LUIGI DI SAN GUISTO

LA
MAESTRA BELLA

ROMANZO

1901
ROUX E VIARENGO - EDITORI
TORINO

La carrozza si trascinava pesantemente, tirata dalle due magre mule, sulla lunga strada bianca e polverosa. Donna Rosina, colla sua voce velata che era tanto antipatica a Enrichetta, parlava sempre, e parlava lei sola. Il tema del suo discorso era ormai vecchio e ben conosciuto. Donna Rosina aveva un gran cuore, si era sempre sacrificata per gli altri, e, ahimè! non aveva fatto che degli ingrati! Ingrate erano state le sue sorelle, anche quella che era morta (Dio l'abbia in gloria!); ingrati specialmente i cugini e i nipoti; ingrati gli amici; e se suo marito non fosse stato presente, certo egli pure sarebbe stato messo nella medesima categoria.

Enrichetta, stanca di quel lungo chiacchierio, avendo esaurito tutti i monosillabi affermativi e le interiezioni di meraviglia, di cui aveva dovuto fare troppo grande consumo durante il viaggio, s'era lasciata andare nell'angolo della carrozza, colle palpebre socchiuse e le mani languidamente abbandonate lungo la persona.

Guardava ancora donna Rosina, e pareva prestare molta attenzione al suo dire strascicato, ma in realtà le giungevano all'orecchio soltanto suoni confusi, di cui non voleva sforzarsi ad afferrare il senso.

Don Giuseppe, seduto vicino a sua moglie, che egli non interrompeva mai, col corpo piegato un po' avanti, le lunghe mani gialle appoggiate ai ginocchi, guardava la giovane che gli stava dirimpetto, con un lampo di curiosa compiacenza nei freddi occhi verdognoli. La sua barba, d'un grigio sporco quasi verde, pareva tremare sul bavero del sucido soprabito.

— E che vi pare a voi, signora Enrichetta, che ve ne intendete, che vi pare dell'ingegno di quella ragazza? È proprio quel portento che dice mia sorella?

Il solo suo nome, gracidato dalla solita voce velata, giunse all'orecchio di Enrichetta.

Ella sussultò.

— Io?… ma, non saprei… veramente…

— Eh, via! diffidate forse di me? Credete ch'io lo direi a Carmelina? Ah! io ebbi sempre la sventura di non essere conosciuta dai miei amici! pensate forse che io non ami Lucia? È l'unica figlia lasciata dalla mia defunta sorella. E se sapeste ciò che io ho fatto per lei quando era piccina! Ma quella ragazza ha un'anima di ghiaccio; non che sia cattiva, guardi Iddio! ma non ha affezione per nessuno, vedete, nemmeno per sua cugina, qui, questa povera Marietta, che le vuol pure tanto bene e ha un cuore, vedete, un cuore come il mio, vedete, signora Enrichetta; epperciò sarà sventurata anche lei.

Don Giuseppe gettò a sua moglie una timida occhiata di rimprovero, ma donna Rosina non la vide nemmeno, tutta intenta a asciugarsi gli occhi.

Enrichetta, mediocremente commossa ai discorsi di donna Rosina, si voltò un poco verso la giovinetta che le stava seduta a fianco.

Marietta, la figlia di don Giuseppe e di donna Rosina, col viso pallido e gli occhi scuri, non sarebbe stata brutta se quegli occhi si fossero animati un pochino e se la bocca avesse imparato a sorridere più spesso. In quello stesso momento, guardando a sua volta Enrichetta, sorrise con leggiero imbarazzo, e le si scavò una fossetta nel mento e un'altra nella guancia destra, sicchè il suo viso assunse un'espressione infantile che gli stava benissimo.

Siccome nessuno pareva volesse più parlare, Enrichetta pensò che toccava a lei dire qualche cosa, e, prendendo un'aria seria e convinta, si rivolse a donna Rosina parlando con voce grave, come se recitasse una parte già imparata a mente.

Certo era sempre così che andava nel mondo, chi faceva bene aveva male, e chi aveva molto cuore… eh! non bisognava aver cuore, ecco tutto!

Ma, del resto, era invece da sperarsi che Marietta sarebbe un giorno felice. Perchè far cattive previsioni? Una giovinetta fornita di così belle qualità… hem, bella, istruita, senza grilli per il capo, con una certa dote… meritava tutto.

Enrichetta non aveva vent'auni, ma l'essere vissuta spesso in mezzo a estranei le aveva dato una singolare esperienza, per cui ella conosceva bene le persone e sapeva sempre come prenderle. Ora si adattava ad adulare donna Rosina, benchè in fondo la disprezzasse piuttosto, ma aveva bisogno di averla amica nel nuovo paese dove andava e dove non conosceva quasi nessuno. La sua grande bellezza, del resto, e la stessa sua voce vibrata, che aveva note cristalline, esercitavano un fascino sui suoi uditori.

Pure quel giorno era stanca davvero e non aveva assolutamente più voglia di tirare innanzi il discorso. Allora si mise a guardar fuori.

La lunga strada bianca aveva preso ora una leggera tinta rosea dal sole che tramontava, e pareva non finire mai, per quanto Enrichetta spingesse lo sguardo nel fondo.

Essa continuava diritta, uguale e tagliava in due la pianura. In fondo all'orizzonte, già tutto soffuso di una pallida tinta d'opale, il sole fiammeggiava, declinando lentamente nel verde-cupo della campagna; pareva tuffarsi in un mare opaco, senza riflessi. Ma, attraverso il fogliame cinereo degli ulivi, gli ultimi raggi vibravano ancora; il viso rosato di Enrichetta in quel bagno d'oro prendeva una calda tinta orientale, e i capelli biondi, fini come la seta, uscendo di sotto l'ala ampia del cappello, si accendevano e scintillavano.

Dentro della vettura era silenzio; solo don Giuseppe, che s'era volto di nuovo, mormorò qualche parola a sua moglie, poi risonarono lenti alcuni rintocchi di campana.

Ave Maria, gratia plena

Tutti si segnarono e mormorarono la preghiera. Enrichetta, a capo chino, irradiata dal sole, pareva un bell'angelo orante, e donna Rosina vide con soddisfazione quel pio raccoglimento.

Invece il cuore della giovanetta non pregava in quel momento, sebbene le sue fresche labbra si muovessero. Ella pensava che era proprio stanca quel giorno e non si arrivava ancora! Pure, se ella aveva inteso così distintamente quella campana, il paese doveva essere vicino; e desiderava ardentemente di arrivare.

Donna Rosina, che aveva finito di pregare, le rivolse di nuovo la parola.

— Presto giungeremo a Pianbasso; questa era la nostra campana, sapete; è quella della cattedrale. Una bella chiesa, vedrete. Ci abbiamo dentro una Madonna Addolorata che è miracolosa. Se sapeste la grazia che ha fatto a me! Sentite. Io avevo un occhio che mi si infiammò tanto.

La povera Enrichetta era già rassegnata a sentire la storia del miracolo, ma il caso la salvò da quella noia. Rocco Murgillo, che era seduto in serpe col cocchiere, si chinò verso l'interno della carrozza per avvertire:

— Ecco San Filippo!

Tutti si sentirono sollevati, e Enrichetta lo fu di più, quando don Giuseppe le disse che San Filippo, un vecchio convento convertito in ospedale, era prossimo al paese.

— Ma non lo vedo il paese - disse Enrichetta.

— Ora lo vedrete: ora svolteremo. La strada, qui, fa un gomito: ecco, adesso giriamo. Lo vedete ora? quello è Pianbasso.

La giovane si sporse in fuori, curiosa, con un lieve battito al cuore.

Nel verde-grigio dei campi, radi gruppetti di case basse, bianche si perdevano. Le case parevano tagliate a mezzo dal tetto piano che si usa in tutte le provincie meridionali; la incerta e malinconiosa luce che le invadeva, dava loro una tinta grigia uniforme; un campanile spiccava solo, alto, nel cielo chiaro. Si udivano altre campane flebili, discordi, nell'aria. Ognuno di quei suoni cadeva lentamente sul cuore di Enrichetta e lo riempiva di tristezza.

— Che vi pare? — domandò donna Rosina.

— Grazioso, cara signora, le assicuro che è grazioso.

Il suo cuore si gonfiava di lagrime e la sua bocca sorrideva.

— Oh! lo dite per cerimonia! — protestò sorridendo don Giuseppe; - sarà difficile che vi adattiate.

Anche Marietta allora confermò che il paese era piccolo, bruttino; non c'era nulla da vedervi, e certo la signorina vi si sarebbe annoiata.

Ma Enrichetta, sforzando la sua ripugnanza, parlava in fretta, con disinvoltura, assicurando tutti che quel luogo le piaceva molto: era pittoresco davvero; peccato che fosse già quasi scuro e non ci si vedesse bene. Oh! era certa di vivervi felice!

Ora la carrozza entrava nel paese; passava davanti alle prime case; alcune donne erano sugli usci e ciarlavano con voce alta, con la cadenza lunga, propria alle meridionali; aleuni monelli scalzi e molte galline si tirarono in là schiamazzando; la vettura passò innanzi e si fermò davanti una casa all'estremità della strada, sull'angolo della piazza.

Era la casa Murgillo.

Lo sportello si aperse; un giovinotto si avanzava e stendeva una grossa mano a donna Rosina per aiutarla a discendere. La vecchia fu in un momento a terra, ed ella stessa aiutò Enrichetta, mentre don Giuseppe saltava giù dall'altra parte.

La giovinetta stese incerta un piedino, cercando l'appoggio della predellina, ma non la trovò subito, barcollò e sarebbe caduta se un forte braccio non l'avesse afferrata in tempo. Si senti sollevata un momento in aria e poi deposta al suolo, leggermente, senza che le mani che l'avevano trattenuta si fossero più fatte sentire.

Erano tutti intorno a lei. S'era fatta male? Ma ella rise, scuotendosi, agginstandosi le pieghe della veste sgualcita.

Vicino al portone della casa c'era la farmacia. Tre o quattro fannulloni erano là fermi sul marciapiedi per guardare la nuova maestra, e cercavano di distinguerne il viso nell'oscurità crescente.

Si udi la voce sprezzante del farmacista:

— È questa la grande bellezza? Una gran cosa!

Enrichetta si senti arrossire dal dispetto, ed entrò rapidamente dietro a donna Rosina, che non aveva potuto intendere nulla.

Nel portone si sentiva un tanfo di stalla; i piedi della giovane scivolavano sull'erba molle che cresceva tra le pietre sconnesse. Ella salì le scale con uno stringimento di cuore. Nessuno le diceva nulla, poichè donna Rosina era occupata a badare a un uomo che s'era caricato di varie scatole e di un piccolo baule. Don Giuseppe s'era fermato nel portone, gridava col cocchiere e gli ordinava di condur subito le due mule sudate nella stalla. Marietta e suo fratello Rocco seguivano lentamente la maestra e innanzi a tutti saliva in fretta il maggiore dei fratelli Murgillo, Luigi.

Finiti i due piccoli rami di scala, si trovarono sopra un pianerottolo scoperto, illuminato tutto dalla luna; là si apriva un uscio, nel quale Luigi entrò primo e scomparve; si udì solo la sua voce stizzita gridare nell'oscurità:

— Giovanna! muoviti, all'anima tua! un lume, dunque!

Una vecchia fantesca molto sporca accorse zoppicando e brontolando con una lucerna d'ottone che faceva una luce gialla e scarsa; i tre giovani entrarono; donna Rosina, raggiunta da don Giuseppe, si fermò sul pianerottolo a parlare coll'uomo del baule.

Era stato don Giuseppe che aveva fatto nominare Enrichetta Jorselli-Borlieux a maestra nel Comune di Pianbasso. Ciò gli era riuscito facile; egli era cognato del sindaco, don Pietro Scannelli, per via di una sorella di sua moglie, morta più di dieci anni prima.

Enrichetta abitava Bari, la più importante città delle Puglie, da otto anni. Vi era venuta bambina di undici, e ve l'aveva portata suo zio, il giudice, un vecchio scapolo che, pur amandola molto, non pareva curarsi gran fatto di lei: le ragazze egli non le capiva, considerava la nipote come un uccello raro, e solo per le insistenze di lei s'era deciso di metterla nelle scuole normali, dove Enrichetta aveva potuto prendere la patente di maestra.

Un'altra sorella di donna Rosina, che era stabilita a Bari colla nipote Lucia, unica figlia del sindaco di Pianbasso, era stata amicissima del giudice Jorselli; e così anche tra le due giovanette s'era formata una specie di amicizia, abbastanza sincera benchè non molto profonda.

Enrichetta, che aveva appena un anno più di Lucia, aveva fatto da maestra a questa, perchè donna Carmelina, che adorava la nipote, non aveva mai voluto permettere che frequentasse qualche scuola pubblica. Così la giovinetta, non trovandosi in contatto con altre della sua età, era venuta su piuttosto fredda e anche un tantino egoista; Enrichetta poi, che si sapeva povera e destinata un giorno a guadagnarsi il pane col lavoro, trovava superba la sua amica e allieva, sicchè fra loro non ci fu mai un vincolo stretto di affezione, benchè si trattassero con somma gentilezza e si vedessero con piacere.

Ogni domenica donna Rosina Murgillo, colla famiglia, andava a pranzare a Bari dalla sorella. Enrichetta era pure invitata tutte le domeniche; così aveva potuto far conoscenza colla famiglia Murgillo e aveva saputo acquistarsi specialmente le simpatie di Marietta e di don Giuseppe. Ella poi, dal canto suo, conservò sempre una perfetta libertà di cuore; non provava simpatia per quella gente, trovandoli tutti egoisti, specialmente donna Rosina; ma, come se avesse avuto il presentimento di averne un giorno bisogno, fingeva una grande affezione e studiava ogni mezzo per attaccarli a sè una volta di più.

Solo aveva sprezzato occuparsi dei due maschi. Rocco, il minore, era uno zoticone colle manacce grosse e pettinato come un contadino; perfettamente incolto poi, e buonissimo diavolo; egli, a tavola della zia, non si occupava altro che di mangiare a due palmenti, e non apriva bocca tre volte in tutto il tempo.

Quanto a Luigi, il maggiore, era ben diverso dal fratello. Alto, robusto, ma con una certa distinzione nella forza della persona, con un viso pallido e grandi occhi scuri e seri, avrebbe potuto occupare l'immaginazione di una ragazza di diciott'anni; ma era così grave e freddo che Eurichetta lo aveva giudicato un pezzo di ghiaccio, e siccome veniva assai di rado a Bari le domeniche, ella, non vedendolo mai, non si ricordava nemmeno che esistesse.

Alla metà di luglio di quell'anno Enrichetta aveva pressa la sua patente di maestra, e ai primi giorni del successivo agosto lo zio Jorselli si ammalò di tifo e venne a morire, lasciando la giovinetta sola con una eredità consistente in centocinquanta lire e la mobiglia della casa, poca e non tutta in buono stato. Enrichetta pianse poco lo zio; quanto all'eredità si stimò ancora abbastanza ricca; centocinquanta lire e la libertà assoluta le parvero gran cosa.

I suoi amici non la abbandonarono allora. Donna Carmelina parlò col cognato Murgillo; Murgillo parlò col cognato Scannelli, il sindaco; il sindaco ne accennò alla Giunta municipale, e Enrichetta si trovò nominata maestra a Pianbasso pel prossimo ottobre.

Però si era appena in agosto e bisognava vivere due mesi. Anche il funerale del povero giudice portò via alla fanciulla una somma. Enrichetta tenne con sè la vecchia serva di suo zio, e si diede coraggiosamente ad affrontare la vita, per la prima volta sola, e con poche risorse.

Così, verso la metà di settembre, Enrichetta, aiutata e consigliata da donna Carmelina, incominciò a vendere i mobili dello zio. Una parte di essi li comperò la stessa donna Carmelina, il resto dovette cederlo per poco a un mercante usuraio; dalla vendita completa la giovane ricavò cinquecento lire, che le parvero una gran somma. Ella si era però riserbata alcuni ninnoli e i suoi libri; inoltre aveva patteggiato col mercante di cedergli la roba solo l'ultimo giorno di settembre, parendole amaro di veder spogliarsi la casa. Intanto si fece due vestiti neri, non ricchi, ma eleganti, si comperò un mantello per l'inverno, due cappellini, della biancheria… Finito il mese, diede, oltre al salario, venti franchi in regalo alla vecchia Annarella, e al primo d'ottobre, quando donna Rosina Murgillo, secondo l'accordo fatto, venne a prenderla per condurla a Pianbasso, Enrichetta si trovò ancora padrona di duecento lire.

Era una domenica, ma Enrichetta non aveva pranzato con donna Carmelina. Aveva da fare tante cose a casa sua in quell'ultima giornata! Difatti, sola lei colla serva, agginstò i bauli, le scatole, vuotò gli armadi; tolse al suo lettino, dove aveva dormito tanti anni, i lenzuoli, le federe, la coperta; staccò dalle pareti alcuni ritratti; dalla finestra della sua camera le tende bianche che voleva portare con sè, e rinchiuse lei stessa i due bauli, la cassa dei libri e la valigia.

Mentre faceva tutto ciò, era meravigliosamente calma; tutta attenta a che nulla si guastasse, col timore di dimenticare qualchecosa.

Verso le quattro passarono a prenderla i Murgillo, e lei, data un'ultima occhiata in giro, s'avviò per uscire. Aveva la testa un po' pesante, la gola asciutta per la polvere ingoiata; sull'uscio si fermò, si volse coll'intenzione di chiudere a chiave; ma li dovette guardare di nuovo, macchinalmente, dinanzi a sè, nelle stanze vuote che lasciava per sempre.

Stette un momento così, collo sguardo fisso e indifferente: qualche memoria le saliva al cervello. Lo zio seduto alla sua tavola ingombra di carte, la serva che preparava il pranzo, il ritorno ch'ella faceva dalla scuola… e lì la finestra della sua stanza dov'ella aveva lavorato e studiato volentieri. Ricordò anche confusamente un giovane che aveva veduto passare qualche volta sotto quella finestra e che la aveva guardata sempre, passando; poi si voltò e sorrise con disprezzo.

Diveniva sentimentale, ora? Chiuse con mano ferma; consegnò le chiavi al padrone di casa che abitava lì vicino ed era venuto per salutarla, e scese le scale leggera. Donna Rosina e sua liglia si meravigliarono di trovarla così piena di coraggio, così allegra.

Quando la carrozza si incanuninò, Enrichetta non rivolse più nemmeno lo sguardo a quella casa; si mosse solo quando udi chiamarsi dallo sportello.

Era la vecchia Annarella che piangeva. Ahimè! quella povera, buona signorina che se ne andava! Enrichetta le diede la mano, la confortò, la invitò ad andarla a trovare a Pianbasso; ma la sua voce non tremò affatto e i suoi begli occhi azzurri rimasero asciutti.

La cena era preparata in casa Murgillo nella solita stanza modestissima, dove non c'erano altri mobili che un certo numero di sedie di paglia e una tavola di quelle che si possono allungare a piacimento.

Enrichetta era seduta tra donna Rosina e Marietta; don Giuseppe stava dirimpetto a loro tra i due figli Luigi e Rocco.

Il pasto, di solito così silenzioso in casa Murgillo, si animò quella sera per Enrichetta. Donna Rosina specialmente si lasciò vincere dalla curiosità e le fece mille domande, con abilità fine, sperando che in quell'intimità del pasto la giovanetta si aprisse interamente. Ma non le riuscì; Enrichetta era troppo avveduta e non disse che quello che volle, ma con aria così candida e con un sorriso così allegro che non si poteva supporre che ella nascondesse qualche cosa. Gli altri tutti parlavano, ridevano, interrogavano. Il brio della bellissima fanciulla rapiva tutti; gli occhi azzurri splendevano sotto la sua fronte bianca dove i ricci d'oro scintillavano; la bella piccola bocca aveva un ridere così birichino! La stessa pallida Marietta rideva, invidiosa in fondo di quella grazia affascinante; com'era bella, com'era bella.

Ma Luigi, seduto proprio di fronte a Enrichetta, rimaneva silenzioso, abbozzando solo dei sorrisi forzati, quando non poteva farne a meno. Si sentiva a disagio vicino a quella civettuola che rideva così spontaneamente; era venuta dunque a portare il disordine fra loro, nella vita così monotona e tranquilla in cui pure si sentivano felici? Che voleva mai lì quella signorina elegante, che portava addosso profumi e aveva occhi azzurri come non se ne trovano in realtà? E gli sguardi di lui, scuri e ritrosi, sfuggivano la leggiadra apparizione, troppo rosea, troppo chiara nella loro casa tetra.

Finì col non mangiare più, distratto, desideroso di andarsene e non osando tuttavia, vinto dalla soggezione.

A poco per volta i discorsi presero una piega seria. Donna Rosina era riuscita finalmente a intorbidare l'allegria parlando dell'ingratitudine del mondo, dei pericoli che vi corre una giovinetta… poi, vedendola col viso improvvisamente grave, pensò di aggiustare tutto con una gentilezza.

— Sentite, cara; le domeniche continuerete ad andare sempre a pranzo a Bari da Carmelina. M'intendo che verrete con noi, quando noi ci andremo. E quelle domeniche che resteremo noi a Pianbasso, voi verrete qui a pranzo; resta inteso, non è vero?

E poichè Enrichetta si schermiva:

— Sì, sì, — continuò, — non fate cerimonie; non conoscete il mio cuore? Quel poco che posso ve l'offro col cuore. Sentite, sapete, io vi avrei dato addirittura una camera qui con noi, ma… voi mi capite senza che mi spieghi. Qui vi sono due giovanotti, voi… non fo per dire… ehm, siete bella, e così… il paese… Questo è un brutto paese; si calunnia con tanta facilità. Dio mio, c'è tanta malignità nel mondo!

Enrichetta aveva arrossito, ma in fondo era meravigliata. Due giovanotti! Che specie!… Rocco e Luigi! era possibile che qualcuno pensasse… e le veniva da ridere, tanto la cosa le pareva buffa.

Donna Rosina intanto tirava innanzi.

— Però, le persone che vi dànno una stanza son brava gente; gente povera, vedete, ma onesta e affezionata. Vedrete, vedrete; la stanza non è bella, mio Dio, ma chiara e spaziosa; qui a Pianbasso sarebbe difficile trovarne un'altra. Vi adatterete insomma, non è vero?

Enrichetta accennava di sì, poi assicurava ad alta voce che ella non aveva pretese; cercava solo di vivere in pace col suo lavoro.

Qualche cosa di serio le era sceso sulla faccia e ne aveva velata l'espressione ridente. Questa volta Luigi la guardò e non ne distolse subito gli occhi.

Ella vestiva a lutto per lo zio. Aveva dei pizzi neri alla veste, specialmente allo scollo e davanti, e la vita era chiusa da una cintura di nastro. Luigi pensò un momento che quella vita piccina gli sarebbe stata tutta fra le due mani, e sorrise a quel pensiero. Come mai si poteva avere una vita così?

E mentre ella, occupata a parlare con donna Rosina, non gli badava, egli continuò a osservarla. Fuori da quella cintura, così stretta, emergeva un busto pieno: e due spalle che la veste leggera disegnava correttamente, e dal viluppo dei pizzi neri usciva il collo bianco e sottile come lo stelo d'un fiore; e il fiore era roseo, delicato, fragrante, tra lo splendore dei capelli, colle due stelle profonde degli occhi.

Quella bellezza lo turbò allora profondamente. Gli pareva un sogno il vederla lì, l'udirla parlare, e lo prese pure una grande compassione per lei, che vedeva vestita a lutto, così sola nel mondo, così debole e delicata. In che mani sarebbe andata a cadere? Tanta bellezza in un paese così piccolo avrebbe fatto certo impressione. Chissà quanti le sarebbero intorno già domani, e lei?… Bah! si sarebbe maritata, dopo tutto; perchè pensar male? Dei signori, e ricchi anche, ce n'erano a Pianbasso, e lei valeva bene la pena che qualcuno facesse una pazzìa per possederla.

In quel momento Enrichetta si volse, lo guardò un istante; a lui parve ch'ella dovesse leggergli negli occhi i pensieri, arrossì e distolse lo sguardo, mentre lei mormorava tra sè:

— Che orso!

Egli, per il resto della cena, non la guardò più.

Dopo cena Marietta condusse la maestra nella stanza, che le era stata preparata per quella sera.

Era una stanza grande e bianca, di quel bianco di calce così nudo e malinconico; alle pareti pendevano molti quadri di santi, e sopra un cassettone c'era solo una grossa bottiglia ben tappata, piena d'un'acqua giallastra, nella quale erano cresciute molte erbe gelatinose che tremolavano alla minima scossa.

Sulla parete esterna della bottiglia, in una goffa imagine, San Nicola di Bari impugnava un pastorale e alzava due dita della mano destra.

Era dunque la Santa Manna? Enrichetta sorrise. Era la manna che cola perennemente dall'osso miracoloso del Santo; quell'acqua portentosa che si adopera come rimedio di ogni male; che mettesi alla finestra quando infuria il temporale, per iscongiurare i fulmini; che salva le navi nelle tempeste di mare; che disinfetta le case dal vaiuolo e dal colera; che allevia il parto alle donne; che fa prosperare le campagne e ridona la salute all'anima e al corpo.

Ma Enrichetta era poco credente; in fondo in fondo credeva in Dio, ma senza entusiasmo o fervore; lo invocava solo in rari momenti di debolezza, quando la malinconia le gonfiava il cuore e le vuotava il cervello. Del resto, nella sventura ella si ribellava e nella gioia dimenticava.

Marietta s'era allontanata dopo pochi minuti e l'aveva lasciata sola.

Enrichetta le guardò dietro un momento, fatta grave e pensierosa; poi alzò le spalle con un nuovo sorriso. Gettò uno sguardo distratto ai quadri di santi, che la offendevano colla loro bruttezza; poi guardò il letto, grande, profondo, che la invitava colla mollezza dei grossi guanciali e col candore delle lenzuola.

Si levò il corpetto del vestito che le dava fastidio alla gola, e stette un momento incerta se dovesse o no coricarsi subito.

Ora una vaga stanchezza la sopraffaceva; un amaro tedio che si sprigionava da tutta quella stanza sconosciuta.

Doveva dunque la sua vita passar tutta così fra estranei? E ne interrogava la fiamma fumosa della lucerna a olio, che le gettava in faccia la sua luce gialla.

Sì, era stato sempre così, da quando era morta sua madre. Dopo di lei non aveva più avuto nessuno, nessuno! E l'avvenire doveva esser pure così sconsolato per lei; che poteva mai sperare? Amore? O, guai se avesse creduto all'amore! Non sapeva ella la storia di sua madre?

La faccia rosea di Enrichetta era impallidita a quella memoria; una ruga severa le solcava ora la fronte, e i suoi begli occhi, dilatati in un terrore improvviso, parevano pieni di lampi.

Stette qualche tempo muta e ritta in quella stanza silenziosa: poi le scesero lagrime giù per le guance, e allora il viso sdegnato prese un'espressione infinitamente malinconica e dolce: ella apparve assorta in qualche sogno lontano, e le lagrime continuarono a scendere più fitte e meno dolorose.

Infine, sollevata da quello sfogo, vergognosa di quella debolezza, scrollò le spalle, si asciugò la faccia col moccichino, un cencio di tela finissima, tutto profumato, e sorrise di nuovo. Come poteva essere tanto bambina?

Non volle però coricarsi; le pareva che non avrebbe ancora potuto dormire; così aprì la finestra e s'appoggiò sul davanzale.

La notte era dolcissima: la luna allagava il paese della sua luce tranquilla; le stelle scintillavano inquiete in quella splendida pace.

La finestra dava sul giardino, e acuti profumi salivano dalla campagna nel leggero stormire del vento; due filari d'ulivi scotevano le loro foglie coriacee, e ne usciva un rumore secco e sommesso.

Ma fra quel rumore Enrichetta potè distinguerne un altro, diverso; era un bisbiglio di voci uscente di dietro una spalliera di viti; la fanciulla prestò orecchio, curiosa, comprendendo subito che dovevano essere amanti.

Il vento non le recava nessuna parola distinta, solo le parve che un suono di baci si unisse al mormorìo dei discorsi. Enrichetta ebbe un brivido, e tutto il sangue le affluì alla faccia. Benchè ella non fosse scrupolosa, quelle cose le parevano brutte e la irritavano sempre; non era onesto neppure lo star lì ad ascoltarle; erano sconcie sciocchezze da cui abborriva e che la turbavano, dandole un malessere strano.

Nella sua intolleranza tirò a sè le imposte e stava per chiuderle, quando udì una voce chiara e distinta pronunciare alcune parole:

— Carolina, via dunque, sii buona! Andrò in collera davvero!

Era una voce d'uomo; quella voce Enrichetta la conosceva; certo l'aveva udita altre volte… chi dunque?…

— Oh, caro don Luigi! — riprese un'altra voce femminea, carezzevole e tremante; — non posso fermarmi stasera; mamma m'aspetta!…

La risposta dell'uomo Enrichetta non volle udirla; aveva già richiusa la finestra. Era dunque don Luigi Murgillo? Con quel viso da santo e quegli occhi seri? Ne era stupita, indignata quasi, come d'un'offesa personale

Dunque erano tutti a un modo gli nomini?

Ah, gli uomini! non c'era uno a cui potersi fidare, a cui credere. Eppure allora non era stata sul punto di credere a colui? Ne arrossiva ancora, pensandoci.

Perchè qualche volta, specie leggendo una storia di passione, ella si sorprendeva colla faccia in fiamme e colla testa in tumulto? Ahi! ella temeva di esser troppo debole e troppo vile, e perciò stava in guardia e puniva il suo cuore, che troppo facilmente avrebbe ceduto, se ella non avesse avuto una mente così calma e equilibrata.

Quando una cattiva tentazione l'assaliva, le bastava pensare a sua madre. Non ricordava forse che cosa era costato a sua madre un momento di debolezza?

Era stata sedotta e poi, naturalmente, abbandonata sua madre; una povera ragazza francese che aveva fatto a Napoli l'istitutrice.

Ricordava ancora, Enrichetta, che sua madre, avvilita, scacciata, era andata a Parigi con lei, povera piccina gracile e malata. A Parigi i parenti non avevano voluto accoglierle. La povera donna aveva allora lavorato, lavorato colle sue mani; come se due delicate mani di donna bastassero a nutrire due persone a Parigi.

Enrichetta aveva ancora dinanzi agli occhi la figura patita e squallida di sua madre. La rivedeva ancora, malata dell'ultima malattia, sul misero letto dove tremava di freddo, mentre la piecina piangeva, accanto a lei, di paura e di fame.

Poi ricordava che la malata, stinita di forze, aveva dettato una lettera a una pietosa vicina. Quella lettera, la figliuola lo sapeva, era stata per il fratello del seduttore. Di lui, sua madre le aveva spesso parlato con gratitudine; era stato il solo a mostrarle compassione nella sua sventura; a lui voleva ora affidare la bimba che sarebbe orfana fra poco.

O, come Enrichetta ricordava bene il giorno in cui lo zio Jorselli arrivò!

Era quasi vecchio, con una faccia buona e onesta; aveva baciata la moribonda e chiamata nipote la bambina. Egli, quando potè staccarla dalla bara di sua madre, l'aveva condotta con sè in Italia.

Era giudice a Bari. Enrichetta stette con lui fino alla sua morte. D'allora non fu mai più a Parigi, benchè desiderasse tanto di ritornarvi!

Avrebbe solo voluto rivedere il sepolero di sua madre; sapere se la piccola lapide, che lo zio vi aveva fatto mettere, ci fosse ancora, e se il nome, il caro nome, vi si potesse ancora leggere; ah, certo le intemperie lo avevano cancellato dal piccolo sasso! Certo quella tomba era dimenticata e nessuno vi aveva mai portato un fiore.

Ella non aveva mai amato suo zio. Non era egli il fratello dell'uomo che ella odiava tanto, perchè era stato la rovina di sua madre?

E ciò che Jorselli faceva per lei non era forse un dovere, malamente adempiuto anzi? E fremeva quando le veniva il pensiero di lui, di suo padre.

Dov'era egli? Dal giudice aveva saputo che doveva abitare Napoli, ma non aveva mai veduto nemmeno un suo ritratto. Sapeva che egli, non ricco di casa sua, lo era diventato con un buon matrimonio: lo zio aveva sempre detto di non essere in relazione con lui; ella però sospettava altro.

Era un amaro sospetto che le avvelenava la vita. Aveva veduto molte volte giungere da Napoli, per suo zio, dei plichi raccomandati; non erano forse quelle le elemosine che suo padre le faceva così? O, il pensiero di dover qualcosa a quell'uomo! Pure non aveva mai osato chiederne allo zio; eppoi non avrebbe egli negato? Due giorni dopo la morte di lui, arrivò una lettera raccomandata, pure da Napoli. Ella la respinse, senza nemmeno voler assicurarsi da chi proveniva.

Dopo altri pochi giorni ne giunse un'altra, indirizzata proprio a lei, Enrichetta Jorselli. La respinse di nuovo, furiosa; voleva dunque quell'nomo imporsi per forza, entrare nella sua vita, farla arrossire continuamente colle sue vergognose elemosine?

D'allora non aveva mai saputo più nulla, e sperava che, finalmente, ella potesse dimenticare quell'odiosa storia.

Ora incominciava per lei una vita nuova, e lei la accettava serenamente. Accettava i santi gaudî del lavoro e della libertà, pur senza illusioni di felicità assoluta, anzi diffidente e cauta come s'addice a chi sa che dovrà lottare e ha misurato le sue forze. La sua anima tornò serena nella grave stanchezza che vinceva il corpo, e la giovane s'addormentò profondamente, del calmo sonno della gioventù e della salute.

Il domani un forte scampanìo destò Enrichetta.

Ella girò intorno gli occhi meravigliati, in quel primo turbamento che lascia il sonno, non ricordando il luogo dov'era. Ma subito dopo si scosse dal suo torpore.

Allegri raggi di sole illuminavano la stanza bianca, e sulle pareti giocavano l'ombre degli ulivi che il vento, nel giardino, moveva.

Enrichetta si rizzò a sedere sul letto e gettò uno sguardo sul piccolo orologio d'argento che la sera prima aveva deposto sul tavolino da notte.

Erano le cinque e mezzo; molto di buon'ora! ma non se ne dispiacque; quella giornata in paese nuovo, fra gente nuova, non poteva parerle lunga; del resto aveva dormito abbastanza, e si sentiva riposata, tutta piena di coraggio, proprio come avrebbe desiderato di essere.

Sbadigliò, si stirò le braccia, rigettandosi un'ultima volta pigramente sul cuscino; poi, risoluta, allungò le gambe fuori dal letto, e, veduto in terra un paio di pantofole assai troppo grandi per lei, vi cacciò dentro i suoi piedini bianchi e incominciò a vestirsi lentamente.

A lei piaceva dedicare un tempo lungo alla sua toeletta. Sapeva di essere bella, e quella mattina lo desiderava più che mai: voleva confondere quell'imbecille d'un farmacista che la sera prima l'aveva disprezzata; o, i signori cittadini di Pianbasso avrebbero da restare sbalorditi e da forbirsene la bocca, ancora, perchè ella voleva poi essere ben prudente: oh si! tanto prudente che mai la più piccola calunnia sarebbe arrivata fino a lei; perchè ella era ambiziosa e, sopratutto, voleva essere rispettata; è perciò che voleva a tutti i costi essere onesta.

E, mentre riandava tra sè il suo piano di battaglia, di cui era tanto sicura, stava ritta davanti al piccolo specchio appannato che sormontava un tavolino, sul quale aveva trovato pettini e spazzole e fino una scatola di cipria, e si ravviava i magnifici capelli biondi.

Si pettinò facendo una molle treccia dietro, che appuntò in un grosso mazzo, molto basso, sul collo; ma semplicemente, senza un nastro o uno spillo appariscente, non volendo sembrare caricata nel modo di vestirsi, certa di piacere ancor più con quella semplicità studiata.

Difatti quella pettinatura le dava una grazia nuova, allungandole un pochino il viso, dando alla testa una morbidezza di contoni che la faceva parere più infantile e più delicata.

Ammorzò poi il florido colorito delle sue guance freschissime con un leggero strato di cipria. Esaminò se i suoi occhi, i suoi splendidi occhi ammaliatori, profondi come i laghi dalle acque tranquille, avessero tutta la loro bellezza; e sulle ciglia scure e lunghe, che gettavano un'ombra misteriosa sul loro splendore, passò con paziente attenzione il lembo di una pezzuola umida, per toglierne ogni granello di cipria e ridar loro la lucida morbidezza che le faceva risaltare.

Ebbe la stessa premura per i suoi denti, per le sue unghie, per la sua vitina che il busto le assottigliò ancor più, e indossò finalmente un vestito modestissimo, nero, molto accollato, senza nessun ornamento.

Sospirando, attaccò poi alle orecchie un paio d'orecchini, l'unico che avesse mai portato, un cerchietto d'oro con una bianca perlina nel mezzo; e si cinse al braccio destro un braccialettino d'argento, un portebonheur di cinque fili sottilissimi, tenuti insieme da un fermaglietto dove era inciso il suo nome. Orecchini e braccialetto non valevano più di dieci lire; Enrichetta non aveva altri ornamenti; neppure un anello per quella piccola mano, vi sarebbe stato così bene!

Il suo orologio d'argento non aveva neppure una catena; ella che la desiderava da tanto tempo, non aveva mai osato fare una simile spesa; così se lo attaccò al collo per mezzo del cordoncino nero che lo sosteneva e gli diede uno sguardo distratto. Le sette! Quanto tempo aveva perduto!

Poi stette alquanto indecisa. Aveva da uscire di camera? Sarebbero già alzati in casa?

In quella picchiarono all'uscio. Ella disse allegramente: — Avanti!

Entrò donna Rosina e dietro a lei Marietta, che portava sopra un piatto una tazzina di caffè nero.

Le tre donne si baciarono, poi, mentre Enrichetta beveva il suo caffè pensando con raccapriccio che ci sarebbero volute altre cinque ore prima di pranzo, donna Rosina la guardò, stupita di trovarla ancora più bella del solito e cercando invano la causa, dacchè il vestito era più semplice di quello che aveva indossato ieri. Marietta invece trovò subito:

— Avete cambiato pettinatura, signora Enrichetta? Come state bene!

— Già, — rispose Enrichetta, — questa è più semplice.

Le due giovanette erano vicine, formando tra di loro il più spiccato contrasto. Marietta era bruna, meno alta di Enrichetta, con alcunchè di rigido nelle forme e di sgraziato nei movimenti. Il suo viso pallido e grave la faceva parere più vecchia, mentre non aveva che diciassett'anni; era poi così timida e impacciata che nessuno mai si accorgeva di lei, quando si trovava fra la gente.

Ella guardò Enrichetta con ammirazione, non senza un leggero senso d'invidia, e la maestra le trovò allora una gran somiglianza con suo fratello Luigi, specialmente negli occhi. Ciò le spiacque, ad un tratto; chi sa che cosa nascondevano nelle loro profondità quegli occhi gravi e misteriosi; non erano occhi da fidarsene; e ricordò la scena della scorsa notte nel giardino, provandone nuovamente stizza e dispetto.

Donna Rosina intanto aveva aperto la finestra e spiegò che lei decisamente abborriva i profumi, che le facevano venir male al capo. Enrichetta si scusò arrossendo. Era la sua biancheria leggermento profumata; un'antica abitudine che lascierebbe in avvenire.

Dal giardino entrò l'aria fresca della mattina e le donne si affacciarono tutte a dar un'occhiata fuori.

Donna Rosina gridò ad un tratto:

— O che, Luigi non è andato in campagna? lo vedo là in fondo; e papà che avrà bisogno di lui?

Enrichetta si ritirò improvvisamente dalla finestra; le pareva che avrebbe arrossito vedendolo; risenti ancora la sua voce.

Marietta intanto diceva colla sua voce tranquilla;

— Credo che sia già d'accordo con papà. In campagna è già andato Rocco.

Rifatta tranquilla, donna Rosina disse alle ragazze:

— Andate a fare un giro per il giardino, fino all'ora della scuola, fa così bene l'aria a quest'ora!

Scesero nel giardino, benchè mancasse appena mezz'ora per la scuola, che incominciava alle otto.

Era un puro mattino di ottobre, soavemente tiepido; l'aria era piena di esalazioni odorose. Enrichetta pensava con rammarico che non era una giornata di festa; come sarebbe stato bello passar lì alcune ore! Invece fra poco doveva andare a rinchiudersi chi sa in che brutta stanzaccia che le servirebbe di scuola, e avrebbe chi sa che specie di allieve contadine zoticone colle quali avrebbe avuto da annoiarsi per quattro ore buone.

Benchè avvezza a padroneggiare le proprie idee, e, più ancora, le espressioni del proprio volto, tuttavia si lasciava andare a una tetra malinconia. Marietta le offri dell'uva, che aveva staccato allora dalla vite, e ne mangiarono assieme, mentre Enrichetta si rifaceva lieta all'idea che presto si farebbe la vendemmia, e lei avrebbe potuto passare qualche bella giornata in campagna.

Una campana suonò in quel momento; doveva essere una piccola campana molto vicina.

— È il segnale della scuola — disso Marietta, presa anche lei da una leggiera commozione.

Enrichetta si senti divenir pallida e lasciò cadere un fiore che aveva colto. Pensò: ``Ci siamo'', e si raccolse un momento come per radunare le sue forze.

— Coraggio — le disse Marietta, che l'aveva compresa.

Rientrarono in casa leste, affannate. Enrichetta si pose il suo cappello di paglia nero, e il suo volto era ridivenuto sorridente e rosato; baciò donna Rosina e Marietta e s'avviò per uscire.

Sulla porta vide don Giuseppe, ch'ella credeva in campagua.

— Voglio accompagnarvi, se lo permettete — le disse egli.

Ella trasse un sospiro di sollievo. Il pensiero di attraversare sola quel piccolo paese ciarliero e curioso l'aveva angustiata fino a quel momento. Sorrise a don Giuseppe con riconoscenza profonda, e gli occhietti verdognoli di lui parvero dilatarsi in una luce affettuosa.

Passarono davanti alla farmacia. Enrichetta, seria e contegnosa, non guardò nemmeno, ma sentì che l'ammiravano, e due monelli le gridarono dietro:

— Oh che bedda signura!

Voltarono l'angolo, seguendo una strada silenziosa e soleggiata. In essa si apriva il cancello del giardino Murgillo. Esso era aperto, e don Luigi vi stava appoggiato, guardando in fuori distrattamente. Quando passarono davanti, egli si tolse il cappello di paglia chiara, e accennò colla mano a suo padre; ella però aveva arrossito davvero e quell'incontro le spiacque, onde rispose appena al saluto con un lieve cenno del capo e tirò via diritta, mentre lui, tornando nel giardino, mormorava tra sè:

— Capperi! pare una principessa.

All'entrare che fece la maestra tutte quelle bambine si levarono in piedi timide e curiose.

Enrichetta si fermò nel mezzo della scuola e le guardò sorridendo.

Un sommesso bisbiglio d'ammirazione passò tra i banchi; era la prima vittoria; Enrichetta era ormai sicura che la vita, a scuola, le sarebbe gradita, e fu felice di quella certezza, e tutto il resto le parve nulla.

Disinvolta e tranquilla, si tolse i guanti e il cappello, e si andò a sedere sul seggiolone preparato per lei davanti a una tavola. Questa era coperta con una incerata, e la stanza aveva un aspetto decentissimo.

Il seggiolone era veramente un po' vecchio, ma tanto più soffice e comodo: vi si stava benissimo; Enrichetta pensava già ai bei pomeriggi che vi avrebbe passato, lavorando colle sue allieve.

Sulla tavola c'era l'occorrente per scrivere, e un pacco di registri. Enrichetta l'apri, soddisfatta. Non si sarebbe mai più aspettata una scuola così bella, in quel piccolo paese; non sapeva ancora che Pianbasso era un Comune ricco, come moltissimi nel Mezzogiorno; che c'era una scuola elementare maschile, buonissima, e una femminile di tre classi.

A lei era destinata la terza, con novecento lire annue di stipendio.

Una gran somma per una donna sola, in un luogo ove si spende pochissimo per i bisogni della vita.

Enrichetta stava ora chiamando a una a una le ragazzine, per chiedere loro tutte le indicazioni necessarie. Faceva le domande con gran cura, esigendo risposte esplicite e chiare; voleva saper bene con chi avrebbe da fare, e pensava che, innanzi tutto, le conveniva di apprendere il maggior numero di particolari possibile intorno alle trenta famiglie. Le ragazze dicevano tutto ingenuamente, pensando che la maestra scrivesse ogni cosa sul registro, e lei le ricompensava con uno dei suoi facili sorrisi, per cui esse ritornavano al posto felici.

Fra le altre era uscita dal suo banco una bruna bellissima, di dodici anni, vestita con garbo signorile, che si avanzò con aria diffidente, fissando in viso alla maestra i suoi magnifici occhi neri. Meravigliata, Enrichetta le chiese il nome e seppe che la fanciulla era Isabella Mariani, figliuola del conte Francesco, il più ricco proprietario del paese, vedovo da due anni con quell'unica figlia.

Enrichetta ne aveva inteso parlare spesso e si stupi vedendo la signorina nella scuola comunale; ma Isabella le disse che era quella la prima volta che andava a scuola, essendo stata quasi sempre a Napoli, dove aveva studiato molto irregolarmente ora in casa, ora in collegio. Ma in collegio non ci voleva più stare, e studiare in casa l'annoiava, perciò aveva pregato suo padre di mandarla a scuola in Pianbasso; almeno avrebbe avuto delle amiche.

Da tutto questo discorso, fatto senza alcuna soggezione, Enrichetta non durò fatica a capire che quella scolara le darebbe certo molto da fare.

Pure la sua bellezza e quella stessa aria fiera piacquero ad Enrichetta, che provò compassione di lei, così ricca e giovane e senza madre. Ella la guardò con tenerezza, cercando di guadagnarsene il euore, che avrebbe voluto coltivare con tanta cura; ma la fanciulla le rispose con uno sguardo altero, senza mostrarsi punto lusingata dell'interessamento speciale che la maestra le dimostrava.

Enrichetta stette un po' a guardarla pensierosa. In quella bocca di bimba sprezzante, in quegli occhi superbi ella lesse un orgoglio indomabile, una repulsione forse, un'inimicizia che nasceva nel giovane cuore e che forse ella non potrebbe mai vincere.

— Strana creatura! — pensò.

E mentre la ragazza tornava al suo posto, Enrichetta, riempiendo la casella destinata al suo nome, si sentì turbata e stizzita di quell'umiliante alterezza.

Poi seguitò la rassegna della scolaresca.

C'erano di quelle che formavano l'aristocrazia della scuola; c'erano figliuole di proprietari non ancora inciviliti, vestite goffamente, con colori vivaci e stridenti, con grossi orecchini e spille d'oro attaccate ad una fettuccia di velluto intorno al collo.

I genitori le mandavano ancora a scuola, benchè avessero tutte più di dieci anni; è vero che lo scopo principale non era già lo studio, quanto la speranza che le fanciulle imparassero i lavori semminili, tutti quei pizzi e ricami che insegnavano le monache a San Filippo, dove le avrebbero forse mandate più volontieri se non fosse stato così lontano.

C'erano anche figlie di semplici contadini, che, trovando la loro prole dotata d'intelligenza rara, volevano far loro continuare gli studi nella scuola normale di Bari per farne delle maestre. Ma intanto le ragazze andavano ancora vestite con ampie sottane di grosso cotone, filato, tessuto e tinto in casa, e portavano il capo coperto da grandi fazzoletti di cotone o di seta, vagheggiando appena in un sogno lontano l'epoca in cui avrebbero potuto portare il velo o magari il cappellino.

Nell'insieme era una scuola molto decente; nessuna stracciona, nessuna miserabile. Queste non arrivavano a far la terza, perchè i genitori le mandavano in campagna dagli otto anni in su, senza curarsi dell'istruzione obbligatoria, che avrebbe privata la famiglia di sei soldi al giorno, giusto quel che fa un chilo di pane.

Poi quelle faccine erano tutte, o quasi, vivaci ed intelligenti, ed avevano in generale un contegno rispettoso, parendo loro che la maestra, specialmente una così elegante e così bella, fosse un'autorità assoluta, degna di ogni devozione.

Enrichetta non avrebbe potuto essere più fortunata.

Chiuse il registro con cuor leggero, e, per quella mattina, licenziò le sue scolare, invitandole a ritornare il domani, giorno in cui le lezioni dovevano avere principio.

Già le fanciulle si disponevano ad uscire, ed Enrichetta aveva preso in mano il suo cappellino, quando l'uscio si schiuse ed entrarono quattro signori.

Le ragazze, che li conoscevano, si affrettarono a ritornare a posto; la maestra si fece loro incontro arrossendo lievemente.

Anch'essa ne aveva riconosciuto uno, il più vecchio; era il sindaco, don Pietro Scannelli, il padre di Lucia; Enrichetta l'aveva veduto parecchie volte a Bari, in casa della cognata, donna Carmelina.

Era un buonissimo uomo, don Pietro; pinttosto ignorante ed alquanto presuntuoso: del resto, un'ottima pasta. Egli le presentò gli altri.

Uno era il signor Marsi, sopraintendente scolastico, un uomo di forse quarant'anni, assai bonario e amante della sua pace e de' suoi comodi.

Per lui, un piatto di maccheroni al sugo di ragù era tutto ciò che un galantuomo può desiderare, e non capiva perchè si dovesse forzare il popolo ad imparare a leggere.

L'altro era un prete alto e scarno, con occhi vivissimi, don Marco Pizzarelli, il delegato scolastico.

Il quarto visitatore infine era un giovane sui trent'anni; alto, ma già un po' curvo, pallido e bruno. Tanto bruno che pareva nero, tutto nero, con alcunchè di tragico e di triste nella persona.

Con ciò un sorriso freddo che ghiacciava, ed uno sguardo acuto, che pareva penetrare sotto le carni, tagliente come un coltello.

Era il maestro della quarta classe maschile, don Nicola Piovino, che era nelle grazie delle autorità del paese, e faceva un pochino da direttore.

Enrichetta e lui si guardarono. Ella presenti un nemico, le parve che il cuore le si stringesse improvvisamente e cessasse di battere.

Il sindaco, il sopraintendente, il delegato… eh! che le facevano quelli?

Le era bastato guardarli, ella li sapeva già soggiogati dalla sua bellezza; li vedeva lì con facce ingrullite, e gli occhi del delegato scintillavano; ma lui, quell'nomo… Dio! come era ironico il suo sguardo, come pungente ogni sua parola. Ella si sentiva ora impacciata dalla sua stessa bellezza, ed avrebbe voluto, in quel momento, essere ben umile, ben brutta, purchè egli non l'avesse schiacciata col suo beffardo sorriso.

La famiglia presso alla quale Enrichetta era alloggiata era di poveri contadini, ben fortunati di cedere una delle loro tre stanze per quindici lire al mese.

Tutta la casa, del resto, si componeva di quelle tre stanze, una sopra all'altra, communicanti fra di loro per mezzo di una scala di legno, che finiva in una botola od in un'apertura orizzontale, la quale chiudeva per mezzo di un'imposta di legno. Quella casa era l'ultimo resto della fortuna di quella gente, che una volta era stata fra i ricchi proprietari del paese, e che ora, per colpa del capo di casa, si trovava addirittura in miseria.

Enrichetta veva trovato un po' caro, per Pianbasso, quindici lire al mese. Ma la gente era onesta e servizievole; avrebbe fatto tutto per contentare la signora maestra; tutto, anche la cucina, se ella avesse voluto, col colo aumento della spesa del carbone, una cosa da nulla.

Mi raccomando per la pulizia — diceva Enrichetta, dando intorno occhiate sospettose.

Per la pulizia! che diceva mai la signora! vedrebbe, vedrebbe: le terrebbero la pentola a parte, solo per lei.

Questi preliminari furono fissati nella stanza a pian terreno; una grande stanzaccia sporca e buia, dove c'erano il focolare e due ampi letti.

