringeva il cuore, ella non perdeva di vista neppur un momento i suoi doveri di madre. L'amore dei figli sosteneva il suo coraggio. Nel migliorare le condizioni della scuola, nel condurla senza risparmio di tempo e di fatica a maggiori progressi, ella aveva di mira la speranza di ottenere una gratificazione che tornasse di vantaggio alla sua famiglia. Ed infatti, quando al finire d'agosto si diedero gli esami, riescirono così soddisfacenti, che la gratificazione le venne aggiudicata.

Allora ella domandò che, invece di una data somma, le si accordasse l' alloggio gratuito. Ed anche questo ottenne.

Fu un sollievo al suo pensiero continuamente intento al modo di far fronte alle necessità della nostra modesta esistenza, senza imporre a noi una privazione, senza fare un debito, senza ricorrere per nulla a quello zio, che, forse inconsciamente e senza malevolenza, aveva tuttavia distrutta la nostra pace domestica, la nostra felicità.

Così, collo spirito alleviato dall' incubo della pigione, ella accolse le vacanze d' autunno, non come un tempo di riposo, ma come una risorsa per crearsi nuovi lavori e nuovi guadagni.

L'indomani stesso degli esami andammo tutti a Borgomanero da un merciaio che dava sovente lavoro alla mamma; ed ella s' accordò con lui per averne di continuo. C' erano dei giubbini a maglia da cucire sui fianchi, e da attaccarci i polsini. E quel lavoro, che abbondava per preparare le provviste dell'inverno, lo prese per insegnare a me ad eseguirlo.

Ed ella s' impegnò a fornire continuamente ogni sorta di lavori in biancheria, pei quali il mercante stesso le mandò la macchina a casa.

Lavorava dall' alba fino a tarda sera, sospendendo soltanto per preparare il pranzo e la cena. Ed io ero gloriosa di lavorare accanto a lei, e di guadagnare anch'io qualche cosa per la famiglia.

Ma la mamma, che non risparmiava punto sè stessa, risparmiava me con infinito amore e mi permetteva di stare seduta al lavoro poche ore soltanto; poi mi mandava a giocare e passeggiare coi miei fratellini.

La nostra casa aveva preso un' apparenza di lutto. Il lavoro procedeva in silenzio; i giochi non erano nè giulivi nè rumorosi; le conversazioni erano piene di reticenze e di cautele. Si sarebbe detto che tutti sfiorassimo lievemente quella difficile esistenza, per tema di risvegliare il nostro grande dolore sopito.

Così passarono le vacanze, tranquille, ma senza sorrisi. Così si ripresero le scuole, con impegno e coscienza, ma senza entusiasmo.

Ed il Natale, la festa delle feste, quel giorno sacro alle gioie di famiglia, ai dolci scambi d'affetto, fu per noi un giorno profondamente doloroso.

La mamma, nella sua inesauribile tenerezza materna, attinse la calma necessaria per pensare ai nostri piaceri, e ci offerse dei piccoli doni. Ma l'angoscia delle memorie le gonfiava il cuore in quel momento: e ci baciò senza dir nulla, cogli occhi velati di lagrime.

Ed a noi mancò il coraggio di manifestare la nostra gioia dinanzi a quei doni d'amore: o forse la gioia stessa ci mancò.

Io, che potevo già comprendere tutto l'affanno della mamma, le gettai le braccia al collo e piansi con lei. E quell' ora di augurii, di contento, di speranza, fu per noi un' ora di sfoghi dolorosi, di rimembranze e rimpianti.

Sul finire dell' autunno la bimba cominciò a soffrire per un dente che le spuntava in ritardo. Le occorrevano medicine e cure.

Una sera di marzo, non potendola in nessun modo acquetare, la mamma la prese in collo per portarla alla farmacia, dove si trovava sempre il medico in quelle ore della sera.

Io la seguivo coi bimbi.

L'impennata della farmacia era aperta. Ma di dentro c' era il lume, e di fuori era buio, per cui quelli che stavano dentro non ci videro giungere.

La bimba aveva voluto scendere a terra e camminare da sè, e noi, per adattarci al suo passo, s' andava adagino. Ed intanto si udivano parecchie voci che discorrevano nella farmacia.

— Era da prevedersi, — diceva il medico, — la musica non poteva essere una risorsa per lui in quei paesi. Se fosse stato un artista di canto, o anche un concertista, avrebbe poturo far denari. Ma un organista ha bisogno d' appoggi, di protezioni per giungere ad un impiego.

— Ed infatti non ne ha mai trovato, — aggiunse il segretario. — Appena potè ottenere alcune lezioni, che non gli davano abbastanza da vivere. Credo che gli stenti siano stati la causa principale della sua malattia.

— Può darsi, — riprese il medico. — Ma è un fatto che anche la nostalgia, ch' egli preferisce confessare per salvare il suo amor proprio, è una vera malattia grave, sa, e capace da sola di ridurlo a quello stato.

Io compresi che parlavano del babbo, e volli spingermi innanzi per troncare quel discorso, prima che la mamma ne udisse di più. Ma ella mi accennò di fermarmi, e celandosi nell'ombra stette ad ascoltare.

— Stamane al mercato di Borgomanero ho veduto suo zio, — entrò a dire il farmacista. — È un uomo ostinato. Non vuol convenire d' aver avuto torto. Dice che l'è andata male a suo nipote, perchè è un balordo; ma che un uomo meno sentimentale, anche nelle sue condizioni, avrebbe potuto farsi una fortuna.

— Gli torna comodo dir così, — riprese il segretario, — per evitarsi di rimediare in qualche modo al male che ha cagionato. Egli non vuole assolutamente riconoscerlo. Quando il nipote gli scrisse che era ammalato nel porto di Lisbona, gli ha mandato un piccolo soccorso insufficiente, dichiarandogli addirittura che non avesse più a contare su di lui; che omai, dacchè ha preso moglie e sta per avere un figlio, anch'egli deve dar conto alla sua famiglia del fatto suo, e non può mantenere parenti poveri.

— Capisco che pensi alla sua famiglia; ma avrebbe anche dovuto pensarci prima di rovinare quella di un altro. Ora quello è un uomo perduto. Fa compassione. Non si sa come abbia fatto a pagare il viaggio. Deve aver avuto ricorso al consolato.

— È probabile. Ed ora come conta di vivere?

— Chi lo sa? Alla parrocchia è sicuro che lo riprenderebbero volentieri, perchè questo supplente è vecchio e non val nulla; ma così, diviso dalla moglie, vagabondo, non lo accettano certo.

— E la moglie ora s'è accomodata a far senza di lui. È una brava donna, lavora, fa economia, e tira avanti bene colla sua famiglia. Non vorrà riprendersi in casa quello sfaccendato, ed ha ragione. Negli ultimi tempi, dacchè s'era messo in capo la manía d'arricchire in America, era sempre fuori, spendeva più del guadagno, che so io? le ha dato de' bei fastidi.

— Ed ora dove sta intanto?

— Dicono che stia a Cressa. In quell'osteria in principio del paese.

La mamma prese la bimba in collo ed entrò risolutamente, calma nell' aspetto come se non avesse udito nulla.

Al vederla tutti cessarono da quei discorsi. Ella s' era guadagnata la stima e la simpatia di tutto il paese. Il farmacista ed il medico si diedero una grande premura intorno alla bimba, e non fecero la menoma allusione al ritorno del babbo.

Quella sera stessa, appena ebbe coricati i bambini, la mamma gli scrisse una lunga lettera, pregandolo di tornare in casa, dicendogli parole d'incoraggiamento, di perdono e d'amore:

« Ella sapeva bene che, se aveva fatto quel passo ardito, era stato per amore della sua famiglia; perchè non aveva saputo comprendere che noi potevamo essere felici anche nella povertà, pur di essere tutti uniti con lui. Che tutti dovevano rendergli giustizia: e non si vergognasse d' un insuccesso. Egli aveva fatto quanto aveva potuto ed in fin di bene: e una disgrazia può accadere a chiunque. Non gli mancava la capacità di riguadagnare una posizione, ed anche di ricuperare il tempo perduto. Che poi non era perduto del tutto. Ci aveva certo acquistata dell'esperienza, e forse la conoscenza d'una lingua… ecc. ecc. »

Tutte le scuse immaginabili, vere o sofistiche, il suo cuore indulgente gliele suggerì.

Ma alcuni giorni dopo ricevette un biglietto del babbo, che rifiutava energicamente quell'offerta generosa.

« …. Tu sei un angelo, Maria, — le diceva; — ed io non sono più degno di vivere con te. Ho meritato la mia sorte; la subisco con rassegnazione e coraggio. Ma non sono ancora tanto vile da venire, cencioso e sfaccendato, a vivere delle tue nobili fatiche. »

Quel biglietto commosse profondamente la mamma. In mezzo alla sventura in cui era caduto, ella riconosceva la dignità di carattere del marito che l' aveva resa felice per tanti anni. E bastavano quelle buone parole per cancellarle dall' animo fin la memoria delle ingiustizie sofferte. Era con tutta l' anima, con tutta l'espansione del suo cuore amoroso e clemente, che lo desiderava, che lo richiamava a sè.

Ma invano ritentò la prova; impegnò l'influenza di amici comuni; e dimenticando le proprie suscettività per amore del marito, ricorse persino allo zio che le aveva cagionato tanti dolori, e lo pregò che usasse dell'ascendente fatale che aveva esercitato sul babbo altra volta, per vincere ora la sua altera ritrosia.

Tutto fu inutile. Il babbo rimase irremovibile. Quanto più la mamma gli pareva virtuosa e buona, quanto più sentiva d'ammirarla e d'amarla, tanto più rifuggiva dal ricomparirle dinanzi in tanto avvilimento.

Viveva di stenti, andando a suonare il violino alle feste nuziali, ed a qualche povera festuccia da ballo da contadini. Quanto a trovare da dar lezioni di pianoforte a Borgomanero o nei dintorni, in quell'arnese di miseria non poteva nemmanco pensarci.

Che esistenza doveva essere la sua! Quell'osteria in cui viveva era una casupola all'ingresso del paesello di Cressa, a circa un miglio da Fontanetto. Noi ci andammo. La mamma non era mai entrata in un'osteria; ma superò anche quella ripugnanza, prima di rinunciare affatto alla speranza di rendere un padre ai suoi figli. E ci andò circondata dalla sua bella corona di bimbi, che le era giustificazione e difesa.

Il babbo era assente. Di giorno non lo vedevano mai. Girava nei dintorni cercando un'occasione di guadagnar qualche cosa col suo violino, o di supplire casualmente nelle chiese qualche organista assente. Non rientrava che a tarda sera, e rimaneva appena le ore necessarie al riposo.

Era un luogo angusto, sucido, ed a quanto si diceva, anche mal frequentato. Noi non potevamo darci pace al pensiero che un uomo giovane, intelligente, di mente e di cuore elevati, avesse a trascinare così in quel decadimento un'esistenza, che avrebbe potuto riabilitare, e rendere utile a sè stesso ed a' suoi.

Ma omai era una questione d' amor proprio. Il suo avvilimento era stato tanto più grande, in ragione della maggior alterezza del suo carattere.

Da lontano egli aveva sentito quel bisogno prepotente del suo paese e della sua famiglia a cui nessuno resiste. Ma appena il ritorno l'ebbe guarito da quella manía nostalgica la quale paralizza ogni altra idea, lo aveva colto la vergogna di mostrarsi alla moglie ed agli amici, nella miseria a cui l'aveva condotto la sua follia.

E, pago d'essersi ravvicinato a quanto aveva di più caro, non cercava più omai che di nascondersi, di vivere ignorato. L'onta d'esser caduto tanto basso gli aveva tolto l' energia ed il coraggio della speranza.

Ogni progresso verso l'inverno aumentava ancora la tristezza della nostra casa.

I nostri serramenti ben chiusi, i nostri abiti di grossa lana, la vampa che rosseggiava nel focolare, la zuppiera che fumava sulla tavola, ci richiamavano alla mente con dolore le stanze gelide di quella povera osteria, ed il posto pagato presso un focolare straniero, e le membra dimagrite e mal coperte, ed il cibo scarso e stentato di una persona che ci era tanto cara. E lo stesso benessere materiale ci era moralmente cagione di pena.

Era un pensiero che, ad eccezione forse della bimba, troppo piccina per comprendere le nostre circostanze, ci tormentava tutti. Ma nessuno lo esprimeva. C'intendevamo senza parlare, e senza neppure dimostrar bene a noi stessi il perchè di quel silenzio.

Era forse un po' dell'orgoglio paterno trasfuso in noi, che c' inspirava una specie di pudore a confessare altamente? anche tra noi soli, la condizione umiliante in cui era caduto il capo della famiglia.

Una volta soltanto mi accadde di farne parola di sfuggita.

Era un mattino sul finir di novembre. Spirava un vento glaciale. La mamma aperse una finestra prima di scopare la stanza, ed un'ondata di vento le sferzò acerbamente il volto.

— Mio Dio, che tempo! — esclamò rabbrividendo. E si mise a piangere in silenzio.

Mario, che stava guardandola, rimase dolorosamente stupito, e mi disse:

— La mamma piange perchè tira vento?

Eravamo avvezzi a vederla così coraggiosa e forte, che quel primo atto di debolezza doveva necessariamente sgomentare un bambino come Mario. Ma io, che leggevo già chiaramente nell'animo della mamma, gli susurrai:

— No; pensa al babbo.

Mario non disse altro; e d'allora, per quanto fosse piccino, comprese quel muto dolore e, muto anch'esso, lo divise.

Nella nostra economica e laboriosa semplicità non ci mancava nulla. Ma era una triste, triste esistenza. Ci mancava la pace dell'animo.

Il Natale s' avvicinava, e noi pensavamo con angoscia al Natale doloroso dei due anni precedenti. Uno, cominciato tra i sorrisi e finito in tempesta: l' altro, tutto lutto di memorie, ed inutili rimpianti.

Io aveva in mente un progetto che mi preoccupava da un pezzo. Ma mi accontentavo di pensarci giorno e notte, di elaborarlo, particolareggiarlo come fa un autore intorno ad una sua concezione; e poi non ne facevo nulla. È la sorte dei progetti audaci, che, sebbene attuabili, finiscono per lo più a morire come fantasticherie, vittime della nostra naturale indolenza.

Intanto eravamo alla vigilia di Natale. Quel giorno era caduta la prima nevicata. Gelava; era un tempo orribile. La mamma era stata tutta la giornata triste e pensosa. La sera nel mettersi a sedere al suo lavoro accanto al fuoco ben nutrito, cedette per la prima volta alla piena del dolore che la straziava internamente, ed esclamò:

— Oh, il mio povero Vittorio! Come avrà freddo!

Nessuno rispose a quella dolorosa parola. Ma tutti la risentimmo nel cuore. La vigilia di Natale, mentre, tutte le famiglie riunite s'allietavano del domani, il nostro babbo era solo ed aveva freddo.

Più tardi Mario mi si accostò e mi disse piano:

— Che Natale faremo anche quest'anno! Povera mamma! Se potessimo almeno farle un dono noi…

— Se potessimo! — risposi io ripensando il mio grande progetto, che fra poche ore non sarebbe più stato che un castello in aria.

— Ma ci vorrebbe danaro, nevvero? — riprese Mario.

— No. Pel dono che penso io non ci vorrebbe danaro, ma coraggio.

— Allora facciamolo.

— Ora è troppo tardi, dissi rimpiangendo già il tempo perduto. Tuttavia, si potrebbe ancora tentare domattina. Vuoi?

— Sì. Ma cos'è? Che s'ha a fare?

— Andare noi due, senza dirne nulla con nessuno, a trovare il babbo. Ed a raccontargli quel che soffre la mamma e noi tutti. Ed a pregarlo, pregarlo, finchè consenta a venire a far Natale a casa, e condurlo noi dalla mamma, e dirle:

— Ecco il nostro dono di ceppo. — Ti pare che sarebbe bello?

— Oh, bello, sì! Perchè dici che ci vuol coraggio? Io non ho paura del babbo…

Ne bisbigliammo ancora tutta la sera e stabilimmo bene il nostro piano. Fin le parole che s' avrebbero a dire all'oste perchè ci lasciasse entrare, ed il discorso da farsi al babbo, tutto fu combinato. Naturalmente toccava a me, che ero la maggiore, di parlare. Ed io ruminai tutta la notte la mia piccola oratoria.

La mattina ci alzammo di buon'ora; ed alle sette eravamo già tutti in ordine; ed io dicevo alla mamma parlando già per Mario e per me:

— Vuoi lasciarci andar noi due a prender il pane? Ci farebbe tanto piacere.

La mamma pensò forse che avessimo bisogno di uscire per qualche segretuccio riguardo ai doni di ceppo, e consentì. Noi avevamo appunto contato su quella supposizione, per ottenere quel congedo.

Scendemmo la contrada di corsa. Lasciammo il cesto dal panattiere, e via nella neve traverso la campagna. In breve ci lasciammo dietro il paese, poi la Madonna di Cressa. Ancora una corsa, ed in meno di mezz'ora eravamo davanti all'osteria.

Non nevicava più: ma tutta la campagna biancheggiava della nevicata della notte. Era un freddo glaciale. Non si vedeva nessuno per via; anche l'osteria era ancora tutta chiusa, porte ed imposte, e vi regnava il più assoluto silenzio.

— Poveri noi; dormono tutti, — dissi fermandomi esitante dinanzi alla casa.

— Bussa, — mi rispose Mario.

— Bussa tu.

— Io non oso. Non si ode alcun rumore. Sembra ancora notte. L'oste ci sgriderebbe.

— Gli diremo che siamo i figli del babbo e che veniamo a prenderlo per far Natale con noi.

— E poi?

— E poi s'entrerebbe.

— Sì eh? Ma sai pure che il babbo non è di buon umore appena svegliato. E destarlo così all'improvviso poi, noi ch'egli non aspetta… No, no. C'è da farlo andare in collera. Io non busso.

— E allora che fare? — domandavo io, trovando il mio bel progetto assai più comodo da pensare che da eseguire.

— Oh bella! Bussa tu. Sei tu che hai inventato di venire, e poi tu sei grande.

— Sì, ma anch'io non oso.

— Allora non serve star qui. Andiamo. La mamma ci aspetta per la messa.

— No, no. Se andiamo via così, non avremo nessuna sorpresa da fare alla mamma per dono di ceppo.

— Dunque deciditi allora. Bussa, fa presto. Io t'accompagno.

— Sì; bella risorsa quand'io ho da fare il più. No. Mi viene un'altra idea.

— Più facile?

— Più facile. Scriviamo al babbo.

— Tò, è vero. Com'è che non ci avevamo pensato? Sì, scriviamo, — disse Mario tutto lieto di quel nuovo progetto, che non richiedeva nessun atto d'audacia, e non esponeva a rabbuffi; e s'avviava per tornar a casa.

— No, Mario, — gli gridai. — Aspetta. Non dobbiamo mica scrivergli una lettera, sai!

Ah no? Perchè?

— Perchè di lettere ne ha già scritte la mamma, e non hanno servito a nulla. E poi la nostra l'avrebbe soltanto domani dalla posta; e domani non è più Natale.

— E come vuoi fare per scrivergli?

— Gli scrivo qui. Che possa capire che siamo venuti per cercarlo; che volevamo vederlo, parlargli. Guarda!

E facendo un largo giro per lasciare intatto uno spazio di neve, andai a collocarmi proprio contro la porta, e là m'inginocchiai; poi, sullo strato bianco che copriva il terreno, scrissi con un dito a grossi caratteri:

« Babbo, è Natale. Ma la nostra casa è triste e fredda senza di te. E tu pure devi essere triste e freddo lontano da noi. Vieni, babbo; vieni a riscaldarti al ceppo che riscalda i tuoi figli. »

Quelle poche parole m'avevano domandato del tempo per scriverle a quel modo, e ne avevo agghiacciate le mani. Ed io le credetti eloquenti, in proporzione della pena che mi costavano. Sparsi un po' di terra nei solchi fatti dal mio povero ditino per segnar le parole, affinchè risaltassero scure sul fondo bianco; poi le rileggemmo soddisfatti e commossi, e pigliandoci per mano, riprendemmo di corsa la strada verso casa, persuasi che il babbo non resisterebbe alla nostra eloquenza.

— Verrà subito? — diceva Mario.

— No. Oggi si alzerà più tardi, perchè è Natale. Lo troveremo a casa tornando dalla messa.

— E se, non trovandoci, te n' andasse via ancora?

— Eh via! Sai pure che rimane il piccino colla bimba.

Riprendemmo dal panattiere il cesto col pane, e ci affrettammo a tornare a casa.

Eravamo violetti dal freddo. La mamma guardò prima noi, poi il cesto, come se vi cercasse la spiegazione di quell'assenza prolungata. Ma ancora pel riguardo di non guastarci una sorpresa, non disse nulla. Gli sguardi d'intelligenza che ci scambiavamo Mario ed io, dovettero confermarla nella persuasione che si preparava qualche cosa di misterioso.

Tornando dalla messa, noi prendemmo la corsa al principio della contrada, e ci precipitammo in casa ansimanti, cogli occhi scintillanti di gioia, per veder il babbo, poi essere i primi ad annunciarlo alla mamma.

Ma la casa era tranquilla come quando ne eravamo usciti. Il fratellino raccontava una fola senza costrutto alla bimba, che galloriava felice di quel chiacchierìo, senza capirne nulla.

Nessuno era entrato. Nessuno aveva nemmanco bussato alla porta.

— Verrà all' ora di pranzo, — ci dicevamo, per consolarci l'un l'altro di quella prima delusione. E ad ogni passo che risuonava nella contrada ci guardavamo in silenzio, poi guardavamo la porta, e ci batteva il cuore.

Ma l' ora di pranzo arrivò senza condurre il babbo.

Fu un pranzo malinconico. La mamma si sforzava di nascondere a noi che piangeva. E noi eravamo mortificati di quel tentativo fallito, che ci lasciava senza il menomo dono di ceppo da offrirle.

Nessuno ebbe voglia di mangiare: e le poche cose apparecchiate rimasero quasi intatte. E tutta la giornata passò mesta e silenziosa come il pranzo, ed appena fu sera, la mamma, che provava il bisogno di piangere liberamente per sollevare il suo cuore angosciato, ci mandò a coricarci, e disse che si coricava anch'essa.

Avevamo soltanto cinque stanze tutte a pian terreno, appena pochi gradini più alte della strada. Una cucina, un salotto e tre camere da letto.

Io, che ero già più allevata ed avevo meno bisogno d'assistenza, dormivo in una cameretta a destra della cucina. A sinistra c' era, prima il salotto, poi la camera grande dove stava la mamma colla bimba ed una volta anche il babbo; e poi un' altra camerina, piccola come la mia, in cui dormivano i due ragazzi.

Quando entrai nella mia stanza, anch'io mi sentivo gonfio il cuore come la mamma ed avevo bisogno di piangere.

Che Natale! Non ci eravamo neppure scambiato un augurio per non evocare memorie dolorose. Non un dono, non un brindisi; era stato un giorno più triste ancora degli altri. Ed io avevo anche il pensiero che il babbo non ci volesse più bene.

Una volta egli ci preservava tanto dal freddo! Temeva tanto che ci ammalassimo. Se ci avesse amati ancora, si sarebbe commosso a vedere che eravamo andati soli fino laggiù per scrivergli quella lettera sulla neve.

Io non pensava che un altro poteva esser uscito prima di lui ed aver cancellato coi suoi passi tutta l'opera mia.

Mi ripetevo quelle parole scritte che mi sembravano tanto persuasive, e mi trovavo crudele la muta noncuranza con cui il babbo le aveva accolte.

E poi pensavo se tutti gli anni dovrebbero passare come quello, senza un giorno d'allegrezza, senza una gioia, senza un sorriso ad allietare la tristezza della nostra casa.

E, per la prima volta dacchè ero al mondo, stavo là senza coricarmi e piangevo da sola.

Ad un tratto udii, proprio sotto la mia finestra, qualche lieve accordo di violino. Ma lievissimo, come di chi temesse d'essere udito.

Il cuore mi diede un gran balzo. Non c' era dubbio possibile. In paese il babbo solo suonava il violino. Vi potevano essere suonatori girovaghi, ma io non ci pensai nemmanco.

Saltai sopra una sedia accanto alla finestra, ed aprendola domandai con voce tremante:

— Sei tu, babbo?

— Sì, mia bambina, mio angelo, son io, — mi rispose una voce commossa e passionata.

— Oh che gioia, babbo! — gridai. — Torni con noi?

