BIBLIOTECA ROMANTICA POPOLARE
A UNA LIRA IL VOLUME

LUIGI DI SAN GIUSTO
LUISA MACINA-GERVASIO

PRIMAVERA ITALICA

ROMANZO

STEN
SOCIETÀ TIPOGRAFICO-EDITRICE NAZIONALE
(già: Roux & Viarengo - Marcello Capra Angelo Panizza)
TORINO



LUIGI DI SAN GIUSTO

PRIMAVERA ITALICA

ROMANZO STORICO

ROMA-TORINO
CASA EDITRICE NAZIONALE
Roux & Viarengo
1905.

Proprietà letteraria

ROMA - STABILIMENTO TIPOGRAFICO DELLA «TRIBUNA»



Era una fresca notte di marzo, una di quelle notti che già sentono i lontani profumi della primavera, e il cielo è attraversato da tiepidi buffi di vento; notte piena di fascino, di dolcezza, perchè gli alberi sentivano il succo della vita fremere sotto le aride cortecce, e gli uomini l'ebrezza di nuove speranze salire, come fumo, al cervello. In quella notte—l'orologio della chiesa di S. Massimo batteva il tocco—una carrozza si era fermata dinanzi ad una porticina di via dell'Ospedale, la porticina si era aperta, un uomo, tutto involto in un grande mantello, seguìto da un altro, che portava in mano una lanterna, era comparso nel vano, aveva susurrato qualche parola al compagno, il quale subito rientrò tirandosi dietro l'imposta, poi era salito nella carrozza che ripartì di carriera.

Torino a quell'ora, in quell'anno, era il 1847, mal rischiarata, poco animata, era assai malinconica nica e deserta. Per le strade non c'era anima viva, tranne qualche pattuglia, che andava a passi gravi e cadenzati; la polizia era difatti allora la vera padrona del Piemonte, aiutata e sostenuta dai preti onnipotenti, ed erano ben rari i cittadini che osassero girare le strade dopo le dieci di sera, perchè arrischiavano di andar ad aspettare l'alba in gattabuia, messi al sicuro come vagabondi, o come liberali, il che era quasi lo stesso, o peggio.

La carrozza, in pochi minuti di corsa indisturbata, era giunta in Via della Zecca, allora quasi perfettamente oscura, e si era fermata dinanzi ad un fabbricato lungo, con file simmetriche di finestre, senza balconi, che aveva un aspetto di caserma, o di convento…

Era l'Accademia militare, la quale, unita da una parte alle scuderie reali, comunica pure col palazzo reale, tanto che tutti questi varii fabbricati, che occupano una immensa area, da Piazza San Giovanni fin giù verso il Po, formano, si può dire, un solo edifizio.

La carrozza certo era aspettata, perchè appena fu ferma, una porta si aprì sulla strada, misteriosamente, senza che alcuno si vedesse; l'uomo scese, fece un cenno al cocchiere, che subito ripartì, senza parlare, poi quegli entrò, richiuse, e si trovò in un atrio debolmente illuminato.

Un uomo, un servitore certo, aspettava, con una lanterna in mano, e s'inchinò al nuovo venuto. Questi non disse una parola. ma si mosse dietro l'altro, che, camminando curvo, un po' a stento, dimostrava una vecchiaia già avanzata; e così muti, andarono, attraversando corridoi, salendo e scendendo scale, in un silenzio profondo, rotto solo dai loro passi. Finalmente entrarono in una stanza grande, di aspetto severo; il lume della lanterna faceva oscillare sulle pareti i ritratti di gente antica, imparruccata; incipriata; un soffio d'aria, entrante da una finestra socchiusa, moveva le tende scure, e suscitava strani bisbigli. Il vecchio si accostò ad una porta, sollevò la tappezzeria e fece passare l'uomo dal mantello, quindi la portiera ricadde pesantemente.

Il nuovo venuto si trovò in una sala illuminata da un grande candelabro fiammeggiante nel mezzo di una tavola ingombra di carte. Intorno a questa tavola sedevano quattro individui, che volsero il capo verso colui che entrava. Questi si avanzò precipitosamente, e, giunto presso ad uno dei signori seduti, si inchinò profondamente.

—Buona sera, Salvago—disse quegli, porgendogli la mano, che l'altro prese e strinse con grande rispetto.—Temevamo non veniste più. Sedete.

Colui che era stato chiamato Salvago ubbidì, sempre senza parlare, e facendo un lieve saluto complessivo agli altri tre seduti, che gli risposero con cenni del capo.

—Guardate queste carte—disse allora colui che solo aveva parlato, e porse a Salvago un rotolo, che quegli si pose a esaminare attentamente.

Ci furono alcuni minuti di profondo silenzio. Le candele fiammeggiavano sulle teste chine di quei signori; teste grigie tutte, meno una, bionda e giovanile.

Colui che solo aveva parlato fino allora era il più caratteristico di tutti. Magrissimo, il suo petto ossuto, serrato in una giubba militare rigorosamente abbottonata, e in un alto colletto, pareva in quel momento scosso da un affannoso respiro. Le fiamme del candelabro mettevano gialli bagliori sul viso pallido, quasi terreo, dai lineamenti irregolari, forse brutti, ma soffusi di suprema distinzione. La fronte alta, ossuta, livida, pareva solcata da un pensiero di angoscia, e amava piegarsi, a momenti, come sopraffatta da un insopportabile peso; ma poi si rizzava, forse al richiamo di un dovere, di un ricordo penoso e imperioso. Gli occhi, infossati nell'orbita, erano stanchi, cupi, inquieti, occhi di so gnatore, di asceta, come erano forse quelli di Torquemada; ma a volta superbi, freddi, investigatori.

Gli altri quattro avevano tutti visi gravi e pensosi, anche il giovane. Salvago era forse il più vecchio, poichè mostrava cinquant'anni o più; ed era pallido e scarno; con fronte severa e occhi profondi. Un altro, il conte Zani, aveva lineamenti più molli, occhi grandi e brillanti, sotto scure ciglia; mostrava quarant'anni; non era piemontese, e lo si capiva subito, dalla mobilità dei suoi tratti, dal fulgore dei suoi sguardi, da un certo visibile sforzo che faeeva per frenarsi e tacere.

Il giovane era Giuseppe Fanti, marchese, discendente da antichissima casa, e portava sul viso nobile e fine, circondato dai capelli biondi, negli occhi azzurri, un po' freddi, alteri, l'impronta della razza, un sangue puro e ardito di gente soldatesca; egli stesso era militare, e vestiva la divisa di capitano, con un fare disinvolto e corretto.

L'altro, seduto, col viso chino, la fronte austera, la bocca dura e superba, era il signor marchese di Villamarina, ministro di Carlo Alberto, re del Piemonte e di Sardegna.

—Sire—disse il conte Salvago, deponendo sulla tavola le carte che teneva in mano—questo Statuto sarà la salvezza dell'Italia. Un solo articolo abolirei, il primo: Perchè dire che la religione dello Stato è la cattolica? Non sarebbe più opportuno lasciare a tutti assoluta libertà di coscienza?

Il viso dell'interpellato si fece più pallido; un tremito agitò le sue labbra, ma non rispose. I suoi occhi si volsero a Villamarina. Questi levò i suoi, lanciò un'occhiata fredda al conte Salvago:

—Quello che facciamo è già molto, conte. Bisogna badare che non sia troppo.

—Anch'io—replicò il conte Zani, agitando nervosamente una mano—anch'io vorrei che quell'articolo fosse abolito … Non si potrebbe forse essere buoni cattolici lo stesso?

—Parlate, marchese Fanti—disse con voce debole colui che era stato detto Sire.

—Io penso—rispose il Fanti—che sono buon cattolico, come mio padre, e non mi piacerebbe venire messo a pari con gli ebrei del Ghetto; ecco la mia opinione, Sire.

Il Sire si scosse, levò arditamente la fronte; una fiamma brillò nei suoi occhi cupi.

—Ben detto, Fanti!… Ah, penso anch'io che forse facciamo troppo! E questa carta non sarà che un male, un male irreparabile.

—Vostra Maestà si rassicuri—disse con ferma voce allora il ministro—lo statuto sarà un bene per il Piemonte, e chi sa! forse per l'Italia tutta, se Dio concederà alla Maestà Vostra di cingerne la corona. Ma è necessario che i fedeli amici di Vostra Maestà non le diano dei consigli eccessivi. I tempi sono maturi per una riforma; non per una rivoluzione.

Nessuno rispose. Si sentiva solo il respiro affannoso del Re, e quasi il palpitare del suo cuore.

—Conte Salvago, vi ringrazio di non insistere —disse ad un tratto Carlo Alberto.— Sono lieto di vedervi tutti, amici miei; voi, mio antico compagno di studi e anche di sogni—aggiunse sorridendo, e il sorriso dava una espressione nuova di bontà e di semplicità a quella bocca austera—voi Zani, vecchio sognatore anche voi, e impenitente. … Siete lo stesso che eravate nel 21, quando avevate, credo, diciott'anni! Voi, caro Fanti, figliuolo di un devoto amico nostro, troppo presto morto per noi… e voi, Villamarina, non solo ministro, ma amico; e amico sincero, lo so… Sono lieto di avervi tutti intorno a me, in questi tempi difficili, in cui, non vi nascondo, il mio cuore è turbato da angoscie, da presentimenti, da dubbi… Oh, se si potesse sapere! Se si potesse squarciare il velo che nasconde il futuro, e sapere ciò che è bene e ciò che è male! Dio mi è testimonio che io non voglio che il bene; ma chi sa dirmi quale è veramente il bene?

Piegò la testa e stette pensoso un momento. Il dubbio si vedeva passargli sul viso contratto da un'ansia penosa a vedersi. Mormorò ancora un volta:

—Chi lo sa?

Poi rialzò la fronte, sorrise improvvisamente, metà ironico, metà triste:

—È vero, signor ministro—disse, volgendosi al Villamarina—che si son fatti degli altri versi su di me?

Un lieve rossore tinse le pallide guancie del ministro.

—Versi, Sire?—disse esitando.

—I versi che oggi l'Italia canta sono:

Del nuovo anno già l'alba primiera di Quirino la stirpe ridesta: benedetta la santa bandiera, che il Vicario di Cristo innalzò,

disse con enfasi il conte Zani.

—Ah sì!—mormorò il Re—quel Pio IX! Ma non parlo di lui. Una satira contro di me… E' un giovane, mi pare, il Carbone…

E, sotto gli sguardi meravigliati degli altri, il Re cercò tra le carte sul tavolo, ne tolse un foglio manoscritto, e lesse sottovoce:

In diebus illis c'era in Italia, narra una vecchia gran pergamena, un re, che gli era fin dalla balia pazzo pel gioco de l'altalena. Or lo ninnava Biagio, or Martino; ma l'uno in fretta, l'altro adagino. Ciondola, dondola, che cosa amena, ciondola, dondola, è l'altalena…

—Oh, la Maestà Vostra non si lasci impressionare da brutti versi scritti da giovinastri scioperati! —esclamò il Villamarina.

Gli altri tacevano, ma negli occhi di Zani brillava una evidente soddisfazione.

Dicea Martino: Libera il corso, Sire, al gran Veltro, fin che ci lambe! Se per disgrazia tira di morso Iddio ci salvi garretti e gambe! Diceva Biagio: Stringi la corda, cane che abbaia, rado è che morda. E il Re: Ministri, siate contenti, un dì si stringa, l'altro si allenti.

—Martino siete voi—disse il Re, guardando sorridente il Villamarina.

—E Biagio è il conte Solaro della Margherita —aggiunse Zani, che si divertiva.

Re Tentenna! Dovrò io dunque passare ai posteri con questo ridicolo e meschino nomignolo?—disse il Re con quel suo triste sorriso —Meglio sarebbe morire dimenticati!

—Vostra Maestà darà la felicità al suo popolo, e il popolo vi chiamerà magnanimo, Sire! —disse il conte Salvago, con voce vibrante di commozione.

—Grazie, amico mio!—esclamò Carlo Alberto, rizzandosi sulla persona—E io sono infatti deciso; stavolta fermamente deciso. Darò la Costituzione.

—Quando, Sire?—chiese arditamente il Fanti.

Carlo Alberto esitò un momento.

—Appena avrò costituito il nuovo ministero… Alfieri non è benveduto da tutti… Vorrei un ministero che godesse le simpatie generali… Anche Boglia… non so… C'è una corrente contraria… Ma presto, sarà presto.

—L'Austria continua a provocarci—disse Zani—e dopo la proclamazione dello Statuto, è necessario che segua la guerra contro l'Austria.

—E' un punto non ancora deciso—replicò il Re.

—Il popolo la vuole!—disse Salvago.

—Il popolo, il popolo! Lo sa esso ciò che vuole, il popolo?—ribattè Carlo Alberto; con un tremito d'impazienza nella voce.—Sa esso che vuol dire la guerra? Ora piange perchè la vuole; piangerà quando l'avrà avuta. Tanto sangue … tanto denaro… il popolo! che ne sa esso?

Nuovo silenzio; i convenuti evitavano di guardarsi, come paurosi dei propri pensieri.

—Faremo anche la guerra!—disse Carlo Alberto, con voce più calma:—faremo tutto quello che il popolo vuole. Ma non è venuto il tempo.

—Il tempo è venuto, Sire—disse arditamente il Fanti;—l'odio contro l'Austria è più vivo che mai; tutta l'Italia si agita. Un Papa, un Papa è alla testa del movimento liberale. Questo deve calmare ogni coscienza, sedare ogni scrupolo. Tutta l'Italia è oggi col Piemonte. Il nostro esercito è ingrossato da centomila volontari. Tutti, tutti marcieranno uniti contro il nemico comune. Comandate, Sire, comandate che passiamo il Ticino!

—Voi siete giovane, assai giovane—mormorò malinconicamente il Re.—Vi è permesso avere dell'entusiasmo. Noi siamo vecchi e dobbiamo aspettare; solo per i giovani è buona l'impazienza.

—Un regno così bello e così grande, Sire! —disse il conte Zani—Un'Italia tutta intera, tutta sotto la vostra casa gloriosa! Che bel premio! Ah! quale còmpito degno di Voi!

Le gote di Carlo Alberto diventarono pallidissime di commozione. Alzò la destra al collo, come se si sentisse soffocare.

—Leggete, Villamarina, leggete forte ciò che io dico nel proemio della Costituzione. Vi sono delle parole che piaceranno, io penso, piaceranno anche ai più liberali. Anche a voi, conte Zani— e sorrise, ma più lieto, con profonda bontà.

«Con lealtà di Re e con affetto di padre…» —lesse il Villamarina, e la sua voce andava commovendosi sempre più, man mano che continuava la lettura; quando giunse alle parole: «nella fiducia che Dio benedirà le nostre pure intenzioni, e che la Nazione libera, forte e felice saprà meritarsi un glorioso avvenire…» egli finì in un singhiozzo, e gli altri, tutti, si alzarono, anche lo stesso Carlo Alberto.

—Ah, che giorno sarà quello!—esclamò Salvago. —Beati noi che vedremo questi tempi!

—Benedetto il Re che scrisse queste parole… —disse Zani, e rapidamente, curvandosi, afferrò la mano di Carlo Alberto, e la baciò, ma due calde lagrime caddero pure su quella fredda, pallida mano. Anche il giovane Fanti aveva gli occhi pieni di lagrime, e nemmeno il conte Salvago tentava di nascondere le sue. Solo il Re, pallidissimo, mostrava gli occhi asciutti, ma brillanti di un fuoco vivissimo.

—Viva dunque l'Italia!—disse egli, alzando una mano.

—Evviva!—gridarono gli altri.

Ma a quel grido compatto, che parve destare gli echi delle sale silenziose, il Re si scosse, si guardò intorno turbato, poi sedette, fece un cenno agli altri che lo imitarono, e tutti tacquero nuovamente.

—Leggete, Villamarina, leggete gli articoli che riguardano i diritti dei cittadini—disse dopo un breve silenzio il Re.—E' necessario che li ponderiamo bene, e non sarò mai sicuro finchè tutti i miei amici non li avranno approvati.

La lettura continuò, suscitando commenti, osservazioni, pareri e approvazioni, da parte dei quattro amici del Re; egli stesso parlava, assai di frequente, con voce concitata, quasi febbrile. Erano già tanti mesi che quegli articoli si elaboravano, e tutti i ministri liberali, e tutti gli uomini politici più in vista erano stati consultati molte volte, specie quando gli scrupoli del Re risorgevano, suscitati in lui parte dai gesuiti, parte dalla sua stessa natura, e dalle idee della sua educazione monarchica, di principe discendente da antica famiglia, avvezza all' assoluto potere. Uomini insigni avevano lavorato col Re, lo avevano consigliato, ed ora, quella notte, voleva consultare ancora Salvago, il vecchio amico fedele Zani, l' ardente emigrato Fanti, l' ufficiale ardito, ma attaccato in parte ai principî conservatori, e il ministro liberale, che lo aveva spinto nella via delle riforme. Ogni articolo veniva letto, discusso liberamente, commentato, corretto, e il lavoro continuò finchè l'alba non venne a imbiancare gli arazzi rossi della sala, e il viso scialbo e faticato di Carlo Alberto. Allora egli congedò i suoi amici con buone parole e con espressione cordiale e affettuosa che non gli era solita.

—Dio sia con noi—disse infine—e protegga la nostra causa, se è santa.

Erano tutti in piedi, ora; tutti pallidi, con visi pensosi e occhi brillanti di una fiamma intensa. Il Re strinse la mano a tutti, e a Salvago disse particolarmente:

—Tornate da me stasera, conte!

Egli si inchinò, e tutti uscirono, lasciando il Re solo, desideroso di riposare. Lo stesso servo che li aveva introdotti, li riaccompagnò per le sale deserte, dove la luce del giorno già contrastava con quella delle candele accese qua e là. Ad un tratto un'ombra scura passò, rapida, strisciando contro il muro, e scomparve dietro una porta.

—Il padre Marotti!—mormoro Salvago, con dispetto.

—Il confessore del Re!—disse il conte Zani.

—Signori! Lo Statuto non sarà pubblicato quest'anno!—aggiunse il giovane Fanti—nè faremo la guerra all'Austria.

Nessuno rispose a queste parole dette con profonda amarezza, e, presso alla porta di via della Zecca i quattro si separarono, salutandosi con cenni in silenzio. Una carrozza si staccò da un angolo oscuro, dove era stata fino allora ad aspettare, e Salvago vi entrò e si rannicchiò nel fondo, come per non essere visto. La carrozza non prese già la via per la quale qualche ora prima era passata, ma, volgendo verso il fiume, andò con rapida carriera su su, verso la campagna, e scomparve nella lieve nebbia di quella mattina primaverile.

Intanto il padre Marotti era passato rapidamente attraverso le stanze reali, senza che nes suno dei radi servitori, che vi si trovavano di guardia, lo fermasse. Solo quando fu nell'anticamera del Re, il quale, assai stanco, già si faceva spogliare da un cameriere, il gesuita fu fermato dal servo che ne custodiva la porta.

—Sua Maestà non è ancora a letto a quest'ora —replicò seccamente il padre gesuita— annunziatemi al Re.

Il servo obbedì; egli sapeva che quella era un'epoca in cui i gesuiti comandavano allo stesso Re. Carlo Alberto, già mezzo svestito, ricevette subito il suo confessore.

—La Maestà Vostra ha l'aria molto stanca —disse il padre Marotti.

—Non importa—rispose il Re, mostrando chiara l' inquietudine che quella visita gli procurava.

—Sono contento di vederla, padre; e oggi stesso avrei mandato a cercarla.

—La Maestà Vostra ha bisogno di me come confessore?—chiese il padre Marotti;—ho da ritornare?

—No, no, padre, resti; ma lei è venuto per qualche motivo?

—Si—disse il padre guardandosi intorno. Ma non c'era nessuno, anche il cameriere era sparito al primo entrare del gesuita. Il Re sedette e fece un cenno al padre, ma questi rimase in piedi dinanzi a Carlo Alberto, guardandolo con i suoi occhi profondi e investigatori.

Quel padre Marotti era un bell'uomo, grande della persona, dalla faccia pallida, energica, intelgente. Gli occhi, parevano esprimere una grande bontà, temperata dalla severità della bocca, che, sensuale e morbida come quella di una donna, pure aveva l'abitudine di una espressione austera e grave. Era infatti un uomo di grande bontà, per tutte le cose che non concernevano il suo Ordine; ma assai poche erano le cose che non interessassero i gesuiti, e il padre Marotti aveva quindi poche occasioni di mostrarsi buono.

—La Maestà Vostra si è lasciata indurre a promettere la promulgazione di quell'orribile Statuto? —disse il gesuita con voce severa.

—Sono convinto che è mio dovere di farlo —disse il Re con una certa fermezza, mentre le gote gli si imporporavano.

Il padre Marotti s' inchinò.

—La Maestà Vostra accetta una responsabilità ben grave—disse egli—ma questo è affare suo. Ella lo tratterà con Dio.

—Dio giudicherà, spero, le mie pure intenzioni —mormorò Carlo Alberto.

—Non bastano le intenzioni, quando le opere che ne risultano sono cattive—disse il padre.

—Cattive! Ho dovuto persuadermi che lo Statuto è necessario al mio popolo—replicò con forza il Re;—e poi, ho promesso, ho data la mia parola. La prego, non parliamo più di ciò.

—Ubbidisco—disse il padre,—solo chiedo alla coscienza del mio Re e la chiedo, come direttore spirituale, una risposta a una mia domanda.

—Dica, dica pure.

—Nessun' altra considerazione, di altro genere, non induce la Maestà Vostra a dare lo Statuto, e conseguentemente a dichiarare la guerra all'Austria? Nessun' altra considerazione che il bene del suo popolo?

Ancora una volta il sangue imporporò le guancie del Re. Dopo un momento di esitazione egli rispose:

—Al mio confessore, al direttore della mia coscienza non posso nascondere che vi entra pure qualche motivo di indole egoistica; qualche motivo di ambizione, di vanità; ma, lo giuro dinanzi a Dio, questi vengono in ultimo luogo e non credo siano colpevoli!

—No; è umana cosa operare egoisticamente —disse il padre—e non sarebbe riprovevole un' azione che, procurando il bene d' altri, non nuocesse a noi, anzi ci recasse vantaggio. Ma Vostra Maestà mi permetta di dirle che lo Statuto, diabolica invenzione dei liberali, e la conseguente guerra all'Austria, all'Austria, l'unica vera amica vostra, Sire! saranno un male per il Piemonte, e un male anche per Voi, personalmente!

—Come!—disse il Re;—padre Marotti, lei sbaglia, questa volta!

—No, Sire. Ho ragione anche questa volta, purtroppo. Sire, le ragioni egoistiche che vi muovono a fare cose che la vostra coscienza vi rappresenta chiaramente come cattive, io le conosco. Sono anzitutto la speranza di regnare in pace, sopra un trono reso saldo dall'amore e dalla gratitudine del popolo; secondo, l'ambizione di diventare Re di un paese più grande, di fondare un regno italico, come già Napoleone; un regno che comprendesse la Lombardia, la Venezia, chi sa? forse il Napoletano, e… tanto può andare oltre l'ambizione traviata, anche gli Stati del Pontefice forse!

Il Re fece un gesto stanco di protesta. Ma il padre Marotti, senza badarci, aggiunse:

—Voglia dirmi la Maestà Vostra se ho ragione.

—Sì—disse Carlo Alberto,—certo ho sognato un regno bello e florido, uno Stato potente, dove la religione e la libertà si dessero la mano, e dove io fossi Re amato e benedetto!,…

—Ebbene! la Maestà Vostra perda quelle magnifiche illusioni. Sapete Sire, per chi lavorate? Sapete per chi farete la guerra? Per chi preparate le libertà statutarie? Non per la Maestà Vostra, ma per la Repubblica!

Il Re diede un balzo sulla sedia.

—Sono le imaginazioni esaltate che vedono sempre questo spauracchio—disse egli;—la nazione non vuole la Repubblica.

—Eppure—disse il padre—io lo so che ogni cosa è pronta. Quando Voi, Sire, avrete proclamato la libertà e la guerra, quando vi sarete alienato l'Austria, che è, lo ripeto, la vostra sola amica, quando vi sarete dato da voi stesso in balìa dei vostri nemici, allora questi si toglieranno la maschera e voi dovrete abdicare, come già fece Vittorio Emanuele I, e perderete il trono per voi e per vostro figlio, e avrete creato voi, voi stesso, la Repubblica italiana!

Il Re scuoteva il capo, incredulo.

—Sì, una prospettiva si offre ancora alla Maestà Vostra—continuò l'imperturbabile frate,—quella di cambiare la corona dei vostri avi col berretto frigio. Potete forse diventare presidente della Repubblica che avrete fondata, se pure il signor Mazzini—o meglio il cittadino Mazzini—ve lo concederà.

—Esagerazioni, esagerazioni—replicava il Re.

—Sire, molti ufficiali dell' esercito sono repubblicani.

—No, no; l'esercito mi è fedele.

—Molti nobili, i giovani specialmente.

—Ma se ho le prove che l'aristocrazia è tutta per me! Che ci avrebbe a guadagnare con la Repubblica?

—Il popolo, quasi tutto, è repubblicano, e non aspetta che un segnale per dichiararlo apertamente.

—Oh! il mio buon popolo piemontese!

—Stanotte stessa si è tenuta una segreta adunanza di repubblicani, nonostante la vigilanza della vostra polizia, Sire.

—Dove? chi?—disse concitato il Re.

—E hanno deliberato di indurvi a qualunque costo, a concedere lo Statuto, Sire. Quando il popolo avrà incominciato ad assaggiare il sapore della libertà, ci prenderà gusto e non si contenterà più del poco, vorrà tutto.

—Ah! impossibile!

—I piani dei repubblicani sono semplicissimi. La Maestà Vostra dà la Costituzione e fa la guerra all'Austria. Una gran parte dell'Italia aiuterà quest'opera. A guerra finita…

—Sì—disse con fuoco il Re—quando io avrò vinto, chi oserà pensare alla Repubblica?

—Se vincete—continuò arditamente il padre —avrete vinto per mezzo di quelli stessi, che vogliono la Repubblica. E allora non ci sarà più bisogno di un Re. Tutta l'Italia, oggi, è repubblicana.

—No, no, il partito è debole, lo so.

—E se perdete, Sire—proseguì imperturbato il gesuita—perchè si potrebbe anche perdere! la Maestà Vostra comprende che ella sarebbe in balìa dei repubblicani, i quali l' accuserebbero di tradimento o di inettitudine… E allora, non solo la battaglia sarebbe perduta, ma anche il trono.

—La verità, la verità—disse dolorosamente il re.—Ah, chi mi dicesse la via giusta!

—In questi fogli—disse padre Marotti, presentando un plico al Re—sono i nomi dei repubblicani che sono convenuti stanotte al complotto. Ed anche di quelli che notoriamente nutrono sensi sovversivi contro Vostra Maestà.

Il Re prese le carte, le sfogliò; il suo viso era livido.

—Come! Enrico Salvago! Il figlio del conte Salvago!—esclamò.

—Il giovane Salvago è ardente repubblicano, e lo sanno tutti—disse il Marotti.

—E… questo nome, perchè questo nome?— mormorò il Re, piegando il capo, accasciato—Lo sa pure che non posso crederlo.

—I sentimenti della signora marchesa d'Avoli sono ultra-liberali—disse il padre—e in casa sua ella riceve le più note personalità del partito. Il conte Salvago, uscendo di qui si è fatto condurre probabilmente alla villa d' Avoli, come fa sempre.

—Oh, mio Dio, mio Dio! Elisabetta mi amava, e non può tradirmi—esclamò il Re con profondo dolore.—Lei sa, padre, che io pure l'amavo. Non solo per la sua terrena bellezza, che rallegrava il mio senso, ma anche per il suo cuore e la sua intelligenza… E' l' unica donna che ho amato, proprio amato di amore. Mi hanno detto che era peccato, l'ho lasciata, l'ho allontanata da me. E quello che ho sofferto, e quello ch'ella ha sofferto, mi sarà, spero, tenuto in conto di ben dura espiazione. Ma tradirmi, Elisabetta! no, ella non potrebbe!

—Eppure è noto che la sua villa è un covo di liberali.

—Eh, son liberale anch'io!—disse il Re, alzando le spalle.

—Il conte Salvago è il suo amante—aggiunse il padre.

Carlo Alberto impallidì.

—Lo crede?—disse—no, no: non posso crederlo. E se fosse pure? Ella è libera.

—E' difficile staccare il cuore dal peccato, ma Dio perdoni a Vostra Maestà questi pensieri— disse con compunzione il padre.

—E Salvago è il mio più caro amico. Basta. Son liberi… Non devo pensarci—disse il Re, alzandosi, e chiudendo in un cassetto i fogli che il gesuita gli aveva consegnato.—Padre, sono stanco, sono affranto. Continueremo oggi questo colloquio.

Il gesuita s'inchinò profondamente.

—Dio voglia dare pace alla Maestà Vostra, e si degni di illuminarla. Pregate, Sire, pregate.

Il padre uscì e il Re allora piegò i suoi ginocchi sopra il suo oratorio, dinanzi a un grande Crocifisso, che pendeva, grondante sangue, dalla parete; chinò il capo fra le mani e pregò ardentemente. Forse anche pianse.

La marchesa Elisabetta d'Avoli era appena alzata, e aveva avvolta la sua ancora splendida bellezza bionda in una vestaglia di flanella rosa, quindi era scesa in giardino, quando Lisa, la sua cameriera fidata, era venuta ad annunziare il conte Salvago.

—A quest'ora?—disse la marchesa, e sorrise. Sorrise anche la cameriera, che sapeva tutti i segreti della padrona, e quindi anche di quel vecchio amore del conte Salvago per lei: ma subito Elisabetta, fattasi seria, disse:

—No, no: se viene a quest'ora sarà una cosa importante. Fallo venire subito. Avanti, Salvago, avanti; mi trovate qui, al fresco. E in una toeletta di confidenza… Ma, tra vecchi amici, non è vero?

Il conte Salvago, sceso di carrozza, si era venuto avanzando rapidamente per il viale di olmi, dove la marchesa lo aspettava, e, giuntole vicino, prese la mano che ella gli offriva graziosamente, e la baciò con grande rispetto. Il giorno chiaro illuminava pienamente quelle due figure, perchè il sole filtrava libero tra i rami, non ancora rivestiti di foglie, e il cielo era limpido e sereno. Si guardarono in viso, come scrutandosi a vicenda. Erano due belle persone. Massimiliano Salvago, alto, robusto, non ingrossato, nè impigrito dagli anni, mostrava una faccia pallida e fiera sotto i suoi capelli grigi; gli occhi erano pure grigi, superbi e dolci; la bocca aristocratica, la fronte intelligente. Egli vestiva in modo semplice ed elegante, indossando il lungo abito serrato ai fianchi, dalle falde alquanto femminee, che si portava nel '47; i lunghi calzoni, un po' assettati alle clavicole, che davano risalto a una gamba svelta e nervosa; il colletto dalle alte punte era cinto da una cravatta dal fiocco svolazzante, bianco e giallo, i colori del papa liberale! I colori di Pio IX! Ma la luce cruda della mattina segnava sul suo pallido viso le rughe dell'età e dell'insonnia: egli pareva in quel momento più vecchio forse di quel che fosse, perchè non aveva ancora cinquant'anni!

—Parete stanco… Non avete dormito?— chiese la marchesa.

Egli sorrise, guardandola.

—Ho l'aria stanca? Voi invece siete bellissima. Così fresca!…

Elisabetta rispose con un sorriso, nel quale era una certa malinconia. Alla sua vanità femminile non dispiaceva il complimento, tanto più che lo sapeva sincero: ma due cose erano che non le permettevano di goderne: i quarant'anni suoi, che ella lo sentiva, le rapivano ogni giorno alquanto della sua già così grande bellezza, e il pensiero che, tanto, non poteva più essere bella e giovane per colui ch'ella avrebbe voluto…

Lesse questi sentimenti nel volto di lei, il conte Salvago? Certo il suo viso si rifece serio, quasi melanconico.

—Volete che passeggiamo?—disse Elisabetta —o preferite sedere? Volete prendere qualche cosa? Un po' di caffè?

Egli rifiutò e le porse il braccio.

—Se volete, passeggiamo.

Si avviarono adagio nel bellissimo viale, tutto irradiato dal tiepido sole di marzo. La mattina era indicibilmente dolce; gli alberi del parco stendevano, ancora scheletriti, ma già frementi di vita, le loro scarne braccia al limpido cielo, che mandava loro il sorriso della primavera. Il conte guardava la sua compagna che, nella sua veste rosa, tutta guernita di pizzi bianchi, leggeri, col bel viso appena lievemente appassito, dolce sotto le bande folte dei capelli biondi, nello splendore di due grandi occhi azzurri, pieni di bontà e di pensiero, pareva davvero giova. nissima, tanto la persona era svelta, aggraziata…! Amabile visione di un tempo, ahimè, lontano-Quel cavaliere e quella dama, nel bel parco si gnorile, sotto i raggi di un così lieto sole di primavera, parlanti di cose leggiadre, ma anche di cose serie e gravi, perchè sulle loro labbra, dopo i sorrisi del complimento, era sorta una parola, quella parola che faceva battere i cuori con tanta violenza: Italia, la patria!

—Egli manterrà la sua promessa—disse la dama.

—Ahi! sì, se non fosse il padre Marotti. Io speravo di portare via con me quelle carte; di correre alla Gazzetta Ufficiale, di fare stampare subito gli articoli; di udire oggi, alla Consulta, il Re proclamare il Ministero liberale e lo Statuto! Ma non sarà ancora per oggi!

—Chi sa!—disse Elisabetta—egli avrà saputo resistere al Marotti.

—No, no, Carlo Alberto non sa mai resistere al suo confessore—disse con amarezza il Salvago.—E, sapete che egli ha letto persino la satira del Re Tentenna? Sì, l'aveva sulla sua tavola! Non so chi abbia avuto tanto ardire… E pareva scosso, pareva quasi vergognarsi… Ma, poi…

—Egli è buono, egli è nobile—disse con slancio Elisabetta.—Credete, Salvago; egli non esita per paura e per viltà. Esita solo perchè non sa se è bene quello che sta per fare. Perchè non è persuaso di fare la felicità del suo popolo, concedendo sì larghe libertà. Perchè in Francia gli hanno mostrato una libertà falsa e dannosa. Perchè in Toscana i preti lo hanno afferrato. Perchè sua moglie, la regina, si tortura e tortura pure lui con mille scrupoli. Ma, se bastasse dare la vita, o la corona… Sì, anche la corona, egli non esiterebbe, quando fosse persuaso di far bene. Egli non è ambizioso, se non quanto lo comporta la dignità del suo grado; non gli importa di regnare: ma crede suo dovere tenere quella corona che ha ereditato… pronto a cederla il giorno in cui la patria voglia da lui questo sacrifizio…

—Mi pare un uomo oramai stanco—disse Salvago.

—Sì, è stanco—aggiunse con lo stesso calore di prima la marchesa.—Ma che volete! Lo hanno tormentato tanto! Gli hanno attraversato ogni strada. Gli hanno tolto ogni modo di essere felice. Fosse egli rimasto semplicemente il principe di Carignano, alla testa del suo reggimento, libero di godere la vita, di amare, di essere amato, con scarsi denari in tasca, ma con tanta gioventù nel cuore! Allora lo avreste visto, Salvago, fare la guerra, o fare una congiura, sempre con lo stesso viso sereno, con lo stesso ardimento, con lo stesso valore.

—Ha troppo scarso entusiasmo—disse Salvago.

—Appunto. Non crede in sè stesso—replicò la marchesa—e crede poco negli altri.

—Qualche volta penso che mio figlio ha ragione! —disse ancora Salvago.

—Cosa?—esclamò la marchesa—quella follìa della Repubblica! In Italia! Ah, caro mio, lasciate stare! Enrico è un ragazzo. Gli passerà; sono bollori giovanili. Ma, se l'Italia può avere una speranza, oggi, ricordatevi, questa speranza non può essere che: Carlo Alberto!

—Forse sbaglio: ma i destini d'Italia si scioglieranno appena col figlio di lui, con Vittorio Emanuele—replicò il conte.—Ah, quello sì, vedete! Un giovane risoluto, ardente, eppure scaltro; senza esitazioni, lui, tutto d'un pezzo. Io non dispero dell'Italia perchè c'è lui.

La marchesa aveva fatto una smorfietta.

—Sì … un giovane un po' ruvido … per un principe … un po' troppo moderno. Noialtre vecchie —e sorrise—siamo avvezze alla galanteria dei francesi, e questo principe ha una galanteria troppo … viva; troppo …, direi, pratica.

—Come mai, marchesa?

Elisabetta rise, di un riso gaio, schietto, che le mise sul volto una freschezza nuova, quasi fanciullesca.

—II principe è alquanto… intraprendente, e quando vede una donna, che non sia proprio brutta, non rinuncia volentieri a un tentativo di galanteria. Egli viene assai spesso a caccia da queste parti. Sapete che egli ama la caccia quanto ama le donne… Un giorno, fu l'autunno scorso, io uscii dalla villa, colla mia cameriera, per andare giù, al paese, a vedere i miei poveri… Ero vestita con grande semplicità, come faccio sempre, per fuori… Incontrammo il principe, solo, col suo fucile e il cane, che saliva per una viottola, sapete, con quella sua giacca di fustagno, e coi calzoni e le scarpe sporche di mota… Io lo riconobbi benissimo, potete imaginare; l'ho veduto bambino, e l'ho tenuto sulle mie ginocchia. Lui non mi ricorda più. E' naturale. Sono dieci anni, quasi, che vivo qui, come un'eremita. E sono cambiata molto! Pure, forse, quella mattina ero ancora graziosa… sapete, mi capita qualche volta. E poi, che volete? La mattina piena degli effluvi della campagna, la solitudine… e, infine, quel benedetto temperamento!… Egli si avanza verso di noi, si toglie il cappello e mi domanda la strada. Tutto con molta gentilezza, ma con certe occhiate!… lo non potei frenare un sorriso, che lo incoraggiò, certamente. E gli insegnai la strada, benchè sapessi che egli la conosceva meglio di me. Intavolammo un discorso, sulle generali. —Che bel tempo! Un po' umido, però…

E nel bosco tante lepri, eccetera, eccetera. lo lo interessavo sempre più, naturalmente. Egli mi interessava assai; benchè mi desse una certa melanconia il parlare con lui… Ad un certo punto egli esclama ingenuamente:

—Dio mio! E il mio compagno che si è smarrito! Non so se verrà da questa parte o da quell'altra! Mi spiacerebbe che si smarrisse davvero…

—Lisa—dico io naturalmente—va su per questa viottola, e vedi se viene un signore… deve passare per di là. Guidalo qui, noi aspettiamo su questo sedile, nel caso che invece passasse per di qua.

Lisa, meravigliata, ubbidì. Anche lei aveva conosciuto il principe, ma pensava perchè mai a me importasse di restare sola con lui.

Ebbene…, appena fummo soli, Sua Altezza mi fece la più infocata dichiarazione che io abbia mai udita in vita mia… Io lo ascoltavo, non so dirvi con quali sentimenti… La mia vanità femminile era alquanto lusingata, lo confesso: ma provavo anche una strana voglia di ridere, e insieme una più strana commozione. Voi sapete quanto io abbia amato, quanto io ami suo padre…» —La voce della marchesa tremò— «ma pure, guardando quel giovane principe, non bello, ma gagliardo, con certi occhi di fuoco, io mi sentivo invasa da un senso di ammirazione, e mi entrava pure nel cuore non so che nuova speranza… Questo sarà il nostro eroe, pensavo, mentre egli mi stringeva nel cerchio delle sue ardenti parole, questo sarà il salvatore della patria. Egli vide, certo, quella commozione sul mio viso, e la interpretò a modo suo… Ad un tratto, prima che io mi rendessi ben conto di ciò che accadeva, mi trovai stretta fra le sue braccia, e sentii i suoi mustacchi sulle mie guancie… —Altezza, dissi io, svincolandomi. Egli arretrò, stupito.—Ah, disse, sapete chi sono? Ebbene, tanto meglio. E stava per ricominciare. Ma io lo fermai con viso severo.—Vostra Altezza però non sa chi sono io, dissi freddamente, e pronunciai il mio nome. Se aveste visto la confusione, il rammarico, l'alterezza passare su quel viso, oscurarlo di un tratto; poi prendervi posto una fierezza veramente regale…—Chiedo a Vostra Altezza un'udienza!—esclamai io allora. —E la chiedo ora, subito!—Egli si inchinò da quel vero gentiluomo che è; poi subito, cambiando viso, mi accennò il banco erboso che era all'orlo del sentiero, e sedemmo là, familiarmente. Allora io parlai. Gli confessai con franchezza il mio amore per il re; gli dimostrai come questo amore sia stato sempre puro di egoismo, disinteressato, degno della persona augusta che me lo ispirò. Gli dissi delle mene dei gesuiti, che riuscirono a staccare Carlo Alberto da me… solo perchè temevano che io lo guidassi sulla via del liberalismo; che io gli inspirassi sensi generosi di amore di patria!… Ebbene, Vittorio mi ha creduto allora! Mi ascoltò con serietà, anche con commozione. Quando io gli parlai dell'Italia e delle sue speranze, vidi il viso del principe infiammarsi; una luce nuova era nei suoi occhi… Marchesa!—esclamò egli ad un tratto—io vi comprendo, vi venero… Noi siamo amici della stessa causa… Ed è infatti da allora che siamo amici, come sapete, come sapete voi, e i pochi nostri fidati. Perchè, se i gesuiti sapessero che Vittorio è amico della marchesa d'Avoli e dei liberali! E' vero che tanto lo sospettano…»

Il conte Salvago aveva ascoltato in silenzio tutto il racconto della marchesa. Le emozioni gli si leggevano tuttavia chiare sul pallido viso. Egli pure amava, da molti anni, la marchesa Elisabetta, e l'amava senza speranza. Egli aveva seguìto l'amore del re per la bellissima dama, l'abbandono doloroso, l'inconsolabile ambascia di lei; sapeva che nemmeno l'avvenire gli avrebbe dato quel cuore che, calpestato e addolorato, si manteneva fedele e devoto al suo unico amore; nulla aspettava, nulla sperava, eppure egli sentiva il morso della gelosia, e il racconto delle galanterie tentate dal giovane principe gli metteva una pena profonda nel cuore e una nube sul viso.

Quando Elisabetta ebbe finito, egli trasse un sospiro.

—Sì, voi avete potere sul cuore di Vittorio —disse infine—ed è necessario che ora tentiate di vederlo, di deciderlo per noi, di indurlo a influire sull'animo del re, perchè quello che si deve fare si faccia presto, subito. E io farò quello che potrò con Carlo Alberto. Oggi, verso sera, lo vedrò nuovamente; ma, a che varranno le mie parole, se il padre Marotti, a quest'ora, ha già distrutto ogni buon seme, in quel cuore nobilissimo, ma debole? Egli non mi ascolterà.

Un nuovo penoso silenzio successe; anche sul viso intelligente e fine della marchesa era scesa un'ombra dolorosa di dubbio, di indecisione.

—No, no—mormorò ella ad un tratto— egli non esiterà più; oramai l'ha promesso.

—Al padre Marotti avrà promesso diversamente —replicò il conte.

—Voi siete ingiusto col Re, conte Salvago— disse la marchesa con severità.—Voi non lo conoscete.

Il conte s'inchinò e non rispose; ma la sua faccia era una protesta contro quelle dure parole.

Allora la marchesa, vinta anche lei dal dubbio e dal timore, mormorò, quasi parlando fra sè:

—Ma che devo dunque fare?

—Forse voi, marchesa, potrete ottenere quello che noi non possiamo. Il Re vi ama ancora. Se egli vi vedesse, se voi gli parlaste, difendendo la causa di questa misera Italia, io spero che egli vi ascolterebbe. Egli non può essere sordo alla vostra voce, e udrà più volentieri voi che non le persuasioni dei gesuiti. Andate da lui, parlategli voi, marchesa!

Elisabetta restò alquanto come sorpresa, fissando con occhio scrutatore il viso di Salvago, che, durante la perorazione, si era fatto più pallido.

—Voi mi consigliate questo?—mormorò ella.

—Sì—rispose egli con forza.—L'Italia sopra tutto. Io vi amo, lo sapete. Voi mi avete permesso di dirvelo, perchè non avete paura di me, perchè vi sono indifferente!—aggiunse con un triste sorriso;—ma io metto pure il mio amore al di sotto della patria! Signora, è necessario. Andate dal Re.

Elisabetta gli stese la mano.

—Siete un nobile cuore—disse—ma aggiunse malinconicamente—voi esagerate il mio potere sul Re. Egli non mi ama più. Oppure il suo amore è così saldamente rivestito di ascetismo, è così staccato da ogni senso terreno, che è come se non mi amasse. Egli è persuaso che il mio amore sia peccato. Eppoi, se anche io mi decidessi a questo passo, voi non pensate, amico mio, alle difficoltà per arrivare sino a lui. Sarebbe inutile chiedergli una udienza; non me la concederebbe. E come penetrare nel palazzo ad onta della vigilanza dei gesuiti?

—Di questo non datevi pensiero, marchesa. Voi entrerete. Ho pensato a tutto. Io stesso vi condurrò fino nell' anticamera del Re. Quando egli vi vedrà, non oserà respingervi.

La signora parve ancora esitante. Sul suo bel viso passavano pensieri di dubbio, di ansia, di speranza, come le nuvole e i raggi del sole sopra un cielo estivo. Infine ella disse recisamente:

—No, conte. Non lo farò per ora. Più tardi, se sarà necessario. Ora tenteremo un altro mezzo. Non mi diceste che oggi stesso avete un'udienza da Sua Maestà?

—Sì, oggi.

—Ebbene, nulla è perduto dunque. Se egli vi parla, voi avete tanta persuasione nelle vostre parole che riuscirete a distruggere l'impressione del gesuita. Inoltre io vi darò un talismano.

E la marchesa sorrise.

—Un talismano?—disse Salvago, con aria incredula.

E la marchesa, togliendosi un anello dal dito lo porse al conte Salvago, che lo guardò sorpreso. Era un semplice cerchio d' oro, un po' largo per il dito sottile di Elisabetta, e che ella aveva tenuto fermo con altri anelli più stretti. Nell'interno correva un'incisione, che il Salvago lesse facilmente: C. A. S. S. giurano.

—Che è questo?—chiese il conte stupito.

—Questo anello—disse la marchesa—appartenne a Santorre Santarosa, e gli fu levato dal dito, lui morto, a Sfacteria, dal suo amico Roberto Lovegno, che lo portò in Italia. Morendo Santarosa disse al Lovegno che gli era vicino, unico dei nostri:—Porta il mio anello a Carlo Alberto, e digli che si ricordi!—Il Lovegno ritornò in Italia, e quindi, graziato, tornò in Piemonte; ma non osò compiere la missione affidatagli dall'amico morente. Allora egli venne da me; allora io ero l'amica di Carlo Alberto, e il Re mi amava! e mi consegnò l'anello, e mi disse le parole. Io mostrai più tardi l'anello al Re, e gli parlai del Santarosa, e della sua fine misera ed eroica. Il Re fu molto commosso. Quell'anello lo aveva egli stesso donato al Santarosa, in un impeto di entusiasmo giovanile, un giorno in cui, dopo aver parlato a lungo della patria e delle sue speranze, il principe di Carignano aveva giurato di consacrare la sua vita alla causa d'Italia.

«Difatti, voi comprenderete la inscrizione: Carlo Alberto Santorre Santarosa giurano. Anche il principe ebbe un anello simile; e lo portò per qualche tempo al dito. Poi un giorno lo tolse e probabilmente lo nascose, o lo fece distruggere. Io non lo vidi mai. Allora, quando gli mostrai l'anello del Santarosa, chiesi al Re se aveva proprio dimenticato tutto al passato…—No! gridò egli, non ho dimenticato, e manterrò il mio giuramento. Solo non è venuta l'ora! Adesso non sarebbe opportuno…

—Ah!—disse amaramente il Salvago—è la sua solita frase. Bene i posteri dovrebbero mettere nome il Cunctator, temporeggiatore, a questo Re, che non crede mai venuto il tempo per salvare la patria!

—E se avesse ragione?—ribattè la marchesa. —Forse è cosi; forse i tempi non son maturi. E non vedete quante discordie si agitano pur nel nostro stesso partito! I repubblicani pensano alla loro Repubblica; e chi ne faranno presidente? Mazzini, forse? I federali vogliono il papa alla testa di uno Stato italiano, fatto a pezzetti, e messo insieme con un po' di colla della nazionalità. E non si accorgono che non durerebbe punto; che sarebbe un edifizio pronto a sgretolarsi a ogni piccolo urto. E vi pare che l'Austria non vi urterebbe? Tra gli stessi partigiani della monarchia vi sono molti contrari ai Savoia. Vedete dunque! E l'Austria intanto è forte, forte assai. Ha un bel dire il Carbone: «l'Austro dà i tratti dell'agonia…» No, no; non è vero. L'Austria sta benissimo, e non è giunta per lei l'ora di rantolare. E l'Europa credete voi che ci guardi con simpatia?

—L'Inghilterra sarà con noi.

—Lo credete veramente? Sì, forse la nazione ci ama. Ma sapete come? Come gl'inglesi amano le nostre antichità, le nostre rovine, le nostre curiosità, i nostri musei, il nostro cielo… Ma credete che spenderebbero una sterlina per la nostra libertà? Che ci presterebbero una goccia del loro sangue? Ci staranno forse a guardare, ecco tutto. Assisteranno con occhio benigno alla lotta, che vedranno svolgersi fra noi e l'Austria, fra il pigmeo e il titano, fra Davide e Golia. E faranno delle scommesse per l'uno o per l'altro, e saranno forse contenti se i vincitori saremo noi; ecco tutto.

—Come esagerate!—disse sorridendo il Salvago, e guardò il viso infiammato della marchesa.— No, no, io sono persuaso che le cose sono in condizione migliore. Il Papa è con noi, e questo e il più valido aiuto che potessimo sperare. Se il Papa è con noi, il mondo intero è con noi.

—Dobbiamo proprio fidarci di quel Pio IX? —ribattè la marchesa.—Chi sa? Avrà il coraggio di continuare a battere la difficile strada che ha preso? Sapete che ci vorrà una bella energia? Io non dubito della sua buona volontà, ma della possibilità di perseverare. Sapete pure quanta opposizione trova intorno a lui. Quanto durerà la sua resistenza? Non verrà un giorno in cui egli avrà paura?

Dopo queste ultime parole mormorate a bassa voce, la marchesa tacque, ed entrambl continuarono a passeggiare in silenzio, sotto il bel cielo primaverile, come se nessuno dei gravi pensieri che avevano espresso turbasse le anime loro.

—Ditemi del vostro Enrico—disse poi a un tratto la marchesa.

La fronte di Salvago si rannuvolò.

—Che dirvi?—mormorò egli.—E' innamorato di una donna e di una idea, come me… E non so come finirà. I suoi due amori sono egualmente pericolosi.

—Clara Neyroni è una nobile anima— disse la marchesa.—Ella non gli farà del male.

—Ma ella ama mio figlio. E voi sapete chi è suo marito, il barone Neyroni. Più prete dei preti, più austriacante dell'Austria. Per fortuna ha da pensare a confessarsi tre volte la settimana, e a comunicarsi tutte le domeniche; non ha quindi tempo di occuparsi di sua moglie. Ma se un giorno scoprisse?

—Speriamo di no…—disse la marchesa.— Certo sarebbe stato meglio che Enrico avesse amato una fanciulla libera, bella e buona, che egli avrebbe potuto sposare… Ma il destino non lo facciamo noi…

—Ah, certo!—sospirò Salvago—avevo fatto ben altri progetti per mio figlio! Perchè non ha voluto la buona Elena, sua cugina, la sua compagna d'infanzia, che lo ama e lo avrebbe reso tanto felice!

—L'amore non si comanda!—replicò la marchesa.—Via, lasciate che vostro figlio ami chi può, e cerchi la sua felicità dove vuole. Dopo tutto che è la felicità?

E rimase pensosa.

—Lasciamo andare—disse tristemente il conte.—Intanto, ditemi, che farò io dell'anello?

—Oh, voi lo presenterete semplicemente al Re, e gli direte: Ricordatevi, Sire, poichè Santorre di Santarosa, morendo, vi pregò di ricordare.

—Sia pure. Ma, se egli mi domanda da chi ho avuto l'anello?

—Gli dirate la verità. Ditegli francamente che sono io stessa che ve l'ho consegnato.

Salvago prese la mano della marchesa e la baciò, poi disse:

—E' necessario che io ritorni a Torino. Tra poco spero di venire a portarvi buone notizie.

—Faccia Iddio!—esclamò la marchesa— Quindi, con occhi umidi, aggiunse:—Voi lo vedrete! Gli parlerete di me! Questo pensiero mi commuove, Salvago!

Egli non rispose, e allora tutti e due, in silenzio, ridiscesero luogo il viale, fra le tremule ombre degli alberi scarni, quindi si strinsero ancora una volta la mano, e il conte Salvago sparì nelle profondità del parco.

Il barone Candido Neyroni terminava in quel momento di pranzare, e, siccome era venerdì, il pranzo non era stato molto lauto: una zuppa all'olio, una pietanza di merluzzo, e poche noci; cioè un pasto degno di un buon cattolico, in giorno di astinenza.

Questo barone Neyroni non avrebbe potuto veramente vantare una molto illustre prosapia, o una lunga serie di avi, perchè la sua nobiltà cominciava da lui. Gliel'aveva conferita re Carlo Felice, per certi loschi servizi di polizia, o peggio, prestati dal Neyroni. Questi, che era semplicemente il figlio di un oscuro medico di Biella, aveva saputo allora, con mezzi ingegnosi, procurarsi un capitale degno del nuovo titolo, aveva poi preso moglie scegliendo una giovanetta povera, ma di nobile famiglia, e allevata al Sacro Cuore; e questo matrimonio aveva autenticato, naturalmente, la nobiltà del marito, e gli aveva aperto tutte le porte dell'aristocrazia.

Il barone Candido Neyroni aveva cinquant'anni, nell'epoca in cui accadevano i fatti che sto narrando, ed era un uomo piuttosto brutto, con larghe spalle, faccia quadrata, zigomi sporgenti, forti mascelle. L'ostinazione, l'intelligenza, o meglio la furberia, apparivano su quel volto, velate da una lunga abitudine di simulazione; pure negli occhi ardeva un cupo fuoco, di fanatismo forse, o di passione brutale.

Questo l'uomo, che terminava in silenzio il suo parco desinare del venerdì, servito da un servo in livrea, piccolo, untuoso, giallastro, piuttosto sagrestano che lacchè.

Dirimpetto al barone sedeva sua moglie, Clara. Era una di quelle figure, che, vedute una volta, non si possono più dimenticare. Appariva alta, col busto eretto, e magra. I suoi capelli colpivano a prima vista; erano folti, rossi come fiamme, e parevano tinti di porpora alla luce della grande lampada a olio pendente dll' alto. Il viso era di un pallore d'alabastro, e vi spiccavano le labbra sanguigne. Grandi scuri occhi brillavano sotto l'oro delle ciglia; anche quegli occhi, come la chioma, parevano di fiamme. Ella era tutta vestita di bianco, e aveva un mazzo di viole alla cintura; quell'abbigliamento giovanile, così fresco, e anche quel bianco viso non parevano al loro posto, là in quella triste sala da pranzo, ammobigliata con lusso severo, come se il padrone avesse voluto imprimervi la sua cupa e fanatica pietà.

Clara Neyroni non aveva che venticinque anni, ed era, da cinque anni, la moglie di quell'uomo severo e freddo, al quale ella aveva portato in dote un corpo immacolato, ma un cuore indifferente, o forse pieno di una segreta repulsione.

Come mai la bella Clara Della Marca aveva potuto sposare il barone, un parvenu, poco amabile, e di venticinque anni più vecchio di lei? Ahimè! l'eterna tirannia del denaro aveva spinto la fanciulla inesperta, e obbediente alla madre e al confessore, tra le braccia di un uomo che le si comandava di amare, e per il quale ella non sentiva che ripugnanza! Era appena uscita dal convento, che sua madre le aveva detto: «Don Teofilo ti ha trovato un marito. Non è gran che nobile, ma è molto ricco; eppoi è ben pensante. Tu non hai un soldo. Lo sposerai, e sarai felice.»

Don Teofilo—il confessore—le aveva detto lo stesso: «Il barone Neyroni è ricco. E' disposto a lasciarvi liberamente godere delle sue ricchezze. E' un uomo serio, che vi farà felice; è buon cattolico; sposatelo, figliuola mia, e vi chiamerete fortunata.»

Ella lo aveva sposato. Candido Neyroni non era veramente un cattivo marito. Le lasciava sufficiente libertà, non le imponeva apertamente la sua volontà, e gli bastava che ella comparisse, ben vestita, nelle sue sale il giorno di ricevimento; che facesse regolarmente le sue visite nelle case aristocratiche ben pensanti; che frequentasse i sacramenti e la chiesa… Per tutto il resto, Clara era libera. Felice? Ahimè!

Ella non aveva trovato in suo marito nemmeno la calma e dolce affezione dell' uomo maturo, la protezione amorosa del consorte datole dalla Provvidenza (era poi la Provvidenza che glielo aveva dato? chiedeva ora spesso a sè stessa). Passate le prime brutali manifestazioni di una passione volgare, il barone aveva trascurato completamente sua moglie, e un po' alla volta si era separato da lei, mantenendo con lei appena quei rapporti che il mondo, nella sua ipocrisia, vuole da due coniugi per bene. Null'altro. Nè Clara si era lagnata di questa negligenza. Le era sempre stato grave quel contatto col marito; le pareva di esserne insozzata; ora era libera, era ritornata pura, quasi; e ne ringraziava Dio. Così era stata per quattro anni, e le pareva che avrebbe per tutta la vita continuato così, trovando qualche conforto nella preghiera e in opere di carità, quando ad un tratto l' amore era entrato nel suo cuore, e le aveva acceso nel sangue una fiamma inestinguibile…

—Clara—disse suo marito, quando il servosacrestano si fu ritirato—non dimenticare di salire a dire il rosario dalla contessa Pallottini. Tu trascuri da qualche tempo questo pio dovere, e me ne rincresce. E' necessario che tu ci vada stasera. lo entro invece ai Santi Martiri, perchè oggi è venerdì.

—Queste pratiche religiose mi urtano—rispose la baronessa con voce che tremava, ma non di paura.—Non sono più come una volta, lo sai. Credo inutile pregare tutto il giorno. Vi sono tante buone cose da fare!

—Clara!—disse il marito, e la faccia gli era divenuta purpurea.—Clara! Tu sai che su questo punto non permetto a nessuno di discutere. Lo so, lo vedo bene che tu da qualche tempo non frequenti più così volentieri la chiesa, e nemmeno le persone del nostro mondo, e che hanno le nostre idee. Quasi quasi, Clara, che Dio m'aiuti! tu mi diventi una liberale! Perchè no una repubblicana, addirittura?

V'era una qualche intenzione in queste ultime parole? Clara si fece di fuoco; i suoi occhi lampeggiarono, poi si oscurarono, come se una nube scendesse su di loro.

Il barone intanto si era alzato, e stirandosi andosso l'abito scuro e anche alquanto logoro, une attestava una certa avarizia piuttosto che la modestia del suo possessore, aggiunse, avviandosi verso la porta:

—Le apparenze, mia cara! Salviamo sempre de apparenze! Mostriamo al mondo il viso che gli piace, e facciamo poi quello che ci conviene. Questo è affare della nostra coscienza.

Forse mai egli aveva rivelato così chiaramente Il suo cinico carattere. Le massime di Loyola stavano bene su quelle labbra ipocrite, e Clara le ascoltò con sdegno e terrore.

—Che vuoi dire?—esclamò ella, fermando sulla soglia il marito.—Tu credi dunque che basti fingere e mentire, e poi tutto sia permesso? Anche il tradimento, anche l'iniquità?

—Che frasi!—esclamò il marito, alzando le spalle e sorridendo tra lo sprezzo e l' indulgenza; —le donne hanno sempre bisogno di fare delle frasi. Chi sa vivere bene, meglio per lui. Sarà certo di salvare l'anima sua. Ma chi ha qualche debolezza, deve imparare a nasconderla, perchè lo scandalo è peggiore del peccato. Prudenza, io dico solo, prudenza! E il Vangelo dice pur esso: Siate prudenti come i serpenti!

—E anche chi ha, come tu dici, qualche depolezza nascosta si salva l'anima?—domandò la donna ironicamente.

—Perchè no? Basta che se ne confessi e ne riceva l'assoluzione.

—Ah!—rise ella, e gli volse le spalle.

Il barone uscì. Nell'anticamera trovò il servo che gli porse il bastone e il cappello, e il padrone gli mormorò all'orecchio qualche parola, alla quale la faccia scialba del sagrestano rispose con un mezzo sorriso; quindi egli uscì dirigendosi verso la vicina chiesa dei Santi Martiri. Camminava curvo, quasi piegato in due, cosicchè anche la sua alta statura pareva rimpicciolita, dimezzata; come se tutto in quell'uomo dovesse veramente essere menzogna e finzione. La chiesa era scarsamente illuminata; poche donnicciuole e qualche ragazza stavano aspettando la benedizione. Il barone si inginocchiò al suo posto, bene in vista dello scarso pubblico, che lo riconobbe e ammirò la sua pietà; e appena comparve sull'altare il sacerdote, egli seguì con grande compunzione tutto l'officio, cantò le litanie della Vergine con voce stonata ma devota, e disse infine la lista delle cose sacre da benedire, levando gli occhi al cielo, e pronunciando le parole a gran voce:

Benedetto il nome di Gesù! Benedetto Gesù nel Santissimo Sacramento del l'altare! Benedetto il nome di Maria Vergine e madre!

A questo punto una vecchia, che da qualche tempo girava adagio adagio per la chiesa con un canestrino al braccio, nel quale, uno che avesse voluto guardare, avrebbe trovato degli Agnus Dei, delle coroncine, delle imagini sante, delle candele benedette, delle medaglie d'ottone, dei voti di cera, dei libretti per il mese di Maria… e più in fondo anche altra merce, di genere assai vario, si avvicinò al barone, con una candeletta in mano, e porgendogliela disse piano:

—Stasera, alle nove.

Il barone prese dalle mani della vecchia la candela, e pronunciò l'ultima formola di benedizione.

Benedetto Iddio nei suoi angeli e nei suoi santi!

Quindi si segnò, si alzò, mise in mano alla vecchia una moneta, si avvicinò a un piccolo sagrestano che andava spegnendo i ceri, e gli porse la candeletta, dicendo:

—Per l'urna di Santa Filomena!

Poi uscì dalla chiesa, prendendo una via che lo conduceva dal lato opposto di casa sua…

Intanto Clara, uscita dalla sala da pranzo, era andata a sedere sopra una terrazza, che metteva in un cortile silenzioso e deserto del palazzo. Era il suo posto favorito, la sera, quando rimaneva sola… Il cortiletto era tutto chiuso da un muro, al di là del quale si vedevano altri cortili le terrazzi e finestre… Ma erano lontani, così che ella poteva considerarsi come sola, e pensare che nessuno la vedesse. Nello stesso tempo ella si piaceva di figurarsi quel mondo che ella indovinava dietro quelle finestre, dietro quelle tende abbassate, su quei terrazzini dove si muoveva qualche ombra, e di dove, nel silenzio della sera, veniva talvolta uno scoppio di risa, o il suono di una voce ignota. Era felice quella gente? Più felice di lei? Quelle piccole famiglie di borghesi e di operai, laggiù, che si radunavano stanchi, dopo ura giornata di lavoro, e si affacciavano a godere un po' d' aria primaverile, ella le invidiava, perchè le parevano amorose, liete, concordi; che importavano il lavoro e la miseria purchè ci fosse l'amore? Le donne rivedevano la sera i loro mariti, chiamavano intorno a loro i bimbi a giuocare e a ridere; vivenano una vita semplice, di fatica e di pace… Ella invece era sola, sempre sola! Ed era la sua unica fortuna, perchè la compagnia le era ancora più odiosa della solitudine! Bimbi non ne aveva avuti, non ne avrebbe mai! Oh, se avesse avuto una creatura sua! Forse le cose sarebbero andate diversamente! Ma oramai… Tutta la sua fortuna, tutta la sua felicità ella le aveva collocate al di fuori di quella fredda e ignobile casa; la sua felicità era oramai nelle mani di un uomo, nel cuore di un uomo… ma ella non poteva rallegrarsi di questa gioia, perchè tremava a ogni istante di perderla…

Così stava, nei suoi tristi pensieri, guardando lontano, e respirando l'odore dei fiori, che ella stessa caltivava su quel terrazzo, quando un rumore di passi la scosse; Clara si volse e vide la sua cameriera, una ragazza di vent'anni che ella aveva condotto con sè dalla campagna, e che le era molto affezionata, avvicinarsi a lei frettolosamente:

—Signora baronessa! C'è… c'è il conte Enrico, che vuol parlarle!

Clara balzò in piedi, tremante.

—A quest'ora?—balbettò.—Ma già Enrico Salvago era dinanzi a lei, e Gina, la cameriera, era prudentemente sparita.

—Clara!—disse Enrico prendendole appassionatamente una mano.

—Enrico… Enrico mio, che imprudenza!— susurrò la donna:—ma il volto le si era acceso di gioia.

—Clara mia! amica mia! …

—Perchè sei venuto? Tu sai, temo di quel Lodovico; è la spia di mio marito…

—Perdonami, Clara; ma bisognava che io ti vedessi. Domani, anima mia, non ci vedremo laggiù… a casa nostra…

—Ah!—ella disse con dolore.

—Non ci vedremo, perchè io devo essere altrove.

—Dove?—domandò Clara, tremando.

—Domani, Clara…—sussurrò il giovane, con immensa esaltazione—accadrà qualche cosa di serio… Tutto è pronto. L'appuntamento è in piazza San Carlo. Tutto è stato combinato oggi, e stanotte prenderemo le ultime disposizioni.

—Mio Dio!—balbettò Clara—ma che volete dunque fare?

—E' necessario uscire da questo stato di incertezza. Abbiamo ricevuto istruzioni da Mazzini. Domani alle due, Clara, l'ora nostra, saremo tutti in piazza. Di lì ci lancieremo verso il palazzo reale; una deputazione salirà dal re; gli presenterà una carta… Sarà la sua abdicazione, che egli firmerà. Allora si nominerà un governo provvisorio, e il resto verrà da sè.

—In nome di Dio!—disse Clara, giungendo le mani.—Questa è una follia. Io sono una donna; non so di politica che quello che tu stesso mi hai insegnato, ma pensa. E' una impresa terribile, tu arrischi la tua vita inutilmente. Perchè essi sono i più forti!

—L'esercito è quasi tutto con noi.

—Ah, Enrico! temo che tu ti illuda! Ma sia pure; spargerete sangue. Il re non cederà; e, se cedesse, che ne farete del principe ereditario?

—A questo non devo pensar io—rispose Enrico—ci penseranno i capi. Ma, ad ogni modo, non siamo irragionevoli. Se Vittorio vorra ascoltarci, se nominerà un ministero liberale e responsabile, se ci darà una larga costituzione e dichiarerà la guerra all'Austria, noi siamo disposti a farne un sovrano costituzionale. Poi, col tempo, se farà presto a mutare il regime costituzionale in repubblica, ed egli stesso potrà esserne il primo presidente. Se egli invece vorrà continuare la disastrosa, cupa politica del padre, cioè la politica dei gesuiti, noi faremo senza di lui.

—Ahimè!—sospiro Clara—io temo molto che questa sia una follìa terribile, che costerà tante inutili vittime e rinnoverà gli orrori del 21 e del 33. Non lo fate, Enrico, aspettate ancora!

—Impossibile! Chi volesse ora recedere sarebbe un codardo. Abbiamo giurato.

—Enrico mio! Io dunque ti perderò?— disse Clara, torcendosi le mani.

—No, mio amore. Perchè vuoi immaginare il peggio? Saremo tanti! saremo tutti! L'esercito è con noi, ti dico, meno pochissimi comandanti, quelli codini, battezzati con l'acqua di Loyola; non si spargerà sangue nemmeno. Domani, a quell'ora, le guardie del palazzo reale saranno soldati nostri, già legati alla santa causa. Non c'è nessun pericolo, come vedi; nessuno.

—Povera me! povera me!—sospirava la donna, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.

—Clara!—disse il giovane prendendole le mani, e con voce piena di tenerezza profonda —Clara! vorrai tu oggi rendermi debole, oggi che ho tanto bisogno di forza, di costanza? Tu lo sapevi bene che, una volta o l'altra, il momento sarebbe venuto. Tu lo sapevi che noi lavoriamo, da due anni, per giungere a questo momento. Lo sai che tutto è pronto, da un pezzo. Io, nonostante che si trattasse della mia vita, e, quello che è assai più, della vita di tante persone, ti ho confidato sempre i nostri segreti, perchè la tua anima e la mia sono unite per sempre; perchè tu dovevi avere le mie stesse speranze, i miei stessi sogni. Perchè mi sarebbe parso un tradimento, se non ti avessi detto tutto. Tu dunque sai che è il mio dovere, questo, che devo compiere, a qualunque costo, anche a costo della vita. E adesso che l'ora è giunta, non piangere, Clara! Le tue lagrime mi renderebbero fiacco e molle, e come potrei io allora agire domani?

—No, non piango—rispose ella, guardandolo nel fondo degli occhi, appassionata, ardente, con cupa calma.—Non piango più. Pure, Enrico, potrebbe essere che noi più non ci vedessimo su questa terra.—La sua voce non tremava. Tremò invece quella del giovane, che, portando alle sue labbra ardenti le mani gelide di lei, esclamò:

—Perchè pensare questa orribile cosa, Clara? Non c'è nessun pericolo, credilo.

—Potrebbe darsi che non ci vedessimo più —replicò Clara, con la stessa terribile calma. —Allora lascia che io ti dica un'ultima parola. Ricordati, Enrico, che io ti ho amato sopra tutte le cose al mondo; che non vivrò al di là della ma vita, che la notizia della tua morte sarà il segnale della mia. E adesso, va.

Lo abbracciò, gli si abbandonò sul petto, gli baciò follemente la bocca, poi lo respinse.

—Clara!—disse con fermezza il giovane —non ancora! Le parole che tu hai pronunciato non sono degne di una donna, di una credente. Non sono degne, specialmente, di una italiana, in questi giorni! Se io cadrò domani, o un altro giorno, per la causa d'Italia, ti lascio per eredità l'incarico di proseguire la fallita opera mia. La patria potrà avere bisogno di te; tu lavora per essa; non aver riposo finchè l'Italia non sarà libera tutta, finchè il popolo non sarà diventato una nazione dignitosa, forte dei proprii diritti, e finchè lo straniero, il papa e il Borbone non saranno usciti dalla nostra terra. Questo incarico ti dò, anima mia nobilissima, raccogli dalle mie mani lo strumento, e lavora tu stessa. E' venuto il tempo in cui anche le deboli donne dovranno operare.

L'ardore del suo entusiasmo aveva acceso anche la donna. Si tenevano stretti per le mani; i loro occhi brillavano, le loro labbra fremevano.

—Sia—ella disse accetto.

Si riabbracciarono, si baciarono a lungo, dimentichi del luogo e del pericolo.

—Dimmi, quando saprò io tue notizie?— chiese poi Clara, trattenendolo, mentre egli già si toglieva da lei.

—Se tutto va bene—rispose il giovine— vieni domenica, all'ora solita, al luogo solito. Coglierò sulle tue labbra il mio premio. Se andasse male…—e tacque.

—Ebbene?—chiese ella, calma, con un sorriso straziante.

—Se andasse male, che serve? lo sapresti! Torino domani non parlerà d'altro. Tutto si saprà domani sera!

—Ebbene, addio!—ella disse. Si abbattè ancora una volta sul petto di lui, gli baciò la spalla, ardentemente, senza piangere. Egli si chinò a premere con avida bocca ancora una volta i bei capelli di fiamma, poi rapidamente uscì, attraversò la stanza attigua, come barcollando, urtò Gina, la cameriera, che pareva in agguato dietro la porta, e nell'anticamera s'imbattè quasi in Lodovico, il servo sagrestano, che gli aprì la porta, inchinandosi profondamente, e torcendo il suo collo pretino.

Clara era ricaduta sulla sedia, e rimase immobile, pallida, con gli occhi sbarrati. Un orribile freddo le saliva su dal cuore, una nebbia le oscurava il cervello; e dal profondo dell'anima sua sorgeva la convinzione atroce, disperata, unica. Era finita, era finita! Ella non vedrebbe Enrico mai più!

Ancora un passo vicino a lei, un mormorio di parole. Ella riconobbe come in sogno la voce di Gina, ma non si mosse.

—Signora baronessa!—sussurrò la ragazza con tono affettuoso e supplichevole.—La contessa Pallottini mi manda a chiedere se la signora vuol salire per il rosario.

—No, lasciami—mormorò l'infelice, senza volgere il capo.

La ragazza tacque, ma non si mosse.

—Che aspetti?—chiese Clara, sentendola ancora vicino.

—Vorrei dire una cosa, se la signora baronessa non mi sgridasse.

—Di, dì…

—Forse sarebbe bene che la signora baronessa andasse a dire il rosario…

—Perchè?

—Perchè… Lodovico ha visto uscire il conte Enrico. Ha anche tentato con qualche scusa di venire sin qui, per vedere, per udire… ma io facevo buona guardia… Lo dirà al signor barone, certo; ma se la signora andasse a dire il rosario, forse…

—Hai ragione, Gina—rispose Clara, sorridendo stancamente.—Se io vado a dire il rosario, si potrà credere che il conte Enrico è stato poco. Hai ragione, è meglio evitare una scena… Basta salvare le apparenze—aggiunse poi con un altro sorriso, ricordando le parole del marito.

E si alzò.

Ella sapeva di poter fidarsi di Gina, e com prendeva l'utilità del consiglio. Non che Gina fosse a mezzo del segreto amore di Clara, ma certo lo aveva indovinato, benchè Enrico non venisse mai in casa Neyroni, fuori dei giorni di ricevimento, e anche in questi assai di rado. Ma che cosa non indovina una donna, specialmente quando un affettuoso interesse le apre gli occhi?

Un pensiero ancora infastidiva Clara, spuntando di sotto alla sua atroce angoscia. Che direbbe al marito? Come giustificherebbe la visita di Enrico a quell'ora insolita? Ma non ebbe nè voglia nè forza di cercare una scusa, e si avviò, più pallida che mai, su per le scale, verso l'appartamento della contessa Pallottini. Pregherebbe, sì, pregherebbe la Madre dei dolori di conservare il suo Enrico, forse la preghiera potrebbe diminuire il suo immenso affanno. Era peccato pregare per l'amante? Clara non lo sapeva più. Vi era nella sua coscienza un così oscuro concetto del bene e del male, oramai. Tra le massime del Sacro Cuore, quelle della madre e del padre Teofilo, e queste del marito, ella non si sarebbe più raccapezzata, e pensava con amaro sorriso a un libretto, che il marito le aveva portato a casa il giorno prima, un'operetta riveduta e corretta del padre. Francesco da Mendoza, gesuita spagnuolo, che spiegava chiaramente come un devoto della beatissima Vergine non potesse mai venire condannato, qualunque cosa egli avesse commesso di male.

Probabilmente era questa massima che confortava in quel momento anche il buon barone Can dido Neyroni, il quale, dopo essere uscito dalla Chiesa dei Santi Martiri, dove aveva pregato con tanta edificazione della folla, era andato, per vie contorte e strette della vecchia Torino, sino ad una casuccia di modesta e povera apparenza, in via della Basilica, e aveva salito tntti i tre piani, di essa, per fermarsi dinanzi ad un uscio socchiuso, che egli spinse cautamente, e richiuse alle sue spalle quando fu entrato. Si trovò in una stanzetta assai modesta e dall'apparenza pure disordinata. I mobili sparsi qua e là parevano destinati ad uso contrario a quello abituale: sul letto v'erano, per esempio, due paia di scarpette da donna, e un numero infinito di altri oggetti disparati; sulle sedie v'erano dei libri, sulla tavola delle pipe. In mezzo a tutto quel disordine, semisdraiata sopra una sudicia poltrona gialla, era una giovane donna. Bella, senza dubbio, fresca, vestita e pettinata con civetteria, ella teneva fra le rosse labbra una sigaretta accesa, e la tolse un momento solo per dire con noncuranza:

Cerea, barone!

Egli le si avvicinò sorridendo, cupidamente. La sua curva persona si era rizzata; le sue mani si stendevano avidamente verso la preda… Quella non si moveva e continuava a fumare. Il barone si fermò un momento, tese l'orecchio.

—Non verrà?—chiese poi con una certa ansia.

—No. Stasera c'è seduta.

—Ah!

—E domattina e domani dopopranzo avrà altro da fare.

—Per esempio?

—Vi conterò… poi. Avete portato da cena?

—No, gioia mia.

—Me lo imaginavo. Barone mio, sei un taccagno.

—Ma no, tesoro mio.

—Aspetta, che chiamerò la Ludra.

Si alzò pigramente, sbadigliando, si avviò all'uscio, e chiamò forte:

—Ludra!

—Sst!—fece il barone, ma già la Ludra entrava.

Era la vecchia che in chiesa gli aveva venduto la candela per santa Filomena. Ella salutò con grande umiltà il signor barone.

—Che vuoi, bella mia?—chiese quindi alla giovane con forte accento veneto, benchè fossero trent'anni che era venuta a Torino, da Verona, sua patria.

—Va giù, Ludra, va a prendere un pollo arrostito alla rosticceria…

—Un pollo!—esclamò il barone.—Ma, gioia mia, dimentichi che è venerdì, e certo non si venderanno polli, oggi.

—Già, è vero—disse la giovane con dispetto. —Allora compra quello che vuoi, quello che trovi; ma roba buona, e molta, se vuoi che ce ne resti anche per te. E qualche buona bottiglia.

La vecchia stese la mano, e il barone vi mise un biglietto, dicendo:

—E' inutile prendere troppa roba, sapete.

—Vecchio avaro!—brontolò la giovane mentre la Ludra usciva.

—Dicevo, perchè ho già cenato—disse il barone.—Che disordine c'è quì! Levate almeno le pipe.

—Le leverà la Ludra.

—Ditemi, Giulia—disse il barone con accento geloso—sono stati qui oggi?

—Altrochè!—disse la Giulia, tornandosi a sdraiare nella poltrona gialla.

Il barone fece una smorfia.

—Sei un bel tipo, Candiduccio mio! Tu vuoi che io canti e porti la croce. Non ti piace che vengano qua, e allora prendimi un'altra stanza, un bell'appartamento pulito, tutto per me. Vedrai come lo terrò in ordine.

—Faremo, faremo—disse il barone.

—Faremo, faremo… quando?

—Quando sarò sicuro che tu mi vuoi bene.

—Eh!

—E che vuoi bene solo a me.

—Oh bella! Un'altra adesso! E allora come laro a sapere ciò che combinano quei monelli?

—Eh, m'intendo che, quando avremo fatto un bel colpo, col tuo aiuto, Giulietta mia, quei monelli non verranno più a seccarti. E allora…

—Credo che il momento buono sia giunto.

—Come? Racconta, racconta…

—Dopo. Ma ricordati quello che mi hai promesso. Che non verrà loro torto un capello, specialmente a Giovannino.

—Ah, ti preme? No, no: non gli faremo niente.

—Pure, li metterete in prigione.

—Per qualche giorno; è necessario. Ma niente di male. E' necessario che scoppi la congiura per fare aprire gli occhi al re, per salvare la Santa Madre Chiesa. Per tante cose che tu non capisci. E allora tu avrai fatto un'opera meritoria, una di quelle opere che guadagnano il paradiso subito subito, e avrai l'indulgenza di tutti i tuoi peccati. Me lo ha promesso il padre Marotti. Anzi guarda la bella medaglia che ti ho portata. E' benedetta dall'arcivescovo, che vale più del Papa, adesso… Guarda, c'è la beata Vergine della Consolata.

—E' d'argento, almeno?—domandò Giulia.