Una vecchia scarna e gialla, coi capelli grigi tutti arruffati, gesticolava vivamente parlando colla signorina; due marmocchi pallidi e poco puliti la tenevano per il grembiale, ed una giovinetta di forse quindici anni, bruttissima, col viso pieno di bitorzoli rossi ed i capelli color ruggine, guardava con occhi spalancati per lo stupore la bella signora, tenendo le lunghe braccia penzoloni sui fianchi.

Dietro Enrichetta c'erano due altre donne così strane, che la giovane, col pretesto di rivolgere loro la parola, si volgeva tutti i momenti per vederle meglio.

Erano gobbe tutte e due, e piccole da parere due nane.

Una, quella che superava di forse due dita in altezza l'altra, era bionda, con un visetto appuntito da faina, e due occhietti grigi vivacissimi.

Essa era la madre dei due marmocchi e della brutta giovinetta.

Suo marito, antico carabiniere, l'aveva sposata per i suoi danari e poi l'aveva ridotta alla miseria. Non avevano più nulla; la casa stessa dove abitavano era della madre, della vecchia gialla, che era costretta a sopportare il genero, se voleva ricoverare le due figlie ed i nipoti.

Presentemente il carabiniere non era in casa; lavorava in campagna a giornata, presso il conte Mariani, un signore, diceva la gobba, ricco come il mare.

L'altra gobbetta, Maria Luigia, non rassomigliava a sua sorella che nella deformità. Del resto aveva un'aria malata, una ciera triste, due occhietti neri spenti e sonnacchiosi, ed un grosso volume di capelli neri che ella aveva annodato con negligenza dietro il capo.

Enrichetta era disgustata e triste. Dio mio, che compagnia, che casa! Era dunque lì che doveva vivere?

Ma le bisognava adattarsi, ed ella incominciò a salire con precauzione la ripida scala di legno che conduceva al secondo piauo.

Anche lì una stanza sola, meno buia però della prima, benchè ugualmente sporca. Enrichetta non si fermò e scorse appena, in una rapida occhiata, un letto amplissimo ed una culla, contro la quale urtò passando.

— Avete ancora un bambino? — chiese la giovane spaventata.

La gobba Teresa, che era stata la più lesta a tener dietro alla signorina, fu prouta a rispondere.

— Nossignora, non è mio, è un bambino che ho a balia dacchè l'ultimo mio è morto, è un trovatello.

Enrichetta, che stava già per montare sull'altro braccio di scala, tornò indietro a quelle parole e si appressò alla culla.

Sotto un informe ammasso di stracci dormiva un bambino.

Che pallore! che magrezza! La giovane ne provò un vivo senso di ribrezzo, e ritirò la mano che aveva steso per cercare quella del piccino.

— E voi lo tenete per carità? — domandò a Teresa.

— O nossignora! capirete, non si potrebbe mica; ci dànno sei lire al mese.

— Chi?

— Il Municipio.

Arrivarono al piano superiore. Quella era la stanza destinata alla maestra. Presentava un aspetto misero, ma pulito.

Il letto nel fondo era coperto d'una bella coltre bianca, che Enrichetta aveva portato con sè; anche la federa ed il copripiedi erano vecchie conoscenze per la fanciulla, che si rallegrò nel rivederli. Nell'angolo presso la finestra c'era un'ampia tavola lucida e pulita, ricoperta per una metà di libri e di carte; sul cassettone, un mobile antichissimo, erano disposte alcune tazze ed un piccolo orologio a pendolo; lo stesso che aveva camminato per tanti anni nella camera dello zio Jorselli; c'era una cassa, di quelle grandi ove le donne campagnuole ripongono la biancheria, ed il baule e le scatole e la valigia colle robe di Enrichetta; inoltre c'erano tre sedie di paglia, la catinella dell'acqua, e dalle pareti imbiancate di fresco pendevano poche imagini che Enrichetta non guardò.

La camera era chiara, essendo al piano superiore; la luce entrava da un balcone sporgente sulla via; là c'erano quattro o cinque vasi dove crescevano rigogliose piante di prezzemolo e di basilico.

Dirimpetto c'era la chiesa; si vedevano stormi di rondini svolazzare attorno il campanile.

Enrichetta stette un momento a guardarle.

Forse però non le vedeva nemmeno, le nere viaggiatrici dell'aria, che volavano schiamazzando ai loro nidi, per trovarvi il riposo della sera. I suoi sguardi si perdevano nel cielo azzurro, in fondo, in fondo, chi sa come lontano! O pensava ella che fra pochi giorni le rondinelle sarebbero partite, libere, signore degli spazi, mentre lei sarebbe rimasta là, forse per sempre?

Certo è che quando Enrichetta si volse, il suo viso era insolitamente grave, e gli occhi azzurri avevano un'intensità di espressione così profonda, che Maria Luigia, la triste gobbetta, la fissò meravigliata coi suoi occhi sonnacchiosi, come se le fosse apparsa una visione.

Enrichetta rientrò e chiuse la finestra. Desiderava rimaner sola e dichiarò che non aveva bisogno di nulla; quando le occorresse, avrebbe chiamato.

Per non annoiarsi, allora, si dispose a cenare.

Stese una salvietta sullo spazio libero della grande tavola, e tirò fuori da un piccolo stipo a muro un bel pane bianco e sodo, una bottiglietta di vino bianco, un pezzo di formaggio, un piatto di pomidoro acconciati ad insalata e due magnifiche pesche gialle, di quelle che laggiù chiamano percocche.

Queste erano un regalo dei Murgillo.

Enrichetta, venendo a prendere possesso del suo alloggio, ne aveva trovato un canestro pieno, ed un bottiglione di vino bianco del paese.

Distratta, ella si pose a mangiare.

Il suo pasto era ben misero: oh! un buon pranzo da quanto tempo non lo faceva più! In casa Murgillo mangiavano male per far troppa economia; da suo zio, invece, la vecchia Annarella sapeva fare delle cosette squisite.

Qualche volta erano venuti a pranzo degli amici del giudice; egli non era mai stato avaro e gli era sempre piaciuto mangiar bene, e, quando era possibile, in compagnia. Così si erano fatti dei pranzetti veramente buoni, e allora Enrichetta non aveva avuto altra cura che di aiutare a mangiarli, senza darsi nessun pensiero della preparazione.

Ora invece la sua insalata se l'era preparata lei, e le sue bianche manine s'erano tinte del sugo di pomidoro. Ma preferiva ancora il suo pasto frugale e solitario a quelli fatti nell'antipatica compagnia dei Murgillo; si sentiva ora libera, padrona di sè, benchè la penetrasse un vago souso di apprensione per il futuro.

Sarebbero durati sempre, per tutta la vita, quello stato di calma, senza gravi pensieri, quella dolce monotonia, quel benessere leggermente egoistico, che nascono nell'anima costretta a passar sola, senza affanni e senza gioie sulla terra? E quando sarebbe vecchia e non potrebbe più fare scuola?

Aveva fatto il conto che dovrebbe lavorare fino ai sessaut'anni, continuatamente, per avere una pensione sufficiente a vivere; potrebbe durarla tanto tempo? Altri quarant'anni? E se la congedassero prima?

E pensava che le era necessario fare una stretta economia per mettere da parte qualche cosa, per ogni eventualità; ed a quel pensiero spezzava bocconi più piccoli di pane e le andava via l'appetito.

Non pensava a maritarsi. Non le pareva di avere inclinazione per il matrimonio; del resto, a che pro? Sposare un zoticone del paese, che non saprebbe leggere nè scrivere, e passare la sua vita a fargli dei figliuoli e ad allattarli? Sarebbe stata ben sciocca; no, no; piuttosto sola, sempre sola, e libera così di cuore e di mente.

La miseria e la vita volgare, presso un individuo non amato ed al tutto diverso da lei, la spaventavano ugualmente.

Mentre, pensando, si decideva a mettere i suoi bei dentini nella polpa gialla e succosa di una pesca, udi un alterco, sotto, nella stanza de' suoi padroni di casa.

Si distingueva la voce stizzosa della vecchia, e un momento dopo quella violenta e rozza di un uomo. Poi sorgeva la vocina acuta della gobba Teresa, e, un tono più sotto, quella asmatica, fatta ora tremante, di Maria Luigia. Il bambino piccolo urlava, e Lucietta camminava in fretta su e giù, scotendolo, procurando di acquetarlo.

La porta della botola era chiusa, perciò Enrichetta poteva appena afferrare di tanto in tanto una parola; pure giunse fino a lei la voce dell'nomo, più forte, più violenta di prima.

— Vi dico che li ho perduti, i venti soldi, sangue di…! Li avevo messi nella scarpa e li ho perduti; mi saranno andati fuori.

Ma la vecchia si ribellava a quella menzogna sfacciata; non voleva udire, gridava anche lei, mentre la vocina acuta di Teresa scongiurava i due:

— Non importa, insomma, non importa; vi dico che non importa! Darò un pezzo di pane ai ragazzi; non disturbate la signora gridando così; diavolo! la prima volta che è in casa!

Enrichetta non udì per un momento che un lieve bisbiglio, poi subito la vecchia diede un grido di indignazione:

— Le quindici lire! domandargliele subito il primo giorno. Ah! ma tu perdi la testa, birbante! Vuoi dunque disgustarla e che se ne vada?

L'uomo bestemmiò più forte.

— Perdio! dal momento che è in casa mia, paghi!

— Casa tua, galeotto! Ma è casa mia, capisci, mia fin che vivo, e quando mnoio non sarà tua nemmeno, no; ti giuro che non sarà tua!

Certo la vecchia aveva fatto atto di avventarsi all'uomo, perchè si udì come il rumore d'una lotta, come di chi trattiene uno che si dibatte.

— Lasciatemi sputare in faccia a quel ladro infame!

— Eh! lasciatela che venga la strega! Ho i pugni forti, sangue di…

Si udiva Teresa spingerlo via, pregando.

— Va, va; se ti dico di andar via, che non importa!

— Si, vado, ma ritorno, eh! voglio mangiar anch'io!

Fu di nuovo silenzio; solo la vecchia, di quando in quando, imprecava a quel ladro, e la gobba Maria Luigia si lamentava dolorosamente:

— Ah Signore Gesù!… ah Vergine Santissima Addolorata!

Enrichetta allora si alzò, tirò un cassetto: lì dentro, già preparate in una carta, erano le quindici lire che aveva destinato di dare nella giornata a Teresa e che poi aveva dimenticato.

Andò alla botola, sollevò la tavola con qualche stento e chiamò:

— Teresa!

La gobbetta salì la scala lesta come un gatto.

— Tenete, questo è per il primo mese, senza il carbone. Scusate che non mi sono ricordata prima.

— Oh che dite, Vergine benedetta! o come siete buona, signora! Oh perdonate, se avete inteso qualche cosa! È quel brigante di mio marito!

Quella prima notte Enrichetta on dormì tranquilla.

Dei sogni la turbarono, strani, a volta paurosi, a volta splendidi.

A un punto sentì un gemito straziante di bambino. Aprì gli occhi.

Un gemito veniva davvero da qualche luogo profondo, lontano, e lei aveva gli occhi spalancati, era certa di non sognare, e fu presa da un terrore indicibile, sicchè si rizzò a sedere mentre un freddo sudore le colava lungo la schiena.

Allora distinse chiaramente un pianto infantile che veniva dalla stanza inferiore. Doveva essere il piccolo che piangeva; difatti poco dopo la voce burbera dell'ex-carabiniere si alzò bestemmiando, e la vocina infantile si mise a strillare più forte.

Enrichetta si tornò a ficcare sotto, annoiata.

Sarebbe una bella storia, quella, se non dovevano nemmeno lasciarla dormire in pace. I bambini piccoli non erano la sua simpatia, specie quello lì, così malandato e giallo. Ella li trovava ben noiosi col loro piagnisteo, e le pareva che non avrebbe mai avuto pazienza con essi. La notte, poi, non voleva essere disturbata; era decisa, il domani, di dirlo.

Si riaddormentò, non udendo più il pianto della povera creatura; ma non dormì quieta; questa volta fece sogni splendidi; luminosi fantasmi sorsero per lei dalle tenebre.

E si svegliò ancora in sussulto.

Ma cos'aveva mai ella quella notte che non poteva dormire? Ella non sognava quasi mai, dormendo, per il solito, d'un sonno da bimba, profondo e tranquillo; era dunque stregato quel letto?

Le tornarono in mente alcune superstizioni della vecchia Annarella e si mise a ridere, pensandoci. La vecchia le aveva detto una volta che i sogni fatti la prima notte in un letto dove non si aveva mai dormito, erano veri presagi, e che bisognava prestarci fede.

— Se fosse qui me li farei dunque spiegare, mi sembrano buoni — disse fra sè riaddormentandosi.

Stavolta dormì davvero fino alle sette della mattina, e venne a svegliarla il sole, che le s' era posato caldo sul viso.

Si vesti in fretta, poi andò ad aprire la botola e guardò in fondo alla scala. Nella camera dei padroni di casa tutti dovevano essere già svegli da un pezzo. Si udiva il rumore di gente che si moveva e parlava.

Enrichetta si chinò a chiamare:

— Comare Teresa!

Lucietta e sua madre si precipitarono verso la scala, chiedendo alla signora maestra se avesse ben dormito, se desiderasse qualche cosa.

Ella chiese dell'acqua fresca, benchè non ne avesse bisogno, e stette lì ferma al sommo della scala, come aspettando.

Quando venne l'acqua, Enrichetta scese parecchi gradini per prenderla, ne bevette un sorso e rimase lì a guardare curiosamente quel luogo e quelle persone. Un altro pensiero la infastidiva.

Ella aveva portato da Bari una macchinetta a spirito per farsi il caffè, ma s'era guastata, non sapeva come, nel trasporto. Ora non sapeva come fare; ella non poteva stare senza caffè.

Le donne la rassicurarono. Giovannino Zoppo, che aveva la bottega lì sull'angolo, faceva dell'ottimo caffè; si poteva ordinarlo, l'avrebbe portato subito. Ella acconsentì e domandò il prezzo.

— Un soldo alla tazza, signora!

Ella ne fu stupita. Come, solo un soldo! ma sarebbe cicoria! Pure si rassegnò e disse a Lucietta di ordinarne quattro tazze; voleva che le donne, per quella prima volta, lo prendessero con lei.

Esse si schermirono debolmente, felici di quella fortuna insperata, e Maria Luigia pregò allora la signora di scendere.

Enrichetta scese e si sedette su una logora sedia vicino al balcone, prendendo anche lei la sua parte del sole d'ottobre, ancor coldo, che entrava a fiotti a inondare la stanza.

C' erano i due marmocchi di Teresa, mezzo vestiti, vicino al grande letto matrimoniale disfatto, che lasciava scorgere i nudi cavalletti che lo sostenevano.

La vecchia culla, che pareva colma di cenci, era al solito posto, e dentro vi dormiva il solito bimbo pallido e magro.

Enrichetta si ricordò della notte passata.

— L'ho sentito piangere stanotte — disse a Teresa.

La donna si scusò, confusa; il bambino era un po' malato, e perciò qualche volta piangeva: ma quella sera gli avrebbe dato lei un rimedio per farlo dormire.

Enrichetta sorrise all'idea che la gobba sapesse dei rimedi, senza pensare che essi consistevano semplicemente in sugo di papavero, del quale abusano veramente le nutrici meridionali, quando i loro marmocchi non sono ben tranquilli.

Intanto portarono il caffè. Una poltiglia densa che aveva un leggero sapore di ferro, preso dalla latta della caffettiera.

Enrichetta lo assaggiò appena, nanseata, e diede la sua porzione ai due monelli, che la bevettero con diffidenza, non sapendo che fosse.

In quel momento il bambino si mise a strillare, torcendosi nella culla come un piccolo serpe. Teresa si affrettò a prenderlo, e sedutasi sopra una panchettina, gli porse il seno.

— Non è brutto quel bambino — disse la giovane guardandolo — solo è molto magro. Che male ha?

— Oh, signora, chi lo sa?… credo che siano dolori di ventre… Angiolino… Angiolino…

E cercava di fargli riprendere il seno, che il bimbo aveva lasciato per strillare a suo agio.

— O povero tesoro… o povero piccino…

Quando Angiolino si calmò, Teresa riprese a dire:

— Sua madre gli porta delle medicine. Lo ha fatto pure visitare dal medico, ma sì! questi bambini così è difficile che si tirino su bene; hanno proprio il sangue cattivo.

— Non se ne conoscono i genitori? — chiese Enrichetta che non aveva ascoltato.

— La madre sì: è una giovane contadina. Non ha mai voluto dire a nessuno di chi fosse il bambino. E sì che suo padre, la buon'anima di Ciccio Patata, se l' è messa sotto i piedi, quand'era incinta, perchè confessasse. Capite, se si fosse conosciuto il padre, si sarebbe potuto ricavar qualche cosa. Il figlio di mastro Andrea, che aveva sedotto la Mariangela, ha dato duecento lire; è un bell' aiuto, capite, per una famiglia. Invece questa qui non l' ha mai detto. Dei nomi se ne fanno, ma non si sa nulla di certo; forse è stato più d'uno e non lo sa neppur lei.

La gobba sghignazzò, dicendo questo, e Lucietta, che era li presente a bocca aperta, rise anche lei.

Ma la povera Maria Luigia scosse il suo grosso capo con aria di compassione.

— No, no, Teresa, non è così, lo sai bene che non può essere. Carolina è stata sempre una ragazza onesta. No, no; so ben io… eh, so ben io…

La sua voce si estinse mormorando; ma Enrichetta al nome di Carolina aveva provato un sussulto; la sua voce era rauca quando chiese:

— Come si chiama quella donna?

— Carolina, la figlia di mastro Ciccio, quello che si è rotto la spina dorsale cadendo da un olivo. Una buona ragazza, signora, lavoratrice come ce ne son poche; va sempre in campagna; adesso lavora dai Murgillo.

Enrichetta guardò la gobba, mentre una cupa vampa di rossore le saliva al volto. Si compresero; gli occhi semispenti luccicarono, come a dirle: sì sì, avete indovinato.

La giovane scostò alquanto la sedia dal sole, e si mise all'ombra dicendo:

— Fa troppo caldo.

Poi, spinta da un'acre curiosità, chiese:

— È bella?

— Si, è bella — risposero tutte insieme. Maria Luigia però aggiunse:

— Ma è pallida, pallida. A voi non piacerà di sicuro, e vicino a voi non è niente bella, anzi; oh, non vi somiglia, no! è bruna… ha un viso giallo… oh, non ha certo i vostri bei colori!

Enrichetta sorrise a quella che non era un'adulazione, e Lucietta diceva:

— Viene qui tutti i giorni a vedere il bambino. Gli porta sempre qualche cosa. Vedete, ieri gli ha portato questa bella cuffietta.

Ma Enrichetta domandò con accento di collera:

— Perchè non se lo ha tenuto lei? Perchè darlo via, così?

— Oh signora! e lavorare? Carolina non ha che sua mamma; è una donna terribile la comare Antonia. La ragazza deve lavorare, se vuol mangiare; sua mamma non vuol saperne di tenerle il figlio, e a portarselo dietro in campagna è troppo piccolo. Eppoi non ha quasi avuto latte; era troppo giovane e troppo delicata.

— Quanti anni può avere?

— Non li ha i venti, sicuro; la vostra età, signora maestra.

Enrichetta non domandò altro, e guardò fisso il bambino, che s'era addormentato al seno floscio della gobba. Un vago turbamento la prendeva; una grande pietà per quel meschinello.

Non dubitò un momento di avere sotto gli occhi il figlio di Luigi Murgillo. Un sentimento di sprezzo le gonfiava il cuore per quel vile che aveva potuto abbandonar così la sua creatura. Pensò, a un tratto, che se sua madre non si fosse sacrificata per lei, anche lei, piccina e meschina così, sarebbe stata in mano di una nutrice straniera, e avrebbe penato anche lei a succhiare invano così un seno smunto, e sarebbe morta di stento, come un piccolo cane affamato.

Intanto l'ora passava; quel giorno, che era un giovedì, aveva promesso a Marietta Murgillo di andarla a trovare; pure, impigrita da quel dolce calore e dal chiacchierare prolungato, non avrebbe più voluto muoversi.

Le venne in mente un'altra cosa.

— Stanotte, ben tardi, è passata una carrozza. Fece tanto rumore che mi svegliai.

— Ah, si! — disse Teresa — era quella del conte. Egli viaggia spesso, è quasi sempre a Napoli; poi torna, va a Bari, si ferma la giornata, e la notte, improvvisamente, viene a Pianbasso. Ah, quello sì che è felice!

E disse delle ricchezze del conte, delle feste che dava quando viveva la felice memoria della contessa. Una signora così bella! ma che lo faceva tirar dritto però, perchè al signor conte, eh! piaceva divertirsi. Si diceva anzi che la povera signora fosse morta di gelosia, perchè aveva scoperto che il marito manteneva una ballerina. Era certo che anche ora, con quella ragazza in casa, era sempre fuori, e Dio sa dove andava.

Ma di nuovo Maria Luigia intervenne, rimproverando la sorella.

— Non è tutto vero quel che dicono, non bisogna credere ogni cosa. Certo il conte vive a modo suo, ma è buono, anche lui; è proprio buono, signora maestra.

Tornando la sera da casa Murgillo, Enrichetta vide nella camera di mezzo che doveva attraversare per recarsi alla sua, una giovane donna, seduta, col piccolo Angiolino in grembo.

Capi subito che doveva essere la madre, e la prese una viva curiosità di conoscerla. Le due gobbe la chiamarono, e lei si avvicinò subito, ma col viso freddo e serio, senza poter abbozzare un sorriso.

Nella camera era quasi buio e non avevano ancora acceso un lume; la donna aveva alzato il viso e guardava la signora; nella semioscurità il suo viso pallido aveva una tinta diafana, e gli occhi, ampi, nerissimi, spiccavano in quel pallore.

C'era in quel bel viso un' espressione divinamente serena, e negli occhi una dolcezza misteriosa e profonda, che entrò nell'anima di Enrichetta turbandola stranamente.

No, che non era più bella, lei; lo sentiva, e non ne provava amarezza; stava lì a guardarla muta e sconvolta, mentre la giovane, dopo aver salutato umilmente la signora, si chinava di nuovo sul suo bambino con commovente atto materno.

— Voi siete la madre? — balbettò Enrichetta per dire qualche cosa.

— Si, signora.

La sua voce era tanto dolce e il modo di parlare così semplice e modesto.

Lucietta accese un lume, le due donne poterono vedersi meglio. Ciascuna trovava l'altra meravigliosamente bella, e la povera Carolina, molto imbarazzata, si dava da fare col suo bambino, non sapendo che dire, non osando quasi parlare.

La bella signorina l'abbagliava, ne provava una gran suggezione; si sentiva così meschina davanti a lei!

E, dacchè i begli occhi neri non la guardavano più, entrò nel cuore a Enrichetta un'acuta, subitanea gelosia. I suoi occhi scrutatori cercavano nella giovane madre qualche cosa di imperfetto, di meno bello, e la correvano tutta, con ammirazione invidiosa; non trovava nulla; l'unico difetto in quella bellezza era il pallore troppo intenso del volto, che il sole stesso non era riuscito ad abbronzare; e, sotto le vesti poverissime, Enrichetta indovinò un corpo esile e scarno, un petto da bimba, e braccia così delicate e sottili che pareva si potessero spezzare.

Allora ne ebbe di nuovo pietà e il suo viso si raddolcì in una espressione di affetto. Stese una mano e accarezzò il bimbo, non parendole egli più tanto brutto, trovando che somigliava molto a sua madre.

— Povero piccino!

Carolina rialzò i suoi belli e dolci occhi in viso alla pietosa, con uno slancio di simpatia. Enrichetta le sorrise; da quel momento furono amiche, la bionda spiritosa signorina, e la bruna figlia dei campi, così timida e ignorante.

— Oh come è buona! che Dio la benedica!

Nicola Piovino, il maestro della quarta classe, era andato già più volte a trovare Enrichetta nella scuola.

Ella s'era prestata gentilmente a quelle visite sempre corrette e giustificate dal gran da fare che davano i registri, le inscrizioni, gli esami d'ammissione; tutte cose di cui la giovane non era molto pratica e che il maestro invece conosceva assai bene.

Spesso egli era mandato dal sindaco o dal soprainbendente allo scopo di giudicare l'abilità della nuova maestra; Enrichetta lo indovinò subito e capì che dipendeva da lui il darle fama oppure di farla passare per una sciocca; le premeva dunque averselo amico e sentiva che non era cosa facile con un uomo come il Piovino.

Aveva già dal primo giorno rivolto verso di lui una sagace e moderata batteria di graziosi sorrisi, di parole gentili, di quegli sguardi profondi che i suoi meravigliosi occhi azzurri sapevano lanciare con arte finita; si faceva civetta, insomma, sperando di conquistare colui come gli altri, e tuttavia le pareva di riuscirvi poco; sentiva vagamente che non avrebbe potuto mai padroneggiare quell'uomo.

Pure egli pareva arrendersi a quella dolce bellezza.

Il suo sguardo tagliente riposava con compiacenza su quel viso d' una freschezza e d' una delicatezza verginale, le parlava senza quella ironia che l'aveva colpita tanto la prima volta, diveniva per lei assiduo e gentile… e lei mormorava ancora tra sè scoraggiata:

— Non lo tengo, non lo terrò mai!

Qualche volta la prendeva un timore diverso, ma non meno grave.

Se ella davvero riuscisse a vincerlo, a innamorarlo di lei, non sarebbe ancora più pericoloso? In quel caso si sarebbe egli contentato di un sorriso, di una buona parola qualche volta, senza chiedere di più?

Sarebbe stata pazzia sperare una simile acquiescenza da parte di un uomo che si indovinava avere uno scopo pratico nella vita. Non temeva ella già che colui tentasse sedurla. Era troppo prudente e geloso della sua fama per tentare una cosa che lo avrebbe compromesso inutilmente; ma forse allora avrebbe voluto sposarla.

Quell'idea la gelava; era ben certa che non avrebbe mai ceduto, oh mai! ma sapeva pure ch'egli non avrebbe mai perdonato un simile affronto, e quell'idea la sgomentava.

Intanto quell'armeggio, quella finzione continua, la esasperavano, stancandola. Qualche volta, improvvisamente, cambiava modi con lui; le usciva di bocca una parola meno gentile, oppure i suoi sguardi divenivano freddi e ostili; egli pareva non avvedersene; la trattava come prima, garbatamente; andava via sorridente, tornava un altro giorno, sempre pronto a renderle servizio, sempre calmo e gentile.

Qualche volta ancora le veniva il pensiero che egli forse fingeva per guadagnarsi la sua amicizia e così nuocerle meglio; difatti sarebbe egli sempre così uguale e tranquillo se l'amasse, o se fosse anche solo turbato per lei?

Questo era il cruccio più grave per Enrichetta; del resto non poteva dirsi malcontenta; in paese le volevano tutti bene, e la sua scuola procedeva benissimo.

Le sue alunne le erano interamente devote; come si sentiva ella padrona di quelle giovani anime!

Una sola le era ribelle, indifferente ad ogni rimprovero come ad ogni parola affettuosa, tacitamente ma ostinatamente ostile; e la giovane maestra si irritava sentendosi impotente a vincere contro tanta antipatia

Decisamente Isabella Mariani non amava la maestra; non avvezza a fingere, trovava inutile essere gentile con lei, e perciò rispondeva ai rimproveri, non obbediva, le perdeva fino il rispetto.

Enrichetta, non sapendo più che fare, aveva mandato un bigliettino al conte, lagnandosi della figliuola, e, benchè lo avesse fatto in termini moderatissimi, immaginava che il conte se ne terrebbe offeso. Forse non avrebbe più mandata la figlia a scuola, ma ciò non le sarebbe rincresciuto affatto; che doveva farsene di quella ragazza maleducata?

Con sua somma meraviglia, il domani mattina venne il conte in persona ad accompagnare Isabella a scuola ed a parlare colla maestra.

Era ancora presto, ed i banchi erano vuoti. La maestra, confusa, andò incontro al signore, non sapendo ancora che dire ed in che senso prendere quella visita, ma le bastò gettare uno sguardo sulla fanciulla per capire ch'ella era umiliata e che aveva pianto.

La giovane maestra prese allora un'aria seria ed affettuosa insieme.

Spiegò al conte come il principale difetto della fanciulla fosse un orgoglio indomabile, per cui appariva spesso sgarbata e poco rispettosa; ella faceva il suo dovere avvisandone il padre, giacchè si era affidata a lei la bambina.

A quella parola Isabella scattò, alzando le spalle, divenendo di fuoco in viso.

— Io non sono una bambina! io non voglio più venire a scuola!

Il conte Francesco diede alla figliuola un'occhiata fulminante.

— Tu tacerai — le disse, e la sua voce vibrava di una risoluzione tanto ferma, che la fanciulla tacque davvero, spaventata.

Allora il conte spiegò sottovoce alla maestra che la figliuola era stata male educata. Sua madre, poverina, l'aveva viziata molto; e, dopo morta lei, egli aveva tentato invane d'imporle un'istitutrice o di chiuderla in un collegio.

Pregava perciò la maestra di aver pazienza anche lei; Isabella non era proprio cattiva; egli era certo che avrebbe finito coll'affezionarlesi.

Il signore, alto e magro, si era chinato sul tavolo di Enrichetta insieme a lei; parlava pianissimo perchè nè la figliuola, nè le altre ragazze che entravano, udissero quel che egli diceva; e stando così insieme, i loro due volti si toccavano quasi, e, un momento, i biondi riccioli della giovane sfiorarono la fronte alta, un po' calva di lui.

Ella arrossì vivamente, ritirando la testa; egli allora la guardò profondamente negli occhi, con una certa meraviglia nel trovarla così giovane e bella. Anche a lei parve ancora un bell'uomo, il conte; alto, con una persona slanciata e distinta, mostrava appena quarant'anni, ma i mustacchi e la barba erano leggermente brizzolati, ed i capelli già diradati molto alle tempia.

Rimasero tutti e due un po' impacciati, non trovavano più nulla a dire, e lui, finalmente, si congedò raccomandando ancora alla figliuola di farsi più buona e tranquilla.

Per tutto quel giorno Enrichetta pensò al conte. Lo trovava perfetto gentiluomo, ancora molto piacevole, benchè avesse un'aria stanca e paresse già un po' logoro dalla vita. E poi, così ricco! Con un nome tanto illustre!

Quelle considerazioni la fecero più indulgente per Isabella; bisognava ben perdonare qualche cosa ad una fanciulla di quella condizione.

Ma la sera Enrichetta ebbe un dispiacere che non si aspettava.

Donna Rosina, appena la vide, le domandò se era vera la visita del conte.

Enrichetta affermò, meravigliata che ella lo sapesse già, e più ancora del modo con cui la domanda era stata fatta.

Allora donna Rosina dichiarò che era suo dovere metterla in guardia. Enrichetta conosceva bene il suo cuore, sapeva quanto lei, donna Rosina, l'amasse. Benchè non avesse trovato che ingratitudine nella vita, ella voleva fare il bene ogni volta che poteva. Insomma, voleva dire che il conte non aveva fama d'un sant'uomo; doveva averlo saputo la sua povera moglie, che era stata tanto amica sua; credesse a lei, Enrichetta, lo tenesse lontano; facilmente il paese avrebbe parlato.

Ma stavolta Enrichetta, si ribellò, indignata. Era la prima volta che il conte era venuto, e solo per chiedere notizie della figliuola; che poteva dire il paese?

Donna Rosina aveva alzato gli occhi al cielo in atto di rassegnazione. Non si meravigliava, no, dei modi di Enrichetta; era avvezza a veder misconosciute le sue buone intenzioni; fino allora non aveva mai trovato un'amicizia vera; tutti prendevano in mal senso le sue ammonizioni, i suoi avvertimenti. Le spiaceva, ad ogni modo, per Enrichetta. Non le aveva mai detto nulla, fino allora; la prima volta che parlava, ecco…

Enrichetta, frenandosi a stento, domandò se c'era ancora qualche cosa che si dicesse di lei.

— Oh nulla! nulla!… Che volete si dica? Nulla.

— Donna Rosina, se mi volete bene, parlate!

— Parlare? No, no, che m'importa infine? Chi non vuol sentire, peggio per lui!…

— Ma, donna Rosina! non mi tenete sulle spine. Che altro si dice?

— Che altro, che altro, nulla, vi dico. Certo che se io vi avvertissi che quelle visite troppo frequenti del maestro Piovino non convengono ad una ragazza sola, vi offendereste; oh! io non me ne meraviglierei certo!

Enrichetta avrebbe pianto, se un certo intimo orgoglio non l'avesse trattenuta. Era dunque così maligno il mondo? Riguardo al conte non volle arrendersi; non c'era nulla e non ci sarebbe mai nulla; ma non era del tutto tranquilla riguardo a Piovino. Sì, davvero era stata alquanto imprudente; lui era giovane e solo, lei pure; trovava naturale che si parlasse di loro.

Ma infine che fare? Come doveva regolarsi? Se ella lo congedava o gli si mostrava anche solo fredda, ecco fatto di lui un nemico. E un nemico pericoloso, lo sentiva bene, e lei non aveva nessuno che potesse prendere le sue parti.

A casa ella pianse davvero, sentendosi proprio infelice, così debole e sola, esposta alle dicerie del mondo. Che doveva mai fare? Che doveva mai fare?

Non fu capace di prendere alcuna decisione, e il domani, che Piovino andò a scuola a trovarla, ella fu per lui come al solito, anzi un po' più timida e impacciata per ciò che le aveva detto donna Rosina.

Così la loro relazione continuò, ma in seguito lui stesso diradò le sue visite, come se avesse compreso di rendere con ciò un servigio alla giovane maestra. Ella glie ne fu immensamente grata, e provò per lui un sentimento improvviso di simpatia, e per la prima volta se lo sentì amico, degno di fiducia e di confidenza.

D'allora il rivedersi fu quasi dolce per loro. Si stringevano la mano con effusione; ella, in abbandono quasi infantile, lo guardava a lungo, gli sorrideva. E senza secondi fini, in un'espansione sincera che lo commoveva qualche volta e addolciva i suoi sentimenti e le sue parole.

Intanto Enrichetta aveva riveduto anche il conte Francesco due o tre volte, ma da lontano, mentre lui, a cavallo, trottava sulla via di Bari. Egli si era tolto il cappello, salutandola, e lei aveva arrossito; come doveva essere felice lui, così sicuro, così fiero e diritto mentre gli altri s'inchinavano davanti a lui, in un umile saluto, come ai tempi in cui i suoi avi erano i signori del paese!

Poi un giorno il conte ritornò alla scuola a parlare colla maestra.

Aveva un favore da chiederle.

L'educazione di Isabella, così trascurata fino allora, prendeva ora uno sviluppo meraviglioso. Egli era così contento, e come non esserlo? dei progressi di sua figlia; mai ella aveva imparato tanto e così bene; insomma il conte non aveva parole sufficienti ad elogiare l'opera intelligente ed efficace della maestra. Ora voleva chiederle un piacere immenso.

Isabella a Napoli aveva imparato poco e male il francese; il conte sapeva che la signorina Borlieux lo parlava a perfezione; non vorrebbe ella prendersi la pena di dare lezioni ad Isabella? Egli gliela avrebbe mandata a casa sua tre o quattro volte la settimana.

Enrichetta, lusingata da questa proposta, accettò, senza più ricordare gli avvertimenti di donna Rosina; e da quel giorno Isabella si recò spesso a casa sua, accompagnata dal servitore, a prendere la lezione.

Del resto donna Rosina non trovò a ridire; era un fatto naturalissimo, quello; purchè il conte non ripetesse le visite, non c'era niente di male.

Il conte non le ripetè, ed alla fine del mese si contentò di mandare ad Enrichetta cento lire, con un biglietto gentilissimo di ringraziamento.

Ed allora si tenne cinquanta lire e rimandò il resto, scrivendo al conte che quella somma era più che sufficiente a compensare la sua opera.

Il conte non si fece più vivo, e quasi sempre era fuori di Pianbasso. Però di quando in quando giungeva in casa della maestra qualche paniere di frutta scelte, o dolci, o qualche piatto fino; ella accettava, non trovandoci assolutamente nulla di male; quasi tutte le famiglie che avevano le figliuole da lei, la regalavano; perchè non avrebbe accettato dal conte?

Quando venne la primavera, ebbe sempre la casa piena di fiori. Non chiedeva nemmeno più chi li avesse mandati. Era felice in quei profumi, si adagiava in quella vita tranquilla e comoda. Non era forse fortunata? Tutto le arrideva; ogni giorno passava dolcemente monotono, arrecandole le stesse gioie calme dell'ieri; non desiderava più nulla, e le pareva che qualunque cambiamento le avrebbe recato sventura.

Della sua fortuna godevano pure tutti coloro che la circondavano. La famiglia che l'ospitava prendeva le briciole della sua tavola, spesso abbondanti. Nessuno aveva più fame in quella casa.

I bimbi si rimpinzavano di cose buone; il piccino di Carolina veniva curato specialmente; Enrichetta voleva che egli avesse brodo tutti i giorni, ed il piccolo scheletro s'era arrotondato un pochino ed era meno giallo e sparuto. La sua culla non era più un ammasso di cenci; Enrichetta sgridava la comare Teresa quando non lo teneva pulito; e tutta la casa, da cima a fondo, aveva un altro aspetto, ora; pareva ci fosse più luce là dentro e gli abitanti avevano una ciera allegra.

Nemmeno l'ex-carabiniere non gridava più, non beveva, non altercava colla suocera, e questa ora trovava il tempo di darsi olio ai capelli e di pettinarseli, sicchè non erano più tanto arruffati.

Un giorno Enrichetta, tornando da scuola, udì Maria Luigia, colla sua voce asmatica, cantare.

La giovane passò sorridendo, e la gobba le mormorò dietro:

— Sia benedetta! Quando vedo lei, vedo un raggio di sole.

Pioveva forte, la mattina era grigia e cupa.

Enrichetta, seduta dinanzi al piccolo specchio verdastro che pendeva dalla parete, tantava invano di dare una piega graziosa ai suoi capelli, che l'umido rendeva tesi e untuosi. Essi ricadevano lunghi e diritti sulla bianca fronte che si corrugava di dispetto.

Quel tempo rendeva nervosa Enrichetta. S'era destata con idee tristi e nere come il cielo, e tutto la infastidiva, le rendeva la vita insopportabile: si sentiva estremamente infelice e le pareva di essere malata. Le erano capitate anche mille piccole sventure quella mattina, e niente pareva volesse riuscirle.

S'erano staccati due bottoni al suo vestito e aveva dovuto riattaccarli, poi Lucietta le aveva rovesciato il catino pieno d'acqua in mezzo alla camera, facendovi un guazzo, un'umidità uggiosa che non si poteva più scacciare.

Lei stessa era malaccorta quella mattina. Rovesciò la boccetta dello spirito, e fu costretta a farsi il caffè sopra il fuoco del braciere che le avevano portato in camera; poi si dimenticò della cocoma piena d'acqua che bolliva e non ne trovò più che mezza tazza, di cui dovette accontentarsi perchè era già tardi e non avrebbe più avuto tempo di farne bollire dell'altra. Mancavano pochi minuti all'ora di scuola; di solito ciò importava poco ad Enrichetta; essa non temeva di arrivare un po' in ritardo, sapendo che nessuno avrebbe pensato a farle la spia.

Quel giorno, invece, il pensiero del ritardo l'angustiava.

Sperava solo che il suo orologio corresse troppo, o che il bidello, incaricato di suonare la campana, sbagliasse l'ora; cosa che gli era avvenuta qualche volta.

Ma in quel momento, Lucietta, che non aveva più osato ricomparire dopo il suo malestro, gridò dal fondo della scala:

— Donna Enrichetta, la campana della scuola!

Enrichetta, che non l'aveva udita, causa il rumoreggiare della pioggia, si affrettò ad infilarsi il vestito, il mantello ed il cappuccio; presto l'ombrello, i guanti e il manicotto, e giù per l'oscura scaletta.

Attraversò in fretta la stanza di mezzo, senza guardarsi attorno, ma si fermò ancora un momento, udendo la voce di Carolina che la salutava.

— Buon giorno, signora Enrichetta!

— Buon giorno Carolina; non andate in campagna?

— O signora, no, con questa pioggia! Eppoi, Angiolino è malato.

— Oh? che cos'ha?

— Ah, signora! sempre i soliti dolori di ventre!

— È venuto don Leopoldo a vederlo?

— No, signora, spero che verrà stamattina.

— Ebbene addio, ora ho molta fretta; speriamo che starà meglio.

E via di nuovo.

Un prete passò rapido vicino a lei. Enrichetta lo riconobbe; era il delegato scolastico, don Marco, che andava a dir messa alla cappella delle monache. Certo, anche lui l'aveva vista, ed ella era in ritardo!

Continuò a correre, attraversò la piazza, non c'era anima viva, ma dietro i vetri della farmacia si vedeva la faccia maligna di Zana-Zana, il farmacista, che le fece un inchino quando lei passò.

Ma ella non rispose, irritata ancor più, e corse a scuola, dove entrò pallida, tutta bagnata e stanca, come dopo una notte insonne.

Anche le alunne erano pochissime. Le più avevano temuto il cattivo tempo.

Enrichetta quella mattina non aveva voglia di far lezione; così, col pretesto che ci si vedeva poco, fece lavorare le allieve; e lei portò una sedia vicino alla finestra, e stette ad ascoltare i sommessi chiaccherii, guardando fuori il cielo grigio e le nuvole malinconiche.

Col sole spariva dunque ogni allegrezza della natura? O quanta malinconia le metteva nel cuore quell'uggiosa giornata!

Verso le dieci però si levò un vento fresco, di maestrale, e la forte pioggia cessò quasi del tutto; solo un minuto acquoso polverio si scioglieva dalle nubi, ma il vento lo disperse e restò nel cielo uno strato grigiastro, tenue così che, sotto, s'indovinava il sereno.

Quell'inoperoso fantasticare, in mezzo alle liete fanciulle che la circondavano, aveva calmato l'irritazione della giovane maestra, ma le aveva messo nel cuore una tristezza più grave, una dolcezza malinconica, una indulgenza stanca, che la rendevano debole come una bimba, desiderosa di pace, di amicizia o di protezione.

Mai si era sentita così sola. Quando suonò la campana del mezzogiorno e le ragazze dissero la preghiera, colla solita aria distratta, pensando al piatto di minestra che le aspettava, Enrichetta pensò mestamente che ciascuna di loro aveva una famiglia, una casa; ella invece non aveva nessuno, il suo pasto scorrerebbe silenzioso, non diviso con persone care; mai, come allora, ci aveva pensato.

In quella, la porta della scuola si apri e comparve il maestro Piovino, che non s'era più fatto vedere da molti giorni.

Ella diede un'esclamazione di gioia. Non era egli un amico? Le parve che la vista di un essere qualunque, che fosse venuto a lei in quel momento, le avrebbe fatto piacere; certo egli veniva a dirle qualche cosa che l'avrebbe distratta un pochino; egli aveva sulle labbra un sorriso tanto grazioso e il suo sguardo era tanto confidente e amichevole!

Anche lui, certo, la trovò diversa dalle altre volte, come soffusa di una gentilezza nuova, e sostò meravigliato, non osando credere alla sua buona ventura.

Ma ella gli aveva già steso incontro le sue due mani, in uno slancio pieno di grazioso abbandono, e con umiltà melanconica e dolce:

— Oh! — disse — come siete gentile di essere venuto! È tanto tempo che non vi vedo!

Poi congedò le allieve, senza vedere il sorriso sardonico sulle labbra di Isabella Mariani, e aggiunse per lui:

— Ora mi vesto e usciamo. Lei mi accompagna fino a casa, non è vero?

Egli la guardava, imbarazzato da quell'insolita affabilità. Voleva ella tendergli un tranello? Bah! che importava, dopo tutto? Egli era ben venuto coll'intenzione medesima: starebbe in guardia, ecco.

Ella intanto, con vezzosa imprudenza, forse inconsciamente civetta, gli offrì a tenere il mantello perchè l'aiutasse a infilarlo; e lui, che non aveva mai usato tanta gentilezza a una donna, sentendo le sue mani sfiorare quel bianco collo e pesarvi sopra, per un momento, le morbide trecce d'oro, fremette, e un barbaglio improvviso gli oscurò la vista.

Ma ella stessa a quel contatto sussultò, comprendendo di essere stata imprudente. Che stava mai facendo? Come poteva dimenticarsi così? appunto quando era tranquilla riguardo a quell'uomo, che voleva amico, ma di cui avrebbe tremato come amante, ecco che lei stessa rovinava l'opera sua, e stava per perdere il frutto della lunga arte usata per tanti mesi.

Si rifece seria e fredda, ma non potè togliere del tutto dal suo viso la languida espressione; gli stessi suoi nervi, affaticati dal fantasticare della mattina, non si prestarono ad un richiamo improvviso dell'orgoglio; e lei tornò a piacersi in quella nuova mollezza; vi si adagiò, trovandovi qualche cosa di dolce che la solleticava con l'acuta curiosità dell'ignoto.

Ella uscì per la prima e attese nel portone che egli serrasse l'uscio.

Piovino la raggiunse subito, e si misero a camminare verso la casa di lei, uno a fianco dell'altra.

Per le strade non c'era quasi nessuno.

Egli, rallentando a volte il proprio passo, seguiva collo sguardo turbato i piedini di lei, che ora si rizzavano sulle punte, ora si fermavano irresoluti sui talloni, sbucando fuori dai lembi rialzati delle sottane, che la mano della giovane stringeva in un fascio.

Quei pizzi bianchi che pendevano di sotto alla veste nera gli davano una strana commozione; le parole gli bruciavano le labbra, e non osava profferirle.

Pure era venuto con una ferma decisione, e d'altronde sentiva che la vittoria di oggi era effimera, che bisognava assicurarsela con un atto di risoluzione.

Stavano per arrivare: Enrichetta aveva già imboccata la stretta via dove ella abitava. Ella si strinse tutta contro l'alto muro della chiesa, come a chiedergli protezione contro il vento, e si mise a camminare presto, in una subita smania di arrivare.

Allora egli fece uno sforzo; ma si sentì impallidire, e con voce soffocata chiamò:

— Signora Enrichetta!

Ella si fermò, lo guardò e comprese che il momento era giunto.

Un gran terrore improvviso l'assalse. Guardò intorno smarrita, quasi cercando aiuto; la strada era deserta, doveva proprio ascoltarlo.

E tutto il suo coraggio l'aveva lasciata. S'era fatta pallida anche lei, non trovò la forza di rispondere parola.

Allora l'uomo prese animo.

— Signorina, è veramente strano il parlarle qui, in mezzo alla via, di una cosa simile; ma io sarò breve, e ci sarà tempo di completare poi il discorso. È da un pezzo, signorina… sì, è da un pezzo che volevo dirle ciò che lei ha certamente già indovinato. Io… l'amo; vuol divenire mia moglie?

Al suono chiaro di quelle parole, Enrichetta trasalì. Fino a quel momento una vaga speranza di ingannarsi l'aveva sostenuta. Ora invece era detta; bisognava rispondere.

E dalla sua risposta, lo sentiva, dipendeva la sua tranquillità. O averlo per nemico, o per marito. L'imminenza del pericolo le ridiede un momentaneo coraggio.

Si drizzò superba, come offesa, e lo guardò, mettendo tutto il suo orgoglio in quello sguardo.

Ma lui, che la vedeva esitare, che sentiva sfuggirsi la preda, tanto tempo agognata, s'era mutato pure; il suo sguardo s'era rifatto tagliente e duro, e lampi di collera vi nascevano, minacciosi. Anche il desiderio, eccitato in lui quella mattina, si dipingeva sulla sua faccia livida, tingendola di macchie rossastre, e le dava una terribile espressione di audacia.

Ella si scostò involontariamente, spaventata, sentendosi oramai presa e vinta, senza forza per reagire e salvarsi da quell'uomo.

Egli intanto le aveva presa una mano, e ripeteva fremendo:

— Ditemi dunque che mi amate… che sarete mia…

Ella svincolò la mano, presa dalla paura di esser veduta in quel colloquio da qualcuno, e balbettò smarrita:

— Datemi tempo… come posso rispondere qui… così in fretta?…

Ma lui, non soddisfatto, insisteva:

— Una sola parola… ditemi sì, poi penseremo con comodo ad aggiustare ogni cosa; avete tutto il tempo…

Ella s'irritò, allora, in un'ultima ribellione:

— Ma non così, non posso adesso… Siate ragionevole… non dico di no, ma datemi tempo.

Una donna passava per la via, con una giarra d'acqua sulla spalla.

— Vedete, la gente ci guarda. Andate ora; ci rivedremo; vi prego!

Egli si arrese, ma domandò ancora:

— Quando mi darete la risposta?

— Dio mio… non so… presto…

— Domani?

— O Dio! no, domani no, mercoledì.

— È lungo, ma sia pure, mercoledi alle dodici, a scuola.

E se ne andò, finalmente, mentre lei corrrendo, entrava in casa, pallida, angosciata.

Era fatta, ormai. Ella direbbe no, e lui si vendicherebbe. Un terrore superstizioso l'aveva invasa; che le farebbe mai quell'uomo per farle scontare il suo rifiuto? E rabbrividiva pensando alla collera di lui che doveva essere fredda e implacabile come il suo sguardo. Era finita, finita; non avrebbe più pace.

E tutto il giorno pensò a quello che aveva da fare, preparando ciò che gli avrebbe detto, quale scusa avrebbe adottata per convincerlo, senza che si offendesse. E non trovava nulla, nulla; ogni, frase aveva lo stesso significato: non vi voglio.

La sera andò dai Murgillo; le era venuto il pensiero di confidarsi a donna Rosina, ma quando fu lì non osò parlare; temeva che potessero consigliarla a dir sì; e si congedò presto, volendo trovarsi sola, nella sua camera, per riflettere ancora, nella speranza di trovare finalmente le parole che cercava.

Nel portone, buio, di casa Murgillo due persone erano ferme a parlare.

Enrichetta le urtò, passando; le riconobbe in quell'oscurità.

Erano Luigi Murgillo e Carolina.

Allora lei affrettò il passo, parendole la strada ancora tanto lunga e lei sentendosi già affranta di fatica.

Quando fu nella sua camera si gettò a sedere, spossata, e stette un pezzo così, cogli occhi dilatati nel buio, a seguire nelle tenebre i fantasmi della sua mente. A un tratto si rizzò risoluta e mormorò:

— Dopo tutto è la cosa migliore. Dirò si.

Marietta Murgillo, seduta davanti al suo painforte, suonava un'aria malinconica.

La tristezza del tempo, che già da molti giorni si manteneva piovoso, influiva sui suoi nervi malati e la rendeva ancora più triste del solito.

Mentre le sue mani, un po' lunghe, molto scarne, di una bianchezza di cera, tormentavano i tasti, il pensiero di lei, inquieto, correva ad afferrare strani fantasmi, sogni penosi, cure tormentose, che rendevano così tristi i suoi occhi, e così raro il suo sorriso. Nel paese molti pensavano che la pallida e seria giovinetta si sarebbe fatta monaca; ella non pareva fatta per le gioie del mondo, e c'era alcunchè di mistico in tutta la sua persona, un abbandono e una stanchezza dolce, che parevano farle cercare la pace e il riposo nelle abnegazioni religiose e nell'infinito desiderio di Dio.

Quel giorno Marietta aspettava la maestra.

Enrichetta le aveva promesso di andarla a trovare dopo la scuola, pure l'orologio del salotto segnava già le quattro e dieci minuti, e lei non veniva ancora.

Il pensiero che forse non sarebbe venuta affatto dava pena a Marietta.

Le due giovani erano diventate amiche, benchè fossero tanto diverse una dall'altra, e quando c'era Enrichetta la sua malinconica compagna si animava, ciarlava, sorrideva; somigliava insomma a tutte le altre giovanette della sua età, con gioia immensa di donna Rosina.

Quel giorno dunque Enrichetta non veniva, e Marietta si vedeva condannata a una serata triste fra suo padre e sua madre, passata filando al lume giallo della lucerna a olio; mentre suo padre avrebbe parlato delle annate cattive e dell'umido che nuoceva ai mandorli, e sua madre avrebbe gemuto sull'ingratitudine umana.

Anche Marietta in quel momento era propensa a pensare che il mondo era proprio tutto ingrato.