— No. Sta zitta. Vengo soltanto per te: un momento solo. Ho letto le parole che hai scritto laggiù, sulla neve, colle tue povere manine. Non c' era firma, ma ti ho indovinata. Non hai più babbo, sai, povera bambina. Ma c' è un vagabondo, un pezzente, un uomo da nulla, che ti adora, te e quella santa della tua mamma; e che darebbe la vita per voi; per tutti voi. Dillo domani alla mamma. Diglielo che non sono un ingrato, che vi voglio bene. Oh se le voglio bene alla mia cara famiglia perduta! Dille che vado lontano, ben lontano, perchè mi vien meno il coraggio. Sento che non resisterei più alla smania di venir qui, di inginocchiarmi su questa porta, di implorare un perdono che non merito…

Io piangevo dirottamente; e più volte, mentre anch' egli singhiozzava tra parola e parola, l'avevo interrotto dicendo:

— Oh babbo! oh babbo! Non andar via. La mamma ti ha perdonato. Noi ti amiamo tanto…

Ma egli rispondeva:

— No, Vittoria, non insistere: non piangere. Ho voluto dirti soltanto che ho letto le tue buone parole: che mi sono scese al cuore: che ne ho pianto. Me le ricorderò tutta la vita, sai. Mi hai fatto tanto, tanto bene. Ed ora lascia che mi arrampichi fin lì su per darti un bacio: e poi sarai brava; mi lascerai partire.

Più volte gli scivolò il piede, e dovette ricominciare. Era mal coperto; il freddo gli paralizzava le membra, gli irrigidiva le mani, e rendeva difficile quell'ascensione che era per sè stessa facilissima.

Finalmente gli riescì di abbrancare le sbarre della finestra. Mentre vi si ratteneva con una mano, coll' altro braccio che aveva passato di dentro, mi serrava strettamente, poi mi carezzava i capelli ed il volto, mi copriva di baci e di lagrime. Ed io continuavo a ripetere singhiozzando:

— Oh babbo, babbo! Non andar via!

Stette un pezzo così. Non poteva staccarsi da quella finestra.

Finalmente fece uno sforzo sopra sè stesso, mi baciò ancora una volta con transporto, poi balzò a terra e s'allontanò rapidamente.

Ma in quella la porta di casa fu aperta. Traverso il cortile si vedeva l'uscio della cucina spalancato: e le due lampade accese illuminavano a gran luce la tavola imbandita col pranzo di ceppo, che nessuno aveva mangiato quel giorno. La mamma, che, avvertita da quegli accordi sebbene lievissimi, dalla sua finestra aveva ascoltato tutto, aveva mandato Mario a disporre la casa con quell'aria di festa. Poi appena aveva veduto il babbo balzare a terra, era accorsa colla bimba in collo, e fermandolo mentre passava dinanzi alla porta, gli diceva:

— Sii il bentornato, Vittorio, alla tua casa che ti aspetta.

A quelle parole, che evitavano delicatamente ogni allusione al passato, e l'accoglievano come se fosse uscito da un'ora, a quella vista, egli non seppe resistere. Strinse al cuore la mamma, che, sopraffatta da tante emozioni, piangeva dirottamente, e le susurrò:

— Il tuo amore mi riabilita, Maria. Esso mi darà il coraggio di rendermi ancora degno di te.

E quando la mezzanotte coi suoi lenti rintocchi annunciò la fine di quel giorno di festa e d'amore, noi eravamo tutti seduti alla mensa di famiglia. Ci scambiavamo strette di mano, baci ed augurii; ci sorridevamo traverso le lagrime; e la pace e la gioia erano tornate tra noi.



Ci eravamo sposati giovani, ed avevamo desiderato tre anni il nostro primo figliolo; — e quanto desiderato! — S'era agiati, e si sapeva di potergli dare una bella posizione, di non mettere al mondo un disgraziato di più.

Come le ricordo quelle speranze, quelle ansietà, quei progetti! Doveva essere un bimbo robusto, bello, intelligente; la gloria della famiglia. Sebbene fossimo ricchi, l'avremmo fatto studiare egualmente, appunto per la gloria. Con quell'ingegno là, a vent'anni sarebbe stato laureato; epoi via via per la carriera diplomatica se nesarebbe fatto un ministro. Il babbo l'avrebbe veduto con piacere anche generale dell'armata. Egli era un uomo delicato e di poca salute; e per quell' aspirazione che abbiamo tutti alle qualità che ci mancano, amava tutto quanto è una manifestazione della forza. Io invece non volevo che mio figlio fosse soldato. Non ebbi mai tendenze eroiche: quelle madri romane che mandavano i figlioli in guerra senza piangere, mi sono sempre sembrate un po' barbare.

Finalmente quel bimbo venne. Il cuore mi sussultava di dentro all' udire il primo vagito. Stavo maluccio, ma non ci pensavo nemmanco. Tutte le mie facoltà erano assorbite dagli ohè! ohè! di quella vocina acuta.

Ma com'era, in nome del Cielo, quel bambino? Nessuno ne diceva nulla. Erano tutte stupide quelle donne che avevo intorno, per non trovare una parola da esclamare dinanzi a quel prodigio? Oppure era l'ammirazione stessa che le ammutoliva?

Quando Dio volle fecero entrare in camera mio marito. Egli corse al mio letto. Io gli susurrai:

— Il bambino! Guarda il bambino! — e mi tremava la voce di commozione e d' orgoglio materno.

Egli s' accostò alla culla ansioso e sorridente. Lo seguivo collo sguardo per godere della sua meraviglia. Le donne si scostarono. Lo vidi solo in piedi davanti a quella nuvola di mussolina: lo vidi stendere le mani per alzare il pannolino che copriva il nostro figliolo.

Dio dei dolori! che momento fu quello. Egli guardò il volto, sorrise di compiacenza.

— È bello? — dissi.

— Bellissimo; ma piccino come una bambola.

Poi alzò pian piano le coperte che nascondevano il corpicino non anche fasciato, ed il suo sorriso scomparve; si fece serio, e con una voce in cui vibrava tutto il dispetto d'una delusione crudele, esclamò:

— Oh! per carità!!

Debole com' ero, ricaddi sul guanciale, sconfortata delusa anch'io, avvilita nella mia ambizione di madre, senza saperne il perchè.

Mi abbandonai ad un pianto disperato, convulso, che finì in un deloquio.

Il nostro primo figliolo era una bimba rachitica.

Si fece il battesimo senza pompa: non si mostrò la bimba a nessuno. Ce ne vergognavamo.

Eppure le volevamo bene. Quando eravamo soli, andavamo insieme nella camera della nutrice, e ci prendevamo in grembo quella povera creaturina disgraziata, e la carezzavamo, la baciavamo proprio dov'era peggio, susurrandole:

— Povere gambine! — E qualche volta mi sfuggiva il detto:

— Povere gambine belle! — E poi mi si gonfiava il cuore guardandole così stecchite; ed io a piangere, e lui a consolarmi sebbene soffrisse quanto me.

— Comunque sia — diceva — il nostro affetto lo sentirà; e se non l'ameranno gli altri, l'ameremo noi.

Ma che s'annunciasse una visita mentre eravamo in quelle espansioni, e tosto ci rizzavamo come due colpevoli paurosi d'esser colti in fallo. Ci affrettavamo nel salotto raccomandando alla nutrice:

— Non far uscire la bimba; chiudi l'uscio.

Era nata alla fine d' ottobre, e stette fino al maggio senza uscire di casa. Quell' anno però s'andò in campagna prestissimo.

Avevamo una villa sul lago di Como, con un giardino spazioso, dove la nutrice poteva passeggiare colla bimba, farla respirare all'aria libera senza che fosse veduta; e noi passavamo tutto il nostro tempo in giardino con lei.

La sua piccola intelligenza si sviluppava rapidamente. A dieci mesi ci riconosceva; ci chiamava babbo e mamma, ed appena vedeva uno di noi, il suo visino bello s'irradiava d'una sorriso di giubilo; ci stendeva le manine con una avidità convulsa.

Aveva sempre un medico intorno che ascoltavamo tutti come un oracolo, ed imploravamo come un Dio.

Appena la bimba fu divezzata, si cominciò a nutrirla colle cose più stravaganti per ricostituirle l'organismo delicato. Caffè di ghiande di rovere, vino marziale, ferro sotto tutte le sue forme ed i suoi nomi medicinali. E poi bagni medicati, cure idroterapiche e termali.

E la sua salute guadagnò assai. A vederla seduta appariva una bimba gracile, ma sana e bellina. Il suo sguardo ed il suo sorriso avevano una dolcezza infinita; erano lo sguardo ed il sorriso con cui i pittori cercano di rendere la soavità della preghiera sul volto delle martiri cristiane. Le sue guancie avevano il candore dell'avorio, ed alla menoma emozione si colorivano, come se un'onda di sangue le fosse salita impetuosamente al volto. Ma era un sangue appena rosato, ed un minuto dopo riaffluiva al cuore, e le guancie ridivenivano pallide come prima. La sua voce aveva un timbro dolcissimo, ed era modulata come lo è di rado la voce dei bambini.

La sua salute era migliorata col tempo e colle cure; ma nulla poteva dare a quelle gambine esili la forza di reggere la personcina in piedi.

Ella stava delle ore nella sua carrozzella guidata a mano dal servitore e guardava con occhio avido i bimbi del massaio che correvano nel giardino, mettendo quei piccoli stridi acuti e vibranti che accompagnano sempre i giochi dei fanciulli; e sovente mi diceva agitando tutte le membra in atto convulso:

— Anch'io voglio correre. Fammi correre, mamma!

Quando ebbe quattro anni, il medico ci tolse la speranza di vederla camminare. — Bisognò accettare l'idea delle gruccie.

La annunciammo a Carmen come una buona notizia. Ella non ne comprese affatto nè le difficoltà, nè l'umiliazione. Capì soltanto che sarebbe uscita dalla carrozzella, che avrebbe potuto muoversi da sè, e s'abbandonò ad un tripudio doloroso a vedersi.

Ridomandava ad ogni momento:

— E le gruccie? Quando le porteranno le gruccie?

Giunsi in camera una mattina con quelle due piccole croci; le croci che doveva portare per tutta la vita.

Ella stese la mano gongolando, e gridò:

— Dammele, mamma! Oh gioia! Quando torneremo in campagna correrò coi bimbi; giocherò anch'io. Dammele presto.

E se le lasciò applicare sotto le braccia, e fece tutto quanto le disse l'ortopedico con una docilità ed un coraggio ammirabili.

Ma fu un tirocinio lungo e difficile; e quando riuscì a camminare, aveva perduta l'illusione del correre; procedeva malinconica e lenta. Aveva compresa la differenza tra lei e gli altri bimbi.

Da quell'epoca, sebbene non perdesse mai la sua dolce serenità, ricercò meno la compagnia dei fanciulli. Amava di stare colla nutrice o con me; e la sua intelligenza, raccolta in sè stessa, ed esercitata al contatto d'intelligenze mature, si sviluppò in modo eccezionale.

Parlava di rado della sua disgrazia, ma ci pensava molto.

Un giorno che la nutrice le raccontava una lunga fola, quando giunse alla conclusione sacramentale: — Ed ebbero tanti figlioli e vissero tutti contenti, — ella domandò:

— E camminavano quei figlioli?

— Sì, — rispose la, nutrice colta alla sprovvista da quella domanda.

— Ecco, — soggiunse la bimba, — per questo vissero tutti contenti. Ma quando i figlioli non camminano, le mamme non sono contente. Io so perchè la mia mamma piange.

Si raccolse in sè; e la sera mentre la nutrice la svestiva, le domandò:

— Balia, io non avrò mai dei fratellini?

— Sì, — rispose la balia, — potrai averne molti.

La bimba non rispose nulla, e si voltò nella culla come per dormire: ma più tardi, quando io entrai, trovai che era svegliata e piangeva.

— Che cos'hai, amor mio? — le domandai; — cosa ti accadde?

— Io non voglio avere dei fratellini che camminio, perchè tu vorresti bene più a loro che a me.

Quel voto inconsciamente geloso non fu esaudito. Due mesi dopo, Carmen ebbe un fratellino florido e bello come un piccolo amore. Dio! La gioia. l'orgoglio, il contento che mi diede quel puttino!…

Quando mio marito lo mostrava come un prodigio, e ne appariva felice e superbo, mi sentivo come se prima avessi avuto una colpa, ed ora mi fossi riabilitata con un'azione gloriosa.

Facemmo tanta pompa di quel figliolo, quanto avevamo nascosta la bamina. Provavamo un bisogno vanitoso di giustificarci in faccia al mondo.

Il battesimo fu una vera festa. Poi in tutti i ricevimenti mi tenni sempre accanto il mio bimbo, ed appena il medico lo permise, lo feci uscire con me.

Carmen mi disse spalancando gli occhi con aria supplichevole:

— Oh mamma! Io non sono mai uscita con te.

— Tu sei ammalatina, — le risposi arrossendo, — non puoi camminar presto.

— Quando mi tiravan nella carrozzella andavo presto, — osservò.

— Ebbene, un'altra volta verrai nella carrozzella, — le dissi per consolarla.

D'allora non andai più a salutarla col bimbo, e credevo che non pensasse più a quel discorso.

Ella invece nella sua lunga inerzia approfondiva le riflessioni, ed un giorno domandò alla nutrice:

— Come sono le gambe del bambino? Non vorresti farmelo vedere sfasciato?

La nutrice la compiacque. Carmen guardò quelle due gambine color di rosa tutte fossette ed incavature, come se ci avessero legato intorno un filo.

— Le ha tanto più grosse di me che ho cinque anni! — disse. — Questo camminerà. È per questo che il babbo e la mamma gli vogliono più bene.

— Non è vero che li vogliono più bene.

— Ed allora, perchè egli va fuori colla mamma, ed io no?

Queste domande insistenti della piccina, che la nutrice mi riferiva, mi mortificavano. Come tutte le persone orgogliose che si sentono rimproverare un torto, mi sentii irritata contro di lei, ed alla mia volta l'accusai di esser gelosa del fratellino.

Ma la calcunniavo nel mio giudizio. — L'istinto geloso che aveva manifestato prima che Afro nascesse si era dileguato alla vista del bambino. — Quel piccolo cuore avido d'affetto non invidiava al fratello l'amore che mi inspirava, ma soffriva di non potere inspirarmi lo stesso amore. Avrebbe voluto averne altrettanto senza però toglierlo a lui.

Quand'egli cominciò a camminare, ella pianse lungamente.

— È invidiosa, pensai — e le dissi con qualche risentimento: — Vorresti che non camminasse neppur lui?

— No, no! — gridò impaurita. — Voglio che cammini; voglio vederlo camminare. — Poi soggiunse tristamente: — Ma vorrei camminare anch'io.

Il bimbo diceva babbo, mamma, pappa, e poche altre parole; ed era un continuo fargliele ripetere.

Carmen un mattino gli disse:

— Come mi chiamo io?

Il piccino cominciò dal rispondere mamma, poi babbo, pappa, e passò in rassegna tutto il suo piccolo repertorio. Ma ella crollava sempre il capo, diceva sempre di no, finchè stanco di quell'esame, e disperando della riuscita, il paziente domandò grazia strillando:

Pù, pù! — il che nel suo linguaggio voleva dire: Non voglio saperne più.

Allora la sorellina lo divertì coi suoi balocchi, e quando l'ebbe calmato, incominciò ad insegnargli il suo nome.

Ci furono molte difficoltà, ma dopo un esercizio paziente, riescì a fargli dire:

Ca-men.

Ed il bimbo, orgoglioso di quella nuova cognizione, ripetè tutto il giorno la parola imparata.

Quella sera Carmen mi disse:

— Afro ha imparato il mio nome. Son io che gliel'ho insegnato.

Arrossii, e non potei sostenere lo sguardo dei suoi begli occhi amorosi. Sentii che avrei dovuto averglielo insegnato io quel nome. Ma ancora la mia parte di vanità m'impedì di riconoscerlo: ed ancora ebbi l'ingiustizia di accusare la bimba d'essere esigente e pedantina.

Afro invece s'era appassionato per quella sorellina che camminava con due arnesi strani in modo tutto differente da lui e dagli altri. Quella specialità gli inspirava una grande ammirazione. A due, tre anni, appena poteva impadronirsi d'un pezzo di legno adatto alla sua statura, se lo metteva sotto il braccio come una gruccia, e ad ogni tratto era in terra strillando, col capo ammaccato, per quell'ambizione malsana.

Carmen era felice della simpatia che le dimostrava il bimbo, e lo adorava. Gli raccontava delle fole, gli tagliava fantoccini di carta, trovava sempre modo di divertirlo per tenerselo accanto.

Quando Afro si trovava con altri bimbi, diceva loro con orgoglio:

— Sai ch'io ho una sorella che cammina colle gruccie? — E se ne pavoneggiava come as avesse detto:

— Sai che mia sorella è l'imperatrice della China?

Per lo più aveva che fare con personaggi minuscoli, che non avevano la più lontana idea di quello che potesse essere una gruccia, e lo lusingavano con degli Oh! inconsci, ed egli era contento.

Altre volte uno più intelligente sentiva il bisogno d'informarsi meglio, prima di prodigare la sua ammirazione, e domandava:

— Cosa sono le gruccie?

— Le guccie… sono le guccie, — rispondeva Afro con convinzione.

— Ma come sono?

— Sono alte così; e si mettono sotto le braccia così; poi si cammina e si cade a terra.

— Allora tua sorella cade sempre a terra?

— Non mia sorella, io cado. Guarda quest'ammaccatura qui, e quest' altra, le ho fatte per camminar colle guccie.

— Ma dunque sei tu che cammini colle gruccie?

— Nooo! io ho camminato per fare come Carmen.

— E chi è Carmen?

Era un discorso sconclusionato che non aveva più fine.

Una volta, era la vigilia di Natale, venne una signora con un bimbo ad invitarci per l' albero che si faceva in casa sua il giorno dopo.

Afro s' affrettò a dare la sua grande notizia al bambino, il quale aveva l'abitudine di riferire immediatamente tutto quanto udiva.

— Mamma, — gridò subito il piccolo confidente, — Afro ha una sorella che cammina colle gruccie.

— Poveretta! — esclamò la mamma crollando il capo in atto di compassione. E stringendomi le mani, soggiunse:

— Dev' essere un gran dolore per lei.

Le resi la stretta senza poterle rispondere, perchè un impeto di pianto mi soffocava.

Afro rimase attonito a quella scena di commiserazione e di pianto. Si slanciò fuori della sala correndo. Aveva tanto da dire a Carmen.

— Sai? quella signora ha detto poveretta, perchè cammini colle gruccie; ed ha detto che per la mamma è un gran dolore, e la mamma ha pianto.

Carmen sospirò senza rispondergli. Era un argomento penoso per lei.

— Ma perchè è un dolore? — insistè il bambino. — Non è bello camminare così? — e guardò con una specie di sgomento gli occhi di Carmen, che erano gonfi di lagrime.

— Oh bimbo! — rispose Carmen. — È un gran dispiacere ed una grande vergogna.

— E perchè non cammini come gli altri, allora?

— Perchè sono ammalata — e le lagrime fin allora trattenute caddero.

Il bimbo le posò in grembo la bella testina bionda, e stette a lungo fissandola di sotto in su, con quel rispetto pauroso che ispira ai bambini ogni dolore di cui non vedono la causa immediata, e che riesce per loro un mistero.

Poi le domandò timidamente:

— Dove sei ammalata, Carmen?

Ella additò le sue povere gambe stecchite ed inerti, su cui le calzine formavano delle pieghe verticali vuote, come fossero stese sopra un bastoncino.

Allora il bel bambino, con quell' espansione che è un istinto ed un bisogno delle infanzie serene, si buttò a terra, e baciò quelle gambine rachitiche, dicendole:

— Non piangere, Carminetta. Quando sarò grande, butteremo via le gruccie ed io ti porterò….

Non avrei voluto andare a quell' albero di Natale, perchè mio marito da più d'un mese aveva una tosse ostinata, che, in un uomo delicato come lui, m' impauriva.

Ma Afro s' era messo in testa d' andarci e di condurci anche la sorella.

— Carmen piange perchè non può giocare cogli altri bimbi, — strillava. — E voglio che venga con noi all' albero di Natale perchè non pianga più.

Sentii un rimprovero in quelle parole innocenti; eppure resistetti a lungo. Mio marito, dacchè stava male, si rattristava alla vista della bimba inferma.

— Questa mia tosse è più grave che non sembri, — diceva. — Bisogna avere in noi un germe fatale per mettere al mondo una bimba come quella.

Ma quel figliolo idoleggiato aveva finito per diventare un piccolo despota. Si dovette cedere alla sua volontà imperiosa.

Carmen s'abbandonò a trasporti di gioia. Gridava mentre la vestivano:

— Esco colla mamma! Vado all' albero di Natale colla mamma ed il babbo ed Afro!

La sala dell' albero era affollata di bambini. La festa era tutta per loro. Si fecero tutti intorno a Carmen guardandola cogli occhi sbarrati. Quelli ch' erano già stati informati da Afro, domandavano:

— Sono queste le gruccie?

— Come fa a camminare?

Un maschietto più grandicello ed ardito degli altri, ne strappò una di sotto il braccio di Carmen, dicendo:

— Lasciami provare.

Carmen non s' aspettava quell' atto, non s'era appoggiata sull' altra gruccia; perdette l' equilibrio, e cadde a terra.

Il piccolo Afro, che non aveva ancora la forza di difenderla, si mise a piangere ad alte grida.

— Ha fatto cadere Carminetta! Ha fatto male a Carminetta!

Dovette intervenire l' autorità materna. Carmen fu rialzata e posta a sedere. Il colpevole fu punito dalla sua mamma: ed io chiamai a me Afro, che gli mostrava i suoi piccoli pugni rosei in atto di minaccia.

Amministrata così la giustizia, s'aspettava soltanto che fosse passato il singhiozzo del pianto ad Afro, per cominciare l' estrazione dei doni dell' albero. Egli era il più piccino della compagnia e quell' onore toccava a lui.

Intanto il fanciullo che aveva subíto l'umiliazione di domandar perdono a Carmen dinanzi a tutti, gliene serbava rancore. Egli diceva:

— Che smorfiosa quella zoppetta! Non c'era necessità di cadere a terra. Poteva reggersi con l' altra gruccia. L' ha fatto apposta per farmi castigare.

Non c'è idea bislacca, la quale non trovi i suoì aderenti. Vi furono parecchi fanciulli che presero partito per lui, e si diedero a ripetere con una compiacenza idiota:

— Sì, sì; l' ha fatto apposta!

Incoraggiato da quelle facili adesioni, il colpevole disse alla piccola schiera:

— Fate come me. — Ed andando contro la poltrona dove avevamo adagiata la povera Carmen, le gridò:

— Zoppetta! — E tutti gli altri dietro a lui: — Zoppetta! Zoppetta! — E prendendosi per mano si posero a danzarle il giro tondo d'intorno, strillando tutti: « Giro, giro tondo » — e poi:

— Zoppetta! Zoppetta! — Bacile senza fondo… — Zoppetta, zoppetta!…

Carmen aveva gli occhi grossi di pianto, tremava tutta; ma stava zitta. Le si vedeva in volto che comprendeva la sua sventura, e si rassegnava alle conseguenze. Era una pietà.

Ad un tratto ella s' accorse di me, che rientravo riconducendo Afro consolato. — Al vedere il bambino, il volto di Carmen si colorì, il suo tremito si fece più convulso, e, giungendo le manine con angoscia, supplicò a quei monelli:

— Per carità! Non lo dite dinanzi a lui. Egli non lo sa, e mi vuol bene ancora. — E le lagrime frenate fin allora, le caddero lungo le guancie, così copiose e desolate, che parte per lo stupore, parte per la pietà, i bimbi rimasero tutti paralizzati, colla bocca aperta, non osando proseguire il guioco crudele.

« Afro non lo sa e mi vuol bene ancora! » Era quanto dire che io ed il babbo non le volevamo più bene. Ed in quel piccolo cuore di sette anni, in quel povero cuoricino di inferma, avevo lasciato crescere quell' immenso cruccio!

In quel momento mio marito entrava anch'esso nella stanza dell'albero. Lo vidi pallido, magro, rovinato, e sentii dentro di me una convinzione terribile, che la giustizia eterna mi toglieva il marito, per punirmi di essere stata ingiusta con mia figlia.

Quella notte Carmen ebbe la febbre. Il medico ci raccomandò di evitarle ogni emozione, perchè potevano esserle fatali ed anche mortali. Ci volle una lunga cura per sradicare quella febbriciattola nervosa e la bimba ne uscì smagrita, ch' era una compassione vederla.

Intanto anche mio marito peggiorava sempre. I freddi acuti del gennaio gli aumentarono la tosse. Si cominciarono a vedere negli sputi delle strisce sanguigne…

Oh! Dio! Non posso raccontare quei mesi d' agonia.