—Sì, credo—disse il barone—e Giulia si pose la medaglia al collo, infilandola ad una catenella dove erano altri amu'eti di ogni sorta; poi la baciò.

—Aspettate che abbia mangiato—disse poi, sentendo i passi di Ludra che tornava—poi vi dirò tutto; ma ricordatevi che mi avete promesso le trecento lire.

Erano passate alcune settimane da quella notte di marzo, quando gli amici d'Italia e di Carlo Alberto si erano radunati a Consiglio nelle stanze del re, per deliberare sull'opportunità di agire prestamente e liberalmente con una riforma interna, e con un moto decisivo verso l'Austria. Il conte Salvago aveva specialmente avuto ripetuti colloqui col sovrano, dopo quella notte, perchè Carlo Alberto sapeva apprezzare quell' anima ardente e ferma quella lucida mente, che aveva una così netta visione di una nazione potente, di una patria una e libera, di un'azione rapida e intensa per conseguirla. Ma nul a si era ancora deciso; il re, al solito, tentennava; pure, siccome egli non faceva alcuna seria opposizione ai progetti dei liberali, nè pareva punto deciso di mancare alle promesse tante volte fatte, il conte Salvago sperava ancora di risolverlo, allontanando pian piano e a uno a uno gli ostacoli che il re vedeva sia da parte dei gesuiti, che da parte del l'Austria. Così l'anello di Santarosa, il talismano che avrebbe dovuto decidere Carlo Alberto nel caso di un'apostasia da parte sua, era ancora nel dito del conte Salvago una mattina di aprile, all'alba, mentre egli penetrava appunto nelle stanze del re, che lo aveva fatto invitare a colloquio, già dalla sera prima.

Era strana abitudine questa di Carlo Alberto di ricevere e dare udienza e formare Consiglio di preferenza nelle primissime ore del mattino; tanto che, alle cinque, egli era già nel suo gabinetto e già da un pezzo lavorava, solo, nel silenzio delle sue stanze…

Quella stanza reale, riprodotta fedelmente in un quadro dell'epoca, merita forse due righe di descrizione. Non era vasta, ma piuttosto raccolta, atta alla meditazione, era tutta tappezzata di damasco rosso a rabeschi; ad una parete pendeva una Madonna del Tiziano, chiusa in una magnifica antica cornice, colossale, lavorata a ovoli, foglie di acanto e volute dorate. Un paramento di seta era collocato dietro ad un tavolo, il quale mostrava, sotto un tappeto di velluto verde, con frangia a ghiande d'oro, le sue gambe di bronzo, fatte a zampa di leone; sul tavolo erano in quel momento alcuni libri splendidamente legati, e una lampada, col globo di cristallo, ricoperta ancora da un cappelletto di seta verde. Benchè fosse già l'alba le tende delle finestre erano tirate, cosicchè la stanza era avvolta in una mite penombra, perchè la lampada, mandando la sua debole luce attraverso il cristallo appannato e la seta verde, non rischiarava altro che il soffitto dipinto e il piano della tavola. Il resto della stanza era quasi al buio; cosicchè la persona del re, che stava seduta in un seggiolone presso la tavola, non prestava alla luce che il mezzo del corpo. Il disopra del busto e la testa, come pure le gambe rimanevano appena disegnate, come un'ombra più chiara nell'oscuro. Ma quell'ombra era altissima, e dinotava una statura assai al disopra della comune. Il re vestiva, già a quell'ora, la rigida uniforme del generale.

Abituato l'occhio a quella scarsa luce, si sarebbe ancora potuto distinguere presso una parte della stanza un inginocchiatoio di noce d'India, intarsiato da filetti di metallo; la parte inferiore, sulla quale si piegavano le auguste ginocchia, e quella superiore, dove le scarne pallide mani si congiungevano nella preghiera, era coperta da cuscini di velluto cremisi, a larghi galloni e a grossi fiocchi d'oro. Dalla parte di sopra all'inginocchiatoio pendeva, sopra una croce d'ebano, un crocifisso d'avorio, che si indovinava essere opera squisita.

Il conte Salvago si fermò sul limitare e si inchinò protondamente.

—Oh, Salvago! venite, venite…

Salvago fece alcuni passi, e s'inchinò di nuovo.

—Che è ciò?—disse ridendo il re, e quel riso, così raro sulle sue labbra, gli rischiarava singolarmente la pallida faccia. Vi fareste voi cortigiano? Venite innanzi…

—Sire…

—Sedete, Salvago.

Il conte ubbidì, pensando con gioia che il re pareva di buon umore, e che forse quella mattina stessa si sarebbe deciso…

—Che nuove, Salvago? Voi mi sembrate preoccupato.

—Lo sono, Sire.

—Perchè? Parlate francamente. Sapete quanto raramente giungano al mio orecchio sincere parole.

—Purtroppo, Sire. Assai spesso delle cose vitali della nazione vi si fanno rapporti interessati…

—Credete dunque che tutti quelli che mi circondano vogliano ingannarmi?

—Alcuni. i più fracidi di cuore, credo che realmente e pensatamente tentano di ingannare Vostra Maestà. Altri, se non ingannano pensata mente, procurano, Sire, di farvi pensare come essi…

—Via, via—disse Carlo Alberto con tono conciliante—siete assai pessimista, Salvago, Ma… sapete che cosa mi dicono i rapporti del conte Lazzari e del Tosi, il più intelligente commissario di polizia che esista in Piemonte?

—Il più odiato, Sire.

—Lo so, lo so che lo odiano, povero Tosi. Ma non è stato forse sempre così? I commissarii di polizia, austriaci o italiani, sono sempre stati commissarii di polizia: vale a dire non hanno mai avuto l'obbligo di essere degli eroi da romanzo, degli ideali di bontà e di generosità. E' naturale che la folla li guardi di mal occhio. Specie in tempi come questi. Il Tosi, poi—continuò il re con insolito buon umore —è assai buffo con quei suoi occhi vitrei, con quel suo viso di gesso. Capisco che non piaccia molto ai nostri giovanotti che, nonostante le proibizioni del conte Lazzari, si ostinano a portare cravatte bianche e gialle, alla Pio IX.

Anche Salvago sorrise.

—Dunque dicevo—proseguì il re—che i rapporti della polizia avvertono che ci sono complotti in giro. Si organizzano dimostrazioni, si verrà a cantare l'inno di Pio IX in Piazza Castello, proprio sotto le mie finestre. Ebbene, sentiremo questa musica!

—E' musica sacra, Sire!—disse Salvago, ridendo, ma con un fuoco negli occhi.

—E' bello, mi piace! Ah, voi fate dello spirito! —esclamò il re.—Ma sapete che questa buona e tranquilla Torino non si riconosce più? Si insultano le autorità, i carabinieri…

—Sire! Sono le autorità appunto che provocano il popolo! E' la polizia specialmente, che compie ogni sorta di atti arbitrarii, che muovono a sdegno i cittadini. Si arrestano i giovani, si perseguitano, si inquisiscono, si fanno perquisizioni nelle pacifiche dimore. Ogni parola innocente è condannata; un fiore, un moccichino, un cappello, una cravatta, sono oggetti incriminabili!

—Ma pure le relazioni mi dicono che si tengono nei caffè discorsi repubblicani, che si fanno conventicole, che si emettono per le vie grida e canti sediziosi…

—Sì, non posso negarlo. C'è del fermento, c'e dell'agitazione, si grida, si discute, si canta, ma non in senso sedizioso. Le dimostrazioni non sono repubblicane, perchè il partito repubblicano è scarso, in Piemonte. Si portano i colori di Pio IX, e Pio IX non è repubblicano!

Vostro figlio, conte Salvago, non è forse un repubblicano?

Il conte Salvago impallidì.

—Sire! I giovani hanno un'anima diversa da quella dell'uomo maturo. Può essere che l'idea, la politica di mio figlio tenda ad una mèta diversa dalla mia, dalla nostra… Ma egli muterà certamente. E con lui muteranno tutti quelli che oggi sinceramente si credono repubblicani, appena vedano che la Maestà Vostra prenderà nelle sue mani i destini d'Italia.

—Bene, bene—disse il re.—Non mi offende vostro figlio col suo ideale di repubblica. Avete ragione. I giovani devono essere repubblicani, e diventano monarchici più tardi. Chi sa! Forse fui repubblicano io stesso, un giorno! Ma quanto tempo è passato!

Il conte Salvago guardò istintivamente l'anello del Santarosa, al suo dito, e sorrise a quel ricordo che l'antico carbonaro evocava.

—Conte Salvago—disse il re con improvvisa gravità—io sono oggi più che mai disposto a fare il bene del popolo.

—Oh, siate benedetto, sire!

—Pure lo so che il popolo mi odia!

—Che mai dite, sire! No, non è vero!

—Mi odia—proseguì il re, con voce straordinariamente commossa.—Il popolo non mi perdona il ventuno. Eppure, sapete bene, nel 1821 tutta l'Europa sarebbe stata contro Carlo Alberto. Questo è il motivo per cui ho dovuto retrocedere. Io volli salvare il paese da mali peggiori.

—Lo so, sire!

—Ma gli altri non lo sanno. Credono che io abbia tradito! Lo stesso Santarosa era un illuso, egli si è ingannato!

Nuovamente Salvago guardò l'anello, e rispose:

—Egli non si è ingannato, morendo per la patria.

—E anch'io vorrei morire per la patria!… Ma il sangue del 31!… Oh, io fui ingannato, io fui ingannato!

Qui il re si coperse la bocca col fazzoletto, come per soffocare un singulto.

—E il re vorrebbe lasciarsi ingannare un'altra volta?—disse arditamente Salvago.

—Il re è odiato. E perciò l'Austria, che già lo insultò una volta, ora torna ad insultarlo. Ah, l'Austria! l'Austria è l'incubo, l'Austria è il cattivo sogno delle mie notti!

«Egli odia l'Austria più che non ami l'Italia» —pensò Salvago, e disse:

—L'Austria si frappone fra il popolo e il re. Ebbene, il re frapponga sè stesso tra l'Austria e il popolo.

—E se il popolo abbandonerà il re?

Sono i gesuiti, è la polizia che lo dice— esclamò con forza Salvago.

—Voi avete poca religione, Salvago—disse gravemente Cario Alberto—la religione è necessaria ai popoli.

—Ma non i gesuiti.

—Se vi sentisse padre Marotti—disse sorridendo il re. Ma non potrà sentirvi. Egli è di Torino da alcuni giorni: mi ha ch esto licenza.

«Ah, è per questo che il re è così ben disposto è così allegro»—pensò Salvago— il suo tiranno non c'è! Approfittiamone!»

Il Papa, che è capo della religione…— continuo ad alta voce.

—Il Papa ebbene, che sa egli?

Egli cede alla corrente. L'Italia tutta è oggi un vulcano, sire; bisogna lasciar uscire la lava dal cratere.

—Sì, anche la Sicilia, anche Napoli si agitano.

—E la Lombardia ancor più. Milano prepara grandi cose e spera in Carlo Alberto.

—Generosa città fu sempre quella!

—Dipende dalla Maestà Vostra che essa e tutta la Lombardia diventino vostre suddite!

—Oh, voi esagerate!—disse Carlo Alberto con occhi brillanti di speranza.

L'Austria dà i tratti dell'agonia, sire!— disse Salvago, citando arditamente la canzone di Domenico Carbone, che era acerba satira contro il re.—Volgiamoci dunque a Roma. Pio IX procede impavido, e l'Austria è costernata. Nè l'occupazione di Ferrara, nè le note minacciose hanno potuto arrestare il papa sulla via delle riforme. Ben si sente che dietro a lui sta lord Minto. La rivoluzione è fomentata dall'Inghilterra; ciò apparisce chiaramente. L'Inghilterra vuole assolutamente vendicarsi della mano data dall'Austria a Luigi Filippo, nei matrimoni spagnuoli. Le cospirazioni nel regno di Napoli sono in istato di recrudescenza. Il re di Napoli è troppo impopolare perchè l'Inghilterra pensi a farsene un'arma contro l'Austria, contro l'influenza austriaca; essa ha gli occhi in Carlo Alberto, e lo anima a recarsi in mano le fila dei moti italiani!

—Ah, è un sogno!—disse il re, sospirando.

—No, non sarà un sogno. E l'Austria lo sa, poichè il conte Bubna, a Milano, ebbe l'ardire di rinfacciarlo alla Maestà Vostra!

Al ricordo dell'insulto ricevuto, la pallida faccia del re tornò ad imporporarsi vivamente e la sua persona si rizzò di un tratto.

—No, non ho dimenticato nulla—disse con voce sibilante—e se il popolo non mi sarà ingrato, io, io stesso guiderò contro l'Austria le armi d'Italia. Credete, amico, non c'è esitazione in me, ma solo prudenza. Io so ciò che si trama a Napoli, a Roma, in Sicilia, a Milano. E aspetto solo di agire al momento opportuno. In quel momento voi mi ritroverete, per l'Italia! E fuori lo straniero!

—Sì, sire: ne siamo tutti certi. Ma intanto la Costituzione..…

—La concessione dello Statuto sarà il primo schiaffo che darò all'Austria—disse Carlo Alberto. —E verrà fra pochi giorni.

Ma, aveva appena pronunziato queste parole, che si fermò e tese l'orecchio ad ascoltare. Un rumore di voci alte, violente quasi, si udiva nella camera vicina. E chi mai avrebbe potuto osare, negli appartamenti del re… Chi mai, se non l'unico, l'onnipotente padre Marotti?… E difatti la voce del gesuita si udiva al di là della portiera, imperiosa e stizzosa.

Il re, che era divenuto pallidissimo, tese la mano al campanello, e subito comparve il servo, con faccia turbata.

—Chi è di là?—chiese il re.

—Il padre Marotti che domanda urgentemente di essere ammesso alla presenza di Vostra Maestà.

—Venga—disse il re, dopo un minuto di esitazione, e il gesuita era già sulla soglia.

Egli era pallido e grave, e aveva negli occhi un luccichìo di malaugurio.

—Come mai? non siete a Genova?—chiese il re, con tono stupìto, nel quale si rivelava una certa impazienza.

—Sire!—disse solennemente il gesuita, gettando un obliquo sguardo al conte Salvago —non sono a Genova perchè gravi motivi mi hanno richiamato a Torino. Motivi che riguardano la sicurezza personale della Maestà Vostra.

Il re abbozzò un sorriso.

—Parlate, padre. Ma … non esagerate, vi prego, per amor mio. Voi vedete le cose più gravi di ciò che sono …

«So di dove viene la lezione»—pensò forse il padre, che tornò a guardare Salvago, e disse: —Posso parlare anche in presenza di …

—Il conte Salvago lo conoscete, padre; è mio amico. Parlate dinanzi a lui.

—Perchè il re lo comanda. Sire, oggi nel pomeriggio deve scoppiare a Torino una rivoluzione, promossa dai repubblicani.

Il re ascoltò senza battere ciglio, ma il gesuita continuò:

—Una cosa molto grave, sire. Tutto è disposto perchè il palazzo reale sia circondato; le guardie sono vendute ai traditori; i rivoluzionarii entreranno nel palazzo, prenderanno prigioniero il re, gli faranno firmare la sua abdicazione, e proclameranno la repubblica!

—Ah, follìe!—esclamò Salvago, balzando in piedi, come aveva fatto Carlo Alberto.

—No, non sono follie—disse freddamente il gesuita.—Ecco le carte principali, state sequestrate stanotte, per zelo del commissario Tosi, da queste carte si possono ricostruire i piani della congiura. Qui vi sono i nomi di oltre quaranta giovani delle migliori famiglie di Torino, che sono stati parte arrestati stanotte e parte lo saranno adesso, e che saranno poi mandati in qualche ergastolo di Sardegna, o a Fenestrelle. I capi saranno fucilati, o impiccati, perchè un tribunale di guerra li giudicherà—aggiunse il padre Marotti con gioia crudele, guardando Salvago, il quale ora, pallidissimo, non poteva reprimere un tremito nervoso.

Suo figlio, mio Dio, suo figlio!

Il re intanto aveva preso le carte e le guardava con ansia e collera mal dissimulata. Anche le sue mani tremavano.

—Ah!—disse ad un tratto, gettando uno sguardo corrucciato sul conte Salvago—è questa dunque la fedeltà dei miei amici! Sapete voi qual nome leggo fra quelli dei congiurati? Il nome di vostro figlio!

—Ah, supplico la Maestà Vostra di non dare soverchia importanza alle esaltazioni della gioventù! —disse Salvago.—Sono imprudenze, sono errori, ma non così gravi come vogliono farli apparire!

—Conte Salvago—disse con violenza il padre Marotti—voi tradite il re.

—Come! Voi osate!… Ah, sire, perdonate! lo sono insultato alla vostra presenza! … e da un uomo al quale non posso chiedere alcuna soddisfazione.

—Conte! Queste carte parlano troppo chiaramente, e io non posso più contentarmi di belle parole. Io amo credere che voi per nulla c'entriate nelle criminose pazzie di vostro figlio e di questi altri sconsigliati giovani… Ah, i nomi migliori dell'aristocrazia, degli ufficiali persino! degli studenti … No, voi non c'entrate, ne sono certo. Ma è pur certo che voi e i vostri amici mi volete condurre per una falsa strada. Dio sa che nulla m'importa del trono, e che vi rinuncierei volentieri, se ciò fosse per il bene della patria. Ma vedo la patria stessa in pericolo. La vedo in mano di questi pericolosi agitatori, in preda all'anarchia! … E questo non posso permetterlo, sarebbe una colpa da parte mia … Bisogna che io compia il mio dovere!

—Sire!—disse il conte, stendendo le mani in atto di supplica—non è solo per mio figlio, per il mio unico figlio che prego! E' per il bene d'Italia, è per Voi, Sire! Ah, non lasciatevi ora trascinare ad atti di severità, che sarebbero importuni e crudeli! Non lasciate libera mano alla polizia in questo momento! Sarebbe perduta ogni speranza di bene futuro!

—Il tribunale farà il suo dovere—disse severamente il re.

—Sire! Fate che la clemenza vi acquisti, di un colpo solo, quell'affetto, quella popolarità che bramate. Non gravate la vostra mano su quegli sconsigliati, che nella foga giovanile rovinano l'opera di tanti mesi, di tanti anni! Siate magnanimo e clemente, o Sire! E sarete benedetto, e rapirete all'entusiasmo non solo il Piemonte, ma l'Italia tutta!

Il re pareva esitare alle infiammate parole del conte, e guardava fisso dinanzi a sè, come se mirasse questa visione di clemenza, di perdono, questa aureola di popolarità, che questi evocava dinanzi a lui. Ma il padre Marotti, vedendolo incerto, fece un passo avanti, e con gesto solenne di scongiuro, prese la parola:

—Non si lasci la Maestà Vostra influenzare dalle sottili argomentazioni che l'amore di padre suggerisce al conte Salvago. Egli è degno di compassione, ne convengo. Ma suo figlio merita una punizione severa, e con esso lui tutti i complici dell'infame congiura, e i capi specialmente. Ogni clemenza sarebbe qui fuori di posto, sarebbe la rovina della patria! Dove si andrà dunque, mio Dio, di questo passo? Credete Voi, Sire, che gli sciagurati si sarebbero arrestati qui? Che si sarebbero contentati di chiedervi l'abdicazione? Ah no! io fremo nel dirlo, ma certo il pensiero del regicidio guidava la mano di molti di coloro. E non solo sulla sacra persona del re avrebbero osato stendere le unghie omicide, ma anche sui membri della reale famiglia. Che sarebbe accaduto, gran Dio! se i fedeli non vegliassero alla salvezza della Vostra Maestà!

—Come si scoprì tutto ciò? Me lo direte— disse il re, tornato cupo in viso—E, avete ragrone… La giustizia farà il suo corso. E' necessario.

E si voltò a Salvago, come per congedarlo.

—Domando al re un'ultima grazia—disse con voce fioca, eppur ferma, il Salvago.

—Dite.

—Vorrei dire una parola ancora al re solo. E' un incarico che ho ricevuto … da persona devota a Sua Maestà. Siccome, dopo la condanna di mio figlio, non mi resterà altro che la via dell'esilio, o forse peggio, è necessario che io mi scarichi la coscienza dell'obbligo che mi sono assunto. Chiedo solo cinque minuti di colloquio, sire!

Il re guardò il gesuita, che aveva sul viso dipinta una viva esortazione a non cedere, guardò il viso severo, benchè supplichevole, di Salvago. Gli guardò instintivamente le mani, come se vi avesse temuto di scoprire un'arma … Si vergognò del suo pensiero, e, volgendosi al padre Marotti:

—Vi farò chiamare, fra pochi minuti, padre —gli disse.

E il gesuita uscì, sconfitto.

—Siate breve, conte Salvago—disse ruvidamente il re, quando furono soli.—Voi vedete che la situazione è grave. Qui non si tratta di parole, ma di fatti. Se avete intenzione di chiedere grazia per vostro figlio, ricordatevi che non potrò far nulla, e, se è colpevole, subirà la sua condanna.

—Sire! non chiedo grazia per mio figlio! Una persona, molto amica della Maestà Vostra, mi diede qualche tempo fa l'incarico di consegnarvi questo anello. Eccolo. Compio l'obbligo mio.

Il re prese l'anello, con meraviglia, lo guardò con ansia; sul suo viso si dipinse non so che commozione, che rossore di vergogna …

—Chi vi ha dato quest'anello?

—Questo anello—rispose calmo Salvago— apparteneva al conte Santorre di Santarosa, il quale, morendo, lo consegnò ad un amico, perchè lo portasse nelle vostre mani, Sire. Insieme all'anello, l'amico doveva pure portarvi le estreme parole del Santarosa: Carlo Alberto si ricordi di quello che aveva giurato! L'anello, voi lo sapete, sire, era nelle mani della marchesa d'Avoli.

—E come si trova ora nelle vostre?— chiese Carlo Alberto tra commosso ed accigliato.

—La marchesa stessa lo consegnò a me, perchè, nel giorno del bisogno, lo riportassi a Vostra Maestà.

—Dunque è vero che Elisabetta è coi miei nemici—mormorò amaramente il re.

—Coi vostri più ardenti amici, sire—disse il Salvago—La marchesa d'Avoli è un'anima nobile e fiera. Ella ama l'Italia e il suo re! In nome di questi due sacri affetti, ella opera con noi, e spera con noi!

—Ebbene, parlate, che dovrei fare?

—Sire, fate grazia agli sconsigliati giovani che, trascinati dall'impaziente amore di patria e di libertà, stavano per rovinare la causa d'Italia. Perdonate loro in nome di Cristo, dicendo come lui: Essi non sanno quello che si fanno. Ripensate al passato, sire, ma senza rimorso o vergogna. Voi avete congiurato, come congiurano oggi questi giovani. Gli anni maturi e l'esperienza vi hanno portato un senno più maturo. Lo stesso sarà per loro. Un atto di clemenza sarà pure un atto di prudenza, di accorta politica. Esso vi incatenerà per sempre i cuori di quelli che oggi vi amano meno!

—Vostro figlio. …—disse il re e si interruppe.

—Dio mi è testimonio che non penso solo a mio figlio. Penso, sire, a questa causa così difficile, che speravo già vinta ed ora vedo perduta! E vorrei piangere di disperazione e di rabbia!…

Lagrime erano davvero nella sua voce e lagrime rigarono il suo molle volto.

—Rifletterò alle vostre parole—disse il re visibilmente commosso—E farò una cosa per voi, per voi solo … in nome di quello che dorme laggiù a Sfacteria, nel suo bel sogno … e in nome di colei che vi ha incaricato di portarmi il mio pegno di fede giovanile. Perdono a vostro figlio. Ma bisogna che questo non si sappia da alcuno. Procurate di trovarlo e fatelo fuggire, e nascondetelo, intanto … Elisabetta stessa potrebbe incaricarsi … Ma io devo ignorare tuttociò. Se egli fosse già arrestato …

—Ah, Dio!

—Sì, è possibile, perchè avete inteso, la polizia ha agito stanotte; se fosse arrestato, aspettate …

Si accostò al tavolo, e vergò alcune linee sopra un foglio, quindi lo chiuse e vi appose il suo suggello.

—Questa carta vi faciliterà la sua fuga. Egli fuggirà … e intanto questi giorni passeranno. E io vedrò quello che Dio mi ispirerà di fare.

Il re porse la carta a Salvago, che baciò la mano scarna e pietosa. Poi il conte uscì rapidamente, mentre Carlo Alberto si avvicinava all'inginocchiatoio, e, vi piegava su le ginocchia, in atto di suprema invocazione.

Appena fuori, sulla strada, Salvago cercò con gli occhi la sua vettura, vi corse, vi si precipitò, gridando al cocchiere: A casa! La carrozza volò. Ma, giunto a casa, egli non vi trovò suo figlio. Nella stanza del giovane tutto era intatto e il servitore dichiarò che il conte Enrico non era rincasato la notte.

—Ahimè! mormorò il povero padre—dove trovarlo?

Volgendo lo sguardo in giro gli occhi gli caddero sopra un mucchio di carte e di lettere, che erano sulla tavola del giovane. Si precipitò verso quelle, vi frugò dentro, e quasi subito gli venne sott'occhio un indirizzo, scritto con la matita, sull'angolo di una carta, Via delle Pietre, 15.

Un lampo gli illuminò il viso. In via delle Pietre era una casuccia brutta, di povero aspetto, dalla quale egli, il giorno prima aveva veduto uscire Giacinto Serrati, un amico di Enrico, e suo compagno di fede. Forse in quella casa si radunavano quei giovani, là, dove alla polizia difficilmente poteva cadere in testa di cercarli. Bisognava che egli ci andasse subito. Forse era ancora in tempo di salvare, insieme a suo figlio, molti altri…

Ma prima … guardò il caminetto, era spento. Quelle carte bisognava bruciarle tutte. Chi sa che contenevano! Se la polizia veniva a perquisire, e sarebbe stato, certamente, tra quei fogli potevano essere notizie compromettenti. Accese in fretta una candela, ammucchiò le carte nel camino, cercò nei cassetti, se ve n'erano altre, e appiccò il fuoco a tutto il gran fascio. La fiamma divampò allegramente.

Quando Salvago vide che nulla si sarebbe più potuto salvare di leggibile, da quell'auto da fè, corse fuori della stanza, la chiuse a chiave, si mise la chiave in tasca, e si precipitò per le scale. Davanti al portone la sua carrozza aspetava ancora.

—Via delle Pietre, quindici!—disse Salvago piano al cocchiere.

La vettura partì. Allo svolto della via, il conte si rigettò precipitosamente all'angolo, come per nascondersi. Un gruppo di quattro uomini, armati di bastoni, procedeva cautamente, camminando lungo il muro. In uno di quelli il conte Salvago riconobbe Tosi, il temuto commissario di polizia.

Alcune ore prima dei fatti che ho narrati adesso, e precisamente verso le due del mattino, un gruppo di cinque giovani, in una soffitta della casa n. 15, in via delle Pietre, stava ancora chiacchierando, discutendo, fumando e bevendo.… il tutto facendo col meno rumore possibile, per non disturbare i vicini, e specialmente perchè, dalla strada, qualche zelante poliziotto non fosse curioso di venire a chiedere il perchè di quella veglia …

Quei cinque giovani erano studenti dell'Università, e cioè: Giacinto Serrati, il padrone di casa, studiava medicina; Giovanni Vinchi e Guido Rosaia, erano inscritti alla facoltà di lettere; e gli altri due, Bernardo Mameli e Leopoldo Zani avrebbero dovuto, già da due anni, essere laureati in legge. Leopoldo Zani era nipote del conte Zani, che vedemmo essere amico e consigliere di Carlo Alberto …

Quella camera mobigliata, come la chiamava il cartellino, che la padrona di casa aveva fatto affiggere al portone, non era altro, come dissi, che una soffitta, e non aveva nulla da invidiare alle classiche soffitte della Bohême, che i romanzieri francesi della metà del secolo scorso hanno così largamente sparso nei loro volumi. Giacinto Serrati pagava per essa dodici lire al mese, e l'aveva appigionata da quindici giorni appena, per suoi motivi particolari. Vi era un letto di ferro, che in questo momento serviva anche di triclinio, perchè il Vinchi, il Rosaia, lo Zani, vi erano romanamente distesi; e il pagliericcio gemeva, e le gambe ed il fusto del letto scricchiolavano sotto il peso indiscreto. Vi era un tavolo a quattro piedi, molto unto e coperto delle cose più varie; ma un fiasco di vino e alcuni bicchieri sporchi attestavano l'uso principale al quale il mobile era adibito. Due sedie di paglia, in equilibrio instabile, erano occupate da Serrati e Mameli, i quali, per reggersi meglio, tenevano le gambe appoggiate sulla sponda del letto, o sui fianchi dei lor compagni. In un angolo brillava una catinella per l'acqua, in un altro angolo faceva bella mostra di sè un piccolo canterano, con sopra un minuscolo specchio verdognolo, tempestato di macchie, e nella stanza non credo ci fosse altro, appartenente alla padrona di casa. Tra gli oggetti portativi dallo studente Serrati si può ricordare un magnifico teschio umano, legato involontario del Teatro anatomico; un candeliere improvvisato con una bottiglia vuota; un dente colossale di legno, verniciato di rosso; tre piattelli di stagno, risul tato di bottini notturni: qualche volume del Gioberti e dei Misteri di Parigi, sparsi qua e là, fra i trattati di patologia e le scarpe, non più nuove, dello studente.

Quanto ai cinque giovani, che occupavano quella notte la soffitta, nessuno aveva più di venticinque anni, cosicchè la giovinezza pareva avesse sparso su quei cinque visi lo stesso spensierato riso, lo stesso fulgore, e si sarebbe potuto dire che si somigliassero. Pure lo Zani, che era il più vecchio, bruno, con forte rassomiglianza al conte suo zio, aveva i lineamenti morbidi e grandi, con larghi occhi scuri; mentre Giovanni Vinchi, il più giovane, aveva una bionda capigliatura, molle e arricciata come quella d'una donna, e chiari occhi infantili; Giacinto Serrati, magro, asciutto, alto, dal viso bronzino e lo sguardo d'aquila, era il più virile; anima forte in un forte corpo; il Mameli era piccolino e smilzo; il Rosaia pallido, scarno, con un viso che prometteva l'etisia a non lunga scadenza.

—Ma credi proprio che sarà domani?—domandò Giovannino Vinchi, mettendo sul cuscino la sua bella feminea testa bionda.

—Ne sono certo—disse il Serrati—del resto, fra poco lo sapremo.

—Se sarà per domani, mi pare che si potrebbe fare un sonnellino—disse ancora il Vinchi —perchè avremo da menare le mani, mi imagino.

—Dormi—rispose il Serrati, alzando le spalle.—Io certo non potrei dormire stanotte.

—Nemmeno io—disse il Mameli, e i suoi occhi brillarono.

—Oh, perchè no?—esclamò sbadigliando lo Zani.—Ha ragione Giovannino… io casco dal sonno.

—Bisogna essere seri, bisogna preparare tutto, ammonì il Serrati.

—E che possiamo fare se non viene il Salvago?—ribattè il Rosaia—è lui che ci deve portare dei capi.

—Va benissimo, ma intanto sappiamo già la linea generale di condotta. Mettiamoci ben d'accordo fra di noi—rispose Mameli.

—Bernardo, taci!—gridò con voce assonnata il Vinchi.—Taci, e dormi anche tu!

—Avete un bel dire voialtri, che avete preso il letto d'assalto—disse ridendo Mameli— voi potete dormire, ma noi, in questa posizione incerta.

Infatti, un movimento più brusco gli fece perdere l'equilibrio, ed egli cadde battendo la testa sopra il Gesuita moderno, che andò in terra con grande fracasso.

—Sveglierete i vicini—disse severamente Serrati.

—Avevo sempre detto che questo libro era destinato a far rumore!—rispose Mameli, ma nessuno rise. I tre sul letto russavano.

—Se vuoi, Mameli, puoi dormire anche tu —disse il Serrati—tu ne hai più bisogno di loro.

—Dormire? Ma come? Ma dove?

—Puoi sdraiarti per terra. Aspetta, toglierò il cuscino dal letto. Tanto, queste marmotte dormiranno lo stesso.

—No, no, lascia!—disse il buon Mameli. Ma già l'altro, con le sue brusche maniere, aveva tolto di sotto alla testa di Giovannino l'unico guanciale e lo aveva gettato per terra. Giovannino si rizzò, si stropicciò gli occhi, brontolò: «Accidenti ai tedeschi!», e ricadde a dormire.

Il Mameli, come vinto dalla stanchezza, si sdraiò per terra, e disse al Serrati:

—Fa una cosa, vieni anche tu. C'è posto per due su questo cuscino.

—No, no, preferisco camminare e parlare: sono troppo agitato per dormire.

—Se cammini, farai rumore e sveglierai quelli che stanno qui sotto—disse saggiamente Mameli.

—Hai ragione; ebbene, mi sdraierò vicino a te, e parleremo. Intanto il Salvago verrà.

—Non ti pare che tardi?

—No, no. Le deliberazioni che devono prendere stanotte sono gravi e importanti.

—Purchè non vada tutto a monte!—mormorò il Mameli.

—A monte? E perchè dovrebbe andare a monte? Non ci sono traditori nel partito. Sono tutti giovani scelti a uno a uno. Come dovrebbe andare a monte?

—Quel Tosi e quel padre Marotti?

—Evvia, non esagerare! Sono uomini anch'essi. Non sono dunque onniscienti e onniveggenti. I capi sono prudenti, e tutto è ben organizzato. La polizia ha mai potuto sapere dove sono le sedi? No, perchè nemmeno noi, aggregati, lo sappiamo.

—Basterebbe scoprire un luogo di riunione… Ciascuno di noi ha carte compromettenti, ha nomi…

—Ma perchè pensare a tali cose? Tu mi stupisci. Mameli! Vedi bene che io ho cambiato tre volte casa in due mesi; appunto per sviare la polizia, se questa avesse potuto avere qualche sospetto. Questa soffitta quassù… chi sa mai che esiste? Vicini da canto non ne abbiamo; sotto a noi abitano poveri operai. Lostesso hanno fatto gli altri compagni. Hanno frequentemente cambiato il luogo delle riunioni dei gruppi… E' il miglior sistema. Il Tosi non saprebbe raccapezzarsi…

—Ma ci sono le donne… e sanno troppe cose —disse il Mameli.

—Le donne! Io non ho donne, e tu neppure, credo. Nè direi mai a una donna un segreto. Questi tre, sì, non possono vivere senza essere attaccati a una gonnella. Ma spero che nessuno di loro avrà parlato.

—Pure, ricordi che una volta abbiamo tenuto seduta in casa della Giulia.

—Per forza, quando siamo rimasti privi di casa Ma la Giulia è una buona ragazza, ignorante come una talpa. Ella non ha assistito alla seduta, e crede che ci siamo riuniti per here.

—Ma Giovannino non le avrà detto nulla?

—No, no, non può essere stato così imprudente. Eppoi, ripeto, la Giulia non capisce nulla. Infine, siamo oramai alla vigilia… Anzi, è il giorno, oramai. L'ora è prossima. Tutte le cose cambieranno, e non avremo più bisogno di nasconderci.

—Così sia!—mormorò il Mameli, e chiuse gli occhi, molto stanco.

Il Serrati lottò più a lungo col sonno. Egli era una energica e ardente natura, che aveva messo tutta l'anima sua in quel sublime sogno di una patria repubblicana, di una nazione fatta di gente civile, libera, felice… Ah, perchè non era possibile continuare a vivere sotto l'assurdo dispotismo che allora governava il Piemonte: come ogni altra parte d'Italia! Il malgoverno dei gesuiti era al colmo. Specialmente i giovani delle università risentivano il duro giogo, e ne gemevano, e ne fremevano. La più eletta parte della gioventù subalpina era in balìa di una stupida tirannide. L'espansione, il brio propri di quell'età fortunata, erano proibiti, come peccati. Il liberalismo e la fratellanza erano soffocati, e in loro vece erano favorite' la delazione, la servilità, l'ipocrisia.

Si insegnava ai giovani a dissimulare, a fingere, a mentire; i colli torti erano privilegiati, accarezzati, e bastava un biglietto regio, perchè un asino patentato, un baciapile, tornasse a casa con la sua brava laurea in tasca; mentre v'erano degli studenti che si bocciavano regolarmente due volte all'anno, perchè non volevano andare a confessarsi, o perchè portavano i mustacchi liberali, o la cravatta di Pio IX, o perchè, nelle pubbliche trattorie, mangiavano carne il venerdì!

Anche nelle stesse aule universitarie la pedanteria era sostituita allo studio, e spesso l'avvenire di un giovane studioso era rovinato dal capriccio di un professore prete. L'intelligenza stessa non era già un merito, ma un pericolo, ed era assai meglio essere stupidi ed ignoranti per chi voleva fare rapida e brillante carriera.

Tutto questo pensava e ricordava il Serrati, mentre si agitava sul nudo pavimento, dove il suo compagno, più felice, già dormiva: e volgeva in mente un avvenire di santa fratellanza, e vedeva un'aurora più rosea di quella che già pareva sorgere, lontano, dalle colline di Superga, che erano visibili dal suo abbaino.

Finalmente auche il Serrati si addormentò, di un sonno febbrile, e nella misera soffitta, dove tante speranze si agitavano, tutto fu profondo silenzio.

Passarono così forse due ore, e già l'alba aveva sparso la sua luce tenera sui volti giovanili degli addormentati, e la candela si era consumata nella bottiglia, quando un sommesso picchiare alla porta fece sobbalzare Serrati.

—E' lui—disse forte—e corse ad aprire.

Il rumore, la voce fecero riscuotere tutti. I tre che dormivano sul letto si rizzarono. Mameli saltò in piedi. Enrico Salvago era sulla soglia.

In un momento ogni traccia di sonno scomparve dai cinque visi. Tutti erano in piedi, pallidi, ma pronti. Tutti circondarono il Salvago. Egli pure era molto pallido, l'insonnia aveva messo un cerchio rosso intorno ai suoi occhi.

—Compagni, fratelli miei!—disse con voce bassa e vibrante.—Vengo a portarvi l'ordine dei capi. E' fissato per oggi, come già vi avevo detto. Ecco, a ciascuno di voi, per iscritto, il punto preciso in cui dovrà trovarsi, ed ecco come dovrà comportarsi. Vedrete che tutto è stato calcolato, con prudenza somma. Il colpo non può fallire. A quest'ora medesima, a Torino e in tutto il Piemonte, si stanno preparando giovani come voi, e si dispongono per questo atto, che sarà decisivo nella storia d'Italia. Ora il torrente è in moto, verso la china, e nulla più potrà arrestarlo. Nulla. Esso trascinerà coni sè tutto ciò che incontrerà nel suo cammino. S. vorrebbe, lo vorremmo sinceramente, ardentee mente, che non fosse sparso sangue. E' sangu dei nostri fratelli. Nostri fratelli, sono i soldati, se anche sparassero su noi, o ci facessero calpestare dai loro cavalli; nostri fratelli sono gli stessi poliziotti…

—Quasi tutta la feccia del Mezzogiorno— disse il Serrati.

—E' vero. Il Tosi è riuscito a mettere fra noi questi napoletani e pugliesi, che si sono adattati a fare gli sbirri tra i piemontesi—rispose con forza Salvago—ma dobbiamo comprendere e compatire; essi sono appena la feccia, ripeto, di un nobile popolo, e il Tosi li ha messi fra noi come stranieri, appartenenti ad un' altra parte d'Italia; qui li ha messi per odiare e per essere odiati! Ma sono pur nostri fratelli, e, se è possibile, anche il loro sangue si risparmierà.

—Sangue di sbirri!—disse il Rosaia, digrignando i denti.

—Ma ci attaccheranno—disse il Serrati.

—Se sarà necessario ci difenderemo fino alultimo sangue—rispose il Salvago.—Questi sono gli ordini. Ripeto: evitare spargimento di sangue inutile; battersi come leoni, se troviamo resistenza.

—E dell' Uomo che ne faremo?—chiese il Mameli.

—L' Uomo sarà mandato in esilio, senza torcergli un capello.

—E se resistesse?

—Resisterà certo, non è un codardo. Pure, l'ordine è di non lorcergli un capello.

—In Francia han fatto meno cerimonie— disse lo Zani.

—Non importa. Non dimentichiamo che l'Europa ci chiederà conto di ciò che abbiamo fatto, e noi dobbiamo alzare le mani pure, verso l'Europa.

—Credete proprio che l'Inghilterra ci aiuterà?

—Ne sono persuaso.

—E l'esercito?

—I giovani sono con noi quasi tutti. I vecchi no, ma sono pochi.

—Sarà necessario avere Vittorio con noi— disse lo Zani—altrimenti l'esercito ci abbandonerà. I militari sono soliti a non sentir altro che il tintinnìo delle loro sciabole, e la sonora e vuota parola del loro onore, che non è sempre il vero onore. Bisognerà empir loro la bocca con questa parola, e allora sarebbero capaci di marciare persino contro i tedeschi!

—Ne dubito—disse il Mameli—non sono forse i soldati piemontesi assuefatti a considerarsi come un'ala dell'esercito austriaco? Non si sono mai fatti studi di guerra su quel confine. Alessandria fu sempre trascuratissima a bella posta. Perchè fortificandola si temeva di offendere l'Austria.

—E specialmente di preparare un altro ventuno —esclamò il Rosaia.

—Tutto ciò cambierà—disse gravemente il Salvage.

—E' vero: se Vittorio sarà con noi, il còmpito nostro sarà assai più facile. Ma noi dobbiamo agire anche se quell'appoggio ci mancherà. Del resto, non dimentichiamo che abbiamo i tedeschi a Ferrara: che non aspettano che il momento opportuno per venire avanti. Che Roma sarà il primo boccone, e se Roma cade tutto è perduto.

—Il papa sarà sempre con noi!—disse il Vinchi.

—Chi lo sa? E' probabile che la sua buona volontà si spezzi contro l'inerzia e la ostilità dei cardinali. E se egli si ostinasse, sarebbe forse il primo papa che verrebbe eliminato per il bene della Chiesa?

—E' vero. Pure Ferrara è occupata, ed egli ha protestato dignitosamente.

—E i romani pieni d'ardore patrio, tumultuano, e non domandano altro che marciare contro i confini.

—Li troveremo con noi al momento buono —disse il Salvago.—Genova intanto è tutta nostra. La patria del grande agitatore pare intenda meglio d'ogni altra città la sua voce, la sua profetica parola. Ma… è già molto tardi— aggiunse pensieroso, guardando il cielo oramai tutto chiaro.

—Avete tardato assai, stanotte—disse il Serrati.

—Si e il volto di Enrico si annuvolò.— Avemmo una assai lunga seduta. Erano gravi le decisioni che si dovevano prendere; ma poi, uscendo, un incidente che mi turbò alquanto, mi fece ritardare la mia venuta.

—Un incidente?—disse il Serrati, guardando adesso per la prima volta l'abito di Salvago, che aveva una manica lacerata.

—Sì. Venivo a piedi, per maggior sicurezza, e camminavo molto in fretta, e rasente i muri, quando, presso la piazza San Giovanni, mi sono accorto che due uomini, cautamente, mi seguivano. Dall'andatura, dai due nodosi randelli che tenevano in mano, ho capito che dovevano essere due birri travestiti. Io mi sgomentai, pensan do che mi avrebbero seguito sin qui, e mi misi a camminare da un'altra parte, per far loro perdere le mie traccie. Quelli sempre dietro, come due fantasmi. Non so dirvi quanto cammino ho fatto. Ho girato su e giù, per terreni deserti, fra case in costruzione, ho attraversato Torino, e mi sono trovato di fronte al Po; sono tornato indietro e mi sono aggirato rapidamente sulle rive della Dora. I due sbirri sempre dietro, tanto che temetti di non poter più venir qui, e di cadere nelle loro mani. A un certo punto presi una risoluzione energica e mi fermai. I due mi passarono innanzi, mi sfiorarono, mi guardarono insolentemente in viso. Allora, rapido come un lampo, diedi un urto a uno dei due, che, con un grido cadde, perdendo l'equilibrio, e rotolò giù giù per la riva scoscesa della Dora. L' altro, sorpreso, prima che pensasse di alzare il suo bastone su di me si trovò atterrato dal mio pugno. Egli mi afferò per un braccio e mi stracciò l'abito; ma io gli avevo già tolto il randello e con quello gli assestavo un forte colpo sulle gambe. Sono certo che non avrà potuto corrermi dietro. Son corso via io, invece, e un colpo di rivoltella risuonò dietro a me. Ma andò a vuoto, e io continuai a correre, e appena quando fui certo che non potevano inseguirmi rallentai il passo e venni sin qui. Ad ogni modo è necessario che oggi usiamo più prudenza ancora del solito. Nessuno di noi deve stamane uscire di qui.

—Voi avrete bisogno di riposo—disse il Serrati.

—Sì, sono stanco. Se voialtri avete dormito —rispose il Salvago guardando il letto—io mi sdraierò qui. Un' ora di sonno mi basterà, Poi penseremo al cibo. Avete qualche provvista in casa?

—Poca roba. Forse un po' di pane—disse il Serrati.

—Se sarà necessario uno scenderà a comperare qualche cosa. Bisognerà mangiare per prendere forza. Oggi ci sarà molto da fare, e chi sa fin quando non riposeremo.

—Non sarà prudenza fare provviste di cibo per qualche giorno qui?—chiese il Vinchi.— Se dovessimo rifugiarci qui? Nasconderci?

—Pensiero non degno di noi!—rispose superbamente Salvago.—O riusciremo… e allora non avremo più bisogno di nasconderci. O tutto sarà perduto… e allora!…

Il viso gli si fece più pallido. La visione di una donna passò forse in quel momento dinanzi alla sua anima.

—Mettetevi qui, dormite—disse il Serrati. —Intanto noi leggeremo ciascuno attentamente gli ordini, e ci prepareremo per oggi.

Senza rispondere una parola, e vestito com'era Enrico Salvago si gettò sul letto, e chiuse gli occhi. Un momento dopo pareva dormisse.

I cinque giovani, spiegando ognuno il proprio foglio, si posero a leggere attentamente in silenzio. Tutti erano compresi della grande ora che si appressava; tutti erano pronti a gettare la propria vita; e il brivido dell'attesa passava loro per le vene.

Ad un tratto, un colpo sommesso viene picchiato all'uscio. Tutti si guardano in faccia impalliditi, e guardano Salvago, che non si è mosso.

Un altro colpo più forte impaziente.

Serrati va risolutamente alla porta, l'apre, mentre ciascuno di loro si avvicina rapidamente ad una cassa, dove sono racchiuse le armi, preparate per il gran giorno.

Un uomo è sulla porta, un estraneo. Egli misura con lo sguardo la stanza, cerca ansioso una persona.

—Dorme!—esclama, scorgendo Enrico sul letto.

—Dio buono! egli dorme!

Quella voce ha già svegliato Enrico che balza su spaventato.

—Padre mio! perchè? che fai qui?—esclama egli.

—Presto, non perdete un minuto, o sarà troppo tardi—disse rapidamente il conte Salvago. Figliuoli! siete traditi! I vostri nomi, i vostri connotati, i vostri progetti sono in mano della polizia. A quest'ora la maggior parte dei vostri compagni sono arrestati. Tra pochi minuti i birri possono essere qua. Certo in ciascuna delle vostre case è in questo momento la polizia. Tutto è scoperto, vi dico, e bisogna fuggire.

I cinque avevano ascoltato, lividi, stupiti, immobili, come colpiti dal fulmine.

—Non perdete tempo, vi dico—ripetè il conte.—Ogni momento che passa è fatale.

—Ma voi, come sapete ciò?…—balbettò il Serrati, che non voleva arrendersi.

—So tutto, vi dico. Ero dal re quando il padre Marotti gli portò le carte sequestrate e una lista con sopra il nome di quaranta di voi altri, e anche il tuo, Enrico!

—Ah, ma come è possibile! Siamo dunque traditi!—gridarono insieme i giovani.

—E' probabile. Ma ora, ripeto, non perdete tempo. Andatevene.

—E i nostri compagni?—disse Enrico.

—Si salvi chi può. Per ora non v'è nulla da fare. Voi qui avete carte? Datemele. Io brucierò tutto, mentre voi fuggite.

Il Serrati indicò il canterano.

—Là!—disse con voce fioca.

Il Mameli singhiozzava.

—Siete dunque un fanciullo? disse con ira il conte.—Andatevene dunque!

—Ah, piango di rabbia! perchè tutto è perduto e tutto pareva già così bello!

—Sì, partita perduta. Avete denari?—continuò il conte; e buttò sulla tavola un mucchio di biglietti.—Andiamo, prendetene, e ciascuno fugga da solo. Non andate in due, perchè sarebbe troppo pericoloso. E uno non sappia delaltro. Andate, andate.

E li spinse fuori, mentre tutti ancora, incerti, esitavano.

—Enrico!—disse ancora il conte, richiamando suo figlio. Tu, prendi una carrozza da piazza, e fatti condurre subito subito alla villa della marchesa d'Avoli. Raccontale tutto; ella ti nasconderà. Intanto, vedremo come finirà questo sciagurato affare. Ma sappi intanto, sappi, disgraziato, che tu e i tuoi compagni avete guastata in un momento l'opera mia e di tanti altri, che sanno amare la patria con più pazìenza e più eroismo di voi. Se volevate spargere il vostro sangue, credete che non si sarebbe presentata presto l'occasione? Invece ora… Ma parti. Io ti raggiungerò più tardi.

Lo prese fra le braccia, lo baciò sulle gu an cie, e lo spinse fuori. II giovane, tutto stordito, con un vago senso di sgomento, di affanno, di stizza, si precipitò giù per le scale ancora deserte.

Andò in fretta per le strade silenziose, e in piazza San Giovanni prese, come gli aveva detto suo padre, una carrozza da piazza, e diede al cocchiere l'indirizzo della villa d'Avoli.

La carrozza andò abbastanza in fretta, e, dopo pochi momenti il Salvago, che si era gettato nel fondo, più per chiudersi nella sua rabbia e nel suo dolore, che non per nascondersi, si accorse che passava proprio dinanzi la casa del barone Neyroni, e vide sul portone il barone stesso, che ne usciva, certo per recarsi alla messa.

I loro sguardi s'incontrarono; il Neyroni aveva riconosciuto il fuggitivo.

Ma Enrico, incurante del pericolo, mise il capo fuori dello sportello, e levò gli occhi alle finestre, che egli sapeva essere della sua Clara… Le vide chiuse, mute… Gli si strinse più forte il cuore, e anch'egli avrebbe voluto mordere i cuscini della carrozza, o piangere, piangere come il Mameli, su tante sue speranze crollate in un momento!

La baronessa Neyroni aveva passata insonne la notte precedente a quella fatale giornata, in cui, secondo le speranze dei repubblicani, avrebbe dovuto scoppiare il colpo di Stato.

Mille terrori avevano tenuta agitata la povera donna; ella non aveva la fiducia, l'incrollabile fede di Enrico, in quel tentativo che non cessava di parerle una follia. Tremava al pensiero che esso poteva andare a vuoto, e che si sarebbero arrestati i cospiratori, ai quali non sarebbero certo risparmiati i più terribili castighi. Sapeva che Carlo Alberto, o, meglio, la sua politica, non perdonava. Che il 21 era stato una terribile lezione, e il 31 e il 33 erano date fatali nella storia del Piemonte, perchè molti generosi avevano pagato con la vita, o con la libertà, le loro splendide utopie. Se il suo Enrico fosse arrestato? Se lo condannassero a morte? E un freddo sudore correva lungo la sua nuca, e brividi di terrore, di angoscia la agitavano tutta.

Così attese l'alba, torturata da dubbi e da paure, e infine si alzò, per dare qualche requie alla mortale inquietudine. Tendeva l'orecchio ad ogni rumore, che venisse dalle altre stanze, o dalla strada, col presentimento di udire una qualche terribile notizia, o di vedere giungere l'amante, come già aveva fatto la sera prima, incurante di ogni pericolo, o di ricevere in qualche modo un suo messaggio, che le dicesse che egli era ancora libero, vivo…

Nemmeno il pensiero del marito non l'angustiava più, assorbita com'era dall'altro pensiero del pericolo di Enrico. Non aveva più veduto il barone, perchè la sera prima ella, dopo aver recitato il rosario insieme alla contessa Pallottini e alle sue tre figliuole, era ritornata prestamente alle sue camere, senza aspettare il ritorno del marito. Ma oramai le pareva di trovarsi ad un punto della sua vita in cui il destino le preparasse un nuovo cammino; o il tentativo di Enrico riusciva, e allora chi poteva prevedere ciò che sarebbe accaduto dello Stato e di lei? Confusamente pensava che il barone non avrebbe potuto rimanere in Piemonte, col nuovo stato di cose, certo sarebbe emigrato in Austria, forse… E lei… ah, no, lei non lo avrebbe seguìto! Sarebbe rimasta a Torino, libera finalmente dell'odiosa catena, che solo la morte avrebbe potuto spezzare! Avrebbe allora persuaso l'amante, compiuto il suo dovere di cittadino, di andarsi a nascondere con lei in qualche luogo ignorato dal mondo, in qualche villa romita, sulla spiaggia del mare, dovunque non giungesse l'eco della vita d'intorno; e là, cessato l'aspro governo dei preti, avrebbero potuto passare, sicuri e felici, i loro giorni! E chi sa, più tardi, quando ella restasse veramente libera… Perchè, infine, il barone era più vecchio di lei, e poteva anche morire…

Si scosse da questi pensieri al rumore di una carrozza che passava nella strada tranquilla. Il cuore le si strinse, e Clara corse alla finestra, spostò la tenda, guardò giù… Dallo sportello della carrozza una testa si sporgeva… un viso si volgeva in su… Ella credette in un'allucinazione. No, non poteva essere lui… Ma ella lo vedeva dappertutto… La carrozza spariva allo svolto della strada, ma ella vide suo marito attraversare la via, allontanarsi adagio, e anche lui seguire con gli occhi la vettura…

Col cuore palpitante stette un pezzo a guardare nella strada, aspettando… Se era lui, perchè sarebbe passato di là, a quell'ora? Per dirle qualche cosa? Per mandarle un'ambasciata? Forse egli pure aveva visto il marito, e non aveva osato più fermarsi?… II marito! No, ella non lo temeva nemmeno più. Oh, se quei giovani, oggi, avessero vinto! Sarebbe la libertà per la patria… e per lei!… E si mise ardentemente a pregare che tutto riuscisse a bene, che quel governo di poliziotti e di gesuiti cadesse, che sul palazzo reale sventolasse oggi la bandiera repubblicana, e tutta la nera banda scappasse atterrita… Tutti, e, prima di tutti, suo marito…

E se invece il colpo fallisse? Una disperazione profonda l'assalse, una folle paura. Se allora Enrico riuscisse a fuggire, ella lo raggiungerebbe. Oh sì! In capo al mondo. E se invece fosse preso, condannato… Che resterebbe a lei altro che morire?…

Per togliersi un momento a quell'incubo di angoscia, suonò il campanello e comparve la sua fidata Gina, la quale fece un atto di dolorosa sorpresa al vedere il pallido, sconvolto viso della padrona.

—La signora baronessa non sta bene?

—Gina—disse con ansia la signora—non è venuto nessuno stamattina?

—Nessuno, signora baronessa.

—Ah, bene! Mio marito è uscito?

—Sì, signora baronessa.

—E… tu l'hai veduto? Ti ha parlato?

—Mi ha domandato se la signora. dormiva ancora, e null'altro. Ha detto che ritornava per colazione.

—Bene. Io invece non scenderò per la colazione. Dirai che ho un forte male di capo. Mi porterai qui una tazza di brodo… null'altro.

—Sì, signora baronessa. Oh, si vede che non sta bene!

—Gina!… Quando il barone sarà uscito… dopo colazione, vieni qui.

—Sì, signora baronessa. Comanda altro?

—No; nulla.

La cameriera uscì e Clara si rimise dietro alla finestra a guardare nella via, come se di là dovessero venirle le notizie che aspettava. Ma nulla, invece nulla. I passanti avevano i visi degli altri giorni, la strada aveva il solito aspetto; le botteghe erano aperte come al consueto, e la gente entrava e ne usciva… come sempre. Ella vide la contessa Pallottini e le sue tre figliuole attraversare la strada col libro da messa in mano… Andavano ai Santi Martiri, come tutti i giorni. Nulla era mutato, e dunque nulla era accaduto finora…

Per dominare la sua impaziente angoscia, ella prese un libro, lo gettò ne prese un altro: leggeva senza capire; prese un lavoro di tappezzeria, e si sforzò di metterci qualche punto… Ma le lane e i colori le danzavano dinanzi agli occhi… Finalmente vide rientrare suo marito, per la colazione, e stette ansiosamente aspettando che egli forse la facesse chiamare o andasse da lei… Nulla.

Comparve Gina, col brodo.

—Il barone ha già mangiato?

—Mangia ora, in fretta. Pare abbia intenzione di uscire subito.

—Di me, che ha detto?

—Nulla, signora baronessa. Ha fatto solo: Ah! —distrattamente. Pare abbia qualcosa per la testa.

—Che potrà avere?—disse Clara, come parando fra sè.

—Non saprei, signora.

—Quando va via, vieni a dirmelo.

Dopo dieci minuti Gina di nuovo era lì.

—E' uscito or ora, il signor barone—disse.

—Bene. E che ha detto?

—M' ha incaricato di dire alla signora baronessa di aversi cura; e di scusarlo se forse non potrà venire a pranzo, stasera, perchè ha molto da fare… Nient'altro.

—Ah!—fece Clara sempre più inquieta.— Bene. Metti qui nella mia camera un vestito nero per me, quello che porto la mattina per andare in chiesa e un cappellino chiuso, pure nero. Un velo. Null'altro. Uscirò fra poco.

Gina obbedì senza mostrare stupore. Ella era avvezza a quelle gite misteriose della signora, e supponeva bene che il conte Enrico ne sapesse qualcosa; ma non biasimava la padrona. Anzitutto perchè l' amava ed era disposta a trovare tutto bene quello ch'ella faceva; e poi perchè ella sapeva qualcosa sul conto del signor barone, sapeva che quella santità non era tutta di buona lega, e ricordava benissimo che anche con lei, il signor barone, si era permesso certe paroline, che, se ella gli avesse dato retta…

Ma Gina era una ragazza onesta, e poi, aveva altro in capo che le tenerezze assai mature del signor barone…

Poco dopo l'una, Clara uscì. Modestamente vestita, coi capelli rossi coperti da una fitta veletta nera, difficilmente si sarebbe riconosciuta in lei la ricca ed elegante baronessa Neyroni; pareva piuttosto una sartina, che si recasse al lavoro. Camminava in fretta, guardando ansiosamente qua e là, come se avesse sperato di incontrare colui che cercava. Man mano che si avvicinava a piazza San Carlo le pareva che le strade fossero più popolate del solito. Frotte di popolani camminavano rapidamente, ciarlando forte; qualche gruppo di studenti pareva pure affrettarsi verso un punto prestabilito.

Il cuore di Clara batteva come se volesse spezzarsi. Dove andava ella? Proprio nel mezzo della folla, proprio dentro al tumulto. A far che? Non poteva mica aiutare, forse nemmeno vedere il suo caro. E ficcava gli occhi fra la gente, con la speranza di scorgerlo, e a ogni suono più forte di voci si voltava, cercava colui che aveva parlato… Così giunse in piazza San Carlo, che presentava uno spettacolo singolare. Capannelli di gente ferma erano qua e là, come scaglionati lungo tutta la piazza, e lungo le vie che menano a piazza Castello. Tra questi capannelli ve n'erano alcuni che si distinguevano dagli altri, perchè formati da gente armata di bastoni, che guardava intorno in modo minaccioso e insolente. A prima vista si indovinavano i poliziotti e gli sbirri. Ve n'erano anche in divisa, e assai numerosi. Passeggiavano su e giù, fissavano i gruppi di operai e di studenti fermi a parlare, e non dicevano nulla; come se aspettassero un momento o un segnale.

E Clara notò con meraviglia che la gente convenuta pareva pur aspettare qualcosa o qualcuno che non veniva. Non si vedeva nessuno guidare quella folla, non si sapeva perchè fosse là raccolta. Clara tentò di sorprendere qualche parola detta a voce alta qua e là.

—E' una canzonatura.

—Si dice che ne abbiano arrestati duecento.

—I soldati sono tutti consegnati.

—La polizia ha ordine di non muoversi.

—La cavalleria verrà a caricare la folla.

—Molti ufficiali sono agli arresti.

—Dicono che il Re sia scappato.

—E che si voleva fare? la rivoluzione? Guardate là quanti sbirri!

—Credo che sarà meglio andar via, o a momenti ci toccherà scappare.

—Andiamo a vedere sotto il palazzo reale.

—Ma, e dove sono tutte le cose che ci avevano promesso?

—E non s'era detto che il principe ereditario veniva con noi?

—L'Austria ha saputo qualcosa.

—Li hanno arrestati tutti, vi dico.

—Come mai la polizia lascia fare?

Quelle voci mettevano nuove paure nell'anima di Clara. Si parlava di arresti… Tutto dunque era scoperto? E quella gente là, che faceva? E perchè le guardie passavano, e lasciavano dire? Forse i capi erano già tutti arrestati, e oramai il governo, non avendo nulla da temere, voleva evitare inutili repressioni, e lasciava che la folla, delusa, se ne andasse?

Intanto la gente, movendosi dal fondo della piazza, pareva tutta affluire verso piazza Castello e il palazzo reale. Clara seguì la moltitudine, nella quale vi erano pur molte donne, ma tutte popolane, col viso acceso, che parlavano forte. In piazza Castello la folla era più varia e più fitta, specialmente presso il palazzo reale, il quale era chiuso, muto come una tomba.

Un indistinto confuso rumore usciva da quella calca riunita; tutti guardavano verso quelle finestre serrate, tutti aspettavano… e non sapevano, forse che cosa…

Una voce uscì dalla folla:

—Viva il Re!

Un rumore di cavalli accorrenti… un panico improvviso, indescrivibile.

—La cavalleria! la cavalleria!

La calca si fende, si rovescia, si apre. Passa uno squadrone di cavalleria, attraversa la folla. urta, rovescia, lascia qualche caduto sul suo pas saggio, scomparisce verso via della Zecca…

Un clamore, un urlìo vi tien dietro; ma ben presto la folla è densa come prima, e un nuovo grido sorge:

—Viva l'Italia!

Vi risponde un'acclamazione formidabile:

—Viva l'Italia!

Al di sopra del mare di teste si vedono sventolare le bandiere tricolori… Le grida si fanno più forti, più variate…

—Costituzione! Costituzione! Abbasso l'Austria! Viva il Re! Italia! Italia! Vogliamo la guerra! Carlo Alberto, passiamo il Ticino! La repubblica! vogliamo la repubblica!

La calca ondeggia. Nuovi urli vengono dai lati della piazza: si grida che gli sbirri caricano la folla venendo da via Dora Grossa… Si fugge, si indietreggia, si urla… Clara, smarrita, tremante, si volge per fuggire anche lei, quando un colpo d arma da fuoco echeggia dall' estremità della piazza, e vi tengono dietro grida minacciose e paurose. Si uccide… Dio mio! Se Enrico fosse la.… Ella non vuol più fuggire, ella vuol vedere che accade… Una squadra di poliziotti le passa dinanzi, camminando con ondeggiare piano ma formidabile, e la gente si spinge ai lati, impaurita. Tra quei poliziotti Clara riconosce il commissario Tosi; è un amico di suo marito, ed ella ha dovuto, più volte, soffrirlo alla sua tavola! Il Tosi la guarda, la riconosce anche lui, e si avvicina premuroso:

—Signora baronessa… come mai qui? La prego, si allontani subito… Le darò due uomini per scorta. Qui c'è troppo pericolo per lei…

—Ma che accade dunque, mio Dio?—balbetta ella tutta tremante.

—Niente. Si fa un po' di chiasso, come al solito. Ma ella vada a casa subito. Tra dieci minuti se la folla non si sbanda sarà caricata dai soldati.

—Ma vogliono—continuò lei, tutta tremante —vogliono fare la rivoluzione?

—No, no; si rassicuri. Non si farà nulla. I capi sono tutti in gattabuia e non ne usciranno per oggi…

Un velo le oscurò la vista, ella fu per cadere…

Ma in quel momento un'ondata di popolo spinse via i poliziotti, e anche il Tosi scomparve, come inghiottito dal flutto umano. Clara udì ancora gridare, gemere, bestemmiare intorno a lei; udì ancora qualche colpo di fuoco, e uno scalpitio di cavalli che si appressava… Poi la vista le si fece più scura, ella si sentì cadere, trascinare, poi afferrare da due forti braccia e portar via…

Pochi secondi dopo aprì gli occhi, come se la coscienza della sventura che la minacciava nella persona dell'amante la richiamasse alla vita.

—Coraggio, signora baronessa—mormorò vicino a lei una voce.

Dov'era dunque? Si rizzò in piedi, si guardò intorno. Era in un camerone quasi nudo, con in giro alle pareti poche rozze panche. Un ufficiale di artiglieria era ritto dinanzi a lei. Quell'ufficiale ella lo conosceva, ma nella confusione della sua mente, non sapeva più che nome dargli… Era un giovane biondo, alto, bello…

—Si sente meglio, signora baronessa?—disse una voce, che pur le era nota.

—Sì. Ma che è successo? Dove sono?

—Questo è un corpo di guardia, signora— disse l'ufficiale sorridendo—e mi sono permesso di portarvela io, perchè altrimenti la folla l'avrebbe schiacciata.

Ella ricordò il pericolo corso, riconobbe anche l'ufficiale che le parlava.

—Ah, lei è il capitano Fanti!—disse—e sorrise.

Era lieta di averlo incontrato: egli forse saprebbe… Lo conosceva bene; lo aveva visto a qualche pranzo ufficiale, era stato pure a qualche ricevimento in casa sua; era un giovane di sensi liberali, sì, lo sapeva, benchè fosse un militare.

—Capitano, che è mai accaduto? Mi racconti!

—Mia signora, nulla di grave. Hanno organizzato una delle solite dimostrazioni che sono oramai all'ordine del giorno: Costituzione, Italia, abbasso l'Austria. Il solito, insomma. Ma pare che oggi volessero fare più sul serio. Solo che la polizia conosceva già benissimo il complotto, e tutti i capi sono stati arrestati stanotte e stamattina.

Un gemito uscì dalle pallide labbra di Clara, ella si sentì nuovamente mancare, e il giovane la accomodò con premura sulla panca, le si sedette vicino, sostenendola per la vita.

—Ella ha ancora male, signora. E come fare? I soldati son tutti consegnati, causa la sommossa. Vorrei trovare una vettura, condurla a casa. Ma qua vicino non ce ne saranno…

—No, no—disse Clara, facendosi forza— andrò a casa, andrò subito… Non ho più male…

La prendeva ora una grande smania di tornare a casa… Là forse saprebbe qualcosa… Enrico poteva averle mandato una parola… E si rimproverava di non avere avuto pazienza, di non avere aspettato.

—Io l'accompagnerò, se permette, signora baronessa. Si appoggi al mio braccio. Così. Usciremo di qua, per questi cortili. Da questa parte non ci sarà la folla. Del resto, non odo più nulla. Certo tutto è tornato in calma, e non ci sarà stato bisogno di spargere sangue, grazie al cielo I.

—Pure, quei colpi che ho inteso…—disse Clara tremando.

—Avranno sparato in aria, i poliziotti. I soldati non hanno nemmeno avuto bisogno di intervenire. E le guardie avevano severissimi ordini… Meno male! Questa volta il Re pare voglia usare grande moderazione. E sarà molto bene. E' inutile opporsi alla fiumana; meglio è secondarla, guidarla; e spero che finalmente Sua Maestà vorrà agire così.

—Ah, crede lei che non ci saranno repressioni crudeli, condanne?—domandò Clara, ansiosa.

Il capitano sorrise.

—Qualche condanna… se esiste davvero un complotto… sarà inevitabile. Ma speriamo sia mite.

—Dio voglia inspirare il Re!—disse Clara con ardore—e lei, capitano, lei che è amico del Re…

—Oh, amico!—disse il Fanti sorridendo sorpreso.

—Sì, sì, lo so; me l'ha detto mio marito. Il Re ascolta volentieri i suoi consigli… Lei gli suggerisca di essere clemente, di perdonare… Sono giovani, e sognano un così bel sogno!…

Il capitano guardò stupito la giovane donna Come! così parlava la moglie del bigottissimo, codino, austriacante barone Neyroni, amico del Tosi e dei gesuiti?

—Ma lei, signora baronessa, è una liberale, mi pare! Una repubblicana, anzi!—disse egli scherzando.

—Io?—disse ella confusa.—Ma poi, rialzando il capo, con un lampo di fierezza negli occhi:—Ebbene, sì—disse;—io mi sento italiana! io faccio voti per la libertà della patria, il mio cuore palpita e freme per questa causa sacrosanta… Repubblicana? Non so. Purchè si tratti dell' Italia e del suo bene… sarò quello che mi parrà necessario essere.

Erano usciti dai cortili e ora si trovavano in via della Zecca, che poche pattuglie percorrevano su e giù. Vedendo un capitano di artiglieria con una signora a braccio, i soldati salutavano e lasciavano passare.

Il Fanti meditava sulle parole della giovane signora, e guardava con ammirazione il bel viso, insolitamente animato. Già altre volte aveva notato quella bellezza, ma gli era sempre parso che un superbo fastidio occupasse quella fronte d'alabastro sotto quella chioma di fuoco.

L'aveva considerata sempre come la baronessa Neyroni, come una bellezza fredda e orgogliosa, una delle tante dame di quell'aristocrazia piemontese, che era allora una delle più ferocemente codine d'Italia, specie nella parte femminile. Oggi questa pallida sfinge gli rivelava un'anima nuova. Che parole erano dunque sbocciate su quelle labbra di porpora? Parole divine, pronunciate con un fremito di passione, che era pur passato nel cuore di lui, e vi si agitava ancora, dandogli un turbamento delizioso. Italia! Libertà! come suonavano bene su quella bocca! Mai nessuna musica lo aveva così dolcemente commosso!

Intanto erano giunti dinanzi al palazzo Neyroni, e Clara si staccò dal suo braccio, come se avesse temuto di essere scorta da qualcuno.

—Oggi non la prego di salire—disse— Sono così stanca, e un po' indisposta!… E poi, non voglio che a casa mia si sappia ciò che mi è accaduto… Si spaventerebbero troppo.

Il capitano s'inchinò, accettando in cuor suo con gioia quella piccola complicità, che ella, con quelle parole, gli offriva.

—Ma verrà a trovarmi, è vero?—aggiunse lei.—Venga la settimana ventura… e mi porti notizie buone di quanto è successo oggi…

E, arrossendo vivamente, si tolse da lui, e salì le scale, un po' vergognosa di ciò che aveva detto; paurosa quasi che egli indovinasse…

Arrivata in casa sua, domandò subito a Gina, la quale le veniva incontro quasi correndo:

—Signora baronessa!—le disse quindi piano, appena furono sole—c'è una signora che è in sala, e l'aspetta, da più di un'ora.

—Una signora!—esclamò Clara, e il cuore le si strinse senza che sapesse perchè.—Chi è mai?

—Non ha voluto dirmi il suo nome; ma mi ha detto che la signora baronessa la conosce e che avrà piacere di vederla.

Sempre più stupita e palpitante, Clara entrò nella stanza, dove una signora sedeva, col viso rivolto alla finestra, e la nuca, una deliziosa nuca bionda, verso la porta. Al rumore la signora si volse, si alzò, venne incontro a Clara.

—Non mi riconosce più, cara baronessa?— disse la signora con un sorriso.

—Mi pare… non so più… perdoni—mormorò Clara.

—Sono la marchesa d'Avoli—disse la signora sorridendo.

—Ah!

—E' sola, cara baronessa?

—Sì, signora, sono sola.

—Allora parleremo…—disse Elisabetta— Ciò che ho da dirle, nessun altro deve udirlo. Si ricorda quand'è che ci vedemmo per la prima volta?

—Mi pare—disse Clara—alcuni anni fa… in casa di mia madre…

—Sì; lei era allora una ragazzina di quattordici o quindici anni… Io ero amica di sua madre, o almeno ci vedevamo abbastanza spesso… Lei è molto cambiata, molto—e la guardava fissa.

—Signora marchesa, ma la sua visita… disse Clara imbarazzata.

—Vengo da parte di Enrico Salvago—su surrò Elisabetta, chinandosi verso di lei.

Alle parole della marchesa, Clara si sentì gelare. Un presentimento di sventura l'assalse, un misterioso e confuso terrore. Che poteva dirle, quella donna, del suo Enrico, se non che egli era in pericolo, in fuga, o arrestato forse? E come mai egli aveva scelto quella messaggiera? Sarebbe forse una rivale? E considerò un momento con occhio geloso quella bellezza, appena sfiorita dagli anni.

Elisabetta lesse forse quei rapidi pensieri sulla fronte della giovane, e sorrise.

—Enrico Salvago è in salvo. Ve lo dico subito per tôrvi di pena. Ma ha corso un grave pericolo.

—Ah!—disse Clara, respirando penosamente!

—Vi spiegherò subito ciò che vi può parere strano in questa faccenda—continuò Elisabetta. —Io sono da molti, molti anni amica dei Salvago.

Clara fece un movimento di sorpresa.

—Ciò non deve stupirvi. Sono vecchia, sapete, e ho veduto i giorni terribili del ventuno, ho assistito a tragedie, ho sognato e sperato anch'io per l'Italia, e le speranze e i sogni di tanti si sono sciolti in lagrime e in sangue. Voi certo saprete qualche cosa della mia storia.

Clara fece un gesto vago. Sì, ella aveva, come tutti, udito narrare che Elisabetta d'Avoli era stata amata dal re, e poi abbandonata, quasi scacciata … ma che le importava ciò?

—Ebbi anch'io un sogno d'amore—disse Elisabetta—e lo vidi svanire … per sempre. Vi avranno forse detto male di me. I preti e i reazionarii mi hanno fatto una guerra terribile. Hanno vinto perchè mi alienarono il cuore del re. Ma io ho rinunciato, da molto tempo. Ora ho conservato, di tutto ciò che fu l'ideale e la fede del passato, solo più l'amore della patria, la speranza nei suoi destini. A questo fine lavoro, lavoriamo tutti. Dico questo a voi, perchè so che posso parlarvene.

—Sì—rispose Clara, commossa, vinta da quella grazia malinconica e brillante, da quegli occhi azzurri che parevano piangere e sorridere, da quelle parole, che suonavano così nobilmente. —Anch'io ho questo sogno, questa speranza.

—E' pure la speranza dei Salvago, lo sapete. Solo che il loro modo di vedere è diverso. Il padre vorrebbe raggiungere lo scopo di una Italia unita sotto la monarchia di Savoia, il figlio vorrebbe la repubblica. Poco importa. Il giorno in cui si trattasse della salute della patria, sarebbero uniti sotto la stessa bandiera … Dunque, non vi stupisca più la mia amicizia con Enrico. Ora può stupirvi il fatto ch'io sia venuta così, da voi, a parlarvi di lui …

—Sì, infatti …—balbettò Clara arrossendo.

—Sentite, figliuola mia, credete proprio che in una città come Torino, ai giorni nostri, date le nostre meschine e pettegole condizioni di vita, si possa ignorare a lungo una relazione affettuosa fra una donna come voi e un giovane come Salvago?

Clara si rizzò, pallidissima.

—Non spaventatevi, figliuola mia. Voi siete ingenua e inesperta. Non conoscete il mondo. Voi pensate che il mondo non abbia alcun diritto di penetrare nella vostra vita, di scandagliare il vostro cuore … Ebbene, il mondo se lo prende, questo diritto. Così il mondo ha indovinato, o saputo, che Enrico Salvago vi ama.

—Dio mio! ma allora! …—balbettò Clara.

—Oh, il mondo perdona facilmente, come facilmente accusa!—disse Elisabetta con malinconico sorriso.—Non vi crediate perduta per questo!

—Mio marito …—mormorò Clara.

—Chi sa! Forse vostro marito non sa nulla. Si danno di questi casi. Ad ogni modo, voi sarete prudente. Ma infine, volevo spiegarvi che io non ignoravo l'amore di Enrico per voi, e che lo stesso suo padre me ne ha parlato più di una volta.

—Come! il conte Salvago! …

—Sì. Non vi nascondo che egli avrebbe preferito vedere suo figlio sicuramente ammogliato, con una qualche buona cuginetta. I padri fanno sempre di questi sogni … Ma egli comprende tuttavia l'amore di Enrico, e lo scusa. Egli sa che voi siete una nobile e buona creatura …

Clara si nascose sospirando il volto fra le mani.

—Dunque—proseguì la marchesa—oggi, improvvisamente, stamattina, anzi, è venuto Enrico da me e mi ha chiesto di nasconderlo.

—Ma come?…

—Il complotto è stato sventato.

—Dio mio!

—Sì. Certo v'è stato un tradimento. Ma di chi? Non ne so nulla. A buon conto, la scorsa notte e stamattina sono stati messi al sicuro quasi tutti i principali cospiratori. Il conte Salvago si trovava dal Re, quando padre Marotti gli andò a portare questa nuova. Il conte riuscì ad avvertire il figlio e altri suoi amici, i quali, fortunatamente, non si trovavano questa notte alle case loro, ma in una soffitta, che la polizia fino ad oggi ignorava. Sono fuggiti tutti. Enrico, per consiglio di suo padre, è venuto da me. Ha fatto benissimo. Difficilmente penseranno a me. E poi, la polizia mi usa qualche riguardo. Oh, è cavalleria di Tosi, il quale forse pensa che io abbia ancora una segreta influenza sull'animo del Re … Basta. Che pensate voi che ora possa fare Enrico?

—Ah, stare nascosto. Evitare ogni pericolo! —esclamò Clara.

—Ascoltate. Questa è una burrasca troppo forte, prechè possa passare così. Vi sarà un processo. Marotti e Tosi, vale a dire i gesuiti e la polizia, saranno troppo felici di avere in mano un simile spauracchio, per sgomentare il re e staccarlo da ogni fantasia liberale. Essi gonfieranno la cosa. Faranno comparire il complotto come una terrible congiura contro il Re e contro lo Stato. Vi saranno condanne crudeli. Ammettiamo che non trovino Salvago, lo condanneranno in contumacia.

—Purtroppo è vero!

—Ebbene. Egli non potrà passare la sua vita nascosto in casa mia. Vi pare? E' dunque necessario che egli fugga.

—Ma dove?

—Fuori del Piemonte. In Francia o in Inghilterra.

—Oh Dio!

—E' crudelmente necessario. Dovete comprenderlo. Appunto di questo abbiamo discorso io e lui tutto il giorno, ed egli comprende che non si può fare diversamente.

—E' dunque deciso di partire!—esclamò dolorosamente Clara.

—No. E per questo appunto sono qui. Egli non vuole partire per non abbandonarvi. Preferisce perdersi, essere preso, condannato …

—Ah, no, no! che egli parta!

—Non partirà se voi non glielo direte.

—Ebbene… che ho da fare? … Volete che gli scriva?

—Sì … se non si potrà fare diversamente. Ma forse non basterà.

—E che potrei dunque fare?

—Egli vorrebbe vedervi.

—Vedermi! Oh, anch'io … Ma come?

—Non c'è che un solo mezzo, ma pericoloso per lui e per voi …

—Quale?

—Venite a vederlo, a casa mia …

—Ah—disse Clara febbrilmente. Per me non ho paure; sono disposta a tutto. Ma lui? Dite che è pericoloso per lui?…

—Si Se vostro marito lo sapesse? Vi seguisse?…

—Mio marito … è vero. Ah, ricordo che egli oggi non ritorna in casa! Non so quali riunioni ha, quali affari! Non viene nemmeno a pranzo!

—Potrebbe essere un tranello!

—Un tranello! … No, no. A che scopo? Egli non sa.…

—Avete persone di servizio fidate?

—Sì… cioè … V'è un servitore di mio marito che mi inspira qualche diffidenza …

—Comunque sia credete che la mia visita, oggi, possa avere stupito i servitori?

