IL REDUCE

ROMANZO
DI
LUIGI DI SAN GIUSTO

TORINO-ROMA
CASA EDITRICE NAZIONALE
ROUX E VIARENGO
1903.

PROPRIETÀ LETTERARIA

AI MIEI FIGLIUOLI NICOLA E VALERIO IN MEMORIA


«Duerme. J aunque siempre fuele la suerte dura, no muriò, hasta no perder su ángel de alegria. Esto por si vino; come simple aventura, como la noche llega, cuando váse el dia».



«¡ Ay de aquel que navèga, el cie'o oscuro, por mar no usado, y peligrosa via, adonde norte o puerto no se ofrece!».

Quando Luisa ebbe la lettera dal portinaio, ella, con affannoso battito di cuore, riconobbe subito i caratteri piccoli, ancora sempre imperfetti, quasi incerti, del fratello. E salendo le scale, adagio, sempre più oppressa da un'ansia crescente, ella esitava a lacerare la busta, dove era scritto, da lui, il suo nome; dove il francobollo sconosciuto, e i varii timbri postali, che da ogni parte segnavano la carta, le parevano quasi oscure minaccie.

Pure, sull'ultimo pianerottolo, Luisa si fermò. Bisognava bene che ella fosse la prima a leggere, a sapere. Dall'orlo lacero della busta, uscì la carta; un foglio ordinario, sottile, tutto nero della fitta scrittura minuta. Oh, come ella la conosceva bene! E quante volte era così venuta a lei, in quelle stesse forme, una lettera del fratello, e sempre le aveva portato nuovi affanni, sempre notizie dolorose, onde ancora il cuore le trasaliva, e il suo spirito tutto si conturbava alla vista degli incerti caratteri.

Questa volta la lettera, venuta assai di lontano, da Buenos-Ayres, le annunziava il prossimo ritorno del giovine, con parole semplici, tranquille, come per la cosa più naturale del mondo. Dopo nove anni egli ritornava. Stanco del vecchio e del nuovo mondo, povero come prima, egli ritornava in Italia, dove le sorelle, da anni, lo aspettavano, dove egli sperava di trovare un poco di pace. Nient'altro; un po' di pace. Lo stile della lettera era il medesimo di una volta; asciutto, forse perchè inesperto; un po' altero; e poteva parere anche freddo. Egli ritornava in casa di sua sorella maritata, che aveva dei figliuoli da mantenere, e si guadagnava, non lautamente, la vita; ma non mostrava nessun dubbio di essere ben accolto; nessun timore di cadere a carico della non agiata famiglia: non v'era nella lettera nemmeno una parola di preghiera: gli pareva naturale e semplice di venire a prendere il suo posto alla mensa dove sedevano i suoi; egli tornava; ecco tutto.

Luisa sorrise amaramente. Nessun impulso di gioia le veniva nel cuore al pensiero di rivedere il fratello caro, per il quale ella aveva già molto sofferto; il fratello che nove anni prima ella aveva con strazio veduto partire per l'America; colui di cui si era tanto parlato nella sua casa; il solo maschio, in mezzo alle quattro sorelle; il prediletto della mamma morta.

No; oramai egli ritornava troppo tardi. Perchè non era venuto prima? Ella l'aveva tanto pregato, anni fa, quando era morta la madre, ed ella aveva dovuto ritirare presso di sè le tre altre sorelle, orfane ormai. Allora ella si era figurata una vita tranquilla e di lavoro, tutti insieme. La sorella Virginia voleva far la maestra; era la più buona delle ragazze, la più tranquilla, e interamente devota al fratello Pepi, che l'adorava. Così si sarebbe potuto vivere bene. Lui pure avrebbe lavorato; le due sorelle minori avrebbero badato alla casa; quello sì che sarebbe stato un avvenire! Invece…

Perchè tornare adesso? La sorella Virginia era morta. Sì, a vent'anni, a vent'anni soli, quando, dopo sforzi infiniti, e spese, e pene, era riuscita ad avere un posto di maestra. Lui, Pepi, non lo sapeva. Anzi, dalla lettera si vedeva bene che tornava specialmente per la sorella Virginia. Vi era persino un doposcritto, tutto per lei, per la morta; ed erano le righe più affettuose della lettera. Luisa si era sentita rabbrividire leggendo quelle parole indirizzate a una morta, come se fosse viva. In quel momento il dolore antico le si fece più forte, quasi insopportabile. Non poteva essere viva quella sorella giovane, buona, bella, che già si guadagnava la vita? Non era perfido il destino che gliela aveva tolta? Ed ora, che sarebbe? Come dare l'atroce notizia al fratello, che pareva così pieno di speranze? Ora che egli ritornava, e avrebbe cercato la sua prediletta, come avrebbe ella osato dargli la terribile nuova; come l'avrebbe ella consolato, come sopportato la vista del suo dolore? No; egli arrivava troppo tardi.

Ora le saliva dal recesso profondo dell'anima quasi un antico rancore. Tutti i torti del fratello le tornavano alla memoria, tutti gli errori di cui ella l'aveva tante volte accusato, nella sua saggezza. Ferma così, in quell'angolo della scala, davanti all'uscio chiuso, oltre il quale ella udiva risuonare la voce ridente dei suoi bimbi, Luisa rivedeva, in rapida e dolorosa visione, la loro casa laggiù a Trieste, dove lei e il fratello e le sorelle erano stati bambini: la madre, col viso triste e pallido; il padre, già vecchio allora… Ah, quel fratello, appena due anni più giovane di lei, quanto faceva già piangere la mamma, e disperare Luisa, per il suo strano modo di pensare, per la sua ostinatezza, per tutti i mille difetti che lei specialmente, la sorella maggiore, gli scopriva! E più tardi, più tardi!… No; ella non voleva pensarei, non ora. Ora bisognava entrare. Bisognava dare la notizia alle sorelle, al marito… Mostrarsi anzi allegra, perchè il fratello ritornava…

Quando fu dentro ed ebbe mostrata la lettera, le sorelle ebbero uno scoppio fragoroso di gioia. Ah, ritornava; Pepi ritornava! Avevano le lagrime agli occhi dalla consolazione. Luisa le guardava, muta ella stessa. Si erano seduti a tavola, tutti in giro; un bel numero già, davvero. I tre bimbi di Luisa, il primo dei quali aveva dodici anni, ed era già quasi un uomo! Le tre sorelle, il marito di Luisa… Erano sette… E lei sola, quasi, a guadagnare; perchè il guadagno di Vincenzo, il marito, era poca cosa. Lei sola e con quali sforzi! Ora che fosse ritornato lui, come si farebbe? Potrebbe trovare subito un impiego per lui? E la fronte della giovane donna si andava più oscurando, mentre i ragazzi e le due fanciulle mescolavano, felici, le loro parole di speranza e di giubilo.

La più piccola, specialmente, era la più commossa, la più allegra. Si chiamava Evelina, ed era una piccola bionda di sedici anni; bellissima di viso, ma troppo scarsamente cresciuta, e tendente a ingrossare. I suoi occhi neri, furbi, scintillavano di gioia. Luisa vi scorgeva in fondo quasi un trionfo, un nuovo lume d'orgoglio. Ella capiva.

Le due orfane, raccolte da lei, rimaste sole con lei, dopo la morte della sorella Virginia, non stavano però volentieri sotto la dipendenza di Luisa. I loro caratteri, la loro educazione, e le abitudini erano anche ben diversi. Luisa aveva un carattere altero e risoluto, e nascondeva ogni sua debolezza sotto un aspetto freddo, tranquillo, che ingannava chiunque non l'avesse profondamente studiata. La vita aveva maturato in lei uno spirito di indipendenza, che la rendeva insofferente di ogni soggezione. D'ingegno pronto e ardente, si era impossessata avidamente di tutte le ricchezze dell'arte; costretta a guadagnarsi la vita dando lezioni, era pure uscita dalla volgarità, ed aveva saputo fornirsi di diplomi e di distinzioni, che le permettevano di insegnare in istituti superiori, in famiglie intelligenti, dove ella era benveduta e stimata. E, vissuta da tanti anni rudemente, al contatto ostile, continuo dell' ambiente; costretta a conquistare palmo a palmo il terreno, per camparvi con i suoi; costretta a studiare più gli uomini che i libri, a usare delle loro debolezze come di sue proprie forze, ella era venuta acquistando una saggezza, che a ventott'anni la faceva già matura; un'acutezza di osservazione, che le impediva di cadere in giudizi errati, una felice rapidità di intuizione, e infine una capacità di dissimulazione, che, se non la rendeva padrona assoluta delle proprie passioni, le insegnava almeno a non rivelarle inopportunamente.

Con la forza della volontà e dell'ingegno, era riuscita anche a educare la propria natura. Timida e sensibile nella sua prima giovinezza, ora si era fatta coraggiosa, e qualche volta sapeva essere crudele; fiduciosa e dolce, era divenuta diffidente, aspra, pronta alla difesa; tutte le forze dell'anima sua erano agguerrite per la lotta; ed era riuscita a farsi una specie di solitudine dell'anima, nella quale ben pochi, e ben raramente, erano ammessi.

Da quella solitaria altezza ella non discendeva quasi mai, e guardava il mondo sorridendo, come distratta, col suo bel viso acuto, dove un alito di bontà pareva diffuso.

Ma guai se, sotto il suo sguardo ridente e mite, ella incontrava, indovinava un nemico! Il suo pallido viso dolce si trasmutava tutto, come se vi passasse sopra una tempesta; gli occhi si facevano duri, taglienti; la bocca trovava parole aggressive, o cautamente crudeli. E la donna diventava, a un tratto, un pericoloso avversario, assai difficile a battere. Non che nulla potessero in lei le passioni. Nata da una madre debole, malinconica, nervosa, da un padre amante di gioie facili, un po' volgari (il pover'uomo non conosceva piacere che equivalesse quello di una buona tavola, di una buona bottiglia), Luisa aveva ereditato dall'uno e dall'altra certi speciali caratteri della sua natura. Qualche volta la sensibilità morbosa di sua madre faceva capolino in lei; ed ella sentiva invadersi il cuore improvvisamente da un senso di pietà eccessiva, da una compassione dolorosa dei mali altrui, che le spingeva le lagrime agli occhi. Anche era facile ad esaltarsi. Un ideale, una follìa, qualchevolta, le trasportavano l'anima e i sensi fuor della vita, in paesi di sogni. Una febbre la predeva, qualchevolta; le saliva dal cuore al cervello; come se i sensi tutti si spiritualizzassero, diventassero ardenti e vaporosi. Allora ella era capace di dire e di fare cose di cui aveva poi subito a pentirsi. Di questa sua debolezza era vergognosa e anche sgomenta, perchè sentiva bene che la sua acuta ragione non poteva che conoscere il male, quando era accaduto; non prevenirlo. Di questa triste eredità di passione ella nel fondo del cuore rimproverava l'ombra della madre; era quella che turbava, che guastava in lei quell'equilibrio, al quale aveva saputo condurre tutte le sue facoltà.

Ma v'era in lei anche la tendenza alle passioni brutali, che certo ella aveva ricevuto dalla famiglia di suo padre. Gente di origine antica campagnuola, di sul Veneto; semplice e rozza di pensieri, e di aspirazioni, attaccati alla terra, e alle sue cose buone. Così ella pure era portata ai piaceri della gola; era naturalmente pigra, amante di dolci ozi; qualchevolta le era anche piaciuto ridere largamente, sonoramente fra le giovani dell'età sua… Le era piaciuto anche farsi amare, amare ella stessa… Ma erano cose lontane, passate… Adesso ella era più saggia, più moderata; pronta a rinunziare; alteramente intenta a guadagnare una suprema indifferenza per ciò che piace alla folla e l'attira… Le sorelle erano diverse.

Le inclinazioni naturali erano rimaste in loro quasi allo stato primitivo. Quel senso morboso di affettività, quella tendenza all'esaltazione, a vedere la vita fuori del suo aspetto reale, non erano stati frenati in loro dalla forza della ragione, dalla coscienza di sè e delle cose, dallo studio dei libri e dei cuori, come nella sorella maggiore. Vissute presso alla madre, fino alla sua morte (già due anni prima era mancato, placidamente, il padre), erano cresciute in una grande ignoranza, rischiarata solo dubbiamente dalla lettura di romanzi, di libri sentimentali, e dall'esperienza e dai consigli materni. I loro capricci, le passioncelle, gli errori, tutto era stato tollerato, scusato, dalla madre; divenuta ora più debole, più indulgente, con quelle due ultime, sole rimastele vicino, dei cinque figliuoli. Erano entrambe belle, e molto diverse. Evelina bionda, Armanda bruna e pallida; pareva un ricordo orientale. Armanda era anche alta e snella, somigliante in questo a Luisa; e aveva dolci occhi neri e una piccola bocca rossa, con piccolissimi denti, uno dei quali, sul davanti, spezzato in non so qual caduta infantile, le dava una grazia speciale. Meno intelligente di Evelina, più buona anche, più generosa, era però ostinata e testarda più di lei; impulsiva, mutevole, appassionata, era un lato caratteristico di quella famiglia non comune, in cui lo squilibrio tra le facoltà mentali ed etiche tendeva così spiccatamente ad accentuarsi.

Il dominio di Luisa, dominio assoluto, imperioso, immutabile, fatto di sprezzo per l'inferiorità altrui, di piena fiducia nella propria forza e nella propria intelligenza, era mal sofferto dalle due sorelle, che, pur non osando e non potendo ribellarsi apertamente, covavano sordamente la rivolta, e anelavano ardentemente la libertà.

Com'è naturale, esse speravano di maritarsi. Belle, molto civette, giovani, pareva loro cosa facile di trovare un partito. Ma avevano dovuto convincersi che era difficile. Un anno prima, Armanda era stata chiesta in matrimonio da un giovane maestro, ma tutto era andato a monte, perchè il fidanzato si era lasciato impressionare dai pettegolezzi di una vicina. Da allora le due sorelle erano rimaste ansiosamente ad aspettare una domanda che non giungeva mai; e ogni giorno pareva loro un secolo, e sempre più diventava loro insopportabile la dipendenza dalla sorella maggiore, e la cura della sua casa, e dei bambini di lei.

L'annunzio del ritorno del fratello le riempiva a un tratto di vive speranze. Prima di tutto le due fanciulle l'amavano molto, il loro fratello maggiore. Lo conoscevano poco; era partito quand'erano piccoline; ma l'amore smisurato della madre per lui si era pure attaccato ai loro cuori. Insieme ad un'ammirazione grande, timorosa di quell'anima rivoluzionaria, di quella mente spregiudicata e sicura, delle vicende che egli aveva già subìto nella sua giovane vita… Un uomo che era stato in carcere, che era stato bandito, che la polizia dichiarava pericoloso! Ma era come nei romanzi! Poi l'amor suo e la sua autorità le avrebbe liberate alquanto dalla soggezione di Luisa. Non sarebbero più sole, alla mercè di lei; avrebbero un protettore naturale, un uomo, che avrebbe saputo essere con loro carezzevole e indulgente, e avrebbe accontentato i loro capricci.

Poi un giovanotto, com'era Pepi, avrebbe degli amici, li avrebbe condotti in casa, e anche avrebbe accompagnato le ragazze al teatro e ai balli. Così avrebbero finalmente trovato un marito; il loro sogno; avrebbero anch'esse una casa, e bei vestiti, e libertà assoluta… Oh, che fortuna che Pepi tornasse!

Luisa guardava sempre più tristemente a quella esultanza. Tetri presentimenti l'assalivano, oscure paure. No, quel ritorno non era una fortuna. Com'era, che cos'era quel fratello, dal quale era rimasta per nove anni divisa; dal quale nessuna notizia, già da molti anni, era giunta; quel fratello che non le aveva dato che dolori, anche prima, e che pensava così diversamente da lei?

Pure anche lei l'amava. Le era anzi il più caro dei parenti; più caro delle sorelle, che le parevano frivole ed egoiste, che ella sapeva ingrate alle sue cure. Lo stimava di più; lo sapeva intelligente, e anche buono, e generoso. Ma il suo amore era pauroso, sgomentato da tristi ricordi, presago di angoscie nuove. La spaventava specialmente ciò che vi era di ignoto negli ultimi anni della vita di lui. Era egli sempre il medesimo? Luisa rabbrividiva a quel pensiero. Una paura folle l'assaliva, insieme a memorie terribili. Quel fratello, quell'unico, così amato, così accarezzato dalla madre, era diventato un anarchico feroce nelle teorie, un esaltato, capace di sacrificare se stesso e gli altri per i suoi sogni, per le sue follìe. Perchè Luisa sapeva che erano follìe. Convinta della superiorità intellettuale e fisica di pochi uomini sugli altri uomini, sicura della vittoria dell'individualismo, ella abborriva e disprezzava le teorie, che affermano l'uguaglianza umana, e considerava come inutili e pericolosi i tentativi di rivoluzione sociale, la propaganda, le associazioni. Perchè associarsi? Per far trionfare un'idea? Ma l'associazione è l'indebolimento dell'individuo, non ne è la forza; l'individuo associato con altri individui dà molto di più di ciò che riceve in cambio; ogni partito è un cerchio di ferro, che limita e abbatte la libertà dell'individuo; il forte è solo.

Ma, mentre ella così si abbandonava a tetre riflessioni e formulava i paradossi, che le parevano sollevarla al di sopra della volgare concezione della vita, i fanciulli, a tavola, intorno a lei, parlavano forte, lietamente, anch'essi felici al pensiero dello zio.

—Mamma, è vero che l'America è tanto lontana?

—chiedeva Vittorio, il più piccolo dei bimbi.

Ella affermò, sospirando:

—Sì, tanto lontana!

—Quanto?

Ella fece con le spalle un gesto vago, quasi di sconforto. Oh, tanto! Quell'America, anche a lei così colta, così intelligente, faceva un effetto pauroso, quasi di mistero, come se appartenesse a un altro mondo, immensamente lontano. E quel fratello che ritornava di là, come di un morto, di un dimenticato, che rivivesse.

—Mamma, Mimì dice che in America ci sono dei pappagalli e delle scimmie. È vero?

Mimì, la figliuoletta di Luisa, una bimba di dieci anni, confermò la cosa, ridendo, dicendo che la sua maestra gliela aveva insegnata.

—Allora—disse Vittorio—seriverò allo zio perchè me ne porti uno.

—Già, tu credi che sia una cosa facile! Sai quanti giorni di viaggio ci vogliono, fin dall'America? —disse Nepo, il ragazzo maggiore, che, frequentando il ginnasio, assumeva già un certo fare saputello con il fratellino.

—Quanti giorni?

—Oh, più di un mese! Non è vero, mamma?

Ella ebbe di nuovo il suo gesto vago e stanco. I fanciulli allora si abbandonarono con molto calore a parlare di quell'America, di cui sapevano cose strane, favolose, apprese sui libri di viaggi, o raccolte chi sa da quali lontane sorgenti nella loro fantasia infantile.

Fiere terribili, leoni grandi come elefanti, mostri immensi, boschi senza fine, gente selvaggia e ignuda, alberi giganteschi, avvelenati, fiumi pieni d'oro, monti dai quali sgorgano, a ogni colpo, i diamanti, isole di corallo, caverne misteriose… tutta una fantasmagoria iperbolica, a colori smaglianti, passava in giro a quella modesta mensa borghese, tra un lieto suonare di risa, un negare, un meravigliarsi, tra una folla di arcane speranze, che in tutti saliva al pensiero che qualcuno ritornava da quel luogo misterioso.

—E lo zio ne avrà dei diamanti?—chiese Vittorio.

Tutti risero.

—Chi sa che cosa porterà di laggiù?—disse Mimì.

—Niente, bambini miei—disse seriamente la madre.—Egli è partito poverissimo, e anche laggiù è sempre stato povero. Egli non può portare niente con sè. Viene qui per essere tranquillo con noi, per vivere in famiglia. Voi dovete essere buoni con lui, affettuosi, perchè egli non ha dei bimbi suoi. Ma non porterà niente. Non bisogna mica pensare a quello.

—Oh, certamente—dissero i bimbi più grandi; e anche le due sorelle assentirono. Che mai avrebbe dovuto portare?

Ma in fondo tutti serbarono una segreta speranza. Quando furono levati da tavola, Vincenzo, il marito di Luisa, le si avvicinò.

—Senti una cosa.

Ella fece un gesto d'impazienza. Imaginava bene che le avrebbe parlato del fratello, che le avrebbe messo dinanzi cento difficoltà, che ella già conosceva. Era inutile discutere su cose che non si potevano cangiare.

Ma egli insistette.

Era un uomo che si curava assai poco della casa e della moglie; occupato sempre dal suo ufficio e da amicizie che coltivava in una sfera assai diversa da quella in cui si muoveva Luisa; per questo, da molti anni, dopo la nascita di Vittorio, vivevano come divisi, quasi estranei uno all'altro. Pure qualchevolta egli insisteva per dire la sua opinione.

—Tu non ricordi dunque quel bando? Come si farà? Credi tu che tuo fratello abbia cambiato?

—No, non lo credo—disse Luisa.

—Lo vedi! e allora?

—E allora, che posso fare? che dici tu?

—Mah!

Ella si irritava sempre più.

—Posso scrivergli che non venga? Mi dice che è già partito! Dove trovarlo ora? E poi? Mi conviene di farlo? Quello che più mi affanna è la questione di… Virginia. (Ella pronunciava sempre malvolentieri quel nome). Come fare a dirgli? Vorresti scriverglielo tu?

—lo?! Oh, no!

—Naturale. Tutto io. E poi è meglio. Devo essere io. Dunque, se non sapete darmi un consiglio, se non sapete niente, lasciatemi in pace.

Andò nella sua camera, agitata, e si mise nervosamente a cercare varii oggetti per abbigliarsi. I suoi capelli biondi, che si arruffavano facilmente, le si erano scarmigliati durante una mattinata di lavoro, di corse per la città. Ella disfece il nodo, li sciolse per le spalle, ricominciò a pettinarli, sforzandosi di fare adagio, di dominare la sua ansia.

Quell'occupazione, che per lei era sempre un po' lunga, perchè aveva molti e fini capelli, assai delicati, le dava agio a pensare, e le calmava i nervi.

Già, la storia del bando. Era vecchia di nove anni prima. Quel fratello, nato a Trieste come lei, di natura nevrotica, esaltata, fin da bambino, si può dire, si era messo nell'irredentismo. A sedici aveva dovuto abbandonare le scuole, causa un processo politico, nel quale egli era implicato. Era stato arrestato allora, e tenuto a Gratz, in carcere preventivo, sette mesi. Per fortuna Luisa allora non era più a casa. Uscita giovanissima, venuta in Italia per fare la maestra, e liberare così la numerosa famiglia e il vecchio padre di un peso, si era poi subito maritata. Era stato un matrimonio di calma affezione; un desiderio di avere una casa sua, un po' di pace, una vita meno incerta di quella che le si parava dinanzi. Ma da quel punto la vita le divenne assai più dura di prima; vita di sacrifizi e di rimpianti; il matrimonio era stato per lei uno scoglio di naufragio. Era proprio in principio di questa sua nuova vita, amara e fredda, che ella aveva ricevuto la nuova dell'arresto di suo fratello. La notizia era data dalla madre, in termini strazianti.

La madre descriveva l'angoscia sua quando, giunta la sera, il figliuolo non era tornato a casa. Quando, invece di lui, erano giunte le guardie, le odiose guardie austriache di polizia, e avevano perquisito l'abitazione, sequestrando carte, programmi sovversivi, ritratti di Oberdank (era poco dopo il supplizio di questo giovane), e se n'erano andate, lasciandola nella disperazione. E poi tutti gli orrendi sette mesi di detenzione, lontano, a Gratz, in una carcere umida e freddissima. I passi inutili della misera donna, le suppliche, le smanie. Una volta era andata a piedi fino a Miramar, dove era giunta non so qual principessa d'Austria, per farle consegnare una supplica, ed era stata, lei così gracile, così debole, con quell'angoscia, per tre ore nella strada, sotto una pioggia dirotta, d'inverno.

Insomma, Luisa ancora ne rabbrividiva.

E, con tutto ciò, sapere che il fratello, in carcere, non metteva giudizio. Scriveva sui muri il nome di Garibaldi, il nome del re d'Italia; rispondeva altezzosamente ai guardiani; e quando infine ci fu il processo, per lui e i suoi complici (erano sei ragazzi, nessuno oltre i vent'anni!) egli aveva ricusato di rispondere alle domande, che gli rivolgevano in tedesco, proclamandosi altamente italiano, e chiedendo giudici italiani. Infine… era stato assolto. Quei giurati di Gratz, quegli austriaci, seppero dunque comprendere e scusare i folli ragazzi, con la testa piena di sogni e il sangue in tumulto? O ebbero pietà delle madri, intesero col loro grosso cuore borghese tutto lo strazio delle misere donne, che soffrivano pene di morte, assai maggiori di quelle che si potevano infliggere ai figliuoli?

Furono assolti. E Pepi ritornò a Trieste; ritornò con un'aureola di piccolo martire intorno al capo biondo, intorno alla pallida fronte, che già portava impresso il solco del pensiero, d'un peso troppo grave per i suoi sedici anni.

E quei mesi di prigionia, e quel processo, e la specie di fama che gliene era rimasta, furono come un vino inebriante, che accese il sangue del giovinetto, e gli infuse nel cervello un veleno indistruttibile.

D'allora egli cospirò. Che fece? Stampò articoli clandestini, proclami sovversivi; tentò davvero un moto rivoluzionario; imparò a costruire petardi e bombe? Luisa non lo seppe mai. Ma molte voci erano corse. E una sera, in Piazza Grande, uno sconosciuto avvicinò il giovine Pepi, e gli diede pianamente il consiglio di fuggire subito. La polizia era sulle sue traccie.

E di nuovo la madre, angosciata, a preparargli la fuga. Un capitano del Lloyd, un austriaco che conosceva la famiglia, prese a bordo segretamente il ragazzo, e quella stessa notte lo trasportò a Venezia. Il domani un giovane veniva arrestato a Trieste, sotto il nome di Pepi; era invece un suo amico, che rimase volontariamente per alcuni giorni in prigione, sperando che intanto Pepi riuscisse a fuggire… Santo, vano entusiasmo di amicizia, di devozione, possibile solo in quegli anni felici, e che poi sparisce, si dilegua, lasciando i cuori aridi e duri come selci! E coloro nei quali esso perdura, oltre il tempo, oltre le tristezze e le delusioni, sono i più miseri, sono i pazzi, i destinati al dolore e alla morte!

«Non è così? non è così?», si chiedeva ella, e nei suoi occhi salivano lagrime di collera e di dolore.

Da quella fuga notturna in Italia la vita di Pepi Guarneri era entrata in una nuova fase. La famiglia sua, sua madre, anche con immensi sacrifizi, non poteva tuttavia mantenere il figliuolo lontano; bisognava che egli si acconciasse a lavorare. Ma qual lavoro? Un giovane socialista che aveva conosciuto a Venezia, dove aveva fatto rapidamente molte amicizie, gli offrì ospitalità nella sua casa, e lo fece entrare in una tipografia, come apprendista.

Il giovine amico stava con una donna, che non era sua moglie. Pepi aveva allora diciasette anni. Un giovinetto biondo, pallido, molto alto, molto magro, con occhi sognanti, abitualmente dolci. Sua madre lo aveva adorato, a casa, e lo aveva serbato presso di sè come un tesoro prezioso, una gemma che tutto poteva offuscare. Ella stessa era rigida, severissima di costumi; a trentasette anni arrossiva ancora di una troppo cruda parola, e aveva allevato i figliuoli, specialmente i suoi primi, nella stessa gelosa custodia, che li teneva ignoranti di ogni cosa impura. Ma che era stato, per il giovinetto casto e ardente, a Venezia, il soggiorno in quella casa, dove era padrona una donna perduta; dove l'amore, privato delle sue idealità, appariva solo nella sua forma brutale, come una farfalla brillante, alla quale siano state strappate le ali, e non è più che uno schifoso vermicciattolo!

Certo l'anima pura del giovinetto, tutta piena di sogni e di chimere, rabbrividì a quei contatti. Ma poi l'estrema giovinezza, che si vergogna di se, e vorrebbe essere virile, l'allettamento dei sensi, l'esempio, la libertà, distrussero un po' alla volta gli scrupoli nel cuore di lui; ed egli si trovò presto indifeso in quel flutto d'immoralità, che lo avvolgeva da ogni parte. Solo, dal naufragio di quella sua pura adolescenza, egli serbò un certo pudore negli atti e nelle parole, una certa facilità di arrossire, una timidezza feminile, di cui egli pur si vergognava, come di una debolezza; ma che gli salvò il cuore dall'intima corruzione.

Nè l'anima sua, sincera e infiammata del bello, nè il suo corpo, fragile, anemico, potevano compiacersi solo di quelle orgie dei sensi; il lato materiale della vita era ciò che il giovinetto apprezzava meno. Il suo cuore assetato cercava avidamente un ideale migliore al quale dedicarsi; e sognò allora sacrifizi e eroismi; alte e pure devozioni; non come sognano quasi sempre i giovani, per una donna imaginata, rivestita di ogni perfezione, perchè l'amore lo aveva disgustato della donna; ma per un'Idea, per una inafferrabile e sublime Idea, degna di lui, degna della sua vita.

Egli aveva creduto, a Trieste, che l'irredentismo incarnasse perfettamente questo suo ideale. La città dove era nato, piena ancora di entusiasmi patriottici, di ricordi, di fremiti, di speranze; il facile entusiasmo materno, l'italianità del padre, che spesso, con vivo desiderio, parlava della sua Udine e della sua Italia, come l'aveva veduta quarant'anni prima; l'amicizia con giovani innamorati della patria, perchè era ancora lontana; le piccole e stolte persecuzioni austriache, l'odio di razza, avevano portato il cuore di Pepi alla passione della libertà del suo paese, al sogno della redenzione, dell'unione intera con la madre patria.

Il suo sogno era caduto a Venezia. La vita che, pur modesta, quasi povera, gli era stata dolce a casa, presso la madre, ora gli diveniva dura. Egli imparò le privazioni, la miseria, anche la fame. Lontano da una donna amorosa, costretto a pensare da sè alla sua scarsa biancheria, alla pulizia dei vestiti, alla casa, ai pasti, il giovinetto conobbe il disordine, il sudiciume, la mancanza delle piccole buone cose, che rendono cara la casa e conservano alla persona la freschezza, la giocondità e la salute.

Lo scarso guadagno, e i soldi che sua madre, Dio sa con quali pene, gli mandava, bastavano scarsamente a nutrirlo. L'amico, che si era incaricato di lui, era scomparso; scomparsa la donna, sua fuggevole compagna; Pepi aveva dovuto cambiare e ricambiare casa; abitare miseramente in luride soffitte; dormire in letti sucidi; mangiato dagli insetti, senza biancheria, senza pur acqua sufficiente per lavarsi.

Allora incominciò a conoscere e a odiare la miseria, la crudele nemica di ogni cosa bella; quella che uccide nei cuori la speranza e la bontà, che distrugge i sogni della giovinezza, che imbrutisce l'anima e il corpo, e li insudicia col suo untume. Fu nelle tristi notti senza sonno, nei freddi giorni senza pane, errando con lo scarso pastrano appiccicato al magro corpo, con le scarpe lacere, e sui piedi le calze sudice, troppo corte, mal rattoppate, che il giovinetto incominciò a meditare sui funesti problemi della vita, e che sorse per la prima volta nel suo cervello, il terribile perchè. Perchè vi erano di quelli che hanno fame e freddo, di quelli che vanno con le scarpe rotte, nel fango della via, e coi piedi stanchi; di quelli che si vergognano dei loro abiti laceri, e alzano il bavero fino al mento per nascondere l'assenza della camicia; di quelli che devono alzarsi all'alba, e uscire digiuni a cer care lavoro, e non sanno, quella sera, dove andranno di nuovo a dormire: forse sotto un umido porticato, o sulla panca di un giardino, forse in prigione, come vagabondi. Di quelli che sentono nel cuore e nel cervello qualche cosa di serio e di buono, e devono passare rasente ai muri, per non farsi scorgere, e arrossire davanti alla marea degli sciocchi ben vestiti, che passa loro dinanzi.

Poi, dalla propria personalità tormentata, il giovine, uscendo, guardò intorno a sè, e vide le miserie immense degli altri. Vide gli operai, coi quali era oramai in continuo contatto, lavorare molto, per poco, e con quel poco dover sostentare la famiglia; e vedere i figliuoli senza pane sufficiente e senza vesti. Vide quelli che venivano al lavoro malati, e che qualche volta erano raccolti febbricitanti per le strade, e portati all'ospedale, dove morivano, segnati con un numero, senza che nessuno più si ricordasse che fossero stati al mondo. Ricordò le prigioni piene di infelici che avevano rubato per mangiare; le case luride, dove le donne fanno mercato di sè stesse; pensò il mondo pieno di vagabondi affamati, dalle scarpe lacere, dal corpo rôso per gli insetti… Allargando il suo sguardo inorridito, pieno di terribile stupore, quel fanciullo abbracciò tutte le miserie, tutti i dolori umani, e rabbrividendo di pietà li raccolse tutti nella sua anima nuova, e gli parve che ne stillasse un balsamo per tutte quelle piaghe.

Si diede allora febbrilmente a cercare d'intorno a sè, a osservare la cancrena atroce, che rode la società umana, a penetrare nelle anime dei dannati al dolore, a studiare quali fossero le cause, quali i rimedi del tremendo male. Raccolse intorno a sè i lamenti, le recriminazioni dei compagni; si mescolò di più col popolo, con gli operai; intese le loro ragioni, capì le loro miserie più occulte. E altri vicino a lui, lavoratori più colti degli altri, o già catechizzati o illusi, e studenti che l'entusiasmo o l'origine popolare unisce al popolo, eccitarono di più la sua anima ardente, infiammarono la sua fantasia con sogni e utopie, fecero brillare davanti alla sua mente gli incantesimi di un'età nuova, di un'êra di giustizia, così facile a avverarsi!

Il giovine lesse allora avidamente tutto ciò che intorno alla terribile questione sociale si era scritto e si scriveva. Lassalle, Büchner, Marx, Bellamy, Bakounine, e mille altri furono nomi noti e cari per lui; egli passò le notti a formarsi una coltura sociale, che desse al suo cervello un solido pasto, e lo togliesse alla sua ignoranza.

Nomi, progetti e cifre volteggiarono a lungo nella sua mente esaltata; era un turbine di pensieri, tutti tempestosi e oscuri; mossi da una volontà avida di trovare la soluzione famosa, il verbo che doveva redimere finalmente l'umanità.

Così, abbandonando definitivamente ogni antica abitudine pacifica e casalinga, di pensieri buoni e puri, di speranze miti, Pepi Guarneri passò le notti in luoghi sospetti, dove donne perdute e uomini ubbriachi discutevano di moralità e di giustizia; si ascrisse a circoli e a società; sciupò lo scarsissimo guadagno in tristi compagnie, oppure a sovvenzionare giornali, a fondare filiali, a fare la propaganda oscura di una fede ancora incerta anche per lui. Qualchevolta, certo, in quel buio di tempesta, come un lampo gli attraversava il pensiero il ricordo di sua madre, delle sorelle lontane. Ma già la funesta persuasione si faceva strada in lui. Che importano gli affetti privati, che importa la famiglia propria, il proprio vantaggio, quando bisogna pensare e operare per il bene comune? L'individuo non deve essere che lo strumento della grande opera. E se l'individuo perisse… che importa! Purchè la sua morte sia utile all'Idea! E se la sorella di lui, il padre, la madre; ahi, la madre che lo ha partorito, lo ha cullato, lo ha nutrito col suo latte e col suo sangue, e lo ha carezzato per tanti anni, come nessuno lo carezzerà mai! se anche la madre morisse di dolore, di affanno, di stenti per lui… Ebbene, l'Individuo può sentire un piccolo brivido per la pelle, può sentire il cuore un momento arrestarsi nel suo petto all'atroce pensiero, ma… che importa? Egli non può fermarsi; egli deve udire il gran gemito universale, non il pianto di uno; e deve andare avanti per la sua strada, perche quella è la Via.

Da Venezia a Torino, passando per Milano, quale immenso cammino, in meno di due anni! Il giovinetto si andava maturando. Tutti i semi così largamente gettati avevano portato frutto nell'anima sua. Dal semplice socialismo, ossia dall'avida e generosa ricerca di un bene comune, di un mezzo definitivo per raggiungerlo, Pepi era passato alla dolorosa convinzione che questo mezzo non esisteva. Che qualunque forma di governo, qualunque ordinamento sociale portavano in sè il germe del male, dell'ingiustizia e quindi della distruzione. Che non era possible imaginare a priori il modo con cui le cose nuove si sarebbero regolate, quando tutto il male presente fosse caduto. Allora egli si fermò a questa conclusione: Sradichiamo questo male presente; e poichè esso è in tutto, poichè non vi è ordinamento sociale, nè forma qualunque di vita morale e civile che non ne siano intaccati, distruggiamo tutto ciò. Spezziamo ogni vincolo, rompiamo ogni legge, abbattiamo tutto ciò che l'uso, la tradizione, l'ipocrisia, il rispetto umano hanno consacrato in tanti secoli; e quando tutto sarà caduto; quando un grande rogo fumante accoglierà tutte le rovine; quando intorno scorrerà un fiume di sangue dei vili, dei gaudenti, dei bugiardi, allora… allora la terra rinnovata e purificata darà naturalmente, da sè, le nuove leggi di giustizia, che la divina Natura ha impresso indelebilmente sulle sue bellezze, sui suoi prodotti, nel cuore degli umani, che si sforzano di cancellarle.

E con questi pensieri Pepi, circa dieci anni prima, era venuto a Torino, dalla sorella Luisa, che lo aveva accolto amorosamente e dolcemente; giovanissima anche lei; anche lei allora fidente nell'avvenire, con il cuore pieno di sentimenti buoni e pietosi.

Ella gli aveva detto: Benvenuto, fratello!

«Redescendrait-elle dans la nuit les chemins qu'elle avait montés vers l'aurore?»

Luisa legò ancora la veletta nera sul suo viso pallido, più pallido che mai, oggi, e uscí, baciando i bambini suoi più a lungo, dolorosamente. Le strade di Torino erano involte in una nebbiolina fredda che faceva presentire l'inverno vicino. Era novembre; l'autunno era triste, pesante; la città diventava brutta sotto il suo velo grigio.

Luisa camminava in fretta, ma con quel suo passo strascicante che le era abituale: passo di persona timida, che non sa andare in mezzo alla gente senza soffrirne; aveva premura di trovarsi a scuola; ma prima, oh, prima doveva occuparsi di una cosa ben più grave! Era necessario che ella vedesse Jourdain, il suo aiuto, la sua salvezza; se no, come sarebbe ella uscita da tanti affannosi pensieri? Quando, dalla via del borgo dove ella abitava, giunse sul Corso Vittorio Emanuele, vide con dolore che il tramway che l'avrebbe condotta in Piazza Vittorio, era passato appunto allora. Era dunque sfortunata quel giorno!

Troppo impaziente per aspettare il carrozzone successivo, ella affrettò il passo, lungo il viale, chiudendosi tutta nella sottile mantellina, perchè sentiva già qualche brivido di freddo. L'aspetto dei platani già quasi brulli, o coperti appena da qualche ciuffo di foglie rosse; le siepi tutte irte di spine secche; il tappeto di fogliame arido, a terra, scricchiolante sotto i suoi piedi, davano alla giovane donna un senso sempre più profondo di tristezza, una rassegnazione cupa, in quel destino così tetro, così ingiusto, che la stringeva nella sua mano di ferro. Solo, di tanto in tanto, la consolava un pensiero di speranza.

Jourdain potrebbe aiutarla? Perchè no? Egli poteva tutto. Il cuore le si allargava in questa certezza. Lei, così scettica oramai, così diffidente, aveva ancora conservato quella fede. Jourdain poteva tutto. E se potera, certo l'avrebbe fatto. Egli era così buono, così nobile, e poi le voleva bene. Oh, non il bene che altri le avevano detto di volerle! Non un bene fatto di materialità, di cose volgari e brutte! Ma un bene che egli voleva al cuore di lei, al suo ingegno così disopra del comune, alla sua anima, inaridita e stanea, ma bella ancora, e infelice. Sì, tanto infelice! Ella, conosceva Jourdain da dieci anni. Da quando era venuta a Torino, povera bimba ignara, maritata da poco, già con un bimbo suo, e con la prossima aspettazione di un altro. Allora ella si era posta a cercar lavoro. Bisognava bene che ella lavorasse, poichè lo stipendio di suo marito non bastava. Che cosa avrebbe fatto? Avrebbe dato lezioni, avrebbe tradotto dal francese e dal tedesco, avrebbe fatto la correttrice di bozze… Tutto, insomma, pur di guadagnare tanto da rendere più agiata la sua esistenza meschina.

Per caso era stata indirizzata al Jourdain. Lorenzo Jourdain, allora sulla quarantina, grande industriale di Torino, dirigeva un importante stabilimento tipografico, che dava pane a parecchie centinaia di operai. Consigliere comunale, già sindaco di Torino, nomo d'ingegno elevatissimo, integro, di carattere nobilissimo, godeva di grande considerazione nella sua città e fuori. Uomo austero di aspetto e di vita, troppo onesto perchè i negozi l'avessero arricchito, aveva però mezzo di aiutare una povera giovane come Luisa, desiderosa solo di lavorare dignitosamente, in modo che il suo ingegno potesse appagarsi.

Oggi, in quella fredda giornata di novembre, facendo la stessa strada, ormai sì nota, la giovine donna ricordava chiaramente, e con commozione, il giorno in cui si era presentata a lui per la prima volta. Era stato in un caldo giorno estivo, poco tempo dopo la sua venuta a Torino e la nascita della figliuoletta Mimì. Aveva voluto, istintivamente, farsi bella, ella, che da molti mesi non ci pensava più. S'era messa in testa un cappello di paglia nero, alto, con un gran mazzo di viole sul davanti. In questo grigio pomeriggio autunnale, camminando così verso la medesima mèta, come dieci anni prima, Luisa, nella sua tristezza, pure fu colta da un vivo scoppio di risa ripensando a quel cappello. Ah, che figura doveva farci, sotto quel mazzo di viole, il suo visetto pallido e fine! Allora le pareva di star bene. Veniva da una cittaduzza di provincia, nel mezzogiorno, dove era stata a fare la maestra dacchè era uscita di casa, e aveva perduto ogni idea della moda e del buon gusto. Così quel giorno, andando da Jourdain, doveva essere assai comicamente vestita, la piccola provinciale; ma ella non ricordava altro che quel ridicolo cappellone alto, con il gran mazzo di viole.

E il batticuore con cui si era seduta in quella sala d'aspetto, dove giungeva il cupo rumore delle macchine dalla tipografia! L'ansia con cui si era guardata intorno, in quella stanza grande e chiara, tutta ingombra di libroni e di carte, e dalle cui finestre entrava l'ombra verde e discreta di due alberi alti nel cortile! I minuti di aspettativa le erano parsi gravi come secoli, pure erano anche volati, quando qualcuno, aprendo una porta, la chiamò, ed ella, con violento battito di cuore, entrò in un'altra stanza, in un ufficio più piccolo, dove Jourdain sedeva.

Lo rivedeva preciso, chiudendo gli occhi. Era un uomo magro, già quasi calvo e grigio, con una barba a punta, anche grigia. Quando gli occhi suoi si fissarono sul viso sconvolto della giovane, ella non vi lesse che curiosità altera, e n'ebbe un tale sgomento, che avrebbe voluto mettersi a piangere. Anche la voce di lui la fece tremare. Voce d'uomo avvezzo al comando, breve e imperiosa, pur dicendo parole gentili… Ah, come doveva ella essergli parsa sciocca e meschina, con quella sua grande paura, che le impediva persino di spiegarsi!

Pure, indovinò egli nelle sue parole impacciate, nel suo viso dove il pallore succedeva alla fiamma, negli occhi erranti, sgomenti della donna la forte intelligenza, il coraggio, che ora sapeva così bene apprezzare? Lesse una supplica dolorosa su quella fronte che si chinava spaurita, su quelle labbra tremanti? Jourdain le diede lavoro, allora e sempre; Luisa tradusse per lui opuscoli e romanzi; copiò e corresse; guadagnò, insomma, una vita più agiata, che le permise di compiere la sua educazione spirituale, di appagare il suo avido desiderio di imparare, e le aperse la via a un avvenire sicuro e dignitoso.

Ma che cosa poteva ella ricordare e pensare, che non si connettesse al nome e alla bontà di Jourdain! Egli l'aveva introdotta nella sua casa; l'aveva presentata a sua moglie, ne aveva fatta l'amica e la confidente delle sue figliuole; egli aveva ottenuto per lei i varii posti che già copriva in pubblici istituti: egli le era rimasto, consigliere franco e sicuro, al quale ella qualchevolta osava confidare anche le piccole miserie della sua vita domestica.

Dieci anni erano passati d'allora. Lei, timida giovane, era diventata donna esperta della vita; sul suo capo erano anche passate tempeste di passioni, impeti di dolori. Lui, Lorenzo Jourdain, era già verso ai cinquant'anni, e pareva lo stesso di una volta, solo che i radi capelli erano più grigi, il viso solcato di rughe più profonde, e la barba grigia era sparita. Ma la voce suonava sempre come allora breve e imperiosa; gli occhi avevano lo stesso modo di scrutare profondo; e Luisa, dopo tanto tempo, dopo tanta confidenza e tante prove di amicizia, non andava ancora senza un segreto timore, non senza un'invincibile soggezione, all'ufficio di Piazza Vittorio, dove stava l'uomo, che solo, in questo nuovo affanno, avrebbe potuto consolarla.

Per via ella rallentava anche il passo, sempre più scossa dai dubbi. Che cosa le direbbe egli? Sapeva, è vero, di quel fratello in America; sapeva anche che egli era stato un giovane di idee esagerate, sovversive, che aveva corso nella sua vita pericolose avventure. Ma non altro. Ella non aveva mai osato dirgli di quel fatale bando. E poi aveva giudicato inutile parlarne. Dopo tanti anni ormai! Come avrebbe accolto questa nuova, Jourdain? Uomo di idee politiche serie, abituato all'ordine e al comando, quale impressione avrebbe fatto su di lui un avvenimento così grave; e avrebbe egli voluto occuparsene? O non piuttosto, abituato com'era a parlare a lei seriamente e francamente, non piuttosto l'avrebbe consigliata d'abbandonare quel fratello alla sua ventura; di non caricarsi di nuovi pesi, poichè ne aveva già tanti; e specialmente di non tirarsi in casa un giovane che con le sue idee pericolose avrebbe potuto nuocere anche a lei, che viveva di pubblici uffici, così delicati come l'insegnamento? Tutte queste ragioni Luisa le volgeva e rivolgeva in mente, audando sempre più adagio per la via nebbiosa; dimenticando tutti i numerosi impegni della sua giornata; presa dalla paura, quasi come quel glorno che per la prima volta ella si era presentata a chiedere aiuto a Lorenzo Jourdain.

Egli aveva visite, e non potè riceverla subito. Così Luisa entrò nella nota sala d'aspetto… proprio come dieci anni prima, quel giorno. Ma allora era un chiaro pomeriggio d'estate, e gli alberi tutti verdi spargevano l'ombra dal cortile, e lei stessa era giovane, quasi una bimba ancora; e, benchè il cuore le battesse di sgomento, così piena di vaghe lontane speranze! Ora il cortile era tutto pieno di nebbia grigia; i due alberi erano stati abbattuti da un pezzo, perchè toglievano la luce alla stanza, ed ella era là, ancora tremante, ancora paurosa, come allora, ma più vecchia, oh, più vecchia! e le care speranze dileguandosi lontano, le avevano lasciato il cuore vnoto e malato.

Come allora ella fu chiamata nell'altra stanza più piccola, e ritrovò lui al suo posto, davanti allo scrittoio. Egli l'accolse con un sorriso, ma guardò appena il viso turbato di lei; non fece alcuna domanda.

Luisa allora dovette raccontare.

Quel suo fratello… egli sapeva bene che ella aveva un fratello, in America; quel suo fratello, dopo dieci anni, voleva ritornare…

La sua voce tremula diventava più fioca, e Jourdain levò un momento gli occhi dalle carte che teneva in mano, la guardò benevolmente e fece un cenno del capo, come per farle coraggio. II benevolo raggio di quegli occhi, infatti, gliene diede tanto da continuare.

—Mio fratello, ritornando, starà, naturalmente con me…

Egli fece un nuovo cenno del capo, come a dire che, infatti, ciò era naturale.

—Ma c'è una difficoltà grave perchè egli ritorni…

—Ebbene?—disse Jourdain, vedendola esitare.

—Voi sapete che mio fratello è suddito austriaco…

Ella non osava affrontare direttamente la questione, e faceva un giro piuttosto lungo.

—Dite, dite tutto.

Egli trovava inutile quella esitazione, e amava che si andasse direttamente allo scopo.

—Sapete quali erano le sue idee… una volta. Adesso le avrà cambiate, o…

—O non le avrà cambiate.

—Non ridete, vi prego—supplicò lei, pure rincuorata dal viso buono di lui, come da un raggio di sole.

—Dunque…

—Dunque, dieci anni fa… è una storia vecchia, come vedete.

—E lunga—disse egli ridendo.

—Sì, lunga—disse lei, felice di vederlo allegro, ritrovando tutto il suo coraggio.—Dieci anni sono, dunque, mio fratello venne a Torino, dopo essere stato prima a Venezia, a Milano, e non so dove ancora. Quando venne qui con me, io non ignoravo le sue idee… radicali; ma speravo che la vita tranquilla di famiglia, il lavoro ordinato, il buon senso… Insomma mi illudevo; e fui felice che egli venisse. Io però non sapevo una cosa.

—Quale?

—Non sapevo che egli, a Milano, si era talmente ingolfato nel movimento socialista-anarchico, che ne era diventato uno dei capi.

—Bene! E poi?

—E che poi anche a Milano era stato arrestato.

—Ah!

—E che non essendoci, forse, prove sufficienti contro di lui, la questura di Milano aveva trovato modo di allontanarlo da quella città, e per di più, dietro un ordine del ministero Depretis, di bandirlo definitivamente dagli stati italiani. Nella sua qualità di straniero, egli non aveva aleun diritto a protestare.

—Naturalmente. E allora venne a Torino?

—Non subito. Oh, bisognava avere una testa come la sua, e non avere ancora diciannove anni, per fare simili pazzie! Figuratevi che egli, mandato dalla questura milanese fino al confine, sopra Treviso, si avviò tranquillamente, a piedi, a Trieste. Aveva in tasca tre lire!

—Ci voleva, infatti, un bel coraggio. Ma a Trieste non correva egli maggiori pericoli?

—Sì, certo. Egli era disertore austriaco, e poi su di lui pendeva un certo vecchio processo…

—Hm!

—Pure egli andò a Trieste. Non so per qual motivo. Fu grande nostalgia? Desiderio di rivedere la madre? Disperazione di vedersi così, cacciato come una fiera, senza più saper dove vivere? Fatto è che egli arrivò a Trieste, dopo non so quanti giorni di viaggio. E stette un mese a casa, nascosto, senza che nessuno lo sospettasse, senza uscir mai; facendo provare alla povera mamma angoscie indescrivibili.

—Un monello, via—disse Jourdain vedendo che Luisa tornava a commuoversi.

Ella sorrise.

—Sì, ma un monello pericoloso. Fu allora che da Trieste mi scrisse, senza dirmi nulla del bando, e mi offrì di prenderlo meco a Torino. Io, come vi dissi, non esitai.

—S'intende.

—Oh, se l'aveste veduto! Era allora un giovane bello e simpatico, allegro, nonostante ciò che aveva sofferto. Certe sere, quando incominciava le sue discussioni, e tirava fuori i suoi paradossi, io mi arrabbiavo, ma pure mi sentivo attirata da quella foga, da quella convinzione assoluta; le sue idee mi parevano meno strane, e capivo persino che si potesse accarezzarle, crederle buone!

—Ho capito. Diventavate anarchica anche voi.

—Oh, voi sapete come io penso! Io sono ultreanarchica, ma in un altro modo. Io odio i partiti, odio anche le convinzioni così assolute, che diventano ostinazioni; ma non importa. Vivevamo insieme abbastanza d'accordo. Egli si era acconciato come compositore presso un tipografo. Guadagnava già benino. Faceva vita tranquilla e ritirata, e mi aveva anche promesso di non far più propaganda, di star così quieto con noi… Erano bei giorni. Lui lavorava, veniva a casa a mezzogiorno, e la sera, dopo cena, si usciva tutti insieme, io coi miei piccoli bimbi, e si andava al giardino della Cittadella; io stavo allora da quelle parti. Mi par di vederlo, lui. Alto, magro, come si chinava amoroso verso la mia bimbetta, che appena imparava a camminare! Quando un giorno… oh, un giorno!…

—Via, calmatevi; se vi agitate così, preferisco non udire la vostra storia.