Lo perdetti in aprile.

Sono cose che non si narrano. Il sentimento pauroso, disperante dell'ultimo abbraccio, il vuoto, il gelo, la disillusione, l' ira dirò, che entra nel cuore d' una donna in quel momento, nessuna parola umana potrà dirli mai.

Non so quanti giorni fossero passati, — non sapevo nulla, ero come pazza — quando una mia zia, col pretesto della parentela, obbligò la cameriera ad introdurla, e venne a portarmi le condoglianze sue e di suo marito. Mi fu impossibile di risponderle. Mi parve una derisione. Cosa poteva sapere del mio dolore, lei che aveva il marito a casa in buona salute, e che andava a pranzo con lui! La congedai freddamente, e la mattina seguente partii coi miei figlioli per la villa.

Avevo bisogno di isolarmi. Tutta quella gente che continuava a far visite, riceverne, aprire i negozî, comprare, vendere, come se non fosse accaduto nulla, mentre io sentivo l' avvenire spezzato, tutta la vita sconvolta, m' indignava. — Conservai l' abbonamento al giornale che leggeva lui. Aveva annunciata la sua morte con parole strazianti:

— Questo almeno ne ha sentita e deplorata la perdita — dissi.

Nell' egoismo della mia disperazione mi figuravo che quelle tre pagine di stampa dovessero sempre parlare quel linguaggio di tristezza. Dacchè ci eravamo compresi, credevo che dovesse dividere sempre il mio cruccio.

La prima volta che lo apersi in campagna, trovai l' annucio d'una saltimbanca, al punto identico della terza pagina, dove avevo letta quella necrologia commovente. Rimandai il giornale, e troncai l' abbonamento. Così ruppi l' ultimo vincolo che mi legava alla società.

Non vedevo altri che i miei bambini, le loro nutrici, ed il medico di Carmen. Essa era sempre infermiccia, aveva bisogno di cure infinite, e sopratutto s' aveva sempre a risparmiarle qualunque emozione. La perdita del babbo, per quanto gliela annunciassimo con circospezione, l' aveva scossa fatalmente, ed aveva rieccitata quella febbriciattola da cui s'era penato tanto a liberarla.

Cercavo di non piangere dinanzi a lei per non commoverla. M'era divenuta immensamente cara, dopo quella sera in cui l'avevo udita esclamare:

« Afro non lo sa e mi vuol bene ancora. »

Avrei data la mia vita per lei; sarei stata felice di darla; mi sarebbe sembrata una riparazione de' miei torti materni.

Ma pur troppo le era entrata nel cuore la convinzione ch' io non l'amassi, che la sua disgrazia fosse una vergogna per me.

Questo pensiero paralizzava le sue espansioni. Nella delicatezza del suo sentimento, si sentiva umiliata all' idea d' impormi delle carezze che dovevano riescirmi penose, e non osava nè toccarmi, nè domandarmi un bacio. — Se la prendevo in grembo, ci rimaneva impacciata come un contadino in una poltrona.

Un giorno che l' avevo colmata di carezze, mi prese una mano e la baciò con effusione di riconoscenza dicendomi:

— Povera mamma buona, che non vuol affliggere la sua bambinetta malata, e mi fa dei baci per non farmi comprendere che le faccio pena.

Tutto quello che potevo dirle per persuaderla del mio affetto era a' suoi occhi una menzogna pietosa. — E tuttavia nella sua clemenza generosa, non me ne faceva colpa. Credeva che la freddezza che le avevo pur troppo dimostrata, e di cui m' ero ravveduta troppo tardi, fosse una conseguenza naturale della sua deformità. — E le mie dimostrazioni d' affetto le credeva finzioni caritatevoli della mia cortesia materna: e ne era grata senza credercì.

Era una cosa crudele, e mi faceva piangere.

Carmen se ne avvide, ed evitò quel discorso: a poco a poco si rifece espansiva, e finì coll'abbandonarsi alle mie carezze con un sorriso di beatitudine. — Credetti d' averla finalmente persuasa del mio affetto materno, e mi sentii consolata.

Eravamo sempre soli. Carmen era così intelligente che a otto anni mi era già come un'amica. Stava seduta accanto a me mentre lavoravo: discorreva, leggeva con me.

Afro era il nostro amore e la nostra distrazione. Aveva quattro anni, e tutta l' allegria spensierata della sua età. Egli non aveva capita la morte del babbo; e quando diceva:

— Il babbo è andato in paradiso, — si sforzava di dirlo con voce sommessa per fare come noi, ma intanto sorrideva. Per lui il paradiso era un luogo estremamente divertente. Gliene avevano raccontate molte storie di angeli, e di pane d' oro, e di giochi eterni, e gli pareva una buona cosa che il suo babbo ci fosse andato.

Era un bimbo irrequieto e nervoso. Non sapeva star cheto un minuto. Faceva un chiasso assordante, e sentendosi amato fino alla debolezza, ne profittava per imporci tutte le sue volontà.

Il solo ascendente che potesse in lui, più che l' attrazione dei giochi, era quello di Carmen. Dacchè aveva compreso che era ammalata, la sua ammirazione s'era mutata in un sentimento di protezione cavalleresca, ch'egli esprimeva sempre colla promessa di portarla quando sarebbe grande. Qualunque gioco lo occupasse, qualunque compagnia avesse, bastava che Carmen lo chiamasse a sè, o che vedesse cadere una delle sue gruccie, per lasciar tutto e correre a lei.

— Aspettate, — diceva imperiosamente ai suoi piccoli compagni, — è caduta la gruccia a Carminetta.

E correva a raccoglierla, poi porgeva il visetto tremante d' impazienza perchè sapeva di averne in compenso un bacio, — e via a giocare daccapo.

E se qualcuno, per abbreviare la cosa, raccoglieva la gruccia prima di lui, erano pianti ed altri guai.

Voleva raccoglierla lui; toccava a lui solo. Lui solo era suo fratello, e doveva portarla quando sarebbe grande.

Quando non aveva altri bimbi per sollazzarsi insieme, trovava modo di giocare con noi, ed era uno de' suoi piaceri favoriti.

Veniva adagio adagio, credendo di non esser veduto finchè ci era dinanzi. Poi protendeva la testina giuliva, colla bocca aperta pronto a ridere, e mostrando tutti i suoi dentini nascenti, gridava:

— Ca-men!

Allora una di noi faceva l' atto d' inseguirlo; e, fosse pure Carmen, della quale era ben sicuro che non poteva correre, egli scoppiava in risate sonore, e via correndo, barcollando, voltandosi ad ogni tratto, urtando nei mobili come un piccolo ubbriaco.

Noi si soleva dire:

— Fortuna che il giardino e la casa sono grandi. Se fosse sopra un ponte, con quella corsa squilibrata cadrebbe cento volte dai lati.

Carmen dimenticava le sue sofferenze, le sue melanconie in quelle chiassate col fratellino, e ci godeva, poveretta, come se giocasse anche lei. Quando i bimbi del vicinato mancavano di venire, diceva:

— Oggi Afro è tutto per noi.

Ma stava sempre maluccio. Non poteva acquistare forza nè appetito, e quella febbriciattola tratto tratto ricompariva. — Il medico diceva:

— È una fibra delicatissima, un organismo malato, a cui si aggiunge una sensibilità morbosa. Se tutto va liscio, può darsi che cresca, che tiri innanzi degli anni, che invecchi anche. Ma un disordine nel vitto, uno strapazzo, o una scossa morale, possono ucciderla. Ci stia attenta. Bisogna farla vivere a forza di cure.

Ed io non pensavo ad altro. Il pranzo, i caloriferi, gli abiti, i letti, tutto per me era oggetto di grandi preoccupazioni. — Col cruccio vedovile che mi struggeva il cuore, bisognava udirmi ogni mattina, per lunghe mezz' ore, discutere col cuoco sopra un pollo ai ferri piuttosto che lesso, una bistecca, un pasticcio, per capire cosa potesse convenir meglio allo stomaco fragile di Carmen.

Mi ero già rassegnata, per lei, a passare l'inverno in città. Ma il medico trovò che starebbe meglio in villa e mi consigliò a rimanerci. Infatti la nostra casa non poteva essere situata meglio. Era in Tremezzo, il punto migliore de lago, con un buon appartamento da inverno ed il giardino esposti a mezzogiorno.

Ai primi di novembre eravamo già rinchiusi colle doppie impannate, caloriferi, e tappeti, e parafreddo dappertutto. Soltanto nelle ore del sole, quando il tempo era bello, si aprivano le finestre a cui faceva davanzale un cornicione sporgente, largo circa mezzo metro, che si stendeva su tutta la facciata della casa.

I passeri ci venivano a garrire le loro lagnanze pei campi mietuti, per le vigne vendemmiate, per le frutta raccolte, per gli orribili fantocci messi a guardia dei terreni seminati, nell'intento inospitale di scacciarne colle loro paurose figure i poveri passerini affamati in cerca di granellini e di semi.

I bimbi gettavano briciole di pane sul cornicione, e gli uccellini le venivano a beccare trillando, li ringraziavano con un rapido movimento del collo, facevano qualche saltellino di gioia, e via cinguettando i loro commenti all' aria discreta.

Quando s'avvicinò il Natale, Afro all' udirne parlare cominciò a rimpiangere l'albero, che in casa dei suoi compagni di Milano si doveva fare come l'anno innanzi. — Egli ci si era divertito molto, ed avrebbe voluto tornarci, ed era un peccato essere in villa, e non voleva starci più, e voleva… l'albero di Natale, e lo voleva, lo voleva… — e pestava i piedini e strillava cogli occhi asciutti.

E dopo i capricci venivano le preghiere.

— No, mammina bella, non farò più capricci, non dirò più voglio, non dirò più d' andare a Milano se fa male a Carminetta. Ma fammi l'albero, mamma, fammelo… Soltanto un alberino così, così, così… — E diminuiva sempre la misura fino a ridurla alle proporzioni minime d'una falange del suo ditino.

Carmen, che non sapeva negar nulla a quel puttino capriccioso e buono, intercedeva per lui.

— Via, faglielo, mamma. — E lui:

— Vedi? Ne ha piacere anche Carmen. Vero che tu pure vuoi l'albero, Carminetta? Vedrai come ti porterò quando sarò grande. Ti farò un alberone, e ti porterò in braccio a danzarci intorno il giro tondo.

Bisognò accontentarlo; e quando ebbi detto di sì, fu un tale tripudio, una tal confusione di progetti insensati, un tal ridere colla sua bocchina rosea, che mi sentii largamente compensata di quella promessa, ed incoraggiata a mantenerla.

Quanto ad invitati, potevamo avere soltanto i figlioli del massaio e dei contadini del vicinato. Ma questo non crucciava menomamente il piccolo Afro. Anzi era ambizioso di far vedere a quei contadinelli una meraviglia di cui non avevano idea, di descriverla prima, e di ripetere a sazietà:

— E lo fa la mia mamma quell'albero; è mio. Ci si mettono sopra molti doni che costano tanti, tanti danari. E poi li prenderete tutti voi altri. Noi ve li diamo tutti.

E nella sua generosità vanitosa, si compiaceva di fare la gioia dei piccoli compagni, e di farla da signore, e d'essere ammirato per le ricchezze della sua famiglia.

Carmen pure era contenta, ma d'una contentezza più nobile. Ella non era ambiziosa. Era pietosa e buona, e mi consigliava:

— Spendi poco nei balocchi, mamma. Serba il danaro pei vestitini. Debbono avere tanto freddo que' poveti bimbi mal coperti. Le loro mamme ci avranno più gusto di poterli vestire, che d'aver dei giocattoli per trastullarli.

Facemmo a suo modo. Rizzammo un albero che pareva una bottega da rigattiere. Sotto gli aranci ed i chicchi pendevano giacchette di fustagno, zoccoletti e scarpine grossolane colle suole tempestate di chiodi, grembialini e vesticciole di cotonina, calze e giubbini di lana fitta e pelosa. Era l'albero più brutto e meno elegante che si potesse vedere.

Ma Carmen ed il bimbo erano contenti. Ed io poi! Vedere i miei figlioli così buoni era per me il migliore di tutti i doni di ceppo. Però la mia gioia era superficiale. In fondo al cuore aveva una zavorra che ne paralizzava i sussulti di piacere. C'era quel vuoto orrendo nella mia casa che non doveva più riempirsi. E c'era la salute vacillante di Carmen, il suo smagrire continuo; — e quel rimorso d'averla trascurata un tempo, d'averla amata poco e male, di essermi vergognata di lei, d'averle dato dei crucci che forse avevano contribuito ad aggravare il suo male…

Non potevo togliermi dalla mente un pensiero crudele.

— Io non merito d' avere una bimba così buona; deve accadere qualche cosa di terribile, per farmi scontare questa fortuna immeritata.

Afro aveva danzato intorno allo scheletro dell'albero, aveva cantato, gridato, tutto il tempo che s'era impiegato ad ornarlo. — Al mezzodì era finito. — Allora la sua gioia cominciò a manifestarsi con tali urli, con tanto clamore, che non c'intendevamo più a discorrere.

— Sta zitto, Afro, — gli dissi. — Il giorno di Natale non sta bene gridar così. — E lui a strillare più forte:

— Ma io grido perchè è il giorno di Natale, ed abbiamo fatto l'albero. È il Natale! è il Natale!

— Vuoi star zitto? Carmen ha male al capo. — E mi alzai per pigliarlo in collo.

All'udire che Carmen aveva male tacque subito, e fece atto d'accostarsi pianino a lei. — Ma appena vide che mi movevo per raggiungerlo, dimenticò quel momento di preoccupazione, e cominciò il solito gioco. Andò a rimpiattarsi dietro l'albero, e quando girando dall'altra parte gli fui dinanzi, via di corsa sghignazzando e barcollando ed urtando dappertutto. — Urtò i rami dell'abero mal sicuri, e ne fece cadere una pioggia di mercerie dozzinali.

— Smetti quel gioco, — gli disse Carmen mentre io riparavo i danni. — Farai cader tutto.

Ma che! aveva incominciato ad eccitarsi, e vedendo ch'io ero occupata, andò a correre dinanzi alla sorella, ed urtò nell'albero un' altra volta. — Ed io daccapo a raccogliere, e lui daccapo a far cadere.

Quella novità lo divertiva. Credeva di farmi uno scherzo obbligandomi a ricominciare tante volte lo stesso lavoro, e non voleva più smettere.

Le finestre erano aperte; il tempo era splendido. Carmen gli disse:

— Guarda, Afro; fino i passerini si spaventano del chiasso che fai e vanno via. Vieni a richiamarli.

No. Egli non voleva saperne. Continuava a venirci ad invitare, poi a correr via ridendo e gridando, e l'albero intero vacillava e minacciava di rovinargli addosso.

— Bada, bimbo, che ti metto in castigo, — gli dissi con serietà.

Sempre inutile.

— Prova; vieni a pigliarmi! — gridò più che mai animato all'idea che dovessi inseguirlo.

Con quelle gambine corte, la sfida era audance assai. In due passi l'ebbi afferrato e, per toglierlo dal pericolo, lo portai nella mia camera da letto, che era accanto al salotto dov'eravamo, e ve lo rinchiusi.

Per un momento strillò come se lo scorticassero, poi a poco a poco abbassò la voce e finì per acchetarsi.

— Si sarà messo a giocare, — disse Carmen, venendo a sedere sullo sgabello ai miei piedi. — Vuoi ch'io vada a liberarlo?

— No, lascialo un poco dacchè non piange.

Mi presi la testina di Carmen con una mano, me la feci posare in grembo, e rimanemmo così nella penombra dietro l'albero, che ritto nel centro del salotto, stava tra noi e la finestra.

Guardavamo il sole traverso quei rami e quei frutti straordinari, e vedevamo i passerini inoltrarsi più dell'usato, ed osservare cogli occhietti furbi e diffidenti quella vegetazione improvvisata.

— Guarda come fanno, — disse Carmen. — Vorrebbero venire a beccare gli aranci, ma non osano. Hanno paura dei giubbini. Lasciami andare a pigliare il bimbo. Sai come si diverte a vederli.

— No; avrà da divertirsi abbastanza questa sera. È bene che senta un po' il castigo.

— Via, mamma; cos'ha fatto poi? Un po' di chiasso come ne fa sempre. La colpa non è sua se ne sono avvenuti dei danni. È dell'albero che gli dava tra i piedi.

— Doveva obbedire quando gli dissi di smettere. — Tu vorresti dargliele tutte vinte.

— È vero. Mi fa male vederlo scontento. È così carino, e mi vuol tanto bene. È il solo piacere ch'io abbia.

— Ed io ti sono un disgusto, Carminetta?

— Che! Tu sei la mamma. — Ma lui è tutto gioia, tutto affetto. Quando mi dice le sue sciocchezzine espansive, e mi promette di portarmi quando sarà grande, non sento più che sono ammalata. Mi fa tanto bene quel puttino, che se non avessimo lui, non potrei più vivere.

Carmen finiva appena quel discorso, che una vista tremenda mi sollevò dal cuore il più disperato, il più pauroso grido materno. Ma, prima che mi sfuggisse dalla gola, la mano di Carmen mi chiuse la bocca, e la sua voce, fatta imperiosa dall'eccitazione del momento, mi susurrò:

— Taci, mamma; se s'accorge che l'abbiamo veduto, si mette a fuggire e cade.

Soffocai il grido che si mutò in un rantolo; le braccia mi caddero, un fremito mi scosse tutta, rimasi paralizzata in una convulsione angosciosa, coll'occhio fiso attraverso i rami dell'albero, su quella scena orrenda.

Afro, il mio bel bambino, era là come un passero sul cornicione che formava un davanzale alle finestre, e protendeva la testina cogli occhi scintillanti e la bocchina aperta, pronto a voltarsi appena sapesse d'esser veduto, ed a prendere la corsa indietro su quello spazio stretto, sospeso tra cielo e terra, per andarsi a sfracellare quel corpicino adorato sui sassi della riva!

Dire che era uscito dalla finestra della camera da letto, ed aveva attraversato uno spazio di cinque metri lassù! Erano gli angeli del cielo, era lo spirito del suo babbo morto, era l'amore santo di Carmen che l'avevano trattenuto su quel precipizio! — Ma allora doveva esser venuto piano piano per farci la sorpresa. E la cautela di non farsi udire, e l'ignoranza del pericolo l' avevano salvato. Ora invece, se prendeva la corsa, se si voltava per guardarci, se barcollava, se urtava nel muro… Dio eterno!

Carmen tremava come me, e la sua mano era diaccia. Ma non mise neppure un gemito per non avvertire il bimbo che era osservato.

Si rizzò, pallida come un cadaverino, sulle sue gruccie, e lentamente, col capo rivolto alla parete opposta alla finestra, uscì di dietro l' albero.

Che momento! Se al vederla egli si fosse messo a fuggire!

Ma no; il bimbo rimase ancora là sospeso tra la vita e la morte. Egli voleva che gli si badasse, e si facesse l'atto d'inseguirlo. — Per invitarci sporse il visetto più innanzi; tutte le sue membra cominciarono ad agitarsi nervosamente per l'ilarità repressa, alzò un piedino, e gridò:

— Carmen!

S' ella avesse voltato il capo, Afro era perduto.

Quella bimba di otto anni, nell' agonia suprema di quel momento, ebbe la fermezza eroica di non voltarsi, di non fare il menomo atto che tradisse la sua attenzione. Avanzò ancora un passo, poi si lasciò sfuggire una gruccia, e cadde a terra.

Allora il bimbo dimenticò il gioco, mise dentro prima una gambina, poi l'altra, e rimase seduto sul davanzale; di là saltò sopra una sedia che era presso la finestra, dalla sedia a terra, e corse verso la sorellina caduta.

In quella, due gridi strazianti, uno sfogo irresistibile di angoscia e di gioia, lo arrestarono stupefatto. — Ma io sola corsi a lui; Carmen, dopo quel grido, dopo quello sforzo supremo, era svenuta.

Quando rinvenne, aveva una febbre violenta accompagnata da vaneggiamenti paurosi. Vedeva il bimbo percorrere coi suoi piedini mal fermi il tratto che separava le due finestre. Le pareva che, giunto a metà di quella via perigliosa, accelerasse il passo, si agitasse nel suo riso nervoso, perdesse l' equilibrio…. Oppure era un passero che gli sfiorava i bei ricci biondi; egli staccava le manine dal muro, le protendeva verso l' uccello, e precipitava nel vuoto.

Carmen metteva gridi acuti, disperati, credendo di vederlo cadere.

Tutto il suo corpicino macilento si dibatteva in convulsioni spaventose, ed il medico crollava il capo dicendo:

— È stata un' emozione troppo forte. Non può superarla.

Finalmente, a forza di calmanti, sull' imbrunire ci riescì di tranquillarla, e rimase assopita.

Dapprima fu un sopore agitato, ma a poco a poco le scosse nervose cessarono, e cadde in un sonno profondo.

Alle otto giunsero i piccoli invitati per l' albero che, nell'agitazione di qu el giorno, nessuno aveva pensato ad avvertire della malattia di Carmen.

Mandai la cameriera col bimbo a distribuir loro i doni ed a congedarli.

— E se Afro ci si diverte, trattienilo di là, — soggiunsi. — Qui disturberebbe la bambina, ed io non ho testa di badare a lui.

Rimasi sola accanto al lettuccio, guardando il povero visino della malata, ripensando la sua vita solitaria, la sua infanzia senza gioie, i suoi dolori precoci. Mi tornava in mente il giorno in cui mi aveva detto:

— « Oh mamma! Io non sono mai uscita con te. »

Se avessi potuto rivivere quel passato: portarla sempre in collo, farle ignorare la sua disgrazia; renderle felice quella breve, breve esistenza!

Poi pensavo l'eroismo con cui aveva soffocato il suo spavento per salvare il bambino. Tanta forza d'animo in un corpo così fragile!

— Se non avessimo quel puttino, non potrei vivere, aveva detto. E moriva per lui.

Pur troppo il medico me lo aveva annunciato.

— Non poteva sopportare quella emozione. — Povera gioia! Aveva vissuto d'amore, e moriva d'amore.

Ed ìo non l' avevo apprezzata, non l' avevo amata abbastanza.

Ed ora che potevo compensarla di tutto, riparare il passato con un' adorazione di tutte le ore, saziarla, inebbriarla di tenerezza, — ora moriva.

Ero disperata, frenetica contro l' inesorabilità delle vicende umane. Non potevo rassegnarmi: non potevo credere; non potevo pregare. Piangevo un pianto iroso, i singhiozzi mi soffocavano, bestemmiavo nel mio cuore contro la giustizia divina che uccideva una innocente per punirmi.

Ed intanto nel salotto i bimbi estraevano a sorte i doni dell'albero; e ad ogni numero uscito echeggiavano grida di gioia.

Alle dieci, Carmen si destò, e disse con unfilo di voce:

— Dammi da bere, balia.

Era avvezza ad avere la nutrice accanto, al posto della mamma, povera bimba!

La sollevai, le porsi il bicchiere senza poterle rispondere. Il rimorso mi soffocava.

Ella bevve, poi alzò la testina per baciarmi, credendomi sempre la balia; — ed allora sentì che ero tutta bagnata di lagrime, e singhiozzavo. Mi riconobbe subito.

— Mamma! — esclamò con accento di dolce sorpresa. — Sei qui tu, mamma! Ma perchè piangi?

L' abbracciai senza poterle ancora rispondere. — Oh che donna debole sono stata sempre, al confronto di questa piccola eroina.

— Ah! — gridò ad un tratto ricordandosi. — Afro! Afro è caduto dal cornicione.

— No, gioia, singhiozzai. Afro sta bene. Sei tu che l'hai salvato. Non ti ricordi?

— È vero, sì. Ma perchè piangi? Dov' è il bimbo?

— È in sala che spoglia l' albero co' suoi compagni. Sta a sentire. Ecco. Senti come salutano i doni del ceppo?

— Ed allora, se Afro sta bene, perchè piangi? — tornò a domandare.

— Piango perchè sei qui ammalata, invece di stare a divertirti cogli altri bambini.

Davvero, mamma? Piangi per me? — disse con voce ansiosa stendendo una manina per carezzarmi il viso. Ma non ebbe forza d' alzarla, e la lasciò ricadere sul letto, susurrando:

— Pesa la mia mano.

Poi colla vocina sempre più debole riprese esitando:

— Mamma, se piangi perchè sono ammalata, vuol dire che mi vuoi un pochino di bene…

— Oh Carmen! Mia figliola, mio tesoro, non lo credi ancora che ti voglio tanto, tanto bene? Credimi, bimba. Te lo giuro per la memoria del babbo; ti voglio bene più che a me stessa, più che a lui, più che ad Afro.