—No. Questo no. Vengono spesso signore, amiche a trovarmi. Chi può pensare? …

—E' vero. Non è probabile … Ebbene, credete che darebbe nell'occhio se usciste con me, nella mia carrozza?

—Io penso di no. Sono abituati a vedermi uscire, entrare con libertà.

—Bene. Allora venite. La mia carrozza ci portera in un paio d'ore a casa mia. Parlerete a Salvago; potreste pranzare con noi, se credete. Etornerete qui stasera. Sarà più prudente. Pensate che questo si possa fare?

—Sì—disse risolutamente Clara.

—Parlategli e persuadetelo per il suo meglio concluse Elisabetta.—Ancora una parola. Voi conoscere il conte Salvago?

—Suo padre? Sì, lo conosco; gli ho parlato qualche volta, in società …

—Ebbene, è assai probabile che egli venga stasera. Certo vorrà essere sicuro sul conto di suo figlio. Non sgomentatevi affatto, se viene. Io sono responsabile di tutto. E poi, lo sapete, è un gentiluomo.

Clara, alquanto turbata al pensiero di incontrarsi col padre del suo amante, chiamò la sua fida Gina, e mostrandole un viso più che poteva tranquillo:

—Gina—disse—io non pranzerò in casa. Tu mi aspetterai finchè io torno. Se venisse il barone … Ma non verrà … Se venisse gli dirai che sono da un'amica di mia madre … Hai inteso bene?

—Sì, signora baronessa.

Le due signore uscirono; Clara, con un'ansia che dominava appena, per il timore di incontrare nell'anticamera il servo sagrestano, del quale istintivamente diffidava. Se avesse pensato di mandarlo a fare qualche commissione, mentre ella usciva … Ma respirò subito. Lodovico non c'era nell'anticamera.

Salirono rapidamente in carrozza, ed entrambe si rincantucciarono nel fondo. La carrozza partì.

Allora un uomo, che era stato fino a quel momento immobile, dietro la tenda di un piccolo. Caffè, sull'angolo della via, fingendo di sorbire non so che bibita, si staccò dal suo nascondiglio, pagò rapidamente la consumazione, e uscì, dirigendosi frettolosamente per un vicolo poco frequentato, verso una casa che già conosciamo, poichè è quella abitata da Giulia, l'amante di Giovannino Vinchi, e l'amica del barone Neyroni.

Nella soffitta regnava il solito disordine, ma la tavola era apparecchiata per il desinare, il quale era, come al solito, servito dalla vecchia Ludra.

Intorno a quella tavola sedevano la Giulia, il barone Neyroni e il commissario Tosi, quando il buon Lodovico picchiò alla porta, e la Ludra aprì dietro un cenno della ragazza.

—Che c'è?—domandò il barone, con occhi avidi di curiosità. Egli sapeva che il buon servo non lo scomodava per poco.

Lodovico guardò la Ludra, con aria di dire: Questa potrebbe andarsene.

—Ludra! fila! Tornerai quando ti chiamo —le ordinò bruscamente il Tosi, e la Ludra filo rapidamente.

—Parla ora, Lodovico—incoraggiò amorevolmente il padrone.

Ma Lodovico guardò pure la Giulia con aria perplessa.

—La sarebbe bella che diceste fila! anche a me!—borbottò la ragazza di malumore.— Mi pare, signor bruttafaccia, che un po' di fiducia la merito—aggiunse guardando Lodovico.

Il servo sagrestano sorrise al complimento, e, rivolgendosi particolarmente al suo padrone:

—C'è—disse—che oggi, in casa, c'è venuta la marchesa d'Avoli.

—La marchesa d'Avoli!—esclamarono insieme, con somma meraviglia, i due uomini.

—Proprio—replicò Lodovico, dopo aver assaporato il suo primo trionfo oratorio.

—Ma tu la conosci bene? Era proprio lei?

—Altro che! Basta dire che, nel tempo dei tempi, quando la marchesa era ancora amica del Re, il quale allora non era ancora re, e non era sicuro di diventarlo, io facevo l'aiutante del portinaio nel palazzo che la marchesa abitava in via Dora Grossa.

—Ebbene? E che è venuta a fare? Hai sentito? chiese il barone.

—Non ho potuto udire nemmeno una parola. Quella Gina, signor barone, è molto pericolosa, molto pericolosa! Ella ha sempre fatto la guardia nella camera attigua.

—Bene. E che hai scoperto?

—La marchesa e la signora baronessa sono partite insieme.

—Partite insieme!

—Sì. In carrozza.

—Ah! Ma per dove?

—Non so.

—Scimunito! Dovevi scoprirlo!

—Come fare, signor barone? Se m'attaccavo dietro la carrozza, è giorno ancora, la gente mi avrebbe veduto. Se la seguivo con un'altra vettura, c'era pericolo di essere scorto dalle signore.

—Ha ragione—sentenziò il Tosi, che di quelle faccende se ne intendeva.

—Non sai altro?

—No, signor barone.

—Bene, torna a casa, vedi di far parlare la Gina. Vedi quando torna mia moglie, e vienmelo a dire.

Il fido servo se ne andò, e i tre, rimasti soli, stettero alquanto in silenzio.

—Qui c'è sotto la faccenda del contino— disse ad un tratto bruscamente la Giulia, e rise con sguaiataggine.

—Lo penso anch'io, ma tu non entrarci in questi affari—le rispose con aria dispettosa il parone.

—Oh, oh! il signorino sarebbe geloso?— disse ridendo la ragazza.

—La Giulia ha ragione—disse il Tosi.— La baronessa è certamente andata a trovare il conte Salvago, il figlio, s'intende.

—Ammettiamolo. Ma dove?

—In villa, da lei, per bacco! Ed ecco dove si trova il nostro uomo.

—Sì, può essere—disse il barone.

—Può essere! E' così, caro barone!

—Bene. Che volete fare?

—Arrestarlo! perbacco!

—Va bene. Anzi, ottimamente. Ma, è inteso. Nessuno scandalo per mia moglie.

—Le pare, barone? So il dover mio, e so quello che le ho promesso. La signora baronessa non c'entrerà per niente. E per arrestare il colombino, aspetteremo che la visitatrice se ne sia andata. Non vorrà mica passare là la notte!

—Poi?

—Poi?… Subito subito lo si spedisce ben impacchettato a Fenestrelle, e là si aspetta il processo.

—Siete un genio, Tosi.

—L'ho sempre pensato, signor barone.

—Purchè non sia anche Giovannino insieme a lui—disse la Giulia.

—Non è probabile.

—Ma se ci fosse?

—Se ci fosse … lo lasceremo scappare, è inteso —disse il Tosi, strizzando l'occhio al barone.

—Mi fido poco di voi due—disse la donna.

—Oh, oh, mi meraviglio! Una mia parola… —fece il Tosi, alzandosi.

—Ma non finite di mangiare?…

—Eh no! non ho più tempo. Finirò stanotte. —E, salutato in fretta il barone, senza neppure badare alla ragazza, se ne andò, con la sua tuba lustra ben piantata sul cocuzzolo; segno che le cose andavano bene, come dicevano gli studenti del caffè San Carlo, quando lo vedevano prendere la sua granita al caffè, al solito tavolo…

Il barone era rimasto pensieroso.

—Che hai? micino?—gli chiese la Giulia, facendogli una carezza al disopra del piatto, che ella divorava con buon appetito.

—Giulia, ragazza mia—disse egli—bada di non parlare ad anima viva di tutto questo. Sta attenta, Tosi non scherza, e non ci penserebbe su più che tanto a mandar te pure, bene impacchettata, a Fenestrelle, o più lontano… per esempio in Sardegna.

—Confessa, babbuccio mio, che tu hai rabbia ch'io sappia di tua moglie.

Per un momento gli occhi del barone si iniettarono di sangue; ma tornò subito mansueto.

—Sì, mi fa dispetto tutta questa storia,— disse—che la sappia tu o un altro.

—Credevi che tua moglie passerebbe la vita ad adorarti in imagine, come i santi?—disse sghignazzando la Giulia.

—Poco m'importa della sua adorazione— brontolò il barone.—E' una creatura fredda come il ghiaccio, che mi è sempre stata indifferente. E poi… siamo troppo diversi. Di lei non m'importa nulla. Solo mi secca di essere compromesso per causa sua. Se avesse avuto prudenza, se avesse voluto stringere amicizia con persone del nostro partito, devote, benpensanti, io avrei chiuso un occhio… e tutti e due. Ma andarsi a riscaldare la testa per uno scapestrato! an mettersi in mostra, compromettersi! Innamorarsi sul serio, come farebbe una collegiale! Questo non va più. La mia tolleranza cristiana deve avere un limite!

—Giulia rise più forte.

—Va là, va là—disse ella—con me non fare misteri. Ci conosciamo, eh! Basta, fra poco eccoti sbarazzato del Salvago. Ed ecco che, per mezzo tuo, il complotto è stato sventato. E a te che daranno in premio?

Il barone arrossì fortemente. Come mai quella ragazzaccia pensava, supponeva?… Ella indovinava dunque tutto?

—Ma sì! Non fare quel viso!—disse ella ridendo più forte.—So bene che tutto questo ha uno scopo. Ci saranno danari per te, vero?

Naturalmente egli non confessò che sperava molto, perchè i gesuiti gli avevano promesso di fargli vendere assai vantaggiosamente certi terreni nel Biellese, e il ministro di polizia di fargli avere importanti forniture nelle carceri… Si contentò di sorridere alla ragazza dicendole dolciastramente:

—Se ci sarà qualcosa per me, non mancherò dipensare a te, stella mia.

Intanto la carrozza della marchesa d'Avoli era arrivata alla villa e le due signore erano entrate in una stanza, dove un giovane, da molte ore, aspettava con febbrile impazienza.

—Clara!

—Enrico!

Prima di cadere nelle braccia uno dell'altro si volsero istintivamente.

La marchesa era sparita.

Allora si baciarono a lungo, disperatamente, avidamente, mescolando le ardenti lagrime.

Poi cominciarono gli appassionati discorsi.

—E' necessario che tu parta, lo so; devi partire—diceva Clara.

—E tu, amor mio? e tu?

—Io… io aspetterò.

—Ma che cosa?

—Che tu torni, che queste cose cambino…

—Oh, non possiamo sperare per ora! Questo infelice tentativo ha allontanato per molto tempo gli avvenimenti che forse prima erano possibili e vicini! Oh, quanto comprendo ora che abbiamo agito male! che bisognava saper aspettare. Ma è inutile rammaricarci di ciò che non si può mutare. Parliamo ora del presente, e di questo oscuro, incerto avvenire. Clara, vuoi tu fuggire con me?

—Con te? fuggire con te?—mormorò Clara smarrita.

—Perchè esiti, cuor mio? Non mi ami? Non ci amiamo? Perchè non lasceresti questa terra, tuo marito?… Noi andremmo insieme, lontano. E aspetteremmo, in un altro paese più libero, che venga il giorno in cui possiamo ritornare nella nostra patria infelice. Oh, se verrà il momento in cui bisognerà combattere per la santa causa, io tornerò allora a fare il mio dovere di italiano, e morrò oppure ritornerò a te, libero, a offrire pure a te la libertà. Vuoi dunque?

—Enrico! Se io esito è per te! Temo di rovinarti, temo di guastare per sempre il tuo avvenire, di compromettere la tua vita. Tu sei giovane! Vuoi legarti a me, che porto una odiosa catena, che solo la morte infrangerà?

—Questo mi dici, questo!—esclamò il giovane con passione.—Ah, Clara! tu non mi ami!

—Io! oh, Enrico mio!

—Se mi amassi, sapresti che io non ho al mondo altri che te, te e la patria; i miei due soli amori fin che vivo! Non è a me che devi pensare. Piuttosto considera se il tuo amore è abbastanza grande, per lasciare qui una posizione sicura, comoda, una vita brillante, per condividere i pericoli, la miseria dell'esule! Questo sì, questo mi fa tremare… Ed è meglio, è meglio che tu non parta con me!

—Enrico! Io sono pronta. Quando partiamo? Subito?

—Clara! grazie, amor mio!

Allora, dimentichi del pericolo presente, continuarono, tra carezze e sorrisi e lagrime, a parlare del delizioso avvenire che sognavano… Una vita unita per sempre, lontano di là, in un paese libero, in una casa dolce e sicura, dove potrebbero amarsi senza vergogna e senza paure…

—Io aspetto mio padre—disse il giovane infine—sono certo che verrà a momenti. Con lui combinerò ogni cosa per la mia fuga. Se non sarà necessario, non gli dirò che tu mi accompagni. Egli mi porterà del denaro, e mi consiglierà sul da farsi. Ad ogni modo, qualunque cosa accada, tu preparati. Possiamo partire domani, come fra una settimana. Tu starai pronta. Sii intanto prudente, anima mia. Che nessuno sospetti, sappia… Guardati da tutti. Non venire più qui. Aspetta un mio messaggio. Vorrà la marchesa incaricarsene? Non so. Ma ella è tanto buona! Ad ogni modo, non muoverti, solo tienti pronta a venire via il momento fissato. Ma… avrai coraggio, mia povera cara?

Ella prometteva di essere molto coraggiosa e molto cauta. E i discorsi, i propositi, i sogni, i baci ricominciavano.

Una voce li interruppe, li richiamò alla terra.

—Conte Enrico! Venite! Qui c'è vostro padre—diceva la marchesa. Ed Enrico, data ancora un'occhiata d'infinito amore a Clara, uscì dalla stanza.

—Lo avete persuaso?—chiese sorridendo la marchesa—Anche il conte è del mio parere. E' bene che Enrico si allontani per qualche tempo. Che questa tempesta passi. Nulla sappiamo di ciò che accadrà. Se il re sentirà il consiglio dei suoi amici, del Villamarina, del conte Zani, del conte Salvago egli non darà corso alla triste faccenda di oggi. Farà rilasciare gli arrestati, con una amnistia generosa, nella quale egli dichiarerà di scusare l'avventatezza della gioventù, oppure tacerà e lascierà che, dopo qualche giorno, tutti escano, alla spicciolata, di carcere, con qualche paternale del questore. Ma ci sono gli altri che lo consigliano male, e il re è debole, purtroppo…

—Quando dovrebbe egli partire?—chiese con voce tremante Clara.

—Figliuola!—disse ridendo la marchesa —perchè non mi domandate: Quando dovremo noi partire?

—Signora!—esclamò Clara confusa.

—Credete che non abbia capito?—continuò Elisabetta—Forse che avreste quegli occhi brillanti, se egli partisse solo? E poi, non era logico che egli vi offrisse di partire con lui? E non era logico che voi accettaste?

—Ah!—disse Clara, abbracciandola— Siete buona voi, e come mi capite!

—Mia cara, sono semplicemente una donna che ha amato… che ama. E ho forse torto di incoraggiare un amore, che, infine, non è… come a dire? legittimo? Ma non è affar mio questo. Voi volete fuggire insieme? Io non farò nulla per impedirvelo. Ma non farò nulla per aiutarvi.

—Ah, marchesa!

—Io aiuterò la fuga di Enrico. Quella sì, è faccenda politica, e son tenuta ad aiutarlo come italiana, come liberale… Il resto è affar vostro.

—E il conte, che dirà?—domandò Clara.

—Che volete che dica? Capirà subito, come no capito io. Mi ha già sgridata di esservi venuta a cercare. Anche lui darà a suo figlio i mezzi di mettersi in salvo; quanto a voi… Egli non vorrà sapere che partite anche voi.

Poco dopo entrò Enrico, con aria tra contenta e confusa.

—Che c'è?—domandò Clara ansante.

—Nulla, nulla, vi dirò io che cosa c' è— disse la marchesa.—Il conte Salvago è andato via, e non ha voluto stasera salutare la baronessa. E' vero?

—Sì—mormorò Enrico.

—Ebbene? che c'è di male? Io stessa l' ho consigliato a far così. Sarebbe stato imbarazzante per voi, Clara, e anche per Enrico. Più imbarazzante per il conte Salvago… e un pochino anche per me.

—E' vero—mormorò Clara come sollevata.

—E ora, figliuoli, venite a mangiare un boccone. A tavola combineremo tutto per la fuga di Enrico.

A tavola infatti stabilirono che Enrico sarebbe passato in Francia, partendo, se nessun pericolo si presentava, il giorno dopo. Egli sarebbe andato in carrozza fino a Genova, là si sarebbe imbarcato sopra un bastimento francese. Da Torino a Genova avrebbe viaggiato con altro nome, e come un commerciante che andasse per affari… Dopo il pranzo, assai, breve, la marchesa li lasciò ancora qualche minuto soli, perchè i due amanti combinassero anche la fuga di Clara; poi ritornò invitando Clara ad andarsene.

—Tornerete a Torino con un mio servitore, uomo assai fidato—le disse—e questo medesimo servitore verrà domani a portarvi notizie di Enrico.

Clara s'allontanò dall'amato col cuore pieno di felicità. Oramai aveva deciso il suo avvenire; oramai stava per gettare lungi da sè la vita di sforzi, di ipocrisie, di menzogne, alla quale era stata fino allora condannata. E nessuna cosa le faceva più paura, nè ella provava il minimo rimorso dell' azione che stava per compiere.

La marchesa ed Enrico l'accompagnarono con lo sguardo finchè la carrozza fu visibile; poi ritornarono in casa.

—Che avete dunque pensato di fare per Clara?—domandò Elisabetta, sedendo al piano, e sorridendo.—Via, confessatevi francamente.

Ma, prima che il giovine potesse rispondere, Lisa, la cameriera, si precipitò di corsa nella stanza, affannata, gridando:

—Signora marchesa! Ci sono degli uomini… Son guardie certamente… Domandano del conte Salvago!

La marchesa ed Enrico, che erano balzati in piedi, gettarono uno sguardo intorno, come per cercare il luogo dove sarebbe stata possibile una fuga. Ma già quattro uomini entravano nella sala, e altri due erano fermi, dinanzi alla porta che metteva negli appartamenti interni.

—Che nessuno esca!—gridò con voce stentorea il commissario Tosi, avanzandosi.

Allora Elisabetta ed Enrico si diedero una occhiata, nella quale pareva uno dicesse all'altra:

—Il momento è giunto!

E la marchesa si avvicinò al Tosi.

—Chi è lei? Che vuole qui?—domandò con tono altero.

—Signora marchesa!—rispose il Tosi, inchinandosi —Mi rincresce infinitamente di disturbarla a quest'ora. Ma noi veniamo a cercare il conte Enrico Salvago, che vedo qui, al suo fianco. Il conte Salvago voglia compiacersi di seguirmi. Ho qui fuori una carrozza. E toglieremo subito l'incomodo alla signora marchesa.

—Chi siete voi? E che volete dal conte Salvago, che io, d'altronde, non conosco?

—Sono il commissario di polizia Tosi, ho l'onore di conoscere la signora marchesa. E questo signore che è qui è veramente il conte Enrico Salvago.

—Signora marchesa—disse allora Enrico intervenendo.—Non datevi pena di parlare più oltre a questa gente. Sono il conte Salvago— proseguì volgendosi al Tosi—e so che voi siete un commissario di polizia. Che volete da me?

—Condurre il signor conte all'ufficio di pubblica sicurezza, perchè ho un mandato d'arresto contro di lui—ribattè il Tosi, furioso del tono altero e sprezzante del giovane.

—Bene, io verrò. Lasciate solo che vada a prendere un mantello e un cappello.

—Oh, il signor conte non s'incomodi! La signora marchesa, ne son certo, provvederà a questo—disse ironicamente il commissario.

—Va, Lisa, prendi la roba del signor conte —disse la marchesa alla cameriera—e lei stessa si avvicinò a stringere la mano a Enrico, susurrandogli piano:

—Non vi dico: coraggio! Non ne avete bisogno.

—Povera Clara!—mormorò il giovane, e gli occhi gli si inumidirono.

Lisa tornò portando cappello e mantello, e una valigietta, che il Tosi si affrettò a prendere.

—Quello è denaro mio—disse con collera il giovane—e non lo toccherete.

—A suo tempo le sarà restituita ogni cosa —disse burberamente il Tosi&emdash;Avanti!— comandò poi ai suoi uomini.

Questi si accostarono al giovane, e rapidamente gli posero le manette.

Egli tentò di dibattersi un momento, ma, vedendo la collera e la pietà di Elisabetta, che pareva volesse lanciarsi sugli sbirri, indignata, fremente, Enrico si calmò, e disse alla marchesa, con un sorriso:

—Siate calma, amica mia! Stasera è l'ora della violenza. Speriamo venga quella della giustizia. Elisabetta! grazie, amica mia!

La donna, presa da una invincibile commozione, gettò le due braccia al collo del giovane ammanettato, lo baciò sulle guancie, poi, fulminea, si chinò, e baciò le mani strette nei lacci.

—Che fate?—esclamò commosso il giovane.

—Bacio le vostre mani incatenate—disse lei con grande esaltazione—queste mani che soffrono per la causa d'Italia! Dio spezzerà questi legami!

Il Tosi, che non aveva osato impedire quegli atti, quelle parole, gridò allora:

—Avanti!—e gli sbirri trassero via Enrico, che si avviò a testa alta, con passo fermo e sonoro.

Era una serena notte di maggio, di quel medesimo anno 1847. Tutta la vallata che, salendo da Pinerolo va sempre più ripidamente montando verso Fenestrelle, era immersa in una dolce penombra perchè era una notte di novilunio, e solo le stelle scintillavano fiocamente nel cielo violaceo. Già ogni voce taceva negli scarsi campi sudati, dove l'agricoltore aveva con grande fatica e gelosa cura coltivato, tutto il giorno, la zolla avara… e nei prati erti sui pendii, dove era risuonato il campanello delle mandre, accompagnato dalla malinconica canzone dei pastori… Tutti gli umili alpigiani riposavano oramai nei loro tugurii di pietra, e la notte era profondamente silenziosa; solo qualche cane da pagliaio, col muso alle fessure dei chiusi, ululava pianamente, forse perchè udiva l'insolito rumore di una pesante carrozza da viaggio che saliva lungo la strada maestra, faticosamente tirata da due scarni cavalli.

A Perosa Argentina, piccolo borgo, allora ancora semiselvaggio, posto circa a metà del cammino la carrozza sostò un momento davanti a una catapecchia, che, con una frasca secca pendente da una finestra, aveva la pretesa di indicare la presenza di un albergo… Difatti, più sotto se le tenebre lo avessero permesso, si sarebbe potuto leggere:

Qui si logia a piedi e a cavalo.

Ma il cocchiere della misteriosa carrozza non aveva bisogno di leggere la scritta: egli pareva conoscere assai bene il luogo e l'albergo, perchè schioccò fortemente la sua frusta, e poi aspettò con pazienza per alcuni minuti, che la finestra donde pendeva la frasca si aprisse.

Una donna comparve, guardò giù, richiuse, senza chiedere nulla, e pochi momenti dopo, si aprì l'usciaccio dell'albergo, e un uomo, in maniche di camicia, si avvicinò alla carrozza e gettò un rapido colpo d'occhio nell'interno, dove nessuno si mosse.

—Cavalli—disse il cocchiere ruvidamente.

A quel laconico comando, l'uomo si mise in silenzio a staccare i due cavalli ansanti, quindi li condusse nell'interno d'un cortile, di dove veniva un muggire di vacche e un nitrire di equini.

Intanto nell'interno della carrozza avveniva questo breve dialogo fra due dei quattro uomini che vi erano seduti:

—Forse avremo il tempo di scendere un momento.

—Ci vogliono tre ore buone, se i cavalli sono buoni.

—Sì. Ora è l'una dopo la mezzanotte. Arriveremo all'alba.

—Sta bene. Il signor conte è stanco?

Una terza persona, che pareva assopita, rispose, senza aprire gli occhi.

—No.

—Pure, il signor conte può scendere se vuole. Noi abbiamo la sua parola d'onore. Ella può prendere alcuni minuti di riposo nell'albergo.

E senz'altro l'uomo che aveva parlato, e che non era altro che il nostro amico commissario Tosi, saltò giù dalla carrozza. Egli pareva più impaziente di tutti di sgranchire le sue gambe, da molte ore costrette a una posizione incomoda, e anche di rinvigorire i suoi sensi intorpiditi dal sonno mediante qualche bibita fortificante, perchè subito ordinò alla donna, che si era veduta alla finestra, e che ora si avanzava verso i viaggiatori, di preparare alcuni bicchieri di cognac.

Intanto gli altri tre erano pur scesi dalla carrozza. Due erano figure comuni, commissari di polizia o guardie travestite, il terzo era un giovine alto, di aspetto nobile, biondo, pallido, che non appariva triste, ma piuttosto indifferente, inerte, come se poco gli importasse tutta quella avventura.

Entrarono tutti in una stanzuccia a plan terreno, dove la donna aveva acceso un lume fumoso, e sedettero intorno alla tavola, sulla quale l'uomo andava disponendo bicchieri, acqua, e una bottiglia.

Il Tosi versò a tutti i suoi tre compagni, e ciascuno bevve in silenzio. Anche i due osti tacevano, ma la donna non cessava dal guardare il giovine dal nobile aspetto, che era così diverso dagli altri tre. Ella sapeva bene che colui era un prigioniero, e nel suo semplice cuore di montanara, avvezza al silenzio e all'obbedienza, lo compiangeva teneramente. Anche il giovine alzo per caso un momento gli occhi fino a lei, ed ebbe un momento di sorpresa; la guardò più intensamente, e una viva commozione gli scendeva al cuore… La giovane aveva un viso pallido e la chioma rossa, tanto che gli ricordava singolarmente un altro viso, più bello, sì, più nobile e fine, ma pallido pur come questo.

Egli sospirò profondamente, e chinò gli occhi.

—Andiamo?—chiese il Tosi alzandosi, dopo avere vuotato il suo terzo bicchierino di cognac. Tutti, lo seguirono, anche il giovane, ma sul l'uscio questi si voltò ancora e guardò la giovine donna, che pur lei non staccava il suo sguardo da lui. Egli le fece un saluto e un leggero sorriso, al quale ella rispose arrossendo vivamente.

I cavalli freschi scalpitavano, attaccati già alla carrozza, e i quattro viaggiatori risalirono. Il cocchiere schioccò la frusta, e il pesante veicolo riprese il suo cammino verso l'alto. La donna dell'albergo tornò in casa, e tornò nella sua stanzetta, quella, dalla cui finestra pendeva la frasca e da quella finestra seguì ancora a lungo con lo sguardo, finchè la scorse, la scura carrozza.

La notte, specie lassù, incominciava a farsi fredda, e i viaggiatori rabbrividivano nei loro mantelli. Solo il Tosi russava, riscaldato dal suo cognac: gli altri due sbirri chiacchieravano fra loro, il prigioniero, muto, con gli occhi chiusi, seguiva macchinalmente i loro discorsi, pure occupando il suo pensiero di ricordi lontani e dolci e di amare visioni dell'avvenire.

—Fa freddo come in dicembre.

—Tu non ci sei avvezzo, neh, ai monti?

—No, son di pianura. Vercelli, figurati.

—Fortuna che siamo nella buona stagione, altrimenti come faresti a resistere lassù?

—Io mi avvezzo facilmente.

—Una vitaccia la nostra, andare dove ci mandano.

—Eh! non c'è poi tanto male.

—Del resto… lassù quasi tutti signori.

—Proprio?

—Sicuro.

E si chinò verso il compagno sussurrandogli all'orecchio qualche nome, temendo che il giovane, che pareva addormentato, potesse udire.

—Ah, benissimo! E chi sa come li guarderanno bene!

—Oh si! Ma del resto, è impossibile scappare da Fenestrelle.

—Davvero? Pure, la Francia è vicina.

—Sì, ma queste sono prigioni eterne… Non si forano quei muri, oh, no!

—Che freddo!

—Io gelo. Fortunato il padrone che dorme.

—Di', vuoi sentire?

—Che mai?

—Io ho qui ancora un goccino di cognac. Lo vuoi?

—Come mai?

—Ci ho pensato a Pinerolo. M' immaginavo che avrei avuto freddo.

—Bravo, dà qui.

E l'uomo, afferrando la bottiglietta, la vuotò quasi tutta, d'un sorso.

—Oh, oh, non ce n'è quasi più!

—Non importa. Io non ne avevo bisogno.

Pochi minuti dopo un altro russava profondamente vicino al Tosi, e il terzo sbirro pareva dormire pur lui, immobile e muto.

Chi non dormiva era il prigioniero. I suoi tristi pensieri gli tenevano troppa compagnia, e gli torturavano il cuore. Dunque, lo conducevano a Fenestrelle, in attesa del processo.

Erano già passati quindici giorni dall'inutile tentatiyo che era costato caro a tanti generosi, e dal suo arresto. In quel frattempo era stato trattenuto nelle carceri di Torino, e interrogato più voite dal giudice. Naturalmente egli aveva negato sempre, tutto, tranne il fatto di essere un liberale e dl amare l'Italia. Aveva sofferto orribilmente in quei quindici giorni. Gli avevano dato una cella oscura e umida, gli avevano fin fatto patire la fame e la sete. E, tortura maggiore di tutte, non aveva più visto la faccia d'un parente o d'un amico.

Che era dunque accaduto? Egli non poteva dupitare di suo padre e di Clara. Nemmeno della marchesa d'Avoli poteva dubitare. E come mai nessuna notizia di loro gli giungeva? Possibile che al conte Salvago, all'amante di Carlo Alberto non fosse riuscito di penetrare sino a lui?

Il pensiero di Clara gli era particolarmente angoscioso. Che era stato di lei? Come aveva appreso la notizia del suo arresto? Ella stessa non si era forse compromessa con quella visita alla marchesa? Il marito non aveva scoperto qualcosa? A quell'ora ella forse soffriva pene d' inferno, nè egli poteva mandarle una parola di conforto.

E se il presente era doloroso, non era forse più minaccioso ancora l'avvenire? Che sarebbe di lui? Una condanna, certamente, lo aspettava. Ma quale? La morte?… Egli non la temeva per sè, ma Clara, la povera Clara? E una lunga prigionia non sarebbe ancora peggio? Forse egli era destinato a non uscire più da quella terribile Fenestrelle, le cui mura sarebbero forse la sua tomba. E mille ricordi spaventosi lo assalivano, di condannati seppelliti per sempre in un carcere, dimenticati a bella posta, per sempre, da tutti i viventi. Non era a Fenestrelle che era stato tenuto, fino alla morte, l' uomo dalla maschera di ferro, la cui storia misteriosa gli risaliva ora alla memoria, da non so quale racconto romanzesco, letto nei suoi anni di scuola?

Ad un tratto… sognava forse? si sentì lievemente toccare un ginocchio; egli non si mosse. Il tocco si ripetè, più forte. Enrico aprì gli occhi e vide che il suo custode dirimpetto lo guardava, e, tenendo un dito sul labbro gli faceva cenno di tacere. Che era ciò? Immobile il giovane continuò a fissarlo, senza capire. Allora il misterioso individuo si chinò verso di lui e gli sussurrò in tono quasi impercettibile.

—Sono un amico. Sperate e tacete.

Enrico spalancò di più gli occhi, guardando con profondo stupore colui che aveva parlato; ma questi, con gli occhi chiusi, impassibile, non si mosse più, nè diede più segno di vita.

—Io ho sognato—disse a sè stesso il Salvago —certo dormivo. E tentò di riprendere quel sonno che gli pareva di aver fatto, incoscientemente.

Pure il sogno singolare lo tormentava. Egli riapriva ogni tanto gli occhi, e fissava il suo strano compagno di viaggio, ma il viso di questi, un viso comune, un po' contadinesco, rimaneva muto e indecifrabile.

Nè mai, durante il resto del viaggio, il più piccolo cenno, il susurrio d'una sillaba, vennero a confermare il giovane prigioniero in quella speranza suscitata dalla sua strana allucinazione. Infine egli si persuase veramente d'avere dormito e sognato, e, verso le tre del mattino, si addormentò davvero, di un sonno profondo e continuo.

All'alba la carrozza si fermò dinanzi al villaggio di Fenestrelle, e i viaggiatori dovettero fare a piedi la ripida salita sino al forte. Il Salvago procedeva fra il Tosi e un altro commissario, con le mani libere, perchè, prima della partenza da Torino, gli avevano fatto dare la parola d'onore che non sarebbe fuggito…

—Vi dò la mia parola d'onore che se potrò, fuggirò—aveva risposto dapprima il giovine.

Ma il commissario Tosi aveva sorriso.

—S'intende. Da Fenestrelle, o da qualunque altra prigione dove potesse essere rinchiuso, permettiamo al signor conte di fuggire… A questo abbiamo da pensare noi. Le chiedo solo la parola d'onore di non tentare nessuna fuga durante Il viaggio, e fino a che ella non sia debitamente irregistrato negli uffici della prigione di Fenestrelle.

—E se non dessi la mia parola d' onore?

—Allora, con mio vivo dispiacere, sarei costretto di farla saldamente ammanettare e anche di farle mettere un ferro ai piedi. Il che sarebbe incomodo in tante ore di viaggio.

Allora il Salvago aveva data la sua parola d'onore, pensando melanconicamente che le fughe dalle granfie della polizia non esistono forse che nei romanzi…

Lo stesso pensava ancora guardando la formidabile fortezza grigia, coi suoi massi enormi sorgere impassibile e muta, feroce come il destino, sulla montagna; e un brivido gli corse per le ossa. Là dentro? Doveva proprio seppellire là dentro la sua gioventù, i suoi sogni, il suo amore? E istintivamente si volse a guardare quello dei suoi custodi, che gli pareva avesse parlato, durante la notte… L'uomo aveva un viso freddo e chiuso; non uno dei suoi muscoli trasalì…

Allora Enrico chinò lo sguardo, abbattuto, e si lasciò condurre. Ma quando passò quella soglia, guardata dalla sentinella col fucile carico, quando entrò nei cupi corridoi, dove i passi risuonavano lugubremente, il cuore del giovane si strinse in profonda tristezza, ed egli sentì i suoi occhi bagnarsi di lagrime.

Pure entrò con passo fermo e sguardo altero nella stanza, dove Io aspettavano quelli che dovevano prendere in consegna il prigioniero. Vi era un capitano d'artiglieria, un uomo di mezza età, dall'aspetto freddo e duro, e un cancelliere, pronto dinanzi ad un registro aperto.

L'uomo dall'aspetto severo, il direttore civile delle carceri, interrogò il prigioniero.

—Il vostro nome?

—Conte Enrico Salvago.

—La vostra età?

—Ventotto anni.

—Di che siete imputato?

—Non lo so.

Il direttore continuò ad interrogare il Tosi sul genere d'imputazione e altre circostanze dell'arresto e del processo. Il cancelliere scriveva. Enrico, per allontanare lo sguardo da tutti quei visi disgustosi, lo posò allora sul capitano, che era stato fino ad allora in silenzio, e subito lo riconobbe.

Era il capitano Fanti, che Enrico aveva veduto molte volte a Torino, e anche in casa sua, perchè il Fanti era amico di suo padre, e notoriamente di idee liberali. Quella vista lo rincorò, gli inondò l'anima di non so che folli speranze… Ma il viso del capitano era pure impassibile, nè egli diede punto segno di aver riconosciuto il prigioniero.

Enrico represse un primo moto di sdegno. Non lo sapeva? Il Fanti era militare, rigidamente ligio al suo dovere, egli stesso era un prigioniero che gli veniva dato in consegna… Ogni precedente rapporto era cessato fra loro. E, guardando il volto bello e austero del giovane capitano egli non sentì più nessuna collera, anzi quasi una ammirazione per quella lealtà così pura, che traspirava da ogni suo lineamento.

—Compirò io il doloroso dovere di condurre il conte Salvago alla sua camera—disse il Fanti, quando ogni formalità fu compiuta, e queste parole furono dette con cortesia, quasi con simpatia, benchè senza alcuna debolezza.

Fu un conforto per il Salvago. Il capitano Fanti, preceduto da un uomo, che era probabilmente un carceriere, guidò lungo i cupi corridoi il giovane conte, e, dinanzi ad un usciolino, nel fondo di una scaletta oscura, disse sorridendo:

—Questa sarà la vostra stanza, conte. Ho cercato la migliore… ma, naturalmente, non è una reggia. Del resto, credetelo, la mia non è molto più bella.

II carceriere avendo aperto, i due giovani entrarono.

Era una stanzetta quadrata, di forse otto piedi. Le pareti erano nude e grigie, il mobiglio era un lettino di ferro, dall'aspetto pulito, una specie di cassa per i vestiti, una sedia, un tavolino… V'era una sola e piccola finestra, piuttosto alta, ma non così che un uomo grande come il Salvago non vi si potesse affacciare stando ritto. Naturalmente essa era protetta da grandi inferriate, ma la luce della mattina entrava chiara e abbondante, insieme al profumo dei fiori alpini, e l'aspetto della stanza era squallido, ma non triste, paragonato specialmente alla lurida cella, abitata da Enrico nelle prigioni di Torino.

—Or ora vi si porterà la colazione—disse cortesemente il Fanti.—Avrete un cibo semplice, s'intende, ma spero non starete male. Ed ora una parola, conte Salvago. Noi ci conosciamo e ci stimiamo. Ma qua dentro i nostri rapporti sono mutati. Non pensate già che io faccia il carceriere… E' affare del direttore Bolletti. Io sono stato incaricato da Sua Maestà il Re di comandare la fortezza di Fenestrelle. Ho obbedito.. Anzi, vi dirò che ho obbedito con gioia. Desideravo vedere coi miei occhi certe cose, e, sapendo che qui sono ancora molti prigionieri politici, desideravo di addolcire le loro condizioni. Lo stesso farò anche per voi. Ma non altro, perchè il mio dovere mi è sacro. Non chiedetemi dunque nulla che il mio dovere non mi permetta di concedervi; e, per il resto, consideratemi come amico. Non disperate, il re è buono e ha buoni amici intorno a lui. Io spero che noi ci incontreremo ancora, che saremo vicini uno all'altro in luogo più lieto, e guarderemo insieme in faccia le belle speranze per le quali voi ora soffrite… Coraggio.

Quando Enrico fu solo, ed ebbe mangiato i cibi che gli erano stati recati, si stese sul suo lettino, affranto per la fatica del viaggio, e per le varie emozioni. Ma non era più triste, e benediceva Dio dal fondo del cuore, che aveva cosi singolarmente addolcito la sua sorte.

Da quel giorno la vita del prigioniero scorse monotona e uniforme, senza gravi sofferenze, fuorchè la noia delle ore oziose, la mancanza di libertà, e, più che tutto, la privazione delle notizie dei suoi, e specialmente di Clara. Egli non vide più il Fanti, ma ne risentiva ogni momento la benefica influenza. Gli furono portati dei libri, un Vangelo, una Divina Commedia, alcuni romanzi che furono per lui un grandissimo ristoro. Ogni giorno il carceriere lo veniva a prendere e conduceva in un grande cortile, dove gli era permesso di passeggiare due ore. Gli fu portata anche carta e penne e inchiostro, perchè potesse scrivere, ed egli ne approfittò largamente, per scrivere i suoi pensieri di politica, che erano divenuti assai più moderati in questi ultimi tempi. Domandò il permesso di scrivere a suo padre e gli fu concesso… Da quel momento scrisse tutti i giorni… ma mai gli giunse una parola di risposta, benchè il capitano Fanti, alle sue rimostranze, gli avesse mandato a dire che tutte le lettere erano state diligentemente recapitate.

Ebbe anche una lampada a petrolio, la sera e fu un favore speciale, concesso, veramente, a lui solo.

Allora Enrico distribuì le sue ore del giorno in modo da sentire meno la noia e la tristezza profonda. II mattino scriveva per tre ore, poi montava sopra la sedia e si metteva alla finestra, a guardare giù nella sottostante vallata, e su verso le gigantesche montagne. Era uno spettacolo di solitudine grandiosa, che non lo stancava mai, ed elevava il suo cuore verso Dio. Difatti, in quell'ora pregava, o almeno conversava con l'Onnipotente, aprendogli il suo cuore mortale e implorando da lui coraggio e pazienza. Nelle sue mani metteva pur le sorti d'Italia e della donna amata, che certo doveva soffrire tanto, lontana da lui…

Dopo il desinare leggeva fino all'ora della passeggiata. Nel cortile non c'era mai nessuno, altro che soldati di artiglieria, che passavano in fretta e silenziosi. Un giorno vide, presso ad una fontana, che era nel mezzo, un uomo intento ad attingere acqua, e gli parve un viso conosciuto.

Si avvicinò palpitante, e riconobbe l'uomo che era venuto in carrozza con lui, la notte del suo viaggio per Fenestrelle, e che egli sognava gli avesse parlato. Ma l'uomo aveva riempito la sua secchia, e, caricandosela sopra una spalla, si allontanò, senza dire una parola e senza mostrare di averlo riconosciuto. Allora Enrico si persuase ancora più del suo sogno, e le memorie di quella notte si confusero maggiormente nel suo cervello.

Una sera, dopo il tramonto, mentre egli stava alla finestra, tenendo in mano il Vangelo, e, recitando ad alta voce alcuni versetti, parendogli così di avere compagnia in sè stesso, udì con gioia e meraviglia un canto, assai vicino. Era una melodia popolare, un po' malinconica, che aveva udito tante volte a Torino! L'ascoltò con commozione profonda, come se fosse la voce di unamico, e, poichè la canzone aveva un ritornello, egli lo intonò:

«E se mi avrai dimenticato, pur dopo morto io t'amerò!»

Un silenzio successe a questo, silenzio pieno di palpiti. Poi una voce, quella medesima che aveva cantato, chiese in tono sommesso:

—Chi siete?

—Sono Enrico Salvago, prigioniero. E voi?

—O Salvago! Io sono Giovannino Vinchi.

—Vinchi! Da quanto tempo sei qui?

—Da otto giorni.

—Ed i compagni?

—Fummo condotti quassù in quattro: Serrati, Rosaia e Mameli.

—E Zani?

—E' a Torino.

—Libero?

—No. Prigioniero.

A questo punto si udì il rumore di un calcio di fucile battuto violentemente contro il muro, e la voce di una sentinella tuonò:

—Silenzio.

I due giovani tacquero. Ma continuavano entrambi a stare alle finestre, frementi, commossi, ansando forte, tanto che l'uno udiva il respiro dell'altro. Forse mai, nemmeno nelle dolci ansie d'amore, erano stati più teneramente sconvolti! Enrico Salvago era maggiore d'età, perchè Giovannino Vinchi era quasi un fanciullo ancora, e i loro rapporti erano stati solo quelli di un superiore di partito che trasmette gli ordini dei capi agli inferiori. E il Vinchi e gli altri amici avevano sempre avuto per il Salvago piuttosto un sentimento di soggezione e di stima profonda, che vero affetto. Ma il ritrovarsi in quel luogo, dopo tanti giorni di solitudine destò nei due giovani una commozione indicibile e un grandissimo, tenero amore.

La stessa sera ripresero il colloquio, molto a bassa voce, e la sentinella non li disturbò più. Il Vinchi raccontò la sua fuga dopo quella mattina; come era andato in campagna, presso una sua zia, come era rimasto alcuni giorni indisturbato, da lei, e come un giorno, andato imprudentemente a Torino, per vedere una certa persona, era stato riconosciuto e arrestato.

—Ah, Vinchi! Tu sei un fanciullo—disse ridendo Enrico.—Confessa che sei andato a Torino per vedere la Giulia.

—E' vero—disse il Vinchi.

—Ma come mai! Tu prendi la Giulia sul serio? Non sai che donna è?

—Sì, lo so benissimo.

—E perchè dunque compromettere la propria libertà per lei? Avresti dovuto essere più serio e prudente, ragazzo mio.

—Non sono stato a cercare la Giulia per amore.

—No: e perchè dunque?

—Perchè avevo dei sospetti.

—Quali sospetti?

Il Vinchi tacque.

—Mi hai udito, Vinchi? O non vuoi rispondere?

—Salvago! lasciami riflettere ancora stanotte.

Parlerò domani!—disse il Vinchi.

Il domani mattina, all'alba, entrambi erano già alla finestra.

—Buon giorno, Vinchi! Che bel cielo azzurro! Che nitide montagne! Che bella neve! Ah, essere lassù, essere liberi come quegli uccelli che passano ora! Potessi almeno vedere il tuo viso, caro Vinchi!

—Ascolta, Salvago. Ho pensato tutta la notte a quello che devo dirti. Voglio proprio sinceramente confessarmi a te, con tutto che so di meritare il tuo biasimo. Ma credi tu che possiamo parlare impunemente? Le sentinelle capiranno benissimo.

—E' probabile. Aspetta. Non conosci tu qualche lingua straniera?

—Un po' di francese.

—E' poco sicuro.

—Ah, ho studiato l'inglese, a scuola! Ma ne so così poco!

—Ebbene, io so l'inglese. Facciamo così. Quello che sarebbe compromettente diciamolo in inglese, e il resto in francese, o in italiano. Avrai anche studiato un po' di latino.

—Oh, sì! I preti me n'han fatto mangiare!

—Su dunque. Incomincia. Imbastisci insieme le varie lingue di cui disponi, e sfido qualunque di queste sentinelle a capirci.

Allora il Vinchi, in un ibrido zibaldone parlato, misto di ogni sorta di voci, comprese molte addirittura piemontesi (era la lingua che egli parlava più propriamente di tutte) espose ciò che da tanti giorni gli premeva il cuore.

—E' una confessione penosa—disse—e temo assai che possa farmi perdere la stima tua e dei compagni, se sapessero. Ma non posso vivere con questo rimorso. Tu sai le mie relazioni con la Giulia. No, non credere che l'amassi. Sapevo anche che era una ragazza leggera di costumi, ma la credevo buona. Era molto furba, me ne persuasi poi. Tanto furba che, non so come facessi, un po' alla volta le confidai parecchie cose.

—Oh, poveri noi!

—Sì. Non so più dirti quali arti adoperò. Aveva un'aria così bon enfant, un certo fare can. dido, persino un po' sciocco. Pensavo che ella non capisse neppur bene quello che le dicevo di repubblica, di patria, di monarchia. A casa sua venivano qualche volta anche gli altri amici, Serrati, Mameli, Rosaia. Tutti pensavano della Giulia come pensavo io, e non ci davamo più pensiero di lei. In sua presenza si discutevano pur cose importanti, si dicevano nomi, si fissavano appuntamenti. Ci pareva che la sua casa fosse un luogo sicuro, e che mai alla polizia verrebbe in testa di cercarci là. Là io tenevo pure alcune mie carte! …

—Imprudente!—mormorò Salvago.

—Sì, imprudente, pazzo, hai ragione. Ebbene, non ho mai sospettato nulla, fino a quell'ultima notte!

—Come mai?

—Ecco. Avevo detto alla Giulia che non sarei venuto quella sera, perchè avevo una riunione. Ella dunque non mi aspettava. Ma io la sera tardi, prima di recarmi da Serrati, in via delle Pietre, preso da una stupida, improvvisa tenerezza, passai dinanzi alla casa della Giulia, con l'idea di salire un momento, di vedere un viso di donna, prima di quella giornata che poteva essermi fatale. E, giunto dinanzi al portone, già chiuso, mi accorgo di aver dimenticato la chiave. Allora mi metto in un angolo ad aspettare se forse qualcuno entrasse o uscisse, lasciando aperto il portone, e pochi momenti dopo vedo uscire, sai chi? Tu devi conoscerlo certo.

—Chi mai?

—Il barone Neyroni!

—Il barone Neyroni!—esclamo Enrico, pieno di sorpresa, e come se quel nome lo avesse sferzato.

—Sì, lo riconobbi benissimo, e so che è amico del Tosi e dei preti. Io rimasi là fulminato. Quegli se ne andò frettoloso, e io, dopo essere stato qualche minuto incerto, venni pur via e andai alla nostra riunione, meditando sul fatto. L'idea di un tradimento mi passò per la mente; ma poi, che dirti? pensai che non era forse dalla Giulia che colui veniva. Nella stessa casa ci sono tanti altri inquilini… Non poteva essere che egli conoscesse la Giulia. Insomma mi acquetai con stupide scuse, e andai in via delle Pietre, dove, e qui l'errore è, più grave, non dissi nulla agli amici. Forse, se avessi parlato…

—Il tradimento è evidente—disse Salvago.

—Lo pensi proprio? Sì, in quei giorni passati presso mia zia, pensai tanto a tutte queste circostanze e conclusi… di andare dalla Giulia, e sapere da lei… dovesse anche costarmi la vita.

—Peggiore imprudenza!—disse Salvago.

—Hai ragione, e l'ho scontata. ma tu, dimmi, perderai ora la stima e la fiducia in me?

—No, amico, e mi rincresce di non potere stringerti la mano. Sei stato imprudente, ma ti comprendo e ti scuso.

Così parlando Salvago pensava che egli stesso aveva confidato a una donna i suoi segreti,… Ma poteva la sua Clara paragonarsi a una Giulia?

E respinse con orrore il pensiero.

Pure il suo amore per Clara gli faceva capire e scusare la leggerezza di quel fanciullo inesperto, cui una vilissima donna aveva così crudelmente tradito.

Mentre per il prigioniero di Fenestrelle, il tempo passava assai lento e monotono, i giorni non erano meno lunghi e dolorosi per coloro che lo amavano e che egli aveva lasciati a Torino, senza piu rivederli dopo la sera fatale del suo arresto.

La povera Clara, che era ritornata a casa tutta ebbra di speranze, esaltata nel pensiero di poter finalmente dedicare la sua vita all' uomo che amava, gettare via da sè la maschera odiosa, addolcire l'esilio del profugo amante, si era coricata finalmente, dopo avere fatto tutti i preparativi della sperata fuga. Aveva cioè raccolti i pochi gioielli che le appartenevano, come provenienti da casa sua, qualche po' di biancheria ed una veste, e aveva messo il tutto in una piccola valigia, facile a trasportarsi. Aveva bruciato carte e lettere, che serbava dell'amante, o ricordi intimi e pensieri scritti fin dai suoi anni di collegio. Coraggiosamente faceva il sacrificio del suo passato, pronta a cominciare un'altra vita, di coraggio e di fede. Poi aveva dormito tranquilla, come chi è sicuro del domani. E il domani…

Lottò con sè stessa se doveva o no comparire a colazione col marito; la vista di lui le era oramai insopportabile; ma poi, riflettendo che le era necessaria molta prudenza, si fece forza, e comparve, pallidissima, nella sala da pranzo, dove il barone seduto davanti alla tavola, apparecchiata, leggeva un libro devoto, sul quale era impresso lo stemma dei gesuiti: J. H. S.

All'entrare di sua moglie, egli chiuse tranquillamente il libro e si segnò; poi disse:

—Buon giorno, mia cara.

Ella rispose con un fil di voce:

—Buon giorno.

—Spero che il tuo male di testa sia passato. leri ho avuto un gran da fare, se no, avrei voluto andare a cercarti un po' d'acqua di Lourdes; è meravigliosa per i mali di testa.

Ella non rispose e spiegò la sua salvietta.

—Oggi sei ancora un po' pallida. Curati, cara mia. Del resto quest'anno ho già pensato… Appena tua madre andrà in campagna sarà bene che tu l'accompagni. Io difficilmente potrò muovermi, ma non è una ragione perchè io tenga sacrificata te…

Clara mormorò:

—Va bene—e si sforzò di mangiare.

—Avrai sentito un po' di chiasso ieri—continuò il barone.

Clara si sentì diventare più pallida.

—Brutto affare, e non sappiamo come terminerà. Per intanto sono tutti arrestati.

Il cuore di Clara palpitò più forte; ella guardò con ansia suo marito, che, tranquillamente, rompeva il guscio di un uovo à la coque.

—E gli altri li prenderanno tutti. Ciò che fa pena è di vedere fra gli arrestati giovani di distintissime famiglie… Ma! c'è poca religione; i giovani li abituano male, li lasciano bazzicare troppo, ed essi perdono il timor di Dio; è un vero peccato.

Continuarono a mangiare in silenzio. Ma il povero cuore di Clara martellava furiosamente, benchè ella ripetesse a sè stessa:—Non si tratta di lui, egli è in salvo.

—Stanotte hanno arrestato anche il Salvago. Lo hanno trovato in casa della marchesa d'Avoli. Un bel tipo anche quella lì. Adesso che il re non ne vuol più sapere, s'attacca all'uno e all'altro, e giovani li vuole! Basta! Sarà quello che Dio vuole.

Si segnò, si alzò e uscì rapidamente, senza guardare sua moglie. La quale, come colpita dal fulmine, rimase là senza moto e senza parola, finchè le si avvicinò la Gina, che, spaventata, le chiedeva che mai si sentisse.

Allora si alzò ed ebbe la forza di tornare nella sua camera, dove riuscì a piangere e a sfogare così alquanto l'affanno che la uccideva. Enrico arrestato! Doveva essere vero, altrimenti perchè suo marito lo avrebbe detto? E poi, quel particolare, che era stato arrestato in casa della marchesa… no, non poteva esservi dubbio. L'insinuazione maligna del barone, intorno ai rapporti tra la marchesa ed Enrico non la colpì affatto; ella aveva fiducia in Enrico; e poi, perchè allora egli avrebbe resa Elisabetta quasi complice dei suoi amori con lei, Clara? Ma ecco caduti tutti i progetti di fuga, ecco di nuovo l'avvenire più oscuro, più terribile che mai… Che poteva ora fare? Recarsi dalla marchesa… Ma la sua visita certo avrebbe dato nell'occhio; era tanto lontano! Andare dal padre di Enrico?… Non se ne sentiva il coraggio… e decise di aspettare se in quella giornata la marchesa trovava modo di mandarle qualche notizia…

Verso sera, Gina, la cameriera fidata, entrò nella sua stanza, e disse con aria misteriosa:

—Signora baronessa, adesso, mentre attraversavo la via dei Pellicciai, mi sono vista seguire da un individuo… nè bello nè brutto, nè giovane nè vecchio, che poteva parere un servitore, o una guardia di polizia…, o qualunque altra cosa. Credevo si trattasse di uno di quelli che si divertono ad annoiare per via le ragazze, e allungavo il passo, ma l'altro mi raggiunge e mi dice piano:—Bella ragazza, dite alla vostra padrona di andare a Vespro, in chiesa del Carmine.—Io mi volto, e l'altro si dilegua, senza più darmi una occhiata. Sono ancora tutta sossopra.

—Gina!—disse la baronessa, alzandosi febbrilmente —non parlare con nessuno di tutto questo, se mi vuoi bene! Con nessuno! Dammi subito il cappellino nero e la veletta.

In chiesa del Carmine, dove ella s'inginocchiò tutta tremante, un individuo si avvicinò a lei, e si inginocchiò nello stesso banco.

—Signora—le sussurrò—metta qui vicino a me il suo libro di preghiere.

Clara obbedì, e lo sconosciuto prese con noncuranza il libro, come se fosse il suo, lo aprì, lo tenne qualche momento fra le sue mani, poi lo, ricollocò sul banco, e se ne andò, senza dire una parola.

Clara riprese tremando il libro, e subito vide the dentro era una lettera. Se la mise in tasca, uscì da quella chiesa, vide una vettura cittadina vuota, che passava, vi montò, dando l'indirizzo di una via remota, e lesse la lettera.

Era della marchesa. Narrava in poche parole l'arresto di Enrico, e chiudeva dicendo:

«Non perdetevi di coraggio, abbiate fiducia in me. Io e suo padre e i suoi amici tutti vegliamo. Egli non corre nessun pericolo. Voi siate prudente, paziente e aspettate. Distruggete la lettera.»

Ella la ridusse in pezzettini minuscoli. La carrozza si era fermata a poca distanza dal Po; Clara ne discese, la licenziò, e, camminando lungo la riva deserta, gettò nell'acqua i pezzetti della lettera. Quindi, assai più racconsolata, prese un altra carrozza e tornò a casa, decisa di seguire i consigli della marchesa.

Questa, frattanto, non aveva perduto il suo tempo e aveva mandato fin dalla mattina un messaggio al conte Salvago, perchè egli andasse subito da lei. Così il padre aveva saputo dell'arresto di Enrico, e ne aveva provato un certo sgomento. Egli non aveva ancora parlato a nessuno, della carta che il re gli aveva dato, e che doveva servire a mettere in salvo suo figlio, nel caso lo si avesse voluto arrestare. Ora ne fece la confidenza alla marchesa, la quale, letta quella specie di salvacondotto: «Il conte Enrico Salvago abbia libero passaggio… Firmato: Carlo Alberto», disse:

—E' un foglio prezioso, ma non siamo ancora perfettamente sicuri. Eccovi il mio ragionamento. Voi conoscete il re. Il trambusto di ieri, rappresentatogli in modo particolare dal Solaro, dal Lazzeri e da padre Marotti lo avrà sconvolto. Notate che le ire di questa gente sono specialmente dirette contro di voi, che sanno amico e consigliere del re, e nemico loro. Essi tentano di colpirvi nella persona di vostro figlio. Ora… se essi hanno arrestato Enrico, il re lo saprà. senza dubbio. Allora, o egli si ricorda la promessa sua e gli obblighi verso di voi, e verrà da lui l'ordine di scarcerazione; o, influenzato da quei demoni battezzati, egli è pentito di avervi rilasciato quella carta, e allora a che vi servirà essa? Ammettiamo pure che voi riusciate a far mettere in libertà, momentaneamente, vostro figlio. Si farà l'istruzione del processo e lo si arresterà di nuovo, sotto gravi imputazioni. E allora il vostro talismano sarebbe sfatato.

—Avete ragione—disse Salvago—ma come fare? Lasciare Enrico nelle granfie della polizia è ancora peggio. Non ve lo lascierebbero scappare più. E aspettare la condanna… allora sarebbe irremissibilmente perduto.

—Sì. E noi non aspetteremo la condanna. Voi chiederete anzitutto una udienza al re.

—Ci avevo pensato.

—E saprete subito se la partita è vinta o perduta.

Il Salvago chiese l'udienza al Re… e non l'ottenne. Si rivolse al ministro Villamarina, e gli rispose che Sua Maestà era stanca delle emozioni degli ultimi giorni, e che ogni udienza era sospesa. Confidenzialmente poi lo avvertì che Carlo Alberto era irritato contro di lui, e che conveniva lasciar passare la burrasca.

Allora la marchesa ebbe un'idea:

—Noi abbiamo la carta di Carlo Alberto, c'è la sua firma, e deve avere un certo valore, malgrado tutte le disposizioni poliziesche. Ce ne serviremo a tempo e luogo. Aspettiamo intanto gli eventi. Può essere che il famoso processo si sciolga in un bicchier d'acqua. Se le cose si complicano, ricorreremo a mezzi eroici. Intanto interpelliamo il Ballotta.

—Perchè?

—Ho in mente che, se egli potesse entrare nella fortezza, cioè nelle carceri di sua maestà, il commissario Tosi, sarebbe bene per noi, che saremmo informati di ogni carta giuocata dai nostri nemici, e potremmo un giorno avere preparato il terreno.

—E credete che il Ballotta…

—Il Ballotta, è un uomo miracoloso, lasciate fare a me.

Il Ballotta, che in casa d'Avoli, faceva l'umile mestier del servitore, ed era una specie di fante misterioso, che si vedeva raramente, e scompariva spesso, che parlava poco, ma che accompagnava assai di frequente la marchesa nelle sue gite in città, compiendo pure l' ufficio di cocchiere, era in sostanza un affigliato alla Carboneria, devoto anima e corpo alla causa d' Italia, uomo intelligente probo, degno di lottare d'astuzia coi seguaci del Tosi e coi tricorni di padre Marotti. Egli fu dunque chiamato a consulto, e approvò l'idea della marchesa.

—La signora marchesa mi dia licenza, ed entrerò io nel campo nemico—disse egli sorridendo.

—Ma come farete?—chiese dubbioso il Salvago.

—Il signor conte ne lasci il pensiero a me —rispose con rispetto, ma con fermezza il Ballotta.

E la sera stessa si recò all' Osteria del Gambero d'Oro, la quale era posta in una di quelle vie della vecchia Torino, che gli antichi padroni di casa, poco amanti della linea retta, fabbricacavano storte e angolose, a seconda che le case venivano costruite più innanzi o più indietro, cercando di rubare un po' di sole alla vicina, e di godere l'ombra e un pacifico riparo. Quella via era particolarmente oscura, anche di giorno, in modo che doveva essere la passeggiata favorita degli ammalati agli occhi, e degli uomini di coscienza obliqua…

In una casuccia brutta e sudicia, al disopra di un ingresso buio, un'insegna, con sopra un gambero dorato, diceva abbastanza chiaramente:

ALL'OSTERIA DEL GAMBERO D'ORO
Buon vino e buon ristoro

L'osteria si componeva di parecchie stanze… o sale, come le chiamava pomposamente il padrone. La prima, la stanza d'ingresso, serviva di cucina e di cantina; ma era così oscura che pareva non avesse avuto luogo là dentro la separazione della luce dalle tenebre del caos.

Quando gli occhi si erano abituati a quell'oscurità si potevano scorgere sopra un tavolaccio, alla rinfusa, mazzi di cipolle e agli, acciughe e fette di salame, che, nel disordine di quel luogo, avendo già obbedito più volte alla forza di attrazione, non si erano separati senza lasciarsi un vicendevole ricordo. Ma chi mai badava se il salame aveva attaccate le pellicole delle cipolle e se queste fossero unte e variegate più che non comporti la oro natura? Certo gli avventori del luogo non erano gente così schifiltosa da badare alle piccolezze.

Sulle scansìe, all' intorno, erano messe in bell'ordine le bottiglie stup, destinate ai clienti più solvibili: barbèra, nebiolo, grignolino, che ostentavano le loro etichette bianche sul fondo scuro del luogo; sopra alcuni cavalletti erano le botti, chiudenti il vino ordinario da pasto, il quale non aveva altro difetto che di essere un po' troppo annacquato, o di sapere odor di legname… a quell'epoca non erano ancora divulgati i mezzi di trasformare il vetriolo in vino…

Le due sale erano ai lati della cucina, ed erano abbondantemente profumate di odore di soffritto, e affumicate… quando il fornello non tirava bene, cosa che accadeva nei giorni di scirocco. Sulla parete di ciascuna sala vi era la savia leggenda ammonitrice: Qui non si fuma e non si giuoca alla morra.

Un certo odore di pipa, che si mescolava agli altri odori, e certe grida e gesti sguaiati, che facevano assai spesso gli avventori, facevano supporre che quel saggio avviso restasse quasi sempre lettera morta.

Ma quali erano i clienti abituali di quella bettola? Essi variavano, secondo le ore del giorno. A mezzogiorno le stanze prendevano quasi un aspetto decente, benchè si riempissero di grida e di fumo; ma ai vari tavoli erano seduti gli studenti, ai quali il babbo, modesto vignaiuolo della collina, mandava cinquanta lire al mese, comprese le tasse; e qualche impiegato scapolo, che trovava comodo far pensione all' Osteria dei Gambero, per la modica somma di diciotto soldi al giorno. La mattina e nel pomeriggio l'osteria era quieta e silenziosa; appena vi entrava di tanto in tanto un cocchiere pubblico o un facchino, a bervi un bicchiere in fretta. La sera invece, il luogo si animava e si popolava di avventori, così singolari che non si sarebbe potuto distinguere bene se fossero ladri, manutengoli, confidenti di polizia o peggio. Probabilmente ve n'erano degli uni e degli altri, e così ben mescolati, che talvolta uno non sapeva quale di questi titoli onorifici meritasse il compagno della partita a tarocchi.

V'era anche l'elemento femminile, rappresentatoda poche donne di malaffare del rione, amiche dei confidenti e degli sbirri di quella sezione, così, per amore della pace e per comodità, si capisce…

Quando Ballotta entrò nell'osteria, quasi tutti gli avventori lo squadrarono di sotto in su; abitudine dei vari mestieri esercitati da quei signori… Ma il padrone gli andò incontro ossequioso. Era una vecchia pratica, che non compariva spesso là dentro, anzi spariva per settimane e per mesi, ma poi ritornava fedelmente, pagava volentieri da bere, non tirava sul conto, non provocava discussioni pericolose, non aveva mai nè data nè ricevuta una coltellata… Un avventore prezioso insomma. L'oste del Gambero sospettava bensì che egli fosse impiegato segretamente nella polizia, e che la servisse anzi negli affari politici; ma che gli importava ciò? Egli era un uomo discreto, che non metteva mai il suo naso nelle faccende altrui.

Anche degli altri avventori qualcuno riconobbe il Ballotta, il quale là dentro pareva avesse un altro nome, perchè uno, un grasso dal naso rosso, lo salutò così:

—O Sguercia! E che sei stato in cantina fino adesso?

Modo gentile per domandargli se usciva di prigione.

Lo Sguercia, dunque, andò a sedere sulla stessa panca del suo amicone, e domandò del vino.

—Del nebiolo, mi raccomando, ma buono.

Un terzo amico si avvicinò, riconoscendo la bottiglia e chi l'offriva.

Lo Sguercia empì subito il bicchiere al nuovo arrivato, e tornò ad empirlo, appena quello lo ebbe vuotato. Questo amico egli lo conosceva di lunga data: era uno sbirro travestito, che godeva la particolare e ben meritata fiducia del Tosi. Egli stesso si chiamava Borelli, soprannominato Biribin. Dalla tavola vicina altre vecchie e nuove conoscenze si rivolsero benignamente allo Sguercia, e la conversazione divenne generale. Vi era tra gli altri un tipo, conosciuto là dentro col nome di Segretario, che portava gli orecchini e i favoriti naturali; cosa che non si sarebbe potuta giurare di tutti gli altri, i quali spesso per la strada apparivano chiomati come tanti Re Franchi, o barbuti come Mosè, e la sera, all' osteria, erano rasi e lisci come canonici…

Il Segretario era un uomo sui quarantacinque anni, con faccia tosta e buone braccia, ed era il confidente di un commissario di polizia. Questo commissario era ammogliato, e siccome alla moglie piacevano le belle vesti alla moda, il marito faceva mettere in lotteria quelle che la signora non voleva più portare, e i biglietti erano venduti per forza, a qualcuna delle disgraziate del rione… L'incarico di questa vendita e un piccolo profitto sui biglietti toccava appunto al Segretario.. Ma quella sera egli faceva il cavaliere a due dame, di nostra conoscenza; la Ludra e la Giulia, le quali piuttosto che il nebiolo chiesero il barbèra, perchè non faceva male…

—Eh! fruttano i biglietti, Segretario?—domandò uno.

—Cane d'un mestiere! La commissaria ne ha sempre un magazzino addosso. Non finisce più.

Segretario! E' vera la storia del libro di Gioberti?

—Quale storia? Ah, che l'altra mattina entrarono per Porta Palazzo, sospesi in una botte vuota… E' vero.

—E chi li ha comprati?

—Eh, eh! la nota dei compratori l'ha la polizia a quest'ora.

Si rideva, si sghignazzava, mentre il Ballotta parlava piano col Biribin.

—Sono stufo. Finiti questi pochi non so più come andare avanti, e se voi mi voleste raccomandare.., La faccenda mi converrebbe. E ci sarebbe un regalo per voi. Ma non a fare il confidente, capite. Ci vuole troppa astuzia, e io non sono capace … Ma ho buone braccia. Fatemi lavorare dentro. Non sono nemmeno uno sciocco, mi conoscete.

—Parleremo, parleremo—rispondeva Biribin.

Erano le dieci e l'osteria si andava vuotando, perchè un'ordinanza di polizia imponeva la chiusura a quell'ora. Ma nessuno disturbò coloro che erano a quelle due tavole in fondo; e l'oste andò tranquillamente a chiudere la porta, e a barricare le finestre della strada, sicuro di non esser disturbato da nessuna ronda.

Nell'ultima sala rimasero le due donne, il Segretario, Biribin, lo Sguercia, e altri tre individui, assai conosciuti, specialmente da Biribin, perchè suoi degni colleghi.

—Hai saputo altro?—domandò Biribin a uno di questi.

—L'operaio Monetti legge libri francesi, l'ho visto comperarne dal libraio Tabuso—disse colui.

—Ah, bene!—disse Biribin, e si aprì l'abito per estrarne un taccuino, sul quale notava le importanti rivelazioni dei suoi soggetti; e nella furia venne fuori, insieme al libro, anche la medaglia con sopra il Sacro Cuore di Gesù, e la leggenda della Società sanfedistica. La baciò devotamente e la passò fra la pelle e la camicia, quindi scrisse il nome del pericoloso lettore di romanzi francesi.

—E tu, Sbaffo?—domandò Biribin all'altro compagno.

—La mia bella non mi ha parlato che di Pio IX—rispose colui, che pareva un burlone.

—La tua bella ne parla con tutti—disse la Ludra, e tutti risero.

—E non è solo quella—disse malinconicamente il Segretario—ma fanno tutte così.

—È vero—confermò Biribin—anche la mia venderebbe la sua veste per comperarsi un busto di Pio IX, e quando io le dico: Gioia bella, ella mi risponde sbadatamente: Che nuove abbiamo da Roma?

Una nuova e più sonora risata accolse questo aneddoto.

—La mia—disse il compagno dello Sbaffo —si è fatta promettere un foulard col ritratto di Pio IX.

—Le promesse bisogna tenerle—disse Biribin, e tirò fuori dalla tasca un involto, che conteneva un dozzina di foulards bianco-gialli, con in mezzo il ritratto del Papa.

Le due donne diedero un grido di ammirazione.

—A lei, tota, il più bello—disse galantemente Biribin, offrendolo a Giulia.—E anche a lei, madonna—e ne diede uno alla Ludra.

Gli altri li distribuì fra i compagni, senza dimenticare lo Sguercia, che pareva oramai entrato definitivamente nella nobile società.

—Dateli pure alle vostre belle, e metteteveli al collo voi, nelle occasioni. Non facciamo economia —disse Biribin.—La faccenda dell'altro giorno è andata benissimo, come se l'avessimo preparata noi. Andasse tutti i giorni così, e facessero una rivoluzione alla settimana!

E con questo patriottico augurio, vuotò il suo bicchiere.

Intanto le bottiglie si erano andate moltiplicando sulla tavola, e l'oste le portava con premura, sapendo che in quei giorni le tasche di quegli avventori erano piene; erano giorni di cuccagna per gli impiegati dell'ordine!

Ma le lingue intanto si snodavano, e lo Sguercia ebbe campo di fare parecchie riflessioni su quanto udiva, e andava imprimendo nella sua memoria persone e luoghi, che sentiva nominare, e che sarebbero preziose notizie per i frammasson e i carbonari.

—Purchè—disse a un tratto Giulia, eccitata da parecchi bicchieri del suo vino prediletto— purchè mi sia mantenuta la parola, e Giovannino sia a piede libero! Ne sapete nulla, Biribin?

—Uccel di bosco—rispose Biribin.

—Ma allora perchè non s'è più fatto vedere?

—Siete furba voi! Perchè ha paura di essere preso, si capisce.

—Badate, Biribin, e ditelo al Tosi, diteglielo liberamente, che se mi toccano Giovannino, io diventerò una furia. Ho fatto quel che ho fatto, perchè… si sa, perchè bisogna vivere, e quel barone è uno spilorcio! Ma il mio Giovannino non me l'hanno da toccare; o guai!

—Via, via, chi ve lo tocca?—rispose con riso sguaiato Biribin, e traendo un orologio d'argento, enorme:

—È tardi—disse—volete che andiamo?

Le parole erano più particolarmente rivolte allo Sguercia, che subito si alzò, dicendo:

—Ma prima voglio pagare la mia parte.

Si fece qualche cerimonia-protesta da parte di quei gentiluomini, ma poi si permise al generoso amico di pagare una metà del vino che la brigata aveva consumato sino allora.

Quindi Biribin e lo Sguercia uscirono lasciando il resto della compagnia a trincare allegramente; segno che, per quella notte, tutti quegli onorati signori, e quelle gentilissime dame erano liberi da qualunque altra occupazione.

Già l' estate era subentrata con fortissimi calori a quella fresca primavera, e si faceva sentire, snervante, sonnolenta, anche lassù a Fenestrelle, benchè i venti alpini ne mitigassero l' ardore. I giorni si succedevano ai giorni, senza portare alcuna novità ai prigionieri, salvo due interrogatorî sostenuti con giudici venuti appositamente da Torino… Ma gli stessi interrogatorî parevano fiacchi; gli stessi giudici svogliati, come se quel processo fosse destinato a perire prima di arrivare a maturazione…

Dopo il secondo interrogatorio, Enrico Salvago fece arditamente domanda al governatore di essere messo insieme a qualche altro detenuto, e con sua grande e gradita sorpresa, la stessa sera fu condotto in un' altra stanza più larga, nella quale trovò Giovannino Vinchi…

Caddero uno nelle braccia dell' altro, e piansero, con una indicibile commozione. Da quel giorno la vita dei due prigionieri parve loro più dolce, meno monotona.

Leggevano insieme, si comunicavano i loro pensieri, le nobili speranze per la patria, divennero fidenti come fratelli, e Enrico, per quel bisogno di espansione degli innamorati, confidò pure al suo giovane amico l'amor suo, pure senza dirgli il nome dell'amata… Solo l'incertezza dell' avvenire, l'ignoto del loro destino li teneva in pena, e dava loro febbrili, dolorose impazienze. Ma Giovannino, per età o per carattere, era più sereno dell'amico, e spesso il suo cuore giovanile si effondeva in risate, in scherzi che spianavano l'aggrondata fronte di Enrico. Anche li affliggeva il pensiero di non sapere nulla degli altri compagni arrestati. Ne avevano chiesto più volte al carceriere, ma questi si era stretto nelle spalle, e non aveva risposto.

Un giorno, mentre i due amici passeggiavano nel cortile, videro, con ineffabile gioia e meraviglia, altri due giovani venire incontro a loro… Bernardo Mameli e il Serrati!… Dio del cielo! Si erano appena riconosciuti che già uno stringeva l'altro, si baciavano, ridevano, piangevano, come pazzi.

—E Rosaia? E Zani?—furono le prime domande.

Di Zani non sapevano nulla, senonchè era stato arrestato a Torino, con Serrati, mentre erano nascosti in una cantina; Rosaia era malato, ma era lì, a Fenestrelle, con loro, e aveva per compagno di carcere il Serrati. Mameli era solo, ma in una cella vicina, e comunicava continuamente con gli amici. Come non si erano mai veduti prima? Perchè ciascuno, nei primi tempi, era stato fatto passeggiare in luoghi diversi. Ora, questa concessione, di ritrovarsi così tutti insieme, una volta. al giorno, non poteva essere che un buon segno e apriva l'animo alle speranze.

Tutti i giorni si rividero, e passeggiavano, e chiacchieravano indisturbati. Non si vedevano nè sentinelle, nè carcerieri, benchè si indovinassero dietro le porte formidabili… Ma insomma il contegno che si usava con loro era riguardoso e mite, e tutto lasciava presagire il meglio.

Un giorno, verso l' ora in cui era recata la colazione, nella stanza di Enrico e di Giovannino, invece del solito muto carceriere apparve un altro. Un viso conosciuto… quello stesso che era parso a Enrico gli avesse parlato, la notte del suo arrivo a Fenestrelle. Enrico lo guardò, tutto stupito e i certo, ma l' altro, richiudendo l'uscio, dopo avere deposto i piatti sulla tavola, disse sorridendo:

—Buon appetito, signori.

—Grazie—disse Enrico, fissandolo.

—Tornerò fra mezz'ora a riprendere i piatti —disse il nuovo carceriere; intanto se i signori vogliono distrarsi un poco, ecco qua le notizie recenti di Torino… e, con somma sorpresa dei due giovani, lasciò sulla tavola un foglio, e scomparve.

Enrico afferrò il foglio, e lo spiegò. Oh! meraviglia! Era la scrittura di suo padre! Egli baciò la carta con commozione immensa. La lettera gli diceva che mai, nessuno, lo aveva dimenticato, che egli avesse pazienza e prudenza, che tutto sarebbe finito bene.

«Benchè io sembri caduto in disgrazia del Re»—diceva la lettera—«perchè non riuscii mai ad essere ricevuto da lui, dopo la fatale giornata del maggio, pure le speranze si ridestano in tutti i cuori, e anche nel mio. Sappi dunque che ier l'altro, nel Congresso agrario tenutosi a Casale, e nel quale si parlò assai più di politica che di agricoltura, nel più forte della concitazione degli animi, giunse al conte di Castagneto una lettera del Re, e questa lettera— letta ad alta voce nell'assemblea—dice proprio così:»

«Vi scrivo due sole righe, perchè molte cose mi rimangono a fare. L'Austria ha comunicata una nota a tutte le potenze, in cui dichiara di voler ritenere Ferrara, credendo averne diritto. Al mio ritorno da Racconigi ho trovato gran folla davanti al mio palazzo, dimostrazione decentissima e senza grida. Se la Provvidenza ci manda la guerra della indipendenza d'Italia, io monterò a cavallo coi miei figli, alla testa del mio esercito…»

«Che bel giorno sarà quello in cui si potrà gridare: Alla guerra per l'indipendenza d'Italia!»

«E il Congresso, accolta con infiniti applausi la lettera, scrisse al Re:»

«Comandate, o Sire! non vi trattenga un pietoso pensiero dei vostri popoli: imponete! Vita ed averi non sono sacrifici per noi: si tratta di emancipazione e di indipendenza; si tratta del nome italiano; si tratta di essere o non essere».

Alla lettura di quella lettera i due amici folli di gioia, si abbracciarono singhiozzando e gridando: Viva l'Italia! Era forse la prima volta che quel grido risonava nella fortezza di Fenestrelle.

La lettera terminava dicendo:

«Abbi piena fiducia nell'uomo che ti consegnerà questa mia.»

—Non mi ero dunque ingannato!—esclamò Enrico—quell'uomo è veramente un amico; è uno dei nostri. Ma come mai si trovava fra gli sbirri, e ora qui, tra i carcerieri?

Quando, dopo mezz'ora, l'uomo ritornò, per togliere i piatti e gli avanzi del desinare, Enrico stendendogli la mano, e stringendo con forza quella di lui, gli disse:

—E ora, amico, diteci francamente chi siete. Come noi abbiamo piena fiducia in voi, così voi abbiatela nella nostra discrezione e nella nostra lealtà.

L'uomo aprì le braccia e fece un cenno misterioso, quindi riprese la mano di Enrico, poi quella di Giovannino, e stringendola loro in modo particolare, disse:

—Riconoscete da questo che sono un iniziato anch'io. Non ho nessun grado, e sono appena un umile strumento della grande idea. Sono, oltre a ciò, devoto servitore della marchesa d' Avoli. E' un debito di gratitudine. Io aveva un fratello che, nel fatale ventuno, fu condannato a morte; la marchesa ne ottenne la grazia. Da allora io entrai al suo servizio, unendo così in una sola devozione quella per la nostra cause e quella per la mia benefattrice. Non dubitate più di nulla, signori. Come vedete, si pensa a voi.

—Ma come avete potuto entrare nella polizia? —disse curioso Enrico.

Il Ballotta sorrise.

—Ho varii amici fra quella gente—disse. —Quando avvenne il vostro arresto io mi raccomandai a uno di loro, e fui accettato subito. La polizia di Torino non è delle più oculate, e poi, i tempi si fanno difficili, e il Tosi accetta volentieri nuove reclute nel suo battaglione.

—E voi siete in continua comunicazione con mio padre?—chiese Enrico, il quale avrebbe voluto sapere altro ancora.

—Sì, per mezzo della marchesa.

—Andate dunque qualche volta a Torino?

—No, dacchè son qui; non bisogna dare sospetto.

—Comunicate dunque per lettera? Ma avete dei messaggeri fidati?

Il Ballotta sorrise ancora.

—Non dovrei fare certe rivelazioni—disse —ma forse è bene sappiate quanta umile gente lavora con voi, allo stesso scopo. Avete notato sulla strada di Fenestrelle una piccola osteria?

—A Perosa?—chiese Enrico, ricordandosi.

—Sì. Vi ricordate la giovane dai capelli rossi, che vi servì da bere quella notte?

—Sì, perfettamente—disse Enrico, commosso al pensiero della rassomiglianza che vi aveva trovato con la sua Clara.

—Quella giovane, che è la figlia dell'albergatore, ci è devota—disse Ballotta—e per mezzo suo io ricevo le notizie da Torino e le mando.

—Potrei io scrivere alla marchesa?

Il Ballotta esitò:

—Io ho usato sin qui la massima prudenza —disse—e non vorrei… tuttavia, scrivete.