Forse che quella bella Enrichetta, coi suoi riccioli biondi, coi suoi grandi occhi azzurri, che cangiavano espressione a ogni momento, era sinceramente affezionata? Eh! sua madre l'aveva messa in guardia da un pezzo; no, non doveva fidarsi troppo; quella giovane sapeva ammaliare così bene! e gli uomini come dovevano trovarla bella e come facilmente amarla!

In quel momento Marietta udi alcuni passi nel corridoio.

Fu in piedi con un balzo di gioia e corse incontro all'aspettata. Ma alla porta del salotto gettò un grido e rinculò vivamente; era stata per gettarsi fra le braccia di Giulio Balbi, che entrava.

Il Balbi veniva qualche volta dai Murgillo; don Giuseppe voleva che Rocco si impiegasse a Bari, e perciò aveva pregato Giulio di venirgli a dare qualche lezione di lingua e di contabilità, cosa che riuscì assai poco gradita al giovane; non gli piaceva fare il maestro e tanto meno a uno zoticone come Rocco Murgillo. Tuttavia aveva accettato.

Anche lui si confuse un po' al vedere Marietta, e si scusò con lei.

Era salito solo, perchè non aveva trovato Rocco alla farmacia; l'uscio sul pianerottolo era aperto; nel corridoio non c'era nessuno, perciò era venuto avanti.

Ella, tremando in una commozione nuova, potè a stento spiegargli che Rocco e sua madre erano a Bari dalla mattina; sarebbero certo ritornati a momenti. E nel dir ciò desiderava ardentemente che egli se n'andasse; così la schiacciava la certezza di fare una ridicola figura davanti a lui, colla sua aria impacciata, coi suoi balbettamenti confusi.

Egli pure sembrava imbarazzato. Guardava attorno per il salotto come se avesse cercato qualcheduno, e rimaneva lì con aria imbronciata, come per una disillusione inaspettata; sentiva che sarebbe stato conveniente di andarsene, e tuttavia…

Una voce allegra risuonò dietro ai due imbarazzati, una voce così, un pochino ironica, e la faccia ridente di Enrichetta apparve alle spalle del giovane, che si volse vivamente.

La maestra aveva l'aspetto di una persona che sia stata lungamente ferma sotto la pioggia; cioè i suoi capelli biondi erano stillanti, e il suo cappuccio e il mantello e l'ombrello, tutto era bagnato; anche il bel viso roseo, che sorrideva così maliziosamente sotto al cappuccio, pareva essersi tuffato in un fresco umidore.

Giulio Balbi e Marietta erano rimasti a guardarla meravigliati.

Ella, che se n'accorse, rise, sbarazzandosi dell'ombrello, del cappuccio e del soprabito, che appese a un gancio nel corridoio.

— Sono ben conciata, eh? Imaginatevi che ho fatto la strada dalla scuola sin qui con quel povero diavolo di mastro Ciccio, sapete, il calderaio. Ha una sciatica, credo, e non poteva camminare; intanto si è accompagnato con me e voleva notizie di sua figlia, che è a scuola da me. E io mi son bagnata a questo modo.

Giulio fu felice di poter parlare.

— Ma se avevate l'ombrello, donna Enrichetta.

— Eh sì! c'è il vento; un maestrale forte, che rovescia gli ombrelli.

— Se c'è maestrale, non pioverà più.

— Già, è probabile. Ma, carina, che idea ha avuto la mamma di andar a Bari con questo tempo? Non è mica tornata, eh?

— No — rispose Marietta con voce appena sensibile.

Era la prima parola che diceva. Ella guardava Giulio Balbi, che a sua volta teneva fisso sulla giovane maestra uno sguardo pieno di ammirazione e di desiderio.

Ma Enrichetta non pareva accorgersene. Ora, che si era tolta il mantello, apparve in un vestito grigio guernito di mazzi di nastri neri, sottili; ne aveva uno sulla spalla, vicino al collo, che le toccava il mazzo dei capelli scendente sui pizzi neri dell'abito.

Marietta vide che Giulio guardava fisso quei nastri, quei pizzi e quei capelli d'un oro carico, e a un tratto li trovò brutti, quei capelli così diversi dai suoi: no, non capiva proprio come si poteva trovarli belli; ma se erano rossi addirittura!

Nessuno più parlava. Se Giulio Balbi aveva sperato di poter sedersi su quel canapè che pareva invitarlo, per godere della conversazione delle due fanciulle, fu disingannato subito. Enrichetta rimase in piedi, pronta al saluto di congedo, e gli parve di leggere negli occhi di lei una meraviglia crescente di quella scena muta; certo il meglio era di andarsene, e si decise finalmente, giusto quando Enrichetta domandava alla sua amica con un tono di voce significante:

— Non c'è papà?

Giulio si affrettò a salutare le signorine; chiese scusa del disturbo, lasciò a Marietta una commissione per Rocco e se n'andò, accompagnato cerimoniosamente per tre o quattro passi da Enrichetta.

Ma subito ella fu di ritorno nel salotto, e trovò Marietta seduta di nuovo al pianoforte, colle mani di cera stese sui tasti in cerca di suoni malinconici. Ma le mani tremavano leggermente, e quando Enrichetta guardò il viso della suonatrice, quel viso pal'ido e chiuso, vi lesse, per la prima volta, la passione disperata che vi covava.

Per un momento stette muta, confusa da questa scoperta.

Quel freddo marmo nascondeva dunque del fuoco?

Prese una sedia e si sedette vicino a Marietta, che non aveva rialzato il viso.

— Il giovane Balbi non è più a Napoli, dunque?

— Si è laureato quest'anno.

Marietta pareva rispondere a malincuore: nella sua voce tremavano lagrime.

— Che fa egli a Pianbasso? — insistè Enrichetta.

— Non so — mormorò l'altra, ma poi aggiunse:

— Andrà a far pratica d'avvocato a Bari o a Napoli la prossima primavera.

— Eh, — disse Enrichetta tentando scherzare, — allora sarà presto; se siamo già in marzo!

Marietta non rispose a suonò più forte; ma la maestra, che voleva farla parlare, disse allora con indifferenza:

— È un bel giovane.

— Si? — pareva che Marietta ne dubitasse, ma un vivo rossore le aveva coperto il viso e si passò le mani sulla fronte come a scacciarne i capelli. Enrichetta continuò:

— Ma sicuro, no ci avete badato? È alto; quanto può avere? Un ventisei anni?

— Non so.

— L'avevo già veduto un paio di volte in casa Balbi, ma così alla sfuggita: non gli ho mai parlato.

Pareva che Marietta volesse domandare qualche cosa, aperse la bocca, ma poi non disse nulla e continuò a tormentare il pianoforte.

— Suonatemi dunque il valzer Dolores, Marietta.

Le dolci note vibrarono sotto le bianche dita; quei suoni parevano calmare Marietta, i suoi lineamenti si distendevano perdendo la dura e ostile espressione di prima.

Ad un tratto il pianoforte diede un gemito, le mani lasciarono i tasti e corsero a coprire il viso; lunghi sighiozzi scossero il corpo della suonatrice, che si era abbbandonata sulla sedia con atto di immenso dolore.

— Mio Dio, Marietta! — gridò Enrichetta spaventata da quella crisi.

L'aveva abbracciata, la teneva stretta col braccio sinistro, mentre il destro si affaticava a staccare dal volto piangente le magre manine.

Ma la piangente si ribellava, balbettava fra le lagrime:

— Lasciatemi stare! lasciatemi stare!

Pure Enrichetta la costrinse ad alzarsi e a mettersi sul canapè, vicino a lei; ma non fece altro per calmarla e la lasciò piangere finchè, passata la prima agitazione, la fanciulla si rifece calma e non singhiozzò più, benchè tenesse ancora il viso nascosto fra le mani.

Allora Enrichetta la interrogò e la trovò abbastanza docile e pronta a rispondere. Trovò inutile domandarle la confessione del suo amore per Giulio Balbi; era quello un fatto troppo evidente, ma si interessò al racconto di Marietta sull'origine di quell'amore e sulle speranze che aveva concepito.

La giovinetta aveva conosciuto l' avvocatino già il carnevale dell'anno prima, in una di quelle riunioni famigliari dove generalmente si ballava. Egli le aveva mostrato della preferenza, l'aveva scelta parecchie volte al ballo; non s' era dichiarato proprio apertamente, ma… Marietta non avrebbe potuto dire su quali fatti aveva fondato le sue convinzioni di essere riamata.

S'erano riveduti quest'anno; egli le era sembrato veramente più freddo, pure, una sera che si era ballato in casa di don Vincenzo Mariusa, ella aveva di nuovo avuto la certezza dell'amore di lui; avevano ballato insieme Dolores; egli le aveva parlato quasi teneramente, e lei allora aveva creduto…

— Povera Marietta! ma non vedo in tutto ciò una ragione per piangere, anzi…

— Ah! ma adesso egli non è più così; egli non si cura più di me!…

— Come potete dirlo? Oggi però egli era qui…

— Anch'io al primo vederlo ho sperato… Invece… no no; non è venuto per me.

— E per chi dunque? per me?

Enrichetta aveva pensato che era meglio affrontare così la questione principale, e lo fece con una gaia risata.

Marietta, stupita, la guardò. Negli occhi azzurri della giovane non un'ombra di dissimulazione; era dunque sincera?…

E anche lei preferi parlare, animata da un nuovo coraggio che le veniva dal suo amore.

— Non so se egli venisse per voi, benchè potrebbe anche essere. È certo che vi guardava come non ha mai guardata me, sicuro.

Le gelose parole suonavano aspre, suo malgrado; in quel momento parve a Enrichetta che la fanciulla somigliasse stranamente a sua madre, colla maligna espressione negli occhi e intorno alla bocca.

Pure la prendeva pietà di quella giovinetta, e non voleva guastarle l'unica felicità ch'ella sperasse; non voleva avere rimorsi, benchè non si sentisse colpevole.

— Cara, cara Marietta! Che il signor Balbi mi abbia guardata, eh! chi lo nega? e mi ha guardata anzi in un modo ch'io me ne sarei offesa, se non avessi avuto voglia di ridere. Ah, Dio! rido ancora se penso che comica faccia egli mostrava. Povero giovane! pensare che giusto sul più bello, quando stava per fare una patetica dichiarazione, dopo aver colto il momento propizio, capito io… e gli guasto le uova nel paniere! Ah! davvero, scrisate se rido, ma non posso davvero farne a meno.

Ella rideva davvero, e con tanto gusto che la pallida faccia di Marietta si illuminò pure di un sorriso.

Enrichetta, felice di averla scossa, volle convincerla del tutto.

Forse se il giovine Balbi avesse voluto farle la corte, a lei, avrebbe avuto bisogno di cercarla in casa d'altri? Quando ella andava così spesso in casa sua a trovare la vecchia madre, donna Anna Maria? Invece non ve l'aveva trovato che una volta o due, e lui se n'era andato subito, e non aveva mai fatto nulla per incontrarvela. Non era ciò chiaro?

La povera Enrichetta mentiva coraggiosamente per un'opera buona.

Ella s'era accorta più di una volta delle occhiate appassionate che il giovane le lanciava. Certo egli cercava solo un'occasione propizia per spiegarsi. Ma Enrichetta lo aveva trovato leggero; anzi non le piaceva punto e non aveva mai pensato di incoraggiarlo. Una sera, che in casa Balbi egli si era trovato vicino a lei, ella avea ben veduto che aveva in mano una lettera e voleva dargliela; la sua manovra non gli riusci però, e ottenne anzi l'effetto opposto di fare che la maestra rendesse le sue visite sempre più rare e più brevi.

Ma poteva ella dire tutto ciò a Marietta?

Finirono col ridere tutte e due, e, mentre la sera cadeva, le due giovani teste, la bionda e la bruna, si tenevano ben vicine, guardandosi negli occhi, stringendosi le mani, in uno slancio di confidenza improvvisa; mai erano state così buone amiche.

Marietta era divenuta espansiva, ora che aveva fatto parte a qualcuno del suo grande segreto. Arrivò fino a trovar riservata Enrichetta; ella non voleva dunque confidarle nulla? possibile che il suo cuore fosse proprio libero? possibile che lei, così bella, non amasse?

Se non fosse stato quasi buio, la piccola indiscreta avrebbe potuto vedere cupe fiamme sul viso della sua compagna: non le vide dunque, ma si accorse che Enrichetta esitava, e allora insistè ridendo:

— Suvvia, parlate dunque, ditemi tutto; eh! ch' io l'ho indovinato da un pezzo, sapete! ditemelo dunque, voglio sentirlo da voi.

Enrichetta, che era stata sul punto di cedere, si mise in guardia a quelle parole. Che diceva mai l'imprudente ragazza? Come poteva ella sapere? E disse subito, con grande freddezza:

— Io? V'ingannate Marietta; io non ho segreti; io non amo nessuno.

— Proprio? Eh! non me la darete ad intendere; so bene che ne avete uno; almeno so che ci accorgiamo subito quando siamo amate; non è vero?

— Sono amata io?

— O certo che lo siete! Non so se egli ve lo abbia già detto, ma voi lo sapete, non è vero?

— No, non lo so — mormorò Enrichetta con voce rauca.

— Cattiva! Se non lo sapete, io non devo dirlo. Ma possibile che non lo sappiate? Allora, ditemi, non avete alcun viso che vi sia più caro degli altri? Non amate proprio nessuno?

— No.

— Oh, come lo dite!

— Ditemi ciò che sapete, Marietta, se mi siete amica.

— Allora ve lo dirò, ma non son certa di non far male. Fate vedere almeno cogli altri di non saperne nulla. Sentite. C'è un giovane, non sta a me il dirlo, ma è un bel giovane, che vi ama e vi vuole in moglie; e io… sarei ben contenta se ciò avvenisse, Enrichetta.

Stettero un momento mute tutte e due; Enrichetta stentò a dire:

— Chi è?

— Non indovinate?

— No.

Dio, come era contenta che fosse buio e l'altra non potesse vedere il suo pallore!

— Mio fratello Luigi.

Era detta. Perchè tremava così? Non lo sapeva; già dapprincipio che Marietta avrebbe pronunciato quel nome? E stette come schiacciata da quella notizia, senza voce e senza forze, istupidita.

L'altra continuò, felice di parlare:

— Me l' ha confidato lui stesso, sapete? Vi ama da un pezzo; vi trova tanto bella. Mammà pure lo sospetta, mi pare, e non sembra malcontenta; ella vi vuol bene. Tutto starà nel convincere papà; certo che non sarà difficile; egli vi ama tanto. Ah! noi tutti vi amiamo!

Come sorrideva freddamente Enrichetta! Peccato che Marietta non potesse vedere quel sorriso! È vero che lo indovinò all'udire le gelate parole di risposta della maestra.

— O quale onore per me di essere stata scelta dalla vostra famiglia! Peccato che un' offerta così graziosa venga troppo tardi. Sono quattro giorni dacchè ho promesso al maestro Piovino di essere sua moglie.

— Voi!

— Si! potete dirlo a vostro fratello.

Marietta non rispose! Era ferita nel suo orgoglio da quel tono sprezzante; rispondeva dunque così Enrichetta a tutto l'amore che le aveva dimostrato la sua famiglia? Aveva pur sempre ragione sua madre; come era ingrato il mondo!

Enrichetta intanto vedeva Carolina e il suo magro bambino; che osava mai quell'uomo? aveva ella incoraggiata la sua impudenza fino a quel punto? ah! come erano perversi gli uomini! meglio ancora Piovino che un simile ipocrita.

Giù nel portone rientrava la carrozza; il rumore delle ruote sopra il selciato ineguale scosse le due giovinette.

— È la mamma — disse Marietta — poi aggiunse in tono di preghiera: — Non una parola di ciò che sapete. Lo promettete ancora, non è vero?

Enrichetta le strinse la mano in silenzio.

Quella notte dormì proprio male. Non le veniva fatto di prendere sonno. Che tormento aver simili nervi!

La sua bella salute se ne andava dunque? E con essa il sonno profondo, tranquillo d'una volta?

Il bambino, di sotto, strillava. Ah! ella era proprio stufa. Anche se non si fosse maritata era decisa di cambiar casa; ma si sarebbe maritata; ancora meglio, dunque. E poichè non poteva dormire, si mise a pensare al suo matrimonio.

Ella aveva insistito presso al suo fidanzato perchè le nozze si facessero appena nelle vacanze del venturo nno. Voleva farsi un corredo lei; un corredo ricco da donna di casa perchè non avessero avuto bisogno subito, nei primi anni di matrimonio, di comperare biancheria.

Poi voleva metter da parte qualche soldo. Sicuro, ella era decisa di continuar a fare la maestra, ma voleva tener lei l'amministrazione dei suoi guadagni, e intendeva di risparmiare molto, per essere sempre indipendente.

Piovino aveva approvato queste idee pratiche; ammirava la saggezza di lei e si sottometteva in tutto, benchè gli rincrescesse aspettare. Anche lui aveva qualche soldo da parte; era davvero un giovane economo e morigerato; certo sarebbero andati molto d'accordo, e avrebbero avuto una casa comoda, e un pane sicuro per la vecchiaia.

Veramente ella non amava il suo futuro sposo, ma che importava ciò? Meglio anzi così; tanto ella non credeva a passioni romanzesche, era una povera ragazza lei, e doveva pensare a farsi uno stato. Quando fosse maritata non sarebbe più soggetta alla maldicenza degli scioperati del paese.

Un uomo così, corretto e senza vizi, un po' freddo e intelligente e lavoratore, era proprio quello che ci voleva per un marito.

Si, si, era sempre ben decisa; ella si maritava. Era buffa però; come erano andate le cose.

Ma quel bambino di sotto non la finirebbe dunque più? Come la infastidiva! Le era venuto in uggia; le faceva rabbia più che tutto quel vederlo sempre così smunto.

Aveva forse ragione la gobba Teresa; sangue cattivo! E come avrebbe potuto essere diversamente? Era il sangue di quel vizioso di suo padre.

Un riso amaro le venne pensando a Luigi Murgillo.

Ah! che soggetto! con un'amante, con un figliuolo, aveva osato pensare a lei! Ma lei, benchè fosse una povera ragazza, non voleva però gettarsi via così, no, neppure a costo della vita.

No, no, se anche il suo cuore, il suo pazzo cuore, avesse dovuto spezzarsi, mai avrebbe commesso una azione così bassa e codarda.

Ma qui non era proprio il caso di pensarci. Ella non lo amava. Poi con mente calma, lucida, senza sonno, si mise a pensare alle varie disposizioni che avrebbe prese per il suo matrimonio.

Spenderebbe tanto in tela, tanto in cotone, tanto per il letto…

Il resto della mobiglia, secondo l'uso del paese, doveva comperarlo lo sposo. Lei però aveva da pensare ai vestiti.

Voleva una veste di seta grigia il giorno del matrimonio; una bella veste all'ultima moda; non fiori di arancio nè abito bianco; erano spese inutili.

E chiuse finalmente gli occhi, felice di aver già pensato a tutto, e di vedere l'avvenire così sereno.

Era il giovedi santo; primavera trionfava. Il sole tiepido splendeva in un cielo tersamente azzurro; l'aria era così transparente che la bassa catena delle Murge si disegnava con un profilo puro nel fondo, e i villaggi e le città della Puglia si vedevano adagiati nella verde pianura bianchi, splendidi di luce, quasi messi a nuovo per la Pasqua vicina.

Le rondini erano tornate ai vecchi nidi del campanile, e Enrichetta poteva seguire di nuovo il loro svolazzo irrequieto attorno alla guglia, e ascoltare il loro vocìo schiamazzante.

Salute, o brune rondini: salute, o primavera! Era tornato aprile nei campi e nei cuori. Perchè sola, Enrichetta, sentiva il suo nel seno ancora così freddo, così freddo, come se l'inverno non ne fosse sloggiato?

Sul piccolo balcone della maestra c'erano ancora i vecchi vasi di prezzemolo e di basilico; anzi Lucietta aveva seminato in un coccio dei fagiuoli, che ora già si arrampicavano attorno ai ferri petulanti, desiderosi di vivere e di godere il sole.

Enrichetta avrebbe potuto avere dal giardiniere del conte Francesco quanti fiori avesse voluto; painte di rose rare, o violette, o gardenie; ma ella non ne voleva. Non aveva pazienza coi fiori, benchè amasse tanto i loro profumi e le loro tinte; si contentava del verde che le offrivano il prezzemolo e il basilico, senza neppure pensare al loro nome, e non s'era quasi accorta delle larghe foglie nuove dei fagiuoli in cui Lucietta trovava tanto piacere.

La giovinetta aveva portato vicino al balcone una sedia e s'era messa lì per godere un po' di sole e d'azàzurro; ella aveva freddo.

E stringeva insieme le mani, come se il gelo la prendesse, scossa da un lungo brivido.

Si guardava le mani; s'erano fatto ben magre in pochi mesi.

L'anello che il suo fidanzato le avea posto nel dito in febbraio, le era già troppo largo in aprile, e correva su e giù quando ella alzava o abbassava la mano.

E i bei colori del suo viso dove erano andati? Ora non aveva più bisogno di darsi la cipria per parer languida; forse sarebbe stato necessario un po' di belletto per ridare alle sue guancie la freschezza di prima.

Eppure non era mica malata, e neppure infelice; o no!

Il suo fidanzato era pieno di cure, discreto, poco esigente, gentilissimo; no, certo non poteva lagnarsi di lui, e non era pentita di avergli promesso.

Anche il paese lo lodava. Nicola Piovino era riconosciuto come un giovane serio, che farebbe carriera; era poco amato perchè troppo freddo e sostenuto; lo sapevano ambizioso e si diceva che era amico soltanto dei signori e pieno di disprezzo per i poveri; ma non si poteva dir altro di lui; era pieno di sode virtù; e mentre rendevano giustizia a lui, chiamavano lei fortunata.

Con tutto ciò Enrichetta era dimagrita, e dai suoi begli occhi azzurri era sparito quel lampo di audace fidanza, che era stato come il riflesso dei vent' anni, che le ardevano nell'anima. S'era fatta seria, benchè non triste; pareva già maritata e piena di cure.

Aveva rinunciato a ogni fantasia di giovinezza, aveva scacciato a forza dalla sua mente i sogni e le illusioni, come indegni di lei; ella era saggia e voleva ragionare, non sognare.

Dove si andrebbe, diamine, se si desse sempre ascolto ai grilli che a uno possono nascere nella testa.

Ecco, per esempio, anche quel tipo curioso di poeta, quell'avvocatino Balbi, colla sua faccia pallida di donna sentimentale, che la perseguitava da Bari colle sue dichiarazioni in versi e in prosa (i versi erano veramente bellini; Enrichetta li conosceva per questo), e, quando veniva a Pianbasso, cercava tutte le occasioni possibili per fulminarla, da vicino o da lontano, col fuoco dei suoi sguardi.

Era discreto però, tanto che in paese nessuno pareva sapere di questa passione. Nessuno… cioè no; una la sospettava sicuro.

Marietta Murgillo era divenuta più triste e taciturna che mai, non si lagnava con nessuno e, si vedeva, aveva seppellito in fondo al cuore le sue morte speranze.

Da quel giorno di pioggia in cui, dopo il morso acuto della gelosia, Marietta aveva provato il bisogno di credere e di sfogarsi, le due amiche non avevano mai più parlato di quelle cose.

Si vedevano anche un po' meno di prima.

Enrichetta badava a farsi il corredo; andava in casa Murgillo solo il giovedi e la domenica, giorni in cui il suo fidanzato andava a trovarla.

E questo era stato un delicato pensiero di donna Rosina, che non voleva che la riputazione della giovinetta avesse potuto correre il rischio di venire offuscata dalle continue visite del fidanzato, in una casa dove nessuno avrebbe potuto custodirla.

Enrichetta s'era accorta che, dopo il suo fidanzamento, donna Rosina le si era mostrata più affettuosa e gentile che mai; e la giovane maestra non tardò a capirne il perchè.

Certo, donna Rosina sapeva dell'intenzione nutrita una volta da suo figlio Luigi riguardo a lei, Enrichetta; e quell' intenzione sicuramente non doveva esserle piaciuta; perciò era riconoscente alla giovane, la colmava di carezze e diceva a tutti che era una ragazza proprio ragionevole e savia, un vero gioiello; temeva solo che un giorno fosse infelice; non per colpa di Piovino, che era un galantuomo, ma perchè i buoni sono sempre sfortunati.

Alle visite del fidanzato in casa Murgillo era sempre presente lei, donna Rosina, e non poteva saziarsi di ammirare il contegno veramente serio e decente dei due giovani. Era molto se si toccavano la mano all'arrivo e al momento dell'addio; ed erano così calmi nei discorsi, negli sguardi, negli atti, che parevano due amici di sesso uguale, non troppo intini però; preni di rispetto uno per l'altro.

Qualche volta anche don Giuseppe si fermava con loro, vedendo che non li metteva in soggezione; e li avviluppava in uno dei suoi sguardi freddi, pieno di meraviglia per il loro fare che gli pareva strano.

Che Enrichetta vedeva ben di rado era Luigi.

L'aveva incontrato un paio di volte nel portone di casa Murgillo, una volta l'aveva trovato nel salotto, ma non era corsa tra loro una parola. Si erano salutati con un piccolo inchino, guardandosi appena, lui serio e altero, lei involontariamente ironica; null'altro.

Aveva veduto invece parecchie volte la Carolina, che veniva tutti i giorni a trovare il suo bambino.

Durante l'inverno e durante le prime piovose giornate di primavera non c'era stato molto da lavorare in campagna, e la povera madre aveva così potuto permettersi il lusso di godere più del solito la vista del figliuolo.

Carolina aveva per Enrichetta una devozione illimitata.

Non doveva forse a lei se la sua creatura non pativa il freddo, e aveva brodo, uova e altre cose buone per nutrirsi? È vero che gli giovava poco, povero bimbo; era sempre così magro che si sarebbero potuto contargli le ossa.

Un giorno Enrichetta, mentre erano sole nella stanza superiore, era stata vinta da un irresistibile bisogno di sapere, e l'aveva fatta parlare.

— Perchè, Carolina, il padre del vostro bimbo non vi sposa? Sarebbe pur suo dovere di dare un nome alla creatura, a anche voi lo meritate, giacchè siete una ragazza onesta.

Carolina aveva arrossito.

— Sposarmi, signora! Ma egli è un ricco, un galantuomo, e io…

— Eh che importa ciò? A ogni modo non dovrebbe permettere che voi lavoriate così per dar pane al vostro figliuolo; dovrebbe pensarci lui.

Carolina, che teneva in braccio il suo bimbo, si chinò su di lui perchè la signora non vedesse nei suoi occhi passare un improvviso lampo di collera. Rispose però con voce tranquilla:

— L'avrebbe fatto, signora; egli mi aveva offerto di pagare un tanto al mese per il bambino, ma io non volli. Vedete, mi spiaceva essere come una di quelle… capite… come la donna di don Eustacchio o di don Gabriele, di cui tutti dicono male.

Tacque un momento e guardò ancora il suo bimbo patito, che le si era addormentato in grembo, poi riprese:

— Ho fatto male. Speravo che il mio bimbo sarebbe robusto come gli altri, e che, dopo svezzato, l'avrei potuto prendere e allevarlo a casa mia, coll'aiuto di mia madre. Invece, vedetelo com'è gracile e malato! Se lo avessi allattato io, o almeno se avessi acconsentito a pagare una nutrice che avesse più latte… perchè io so bene che Teresa non ne ha molto, egli starebbe forse bene. È ciò che mi affligge. Eppoi, veramente, anche mia madre mi ha detto che non è male accettare qualche cosa dall'amante.

Mormorò queste ultime parole pianissimo, con una certa esitazione, come se dubitasse della loro verità.

Anche Enrichetta parlò piano, come vergognosa.

— Ditemi, Carolina, come fu che…

Non osò finire, ma l'altra aveva compreso e rispose senza turbarsi:

— Ecco, io lavoravo nel suo fondo e lui veniva spesso a vedere ciò che si faceva, e se si lavorava con coscienza. È molto serio e severo in campagna; noi tutte lo temevamo, pure egli fu molto buono con me quell'estate alla mietitura; io aveva mio padre malato e lui, senza che nessuno lo sapesse, mi prestò dieci lire e non le volle mai più. Alla raccolta delle mandorle io fui chiamata con altre donne a rompere i gusci nel cortile di casa loro; andavamo la mattina alle tre ore, che era quasi oscuro, e io avevo un posto lontano dalle altre, vicino alla stalla. Una mattina, passando, egli si fermò a guardarmi; era proprio ancora notte e io mi battei le dita della mano destra col mio sasso, invece di battere la mandorla, e mi feci sangue e dovetti gridare forte, tanto fu il dolore. Egli m'invitò allora a entrare nella stalla, dove c'era un secchio d'acqua per le mule, e mi fece tenere immersa la mano, e poi me la fasciò col suo fazzoletto. Io allora gli presi la sua mano e gliela baciai, per gratitudine; ma nello stesso momento lui pure mi baciò sul collo. Mi tenne stretta lì; io non provai nemmeno a liberarmi.

E tacque, come immersa in un sogno, guardando fisso davanti a sè, lontano.

Enrichetta, colle guancie ardenti e gli occhi scintillanti, aveva ascoltato con avida curiosità quella storia; le faceva male a sentirla, le pareva che ogni parola la ferisse nel cuore, pure avrebbe voluto sapere ancora.

Se avesse osato, avrebbe rivolto a Carolina ben strane domande, invece disse solamente:

— Ebbene… e poi?

— Ah! poi… ma, non so… poi la cosa ha continuato. Io gli voleva bene, donna Enrichetta; e proprio senza interesse, sapete; non mi ha mai promesso di sposarmi. Io nemmeno ci ho mai pensato: e si capisce, eh? se anche lui volesse, non potrebbe per i suoi genitori. Ci vedevamo tutti i giorni. Spesso egli mi conduceva nella fienaia, vicino al suo fondo delle Colonne; sapete, dov'è la chiesa dell'Assunta. Altre volte in altri luoghi, dove lui voleva.

— Ah! e poi…

— Ma! rimasi madre. Non mi meravigliai, me l'aspettavo. Sono cose che accadono a tutte; glielo dissi a lui, a nemmeno lui ci badò; poi nacque il bambino, e allora lui era via, era a Gioia del Colle a cacciare, e non ne seppe niente. La levatrice lo portò al Municipio e lo consegnò come trovatello; ebbene, che volete? quella cosa mi fece dolore, eppure tutti mi dicevano che ero pazza; e mio padre non voleva assolutamente ch'io tenessi il bambino e voleva che gli dicessi il nome di lui, come se ciò avesse potuto servire a qualchecosa.

Una domanda bruciava le labbra di Enrichetta, e la fece mentre il cuore le palpitava con violenza.

— Ma voi, Carolina, lo amate?

L'altra parve meravigliata.

— O San Nicola mio che mi perdoni! sì che lo amo; è così un bel giovane, e mi faceva piacere che pensasse piuttosto a me che a un'altra, almeno per qualche tempo. E quando vidi che era stanco di me, mi rassegnai sì, ma ne provai un dolore, Madonna mia, un dolore che ne piansi tutta la notte.

— Stanco? che dite, è già stanco? come lo sapete?

— Eh signora, quelle cose lì si capiscono subito. Non lo vedo quasi più, e quando io lavoro in campagna, egli passa vicino e non mi dice più nulla. Ho sempre sperato che durasse di più.

— Non ama egli suo figlio, questo piccino?

— O Dio! credo che gliene importi poco; sa appena che esiste, non lo ha mai veduto. Però, qualche volta, mi domandava notizie; e se io gliene parlavo, non sì impazientava quasi mai. Sì, sì, per un signore è buono, molto buono; non mi ha mai maltrattata, e spesso era tanto affettuoso con me!

Da quella volta Enrichetta non chiese più nulla a Carolina; quella storia l'aveva nauseata, non voleva più sentirne parlare.

Oggi, nella viva luce pomeridiana, le tornavano però chiare quelle scene e quelle persone davanti agli occhi; ma ella sorrideva loro, e in quel sorriso uno sprezzo infinito le saliva dal fondo dell'anima; uno sprezzo nel quale ella avvolgeva il mondo tutto intero, il mondo piccino e vile.

Poi le sue mani, che durante il suo lungo fantasticare le avevano pigramente riposato in grembo, ripresero il lavoro abbandonato.

Era un mazzo di nastri neri nel quale Enrichetta mise ancora alcuni punti qua e là: lo fermò poi su di un cappello scuro, semplicissimo, che aveva la forma d'un piccolo berretto chiuso.

Quel giorno si doveva fare la visita ai sepolcri.

Enrichetta era aspettata da donna Rosina; dovevano andar tutti, insieme a donna Carmelina e a Lucia che erano venute da Bari in occasione delle feste pasquali.

Enrichetta era certa di annoiarsi in quel pellegrinaggio, pure vi si era decisa volentieri; non voleva che in paese si potessero sospettare le sue idee indifferenti in fatto di religione. Infilò il vestito; un bel vestito di lana d'un azzurro cupo, guernito con alti ricami di seta nera, che ella stessa aveva fatti. Sul davanti quei ricami si arricciavano, formando larghi sbuffi, ma nella vita erano chiusi da un'alta cintura di nastro nero, che finiva, da un lato, in un grande nodo.

Quando si ebbe messo il cappello, Enrichetta andò ad aggiustarselo davanti allo specchio, che le mostrò una figurina un po' pallida, ma adorabilmente gentile, incorniciata da vaghi riccioli morbidi.

Da quel nero lucido della seta temprato dal grave azzurro del vestito, usciva il bianco delicato del collo e del viso, in una soavità profonda, fatta più languida dalla luce misteriosa degli occhi, velati dalle lunghe ciglia scure.

Restò un momento a guardarsi, sorridendo alla sua imagine e domandandosi se tanta bellezza non valesse qualche cosa di meglio d'un Nicola Piovino; ma subito ridivenne seria, e, presi i guanti e l'ombrellino, scese la piccola scala di legno.

Nella stanza di mezzo trovò sola la gobba Maria Luigia, sonnecchiante in un raggio di sole; anche la culla era vuota.

Enrichetta domandò della ragazza Lucietta; era dabbasso, in cucina, ma salì alla voce che le diede la zia e si dichiarò pronta ad accompagnare la signorina.

Per andare in casa Murgillo, Enrichetta dovette attraversare la piazza.

C'era molta gente, specialmente donne.

Avevano i loro abiti migliori; molte erano cariche di gioielli antichi d'oro; le più ricche avevano in capo un velo nero, le altre fazzoletti di seta o di cotone a colori vivaci.

Andavano tutte a far i sepolcri, in comitive di tre o quattro, ciarlando, guardandosi attorno, criticando le conoscenze.

Si voltavano, come passava Enrichetta; una vecchia disse forte:

— È bella come la Madonna Addolorata.

Ella arrossì, mentre l'orgoglio le rinasceva in cuore.

In casa Murgillo trovò tutti pronti che l'aspettavano.

Entrando nel salotto semioscuro, cogli occhi abbarbagliati dalla luce di fuori, non vide dapprima che Marietta e Lucia che le venivano incontro. Poi scorse sul divano donna Carmelina e donna Rosina vestite di nero, con enormi cappelli in capo, e nello stesso momento, ritto presso alla finestra, vide Luigi Murgillo.

Egli fece un piccolo inchino, a cui ella rispose con un altro; ma lui potè vedere il rossore salire alla fronte di lei, che aveva in faccia la luce della finestra.

Forse lo vide anche donna Rosina, la quale osservò che Enrichetta aveva miglior ciera quel giorno; ma donna Carmelina, che non l'aveva veduta da un pezzo, la trovò dimagrata.

— Mia cara, bisogna aversi cura; non avete appetito?

Ella rispose subito con una bugia:

— Oh tanto, anzi!

— Ebbene, è strano allora che siate così magra; non è vero, Lucia, che la signora Enrichetta è più magra?

La nipote Lucia, freddina sempre, disse che le pareva, e lui, che s'era avanzato verso il gruppo, aggiunse senza ironia apparente:

— Sarà perchè è sposa.

Ella arrossì di nuovo, di stizza questa volta; cercò una parola pungente, e, non trovando nulla, arrossì ancora di più, senza rispondere.

Donna Carmelina rise con bontà: gli altri sorrisero e Enrichetta disse:

— Sono in ritardo?

Oh no, però si poteva andare. E si avviarono; le ragazze avanti, le due signore dietro, lui in coda.

Giù nel portone si divisero; Luigi salutò collettivamente le signore e signorine ed entrò nella farmacia; le donne presero la strada della chiesa cattedrale, chiacchierando.

Le tre giovanette, avanti, facevano bellissima figura. Lucia aveva un vestito nero con piccoli galloni d'oro, che sua zia le aveva fatto fare a Napoli; Marietta Murgillo ne aveva uno color nocciuola, guernito di peluche, e un cappello grande, con piume chiare.

Erano animate tutte e tre e discorrevano di mode; le due cugine chiedevano a Enrichetta come avesse fatto a disporre quei ricami neri in quella maniera; Lucia ammirava specialmente il piccolo cappello così semplice ed elegante; la gente si fermava a guardarle, e le due signore, dietro, sorridevano di compiacenza.

La chiesa era piena di gente.

Uno degli altari laterali era stato convertito in sepolero e splendeva di lumi.

Le pareti e i pilastri erano parati a lutto; gli addobbi color viola rendevano oscura e grave l'ombra delle navate; solo un filo d'oro, scendendo da un'alta finestra, passava tra quell'ombra in un polverìo luminoso.

Si fece posto alle signore; esse arrivarono, facilmente, dinanzi al sepolcro.

In una gran cassa di vetro, sopra un letto di fiori, un grande Cristo di legno giaceva in una rigidezza stanca, colla testa cinta da una corona di spine.

La luce dei ceri, cadendo su quel corpo stecchito, svegliava nella lucida vernice vivi riflessi, e le gocciole indurite di sangue sulla fronte gialla parevano muoversi e scorrere in un rosso scintillìo.

I gradini dell'altare erano coperti di drappi neri, ma i fiori e i ceri erano tanti che quello spettacolo pareva una festa, pareva il trionfo del martirio e della morte.

Inginocchiandosi, le signore dissero che era molto ben riuscito, ma donna Rosina aggiunse, rammaricandosi, che sarebbe stato più bello se la Confraternita dell'Assunzione non avesse avuto la tirchieria di far questione coi «giudei» per la differenza di pochi soldi.

Donna Carmelina non sapeva il fatto, e la sorella le spiegò allora come già a Pasqua dell'anno passato c'erano state parole tra «i giudei» e la Confraternita.

— Lo conosci bene Minguccio dell'Olio, che ha quel gran naso e quella barbaccia nera; lui faceva tutti gli anni la guardia al Sepolcro per ventiquattro soldi; conduceva anche sempre suo fratello Paoluccio, che gli somiglia, benchè abbia il viso un po' troppo grasso per giudeo. A Paoluccio la Confraternita dava solo quindici soldi, e l'anno passato Minguccio s'impuntò a volere trenta soldi per lui e venti per suo fratello, ma non ottenne nulla, neanche un soldo di più. Quest'anno fece i patti prima e non si accordarono colla Confraternita; così il Sepolero è senza giudei; è una vera indegnità.

Donna Carmelina ne convenne e disse che anche a lei era parso mancasse qualche cosa: poi tirarono fuori dalla tasca il rosario e si misero a pregare fervorosamente.

Enrichetta, coi ginocchi indolenziti sulla pietra, taceva, cogli occhi fissi sulle fiamme dei ceri.

Ben avrebbe voluto trovare nel suo cuore ghiacciato una scintilla di fede; le piaceva invece quella profusione di fiori e di luce.

Salivano da quei fiori profumi acuti, e la luce era un scintillìo d'oro.

Oh, esser ricca, esser felice e splendida come era bella! Volare alto alto sopra il piccolo mondo!

Perchè non era nata in una culla d'oro, e la sua bellezza, come un fiore prezioso, non era stata educata in un ambiente di tepida luce, pieno dei profumi ch'ella amava?

La scossero per farla alzare; camminò barcollando nella chiesa semi-oscura; non vedeva più nulla, cogli occhi pieni del barbaglio dei ceri, e quando furono fuori era così pallida, che donna Carmelina le domandò spaventata se si sentisse male e volesse tornare a casa.

Ma lei rifiutò, e ripresero a girare per le due chiese più piccole, per le cappelle dei conventi, arrivando fino a San Filippo, che era quasi fuori del paese.

Quando rientrarono, la sera, trovarono Luigi fermo nell'oscuro portone di casa Murgillo.

Enrichetta, che era stanchissima, rifiutò di salire e venne chiamata la serva zoppa perchè l'accompagnasse a casa.

Si salutarono nel portone. Dopo che le signore e le due ragazze ebbero baciata la maestra, Luigi le stese la mano e lei non potè rifiutare la sua.

— Dio, che mano fredda! — disse lui stringendola un momento fra le sue.

Si sentiva la zoppa scendere le scale, e le signore, che erano sudate, salivano già, frettolose.

Allora Enrichetta sentì che la sua manina veniva sollevata dolcemente, e sentì le di lui labbra calde sul polso dove il guanto lasciava la carne nuda.

Le parve di destarsi da un sogno, un sogno di febbre che l'aveva resa debole e stracca fino a quel momento; strappò la mano con impeto e andò via in fretta, mentre la zoppa le gridava dietro:

— Non correte così, donna Enrichetta! Donna Enrichetta mi volete morta; non correte così!

Il venerdì santo ritornò il conte Mariani da Napoli con una vecchia cugina che i Pianbassesi avevano veduta prima due volte, in due solenni occasioni. La prima fu quando il conte Mariani (erano ormai passati quattordici anni) aveva condotto in moglie donna Rocchina Maria dei baroni di Bitritto; la seconda quando, morta la stessa donna Rocchina Maria, fu seppellita con grande pompa nella cappella gentilizia dei conti Mariani.

Don Francesco era stato questa volta assente tre mesi.

Enrichetta seppe il suo ritorno da Lucietta, la mattina del sabato; e quando udì della vecchia dama nobilissima, della quale si narrava che era stata celebre per bellezza e distinzione alla vecchia Corte dei Borboni, la prese una grande curiosità di vederla.

Però, a mezzogiorno, non ci pensava già più, e stava tutta intenta a ricamare la sua cifra nell'angolo di un fazzoletto del suo corredo, quando venne a trovarla Isabella Mariani col servitore.

Isabella veniva a portare i saluti del conte alla maestra, a informarsi della sua salute e infine a invitarla di venir a passare le feste pasquali al palazzo Mariani.

Isabella aveva fatto l'invito con sufficiente buona grazia, a nome della zia, donna Rosalia Ghilardi dei Filangieri, e Enrichetta se ne sentì oltremodo lunsingata; un soffio d'orgoglio le allargò il cuore, e, senza prendersi tempo di riflettere, rispose alla fanciulla che sarebbe venuta e che era ben riconoscente alla signora contessa e al signor conte.

— Papà mi ha incaricata di domandarvi se non potreste già venire stasera — disse Isabella con tono più freddo.

— Stasera? Se ciò gli fa piacere, sì, sì.

Ma quando la fanciulla fu via, si pentì di aver promesso quello.

Perchè andare quella sera stessa? Dovrebbe già passarvi la notte, e quell'idea le divenne a un tratto insopportabile.

Come oscrebbe mai muoversi, parlare, mangiare e coricarsi, sopratutto, coricarsi in una camera magnifica, sotto gli occhi di quella dama, che sarebbe certo superba come Isabella, anzi cento volte più?

Nel suo sgomento ne parlò alla gobba Maria Luigia, chiedendo consiglio, volendo principalmente sapere come era quella donna Rosalia, che le incuteva tanto timore.

Maria Luigia rimase perplessa; l'aveva veduta, quella dama, due volte o tre, ma da lontano, in carrozza, e non sapeva nulla sul conto suo.

Venne chiamata a consiglio anche Teresa, ma ella non fece che spaventare di più Enrichetta, assicurando che donna Rosalia aveva occhi freddi e un contegno da principessa.

Però, quando verso le sei venne il servitore a prenderla, ella era apparentemente calma, con una certa dignità nei modi, decisa di non voler patire umiliazioni e di non fare figure ridicole.

Uscendo diede a Lucietta una lettera per Nicola Piovino.

Erano poche righe colle quali avvertiva il suo fidanzato che ella era stata invitata in casa Mariani.

Perchè aveva atteso fino a quel momento per mandarle?

Non lo sapeva nemmeno lei; forse era il segreto timore che egli volesse opporsi o farle delle rimostranze.

Il palazzo Mariani era un vero palazzo, antico e austero, situato all'estremità del paese; era cinto da un magnifico giardino grande, ombroso come un parco.

Sulla strada conducente nel paese si apriva il portone; un grande portone, chiuso modernamente da una solida imposta di legno di quercia, ornata da battenti di bronzo lucido e da grosse borchie; ma in alto, rôso dal tempo, venerabile e severo, spiccava lo stemma in pietra dei conti Mariani, che in antico erano stati i signori di Pianbasso.

Il palazzo era formato di un solo piano e delle soffitte; le finestre erano altissime, con grandi cornicioni arcati di marmo.

L'insieme era severo, ma non tetro.

Enrichetta, mettendo il piede sulla soglia, sentì svanire per un momento la sua apprensione, come se un riflesso di quella possente nobiltà venisse ad animarla attraverso i secoli.

Ma nel salire le due ampie scale il cuore tornò a batterle forte.

Sull'ampio vestibolo si apriva una porta, coperta da una pesante tappezzeria. Tra le pieghe oscure della stoffa apparve allora il viso fiero di Isabella, incorniciato dalle ciocche nere dei capelli; e un momento dopo, con slancio improvviso, la fanciulla si gettava fra le braccia della sua maestra, e le dava il benvenuto con grazia adorabile e nuova in lei, che Enrichetta aveva trovata sempre sostenuta, quasi grave.

Perciò la maestra se la tenne stretta in un lungo abbraccio, come cercando protezione e forza in lei, nella timidità che la vinceva presso all'ignoto di quelle grandezze.

Quando rialzò il viso pallido di commozione, Enrichetta si vide dinanzi il conte Francesco che le stendeva la mano, e presso a lui scorse una figura sorridente, incorniciata da riccioli bianchi, avvolta in seta e trine nere, con un luccicore di gioielli alle orecchie, al collo, alle mani. Osò appena, ella, posare la sua mano in una di quelle bianche e scarne che la vecchia dama le offriva; mormorò qualche parola, non sapeva che cosa, e entrò nell'anticamera condotta a mano da Isabella, e poi in un salone ampio, bellissimo; e si trovò seduta sopra un canapè piccino, d'un giallo d'oro, così morbido come un letto di piume.

Da quel momento ella passò il resto della giornata come in sogno.

Sedette davanti ad una splendida tavola, luccicante dei lumi che si riflettevano negli argenti e nei cristalli; fu servita di cose squisitissime, bevette vini dolci e profumati in calici snelli, tagliati in massicci cristalli; ella era ebra, la testa le girava, le guancie le ardevano; quel fumo di grandezza e di splendore l'aveva ubriacata.

Ella sedeva dirimpetto alla vecchia dama, e la guardava spesso, affascinata, come si guarda un'immagine meravigliosa.

Donna Rosalia parlava poco; la sua voce aveva un tremolìo leggiero. Gli occhi, d'un azzurro sbiadito, parevano spesso smarrirsi, come nella memoria d'un sogno lontano e quasi dimenticato.

Il viso della dama era pallido, aveva anzi la tinta un po' ingiallita dell'avorio; ma era senza rughe, liscio e fine come se fosse stato scolpito nel marmo.

Pareva a Enrichetta di vedere uno di quegli antichi ritratti a pastello, di cui il tempo avesse temperato le tinte vivaci; e pensava confusamente a qualche strana leggenda di amori reali e di galanterie raffinate, nella quale una dama dal viso fine e liscio e dai riccioli bianchi di cipria avesse la prima parte.

Dopo il pranzo passarono tutti in un salottino elegante, più moderno e meno ricco delle stanze in cui erano stati fino allora, e lì fu servito il caffè, e la conversazione si animò alquanto.

Il conte fu abbastanza gentile da chiedere a Enrichetta se fosse stata ammalata; la trovava un po' dimagrita; e donna Rosalia, col suo indefinibile sorriso, domandò allora se era vero che fosse sposa.

Enrichetta arrossì vivamente, turbandosi, vide che anche il conte sorrideva, e le parve di trovare un'ironia in quel sorriso. Ma subito dopo gli fu riconoscente, perchè egli cambiò discorso, risparmiandole così l'imbarazzo di rispondere.

Isabella pareva di cattivo umore, da quando erano entrati in quel salotto.

Una sorda irritazione cresceva in lei, e si manifestava con moti e parole brevi, quasi aspri e scortesi.

Anche il conte dovette accorgersi di quegli strani modi, e parve risentirne pena, e si turbò auche lui; perdeva il filo del discorso, agghiacciava nel mezzo d'un sorriso o d'un'allegra parola, contraeva la fronte, come sotto l'incubo d'un pensiero gravoso.

Solo donna Rosalia continuava a sorridere, fissando i suoi pallidi occhi nel vuoto, e Enrichetta si sentiva a disagio sempre più, e sospirava la sua povera camera, dove, a quell'ora, ella sarebbe stata a cenare, tranquilla e soddisfatta, leggendo in qualche libro, o ascoltando i discorsi scuciti di Lucietta. Alzò gli occhi, traendo furtivamente un sospiro, e li fermò ad un tratto, commossa, sulla parete dirimpetto, dove, da una cornice preziosa per gli intagli e le dorature, due occhi scuri, profondi, appassionati, la fissavano coll'intensità delle cose senza vita.

Quegli occhi! ma erano gli occhi di Isabella, così imperiosi e fieri, che le davano un malessere quando la guardavano ostili. Anche il viso aveva le linee di quello d'Isabella; ma era meno infantile, più grave, e la bocca era appassita, come per il soffio continuo d'un tormento o d'una passione.

Non c'era dubbio; quello era il ritratto della madre d'Isabella, di donna Rocchina Maria, morta giovanissima qualche anno prima.

Parve ad un tratto a Enrichetta che fossero quegli strani e misteriori occhi che turbavano Isabella.

Forse la fanciulla era rôsa da una profonda gelosia, perchè lo sguardo di sua madre era dato, così liberamente a tutti.

Enrichetta sentì, in quel momento, che Isabella soffriva della presenza di lei in quella stanza, dove lo spirito di sua madre vagava ancora.

Pazza creatura! Chi sa che cosa fantasticava quella testolina appassionata! Poteva prender ombra di lei, di una povera maestra, già promessa ad un altro?

Quel sospetto però, invece di turbarla, la mise di buonumore.

Non le spiaceva nemmeno vendicarsi un pochino di quella superba Isabella, tormentandola, così per gioco; e riprese, per quella sera, la parte di civettuola ingenua, che sapeva far così bene una volta e che da tanto tempo aveva sinesso.

Il conte, rapito, le sorrideva, conversava con lei, parendogli di essere presso a qualche gran dama, tanto la maestra era piena di grazia, di disinvoltura e di spirito.

Ella, di tanto in tanto, alzava gli occhi verso la parete, dove pendeva il ritratto della defunta contessa, e le faceva un sorriso, ironicamente bonario, e le parlava.

— Ah! donna Rocchina Maria! Eravate ad un bel posto; perchè ve ne siete andata? Vostra figlia ha un bel fare, ma non potrà impedire che un'altra venga a occuparlo, il vostro posto. E chi sa questo signor conte come farà presto a portarsi in casa un'altra sposa! Povera Isabella! non è qui che deve stare in guardia, e tanto meno con una miserabile maestra; questo signor conte mi ha l'aria di fare i fatti suoi alla chetichella; ora ha condotto donna Rosalia; è l'avanguardia; fra breve verrà il nemico.

Dire che Enrichetta stentasse a trovar sonno nel letto elegante che le avevano preparato in un gioiello di camera, parata di azzurro a due tinte, sarebbe una cosa non vera; anzi, da molto tempo la giovane non aveva dormito così bene, otto ore di seguito, di un sonno calmo e senza sogni.

Nello svegliarsi non provò meraviglia o sgomento del trovarsi in quel luogo, fra quelle persone. Ma si era sentita più sicura di sè e degli altri, con una certa baldanza, con una forza nuova, che le pareva emanasse dal lusso che la circondava.