Ella fece uno sforzo di volontà, e mi si avviticchiò colle braccia intorno al collo, e mi baciò più e più volte. Era tutta diaccia, e la sua stretta aveva un' energia nervosa, una rigidità che mi strinse il cuore.

— Oh mamma! — susurrava, — mamma cara, mamma bella. Se tu mi vuoi bene, non sono più ammalata. Credevo che non mi volessi bene, sai. Era questo il mio male. Oh che bel Natale! Ora il mio male è finito.

E mi abbandonò la testina sul petto, e le braccia ricaddero sul letto, e non si mosse più.

Il suo male, tutti i suoi mali erano finiti…

Ed il primo tocco della messa di Natale sonava a gloria.



Per le strade tutti camminavano frettolosi, un po' curvi, col bavero alzato, le mani in tasca ed il naso violetto.

Ma tutti camminavano. C'erano i doni da comperare, le provviste straordinarie pel Natale, gli inviti, gli augurî, le visite. Ad ogni passo si urtava un commesso di negozio o un facchino carico di pacchi; un venditore di giornali che offriva un sonetto per domandare la strenna nel bel metro di Petrarca; una frotta di bimbi imbacuccati nelle pelliccie, che facevano sorvolare sulle testine bionde il palloncino del Bon Marché.

Nei negozi non avevano un minuto di pace. Le botteghe di giocattoli si vuotavano con tanta rapidità da far credere che le bambole, i fantocci, le piccole locomotive, i reggimenti di soldatini di piombo, e tutti gli animali dell' arca di Noè, stanchi della lunga reclusione in una vetrina, avessero emigrato in massa in cerca di miglior vita.

Avevano emigrato infatti nei palazzi dei bambini ricchi, per trovarci quello che si trova spesso nelle emigrazioni, — l'isolamento, il disinganno ed il collo rotto.

I panettoni poi, invadevano Milano. Se ne vedevano per le strade, su per le scale, nelle anticamere; avvolti soltanto in una carta con una fettucia rossa, o chiusi nelle ceste; portati a mano, accatastati sui carri, buttati alla rinfusa nei panieri o sorretti sul capo da un garzone di bottega, come le paste famose del panattiere di Faraone.

La quantità spropositata di panettoni che si vendeva non aveva riscontro che nella quantità spropositata di carta che si consumava per avvolgerli.

La città aveva quell'aria di festa, di gioia, di aspettativa che assume ogni anno in quel giorno solenne, grazie al buon cuore, alle buone borse, ed al buon appetito dei Milanesi, che tutto il mondo conosce.

Ottavio usciva dal negozio di oreficeria aperto allora allora dai signori Carenzi e Confalonieri, portando in mano una lunga busta di velluto, dalla cui forma si poteva indovinare che conteneva una coppa.

Era un bell'uomo sui settantacinque anni; alto pallido, dai lineamenti regolarissimi, con la barba intera ancora folta ma completamente bianca, ed una quantità di capelli bianchi che sporgevano di sotto al cappello sulla nuca. Però, se si fosse scoperto il capo, si sarebbe veduto che era soltanto una frangia, una mezza corona che gli cingeva di dietro la testa calva, alla maniera del San Giuseppe dipinto.

Quella canizie dava alla sua fronte un' ampiezza straordinaria, che aggiungeva nobiltà al volto, su cui gli occhi, d' un azzurro profondo, irradiavano un' espressione serena.

Egli era ancora sotto l'impalcato di legno che nascondeva il futuro arco della Galleria, quando s'imbattè in un giovinotto che camminava stecchito col naso al vento, e l'aria soddisfatta d'un uomo che ha una grande opinione di sè.

— Buon giorno, signor Geremia, — disse Ottavio stendendogli la mano.

— Jerry, Jerry, — corresse l'altro dandogli due o tre scosse al braccio da smontargli la scapola. — Da noi in Inghilterra si dice Jerry; ah! non posso soffrire le vostre cadenze svenevoli.

— Neppure in bocca alle sue belle allieve? — domandò Ottavio sorridendo.

— Le mie belle allieve parlano inglese con me; — poi soggiunse con sussiego, — e finiranno anche a pensare come gl'Inglesi. Ah! le vado correggendo. Preparo loro una buona lezione per domani.

— Appunto, — disse Ottavio. — Lei domani pranza da loro. Ho udito che le ripetevano l'invito ieri sera nell' accompagnarla fuori. Tra vicini di casa si sente tutto.

Il maestro ripigliò tutto gongolante:

— Ecco. È questa lezione che preparo. Io non pranzerò in casa Monferrano domani.

— No? Allora vuol dire ch' io non capisco più l'inglese. Mi pareva che avesse promesso di andarci a patto di fare il quattordicesimo … mi pareva …

— Ho promesso a questo patto, infatti. Le ho obbligate a combinare quel numero per essere io a rompere il malaugurio del tredici. Ma all'ultim'ora mancherò, e saranno appunto in tredici a tavola.

Ottavio si mise a ridere, ed esclamò:

— Ah! è il solito apostolato della Società dei Tredici! Mi pare che abbia già fatto lo stesso scherzo anche l'anno scorso.

— Non fu lo stesso; tutt'altro. L'anno scorso sapevo che dovevano essere dodici, ed all'ora del pranzo mi sono presentato improvvisamente per obbligarli ad ammettere il tredicesimo.

— E la lezione non fu sufficiente?

— Che! Ci vuol altro a vincere le superstizioni degl' Italiani! Il signor Monferrano tenne il broncio tutta la sera.

— E lei quest' anno ripete la prova? Ci mette dello zelo.

— Sicuro, sicuro. È una missione che ho assunta. Sono membro della Società dei Tredici di Londra, che è divisa in tanti gruppi di tredici persone ciascuno, ed il tredici d'ogni mese dà un banchetto di tredici tavole e ci si siede in tredici per ogni tavola, e durante il pranzo …

— Lo so, — interruppe Ottavio, — si deve rovesciare il sale, spandere l'olio sulla tovaglia, capovolgere il pane, fare la croce colle posate … mi ricordo; me l'ha detto più volte.

— Ah! una grande istituzione! — esclamò l'inglese. — Farà molto, molto bene!

— Senza dubbio; specialmente all' oste che fornisce i pranzi, — rispose Ottavio; e salutando il giovine umanitario, riprese la sua strada verso il corso di Porta Venezia.

Entrò in una bella casa sul Corso, salì al primo piano, e suonò alla porta.

— Sono ancora a tavola? — domandò alla cameriera coll'aria d'un intimo della famiglia.

— No, hanno pranzato più presto oggi; hanno già illuminato l'albero, ed ora sono passati in sala a prendere il caffè.

— Tanto meglio. Non annunciarmi. Voglio passare in tinello per mettere sull' albero una cosuccia anch'io.

— Passi pure, signor Loreni, — disse la cameriera: e si ritirò.

Egli entrò pian piano. L' uscio di comunicazione fra il tinello e la sala era spalancato, e s'udiva dall' altro lato un cinguettio di bimbi, uno strisciar di piedini, un ridere sommesso.

— Mamma, i numeri li estraggo io? — diceva una voce di ragazzetta.

— Uh! Maria, vecchiona! — esclamava una voce di bimbo. — A dieci anni vorresti far la parte del più piccolo? — Tocca a me che ho soltanto sette anni.

— Se ha da essere il più piccolo, — ribatteva Maria, — tocca ad Alfredo.

— Che cosa ne capisce Alfredo? Non sa leggere i numeri; vero, Fedino?

— Appunto, perchè non ne capisce nulla farà le cose senza malizia.

— Ed io che malizia ci metto?

— Tu l'anno scorso hai estratto tutti i numeri tuoi.

— L'ho fatto apposta, eh?

— Già che lo hai fatto apposta! Sicuro!

— Che sciocca! Ho forse gli occhi nelle unghie?

— Può darsi. Ti ci vedo un arco nero; sarà il sopraciglio …

Ottavio conosceva quelle vocine garrule, e mentre guardava l'albero, che lo nascondeva completamente a chi fosse entrato dalla sala, sorrideva a quelle piccole liti a cui era avvezzo.

Da molti, molti anni passava in quella casa tutte le feste solenni; amava quella signora che aveva veduta piccina; amava quei ragazzetti cresciuti sotto i suoi occhi, che gli parevano suoi; amava quei bambini rosei e chiassosi; gli tenevano luogo della famiglia che non aveva.

Ad un tratto s'udì la voce del babbo:

— State zitti, bimbi. Bisogna concludere che inviti s'hanno da fare questa sera per domani.

— Ma, i soliti, — rispose la signora. — Quelli che non hanno famiglia. Il maestro di piano e sua sorella; i due praticanti del tuo studio; tuo cugino capitano; e poi ci sarà Loreni …

— No, no! Loreni è troppo vecchio!

— È noioso!

Erano due vocine di bimbi che gridavano così; i bimbi rosei ch'egli amava tanto!

Ottavio Loreni stava collocando la busta colla coppa d'argento sopra un ramo dell' albero. Rimase lì colle mani stese, trattenendo il respiro. Aveva ricevuto un urto nel cuore. Tuttavia pensava:

— I bimbi non sanno quel che si dicono. I ragazzetti più grandi mi amano meglio.

Il babbo riprese:

— Ma che! È tutt' altro che noioso. Vi racconta le fole! vi diverte …

— No, non mi diverte. Io non lo voglio vicino a tavola.

— Neppur io!

— Siete ingrati e scortesi tutti e due, — disse il babbo. — Peggio per voi. Starà accanto a Maria.

— Ah no, babbo! Per carità! — gridò Maria. — Parla senza denti.

— Se non ne ha, lo sfido a far altrimenti, — osservò una voce in falsetto da maschio adolescente.

— Ma dice sempre le stesse cose; io non so trattenermi dal ridere.

— E ridi; chi te lo impedisce? — tornò a dire l'adolescente.

— Ho paura di offenderlo. Piglialo accanto a te, e fa come vuoi.

— Ti ringrazio tanto. Io non studio archeologia; e le facezie dell'altro secolo non mi fanno ridere; mi fanno dormire.

Anche loro! I ragazzetti che aveva veduti crescere e che gli parevano suoi! Ottavio si lasciò cadere le braccia e rimase come istupidito.

Intanto di là continuavano a discorrere.

— Chissà che si possa evitare d'invitarlo, osservò la signora, la signora ch'egli aveva veduta piccina. — Finora non è venuto …

— Ma ti pare! — osservò il marito. — Se non viene gli scriverai. Tutti gli anni ti ha mandato un dono, e l'hai sempre invitato a pranzo. Se quest' anno non lo inviti crederà che tu sia offesa, perchè non t' ha fatto il dono, e che finora lo invitavi soltanto per quello.

— Che! Io non ci bado affatto. Lo inviterei, pover'uomo. Noioso o no, ci sono avvezza. Ma senti che nessuno lo vuole accanto? Non so dove collocarlo. …

— Al Luogo pio Trivulzi, mamma: è il suo posto, — suggerì Leonardo, l'adolescente.

Ottavio non stette ad udir altro. Colle mani tremanti scrisse dietro una carta da visita:

« Dispiacente che un impegno precedente mi impedisca di venire domani a domandare all signora Giulia la mia parte di panettone, depongo in questa coppa i miei augurî, coi chicchi pei bimbi.»

Attaccò la coppa col biglietto ad un ramo dell'albero; poi uscì pian piano com'era entrato, e passando in anticamera accennò alla cameriera che stesse zitta.

Scese le scale in furia, ripassò frettoloso per le strade brulicanti di gente, senza guardare nè i negozi nè i passeggeri; — omai era estraneo a quella febbre d' augurî e di doni con cui si manifestava negli animi lombardi l'amor del prossimo elevato all'ultima potenza.

Rientrò in casa col volto accigliato ed il cuore gonfio di sdegno.

— Domani pranzerò qui, — disse alla donna di servizio che era venuta ad incontrarlo in anticamera; — fa le tue provviste.

— Gesù bambino! — esclamò la serva irritata. — Che provviste vuole che faccia a quest' ora?

— Ingegnati.

— Ingegnati è presto detto. Ma la piazza è spogliata come se ci fossero passati i ladri. I Cristiani ci pensano la vigilia al pranzo di Natale. E poi che costrutto c'è a pranzare solo un giorno simile? Perchè non va da quei signori delle altre feste? Io non sono una schiava, poi. Almeno il giorno di Natale ho diritto di godere un po' di libertà.

Ottavio fece una sfuriata: — che il padrone era lui, e pranzava dove gli piaceva, e se non le accomodava se ne andasse, che di serve era pieno il mondo. …

Poi prese il lume ed i giornali ed entrò in una stanza.

Si buttò a sedere con un giornale aperto dinanzi; ma mentre fissava gli occhi su quella Rassegna Politica e ne leggeva macchinalmente le parole, il suo pensiero ci leggeva tutt'altro:

L'ultimo bollettino ufficiale giunto per telegrafo da Vienna

— Non mi vogliono più, sono troppo vecchio. I bimbi mi trovano noioso; — i bimbi che amavo! Stupidi! Ed i ragazzetti che ho veduto crescere mi deridono! Maria non mi vuole accanto; Leonardo mi manda al Luogo pio Trivulzi. Ecco il buon cuore della gioventù! Ecco! I vecchi sono noiosi; mandateli agli ospizi. Ah, per Dio! Se questa è l'educazione moderna … bei soggetti che diventeranno quei monelli! Se aspettano ch'io li guardi ancora in faccia …

L'ultimo bollettino ufficiale. …

— Ed anch' essa la signora Giulia, che ho veduta alta così … La chiamavo semplicemente Giulia allora. Anch'essa, se avesse potuto evitare d'invitarmi, ci avrebbe avuto gusto. Ed io la credevo una buona donna!

— Altro che buona! Le piacciono i miei doni, quelli sì; ma i miei denti vecchi, le mie orecchie indebolite, le mie rughe, il mio cranio pelato …

« Chissà che si possa evitarlo. » Lei ha dei figli giovani, un marito giovane, sono tutti giovani — anche il cugino capitano magari — e stanno bene fra loro; e di vecchi non ne vogliono. Chi è vecchio peggio per lui!

— « L'ultimo bollettino. … »

— Ed io, balordo, mi rallegravo delle loro feste e dei loro doni di Natale. Mi commovevo come uno sciocco, e credevo che mi volessero bene. Quello è un bene! Fossi andato a mani vuote l'avrei visto quel bene. Era pel dono che m'invitavano; ed ero il gustafeste là dentro; lo spauracchio dei bimbi, il ridicolo dei giovinetti, la bestia nera di tutti …

— « L'ultimo bollettino ufficiale giunto per telegrafo … » — Quando penso con che cuore io portavo il mio dono! Stupido! Sporgevo una coppa d'argento per mendicare.. … per catità un po' d'affetto … — Bell'affetto! Mi gettavano l'elemosina d'un compianto; mi chiamavano pover' uomo. Ah sì; pover' uomo davvero con quella sorta d'amici … Gente ipocrita senza cuore …

E fremeva, e teneva sempre l' occhio intento su quell'unico punto del giornale, ed il suo pensiero ci vedeva passare vampe di sdegno, parole d'ira.

— « L'ultimo bollettino ufficiale … »

— Maledetto il bollettino ufficiale! — gridò strappando e gettando a terra con dispetto il giornale. Non ne capisco nulla.

E si mise a passeggiare su e giù per la stanza; ed a misura che il bollore della collera si calmava, rifaceva colla memoria la lunga strada del passato.

Rivedeva suo padre. Non era un bel signore come lui, suo padre. Era un notaio accreditato, laboriosissimo, che aveva faticato tutta la vita per mettere insieme onestamente un patrimonio.

L'aveva esercitata con amore la sua professione, ed aveva sperato sempre di lasciare lo studio al figlio.

Ma sgraziatamente era morto presto: ed Ottavio, che era ambizioso, di quell'ambizione vana che non tende a null' altro che a far la ruota come il pavone, aveva pensato:

— Ho duecentomila lire di patrimonio; non ho bisogno di lavorare.

Era bello, elegante, e possedeva quella disinvoltura di modi che manca quasi sempre alla prima gioventù.

S'era guardato allo specchio, e gli era sembrato di poter riescire un bel lion, — ed aveva scelto, a preferenza del notariato, quella professione tanto comoda e tanto utile all' umanità.

S'era fatto ricevere in alcuni circoli di giovani eleganti, aveva comperato un cavallo da sella, aveva gettato mazzi di fiori alle ballerine.

De' suoi studî gli era rimasto un' inverniciatura di francese e di tedesco, che sapeva far valere all' occasione, ed un certo corredo di cognizioni letteraire superficiali. Aveva una discreta voce di tenore; cantava qualche romanza; scriveva madrigali alle signore; era sempre il primo a conoscere i giuochi alla moda ed i pettegolezzi eleganti; sapeva fare molte cose leggiere.

Codesto l' aveva fatto desiderare in società; era invitato dappertutto. Si faceva appello a lui per decidere del colore d'un abito, per combinare una mascherata, per dirigere una quadriglia.

— Sentiremo cosa ne pensa Loreni, — si diceva. — Aspettiamo che venga Ottavio Loreni.

Era l' arbitro delle questioni minime: il dissipatore delle tempeste in un bicchier d' acqua; l' inspiratore, il direttore delle inezie sociali; era una bolla di sapone con tutta la sua grazia di forme, la sua varietà e variabilità di colori, la sua leggerezza ed il suo vuoto.

Quel genere di vita s' era trovato d' accordo col suo carattere leggero e scioperato: gli aveva offerto modo di far brillare il suo ingegno naturale, senza affaticarlo a studi o ad occupazioni serie; le avventure galanti avevano dato al suo cuore appassionato le illusioni del sentimento; quei trionfi da salotto avevano lusingato il suo amor proprio; s' era sentito felice.

Eppure, prima di abbandonarsi a quella vita leggera, aveva un amore nel cuore. L' amore forte e puro de' suoi vent' anni, la poesia della sua gioventù.

Aveva conosciuta quella fanciulla fin da bambina, erano vicini di casa, era figlia di un avvocato come lui, ma assai meno ricca di lui. — Poi erano stati separati parecchi anni, e più tardi l' aveva veduta tornare dal collegio grande, bella, colta.

Anna aveva una schiera di fratellini e sorelline, ed era la maggiore di tutti. Ottavio dalle sue finestre la vedeva al mattino, colle maniche rimboccate fin sopra i gomiti e la gonna corta, che andava e veniva per casa, apriva le finestre, spolverava i tappeti, vestiva i bimbi; poi appendeva uno specchietto all' impannata della finestra, e si pettinava in piedi canticchiando.

Le due famiglie erano in buone relazioni. Egli aveva perso a frequentare le serate della domenica in casa Moretti. — Allora si usava giocar alla tombola. I vecchi facevano la partita a tarocchi, i giovani giocavano alla tombola. Poi si mangiavano le castagne o un panettone, si beveva un bicchiere di vino, e buona notte. Il thè non era ancora venuto di moda per eccitare i nervi e render sentimentale la gioventù;

Dinanzi a tutta la compagnia delle veglie, Ottavio ed Anna s' erano guardati negli occhi a lungo — più a lungo; arrossendo un poco, poi arrossendo molto.

Poi avevano cessato d'arrossire: Anna si faceva piuttosto pallida, ed i loro sguardi si immergevano l' uno nell' altro con quella fissata intensa e senza sorriso, con quell' angoscia di cuore che accompagna sempre la passione.

Anna andava ogni domenica alla messa delle undici a Sant' Alessandro, con tutta la sua famiglia: ed Ottavio, che dalla finestra la vedeva traversare il cortile per uscire, le teneva dietro. — Poi in chiesa si addossava ad un pilastro in capo al banco, e stava tutto il tempo della messa collo sguardo serio, melanconico, intento sul volto bianco di Anna.

Ed ella sentriva quello sguardo che la copriva tutta, che s'impadroniva di lei; e sul suo libro di preghiere passavano visioni che inebbriavano la sua anima casta; visioni pure come il sole, ma egualmente ardenti.

Poi era venuto il carnovale. Invece di giocare alla tombola, in casa Moretti s' era ballato. — Ottavio fin dal primo ballo era andato direttamente a prendere Anna. Era naturale. I loro sguardi li avevano già impegnati, vincolati l'uno all' altra più seriamente che per una contraddanza. — Anna lo aspettava.

Egli le aveva preso la mano per metterla sotto il suo braccio, e nel condurla in figura l' aveva tenuta stretta come per dirle:

— Finalmente!

— Finalmente siamo soli, — intendeva. — Infatti si sentivano soli in quella sala affollata, perchè potevano parlarsi senza essere uditi.

E tuttavia non si dicevano nulla.

A quei tempi si ballava discosti, toccandosi appena, con quella compostezza decente, che da una trentina d'anni tutti i vecchi vanno ricordando ad ogni ballo, come un rimprovero ed una lezione alle nostre pose svenevoli.

Ma Ottavio alle prime battute del valtzer aveva cinta Anna alla vita e se l'era stretta al cuore, non come si stringe una ballerina ad una festa, ma come si abbraccia una donna amata.

Ed ella s'era lasciata abbracciare. Era commossa; si sentiva inondata da una dolcezza così intensa che le pareva di dissolversi, e che la sua anima le sfuggisse per confondersi con quell'altra anima che la attirava a sè, che la inebbriava di calore e di luce.

— Mi vuoi bene? — le aveva susurrato Ottavio in un bisbiglio ardente come una fiamma. — Si, — aveva mormorato Anna, che si sentiva morire di felicità.

Non aveva avuto neppure un momento l'idea di nascondere la sua passione, di moderarne l' espressione, di farsi preziosa. — Lo amava con tutta l' anima; — sopra tutte le dolcezze della terra e del cielo, desiderava quella d'esser sua sposa; glielo aveva detto prima coi lunghi sguardi appassionati, coi lunghi silenzi d'amore. — Ed ora, in quella festa, in quell' abbraccio, egli domandava una parola che confermasse le sue speranze, ed ella la diceva senza esitare, perchè i suoi sentimenti erano puri; non la facevano arrossire.

Così s'era fatto amare, e s'era promesso, ed aveva legato a sè l' esistenza di quella fanciulla innamorata ed onesta, comunicandole come una scintilla elettrica la passione tempestosa che lo agitava.

Anna doveva aspettarlo finchè avesse finito gli studî, e potesse assicurarsi una posizione succedendo al padre nel notariato. Ma quell' aspettativa non la spaventava. Il suo amore sereno di donna, no aveva impazienze; era pago di quella promessa; sapeva aspettare senza stancarsi, senza illanguidirsi.

Il mondo da quel momento era morto per lei. — Viveva in casa col suo amore, colla sua speranza; guardava quella finestra dove vedeva muoversi Ottavio: aspettava la sera della domencia che doveva condurlo in casa sua; era felice. Avrebbe vissuto dieci, vent' anni così.

Nel cuore d'Ottavio invece la certezza d'essere amato, e la certezza negativa di non aver nulla a sperare da Anna fuorchè di sposarla, avevano calmata la prima tempesta di passione.

Poi, dopo la morte del padre egli aveva cominciato a gustare una vita più divertente, che solleticava la sua vanità e non gli dava pensieri nè fatiehe. S'era sentito nato fatto per quella vita.

Tuttavia, contava di mettere la testa a partito più tardi; di occuparsi in un modo qualunque; di sposare Anna. — L' amava sempre. — Ma prima voleva godere per qualche anno la sua libertà; divertirsi un pochino ancora. …

Quel discorso aveva dato un urto doloroso al cuore di Anna, che confrontava quello che avrebbe fatto lei in quella circostanza e quello che faceva Ottavio. — Lei si sarebbe affrettata a dire alla persona che amava:

— Ecco; ora ho una rendita discreta. Lavorando posso aumentarla e renderla sufficiente per tutti e due. Vuoi dividere con me la mia posizione modesta? Vuoi aiutarmi? Vuoi rendermi caro il lavoro colla tua compagnia, colla certezza che lo faccio per te?

Non avrebbe sognata nessuna gioia al mondo maggiore di quella. Ottavio invece aspirava ad altre gioie prima di sposarla. — Preferiva la sua libertà da giovinotto alla compagnia della sposa. Desiderava divertirsi lontano da lei.

Ne era stata addolorata; ma nell'indulgenza del suo cuore amoroso aveva pensato:

— E tanto giovane! — ed aveva ripreso ad aspettare rassegnata e fiduciosa.

Ma poi Ottavio, bello, simpatico, audace, aveva trovato avventure galanti, lusinghiere, aveva conosciuto i facili amori, che non danno altro pensiero che di piacere e di farsi amare: e s'era immerso sempre più in quella vita agitata, piena d'emozioni e d'oblio. Passava le notti fuori; si alzava al mezzodì, pranzava alla locanda. Aveva cominciato ad andare assai tardi la domenica in casa Moretti; a trattenersi poco. Spesso aveva mancato affatto.