—No, bisogna che l'ascoltiate. A mezzogiorno io avevo preparato la tavola, e siccome mi pareva che egli tardasse, mi misi alla finestra con la bimba in collo, e il ragazzetto già accomodato sulla sedia, davanti alla tavola. Suonano. Io corro ad aprire. Ed entrano tre signori; due avevano dei bastoni. Uno mi dice ch'egli è l'ispettore di pubblica sicurezza, che ha l'incarico di perquisire l'abitazione di mio fratello… Ah, amico mio, voi non potete sapere, non potete imaginare che cosa fu quella!… Io lì, coi due bimbi, tutta sossopra;… quella gente che rovistarono dappertutto, e, per fortuna, non trovarono nulla, perchè, proprio, non v'era nulla… Ma quella tavola preparata, quei bimbi che aspettavano, quegli nomini seri, che cercavano cercavano… ah, mi rimasero nella memoria come una piaga!

—Povera amica!

—Quando andarono via, me lo dissero che mio fratello era trattenuto in questura. E mi dissero anche del bando. Ah Dio! La compassione, Io sgomento, e anche la collera verso mio fratello, per quella sua grande imprudenza, mi agitarono orribilmente. Poi venne a casa mio marito, e io gli racconfai ogni cosa. Ma poichè egli non osava o non voleva, io andai, sola, alla questura. Sapete che ancora adesso non oso passare davanti alla questura, ricordando quel giorno? Ci andai sola, io. Ah, come sentivo macchiarsi la mia giovinezza, la mia feminilità, la mia debolezza passando quel portone e quei tetri corridoi! Parlai non so con quale delegato, col questore, non so con chi ancora. Ottenni di vedere mio fratello. E non ebbi per lui che lagrime e parole di conforto. Egli mi diceva solo, alteramente: Non piangere; non farti veder piangere qui, da questa gente. Ottenni di mandargli la biancheria, il cibo, i libri… Intanto feci una supplica al Re, e dopo molte preghiere mie Pepi la firmò. Tutto fu inutile. Venne l'ordine che fra quindici giorni egli abbandonasse l'Italia. Tornò a casa però; tornò per quei tristi ultimi giorni. Tutto ciò accadde in una seura casa di via Barbaroux, quando era ancora una stretta, cupa, brutta via. Nessuno saprà mai ciò che io vi soffersi. Dopo i quindici giorni mio fratello mi esternò il suo desiderio di partire per l'America. Andò a Savona, di lì, credo, a Genova, poi a Buenos-Ayres. Non lo vidi più.

—Dunque ora volete farlo tornare.

—Sì, se ciò fosse possibile. Ma vi è quel bando. Ci vorrebbe un miracolo.

—Via, per voi, vedremo di farlo il miracolo.

Ella sentì salirle le lagrime agli occhi, ma non disse grazie. Ogni parola le sarebbe sembrata superflua. E poi non leggeva egli forse nel suo viso la commozione, la gratitudine? Pure Jourdain non la guardava. Aveva preso un taccuino e un lapis.

—Ditemi presto il nome di vostro fratello.

—Pepi… oh Dio, no! Giuseppe Guarneri.

—Perchè lo chiamate Pepi? disse lui, ridendo.

Luisa era così felice di vederlo ridere! Era come se un lume le entrasse nell'anima.

—Che so! A Trieste chiamiamo così i Giuseppe. È un vezzeggiativo.

—Va bene. Adesso, cara figliuola, vi mando via, perchè ho molto da fare. E per di più oggi o domaní mi tocca partire. Ho da andare a Roma. Dunque andatevene e state allegra.

La congedò così in fretta, che ella si trovò fuori prima di aver trovato una parola. Avrebbe voluto ringraziarlo, e avrebbe voluto dirgli di non dimenticarsi, e pregarlo, già che andava a Roma, se fosse possibile…

Ma era di nuovo sola, nella grigia strada, coi suoi grigi pensieri. Pure, un po' meglio consolata. Le entrava in cuore, a poco a poco, la calma; e potè andare alle sue lezioni, occuparsi, con aspetto tranquillo, come gli altri giorni; rise anche con una sua piccola amica, un'allieva di quindici anni, che le voleva molto bene, ed era così, un poco monella. Tornando a casa, la sera, Luisa si sentiva molto stanca, ma non più così triste. Ora aveva rimesso la sua faccenda più grave nelle mani del suo amico; poteva essere, dunque, tranquilla, poichè egli faceva bene tutto quel che faceva. E a cena, poichè il discorso era ancora, naturalmente, il ritorno dello zio, Luisa potè prendervi parte, sorridere delle ingenuità dei bambini, rispondere anche alle curiose domande delle sorelle. A poco a poco la convinzione loro entrava anche in lei. Anche un po' dell'antico entusiasmo. Sì, egli poteva ritornare; sarebbe più saggio, certo. L'età e le sofferenze e le delusioni dovevano averlo temprato. È difficile che uno resti sognatore per tutta la vita; l'epoca della ragione, della freddezza viene per tutti. Dopo tante esperienze egli doveva essersi calmato. Allora, niente di meglio che la loro vita, tutti insieme. Lui avrebbe lavorato. Gli cercherebbero un impiego; non era impossibile; oh, no! con l'aiuto di Jourdain nulla era impossibile. Allora potrebbero vivere tutti tranquilli; si sarebbero ristretti; a Pepi si poteva dare quella stanzetta dove finora dormiva Evelina. Evelina poi potrebbe dormire con Armanda. La proposta fu accolta molto bene dalle sorelle, che, nel loro entusiasmo, si credevano capaci di ogni sacrifizio.

E chi sa, dopo tutto, che questa non fosse una fortuna per lei! Non bisogna mai ribellarsi al destino; meglio è accettare, di giorno in giorno, ciò che esso ci porta; qualchevolta noi crediamo che sia un male, ed ecco, un po' alla volta, ci accorgiamo che diventa un bene; e invece anche le cose che hanno le apparenze migliori spesso si risolvono in danno e dolore. E poi, tutte le cose hanno un aspetto buono e uno cattivo. Qui il lato buono c'era; e come! Avere finalmente con sè quel fratello vagabondo, dargli un po' di pace, e levarsi anche lei quella spina dal cuore, di saperlo lontano, ramingo, bisognoso di tutto e non poterlo soccorrere! E poi quante volte ella aveva tremato al pensiero che egli potesse fare qualche follìa; che potesse venire arrestato, condannato; oh, quante volte quella paura le aveva dato i brividi! Presso di lei non farebbe più nulla di male. Ella gli avrebbe parlato, con tenerezza, ma fermamente; egli avrebbe aperto gli occhi,… e insomma, a quest'ora, anche lui doveva capire.

Poi, per ciò che riguardava Luisa personalmente, ella poteva anche essere contenta. Egli avrebbe diviso con lei il peso della responsabilità delle due sorelle. Egli le sarebbe stato un alleato forte e pieno di autorità. Un uomo; da ragazze un po' ignoranti, un po' primitive, un uomo si ascolta già per sè, meglio che una donna. E Luisa aveva bisogno, in casa, di un uomo che l'aiutasse, che le fosse amico, che la comprendesse; al quale ella potrebbe confidare i suoi affari privati, le sue preoccupazioni, e averne consiglio, anche! Andò a letto così, tutta racconsolata, e si addormentò con pensieri dolci e buoni; coi pensieri che l'avevano allietata bambina; affetti calmi e teneri di famiglia; ricordi puri dell'infanzia; di quando i cinque figliuoli erano tutti a casa, intorno alla madre, e la sera, davanti a una scura Madonna, molto antica, essi dicevano insieme le preghiere.

Quella sera ella cercò di ricordare le preghiere. Le mormorò ancora, a fior di labbro. Quella stessa Madonna scura, che aveva sorriso alla sua infanzia, era ancora là, sul suo letto; ella la indovinava nell'ombra. E a lei disse, con infantile fiducia, le antiche orazioni, con grande fervore di cuore, con tenero abbandono, perchè il ricordo della madre morta saliva in lei, e l'occupava tutta di grande commozione. Oh, Dio ti salvi, o Maria, piena di grazia! Poi tentò di ricordarsi un'altra vecchia preghiera, che da tanto tempo non sapeva più. Una specie di orazione rimata, molto ingenua, in cui si pregava per noi e per gli altri; per i vicini, per i lontani, per i vivi e per i morti. E fu presa da tal tenerezza che ad un tratto si mise a piangere, d'un pianto lungo e silenzioso, che cadeva, come tepida pioggia sul guanciale; un pianto non veduto da nessuno, assorbito dalla notte. E pensò con grande amore, con grande pietà a quel fratello vagabondo; lo imaginò in quel momento laggiù, in quel lontano paese, al lavoro, forse, forse pensoso di lei, e della sorella che egli non sapeva morta, e delle altre più piccole. Lo rivide fanciullo, nella modesta casa a Trieste, quando egli, attaccato alle gonne di sua madre, si mostrava così timido e buono, e sua madre certo non avrebbe supposto che egli l'avrebbe fatta morire di affanno. Povera madre! Oh, se avesse potuto prevedere la sorte di quei fanciulli, quando se li teneva così stretti intorno! Non è doloroso che i figliuoli dello stesso seno vadano poi così lontani, dispersi? E se le madri potessero prevedere i destini dei piccoli figli, che esse amano tanto, per cui tremano, per cui sognano un così dolce avvenire! Lei stessa che aveva ora vicini i suoi tre fanciulli, chi sa un giorno dove li avrebbe saputi; lontani forse, stranieri uno all'altro… Oh, se la Madonna che aveva protetto la sua infanzia, potesse accettare la sua preghiera, e proteggere lei e i suoi piccoli figliuoli, e ricondurre anche salvo alle sorelle il fratello!

I giorni seguenti Luisa fu di una calma e dolce malinconia. Jourdain era lontano, ed ella non ne aveva più avuto notizia. All'esaltazione di quella sera era succeduta nella sua anima una cheta speranza che tutto si volgesse in bene, non però senza occulti timori e gravi dubbi. Ella aspettava oramai una lettera del suo amico, che valesse a rassicurarla, e pensava di regolarsi secondo quella. Novembre volgeva al suo fine, sempre più grigio e freddo; ella batteva le strade con le sue scarpe fradicie di pioggia; vi trascinava le vesti infangate; correva da una lezione all'altra, tutta ripresa dal suo lavoro, senza aver quasi tempo di pensare; solo la sera, rincasando, la assaliva il segreto affanno: Ci sarà qualche notizia? L'ultimo giorno del mese ella andò in casa Jourdain, per far lezione alle sue due figliuole, e non osò chiedere notizie del padre, timorosa di parere indiscreta o curiosa. Ma, alla fine dell'ora, Gisela, la maggiore, le disse:

—Oh, signora! Dimenticavo di dirle che babbo vuol parlarle!

Luisa si sentì dare un tuffo al sangue, e senza riuscire a celare la propria commozione, domandò curiosa:

—Ma dunque babbo è arrivato?

—Sì signora; stamattina.

Luisa uscì precipitosamente e andò all'ufficio di Joudain. Egli era, al solito, calmo e grave; occupato delle sue carte. Quando la vide entrare le sorrise, e si pose a parlarle di un'opera che egli desiderava fosse riveduta da lei, una traduzione, che era piena di errori…

Pallida, ella disse sempre di sì. Cereava intanto fra sè una parola di domanda; sentiva aggravarlesi il cuore, intorbidare la vista; mentre la ragione e anche quella sua fierezza solita le dicevano: Che serve domandare! Se ci fosse qualchecosa, egli me lo direbbe!

Quando le parve opportuno, si alzò per accomiatarsi, molto oppressa; faceva forza per trattenere le lagrime. Jourdain, aprendo un cassetto, cercandovi dentro non so che, disse tranquillamente:

—Aspettate un istante. Dovevo darvi qualchecosa. —E le diede il permesso del ministro; la carta con cui il bando per suo fratello era revocato; la carta benedetta, che ella prese tremando, sentendosi venir meno… Uscì barcollando, come ubriaca.

Passarono tutti i primi giorni di Dicembre senza notizie. Luisa si andava calmando sempre più. Del resto, il lavoro incessante, dalla mattina alla sera, la stancava così, che ormai rifuggiva fin dalla fatica di pensare. Aveva rinchiusa in un cassetto la preziosa carta, ed ora si sentiva sicura.

Chi sa! Pepi poteva anche essersi pentito; poteva non venir più. Questo pensiero non la rattristava. Aveva fermo in mente che è inutile desiderare una cosa piuttosto che l'altra. Qualchevolta era inclinata a credere che il mondo fosse governato da spiritelli maligni, i quali si divertono a defraudare sempre gli uomini nelle loro previsioni buone o cattive. Era meglio lasciar accadere ciò che doveva, senza affliggersi e senza consolarsi troppo. Non era questa la vera saggezza? Poi, era stanca. Due mesi di lavoro assiduo; alzarsi la mattina al buio, uscire presto, con qualunque tempo, lei così freddolosa; stancare i polmoni in una vociferazione continua; tornare a mezzogiorno per mangiare un boccone in fretta, e poi via, di nuovo, e così fino a sera tarda! Ah, lei resisteva per forza di nervi; qualchevolta sentiva di non poterne più; le pareva, che da un momento all'altro si sarebbe spezzata!

Specialmente era quell'uscire presto la mattina, e quel rientrare tardi la sera che le dispiaceva. Si stava così bene nel letto, al caldo! I bambini le respiravano vicino; la camera era immersa in una dolce penombra; il riposo e i sogni cullavano la giovine donna fra le loro morbide braccia.

E doversi svegliare come a una brusca chiamata!

Guardare con occhi, che non vogliono stare aperti, l'orologio sul tavolino… Le sei!… Già tardi… Alle sette bisogna esser fuori! Ah, che fatica! Come dormono tranquilli i bimbi! Ma è appunto perchè essi possano dormire così tranquilli, che la madre deve alzarsi, vestirsi a un lume incerto di candela, in fretta; rinunciare alle innocenti civetterie della sua toelette, pettinare a caso i suoi bei capelli biondi, appuntarli senza grazia sulla nuca, pur di far presto!…

E poi via, in silenzio, per non risvegliare i bambini. Giù per le scale ancora oscure, fuori sulla via fredda, dove ardono ancora i fanali della notte. Anche iersera ardevano, quando ella rientrava! Come punge il freddo! È il suo gran nemico, il freddo. Le uccide il pensiero, le gela il cuore. Da quanto tempo desidera una pesante pelliccia, in cui avvolgersi tutta, in questi crudi giorni! Ma è una spesa forte, ed ella non ha mai osato farla. Via, via, nel vento, nel buio; qualchevolta piove, spesso nevica; i suoi piedi frettolosi scivolano; ella sta per cadere… Coraggio; anche questo, anche questo passerà… E le riesce qualchevolta di pensare all'estate; di imaginare quel cielo chiaro e sereno; quegli alberi funebri, scheletriti del viale tutti lieti di foglie e di uccelli… Ah, rivedrà ella la primavera? tornerà, tornerà proprio la dolce stagione?

E la sera, ritornando a casa affranta; alla casa, dove non c'è altro che la vista dei bimbi che la consoli? E qualchevolta, quando ella ritorna, i bimbi sono già a letto. La sera ella è ancora più infelice, più triste, coi nervi deboli, con lo stomaco vuoto; e corre corre nel buio. La sua giornata si apre e si chiude nelle tenebre. Qualche volta anche un passante le mormora qualche parola all'orecchio; qualchevolta uno più ardito le dice sul viso, rapidamente, cosa che ella non intende, ma sa che sono offese; qualcuno anche la segue, come un lupo, lungo le vie nere. La prendono chi sa per chi! Il suo aspetto giovanile, il suo vestito, il fare non comune non la lasciano confondere con una sartina, con un'operaia che rientra, ma fanno anche pensare peggio di lei! Chi può sapere! Ah, questo è ciò che la fa soffrire più d'ogni cosa! Come è lunga la strada! Quanto darebbe ella per avere un braccio fidato, un caro braccio nel quale infilare il suo, la sera; e ritornare a casa appoggiata così, così sicura. Allora non sentirebbe certo più il freddo, e non avrebbe nemmeno più paura.

Fortunatamente le vacanze di Natale erano vicine, così Luisa avrebbe avuto qualche giorno di riposo. Ella amava ancora Natale, non per sè; da molto tempo erano sfumate le gentili leggende, e il ceppo ardente era spento, da tanto tempo! Ma lo amava per i suoi bimbi. Perchè le era dolce andare a comperar i doni per loro; pensare, già, tanti giorni prima, quello che avrebbe potuto donare. Quell'anno ella aveva pensato a un cavallo per Vittorio, un grosso cavallo a dondolo; un suo sogno antico. Doveva essere un po' caro, ma ella era troppo felice di comperarlo, e non voleva badare alla spesa. Per Nepo prenderebbe un atlante; ma non era ben decisa. Era un ragazzo così disordinato quel Nepo, che non aveva alcuna cura dei libri, e certo l'atlante farebbe in breve una cattiva fine… Pure, egli ne aveva bisogno, a scuola; Luisa comprerà l'atlante. E a Mimì? Oh, a quella un libro di racconti delle fate! ella amava tanto la lettura; era una bimba tranquilla, che non giocava già più con la bambola. E poi dei dolci a tutti.

Andò a fare quelle spese la vigilia, appena ebbe finite le sue lezioni. E quella sera non le importava punto di venir a casa carica di roba; con le braccia ingombre di pacchi, e seguìta da un ragazzetto che portava il grosso cavallo. No, quella sera era felice; oh, ne avrebbe voluta comperare ancora della roba, se avesse osato spendere tanto, e caricarsela tutta sulle braccia; e non le importava se la gente la guardava! Direbbero: è una mamma felice. Fece le scale quasi di corsa, un po' affannata per tutti quei pesi; alla sorella che le aprì la porta fece un rapido cenno di silenzio, e corse in camera sua, a nascondere tutto; perchè Vittorio credeva ancora che fosse Gesù bambino quello che portava i regali, e doveva essere una sorpresa.

Ma la sorella Evelina la seguì in camera.

—Sai? Pepi ha scritto.

Luisa tremò forte. Aspettò un poco prima di parlare; depose i regali; si aggirò un momento per la camera, poi domandò con voce calma:

—Che cosa ha scritto?

—Ha scritto da Londra. Dice che fra pochi giorni si metterà in viaggio; che presto sarà qui.

—Va bene, va bene.

Rimase sola nella camera, si portò le due mani al cuore. Un grande affanno la assaliva. Era a Londra, in Europa, già così vicino! Il fatto dunque era imminente; ancora pochi giorni e sarebbe accaduto. Ristette così ansiosa, immobile, quasi aspettando, guardando fisso sulla parete dove danzavano le ombre, ascoltando il crepitare della candela quasi consumata, già prossima a spegnersi.

E, a un tratto, si spense. La stanza rimase nel buio. Ella pure rimase, tutta avvolta di tenebre, anche nell'anima. Sulla parete, di fronte a lei, sul marmo del caminetto, brillava nell'ombra come un viso bianco immobile. Era un antico orologio di casa sua, già vecchio quando lei era piccina; e ora da molto tempo guasto e muto. Ella ricordò a un tratto quante volte, nelle notti della sua infanzia, mentre ella paurosa spalancava gli occhi nel buio, il tic-tac familiare del vecchio orologio l'aveva già rincuorata, come la voce di un amico; quante volte, da piccola, ella si era addormentata piangendo, mentre le pareva che il palpitar sonoro del pendolo le dicesse: Lo so, lo so, il tuo dolore; mia povera bimba, coraggio! E quante cose terribili, dolorose aveva vedute il vecchio orologio, quando ella era via di casa, lontana a guadagnarsi il pane.

Ora esso taceva. Tutto taceva intorno a lei. Eppure ella si sentiva ancora paurosa e sola, nel buio; e nessuna voce amica le diceva più: Lo so, lo so il tuo male; mia povera bimba, coraggio!

Il giorno di Natale, un chiaro giorno, tutto riflesso di neve, Luisa, scrisse al fratello:

«Caro fratello mio, mio buon Pepi, tu ritorni dunque! Tu senti bisogno di riposo, tu cerchi la famiglia che abbandonasti tanti anni fa, per correre il mondo dietro a sogni dolorosi! Ritorna, e sii il benvenuto! Oggi, come allora, come sempre, io te lo dico. Ma prima che tu rimetta il piede nella mia casa, è necessario che tu ti armi di un grande coraggio. Durante la tua assenza, tu sai, immense sventure sono venute a colpirci. Tu non ignori, poichè ti fu scritto a tempo, la morte di papà e della povera mamma. Ma quei dolori atroci non bastavano. Altra gravissima pena ci venne addosso due anni fa; una pena per te nuova, che adesso ti colpirà di fiero dolore, che io non so come farò a confortare. Tu avevi fra le tue sorelle una che ti era più diletta. Era, infatti, la migliore fra noi; la più buona, la più amorosa. E se noi tutte ti amiamo, ella certo aveva per te un affetto infinito, così tenero, così dolce, che nessuna cosa nel mondo le era più cara. Quell'angelo ora non è più fra noi. Tu ricorderai di avere ricevuto da lei una lettera—era l'ultima!—in cui ti annunziava la sua malattia di tifo. D'allora non si rimise più. Guarita del tifo si ammalò di petto. Ma il cuore non mi regge di darti oggi altri particolari sul miserevole caso. Vieni fra noi. Il dolore sopportato insieme ti parrà meno grave. A voce ti dirò tutto quello che sarai bramoso di sapere intorno a quella cara di cui tu fosti, certo, l'ultimo pensiero. Vieni. E non abbandonarti alla disperazione. Hai ancora tre sorelle, che tu puoi aiutare e consolare; anch'esse, sta sicuro, cercheranno di confortare la tua vita e di farti dimenticare ciò che in essa hai sofferto. E procureranno di amarti di più; di amarti tanto che tu non senta più così amaramente che una, la più cara, ti manca.»

«Mio povero fratello, povero caro Pepi! Perchè non sei ritornato prima? Duro è il nostro destino, fratello mio; pare che una fatalità tremenda pesi su di noi. Questi giorni mi ricordano tanto quando eravamo piccoli. E la mamma? La ricordi tu? Ritorna subito.»

«La povera Virginia è morta il 16 di Luglio.

«Exita sedentes in tenebris et umbra mortis!».

Pochi giorni dopo, e precisamente la sera del trent'un Dicembre, un uomo sbarcava a Genova, da un piroscafo transatlantico, che arrivava direttamente da Londra, e doveva proseguire il giorno dopo per Buenos-Ayres. Alle guardie doganali, che erano salite a bordo, quell'uomo aveva mostrato una valigia sdruscita che conteneva due paia di calze, un fazzoletto e mezza dozzina di libri. Ai carabinieri e a un delegato di polizia, che lo avevano sbirciato di malocchio, chiedendogli le sue carte, egli aveva mostrato un passaporto,… che non era il suo; poi era disceso a terra, e si era messo a camminare rapidamente verso l'interno della città, portandosi dietro a mano la sdruscita valigia.

Anche alla luce incerta dei lampioni, in quella sera piovigginosa, si poteva scorgere facilmente che l'aspetto di quell'uomo era dei più miserabili. Aveva addosso una specie di soprabito, che a quella luce pareva nero, ma che poteva anche essere, ed era infatti, di un verde sbiadito. I lunghi piedi uscivano da un paio di scarpe rossastre, per mancanza di vernice, grosse, scalcagnate; e i calzoni corti e stretti non riuscivano a nascondere quella misera calzatura. Il bavero, tirato sulle orecchie, non lasciava scorgere traccia di cravatta o di colletto; si indovinava la camicia appena dai manichini sfilacciati, che uscivano dalle maniche del soprabito. In capo l'uomo aveva un cappello a cencio, assai sdruscito, e tutto l'aspetto era freddoloso e miserabile.

Pure chi avesse veduto quel viso alla luce di un fanale, non avrebbe potuto prendere quel povero per un vagabondo volgare. La faccia pallida e magra aveva una certa distinzione; dalla forma della bocca, coperta da un paio di baffi biondorossastri, si rilevavano un'intelligenza e un carattere non comuni. Gli occhi erano protetti dalla falda del cappello che si abbassava molto; forse perchè l'uomo aveva freddo, o perchè si vergognava; ma erano occhi di miope, chiari e dolci, e si indovinavano timidi, benchè si sforzassero di guardare arditamente in faccia alla gente.

Quell'uomo non aveva che ventisei o ventisette anni. In quell'arnese ne mostrava quaranta. Camminando egli si guardava intorno, come cercando di ricordare. Erano molti anni che non era più stato a Genova; certo, molte cose dovevano essere cambiate. Per esempio, qui, presso al porto, una volta c'èra una specie di osteria, dove egli aveva mangiato e dormito per pochi soldi… Dov'era? In un vicolo, in quello forse. Sì; ecco il fanale rosso, ecco l'insegna, dove i suoi occhi miopi non riuscivano a decifrare la leggenda, ma scorgevano ancora, benchè vagamente, una specie di battello dipintovi sopra. «Al piroscafo che parte!» così doveva chiamarsi l'osteria.

Egli spinse la porta ed entrò. Una sala bassa e fumosa, mal rischiarata da lucerne appese ai muri, era piena di gente volgare; qualche marinaio, ma più ancora operai, facchini, vagabondi. A qualche tavola si giocava a carte, urlando forte.

Nessuno bado al nuovo venuto. Egli, dopo aver cercato inutilmente una tavola vuota, venne a porsi sul limite estremo di una scranna, già occupata da altri individui, dicendo gentilmente:

—Permesso.

Nessuno rispose, e nessuno lo guardò. Allora egli depose la valigia ai suoi piedi, e tirando un po' in su le falde del cappello, per prendere un fare spavaldo, picchiò forte col pugno sul tavolo, chiamando:

—Garzone!

Egli aveva un accento strano, che fece voltare verso di lui due suoi vicini. Uno robusto, nero, con occhi feroci; l'altro quasi cencioso, pallido, forse malaticcio, con viso cupo e chiuso.

Il giovine dell'osteria venne, senza affrettarsi troppo, e l'uomo dalla valigia allora ordinò la sua cena: vermicelli alla genovese e un pezzo di formaggio. Con un litro, s'intende.

—Da sei o da otto?—domandò il giovine.

L'uomo finse esitare, ma egli conosceva troppo bene lo stato delle sue finanze.

—Da sei!

—Si paga prima—disse il giovine senza muoversi.

L'uomo arrossì, ma chiese solo:

—Quanto?

—Quattro di vermicelli, quattro di formaggio… Pane? Due di pane e sei di vino… sedici palanche!

—Tenete, questi sono diciotto soldi, e portatemi invece quattro di pane!

Mentre aspettava di essere servito, vedendo che nessuno badava a lui, l'uomo si tolse il cappello dalla testa, tirò dalla tasca un fazzoletto di dubbio colore, e passandolo lentamente sul collo e sul viso, ne tolse il sudore e l'untume che li coprivano. Abbassò quindi il bavero del soprabito, e mostrò, invece di colletto e di cravatta, un pseudo-foulard rosso e bleu, molto sbiadito, accuratamente legato, i cui capi sparivano entro l'abito.

Stette così alcuni minuti, a capo scoperto, immobile, un po' curvo sul dorso, come fisso in un pensiero.

Passò davanti alla tavola una donna, una disgraziata, vestita di una mussola chiara, coi capelli incipriati, e lo guardò. Ma lui non la vide.

Ella allora si fermò come stupita di vedere quell'uomo in quel luogo. Infatti, nonostante il misero vestito, il giovine non poteva confondersi con gli altri frequentatori della bettola. Il viso pallido e lungo, la fronte nobile, bianca, i capelli biondoscuri gli davano un fare giovanile, ancora fresco, non volgare, che, in quel luogo, avrebbe potuto destare pietà.

Non so se questo fosse il sentimento della donna, ma ella si avvicinò alla tavola, si chinò verso il giovine e gli disse una parola.

Egli si scosse, guardò quella misera, ed ebbe un sorriso straziante.

—Se hai fame, e vuoi mangiare con me, ci aggiusteremo —le disse—ma non ho soldi.

Ella si sedette alla medesima tavola, dirimpetto a lui, stringendosi un po' all'omaccio nero, che si volse bestemmiando. Ma quando capì che ella era insieme al nuovo venuto, riprese la sua conversazione con gli altri, senza più curarsi dei due.

—Non ho fame—disse la donna sorridendo, mentre il bettoliere portava in tavola la roba comandata.

—Non potete darmi una salvietta?—disse il giovine, quasi vergognandosi per la donna.

—Salvietta, due soldi!—disse il garzone.

Il giovine tirò fuori altri due soldi. Dopo un poco erano accomodati, davanti al desco preparato, l'uomo e la donna, sconosciuti uno all'altro. Ma si sorridevano come vecchi amici… quella miserabile ragazza era la prima persona che lo salutasse in Italia.

—Non ho fame—disse lei ancora, negando anche col gesto.—Ho già mangiato.

Il giovine mangiava ormai, in modo che rivelava un lungo digiuno. Il piatto di vermicelli scomparve ben presto, e anche il pezzo di formaggio; rimaneva però più della metà del pane, ed egli si pose a divorarlo, a grossi tozzi, inaffiandolo col vino che gli restava.

—Se non hai fame, bevi—disse alla donna.

Ella vuotò un bicchiere, e appuntando i gomiti sulla tavola, rimase muta a guardarlo, sorridendo.

—Perchè ridi?—chiese lui.

—Niente. Mi piaci.

Allora egli la guardò più attentamente. Non era bella, ma aveva un visetto fine, biondo, tutto sciupato dalla cipria e dal belletto. Era magrissima; dal vestito scollato usciva il collo sottile come quello di un uccellino, e anche il principio delle clavicole, salienti; s'indovinavano il seno appassito, le spalle acute.

—Quanti anni hai?—chiese il giovine.

—Ventitrè.

Egli fece un gesto di stupore. Glie ne avrebbe dati più di trenta. Ma forse ella mentiva, e non ci badò più.

—Tu di che paese sei?—chiese ella allora, meravigliata del suo strano accento.

—Vengo da Buenos-Ayres—disse lui.

—Ah, È per questo che parli così!

L'uomo grosso e nero improvvisamente si era voltato.

—Da Buenos-Ayres? Lei viene da Buenos-Ayres? —disse rivolgendosi al giovine.

—Sì.

—Ah! allora ci dica, lei che conosce i luoghi… È vero che anche laggiù c'è tanta miseria?

—Un mare—disse il giovine.

Anche gli altri seduti a quella tavola si erano voltati, e lo guardavano. Certo, se egli veniva da Buenos-Ayres, l'impronta della miseria la portava addosso.

—Però, ci son di quelli che fanno fortuna—disse uno sentenziosamente.

—Che fortuna!—disse il giovine animandosi. —Quelli che vanno laggiù con soldi, per sfruttare gli altri, quelli sì che fanno fortuna! Ma gli operai… i contadini… poveri diavoli! È tutta una America.

Parlò l'uomo magro, dal viso malaticcio, che era seduto vicino al giovine:

—Io devo partire domani, sopra un transatlantico inglese… Mi hanno venduto quel po' di terra, per pagare i debiti; ho la moglie, tre figli e i due vecchi… Bisogna bene che almeno da mangiare per tutti io ce lo trovi, in America!

Parlava con voce velata, e in un italiano fatto di dialetto lombardo.

Il giovine rise amaramente.

—Oh sì! da mangiare! Guardate me, son solo, e non guadagnavo sempre da mangiare. Se sapeste quanti mestieri ho fatto per poter mangiare! Anche il facchino.—E mostrava le sue mani lunghe, bianche e scarne.—Anche il facchino. Mica che io me ne vergogni. Fare il facchino è lo stesso che fare il ministro…—Tutti risero.—Sì, è anzi molto più nobile. Adoperare le proprie braccia nel lavoro è più nobile che vivere di rendita.

—Ma è meno comodo—disse l'uomo nero. Gli altri risero.

—È vero, È meno comodo. Nessuno dovrebbe fare il facchino per gli altri. Verrà il giorno in cui nessuno servirà gli altri. Ma finchè questa razza umana dura a essere così vigliacca, finchè avremo paura di chi ha i soldi e le baionette…

—è che non è poco—disse l'uomo nero, che pareva faceto.

—Non è poco, perchè siete voi che date loro i soldi, e che portate per loro le baionette. Ma quando avrete capito questa cosa così semplice e così chiara…

—Quale cosa!—disse l'uomo magro, che stentava un po' a capire l'accento spagnuolo del dicitore.

—Quale cosa? Ma perdio che noi abbiamo paura di noi stessi e delle nostre proprie ombre. A che servono i soldati? A cacciarli contro di noi, a piedi e a cavallo, quando ci ribelliamo, quando gridiamo di aver fame! E i soldati chi sono? Voialtri non avete fatto il soldato?

—Io sì—disse uno.

—Ebbene, i soldati dunque siete voi stessi. E perchè marciate contro noialtri quando ci ribelliamo? Perchè non ci aiutate invece? Perchè vi comandano? Ma quanti sono quelli che vi comandano? Uno, quando voi siete cento. E non vi vergognate di avere paura? E gridate di aver fame, e andate a cercare il pane in America? In America! Troverete le galere, come qua, se vorrete mangiare. E per di più troverete la febbre gialla, che vi farà crepare come cani arrabbiati, se non sarete già morti di caldo e di dissenteria. Andate, andate in America. Domani incomincieranno a ficcarvi nel piroscafo, come bestie. No, peggio delle bestie, perchè se le bestie muoiono, esse hanno un valore, e a loro secca. Ma voi, che valore avete? Uno di meno! E arrivati in America vi attaccheranno al suolo duro, che dovrete dissodare pietra a pietra, e mangerete intanto panocchie di mais, crudo o acido… se pure ne avrete. O vi metteranno in fondo a una miniera, e vi seppelliranno vivi. O vi faranno lavorare per dodici ore al giorno sulle strade ferrate; lavorare, anche a suon di nerbate! Ecco l'America!

Si era infiammato parlando; il pallido viso gli si era soffuso di scarlatto; negli occhi gli brillava un fuoco terribile. E le braccia, lunghe e nervose, si agitavano muovendosi innanzi, con i gomiti stretti ai fianchi, le mani che aprivano le dita e le rinchiudevano, come ad afferrare qualche cosa. E la voce, dapprima incerta e balbettante, ora gli si era fatta sicura, squillante, trovava le parole con grande facilità, benchè di tanto in tanto, nella foga, passasse qualcuna spagnuola. I suoi uditori non capivano, certo, tutto, ma intuivano facilmente anche le frasi oscure. Le dottrine che il giovine esponeva erano di quelle che entrano volentieri nelle orecchie delle masse, e trovano sempre in fondo ai cuori un lievito che fermenta, e fa ribollire il sangue.

Come inebriato delle sue stesse parole, egli continuava con l'ardore di un apostolo. Egli spiegò ciò che vi era di ingiusto nel modo presente di essere degli operai e dei contadini; il grande torto sociale, la povertà e le privazioni; il lavoro imposto ai più perchè i pochi vivano nell'ozio; lo sfruttamento, la violazione della libertà individuale, le leggi inique, l'ignoranza, i pregiudizi.

—Tutto questo va tolto via—concluse con un grande gesto, come se avesse in mano una falce e mietesse ogni cosa.

Gli altri interloquivano poco. I più approvavano col capo, convinti, ma non sapevano aggiungere altro a un'eloquenza che diceva le cose così chiaramente e largamente, da interpretare il recondito pensiero di tutti. Qualcuno, più prudente, o più sciocco, o più timido, chinava profondamente il viso nel bicchiere, e non pareva badare a quei discorsi. Il contadino lombardo, quello dall'aria malaticcia, sospirava ogni tanto.

Ma anche dalle altre tavole si tendeva l'orecchio, e qualcuno frammetteva una parola ogni tanto. Uno disse:

—Costui vuole andar a finire in gattabuia.

E subito l'oste, un grosso pancione che pareva avesse fino allora dormito col gatto, su di una panca, si avvicinò al pericoloso avventore, e gli disse a mezza voce:

—Io non posso lasciarvi continuare questi discorsi.

Il giovine rise e un baleno passò nei suoi occhi. Stette per rispondere, e dovevano essere aspre parole, ma, a un tratto, parve ricordare e si contenne. Tacque.

La discussione continuò fra gli altri, ma più blandamente, e il giovine non intervenne più; serbava solo un sorriso di sprezzo sulle labbra.

Terminò di fumare una sigaretta che aveva fatto lui stesso con poche briciole di tabacco in una carta e si alzò avviandosi all'oste pancione, che si era, forse, riaddormentato.

—Avete una camera per me?—gli domandò a mezza voce.

L'oste aprì gli occhi e scosse il capo.

—Nessuna. Tutto occupato.

—è solo per questa notte—disse il giovine, e la sua voce, insistendo, aveva un accento di supplica.—Son forestiero, non so dove andare. Domani riparto per Torino.

—Mi dispiace, tutto occupato;—ribattè l'oste.

Il giovine smozzicò una bestemmia, e uscì furioso, con la sua valigia stretta rabbiosamente in mano.

Era appena fuori, sulla strada umidiccia, nera, che sentì una mano posarsi sul suo braccio, e una forma femminile gli comparve dinanzi.

—Dove vai?—gli disse la donna.

Egli fece un gesto di collera.

—Non so. Lasciami in pace.

—Vieni con me—disse lei.

Egli la guardò un momento, e quell'invito accrebbe il suo furore.

—Va via.

—Vieni con me—insistette ella, senza lasciargli il braccio.

Egli scosse il braccio, si liberò, e incominciò a camminare frettoloso, davanti a sè, senza sapere dove andasse. Sapeva di non avere più che pochi soldi in tasca, oltre quelli che dovevano servirgli per il biglietto di terza, fino a Torino. Dove andare? In qualunque albergo avrebbe dovuto spendere di più; e allora come partire? E poi dove presentarsi in quell'arnese?

Camminava sempre, in fretta, ma sentiva che presto le forze gli sarebbero mancate. Era stato due giorni quasi senza mangiare; ed era molto tempo che mangiava poco e male. Quella sera il pasto, relativamente lauto, il vino bevuto gli avevano momentaneamente eccitato le forze, ma ora la stanchezza lo prendeva sempre più; gli pareva di avere le gambe di piombo, e per il corpo gli correvano acuti dolori. Specialmente alto, sulla spalla sinistra, aveva una sfitta, come di un coltello.

Dove andare? Si aggirava nell'ignoto, lungo quel porto semioscuro nella caligine, presso quei vicoli alti e bui, dai quali uscivano voci e rumori, che gli davano uno strano senso di spavento. Un formicolìo ora gli passava per le membra, dovette andare più adagio, sentiva il cervello ardergli come per febbre. E forse era febbre davvero. E su su dal cuore un profondo corruccio gli saliva; un odio folle, contro tutti, contro se stesso, una cupa disperazione come se quella corsa nel buio, in una città sconosciuta, sotto un cielo inclemente, fosse la sua eterna condanna. Come se mai, mai egli dovesse trovare un giaciglio ove sdraiarsi e veder la luce del sole.

A un tratto, presso un gradino, sotto una volta oscura, egli lasciò andar la valigia e si accovacciò come un cane, piegando il viso fra le braccia e gemendo.

—Morrò—pensava. E si mise a desiderare che fosse presto, in quel momento; che egli non sentisse più nulla; e al mattino venissero a raccoglierlo, freddo, immobile, morto. Una gioia feroce lo assalse a questa speranza. Ma poi subito un pensiero di terrore.

—E se venissero adesso? Le guardie? Mi trovassero qui? Mi condurrebbero in questura! E domani… chi sa domani… io sono un soggetto pericoloso… in questura… quel sudiciume, quel tavolato, quelle faccie!…

Egli già delirava; vedeva quelle faccie; rabbrividiva… Fece uno sforzo per alzarsi e ricadde giù sullo scalino.

Due braccia lo cinsero, si sforzarono di sollevarlo; una voce quasi piangente gli susurrò:

—Tu hai male, vieni con me.

L'infelice riuscì a rizzarsi, si lasciò trascinare. Appoggiato al braccio della donna si sentì più forte, e, senza dir una parola le camminò vicino, adagio, barcollando. Ma non ebbero molto da andare. Dopo pochi passi infilarono uno di quei vicoli oscuri, che tagliano la via del porto, e un portone nero, rischiarato malamente da un lume, che ardeva davanti una Madonna. Al secondo piano la donna aprì, con una chiave che trasse dalla tasca, spinse l'uscio, e i due si trovarono in una stanza, perfettamente al buio.

—Hai fiammiferi?—disse lei.

Egli cercò, sempre muto, nelle sue tasche, trovò il fiammifero e fece fuoco. Ella si accostò subito con una candela, e l'accese. La stanza rischiarata presentava un misero aspetto. Un lettuccio a destra, un piccolo divano tutto lacero, pochi mobili sparsi qua e là.

—Vien qua—disse lei, coricati.

E poichè il giovane guardava il letto con una stupidità che pareva esitazione, ella disse presto:

—Non ci sono bestie; è pulito,—e andò verso la finestra, come per non guardarlo.

—Vien qua—disse lui con voce rauca—aiutami.

La donna si accostò obbediente, e gli prestò umilmente i suoi servigi.

Quando egli fu a letto, con un lacero copertone tirato su fino al mento, ma scosso tuttavia da forti brividi, le disse, tirandosi all'orlo:

—Vieni pure, c'è posto.

Ella non rispose e cominciò tacitamente a spogliarsi.

—Come ti chiami?—le chiese lui ad un tratto.

—Virginia—rispose la donna.

Egli diede un grido che parve un ruggito.

—Non venire, non venire, va via!—urlò levandosi a sedere sul letto, nell'atto di slanciarsi minaccioso.

Ella non parve affatto spaurita.

—Mi metterò qui, ho una coperta, sta buono—disse.

E si accomodò sul divano.

Dopo alcuni minuti ella aveva spento la candela, e i due miseri dormirono così, fino all'alba, che stentava ad entrare in quella stanza, dalla piccola finestra sul vicolo.

Quando il giovine aprì gli occhi, la donna era già alzata, e si dava da fare presso una tavola, dove una fiammella azzurra guizzava. Egli, dopo il sonno febbrile, popolato di fantasmi, non capì dapprima, non ricordò, e credette di sognare ancora. Stette un momento a guardarla, immobile, mentre lei, attenta a quella fiammella azzura, gli volgeva le spalle.

Era alta e magra, ben fatta, e coi capelli tirati su frettolosamente, dopo il sonno, un vestitino scuro addosso, le maniche rimboccate, aveva un'apparenza casalinga e onesta, che non gli facevano più ricordare la donna perduta, che l'aveva raccolto sullo scalino, la sera prima. Ma volgendo gli occhi in giro riconobbe la misera stanza, riconobbe il divano, sul quale ella aveva passata la notte, e vide appesa ad un chiodo la veste chiara, la sua veste di condannata, che ella aveva nell'osteria.

E ricordò tutto, anche il nome.

—Virginia!—disse con molta tenerezza.

Ella subito lasciò la sua faccenda, e corse a lui, carezzevole.

Egli si lasciò prendere una mano e tastare il polso, guardandola, mentre ella si chinava, tutta amorosa e gentile su di lui.

—Non hai più la febbre—disse lei, seriamente. —Adesso ti darò una tazza di caffè. Si sta facendo. Vedrai, è caldo, ti farà bene.

Ella tornò ad affaccendarsi intorno alla fiammella azzurra.

—Io mi vestirò—disse lui esitando.

—Vestiti; ecco la tua roba—disse la donna, raccogliendo tutto da una sedia, e deponendola sul letto. Poi tornò a volgersi e a occuparsi del caffè.

Allora egli si vestì sotto le coperte, timidamente, benchè lei non si rivolgesse mai; solo quando sentì che picchiava i piedi calzati sul pavimento, gli domandò guardandolo:

—Vuoi qualchecosa?

—No—disse lui ridendo con amarezza.—Sono queste benedette scarpe… Son tutte rotte, eppur non entrano.

Quando fu tutto vestito, sedette sulla seggiola presso al letto.

—Si gela in questa stanza.

—Oh sì! Non c'è mai fuoco! Fortuna che ci vengo solo la sera.

—Ma… fai sempre un così brutto mestiere? Alla tua età, Virginia!

Nel pronunciare quel nome provava una gioia piena di angoscia; un tormentoso piacere.

—Che posso fare?—disse ella piano.—Non c'è altro per me.

—Perchè non c'è altro? Non puoi lavorare? Non sai far nulla?

—Facevo la sarta una volta. Ora non troverei più.

—Hai mai provato?

—Oh sì! dopo la disgrazia, ho provato! M'è andato sempre di male in peggio, non trovavo lavoro. Tanto è inutile.

—Non sarebbe meglio che tu provassi ancora? Non è meglio essere una buona ragazza, onesta, Virginia? Ti ricordi quando eri buona, e lavoravi, e gli uomini non ti dicevano tu; andavi al lavoro colle tue amiche, la mattina; la sera e a mezzogiorno tornavi a casa a mangiare un boccone con tua madre…

—Oh—disse la ragazza, facendo un gesto indefinibile di noia, di stanchezza, di disperazione—lascia andare questi discorsi, e prendi il tuo caffè.

Glielo portò, fumante, in una tazza che non aveva nè manico, nè piattino.

Egli la prese nel palmo delle mani, per riscaldarsi, e bevve avidamente.

—C'è della cicoria, ma non c'è male—disse ridendo.

—Sfido io! Solo caffè!… È troppo caro. Questo è già bollito una volta, ma è buono lo stesso.

Lei se n'era versata in una scodella più grossa, da latte, ma la sua parte era più piccola che quella del giovinotto.

Lui non se n'accorse. Quando ebbe bevuto si sentì rincuorato, più felice, si strofinò insieme le mani, riscaldate dalla bevanda, poi le mise tra le ginocchia, come per conservare il calore.

—Tu hai voluto per forza condurmi con te—disse egli poi, mentre ella, con una certa lentezza, rassettava la camera—ma io non ho denari da darti.

—Lo so bene—rispose ella, alzando le spalle.

—Ma… allora perchè m'hai voluto condur qui?

—Perchè eri malato, perchè ti avevano cacciato via dalla locanda, perchè m'imaginavo che non avessi soldi—disse lei bruscamente, in fretta, come se quel discorso la seccasse.

—Io dunque ti facevo pena?—chièse lui con meraviglia.

—Sì. Tu sei un povero diavolo, ma non sei come noi altri. Tu dovevi essere un signore.

Egli alzò le spalle, e disse ruvidamente:

—Io sono un povero operaio, un miserabile, uno che non ha pane, non un signore. È perchè mi credevi un signore che mi hai aiutato?

—Ma no!—disse lei—è perchè capivo che tu dovevi patire più degli altri ad aver freddo, e a non saper dove andare.

—Oh, se sapessi quante volte non ho saputo dove andare! Quante volte mi son trovato, come ieri sera, a ramingare a caso, in una città sconosciuta, e andare a dormir sopra uno scalino, sotto qualche vôlta scura! Non sono un signore, e non vorrei esserlo. Io odio i signori.

—Sì, ho sentito ieri sera—mormorò lei.—Ma tu fai male a dirle forte quelle cose.

—Perchè faccio male? Non ho ragione, forse? Non sono cose giuste quelle che dico? Tu non le capisci?

—Oh sì! Ma non bisogna dirle. Ciò porta sfortuna.

—Vuoi dire forse che mi metteranno in prigione? Io non ho paura.

—Ci sei già stato in prigione, tu?

Egli arrossì vivamente, poi disse:

—Si va in prigione per tanti motivi. Ci mettono in prigione quelli che hanno la forza, e dicono per questo di aver ragione. Ma qualchevolta andare in prigione è un onore.

—Anche mio fratello è in prigione—mormorò lei.

Egli sussultò.

—Tuo fratello? Che cosa ha fatto?

—Ha rubato.

Ci fu un silenzio. Il giovine chinò il capo sulle ginocchia. Una donna perduta, un ladro… ed egli era là! Il pensiero della sua morta sorella gli morse il cuore, come un rimprovero. Rialzò il capo; aveva sul viso la severità di un giudice.

—Non si ruba—disse.

—Oh, lo so!—disse lei—non è bene, lo so! Ma Gigi ha rubato perchè non avevamo nulla; mia mamma era malata, il vecchio era morto, e la mia sorellina si era annegata… Non avevamo più nulla… Gigi ha rubato…

—Contami questa cosa.

—È stata come ti dico. Mio padre lavorava in una fabbrica, mia madre anche. Una mia sorellina, molto giovane, era stata sedotta da uno… un cattivo soggetto, che l'aveva abbandonata. Ella, dal dispiacere, si gettò nell'Adige; noi siamo di Verona. Il nostro vecchio morì di dolore; la mamma diventò mezza matta; io facevo la modista, ma guadagnavo poco. Gigi rubò al suo padrone; era commesso da un droghiere.—Lo misero in prigione; è ancora dentro… Io, allora—S'interruppe un momento. Aveva raccontato tutto questo con voce monotona, come se fosse la storia di un'altra, e che non la interessasse punto. Ma qui cominciò a tremare leggermente.

—Io dovetti andare dal padrone di casa, e pregarlo che non ci mettesse fuori, e volesse prestarci dieci lire, per tirare innanzi. Il padrone mi diede le dieci lire, ma…

Quella donna perduta, quella donna che da lungo tempo aveva rinunciato a ogni pudore, arrossì ad un tratto alla memoria di quella prima caduta, poi divenne molto pallida, e tacque.

—E come sei qui a Genova, e così sola?—domandò lui.

—Oh Dio, così!—disse lei con voce rinfrancata. —Morta anche mamma, venni via con un commesso viaggiatore, uno che portava sempre dei nastri nel negozio dove io lavoravo. A Genova stetti un po' con lui, poi lui mi lasciò. Io provai a mettermi a lavorare… Ma sì! non andava. Guadagnavo poco, e poi la padrona mi cacciò via. Aveva saputo qualche cosa. Sono stata con l'uno e con l'altro… Ma questo inverno è cattivo, qui si gela, e mangiare bisogna.

Si mise a cantarellare tra i denti una canzonetta veneziana.

Egli chinò il capo come affranto. Che cosa poteva egli dirle? Oh, se fosse stato ricco, se avesse potuto dare a quella sciagurata un mezzo per guadagnarsi il pane onestamente… Onestamente? Che cosa è l'onestà? La sua teoria non era tutto libero, anche l'amore? Ma quello non era l'amore! Quella era l'abbiezione, la miseria, la vergogna; il mercato turpe di sè, della propria dignità, della propria salute, per un pane! E si chiamava Virginia, come la sua povera morta! Era solo per questo che gli faceva tanta pena? Sua sorella! avrebbe potuto essere sua sorella!

Gli occhi aridi gli si inumidirono di lagrime.

—Perchè piangi?—fece lei accostandosi, piegandosi verso di lui. Egli la prese per le braccia, la piegò, la fece inginocchiare davanti a lui. Ella lo fece docilmente.

—Piango su di te, disgraziata! Su di te e su di me. Su tutti i miseri come noi. Su questo maledetto destino che ci danna alla vergogna e alla fame. Sai? Io avevo una sorella… No, non importa. Non devo dire a te queste cose. Ebbene, oggi è come se tu fossi mia sorella E tutte le tue compagne, le miserabili che non sanno, tutte mi sono sorelle. Prendi, ti bacio sulla fronte, povera creatura insozzata, vituperata; tu che m'hai detto la prima parola buona tornando in patria; tu che mi hai aiutato e raccolto sulla strada! Ti auguro pace, povera anima sbattuta; non ho altro da darti.

Egli piangeva violentemente su di lei, curva ai suoi piedi. Piangeva tutte le miserie, tutti i dolori, il cuore gli si affogava nel dolore. Oh, sentirsi così impotente, così povero! Aver la mente piena di pensiero, l'anima infiammata di sacrifizio, essere pronto a dare tutto se stesso per gli altri… e non poter nulla! La vita stessa era inutile; egli poteva gettarla, ma non era per il bene di nessuno. E qualunque cosa egli facesse e dicesse, quella miseria sarebbe rimasta: la creatura umana più debole, che si insozza nel fango, che si vende brutalmente per sostentare una vita miserabile. E poi, quante, quante! tutte le altre vergogne, tutti gli altri schianti e gli altri dolori.

Anche lei piangeva tacitamente, così inginocchiata. Ella ricordava veramente la madre e la sorella, e quando erano piccoletti insieme, e il fratello non era in prigione… E pensava pure che quel giorno non aveva da mangiare, e il domani neppure; e che per guadagnarne bisognava uscire, al freddo, alla pioggia, e offrire se stessa, come merce spregevole!

Egli la rialzò e si levò egli stesso, come sollevato da quelle lagrime.

—Vuoi tu lavarti la faccia?—disse lei. E gli preparò un catino pieno d'acqua sulla tavola.

Il giovine accettò, sorridendo con tristezza. Ella compieva quegli umili uffici con semplicità, solo con una certa indolenza. Doveva aver perduto da tempo l'abitudine dell'ordine, della pulizia, del lavoro casalingo; pure era rimasta nel suo cuore quasi una tradizione antica; ciò che aveva fatto da bambina in casa della madre; le cure che doveva aver avuto per il padre vecchio, per il fratello; anche la coscienza della propria abbiezione di fronte a quel giovine che sentiva tanto superiore a lei, le dava quella umiltà.

Quando egli fu lavato, ella volle spazzolargli il soprabito con una vecchia spazzola mezzo spelata che aveva. E disse:

—È molto sottile. Avrai freddo.