Erano dunque quelli i ricchi, i nobili, i felici? Ebbene, li aveva pesati, e non le parevano migliori o peggiori degli altri.

La situazione le era ben chiara.

La vecchia dama, quella di cui aveva tanto temuto, aveva una bontà di cuore pari alla debolezza della mente. Il conte era generoso, perfetto gentiluomo, splendido; ma anche lui pieghevole come la paglia, senza energia, senza carattere… certo la vita che menava aveva contribuito a renderlo tale.

Sicchè Isabella era il personaggio più importante dei tre.

Chissà da chi aveva ella ereditato quella forza di passione, quella fierezza indomata, che la faceva tanto diversa da suo padre? Certo dalla bella contessa dagli occhi gelosi, e certo era vero ciò che aveva sentito raccontare una volta della vita infelice che donna Rocchina aveva passata presso al suo volubile marito, di cui era stata pazzamente innamorata e terribilmente gelosa.

La figliuola pareva ora continuare per conto suo e per conto della morta la sospettosa sorveglianza sul padre; ma egli era uno di quegli uomini che ricavano forza appunto dalla loro debolezza; s'indovinava che egli non prendeva mai di fronte la figlia, ma le sfuggiva; viveva lontano da lei più che poteva, per non darle occasione di rammarico, perchè non potesse giungerle nemmeno la fama lontana di qualche sua leggerezza.

Ma Isabella, colla precoce intelligenza delle fanciulle ardenti, cresciute senza madre, indovinava certo, or forse sapeva.

Era impossibile non pensasse che il conte aveva a Napoli o a Bari, o in tutti i due luoghi, una donna che lo teneva incatenato colle dolcezze d'un facile amore; e quella bimba ne soffriva, parendole che il padre fosse ancora e più che mai infedele alla morta moglie.

Chi sa di quante scene tra i due sposi la sua infanzia era stata testimone; chi sa perchè quei suoi occhi neri balenavano così spesso guardando suo padre, e quali sospetti rodevano la piccola infelice anima!

Si leggeva, nelle pieghe risolute della sua bocca, la ferma decisione di difendere almeno la soglia della casa, dove sua madre aveva regnato padrona ed era morta, contro qualunque straniera; e certo la sorte della futura contessa Mariani non era in tutti i punti invidiabile.

Queste riflessioni avevano vinto in Enrichetta quel cattivo sentimento di rancore, quel gusto di vendetta ingenerosa che aveva provato la sera prima per la povera bimba.

Nella sua tranquillità di vergine che ributtava ogni sentimento che avesse potuto turbare la lucidità della ragione, ella provava, per le passioni degli altri, una commiserazione sprezzante; quella commiserazione che avrebbe provato per qualunque essere debole, anche per un bimbo malato.

Così, sentendosi la più forte, perdette ogni sentimento d'imbarazzo in quella casa ricca e straniera, e pensò filosoficamente a godere del bene che poteva trarvi, senza turbarsi l'animo con sogni e chimere.

Mantenne questo proposito così bene che riusci quasi a essere felice. Si divertì, quel giorno e i seguenti; quel lusso, quella raffinatezza le parevano fatti per lei; ci sarebbe stata volentieri sempre a far quella vita; ah, come dovevano essere felici i ricchi, ad onta delle loro miserie; di quanti mali poteva compensare il denaro, il vile, spregiato danaro!

Fecero magnifiche scarrozzate fino a Bari. Ci andavano nel pomeriggio, vi si fermavano la sera per andare a teatro, e ritornavano a Pianbasso dopo la mezzanotte, in una corsa sfrenata per la lunga strada bianca nei raggi lunari; e gli ulivi tremolavano come spettri, mentre le donne gettavano ogni tanto un piccolo grido di spavento, che divertiva il conte.

La mattina invece visitavano le tenute di casa Mariani, tutte magnifiche; terreni stendentisi all'infinito; vasti campi inverditi dal grano nascente, e distese di mandorli bianchi nella fioritura novella.

Il lunedì di Pasqua attraversarono ancora il paese in carrozza per recarsi a Bari.

Enrichetta era nel fondo della vettura, accanto alla vecchia dama; sul sedile davanti sedevano don Francesco e sua figlia.

Passando davanti alla farmacia sulla piazza, Enrichetta scorse Nicola Piovino, che discorreva sulla porta con un campagnuolo.

Il cuore le palpitò per un misto di rimpianto, di rimorso e di vergogna.

Il maestro si levò il cappello rispettosamente, senza neppur sorridere alla sua fidanzata; ma il conte certo non s'era accorto di lui, perchè guardava dalla parte opposta con molta insistenza.

In quel momento gli occhi di Enrichetta incontrarono quelli di Isabella, e si accorse con meraviglia che la fanciulla era scontenta e irritata. La sola donna Rosalia continuò a sorridere vagamente, collo sguardo perduto nel vuoto.

Al teatro Piccinni di Bari si dava quella sera il Faust.

In un palco di seconda fila Enrichetta Borlieux, vestita del suo abito più bello — una sottile lana d'un azzurro-grigio, guernita di bellissimi pizzi, che donna Rosalia le aveva regalato — sedeva tra donna Rosalia Ghilardi dei Filangieri e la contessina Mariani.

La sua bionda bellezza spiccava meravigliosa tra i lumi; e già parecchi cannocchiali la cercavano curiosi, e gli ufficialetti delle poltrone urtavano, tra un atto e l'altro, la sciabola a terra, o parlavano forte, o ridevano, per attirare l'attenzione della bella incognita bionda.

Ma ella, col labbro atteggiato a un leggiero sorriso, cogli azzurri occhi nuotanti in un languore profondo, volgeva appena la testa con un gesto stanco, e lasciava cadere abbasso uno sguardo distratto che non si arrestava su nessuno e pareva non udire che le mediocri note gorgheggiate sul palcoscenico da una Margherita fortemente incipriata.

Dopo il secondo atto il conte Mariani si era alzato, e, stando così in piedi dietro le signore, puntava il suo binoccolo nella platea, dove non c'erano che uomini, perchè l'uso del paese permette alle signore di assistere alle rappresentazioni teatrali solamente dai palchi.

Egli procurava di orizzontarsi in quel brulichìo di teste nude, di crani pelati, di faccie rivolte in su; di quando in quando, riconoscendo qualcuno, scambiava un saluto, poi si chinava verso donna Rosalia e le diceva qualche nome, aggiungendo sempre notizie o osservazioni, che parevano interessare la vecchia signora.

Ella nicchiava, ascoltandolo, e accentuava di più il suo vago sorriso o metteva fuori una piccola interiezione di stupore o di compiacenza.

Eh, Bari! ella vi aveva abitato molti anni prima col suo defunto marito, il prefetto; sì, sì, tutte quelle persone ella le ricordava benissimo; erano ancora tutti vivi coloro? ciò voleva dire che ella non era poi ancora tanto vecchia!

Tè, tè, il generale Sobriani! Ella lo aveva conosciuto sottotenente; che bel giovanotto era, e con che ardore le faceva la corte!

E Musini? Cosa? alle finanze? Era stato garibaldino, repubblicano; eh, eh, come si cambiava!

E Lorenzani, che aveva una moglie così bella? Come? era morta? e quelle figliuole nel palco dirimpetto erano le sue? Ma era un collegio; quante ne aveva dunque?

Anche Enrichetta guardava, cercava anche lei, interessandosi a quei nomi ignoti, che avevano tutti il profumo d'un mondo, nel quale ella sarebbe vissuta così volentieri.

Quelle mezze frasi, gettate là dalla vecchia dama coi riccioli bianchi e il viso d'avorio, le facevano l'effetto di pagine di romanzi, sfogliate in fretta, incominciate e non finite; ella vi si sentiva attratta appunto perchè erano storie lontane, accennate appena, a che ella non saprebbe mai, e tuffava il viso ardente fra le viole, che languivano dinanzi a lei, sul velluto rosso del palco, perchè il conte non si accorgesse dei bagliori che si accendevano nei suoi occhi azzurri.

Poi il conte sedette di nuovo, questa volta più vicino a Enrichetta, e s'intrattenne quasi solo con lei, perchè donna Rosalia s'era smarrita di nuovo in qualche sogno o ricordo, cogli occhi sbiaditi fissi nel vuoto; e Isabella, più taciturna che mai, stritolava fra i denti i confetti, con una certa aria di petulanza dispettosa.

Parlarono della musica; il conte ne era fine conoscitore; Enrichetta non vi aveva una particolare disposizione, ma la conoscenza per parlarne con intelligenza.

Confessò che una volta suonava anche lei, ma non aveva mai potuto perfezionarsi; suo zio non aveva potuto spender molto nelle lezioni; e poi, da quando aveva venduto il vecchio pianoforte, che lo zio le aveva comperato di seconda mano, ella non aveva più suonato.

Il conte si mostrò commosso di questo particolare, narrato da una bocca così bella, con semplicità infantile. Era stata dunque così povera quella fata dai capelli d'oro? Egli non ci aveva mai pensato; gli pareva che quella pura fronte fosse incoronata da un diadema, e si stupiva di non vederle sulle spalle un manto di regina.

Lo punse allora la curiosità di saper qualcosa di lei; come era piovuta così misteriosamente a Pianbasso; come non era che una povera maestrina senza parenti; come, sopratutto, aveva potuto scegliere per suo fidanzato un uomo come Nicola Piovino, ella che sarebbe stata degna di un trono.

Cominciò allora a farle alcune domande discrete sulla sua vita passata, e lei rispondeva con grande semplicità, senza lasciargli scorgere l'artifizio che metteva a sorvolare sui punti più difficili; gli parlò appena di sua madre, niente di suo padre, ma con tanto tatto che il conte non badò a queste reticenze.

Susurrarono così tra loro durante tutto il terzo atto.

La musica li cullava come in un sogno; le viole, che ella aveva deposto nel suo grembo, mandavano un profumo languidissimo; lei aveva una mano abbandonata sui fiori, con atto dolce di carezza; e lui si sentiva tentato di prendere quella mano e di posarvi sopra la bocca, nell'effusione di un bacio appassionato.

Isabella non stritolava più confetti, ma i suoi sguardi neri, carichi di lampi, erano fissi sui due, con una espressione di collera disperata.

Donna Rosalia non staccava dagli occhi il cannocchiale, cercando sempre in platea col suo vago sorriso.

Nessuno prestava attenzione alla scena, dove Margherita, con un filo di voce, assicurava il pubblico di esser “bella come una damigella”.

Mentre calava la tela sul terzo atto, il conte domandava ad Enrichetta:

— E lo zio giudice che l'ha allevata come sua figlia, come si chiamava, signorina?

— Il giudice Jorselli.

Ella non pronunziava mai quel nome senza un fremito interno.

Il conte fece un moto di sorpresa.

— Jorselli? Era forse parente dell'Jorselli di Napoli?

Enrichetta, bianca come il suo fazzoletto che portò alla bocca, rispose con voce rauca:

— Non credo, signore.

— Ah! difatti non mi ha mai parlato di parenti giudici. Sarebbe però un caso fortunato. S'imagini che quell'Jorselli è mio amico e mio banchiere. Una onesta persona, con una posizione invidiabile. Già, lo sai, Rosalia? Lo porteranno deputato per Bari, Jorselli; e io l'appoggerò con ogni mia forza. Diamine! il paese ha bisogno di uomini simili, onesti, coraggiosi, incorruttibili… sì, sì…

Anche donna Rosalia nicchiò, approvando. Il conte proseguì:

— È a Bari, Jorselli, l' ho incontrato alla villa, oggi: e stasera l' ho veduto in una poltrona, mi pare. Ci sarà ancora.

Fortunatamente il conte s'era alzato di nuovo a guardar giù; altrimenti che avrebbe pensato al vedere un così spaventevole scompiglio sui lineamenti di Enrichetta?

Tutta fredda e sudata fino alla radice dei capelli, ella si passava con insistenza il fazzoletto sulla fronte, come per iscacciarne una visione orribile; per un momento temè di perdere i sensi, e, appoggiato il gomito al parapetto, si sostenne la testa colla mano.

— È ancora là, quel diavolo di Jorselli; se alzasse la testa gli farei segno di venire — mormorò il conte.

Il terrore che provò Enrichetta a queste parole la richiamò a sè; ed ella si rimise, prima che gli altri avessero potuto accorgersi della sua commozione.

Le sue mani si giunsero in grembo, fra le viole appassite, in una stretta convulsiva, e, smarrita, implorò dal fondo dell'anima che Dio facesse che colui almeno non venisse.

Mai, mai, avrebbe potuto sopportare la vista di quell'uomo; e, tuttavia, come affascinati, i suoi occhi dilatati seguirono lo sguardo del conte, cercando nella platea quell'uomo, suo padre.

In una delle poltrone un signore, ancor giovane, ma quasi del tutto calvo, voltato a metà verso un suo vicino al quale parlava, teneva in mano un giornale che sbatteva con certa agitazione sulle ginocchia.

Era lui che il conte guardava; era lui suo padre; Enrichetta non ebbe un momento di dubbio.

Macchinalmente ella alzò il binoccolo, e guardò ancora, tremando. Ma non poteva più nemmeno trovare il posto dove egli sedeva, e le pareva che le lenti fossero annebbiate; sicchè smise e cercò di tornare calma; ciò che non le riuscì tanto difficile, perchè il conte già parlava d'altro con sua cugina, e non si curava più di chiamare l'amico.

Ma durante tutto il resto della rappresentazione ella non ebbe più pace, in preda a un infinito malessere.

Si sentiva attratta verso quel cranio lucido; lo fissava così che ne pareva ipnotizzata; l'antico odio, l'antica collera, covata per tanto tempo verso uno sconosciuto, prendeva ora forme distinte; e nello stesso tempo provava uno struggimento, un dolore smanioso di dovere odiarlo quell'uomo, di dover considerarlo non solo come un estraneo, ma come un nemico.

Avrebbe voluto ora vederlo in faccia, ma egli non si voltava più, pareva tutto intento allo spettacolo.

Finalmente il sipario cadde sull'ultimo atto. Uscirono.

Nel vestibolo un signore battè sulla spalla del conte.

— Amico!

Questi si volse e fece un movimento di gioia.

— O, Jorselli! T'avevo visto, ma tu non ti sei mosso. Mi verrai a trovare a Pianbasso? Ecco qui mia cugina, che è venuta a farmi compagnia, come ti ho detto. Guarda l'Isabellina come è cresciuta; eh? non ti pare?

Mentre la bocca del signor Jorselli affermava, i suoi occhi — occhi stanchi di uomo fiacco o abbattutto — erano fissi con stupore sul viso pallido di Enrichetta. Dio, quel viso! qual somiglianza! chi era colei?

Giusto in quel momento il conte glielo diceva:

— Alla signorina Borlieux, che vedi qui, ti ho già presentato dalla platea: le ho detto che sei il mio migliore amico.

Ma che aveva il suo miglior amico per divenire così pallido? e la signorina Borlieux, anche lei, era bianca come un panno.

— Che hai, Jorselli?

— Nulla. Faceva tanto caldo là deutro e qui invece c'è un'aria… Ricorderai, che io sono fresco di malattia. Felice di presentare i miei rispetti a queste signore!

Egli era di nuovo padrone di sè e s'inchinava con quell'aria gravemente graziosa, che s'addice a un uomo non più tanto giovane, ma sulla via di divenir deputato.

— Ebbene, verrai a trovarci? — insistè il conte.

— Perdona, non potrò davvero… No, ho tanti affari… eppoi mi richiamano a Napoli… Un'altra volta sicuro…

I suoi occhi giravano inquieti, come per isfuggire qualcheduno, e mostrava tanta voglia d'andarsene, che il conte non lo trattenne più, stupito, preso anche lui da un turbamento, come se avesse presentito un segreto.

Mentre le signore salivano in carrozza, egli non potè tenersi dal pensare ad alta voce:

— Che strano contegno aveva quell'Jorselli stasera!

Nessuno rispose; donna Rosalia aveva sonno. Isabella era ancora di cattivo umore e Enrichetta si era lasciata nel suo angolo, vinta da un amaro sentimento di vergogna e di dolore.

Quella stessa primavera morì il bambino di Carolina.

Perchè stesse tranquillo e non tormentasse la sua nutrice, lo avevano messo a sedere per lunghe ore nella culla, con un cuscino dietro le spalle e gli avevano dato delle ciliegie con cui giocare; le ciliegie quell'anno si gettavano via, tante ce n'erano.

Ma il piccino se le mangiava inghiottendole intere, con tutto il nòcciolo; allora ammalò seriamente, non potè più digerire; finì col metter sangue fuori del corpo.

Sua madre stette due giorni senza andare in campagna, per assisterlo; Enrichetta, straziata dagli spasimi del piccino, corse lei stessa alla casa di don Leopoldo, il più bravo medico del paese, per pregarlo di prendersi a cuore il malatino.

Ma, tornando un mezzogiorno dalla scuola, la maestra lo trovò disteso nella sua culla, con un vestitino di mussola bianca, che avevano preso a nolo per dieci soldi da comare Antonia, la merciaia all'angolo della piazza.

Carolina era seduta vicino alla culla e parlava al suo bambino morto, come se egli avesse potuto intenderla. La stanza era piena di donne del vicinato, che susurravano tra loro, e la gobba Teresa, cogli occhi rossi e il naso stillante, interrompeva ogni tanto le parole della giovine madre con acute esclamazioni di dolore. Lucietta, colla faccia più melensa del solito e gli occhi imbambolati, andava e veniva per la stanza senza apparente motivo; seduta in un angolo, sola, dimenticata, la gobba Maria Luigia mandava fuori un piccolo gemito sibilante, che pareva di un animaletto ferito.

— Core della mamma tua, — riprese Carolina, appena scorse Enrichetta che entrava, — perchè te ne sei andato? Non sai che eri l'unica consolazione di tua madre? Hai voluto andartene invece, lasciare questo brutto mondo e non hai pensato che lasciavi tua madre. Dovevi venir grande, invece, e farmi compagnia, e consolarmi. Quando t'ho partorito con tanto dolore, e mi dissero che era nato un maschio, io ti ricevetti come una grazia della Madonna; riposi allora ogni mia speranza in te e tu mi hai abbandonato! Forse che il mondo è stato brutto per te? Forse che questo inverno hai avuto freddo? Dillo! Forse hai avuto fame? Quale altro figlio di signori è stato così ben tenuto? così ben riscaldato e nudrito? Non ti aveva mandato un angelo Gesù, che ebbe sempre tanta cura di te? Perchè non eri dunque contento? Dillo! Perchè non hai voluto stare con me?

— Datevi pace, comare Carolina, — disse allora una delle vicine; - la Madonna ha voluto fare un angioletto del paradiso.

Anche le altre dissero lo stesso, e Enrichetta pure cercava qualche parola di conforto, vedendosi guardata curiosamente dalle donne. Ma le spiaceva quel dolore lì in pubblico, e lei stessa non provava alcuna pietà per quel morticino giallo, che le pareva grottesco nel vestito bianco, guernito di fiori di carta.

Come si avvicinò a Carolina, questa le afferrò improvvisamente una mano e si diede a baciarla furiosamente. Enrichetta, rossa di collera e di vergogna, la strappò con un brusco movimento, ma Carolina la rattenne ancora, per un lembo del vestito, con un gesto così supplichevole, che ella non osò liberarsi e andar via, come avrebbe voluto.

— Non vi tirate in là, donna Enrichetta; è il mio Angiolino che mi incarica di ringraziarvi di ciò che avete fatto per lui. O, come siete stata buona! Come siete stata pietosa per lui! Ma non ha servito niente, è morto lo stesso. L'ho ben sognato io, due notti fa, San Nicola che me lo portava via dalle braccia e diceva: Ne voglio fare un angelo, voglio metterlo in una stella di gloria. Ebbene, San Nicola mio, prendilo pure, te lo dono. Ma almeno, San Nicola mio, protettore delle zitelle, prendi nella tua protezione questa buona signora, colmala di grazie e di benedizioni! Fa che sia fortunata, San Nicola benedetto, e così sia!

Enrichetta aveva gli occhi pieni di lagrime ed era stranamente commossa. Povera Carolina! pareva sincera in quel momento e l'augurio così ingenuo non poteva essere cattivo.

Udì ancora qualcuna delle donne dire qualcosa alla afflitta madre, poi la voce di Carolina si alzò di nuovo, più stanca però e affievolita.

— Oh Madonna Addolorata! io mi rassegno, ma non è senza pena! Oh Madonna Addolorata! se io provo un tormento così forte per un figlio tanto piccolo, che dolore dovette essere il vostro quando teneste morto nel grembo Gesù, che era tanto grande! Ma a voi la forza ve la diede il Signore, che era lo sposo vostro. Date voi forza a me, Vergine Addolorata; tenetemi questo affanno in conto dei miei peccati!

Enrichetta sali nella sua stanza e fece segno a Lucietta di seguirla.

Questa era tanto istupidita che non capi nemmeno, ma gli occhi acuti di Teresa avevano veduto e fu lei che andò dietro alla giovane.

Quando furono di sopra, la gobba si avvicinò a Enrichetta susurrando con fare umile, ma affrettato:

— Scusatemi, donna Enrichetta, il vostro pranzo ci è stato impossibile prepararlo. Quella benedetta Carolina non ci ha lasciato un minuto di tempo. Adesso manderò Lucietta a prendere qualcosa per voi; volete un po' di comacchio? So che vi piace: lo mandiamo subito a prendere.

— No, no, lasciate. Da quando è qui Carolina?

— Oh, da stamattina non si è mossa. Il bambino è morto alle nove, e lei sempre lì a piangere che fa pietà.

— E adesso? Bisognerebbe che mangiasse qualche cosa. Se aveste pensato a fare un po' di brodo!

— Non ci ho pensato proprio; eppoi, brodo non ne ha certo mai, la povera donna; non fa nulla.

Ma Enrichetta, presa da uno slancio generoso chiamò Lucietta e la incaricò di andare a suo nome a palazzo Mariani a chiedere un po' di brodo per la povera madre.

La ragazza ritornò dopo dieci minuti, seguita da un servitore del conte, che, attraversata la stanza di mezzo fra il bisbiglio di curiosità delle comari, portò in quella di Enrichetta una grossa terrina piena di brodo caldo, un piatto di arrosto, un cestino di frutta e di pane e un fiasco di vino.

Sopra le frutta c'era pure un grosso mazzo di fiori e una busta contenente cinquanta lire e un biglietto.

Enrichetta lo lesse.

«Gentile Signorina,

«Mi rincresce di non aver potuto mandare che un pranzo tanto meschino alla famiglia che ella protegge; i fiori che le mando li ha colti Isabella per il morticino. Spero che le cinquanta lire, che mi prendo la libertà di mandarle, serviranno a fargli il funerale.»

«Donna Rosalia e Isabella la pregano di favorire a casa nostra, a dividere il nostro pranzo, affinchè ella sia tolta a così triste spettacolo».

Enrichetta scese e fece prendere un brodo a Carolina; il resto se lo divisero Teresa e la sua famiglia e qualcuna delle comari che, più indiscrete, erano rimaste. Poi distribui l'arrosto, il vino e le frutta; le donne mangiarono di buonissimo appetito, tutte, meno Carolina, che si era rimessa a piangere, e Maria Luigia, la gobbina, che si era ritirata nel suo angolo senza vòler altro dopo il brodo.

Teresa, ingoiando bocconi inverisimilmente grossi per il suo piccolo corpo, rivolgeva ogni tanto il discorso al morticino, e si asciugava gli occhi; poi fece sparire nel fondo della sua tasca un grosso pezzo di carne, e, vedendo le frutta diminuire rapidamente, consegnò il piatto a Lucietta e lo fece portar via.

Enrichetta mise il mazzo di fiori sul petto di Angiolino, stette un momento a guardarlo e poi usci con Lucietta per andare a palazzo Mariani.

Passando sulla piazza entrò da comare Antonia, la merciaia, e contrattò l'abitino del bimbo morto. Lo ebbe per tre lire; comprò pure una ghirlanda di fiori finti; patteggiò il nolo di quattro ceri, e pregò la stessa merciaia Antonia, che era abbastanza onesta, di intendersela con quelli della cassa mortuaria e del trasporto funebre. Diede perciò dieci lire alla donna, che le promise di fare tutto il necessario: poi andò a pranzare dal conte Francesco.

Due giorni dopo mandò a chiamar Carolina e le consegnò le cinquanta lire.

— Non è tutto regalo mio, — disse alla giovane, che la ringraziava piangendo; — ma una gran parte di questa somma ve la dà il conte Mariani.

Quel giorno, era un giovedì; Enrichetta andò in casa Murgillo per vedervi il suo fidanzato. Trovò invece di lui un biglietto, nel quale egli si scusava di non poter venire, causa affari importanti.

La domenica seguente egli le spiegò, in un momento che donna Rosina li aveva lasciati soli, questi affari.

Si trattava delle prossime elezioni, il Ministero era caduto, la Camera era stata sciolta; si dovevano nominare i nuovi deputati.

— Tu che sei così intelligente, — disse Nicola Piovino alla sua fidanzata, — mi devi aiutare. Si tratta di conoscere le opinioni del conte Mariani, e veder di tirarlo dalla nostra. Bisogna che la nostra lista riesca; io faccio il possibile. Se riesco, i deputati eletti mi raccomanderanno e io potrò entrare come professore suppletivo al ginnasio di Bari. E allora… il primo passo, il più importante, sarà fatto. Uscirò dalle pastoie della scuola elementare; potrò dare un esame e conseguire un diploma come insegnante effettivo, e allora… allora avanti, sempre avanti! Anche per te sogno un avvenire migliore di quello che tu speri… oh! vedrai!

I suoi occhi brillavano d'ambizione; il suo viso pallido si era colorito. Prese la mano di Enrichetta e la strinse forte. Ella lo trovò bello in quel momento.

— Quali sono i vostri nomi? — gli domandò con premura.

Egli cercò nel suo portafoglio e le consegnò una carta.

— Tieni, son questi, — le disse, — ma più di ogni altro mi preme Jorselli. Ricordati.

Un grido le sfuggi.

— Ah lui!… e tu vuoi che io?… mai! mai! Egli la guardava stupito.

— Ma che hai dunque?

Esaltata dalla collera, perdendo ogni prudenza, ella mormorò con rabbia:

— Tu vuoi ch'io cooperi per lui? Sai tu chi è colui? No, non lo sai, non puoi indovinarlo; è mio padre.

E, incalzata dalle sue domande, vinta dal bisogno di sfogarsi, disse tutto: la madre, sedotta e abbandonata, la fuga, la dimora a Parigi, la orribile miseria, la morte di quella madre infelice e l'elemosina dello zio giudice.

Nicola Piovino ascoltava con attenzione ansiosa, che si rivelava nel tremito delle sue labbra sottili. La sua mente si apriva a un calcolo profondo, che lo empiva di gioia e di ambiziose speranze. Sua moglie figliuola del ricco e influente Jorselli! che bella strada gli si apriva dinanzi!

Come la fortuna lo aiutava e gli rendeva facile la conquista dell'avvenire sognato! Egli non dubitava punto che Jorselli non avesse voluto aiutare la figliuola e il genero; prima o poi il cuore doveva parlare. Jorselli non aveva figliuoli legittimi e se il giudice era andato fino a Parigi a trovar la sedotta colla figliuola per condurle con sè a Bari, ciò era stato certo per volontà sua. Ah! che fortuna, e come aveva avuto la mano felice nel scegliersi la povera maestra.

— Tu non l'.hai mai veduto? - chiese a Enrichetta, senza che il suono della sua voce tradisse la sua gioia; quanto a lei stava lì triste e vergognosa, la sua grande esaltazione era caduta.

— Sì, — rispose esitando, e narrò l'incontro nel teatro a Bari. Ricordò pure le parole del conte: «Lo porteremo deputato».

Il viso del Piovino brillò.

— Che fece quando ti vide?

— Fu commosso: oh sì, e s'allontanò subito; ha capito, subito, chi io era. Borlieux era il nome di mia madre, e io le somiglio molto.

Donna Rosina entrava, perciò Piovino non potè rispondere; si allontanò presto, anzi, desideroso di agire, di incominciare la grande opera; ma, uscendo, mentre stringeva la mano alla sua fidanzata — non si baciavano mai — e donna Rosina si allontanava, egli le susurrò:

— Fa come ti ho detto. Decidi il conte ad agire, già che è con noi, e fagli capire che anche io, capisci? sono dello stesso partito e che lavoro per la riuscita. Coraggio; lascia lì i pregiudizi; la fortuna è per noi.

Ella restò stupefatta, pallida, colla testa molto confusa. Aveva capito bene? Colui non era che un miserabile, che avrebbe sfruttato il segreto confidatogli così stupidamente da lei? Ah! non l'aveva sposata ancora e prima d'allora…

Si volse e si trovò in faccia a Luigi Murgillo.

Era fermo nella penombra del corridoio e la guardava; ella arrossì vivamente e, senza dire una parola, fece per passare.

Egli mormorò pianissimo:

— Signorina, vorrei dirle una parola!…

Ma Enrichetta, che si sentiva già il cuore indebolito e temeva una scena, finse di non aver inteso e andò avanti.

— Le faccio dunque paura? — disse lui ironicamente.

Quella parola la fermò.

— Parla con me, signore? — disse a voce alta.

— Cioè… vorrei avere questo onore…

— Ebbene? che desidera da me?

Erano ritti uno in faccia all'altra e si guardavano come due nemici. Egli però prese modi più umili e tornò a dire sommessamente:

— Qui sull'uscio?

— Oh, se vuole che entriamo!…

Ella cercava di dare un accento fermo alla sua voce. Rientrarono nel salotto; Enrichetta sedette, egli rimase in piedi appoggiato alla tavola. Ella aspettò guardandolo con aria beffarda, e la sua bella bocca sorrideva, contratta da un'espressione maligna. Egli, che si sentiva prendere dalla collera, esitò un momento, poi disse senza guardarla:

— Quello che volevo dirle… ella lo ha già indovinato.

Ma Enrichetta finse stupore e lo guardò candidamente, sicchè egli non potè trovare l'ironia nelle profondità azzurre di quei grandi occhi.

— Sì, che lo ha già indovinato, perchè mia sorella, un giorno, le ha già detto… qualchecosa.

— Bene, — disse la giovane con voce ferma, — se è quello, lei saprà già la mia risposta; dunque è inutile…

Un rossore cupo si sparse sulla fronte del giovane, che rispose con amarezza:

— È vero, sarà forse inutile, e io non sono che un pazzo, o, ciò che è ben peggio, sono ridicolo. — Egli esitò di nuovo: — Mai! — poi prosegui con visibile sforzo: — Però sarei più pazzo ancora se, senza parlare mi lasciassi così sfuggire… la felicità della mia vita… senza fare nessuno sforzo per trattenerla. Dunque… sono qui perchè voglio dirle io stesso che l'amo, che desidero farla mia moglie, e voglio udire io stesso la mia sentenza.

Egli si era rianimato; ora parlava a testa alta, con l'occhio sfolgorante e sicuro; il suo profilo severo pareva rammollirsi, plasmandosi sui moti che gli sconvolgevano l'anima.

Enrichetta aveva arrossito e non lo guardava già più, benchè la sua voce fosse breve e tagliente quando rispose:

— E tutto ciò, mentre lei sa ch'io sono promessa a un altro?

— È colpa mia? — disse lui; — auzi, dopo la sua risposta avrei taciuto ancora, se non fosse che quella promessa stava togliendomi ogni speranza. No, io non posso credere che lei ami quell'uomo! Qualunque altro mi sarebbe parso più degno di lei; ma il maestro Piovino!… un essere così meschino di cuore… un uomo…

— Le proibisco di continuare così, — interruppe ella con collera; — lei parla del mio fidanzato in un modo che mi offende, e io non voglio ascoltarla più.

Enrichetta si era alzata per andarsene, ma Luigi la trattenne arditamente, prendendo colle sue due mani nervose i polsi delicati di lei. Si fissarono in viso, e lei tremò, mentre l'uomo fremeva al contatto di quelle membra fragili e liscie. Allora ella tornò a sedere, piegata in due dalla forza di lui, che la teneva, e rimase lì tremante, schiacciata dalla certezza di essere la più debole. E lui continuò, vittorioso:

— Mi ascolti sino alla fine. Credo mio dovere di parlare come faccio; Piovino non è degno di lei. Come ha potuto impegnarsi con lui, che conosceva così poco? Come, lei, così intelligente, non lo ha conosciuto? Nessuno, nemmeno mia madre, non l'ha saputa consigliare meglio? Ma Piovino è un ambizioso senza cuore, che non ama altro che il denaro e che mira a farsi una posizione con qualunque arte. È un uomo senza principii, che la renderà infelice se lei… avesse la bontà di sposarlo. Chi sa quali calcoli ha fatto colui… Via, non vada in collera; che vuole? Io l'amo, gliel'ho detto; posso vederla così indifferentemente correre alla infelicità?

Ella mantenne il suo tono ironico, anche questa volta.

— Chi le ha detto ch'io sarei infelice? A ogni modo, io sola sono responsabile di ciò che faccio.

Ma Luigi fece come non avesse udito l'interruzione.

— Senta questo. Cinque o sei anni fa il signor Piovino era fidanzato a una onesta giovane di Bari, che aveva una dote discreta. Non so come, il padre di lei si rovinò e la dote andò perduta. Due giorni dopo Piovino mandò una lettera alla ragazza per renderle la sua parola.

Enrichetta rimase impassibile e non rispose. Il giovane, che si sentiva ripreso dall'irritazione a quella indifferenza, durò fatica a riprendere il discorso colla calma di prima.

— È grande amico di mio zio, il Sindaco, o meglio gli fa la corta adesso; ma prima, che era Sindaco don Michele Delrosso, lo conscete? un grande nemico di mio zio, nessuno gli era più spesso intorno che Nicola Piovino. E ne ha avuto del bene, da quel Sindaco! dovessi tirar fuori certe cose!… basta; tutto il paese rimase stupefatto al vedere l'improvviso voltafaccia del maestro alla caduta di don Michele. S'imagini… la mattina aveva pranzato col Sindaco vecchio, non si conosceva ancora la sua sconfitta; la sera era in casa del Sindaco nuovo. Puh! porcherie!…

Ella aveva ascoltato senza più interromperlo. Quella voce che accusava e sprezzava il suo fidanzato le pareva l'eco di una voce interna, che ora gridava potente, e che ella aveva sempre cercato di far tacere.

Quando egli si fermò e la voce accusatrice si spense in quell'ultima esclamazione di disprezzo, Enrichetta si scosse, come se fosse stata sferzata, e, ribellandosi ancora, volle usare anche lei delle stesse armi, di cui egli si era servito così bene, senza curarsi se fosse o no conveniente a una giovinetta parlare di quelle cose. Aprì dunque la bocca, ma, temendo che le sue parole venissero intese da altri che da lui, si guardò intorno instintivamente.

Egli capì e si affrettò a rassicurarla.

— Non verrà nessuno. Mia madre sa ch'io sono qui con lei; ella favorisce questo colloquio. Glie l'ho chiesto in grazia; ero tanto infelice!

Enrichetta sorrise e disse, abbassando la voce:

— Però Nicola Piovino non ha mai sedotto nessuna ragazza; nè ha mai, ch'io sappia, abbandonata, la propria creatura nella miseria. O forse si?…

Luigi era diventato molto pallido.

— È dunque per questo? — mormorò. — Lei sa?…

— Tutto… — finì lei; — perciò terminiamo questo colloquio. O ancora, per ricambiarle i suoi buoni consigli, mi permetterò di dargliene uno anch'io. Giacchè lei sa tanto bene come deve agire un uomo onesto, metta in pratica le sue teorie; adempia al suo dovere.

S'era alzata, così dicendo, e gli stava dinanzi altera, ma col viso composto a una grande calma.

— No, — egli disse sbarrandole il passo, ma senza osar di toccarla questa volta, — ascolti ancora questo. Mi condanna lei così gravemente per quel fallo? Ma lei non può sapere… Dio mio, come spiegarle certe cose?… Pensi almeno che ciò è successo prima ch'io la conoscessi, Enrichetta; e quella ragazza mi amava prima ancora ch'io vi pensassi; è avvenuto non so come; mi piacque così un momento; io non prevedevo le conseguenze, fu una vera fatalità. Poi, io volevo pensare al bambino; fu lei che non volle, ma io contavo sempre di far più tardi qualche cosa per lui. Invece è morto l'altro giorno; lo sa?

— Sì, — rispose ella impaziente e nervosa — ma lei, la donna, vive. Perchè ora non la sposa?

Egli parve assai stupito.

— Sposarla! ma, Dio mio, sono cose… delicate. Se avessi per lei dell'amore… non dico adesso, ma un giorno… chi sa? ma io non l'amo nemmeno, non l'ho mai amata di un amore… così. E siete voi che mi dite di sposarla?

Era molto sgomentato della piega che aveva preso il discorso; pure aveva in fondo come una vaga speranza di riuscire, ora che vedeva chiare le difficoltì da abbattere. La stessa insistenza di Enrichetta sopra quel punto, l'amarezza che gli sembrava trovare nelle sue parole gli pareva una specie di gelosia che gli metteva in cuore un leggero moto d'orgoglio. Giurò a sè stesso di vincere… ma il viso di lei pareva di marmo.

— Mi ascolti, signor Murgillo, - come la sua voce era fredda e che espressione avevano i suoi occhi! — Qualunque cosa avvenga, io non sarò sua moglie, mai, capisce? mai! Io non posso obbligarlo a fare quello che credo suo dovere, ma non sarò sua complice in un atto… indegno. Ho un' opinione, dei principii che saranno forse ridicoli, ma che sono ben fermi. Credo che un uomo che abbandona una giovane da lui sedotta, una giovane onesta, e l'abbandona con una creatura, sia incapace di un amore serio per qualsiasi altra donna. E quando pure… gli impegni già contratti sono sacri… pensi dunque; una povera donna con un bimbo… ma è orribile, Dio mio!

Le sue piccole bianche mani coprirono gli occhi con un moto di orrore, quasi per non vedere qualche tormentosa visione evocata in quel momento; ma subito ridivenne calma, e sorrise anzi, dicendo le ultime parole:

— Non si offenda, io la penso così. Non parliamone più; se vuole, resteremo o meglio diventeremo amici, perchè finora lo siamo stati poco. E ora mi lasci andare; è ben tardi; buona sera.

Egli ascoltava stupito, parendogli di sognare. Non cercò più di trattenerla; negli occhi di lei si vedeva una risoluzione così ferma, che gli parve pazzia insistere.

Ella gli fece un cenno amichevole colla mano, ma lui non osò neppure prendergliela e stringerla; la lasciò andar via, e rimase immobile al suo posto.

Dopo qualche minuto, udì la voce di Enrichetta nel corridoio, ella si congedava da donna Rosina.

Gli parve che lei scherzasse con sua madre, e pensò che non doveva aver cuore; udì i passi di donna Rosina, la vide entrare nel salotto e avanzarsi verso di lui.

— Ebbene, figlio mio? fatto tutto? sei contento?

Egli alzò le spalle.

— Come! Credevo che foste d'accordo. Enrichetta era così allegra!

— Non parlarmi più di lei. Ho ben capito che non mi ama; già credo che non ami nessuno; è orgogliosa come il demonio. Eppoi!… ha la testa esaltata, grandi parole in bocca… mi sembrò pazza. Tutte sciocchezze!… con quelle idee dovrebbe farsi monaca. Quanto a me, spero che ciò mi guarirà.

Enrichetta, quella sera, pianse un' ora colla testa affondata nei guanciali, e non toccò alla sua cena. Ma la mattina seguente aveva un forte mal di capo, e un viso pallido, pallido, da malata.

— Che pazzie! — mormorò davanti allo specchio. — Non so come posso essere così nervosa; è una vera debolezza.

«Signor Nicola Piovino,

«Vi scrivo perchè non ci devono essere malintesi fra noi; e perchè credo che nessuno di noi due abbia diritto di agire senza che l'altro approvi e creda che sia bene.»

«L'altro giorno io mi sono lasciata sfuggire un segreto, che credevo di conservar sempre per tutti, anche per mio marito. Confesso la mia debolezza; quel segreto mi è non solo sommamente doloroso, ma anche soggetto di vergogna; vorrei essere superiore a questo pregiudizio, eppure non posso. Non mi pento d'averne parlato con voi; tanto un giorno l'avreste dovuto conoscere; credo anzi che fosse sleale da parte mia il mio silenzio; la macchia della mia nascita voi, prima d'ogni altro, avevate diritto di conoscerla; perdonatemi se non ho parlato prima.»

«Ora che sapete tutto, se voi persistete a voler la mano di una ragazza, che non ha di suo nemmeno il nome che porta, lasciate ch'io sia completamente franca con voi; ora, più che mai, è necessario.»

«I miei sentimenti riguardo all'uomo che, sventuratamente, è mio padre, sono e sarauno sempre quelli che vi feci già conoscere l'ultima volta che ci vedemmo.»

«Io non lo odio, non sono tanto snaturata, ma non posso amarlo, nè perdonargli la vergogna e i patimenti di mia madre. Ho giurato alla memoria di lei che in nessuna circostanza, dovessi anche morir di fame, io accetterei nulla da lui. Nulla, neppure il suo appoggio morale; intendete? neppure di vivergli vicino in una qualsiasi dipendenza; e io manterrò il giuramento.»

«Ora, se non ho male inteso, voi pensate di valervi appunto di questo legame, che io vorrei spezzare, per raggiungere i vostri fini di miglioramento e di benessere.»

«Eccovi a questo riguardo la mia ultima parola.»

«Se voi cercate in qualunque modo di avvicinarvi a mio padre, di sollecitare la sua influenza o qualche favore, io mi considererò svincolata della mia promessa, sciolta da qualunque impegno verso di voi. Desidero una chiara e pronta risposta.»

«Enrichetta».

Nicola Piovino voleva morir di ridire quando lesse questa lettera. Possibile! Una ragazza che egli credeva tanto superiore alle altre, piena di buon senso, sopratutto pratica, aver simili idee dell'altro mondo! Frutto di romanzi, certo, ma però non se n'era mai accorto prima. Non voler perdonare a suo padre perchè non aveva sposato sua madre! Bisognava vedere se sua madre era donna da sposarsi. Eppoi, diamine! sarebbe stata bella che egli avesse lasciato un partito di parecchi milioni, come quello della sua moglie presente, per sposare una pitocca.

Aveva fatta raccogliere la figliuola dal fratello, l'aveva fatta allevare a sue spese… era abbastanza, che diavolo! Eppoi, lasciar agire a Nicola Piovino e il papà farebbe molto di più. Oh, se farebbe!

Intanto bisognava rassicurare la piccina. Non era però così pazzo da scrivere di quelle sciocchezze lì; eran le cinque, ora in cui era in casa di sicuro. Egli non c'era mai stato; ma quel giorno la necessità di parlare era assoluta; eppoi, con quelle velleità di ribellione era bene comprometterla un pochino.

Enrichetta fu stupita di vederlo; ma pensò che era buon segno la premura che egli mostrava nel venire a rassicurarla; perchè non s'ingannava, il viso raggiante di lui provava che era venuto per questo.

Lo accolse con un sorriso gentile, ma, per un istinto di prudenza, si affacciò alla scaletta e chiamò la figlia di Teresa, perchè assistesse al colloquio. Non temeva certo di lui, ma il paese… eppoi che avrebbero detto donna Rosina e… quell'altro?

— Ho da parlare a te sola — le disse Piovino sconcertato.

— Non temere, — rispose lei sorridendo; — quella li non capisce nulla; possiamo parlare in libertà; ma è bene che ci sia.

Ella pregò allora Lucietta di dare alcuni punti in una camicia, e la ragazza si sedette docilmente vicino al balcone per vederci meglio.

Egli si decise a parlare. Incerto dapprima, trovò poi parole calde, bei periodi rotondi, frasi sonore per convincerla delle sue pure intenzioni. Egli non avrebbe mai fatto il più piccolo passo senza il consenso di lei, che per lui era tutto; quanto alle elezioni… egli non voleva nasconderle che… quel signore aveva grandi probabilità di riuscita; neppur lui, Piovino, poteva in coscienza votargli contro. Si trattava del bene del paese e della vittoria del partito. Eppoi egli aveva promesso ai suoi amici politici di votar l'intera lista liberale; egli non aveva che una sola parola, era uomo d'onore e non poteva ritirarla. Ma, glielo giurava, non avrebbe fatto nulla più che dare il suo voto.

Quanto al resto… nulla senza volontà di lei. Gli spiaceva certo, come a uomo di cuore, che un padre avesse nella propria figliuola quasi una nemica; ma egli comprendeva bene da quali delicati sentimenti ella era animata per agire a pensare in tal guisa.

La memoria di sua madre… certo, una gran cosa; se però il tempo portasse qualche modificazione a questo modo di pensare, allora forse ella potrebbe perdonare al padre pentito; ma lui, Piovino, non l'avrebbe certo mai costretta in nessun modo.

Tacque, temendo di andar troppo innanzi; vedeva delle nubi passar sul viso di lei.

Enrichetta, infatti, trovava che tutte quelle parole, in lui che non ne era prodigo, servivano forse a coprire il suo vero pensiero; quel metallo era troppo sonoro per essere di buona lega. Capiva solo che egli lateneva e non la lascierebbe andare così facilmente; non aveva nemmeno parlato di quella restituzione della promessa reciproca a cui lei aveva accennato nella lettera; oh! ella era oramai ben sua, e nulla avrebbe potuto sciogliere i vincoli che li univano.

Sospirò a questo pensiero, ma vinse subito, con uno sforzo di volontà, quel sentimento doloroso. Meglio così; ogni cosa restava allo stato di prima; per ora la sua volontà prevaleva; era decisa di farla rispettare anche dopo maritata; poteva dunque essere tranquilla.

Così si dichiarò soddisfatta e congedò il suo futuro marito pregandolo di non rinnovare, in nessun caso, l'imprudenza di venirla a trovare a casa sua; ella intendeva di regolarsi così fino all'epoca del matrimonio.

— Che avrà luogo il giorno che tu vorrai, — disse Piovino galantemente, stringendole la mano fra le sue con insolito calore; — non dimenticate che quel giorno io lo sospiro, lo bramo… Non farmi penar troppo, per carità! Davvero, due anni son troppo lunghi!…

— Une è già quasi passato — rispose lei, ed ebbe spavento pensando che diceva la verità. — Non facciamo come i bambini; quello che abbiamo fissato si faccia.

Egli andò via mediocremente soddisfatto. Che ghiaccio, quella ragazza! fino a un certo punto la cosa andava, ma poi!…

E due anni erano davvero lunghi: era pentito, ora, di aver accettato una dilazione simile; non era stata prudenza da parte sua; in due anni quante cose potevano cambiare! Si consolò infine pensando anche lui: — Uno è già quasi passato!

Il primo di luglio Enrichetta seppe dal conte Francesco la riuscita di Jorselli a deputato del primo Collegio di Bari.

Se lo aspettava, pure le fece impressione; avrebbe desiderato una sconfitta, non per spirito di vendetta, ma perchè temeva che l'elezione lo costringesse a venire più spesso a Bari, per cui un nuovo incontro con la figliuola sarebbe stato facile. Invece la faccia di Piovino le apparve quel giorno raggiante; egli non cercava di nascondere la sua gioia.

— Compatiscimi, — disse alla sua fidanzata; — forse a te la notizia ha fatto dispiacere; ma pensare che noi, liberali, abbiamo interamente trionfato… è una soddisfazione troppo grande.

— Sì, sì — rispose ella con indifferenza.

— Ora ascoltami; parliamo d'altro. Gli esami si avvicinano; io sperava di darli alle tue allieve, come mi toccherebbe per diritto; ma il Sindaco mi fece osservare giustamente che le nostre relazioni sono conosciute da tutti: non conviene perciò che io… mi si accuserebbe di parzialità. Sarà dunque il maestro di terza incaricato della tua classe. Però, bada, egli è invidioso di me; è mio nemico; perciò tenterà di farmi dispetto; sta dunque attenta, non lasciarti imporre; già, spero di esserci anch'io, eppoi abbiamo le Autorità dalla nostra. Tutti sono entusiasmati di te; il Sindaco, il sopraintendente; persino il delegato scolastico, benchè sia un prete… dovrei esserne geloso, ma son troppi! A proposito. Converrà che Maria d'Aquino venga aiutata perchè faccia bella figura; capisci, suo padre ne sarà contento. È anche assolutamente necessario che Elvira Marsi sia delle prime.

Enrichetta ascoltava con aria annoiata; pareva che tutto ciò l'interessasse assai poco; però, a questo punto, fece un moto di sdegno.

— Elvira Marsi! — esclamò. — Ma se è stupida come un'oca, Dio mio! Non avrà forse nemmeno i punti necessari per passar la classe.

Egli era visibilmente contrariato, ma non osava insistere, vedendola così annoiata e indifferente. Dopo un momento disse:

— Chi sarà dunque la prima? La Mariani?

— No — rispose la maestra colla calma di prima.

— Isabella non si presenterà agli esami; siamo già d'accordo col conte. Ho troppi obblighi io colla famiglia; si direbbe che faccio delle parzialità. Credo che la prima sarà Maddalena Balbi e la seconda quella povera Rosina Serafini.

— Ah, la figlia del segretario! Sono un po' in urto con lui. È così poco rispettoso e sarei stato contento vederlo mortificato nella figlinola; ma forse è meglio così. Si parlerà della tua imparizalità, della tua giustizia. Farà colpo anche questo.

Enrichetta non rispose; aveva chinato il capo, rassegnata oramai a quei sentimenti bassi, che scorgeva nel suo futuro sposo. Lo trovava tanto piccino, e aveva paura di scoprirlo addirittura abbietto, così da essere costretta a disprezzarlo.

Non sapeva già più molto bene quali sentimenti ella provava per lui.

Donna Rosina, che li aveva lasciati soli una mezz'ora, rientrava in quel momento con Marietta; Enrichetta si alzò e andò incontro a quest'ultima con aria allegra.

— Ti desideravo appunto, carina. Andiamo un poco nel giardino; sono stanca di star seduta, ho bisogno d'aria. Donna Rosina!

Enrichetta parlava con un brio che le era divenuto insolito, e la vecchia la guardava stupita.

— Donna Rosina! le confido il mio fidanzato, non se lo lasci sfuggire!

Aveva preso per la mano Marietta, che aveva un viso chiuso e diffidente più del solito, e se la tirò dietro, senza più dare uno sguardo ai due che restavano.

Le due giovanette si avviarono cosi insieme, silenziose.

Da gran tempo non c'era più tra loro la cordialità di una volta; pareva quasi si sfuggissero. Del resto ciò si capiva.

Da quando era fidanzata, Enrichetta aveva subìto un gran cambiamento; non la si riconosceva più . Marietta poi era una di quelle nature delicate e ombrose, alle quali bisogna andar sempre incontro per costringerle ad aprirsi; mancanti di spontaneità, quando vengono trascurate si ripiegano in sè stesse e sembrano fredde e dure. Inoltre Marietta soffriva visibilmente, e la presenza di Enrichetta le riusciva particolarmente dolorosa.

Camminarono nel giardino senza parlare, l'una vicino all'altra. Erano circa le cinque del pomeriggio. La grande afa della contr'ora diminuiva; la campana della chiesa madre dava gravemente il segnale della vent'una ora, e il campanello della cappella dell'Assunta squillava lontano con un ciarlio allegro da femminetta. Il vento, leggiero e fresco, faceva stormire le foglie dei mandorli carichi di fruitti; lontano una contadina cantava.

A Enrichetta parve di conoscere quella voce.

— Senti come trilla! — disse a Marietta; — chi sarà dunque?

— Mi pare che devi conoscerla, — rispose Marietta; si davano del tu, da quando Enrichetta non le dava più lezione; — è Carolina; non sai?… quella…

Un moto violento di Enrichetta la fece tacere.

— So, — disse con impeto; — lavora dunque da voi?

— Si, nel giardino; è una buona ragazza.

Così dunque egli si consolava! Di nuovo con lei, di nuovo! Le pareva di sentirsi soffocare; eppure, che, v'era di strano? non era egli libero? forse anzi, se l'aveva ripresa, seguirebbe poi il suo consiglio e la sposerebbe; eran cose che accadevano tutti i giorni.