Anna gli piaceva sempre. Ma pensava che a lui solo i frutti del suo patrimonio bastavano per vivere disoccupato. Se invece si fosse addossato l'impegno d'una famiglia, avrebbe dovuto lavorare per aumentare le sue rendìte. Avrebbe dovuto rinunciare alle sue abitudini da scapolo, a' suoi divertimenti, a' suoi vizietti che gli erano cari come figlioli. Avrebbe dovuto troncare a mezzo i suoi romanzi galanti, e diventare un buon padre di famiglia, laborioso, casalingo.

Quell'avvenire per cui due anni prima avrebbe data la metà della sua vita, considerato due anni dopo ed in circostanze diverse, gli era apparso uggioso come un lungo giorno di pioggia. — Sempre quella casa, sempre quella moglie, doveva essere d'una monotonia …

Anche il suo senso morale s'era modificato. Aveva conosciute delle donne più belle di Anna, più eleganti. E lo avevano amato senza domandargli in compenso il sacrificio della sua libertà, senza imporgli il peso di una famiglia. Perchè Anna non faceva altrettanto se lo amava davvero?

Una sera aveva osato dirlo ad Anna stessa.

Ella s'era sentito il cuore morire di dentro per

l'angoscia, ed aveva risposto:

— Va, sei tu che non mi ami più.

No; egli aveva voluto persuaderla che l'amava sempre; ma non poteva ancora sposarla per tutte quelle ragioni di capitali e rendite, ed impegni di famiglia …

Anna, che era dignitosa, aveva evitato quelle discussioni ignobili che sembrano mendicare un matrimonio, domandare la mercede dell' amore concesso. — Aveva frenato il pianto che le stringeva la gola, ed aveva detto ancora:

— Non mi ami più; ecco tutto. — Del resto, è meglio che tu ti sia pentito prima. Siamo ancora liberi tutti e due. Posso renderti la tua parola.

Ottavio aveva protestato, domandato perdono, fatto mille promesse; ma, dopo quella sera, non era tornato più in casa Moretti. Più tardi aveva cambiato alloggio, ed aveva evitato di passare in quella contrada per non incontrarsi con Anna. Non s'erano veduti più.

Parecchi anni dopo Ottavio aveva saputo che Anna s'era fatta sposa con un medico militare della provincia di Trento; aveva udito parlare della bellezza di quella sposa Haser. L'anno appresso s'era detto che aveva avuto una bambina. Poi c'era stato un cambiamento di guarnigione. Il dottor Haser era partito colla sposa, e non se n'era saputo più nulla.

Ottavio aveva tirato innanzi nella sua vita serena, scevra di responsabilità. Non era dissipatore, il fatto suo gli bastava, ed era felice.

A poco a poco, coll'andar del tempo, gli anni gli erano cresciuti sulle spalle. Aveva cominciato a trovar meno piacevole il ballo, poi faticoso, poi insopportabile addirittura; e non aveva ballato più. — Poi anche il teatro gli era venuto a noia, e le piroette delle ballerine avevano perduta la facoltà di commuoverlo. S'era accorto che nel mondo elegante si vegliava assai tardi. Aveva presa l'abitudine di ritirarsi ad una data ora. Aveva apprezzato i comodi d'una buona casa, d'un buon letto, d' una buona tavola. Era rimasto sempre galante, spiritoso; ma s'era fatto una regola di vita tranquilla. Aveva ristretto la cerchia delle sue conoscenze a poche famiglie colle quali passava le sere d'inverno, e che andava a visitare in campagna l'estate. Le trattava con intimità, era buono e ci s'era affezionato; tutte le feste solenni lo invitavano a pranzo.

Dacchè aveva una cuoca e pranzava in casa, gli faceva piacere che lo invitassero tratto tratto per vedersi intorno un po' di movimento ed allegria.

Ritrovava tutto il suo buon umore a quelle tavole gioconde; scherzava, giocava coi bimbi, si ringiovaniva tutto. Si sentiva tanto di cuore per quegli amici; il dono che portava loro era una vera dimostrazione d'affetto. Lo faceva con entusiasmo, con sentimento di riconoscenza.

— Le mie giornate più belle le devo a loro, — diceva. E li amava sinceramente; e si sentiva amato.

Ed essi invece lo avevano in uggia, lo sprezzavano, si facevano beffe di lui!

La scoperta di quel giorno l'aveva colpito dolorosamente. Al ripensare gli scherni dei ragazzi, l'indifferenza della signora Giulia sentiva il sangue salirgli al volto. — Era un oltraggio tanto più crudele, quanto più gli riusciva nuovo, inaspettato.

Egli aveva sempre fatto di tutto per adattarsi ai gusti dei giovani, per far dimenticare la sua età. Era d'una nettezza scrupolosa; vestiva bene; parlava di cose allegre; combinava i giochi dei bimbi, faceva egli stesso giochi di prestigio, inventava le commedie per le loro marionette. Sa Iddio che alle volte non ne aveva punto voglia; ma si sforzava per farsi voler bene.

Ed ecco il ricambio che ne trovava; ecco il bene che gli volevano! — Vada al Luogo pio Trivulzi il vecchio! — Oh mondo ingiusto!

Dopo aver passeggiato per la stanza, brontolato, picchiato furiosamente sui tizzoni del camino, come se quelli fossero l'origine di tutte le ingratitudini, di tutte le ingiustizie dell'umanità, ed egli potesse distruggerle con quel castigo violento, Ottavio prese il cappello per uscire di nuovo. Andava al Club del Giardino, dove passava sovente la sera.

Ma quando fu sull'uscio si fermò esitando:

— Che ci vado a fare? A rendermi ridicolo colle mie facezie dell' altro secolo, come dice Leonardo?

E tornò indietro. Gli pareva che i tre partners coi quali aveva l'abitudine di fare la partita a primiera dovessero burlarsi di lui dietro le spalle. Li sentiva ridere ed arrossiva come se fosse vero. — Aveva perduto l'illusione dell'amicizia; si sentiva solo, abbandonato.

Aveva consacrato tutti i suoi affetti alla società che frequentava, aveva vissuto per essa, non aveva mai fatto male a nessuno, e non domandava altro compenso che un po' d'affetto. — Ed il mondo tanto vasto, la società tanto numerosa, non avevano un atomo d' affetto per lui. Lo respingevano come un cencio che non serve più. Che importava alla gente del suo vecchio cuore?

Richiuse l'uscio e si coricò per seppellire nel sonno il suo cruccio. Ma lo seppelli soltanto sotto le lenzuola; il sonno non volle saperne di dargli il colpo di grazia. — Quel cruccio viveva sotto le coperte e tormentava il povero cuore d'Ottavio mostrandogli tutte le sue faccie, svolgendo tutte le sue pieghe.

Ottavio aveva fatto un testamento legando una gran parte del suo patrimonio ai figlioli della signora Giulia:

— Lo revocherò; — pensava rannicchiandosi tutto assiderato nel suo letto. Lo lascerò al Luogo pio Trivulzi il mio denaro. Gioverà a qualche povero vecchio solitario come me, a cui nessuno vuol bene …

Egli godeva un quartierino, il quale aveva fatto parte anticamente dell' appartamento più vasto accanto a lui, dove abitavano le signorine Monferrano, le allieve del maestro d'inglese.

Aveva un' anticamera così piccina, che una pezzuola sarebbe bastata a farci un tappeto. Dietro l'anticamera veniva la stanza da pranzo, e dietro la stanza da pranzo quella da dormire. — Erano tre camere in fila, divise dall'alloggio dei Monferrano mediante un semplice tavolato, che tradiva spesso i segreti degli inquilini.

I Monferrano erano una famiglia numerosa. Ottavio non aveva rapporti d'amicizia con loro; non c'era mai stato in casa; abitavano là da poco più d'un anno. — Ma a forza di udirne strillare i bimbi traverso la parete, di cogliere le parole più alte dei loro discorsi, di incontrarli sulle scale, di salutarli per cortesia, aveva finito per conoscerli tutti o quasi. — Annita, una bella fanciulla di diciotto anni che col suo nome e la sua età gli richiamava la memoria lontana lontana della sua Anna, sebbene non le somigliasse affatto. Maria, una ragazza magra che traversava il periodo disgraziato tra l'adolescenza e la gioventù, e, scendendo le scale colle gonne troppo corte gli aveva offerto sovente la prospettiva delle sue gambe troppo lunghe. Bianca e Bruno, due bimbi irrequieti, che andavano d'accordo come i loro nomi, e ricorrevano sempre all'autorità superiore della nonna per risolvere le loro questioni minuscole. La nonna, che non aveva mai veduta perchè stava sempre in casa; ed il babbo, che vedeva pochissimo per la ragione opposta che era sempre fuori; — forse per le sue visite, perchè la piastra d'ottone sull'uscio lo annunciava « Leo Monferrano, dottore in medicina. »

Molte volte Ottavio s'era divertito del chiacchierìo animato de' suoi vicini; s'era interessato alle discussioni di Bianca e Bruno, che esponevano le loro ragioni strillando con tutta la forza dei loro piccoli polmoni, ed aveva preso partito quasi sempre per Bianca, la quale sosteneva le esigenze più spropositate ed i paradossi più stupefacenti, con quella fede perfetta, che, a quanto dice la Scrittura, ha virtu di far muovere i monti.

Ma quella sera anche il desiderio cortese di Bianca, che voleva vegliare tutta la notte per veder il bambino Gesù portarle il dono di ceppo nella scarpetta, e per ringraziarlo in persona, non riuscì ad interessarlo.

— Non c'è modo di riposare in questa casa, — borbottava. — Sono sicuro che questa storia durerà fino a mezzanotte; non mi lasceranno dormire col pretesto del Natale.

Non avrebbe dormito egualmente. Era ben altra la causa della sua insonnia; ma voleva illudersi.

Udì il rotolare d' una poltrona; poi ad alta voce per dominare il piagnucolìo della bimba le ragazze dissero:

— Siedi qui, nonna.

— Non hai tropp'aria?

— Non sei troppo accanto alla stufa?

— Maria, passami quello sgabello per la nonna.

Poi Maria, che non poteva rassegnarsi alla sua momentanea disgrazia d'avere soltanto quattordici anni, espresse un'idea, che forse le era stata suggerita appunto da quelle attenzioni usate all nonna.

— Dev'essere un gran piacere esser vecchi!

La risposta della nonna, fatta a voce meno alta, non s'udi; ma pare ch' ella non dividesse completamente l'opinione della nipote circa quel godimento che le era ampiamente concesso, perchè Maria ebbe bisogno di appoggiare il suo argomento colle ragioni:

— Ai vecchi, — disse, — tutti fanno delle cortesie; tutti vogliono bene.

Ottavio si voltò dispettoso nel letto mormorando:

— E stupida quella bimba; avrebbe dovuto essere laggiù con me stasera per vedere che razza di cortesie si fanno ai vecchi e come sono amati.

Per un po' non potè udir altro che il rumore delle voci che si confondevano.

Poi Bianca si rimise a gridare:

— No; non è vero che la nonna è buona; è cattiva perchè non mi lascia stare alzata a vedere il bambino.

— Stai zitta, Bianca; non ci si sente più. Cos'hai detto, nonna? — domandò Maria.

— Ho detto, — ripetè la nonna assai forte per soverchiare la voce della bimba, che non stava punto zitta, — che il segreto della virtù dei nonni sta nell'amore dei nipoti.

Ottavio senti il freddo del letto penetrargli nel cuore. — La bimba continuò a piangere finchè la voce divenne fioca come un gemito e morì nel sonno. Allora stettero tutti zitti per una mezz'ora. Poi Annita gridò alla serva, che era in cucina, di portare lo scaldaletto per la nonna.

Ottavio raggomitolò le membra intirizzite, e stette ad ascoltare avidamente il rumore della paletta che raccoglieva la brage e la metteva nello scaldaletto. Gli pareva di vedersi entrare in camera una nipotina bionda, a riscaldare il suo letto gelido collo scaldaletto ardente, ed il suo cuore assiderato con un bacio figliale.

E per la prima volta si fece posto fra i suoi pensieri sdegnosi, un umile pensiero di rimpianto, quasi di rimorso:

— Ah, se avessi sposato Anna!

Infatti, che cos'era egli per tutta la gente di questo mondo? Era un babbo? Era un nonno? Aveva sacrificato a beneficio di qualcuno la sua libertà? I suoi piaceri? Aveva lavorato per mantenere qualcuno?

— Ah, se avessi sposato Anna!

Com' erano lontani, in quella notte fredda e solitaria di Natale, le contraddanze ballate, le feste splendide, i ricevimenti delle belle dame, le cene squisite e misteriose, le notti di piacere, tutti i godimenti a cui aveva sacrificato quel giovane amore! Com'erano lontani! Venti, trent' anni; forse più. Quanto avevano durato? Otto o dieci anni. Poi era venuta quell'esistenza monotona e fredda, che è una serie di abitudini senza emozioni, senza affetti; senza le grandi gioie ed i grandi dolori, i terrori e le speranze che costituiscono la vita morale, la vita del cuore, la vera vita.

Quei pochi anni erano passati rapidi e perturbatori come una febbre. E cosa ne era rimasto?

Al pensarci gli pareva di vedere le sale d'un ballo al mattino, quando rimangono deserte, e la musica è cessata, e le candele consumate spandono odor di moccolo, ed i fiori appassiti mandano odore d'erba falciata, ed ai frastagli dei mobili pendono brandelli di abiti leggieri, e sulle tavole, sui camini, sulle credenze, le coppe delle conserve, i tondini dei gelati, i dolci avanzati, attirano qualche moscherino assiderato e mettono la nausea.

Pare impossibile che tutto codesto poche ore prima fosse tanto bello e divertente, e si dice con disprezzo:

— Non par vero che abbia costato tanto! Cosa ci è rimasto?

— Ah, se avesse sposato Anna!

Sarebbe rimasta lei, la compagna fedele co' suoi capelli bianchi, e col cuore riconoscente per la vita d'affetto passata in comune. Oppure sarebbe rimasta la memoria tremenda e cara del più grande fra gli umani dolori, la morte della persona più vicina e più amata, la morte di una parte di sè stesso, e la devozione, e le speranze solenni della tomba.

— Ah, se avesse sposato Anna!

Sarebbero rimaste le figliole amorose ed i figlioli giovani e forti; e poi i nipoti, i nipotini biondi che l'avrebbero amato come quei ragazzi di là amavano quella nonna, che gli avrebbero portato la poltrona, lo sgabello, e gli avrebbero scaldato il letto la sera; ed avrebbero lavorato in segreto col cuoricino sussultante dalla paura d'essere scoperti, per preparargli una sorpresa di ceppo.

E la mattina di Natale, quella mattina cosi fredda e silenziosa li avrebbe uditi susurrare dietro l'uscio:

— Apri.

— No; aspetta. Mi pare che dorma sempre.

— Allora stai zitta, che non lo svegliamo …

Ed egli avrebbe tossito un poco per incoraggiarli, ed allora sarebbero entrati tutti, grandi e piccini; le sue figliole già mature coi loro occhi dolci da mamma, tenendo per mano i loro bimbi irrequieti. Ed i bimbi cogli occhioni sbarrati sul suo berretto da notte avrebbero recitato un complimento in versi inconcepibili, sopprimendo le erre e masticando le parole.

Non avrebbe capito nulla. Ma, oh! la gioia di quelle vocine, quelle vocine care che avrebbero parlato per lui! Di quelle bocchine rosee e sorridenti, di quegli occhioni meravigliati, di quelle carezze amorose e devote, che avrebbero salutato il suo risvegliarsi nella stanza paterna, gridandogli tutti: Buon Natale! Buon Natale!

Ah, se avesse sposato Anna! Tutto questo gli sarebbe rimasto.

La candela era bruciata tutta quanta, ed il calore intenso della fiamma, che ardeva nell'ultimo avanzo liquefatto in fondo al candelliere, fece spezzare il bocciolo di cristallo con un colpo secco come lo scatto d'una pistola.

Ottavio balzò a sedere sul letto. Era l'alba; un'alba grigia e rigida. Di fuori nevicava a fiocchi larghi e fitti, che venivano giù con una pazza furia, inseguendosi, soverchiandosi, come se facessero a gara quale arriverebbe più presto in terra.

Quella camera ordinata da vecchio signore era fredda come una tomba nella sua tappezzeria grigia; colle sue tende gialle, su cui nessuna catastrofe infantile aveva mai lasciato nè uno strappo, nè una macchia; co' suoi libri, i suoi ninnoli che nessuna manina indisciplinata e curiosa moveva mai dal loro posto. — Quel tappeto di Persia contava vent'anni di glorioso servizio, e non aveva traccia d'un calamaio rovesciato, d'una pasticca appiccaticcia calpestata da un piedino capriccioso. — Non richiamava nessun ricordo d'un bimbo che ci avesse tentati i primi passi, d'una caduta là accanto ad una finestra, d' un rosone che avesse colpito una mente infantile ed affaticato una manina inetta, nel proposito scemo ed insistente di coglierlo. — Nulla. Era un tappeto celibe, era una casa celibe.

Il camino spento alitava il vento dalla sua gran bocca nera. L'acqua s'era diacciata nel bacino; i vetri erano tutti rabescati dal gelo esterno, ed Ottavio scendendo dal letto, tutto tremante sulle gambe intirizzite, vedeva l' alito uscirgli dalla bocca in una nuvoletta grigia come i suoi pensieri, come la sua vita.

Ed intanto traverso la parete udiva in casa Monferrano un gran frastuono di risa e di baci, e di voci infantili, e tratto tratto, ad ogni aprire d'un uscio, un coro alto, stonato, giocondo: Buon Natale! Buon Natale!

— Ah, se avesse sposato Anna!

Lo spirito sereno ed espansivo d'Ottavio soffriva di quell'indirizzo melanconico che avevano preso i suoi pensieri. Volle reagire contro quella voce importuna della coscienza.

— Infine, — pensava, — egli non aveva nulla da rimproverarsi. Di male non ne aveva fatto nessuno. — Non s'era ammogliato, perchè non gli era convenuto di farlo. Ciascunò è padrone di scegliersi uno stato a suo modo. Sarebbe bello che tutti i preti, tutti i frati, tutti i celibi avessero a venir in uggia al mondo, e che il primo monello che la scuola mette in vacanza avesse diritto di maltrattarli perchè non hanno famiglia, di deridere la loro vecchiaia, di cacciarli al Luogo pio Trivulzio. Ed essi avessero a passare la loro vita a picchiarsi il petto e lasciarsi insultare. Ma che! Il torto non era suo se quel giorno era solo, isolato. Era degli amici senza cuore, che invece di amarlo di più, perchè non aveva famiglia, di fargli dimenticare il suo isolamento, lo respingevano.

Ed una volta rimesso su quella via tornò ad irritarsi al punto, che si pose al tavolo e scrisse, con mano tremante di sdegno, la lettera ideata nella notte al suo notaio, per pregarlo di mettersi a sua disposizione l'indomani, ch'egli andrebbe a fare parecchie modificazioni al suo testamento.

— Ah, non mi vogliono da vivo perchè sono vecchio? — pensava. — Non mi godranno neppure da morto. Neppure un soldo avranno del mio; neppure un soldo!

Quando sedette a colazione la cuoca era accigliata come il tempo. — Non poteva perdonargli quell' idea di pranzare in casa che mandava a monte tutti i suoi progetti.

Le altre volte aveva l'abitudine borghese di conversare con lui mentre lo serviva, di dirgli qualche pettegolezzo del vicinato; non lo faceva per poco rispetto, ma nell' intenzione benevola di divertirlo.

— Quand' è là tutto solo col suo piatto, — diceva, — mi par di vedere uno di quei poveri cavalli, a cui si chiude la testa nel sacco dell' avena, perchè non abbiano a distrarsi mentre mangiano.

Ma quel giorno non le importava che mangiasse solo come un cavallo. Andava e veniva con tanto di broncio; gli buttava davanti i piatti con tale mal garbo che oscillavano due minuti prima di fermarsi. E non aveva la menoma notizia da riferirgli. Nessuna ragazza del vicinato faceva all'amore con nessun giovinotto; nessun gatto s'era bruciata la coda nel focolare per offrirle la misura dell'intensità del freddo; non avevano portato il Santissimo a nessun conoscente, e non doveva esserci nessun funerale nella contrada. I soggetti funebri erano quelli che la interessavano di più, e che intavolava a preferenza per divertire il padrone vecchio.

Vedendo che non parlava, Ottavio la interrogò:

— Questo freddo dev' essere fatale ai poveri ammalati.

Rosa rispose appena con una affermazione inarticolata.

— Uhm!

— Chissà quanti ne saranno morti? — riprese Ottavio per metterla sull' argomento favorito.

— Uhm!

Egli si ricordò il battibecco della sera innanzi. Capì che Rosa era sempre irritata perchè pranzava in casa, e le impediva di andarsene co' suoi parenti.

— È una manía! — pensò. — Ora non mi sarà più permesso di pranzare a casa mia quando mi pare. Dovrò mettermi a dozzina per le solennità. Ah! se queste sono le gioie del Natale, non mette conto d'intenerirsi tanto per questa festa.

E lasciando stare il proposito di rabbonire la cuoca, le porse la lettera che aveva scritta, e le disse sostenuto:

— Oggi, quando uscirai, porterai questa lettera in Via Broletto al N. 40, dal notaio.

— Anche le lettere vuol mandare in giro il giorno di Natale?

— Ma sta a vedere che dobbiamo tutti fare il morto per ventiquattr' ore perchè è Natale! Non s'hanno a far spese, non s'ha da mangiare, non s'ha neppure da far testamento …

— Far testamento!! — esclamò Rosa fermandosi sui due piedi sull' uscio della cucina, e facendosi pallida come se la colpisse un male improvviso.

— Via, servi presto, e più tardi porterai la lettera, — disse Ottavio con dispetto.

Rosa andò ai fornelli; ma stette parecchio prima di rientrare col piatto da servire; e quando ricomparve pareva che avesse ritrovato tutto il suo buon umore sotto l' intingolo in fondo alla casseruola.

— Sono arrivati or ora i due figliuoli del signor Monferrano, — disse un po'timidamente.

Fu la volta d'Ottavio di non rispondere.

— Li ha in collegio lontano lontano. Fanno gli studî del commercio in un paese che si chiama Grass.

— Gratz, — corresse Ottavio.

— Non ci dev'essere nessuno di magro in un sito che si chiama Grass, — ripigliò Rosa senza tener conto della correzione.

Ottavio non potè a meno di sorridere della balordaggine di quello scherzo, e Rosa incoraggiata da quel sorriso continuò a raccontare: che era stata una gran festa l'arrivo di quei ragazzi; uno aveva diciassette anni, e l'altro quindici; erano più alti del babbo; due omaccioni addirittura; il primo avea persino dei baffi, e malgrado i baffi era saltato al collo di quella nonna con una passione, che quasi la buttava in terra; e che baci le aveva dati! Gigia, la serva dei Monferrano, diceva che le era venuto da piangere a vedere che bene volevano quei ragazzi alla vecchia.

— Pare che sia una buona donna questa signora Monferrano, — osservò Ottavio per alimentare il discorso.

— Lei non è Monferrano. La mamma dei ragazzi era sua figliuola. È morta da tre anni. È morta di parto quand'è nato quel demonietto di Bianca; quella tempesta di bimba capricciosa come il tempo; è tanto cattiva che fin quando è nata ha già fatto morire la sua mamma.

E così Rosa tirò di lungo ad intrattenere il padrone con un buon umore, un interessamento, una bontà che lo rabbonirono tutto.

— Povera donna, — pensava Ottavio. — Si vede che mi è affezionata; le dispiace della malagrazia con cui m'ha accolto ieri sera, è pentita e vuol farsela perdonare. Infine aveva la sua parte di ragione. Se io non ho famiglia non devo però dividere quella degli altri; sarebbe un egoismo.

E volle rendere bontà per bontà.

— Oggi mi darai da pranzo presto, — disse a Rosa. — Pranzero alle quattro. Così dopo sarai in libertà e potrai passare la sera co'tuoi.

Ma Rosa era passata da un eccesso d'indifferenza ad un eccesso di tenerezza pel padrone. I suoi parenti le stavano meno a cuore di lui; non c'era confronto.

— Le pare, signor padrone! — esclamò. — Il giorno di Natale vuol pranzare a quell' ora antipatica? I miei parenti li vedrò domani; oggi mi preme che lei pranzi alla sua ora e di buon appetito.

Fu una gara di cortesie. Ottavio volle assolutamente che apparecchiasse alle quattro e godesse la sua serata. Si sentiva riconciliato col mondo, ed anche un po' col Natale.