—Oh sì!—disse lui.

La sua povertà, di fronte a quella donna, non lo vergognava; la confessava anzi con un certo senso di alterezza, come se l'essere così povero facesse ancora rilevare la sua superiorità su di lei. E accettava quegli umili servigi con una dolce compiacenza che gli calmava il cuore. La femminilità semplice e servizievole, l'aura della casa intesseva intorno a quel ribelle vagabondo il suo invincibile fascino; ed egli dimenticava che quella femminilità era corrotta e quella casa era impura.

Quando fu tutto all'ordine e col suo soprabito spazzato e il cappello rimaneggiato, il giovine ebbe un aspetto meno miserabile di prima; egli si accinse ad uscire.

—Devo uscire anch'io—disse lei. Ma subito, vedendo sul viso di lui una contrarietà, aggiunse a bassa voce:

—Non con te, sai. Sull'uscio ci dividiamo. Se tu vai a destra, io andrò a sinistra.

Si era messa addosso una specie di mantiglia di una pelliccia grigia, che un giorno doveva essere stata bella, ma ora era molto spelacchiata e giù di moda. Pure il suo viso pallido, poichè non vi aveva messo sopra belletto, nè cipria, brillava su quel grigio e pareva più fresco, più giovanile della sera prima.

—Hai veramente solo ventitrè anni?—chiese lui.

Ella rise.

—Ma sì! Se te l'ho detto! Ne mostro di più? Gli è che sono così magra! Guarda.

Aprì un poco la pelliccia e scoprì il sommo del petto. Mostrava tutte le ossa sotto la pelle. L'uomo rabbrividì, poi pensò con gioia: È una predestinata all'ospedale. Non durerà molto a questa vita.

—Virginia—disse sull'uscio—dammi un bacio. E grazie.

La baciò sulle guancie come un amico.

—E tu,—disse lei—tu, come ti chiami?

Egli esitò un momento.

—Chiamami Pepi.

—Pepi. È come da noi nel Veneto. Anche noi diciamo Pepi. Addio, Pepi. E se mai passi per Genova, vienmi ancora a trovare. Ma sì!—aggiunse poi alzando le spalle—chi sa dove sarò io, quando tu ripasserai per Genova.

Egli scese le scale, triste. Gli pareva di lasciare qualcuno dei suoi; una grande tenerezza gli stringeva il cuore. Udì i suoi passi dietro di lui, poi la udì fermarsi sul pianerottolo e si volse. Allora con meraviglia vide che ella era ferma dinanzi la Madonna, e che metteva dell'olio nel bicchiere, dove ardeva il lumicino.

—Addio, Pepi!—disse ella ancora a mezza voce.

Egli disse:

—Addio, Virginia.—E uscì.

Fuori, la città aveva un'aria festevole. Pepi non sapeva che ora fosse, perchè da molto tempo non possedeva più un orologio, ma non doveva essere più molto di buon'ora. Vi era nell'aria uno scampanìo, la gente andava adagio, vestita bene, molte popolane avevano oro al collo, e sul capo il fazzoletto di trina nera, ornamento dei giorni solenni. Anche il cielo pareva far festa, ed era meno tetro del giorno prima; aveva cessato di piovere e le nuvole, alto, si aprivano a un tenue raggio di sole.

—Ma che festa è mai oggi?—pensava Pepi. —Pure non può essere Domenica.—Domenica era stata tre giorni prima, ed egli la ricordava: a Londra si era imbarcato quella Domenica.

Il treno per Torino non partiva che alle due. Aveva dunque davanti a sè parecchie ore. Era anche difficile occuparle, perchè egli non poteva desinare, non aveva denari abbastanza. Verso il mezzogiorno comprerebbe una pagnotta, e basta. Camminava. Tanto non aveva nulla da fare. Poi starebbe seduto cinque ore in treno, su quei duri sedili della terza classe, e la sera… Oh, la sera, sperava bene di dormire finalmente in un letto, non d'elemosina; di dormire tanto; di rifarsi un po' le ossa… E ne aveva bisogno!

Genova era molto bella quel giorno. Le case altissime prendevano nel sole varii colori gemmati. Persino gli innumerevoli panni appesi ad asciugare dalle finestre, erano come bandiere di gioia. Le finestre luccicavano. Qualcuna era spalancata, come d'Aprile e teste di donna apparivano, e voci femminili andavano di qua a là. Le botteghe tutte splendevano ed erano zeppe di avventori. Le porte rimanevano sempre aperte, tanta era la gente che entrava ed usciva, carica di pacchi, di scatole, di ceste.

Frotte di bambini ben vestiti passavano.

Davanti alle chiese la ressa era grande, le donne ingombravano i piazzali, si affrettavano. E così vestite, le popolane, con molti ori al collo e alle orecchie e i fazzoletti di velo sul capo, le signore con soprabiti e pelliccie e colori vistosi nei cappellini, davano alle vie non so qual aria antica, come se fossero figure di quadri veduti in lontani paesi. Pepi andò verso al porto. Voleva rivedere il mare, il mare d'Italia, quello che dieci anni prima lo aveva veduto partire ed ora lo vedeva ritornare più misero, più vecchio, malato, senza forze e senza fede.

E il mare si stendeva. d'un grigio dolce, morbido, sotto quel sole invernale. Il golfo lunato, tutto pieno di barche e di piroscafi, con bandiere alzate, pareva anch'esso parato a festa, e una letizia pioveva dall'aria, dal cielo di madreperla, dal sole pallido…

Egli andò fino all'acqua, si appoggiò a una balaustra, guardò lontano. Ecco che egli era ritornato. Valeva la pena di andar via per ritornare così? Che cosa aveva guadagnato in quei dieci anni?

Era andato ramingo, senza pane, senza un tetto. Per tanti anni nessuno gli aveva più detto una parola affettuosa, nessuno lo aveva più chiamato Pepi, come sua madre. E sua madre, in quel tempo era morta. Sì, prima gli era giunta la notizia della morte del padre…

Era vecchio, ma aveva sempre sperato di rivederlo. Era stato un colpo doloroso per lui. Ma poi… la mamma! Ah, la mamma che lo aveva amato tanto! Sua sorella Luisa non gli aveva scritto brutalmente che ella era morta per colpa di lui? No, ciò non poteva essere vero! Eppure, se egli le fosse stato vicino, se egli avesse potuto lavorare per lei!…

E poi, finalmente, Virginia. Oh, Virginia!…

Il giovine chinò la testa sulle mani e sulla lacera valigia, e stette qualche tempo immoto.

Forse piangeva. Ma chi passava poteva anche credere che fosse un povero emigrante e dormisse. Quando levò il capo il suo viso era pallido e risoluto. Orvia, tutto quello era passato. Egli era forte, e sapeva sopportare… tutto. Ma che cosa era dunque quello scampanìo nell'aria?

Che cosa mai gli scendeva nel cuore? come una debolezza? Coraggio! Perchè tanto, fino a sera, non avrebbe mangiato.

E a un tratto si ricordò:

Quel giorno era il primo dell'anno.

«—Et, s'il revenait un jour, que faut il lui dire? «—Dites lui qu'on l'attendit, jusqu'à s'en mourir».

Alle otto di sera Luisa non era ancora ritornata a casa.

Ciò le capitava abbastanza spesso, perchè i suoi non ne fossero stupiti; solo, perchè era tardi, e i bimbi avevano fame, il più piccino anche sonno, il padre decise che si poteva andare a tavola. Ma il ragazzo maggiore dichiarò che voleva aspettare la mamma, e, seduto davanti al suo piatto di minestra, senza toccarlo, si contentò di sbricciolare una pagnotta di pane.

Dopo pochi minuti una scampanellata.

—È la mamma! è la mamma!

A Vittorio il sonno passa d'improvviso, ed è lui che vuole andare ad aprir l'uscio. Il corridoio è un po' oscuro, perciò Nepo prudentemente si alza e segue il fratellino. Questi stende le sue braccine troppo corte, e riesce, come al solito, a tirare il chiavistello, e la porta si apre. Ma il grido festoso che è già sul suo labbro si arresta, e il bimbo rimane col braccino sospeso all'imposta, muto, a guardare un uomo che è fermo dinanzi a lui.

—Sta qui,—dice quell'uomo con strano accento, —il signor Vincenzo Marini?

Nepo, il maggiore, si è avvicinato. È lui che risponde:

—Sì,—e guarda attentamente lo sconosciuto.

Questi si china sul bimbo più piccolo, gli mette una mano sulla spalla e dice:

—E tu, tu sei Nepo? Non è vero?

—Nepo son io,—dice il maggiore.

L'uomo si passa una mano sulla fronte, e ride impacciato.

—Ah già! Ma è naturale! Tanti anni!

Quel dialogo prolungato, sull'uscio, chiama Evelina, la più curiosa. Ella si avvicina allo straniero, lo fissa:

—Chi è? Chi è?—balbetta con voce ansiosa.

—Io son Pepi.

Un grido, un abbraccio. Accorrono tutti gli altri; il reduce si sente stretto da ogni parte; mani amorose e avidi gli cingono il collo; labbra ardenti gli si posano sul viso; lagrime cadono abbondanti sulle sue mani; e sono anche lagrime sue.

—Via,—dice infine Vincenzo Marini, che, naturalmente, è il meno commosso;—via, lasciatelo respirare, fatelo venire avanti, avrà bisogno di riposare, di mangiare… Guarda, ci trovi proprio a pranzo…

Lo conducono nella stanza da pranzo, che è ampia, tutta illuminata dalla lampada a gas, che scende dal soffitto. Nel mezzo la tavola preparata, benchè così modesta, luce con la sua bianca tovaglia, coi bicchieri nitidi, colmi di vino. Fanno sedere Pepi nell'angolo del sofà, che vien tirato vicino alla tavola; Evelina gli toglie la logora valigia dalle mani.

—Oh, non c'è niente!—dice egli a bassa voce, vergognandosi,—la biancheria l'ho ancora a Londra; me la manderanno.

Poi guarda a una a una le sorelle, poi guarda i bambini.

—Tu, tu sei dunque Armanda? Avevi otto anni quando ti ho lasciata; anche meno. Non ti avrei riconosciuta più. Ti sei fatta grande e grassa. Eri così magra, così pallida! Oh, mi ricordo! Una volta parlavi col naso… Toh, hai sempre quel dente rotto, davanti. Mi ricordo quando sei caduta dalla scala. Oh sì! E sapevi cantare delle canzoni… Sì? le sai ancora? Ma tu, Evelina, in fondo sei sempre quella. Piccola, più grassa… A guardarvi bene somigliate tutte e due a quelle che eravate piccine… Solo che, cadauna ha qualche piccola cosa di differente. Ti ricordi, Evelina, quando volevi sempre essere portata in braccio? Ah, non ti ricordi! Io sì! E quando sei venuta con me a vedere i fuochi? Ah, ah, ah! Tu non ti rammenti! Che ridere! Ma, fatevi vedere bene, voialtri: questo è Nepo? Così grande! E io che credevo Vittorio fosse Nepo! Non me lo aspettavo così grande! Vittorio poi è nuovo. Non l'ho mai visto. Vieni qua, Vittorio, chi sono io? Lo zio Pepi, eh? Mi dirai zio Pepi. Volevo portarti da laggiù una scimmia, o un pappagallo… ma sì! è molto se ho potuto portarne le mie ossa. E questa è la Mimì! Mimì, Marietta, Mariquita… Oh, questa è sempre piccolina… Ha un viso strano: bionda, con gli occhi neri, il viso irregolare, scuro… Somiglia un po' a te, Vincenzo, ma poco. E Luisa? Sempre così tardi viene Luisa?

Il cuore gli batteva al pensiero della sorella maggiore; ma Luisa tardava molto quella sera. Pepi parlava, parlava, frammettendo ogni tanto una parola spagnuola, facendo spesso uno sforzo per trovare quella italiana, ma Luisa gli era sul cuore.

—Oh, tu, Vincenzo, sempre lo stesso, veh! Qualche pelo bianco di più… E sei sempre lo stesso tipo? Ti ricordi, eh, un certo Samos, quell'anno che fece il terremoto?…

Una scampanellata lo interruppe.

—È Luisa; è la mamma!…

—Zitti, zitti,—disse Vincenzo,—credendo di fare un bello scherzo;—non diciamole nulla.

Tutte le sere che Luisa tornava, da quando l'ultima lettera del fratello gliene annunziava l'imminente arrivo, ella saliva le scale con terribile batticuore, e, entrando, domandava:

—Ebbene?

Quella sera non dimandò nulla. Era triste, come oppressa da un incubo profondo. Pure, quando Evelina le aprì, Luisa la guardò un momento, come presentisse la novità. L'altra non disse nulla, e Luisa attraversò il corridoio, entrò nella sala da pranzo… Suo fratello le era dinanzi…

Ella non mandò un grido e svenne sul suo petto.

Adagiata sulla sedia, spruzzata d'acqua, ella, tornando in sè, senza dire una parola, pianse a lungo, a caldi singhiozzi silenziosi, senza levar gli occhi sul fratello: pareva non potesse guardarlo. Poi, fattasi forza, sentendo che a lui quel silenzio faceva male, incominciò le sue domande:

—Quando sei arrivato? E stai bene? Non hai cattiva ciera. Hai messo su un paio di baffi!… Hai sofferto molto freddo, eh, in viaggio? Ti hanno dato da mangiare? gli avete dato da mangiare? Ma perchè non hai mangiato! Dategli prima la minestra… Prova, è impossibile che tu non abbia fame… Sì, sì, anch'io… Ma datemene poca, così… Mangia. Hai visto i bimbi? che te ne pare? Il vino non ti piacerà; non è buono questo vino; pure, è così caro! Oh, Signore, stasera non ti aspettavo… Oh sì; non so nemmeno io. Sei stato tanto tempo a Londra, eh? tanti giorni! con chi? con un amico? Quanto tempo ci hai messo a venire da Londra? Ma mangia, adesso, mangia, parlerai dopo. Lo vedete lo zio, bambini? Sicuro, Vittorio, è lo zio che è ritornato, e starà sempre con noi. Stasera Vittorio non è ancora andato a letto, per far compagnia allo zio; ma adesso andrà a far la nanna; adesso è tardi, e domani lo zio conterà tante cose! Ma perchè mi avete fatto quella sorpresa, a non dirmi niente? Questo mi ha fatto male.

Sentiva il cuore stringersele e affannarsi, un tremito le chiudeva le fauci, non poteva più mangiare, nè parlare. Ma sapeva farsi forza, e si diede attorno al bambino, per mandarlo a letto.

Quando il bimbo fu in camicia, in braccio alla zia Evelina:

—Via,—disse Luisa,—dà la buonasera e il bacio anche allo zio.

Il reduce sentì sulla sua guancia il lieve bacio del bimbo, e gli parve che, d'improvviso, gli si squarciasse un velo; che una visione remota sorgesse dinanzi a lui. Egli stesso era quel bimbo, nelle braccia di sua madre; ed era sera; la madre lo metteva a letto… La testa un po' china, gli occhi fissi sulla tovaglia, immobile, egli stette come assorto in quel sogno lontano.

—Che pensi, Pepi?—disse Luisa.

—Niente,—fece lui, e sorrise.

Era in quel momento un sorriso infantile, tenero e lievemente imbarazzato. Ella ebbe poi sempre presenti quello sguardo e quel sorriso.

—Ti pare strano, eh, di trovarti qui fra noi, dopo tanti anni! Sei sempre stato solo, eh, in questo tempo? Figurati che spesso pensavamo che tu avessi preso moglie.

Egli rise, un pochino.

—Sì, qualche ricca americana,—disse Evelina.

—Eh? con qualche bella ragazza di laggiù! Ce ne sono delle belle ragazze laggiù?—disse Vincenzo.

Luisa volle dire la parola che le pesava sul cuore, e che, certo, era anche in lui, e in tutti, e nessuno osava pronunciarla.

—Non ci trovi tutti, purtroppo. Manca la povera Virginia fra noi! Ma… questo è il destino!

Tutti tacquero. Assaporarono in silenzio il doloroso ricordo.

—Ma… di che cosa è morta? Non era guarita?

—disse Pepi a mezza voce.

—Sì, guarita del tifo, ma poi… Oh, ne parleremo ancora, lasciamo ora stare! Parliamo di te, di te…

Sparecchiarono, e poi tutti rimasero seduti intorno alla tonda tavola, coperta di un tappeto rosso e verde, che i bambini avevano in più parti sdruscito.

Anche i due bimbi furono mandati a letto. Vincenzo aveva mandato però prima Nepo a comperare delle sigarette per lo zio, perchè egli stesso non fumava che sigari e la pipa.

—E… le tue idee? L'anarchismo? la rivoluzione?… —chiese Vincenzo.

—Sempre le stesse, le mie idee,—disse Pepi.

A Luisa la domanda non parve opportuna, e la risposta le fece dispiacere. Ella disse con dolcezza, ma seriamente:

—Di queste discussioni non ne faremo, nevvero? Tanto sono inutili.

Pepi non rispose e Vincenzo prese un'aria di superiorità:

—Oh, così, una parola, fra noi si può dire! che diamine! per parlare!

Poi, stanco di essere ancora in casa, a quell'ora, contro le sue abitudini, disse al cognato:

—Esci?

Luisa represse a stento un moto di dispetto, ma Pepi accennò col mento al suo vecchio e sottile soprabito, che si era levato, restando in maniche di camicia e in gliè al calore della stufa, e disse:

—Come posso?… Non ho vestiti… Non ho altro che quello.

—Domani,—disse Luisa,—faremo venire il sarto. Ti farai un vestito, e un paletot d'inverno…

—Sì,—disse Pepi,—e appena guadagnerò, ti rimborserò di tutto.

Ella fece un gesto di noncuranza. Ma fra sè pensava con sgomento: Quando guadagnerà? Il vestito per lui non le era una piccola spesa, e il paletot anche… pure, bisognava fare; ed ella era abituata di non mormorare troppo, piegandosi alla necessità.

Uscito il marito di Luisa, rimasero soli il fratello e le sorelle. Soli, ancora molte ore, seduti intorno a quella tavola rotonda. Di là, i bimbi placidamente dormivano.

E Luisa pensava:

—Questa casa è modesta, quasi povera. Pure, per uno che non ha mai avuto casa e famiglia, per uno che ha sempre lottato con la miseria, e fu sempre nell'abbandono, essa deve parer bella, agiata. Non gli farà piacere essere qui, tra noi, tranquillo? Non sentirà che è meglio questo che andare ramingo, pezzente, di qua e di là, inseguendo delle follie? Povero magro Don Chisciotte, sempre a correr dietro a mulini a vento, con l'anima piena di ferite, ora si volterà a vedere i morti che lascia indietro sul cammino; i morti, davvero! Povero Don Chisciotte! Ha trovato un albergo modesto sulla sua strada! Ora bisognerà bene che si fermi e riposi.

L'ora si faceva tarda, e una grande sonnolenza prendeva a poco a poco il giovine. Le idee gli si facevano torbide nella testa, gli occhi gli si velavano. Luisa, che se ne accorse, lo costrinse ad andare a letto; lo condusse lei stessa nella piccola camera che gli avevano destinato.

—La casa è piccola—disse scusandosi,—ci stiamo appena noi. Ma ho fatto capitolazione per tre anni, e non posso andar via.

Egli dichiarò che in quella stanza ci sarebbe stato benissimo.

—Buona notte, allora—disse lei, levando il viso verso di lui, a baciarlo.

—Buenas noches,—disse lui scherzando.

Anche le altre due vennero, ridendo, carezzevoli. Una grande allegria era nell'aria. Solo Luisa, andando a letto, guardò la Madonna vecchia che, nella sua cornice sbiadita, aveva assistito a tutti i drammi di quella casa.

—Che altro mi porti?—le chiese—è una nuova sventura? Perchè non posso essere allegra, io, stasera?

E quando Pepi fu nel suo letto nuovo, morbido e buon letto, pulito, soffice, con un odore fresco di roba di bucato, di lavanda, coperto da una imbottita spessa e pieghevole, che lo avvolse tutto, come in una calda carezza, egli sospirò a lungo, profondamente.

Finalmente era a casa! Perchè, la casa delle sorelle non era forse la sua? Sì; ecco la famiglia. Dopo tanti anni era poi venuto a cascarci. Com'era buono quel letto! Troppo buono. Un vero letto borghese, come non ne gustava più da molto tempo. Aveva poi diritto di gustarlo adesso? La notte, fuori, doveva essere fredda. Oh, se ne ricordava bene; era fredda! Ma è strano che quando uno ha caldo non può più raffigurarsi per bene il freddo. Poche ore prima egli aveva freddo, per la strada nera, con quel soprabito sottile. E ora che lui aveva caldo, ce n'erano tanti, tanti, tanti per il mondo, che avevano freddo. Tanti che conosceva anche lui, che avevano patito con lui, che, come lui, credevano solo nel trionfo dell'idea. Aveva egli allora diritto di aver caldo? E quella di ieri sera, quella povera Virginia, che lo aveva ricoverato, dov'era in quel momento? A battere le strade, più miserabile che mai, a correre le osterie, col suo vestito chiaro scollato, a farsi insultare dal primo ubriaco che passava… e infine, chi sa in qual letto andava a finire quella notte, se pur finiva in un letto!

E tutti i vagabondi che non avevano nessun letto? Quelli che passavano la notte sopra uno scalino, sotto una volta oscura, come lui la sera prima? E quelli dormenti in sucidi canili, un sopra l'altro, divorati dagli insetti e dalle piaghe? E quelli che dormivano sui tavolacci delle prigioni? No; egli non aveva diritto di dormire in quel letto; nessuno aveva diritto di dormire in un letto, mentre gli altri non avevano dove posare il capo.

—Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli hanno i loro nidi, ma il Figliuol dell'Uomo non ha una pietra sulla quale posare il capo.

Era dunque sempre stato così! Ma allora perchè vi erano quelli che avevano morbidi guanciali, e potevano stendervisi sopra notte e giorno? Perchè? Forse perchè avevano fatto come lui, in quel momento. Egli pure trovava un letto morbido; glie o offrivano, e a lui pareva più buono dei canili, o dei tavolati sucidi, o degli scalini freddi, sotto una volta. Che cosa doveva egli fare? Alzarsi e coricarsi per terra? Tanto ciò non avrebbe giovato a nessuno, ed egli avrebbe continuato a star male, sul terreno duro, e lo avrebbe ripreso quel dolore alla spalla che lo tormentava da qualche giorno. Valeva dunque meglio rimaner coricati lì, nel letto buono. Ma il sonno, il suo gran sonno gli era passato; sentiva invece addosso una smania, un'arsura… e le ossa gli dolevano assai.

Tentò di star fermo, di chiudere gli occhi. Quando gli riuscì, quando già il suo cervello, leggiero leggiero, lasciava andare le affannose imagini del giorno, ecco una bianca visione gli apparve, lo prese per la mano, lo scosse, egli dovette riaprire gli occhi che gli pesavano come piombo:

—Come puoi dormire, come puoi dormire?—gli susurrò la bianca forma, che egli non riusciva a guardare,—e io sono qui sola; io sono in camposanto…

—Oh, Virginia,—balbettò egli,—se tu vuoi che io venga da te, verrò; ma ora, non vuoi lasciarmi dormire? Ho tanto sonno! sono tanto stanco! La vita è così pesante, sorella! più pesante della tomba! Tu te ne sei dimenticata e non sai più. Ma se sapessi che fatica, che fatica! Ecco, c'è posto nel mio letto. Vieni qui, coricati presso di me. Io mi metto qui sull'orlo; ma lascia ch'io dorma, questa notte soltanto.

Dormì finalmente. I fantasmi della vita e della morte ebbero pietà di lui.

Quando riaprì gli occhi il giorno era chiaro, e uno strano fruscìo di voci era intorno a lui, ma gli pareva venisse di lontano, di lontano, come smorzato… Tese l'orecchio, e si guardò intorno; cercò sul letto presso di lui qualcuno… Era solo. Gli incubi della notte erano cessati. Ma serbava ancora nell'anima la visione di un'ombra sparita; un viso che egli non riusciva ad afferrare con la mente. Era il viso di Virginia, la ragazza di Genova, e nello stesso tempo era un viso antico, che egli aveva già smarrito nella memoria; un viso dolce e modesto; occhi puri, profondi… E si indispettì contro se stesso per confondere così insieme le due persone: quella resa sacra dalla morte e quella della creatura vivente, contaminata. Ma poi, tornandogli una grande pietà nell'anima, «no,» pensò, «non è una profanazione, sorella. Questa, che il mondo ha insozzato, e che fu per me così pietosa, io la compiango più profondamente di te, morta immacolata. Lascia che questo ricordo di miseria sia unito nell'anima mia a questo ricordo di dolore. Mie povere sorelle, tutte e due!».

Ma il vocìo, d'intorno, cresceva, e anche uno scalpitìo di passi.

—Sono i bambini,—disse. E gli parve assai strano questo di sentir i bambini intorno a sè, la mattina, svegliandosi.

Si alzò in fretta, si vestì; dovette ancora infilare il suo vecchio soprabito. Poi, prima di aprire la porta della sua camera, rimase un momento, come vinto dall'esitazione. Quella sua vecchia timidezza lo prendeva, quella che dieci anni di vita randagia e miserabile non avevano vino. Si sentiva quasi intimorito all'idea di apparire agli occhi di Luisa… di Luisa. Egli la sentiva così intelligente, e la vedeva diventata così seria, forse triste… Lei che aveva parlato meno di tutti la sera prima, gli aveva fatto intendere molte cose… e lei non era felice, no, nemmeno lei…

Aprì la porta, che fece un forte, sgradevole rumore, girando sui cardini. Le voci dei bimbi gli vennero incontro, festevoli, e poi accorsero le sorelle, meno Luisa. Ma egli disse subito:

—E Luisa?

—Oh, è un pezzo che è uscita! Esce assai presto la mattina. Ha lezione. La vedrai a mezzogiorno.

Fu un sollievo e un dolore non vederla.

—Poveretta! lavora dunque tanto?

—Sì, tanto, - disse Evelina.

Lo portarono in cucina, presso alla tavola pulita e chiara.

—Aspetta. Ti daremo il caffè.

Evelina si affaccendò intorno alla macchina. Egli ripensò ancora a Virginia, al giorno prima, al caffè che gli aveva dato.

—è buono, non c'è cicoria—disse Evelina.

Egli sorrise. Al contrario dunque del caffè di Genova.

I bambini, intorno a lui, guardandolo curiosi, bevevano il latte in grosse tazze fumanti, ma non osavano ancora farsi familiari con quel nuovo zio.

—Vittorio,—egli disse ad un tratto, prendendo per un braccio il piccino,—ti ricordi tu della zia Virginia?

Il bimbo fece una smorfìetta, tentò liberarsi, poi divenne serio.

—Sì, mi ricordo.

—Era buona la zia Virginia?

I tre bimbi dissero in coro:

—Sì, era buona.

—Era bella?

—Sì che era bella,—rispose Mimì,—io me la ricordo; era grassa… C'è il suo ritratto in salotto.

—Ah,—disse Pepi, e lasciò il bimbo.

—E Vincenzo dov'è?

—È andato all'ufficio mezz'ora fa.

Pepi, non trovando altro da dire, stette muto. Assisteva alle grandi faccende dei ragazzi che erravano per tutta la casa, affine di mettersi all'ordine per la scuola.

Nepo fu il primo ad andare. Salutò lo zio col suo solito fare impacciato, di bimbo cresciuto troppo in fretta, magro e lungo, che non sa che cosa fare delle sue braccia.

Poi venne un'amica di Mimì a prenderla, con la sua serva, e se n'andò anche lei. Ultimo andò Vittorio, solo; che aveva soltanto da attraversare la strada, perchè la scuola era dirimpetto.

Pepi rimase seduto in quella cucina chiara, all'angolo della tavola, dove aveva preso il caffè. La mattina era allegra, appena lievemente velata. Dall'ampio terrazzo che metteva nel cortile entrava gaia la luce. Tutte le finestre della casa dirimpetto lucevano, pulite, con un'aria invernale ma gioconda. Qualche volta una si apriva in fretta, e una donna imbacuccata appariva, con un tappeto in mano, che scuoteva frettolosamente giù nel cortile; poi tornava dentro presto per salvarsi dal gran freddo che doveva far fuori. Ma nella chiara cucina non faceva freddo. La grande stufa nel corridoio riscaldava tutta la casa; e Pepi si sentiva distendere i nervi, correre una forza nuova per le membra; un benessere, che da molto tempo non aveva provato, lo invadeva tutto, dandogli una leggerezza di cuore quasi infantile.

Venne su un ragazzetto della rivendugliola a portare in una cesta erbaggi e carne e pane; tutte le provviste della giornata. Da qualche tempo Luisa non teneva una serva fissa, essendo troppo ristretti di alloggio, e avendo in casa quelle due sorelle grandi che, tanto, non avevano null'altro da fare che badare alle faccende domestiche. Quel ragazzetto faceva le provviste più grosse; il resto delle commissioni le sbrigavano un po' per una le sorelle e anche Nepo, il maggiore; ma tutti lo facevano di mala voglia; a nessuno garbava far quei tre piani di scala, e questo era spesso un soggetto di malumore in casa Marini. Ma quella mattina nessun malumore. Le due ragazze, rimaste sole col fratello, erano scherzose, amabili, piene di carezze. Si davano anche un gran da fare per la cucina e per le camere, per dimostrargli la loro laboriosità, la loro diligenza.

La cucina fu in un attimo tutta pulita, e subito Evelina accese il fuoco nel fornello a gas, e mise sopra una larga pentola. Poi si pose a preparare i legumi e i cavoli, che erano stati rovesciati sulla tavola, e parevano un allegro monte di verdura.

Armanda invece, seduta presso il balcone, lavorava alacremente intorno a una grande sottana grigia, che ella disse essere per Luisa.

Ciarlavano, intanto, come due canarini. In pochi minuti Pepi fu al corrente delle faccende di casa Marini; il carattere di Luisa, quello di Vincenzo, di ciascuno dei bimbi, tutto venne aperto, analizzato, criticato, serenamente, con la buona intenzione che il fratello sapesse regolarsi. Egli stupiva dello spirito di osservazione che quelle due ragazze, tenute con certa severità dalla sorella maggiore, avevano esercitato da che stavano con lei. Era un vero spruzzìo di arguzie, di sottili ironie, di giudizi acuti, buttati là con un fare così innocentemente furbo, con certi occhi ridenti, con vocine così candide e fresche!

E zac, zac, zac, Evelina intanto tagliava a larghe fette le sue patate, con una sveltezza, con una abilità, che il fratello non poteva far a meno di ammirare. Armanda intanto stendeva con gran fruscìo fra le due braccia la sottana grigia, per misurare la lunga cucitura che già vi aveva fatta.

Pepi parlava poco. Ascoltava. Qualche volta anche rideva. Quel cicaleccio lo divertiva assai. Vi era anche in lui, come in tutti della sua famiglia, quel certo spirito critico, quel senso del comico, quella tendenza alla satira, che in Luisa era diventata amarezza, e in lui, per dieci anni di vita miserabile, in compagnie volgari, aveva assunto pure una grossolanità dura, di scherno. Ma in fondo all'anima qualche cosa lo pungeva; una sorda amarezza saliva in lui; forse pensando che Luisa avrebbe meritato una sorte più felice, e parendogli più dolorosi che comici certi fatti, che facevano ridere le ragazze.

Ma poi il discorso cadde nelle sentimentalità.

—Infine Luisa è buona—disse Evelina, e sospirò; poi sorrise, con una faccia angelica.

—Sì, è buona—disse Armanda con convinzione —è buona, ma è dura, severa… Sai, non è proprio amorosa con noi.

—Eh, certo, non è nostra mamma!—sospirò più forte Evelina.

Il cuore di Pepi si turbò più forte.

—Mamma è morta il 16 di gennaio, è vero?—disse con voce velata.—Raccontatemi bene come fu.

Amava meglio tuffarsi subito in quella amarezza, sapere tutto, giacchè nel cuore c'era quell'angoscia, e non si poteva calmare.

Quel fatto doloroso le due sorelle lo raccontavano sempre volentieri, sempre con una commozione nuova, che metteva un rossore più vivo sulle guancie rosee di Evelina, e un pallore più cupo su quelle di Armanda. Anche i loro occhi brillavano di lagrime contenute, raccontando.

Erano esse sole, a Trieste, quando la mamma era morta. Sole loro due poverette. Luisa via da tanti anni, Virginia con lei, il papà morto; lui, Pepi, chi sa dove…

La mamma aveva voluto andare all'ospedale, povera mamma; perchè, come avrebbe fatto a curarsi in casa? E le due ragazze erano state raccolte da una vicina, loro comare.

Tutti i giorni andavano a trovar la mamma, che stava sempre peggio. E soffrì tanti mesi! Tutto l'autunno, e quell'inverno. Il giorno che morì anche c'erano state, poco prima. E aveva parlato con loro, aveva fatto loro tante raccomandazioni… Poi, si faceva tardi, e le aveva mandate via.

—A domani, neh, mamma!—le avevano detto le due fanciulle, andando.

Ella aveva fatto loro un cenno con la mano, sorridendo. Poi, il resto lo aveva raccontato l'infermiera alle sorelle, perchè esse non l'avevano più veduta viva.

Si era sentita sempre peggio, e aveva chiesto un prete.

Oh, un buon prete, che già altre volte l'aveva confortata! A lui si confessò, e prima che andasse via, volle che egli benedicesse i suoi cinque figliuoli, tutti cinque lontani. E poi… morì.

Le ragazze singhiozzavano, ora, forte. Avevano lasciato le loro faccende, e tutte due, con visi angosciati, lucidi di lagrime, guardavano il fratello così intensamente, come se avessero voluto fermare nel suo cuore e nella sua memoria quel fatto terribile, quel quadro di desolazione; la madre che moriva in un letto di ospedale, senza nessuno dei suoi figliuoli vicino, e li benediceva tutti, in quell'estremo!

Pepi soffocava gli aridi singhiozzi che gli montavano come serpi alla gola. Sedeva là, immobile, con gli occhi asciutti, dilatati dall'affanno, fissi in quella visione di orrore: sua madre che moriva così sola!

E li aveva benedetti tutti! Che cosa era valsa quella benedizione? Lui, vagabondo di terra in terra, cacciato come un animale pericoloso; una sorella, la sua diletta, morta; l'altra trascinante una vita di lavoro, senza gioie; e le due ultime… quale destino mai poteva esser loro riserbato?

Le due sorelle, ormai avviate sulla strada dei tristi ricordi, incominciavano già a parlare anche della morte della povera Virginia. Vi era nella loro anima, pur gioconda e leggiera di belle ragazze, un fondo così ricco di sentimentalità, che si piacevano di tuffarsi nelle memorie amare, se ne saziavano, amavano di trascinarvi anche gli altri; godevano di piangere, di sentirsi infelicidi dire le parole della disperazione… Temporali passeggieri, che fortunatamente cedevano presto di fronte alla lietezza della gioventù, e al fascino delle speranze, che continuamente si rinnovavano in loro.

—No, no—disse Pepi affranto.—Ditemi solo: mi ha ricordato spesso?

Oh, se l'aveva ricordato! Era stato tutto il suo amore, Pepi, tutto il suo amore! Quando era malata, non faceva che dire: «Quando ritornerà Pepi…».

Ma esse non l'avevano vista morire, perchè Luisa aveva voluto condurla via, quando era malata; l'aveva condotta al mare. Là era morta, sola.

Ah! e adesso un sordo rancore verso Luisa! Perchè l'aveva condotta via quando era malata? perchè lasciarla morire sola?

Il silenzio si faceva nella chiara cucina. Oramai le ragazze non parlavano più, sgomente del viso cupo del fratello. Egli fumava una sigaretta, guardando fuori, immobile. Solo una gamba, a cavalcioni dell'altra, si agitava continuamente per un sussulto nervoso; e anche il labbro inferiore tremava.

—Datemi un libro; volete?—disse infine—leggerò un poco.

—Va tu a prenderlo in camera di Luisa—disse Evelina ad Armanda—ma bada, veh, di non metterle sossopra le sue cose! Se no, guai!

Armanda ritornò con Anna Karenine.

—Vuoi questo?

E Pepi s'immerse nelle tristezze di quel racconto.

Dopo un'ora:

—Vuoi fare un po' di colazione, Pepi? Vuoi un uovo?

No, egli non voleva niente. Una volta sì, che avrebbe mangiato le pietre! Che appetito aveva! Si ricordava, appunto a Torino, che Luisa lo guardava spaventata come egli faceva sparire la pagnotte, a mezze dozzine! Ora no. Era difficile che avesse appetito.

E si rimise a leggere. Non sempre capiva ciò che leggeva; spesso il pensiero gli si sviava lontano dal libro, verso le figure dolorose che erano state rievocate quella mattina. E anche a quella figura strana di Luisa, a quel viso che tutti in casa parevano temere, a quella severità, a quella freddezza… E il rancore si agitava nella sua anima, senza sapere a che cosa precisamente attaccarsi.

Ma poi il fascino del romanzo lo vinse, ed egli lesse tranquillo, fino a mezzogiorno. Solo qualche volta tendeva l'orecchio al chiacchierìo delle ragazze, fra loro, e al ronzìo della pentola, sul fuoco.

A mezzogiorno tornarono tutti a casa, a uno a uno. I bambini prima, poi Vincenzo, ultima Luisa.

Ella aveva un pacco nelle mani, e si avanzò con viso ridente.

—Prendi, ti ho portato un po' di biancheria. Ti avrei dato qualche camicia di Vincenzo, ma egli è molto più piccolo di te… Nemmeno le calze ti sarebbero andate.

E mentre Pepi la ringraziava, commosso, ella si diede attorno ai bambini, senza dargli retta, sgridando dolcemente Vittorio, che aveva la faccia sporca d'inchiostro.

Pepi andò nella sua camera, impaziente di cambiarsi. Oh, come sentiva la privazione della biancheria! come gli era dolorosa quell'economia della camicia, delle calze! Si era abituato a tutte le miserie, meno a quella. E se ne rimproverava, come di una mollezza, indegna di un nomo che ha così alti ideali; ma tanto, non poteva abituarsi. Quando si fu messa indosso la camicia pulita, quando sentì il fresco della tela accarezzargli il corpo, egli provò un impeto di gratitudine per Luisa, che aveva pensato a quel refrigerio.

No, Luisa non poteva essere cattiva!

«Fammi udire gioia ed allegrezza! Fa che le ossa che tu hai tritate, festeggino!»

Jourdain, il deus ex machina di Luisa, aveva provveduto anche in questa circostanza, che alla giovane era sembrata molto difficile. Pepi era da otto giorni in casa sua, ed ella non sapeva veramente da qual parte rifarsi per trovargli un impiego purchessia. Oh, si sarebbe contentata di poco, lei! Tanto che egli non le fosse proprio interamente a carico, perchè ella sentiva che le sue deboli forze non potevano reggere a un nuovo peso; e poi anche perchè a lei spiaceva che egli si abituasse a quell'ozio, a quel passare le sue giornate leggendo, a quel vivere a spese della sorella… Un uomo deve essere sempre un uomo. E poi, uomo o donna, chi non ha che la propria testa o le proprie braccia per vivere, deve bene adoperarle; ecco la sua teoria.

Intanto, come fare? è ben difficile al giorno d'oggi trovare un impiego, oggi che si richiedono lauree, e licenze, e attestati, e lunghi tirocinii. Suo fratello non era più un ragazzo, e veniva di così lontano!

Non aveva a Torino conoscenza alcuna. E, in fondo, non sapeva far nulla, o un po' di tutto, che è lo stesso.

Aveva un'istruzione irregolare, accattata qua e là, interrotta; troppo vasta in certi punti, inutile, di lusso, mancante, debolissima in certi altri. La sua era la coltura dell'uomo intelligente, che ha veduto molto, e molto ha vissuto, senza avere la perseveranza e l'occasione di studiare con ordine, di approfondire le proprie cognizioni, di legare bene le proprie idee.

Dove trovargli un impiego!

Ed era ricorsa, come sempre quando era disperata di tutto il resto, al suo buon angelo, come lo chiamava lei. Era capitata un giorno, tutta commossa, nell'ufficio di Piazza Vittorio, e timidamente, timidamente aveva esposta a Jourdain la sua preghiera.

—Mandatemi qui vostro fratello che lo veda—aveva risposto il suo amico, più ruvidamente che mai, perchè aveva avuto appunto allora da licenziare un operaio. Ah, che lungo respiro ella aveva tratto! Anche questa volta, via, anche questa volta le cose andavano. Chi sa? Tutto pareva volgersi a bene. Forse si poteva davvero incominciare un'altra vita, tutti felici, tutti insieme.

Ella fece vestire il fratello con gli abiti nuovi, che il sarto gli aveva portato il giorno prima. Un vestito color caffè scuro, un paletot turchino scuro, un cappello scuro; e sullo sparato bianco della camicia, sotto un colletto immacolato, una bella cravatta chiara, opera di Armanda. Ebbene, quel Pepi, così vestito, era un bel ragazzo. Aveva perduto subito quell'aria misera, lugubre che gli davano i suoi vestiti logori, il suo cappellaccio a cencio, il suo pseudo foulard; aveva ora un' espressione buona, chiara, come gli altri giovanotti insomma, anzi migliore, dichiarò Luisa.

Pepi si era lasciato vestire, spazzolare, rigirare come un ragazzo la Domenica. Poi aveva ascoltato docilmente tutti i consigli di Luisa. Per carità, fosse rispettoso con Jourdain! Certo non gli avrebbe detto niente delle sue idee, era troppo buono e delicato, ma, in ogni caso, se avesse voluto dargli un consiglio paterno, accettasse le sue parole con prudenza e con docilità.

Pepi promise ogni cosa e andò via, cercando di prendere un'aria spavalda. Ma non gli riusciva molto.

Anzi, a ogni passo il cuore gli si faceva sempre più piccino. Di quel Jourdain, assai sua sorella gli aveva parlato e con una devozione, con una riconoscenza così profonda, che egli ne era stato stupito, perchè ella era troppo calma, troppo ragionevole per esagerare, e in quegli otto giorni Pepi non le aveva scoperto nessun sentimentalismo, ma un criterio sempre lucido, retto, espresso con parole parche, con tono lento e risoluto.

Ma per Jourdain ella aveva trovato un calore, un entusiasmo, e insieme una venerazione così tenera e intensa, come se avesse parlato di un essere superiore.

—Oh, egli è il migliore degli uomini! Giusto e insieme generoso; d'un intelligenza straordinaria, acuta, esperta; i suoi consigli per me sono leggi, egli non ha mai sbagliato. Ruvido, sai; ma non bisogna spaventarsi; è solo l'apparenza. Egli è buono, veramente buono. Di quella che io chiamo bontà. La coscienza, cioè, piena e assoluta delle proprie azioni. Perchè la bontà impulsiva serve a nulla. È la bontà degli sciocchi. Vedrai, egli è diverso da tutti gli altri.

Se Luisa diceva così, qualche cosa di vero doveva esservi.

Certo a Pepi rincresceva, in fondo, di riconoscere tante perfezioni in uno che rappresentava per lui l'odiata borghesia, la ricchezza, il capitale, lo sfruttatore, il padrone. Ma, dopo tutto, poteva essere che qualcuno fosse meno peggio degli altri; anzi che fosse buono… alla sua maniera. Dopo tutto non aveva egli deciso di stare oramai tranquillo, di lavorare, di vivere con la famiglia—l'ultimo resto della sua famiglia!—di lasciare le sue idee allo stato di sogni; di lasciare che gli altri lavorassero a farle diventare realtà? Infine non aveva egli dato dieci anni della sua vita in sacrifizio all'Idea? I suoi più begli anni! E il padre, la madre, la sorella! e le sue speranze e le sue illusioni, non erano state inghiottite da quei terribili dieci anni?

Un po' per uno; ora toccava a lui a riposare, e gli altri lavorassero.

Così, non solo era disposto a essere docile con Jourdain, ma anche ne aveva una soggezione che non avrebbe confessato nemmeno a sè stesso. Capiva bene che colui non era un uomo come gli altri, non un volgare borghese. E studiava il modo di presentarsegli, un modo che fosse serio e dignitoso, che dicesse subito a quell'uomo che domani sarebbe il padrone: io son qua perchè non posso fare diversamente, perchè il destino lo vuole, perchè devo vivere. Ma le mie idee son sangue del mio sangue, carne della mia carne, e io non le cambio. Farò tuttavia quello che devo, adempierò i miei obblighi con voi. Voi mi pagate, io lavoro. Siamo perfettamente eguali.

Eppure non gli riusciva di prendere un contegno che dicesse chiaramente queste cose. Ora ne metteva su uno così ardito da parere insolente, ora lasciava che la sua fisonomia prendesse l'espressione sincera del suo animo e allora pareva umile, indeciso, timoroso quasi, se Pepi avesse potuto sentir timore!

Ma quando il giovine fu davanti al pallido e magro uomo, seduto al suo semplice scrittoio, quando ebbe guardato un momento quella faccia seria e leale, quando sentì il dardo acuto di quegli occhi, in un momento solo, penetrargli fino in fondo dell'anima, egli non ebbe più alcun pensiero di farsi un contegno, non sentì più nemmeno la propria volontà; egli era davanti a uno di quegli uomini ai quali l'anima si rivela intera, senza possibilità di fingere e si spoglia di ogni meschino sotterfugio, di ogni falsa apparenza.

Il dialogo che ebbe con Lorenzo Jourdain fu breve, ma le parole, dette con semplicità estrema, restarono potenti nel cuore del giovine.

Jourdain gli offriva un posto di correttore nella sua stamperia. Non una gran cosa, ma col tempo la posizione si sarebbe fatta più vantaggiosa.

—Voi siete intelligente. Vi basterà un poco di buona volontà. Conoscete le lingue straniere. Tutto andrà bene.

E poichè Pepi, balbettando, ringraziava:

—Niente—disse Jourdain, e sorridendo col suo fine sorriso—una sola raccomandazione ancora: Non fate della propaganda nel mio stabilimento. Voi siete… anarchico, mi pare. Io lo sono forse più di voi, ma è probabile che non c'intenderemmo. Voi siete certo leale. Io vi prendo a questi patti.

Ah, quando Pepi fu fuori, era felice che nessuno l'avesse visto mentre parlava con Jourdain! Come! egli aveva appena saputo balbettare due frasi! Si era lasciato così tranquillamente imporre i suoi patti dal padrone e non aveva neppure tentato di fargli capire che egli… Sì, insomma, nemmeno una piccola protesta, nemmeno un accenno alla sua dignità, alle sue idee! E quell'uomo, con quel suo sorriso fine e le sue parole cortesi, era come se l'avesse tenuto stretto con una mano di ferro… Quanto era autoritario e assoluto in ogni suo modo!

E lui doveva essergli soggetto, anzi mostrarglisi grato… Ah, era una cosa insopportabile!

Ma quando a casa vide Luisa così felice e commossa per la buona notizia, Pepi non osò mormorare nemmeno con una parola. In fondo egli era ben contento. Un posto assicurato, un posto facile, con uno stipendio discreto. Quando avesse pagato a Luisa una pensione settimanale, e anche un tanto per il vestito nuovo—egli non voleva mica che glie lo regalasse!—gli restava ancora una sommettina, proprio per lui, per le sue sigarette, per qualche caffè, per un bicchier di vino… Nove anni di vita in America non gli avevan dato veramente delle abitudini molto morigerate.

Pure, per molti giorni fece una vita casalinga e tranquilla. Dalla casa non andava che all'ufficio e da questo veniva immediatamente a casa, rifiutandosi di uscire la sera. Luisa si piaceva di fargli compagnia un'oretta dopo cena, poi, troppo stanca, era costretta di andare a letto. Ma facevano dei lunghi discorsi in quell'oretta. Egli, al solito, le esponeva le sue teorie. Lunghi calcoli su quello che la società poteva dare, di sua parte, a ciascun individuo; considerazioni sull'ordine presente delle cose, sull'ingiustizia, che è cardine dell'ordinamento attuale; sulla stoltezza di certe consuetudini, di certi pregiudizi invalsi da secoli, e che così poco bastava a distruggere!

Luisa sviava quei discorsi, prima, perchè era nemica delle discussioni in genere, sapendo che tanto sono inutili, poi perchè non amava entrare in quei ragionamenti col fratello.

Ma egli spesso insisteva.

—Capisci, per esempio la proprietà. Che cosa vi è di più stolto, di più ingiusto? Finchè l'oggetto è tuo, perchè tu lo prendi, perchè sei il più forte o perchè lo guadagni, sia! lo ammetto in una società primitiva, non ancora ordinata su basi di giustizia. Ma che sia tuo, unicamente perchè tu nasci da uno che l'ha posseduto prima di te, che tu diventi la proprietaria dell'oggetto così, senza fatica, e lo goda senza alcun merito e tu ne abbia anche troppo, mentre tanti altri non ne hanno affatto… capisci, questa è l'ingiustizia atroce, questa è la falsità sulla quale la società nostra è fabbricata.

—C'è molto del vero in questo—rispondeva Luisa—pure, io che son madre ti confesso che sarei ben felice di poter lasciare ai miei figliuoli, dopo aver io faticato per tutta la vita, un avvenire più dolce e più sicuro. È legge di natura, questa. È una santità della proprietà questa, di poterla passare ai figli nostri! Pure, c'è del vero in quello che tu dici e una legge dovrebbe limitare la proprietà e la ricchezza. Ma se questa sarà davvero una necessità sociale, sta tranquillo che essa verrà.

—Verrà da sè? o per mezzo di una rivoluzione?

—Verrebbe anche da sè per fatalità dei tempi; ma è probabile che venga con una rivoluzione.

—Tu vedi adunque!

—Ma non vedo perchè dovrei esser giusto io a farla questa rivoluzione, se io non l'approvo! La rivoluzione la fanno le masse, gli incoscienti, guidati dalle forze intelligenti, che si guardano bene dal buttarsi nel fondo con gli altri. Chi è veramente cosciente non fa le rivoluzioni.

—Ragioni di gente che ha paura!

—Sia pure. Anch'io ho paura. Ho paura degli orrori, ho paura del sangue e di tutte le ingiustizie che si commetteranno in nome della giustizia!

—Eh, che sono parole! Fammi il piacere e dimmi un'altra delle belle cose della vostra società borghese; cerca di giustificarla, tu! Il matrimonio, per esempio! Ti pare una cosa buona, eh?

Luisa sorrideva enigmaticamente.

—Se due s'incontrano e si amano davvero e si comprendono, e uno accetta l'altro e si trasfonde nell'altro, che cosa di più bello di una legge che santifichi il nodo e guarentisca i diritti dei figli!

—Ma dove lo trovi tu questo matrimonio ideale Uno su quanti? E tutti gli altri mal riusciti? Tutti quelli che uniscono due forzati alla stessa catena? Anche qui molto c'è da fare, molto da migliorare… Ma vuoi tu, da oggi al domani, rifare la basi morali della società, dire a tutti quelli che hanno un certo loro ideale di felicità, di pudore, da oggi in poi non penserete più così? Quello che fino ad oggi era sacro, oggi è stolto, è ridicolo, è immorale? Perchè vi affannate a riformare il mondo? Non ha esso sempre camminato da sè? Non è venuto sempre migliorando, almeno secondo quell'ideale del bene che è in tutti noi, persone intelligenti? Lasciate dunque che esso venga avanti da sè! Se avete una buona idea, mettetela fuori! Se trovate qualche cosa utile, mostratela! Ma non pretendete di dire a tutti, alla maggioranza: da secoli voi battete una falsa strada: Io, io ho scoperto la vera! Presto, tornate indietro, che lì si corre a rovina! Venite tutti dietro a me! Questa è, mi pare, presunzione nei pochi di voi che sono sinceri; negli altri poi si capisce che cosa è tutto questo zelo, fatto per intorbidare l'acqua, e pescarvi dentro!

—Potrei trovare cento ragioni da opporre a quello che tu dici—diceva Pepi, riscaldandosi—ma credo inutile, tanto tu sei fissa nelle tue idee. Rispondimi una cosa sola ancora, una cosa sola…

—Ma no, Pepi, lasciamo stare…

—Una cosa sola. E la guerra? Ti pare bella, eh, la guerra, ti pare morale, giusta?…

—Mi pare orribile; mi pare che quando, da qui a molto tempo, Pepi, gli uomini avranno cessato da questa infamia e da questa sciocchezza, essi non crederanno possibile che un tempo la guerra ci sia stata… Che si siano allevati gli uomini apposta per impararla, che quelli che la facevano meglio siano stati portati alle stelle… che si siano inventati orribili e rapidi strumenti di morte….. che si siano allineati uomini—i più belli, i più giovani, i più forti della nazione—uomini che non si conoscevano tra loro, che non avevano nessuna inimicizia, nessuna ragione di odio, e si siano scagliati armati gli uni contro gli altri, col comando di uccidersi, col pericolo di essere stroppiati o uccisi… No, questo non lo comprenderanno da qui a tanti anni!…

—Tu vedi, dunque!