Enrico scrisse a suo padre e a Elisabetta. Ma se nella lettera a suo padre egli parlava specialmente delle speranze d'Italia, in quella a Elisabetta egli non parlò che di Clara. Supplicava la sua buona amica di andarla a vedere, di portarle sue nuove, di pregarla di aspettare fedelmente, di farle coraggio… Chiedeva con insistenza notizie, una parola almeno, che lo rassicurasse sulla sorte dell'amata.

La risposta giunse, e diceva:

«Siate parco di lettere, e siate fiducioso e tranquillo. Tutti qui lavoriamo per la santa causa… e per voi. Non dubitate mai. Vedo C. abbastanza spesso. Suo marito la lascia tranquilla, e, o non sappia, o non gliene importi, o sia sua politica mai le disse una parola di ciò che è avvenuto. Pare solo tutto occupato a combinare tenebrose mene coi gesuiti e la polizia, per allontanare il giorno in cui il regno dell' oscurantismo e della ipocrisia cadrà, travolgendoli nelle rovine. Ma il cammino della giustizia e della verità è fatale, e nessun cappellone di gesuita potrà smorzare il sole sull' orizzonte. Per tornare a C. vi dirò che ella viene talvolta da me; ci incontriamo a metà strada, per guadagnare tempo e chiacchieriamo tranquillamente in un prato, sul margine del bosco, come due scolarette in vacanza. E' una cara, una bell'anima! Qualche altra volta io vado a Torino, in una certa chiesa, dove ella, per combinazione, si trova sempre. E là, protette dalle ombre misteriose del santuario, non abbiamo alcuno scrupolo di parlare dell'Italia.. e di voi.»

«Vedete dunque che non siete dimenticato. Ma voi siate prudente… e aspettate.»

Questa lettera diede una gioia infinita al povero prigioniero, e d'allora, se la sua impazienza non era diminuita, certo fu almeno più dolce, più consolata.

Da suo padre ebbe una lettera qualche tempo dopo. Essa era meno confortante dell'altra. Diceva che Carlo Alberto, nonostante le sue magnifiche promesse, continuava a restare indeciso, anzi, pareva attraversasse un nuovo periodo di reazione… Egli era ricaduto in una mutezza assoluta, in una assoluta immobilità, in una insensibilità, che non si comprendeva se fosse vera o apparente.

«Quell'uomo è una Sfinge»—scriveva il conte Salvago—«un enigma vivente. Freddo osservatore, checchè si agiti nel profondo dell'animo suo, si è collocato in una di quelle posizioni neutrali, che irritano profondamente tutti i partiti; ma, lasciando tuttavia travedere a ciascuno la possibilità di propendere verso di esso, annulla momentaneamente ogni altro loro tentativo, e concentra la loro operosità nel desiderio di cattivarsi il potente, che, occupando tale posizione, si fa padrone della bilancia politica.»

«Ma tali posizioni, se possono essere utili per breve tempo, protratte a lungo sono funestissime e anche mortali. Quindi la gesuitaia ha ancora amplissimi motivi di sperare. Carlo Alberto non apparisce più così neutrale che il partito nero non possa scorgere in lui una tendenza, sia pure leggiera, a porsi nel partito della resistenza alle idee del secolo.»

Naturalmente tutte queste notizie venivano comunicate agli altri amici nel cortile, e i giovani se ne rallegravano, o se ne rattristavano insieme. Ma intanto nessuna notizia giungeva del loro processo. Certo, esso subiva le stesse fasi che le idee liberali subivano nell'animo di Carlo Alberto. Lo si teneva sospeso, non osavano giudicare apertamente e dare sentenze che sarebbero sembrate crudeli, e avrebbero esacerbato l'animo della moltitudine, e forse scosso il cuore del re. Non volevano tuttavia abbandonare quelle fila, che, nelle mani dei reazionarii, avrebbero potuto servire come utile esempio, come spauracchio della folla e del re, e come clamorosa prova di onnipotenza. Così si aspettava.

Un giorno il Ballotta diede ai due amici la notizia che il giovane Zani era stato condotto al confine, e consegnato, come suddito austriaco, ai gendarmi austriaci! La nuova fu accolta con urla di indignazione dai due giovani, e più tardi dagli altri, ai quali venne comunicata. Quale infamia! Povero Zani! Poi, per logica conseguenza, i cinque prigionieri cominciarono a pensare che anche la loro sorte non sarebbe stata tanto invidiabile. E aspettarono di giorno in giorno, peggiori notizie. Ma non seppero altro se non che il conte Zani, l'emigrato lombardo, amico del re, era pure stato invitato dal ministro di polizia a sgombrare il Piemonte, il che egli aveva fatto, riparando in Svizzera.

Intanto passò il settembre, e già i primi freddi si sentivano pungenti su quelle alture, quando, come un fulmine, giunse ai prigionieri la notizia che il 1.0 di ottobre era scoppiata una nuova dimostrazione repubblicana a Torino, che la cavalleria aveva caricato la folla, che molti erano i feriti, e anche i morti, specie donne e fanciulli.

Il conte Salvago ne scriveva a suo figlio:

«Visibilmente la polizia ha avuto mano in questa sanguinosa faccenda, aizzando gli animi, esagerando la dimostrazione, allo scopo evidente di spaventare il re e di allontanarlo dal partito delle Riforme. La folla dei dimostranti, riunita nuovamente in piazza San Carlo, fu chiusa ad ogni sbocco di strada da picchetti di cavalleria, che la caricavano facilmente facendone strage; e non solo quel giorno, ma anche per parecchie sere consecutive. Perchè i torinesi, scossi finalmente dalla loro quietudine, indignati e frementi, uscivano la sera dalle loro case, e convenivano in folla tumultuosa nelle vie di Porta Nuova, in piazza San Carlo, e fino in piazza Castello, sotto le finestre del re! Inutilmente gli arcieri, quelle ignobili guardie raccolte tra la feccia di ogni popolo italiano, e le guardie di Genova, altra sozza specie di sbirri, dei quali io spero un giorno il popolo farà giustizia a sassate, intimavano ad ogni gruppo composto di più… di una persona di sciogliersi e di ritirarsi, secondo quel vecchio regolamento, rimesso ora in vigore, per cui, dopo le 9 di sera, la Forza deve sciogliere ogni riunione! La gente disobbediva, e si raccoglieva urlando che voleva giustizia!… E la giustizia arrivava in forma di colpi di baionetta e di palle di fucile! Sono innumerevoli gli arresti fatti! I sotterranei di Palazzo Madama pullulano di prigionieri, i quali verranno inviati chi sa dove; molti certo a Fenestrelle, e molti a Cagliari. Sulla piazza vennero trovati alcuni pugnali, che portavano sulla lama incisa la scritta:»

W. la Repubblica—Morte ai tiranni.

«Ma io credo che sia tutta una trama, montata per smuovere l'animo del Re, e indurlo a una severità eccessiva. E' probabile che dopo tutti questi fatti, le cose peggiorino anche per te e i tuoi amici. Forse si farà un processo solo nel quale sarete tutti compresi. Non ti sgomentare tuttavia e ricordati che io veglio su di te.»

Pochi giorni dopo le conseguenze annunziate da questa lettera cominciarono a farsi sentire per i giovani prigionieri. Improvvisamente il Ballotta comunicò loro che era proibita, per un tempo indeterminato, la solita passeggiata nel cortile, ed egli stesso raccomandò loro la massima prudenza.

—La notte scorsa sono giunti altri dodici prigionieri, e altri ne giungeranno ancora, stanotte, —disse il Ballotta.—Il capitano Fanti è stanco di comandare la fortezza, perchè egli dice che non vuol fare il carceriere, e pare che tutti i suoi tentativi di riforma, qui dentro, siano naufragati contro la cattiva volontà del direttore. Egli ha chiesto al re di esser comandato altrove. Finora non gli è giunta alcuna risposta, ma è probabile che egli otterrà quello che chiede; sia perchè il re lo ama, e gli concede ciò che vuole, sia perchè lo stesso direttore domanderà un comandante più energico, ovverosia più crudele. E' anche bene che il Fanti sia a Torino, presso il Re, perchè egli lo consiglia saggiamente e generosamente. C'è intanto un progetto per lor signori. Ma per ora non c'è nulla da fare, fuorchè tacere ed aspettare con pazienza.

Qualche tempo dopo le passeggiate nel cortile ricominciarono, ma gli altri tre giovani non vi erano più. Il Ballotta disse che essi venivano condotti in altra parte della fortezza.

Allora vi furono giorni tristi per i due giovani. Il tempo si faceva freddo e la loro stanza era gelata. La notte non avevano per coprirsi che un coltroncino sottile, ed erano costretti a coricarsi vestiti e tenersi ben vicini per riscaldarsi un poco. Le giornate erano brevi, lunghi e tristi i crepuscoli. Da molto tempo nessun canto di pastorella, nessun suono giungeva da fuori, dopo che gli ultimi malinconici squilli dei campanelli delle mandre ritornanti alla pianura si erano spenti sulle alture.

Invano chiesero del fuoco e una coperta. La Direzione rispose che era contro il regolamento e il Ballotta raccontò che il Fanti, indignato, aveva minacciato il Direttore di farlo destituire, ma questi non aveva ceduto alle minaccie; certo perchè il vento che soffiava da Torino gli era favorevole.

Così passò tutto ottobre, quando una mattina, d'improvviso, entrò nella stanza il Ballotta col viso raggiante. Chiusa la porta, egli trasse dalla tasca un pacchetto di stampe e manoscritti. Una era la Gazzetta Piemontese, giornale ufficiale del Piemonte. Il resto era una lunga lettera del conte Salvago.

La Gazzetta portava l'elenco delle Riforme che Carlo Alberto concedeva ai suoi popoli di Piemonte e Sardegna; in armonia dei voti e delle aspirazioni comuni.

La sanzione del Codice di procedura penale, con la difesa orale e la pubblicità delle discussioni. La soppressione di ogni giurisdizione eccezionale. L'abolizione di ogni privilegio di fôro civile, anche per il regio patrimonio.

La creazione della Corte di Cassazione, per l'unità della giurisdizione di tutto il regno. Miglioramento dei regolamenti di polizia. Ordinamento municipale e provinciale. Creazione dei registri dello Stato civile, indipendenti dalle autorità ecclesiastiche. Mitigazione dei rigori della censura sulle stampe.

Muti di commozione, i due amici si strinsero le mani.

—Vedo la Stella d'Italia spuntare!—disse Giovannino Vinchi con tono inspirato.—E quell'enfasi non fece sorridere nessuno, tanto rispondeva al convincimento dei cuori.

—Dunque finalmente—commentò il Ballotta —cesserà quell' infamia che era l' uditorato di Corte, per cui un nobile, citato davanti alla giudicatura e alla prefettura se la rideva, e comparendo davanti a quel tribunale, composto di nobili come lui, egli non era mai condannato. O, se per caso straordinario, lo fosse stato, usciva tosto un decreto regio, che inibiva ogni molestia, e ordinava ai creditori di non toccargli nè interessi nè capitali per dieci e anche per vent'anni. Ora i nobili andranno davanti allo stesso giudice dei plebei, e subiranno la stessa giustizia. Oh, perdoni, signor conte, dimenticavo che parlavo con un…

—Con un nobile, volete dire? Ma se io nacqui nobile, credete che non comprenda la giustizia e non è in nome della giustizia che lotto … con voi?—disse con slancio il Salvago.—Oh, quante volte ho dovuto fremere di rabbia, assistendo ad atti di orribili iniquità! Ricordo il caso di quei due conti che ammazzarono i loro servitori, e andarono gloriosamente impuniti, mentre s' incarcera per nulla un povero bracciante! Ah, non si direbbe che ci sia stato l'89 e la proclamazione dei diritti dell' uomo, e che tutta la sacrosanta bufera della rivoluzione francese sia passata su questo vecchio Piemonte! E se uno spiritoso touriste potè dire che Torino sarà la città nella quale si celebrerà l' ultima messa, io credo che si possa aggiungere che Torino sarà pure la città nella quale si vedrà l'ultima livrea!

La lettera del conte Salvago portava pur altre speranze per l' Italia e per i prigionieri, e diceva:

«Ora forse possiamo dire che il più grosso boccone è inghiottito. Ieri sera il Re ha pure sottoscritto il decreto d'emancipazione degli Ebrei e degli Acattolici. I gesuiti sono costernati, e si affrettano a vendere più che possono, e a tesoreggiare i capitali in cedole austriache, perchè sanno che al decreto di emancipazione degli Ebrei e dei Protestanti tien sempre dietro quello della loro espulsione. Così avvenne in Portogallo sotto Pombal, in Spagna sotto d'Aranda, a Napoli sotto Tanucci…»

Tutti questi decreti, che distruggono antichissimi abusi, sono accolti con gioia indicibile, non solo in Piemonte, ma in tutte le provincie d'Italia, che sperano verrà pur loro concesso un giorno di godere questi benefici del civile progresso.

Sono inenarrabili le feste e i tripudi a cui si abbandonò Torino la sera del 31 ottobre, giorno della pubblicazione delle acclamate riforme; e in quella del tre novembre, vigilia del giorno onomastico del sovrano. Carlo Alberto, aggirandosi per le vie affollate di Torino, senza guardie, e coi soli suoi due figli al fianco, potè vedere e comprendere quanto tesoro di affetto ha per lui il popolo piemontese.

Buon popolo! Esso ha già dimenticato diciotto anni di ingiustizie, d'abusi, di prepotenze, ed è pazzo di gioia perchè finalmente può gridare per le strade di Torino: «Viva il Re! Viva le riforme!» senza andare a finire tra le unghie dell'odiato Tosi.

Il 4 novembre Carlo Alberto passò per Genova, sotto una vôlta di duemila bandiere nazio nali, coperto da un nembo di fiori, fra gli applausi e le grida festose di una moltitudine immensa. Il suo viaggio fu un vero trionfo. Alle porte di Genova il popolo accalcato lo accoglieva gridando:

—Viva il principe riformatore!

Nelle vie della città un uomo, un operaio gridò ad altissima voce:

—Re Carlo Alberto, passa il Ticino e tutti ti seguiremo!

E fragorosi applausi fecero eco alle ardite parole.

«E da Napoli, da Roma, da Firenze, da Palermo, da Venezia giungono le nuove dell' entusiasmo popolare. Re Carlo Alberto è sulle labbra e nel cuore di tutti. Possa egli comprendere questo sacro momento e farlo suo!»

Ma passarono giorni e settimane, e nessun altro risultato si vedeva di quelle speranze, che così vivamente erano sorte.

La prigionia dei giovani continuava, sempre monotona e più cruda per l' incrudire della stagione. Nessuna nuova del processo. L'impazienza cominciava oramai col divenire rabbia: tutti erano esasperati, furibondi, e giurarono di finire oramai quell'insopportabile stato di cose. Di tanto in tanto giungevano notizie del difuori, portate dal fedele Ballotta.

—Il 14 dicembre è insorta Napoli—disse egli un giorno;—in via Toledo una folla immensa ha gridato: Viva il Re! Viva le riforme! Birri e gendarmi hanno assalito la moltitudine e ne è seguita una zuffa sanguinosa. Re Ferdinando è furibondo; egli fa percorrere le vie e le piazze dalle sue artiglierie e fa incarcerare i cittadini in massa.

«L' altro ieri è morta Maria Luisa di Parma, la piccola vedova del grande Napoleone. Secondo i trattati, lo Stato dovea passare a Carlo Lodovico di Borbone, già duca di Lucca. Un gran numero di cittadini invece si è radunato, ha dichiarato cessati i poteri del ministero, e ha dato il governo provvisorio della città al conte Cantelli, e agli altri uomini principali. Ma i ministri han fatto prendere le armi ai soldati, e in nome del nuovo signore, atterrate le porte del palazzo municipale, ne scacciarono i magistrati.»

Questi protestarono e diressero al duca Carlo Lodovico una petizione, da essi sottoscritta e da buon numero di cittadini di Parma, Piacenza e Guastalla, nella quale si chiedono istituzioni conformi allo spirito del tempo. Ma il novello duca non pare tenga nessun conto della domanda, perchè ha già confermato nell'ufficio gli odiati ministri, e gli usseri austriaci sono entrati in Parma con le artiglierie, col pretesto di scortare il cadavere della duchessa che dovrà essere sepolta a Vienna!»

Risero amaramente i giovani, e fremettero, poi Enrico si decise e scrisse a suo padre che quella inerzia lo uccideva, che egli voleva uscire a qualunque costo, che sarebbe fuggito se non v' era altro mezzo.

Il conte Salvago rispose:

«Il processo va innanzi attivamente. Si preparano gran novità. Tienti pronto per ogni avvenimento.»

Sul finire del giorno 28 dicembre, in uno di quei crepuscoli lenti e freddi, che avvolgono come una funebre nebbia le alture di Fenestrelle, due uomini a cavallo si fermavano davanti alla fortezza e chiedevano di essere introdotti presso il governatore. Lo furono, e uno dei due presentò allora una carta, chiedendo che il conte Enrico Salvago fosse, a tenore della medesima, immediatamente liberato e consegnato a lui, suo padre.

Il governatore voltò e rivoltò il foglio. Certo quello era il sigillo del re, quella era la firma autentica di Carlo Alberto, anzi anche le poche parole che la carta conteneva erano di pugno del re. Ma il governatore era uomo scrupoloso, e non si convinse.

—Signor conte—disse—io non posso lasciar libero il prigioniero dietro questa semplice carta.

—Come!—esclamò il conte—si rifiuterebbe ella di obbedire agli ordini del re?

—No, certo. Gli ordini del re mi sono sacri. Ma questa carta non è abbastanza esplicita e non rassicura abbastanza la mia coscienza.

—Voglia ella spiegarmene il perchè.

—Per molti motivi, signor conte, che non è necessario io esponga a lei.

Signor governatore! Badi a quello che fa!

—Io non faccio che il mio dovere, signor conte.

—Ebbene, io me ne appello al capitano Fanti, che comanda questa fortezza. Chiedo di essere ammesso alla presenza del capitano.

—Il signor capitano ha cessato di comandare la fortezza. Egli è già stato richiamato a Torino.

—La cosa non è esatta, signor governatore! Il capitano Fanti cesserà a mezzanotte di prestare servizio nel forte. Fino allora egli comanda ancora militarmente qua dentro.

Il governatore, furioso e stupìto che il Salvago fosse così precisamente informato, e, venendogli perciò il dubbio che veramente il re lo avesse mandato, fece pregare il capitano Fanti di passare da lui.

Il Fanti salutò cortesemente il conte, un po'meravigliato di vederlo là, e la famigliarità dei due gentiluomini rese ancora più perplesso il governatore.

—Signor capitano … si tratta di un caso assai dubbio. Il signor conte Salvago ha qui una carta di Sua Maestà, una specie di salvacondotto. La prego di prenderne atto.

—Caso dubbio?—disse il Fanti, esaminando la carta—mi pare non ci sia dubbio di sorta; l'ordine è molto chiaro.

—Molto chiaro? Le faccio osservare che esso è in opposizione all'ordine che abbiamo ricevuto oggi di rimandare i nostri prigionieri a Torino, compreso il Salvago, che è notato in capolista.

—Non c'è contraddizione—disse il Fanti, con quella signorile ironia che usava talvolta con le persone che non poteva soffrire—perchè è probabile che anche il conte Salvago voglia ricondurre suo figlio a Torino.

—Mi permetto di farle notare che la carta non dice già di liberare un uomo che sia già prigioniero, ma di lasciare un libero passaggio. La cosa è sostanzialmente diversa.

—La cosa è sostanzialmente la stessa, signor governatore! Libero passaggio! dice il foglio. Ora, libero, non vuol dire prigioniero, quindi non vuol dire chiuso in una cella, nè ammanettato, come avete dato ordine vengano condotti i prigionieri.

—Ancora una cosa!—esclamò trionfalmente il governatore, che nel frattempo aveva esaminato più attentamente la carta—questo foglio non porta alcuna data. Chi può dirmi che esso non sia stato scritto anni fa?

—Anzi—disse il Fanti—il suo valore è tanto maggiore. Vuol dire che Sua Maestà, scrivendolo, intendeva potesse valere, per quando il conte ne avesse bisogno! Non è supponibile che Sua Maestà abbia dimenticato la data! Egli l'ha omessa volontariamente.

—Capitano Fanti—disse esasperato il governatore —io non mi prenderò simile responsabilità.

—Me la prenderò io.

—Ma ella cessa di comandare il forte! E quindi la responsabilità è tutta mia!

—Il mio comando cessa a mezzanotte, e fino allora sono io responsabile dei miei atti.

—Ma aspettiamo almeno il tempo di mandare un dispaccio a Torino! Domattina, se la risposta è favorevole, il prigioniero sarà libero.

—No, no, signor governatore. Lasci a me il piacere di terminare il mio comando quassù con un atto che mi riempie di soddisfazione. Perchè aspettare domani? Se mandiamo a chiedere tante spiegazioni possiamo dar agio a dubbi anche al generoso cuore del re. Quando i sovrani sono mossi da un nobile impulso, esso va subito secondato, non ostacolato.

—Vede dunque che anche lei dubita che il re possa essere pentito di avere scritto questo …

—Signor governatore! Non spetta a lei indovinare i sentimenti di Sua Maestà. A lei e a me basta obbedire.

—E' appunto perchè voglio obbedire … Perchè non mi pare chiara questa faccenda, che mi oppongo!…

—Ella non ha nessun diritto di opporsi. Sono io responsabile della persona dei prigionieri, sin che sono qui dentro.

—Ella non comanda più virtualmente il forte poichè i suoi uomini sono già partiti.

—Lo comanderei anche se ciò fosse, ma non è. Vi sono ancora dei soldati miei nel forte. Ma, del resto, perchè ella si affretta, dietro un semplice ordine del Tosi, di rimandare i prigionieri a Torino, mentre si rifiuta di obbedire ad un ordine del Re?

—L'ordine del Tosi è preciso e logico— ribattè piccato il governatore. Egli mi prega di inviargli a Torino i cinque prigionieri, che sono destinati al primo processo, e me ne descrive chiaramente i nomi. Non c'è dubbio nella cosa.

—Signor conte! disse il Fanti, rivolgendosi al Salvago, che col suo compagno aveva assistito in silenzio a quel diverbio.—Ella mi dà la sua parola d'onore, che quel foglio è stato scritto veramente da Sua Maestà?

—Certo, capitano; è stato scritto in mia presenza, tutto di mano di Sua Maestà.

—E mi dà la sua parola d'onore che Sua Maestà, scrivendolo, avesse veramente intenzione di sapere libero il conte Enrico di lei figlio?

—Gliene do la mia parola d'onore. Il foglio è stato scritto veramente con questa intenzione da Sua Maestà, dietro mia preghiera.

—Allora, darò subito ordine che suo figlio le sia consegnato—disse il Fanti, e uscì senz'altro.

Il governatore non osò replicare parola, anche egli uscì, ma per cercare di un suo fido, e dargli l'incarico di recarsi prestamente a Torino, per conferire con Tosi sull'accaduto.

Il Fanti andò egli stesso nella stanza di Enrico per comunicargli la sua liberazione e l'arrivo del padre. Il giovane non disse una parola, solo diventò pallidissimo, e si volse ad abbracciare stretto stretto l'amico che rimaneva.

Al Fanti, fino osservatore, non sfuggì nè la nessuna meraviglia mostrata dal giovane, nè la strana separazione dall' amico, senza una parola di rammarico o di conforto. Ne dedusse quindi facilmente che già prima i giovani fossero stati avvisati di ciò che stava per accadere, e che certo contassero di rivedersi a Torino, dove Salvago, padre e figlio, si sarebbero adoperati per la liberazione del Vinchi.

Nè il Fanti era così ingenuo da non capìre the anche quella faccenda della lettera del Re non era poi così chiara, come aveva finto di credere. A un dipresso egli indovinò che era stata strappata alla debolezza del Re, e che probabilmente non aveva più alcun valore. Ma che gli importava? Egli obbediva al Re, perchè non dubitava della autenticità della firma, e nello stesso tempo serviva alla causa d'Italia, liberando un giovane che vi poteva essere utilissimo. E poi gli avvenimenti incalzavano in Piemonte, e presto sarebbe necessario aprire le carceri e dare ai giovani generosi, che vi erano rinchiusi per gli arbitrî della polizia, un fucile e una sciabola perchè si battessero in nome d'Italia…

Frattanto la notte era calata, fredda, oscura. Il Fanti voleva cortesemente che i Salvago fossero suoi ospiti per quella notte.

—Partiremo domattina insieme—disse egli —anch'io coi miei tre sottufficiali devo recarmi a Torino. E per loro soli, non sarebbe prudente fare una sì lunga strada, in una notte come questa.

Il conte Salvago, che aveva riabbracciato intanto suo figlio, con profonda ma muta tenerezza rispose:

—No, signor capitano, grazie. Non possiamo assolutamente accettare le sue cortesi offerte. E' necessario che noi due, domani all'alba, siamo a Torino.

E guardò intensamente il Fanti, come per dirgli:
—Non insista!

Il Fanti capì.

—Allora, beviamo insieme il bicchiere della staffa—disse gaiamente—e a rivederci a Torino. Anch'io, coi miei ufficiali, partiremo allora a mezzanotte, ora in cui cessa il mio comando: ma passeremo il resto della notte a Perosa, per non affaticare troppo i cavalli… e i cavalieri.

Offrì del vino e dei liquori, che i due Salvago e il loro compagno, che era un servitore fedele antico di casa, bevettero volentieri, ma parcamente, come chi sa di aver bisogno di tutte le sue forze, quindi, salutato cortesemente il Fanti, che volle prestare uno dei suoi cavalli a Enrico, uscirono dal forte, senza neppure più salutare il burbero governatore.

La notte era cupa, gelida, e dai monti pareva addensarsi una bufera. Pure, con che voluttà salutò Enrico il cielo libero, le alture, la nera vallata nel fondo! Da quanto tempo non respirava così bene! Quell'aria era tutta sua, quella immensa natura, quel fremito dei boschi battuti dal vento, quello scrosciare dei torrenti, era suo!

—Ah, padre mio!—disse—quante buone cose ci sono nel mondo, e noi non ce ne accorgiamo se non quando le abbiamo perdute! Ma ora… dimmi, ti prego… Clara?

—La vedrai fra poco.

—E… credi che tutto andrà bene?

—Lo spero.

—Povero padre mio! A quale pericolo ti espongo!

—Potevo lasciarti solo? Se ci sarà pericolo, lo correremo insieme.

—Buon padre mio! Ma come farà Clara a sopportare tutto questo? Io tremo per lei.

—Anch'io pensavo fosse più prudente lasciarla a Torino. Ci avrebbe raggiunti poi… Non volle.

—Povera Clara! E dimmi, come è stato, padre mio?…

—Attento, attento alla strada! Parleremo poi!—disse il padre.—I cavalli si impennano.

Era vero. Come accade frequentemente in montagna, la notte, che pareva abbastanza tranquilla, divenne ad un tratto tempestosa. Un fitto nevischio cominciò a cadere, e in un momento le più fitte tenebre avvolsero i viandanti. Essi accesero delle lanterne che avevano portato seco, e così riuscivano a illuminare stentatamente il cammino, ma i cavalli s'impennavano, ricusavano di camminare, e affondavano nella neve già caduta nei giorni prima, e ora rammollita dal nevischio nuovo.

—Io non credo che si potrà andare innanzi —disse il servo, ansando.

—Coraggio, coraggio!

Ma il coraggio andava mancando a tutti e tre. La bufera cresceva, turbini di neve pareva scendessero come trombe dal cielo, e accecavano i cavalieri e i cavalli. Il vento urlava orribilmente.

Il cavallo del conte improvvisamente urtò contro un tronco abbattuto e stramazzò. A stento, il conte, rizzato in piedi, riuscì a tirar su la bestia, che, fremente di paura, ricusava di avanzare.

—Sarebbe follìa andare innanzi—disse Enrico —cerchiamo il modo di fermarci qui, finchè questa furia sia passata.

—Qui, qui—gridò il servo—vengano qui, signori padroni! Staremo un po' più al sicuro!

Egli aveva veduto, a pochi metri dalla strada, sull'altura, un enorme masso, che, precipitato certo dalla montagna, ora stava infisso nel terreno come un gigante, ma alquanto inclinato su sè stesso, dalla parte opposta alla via. Dietro quel masso si fermarono i viaggiatori coi loro cavalli, e di là potevano osservare la strada, per quanto le tenebre lo permettevano, e stare riparati dalla tempesta e quasi all'asciutto.

—Teniamo intanto consiglio—disse il Salvago —camminando e pestando i piedi, come pure facevano per non gelare, i suoi compagni. —I nostri progetti si vanno guastando. Se il Fanti e i suoi ufficiali si trovano a Perosa mentre vengono gli altri, essi non presteranno mano forte agli sbirri? E' assai probabile.

—Perchè, padre mio? Non credo—disse Enrico—Fanti è un gentiluomo; egli non ci aiuterà, ma non vorrà intervenire a favore della polizia.

—Ma egli è un soldato. Se non interviene vuol dire che favorisce la fuga dei prigionieri. Ora, questo, per un soldato sarebbe male, e peggio ancora per un comandante del forte.

—Ex comandante, cioè non lo comanda più —replicò Enrico.

—Sono cavilli, ai quali un militare non pensa. E poi, sia pure… Il comando cesserà a mezzanotte… Se il Fanti arrivasse prima?

—Credo piuttosto che non arriverà nemmeno dopo mezzanotte. Con un tempo simile! Perchè dovrebbero muoversi?

—Oh, il tempo non li tratterrà, temo! Piuttosto, se causa il tempaccio, non facessero partire i prigionieri?

—Oh, il governatore non si curerà di questo! Egli sta agli ordini. Domani mattina essi si devono trovare presenti al processo… Dunque è necessario partano stanotte. E poi credi che vogliano farli entrare in Torino di giorno? con questo vento che spira contro la polizia?

—Bene. Ammettiamo tutto questo. Ma se il Fanti… Che c'è? Non odi tu rumore di cavalli?

—Sì, vedo cavalli che vengono a galoppo— disse il servo—si distinguono benissimo, al lume delle lanterne.

—Non possono essere i prigionieri.

—No; sono pochi. Uno, due, quattro: son quattro lumi, e si vedono benissimo i quattro cavalli.

—Sono soldati!

—Sono ufficiali! E certo sono il Fanti e i suoi amici!

—Che fare?

—Ci conviene di non muoversi. Qui dietro non possono distinguerci.

—E poi? Essi andranno a Perosa e vi si fermeranno.

—Non possiamo che aspettare. Andremo più tardi a Perosa; forse essi proseguiranno per Torino.

E con queste parole, nelle quali nessuno dei tre credeva, tacquero tutti, e guardarono i quat tro cavalieri, che venivano giù di galoppo, perchè ora la bufera andava cessando.

—Possibile che siano già così avanti?— disse una voce. Era quella del Fanti.

—Che si siano riparati per la strada?

—No, no, non sono pratici—e le voc si perdettero nella notte, con lo scalpitìo dei cavalli.

Ah, ora comprendo?—disse il conte— vanno in traccia di noi. Hanno visto il tempo brutto, e hanno temuto per noi!

—Generosità importuna—disse Enrico sorridendo.

—E come fare, ora?

—Aspettiamo ancora qualche tempo, e poi li seguiremo, non c'è altro da fare.

E si decisero a questo.

Intanto il Fanti e i suoi tre compagni, che veramente si erano messi in cammino perchè temevano che gli altri, non pratici della strada, non avvezzi alla montagna, avessero potuto correre pericolo, continuarono la strada fino a Perosa, assai stupiti di non vedere traccia di quelli che cercavano.

—Anche la neve è intatta—disse uno, esaminando il suolo.

—Non vuol dire—rispose il Fanti—possono essere passati prima, e poi v'è caduto su del nevischio, o il vento ha distrutto le orme.

—Potevamo risparmiarci la corsa—brontolò un altro.

—Oh, Marenzi! Vergogna! Fare il viaggio prima o poi, non è lo stesso?

—No, per Diana! Se lo avessimo fatto domattina, all'alba, ci avremmo visto chiaro almeno.

—E avremmo dormito stanotte nel nostro letto —aggiunse un altro.

—Sarei rimasto mal volentieri oltre la mezzanotle sotto il tetto di quel rabbioso governatore à Fanti.

—Un vero orso, hai ragione. Meglio chiedere ospitalità a Satanasso.

E poi, c'è questa spedizione di quei poveri diavoli di prigionieri. Non avrei potuto assistervi senza dirgli il fatto suo, a quel mascalzone.

—Farli partire di notte!—disse un altro.

Evvia! che tenerezze, o che non partiamo di notte, noi!—disse Marenzi.

—Hai un cuore con tanto di pelo.

—Ti faranno governatore di Fenestrelle.

—Ma non capisci che c'è una differenza viaggiare liberamente, a cavallo, e anche, se vogliamo per capriccio, come facciamo noi, e viaggiare ammanettati, guardati dai gendarmi o dagli sbirri a cavallo?—dissero i tre compagni.

—Ma se viaggiano in carrozza chiusa, come i principi, e con la scorta a cavallo!—disse Marenzi, che voleva passare per feroce.

—Taci, orso!

—Jena!

—Tigre!

Sempre chiacchierando, e con una certa allegria, nonostante il freddo e la difficoltà della strada, giunsero in vista di Perosa; il piccolo borgo pareva addormentato sotto un manto di neve, ma ad una finestrella dell'albergo ardeva un lume…

—Che diavolo fanno!—disse il Fanti— che sia una illuminazione di gioia, per il decreto di emancipazione degli ebrei? Come hanno fatto a Torino?

—Eh, no! vuol dire che i nostri inseguiti sono giunti sani e salvi!

—Sono volati allora! Come diavolo hanno fatto a venire così presto? Sono migliori montanari di noi.

La finestra illuminata si aprì… e un viso bianco comparve nel vano. Intorno a quel viso bianco una chioma di fuoco, che il vento scarmigliò furioso. Il Fanti rimase immobile, come estatico. La visione scomparve.

—Sogno?—diss'egli.

—Chi era la ninfa, che è apparsa sulla finestra? —chiese ridendo uno.

—Sarà l' albergatrice—disse Marenzi— ohè, ohè! aprite!

Ma già la porta si apriva, e sulla soglia era l'apparizione già veduta alla finestra. Era una persona alta, vestita di nero, un viso bianco, due grandi occhi brillanti, una chioma di fuoco…

—Signora!—balbettò Fanti, che era saltato giù da cavallo.

Ma la persona apparsa sulla porta, che già aveva fatto un passo innanzi, come per slanciarsi verso di lui, appena lo vide in faccia, gettò un grido, lasciò cadere la lucerna che aveva in mano e fuggì via, nell'interno oscuro della casa.

—Ma che diavolo succede? Sono gli spiriti qua dentro?—disse Marenzi.—Perchè è scappata colei? E ci lascia al freddo? Ohè!

—Taci, Marenzi—disse il capitano, con la voce che gli era solita nel comando.

Egli stesso rimase alquanto esitante, poi si decise ed entrò. La stanza a terreno si illuminò nuovamente e comparve l'albergatore, con faccia assonnata.

—Potete darci ricovero per stanotte?—disse il Fanti,—a noi e ai nostri cavalli?

—Difficilmente—rispose l' uomo;—una stanza sola, con un solo letto.

—Va bene; e i cavalli?

—C'è la stalla… un po' di paglia…

—Bene. Conducete via i cavalli—ordinò il Fanti.

Gli altri non parlavano più; tornavano a vedere in lui il capitano e non l'amico…

Ma, mentre già l'albergatore si avviava, il Fanti parve riflettere e gridò:

—Metteteli nella stalla, ma lasciateli ancora sellati! Date loro soltanto da mangiare, ma prima portate qualcosa a noi!

E sedette presso la tavola, come fecero i suoi compagni.

—Che si fa, capitano?—chiese Marenzi.

—Per ora mangeremo un boccone e berremo —rispose il Fanti.

L'uomo era tornato, con una bottiglia, pane, carne fredda…

—Non sono arrivati dei viaggiatori a cavallo, poco prima di noi?—chiese il capitano.

—No, signore.

—Nessuno?

—No, signore.

Tutti tacquero, e continuarono a mangiare e a bere, ma ciascuno rifletteva alla stranezza dei casi, e il Fanti specialmente alla inesplicabile presenza di Clara, perchè era lei, non poteva esserci dubbio, a quell'ora, in quel luogo.

Attendeva ella il Salvago? E un senso di gelosia gli morse il cuore… Clara gli piaceva tanto! Aveva spesso pensato a lei, lassù, nelle solitudini di Fenestrelle. Aveva desiderato di tornare a Torino per rivederla… E invece… Ella aveva dunque un amante? E lui, che doveva fare? Rimanere? Perchè? Certo era indiscrezione. Andarsene? Un certo dispetto, una curiosità assai viva gli suggerivano di restare, di vedere che mai stava per accadere… E combatteva così fra i due sentimenti, quando ad un tratto l'albergatore, che si era allontanato, ritornò nella stanza, e consegnò una lettera al capitano.

Questi l'aprì con mano tremante, mentre i compagni sorridevano e Marenzi borbottava:

—Paese di conoscenza!

La lettera diceva:

«Signor capitano! Or ora partirò da questo luogo, diretta verso Torino. La prego di volere accompagnarmi, coi suoi signori ufficiali, ma nel modo più discreto, cioè seguendo a qualche passo la mia carrozza, ma senza avvicinarsi e senza domandarmi nulla. Domani, giunta a casa mia, sarò lieta di riceverla, e le spiegherò lo stranissimo caso.»

Il Fanti, assai stupito, pensò un momento.

Clara ritornava a Torino… con chi? Se non fosse stata sola, gli avrebbe scritto così? Infine, non era giusto che egli accondiscendesse al suo desiderio e l'accompagnasse? Poteva egli lasciarla andare sola, in una notte come quella, per quelle strade?

—Quella signora parte?—disse egli all'albergatore.

—Sì, signore.

—Sola?

—Sola.

—Dove è ora?

—Aspetta vicino alla carrozza.

Il Fanti si precipitò fuori e vide, ferma sulla soglia, la signora, tutta imbacuccata nel mantello, ma i capelli rossi, il viso bianco brillavano allo scarso lume della lanterna della carrozza.

Ella gli fece un cenno supplichevole, ed egli non si avvicinò di più… Ella montò risolutamente in carrozza e richiuse lo sportello.

—Andiamo anche noi—disse il Fanti ai suoi compagni.

—Ma non restiamo qui?

—No.

—Dove andiamo?

—A Torino.

—Capitano, se non è cosa di servizio, vorrai spiegarci…

—Non è cosa di servizio… Quella signora è una mia conoscente. Non so come si trovi qui. Ritorna ora a Torino. Le rincresce esser sola di notte in questi luoghi. Mi ha riconosciuto e mi prega di accompagnarla. Nulla di più semplice. Se volete venire con me, la seguiremo tutti a rispettosa distanza; se preferite restare, andrò solo.

—Come! Un'avventura alla Walter Scott! —disse un ufficiale che era un po' letterato— non me la lascio sfuggire.

Tutti rimontarono a cavallo, e la carrozza s'avviò prima. La notte s'era fatta più quieta: il vento era cessato. I quattro ufficiali andarono per un pezzo, chiacchierando e ridendo fra loro, meno il Fanti, che era pensieroso della strana avventura e impaziente di averne la spiegazione.

Erano andati forse un'ora di cammino, quando Marenzi, fermandosi, disse:

—Che strano! Mi pare di avere udito un colpo di fucile!

—E' il vento!

—No, no, un altro!

—Da che parte?

Di là, da Perosa.

Tennero i cavalli e stettero in ascolto. Più nulla. Ripresero il cammino, ma il capitano non riusciva a scacciare da sè una certa inquietudine; ripensava all'apparizione di Clara, a quella lettera, a quella precipitosa partenza… E gli tornavano pure in mente alcune frasi di quella lettera: «Potete accompagnarmi, coi vostri amici… Perchè non ci aveva pensato prima? Perchè coi vostri amici? Non bastava lui solo? E quelle parole, che dapprima gli erano parse di cortesia, ora gli suonavano nella mente sospette…

Intanto le ore passavano… Già avevano trascorso Pinerolo, e una grigia alba invernale ililluminava scarsamente la triste campagna. Le voci dei cavalieri si andavano affievolendo nella stanchezza, i cavalli non parevano poter resistere più alla fatica del cammino, quando finalmente giunsero alle porte di Torino…

I doganieri, vedendo una carrozza signorile da viaggio, seguìta da quattro ufficiali, lasciarono senz'altro passare. La carrozza, giunta dinanzi ad una chiesa, si fermò. Una mano si sporse, fece un segno. Fanti si precipitò. Quella mano teneva una lettera, ed egli la prese. La carrozza seguitò, più rapida, il suo cammino.

Febbrilmente, egli chiuse la lettera nel suo petto, e, giunto al quartiere, dopo aver ringraziato i compagni, e augurato loro il ben meritato riposo, aprì con ansia la busta e lesse:

«Signor capitano! Io vi ho ingannato. Era necessario che questa notte non vi fermaste a Perosa, e io vi ho condotto via… Ma, la persona che avete accompagnato, non è Clara Neyroni; essa è una buona e devota creatura, che si è adattata a fare questa parte, solo per trarmi d'imbarazzo. Se volete una spiegazione più precisa di tutto questo, andate oggi dalla marchesa d'Avoli; là troverete pure colei che avete cortesemente accompagnato. Perdonatemi… E vi giuro che tengo alla vostra stima, e alla vostra amicizia… La marchesa d'Avoli saprà dirmi se mi avete perdonato… E… perchè non pensiate male di me, sappiate che da otto giorni sono vedova.—Clara Neyroni.»

La morte del barone Neyroni era vera, e l'avevano annunziata per Torino gli strilloni dei giornali, proprio il giorno 20 dicembre, quando incominciava il processo politico contro i repubblicani del maggio scorso…

Ma quello che stupì tutta la cittadinanza, che conosceva il barone, o come un sant'uomo o come un pericoloso ipocrita, e riempì di santa ammirazione tutto il mondo dei bigotti, fu il genere di morte del povero signore, il quale era stato trovato all'alba, dal sagrestano dei Santi Martiri, inginocchiato nel suo banco, con la testa piegata devotamente sulle mani… ma duro, stecchito, senza segno di vita. La morte, secondo i medici, datava da parecchie ore, e si pensò da tutti che, andando il Neyroni fedelmente ogni sera alla chiesa, per la novena del Santo Natale, era stato improvvisamente colpito da apoplessia, e rapito proprio nel fervore delle sue devozioni.

Ma come mai il povero barone aveva potuto rimanere là solo, inosservato, tutta la notte? An che dis questo il sacrestano diede una spiegazione sufficiente. La devozione di quel sant'uomo era stata tale che, non contento di pregare durante le funzioni, egli continuava talvolta a pregare fin tardi, nella chiesa oscura, per certe sue devozioni particolari, anche quando tutti i fedeli erano usciti, e poi usciva per la sacrestia, nella quale appendeva la chiave della porticina… Quella sera, fatalità! il sagrestano, che era dovuto uscire per sue faccende, (aveva una figliuola malata, il pover'uomo) ritornando era bensì passato dalla sacrestia, ma non aveva più pensato di dare una occhiata in chiesa; tanto egli sapeva bene di aver chiuse a dovere tutte le porte esterne…

E così… povero barone Neyroni! Un uomo così benefico! un santo proprio! Dio l'aveva chiamato nel momento che la sua anima era piena di lui, ed egli era volato in paradiso, certo, certo… Per poco il suo corpo non fu portato in processione, e le sue vesti non furono fatte a pezzi, come reliquie preziose…

Ai funerali del sant'uomo andarono innumerevoli schiere di pinzocheri, dieci confraternite di ogni colore, un esercito di preti e tutta l'aristocrazia nera si fece rappresentare, e mandò i propri domestici, coi ceri fregiati dallo stemma gentilizio. Non si erano mai viste esequie più belle.

«Mai tributo di affetto, di devozione, di riconoscenza fu più meritato» diceva l'indomani il giornale Lo smascheratore, organo dei gesuiti.

Ma se il lettore vuole seguirmi, narrerò con maggiore esattezza come sia accaduto propriamente il fatto.

Quella sera del 20 dicembre Clara era salita in casa Pallottini, per recitare il solito rosario. La povera donna avrebbe preferito pregare a casa sua, ma qualche parola del marito, parola che suonava consiglio ed era comando, la indusse a dissimulare ancora e ad obbedire, tanto più che lo stesso barone l'accompagnò dalla contessa, e vi si fermò anche dopo la preghiera.

La madre di Clara era pur lei presente. La contessa della Marca era una donna assai devota, di principii austeri, di cuore arido, di mente piccola. Vedova da molti anni, non aveva, credo, altri amori, che una cagnetta spelata e ringhiosa, e don Teofilo, il suo confessore. Non parlo della figlia, per la quale la contessa della Marca non aveva mai dimostrato affezione; e che aveva sacrificato, senza ombra di scrupolo, facendola sposare al barone Neyroni, che la povera fanciulla non amava, che era tanto più vecchio di lei, e che doveva renderla infelice!…

Ma il barone Neyroni era ricco..… ed era un santo. V'erano, nella sala, dove si diceva il rosario, pure le tre figliuole della contessa Pallottini: la damigella Filomena, la damigella Elodia, la damigella Felicita, tutte e tre dai venti ai trent'anni, ma tutte e tre così simili, con una faccia magra e giallastra e il corpo ossuto, i capelli lisci tirati, d'un castagno chiaro, la veste color cannella, e il colletto di pizzo bianco, che non era facile distinguere l'una dall'altra. Parlavano anche tutte e tre quasi contemporaneamente, dicendo le stesse cose, con certe vocine stridule di uccellino, che facevano una buffa impressione in chi le udiva per la prima volta.

Don Teofilo, il confessore della contessa della Marca, era la nota sacra della pia riunione.

—Che ne dice, padre Teofilo, di quell'orrore?

—chiese la contessa Pallottini, che, poco lontana dai cinquant'anni, era tuttavia assai più bella delle sue tre figliuole. Bella, in gioventù, lo era stata, e molto. Di una bellezza provocante e formosa. E le sue spalle, ora pudicamente coperte da una stoffa nera, magnifiche, tornite come l'avorio, avevano brillato ignude, o coperte di diamanti, un infinito numero di volte in tutte le riunioni mondane della Corte e della capitale.

La cronaca narrava di lei molte storie piccanti; ma oramai pochi le sapevano; erano cose vecchie, e se anche la bella contessa aveva avuto qualche debolezza in gioventù. la vita che conduceva ora era così consona ai precetti di Madre Chiesa, che ella era citata come modello di pietà e di virtù…

Si sospettava, è vero, dal partito liberale, che la contessa Pallottini fosse uno strumento dell'Austria, che ella avesse relazione continua e stretta con la Legazione austriaca, alla quale comunicava di tanto in tanto le liste dei nomi dei mal pensanti che le venivano procurate dal Neyroni…

Ma già, le cattive lingue son tante. E se anche fosse stato vero, certo questo non sarebbe stato un titolo di demerito nella società che frequentava la contessa.

—Di quale orrore, signora contessa?—domandò il prete, riempiendosi il naso di tabacco; —oramai gli orrori sono tanti che è difficile parlare di uno solo.

—Ma dell' emancipazione degli ebrei, padre mio! Chi avrebbe mai potuto imaginare una cosa simile?

—Certo—disse con compunzione il padre— fra tutte le invenzioni dell'iniquità, questa è la più orrenda, la più vergognosa! Ma… il regno di Satana pare sia venuto sulla terra… Speriamo, speriamo nel Signore!

—E la città fa illuminazioni di gioia…— disse il barone Candido, guardando l'orologio.— Alle otto e mezzo comincia la funzione ai Santi Martiri, e non voglio arrivare in ritardo…

—E' un'abbominazione—disse la contessa della Marca, accarezzando la sua cagnetta, che teneva in grembo, e che guaì stizzosamente.

—Il popolo perde il cervello. Quello che Dio abbandona corre per la via della follìa—sentenziò il prete.

—Santa Vergine addolorata! Gli ebrei!— dissero insieme le tre damigelle.

—Pensare che ora potranno uscire dal Ghetto, e li vedremo comperarsi delle case in Torino, e saranno magari nostri vicini!—sospirò la contessa Pallottini.

—E siccome hanno molti denari—disse il barone Candido—li vedremo diventare padroni della città. Prenderanno gli impieghi più onorifici e più lucrosi, avranno carrozze e cavalli, e fra poco non si potrà più distinguere una signora ebrea da una… da una marchesa cattolica!

Stava per dire da una contessa, ma si pentì in tempo.

—Santa Vergine della Consolata!—disse la Pallottini.

—Eh, no! caro genero—rispose invece la della Marca;—una ebrea sarà sempre una ebrea; e mai, mai, si confonderanno con noi.

—Eppure li vedremo fra poco ricevuti nella società; li incontreremo in casa degli amici…— disse il barone al quale piaceva supporre le cose più sgradevoli alle sue care amiche…

—Ah, no, certo!—gridò la Pallottini—e io non metterò piede in una casa dove si riceverà un ebreo! E se tutti faranno come me!…

—Tutti i veri nobili lo faranno—disse la della Macra.—Metteremo a bando tutte quelle famiglie che dimenticheranno il proprio decoro al punto da ricevere un ebreo od un protestante.

—A noi spiacciono più ancora i protestanti —dissero le tre damigelle.

—Orrore degli orrori!—disse la Pallottini.

—Eppure… non saprei… padre, dica lei, chi sarà più profondamente dannato? Gli ebrei o i protestanti?—chiese dolcemente il barone Neyroni.

—Certo gli uni e gli altri—spiegò il padre Teofilo, con cristiana pietà;—ma i protestanti ancora più profondamente degli ebrei.

—O perchè mai?—domandò Clara che non aveva mai parlato.

—E' chiaro, signora baronessa. Gli ebrei hanno disconosciuto il nostro Signor Gesù Cristo, e lo hanno barbaramente crocefisso, è vero. E per questo saranno tutti dannati eternamente. Ma i protestanti, dopo aver conosciuto il Divin Salvatore, lo hanno rinnegato; ed è come se lo avessero crocefisso due volte. Dunque il loro peccato è assai peggiore, e merita un più terribile castigo.

—Ma i protestanti sono pure cristiani—obbiettò Clara.

—Cristiani! Oh, Dio! baronessa! non pronunci più simile giudizio, per carità! I protestanti non sono cristiani, sono i rinnegatori di Cristo, sono diavoli, sono anticristi… sono… sono pagani.

Clara tacque. Non era infatti inutile discutere con quella gente?

—A me fanno schifo lo stesso gli uni e gli altri—disse la della Marca, e carezzò la sua spelata cagnetta.

—E ha ragione, cara maman—rispose suo genero.—Eppure vedremo nelle scuole i fanciulli ebrei sedere vicino ai cristiani.

—Possibile! Possibile che si giunga a questa nefandità!—esclamò la Pallottini.

—E poi costruiranno una chiesa, o, come la chiamano loro, un tempio, e faranno le loro orribili funzioni nel centro della nostra devota città.

—Una città che è sotto la protezione della Vergine Consolata!—disse padre Teofilo.— Oh, speriamo non sarà mai!

—E i figliuoli degli ebrei andranno a fare i soldati insieme ai nostri—disse il Neyroni, dimenticandosi che egli non aveva figli.

—Misericordia! Come è possibile che sieno nelle stesse fila gli ebrei coi nostri ragazzi? Mio nipote, per esempio, che è nell'esercito, sarà messo a contatto con un miserabile Levi, un Salomone, un Moisè, un Giacobbe?

—E adesso, se si farà questa sciagurata guerra—aggiunse il Neyroni—non credono che gli ebrei si arruoleranno pur essi? Chi avrebbe immaginato quella razza maledetta con la sciabola in pugno come i galantuomini?

—Il sangue che verseranno gli ebrei sul campo di battaglia, non servirà alla patria come il sangue dei cristiani?—domandò amaramente Clara.

—Clara!—disse con severità sua madre —io vorrei pregarti, almeno in mia presenza, di non dire certe cose, che mi offendono, e ti fanno disonore!

—Disonore! mamma! E' dunque disonore parlare in nome della verità? Non lo disse forse anche Cristo che tutti gli uomini sono fratelli? E la sua legge non la predicò egli dapprima agli ebrei?

—Mia cara mamma—disse il barone, con quella sua ironia dolciastra, che sferzava come una frusta—voi sapete come è la nostra Clara… Buona come un angelo… solo ha letto qualcuno dei libri moderni, che le hanno inculcato qualche falsa idea nella testolina… Passerà, passerà. Bisogna avere un po' di pazienza. Non lo dice anche il Vangelo? Via, è tardi, e non voglio perdere la funzione… Buona sera, signore!

E, baciata galantemente la mano alle due matrone, e sfiorati lievemente i capelli di Clara, che rabbrividi a quel contatto, uscì, seguìto dagli sguardi di ammirazione delle damigelle.

—Tu sei un'ingrata—disse bruscamente la contessa della Marca—perchè non sai apprezzare il tesoro di marito che possiedi. Dovresti imitare la sua pietà, la sua bontà…

—Mamma!

—Oh veramente! veramente!—disse con tono conciliante don Teofilo—è una perla di marito; ma anche la signora baronessa… dice solo così… per ischerzo. Eh, se tutti i matrimoni cristiani fossero così bene assortiti!… Se tutte le giovinette…—e guardò le tre damigelle, che arrossirono vivamente.

—Andate a vedere se papà ha bisogno di qualcosa—disse la contessa Pallottini, e le tre grazie uscirono, insieme, con passo uguale, come tre automi, senza voltarsi indietro.

Il conte Pallottini, buon uomo, di vista corta, avvezzo da anni ad essere condotto per il naso dalla moglie, più vecchio di lei, era pieno di acciacchi, e non poteva resistere dopo cena, senza addormentarsi. Perciò, finito il rosario, si ritirava nella sua camera, e vi dormiva sopra una poltrona, aspettando sua moglie, la quale lo mandava a letto…

Le tre fanciulle passarono, per obbedienza, in punta di piedi, nella camera di papà… che russava, e poi se ne andarono nella loro, ad aspettare che maman le richiamasse… sapendo del resto benissimo che, quando erano mandate via, si trattava fra padre Teofilo, la contessa della Marca e maman del loro collocamento, il quale pareva già loro che tardasse alquanto…

Filomena e Felicita erano innamorate tutte e due delle spalline di un ufficiale di Piemonte Reale. Elodia sospirava in segreto per un marchesino allampanato del Caffè Fiorio… ma tutte e tre erano disposte a prendere santamente dalle mani di padre Teofilo il marito che gli sarebbe piaciuto offrir loro…

Mentre le signore e il prete cominciavano il loro conciliabolo, e padre Teofilo diceva le lodi di un suo candidato, un moccolo della sua chiesa, cresciuto nel santo timor di Dio, che, come San Luigi, non aveva mai guardato in faccia una donna, e che era l'unico erede di un ricchissimo canonico; (partito ottimo per Filomena), Clara, annoiata, chiese permesso di ritirarsi, e, baciata in fronte la madre, tornò a casa sua… dove trovò una lettera di Elisabetta d'Avoli, che le dava un appuntamento per il domani.

Intanto il barone Neyroni era andato nella chiesa dei Santi Martiri, al suo solito posto, e aveva recitato con la solita devozione le preghiere della Novena, e la solita Ludra gli si era avvicinata cautamente col cero di Santa Filomena, e gli aveva susurrato: «Vada pure, il posto è libero».

Il Neyroni non si era mosso: aspettò che l'ultima laude fosse cantata, che l'ultimo moccolo fosse spento, che l'ultima beghina fosse uscita dalla chiesa, e poi, piano piano, se ne era uscito anche lui, dalla porticina che metteva in sagrestia…

Pochi momenti dopo bussava a quella famosa soffitta, dove lo abbiamo veduto altre volte, e dove Giulia, vestita più sfarzosamente che mai, in un disordine tutt'altro che poetico, lo aspettava, davanti ad una pentola piena d'acqua bollente, e ad una bottiglia di cognac, che usciva dalle cantine del generoso barone.

—Come va, gioia mia?—domandò il galante devoto, guardandosi intorno, con quella diffidenza che era il fondo del suo carattere biellese.

Egli non aveva più paura, ora, del povero Giovannino Vinchi, nè dei suoi scapestrati amici, che sapeva al fresco, lassù a Fenestrelle, e che, se anche fossero mai ritornati a Torino, sarebbe stato solo per entrare in un'altra prigione ugualmente sicura… Ma quella povera Giulia, che aveva parecchie debolezze, si era ora incapricciata di un certo tipo, soprannominato Il Segretario, il quale era confidente di polizia, ma, a tempo perduto, esercitava anche altri mestieri.

Il barone sospettava forte che il segretario avesse l'abitudine di svaligiare le tasche dei colpevoli che egli aiutava ad acciuffare… e non solo di quelli.

Le rimostranze che il barone aveva fatto alla Giulia per questa pericolosa amicizia erano andate a vuoto. Ella gli rispondeva che non faceva niente di male; che le sue relazioni col segretario erano pure, purissime; e che ella le coltivava solo perchè così poteva, per mezzo suo, aver nuove di Giovannino, che ella sapeva benissimo a Fenestrelle.

Quella sera dunque Giulia era sola, ed evidentemente lo aspettava.

—Credevo non venissi più—gli disse ella, accendendo una sigaretta.—Guarda, non ho voluto fare il punch finchè tu non c'eri! Sono una brava bimba? Dà dunque un bacio a Bibì.

Il bacio a Bibì fu dato volentieri, e quindi fu fatto anche il punch. Ma il barone beveva assai meno della sua amica, e badava piuttosto a tentare delle carezze più o meno cristiane, (si era in tempo di Avvento!) che a vuotare il bicchiere che ella andava riempiendo.

—Via sta' buono, e tieni le mani a casa— gli disse ella, maternamente.—Lo sai che non ti voglio più bene.

—Come! non mi vuoi più bene, colombina mia?

—No.

—E perchè?

—Perchè hai mancatò a tutte le promesse che mi hai fatte.

—Come, angioletto mio! Quali promesse!

—Prima di tutto hai fatto andare in prigione Giovannino, mentre avevi giurato di no.

—Tesoruccio mio! Non sono io che ho fatto andare in prigione Giovannino! Sono gli sbirri che lo hanno acchiappato.

—Ma tu lo sapevi, e hai giurato il falso!

—Io? No, non ho giurato il falso, gioia mia! Ho giurato che non avrei fatto andare in prigione Giovannino. E l'ho forse fatto andare io?

—Già, già! lo sappiamo che sei un volpone. Questa si chiama una… restrizione mentale, eh?

—Si, figliuola mia, e non c'è nulla di male. Non è mica un peccato.

—Ah, briccone!

—E così, senza mancare al mio giuramento, ti ho liberata da quel Giovannino, un soggetto pericoloso, un liberale, un uomo senza amor di Dio, che ti avrebbe fatto dannare l'anima, e anche, anche ti avrebbe, una volta o l'altra, condotta in una cella del Palazzo Madama, se non ero io a vegliare su di te.

—Lo credi?—domandò Giulia, che parve persuadersi a questo argomento.

—Certo, piccina mia!

—Bene. Ma e poi, che cosa mi avevi promesso? Di prendermi un quartiere nuovo, con mobilio nuovo; proprio mio; di darmi trecento lire al mese, e di pagarmi la sarta, e qualche incerto. E' vero, sì o no?

—Ninna mia, è vero, non lo nego. Ma ti ho detto: Se sarai proprio tutta per me, adesso che Giovannino è liquidato; se mi sarai fedele…

—E non lo sono forse?

—No, letizia mia, non lo sei proprio come intendo io.

—Barone mio, sei… un barone.

—E poi… ti lascio forse mancare qualcosa? Non hai tutto il necessario e più del necessario? Hai bei vestiti; tavola imbandita, non fai nulla… Che puoi desiderare di più? E non ti ho fatto avere, otto giorni or sono, cento lire dall'opera pia di San Paolo?

L'opera pia di San Paolo era allora tutta in mano dei gesuiti, e mentre oggi è uno degli istituti di beneficenza più oculati e generosi, una vera benedizione per la cittadinanza torinese, allora era una officina di immoralità, la piazza forte della reazione, dell'ipocrisia, la fucina dove si fabbricavano le armi per la rovina della patria.

—Già! solo cento lire! So di quelle che ne hanno avute trecento, e meritano molto meno di me! brontolò Giulia—e poi, quel padre Venturi, che mi ha date le cento lire, mi ha detto chiaro e tondo che me ne avevano già date troppe, e che non ne avrei più.

—Ma perchè, gioia mia, tu non vuoi mai ascoltare i miei consigli? Vedi, tu sei una buona ragazza, ma ti metti troppo in vista. Hai delle abitudini un po' troppo… libere; non offenderti, veh! La sera all'osteria, il giorno in giro… e in compagnie… Perchè, dico io, farsi vedere qua e là con quelle canaglie di giovinastri liberali? Tu lo fai a fin di bene, lo so. Per carpir loro i loro orribili segreti e denunziarli; ma non è necessario mostrarsi tanto al pubblico. La gente vede e parla male, e allora come fa un pio istituto, come San Paolo, a darti dei sussidi? Ti fai anche vedere poco in chiesa; non sei una cattiva cristiana, ma non pratichi abbastanza. Ti confessi, sì e no, una volta al mese, e ti comunichi poi. Adesso, per esempio, in occasione del Santo Natale…

Mentre il buon barone dava questi saggi e pii consigli, non si dimenticava di corroborarli e renderli più dolci con paterne carezze, alle quali, caso raro! la Giulia si prestava più di buona grazia che al solito. Ella lasciava fare, sorrideva, annuiva col capo, passava le sue mani tra le rade e grigie chiome del barone, gli appoggiava sui suoi baffi duri il visino tondo e pienotto… Quando ad un tratto la porta della soffitta si aprì fragorosamente, si richiuse, e nella stanza comparvero due tipi, due figuri, alla cui vista Giulia, come una colombella spaurita, gettò un acutissimo grido, e stringendo forte con le sue braccia il collo del povero barone, nascose pudicamente la sua faccia nel seno di lui.

Il barone tentò d'alzarsi, tutto tremante… Gettò uno sguardo alla porta; uno dei due nuovi venuti vi si era appoggiato contro con le spalle. Alla finestra… e si pentì di non aver dato alla Giulia un appartamento al pian terreno… da una soffitta nessun salto era possibile…

I due figuri, con certe faccie orribili, con gli occhi roteanti nell'orbita, fecero atto di lanciarsi contro il barone e contro la donna.

Questa si gettò disperatamente in ginocchio e afferrando le gambe del segretario (era il più vicino) cominciò a gridare singhiozzando:

—Cichin, Cichin! perdonami, non lo farò più!

Cichin rispose con una parolaccia, e gettandosi contro al barone ch'era pallido come un cencio lavato, disse con voce terribile:

—Ti ho preso, manigoldo, impostore, ladro, ipocrita. E' questo il modo di venire a disonorare la casa di un'onesta fanciulla! Non lo sai che Giulia è la mia fidanzata! Era, cioè, perchè la ripudio, la calpesto!

E fece davvero atto di calpestarla, ma l'altra lesta si alzò, e andò a rifugiarsi in un angolo, dove sedette, e di dove contemplò con sufficiente tranquillità il resto della scena.

—Non è più il tempo che un signore può ridersi di una povera ragazza e disonorare un uomo, con la scusa che è un popolano!—urlò tragicamente il segretario.—Ora abbiamo la giustizia! l'abbiamo! E davanti al tribunale vedremo se è lecito ad un barone di venire a insozzare una donna onesta! Sì, davanti al tribunale! e perciò appunto ho condotto con me un testimonio, il mio amico Pinotto Rapetti, detto Biribin!

Biribin si avanzò maestosamente.

—Avanti, manigoldo!—gridò ancora Cichin —recita le tue ultime preghiere, e preparati a morire! Mi farò giustizia da me.

Per quanto queste parole fossero in contraddizione con quelle pronunciate poco prima, esse vennero corroborate da due pistole, che i due difensori della morale di Giulia, puntarono contro il petto del barone.

Questi, allibito, tremava solamente, incapace di pronunciare una parola.

—Perdonagli, Cichin, perdonagli!—disse Giulia, dal suo angolo—è un buon signore, e farà qualcosa per voi, ne sono sicura! Non è mica un ingrato! Lasciategli solo la vita!

—Bene, vediamo!—disse con magnanimità Cichin, come commosso da quelle implorazioni —che hai da darmi? Presto, vuota le tue tasche.

Ma, unendo l'opera al comando, vuotò egli stesso le tasche del malcapitato barone, mentre l'altro eroe continuava a tenergli vicino alla tempia la terribile arma.

Ma il barone Neyroni, fedele ai suoi principii, non andava mai a quella sorte di convegni con molti denari in tasca, e i due generosi amici vi trovarono appena una decina di lire, che intascarono bestemmiando.

—Corpo di un fagiuolo! Nemmeno l'orologio non ha questa canaglia! Nemmeno un anello! Nemmeno uno spillo da cravatta!

—Abbiate pazienza!—raccomandò Giulia, —vi farà una cambiale. Nevvero, Candiduccio, che gli farai una cambiale?

Ma prima che il povero barone potesse rispondere, già i due eroi gli avevano messo dinanzi una cambiale, preparata, nella quale il Neyroni lesse appena, se pure la vide, le formidabili cifre: lire cinquantamila! Gli venne messa una penna fra le dita, e, uno da una parte, l'altro dall'altra, i due amici gli tennero la canna della pistola sulle tempie, in modo che il paziente sentisse il freddo dell'acciaio…

—Firma, e presto!—disse Cichin, con voce imperiosa.

La mano del barone corse, macchinalmente, un po' tremando sulla carta, e il nome uscì, la firma preziosa, che valeva cinquantamila lire!

Poi, quella mano si arrestò, con la penna convulsivamente serrata fra le dita, e rimase immobile.

—Signor barone!—disse Cichin, togliendo con uno sforzo la penna da quella mano, che pareva stringerla rabbiosamente—noi la ringraziamo! Ella ha un nobile cuore! Tutto sia perdonato e dimenticato! Con questa somma si costituirà una dote alla povera fanciulla, che, lasciatasi trasportare dal suo buon cuore… Si ricordi che la cambiale è a vista. Quando crede ella di poter fare onore alla sua firma?

Nessuna risposta. Il capo del barone Neyroni ricadde, pesantemente, sulla tavola.

—Su, coraggio! tutto è finito!—disse Giulia, movendosi dal suo cantuccio.

—Coraggio! Tutto è perdonato!—replicò generosamente il segretario, mettendo una mano sulla spalla del barone.

Questi rimase immobile e muto.

—Giulia! Questa marmotta ha male!— gridò allora il segretario, con una certa apprensione.

Giulia corse, tentò di sollevare il capo del barone… esso ricadde inerte. E il viso era colore della cenere.

—Per carità, è morto!—urlò la donna spaventata.

—Per le piaghe di Cristo! Sciocca! Che dici?

Tutti e tre furono intorno al barone, che non diede più alcun segno di vita. Giulia, tutta sossopra, incominciò a piangere e scappò nel fondo della stanza.

—Taci, stupida!—gridò il segretario.— E' morto davvero. E' morto di paura.

Ed era proprio così. O fosse la grande commozione di vedersi così sorpreso e minacciato… o l'impressione di quelle canne di pistola sulle tempie… il barone Neyroni era rimasto, freddo cadavere, senza più aver potuto pronunciare una parola.

Lo sgomento dei tre complici fu grandissimo. Essi non avevano certo avuto intenzione di uccidere il barone, ma solo di fargli paura. Era giusto che la Giulia si prendesse con l'astuzia il denaro che l'avarizia del barone non le avrebbe mai dato. Era giusto che l' amico di lei, il segretario, ne avesse la sua parte. Per fare la cosa più terribile, perchè la vittima non sfuggisse, si erano aggiunti Biribin, al quale avevano detto che si trattava solo di uno scherzo, per cavare qualche biglietto da cento ad un ricco avaraccio…

E ora che fare? Chiamare gente, dire che il barone era morto in casa della ragazza… Si trattava di fare uno scandalo terribile, e certo la cambiale delle 50.000 lire correva un gran rischio.

Portarlo via… e dove dunque? L' affare era sommamente pericoloso.

Quando la Giulia si ricordò del sagrestano dei Santi Martiri, un uomo che le dimostrava qualche simpatia, e che le aveva qualche riconoscenza… Ella pensò che forse, col suo aiuto, e sacrificando qualcuno di quei cinquanta biglietti da mille lire…

Difatti ella andò col segretario a trovare il sagrestano e gli confidarono senz' altro come il barone, che, bontà sua, andava qualche volta a trovare la Giulia e a portarle qualche sussidio dell'Opera di San Paolo, era stato sorpreso in casa di lei da improvviso malore, come si temesse la cattiveria della gente, dei liberali specialmente, se il povero sant' uomo fosse trovato in casa di una ragazza così… calunniata; e si offrivano al sagrestano, se avesse voluto aiutare in questo imbroglio, mille lire… pagabili fra pochi giorni.

Il sagrestano, dopo aver tentennato il capo più volte, mise in dubbio l'esistenza del denaro.

Al che gli fu fatta vedere la cambiale, firmata in articulo mortis dal povero barone.

—Voleva così bene alla Giulia!—disse sospirando il segretario;—stasera gli abbiamo comunicato il nostro fidanzamento, e subito, quell'anima buona, volle farci questa cambiale a vista, perchè noi la riscuotessimo il dì delle nozze… Infatti la cambiale è intitolata a me. Ma ora, se vien fuori questo fatto… il tribunale se ne immischia, e addio dote! e la mia povera Giulia…

Il sagrestano s' offrì di trarli d' impiccio mediante diecimila lire, pagabili appena la famosa cambiale fosse riscossa, e garantite da un' altra cambiale, firmata dal segretario. Poi volle che il denaro (egli era sicuro che un poco ce ne doveva essere) stato tolto dalle tasche del morto, vi fosse rimesso.

—Capite… Si farà un'inchiesta. Per quanto il povero barone, Dio l'abbia in gloria, fosse un po'… tirato, pure qualche cosa in tasca ce l' aveva.

Bisognava rimettere tutto perchè la polizia non creda a un furto, e allora, chi ne andava di mezzo era lui, l'onorato sacrestano, e il resto veniva da sè.

L'osservazione fu trovata giusta, e il denaro fu rimesso nelle tasche del morto.

Allora si decise di aspettare l' ora favorevole, e intanto tutti e quattro—inginocchiati intorno al cadavere, che, perchè non cadesse, avevano legato alla sedia—recitarono le preghiere dei morti.

Quando fu mezzanotte si decisero.

Giulia precedette con le chiavi, e a fine di perlustrare le strade. Per fortuna di là ai Santi Martiri c'era poco, e difficilmente in quel quartiere si incontrava, a quell'ora, una pattuglia. Del resto, tanto il segretario che Biribin non erano ignoti alla polizia, ed erano decisi di dire che portavano un ubriaco a casa sua, nel caso avessero incontrato una pattuglia indiscreta.

Intanto, siccome il corpo del barone pareva irrigidito sulla sedia, e non era facile toglierlo da quella posizione, i tre compagni decisero di portarlo con tutta la sedia… E così fecero, e trovarono il còmpito assai più facile. Nessuno li disturbò per la strada; la notte era freddissima, e non girava anima viva.

Giulia andò innanzi e aprì la porta che metteva in sacrestia; di là entrarono in chiesa, e, allo scarso lume d'una candela di sego, fecero scivolare il corpo dell' estinto dalla sedia nel banco, senza cambiare posizione; gli lasciarono le braccia come già stavano, piegate come per scrivere… o per pregare, ed ebbero cura di mettere il cadavere in perfetto equilibrio, perchè non precipitasse…

Poi se ne andarono, e richiusero le porte.

All'alba, un altro sagrestano, un vecchio che aiutava il sagrestano capo, andò ad aprire la chiesa e vide il corpo…

L'atto era di profonda devozione, le mani quasi giunte. Fra le mani era la corona della beatissima Vergine, che forse il povero sant'uomo stava recitando prima di morire.

Fu dato l'allarme alla polizia e accorse. Accorsero i medici. Il povero sant' uomo era morto improvvisamente, per aneurisma; non c' era altro da dire; nessuna ferita, nessun furto; escluso dunque qualunque delitto.

I preti sentenziarono che, essendo mancato in chiesa, e proprio mentre pregava, era morto in grazia di Dio, e quindi non aveva nemmeno bisogno dei sacramenti.

Il popolino giocò al lotto i numeri, che corrispondevano a:

Santo in chiesa—morto improvviso—orazione. E i terni vinti furono moltissimi.

Prova che il santo incominciava ad operare miracoli.

Ritorniamo ora indietro ai nostri personaggi, che abbiamo lasciato a Perosa e sulla via di Fenestrelle.

Clara, quando furono partiti gli ufficiali, si sentì liberata da mortale inquietudine, ma il suo cuore continuava a provare un'ansia febbrile, per l'assenza di coloro che aspettava e che avrebbero già dovuto essere lì. Anche la torturava un certo rimorso di avere ingannato il buono e nobile Fanti, il cui affetto ella, col suo fine intuito di donna, aveva indovinato. Eppure, che sarebbe accaduto se gli ufficiali si fossero trovati all'arrivo dei prigionieri? Era presumibile che il Fanti, così rigido soldato e ligio al suo dovere, volesse proteggere un atto illegale, un atto di ribellione, come era quello escogitato e preparato per quella notte? E se, come era più che probabile, certo, egli e i suoi avessero difeso il partito dell'ordine, come era loro dovere, che sarebbe accaduto?

Sicuramente tutti i progetti così ben combinati andavano in fumo, e le conseguenze potevano essere terribili.

Benchè dunque il maggiore pericolo fosse allontanato, tuttavia ella provava un infinito sgomento al pensiero di ciò che stava per accadere, sgomento che le amareggiava fino l' ineffabile gioia di rivedere finalmente colui che ella amava sopra ogni cosa al mondo; colui che ora le era permesso di amare, perchè ella era libera, libera!…

Ma, nel suo egoismo amoroso, ella non poteva non dolersi della generosa ostinazione del suo amante, di volere salvare insieme a lui pure tutti gli altri quattro amici e compagni di prigione. Eppure Enrico aveva rifiutato la libertà, se non poteva condividerla con i suoi amici.

«Mi direbbero traditore—scriveva egli al padre—direbbero che io solo, io, il maggiormente imputato, ho ottenuto la libertà, per la relazione di mio padre col Re. E se gli altri fossero condannati, come godrei io intanto la libertà? No, io ero il loro capo; io devo aiutarli a fuggire, se mi riescirà di essere prima libero; e insieme correremo i rischi, che, o ci renderanno liberi tutti, o ci daranno la morte… Perchè vivi non ci prenderanno più.»

Il padre e l'amata avevano dovuto arrendersi a queste ragioni, e la fuga doveva dunque essere tentata per tutti… Ma… come andrebbe?—E il cuore di Clara si stringeva di angoscia.

Aveva ella forse avuto torto di arrischiare sè stessa in quella pericolosa impresa? Ben glielo aveva detto il conte Salvago! Avrebbe potuto restare tranquillamente a casa sua, ad aspettare gli eventi; raggiungere più tardi il suo fidanzato, quando fosse in salvo… Ma no; ella voleva condividere i pericoli con lui; insieme dovevano passare la frontiera, e poi subito un sacerdote a vrebbe benedetta la loro unione; sarebbero ritornati in Italia in tempi migliori, marito e moglie, o—se l' impresa falliva—sarebbero morti insieme!

Così, esaltandosi in questi pensieri, ingannava il tempo dell'aspettativa, che incominciava a sembrarle assai lungo, quando, finalmente, uno scalpitìo di cavalli la spinse nuovamente alla finestra… Ah! stavolta erano dessi! Dio mio! E si precipitò verso l'uscio.

Sì, era Enrico quello che la stringeva ora fra le sue braccia, era il suo Enrico, dopo tanti mesi, dopo tanti patimenti! Erano le lagrime di Enrico che si mescolavano alle sue!…

—Figliuoli!—disse il conte Salvago—non perdiamo tempo… e non commuoviamoci troppo. Abbiamo bisogno di tutto il nostro coraggio. Sono a poca distanza.

I fidanzati si staccarono uno dall'altro, e i due Salvago entrarono allora con l'albergatore in una specie di cantina, che era un bugigattolo al di là del cortile, cupo e fondo come una grotta. Là l'albergatore si lasciò di buon grado legare come un salame e imbavagliare, e rimase coricato nel fondo della cantina, tra una botte di barbèra e un sacco di patate.

Il servo di Salvago era rimasto nella stanza anteriore ad aspettare. Clara si ritirò in una camera, se tutto l'alberghetto rimase in silenzio e al buio, poichè avevano spento ogni lume, come se tutti fossero profondamente addormentati.

Passò così forse una mezz'ora quando sulla strada che scendeva da Fenestrelle apparve una carrozza da viaggio, una specie di berlina grossa e pesante, scortata da quattro guardie a cavallo, armate di fucile. Nella carrozza sedevano bene stretti i giovani prigionieri che conosciamo: Serrati, Mameli, Vinchi e Rosaia, i quali, secondo l'ordine giunto al governatore, dovevano trovarsi la mattina a Torino, per assistere al dibattito del loro processo. E, fra Serrati e Rosaia, c'era il Ballotta, conosciuto meglio col nome di Sguercia, l'unico di quella compagnia che non fosse ammanettato e… incatenato.

Perchè, per precauzione, in quel viaggio notturno, avevano messo le catene ai piedi dei poveri figliuoli, catene ben serrate con lucchetti, le cui chiavi erano nelle tasche di Sguercia il fidato carceriere.

—Chi va là? Oste!—gridarono le guardie fermandosi dinanzi all'albergo.

Nessuna risposta.

—Dormono tutti… ma speriamo che avranno udito e vorranno alzarsi!… Oste del diavolo!…

Una finestrella si aprì, e comparve la testa imberettata dell'albergatore.

—Vengo subito, signori! Il momento di infilare un vestito.

Pochi momenti dopo la porta si aprì, e quel medesimo che era apparso alla finestra, introdusse nella stanza terrena due delle guardie, che avevano dato i loro cavalli alle altre due.

—Fate presto, e portate da bere anche a noi! gridò. lo Sguercia dal finestrino.

—Da bere, presto!—ordinarono le due guardie, e l'albergatore, o colui che pareva tale, scomparve nel fondo del cortiletto.

I due rimasti cominciarono a sgranchirsi le gambe passeggiando su e giù per la stanza e bestemmiando contro il freddo, contro l'oste che tardava, contro la nottaccia che dovevano passare…

E l'oste tardava veramente.

—Che diavolo! Voglio andare a vedere che fa quel muso da galera!—disse uno dei due, e scom arve pur lui nel cortiletto, cercando quella tale cantina, di dove l'oste non tornava più. La trovò, la porta era socchiusa e ne usciva un filo di luce.

—Oste dell'inferno!—gridò la guardia entrando, dopo avere spalancato con un calcio la port.

Ma non disse altro, perchè quattro braccia lo afferrarono improvvisamente e lo gettarono in terra, dove prima ancora che potesse mettere un grido già un bavaglio lo rendeva muto come un pesce, e solide corde alle mani e ai piedi lo fecero immobile come uno dei numerosi sacchi che lo circondavano.

Il secondo uomo, rimasto nella stanza, non vedendo più ritornare il compagno, gli andò dietro anche lui, brontolando:

—Sono in cantina, e il Grilletti beve dalla botte addirittura, lo conosco.

Entrò nella cantina, e gli toccò la stessa sorte che all'altro. Legato e imbavagliato si sentì co ricato vicino al Grilletti, e a una terza persona che egli non riuscì a distinguere alla scarsa luce e che imaginò fosse un altro viaggiatore, forse ferito e derubato.

Ma i due Salvago, quelli che avevano fatto il colpo, non si occuparono altro dei poveri diavoli, portarono via fino la piccola lucerna, e chiusero la porta dietro a loro…

Intanto gli uomini fuori aspettavano tutti con diversa impazienza, quando un fischio uscì dalla casa. Era un segnale.

—Chiamano, credo—disse una delle due guardie a cavallo che diavolo c'è?