Non volle però andare dalla parte donde veniva la bella voce squillante della contadina.

Si sedettero appiè d'un ulivo, su di una grossa pietra. Il sole fiammeggiava alto, ma esse erano all'ombra, eppoi tirava quel po' di vento; si stava benissimo.

— Marietta, ho qualche cosa da dirti.

La fanciulla la guardò, aspettando.

— Senti: è già molto che non ci siam più parlate con confidenza; tu non mi hai detto più nulla. Lo sai di che cosa voglio parlare? Come va il coricino?

Il viso di Marietta si fece di fuoco; fece per dire qualche cosa, ma forse non ne ebbe la forza, perchè voltò il capo in silenzio.

Enrichetta le prese la mano.

— Senti, hai torto di far così, sai? Perchè mi tieni il broncio? Quella testina ha lavorato su chi sa quali fantasie; ha imaginato abbandoni e tradimenti: mi ha fatto l'onore di un tantino di gelosia… Bah! non prendere quelle arie corrucciate; non me l'ho mica a male. Venga qui, via, vogliamo fare la pace. No? no?… che si che io son la maga, che in un momento rassereno quel visino scuro? Attenzione! Uno, due, tre! Prenda questa. Che cos'è questa? Una lettera! Legga l'indirizzo: «Signorina Maria Murgillo». Prendila dunque; ma mi raccomando, veh! che nessuno sappia il bell'ufficio che faccio ora. Tienla stretta, dunque!

Marietta tremava e guardava sbalordita quella busta e il suo nome tracciatovi sopra con una regolare e forte scrittura d'uomo. Che era ciò?

— Apri dunque! Leggila, quella lettera. Io non guardo.

La fanciulla lesse, scolorata in viso, col cuore stretto. Erano due pagine; ella non potè arrivare sino al fondo, le si oscurava la vista, non capiva bene.

— Che vuol dir questo, Enrichetta? Spiegami!

Povera bimba, come era ansiosa e sconvolta!

— La spiegazione? eccola. Egli, come io avevo capito subito, ti amava da un pezzo; ma in tuo confronto è povero; non osava spiegarsi. Io però gli feci la corte; capisci! la corte, ma per tuo conto. Divenni la sua confidente, egli mi disse tutto. Confessò che tu gli piacevi, che aveva fondato tante belle speranze! Anzi mi disse di una certa sera, quando si ballò, non so bene se da don Pietro o dove — io non ho una memoria straordinaria — e tu vestivi un delizioso vestito rosa — già, disse proprio cosi — e lui t'invitò a ballare un valtzer — mi disse anche quale, gl'innamorati son così precisi! — e allora ci fu una mezza dichiarazione, eh? o qualche cosa di equivalente. No? Ebbene, egli crede invece di aver parlato cogli occhi, colla pressione delle mani, che so io! avrebbe ben potuto parlare colla bocca, che si sarebbero evitati tanti malintesi poi! Dunque, Marietta, capisci? Io, che son tenera di cuore, mi mossi a compassione di una storia così dolorosa; poi mi premeva di convincerti, di consolarti, e finii col proporgli di scrivere una lettera ch'io ti avrei consegnata. L'ha fatto, la lettera eccola là. Sei contenta? Se sì, dammi un bel bacio, così; poi, mentre io terrò un pochino a bada la mamma, — belle cose che faccio! — tu va a farmi la risposta, subito, ma breve, veh! mi raccomando. Me la dai, io la consegno, e lui si presenta domani al papà e tutto è concluso.

Marietta ascoltava, felice, trasognata, e non pareva più lei; era bellissima, così rossa di commozione e cogli occhi brillanti di lagrime.

Dapprincipio un resto di diffidenza non le permetteva di abbandonarsi francamente alla gioia; la cosa non le andava giù del tutto, non le pareva abbastanza liscia; ma infine la lettera parlava chiaro; li c'era scritto — tornò ad assicurarsene — a caratteri di fuoco: «Io vi amo!» Come dubitare più?

In camera sua scrisse la risposta, mentre Enrichetta, come aveva promesso, tratteneva in salotto donna Rosina e Piovino. Ma il maestro se ne andò quasi subito; aveva molto da fare.

Il sabato — non il domani, perchè era venerdi — la vedova Balbi si recava in casa Murgillo a chiedere la mano di Marietta per il suo figliuolo.

Andarono presto d'accordo: ma la promessa formale doveva farsi appena di là a otto giorni, quando il fidanzato in persona avesse portata l'imbasciala alla ragazza, in mezzo a tutti i parenti e amici invitati.

Allora il contratto di nozze si doveva serrare fra le due parti; si gettavano i confetti sulla sposa e sulle amiche di lei; la promessa si poteva considerare come sacra; la notizia ufficiale del prossimo matrimonio correva il paese, e lo sposo era ammesso a far visita in casa della sposa.

Eccone almeno due che, se non troveranno il modo di essere felici, non sarà certo per colpa di lei! Ah si! ella ci aveva proprio messo ogni impegno a riuscire, ed era riuscita.

Come aveva saputo bene raffreddare l'entusiastico amore che Giulio Balbi aveva per lei, e tirarlo nei limiti di una amicizia schietta, senza secondi fini!

Certo che le era costato un po' di fatica e molta diplomazia per decidere il giovane poeta a innamorarsi di Marietta Murgillo. Egli aveva bensi affermato che non la trovava brutta, anzi che qualche volta era persino carina, quando, come l'aveva veduta ai balli, gli occhi le brillavano e le si animava il viso. Ma più in là non era andato.

Quando Enrichetta si decise poi, sotto il sigillo della parola d'onore, a svelargli la passione che la giovineta aveva concepito per lui, egli convenne di esserne commosso; la sua vanità almeno ne fu lusingata.

Allora Enrichetta abilmente toccò il tasto dell'interesse.

Marietta aveva diecimila ducati in contanti dal primo giorno delle nozze. Più di quarantacinquemila lire! Con quello che aveva lui si arrivava a fare una bella somma; che magnifica occasione per aprire a Bari uno studio di avvocato e incominciare così una splendida carriera! Egli che aveva tanto ingegno ed era così istruito!

Quella Enrichetta! che arte aveva di adulare uno e non parere, e come il bravo avvocato ci cascava!

Finalmente l'astuta mise in campo anche la madre di lui, e se ne fece una potente alleata. Allora tra quelle due egli perdè la testa.

Finirono col convincerlo che egli era innamorato di Marietta, anzi che non aveva mai amate altre che lei; un giorno gli fecero scrivere la lettera. Egli la compose con coscienza, come se avesse dovuto svolgere un tema datogli dal professore. Ma quando la sua maestra gli portò la risposta di Marietta, egli si sentì tocco davvero da quell'ingenuo e intenso amore, che spirava dalle poche righe tracciate dalla giovinetta tremando.

«Venite a parlare coi miei genitori, — diceva la lettera; — io spero che la loro decisione sarà conforme ai miei desiderii; se essi negassero di accettare la vostra domanda, io dovrei ubbidire, ma sarei molto infelice».

Gli era permesso di esitare?

Fu lui che, sull'uscio, aggiustò i pizzi dell'antico scialle nero che sua madre si mise sulle spalle quel sabato quando andò a portare la sua domanda ai Murgillo.

Pallido di commozione, egli le ripetè le parole che le aveva suggerite la sera prima, e le raccomandò di non cambiarue una sillaba.

E sarebbe rimasto ben mortificato se si fosse trovato lui presente al colloquio e avesse visto sua madre cavarsela così bene, senza adoperare pur una parola dell'eloquenza del figlio… Non per malvolere, povera donna, ma perchè le era uscito di mente ogni cosa; ad ogni modo ella riusci al di là dei suoi desiderii… Gli è che lei era una madre e aveva nella piazza una potente alleata. Marietta la sera prima aveva confessato piangendo il suo amore a donna Rosina, e aveva posto intrepidamente il famoso dilemma degli innamorati: o lui o la morte.

Così donna Rosina ebbe, da allora in poi, a presenziare il colloquio di due coppie di fidanzati. Ma le dava molto più da fare quest'ultima che l'altra.

Prima di tutto Giulio Balbi veniva ogni giorno — non il solo giovedi come Piovino — e si tratteneva due ore; poi per nulla al mondo li avrebbe lasciati soli, tanto le parevano innamorati; ciò che non era veramente il caso di Eurichetta e di Piovino.

— Questione di temperamento! — diceva donna Rosina, confidandosi con qualche amica intima; — mia figlia è così sensibile! oh! mi somiglia troppo quella cara ragazza!

Al venti di luglio Enrichetta diede gli esami alla sua classe, aiutata dal maestro di terza, che, coscienziosamente si adoperò, per quanto stava in lui, a che Enrichetta facesse una cattiva figura.

Ma la giovane maestra non si lasciò imporre; anzi, giacchè la mettevano al punto, volle far riuscire bene parecchie delle sue alunne che ella aveva già in cuor suo condannate.

Così anche Elvira Marzi fece una discreta figura, e la faccia bonaria del sopraintendente s'illuminò di gioia. Il delegato badava poco all'esame e molto alla maestra; i suoi occhi di uomo vizioso si accendevano sçorrendo la bella, elegante persona di lei; e una volta che l'invidioso maestro tentò togliere quell'interessante Autorità alla sua contemplazione per farla intervenire in una quistione di promozione e di voti, poco mancò non fosse mandato al diavolo dal reverendo canonico.

Il solo che desse retta era il sindaco, ma egli se ne intendeva così poco che lasciava gli altri sbrigarsi a modo loro; egli si contentava di approvare sempre, e rimandava ognuna di quelle piccine sapienti con un sorriso pieno di soddisfazione al suo posto.

Il maestro, verde dalla collera, dovette ritirarsi pienamente sconfitto; e si vendicò dicendo quella sera alla farmacia che la corruzione nel paese era grande, che le autorità avevano una condotta scandalosa, e profetizzò alla patria una imminente rovina.

Ma ciò non valse a diminuire il trionfo di Enrichetta; nessuna delle sue alunne fu rimandata.

La dolce Maddalena Balbi fu proclamata la prima; la nipote del delegato, Maria d'Aquino, dagli occhi maliziosi, risultò la seconda, mentre la modesta Serafini non ebbe che il terzo posto, perchè si era confusa e si era messa a piangere durante l'esame.

La sera Enrichetta trovò a casa una lettera del suo fidanzato.

Egli, secondo il desiderio di lei, non era stato presente all'esame, ma aveva subito saputo il felice esito, e ora si congratulava caldamente colla sua amata.

«Ho capito che hai seguito i miei consigli; il risultato è stato splendido; sei stata ragionevole. Braval» E Enrichetta ebbe quasi vergogna della sua vittoria.

Le vacanze! finalmente! la maestra ne aveva proprio bisogno.

Il pallore del suo viso s'era accresciuto; i cerchi plumbeo-azzurri s'erano allargati intorno ai suoi occhi. Anche il profilo soave delle guancie s'era allungato, appiattito; la bocca, la bella e fresca bocca, ora pareva troppo grande: così si allungava il taglio fra le labbra affinate.

La mattina ella gettava nello specchio appena un'occhiata fugace; aveva paura di fissare quell'imagine di lei così cambiata. Del resto pensava ora con disprezzo alla sua bellezza che andava svanendo; un grande languore la vinceva; non usciva quasi più; moltissime volte mancava ai convegni col suo fidanzato in casa Murgillo.

Sul finire di luglio il conte Mariani aveva condotto Isabella e la eugina a Napoli per quindici giorni, sicchè anche le visite al palazzo non procuravano più a Enrichetta il pretesto di uscire; ella passava le giornate sdraiata sopra una seggiola appoggiata al letto, con due guanciali sotto il capo; ciò le teneva luogo del sofà che non aveva.

Lucietta saliva un paio di volte a chiedere se la maestra non aveva bisogno di nulla, e immancabilmente questa domandava dell'acqua.

Ne beveva grandi bicchieri, tutti d'un sorso; sorridendo quando le dicevano che poteva farle male.

Veniva qualche volta anche la gobba Maria Luigia, quando l'affanno non le impediva di far la scala; si sedeva dirimpetto alla giovane e la fissava coi suoi occhietti neri, raccontandole qualche cosa per distrarla, colla sua voce rotta, che pareva piena di singulti.

Eurichetta socchiudeva gli occhi, dicendo ogni tanto una parola, immersa in un sogno lontano.

Un giorno venne a visitarla donna Rosina. — Marietta era dietro al suo corredo — impensierita di vederla così raramente.

Era dunque malata? soffriva forse, la cara figliuola?

Malata? Mai più! Stava benissimo; solo s'era fatta molto pigra perchè si sentiva così stanca! eppoi il caldo l'opprimeva tanto; ella aveva sempre sete, si sentiva ardere il sangue e lo stomaco; beveva, beveva sempre e consumava una straordinaria quantità di limonate.

Donna Rosina le diede qualche consiglio, ma le raccomandò sopratutto di non lasciarsi vincere da quell'inerzia, di scuotersi, di farsi coraggio e essere allegra. Perchè non andava a Bari a prendere qualche bagno?

Ma Enrichetta non ne aveva proprio voglia; non voleva muoversi, la sua era una vera pigrizia, e, giacchè ne aveva il tempo, voleva abbandonarvisi.

Donna Rosina se ne andò presto; aveva tanto da fare! Ma la sera mandò a Enrichetta una cestina di arancie e di limoni, e fu quella volta che la giovane, ebbe, dopo tanto tempo, un vero slancio di gioia.

Il suo corredo era completamente dimenticato; ella non se ne occupava più. Aveva tempo di pensarci l'autunno e l'inverno venturo! Ora non voleva altro che riposarsi.

Si scosse un giorno che, dalla stanza inferiore, udi la voce di Carolina. Senti che il suo cuore batteva con forza, e la prese un'improvvisa smania di vederla colei, di udirla… sì, farsi raccontare tutto. Pure non chiamò per farla salire, e stette a vedere, divorata dall'ansia, se ella veniva spontaneamente. Difatti un momento dopo Carolina chiedeva il permesso di salire. Appena entrata, la giovane contadina fece un moto di spavento. La commozione aveva reso spettrale il viso di Enrichetta, e Carolina non potè tenersi dal gridare:

— O Gesù benedetto! Ma siete dunque malata, signora maestra!

Ma ella s'indispetti; perchè mai tutti insistevano che ella fosse malata? Stava benissimo, invece; solo faceva molto caldo, o che caldo! Ma stava bene, non era mai stata meglio.

Le sue parole suonavano aspre; la voce soave era divenuta acuta e tagliente come una lama; Carolina la guardava con dolorosa meraviglia. Poi, nella penombra della stanza, in quell'angolo vicino al letto, quel primo imbarazzo cessò e un'ombra dell'antica cordialità rinacque tra le due giovani.

Carolina aveva qualche cosa da raccontare, qualche cosa che la rendeva felice, e che avrebbe detto così volentieri a quella che era stata sua confidente una volta.

Enrichetta indovinava, sentiva per aria quella confidenza, ed era torturata dal bisogno d'udirla; l'ansiosa curiosità le inaridiva la bocca; tuttavia parlarono per un pezzo di cose indifferenti, fin che Enrichetta, vinta, si arrese e domandò:

— E lui?

Ebbe la forza di dirlo sorridendo.

Allora Carolina le disse tutto. Egli era ritornato a lei, e raccontò come.

Una sera, ch'ella tornava dal campo di fave di don Rodolfo, egli le era passato vicino e le aveva fatto un cenno. Ella aveva lasciato le compagne ed era ritornata indietro. Allora lui la ricondusse in un suo fondo che era da quelle parti, e dove, prima, erano già stati molte volte.

Così ricominciò la storia. Adesso ella lavorava nel giardino dei Murgillo, e si vedevano sempre.

Enrichetta la guardava, ascoltandola, colle labbra contratte in un ghigno di compassione. Povero mondo, ah, che miseria!

Carolina aveva un bel paio d'orecchini, lunghi, fatti a gocciole d'oro; un fazzoletto di seta al collo, un anello… ed era più bella di prima, pareva ingrassata un tantino, benchè fosse più bruna, certo per effetto del sole, nei campi aperti.

A poco a poco il sorriso di Enrichetta cambiò espressione.

Carolina ora taceva, ed era rimasta sorridente, del suo solito mite sorriso.

Enrichetta, guardandola, non provava più collera e nemmeno pietà per lei: felice! era felice quella donna perchè amava! Il suo amore era tutto fatto di dolcezza e di sommissione; era rassegnata nell'abbandono, e quando l'amante ritornava a lei, gli si abbandonava senza rimproveri, senza civetteria, lieta di essere ripresa, di occupare ancora per un po' di tempo il pensiero del suo signore.

Certo quel modo di amare era nella natura meridionale di quelle donne: certo le odalische degli indolenti sultani amano così, aspettando con inalterata pazienza che il bel signore getti loro il fazzoletto…

Ebbene? chi sa se quella forma d'amore non fosse, nella donna, la migliore; che profonda pace doveva trovarsi in quella passività dolce, senza slanci, senza irritazione, senza gelosia!… che riposo di tutto l'essere che si annientava nell'oblio di sè stesso!

Lei stessa non aveva mai compreso l'amore in quel modo, ma in quel momento le pareva di sentire così poco il proprio corpo, che le sarebbe tornato facile e dolce di abbandonarsi tutta in un abbraccio infinito, nel quale avesse trovato la pace.

Le si chiusero gli occhi, la testa le divenne pesante… a un tratto non si senti più.

Carolina, che la vide piegare su sè stessa, diede un grido acuto e si slanciò a sostenerla; da basso accorsero Teresa e Lucietta; deposero la giovane svenuta sul letto e, mentre Carolina piangendo le slacciava il busto e le faceva odorare dell'aceto, Lucietta corse pel medico.

Sull'uscio di casa diede del capo contro due persone che stavano per entrare; erano Isabella Mariani colla sua cameriera.

Il conte era toranto da Napoli quella stessa mattina.

— Si, papà, sta proprio male; m'ha fatto impressione; se tu la vedessi com'è cambiata! È stata un'ora per rinvenire, e poi non riconosceva più nessuno, aveva gli occhi aperti e pareva non vedesse. Non poteva nemmeno parlare da principio, e poi aveva una voce fioca, fioca, poverina! Infine si rimise, ma ha l'aspetto così stanco! tuttavia parlò di alzarsi. Vittoria m'ha detto che hai mandato a chiamare don Leopoldo: è per avere notizie? Ho paura, papà, ho paura.

Il conte Francesco ascoltava la figliuola con doloroso stupore. L'inquietudine lo faceva andare su e giù per la stanza, mentre donna Rosalia, senza dire una parola, fissava con insistenza i suoi occhi shiaditi sulla stuoia del pavimento.

Isabella stette un po' a guardare il padre e la zia, e avrebbe forse voluto sentirsi domandare qualche altra cosa, ma vedendoli così silenziosi, se ne andò in giardino tristamente, pensando per la prima volta con amorosa pietà alla sua maestra.

Il conte continuò a passeggiare per la stanza, e la sua inquietudine era divenuta un'ansia terribile.

Che poteva avere quella bella giovinetta? di che era malata?

La bionda figura, raggiante di gioventù e di leggiadri, gli riapparve alla mente come la prima volta che l'aveva veduta alla scuola.

Allora lo aveva colpito quell'insieme di forza e di grazia: la bella persona slanciata, il seno colmo e le spalle robuste, il viso rosato e gli occhi… occhi che avevano il colore e la profondità del mare.

Come dunque s'era ammalata? Ben si ricordava che a Pasqua, quando lei era stata al palazzo, l'aveva già veduta leggermente cangiata. Il bel visino già allora gli era parso affilato, e i grandi occhi avevano perduto alquanto del loro splendore; ma ciò non gli aveva dato da pensare; sapeva ch'ella era fidanzata e le nuove cure ben potevano averla trasformata così; poi ella si affaticava alla scuola e quell'anno il calore era eccessivo…

Ma ora gli dicevano che ella stava male! Egli sapeva ciò che poteva significare star male. Aveva veduto un'altra donna, una donna che egli aveva amata molto, benchè non avesse saputo farla felice, incominciare a star male. L'aveva veduta lentamente consumarsi, anche a lei s'era affilato il viso, s'era spento il fuoco dei begli occhi — occhi neri come la notte — così diversi da quelli azzurri della maestra, ma così per la potenza della bellezza… e s'erano chinsi per sempre… per sempre…

Ad ogni passo che metteva, movendosi concitato in su e in giù, il conte ripeteva quell'amara parola. Per sempre… così dolci occhi… per sempre… Eppure no, essi non erano stati sempre dolci. Ben ricordava egli i lampi di collera, che tanto spesso li avevano incendiati; la gelosia, che vi aveva acceso delle fiamme gialle; la tristezza improvvisa, capricciosa, che li aveva offuscati così spesso.

Ogni volta che in sua figlia si ripetevano quei moti d'un'anima inquieta e strana, egli vedeva negli occhi di lei lo spirito della madre rivivere, avvampare, avventarsi su di lui per dargli tormento.

Non importava tutto ciò, non importava; ah! purchè quegli occhi non si fossero chiusi!

E ora che doveva importargli infine di questa povera maestra che forse moriva, tutta sola, e che egli aveva appena conosciuta? Infatti, che gliene doveva importare? Ci pensava solo perchè era giovane e bella, certo; per quella debolezza che provava sempre per ogni donna, e anche perchè questa gli aveva inspirato una simpatia speciale e del tutto nuova per lui. Era lei che aveva bisogno di protezione; era lei la più debole, povera e sola; e così pareva a lui di essere il più forte, e se ne sentiva lusingato e superbo.

Donna Rosalia lo tolse a quelle fantasticherie.

— Non senti, Francesco? Mi pare la voce di don Leopoldo.

Il conte corse alla porta: era infatti il dottore.

Don Francesco non dissimulò la sua ansia. Che ne era di quella povera giovane? Proprio malata? e di che era malata?

Il medico non poteva pronunziarsi ancora e dovette confessare che ne capiva poco anche lui. Tutto accennava a una malattia di languore, ma i polmoni non erano attaccati; la fanciulla era però molto debole e il caso poteva farsi serio… certo l'anemia si pronunciava e ci voleva una cura paziente e efficace; aria buona, di campagna; distrazione, moto, nessuna fatica e nutrimento ricostituente.

Poi, don Leopoldo, che era una gran buona pasta e un uomo di buon senso anche, accennò a qualche suo dubbio, che comunicò al signor conte perchè lovedeva interessarsi tanto della signorina.

Forse… ehm! come dirlo?… forse aveva qualche dispiacere, la povera ragazza; qualche pena di cuore…

Il conte guardò il medico con meraviglia. Pene dicuore? Ma se era fidanzata!

Don Leopoldo ebbe un sorriso pieno di furberia.

Eh! eh! chi poteva saperle quelle cose li? Non poteva esser nato qualche disgusto tra lei e lo sposo… oforse lei essere pentita? Eh! eh! chi sa? chi poteva mai conoscere a fondo il cuore di una ragazza? È certo che quella malinconia in una giovine sana — era un fiore quando giunse al paese — doveva avere una causa.

Donna Rosalia aveva alzato il capo e sorrideva anche lei. Anche lei aveva capite le parole del medico… già ogni accenno all'amore pareva destarla da un sogno, la vecchia dama, e qualche cosa vibrava nel suo cuore gelato. Non aveva avuto anche lei una volta, in un tempo ben lontano, un cuore facile ad accendersi e a palpitare? Anzi non era stato ammalato il suo cuore, tanti, tanti anni fa?

La mattina dopo, a colazione, il conte Francesco espose un suo progetto in famiglia.

Erano ritornati così presto da Napoli perchè lui, don Francesco, non amava molto quella città, ma ora invece Jorselli, il suo banchiere, gli scriveva che la sua presenza era necessaria. Lui dunque doveva tornarci; se ci tornassero tutti?

Isabella rimase muta, ma donna Rosalia esclamò:

— A Napoli? Ma si soffoca!

Allora il conte si spiegò. Non proprio a Napoli; si poteva affittare nei dintorni una villa, o andare tutti a Mergellina, dove donna Rosalia ne aveva una, bellissima, che non era abitata quasi mai.

Isabella continuava a tacere, ma guardava suo padre con insistenza, come a leggergli in cuore. C'era altro ancora, el'a lo sentiva, e aspettava, mentre già il viso prendeva un'espressione di malcontento.

Il conte però evitava di guardarla, e, prima di dire ciò che gli premeva di più, ebbe un colpo di tosse, che gli diede improvvisamente coraggio.

Aveva pure intenzione di invitare la maestra a venire con loro.

Il conte trasse un rumoroso sospiro di soddisfazione. Finalmente era detta! e non era stato nemmeno molto difficile il dirlo.

Guardò in faccia sua figlia e vide negli occhi di lei i lampi di collera che aveva presentito, ma questa volta non ne fu sgomentato: voleva esser forte e che la sua volontà prevalesse. Così riprese il discorso con voce calma, spiegando semplicemente come gli era venuta quell'idea.

La signorina Borlieux era stata buona e paziente con sua figlia; Isabella aveva fatto in quell'anno progressi meravigliosi; niente di più naturale che renderle forse un servigio importante, dandole il mezzo di cambiar aria e di farle continuare le lezioni di francese a Isabella. Che ne diceva donna Rosalia?

Donna Rosalia, giacchè era interrogata direttamente, disse che trovava l'idea buonissima; molte famiglie prendevano in casa l'istitutrice solo pel tempo delle vacanze; Isabella avrebbe potuto parlare sempre francese, e riguardo alla povera giovane era una vera opera di carità.

Donna Rosalia non aveva mai fatto un discorso così lungo e connesso; suo cugino n'era tutto contento; ma la faccia scura di Isabella non lasciava ancora sperare che ogni cosa fosse stabilita, e pareva anzi meditasse una malignità per guastare la gioia di suo padre. Improvvisamente disse:

— Ma la signora Enrichetta è fidanzata; chi sa se il signor Piovino avrà piacere che ella vada via per molti giorni!

Il conte trasse un sospiro di sollievo; non era che questo? Egli vi avrebbe rimediato facilmente, e si alzò per uscire.

Le due donne, la vecchia e la fanciulla, rimasero, sole. Il viso d'avorio della dama aveva la dolcezza impassibile di un ritratto antico; la figura nobile e vivace della giovinetta s'era invece contratta in una espressione di rabbia e di dolore.

Ahi! quella donna; quella donna bionda e rosea che ella aveva odiato sempre, sarebbe venuta di nuovo in casa, nella casa dove era morta sua madre, e per lungo tempo forse! Ah, perchè non moriva quell'aborrita? solo quando la vedesse morta potrebbe averne pietà e perdonarle ciò che le faceva soffrire!

Per istrada il conte era tormentato dal dubbio che in lui aveva fatto nascere Isabella. Che doveva fare? Se veramente ci fosse già qualche disgusto tra i due fidanzati, nulla di più facile che un diniego del maestro a lasciar partire Enrichetta. E se lei lo amava… Pure la supposizione che lei lo amasse gli ripugnava, gli pareva assurda, non sapeva nemmeno lui il perchè. E se non lo amava… era un'occasione per liberarsi di lui. Ma no, nessuno poteva averla costretta a quel matrimonio; se lei stessa aveva scelto, — ed era certo così, — non avrebbe voluto disgustare il suo promesso sposo; il meglio sarebbe stato di assicurarsi subito il consenso di lui.

Con questo pensiero il conte passò davanti alla farmacia, sperando che Piovino fosse lì; allora, benchè ciò costasse molto al superbo signore, lo avrebbe chiamato e gli avrebbe parlato. Ma davanti alla farmacia spalancata c'erano tre o quattro del paese e il farmacista, che s'inchinarono profondamente quando il conte passò; Piovino non c'era.

Doveva dunque andarlo a cercare in casa? Questo certo, non l'avrebbe fatto. E perchè no? A che tanta superbia veramente? Il maestro era una persona civile, e il conte, essendo del paese, sapeva bene dove era la sua casa. Pure no, no, non era conveniente andarci.

Continuando a dire no colla mente e si col cuore le sue gambe lo avevano portato davanti alla casa di Piovino; e in quel momento il maestro, non pensando affatto all'onore che lo minacciava, stava tritando della cipolla in una gran teglia piena di pomidoro tagliati.

Il promesso sposo faceva quel lavoro molto macchinalmente, pensando a tutt'altro.

Era seriamente inquieto sul conto di Enrichetta. Era stato a trovarla quel giorno, senza curarsi di chiederle prima permesso, a l'aveva trovata in letto, molto debole, molto bianca, e cosi indifferente che non gli aveva mosso nessun rimprovero perchè era venuto.

Egli capi che la giovine era proprio malata. Se fosse morta? A quell'età l'etisia era cosi facile! Egli tremò pensando che tutto il sogno dell'avvenire sarebbe svanito. Nelle sue abili mani quella moglie rappresentava una fortuna; se fosse venuta a mancargli?

Pensava ciò tritando la sua cipolla, quando il conte picchiò all'uscio. Egli non aveva serva e andò ad aprire. Lo stupore lo paralizzò; a un tratto ricordò la cipolla, pensò che il conte ne sentirebbe l'odore, e subito lo introdusse nella stanzetta vicina, ficcando in fretta le mani in tasca a cercare il fazzoletto per pulirsi.

Si confondeva intanto in umili scuse: la sua casa era da pover'uomo, scapolo; non si sarebbe mai aspettato l'onore di una simile visita… Ma accorgendosi che il conte gli badava appena e aveva lui pure un aspetto quasi umiliato, tacque subito, gli offrì una sedia, e gli domandò poi cerimoniosamente a che cosa doveva attribuire l'onore…

Il conte non sedette; si sentiva a disagio in quel luogo, era pentito ora di esserci andato, e la faccia livida del maestro gli parve addirittura odiosa; pure dovette esporre il motivo della sua visita.

Chiese dapprima notizie di Enrichetta, poi parlò del progetto che avevano fatto in famiglia, gettando la responsabilità dell'iniziativa sull'innocente donna Rosalia. Disse che era venuto perchè sperava che il signor Piovino avrebbe saputo far decidere la signorina ad accettare il suo invito; del resto poi gli era parso un dovere… hm! hm!… il povero conte non sapeva più cavarsela.

Invece il signor Piovino si mantenne calmo, anzi dignitoso, e se provò qualche contrarietà o un piacere esagerato, sul suo volto impassibile non si rivelò nulla.

Stette un momento in silenzio guardando il conte; compiacendosi di vedere quel gran signore turbato, quasi umiliato, trovando che la parte fatta era abbastanza ridicola. Ma poi subito si sprofondò in proteste, in ringraziamenti; dicendosi felice, promettendo che la sua cara Enrichetta avrebbe accettato con entusiasmo.

Quanto a lui era strordinariamente felice pensando che la salute della sua amata sposa si sarebbe ristabilita; ah, certo non poteva dimostrare al signor conte tutta la sua riconoscenza.

Quel fiume di parole melate aveva finito col nauseare don Francesco, e perciò, non appena potè liberarsene, lasciò alla sua cipolla l'esoso individuo e se ne andò in fretta; credo persino che sull'uscio egli abbia scossa la polvere dai suoi calzari.

Respirò più liberamente nella via, ma in fondo al cuore gli restava l'amarezza di aver fatto uno sforzo faticoso e inutile. Non gli era parso proprio che quel… Piovino si ridesse di lui, per la dabbenaggine che aveva mostrata? Come se, per far risolvere Enrichetta, il consiglio o il permesso di un uomo simile bastasse! Ma come lui, il conte Mariani, aveva potuto commettere una simile debolezza? Non poteva perdornarsela, e più ci pensava, più la sua irritazione cresceva.

Aveva prima deciso fra sè di mandare quel giorno stesso un biglietto d'invito a Enrichetta, ma poi smesse quell'idea. Che gliene importava infine? Il gentile fidanzato si sarebbe certo incaricato lui di far nota la proposta del conte alla maestra, e era probabilissimo che lui stesso, il signor Piovino, sarebbe andato a palazzo Mariani a portar la risposta.

Così il conte Francesco, arrivato a casa, montò immediatamente a cavallo e galoppò fino a Bari. Quella notte non ritornò a Pianbasso, e lo si vide ripassare il paese appena verso le nove del giorno dopo.

Anche quella giornata la passò sempre fuori, cavalcando per le sue tenute, e ritornò a palazzo la sera.

Sperava di aver notizie della maestra, invece nessuno ne aveva mandate e nessuno aveva pensato di farne chiedere. Passò quella notte al palazzo, ma non dormi bene. Nei sonni corti e interrotti ritornava una pallida figura a tormentarlo e, quando si destava, la stessa domanda gli tornava in mente, domanda a cui non sapeva risposta:

— Come starà? Vorrà venire con noi?

Finalmente la mattina dopo, prese un'altra decisione. Un violento desiderio di rivedere Enrichetta lo assalse; gli parve che dovesse andar lui, proprio lui, a pregarla di venire, a convincersi che non era malata, almeno non molto malata.

Vestendosi gli venne però il dubbio che forse sarebbe stato più conveniente di mandare donna Rosalia con Isabella, ma rigettò subito questa idea. Isabella? Era capace di far il possibile, per la sua sciocca gelosia, che la maestra non accettasse l'invito.

Ah quella gelosia! non poteva esser più fuor di luogo che questa volta! Eppure la pazza fanciulla era gelosa di Enrichetta; egli se n'era ben accorto. Doveva adunque andar lui solo?

Usci; camminò mezz'ora senza decidersi, poi andò a casa a pregare donna Rosalia di accompagnarlo. Uscirono a piedi. Isabella, dal balcone,li segui con occhio minaccioso.

Il conte Mariani si era fermato un momento irresoluto sulla soglia della meschina casa. Donna Rosalia ebbe un moto di disgusto. Ma che? Andavano proprio là dentro? Poi il conte si decise e sali il primo; la vecchia dama gli tenne dietro scotendo il capo.

Che scala! Entrarono nella stanza dei padroni di casa, che si doveva attraversare; era brutta, in disordine, e il sole che vi entrava pareva rischiararla per dispetto o per ironia. Le due gobbe rifacevano il letto, tirando sopra il pagliericcio un lenzuolo di colore dubbio, orribilmente picchiettato dalle pulci.

Appena le due sorelle riconobbero il conte e la signora, Teresa, lasciando il lenzuolo, gettò alte strida di sorpresa, e di spavento. Un simile onore le faceva perdere la testa; si mise a dire delle sciocchezze, balbettando, saltellando. Il conte, subito infastidito, domandò della signorina Borlieux.

— Che vostra eccellenza si degni di favorire di sopra.

Il signore seguì la gobba su per la seconda scala di legno; donna Rosalia più stordita che rassegnata, salì anche lei.

La specie di botola che serviva di porta era chiusa; Teresa la sollevò colla testa e colle mani, e un vivo raggio di sole sbattè sul viso al conte, che entrò il primo e stette sorpreso come se avesse avuto unavisione.

Presso al balcone aperto, volgendo la schiena all'entrata, Enrichetta si faceva ravviare i capelli da Lucietta. Il conte vide che era tutta avvolta in alcunchè di bianco, un accappatoio forse, e su quel bianco scendeva il fiume d'oro dei capelli, giù per le spalle fino a terra. Il sole, splendendovi sopra, ne sprigionava scintille.

Ella non si era mossa; aveva bensi udito parlare e salire la scala e aprire la botola, ma pensò che fosse Teresa con qualche altra donna del vicinato, e continuò a tenere il capo chino sotto il peso dei capelli, nei quali il pettine tenuto da Lucietta passava come una carozza.

Fu questa la prima a volgere il capo, e, vedendo i signori, diede un acuto grido; allora Enrichetta si volse: un vivo rossore la colorì tutta, e si alzò in piedi confusa e tremante.

Il conte e donna Rosalia s'erano avanzati vivamente, la dama l'aveva presa per le due mani, e la costringeva a sedersi di nuovo; e, poichè la fanciulla, ancora confusa e vergognosa, rimproverava Teresa di non averla avvisata, che si sarebbe messa più convenientemente per ricevere quei signori, il conte la rassicurò, pregandola di non prendersi alcuna soggezione, — si sapeva da tutti che ella era malata; i malati non erano obbligati a ricevere in abito di gala.

Così la conversazione si avviò scherzando; Teresa e Lucietta, dopo aver avvicinato due sedie, se n'erano andate; e Enrichetta, passato il primo momento di confusione, ricuperò la sua disinvoltura. Sapeva di essere bella ad ogni modo; perchè avrebbe dovuto trovarsi imbarazzata? e lasciò tranquillamente che i suoi capelli le scorressero sul petto e sulle spalle, formando l'ammirazione di quei signori.

Donna Rosalia difatti non potè tenersi dal dire ad alta voce:

— Ah che magnificenza!

Sì, forse ora non si sarebbe detto, ma un tempo anche Lei era stata bionda; bionda così che non pareva una meridionale, e aveva avuto bei capelli anche lei; ma belli così, no.

E colla famigliarità che le donne prendono fra loro, chinandosi verso la giovinetta prendeva a manciate i capelli scendenti sul seno, li palpava, diceva che erano una vera seta.

Enrichetta si schermiva ridendo e diventava rossa, d'un bel rosso vivo, che faceva risaltare i grandi occhi, ampliati dal cerchio plumbeo che li circondava. Era divina.

Così almeno pensava il conte, che s'inabissava in visioni piene di dolcezze. Gli pareva che quello fosse proprio il suo posto, lì, vicino a quella splendida creatura; ella era ora cosa sua, per lui sfoggiava i suoi vezzi: quei dolci capelli era lui che li palpava, che v'immergeva le mani e le labbra.

Entrava dal balcone aperto un'onda di luce; la giornata era tiepida, le rondini schiamazzavano attorno il campanile. Egli non si ricordava nemmeno più perchè era venuto.

Udiva la voce di Enrichetta; era come una musica ma più debole, oh! più languida assai d'una volta, quella voce non aveva più alcuna inflessione metallica; era un po' velata… incerta…

Questa sensazione lo trasse dai sogni alla realtà, e allora guardò la giovinetta con curiosa inquietudine, e s'avvide di quanto era cambiata. Il rossore fuggevole era già svanito e le gote s'incavavano leggermente, pallide, diafane. Le vide le labbra sbianchite, il naso affilato, lo sguardo stanco; e il collo che l'accappatoio lasciava nudo, gli parve così tenue, così esile, che il cuore dell'uomo ne senti una immensa compassione.

Comprese che la fanciulla era perduta se non si riparava subito; egli non sapeva che fosse… tisi o mal di cuore o anemia, qualcosa di terribile certo minacciava quella giovane esistenza.

Allora ricordò perchè era venuto da lei, l'invito che voleva farle; chi sa se aveva veduto Piovino, se sapeva già…

Voleva parlare e non trovava le parole adatte; il discorso avviato — su cose indifferenti — non gli offriva mai l'occasione; e s'imbarazzava, lui, l'uomo brillante in società, che aveva conosciuto ogni specie di donne bellissime, modiste e marchese, e che era sempre stato debole, ma timido mai.

Dopo qualche tempo parlò finalmente. Pregò la signorina di continuare le sue lezioni a Isabella anche durante le vacanze.

Enrichetta, meravigliata, disse che ella era ben contenta; aveva creduto però che i signori Mariani andassero a passare l'estate in campagna.

Il conte sorrise con fare impacciato.

— Certo, signorina, noi andremo in campagna, e lei, se volesse, potrebbe venire con noi. Sia dunque buona e dica presto di sì.

Enrichetta allora comprese. Il conte voleva procurarle aria buona, come aveva ordinato il medico, e le faceva l'invito in quella forma per togliere ogni peso al beneficio.

Una grande, improvvisa gioia l'assalse. La commozione tornò a colorirle le guancie; balbettò confusa:

— Quanta bontà, signore!

Si strinsero la mano da buoni amici. Accettava dunque? O, come egli era contento! Anche donna Rosalia sorrise, soddisfatta, e diede un bacio alla giovinetta. Allora parlarono tutti tre allegramente; le campane della chiesa suonavano il mezzogiorno a larghi rintocchi squillanti.

Il coute si meravigliava tacitamente che Enrichetta non parlasse affatto di Piovino, e avesse accettato senza neppur accennare alla possibilità di un ostacolo da parte di lui. Erano già d'accordo? In quel caso ella aveva saputo simulare assai bene la sorpresa; oppure ella non si curava affatto di lui, e faceva la propria volontà in ogni cosa?

A un tratto parlò lui della visita fatta a Piovino, ma con indifferenza, come se il discorso cadesse naturalmente. Allora vide un'ombra calare sul volto allegro di Enrichetta, che espresse una sorpresa sgradevole, Il conte arrossì come un bambino colto in fallo, e stava cercando qualche cosa da dire, quando la giovane, tornando serena, lo ringraziò della sua premura; era stata una gentile idea quella di parlare al suo fidanzato; così era doppiamente contenta sentendo che anche lui era già d'accordo.

Disse tutto ciò con una dignità graziosa, ma le sue parole erano tanto fredde che il conte si convinse sempre più di aver commesso una sciocchezza andando da quel taughero di maestro.

Ora pareva che un leggiero impaccio legasse le loro lingue; non trovavano il verso di parlare coll'espansione di prima. Pareva che l'antipatica figura di Nicola Piovino, così inopportunamente evocata dal conte, si fosse collocata tra loro e ghignasse ironicamente.

Per fortuna a donna Rosalia venne in mente di guardar l'orologio, e, accorgendosi che era già la mezza, disse che le pareva ben tardi. Il conte allora non trovò di meglio che alzarsi e prendere congedo; che indiscretezza la loro di essere rimasti così tardi!

Enrichetta volle assolutamente accompagnare i suoi visitatori fino alla scala, mostrando che non era poi così malata come si voleva, non era niente debole, specialmente quel giorno. Il conte era felice di sentirla parlare così; vedrebbe come si sarebbe rimessa a Napoli, presso al mare! Enrichetta promise, non appena avesse potuto, di andar a fare una visita al palazzo per fissare insieme il giorno della partenza; intanto il conte le assicurò che avrebbe mandato spesso Isabella e anche donna Rosalia promise che sarebbe tornata.

I signori attraversarono rapidamente la brutta stanza di mezzo, che le donne si erano però affrettate a rassettare. Nella camera inferiore c'era tutta la famiglia, anche l'ex-carabiniere e i ragazzi, e il conte, passando, mise una moneta nella mano di Lucietta. La ragazza però, istupidita più che mai, aprì la mano, e il pezzo di cinque lire rotolò a terra, quasi fra i piedi del padre, che in un attimo l'aveva già raccolto e intascato.

La notizia era giunta a Pianbasso come un colpo di fulmine.

La maestra sposava il conte Mariani! I più rimasero meravigliati, ma alcuni, sorridendo con aria furba, dissero di averlo preveduto. Ci fu taluno anzi che credette sapere che l'affare era già combinato da un pezzo. Correvano dei seri impegni tra il conte e la giovane: il matrimonio era divenuto necessario.

Ora venivano spiegati il pallore, il deperimento di Enrichetta; egli era obbligato in coscienza a sposarla; sarebbe stato un uomo senza cuore se non l'avesse fatto.

A poco a poco la cosa parve naturale a tutti. Enrichetta era molto bella, il conte vedovo e ancora giovane; non poteva idearsi una coppia più bella. La giovane maestra diventava contessa; non c'era nulla a ridire. Era stata una ragazza onesta; il conte doveva saperne qualche cosa; è vero che non si sapeva bene da dove fosse sbucata, era un affare losco anche quello dello zio giudice, del nome francese… ma insomma, se il conte non aveva nulla in contrario… Quello che era certo, la signora contessa andava ora riverita e trattata con ogni riguardo. Le migliori famiglie vi si preparavano.

I Murgillo, che avevano ricevuto lettere da Enrichetta, annunziarono che il matrimonio avrebbe luogo fra quindici giorni alla villa Ghilardi. Fu una delusione; sarebbe dunque già ritornata sposa! peccato! era una festa perduta, perchè certo il conte avrebbe fatto le cose con magnificenza.

La curiosità e l'aspettazione erano grandi. Quello che le eccitava di più era il contegno del maestro Piovino. Quello sì che era un fiasco, povero sposo! si rideva di lui; avrebbe ben dovuto pigliarsela in santa pace e sputar dolce.

Ma egli invece non pareva sconcertato; il suo volto pallido non mostrava nessuna commozione. Come al solito, si faceva veder poco, parlava poco, e mai della sua antica fidanzata.

Nessuno, del resto, osava nominargliela.

Un bel giorno il maestro sparì.

A casa non c'era; per il paese non si vedeva; una sua vecchia vicina pretese di sapere con sicurezza che Piovino era andato a Bari; ma d'altra parte qualcuno assicurò che era partito per Napoli. La voce si sparse ed era vera.

Era stato chiamato dal conte Mariani, il quale ad ogni modo voleva non dover nulla a colui, e se fosse stato possibile, allontanarlo da Pianbasso per non averlo ogni momento tra i piedi.

Dopo cinque giorni il maestro fu riveduto nel paese; passò una intera mattina alla farmacia ed annunziò a chi volle udirlo che andava a stabilirsi a Bari; c'era un posto vacante in una scuola superiore, egli si era presentato con altri al concorso e aveva vinto; mille e ottocento lire di stipendio e l'avanzamento sicuro.

Si sogghignò; non aveva fatto un cattivo affare.

Intanto si affrettava anche il matrimonio di Marietta Murgillo. Lo aveva desiderato la giovinetta. Le pareva forse che Giulio Balbi, dopo l'annunzio delle prossime nozze di Enrichetta, fosse divenuto più freddo e distratto?

Temeva l'antico fascino di lei, che ora, stava per ritornare cento volte più bella, nell'aureola di una immensa ricchezza, di un grande nome e di una passione così potente come doveva esser quella suscitata nel conte Mariani?

Certo però Balbi non si oppose al matrimonio affrettato.

Si sposarono una domenica a mezzogiorno. La sposa aveva l'aspetto felice, molto ben vestita e carina; lo sposo aveva il fare un po' imbarazzato, ma poi, durante il pranzo, divenne allegro anche lui. Fu davvero un bel pranzo. Solo Maddalena Balbi, la sorella dello sposo, pensò che alla festa mancava la sua cara maestra.

Nella sua anima ingenua di bimba che sbocciava, ella aveva spesso sognato un matrimonio tra suo fratello ed Enrichetta: le pareva che sarebbero stati cosi bene insieme quei due! Gli avvenimenti le avevano dato torto; ella si rassegnava, le piaceva la sua cognatina, tanto più perchè aveva un'aria seria come lei; ma almeno avrebbero voluto veder raggiare a quella mensa allegra anche il bel viso e i dolci occhi di lei.

Se Luigi Murgillo pensò anche a Enrichetta, certo non lo fece vedere; si mostrò pieno di premura per Lucia, la sua bella cugina, che era presente al pranzo di nozze colla zia Carmela, e donna Rosina pensò che non sarebbe stato improbabile un matrimonio fra i due cugini, benchè Lucia fosse molto ricca e sembrasse così fredda.

Tutto dunque andò bene: la sera gli sposi partirono per Roma: il domani di quel giorno, nella splendida villa Ghilardi, si celebrò il matrimonio tra Enrichetta Borlieux e il conte Francesco Mariani.

Fra i testimoni del marito c'era il conte Sabelli, e fra le dame di compagnia della sposa la contessa Sabelli, languidissima in un bleu-ciel, guernito di trine; donna Ermelinda Romani in damasco fiammeggiante; la pia signora von Walkind, scollata così che si fece mormorar dietro, ma avvenentissima in un viluppo di pizzi crème e moire rosato.

Si trovò incantevole la sposa. Ella aveva la veste di damasco bianco e i fiori d'arancio; non aveva più avuto bisogno di fare economia. Lo splendore cupo dei suoi occhi superava quello dei diamanti sparsi a profusione sui magnifici capelli biondi, sulle spalle un po' esili ma bianchissime, sulle braccia delicate e perfette.

Fra gli nomini non vi fu chi non comprendesse il conte Mariani; molti lo invidiavano; tutti si affaccendavano intorno alla bellissima. E il fumo degli incensi saliva a lei, la dea, adorata, ammirata; ella se ne inebbriava! Ah, finalmente, la ricchezza, lo splendore, il suono d'un nome illustre, tutto, tutto era stato offerto spontaneamente alla sua bellezza; ogni cosa era venuta senza ch'ella dovesse sforzarsi a cercarla, e tutto era così grande e bello, così superiore a ogni sogno più segreto della sua ambizione, che ripeteva ogni momento a sè stessa, in quella memorabile giornata, mentre raggiante riceveva i complimenti degli invitati. «Sono veramente fortunata!». E le pareva che tutto ciò fosse un sogno incantevole e temeva di risvegliarsi. Il suo cuore, l'importuno, taceva. Ella aveva amato, come tante altre, come tutte; ma il suo era stato un amore puerile, era passato ora, ella non ci pensava più.

La sua coscienza parlava a bassa voce. Certo non aveva fatto proprio bene a lasciare così il suo fidanzato; eppoi c'era quella Isabella che oscurava la gran luce della sua vittoria. Ma il suo fidanzato aveva ottenuto un buon posto e s' era dichiarato contento; quanto a Isabella, Enrichetta aveva intenzione di esserle una buona madre; eppoi quel matrimonio era stato assolutamente necessario a reintegrare la sua buona fama perduta; no, non doveva avere rimorsi: non era stata lei a volere ciò che era avvenuto. L'unica sua colpa era forse la leggerezza con cui aveva accettato l'ospitalità del conte; ma poteva ella sapere?… eppoi era proprio stanca e malata allora… eppoi tout est bien qui finit bien.

Ma chi non la pensava così era Isabella Mariani.

Suo padre l'aveva scongiurata di assistere al suo matrimonio, o almeno di accettare con lieto animo un avvenimento che avrebbe portato anche a lei la gioia: ella s'era dibattuta, in preda a una crisi violenta; aveva gridato, aveva minacciato suo padre; e quando fu finalmente più calma, gli chiese in grazia di essere messa per qualche tempo in un ritiro. Non poteva assistere a quel matrimonio, soffriva troppo; scongiurò il padre di concederle quel favore. Più tardi sperava di ritornare presso di lui, più tranquilla, più ragionevole.

Benchè a malincuore, il conte dovette cedere. Non potè nemmeno ottenere che la fanciulla abbracciasse la sua futura mamma; fu costretto a condurla a Napoli subito, nel convento del Sacro Cuore, dove egli aveva una parente.

Ma nessuno si meravigliò dell'assenza di Isabella alle nozze.

Era decente, dopo tutto, ch'ella mancasse, anzi le pia signora von Walkind lodò la risoluzione presa dal conte, e trovò che Enrichetta aveva mostrato molta delicatezza se non aveva preteso che la presenza della figliastra futura sancisse il posto che le spettava.

Enrichetta non volle fare un viaggio di nozze, ma desiderò di ritornare subito a Pianbasso. Il suo orgoglio aveva bisogno di quella suprema soddisfazione. Esser ricca e felice là dove era stata una povera maestrina; ostentare la sua fortuna agli occhi di coloro che l'avevano appena sopportata nella miseria. Ma oltre a questo pensiero di piccino orgoglio, altri sentimenti più dolci là spingevano a ritornare nel luogo che le era divenuto caro per tristi e liete memorie; ella l'amava quel paesetto; voleva rivedere la sua povera stanza dirimpetto al campanile, dove volteggiavano le rondini nel sole; rivedere le faccie note e benevole, e la sua scuola, la sua cara, piccola scuola!

Null'altro? No, no; sotto il corpetto di raso il suo cuore aveva finalmente imparato a tacere.

Le visite da farsi e da ricevere erano molte, e cominciavano a stancare la contessa Mariani. La vita ch'ella si era ripromessa di condurre a Pianbasso era più seducente di quella che conduceva realmente.

Certo il sentirsi ammirata, invidiata, riverita era una dolce cosa, ma non le bastava già più; c'era un vuoto nella sua esistenza, e non bastavano a colmarlo le occupazioni spesso faticose del divertirsi. Non le frequenti gite al teatro di musica a Bari; quelle alla villa recentemente comperata dal conte a Santo Spirito; le escursioni nelle vaste tenute, nè il pensiero delle toilettes ricchissime e scelte e i pranzi ai quali accorrevano ogni giovedì le più elette famiglie di Pianbasso.