—Sì; ma quando gli uomini non comprende ranno più questa barbarie, tante altre cose saranno mutate… Non ci saranno più nel mondo nè furti, nè omicidi, nè carceri, altro che nei casi di pazzia, ma non ci sarà più nemmeno la pazzia. L'umanità tutta, serena e ragionevole, vivente giorno per giorno ad un mèta di benessere intero, si sarà interamente spogliata di tutta la parte bassa e brutale che è in lei; anche nei più savi. Tu non la senti mai in te, Pepi? Noi siamo fratelli. E se io, che, non puoi negarlo—ella sorrideva—sono la più ragionevole dei due, la più calma, anche la più vecchia, se io sento tuttavia qualche volta rivoltarmisi l'anima e il sangue in un impeto di brutalità, che mi offusca il pensiero e gli occhi, come non tu? E non siamo noi, vedi, che faremo questa società perfetta, che voialtri, anzi che noialtri sogniamo; perchè noi siamo troppo imperfetti. Tu vedi che del tempo ne deve passare. E, credilo, Pepi, ciò che è stato e ciò che è, ha dovuto essere, e deve essere; non sono le vostre prediche che cancelleranno dalla vita la necessità. Man mano che questa si verrà trasformando, anche il vivere sociale si trasformerà, ma senza che voi ci abbiate nè colpa, nè merito.

—Ma se tutti ragionassero come te, il mondo sarebbe sempre allo stesso punto; nessuno si muoverebbe mai!

—Può essere. Io non voglio discutere. Dopo tutto è necessario che il mondo si muova? A che affannarsi tanto? Badate alla vita vostra, vivetela finchè potete, e non occupatevi di cose inutili! Credete, non val la pena di correre dietro la felicità altrui, quando si è già noi infelici.

Ella chinava la testa in atto di sconforto. Ma poi la rialzava sorridendo:

—Capisci, Pepi?

—Eh sì! Ma in fondo tu sei una terribile egoista.

—È vero. Io sono assetata terribilmente della vita, vedi, mio caro! io la sento sfuggire sotto le mie mani avide così vuota, così vana! Sono tanti anni che mi ostino a dire: eppure c'è qualche altra cosa oltre a questa! Perchè io non l'ho? E ho la bocca amara di desiderio. Ho fame, Pepi, ho fame di felicità. Che vuoi che m'importi degli altri? Se vedo soffrire ne soffro anch'io, naturalmente; qualche volta anche piango, e dono quello che ho. Ma non è per bontà; è per non veder soffrire, per non udire lamenti. È questione di nervi; nient'altro. Se fossi ricca, darei molto, molto. Ma non è solo la ricchezza che mi manca; son tante cose! Non le posso avere, e non mi rassegno, vedi, non mi rassegno. Non mi affanno più a cercarle, ecco tutto. Perchè so che è inutile. Che vuoi dunque che m'importi del mondo e della società! No, io non me ne occupo.

—Sei un tipo, tu!—diceva allora Pepi ridendo, perchè ella rideva dicendo tutto quello; ma con una pena in fondo al cuore.

—Sì. Questa è la parte più buona di me, sai. lo l'ho ereditata dal povero papà, ed è quello che mi salva. Perchè anche in me, come in voialtri, c'è la zavorra del sentimentalismo. Si guarda la luna, e si sospira; si guarda in fondo al cuore, e si piange….. E a che serve ciò? Guarda il povero papà. Lo ricordi? Una buona tavola, una buona bottiglia, vederci noi lì intorno sani e allegri… ecco l'ideale della sua vita. Non ha mai cercato altro. Se è stato infelice è colpa di tutti noi. Tutti, la mamma e noialtri, ci siamo messi ad amareggiargli la vita; chi piagnucolava di qua, chi di là; chi partiva, chi si faceva mettere in prigione… Povero papà! Fortunatamente è morto tranquillo. Leggeva il giornale (e aveva settantaquattro anni, lo sai) la mattina, quando ecco, reclina il capo e chiude gli occhi. È finita. Povero papà! Ah, come rammarico, vedi, come rammarico di non essere stata abbastanza agiata per dargli, io, nei suoi ultimi anni, quello che egli voleva! La sua buona tavola, la sua bottiglia, e la sera gli avrei anche cantato le vecchie canzoni patriottiche, che egli amava tanto! Ecco lì, sentimento, cuore, senso; ma tutto equilibrato, tutto a suo posto! Povero papà! Il poco che ho di buono me l'ha dato lui. Senza di quello, oggi, io sarei già stata cento volte disperata.

Aveva le lagrime agli occhi, ora, mentre tuttavia sorrideva.

Andavano a letto commossi tutti e due, stringendosi la mano, il fratello e la sorella.

Assai spesso, all'una del pomeriggio, mentre Luisa andava alle sue lezioni, si accompagnava con Pepi. Egli all'ufficio doveva esserci alle due; così avevano tempo di fare in compagnia una piccola passeggiata. Era per tutti e due un vivo piacere. Uscendo dalla strada del borgo, piegavano a sinistra e uscivano sul corso Re Umberto. Vi era nel bel viale come un lontano alito di primavera. Quel finire d'inverno era mite, lucido; il cielo remotissimo appariva soffuso di un nitore dolce, pieno di trasparenza, con sprazzi fulgidi di azzurro. Le Alpi in giro all'orizzonte erano gigantesche e scintillanti; tutte le vette di ghiaccio formavano come una corona enorme, e come un immenso muro turrito, tagliato nei diamanti. Gli alberi di corso Re Umberto e quelli del corso Duca di Genova, ancora tutti invernalmente neri, pure già mostravano un gonfiore nei nodi, e nello stendersi dei rami in aria una vitalità nuova, una gaiezza forse, che annunziava il prossimo rompere delle gemme. Sul terreno duro e arido il sole del pomeriggio metteva un lieve umidore, come se la terra, fermentando alla sua carezza, tutta sudasse; sulle panche qualche passeggiero si soffermava un momento, sedendo, forse per raccogliere meglio lo scarso tepore sulle membra avviluppate.

I due giovani camminavano frettolosi, lui con le mani nelle profonde tasche del suo paletot nuovo; ella tenendole strette sotto la mantellina, cercandosi addosso il calore del corpo. Erano tutti e due timorosi del freddo; allungavano un po' il viso fuori dei colletti rialzati, a cercare quella tiepida e luminosa carezza, e si ripetevano con soddisfazione, uno all'altro:

—Non fa proprio freddo.

La passeggiata era breve, perchè ella, in piazza Solferino, doveva prendere un'altra strada, e per lui si faceva tardi, e non avrebbe potuto accompagnarla. Pure era piena di confidenze, d'intimità gentili, che nessun'ora del giorno avrebbe dato.

Pepi le diceva degli amici di ufficio, o meglio dei colleghi, perchè di amici proprio non ne aveva trovati. Sapeva farne bellamente la caricatura, rilevando il lato ridicolo che, a cercar bene, c'è sempre in ciascuno; ma così, per chiacchierare, senza ombra di malanimo.

V'era tra quei colleghi un poeta; un giovinetto che Luisa conosceva di vista e un po' di nome. Un ignorantino presuntuoso, che si diceva anche socialista, e nelle ore di ufficio scriveva dei versi, così scellerati, che ella moriva dal ridere al sentirli recitare da Pepi. Quel piccolo grand'uomo aveva anche la più comica figuretta di bellimbusto che si potesse imaginare.

V'era un altro che beveva straordinariamente, e per quel vizio era già stato licenziato da Jourdain; ma poi, per compassione, l'avevano ripreso: un buon diavolaccio, che aveva una terribile paura di sua moglie, la quale lo aspettava a casa, la notte, quando egli tardava, e lo accoglieva con una tempesta di invettive.

Vi era un ragazzo magro e brutto, d'una ignoranza straordinaria, allevato da genitori bigotti, il quale aveva scritto un opuscolo per dimostrare che Dio non esiste. Ma in casa mangiava di magro (anche quando non era Venerdì, diceva Pepi), e recitava ogni sera il rosario. Faceva anche lui professione di fede socialista, anzi addirittura anarchica; ma siccome balbettava terribilmente, gli era difficile riuscire a dar un'idea esatta di quello che pensava.

Buon ragazzo anche lui, del resto, che i colleghi caritatevolmente avevano battezzato per Cretinovski.

Passavano poi altre due o tre individui più scoloriti, più comuni, ai quali tuttavia Pepi trovava qualche cosa di burlesco; esagerando, per far ridere Luisa, per sentirla esclamare:

—Ma via! finiscila! un poco di carità!

Qualche volta ella diceva ridendo:

—Tu che trovi tanto da burlare gli altri, credi di passarla liscia tu? Chi sa che cosa troveranno di comico in te!

—Oh, naturale!—diceva lui.—Lo so benissimo, ma non me n'offendo.

Altre volte ella parlava sul serio:

—Tutti quelli che tu conosci, quelli almeno con cui tratti di più, pensano su per giù come te, non è vero? Voglio dire sono tutti, un po' più un po' meno, socialisti o anarchici o che so io!

—Sì… cioè, non sanno mica essi che cosa sono! Fa un po' il piacere! Socialisti! Sì, col denaro degli altri… Anarchici?… Ma pur che diano loro la pagnotta, non sono più anarchici!

Eppoi hanno una paura!… Son tutte chiacchiere!

—Bene, diceva lei—e questa è povera gente, dopo tutto, che ha altro da fare che occuparsi di politica. Gente di levatura comune, di poca istruzione, infine! Ma tu ne hai conosciuto tanti nella tua vita! Dimmi schiettamente. Ve n'erano molti, proprio come te, tra quelli che hai conosciuto? Molti che avessero un ideale così ardente, così puro; che fossero pronti a sacrificare tutti se stessi, e anche le loro cose più care, a quel sogno, a quella speranza lontana, quasi inaccessibile anche col pensiero, che è la vostra? Non è vero che erano assai pochi? E di questi pochi, scommetto che i più erano sinceri, candidi, ma ignoranti. Gente semplice, che il miraggio di promesse splendide, di giustizia, di bontà, aveva lusingato. Ma gli altri! Quelli che gridano di più, che fanno più chiasso e si mettono a capo di questo movimento e stampano e parlano e declamano, dì tu, in coscienza, come li hai trovati? Scommetto che non avrebbero tirato fuori un soldo per la vostra santa causa, se l'avessero avuto. Che non avrebbero esposto un dito a farsi male. I più, insomma, non hanno altro interesse che il proprio: sono intriganti, ambiziosi, che sperano di pescare nel torbido. Volete che tacciano? Date loro una pagnotta; come dici tu, e li vedrete cambiar vela. Date loro un ciondolo o un impiego o un guadagno o quella qualsiasi cosa a cui mirano in segreto, e li vedrete quei martiri, quegli apostoli!… Dì su; non è vero?

Pepi sentiva bene che ella era ingiusta, che esagerava, nella sua amarezza per quel rancore che ella serbava al partito, che le aveva rubato il fratello; ma non sempre sorgeva a difendere i suoi compagni di fede. Nella mente gli passavano gli anni di dolori, di fame, di vagabondaggio; le delusioni immense, i tradimenti, gli abbandoni…

Oh sì! vi erano dei falsi apostoli, vi erano dei Giuda; ma essi non potevano fare che la verità non fosse la verità…

E guardava lontano lontano, nel cielo luminoso, dove splendeva già una remota promessa di primavera.

«Bisogna che tu sia forte, bisogna che tu non pensi a le cattive cose».

Ebbe un dispiacere Luisa il giorno che Pepi tornando a casa le annunziò che il suo orario era cambiato.

Jourdain si era accorto che il giovine era più intelligente degli altri e lo aveva incaricato della correzione di giornali che uscivano al mattino. Il lavoro quindi andava fatto di notte, bisognava stare in ufficio fino all'una, fino alle due; attendere gli ultimi telegrammi… In compenso si aveva un giorno di libertà su tre, e si andava all'ufficio la mattina tardi, appena alle dieci.

Pepi era contento di questa disposizione. Forse, in fondo, per gli stessi motivi onde Luisa se ne spaventava.

Quell'uscire la sera, quello star fuori parte della notte… non doveva fargli bene nè all'anima nè al corpo. Finora Pepi si era mostrato docile come un bambino. La sera non era più uscito se non qualche rara volta, per condurre a passeggio o a teatro una delle due sorelle. Ora, egli riprenderebbe quelle abitudini, prima per la necessità del lavoro, poi per altro. Era possibile che egli tornasse direttamente a casa, a quell'ora tarda, senza andare con i compagni in un caffè, o in luoghi peggiori? La tentazione sarebbe continua. E allora… spreco di salute, di danaro, e, specialmente quello che più dava da pensare a Luisa, l'abitudine di una vita disordinata, zingaresca, così come certo egli l'aveva condotta per tanti anni, quando nessuna sorella lo aspettava a casa la sera con dolce rimprovero; non un letto bianco, pulito; non una mite aura di amore e di famiglia.

Col suo fare riservato e mite ella gli disse i suoi timori; gli fece qualche osservazione. Terminò dicendo:

—Tu sai, noi non abbiamo salute da buttar via.

Era la sua grande minaccia e la sua paura.

La nevropatia e la morte della loro madre, ancora in giovane età, la morte della sorella Virginia, l'aspetto delicato di tutti loro, fratello e sorelle, avevano spesso posto nel cuore di Luisa la segreta angoscia che viene dal timore di una predestinazione al male, alla morte precoce. Certo lei stessa era la più robusta. Non ricordava mai di essere stata malata.

Nemmeno quando le erano nati i figliuoli, ella non era rimasta a letto più di tre o quattro giorni. Ma non s'illudeva. Era certa che una imprudenza poteva rovinarla. Aveva avuto grandi dolori morali nella sua vita, ed ella allora aveva sentito che sarebbe bastato abbandonarsi a quelli, covarli nel suo petto, per averne la distruzione, la morte. è per questo che ella aveva reagito; aveva bruciato con ferro rovente il suo cuore, proprio nella piaga aperta; poi aveva compressa la ferita dalla quale tutto il suo sangue minacciava di uscire, in un filo sottile e continuo; fino a lasciarla tutta bianca e fredda. Perchè ella non aveva il diritto di morire, ella che aveva tre figliuoli, viventi da lei, viventi per lei.

Ma spiava anche la salute delle due sorelle che, nella florida bellezza della gioventù, pur lasciavano apparire i segni della anemia e di una debolezza che doveva aver radici ben profonde, sotto al roseo del viso e al fulgore degli occhi. Spiava anche, dacchè era arrivato, quel fratello. Non pareva malato. Alto, con braccia e spalle robuste, sebbene un po' magre, dotato di appetito discreto, di elasticità muscolare, anche di una vivacità di spirito che una volta era stata gaiezza esuberante, Pepi non pareva punto meno forte e meno sano della maggior parte dei giovinotti viventi nelle grandi città; il loro sangue contiene più siero che globuli rossi; hanno anche i nervi irritabili, e soffrono facilmente di stanchezza o di insonnia, ma non c'è altro male. Se riescono a prender moglie e ad avere un impiego fisso, muoiono a settant'anni, grassi e podagrosi, dopo aver messo al mondo una dozzina di figliuoli, un po' più anemici, un po' più rachitici.

Pure, Luisa s'era messa in testa che quella di Pepi non fosse una salute da poterne abusare. Era buona, finchè lui la rispettava, coricandosi presto, tenendo lo stomaco e la testa leggieri, facendo una vita regolata, come diceva lei. Ma allora egli, impazientito, rispondeva che avrebbe preferito morire piuttosto che fare sempre così una vita da convalescente.

—Cosa ti sei messo in capo che io non sia robusto! Se sapessi le vitaccie che ho fatto, se sapessi! Le notti le passavo a diecine a diecine. Un anno avevo trovato da far da segretario a uno strozzino che non sapeva scrivere e che solo la notte poteva darmi i suoi conti da ricopiare. Stavamo insieme, figurati, dalle undici di sera fino alle tre del mattino; lui mi faceva sempre rifar tutto daccapo, perchè non capiva nulla e aveva paura che l'imbrogliassi. Oh, ne ho vedute di belle in quella caverna che chiamava suo ufficio! Eppure dovetti starci, o morire di fame!

—Oh, oh!—diceva la sorella esilarata;—un anarchico servire uno strozzino!

—Eh, mi pareva di servire il diavolo in persona! E poi, vi è una macchina più infernale nella società nostra che questa. L'usura fa assai più delle bombe, va là! Servendo quello strozzino io facevo dei curiosi studi sul capitale.

—E anche sugli interessi, spero!

—Oh sì! Ho fin preso degli appunti.

Ella, ridendo, si dava per vinta. E Pepi incominciò il suo lavoro notturno. Certo egli procurava di non darle dispiacere, di meritarsi la sua approvazione e la sua stima. Pure, ciò che ella aveva tanto temuto, ora accadeva. Uscendo dall'ufficio a tarda ora, stanco per il lungo lavoro sui fogli neri di correzioni, con gli occhi in fuoco, la testa turbinante, la gola secca per la lettura che egli faceva ad alta voce ai colleghi, il giovine non aveva sempre il coraggio di venire a letto.

Aveva anche fatta amicizia con un giovine avvocato che qualche volta veniva la sera a portare i resoconti giudiziari alla gazzetta. Era un giovine un po' strano, infelice nella sua vita privata, tinto, naturalmente, di socialismo; con vaghe tendenze al misticismo, alla misantropia, al pessimismo.

Si chiamava l'avvocato Sadi.

Tra Pepi e lui si era stretta amicizia. Uscivano qualche volta insieme dall'ufficio, dopo la mezzanotte, e si incamminavano per i viali oscuri, odorati di primavera. Il profumo dolce sparso nell'aria, la quieta luce delle stelle, la frescura soave, la purezza dell'ora, gonfiavano anche i loro cuori generosi e giovani, mettevano nei loro cervelli un sognare in comune, una fantasticheria gentile e buona. Ma nessuna figura feminea veniva a frapporsi in quelle confidenze, in quel discorrere aperto e schietto, dove i due giovani, entrambi un po' riservati, un po' selvatici, mettevano un ardore, una fiducia, come vecchi amici. Nell'ombre notturne, sotto i freschi incanti della luna, mentre intorno a loro dormivano o sognavano gli amori, i due viandanti inseguivano una sfolgorante eterna visione. Essa veniva verso di loro ammantata di quel nitido puro velo, che nascondeva le sue forme celesti; aveva il capo cinto da una corona di martirio, ma lucida, scintillante di raggi; aveva nelle mani una coppa che spandeva benedizione, e la sua bocca diceva parole di fascino eterno:

—Venite, venite a me, voi che siete gli illuminati, voi che io prediligo! Di tra la turba dei gaudenti, di tra la turba dei vili, e dei bugiardi, e dei ciarlatani, io scelgo voi per mostrarvi la via e la verità! Venite a me, combattete nel mio nome! Voi forse morrete, vinti in questa lotta titanica, ma avrete aperto la strada agli altri. Voi darete agli altri il pane, che a stento riuscite a guadagnare, agli altri la terra, madre comune, che forse inaffierete col vostro sangue! Venite. Voi avete veduto la luce, dovete seguirla in eterno.

Oh, giustizia, nostra speme!—mormoravano, adorando, i due.

Ma non sempre Sadi veniva a prendere Pepi, e allora questi, malinconico e solo, si decideva a entrare in una osteria che aveva scoperto, dove una bella padrona serviva agli avventori vino e birra tutta la notte. Là Pepi si fermava un'ora e anche due, a bere il pessimo vino, che l'ostessa chiamava barbèra, a dire qualche insipido scherzo alla donna, e a discutere di politica, in tono superiore, con l'oste e con qualche tardo avventore che era divenuto suo scolare.

A poco a poco quel tener cattedra a gente meno côlta di lui, più timida di lui, un po' assonnata dall'ora e dal vino, e disposta quindi ad accettare tutte le opinioni, lusingò segretamente il suo amor proprio, senza che egli stesso se ne accorgesse, perchè se ne sarebbe vergognato. Ebbe, un po' alla volta, un uditorio fisso, che lo riguardò come un grand'uomo… un po' pericoloso.

Ma questa stessa idea del pericolo rendeva più piccante quella lezione notturna, fatta dal giovane fanatico, intorno al tavolino dell'osteria. Il tutto aveva allora una certa aria di congiura. La porta esterna, a mezzanotte, si chiudeva. Solo gli iniziati sapevano che, picchiando in un certo modo, si poteva ancora ottenere l'accesso. Non si teneva acceso che un solo lume a gas, nel mezzo della bottega; i pochi avventori si raccoglievano intorno alla tavola che era nel centro, e là giocavano interminabili partite a tresette e a tarocchi, parlando a mezza voce, come se avessero avuto paura di compromettersi. Quando entrava Pepi le partite si sospendevano. Egli comandava il suo vino, poi incominciava a commentare qualche avvenimento del giorno, in cui il Governo, e la polizia, o la classe borghese, semplicemente, faceva sempre una atroce figura. Poi il giovine si lanciava a capo fitto nella questione, e non ne usciva più.

Appena qualcuno degli ascoltanti osava mettere innanzi qualche modesta osservazione. Ma questi era presto vittoriosamente sconfitto da tali ragioni evidenti, lampanti, esplicite, che non restava nemmeno il più piccolo dubbio nel cuore di lui; o, se vi restava, egli si guardava bene dal manifestarlo, per non passare anche lui nella genia degli ostinati o dei borghesi. Peccato che di quegli scolari non si sarebbe mai potuto ricavare neppure un milite della santa causa, perchè erano tutti o vecchi pensionati, un tantino viziosi, o negoziantucci presso a fallire, o giocatori incorreggibili di tarocchi, o mariti disgraziati, che preferivano passare la maggior parte della notte all'osteria, anzi che affrontare il talamo coniugale!

Pure Pepi, in quei momenti, non ci pensava. Riviveva in lui il propagandista, il meetingaio dell'America, che nelle bettole di Buenos-Ayres, affamato spesso, difendeva il buon diritto della plebe, e lanciava lungo i tavoli assiepati di faccie stravolte e luride il grido dell'assemblea:

—Lavoratori di ogni nazione, unitevi!

Ah, egli pure aveva avuto dei momenti di trionfo! Egli aveva arringato la folla sulle piazze; egli era stato freneticamente applaudito; egli aveva scritto articoli di fuoco e drammi rivoluzionari, che avevano sollevato le platee; egli era stato eloquente così che le polizie avevano tremato davanti alla sua parola, e lo avevano specificato come individuo molto pericoloso! E nell'umile osteria, davanti allo scarso pubblico pauroso, che tendeva l'orecchio verso la porta, per paura della pattuglia, egli ritrovava i suoi gesti nervosi e rapidi, la sua parola battagliera di capopopolo, dimenticando l'ora e il meschino uditorio, trascinato dall'ebrezza del suo entusiasmo.

Dimenticando anche Luisa, e le promesse che le aveva fatto.

Ella intanto, coricandosi stanca verso le dieci, l'ora appunto in cui suo fratello usciva, aveva nel cuore quella pena che non la lasciava addormentarsi subito. Il suo sonno leggerissimo, rotto da ogni lieve rumore, era divenuto più inquieto da qualche tempo. Si risvegliava ogni momento, parendole di udire il cigolìo degli usci in corridoio. Guardava l'ora. Ecco, adesso egli dovrebbe tornare… tarderà ancora… purchè non tardi troppo!… Si riaddormentava penosamente, per poco tempo. Era già passata da un pezzo l'ora più tarda in cui ella ammetteva che Pepi potesse essere all'ufficio e non tornava ancora! Le ombre della notte le davano terrore; ella si figurava di lui terribili cose; più terribile fra tutti il fantasma cupo della polizia si inframmetteva nelle sue paure. Finalmente, quando ella udiva davvero il rumore della porta che si apriva e richiudeva, i passi di lui nel corridoio, il cigolar della imposta della sua camera, ella stava ancora col cuore palpitante, con gli orecchi tesi, presa a un tratto da un'angoscia più forte: Dio, Dio, se egli avesse bevuto troppo, se egli fosse ubriaco!…

La mattina ella gli diceva dolcemente, seriamente, il suo parere. Egli aveva torto; non doveva far così. Ma Pepi andava in collera; non era mica un bambino, poi; egli sapeva ben regolarsi. E poi, di che aveva ella paura? Egli beveva pochissimo, e si tratteneva poco fuori, appena da far due chiacchiere con qualche amico. Dopo una nottata di lavoro, infine, si poteva permetterglielo.

In fondo, egli sentiva bene di aver torto. Ah, quell'America, quella vita selvaggia, sregolata, folle, come era nel suo sangue, come lo trascinava! egli non riusciva a liberarsene. E poi quella superbia maledetta, quel diabolico orgoglio, che non gli permetteva di accettare osservazioni da sua sorella! Gli rincresceva pure di farle dispiacere! La vedeva diventare più taciturna, più raccolta; qualche volta anche egli leggeva nei suoi occhi un tacito rancore…

Eppure la tentazione del di fuori era forte; la casa, la modesta, metodica casa borghese, coi bimbi che studiano la lezione, col marito che grida per la minestra troppo salata, con le ragazze che parlano di nastri e di innamorati, non gli andava, no; o almeno egli non poteva abituarvisi ancora.

—Abbi pazienza!—diceva a Luisa nei momenti buoni; nei momenti in cui, ciarlando con lei sul balcone, dopo il pranzo, mentre il cielo era ancora tutto chiaro, egli ritornava un po' come un bambino. —Se sapessi le mie abitudini in questi dieci anni! Oggi qua, domani chi sa dove. Ho dormito in cantine, sotto le tende, nelle amache, sui tetti… Non ho mai avuto una casa. Ah, se sapessi! Qualche volta qui mi sento mancar il fiato; mi pare che le pareti della casa mi schiaccino. Ho bisogno di scappar fuori, di gettarmi nelle strade, di camminar tra la folla, rabbiosamente; o avrei bisogno di andare in un bosco, di buttarmi a terra, di dormir là, in queste belle notti di primavera, come uno zingaro….. Abbi pazienza.

Perchè proprio la primavera era ritornata, mite, rosea, calma. Dai balconi aperti, in casa Marini, entrava da levante la luce verde e dolce della collina; i tramonti vi erano sereni, l'orizzonte si faceva ampio, man mano che le scendenti ombre lo invadevano in giro. Pepi amava, dopo il pranzo, verso sera, mettersi a sedere sul balcone della camera di Luisa, di dove la vista era più larga, dal colle di Superga fino a Moncalieri, una corona di alture ammantate di primavera. Veniva la luce rosea come un dolce fiume, calando dal cielo; avvolgeva sui colli le ville scintillanti, pioveva nella via i suoi fasci d'oro. Tutti i neri fabbricati nella stazione, tutti i comignoli fumosi, la grande tettoia di vetro, l'alta passerella oscura, ne erano illuminati; prendevano una festosa apparenza di novità, di gaiezza. I rumori dei treni, i fischi delle locomotive, il grande ronzìo che esce dalle fabbriche, poco prima di chindersi, a sera, giungeva lassù, a quel terzo piano, come un coro di voci amiche, un saluto della giornata, un augurio per domani. Tutta la via susurrava; era piena del calpestìo di passi: operai e impiegati, a grandi frotte rumorosamente passavano; i fanciulli si rincorrevano giocando; e in un terreno vuoto, dirimpetto, molti giocatori di boccie, in maniche di camicia, mischiavano le loro grida al tonfo sordo delle loro palle di legno.

Pepi si attardava, dolcemente pigro, su quel balcone. Veniva Mimì a fargli compagnia, la bimba che egli prediligeva. Ella diceva infallantemente ogni sera, con lo stesso dolce sorriso:

—O zio! sei qui?—e pareva sempre un po' sorpresa.

Egli si divertiva a burlarla.

—Guarda che novità! Scommetto che m'hai cercato dappertutto dove non ero, prima di trovarmi!

—È naturale. Credevo che tu fossi nella tua camera!

—Ma va, ma va, ma va! Se tu non capisci mai niente, e non sai mai niente!

Ella si prestava volentieri a quel gioco, con la sua gentilezza di bimba amorevole. Era una fanciulletta un po' indolente, quella Mimì; molto buona, di una placidezza un po' malinconica. Pepi la motteggiava per la sua lentezza, che egli si compiaceva di esagerare, e per la sua infantilità, che era grande davvero.

—Mimì, va a chiedere a mamma se ha la gazzetta di oggi Ma adagio, Mimì, per carità; tu corri sempre tanto che ti può far male.

Ella, ridendo, fingeva di eseguire la commissione più adagio ancora. Oppure correva pazzamente per la casa, facendo mille balletti e scherzi, perchè egli potesse ancora burlarsi di lei. E se le cadeva di mano un oggetto, se commetteva qualche lieve sbadataggine, egli fingeva di dare al fatto un'importanza straordinaria. Faceva dei gesti di disperazione.

—Ma Mimì, ma Mimì! che cosa accadrà di te! Oh Dio, Dio, Dio! ma questa fanciulla mi fa sussultare ogni momento! ma tu sarai cagione che io farò una malattia, Mimì!

Lei, sempre ridente, gli rispondeva con qualche scherzo rispettoso. Ma c'era tanto affetto tra quell'uomo inquieto e quella bimba dolce e felice, che Luisa spesso vi pensava con commozione.

Anche lei veniva talvolta a sedere su quel balcone, e ascoltava le chiacchiere dei bimbi, e i racconti che lo zio faceva loro, qualche volta, delle cose provate e vedute. Racconti che erano sempre scelti tra i fatti comici o meravigliosi della sua vita, poichè Pepi non amava parlare delle tante tristi cose, onde quei dieci ultimi anni erano stati pieni.

Quando si faceva più scuro, passavano in cucina, sul lungo balcone che metteva nel cortile. Là la lampada a gas, sospesa nel mezzo, mandava un fioco chiarore; e siccome anche tutte le finestre dei vicini erano illuminate, il balcone restava così allegro e chiaro come un discreto salotto. Anche Armanda e Evelina venivano a sedere là, e a mischiare il loro chiacchierìo a quello dei bimbi. Ai balconi dirimpetto, alle finestre, tutti i vicini, affacciati o seduti, ciarlavano anch'essi. V'era al terzo piano un giovanotto che dava lunghe occhiate qui, dirimpetto, dove le due ragazze si muovevano e ridevano con fare civettuolo; e al secondo piano brillava la camicietta bianca di una signora, che dava a Luisa materia di qualche scherzo verso il fratello.

—Guarda sempre qui, sempre qui!… Oh, tu le hai rubato il cuore, confessalo!

Naturalmente egli confessava.

—Chi sarà?—diceva Luisa—io non la conosco. Ma ogni sera è lì. Può essere vedova o da maritare. Allora tu potresti sposarla. Vuoi che incarichi la portinaia di parlarle?

Dallo scherzo passavano al serio.

—Dì un po', Pepi, se tu prendessi moglie?

—Brr!

—Ma, dimmi, non prenderai mai moglie?

—Mai.

Ella non insisteva. Qualche volta la pungeva bene la curiosità di sapere qualche cosa delle avventure amorose americane di suo fratello. Ma era un discorso che tra loro non si faceva. Luisa ricordava ancora la rigida, quasi ascetica, educazione materna, che non permetteva nessun accenno a cose d'amore fra loro ragazzi, nè in loro presenza; e gliene era rimasto come un pudore, che le impediva ancora di chiedere o di fare confidenze di tal genere al fratello o alle sorelle. Anch'egli, forse, sentiva così. Il feroce anarchico, il rivoluzionario, il propugnatore dell'amore libero, trovava ancora in fondo all'anima quel rispetto austero verso le sorelle, quella pietosa vergogna, che sua madre gli aveva inculcato.

Evelina e Armanda non avevano tanti scrupoli, e avevano scelto Pepi per depositario dei loro piccoli ma numerosi segreti d'amore. Qualche volta, in verità, egli tradiva la confidenza che le due incaute chiacchierine mettevano in lui, e raccontava segretamente a Luisa qualcuna delle cose udite; quelle appunto che gli parevano più comiche.

Ella ne rideva a fior di labbro, conservando però negli occhi quell'espressione orgogliosa quasi sdegnosa, con cui ella considerava quelle miserie. Del resto, sebbene nè Evelina, nè Armanda osassero contarle nulla, ella molte cose sapeva, e molte ne indovinava, col suo sguardo fermo e scrutatore; ma le piaceva mantenere quel suo contegno di neutralità superba, verso chi agiva sconsideratamente, senza tenere nessun conto delle massime, che ella veniva, qualche volta, esponendo.

Gli è che Armanda ed Evelina trovavano infondo al loro cuore troppo antiche quelle massime, e assolutamente inefficaci per trovar marito.

Intanto si faceva tardi; i bimbi, uno alla volta, erano andati a letto, dopo aver baciato la mamma, le zie, lo zio; e veniva l'ora di andare all'ufficio, per Pepi, che si alzava pigramente, dicendosi stanco, e si faceva compatire un poco dalle sorelle.

—Oh, povero Pepi!

Ma poi non si vedevano più, Luisa e lui, per tutto il giorno seguente, perchè l'orario mutato non permetteva loro di incontrarsi nemmeno a colazione. Così si rifacevano un po' estranei, uno all'altro; e, benchè avessero uno per l'altro una profonda tenerezza, tutte le volte che si vedevano, le anime loro facevano uno sforzo per incontrarsi e riprendersi.

Vi erano però i giorni di vacanza per Pepi. Allora egli veniva a mezzogiorno, per far colazione, e si fermava a casa qualche ora, sempre finchè Luisa restava. Ella aveva, per quelle ore, trovato un mezzo simpatico di occupazione. Aveva comperato una grammatica spagnuola, e aveva pregato suo fratello di darle lezione. Ciò faceva molto piacere a Pepi. Il suo orgoglio era un tantino lusingato di poter insegnare qualche cosa a sua sorella, la cui dottrina, troppo vasta, lo imbarazzava un poco; e poi quella lingua che era stata sua per tanti anni, nella quale aveva imparato a pensare, gli ricordava continuamente luoghi, persone e fatti, quasi sempre dolorosi, ma pur cari, come è sempre amaramente caro il passato.

Presto Luisa fu in grado di leggere e di capire la lingua, benchè le lezioni fossero molto irregolari, e maestro e scolara non brillassero per grande diligenza. Lei non amava fare esercizi, e voleva subito leggere qualche cosa di bello. Un giorno portò a casa addirittura un Don Quijote de la Mancha, che un giovine corrispondente di Jourdain le aveva regalato. Allora sì che ella si piacque di leggere le sonore parole, che raccontavano le gesta del comedido hidalgo!

El calvatrueno que adornò á la Mancha de más despojos que Jasòn de Creta; el juicio que tuvo la veleta aguda, donde fuera mejor ancha; el brazo que su fuerza tanto ensancha que Ilegò de Catay hasta Gaeta; la musa más horrenda y más discreta que grabó versos en broncinea plancha!

—Oh, questo don Chisciotte!—esclamava ella ogni tanto, interrompendosi, ridendo,—che tipo immortale; Pepi, non ti pare di essere un pochino don Chisciotte anche tu? Non sei mai andato a combattere, lancia in resta, contro i mulini a vento?

Egli avrebbe voluto arrabbiarsi; poi si contentava di ammonirla, che portasse rispetto al maestro! Ma poi anche le lezioni di spagnuolo si abbandonarono, e ne fu colpa Luisa. Qualche volta, ora, si annoiava di leggere ad alta voce e tradurre; qualche volta non aveva tempo, e dopo colazione scappava via in fretta per le sue faccende. La sera poi, oh! la sera impossibile occuparsi! Era troppo stanca, e poi faceva già un caldo! Ella preferiva sedere sul balcone, e ascoltare il chiacchierìo dei bimbi, finchè andavano a letto.

E adesso, a letto ci andavano più tardi. Persino Vittorio ora si ribellava all'ordinamento invernale, che lo mandava a dormire alle otto! C'erano anche bimbi vicini, che uscivano sui pianerottoli; qualcuno venivano addirittura a far visita ai Marini; e ciascuno, Nepo, Mimì e Vittorio, aveva i suoi amici o le sue amiche.

Pepi non soffriva volentieri altri che le amiche di Mimì, le quali venivano anche di giorno. Una si chiamava Emma, un'altra si chiamava Gina; erano le più intime. Egli si divertiva a spiarle, e a udire i loro discorsi confidenziali; si divertiva poi di più a burlare Mimì, raccontando forte, esagerando, ciò che aveva inteso.

—Mimì! tu hai giurato oggi a Emma che le avresti voluto bene per sempre! Ricordati! per sempre! Guarda che non si manca ai giuramenti! E io ho il sospetto invece che tu abbandoni un poco Emma per Gina! Sì, non negarlo. Tu vuoi più bene a Gina. E hai detto a Emma che essa è la tua più cara amica… Nega, nega se puoi!

Tutti ridevano, e Mimì si difendeva dicendo che non era vero! Non aveva mai fatto quel discorso con Emma! Ma lo zio non le lasciava più pace. Sapendo che Emma e Gina erano anch'esse molto timide, e avevano specialmente molta soggezione di lui, egli le perseguitava, ostinandosi a entrare nella stanza, dove le ragazzette stavano a colloquio, fingendo di avervi qualche cosa da fare; e si dava attorno a cercare un libro o un giornale che non vi era, e finiva poi col sedere in un angolo del divano, senza mostrare di occuparsi di loro, ma tutto contento di vederle spaurite e confuse; felice poi quando esse, zitte zitte, tentando di non farsi scorgere scappavano in un'altra stanza, dove, di lì a poco, egli ancora le raggiungeva.

E Mimì si disperava comicamente, e rideva, rideva di quel suo dolce riso un po' lento, velato, di bimba tranquilla!

Pepi non aveva invece la stessa pazienza con gli amici di Nepo e di Vittorio, e quando venivano, era lui che scappava. Stava però a vederli entrare, curioso. Quel Nepo, che era un fanciullone lungo e magro, ingenuo e candido come un bambino, si dava però già delle arie da uomo.

Diceva con grande importanza a sua sorella:

—Mimì, se vengono i miei amici, falli passare avanti!—Il che faceva ridere molto Mimì.

L'amico preferito di Vittorio era un certo Oreste; un ragazzetto più vecchio e più grosso di lui; rumoroso, manesco, ingegnosissimo, che sapeva già fare cento mestieri. Quelli che preferiva però erano il macchinista ferroviario e il pittore. Incominciavano solitamente da questo. E allora tiravano fuori una malandata scatola di colori, che Vittorio possedeva, dei bicchieri pieni d'acqua, dei fogli di carta, e si sdraiavano per terra, a dipingere. Ma siccome l'arte li stancava presto, si davano all'altro mestiere del macchinista. Questo richiedeva che tutte le sedie e gli sgabelli di casa Marini passassero a fare l'ufficio di macchine e di vagoni. Naturalmente questa trasformazione non poteva aver luogo senza un indiavolato rumore, un fracasso, che non era nemmeno coperto dalle grida dei due biricchini.

Qualche volta anche Oreste, per variare alquanto lo spettacolo, portava da casa sua strumenti di sua invenzione; musiche, trappole, oggetti inverosimili. Qualche volta, per dimostrare la sua affezione a Vittorio, gli regalava, oltre a qualche segreto scapaccione, degli scarabei, delle lumache, delle lucertole, o grilli con tutta la gabbia di sua fabbricazione…

E lo zio Pepi scappava, inorridito, a chiudersi nella sua camera.

«Deh, dichiaraci tu, qual è la cagione che questo male ci è avvenuto?».

Una mattina Luisa ebbe una lettera dalla sua amica Clara. L'amica Clara era di Trieste; una loro antica compagna di giochi, carissima a Luisa e a Pepi, per quella dolcezza dei ricordi legati alla loro lontana infanzia; ma si scrivevano molto di rado; Luisa specialmente aveva trascurato l'amica, poco piacendole il carteggio epistolare, ed anche per quella certa aridità di cuore, sopravvenuta in lei nella vita, che le faceva riguardare come ridicola o almeno inutile ogni sentimentalità.

Quella lettera dava la notizia delle nozze di Clara.

Si maritava finalmente con un giovane che l'aveva chiesta molti anni prima, e che per interessi discordi non aveva potuto sposare. Ora ogni cosa era appianata, e Clara l'annunziava, felice, agli amici lontani. Ma Luisa aveva sospirato lievemente. Un sogno recondito, da molto tempo gelosamente e segretamente accarezzato, spariva con quel matrimonio. Clara non avrebbe potuto sposare Pepi? Si volevano bene; ella era un'anima nobile, fatta per comprenderlo. Via! anche questa illusione cadeva.

Era tuttavia curiosa di vedere quale impressione facesse questo annunzio a Pepi. Era domenica; egli era ancora in camera, lei stessa andava più tardi alle sue occupazioni. Certo egli era già sveglio e leggeva nel suo letto; ella non credè disturbarlo andando a picchiare leggermente alla sua porta. Poichè non ebbe risposta, aprì pianissimamente, spingendo l'imposta, e si fermò stupita davanti uno spettacolo curioso. Il fratello dormiva sopra un materasso posto in terra, presso la finestra aperta; il letto appariva scomposto, come sventrato, mostrando le molle di acciaio ignude, e tutta la camera aveva un aspetto triste di disordine.

Al rumore ch'ella aveva fatto Pepi aveva aperto gli occhi. Le sorrise, pur mostrandosi un po' vergognoso.

—Ma che fai lì!—gridò ella spaventata.—Perchè non dormi sul tuo letto! Perchè quella finestra aperta!

—Che vuoi? In letto mi sento soffocare. Ho bisogno d'aria, la notte. Metto il materasso in terra qua vicino alla finestra, e mi sento meglio. Si soffoca nel letto.

—Ma, caro mio, tu prenderai del male. Dormire con quell'aria addosso! E poi stanotte ha piovuto; l'aria è umida. Che imprudenza!

—No, no; ci sono avvezzo; non aver paura. Lo sai che io sono un selvaggio.

Ella sospirò.

—C'è una lettera di Clara—disse—è curiosa. Clara si marita.—E guardò suo fratello.

Ma egli rise allegramente.

—Ah, ah, si marita! guarda! Con quel tale? Quel Sandri?

—Si.

—Ah, ah! ricordami, le scriverò una cartolina. Luisa uscì. Era strano. Ella aveva sempre pensato che un pochino, un pochino di amore romantico ci fosse stato da parte di Pepi. Avevano giocato insieme piccini, con quella Clara; e quante volte agli sposi!

Poi, mentre ella era via, i due, fatti giovinetti, avevano continuato sempre a vedersi. Ella sapeva anche quanto Clara si fosse dopo interessata ai casi del prigioniero, del profugo; quante volte ella gli aveva scritto, anche in America; e Pepi aveva scritto a lei, più spesso che alle sorelle. Eppure, non vi era nulla; di amore neppure una traccia. Ma di che cosa era fatto quel suo fratello?

La sera però parlarono di Clara e della loro infanzia. Il discorso era pieno di ti ricordi? ti ricordi?

—Ti ricordi quando io le facevo dispetti, le tiravo la treccia? e lei, come gridava!

—Oh, io mi ricordo sino la mantellina che portava Clara la prima volta che venne a stare vicino a noi! Ti ricordi? una mantellina bianca e nera. E anche un suo cappellone; oh, un cappellone immenso che aveva.

—E un giorno che voi due venivate a fare delle passeggiate in soffitta, e io mi ero nascosto, e sbucai fuori, e voi due avete avuto tanta paura?

—Oh sì! e quando tu sei montato sui tetti, e noi avvertimmo la mamma, che ebbe tanta paura, poveretta, tanta paura!

—Già. E i pulcini che avevamo in soffitta? Tu, una volta, a momenti ne facevi annegar uno nella vaschetta.

—No, non io; è stata la povera Virginia.

—Credi? Sì, sì!…

Il ricordo della morta scese su loro come una ombra fredda.

Stettero un poco muti; poi egli, ad un tratto, abbassando la voce, fissando con strano sguardo la sorella:

—Dimmi, Luisa,—disse—perchè hai mandato via Virginia quando era malata? Perchè non l'hai lasciata morire in casa tua?

Ella rabbrividì; pure presentiva già da tanto tempo quella domanda! Stette un po' in silenzio, guardandolo: e v'era nei suoi occhi una serietà triste e amara.

—Prima di tutto perchè ella stessa lo ha desiderato; —rispose poi.—Ella sperava di guarire.

—Sì. Ma poi, quando hai visto che stava peggio… Perchè lasciarla là?

—Fu curata molto bene, molto bene, sino all'ultimo —disse Luisa come parlando fra sè—e poi c'era lì mia cognata. L'avevo affidata a lei. Io non potevo fermarmi, tu lo sai. Avevo troppo lavoro. E, ricondurla qui? Ma io temevo per i miei bambini! Io avevo il dovere di pensare a loro, prima che a tutti!

La sua voce era diventata dura, il suo sguardo alteramente severo si fissò sul fratello, che non replicò.

—E non solo per i bambini lo feci, ma anche per le due ragazze; sì, anche per loro, per risparmiare loro tanta tristezza e tanto pericolo. Esse non hanno capito nulla… Tanto peggio.

Così la sera finì in grande freddezza.

Per qualche giorno Pepi fu triste, taciturno; anche con Armanda ed Evelina pareva più freddo del solito. In un giorno di vacanza, che erano a tavola insieme, Luisa notò che egli non mangiava quasi nulla.

—Perchè non mangi?—disse.

Egli accusò dei dolori allo stomaco.

—È già molto tempo,—disse.

—Ma bisogna che tu domandi un medico! Vuoi andare da uno che conosco io? Ti do l' indirizzo.

—No, lascia stare. Andrò al Policlinico.

—Cos'è questo Policlinico?

—È una specie di ospedale ambulante. Tu vai là, ti esaminano, e ti curano gratis. Paghi solo le medicine.

—Ma non è meglio un medico, che ti visiterà minutamente, e che pagheremo, senza dover niente a nessuno? è una di quelle economie!…

—No, vedi—spiegò lui, e sul viso gli si dipinse quella espressione canzonatoria, che cedeva così facilmente alla tetraggine più cupa;—al Policlinico ci sono molti dottori. Ciascuno per un male speciale. Io non so bene che male ho. Vado lì. Uno incomincia a picchiarmi: polmoni, niente! buonissimi! (è un esempio, capisci!) Via! passi di là, all'altra sezione. Un altro mi fa sdraiare e mi ascolta il cuore; cuore buonissimo! (sì, son capaci di dire che io sono di buon cuore; loro non sanno che sono anarchico!) E così un terzo mi esamina le viscere, un altro il fegato, un altro la milza; e finalmente, ecco, si trova dove ho la malattia, e quel fortunato scopritore mi cura trionfalmente e io guarisco!

Il domani andò veramente al Policlinico. Una bella casa, tutta bianca, tutta odorata di acido fenico, con grandi e ampie scalinate, lucidissime; con vaste stanze, dove la luce chiara entrava a fiotti per i finestroni spalancati, non protetti da alcuna tenda. Tutto lì dentro era limpido e nudo; anche gli strumenti di chirurgia e gli apparecchi ortopedici, e gli apparati di chimica, e i cuscini su cui si stendevano i malati, e i lettucci articolati: tutti i mirabili strumenti di tortura.

Pepi vi entrò col cuore chiuso, con l'animo sospettoso e diffidente. Egli non credeva ai medici.

Questi erano molto gentili, sereni, zelanti; benchè là dentro non venisse che povera gente, o almeno gente che non pagava. Siccome il giovine accusava difficoltà di digestione, capogiri, insonnia, un po' di febbre, venne mandato dal dottor Guglielmi; un bell'uomo dalla lunga barba castana, dagli occhi dolci e benevoli. Questi fece spogliare il paziente, lo coricò su di un letticciuolo, lo picchiò, lo ascoltò, lo interrogò; proprio come se la visita avesse dovuto rendergli venti lire. Concluse dicendo che la malattia consisteva in difficoltà del ricambio, debolezza generale, infiammazione di ventricolo. Invitò il giovane di venire a curarsi ogni due giorni, mediante certe iniezioni ammoniacali, che il dottore gli avrebbe fatto; e gli prescrisse i medicamenti da prendere.

Pepi considerava con una certa curiosità quell'uomo placido e buono, che gli parlava. Col suo lungo camicione di tela greggia, la barbona spiovente sul petto, gli occhi dolci e intelligenti, gli appariva come un singolare apostolo di qualche dottrina nuova, fatta di pace e di consolazione. Disse infatti al giovine malato anche qualche parola, facendogli coraggio: non era nulla, solo un po' di riguardo, non strapazzarsi, mangiare regolarmente, cibi sani, fare del moto… In pochi giorni sarebbe guarito.

E Pepi si sentiva già guarito adesso; la mano del dottore che gli passava ferma e leggera sullo stomaco, sul ventre malato, gli portava via ogni dolore.

Uscì di là pieno di fiducia, quasi di allegria. Per la strada non riusciva a levarsi dagli occhi quella bella e buona figura di dottore; non riusciva a ridere della sua scienza, e, specialmente, non aveva potuto trovarlo in colpa verso un povero, verso uno che non pagava la cura. Ma proprio! che anche fra i borghesi ci fossero dei galantuomini, degli uomini di cuore, che si dedicano a un ideale di bene, e lo seguono, tranquillamente e appassionatamente, e piano, senza che il mondo neppur se ne accorgesse? senza far chiasso e discorsi e proclami?

A casa descrisse a Luisa quella visita. E lo fece così sinceramente che la simpatia del buon dottore passò anche in lei.

—Curioso, curioso!—si accontentò di aggiungere Pepi, volendo a ogni costo dare una tinta di scherzo al discorso—ha una barba che potrebbe far la réclame all'acqua Chinina-Migone!

Ma questa chiusa sembrò irriverente a Luisa, che sgridò il fratello.

La cura andava bene. Pepi riprendeva appetito e anche un po' di buon umore. Luisa poi era particolarmente contenta, e quasi quasi benediceva la malattia, che costringeva il fratello a passare in casa le ore libere della sera, e a ritirarsi presto la notte. Un po' alla volta le sue paure cessavano; ella si lasciava di nuovo andare alla speranza di una vita dolce e tranquilla.

Un po' di pace, o Dio, solo un po' di pace!

Si avvicinava intanto il tempo di San Luigi; tempo caldo e soave, di mistico languore; di chiarezza, di sogni, di profumo di gigli. Luisa sapeva che in quel giorno ella avrebbe avuto dei regali, e tanti tanti fiori! Era una festa cara per lei. Cara fin dall'infanzia. Ricordava tutti i San Luigi di quando ella era piccola. Suo padre aveva lo stesso suo nome, ed ella, a ogni ventun giugno, preparava per lui il piccolo regalo, la lettera e i fiori.

La lettera era sempre la medesima, di anno in anno.

Le pareva di avere ben poca fantasia per trovare espressioni nuove in quella occasione.

—È giunto finalmente il giorno da me tanto desiderato…

Ah, era proprio il medesimo principio! E il curioso era che Mimì, anche lei, tutti gli anni a San Luigi, scriveva per sua madre la medesima lettera!

—… E che Iddio ti conceda giorni lunghi e felici in mezzo a noi!…

—Sì, proprio così, tutti gli anni; e anche questa volta ella avrebbe trovato sotto il suo tovagliuolo la lettera, e le stesse cose vi sarebbero scritte, gli augurii medesimi. Così si alternava il destino della vita; così, passando gli anni, gli spiriti venivano formandosi negli antichi modelli, ereditavano tutto quello che era stato, sentivano nello stesso modo, erano le anime istesse che pur già declinavano, stanche, quasi vecchie.

Anche quell'anno quanti fiori, quanti augurii!

Il salottino di Luisa ne era pieno. Ne avevano collocati da ogni lato, per terra, in vasi e in secchie, non trovando più tavole e mensole dove metterli. Le allieve di Luisa, le amiche, tutte si erano ricordate di lei È del simpatico santo. Grossi mucchi di garofani, ardenti e pallidi, profumavano in ceste enormi; lunghi steli di gigli si rizzavano, simbolici, in vasi e coppe di ogni specie. Poi le violenti tuberose, le giunchiglie, le rose, la vaniglia scioglievano da ogni parte un inno di odori e di colori.

Ella ne era felice come una bambina.

A ogni nuovo arrivo i bambini si precipitavano in salotto, ammirando, cercando un posto ai fiori invadenti; e Luisa li seguiva, curiosa anche lei, gettando lunghe esclamazioni di stupore. Ogni tanto chiamava Pepi a venire a vederli.

—Ma guarda, guarda, che bellezza! È fino un peccato, no? tanti denari! pensando che fra poche ore appassiranno?…

Lo diceva quasi a scusarsi con luì di quello spreco innocente. Ma Pepi era contento; in fondo pensava forse che sua sorella meritava tutti quei doni, quei gentili omaggi, e per lei non erano denari sprecati.

Egli non le aveva dato nulla. Solo si era chinato a baciarla, con un augurio, semplice, calmo. Ella aveva ricambiato il bacio, tutta felice; non amava le scene di tenerezza, non voleva veder suo fratello commosso, e non le piaceva nemmeno di commuoversi troppo. A che servono le parole?

La giornata fu bella, tranquilla. A tavola Luisa trovò la solita lettera di Mimì.