—Vo io a vedere—rispose lo Sguercia, saltando fuori della carrozza.

Ma insieme con lui saltarono pure fuori i quattro prigionieri, liberi, senza manette e senza catene, i quali, a due a due, si lanciarono sulle guardie sorprese, strappando loro i fucili. Una delle due guardie si lasciò subito sopraffare, e, tratta giù da cavallo, fu facilmente ammanettata, con gli stessi ferri che un momento prima cingevano il polso dei prigionieri.

Ma l'altra guardia, un colosso molto robusto e agile, alle prese con Rosaia e Mameli, si svincolò facilmente, e, spronando il cavallo, si lanciò a galoppo per la strada di Pinerolo, sparando un colpo di fucile contro il gruppo dei rivoltosi. Il colpo toccò il Serrati in una gamba, asportandogli un pezzo del polpaccio, e il Vinchi, col fucile strappato all'altra guardia, sparò a sua volta dietro il fuggitivo.

Il cavallo di questi, colpito, stramazzò a terra, e l'uomo si diede a rapida fuga per la strada bianca di neve.

—Non uccidiamo—disse il conte Salvago, che era venuto in aiuto dei compagni—bisogna che la faccenda sia più innocente che è possibile… Lasciate scappare colui.

—Ci denunzierà—disse Enrico.

—Non importa. Tanto, a giorno chiaro, si troveranno gli uomini legati, e si saprà lo stesso. Ora, prendete qui nell'albergo quello che vi abbisogna, e poi mettetevi subito in cammino. Non c'è tempo da perdere. Io tornerò a Torino.

—Padre mio—disse Enrico—e se vi arrestassero?

—Non oseranno. Andrò io stesso a raccontare ogni cosa al re. Spero che tutto questo finirà bene. Ad ogni modo… coraggio, e arrivederci!

Il padre e il figlio si abbracciarono, e il conte volle pur abbracciare la sua futura nuora, alla quale disse:

—Volete ritornare a Torino con me? Accettate il consiglio di un vecchio.

Ma ella si schermì e insistette per correre i pericoli di quella fuga notturna col suo sposo.

Presero alcune provviste nell'albergo, e poi si avviarono. I tre cavalli rimasti delle guardie vennero montati dai tre giovani: Serrati, Rosaia e Mameli: altri due cavalli si trovavano pronti nella stalla, e furono destinati a Vinchi e a Clara; quanto al fido Ballotta, egli ritornava a Torino col conte Salvago e col servo di questi.

Così, terminati gli addii, che si sforzarono di non rendere troppo commoventi, perchè ciascuno diceva: sarà per poco tempo, le due comitive si incarmminarono in senso diverso.

I nostri amici avevano discusso sull'opportunità di dividersi, e di raggiungere a piccoli gruppi la frontiera; ma poi, dopo matura riflessione, deliberarono di restare uniti per difendersi più sicuramente da ogni possibile pericolo.

Andarono così tutto il resto di quella memorabile notte, seguendo il corso del Chisone, per allontanarsi dalla via maestra, e quindi, procedendo per una strada mulattiera, parallela a quella di Fenestrelle.

Spuntava l'alba del 29 dicembre, quando la piccola carovana dei viaggiatori arrivò a Massello, che avevano destinato come prima tappa, perchè la gamba di Serrati gli dava insopportabile dolore. Il villaggio, tutto abitato da poveri valdesi, si destava allora. La comitiva a cavallo fu guardata prima con diffidenza da quei poveri montanari, avvezzi a improvvise visite della polizia e dei gendarmi, che mettevano a contribuzione il paese col pretesto che era protestante. Ma poi, vedendoli scendere da cavallo, un gobbetto che parlava francese si avvicinò ai viaggiatori, e domandò di chi cercassero.

—Del medico—rispose Enrico.

Ma il medico non era altri che un povero diavolo, che faceva pure il mestiere di barbiere e quello di calzolaio… Egli introdusse nella sua catapecchia i viaggiatori, e fasciò alla meglio la gamba ferita. Là poterono pure riposare un paio d'ore e mangiare; trovarono anche un po' di fieno per i cavalli; a metà mattina si rimisero in viaggio, ringagliarditi e con nuove speranze. A sera speravano di passare il confine.

Ma la strada si fece improvvisamente più brutta e la neve tornò a cadere assai fitta, così che i poveretti, smarriti, errarono alcune ore inutilmente, senza trovare un luogo dove fermarsi, e dubbiosi di essere nel retto cammino. Alfine, morti di fatica e di fame, arrivarono appena la sera a Sanze, altra borgata alpina assai misera, di valdesi, dove ripararono in casa del vecchio pastore.

Essi avevano sperato di potere continuare il cammino anche la notte, andando per la strada che conduce al Monginevro, ma tale era ormai l'infuriare della tempesta di neve che sarebbe stata follìa tentare la strada.

Allora si decisero a pernottare dal vecchio pastore, il che fecero molto a malincuore, perchè temevano che ormai la notizia della loro fuga fosse giunta a Torino, e si fossero già messi alle loro calcagna i soldati.

All'alba del 30 dicembre vollero a ogni costo rimettersi in cammino, nonostante le osservazioni del vecchio pastore, che li ammoniva di non arrischiarsi ora coi cavalli per una strada così ripida e malagevole, resa assai pericolosa dalla neve caduta.

Ma, dopo mezz' ora di cammino, dovettero persuadersi che il vecchio aveva ragione. I cavalli affondavano nella neve o sdrucciolavano continuamente, e affranti, sudati di fatica, rifiutavano di andare più innanzi. Fu forza tornare indietro, lasciare le povere bestie a Sanze, e prendere dei muli, i quali con stenti immensi ripresero l'ardua salita.

Ma il tempo si rifaceva minaccioso. Un vento gelido veniva dalle cime ghiacciate, si perdeva flschiando nelle gole; l'urlo dei torrenti era terribile; il fragore delle valanghe si udiva lontano. Assai presto i viandanti si dovettero persuadere che sarebbe impresa impossibile continuare in tal modo il cammino, e che era un correre a certa rovina. Il pensiero di Clara sopratutto convinse Enrico e i suoi compagni di non andare oltre, ma di cercare ricovero in qualche luogo.

Un gruppo di miserabili casolari era nel fondo di un burrone, addossato alla formidabile montagna, che pareva minacciare gli arditi abitatori stretti al suo fianco. Non si comprendeva come mai le valanghe non avessero ancora ridotto in polvere il minuscolo villaggio. I viaggiatori assiderati a stento riuscirono a farsi aprire qualcuna delle povere catapecchie, che parevano piuttosto tane che abitazioni, e a stento, e quasi con minaccie ottennero un po' di pane di segala, un po' di fuoco e paglia per riposare. I muli furono ricoverati nelle stalle, assai migliori delle abitazioni.

Così passò un'altra giornata. Le provviste portate dall'albergo erano da un pezzo esaurite, perchè i fuggiaschi, non calcolando sulle difficoltà reali del cammino, avevano pensato di essere in salvo in meno di una giornata. Pane duro e una pessima minestra fu dunque il loro cibo, per tutto quel giorno, e, poichè la notte si faceva ancora peggiore, e la tempesta infuriava più che mai, essi ottennero un giaciglio da quei miserabili abitatori, gozzuti e mezzo cretini, facendo luccicare le monete d'oro che per fortuna avevano in abbondanza.

Un'altra notte ancora, e peggiore delle altre! Come sarebbe finita? Forse il maltempo tratteneva i loro inseguitori e faceva perdere le loro traccic: ma, so continuavano a restare bloccati per via, certo avrebbero finito col ricadere in mano dei gendarmi, e allora quanto le loro condizioni sarebbero peggiorate! E Clara? la povera Clara non avvezza ai disagi, ai patimenti?

Per fortuna i giovani, dal cuore leggero, e portati piuttosto a considerare il lato allegro che quello tragico delle cose, trovavano ancora la forza di dire qualche barzelletta e di ridere della loro situazione. Nè Enrico si sarebbe disperato se non fosse stata la presenza di Clara, che gli dava pena e timore. Pure la giovane donna mostrava una forza, un coraggio, che non si sarebbero sospettati in quel fragile corpo; ella era serena, quasi allegra, e accoglieva volentieri gli scherzi degli amici del suo fidanzato, mostrandosi pronta a riderne con essi.

—Coraggio!—ella diceva, vedendo la preoccupazione di Enrico.—Coraggio!

—E' per te che temo—rispondeva egli.

Dei quattro giovani, il solo Vinchi sapeva chi fosse Clara, perchè la lunga prigionia sopportata insieme aveva fatto nascere una confidenza completa fra i due amici. Gli altri pensavano che Clara fosse moglie di Enrico, e avevano per la coraggiosa donna un rispetto e una ammirazione infiniti.

Così sorse il 31 dicembre, ed erano oramai due giorni e tre notti che i fuggitivi passavano in montagna, senza speranza di giungere, almeno quel giorno, in terra francese!

—Amici! Sono certo che celebreremo capodanno in Francia!—disse Giovannino Vinchi. —Guardate! II tempo si rimette. E noi oggi potremo riprendere il nostro cammino.

Ma tutta la mattina passò senza che la previsione ottimista del giovane accennasse ad avverarsi. La neve continuava a cadere sempre fitta, solo il vento era cessato.

Ma, nel pomeriggio, anche la neve smise di cadere, e un cielo di un azzurro incantevole, magnifico gnifico spettacolo! brillò sulle cime aguzze tutte candide e scintillanti.

—Oh, questa volta Giove ci sarà propizio! —esclamò il Rosaia.

E si accinsero con nuova lena al viaggio. Ma, per consiglio degli stessi montanari loro ospiti, tutti si fornirono di vesti di lana rozze, ma più pesanti; di scarpe foderate di pelo e ferrate, e attaccarono pure i bastoni alpini dalla punta di ferro alle loro cavalcature. Così equipaggiati e con abbondanti provviste di pane e di carne affumicata, si rimisero in via. Un montanaro si offerse a far loro da guida, ed era ben necessario. Era impossibile distinguere, in quel biancore uniforme, qualunque traccia di strade, e la salita era immensamente faticosa e difficile.

Dopo aver camminato per circa tre ore, i muli ricusarono di andare innanzi. Fu forza lasciarli, e le povere bestie, come pazze, volta rono briglia, e, scendendo la strada a precipizio, ripresero il cammino verso le stalle d'onde erano uscite.

—Certo, non arriveranno—disse il Mauneli —si spezzeranno le gambe nella discesa.

—Ma noi che faremo ora?—domandò Clara.

—Di qui al confine non ci sono che poche ore, tre, quattro al più—disse la guida.—E' necessario camminare.

Avevano delle corde e si legarono, quindi, dopo essersi prima alquanto rifocillati, procedettero innanzi coraggiosamente.

Il tempo si manteneva bello, e la notte scendeva limpidissima, illuminata da miriadi di stelle. La luna appariva fulgida, come una falce di diamanti, e la sua luce, riflettendosi sulle punte di cristallo, e sui campi specchiati, suscitava oceani argentei, e palazzi incantati. Ma il cammino, su quelle pianure gelate, era difficilissimo; ad ogni istante uno scivolava e cadeva, e, se non fossero stati attaccati con le corde, certo più volte sarebbero sdrucciolati giù dalle erte ripe di ghiaccio.

Pure si andava innanzi, adagio adagio. Ma già l'entusiasmo, col quale si era incominciata la strada, andava cadendo; si parlava poco e di rado; ognuno era preoccupato del cammino, e di quello che sarebbe accaduto, se, durante la notte, il tempo fosse ridiventato minaccioso.

Ad un certo punto il Mauneli, fermandosi con atto tra comico e disperato, domandò al montanaro che serviva di guida:

—Siete sicuro che questa sia la strada?

—Sicuro—disse il montanaro, con accento che smentiva la parola.

—Gli è che, mia nobile guida, se voi ci guidaste sul sentiero della virtù allo stesso modo come ci guidate su questa strada, noi andremmo diritto all'inferno.

—Questa è la strada—rispose il montanaro —che aveva capito poco.

—Sì, questa è una strada… ma quale? Ecco lì la punta del Monginevro, che prima era alla nostra destra, ora è proprio in faccia a noi, e noi camminiamo diritto incontro. Ora io domando: Signori, abbiamo noi intenzione di fare dell'alpinismo?

—No, no!—esclamarono Rosaia e Serrati, tentando pur essi di scherzare.

—Ebbene! Allora è mia opinione che bisogna ritornare indietro e fermarci.

—Che dici, Manueli! Non scherziamo!— ammonì Enrico, spaventato.

—Scherzare? Il cielo me ne guardi. Camminiamo ancora un poco e vedrete.

Scendeva sempre più la notte, e lo si vedeva al declinare delle stelle. Ma il cielo era sempre chiaro, sempre più chiaro, forse, perchè la luna inondava l'universo. Ma sempre più lontani si stendevano i campi sterminati, e certo in quel deserto ogni traccia di sentiero era cancellata.

Allora, esausti, scoraggiati, si fermarono. Il montanaro, con la stupida inerzia propria ai suoi pari, guardava intorno con aria cupa, e non parlava. Anche lui, certo, si sentiva smarrito, nè avrebbe più potuto trovare una via di scampo.

Rosaia che, di natura delicata, e dopo quei lunghi mesi di prigionia, era meno degli altri capace di resistere a quella fatica, si gettò lungo e disteso sul ghiaccio, mormorando:

—Non ne posso più!

—Bevi!—gli disse Serrati spaventato, versandogli tra le labbra un po' di cognac che avevano portato con loro da Perosa.

Rosaia, rianimato, sorse in piedi; e ancora un po' di tempo camminarono a caso, senza conoscere la direzione.

—Da quella parte è la Francia—disse Salvago; —ecco tutto ciò che sappiamo. Ma quale è la distanza? Quale è la via? Talvolta mi pare che ce ne allontaniamo di più.

Gli altri non risposero e continuarono il disperato cammino. Ma Rosaia nuovamente si sentiva mancare le forze e ridimandò del cognac.

Serrati si affrettò a dargliene; ma la guida scuotendo il capo mormorò:

—E' male, male.

—Che cosa?—chiese il Salvago.

—Male che il signore beva liquore—balbettò la guida nel suo imperfetto linguaggio. Ma intanto Rosaia era di nuovo rinvigorito e camminò per più di mezz'ora senza lagnarsi.

—Ancora… ancora…—disse fermandosi all'improvviso, e piegandosi su sè stesso.

Il Serrati gli diede la bottiglia, e Rosalia ne fece un lungo sorso. Gli parve di star meglio, si ripose in cammino… poi, ad un tratto, cadde, come morto.

—E' inutile andare avanti—disse Enrico, vedendo anche negli altri i segni di mortale stanchezza.—Fermiamoci qui e aspettiamo il giorno.

—Sarà la morte per tutti—disse la guida. —E tutti rabbrividirono.

—Allora che dobbiamo fare?—chiese il Serrati.

—Andare innanzi, cercare—rispose il montanaro.

—Ebbene—propose il Vinchi—se qualcuno si sente la forza vada innanzi con la guida a cercare il cammino; gli altri resteranno qui.

Manueli si offerse di andare. Gli altri, gettando sul ghiaccio le corde, le coperte, i panieri delle provviste, si fecero dei giacigli, sui quali si sdraiarono, raccomandando a vicenda di non addormentarsi.

—Il sonno quassù è la morte—disse Salvago.

E incominciò quella terribile, indimenticabile notte. Il sonno, nemico mortale, scendeva pesante sulle palpebre, sulle membra affievolite, e l'anima doveva lottare con quel sonno, respingerlo. Il freddo era pungente, e, stando così inerti, diventava spaventoso. Ora l'uno ora l'altro si sforzavano di camminare, di muoversi, ma la stanchezza era più forte, e nemmeno il terrore della morte vinceva il torpore ond' erano invasi. Un formicolìo doloroso faceva rattrarre le gambe, le braccia, correva pel filo della schiena; il corpo pareva diventasse di piombo; nel cervello turbinavano tutte le stelle del cielo.

Pure, in quella tortura, il pensiero non si staccava da colui che pareva soffrire più di tutti. Il povero Rosaia, pareva fuori dei sensi, e certo delirava, nè riusciva a drizzarsi, e continuava a dire le più strane cose del mondo, senza com prendere affatto le parole di conforto, che i compagni gli rivolgevano.

Anche per Clara ognuno aveva una attenzione gentile, nonostante che nessun pensiero di galanteria potesse sorgere negli animi in quei momenti. Ma le avevano accomodato il giaciglione migliore, l'avevano coperta meglio d' ogni altro, ed ella infatti, sostenuta dalla speranza e dall'amore, soffriva forse meno di tutti, e aveva ancora l'energia sufficiente per rianimare gli altri.

Ora il Rosaia taceva, intorpidito, e allora Enrico e Serrati, e quindi per turno gli altri, si posero a fargli energiche fregagioni per tutto il corpo; anche gli si coricavano addosso ora l'uno ora l'altro, per riscaldarlo del loro calore. Ma egli, riavutosi alquanto, riprese a parlare, chiamando dolentemente sua madre.

—Mamma! mamma! tornerò a Natale. Tornerò certamente a Natale! Mammina, ti ho portato il vestito nuovo. E' un vestito nero? Perchè metti le vesti nere? Per chi fai il lutto, mamma?

—Oh, finiscila!—gli urlò sulla faccia il Serrati, che aveva la gola chiusa dai singhiozzi.— Egli conosceva la madre di Rosaia, una buona contadina del Monferrato, che aveva fatto molti sagrifizi per mandare suo figlio a studiare a Torino…

Il Rosaia parve per un po' di tempo tran quillo. Forse dormiva, e i compagni pensarono di lasciarlo in pace. Essi stessi si coricavano sul ghiaccio, voltando di tanto in tanto il fianco, perchè la parte che era a contatto del suolo si serbava più calda, mentre l'altra, esposta al freddo esterno, si raffreddava rapidamente, e si copriva di uno strato di ghiaccio.

Le ore erano eterne.

Ad un tratto Salvago, volgendosi a Serrati, disse per fargli coraggio:

—L'alba non può essere lontana. Gli altri due torneranno, appena giorno, con altre guide e soc corsi, e ci condurranno in salvo.

—L'alba ci troverà tutti morti—disse il Rosaia, che tutti credevano addormentato.

E quella lugubre profezia agghiacciò tutti i cuori.

—Ah, Clara! che hai tu fatto!—disse dolorosamente Salvago—se moriamo qui, sarò io che ti ho uccisa!

—Che importa? E se tu fossi morto solo? lontano da me?—disse Clara;—no, io non mi pento di essere venuta. Ma non morremo, no, coraggio. All'alba avremo soccorso.

Passò qualche tempo ancora. Chi sa quanto! Pareva eterno! Oramai nessuno parlava più. Quando ad un tratto il Rosaia, rizzandosi a mezzo, rivolse a Salvago un viso stravolto e uno sguardo vitreo:

—Che ora è?—chiese ad alta voce.

Tutti si scossero a quelle parole, tutti si volsero a Salvago, il cui orologio, solo, camminava ancora, dopo tante peripezie.

Egli trasse l'orologio, lo tenne alto, contro il raggio lunare, riflesso dai ghiacciai, e vide che era mezzanotte! Appena mezzanotte! Un grande spavento lo colse, ma, vincendolo, e volendo infondere coraggio agli sventurati compagni:

—Sono le sei del mattino!—disse,—fra mezz'ora avremo dei soccorsi. Signori, buon capo d'anno!

L'udienza che il conte Salvago, appena arrivato a Torino, chiese al Re, gli fu concessa per le sei antimeridiane del giorno dopo. Questa facilità lo colmò di gioia. Era segno che il Re era ben disposto verso di lui, ed era anche possibile che, fino al domani, nulla si sapesse a Torino della fuga dei giovani, tanto erano ancora lente le comunicazioni. Quanto al processo, al quale gli accusati dovevano comparire quella mattina, esso sarebbe probabilmente continuato lo stesso, con gli altri numerosi imputati, che erano stati tenuti a Torino; ad ogni modo la loro assenza si potrebbe scusare con il cattivo stato delle strade e con la nevicata della notte.

Comunque, la giornata passò senza incidenti, e senza che il Salvago udisse parlare dell'accaduto.

Del resto, poichè oramai i processi erano pubblici, egli si era presentato al tribunale, ma, come aveva preveduto, nessuno parve occuparsi dei prigionieri di Fenestrelle, e fu solo interrogato, assai blandamente, qualche altro, imputato di ribellione alla forza pubblica.

Il Salvago si recò all'udienza reale, senza avere nessuna notizia dei fuggitivi, che avrebbero dovuto, secondo il suo calcolo, già essere in Francia da parecchie ore. Egli non era grandemente preoccupato della loro sorte; era certo che sarebbero in salvo prima che si potesse peusare a inseguirli; le strade di montagna erano cattive, è voro. e il tempo era brutto, ma cinque giovinotti, con buoni cavalli, viveri a sufficienza e denaro, non potevano certo pericolare, tanto più che l'itinerario fissato in precedenza menava per luoghi facilmente accessibili.

In queste liete disposizioni d'animo egli giunse dal Re, che lo aspettava, e che lo salutò col viso ilare e con un:

—Oh, Salvago! di buon augurio.

—Non sa niente—pensò il conte—eppure a quest'ora la guardia fuggitiva deve avere raccontato tutto. Come mai?

—Ebbene? Che nuove?—disse il Re.—Che fanno a Milano? Io so che voi siete in relazione con Zani.

—Maestà, certamente! A Milano non si aspetta che il momento opportuno; oh, i milanesi faranno il loro dovere!…

—Vi sono gravi notizie anche da Parigi e da Vienna—disse il Re, che pareva assai lieto.

—Gravissime, è vero, Sire: e non credo andrà molto che vi scoppierà la rivoluzione.

—Ah, ah, lo pensate voi? Ma che faranno in Francia? la repubblica?

—E' probabile, Sire.

—E in Austria?

—Non credo, Sire.

—Ah, ah,—disse ridendo Carlo Alberto— dovrebbe essere buffa una repubblica in Austria! … Una repubblica in Austria!—ripetè, rallegrandosi al pensiero dell'imbarazzo in cui si troverebbe la sua nemica—Vorrei vedere che farebbe Franz, il mio amico Franz!…

Salvago rise anche lui, stupìto di vedere il Re così allegro.

—A Milano non fumano più e non prendono più tabacco?—disse il Re sorridendo.

—No; i milanesi hanno fatto questo sacrifizio per far dispetto ai tedeschi!

—Ah, ah, vorrei vedere Radezky! Quel caro Radezky! sarà furioso!

—Oh sì, egli dispensa dei buoni sigari ai suoi soldati e li manda a fumare per Milano, proprio sul naso dei cittadini. E che botte! che epiteti corrono da una parte all'altra!

—Quei croati! Non li possono soffrire, vero, i milanesi? Ho letto—e qui abbassò la voce e si guardò intorno—ho letto certi versi del Giusti… Sì, guardate,—e aperse un volume, che era quasi nascosto dietro a molti altri,—questi:

Entro e ti trovo un pieno di soldati, di quei soldati settentrionali, come sarebbe boemi o croati, messi qui nella vigna a far da pali…

e continuò a leggere alcune strofe del Santo Ambrogio, visibilmente esaltandosi in quella lettura.

—Ah, come sono lieto che Vostra Maestà conosca questi versi!—disse Salvago.

Carlo Alberto nascose il libro, e, con faccia più seria:

—Ma voi, conte, mi avete chiesto udienza, non per sentirmi recitare dei versi. Dite, che cosa volete?

—Sire, io vengo ad accusarmi a Vostra Maestà!

—Accusarvi, Salvago, di che? E… a proposito, come sta vostro figlio? Io penso che questo processo si finirà presto, e che tutti questi giovani se la caveranno facilmente… con poco.

—Sire, è di mio figlio che sono venuto a parlare a Vostra Maestà!

—Di vostro figlio?—esclamò il re, rabbuiandosi in viso.—Che è accaduto? Parlate.

Sire! La Maestà Vostra si ricorda forse, che, per sua clemenza, mi aveva dato un salvacondotto per mio figlio…

—Un salvacondotto… sì… una carta… mi ricordo. E che ne avete fatto?

—L'ho adoperato, sire.

—Ma come?

—L'ho presentato al comandante di Fenestrelle, ed egli ha lasciato libero mio figlio.

—Come! Ah… la carta diceva dunque… Ebbene! —finì il re, come prendendo una energica risoluzione—sia pure! Quando erano di moda i biglietti regi ne ho liberati tanti che valevano molto meno di vostro figlio! Questa volta forse è una buona azione!

—Siano grazie a Vostra Maestà! Ma… c'è dell'altro.

—Che mai?

—Enrico aveva degli amici meno colpevoli di lui, e come lui chiusi a Fenestrelle. Questi amici dovevano ieri mattina essere condotti a Torino per il processo.

—Ebbene?

—Ebbene!… Essi sono fuggiti di mano alle guardie, e probabilmente a quest'ora hanno riparato in Francia.

—Come, come, conte Salvago! che mi raccontate mai? Ma questa è cosa grave, gravissima, che renderà assai più difficile la posizione degli accusati.

—Sire! Non vi fu alcun spargimento di sangue! La vita delle guardie è stata rispettata.

—Suvvia, raccontate come va questa faccenda —disse il re, sempre più rannuvolato—ciò mi dispiace moltissimo.

Salvago raccontò tutto lealmente, solo tacque la parte che l'albergatore di Perosa e sua figlia avevano avuto nell'intrigo.

Visibilmente la faccia del re si rischiarava, e un impercettibile sorriso errava sulle sue labbra. Gli è che egli amava tutto quello che era meraviglioso, avventuroso, e gli atti di coraggio lo esaltavano. Egli era cavalleresco e ardito, e avrebbe, confessava agli intimi, preferito una vita a modo suo, piuttosto che quella compassata e misurata del re. Avrebbe voluto essere un cavaliere del Medio evo, come diceva qualche volta ai suoi, e vivere di battaglie e di avventure, piuttosto che in questo secolo borghese, in cui non ci si batteva più!

Il conte Salvago si accorgeva benissimo dell'effetto che il suo racconto faceva sull'animo del re, e non trascurava nessun particolare drammatico, compreso quello della fuga di Clara Neyroni.

—Ma come! Ha osato tanto! La ricordo, la baronessa Neyroni! Una pallida, coi capelli rossi!… E perchè è fuggita? Dal momento che era vedova!

—Sire, è fuggita prima di tutto perchè voleva condividere col suo fidanzato i pericoli dell'avventura, poi… perchè a Torino non si sentiva pienamente sicura.

—Come! non sicura!

—Temeva di cadere vittima delle arti dei gesuiti, Sire!

—Possibile! Ma in che modo?

—La contessa della Marca, la madre di Clara, voleva che sua figlia ritornasse a stare con lei, e certo la signora avrebbe dovuto ubbidire, perchè, alla morte del marito, nulla le rimaneva, nè la casa, nè un soldo dei milioni del barone. Egli è morto senza lasciare nulla a sua moglie! Tutte le sue ricchezze vanno ad Istituti di beneficenza!

—Ah, l'ho sentito dire! ma non sapevo che lasciava sua moglie nella miseria!

—Nella miseria, Sire, è la parola, perchè i della Marca non hanno più quasi da vivere, e l'Opera di San Paolo mantiene la vecchia contessa… A Clara ripugnava di vivere di quella carità… Temeva anche l'influenza che potevano avere sull'animo suo le continue esortazioni della madre e del confessore; temeva una vita di continue rinunzie, di prigionia, quasi, che certo le sarebbe stata imposta… insomma, ha preferito partire, e, appena in Francia, ella sposerà mio figlio!

—Che storia! sembra un romanzo!—disse il re, che non nascondeva di esserne divertito. —Ma, in nome di Dio, Salvago! quei ragazzi hanno fatto malissimo! Mi mettono in grave imbarazzo! Perchè non aspettare l'esito del processo?

—E se erano condannati?

—Eh, che i giudici erano tutti ben disposti, lo so!

—Forse, Sire. Ma io mi permetto di dire a Vostra Maestà che alcuni non erano ben disposti. Il partito nero, Sire, tendeva piuttosto alla severità, con l'intenzione apparente di dare un esempio, e di spaventare i cospiratori futuri, ma con l'intenzione subdola di rendere così odiato il nome del Re al suo popolo!

—Oh, Salvago!—esclamò il Re impallidendo a quelle ardite parole.

—Domando perdono alla Maestà Vostra, ma, questa è la verità. E allora la condanna poteva essere crudele. Anni e anni di carcere, Sire. Essi hanno preferito la libertà, perchè vogliono lottare e lavorare per la patria!

—Ma, se anche fosse venuta una condanna, non c'ero io? Non ho io forse il diritto di grazia? —replicò il Re.

Salvago non rispose; egli non voleva dire quello che pensava, cioè che il Re avrebbe forse fatto solo quello che gli suggerivano i reazionari…

—Basta,—disse il Re scuotendo il capo— sarà una faccenda difficile da aggiustare. Ma come mai io non ho ancora saputo nulla di tutto ciò? E' impossibile che la nuova non sia giunta a Torino!

E suonò il campanello.

—Andate immediatamente a cercare il commissario Tosi e venga subito qui—disse il Re al servo che era apparso.

—E intanto, dove sono adesso quei temerari? Siete sicuro che sieno in Francia?

—Io spero, Sire, ma non ne ho notizia.

—Appena saprete qualcosa, venitemelo a dire —concluse il Re; ma non congedò il conte, immaginando che gli piacesse assistere al colloquio con Tosi.

Gli diede invece a leggere le ultime corrispondenze che aveva ricevuto da Parigi, e dove si davano notizie dei torbidi crescenti.

Dieci minuti dopo il Tosi, tutto tremante, e con aria pietosa si presentava a Carlo Alberto.

—Sapete darmi notizie di Fenestrelle?—domandò bruscamente il Re.

Tosi, allibito, raccontò che il giorno prima, verso mezzogiorno, era giunta la guardia fuggita, e aveva fatto rapporto della fuga. Che subito egli aveva disposto per l'inseguimento dei prigionieri…

—Ritirate ogni ordine in proposito—disse Carlo Alberto.—E… perchè io non sono stato informato di questo fatto?

Il Tosi si scusò, dicendo che egli aveva fatto il suo rapporto al ministro di polizia, e fu licenziato.

—Non hanno voluto dirmi nulla: hanno sperato di ripigliare i fuggiti, e che nessuno ne sapesse nulla… Basta, vedremo!… Ah, gioventù, gioventù… e sospirò.—Conte Salvago!—disse poi, come risovvenendosi di una cosa dimenticata, ma il conte notò che egli arrossiva lievemente. —Oggi voi verrete con me… A proposito di gioventù, andremo a Moncalieri, a visitare il Collegio dei Padri Barnabiti. Sapete che esso è sotto la mia protezione, e che tutti gli anni vado a fare quella visita. Quest'anno l'anticiperò… perchè non so che cosa potrà accadere… Là dentro ci sono dei giovani delle migliori famiglie. In caso di guerra, io penso che molti verranno con noi…

Il conte Salvago s' inchinò profondamente e disse:

—Benchè il collegio sia tenuto da preti, so che il sentimento dell'italianità vi è tuttavia assai alto. Io credo che la Maestà Vostra vi troverà molti volontari. Quei giovani adorano la Maestà Vostra!

—Ebbene, conte Salvago! Oggi alle due, trovatevi qui. Faremo una visita privata… Noi due soli… E… quanto alla storia che mi avete narrata, dite a quei giovani che il giorno in cui avrò bisogno di soldati, essi avranno libero ritorno in Piemonte… Prima no!…

Salvago uscì tutto racconsolato dall' udienza reale. Il colpo oramai si poteva dire riuscito, la partita era guadagnata. Senza dubbio anche il resto del minacciato processo doveva finire in un bicchiere d'acqua; il Re era ben disposto, e temeva ormai l'impopolarità, che certo gli sarebbe venuta da una condanna. Era anche così allegro quella mattina! Erano solo le notizie di Milano e di Vienna, gli imbarazzi della odiata Austria, che lo mettevano di buon umore? Il Salvago sorrise. Egli sapeva che la progettata visita al collegio di Moncalieri entrava per gran parte in quell'allegria.

Nella stessa mattina il conte Salvago andò dalla marchesa, ed ebbe con lei un colloquio assai breve, ma che lasciò Elisabetta molto soddisfatta.

Alle due, puntualmente, Carlo Alberto e il conte Salvago, in vettura chiusa, con servitori senza livrea, uscivano dal palazzo reale, e si dirigevano, lungo il Po, verso Moncalieri.

Il Re conservava l'apparenza lieta del mattino, pure un' ombra di malinconia era sul suo viso. Non parlava quasi; appena di tanto in tanto, quando s'accorgeva anche del silenzio del compagno, gli rivolgeva una qualche domanda, con l'evidente intenzione di farlo discorrere, perchè non si avvedesse del suo proprio mutismo.

E infatti il Salvago parlava, rievocando memorie di Moncalieri e dello storico castello, che già si vedeva, rosso sulla collina. Ma egli sapeva benissimo che il suo augusto compagno non l'ascoltava, e pareva vedesse sul suo viso pallido passare i pensieri che gli tumultuavano in cuore.

Giunti a Moncalieri, così senza che nessuno avviso fosse arrivato al Collegio, della visita reale, i due signori, scesi di carrozza; suonarono la campana della porta, e subito vi comparve un prete, una specie di portinaio, che non conosceva il Re, e che rimase stupìto alla vista dei due visitatori.

Carlo Alberto indossava la piccola tenuta, di generale.

—Veramente…—balbettò egli, guardando la carrozza, ferma a poca distanza—veramente… non è ora di visita, e il superiore è occupato… Pure, proverò…! Chi devo annunziare?

—Sua Maestà il Re—disse Salvago, dopo aver consultato con uno sguardo Carlo Alberto.

Il povero prete si piegò in due, si rialzò, pallido come un morto, e, senza dire una parola, scomparve per un uscio che lasciò aperto, con una rapidità che fece sorridere i due visitatori.

Un minuto dopo il superiore, rosso, confuso, era davanti al Sovrano, e lo introduceva nella sala di ricevimento.

—Ci conduca subito a trovare i giovani, padre —disse il Re affabilmente;—sarò lieto di vederli così, senza alcuna preparazione…

Fu obbedito subito e condotto in una vasta aula, dove già gli allievi erano radunati, schierati, pronti a ricevere il Sovrano.

All'entrare che fece Carlo Alberto, essi manda rono un grido, e lo ripeterono tre volte, facendo il saluto: «Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!»

Carlo Alberto salutò, sorrise, e stette alquanto immobile a guardare quel centinaio di giovani, molti dei quali erano sui venti anni, altri bambini ancora, di dieci, undici… Erano i più puri rappresentanti della aristocrazia piemontese, tutti figliuoli di nobili; perchè, nonostante la fiera concorrenza che gli facevano i gesuiti, il collegio di Moncalieri godeva di antica e meritata stima; e quelle famiglie aristocratiche che avevano ancora il pregiudizio che non fosse abbastanza decoroso mandare i loro figliuoli alla Università, ma che pure pensavano troppo liberalmente per lasciarli in mano dei gesuiti, li mandavano volentieri dai padri barnabiti, e non li ritiravano che per dar loro moglie, o per farli entrare nella carriera militare.

Lo sguardo del Re passò lento su tutte le file. Moltissimi di quei giovani li conosceva, o per averli già veduti nel collegio. o perchè ritrovava sui loro visi i lineamenti di persone assai note della sua Corte. Quasi tutti visi aristocra tici e fini, ancora imberbi, illuminati allora d'orgoglio e di gioia, o rossi di commozione, di rispetto… Le tuniche azzurro-cupe, di taglio quasi militare, serravano elegantemente quei corpi esili di adolescenti, alcuni dei quali erano improntati alla suprema distinzionc di tutta una razza. Per un momento lo sguardo del Re si fermò sulla prima fila, sopra un punto solo… Era un giovinetto di forse diciassette anni, alto, biondo, con occhi azzurri; non bello, assai pallido e magro, dal viso lungo, dal mento acuto… Su quel viso era sparsa una espressione di grande bontà, di dolcezza, di malinconia; solo gli occhi, pur dolci, avevano un non so che di fiero, di risoluto, sotto le ciglia bionde… Quegli occhi sostennero lo sguardo del Re; ma senza iattanza, senza temerità; con espressione seria e soave… Carlo Alberto voltò via i suoi, come imbarazzato, e, parlando all'uno o all'altro dei giovani che conosceva, rivolse loro alcune domande:

—Voi, Provana, sempre poeta?—chiese a un fanciullone bruno, con due occhi bruni, giocondi.

—Sì, Maestà—rispose.

—Oh, e quali sono i vostri ultimi versi? Li sapete a memoria?

—Sì, Maestà.

—Diteli dunque.

Il giovane con voce alta e morbida recitò un sonetto, la cui ultima terzina diceva:

Io chiedo un brando a questa patria mia e, nel momento del periglio estremo, le chiedo solo ch'essa vil non sia.

Carlo Alberto sorrise:

—Bravo! E perchè chiedete un brando alla patria?

—Sire, per combattere contro i suoi nemici!

—Sicchè…—disse il Re lentamente—se si trattasse di marciare contro i nemici della patria, voi, Provana, ve ne sentireste il coraggio?

—Ah, sì, Maestà—e gli occhi gli brillarono.

—Quanti anni avete?

—Diciotto, Sire.

—E voi, di Monfosco?—disse allora il Re guardando il giovinetto biondo, che era in prima fila—ci andreste alla guerra, voi?

—Oh, con tutta l'anima, Sire!—esclamò il giovine, e divenne di fuoco.

Il Re lo considerò un momento, e una espressione di tenerezza gli si dipinse sul viso.

—Ma voi siete troppo giovine! Non avete che diciassette anni!

—Non importa, Sire!

—Non vi dispiacerebbe lasciare… Torino, la casa vostra?

—Io non ho casa, Sire, perchè non ho più nè padre, nè madre. Non lascerei che la zia.

—E non vi dispiacerebbe lasciare la zia?

—Sì, tanto, Sire! l'amo come mia madre… Ma… amo di più l'Italia!

Il Re parlò con altri, e non guardò più il giovine Monfosco, ma era divenuto serio e grave.

—Voi, di Maiano—chiese ad un giovinetto di soli quindici anni—voi avete un fratello nell'esercito! La vostra volta non verrà così presto.

—Appena mi prenderanno, Sire—rispose arditamente il di Maiano, che era il nipote della contessa Pallottini: e la risposta fece di nuovo sorridere il Re.

Egli si intrattenne più di un'ora coi giovani: passava vicino a loro, parlava familiarmente, come dimentico della stucchevole etichetta di Corte. Si sentiva felice tra quella fresca giovinezza, mirando quei visi adolescenti, quegli occhi puri, quelle bocche che ancora non conoscevano la menzogna.

Si rivolse anche, più di una volta, al giovine Monfosco, che rispondeva con voce dolce, un po' molle, ma con sguardo fiero e risoluto.

Un momento dopo, guardando le esili spalle del giovinetto, il petto sottile, gli chiese:

—E la vostra salute, Filiberto?

Il giovinetto trasalì, nell'udirsi chiamare per nome; e i suoi occhi brillarono:

—Meglio, Sire, molto meglio—rispose.

—Ma… eravate indisposto l'anno scorso, quando io venni… e anche dopo… ho inteso.

—Ora sto perfettamente bene, Sire!—rispose il fanciullo.

Il Re parve soddisfatto di quelle parole, e, volgendo il discorso a tutti:

—Conservatevi sani di cuore e di corpo!— disse.—La patria potrà aver bisogno di voi. Molti di voi sono troppo giovani, per servirla sul campo, se il bisogno lo richiedesse, ma tutti tutti, giovani e vecchi, e i fanciulli stessi, dobbiamo servirla, amandola e facendo il bene! Chi sa che cosa sono destinati a vedere molti di voi!… Forse tempi nuovi e gloriosi… Siate sempre degni della patria… e della libertà.

—Viva il Re!—risposero con un formidabile grido i giovinetti.

Uscendo, il Re guardò ancora una volta Fili berto e gli sorrise. Quindi lasciò l'aula, dove il grido si ripeteva sempre più insistente:

—Viva il Re!

E già qualche altro grido si mescolava a quello:

—Viva l'Italia!

Prima di lasciare il collegio, il Re, come soleva tutti gli anni, chiese di essere lasciato entrare solo nella cappella, dove egli amava fare orazione, senza essere disturbato e, dove lasciava sempre una cospicua somma per i poveri del paese.

Quella cappella comunicava con la strada, ed era aperta al pubblico in certe solennità. Quel giorno era deserta.

Carlo Alberto s'inginocchiò, e pregò alcuni minuti in silenzio. Quando si alzò, vide, con sua meraviglia che una donna vestita di scuro, con un gran velo sul viso, era in piedi a poca distanza da lui.

Subito egli s'incamminò per uscire, ma la donna, gettando indietro il velo, si prosternò sino a terra dinanzi a lui. Egli allora la riconobbe.

—Elisabetta!—mormorò.

—Sire, son io,—rispose la donna.

—Voi qui! quale imprudenza!

—Nessuno mi ha veduto entrare,—rispose Elisabetta,—uscirò da un'altra porta.

—E che volete, Elisabetta?

—Null'altro che vedervi un momento, Sire, e dirvi: Grazie!

—Filiberto mi parve assai cresciuto… e bello, —disse il Re sorridendo.

—Oh, egli è tutto il ritratto di Vostra Maestà!

—Credete? Mi pare… infatti… Egli dice che vuole andare alla guerra…

—Filiberto farà il suo dovere, quando sia l'ora, —disse la marchesa.

—E' così giovane!—disse il re.—Pure, ha ragione!

—Sire! Io non esiterò a offrirlo alla patria nel giorno del bisogno, ma la Maestà Vostra lo guardi nell'ora del pericolo, e si ricordi che io non ho più nulla al mondo, altri che lui!

—Conviene lasciarci, Elisabetta—disse il re con voce commossa.—E vi prego… non tentate più di rivedermi… per ora. Quando avrò fatto tutto quello che la patria vuole da me… Chi sa, allora!…

—Oh, grazie, grazie, Sire, di queste parole! —esclamò Elisabetta, e, prendendo una mano del re, la baciò fervidamente.

—Siete sempre bella—disse il re, con voce lenta e malinconica. Quindi, traendo a sè la mano di lei, con la quale ella ancora lo teneva, se la appressò alle labbra.

—Addio, Elisabetta!—disse, e si avviò alla porta.

In un momento la marchesa era scomparsa.

Il re trovò fuori della chiesa il Superiore e Salvago, che avevano rispettato il suo desiderio di solitudine, e, prima di salire in carrozza, disse ancora al padre, in tono confidenziale:

—Vi raccomando tutti questi giovani. Sono le speranze più care della nostra patria! Vi raccomando specialmente Filiberto di Monfosco. E' un giovane gracile, che ha bisogno di cure particolari. E poi… lo sapete… non ha nessuno, fuorchè una parente…

Il rettore si profuse in promesse e in ringraziamenti; dalle finestre del collegio, tutte gremite di giovani teste, partì ancora un evviva! fremente e sonoro, e già da ogni parte accorreva il popolo, tra il quale si era sparsa la nuova della presenza del re.

—Evviva, evviva, evviva!—gridavano, finchè la carrozza fu visibile.

—Ora gridano osanna!—disse malinconi camente Carlo Alberto—ma non grideranno mai crucifige?

Per molti giorni il conte Salvago era stato senza notizie di suo figlio e degli altri fuggitivi, e già la sua inquietudine era estrema, e pensava di mettersi egli stesso addirittura alla loro ricerca, quando finalmente, nei primi di gennaio ebbe una lunga lettera, nella quale Enrico gli narrava le peripezie della loro fuga.

All'alba del primo gennaio erano stati finalmente soccorsi dalle guide francesi; ma il povero Rosaia, che aveva delirato tutta la notte, era morto, e il Serrati ebbe a soffrire l'amputazione di alcune dita di un piede, che gli si erano gelate.

Povero Rosaia! Enrico aveva per lui parole di profondo cordoglio, tanto più che lasciava la madre vecchia e due sorelle minori, delle quali egli avrebbe dovuto essere l'unico sostegno.

Il conte Salvago andò subito dalla marchesa d'Avoli a portarle le notizie ricevute, e, con sua sorpresa, vi trovò il capitano Fanti, che egli non aveva mai veduto in casa di Elisabetta.

Questa accolse il suo amico sorridendo:

—Venite, venite innanzi! Voi conoscete il capitano, e credo che vi racconterà delle cose interessanti.

Il capitano Fanti era venuto appena quel giorno a far visita alla marchesa d'Avoli, dopo la strana avventura toccatagli sulla strada di Fenestrelle. Egli non aveva capito nulla della lettera di Clara, non riusciva a persuadersi che la signora dalle chiome fulve, che egli aveva scortato sino a Torino, non fosse la bella baronessa, capiva solo di essere stato ingannato, e ciò lo stizziva tanto che non si era curato di approfondire la cosa…

Aveva poi saputo anche della morte del marito di Clara, e della scomparsa di questa dal suo palazzo, senza che nessuno sapesse dove fosse finita. Anche qualcosa della fuga dei prigionieri di Fenestrelle si andava buccinando qua e là; e voci contraddittorie erano giunte all'orecchio del Fanti. Così che la curiosità la vinse sull'amor proprio, e quel giorno, improvvisamente deciso, era andato dalla marchesa, alla quale narrò, con spirito, e ridendo di sè stesso, la curiosa avventura.

La marchesa, ridendo pure lei, raccontò al capitano tutto ciò che ella stessa sapeva, e la parte da lei presa nella fuga dei prigionieri. Il Fanti rimase meravigliato della strana rassomiglianza di Clara, con l'umile serva di albergo, e a stento se ne persuase, pur mostrando cortesemente di crederci.

Era anche troppo generoso per non interessarsi della sorte degli arditi fuggitivi, e, quando la marchesa gli disse che, da quella notte, nessuna notizia più ne era giuuta, egli se ne dispiacque sinceramente.

L'arrivo di Salvago dissipò ogni inquietudine, benchè la sorte del povero Rosaia fosse sinceramente pianta da tutti.

Naturalmente il discorso cadde sulla politica.

Il Fanti era stato ricevuto a Corte, e Carlo Alberto gli aveva dimostrato grande benevolenza, e gli aveva fatto capire chiaramente che fra poco egli avrebbe avuto bisogno dell'opera sua.

—Questa volta la guerra l'avremo—disse il Fanti—e non sarà per ridere. Le notizie dell'Austria sono ottime per noi, e pessime per il vecchio Metternich. Ah, egli stesso ha detto: «Per me la partita è perduta», e questa volta egli sarà profeta!

—La vecchia volpe!—esclamò Elisabetta —Gli sta bene. Egli avrà il dolore di vedere sconquassato l'edificio colossale, intorno al quale ha speso tutta la sua vita!

—Sì, lo stesso imperatore non si mostra più così benevolo per il suo grande cancelliere… Gratitudine dei re!—disse Salvago.

—Ed è vero, è proprio vero il ritiro del conte Solaro?

—Stavolta è vero. Ma ce n' è voluto per fargli lasciare il boccone! E il re che non osava mai! Sapete che già dall'agosto scorso da Racconigi Carlo Alberto gli aveva scritto, che egli temeva che il Solaro della Margherita non godesse più la simpatia dei piemontesi. E il conte Solaro rispose avrebbe tenuto il portafoglio lo stesso. Ora il Villamarina deve la sua uscita dal ministero allo stesso Solaro, che era il suo peggiore nemico.

—Ma dunque Villamarina se ne va davvero?

—Oh, sì! egli ha date le sue dimissioni.

—Ciò spiacerà al popolo.

—Sì, perchè il Villamarina è furbo ed aveva saputo rendersi popolare… Ma non sarà una grande perdita per il paese.

—Eppure il Villamarina è stato un appoggio per il partito liberale.

—Assai debole. Se avesse voluto avrebbe potuto fare di più.

—Egli era paralizzato dalla cattiva volontà del governatore—disse il capitano Fanti;— il conte Sallier Della Torre è acerrimo nemico dei liberali e la sua influenza sul re è grande.

—E' un errore—rispose Salvago;—nessuno ha vera influenza sul re, nemmeno i gesuiti. Piuttosto Carlo Alberto teme il Della Torre. Egli non dimentica l'antica soggezione in cui fu tenuto da lui. Quando nel '21 tutto il regno era sossopra, e Carlo Alberto riparò pentito a Novara, egli si presentò, per ordine di Carlo Felice, al Della Torre, che, con grande abilità, aveva radunato intorno a sè i reggimenti non ancora defezionati, e tutti coloro che pendevano incerti fra i due partiti. Allora il Della Torre, che salvò così il regno a Carlo Felice, accolse Carlo Alberto con severe parole; pure più tardi riuscì ad addolcire l'animo del re, che era assai mal disposto verso il principe di Carignano. E alla morte di Carlo Felice, chi sa chi sarebbe stato Re del Piemonte, se pure il Piemonte avrebbe ancora avuto un re! se il Della Torre, quasi di sorpresa, non avesse sollecitamente ottenuto il giuramento delle truppe, delle autorità, della magistratura! Carlo Alberto si trovò sul trono senza troppa fatica, e questo lo deve al Della Torre. Non ha dimenticato tale atto di devozione, e, forse, gliene è grato ancora.

—Ah, quello che sarà la piaga di Torino, finchè vive, è monsignor Fransoni!—sospirò il Fanti.—Chi direbbe che è stato da giovane ufficiale di cavalleria? Non gli è rimasto del suo antico mestiere altro che l'abitudine di fare dello spirito; uno spirito di assai cattiva lega!… Ma la burbanza aristcoratica, l'alterigia, la cattiveria, l'ostinatezza sono qualità che ha preso certo dal suo nuovo mestiere di prete…

—Carlo Alberto ha paura di lui, eppure lo odia—mormorò Elisabetta, che ricordava quanto il Fransoni le era stato nemico, e quale guerra acerrima le aveva fatto nel cuore del Re— Carlo Alberto sa che monsignor Fransoni si è vantato, a voce e per iscritto, di fargli paura… Per questo il Re lo odia.

—Il che non gli impedisce, ogni volta che l'arcivescovo si reca a palazzo, di riceverlo con atti di profondo ossequio e deferenza—disse il Salvago.

—Ah sì! Il re è debole, non osa!—mormorò Elisabetta;—e il Salvago aggiunse:

—Forse non oserà mai.

I due signori, preso quindi congedo dalla marchesa, vennero insieme verso Torino, e giunti nella piazza Vittorio Emanuele I, videro con meraviglia andare formandosi qua e là capannelli di popolo, che tutti parlavano animatamente, e si avviavano verso un centro comune. Era, si capiva, una delle solite dimostrazioni: giungevano continue le notizie da Milano della brutalità dei soldati austriaci, delle persecuzioni, degli arresti cagionati specialmente dalla ostinata resistenza dei milanesi di non volere nè fumare, nè giocare più al lotto, per danneggiare le casse dello Stato… Drappelli di profughi giungevano pure, ogni giorno, rifugiandosi in quella Torino, dove ormai riposavano le speranze e i sogni della libertà. Il racconto di ciò che avevano sofferto infiammava gli animi sempre più; vi era in tutte le parole, in tutti gli atti della folla una esaltazione sempre crescente.

Salvago e Fanti scesero di carrozza e si mescolarono con quella folla concitata. Le parole Austria, amnistia, guerra, libertà, ricorrevano più frequentemente. Si voleva andare sotto le finestre del palazzo reale, e domandare l'amnistia per tutti i condannati e gli imputati politici…

Tra la gente che andava ora in fretta, ora adagio, a seconda della commozione e del discorso del momento, i due signori videro tre individui che conoscevano, e che secondavano il moto della folla, pur come restandone fuori; uno gesticolando vivacemente, gli altri due parlando pacati. Uno, quello che pareva più vivace e animato, era alto, con un viso caratteristico, lineamenti marcati e una folta zazzera di capelli bruni; pareva un poeta… e lo era, perchè egli si chiamava Angelo Brofferio. Quello di mezzo era piccoletto, curvo, un po' gobbo, e parlava con voce acre e viva, ma con gesti moderati… Era il dottore Lorenzo Valerio. Il terzo, infine, di media statura, grasso, con una barba a collana e con gli occhiali cerchiati d'oro, era il figliuolo di Michele Cavour, l'odiato vicario di Torino; e si chiamava Camillo… nome che egli seppe, più tardi, rendere adorato dall'Italia… Allora egli scriveva sul Risorgimento, insieme a Pier Carlo Boggio, e manifestava principii liberali ma moderati e prudenti.

Salvago e Fanti si avvicinarono a questi tre, e chiesero il perchè di quella dimostrazione.

—Non sapete le notizie di Milano?—disse il Valerio.—I soldati austriaci ne hanno ammazzati più di sessanta inermi, iersera! E gli arresti sono infiniti!

—E non sapete ciò che accade a Venezia? —gridò il Brofferio—Hanno arrestato Tommasèo e Manin. E a Padova hanno arruolato gli studenti per mandarli soldati in Boemia.

—E a Udine sono scoppiati tumulti terribili —aggiunse ancora il Valerio.

—E ora che si fa?

—Si va a gridare tutte queste cose nell'orecchio del re!—gridò impetuoso il Brofferio.

—E udirà, anche se fosse sordo—aggiunse il Valerio.

—E voi, Conte, che ne pensate?—chiese Salvago a Cavour.

—Sì… sì…—rispose questi pacatamente— sono anch'io d'opinione che agitarsi è bene. Il tempo è buono. Ma non si farà nulla finchè…

—Finchè?…

—Finchè non sarà cacciato Luigi Filippo— mormorò Cavour.

—Ma credete proprio che si arriverà a quello? —chiese il Salvago.

—Fra pochi giorni—disse il Cavour, e sorrise.

Salvago e Fanti si staccarono dalla folla, pensierosi e preoccupati. Che cosa accadrebbe? Il re si sarebbe finalmente deciso? Già tante volte s'era sperato invano!

—Venite a pranzo con me, capitano—disse il Salvago. Ma il Fanti ricusò, con un pretesto. Aveva voglia di essere solo, di riflettere…

E quando fu nella sua camera, non erano solo i pensieri della patria che lo preoccupavano, ma la sua mente correva anche, per quanto egli volesse frenarla, a ciò che aveva udito raccontare dalla marchesa, a quella fuga di Clara, a quell'altra donna, che si diceva rassomigliasse tanto alla bellissima, che egli forse aveva amato…

Tormentato da dubbi, da curiosità, dalla stizza anche, forse da un certo senso di gelosia, egli decise improvvisamente di partire il domani, e di andare a vedere quella serva d'albergo che aveva così bene sostenuto la parte di una dama…

—E' vero—mormorò il capitano fra sè— che, per ingannare, non è necessario che una donna sia baronessa o contessa… E' un'arte nella quale riescono le dame e le villane, ugualmente…

Il domani all'alba era a cavallo, e, nella stessa giornata, giungeva al piccolo albergo di Perosa.

Come era quieto il paesello di montagna! Non faceva nemmeno un grande freddo. L'aria era calma e bianca: le casupole nere parevano abbandonate. Deserto pareva anche il piccolo albergo, quando il Fanti picchiò.

Poco dopo si affacciò un uomo: l'albergatore.

—Datemi da mangiare qualunque cosa— disse il Fanti, smontando da cavallo, e gettando le redini all'uomo; era veramente affamato.

L' albergatore non parve stupito di quella visita: egli era solito veder passare dal suo albergo i soldati e gli ufficiali che andavano a Fenestrelle. Lo introdusse nella stanza terrena e quindi sparì, senza parlare. Era un uomo taciturno: lo dicevano un pò scemo; ma v' era chi lo credeva molto furbo. Quando era stato trovato legato e imbavagliato nella cantina, le voci che erano corse sul suo conto furono varie; ma siccome le autorità non lo avevano punto molestato, tutti avevano finito col credere che egli fosse stato la vittima della violenza dei fuggitivi…

Pochi minuti dopo che il Fanti era seduto nella stanza terrena, aspettando, già annoiato, e rimproverandosi quel viaggio precipitoso e inconsulto, la porta si aprì ed entrò la figlia dell'albergatore con la tovaglia e i piatti.

Il capitano si alzò precipitosamente. Davvero, nonostante le umili vesti, egli credette per un momento ch'ella fosse Clara… Ma subito si rese conto dell'inganno e sorrise. Certo la ragazza somigliava a Clara, e la somiglianza doveva essere perfetta, specialmente di sera: ma era assai meno bella!

Le fattezze erano più irregolari, meno grandi e vivi gli occhi, meno nobile la fronte; il viso —che aveva in Clara un pallore di alabastro— era lievemente chiazzato di lentiggini. La chioma sola, foltissima, molle, aveva lo stesso colore, gli stessi riflessi di quella di Clara. Ma la persona stessa non aveva il portamento elegante, quella grazia un po' rigida che egli aveva tanto ammirato nella baronessa Neyroni. Questa, insomma, era una contadina, era una montanara, e non altro; e il capitano si stupiva ora di essersi lasciato ingannare cosi facilmente.

Anche la ragazza, entrando, si era fermata, confusa, e sotto gli sguardi del giovane il suo viso, che aveva quel biancore latteo comune alle rosse, si coprì d'intenso rossore. Certo ella aveva riconosciuto il capitano…

—Che mi portate da mangiare, bella ragazza? —domandò egli allegramente, perchè sentiva che oramai tutta la sua stizza era passata, e che sarebbe da sciocco il serbare rancore per una avventura, graziosa, in fondo. Questa giovinetta non era certo brutta, se anche non poteva competere con Clara; ed egli le aveva servito di scorta! Egli, marchese Fanti, capitano del Re, e tre altri nobili ufficiali. Ebbene, che male c'era? Servire di scorta a una bella donna non disonora nessuno, anche se quella donna è una montanara.

La giovane dispose sulla tavola ciò che aveva portato. Della carne, del pane, del burro, del miele. Ma le sue mani tremavano, ed ella evitava di guardare il capitano. Ciò lo divertiva assai, e, incominciando a mangiare con allegria, la invitò a sedere vicino a sè e a prendere parte del cibo.

Ella rifiutò con un sorriso che la fece più bella, ma acconsentì a rimanere, mentre il giovane desinava.

—Come vi chiamate, bella ragazza?

—Marie Jeanne—disse ella, pronunciando il suo nome in francese.

—Cara Marie Jeanne!—sapete che siete una bella creatura?

Ella divenne di fuoco.

—Ve l'hanno già detto altri, nevvero? che siete una bella figliuola? E… ditemi, come è stato il fatto di quella tal sera? Sapete? quando ci avete fatto fare, a me e ai miei amici, quella tale passeggiata fino a Torino?

Ella si schermì un momento, poi raccontò la cosa con semplicità. La baronessa non voleva che i signori ufficiali fossero lì, quando giungessero i prigionieri, e aveva imaginato quello stratagemma di far partire lei—Marie Jeanne—in vece sua.

—La signora baronessa diceva che io le somiglio —disse la giovane sorridendo e arrossendo così, di notte, forse…

—E' vero che le somigliate! specie quando ridete—disse il Fanti, convinto.

—Oh, signor capitano!

—Le somigliate, parola d'onore!—replicò il Fanti—e, d'improvviso, alzandosi, abbracciò la giovane e la baciò sulle labbra rosse.

Ella diede un lieve grido, divenne pallidissima e si staccò da lui.

—Perdonatemi—disse lui—sono uno sciocco.

E si vergognò di avere trattato così leggermente quella ragazza, che non aveva nulla di volgare.

—Sedetevi di nuovo—pregò egli—e vi prometto di non ricominciare.

Ella obbedì, guardandolo tuttavia con una certa diffidenza paurosa, che lo fece ridere.

—State sicura—replicò.—E ditemi, come mai parlate così bene, con tanto garbo? Certo avrete avuto una qualche istruzione.

—Ho imparato a leggere e a scrivere, e qualche poco leggo da me, francese e italiano— disse ella.

Il giovane si divertiva a farla chiacchierare, e udiva volentieri quella voce fresca e armoniosa, e gli piaceva sopratutto quel sorriso limpido, che scopriva i dentini di una bianchezza di latte…

Ma ella dovette anche lasciarlo, e andare ad aiutare il padre in altre faccende, e lui rimase solo in quella stanza di albergo di montagna, mentre già calava rapida la sera, e tornava a nevicare… Una grande malinconia incominciò a prendere il giovane.

Che farebbe ora? Passare la sera e la notte in quel misero albergo? Che idea era stata la sua di venire fin lassù? Ecco una giornata perduta, senza scopo, mentre a Torino c'era da fare, a Torino si agitavano tanti vitali interessi!

Volle montare a cavallo ed uscire, ma ben presto il vento e la neve lo costrinsero a ritornare all'albergo, e a rimanervi. La figlia dell'oste gli fece quasi continua compagnia, e i suoi discorsi divertivano il giovane, che trovava allora il tempo assai breve e quella stanzetta d'albergo abbastanza bella.

Quando il lume fu acceso, un piccolo lume a olio, che permetteva appena alla giovane di lavorare intorno a una maglia che ella faceva per suo padre, Fanti continuò a rimanere con lei in quella stanza terrena, senza decidersi ad andare nella sua, piccola e solitaria.

Marie Jeanne gli narrò qualche graziosa fiaba delle montagne, i laghi misteriosi, gli alberi abitati dalle streghe, i ponti fabbricati dai diavoli… e qualche gentile leggenda d'amore. Fuori intanto il vento fischiava e turbinava la neve…

Infine egli dovette decidersi di andare nella sua cameretta, e Marie Jeanne lo accompagnò fin sulla soglia, portando il lume.

—Marie Jeanne—disse il capitano stranamente commosso è peccato che un così bel fiore viva su queste montagne. Dovreste venire a Torino con me.

Le aveva preso le mani, e là, sulla porta, alla scarsa luce del lume ch'ella teneva, mentre i suoi bei capelli brillavano come onde di fuoco, egli si sentiva un desiderio immenso di chinarsi, di prenderla fra le braccia, di baciarla… Ma ricordava la sua promessa, non osava… benchè lei non avesse l'aria di volersi schermire.

Rispose invece:

—Oh, signor capitano! sono una povera ragazza… e non ho altri che il mio vecchio padre…

Egli la lasciò, un po' vergognoso, benchè sentisse il sangue montargli alla testa; e non le parlò più. Dopo pochi momenti ella se ne andò, lieve, salutandolo. Egli si spogliò e si mise immediatamente a letto.

Ma stentò molto a dormire, Fuori la bufera infuriava, e il vento pareva sconquassare la casa. Il giovane sentiva nel cuore la vergogna e qualche rimorso, e, al tempo stesso, una voce, una vile voce gli diceva:

—Ti sarebbe così facile avere quella bella creatura!

Ricordava quel rapido bacio sulle labbra. Non gli era parso di baciare Clara, in quel momento? Non era la sua passione mai confessata, che irrompeva su quella bocca? E una tentazione acuta lo spingeva, gli diceva: «Alzati! Forse ella ti aspetta!»

Finalmente si addormentò, e potè riposare fino al mattino. Allora, alzato, quando rivide Marie Jeanne, nella sua umile veste di montanara, col viso pallido e gli occhi rossi (non aveva dunque dormito e perchè?) non gli parve più sì bella come la sera prima, e si adirò con sè stesso per le sue follìe.

Prese commiato dal piccolo albergo e dalla giovane, dopo aver pagato il modesto conto, e avere aggiunto una moneta d'oro nel piatto.

—Per chi, signore?—chiese Marie Jeanne.

—Per voi, bella ragazza—rispose egli, con la sua aria da gran signore, montando a cavallo.

Ella non toccò il piatto e non disse grazie.

Il giovane capitano ritornò a Torino che era quasi sera. La città era ancora animata, tumultuosa come l'aveva lasciata. Sul viale del Re egli vide e riconobbe una carrozza di Corte, e dentro, con sua meraviglia grande, vide il Re Carlo e la Regina.

Come era possibile? Egli conosceva le abitudini di Carlo Alberto, del quale gli sovvenivano ancora le curiose ed esatte osservazioni che un diplomatico francese (il quale era rimasto incognito fino allora) stampava di lui su un giornale a Parigi:

«Egli ha molto più ingegno di coloro che lo circondano; vorrebbe dare un po' più di animazione alla sua vita; ma l' etichetta, nella quale egli si è rinserrato, lo trattiene, e non osa sciogliere neppure uno dei lacci con cui lo incatena. Egli si alza alle quattro del mattino, ascolta la messa, va a visitare i suoi cavalli, ne monta uno o due nel suo giardino, e ritorna in casa per non più uscirne e andare a dormire alle nove.

«Si occupa degli affari del governo, ma più di racconti sulla vita privata dei suoi sudditi; racconti che le persone sue intime gli fanno; egli non esce mai di casa.»

E come mai era in giro per la città a quell'ora, e con la Regina, così austera e metodica anche lei?

Il popolo circondava la carrozza, gridava:

«—Amnistia! amnistia!» E come mai le guardie del Tosi, e gli arcieri di città lasciavano fare? Era dunque vero, che i tempi fossero, finalmente, maturi?

Così parve, poichè il domani la Gazzetta portava la nomina di Broglia di Casalborgone e di Asinari di San Marzano al posto di Villamarina e di Solaro; ed erano dei nomi assai più graditi al pubblico che quello dell'odioso ministro amico dei gesuiti, benchè il ritiro di Villamarina rincrescesse generalmente.

Ma passarono ancora molti giorni, tutto il gennaio; e i primi del febbraio, senza che nessun nuovo atto liberale si facesse a corte. Di nuovo pareva che il Re si nascondesse, che avesse paura e si diceva che monsignor Fransoni era stato due volte, in quegli ultimi giorni, a corte.

Finalmente, il sette febbraio, il capitano Fanti fu chiamato dal Re, ad un misterioso convegno a mezzanotte. Egli vi trovò il conte Salvago, ma nessun altro dei convenuti in quella notte del marzo, l'anno prima, quando per la prima volta si erano letti gli articoli dello Statuto. Lo Zani era esule, il Villamarina caduto in disgrazia. Vi erano invece il Desambrois e il conte Cavour, due uomini che erano da poco entrati nelle grazie del Re, e che avevano l' onore di consigliarlo.

—Capitano Fanti!—disse il Re, quando vide il suo giovane amico—io promisi or è un anno, a voi e ad altri bravi e fidati amici di concedere lo Statuto, appena il tempo fosse opportuno. Ora il tempo è giunto. Di Francia le notizie giungono così gravi che, da un momento all'altro, Luigi Filippo sarà costretto ad uscirne… A Napoli il Re ha promesso la Costituzione, e oggi o domani la concederà. Signori! se l' opinione vostra è, come non dubito, conforme al mio desiderio, e al parere del Consiglio dei ministri, domani la Gazzetta Ufficiale uscirà con la promessa formale della pubblicazione prossima dello Statuto!

I quattro convenuti dal Re mostrarono, con maggiore o minore espansione, il proprio entusiasmo. Ma non era più quel giubilo schietto che avrebbero manifestato l'anno prima… ora le promesse del Re non parevano più abbastanza sicure specialmente al Salvago, che diceva fra sè, scetticamente:

—Vedrò, e allora crederò…

—Oh! continuò il Re, sfogando in quella intimita l'animo suo—questa volta le Roi egalité non mi risponderà più per bocca dei suoi ministri Guizot e Soult che la Francia non voleva inoltrarsi in una politica di avventurieri!

—Nè Luigi Filippo oserà più dire che l'Italia unita è un'utopia!—aggiunse Salvago.

—E da Vienna? quali gravi notizie! Tutta l'Austria fra poco sarà in fiamme! Si scuote la Boemia, si scuote la Croazia!—disse Desambrois.

—Ebbene! fra l' incendio noi sorgeremo— disse Carlo Alberto—e prenderemo la parte che ci è dovuta.

Poi, ripreso dalla sua eterna titubanza:

—Chi sa—mormorò—come domani il popolo accoglierà questa notizia!

—Con gioia frenetica, Sire!—disse il capitano Fanti.

E aveva ragione.

La promessa solenne dello Statuto fondamentale, uscita in forma di regio decreto il domani, e con cui si stabilivano le sicure garanzie della libertà a tutti i sudditi del Piemonte e della Sardegna (responsabilità dei ministri; potere legislativo esercitato collettivamente dal Re e dalle due Camere, libertà di stampa; inviolabilità della libertà personale, milizia civica, inamovibilità dei giudici) parve inebriare il popolo di una gioia pazza, sconfinata. Non vi fu quella sera persona tanto povera che non comperasse un po' d'olio per accendere un lume di gioia alla sua finestra; e gli stessi palazzi dei nobili reazionarii si illuminavano per timore della sassaiola o di peggio.

Ma il popolo, quando è lieto, è generoso, e nulla accadde di sinistro quella sera nè poi, finchè durò la universale ebbrezza. Era per le vie di Torino un affollarsi di popolo, un abbracciarsi anche fra non conosciuti, un giurarsi concordia, un acclamare, un cantare, un sonare a festa… E dappertutto bandiere e luminarie e dimostrazioni di gioia sconfinata. Il nome di Carlo Alberto era su tutte le bocche, in tutte le canzoni, in tutti i cuori.

Tutto il febbraio durò quella allegria immensa di un popolo intiero. Ma il 27 di quello stesso mese si celebrò pure una festa federale, promossa dalla gioventù torinese, alla quale convennero, nella piazza d'armi, deputazioni di tutte le città d' Italia… L' immenso corteggio mosse al suono delle campane e allo sparo dei cannoni.

Le bandiere tricolori empievano l'aria di lieti svolazzi. Ma i lombardi e i veneti formavano un drappello abbrunato, mesto, silenzioso, che non portava nè coccarda nè bandiera. E al suo passaggio il popolo si scopriva il capo, e molti piangevano…

In riva al Po era rizzato un altare, innanzi al quale fu cantato un Te Deum, non dai gesuiti però! Carlo Alberto comparve in mezzo al suo popolo e fu salutato da immense acclamazioni. Tutto il giorno e quasi tutta la notte durarono le feste, e l'entusiasmo pareva non avesse più fine. Per le vie della città, fra mille e mille fiaccole accese, passò un carroccio fatto alla maniera dell'antico carroccio glorioso, con l'antenna, la croce e la campana, circondato da militi vestiti alla antica foggia italiana. Augurio di una nuova Lega, e di una nuova giornata di Legnano!

Il domani giunsero notizie di dimostrazioni uguali in tutte le parti d'Italia; ma i genovesi furono i più risoluti.

Erano sbarcati a Genova molti gesuiti, scacciati dalla Sardegna, e avevano preso alloggio nel convento di Sant'Ambrogio. Il popolo, levato a tumulto, corre al convento, gridando: sfonda le porte, butta dalle finestre ogni cosa che si trovò: nere sottane e cappelloni discendono svolazzando per l'aria, e la gente urla, ride, fischia, schiamazza. I gesuiti si salvano con la fuga…

Appena queste nuove giunsero a Torino il popolo corre in folla al convento gesuitico, volendo imitare i genovesi; ma già i monaci di Sant'Ignazio, avvertiti, erano usciti, facendo fagotto di ogni cosa, e non lasciando indietro che poche stoviglie e fiaschi vuoti, che il popolo infranse con gioia infantile…

Le dame del Sacro Cuore seguirono nella fuga i loro amici alleati, e anche padre Marotti scomparve quel giorno da Torino. E fu bene per lui. Si disse che nelle stanze dei gesuiti e di quelle monache si trovarono lettere del generale Radezki, liste di affigliati, prove di congiure contro lo Stato… e biglietti d'amore.

Padre Marotti non era poche volte nominato in quelle carte compromettenti… Pure, quando Carlo Alberto seppe che egli era partito, ne mostrò una pena, che fece dire a qualcuno:

—Ora non gli resta che confessarsi dai cappuccini!

Oh, quella sfinge coronata! Chi mai può vantarsi di averla capita?

Quello stesso giorno il Governo chiamava alle bandiere tre classi dei contingenti militari, e il conte Salvago scriveva a suo figlio:

—Questo è il momento… Ritorna a fare il tuo dovere di soldato. La patria ti aspetta e ti reclama.

Il 4 di marzo Carlo Alberto manteneva la sua sacra promessa, e lo Statuto del Regno era pubblicato. Oramai in Piemonte, a Torino, non si viveva più che di febbre; era l'anno dei portenti, e di ora in ora si aspettavano avvenimenti più meravigliosi; di ora in ora cresceva l'orgasmo, l'esaltazione, l'ebbrezza universale, anzi! Tutti fratelli! Venivano i profughi da ogni parte d'Italia, e trovavano ospitalità larga e generosa dovunque. Le piazze si gremivano di popolo fin dal mattino, e v'era in tutti un'animazione, un bisogno di parlare forte, di gridare evviva, di agitarsi, per avere sia pure una piccola parte agli avvenimenti che interessavano tutta la nazione! I caffè rigurgitavano di gente, che discuteva, che applaudiva, che declamava; ad ogni momento comparivano bandiere alle case, lumi alle finestre, coccarde sui petti… era un delirio, un nobile delirio, pieno di slancio, di ingenuità commovente.

Così trovarono la loro città Enrico Salvago e Clara, ritornando appunto in quei memorabili giorni. Ritornavano marito e moglie, felici, ebbri di amore e di entusiasmo, senza lagnarsi, nè l'uno, nè l'altra, della parte che la patria voleva della loro vita, del loro affetto.

Il conte Salvago li abbracciò, contento e commosso, e aprì loro la sua casa.

—Resterai qui padrona assoluta, mentre noi saremo alla guerra, e ci aspetterai—disse egli alla nuora.

Clara sorrise e non rispose.

Il sorriso parve enigmatico al conte.

—Avete forse degli altri progetti?—domandò.

—Forse, babbo, ma te li diremo più tardi.

Clara volle anche fare un passo che le era assai doloroso, ma le parve suo dovere, ed Enrico ve la incoraggiò. Volle andare a trovare sua madre, alla quale aveva scritto una volta, dalla Francia, annunziandole il suo matrimonio; ma la contessa della Marca non aveva risposto.

—Mia madre non vorrà riconoscere un matrimonio avvenuto così presto, dopo la morte del mio primo marito—disse Clara al conte Salvago—ed è infatti mia intenzione e quella di Enrico di far convalidare qui in Piemonte, mediante una funzione regolare, quella da noi fatta frettolosamente in Francia. Ma ciò non potrà aver luogo che fra otto mesi. Intanto, aspettando la guerra, io resterò a casa mia… Vale a dire in una casa nella quale Enrico sarà mio ospite… frequente e gradito, babbo, siine certo! —aggiunse sorridendo Clara.

Il conte Salvago si persuase delle ragioni dei suoi figliuoli. Anche Enrico desiderava di vivere ritirato senza prendere alcuna parte agli avvenimenti che gli si preparavano.

—Quando sarà il momento di dare il mio braccio alla patria, lo farò—disse.—E, se Carlo Alberto sarà capace di portare a compimento l'opera che ha incominciato, cioè la unificazione d'Italia, io, e tutti i miei compagni ci rivolgeremo a lui, e gli saremo fedeli e devoti! Fino a quel momento… aspetteremo.

Clara andò dunque, sola, da sua madre. La vecchia cameriera di casa, quando vide comparire sulla porta la sua antica madamigella, si stupì, si spaventò, esitò, e scomparve correndo… Clara la seguì, senza aspettare di essere annunziata, e arrivò nel salotto nello stesso momento che la cameriera ne usciva, con gli ordini della padrona…

Nel salotto vi erano la contessa della Marca, la contessa Pallottini e un signore, che Clara non riconobbe subito, perchè era corsa incontro a sua madre, la quale si era alzata in piedi, tenendo fra le braccia l'odiosa cagnetta, e mostrava un viso accigliato, burbero, chiuso…

—Mamma!—e fece per gettarsele tra le braccia.

Ma la contessa, fredda, come se vedesse una estranea, le indicò una sedia, sedette anche lei e ricominciò il discorso che aveva interrotto.

Clara, benchè conoscesse sua madre, rimase colpita del contegno gelido e altero di lei, e restò in silenzio, componendo il viso alla massima indifferenza che le fu possibile.

L'itala nostra corona!—disse quel signore, che Clara aveva appena notato, e che ora riconobbe, con immenso stupore, essere il padre Teofilo! Padre Teofilo, con due dita di barba, con baffi incipienti, e vestito in borghese! Ah, quei signori gesuiti che non erano scappati, ora si nascondevano sotto le spoglie di cittadini, e magari di liberali! Ve n'erano dunque anche a Torino! E che erano rimasti a fare? Nulla di buono, sicuramente.

L'itala nostra corona!—ripetè padre Teofilo—dunque Carlo Alberto questa volta ha rivelato chiaramente i suoi sentimenti ambiziosi. Quel proemio di Statuto, opera diabolica, scritta dietro ispirazione di Lucifero, ora dimostra che il re del Piemonte vuole divenire re d'Italia. Re d'Italia! Forse che il papa tacerà, e il granduca di Toscana tacerà? E tacerà forse il re di Napoli?

—Quella imprudente parola cagionerà la perdita dell'ambizioso—disse la Pallottini—appunto iersera il conte Buol di Chaneustein, l'ambasciatore austriaco, lo diceva a casa mia. Se Carlo Alberto ha sperato di essere aiutato dagli altri sovrani, ora smetterà ogni speranza… Chi vorrà aiutarlo a mettersi in capo una corona usurpata a loro stessi?

—Egli si rallegra della rivoluzione di Francia e della cacciata di Luigi Filippo! Imprudente! —continuò l'ex gesuita—Dovrebbe anzi vedere in questo fatto un avviso del cielo! Ecco quello che tocca ai re ambiziosi, ai re che governano senza l'aiuto di Dio e della santa Madre Chiesa!

—La Madonna li faccia pentire tutti—mormorò la della Marca.

—Saranno dispersi come nebbia al sole!— disse il prete con tono biblico.

—Oh, sì! Ed è quello che capiterà a Carlo Alberto! Fare la guerra all'Austria!—aggiunse la Pallottini—Si provi dunque! Non è pane per i suoi denti, e se ne pentirà assai presto.

Clara comprese che quei discorsi erano fatti apposta perchè ella li udisse e forse li ripetesse altrove. Indignata e indispettita di non vedersi punto curata, nemmeno dalla madre, si alzò, e disse a voce alta:

—Mamma! Tornerò altra volta, se non vi dispiace troppo… Quando abbiate un momento di tempo per me.

—Ho poco tempo—rispose seccamente la contessa.—Ora le persone cristiane e veramente patriottiche hanno molto da fare, e molto da pregare… Vi avverto poi che, durante il vostro viaggio, io ho fatto dire delle messe per il vostro povero marito, benchè egli sia morto in grazia di Dio; e appunto domani farò celebrare un ufficio speciale nella chiesa dei Santi Martiri, dove egli è morto così santamente. Credo che farete il vostro dovere assistendovi.

Clara se ne andò, senza nemmeno tentare di stringere la mano a sua madre. Era evidente che questa voleva fingere di ignorare tutto quello che era avvenuto, e non voleva riconoscere il matrimonio di sua figlia. Clara allora decise di non tornarci più, in quella casa dove si bestemmiavano tutte le cose, che ella oramai considerava come sacre.

Intanto le cose di Francia, sapute in Piemonte, e in tutta Italia, davano più vive speranze ai liberali, e facevano rialzare il capo anche al partito dei repubblicani. Era cacciato, dunque, quel Re sleale, che aveva lusingato tanto tempo segretamente le speranze d'Italia, che aveva cospirato coi carbonari, con Carlo Alberto, con lo stesso Francesco di Modena, e poi aveva voltato casacca, vigliaccamente, deridendo con la sua borghese sguaiataggine le sublimi utopie che egli stesso aveva carezzato. Il sangue di Menotti e di Borelli non gridava forse contro di lui? Ora, dalla Francia repubblicana venivano all' Italia incoraggiamenti, promesse, che sarebbero certamente più sincere delle antiche; ora anche l' Italia poteva emanciparsi, sorgere, farsi uno Stato unico e libero, come la nazione sorella!