— In cosa consiste infine questo Natale? — diceva. — In un buon pranzo. Facciamo un buon pranzo, per Dio! Non è il danaro che mi manchi.

Ed ordinò egli stesso un risotto alla certosina coi tartufi, l' aspic per solleticare l' appetito, e tutto un banchetto da buongustaio raffinato a cui non erano di troppo tutto il tempo che rimaneva, e tutta l'abilità di Rosa.

Poi uscì per le strade deserte, persuadendo a sè stesso che chissà quante famiglie unmerose non avevano mezzi di pranzar bene come lui, appunto perchè erano numerose. E che i bimbi che fanno tanto chiasso intorno ai parenti, e vogliono l' albero di Natale, e i doni di ceppo, finiscono per mettere in impegni gravi. Ed assordano colle loro dimostrazioni romorose. E poi quando si fanno grandi, che pensieri! Ne aveva veduti assai di padri che non sapevano dove dar del capo per collocare i figli, per farli studiare, per rimediare alle loro scappate, per pagarne i debiti. Senza contare che possono ammalarsi, morire, farsi soldati, sposar la serva …

Che! Hanno voglia di far del sentimento sulle gioie della famiglia, ma non sono sempre gioie; ed io mi godo la mia pace, una vecchiaia agiata, ho una buona persona di servizio, affezionata, premurosa.

Alle quattro rientrò in casa collo spirito completamente rasserenato. Sul pianerottolo trovò Rosa in gran conversazione colla serva dei Monferrano, e ricambiò loro il buon Natale che s'affrettarono ad augurargli, e sorrise affabilmente, e carezzò la testina di Bianca che giocava col fratellino, e le disse che aveva dei bei ricci biondi.

— I tuoi sono bianchi come quelli della nonna; ma sono pochi … pochi … — rispose la bimba.

Egli prese quell'osservazione in buona parte, ed entrò in casa. L'odore solleticante del pranzo invadeva tutto l'appartamento, e traverso l'uscio a cristalli che metteva dall'anticamera alla sala da pranzo, si vedeva la tavola imbandita con un'aria di festa che spirava allegria.

Rosa corse in cucina a deporre il secchio, poi andò in sala da pranzo col cesto delle bottiglie e più che un cesto di notizie.

— Sa? I signori di là sono ancora in tredici come l'anno scorso. Il maestro, che avevano invitato per far quattordici, ha mandato a dire che non viene.

— Ah sì, lo so — disse Ottavio scaldandosi le mani alla stufa.

— Che! Non può saperlo; l'hanno saputo or ora anche loro. È venuto un fattorino di piazza con un biglietto.

— Sarà un grave imbarazzo, eh?

— Sicuro! Ora stanno studiando chi debbono invitare. Ma a quest'ora …

Ed intanto che parlava, Rosa andava apparecchiando le bottiglie sturate, la sedia a posto ed il sacco di pelo sotto la tavola perchè Ottavio ci tenesse i piedi al caldo.

Ed Ottavio seguendo coll'occhio tutte quelle operazioni che dimostravano una viva preoccupazione pel suo benessere, ne godeva, si sentiva benvoluto da qualcheduno, e si applaudiva d'aver provveduto nel suo testamento all' avvenire di Rosa, che lo sapeva e s'era sempre mostrata riconoscente. — Questo pensiero gli richiamò l'altro della lettera spedita al notaio, e domandò:

— L'hai consegnata in mano a lui, la lettera che t'ho data pel notaio?

Rosa, che era già sull'uscio della cucina, tornò indietro tutta confusa, e raddolcendo la voce assai più del bisogno, rispose:

— A dir la verità ho aspettato.

— T'avevo pur detto di portarla oggi, — osservò Ottavio frenando una momentanea impazienza. — Bada, questa sera quando esci, di non dimenticartene.

— Io credevo … — insistè Rosa raddolcendo ancora la voce in modo esagerato. — Alle volte certe cose si fanno in un momento di furia, e poi, pensandoci bene, si lascia passare …

— Non lascio passare nulla, — disse Ottavio col pensiero al suo proposito sdegnoso contro i figli della signora Giulia, e senza riflettere che Rosa non poteva conoscerlo. — T'ho detto che mi preme di fargli avere quella lettera in giornata, e la devi portare.

Rosa rimase un momento mortificata; poi abbassando gli occhi, e con accento piagnoloso, ricominciò:

— Qualche cosa bisogna pure che lasci passare anche lei. — Infine sono degli anni che la servo, e lo faccio con amore. — Se ieri sera ho avuto un momento di furia, si sa, tutti si può mancare. — Ma anch'io sono una povera donna. Ho sempre fatto il mìo dovere … se per un po'di malumore mi toglie quella poca giornata, è quanto mettermi sulla strada …

Ottavio era rimasto fulminato. Man mano che comprendeva dove metteva capo quella geremiade, si faceva più pallido, più triste.

Ecco la causa delle premure di Rosa, del cambiamento d'umore improvviso, del pentimento, della dolcezza, dell'affetto che gli aveva dimostrato: il legato! — Temeva ch'egli volesse revocarlo, e cercava di rabbonirlo per conservarsi quel danaro.

Fu l'ultima delusione. Quell'unico affetto che gli era rimasto, si risolveva in un calcolo d'interesse.

Non rispose nulla. Non se ne sentì la forza. Cupo, accigliato, andò a sedere a tavola, e posando i gomiti sull'Indipendente che aveva comperato per distrarsi dopo pranzo, nascose il volto fra le mani.

Tutta l'onda di rimpianti che lo aveva tribolato nella notte, gli riaffluì al pensiero, gli gonfiò il cuore.

Rosa, sbigottita, si rifuggì in cucina.

In quella s'udì aprire l'uscio dei Monferrano, ed un passo leggero uscì sul pianerottolo.

— Se venissero ad invitar me! — pensò Ottavio. E tese l'orecchio. L'idea di pranzar solo, con quella serva che gli contava le ore di vita per agguantare il legato, gli faceva orrore.

Ma nessuno bussò al suo uscio. — Udì la voce d'Annita che dall' alto della scala chiamava:

— Maddalena!

Maddalena era la figliola maggiore del portinaio; una giovane bella e studiosa, che andava alle scuole normali colle signorine Monferrano. Studiavano tutte da maestra ed erano amiche.

— Ha ragione, — sospirò Ottavio, — Maddalena è una commensale piacevole. Io sono troppo vecchio.

— Maddalena! — tornò a chiamare la signorina.

Maddalena non udiva.

— Eppure — continuava ad almanaccare Ottavio nel suo pensiero, — anche il suo babbo è vecchio, anche la sua nonna è vecchia. Ma quelli si chiamano babbo e nonna ed hanno tutte le attrattive per farsi voler bene. Diceva bene la vecchia ieri sera: « Il segreto della virtù dei nonni sta nell'amore dei nipoti. » — Io non ho meno cuore di lei, non desidero altro che di far del bene e di voler bene. Ma io mi chiamo celibatario, che vuol dire solo al mondo; che vuol dire senza amori; che vuol dire egoista … Ah, se avessi sposato Anna!

E per la prima volta dopo tanto tempo, i suoi occhi di sessant'anni si gonfiarono di pianto.

— Mad …da …le …naaa …! — gridò più forte Annita.

— Chiami me? Cosa vuoi? — rispose finalmente una voce di sotto.

— Voglio che tu venga a pranzo con noi perchè siamo in tredici.

— Ancora! Chi vi è mancato?

— Sai pure …

— Ah! ah! ah; il maestro d'inglese!

— Sai; è la sua manìa. Ah! ah! ah!

E le due giovinette salutarono con una risata irriverente il famoso apostolato della Società dei Tredici.

— Vieni dunque? — ripigliò Annita.

— Ma ho già pranzato. S'è pranzato a mezzodì.

— Tanto meglio. Ci farai compagnia senza aver mancato di far Natale in famiglia.

— Allora aspetta che lo dica alla mamma.

— Sì. Io scendo a pigliarti.

Ci fu un lungo silenzio.

Rosa entrò colla zuppiera e la pose dinanzi ad Ottavio, poi tornò in cucina senza osare dirgli una parola.

La vampa muggiva nella stufa; i cristalli scintillavano, e riproducevano allegramente la fiamma della lampada rifranta in migliaia di fiammelle; l'argenteria brillava della sua luce bianca; il vino rifletteva un'ombra rosata sul bianco della tovaglia. Era una mensa fastosa e lieta. La zuppiera spandeva nuvolette di fumo bianchiccio, ed un profumo di tartufi da scuotere un morto.

Ma Ottavio non si scosse. Rimase là dinanzi a quella grazia di Dio, immerso ne' suoi pensieri, velando colle mani le sue vecchie lagrime.

Intanto di fuori le due fanciulle salivano le scale chiacchierando.

— Questo si chiama far Natale in piena regola, — diceva Maddalena. — Pranzare due volte …

— Il nostro pranzo ti farà da cena, rispondeva Annita. — Si va a tavola alle sei. Forse al tuo babbo dispiacerà che non ceni in famiglia?

— No. Il pasto sacramentale è il pranzo. La cena non conta. E poi al babbo non manca compagnia, pover'uomo. Siamo sei figlioli!

— Come noi.

— Ma voi è tutt' altro. Non vivete tutti sul lavoro d'un operaio che comincia a farsi vecchio. Ah, se mi riesce d' aver quel posto alle scuole comunali, da poter aiutare un po'la mia famiglia!

— Ti piace far la maestra? A me non piacerebbe affatto.

— Che! Neppure a me non piace. Ma mi piace l'idea di rendermi utile in casa, di sollevare il babbo. Non puoi credere il cruccio che mi fa a vederlo ammazzarsi di lavoro per mantenerci tutti. Mi irrito colla nostra salute, col nostro appetito giovanile. Mi sembra che siamo egoisti e crudeli; siamo tanti vampiri che gli succhiamo il sangue, guarda!

— Via, ora ti esalti, — disse Annita abbracciandola.

Erano giunte in cima alla scala, e fermandosi per suonare all'uscio di Ottavio, soggiunse:

— Aspetta un momento. Debbo domandare alla cuoca del signor Loreni un po' di caffè. La Gigia non ha avuto tempo di tostarlo.

Rosa aperse, poi lasciò le due giovinette ad aspettare in anticamera mentre andava in cucina a prendere il caffè.

Traverso l'uscio a vetri della stanza da pranzo si vedeva Ottavio seduto alla sua mensa ricca e solitaria, in quell' atteggiamento di dolore.

Le ragazze lo guardarono un momento; si guardarono fra loro in atto di compassione, e non osarono proseguire i loro discorsi. Soltanto Annita susurrò pian piano all' orecchio dell'altra accennando Ottavio:

— Meglio lavorare per sei figlioli che gli vogliono bene come fa il tuo babbo, che esser solo così.

E stettero zitte, comprese di rispetto per quella vecchiaia desolata, trattenendo le parole gloconde, atteggiando il volto a tristezza, quasi vergognandosi d' esser giovani e felici, dinanzi a quel vecchio sconsolato.

Rosa porto il caffè tutta imbronciata, e tornò subito in cucina senza nemmanco fermarsi ad aprir l'uscio e richiuderlo. Le fanciulle uscirono adagio, in punta di piedi, sul pianerottolo, per entrare in casa Monferrano.

Là dentro s' udiva un rumore di stoviglie, un parlare giulivo, e più alte di tutte suonavano le vocine stridule di Bianca e Bruno, che, al solito, litigavano.

— Nevvero, nonna, che sto io a tavola accanto a te?

— No. Oggi tocca a me; tu ci sei stata ieri.

— Ieri non era Natale. Voglio starci io.

— Nevvero, nonna, che tocca a me?

— Nevvero, nonna, che tocca a me?

— Via, state zitti; Annita per oggi cederà il suo posto, e vi terrò accanto tutti e due; uno per parte; — rispondeva la nonna invertendo, con quella riunione conciliativa, il giudizio di Salomone.

Ma l'implacabile bambina strillava più forte:

— No, voglio starci io sola … da tutte due le parti!

Le giovinette si fermarono alla soglia, poi Maddalena mormorò pietosamente, accennando col capo l' uscio di Ottavio:

— Quel povero vecchio là non ha nessuno che litighi per stargli accanto.

— Oh! non mi regge il cuore, — disse Annita con risoluzione. — Vieni.

Prese l' altra per mano, e tutte e due tornarono indietro, in silenzio, e rientrarono nell' anticamera d'Ottavio.

Egli era sempre nello stesso atteggiamento, coi gomiti sull'Indipendente spiegato, che gli copriva il piatto, ed il volto nascosto fra le mani.

Spinsero pian piano l' uscio a vetri, ed andarono innanzi fin accanto alla tavola, un po'intimidite, non osando nè parlare nè tornare indietro.

Finalmente Maddalena diede un lieve urto col gomito alla signorina, e le accennò col capo, come per dirle:

— Via; dacchè sei entrata, parla.

— Signor Loreni … — disse Annita esitando.

— Oh, signorina … — rispose Ottavio alzando il volto infiammato.

Ella guardò fisa la zuppiera per non mostrar di vedere che egli aveva gli occhi rossi, e ripigliò sorridendo:

— Lascia freddare il suo risotto?

— Non ho appetito … sto poco bene …

— Oh Dio! Mi dispiace tanto! Volevo pregarla … eravamo venute … per domandarle un favore …

— Dica, dica, la prego, — insistè Ottavio alzandosi, con quella perfetta cortesia che l'aveva reso tanto simpatico in società.

— Se volesse venire a farci compagnia … a mangiare un risotto con noi … Ma il nostro non ha i tartufi … — soggiunse ridendo per nascondere il suo imbarazzo, e per non vedere quello d'Ottavio.

— Ah! i tartufi. Qui ci sono i tartufi. … — ripetè Ottavio macchinalmente e tutto confuso.

— Farebbe una bella sorpresa alla nonna, — tornò a dire Annita. — Non si aspetta certo questo piacere, d'avere un commensale della sua età.

Quell' invito spontaneo d'una giovinetta, che non sfuggiva la sua vecchiaia, che la ricercava con tanta bontà, aveva commosso profondamente il cuore d'Ottavio. Provava una gioia puerile che gli gonfiava il cuore e lo faceva sorridere nervosamente. Avrebbe voluto andare di là correndo; ma gli parve che per convenienza dovesse far qualche obbiezione.

— Ma non ho il bene di conoscere la sua nonna, — disse. — Non so se le farà piacere la mia compagnia da vecchio …

— Oh, la nonna! — entrò a dire Maddalena, che s'era astenuta dal prender parte all' invito per discrezione, ed ora, che era fatto ed accolto, desiderava di dire anch'essa una parola cortese. — La nonna sarà felice di darle il buon Natale. Chi dice Anna Haser, dice bontà, cordialità, benevolenza.

— Ah! Anna Haser, — ripetè Ottavio tremando tutto, — la signora Anna Haser. … Sicuro, sicuro … Avrò tanto piacere di conoscerla … un' altra volta. Ma oggi non sto bene; proprio non sto bene …

E s' era fatto pallido pallido, e la sua voce oscillava.

Le due giovinette uscirono mortificate da quel rifiuto, sbigottite da quel male improvviso. Ed Ottavio ricadde sulla sedia, si ricoperse il volto, e pianse più amaramente di prima.

Anna Haser! Era lei la nonna! Tutti quei giovani, quei bimbi, erano suoi nipoti. Ah! se avesse sposato Anna!

Rosa andava tratto tratto ad osservare se il padrone aveva mangiato, se poteva riportare la zuppiera in cucina. Ma lo vedeva sempre a quel modo, e non osava parlargli.

Ad un tratto Ottavio udi dei passi in anticamera; poi si aperse l'uscio e qualcuno si fermò ancora dinanzi a lui. Alzò il capo tremando, vergognandosi. Là in faccia vide una bella vecchia un po'grossa, col volto buono ed il sorriso contento, e dietro a lei nel vano dell'uscio molte teste giovanili sorridenti e curiose, e davanti a tutti i due bimbi cogli occhi sbarrati, che consideravano con meraviglia il vecchio signore, che non voleva pranzare il giorno di Natale.

— Che cos'ha, signor Loreini? — disse cordialmente la nonna. — M'hanno detto le ragazze che non sta bene: che non vuol venire a far Natale con noi …

Ottavio tremava tutto. Gli pareva d'essere sottoposto ad un giudizio. Si sentiva avvilito.

— Non sapevo … — balbettò — Temevo di farle dispiacere …

— Ma che, ma che! — rispose la nonna pigliandogli la mano; poi accennando i nipoti, soggiunse:

— Tutte queste gioie che ho trovate, mi hanno fatto dimenticare da un pezzo quell' una che ho perduta.

I bambini non capivano nulla, e Bianca avanzandosi col ditino alzato verso gli occhi rossi d'Ottavio, disse alla nonna:

— Anche lui ha fatto il cattivo! Anche lui ha pianto il giorno di Natale! — poi riprese con uno slancio improvviso di generosità:

— Se vuole il mio posto accanto a te, glielo lascio.

Ma le giovinette osservarono che il signor Loreni dimostrava una commozione ed una riconoscenza esagerate per quel piccolo favore, e che la nonna, precedendolo sul pianerottolo, si dava delle soffiate di naso da far rintronare tutta la scala; mentre un momento prima non era punto infreddata.

A tavola però dimenticarono tutto, e fecero un gran chiasso d' augurî e di brindisi intorno alla nonna, al babbo ed al signor Loreni.

E tutti furono contenti d' aver fatto passare un Natale un po' allegro a quel povero signore senza famiglia.

Ma Ottavio, quando rientrò, tardi, assai tardi, nella sua camera silenziosa e fredda, si trovò più solo, più infelice di prima. — Il suo isolamento s'era fatto più sensibile a quel confronto d' un' esistenza laboriosa, serena, tutta devozione ed affetti.

— Ed egli ripeteva più amaramente ancora rannicchiandosi fra le sue fredde lenzuola da celibatario:

— Ah, se avessi sposato Anna!

Nella sua vita galante e senza pensieri, non aveva trovato, come la nonna, tante gioie, da fargli dimenticare quell' una perduta.



Ecco com'è stata la mia vita: Luce, tenebre, poi ancora luce. — Ora stia a sentire.

Così cominciava il suo racconto Gian Maria, il protagonista di questa storia.

— Non dirò per ora come, nè dove lo incontrassi, per non togliere alla narrazione quella parte d'interesse, che, giova sperare, possa riescire a far nascere. — E qui il giova non è punto un modo di dire, perchè davvero, signori lettori, nulla mi giova meglio che il loro interessamento.

Cercherò di ripetere quanto mi disse Gian Maria, alterandolo il meno possible. — Sarebbe il caso di non alterarlo affatto — Loro mi faranno quest' osservazione, e, non avendo conosciuto Gian Maria, avrebbero ragione di farla.

— Ma quel buon uomo aveva un linguaggio estremamente immaginoso; — chi gli fosse meno amico di me, direbbe addirittura strampalato; — e non so che figura ci farebbe, messo qui crudamente tal quale, nero su bianco.

Ripeterò fedelmente i fatti, le situazioni, e le parole per quanto mi sarà possibile.

Ed ora dico anch'io come Gian Maria. Stiano a sentire.

Egli prese le cose da lontano. Cominciò a narrare dalla sua prima giovinezza. — Il primo periodo di luce. Però lo passò di volo; me ne fece appena uno schizzo.

Abitava a Brescia due stanze pulite e fornite dei mobili di prima necessità. — In quelle due stanze vivevano il babbo, la mamma e lui. Il babbo era muratore; la mamma andava a servire il mattino in due famiglie. Gian Maria faceva da garzone al babbo, ed imparava lo stesso mestiere. — Erano tutti in buona salute; ed ogni mattina uscivano gagliardi e contenti, per cominciare la loro giornata operosa.

Gian Maria metteva grande interesse nel preparare la calce, nel portare mattoni e sabbia, e strumenti, e materiali da lavoro, e nell'osservare e studiare quello che facevano i muratori.

La sua ambizione era di diventare un buon operaio come suo padre, che era quasi sempre chiamato a lavorare nelle città vicine, ed anche a Milano.

Era un' ambizione modesta assai. Ma egli aveva dell'entusiasmo piena l'anima, e lo metteva in quell'ambizione là, come un altro l'avrebbe messo nella speranza di diventar ministro.

— Le secchie salivano gloriose verso il cielo, — mi diceva, — e le carrucole gongolavano di gioia, ed io comprendevo che cosa volevano dire: Gian Maria andrà pure in su come le secchie. Lo porteremo in alto, finchè diverrà capomastro.

A loro, signori lettori, ed anche a me parrebbe che, con questa parola, l'ascensione finisse in un capitombolo. Ma le distanze sono sempre relative al punto di partenza. — Per un garzone muratore, il capo-mastro è l'ultimo gradino della sua scala, la somma altezza.

La mamma di Gian Maria era una donna tutta casa e lavoro. Si faceva in quattro pur di guadagnare qualche cosa; non era mai stanca, non si rifiutava a nulla, e ben sovente portava a casa qualche piccolo lucro eventuale, oltre i salari dei suoi padroni.

Ed il marito l'ammirava, ed aveva fede in lei, ed il danaro delle sue giornate glielo consegnava tutto; ed era lei che lo distribuiva:

— Tanto per te da andarne a bere un bicchiere domani che è festa; è giusto. — Tanto pel vitto della settimana. Tanto per le scarpe di Gian Maria, o per la tua giubba o per la mia gonna, a seconda dei bisogni. — E tanto da riporre per la pigione.

Così Gian Maria venne su in quelle due stanze, dove non conobbe mai le due massime afflizioni del popolino: discordia in famiglia e miseria.

Si volevano bene, vivevano in pace, lavoravano, e non mancavano del necessario. Questo egli chiamava la luce; e, a pensarci, aveva ragione.

— Un giorno, che lavoravo a Milano, mi sentii il sole nel cuore; — disse Gian Maria irradiandosi tutto. Poi tradusse in prosa per la mia modesta intelligenza:

— M'innamorai d' una bella ragazza bionda. — Dio, che splendore e che caldo c'era allora qui, sotto la mia giubba! Metta una mano nella calce e sentirà che brucia. Il mio cuore bruciava così.

— Ci sposammo da buoni cristiani. — La mia mamma aveva la divozione del Natale. Faceva sempre la sua brava novena. Aveva grandi faccende a quell'epoca, perchè i suoi padroni ricevevano forestieri, e davano pranzi. — Ma nella novena di Natale chi vuol farla non ha che a dire: Voglio che il giorno si allunghi. — E quando la giornata è finita, si trova là un' ora in più sulle ventiquattro, e quella serve per la novena.

— Dunque la mamma volle che ci sposassimo a Natale. E che feste si fecero quell'anno!

La sposa di Gian Maria aveva servito a Milano in una famiglia signorile, fin dai dodici anni, e ne aveva ventidue. Ed in tutto quel tempo aveva fatto dei risparmi. E non li riponeva mica nello stipo i suoi quattrini. Che! Era un'utilitaria quella ragazza. Li portava alla Cassa di Risparmio, dove, mi diceva Gian Maria:

— I soldi si fanno più grossi, più grossi, finchè diventano lire. — Mi portò un letto da principi, ed una cassa di biancheria da re, e la mia mamma ci montò una cucina da imperatori. Quelli furono tempi! Che splendore!

— E l'anno seguente poi, ancora a Natale, eccoti una puttina rosea come il bambino Gesù, che si stacca dai quadri del Duomo e viene a mettersi sul letto accanto alla mia sposa! Ah quella puttina! quella puttina!

E Gian Maria si mise a danzare per quella gioia retrospettiva, ed a chiamare quella bimba, con una confusione di titoli e di tempi: la Viceregina, l'Arciduchessa d'Austria, la principessa Margherita; le tre grandi figure di donne che si sono impresse nella mente del popolo lombardo.

La nascita di quella figliola fu per lui il grado massimo della luce. Un fuoco di bengala addirittura.

Gian Maria tirò avanti a narrare un idillio d'amore, di pace, di lavoro, identico a quello de' suoi genitori, ch'io mi dispenso dal ripetere. E dopo quello, continuò:

— Intanto il babbo e la mamma s'erano fatti vecchi, ed un po' s'ammalava l'uno, un po' s'ammalava l'altra, e non c'era verso di lavorare; ed essi non amavano di star al mondo, senza fare la loro parte di lavoro. — Allora, quando videro che s'andava sempre innanzi a que! modo, si misero in letto prima lui e poi lei, chiusero gli occhi e si fecero portare al campo santo.

— Nel silenzio della notte, vennero parecchie volte a dirmi che erano contenti, e che al mondo di là ci si sta bene; però di numeri del lotto non me ne portarono.