La bella contessa si annoiava; il palazzo Mariani era troppo grande e troppo vuoto; lei troppo sola con suo marito; le sarebbe stata gradita una compagnia, anche quella di donna Rosalia, che invece era rimasta a Napoli.

Spesso pensava a Isabella, l'esule volontaria dalla casa paterna, e la puntura del rimorso si rifaceva viva e dolorosa.

L'avrebbe voluta ora con sè; le pareva che sarebbe stato così facile domare colla dolcezza l'orgoglio della fanciulla; far sorridere quella bocca ribelle e addolcire quegli occhi sdegnati; le pareva che sarebbe stata felice se quella bimba capricciosa l'avesse chiamata mamma!

Che soavità in questo nome! Enrichetta non sperava di udirlo balbettato dalla bocca d'un suo proprio bambino, e non sapeva nemmeno dire perchè. Forse perchè si sentiva così fredda, così insensibile che le pareva non dovesse mai vibrare in lei la fibra materna.

Quando suo marito le parlava di ciò, sperando di farle piacere, ella alzava le spalle. Un figlio, lei? no, no; era troppo gelata! Egli scherzava, allora; saprebbe ben lui riscaldarla, l'amava tanto! bastava ch'ella provasse ad amarlo un pochino! ma lei allora si stizziva, diventava nervosa, sfuggiva ai suoi abbracci, ribellandosi a quell'amore che non poteva dividere, provandone una ripugnanza invincibile.

E sempre si annoiava: le giornate le sembravano lunghe. Si torceva nervosamente le mani, stirava le braccia in un languore che la prendeva, in una nuova stanchezza che l'abbatteva, assai più di quella che aveva provata nell'ultima sua malattia.

Era lieta solo quando qualcuna delle sue antiche allieve veniva a trovarla. Ma erano poche quelle che osavano: ora che la maestra era diventata la signora contessa, dava loro una soggezione straordinaria. Maddalena Balbi invece andò spesso al palazzo Mariani; Enrichetta la voleva lì tutti i giorni: l'accarezzava, la costringeva ad accettare piccoli regali, le faceva raccontare di suo fratello e della cognatina.

Ella era fiera di quel bene che aveva fatto: voleva proprio esser certa che i due fossero felici.

Erano a Roma, ma scrivevano spesso; sì, erano proprio felici.

E lei sospirava allora, leggermente invidiosa, insoddisfatta, scontenta di sè.

Un giorno Maddalena le domandò notizie di Isabella.

Enrichetta non osò insistere. Quella sera Enrichetta fu presa dal desiderio di scrivere alla sua figliastra; ma, quando fu per incominciare la lettera, il suo orgoglio si ridestò improvviso, più gagliardo che mai, e vinse quell'impulso generoso; doveva essere lei la prima? E dormì poco, quella notte, inquieta, agitata da affetti diversi.

Il domani mattina mandò a chiamare la gobba Maria Luigia e Lucietta, che non avevano ancora osato venire, mentre Teresa c'era già stata due o tre volte.

Enrichetta si commosse vedendole, le regalò, promise che sarebbe andata a trovarle; infine chiese notizie di Carolina.

Maria Luigia raccontò, colla sua voce dimezzata dall'asma.

Oramai si conosceva da tutti la relazione della giovane con don Luigi Murgillo; andava ben vestita, pareva contenta.

— Se la vedete… — Enrichetta esitava, — ditele che venga a trovarmi.

Non era stata ancora a rendere la visita fattale subito dopo il suo arrivo da donna Rosina Murgillo; esitava ad andarci; gliene mancava il coraggio; e già donna Rosina, colle sue più intime amiche, si lamentava di una simile ingratitudine; dopo tutto quello che aveva fatto per lei!… ma già ella era avvezza a essere ricompensata così!…

Un giorno Enrichetta si decise. Era meglio farsi coraggio e andare; se anche avesse dovuto trovarvi Luigi, che importava? doveva forse temerlo, arrossire davanti a lui? E quello stesso giorno invitò suo marito ad accompagnarla. Mentre si vestiva guardava il cielo puro e il sole splendido; con una giornata così bella, ed essendo prossime le vendemmie, era quasi certa che Luigi sarebbe in campagna; quel pensiero la sollevava; ha, davvero che quella visita le riusciva grave!

Andarono a piedi, perchè la casa Murgillo era molto vicina, e anche perchè Enrichetta si sentiva prendere da soggezione all'idea di sfoggiare la sua ricchezza davanti alla caustica donna Rosina e al tranquillo e bonario don Giuseppe.

Era una giornata calda, benchè il sole avesse già perduta molta forza; il cielo era d'un azzurro perlaceo; un vento leggiero frustava gli ulivi e scoteva le larghe foglie rossastre delle viti già cariche di uve mature.

Enrichetta uscì dal suo palazzo, appoggiata al conte suo marito: come avrebbe potuto essere altera quel giorno! La gente si voltava, salutava con riverenza; gli uomini mormoravano: «Com'è bella!»; le donne: «Com'è felice e ben vestita!».

Ella passava, a testa alta; le sue ricche gonne di seta spazzavano la polvere della strada; i suoi diamanti brillavano al sole, e i capelli biondi, il più bell'ornamento suo, le mettevano intorno al bianco viso un'aureola d'oro. Eppure avvicinandosi alla nota casa ella tremava; una mestizia invincibile l'invadeva e le moriva sul labbro il sorriso.

— Hai caldo? — chiedeva suo marito.

Sì, aveva caldo, si sentiva oppressa; forse s'era chiusa troppo nel busto.

Passarono davanti alla farmacia. C'era sull'uscio di strada un gruppo: il farmacista, un maestro di scuola, un prete, alcuni proprietari campagnuoli e il sopraintendente scolastico. La strada era larga, pure tutti si tirarono in là levandosi il cappello, mormorando: «Eccellenza!».

Quando ella fu passata, nessuno osò fiatare; tutti erano atterriti da quella splendidezza.

Entrarono nel portone, che aveva sempre un umidore e una frescura di muschio; le pietre erano rotte, si camminava male; gli alti talloni degli stivaletti della signora contessa affondavano nei buchi.

La commozione la stringeva alla gola e il suo cuore, improvvisamente risorto, batteva precipitosamente.

Li avevano veduti dalla finestra; furono ricevuti sul pianerottolo da donna Rosina, che aveva avuto il tempo di togliersi il grembiale di cucina; da don Giuseppe, che aveva un soprabito orribilmente spelato, e da Rocco, accorso anche lui dal lastrico scoperto, dove stava aprendo fichi, per metterli a seccare al sole. Egli non c'era.

— Cara figliuola, cara figliuola — gemeva donna Rosina, stringendosi al seno Enrichetta con molte lagrime. Anche Enrichetta piangeva; non aveva potuto frenarsi.

Quel giorno era in uno stato di acuta eccitazione nervosa, di sensibilità morbosa, e quando nel salotto ella vide il pianoforte al quale Marietta era solita di suonare, e la sedia su cui la stessa sedeva, dirimpetto al suo antico fidanzato, e il punto dove aveva parlato l'ultima volta con Luigi, pianse di nuovo, amaramente, come sopra la morte di qualcuno.

Fu una vera crisi che Enrichetta superò presto e fu l'ultima sua debolezza; ridivenne calma dopo pochi minuti, e guardando sè così ben vestita, e la gretta mediocrità che la circondava in quella casa, un fine sorriso di sprezzo le arcuò le labbra. Aveva arrischiato di incorniciare la sua bellezza in quella miseria, di confinarsi in quel meschino ambiente borghese, e, sopratutto, di incatenare la sua libertà, diventando la schiava di donna Rosina! Lei fortunata che aveva potuto sfuggire a sì gran pericolo, che aveva saputo far tacere il suo cuore e si era lasciata sempre guidare dalla ragione; che diverso avvenire la sorte le aveva preparato, e e come si sentiva felice e invidiata!

Quando stavano per andar via, entrò Luigi. Non le fece nessuna impressione il vederlo; ella stessa era meravigliata della calma con cui gli parlò; potè persino scherzare, e riprese lei stessa il discorso, che pareva finito.

Si parlò di Marietta, che viaggiava ancora, e il conte espose il progetto d'un lungo viaggio che voleva fare con sua moglie l'anno venturo; poi Enrichetta ricordò la sua scuola, rise di varii episodi che narrò e della paura che le faceva la campana quando era tardi.

Luigi invece la guardava appena, vinto dalla intera bellezza di lei, che le era ritornata colla salute e s'era accresciuta coll' eleganza e colla ricchezza. Non la desiderava più nemmeno; gli pareva un'altra donna, troppo bella e troppo splendida, ed era sgomentato all'idea di averla amata una volta. Che penserebbe ella adesso? Certo si burlava di lui; e trovava una risposta ironica in ogni sua parola.

Andando via, le venne voglia di passare nel giardino.

Vi andarono tutti; ella con gioia fanciullesca risalutava ogni fiore, ogni pianta di vite, ogni albero.

Staccò ella stessa un grappolo ben maturo di quella uva corniola che prima le piaceva tanto; sporcò il suo guanto chiaro; i braccialetti d'oro tintinnarono insieme; Luigi, stupito, guardava; gli pareva una fata, splendida di sole e felice.

Da quel giorno Enrichetta ritornò spesso dai Murgillo. Era attirata in quella casa, benchè Luigi non si vedesse quasi mai quando lei c'era e benchè mancasse Marietta. Le conversazioni con donna Rosina erano la cosa più noiosa del mondo; ella invece ci trovava gusto; stava li a udirla, colle mani in grembo, lo sguardo perduto nell'azzurro del cielo autunnale.

Donna Rosina era felice di quella predilezione; come la cara figliuola si ricordava sempre degli antichi amici! Chi la vedeva con vero piacere era don Giuseppe, che aveva per lei un affetto profondo; uno di quegli affetti che gli uomini maturi provano spesso per le donne giovani, specie se son belle; un misto di amore spirituale e di affetto paterno; quella giovane l'aveva sempre ammaliato col mistero dei suoi occhi profondi e colla seduzione dei suoi sorrisi.

Luigi invece veniva sempre tardi dalla campagna, dove la vendemmia gli dava un gran da fare; spesso, sapendo lei in salotto, tornava fuori senza farsi vedere. Nessuno lo nominava; moltissime volte Enrichetta andava via senza averlo veduto un momento, ma non ne era triste; ritornava il domani ancora, e, se succedeva che lui finalmente venisse nel salotto dove lei sedeva presso a donna Rosina che filava, si parlavano colla maggiore tranquillità, cortesi, senza un briciolo d'ironia.

Il conte Francesco veniva qualche volta a prendere sua moglie; la vedeva ora così allegra e felice ch'egli benediceva la causa di quel cambiamento; che preziosa famiglia quella dei Murgillo!

Una mattina che Enrichetta s'era appena levata di letto, le annunziarono Carolina. La volle ricevere subito, presa da una smania improvvisa di vederla.

Aveva ragione Maria Luigia; come stava bene e come era ben vestita! Aveva un grande fazzoletto di seta a colori intorno al collo, non annodato, come lo portavano le altre contadine, ma appuntato graziosamente con un grosso fermaglio d'oro. Aveva anche parecchi anelli alle mani brune, ruvide e piccine, e dagli orecchi delicati pendevano cerchi d'oro pesanti, che parevano troppo grevi per quei fragili sostegni. Gli occhi della giovane splendevano come perle nere e il viso aveva un'espressione felice.

Però la signora contessa le dava una grande soggezione, non osò farle le confidenze d'una volta; bisognò che Enrichetta la interrogasse direttamente, mentre il viso le si faceva di fiamme.

Allora Carolina raccontò tutto, ma con un certo ritegno: le pareva che la bella signora non le fosse più tanto benevola; nei begli occhi profondi passavano lampi.

Dunque ella era di nuovo l'amante di Luigi Murgillo; lui andava a casa sua ogni volta che voleva; passava anche qualche notte intera da lei; non molto spesso però perchè don Giuseppe lo rimproverava. E come era buono con lei, affettuoso, pieno di premure; tutti le dicevano che l'avrebbe un giorno sposata; ma lei non ci pensava, era contenta così, perchè desiderare di più?

Ma una profonda nausea vinceva Enrichetta e il mondo le pareva di nuovo meschino con le sue trivialità e le sue bassezze.

Non volle udire altro di quella storia, e ammonì Carolina della sua leggerezza; era uno scandalo ormai quella relazione, e la giovane avrebbe fatto bene a troncarla. Carolina rimase assai mortificata; non aveva mai pensato che fosse male star così con un uomo solo; ella non gli era mai stata infedele, tutto Pianbasso poteva dirlo. E quando andò via, lasciando Enrichetta irritata contro di lei, pensò che la bella signora si era fatta più superba; non l'aveva mai sgridata, prima, non le aveva mai detto che faceva una cosa immorale. Quel giorno Enrichetta non andò dai Murgillo; giurò a sè stessa di stare molto senza vederli e di troncare, infine, la sua relazione con gente così corrotta; e non si ricordava nemmeno più che il conte li aveva invitati a pranzo per il domani.

Nel pomeriggio suo marito venne a darle una notizia.

Il deputato Jorselli doveva arrivare a Pianbasso alle quattro; era molto tempo che il conte lo aveva invitato; ora approfittava di un viaggio che era stato costretto di fare sino a Bari, per venire a trovare il suo vecchio amico. Bisognava dunque dare gli ordini per il pranzo, e il conte pregò sua moglie di pensarci.

— Se mangiasse male, — disse scherzando, — non potrebbe scusarmi più; egli sa che ora ho moglie.

Ella rimase muta, profondamente scossa da quella notizia. Come! fra poche ore ella si sarebbe trovata in faccia di suo padre: e non era possibile evitare quell'incontro a meno di correre dietro al conte per confessargli tutto! Suo padre si sederebbe alla sua tavola; ella sarebbe costretta a parlargli, a dirgli cose gentili come a un estraneo; e lui, lui, che certo sapeva chi era la nuova moglie del conte Mariani, aveva accettato l'invito, forse aveva fatto apposta a venire, per trovarsi con lei! O, ma lei, lei non sarebbe comparsa a quel pranzo: avrebbe inventato un pretesto qualunque, ma non sarebbe comparsa, no, a costo della vita.

Pure si sentiva così sfibrata dalle emozioni suscitate in lei dal racconto di Carolina, che non trovava più energia sufficiente per ribellarsi all'ordine di suo marito. Diede dunque le disposizioni per il pranzo, e quando venne la cameriera per prepararla, ella si lasciò vestire macchinalmente, quasi inconscia, pensando ancora tra sè a un pretesto per scusare la sua assenza.

Ora si accusava di debolezza. Perchè non aveva mai detto ogni cosa al conte prima o dopo il suo matrimonio? Non aveva mai osato; pure suo marito sapeva ch'ella era una figlia naturale, aveva potuto accorgersene dalle carte che erano giunte da Napoli quando si erano sposati: ma egli non l'aveva mai interrogata; e lei, cui la macchia della sua nascita bruciava, non gli rivelò mai il segreto che pure un giorno, in un momento di commozione, aveva potuto affidare a Nicola Piovino.

Come s'avvicinava l'ora, così la sua agitazione cresceva. Alle tre e mezzo, non potendo più resistere all'ansia, decise di andar a trovare suo marito, dirgli tutto e pregarlo che le risparmiasse quel terribile incontro. Ma non lo trovò più; un servitore le disse che il padrone era partito per Bari. Era tardi dunque; era andato certo a prendere il suo amico e sarebbero, fra mezz'ora, ritornati insieme; ma perchè il conte era partito così in fretta, senza nemmeno salutarla com'era solito? Sapeva già anche lui? e d'improvviso ebbe la certezza che i due erano d'accordo; era una riconciliazione che volevano; nessun pretesto le sarebbe servito; o doveva essere abbastanza energica da gettare in faccia a suo padre la sua viltà e negare ogni perdono; o doveva accoglierlo e accettare la pace. Non sapeva risolversi a nessuno di questi due partiti, e aspettò tremando, mentre il cuore le batteva forte e l'angoscia le metteva addosso i brividi della febbre che arrivasse il momento penoso dell'incontro.

Poi, vinta dal timore e dall'amarezza, si mise a piangere ad un tratto come una bambina; e piangendo chiamava sua madre e la scongiurava di darle forza perchè il suo viso e il suo cuore diventassero di pietra dinanzi a colui che l'aveva abbandonata nel disonore e nella miseria. Perchè ciò che temeva di più era che il suo cuore, ribelle alla sua volontà, non si intenerisse in una debolezza improvvisa, come qualche volta le succedeva; e ripeteva fra le lagrime il giuramento di non voler mai, in nessuna circostanza, dimenticare e perdonare.

Udi la carrozza entrare nel cortile del palazzo; il momento era giunto, e le parve, a un tratto, che il suo cuore cessasse di battere; corse nel suo gabinetto, e ricordandosi di aver pianto, immerse il viso nell'acqua fredda per far sparire le tracce della lagrime; e già vaghi rumori penetravano dalle anticamere fino a lei. L'imminenza del fatto le ridiede coraggio; fece presto a rasciugarsi, e vedendo nello specchio le sue guancie ancora rosse, ebbe tempo di ricoprirle di cipria, prima che la sua cameriera entrasse a pregarla da parte del signor conte di andare in sala, dove c'era gente arrivata da Bari.

Ella vi andò, alta e superba: il suo sguardo era sprezzante e ironico, la bocca atteggiata alla sfida. Si trovò dinanzi i due nomini: suo marito e suo padre. Lo guardò senza tremare; lo vide pallido, vecchio, grave; non le parve lo stesso nomo che aveva già veduto quella sera a Bari.

In quella il conte le aveva presa una mano e, premendogliela affettuosamente, le mormorò all'orecchio:

— Cara Enrichetta, abbraccialo.

Ella diede un debole grido e barcollò: si senti sostenuta da due braccia tremanti, e una voce dolce, supplichevole, che la fece fremere, le susurrava pianamente:

— Figliuola mia diletta, guardami!

Dov'era in quel momento la sua alterezza? Si rizzò in piedi, ma stette curva, tremante, cogli occhi nuotanti nel pianto. Suo padre le teneva ancora le mani e ripeteva pregando:

— Guardami, perdonami!

Perdonargli? Ma era lei che si sentiva profondamente umiliata della sua superbia, del suo odio snaturato, era lei che avrebbe voluto ora dirgli: perdonami! Che doveva ella perdonare a lui? Di esserle padre? Ma se era una cosa tanto dolce di avere un padre! Una cosa nuova, mai provata, mai sognata; una tenerezza, uno struggimento ineffabile. E quando egli si confessò alla figliuola, confessò l'abbandono della donna che pure aveva amato; la lotta fra questo amore e l'ambizione, e il suo matrimonio, e i dolori e i pentimenti… Ella stupiva di non aver indovinato prima tutto ciò; l'opposizione della famiglia… la tentazione della ricchezza… mio Dio! era ben naturale! E c'erano anche tanti altri motivi di indulgenza e di perdono. Suo padre non aveva preso moglie che tre anni dopo che la povera tradita era morta a Parigi; e non aveva mai dimenticato quella morta, nè l'orfana bambina, e non aveva mai abbandonata questa. Era lui che aveva pregato il fratello giudice di prendere con sè e di adottare la fanciulla; era lui che aveva mandato sempre delle somme per aiutare il fratello poco ricco; lui stesso non avrebbe potuto prendere la figliuola con sè, perchè non aveva mai osato confessare a sua moglie il fallo giovanile; ella non gli avrebbe mai perdonato, era troppo nervosa e delicata e una simile rivelazione l'avrebbe uccisa.

Enrichetta ascoltava tutto ciò, e un vago nuovo senso di malinconia le entrava nell'anima. Si, si, tutto ciò era ben naturale, ma era anche molto triste. Non aveva più odio, ora, per suo padre, ma come un sentimento di compassione per quella debolezza sotto i pochi capelli già quasi bianchi.

Era chiaro che egli temeva la moglie più che non amasse la figliuola; e alla mente di lei apparve di nuovo un piccolo sepolcro, laggiù a Parigi. Ella stessa non era stata debole, vile anzi? Non aveva mai confessato a suo marito la macchia della sua origine, e non era mai più stata a trovare quella tomba dimenticata, mentre avrebbe potuto farlo dopo il suo matrimonio.

Miseria di sentimento, piccoli cuori, cuori vili, e meschine ambizioni, era questo il fondo umano; come si sarebbe ella eretta a giudice degli altri, ella stessa così piccina e spregevole?

Il pranzo era servito. Enrichetta, fra suo padre e suo marito, fu compitissima, benchè molto fredda.

Jorselli la pregò una volta di chiamarlo padre (ella non l'aveva fatto in tutta la sera). Rispose sorridendo:

— Ci vuole un po' di pazienza: è una cosa a' cui non ero abituata.

I discorsi si ghiacciarono, e il pranzo prosegui silenzioso; anche i servitori passavano come ombre, muti, senza far rumore; pareva che un malessere generale gravasse sui tre convitati.

Jorselli volle ritirarsi presto; andando via stese la mano a sua figlia; ella gli porse la sua con calma; capi dal fare dubitoso di lui che aspettava un bacio, ma non le venne il coraggio di darglielo e lo lasciò andare.

Ma il conte, ritornando verso sua moglie, quando Jorselli fu uscito, la prese per le mani con dolce violenza.

— Gli serbi dunque rancore? Non va bene, Enrichetta; bisogna amarlo un pochino il povero papà!

Ella gli sorrise, mentre aveva le lagrime agli occhi.

— Signiri, don Luigi, io non ci ho colpa. Sapete come è stato? La maledetta bestia ha dato un calcio a Taccariello, che le era venuto vicino; io ho ben dovuto aiutarlo a rizzarsi su, povero diavolo; essa intanto via per i campi! che neanche il demonio, che San Nicola mi perdoni, la pigliava.

— Eh, che doveva venirci a fare Taccariello, eh? imbecille, ignorante che sei? Eh, che c'entrava Taccariello?

— Signirì, m'aveva promesso due numeri buoni, che escono stavolta sicuro…

— Già lo sapevo, bestia, scemo, dovevo immaginarmelo! Del resto pensaci, la mula è di papà, e se non si trova più, l'avrai da fare con lui.

Don Luigi era infuriato davvero: quell'imbecille aveva lasciata scappare la più bella mula della stalla; è vero che non era la prima volta che il restìo animale prendeva la fuga, e certo si sarebbe ritrovato; ma intanto ciò lo indispettiva, tanto più che don Giuseppe l'avrebbe certo costretto di andar fino a Bitritto a cercare la mala bestia, che si diceva fosse scappata su quella strada; e Carolina invece gli aveva dato appuntamento per quella sera alla cascina del Pero.

Così, arrabbiato, piantò lì l'uomo che gli aveva parlato fino allora umilmente, col berretto in mano: entrò nel portone di casa sua e infilò l'uscio del frantoio.

L'uomo gli fece dietro una smorfia e un cenno altrettanto significativo che indecente; si ricacciò il berretto sul capo e disse per conto suo:

— Corrile dietro.

Nel trappeto (frantoio) stavano accendendo i lumi; siccome il locale era vasto, ne accesero quattro a olio, negli angoli; e le fiamme gialle fumarono una luce tremolante, che riuscì appena a rompere imperfettamente le tenebre. In quel chiarore dubbio tutto ciò che animava il luogo ebbe contorni vivi; varie figure si movevano intorno a sacchi pieni di olive, li sollevavano sulle spalle e li transportavano ai torchi.

La gran macina del mezzo veniva girata da una magra mula bendata, che correva penosamente intorno al perno. E dalle vite dei torchi, si vide piovere l'olio giù nei tini, limpido, biondo, che pareva il sangue vivo di quelle macchine.

Un immenso mucchio di olive nere, odoranti, era in un angolo; entravano uomini e ne versavano ancora, aumentando l'enorme mucchio, mentre coloro che venivano a riempire i sacchi da mettere sotto i torchi non riuscivano a diminuirlo sensibilmente.

Il viso torbido di Luigi Murgillo si rischiarò, gli occhi gli si allargarono per una grande soddisfazione.

Che raccolto, quell'anno! Molte migliaia di ducati dovevano entrare in tasca a suo padre; così il patrimonio della famiglia aumentava, e la parte di ciascuno sarebbe un giorno più grossa. Decisamente poteva contentare Carolina, che desiderava un cordone d'oro, di quelli lunghi che usavano le spose; domani sarebbe andato a Bari, con lei, e glie l'avrebbe comperato.

Si sedette sopra uno scanno basso, di legno; accese la pipa e guardò il lavorìo che ferveva intorno a lui.

Le voci dei trappetari salivano sghignazzanti, le risa assordavano, e il rumore dei torchi, della macina e dalla mula che girava, formavano una strana musica, che assopiva il giovane in vaghe idee.

Pensava a Carolina, certo; ma i giorni in cui vedeva in casa Murgillo Enrichetta, i profondi occhi azzurri che l'avevano turbato altre volte gli restavano in cuore per tutto il giorno.

Quel giorno pure ella era venuta, ma sofferente, pallida più che mai. Ella era incinta da molti mesi; e benchè quello stato di lei gliela rendesse ancora più inviolabile che le nuove ricchezze e il gran nome, pure gli entrava nel cuore un senso di rammarico geloso all'idea ch'ella avrebbe presto avuto una creatura, d'altri; che quella era una prova ch'ella apparteneva ad altri.

Questo lo pungeva, ma così, vagamente. La sua natura meridionale, calda e impetuosa nei primi slanci della passione, si acquetava presto e si raffreddava nell'urto d'un serio ostacole, e più ancora quando l'occasione mancava e la lentezza degli avvenimenti accumulava la cenere dell'oblìo sul suo fuoco.

Pensando gettava nell'aria torbida il fumo della pipa, mentre gli passava negli occhi il luccicore delle ricchezze, dell'eleganza e della bellezza di lei. Intorno a lui cresceva lo schiamazzo dei trappetari; c'erano tre o quattro donne che gridavano più degli uomini, scherzando e prestandosi a giuochi grossolani, lasciandosi pizzicare i fianchi mentre passavano col sacco pesante di ulive sulle spalle.

Il padrone non s'inquietava finchè lavoravano, solo di quando in quando ammoniva con un'energica bestemmia qualcuno che, distratto, dimenticava le sue mani lungo i fianchi; e quella sera era ancora più indulgente del solito.

Ma, ad un tratto il clamore si acquetò un momento, e si cambiò in alte voci di saluto, gridate verso uno che entrava.

Luigi si voltò, togliendosi la pipa di bocca, e vide suo cognato Giulio Balbi, che gli venne incontro con fare affrettato, col viso rosso e gli occhi smarriti.

Luigi pensò a sua sorrella, preso da un affanno improvviso. Che c'era dunque? Balbi si chinò verso di lui, e gli gettò ansiosamente le parole:

— Enrichetta muore…. un parto difficile…. figurati!….

Luigi s'era rizzato; i due uomini si stavano di fronte, e si guardavano colla stessa angoscia. Tutti e due l'avevano amata, e lei moriva?

— Chi te l'ha detto? — chiese Luigi, volendo dubitare.

— Don Leopoldo. Egli dice che morrà. Che orrore!

Allora li prese l'imbarazzo della disperazione. Che fare? Avrebbero voluto tutti e due sapere; di minuto in minuto sapere; ma come? correre al palazzo Mariani?

Luigi, nella sua indecisione, tornò a sedere, accasciato; perdeva la testa. Tornò a domandare a Giulio come l'avesse saputo.

L'altro ripetè come stordito:

— Ero alla farmacia. È venuto un uomo a cercare don Leopoldo: non si prevedeva il caso per oggi e non si era chiamato il medico da Bari. Io sono andato con lui, fino al palazzo; egli è venuto fuori un momento, m'ha detto: è difficile…

Luigi non ascoltava neppure, ma, agitato, non potendo più reggere, si alzò, andò fuori.

La notte era un po' fredda; egli si mise a camminare in fretta, attraversò la piazza oscura e deserta, e infilò la strada dei Nobili, dove abitavano i conti Mariani.

Correva quasi e improvvisamente urtò in un altro uomo che veniva correndo anche lui.

— Oh, don Luigi!

— Eh, Ciecio? Ah, siete voi! Perchè correte? dove andate?

Ciccio, il vecchio fattore di casa Mariani, si fermò a riprender fiato.

— Tutto bene, signiri; un bel bambino, Eccellenza; ma che sudata, povera signora contessa; vado alla farmacia, Eccellenza.

— Aspettate! Come sta, ora?

— Bene, benissimo, ma l'ha passata brutta; felice notte, signiri.

Si allontanò; Luigi rimase intontito. Tutto bene? Che sollievo!

Si battè il capo, fece un salto d'allegrezza e ritornò al trappeto.

Là si sapeva qualche cosa. La contessa stava male, era morta, stava meglio. Giulio Balbi era ancora lì, pallido, cogli occhi di vetro.

— Tutto bene! — gridò Luigi alzando il cappello; — evviva la contessa Mariani!

Un lungo evviva gli rispose. Giulio lo interrogò ansiosamente e Luigi disse quel che sapeva. I due nomini si strinsero le mani, in un trasporto di allegria, e Luigi volle che si portasse del vino ai trappetari, i quali già dovevano cenare.

Ciascuno si accomodò come potè; in terra, su qualche grossa pietra, sui monti di sacchi, sulla tavola che doveva servire per desco. Si presero manate di ulive; ciascuno ne fece un mucchio vicino a sè; fu distribuito il pane, bigio e sodo, in abbondanza, e la giarra del vino passò rapidamente di mano in mano. Poi fu portato il piatto caldo. Una zuppa di baccalà, con uva secca e ulive, abbondantemente condita di olio; cosi buona che le donne si leccavano le dita sgocciolanti di sugo.

E la giarra del vino, nuovamente empita, circolò; i brindisi rimati echeggiarono. Si brindò molto alla bella contessa, ai padroni, alla compagnia. Una donna ancora giovane, molto bruna, bellissima, offri da bere a don Luigi e a don Giulio; Luigi bevette tenendo la giovane stretta alla vita, e la baciò poi colle labbra ancora umide di vino; anche Giulio scherzò con lei, le disse dei versi e tutti acclamarono; i frizzi passavano di bocca in bocca come il vino; gli occhi neri luccicavano; il sudore gocciava dalle fronti.

Luigi e Giulio uscirono insieme; si divisero però alla prima cantonata.

— Vado a casa — disse Giulio — a dirlo a Marietta.

Luigi camminò ancora un pezzo a caso; aveva in cuore una gran gioia: si sentiva così leggiero, benchè avesse bevuto!

A un tratto si decise, e infilò la strada della cascina.

— Andiamo a veder Carolina; ho da darle quella buona notizia, e certo domani le comprerò il cordone d'oro… se però la mula si trova.

Nel palazzo Mariani tutti si disponevano a prendere un po' di riposo dopo le grandi fatiche e le angoscie e l'immensa gioia.

Nella stanza nuziale, ampia, sontuosa, ardeva un solo lume, una candela bianca sul piede d'argento.

Gli stanchi occhi di Enrichetta, socchiusi, fissavano quella fiammella d'oro; era come una stella luminosa e fedele; e le pareva che ne venisse a lei un'onda di dolce calore, una carezza mite e conosciuta, come se in quella luce vivesse un'anima già statale cara — forse l'anima di sua madre.

Ella sentiva nell'aria l'acuto odore della stearina che bruciava; quell'odore non le faceva male; era come un profumo che veniva a lei da lontano; uno strano profumo di morte, che le annebbiava il cervello. Quella notte ebbe l'improvvisa certezza di dover morire presto; lo sentiva allora acutamente, più di quando, poche ora prima, la credevano perduta, e con lei il bimbo, che pareva destinato a non nascere. Invece era nato; un bel maschio, robusto, molto bruno, e don Leopoldo aveva dichiarato fuori d'ogni pericolo la madre e il figliuolo: ella si sentiva bene infatti; pure l'alito di morte passava sopra di lei e le metteva un fremito dolce nella radice dei capelli ancora madidi per il sudore delle angoscie durate.

No, non temeva la morte. Era la vita un continuo e insaziato desiderio d'un bene inafferrabile; la morte forse avrebbe tenuto la promessa, se non di gioia, almeno di pace.

Come la stella fiammante s'oscurò a un tratto? Un'ombra era passata dinanzi agli occhi di Enrichetta e quell'ombra si chinò su di lei, susurrando:

— Non dormi, amor mio? Cerca di riposare.

Ella sussultò, abbozzò un sorriso e rispose a suo marito:

— No, Francesco, non posso dormire; non ne ho voglia.

Egli non replicò, solo posò la sua mano calda su quella piccola e fredda di lei. Dopo un momento ella disse:

— Francesco!

— Enrichetta, amor mio!

— Senti, fammi un piacere; fammelo vedere ancora il piccino; non l'ho potuto guardar bene, prima.

Il conte baciò la piccola e fredda mano.

— Mia diletta! non ti stancherebbe troppo? Don Leopoldo vuole che tu riposi.

— Oh no! lascia ch'io lo veda. Dopo dormirò, ne son certa.

Senza rispondere, il conte andò nella stanza vicina. Presso la ricchissima culla — un padiglioncino di trine che scendevano in ampie pieghe sul tappeto — sedeva una giovane donna, che aveva un bianco involtino fra le braccia. Il conte le si avvicinò, ma lei, appena alzando insensibilmente il capo, continuò nel suo ufficio. Ella spremeva con gran cura alcune goccie di latte dal suo seno gonfio sulle labbruzze d'un piccolo bimbo. Il latte corrreva giù per le guancine d'un rosso cupo; tutta la faccia, grossa come un pugno di donna, ne era allagata.

Il conte rimase un po' indeciso. Avrebbe voluto prendere lui il bimbo e portarlo alla madre, ma non osava toccarlo; gli pareva tanto fragile che avrebbe potuto romperlo, come un bimbo rompe, per inesperienz, un giocattolo amato. Disse dunque alla nutrice di venire, e, seguìto da lei, ritornò di là; Enrichetta si era rizzata a sedere sul letto e stendeva le braccia verso suo figlio. Il conte si slanciò verso il letto per sorreggerla, ma ella pareva forte; tenne su, un momento, il piccolo corpo, volto verso il mite lume che raggiava ora sopra di esso. E lo guardò a lungo; e in quella contemplazione, il nuovo sentimento che le era nato nell'anima al primo vedere suo figlio, si andò cambiando in una smania appassionata, per cui, a un tratto, lo strinse fra le sue braccia, lo coprì col suo petto e si diede a piangere convulsamente.

Sgomentati, suo marito e la balia secero per toglierle il bambino; il conte cercò di farle appoggiare il capo sul guanciale per calmarla, dicendole dolci parole; ma ella, respingendoli, sempre piangente, guardava la rossa faccina e diceva:

— Com'è piccolo, come è debole, povere creatura! O mio piccolo amore, se io morissi che sarebbe di te? è possibile che io debba lasciarti presto? Così piccolo? O Maria Vergine, o madre degli afflitti, fa che non sia vero! O se almeno io potessi sapere con certezza che quando io sarò morta tu sarai madre a questo bambino!

Un fantasma di fede entrava in quel cuore che era sempre stato chiuso alla fede; entrava insieme al sentimento materno, insieme alla paura della morte, che s'imponeva al suo corpo, già indebolito dal dolore fisico. L'esaltazione prendeva ora una certa forma religiosa; per un momento, breve, Enrichetta si senti pienamente buona e devota; le parve di essere in estasi, e di vedere la Madonna distaccarsi dalla fiamma della candela e venire a lei, in atto di proteggere il suo bambino, ma subito quell'esaltamento cadde; una grande spossatezza la vinse, e allora lasciò che le prendessero il piccino e lo portassero via, e acconsentì di mettere giù il capo per dormire.

Solo, oltre il tenue velo delle palpebre calate, il mistico lume della candela brillava ancora, e le saliva al cervello il sottile odore di morte e di fiori, un odore che le pareva venisse su dal lontano sepolcro di sua madre.

Invece Enrichetta si ristabili presto. Dopo otto giorni era già in grado di ricevere dal suo letto alcune visite. Si attendevano da Napoli donna Rosalia e Isabella. Era stato espresso volere di Enrichetta che la figliastra venisse a Pianbasso, e il conte aveva scritto una lettera affettuosa, ma abbastanza decisa, alla quale Isabella aveva risposto che sarebbe venuta pur senza precisare il giorno.

Intanto la prima a far visita alla puerpera era stata donna Rosina Murgillo. Era venuta tutta lagrimosa di commozione ad abbracciare la cara figliuola. Chiese di baciare il bimbo e giurò che non aveva mai veduto un fanciullo tanto bello: solo il suo Luigi era stato anche lui cosi florido, con occhi tanto vivi e con capelli così folti. Ah! com'era fortunata Enrichetta! non parlava già per invidia: la cara figliuola doveva ben saperlo; ma era fortunata davvero. E, a proposito, sapeva già la notizia? Lucia, sua nipote, faceva uno splendido matrimonio anche lei; già un ricco signore napoletano se ne era innamorato. E dire che quella Lucia, — lei le voleva molto bene, ma la verità innanzi tutto, — era così indifferente, così fredda, incapace di amore, egoista anche; ah! la fortuna di certe persone non si poteva comprehendere, davvero. La sua Marietta invece, tutta cuore, tutta sentimento, così istruita e gentile, e bella anche, lo si poteva dire! era stata così poco fortunata! Già, poteva forse chiamarsi fortuna quella d'aver sposato un avvocato senza un soldo; un uomo che non l'amava nemmeno come lo meritava quella povera sanciulla, perchè aveva ben promesso prima del matrimonio che avrebbe messo su casa e studio a Bari, e invece non si decideva ancora, e lasciava ammuffire la povera sposina a Pianbasso? Ma lei, donna Rosina, l'aveva sempre detto; le somigliava troppo, quella povera figliuola, sentiva troppo, non poteva esser mai fortunata.

Ciò che cuoceva più a donna Rosina era che il vagheggiato matrimonio di suo figlio Luigi con Lucia andava ora in fumo; ma non giudicò necessario dire anche questo a Enrichetta. E la giovane rimase accorata all'idea che, ad onta della sua buona volontà, non era riuscita a fare due felici; che cos'era dunque la felicità?

Quello stesso giorno Marietta Balbi venne con Maddalena a vederla. Marietta pure era incinta, ma di pochi mesi, e aveva un'aria languida e patita, che pareva confermare le parole di sua madre. Maddalena invece era florida. S'era fatta più alta, ma il busto prendeva curve dolci che facevano intuire la donna nella bimba. Aveva una testa piccola ma perfetta; con una grande ricchezza di capelli biondo-scuri, ondulati, a riflessi d'oro. E il viso un po' lungo aveva un'espressione nobile e seria, che gli occhi scuri rendevano ancora più grave; mentre la bocca, fresca come una fragola, si apriva al facile sorriso della fanciullezza.

Enrichetta, che aveva sempre preferito Maddalena a tutte le altre sue scolare, la rivide con estremo piacere.

Le giovani visitatrici vollero vedere il bambino. Era così bello e grasso che pareva avesse già un mese.

— Lo voglio guardare bene, — disse Marietta; — così spero che il mio gli rassomiglierà. Oh, se anche il mio fosse un maschio!

Enrichetta rise.

— Credi tu che se fosse una bambina il l'ameriei meno?

E si prese tra le braccia il piccino, grosso come un pugno, affondato in un monte di candide trine. Maddalena velle tenerlo un po' lei e farlo passeggiare su e giù per la stanza. Allora Enrichetta si tirò vicino Marietta per domandarle sottovoce:

— Che hai? Tu non stai bene.

Le vide subito alcune lagrime negli occhi.

— Sto bene, si, ma…

— Ebbene?…

— Non so, non sono proprio felice. La mamma è così buona, ma un po'… un po' esigente. Non va molto d'accordo con mio marito, perciò qualche volta vi sono discordie in famiglia. A me non importa proprio nulla di andare a Bari, ma la mamma vorrebbe che Giulio esercitasse. Egli promette sempre, ma poi pare che non abbia gran voglia di allontanarsi da Pianbasso… è come se qualcosa lo ritenesse qui.

Enrichetta sentì nel cuore una puntura. Era dunque ancora gelosa colei? Non aveva fatto abbastanza per provarle che non gliene importava proprio niente di Giulio? E la prese un dispetto improvviso per quelle puerili paure, mentre pure un lieve sentimento d'orgoglio si mescolava a quella sua collera. Era il suo antico orgoglio; la coscienza della sua bellezza, della sua forza fascinatrice, a cui teneva tanto, quando non aveva ancora altra ricchezza.

Maddalena ritornò verso il letto col bimbo in braccio; lo teneva in atto così dolce e nobile, che a Enrichetta parve la Madonna, madre e vergine insieme.

Si misero a parlare tutte e tre: il discorso divenne ben presto un cicaleccio allegro; le tre teste giovanili, belle di una diversa bellezza, formavano un grazioso gruppo intorno al bambino, che si era addormentato sulle ginocchia della madre. Chi di loro aveva dei crucci li dimenticò davanti a quella rosea, piccola vita. Ciarlarono tanto che non s'accorsero quando entrò il conte Mariani.

Egli aveva l'aspetto d'uomo felice; gettò uno sguardo di lieta sorpresa sul bel gruppo, e si avvicinò al letto. Le due visitatrici rimasero, scorgendo il signore, un po' impacciate; ma lui le salutò cortesemente, e, chinandosi su di Enrichetta, le baciò la mano con atto di tenera galanteria. Poi le disse lietamente:

— Sai? Ho qui il telegramma; Isabella arriva stasera.

Isabella arrivò infatti. Vedendola entrare con donna Rosalia, Enrichetta ebbe un terribile batticuore. Non aveva mai voluto confessarsi quanto sgomento le incuteva quella fanciulla, quella ostinata ribelle che la odiava e i cui profondi occhi neri l'avevano guardata sempre con aperta ostilità.

In quel momento Enrichetta non sapeva se dovesse rallegrarsi di vedere esaudito il suo desiderio, o dolersene.

La fanciulla si era fermata un momento a guardarsi intorno; poi fissò gli occhi sul letto, vide Enrichetta, corse a lei e si precipitò fra le braccia che quella aveva aperte per riceverla. Poi Isabella volle vedere il suo fratellino; glie lo portarono e lei, lo prese in braccio, andò vicino al lume e lo osservò attentamente. Era ben un Mariani il piccino; aveva la pelle bruna, i capelli e gli occhi nerissimi della nobile razza; pareva che nemmeno una goccia del plebeo sangue settentrionale di sua madre fosse penetrata nelle sue vene. E allora Isabella lo baciò con tenerezza; gli prodigò cento vezzeggiativi; lo chiamò il suo caro, piccolo fratellino.

Enrichetta si mise a piangere; il conte, commosso delle buone disposizioni che sua figlia mostrava, se la strinse al cuore e la baciò ripetutamente; solo donna Rosalia, col vago sorriso sulle labbra, e collo sguardo indeciso negli occhi chiari, non pareva commossa: però baciò anche lei la puerpera e chiese di essere madrina al piccolo conte Mariani. Al padrino ci avevano pensato già prima; il conte Francesco aveva scelto il suo amico Jorselli: il padre di Enrichetta era atteso già per il domani, ma Isabella e donna Rosalia anche loro si meravigliarono di quella scelta. Perchè Jorselli?

— È un mio vecchio amico — rispose il conte un po' imbarazzato.

Isabella non insistette, ma donna Rosalia parva ancora malcontenta.

— Si sarebbe potuto fare una scelta migliore. Qualunque della più buona nobiltà si sarebbe tenuto onorato di essere padrino di un conte Mariani.

Siccome nessuno le rispondeva, la vecchia signora si acquetò. In fondo poi non le importava molto dei nobili, benchè colla vecchia aristocrazia borbonica ella ostentasse un grande disprezzo per tutto ciò che era borghese.

Così, con questi lieti auspicii, si avvicinava il giorno del battesimo. Era arrivato Jorselli e stava a palazzo Mariani; sua moglie non era venuta con lui; aveva avuto delle crisi nervose che l'avevano indebolita e non voleva muoversi da Napoli. Enrichetta, ben disposta e felice, aveva accolto benissimo suo padre. Siccome dirgli papà, come avrebbe desiderato il vecchio, almeno nell'intimità della famiglia, le tornava difficile, — anche perchè il loro segreto correva pericolo di svelarsi, — ella propose un mezzo termine che Jorselli accettò. Ella gli aveva detto:

— Siccome siete il padrino del mio piccino, lasciate che anche noi tutti vi diamo questo titolo. I nostri cuori vi troveranno un significato più dolce di quello che solitamente si dà a questo nome, e ne saranno soddisfatti; il mondo non saprà nulla e tutto andrà bene.

Per il battesimo si erano fatti grandi inviti. Nessuna delle migliori famiglie di Pianbasso era stata dimenticata. Molte persone vennero anche da Bari, e da Napoli giunsero pure due senatori, tre deputati e parecchie signore.

Fu una festa come non s'era mai vista l'uguale a Pianbasso. C'era, naturalmente, anche donna Rosina coi figli e col marito. Sul vestito nero di società, a taglio antico, la barba grigio-verdastra di don Giuseppe risaltava mirabilmente, e gli occhi, d'un verde chiaro, intelligenti, affettuosi, avevano un riflesso di gioia, come se la festa fosse stata fatta per lui.

Egli amava ancora la sua cara Enrichetta, l'amava sempre di quell'amore paziente e tenace dei vecchi per le giovanni donne, e si rallegrava della gioia di lei. Sua moglie invece, vestita d'una seta viola con grandi pizzi neri, aveva dipinto sulla faccia gialla e rugosa un dispetto maligno. Ah, ma insomma, era troppo! Tante feste, tanto sfarzo per una pezzente; perchè, insomma, avrebbe dovuto ricordare, quella signora contessa, che cosa era stata prima, e non montare tanto in superbia, e non ostentare tanto la sua nobiltà e la sua ricchezza, che puzzavano troppo di vernice. E ecco li la giustizia del mondo. Quella povera Marietta, in una circostanza simile, aveva dovuto mettersi il vestito chiaro che si era fatta quando fu sposa. Già; quell'avaraccia della suocera non aveva voluto che la cara bambina ne facesse venir uno da Parigi, col pretesto che quello lì non lo aveva mai messo ancora. Il peggio si era che il marito, Giulio, aveva dato ragione a sua madre e torto a sua moglie; cose inaudite dopo nemmeno un anno di matrimonio; che avverrebbe dunque in seguito? Gli occhi grigi di donna Rosina schizzavano lampi; la bocca sgangherata di vecchia maligna era piena di bava; parlava forte per la strada a suo marito che non rispondeva: dimenticandosi, non potendo contenere la sua rabbia.

Ma quando fu nel salone del palazzo Mariani, dove tanta gente era già radunata, ella strinse fra le braccia Enrichetta, e dai suoi occhi sgorgarono lagrime, vere lagrime, mentre la bocca si apriva a parole di affettuosa commozione.

— Figlia mia, cara figlia… come me ne consolo… voi permettete ancora ch'io vi dia questo nome di figlia, non è vero? È una mia vecchia abitudine.

C'era anche donna Carmelina con Lucia. Questa era molto bella, vestita elegantissimamente, col volto impassibile e puro e i grandi occhi immobili, che parevano nascondere tanta passione e coprivano invece la freddezza d'un'anima insensibile.

Le giovinette, Maddalena Balbi e Isabella Mariani, non dovevano comparire ufficialmente alla festa; non era conveniente, trattandosi di un battesimo. Così si ritirarono insieme nelle stanze che rimanevano chiuse agli invitati. Si divertirono però lo stesso; Isabella era d'un umore adorabile quel giorno, d'un'allegria pazza, che incantava la sua antica compagna di scuola. Mangiarono molti gelati e dolci; stettero alla finestra a veder sfilare le carrozze; guardarono album e libri; suonarono e ballarono. Isabella, che aveva una voce bellissima, cantò anche con insolita compiacenza. Quel giorno le due fanciulle divennero amiche. C'era in quelle due nature lo stesso fondo appassionato e caldo che rendeva facile la loro amicizia, benchè Maddalena apparisse assai più seria, riflessiva e mite, e Isabella violenta, vivace, capricciosa.

La contessa Mariani pareva di nuovo sposa, tutta vestita di bianco, con una veste di surah a strascico, semplicissima all'apparenza, ma fatta con un'arte sapiente, che dava alla bella persona un fascino e una grazia infinita. Aveva un mazzo di violette fresche nei capelli e uno sul seno; i capelli d'oro, annodati sul collo con negligenza, finivano il delicato profilo della pallida madonna. Gli occhi, così dolci e profondi, brillavano di felicità; e un sorriso arcuava le labbra, un po' pallide, fra cui i denti si scoprivano piccoli, uguali e bianchi come allora quando essi erano le uniche perle che adornassero la povera maestra. Certo però, d'allora, il bel corpo s'era alquanto assottigliato; il bianco collo uscente dall'onda di pizzi meravigliosi s'era fatto più sottile; ma tutto ciò ch'ella aveva perduto in robustezza l'aveva guadagnato in grazia; in quella grazia squisita che le abitudini raffinate del gran mondo imprimono agli eletti che vi son nati; e che gli altri, i profani, difficilmente acquistano. A Enrichetta invece era bastato poco tempo per diventare una dama, senza la minima affettazione nei modi o nelle parole; a quelli che l'avvicinavano ella non ricordava per nulla la donna povera, assunta in ricco stato dalla generosità d'un marito; pareva nata in quell'oro, in quei pizzi, in quello splendore.

Luigi Murgillo s'avvicinava ora a lei. Non le si era presentato ancora, non aveva osato, poi s'erano serviti rinfreschi e liquori a profusione; egli, per stordirsi e per farsi animo, aveva bevuto. Difatti gli pareva di aver più coraggio adesso, e aveva ceduto al desiderio di vederla più davvicino, di parlarle forse.

Ella lo accolse sorridendo; pure a lui parve che passasse un'ombra nei dolci occhi di violetta, e le labbra sorridenti avessero un tremito e le pallide guancie si colorissero un pochino. Ma anche a lui girava la testa, forse per quel liquore di vaniglia di cui aveva veramente abusato; e non fu mai certo di quella cosa.

Venne qualeun altro vicino a loro; parlavano tutti insieme; si sedettero accanto alla poltrona occupata da lei, egli le si trovò vicinissimo, pigiato contro la seta argentea del suo vestito. Un sottile profumo usciva dalla persona di lei, gli montava al cervello, gli intorbidava la vista; e non poteva distaccar gli occhi dalle piccole bianche mani luccicanti di anelli, che finivano le braccia delicate, cinte ai polsi di catene d'oro. Avrebbe anche voluto guardarla in faccia, ma non osava già più, vinto, sconvolto. E non osava parlare, ma a ogni piccolo scoppio di risa di lei egli trasaliva, fremeva, si sentiva scolorare il viso; e ogni movimento della bianca graziosa persona gli dava un malessere indefinibile.

Dopo un poco si accorse di essere rimasto solo con lei. È vero che donna Rosalia Ghilardi era su di un canapè, a due passi di distanza; ma la vecchia dama non badava a loro; guardava davanti a sè e sorrideva, rivivendo forse nel passato, come faceva tanto spesso, e dimenticando il presente, il che la faceva credere squilibrata dalle persone che la conoscevano.

Luigi Murgillo guardò Enrichetta, proprio in faccia stavolta, e la vide distintamente tremare e arrossire.

— Enrichetta!… — Come osò susurrare quel nome che gli bruciava da tanto tempo le labbra? E lo aveva udito ella?

Tacque, spaventato del suo ardire, e tremò lui pure aspettando di esser cacciato. Invece ella aveva chinato il capo come stanca, e le due manine bianche si erano strette insieme nel grembo, con un gesto commovente di preghiera o di rammarico.

Suo primo impulso fu di inginocchiarsele ai piedi e di baciare quelle dolci, piccole mani, ma s'arrestò a tempo: nel fondo della sala si muovevano gli invitati; si occupavano di qualche cosa che egli nemmeno cercò di capire. Si chiamò donna Rosalia; il conte Francesco e il deputato Jorselli si avvicinarono alla contessa Mariani; Jorselli, il padrino le offri il braccio, e Enrichetta si alzò, calma e sorridente, senza nemmeno volgersi a guardarlo lui, che restava inebetito, chiedendosi se sognasse.