—Tutto questo impensierisce il Re, e lo getta nuovamente negli antichi dubbi—disse il Salvago alla marchesa d'Avoli.—Se ora non ha più padre Marotti, ha però il padre Triffoli, che lo sovviene dei suoi lumi spirituali; e non manca di fargli osservare che la stessa sorte toccata a Luigi Filippo potrebbe domani toccare a lui stesso! Le mene repubblicane tornano a spaventarlo; lo spauracchio di Mazzini, che i gesuiti gli hanno sempre fatto scuotere dinanzi agli occhi, torna ora più formidabile che mai. … E io credo che, se non avesse già dato lo Statuto, oggi non lo darebbe più e che ne è già pentito.

—Il ministero è solido—rispondeva la marchesa. —Cesare Balbo, il presidente, non è uomo energico, ma probo e liberale.

—Sì, ma come voi dite, non è uomo energico.

—Desambrois è buono, intelligente.

—Il suo è un ministero di poca importanza; è appena ai lavori pubblici.

—Sclopis è onesto, intemerato.

—Sì la giustizia è in buone mani.

—E gli affari esteri?

—Pareto è buono, ma esaltato, non lo credo abbastanza prudente.

—Forse Franzini non è adatto al suo ministero.

—No, assolutamente. Il portafoglio della guerra bisognava darlo ad altro uomo.

—Suvvia! dispereremo forse adesso, che è fatto tanto? quasi tutto? Non c'è più che l'ultimo colpo, la guerra, e l'Italia è fatta!

—Dio lo voglia!

Gli stessi discorsi si ripetevano in tutte le famiglie liberali; dappertutto si facevano voti per l'Italia e per Carlo Alberto, e gli si augurava perseveranza e coraggio!

Intanto il 14 marzo giungeva a Torino la notizia che il Papa aveva dato la costituzione e aveva chiamato al ministero i liberali Minghetti, Pasolini e Galletti! Dalla Francia arrivavano, inebbrianti, le parole di Lamartine, che la Francia era pronta a mandare centomila uomini, per aiutare l'Indipendenza d'Italia!

Il 15 del mese, il conte Salvago, giungendo ansioso e commosso dalla marchesa, le narrò di essere stato chiamato improvvisamente a Corte, e di avere avuto un importante colloquio col Re.

—Carlo Alberto mi disse che, pochi giorni or sono, egli ha ricevuto un inviato lombardo, del partito liberale, il quale veniva a chiedergli, in nome di tutta la Lombardia e del Veneto, il soccorso delle armi piemontesi, promettendo che sarebbero insorti contemporaneamente, e che in un colpo di mano il paese sarebbe stato suo. Carlo Alberto ha risposto, dandogli formale promessa, appena si trovasse sufficientemente preparato, di rompere guerra all'Austria, ma raccomandò che non si tentasse alcuna rivoluzione prima di quell'epoca, perchè un moto intempestivo poteva rovinare ogni cosa. Che intanto si preparassero le armi, si perseverasse nella agitazione, si tenesse il popolo pronto a secondare gli eserciti del Re.

—E che aspetta dunque ancora?—esclamò la marchesa.

—Come vedete, egli ha preparato la guardia nazionale—rispose il Salvago, con qualche ironia.

—E a Milano, che si disse di quella risposta?

—A Milano, come sapete, il partito repubblicano è molto forte. E' scarso il numero dei liberali moderati, i quali, fidando in Carlo Alberto, lo vorrebbero a capo della guerra, ora, e dello Stato poi. I lombardi non sono contenti dei piemontesi e diffidano del Re. Carlo Alberto ha poche simpatie in Lombardia. La risposta da lui mandata parve fredda, dubbiosa, si credette ad una scappatoia… E i repubblicani, e i più ardenti dei liberali, hanno deliberato di mandare al Re un'ultima ambasciata, una specie di ultimatum, così concepito: «O passate il Ticino, o noi proclameremo la repubblica.» Questa lettera è giunta ieri, e Carlo Alberto ne è tutto sgomento; l' animo suo è più che mai vacillante, inquieto, dubbioso; e le mie esortazioni non riuscirono a deciderlo per l' unico partito ormai conveniente.

Ma il 17 di marzo, quasi improvvisamente, si diffuse a Torino, e nello stesso tempo a Milano, la notizia che Vienna era insorta, il vecchio Metternich caduto, l'imperatore in fuga! Che nella capitale dell'impero, nell'antico nido del dispotismo, dell'ostinatezza più cieca, della tirannide, era stata proclamata la Costituzione!

La Costituzione in Austria! e neppure questo bastava a calmare quei viennesi, che avevano fama di essere tanto bonarii e tanto fedeli!

E Milano? Milano avrebbe lasciata passare questa occasione senza insorgere? Senza far pagare caro ai Croati il sangue che avevano versato, le prepotenze, le ingiurie, le bastonate? Ah, il momento era troppo propizio! Quella notte Milano non dormì, per prepararsi al domani…

La giornata del 18 marzo passò per Torino in una inquietudine piena di angoscia. Le notizie più contraddittorie correvano per la città, e gli animi sempre più concitati, anelavano di riunirsi ai fratelli lombardi, che, forse, in quel momento, già combattevano contro l'abborrito straniero.

Il conte Salvago, non meno inquieto degli altri, si era coricato all'alba, dopo avere presieduto ad una adunanza politica, che aveva durato fino alle due dopo mezzanotte. Ma, dormiva appena da forse mezz'ora, quando uno squillo fortissimo di campanello svegliò tutta la casa. Il servitore accorso alla porta si precipitò a sua volta nella stanza del padrone, che sorse spaventato.

—V'è un messo giunto or ora da Milano! Ha viaggiato a cavallo tutta la notte! e desidera di parlare al signor conte.

—Entri, entri subito—disse ansioso il Salvago, il quale si era mantenuto sempre in corrispondenza col partito d'azione milanese, e con lo Zani specialmente.

Il messo era appunto del conte Zani e portava una lettera che il Salvago lesse febbrilmente; poi, si vestì, e subito corse al Palazzo Reale.

Carlo Alberto era a messa, in quel momento, ma appena gli venne comunicato che il Salvago chiedeva un'udienza e aveva notizie da Milano, subito uscì dalla cappella, e ricevette il suo vecchio amico.

—Il conte Zani supplica Vostra Maestà di prendere atto di questa lettera; egli dice che nessun altro rapporto può essere più sincero di questo, e che egli implora, e con lui tutta Milano insorta, di non perdere tempo!

—Milano insorta!—disse pallido il Re, e lesse la lettera.

«E' ormai la prima notte, dopo la terribile giornata—scriveva lo Zani—notte fredda e piovosa, che non basterà, credo, a frenare l'ardore di entusiasmo che la popolazione milanese ha mostrato tutto il giorno. Fra poche ore un messo verrà a Sua Maestà e sarà il conte Francesco Arese; egli va a supplicare il re di non abbandonare la nobilissima città in questo momento spaventoso e solenne!! Come scoppiò la rivoluzione? Già stamattina le strade erano piene di folla tumultuosa, e inerme! Le armi, pochi fucili da caccia, vecchie carabine, vecchie sciabole, nascoste con tanto geloso amore per tanto tempo, erano state distribuite nella notte, ma continuavano a tenersi celate, aspettando il momento opportuno.

«Una massa enorme di popolo, ricchi e poveri, di ogni ceto, di ogni partito, si accalcò verso il palazzo municipale, chiedendo che gli fossero consegnate le armi colà conservate, e fosse proclamata la guardia nazionale.

«Da molti giorni Milano era, si può dire, senza altro governo civile che il suo municipio. L'inviato straordinario da Vienna, conte di Viquelmont, che aveva creduto di addormentare l'amor patrio dei milanesi con le ballerine della Scala, aveva da un pezzo battuto in ritirata. Il barone di Spaur, migliore di tutti, forse, era stato richiamato a Vienna, perchè troppo dimesso: il vicerè Ranieri, avaro e vigliacco, se ne era andato a Verona, portandosi via numerose salmerie di carri, dove aveva fatto caricare quante cose preziose aveva potuto trafugare dai palazzi reali. Tanto egli sa bene che, qualunque sia l'esito delle faccende, non ritornerà a Milano mai più. Il conte O' Donnel era dunque, oggi, unico rappresentante del governo per gli affari amministrativi; e il feld maresciallo Radezki, capo del Comando militare, poteva padroneggiare e intimidire la città con le sue batterie ed i suoi croati, aiutato dal ministro di polizia, il barone De Torresani-Lanzenfeld, e dall'anima dannata di costui, il famigerato, l'iniquo conte Bolza!

«Ebbene, stamattina stessa, per tutti gli angoli e le cantonate, si poteva leggere l'irrisorio avviso dell'O' Donnel, che notificava il dispaccio giuntogli da Vienna, nel quale si annunziava abolita la censura della stampa, imminente una legge liberale, e rimandata, al più tardi al 3 luglio, la convocazione delle congregazioni centrali del regno Lombardo-Veneto!

«Ma il popolo aveva già risposto con un altro proclama, affisso sulle cantonate, su quel primo, creduto ormai oltraggioso ed ironico. Ne mando qui una copia, con preghiera che venga consegnato subito a Sua Maestà il Re Carlo Alberto.»

—So già di che si tratta—disse a questo punto il re—respingendo lievemente con la mano il proclama che il Salvago spiegava. Egli aveva veduto con un colpo d'occhio le parole più ardite:

Abolizione della vecchia polizia.

Revoca del giudizio statario—chiamato legge di sangue.

Liberazione immediata dei carcerati politici.

Reggenza provvisoria.

Libertà di stampa.

Assemblea nazionale!

Guardia civica dipendente dal municipio!

«Cittadini! Trovatevi tutti oggi, alle 3 del pomeriggio, in via dei Servi, e domanderemo quello che è nostro diritto!»

«Ma il popolo—continuava lo Zani—non ebbe pazienza di aspettare fino a quell'ora, e continuò, in calca enorme, a tumultuare dinanzi al municipio. Ne scesero allora il conte Gabrio Casati, potestà, e l'assessore conte Greppi, i quali si offrirono di portare al governo quelle richieste del popolo.

«Allora la folla in tripudio, e gridando: Viva l'Italia! Viva la libertà! (i più inermi, alcuni pochi armati di pugnali e pistole, nascosti sotto i panni), seguì il potestà e gli assessori, e mosse così verso il palazzo del governo.

«Per tutto, dove passava, dalle finestre, le donne gettavano nastri e coccarde tricolori, e gli uomini scendevano in fretta ad ingrossare il corteo.

«Davanti al palazzo del governo scoppiò il terribile incendio, il cui fine mi è impossibile ora prevedere. Due soldati austriaci stavano di sentinella davanti al portone. Vedendo venire quella terribile fiumana, impauriti forse, uno dei due sparò un colpo di fucile… Un urlo formidabile rispose! Un popolano cadde; la massa del popolo si slanciò sulle due sentinelle che, in un momento, rimasero morte! Il corpo di guardia fu disarmato in un attimo; il palazzo era invaso. La folla si precipitò nella stanza dove si teneva, pallido e atterrito, l'O' Donnel. Casati gli espose le ragioni del popolo, mentre lame di pugnali e canne di pistole brillavano minacciose. Un giovane repubblicano allora, Enrico Cernuschi, messosi dinanzi al tavolino, scrisse in fretta alcuni progetti di decreti: Armamento della guardia civica, disarmo dei soldati e dei poliziotti… Il vice-governatore li firmò docilmente.

«Allora, sul balcone del palazzo, l'O' Donnel stesso annunziò al popolo, fra grida di entusiasmo, quanto egli aveva concesso. E presto allora, alcuni cittadini fra i più autorevoli, indussero la folla a ritornare verso il municipio, ad armarsi, prima che il comando militare avesse il tempo di capitarle addosso e di massacrarla. Dietro consiglio dello stesso Cernuschi, condussero seco come ostaggio l'O' Donnel. Per la strada, quel medesimo gruppo formato dal podestà, dagli assessori, da molti cittadini, c'ero io pure, che conducevano seco l'O' Donnel, incontrò una pattuglia di soldati, che, senza neppure fare un'intimazione, sparò a bruciapelo i moschetti. I cittadini inermi si sbandarono fuggendo; noi, il podestà, i municipali e il Cernuschi, sempre traendo con noi O' Donnel, riparammo in casa Vidiserti. E' la casa che ci serve ora di quartiere generale. E' il centro oramai della rivoluzione, la sede della consulta. E fu bene per noi! Verso sera udimmo che Radezki, invaso il palazzo municipale, fece trarre prigionieri quanti vi si trovavano! Se avesse avuto tra le mani Casati e Cernuschi, e gli altri capi della sommossa, a quest'ora essa sarebbe sedata.

«Ma presto sono sorte le prime barricate. In un momento i milanesi impararono a farle, e come perfette! Se vedeste che costruzioni! Altri intanto andarono a suonare le campane a martello, per chiamare alla lotta i cittadini; altri, invase le botteghe degli armaiuoli, ne traevano le armi che distribuivano ai popolani.

«Intanto Radezki, come stupefatto dall' uragano scoppiato oggi, ma preparato da tanto tempo, si è chiuso infuriato nel Castello, e di là ha mandato le sue milizie ad occupare i punti più importanti della città. La Congregazione municipale ha ricevuto pure una sua fiera lettera, in cui egli dichiara di non riconoscere alcuna delle concessioni fatte dall'O' Donnell, e dà ordine di disarmare immediatamente tutti i cittadini che già si sono inscritti nella guardia civica; insomma egli parla ancora come il padrone, come il croato, e ci minaccia del bastone se non obbediamo. O, per meglio dire, minaccia di bombardare la città, di abbandonarla al saccheggio, a tutte le violenze di una soldatesca forte di centomila uomini e di duecento cannoni!

«A queste minaccie la Congregazione municipale non ha risposto una parola: e ha continuato a iscrivere nei ruoli della guardia civica i cittadini che vi accorrono in folla. Noi, intanto, i raccolti in casa Vidiserti, ci siamo costituiti in Comitato rivoluzionario. Si è deciso di resistere ad oltranza! Morremo tutti, vedremo la nobile città rasa al suolo, e noi cadremo sulle sue macerie, ma resisteremo ai cannoni dell'Austria, alle baionette croate! Ditelo al Re! Abbiamo deliberato di mandargli un messaggio; lo supplichiamo di venire in nostro soccorso! Il momento della gloria è venuto per lui! Venite, venite in aiuto dei fratelli lombardi, o piemontesi!»

Il Salvago aveva letto queste pagine con crescente commozione. Quando ebbe finito:

—Oh, Sire!—disse—Sire! ascoltate queste parole! Dite a noi di armarci, siamo pronti, Sire!

Ma Carlo Alberto, pallido, impassibile in viso, congedò il Salvago, il quale s'incontrò, uscendo, col conte Francesco Arese, inviato di Milano.

Tornato a casa il conte trovò Enrico, suo figlio, il quale pure aveva saputo le notizie di Milano.

—Padre!—disse il giovane—Milano si batte davvero! Il popolo vince le squadriglie dei cavalieri e dei fanti. Le barricate sorgono per ogni dove, e fin le donne aiutano a costruirle. Dalle finestre e dai tetti le donne e i fanciulli bersagliano i soldati austriaci con sassi, con tegole, con olio bollente! Il comitato rivoluzionario, trasferito stanotte al palazzo Taverna, ha emanato un nuovo proclama al popolo, per oggi, invitandolo a non deporre le armi, finchè un soldato austriaco sarà a Milano! Un uomo è sorto a Milano, l'uomo del momento, l'uomo migliore per ingegno e carattere. Quest'uomo è Carlo Cattaneo. Egli farà della Lombardia una repubblica!

—Illusi!—rispose il padre.—Non si farà nulla a Milano se Carlo Alberto non corre in aiuto della rivoluzione!

—No, no, padre! Milano non avrà bisogno di soldati regi! Il popolo ha giurato: o cacciare gli stranieri o morire! Qui a Torino siamo molti pronti a correre in aiuto dell'eroica città. Da ogni parte del Piemonte verranno ancora. Ne verranno da ogni parte d'Italia! Sono venuto a dirti, padre, che io voglio partire, voglio correre a Milano…

—Solo?

—No, verranno meco duecento giovani piemontesi.

—E come entrerete, se la città è circondata?

—No, gli austriaci non la chiudono; hanno troppo da fare a difendersi. Partiremo domani, padre mio. Oggi ci raccoglieremo. Ti raccomando Clara. Ella è in questo momento dalla marchesa d'Avoli. E' forse bene che ella vi rimanga finchè… finchè non venga a raggiungermi.

—Ma non puoi aspettare che il Re si decida a partire coi nostri?

—Il Re non si deciderà mai, padre mio!

Salvago chinò tristemente la testa. Certo le parole del Re non gli lasciavano grande speranza. Pure disse a suo figlio:

—Enrico! giova sperare assai. In questo momento un inviato di Milano parla a Carlo Alberto.

Salvago si recò quindi dalla marchesa dove trovò Clara triste, ma risoluta.

—E' necessario che Enrico parta—disse ella.

Egli chinò il capo, rassegnato.

—Elisabetta?

—Elisabetta è qui. Venite.

Lo condusse in giardino, e là sopra una panca la giovane donna ragionava con un giovane vestito con una lunga tunica azzurra. Lo teneva anzi teneramente abbracciato, e il giovane aveva appoggiato la sua bella testa bionda sulla spalla di lei.

Al rumore dei passi di Salvago e Clara i due così abbracciati alzarono gli occhi, e il conte riconobbe nel giovinetto quel Filiberto di Monfosco, che era stato fino a quel giorno alunno del collegio dei Barnabiti, a Moncalieri.

—Filiberto?—esclamò con meraviglia.

E mentre il giovine si alzava, un po' confuso, Elisabetta disse sorridendo:

—Questo piccolo ostinato è uscito dal collegio, anzi ne è fuggito, direi, senza permesso alcuno…

—Oh, zia!

—E ha dichiarato di non volere tornarci più. E sapete che è venuto a fare?

—Che mai?

—La guerra!

—Oh!

—Sì, egli vuol partire. Hanno sentito dire che Milano e la Venezia sono in rivoluzione. Ecco i discorsi che fanno questi signori collegiali invece di studiare! E i più grandi hanno lasciato il collegio, e sono scappati a trovare i babbi, le mamme e le zie, per supplicarli di farli arruolare… nella guardia civica!

—Bravo giovine!—esclamò il conte Salvago, prendendo e stringendo caldamente la mano del collegiale, che arrossì di gioia.

—Come, conte! anche voi!—esclamò Elisabetta, fingendosi in collera, per non mostrare le lacrime che le inumidivano i begli occhi. Ma Filiberto l'abbracciò impetuosamente.

—Zietta, zietta bella!—esclamò—lasciami andare subito! Vedrai come starò bene vestito da guardia nazionale! Meglio assai che con questa uniforme da bambino.

—Il vanitoso!—disse Elisabetta.—Ebbene, va pure! Ma siccome non ti prenderebbero, perchè non sapranno che farne di te, verrà il conte Salvago ad accompagnarti, e a farti arruolare, non ostante i tuoi diciassette anni!

Il giovinetto ringraziò con una carezza la zia e le baciò la mano, poi sparì rapidamente.

—Egli va a mutarsi d'abito—disse ridendo Elisabetta—Non vuole presentarsi al comando con l'uniforme del collegio.

—In questo fanciullo il sangue non mente, davvero—disse Salvago.—Come è bello con quel suo entusiasmo, con quel suo divino coraggio!

—Ah, Salvago!—mormorò Elisabetta, coprendosi gli occhi con le mani—purchè non me lo uccidano poi!

—Veglieremo su di lui—disse il conte, prendendole la mano.—Ma… volete permettergli di far questo passo, senza prima sapere se il Re vi acconsente?

—Voi mi farete piacere di avvertirne Sua Maestà—disse Elisabetta.—E chi sa che l'esempio di Filiberto non lo scuota, non lo decida?

All'alba delgiorno 20 un drappello di giovani, assai semplicemente e variamente vestiti, ma tutti armati di fucile e a cavallo, usciva da Torino, con l'intenzione di recarsi a Milano, nel più breve tempo possibile, a offrire il loro braccio alla causa della valorosa città. A capo di quei giovani era Enrico Salvago.

Ma egli aveva dovuto soffrire una amara delusione. Dei duecento che egli sperava di condur seco, parte a piedi, parte a cavallo, appena un minimo numero aveva risposto al suo appello. I più avevano defezionato all' ultimo momento, o per viltà, o per timore di inoltrarsi in un'avventura pericolosa e inutile, o perchè avevano ceduto a preghiere, a insistenze, a consigli di parenti e d'amici…

Quando Enrico aveva veduto la scarsa schiera (c'erano i suoi antichi compagni di prigionia, il Vinchi, il Manueli, il Serrati), aveva esitato un momento. Era ancora opportuno partire? Tanto pochi! A che poteva servire l'opera loro? Poi pensò che era meglio una mano di volonterosi che uno stuolo di ignavi, e che forse era più facile entrare nell'insorta Milano in scarso numero che in tanti…

Perchè non si sapeva se la città fosse cinta dagli austriaci o no: se davvero la bombardavano: se era regolarmente assediata…

Tenne un breve consiglio con quei pochi animosi.

—Che si fa?

—Andiamo!—gridò Serrati.

—Andiamo!—dissero tutti.—E s'incamminarono.

Se la polizia, come è assai probabile, aveva avuto sentore di quella spedizione, non fece mostra di nulla, e non impedì affatto la partenza degli audaci giovani. Siccome appartenevano tutti al partito estremo, ed erano noti per l'ardire e la costanza, forse la polizia e anche il governo stesso erano lieti di sbarazzarsi di quell'elemento riottoso, in giornate così difficili.

A nemico che fugge, ponti d'oro.

Erano da poco usciti di città e Enrico pensava con malinconia all'addio dato a Clara, al distacco che poteva essere lungo, all' incertezza del ritrovarsi; perchè, se Milano cadeva, come avrebbe ella potuto raggiungerlo, e dove? Quando d'improvviso videro uscire da una strada laterale un cavaliere, vestito da guardia civica, che pareva venire direttamente verso il piccolo drappello.

Enrico, che lo precedeva, fece segno di continuare il cammino, ed egli stesso sostò un momento, aspettando il cavaliere, che gli pareva un viso tanto noto! tanto caro!…

Ecco, egli è a pochi passi di distanza. Enrico crede sognare.

—Clara!

—Enrico mio!

—Sei tu! Ma come! Tu vuoi venire con noi?

—Sì, Enrico. E come hai potuto pensare che ti lasciassi andare solo, contro tali pericoli, e io avessi potuto aspettarti a Torino?

—Ah, Clara! Ma tu non sai a che andiamo incontro. La guerra, mia povera Clara, è la guerra!

—Non ti ho dato prove di coraggio, Enrico?

—Sì, Clara, ma qui è altra cosa… Ah, tu hai tagliato i tuoi bei capelli!

—L'ho fatto volentieri, Enrico. Tu vedi dunque che sono disposta a tutto. Ho sacrificato la mia vanità femminile—aggiunse sorridendo— non mi importa di essere brutta, per essere vicino a te.

—Brutta! O amor mio!…—mormorò Enrico guardandola.

Difatti era ammirabilmente e bizzarramente bella. Aveva tagliato i capelli rasi fino sul collo, e le sue ciocche d'oro uscivano dal berretto della guardia che ella aveva messo fieramente in testa. Il corpo svelto e aggraziato, se perdeva di eleganza nei panni del soldato, acquistava non so quale vigore, una rigidezza signorile, che pareva fare più alta e forte la gentile persona.

—E mio padre? Lo sa egli?—disse Enrico, a metà vinto.

—Ho incaricato Elisabetta di dirglielo.

—Dunque la marchesa sapeva?…

Sì, ella fu la mia confidente. E' lei che mi ha procurato questa uniforme.

—Ebbene… vieni, Serrati e gli altri due ti conosceranno; ma non diranno nulla. Gli altri… penseranno ciò che vogliono.

Si incamminarono insieme, e raggiunsero il drappello… Tutti guardarono curiosamente il nuovo venuto, che cavalcava al fianco di Salvago. I tre amici di lui riconobbero la donna? Forse, perchè ognuno voltò via il viso, senza dire una parola. La piccola schiera continuò il suo cammino.

Il conte Salvago intanto, che aveva aspettato con angosciosa impazienza altre notizie da Milano, si era sul mezzogiorno recato dalla marchesa d'Avoli, con la quale voleva fare colazione, credendo di trovarvi ancora la propria nuora, e di dovere consolarla per la partenza d' Enrico.

Gli venne incontro Elisabetta, sorridendo:

—Ebbene? E Clara? E' molto triste?—domandò subito.

—Clara?—rispose sorridendo la marchesa —io penso che sia contentissima.

—Come è possibile?

—Sapete dove è Clara, adesso?

—Ma dove?

—Clara è sulla via di Milano, con suo marito.

—Sulla via di Milano!

Elisabetta gli raccontò come la giovane donna, decisa di non lasciare suo marito, avesse pensato, per troncare ogni difficoltà, e ogni possibile discussione, di vestirsi da uomo e di raggiungere per via il drappello. Ella aveva cercato di dissuaderla… ma poi, di fronte alla sua ostinatezza, si era piegata a favorire i suoi progetti.

—D'altronde… chi sa? farei forse lo stesso anch'io—aggiunse con un sorriso.

—Ah! sono follìe!—replicò malcontento il Salvago.

—Bene, lasciate che le facciano, è il loro tempo… Ma sapete le notizie di Venezia?

—No, non so più nulla; e sono inquieto, malcontento; sapete qualcosa voi?

—I veneziani hanno liberato Daniele Manin e il Tommasèo; hanno ottenuto la guardia civica e la costituzione, hanno fatto capitano il Manin, e non sappiamo come andrà a finire… Bene, io spero; specialmente se Milano perdura.

—Ah, Dio sa che cosa è accaduto a Milano ieri! Che cosa accade oggi! E il Re non si muove! Egli perderà a ogni modo la città… O Milano soccombe, e sarà per colpa di Carlo Alberto, che non l'ha aiutata; o proclamerà la repubblica… E allora?… Che accadrà del resto d'Italia? E del Piemonte?

Questo discorso, che tanto preoccupava i due, fu continuato a tavola, in presenza di Filiberto, che vi si interessava appassionatamente.

—Come!—disse il giovanetto ad un tratto —e il Re non andrà a far la guerra all' Austria? Non ci condurrà a soccorrere i lombardi?

—Speriamolo—rispose Salvago.—Ma finora egli esita..

—Egli esita! Oh, già! Voglio parlare io al re, io stesso! Il Re mi ama! lo so. Tante volte a Moncalieri mi ha parlato con affetto!

La marchesa arrossì lievemente e guardò Salvago, che sorrise.

—Vorreste parlargli davvero?—disse questi.

—Salvago!—esclamò Elisabetta.

—Perchè no, marchesa? Chi sa!

—Voi credete che le parole di questo fanciullo potrebbero indurre il Re…

—Chi sa! Il Re è così strano!

—Sì, zia; lasciate che io gli parli! Io gli dirò: conduceteci alla guerra, Sire!

—Lasciate che egli tenti, marchesa!

Elisabetta esitò e riflettè ancora. Finalmente si rivolse a Salvago.

—Facciamo quello che volete—disse— ma come fare a introdurlo dal Re?

—Chiederò udienza per me—rispose Salvago —e allora lo pregherò di ricevere Filiberto.

L'udienza gli fu concessa, infatti, per il domani, 21 di marzo, e la mattina stessa, prima di recarvisi, Salvago ricevette una nuova lettera dello Zani.

«Continuo—scriveva egli—a darvi un rapido ma preciso resoconto di ciò che accadde qui, il giorno 19 e oggi, 20. La notte era stata assai fredda e piovosa, ma i cittadini la passarono fortificando le barricate e costruendone delle altre. All'alba il Radezki spinse le sue forti colonne di truppe contro i cittadini, e assaltò le barricate. Un corpo di giovani, guidati dal nizzardo Augusto Anfossi, sostenne valorosamente il primo e gagliardo urto, finchè il giovane capitano rimase ucciso, alla presa della caserma del Genio. Luciano Manara prese il posto dell'Anfossi. Questo drappello è meraviglioso per forza e coraggio, instancabile! A lui si deve la presa di Porta Nuova, di Porta Tosa, del Comando militare. Fu giornata fortunata e gloriosa. I nostri hanno guadagnato terreno, hanno conquistato i cannoni stessi dei soldati!

«Oggi, il terzo giorno della rivoluzione, il Radezki ha rinnovato la minaccia di bombardare la città. I consoli di tutti i Governi stranieri hanno protestato, e il Radezki ha risposto essere suo dovere di conservare, ad ogni costo, la città all'imperatore, anche se fosse ridotta ad un mucchio di rovine! Ad ogni modo egli dice che domani, 21, comincierà il bombardamento, se fino a domani non cessano tutte le ostilità. Ma stasera i tedeschi non occupano più che il Castello e i bastioni, e la città è tutta sgombra dagli odiati stranieri! Oggi stesso abbiamo istituito un Consiglio di guerra, i cui capi sono il Cattaneo, il Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici. Tutti repubblicani! Oggi ancora sono cadute nelle nostre mani le carceri di Santa Margherita, e ne abbiamo tratti tutti i prigionieri politici, compreso il mio povero nipote!… Abbiamo invaso gli uffici di polizia, e vi abbiamo trovate, morte di spavento, la moglie e la nuora dell'infame Torresani, che, travestito, si è rifugiato nel Castello con Radezki. E il popolo ha lasciato salve le due donne, mentre tanti croati hanno malmenato, violato, ucciso le donne milanesi e infilzato sulle baionette i bambini! Così pure hanno risparmiato il Bolza, l'assassino che fu trovato sotto un mucchio di fieno. E fu il Cattaneo che gli salvò la vita, dicendo al popolo: «Ammazzandolo fareste cosa giusta; risparmiandolo fate cosa santa!» E oggi ancora il Comitato di guerra ha ricevuto il croato barone di Ettinghausen, che finge di essere venuto spontaneamente, tratto dall'amore per l' umanità (!), mentre è chiaro che lo ha mandato il Radezki. Egli è venuto a proporci un armistizio. Il Radezki non vuole degnarsi di scendere a patti con noi, e manda, con un miserabile pretesto, il suo croato! Ma noi abbiamo capito che in Castello incominciano a mancare le munizioni, e ne aspettano da Verona e da Mantova. Perciò vorrebbero acquistare tempo, e quindi assalirci con forze decuplate!

«Ma nel Comitato insurrezionale i pareri sono divisi. Quelli che sperano ancora nei soccorsi del Piemonte, vorrebbero si accettasse la tregua, per dar tempo al re di venire; ma, interpellati Cattaneo, Mauri, Terzaghi, Cesare Correnti, il Sanseverino, il Cernuschi e me, rispondemmo unanimi all'inviato austriaco che non v'era altra conciliazione possibile, fuorchè lo sgombero di tutte le truppe austriache dalla Lombardia.

«L'Ettinghausen ha dichiarato non essere possibile alcuna conciliazione su questa base, e se ne è andato… per tornare forse a proporre altri patti. Così stanno oggi le cose. E che si farà domani? Si concluderà l'armistizio? Se il re si muove, sarà un bene per Milano la tregua che ci permetterà di aspettare: ma, se il re ci abbandona, l'armistizio permetterà ai nostri nemici di armarsi meglio, e di assalirci con nuova forza».

Salvago lesse a Carlo Alberto pure questa lettera, ed egli ne ascoltò la lettura attentamente, divenendo un po' pallido. Ma non parlò affatto.

—Sire! Chiedo una grazia a Vostra Maestà! —disse infine il Salvago.

—Parlate, conte.

—Una grazia non per me! Per la marchesa d'Avoli.

—Ah! E che vuole la marchesa?

—Ella chiede una udienza per suo nipote alla Maestà Vostra.

—Per… Filiberto?

—Sì, Sire.

—E che vuole il conte di Monfosco? Non è nel suo collegio?

—Ne è uscito, Sire.

—Uscito! Come! Perchè? Chi gli ha dato il permesso?

—Nessuno, Sire. Egli vuole arruolarsi nella guardia civica, aspettando il momento in cui potrà arruolarsi nell'esercito che marcia contro l'Austria.

E' un ragazzo esaltato—rispose il Re, mostrando un certo dispetto.—La marchesa ha torto di lasciargli fare ciò che vuole. E perchè desidera una udienza?

Perchè vorrebbe esporre rispettosamente alla Maestà Vostra queste sue idee.

—Ah, ah!—e il Re sorrise.—Forse che un fanciullo vorrà darmi consiglio? Ebbene, sia; conducetemelo qui, domani a quest'ora.

All'alba del 22, Filiberto di Monfosco fu ricevuto dal Re. Vestito con l'elegante abito del tempo, fiero dei suoi biondi baffi nascenti, il giovinetto mostrava una distinzione veramente principesca in ogni atto e in ogni lineamento. Carlo Alberto, vedendolo, sorrise e gli stese la mano, che Filiberto baciò.

—E' dunque vero che volete entrare nella guardia nazionale?

—Sì, Sire, se Vostra Maestà lo permette.

—E avete lasciato il collegio così! E i vostri studi?

—Sire, li riprenderò quando avrò tempo.

Il Re sorrise ancora. Accennò al giovanetto e al Salvago che l'accompagnava, di sedere, e disse con tono che voleva esser severo:

—C'è tempo a studiare appunto all'età vostra, quando si è così giovani. Come potete servire il paese, all'età vostra?

—Sire, ho imparato gli esercizi militari; so maneggiare un fucile, so tirare a scherma e so andare a cavallo.

—E credete che basti! Ragazzo!—replicò il Re, ma non riusciva a nascondere la soddisfazione che provava nell' udire le parole del ragazzo e nel mirare il suo viso delicato e fiero.

—Al resto supplirà la mia buona volontà, Sire.

—Ebbene! farete la guardia nazionale. Domani farete fazione davanti al mio palazzo.

—Ringrazio Vostra Maestà…

—E poi… verrete anche alla guerra?

—Oh, Sire! Sì, appena la Vostra Maestà lo comandi. E… sarà presto?

Il Re sorrise.

—Forse… sarà presto.

—Ah, quanto ne sono felice! Tanti partiranno con me! Tanti miei compagni! Tutti pronti a morire per la Maestà Vostra… e per l'Italia.

—Morire!—disse triste il Re—Che direbbero le vostre madri se vi conducessi a morire?

—Io non ho madre, Sire!

Il Re chinò il capo e stette un momento in silenzio.

—Andate—disse poi—ci rivedremo. Restate Salvago.

E il giovine si partì pieno di gioia.

—Voi non sapete che io ho mandato a Milano un messo, che porterà ai milanesi le mie parole?

—Ah, Sire!—esclamò il Salvago, impallidendo di commozione.

—Sì; è il conte Enrico Martini, che dovrebbe essere entrato ieri in Milano, se pur gli sarà riuscito… perchè la città è circondata.

—Ah, il mio figliuolo!—sospirò Salvago.

—Il vostro figliuolo lo rivedrete fra pochi giorni, perchè spero voi verrete con me—disse Carlo Alberto.

—Ah, Sire!

—Ebbene, sapete quali parole ha portato a Milano il Martini? Che Carlo Alberto è disposto a venire in aiuto dei lombardi, ma che è necessario, per vincere ogni difficoltà diplomatica, che i milanesi stessi invochino il soccorso del Piemonte, e dichiarino di accettare quel governo che sarà più opportuno.

—Lo faranno, certamente—disse Salvago —ma…

—Che dunque?

—Intanto il tempo passa.

—Appena il Martini ritorni con la risposta, noi saremo pronti a partire.

Mentre così a Torino si aspettava ansiosamente il ritorno dell'inviato piemontese, questi, il giorno prima, cioè precisamente il 21, era entrato a Milano, non senza grandissima difficoltà, travestito da gabelliere, e con lui entrava pure il drappello condotto da Enrico Salvago, che, approfittando di un serra serra avvenuto alle porte tra gabellieri e popolani, aveva spronato i cavalli, si era buttato addosso ad alcuni soldati, atterrandoli, e passando sui loro corpi, era giunto in tempo per portare soccorso a una barricata pericolante.

Il Martini e il Salvago si conoscevano, e subito andarono insieme, seguìti dal drappello dei giovani piemontesi, fino al Palazzo dove sedeva la Commissione municipale. Là seppero che quella stessa mattina i consoli esteri, temendo che il Radezki mantenesse le sue minaccie di bombardamento, rivestiti delle insegne del loro grado, si erano recati in Castello a conferire col maresciallo.

Mentre si aspettava il loro ritorno, il conte Martini fu ricevuto dalla Commissione alla quale egli espose l'entusiasmo che le notizie della insurrezione di Milano avevano destato in Piemonte, e le parole di Carlo Alberto, che voleva essere chiamato dai lombardi, per giustificare il suo intervento in faccia all'Europa.

La Commissione scoppiò in grandi applausi. E subito si decise di scrivere un indirizzo al Re piemontese, e dì farlo firmare da quanti più milanesi ragguardevoli si potesse. Fu Achille Mauri che dettò il testo di tale indirizzo, il quale fu copiato su varii fogli, e immediatamente fatto passare per le mani di innumerevoli persone che lo firmarono. Uno dei firmatari fu Alessandro Manzoni.

Verso le undici ritornarono dal Castello i consoli esteri portando le seguenti proposte:

«Le ostilità sospese per tre giorni, cominciando dalle 6 pomeridiane di quello stesso giorno 21. Pochi colpi tirati da una parte e dall' altra, non significherebbero rottura di tregua. Libera l'introduzione in città dei viveri e dei corrieri. Libera l'uscita a chiunque. Impedito però l'ingresso agli armati.»

I consoli si ritirarono, perchè la Commissione deliberasse. Ma i membri di questa, spaventati al pensiero dell'enorme responsabilità che pesava su loro, sia accettando, sia rifiutando questi patti, decisero di mandare alle barricate come delegati Carlo Cattaneo, Sanseverino, Mauri, Cernuschi e Terzaghi, per chiedere agli stessi combattenti qual fosse la loro opinione. I cinque cittadini ritornarono dopo non molto tempo, portando la risposta di tutti i combattenti unanimi:

«Prima essere seppelliti sotto le rovine di Milano, anzichè cedere.»

Allora la Commissione, aggiungendo a se stessa i medesimi cinque delegati, incominciò una calorosa discussione.

Primo parlò il Durini, che era favorevole all'accettazione della tregua.

—Noi abbiamo bisogno di riposo—disse egli—perchè abbiamo bisogno di riordinarci. Le armi scarseggiano, non abbiamo che poche provviste. Potremo cercare le armi ancora nascoste, potremo fare entrare in città i viveri necessari. Poichè siamo certi del soccorso del Piemonte, di che dobbiamo temere? L'indugio non potrà esserci che favorevole. In questi tre giorni noi diamo tempo ai piemontesi di venire. Se invece per disgrazia l'insurrezione fosse schiacciata, continuando la lotta, nemmeno il soccorso del Re piemontese ci servirebbe più.

Anche il conte Borromeo e altri, convinti da queste ragioni, erano propensi alla tregua.

Ma Achille Mauri, ardente patriota ed eloquentissimo, combattè quella proposta.

—Cittadini!—tuonò egli—e non vedete che l'armistizio è un tranello che il Radezki ci tende? Una tregua, in questi momenti, sarebbe utilissima al nemico. Le sue truppe sono disordinate e demoralizzate; esse non hanno più nè munizioni, nè vettovaglie. Ma l'insurrezione vive solo perchè l'alimentiamo col fuoco dell'entusiasmo. Se cessiamo di combattere, non ricomincieremo più. Il popolo è trascinato dall' esaltazione universale; dall'universale concorso. Esso grida, combatte, muore, portato da questa fiumana, da questo impetuoso torrente. Ma guai a noi se ci fermiamo un momento! Non dobbiamo deporre le armi finchè tutta la città non sia libera! Come volete che restino inoperosi cittadini non ordinati a milizia, non disciplinati, aspettando tre giorni, senza combattere? Come resisterebbero al desiderio di ritornare alle loro case, di riprendere le calme abitudini di prima? E credete che, venuto il momento di riprendere la lotta, tornerebbero alle barricate? E quanti sono i paurosi che combattono perchè presi dalla febbre comune, ma che fuggirebbero, appena si aprissero loro le porte, quando questo fittizio entusiasmo fosse raffreddato! Quanti sono gli incerti che si deciderebbero contro di noi, se lasciassimo loro il tempo! E gli altri allora vedrebbero quanti vuoti si farebbero nelle loro file, e ne sarebbero sgomenti! Ciascuno di noi oggi è coraggioso perchè crede che tutti gli altri siano con lui, ma se si sentisse più solo, perderebbe quel coraggio! Guai se il popolo si accorgesse che non tutti parteciparono ad un eroismo che conviene far credere universale! E intanto, mentre noi ci disgregheremmo, ci raffredderemmo, gli austriaci avrebbero agio di provocare il disordine, di produrre la disunione, di sedurre il popolo; e il moto insurrezionale, che già si diffonde nelle campagne, come lo sappiamo con sicurezza dai messaggi ricevuti, sarebbe soffocato facilmente dovunque!

Le parole del Mauri, religiosamente ascoltate, furono accolte da applausi generali, e allora sorse a parlare Carlo Cattaneo, nello stesso senso, aggiungendo pure:

—Che bisogno abbiamo dei piemontesi? Liberiamoci da noi! Il resto si vedrà.

Il Durini, nuovamente levato in piedi, rivolto al Mauri, esclamò:

—Avete ragione, Mauri! Non ci resta altro partito che combattere fino all'estremo!

—Dunque non accettiamo la tregua? gridò Gabrio Casati, sorgendo, come per mettere fine alla discussione. E tutta l'assemblea gridò:

—No, no!

Cesare Correnti uscì sollecito e corse nella stanza vicina, dove numerosi cittadini aspettavano trepidanti la risposta della Commissione.

—Non si accetta! Non si accetta! Guerra, guerra!—urlò Correnti; e i cittadini, con alte grida, con applausi frenetici uscirono sulla piazza, e di barricata in barricata, di strada in strada, passò quel clamore alto di guerra.

Fino alla morte!—urlarono tutti pronti al sacrifizio estremo.

I consoli esteri, ricevuta la risposta della Commissione, la comunicarono con una lettera al Radezki, che ne rimase stupìto e furibondo.

E il popolo, con nuova furia, con maggiore impeto, lanciandosi verso la caserma del genio, contro la quale si era appuntato un cannone, urtò la porta sbarrata dell'edificio, senza che questa cadesse all'impeto. Allora un popolano, di nome Sottocorno, versa dell'acqua ragia sulle imposte di legno, vi ammucchia delle fascine e vi appicca il fuoco. Gli austriaci tempestano di colpi il coraggioso, e lo feriscono ad una gamba. Intanto le fiamme divampano, il popolo si precipita per la breccia aperta: gli austriaci si dànno prigioni.

Verso la sera si incominciò pure un accanito combattimento a Porta Tosa, e solo la notte vi mise termine.

La mattina del 23 (era il quinto giorno del glorioso combattimento!) la Commissione municipale si costituisce in Governo provvisorio, mentre i cannoni del Radezki vomitavano fuoco e morte sulla città. Questo Governo provvisorio è spiccatamente monarchico e devoto a Carlo Alberto: non un repubblicano vi entrò! E questo medesimo governo decise di rinviare il conte Martini a Carlo Alberto, con l'indirizzo firmato, nel quale si supplicava il re di venire a prendere possesso della città.

Ma il Cattaneo sorse contro tale deliberazione, e parlò violento e concitato.

—Siete dunque tutti così guasti dalla servitù che non potete stare senza una livrea?—esclamò. —E perchè dunque invocate Carlo Alberto, piuttosto che un qualunque altro principe italiano? Perchè i piemontesi piuttosto che qualunque altro popolo di fratelli? E non ricordate i tradimenti del 21? E non le prove di perfidia che il Re del Piemonte ha dato, dacchè è salito al trono? E non sapete che i piemontesi ci odiano, e odiano Milano specialmente, che vorrebbero vedere distrutta? Perchè buttarsi così addirittura nelle braccia di Carlo Alberto? Perchè offrirgli una città, che noi abbiamo liberata col nostro sangue? Voi pregiudicate l'avvenire! Voi usurpate i diritti del popolo, mentre è al popolo solamente che spetta il decidere della propria sorte!

Ma le sue erano parole al vento. Il partito monarchico, il partito dell'ordine vinceva, e lo Zani fu uno dei propugnatori più ardenti della chiamata di Carlo Alberto.

—Ah!—gli gridò amaramente il Cattaneo —e non ricordate più, conte Zani, che egli vi ha rinnegato, che vi ha costretto a riparare di nuovo a Milano, vale a dire in mano dell'Austria, e che l'Austria almeno vi ha lasciato in pace, mentre chissà ciò che vi sarebbe toccato in Piemonte? E non ricordate che egli ha consegnato vostro nipote in mano alla polizia austriaca?

—Che importano—disse lo Zani—queste mie private miserie di fronte al pericolo della patria? E il partito monarchico vinse. E il Martini fu mandato a Torino, a invocare l'intervento di Carlo Alberto.

A Porta Tosa intanto si combatteva accanitamente, e Luciano Manara, il bello, il prode Luciano, con una bandiera tricolore in mano, splendido di forza e di ardire, si slanciava fra la grandine di palle, dava fuoco alla porta, copriva la breccia, dalla quale entrarono a torme, dalle vicine campagne, armati i contadini.

E Porta Tosa, da quel giorno, si chiamò Porta Vittoria!

Così venne ristabilita la comunicazione della città col di fuori, mentre per tanti giorni era stata perfettamente isolata, e a stento le erano venute di fuori notizie, e a stento ne aveva mandate. Là aveva pur combattuto il Salvago, là il Vinchi e gli altri, e pure un giovane pallido, dai capelli di fiamma, che pareva l'arcangelo Michele, tanto era bello e terribile!

Ma le prime notizie della sollevazione di Milano erano giunte nelle campagne per via di aerei messaggeri… Una quantità di palloni areostatici erano stati fatti salire, e portavano la nuova meravigliosa e l'esortazione ai lombardi di armarsi, di accorrere in aiuto di Milano.

Invano gli austriaci avevano tirato contro quegli strani messaggi! Molti erano caduti nelle loro mani, ma molti erano stati afferrati e letti nel contado, e fino nel Piemonte e nella Svizzera! I campagnoli accorrevano, e accorrevano pure drappelli di volontarii dal Piemonte. Passavano il Ticino, scendevano fin dalle valli dell'Elvezia… Ora Porta Vittoria apriva loro il varco ed entravano a schiere.

Erano dunque sconfitti gli austriaci! Il fiero maresciallo era sconfitto! E vergognoso, venuta la notte, mandando innanzi tutte le salmerie e i carri dei feriti, dopo aver seppellito i suoi martiri, partì alla volta di Lodi.

Quale strano silenzio successe allora al lugubre rimbombo delle artiglierie! Che notte fu quella per Milano!

E il domani, fino dall' alba, i cittadini, non osando credere ai loro occhi, errano per le vie, dove più non si scorge una sentinella austriaca, non più una baionetta croata; non più un cimiero ornato del mirto degli odiosi nemici!

Avanti, milanesi, avanti! La vittoria è proprio vostra. Che accorrere da ogni parte, da ogni rione, sulle piazze, presso alle caserme deserte!

Ma son via, proprio via? Ah, sarebbe possibile? E i milanesi corrono come pazzi per le strade e si abbracciano, e piangono di gioia… Vengono poi le donne e i fanciulli ad ammirare le barricate, sulle quali tanto sangue si è sparso e si son compiuti tanti prodigi di valore.

Eccoli i valorosi difensori! Son giovini nobili, avvezzi fin ieri al lusso, a una vita voluttuosa, a ogni dolcezza; son popolani ruvidi, dalle mani callose e dai volti bronzati. Ma chi li distingue ora? Son tutti laceri e polverosi, anche insanguinati e coi capelli arsi dalle palle. Come si sono battuti bene! E mostrano con orgoglio le barricate crivellate dai fucili, gli edifizi bruciati e sfondati, i mucchi di cartuccie che paiono neve sul terreno fangoso e sanguinoso!

E nel pomeriggio dello stesso giorno 23 marzo giungeva pure a Torino il conte Martini, l'inviato del popolo lombardo. Con lui giunse la meravigliosa notizia: Milano libera, gli austriaci in ritirata! Ah, ma dunque il momento era giunto! Erano state così affannose quelle giornate! Si era tanto fremuto, si era tanto sperato! Si era gridato, si era imprecato contro l'inerzia del Re, contro gli stessi soldati, contro gli stessi ufficiali, che parevano passeggiare indifferenti sotto i portici di Po, mentre le schiere di volontari correvano verso il Ticino. Le scuole stesse erano deserte. I fondaci e i negozi si chiudevano; chi poteva in quei giorni pensare agli affari? E il Re taceva! Più severo, più indecifrabile, più freddo che mai, egli taceva!

Ma finalmente, verso sera, si vide la carrozza dell'inviato lombardo andare verso la Reggia, si vide scenderne il Martini ed entrare dal Re! Si seppe che l'intero Consiglio dei ministri era là raccolto ad aspettarlo. E Torino stette trepidante dinanzi a quella Reggia, dove si preparavano i destini d'Italia. Una folla immensa, muta, arsa di febbre. Molte donne, molte signore tra la folla; tutti aspettanti, nonostante che l' ora si facesse tarda. Tra l'immensa moltitudine era una donna vestita di nero, col viso velato, appoggiata ad un signore alto, già grigio…

—Che succederà se l'aspettativa di questa folla sarà delusa?—chiedeva la donna, ch' era Elisabetta d'Avoli.

—Guai! Vedete questa calma severa, questo grave silenzio! ma guai se stavolta Carlo Alberto non comprende il suo dovere. Questo popolo è risoluto a tutto—rispondeva il Salvago.

Le ore passavano e nessuno si moveva; anzi sempre più fitta si addensava la calca.

—E' già mezzanotte, Volete ritirarvi?—domandò Salvago a Elisabetta.

Ma un grido, un immenso grido, poi silenzio.

Il balcone della Galleria d' Armi, sulla piazza Castello si è spalancato. Un torrente di luce si spande sulla folla. Tutti gli sguardi, tutti i cuori pendono da quel balcone. Il silenzio è raccolto, severo.

E nel vano di luce ecco apparire la pallida alta figura del Re, e al fianco di lui ecco il principe ereditario, ed ecco Ferdinando di Savoia…

Carlo Alberto tiene in mano una fascia dai tre colori d'Italia, e l'agita fuori del balcone, sul popolo immenso, che allora urla, singhiozza, leva le mani in alto, grida frenetici evviva.

Italia! Italia! è la sacra parola che risuona per la vasta piazza, e si ripercuote per tutta la città:

«Viva il Re, viva il Re d'Italia!»

Intanto rapidi messaggeri venivano quella notte stessa spediti a Milano, perchè il domani vi fosse pubblicato, contemporaneamente che a Torino, il proclama di Carlo Alberto:

«Popoli della Lombardia e della Venezia!

«I destini d'Italia si maturano: sorte più felice arride agli intrepidi difensori di conculcati diritti.

«Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti noi ci associamo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia.

«Popoli della Lombardia e della Venezia! Le nostre armi vengono a porgervi quell' aiuto che il fratello aspetta dal fratello, l' amico dall'amico.

«Seconderemo i vostri giusti desiderii, fidando nell'aiuto di quel Dio che è visibilmente con noi; di quel Dio che ha dato all' Italia Pio IX; di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sè.

«E per dimostrare con segni esteriori il sentimento dcll'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovra la bandiera tricolore italiana.

«Carlo Alberto.»

Ah, sì, i destini d' Italia si mutavano, ormai!

Fra due giorni Carlo Alberto avrebbe intrapreso la fatale campagna, che doveva costargli il trono, e poco dopo la vita!

Ma era la vittima necessaria di un immenso olocausto…

Un'alba dolce e limpida sorgeva sul paese tutto sparso di campi e di case, tagliato da fossi e da canali, rotto da muricciuoli, da argini, da rialti, sparso di gelsi, coperto di vigne… Un'alba dolce, che avrebbe dovuto invitare i contadini al solco e all'aratro; le mandre al pascolo sulle brevi alture erbose, le donne a cogliere erbaggi e le fanciulle fiori, negli orti, sui margini dei fossi.

Invece, mano mano che il sole si levava, rischiarava uno strano spettacolo. Su tutte le alture che sorgono tra Volta e Goito erano schierate le truppe italiane, pronte a sostenere l'urto degli austriaci, che parevano sostare, perplessi, sotto Mantova. In prima linea erano due batterie coperte da bersaglieri e la brigata Cuneo; in seconda linea la brigata Aosta. Sul rialzo presso Goito, dove sorge il palazzo Somenzari, erano pronti cinque battaglioni di fanteria; all' estrema sinistra, dietro i trinceramenti, erano ottocento napoletani e lucchesi, e all'estrema destra, a sorvegliare la strada da Solarolo a Ceresara, il reggimento di Aosta cavalleria; alla riserva erano la brigata delle Guardie, e tre reggimenti di fanteria e una numerosa artiglieria. In una stanza terrena del palazzo Somenzari, ridotto a fortezza, e ben munito di cannoni, era il capitano dei volontari Enrico Salvago, insieme a Serrati, a Vinchi e a Clara, la quale, nella sua uniforme di soldato, pareva mostrare quello che possa la grazia femminile resa forte e indomita da una grande e nobile passione.

Benchè ella evitasse più che era possibile il cimento sul campo, e preferisse porgere il suo soccorso e conforto ai feriti, pure nei momenti di pericolo non si staccava dal fianco di suo marito, e con la carabina al braccio e la sciabola in pugno, sapeva difendere sè e l'amato, rianimarne il coraggio, centuplicarne le forze… Tutti sapevano oramai che quel soldato biondo, che le fatiche della campagna, la polvere e il sole, avevano abbronzato in viso, senza togliergli nulla della sua strana bellezza, era la moglie del capitano Enrico. E anche i semplici soldati, anche gli umili e oscuri eroi di quelle memorande giornate, la guardavano con ammirazione devota, come un angelo, come una santa belligera, discesa dal cielo, per combattere con loro, e confortarli.

—Credete che oggi avremo battaglia?— chiese il Vinchi—io temo di no. Gli austriaci non si faranno vedere.

—Dovevano già arrivare ieri, a quello che pare—rispose il Salvago.—Ma, forse, l'essere stati respinti da Vicenza, rende loro difficile muoversi da Verona. Si sa, del resto, che è intenzione di Radezki di vettovagliare a tutti i costi Peschiera. Se gli riesce questo colpo, siamo perduti

—Il duca di Genova l'assedia con molta costanza, e non la lascierà così facilmente—disse Clara.

—Certo. Ferdinando ha dato prove di molta intelligenza e di molto valore. Ma potrà respingere gli assalti dei tedeschi, ora che il generale Thurn si è ricongiunto col maresciallo? Questa è la questione.

A questo punto un immenso rumore di applausi, di evviva, che veniva dal cortile della villa, un correre, un gridare, fece affacciare ad una finestra i giovani volontari, che videro un cavaliere, tutto rosso, sudato, coperto di polvere, il quale gesticolava in mezzo a una folla di soldati e di volontari.

—E' Manueli—disse Salvago—ieri si è offerto di andare in ricognizione, ed ero in pensiero per lui… E' qui; sia ringraziato il cielo!

—E' così piccolo quel Manueli, che è difficile che una palla lo colpisca—disse ridendo lo Zani, che si era affacciato anche lui.

Manueli entrava in quel momento nella stanza.

—Urrah! sapete che accade?—disse, dopo aver fatto, con quel suo modo comico, che metteva anche nelle cose più serie, un saluto al capitano Salvago.—Sapete che accade, figliuoli? Ieri c'è stato del caldo a Curtatone e a Montanara! E, se non c'erano i bravi toscani, stavamo freschi a quest'ora!

—Come? come? racconta!

—Sono stati gli studenti, capite?, gli studenti, che si sono fatti macellare per noi! Bravi ragazzi! E pace all'anima loro!

—Ma che ci fu dunque? Una sconfitta?

—No. Sentite quella volpe di Radezki che bel piano aveva architettato. Egli vuole a tutti i costi vettovagliare Peschiera; dunque, pensò, se io riesco a prendere i piemontesi alle spalle e stringerli contro le fortezze del quadrilatero, li distruggo che non ne resta uno. Ma sotto Mantova, a Curtatone e a Montanara, erano seimila toscani, che guardavano il Mincio, ed erano alla difesa dell'estrema destra… Bisognava disfarli, varcare il Mincio, mettersi alle spalle dei piemontesi, togliere loro il magazzino dei viveri, fare quindi una punta verso Peschiera e rifornirla di tutto il necessario.

Questa era l'operazione principale, ma, per nascondere tale progetto. il furbo vecchio ha comandato al generale Zobel di sboccare con qualche migliaio di uomini dalla Val d'Adige e di simulare un attacco sull'estrema sinistra.

Se il colpo riusciva, noi eravamo schiacciati come topolini contro le fortezze, e intanto la Lombardia, indifesa, era aperta al Radezki.

Così il 27 maggio, il nostro caro maresciallo uscì da Verona con trentacinquemila uomini, divisi in tre schiere, e li diresse verso Mantova. La notte del 28 alloggiò sotto quella fortezza, dove erano già dodicimila dei suoi soldati: aveva dunque in tutto quarantasettemila combattenti! E fece le cose così bene che i nostri, accampati poco lontano, non si accorsero affatto dell'appressarsi del nemico.

Così i toscani ricevettero l'enorme urto improvviso. Fu ieri mattina all' alba. Imaginatevi che risveglio! Il generale Laugier, che li comanda, non perdette un momento la testa! Eppure non avevano che nove cannoni soltanto! e il Radezki ne aveva quaranta! Ma come si batterono bene! Dovevano parere dei leoni! Due compagnie di cannonieri e duecentocinquanta volontari, il battaglione degli studenti! osarono fare impeto sul fianco sinistro del nemico. E allora giù colpi, che parevano grandine! E gli artiglieri sparano i loro cannoni, mezzo sconquassati dalle granate nemiche, con gli affusti arsi, le casse e gli attrezzi distrutti!

Come mosche, cadevano, poveri ragazzi! Percossi, caduti, scomparsi, tra i cannoni rovesciati e le ruote frantumate, altri accorrono, pare sorgano da terra, e sotto la grandine delle palle racconciano i pezzi, li rimontano, ricominciano il fuoco! Sei ore è durata quella carneficina, e costò oltre duecento morti ai nostri, e cinquecento feriti!

Ora sono tutti qua vicino a Goito, e il Radezki, cui andò a vuoto la bella sorpresa che ci preparava, perchè aveva creduto di poter distruggere come nulla quegli eroici Toscani—un pugno d'uomini!—è là esitante e perplesso, e non sa più se venirci ad attaccare o aspettare il nostro urto. Perchè naturalmente, Carlo Alberto ne è stato avvertito, ed ecco perchè abbiamo fatto questa rapida marcia da Sommacampagna a Valeggio!… Ora staremo qui sul piede dell'armi, finchè piaccia a Sua Eccellenza il maresciallo di venire a favorirci il resto di quelle pillole che ha distribuito ai Toscani.

—Che anche noi avremo il resto da dargli, e non saremo meno dei Toscani—rispose fieramente Salvago.

—Già, ma intanto il tempo passa, e non si ode nulla; io direi di far colazione!—propose il Vinchi.

—Colazione! Oh vergogna! che termine imbelle sopra un campo di battaglia! Sappi, o finto soldato, che sul campo si parla di rancio e non di colazione—disse Manueli.

Clara uscì dalla stanza, sorridendo, e poco dopo ritornava, seguìta da due soldati che portavano ceste con pani, carne, frutta, bottiglie e biancheria da tavola.

—Siamo in una villa e non al campo— disse ella—e qui della roba ne hanno lasciata, i padroni! Suppongo che sia per noi… e ne approfitteremo. Ha ragione Vinchi, potremo fare colazione.

E lei stessa distese la tovaglia, distribuì i piatti e le posate, e una ventina di quei giovanotti presero posto intorno alla grande tavola del mezzo; stringendosi, naturalmente, un pochino. Gli altri si misero per terra, negli angoli, sulle sedie, alle finestre.

Fu un pasto allegro, e davvero, se non si fosse badato ai visi bronzati, alle uniformi polverose, alle armi ammuccniate negli angoli, si sarebbe potuto credere a una partita di piacere fatta da una lieta brigata.

A un tratto un grido risuonò fuori, davanti alla casa: un grido di gioia:

Viva il Re! Viva it Re l

Si precipitarono alle porte, alle finestre, ciascuno con l'arme in pugno, pronti al saluto. Passava Carlo Alberto, con tutto il suo Stato Maggiore; al suo fianco era Vittorio Emanuele, duca di Savoia, dietro, subito dopo il Re, il conte Salvago e il giovine Filiberto di Monfosco.

Carlo Alberto era passato sul fronte delle truppe, e il pallido viso esprimeva ancora la soddisfazione per l'aspetto franco, gaio di tutti i soldati, che nonostante le disfatte di Santa Lucia, di Croce Bianca, e di San Massimo, erano ancora fiduciosi nella stella d'Italia e pieni di entusiasmo per la causa nel cui nome si battevano.

—Il Re è dimagrato—disse Salvago.

—Sì, egli è visibilmente preoccupato di questa guerra—disse lo Zani.—Eppure finora tutto va abbastanza bene. Non dovrebbe temere.

—Non abbiamo forse con noi la benedizione del Pontefice?—disse Manueli.—Questo dovrebbe rassicurarlo.

—Eh, c'è poco da ridere! Il Pontefice ha l'aria di voltare bandiera!—disse il Serrati.

—Ma no, ma no!

—No? E non ricordate l'Enciclica del 29 aprile?

—Ma se non ha importanza!

—Come! non ha importanza? E quelle parole là dove Pio IX dice che mandando i soldati al confine non intendeva altro che difendere l'integrità dei confini dello Stato pontificio! vale a dire non già contro l'Austria!…

—Ma se non dice precisamente così!

—Sì, vi dico! E aggiunge poi chiaro che se a qualcuno è venuto in mente che egli voglia far la guerra agli austriaci, egli è là, pronto a giustificarsi, dicendo che quella non era la sua opinione!

—E infatti non è mica Pio IX che ha dato ordine al generale Durando di passare il Po! E' lui stesso che lo passò quando il Papa gli mandò l'ordine sibillino di fare tutto ciò che credeva necessario per la tranquillità e il bene dello Stato pontificio!…

—Gesuita d'un Papa!

Le discussioni continuavano. Qualcuno ancora si ostinava a credere in quel Pio IX, nel cui nome veramente l'Italia era sorta, e che aveva benedetto dal Vaticano le truppe partenti per la guerra dell'indipendenza! Ma già la maggioranza lo giudicava sleale e spergiuro, come giudicava sleale e spergiuro il Re di Napoli, che aveva avuto il coraggio di mandare il generale Scala a Guglielmo Pepe quando questi aveva appena passato il Po, il 22 maggio, con un dispaccio del principe d'Ischitella, nuovo ministro della guerra, con il quale gli si ingiungeva di rimandare nel regno le truppe da lui comandate! «Se l'Eccellenza Vostra non crede di dover ritenere il comando delle truppe nella loro ritirata, questo dovrà essere affidato al generale Statella.» Così terminava l'infame dispaccio.

E il generoso Pepe aveva disubbidito ed era rimasto. Ma delle sue truppe, di quei napoletani che erano venuti in Lombardia solo perchè mandati dal Re, senza sapere per quale santa causa si battevano, senza volerlo comprendere, e che ora, stanchi delle marcie forzate, e di essersi dovuti battere, contro voglia, di quei napoletani che erano stati accolti con così grande giubilo dai fratelli piemontesi e lombardi, appena due battaglioni rimasero con lui, e a stento gli si unì pure un terzo battaglione di cacciatori, comandati dal prode maggiore Ritucci! Gli altri erano in marcia verso le provincie meridionali, e passavano frammezzo alle popolazioni indignate, che li guardavano con orrore, come nemici, che taglieggiavano le città, saccheggiavano le case.

E lo stesso loro colonnello Sahalle, fedele al Borbone, ma geloso del proprio onore, doveva uccidersi, con un colpo di pistola, per sfuggire all'infamia di quella ritirata!

Intanto le ore passavano e nessun sentore giungeva del nemico. In tutto il campo si andava spargendo la voce che per quel giorno non ci sarebbe stata battaglia, e i soldati, rompendo le file, andavano formando qua e là gruppi allegri e chiassosi, e chiacchieravano e ridevano. Quelli che avevano denari mangiavano anche. Vi era nel campo una bella vivandiera, giunta con suo padre da poco, la quale andava distribuendo bicchierini di acquavite e pane, e passava seria seria in mezzo ai capannelli dei soldati, che la chiamavano scherzando e ridendo.

Ella non rispondeva agli scherzi: offriva la sua merce, intascava i soldi, passava oltre. Pareva preoccupata, quasi triste, e il suo sguardo spesso si spingeva lontano, in mezzo a un gruppo di cavalieri, tutti ufficiali, che discutevano animatamente fra loro.

A un tratto accadde un tafferuglio; alcuni soldati cominciarono a litigare fra loro per un soldo di acquavite, che uno doveva pagare e non voleva; e questi cominciò a dire qualche insolenza alla ragazza. Gli altri, parte ridevano, parte aggiungevano parole ardite e gesti, che minacciavano di farsi più arditi ancora.

Uno tese la mano ad afferrare la giovane, e tentò baciarla sul viso. Ella si ritrasse vivamente, e guardando il soldato con occhi sfolgoranti, alzato il viso coperto da una vampa di rossore, gridò:

—E io vi denuncierò al vostro capitano!

—Oh, oh, la rossa!—gridò il soldato alludendo ai capelli rossi di lei.—Vediamo, vediamo se farai sempre la cattiva!

E allungò ancora le mani. Gli altri fecero cerchio ridendo.

—Lasciatemi andare—gridò la giovane tremante di collera e di paura.—Siete dei vigliacchi!

I soldati le si precipitarono addosso, forse per ridere o per farle del male, quando una voce imperiosa tuonò:

—Fermi tutti!

E tutti, allibiti, stettero immobili, facendo il saluto al capitano Fanti, che era comparso all'improvviso, alto, bello, sul suo cavallo e pallido di collera.

La giovane, al vederlo, mandò un grido di gioia e gli stese le mani!

Sul momento egli non la riconobbe, ma poi, avanzandosi, fissando quel viso che glie ne richiamava un altro, ricordò… Perosa, l'albergo, la strada di Fenestrelle…

—Marie Jeanne!—esclamò avanzandosi e porgendole le mani.—Come, voi qui? Che fate qui?

—Faccio la vivandiera; son qui con mio padre—rispose ella con occhi brillanti di gioia.

—La vivandiera! non è mestiere per una ragazza così bella! E infatti, mi pare che i soldati vi insultassero. Attenti tutti!—gridò ancora, volgendosi ai suoi uomini.—Che non accada mai, a nessuno, di dire una parola men che rispettosa a questa ragazza! O quell'uno l' avrà da far con me! E ora tutti in rango, subito! Sua Maestà passerà sul fronte delle truppe!

Il comando fu obbedito in un momento, e tutti quei soldati, mogi mogi, si dispersero intorno, cercando i propri posti.

Il capitano Fanti saltò giù da cavallo, e tornò a prendere una mano di Marie Jeanne.

—Perchè siete venuta? Mi fa piacere di vedervi qui e mi fa pena!

—Oh—mormorò ella sorridendo, tutta rossa, felice!—Le fa piacere! E perchè le fa pena?

—Ve l'ho detto. E' un posto pericoloso per una bella ragazza… Eppoi, non sapete che oggi ci batteremo?

—Lo so—disse ella impallidendo.

—Vedete, siete già tutta bianca! Ma se avete paura, perchè venire?

—Non ho paura disse ella;—non ho paura per me.

—No? E per chi dunque?… Ah, mi dimenticavo che avete qui vostro padre!

—Non ho paura per mio padre.

—Per chi allora?

Ella tacque e chinò gli occhi.

—Marie Jeanne!—domandò Fanti ridendo; —avreste forse paura per me?

—Sì—mormorò ella, guardandolo con occhi pieni di lagrime.

—Mi volete dunque bene?

—Sì—disse ella ancora, tremando.

Egli, che rideva, tacque, divenne serio.

—Ci vedremo più tardi—disse rimontando a cavallo.—Ora, ragazza mia, ritiratevi. Non è bene che ci vedano parlare insieme.

E se ne andò tutto pensieroso.

Intanto le truppe si erano riordinate, e un grande silenzio era in tutto il campo.

Passava nuovamente Carlo Alberto, seguìto dai suoi, e passava frettoloso e indispettito. Oramai non aveva più speranza che il nemico si avanzasse da quella parte; bisognava mandare ricognizioni altrove, cangiare disposizioni al campo. Intanto egli si ritirava ai propri alloggiamenti a Valeggio.

Appena fu passato, il generale Bava diede ordine alla riserva di rientrare nei quartieri; così che la brigata Guardie, levando il campo, ritornò a Volta, dove era alloggiata, e i soldati della brigata Aosta, che non avevano mangiato in tutto il giorno, deposte le armi a fascio, e gli zaini a terra, si posero a preparare il rancio.

Tutto il campo era in disordine, e solo quattro battaglioni Cuneo e una compagnia di bersaglieri, ancora immobili nella prima linea, aspettavano che giungesse anche per loro l'ordine di rompere le righe.

Ad un tratto, dalla destra di Goito, si vede alzarsi un nugolo di polvere. Erano le tre pomeridiane. Al sole, ancora alto, si vedono chiaramente brillare armi, baionette, elmi… Un panico improvviso passa negli animi di tutti.

Il nemico! Il nemico! Lo avevano atteso tutto il giorno, e ora, che non lo aspettavano più, quasi, nessuno potè salvarsi da un senso profondo di terrore.

Erano proprio gli austriaci che, divisi in due colonne, si avanzavano, parte per la via di Goito, guidati dal generale Wratislaw, e parte per la via di Ceresara, facendo un giro assai più lungo, e comandati dal generale d'Aspre. Sei compagnie di cacciatori si avanzavano di gran carriera contro la colonna dei bersaglieri italiani, e, dietro a quelle, erano tre brigate di fanteria, sostenute da una batteria di dodici cannoni.

I bersaglieri, non reggendo al formidabile e improvviso urto, e, vistisi in pericolo di essere circondati, si volsero a precipitosa ritirata, e un battaglione di Cuneo, seguendo quell'esempio, si diede addirittura alla fuga. Pronto il nemico si cacciò nel vuoto, lasciato dai fuggenti, e, convergendo rapidamente a destra e a sinistra, dava addosso agli altri battaglioni di Cuneo, i quali, attoniti, sbalorditi, presi alle spalle, vinti da panico tremendo, si diedero tutti a precipitosa fuga!

Terribile momento! Era bensì accorsa la brigata Aosta, che aveva ripreso frettolosamente le armi, ed era entrata risolutamente in linea di battaglia; ma, come resistere sola contro quell'urto? Anch'essa, benchè lentamente, cominciò a piegare… Ancora un istante… e la battaglia era perduta!

Ma in quel momento, rapido come il fulmine, un giovane generale passò in mezzo alle file sgominate… Il suo cavallo arabo era coperto di schiuma, il sangue sgorgava dai suoi fianchi sotto agli sproni, il cavaliere dall'occhio di fuoco, con la spada in pugno, si precipita verso un reggimento di Guardie che accorreva… troppo tardi forse!

—A me le Guardie! Per l'onore di Savoia! —grida il cavaliere.

Viva Savoia! Viva Vittorio Emanuele! —e le Guardie, elettrizzate, si slanciano dietro al giovane principe, e riprendono più accanito il combattimento. Gli austriaci, stupiti, si arrestano, indietreggiano… Ricevono rinforzi dal generale Benedek, che si avanza con un nuovo Corpo; ritornano all'attacco… Ah, il bel reggimento delle Guardie si batte da leone, ma sarà sopraffatto, distrutto!… I nemici sono troppo numerosi. Ma in prima fila, frammezzo al turbinìo dei cavalli, allo scintillare delle spade e al fumo della moschetteria, il giovane generale percorre la fronte del campo, incoraggia i soldati con la voce e col gesto, si espone cento volte alla morte… Una palla di moschetto lo ferisce alla coscia.

—Ah, mio fratello mi invidierà!—grida egli e continua a combattere senza ritrarsi.

Fortunatamente una batteria leggiera s'avanza; è guidata dal generale Arvillaros; ecco pure la brigata Cuneo che giunge al passo di carica. Il fuoco è terribile; gli austriaci si fermano sbigottiti. Già piegano sotto il nerbo di Cuneo, già suonano a ritirata… Possibile? La vittoria sarebbe dunque nostra?

Ma il cannone tuona ancora a Villa Somenzari, dove è già accorso Carlo Alberto, tornato a galoppo da Valeggio appena gli hanno portato la nuova dell' attacco. Là i volontari fanno prodigi di valore, difendendo il palazzo trasformato in fortezza, e fulminando il nemico, che vuole impadronirsi del poggio. L'assalto è accanito, accanita la difesa.

Clara è al fianco di Enrico, e gli ricarica continuamente il fucile, e grida:—Coraggio, coraggio!

Enrico risponde:

—Viva l'Italia!

—Viva l'Italia!—grida pure in quel punto Zani, e cade con una palla in fronte.

—Ah, maledizione!—urla Salvago, vedendo cadere il giovane.

Clara s'inginocchia, gli mette una mano sul cuore. Egli apre gli occhi un momento, le sorride, poi chiude gli occhi e muore.

—Enrico!—grida Clara, rizzandosi da quel merto, e vedendo il marito impallidire e barcollare.

—Non è nulla, non è nulla, una scalfittura sul braccio… Ah, questi dannati di tedeschi, non se ne andranno mai?

—Vanno, vanno! fuggono! Ah, ecco quelli di Aosta che li inseguono ai fianchi con la baionetta! Alla baionetta! alla baionetta!

Tutti sono dietro agli austriaci fuggenti… ma il braccio di Enrico non regge più: egli lascia cadere il fucile… Clara lo soccorre, pallida di angoscia, lo fa adagiare in terra presso l'amico morto… Di fuori si sentono… urla terribili, e gemiti, e scoppi di fucile…

Scendeva la sera… la sera di quel memorabile giorno 30 di maggio! Un suono forte di galoppo di cavalli, grida, strepito d'armi fanno rinvenire Enrico, che è quasi svenuto…

—Che c'è? Clara? Sono di nuovo qui? Ella è corsa alla finestra:

—Il Re! il Re che viene fra tanti cavalieri… E i generali accorrono da ogni parte! Gridano vittoria! la battaglia è vinta. Enrico!—girda la donna, ebbra di gioia.

—Ah, sostienmi… ch'io veda… Lascia Ch'io senta quello che il Re dirà!… Vinta!… La battaglia! —mormorò Enrico, trascinandosi sino alla finestra.

Una grande quantità di generali accorrevano da ogni parte incontro al Re, che, pallido come al mattino, ma col viso brillante di una gioia non contenuta, traeva in mezzo agli accorrenti cavalieri.

Vittoria! Vittoria!—gridavano questi.

—Grazie, miei prodi!—gridò Carlo Alberto con voce squillante, porgendo la mano al generale Bava.—Grazie, generale!

Poi, mettendo una mano sul petto, trasse una carta, e fece cenno di voler parlare ancora. Il silenzio era profondo.

—Ho l'onore e la gioia di annunciarvi che mio figlio, il duca Ferdinando di Genova, al quale avevo lasciato l'incarico di assediare Peschiera, mi comunica in questo momento che la fortezza si è arresa!—disse Carlo Alberto.

Allora la gioia parve delirio.

Viva il Re! Viva il Re d'Italia!—gridarono ad una voce quei prodi. E il grido corse per tutto il campo, ripetuto da migliaia di voci.

—Peschiera è presa! Viva il Re d'Italia!

Intanto sulle alture di Goito si raccoglievano i morti e la notte scendeva. Il povero Zani fu seppellito tra le lagrime dei suoi amici. Egli aveva una fidanzata a Milano, ma invece aveva sposato la morte.

Enrico fu portato all'ambulanza, dove Clara lo vegliò tutta la notte, benchè i dottori dicessero che la ferita al braccio non era grave. Infatti, nonostante i dolori acuti che sentiva, potè addormentarsi, e quando venne il conte Salvago a vederlo, lo trovò che dormiva placidamente.

E tutti si apprestavano al riposo, da tutti ben guadagnato. Il capitano Fanti, dopo avere percorso a cavallo il campo, per assicurarsi che tutto tornava in ordine, faceva anch'egli ritorno alla sua tenda, quando, con sua sorpresa, vide sulla soglia di essa la bella vivandiera, che pareva aspettarlo.

—Che fate, Marie Jeanne?—disse con voce severa.—Mi aspettate?

—Capitano!—balbettò la giovane—prima di andare a letto, volevo assicurarmi che non vi è capitato nulla di male, che non siete ferito.…

Egli saltò da cavallo, e diede le redini a un soldato che lo seguiva.

—Entrate un momento, Marie Jeanne, vedete, vien gente da ogni parte. Che diranno se vi vedono qui con me a quest'ora? Non dovevate venirci!

Entrarono entrambi sotto la tenda, e il capitano accese una candela. Egli aveva l'aria burbera, ed era realmente indispettito contro la ragazza imprudente che si esponeva alle chiacchiere di tutto il reggimento… e metteva lui nella tentazione di fare un'azione cattiva.

Ma quando ebbe accesa la candela, si volse a guardare la giovine, e vide che ella aveva il viso solcato di lagrime.

—Marie Jeanne… perchè piangete?—chiese egli.

—Perchè… perchè siete in collera con me. E io non volevo offendervi—disse lei singhiozzando.

Egli le prese la testa fra le mani, la baciò sui capelli; ma poi, sentendo ch'ella gli si abbandonava fra le braccia, la respinse dolcemente.

—Marie Jeanne, voi avete avuto torto di venire al campo—disse con fermezza—e avete torto di venire qui. Voi mi amate, Marie Jeanne? E' vero?

Ella rispose solo con lagrime.

—E io pure vi voglio bene. Siete una cara ragazza. Ma io sono un uomo onesto, e non voglio rovinarvi. Se io vi amassi farei la vostra rovina. Vi prego dunque, cara! non venite a cercarmi, non occupatevi troppo di me, non mostratemi il vostro amore. Io… potrei un giorno dimenticarmi dei miei doveri.… Sono un uomo e non un angelo. Avete capito, Marie Jeanne?

Le sollevè il viso grazioso e glielo baciò, sugli occhi bagnati di lagrime. Ella sorrise. Quel sorriso le dava una grazia fanciullesca, una freschezza, che sedusse maggiormente il giovane capitano. Allora, facendosi forza, disse seriamente:

—Ora è quasi buio. Fuori è silenzio. Credo che tutti saranno rientrati. Presto, andate anche voi. Non voglio accompagnarvi, perchè non voglio si mormori di voi. Ma se qualcuno osasse insultarvi, dite il mio nome… e nessuno sarà più ardito… Andate, andate, Marie Jeanne!

E la accompagnò per mano fin sulla soglia. Ma, mentre si chinava a darle un altro bacio di commiato, due giovani volontari passavano dinanzi alla tenda, e vedendo un ufficiale fecero il saluto militare, ma guardarono con sorpresa la donna, che aveva ricevuto il suo bacio.

—Hai visto?—disse uno all'altro, mentre si allontanavano.—E' la moglie di Salvago.

—Possibile?—esclamò l'altro, che era Giovannino Vinchi.

—Non l'hai vista?—disse il primo, il Serrati. —Che vergogna! E il marito è ferito

—Ma era in vesti femminili—disse il Vinchi.

—Naturale, appunto per non essere riconosciuta.

—Ed era il capitano Fanti, non è vero?

—Sì, lui; un amico di Salvago!

—Quale vergogna! Un tradimento simile!

—E che fare? Avvertire il Salvago?

—Non so. Forse sarà nostro dovere. Ma ci penseremo stanotte.

E si allontanarono pensierosi.