Anche questa gli aveva da toccare, povero Gian Maria! La luce era finita; entrava nel periodo delle tenebre. Le malattie dei vecchi e la morte di tutti e due, che pare accadesse nello spazio di pochi mesi, avevano assorbito tutti i pochi risparmi delle due famiglie. Poi c' erano stati i funerali, le croci al cimitero, e le Messe che la mamma aveva raccomandate. S'era dovuto vendere i mobili dei defunti per arrivare a tutto, ed anche qualche cosuccia degli sposi.

Gian Maria s'era fatto un buon operaio; ma all' altezza sognata di capo-mastro non aveva potuto salirci. Le annate non erano più abbondanti come una volta. Lavoravano lui, la moglie ed anche la figliola, e tra tutti raggranellavano appena da vivere senza privazioni, ma non riescivano a metter da parte un soldo.

La moglie, che aveva fatto tanti risparmi fin da quand'era giovinetta a servire in città, ed era previdente, si crucciava di quello stato di cose e diceva spesso:

— Ah! Gian Maria; è crudele il pensare che lavorando tutti, e non avendo vizi, non si riesce più a serbare un soldo, per maritare la nostra figliola, e per la nostra vecchiaia.

Lei però, povera donna, non ci arrivò alla vecchiaia. Quando la sua bimba ebbe vent'anni e Gian Maria quarantasei, fu presa dal tifo e morì. — Il marito, un po' per gli strapazzi che aveva fatti nel curarla, un po' pel cruccio che lo accasciò, ne fece una malattia.

La moglie l' aveva tenuta in casa fino all' ultimo; ma lui se ne andò all'ospedale.

Intanto la figliola, bella, a vent' anni, rimase sola.

— Quando uscii dall'ospedale, — disse Gian Maria, — mi accorsi che faceva gli occhi dolci al giovane del macellaio che stava di contro.

— A me faceva orrore quel mestiere di macellaio: ma che cosa si fa? Aspetta un mese, aspetta un altro, invece di rinunciarvi, la ragazza s' innamorava sempre più; il giovane le stava sempre intorno.

— Passato un anno dalla morte della mia povera donna, bisognò lasciarli sposare.

Queste cose le disse pianamente, senza immagini strane; — la crudezza di quelle prime contrarietà, in cui non c' era neppure la poesia del dolore che aveva trovata nella solennità della morte, paralizzava la sua immaginazione. Ma non potè stare a lungo a quel linguaggio terra a terra, e ripigliò:

— Renzo non era un cattivo giovane; e lavorava molto, e di buona voglia. — Ma, quand'era la domenica, faceva un patto col diavolo:

— Dammi del vino, ed io ti dò il mio cervello.

— E figurarsi come veniva a casa quando il cervello non c'era più! Gridava contro la moglie, gridava contro di me, voleva quattrini. E lei, che era tenera di cuore, poveretta, glieli dava: e per la casa uon rimaneva mai nulla.

— S'aveva da pagar la pigione; punto denari. S'aveva da vestirsi, punto denari.

— Si viveva tutti insieme; io era là, che vedevo piangere la mia figliola, e rovesciavo le tasche; ecco, così. — Tanti ne guadagnavo, tanti erano suoi per far bollire la pentola. Non mi serbavo uno spicciolo.

— E tutti gli altri giorni era un buon ragazzo Renzo. Un po' trascurato, un po' spaccone, ma punto cattivo. Ah se si fosse potuto fare un calendario senza feste!

— Ma a quel modo mi metteva il buio nell'animo, ed il buio d'intorno. Tanto più che vedevo la bimba andar a male pel cruccio. Aveva trentadue anni, e ne dimostrava quarantadue. Quei lunghi, lunghi anni di matrimonio avevano steso ciascuno un dito per solcarle una ruga sul viso. Ed i capelli avevano pensato:

— A che serve essere biondi, se a quell'uomo non si piace più? — e s'erano fatti bianchi. — La sua mamma non era mai stata così vecchia; e la sua nonna neppure.

— Un giorno ella disse:

— Così non si più vivere. — E se ne andò anche lei al campo santo cogli altri.

— Ma prima d'andarsene chiamò il marito, e gli disse:

— Senti, Renzo, se vuoi ch'io riposi in pace colla mamma, mi hai da promettere che continuerai a stare col mio babbo, e che gli darai retta, e che non lo abbandonerai, neppur quando piglierai un' altra moglie.

— E questo lo disse colla voce piangente; era già mezza al mondo di là, ma le incresceva che quell' uomo, che era suo, pigliasse un' altra moglie.

— Ah! quando lei non ci fu più, come si fece buia la casa, e che freddo! — Aveva portato via l' ultimo tepore e l' ultimo filo di luce; perchè ogni anima è una fiammella, ed a misura che una si spegne, è un po' di luce che manca. La mia anima vecchia dava poco splendore, e quella di Renzo, poi, l'aveva venduta al diavolo.

Renzo aveva un compagno che faceva il macellaio a Milano; questi era andato a Brescia per vedere la sua famiglia, appunto poco dopo la vedovanza di Renzo, e gli aveva detto:

— Dovresti venire a Milano anche tu, ora che sei solo. Io ci ho un buon posto da darti.

Renzo era appunto l'uomo da sapere apprezzare tutti i vantaggi d'una grande città. Osterie più belle, compagnia più svariata, teatri, qualche sala da ballo in carnevale, e poi i salarii delle città grandi sono maggiori.

— Oh! quanto a me, — disse, — se mio suocero ci vuol venire, accetto subito.

— Che bisogno hai del suocero? Vieni solo.

— Eh, allora non mi conviene più, perchè io, sai come sono; ho le mani bucate. Lui invece lavora come un giovane, guadagna e non sciupa nulla. La pigione la paga lui, e, se io non porto quattrini in casa, va avanti co' suoi; è una cuccagna.

Gian Maria non ebbe alcuna difficoltà a lasciare il paese. Dopo la morte di tutti i suoi, si trovava male.

Così si trasportarono tutti e due a Milano, dove Renzo si collocò in una macelleria fuori di Porta Ticinese; e Gian Maria trovò da accomodarsi presso un capo-mastro, per cui aveva già lavorato altre volte, e che apprezzava la sua abilità.

Vivevano insieme, ma erano tutto il giorno fuori ciascuno pe' fatti suoi, e si vedevano soltanto la sera dopo il lavoro. Era il macellaio che finiva la giornata più presto, e rientrava prima a preparare la minestra per tutti e due. — Ma, la domenica, Renzo stava fuori gran parte della notte in baldoria, e Gian Maria doveva mangiare da solo. Erano brutte feste per lui, che era avvezzo alla famiglia.

Anche quand' erano insieme non discorrevano molto, perchè il vecchio non sapeva aprir bocca senza nominare — la sua povera figliola buon' anima. — E l' altro invece, che non voleva saperne di malinconie, borbottava:

— Ci siamo daccapo! Non sapete dir altro. M'incresce anche a me che quella povera donna se ne sia andata; le volevo bene; ma poi, non si può mica passare tutta la vita a piangere i morti.

Ed il babbo stava zitto, perchè quelle parole gli sembravano brutali.

Una sera, tornando a casa, vide sulla tavola, oltre le due scodelle di minestra, un gran pezzo di manzo lesso. Sapeva che Renzo stava a secco di denari, e gli venne un brutto pensiero:

— Oh, Renzo, che cos'è questo? — gli disse sorridendo per farsi coraggio, perchè era timido, e gli riesciva difficile fare un rimprovero. — Non vorrei che …

— Che cosa? Sentiamo, — rispose Renzo facendo mostra di non capire.

— Via … non vorrei che, a forza di maneggiar carne, ti fosse rimasto quel pezzo lì attaccato alle mani.

— Ma che! siete matto! — E Renzo, alzando le spalle, spinse il tondo verso il vecchio e gli disse sogghignando:

— Mangiate, giacchè ce n'è, e non andate a cercar cinque ruote in un carro.

— Io di roba rubata non ne mangio, — insistè Gian Maria.

— Se vi dico che non è rubata! Sono mai stato un ladro?

— Allora, come l'hai pagato quel manzo?

— Io non ho bisogno nè di rubare, nè di pagare, per pigliar la roba in bottega.

— Non starmi a dire; rubare e pigliare è la stessa cosa.

— Ma quando la padrona è contenta, no — gridò Renzo ridendo. — Via, mangiate, e state di buon animo, che di carne non ce ne mancherà più. Lo capite ora, che quello che c' è in bottega è mio? Bisogna proprio ridurvele in moneta a voi le cose?

Gian Maria era eccitato narrandomi quel discorso, ed abbassando la voce in atto misterioso, mi disse:

— In quel momento ho udito piangere la morta giù giù nella terra; e gridava:

— Eccola, un' altra moglie, che viene al mio posto. — Ed allora quel pezzo di carne si mise a sanguinare sulla tavola: era il cuore della povera bimba.

Aveva delle immaginazioni orrende quel vecchio. — Mi metteva i brividi. Cercai di calmarlo, e d'indurlo a proseguire con un liguaggio meno pauroso.

Quella macellaia era una vedova di quarantacinque anni. Ne aveva dodici più di Renzo. Ma aveva anche dei quattrini più di lui. Non molti, via. La macelleria era sua, e ci si andava innanzi benino.

A Renzo, che amava mangiar bene e ber meglio, e sentirsi suonare qualche soldetto in tasca, — e dacchè era a Milano aveva perduto il gusto del lavoro, — aveva sorriso l' idea di diventar padrone del negozio, di prendere il suo posto da pari a pari fra i bottegai della contrada, di passare il pomeriggio, col grembiale arrotolato intorno alla vita, a discorrere della cronaca del Secolo, mentre i garzoni lavorerebbero per lui.

Era una prospettiva che valeva la pena di chiudere un occhio sulla fede di nascita della sposa.

C'era Gian Maria che riesciva d'ostacolo. Quel terzo che non andava a sangue alla macellaia. Ma Renzo aveva fatta quella benedetta promessa alla moglie moribonda e non gli bastava l'animo di trasgredirla.

Del resto Gian Maria era un impiccio soltanto per la sua presenza; ma circa l' interesse guadagnava abbastanza, e più che abbastanza pei suoi bisogni; e Renzo poteva garantire che non amava il danaro, che era imprevidente anzi, e tanto ne aveva, tanto ne dava in casa.

Tutto codesto fu ben discusso, calcolato, dimostrato fra i due sposi. E Teresa, che era innamorata di Renzo, quando fu sicura che della sua tasca non ci rimetterebbe nulla, prese il partito di fare la donna generosa, e di accettare collo sposo anche il vecchio.

— Cosa farci? — andava dicendo per farsi merito colle vicine. — Io sono così; ho il cuore tenero; non ho coraggio di mettere sul lastrico quel pover' uomo. Pazienza; dove c'è da mangiare per due ci sarà anche per tre.

E le vicine ad ammirarla, ed a garantirle a titolo di compenso, che: « Chi fa bene trova bene. »

Ed infatti, dopo parecchi mesi di matrimonio e di convivenza con Gian Maria, Teresa, facendo il suo bilancio di profitti e perdite, potè verificare che i profitti erano maggiori delle perdite, senza contare il beneficio morale di passare per una donna caritatevole. Ma Gian Maria aveva omai cinquantasei anni, e non era più forte contro i disagi come una volta.

Nella primavera, dopo aver lavorato all'aperto per parecchie settimane al ristauro d' un porticato in un cortile di campagna, durante le piogge d' aprile, cominciò a risentire dei dolori alle giunture, ed un malessere generale.

— Debbo avere la febbre, — disse la sera rientrando, — mi sento tutto reumatizzato.

— Che! — gli disse Teresa. — Se s'avesse a dar retta a tutti i malucci! Mangiate, e domattina sarete in gamba.

Ma l' indomani Gian Maria non potè reggersi in piedi; dovette rimettersi a letto, e Renzo stette sulla bottega ad aspettare che passasse il medico condotto, e lo fece entrare.

— È un' artritide, — disse il medico, — e ne avrà per un pezzo.

A questa notizia, la macellaia si spaventò seriamente.

— Spero bene — disse al marito — che la sua figliola non ti avrà fatto promettere di tenertelo in casa anche quando è ammalato. — Io non posso assolutamente lasciar il mio negozio per curar lui.

— Veramente non s'è parlato di casi di malattia; su questo punto non ho promesso nulla — rispose Renzo. E trovò giusto che il suocero andasse all' ospedale.

Anche Gian Maria non oppose difficoltà. C'era già stato una volta e se ne ricordava con riconoscenza. — Del resto, capiva bene che Teresa non poteva occuparsi d'un ammalato, senza trascurare la bottega. Era uomo discreto e dignitoso; fino a quel giorno aveva sempre vissuto del suo lavoro, non era mai stato a carico di nessuno, e preferiva di non esserlo neppure durante la malattia.

Così Gian Maria andò all' ospedale e vi rimase sino alla fine di giugno; quasi due mesi. Quando ne uscì era guarito dall' artritide; ma gli era rimasta una grande facilità a reumatizzarsi, ed un tremito generale in tutte le membra.

Egli però non mi raccontò la cosa così liscia come l'ho detta io; ci mise la sua parte di meraviglioso.

— Io l' avevo capito, — disse, — quando lavoravo laggiù sotto quel porticato aperto, e l' acqua veniva giù, veniva giù tutto il giorno, ed il vento fischiava, ed io lavoravo, lavoravo sempre; l' avevo capito che le piante se ne avevano a male che volessi mostrarmi forte come loro. — Le foglie brontolavano tutte: sciiii, sciiii, sciiii … e voleva dire:

— Ah, tu non vuoi confessare che hai il sangue assiderato, ed il gelo nelle ossa, e la febbre nei polsi? Ah, tu vuoi sfidare il tempo come le foglie? Ebbene, per tutta la vita tremerai come una foglia. — Ed ecco d'allora in poi ho sempre tremato.

Durante la malattia del vecchio, Renzo era andato a vederlo poche volte, la moglie mai.

Tra il vecchio e lei non era mai nata simpatia; anzi, a misura che avevano vissuto insieme era aumentato il disaccordo. Egli aveva sempre in bocca la sua figliola a proposito di tutto: — Quella teneva la casa come uno specchio, parlava con buona grazia, e col marito non litigava mai; sopportava tutto con una pazienza da santa.

Gian Maria non ci metteva malizia: ma vantava appunto tutte le qualità che Teresa non aveva; ella trascurava la casa pel negozio; aveva modi aspri; ed alla sua età, vedova da un pezzo, avvezza ad esser la sola padrona di casa sua, non sapeva piegarsi alla volontà del marito, la quale non era nè molto discreta, nè molto ragionevole.

All' udire quegli elogi della prima moglie in faccia al marito, Teresa s' irritava, e prendeva in uggia il vecchio.

Una volta ch'ella stava rimproverando Renzo per la sua vita da buontempone, e si lagnava perchè non dava retta a' suoi consigli, il vecchio, credendo di conciliare le cose, entrò a dire:

— Ci vorrà pazienza, cara la mia donna. Col litigare non otterrete nulla. Figuratevi che non dava retta neppure alla mia povera figliola, buon' anima, che era giovane e bella, e che l' aveva sposata per amore!

A farlo apposta, non avrebbe potuto immaginare un discorso più oltraggioso per la macellaia. Furono tre coltelli che le entrarono nel cuore. Era quanto dirle:

— Voi siete vecchia, e punto bella, e Renzo non è mai stato innamorato di voi. — E questo glielo diceva dinanzi al marito.

Sono mancanze di tatto che poche donne sanno perdonare; Teresa non potè mai mandarla giù.

Quando il medico annunciò che Gian Maria doveva uscire dall' ospedale, fu ancora Renzo che andò a prenderlo e lo ricondusse a casa.

Avevano la bottega sulla strada accanto al portone che metteva nel cortile; ma l' alloggio era in fondo al cortile stesso.

A terreno, oltre la cucina, avevano una stanza tappezzata di carta a grandi fiori gialli, che Teresa chiamava la sala. Là si pranzava, si passavano le serate ed i giorni di festa; là Renzo conduceva i mercanti di buoi a berne un bicchiere, dopo aver concluso un contratto; e Teresa ci stava a lavorare ed a stirare la biancheria quando il macello era chiuso.

I mobili di quella sala consistevano in una larga tavola quadrata, sei sedie ed un canapè di paglia; e, nel vano della finestra, un tavolino da lavoro ed una poltroncina, dove passava la sua vita accovacciato un cagnuccio nero, che era la gioia di Teresa, e che brontolava molto, quand' era costretto a cedere la poltrona a lei. — Teresa però lo compensava di quei piccoli disagi, tenendolo in grembo, e dandogli a mangiare i migliori bocconi.

Anche quel cane aveva dato argomento al vecchio di dire e ripetere a sazietà, che la sua povera figliola buon' anima, che era tanto pulita, non poteva soffrire le bestie in casa, e che diceva:

— Se s'ha un pezzo di pane di più, è meglio darlo ad un povero che ad una bestia.

E Renzo, che aveva in uggia Similoro, appoggiava quei discorsi, e Teresa s'inviperiva sempre più contro il vecchio.

Nel ritorno dall'ospedale, mentre Gian Maria s'avviava per traversare il cortile ed entrare in casa, Renzo gli disse:

— Non volete passare dalla bottega a salutare Teresa? S'avrebbe a male se entraste in casa sua senza farvi vedere da lei.

Il vecchio s'affacciò tutto oscillante all'ingresso della bottega, e fu il primo a salutare la macellaia, che, intenta a servire un avventore, non s'era avveduta di lui:

— Addio, Teresa, — le disse. — Eccoci qui ancora.

Teresa alzò il capo, guardò il vecchio smagrito, tremante, ed esclamò:

— Oh madonna santa! Ora sì che siamo acconciati bene!

Poi rivolgendosi al marito gli gridò:

— Perchè non l' hai lasciato all'ospedale nei cronici? Lo vedi pure che non può più lavorare.

— Ne ho parlato, — rispose Renzo un po' mortificato di quel fastidio che riconduceva alla moglie, — ma mi hanno detto che è inutile ricorrere. Non ha una malattia sufficiente per farlo ammettere.

E, per cavarsi d' impaccio, Renzo uscì in istrada.

Teresa si strinse nelle spalle borbottando: — che lei non era in grado di mantenere una bocca di più, che n'aveva abbastanza del marito, il quale non aveva portato in casa il becco di un quattrino, e faceva il signore a sue spese, e beveva per quattro …

Andò a sedere al suo banco, prese uno scartafaccio, e si pose a fare dei conti, affetando di esserne occupatissima, e di non ricordarsi più della presenza di Gian Maria.

Il pover' uomo rimase là tutto avvilito, non osando parlare, non osando entrare in quella casa, dove la padrona lo accoglieva a quel modo; non osando andarsene, perchè non aveva nulla.

Quando Dio volle entrò un avventore, e Teresa, alzandosi per servirlo, mostrò di avvedersi allora di Gian Maria, e gli gridò:

— Cosa fate ancora lì ad ingombrare la bottega? Non vedete che qui abbiamo da fare? Io, se voglio mangiare, bisogna che lavori. Andate di là, e pensate a far qualche cosa anche voi.

L'avventore, che era un conoscente della macellaia, entrò a dire:

— Cosa vuole che faccia, signora Teresa, quel vecchio? Trema come un paralitico.

— Eh! basta averne voglia, — ripigliò la donna, — si riesce a cavar sangue da un muro.

Gian Maria traversò il cortile col cuore serrato, ed entrò in sala, dove Similoro gli si avventò ringhiando come se volesse divorarlo.

Era il mezzodì; l'ora della colazione era passata, quella del desinare era lontana ancora. Gian Maria aveva mangiato una zuppa al mattino, e si sentiva un appetito da convalescente. Ma, timido e discreto com'era, non avrebbe osato pigliarsi un pezzo di pane in quella casa che non era la sua.

A terra, accanto alla poltrona, c'era un piatto di minestra con alcuni pezzetti di carne. Era la colazione di Similoro; ma esso aveva già mangiato la sua parte colla padrona; nel passare, leccò svogliatamente il piatto, poi se ne allontanò con disprezzo e risalì sulla poltrona dove fece alcuni giri, poi si coricò arrotondato come un cerchio, e chiuse gli occhi per digerire con raccoglimento.

Ed il povero uomo ammalato invidiò la minestra del cane.

Gian Maria sedette accanto alla tavola, si prese il capo fra le mani, e stette a riflettere seriamente ai casi suoi.

Le tenebre s'addensavano sulla sua vita. Era ridotto al punto da farsi proporre all'ospedale dei cronici.

E non era un' idea strampalata dello spirito avaro di Teresa. Era un fatto. Anche Renzo ci aveva pensato, e ne aveva parlato all'Amministrazione dell'ospedale.

Si sentiva preso da un profondo accasciamento; gli sembrava di dover passare il resto de' suoi giorni là, su quella sedia, d'aver perduta la facoltà di muoversi.

Aveva lavorato altre volte nella casa di un vecchio signore rimbambito e paralitico, che i servitori dovevano imboccare, vestire, svestire, trasportare da un luogo all'altro'; e pensava d'esser diventato come quel signore.

Ma poco dopo si provava a rizzarsi, a portare una sedia, a prendere un po' di cenere nel camino spento, ed a gettarla colla mano distesa contro il muro, come se fosse calce; poi si metteva a correre per la stanza; e vedeva che, sebbene lentamente e tremando, sempre riesciva a far tutto. Allora gli tornava il coraggio; crollava le spalle e sorrideva:

— Ma che! erano tutti matti. All'ospizio dei cronici lui, il bravo operaio che non temeva rivali nel suo mestiere, che guadagnava fino a quattro lire al giorno! — Tremava, sì; ma non era una ragione per non poter più lavorare. Diceva giusto Teresa, quando s'ha voglia di guadagnare si riesce a cavar sangue da un muro.

— Ed egli l'aveva la voglia; oh, se l'aveva! Farebbe veder lui s'era cronico. — Mangiava bene, digeriva bene, aveva fame … Figurarsi se un uomo che ha fame non ha da potersi guadagnare il suo pane!

E, tutto rinfrancato, uscì dal portone senza farsi vedere da Teresa, e via, quanto più presto potè, verso la casa del capo-mastro che lo aveva impiegato, dacchè era a Milano. Non era discosto: poco dopo le colonne di San Lorenzo; e tra il mezzodì e le due era l'ora del riposo, ed era sicuro di trovarlo. — Avrebbe quel giorno soltanto da mangiare alle spalle di Teresa; — ed intanto potrebbe dirle:

— Badate che è un prestito, un'anticipazione che mi fate: non è un'elemosina. Domattina ricomincerò ad andare a giornata, e sabato vi pagherò tutto.

Quando entrò dal capo-mastro, tenendo il cappello tra le mani oscillanti, era una pietà il vedere in quel volto smorto e pieno di rughe, sotto quei pochi capelli grigi che sventolavano sul capo tremante, quei due occhi brillanti d'un ardore giovanile ed onesto.

Oh, mondo ingiusto! Bisognava spegnerlo quell'ardore.

Il capo-mastro gli disse:

— Cosa vuoi che ne faccia di te, pover'uomo?

Gian Maria non ebbe bisogno di domandar altro. — Comprese tutto. — Non ebbe che a respingere l'ultima prospettiva di speranza che s'era creata, e rivolgere la mente all' avvenire scoraggiante che lo aveva impaurito nella sala della macellaia.

Rivide i lunghi giorni d'inoperosità vergognosa, e l'elemosina forzata, ed il rinfacciare brutale, e l'onta dell' accettare, e l' umiliazione di trovarsi d'impaccio in casa altrui.

Ed a quelle immagini crudeli non c'era più nessuna illusione da opporre. Egli ci aveva opposta coraggiosamente l'ultima: il lavoro. E quelle parole del capo-mastro l'avevano distrutta. Il lavoro lo abbandonava dopo tutti gli amori.

Nè dalla Congregazione di Carità, nè dalla Società Operaia non poteva sperare sussidi durevoli, perchè era a Milano da pochi mesi. — Rimaneva abbandonato all carità di Teresa.

Egli si accasciò sopra una sedia, si coperse il volto colle mani, e scoppiò in un pianto dirotto, mentre il capo-mastro lo confortava colle solite frasi:

— Via, non ti crucciare. Si vive una volta per ciascuno a questo mondo. Tu hai fatto la tua parte, hai lavorato per gli altri; ora tocca ai giovani di lavorare per te …

I giovani, chi? Quali? Che giovani erano legati a lui? Egli non aveva figlioli.

Nel raccontarmi quell'episodio desolante, Gian Maria rabrividiva ancora.

— In quel momento, — diceva, — sentii che il mio cuore si stemperava e diventava un'acqua amara, un'acqua di fiele. Era il cuore disfatto che mi saliva alla gola, che mi avvelenava il sangue.