—È giunto finalmente il giorno sospirato, cara mamma! Iddio ti conceda lunghi anni felici!…

—Ed ella rise, rise giocondamente leggendola; e si rivide piccola fanciulla, con in mano un paio di calze lavorate da lei, un mazzetto di fiori e la lettera, andare timidamente incontro al papà, e dirgli a voce le medesime cose già scritte:—Mille anni felici, caro papà; mille anni felici!—Povero vecchio! egli si commoveva davvero, e si chinava a baciarla.

Nepo non scriveva lettere; egli si contentava di un grave augurio, a voce; Vittorio non sapeva ancora scrivere. Il marito di Luisa e le sorelle si contentavano anch'essi di qualche gentile ed affettuosa parola.

E il pranzo fu giocondo, anche sontuoso; vi erano dolci a profusione, che Luisa stessa aveva ordinato. Vi fu del vino bianco mandato da Pepi; e Pepi si sentiva molto bene, pieno di appetito e di forza. In fin di tavola Luisa diede solennemente la notizia che aveva preso in affitto una villa, a Moncalieri, e che si sarebbe andati tutti ai primi giorni di luglio.

Pepi parve molto contento della notizia. Egli amava la campágna, benchè fossero tanti anni che non l'abitava più. Antiche memorie di infanzia sorgevano in lui; lunghe passeggiate nei boschi, scorrerie per i prati; un odore buono di fiori selvatici; un cantar di grilli e di cicale… Le fantasie liete e tenere si ricolorivano sul finire di quel dolce pranzo, fra il ridere dei bimbi e il ciarlare delle donne.

Egli accettò volentieri di andar in campagna tutti i giorni di libertà, benchè ci fosse un lungo tratto in tramway e uno a piedi; di passare là ogni sua ora di ozio, certo che anche il suo medico lo approverebbe.

E il giorno dei gigli si chiuse così, in una grande pace.

Non più di quindici giorni dopo Luisa e Pepi scendevano insieme dal tramway di Moncalieri, e si avviavano giù per una strada campestre, verso la villa Delfina, dove avevano affittato un appartamento.

La grande afa della giornata di luglio era caduta; ora l'aria, piena di profumi, ondeggiava dolcemente tepida, come mossa da ali invisibili. I due scendevano adagio, perchè Pepi si sentiva un po' stanco; avevano anche un pacco per ciascuno, con dentro dolci e altre provviste per i bambini; e chiacchieravano, ammirando la bella valle d'intorno. Tutto il piano tagliato dal Po; tutta la distesa dei campi falciati; le ville, le cascine innumerevoli, i prati umidi. E sentivano salire nel cuore un'onda di dolcezze, quei due, esiliati da tanto tempo fuor del bel giardino promesso da Dio agli uomini.

Luisa appoggiò il suo braccio su quello di Pepi, fingendosi stanca. Ma le era così dolce passeggiare in quella gaia natura a braccio di un uomo amato! Un fratello, è vero; e anche un malato. Che importava! Non le voleva egli bene? Non avevano molte cose comuni alle anime loro; e, sopratutto, non andavano per la stessa via?

—Guarda—diss' ella, dando forma al suo pensiero;—tu sei un po' malato; io sono una debole donna. Quale dei due guida l'altro? Uniamo le nostre forze e camminiamo insieme: questa è la strada.

Egli accennò gravemente col capo. Ma quando furono in uno stretto sentiero, un po' ripido, ai cui margini fiorivano centinaia di piccole campanule d'un azzurro roseo, come tenui coppe di sottile madreperla, ella si ricordò ad un tratto, e sciolse il suo braccio da lui.

—Lascia che io colga questi fiori! Oh, le campanule! Quanti anni sono che non le vedo più! Davvero, da quando son via da Trieste, quattordici anni, quasi! Non avevo mai più badato ai fiori nei campi. Forse non sono più stata nei campi. Oh, come è bello cogliere questi fiori! Aiutami, Pepi, tienli, tienli anche tu!

Ne faceva rapidamente un grosso mazzo, lo passava al fratello. Egli stette dapprima imbarazzato coi due pacchi che gli erano rimasti in mano; poi si decise, pose a terra i pacchi, strinse delicatamente nella sua lunga mano scarna i fiori di Luisa, e le andò dietro, piano, curvandosi anche lui, accennando le campanule fra l'erba.

—Questa… o, guarda, tre insieme… Teh, una grossa! Che lungo vilucchio! Qua, qua, una! Qui tante, tante! Ma le distacchi troppo corte!… Prendi tutto il gambo, guarda, taglia qua!…

Finalmente entrambi avevano le mani piene delle campanule roseo-azzurre, ondeggianti sui lunghissimi vilucchi. Siccome Pepi doveva portare i pacchi giacenti sulla strada, Luisa abbracciò il mazzo, tenendolo a stento, compiangendo i fiori che le pareva soffrissero del modo con cui erano portati. E continuarono a scendere, felici, più leggieri; Luisa di tanto in tanto correva, ritornava come una bimba.

—È bella, è bella la campagna? Sei contento? Ma d'improvviso si fermò, dando un grido di raccapriccio.

—Che c'è?

—Oh, una bestia, una bestia morta—disse lei.

—È un cane—disse Pepi. E rimasero fermi davanti alla povera carogna, guardandola attentamente, con un senso di ribrezzo e di pietà. La bestia aveva stese le zampe, e tutto il corpo aveva un'espressione rigida, serbata nelle ultime convulsioni. Il pelo fulvo era macchiato di sangue rossastro, come ruggine.

—Chi sa chi l'avrà ammazzato? Qualche cattivo monello, a sassate? Oppure era arrabbiato, e si sarà lanciato addosso a qualcuno? Forse giace qui da stanotte. Guarda, è tutto pieno di formiche; lo divorano.

—è molto magro,—disse Pepi.—E penso che la povera bestia sarà forse andata randagia, tutta la notte, e infine qualcuno l'avrà accoppata lì, con una bastonata.

Luisa aprì le mani e lasciò cadere i suoi fiori sulla carogna.

—Oh, oh, che sacrilegio!—fece lui, ridendo, mentre si rincamminavano.

—Perchè? C'era una vita in quel corpo, fino a poche ore fa. Esso torna in polvere. Fra qualche anno cresceranno forse delle campanule da quella vecchia carcassa.

Ma tentarono invano di scherzare, essi furono più malinconici, andando a casa.

La villa era piccola ma graziosa. Un po' chiusa da altri giardini e da case; ma, si sa, la pigione non era gran cosa, appena duecento lire; e si trattava di fare economia. Vi era un numero sufficiente di camere; anche Pepi aveva la sua, al primo piano; e ve n'era una piccolina anche per il marito di Luisa, quando avesse voluto venire. Ma egli si era acconciato a pensione, in città; egli non amava le passeggiate campestri.

Fu un estate quieto e buono, come diceva Luisa. La vita in villa era infinitamente monotona; ma qualche volta venivano da Torino i proprietari: una signorina graziosa, antica allieva di Luisa, la sorella di lei, maritata, e la sua bimbetta. Allora si poteva passare il tempo, chiacchierando. Quando erano soli, Luisa amava levarsi su presto al mattino, e uscire nel prato, che era al di là del giardino. Le erbe tutte fresche di rugiada, tremule del vento, le davano una grande dolcezza. Qualche volta ella si sdraiava per terra, con la guancia contro quei fiorellini, che si divertivano a pungerle la pelle, a solleticarla; e a lei pareva che volessero ridere, e dirle qualche cosa. Si rimise a parlare con essi, come quando era bambina. Come quando dava un nome e una vita fantastica alle cose che la circondavano. E guardava l'agitarsi degli insetti nei piccoli buchi, e si inebriava dell'odore della terra.

—Ti ricordi,—diceva a Pepi,—come ci piaceva fare le buche in terra, con un sasso acuto? Giocavamo a chi le faceva più profonde. Stavamo ore ed ore a giocare così. Parevamo i bimbi più quieti del mondo.

Egli sorrideva. Era vero. E che bimbi quieti erano invece! I più monelli che si potessero imaginare, lei, specialmente, Luisa! Ah, egli se le ricordava bene le sue birichinate! Era violenta, rissosa, collerica; amava il gioco, la corsa sfrenata, ogni sorta di pazzie. E sapeva anche picchiar sodo! Lui se ne ricordava bene di certi famosi pugni che aveva ricevuto da lei. Lui era davvero più buono, più dolce; l'idolo di sua madre. Il ricordo lo faceva sorridere.

—Eri un furbacchione, va? La povera mamma ti credeva molto sensibile. Tu diventavi pallido a ogni goccia di sangue che vedevi. Strillavi se la mamma andava via un momento, o se era a letto, malata. Io passavo per una creatura dal cuor duro!

Il rancore di bimba non pareva risalisse in lei ancora? Era dunque così sciocca? Si consolava dicendo:

—Sì; dei buoni pugni te ne ho dati.

Ridevano di nuovo, proprio come due ragazzi; e Luisa assicurava che, se si fosse messa, era ancora capace di buttarlo per terra, in mezzo all'erba, come un sacco, come allora!

—Sì, sì, provati?—e la prendeva per i polsi, torcendole piano le braccia, come per rovesciarla, con immensa gioia dei bambini, che assistevano alla scena.

Subito, ella si dava per vinta. Le veniva oramai vergogna di adoperare quella forza fisica che realmente nascondeva sotto una fragile apparenza. E smetteva il gioco. Tanto, quei tempi erano lontani; e anche a far le stesse cose di allora, non tornavano più. Avrebbe poi voluto farli ritornare, lei? Oh, e nemmeno Pepi, davvero!

Quelle passeggiate in campagna, quel moto, la vita quieta e metodica, guarirono veramente il male di Pepi. Solo, egli diventava più pigro; dormiva volentieri lunghi sonni, anche al dopopranzo, nei giorni che aveva vacanza. Si chiudeva nella sua camera, con un libro in mano, e poi si addormentava profondamente. Solo qualche volta lo svegliava un piccolo prurito alla gola, che gli provocava un leggerissimo colpo di tosse. Un raffreddore che aveva preso un giorno che era tutto sudato.

Luisa, udendo il leggiero colpo di tosse, alzava gli occhi, su, verso la finestra chiusa.

—Ti alzi, dunque, poltrone!

Egli appariva, apriva le persiane, gettava giù, sulla testa di sua sorella, un sassolino o una foglia. Poi si decideva a scendere. Lunghi discorsi allora sul libro ultimo che egli stava leggendo. Gli aveva fatto una certa impressione, uno di Tolstoi, la morte di Ivan Illich; una curiosa storia che parrebbe assai volgare ed è finissima. Ivan Illich è un impiegato russo, un uomo come tanti, piuttosto buono che cattivo, che conduce una vita semplicissima, come tanti; si ammoglia, mette su casa, e da una caduta gli si sviluppa una grave malattia di reni, che, dopo lunghe sofferenze, lo porta alla tomba. Qui tutto il romanzo. Ma la paura del male, i tormenti fisici, la presenza continua della morte, tutto s'incarna per l'infelice in quel rene mobile, che diventa per lui un incubo feroce, quasi una seconda anima minacciosa, che vive di lui e con lui per farlo morire.

—Sì,—disse Pepi,—si può avere una fissazione atroce, sia fisica che morale, lo comprendo.

E rimase cupo. Ma Luisa riescì a scherzare sul rene mobile di Ivan Illich, e anche Pepi ne rise, rilevando il lato comico delle paure del povero diavolo.

Vittorio venne, con un serraglio di bestie. Era la sua manìa; egli raccoglieva continuamente insetti, lucertole, scarafaggi; specialmente, nonostante le proibizioni della madre, teneva dietro ai piccoli uccellini dei nidi. Questa volta, proprio, aveva nella manina un qualche cosa che chiamava nido, e dentro v'era davvero qualche cosa che si moveva. Ma quella roba gliela aveva data a lui il figliuolo del contadino; lui non ci aveva colpa; cedette però malvolentieri alla madre tutta quella piccola miserabile vita sofferente.

Luisa guardò il nido, piccolo, soffice, ma mezzo schiacciato dai crudeli ragazzi. E ne estrasse tre creaturine informi, tre minimi uccelli, senza penne, con gli occhi chiusi, moribondi, anelanti, con un lieve moto convulso nelle zampine e nelle aluccie spelacchiate.

—Povere bestioline!—diss'ella,—se almeno si potessero rimettere sugli arbusti, che i genitori le vedessero e potessero nutrirle ancora!

—Non vedi,—disse Pepi,—che son quasi morti? Bisognerebbe schiacciarli addirittura, per non farli soffrire.

Ma Luisa gridò.

Povere bestioline! Oh quei cattivi bambini, quei cattivi che avevano fatto questo! Ma ucciderli, no, ella non poteva. Pepi però la persuase che era meglio.

—Vuoi che pènino così ancora qualche ora? Non possono più nè mangiare nè muoversi.

Ella allora gli cedette il piccolo mucchio anelante nella morte, e si volse via, per non vedere.

Ma Pepi si ritrasse, rabbrividendo.

—Io? io!—disse, molto pallido.—Ma io non sarei mai capace!

Diedero gli uccellini al contadino, perchè ci pensasse lui. Luisa meditò alquanto sul caso di quel rivoluzionario che si sentiva venir meno alla proposta di uccidere tre uccellini moribondi.

—Hai paura, zio?—disse Vittorio, guardandolo curiosamente.

—Sì, ha paura di far del male,—rispose la madre.

—Erano nel bosco, sai; là li ha visti il contadino, —raccontò Vittorio.—Io gli sono andato dietro. Non ero mai stato in un bosco, ma non avevo mica paura. Guardavo anzi per vedere se compariva un puma, come quello dello zio.

La cosa fece ridere Luisa

—Il puma dello zio! Cos'è questa storia?

—E sì! - disse Pepi in un modo che non si capiva se scherzasse o no;—è un fatto che ho raccontato un giorno a Vittorio, e che mi è accaduto in America. Un giorno, attraversando un grande bosco, presso Tucuman, facevo il viaggio a piedi, per… economia, vidi un puma, un leone americano, tu sai, attraversare d'un salto il sentiero per dove passavo. Ecco la storia del mio puma.

—È un po' corta,—disse Luisa, ridendo.

—Oh, ci sono davvero i puma in America, io lo so!—confermò Vittorio, senza spiegare da che parte gli venisse quella scienza sicura.

—Quello che è più certo del puma,—disse Pepi, rivolgendosi a Luisa con viso più serio,—è un grosso bue che a momenti mi sbudellava, a bordo, mentre tornavo indietro, attraversando l'Atlantico. Perchè, devi sapere,—ed abbassò la voce,—che io non avevo denari da pagarmi la tra versata. Allora… credevo ancora che Virginia fosse viva, volevo tornare a tutti i costi. Per avere il viaggio gratuito fino a Londra mi obbligai di curare una gran mandra di buoi, che si trasportavano dall'America in Inghilterra. Dovevo dar loro da bere e da mangiare, e pulire il loro strame! Sì, questo ho fatto. Un giorno uno di questi buoi…

—Basta, basta,—supplicò Luisa, tutta gelida. Egli tacque.

Ma dopo essere stata un po' a capo chino, ella domandò come attratta da quella tristezza:

—Era una grande fatica, è vero?

—Oh, se era grande! Prima dell'alba dovevo essere su e attingere l'acqua con la pompa pesante e portarla a secchi fino alle bestie. Un freddo, in dicembre, e un tormento, quei secchi, a uno a uno, sulle spalle…

Ella rabbrividiva guardando quelle povere spalle così gracili, quelle mani lunghe e pallide…

Pepi tacque di nuovo, come se il ricordo della grave pena, così inutile, si aggravasse sopra di lui. E mentre sulla piccola campagna silenziosa scendeva la notte, egli, guardando lontano con i chiari occhi miopi, vedeva ancora l'immenso oceano attraversato con tanto dolore e con tanta speranza, e gli giungeva agli orecchi un frastuono cupo di onde… e la tempesta si addensava sull'anima sua, da ogni parte.

«Il tuo flaccamento è senza rimedio; la tua piaga è dolorosa; tu non hai medicamenti per rinsaldarla. Perchè gridi? La tua doglia è insanabile».

Autunno. Un gelido soffiare di tramontana, un malinconico, desolato cader di foglie, un addensarsi della nebbia per le vie cittadine. Spettacolo antico, al quale il cuore dell'uomo non si è abituato ancora. Ora, quando Pepi la notte usciva dall'ufficio, non si attardava più così spesso all'osteria della bella padrona, nè faceva i suoi lunghi giri viziosi, con l'amico socialista, ma si affrettava di venire verso casa, al caldo asciutto della sua stanza, della quale ora chiudeva ermeticamente la finestra, e, coricandosi subito, si tirava fino alle orecchie la coperta, rabbrividendo, e durava molto prima di riscaldarsi. Con quei primi freddi umidi gli si era ridestato un dolore antico alla spalla, e anche lo aveva preso alla gola una raucedine ostinata contro tutta l'ipecacuana, e tutte le pastiglie salate di clorato di potassa, che Luisa gli aveva raccomandato. Anche la notte, dopo quel grande freddo, provava un grandissimo caldo; tutto il sangue rompendo violentemente dal cuore si spandeva per le vene, come fuoco liquido, e specialmente gli infiammava la testa e gli metteva un grande ronzìo negli orecchi. Poi, la mattina, egli si trovava tutto in un sudore, e così prostrato di forze, come se non avesse dormito mai. Anche, aveva degli accessi di tosse, più lunghi e più aspri. In pochi giorni il viso gli si fece pallido e smunto; le cartilagini delle orecchie si staccarono dalla nuca; apparvero gialle, sottili, angolose; il petto gli si incavò, ed egli prese un'andatura curva e lenta, come d'un vecchio. Luisa seguiva questa terribile trasformazione con occhi pieni di terrore. Era come se un suo incubo segreto, un' atroce visione lontana, ora prendessero, a un tratto, un corpo spaventoso, in una forma precisa; e così evidente, così vicina, che nessuna illusione era possibile. Era così angosciosa questa sensazione, che ella non poteva più guardare suo fratello in faccia; oltre quel viso emaciato, oltre quegli occhi, che incominciavano a fissarsi negli altri con inquietudine, scrutatori, ella vedeva l'orrenda cosa: e l'anima sua, impaurita dalla irrevocabile certezza, tremava di dolore e di pietà.

Nessuna parola era scambiata fra loro intorno all'argomento, che così acutamente preoccupava il loro spirito. Quando Luisa vedeva il fratello—non era più di una volta al giorno—domandava con tono di voce indifferente:

—E così? Stai meglio, oggi? Hai più buona ciera!

Egli rispondeva, con la medesima voce:

—Sì, infatti, mi pare… Solo… queste fitte alla spalla… e quella febbre ogni notte!… Ma è il tempo…

—Oh, naturalmente!—diceva lei.

Poi parlava d'altro, con volubilità, non mostrandosi punto preoccupata. E d'improvviso ricadeva in quel discorso, in quella pena…

—E che dice il medico?

—Che è una bronchite; che mi abbia riguardo, e che non è nulla.

Ella pensava. Perchè il medico diceva così? Che egli davvero non sapesse, o vedesse già, anche lui, quello che ella vedeva così chiaramente?

Diceva:

—Si capisce. Ci vogliono riguardi. Subito a casa dal lavoro, subito. Non bisogna prendere freddo, e non abusare di niente, capisci? di niente!

Egli prometteva, assai persuaso di questa necessità. Spesso ella si esaltava delle sue proprie parole. Non poteva egli, infatti, se non guarire, star meglio? Forse che sempre il male uccide subito? Vi erano tanti che duravano per molti anni; con qualche riguardo. Perchè no lui, che era giovane, e anche abbastanza robusto?

Ma la notte ogni pietosa illusione cadeva.

Il cigolìo delle porte la destava improvvisamente dal sonno, nel cuore della notte. Il suono dei noti passi la riempiva di terrore. Tendeva l'orecchio, come all' annunzio di una sciagura. Passavano nelle tenebre momenti di silenzio, lunghi come un'eternità. Poi ad un tratto, ecco l'appello disperato, improvviso: un arido colpo di tosse, ripetuto, ostinato, lugubre; e così continuo che pareva non dovesse mai finire. La giovane metteva la testa sotto le coperte, inorridita, senza riuscire a liberarsi da quei colpi replicati, colpi di morte, atroci, strazianti, che si ripercotevano nel suo cuore, e vi scavavano una piaga sempre più sanguinante. Ah, quello stesso funebre suono, ella lo aveva già udito una volta! L'eco gliene era rimasta nell'orecchio: quei medesimi colpi, replicati aspramente, più forte, più forte, terminanti in un rantolo! Quei medesimi colpi, nella notte oscura; e quella stessa angoscia! Oh, Signore!

E quando l'orrendo martellare cessava, ella rimaneva tutta stanca, affranta, con le lagrime nel cuore, ma con gli occhi asciutti, e sulla bocca una protesta disperata. Perchè dunque, o Dio, perchè! La morte, o Dio, la morte può essere la necessità della vita, ma il dolore, perchè, a che serve? Si riaddormentava con la stessa desolata domanda sul labbro, mandando uno sguardo di ambascia verso la vecchia Madonna giallastra, che, certo, nelle tenebre la guardava, e vedeva questo suo dolore con gli altri dolori.

Ma uno che non dormiva, uno che non poteva dormire, era il povero Pepi. Solo, con gli occhi spalancati nelle tenebre, egli si tergeva il gelido sudore che gocciava dalla sua fronte; e non cessava, non cessava mai, come se sgorgasse da sorgenti profonde, che si sarebbero esauste solo con la sua vita. Eppure egli sentiva nel sangue passargli le fiamme dell'inferno; su dalle viscere saliva quel fuoco malvagio; gli si avventava al cuore, gli incendiava i polmoni e la gola, gli stringeva le fauci. Oh, che sete, che arsura! quale acqua poteva estinguerla mai! Ben poteva egli tendere le mani nel buio, ad afferrare il bicchiere che aveva colmato poco prima fino all'orlo; poteva vuotarlo tutto; gettare in quel fuoco la gelida acqua; nulla, nulla! la lingua gli si attaccava al palato, anelante; le tonsille si gonfiavano fino a toccarsi; e giù, per tutto il petto, lo stesso ardore funesto, e fuori il gelo, il sudore di morte. E poi l'orrida tosse; la tosse che gli schiantava l'anima, rabbiosa, disperata, senza tregua! a ogni colpo come se un pezzo di polmone si staccasse, e gli salisse alla gola. Oh, quale addensarsi di tenebre nell'anima; qualo disperata contemplazione del proprio miserabile stato! e che furiosi impeti di rivolta, che rabbie soffocate, a morsi, sul guanciale gelido di sudore! L'ora passava, senza portargli requie, soltanto una più quieta, più lucida disperazione.

Ragionava. Era dunque questo il male? Il maledetto lo aveva dunque spiato fin dalla sua nascita; si era messo in agguato, e gli era venuto dietro, sempre, sempre, senza lasciarlo un minuto. Egli aveva ben potuto andare dall'Austria in Italia, dall'Europa in America; poteva correre tutte le parti del mondo, e sprofondarsi in una caverna, o salire sulla cima più alta; il nemico era sempre con lui, e aspettava la sua preda. Una volta gli pareva che la vita fosse così lunga, e che egli, specialmente, avesse già vissuto assai; perchè mai ora gli pareva che il passato fosse così breve? Oh, che poco tempo era passato dalla sua infanzia! Quanto era che egli aveva cessato di essere un bambino? Quanto era che non vedeva più sua mamma? Che giocava con le sorelle nel cortile e nell ampia soffitta? C'erano dei garofani, in quella soffitta; sì, dei grossi garofani rossi, sul davanzale della finestra. La passione della mamma. Dio, come era felice quando, a primavera, sbocciavano! E vi erano anche dei pulcini in quella soffitta. Come gli piacevano! Uno, tutto bianco, che era suo. E tutti gli uccelli nelle gabbie di suo papà? Quella sera che il gatto aveva divorato la nidiata dei canarini? Ah, che scena! E quel suo maestro di religione, a scuola, quel prete così buffo? Quante gliene facevano loro, monelli! Ma è che lui era furbo; eh, non se le lasciava poi fare! Don… don.. don… Come diavolo si chiamava! Eh sì? non gli veniva in mente altro che don Vagiolino, che così lo chiamavano i ragazzi. Che risate, che risate!

Oh, che tempo chiaro, quello! V'era sempre il sole. Ma… quanto è? non fu ieri? Dopo… egli ha sognato dopo. Un brutto sogno. In prigione… egli, dalla scuola, è andato in prigione… E sua madre che piangeva sempre e diventava magra magra… E poi… quante cose, in fretta in fretta… L'America… quei dieci anni! Che buio! Che cosa era stato in quei dieci anni? Era come fosse stato sempre ubriaco; sempre col cervello corso da una fiamma… Allora gli avevano scritto che era morto suo padre, poi, che era morta sua madre… poi aveva voluto ritornare a vedere sua sorella Virginia, e sua sorella Virginia era morta!… Brr! che orrore, che freddo! Egli aveva proprio sognato! Sognava… Era così lunga quella notte, e fuori eterna la pioggia… Domani, domani egli aprirebbe gli occhi, ed oh, che gioia, egli sarebbe ancora bambino! E vedrebbe il sole, fuori; e sua madre verrebbe a chiamarlo: Ma alzati, Pepi; devi andare a scuola! Ed egli sentirebbe nella stanza ridere sua sorella Virginia… oh, domani!

La casa tutta diventava più triste. Vi era nell'aria, in tutte le stanze, quell'insopportabile odore di creosoto, dalle medicine che il dottor Guglielmi ordinava a Pepi. Luisa non poteva sentirlo, senza essere presa da una malinconìa profonda. Non era un odor nuovo, ohimè, per lei! Ogni giorno Nepo aveva l'incarico di scendere in farmacia, con qualche ricetta. Poi, il desinare semplice e frugale, ordinario della famiglia, non servì più. Bisognava aggiungervi cibi fini, delicatezze, roba cara, che sgomentava Luisa. Oh Dio! le si chiedevano sacrifizi superiori alle sue forze: Pure… avanti! Ciò che era necessario doveva farsi, senza preoccuparsi del domani, giorno per giorno, ora per ora. Ciò che pure le dava molto dispiacere e una certa irritazione era il contegno di Pepi. Egli diventava collerico, esigente, impazientissimo. Non che egli non fosse riconoscente a sua sorella. Vedeva quanto ella faceva per lui, e il suo cuore si empiva di gratitudine e di tenerezza. Ma col male cresceva in lui l'egoismo, come è di tutti. Vedere intorno a sè la gente lieta e sana gli era come un continuo, doloroso ammonimento: Tu non sei più così! I nervi malati non gli permettevano più di sopportare nemmeno piccole cose.

Era specialmente per i bambini che questo spiaceva a Luisa. Ora Pepi li sgridava per un nonnulla. I capricci di Vittorio, in verità numerosi, gli erano insopportabili. E quando il piccino piangeva, con quella facilità propria dei bambini viziati, egli aveva un modo di rimproverarlo che metteva paura al povero piccino. Infatti egli evitava la presenza dello zio, ora; e quando non erano presenti suo padre o sua madre, si rincantucciava, non osando più farsi notare. Anche Nepo, quel bambinone allampanato, distratto, disordinato, che aveva bisogno di tutta l'indulgenza materna per accomodare le sue magagne, era in disgrazia dello zio, e non gli erano risparmiati i rabbuffi e le rampogne.

Solo Mimì, con la sua calma inalterabile, con la sua dolce e graziosa allegria, si conservava l'affetto e l'indulgenza di Pepi. Con lei egli ritrovava ancora quel suo antico modo canzonatorio, al quale la bimba si prestava con tanta saggia compiacenza.

—Ah, quella Mimì! S' è rotto un piatto! Non può essere altri che Mimì! Tutto quello che tocca, lei lo getta in terra! È fatale!

E la bimba rideva, dolcemente, schermendosi appena dalle accuse.

Un'altra innocente vittima del malumore di Pepi era un' umile creatura: Miciloti. Miciloti era un gatto, che Armanda si era fatto regalare piccino, e che ora era divenuto grande e grosso, benchè crescesse in un ambiente poco propizio a lui. Armanda, che gli aveva messo quel bel nome, lo amava molto, lo colmava di carezze e di ghiottonerie. I bimbi giocavano con lui, ma lo tormentavano anche, tranne Mimì; Luisa lo vedeva malvolentieri, ma non gli usava sgarbi; Vincenzo, che non amava le bestie, quando poteva, toglieva volentieri l'occasione per dargli uno scappellotto, che faceva gridare disperatamente Armanda; quanto a Evelina ella non amava il gatto, ma non se ne occupava punto.

Alla sua venuta Pepi pareva avesse preso a benvolere l'infelice animale. Poi gli era parso stupido, e non se ne curava più, fuorchè per dargli i resti del pranzo; ora, ammalato, il povero Miciloti gli pareva reo di mille delitti, e degno di essere sfrattato di casa, o lasciato morire di fame.

Gli sforzi disperati di Armanda per salvare il suo favorito, e l'antipatia di Pepi per lui, davano luogo a continue scene spiacevoli, dove tutti ci perdevano un poco, e Miciloti più di tutti. Ma quello che Luisa non perdonava a Pepi era la sua impazienza con i bimbi. Ella aveva la pretesa di essere la sola a rimproverarli e a guidarli; e non aveva mai ceduto questo diritto neppure a suo marito. Ora, ogni parola impaziente dello zio era per lei una stilettata al cuore. Ella si sentiva arrossire e impallidire, sentiva la collera stringerle la gola, e se la sua saggezza non le avesse suggerita la calma e la prudenza, chi sa quali amare cose avrebbe detto e quante ne avrebbe intese!

Pure, più d'una volta ella disse risolutamente il suo parere al fratello; parere che ammantava la sua decisa volontà. Nessuno, ai bimbi, nessuno; e nemmeno una parola, fuorchè lei! Erano stati allora giorni di freddezza fra loro. Il fratello e la sorella si parlavano appena, non si guardavano in viso, evitavano d'incontrarsi.

Pure le loro anime, torbide e tristi, si cercavano; una piena di pietà, l'altra piena di disperazione.

Dicevano le povere anime: Ma noi sciupiamo in queste miserie il tempo, il tempo, il breve tempo! Ecco, esso vola, esso fugge, fra poco non l'avremo più, e ci saremo odiati!

Allora ciascuna, tenera e pentita, volava incontro all'altra. Il fratello e la sorella dicevano: Perdonami! Le mani si stringevano, gli occhi si empivano di lagrime. E ricominciava così un dolore comune, temprato dalla dolcezza dell'amarsi; giornate e notti passate nel pensarsi a vicenda, nella tortura di un male sentito insieme; gli occhi che spiavano furtivamente i visi; le parole delicate e ambigue fatte di pietosi, inutili inganni; i sorrisi pieni di strazio ineffabile.

Spesso Luisa si attardava a guardare il fratello, mentre a tavola egli si sforzava di ingoiare il cibo, che il suo stomaco rifiutava, nauseato. E allora quel viso le pareva come nuovo; i guasti del male la colpivano, come se fosse la prima volta che li scorgeva; uno spavento gelido trascinava l'anima sua davanti una certezza più precisa, innegabile. Sulla fronte pallida del giovane i capelli parevano fatti più lucidi e flosci, come se conservassero sempre un po' del sudore della notte; le tempie si incavavano, e sotto la pelle lucida e giallastra tutte le vene intrecciate erano un funebre disegno. Il naso era secco, stirato, le guancie più profonde facevano risaltare gli zigomi; i denti uscivano gialli e viscidi di sotto i mustacchi biondi. Ma singolarmente magro era il collo, che usciva dal colletto rovesciato come un resto miserabile di carne, che copriva appena la profonda incavatura della nuca e il rigonflamento della trachea.

E davanti a quella distruzione, così rapida, di un bello e giovane corpo, ella, tutta tremante e smaniosa, fuggiva di casa, come se avesse voluto fuggire così lo spettro dell'orribile certezza.

Fuori, ella chiudeva nel profondo dell'anima la sua pena. A nessuno ella diceva dei suoi timori, a nessuno aveva parlato della malattia del fratello. Infatti, che cos'era, dopo tutto? Una semplice inflammazione dei bronchi, che il medico curava con molta diligenza. E Pepi continuava ad andare al suo ufficio, e qualche volta anche andava a spasso; dunque non era un male grave. Era lei tormentata da quei fantasmi nati nelle fredde e lunghe notti autunnali, quando i colpi di tosse suonavano nelle tenebre come funebri richiami. Ma, se il male fosse stato proprio serio, il medico avrebbe avvertito il malato, avrebbe lasciato capire qualche cosa.

Un giorno, proprio quando, dopo un seguito di ingegnose menzogne, Luisa era riuscita a persuadersi che Pepi non era ammalato, ella entrò nell'ufficio di Lorenzo Jourdain, a portargli una sua traduzione, e specialmente a salutarlo, poichè erano molti giorni che non lo vedeva. Lo trovò al solito posto, nella stessa attitudine chino sui suoi fogli; lo stesso sorriso buono l'accolse, e il gesto che la pregava di aspettare. Ella rimase cheta a guardar fuori, nel cortile chiaro, la giornata autunnale un po' fredda, ma serena; nell'anima sua scendeva una tranquillità dolce; le pioveva nel sangue un benessere che da molto tempo non gustava, come se quell' aura di attività superiore, di forza e di bontà, quella benefica luce la guarissero a un tratto, dei suoi mali.

Ebbe un gran colpo al cuore, quando Jourdain le disse:

—Ditemi: vostro fratello è malato, non è vero?

Ella sussultò, guardò dolorosamente l'uomo che frugava nella sua piaga.

—Sì,—disse a bassa voce.

—È da un pezzo che me ne sono accorto. Mi fa troppa pena quel vederlo venir qui a lavorare di notte. Gli cambierò l'orario. Verrà come prima, solo di giorno, e ditegli che si curi.

Null'altro; ma che dolce balsamo sulla ferita! Era una cosa che ella non aveva osato chiedere, ed ecco che le veniva concessa, così spontaneamente, con quella intuizione che l'amico suo aveva dei suoi bisogni e dei suoi dolori.

—E voi state di buon animo,—le disse, poichè ella usciva, e ancora il suo buon sorriso, che illuminò quel volto severo, si riflettè nell'anima di lei, e le diede un grande, un vivo coraggio.

Sì, era quel lavorare di notte che faceva male a Pepi. Ella aveva pensato così spesso che si avvicinava l'inverno, e che il povero ragazzo avrebbe dovuto uscire alle dieci, l'ora in cui gli altri ritornano a casa, a letto; esporre al gelo della notte i suoi polmoni malati, lavorare nelle ore in cui anche i sani sono stanchi, e ritornare a casa dopo la mezzanotte, per le vie gelate, sotto la pioggia e la neve… Ora non più; lavorerebbe di giorno, come tutti, e potrebbe dormire tranquillo la notte. Ora sì che potrebbe ancora rimettersi in forze; guarire anche… chi sa!

Anche Pepi ascoltò con gioia la notizia.

—È proprio quello che voleva il medico,—disse:—già; il dottor Guglielmi diceva l'altro giorno che, se potessi non lavorare più di notte, la cura sarebbe facile. Difatti io sto peggio appunto la notte. È allora che mi viene la febbre. Allora dovrei stare a letto, invece mi toccava lavorare. Capisci, è questa tosse. Altro proprio non ho. La tosse e la raucedine. Ma questa viene anche dal leggere forte. Quel Cretinoschi è così sciocco! Non capisce niente; mi toccava leggere due o tre volte un periodo. Oh, come mi stancava! Ora passerà anche la raucedine. Il dottor Guglielmi dice che, passato l'inverno, sarò certo guarito. Adesso sì; adesso lo credo anch'io.

Lo credeva così bene, che incominciò subito a star meglio. Riprendeva le forze, l'appetito, il buon umore. Ricominciarono le serate buone, dopo cena, mentre i bambini terminavano i loro còmpiti intorno alla grande tavola, e Luisa e Pepi chiacchieravano. Qualche volta anche il marito di Luisa si attardava in casa mezz'ora di più, a discorrere con il cognato. Incominciavano allora delle discussioni che facevano ridere Luisa. Vincenzo aveva delle idee molto comuni sulle questioni sociali; non che mancasse d'intelligenza e di coltura, ma la sua natura indolente lo faceva rifuggire da qualunque fatica di studio e di pensiero, ed egli era rimasto al livello degli impiegati mediocri, pago di quel benessere materiale che l'ufficio gli concedeva, e chiuso in quel beato egoismo, che lo allontanava da qualunque faccenda o questione che riguardasse gli altri.

Pepi, ora che stava meglio, e non osava andare alla ricerca del suo antico docile pubblico, si sentiva ripreso dall'antico bisogno, di fare delle teorie, e, naturalmente, col cognato aveva buon gioco. Vincenzo, dopo una lunga e accanita discussione, nella quale passavano le più strane, le più ardite questioni; le opinioni di tutti i più noti sociologhi, mutate, snaturate, esagerate; i progetti più folli, le riforme più radicali; dopo avere disfatto il mondo e averlo rifatto a modo suo, finiva col mettere la cosa in burletta, e terminava dichiarandosi il più acerrimo nemico del socialismo e di tutte le questioni sociali. Pepi allora lo ingiuriava, lo canzonava, dandogli specialmente del borghese, che per lui era il più grave vituperio; e lo inseguiva coi suoi frizzi e con i suoi motti fino sulla porta, mentre l'altro, ridendo, facendo suonare il suo bastone sul pavimento, si allontanava adagio, con aria canzonatrice e spavalda, e rispondeva dandogli del pazzo.

Quello sfogo faceva bene a Pepi. Egli veniva raccogliendo in tutta la giornata una certa quantità di osservazioni e di considerazioni sui fatti e sugli individui che gli erano intorno. Il suo proprio male non gli impediva di notare i mali altrui, forse anzi le sue stesse sofferenze lo rendevano più suscettibile alla pietà, più pronto a pensare i rimedi, più desideroso di affrettarli. Le repliche di Vincenzo, che qualche volta erano deliberatamente assurde, non servivano che ad acuire il suo spirito e la sua memoria, e a fargli trovare le migliori risposte in quei casi. Era come una partita di scherma, che giovava ad aguzzare il suo cervello e la sua eloquenza.

—Vedi,—diceva egli a Luisa, che si meravigliava del piacere che egli poteva prendere a quelle parodie,—ciò che tuo marito dice per ischerzo, o per farmi arrabbiare, moltissimi lo pensano ancora e lo dicono sul serio. In fondo in fondo anche tuo marito ci crede. Rispondendo a lui io non penso mica di convertirlo, lo capirai bene; non me ne importa affatto. Ma mi pare di rispondere a tutta l'immensa greggia degli ignoranti, degli illusi e dei furbi, che oppongono quelle stesse ragioni alle nostre. Non è mica per vanità, sai. Io stesso sono persuaso di saper male molte cose, e specialmente di dirle male. Pure qualche volta, io vorrei potere scrivere subito le parole che mi escono dalla bocca; e nemmeno le parole. Vorrei poter fotografare il mio pensiero, fermare le ragioni, che mi balenano nella mente. Qualche volta, sai, è come un lampo, come un subito incendio. Io vedo allora. Vedo che cosa è, e che cosa dovrebbe essere. Perchè infine che si stia male tutti lo sanno. Eh? anche quelli che negano il socialismo, anche i più stupidi sanno che si sta male. Ma quello che realmente è difficile, quello che spaventa anche i più audaci, è il rimedio. Nelle notti d'insonnia io penso sempre sempre la stessa cosa. E qualche volta mi pare che una gran luce rischiari le mie idee. Trovo improvvisamente idee, alle quali non avevo mai pensato prima. Capisco cose che mi furono sempre oscure. Non sarei forse ancora capace di scrivere o di dire tutto ciò; bisogna che io pensi, che questo maturi. Forse non saprò mai; forse mi mancherà la forza, o il tempo. Nemmeno potrei mai fare un vero libro, un libro di scienza; solo vorrei notare i miei pensieri, così come vengono. Ti farò ridere; pure credo che servirebbero a qualcuno; che si potrebbe ricavarne, un giorno, qualche cosa. Sì; tu non sai che cosa voglia dire star quasi tutta la notte insonne, e pensar sempre alla medesima cosa.

Pure, anche quelle notti terribili diventarono meno crudeli. La tosse ora compariva a intervalli più lunghi, gli incubi cessavano, e Pepi poteva dormire qualche ora, e dimenticare le questioni dolorose e inutili che lo torturavano. Divenne più buono e più paziente; sopportò volentieri i capricci di Vittorio, le negligenze di Nepo, ed ebbe un po' di indulgenza anche per il povero Miciloti. Anzi, ora lo guardava benignamente, gli rivolgeva il discorso, gli gettava il cibo, e ne faceva l'oggetto di lunghe e attente osservazioni,—per seguire, —diceva,—lo sviluppo dell'enorme stupidità di quel felino.

—Scommetto che se avessi un uccello,—questo sciocco bestione non lo mangerebbe neppure!

—Oh, oh, dovresti provare, zio!—esclamava Mimì.

—E tu avresti la pazienza di tenere un uccello? —chiedeva Luisa, curiosa.

—Sicuro. Mi piacciono tanto. È una passione che ho da papà. Ti ricordi quanti uccelli teneva? E con che pazienza li curava, e puliva le gabbie, e dava loro da mangiare? Quanti canerini, e fringuelli, e usignuoli persino. Si nutriva a rossi di uovo e carne tritata! Ma quelli che più mi piacevano erano le parussole. Come si chiamano mai le parussole?

—Le cingallegre. Oh sì! erano belle. Ma erano le più feroci, mi ricordo. Non potevano soffrirsi in gabbia; difficilmente si rassegnavano, e non diventavano mai proprio domestiche. Bastava avvicinare un dito alla gabbia, che subito si avventavano a beccare. E poi quasi tutte morivano di crepacuore.

—È vero. Non ne ho mai più vista una, d'allora.

Vi era quasi un rimpianto nella voce di quell'uomo. Il segreto, eterno rimpianto del tempo passato, irrevocabile.

Il domani a mezzogiorno, mentre erano tutti ancora a tavola, un facchino portò una gabbietta con dentro due parussole.

—Già che ti piacciono!—disse Luisa. E Pepi le collocò davanti a lui sulla tavola, le guardò a lungo in silenzio. Le bestiole, selvaggie, si ricantucciavano, sbattendo le ali, guardando con aria spaurita il viso dell'uomo che si chinava, pallido, verso di loro. Oh, le povere testoline verdi, le gole macchiate di nero, le aluccie gialle, nere, screziate, e quei becchi che mordevano furiosamente il legnuzzo della gabbia! Quante ne aveva viste palpitare così, quante ne aveva chetate lui, venendo a vederle ogni giorni, portando loro un pezzetto di zucchero o un vermicciatolo, di cui erano ancora più ghiotte!

—Bisognerà cambiarle di gabbia,—disse Luisa, —questa è troppo piccina.

Evelina dichiarò che in cantina vi era una vecchia gabbia grande, e Nepo andò a prenderla.

Le bestiole tremanti, che si dibattevano fra le strette, vennero da Pepi prese dolcemente e messe nella grande gabbia verde ripulita alla svelta. Nepo anche si incaricò di andar a comperare i semi di canapa, il miglio e la farina gialla, che parevano i cibi più adatti per le piccole ospiti; quindi Pepi le portò nella sua camera, appese la gabbia al muro, e stette un bel po' a chiamarle vezzeggiando, a zufolare, a offrir loro un bocconcino di biscotto, che le prigioniere si rifiutarono ostinatamente di prendere. Infine egli andò al lavoro, dopo aver tirato le tende della sua camera in modo che lo scarso sole autunnale venisse sino alla gabbia, dove le due spaurite squittivano.

E furono, d'allora, le compagne delle sue ore notturne. Svegliandosi, gli pareva di non essere più solo nelle tenebre. Il suo tossire faceva balzare dal suono anche le bestiole, che pareva rispondessero, con rapido cinguettìo, ai suoi lamenti. E quando egli accendeva la candela, gli uccellini si affacciavano ai ferri, sbattendo forte le ali, cantando, con gioia improvvisa, quasi folle.

—Voi credete che sia il sole, poverette, il sole! Non è che la mia candela. Aspettate. Lasciatemi cercare la mia pillola, lasciatemi bere il mio sciroppo, e prender fiato; adesso spegnerò la candela, spegnerò il sole; e resteremo al buio. Voi tornerete a dormire, e io procurerò di far lo stesso, se riescirò a far buio anche nella mia testa, a spegnere questo turbinìo di scintille, che mi ballano qui dentro. Ecco, ho spento il sole; dormite.

Ma le piccole prigioniere non dormivano subito. Restavano ancora sveglie nel buio, a pigolare sommessamente, come se parlassero fra loro. E dicevano lunghe cose, certo, perchè a volte quel pigolìo pareva un gemito. Una incominciava e l'altra rispondeva, alternativamente; poi insieme modulavano una specie di canto monotono e dolce, nel quale a volte una nota acuta, stridente, pareva un grido di rabbia. Immobile e tacito le ascoltava Pepi, come se capisse quelle voci di lamento e di ricordi. Certo le povere parussole rammentavano i bei boschi verdi a primavera, il fresco nido da cui erano state tolte piccine.

Una diceva all'altra:—E il sole d'oro, lo ricordi tu? Il sole, così dolce sulle nostre piume?

E l'altra:—Sai ancora il suono della pioggia sulle foglie grondanti? Sai l'odore della terra immollata? il fruscìo delle frondi al vento dell'uragano?

—E tu ricordi i grossi vermi che sbucavano dalla terra bagnata, le grosse e lente chiocciole striscianti sugli steli?

E Pepi ricordava anche lui le primavere lontane e i freschi boschi, e un piccolo fanciullo che correva nei prati, al sole, con la bionda testa scoperta, in cerca di grilli e di lucertole…

—Vi lascerei andare volontieri, poverette,—diceva allora alle parussole, per consolarle,—con tutto che la vostra compagnia mi sia molto cara. Ma dove andreste! Adesso non è primavera, sapete. A momenti è l'inverno. Tutto è gelido, fuori, e bagnato. E gli alberi sono spogli, e non ci sono nè chiocciole, nè grossi vermi da mangiare. Morreste di fame. State qui con me; dite, dite le vostre parole, che io intendo. Consolatemi. Anche io rimpiango la primavera, e la mia non tornerà più. Abbiate un po' di pazienza ancora; lasciate passare l'inverno. Poi, vi porterò io stesso nel bel bosco fresco, alle foglie nuove, e vi lascierò volar via, libere per il cielo, a cantare una canzone più lieta. Aspettate ancora un poco.

Ma le povere parussole non ebbero tempo di aspettare. Una mattina Pepi ne trovò una in fondo alla gabbia, tutta appallottolata, tremante. Inutilmente egli cercò di farla mangiare, le offrì il biscottino e lo zucchero; cercò anche di riscaldarla col fiato, tenendola fra le mani. La misera morì al secondo giorno.

—Nemmeno questa non durerà più,—disse Pepi.

Infatti anche l'altra pareva cheta e malinconica. Durò ancora alcuni giorni, sola, nella gabbia, senza mangiar quasi nulla. E la notte non starnazzava più; appena quando Pepi accendeva la candela, ella mandava un flebile squittìo, e spalancava gli occhi. Ma nel buio taceva, come morta. Non aveva più alcuno a cui ricordare la primavera perduta. Una notte, Pepi, per udirla, lasciò per oltre quattro ore accesa la candela, verso la quale la bestiola, di tanto in tanto, mandava ancora un grido. La mattina stette cheta, rannicchiata in fondo della gabbia, e a mezzogiorno Pepi la trasse fuori, rigida; non potè più riscaldarla.

Natale era molto dolce quell'anno. Senza neve, un po' velato, umidiccio; come d'autunno. Pepi, la sera della vigilia, uscì dall'ufficio un'ora prima; s'era fatto dare un permesso con un pretesto qualunque, preso dalla smania di muoversi, di veder gente, di ritrovare qualche cosa che da molto tempo era perduta… Natale! ci doveva essere Natale per le vie; bisognava che egli si assicurasse che era vero; che Natale esisteva ancora, benchè egli da tanti anni lo avesse creduto morto; il vero Natale, quello buono della sua infanzia. Oh, egli si ricordava benissimo come era fatto!

Era un Natale che scendeva giù nelle vie della sua Trieste proprio a quell'ora, nel tardo pomeriggio della vigilia. I bimbi, che in quel giorno avevano avuto vacanza, uscivano proprio allora, con le mamme e con le serve, a far le provviste per la cena. Perchè a Trieste, per consuetudine antica, la festa più grossa era la sera della vigilia; era la cena tradizionale, composta tutta di piatti di magro che si feceva prima della Messa di mezzanotte; cena lauta, allegra, abbondante anche alle mense più povere.

Pepi ritrovava ancora in bocca il sapore di quella cena: v'era il risotto con le verze, che sua mamma cucinava così bene; v'era il pesce fritto, e l'anguilla arrostita, e il baccalà con il zibibbo… oh, sì! una pietanza che quelli che non l'hanno mangiata in un bel Natale d'infanzia possono trovare strana, ma a lui come pareva buona, come pareva buona adesso, dopo vent'anni!

Vi erano poi le arancie, le mele e il mandorlato. Oh, prego! non il torrone, il volgare torrone che si vende nelle carte a fiori, e empie la bocca di nocciuole arrostite. No, quel mandorlato di Trieste, quel mandorlato dell'infanzia di Pepi, è fatto di una pasta dolce, filosa, bianca, in lunghe bacchette bianche o rosee, con dentro delle mandorle un po' rade, appena tante da dare il loro sapore alla pasta. Una cosa eccellente, davvero! Per venti soldi austriaci Pepi ne comperava una intera bacchetta lì, sull'angolo della piazza, poco lontano da casa sua! Oh, quel venditore era un suo amico! Ne spendeva dei soldi in mandorlato, proprio da lui! Aveva una grande bacheca, lì a quell'angolo, con enormi pezzi di dolciumi, che brillavano al sole, anche quando non era Natale; ed era una grande tentazione, non solo per lui. Ma il mandorlato mangiato a tavola, dopo la cena di Natale, era infinitamente più buono. Dopo, vi era una cosa migliore ancora. Una cosa che si faceva solo una volta all'anno: quella sera; e aveva un sapore di roba proibita; una grande concessione che si faceva ai bimbi di prendervi parte. Il papà preparava il punch; un buon punch bollente, d'un giallo carico; Pepi sentiva ancora l'odore delle fette di buccia di limone messevi dentro a galleggiare. D'allora, quanti punch, quanti, bevuti in tutti i punti della terra; con compagnie allegre, senza misurare nè il rhum nè la grandezza delle tazze; ma ne aveva mai più bevuto uno così buono, come quelli che papà preparava nella sera di Natale?

Così, oh che bella cosa se Natale stasera fosse risorto! Se Pepi l'avesse ritrovato a spasso per le vie di Torino in quella sera della vigilia! e poi lo avesse preso a braccetto, e lo avesse accompagnato fino a casa, portando in mano un lungo pezzo di mandorlato, e in una tasca del pastrano una bottiglietta di rhum. Oh, non molto, no! tanto appena da tingere l'acqua calda in giallo, e da far diventare rumorosi i bimbi di Luisa!

Egli si lasciò trascinare dalla folla, e entrò in via Roma, che era tutta chiara di luce elettrica e dei raggi delle vetrine. Le botteghe rigurgitavano dei doni del Natale; le frutta magnifiche, le confetterie fini, le vivande più delicate e costose si alternavano agli splendori delle gioiellerie e ai prodotti preziosi della moda; ma ciò che invadeva ogni posticino nelle mostre e nell'interno delle botteghe erano i giocattoli d'ogni foggia, d'ogni specie; oggetti fantastici, bellissimi, complicati, originali; capolavori di menti inventive, di abili mani e di ingegnosi meccanismi; assai lontani dai giocattoli che Pepi aveva conosciuto nella sua infanzia, e assai meno simpatici.

La gente si affollava nelle botteghe, ne usciva a mani piene; oh, quanta gente adulta comperava confetti e giocattoli! V'erano dunque tanti bimbi nel mondo? Doveva far piacere di comperar qualche cosa per loro… Anche lui poteva. Non c'erano i bimbi di Luisa? E pensò un poco che cosa mai avrebbe potuto regalar loro. Ma quel pensiero finì col non procurargli nessuna gioia. I giocattoli belli dovevano essere certo molto cari, e i suoi mezzi finanziari erano scarsi; giocattoli brutti ai bimbi di Luisa non si potevano dare. La madre gliene regalava sempre; ella amava soddisfare i capricci dei suoi figlinoli; ella che aveva avuto una infanzia seria, quasi triste, diceva che i fanciulli devono essere viziati fin che si può… No, no. Pepi avrebbe voluto adesso poter portare un cavalluccio di legno, un piccolo treno di strada ferrata, una palla di gomma, una trombetta a qualche bimbetto povero, a qualche bimbetto che di giocattoli ne avesse sempre avuti pochi, pochi!… E udir le sue risa, e vederlo saltare di gioia… Ah, quello sì!

E ricordò d'improvviso un Natale, in cui gli avevano regalato, a lui bimbo, un piccolo teatrino di legno con sei burattini… Ancora adesso il cuore gli dette un sussulto, come allora…

Allungò il passo, uscì da piazza Carlo Felice, uscì dalla folla e infilò la strada dove egli abitava. Perchè Natale non era per le vie, no, egli non lo aveva trovato.