Scendeva afosa la notte sopra un'afosa giornata di luglio. La marcia era stata orribilmente faticosa. Una marcia rapida, da Mantova a Villafranca, sotto la sferza terribile del sole, e senza cibo! Mancavano le vettovaglie, quasi tutti i vivandieri si erano dispersi, e, spingendo innanzi le loro mandre di buoi e i loro carri, avevano abbandonato l'esercito piemontese, considerandone la disfatta già sicura, proprio come fanno le schiere dei topi, che abbandonano precipitosamente la nave destinata ad affondare…

Come erano stati brevi i trionfi! Come parevano lontane le gloriose e fortunate giornate di Goito; quel bel giorno di maggio, che era parso l'alba della libertà italiana, quando tutti i cuorì avevano esultato, e tutti gli animi si erano aperti alla speranza, e anche le menti più fredde si erano abbandonate ai sogni rosei, e la parola d'Italia si pronunciava con un fremito di gioia! Erano venute assai rapidamente le ore tristi della disfatta! Gli errori inesplicabili, le ignoranze colpevoli dei generali, l'abbandono delle truppe napoletane e delle romane, le marcie rovinose, la fame, le febbri di malaria, il dubbio, lo sconforto, le accuse di tradimento…

L'eroica Vicenza, difesa dal Durando, aveva dovuto capitolare, chiusa da un cerchio di quarantatremila austriaci e da cento e dodici bocche di fuoco! E, caduta Vicenza, tutte le altre città venete avevano dovuto piegare il capo dinanzi al nemico, e non rimanevano più libere altro che Venezia, in mezzo alle sue lagune, e Osopo, una piccola fortezza eretta sopra una roccia a pie' delle Alpi. E l'esercito piemontese, distribuito sopra una lunga e sottilissima linea, dalle paludi di Mantova sino a Rivoli, cioè sino ai primi gioghi delle Alpi, presentava una assai debole parete al nemico che si accresceva tutti i giorni di nuove truppe e di munizioni e di viveri!

Era stata lieve impresa infatti per lo scaltro Radezki di rompere a Sommacampagna quella tenue linea, e di occupare tutte le magnifiche posizioni proprio nel centro dell'esercito piemontese, dividendo così le già deboli forze di esso: e quel giorno appunto, il 23 luglio, le truppe rotte a Sona, a Berrettara, a Sommacampagna, si erano ritirate sopra Villafranca, affrante di stanchezza, di fame, di caldo!…

Da Marmirolo, presso Mantova, dove Carlo Alberto aveva eretto il suo quartier generale, il Re aveva udito il rombo sinistro del cannone, e nessuna notizia gli giungeva di quello che accadeva, nessuna notizia: per molte ore, nonostante che alcuni suoi esploratori fossero partiti, e fra essi lo stesso Filiberto di Monfosco.

Infine, nel pomeriggio, il giovanetto era ritornato con le funeste notizie. Battuti i nostri, battuti, e fuggenti in disastrosa ritirata!

—A me la brigata delle Guardie, e Cuneo, e Piemonte e Aosta, e quattro reggimenti di cavalleria, aveva risposto il Re, e mi seguano a Villafranca.

Egli aveva in mente di tentare al domani la ripresa delle posizioni perdute!

Così quella notte del 23 luglio sulle alture di Villafranca si raccoglievano le ultime truppe di regolari e di volontari, nelle quali ormai riposavano le ultime speranze di Carlo Alberto.

Ma non erano più le belle truppe, che erano partite cantando da Torino, nè gli splendidi animosi volontari, raggianti di gioventù e di fede, che avevano baciato in fretta la madre e la fidanzata, occupati da un amore più forte… Era oramai quasi tutta un'accozzaglia di uomini laceri, malcalzati, affamati, pallidi (quanti ne languivano negli ospedali di Brescia e di Milano!) con occhi torvi, e viso corrucciato, che alzavano voci di malcontento e di biasimo, senza curarsi molto della presenza degli ufficiali, anch'essi d'altronde o cupamente taciturni o dispettosi e queruli.

Quasi tutti i battaglioni preparavano il magro rancio. Erano ventiquattro ore che non si mangiava più! I fuochi accesi facevano bollire le enormi pentole, dove in grande quantità d'acqua nuotavano poche verdure, spesso fradicie, e poca pasta rancida o riso d'infima qualità: il tutto ottenuto quasi a forza dai contadini, divenuti a un tratto ostili. Si erano formati gruppi qua e là, a seconda delle simpatie e del vantaggio reciproco; quelli che avevano più cibo, non importa se acquistato pagando o altrimenti, ne facevano parte ai compagni meno fortunati; e si facevano contratti curiosi, quasi sempre su promesse e giuramenti… perchè assai pochi erano quelli che avessero denaro…

Intorno ad un fuoco solitario, acceso dietro un piccolo rialzo, così che gli servisse di riparo, e sul quale era una pentola ripiena di non so che bollente miscuglio, sedevano quattro uomini. Un quinto, appartenente alla stessa comitiva, affettava, a poca distanza, un salame molto duro, che doveva servire di antipasto e di pospasto, perchè non c'era altro dopo quella minestra di dubbia composizione che non spandeva un odore gran che appetitoso.

—Maledetto mestiere!—disse uno dei quattro, che vestivano l'uniforme di fanteria—nemmeno poter mangiare quando si ha fame! Se questa faccenda non finisce presto, me ne torno a Torino!

—Già, per essere fucilato come disertore,— disse un altro.—Ci vuol pazienza, caro mio… E quando si è in ballo, bisogna ballare!

—Ha ragione lo Sbaffo, ha ragione. Ma del resto, qui, tolto il mangiare, che ci manca? Abbiamo le tasche piene di soldi.

—Sst!—fece imperiosamente il primo che aveva parlato.—Silenzio, Biribin!

Quegli uomini li abbiamo veduti nel corso di questo racconto all'osteria del Gambero d'oro, dove non esercitavano precisamente l'onorato mestiere del soldato! Uno era dunque Biribin, l'altro lo Sbaffo; il terzo quello che era soprannominato il Segretario; colui che affettava il salame era il Ballotta, detto lo Sguercia; e il quinto, seduto attorno alla pentola è una conoscenza nuova. Era un uomo sui trent'anni, magro, sbarbato, dallo sguardo losco, dal fare untuoso; la parola era sempre cauta e bassa, e finiva spesso con un bisbiglio incomprensibile. I suoi compagni affermavano che egli era un gesuita travestito, e per questo lo avevano soprannominato il Prete. Del resto, ve ne erano dei gesuiti (sia che avessero vestito l'abito o ne avessero solo la coscienza), ve n'erano dei gesuiti nell'esercito di Carlo Alberto, e chi sa dire fino a che punto toccasse loro la responsabilità delle nostre sventure!

—Zitto!—susurrò in quel punto anche lo Sguercia, smettendo di affettare il salame—qui c'è il Zuruc.

Tutti si volsero, stupefatti, e senza emettere un suono. Un uomo scendeva la collinetta e si avanzava verso di loro, dopo avere rapidamente portato un dito alla bocca, come per imporre silenzio. In pochi minuti fu vicino a loro, e sedette per terra, rannicchiandosi dietro il riparo, per evitare di essere veduto dagli altri.

—Siete voi, signor Zuruc?—domandò il Segretario—e che buon vento?

Il signor Zuruc, niente stupito di sentirsi chiamato a quel modo, mentre il suo vero nome era Züricher, assai troppo difficile per labbra non teutoniche, trasse di sotto alla giubba un pacco e lo porse ai cinque compagnoni.

Biribin afferrò il pacco e lo aprì. Tutti guardavano ansiosi.

—Un tacchino! ben grosso, e bene arrostito! Bravo Zuruc!

—E niente da bagnarsi il becco?—domandò lo Sbaffo.

Di sotto alla medesima giubba, il Zuruc trasse due bottiglie e le porse.

—Ho rischiato di non portarvi niente— disse.—Una maledetta sentinella mi ha sparato addosso, e mi c'è voluto del bello per buttarmi in mezzo al fossato, e scomparire.

—Il signor Zuruc è un uomo di coraggio— disse il Segretario.

—Ed è degno di stare con noi—disse Biribin.

Il signor Zuruc fece una smorfia che l'oscurità impedì di vedere.

—Mangiate e ascoltate—disse egli con voce imperiosa, parlando un italiano misto di qualche voce veneta, e con accento duro, ma con sufficiente chiarezza e correttezza:

—Domani all'alba si darà dunque battaglia?

—Così dicono.

—Siete tutti decisi a quello che si è giurato?

—Tutti—risposero i cinque con la bocca piena.

—Siete gente risoluta e non vi manca il coraggio. E' possibile che domani, a uno di voi, si presenti l'occasione propizia. Certo la battaglia sarà calda, e sarà probabilmente l'ultima che tenterà Carlotto. Ma è necessario di essere sbarazzati anche di lui, per sempre. Finchè colui sarà vivo, non ci darà pace. Egli si espone facilmente al pericolo. Che ci vuole. perchè una palla di fucile ben assestata gli entri nel cranio? Nulla. Polso sicuro e buona vista. Si spara; chi può sapere chi è stato? Una palla nemica. A Goito non fu ferito che ad un orecchio. Si è detto; fu una palla austriaca… Errore! Fu una palla italiana, ma mal diretta! Si tratta di ricominciare e di prendere meglio la mira. Può capitare all'uno, o all'altro di voi. Questo non mi tocca. Aggiustatevi fra voialtri. La fortuna favorirà l'uno o l'altro. Certo, quello che avrà fatto il colpo, potrà dirsi un uomo fortunato! Centomila lire! non una di meno! Agli altri quattro compagni cinquemila lire ciascuno, anche se non avranno fatto nulla. E intanto eccovi un piccolo acconto.

Tolse dell'oro da quella miracolosa giubba, che pareva il pozzo di San Patrizio, e i cinque amiconi lo presero e lo intascarono.

—Sta bene—disse il Segretario—ce la vedremo fra noi. Centomila lire sono una bella somma. Se non ci fosse pericolo.

—Che pericolo?

—Oh, solo quello di essere fatto a pezzetti. se si è scoperti! Ma potrebbe anche darsi il caso che si fosse soltanto appiccati!

—Ah—disse con indifferenza Zuruc—quello è affar vostro!

—Lo so, e in quel caso erediterebbe Giulia. E… chi paga?

—Non è necessario che vi dica chi. Vi presenterete al campo austriaco, con la carta che vi ho consegnato, e basta. Noi non manchiamo di parola.

—Sta bene. Tireremo a sorte fra di noi— disse volgendosi ai compagni—e quello cui tocca, se ha fegato, accetterà. O se non vuole accettare, lascierà il posto a un altro.

—S'intende.

—E così per turno. Ciascuno vedrà, se gli riesce. Andato a vuoto uno, tocca all'altro. Così non si fa confusione, ed è giustizia per tutti.

—Certamente—disse lo Sguercia.

In quel momento suonò la ritirata, e i cinque compagni si affrettarono di spegnere il fuoco, mentre il signor Zuruc si alzava per andarsene.

—Tornate fuori del campo?—domandò lo Sguercia.

—Badate alle sentinelle!

—Se posso, uscirò—disse Zuruc—se no, resterò qui, fino a domani. Tanto non mi conoscono.

E se ne andò. Lo Sguercia lasciò subito i compagni, perchè la sua tenda era più lontana, e finse di ritirarsi in quella, ma realmente seguì il signor Zuruc, il quale, invece di riprendere la via d'uscita del campo, se ne andava, passando fra tenda e tenda, come in cerca di qualcosa o qualcuno.

Suonò il silenzio, nel campo, ma non ve n'era bisogno; già quasi tutti i soldati, affranti, dormivano. Sapevano che all' alba si sarebbe ricominciato a marciare, a combattere, forse! e questa prospettiva li faceva approfittare avidamente delle poche ore di sonno loro concesse.

Zuruc passava, quasi strisciando, fra le tende silenziose. Dietro, come un'ombra, lo Sguercia.

Finchè il tedesco sostò dinanzi a una bella e grande tenda (la tenda di un ufficiale superiore!) di dove usciva ancora un piccolo filo di luce.

Zuruc si guardò cautamente intorno, potè avvicinarsi alla porta, disse a bassa voce una parola. Subito la tenda si aprì, e comparve un uomo, un colonnello, che lo Sguercia conosceva assai bene.

I due uomini scomparvero dentro la tenda.

Lo Sguercia si accosciò per terra, rasente al palo, per udire il colloquio dei due; ma non gli riuscì che afferrare poche parole susurrate:

—Ritentare la battaglia… Provveduto per De Sonnaz… giornata certissima… Non badiamo al prezzo…

Udì anche un rumore d'oro scorrente in una borsa, e le parole di Zuruc:

—Piccolo acconto…

Poi il tedesco uscì, accompagnato dal colonnello fin sull'uscio della tenda.

—Ah! cane!—mormorò lo Sguercia— come impedire tutto ciò? Egli corrompe tutto il campo!

E infatti Zuruc continuò a errare, come un animale selvaggio e malefico, per il campo immerso nelle tenebre, ma di tanto in tanto un filo di luce usciva di sotto a una tenda e il tedesco si avvicinava, susurrava una parola, entrava…

—Siamo perduti:—mormorò lo Sguercia —la dissoluzione è inevitabile!

E si sedette tristemente sopra un mucchio di ciottoli aspettando che il tedesco finisse il suo giro insidioso.

Infatti (era più della mezzanotte) Zuruc prese la via del ritorno. Lo Sguercia gli andò dietro. Egli era sicuro che sarebbe passato presso a sentinelle pagate, le quali non avrebbero dato l' allarme! Ma voleva, voleva assolutamente uccidere quell'uomo prima che potesse uscire dal campo, prima che ritornasse ai suoi, a recare le nuove che i traditori gli avevano comunicato.

Era deciso di far lui giustizia. Tanto, se avesse chiamato, se lo avesse accusato altamente, era probabile che la spia gli sarebbe sfuggita! Aveva troppi amici e troppi complici!

Già si vedeva, tra gli olmi, poco lungi lo scintillìo della baionetta della sentinella, già si udiva il suo passo cadenzato, pochi passi e il tedesco sarebbe in salvo… Ad un tratto Zuruc si sentì stringere alla gola, vide balenare dinanzi ai suoi occhi la lama d'un pugnale, non potè che mandare un rantolo sordo, e cadde pesantemente al suolo.

—Chi va là?—gridò la sentinella.

Nessuno si mosse. Il caduto non rantolava più; giaceva immobile con la lama nel collo; lo Sguercia, tutto abbandonato su quel corpo, cui la vita andava mancando, rimaneva pur lui senza moto e senza fiato.

La sentinella non replicò, credè di essersi ingannata e riprese il suo passo monotono.

Allora lo Sguercia, ficcando avidamente le mani nella giubba del cadavere ancora caldo, cercò il portafoglio che credeva ci fosse; il portafoglio, che doveva contenere i nomi dei traditori e le notizie avute! Nulla! Non c' era nemmeno una carta! Il prudente tedesco confidava tutto alla memoria, e certo non doveva essere stato un uomo comune colui, che serviva con tanta intelligenza e coraggio la sua causa.

Lo Sguercia lo frugò ancora, per tutto, inutilmente. Allora si decise di abbandonare il cadavere e di tornare alla tenda, dove rifletterebbe sul resto che gli convenuiva fare.

L'alba del 24 luglio sorgeva rapida e ardente, promettendo una giornata peggiore di quella trascorsa. Il sole implacabile mandava vampe di fuoco sulla terra, l'aria pareva irrespirabile.

I soldati, già pronti, ristorati alquanto dal riposo, facevano un magro rancio, mentre aspettavano l'ordine di partire; ordine che non poteva mancare, perchè tutti sapevano che quella sarebbe una giornata decisiva. Nè si udivano più i mormorii della sera prima, tutti parevano più sereni, rassegnati, se non entusiasmati. Purchè si facesse presto… Prima che il sole li cuocesse tutti!…

Intanto già il Re aveva ricevuto le cattive notizie da Salionze e da Monzambano. A Salionze gli austriaci avevano gettato un ponte sul Mincio, e invano, per sette ore, un battaglione di fanteria aveva tentato opporsi a quella costruzione, resistendo al fuoco nemico finchè ebbe munizioni!

Anche il passo di Monzambano era stato valorosamente difeso dai fanti piemontesi e parmensi, ma gli imperiali avevano tentato di circuirli, e allora quelli avevano dovuto ritirarsi a Volta.

Così Radezki aveva avuto libero il passaggio del fiume, e le sue schiere avevano occupato anche Ponti e Valeggio!

Così dunque il maresciallo austriaco era perfettamente riuscito nel suo piano. Egli aveva diviso il Corpo d'armata di De Sonnaz, che era all'ala sinistra, da quello in cui si trovava, con Bava, Carlo Alberto, sull'ala destra. Era chiaro che ora il Radezki si prefiggeva di portare il grosso del suo esercito sulla riva destra del Mincio, e qui, volgendo a sinistra, di prendere alle spalle il corpo di Bava.

Fino al giorno prima il piano di Carlo Alberto era stato invece il seguente:

Partire all'alba da Villafranca, con tutte le sue forze, impadronirsi di Valeggio, di Custoza e di Sommacampagna, gettarsi sul Mincio con una conversione a sinistra, cacciare sulla destra del fiume le forze nemiche, e separandole così da Verona, sempre occupata dagli austriaci, disfarle completamente.

Ma Carlo Alberto non sapeva a quanto ascendessero le forze nemiche! Egli era stato tratto anche questa volta in inganno, perchè gli avevano riferito che Radezki era uscito da Verona con poche migliaia di uomini! La fatalità accompagnava il Re, col fantasma della menzogna e del tradimento!

Uno stupore indicibile corse fra le truppe e fra gli ufficiali quando, invece di ricevere l'aspettato ordine di marciare, si seppe che il Re comandava il riposo, per tutta quella mattina, allo scopo «di rinfrancare i soldati prostrati di forza per le fatiche dei giorni precedenti e di lasciare loro prendere cibo sufficiente!»

Un mormorio di collera, di meraviglia, passò nelle file!

—Come!—gridò Enrico Salvago, che, alla testa dei suoi uomini, già pronti per la marcia, aveva appreso la notizia dallo stesso suo padre. —Il Re dunque ha giurato di perderci tutti! Vuol farci marciare oggi, col caldo orrendo che farà… Ci farà morire di insolazione e di sete!

—Per me—aggiunse il Serrati—dichiaro che sono stanco! E' da un pezzo che voglio andare con Garibaldi a battermi sulle Alpi, e lo farò. Abbandoniamo questo esercito fatto di vili e di traditori.

—Serrati!—disse severamente il conte Salvago —queste parole non sono degne di lei. Noi stiamo per batterci. Se non sarà stamattina, sarà oggi! Non è questo il momento di andarsene.

Serrati non rispose, ma continuò a mostrarsi cupo e malcontento, e a tenersi in disparte dagli altri.

Non era la prima volta che egli manifestava il suo malumore e il desiderio di andarsene. Lo stesso Enrico se ne era stupito talvolta, e l'aveva detto con Clara:

—Che può avere Serrati? E' divenuto così taciturno, accigliato, triste…

—Sì—rispose sorridendo Clara—e mi pare che l'abbia specialmente con me.

—Come, con te!

—Sì; mi evita, non mi parla. Qualche volta mi sono accorta di certe sue occhiate dispettose… Pare che egli sopporti malvolentieri la mia presenza nel campo…

—E' buono, Serrati, ma assoluto e violento —rispondeva Enrico.—Egli non l'ha con nessuno di noi… e tanto meno con te, amor mio! Ma non è contento del come si fa questa guerra. Prevede la rovina nostra… e pur troppo non ha torto!

Il malcontento suscitato nel campo, che si era sfogato con mormorii e critiche, e propositi audaci, si era venuto calmando, come se il crescente calore della giornata assopisse tutti i sentimenti. La grande stanchezza delle truppe, che di mattina pareva cessata, e mutata quasi in agitazione febbrile, ritornava col passare delle ore. Il caldo si faceva insopportabile; i soldati, sdraiati qua e là, nella scarsa ombra o dentro le tende, dormivano quasi tutti di un sonno pesante; il campo pareva oppresso da un incubo di noia e di fatica. Dopo lo scarso rancio, preparato e mangiato svogliatamente, ciascuno pensava di passare il resto della giornata dormendo, certo che non si sarebbe dato l'ordine di marcia prima di sera… Ma Enrico Salvago, al quale il padre aveva annunciato che si sarebbe partiti certamente nello stesso pomeriggio, prendeva le disposizioni per il suo battaglione e impartiva ordini qua e là, meravigliato e irritato di non vedere Serrati, che pareva non volesse più prendere parte alcuna alle faccende del campo.

Infine decise di cercare di lui, e andò fino alla sua tenda, risoluto di parlargli con sincerità di amico e severità di superiore…

Ma, giunto presso la tenda di Serrati, Enrico si fermò di botto, assai stupìto e malcontento. Dentro la tenda si parlava forte, ed egli udì distintamente pronunciare il nome di sua moglie.

—Hai torto di comportarti così,—diceva una voce, era il Manueli—perchè Salvago finirà col capire, e allora che accadrà?

—Ma sarebbe anzi mio dovere, nostro dovere di avvertirlo—disse stizzosamente il Serrati,— è vergognoso ch'egli ignori di essere così vilmente tradito.

—E' doloroso—replicava un'altra voce, quella di Vinchi,—ma è necessario che egli non sappia nulla, almeno adesso. Bisogna che egli sia tranquillo, che possa compiere il suo dovere di capitano, senza preoccupazioni, ed è per questo ch'io dico che Serrati fa male.

—Male! Ma io non sono come voialtri, che parlate a quella donna come niente fosse, e niente sapeste! Io mi sento preso da una collera terribile, solo a guardarla.

—Il più colpevole è il Fanti!—disse Manueli.

—Silenzio!—disse Vinchi.—Voi parlate troppo forte.

Ma era tardi. Enrico Salvago era comparso sulla porta, pallido come un morto.

—Di chi parlate voi?—chiese egli, terribile.

Nessuno rispose. Ma i tre amici, che erano stati sino allora sdraiati per terra, si rizzarono lentamente.

—A te, Serrati! parla! Tu hai nominato mia moglie!

Silenzio ancora.

—Parla! Sulla tua vita, parla!—urlò Salvago, slanciandosi verso il Serrati, e afferrandolo alla gola.

—Sì, parlerò—rispose il Serrati.—E' ora. Noi abbiamo veduto tua moglie uscire dalla tenda del capitano Fanti, ed egli la baciò. Era notte, fu la sera della battaglia di Goito. Manueli e Vinchi l'hanno pur veduta un'altra sera, più tardi ancora; io stesso la vidi ieri, a mezzanotte, col Fanti laggiù presso quei gelsi. Egli la teneva abbracciata. Era l'ora in cui tu dormivi, forse, stanco della marcia, ed ella andava a trovare l'amante.

Il Serrati era orribile a vedersi parlare così, la collera, l'indignazione gli sconvolgevano il viso; ma forse anche un'altra passione, non confessata a nessuno, neanche a sè stesso.… Quella donna, che apparteneva al suo amico, anch'egli l'amava, la desiderava! ed ella era d'un altro!

Enrico, solo, spaventosamente pallido, guardò in faccia a uno a uno i tre amici. Pareva assai calmo.

—Voi tutti avete veduto?—chiese egli con voce rauca, ma tranquilla.

—Sì,—risposero piano Vinchi e Manueli.

—Sta bene.—E si volse per andare.

—E che vuoi fare?—domandò inquieto Manueli.

—Nulla, adesso… Oggi avremo battaglia. Non dobbiamo pensare a noi stessi. Tenetevi pronti.

Un'angoscia mortale gli stringeva il cuore. Era dunque possibile! Clara, la sua Clara lo tradiva! Giuseppe Fanti! egli lo conosceva assai bene. E sapeva che aveva frequentato la stessa società di Clara, a Torino, che era stato tante volte ricevuto da lei… Ella gli aveva raccontato di averlo incontrato quel giorno fatale del suo arresto! Quella notte a Perosa, mentre fuggivano da Fenestrelle! Sì, doveva essere così, era così. E poi, forse che i suoi amici potevano mentire? Ora che la sua felicità era distrutta, che farebbe? Uccidere il Fanti. Sì, certamente. Non lei. Ella potrebbe andare dove voleva; no, egli non avrebbe mai il coraggio, lo spaventevole coraggio di ucciderla. Spontaneamente era ella venuta a lui, lo aveva seguìto nei pericoli… in guerra. Perchè, se non lo amava più? Ah! forse per essere vicina al Fanti! E una folle rabbia lo prese. Sì, avrebbe ucciso quell'uomo; ma non subito… Era necessario oggi non turbare con domestiche inimicizie la causa della patria. Ma appena la battaglia fosse finita!… Se si ritrovavano entrambi vivi!

Il destino volle altrimenti di quello che egli andava proponendo fra sè, mentre a passi concitati volgeva verso la sua tenda. Proprio vicino a quella tenda, in atto di aspettare qualcuno, era il capitano Fanti!…

—Ah!—pensò Enrico—egli è qui… a cercarla!…

E la rabbia gli offuscò la vista.

—Capitano,—disse il Fanti tranquillamente, andandogli incontro appena lo vide.—Vi porto degli ordini del generale. Ascoltate.

—Ah, degli ordini! Vigliacco! Bugiardo!— E, come pazzo gli si lanciò contro per colpirlo in viso.

Il Fanti, stupìto e pieno d'ira, parò il colpo.

—A me vigliacco? Voi siete un pazzo!—e mise mano alla spada.

—Aspettate! Non voglio scannarvi così; no! Cercate due testimoni… Serrati, Manueli!

I suoi amici, che lo avevano veduto partire così sconvolto, gli erano venuti dietro, ed erano stati testimoni del furioso assalto di Salvago, che pareva veramente pazzo di rabbia.

—Qui, qui tutti e tre!—urlò egli—Vi bastano tre testimoni? Vi bastano! Mano dunque alla spada!

Il Fanti, in silenzio, si era messo in guardia. Benchè non sapesse spiegarsi quel folle contegno di Salvago, comprendeva confusamente che fosse cagionato da gelosia, da gelosia per Clara… Si era il marito accorto che egli l'aveva amata? Come? Il momento non gli permetteva di riflettere, di ricordare… Bisognava battersi, perchè era stato insultato, e perchè l'altro, furibondo, incalzava…

Un grido risuonò nell'aria afosa e calma, tra il rapido urtare delle spade. Clara era là, pallida, con occhi pieni di spavento…

—Confessate! Confessate! Eccola! Guardate là! E' li! Ci vede! Trema per voi! Ditele in mia presenza che l'amate, dunque!…— diceva come pazzo il Salvago, reso più furente dalla vista di lei.

Il Fanti l'aveva veduta pure lui, e le rivolse un lungo, appassionato sguardo, in silenzio…

Enrico vide quello sguardo, e il suo furore non ebbe più limiti… Incalzava l'avversario, gli si stringeva addosso con tanta furia, che era miracolo se non si infilzava egli stesso nella sua spada! Pallidi di orrore, i tre amici si guardavano; comprendevano che era un duello mortale… Clara, col viso coperto dalle mani, tremava convulsamente.

Un flebile grido… Il capitano Fanti era caduto; il Salvago trasse la propria spada dal petto di lui, che egli aveva trafitto…

Altra gente era accorsa, tratta dal rumore delle spade e delle grida… Un medico si chinò sul ferito, guardò l'enorme fiotto di sangue che sgorgava, e disse:

—Non si può trasportarlo…

I soldati aumentavano intorno al ferito, mormoravano, esprimevano forte il loro compianto. Solo Enrico, immobile, come se rinvenisse in quel momento da un sogno di sangue, fissava, inorridito, il caduto.

—Enrico! Perchè hai fatto questo?—esclamò Clara, ponendo una mano sul braccio di lui, tentando di trarlo lontano…

—Ah! lasciami!… non toccarmi!—gridò egli, scuotendosi come pieno di ribrezzo.

Un suono di tromba, una confusione improvvisa, un alto, immenso clamore…

—In marcia! in marcia!… Si parte! Nei ranghi!…

Le trombe suonavano, il rumore cresceva; era come se una marea salisse, con enormi cavalloni, sotto l'ardente cielo…

E di un tratto, in quel confuso correre, gridare, spingere di una folla commossa, agitata, impaurita di quella improvvisa chiamata, una donna, una giovane donna venne correndo verso il luogo dove il moribondo giaceva, con occhi chiusi, con lieve respiro… La donna aveva sparse al sole, nell'impeto della corsa, le sue chiome rosse come fiamma, il viso esprimeva un indicibile, disperato terrore…

Quando fu vicina al miserando gruppo, che si era fatto più scarso, la giovane si spinse in mezzo, vide il ferito a terra, lo riconobbe, si gettò con un grido su di lui…

E un altro grido le rispose, un grido di angoscia, di spavento.

—Chi è questa donna?—urlava il Serrati, guardando la nuova venuta, fissandola con un terrore quasi superstizioso, e poi, volgendosi a Clara, che era rimasta muta di dolore e di sorpresa, alle dure parole del marito.

Il moribondo aveva aperto gli occhi, guardò in giro, fissò la donna prostrata vicino a lui.

—Marie Jeanne! Oh povera Maria Jeanne! —mormorò, e non parlò più.

Tornò a chiudere gli occhi, sorridendo vagamente, come parlando a sè stesso, ma cose che nessuno udì, nemmeno la dolente che piangeva su di lui…

La tromba suonò ancora, più forte. Era come una chiamata violenta e severa.

—Eravate voi, voi quella che andava dal capitano Fanti, la sera?…—disse il Serrati, che sentiva una violenta disperazione impossessarsi di sè.

A quelle parole Enrico si scosse. Anch'egli aveva veduto la donna, anch'egli aveva intuito la verità… Egli aveva riconosciuto la ragazza di Perosa, quella che egli aveva veduto la sera in cui era stato condotto a Fenestrelle. Non capiva perchè ella si trovasse al campo; non l'aveva mai veduta: la povera ragazza evitava di mescolarsi tra i soldati, felice di vedere talvolta almeno colui che ella amava, felice, talvolta, se gli permetteva di affacciarsi la sera alla sua tenda, di scambiare una parola con lui.

Ah, che aveva mai fatto! Ucciso! Egli aveva ucciso il fratello d'arme, il fratello innocente! E aveva sospettato di Clara, l'aveva ingiuriata, l'aveva pensata infame, l'aveva lasciata calunniare dai suoi amici!…

Il suono ripetuto delle trombe lo trasse dal cupo pensiero.

—Che faremo di lui?…—mormorò verso il dottore, accennandogli il povero giovane, che giaceva pallido e immoto.

—Egli non ha più bisogno di noi—rispose gravemente il dottore, e si rizzò.

Ma la donna non si mosse, e continnò a tenere abbracciato quel corpo inerte.

—Una strana sventura ci ha colpiti—disse allora Enrico, volgendosi verso i suoi amici e la moglie, che restavano muti, esterrefatti, pieni di orrore.—Ma udite!… Si parte! Abbiamo un dovere da compiere! Clara! Io non dovrei più osare di guardarti, non più chiederti perdono…

Egli scoppiò in un singhiozzo, arido, disperato Poi, chinandosi sul morto:

—Nemmeno a te…—disse—non posso ancora dirti: «Perdonami!» Ma da oggi… la mia vita non mi appartiene. La offro per espiare… Vuoi tu accettarla?

Si chinò sul cadavere, lo baciò in fronte, poi si rizzò, pallido e risoluto:

—Ai ranghi!—disse—e partiamo!

Lontano, sulla strada verso Custoza, una grande nuvola di polvere si alzava, e in essa brillavano le punte delle baionette e le spalline degli ufficiali.

L'esercito era in marcia. Erano le due e mezza pomeridiane del 24 luglio.

Erano partite soltanto le tre brigate Guardie, Piemonte e Cuneo; la brigata Aosta ancora troppo disordinata, troppo stanca, come quella che aveva più sofferto della disastrosa giornata precedente, era rimasta indietro. Il generale Olivieri aveva ricevuto ordine di disporre la caval. leria, molto numerosa, in modo che una parte potesse proteggere i fianchi della fanteria, e una parte stesse nel centro, come riserva.

La fanteria fu poi divisa in due grosse colonne. Quella di sinistra, comandata da Vittorio Emanuele, e formata dalle brigate Guardie e Cuneo, era preceduta da compagnie di bersaglieri piemontesi e seguìta da trenta cannoni; quella di destra, formata di cinquemila uomini della b rigata Piemonte, e preceduta dai volontari lombardi, era seguìta da ventisei cannoni. Il calore era eccessivo, insopportabile; i soldati andavano avanti come compagnie di sonnambuli, muti; quasi consci del crudele macello a cui erano condotti. Su Monte Torre erano gli austriaci, forti, ben agguerriti, i quali, come videro avanzarsi la brigata Guardie, l'accolsero con una fitta gragnuola di palle. Ma le Guardie, come risvegliate da quel saluto di fuoco, si schierarono ai piedi del Monte, e risposeso impavide alle artiglierie nemiche.

La brigata Cuneo occupò il centro, affacciandosi all'imboccatura della valle di Staffalo, ma i tiratori nemici, appiattati tra i vigneti di Monte Godio, la ricevettero con sibili sinistri.

A destra la brigata Piemonte assalì la collina di Berettara, dalle cui alture i cannoni austriaci sfolgoravano la mitraglia con cento bocche.

—Ah, ah: sono i flauti di Hainau—disse ridendo Vittorio Emanuele, guardando lo spesso lampeggiare dei fucili su Monte Torre—li riconosco! Hanno un linguaggio molto persuasivo!…

Il fuoco si faceva più vivo.

—Ragazzi! Bisogna cacciarli di lassù!— gridò il principe, e spinse innanzi il suo cavallo.

I soldati, come elettrizzati, si lanciarono dietro a lui, e l'impeto fu così forte che gli austriaci, sgominati, cedettero e sgombrarono l'altura.

A destra, intanto, la brigata Piemonte, con alla testa il duca Ferdinando di Savoia, investiva caldamente i croati, che difendevano le alture della Berettara, e i fanti del generale Nugent, che presidiavano Sommacampagna. Poco dopo, un messo giunto al Re, gli dava la fausta notizia che i croati avevano sgombrato Berettara, e quindi un altro messo annunziò che anche il Nugent, fulminato da presso, si ritraeva da Sommacampagna. Ma su Monte Torre si era riportato un colonnello austriaco, il prode Sustenau, con una piccola schiera di valorosi. Lassù, incalzato dai fanti della brigata Cuneo, tempestato dalle artiglierie, egli continuò nella disperata difesa, rifiutando di arrendersi. Ma, ricinto e chiuso da ogni parte, ferito, piuttosto che deporre le armi, si gettò in mezzo alla cerchia di ferro che lo stringeva, tentando di aprirsi un passaggio con l' arma in pugno… Il valoroso cadde, crivellato di colpi, e tutta la sua schiera, mille cento e sessanta soldati e diciotto ufficiali si arresero prigionieri e lasciarono la bandiera in mano agli esultanti italiani.

Quando cadde la notte di quella giornata così ricca di avvenimenti, tutte le alture, da Custoza a Sommacampagna, erano occupate dagli italiani.

Così, l'alba del venticinque luglio sorse piena di speranze. Il Re appariva di buon umore, tutto rianimato da presentimenti felici. Il viso triste del conte Salvago lo colpì e gli dispiacque.

—Forse che non credete anche voi che tutto andrà bene?—gli chiese

—Ah, Sire! Voglia Dio benedire la causa d'Italia! La mia tristezza viene da altri motivi!

E gli narrò lo sciagurato duello…

Carlo Alberto aveva notato, durante la battaglia, il valore di Enrico, che pareva scegliere i punti più pericolosi per affrontare il nemico, e lo aveva ammirato in cuor suo.

Ma la narrazione del conte lo empì di rammarico.

Esclamò dolorosamente—Povero Fanti!

Poi, stato alquanto pensieroso, aggiunse:

—Se i miei soldati si uccidono fra di loro, il nemico avrà presto ragione di noi… Conte, io dovrei punire severamente vostro figlio… Ma oggi è giornata di battaglia; ho bisogno di lui… Ora ascoltate il mio piano. Bisogna anzitutto occupare Valeggio, e quindi cingere il nemico e disfarlo. Ora manderemo un uomo intelligente e fidato a De Sonnaz, che si trova a Volta, con l'ordine di investire la destra del Mincio, mentre noi assaliremo la sinistra. Che ve ne pare?

—Vostra Maestà ha ricevuto notizie stanotte?

—Sì, i nemici non ci aspettano; le loro forze non sono grandi; ho fiducia che vinceremo.

—Abbiamo uomini sufficienti?

—Abbiamo tutta la riserva, e quattromila uomini pronti a Villafranca. Poi tutte le forze lasciate a Custoza e a Sommacampagna.

—Nel caso di ritirata, dove intende la Maestà Vostra di riunirci?

—Oh, parlare di ritirata, un uomo come voi, Salvago! Non avete dunque fiducia?

—Maestà! E' necessario prevedere anche un triste caso…

—La ritirata sarebbe su Villafranca. Noi avremo tre colonne dunque. Io guiderò la sinistra, la mia brava brigata Aosta, e andremo direttamente sopra Valeggio. Il duca di Savoia, con le guardie e la brigata Cuneo, ci appoggierà avanzando da Custoza; e il duca di Genova muoverà da Sommacampagna verso Oliosi, e così con largo giro compirà la conversione sino al Mincio. E De Sonnaz passerà il fiume, venendo alla riva sinistra, mi aiuterà a dar l'assalto a Valeggio, e quindi si riannoderà con noi.

—Ottimo progetto! Purchè il nemico non si sia rinforzato durante la notte!

—Conosciamo bene la posizione del nemico.

Salvago tacque. Già tante volte erano stati tratti in inganno da falsi rapporti! Il servizio di esplorazione era mal fatto da persone inette o infide; e mentre il Radezki era sempre bene in formato delle cose nostre, noi non sapevamo mai esattamente quello che ci importava di lui! In dubbiamente vi erano nel campo italiano delle spie austriache, e Dio volesse, pensava il Salvago, che fossero soltanto dei tedeschi! Ma egli sospettava che sin sotto la onorata assisa del soldato si nascondessero i traditori!

—Un uomo intelligente e fedele—ripetè il Re, preoccupato.

—Un uomo intelligente e fedele l'avrei io, Sire—rispose Salvago.

Fu chiamato il Ballotta, detto Sguercia, al quale il conte Salvago diede il messaggio per De Sonnaz.

—E' necessario che gli sia recapitato al più presto—disse il conte—prenderai un cavallo e correrai!…

—Volerò, signor conte…

Intanto le colonne si erano messe in marcia. La brigata Aosta, comandata da Carlo Alberto, e alla quale si era aggiunto il corpo di volontari guidato da Enrico Salvago, giunse verso le otto antimeridiane sotto Valeggio. Una terribile scarica d'artiglieria la colse; essa arretrò come fulminata…

—Maledizione!—mormorò il conte Salvago —anche stavolta fummo traditi!

Difatti il maresciallo Radezki, informato diligentemente di tutte le mosse dei nostri, aveva durante la notte riunite le sparse sue schiere, e con rapido movimento concentrando le truppe di fronte all'esercito del Re sulla sinistra del Mincio, dove aveva pure richiamato le quattro brigate che erano sulla destra del fiume, e facendo venire altre forze da Verona, si era trovato allà testa di cinquantamila uomini.

Queste truppe erano disposte nel modo seguente:

Alla destra il corpo di Wratislaw teneva una divisione a Valeggio e Borghetto; un' altra era disposta a San Zeno e Fornelli; a sinistra il corpo comandato dal D'Aspre era schierato di fronte alle alture fra Custoza e Sommacampagna, la riserva era a San Rocco ed Oliosi; il generale Thurn intanto, presso Castelnuovo, invigilava Peschiera.

Intanto le artiglierie austriache continuavano a fulminare la brigata Aosta, che indietreggiava lentamente.

—A me i volontari di Torino!—gridò Enrico Salvago, cacciandosi sotto le palle, tra il fumo, nella morte!

Lo seguirono pochi dei suoi; gli altri arretrarono, spaventati dall'orrendo pericolo.

—Egli vuol morire!—gridò il conte Salvago, che da un piccolo poggio, presso il Re, osservava l'attacco disperato.

—Si ordini al capitano Salvago di ritirarsi!

—disse il Re, volgendosi impetuoso ai suoi— Abbiamo troppo bisogno di valorosi! E' inutile buttare la vita così!

Un giovane ufficiale aveva udito quelle parole, e lanciando il suo cavallo a galoppo, si spinse nella mischia.

—Filiberto!—mormorò il Re impallidendo —e chiuse un momento gli occhi.

Filiberto di Monfosco era giunto presso il piccolo pugno di temerari, avvolti nel fumo delle artiglierie.

—Indietro, capitano Salvago! Ordine di Sua Maestà!—gli gridò.

Salvago retrocesse, seguìto dai suoi…

—Che importa a Sua Maestà della mia vita? —disse con tono cupo e doloroso…

—Essa è preziosa, capitano! Bisogna arretrarsi.

E questi audaci giovani, seguendo il movimento dell'intera brigata, continuarono a convergere verso il piano.

Tutte le alture intorno andavano popolandosi di schiere nemiche. Era uno spettacolo pauroso! Ogni colle, ogni poggio fulminava. Quand'ecco dalla destra si avanza una colonna di fanteria austriaca, e minaccia con rapida mossa di circuire gli italiani.

Fu un momento di panico indescrivibile. Le truppe piemontesi si volsero a precipitosa fuga. Gli ufficiali, disperati, con la spada sguainata, si lanciarono sui fuggenti, ordinando loro di riannodarsi, di fermarsi…

—Tenete saldo un'ora, mezz'ora!—urlavano —Or ora giungeranno i rinforzi!

Difatti tutti aspettavano la colonna centrale e quella di destra, guidate dai due duchi di Savoia e di Genova, che dovevano essere in moto fino dalle sei del mattino.

Le truppe si calmarono, ripresero qualche coraggio, tornarono a concentrarsi nella piccola pianura dinanzi a Valeggio, con l'ordine di non muoversi finchè non giungevano i rinforzi.

Ma era destinato altrimenti. Ecco giungere a briglia sciolta dei corrieri, che chiedono affannosamente del Re… Sono messaggi di Vittorio e di Ferdinando, messaggi tristi! Nè l'uno, nè l'altro aveva potuto mettersi in moto alle sei, secondo l'ordine ricevuto nella notte. Le colonne aspettavano i viveri…, erano digiune da dodici ore! E le provviste, che avrebbero dovuto giungere prima dell'alba, non sarebbero arrivate che verso le dieci del mattino!

—Fatalità!—mormorò il Re scoraggiato, poi non disse più nulla, e rimase tetro e pallido, guardando la sua bella brigata, che continuava a scambiare colpi di cannone e di fucileria col nemico.

Ma molti erano già i feriti che venivano trasportati nelle ambulanze, dove Clara aiutava i dottori, tendendo l'orecchio ansioso alle sinistre scariche…

Il Re seguìva con occhio cupo i corpi sanguinanti che passavano, portati a braccia, a poca distanza da lui. Il peso del destino pareva gravargli sull'anima, egli sentiva che vano era il ribellarsi…

Intanto il duca Vittorio Emanuele si era potuto mettere in cammino alle dieci, come aveva promesso, e si avanzava da Custoza sul Mincio, per avviluppare gli austriaci che erano intorno a Valeggio. Giunto con rapida corsa a Monte Godio, respinse di là due brigate nemiche e si aprì il passaggio verso Valeggio. Come un fulmine di guerra apparve coi valorosi delle Guardie sulle alture occupate dai tedeschi, e a quella vista il coraggio dei piemontesi risorse. Anche il Re ebbe negli occhi un lampo di speranza!… Ah, se potesse giungere in tempo anche Ferdinando!

La mitraglia tempestava i nuovi venuti. Che importa? Savoia! Savoia! I granatieri delle Guardie si slanciano dietro al valoroso principe, irrompono come impetuosi torrenti. Dinanzi alla loro magnifica e terribile furia indietreggiano i battaglioni nemici, e sgombrano i colli di San Zeno, di Vornelli, di Onevesa.

Tutte le forze austriache si stringono intorno a Valeggio. Le brigate piemontesi non erano che quattro, contro nove austriache, eppure Radezki, già disperando, mandò a chiedere, ad affrettare rinforzi. Ma dove era dunque Ferdinando? Perchè non accorreva come era stato convenuto? E sinistri presentimenti tornavano a occupare l'animo del Re.

Finalmente, verso mezzogiorno, gli giunse un corriere del duca.

Ahimè! Certo un traditore aveva avvertito il generale Hainau, e questi, prima che Ferdinando potesse muoversi da Sommacampagna, si era visto assalito dalle truppe austriache uscite da Verona, mentre da Berettara si avanzava la brigata del Giulay. Il tradimento era evidente. Si era ritardato a bella posta l'invio delle provvigioni, per lasciare ai tedeschi il tempo di assalire le colonne piemontesi.

A queste notizie il Re, accasciato, non tentò più di dare alcun ordine. A che valeva oramai? Egli sentiva che la giornata era perduta! Poteva giungere ancora il De Sonnaz; ma chi sa se quel corriere inviatogli non fosse pure lui un traditore!

No, il povero Ballotta non era un traditore, ma v'erano altri che avevano indovinato, spiato la sua uscita dal campo, e lo avevano seguìto.

Mentre egli, lanciando il suo cavallo a corsa disperata, volava sulla strada di Volta, un colpo di fucile gli risuonò alle orecchie. Egli spronò a sangue il cavallo, che fece un gran salto, e raddoppiò la corsa.

Un secondo, un terzo colpo di fucile… Quanti erano gli inseguitori? Ad un tratto egli sentì un urto terribile nella schiena, sentì le redini sfuggirgli di mano, vide la terra e il cielo oscurarsi…

E il fedele giacque sulla strada polverosa, e il messaggio non arrivò al generale De Sonnaz. No: la stessa mattina anzi, gli era recapitato un dispaccio del Re, a matita, frettoloso, in cui gli si ingiungeva di lasciare immediatamente Volta, e di recarsi con le truppe a Goito!

E il generale, non dubitando di un tradimento, male riconoscendo il carattere del Re sul foglio affrettatamente scritto, aveva obbedito, e, abbandonando la forte posizione di Volta, che fu subito occupata dal nemico, andò veramente a Goito, e stette lì inoperoso ad aspettare!

Ah, se tutto ciò non fosse storia, sembrerebbe davvero una favola!

E i piemontesi dinanzi a Valeggio continuavano frattanto a durare, da sette ore, immobili, sotto le palle, sotto l'urto di forze sempre rinnovate e maggiori, alla fame, alla sete, alla fatica eccessiva, sotto la sferza tremenda del sole! Molti cadevano affranti nei fossati, rotolavano moribondi giù dai poggi riarsi; i gemiti dei caduti, le imprecazioni disperate dei combattenti giungevano sino al Re!

—Sarà necessario ritirarsi…—dicevano intorno a lui i generali.

Ma egli volgeva ansioso lo sguardo sulla riva opposta del Mincio, a vedere se giungeva De Sonnaz…

Era tutto il giorno oramai che lo aspettava!

Ed ecco giungere i nuovi rinforzi a Radezki, ecco un altro corriere di Ferdinando che porta al Re l'infausta notizia che, non ostante i prodigi di valore delle sue truppe, il Poggio di Casa del Sole era stato occupato dagli austriaci, e quindi il centro piemontese era ormai disgiunto dalla destra!…

Che fare oramai? Tutto era perduto.

Alle 6 pomeridiane il Re diede ordine di ritirarsi su Villafranca, e mandò lo stesso comando al duca di Genova, mentre la colonna centrale, comandata dal duca di Savoia, doveva continuare a sostenere l'intero assalto degli austriaci per proteggere così il movimento della destra e della sinistra. La confusione del primo momento fu grandissima. Le truppe stanche, sfiduciate, mormoranti, si urtavano, si pigiavano, correvano all'impazzata… Il generale Bava volle condurre via il Re, che si ostinava a restare fra gli scomposti soldati…

Ad un tratto un colpo di fucile, che nessuno mai seppe donde fosse venuto, fischiò nell'aria, all'orecchio di Carlo Alberto, e un uomo cadde riverso al suo fianco… Il Re si voltò, pallidissimo, ma incolume. L'uomo caduto in vece sua era Enrico Salvago. Egli aveva veduto un fucile levarsi, prendere di mira il Re, e si era lanciato, ratto come il lampo, e la palla destinata a Carlo Alberto gli aveva attraversato il petto.

Il Re comprese, e, pieno di muto orrore, si era fermato un momento a guardare il caduto, che gli amici e il padre raccoglievano… Poi, con un gesto di disperazione, spronò il cavallo e disparve nella polvere bianca della strada.

A notte alta giunsero le truppe disfatte a Villafranca, bisognose di riposo, affamate, demoralizzate. Speravano di sostare e di ristorarsi… Ma invece non v'erano che scarse provvigioni, e molti soldati dovettero accontentarsi di pane e acqua putrida, dopo una giornata come quella! Allora il Re, lasciando solo tre ore di riposo a quella gente sfinita di forze, decise di operare la ritirata su Goito… Tanto sarebbe stato impossibile tenere Villafranca, segregata dalle truppe che sostavano sul Mincio, senza munizioni, senza vettovaglie, e con quei soldati… Egli avrebbe voluto partire subito, all'alba… Ma non fu possibile! L'ambulanza era piena di feriti, di febbricitanti, per le campagne si erano sparsi soldati affamati e fuggiaschi… Bisognava ordinarsi, ridare ai reggimenti distrutti un'ombra di vita… E la giornata del ventisei passò tutta in questi preparativi.

Enrico Salvago, frattanto, gravemente colpito, ma non morto, delirava sul suo letto di dolore, assistito dalla povera Clara, la quale, disperata e piangente, si accusava di essere la causa indiretta di tutte le sventure che parevano perseguitare il suo amato. Era forse la maledizione di sua madre che le si era attaccata addosso? Aveva dunque ella operato il male, si era meritato l'abbandono di Dio? E con terrore mirava la sua felicità distrutta, contemplava il viso del povero delirante, che non sarebbe forse mai più, mai più ritornato alla vita, all'amore!…

Il giorno ventisette di luglio si dovette operare la ritirata su Goito, dove ritrovarono il generale De Sonnaz, che aspettava da due giorni gli ordini del Re!

La collera di Carlo Alberto fu terribile!

—Abbandonare Volta al nemico! Venire a Goito, mentre noi ci battevamo a Valeggio. E' indegno, signore! E' un tradimento! Vi proibisco di venirmi più dinanzi agli occhi!

—Se c'è un traditore, non sono io quello!

—disse costernato il De Sonnaz. E raccontò come fosse stato tratto in inganno, e fortunatamente potè pur mostrare la lettera scritta a matita, con la firma del Re. Ma questo non calmò la sua ira.

—Andate, signore!. Ripartite immediatamente, e riprendete Volta! Ah, è enorme, è enorme!

Il povero generale, molto avvilito, si affrettò a ripartire, e andò ad assalire Volta, già occupata e ben munita dagli austriaci. Egli comprendeva benissimo che l'impresa era disperata, che era un mandare a sicura morte centinaia di soldati, inutilmente; ma l'ordine del Re era preciso, e il suo onore richiedeva quel sacrifizio…

Le sue truppe si batterono bene, tutta la giornata e fin oltre nella notte. Il mattino dopo ripresero l'attacco disperato, ma infine, completamente battuti, dovettero battere in ritirata, e ritornare a Goito, più scorati che mai…

Goito presentava un ben miserando spettacolo! L'umiliazione della sconfitta era dolorosa, immensa! A questo profondo scoramento delle truppe si aggiungeva la privazione dei viveri. Il caldo, la dissenteria, la febbre! Gli appaltatori e i vivandieri facevano a gara per mettersi in salvo; per ottenere un po' di pane i soldati dovevano rubare… E molti, molti, incapaci di reggere ai lunghi patimenti, abbandonavano le bandiere. Disertavano a branchi, si gettavano nelle campagne, fra le popolazioni spaurite, diffondendo sul loro passaggio il terrore. Rallentata ogni disciplina, cessato ogni rispetto per gli ufficiali, l'ammutinamento correva le schiere… Allora Carlo Alberto, vinto dalla disperazione, stanco, desideroso di finirla, a qualunque patto, chiamò a consiglio i suoi generali.

—E' necessità suprema chiedere una tregua! —disse il generale Bava.—Non v'è nessuna altra via di scampo.

Solo il generale Rossi sorse dicendo:

—No, no, val meglio morire tutti, ma nessuna tregua col nemico!

—Volete dunque perdere per sempre la causa d'Italia? Volete distruggere il regno?

—Volete vedere il Re in esilio o prigioniero? —dicevano gli altri.

Ma il Re stesso decise la questione.

—Conte Salvago! andrete voi da Radezki, e udrete i suoi patti. Se il maresciallo ci farà delle condizioni onorevoli, accetteremo, per salvare l'esercito.

Salvago andò, e cavalcando così, sulla via maestra, in una fresca mattina, al chiarore dell'alba, vide sulla strada giacere un cadavere, e si soffermò, come spinto da una voce interna. Il cadavere era già putrefatto; un branco di brutti uccelli volò via, lasciando scoperto un viso già scomposto. Ma Salvago credette di riconoscere in quel viso il fido Ballotta, caduto sulla strada, per opera di traditori.

—Ah, lo sapevo bene, mormorò, che egli doveva essere morto, per non avere portato il messaggio!

E voltosi alla scorta dei soldati che l'accompagnava ordinò che scavassero una fossa e seppellissero il cadavere del fedele.

Rifece quella stessa strada a sera, ancora più mesto e scorato. Egli portava condizioni di tregua, ma assai gravi! Radezki voleva che i piemontesi si ritirassero al di là dell'Adda, sgombrassero tutte le fortezze occupate, restituissero senza contraccambio i prigionieri!

Il Re radunò nuovamente i generali.

—Io non vi ho chiamato—disse loro— per discutere una proposta disonorevole, ma solo per udire il vostro parere su quello che ci resta a fare.

Bava disse:

—Non si può far altro che passare suila destra del Po, e appoggiarsi alla fortezza di Piacenza.

Ma Carlo Alberto, come risvegliandosi da un sogno, con nobile, improvviso slancio, disse:

—No, io non posso abbandonare Milano, senza almeno ten tare di difenderla; andremo a Milano.

E, nonostante il contrario parere dei generali, fece prendere all'esercito la via di quella città.

Vi giunse con venticinquemila soldati, il 3 di agosto. Anche i feriti erano stati trasportati sui carri, anche Enrico Salvage, benchè fosse così gravemente in pericolo.

—Preferisco che egli muoia fra le mie braccia, piuttosto che vederlo prigioniero dell'Austria —aveva detto Clara, e il conte l'approvò.

Ella avrebbe anche voluto vedere quella povera ragazza, la cui fatale rassomiglianza con lei aveva cagionato tante sventure. Ma non le fu possibile ritrovarla. Il padre di Marie Jeanne, il vecchio albergatore di Perosa, non sapeva nemmeno lui dove fosse sua figlia, e, appena l'esercito si mosse su Milano, egli dichiarò che ne aveva abbastanza di fare il vivandiere e che sarebbe ritornato alle sue montagne. Difatti nessuno lo vide più.

I piemontesi intanto, fatti entrare in città i carri dell'anibulanza, e riparati negli ospedali i feriti e i malati, si schierarono fuori della città.

Colà li trovarono gli austriaci, il mattino del 4 agosto, e li assalirono vigorosamente. Il combattimento durò dalle dieci del mattino fino alle tre del pomeriggio, vigoroso e gagliardo, ma infine i tedeschi, urtando di fianco i battaglioni italiani, li sgominarono. Erano trentacinquemila gli austriaci, è tutti ben nutriti e vigorosi, imbaldanziti dalle vittorie.

I piemontesi furono respinti fin sotto le mura, e allora, penetrando nella città, si schierarono sui bastioni, continuando di là la disperata difesa. Anche i cittadini milanesi, riprese le armi, combatterono quel giorno accanto ai piemontesi; in mezzo a tutti Carlo Alberto, esposto sempre al maggiore pericolo, alto e pallido, pareva il fantasma della disperazione più cupa.

E intanto suonavano le campane a martello, si ricostruivano le barricate per le vie della città, e il popolo in armi correva a custodirle, e si raccoglieva la guardia nazionale… Tornavano dunque le cinque giornate? Si sarebbe tornato a spargere tanto sangue generoso? E ancora inutilmente?

Nel palazzo Greppi, quella notte del quattro agosto, fu tenuto ancora Consiglio. Carlo Alberto chiedeva ai generali il loro parere… il suo proprio egli non lo esprimeva ancora.

—Le mura di Milano sono vecchie, e non servono alia difesa—disse uno dei generali— noi saremo presi in trappola, e fatti in pezzi, in meno di tre ore.

—Le barricate non servono quando c'è un esercito—sentenziò un altro.—Esse impediscono il passaggio delle truppe e delle artiglierie. Il popolo di Milano non sa far la guerra.

—Non abbiamo viveri sufficienti per sostenere un assedio.

—Non abbiamo denaro.

—Non abbiamo munizioni.

—Se domani Radezki ci attacca, Milano è perduta. La povera città dovrà soggiacere agli orrori del bombardamento. Non otterremo patti. Sarà presa e saccheggiata.

—E il nostro esercito, già decimato, sarà costretto a precipitosa ritirata, e il nemico lo distruggerà tutto, senza misericordia.

—E' impossibile una lunga difesa.

—I danni di una sconfitta saranno immensi.

—E non per Milano solamente, ma per tutta la causa italiana.

Udito questo lamentevole coro, il Re, in apparenza tranquillo, domandò:

—Che proponete dunque, signori?

—La resa della città, purchè siano salve le vite e le sostanze dei cittadini. L'evacuazione dell'esercito nostro dalla Lombardia; purchè esso abbia libera la ritirata in Piemonte.

Ahimè! Nessun'altra risposta fu fatta. E anche questa volta Salvage e due altri vennero mandati a parlamentare al maresciallo e tornarono con la seguente risposta:

«Accetto le condizioni proposte. Ma io non ho ricevuto dal mio sovrano poteri politici, e quindi non posso promettere nulla per i cittadini di Milano. Posso solo concedere dodici ore di tempo a quei cittadini che volessero emigrare; prometto di fare rispettare le proprietà e le vite degli altri… fino a nuove istruzioni. Intanto non posso che raccomandare alia clemenza imperiale la popolazione milanese!»

Questa risposta era stata dettata la notte, e all'alba del giorno cinque i parlamentari la recarono a Carlo Alberto. Questi allora invitò tutti i membri del Consiglio municipale per notificare loro la deliberata convenzione.

E nella mattina stessa il Consiglio municipale, il Comitato di difesa, e lo stato maggiore della guardia nazionale vennero a palazzo Greppi, dove furono ricevuti a nome del Re dal generale Olivieri.

Questi, con parole piene di eloquenza, espose ai milanesi la dolorosa necessità in cui il Re si trovava di rinunziare alia difesa di Milano, e di abbandonare la città al nemico!

Sorse un mormorìo lungo, di dolore, di indignazione, di protesta. Poi, primo sorse il conte Zani, che faceva parte del Comitato di difesa, ed esclamò:

—E come! Avremmo noi sparse tanto sangue di cittadini inutilmente?

E il Rastelli e il Maestri, pur essi membri dello stesso Comitato, parlarono con tono più veemente e risoluto:

—Dite al Re, dite a Radezki che noi non accettiamo questi patti! L' esercito ci abbandona? Ebbene, sia pure! Da soli abbiamo cacciati gli austriaci una volta, quando erano dentro della città. Da soli li cacceremo adesso, che sono fuori delle mura! Dite a Carlo Alberto che Milano si difenderà da sè!

E i municipali uscirono in gran tumulto dal palazzo Greppi, e portarono per la città la notizia che i piemontesi avevano venduto Milano ai tedeschi, che Carlo Alberto la tradiva e la abbandonava!

Il tumulto che successe fu immenso. La moltitudine accorse con grida e minaccie sotto il palazzo Greppi, rovesciò le carrozze di Corte, e si servì di esse, come di catapulte, per sfondare le porte. Pompeo Litta e l' abate Anelli, membri della Consulta di governo, penetrarono fino nelle stanze del Re, e presentarono le proteste del popolo contro la progettata capitolazione.

—Noi ci difenderemo fino all' estremo!— disse il Litta—l'abbiamo giurato.

—Lo volete!—rispose pallido e freddo Carlo Alberto.—Ebbene, poichè volete la guerra a ogni costo, faremo la guerra.

Allora il generale Bava pubblicò un proclama e lo fece affiggere sulle cantonate:

«Il Re Carlo Alberto ha deciso che se i milanesi sono risoluti di morire sotto le rovine della loro città, egli stesso e i suoi figli vi si seppelliranno pure!»

Ma il popolo, incredulo e malcontento, tornò urlando sotto il palazzo Greppi, e con alte grida chiese di vedere il Re.

—Mostratevi, Sire!—supplicò il conte Salvago; —è necessario.

Carlo Alberto fece un gesto d'infinita stanchezza, di noia infinita, e comparve sul balcone.

Ah, che mare di teste ondeggianti! E che grida tremende! Era assai peggio che i cavalloni infuriati dell'Oceano in tempesta!

Pochi mesi prima egli aveva pur veduto, sotto i suoi balconi, una tal folla compatta e commossa. Ma erano grida di entusiasmo, di benedizione quelle che allora erano salite fino a lui… E ora invece…

Egli levò la destra, facendo cenno che voleva parlare. Ma le urla non cessavano. Queste sole parole giunsero, interrottè, fino alla folla tumultuante:

—Gridate meno e battetevi bene, milanesi:

Un grido immenso gli rispose:

—Sì, sì, ci batteremo! Alle barricate!

Il tumulto era forse vinto, allora… Ma ad un tratto corre una voce, una voce terribile tra quella selvaggia moltitudine:

—Siamo traditi! Mentre il Re ci trattiene con buone parole, il podestà e l'arcivescovo sono nel campo di Radezki, e complottano per la resa della città!

Allora quella folla divenne furibonda. Un clamore immenso saliva fino al cielo. Urla incomposte di Morte! di abbasso! Tradimento! tradimento!

La finestra si aprì nuovamente, e la folla mandò in su una terribile imprecazione, credendo di veder comparire l'odiata figura di Carlo Alberto!… Era invece il duca di Genova, che voleva parlare in nome del Re…

Ma non aveva ancora detto: Milanesi!… che una scarica di fucili colpì il balcone sul quale egli era appoggiato! Il duca si ritirò in fretta, accompagnato da altre fucilate… E s'incontrò in Carlo Alberto, che accorreva pallido come un morto…

—Hanno tirato anche nella mia stanza!— esclamò, con inesprimibile dolore—Ah, ingrati! ingrati!

Ah, se il povero Ballotta non fosse morto prima di aver potuto rivelare i suoi segreti, egli forse avrebbe saputo dire da chi partivano quelle fucilate!

—La plebe ha rotto le porte del palazzo! Già è per le scale!—disse il conte Salvago —Sire! Non muovetevi di qui! Noi difenderemo fino all'ultimo queste stanze!

Poi, uscito nelle scale, già invase dalla folla, che pur pareva sostare indecisa, vide il conte Zani, che era penetrato fin lì, e arringava quella gente furibonda.

—Indietro! Indietro! Non mettiamo le mani sul Re! Non macchiamoci di un orribile delitto! Indietro, milanesi! Non è contro gli italiani che dobbiamo combattere! I tedeschi saranno qui fra poche ore!

La folla indietreggiava lentamente, ma nuove ondate di fuori la spingevano, e certo avrebbe finito con lo sfondare le porte degli appartamenti reali, se un grande clamore di sulla via non fosse giunto fin lassù.

—I soldati! I soldati!

—Ah, sia ringraziato il cielo!—esclamò Salvago, accorrendo alle finestre—purchè ora i soldati non sparino sulla folla!…

E corse dal Re.

—Giungono i bersaglieri dalle mura. Sono qui in vostra difesa, Sire! Ma non fermatevi più qui, in questo luogo pericoloso… Scendete. Sire, e venite con noi ai bastioni!

Erano infatti una compagnia di bersaglieri e una di fanteria, che giungevano a passo di corsa in aiuto del Re… La folla si disperse, andò tumultuosa alle barricate. E Carlo Alberto potè allora scendere con il duca di Genova (Vittorio Emanuele e Filiberto erano sui bastioni) e con gli altri che erano seco, e attraversando la città rapidamente, a cavallo, ridursi pure lui sui bastioni, dove erano le truppe.

Quella notte stessa abbandonò quindi, con il suo esercito, Milano, mentre il generale Salasco, mandato da Radezki, concludeva in nome del Re un armistizio, che prese nome dal generale che lo firmò.

—Siamo traditi, traditi, traditi!—gridavano intanto i milanesi per le strade affollate di gente disperata.

E a migliaia, a migliaia, gente d' ogni età, sesso e condizione, abbandonavano le case loro, e portando seco le poche cose preziose che si potevano raccogliere frettolosamente, uscivano dalla città e prendevano la via dell'esilio. Dappertutto, in quella funebre notte, suonavano gemiti, pianti, grida di disperazione. Vecchie gentildonne, malati e feriti degli ospedali, donne con figliuoletti in collo, uscirono quella notte da Milano; e molti non dovevano ritornarci mai più!

Anche Enrico Salvago e sua moglie, sopra un carro d'ambulanza fatto preparare loro dal conte, seguirono quella notte lentamente l'esercito piemontese, mentre invece il gruppo dei volontari repubblicani, condotto ora dal Serrati, prendeva la via verso la Svizzera, dove sperava di trovare Garibaldi e di unirsi con lui.

Il dì seguente, 6 agosto, Radezki entrava coi suoi soldati trionfanti nella mesta e luttuosa città. Le finestre e le porte erano chiuse dappertutto, come in segno di duolo profondo.

E difatti non era forse morta quella notte la eroica Milano?

La villa è già tutta avvolta nel rosso manto autunnale; larghi tappeti di foglie coprono i viali del parco, gli alberi scuotono malinconicamente i rami coperti solo in parte di brandelli di vesti porpora e oro, come un ricco elegante, caduto nella miseria, conserva ancora i resti lussuosi del passato; ma l' aria è ancora limpida e mite e permette alla marchesa d'Avoli di passeggiare fuori all'aperto, in quel pomeriggio d'ottobre.

La marchesa non è sola; ella appoggia il suo braccio al braccio di un cavaliere dalla testa grigia e dal viso scarno e rugoso; il conte Salvago è ben invecchiato in questi ultimi mesi. La marchesa no; ella ha sempre lo stesso viso fine, delicatamente roseo, sul quale appena qualche impercettibile ruga segna il passaggio del tempo; sempre lo stesso sorriso fresco, spirituale apre le sue labbra sopra i bei denti candidissimi: gli stessi capelli d'oro, quasi finemente cinereo, e gli stessi occhi azzurri, ridenti o malinconici, ma vivi, scrutatori, pieni di intelligenza. Ella ha una veste di un pallido viola, guernita di merletti bianchi e ha messo alla cintura un mazzo di rose gialle e rosse, le ultime rose dell'autunno. Mentre passeggia così, sulle foglie che frusciano sotto i suoi piedi, tra gli alberi rossi pare proprio una figura d'altri tempi, discesa da qualche bell'arazzo antico, a rallegrarsi per un momento della vita.

E' autunno intorno a lei; e anche su lei stessa non è forse autunno? E anche sul suo cavaliere? Triste autunno che ha seppellito da un pezzo tutte le speranze della primavera!

—Ricordate—dice ella,—i nostri ritrovi, i nostri colloqui, la primavera passata? e l'altra prima? Appena si poteva dir primavera, quando siete partiti! Era sul fine di marzo… Ma già tutto incominciava a sbocciare, questi alberi avevano già le foglie, e il cielo era così mite, che uscivamo come ora nei viali. Ricordate? Quanto eravamo commossi! Eppure quanto eravamo felici, sperando che i nostri cari sogni si avverassero finalmente! Ed ora è autunno, e tutto quello è passato, tutto è finito, e il tempo ha distrutto sogni e speranze!

—Chi sa, Elisabetta? forse la primavera ventura sarà più felice!

—Siete voi che parlate così? Voi, Salvago, di solito così scettico e poco aperto alle illusioni!

Egli scosse malinconicamente la testa.

—Che volete? Ho sofferto tanto che ora mi è necessario sperare! Pare una contraddizione, eppure è così!

—Sì, una fatalità dolorosa pesò quest' anno sull'Italia. E anche su voi particolarmente, mio povero amico!

Il conte sospirò.

—Così dev'essere. La felicità di mio figlio, che pareva così completa, è stata offuscata pure essa, e per sempre, forse, dalla fatalità. Quel duello! Quell'orribile duello! Ah, povero Fanti! Era una così nobile anima! Cadere in battaglia sarebbe stata una fortuna, ma cadere per mano di un compagno! E più misero ancora il mio Enrico, che, accecato dalla passione, ha potuto compiere una così terribile ingiustizia! Vedete; quell'uccisione non si cancella più dal cuore del mio povero figlio! Egli avrebbe voluto morire in battaglia, nonostante il suo amore per Clara! E sapete che ci è mancato assai poco, perchè ci restasse davvero!

—Ma ora è perfettamente guarito, non è vero?

—Sì, il corpo almeno è guarito. L'anima no. Egli desidera che sia ripresa la guerra, gli pare che l'attività del campo, i pericoli, le emozioni continue, calmeranno la sua inquietudine…

—Il tempo, amico mio, il tempo, è il più bravo medico. Vedrete! Passerà anche quello!

—Speriamo! Egli è giovane, ama sua moglie; sarà ancora felice…

—E… quali notizie abbiamo da Venezia?

—Venezia… nobile città! E' pronta a sostenere la guerra, a riprenderla… Il governo dittatoriale, cioè Daniele Manin, l'ammiraglio Graziani e il colonnello Cavedalis provvedono alacremente a quanto occorre, e il popolo è con loro.

—Credete che Venezia sarà perduta per Carlo Alberto?

—Oh no! Se egli riprenderà la guerra, Venezia sarà col Piemonte.—Venezia ha gridato contro l'armistizio, ha cacciato i commissari regi, ma tornerà con noi, appena avremo denunciato l'armistizio.

—Dio lo voglia! E Roma che fa?

—Pio IX, al solito, tentenna. Ha chiamato Pellegrino Rossi al ministero, ma il ministro non contenta nessuno, e ha nemici tanto i liberali che i reazionari. I liberali lo accusano di intenzioni pretesche, i preti lo dicono eretico, liberale, nemico del Papa. Gli impiegati del governo, avvezzi a non far mai nulla, fuorchè a papparsi lo stipendio, ora, costretti da lui a lavorare sul serio, costretti a una disciplina nuova per loro, non fanno che mormorare contro il ministro, e gli sono avversi tutti. Non so come finirà questa faccenda.

—E quel caro Ferdinando?

—Sempre più canaglia che mai. I napoletani non gli hanno perdonato lo spergiuro e gli orribili macelli del quindici maggio! Quando i suoi svizzeri, i soldati della guardia reale, e quelli della fanteria di marina, si macchiarono del sangue degli inermi cittadini, e saccheggiarono le loro case, come in paese di conquista. E trascinavano i prigionieri nei fossi di Castel Nuovo, e là, sotto le finestre della Reggia, sotto gli occhi del Re, fra oltraggi codardi, e oscene risa, tormentati, torturati, finivano coll'essere uccisi a colpi di baionetta e di moschetto!

—Infami!

—E la Sicilia è pur sempre in armi, sempre in rivolta contro l'odiato Borbone, ma purtroppo le armi del Re vincono dovunque e la generosa isola sarà presto tutta domata!

Difatti le condizioni del regno di Napoli erano forse le più misere! Re Ferdinando sorpassava fin gli austriaci in ferocia! Egli aveva osato fare sciogliere la Camera dei deputati, egli aveva fatto disarmare la guardia nazionale, aveva soppressa la libertà di stampa, soppresso il diritto di riunione, istituita una Commissione di salute pubblica, con facoltà di imprigionare chi volesse; aveva fatto onnipotente la polizia, aveva lasciato incarcerare a migliaia i cittadini! E nonostante questo aveva lo spudorato ardire di dichiarare in faccia all'Europa «che egli aveva ferma volontà di mantenere in tutta la loro integrità le libertà accordate dalla Costituzione.»

E in Sicilia i rappresentanti del popolo non avevano decretato la decadenza dal trono di Ferdinando II e della sua dinastia? E avevano deliberato di fare dell'isola una monarchia costituzionale retta da un principe italiano, e il dieci luglio, quando si era cominciato l'appello nominale nella Camera dei Comuni, il primo rappresentante, che era quello di Aci, aveva detto ad alta voce:

—Eleggiamo a re nostro, Alberto Amedeo di Savoia, duca di Genova!

Il duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto, si chiamava Ferdinando Maria Alberto Amedeo; ma il nome di Ferdinando era così aborrito dai siciliani, che non vollero più profferirlo, e tutti i rappresentanti, uno dopo l'altro, avevano proclamato «Alberto Amedeo!».

Ah, che notte era stata quella a Palermo! Alle due dopo la mezzanotte terminava l'elezione del Re, e in un baleno la città apparve illuminata a festa, fra il suono delle campane e il rimbombo delle artiglierie!

E poi… era venuta la battaglia di Custoza, e l'armistizio di Salasco… E Alberto Amedeo di Savoia aveva dovuto rifiutare il trono della Sicilia…

Così erano cadute le speranze di quel nobile popolo!

—Anche in Toscana l'agitazione si mantiene, è vero?—chiese Elisabetta.

—Sì, il Montanelli ha lanciato quella magica parola, della Costituente italiana, e le moltitudini sono elettrizzate! Intanto lui e il Guerrazzi sono al ministero, e il granduca dovrà ben piegarsi a fare come vogliono essi.

Il rumore di un galoppo vicino interruppe i discorsi dei due amici, ed Elisabetta, divenendo tutta rosea di gioia, disse:

—E' Filiberto!

—Ora siete felice di averlo con voi, non è vero?—chiese Salvago.

—Tanto felice! Certo, qualche volta penso che questa gioia finirà… Il Re non permetterà che egli stia qui con me, ozioso! Se la guerra si riprende, egli tornerà a partire… E io sarò di nuovo inquieta e triste, come già quest'anno! … E dopo, finita la guerra… Chi sa che cosa il Re deciderà per Filiberto! Certo non vorrà lasciar melo… E poi, che cosa farebbe al mio fianco?

Intanto, colui che era argomento di questi discorsi, comparve pel viale, sul suo bel cavallo baio, dono del Re, e appariva bello, romanticamente bello, con quel suo viso fine, ombreggiato da una lieve peluria, e quella sua alta e delicata persona, che ricordava tanto quella di Carlo Alberto!

Il giovane cavaliere saltò lievemente da cavallo, e salutò con gioia la marchesa e Salvago. Egli era tutto animato dalla passeggiata fatta, e anche di una lietezza la cui causa svelò subito, con la foga della sua età ancora quasi fanciullesca.

Montavo la guardia al palazzo, il Re ne è uscito a cavallo, mi ha visto, mi ha sorriso!… —disse egli.

La marchesa e il conte sorrisero anch'essi.

—E' sempre così pallido il Re?—chiese Elisabetta.

—Oh, sì! Pallidissimo, magro. Quando mi ha sorriso, pareva un altro… Ma prima aveva un'aria così triste, così preoccupata!

—Povero Re!

Povero Re, infatti! Dopo quella triste giornata di Custoza, quanti dolori, quante umiliazioni aveva ancora dovuto soffrire! Come era stata terribile quella prima marcia fatta fino a Vigevano, ripassando quel Ticino che pochi mesi prima era stato varcato con così grande entusiasmo! Le strade erano piene di disertori: i carri dei malati e dei feriti si accalcavano per le strade, e molti si trascinavano penosamente a piedi. I soldati, inaspriti, umiliati, mal guardati dalla gente, si vendicavano imprecando, maledicendo, rubando e facendo violenze di ogni sorta.

E intanto a Torino si levavano grida di guerra, si tumultuava per le strade, il Ministero dichiarava nullo l'armistizio Salasco, concluso senza il suo consenso…

E come era stato penoso il ritorno a Torino! Carlo Alberto sentiva di ritornare in una città ostile, dove ogni viso pareva nascondere un'arma insidiosa, a lui destinata…

Egli aveva dovuto allora costituire un nuovo ministero, ligio a lui, ma inviso al popolo. E Alfieri di Sostegno ne era il presidente, con Pinelli agli interni, Revel alle finanze, Dabormida alla guerra. Il ministero aveva riconosciuto l'armistizio, e aveva pregato la Francia e l'Inghilterra di farsi mediatrici di pace con l'Austria!

Quale umiliazione!

Ora il Re usciva per Torino ancora più raramente di prima. Egli diveniva sempre più cupo e misantropo. Non credeva più all'amicizia e alla devozione, e aveva offeso più d'uno di coloro che gli erano fedeli, mostrando loro diffidenza e sospetto. Sfuggiva persino la presenza dei figliuoli e della moglie, come se nemmeno gli affetti domestici avessero pregio per il suo cuore contristato, e frattanto l'amore del suo popolo si raffreddava sempre più, e correvano più insistenti le voci di repubblica e di rivoluzione!

—Perchè non gli lasciano far la guerra?— disse impetuosamente Filiberto.—Il Re vuole la guerra.

La marchesa sorrise.

—Il Re è stanco della guerra—disse ella —e non è il momento ancora… Ma la guerra si farà, fatalmente. Non è vero, conte?

—Oh sì! Fatalmente!

—Sono i gesuiti che non voglion la guerra replicò il giovanetto.

—E' un fatto che i gesuiti sono rigermogliati da ogni lato come i funghi dopo la pioggia —disse Salvago.

—O come i corvi che aspettano il pasto— aggiunse la marchesa.—Hanno buon naso. Dopo la sconfitta sono usciti dai loro nascondigli e si tengono pronti a riafferrare la preda. E' vero che padre Marotti è tornato dal Re?

—Purtroppo! Non lo si dice, ma è così. L'ho veduto io stesso a palazzo.

—Sono gongolanti per la sconfitta, e sperano che ne subiremo un'altra. Sperano in una rovina completa della patria, e sognano di vedere i cannoni austriaci a palazzo Madama.

—Infami!

—E forse la sconfitta non è opera loro? Non sono i gesuiti e l'Austria, alleati fedeli, che ci hanno circuiti e traditi? Lo diceva il povero Ballotta, egli che era addentro nelle loro mene! Non sono essi che hanno portato falsi messaggi a De Sonnaz e davano sempre false informazioni a Carlo Alberto? Il campo era pieno di traditori e di spie.

—leri, che feci una corsa in città, ho visto la contessa della Marca, la madre di Clara, accompagnata da don Teofilo, che ha ripreso la sua veste.

—Ah! la crudele pinzocchera! Sapete che ora non vuole più nemmeno rivedere sua figlia?

—Era da aspettarselo.

—Sì, Clara volle andare a vederla. Ed ella le fece dire che non la riceveva! Che cuore!

—Sapete invece—disse Filiberto ridendo— da chi sono stato in visita oggi?

—Da chi mai?

—Dalla Pallottini!

—Dalla Pallottini, tu!

—Non sapete che è convertita? Vale a dire che lei, le sue tre figliuole, e anche l'interessante suo marito, si sono votati alla causa d'Italia, abbandonando Santa Madre Chiesa?

—Oh, gli ipocriti! Certo v'è qualche motivo che li spinge a fingere così!

—Il motivo credo di averlo indovinato. Sapete che le Pallottini hanno due cugini, uno è nell'esercito. Egli è anzi mio amico, ed è lui che mi conduce in casa delle amabili damigelle. Ci vanno pure due o tre altri ufficiali, tutti dell'aristocrazia, e credo che la contessa voglia scegliere tra essi i mariti per le tre figliuole.

La marchesa e il conte risero, ma Elisabetta ammonì ancora:

—Può essere. Ma penso che probabilmente il salotto di casa Pallottini sarà anche una trappola per gli ingenui… Certo lì dentro si fanno parlare i giovani, e si riferiscono le loro parole ai gesuiti. E abilmente si insinueranno loro pure sentimenti antinazionali… Bisogna guardarsi da quella gente! Sono pericolosi!

E intanto scambiò uno sguardo d' intelligenza col conte. Certo la furba Pallottini aveva capito quale fosse la relazione di Filiberto col Re, e le premeva di farsene un amico… Sarebbero stati ben contenti i gesuiti di avere nelle loro sante unghie Filiberto di Monfosco!

Si era fatto sera, e il conte prese congedo dai suoi amici.