Andavano tutti alla cappella del palazzo, dove l'arciprete in pompa magna doveva celebrare il battesimo del piccolo conte Mariani.

Lui non si mosse; li guardò allontanarsi. Il rumore dei passi e delle voci si perdette nei corridoi; allora Luigi si accorse di essere solo.

Si alzò penosamente e, colla testa in fiamme e il cuore gonfio di speranze insensate, abbandonò la sala e il palazzo e si gettò nella via fresca e ombrosa.

I conti Mariani andarono a passare l'inverno a Napoli, e allora Eurichetta gustò a lungo e profondamente la voluttà della vita fino alla nausea, fino a esserne stanca; pochi anni prima nessuno sarebbe riuscito a convincerla che il piacere potesse stancare.

Tenevane conversazione la sera, quando non andavano al ballo o a teatro; la bellezza e la grazia di Enrichetta attirava gli uomini; il nome illustre, che sapeva portare così bene, rendeva la sua casa gradita alle signore. Ella seppe presto farsi un cerchio intimo di amici e di amiche; letterati, artisti, gran signori e quattro o cinque dame graziose della migliore società, e sopratutto intelligenti.

Le sceglieva belle perchè non temeva il confronto di nessuna: nobili, perchè forse voleva far dimenticare che lei non lo era; ma si annoiava se erano soltanto belle o soltanto nobili; l'intelligenza e lo spirito erano le doti che preferiva a tutte le altre. Abborriva gli sciocchi, che non le destavano nemmeno pietà; era assetata di una corrispondenza intera dell' anima, parendole che vi avrebbe trovato pace; e, pur senza mai trovare chi ne fosse pienamente degno, profondeva a tutti il suo spirito, la sua intelligenza squisita, il suo sentire spesse volte grande e originale, felice quando veniva intesa, ammirata, riconosciuta pur sempre la più bella, la più intelligente.

I volgari damerini trovavano poco da divertirsi con lei; ella voltava loro le spalle inquieta, nervosa, senza celare la noia che le davano; e il suo sguardo azzurro come la sua anima insaziata correvano in cerca di meglio. Invece i poeti, i veri, gli artisti, gli uomini arguti e profondi avevano per lei un fascino a cui ella si abbandonava con ingenua passione; ella li prediligeva, senza farne un mistero; li cercava, li amava, giovani o vecchi, belli o no, d'un amore sopraffino, artistico, in quanto che esso non era per l'uomo, ma per la parte intelligente e nobile di lui, ed era più degli altri amori profondamente egoistico, perchè le dava le soddisfazioni più acute e spirituali e le affinava l'anima sino alla sensibilità estrema.

Acute gioie e acuti dolori o disinganni anche quando, a un tratto, credendo di trovarsi finalmente in presenza dell'anima cercata, scopriva una volgarità che distruggeva improvvisamente il suo idolo.

Il più delle volte il suo ideale era formato da lei sopra uno scheletro comunissimo che rivestiva della sua luce; per un pezzo credeva che quella luce fosse reale e calda, e quando infine scopriva che non era se non il suo proprio riflesso, si rammaricava, credeva di essere stata ingannata, senza accorgersi che s'era ingannata da sè stessa.

Suo marito non si adontava affatto del genere di vita che ella aveva scelto. Rideva di quelle predilezioni, le incoraggiava forse, tanto gli parevano innocenti, senza accorgersi dell'irrequietezza di lei, senza vedere in pericolo nella morbosa ricerca a cui pareva essersi votata la sua anima. Quando sapeva che qualcuno poteva esserle gradito, egli stesso glielo conduceva; e, benchè indifferente all'arte, cercava di conoscere gli artisti e gli scrittori la cui fama e le cui opere avevano destato in Enrichetta anche una lontana curiosità di vederli; unicamente per entrare nel salotto di lei e di dirle con fare lieto:

— Mia cara, ti conduco il nostro sommo X… son sicuro di farti un immenso piacere.

Lei era la regina della sua casa e di tutti i cuori, di tutti; tanto era bella, amabile e intelligente, senza ombra di pretensione o di pedanteria.

Bella lo era diventata assai più. Il suo volto roseo e pieno di ragazza troppo robusta si era, ahimè! affilato; le veglie, la ricercatezza della vita, forse quell'irrequieta smania che la divorava, la avevano fatto impallidire; ma come gli occhi erano divenuti più ampi, più profondi e misteriosi! Avevano ora, sotto l'ombra setacea delle lunghe ciglia, un riflesso di viola, lampi di fuoco e di dolcezza, brividi e desiderii che invano la fredda espressione del viso cercava di smentire.

Erano quegli occhi alla cui fiamma molti cuori bruciavano; cuori nobili e bassi: cuori vergini e cuori già sfibrati per aver troppo amato o goduto; ma ella passava indifferente in mezzo a loro: non era quello che cercava; le dichiarazioni d'amore non cancellavano sulle sue labbra il freddo sorriso con cui le accoglieva. No, non voleva l'amore; di nuovo non credeva all'amore, perchè i brutali istinti non avevano presa sui suoi sensi, non era ciò che cercava, e s'impazientiva quando insistevano su quel punto.

— No; se dobbiamo restare amici, non parlatemi più di questo.

Gli arditi che avevano disobbedito erano stati puniti colla perdita della sua amicizia; nauseata, ella non li aveva voluti più ricevere, oppure li aveva dimenticati nella folla comune, indifferente a ogni pentimento e a ogni preghiera.

Verso primavera il conte Francesco si ammalò.

Certo la vita che aveva condotto nella sua gioventù non era stata esemplare, e ora scontava duramente i peccati, per cui donna Rocchina Maria aveva tanto sofferto. La malattia minacciava di prendere la spina dorsale; fu condannato sopra un seggiolone, dove certamente la convalescenza doveva esser lunga.

Allora molte speranze si ridestarono. La giovane moglie, dagli occhi profondi e solcati da lampi, non poteva certo restare indifferente alla specie di vedovanza di cui era minacciata. Gli assalti si rinnovarono più insistenti di prima, e benchè nessun risultato potesse incoraggiarli, più d'uno si credette sicuro di vincere.

Invece un giorno, improvvisamente, la contessa Mariani chiuse le sue sale; si licenziò dalle amiche e fece preparativi di partenza.

Ci fu un lungo ricambio di visite. Le dame vennero, curiose, credendo che un segreto dovesse esserci e, se c'era, si dovesse scoprire; si mosse persino donna Mariettella la moglie del deputato Jorselli, la cui conoscenza Enrichetta aveva fatta, benchè a malincuore, per legittimare agli occhi del mondo le relazioni di lei e di suo marito con Jorselli.

Donna Mariettella non si moveva mai; era sempre malata, e la malattia forse la rendeva così nervosa, irascibile, egoista: ma aveva trovato modo di governare dal fondo della sua poltrona non solo la sua propria casa, ma anche quella di tre sorelle, di due cognate e di parecchi nipoti che la riconoscevano, volenti o no, come il capo supremo e legittimo della famiglia.

Ma l'attività di quella eletta creatura si estendeva ancora al di là della sua famiglia. Tutti gli inquilini della casa da lei abitata erano in qualche modo sottoposti alla sua giurisdizione: ella non ignorava nessun particolare che li riguardasse: era prodiga con loro di buoni consigli: e il suo cuore era tanto vasto che accoglieva un tenero interessamento per ogni persona di sua conoscenza, e dispensava a tutti i tesori dei suoi lumi, prendendo parte attiva in ogni fatto che li toccava davvicino.

Pure questa così preziosa fortuna non era toccata a Enrichetta.

Donna Mariettella era stata in casa sua due sole volte in sei mesi; aveva preso in antipatia la giovane, e tutta la carità di cui era animata non bastava a vincere quel sentimento ostile che le faceva sfuggire la compagnia della contessa Mariani. Certo uno dei motivi di questa avversione era la simpatia che Jorselli mostrava per Enrichetta: anzi donna Mariettella non poteva perdonarle che un giorno in cui ella si era permessa di tormentare suo marito riguardo alla assiduità presso la bella contessa, questi le avesse chiuso bruscamente la bocca con aspre parole. Un simile tratto di energia da parte d'un uomo che doveva tutto a sua moglie, aveva immerso la degna signora in tale stupefazione che non potè nemmeno aver subito una delle sue crisi nervose, che in circostanze analoghe metteva la ragione dalla sua parte; e quando infine riuscì a svenire, suo marito era già per le scale, e non si voltò nemmeno indietro alle grida delle cameriere.

Donna Mariettella, dopo un fatto così enorme, si chiuse in un riserbo glaciale con suo marito, riguardo alla famiglia Mariani; cogli altri pure manteneva un silenzio pieno di reticenze ogni volta che quel nome si pronunciava innanzi a lei; pure con tutta questa ammirabile discrezione, non c'era persona di particolare conoscenza della signora Jorselli che non avesse una deplorabile opinione di Enrichetta.

Quanto alla giovane contessa, detestava cordialmente anche lei la degna signora. Era quella la donna che occupava il posto nel quale avrebbe dovuto trovarsi sua madre? Quando quel pensiero le veniva odiava suo padre, che aveva potuto vendersi anima e corpo a colei, e una sorda voglia di vendetta le gonfiava il cuore. Ma sapeva vincersi. Oh, ella era ben forte; e quando una tentazione la prendeva, andava a vedere suo figlio, il suo bel bambino robusto e bruno, che non le somigliava niente, ma che le pareva amare di più appunto per questo.

Era certa di trovare presso la culla Isabella. La giovinetta adorava il fratellino; aveva per lui le intelligenti tenerezze di una madre; ella aveva più pazienza della stessa nutrice, sapeva cullarlo, addormentarlo, chetare i suoi pianti capricciosi con inalterabile dolcezza. Enrichetta stessa era un po' gelosa, ma nello stesso tempo felice di vedere il tanto amato bimbo suo; pensava talvolta: «S'io morissi, è a lei che resterebbe»; e questa considerazione la faceva essere affettuosa e cordiale colla figliastra. Se poi Isabella non era con lei veramente molto espansiva, pure era divenuta meno superba e più sommessa, e parlava con un certo affetto alla matrigna, benchè non cercasse la sua compagnia.

Quando ritornarono a Pianbasso, Isabella si sentì felice. A Napoli ella non s'era divertita molto; la trascuravano tutti, la trattavano ancora da bambina, benchè avesse quasi quindici anni. Così lei si annoiava e desiderava il ritorno.

A Pianbasso, nel bel giardino dell'antica loro casa, rallegrato dalla primavera nascente, ella portava l'adorato bimbo, giocava con lui, rideva, correva, cercava di farlo stare in piedi. Spesso veniva Maddalena Balbi e passavano lunghi pomeriggi insieme, l'una dolcemente grave, l'altra violenta nel riso, nelle improvvise tristezze, negli affetti; impetnosa e battagliera.

O care bimbe, tu dagli occhi radiosi di pace e di affetto, e tu ardente come il tuo sole e il tuo cielo — bellissime, adorabili bimbe — dove siete ora? Una era fatta per il cielo ed è passata come un profumo soave; l'altra ha amato, ha sofferto, ha vissuto…

Lasciate ch'io vi saluti, dolci memorie!

Marietta Balbi ebbe un maschio anche lei: era un bimbo esile, vizzo; aveva una faccina pallida, occhi scoloriti e lunghe mani con ossicini appena ricoperti d'un po' di pelle vellosa: una vera bestiolina, dicevano le signore che erano andate a trovare la puerpera.

A Marietta invece pareva un angelo, e sarebbe stata pienamente felice se donna Rosina non avesse trovato opportuno di dire che il bimbo era troppo gracile e non sarebbe vissuto. Certo Marietta seppe amare suo figlio meglio di quel che facesse Enrichetta col suo.

Enrichetta, senza confessarlo a sè stessa, lo trascurava ora un pochino il suo Ciccillo. Si era abituata a vedergli sempre intorno Isabella: a poco a poco gliel'aveva lasciato; era andata più raramente a vederlo; anche perchè Isabella pareva contrariata quando lei veniva, e si mostrava gelosa per il figlio, come lo era stata per il padre.

Enrichetta del resto poteva essere tranquilla e non aver nessuno di quei timori che tormentano le madri. Mai s'era visto bambino più robusto, più sano, più vivace, più amato e curato del suo.

Anche in questo ella poteva dirsi fra tutte le donne fortunata.

E un anno passò pacificamente, senza portare nessuna diversità nella tranquilla monotonia di quella vita, che scorreva silenziosa e uguale nel piccolo paese di provincia.

Il conte Mariani stava meglio, ma andava sempre un po' curvo, e il medico, con un furbo strizzar d'occhi, diceva che gli bisognavano dei riguardi.

Enrichetta stava molto bene; aveva quasi riacquistata la sua allegria, e spesso il suo riso squillava per la casa, nella quale era divenuta ormai sola e vera padrona. Donna Rocchina Maria era già dimenticata da tutti: il suo ritratto, che una volta pendeva da una parete del salotto, si era rifugiato nella camera d'Isabella; e forse solamente Isabella si ricordava ancora dei begli occhi oscuri, che si fissavano su di lei con quell'espressione ardente e gelosa, che la fanciulla aveva ereditato.

Si era imposta a tutte le migliori famiglie di Pianbasso la bella contessa. Chi pensava più alla povera maestrina? Ella era ammirata, festeggiata, invidiata, come se fosse nata in quella ricca e nobile casa, come se avesse portato sempre l'illustre e sonoro nome; e nessuno osava sollevare fino a lei un desiderio men puro, tanto la sua bellezza pareva sacra, cinta da quell'aureola d'oro.

Luigi Murgillo stesso non aveva più pensato a lei colla più lontana di quelle speranze che, un momento, gli erano parse realizzabili. Certo in quel momento egli era stato ubbriaco, e si ricordava positivamente d'aver bevuto; solo non capiva come lei non l'avesse cacciato quando aveva osato chiamarla a nome: probabilmente però ella non l'aveva neppure inteso.

Dopo il ritorno di lei da Napoli egli l'aveva riveduta, e di nuovo gli era parsa alta, inarrivabile cosa; aveva scacciato allora i sogni folli; e, al più, gli ritornavano per brevi momenti, quando il suo sangue meridionale gli dava una vampa e gli scaldava il cuore indolente. Allora si sorprendeva colle tempie martellanti, col viso in fuoco: e la visione di lei — sottile e bianca, cogli occhi di viola profondi — gli guizzava nel cervello, e provava una impressione acuta, come di stringere fra le sue braccia quel fragile corpo; oh! le sue braccia robuste, che egli aveva ereditato dagli avi che avevano lavorato la terra, avrebbero potuto spezzarlo.

Ritornava in sè e si trovava tutto in sudore dopo una di quelle crisi: gli sembrava di essere stato pazzo un momento: gli veniva il sospetto di essere malato; scacciava quella visione, ritornava calmo, ma per qualche giorno non poteva più veder Carolina: ne aveva ribrezzo, gli pareva brutta, odiosa: a volte pensando alla sua amante lo prendeva la disperazione. Perchè dunque l'aveva conosciuta, colei? era per colpa sua che Enrichetta non l'aveva voluto.

Poi, quando la ragione gli ritornava, riconosceva che erano tutte sciocchezze.

Rare volte si vedevano, benchè lei andasse a far visita ai Murgillo due volte per settimana. Ella era serena e fredda come una dea, non tocca da alcuna passione umana. Parlava, anche quando era presente lui, con tenera compassione del marito convalescente, e delle cure che gli prestava con devozione mirabile. Parlava con orgoglio materno del suo figliuolo, così bello! così robusto! che diveniva sempre più indisciplinato, disobbediente…

Qualche volta i Murgillo erano invitati a pranzo in casa Mariani: e lì, la giovane signora si mostrava moglie e madre perfetta. Faceva con squisita cortesia gli onori di casa, aiutata da Isabella, che la chiamava mamma; serviva lei stessa, con cura gelosa, suo marito, togliendogli dinanzi i cibi quando pensava che potessero fargli male; incoraggiandolo a mangiare ciò che il medico gli permetteva: sgridandolo, sorridendogli con una vezzosa aria materna, che dava i brividi a Luigi.

Donna Rosina ci andava oramai malvolentieri in quella casa, tanto quella gente le pareva felice. Una felicità così completa l'irritava, tanto più quando le veniva il pensiero che la sua povera Marietta faceva una vita così meschina, così al disotto dei suoi meriti, in casa della suocera. Bisognava proprio essere di ghiaccio, come la nipote Lucia, o una civetta come quella contessa pezzente, per aver fortuna in questo mondo.

Don giuseppe, ascoltando le recriminazioni di sua moglie, taceva; quando il discorso incalzava faceva anche dei cenni affermativi col capo: ma in fondo egli era ben contento che la cara giovane fosse felice.

Un giorno la contessa Mariani andava a piedi, come al solito, a far visita in casa Balbi e a prendere il suo Ciccillo, che Isabella aveva condotto a giuocare col piccino di Marietta.

Sulla piazza, dove c'era la farmacia, ella vide a un tratto una faccia che le era ben nota, ma che ella credeva di aver dimenticato da un pezzo. Era la faccia del suo primo fidanzato, Nicola Piovino.

Enrichetta, che stava per passare altera e marmorea, si senti arrossire; ritto sull' uscio della farmacia, egli guardava sulla strada; guardò lei, si levò il cappello inchinandosi; ma in quell'atto rispettoso a lei parve di scorgere un'intima ironia, che le diede un malessere acuto. Quel meschino passato, ella credeva che fosse sepolto per sempre, e le rade volte che ci aveva pensato, si era sempre sentita pungere da un vivo dispetto all'idea che colui avrebbe potuto diventare suo marito, se un caso fortunato non l'avesse salvata.

Ciò che le spiaceva di più era che quell'uomo sapeva il segreto della sua nascita, che gliel'aveva rivelato lei stessa, in un momento di imperdonabile debolezza. Certo, dopo tutto che gliene importava? Ma se quella cosa si fosse conosciuta a Pianbasso, quanti segreti sarcasmi, quante insinuazioni maligne, quanti pettegolezzi! E si sentiva sudar freddo, solo pensando a ciò che avrebbe detto donna Rosina.

Però, che era venuto a fare in paese colui?

Appena fu in casa Balbi, disse di quell'incontro. La madre di Giulio raccontò allora di averlo veduto anche lei, nella mattina, andando a messa: e qualcuno le aveva detto che Nicola Piovino s'era disgustato col preside dell' Istituto dove insegnava, e aveva dovuto dare le sue dimissioni; ora era di nuovo a Pianbasso, senza impiego; non si sapeva che cosa avrebbe fatto.

Benchè si sforzasse di non parere, Enrichetta fu di cattivo umore per tutto il resto della giornata. La nauseava l'idea di saper vicino quell'uomo, di doverlo incontrare qualche volta.

Quando fu a casa lo disse a suo marito, nella segreta speranza che egli avrebbe pensato ad allontanarlo.

— Sai? C'è a Pianbasso quel Piovino. Non fa più il maestro a Bari; lo avremo qui tra i piedi.

Ma il conte ne rise e non diede nessuna importanza alla cosa.

Come lei s' era chinata per parlargli con aria confidenziale, egli la prese per la vita, la baciò, e, vedendo una nube sulla fronte di lei, le chiese se le dispiaceva di non averlo avuto per marito.

Anche Enrichetta allora finse di non pensarci più.

Due giorni dopo però seppe dalla sua cameriera che Nicola Piovino era venuto a palazzo; aveva osato cercare di lei; ma era stato veduto dal conte, che stava per scendere in giardino. I due uomini erano risaliti insieme e si erano rinchiusi in camera. Poi Piovino se n'era andato, e alla cameriera era parso più nero che mai, colle sopracciglia contratte dalla collera.

Enrichetta, inquieta, andò a trovare suo marito. Il conte camminava su e giù con cera scura; accolse sua moglie sfogandosi con parole un po' violente. Ah! un bel mascalzone colui. Non aveva osato venire per chiedere di nuovo la sua protezione? Aveva portato le lettere, le lettere che ella gli aveva scritte quando erano fidanzati; certo aveva avuto l'intenzione di venderle a lei, voleva forse impaurirla… Lui, il conte, se l'era fatte dare, per finirla con quella storia odiosa, e lo aveva anche pagato, per levarselo tra i piedi, quel villano!

Enrichetta, pallida, guardava il pacchetto che suo marito agitava nella mano. Era un pacchetto minuscolo, quattro o cinque bigliettini brevi brevi, che lei si ricordava di avergli scritto in rare occasioni. Quelle povere carte colui le aveva legate con una fettuccina rossa, nuova, per dar loro un'apparenza romantica; Enrichetta si sentì venir le lagrime agli occhi; si sentiva offesa; le pareva che qualche macchia ne venisse a lei, dall'indegnità del suo primo fidanzato.

Suo marito, vedendola così, si calmò subito; scherzò ancora e le tese il pacchetto, che non aveva nemmeno guardato. Ella lo prese con un gesto di ripugnanza; si volse, vide il caminetto acceso e ve lo gettò. Allora risero ambidue; ella si sentì più libera, come sollevata da un peso, e corse via a cercare di suo figlio.

Un giorno si seppe a palazzo Mariani che Maddalena aveva la febbre.

Ahi, che giornate incominciarono allora! Come la dolce fanciulla fu vinta, abbattuta e deformata dal male! Aveva il tifo. Dopo tre giorni ella cadde nel delirio. Non riconobbe mai più nessuno; nè madre, nè fratelli, nè amici; morì il ventum gennaio, la mattina, chiamando sua madre e senza vedersela vicina, senza comprendere i suoi singhiozzi e le sue parole disperate.

La prima neve di quell'anno scendeva tacita, quasi solenne, e la bara leggera passò, coperta di fiori, sotto il cielo bianco. E mentre le campane suonavano, nella casa desolata la madre si lamentava.

— O mia bambina, mia cara, perduta per sempre! O tesoro mio, eri tanto buona e tanto bella, perchè dunque andartene così? Perchè io non ho potuto ritenerti? perchè non t'ho serrata fra le mie braccia, così che la morte ci avrebbe portate via tutte e due, o ti avrebbe lasciata? Come! Dio mi ti ha tolta, e io dovrò rassegnarmi? Chi è che lo dice? No, mai, mai, se anche dovessi essere dannata, io non potrò mai dire: che la tua volontà sia fatta, Signore! O Dio, Dio, perdonami! No, non voglio essere dannata, perchè la mia Maddalena è in paradiso; e se io fossi dannata non la vedrei mai più. Eppure non posso accettare questa prova; tu non hai misurate le mie forze, o Signore: io son troppo debole, Signore; sento il mio cuore spezzarsi. O Maddalena, Maddalena! Se anche io la chiamassi un anno, dieci anni, tutta la mia vita, ella non mi risponderebbe mai più!

Così gemeva la madre, accasciata dal dolore; respingeva qualunque voleva avvicinarsele, era sorda a ogni parola di pace, e, come Rachele, non voleva essere consolata.

Era dunque passata la dolce fanciulla. Dagli occhi miti e radiosi, mai più sarebbe scintillata la luce queta dell'anima pura: erano vitrei e chiusi quegli occhi; il pallido viso s'era allungato nello spasimo supremo della morte; e i capelli dai morbidi riccioli parevano irrigiditi sulla fronte di marmo.

Così Enrichetta l'aveva veduta per l'ultima volta, quando, istupidita dal dolore, e incredula ancora a una così improvvisa sciagura, era accorsa in quella triste mattina, prestissimo, ma già troppo tardi per trovarla altro che morta. Ella aveva messo un fiore tra le ceree piccole mani che non potevano più reggerlo; povera Maddalena! o forse felice Maddalena, passata abbastanza presto perchè della vita non provasse che le serene dolcezze!

E mentre intorno a lei echeggiavano i pianti, Enrichetta aveva gli occhi asciutti; non poteva piangere, parendole piuttosto degna d'invidia quella morta bambina, così bianca, così quieta e serena. O, quando anche lei si distendesse infine sul letto, e il suo cuore tacesse per sempre; il suo cuore così stanco del lungo palpito affannoso; il cuore pazzo, pieno d'insensati desiderii; il cuore malato, che mai restava dal soffrire.

Solo quando la morta passò, sotto il peso dei fiori, nella bianca neve scendente, Enrichetta gettò un grido e le parve che qualchecosa si spezzasse in lei. Non l'avrebbe mai più veduta, mai più! E improvvisamente l'assalse quella disperante certezza, e insieme un terrore di quella morte che presentiva vicina anche per lei; una folle paura di ciò che sarebbe venuto poi, quando avessero portato via anche lei, rigida nella cassa, sotto i fiori; e si sarebbe trovata improvvisamente sola nella fredda oscurità della tomba. Allora perdette ogni coscienza della realtà e continuò a gridare, e si torceva le mani, presa da un accesso nervoso; i suoi occhi, che non avevano potuto piangere, erano stravolti, e dalla bocca contratta dalle convulsioni uscivano parole sconnesse.

Ma presto la sua forte natura prese il sopravvento; la terribile esaltazione cadde; a sera pareva già calma; ma nell'anima inquieta le era sceso un torbido rancore contro qualcuno, che ella sentiva padrone dei destini umani: e la vita non le parve altro che un gioco brutale di qualche orribile divinità, godente del dolore degli nomini.

La vita meschina che ci è stata concessa, che noi non abbiamo chiesta, sia almeno finchè dura, uno strumento di gioia. Che è il dovere? che è il bene? che è il male? Tutte follie!

Così quel debole lume di fede che s'era riacceso in lei, si spegneva ora, in un soffio gelato di disperazione e di dubbi. L'inquieta, in eterno scontenta natura, disconosceva ogni bene che una sorte sempre propizia aveva versato sul suo capo, per correr dietro, affannosa, ad altro, ad altro ancora; a godimenti nuovi, nemmeno sognati; ad alcunchè di inafferrabile e vano, che doveva consumarla in febbrili ricerche.

E nell'ampio letto parato di ricami e di seta, nel quale il suo giovane corpo cercava il riposo, parevano nascere fantasie strane, che andavano a popolarle la mente; e sogni torbidi e ardenti sconvolgevano quella fronte, che pareva bianca e pura come quella di una bambina.

I giorni seguenti passarono noiosi e tristi in casa Mariani.

Certo la morte di Maddalena doveva aver fatto una terribile impressione sulla contessa; suo marito si accorgeva che ella impallidiva di nuovo, e scorgeva ancora intorno ai begli occhi di viola i cerchi lividi, che gli davano tanta inquietudine.

Una mattina egli le propose di andar a finire l'inverno a Napoli; egli stava bene, quasi, e un po' di distrazione sarebbe giovato a tutti. Enrichetta non oppose alcuna resistenza, e non mostrò nessun entusiasmo; preparò le valigie e si disse pronta a partire. Isabella accompagnò il padre e la matrigna, e, naturalmente, il piccolo Ciccillo fu della compagnia.

A Napoli quell'inverno era d'una mitezza straordinaria, l'aria azzurra e dolce, il mare splendente; la primavera pareva impaziente di venire; la si sentiva già nell'aria e nel sangue.

I conti Mariani ripresero la vita brillante di due anni prima; il conte Francesco volle dare un gran ballo; Enrichetta fu ammirata, fu allegra. Invitata altrove non rifiutò; si slanciò nelle feste, desiosa di brillare, di godere… Suo marito era incantato di vederla così animata e gaia, e benediceva la buona idea che gli era venuta. Egli stesso era così felice e così tranquillo nella sua felicità! S'accorgeva bene che la giovine signora faceva gola a più d'uno, ma egli era tanto sicuro, che sorrideva di compassione a quelli che gettavano il loro cuore e il loro tempo ai piedi di lei. C'era, tra gli altri, Giacinto Dalloro, che perdeva la testa; lo vedevano tutti; ma ella aveva un certo modo di allontanarli! Le sue labbra si piegavano a un vago sorriso, ogni volta che una parola di amore giungeva sino a lei. Amore? che cos'era? Se non era altro che ciò che le susurravano quegli imbecilli, non valeva la pena di cambiare; preferiva suo marito. E quel sorriso era tanto freddo, e i suoi occhi azzurri gettavano uno sguardo così indifferente e attonito, che pareva non avesse capito.

Ogni tentativo aveva lostesso esito; cosa tanto scoraggiante che si incominciò ad adorarla da lontano, come una insensibile dea; il conte Mariani, curvo dalla sua spinite incipiente, era invidiato come possessore d'una virtù inespugnabile.

Anche la passione di Enrichetta per le persone intelligenti, che le aveva procurato tante gioie due anni prima, si era raffreddata. Che cos'è mai lo spirito? Una forma della sciocchezza, e gli intelligenti sono gli esseri più noiosi del mondo.

Isabella le dava ora qualche inquietudine. La scontrosa fanciulla aveva quasi diciassette anni, e s'era fatta bellissima, così bruna e piena di vita. Naturalmente molti la corteggiavano, e molti l'avrebbero sposata volentieri; era bella, nobile e ricca. Il conte Mariani ebbe in conseguenza molte domande di matrimonio; alcune convenientissime; ma Isabella rifiutò tutti; non voleva maritarsi, per ora.

Il conte Francesco si lagnò di questo colla moglie; la capricciosa figliuola non sarebbe dunque mai ragionevole? Ma Enrichetta, che, due anni prima, avrebbe dato non so che per liberarsi della figliastra, ora le si era affezionata sinceramente; e l'egoismo materno le suggeriva pure di conservare il più lungamente possibile una sorella tanto affezionata al piccolo Ciccillo. Così, rispose al marito sgridandolo.

Era troppo presto, Isabella era ancora una bambina; no, no; erano cose sulle quali bisognava pensarci lungamente; aveva mostrato molto buon senso, la piccina, rifiutando.

Il conte, pienamente battuto, si dichiarò convinto, e lasciò che la moglie e la figliuola pensassero e vivessero a modo loro. Era contento che andassero d'accordo, mentre aveva tanto temuto dapprincipio, e la saggezza e il tatto, di cui sua moglie aveva dato sempre prova, lo incantavano.

Quanto a Isabella, se aveva dichiarato così recisamente di non voler maritarsi per allora, non lo aveva fatto per un vano capriccio. Il matrimonio le pareva anzi una cosa logica; tutte le ragazze si maritavano, dunque anche lei un giorno o l'altro. Non era punto esaltata; era anche poco colta e aveva letto poco; ma una qualche idea sull'amore ce l'aveva; per maritarsi bisognava amare, essere amata… e lei non amava nesuno al mondo come il suo fratellino Ciccillo, e certo nessuno la ricambiava come lui; dunque aspetterebbe fin che un altro amore fosse venuto.

Col marzo venne la primavera, e non appena, una mattina, Enrichetta la vide entrare trionfante in camera sua, non volle più restare a Napoli, presa improvvisamente dalla nostalgia del piccolo Pianbasso. Il suo tetro palazzo, i viali ombrosi del suo giardino e tutti quei luoghi noti ella voleva rivederli; si annoiava troppo a Napoli; c'era troppo chiasso; non sapeva più che farsi del suo tempo e le giornate le parevano insopportabilmente lunghe.

Oh, quando finalmente arrivò a Pianbasso! Che scoppi di gioia, che festa, che salute nuova nell'anima! Che era mai andata a fare lontano? Era là solamente che si sentiva felice. Correva leggiera per il suo giardino. Come era bello e fresco e profumato! Come si sentiva forte ella, e come amava ora la vita! La sua gioventù le rifluiva tutta al cuore, mandandole ondate di sangue nuovo; non aveva mai provato tanto piacere all'aspetto del suo aranceto in fiore. Come stormivano soavemente le foglie lucide e dure! e i mandorli lontani parevano coperti di neve.

Vivere, vivere; i morti erano laggiù e dormivano; a che pro invidiare il loro sonno, poichè un giorno sarà concesso anche a noi riposare così?

Un giorno, il terzo dopo il suo arrivo, ella era presso al cancello esterno del giardino, e spiava curiosa nella via bianca e solitaria, spingendo lo sguardo oltre i bei campi tutti verdi, che la molle terra pugliese nutre col suo sangue migliore.

Stava lì, appoggiata ai ferri colle due mani, mentre il corpo leggiero si curvava innanzi e il vestito chiarissimo cadeva in mille pieghe intorno alla gentile persona. Il volto, colorito dal riflesso del sole, era appoggiato a una mano, e dall'alto del mandorlo scoteva la neve dei suoi fiori sui capelli biondi di lei.

Certo il suo sguardo si era perduto nella visione di quel verde e di quello splendore all'orizzonte; ella non s'accorse d'un uomo che era svoltato nella via solitaria; non si mosse finchè non le fu vicino; ma allora, mentre egli si levava il cappello, ella diede indietro, come spaventata, e tutto il viso delicato le si fece una fiamma.

Egli pure s'era fermato confuso; vedendola così turbata balbettò qualche parola per scusarsi di averla spaventata. Allora ella rise, si riaccostò al cancello, gli tese anzi la mano — bianca e scintillante d'anelli — attraverso le sbarre. Egli la prese rispettosamente colla sua, asciutta e bronzata dal sole; la strinse appena, non osando, e la lasciò subito.

Il sole lo illuminava tutto. S'era fatto più magro e più bruno; sui capelli d'un castagno scuro, foltissimi, aveva un gran cappellaccio di paglia che gli scendeva sulla fronte, e una barba corta gli ombreggiava il mento ossuto.

Enrichetta riprese la posizione di prima; solo il suo sguardo ebbe un'espressione singolarmente dolce posandosi su lui, così alto e forte, che non osava nemmeno guardarla.

— Non ci siam più visti dall'anno passato, signor Luigi — disse, e gli sorrise.

Egli balbettò alcune scuse; non aveva osato venire; era stato anche a Bari, e la campagna gli dava molto da fare…

Ella alzò le spalle col fare d'una bimba viziata.

Eh! che importava il perchè? Non era venuto e bastava. Invece sua madre, quella cara donna Rosina, era stata ieri a casa sua; ora ella doveva restituire la visita e l'avrebbe fatto tra poco. Oh, era puntuale.

Stupito, egli ascoltava. Mai quella voce era stata così carezzevole per lui. La memoria dell'antico e infelice suo amore lo riassalse, ed egli fremette, mentre osò guardarla, fino al fondo di quei dolci occhi di viola, che non si volsero in là.

Stettero così qualche minuto nel sole tiepido; annegati nel riflesso luminoso dei campi, della strada e del cielo. Ella scherzosa e carezzevole; egli timido e incerto, ma con un sottile fremito sotto la pelle.

Poi lui se ne andò, dopo che ella gli ebbe steso un'altra volta la mano.

Camminò tutta la strada seguìto dallo sguardo di lei, e quando fu per svoltare, non osò volgersi indietro, come avrebbe voluto, per assicurarsi che ella fosse ancora là.

Era tanto tempo che Enrichetta non cantava più! Quel giorno, improvvisamente, si pose a cantare in un viale del giardino, tanto che il conte si affacciò alla finestra, meravigliato. Cantò una canzone d'amore, d'una dolcezza malinconica; ma lei ne affrettava il ritmo, come se dal suo interno qualche cosa la spingesse ad accelerare, a rendere più lieta la dolce canzone.

Sul tramonto ella fu di nuovo li, vicino al cancello, a guardar fuori, e quegli passò di nuovo, facendo il cammino opposto a quello del mattino.

Il sole era già dall'altra parte del palazzo, al di là del giardino, e solo un tenue riflesso rosato coloriva le cose.

Si parlarono così, un momento: poi Enrichetta lo invitò ad entrare.

— Venite a salutare il conte, — disse, — vi vedrà con piacere.

E aprì il cancello. Sulla strada passavano contadine ritornanti dalla campagna e cantavano:

L'amore è na catena Ca nun se spezza!

Fecero adagio adagio il tratto che li divideva dal palazzo. Si fermarono parecchie volte; Enrichetta gli mostrò un mandorlo stupendo, crudelmente tuffò la sua mano nei fiori, e ne strappò una manciata che seminò per l'aria. Si fermarono dinanzi a cespugli di rose tutti fioriti, ma non le toccarono; nessuno dei due osò offrirle all'altro. E siccome dall'aranceto uscivano acuti profumi, entrarono, poichè ella gli ebbe detto che era una meraviglia.

Ma certo egli vide poco, tanto la testa gli girava; il profuno che usciva dalla bella persona di lei gli pareva mille volte più soave che quello dei fiordaranci. Ella spezzò un piccolo ramo carico di bianchi fiori, e se lo pose sbadatamente nello scollo della veste. Il ramo sparì, tuffato nei merletti: lo sguardo del giovane lo seguì.

In sala erano già accesi i lumi. Il conte, seduto in un seggiolone amplissimo, guardava con compiacenza sno figlio, che faceva dei dispettucci a Isabella. Tutti e tre ridevano felici.

Ci furono i saluti reciproci, i complimenti; ma poi tutti sedettero e si misero a parlare di varie cose indifferenti. Il discorso non poteva essere continuo, nè molto connesso, perchè Ciccillo disturbava assai. Il piccolo despota si irritava quando vedeva che gli altri non si occupavano abbastanza di lui, e trovava subito modo di destare l'attenzione gettando acuti strilli, o rovesciando una sedia, o con altri mezzi ugualmente ingegnosi.

Enrichetta, impazìentita, dava ogni tanto delle occhiate a suo figlio, nelle quali si poteva leggere più irritazione che piacere; il padre invece sorrideva, parendogli cosa straordinaria lo spirito e la vivacità del fanciullo. Ma Isabella, che era sempre la protettrice del piccolo tiranno, la sua schiava devota, quella sera pareva distratta, non gli badava; e il bimbo doveva tirarla per le mani, pizzicarla nelle braccia, perchè la sorellina gli rivolgesse, come al solito, tenere parole.

Una trascuranza così ingiusta non faceva che renderlo più inquieto; gridò tanto infine che Enrichetta si alzò con visibile dispetto e tirò il campanello. Comparve la bambinaia, e la signora glielo consegnò ad onta dei suoi strilli, e senza che Isabella si opponesse o lo seguisse per calmarlo. Solo il conte mòrmorò intenerito:

— Il povero piccino!

La notte intanto calava sempre più. Luigi, temendo di essere indiscreto, si alzò e prese congedo.

La stretta di mano che egli scambiò con Enrichetta poteya parere indifferente, ma i loro sguardi si incontrarono, si sprofondarono l'uno nell'altro. La sola Isabella sorprese quello scambio appassionato, e si sentiì passare nelle reni come una punta ghiaccia.

Una dolce abitudine è così difficile a perdersi!

Certo Enrichetta pensò che faceva male; che era anche un gioco pericoloso, un gioco che, anche innocente, poteva costarle caro. Tutte queste belle considerazioni non valsero a farle rinunciare alla dolcezza di quei brevi colloquii, mattina e sera, con lui, oltre le sbarre del cancello.

Luigi Murgillo, benchè comprendesse anche lui che era cosa imprudente, si lasciò andare colla sua solita indolenza a quella nuova certezza che gli entrava in cuore di essere amato da lei. Quell'amore tornò a dargli i fremiti e i desiderii di una volta; gli fece ardere il sangue intorpidito e gli diede acute ebrezze, per cui la sua ragione sonnecchiava e si lasciava tirare dall'insensatezza della passione.

Oramai egli svoltava trepidante l'angolo della strada, da dove poteva già scorgere il cancello, e dietro ad esso, lucente apparizione, la bella donna nel chiaro vestito, coi fiori che le scendevano sui capelli dal ramo di mandorlo. Si avvicinava; ella egli stendeva la mano; ogni giorno egli la teneva un po' di più quella bianca, piccola mano, scintillante di anelli: arrossivano entrambi, si guardavano negli occhi, e la muta confessione del colpevole amore scaturiva da quegli sguardi.

Pure parlavano di cose indifferenti; non toccavano mai al passato; ma ogni tanto si sorridevano, felici di essere insieme anche per brevi momenti.

Però Enrichetta non aveva dimenticato Carolina. Spesso le veniva il dubbio che Luigi la vedesse e l'amasse ancora, — dubbio che le lacerava l'anima, — ma serbava un resto di fierezza, per cui non voleva chiederne a lui.

Perchè lo amava!… o quanto, e di che folle passione! Non si curava più di mentire, di dissimularlo a sè stessa. Se fino allora si era sempre sentita infelice, insoddisfatta in mezzo a tutti i godimenti, non era forse perchè quell'amore — a cui aveva follemente rinunciato un giorno — le rodeva l'anima, le toglieva la pace? A che pro lottare ancora? Rinunciare a lui per tutta la vita e crearsi un'eternità di tormenti? No, aveva già deciso; ella era già sua: gli aveva già ceduto, egli non aveva che da prenderla. Soltanto non voleva dividerlo con un'altra donna: lo voleva tutto per lei sola, e prima di abbandonarsi voleva questa certezza.

Il caso la servì. Un giorno venne a trovarla la gobba Maria Luigia. Era più piccina che mai, più gialla che mai, più sparuta che mai. Disse che non osava venire a trovare la signora contessa: era per ciò che non si era fatta vedere da tanto tempo; del resto quante volte avrebbe voluto! E i suoi tristi occhi neri luccicavano di affetto e di commozione. Ella l'aveva sempre amata sinceramente quella che in suo cuore continuava a chiamare la signora maestra. Enrichetta, che l'aveva invece dimenticata, le si mostrò amorevolissima. Le fece portare da colazione, le regalò dei vestiti, la invitò ad andarla a trovare spesso.

La povera gobba era confusa da tanta bontà e degnazione. Piangeva, le baciava le mani, le toccava il vestito come ad una santa; ciò che la commoveva di più era il vedere come Enrichetta si ricordasse di tutto e di tutti: — persone umili che aveva conosciuto quando era una povera maestra, erano dalla signora contessa richiamate alla memoria: e di tutte chiedeva:

— Che n'è stato?

Solo per ultimo Enrichetta nominò Carolina. Era ben così che si chiamava, eh? la madre del povero piccolo Angiolino?

La gobba ne parlò volentieri: aveva sempre voluto bene alla povera ragazza. Ma chi l'avrebbe detto dunque, eh? che era con don Luigi Murgillo che… Basta! Tutto sarebbe stato bene se lui, come si diceva, l'avesse sposata: invece l'aveva poi lasciata di nuovo. Aveva avuto ancora un bambino; l'aveva allattato lei: — era proprio un bel bambino, ma le era morto lo stesso, di vaiuolo, perchè ella non aveva voluto farlo vaccinare. Lei stessa, la disgraziata, aveva preso il vaiuolo dal bambino: non era stata cosa molto grave, si era salvata; ma certamente la sua bellezza se n'era andata, povera creatura, oh, si!

Enrichetta udì tutto questo con gioia crudele. Brutta! colei era brutta! allora poteva essere sicura. Sarebbe amata! sola amata! e le venue un'improvvisa voglia di vederle la sua antica rivale.

Lo disse con ipocrita dolcezza a Maria Luigia. Quella povera ragazza! sarebbe ben lieta di vederla, di soccorrerla in qualche modo!

Maria Lugia s'incaricò della commissione, e, il giorno dopo, Carolina fu introdotta presso la signora contessa.

La rivide dunque — oh, con che gioia! — cambiata del tutto. I segni del vaiuolo, senza essere troppo sensibili, avevano tolto ogni delicatezza alla pelle: e gli occhi, leggiermente arrossati, contornati da peli radi e corti, avevano perduto l'antico splendore.

Le avevano dovuto tagliare i capelli, che erano fornati ruvidi e non ancora lunghi come prima; sulle tempie anzi non erano più venuti, e pereiò la fronte, allargata troppo, la faceva parere invecchiata.

Non era però più così magra come una volta, il corpo le si era arrotondato; ma, per quell'incuria solita alle donne meridionali, non portava più busto, non si rassettava più.

Carolina aveva l'aspetto commosso e sorridente. Era felice di rivedere la buona signora contessa: le varie disgrazie successele l'avevano lasciata tranquilla e rassegnata; la sua passiva natura, acquietandosi nel male come nel bene, le metteva negli occhi un riflesso di dolce indifferenza. Perciò fu appena se trasse qualche sospiro, narrando le sue sciagure alla signora.

La morte del bambino era ciò che l'aveva colpita di più. Un così bel bambino, e morire d'un male così terribile!… Ma, sia con Dio! Anche la sua propria malattia non l'aveva sgomentata. Erano cose che toccavano a tutti! Quanto all abbandono dell'amante… Signore! che di più naturale? Egli era ricco e lei povera; lui un galantuomo e lei una contadina; fin che era stata bella, pazienza! tutti i signori, da giovani, si tenevano così una ragazza; alcuni le sposavano persino; ma ora che era tanto brutta!…

Stupita, Enrichetta la guardava. Come non provava, in udirla, la gioia che s'era imaginata? In fondo al cuore anzi le pareva si rivoltasse qualche cosa; una strana commozione la prendeva, la stringeva alla gola vedendo quel volto mite, quel sorriso di rassegnazione ereditaria nei poveri, cui i ricchi, da secoli, tolgono l'onore.

Non nasceva anche lei dalla stessa razza di proletari? Non doveva anche lei la vita a un inganno, a un atto di prepotenza compiuto da un signore sopra una popolana? Non aveva ella sempre compreso tutto ciò, e non aveva riconosciuto lei stessa il dovere di non rendersi complice di tali onte perpetuate, quando, pochi anni prima, benchè già amasse, aveva rinunciato a sposare Luigi Murgillo, parendole atto di necessaria giustizia che egli desse il suo nome alla povera contadina sedotta?

Ed ora? Come doveva essere pervertita, come caduta nel fondo, se cercava, bramosa, i resti di quell'amore a cui aveva rinunciato una volta, quando era puro e innocente! Lo cercava mentre adesso era una colpa; non più amore fors'anco, ma pericolosa ebrezza; mentre sapeva che poi non avrebbe più avuto diritto che allo sprezzo e alla disistima di sè stessa.

Ma tutte queste ragioni erano ben fredde, oggi, per il suo cuore.

Davanti a quella donna mite e umile, ella se le ripeteva con insistenza; ma nel fondo una voce sorgeva prepotente e faceva tacere ogni altra: «Io l'amo!…».

E allora Enrichetta non pensò che a colmare di doni e di carezze la giovane. Le pareva di aver da pagarle un debito, e avrebbe voluto che lei stessa avesse domandato, si fosse mostrata indiscreta, quanto era buona e di facile contentatura.

Le spiacque l'udire che continuava a lavorare in campagna. Quel… signore non aveva dunque provveduto in nessun modo al suo avvenire? Ma Carolina raccontò ingenuamente che le aveva dato una somma; l'aveva ancora in serbo, l'aveva messa alla Banca… non si sa mai, un caso di bisogno; qualche volta che l'aveva incontrato, don Luigi le aveva anche chiesto se avesse bisogno di nulla, e le aveva offerto dei denari. Ma aveva rifiutato. A che pro accettare ora? non lo poteva in coscienza; non voleva mica abusare della bontà di lui. Eppoi, le occorreva così poco per vivere; non aveva proprio bisogno di nulla.

Enrichetta intanto pensava di trovare per Carolina un'occupazione fissa, perchè non stesse sulle eventualità del lavoro in campagna; ma nello stesso tempo avrebbe anche voluto allontanarla dal paese. Non perchè fosse più gelosa di lei, ma perchè la tormentava un vago timore del futuro. Se la giovane fosse un giorno arrivata a scoprire qualche cosa tra il suo antico amante e la signora contessa, chi sa se — ad onta della sua mitezza — non avrebbe tentato di vendicarsi in qualche modo?

Le offrì allora di metterla come cameriera a Napoli, dove aveva molte conoscenze; ma, con suo grande stupore, Carolina rifiutò.

Servire? no; per quanto fosse povera, non voleva servire: che avrebbero detto in paese di lei? E andare lontano, poi, nientemeno che a Napoli; non avrebbe mai saputo decidersi; eppoi ella non sapeva far la cameriera; aveva sempre lavorato in campagna e voleva continuare.

Contrariata, Enrichetta dovette arrendersi.

Conosceva quel puntiglio delle contadine pugliesi, che ritengono il servire come la peggiore delle vergogne, e non vi si decidono che nel caso estremo. Così non insistette; congedò Carolina con parole dolci, quasi umili, parendole di essere inferiore a lei: la invitò a venirla trovare, sperando invece che essa non terrebbe l'invito; le fece ancora un regalo per sua madre; e quando la giovane partì, benedicendo la generosa signora, ella chiuse la faccia tra le mani, come se qualcuno avesse potuto vederne il rossore.

Quella sera fu di nuovo al cancello, benchè avesse promesso a sè stessa di non tornarvi più a quell'ora, perchè spesso passavano di là i contadini ritornanti dal lavero.

La mattina non v'era questo pericolo, perchè Luigi passava sempre verso le otto, mentre i lavoratori erano nei campi già dall'alba; ma la sera i colloquii erano più dolci nella mite luce del tramonto; e l'aria, che diveniva ogni giorno più calda, si faceva carezzevole e fresca a quell'ora.

Anche quella sera, dunque, ci andò, e, come la prima volta, lo invitò ad entrare. Passarono ancora insieme, adagio, adagio, nel viale dove i mandorli, che non avevano più fiori, allungavano la loro ombra nel tramonto; e dinanzi alla porta dell'aranceto si fermarono irresoluti, guardandosi. Lei non osò dirgli: venite: ma, d'improvviso, lui spinse la porta e, senza parole, entrò.

Ella lo seguì, tremante e silenziosa.

Il boschetto era vasto; il più bello di Pianbasso; molti aranci e limoni erane in fiore: moltissimi avevano già i frutti. Ma i due camminavano diritti, senza guardarli, palpitanti, presi da una passione tremenda.

A un tratto egli si volse.

Erano in mezzo alle frondi, in uno stretto sentiero; l'acuto odore dava alla testa.

Egli non ebbe che a guardarla e ad aprire le braccia; ella vi cadde, dimenticando il mondo.

La felicità che perseguitava da anni con caccia affannosa, l'aveva ella finalmente trovata? Mai le era stata tanto lontana!

Trovava, è vero, nell'ebrezza della colpa un esaltamento che le pareva somma gioia: e il sentirsi ripetere parole d'amore, così ardenti come non ne aveva mai sognate, le dava un godimento acuto.

Ma la sua natura non era materiale e presto si saziava di gioie brutali; ella usciva dalle braccia del suo amante desiosa ancora di ben altro.

L'essere amata idealmente, puramente, le pareva ora l'estrema felicità; e quando infine ogni dolce parola, ogni sospiro appassionato dell'amante finiva insozzandosi nella materia, un senso di umiliazione, forse di pudore non ancora vinto, le spingeva il sangue alla faccia e la costringeva a chiudere gli occhi, vinta da una estrema vergogna.

Non era però pentita. Quello che aveva fatto sarebbe stata pronta a rifarlo ancora: ella amava e le pareva di aver diritto a quell'amore.

Soffriva soltanto lei così altera, di sentirsi umiliata: quel senso di vergogna le pareva debolezza; avrebbe voluto vincersi: non era ella dunque come le altre donne? non sapeva amare e godere dell'amore? Si irritava perchè, quando suo marito la guardava e le parlave con affetoo, si sentiva arrossire: non baciava più volentieri suo figlio: anzi spesso un fremito la prendeva quando la manina del bimbo si posava, carezzevole, su di lei.

Ma ciò che più la turbava era lo sguardo d'Isabella.

Quello sguardo profondo, che non aveva mai potuto fissarsi su di lei con tenerezza di figlia, ora pareva alla donna colpevole che avesse ripreso l'antica ostilità.

S'ingannava ella, o le parole che la fanciulla rivolgeva alla matrigna erano aspre e pungenti?

Era un pezzo che Isabella non l'aveva più chiamata mamma; anzi ne sfuggiva la compagnia o evitava di guardarla. E la colpevole donna ne cercava il motivo, non volendo fermarsi a discutere quel solo che le si affacciava con insistenza alla mente. Pure una sera, che era di nuovo là, dietro al cancello, presa da una pazza smania di vedere il suo amante, le parve di scorgere una figura bianca passare rapidamente fra gli alberi; e un fremito nervoso assali allora Enrichetta, che rientrò subito, in preda a straordinario terrore. Ma poi cercò di calmarsi.

Isabella non l'aveva mica veduta con lui; e se pure, sarebbe stato un colloquio innocentissimo; il saluto di un conoscente, che, passando, si ferma un momento.