E non era nemmeno in casa. È vero, salendo le scale egli sentì l'odore forte delle sardelle che friggevano nella padella; e nella stanza da pranzo Mimì ed Evelina preparavano alacremente la tavola che prendeva un aspetto festoso; e il cognato Vincenzo si dava un gran da fare in cucina, a sopraintendere a una grande caldaia misteriosa; e Nepo e Vittorio sbucciavano delle castagne; e Armanda grattuggiava formaggio; e Luisa, la stessa Luisa, con un certo fare sorridente, quasi infantile, che non le era più abituale, attendeva a disporre in un piatto i dolci che traeva da una grande scatola… Eppure! eppure Pepi guardava tutto ciò come una cosa nuova, come una cosa alla quale egli fosse estraneo, non fatta per lui, dove anzi lui era un elemento soverchio, che turbava gli altri. Infatti, tutti gli parvero diventare più lenti e più silenziosi, da quando egli fu lì; e Luisa smise a un tratto il suo lavoro, e sul viso di lei ricomparve la malinconica serietà che Pepi conosceva.

Ma la cena fu gaia: Luisa volle che si facesse il punch come allora, e che i bambini ne bevessero. Ma dopo, quando Evelina e Mimì ebbero levata la tovaglia, e i bimbi stanchi si accingevano ad andare a letto, Pepi seguì suo cognato che usciva anche quella sera, preso da un irresistibile bisogno di cambiare luogo, di vedere altri visi, di bere ancora, e di parlare ad alta voce, fumando, fino al mattino. Così, così erano stati i dieci ultimi Natali passati per lui; bisognava che anche questo fosse come gli altri, poichè il vero, il buon Natale era morto.

No, come diceva Luisa, egli non aveva giudizio. Appena il suo stomaco e i suoi bronchi miglioravano, egli si dimenticava, o voleva persuadere se stesso che era guarito, che poteva riprendere la vita condotta per tanti anni, logorare il suo corpo senza risentirsene più di una volta… passar fuori le ore della notte, che si facevano sempre più rigide… e Luisa, destata dal suo sonno inquieto, udiva ancora ripetersi i lugubri colpi di tosse, che la facevano sussultare dolorosamente nel suo letto, coprirsi le orecchie con le mani, gridare soffocata: Oh, basta, basta!

Ma, giungeva il carnevale con le sue stupide follie, con le tentazioni dei suoi balli, delle cene prolungate, delle veglie, dei teatri… Armanda ed Evelina che, in casa di Luisa, non avevano mai potuto accorgersi quando era carnevale, quest'anno si sentivano a un tratto invase dal prepotente bisogno di divertirsi, di portare la loro fiorente e ignorata bellezza per le sale da ballo, dove i giovanotti le avrebbero ammirate e corteggiate, dove forse le aspettava il desiderato marito… Oh, quest'anno l'autorità di Luisa non bastava più! C'era quella del fratello, e prevaleva! Saprebbero ben esse pregarlo dolcemente, circondarlo di lusinghe e di moine; o anche tenere sapientemente il broncio, non parlargli più, o dire delle parolette innocenti in apparenza, ma acute come un ago in fondo, che l'avessero punto nella coscienza e nel sentimento. Evelina ne era specialmente maestra. Povere orfanelle che erano, abbandonate, tenute per carità, senza mai veder anima viva, senza mai un teatro, mai un ballo, mai nulla, nemmeno in carnevale! Era meglio patir la fame, essere povere povere, ma godere la propria libertà, godere della vita… Forse che bastava di essere nutrite e vestite… (vestite poi con molta modestia, appena il necessario…) e tenute come schiave! Chi si occupava di loro? Luisa andava per conto suo, e Vincenzo pure… Ora che avevano qui il fratello, non era forse suo dovere di condur le sorelle in qualche posto? Tutto il giorno a casa! Sempre a lavorare! Come serve, proprio, come serve! Oh, se la povera mamma fosse vissuta ancora!…

Pepi si affrettava a comperare biglietti del teatro, o ad accettare qualche invito in casa di amici. Vi era una famiglia Lupi, dove si ballava in molto mediocre società; v'erano impiegati con le loro mogli, ma v'era anche qualche signora che non si sapeva bene di dove fosse venuta; la padrona di casa chiudeva facilmente un occhio sulle presentazioni; anche lei aveva una figlia da maritare, e purchè venissero dei giovanotti il resto non importava molto. Là si ballava, si recitava qualche monologo, e anche qualche stupida commedia; vi era tra quei giovanotti persino uno che aveva il coraggio di fare delle conferenze sullo spiritismo… Armanda ed Evelina vi si divertivano un mondo.

Luisa mostrò in cento modi il suo malcontento. Ne parlò anche chiaramente con Pepi. Si ebbe qualche aspra parola di risposta. Allora ella dovette rassegnarsi a veder passare quel carnevale in un alternarsi di piccoli intrighi, di malumori, di capricci, di disordine, di feste, di gingilli nuovi, di pettinature stravaganti, e di notturni funebri colpi di tosse…

E intanto il fratello e la sorella si sentivano sempre più lontani un dall'altro; una barriera di freddezza si metteva tra loro, e si spandeva su tutta la casa; Luisa passava sempre più taciturna fra quella gente cieca e ostinata, che in nome della gioventù e della vita respingeva i consigli della sua saggezza, per affrettarsi sulla via dove ella vedeva l'abisso.

Le giornate umidiccie e tepide della quaresima annunziavano la primavera vicina; piano piano le gemme incominciavano a sbocciare. Luisa guardava malinconicamente quel risveglio. Ancora una primavera! Ancora gli stessi fiori, lo stesso verde, lo stesso sole! Poi l'estate, e le tristezze del suo calore; le strade arse, la città immersa nella sonnolenza; e poi più triste l'autunno, e poi l'inverno ancora! Per quanto tempo? Oh, ella era così stanca! Quella primavera le commoveva l'anima a pensieri di misticismo e di desolata tristezza. Le campane suonavano lente e gravi per la messa, per la benedizione, per le prediche quaresimali; le chiese si affollavano continuamente; le anime si volgevano volentieri a pregare. Anche lei avrebbe voluto pregare. Era da molto tempo che aveva abbandonato le pratiche religiose; da molto tempo il suo cuore era freddo, l'anima diffidente e incredula. Ma quando passava davanti ad una chiesa, se aveva tempo, entrava per qualche minuto; le piaceva bagnare la sua mano nella frescura dell'acqua benedetta, toccarsi la fronte, curvarsi fino a terra, facendo il segno della croce.

S'inginocchiava anche, guardava a lungo nelle navate profonde, sugli altari, o negli angoli oscuri, evocando forse qualcuno che non l'udiva più… Oh, solo un raggio, un raggio nel suo cuore, solo una parola al suo orecchio, un segno, o mio Dio! un segno! No, tutto era muto e chiuso per lei, e non usciva mai confortata dalla breve visita.

Mimì un giorno, venendo a casa, disse:

—Mamma, tutte le mie compagne fanno la prima comunione. E io?

Luisa rispose seriamente:

—La farai anche tu. Ma sei un po' troppo giovane quest'anno.

La ragione vera era che Luisa non osava far prendere la comunione a Nepo e a Mimì, perchè temeva i sarcasmi di Pepi. Ella era desiderosa di quella funzione per i suoi figliuoli, prima per un remoto dolce ricordo della sua pia infanzia, poi per uno scrupolo di coscienza. Voleva che i figliuoli potessero scegliere liberamente un giorno, secondo le proprie convinzioni; non voleva in nessun modo influenzare la loro fede, ma metterli semplicemente sulla via più comunemente percorsa; un giorno, se si fossero anche convinti che quelle pratiche religiose non erano che forme vane, se la loro ragione le avesse trovate inutili, superflue, ebbene, sarebbero sempre a tempo per abbandonarle; non si lagnerebbero mai di averle imparate, e resterebbero in loro come un dolce ricordo della infanzia, come un fiore di quella età in cui tutto è fiore, profumo, sorriso; non fosse che così come ricorderebbero le fiabe soavi e i sogni e le credenze pure. Ma se invece, più fortunati di lei, quella luce che per lei si era spenta, avesse brillato alle anime loro! Se quella semplice fede, che la madre aveva loro lasciato apprendere, restasse la compagnia e la certezza della loro vita! Qual tesoro avrebbe ella dunque lasciato ai suoi figli! Qual forza, e quale conforto?

Solo una volta ella disse ciò a Pepi, che sorrideva ironicamente udendo i bambini dai loro letti recitare le preghiere della sera. Ma egli non la capì; da troppo tempo egli si era staccato da tutte le forme politiche e religiose, che non fossero quell'unica nella quale la sua mente si era cristallizzata.

—Ciò non serve a nulla, a nulla—disse—sono fantasie inutili, anzi dannose, perchè tengono le menti più a lungo annebbiate, e rammollendo i cuori in un vano sentimentalismo, li allontanano da quella direzione seria e lucida, che oramai dovrebbe prendere l'affetto, e che è il nostro ideale. I preti e la religione sono cose d'altri tempi. Furono. È tempo che non esistano più; certo non saranno nella città nuova che noi inalzeremo. Io la vedo lucidissima, e ci credo più che nella mia vita. Tutta una popolazione di lavoratori felici; non più il dolore. Noi lo avremo soppresso. Non più il peccato, perchè non ci sarà più il denaro. Allora, che ne farai tu dei preti in un mondo senza dolore e senza peccato?

Ella sorrideva, levando le spalle con fare compassionevole.

—Ma, poveri illusi! e non vi accorgete di sognare? I preti almeno mettevano tutte quelle belle cose in paradiso. Uno poteva morire sperandole ancora. Voi non ci credete al paradiso, che pure è più facilmente credibile perchè Dio e il Miracolo lo formano; e credete a un paradiso in terra, fabbricato da voi, da voi gente appassionata, ambiziosa, che se non ci fosse più il peccato morreste di noia! Via, lasciate che i bambini sognino in pace il loro paradiso; dopo tutto, vale più del vostro ed è più bello.

Fu proprio il giorno di Pasqua che Pepi disse a Luisa:

—Ho sputato un po' di sangue stamattina.

—Ah! fece lei.

Poi, con indifferenza:

—È cosa che avviene in tutte le affezioni di petto. Non devi dartene pensiero.

Ma poi disse un pensiero suo, già antico, che non aveva mai osato manifestare.

—Senti. Il dottor Guglielmi è molto buono. Egli ti cura bene, lo capisco. Ma, se tu andassi da uno specialista per le malattie di petto? Ti curerebbe più in fretta, con metodi moderni. Se per esempio ti facessi vedere dal dottor Veneziani?

Pepi le diede una lunga occhiata silenziosa. Ella continuò, con volubilità, evitando il suo sguardo:

—È uno specialista per le malattie delle vie respiratorie, anche per quelle dei bronchi, dunque. Non è mica solo per i mali dei polmoni. Adesso poi tutte quelle malattie si curano ad un modo. Quella cura aereoterapica, una novità! deve essere certamente buona. Se vuoi, io ti accompagno.

Pepi, assai pallido, taceva. Lo stabilimento del Veneziani era per i tisici, curava specialmente i tubercolotici, ed egli lo sapeva bene. Aveva già inteso abbastanza parlarne, ora che i medici e le medicine lo interessavano così direttamente. Se Luisa lo consigliava di andarci, era proprio perchè lei stessa era persuasa che il male di lui fosse quello che non perdona.

Promise di andare con lei, il domani, allo stabilimento Veneziani.

Luisa conosceva quel dottore: Un bell'uomo, ancora giovine, dalla barba bruna, pieno d'ingegno, di forza inventiva, di ardore. Il suo stabilimento, che gli costava ingenti somme e immensa energia, era fondato da poco, e poteva dirsi l'unico del genere in Italia. Luisa e Pepi vi entrarono, animati da una stessa speranza. Pacifico li accolse. Pacifico, un vecchio servitore, veneto, chiacchierone, tipico; che a forza di stare col padrone aveva imparato qualchecosa anche lui.

—Si accomodino qui, i signori, qui nel salotto. Il dottor Veneziani verrà subito. È qui nella camera di sopra, a far un sperimento. La signora, io so già chi l' è, perchè l'ho veduta venir un giorno a far visita alla moglie del dottore. Io ero proprio nell'appartamento della mia signora. Sa, gli avevo portato un giornale da parte del suo marito. E mi ricordo di averghe veduto la signora. E il signore l'è suo fratello? Son ben contento di far la sua conoscenza. Il signor si vede che l'è malato. Ma che non la dubiti. La cura areoterapica la fa prodigi; la fa miracoli, ghe digo, e ghe n'abbiamo viste delle cose… stupefacenti, brio, aria, e poi aria.

E Pacifico lasciò il fratello e la sorella, in quello che aveva chiamato salotto, e che era una stanza piccola, chiara, con pochi e severi mobili, e con vari recipienti di forma strana, attaccati alle pareti; ma il cui uso era rivelato in un'ammonizione stampata:

—Si prega di sputare qui, e non per terra!

Vi era poi, sparso dappertutto, un forte e singolare odore, come quello che si sente nella cabina di un bastimento, o in un boschetto di pini; odore di resine, catrame, terebentina, creosoto… L'aria ne era impregnata.

Quel salotto, con i suoi strani gingilli, la prosopopea di Pacifico, il profumo non comune, la stessa solitudine in cui furono lasciati, dispose Pepi a ridere, a celiare del suo male e dei dottori, benchè in fondo aspettasse con grande ansia il Veneziani.

A ogni modo quando questi venne trovò il fratello e la sorella, che ridevano, esaminando uno strumento curioso, che avevano scoperto sulla tavola.

—Dirà che non è molto elegante—disse Veneziani, ridendo anche lui;—è un misuratore di pressione. Qui, cara signora, non abbiamo tempo di far dell'eleganza. Mettiamo di questa roba da per tutto. Ma… è una visita al dottore questa, o all'amico?

Egli aveva già guardato Pepi, e certo aveva già capito.

—Al dottore, sgraziatamente—disse Luisa, tentando di entrare anche lei nel tono leggiero e scherzoso, che Veneziani sapeva prendere in qualunque circostanza;—ma nulla di grave, io spero. Guardi, mio fratello è sempre stato in cura dal dottor Guglielmi per una bronchite. Ora io vorrei che questa bronchite la esaminasse lei.

Parlando ella guardava intensamente il dottore, e anche questa volta egli comprese.

—Certamente, certamente… Oh, il dottor Guglielmi è un buonissimo medico, e se ne intende. Son persuaso che la diagnosi e la cura erano giuste. Forse noi potremo qui completarle. Qui disponiamo di molti mezzi. Ecco, lei vada di là, si spogli, io verrò ad esaminarla subito.

Ma, vedendo un lampo di diffidenza negli occhi del giovine,—aspetti—disse—vengo addirittura con lei, perchè di là prenderò intanto qualche appunto. La signora mi perdonerà se la lascio un momento sola.

Si scambiarono uno sguardo.

—Oh—disse allegramente Luisa—vadano, vadano! Io cercherò di non annoiarmi.

L'esame durò a lungo. Quando rientrarono, Luisa non riuscì a scoprire la verità sulla faccia sorridente e imperscrutabile del dottore.

—E così, signora, io e suo fratello siamo intesi. Egli verrà qui ogni giorno a fare il suo bagno aereo. Oh, una cosa semplicissima, che le spiegherò! Poi prenderà la medicina che gli prescrivo, e poi starà a puntino a tutte le altre raccomandazioni che gli ho fatte. Se farà proprio così, io spero, spero davvero, di portarlo presto ad un buon punto.

Si pose a scrivere. Nel silenzio l'aria pareva farsi più pesante di catrame, e il euore di Luisa balzava in un'ansia mortale.

—Sopratutto—disse il dottor Veneziani levandosi e consegnando la ricetta a Pepi—sopratutto, mi raccomando, badino agli sputi. Sempre e poi sempre disinfettare; e non sputare mai per terra.

—Ah!—il sangue di Luisa gelò.

—Sicchè, dottore—disse tranquillamente Pepi, terminando di annodarsi la cravatta—i miei polmoni sono attaccati, non è vero?

—Oh, solo un pochino l'apice destro! Un poco di più il sinistro. Si sono trascurati un poco, quei polmoni, eh, e non erano forti nemmeno prima! Ma noi chiuderemo tutti i buchi, metteremo tutto a posto. Basta essere molto, molto obbediente. Quando la cura sarà bene avviata, faremo delle iniezioni al polmone. Appena la stagione sia buona e costante, vada in campagna per quindici giorni. Poi, riprenderemo i bagni. E allegramente, eh! Vengano, vengano con me a vedere la stanza dei bagni.

I due seguirono, muti, il dottore; ma egli sapeva parlare quando gli altri tacevano, e fu loro una buona guida.

Vi eran delle cose meravigliose in quello stabilimento. Tinozze per i bagni elettrici, motori grandissimi, strumenti d'ogni genere, specchi, riflettori, macchine elettriche, tutto in belle e chiare sale, dove l'idea della malattia si dimenticava per quella della scienza.

Era poi veramente singolare e stupenda la stanza dei bagni, tutta verniciata e fabbricata come la cabina d'una nave ermeticamente chiusa, ricevente l'aria compressa e medicata per mezzo dei motori sotterranei. Là dentro si chiudevano i malati; l'aria che vi entrava a forte pressione dilatava i polmoni inerti, vi metteva una buona dose di ossigeno e di vapori resinosi, distruggeva direttamente i microbi mortali annidati nelle cavità.

Apparecchio semplicissimo, che costava al suo inventore molti anni di studi e di fatiche. Pepi vi si interessò immensamente, respirò con voluttà l'odore acuto dell'aria, ebbe la gradevole sensazione di trovarsi su di un'alta montagna, e che a lui giungessero da ogni parte i profumi delle conifere.

Il dottor Veneziani volle mostrare ai visitatori anche un enorme apparecchio per i raggi Röutgen; un cilindro grosso come un cannone, che produceva una scintilla elettrica lunga mezzo metro. Un assistente del Veneziani, il dottor Cesari, un giovanotto molto cortese, simpatico, chiuse le finestre, montò la macchina e fece degli esperimenti; Luisa vide le ossa della sua mano ritratte sulla lastra, e i soldi del suo borsellino. Ma vide anche una povera ragazza, una ballerina, che non aveva più che due metà dei polmoni, due cavi enormi, che si prestò all'esperimento dei dottori. Nel buio della camera, al rumore scrosciante della scintilla, sul chiarore della lastra l'apparizione di quello scheletro umano, con le due profonde caverne grigiastre al posto dove la materia polmonare era distrutta, pareva un lugubre gioco.

Luisa oramai voleva andarsene, ma Pepi domandò mille particolari su quei mezzi polmoni, e fu molto contento quando i dottori lo ebbero assicurato che potevano cicatrizzare ancora… purchè la ragazza si curasse… e non ballasse più.

Quando furono in istrada Pepi si mise a ridere, con grande stupore di Luisa.

—Rido—disse—di questi dottori. Certe cose le so meglio io di loro. Già, se uno si cura, come dicono, e specialmente se non lavora, e vive sanamente, ha la probabilità di tirare innanzi qualche annetto di più. Come quella povera diavola!… Se non ballerà più dovrà pur fare qualche cosa per vivere. E che cosa farà?

—Poveretta!—sospirò Luisa—Ma tu, Pepi, hai udito il dottore. Ti ha fatto raccomandazione, è vero, di ritirarti presto la notte, di non disordinare in nessun modo. Fallo dunque, ti prego? Se no, a che possono servire i dottori?

Egli promise di essere saggio.

—Ma, come farò—disse poi—come farò per l'orario del bagno? Bisognerebbe che all'ufficio mi dessero un po' più di libertà, e mi cambiassero le ore!

—Ne parlerò con Jourdain—disse Luisa a bassa voce. In realtà le rincresceva molto questo chiedere sempre qualche cosa all'amico buono, ma chi poteva aiutarla se non lui? Le rinacque la fiducia nel cuore. Chi sa! Pepi si curerebbe bene. Con quel sistema dell'aria compressa… se non era troppo tardi… E Pepi metterebbe giudizio, oh sì! ora che aveva veduto le conseguenza delle sue follie!

Ma aveva nell'animo, da molto tempo, un dubbio, un'angoscia terribile. Non l'aveva mai detto prima, ma ora che il dottore aveva parlato…

—Pepi—disse supplichevolmente—hai udito il dottore; il tuo male non è serio, ma si può prendere dagli altri. Io ho paura per i miei bambini, Pepi! Abbi prudenza, per loro, ti prego! E anche per le ragazze!

—Figurati!…—disse lui, turbato. E andarono a casa oppressi da ciò che avevano detto.

A casa Luisa chiamò nella sua camera i bimbi.

—Sentite, carini, e lo dico specialmente per Vittorio, che non sa, che è il più piccolo: Lo zio è malato… Ora, quando la gente è malata, è facile che anche i sani prendano la malattia. Non dovete dunque mai più, finchè io non ve lo permetta, stare addosso allo zio, come fai tu, Vittorio, o baciarlo la sera, andando a letto, e nemmeno di giorno, mai! capisci, Mimì! e mai andare nella sua camera, veh, Nepo! Insomma non dovete avvicinarvi troppo a lui. E questo senza mica dirglielo, povero zio! perchè gli farebbe dispiacere! Con buona maniera, vero, Mimì? Avete capito bene? Lo farete, bambini? E quando dite le vostre preghiere della sera, pregate anche Dio di far guarire presto il povero zio Pepi!

Ma, con tutte le precauzioni raccomandate ai bimbi, Pepi si accorse subito che essi non gli venivano più come prima vicino, e che dovevano aver ricevuto delle istruzioni.

Gli fu specialmente dolorosa la privazione del bacio serale, con cui Mimì e Vittorio lo salutavano prima di andare a letto. Se ne lagnò un mattino con Armanda, mentre ella gli preparava il caffè:

—Il bacio di Mimì, sopratutto!—disse—ci ero avvezzo. Eppure—aggiunse sospirando—è necessario; e Luisa ha fatto bene!

Ma nell'animo gli crebbe il senso d'isolamento e di freddo, che nemmeno la casa delle sorelle era riuscita a scacciargli. Era una sensazione strana e dolorosa; non nuova eppure diversa; una umiliazione cocente, e in fondo una desolazione infinita.

Egli era già avvezzo da molto tempo a errare solo nel mondo; solo anche negli affetti e nelle idee, perchè ben pochi lo capivano, anche tra i suoi compagni; e i più lo sfuggivano come un individuo d'imaginazioni esaltate e pericolose. Ma quella solitudine era stata la sua forza e il suo orgoglio. Temuto, sfuggito, o perseguitato; insultato o deriso, la certezza di avere ragione, di essere davanti alla Verità, di avere un Ideale superiore a quello del volgo, gli aveva dato una superba, forse esagerata coscienza di se stesso, del proprio valore. Egli non aveva mai cercato amici; al più cercava proseliti e ascoltatori del suo Verbo, che doveva portare la luce alle turbe dei ciechi.

Ora… ecco, egli era un individuo attaccato da un male orribile, da un male che faceva paura. Egli portava in sè un germe fatale, un focolare d'infezione, di putridume, che poteva col fiato comunicare ad un altro. Per questo egli doveva sfuggire gli altri, e gli altri avrebbero sfuggito lui, per quella lebbra che portava con sè, nei suoi polmoni bacati! La morte! egli portava la morte inutile! la morte putrida, ingloriosa… La cerchia dell'aria che egli respirava era appestata! Lontano, lontano da lui i bimbi di Luisa! egli non voleva avvelenarli!

Si j'ai parlé de mon amor c'est à l'oiseau qui passe et chante, avec le vent; si j'ai aimé de grand amour, triste ou joyeux ce sont tes yeux, ce fut ta boucte grave et douce, et c'est ton ombre que je cherché. (Régnier).

L'odore acuto dei fiori veniva dal salotto spalancato fino nella stanza da pranzo, dove sedevano ancora a mensa, tardi, tutti di casa Marini; perchè era di nuovo la festa di Luisa, il giorno in cui i bimbi di lei godevano dell'arrivo dei doni, dei mazzi, delle ceste di fiori, correvano ogni momento ad aprire l'uscio di casa, leggevano le lettere di augurio mandate alla madre, commentavano ogni cosa, a tavola, col loro criterio infantile, felici più di tutti, più di lei.

Quando gli ultimi dolci si trascinarono svogliatamente per la tavola, i bicchierini di vin dolce furono vuotati, e le testine dei bimbi incominciavano a ciondolare per il sonno, Luisa, che era da qualche momento preoccupata, disse a un tratto con una certa solennità:

—Voglio ancora farvi vedere una cosa… Un regalo che ho ricevuto oggi da una cara fanciulla, una mia allieva. Guarda, Pepi!

E da una scatoletta tolse un gioiello rotondo, una spilla, fatta da una piccola miniatura.

—Chi è questa?

La sua mano tremava mentre metteva l'oggetto sotto gli occhi di Pepi.

Questi guardò qualche tempo, silenziosamente. La miniatura rappresentava una testa di fanciulla, bellissima. I capelli biondo-scuri, spartiti sulla fronte, scendevano in arco lungo le tempie; gli occhi scuri e grandi guardavano dolcissimamente; la bocca aveva invece un sorriso altero, sdegnosetto, come se volesse tenere il broncio, scherzosamente, a qualcuno. Tutto il viso era rotondamente fine, sodo, verginale; un soave incanto ne usciva; e il lavoro era così fine che quegli occhi parevano vivi, che la bocca pareva parlasse.

—È… Virginia?—disse Pepi, dubbioso.

—Ma sì!—disse Luisa, commossa, felice.—Guardala bene. Tu la ricorderai poco, ma è lei. È tolta da quella fotografia che è di là in salotto. è bella, vero? Ti piace? Oh, gli occhi sono i suoi! E quella smorfietta che faceva qualche volta con la bocca… è proprio lei, proprio lei. I capelli suoi erano un pochino più scuri, ma tutto il viso… È lei, davvero, poveretta!

Mentre la bella imagine passava fra l'ammirazione da uno all'altro, Luisa l'accompagnava con uno sguardo di carezza.

—Com'è bella! Oh, come sono felice di questo dono! Oggi mi pare che nessuno più manchi alla mia festa; ci siete tutti, meno papà e mamma. Tutti, per la prima volta!

Pepi non rispondeva. Un'ombra cinerea era scesa sul suo volto; esso appariva spettrale, come scavato dal doloroso ricordo.

La giovinetta tante volte segretamente pianta, la sua più cara, colei per la quale aveva potuto vivere fra mille dolori, nella fame, nell'onta; colei che egli era venuto cercando, attraverso l'oceano, e che egli non aveva più ritrovato, perduta per sempre, gli veniva ora dinanzi improvvisamente così vera e viva, solo per ricordargli che era morta; che quel bel viso fresco, quegli occhi dolcissimi, quella cara bocca sorridente non erano più che larve; che nulla, nulla esisteva più di quella realtà; di quella bellezza: e che mai, nè vivendo, nè morto egli non l'avrebbe più rivedutà; mai più udito la voce che, dopo tanti anni, ancor gli sonava nel cuore… Oh, se egli avesse saputo dove cercarla! Se avesse bastato attraversare un oceano cento volte più vasto, o passare trent'anni ancora di vita fra le più atroci fatiche, rinunciare anche al suo sogno ideale, o morire, morire, pur di ritrovarla!…

No, ella non era più. Nè qua nè là, nè sopra la terra, nè nei cieli, nè in nessuna parte. Ella non era! Ma Luisa appuntò al petto la bella miniatura, e la portò sempre. Ella ben sentiva che il fantasma della morta sorella alitava su loro sempre il suo fiato di ghiaccio. Sapeva che Pepi ci pensava continuamente, fissamente, e più da quando era malato. Quella morta che lo aveva chiamato fino all'ultimo, aspettato fino all'ultimo, dacchè era tornato aveva voluto riprenderselo tutto per lei. Forse che egli pensava ad altra cosa più intensamente che a quella? Che quei suoi lunghi improvvisi silenzi non erano colloqui interiori, tra lui e lei? Che quegli smarrimenti dei suoi sguardi non erano l' improvvisa azione di lei, che passava, vittoriosa e muta?

Via, bisognava rianimarla; chiamare a nome quel fantasma; dare un viso a quell'ombra: I dolci occhi e la bocca sdegnosetta tornarono a vivere e a splendere nella casa donde erano usciti alla morte.

Un giorno che Luisa abbisognava di un libro che aveva prestato a suo fratello, andò a cercarlo nella camera di lui. Pepi non c'era. Ella s'inoltrò con affanno in quella stanza, dove assai raramente entrava; il forte odore di medicinali, di terebentina, creosoto, menta, la prese alla gola, e benchè la finestra fosse spalancata ella dovette tenere aperta anche la porta, tanto si sentiva soffocare.

La stanza era arredata con estrema semplicità. Il letto grandissimo vi campeggiava; era ancora disfatto, la leggera coperta portava l'impronta di un corpo; oramai Pepi si buttava vestito sul letto, a qualunque ora, quando d'improvviso lo prendeva la febbre, o la grande stanchezza. Un piccolo cassettone, che portava di sopra una piccola specchiera, era ingombro di libri, e di giornali, e di boccette di medicine; in un armadio aperto pendevano i vestiti di Pepi; a una parete era attaccata una gabbia vuota, dove le povere parussole erano morte. Una tristezza immensa veniva da quegli oggetti. Parevano miseri, improntati dal male e dal dolore, così in disordine, con quell'odore insopportabile; l'odore della malattia.

Luisa si diede a cercare adagio, smovendo sul cassettone le carte, le bottiglie, le scatole. Da ogni cosa si sprigionava più forte l'odore; ella toccava quegli oggetti con un invincibile senso di ribrezzo e di pietà. Un po' alla volta si dimenticò di ciò che cercava, attratta curiosamente dai titoli dei libri e dei giornali che le cadevano sott'occhio. Erano tutti dello stesso genere: Trattazioni varie della questione sociale; libri di Nowicov, di Gumplovitz, di Nietzsche, di Marx, di Bellamy… Giornali di propaganda, i più audaci, ai quali Pepi era abbonato. Il libro che Luisa cercava non c'era. Allora ella tirò uno dei cassetti, cercò tra un mucchio di cravatte, di calze, di carte… Ah, quell'abitudine del disordine! quell'abitudine di vagabondo, che non ha una casa, che non ha una donna!… Macchinalmente Luisa si diede a riordinare gli oggetti, confusi; le sue mani si attardavano a lisciare le cravatte e i polsini spiegazzati, a riappaiare le calze, a piegare i fazzoletti; e intanto gli sguardi le andavano, sempre più curiosi, sui fogli sparsi nel cassetto; fogli grandi, rigati, come quegli che adoperano i bimbi; tutti pieni della incerta minuta scrittura di lui, una scrittura di scolaro, che non è mai riuscito a perfezionarla…

A un tratto ella raccolse i fogli, chiuse la porta, e, seduta presso quel grande letto vuoto, che serbava ancora l'impronta del corpo doloroso, ella lesse quelle pagine piene di singulti, di pianti sparsi nelle solitarie ore, in cui nessuno li vedeva sgorgare, e il fantasma dolce a terribile della morta si rizzò ancora davanti a lei, in quella stanza che certo era piena del nome pronunciato a bassa voce, ardentemente, disperatamente…

—O mia dolce Virginia! Lo sai che la primavera è ritornata! Lì, nel fondo di quella fossa, dove tu dormi, io spero, tranquilla, ti giunge il profumo dei fiori nuovi; il fresco stormir delle foglie al vento di Maggio; l'umidore tiepido dei succhi, che la natura commuove nel suo grembo? Oppure tu non senti nulla, e non sai più nulla? Tu dormi forse nelle tenebre, e hai paura. Hai paura, come quando eri piccina, e non osavi andare al buio nella camera di mamma, e chiamavi me, perchè ti accompagnassi. Dicevi: Pepi, ho paura, vieni con me! E io ti seguivo, e vedevo nelle tenebre brillare il tuo vestitino bianco… No, tu non sai più la primavera. Bisognerebbe che tu fossi con me, che tu uscissi appoggiata al mio braccio; che noi andassimo, noi due soli, per i viali tiepidi, sotto l'ombra alta dei platani… O andremmo in campagna, noi due soli. Tu amavi tanto camminare fra l'erba alta, affondare il tuo piedino in quell'umidore, e chinarti, raccogliere un insettuccio o un fiore o una pietruzza… Ascoltare i grilli sonanti trionfalmente sull'orlo del piccolo buco, al sole… Noi faremmo ancora così. E parleremmo. Io ti racconterei tante cose mie, che nessuno sa. Ti direi della terribile vita che ho condotto solo, senza di te, così lontano… Tanto lavoro faticoso, tanto caldo, tanto gelo, tanto male… Andar lacero, e andar sucido, tra la gente ben vestita; non aver pane, tante volte… E sempre una idea fissa nel cervello, fissa come un chiodo… E poi le notizie delle morti: papà, mamma, senza più rivederli… E allora… o cara! allora la più tremenda cosa: il rimorso, il dubbio… Domandarsi con angoscia, convulsamente, giorno e notte: Forse io ho fatto male, forse io ho avuto torto? Ah, tu non sai che vuol dire! domandarsi: ho avuto torto, e vedersi già così innanzi nella strada, che è impossibile tornare indietro! Se si avesse torto, la vita sarebbe dunque sbagliata. Sbagliata, sorella mia! E allora? allora? Oh, quante volte questa idea mi metteva nel cervello una febbre, come se impazzissi; e io non vedevo che il fantasma della morte dinanzi a me: Morire, poichè la vita era sbagliata… E sai tu chi calmava la mia febbre, chi chetava quel tumulto, chi mi consolava, sorella? Tu, tu soltanto, il pensiero di te! Io mi dicevo: Lo domanderò a lei; lei mi dirà se è proprio vero, proprio vero che io abbia torto, di sognare una cosa tanto bella, di volerla con tutte le mie forze… Sognare tutti felici; che nessuno avesse fame, che nessuno più avesse freddo… Lei mi dirà che ho ragione! Mia cara! come il mondo è stato cattivo con me! Come mi hanno perseguitato, come mi hanno martirizzato! Hanno detto di me atroci cose: che io ero cattivo, che ero crudele e che ero pazzo. Tu sola non lo credevi, tu no. Ho avuto tanto male al cuore, e la testa mi si spezzava. Pensavo: Metterò la mia testa dolente sul suo braccio; ella mi carezzerà le tempie con la sua fresca mano… O angelo mio di allegrezza, tutto si rischiarava quando pensavo a te! Io non ho voluto moglie, io non ho voluto figliuoli, io non trovavo nessuna ragione di vivere, se non per te. Per poter ritornare ho fatto il facchino, ho abbeverato le bestie sulla nave; ho dormito sulle tavole bagnate nelle gelide notti d'inverno; ho mangiato il rifiuto degli altri… E quando sono tornato tu non c'eri già più.

Che posso fare adesso? E che importa più qualunque cosa io faccia?

La primavera, Virginia, la senti la primavera? La ricordi di quando eravamo piccini, laggiù? Il boschetto, sulla collina, dove erano tante rose selvatiche? Fiorivano tutte, a Maggio. E il sole? Oh, come entrava in casa nostra, quando mamma spalancava le finestre! Come invadeva il cortile profondo, dove noi giocavamo!

Quali fiori crescono adesso sulla tua tomba? Cantano gli uccelli lì vicino? O tu non sai nulla? Tu hai sempre freddo, sempre paura nel buio, là in fondo; tu balbetti ancora, prendendomi la mano: Vieni, Pepi, vieni!… E io vedo il tuo vestito biancheggiare nelle tenebre.

Le lagrime scorrevano fitte sul viso di Luisa; ella doveva spesso sostare per vedere le parole. E davanti a quel dolore e a quella rovina, un così forte struggimento la prendeva, una compassione così infinita che tutto nel mondo le parve sommerso in quella amarezza; e vano, vano tutto: la primavera, e la vita, e la gioia…

Quell'anno andarono a villeggiare sui colli di Superga, in una casettina che i padroni affittarono per metà a Luisa, tenendo il resto per loro… Vi era pure un boschetto, vi era un giardino minuscolo, con una tonda aiuola in mezzo, dove crescevano, ben allineati, molti gerani rossi e rosa; vi era anche un pergolato d'uva; ma l'uva era per i padroni della villa. Questi erano gente della piccola borghesia, clericali e bigotti: il padre, un buon uomo taciturno, senza volontà propria; la madre, la padrona, una donna autoritaria, arida, avara e furba; due giovanotti: uno che si dava l'aria di letterato, l'altro che fino allora non aveva altra professione che quella di farsi rimandare agli esami liceali tutti gli anni, con grande costanza; una ragazza dal viso umile, brutta, miope, un po' sciancata, che qualche volta suonava il pianoforte.

Ma quella vicinanza non dava molto fastidio a Pepi e a Luisa che la evitavano; quanto a Evelina e Armanda esse incominciarono subito un piccolo e innocente flirt con Giacomo e con Filippo, i due ragazzotti.

Jourdain aveva accordato a Pepi quindici giorni di vacanza Pepi li passò alla campagna, andando due volte alla settimana fino a Torino, a far la cura del dottor Veneziani. Ora, incominciava a sentirsi meglio: gli tornavano le forze, cessava la febbre; la tosse era più rare e più mite; in poco tempo il peso gli si aumentò di due chilogrammi; l'appetito si rifece vivo: pareva che un miracolo si compiesse in quel corpo malato.

Allora ritornò qualche ora di allegria. La mattina, appena alzato, Pepi scendeva nel piccolo giardino, sotto a uno scarso padiglione di fogliame, dove già i bimbi di Luisa facevano colazione. Là egli si intratteneva con loro, e, poichè erano le vacanze, egli si occupava anche un tantino dei loro studi. Dava a Nepo e a Mimì dei temi di composizione. Rideva come un bambino a leggere certi svolgimenti.

Il tema che egli aveva dato a Mimì: Che cosa pensate della campagna in generale, la bimba l'aveva svolto così:

«Vicino alla nostra campagna abita un generale, che è vestito con un bell'elmo, e porta una bella sciabola. Ma egli si fa poco vedere da noi. Ma del generale io penso, che è un soldato valoroso, il quale difende la patria, e comanda a tanti altri soldati più piccoli di lui…».

Nepo che aveva da dichiarare che cosa farebbe quando fosse grande, scrisse che egli voleva far il medico, perchè il medico va sempre in carrozza, e perchè esercita una missione nell'umanità!

Inutilmente Luisa faceva osservare al fratello che quei temi non erano adatti ai bimbi, e non erano chiramente espressi; egli si ostinava, per divertirsi, a crescere le difficoltà, e i fanciulli, metà per ignoranza, metà per burla, mettevano giù pagine zeppe di strafalcioni.

Un giorno che Mimì doveva scrivere un dialogo sopra un tema difficile, incominciò che Linda diceva a Maria: «Facciamo un dialogo tu e io?». E quel giorno Pepi, ridendo pazzamente, rinunciò al suo insegnamento di lingua italiana.

Gli era venuto invece il capriccio di mangiar chiocciole, le grosse chiocciole da giardino, che egli diceva essere saporitissime. Aspettarono una mattina, dopo che nella notte aveva piovuto forte, e lui e i bimbi girarono tre ore per i boschi, nel fango, sotto i rami stillanti, riportando a casa un enorme cestone, pieno di grossissime chiocciole. Fu un divertimento immenso per i fanciulli e per lo zio. Anche Luisa, abbandonando il suo tavolino e i suoi libri, discese in cucina, dove Pepi, in manica di camicia, con le maniche rimboccate, col grembiale di Armanda legato ai fianchi, tra le risa folli delle ragazze e dei bambini, faceva bollire una immensa caldaia di acqua, nella quale egli pretendeva di cuocere le bestiole, che aspettavano la loro misera sorte in una profonda cesta coperta.

Ma le risa raddoppiarono, quando, tolto il coperchio, si videro le chiocciole tutte attaccate in giro alle pareti della cesta, e fitte sul medesimo coperchio, ciascuna quasi interamente fuori del guscio, con le lunghe corna distese, il viscido ventre gonfio, contorto, che si attaccava disperatamente a un appoggio per fuggire, strisciando.

A tavola la strana pietanza ebbe un improvviso grande successo di curiosità. Gli animali sgusciati, di color grigio, ristretti e storti dal fuoco, nuotavano in una larga salsa d'olio e prezzemolo, e esalavano un forte odore di aglio fritto.

—È un piatto americano?—domandò Luisa, con una certa diffidenza.

Pepi assentì gravemente, dichiarò di averlo preparato più volte a Buenos-Ayres. I bambini empirono golosamente i piatti; Luisa volle assaggiare prima una chiocciola.

—È eccellente—disse. La mangiò lentamente; tutti guardavano. Ella ne chiese nel suo piatto.

—Però—aggiunse esitando—dammene solo poche… Cioè… io mangierò solo il sugo, è più buono… Sì, è buono… un po' grasso… Ecco, veramente non ne voglio più.

Fu una interminabile ilarità. Le chiocciole non piacquero a nessuno, nemmeno a Pepi, che finì coll'offrirle al gatto Miciloti; ma anche il gatto le rifiutò sdegnosamente. Furono buttate via, e Pepi da quel giorno rinunciò alla caccia, e anche alle sue esperienze gastronomiche.

Un altro divertimento suo fu allora di rubare qualche geranio rosso all signora Alifani, che li serbava gelosamente; e quando l'uva incominciò a maturare, quella poca e proibita uva della pergola, anche essa fu oggetto di scorrerie da parte di Pepi, che era tutto felice quando riusciva a strappare un racimoletto mezzo acerbo, che portava trionfalmente a Luisa.

Ella lo ammoniva, ridendo.

—Se ti colgono! Se ti vede la signora!

—Ma che! è miope; sono tutti ciechi qua; e poi l'ho vista che accomodava le calze del letterato, laggiù nel chiosco. La signorina Sinforosa, (egli stroppiava crudelmente il di lei nome di Rosa), la signorina Sinforosa è al piano. La senti? Ah, che divine melodie!

Infatti la povera ragazza suonava maluccio, sopra un pianoforte scordato, che gemeva lugubremente.

—Ah, Pepi, tu sei cattivo! E poi, vuoi darmela ad intendere! Io scommetto che tu sei innamorato della bella signorina Rosa. Vedo bene, va, come la guardi con attenzione, quando vien giù la sera, sotto il pergolato; e come passeggi volontieri sotto le sue finestre!

Scherzavano così, abbandonandosi tutte e due a quel sottile spirito di critica, che era in fondo alla loro intelligenza, a quella rapida percezione del ridicolo, che spesso li faceva anche essere crudeli, ora che la vita aveva trasformato in sarcasmo lo scherzo bonario.

La famiglia Alifani prestava molti lati alle osservazioni acute di Pepi e di Luisa. La sera dopo cena il padre, la madre, i due fratelli, la brutta sorella si radunavano nel giardino; e anche la famiglia di Luisa. Qualche volta lei e Pepi rimanevano pure, per indolenza o per curiosità, e prendevano parte alla conversazione generale. Allora Giacomo, il letterato, si metteva a trinciare giudizi sugli autori più in voga, che egli non aveva letto, perchè sua madre non glieli permetteva, ma dei quali aveva inteso parlare. Filippo, l'eternamente rimandato agli esami, discuteva, con molta disinvoltura, su alte questioni filosofiche, e sparlava dei professori, che si ostinavano a non volere riconoscere il suo ingegno; la provera Sinforosa azzardava di quando in quando, umilmente, uno sproposito, e la signora Alifani, con le labbra strette e tirate di donna cattiva, criticava acerbamente le abitudini di tutti i suoi amici e parenti, e finiva col lamentarsi della serva, che rubava sulla spesa. In ultimo la signorina Sinforosa veniva pregata da Armanda di sedere al piano, il che ella regolarmente faceva, e le melodie della Manon giungevano, un po' stonate, dalla sala nel piccolo giardino, attraverso il fogliame della pergola. Qualche volta c'era anche la luna, e allora persino il piccolo giardino appariva bello; la scena meschina si faceva grandiosa; tutti i colli in giro si vestivano di una tenue luce di argento, e il cielo brillava limpidissimo; i gerani rossi e i rosa, nella tonda aiuola, parevano fiori fantastici, cresciuti in paese di sogno. Allora anche le sciocchezze del letterato, e le malignità della signora Alifani, la faccia rimessa del marito, la musica stonata di Sinforosa, tutto ciò scompariva, si perdeva in quel cielo, in quella luce, in quel buon odore che la campagna esala, a notte, con lo squittir dei grilli e il ronzare di ali invisibili.

Erano così giornate di una noia dolce, che riposava l'anima. Tutto era quieto, uguale a quello di ieri; la stessa alba, lo stesso meriggio ardente, poi ancora il lento declinar del sole. Quasi si dicevano le stesse parole, tutti i giorni. Il breve recinto del giardino, il padiglione sotto lo scarso fogliame, il boschetto minuscolo, la breve via in salita prima di giungere al cancello, erano oramai il limite della vita e del moto per Pepi. Assai di rado usciva da quel cerchio, si spingeva un po' più su, sulla collina, qualche volta, la sera, per accompagnare Armanda che amava passeggiare. Ma erano passeggiate brevi, perchè Pepi assai presto si stancava, e poi perchè egli amava quella cheta e monotona vita, quella campagna modesta, così borghese, così piccina! Era come se anche la sua anima si rimpicciolisse, si adattasse a quell'ambiente, si chiudesse là dentro, come in un guscio, riparato e sicuro. Qualchevolta, pur di non uscire, trascurava anche di andare allo stabilimento Veneziani, per la sua cura, e allora Pacifico lo sgridava.

—Bisogna perseverare, cara ela, la cura è lunga, e per un giorno che non la viene la va indietro di tre, la guardi. La m'ascolti a me, la venga con diligenza, che faremo miracoli, faremo; la sta già meglio.

Era vero, forse; stava meglio. Qualche volta proprio si sentiva guarire. Non più dolori; appena una lieve punta alla spalla. Non più febbre, quasi. Poca tosse, al mattino. Sì, meglio. Pure egli sentiva cambiare qualchecosa in lui, trasformarsi il fondo della sua anima. Non pensava più ad uscire la notte. Appena finito di cenare era preso da una immensa sonnolenza, da una noia di tutto, che lo avrebbe spinto subito a letto, se avesse osato. Ma non osava. Gli pareva che fosse pericoloso fare quella concessione al suo corpo impigrito. E poi, la notte, quando il primo colpo di tosse lo svegliava, era sicuro di non dormir più; le ore passavano lente, interminabili. E dell'insonnia egli aveva paura; dell'insonnia che gli dilatava gli occhi, nel terrore, che gli bruciava le vene, che gli martellava il cervello, e gli popolava le tenebre di fantasmi terribili. In quelle ore egli era ben diverso che nel giorno. Era come se una seconda natura sorgesse in lui; una natura diabolica, tormentosa, fiera, che parlava e viveva col mondo creato da lei stessa nella notte.

Non erano veri sogni. Egli vedeva, a occhi aperti; egli udiva; udiva anche il suono della propria voce, il suo ridere, il suo singhiozzare. E tutte le altre voci, che sorgevano dagli angoli della stanza, che si avvicinavano e parlavano a lui. Qualcuna nota; qualcuna veniente da lontano, ricordata improvvisamente dall'anima; altre erano nuove; una specialmente, terribile, che gli diceva piano: Non dormire, non dormire; ed egli non dormiva.

Tolto questo, stava meglio. Appena, di giorno, ricordava i suoi lugubri fantasmi. Sapeva che la notte era stata spaventosa, a un certo punto. Che egli aveva gemuto e maledetto e pianto, e aveva avuto paura; ma la memoria della mente nulla riteneva di quello che realmente era stato o che era stato nel sogno; ed egli si vergognava quasi di parlarne ai dottori.

—Un po' d'insonnia, solo,—diceva a Veneziani, che lo interrogava.

—Oh, nulla, nulla! andiamo già molto meglio. L'insonnia passerà con lo stato generale di debolezza. Una salvietta fredda intorno alla testa.

A Pacifico Pepi si confidava un po' più.

—Che cosa sarà mai che dormo così poco, e pure sogno, sogno tanto! A occhi aperti, sapete, a occhi aperti?

—È la malattia,—diceva il sapiente domestico, —ma non è nulla. Tutti i malati come ela avevano questo. Bisogna curarsi. Venire al bagno. Oh, io ne ho già viste!

—E gli altri malati, poi?—chiedeva Pepi con una certa ansia.

—Eh… molti son guariti! Allora non hanno più patito di sogni! La mi capisce bene. È una cosa che viene col male e va col male. Del resto la mi ascolti a me, che un poco di esperienza ce l'ho,—e qui abbassava prudentemente la voce—la faccia un infuso di camomilla, la sera, e ne beva una tazza prima di coricarsi. E poi la faccia la cura, la faccia la cura.

Ma Pepi non andava volentieri a far la cura. Star due ore chiuso in quella specie di cabina, con altri sette o otto individui malati come lui, che sputavano, che tossivano, che gemevano, e respirare l'aria compressa medicata di terebentina e di creosoto, era un supplizio in quella stagione così calda, mentre poteva star tranquillamente sdraiato sopra un sofà, fumare una sigaretta, e ascoltare il chiaccherìo di Armanda e di Evelina, o, di lontano, l'umile musica stonata di Sinforosa.

E poi, quando usciva dal bagno, le sue vesti e la sua pelle erano così fortemente impregnati di quell'odore di medicamento, che egli se lo portava anche dietro, in campagna; e tutto il profumo che veniva in giro dai colli, e dalle vigne e dai giardini non riusciva a togliergli quell'odore di dosso. Non ci si era abituato ancora; lo sentiva sempre, gli pareva divenuto palpabile, sodo, quasi l'involucro del suo male, la parte esterna di esso, la sua emanazione fatale. Aveva un bello strapparsi di dosso i panni, fino alla camicia, appena ritornava a casa; poteva lavarsi con l'acqua tiepida, e profumarsi anche con dell'acqua di Felsina che Luisa gli aveva regalato; l'odore odioso restava, nella sua pelle, nei suoi capelli, sotto le sue unghie: odore di male, odore di putredine: ecco, egli era un cadavere che si imbalsamava, perchè non marcisse; una carne fracida, che il dottore impregnava di antisettici, a combattervi il rapido dissolvimento…

La sera, nel piccolo letto che scricchiolava sotto il suo peso, il giovane assaporava amaramente quel lugubre odore. Lasciava la finestra aperta, per respirare meglio, e per cacciarsi d'attorno quel lezzo. Dal balcone giungeva un odore di vite, un po' acre e fresco; erano i pampini di un moscatello che si arrampicavano in giro alla balaustra di legno. Allora l'infermo allargava i suoi polmoni feriti, cercava di assorbire tutta quella buona aria profumata, che si faceva più pura nella notte.

La stanza buia a poco a poco si rischiarava di quel quadrato di cielo notturno, dove scintillavano le stelle; Pepi distingueva chiaramente ogni cosa d'intorno a lui: il piccolo cassettone, la vecchia guardaroba, la sedia, sulla quale la sera aveva deposto i suoi vestiti; fino un quadro alla parete, una litografia di Maria Antonietta, molto vecchia, molto polverosa e sbiadita, chiusa in una sottile cornice di legno nero. Tutti quegli oggetti parevano pieni dell'infesto odore; essi emanavano la medicina e la putrefazione. Ed egli, spalancando gli occhi nel buio, fissava dinanzi a sè un'ombra palpabile, un fantasma putrido, che si andava formando da quelle esalazioni mortali. Era là, e non si poteva scacciare. Riempiva la camera di un'aria greve, verminosa, che gli mozzava il respiro. E il dolore alla spalla ricominciava: un piccolo dolore sordo, come se qualcuno rodesse là in fondo, tarlo implacabile.

Allora il malato passava le sue mani bagnate di sudore piano sul punto dove sentiva il male, premeva piano, come a raggiungere quel tarlo, a soffocarlo: Il dolore cedeva un momento, poi ritornava, piccolo, sordo, gli penetrava più addentro nel petto, gli toccava i visceri, si smarriva nel profondo del suo corpo magro.

Quell'odore e quel dolore! Sempre.

E i grilli cantavano, lontano, nella notte; le stelle scintillavano in quel quadrato di cielo. Pepi, con gli occhi spalancati di terrore, fissava ancora il lugubre fantasma fatto di putredine, che cresceva intorno a lui.

Io penso spessoa un gran vascel perduto in lontananza, con la chigha rotts, solo, tra mare e ciel, ne la buferli…..

La tosse era la sua peggiore nemica. Col tornar dell'inverno era cresciuta atrocemente; era come un animale perverso, che egli nutriva nel suo petto, e che lo divorava. Quando gli lasciava qualche mezz'ora di tregua, egli si sentiva così felice, che tutti gli altri suoi mali gli parevano sopportabili: la puntura continua al petto, il dolore di testa, la mancanza del respiro. Niente, purchè la tosse stesse cheta. Era un sollievo; man mano che passavano i minuti, gli sembrava che non tossirebbe più, che oramai la malvagia bestia fosse morta. Si sentiva così libero, così felice! Parlava allora, provava la forza dei suoi polmoni, alzando la voce, ridendo. Ma nell'intimo della sua anima era il pensiero di sgomento. Non è morta; dorme soltanto; ora verrà… eccola… è qui.