—Ho promesso di pranzare con mio figlio— disse, rifiutando l'invito di fermarsi con loro;— ma ritornerò presto.

Andò a Torino a cavallo, e vi giunse a sera fatta. Enrico e Clara, non aspettandolo più, si erano già posti a tavola.

—Non movetevi, non movetevi—diss'egli, troncando le loro scuse.—Fui dalla marchesa e ho fatto tardi. Ma mangerò con migliore appetito per la corsa fatta.

Si fingeva più allegro di quello che fosse realmente, solo per scuotere alquanto il malinconico umore di Enrico. Ma questi poco rispondeva, e il suo viso, chiuso e tetro, non si rasserenava mai, solo qualche volta una parola carezzevole di Clara lo traeva da quella tristezza, e allora egli le volgeva uno sguardo appassionato e dolce che presto tornava a farsi malinconico e cupo.

Egli non poteva perdonare a sè stesso la inconsulta collera, che lo aveva spinto a uccidere il povero Fanti, e gli ingiuriosi sospetti contro la sua Clara. Benchè la morte del giovane capitano fosse avvenuta in duello, pure la causa non legittima del duello stesso gliela faceva apparire come un assassinio. Aveva giurato a sè stesso di non impugnare mai più armi, altro che in guerra, per la causa d'Italia, e di non accettare mai più sfide nè farne, qualunque fosse l'offesa… E aveva giurato di consacrare tutta la sua vita a quella patria così infelice, e che egli aveva tradita, uccidendo uno che come lui l'aveva amata e difesa…

—Finchè non sia tutta libera, non è vero! Clara? Non avremo altro pensiero sopra a questo!

E Clara aveva detto pur lei:

—Non avremo altro pensiero!

Eppure nel suo cuore era una ferita, ed era una formula di sacrifizio che ella aveva pronunciato con quelle parole! Ah! ella era essenzialmente donna e prima di ogni cosa ella era amante! Per Enrico ella aveva sacrificato tutto, per Enrico era pronta ancora a dare la vita! Ma l'amore d'Enrico era pur tutto per lei! Era più ardente che l'amore per la patria, più imperioso di ogni altro affetto. Ella era italiana, sì: sinceramente italiana! Ma non poteva pensare piuttosto all'Italia che all'amante e si sentiva quindi meno degna, meno nobile di lui. Ma ella amava. E lui, invece, lui, metteva la causa della patria sopra ogni altra ragione.

—Egli ama prima l'Italia e poi me!—pensava Clara con dolore. Ed era gelosa di quella rivale, che Enrico pareva preferirle.

Pure, era troppo fiera per lagnarsene. E poi… a che pro? Ciascuno al mondo ama come sa, e non può diversamente….

Anche l'uccisione del povero Fanti, che aveva turbato così profondamente Enrico, non aveva fatto su lei la stessa impressione. Certo, era con orrore che ella aveva veduto cadere l'infelice capitano! Era con orrore che ella aveva considerata quella morte, della quale pure ella aveva parte involontaria. Ma era disposta a scusare nel suo amato quell'impeto cieco di gelosia, poichè le pareva una prova di quell' amore, del quale ella talvolta dubitava. E quei sospetti contro di lei, di cui Enrico si accusava con tanta amarezza e con così profondo pentimento, non l' avevano offesa veramente, perchè la gelosia non le pareva una colpa, ma una prova di amore.

Quanto aveva sofferto quando egli era caduto ferito, quando si era dubitato della sua guarigione, quando lo aveva visto delirante, fuori dei sensi, in guisa che non la riconosceva nemmeno più, lei, l'adorata, che pure non si staccò mai, un momento, dal suo fianco!

Era lei, piuttosto che i dottori, che l' aveva salvato. Quando lo stesso suo padre disperava, ella lottava ancora, contro la morte; e fu certo la sua ferrea volontà, la sua indomita passione, che avevano arrestato la vita fuggente sulle labbra di lui… Ma poi, quando egli languido ancora, e debolissimo, pur si era veduto rivenire dall'orlo della tomba, aveva sorriso melanconicamente, senza mostrare piacere di vivere, senza parere grato a chi l'aveva salvato. E d'allora non aveva sorriso quasi più, ma cupo e taciturno aveva ripreso il suo posto nella vita; si era occupato con ardore di politica, aveva ritrovato an tichi amici e compagni di fede, e con essi preparava il giorno che sperava fosse quello del riscatto.

Ma Serrati, nè gli altri si erano veduti più a Torino. Erano passati con Garibaldi, e nessuno li aveva più uditi nominare…

—Il Re si prepara alla guerra—disse Enrico —così almeno dicono tutti. Oh, fosse vero! Sapete che la mediazione di Francia e d'Inghilterra andrà a vuoto?

—Non sai dunque ciò che è avvenuto oggi alla Camera?—disse il conte.

—No; non so nulla ancora della seduta d'oggi.

—Ci fu una interpellanza al ministero intorno alla durata dell' armistizio e alle trattative di pace… Ha risposto il ministro Pinelli, assicurando i deputati che il governo non accetterebbe mai una pace che non avesse per fondamento il riconoscimento della nazionalità italiana…

—Bene!

—… e dei suoi diritti;

—Benissimo!

—… e che non stabilisse nella parte superiore d'Italia uno Stato forte e potente, che custodisse la nazione. E se tali condizioni fossero state respinte, il governo avrebbe ripresa la guerra.

—Ah, belle parole!

—Sì, belle parole; ma il ministro concluse pregando la Camera di aspettare l' esito delle mediazioni, e invece il partito dell' opposizione vuole che si riprendano immediatamente le ostilità.

—Certamente.

—Aspetta. La discussione fu lunga e ardente, e infine… la maggioranza respinse le proposte dell'opposizione, e deliberò che si continuassero le pratiche della pace.

—Sono traditori!—proruppe Enrico con violenza.

—No, Enrico, no; sono gente sensata. E voi altri siete degli esaltati. Non sai che l' esercito non è ancora in condizione di combattere? Che se facciamo la guerra adesso saremmo inesorabilmente vinti? Che sarebbe mandare i nostri uomini ad un crudele e inutile macello? E se perdiamo adesso, figlio mio, passeranno cinquant'anni prima che si possa riporre sul tappeto la causa d'Italia!

—Ragioni di diplomatico, padre mio!

—No, no; ragioni vere; ragioni buone, purtroppo. E cosa credi che succederà ora? Cadrà il ministero, ne faranno un altro, e anche quello si persuaderà che la guerra non si può fare… e cadrà anche quello. Bisognerebbe che tu, ragazzo mio, persuadessi i tuoi amici che è inutile forzare la mano al destino. Che la miglior cosa è di star tranquilli, e di aspettare.

Quello che il Salvago aveva predetto, accadde precisamente.

Di lì a poco l' imperatore d' Austria, in una nota ufficiosa, dichiarò che egli considerava le sue provincie italiane come parte integrante dell'impero. Era dunque chiaro che la mediazione a nulla aveva servito, fuorchè a dar tempo all'Austria… Dunque il ministero, che aveva fatto di quella mediazione il perno della sua politica, cadde nella pubblica opinione.

Allora Carlo Alberto dovette scegliere altri ministri più popolari, favoreggiati dalla pubblica opinione, che rappresentavano il partito impaziente d'ogni indugio: Gioberti, che il popolo adorava; Rattazzi, Sineo. Ma questi uomini, che vennero al potere disposti di far la guerra all'Austria senza por tempo in mezzo, quando furono ministri ebbero spavento della terribile responsabilità del governo, e divennero assai meno fervorosi e più prudenti.

Era necessario migliorare le condizioni dell'esercito, prima di ritornare a tentare la sorte della guerra.

Lo stesso Gioberti, grande filosofo e caro ai Piemontesi, grande convinto propugnatore dell'indipendenza, riuscì in pratica minore dell'aspettazione; e di lì a poco dovette uscire dal ministero.

Una sera in casa del conte Salvago giunse improvvisamente da Milano lo Zani.

I due vecchi amici si abbracciarono.

—Son qui—disse lo Zani—sono tornato, sperando che stavolta Carlo Alberto mi sopporterà in pace. A Milano era impossibile restare, e mi avvertirono che già la polizia era sulle mie traccie. Avrei potuto uscire d'Italia, ma stimai che fosse più utile qui la mia presenza. Credete voi che il Re vorrà ricevermi?

—Lo spero—rispose il Salvago; e il domani fece il possibile di persuadere Carlo Alberto a concedere udienza al fuoruscito lombardo.

Carlo Alberto acconsentì, e così lo Zani rivide il Re, dopo tanti mesi, in quello stesso palazzo dove così spesso, due anni prima, lo aveva richiesto di consiglio.

Il Re gli parve mutato, pallido, malandato di salute, molto triste.

—E così che si fa a Milano?—domandò con fare distratto.

—Si soffre, Sire.

—Ah! E' dunque vero quello che raccontano?

—Certo non si racconta tutto. Il governo dell'Austria è come quello di cui parla la Bibbia, Sire: Governo di serpenti e di scorpioni. E' con la sferza, con la carcere, col terrore, che Sua Maestà ricompensa la Lombardia del delitto di volere la libertà.

Il Re parve commosso, e domandò alcuni particolari.

Il conte Zani narrò minutamente delle persecuzioni insopportabili, della feroce oppressione, per cui nessuno era più padrone dei suoi beni, della sua vita, della sua libertà.

—Si invocano le armi del Piemonte! Si invoca il Re—disse infine—il Re liberatore.

—Ah—disse Carlo Alberto con amarezza —e quando ci andai mi accolsero a fucilate!

Il 15 novembre il conte Salvago portò una grande novella alla marchesa.

—Hanno assassinato Pellegrino Rossi, a Roma!

—Assassinato il Rossi! Mio Dio!! E chi ha fatto ciò?

—Chi lo sa! Ieri si apriva il Parlamento, il ministro si recava al palazzo della Cancelleria, ed era già nell'atrio, quando un ignoto omicida lo uccise con un colpo di fucile.

—Ah, è orribile! Povero Rossi! Era un uomo di grande ingegno!

—Sì, e Roma tutta è ora sossopra. I liberali rinfacciano ai preti l'assassinio; i preti lo rinfacciano ai liberali. Intanto la folla tumultuante ha assediato il Quirinale, ha tirato fucilate contro il palazzo, e vi ha appuntato il cannone. Così hanno costretto il Papa a nominare come ministro Giuseppe Galletti, che rappresenta il partito liberale più avanzato, quello che vuole la Costituente Italiana.

Pochi giorni dopo si sparse per Torino un'altra voce, più sorprendente ancora:

Pio IX era fuggito da Roma!

—E' fuggito vestito da semplice prete, accompagnato dal ministro di Baviera, conte Spaur, e dalla contessa Spaur; è andato a Gaeta, nel territorio del suo amico, il Borbone—disse il Salvago.

Difatti pochi giorni di poi si seppe che il Papa da Gaeta aveva emanato un breve, nel quale diceva di essere stato costretto a partire «causa le violenze usate contro di Noi, negli scorsi giorni, e la manifestata volontà di prorompere in altre».

Una deputazione fu inviata a Gaeta, perchè pregasse il Papa di ritornare a Roma; ma Pio IX non la volle ricevere. Intanto l'impazienza del popolo cresceva, e allora, l' 11 dicembre, il Parlamento decretò la formazione di una Suprema Giunta di Stato, composta di Corsini, Lucchini e Camerata, capi dei municipi di Roma, di Ancona, di Bologna.

Ma il partito repubblicano andava facendosi ogni giorno più forte. Dalle provincie giungevano i deputati a Roma a chiedere al Governo la Costituente; il popolo si assembrava, si minacciavano i ministri, che parevano temporeggiare. Quando come un fulmine giunse a Roma Garibaldi coi suoi prodi!

Allora la moltitudine percorse le vie con bandiere e acclamò la Repubblica. Il 26 del mese fu chiuso il Parlamento e il 29 fu proclamata l'assemblea Costituente, e convocata per il 5 febbraio del prossimo anno 1849.

Quel giorno il conte Salvago e il conte Zani furono chiamati da Carlo Alberto. Vi trovarono anche il conte Enrico Martini, che già era stato ambasciatore a Milano.

—Io ho deciso di mandare il conte Martini, con un altro amico sicuro e fedele, come ambasciatore al Pontefice a Gaeta. Chiedo il vostro parere in proposito, e chiedo a voi due chi vorrà accompagnare il conte nella sua missione.

I due amici del Re lodarono quella decisione.

—Benchè—disse il Salvago—poco, assai poco, c'è da sperare da Pio IX.

—Andate voi, Salvago—disse il Re. Chi sa che le vostre parole non lo pieghino.

—Io faccio osservare alla Maestà Vostra che sarebbe meglio andasse il conte Zani, un lombardo, col piemontese conte Martini. Egli potrà dire al Papa quali siano le condizioni dei paesi lombardi, e la sua presenza potrà persuadere Pio IX dell'appoggio che l'ospitale Piemonte dà agli esuli italiani.

Lo Zani accettò, con la sua nobile foga; egli era facondo e caldo oratore, e il Re fu contento di inviarlo. Ma solo il conte Martini, come piemontese, ebbe titolo d'inviato; lo Zani doveva essere soltanto al suo seguito, e avrebbe parlato in seconda linea.

Ai primi di gennaio giunsero a Gaeta gli ambasciatori di Carlo Alberto, e chiesero udienza al Papa.

Ma Pio IX non volle riceverli altro che come privati, e non come inviati del Re.

—Sua Maestà sarda—disse il Papa—mantiene ufficiosi rapporti coi ribelli romani. Io non posso non farne alte lagnanze con loro signori, che sono amici del Re di Sardegna.

Il conte Martini allora parlò della restaurazione del potere temporale, della necessità della conciliazione, del pericolo che avrebbero portato gli interventi stranieri.

E Pio IX, con molta fermezza, rispose:

—Non ho alcuna fiducia nei presenti governi italiani, signori! O sono deboli, o non sono fidi. Io non posso sperare che nelle armi straniere. La Chiesa, del resto, non è nazionale, ma universale! Il Pontefice non ha doveri verso la nazione.

—Il sommo Pontefice dunque non è italiano? —domandò arditamente il conte Zani.

Pio IX arrossì.

—No, non è più italiano che tedesco, o francese.

—Dunque, dobbiamo proprio credere che Vostra Santità chiederà l'intervento austriaco? —disse dolorosamente il Martini.

—E' possibile—disse il Papa.

I due ambasciatori si guardarono, pallidi, turbati.

—Ah! povera Italia!—esclamò lo Zani.

Il Papa parve commosso, ma, lottando contro quel sentimento, alzò le spalle, alzò gli occhi al cielo, e disse sospirando:

—Che vuole? Lo hanno voluto!

E i due inviati furono licenziati per quel giorno.

—E' chiaro che il conte Spaur e Ferdinando di Borbone hanno persuaso il Papa che solo l'Austria e Napoli possono rimetterlo in trono; il soccorso austriaco è richiesto, aspettato, desiderato.

—Sono certo che fra quindici giorni avremo le armi austriache a Roma—dissero i due legati.

E ne parlarono con l' ambasciatore francese, il duca d'Harcourt. Questi, pochi giorni dopo, riceveva a Gaeta un inviato straordinario del suo governo, e insieme si recarono dal Papa a fargli serie rimostranze.

—Preghiamo Vostra Santità di dirci se è vero che si aspetta soccorso da Vienna piuttosto che da Parigi—dissero gli inviati francesi—e siamo dolenti di dover dichiarare alla Santità Vostra che, se l' Austria penetra nello Stato romano, anche la Francia sarà costretta a presidiare qualche luogo importante del medesimo.

Le trattative continuarono così per molti giorni, finchè ad un tratto il 25 gennaio il Papa si decise a ricevere il conte Martini formalmente come ambasciatore del Re di Sardegna. Ma poche, assai poche speranze diede al piemontese, per tutto quello che riguardava la nazionalità italiana. Ah, il Papa non era italiano! lo aveva ben dichiarato!

E la sera del 4 febbraio giunse infatti a Gaeta il conte Maurizio Estherhazy, ambasciatore austriaco, a portare ufficialmente al Pontefice l' offerta del soccorso dell'Austria.

Così dunque il Papa chiedeva gli aiuti di quei nemici, contro i quali egli aveva già inviato i suoi soldati, benedicendo le loro armi! Così, come scriveva il Gioberti al conte Martini, Pio IX anteponeva le massime di Maometto a quelle di Cristo!

Il 5 di febbraio si radunò a Roma l' Assemblea Costituente, ed erano presenti centoquaranta rappresentanti del popolo. L'Armellini salì alla tribuna, salutò i congressisti, augurando piena libertà e unità all' Italia, e facendo omaggio alla sovranità del popolo. Parlò di Pio IX, e della sua fuga dalla città, del temuto intervento austriaco, e terminò dicendo:

«Il nostro popolo, primo in Italia che si è trovato libero, vi ha chiamati in Campidoglio, per inaugurare un' èra nuova alla patria, per sottrarla al giogo dei tiranni e degli stranieri, per ricostituirla in una nazione e purificarla dell' antica infamia dei governanti e dalle recenti menzogne costituzionali!… Dopo ciò noi inauguriamo i vostri immortali lavori sotto l' auspicio di queste due santissime parole: Italia e popolo.»

Lo scroscio degli applausi, con cui furono accolte queste parole, parve suonare al di là del Tevere, echeggiò forse per tutta l' Italia.

Quando si fece l'appello nominale dei deputati, il principe di Canino, udendo il suo nome. rispose gridando:

—Evviva la Repubblica!

Allora sorse Garibaldi, sfolgorante come un Dio nella sua camicia rossa. La chioma leonina gli ondeggiava intorno alla fronte pensosa.

—A che utile perdere il tempo in vane forme? —esclamò.—Ritardare un minuto è delitto. Viva la Repubblica!

Quella notte Roma non dormì. Si prepararono lumi per le finestre, bandiere e coccarde repubblicane… e fucili e filaccie, perchè la Repubblica doveva costar cara!

Contemporaneamente a queste notizie, gli ambasciatori di Carlo Alberto, tornati in Piemonte, vi portarono pure la nuova che anche il granduca Leopoldo aveva riparato a Gaeta, e che in Toscana s'era proclamato un governo provvisorio, con Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, che erano stati portati a braccia sulla piazza, dai cittadini.

—Non resta altro a fare alla Maestà Vostra che ordinarci di fare la guerra—disse il conte Zani al Re, dopo avere riferito l' esito infelice delle sue opere diplomatiche.

—Non abbiamo armi, non abbiamo soldati, non abbiamo denari—rispose il Re.

—Sire, l'Italia sarà con voi!

Il Re levò una mano, fece un gesto di sconforto e di incredulità.

—Vogliono la guerra?—disse—la faremo. Ma Dio ci ha abbandonati. Lo sento.

Un cavaliere andava a briglia sciolta sulla strada di Trecate, verso il quartiere generale dei Piemontesi, la sera del 20 marzo del 1849. Giunto dinanzi alla casa, dove Carlo Alberto si era soffermato col suo stato maggiore, quel cavaliere disse alle sentinelle di essere un messo inviato dal campo, e di avere immediato bisogno di parlare con Sua Maestà.

Egli fu introdotto allora nella stanza dove sedeva il Re, insieme al generale Chrzanowski e al generale Durando, e allora, con voce rotta e tremante, diede la fatale notizia:

—Gli austriaci hanno passato il Ticino, e ora sono in territorio piemontese.

Un grido di stupore e di dolore uscì dal petto di Durando.

Il polacco Chrzanowski si rizzò in piedi, facendo atto di sorpresa, ma nessuna altra commozione apparve sul suo viso smorto, sbarbato, di seminarista.

Il Re si passò una mano sulla pallida fronte.

Dopo pochi momenti di grave e doloroso silenzio, lo Chrzanowski interrogò il messo:

—Il generale Ramorino aveva ordine preciso di passare dalla destra alla sinistra del Po, di spingersi sulla riva destra del Ticino, di accamparsi dirimpetto a Pavia, afforzandosi alla Cava, e di custodire il passo di Gravellone. Ha egli fatto tutto ciò?

—Signor generale: il generale Ramorino ha creduto di fermarsi col grosso delle truppe sulla riva destra, mandando contro gli austriaci, sull'altra sponda, quattro battaglioni soltanto. Il nemico era preponderante, e i quattro battaglioni furono costretti a ritirarsi.

—Sta bene, signor tenente; potete ritirarvi.

Il messo uscì, e i rimasti stettero ancora immersi in un penoso silenzio, finchè il Re, alzandosi, disse con un tono di amarezza indicibile:

—Ramorino mi ha tradito!

—Se il generale Ramorino è un traditore, subirà la pena dei traditori—disse il polacco— sarà deferito a un Consiglio di guerra. Ma è necessario deliberare sul da farsi. Non c'è tempo da perdere.

Egli si pose a osservare attentamente una carta militare, spiegata sul tavolo, mentre il Re, taciturno e triste, passeggiava lentamente per la stanza.

—Il generale Bes muoverà verso Vigevano, e si fermerà alla Sforzesca: voi, generale Durando, occuperete una posizione di difesa dinanzi a Mortara; il duca di Savoia vi coprirà a destra.

Il Durando salutò ed uscì.

Carlo Alberto rimase solo col polacco.

—Voi farete quello che crederete meglio, generale —disse il Re con voce fioca—ma non dimenticate che gli occhi d'Italia e d'Europa sono su di voi…, e che a quest'ora il generale d'Aspre è in Piemonte, e che, dietro di lui, è tutto l'esercito austriaco.

Poi fece un cenno stanco, che lo Chrzanowski interpretò come un congedo, perchè salutò e uscì, senza parlare.

Ma, appena fu solo, Carlo Alberto suonò, e al cameriere accorso, il suo fido Giovanni, disse:

—Prega il conte Salvago di venire da me.

Pochi minuti dopo giunse il conte, che già sapeva la funesta notizia. Vedendo il Re così pallido e accasciato, disse:

—Questo primo disastro non deve toglierci il coraggio, Sire. Nulla ancora è perduto, la guerra è appena cominciata.

Il Re sorrise, e, senza rispondere a quelle parole:

—Elisabetta è giunta?—domandò.

—Sì, la marchesa d'Avoli è a Novara, Sire.

—Sta bene. E adesso, amico mio, andate a dormire. Domani ci sarà molto da fare.

Il Salvago uscì, senza rispondere, e il Re si ritirò nei suoi appartamenti privati.

Il conte Salvago andò in cerca di suo figlio, che trovò intento a scrivere una lettera.

—E' per Clara?—gli domandò.

—Sì—disse il giovane, sollevando un viso pallidissimo, e gli occhi arrossati, forse di lagrime.

—Tu soffri, Enrico. Perchè non hai voluto che Clara ti accompagnasse al campo, come l'altra volta? Ella ne è rimasta tanto afflitta! E tu stesso, confessalo, soffri molto lontano da lei.

—E' vero, soffro. Ma dopo quello che è accaduto non potevo più sopportare il pensiero di vederla qui vicino a me, fra gli orrori della guerra. Del resto, ella è così vicina a me! Certo le vicende ci porteranno a Novara, e allora ci rivedremo.

—E' probabile. Tu sai quello che è accaduto?

—Sì, Ramorino ci ha traditi.

—Così pare.

—Siamo circondati da traditori.

—Purtroppo!

—Così vincono gli Austriaci! Col tradimento! Comperando i nostri generali…

—Infami i generali che si vendono!

—Sì, è vero. E quel polacco, no, non mi piace!

—Neppure a me. Quell'omiciattolo piccolo e rasato come un prete non mi pare fatto per essere un generale. Eppure è un valoroso.

—Sarà.

—Sì, egli ha combattuto nell'esercito napoleonico; ed è lui che ha guidato le schiere polacche nella guerra d'indipendenza.

—Così faccia delle nostre! Ma non mi fido.

—No, no, Chrzanowski! non è un traditore.

—Lo spero, padre mio!

—Voglio dirti ancora una cosa, figlio mio. Tu sai che Filiberto di Monfosco mi è carissimo; che egli è il… nipote di una mia nobile amica, che anche il Re ama assai… Egli è così giovane! Pure ha chiesto al Re la grazia di combattere come semplice ufficiale nelle file dell' esercito, mentre l'anno scorso, tu sai, egli era addetto allo Stato maggiore del Re, il quale se lo teneva quasi sempre vicino. Filiberto sarà nel tuo stesso battaglione, col grado di sottotenente. Veglia su di lui, Enrico! Sarebbe grande dolore per tutti se gli capitasse disgrazia!

—Non temete, padre mio. Lo guarderò come se fosse mio fratello.

Padre e figlio si abbracciarono, e andarono a prendere qualche riposo. Passando nel cortile il conte levò gli occhi alle finestre della stanza del Re. V'era lume ancora.

—Povero Re! Egli non può nemmeno dormire! —mormorò il Salvago.

Il domani, 21, parve che al mattino la fortuna volesse sorridere ancora una volta alle armi piemontesi. La divisione del generale Bes, guidata dal generale Strassoldo, assalita alla Sforzesca da gran numero di nemici, si difese valorosamente, respinse gli assalitori, li sbaragliò… La notizia giunta a mezzogiorno a Trecate, riempì tutti di gioia; ma la giornata non doveva terminare come aveva cominciato.

Sul tramonto di quel medesimo giorno il generale d'Aspre si appressava a Mortara, avanzandosi per la strada di Garlasco, con quindicimila uomini e quarantotto cannoni. Primi a sostenere l'urto furono i soldati della brigata «Regina», che appartenevano alla divisione del generale Durando. I cannoni austriaci parvero terribili quel giorno e sgominarono i Piemontesi che cominciarono a fuggire verso Mortara…

La notte scendeva, una fredda e piovosa notte di marzo. La piccola città, invasa da quella moltitudine fuggente, sapendo i nemici vicini, fu ad un tratto sossopra, presa da un orribile panico.

—Vengono, vengono! fuggiamo!—urlavano i cittadini, e come pazzi uscivano dalle loro case, si gettavano verso le campagne accompagnati da una turba piangente di donne e di fanciulli…

I soldati piemontesi intanto continuavano nella loro fuga disordinata, inseguiti alle reni dagli Austriaci, che nell'oscurità sparavano all'impazzata, e parevano demoni feroci, usciti dall'inferno.

Ad un tratto un cavaliere con la spada sguainata passa a briglia sciolta per quella strada, e dietro a lui una truppa di cavalleria ben serrata… Il cavaliere e i soldati non vanno, ma volano: passano tra nemici e fuggenti…

—Fermatevi, fermatevi! Soldati piemontesi, fermatevi! Vi giunge un rinforzo! Non fuggite più, per Dio!

E' il principe Vittorio Emanuele, il duca di Savoia, che giunge in soccorso della brigata Regina.

Ma i soldati piemontesi, smarriti nella notte, accecati dal panico, atterriti dai fucili austriaci che continuano a sparare nel buio, non ascoltano la voce del comandante, e continuano la pazza corsa su Mortara. E dietro loro gli Austriaci vittoriosi; e frammezzo agli uni e agli altri Vittorio Emanuele e il generale Durando, che, penetrati pur essi nella piccola città tumultuante, invano chiamano, invano tentano di ordinare le schiere, invano danno ordini e cercano di sgombrare le vie…

Nulla; la rotta è completa. Non resta altro a fare che ritirarsi. E i due generali, piegando il capo alla dura necessità, si riducono a Castel d'Agogna, dove giungono nel cuore della notte.

Qui, riordinate le forze, accresciute pure di quelle di Alessandro Lamarmora, che si era riparato nello stesso luogo, Vittorio Emanuele propose di rimarciare quella medesima notte su Mortara, e di scacciarne il nemico. Forse il consiglio animoso avrebbe potuto mutare le sorti della giornata; ma Durando, fosse prudenza eccessiva o saggezza, vi si oppose.

Così passò quella terribile notte, nella quale i Piemontesi perdettero duemila cinquecento uomini, tra morti e prigionieri!

All'alba di quel giorno, 22 marzo, Carlo Alberto, che forse non aveva riposato durante tutta la notte, volle trasportare il suo quartiere generale da Trecate a Novara.

Qui occupò il palazzo Bellini, e prese per sè un appartamento assai modesto, le cui finestre davano in un giardino, ancora malinconicamente spoglio, triste di pioggia e di nebbia. Attraverso i rami brulli e gocciolanti degli alberi gli sguardi del Re scorsero una piccola casa grigia, dalle persiane verdi, distante appena una decina di metri. Una di quelle persiane era aperta, e tra le tende bianche apparve una figura di donna.

Il Re guardò, sorrise tristemente, e si allontanò dalla finestra.

Poco dopo giunse il cameriere ad annunziargli l'arrivo di Vittorio Emanuele.

Il Re l'accolse in piedi, e vedendo la faccia scura, gli sguardi abbattuti di suo figlio, lo strinse al seno e lo baciò.

—Lo so—gli disse—come ti sei comportato. Non potevi fare di più. E' inutile andare contro al destino.

—Grazie, Sire, grazie, padre mio!

—Non credo che le cose andranno meglio! Oramai il mio cammino è tracciato. Ti lascerò un grave peso, figlio mio!

—Sire!

—E' inutile. E' un titolo che fra poco non sarà più il mio. E che mi ha costato molto!,.. Forse Dio permetterà che sia meno grave per te!

—No, no, padre mio! Noi possiamo ancora sperare. Sorgeranno giorni migliori.

—Non per me, Vittorio! Il mio astro tramonta!

Intanto, dietro ordini di Chrzanowski, il quale prevedeva che Radezki, vincitore a Mortara, si dirigerebbe con tutte le sue forze contro il centro dell'esercito piemontese, tutte le truppe piemontesi si concentrarono sotto Novara. Novara pareva infatti il punto più favorevole alla difesa, perchè era la chiave delle strade che conducevano a Milano e a Torino.

La notte del 23 marzo scendeva, fredda, piovigginosa. Il Re diede qualche ordine, o meglio udì quali ordini fossero impartiti dal generale polacco: tre divisioni dovevano essere schierate su due linee dinanzi a Novara, nel terreno che corre fra i due torrenti Terdoppio e Agogna. La divisione Perrone formava l'ala sinistra; la divisione Durando l'ala destra; la divisione Bes il centro. Sei battaglioni dovevano coprire il fianco sinistro; quattro il destro; tre battaglioni di cacciatori dovenano stendersi sulla fronte della battaglia. Le divisioni del duca di Genova e del duca di Savoia sarebbero state in riserva ordinate in colonna; la prima a sinistra, la seconda a destra.

La brigata Solaroli doveva invigilare sul fianco sinistro, fuori della linea di battaglia; verso l'ala sinistra, sul colle della Bicocca, il Re e il generale Chrzanowski avrebbero diretto la battaglia.

Dopo un colloquio col generale polacco, Carlo Alberto volle ritirarsi con il pretesto di riposare fino all'alba, ma prima fece chiamare il Salvago, e, dandogli un plico suggellato, disse:

—Queste, conte Salvago, sono le mie ultime private disposizioni. Quello che riguarda il mio testamento politico e quello pubblico, sarà curato dai duchi e dallo Stato. Questo, non sarà conosciuto da altri che da voi… e da una terza persona.

—Può quella persona venire da Vostra Maestà? —chiese allora Salvago.

—Sì—disse il Re—l'ho promesso, e non credo di mancare a nessun dovere, mantenendo la promessa. Ella verrà. Ma prima ascoltate. Bisogna che io vi parli di… Filiberto.

Il Re abbassò la voce, e, con tono concitato, quasi febbrile, parlò a lungo col conte Salvago, che pareva ascoltare approvando.

Solo ad un punto disse, con voce commossa:

—Sire! Noi non siamo padroni del destino. Può essere che la giornata di domani cambi tutte le nostre disposizioni.

Carlo Alberto alzò le spalle.

—Può essere—disse con tono indifferente.

Ma non sarà. Udite, Salvago. Se la battaglia va male, può essere che io non ne esca vivo.

—Oh, Sire!

—Non cercherò il suicidio. Non è degno di un Re, nè di un cristiano. Ma, se Dio vorrà mandarmi la morte, l'accetterò come una grazia. Se invece egli avrà deciso altrimenti, accetterò il resto della vita, che vorrà lasciarmi, come una espiazione, una pena. Ma, a nessun patto, non continuerò a tenere questo peso insopportabile della corona. La mia parte l'ho fatta! Bene o male? I contemporanei e i posteri giudicheranno come vorranno; Dio solo giudicherà giustamente. Io penso, l'ho pensato tante volte, Salvago, che non avrei dovuto essere un Re. E' un rude mestiere, Salvago! Non ho saputo farlo? Forse. Possa mio figlio essere più abile o più fortunato! Ad ogni modo, ora è inutile ogni rimpianto. Buona notte, amico!

Egli porse la mano a Salvago, e questi, vinto da irresistibile commozione, prese quella mano e la baciò a lungo. Allora il Re, che pareva lottare con i suoi sentimenti, cedette pur egli ad una improvvisa tenerezza, e, stendendo le braccia, prese e strinse un momento al seno il vecchio amico. Un singhiozzo e nulla più.

—Buona notte, Salvago!

—Buona notte, e domani, buona giornata, Sire!

Quando il conte fu via, Carlo Alberto stette ancora qualche minuto solo, quasi immobile, nella sua stanza. Pareva lottare ancora con sè stesso, dubbioso della opportunità di ciò che stava per fare. Ma infine, prendendo una rapida risoluzione, tirò il cordone di un campanello, e, al servo che apparve, disse bruscamente:

—Fa entrare.

Due minuti di aspettazione, ma eterni!… La porta si aprì e una donna entrò. Una donna vestita di nero, con ampio velo nero sui capelli biondi.

—Sedete, Elisabetta—disse il Re. Erano soli.

Elisabetta sollevò il velo, e mostrò il suo viso pallido, commosso e bello ancora; più bello in quell'istante di trepida tenerezza.

—Sire!—mormorò ella.

Il Re la guardò a lungo. Il suo viso pallido si colorì lievemente, il suo morto sguardo scintillò. Quali pensieri, quali memorie passarono nel cuore di quel Re, che aveva trovato il proprio martirio in sè stesso?

—Elisabetta!—disse con voce che tentava di rendere calma—voi avete voluto seguire vostro figlio in questa guerra decisiva… E io non mi sono opposto. Voi avete desiderato parlarmi, vedermi ancora una volta… ed ecco, voi siete qui! Avete qualcosa da dirmi? Ditela subito, amica mia, perchè domani è assai probabile che io non sia più sulla terra, o almeno… che io non sia più il Re.

La donna, chinando il capo fra le pallide mani, ebbe un lieve singhiozzo, poi disse:

—Dio benedica il Re! E faccia che domani le cose cambino in suo favore! Io ho chiesto di vedere Vostra Maestà, perchè volevo chiederle una grazia speciale.

—Allora, parlate presto.

La donna giunse le mani, e sollevando il viso ancora giovanilmente bello, guardò il Re profondamente, intensamente.

—Se il destino volesse colpire la Maestà Vostra, quale decisione prenderete, Sire?

Il Re sorrise.

—Potete chiederlo? Non lo avete compreso? Andrò in esilio anch'io, Elisabetta.

—In esilio, Sire!

—Sì, e non sono andati tanti in esilio?

—Dove, Sire?

—Avevo pensato a Londra!… Ma ci son troppi esuli. Troppi che fuggirono sin dal Piemonte… Io non voglio accrescerne il numero. La Francia… no, non l'amo. E poi, voglio un po' di pace! Andrò in un luogo dove nessuno mi verrà a parlare di politica, nè di regno, nè di ambizioni terrene. Un po' di pace!…

—Sire… La Maestà Vostra andrà sola?

—Solo! Andrò solo! Ah, sono così stanco!

—E la Regina, Sire?

—La Regina! Forse che ella ha bisogno di me? Nè io di lei. No, no, se parto, voglio andarmene io solo. Non tornerò nemmeno indietro a rivedere Torino. Nessuno voglio rivedere, nessuno!

Elisabetta si era alzata, e d' un tratto, con rapido movimento, piegò le ginocchia e si prostrò dinanzi al Re.

—Permettete, Sire, che io segua Vostra Maestà nell'esilio!

—Voi, Elisabetta! No, no… Che verreste a fare?… Che direbbe il mondo?

—Se vi curate tanto di ciò che dirà il mondo, vale la pena di sfuggirlo allora?

—Avete ragione… Ma… io andrò lontano, molto lontano, Elisabetta. Che farete allora di vostro figlio?

—Filiberto starà a Torino. Egli intraprenderà una carriera, sarà ufficiale, servirà Sua Maestà, Vittorio Emanuele; non ha bisogno di me. Oh, Sire! non negatemi questa grazia!

—Elisabetta, amica mia! Non lasciamoci trasportare dal sentimento… Io non potrò vedervi, non potrò occuparmi di voi. Che volete fare voi in un luogo d'esilio, sola?…

—Dunque… Vostra Maestà lo permette?

—Badate, amica mia. Io non vi permetto nulla. E sopratutto non permetto che voi mi seguiate. Se poi un giorno vi ritrovassi nel luogo lontano dove sarò, non potrei nemmeno salutarvi, forse!…

Ella aveva preso le due mani del Re, e le aveva baciate lungamente.

—Alzatevi, Elisabetta. E ora… andate. Ma… Dio vi benedica per l'affetto che mi dimostrate, amica mia!

Quando Elisabetta ritornò nella sua casa, dove ella ospitava pure Clara Salvago, trovò la sua amica in colloquio con Enrico. Era una tragica notte. Tutti sentivano che precedeva una giornata piena di avvenimenti gravi, forse terribili, e ognuno faceva il testamento delle proprie cose e dei sentimenti stessi…

I due sposi avevano gli occhi pieni di lagrime, e i visi pallidissimi. Ma la fronte di Clara splendeva, come se una grande gioia l'avesse rischiarata nel grande dolore.

—Avete visto Filiberto?—domandò Elisabetta ad Enrico.

—L'ho lasciato or ora. L'ho mandato a dormire. Domani ci sarà da fare…

—Domani!…

Poi, vedendo che Enrico si ritirava, dopo aver ancora baciato la mano e la fronte di sua moglie,

—Enrico! Ve lo raccomando!—disse con tremula voce.

—Non temete, signora!

E quando il giovane capitano fu via:

—Ebbene—domandò—voi siete felice stasera, Clara.

—Mi è parso di averlo ritrovato! Di avere ritrovato il suo cuore intero!—esclamò Clara —Da tanto tempo c'era una nube fra noi!

—E' il fantasma di domani—mormorò Elisabetta.

—Domani!…

—Tacquero entrambe su questa grave parola.

Nè erano le sole che la mormorassero con tanta tristezza, in quella malinconica notte. Nel campo i soldati erano già tutti coricati sotto le scarse coperte; ma assai pochi dormivano. La notte gelida e umida penetrava con le tenebre e la nebbia nelle ossa dei poveretti, ai quali così poche ore di riposo erano destinate! Molti susurravano fra di loro, nonostante che fosse suonato il silenzio; molti mormoravano dei disagi sofferti e dei pericoli che prevedevano per il domani; alcuni tacevano cupi pensando alle case loro, alla madre, all'amante, che temevano di non rivedere mai più. Un terzo di quei soldati, che dovevano fra poche ore affrontare l'urto di un formidabile esercito ben agguerrito, erano nuovi ed inesperti, e appena sapevano fare l'esercizio col fucile; un terzo erano stati per qualche tempo sotto le armi; un altro terzo infine erano provinciali, cioè soldati che avevano appena fatto quattordici mesi di milizia, parecchi anni prima, e quindi erano ritornati alle proprie case, dove avevano moglie, figliuoli, affari… E ora avevano dovuto lasciare ogni cosa, e affrontare pericoli terribili per una causa che non li interessava.

Perchè i begli entusiasmi del '48 erano finiti, Nessuno, o assai pochi, dei popolani o dei contadini aveva più voluto la guerra. La sconfitta era già nel cuore di tutti. Passavano nell'aria la viltà e lo sgomento. Eppoi, i fratelli delle altre parti d'Italia non erano più venuti, essi che avevano portato con loro tanta fiamma di entusiasmo! Il Piemonte oramai era solo! E se una vittoria almeno avesse arriso alle armi italiane, forse sarebbe rinata la fiducia nei cuori! Ma era nell'anima di tutti il tradimento di Ramorino, e la disfatta di Mortara. Altri sospetti di tradimento sorgevano, assurdi e infami, sparsi abilmente nella truppa. Ed erano forse gli stessi traditori che diffondevano quelle voci!

Questi erano i pensieri che opprimevano i soldati accampati quella notte alla Bicocca, e che impedivano loro di dormire, insieme al freddo e ai disagi di ogni sorta.

Quando l'alba sorse, fredda e triste, rischiarò il campo, con quegli uomini che si destavano per combattere e per morire, e non portò nessuna allegria.

Di quando in quando un buffo di vento scuoteva i rami grondanti e stillanti di pioggia; di quando in quando il cielo mandava pure uno spruzzo acquigginoso e freddo. Nella livida luce di quel mattino, i soldati che si destavano, col pensiero dell'imminente battaglia, guardavano intorno a loro, e vedevano zaini e fucili abbandonati durante la notte dai compagni disertori. Tutte le mattine quello spettacolo si ripeteva, ed era sempre più doloroso. Quanti quella notte, sgomenti della battaglia che si sapeva prossima, avevano ceduto ad una voce di viltà, e forse anche ai consigli dei traditori, che susurravano loro: A che restare? Per chi volete morire? Non capite che sarete mandati al macello?

Quando suonarono le trombe e i comandi degli ufficiali, i soldati rimasti si posero in fila, ma lentamente, con facce torve e cupi sguardi. Guardavano le schiere ormai così rade, e mormoravano, levando la voce contro i loro stessi capi.

Prima delle nove del mattino tutte le truppe erano con l'armi al piede, pronte alla battaglia, o meglio rassegnate alla sconfitta; e molti volgevano in cuore pensieri di diserzione e di fuga.

Alla prima buona occasione… al primo fuoco… via il fucile, giù lo zaino, e di corsa nei campi, in un fosso, finchè l'urto sia passato!

Ahi! erano i soldati d'Italia, quelli in cui lanazione aveva poste tante speranze! Re Carlo Alberto! oh, davvero; il tuo astro era per tramontare!

Nessuno di quei soldati cantava, nessuno scherzava. I generali passavano dinanzi a loro, ma essi levavano appena lo sguardo… Non un evviva risuonò, neppure quando passò a cavallo il generale polacco, neppure quando passarono i duchi di Savoia e di Genova, che pure l'esercito amava, perchè li aveva veduti così pronti al fuoco, primi fra tutti, e così valorosi!

Eppure lo sguardo, il viso di Vittorio e di Ferdinando dicevano parole di speranza e di fiducia, e parevano rispondere agli sguardi ansiosi e trepidi o diffidenti dei soldati. Quanto allo Chrzanowski, egli non era simpatico a nessuno, e i soldati non sapevano neppure pronunciare il suo nome. Nessuno sapeva chi fosse, donde venisse, nè perchè la causa d'Italia fosse in mano di quello straniero. A un tratto suonò la fanfara, poi suonò la marcia reale, e Carlo Alberto passò.

Il suo viso era di un pallore di morte. Le spalle curve, cadenti, strette, erano coperte da un pastrano alto e scuro, e pareva un abbigliamento luttuoso. Il viso si scopriva tra un colletto di pelliccia nero, e appariva chiusa e dura la bocca, smunte le guancie, atono, incerto lo sguardo.

Ma non un muscolo del suo viso impassibile tradiva una qualsiasi commozione. Passava, lasciando scorrere lo sguardo sui soldati silenziosi, ma forse non li vedeva neppure. Non si accorgeva forse di quel mutismo, di quei visi diffidenti e scuri, di quegli sguardi malcontenti. Forse il suo pensiero era già lontano, già staccato da quel luogo, da quella gente, avidamente rivolto ad una visione di pace…

—Viva il Re!—gridò un ufficiale mentre Carlo Alberto passava.

Il grido ebbe una debole eco qua e là. Il Re, come uscito da un sogno, guardò colui che aveva gridato e sorrise. Il giovane era Enrico Salvago.

Alle dieci e mezzo di quel mattino il generale D'Aspre giungeva ad Olengo, piccolo villaggio vicino alla Bicocca. Qui, con sua sorpresa, si trovò dinanzi tutto l'esercito piemontese, la cui artiglieria lo accolse con terribili fulmini. Pure, mentre i suoi messi correvano a chiedere urgente soccorso a Radezki, a Thurn, ad Appel, egli sostenne le scariche dei piemontesi, e con tanto impeto si spinse sul poggio della Bicocca, che nonostante la resistenza della brigata Savoia, se ne impossessò.

—Duca di Genova!—gridò allora Chrzanowski, in un impeto di improvvisa energia,— lanciatevi contro la Bicocca, e fate che sia ripresa prima di mezzogiorno!

Il principe Ferdinando obbedì e si precipitò contro la posizione perduta. Difatti, dopo un'ora di accanito combattimento la Bicocca è ripresa: le truppe vittoriose giungono a Castellazzo e ad Olengo.

D'Aspre era forse perduto. Benchè difendesse il terreno palmo a palmo, doveva ritirarsi sempre più in là con le sue schiere sgominate. Forse allora sarebbe bastato un atto di ardimento, un ordine del polacco di spingersi oltre, di incalzare il nemico, di urtarlo, di cacciarlo di posizione in posizione.

Ma questo non era stato stabilito nel piano di battaglia, e Chrzanowski diede ordine al duca di Genova di tornare al di qua di Castellazzo.

Così per alcune ore ancora durò il combattimento con esito incerto. D'Aspre, riordinate le sue schiere, riprese Castellazzo, lo perdette di nuovo, tornò ad avanzarsi, sinchè, in queste vicende, quando già era arrivato il Radezki con un rinforzo di truppe, che non sarebbero tuttavia state sufficienti per una vittoria, i generali Appel e Thurn ebbero pur tempo di giungere, verso le quattro pomeridiane.

Allora il maresciallo austriaco concentrò contro l'ala sinistra dei piemontesi, alla Bicocca, il maggior nerbo delle sue truppe.

Quattro divisioni austriache, convergendo sul medesimo punto, con peso irresistibile, assalirono e presero Castellazzo, poi urtarono contro la Bicocca, dove i piemontesi si sostenevano ancora, facendo gli ultimi sforzi di una disperata resistenza. Infine, rotti, disfatti, gli italiani cedono, la Bicocca è in mano degli austriaci.

—Siamo perduti!—mormorò Carlo Alberto, quando vide la fuga precipitosa dei suoi e 'avanzarsi rapido e sicuro dei nemici.

Ma il polacco, volendo tentare un ultimo sforzo, ordina al duca di Genova di ritornare all'assalto. Ferdinando combatteva da quattro ore, e lui e le sue schiere erano già mortalmente stanche. Due cavalli gli erano già stati uccisi sotto; quando fece per slanciarsi innanzi, obbedendo al comando del generale polacco, il terzo cavallo gli mancò, colpito al fianco da una palla nemica. Allora a piedi, rianimando con la voce e con l'esempio i soldati scorati e fuggenti, si slancia ancora, e con lui si slancia la compagnia di Enrico Salvago.

—Alla baionetta! Alla baionetta!—gridano gli animosi capitani.

In quel punto il duca di Savoia sopraggiunge, si getta nel più folto della mischia e fa sforzi estremi per arrestare l'impeto dei nemici.

Il Re, che guardava, pallido e muto, l'eroico e infelice combattimento, quando vide i suoi figliuoli avvolti nella polvere della battaglia, seguì con ansia visibile, sempre più impallidendo, le vicende della titanica lotta. Fra la mischia egli vedeva benissimo il biondo viso di Filiberto apparire e scomparire, e il lampeggiare della sua spada, e da quel momento gli occhi del Re non si staccarono più da quel punto…

Il giovinetto pareva emergere dall'onda umana che lo avvolgeva, o ne pareva travolto, e Carlo Alberto sentiva tremare la mano, che teneva le redini del suo cavallo… Ad un tratto Filiberto sparì, come inghiottito dal flutto, e un momento dopo il Re vide il capitano Salvago uscire dalla mischia, portando tra le braccia il giovine suo sottotenente.

Il Re spronò il cavallo, si slanciò incontro a lui. Ahimè! Il giovanetto non dava più alcun segno di vita, un filo di sangue gli usciva dalla pallida bocca.

—Morto?—disse con ansia indicibile il Re.

—Ah, non l'ho potuto salvare! Eppure lo avevo promesso a sua madre!—rispose Enrico singhiozzando, e adagiò il corpo esanime sull'arida erba calpestata.

Intanto continuava la terribile pugna; ma oramai pareva che Carlo Alberto più non la vedesse. I suoi occhi vitrei fissavano sempre il cadavere del giovinetto, steso ai suoi piedi.

Con occhio immobile, il petto curvo, le spalle cadenti, il Re vedeva passare lentamente i morti e i moribondi di quella infausta giornata. Passò il corteo che portava il generale Perrone, ferito mortalmente nella fronte, il nobile, il bravo Ettore Perrone, che Carlo Alberto particolarmente amava. Egli si avvicinò al moribondo e gli prese la gelida mano, che strinse un momento fra le sue…

—Muoio per il mio Re, muoio contento! disse Perrone, sollevando un momento il viso grondante di sangue.

Il Re lasciò quella mano, e non disse una parola.

Passò il capitano di artiglieria Robilant, al quale un colpo di cannone aveva portato via una mano. Il ferito levò in alto il suo glorioso moncherino e gridò:

—Viva il Re!

Ma Carlo Alberto non si mosse e non rispose. Passò la salma del generale Passalacqua, ucciso da una scheggia di cannone. Il Re fece il saluto militare e seguì con gli occhi il funebre corteo; ma le sue labbra non si schiusero mai. Quanto sangue, Dio, quanto sangue! E tutto inutilmente versato! Gli pareva che quei morti gli pesassero sul cuore!

I due duchi non hanno ancora smesso di combattere, benchè oramai la battaglia sia perduta. Gli austriaci aggiungevano squadre a squadre, battaglioni a battaglioni e brigate a brigate, e continuavano a ricacciare i nostri! Oramai il nemico era padrone incontrastato della Bicocca, e non rimaneva ai piemontesi altro partito fuorchè quello di ritirarsi a Novara. La cavalleria faceva ogni possa per sostenere l'impeto dei vincitori, e dar tempo e ordine alla ritirata. Ma i fanti, in disordine, inseguiti e travagliati dal nemico, continuavano a correre per la città, gittando i fucili e lo zaino, e passavano pure davanti al Re, senza salutare, senza mostrare di accorgersi della sua presenza; alcuni si trascinavano appena, sfiniti di fatica e di fame, o feriti.

Ad un tratto il Re, che guardava, con quella sua impassibile maschera, tutte quelle scene funeste, fece un lieve atto di stupore. Nella folla degli artiglieri, in un gruppo di ufficiali, che si affannavano a dare un po' d'ordine a quelle schiere sgomente, era comparsa una donna, certo una vivandiera, con una cesta a tracolla, che, senza mostrare di curarsi del pericolo, senza badare alle palle fischianti, passava da uno all'altro, offrendo un bicchiere della sua merce, acquavite forse… E gli ufficiali non le badavano o la respingevano, la sgridavano perchè se ne andasse.

Il Re fece un cenno ad un aiut nte, e domandò:

—Chi è quella donna?

—Sire, è una povera pazza, una giovane vivandiera, che era innamorata d'un ufficiale, morto a Custoza. Da allora vive sempre tra i soldati, non vuole andarsene; crede sempre di riconoscere colui ch'ella amava tra gli ufficiali d'artiglieria, e dice le più strane cose del mondo.

—Fate che si allontani di là—disse il Re —l'ammazzeranno sicuro.

Ma prima che l'ufficiale potesse ubbidire, il Re vide il capitano Salvago, che proteggeva la ritirata di una squadra, lanciarsi verso la giovane, e prenderla fra le braccia, per trascinarla via… La ragazza si dibatteva, gridava; scomparvero entrambi in una nuvola di polvere; una palla di cannone era scoppiata a poca distanza…

Quando quel fumo si disperse, il Re vide la giovane a terra, immobile; qualche soldato la trascinò via, presso un fossato… Un torrente di uomini passò correndo, una nuova scarica di artiglieria piombò su di essi, e moltissimi rimasero al suolo.

Carlo Alberto spingeva il suo cavallo su quella strada pericolosa, dove piovevano i pezzi di mitraglia.

—Sire! per carità!—gridò Salvago, afferrando la briglia del suo cavallo.

—Lasciatemi, lasciatemi…—mormorò il Re —e nuovamente si lanciò avanti, proprio al tiro delle artiglierie nemiche, e fu vero miracolo se riuscì ancora una volta al conte Salvago di tirarlo via da quel luogo.

Frattanto i soldati in fuga si affollavano, si accalcavano, si premevano alle porte di Novara. Non davano più ascolto ai comandi degli ufficiali, anzi li deridevano, e si ribellavano apertamente, rispondendo con ingiurie e minaccie. E la notte scese nebbiosa, freddissima; una pioggerella sottilissima, che tutto il giorno aveva mandato piccoli spruzzi di tanto in tanto, incominciò a cadere più fitta… Ma il Re è sempre allo stesso punto, immobile come una statua, sul suo cavallo che trasalisce e nitrisce, udendo fischiarsi all'orecchio le palle.

—Sire! Per pietà, toglietevi di qui!—supplica Giacomo Durando, impugnando la briglia del cavallo del Re.

E Carlo Alberto non rispondeva, forse non udiva neppure.

—Vi supplico, Sire! Questo punto diventa sempre più pericoloso! Ritiratevi in Novara!

Carlo Alberto si scosse, lo guardò, e con atto di disperazione profonda finalmente rispose:

—Generale! è questo il mio ultimo giorno! Lasciatemi morire!

Ma il Durando, il Salvago e gli stessi duchi, facendo pressione su quell'ostinato cordoglio, riuscirono a trarre lentamente il Re sino a Novara, dove un altro non meno triste spettacolo li attendeva.

La città era piena di soldati, fuggiaschi o disertori, i quali percorrevano le sue vie, come nemici, urlando e bestemmiando. Moltissimi erano ubbriachi. Avevano sfondato le porte delle cantine e avevano bevuto ingordamente, per rifarsi dal lungo digiuno. Poi, eccitati dal vino, dalla rabbia e dalla paura, erano penetrati nelle case, avevano chiesto e ottenuto con violenza altro vino e liquori e cibo, e poi ogni cosa che li allettasse, anche denaro e oggetti preziosi.

La gente si affrettava a barricarsi nelle case e nei magazzini; asserragliavano porte e finestre; e quei diavoli infuriati fracassavano le imposte, tiravano colpi di fucile alle finestre, entravano per gli usci scassinati, e si abbandonavano a tutti gli eccessi del saccheggio!

Alcuni ufficiali correvano qua e là, minacciando e supplicando quelle orde di barbari, tentando di porre un freno a tanta infamia… Ma i malvagi soldati rispondevano con insolenze e persino con percosse!

Quand'ecco, a poca distanza dal palazzo Bellini, dove il Re si recava, egli vide uno spettacolo strano e magnifico. A cavallo, alto, bello, terribile, un giovane dal viso cinto di lunghi capelli fulvi, passava tra quella folla ubbriaca, con un revolver in pugno, gridando:

—Indietro, indietro, mascalzoni! Non v'è dunque nessuno qui che si ricordi del nome d'Italia? Non v'è più vergogna? Non v'è più carità?

—Clara!—esclamò Salvago, riconoscendo la propria nuora in quel giovane animoso.

—Padre mio! questi soldati hanno commesso indicibili orrori! Fate che cessino! E' orribile, è orribile!

—A me, conte Salvago!—gridò il duca di Genova, che aveva udito quelle parole, mentre seguiva il Re, che, muto come al solito, si avviava al palazzo Bellini, come non avesse assistito a quella scena.—Uno squadrone di cavalleria, subito, passi per le strade, e spazzi via con le armi queste masnade di canaglia!

Pochi minuti dopo nelle strade si udiva lo scalpitare dei cavalli, che passavano come torrente purificatore, dopo tante sozzure.

La pioggia dirotta batteva frattanto sulla trista campagna, dove quattromila italiani giacevano morti o moribondi, e lunghi gemiti di dolore si mescevano al fragore dell'intemperie.

—Lo sa ella che è morto?—chiese Carlo Alberto al conte Salvago, senza guardarlo, quando furono nella sala, dove già parecchi generali aspettavano il Re.

—Lo sa, e in questo momento ella è vicina al suo povero figliuolo, Sire.

—Ah!… e che dice ella?

—Piange…

—Pianga su tutti noi!—mormorò il Re.

Quindi, volgendosi al generale Chrzanowsky, che stava cupo e taciturno, solo tra questi italiani, che lo guardavano a distanza, con visi accigliati, disse:

—I soldati che sono rimasti nel campo non hanno cibo nè riparo. Provvedete, generale, a che non restino esposti alla pioggia, stanotte.

Chrzanowski si inchinò, e andò fino alla porta, dove parlò piano con un aiutante di campo. Poi tornò.

—Ed ora—disse il Re, rivolto ai suoi generali —credete, signori, che sia necessario mandare un messaggio al maresciallo Radezki, per chiedergli una tregua?

La voce del Re era ferma, alta.

Tutti risposero che non si poteva fare diversamente.

—Volete voi, generale—disse allora Carlo Alberto al Cossato—incaricarvi di questo messaggio?

Poi, volgendosi a Carlo Cadorna, ministro delegato presso il Re al campo, gli disse:

—Prego anche lei, signor ministro, di accompagnare il generale!

Quindi fece un cenno, e tutti uscirono in silenzio, meno il Salvago, al quale il Re disse:

—Restate!

Quando furono soli:

—Datemi da scrivere, conte—disse il Re.

E Salvago gli porse un calamaio e la carta.

—Sapete voi a chi scrivo?—domandò Carlo Alberto con triste sorriso.

Salvago s'inchinò, senza parlare.

—Scrivo a mia moglie.

Il conte non rispose.

—Sì, è probabile che le condizioni di Radezki saranno inaccettabili. L'austriaco è implacabile. Allora è deciso: me ne andrò. Stanotte stessa. E non voglio più rivedere nessuno.

—Ma la regina, Sire?

—La regina resterà a Torino. Ecco, queste sono poche parole per lei. Voi gliele porterete a mio nome.

Il conte non stese la mano a prendere la carta.

—Chiedo perdono alla Maestà Vostra. Ma io non posso incaricarmi del messaggio.

—Perchè no?

—Perchè il mio posto è presso al Re!

—Ma fra poco non sarò più il Re, e andrò lontano. E voglio andare solo, vi dico!

—Solo, Sire!

—Solo. Mi cercherete una carrozza da viaggio. E un cocchiere fidato. Con me verrà soltanto il mio cameriere Giovanni.

—Vostra Maestà sarà ubbidita!

—Dunque porterete alla Regina le mie lettere?

—Supplico la Maestà Vostra di incaricare un altro.

—Sta bene—disse freddamente il Re.

Poi alzandosi, e con lo stesso tono indifferente:

—Sapete forse—disse—che Elisabetta vuole venire con me. Se persiste in questo proposito voi le direte che io non potrò vederla… forse mai. E che… che il suo dolore non mi sarebbe sopportabile. Ho bisogno di pace, di pace! Vorrà ella adattarsi a vivere come vivrò io? in esilio? in solitudine? Ditele questo. E non portatemi alcuna risposta.

Lo congedò con un gesto, quindi, rimasto solo, il Re entrò nelle sue camere, e si diede a cercare carte e oggetti, nel suo cassetto, a bruciarne, a riporne in uno scrigno… V'erano anche dei ritratti, ben chiusi in uno scrigno d'argento; li tolse ad uno ad uno e li ripose, dopo averli guardati. Erano anche ritratti di fanciulli che il Re contemplò con amore infinito, uno lo portò alle labbra, lo tenne lungamente. Era il ritratto in miniatura di un giovane collegiale, in alta e chiusa uniforme turchina: capelli biondi, occhi azzurri, viso magro e lungo… Forse una lagrima scese sulle guancie scarne del Re, perchè egli si passò la mano sul viso, prima di chiudere nello scrigno quella miniatura.

Ma vennero ad avvertirlo che i messi inviati al campo di Radezki erano tornati. Ed egli allora subito rientrò nella sala, dove già i generali erano nuovamente radunati.

Il generale Cossato, assai pallido, e con aria abbattuta si avanzò verso il Re.

—Ebbene, parlate, generale: avete veduto il maresciallo?

—No, Sire.

Il Re fece un gesto di sconforto.

—Vi ha egli almeno fatto conoscere le sue volontà?

—Sì, Maestà.

—Dite, allora.

—Fummo ricevuti dal generale Hess, a nome del maresciallo… E i patti proposti sono i seguenti: I piemontesi sgomberino tutto il paese fra la Sesia e il Ticino; consegnino la cittadella di Alessandria, e diano in mano al maresciallo, come ostaggio, l'erede presuntivo del trono.

Un profondo silenzio accolse quelle parole. Ma il Re ne era colpito nel cuore. Egli prevedeva bene che le proposte sarebbero dure, ma non le aspettava così terribili. Pure, con apparente calma, volgendosi ai generali, disse;

—Voi vedete, signori, che queste condizioni non sono accettabili.

Nessuno rispose.

—Possiamo noi contare ancora sull'esercito?

A una voce risposero:

—No.

—Avete ragione. Ho veduto io stesso l'esercito scorato, indisciplinato… Nessuno più ascolta la voce dei capi. E' possibile ritirarsi su Alessandria?

—No.

—E' possibile una ulteriore resistenza?

—No, Sire.

Nuovo, più breve silenzio. Infine il Re, sollevando il viso, e guardando fiiso dinanzi a sè, ma senza forse vedere nessuno, disse queste solenni parole:

—Iddio mi è testimonio che, da diciotto anni, ho fatto ogni possibile sforzo per giovare ai miei popoli e alla causa della indipendenza italiana. Mi è doloroso di vedere fallite queste speranze. Non ho potuto avere la fortuna di trovare la morte sul campo di battaglia, come ardentemente ho sperato. La mia persona è forse il solo ostacolo per ottenere dal nemico onorevoli patti ad una pace che è divenuta indispensabile. La continuazione della guerra è resa impossibile. Io abdico dunque la corona a mio figlio Vittorio Emanuele, nella speranza che egli ottenga per il paese una pace vantaggiosa. Signori, da questo momento il vostro Re è il mio figliuolo. Ecco il vostro Re!

Un lungo singhiozzo, un mormorio scoppiò fra gli astanti, benchè quelle parole fossero aspettate. E Vittorio Emanuele si slanciò fra le braccia del padre, il quale, quasi respingendolo, pose la mano sul suo capo, ma rimase impassibile alla vista.

A uno a uno, primo fra tutti il duca di Genova, si appressarono allora a Carlo Alberto, e tutti, anche i più vecchi generali, piangevano. Ma Carlo Alberto li abbracciò tutti, con gelido bacio, senza mostrare commozione alcuna, quindi li congedò e rimase solo coi suoi due figliuoli. Ebbe con essi un lungo colloquio, che nessuno seppe mai, e dal quale uscirono i due principi pallidi, e con gli occhi rossi di lagrime.

Quindi il conte Salvago, chiamato, ritornò dall'ex-Re.

—E' tutto pronto?

—Tutto, Sire.

—Da questo momento io sono il conte di Barge; non voglio altro titolo, amico mio. Avete trovato la carrozza?

—Sì, Maestà.

Il Re scosse il capo, come impaziente.

—E un cocchiere fidato?

—A cassetta siederanno due uomini. Un cocchiere ed un corriere.

—Sia. Prenderemo la strada che mena a Vercelli.

—Ah, Sire, impossibile! Sarà necessario prendere la strada di Romagnano, per passare oltre la Sesia, al di là delle posizioni occupate dal nemico.

—Farete come voglio io.

—Faccio osservare a Vostra Maestà che andando verso Vercelli si attraversa tutta la linea occupata dal generale Thurn.

—Vi prego, fate come vi dico—replicò con maggiore energia Carlo Alberto.

Il conte tacque, e congedato dal Re uscì.

Mezz' ora dopo Carlo Alberto, chiuso in un lungo pastrano, accompagnato dal suo Giovanni saliva nella carrozza che lo aspettava. Un cocchiere sedeva immobile a cassetta; un altro uomo, tutto imbacuccato, in piedi presso lo sportello, aspettò che il Re fosse montato, poi salì vicino al cocchiere.

Nessuno disse una parola. Carlo Alberto non dimandò di nessuno. Dietro le finestre illuminate del palazzo Bellini qualche figura si mostrò, qualche testa si sporse curiosa o commossa. Ma nessuno parlò. Il cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì. Mancava un'ora all'alba.

Così lasciava per sempre il suo regno un principe magnanimo e infelice che i contemporanei e i posteri hanno variamente giudicato… ma che ha lasciato un solco di lagrime nelle pagine della storia.

A Borgo Vercelli un drappello di austriaci faceva la guardia ai cannoni, e poco mancò che in quella oscurità non facessero fuoco sulla carrozza.

—Chi va là?

—II conte di Barge, colonnello nell'esercito sardo, ora dimissionario—rispose l' uomo che stava a cassetta.

Carlo Alberto trasalì a quella voce.

Gli Austriaci si avvicinarono alla carrozza, ficcarono il viso dentro, e chiesero a quel signore pallido e magro, vestito di nero, che pareva sonnecchiare nel fondo:

—Il vostro passaporto?

Carlo Alberto mostrò un passaporto firmato dal comandante la piazza di Novara, e segnato al nome del conte di Barge. Ma gli Austriaci non vollero darsi per vinti, e pregarono il Conte di scendere. Ciò che egli fece; da cassetta scese pur l'uomo che era stato presentato come corriere, e in quel livido bagliore dell'alba Carlo Alberto riconobbe colui che prima aveva parlato ai soldati. Egli era proprio il conte Salvago. Lo guardò intensamente, ma non disse una parola.

I viaggiatori furono condotti alla presenza del generale Thurn.

—Siete veramente il conte di Barge, signore? —interrogò il generale.

—Lo sono.

—Forse qui c'è qualcuno che potrà testimoniarlo —replicò il generale. E ordinò che gli fosse condotto un bersagliere piemontese, che era prigioniero nel suo quartiere. Carlo Alberto non diede alcun segno di turbamento. Il bersagliere comparve, e, vedendo il viaggiatore, non potè reprimere un gesto di sgomento e di rispetto. Arretrò e si pose sull'attenti, tremando tutto della persona.

—Questo signore è veramente il conte di Barge, ex colonnello sardo?—chiese il generale austriaco.

Il bersagliere fissava il Re, e questi non muoveva lo sguardo da lui, sguardo pieno di autorità e di preghiera.

—Sì, egli è, come dite, il conte di Barge— rispose il piemontese.

Il generale non chiese altro; fece sedere il conte, mentre si cambiavano i cavalli della sua vettura, e gli offrì una tazza di thè, che il viaggiatore sorbì con una certa compiacenza. Era freddo, ed egli non aveva dormito quella notte. Quindi il generale lo ricondusse alla carrozza, e questa partì di gran corsa.

—Chi era dunque quel signore?—domandò il generale austriaco al bersagliere, quando la carrozza fu perduta di vista.—Parlate liberamente, e vi do la mia parola d'onore che non sarà molestato.

—E' il re Carlo Alberto!—esclamò il bersagliere, come uscendo da un sogno.

—Dio protegge l'Austria!—esclamò il generale —Che avrebbe detto il mondo di noi, se i nostri soldati nell'oscurità avessero sparato su di lui?

La carrozza intanto proseguiva il suo cammino. Il giorno era sorto, e Carlo Alberto aveva dato ordine che si prendesse la strada di Casale, ed era stato obbedito in silenzio, benchè dai suoi compagni di viaggio si sapesse che anche quella parte era tutta occupata dalla cavalleria austriaca, comandata dal generale Wimpfen.

Sulla strada di Casale, infatti, era un ufficiale austriaco, che, vedendo una carrozza da viaggio, e, dentro, quel pallido viso, pensò forse che fosse un malato, o un ferito, che si conduceva lontano dal campo. Non diede quindi ordine di arrestarla, ma solo disse al cocchiere di prendere un'altra via, perchè i casalesi avevano rovinato il ponte sul Po, e le truppe erano già tutte disposte ad attaccare la città.

Difatti si udiva, a poca distanza, un rombo di fucileria.

Allora il pallido viso, che prima era come affondato sui cuscini della carrozza, si sporse.

—Signor ufficiale—disse una voce calma e sicura—come mai qui si battono ancora, mentre stanotte è stato firmato l'armistizio?

—Davvero?—rispose l'ufficiale, scosso da quel tono e da quell'apparizione—Posso io portare questa notizia al nostro generale?

—Sì—replicò Carlo Alberto—ditegli che io sono il conte di Barge, colonnello dimissionario, e gliene do la mia parola d'onore.

Due giorni dopo, a Nizza, un incognito si presentava all'intendente della città, conte Teodoro Santarosa, che era il figliuolo del prode morto a Sfacteria…

—Mi riconoscete voi?—domandò l'incognito.

—Credo di riconoscervi. Foste amico di mio padre Siete il conte Salvago.

—Sì, e sapete voi chi è qui, sulla pubblica strada, in una carrozza, aspettando che voi gli portiate un passaporto per andare in Francia ? E' Carlo Alberto, ex Re di Sardegna.

—Che dite!—gridò il Santarosa assai turbato.

Il conte Salvago gli narrò i tristissimi casi, che menavano ora l'antico principe di Carignano su quella stessa via di esilio, per la quale, ventotto anni prima, era passato il nobile, tradito Santarosa.

Il figliuolo del profugo si affrettò ad uscire e ad andare in cerca dell'ex sovrano, il quale, sceso di carrozza, con le braccia conserte al seno e il capo inclinato, passeggiava lentamente.

—Sire!—mormorò Teodoro Santarosa, piegando istintivamente il ginocchio.

Carlo Alberto, silenzioso, ma con viso commosso, aprì le braccia, e abbracciò e baciò il figlio del suo antico amico e proscritto.

Montarono in una carrozza chiusa, che l'intendente aveva fatto preparare, e così attraversarono la città, senza che nessuno sospettasse chi fosse quel misterioso viaggiatore che non gettava neppure uno sguardo alla bellezza del cielo e del mare, che un giorno gli era appartenuto.

Ad un tratto Carlo Alberto aprì le labbra come per liberarsi da un peso che gli gravava il cuore.

La Provvidenza ha mirabili vie, conte Santarosa —disse egli.—Ma io so che vostro padre non mi maledisse morendo. Guardate. Egli mi mandò il suo anello. Con questo mi ricordava un giuramento che volli mantenere. Dio non volle aiutarmi. Prendete l'anello, e serbatelo voi: ora la mia missione è finita.

E diede a Teodoro Santarosa l'anello che il proscritto, morendo, gli aveva mandato.

Santarosa lo prese e lo baciò, piangendo, quindi disse:

—Verranno tempi migliori, Sire! E la Maestà Vostra potrà ancora godere nella sua patria la libertà e l'amore degli italiani.

Il Re scosse il capo.

—Non lo credo—disse—Dio non è più con me. Se verranno giorni migliori, io non li vedrò. Ma—aggiunse poi, animandosi improvvisamente, e il suo pallido viso si colorò, e gli brillarono gli occhi—in qualunque luogo e in qualunque tempo si alzi da un ordinato governo la bandiera contro l'Austria, io tornerò, come semplice soldato, a combattere contro gli austriaci.

Erano giunti ai confini. Teodoro Santarosa, estremamente commosso, prese la mano del Re e la baciò. Ma Carlo Alberto ancora una volta lo prese nelle sue braccia. Quindi volse lo sguardo a quella terra, che non doveva più toccare da vivo, e alle sue labbra salivano dal cuore chi sa quali amare parole; ma non ne disse nessuna. Scosse il capo, accennò ancora un saluto con la mano.

—Addio!—mormorò, quando la carrozza svoltò, e i viaggiatori non vedevano già più il confine, nè il Santarosa, che, pallido e piangente, era rimasto di là.

Addio, addio, povero Re!

Re per tant'anni bestemmiato e pianto, che andava ora verso l'esilio e la morte, per una lunga e dolorosa via! Ben scrisse di lui il Cibrario, che ebbe con lui intime e lunghe relazioni.

«Intrepido come un eroe sul campo di battaglia. Non ebbe forse ugual coraggio nelle convenzioni civili, forse per soverchia diffidenza di sè stesso. Nessuno lo vinse in pregio di affabilità. Nessuno ebbe atti e voce più carezzevoli ad un tempo e più degni. Nessuno addrizzò con maggiore efficacia i suoi strali al cuore che voleva far suo. Ebbe un immenso amore di gloria. Un'assidua, gelosissima cura dei morali interessi; un nobile disprezzo dei materiali. Egli pospose costantemente il suo privato vantaggio al pubblico bene.»

Di lui si ripeterebbe bene ciò che il Manzoni disse di Napoleone:

Segno d'immensa invidia e di pietà profonda. d'inestinguibil odio, e d'indomato amor!

Due giorni dopo che l'infelice Re era partito, un'altra carrozza prendeva quella medesima via, e una donna, una donna che lo aveva davvero amato d'indomato amor, seguìva nell'esilio colui che era stato il suo bene per breve tempo, e che fu il suo sogno fino alla morte.

Elisabetta d'Avoli non era più la sorridente, vezzosa dama che, resistendo all'urto di tanti nemici, aveva lottato cospirando per la sua patria e per il suo amore. Un colpo terribile l'aveva atterrata, aveva ucciso sulle sue labbra il sorriso, per sempre.

Con Filiberto ella aveva seppellito la sua giovinezza e le sue speranze.

E perchè si ostinava ella a seguire il vinto Sovrano nella terra d'esilio? Ella sapeva bene che non lo avrebbe potuto vedere, forse mai. Sapeva che, laggiù, quell'anima le sarebbe sfuggita più che non lo avesse fatto quando era sul trono; sapeva che oramai solo pensieri d'oltre tomba dovevano occupare quella mente, staccata da ogni interesse terrestre; eppure ella partiva.

Presentiva ella già forse che il suo infelice e adorato Re non aveva più che quattro mesi da vivere, quattro mesi di una lugubre vita, piena di angoscie e di ricordi, e voleva stillare almeno una goccia di balsamo su quel cuore spezzato da un incommensurabile cordoglio? Sapeva che il saperla vicina, lei, che egli unica aveva amato nel mondo, e di cui sentiva l'amore invincibile, più forte della morte, sarebbe consolazione estrema a quell'anima che aveva conosciuto ogni disgusto ? Quante volte, passando egli curvo e stanco, minato dal dolore, abbeverato di fiele, leverà un momento il capo, vedendo per i viali della solitaria villa un'apparizione soave, che gli manderà un mesto sorriso, e gli susurrerà forse una parola della patria lontana! E nei tramonti, sul Douro fresco di camelie, udendo il sonante Oceano cantare l'immortale poesia dei secoli, l'esule Re volgerà lo sguardo a una piccola villa vicina, che splenderà bianca nei raggi d'oro, a una finestra sulla quale una lieve forma femminile lo richiamerà ai lontani ardenti tempi della giovinezza, alle visioni di un amore passato, ma eternamente rimpianto!

Addio, povero Re!

Quella stessa mattina in cui partiva Elisabetta, dopo aver composto nel piccolo camposanto di Novara le membra del molto amato figlio, anche Enrico e Clara si accingevano a seguire a Torino i battaglioni dei vinti, e il nuovo Re, che aveva raccolto la corona tra il sangue e le lagrime.

Anche essi avevano compiuto un pietoso ufficio. Avevano raccolto sul campo il misero corpo di Marie Jeanne, crivellato dalle palle austriache, e lo avevano seppellito vicino a quelli di tanti fratelli morti.

Povera Marie Jeanne! Povero fiore delle Alpi, povera ginestra d'oro, trasportata dal turbine quaggiù, e dal turbine infranta e distrutta! Ella lo aveva amato il bel capitano, che aveva pure avuto per lei chi sa quale strano affetto, fatto di fraterna tenerezza, di pietà e di desiderio! E quando lo aveva veduto trafitto nel cuore, quando aveva toccato le rigide membra, che più non rispondevano al suo abbraccio, toccato le smorte labbra, che non avrebbero sorriso mai più, e aveva veduto chiusi, irreparabilmente, i cari occhi, così fieri e così dolci, la ragione l'aveva abbandonata, l'anima sua pareva essere volata dietro all'amor suo perduto.

Da quel giorno ella non aveva parlato più; muta e come assente, aveva seguìto il triste corteo, quando avevano deposto nella tomba il morto capitano; muta, aveva poi lasciato quella tomba, dove ella non lo vedeva più, e si era messa a cercarlo, sicura che egli era in qualche luogo, nel mondo; che si nascondeva da lei, o per ischerzo, o perchè non voleva che ella lo amasse…

Come era arrivata nel campo, presso Novara ? Chi sa! Forse seguendo le trombe, seguendo le traccie dei soldati, ai quali ella si ostinava di offrire la sua merce, come quando era la vivandiera… Dove era stata in tutti quei mesi, quando, dopo Custoza, durava l'armistizio, che preparava alla seconda guerra? Era forse istintivamente ritornata alle sue montagne, a suo padre, e ne era ripartita appena aveva udito parlare nuovamente di guerra, e aveva veduto i soldati partire?… Aveva passato quell'inverno nelle stalle, o presso qualche casolare, dove gente pietosa aveva albergata la povera pazza?

Nessuno potrebbe dirlo mai.

Ora era morta. Aveva ricevuto, nell'oscurità e nella confusione, nel suo petto, le palle destinate ai soldati; era caduta, senza un grido, cercando ancora con lo sguardo morente, fra i soldati che erano accorsi a sollevarla, colui che da tanti mesi dormiva cheto e tranquillo, lontano di là…

—Ebbe un tragico destino, povera Marie Jeanne!—mormorò Clara, con occhi pieni di lagrime.

Enrico non rispose. Egli si era avvicinato alla finestra, dalla quale si vedeva la vasta e malinconica campagna, avvolta in una nebbia sottile. Laggiù. laggiù dormivano i morti! I morti d'ltalia! Tanti! Tante vite perdute! E la causa della patria era perduta pur essa!

—Oh, guarda, Enrico! un raggio di sole!… —esclamò ad un tratto Clara, che si era tacitamente avvicinata al marito, e gli aveva posato una mano sulla spalla. E indicava le nuvole verso Oriente, dove la nebbia si apriva, fuggendo rapidamente dinanzi al sole che sorgeva.

Enrico sorrise. E, volgendosi verso la donna, amorosamente china sulla sua spalla, e sfiorandole con un bacio i capelli.

—Che sia—disse—un lieto presagio?

—Sì, Enrico! lo credo. Non riposano forse nel grembo di questa campagna desolata i germi delle messi future? Così riposa in grembo all'avvenire il germe della libertà d'Italia. Credi tu che il sangue di tutti questi caduti sarà infecondo? Fu forse infecondo il sangue dei martiri, furono infeconde le lotte del pensiero e i patimenti e l'esilio e le carceri? No, Enrico; lasciamo che il tempo maturi il seme gettato, e vedrai.

—Ebbene, Clara, se mai quel giorno sorgerà, noi torneremo, non è vero? insieme su questi campi, o dovunque si levi il grido del riscatto. Insieme, Clara, non è vero ?

—Per sempre!—disse Clara, e rimasero lì, stretti uno all'altra, guardando l'ampia campagna, dove passavano lunghe file di soldati e carriaggi.

Ad un tratto si udì il suono della banda: la fanfara levò uno squillo alto e glorioso nel chiaro mattino. E alto, superbo, a cavallo, passò un generale, erto il capo sotto l'elmo ondeggiante. Dietro a lui un nugolo di generali. di ufficiali, tutti a cavallo, animati, lieti, come se una speranza nuova sorgesse nei loro cuori affannati dalla sconfitta.

—Viva il Re!—gridarono i soldati, dinanzi ai quali passò l'alto corteo.

Enrico, dal balcone, gridò pur egli:

—Viva il Re!

Clara, sporgendo la sua bionda testa, fiammeggiante nel nuovo sole, e, sventolando il fazzoletto, gridò:

—Viva il Re!

Il brillante corteo si perdeva nella nebbia lucente, e Clara, volgendosi al marito:

—Vedi?—disse—è qui la nuova speranza d'Italia!

FINE.