Quando penso, signore lettrici, di che cosa piangono alle volte i loro nervi nei salotti eleganti, mentre il cuoco prepara il pranzo, ed il fattore tira la somma delle rendite, — e poi penso alle lagrime di quel vecchio senza casa, senza figlioli, a cui si negava perfino il lavoro … quelle erano lagrime!

Tuttavia, lo spirito è spirito, ma il corpo è materia; ed al ritorno dalla sua spedizione disgraziata, quel vecchio addolorato, avvilito, impaurito dell'avvenire, aveva fame come l' hanno di rado i signori, che vanno comperando l'appetito nel vermuth di Torino, nella Soda Water inglese, nel Fernet dei Fratelli Branca.

I macellai erano a tavola, e Teresa andava rimovendo la minestra nel piatto del cane, perchè si freddasse.

— È una briga inutile che ti prendi, — diceva Renzo; — sai pure che a Similoro non piace la minestra.

— È vero; ma se l'ha davanti, un tantino di brodo lo sorbisce e gli fa bene.

Gian Maria entrò intimidito e vergognoso. In un'occhiata s'avvide che la tavola era apparecchiata soltanto per due; impiegò alcuni minuti a chiudere l'uscio per ritardare il momento di voltarsi, poi, senza guardare la mensa, andò a sedere accanto alla finestra.

Similoro era in grembo alla padrona, e la poltroncina rimaneva libera; ma Gian Maria non osò profittarne, e andò a pigliare una sedia all'altro capo della stanza. Si sentiva così profondamente umiliato, che cercava di occupare il minor posto possibile, di abbassarsi, di impicciolirsi.

Quando Teresa, senza invitarlo a prender posto alla mensa, gli porse un piatto di minestra, egli disse:

— Oh … volete darne anche a me? — e cercò di comporre il suo povero volto ad un sorriso conciliativo che faceva piangere.

Ma Teresa gli rispose con piglio infastidito:

— Che! quante storie! Non siete forse venuto per questo?

Gian Maria divorò la minestra col pianto alla gola, poi andò tutto tremante a riportare il piatto in cucina. Per un sentimento di delicatezza istintiva, comprendeva di dovere evitare agli altri anche quel piccolo disturbo, dacchè non poteva compensarlo. E, tornato al suo posto, stette con aria indifferente a guardare il soffitto, la finestra, i fiori della tappezzeria, tutto fuorchè la tavola, come per dire:

— Lo so bene che quella continuazione di pranzo non mi spetta; io non ci aspiro, non ci penso nemmeno.

— Teresa portò in tavola un piatto di carne colle patate. Servì il marito, servì sè stessa, poi, per forza d'abitudine, stese la mano per pigliare la scodella di Similoro, e servire anche lui.

— Di'! — le susurrò il marito in tono di rimprovero, accennando il vecchio che guardava sempre il soffitto. Pensi più al cane che ai cristiani?

— Se ci penso, ci penso col fatto mio, — ribattè stizzosa la macellaia. — Se aspettassi il tuo, non ce ne sarebbe nè per gli uni, nè per gli altri.

— Renzo si morse la lingua e non fiatò più. Ma Teresa si pentì subito di quell'asprezza detta al marito, perchè sapeva che quand'era in collera, egli passava le giornate fuori ed anche le notti, ed era gelosa. E per rabbonirlo, riprese un momento dopo:

— Non puoi servirlo tu il tuo suocero? Ho da far tutto io?

Ma vedendo che Renzo stava per porgere al vecchio il piatto com'era, s'affrettò di soggiungere:

— Bada però che di là c' è il piccolo della bottega che lava i piatti, e ne deve rimanere anche per lui.

Così a Gian Maria toccò soltanto la metà degli avanzi, e conditi con quella discussione crudele.

Oh, se non avesse avuto tanta fame, come avrebbe voluto rifiutarli!

Ma la necessità lo pigliava alla gola; ed egli non era un eroe, non aveva raffinatezze sublimi; era un povero muratore. Accettò, ed anzi accettò sforzandosi di sorridere e di ringraziare.

La sera, quando fu l' ora di coricarsi, Gian Maria non osava avviarsi alla sua camera al piano superiore. Con che diritto occuperebbe una stanza, ora che non poteva pagarla?

— E … per dormire? — domandò umilmente. — Se ci fosse un posto, un posto qualunque … Io mi accomodo dappertutto. Non occorre che mi diate la camera di prima.

— È che non posso darvela quella camera, — rispose Teresa. — Mentre eravate all' ospedale, s'è dovuto affittarla mobiliata, tanto per cavarne in parte le spese. Vi ho preparato un letto qui accanto; vi starete bene. — Ed avviandosi fuori dalla sala seguita dal vecchio, continuò a dire:

— E domani bisognerà che cominciate a darvi attorno. per trovare da guadagnar qualche cosa.

— Eh! non ho aspettato domani, cara la mia donna, — rispose Gian Maria tornando a commuoversi a quel pensiero. — Ci sono stato oggi dal capo-mastro. Ma se non mi vuole! Che cosa posso farci io, se non mi vuole?

— Ve ne sono tanti dei capi-mastri. Se quello non vi vuole, vi piglierà un altro. Bisogna sapersi ingegnare a questo mondo. Si va, si cerca, si bussa a tutte le porte, si fa qualunque cosa. Ve l'ho detto: quando s'ha voglia di guadagnare, si riesce a cavar sangue da un muro.

Il vecchio non rispose ed entrò in un sottoscala, dove Teresa gli aveva trasportato il suo letto. Doveva avere il soffitto in pendío e molto basso, perchè Gian Maria, narrandomi le notti passate là dentro, mi diceva:

— E la scala scendeva, scendeva, finchè veniva a toccare il letto. Perchè sopra la scala c' erano i cani che trovano sempre buoni bocconi e carezze; e c' erano gli operai di Milano, che sono inscritti da un pezzo nella Società, ed hanno diritto al sussidio di vecchiaia, e non saranno mai abbandonati e senza pane; e c'erano quelli che hanno messo i quattrini da parte ed essi danzavano di gioia, e gridavano: Evviva! Evviva la Società degli operai! Evviva la Cassa di risparmio! — E la scala cedeva sotto il loro peso, e mi veniva giù sullo stomaco, mi schiacciava, mi soffocava.

Allora cominciò per Gian Maria una serie di giorni difficili, dolorosi, umilianti. Dopo aver ricorso a tutti i capo-mastri che conosceva, ed essere stato respinto da tutti; dopo avere implorato invano tutte le pie istituzioni, alle cui larghezze, sia per non aver acquistata la cittadinanza, sia perchè non toccava i sessant'anni, non aveva alcun diritto, usciva ogni mattina con poca speranza nel cuore, cercando un lavoro eventuale, qualunque fosse. Andava allo scalo per trovare da trasportar qualche baule, ed i facchini patentati lo respingevano come un intruso, gli contendevano il guadagno.

Qualche volta, nella confusione dell'arrivo, gli riesciva d'impadronirsi d' una cassa; ma sul più bello il proprietario, geloso del fatto suo, lo respingeva:

— Ma che! non voglio affidare il mio bagaglio ad un vecchio che trema come un paralitico. Se vi sfugge dalle mani mal ferme, tutta la roba va a rifascio, ed il baule ne soffre.

Bisognava che si combinassero: una grande affluenza di forestieri, una quantità straordinaria di bagagli, molta tolleranza nei facchini brevettati, e molta distrazione nei proprietari dei bauli, perchè Gian Maria riescisse a trasportarne uno, ed a guadagnare venti centesimi.

Naturalmente, questo concorso favorevole di circostanze accadeva di rado.

Altre volte egli andava a collocarsi presso un posto di fattorini di piazza. E se per caso i fattorini erano occupati tutti, e nella loro assenza capitava qualche commissione di premura, e chi la portava aveva bastante fiducia nell' umanità, per affidarla ad un facchino avventizio senza medaglia per guarentigia, erano venticinque centesimi guadagnati.

Bisognava passare le giornate fuori dal mattino alla sera, per afferrare il magro ciuffo di queste magre occasioni. Ed ancora era molto difficile riescirci.

Ed al ritorno, avesse o no quello scarso guadagno, che certo non bastava a pagare il suo vitto, Gian Maria s'udiva ripetere invariabilmente da Teresa quell'opprimente discorso:

— Se non trovate lavoro è perchè non ci mettete abbastanza buona volontà. Quando s'ha voglia di guadagnare si riesce a cavar sangue da un muro.

Quelle parole erano diventate l' incubo di Gian Maria. — Ricordandole nel suo racconto esaltato, mi diceva:

— Appena m'addormentavo, tutti i fiori della tappezzeria della sala diventavano tanti cuori, ed i rami erano tante vene. E da quei cuori sgorgava un sangue caldo, rosso, abbondante, che scorreva per quelle vene, e tutto il muro palpitava. Ah, quanto sangue! Allora sì che avrei potuto cavar sangue da un muro. Ma Similoro mi odiava e non voleva ch' io mi facessi voler bene da Teresa. Quando mi vedeva uscire dal sottoscala nella notte e correre in sala col martello ed un chiodo per piantarlo nel muro, subito si dava ad abbaiare: Baau! Baau! Baau! e balzava dalla poltrona, e mi veniva contro ringhiando: Uuuu! Uuuu! Uuuu! E allora i cuori impauriti non battevano più e ridivenivano fiori, il sangue cessava di fluttuare nei rami, e, n' avevo voglia di piantar chiodi! Il muro non era più altro che muro.

Il povero vecchio si assunse di lavare i piatti, di scopare la casa, di portare l' acqua e la legna, di fare infine tutto quello che avrebbe fatto una serva. Ma Teresa gli diceva:

— Cosa importa a me che facciate codesti servigi? Tanto, c'è il piccolo della bottega che per molte ore non ha altro da fare. Mi serviva lui, e non mi costava nulla. Io non sono in caso di mantenere una persona soltanto per farmi servire.

Raddoppiava di fatiche, di cure, di pulizia. Se avesse potuto sentirsi dire una volta:

— Via! ve lo siete guadagnato questo poco di desinare.

Ma no, mai. Quando aveva ridotta la casa come uno specchio, e guardava avidamente Teresa, sperando di udirne una buona parola, ella alzava le spalle borbottando:

— Sie! e cosa mi entra in tasca a me per tutto codesto?

Così passò l'estate; venne il novembre colle giornate piovose, le nebbie, i venti. Gli abiti di Gian Maria erano sciupati fino alla corda. Il servizio di casa li distruggeva sempre più. L'inverno s'avanzava, e non c'era speranza di coprirsi meglio; ed al tremito convulso s'aggiungevano i brividi del freddo e qualche doglia.

Quel sottoscala era inabitabile. Nei giorni umidi colava l'acqua dai muri: e quando c'era vento, soffiava traverso le fessure larghe dell' uscio, ed assiderava le membra del vecchio nel suo lettuccio.

Ed intanto l'umore di Teresa s'inaspriva sempre più, e non senza ragione. Con quello che rendeva la bottega doveva provvedere a tutto. Il marito non le era di nessun aiuto, e non trovava in lui neppure le tenerezze che se ne era aspettato. Viveva più fuori che in casa; beveva, fumava, costava caro. Di quattrini Teresa non gliene dava. Ma i debiti, quand'erano fatti, bisognava pagarli, ed essa recriminava:

— Ecco che cosa ho guadagnato a rimaritarmi; ho rinunciato alla padronanza assoluta di casa mia; mi sono addossate due bocche di più da mantenere; ed ho perduto per giunta l'innamorato, che, appena divenuto marito, ha cessato di farmi la corte.

E la sua ira la sfogava contro Gian Maria. A pranzo, invece di porgere la porzione al vecchio, che stava seduto sullo scalino dinanzi al fuoco, gli domandava:

— E voi ne volete?

Era una piccola crudeltà di più l'obbligarlo a dire di si, che ne voleva. E come non volerne, quando non s'ha altra risorsa a questo mondo e s'ha fame? Egli rispondeva invariabilmente:

— Oh … ma poco, poco, poco … — e gli pareva, con quella restrizione, di diminuire l'indiscrezione dell'esigenza.

— Sie! Poco! — rispondeva la macellaia con ironia e disprezzo.

Ed a colazione gli dava soltanto un pezzo di pane. Nulla di caldo. Per quello che pagava!

Oh, quelle rigide mattine di dicembre! — Dover uscire già mezzo stanco dei lavori di casa, mal coperto, nudrito a quel modo, e rimanere delle ore sul lastrico, aspettando l'occasione d'un guadagno improbabile!

La dignità istintiva del pover'uomo aveva finito per piegarsi e ripiegarsi a quei continui attriti colla miseria, e non gliene restava più.

Quando il pane e l'acqua gli si mettevano sullo stomaco freddi come un sasso, non sentiva più che il bisogno di riscaldarsi, ed andava da un bruciataio a domandare per carità un po'di brodo di castagne.

Quell'acqua densa, sucida, in cui navigano le pellicole nerastre, in cui hanno poste le mani il bruciataio e tutti i monelli dei dintorni, egli la beveva bollente, e gli sembrava deliziosa, quando la sentiva scendere a riscaldargli lo stomaco.

Ma non sempre i bruciatai erano disposti alla pietà. C'erano dei giorni in cui esigevano il prezzo di quell'acqua sporca; due centesimi. E Gian Maria, dopo essere stato un pezzo tremando accanto al banco, per aspettare che fossero serviti gli avventori, o per non interrompere un discorso, quando si faceva innanzi tutto umile ad esporre la sua povera preghiera, si sentiva dire di no; che gliel'avevano già dato un altro giorno il brodo per nulla; e se lo voleva lo pagasse. Due centesimi! Bisogna non aver voglia di lavorare per non saper guadagnare due centesimi!

— Ma se non vogliono darmene del lavoro, perchè sono vecchio e tremo. Se voleste farmi lavorar voi, io farei di tutto, per qualunque prezzo …

— Io non ho bisogno di voi; ma se ci metterete un po' di buona volontà, ne troverete del lavoro. Chi vuol lavorare ci riesce sempre.

Era ancora il proverbio di Teresa detto in altro modo: cavar sangue da un muro.

Un giorno, a pranzo, Teresa disse:

— Povero Similoro, come trema di freddo sotto il suo pelo corto! A Natale voglio fargli una gualdrappina che gli tenga caldo.

A Natale! il vecchio rizzò il capo a quella parola. — Esisteva ancora quella festa, quella gioia di famiglia, quella devozione della sua povera mamma? La sua testa s'era indebolita; egli non sapeva quasi più in che tempo vivesse. Quella parola gli ridestò in mente un mondo di visioni gioconde. La sua casa, i genitori onesti e sereni, l'agiatezza proporzionata alla loro posizione, il desinare solenne; e le sue nozze, e la nascita della figliola; e poi i suoi begli anni di vita colla sposa, in cui colle feste del Natale coincidevano quei due anniversari memorabili e cari.

Non si facevano chiassi, nè doni, nè complimenti. Ma si facevano venire a pranzo in casa i due vecchi, e si beveva una buona bottiglia toccando i bicchieri e dicendo: Evviva! — Era l'epoca della luce, la sua bella luce svanita.

Intanto fra i due macellai continuava il discorso della gualdrappina di Similoro.

— Faresti meglio a darli a me quei quanttrini, — diceva Renzo, — invece di farti corbellare per vestire il cane.

Teresa non rispose, ed egli tirò innanzi:

— Del resto, Natale è doman l'altro, e per fortuna non hai più tempo di far quella sciocchezza.

Quello era stato un giorno disgraziato per Gian Maria. I suoi calzoni, che da un pezzo erano logori, avevano finito per lacerarsi sopra il ginocchio destro, e traverso quello strappo ignobile si vedevano le sue povere carni irrigidite. Si vergognava a mostrarsi così; non sapeva nè come camminare, nè come sedersi, e tremava per quello che accadrebbe ancora.

C'erano certi calzoni di Renzo che formavano la sua aspirazione, ma Renzo non poteva darglieli. Quando Gian Maria gliene aveva parlato ai primi freddi, egli aveva risposto:

— Per me ve li darei; tanto non ne faccio nulla; ma sa Iddio che inferno mi farebbe in casa quella donna. Lo vedete come mi tiene a secco; vuol essere padrona lei sola.

Ed il vecchio non aveva più osato parlarne. Ma ora il disastro del ginocchio ravvivava la sua aspirazione, ed all'udire il discorso di Teresa pensò:

— Se volesse regalarmi per Natale quei calzoni smessi?

Era una grande speranza. Quella sera, invece di coricarsi, dopo avere lavati i piatti, si pose a lucidare tutto il rame della cucina, poi andò in bottega a lavare le tavole di marmo, a dar l'olio al legno delle imposte e del banco, a pulire le impannate. E quando ebbe finito, andò in sala e disse a Teresa:

— Ecco, è tutto pulito, casa e bottega per la vigilia di Natale.

— Va bene — disse Teresa con indifferenza, senza alzare gli occhi dal suo lavoro.

Il vecchio cominciò ad intimidirsi a quella risposta fredda, e, per aumentare il proprio credito, soggiunse:

— E domani, giacchè voi altri starete in bottega fino a sera, andrò a cercare un po'di calce agli uomini del mio capo-mastro, ed accomoderò la spalla di questo camino che è tutta screpolata.

— Si, farete bene, — tornò a dire Teresa, e dopo essersi assicurata con un'occhiata che quell'operazione era necessaria, soggiunse meno freddamente

— Non mancate di farlo.

Questa raccomandazione, che dava un po'd'importanza al suo lavoro, incoraggiò un pochino Gian Maria a domandare quel grande compenso. Egli riprese esitando:

— Soltanto, che … con questi calzoni, mi vergogno a farmi vedere dai muratori per andare a pigliare la calce. Vedete, mi vien fuori un ginocchio …

— Bravo! Cosa debbo farci io? domani è la vigilia di Natale, non posso lasciar la bottega per rattoppare i vostri calzoni.

— Oh! dicevo … se voleste … — Il vecchio non osò proseguire.

— Potresti dargli quei vecchi calzoni a quadretti ch'io non porto più, — disse alla moglie Renzo, che aveva compreso il desiderio di Gian Maria.

— Ma che! — rispose Teresa. — Sei matto. Non basta mantenerlo, dovrei pensare anche a vestirlo? Guai se si comincia una volta!

— Già, da sè non può vestirsi, — ribattè ancora il macellaio. — Se non trova da lavorare!

— Ah! tu li proteggi quelli che non trovano da lavorare, perchè ti piace pure far nulla. Ma a me non la si dà ad intendere che non si trova lavoro. Gliel'ho detto mille volte, che chi ha voglia di guadagnare, riesce a cavar sangue da un muro.

Gian Maria si cacciò le dita negli orecchi, e fuggì nel suo bugigattolo. Quel proverbio gli dava le vertigini.

Si pose a sedere, così vestito, sul letto, e stette tutta la notte a gemere come un bambino. Vaneggiava; chiamava la mamma, la sua povera mamma che faceva la novena di Natale. Chiamava la sua sposa, la sua bella sposa bionda, che venisse a mettergli una toppa sul ginocchio. Poi si alzava ed andava a piantare un chiodo nel muro, più qua, più là, più sotto; poi stava a guardare il piccolo foro, e tornava a gemere. Quel proverbio gli si era cacciato in testa, era diventato un'idea fissa. Cercava di cavar sangue dal muro.

Appena fu giorno uscì.

— Che tempo! — diceva raccontandomi quegli episodii tristi. Era tutto buio, tutto tenebre. Una vigilia di Natale in tanta miseria, senza preparativi, senza speranza. E nessuno che dicesse: — Figliolo, hai fatta la novena? — E nessuno che portasse la bottiglia per far l'evviva. Si pensava soltanto a Similoro. Il Natale non era più la festa dei cristiani, era la festa dei cani. Fin il cielo si oscurava a quegli orrori. La nebbia era fitta come un lenzuolo, la neve veniva giù rapida e silenziosa, e tutte le strade erano bianche come le lapidi del campo santo. Perchè la mia povera mamma era morta, e s'era portata via nella cassa l'allegria del Natale. E la gente si moveva in silenzio, per rispetto alla morta che aveva amata quella festa; e fino le carrozze venivano innanzi senza rumore; camminavano in punta in piedi.

Quella mattina il vecchio fu visto correre, tutto curvo, tremante, lacero, illividito, parlando e gemendo tra sè, e fermarsi tratto tratto per piantare un chiodo nel muro.

Era già fuori delle porte, e stava per tornare a casa, quando vide un cagnolino, e si fermò a guardarlo. Gli era venuto in mente Similoro, il suo rivale, il suo nemico.

— Egli avrà la gualdrappa, piagnucolò; ed io andrò lacero e mezzo nudo, perchè non mi riesce di cavar sangue da un muro.

Ad un tratto si mise a ridere forte, ed a fregarsi le mani come un uomo contento. Gli era venuta un'idea.

— Ecco come si fa a cavar sangue da un muro! — esclamava, e rideva daccapo, e ripeteva: — Ecco come si fa! Così si fa!

E voltò strada avviandosi ad una casa in costruzione.

Mezz'ora dopo ci aveva fatta la sua provvista di calce, e rientrava nella sala di Teresa per accomodare la spalla del camino.

Quel giorno c'era un lavoro straordinario nella bottega, perchè la mattina di Natale non doveva aprirsi, e tutti pensavano a provvedersi la vigilia. Gian Maria rimase solo tutto il giorno nel salotto.

Verso le quattro, Teresa e Renzo rientrarono per mangiare un boccone che s'erano mandato a prendere da un ristorante vicino, perchè la macellaia non aveva avuto tempo di preparare il pranzo.

Gian Maria era in una grande esaltazione. Parlava tra sè, rideva forte.

— È Natale, — diceva. — Il Natale è una gran festa. Si fa tutto quello che si vuole a Natale. Si cava anche sangue dai muri.

— Dov'è Similoro? — domandò Teresa.

Il vecchio si fregò le mani e rispose giubilando:

— Similoro non avrà la gualdrappina, ed io avrò i calzoni, perchè colla buona volontà si riesce a cavar sangue da un muro. Si riesce, si riesce!

— Via, stupido! — disse Teresa. — È meglio che andiate fuori a cercarmi il cane.

— E dove l'hai la coscienza, — le gridò Renzo, — a mandar fuori un vecchio in quello stato per cercare una bestia?

— Sì, sì. Lei vuol più bene al cane che a me; il Natale è la festa dei cani, — disse il vecchio. — Ma io riesco a cavar sangue da un muro; ed allora il Natale torna ad essere la festa dei cristiani, la festa della mia mamma. Guardate! Io riesco!

E piantò un chiodo lungo che aveva in mano contro il muro, e vi picchiò sopra col martello, ridendo convulsivamente.

Il chiodo scomparve tutto. Ma invece del rumore secco del muro, s'udì una specie di rantolo soffocato. Gian Maria tolse il chiodo, ed uno sprizzo di sangue uscì dal foro. Poi quasi subito si vide disegnarsi sulla tappezzeria un cerchio nerastro largo parecchi decimetri; la carta si fece tutta scura, s'andò sporgendo in fuori sempre più a misura che si bagnava, come se cedesse alla pressione di un corpo pesante, e finalmente si ruppe, ed una massa nera e sanguiante rotolò a terra, lasciando un vuoto scavato di fresco nel muro, che era stato ricoperto con quel pezzo di tappezzeria distesa ed incollata in giro.

Teresa mise un grido di rabbia riconoscendo il cadavere di Similoro, col muso strettamente imbavagliato e le gambe legate.

E Gian Maria continuava a tripudiare, faceva l'atto di danzare per la gioia, e gridava:

— Ci sono riescito, ci sono riescito! Ho cavato sangue da un muro.

— E d'allora, — mi disse terminando il suo racconto, — le miserie sono finite. — Oh che buon Natale, che calore, che luce! Ed ho una bella casa, ed un letto dove non tira a vento, e non mi scende la scala sul capo. — E vado a tavola cogli altri, e non ho strappi; e quando la minestra fuma sulla tavola, non mi dicono: — E voi ne volete? — Me la dànno; mi dànno tutto; e non ho più fame, non ho più freddo. Oh il bel Natale! Il bel Natale della mia povera mamma, della mia povera donna che ha pregato per me! È tornato il caldo nel mio cuore, è tornata la luce!

La sua ragione non aveva resistito a tanta miseria. Quel benessere, quella pace, quella benevolenza, quelle gioie della sua gioventù, le aveva ritrovate all'ospizio de'matti. E vi godeva in una pazzia calma e serena il secondo periodo di luce, che chiudeva tranquillamente la sua povera vita.

Fine.

Sogni dorati PAG. 11

Carmen 73

Chi prima non pensa in ultimo sospira 114

Cavar sangue da un muro 171