La bestia si annunciava con un titillare insidioso in fondo all'ugola; così, come un lieve prurìto, poco fastidioso. Egli cercava di reprimerlo, di non badarci; inghiottiva violentemente la saliva, imponeva alla sua volontà: Io non devo tossire. Perchè una cosa che era in lui poteva essere più forte di lui? Egli non voleva. E la bestia pareva vinta, taceva un istante; poi, nel momento in cui egli già sperava, essa irrompeva secca e violenta. Lo assaltava, venendo su dal profondo del petto, dilaniandolo. Erano morsi furiosi, come se la belva avesse fame di lui; e lo scotevano così rabbiosamente, che tutti i suoi visceri ne erano sconvolti, e i colpi gli andavano dal ventre alla testa, come uno spietato martello.

Poi, quando gli ultimi rantoli gli riempivano la bocca di un liquido viscoso e amaro, e sputando gli pareva come se mandasse fuori a pezzi i suoi polmoni, l'attacco cedeva, lentamente; gli spasimi si facevano meno atroci, fin che Pepi rimaneva agonizzante, sfinito, col volto cadaverico bagnato di gelido sudore.

Quando quella orrenda tosse incominciava, Luisa andava via, si chiudeva nella sua camera, metteva la testa fuori del balcone, nell'aria gelida, per non sentirla più. Le era impossibile sostenere la vista di quel martirio; quel lungo corpo spaventevolmente magro, sbattuto come un misero cencio, quella bocca rantolante nella faccia stirata e convulsa… quelle mani adunche, giallastre, che tastavano intorno, cercando aiuto…

Ma le notti si facevano più tremende, le gelide notti invernali, eterne per gl'insonni. La giovane donna si svegliava, chiamata ancora da quell'appello di morte. Tutta la casa risuonava di quei colpi orrendi; pareva che un'eco funesta li moltiplicasse, attraverso le stanze buie, per scuotere dal sonno tutti i dormienti. Perchè qualcuno poteva ancora dormire; il terribile suono non giungeva a tutti i cuori. Luisa udiva vicino a lei il ritmo dolce del respiro dei bimbi; ella tremava che essi potessero udire, che quei rantoli lugubri si posassero, come spaventosi incubi, sui piccoli petti…. Tendeva ansiosa l'orecchio… No; essi continuavano a dormire; il ritmo dolce e lene fluiva dalle care bocche, che ella indovinava socchiuse.

Le giungeva anche, dalla stanza vicina, il russar forte e monotono del marito. Egli poteva dormire! Nulla lo turbava mai nei suoi grevi e placidi sonni d'uomo che lascia venire tranquillamente la vita, di ora in ora, senza intenderne il terribile significato…

E mentre dalla tetra camera del malato giungevano sempre più cupi gli schianti, ed ella tendeva l'orecchio, come affascinata, col cuore che le si torceva di spasimo, vedeva aperti nel buio forse gli occhi di Evelina, che ella sapeva facilmente insonne; mentre Armanda, certo, dormiva, come sempre, con la testa bruna penzoloni sul letto, dal quale toglieva i cuscini, affondata nel materasso, avvolta nelle coperte, abbandonata profondamente, come morta… mentre Miciloti russava, seduto sui piedi di lei…

E quando infine un greve gelido silenzio seguiva il morir rantoloso degli ultimi colpi, essi due soli vegliavano ancora, per lungo tempo, nel buio; da lontano, con gli occhi spalancati, attraverso le pareti, si guardavano, si trovavano; egli incontrava gli occhi di lei, pieni d'amare lagrime, ella vedeva gli occhi del fratello dilatati in una immensa angoscia…

Eppure il fratello e la sorella si parlavano di rado, ora, e poco parlavano di quello che era il loro continuo, comune doloroso pensiero. Avevano anche trovato la forza di mentir l' uno all' altro. S'incontravano sorridendo, benchè senza guardarsi negli occhi; Luisa diceva con voce allegra: Come va? Egli rispondeva con disinvoltura: Così!

Poi si metteva a enumerare i suoi mali, ridendo con acre motteggio. Oh già, quanto a dormire era una cosa di cui si era abituato a far senza! La febbre, sì, naturalmente, ogni notte; forse che si poteva vivere senza febbre? I dolori… già; quel tale dolore al petto; incominciava alle spalle e veniva giù, giù, fino a mangiargli la milza… Poi c' erano i mali ai quali accennava copertamente, per riguardo a sua sorella. L' emorragia che da qualche tempo lo assaliva, lasciandolo privo di forze; e, in mancanza sua, la dissenteria, con mille disturbi, nausee e dolori… Inutile poi parlare della testa, dove gli pareva avere un martello che picchiasse costantemente nel vuoto; della gola, che gli bruciava, come se ci fosse una piaga, e gli impediva di parlar forte (la voce infatti ne usciva rauca, velata…), delle debolezze, dei sudori, delle vertigini; di tutti i mali che lo premevano, lo battevano, lo soffocavano; povero essere travagliato senza misericordia.

Luisa ascoltava e, rabbrividendo, sorrideva anche lei.

—Bisogna aver pazienza. È l'inverno. Anch'io non sto bene. è il freddo. Come si fa a guarire? Non vedi? O piove o nevica. Un orrore. Solo, copriti bene. E, mi raccomando, non uscire la sera.

Da lungo tempo era una raccomandazione inutile. Pepi non usciva più la sera. Oramai il suo orario era stato da Jourdain riaccomodato così, che egli faceva un minimo orario d'ufficio, e poi subito tornava a casa. Di là non si muoveva più. Sdraiarsi sul divano nella camera da pranzo; guardare i bimbi giocare; ascoltare le chiacchiere di Armanda e di Evelina; sorbire ogni tanto qualche gocciola o qualche pillola; leggiucchiare, dormire tra un colpo e l'altro di tosse; ecco ciò che ora Pepi faceva, ciò che di tutta la giornata gli era meno doloroso.

Andava anche, una volta al giorno, qualche volta due, allo stabilimento del dottor Veneziani, dove Pacifico lo accoglieva sempre con sorrisi incoraggianti. Ma Pepi pareva perdere, un po' alla volta, ogni fiducia, anche nei bagni aerei del dottor Veneziani e nelle ricette di Pacifico. Quando ne parlava a Luisa era oramai in tono di motteggio:

—Oggi il dottor Veneziani mi ha fatto coricare sul letto (un letto duro, veramente, fatto di acciaio…), e mi ha disegnato tutto il mio male sulla pelle. È una bella soddisfazione vedere il ritratto dei microbi sul nostro petto. Sì, davvero; tutto il posto occupato da quei signori l' ha segnato in rosso. In bleu ha segnato i pezzi di polmoni, che rimangono. Lui però dice che va bene. Sicuro. Dice: Ah, qui c'è una caverna nuova. Niente paura. La metteremo subito a posto. La chiuderemo. Come, come! Qui un tubercolo? Via! Lo distruggiamo subito! Mi fa un segno rosso sul petto, e quel buon dottore è così soddisfatto, come se il tubercolo fosse distrutto. Io tossisco. Si capisce… la tosse! Faccia pure… È buon segno. Oh, andiamo bene! Fra sei mesi lei è guarito clinicamente.

Luisa aveva un riso stridente per quei funebri scherzi.

Qualche volta Pepi le contava i casi degli altri malati.

—Sai? C' era un uomo, uno venuto dall' America anche lui, ma ricco! Era tisico. Veneziani lo ha curato. Quindici giorni fa gli ha detto: Lei, clinicamente, è guarito. Oggi è morto, povero diavolo!

Sotto quel riso Luisa ormai indovinava la sfiducia crescente nel dottore, la paura più forte e prossima del male, che Pepi non fingeva nemmeno più di ignorare. Egli parlava chiaramente dei suoi polmoni logori, delle caverne, dei microbi, e diceva ad alta voce le terribili parole: tubercolosi, etisia… Egli sapeva; allora qual dubbio, quale speranza poteva più rimanergli? Ella lo ascoltava con stupore profondo, quando Pepi parlava, con apparente convinzione, della guarigione dei tisici, della sua, e attribuiva al medico e al suo sistema quel peggioramento, che egli non poteva dissimulare!

Fingeva Pepi? Fingeva per le sorelle, per non immergerle nella disperazione, che danno i dolori a cui non è rimedio? O si illudeva egli stesso? Era possibile che un giovine intelligente e coraggioso ingannasse a quel punto la propria coscienza? E Luisa sperava ardentemente che così fosse, che egli non sapesse mai, fino all'ultimo, ciò che empieva di sgomento lei; che egli non si accorgesse della dissoluzione!…

Ma come questa procedeva terribile, fatale! Quel lungo corpo magro come si curvava, come pareva vuotarsi, diminuire, consumarsi sotto il morso segreto del male! Come le spalle si erano incurvate, e le gambe stecchite parevano dolorose e fiacche a reggere quel torace di scheletro! E il viso era solo un osso e sopra la pelle gialla; le orecchie si staccavano cartilaginose, trasparenti sul collo; il riso stridulo, a scatti, scopriva tutti i denti, lucidi, lugubri, tra le labbra bianche. Un cadavere già, già imbalsamato di quell'insopportabile odore; di quella resina, di quel catrame, di creosoto, di trementina, di mentòl; tutto ciò che doveva impedire la corruzione, la putrefazione… Ah, quell' odore! Quando Pepi usciva dal suo bagno d'aria, non osava avvicinarsi alla gente per la strada; non osava sedere nel tramway, dove tutti si voltavano, stupiti, a guardarlo, facendo smorfie di disgusto. E all'ufficio gli avevano oramai dato una stanza a parte; perchè aveva un orario a parte, perchè lavorasse meglio… Ma Pepi sapeva bene perchè. E sapeva perchè i suoi antichi amici, i colleghi d'ufficio lo evitavano… Quell'odore era più insopportabile del pensiero del male…

Qualche volta Luisa lo incontrava sul corso Umberto, quando egli tornava dal bagno, per recarsi all'ufficio. Così smunto, così curvo, col viso coperto dal cappello, le spalle inclinate, il petto vuoto, egli trascinava la sua affranta persona, come un ferito che cerchi un riposo, un letto o la tomba.

Ella svoltava la strada, fingendo di non vederlo, senza avere il coraggio di avvicinarsi, di dirgli una parola.

Un giorno, una sera anzi, perchè in dicembre è notte alle cinque, Luisa lo vide in piazza Vittorio, mentre tornava dallo stabilimento. Pareva più curvato, più rotto, piagato, così crudelmente, così nel profondo, che ogni passo gli costava un gemito. Ella si fermò un momento a guardarlo, compresa di orrore. Poi, come spinta da un urto violento, pallida, ansiosa, si diede a correre verso di lui. Passava un carrozzone del tramway; Pepi levò il bastone, gli fece disperati segni di fermare. Forse il conduttore non vide, forse non poteva in quel punto; forse, vedendo un uomo giovane, credette che egli potesse da solo raggiungere il carrozzone… La corsa non si rallentò; il veicolo attraversò diagonalmente la piazza. Il giovane gli corse dietro allora, raccogliendo tutte le sue forze; lo raggiunse ansante, si aggrappò ai ferri, montò… Luisa giungeva nello stesso punto, riuscì a prenderlo fra le braccia, a farlo posare sui cuscini… Lagrime ardenti le piovvero dagli occhi su quella povera faccia consunta, su quella bocca agonizzante…

Poi egli spiegò. Il dottor Veneziani, quel giorno, gli aveva fatto l'iniezione al polmone. Era una operazione così difficile, così dolorosa, che subito dopo egli si era sentito invadere dai sudori della morte. Avrebbe preso volentieri una carrozza, ma gli rincresceva la spesa. Sperava di raggiungere senza fatica il tramway; quella corsa lo aveva sfinito… Tutta la notte delirò, sbattuto dalla febbre, trafitto da mille punture.

Qualche volta Luisa si domandava tremante come avrebbe fatto a sopportare tutto ciò, ad andare sino alla fine. Il supplizio si faceva così atroce, che ella chiudeva gli occhi, rabbrividendo, giungeva le mani disperata, pronta a precipitar nell'abisso. Non c'era alcuna via, non c'era alcuna speranza. Nessuna forza umana avrebbe distolto gli infelici dalla mèta fatale che li aspettava. Il fantasma della morte era entrato nella casa, vi aveva preso posto; vi sedeva muto e inesorabile, scivolava silenzioso negli angoli, si rizzava dalle pareti oscure.

Luisa ne aveva la visione certa, palpabile.

Quando tornava a casa, verso sera, entrava nel corridoio già buio, sentiva l' odore, che restava dove Pepi era passato, e vedeva nella parete destra brillare tenue il lume dietro la porta smerigliata della camera di lui, ella vedeva, veramente vedeva rizzarsi qualcuno presso quel muro, sfiorarla con ala molle, bagnarla di odore di muffa… Ella sapeva chi era, e che nessuno più avrebbe cacciato di casa quella padrona.

Lei stessa non era più la padrona in quella casa. Da due anni non lo era più. Una terribile potenza l'aveva invasa; l'uomo venuto dai paesi lontani, l'uomo che le era fratello, eppur straniero, guidato egli stesso da una fatalità crudele e cieca, l'uomo segnato dal dito della follìa e della distruzione, vi aveva portato, entrando, il male e la paura; aveva infettato le pareti, aveva ammorbato l'aria, aveva avvelenato ogni gioia, ogni lavoro.

Luisa sentiva quel veleno salire da ogni parte, come un' onda putrida; scendere dall' aria, salire dal pavimento insozzato dagli sputi infetti, esalare dai mobili toccati dalle povere mani esangui…

Come difendersi da quel male, da quel morbo, e come, ah, come salvarne i suoi cari? I suoi piccoli bimbi specialmente; Nepo coi suoi polmoni fragili dentro al torace delicato; Mimì e le sue vene povere di sangue; Vittorio, il più giovane, con gli ossicini così sottili, così acuti, che la madre fremeva di paura, quando lo prendeva tra le sue braccia per carezzarlo! E c'erano anche le due ragazze, Armanda ed Evelina, nessuna troppo robusta; eppoi ostinate, eppoi ignoranti che sfidavano il veleno, con tranquilla imprudenza, sorridendo alle raccomandazioni ansiose di Luisa!

Ella si sentiva impazzire, ella si smarriva in questa folle e inutile guerra contro l' implacabile nemico. Il pensiero atroce di quell'ambiente tutto pregno di veleno non le lasciava più pace. I microbi maledetti scaturivano tutto intorno, fluttuavano nell'aria, penetravano nei polmoni, nelle pieghe delle vesti, nei bocconi che si ingoiavano amari e scarsi! Ella non pensava più che a distruggere il micidiale esercito, che a salvare dall' orrendo contagio i suoi figli! Ma come fare? Quale precauzione avrebbe potuto bastare, quale rimedio, poichè il focolare del male era lì, presente, e ad ogni soffio di respiro, e a ogni colpo di tosse si diffondevano per la casa miriadi di nuovi esseri, che nascevano dalla putrefazione e vivevano della morte?

Quella paura diventava così sensibile che a Luisa pareva di toccare nell' aria, densi e vivi, i terribili nemici; li cercava nelle pieghe delle stoffe, li vedeva attaccati agli oggetti della casa; e il suo ribrezzo cresceva insieme al terrore; avrebbe voluto passare in quei corridoi, in quelle stanze senza respirare; tirava a sè le vesti, sguisciava tra i mobili evitandone il contatto.

Quel senso di malessere si faceva più doloroso quando Pepi era presente. Il tocco involontario della mano di lui, lo sfioramento delle vesti, la vicinanza del respiro davano un sussulto a Luisa, e quando i suoi bimbi si accostavano allo zio, quando le loro mani toccavano le cose di lui, la madre sentiva il gelo stringerle le tempie, scenderle in un brivido per la nuca, e a stento ella ratteneva un grido di angoscia, di disperazione… Poi chinava la testa, come vinta: A che lottare? La fatalità la stringeva da ogni parte.

Ne aveva ben parlato anche a lui. Ma timidamente, velatamente, sentendo il cuore disfarsi dalla pena.

—Ti raccomando, sai… per i bambini… Son così gracili… e respirare sempre l'aria d'un malato, aver contatto con lui… Bada, ti prego, Pepi!

Egli cercava di rassicurarla. Egli prometteva la massima prudenza. Ma quando Luisa ritornava a casa, di giorno, lo trovava spesso seduto sul divano nella stanza da pranzo, dove pure i bambini qualche volta sedevano.

Perchè? non capiva egli, non sapeva?

Oh sì, egli sapeva! Ma l'anima sua si ribellava forse alla convinzione fatale, oppure si addormentava in una sonnolenza strana, in un'atonia del pensiero, che gli impediva qualche volta di uscire dal suo proprio io, di comprendere gli altri, e di fare uno sforzo per loro.

Il suo male lo aveva tutto conquiso in modo che nessun'altra idea aveva lunga presa sul suo cervello. Egli lo covava col pensiero, lo cercava, lo inseguiva fin nel fondo del suo sangue e dei suoi nervi. E gli faceva guerra, senza tregua, prendendo a tutte le ore medicine, andando ogni mattina al bagno aereoterapico, sforzando il suo stomaco a ricevere una quantità di cibi che dovevano fargli bene.

Ogni tre o quattro giorni il dottor Veneziani gli faceva le iniezioni al polmone, ed era sempre una cosa terribile. Prima una fitta dolorosa, proprio lì, nel mezzo del male, dove più ardeva la piaga; poi i sudori della morte, la febbre… Egli doveva trascinare quindi il povero corpo torturato fino a un tramway che lo portasse vicino a casa. E poi erano le scale da fare. Oh, quei tre piani, scalino per scalino; tanti coltelli nel petto, tanti momenti di agonia!

Anche gli si era abbassata la voce, era divenuto rauco; sentiva qualche cosa nella gola, come un velo, come una piccola ragnatela attaccata alla ugola, e per quanto tossisse e sputasse non si distaccava più. Ne aveva parlato prima con Pacifico, in confidenza; Pacifico gli aveva indicato una decozione di tiglio e gomma, veramente miracolosa. Ma, poichè la voce si velava sempre più, e la ragnatela non voleva staccarsi, Pepi si decise a parlarne al dottore.

—Non è nulla—disse Veneziani allegramente; —è cosa che guarirà col resto.

Tuttavia gli diede l'indirizzo del dottor Gallo, specialista per i mali di gola.

Il dottor Gallo gli faceva tirar fuori violentemente la lingua e gli cauterizzava l'ugola, dove una leggiera piaga bianca appariva.

—Questo guarirebbe se guarissero i polmoni, —diceva.

Ah, se guarissero i polmoni! Ma come farli guarire! Giorno e notte il poveretto ci pensava, sbarrando gli occhi nel vuoto, cercando se un mezzo fosse scritto nell'aria, nei libri, nel viso di chi gli parlava. Non c'era nessuno che sapesse? Come! dopo tanti secoli, nessuno che avesse trovato? E s'erano inventati tanti cannoni, e s'erano scoperti tanti segreti; solo quello no; non si sapeva ancora distruggere un organismo così piccolo, una bestiolina invisibile, laggiù, nel fondo dei polmoni!

Non che gli facesse paura il pensiero della morte. Ma gli appariva nuovo, non sapeva abituarvisi. Perchè morire? Muoiono quelli che hanno vissuto; che sono giunti a qualche cosa, che hanno fatto qualche cosa.

Ma lui! Aveva girato per il mondo, eterno ebreo, e non aveva ancora trovato nulla! Ora gli avevano dato quel cantuccio quieto, in quella casa della sorella; non potevano lasciarlo lì tranquillo, godere di un pezzo di pane sicuro, di un letto morbido per le sue povere ossa, anche di quel ridere sereno dei bimbi, e del cinguettìo delle ragazze? tutte cose buone, cose dolci, che non aveva avuto mai!

Questo pensiero di rancore e di sgomento lo occupava così, che tutti gli altri, anche i più cari e consueti, cambiavano fisonomia, gli parevano lontani.

Una sera che Vincenzo commentava una notizia portata dai giornali: condanne e repressioni ai socialisti, processi iniqui, prepotenze feroci, Pepi ritrovò bene, per un momento, l'antico entusiasmo. Sugli zigomi gli apparvero due striscie di fuoco; gli occhi, che da qualche tempo avevano sguardi fissi e glaciali, brillarono: vi passava una folgore.

—Ah,—esclamò egli, con quella voce rauca, lugubre, che fece rabbrividire Luisa, come un appello di morte,—sì, metteteli in prigione, torturateli, cacciateli per il mondo, come se fossero cani arrabbiati; tanto non riuscirete a far nulla, non potrete impedire quello che deve accadere. A noi non c'importa, capite, di soffrire e di morire; non abbiamo paura noi!

Tacque, un brivido gli andò dalla nuca alle reni. No, no, mentiva; egli aveva paura. Ecco, tutte le sue spavalderie finivano miseramente in un colpo di tosse. Ah, che triste buffonata fare il bravo con quelle braccia stecchite, con quel petto vuoto, ansante, rotto dagli spasimi!

Qualche volta invece l'imminenza del pericolo gli dava un fiero e tetro coraggio. Poi che la sua vita valeva così poco, poichè la fine era prossima, e l'avvenire inesorabilmente chiuso, non valeva meglio adoperare le estreme forze in qualche meravigliosa azione, che scuotesse tutto l'ordine delle cose esistenti, e d'un colpo solo portasse l'umanità vicino all'ideale, che era il sogno delle sue notti di febbre? Poichè per quella immensa cosa egli avrebbe dato ben poco: Una vita presso a finire, pochi giorni desolati, privi di sole, torbidi già delle tenebre e dell'odore della tomba.

Imaginava l'opera sublime, che avrebbe trascinato alla fede i più increduli, e dato coraggio ai più timidi. Pensava un grande ardimento: Adoperare le poche ultime forze a chiamarsi dintorno i diseredati, i poveri, gli intelligenti. Predicare il nuovo vangelo con l' ardore del credente, che aspetta il martirio. Parlare ai semplici, agli ignoranti, raccoglierseli intorno; dire: Voi vedete, io non voglio nulla per me; io son moribondo; ma se voi mi ascoltate, il mondo sarà vostro e dei vostri figliuoli. Quella chimera, che chiamano felicità, diventerà un ideale prossimo, palpabile, alla portata delle vostre mani. Via, solo un po' di coraggio oggi, un po' di forza, e la conquista sarà per sempre. Stringetevi intorno a me; noi non abbiamo nulla da perdere. La galera vi libererà dalla fame; la morte ci libererà dalla vita.

Ah, scendere sulle piazze, nelle strade profonde, in uno di quei freddi e umidi mattini di inverno, sotto la gelida nebbia, sotto il nevischio, a capo di tutta quella legione di affamati! Condurli con sè tutti: quelli che hanno consumato le forze in un lavoro iniquo, quelli che la fame ha accecato, e la febbre ha vinto; tutti, anche le donne macilente e i bimbi agonizzanti; ma anche i forti, i giovini; quelli accesi di fede e di entusiasmo; con le mani armate degli strumenti di lavoro; con il pensiero pronto alle barricate. Alto sull'immensa folla lo stendardo rosso e nero; spaventoso e terribile il grido della rivoluzione.

Sognava un sogno di sangue, e poi una pace, uno splendore!…

Ma una trafittura del male, proprio là, in mezzo al petto; uno schianto di tosse era il risveglio. No, no; era inutile, era inutile; egli non serviva più a nulla, non era più buono; quel suo corpo esausto, giallo, magro, che faceva spavento, era da buttare in una fossa, nient'altro. E sentiva bene come anche la sua volontà s'illanguidiva; come le sue proteste di forza e di sdegno non erano che effimere millanterie, esaltazioni artifiziose, alle quali l'anima non prendeva più parte. In fondo nessuna cosa gli importava più, nessuna; fuorchè di trovare pace, di star finalmente quieto; e, sopra tutto, di non sentir più quel dolore e quell'orrido solletico della tosse… Tornare sano, ancora, come era stato fino a poco tempo prima; ah, godere delle sue forze; usare delle sue gambe, respirare facilmente, muoversi, parlar forte, ridere… guardare con sereni occhi le cose intorno a sè; gustare il cibo, sentir anche la fame, dormire… essere un uomo, infine, un uomo, e non una miserabile forma vivente a stento, non un cadavere, tenuto su a forza di iniezioni al polmone!

Si ricordava ora quando era stato sano; non sapeva più capire come ciò fosse, e come egli aveva potuto godere così poco allora di una felicità tanto grande, come non aveva saputo apprezzarla. Come era vissuto allora? Si levava su la mattina, mangiava, usciva per le strade, sbadatamente, senza quasi vedere se c'era il sole o no, occupato chi sa in quali inutili pensieri. Andava al lavoro, malcontento; parlava con compagni, di cose vaghe, di cose che egli, adesso, non sapeva più… Poi passeggiava, si cibava, beveva anche, la sera; passava parte della notte in compagnie rumorose; logorandosi così il corpo, consumando i suoi occhi nell'insonnia, rovinando il suo stomaco; e mai, mai egli allora si era rallegrato di essere sano, di essere forte; e mai aveva pensato alla malattia! E così facevano tutti gli uomini sani, tutti; vivevano stupidamente, giorno per giorno, senza ricordarsi della loro fortuna, senza temere di perderla; sprecando anzi il loro tesoro; eppure quanti sarebbero stati felici, solo che si fossero rammentati ogni tanto: Io son qui; cammino, parlo, mangio; l'aria è buona, il cielo è azzurro; qui intorno ci son gli alberi; c'è la gente; io vedo tutto questo; io esisto in mezzo a tutto; e non ho nessun male! Certo, v'erano quelli che avevano fame; v'erano quelli che avevano freddo; no, egli non aveva dimenticato le sue teorie! Ma infine veniva il momento in cui anche il più miserabile si sfamava e si scaldava; il tormento della fame si acquietava in una soddisfazione profonda; il corpo stanco si assopiva delizionsamente in un sonno che poteva anche portare al mendico un sogno di beatitudine e di ricchezza. Ma lui, lui non poteva mangiare, non poteva dormire, nè acquietarsi mai, in nessun luogo, perchè il suo male vegliava, la bestia lo divorava continuamente.

Se chiudeva gli occhi, egli vedeva, sensibilmente, il guasto che si faceva dentro di lui. Vedeva nei suoi polmoni le caverne allargarsi; la cancrena camminare, lentamente, dall'apice in giù; rodere, senza tregua, tutto il fragile tessuto. Vedeva così, come se i suoi polmoni fossero riflettuti dai raggi Röntgen, sulla lastra, al di fuori di lui; come aveva veduto i polmoni di quella povera ballerina, un giorno.

Era oramai il suo pensiero fisso, giorno e notte.

Gli tornava continuamente nel pensiero il libro di Tolstoi, con quell'Ivan Illich, e il suo rene mobile; si sentiva invaso dalla stessa follìa; la contemplazione incessante della sua interna rovina: la ricerca affannosa di un rimedio introvabile.

Pure si attaccava alle cose terrene con egoismo crescente. Mangiava poco, ma cibi delicati e strani, che costavano molto. Spesso, tornando a casa dall'ufficio, aveva in mano un pacchettino di roba golosa; salame fino, una fetta di pasticcio, un pezzo di pollo, o pesci in gelatina, o frutta rara… Metà del suo stipendio se ne andava così; il resto in medicine, tutte carissime. Egli se ne scusava con Luisa, si rammaricava di non poterle più dar quasi nulla… E aveva anche bisogno di un vestito; quello dell'anno scorso aveva i buchi ai gomiti.

Luisa chiamò ancora il sarto, e firmò una carta con cui si obbligava a pagare, a cinque lire la settimana, un vestito per il fratello. Ma egli ebbe un bel costume nero, elegante, di stoffa greve; e quando la sorella lo vide vestito così bene, e così felice di aver un'aria da signore, così felice, o povero filosofo anarchico! ella non rimpianse la grossa somma di cui si era fatta debitrice; e volentieri l'avrebbe pagata subito, se avesse potuto.

Ma la vita era sempre più difficile, con quel malato in casa, e Luisa faceva gravi sacrifizi per tirare innanzi. E nell'inverno ci volevano tante cose di più! Più gas, e carbone nella stufa, e vesti calde per i bambini, e maglie, e calze di lana, e scarpe forti! Tante spese che qualche volta ella si sentiva mancare il coraggio, e guardava con crescente terrore all'avvenire pieno di minaccie.

Pure bisognava soffrire in silenzio, e non lagnarsi, anzi mostrare al malato un viso sorridente.

Di nuovo giungeva il Natale; come triste, mio Dio!

Ma ella non voleva apparire triste, ella voleva trovare anche per lui qualche cosa che lo facesse esser lieto quella sera. Ora che egli era così ben vestito, gli mancava un oggetto, un complemento necessario a quella sua figura di signore, e che certo doveva procurargli una grande gioia.

La sera di Natale, spiegando la sua salvietta, lo trovò in una scatolina di cartone. Era un orologio di argento, con la sua bella catena di metallo ossidato, che terminava in una grossa medaglia di San Giorgio: In tempestatae securitas.

Pepi prese l'orologio tremando di commozione, e non riuscì subito a trovare le parole del ringraziamento.

—Ho voluto far un dono a ogni bambino—disse Luisa scherzando.

Pepi guardava e riguardava il bell'orologio.

—Sono cinque anni che non l'ho più. L'ultimo l'ho venduto, in America. Un orologio come questo, ma non così bello. Già, mi rammento che un giorno avevo l'orologio e non avevo scarpe. Naturalmente ho rinunciato subito a quel lusso. Da allora in poi… Oh, questo mi servirà magnificamente!

Si fece così allegro che scherzò tutta la sera, ritrovò i suoi ricordi d'America, fece ridere i bambini.

Luisa lo guardava. Sotto la luce gialla della lampada, che gli pendeva sulla testa, il viso del giovine appariva di un pallore cupo; dense ombre erano attorno al naso, sulla nuca, sotto gli zigomi. Quando egli rideva, i denti si scoprivano tutti, lucidi, come quelli di un teschio. Parlando, egli rifaceva stasera un gesto antico delle mani, spingendo i gomiti con moto misurato, allungando le dita; ma quelle dita erano ossute, bianche, davano un'impressione di pena e di ribrezzo.

Egli beveva qualche sorso di vino, sforzandosi di non tossire; si animava sempre più; brevi macchie rosse gli segnavano il viso. Raccontava dei suoi compagni d'ufficio, ne faceva bonariamente la caricatura, come allora! Il poetino superuomo, l'incorreggibile bevitore, il povero Cretinowski, e anche l'avvocato Sadi, e altri colleghi e superiori passarono in rassegna, con i loro difetti, sotto la sferza del motteggio di Pepi. Erano scherzi senza malignità, osservazioni umoristiche, esagerazioni di ridicolo, che egli sfoggiava per divertire la compagnia, per stare allegri un po' insieme, quella sera.

Ma presto ricadde nel suo pensiero fisso, e insensibilmente il male ritornò nel suo discorso; gli scherzi divennero funebri. Furono i suoi compagni del bagno aereoterapico, i malati come lui, e i medici, e Pacifico, quelli che Pepi chiamò intorno a quella mensa di Natale, a rallegrarlo come tristi buffoni.

Un cuoco arricchito in America, che vi aveva contratta la tisi; una signora grassa, vedova di un usciere, che, non avendo meglio da fare, si era messa in testa di essere ammalata; un povero diavolo magro come lui, che tossiva ancora di più, e aveva già cambiato dieci medici. Anche quelli che erano morti, dopo inutili cure; uno a cui il dottor Veneziani aveva promesso che sarebbe presto guarito clinicamente.

—È magnifica questa espressione, vi pare? Egli vi picchia il petto, vi tasta, vi osserva coi raggi X, e dice: Non c'è più nulla da fare. Lei è guarito clinicamente; vada pure! Ma, dottore, io ho la tosse, io ho la febbre ancora, io mi sento male!… Impossibile! Tutti questi fenomeni cesseranno. Vedrà, lei è guarito, le dico. E quando il povero diavalo se ne va all'altro mondo, ha almeno la soddisfazione di andarvi guarito… clinicamente.

Ridevano tutti, anche Luisa. Ma ella guardava quel viso distrutto, ascoltava quella voce rauca, e quello stridulo riso, e pensava:

—Sarà questo l'ultimo Natale?

«Così mi sono stati dati per eredità dei mesi molesti; e mi sono state assegnate per parte mia notti penose.

Se mi son posto a giacere, dico: Quando mi leverò? quando sarà passa ta la notte? e mi stanco di dimenarmi fino all'alba.

La mia carne è rivestita di vermini e di gromma di terra; la mia pelle si schianta e si disfa.

I miei giorni sono passati via più leggermente che la spola del tessitore, e son venuti meno senza speranza.

La mia vita è un vento e l'occhio mio non tornerà più a vedere il bene.

L'occhio di chi mi vede non mi riguarderà più; se tu rivolgi gli occhi verso di me, io non sarò più.

Come la nuvola si dilegua e se ne va via, così chi scende nel sepolcro, non ne salirà più fuori.

Egli non ritornerà più a casa sua, e il luogo suo non lo riconoscera più».

(Giobbe, 7).

Quando, dopo quella nebbiosa quaresima, Pepi udì, in un giocondo mattino d'aprile, sonar le campane di passione, egli s'accorse che era ritornata la primavera.

Dolce, pallida, con un lieve riso di sole tra gli alberi che si inchiomavano a nuovo. Egli c'era dunque arrivato; era ancora vivo; e non si sentiva nemmeno peggio, no, benchè avesse passato insonne la notte, benchè le scale gli pesassero assai, e i dolori gli pungessero il petto come aghi.

Ma un prepotente bisogno di vivere lo riassaliva. Mentre andava per il viale, passo passo, appoggiato al bastone, socchiudendo la bocca nel respirar faticoso, veniva all'alta sua angoscia il conforto di una sottile e nuova ebrezza, come se un soffio di follia beata agitasse i rami lievi, e il succhio fosse un liquore portentoso. Come! non sarebbe egli guarito! Ma se voleva guarire! Se non stava molto meglio, era colpa dei medici. Cosa mai gli avevano fatto da tanti mesi! Niente di bene. Lo avevano tormentato; gli avevano rovinato la testa con i narcotici, lo stomaco con gli antisettici, i suoi poveri polmoni con i sottili aghi terribili, che li iniettavano di veleni febbrili. Ma una cura vera nessuno gliel'aveva fatta.

Avevano preso il suo corpo per farvi sopra degli esperimenti. Proviamo questo, proviamo quest'altro. Tutte cose nuove, tutte pericolose. Non credeva più nella scienza, poichè essa non è che un'arte di ciarlatani; almeno i vecchi qualchecosa di più ne sapevano; andavano più adagio, e si vedevano dei miracoli.

Gli veniva ora in mente quel dottor siciliano, di cui un suo amico, all'ufficio, gli aveva parlato. Era uno che guariva la tisi. Aveva certi suoi rimedi speciali: un segreto. Pepi aveva letto nelle quarte pagine dei giornali l'annunzio: Uno specifico infallibile! Con poche settimane di cura si ottenevano effetti meravigliosi! Quel suo amico aveva avuto per molto tempo la sorella malata. Tutti i medici l'avevano spedita. Tisica, marcia. Un cadavere ambulante, uno scheletro; e tosse, e sputi di sangue. Ebbene, quel dottore le aveva detto: Vi guarisco in sei settimane. In sei settimane era guarita. Tornata grassa, rosea; niente più tosse, appetito, buonumore; un miracolo, insomma. Solo che a quel dottore si pagavano cinque lire la settimana; e le medicine costavano anche care. Veramente l'amico gliene aveva parlato da un pezzo; ma egli non aveva osato dir nulla a Luisa; non voleva far la figura di un ignorante, che crede agli empirici; e poi il dottor Veneziani che avrebbe detto? e poi la spesa… ancora tanti soldi, povera Luisa!

Ma, se quel dottore lo faceva guarire… non ci credeva mica, veh, lui! tutti ciarlatani! Ma se, insomma, la cosa accadesse… Cinquanta lire più, cinquanta meno, non era poi la morte. Si poteva ben tentare. Se n'eran visti dei casi. Tanti, che parevano ridotti agli estremi, e poi, d'un tratto, con un rimedio semplicissimo, ecco, guarivano. Lui, poi, che era giovine, e aveva volontà di vivere! Chi sa, quel dottore, chi sa!

Quando fu all'ufficio, andò subito in cerca di quell'amico.

E così, come andava? bel tempo, eh! Quasi caldo.

E… a proposito, l'indirizzo preciso di quel tale dottore? Ma guariva egli proprio, eh, con quelle sue medicine? Non già che egli ci credesse, ma insomma, dei casi se ne son visti, e così, per tentare…

L'amico gli raccontò per la decima volta la miracolosa guarigione della sorella.

—Figurati, uno scheletro, un cadavere ambulante… E poi una tosse!… Ebbene, in sei settimane, niente di più… Mangia, dorme, riprende le forze…

Pepi trovò molto lunga quella mattinata, e non vedeva l'ora che venisse mezzogiorno. Ripassò per quei viali, per quelle strade… V'era molta gente, che andava a casa, in fretta. Parevano tutti vestiti a festa, perchè splendeva il sole, ed era così giocondo, così ricco! Pepi non poteva correre; dovette andar adagio adagio appoggiato al bastone.

Era anche più stanco di quando era uscito, la mattina; sentiva ancora suonare lente e gravi le campane annunzianti il prossimo martirio supremo del Dio; e quel suono gli parve tristissimo, funebre, come se accompagnasse la sua propria agonìa. Fra pochi giorni il Dio morto risusciterebbe; sarebbe Pasqua. E l'inverno orrendo, che tanto lo aveva tormentato, cederebbe alla tiepida primavera; i giorni di sole torneranno; tanto sole; dall'alto dei cieli fin giù nelle strade più oscure, fiu giù nei cuori più oscuri. Oh, se egli avesse potuto riscaldarsi ancora! Allargare i polmoni a bere tutta quella dolce aria, sentirsi vivere di nuovo, vivere; senza dolori, senza tosse!

Quel dottore, quell'incognito, gli appariva ora come una visione di speranza beata. Perchè non potrebbe guarir lui, giacchè aveva guarito la sorella del suo amico! E, se non potesse proprio guarirlo; se potesse solo ridargli un po' di forza, ridargli la vita per qualche anno… Pur restando così, con qualche dolore vagante qua e là per il corpo, con qualche colpo di tosse, ogni tanto… Ebbene, perchè no? Egli avrebbe pazienza, egli terrebbe con economia quel po' di vita, quel po' di forza; non le sprecherebbe più… Anni, anni, anni… un dopo l'altro; quieti; la primavera, l'inverno… alberi verdi, alberi brulli e neve… sempre così; e lui passante per quei viali, piano piano, appoggiato al bastone…

Perchè no?

A tavola spiò il momento buono, e parlò di quel dottore a Luisa. Ella non si stupì. Lei pure aveva letto quegli avvisi sui giornali; anche il suo cuore si era attaccato una volta a quella speranza.

—Vuoi provare?—disse.

—Ma, cinque lire alla settimana…—disse Pepi con voce esitante, ma tremula di gioia.

—Che importa! Va. Chi sa che egli non ti faccia guarire!

Aspettarono la Pasqua; era meglio incominciare al lunedì. Quando fu il giorno, Luisa si offerse all'improvviso di accompagnare il fratello. Egli accettò con grande riconoscenza. Luisa era per lui la forza e la calma; il suo aspetto lo rincuorava, la sua parola lo aiutava a vivere. Uscirono insieme —da molto tempo non più!—per le vie, già tutte sommerse nella primavera. Egli appoggiato al suo bastone, piano, assai piano; ella forzandosi di accompagnarlo con passo lento e tranquillo, mentre la pena voleva portarla lontano, e l'ambascia del cuore le metteva la febbre nel sangue. Qualcuno si voltava, e li guardava.

—Mi ricordo,—disse Pepi a un tratto;—era proprio un lunedì dopo Pasqua…

Parlava ansando, a scatti, con quella voce che si faceva sempre più rauca; raccontò una storia qualunque, di quando era in America; una lunga camminata, in una prateria immensa; un'avventura con una specie di indiano, laggiù…

Luisa lo ascoltava appena, pur dandosi l'aria di sorridere, e di badare a quel racconto. Qualche volta si voltava a guardarlo timidamente, e fissava quel profilo di viso distrutto; quegli zigomi, quelle mascelle sporgenti; quella pelle rugosa e gialla… Udiva la voce rauca, qualche volta anche il riso stridente, rotto… E le pareva che non fosse lui, non il fratello noto e caro che le parlasse. Ma uno straniero, uno vissuto in un mondo diverso e lontano; un pellegrino miserabile, che ella fosse condannata a guidare per quelle strade, eternamente.

Andavano i due, nella primavera; il sole era caldo, la gente appariva ancora vestita a festa; certo nelle case c'era ancora l'avanzo dell'agnello pasquale, e le uova rosse come enormi goccie di sangue; e qualche dolce era ancora rimasto nelle tasche dei bambini…

I due andavano, miserabili, infelici, sorridendo uno all'altro, con qualche ardente lagrima nel fondo degli occhi…

La casa del dottore era in una alta strada quieta, un po' oscura; le scale erano pulite, ma incomode; e bisognava salire fino al terzo piano. Quando vi giunsero bisognò aspettare che Pepi riprendesse il fiato… intanto lessero il nome del dottore sopra la larga lastra di ottone, sull'uscio.

Un nome qualunque, un nome ignoto; pure, se fosse quello del salvatore! se dietro quella porta fosse l'uomo che sapeva il miracolo; forse bastava così poco! una parola, una piccola presa di polvere…

Luisa suonò timidamente, e subito una servetta aprì. Una ragazza piccina, con un viso aperto, due occhietti furbi, e un grembialone bianco. Ella introdusse i visitatori in una stanzetta, che doveva essere il salotto, e sedette anche lei, con molta disinvoltura, dicendo qualche parola ogni tanto. Bisognava aspettare; il dottore aveva gente…

Seduti nel piccolo salotto, i due visitatori girarono gli occhi intorno, un po' stupiti. Era una stanza assai modesta, anzi quasi sprovvista di mobili; l'ammattonato nudo e brutto era coperto solo di un tappettino rettangolare, grande come un fazzoletto; un minuscolo divano era ad una parete, coperto di una stoffa di juta, a fiori ordinari; sul tavolino del mezzo era ancora un tappettino scarso, e sopra un album vecchio, un paio di giornali, un vaso di vetro bleu senza fiori. Alle pareti, coperte di una grossolana carta grigiastra, erano litografie assai mediocri, e piccole fotografie, in cornice di cartone. Pareva il salotto di uno che se l'è fatto in un giorno, e senza l'aiuto del tappezziere; e un salotto pure che non doveva durar molto; come una specie di tenda da campo, pronta a esser levata.

Luisa e Pepi si guardarono. Un lievo sorriso di motteggio era sulle loro labbra, ma negli occhi passava un'ombra. La speranza concepita nella strada, sotto il cielo di primavera, pareva morire d'improvviso, in quella stanzuccia volgare…

Ma il medico non li fece attendere molto, e la serva che si era alzata per andar a vedere, ritornò a chiamare i due poveri, che si rizzarono, la seguirono, prendendo un fare serio e quasi orgoglioso, di gente che non è disposta a creder tutto… Ma i cuori battevano da rompersi.

Un uomo venne loro incontro. Alto, grigio, dall'aspetto modesto, quasi povero, con un berrettino tondo, ricamato, sulla testa. Li introdusse in una altra camera, li fece sedere; ma con fare quasi timido, d'uomo che è facilmente posto in soggezione… Parlava con uno spiccatissimo accento meridionale, con quella enfasi che colora ogni parola, sottolinea ogni frase.

Si fece raccontare alcuni particolari della vita del giovane, lo guardava con i suoi occhi acuti, mobilissimi, come se in quel viso emanciato cercasse il segreto dell'avvenire…

—Ecco, non posso dir nulla, prima di averla esaminata. Si spogli. Oh, io le dirò subito la verità! Se c'è ancora qualche probabilità, accetto la cura. Se i polmoni son troppo rovinati, niente. Così faccio io; si spogli, si spogli.

Senza parlare, Pepi si traeva lentamente dal dorso la giacchetta, la camicia di flanella, la maglia pesante, tutta una imbottitura di lana, che non riusciva a liberarlo dal freddo, neppure in quella tiepida primavera; un freddo che gli veniva da dentro, dal fondo delle ossa, terribile. Un lieve sorriso gli errava sulle labbra, mentre l'anima impaurita pensava:

—Ora costui mi dirà che non c'è più speranza.

E la sorella, pallida, vinta dalla stessa angoscia, pregava mentalmente:

—Dio mio, che costui non dica!…

Il povero corpo apparve, nudo a metà, così magro che Luisa ne ebbe un brivido di orrore. Le costole salienti scavavano vuoti profondi, pieni di ombra, nel torace. Le scapole parevano enormi; le clavicole si staccavano bruscamente dal petto, montavano in su, mostruose.

Luisa volse via lo sguardo; fissò intensamente i ritrattini appesi alle pareti, prese un aspetto disinvolto e sereno, mentre il dottore, curvo sul misero petto, ascoltava il sibilo sinistro dei polmoni malati.

Minuti di angoscia; nessuno parlo. Quando il vecchio rialzò il capo, disse: si rivesta pure.

—Ebbene?—chiese Luisa, ipnotizzandolo con lo sguardo, mentre Pepi si rivestiva lentamente.

Il medico che si lavava le mani stette un po' senza rispondere. Poi disse con voce tranquilla:

—Ci vorrà una cura lunga. E il miglioramento non si avvertirà prima di sei mesi… Forse otto. Una cura continua. Adesso le scriverò le medicine. E bisogna che venga qui tutte le settimane, e che lasci ogni altra cura. Bisognerà prendere tutto quello che dico. Aver pazienza, molta pazienza.

—Sei mesi?—disse Luisa, alla quale quel tempo parve brevissimo.

—Sei mesi!—mormorò Pepi, guardando il dottore che con una parola gli aveva riaperto l'avvenire, già così buio, già chiuso. Un grande rispetto lo prendeva di quel vecchio, che sapeva le parole di magìa.

Il fratello e la sorella si guardarono. Gli occhi erano umidi.

Il dottore, seduto a un minuscolo tavolino, prescriveva le sue medicine.

—Ecco; questa soluzione la prende la mattina, appena alzato. Questa è una scatolina di pillole; una ogni tre ore. Le daranno una boccetta gialla; la prende a tavola, nel vino; e prima di tavola un cucchiaino di questo liquore rosso. Due ore dopo il pranzo cinque goccie della boccetta gialla; la notte, se non può dormire, un pacchetto di questa roba che è scritta qui; anche due pacchetti, più tardi. E venire da me tutte le settimane.

Luisa ascoltò sbalordita, poi pregò il dottore di ripetere la spiegazione. Ma nemmeno dopo non capì nulla; nella sua testa si confondevano tutte le prescrizioni. Pepi invece le ripetè docilmente, senza sbagliare; pareva che le avesse scritte nella memoria col fuoco.

—E tutto questo mi farà guarire?—domandò Pepi, quasi ripreso dal dubbio.

—Sì; se farà tutto a dovere. Il male è piuttosto innanzi. Bisogna combatterlo energicamente. Lei è stato troppo tempo in mani di ciarlatani; l'hanno rovinato. Che aria compressa e che iniezioni! Bisogna operare sul polmone, direttamente, distruggere i bacilli. Quella polverina è un veleno per i bacilli. Quel liquore giallo è un potentissimo antisettico. Son tutti miei segreti. La questione è che in Italia le invenzioni non hanno fortuna. Ah, se fossi in America! Là sì che farei la mia gloria, e salverei la vita a migliaia di poveri diavoli. Ma qui?… Se sapessero tutte le difficoltà che incontro; i fastidi, le spese… E questa diffidenza, questa freddezza… Potrei guarirne tanti! Ma niente… Nemmeno far del bene si può!

Luisa domandò timidamente quanto dovevano pagare quel bene.

—Dieci lire alla settimana—disse il dottore. —Le medicine si pagano a parte.

Le medicine erano molto care. Il liquore rosso, il liquore giallo, le polverine venivano a costare sette lire, e duravano poco. Pepi ne prendeva una quantità enorme, la mattina, la sera e durante il giorno. A pranzo egli si collocava vicino due o tre boccette, la scatoletta delle pillole, il bicchiere d'acqua e l'ostia per le polverine. Man mano che il tempo passava, aumentava la varietà dei rimedi. Le sorelle lo vedevano ritornare ogni giorno con un nuovo pacchetto in mano, o indovinavano nelle tasche del suo soprabito una scatoletta o una piccola bottiglia. Luisa lo guardava di sottecchi, mentre lui, appena lasciatosi cedere sulla sedia con quel suo fare affranto di uomo sfinito, incominciava con le sue lunghe bianche dita a svolgere le piccole carte, a scegliere le pallottoline nella scatola, a versare lentamente le goccie nel bicchiere. Non una più, non una meno. Ah, come si era fatto cauto e paziente!

I primi giorni Pepi avvertì un rapido improvviso miglioramento. Scomparivano i sudori notturni, cessava la febbre, la notte poteva dormire alcune ore. Luisa pensava: sono i narcotici. Ella benediceva il vecchio dottore siciliano. Ah, poichè egli non poteva guarire, almeno addormentava il dolore; tentava di far chiudere quei poveri occhi tormentati dall'insonnia, di acquietare quel petto, rotto dai singulti affannosi della tosse!

Ella tremava solo al pensiero che un giorno il medico dicesse brutalmente a Pepi la verità.

La verità era la condanna, la morte. Se davvero quel vecchio era scrupoloso, come aveva detto in principio, facilmente potrebbe essere preso dal rimorso di mangiare il denaro al malato incurabile. Un giorno o l'altro lo manderebbe via: Caro mio, non posso farvi più nulla… Oh, allora sarebbe finita!

Le veniva in mente di andare dal dottore, di dirgli: Senta, illuda mio fratello, lo illuda fino all'ultimo! Bisogna che egli non sappia… E Lei, non abbia paura. Io so già che non c'è rimedio. Non ci pensi. Gli dia delle medicine, e gli dia delle buone parole…

Una certa soggezione la tratteneva, e la speranza che egli capirebbe da sè… E poi, se Pepi davvero migliorasse? C'eran bene di quelli che vivono con un polmone solo, con mezzo polmone!…

L'illusione cadde quasi improvvisamente, poichè dopo pochi giorni Pepi incominciò a peggiorare. Fu come un guasto rapido, intero; quasi un disfarsi, un crollare del miserabile corpo. Da un giorno all'altro parve diventato più spaventosamente magro; uno scheletro.

Nel riso le gengive apparivano nude, i denti enormi. Gli occhi si affondavano nel cerchio nero. Poi, quasi d'un tratto, Luisa si accorse che il fratello diveniva sordo. Il sospetto le era venuto già prima; le era parso più di una volta che egli stentasse a capire un discorso fatto a mezza voce; il viso aveva preso quel fare distratto, di chi va sempre più chiudendosi dentro, e si stacca dai suoni esteriori; ma ella pensava fosse la stessa forza della febbre, la debolezza crescente dell'organismo…

Un giorno egli le disse tranquillamente:

—Sai? non sento più…

Ella chiuse gli occhi, in uno spasimo.

—Divento sordo. All'ufficio non capisco più Cretinowski quando legge. Stamattina Mimì cantava; io non udivo nulla. Son sordo.

Ella si sforzò di ridere.

—Un raffreddore, vedrai, passerà.

—Oh sì!—disse egli.

Diveniva più taciturno, pur senza mostrarsi triste. Qualche volta azzardava ancora uno scherzo; chiamava Mimì la gattina di piombo, burlava Nepo e il suo latino, motteggiava sui compagni d'ufficio, o sui dottori. Ma erano sprazzi pallidi di una forzata allegria, e nei suoi occhi ben si vedevano passare i fantasmi del dolore. Egli andava sempre più serrando la cerchia della sua vita; non si interessava più nemmeno alle questioni, che avevano occupato per tanti anni la sua anima.

Quando giunse l'eco dei terribili fatti di Milano, e il lugubre suono dei cannoni parve ripercotersi per tutta Italia, e gli urli dei moribondi, e i pianti delle donne scossero tutti gli animi, riempendoli dei terrori di funesto presagio, Pepi parve scuotersi una sera, animarsi all'improvviso.

—Le barricate!—disse con quella sua voce rauca,—ah, loro le han fatte le barricate! Ho sognato sempre di morire così, io, un colpo nel petto, e giù! Ma ammazzarne prima di quei miserabili! Ah, tirano su le donne che stanno alle finestre, vigliacchi! Facciano pure; quanto peggio faranno tanto meglio sarà.

Tacque, dopo queste sinistre parole.

—Non dir così,—balbettò Luisa, guardando i suoi figliuoli. Poi, ella si coprì il viso con le mani e pianse.

—Che hai?—disse Pepi.

—Ah, Pepi! Qualche volta sento tutto il coraggio mancarmi! Oh, quanto male c'è nel mondo! Mio Dio! Penso a quei soldati che sparano sulla folla, proprio in questo momento, forse. Che spavento! Quei fucili appuntati, quegli spari! Io li ho sempre negli orecchi questi giorni. Si uccidono così! Dio mio, le madri a cui riportano il figliuolo morto! Io credo che se fossi a Milano non potrei tenermi dal scendere sulle vie, a pregare che abbiano pietà!

Pepi sogghignò amaramente, e non disse nulla. Parlava sempre meno, anche a tavola. Pareva che nulla più lo toccasse, altro che la questione del cibo e delle medicine. Era divenuto goloso; le pietanze comuni non le mangiava più; ma assaggiava qua e là piccoli piatti costosi, e beveva spesso del marsala.

Diventava sempre più sordo, al punto che anche per gli altri era una pena rivolgergli il discorso. Così le parole morivano sul labbro di ognuno, un peso grave di mestizia si metteva sui cuori, e lo stomaco affamato pareva riempirsi, saziarsi di quel malessere; nessuno aveva più appetito.

Pepi rimaneva allora muto e assorto, con i gomiti appoggiati sulla tavola, l' occhio incantato, fisso in lontani pensieri. E Luisa lo rivedeva come la sera in cui era tornato la prima volta, quando egli era rimasto pure così, muto, assorbito in una contemplazione interna, con lo sguardo fermo nel vuoto. Ma allora i bimbi gli facevano il chiasso d'attorno, e quel suo viso spettrale era allora lievemente colorito dalla gioia e dalla speranza. La gioia e la speranza se ne erano andate per sempre, per sempre…

Una domenica mattina che Luisa era nella sua camera, udì il passo pesante e incerto del fratello suonare nella stanza attigua, udì la sua voce, preceduta da un raschiare penoso della gola, chiedere:

—è permesso?

—Avanti!—disse la donna. E si volse pallida.

Tutte le volte che egli veniva così da lei, ella tremava, presentendo le tristi cose che egli doveva dire; certo non poteva dire che tristi cose.

—Che bel sole c'è qui,—disse lui entrando.

—Siedi,—disse Luisa, e tirò un po' innanzi una sedia.

Egli vi si accomodò con quella sua posa stanca, piegando le lunghe gambe, curvando l'esile schiena. Aveva una cravatta gialla, che faceva spiccare ancor più l'orribile pallidezza del viso; lo scheletro della faccia si disegnava ogni giorno più acutamente.

—Senti, voglio dirti una cosa,—incominciò con quel certo imbarazzo che provava sempre verso la sorella, aprendo le lunghe e scarne dita, che il sudore rammolliva,—io so che tu hai tante spese…

—E che c' entra?—disse Luisa, mostrando una impazienza affettuosa.—Che vuoi dire?

—Che non dovrei dirti adesso una cosa… Ma è il dottore che l'ha detto; e qui, Luisa, si tratta di giocar tutto. La vita, vedi. Il fatto è questo. Se io posso ancora avere una speranza, una speranza di vivere, capisci!, io l'avrò dalla campagna. Se vado in campagna, guarisco probabilmente. Se no…

Fece un gesto largo, scrollò le spalle.

—Oh, Pepi!—esclamò Luisa, commossa fino alle lagrime; - ma certo, quando vuoi. Io mi metterò a cercare qualche cosa. Subito. E appena trovo… Ma figurati; ci ho pensato anch' io tante volte… Ma non sapevo. Vedrai, cercherò da oggi.

—Grazie,—disse egli semplicemente. Stette ancora un po' lì; aveva il cuore stretto; negli occhi però gli luceva quella nuova folle speranza. Cercò ancora qualche cosa da dire, poi se ne andò, con lo stesso passo lento e incerto.

Luisa rimase a lungo a fissare quella sedia vuota, là presso quella larga fascia di sole, che entrava dalla finestra spalancata. Vedeva ancora sulla finestra la triste figura che era sparita, l'uomo curvo, così pallido, così giovine, con quel viso intento e quegli occhi ansiosi. Udiva ancora la voce piena di recondito tremore: Senti, Luisa… come rauca!

E da quel giorno si mise a cercar la villa. Non era cosa facile. Si trattava di non spendere molto… e bisognava trovare anche una casetta comoda, isolata, che fosse tutta a disposizione del povero malato. Erano interminabili gite su per le colline, partenze precipitose in tramway, alla scoperta di luoghi vagamente indicati dai giornali; corse inutili, tempo, che era prezioso per lei, perduto vanamente; e fatiche alle quali non era avvezza. E non trovava nulla. Le ville belle erano carissime; Luisa rabbrividiva a sentir chiedere certe somme, che ella non avrebbe mai potuto estrarre dalla sua borsa.

Ah, che peccato esser poveri; ah, che delitto; non poter offrire a un moribondo una bella campagna, un ricovero romito pieno di fiori, pieno di ombre, corso da un lieve e fresco mormorìo d'acque, sotto un puro, limpido cielo, che metterebbe un estremo sorriso sulle pallide labbra, una speranza, forse, nel cuore! No, tutto ciò era caro, ed ella non poteva pagarlo.

Bisognava cercare tra le villette modeste, che si affittano per poco prezzo; ma erano brutte, incomode, divise con altri inquilini; suo fratello non poteva andarci. Tutte le volte che ritornava a casa, dopo una di quelle inutili gite, ella vedeva il viso di Pepi adombrarsi; vedeva passare nei poveri occhi il disinganno, la paura. Ah, se ella non trovasse, o fosse troppo tardi! Era la vita, per lui, la vita; lo aveva detto il medico. I suoi polmoni andavano bene, riusciva anche a dormire un po', dopo aver preso quelle polverine, e quelle pillole, e quelle gocciole… Ma era il suo stomaco che si rovinava sempre più; le sue viscere che parevano arse da un fuoco d'inferno.

Non digeriva più, qualunque cosa mangiasse; la dissenteria e l'emorragia consumavano tutto quel poco, che egli era riuscito a buttar giù nello stomaco; e non ne avevano nemmeno abbastanza; gli divoravano anche il resto della carne, gli succhiavano l'ultimo sangue.

In campagna egli potrebbe ancora guarire. Lo prendeva una tenerezza nuova per gli alberi, per l'erba dei prati, per i vasti cieli tranquilli sui campi fragranti. Ricordi lontani tornavano in lui, passeggiate fatte nella remota infanzia, in un boschetto dove c'erano tante rose selvatiche, con la madre; corse pazze con compagni vagabondi; giorni di sole, luminosi, in cui, con i libri al braccio, invece di andare alla scuola, si smarrivano per i sentieri di campagna, in cerca di nidi e di grilli… Gli tornava nelle orecchie sorde come un lontano gridar di cicale; e risentiva l'odore di quel sole sul verde. Bisognava che egli ritrovasse tutto ciò, se voleva guarire. E se Luisa non trovava?

Poi, vedendola tutti giorni ritornare scoraggiata, egli incominciò a serbarle rancore segretamente, incolpandola nell'anima sua di non sapere cercare. I sospetti si facevano più profondi e più ingiusti. Forse ella non voleva spendere quella somma per lui. Cercava dei pretesti, aspettando che egli stesse peggio, che non potesse più muoversi, per farlo morire in casa più presto. Ah, forse ella non aveva nessuna speranza che egli guarisse in campagna, e allora, naturalmente, perchè avrebbe fatto quella spesa? Non valeva la pena.

La poveretta gli leggeva in viso questi crudeli pensieri, e il suo cuore si spezzava di angoscia. Disperatamente ora cercava; a ogni piccola informazione, a ogni benchè incerto indizio ella correva, lasciando ogni altra occupazione. Si raccomandò anche a conoscenti, ad estranei, dissimulando però lo stato del fratello, nascondendo con non so quale pudore le sue terribili angoscie. Qualche volta credette di aver trovato. Era su a Santa Margherita una volta, sopra la collina, una villetta presso ad un bosco, cinta di verde, comoda, bellissima. La padrona, che pareva già pronta a cederla per duecento lire, s'informò ad un tratto se non si trattava di un malato.

—Sì,—disse Luisa, sentendosi arrossire;—è per mio fratello malato.

—Ah, no, no, allora, signora, no!—esclamò la donna, senza dissimulare l'orrore che provava, —io non prendo malati!

Quel giorno Luisa era venuta a casa più triste e sfiduciata del solito. E dinanzi al viso freddo, pieno di rimproveri, del fratello, ella non potè contenersi, e disse la sua amarezza:

—Non vogliono affittare ai malati, capisci! Hanno tutti paura!

—Han ragione,—disse Pepi freddamente;—per i malati ci sono gli ospedali.

Quella volta Luisa giurò che il domani avrebbe trovato la villa a qualunque costo.

E il domani trovò. Errava a caso per Moncalieri, luogo che ella amava, e dove già era stata altre volte, e anche Pepi quell'anno!… Un cartello appeso dinanzi a un'osteria le diede l'indirizzo di una villa. Bisognava scendere giù dal castello. La villa era sulla strada che, dalla via maestra, sale sulla collina, a sinistra. Quando Luisa fu per incominciare quella salita, si accorse che di rimpetto vi era il camposanto.

Dies mei sicut umbra declinaverunt; Solum mihi superest sepulcrum. Rursus circumdabor pelle mea, In carne mea videbo Deum meum. (Sul Camposanto di Moncalieri.)

Partirono un giorno dei primi di Luglio. La mattina era calda, serena; alle 9 Pepi discese la scala della casa, che per tre anni era stata sua; con la mano destra si appoggiava fortemente alla ringhiera, con la sinistra al bastone, e venne giù facendo un passo dopo l'altro, faticosamente, ansando, trafitto dai dolori; un pensiero insistente, amaro gli pungeva il cervello: Io non tornerò più, io non tornerò più. Sul pianerottolo del secondo piano si fermò, guardò davanti a sè, guardò in alto; ricercò in quel luogo altre imagini, altri tempi.

Si rivide nella sera in cui era arrivato da Genova, ed aveva salito quelle scale per la prima volta. Con che speranza, con che palpito tumultuoso! Ora… le discendeva per l'ultima volta. E la certezza immensa, chiarissima, gli venne, che egli andava a morire. Per un momento ebbe voglia di tornare indietro, di andar a buttarsi sul suo letto, di volgere il viso verso il muro, e aspettare così immobile e muto, finchè tutto il corpo gelasse e diventasse pietra; allora sarebbero venuti a prenderlo, lo avrebbero portato giù dolcemente, senza scuoterlo, lo avrebbero messo in una larga e comoda carrozza, e poi portato via, senza che egli avesse a incomodarsi…

—Andiamo, Pepi?—disse Armanda che lo seguiva.

Egli si scosse e continuò a discendere.

Nella strada era una carrozza, che Vincenzo era andato a prendere. Pepi salì per il primo, si lasciò cadere nel fondo. E stette così rannicchiato, un po' curvo, a guardar in giro; quelle case, quelle strade, i viali per dove tante volte era passato; e tutto gli pareva nuovo e strano, come mai veduto; e poi così silenzioso! Nemmeno la carrozza non faceva rumore sul salciato. Pure, una volta, quando egli passava ancora per quelle vie, si udivano voci d'uomini, e calpestìo di passi, e un brusìo lungo saliva, ondeggiava, come se fosse il respiro della grande città. Ed ora questo silenzio! Guardò Armanda e suo cognato, e vide che parlavano, ma non udì; lo circondava oramai l'aria tacita della tomba; più nessun suono, mai! Una disperata tenerezza lo prese, il rimpianto di tutte quelle cose passate: udir ancora gli uomini gridare intorno a lui, ridere i fanciulli… Ah, Dio, mai più! Una grande tenerezza anche per i figli di Luisa, che egli aveva lasciato a casa, dopo un frettoloso saluto. Quella Mimì, col suo viso placido e bello; quel buon Nepo, quel Vittorio, che egli aveva qualche volta sgridato, perchè faceva rumore! Oh, li avesse potuti udire ancora quelle voci, quelle grida, quel ridere…

La carrozza si fermò in Piazza Castello. Là c'era anche Luisa, che aspettava. Il fratello e la sorella si scambiarono un lungo sguardo, ma nessuna parola. Salirono in un tramway a vapore, sempre silenziosi, col cuore stretto da una indicibile angoscia. Percorsero quello stradale di Moncalieri, così dolce fra le liete colline, così brillante di quella fascia d'argento, onde il Po lo cinge; un alito fresco di vento rendeva men grave quella giornata d'estate; il cielo splendeva; fasci di fronde verdi passavano, frusciando, ai finestrini.

Per quella medesima strada, oh, quante volte erano venuti, e con animo tanto diverso!

—Io non ho veduto ancora l'esposizione—disse Pepi,—guardando con un lampo di desìo quasi infantile i bianchi fabbricati, che lucevano al sole, al di là del Po.

Luisa sorrise, lo consolò, scherzosa, come avrebbe fatto d'un bimbo.

—Povero Pepi! Quest'Ottobre, poi; è vero?

Egli non rispose.

A Moncalieri presero una carrozza, per fare la salita piuttosto ripida, che menava alla villa. E in carrozza passarono dinanzi al camposanto. Luisa, angosciata, pensava: Purchè egli non veda!… Ma Pepi guardava in su, verso la villa, e poi chiuse gli occhi, stanco.

La via menava su, tra, due ampie falde di verde. I fiori vi parevano gettati a manate, in una profusione larghissima; il bianco delle margherite, l'oro dei ranuncoli, la porpora dei papaveri diffondevano una letizia viva, una luce che chiamava l'anima, e le diceva: Riposa.

Ma i quattro tristi cuori nella carrozza non potevano che pensar sospirando alla lunghezza della via, alla difficoltà crescente nella salita, e desiderare ardentemente di arrivar presto.

Nessuno parlava. Pepi, sdraiato nel fondo, col viso contratto dal dolore che ogni scossa gli dava, teneva gli occhi semichiusi, pareva dormisse; le sorelle si guardavano ogni tanto, con lieve sospiro.

A cassetta il cocchiere bestemmiava, frustando sempre più disperatamente i due cavalli, che stentavano a tenere la ripida erta.

L'ansia e l'impazienza vincevano sempre più Luisa; ella volle discendere, a un certo punto della via, e tutti dietro a lei; camminarono allora così, presso la carrozza, sugli orli erbosi della strada, guardando Pepi, sdraiato immobile nel suo cantuccio, che con gli occhi socchiusi e il viso livido pareva già morto. Ed era uno strano convoglio, su quell'altura, tra quel verde e quei fiori, sotto il bel sole, la carrozza trascinata a stento dai due cavalli scalpitanti, le due donne venendo dietro a piedi, col viso sconvolto dalla paura e dal dolore, e quel moribondo silenzioso, portato su, verso un'ignota solitaria dimora.

Solo ad una scossa più violenta, a un salto brusco dei cavalli, il giovane aprì gli occhi, si rizzò a sedere. Vide la carrozza sospesa sull'orlo alto della via, misurò la salita, che il cocchiere si ostinava a vincere, e l'idea del pericolo gli attraversò il cuore come un coltello diacciato; egli ebbe paura di essere lanciato giù, di vedersi rotolar nel prato di sotto, ed avere schiacciate le reni dal peso dei cavalli, precipitati sopra di lui; un sudore freddo gli perlò sulla fronte; negli occhi subitamente dilatati passò una visione di terrore.

I cavalli fecero un balzo, la carrozza si spinse innanzi con una scossa tremenda, e un grido useì dalle labbra di Luisa.

—Pepi, discendi!—gridò Armanda, tendendo le braccia. Ma Pepi, con un atto improvviso, con una forza miracolosa, si era già rizzato, e con un salto solo dalla carrozza si lanciò nell'erba, all'orlo superiore della strada, e vi rimase seduto, anelante, mentre i cavalli precipitavano dal margine inferiore, trascinandosi dietro la carrozza.

Si dovettero liberare i cavalli, che si sbandarono a lungo nei prati, e il veicolo fu trascinato giù dall'erta dai buoi, che si erano fatti venire dalla villa vicina. E finalmente, appoggiato al braccio di Luisa, Pepi fece adagio adagio la breve strada che lo separava ancora dalla sua nuova casa. Era un sentiero tutto erboso, chiuso da cipressetti. A sinistra si stendeva la vigna, a destra l'ampia prateria. Si era alto, sulla collina, e in un luogo così romito, che nessun rumore giungeva, nè da presso nè da lontano, e non si vedevano ville altre in giro; Torino appariva confusa, in basso, smarrita in una nebbia luminosa.

La casetta appariva in fondo a quel viale. Era bianca, con persiane verdi, circondata dal giardino. Un aspetto tranquillo, placido, non lieto; fatta apposta per andarvi a riposare, o a morire.

Scelsero per Pepi la stanza più bella, al primo piano; ampia, con un grande letto e due finestre. Accanto a quella la camera di Armanda; poichè era stato fissato che sarebbe rimasta lei col fratello, almeno per qualche tempo. Quel giorno pure doveva giungere la serva; una donnettina nera, che Luisa aveva fissato apposta perchè facesse compagnia ad Armanda, e le alleggerisse il lavoro.

Luisa e Armanda si occuparono quindi in cucina, a preparare un po' di colazione per tutti. Quando fu pronto, Luisa useì nel giardino, e trovò Pepi seduto su di una panca, al sole. Egli pareva felice, e sorrideva.

—Ti piace qua?—chiese ella.

—Oh sì!—Egli guardava con quei suoi occhi che erano divenuti fissi, quasi vitrei, le bellezze dattorno a lui. Un'aiuola di rose, e ve n'erano pur di fiorite; un'aiuola di dalie; e poi brevi piantagioni di patate, di pomodoro, di insalata e alberi di pere e di prugne, e un lungo pergolato, donde già l'uva verde pendeva, abbondante.

—V' è anche un fico—disse poi.

—Sì; mangerai tutto; è tutto per te—diceva scherzando Luisa;—solo, quando vengo a trovarti, me ne conserverai, eh? E c' è anche del vino in cantina; ma non berlo tutto. Ce ne deve essere anche per noi.

Poi ella si sedette vicino a lui, e stettero un poco in silenzio, loro due soli. Era il meriggio; e l'ora lassù pareva assai dolce; il vento fresco alitava ancora. Veniva un lieve odore dalle rose, e dalla finestra aperta della stanza a terreno, uscivano piccoli sbuffi di fumo, del fuoco che Armanda aveva acceso in cucina. Quel fumo sapeva di legna verde, di rami odorosi, di bosco umido e fresco; e i due giovani ripensavano insieme a tempi lontani; a loro due piccoli, correnti sui prati; a larghe bracciate di rami carichi di fiori; alla cucina, dove ritornavano al tramonto, presso la madre, che accendeva il fuoco nell'ombra; un fuoco che odorava così.

I boschi, dove erano corsi bambini, il vento che li aveva accarezzati, i profumi, i fiori, gli alberi, il sole, tutto ciò era ancora. Eternamente sarebbero, la primavera, l'estate d'oro; e il verde dei colli, e il mormorare delle acque, e lo stornire dolce delle frondi; solo le persone non erano più le stesse… Il viso materno, che il fuoco dei sarmenti colorava così vivamente nell'ombra… scomparso, nell'ombra.

I fanciulli, i due, non erano più; ma due persone pallide, affrante, che non si riconoscevano più, e una di loro, una…

Si guardarono con subita ansia. Si fissarono in viso, come per ricordare, più tardi, quel viso.

—Addio, Pepi!—esclamò Luisa.

Ella doveva andare. Non poteva lasciare per un giorno intero il suo lavoro. E poi l'anima sua era sazia di amarezza; bisognava che ella venisse via, ricevesse altre imagini, potesse pensare anche ad altro.

Si baciarono. Egli balbettò una parola di ringraziamento; ma Luisa partì in fretta, troncò ogni espansione. Non bisognava commuoversi; ciò non faceva bene a nessuno. Rapida, quasi incalzata dall'affanno, ella sparì per il sentiero, salito prima così faticosamente; corse giù tra il verde, tra i fiori, nel sole; l'anima sua, anelante, si apriva; il suo petto si liberò in sospiri, in singhiozzi:

—Oh, Dio, oh Dio, oh Dio!

Il fratello la vide partire; egli rimase a lungo immobile, in quel posto, presso l'aiuola dove odoravano le rose; finchè non lo prese un freddo, in quel sole, un freddo che lo penetrò fin nel midollo, fino al cuore….. ed egli ficcò le unghie delle sue mani dentro l'arida carne delle braccia; preso da un bisogno di farsi male, di sentir al di fuori un dolore, che lo liberasse da quel male che sentiva dentro, non nel corpo, ma più in fondo; un male che lo faceva spasimare, come se qualcuno gli torcesse il cuore. Piangere, bisogno di piangere; ed egli non poteva; non sapeva più.

A sera venne la serva; una donnettina un po' storta, con una faccia malinconica e imbronciata. Non piacque nè a Pepi nè ad Armanda, che l'accolsero come una intrusa, come una inutile, e biasimarono Luisa di averla mandata. E incominciarono in tre la vita monotona di quella campagna solitaria e silenziosa; le ore si seguivano, interminabili.

La notte era lunga, turbata da strani fantasmi. Il cantare dei grilli, il gridìo degli uccelli notturni, un abbaiare lontano di cani, tutti i rumori che si destano in una campagna solitaria, con le tenebre cadenti, giungevano alle orecchie sorde del giovine come un cupo confuso ronzìo, che gli occupava il cervello, riempiendolo di paura. Dalle finestre spalancate entrava il cheto lume delle stelle; gli occhi deboli del malato vi si affissavano avidamente; l'anima sua gemendo implorava una pietà troppo lontana, al di là di quelle stelle, nel profondo degli azzurri sereni. Ma gli strazi della tosse lo traevano presto da quella lugubre calma; gli echi funesti rauchi dei colpi si ripercotevano nella notte; qualche bestia spaventata rispondeva dalla campagna; pareva che un fremito d'orrore passasse su quella casa.

Quando l'accesso era troppo lungo, Armanda si alzava dal suo letto, compariva col lume nella camera del malato.

—Pepi, prendi un cucchiaio di medicina. Vuoi un sorso d'acqua, Pepi?

La povera ragazza dormiva poco anche lei, chiamata ogni tanto da quell'atroce appello. E anche i suoi sogni erano diventati paurosi, truci; spesso le avveniva di levarsi, ancora dormendo, di accendere il lume, di passare nella camera del fratello, senza aprire gli occhi, in un sonnambulismo strano; quasi che la volontà e la paura trascinassero fuori dal sonno il corpo, senza riuscirvi interamente.

Anche lei era felice, quando l'alba colorava pallidamente il lembo del cielo, e il gallo gettava nell'aria il suo grido allegro. Era come un risveglio alla vita, dopo quel sonno popolato da fantasmi di morte.

Solo la serva dormiva profondamente nel suo camerino; nessun rumore la svegliava; il giorno chiaro trovava ancora immobile sui guanciali la sua faccia grigia.

Tardi nella mattina Pepi si alzava. Si vestiva con grande stento, poi scendeva la scala, che menava al pianterreno; assai spesso Armanda doveva sostenerlo, portarlo giù quasi di peso. Quando era giunto nel giardino, sedeva affranto sulla panca presso il muro, e non si muoveva di là, fino all'ora del pranzo. Anche qualche volta Armanda preparava sopra un tavolo vicino; e Pepi rimaneva così lunghe ore, tossendo, parlando poco, mandando ogni tanto un lieve gemito, un lamento, contraendo il viso a quella smorfia di dolore, che gli era abituale, per cui scopriva tutti i denti superiori, che parevano cresciuti in quel viso di spettro.

Armanda vicino a lui lavorava o leggeva. Parlava sempre lei. Un poco per distrarlo, un poco per quella sua naturale abitudine di dar subito il volo a tutti i suoi pensieri, di pensar quasi ad alta voce. Ella era sempre molto infantile, anche nella prova di quel duro dovere, e di quel dolore, che sentiva pendere imminente sull'anima sua. Faceva dei discorsi ingenui; rinvangava storie vecchie, quasi puerili; piccoli pettegolezzi di amiche; fatti dei vicini; segretucci delle sorelle; cose dei bambini; ricordi lontani dell'infanzia, di Trieste, della madre…

Egli ascoltava, senza comprendere tutto, benchè ella parlasse molto forte; gli giungevano lembi di frasi; nomi, parole che gli passavano nel cervello come baleni. Spesso egli seguiva queste parole nel suo pensiero, e senza più ascoltare Armanda, si abbandonava ai suoi propri ricordi, alle riflessioni dolci e angosciose, ai rimpianti. Ma spesso ancora quel cicaleccio continuo gli addormentava l'anima in una inerzia piena di riposo. Egli vedeva intorno le frondi degli alberi muoversi, le indovinava stormire; vedeva passargli sul capo un volo d'uccelli, e tentava afferrarne il cinguettìo; una pace grave, quasi una sonnolenza gli veniva da quel cielo azzurro, dal folgorìo di quel sole. Gli pareva piano piano che il suo corpo diventasse leggiero, si dissolvesse, sparisse negli atomi luminosi… Finchè un brusco risveglio del suo male non lo traeva di nuovo, crudelmente, al peso della vita.

Fumava anche, molto, poichè il suo medico nuovo glielo permetteva; qualchevolta offriva anche ad Armanda una sigaretta; ella accettava allegramente; una sottile ebrezza che le veniva dal fumo le faceva brillare gli occhi, e fiorir la bocca di riso; con la felice volubilità del suo temperamento ella passava così da una cupa tristezza, dall'angoscia del domani, alla gioia.

Era per lui un'infermiera preziosa. Benchè ella ancora si illudesse qualchevolta e sperasse, con quella ignoranza del male propria delle anime primitive, che credono ancora nel miracolo, pure ella sentiva aggravarsi sempre più intorno al suo capo il lutto pauroso.

Un terrore sacro la prendeva qualchevolta, contemplando nel riposo il viso del fratello, che già pareva d'un cadavere.

Allora era invasa dalla paura di non aver tempo a fargli tutto il bene che poteva; dal rimorso di averlo tormentato qualche volta con capricci e collere, di avergli disubbidito, di essersi mostrata con lui ostinata e dura. E tutta l'anima sua si scioglieva in un'onda di tenerezza, di devozione; lo spirito del sacrificio, la voluttà del dolore l'abbatteva in uno slancio di umiltà, davanti a quel povero corpo, da cui ogni forza fuggiva.

Ma egli non sentiva più chiara la riconoscenza, nè capiva più quello che si faceva per lui. Uno spirito torvo e inquieto si andava destando nella sua anima, e gli dava una irascibilità cattiva, una smania di tormentare gli altri, di accusarli della sua propria miseria.

La solitudine lassù gli pareva ora eccessiva; gli veniva il sospetto che ve l'avessero mandato per sbarazzarsi di lui; si trovava a mancare di tutto; soffriva a un tratto di mille privazioni; gli veniva improvviso il bisogno di una cosa, che era impossibile trovare lassù; faceva correre Armanda o la donna fin giù al paese a cercarla; e se ne tornavano a mani vuote, egli era preso da un parossismo di collera, che lo gettava quindi in uno stato compassionevole.

Aveva mille capricci. Un giorno si ricordò che il brodo di rane era buono per i malati, e fece girare tutta la mattina la serva, per cercargli, inutilmente, il nuovo cibo.

Anche odiava la serva. Non voleva vedersela d'attorno; non le rivolgeva mai la parola.

La povera donna passava lunghe ore nella sua cucina, a lavorare in silenzio, senza osare di mostrarsi nemmeno ad Armanda, sapendo di essere antipatica anche a lei. E si consolava brontolando misteriosamente fra sè.

Due volte la settimana Armanda veniva a Torino dal dottore, comperava le medicine, andava a casa di Luisa a render conto della malattia. Altre due volte Vincenzo saliva fino alla villa a vedere il cognato. Lo salutava con la sua allegria rumorosa, gli gridava all'orecchio qualche sua facezia, che chiamava un pallido riso sulle labbra di Pepi. Beveva lassù un bicchiere e due di vino, accettava anche da cena, poi tornava giù, contento di venir via.

Luisa non era stata più a trovare il fratello, per tutta la settimana.

Ora che ella non lo vedeva più tutti i giorni, un terrore folle la prendeva al pensiero di quella vista; il cuore le si torceva pensando a quella lunga agonìa, a quello strazio, a quel martirio. Le pareva di non resistere, di non aver forza; che si sarebbe messa a urlare, come pazza, che sarebbe fuggita via, incalzata dall'angoscia.

Pure, dietro una lettera di Armanda, che dava peggiori notizie, ella si decise una mattina; dalla fermata del tramway a vapore, ella si incamminò su per quella salita dolorosa, anelando di arrivare, e pur pregando:

—Mio Dio, mio Dio, allontana da me questo calice.

Vide il verde sentiero percorso quel giorno così faticosamente dalla carrozza; vide i campi, la vigna, i cipressetti del viale, e in fondo la casa, muta come una tomba.

Armanda la scorse, le venne incontro. Luisa lesse nel viso pallido, negli occhi abbattuti della ragazza tutta la storia dolorosa.

—Come va?

—Male. Son tre giorni che non si può più alzare. Male.

Muta, Luisa la seguì su per la scala. Armanda aprì una porta gridando;

—Pepi, Pepi; è qui Luisa!—E corse ad aprire le finestre, perchè la camera era tutta al buio.

Luisa entrò, vide il letto. Egli vi giaceva disteso; sul viso cinereo non era nessuna espressione, nè di piacere, nè di stupore; guardò la sorella con uno sguardo di vetro.

—Pepi, come stai? Son venuta a trovarti. Vedi?

Egli si rizzò alquanto, sorrise debolmente, si lasciò baciare. Poi disse con una voce velata, rauca, che fece fremere la donna:

—Così!… Non molto bene. Ho le gambe dure; mi par che non siano più mie, queste gambe; non le sento più.

—Dipende dallo stare a letto, sai? Anche a me è capitato qualche volta. Leggi? Quanti giornali hai qui! Ma quante mosche, o Dio!

Ora che la finestra era aperta un nugolo di mosche si era levato; ronzavano da per tutto, si abbattevano specialmente sul viso del malato, che le allontanava con un lento e debole gesto della mano. Armanda con un ventaglio si diede a scacciarle; ma esse ritornavano, si accanivano, come affascinate da quell'odor di putridume…

—Ma è una disperazione—disse Luisa quasi piangendo—tutte queste mosche! Ma non c'è mezzo di liberarlo?

—Ho messo lì un'acqua, vedi, in quel piatto. Dicono che le fa morire, ma finora… È un vero tormento. Tengo chiuso più che posso, quando lui dorme; ma quando egli è stanco di stare al buio è un martirio. Che vita, mio Dio!

Ella parlava a voce abbastanza alta, ma Pepi non pareva udire affatto ciò che ella diceva; pensava ad altro, e domandò ad un tratto:

—E Nepo è stato promosso?

—Sì—disse Luisa tutta intenerita. Come poteva egli ancora pensare a Nepo!

Ella si sedette vicino, mentre Armanda era ancora discesa in cucina, a sollecitare la serva.

Parlarono rade parole, ma egli la guardava sempre; certo se qualche cosa viveva ancora in quell'anima semispenta, era l'amore per quella sorella. Anche lei lo guardava, con gli occhi asciutti, ma con l'anima annegata di dolore. Fissava avidamente quel viso; indovinava sotto la coperta quelle forme scheletrite. Quello era dunque il suo proprio fratello!

Si ricordò improvvisamente che quando egli era piccolo, appena in fasce, la loro madre glielo aveva dato un giorno a tenere fra le braccia; ella stessa allora non aveva neppur tre anni! E quel corpo quasi morto, quella faccia spaventosa erano stati dunque cullati, carezzati nella puerizia, avevano veduto il sole della giovinezza? E tutto ciò non era dunque più? Oh, quelle mosche, quelle mosche orribili! Inutilmente ella si affannava a cacciarle lontano; esse si ostinavano a tornare; una gli si fermò nell'angolo degli occhi, pareva divorarlo, feroce.

Ella dovette andarsene, non poteva più. Giù nel giardino Armanda colse per lei qualche fiore; le mostrò l'uva, che si ingrossava sulla pergola.

—Lui dice: «Armanda, che peccato! Io non mangerò l'uva quest'anno, che ce n'è tanta! E quei fichi, Armanda, li lascerò tutti! Io non li vedrò maturare».

Luisa taceva, con gli occhi pieni di lagrime.

—Lui dice: (insisteva Armanda) «non duro nemmeno quanto quei fiori in giardino. Vedrai; ci saranno ancora, che io me ne sarò già andato».

Luisa replicò, con un pensiero fisso:

—Ma quelle mosche che lo mangiano! quelle mosche!

Quando tornò a salutare Pepi, lo trovò quasi seduto sul letto, fumando.

—Pepi, io vado; ma tornerò prestissimo; domani verrà su Vincenzo. Sta allegro, sai. Vedrai, starai meglio quando torno.

Egli accennò gravemente col capo.

—Ah, vai via! addio!—disse.

Luisa si chinò a baciarlo.

—Addio, Pepi, ritorno presto. Guarda, i fiori della tua villa. Ti lascio una rosa.

Stette ancora su di lui, indecisa.

—Non hai bisogno di nulla?—chiese.

—No—disse lui.—Adesso, sai, faccio la cura della Iperbiotina.

—Ah—fece lei, e lo guardò con infinita pietà.

Armanda che era rientrata spiegò che egli prendeva ogni tanto un cucchiaio di quella medicina, che era forte come un liquore, e pareva lo ristorasse. E quando i suoi dolori lo tormentavano troppo, egli voleva che gli si facessero delle frizioni sullo stomaco e sul petto, e allora si sentiva meglio.

—Addio, Pepi—disse Luisa ancora.

Armanda le andò dietro, lamentandosi pianamente. Qualche volta ella proprio perdeva la testa, non sapeva più che cosa fare. Qualche momento pareva un po' più forte; mangiava anche; il giorno prima aveva mangiato un pollo intero. Oggi doveva venir da Torino il dottore; chi sa che cosa direbbe?

—Verrà Vincenzo—disse Luisa,—e domani, se posso, ritornerò io. A ogni modo, se accadesse un peggioramento, manda la serva al telegrafo. Subito.

Armanda promise.

—Scrivi subito oggi che cosa ha detto il dottore.

Discese ancora la verde erta, frettolosa per non perdere il tramway; aveva gli esami alla sua scuola, e non poteva assentarsi anche il dopopranzo. Correndo in giù ella pensava:

—Come rifarà egli questa strada?

Poi odorò i fiori, che le erano già quasi appassiti nella mano, e rivide le mosche sul viso del fratello, accanite. Allora gettò i fiori.

Pepi, quando ebbe veduto scomparire la prediletta sorella, si cacciò bruscamente sotto le coltri, e non parlò più. Armanda, tornando, quando lo vide così muto e immobile, credè che dormisse, e chiuse nuovamente le imposte; la stanza tornò tutta buia; si udirono ancora le mosche ronzare, quasi rabbiosamente, in quell'oscurità; poi si chetarono, e si fece un grande silenzio. Armanda restò un momento presso al letto, esitante.

—Pepi!—disse a bassa voce.

Ma egli non rispose. Allora ella si allontanò in punta di piedi; poi fece le scale di corsa, si precipitò nel giardino, e di là andò sotto il pergolato, donde l'uva già grossa pendeva. La ragazza aspirò largamente il buon odore della vite, l'aria fresca, la luce d'oro. Come tutto era buono, come tutto era bello! Guardò d'intorno le colline più alte, tutte folte di boschi, guardò lontano, nel fondo, la pianura luminosa. Gli uccelli cantavano pazzamente, un fremito di gioia scorreva nell'aria. Ella pensò ancora: Ah, come tutto è bello! E rimase a guardare, estatica, col braccio destro appoggiato alla pergola, gli occhi perduti lontano, ma pieni di splendore. Poi pensò a quegli che era dentro, al buio, e sospirò.

Quegli che era dentro, al buio, steso sul doloroso letto, già così morto, che metà del suo corpo non gli ubbidiva più, e inutilmente tentava di tirare a sè le povere gambe, grevi come piombo. Era rimasto così, con gli occhi serrati, per sentir meno il bruciore delle lagrime che non poteva piangere; aveva giunte insieme dolorosamente le mani, e quando gli parve di essere ben solo, aprì i denti, e lasciò uscirne il gemito, che aveva inghiottito fino allora.

Un gemito lungo, flebile, monotono, come il pianto d'un bambino malato, o come il lamento di una bestiuola ferita. Non pensava a nulla, lamentandosi così, non lo faceva perchè avesse più male del solito; ma c'era qualche cosa nella sua anima che non poteva uscire; un peso, un affanno, una collera, che sfogava così, con quel gemito che gli usciva di tra i denti.

Perchè, oltre a tutto il male, gli avevano fatto qualchecosa, un torto, certo, che non sapeva bene, poichè quel senso gelido e oscuro di abbandono era calato su di lui.

E rimase molto, molto tempo così, a lamentarsi in quel buio, finchè non ritornò Armanda, tutta odorosa di fresco, di sole, con le mani piene di fiori, e riaprì le finestre.

—Dammi una camicia pulita—disse duramente Pepi.

Ella ubbidì, comprendendo che egli era in uno dei suoi cattivi momenti, e lo aiutò a mutarsi.

—È perchè viene il dottore, vero? Speriamo che venga—disse la ragazza per trarlo dal suo mutismo. Ma egli si ricoricò senza parlare, e prese un giornale dal tavolino.

Armanda gli restò vicina, pazientemente, anche lei con un libro aperto tra le mani; ma ogni tanto levava la mano, per discacciare le mosche d'intorno a lui; poi il suo sguardo si spingeva fuori della finestra, nel verde, nell'azzurro, ed ella sospirava pianamente.

Finchè venne il medico.

Entrò con un fare cordiale, premuroso, dandosi subito una grande occupazione intorno al malato. Lo picchiò, lo ascoltò coscienziosamente, stette a sentire con pazienza la solita descrizione di tutti i suoi mali, fatta da Pepi e da Armanda.

—I polmoni stanno bene—disse con quella sua leggiera enfasi meridionale, che accresceva importanza a ogni sua parola;—ma è lo stomaco. Sono gli intestini che non funzionano bene. Vi è dell'infiammazione là dentro. Dipende forse anche dalle medicine, che sono difficili a digerirsi… Facciamo così. Lasciamo stare per otto giorni le medicine. Aspettiamo che lo stomaco si rinforzi; poi andremo bene.

—Ma, dottore—disse Armanda—egli mangia tanto! Non pare che abbia lo stomaco guasto.

—Ciò vuol dir nulla. Mangia, ma non digerisce. I polmoni stanno bene.

Quando egli uscì, Pepi, che lo aveva ascoltato religiosamente, bevendo quasi con gli occhi ogni sua parola, fece ad un tratto un gran gesto col braccio.

—Che vuoi?—disse Armanda, tornando indietro.

—Maledetto ciarlatano—brontolò il malato, e si voltò col viso verso il muro.

Armanda raggiunse il medico, mentre scendeva lungo il sentiero.

—E così, dottore?—chiese, palpitante.

—Mia cara signorina—rispose l'uomo—può durare così ancora un mese, come potrebbe mancarle da un momento all'altro. C'è la paralisi che sale. Quando è giunta al cuore, è finita.

A queste così chiare parole la ragazza sentì il suo dolore soverchiarla. E pianse, singhiozzando, nel suo fazzoletto.

—Mio povero fratello!—disse.

—Che volete? È meglio così. Patisce troppo.

Ella tornò indietro, sedette ancora sulla panca davanti alla casa, e pianse a lungo, sommessamente, lamentandosianche lei, chiamando la mamma morta.

—E son qui sola, qui sola. Se ci fossi tu, mamma mia! Perchè ho da sopportar tutto questo io sola? Poi le venne in mente che il dolore di un altro non calmerebbe il suo; e si sentì di nuovo coraggiosa, pronta a tutto, gustando quasi una voluttà amara in quel dolore così grande e solitario.

La notte passò come le altre, e il domani ricominciarono le monotone giornate. Ora Armanda prendeva anche i suoi pasti in quella camera di malato, tutta piena dell'odore di quel corpo infermo e delle medicine. Portava il tavolino presso al letto, e mangiavano insieme. Erano le ore più belle, perchè Pepi era ripreso da uno strano appetito, e diventava allegro, mangiando. Anche la giovine si abbandonava così alla fame dei suoi vent'anni; gustava volentieri quel cibo, quel vino, e infine quella sigaretta fumata ciarlando, mentre una ebrietà sottile penetrava il suo cervello giovane, impregnato di cure dolorose. E ricominciava a raccontare, a raccontare, frammezzando il discorso di tanti: Ti ricordi?

Ma Pepi poco udiva, e anche poco ricordava. Qualchevolta le persone e le cose si annebbiavano e confondevano nel suo pensiero. Non riusciva più a ricordarsi quando una certa cosa era accaduta; spesso, mentre Armanda parlava, egli perdeva il filo, si distraeva, non capiva più. Qualchevolta ancora egli tornava faceto, anche mordace, come era stato il suo spirito, prima. Gli veniva in mente qualche espressione satirica contro suo cognato Vincenzo, contro la sorella Evelina, contro i suoi antichi superiori, o i suoi compagni. Luisa stessa non era risparmiata. Poi, quando si era sfogato, improvvisamente diceva:

—Luisa, però, è buona.

Un giorno disse ad Armanda:

—Hai mai letto la storia di Ivan Illich?

—No, com' è?

—Oh, una storia da ridere! C' è uno che ha un rene mobile, e ci pensa sempre. Finchè muore. È così buffo!

Poi non parlò più.

In quella settimana Vincenzo tornò a trovarlo due volte. Luisa non poteva venire, sempre occhpata negli esami e nelle lezioni. Ma Pepi non domandava nemmeno di lei; pareva che le cose lo interessassero sempre meno; il suo viso, quando non era contratto dal dolore, prendeva una espressione di indifferenza, quasi di sprezzo. A poco a poco il suo cervello si chiudeva, i suoi sensi morivano; ed egli si abituava a non parlar più, a non udire; guardava appena, ma anche nel suo occhio fisso e vitreo già si oscuravano le imagini.

Come si andava così togliendo dal mondo esteriore, ancora qualche lampo del passato, qualche ricordo gli attraversava il cervello. Gli pareva di essere a Trieste, ritrovava d'un tratto nella sua memoria una figura perduta; sua madre, la sorella Virginia gli tornavano dinanzi, così come erano state allora. Anche egli scambiava con loro qualche parola, là nella quiete del suo letto, quando lo lasciavano solo. Poi persone e cose dell'America. Armanda spesso lo udiva mormorare parole spagnole; si chinava su di lui:

—Che vuoi, Pepi?

—Nada—diceva egli, sorridendo.

Allora lei tornava anche al loro caro dialetto triestino, che ella sapeva ancora, e che preferiva all'italiano.

—Te parli spagnol, caro Pepi? bravo! te me insegnerà anche a mi quando che ti starà ben.

Lui pure tentava di risponderle a quel modo, scherzando. Ma d'improvviso gli mancavano quelle parole, e taceva, sgomento.

A volte lo prendeva una vaga rapida paura. Il pensiero della morte gli balenava davanti, il terrore della fine, del nulla. Si toccava le sue gambe rigide, le sentiva fredde. Un sudore gelido gli bagnava allora la fronte:

—Io muoio.

E allora un'angoscia di ciò che era stato, di ciò che aveva fatto, un rimorso, una disperazione atroce. Avrebbe voluto balzar da quel letto, lanciarsi ancora nella vita, riprenderla, per farne una altra cosa. Inutile; egli non aveva più forza; era troppo tardi, era finito, finito…

Ma il giovedì peggiorò improvvisamente. Non parlò più, e non pensò più; un gran gelo lo avvolgeva. Non volle mangiar nulla; appena con un gesto stanco della mano rispondeva alle domande della sorella. Spaventata, Armanda, telegrafò a Torino la mattina del venerdì. Nel pomeriggio venne su Vincenzo col dottore, Luisa doveva andar su la sera, o il sabato mattino, se non avesse ricevuto prima un nuovo telegramma.

Il dottore scrisse in fretta una ricetta, che la serva corse a spedire; poi se ne andò, crollando le spalle.

Ma Pepi, d'un tratto, riconobbe il cognato.

—Dì, Vincenzo, hai letto la storia di Ivan Illich? Come è buffa! Figurati, uno che aveva un rene mobile…

Tacque.

Quando ebbe bevuto la medicina che Armanda gli versò tra i denti, parve d'improvviso rianimato, e si rizzò a sedere.

—E così? dammi notizie. Che diavolo si fa a Roma? cade questo Ministero, ch? Fanno le leggi eccezionali contro gli anarchici… Facciano, facciano…

Volle ricoricarsi, ma gli mancò la forza. Un atroce dolore gli straziò i fianchi e il petto. Vincenzo e Armanda lo sostennero, lo aiutarono.

—Oh mamma mia!—gemè l'infelice.

Non parlò più; con la mente fissa in una evocazione lontana. I suoi occhi dilatati e fissi videro davvero in quel momento la madre, venuta a lui, come quando la chiamava, bambino… E liete visioni apparvero alla sua anima. Un bel mare azzurro, bimbi che correvano giocando sulla spiaggia, un fanciullo che raccoglieva lucide conchiglie… V'era tanto sole, tanto sole… quella spiaggia egli la conosceva, e quel fanciullo era lui…

Poi le visioni sparirono; egli si ritrovò nella sua camera, nel suo letto, si vide vicino il cognato e Armanda. Gli parve quasi di sentirsi bene; solo aveva bisogno di una cosa, non sapeva più quale. Vide sul tavolino il suo pacchetto di sigarette. Ecco, era forse quello. Ne prese una; tolse un fiammifero dalla scatola, riuscì ad accenderlo, e portò alla bocca la sigaretta.

Armanda e Vincenzo lo guardavano fissi, poi la fanciulla distolse gli occhi, e mirò fuori, la campagna tacita nel tramonto. Il silenzio pareva immenso nella piccola camera.

Ad un tratto Pepi posò la sigaretta, stese le mani sulle coperte, e respirò lievemente. Fu un soffio, ed era finita.

Vincenzo primo se ne accorse.

—Armanda—disse egli, abbracciando la cognata —fatti coraggio; egli ora sta bene.

La fanciulla gettò un grido, e ruppe in disperati singhiozzi.

Vegliarono la notte presso quel letto, dove egli finalmente dormiva, così quieto; per la prima vlta, dopo tanti anni, così quieto. E il domani venne Luisa. Ella dovette occuparsi dei funerali, parlare coi preti, col falegname che doveva preparare la cassa… Fece outto assai calma, assai forte, senza piangere, girando per il paese con il marito ed un uomo di loro conoscenza, che si era offerto nella circostanza.

Poi, verso mezzogiorno, presero la strada che conduceva alla villa. E Luisa la rifece, passo per passo, quella via di dolore, guardando intorno con gli occhi asciutti, pensando: Ecco, egli non verrà mai più per questa strada. Non sentiva un grande affanno, solo un freddo, un freddo… Quando fu nella villa le venne incontro Armanda tutta in lagrime, la baciò…

Luisa disse solo:

—Dov' è?

Ma Vincenzo voleva distoglierla d'andarvi. Luisa non rispose nulla, montò la scaletta, andò diritta a quella camera che sapeva. Ecco, egli era là nel suo letto, proprio come quel giorno che ella lo aveva veduto vivo per l'ultima volta. E pareva vivo ancora; i denti si scoprivano un poco, come quando faceva quella sua smorfia dolorosa; gli occhi erano aperti, fissi, la guardavano.

Allora ella sentì ogni sua forza venirle meno, e scoppiò in un pianto dirotto. Pianse a lungo, con lagrime calde, che la sollevavano. Non volle andarsene subito.

—Ma voi credete,—diceva ella a quelli che volevano confortarla,—che io pianga di dolore? Non sapete che io sono felice, capite, felice di vederlo ora qui, finalmente, così tranquillo! Erano tanti anni, tanti, tanti, che questo povero ragazzo correva il mondo, senza trovar mai pace! Ha sofferto di tutto. La fame, la prigione, la solitudine; ha avuto sempre troppo freddo o troppo caldo; nessun bene della terra fu per lui. Il suo stesso pensiero era una follìa, era un sogno fuori della terra…

Sempre solo… da tanti anni senza padre, senza madre, senza le sorelle. E ora che è ritornato, ecco l'orribile male che lo afferra, che lo strazia…

Poteva forse vivere? E credete che io pianga per il dolore? Ma io son felice che sia morto! Piango, capite, per questa vita distrutta, per questa vita sprecata, piango di tutto ciò che ha sofferto, non per adesso, no, no; perchè io lo metterò in quel luogo così tranquillo, in quel piccolo cimitero, dove lo ritroveremo sempre. Sapremo che è là; non avrò più paura che vengano ad arrestarlo; non lo sentirò più tossire di notte: non lo vedrò più girare per la mia casa con quel viso spettrale, trascinando a stento questo suo povero corpo. Guardatelo come è quieto, come riposa bene. Chi sta meglio di lui? Ma non lo invidiate voi? Ah, se sapeste come sono contenta che sia finita! Se sapeste quello che ho sofferto, per lui, io che non glielo dicevo mai! Egli forse non lo ha mai capito. Egli mi avrà creduta, forse, fredda, indifferente, annoiata. Ma il male che ho avuto per lui, il male orribile, e l'amore immenso, egli non lo ha saputo. O forse l'ha saputo, forse l'ha indovinato. Perchè io era quella che egli amava di più. È vero, io son venuta poco a vederlo; è vero, io non l'ho veduto morire. Ma quello non lo potevo. Perdonami, Pepi, non lo potevo proprio. Non avrei potuto sopportarlo, Pepi; perdonami. Ora ti metteremo in un bel posto tranquillo; ci saranno dei fiori, ci sarà il sole. Tu starai là così bene, così bene! È l'unico luogo che posso offrirti per star bene, povero Pepi.

La trascinarono via, soffocata da quella crisi di lagrime. E d'allora non seppe vincersi più. Fu un delirio continuo, dal quale non uscì che per chiedere:

—Gli metterete il suo vestito nero, è vero?

Prima che lo portassero via volle rivederlo ancora. Era già nella cassa, tutto vestito di nero, pulitamente, con le mani abbandonate lungo i fianchi. Povere mani pallide, diaccie; ella le strinse con disperazione, gli disse ancora: Addio, addio, addio!

Poi volle seguire il feretro anche lei, andare in chiesa. Ma i suoi singhiozzi coprivano la voce dei preti che cantavano l'augurio estremo:

«Requiem aeternam dona ei, Domine, et requiescat in pace. Amen!»

In pace! Ah, grazie, grazie a quelli che augurarono pace al povero travagliato!

In una di queste nebbiose mattine di autunno, Luisa andò a visitare la tomba di Pepi, nel piccolo cimitero di Moncalieri.

Una mano pietosa vi ha fatto piantare dei crisantemi intorno; alcuni sono ancora fioriti. Sulla lapide bianca è inciso in lettere d'oro il nome caro del morto e la data. Sotto, ella volle scritto, come augurio per lei, il verso di Foscolo:

«E prego anch'io nel tuo porto quiete!».

Là, vicino a quella fossa, dove il suo morto fratello sente ora gocciare come pianto la pioggia autunnale, dove tra poco lo coprirà il lenzuolo di neve (lo sentirà egli il freddo anche laggiù?) dove a primavera udrà i germogli nuovi liberarsi dalla terra, e poi la collina e il cielo fiammeggeranno del sole vittorioso, Luisa medita volentieri sull'eterno inutile problema della vita e della morte. Una vita spezzata e vana!… Un dolore che non ha servito a nessuno!… Chi mai la dà? e chi mai la riprende? E perchè?

E ripensa le sconsolate parole dell'Ecclesiaste:

«Che profitto ha l'uomo di tutta la sua fatica, nella quale egli si affatica sotto il sole?

Una età va via, e un'altra età viene; e la terra resta in perpetuo.

Il sole si leva anch'esso, e poi tramonta, e, ansando, trae verso il luogo suo, ove si deve levare.

Quello che è stato è lo stesso che sarà; e quello che è stato fatto è lo stesso che si farà; e non vi è nulla di nuovo sotto il sole.

Onde io pregio i morti, che già son morti, più che i viventi che sono in vita sino ad ora.

Anzi, più felice che gli uni e gli altri, colui che fino ad ora non è stato!».

Oh il lamento antico della vita! Ma allora perchè, perchè ci vien data? O forse davvero la risposta è solo nota alle anime semplici e buone, ai cuori dei fanciulli, che si aprono come i fiori al sole e alla rugiada, e si addormentano, chinando il capo sorridendo la sera, dopo avere adempiuto il loro dolce dovere…

Forse davvero la vita può essere buona… Quando guardiamo dinanzi con occhio fermo e sicuro, rallegrandoci delle cose sparse nel cielo e sulla terra, stendendo le mani operose e pietose, sollevando l'anima verso il pensiero d'un bene che potrem forse meritare.

O giovani! poichè tutto il tesoro vi è ancora offerto, intatto, non sprecatelo leggermente, vanamente, ma spendetelo con prudenza e misura… perchè forse la saggezza è qui.

Riempiamo la nostra giornata di bontà operosa, «avanti che la fune d'argento si rompa, e la secchia d'oro si spezzi, e il vaso si fiacchi sulla fonte, e la ruota vada in pezzi sopra la cisterna; e la polvere ritorni in terra, come era; e lo spirito ritorni a Dio, che l'ha dato».