Del resto, perchè tormentarsi così? Era questa la sua filosofia? Diventava dunque pazza? Nessuno sospettava di lei; nessuno avrebbe mai saputo nulla.

L'abitudine della menzogna l'aveva però fatta più prudente.

I colloquii pericolosi coll'amante, dietro le sbarre del cancello, alla luce del sole, s'erano fatti rarissimi, e avevano luogo solo quando la necessità di parlarsi era estrema.

Si vedevano invece la sera tarda, dopo che al palazzo Mariani s'era cenato, e che il conte, già stanco, s'era posto a letto.

Allora la moglie infedele usciva dalla sua camera, e, nella chiara notte d'estate, scendeva nel giardino. Qualche volta una delle persone di servizio la vedeva uscire, ma ella non faceva un mistero delle sue gite notturne. Aveva detto a tutti che ora pativa d'insonnia, forse per il poco moto che faceva, e sentiva il bisogno di passeggiare un po' nel giardino ogni sera.

Nessuno ci trovava male, e, del resto, ella rientrava abbastanza presto, per non destare pur l'ombra di un sospetto.

Luigi entrava da una porticina, che metteva in un piccolo fondo appartato, di proprietà comunale, dove poche magre capre andavano a pascere di giorno; quel fondo era già da due anni destinato a fabbricarvi una scuola; ma i denari mancavano al Municipio e sarebbero certo passati molti anni ancora prima che la somma necessaria fosse raccolta.

Enrichetta aveva dunque dato a Luigi la chiave di quella porticina chiusa da tanto tempo e alla quale nessuno più pensava.

Nell'aranceto erano sicuri, nessuno veniva.

Era un tratto esteso, chiuso da muri alti all'esterno, e da uno più basso dalla parte che comunicava col resto del giardino. Da questa parte c'era anche una porta; quella per cui erano entrati i due il primo giorno che ella lo aveva veduto passare; la sera nessuno andava in quel luogo, che restava affidato alla guardia d'un grosso cane. Il cane conosceva la padrona, e aveva dovuto far buon viso anche all' intruso: potevano dunque essere tranquillissimi.

Enrichetta al di dentro tirava una stanga di ferro che faceva da catenaccio alla porta; certamente quel chiudersi così era pericoloso: qualcuno per caso poteva tentar di entrare, una sera, e che avrebbero detto allora? ma lei pensava che in quel caso si sarebbe scusata in qualche modo, — una distrazione, un capriccio, — e intanto Luigi sarebbe uscito in fretta dall'altra parte e non sarebbero mai stati sorpresi insieme.

Comprendeva, del resto, che quegli appuntamenti, in quel luogo, non potevano durare sempre. Che avrebbero fatto d'inverno? E poi, infine, potevano essere sempre scusate quelle passeggiate notturne? ella non sarebbe mai seguita, spiata?

Tutto ciò le dava grande inquietudine, e, a forza di pensarci, aveva concluso che il miglior modo di vedersi era nella sua stessa camera. Ma ciò richiedeva grande prudenza, e sarebbe incomodo gravissimo anche per lui. Venire a ora tarda, quando tutti fossero coricati, con mille rischi; poi andar via anche tardi nella notte, prima che qualcuno in casa fosse levato… non si sarebbe egli stancato di quella vita? egli così indolente in fondo! così facilmente annoiato di tutto ciò che era difficile o faticoso!

Come tutti questi pensieri la crucciavano, la tormentavano tutto il tempo che era lontana da lui! Era divenuta nervosissima, inquieta, non aveva più pace, non poteva più star ferma.

Sul suo bel viso si riflettevano le tormentose paure, l'agitazione continua, e il pensiero — indicibilmente doloroso — dell'abbiezione in cui era caduta. E il bel viso invecchiava in quelle cure; aveva preso un aspetto serio e preoccupato; intorno alla bocca, prima così fresca, c'era una piega amara.

Usciva oramai poco di casa. Le pareva di non aver più la stessa faccia di una volta, di esser segnata in fronte con un marchio incancellabile; non le importava più di essere bella e splendida, anzi indossava i vestiti più scuri per passare più facilmente inosservata.

Andava di rado in casa Murgillo. Certo era solo una sua idea, ma le pareva che donna Rosina l'accogliesse ogni volta con un certo risolino beffardo e maligno che dava i brividi a Enrichetta.

Più volentieri andava a trovare i Balbi. Quella casa deserta — Giulio s'era finalmente stabilito a Bari colla moglie — si confaceva allo stato d'animo della giovane signora. Lì si vedeva vicino alla povera madre e tacevano un pezzo tutte e due; poi la madre veniva a parlare della figliuola perduta e dava qualche notizia a Enrichetta. Quella mattina aveva mandato sulla tomba una corona di rose: il giorno prima era stata a vederla, oppure nella notte l'aveva sognata.

Enrichetta si commoveva; improvvisamente si metteva a piangere: piangeva anche la madre: e per un pezzo tacevano così; ognuna vinta dai propri dolori.

Casa Mariani si faceva sempre più triste: appena il piccolo Ciccillo rompeva coi suoi clamorosi capricci la monotonia di quell'esistenza. Ma la piccola voce del bimbo era tuttavia incapace ad animare un palazzo ed un giardino così vasti. Nell alto calore del sole estivo, ogni cosa pareva dormisse, vinta da un tedio profondo. Venivano qualche volta alcune visite.

I Balbi, da Bari, felici, amati più che mai. col loro magro bambino; di quando in quando qualche conoscenza del conte: i Murgillo, — don Giuseppe, colla sua inalterabile barba verdognola e i suoi occhi affettuosi; donna Rosina, tutta miele con lo sguardo pungente e la voce velata: Rocco, colle sue grosse mani callose; e lui, qualche volta, che andava in casa Mariani con una cert'aria involontariamente spavalda, e non poteva tenersi dal lanciare alla contessa ora un sorriso, ora una parola, indicanti confidenza soverchia.

Donna Rosina aveva fatto un altro progetto. Isabella Mariani era bellissima, e, ciò che più monta, ricca e d'una grande famiglia. Se, durante quelle visite, suo figlio Luigi e lei si fossero innamorati? Conosceva Isabella; la conosceva abbastanza risoluta da sostenere la sua volontà contro suo padre e la matrigna, se essi, aspirando per lei a un matrimonio più brillante, si fossero opposti.

L'importante era dunque di far innamorare Isabella.

Ciò non le pareva difficile, dato il carattere appassionato della fanciulla e la solitudine in cui — per l'infermità del padre e per l'incuria della matrigna — viveva.

È ben vero che, qualche volta, l'astuta vecchia sospettò qualchecosa di ciò che passava tra suo figlio e la contessa; ma non era niente sicura, e poteva non esser vero. A ogni modo si ripromise di vegliare attentamente, e di giocare con prudenza le sue carte; intanto le sue visite al palazzo si facevano sempre più spesse, e costringeva il figlio con mille pretesti di venirla a prendere o ad accompagnare.

Luigi, indifferente agli ambiziosi progetti di sua madre, obbediva volontieri, per vedere più spesso lei che amava, per avere maggiore opportunità di fissare gli appuntamenti. E Isabella? La vecchia aveva calcolato giusto.

La giovinetta, ardente e profonda, che viveva oramai da parecchi mesi nel muto e solitario palazzo di Pianbasso, era giusto nell'età in cui si destano i sensi e il cuore. Mentre a Napoli, dove tanti eleganti e ricchi e bei signori sarebbero stati felici di possederla, il suo cuore aveva taciuto, qui, nella casa rifatta triste e silenziosa, non vedendo più quasi altri che il giovane dai profondi occhi seri, lo amò. Questo amore si accrebbe quando, coll'istinto geloso che era così fortemente sviluppato in lei, ella intui che egli ne amava un'altra, quando si arrischiò a sospettare — per quanto le paresse orribile cosa — che quest'altra fosse la sua matrigna; ancora sua rivale questa volta, ancora e sempre.

È vero che la fanciulla, castissima e ignorante quasi completamente del male, non aveva un'idea chiara di quel colpevole amore, anzi non ne fu mai sicura; però alla sua acuta percezione non potevano sfuggire i brevi ma abbaglianti sorrisi che si scambiavano i due, le lunghe strette di mano, le occhiate passionate, mentre il conte, colla schiena curva, annientato nella sua poltrona, seguitava un discorso inconcludente, cui nessuno badava.

Infine quelle passeggiate della matrigna a così tarda ora la turbavano; le mettevano in cuore una pungente cura, e avrebbe voluto seguirla, sapere dove andava… ma ciò le ripugnava troppo; lo spionaggio le pareva cosa vile e bassa; e la sua passione per Luigi non era ancora abbastanza forte da farla ricorrere a quel mezzo.

Se ne asteneva dunque; ma nella camera del piccino, dove continuava a passare una parte della sera, ella non poteva tenersi dal pensare a Enrichetta; fantasticava dove potesse essere a quell'ora; tendeva l'orecchio se la sentiva rientrare, felice quando ciò avveniva presto; in preda a una collera, crescente di minuto in minuto, quando la matrigna tardava.

E nella sua camera — così bella e calma, che pareva piena d'un profumo virginale — strani sogni e paure venivano poi a turbarla, e desiderii nuovi, e smanie improvvise e fremiti sconosciuti prima, misti a un acuto timore, a una rabbia gelosa, che la facevano impallidire, mentre i suoi occhi sfolgoravano ingranditi.

Donna Rosina s'accorse ben presto di ciò che passava nell'animo della fanciulla; senti la vittoria vicina ed esultò.

Finalmente i suoi sogni ambiziosi, da tanto tempo accarezzati, stavano per avverarsi: uno dei suoi figli sposerebbe una ragazza di famiglia illustre; così bella e ricca che non c'era partito migliore in tutta la provincia. Un partito a cui nessuno dei giovani di Pianbasso osava aspirare, perchè solo qualche ricco titolato di Napoli poteva esserne creduto degno; e lei era certa del fatto suo.

Sì, c'era Enrichetta di mezzo; ormai era sicura che tra suo figlio e quella donna doveva esserci qualchecosa.

Un giorno aveva osato anzi interrogare direttamente il figlio; egli si era confuso, aveva arrossito, e poi aveva finito col ridere per trarsi d'impaccio. Dunque era vero; Enrichetta Mariani era la sua amante; ma, dopo tutto, che importava?

Quello che era stato era stato; tanto non si poteva cambiare; era per l'avvenire invece che ciò doveva cambiare.

Quando fosse il momento, ella parlerebbe energicamente a suo figlio; oh, egli non era stupido e capirebbe la situazione. Per adesso, però, non c'era da far nulla; lasciar correre anzi, per non mettere in sospetto Enrichetta; intanto Isabella avrebbe tempo di perdere del tutto la testa, e Luigi di stancarsi dell'amante; tutte cose che dovevano logicamente avvenire.

C'era un solo pericolo: che il conte Francesco scoprisse tutto.

Allora il matrimonio non potrebbe più avvenire; ma questo caso era difficilissimo, improbabile anzi. Il conte era malato e innamorato della moglie: non sospettava nulla e non scoprirebbe nulla.

Da questo lato dunque poteva vivere sicura.

Passò tutta l'estate e fu tutta una fiamma d'amore.

Nessuno mai sorprese i due nell'aranceto, dove tra le oscure, lucide foglie, morivano i baci appassionati, e il vento sommesso dissimulava gli ardenti sospiri.

Ma quando l'aria si fece più fresca, specialmente la notte, lo scendere a quell'ora nel giardino, di nascosto o palesemente, divenne pericoloso.

Enrichetta, che era stata la prima a prevedere quel caso, ora invece non voleva pensarci, e fu lui, Luigi, che dovette farla accorta dell'impossibilità di continuare a quel modo.

Invano però pensarono un mezzo per vedersi ancora, per amarsi liberamente; tutti erano ugualmente pericolosi: parevano tali specialmente a lui, che, infine, trovava da sciocco il compromettersi, e che, già un po' sazio di baci e di amore, desiderava una piccola pausa, forse fino alla primavera ventura.

Lei invece, disperata, si struggeva nella vana ricerca.

Oh, essere schiava così; non poter spezzare le dure catene! E avrebbe voluto gettarsi sotto ai piedi dignità di donna, nome e ricchezze, per darsi tutta intera al suo amore; esser di non altri che sua, per sempre, liberamente! oh che sogno di ebbrezza, che infinito godimento!

E chi, chi li impediva di realizzarlo? Non avevano che da volere.

Ma lui, sgomentato, si ritraveva, si faceva subito freddo, ogni volta che accennava a simili pazzie; allora lei, che se ne accorgeva, con subita viltà lo rassicurava. Aveva scherzato. O che era possibile fare di quelle cose?…

Certo, se fosse stato possibile… ma non lo era, lo vedeva bene anche lei…

Non voleva spaventarlo, tanto ora temeva di perderlo; e man mano che l'amore di lui si raffreddava, il suo per contrasto s'infiammava, ingigantiva davanti agli ostacoli. In fondo lo trovava quasi vile, il suo amante, nella sua indolenza, ma non voleva confessarselo, timorosa di essere costretta a disprezzarlo, mentre sentiva che lo avrebbe amato lo stesso.

Il caso venne in suo aiuto.

In una lettera il deputato Jorselli dava alla figliuola notizia di una grave malattia di sua moglie. Due giorni dopo un telegramma annunziava la morte di donna Mariettella.

Il conte, generoso come sempre, disse allora ad Enrichetta che gli pareva conveniente che ella andasse a Napoli; lui stesso, benchè malato, l'avrebbe accompagnata; potrebbero partire essi due soli; il bimbo era in buone mani e avrebbero pregato la vecchia Balbi di venire a stabilirsi per qualche tempo al palazzo: così Isabella avrebbe avuto compagnia.

Se, dopo dieci o quindici giorni, lui, il conte sentiva di non stare peggio e lei ci avesse avuto piacere di passar a Napoli addirittura l'inverno, nulla li impediva di far venire il resto della famiglia.

Questa proposta rese Enrichetta felice. Strana cosa! non aveva pensato a un ripiego così facile.

Quella stessa sera vide Luigi Murgillo, e gli diede con entusiasmo quella notizia. E poichè egli non pareva comprendere:

— Ma non capisci dunque? — esclamò senotendolo; — verrai a Napoli anche tu, ci troveremo insieme, affitteremo una cameretta, ci vedremo ogni momento!

— Impossibile, cara mia. Senti, sii ragionevole; tu sai bene che io dipendo da mio padre, e più ancora da mia madre. Come vuoi ch'io parta senza che essi lo sappiano? E se lo sanno, non vorranno certo. Eppoi, con quale pretesto?… E il paese?… Quando si saprà che siamo partiti insieme?…

Ella, che s'era contenuta fremendo, proruppe allora nervosa, irritata:

— Ma tu non dirai di andare a Napoli; trova una scusa. Non hai parenti a Lecce? amici a Barletta? inventa qualche cosa. Tu intanto parti subito; io ritarderò la mia partenza; ci troveremo a Napoli; nessuno ne saprà nulla.

Egli, preso alle strette, sentendo la volontà di lei inflessibile, sapendo di lottare inutilmente e non osando tuttavia romperla definitivamente, timoroso anzi di parerle quello che era già in realtà, disamorato e freddo, lambiccò un'altra misera scusa:

— Sai che papà mi tiene corto a denari; come vuoi ch'io possa disporre di una somma…

Ella l'interruppe stavolta, fuor di sè dall'impazienza: — Me che! denari! anche questo adesso!… io ne ho, io; aspetta, ne vuoi? quanto vuoi?

E si cacciò la mano in tasca cercando febbrilmente, come se avesse avuta tutta una somma addosso.

Allora lui, vergognoso, le prese la mano, gliela tenne ferma, e, poichè lei voleva parlare, le chiuse la bocca coi suoi baci:

— Taci dunque, pazzerella! finiscila! vuoi ch'io prenda denaro da te? ne troverò del mio. Eh, eh! ti credi ricca tu sola, eh? Vediamo, quanto hai nel portafogli? dieci lire? mostra, mostra il tuo tesoro! Va, va; tu non sai quanti denari ho io da parte! Per provartelo ti porterò un bel regalo il primo giorno che ci vedremo a Napoli.

Scherzava ora, preso d'allegria anche lui all'idea di quella scappata. Ah! ah! gliela farebbe vedere lui a mammà!

Combinò insieme con Enrichetta la scusa che darebbe alla famiglia; anzi fu lui che seppe trovare un magnifico pretesto.

Si era in autunno; niente di più naturale dunque di una partita di caccia; a cui l'avrebbero invitato alcuni amici di Gioia del Colle.

Era un caso già realmente avvenuto anni prima; certo nessuno se ne meraviglierebbe; partirebbe subito il domani mattina.

Lei ne fu tutta felice, e lo colmò di baci per ricompensarlo. Ah! come era buono, come l'amava il suo Luigi! Vedrebbe come sarebbero felici a Napoli! Voleva amarlo tanto, amarlo tanto…

Egli parti tutto contento, più innamorato di lei che non lo fosse da un pezzo: passò frettoloso sotto i noti aranci e li salutò; era l'ultimo appuntamento, almeno per quell'anno, sotto le loro frondi discrete; quell'idea lo commosse; strappò un ramo in fiore e gli parve di aspirare ancora l'amore di lei così bella, sottile, innamorata!

In quel momento gli parve d'udire, dinanzi a lui, un rumore di passi guardinghi e frettolosi.

Sostò subito, impaurito; poi, non udendo nulla, si persuase di essersi ingannato. Ma no; alla porticina, dalla quale non era più molto lontano, vide ora distintamente un'ombra che spingeva l'imposta e sgusciava con prestezza al di fuori.

L'imposta, ricadendo sui cardini, produsse un rumore che Luigi udì ben chiaramente, e che lo convinse ancor più di non aver sognato.

Deciso di vedere il pericolo in faccia, egli si slanciò dietro all'ombra fuggitiva. La porta cedette subito; nella strada, al di là del fondo comunale deserto, l'eco ripeteva il suono di lontani passi fuggenti; ma fino a che Luigi girò la chiave nella toppa, per chiudere, e la tolse, — preso da un bisogno di somma prudenza, — i passi si perdettero nei campi, ed egli non potè più trovare la spia che cercava.

S'incolpò allora di temerità. Difatti, reso ardito dall'apparente sicurezza di cui godevano, egli aveva trascurato qualchevolta di richiudere a chiave la porticina da cui egli veniva; lo aveva fatto anche, perchè, — ad ogni evenienza, — gli restava con essa aperta la via a pronto scampo. Egli aveva sempre temuto più facilmente una sorpresa dalla parte del giardino; perchè dal di fuori chi mai poteva avere interesse?… Invece era proprio così; c'era qualcuno che li aveva spiati, chi sa quante volte! E fu ripreso dallo sgomento; gli pareva già di essere perduti, lui e lei; esposti al ridicolo del paese, costretti a nascondersi come due colpevoli. Avesse almeno saputo chi era la spia; conoscere i suoi intendimenti, comprarla, se fosse stato possibile… Ma nulla, nessun indizio, nessun sospetto.

Donna Rosina non si lasciò ingannare da suo figlio quando egli le snocciolò la favola di quella tal partita fra amici.

Lo lasciò partire, però, senza dir nulla; e, per sapere a che punto stavano le cose, andò lo stesso giorno in casa Mariani.

Trovò Isabella sola; Enrichetta era andata dalla vecchia Balbi per pregarla di prendersi cura della casa per qualche giorno. Quella notizia, naturalmente, aveva bisogno di spiegazioni, che Isabella le diede amplissime. Ah! dunque anche i conti Mariani andavano via, a Napoli; e perchè? non a passare l'inverno, giacchè si parlava di pochi giorni; per affari, diceva Isabella, ma non ne sapeva nulla neppur lei.

Il conte voleva già partire lo stesso giorno, ma Enrichetta aveva dichiarato che era cosa impossibile, e il conte s'era sottomesso, come sempre, alla volontà di sua moglie; così la partenza era fissata fra tre giorni.

Isabella era d'un'insolita allegria, aveva il viso raggiante, e donna Rosina non stentò molto a indovinarne il motivo. La giovinetta sperava che, durante l'assenza della matrigna, ella avrebbe potuto vedere più liberamente colui che amava, e non avrebbe più avuto nessun motivo di essere gelosa. Difatti, non appena donna Rosina venne fuori anche lei colla notizia della partenza di suo figlio, Isabella si fece pallidissima sotto il doppio, fiero disinganno. Non solo non l'avrebbe veduto… ma sarebbero partiti insieme, la sua abborrita matrigna e lui; ne era certa. Un'amara voce glielo gridava nel cuore; ne era certa, ne era certa; e le lagrime le vennero agli occhi; lagrime cocenti di rabbia e di dolore; lagrime di disperazione che ella non si curò neppur di nascondere.

La vecchia, che se n'avvide e le leggeva nel cuore, finse di non accorgersi di nulla. Era necessario sviare il sospetto dall'animo della fanciulla; rassicurarla anzitutto perchè la inesperta violenza di lei non provocasse uno scandalo.

Allora disse con viso e voci indifferenti:

— Già, è partito stamattina quel figliuolo. Capite; quegli amici sono così esigenti! Naturale, son giovanotti e non pensano che a divertirsi. Non hanno giudizio, neppure; potevano ben avvisarlo prima quel povero ragazzo; invece no; ieri sera gli arriva un telegramma; figuratevi io subito che paura, che agitazione… Anche lui, veh! che è così tenero di cuore, — ah, mi somiglia tutto, quel caro figliuolo! — Aprilo tu; no, che lo apra papà; io non oso; io neppure… Lo apro io, infine; e quello stupido telegramma contiene un invito a caccia! Quasi tutti gli anni quel pazzo di don Cesare — don Cesare Polletti, voi non potete saperlo, un amico di collegio di Luigi — organizza a Gioia delle partite di caccia, a cui prendono parte moltissimi giovinotti. Il mio Luigi è appassionato per la caccia; sta sempre via otto, quindici giorni quando va lassù; anche un mese, qualche volta. Invece quest'anno è andato via quasi malvolontieri; se non fosse stato che suo padre gli disse: «ma vacci, dunque! che novità!» lui non ci andava. E sono certa che starà via pochissimo. Lo so io il perchè, e forse lo sapete anche voi, Isabellina, tesoro mio. Ah, ragazzi! ragazzi! basta, so compatire, sono stata giovane anch'io. È lui che mi ha pregata di venir subito qua, nella giornata di oggi; e di scrivergli subito, dopo.

Isabella, a questa filza di bugie, sgranava gli occhi ancora luccicanti e cercava di comprendere e di persuadersi.

Proprio? poteva credere a donna Rosina? E perchè no? Quella buona signora non era capace di mentire; e poi a che pro? Era sua madre, e se aveva proprio visto il telegramma…: e si fece ridire il tutto. Donna Rosina migliorò l'edizione, rinforzò le tinte; era andato via per forza; era disperato. Lei, sua madre, doveva saperne qualche cosa, doveva essere abituata a leggere nel cuore di suo figlio. Si, quel ragazzo aveva una passione che lo consumava; e se era andato via, l'aveva fatto anche perchè… sì, perchè non era sicuro di essere corrisposto, e aveva mille ragioni di temere…

Desiderosa di credere, Isabella a poco a poco si rassicurava.

Poi, tirata dalla scaltra vecchia, si lasciò andare a confessarle il suo amore.

Arrossiva, nel farlo, la giovinetta, e serbava una certa ritrosìa nelle parole, ma dai suoi occhi profondi usciva la fiamma rivelatrice della passione; le sue labbra tremavano; le sue mani si univano insieme con espressione di ingenua preghiera; pareva si votasse tutta a quel suo primo amore, in un bacio fervoroso e casto.

Lo aveva sempre veduto volentieri, don Luigi, sempre; fin da quando lo aveva conosciuto la prima volta. (Era stato all'epoca del battesimo di Ciccillo).

Le era anche parso che egli la guardasse con qualche compiacenza, ma non ne era mai stata certa; anzi — lo diceva solo a lei, donna Rosina, che venerava come una madre — le era parso, certe volte, che egli venisse a palazzo Mariani non per lei, ma per… altri.

Donna Rosina capì che la fanciulla stava per metterla a parte dei suoi sospetti, forse perchè venissero combattuti apertamente; ma era troppo pericoloso lasciarla entrare nel labirinto di quelle confidenze, e se ne scansò abilmente.

Ah! che consolazione le dava quella cara creatura; Ora che lei aveva parlato, sì, poteva dirglielo, che era stata molto in pensiero, quegli ultimi tempi, per la salute di Luigi. Lei, che era madre, se lo vedeva lentamente deperire, il povero figliuolo. E non poter consolarlo, e conoscere il suo male! che strazio era stato quello per il suo cuore materno! Bisognava vedere come quel povero ragazzo era divenuto timido; non lo si riconosceva più. Serio lo era sempre stato, è vero; oh, non somigliava punto agli altri vagabondi del paese Aveva ventott'anni; ma era giunto a quell'età senza che… in fatto di morale… basta, le ragazze non capiscono quelle cose lì. Così dunque egli s'era fatto tanto timido che appena appena s'era aperto con sua madre; e non l'avrebbe fatto nemmeno se lei — che se n'era accorta da un pezzo — non gli fosse entrata nel discorso.

Era un giovane orgoglioso, quello sì che era il suo difetto; e essendo assai meno ricco della contessina Mariani, temeva che qualcheduno potesse sospettare che le faceva la corte per i suoi denari.

Ah, come era felice Isabella! Aveva di nuovo gli occhi pieni di lagrime, ma era per la gioia, per la commozione; si vergognava dei suoi sospetti; si accusava internamente di essere gelosa, maligna, oh ben cattiva!

La sua futura suocera le fece allora una confidenza. Veramente era ormai una cosa fuor di luogo, ma voleva dirgliela, così per ridere. Quando la signora contessa, la cara Enrichetta, insomma, era ancora una povera maestrina, lei, donna Rosina, che l'aveva sempre singolarmente amata, aveva pensato a un matrimonio tra suo figlio Luigi e la giovane. Ma, oh! com'era da ridere! i due non si erano piaciuti. Questione di gusti, davvero; perchè Luigi non era brutto poi, e la signora Enrichetta era allora… che dire? Isabella se la ricordava certo. Adesso, povera donna, non era più lei; era invecchiata rapidamente, non aveva più nè freschezza, nè colore, nè carni; ma allora! Ebbene! Lei, donna Rosina, da buona madre, da donna prudente, aveva parlato del suo progetto alla maestrina: e la ragazza, aveva ringraziato garbatamente e s'era fidanzata a quel tale Piovino, se ne ricordava? Lei, donna Rosina, aveva però anche tastato il figliuolo, e aveva trovato, anche da quella parte, una gran freddezza.

Luigi anzi le aveva risposto in confidenza che abborriva le bionde, specie le settentrionali; che erano tutte così affettate! anzi, non aveva osato dire, che non trovava niente bella la signorina Borlieux? che gli era antipatica? Ma lei, donna Rosina, gli aveva dato dello sciocco, dell'orso!… Antipatica la bella Enrichetta, che piaceva a tutti? Era bella e buona anche, bisognava dirlo; buona come un angelo; e allora, se non avesse trovato dalle due parti quella freddezza, lei, donna Rosina, sarebbe stata felice di averla per nuora. Ma quel suo figliuolo era uno strano ragazzo; franco e sincero fin troppo, guardi Iddio, nell'epoca in cui viviamo!

Gettata l'ultima freccia, certa oramai di aver battuto il nemico da tutti i lati, e di aver nelle sue reti quel cuore ingenuo di fanciulla, donna Rosina se ne andò finalmente, felice di quella vittoria.

Ora bisognava disporre altrove le sue batterie, e vincere l'amore di Enrichetta e di suo figlio, che prendeva una piega che ella non aveva affatto prevista.

Qui stava il più difficile, ma non disperava affatto.

La signora contessa aveva dato gli ordini per la partenza, e nel palazzo Mariani tutti avevano un gran da fare a preparare valigie e bauli.

I preparativi erano tali che nessuno dei servi credette si trattasse realmente di una permanenza di quindici giorni, come aveva detto la signora contessa; certo i padroni si sarebbero fermati a Napoli almeno fino alla primavera ventura.

In realtà Enrichetta lo sperava. Anche al suo amante aveva dato ad intendere che si trattava di una fermata breve, — una vera scappata, — ma in fondo pensava che, quando egli fosse laggiù a Napoli, in suo potere, non le sfuggirebbe così presto; saprebbe ben lei trattenerlo e addormentare i suoi scrupoli e le sue paure.

Da molto tempo non si era veduta Enrichetta più animata e più allegra. La sua voce era vibrante, l'attività con cui sorvegliava i preparativi addirittura meravigliosa, e le persone di servizio pensavano pure che gli affari, per cui i signori partivano così in fretta, dovevano certamente essere della migliore natura.

Enrichetta aveva però nella sua gioia un non lieve imbarazzo.

Per trattenersi a Napoli tutto il tempo che desiderava, bisognava bene che conducesse con sè qualcuna delle persone di servizio. Tra queste però avrebbe voluto scegliersi una ben fidata, intieramente devota a lei, della quale non potesse mai temere un tradimento; dato il caso, non impossibile, che — pur senza fare confidenze complete — si fosse trovata nella necessità di lasciar indovinare qualche cosa.

Però tutti i domestici di casa Mariani — cinque o sei persone, senza quelle addette al giardino — le parevano attaccati più al conte che a lei personalmente; sperava bene di non aver bisogno della complicità di nessuno; ma, insomma, dato il caso…

Aveva per un momento pensato a Carolina. La giovane contadina aveva lavorato per qualche tempo nel giardino del palazzo, dietro espresso desiderio della contessa; ma poi a poco a poco era divenuta una specie di cameriera in casa Mariani, e si era guadagnata la simpatia e la confidenza di tutti.

Enrichetta sapeva quanto la giovane le fosse affezionata, ma esitava a farle quella proposta.

Sapeva quanto mal volentieri la giovane donna si sarebbe allontantata dal suo paese, e temeva un rifiuto; eppoi… malgrado l'assoluta indifferenza che Carolina mostrava per il suo antico amante, — lo aveva incontrato spesso in casa Mariani, ed era stata sempre ugualmente rispettosa e riserbata con lui, — pareva a Enrichetta che, far giusto di lei la testimone dei suoi amori con Luigi, non fosse cosa nè prudente nè conveniente.

Spesso aveva spiato nei neri occhi della giovane abbandonata col timore di leggervi un sospetto o un rancore, ma invece nulla; gli occhi, che non erano più così splendidi come una volta, conservavano una dolcezza inalterabile; e la bocca, nella quale brillavano ancora intatti i denti forti e bianchi, aveva spesso un riso franco e allegro, benchè quel riso non fosse così squillante come quello delle ragazze.

Con tutto ciò qualche volta la donna colpevole temeva; le venivano spesso strani pensieri: chi sa se la conoscenza del suo amore e l'occasione d'una vendetta facile e sicura non indurrebbero la giovane a servirsene contro i due amanti?

Così, tormentata dai dubbi che la cattiva coscienza ridestava continuamente in lei, Enrichetta si aggirava inquieta per le stanze, indecisa sul da fare, quando la voce di Carolina, che parlava nel corridoio con una serva, la turbò improvvisamente e le venne, a un tratto, voglia di vederla e di parlarle. Dinanzi a lei, guardandola ancora bene negli occhi, si deciderebbe…

Ma, quando l'ebbe chiamata, si vergognò; non trovò più nulla da dirle; le parve che non potrebbe mai… e fini col darle una commissione qualunque per la vecchia signora Balbi. Carolina obbedi subito, senza saper che cosa pensare della confusione che aveva mostrato la signora contessa.

La giovine uscì sulla strada, un po' triste, leggermente agitata anche lei. I padroni se ne andavano, chi sa per quanto tempo; veniva la brutta stagione, piogge e venti; non si sarebbe più potuto lavorare che ben raramente in campagna, e sarebbe anche un lavoro ben faticoso e mal pagato. Che brutto inverno avrebbe mai da passare! Era difficile che non si dovessero toccare i denari che aveva da parte, e ciò le rincresceva molto; chi mai aveva così improvvisamente messo in capo alla signora contessa di partire?

Allo svolto della strada solitaria Carolina vide fermo un uomo che ella guardò appena; ma lo riconobbe — era il maestro Piovino.

Stava per passare innanzi sempre distratta, quando egli la chiamò a nome, ed ella dovette fermarsi, sorpresa.

— Devo parlarvi, comare Carolina, — disse egli misteriosamente, — ho da dirvi cose serie, vi aspettavo.

E si accompagnò a lei, che, sospettosa, lo guardava sottecchi, senza rispondere. Egli era sempre lo stesso: nero, tutto nero, con alcunchè di nuovo, di truce nel bieco incrociarsi delle sopracciglia. Portava la barba, ora; una barbaccia ispida che gli cresceva a malincuore, ineguale, dura, qua e là con peli bianchi più grossi, diritti; una vera barba da brigante.

Anche il vestito era piuttosto dimesso; scuro, con un lungo soprabito chiuso fino al collo; pareva che quel soprabito fosse destinato a mascherare l'assenza della cravatta o del solino.

Carolina era poco osservatrice; indolente anzi e poco accurata lei stessa; ma l'insieme di quella figura le spiacque e le diede una triste idea di miseria vergognosa e nauseabonda.

— Che avete da dirmi, don Nicola? — chiese esitando.

— Qualche cosa che vi farà piacere, comare Carolina. Avete tempo adesso? potete venire con me?

— Dove?

— Guardate. Invece di voltare verso la piazza, venite con me per la strada di San Domenico. Là prenderemo una viottola, e parleremo. Venite; non ve ne pentirete.

Si avviarono così. Incominciava a piovigginare, ma non se ne curavano; erano rade goccie che il vento disperdeva.

La strada di San Domenico era del tutto deserta; si stendeva grigia e uguale fra i muri che chiudevano i campi; non si vedeva un'anima. Ma Carolina non se ne mostrò punto preoccupata, e non esitò a cacciarsi colla sua guida in una stretta viottola dietro l'antico convento, dove potevano quasi esser certi di non esser veduti da nessuno. Allora, camminando adagio, lo pregò d'incominciare.

— Subito — disse lui. — Voglio parlarvi del vostro antico sposo, di don Luigi Murgillo. Tutti dicevano che sarebbe stato presto vostro marito. Invece vi lasciò; come mai, comare?

La donna aveva lievemente arrossito, ma rispose con voce stanca e indifferente:

— Mio marito? Io sono una povera ragazza, e lui un galantuomo.

— Eh, che importa? Voi eravate molto bella, e lui non è nè molto ricco, nè di nobile famiglia. Suo nonno ha lavorato nei campi dei conti Mariani per un tari al giorno e la pagnotta. Se ne son viste delle altre. E la Vittoriella di compà Ciccio? E Minguccia del pretore? e le altre, assai meno belle di voi, e che ne avevano fatto di tutti i colori prima?

Il lieve rossore le era scomparso dal volto. Carolina ebbe un sorriso lievissimo e scosse le spalle.

— È solo per dirmi questo che mi avete chiamata, don Nicola?

— Aspettate. Voglio che mi diciate la verità. Non vi dispiace che don Luigi vi abbia abbandonata?

Una gocciola di pioggia più grossa cadde a lei sulla guancia, e il vento le sferzò i capelli già umidi. Ella si asciugò la faccia e si passò le mani sul capo per rassettarsi; poi rispose:

— Se mi dispiace? No. Vedete bene che i bambini mi morivano tutti; e quello è un dolore troppo grande. È meglio non averne più.

Sul viso di Nicola Piovino si dipinse lo stupore. Come! quella donna era dunque di ghiaccio, era una macchina, oppure fingeva?

La scosse ruvidamente per un braccio.

— Domando se non serbate rancore a quel birbante di don Luigi; se non v'importa proprio più niente di lui; oppure se invece avreste voglia di vendicarvi.

Carolina aveva arrossito di nuovo; i suoi occhi brillarono. Chiese:

— Vendicarmi?… di lui?

— Si, anche di lui; ma più ancora di quella mala femmina ch'è causa del vostro abbandono. Voi sapete di chi voglio parlare.

— No.

— Eh! volete fare l'astuta con me? Non sapete chi è la nuova amante di don Luigi?

— No.

Egli strinse i pugni con una collera terribile; l'avrebbe battuta volentieri, ma si sforzò a essere calmo e domandò sorridendo:

— Insomma, volete vendicarvi si o no? Parlate schietto. Volete fargliela vedere a quella che vi portò via l'amante? volete fargliela pagare?

La voce di lei sempre uguale rispose:

— Sì; — solo un momento le sue labbra, d'improvviso sbiancate, tremarono.

Egli sospirò, sollevato.

— Alla buon'ora! parliamo dunque, intendiamoci. Sapete chi è colei?

Ella rimase muta.

— Se non lo sapete… È la vostra padrona; si, la signora contessa. Che ne dite?

— Nulla.

— Sta in voi ora il mezzo di vendicarvi. Lo volete?

Ella parve esitare un momento, ma poi rispose ancora una volta:

— Sì.

— Allora ascoltatemi. Bisogna far in modo che i due colombi vengano scoperti dal marito. Capite? Io speravo di poter farlo qui, a Pianbasso; di sorprenderli… non m'è rinscito causa quella maledetta decisione di andare a Napoli, adesso. E lui pure ci va; lo so; l'ho seguìto ieri fino a Bari; lì ha preso il biglietto per Napoli. Vedete dunque; è per trovarsi insieme. Noi li faremo sorprendere; bisogna che voi accompagniate la contessa. Anch'io andrò. Ho pochi denari, ma non importa; ne ho abbastanza per il viaggio, e lì m'ingegnerò a far qualche cosa. L'essenziale è di averli nelle mani, di fare questo colpo; al resto ci penso io.

Ella era rimasta muta, con occhi sbarrati, a guardarlo. Poi disse lentamente:

— Sì, questo è l'essenziale.

— Non è vero? E quando arriveremo a scoprirli, cara mia, allora fortuna per me e per voi. Io voglio, perbacco! che il conte, prima di sorprendere le due tortorelle, mi dia di che assicurarmi una posizione per tutta la vita; perchè questa vita cagnaccia non la voglio più menare, per la Madonna! E voi, Carolina, lo sapete bene, una volta don Luigi libero da quella donna, ritorna a voi; lo conosco come è fatto! E voi allora non avrete da pensare ad altro che a regalargli un altro bel figliuolo: e lui allora vi sposa, come è vero Dio!

Ella ascoltava a capo chino, colla stessa faccia indifferente e chiusa.

— Già, — disse poi, — è giusto; lo farò per quello.

— E se la volete la porzione anche dei soldi, ve la darò; son uomo d'onore; ve la darò. Dunque, bella mia, mettiamoci d'accordo. Voi trovate il mezzo di farvi condurre a Napoli dalla vostra padrona. Io pure ci vado, benchè ciò mi costi un grosso sacrifizio, per la spesa. Ne ho pochi, Carolina mia; ah! gli affari sono andati ben male per me. Il mondo non è dei minchioni. Dovevo tener duro allora, quando era già mia la colombella; doveva sposarla io e non lasciare il boccone sul piatto agli altri; o almeno farla costar cara, perdio!

Carolina disse con voce stanca:

— Ma il conte vi aveva procurato un posto allora.

— Grazie! un bel posto! milleottocento lire colla ritenuta e colle tasse! Mi restava appena da mangiare. Era poco, via; e poi quel cane d'un preside! Ma basta… anche con quello lì… Insomma me ne sono andato; non avevo un diploma regolare e dovetti tacere. D'allora ho fatto una vitaccia; ma lasciamola lì. Non so come ho fatto a indovinare quello che correva tra la signora contessa e quel don Luigi; era un vecchio sospetto. Riuscii per combinazione a scoprire il luogo dell'appuntamento; stavano al fresco, poverini! Li sorpresi due volte; ma l'ultima udii tutto. Eh! era un pezzo che la durava!

Carolina alzò la testa.

— Ah si? — chiese.

— Da un pezzo, buona donna, da un pezzo! prima ancora del matrimonio. Ah! che minchione, quel conte, che minchione!

Ella continuava a guardar fisso nel vento, che cacciava le goccioline di pioggia e le foglie ingiallite. Pareva non udisse, ma a un tratto ripetè:

— Ah! prima del matrimonio! — e tacque.

Egli allora parlò del suo progetto. Glie lo fece veder chiaro, facile e così pratico!

A Napoli i due amanti non potrebbero certo vedersi in casa del conte, il quale nemmeno dovrebbe sospettare la presenza di don Luigi. Cercherebbero dunque un albergo, o una camera mobiliata. Bisognava scoprire appunto questo luogo, e ciò toccava a Carolina. Poi sarebbe necessario spiarli, per saper bene l'ora dei ritrovi; probabilmente sarebbe un'ora fissa. Ciò toccava a lui, e, per la Madonna! avrebbe fatto le cose per bene! Poi non restava che parlare al conte; fissargli precisamente l'ora e il luogo dove li avrebbe sorpresi; fissare una cifra — ben rotonda, il conte era generoso — e il colpo era fatto.

Carolina approvò tutto; difatti la cosa era facile; si misero pienamente d'accordo. Quando ella si alzò dal sasso su cui era stata seduta per ascoltarlo, avevano tutti due l'aspetto molto soddisfatto.

S'incamminarono verso il paese; il vento soffiava ancora, umido e caldo; le foglie danzavano davanti a loro; le nubi in cielo correvano. Allo svoltar della viottola i due si diedero la mano. La donna era pallida, e la sua bocca pareva contratta da una sforzo penoso; l'uomo invece sorrideva trionfante, e i suoi occhi splendevano sinistramente sotto le nere sopracciglia incrociate.

San Cristoforo all'Olivella è un simpatico quartiere di Napoli. Un cantuccio dall'aspetto molto borghese, senza essere troppo sporco e troppo caratteristico. Le vie sono abbastanza tranquille e larghe; e i monelli che vi si sdraiano al sole sono quasi sempre vestiti anche di calzoni, e spesso persino d'una giacca.

Dai sottani — che sono, per chi nol sapesse, abitazioni a pianterreno, o sotto il livello della strada, — non esce troppa puzza; anzi la maggior parte degli usci hanno vetri; alcuni arrivano a permettersi' anche il lusso d'una cortina rossa, gialla o blù; un colore che alla vivacità unisca il pregio della resistenza, sicchè non ci sia bisogno di cambiarla spesso o di lavarla.

Il sole di novembre era appena tiepido, ma singolarmente dorato; e il cielo d'un azzurro così terso e soave! Le comari cicalavano sugli asci aperti; e solo qualcune delle più vecchie o delle più freddolose teneva lo scaldino fra le mani, o sotto le gonnelle. Il merlo del barbiere fischiava acutamente; i canarini di donna Pasquarella strillavano nel sole, mentre la stiratrice del primo piano picchiava con forza il suo ferro sulle robe umide, e Nina, la cucitrice, faceva correre allegramente la sua macchina.

In quel lieto accordo di rumori si univa il riso scoppiettante delle più giovani tra le comari, perchè una delle vecchie aveva tirato fuori una certa storia e la susurrava nel crocchio con aria misteriosa. Ma donna Francesca, la beghina, se ne mostrò tanto scandolezzata che fece scappare la pazienza a Rosinella, la figlia del fornaio, una ragazza che era la disperazione del confessore.

— Eh, donna Francesca! lasciateli stare. Fanno all'amore, e che male c'è? Lei è molto bella, benchè, poverina, abbia l'aspetto così delicato, e lui è un pezzo di giovanotto che… Uh! mi fareste dire. State zitta, donna Francesca, se no si dirà che parlate per invidia.

Le giovani sghignazzarono, e il merlo fischiò più forte, mentre donna Francesca si segnava, gettando sguardi velenosi.

— Gesù, Gesù!…

Alla casa dirimpetto una faccia scura s'era affacciata un momento a una finestra del secondo piano; poi subito aveva tirato le persiane e aveva chiuso; ma le donne avevano già alzato il capo, e Rosinella fece le corna verso quella finestra, dicendo forte:

— Che ti venga il colèra, faccia di Giuda.

Le altre risero ancora, e Rosinella continuò a sfogarsi con dispetto.

Già, quello lì non poteva essere che un birro travestito, o uno spione; e lei avrebbe volontieri avvertita la bella signora, se avesse osato. E se quella donna Pasquarella non fosse stata un orso, era lei che avrebbe dovuto parlare; ma sì! quella badava solo ai fatti suoi, all'interesse. Avrebbe temuto di spaventare i signori coll'avvisarli di qualche tiro; se ne sarebbero forse andati in altro luogo, e allora addio le belle mesate; perchè certo gliela faceva pagar salata quella camera!

Ma quella brutta faccia di Giuda, ella l'abborriva. Che coso sucido con quelle sopracciglia incrociate! O, quello era il demonio, sicuro!

Una delle ragazze osservò che quello poteva ben essere il marito, e l'osservazione fu trovata giusta. Appunto, aveva una faccia da marito.

Tacquero, perchè dal fondo della contrada veniva su rapidamente una signora vestita a nero. Rosinella però guardò ancora in alto, a quella casa dirimpetto, e vide una persiana a quella tal finestra moversi leggermente; certo colui s'era appoggiato per veder meglio; e la ragazza gli fece un gesto di sfida, prima di guardare ancora la bella incognita che si avvicinava.

Enrichetta Mariani veniva avanti con un fare impacciato, benchè camminasse in fretta. Aveva un velo sulla faccia, ma non era troppo spesso, un velo dei soliti, che lasciava vedere la faccia nobile, dai fini lineamenti, e i ricci biondi, schiacciati sulla fronte dal cappello.

Vedendo tutte quelle donne che pareva l'aspettassero, arrossì e chinò gli occhi, presa da un tale sentimento di vergogna che credeva di soffocare. Non v'era dubbio, parlavano di lei.

O se almeno avesse piovuto, o la giornata fosse stata fredda, che non le avrebbe trovate lì in gruppo, ad aspettarla!

Adesso era pentita di non aver preso una carrozza. Ma lo aveva fatto per non dar nell'occhio; non voleva aver l'aria misteriosa; perchè dunque non poteva parere una modistina qualunque, della quale nessuno si occupasse? Le si leggeva dunque in faccia?

Pure dovette passare davanti a quelle curiose, e, se le avesse guardate, avrebbe potuto vedere il gesto sprezzante di donna Francesca e lo sguardo di simpatia di Rosinella.

Ma ella passò rapidamente, entrò nell'oscuro portone, salì le due scale strette, semibuie, e, levata la chiave di tasca, aprì una porticina sul pianerottolo.

Subito si aprì un'altra a sinistra e la faccia asciutta di donna Pasquarella comparve, ornata per la circostanza da un amabile sorriso. Ella salutò la signora, le domandò notizie della sua salute con un gentile muovere del capo, ma vedendo che la signora guardava giù dalla scala con aria imbarazzata e arrossiva sempre più, si affrettò a dirle che la camera era tutta in ordine e si ritirò discretamente.

Enrichetta allora entrò, rinchiuse precipitosamente e si gettò a sedere con un sospiro di sollievo.

Era un stanza abbastanza bella, chiara e pulita. All'unico balcone pendeva un paio di cortine fatte all'uncinetto, che donna Pasquarella aveva messo appena quindici giorni prima, quando il signore le aveva appigionata la camera. Alle pareti c'era una carta grigia a fiori rossi; una magnificenza, dicevano le vicine di donna Pasquarella.

Su quella magnificenza spiccavano anche due o tre quadri; ma quadri veri, a olio, rappresentanti paesaggi romiti e fantastici. Donna Pasquarella li aveva raccomandati fin dal primo giorno alla particolare ammirazione dei signori perchè erano capolavori del suo defunto marito, un uomo che… un artista… una celebrità.

A capo del letto — ampio con cortinaggi azzurri — stava in umile atteggiamento un crocifisso, che certo doveva essere meravigliato di trovarsi là. E c'era un canapè giallo, stupendo e durissimo; e vicino a lui due poltrone rosse, e per terra un tappeto; insomma una camera, quella lì, ch'era regalata a darla per soli sessanta franchi al mese.

Quella meraviglia l'aveva scoperta Luigi.

La contrada era poco popolata; per trovarne una più deserta si sarebbe dovuto addirittura uscire di città. Luigi conosceva donna Pasquarella, che era stata sua padrona di casa quando egli era studente; la sapeva prudente e discretissima; egli aveva avuto parecchie volte occasione di provarla; no, certo, non si poteva trovar di meglio.

E Enrichetta s'era accontentata, benchè il luogo non le sembrasse abbastanza solitario e tranquillo. Ella aveva sognata una cameretta segregata da tutto il mondo, dove non sarebbero stati visti da nessuno, dove sarebbero stati proprio i padroni. Ma si arresse quando capì che quell'ideale non si sarebbe certo potuto trovare.

Quel giorno aspettò ancora venti minuti prima che egli venisse.

L'appuntamento era per le quattro; Luigi era preciso e non anticipava mai. Fissavano sempre l'ora da un giorno all'altro. Per maggior precauzione egli non abitava in quella stanza, ma in un quartiere lontano, dove aveva una piccola camera per venti lire al mese.

Quei venti minuti d'aspettativa come le sembrarono lunghi!

Aveva uno stiracchiamento penoso nelle membra, e un vago mal di capo, come un peso alla tempia destra; si stringeva insieme nervosamente le mani, e picchiava coll'alto tallone sul pavimento di mattoni rossi, dove un piccolo tappeto, che mostrava la corda, si stendeva in una miseria di grottesco ornamento.

Finalmente una chiave girò sulla toppa, e quel cigolìo fece sobbalzare la giovane aspettante, che, in una subita commozione, si portò una mano al ruore e divenne bianca come la neve.

E ogni giorno quel cigolìo della chiave le faceva lo stesso effetto; si mesceva nel sentimento che l'agitava la gioia di vedere l'amato viso, e insieme una segreta paura che per quell'uscio passasse invece un altro, un vendicatore, il marito oltraggiato.

Ma no, era lui, era il suo amante.

Ella si alzò con un piccolo grido di gioia, e gli si gettò al collo. Luigi si lasciò baciare distrattamente, e si avvicinò con lei al piccolo canapè, dove sedettero.

— Che hai? — incominciò subito lei, spaventata, come sempre, quando le pareva di vedere un'ombra sul viso di lui.

Egli alzò le spalle.

— Non indovini? Un'altra lettera di mammà, che non so come diavolo abbia potuto scoprire ch'io sono a Napoli. Mi scrive fermo in posta, come l'altra volta. Non so che ispirazione in'è venuta, passando davanti alla posta, di entrare a chiedere se c'erano lettere per me. Mia madre stavolta minaccia di far sapere tutto a papà.

— Tutto? — interruppe Enrichetta più pallida ancora. — Sa dunque?

— Se sa?… Tu non conosci la penetrazione, l'astuzia di mia madre. Nella lettera non chiama proprio le cose col loro nome, ma si vede che sa tutto, dal modo come si esprime. Ma, del resto, tè, leggila tu, l'ho qui.

E frugandosi in tasca con premura, egli estrasse una busta da lettera lacerata agli orli, con un foglio dentro, e fece per dargliela; ma lei, con un moto affaticato, e stringendosi di nuovo la mano al cuore:

— No, — disse debolmente, — che m'importa?

E si mise a piangere.

Luigi la guardò tra pietoso e corrucciato. Esitò prima di parlare, e poi disse, cingendole la vita col braccio:

— Cara, non occorre piangere, bisogna essere ragionevole, invece. Senti, senti qui. Sono già quindici giorni ch'io sono a Napoli. Non avevamo noi parlato di otto o dieci giorni a Pianbasso? Si, cara, non abbiamo mai detto più di dieci o dodici giorni. Ti ricordi? E sai bene ch'io dissi a casa quella frottola della partita di caccia a Gioia, eccettera, eccettera. Se la cosa va troppo per le lunghe, c'è la certezza che, oltre a mia madre, anche altri in paese sospettino la verità. Ci hai pensato tu? Che vuoi che pensino di me che non scrivo, non ritorno, non mi faccio vivo in nessuu modo? Una partita di caccia quanto deve durare? E tu non vuoi mica, nevvero, che si sappia a Pianbasso che noi…

Enrichetta singhiozzò più forte, stretta da quella logica, e ostinata nel non permettere che la felicità la abbandonasse così presto.

Egli, credendo di aver vinto, la strinse più forte tra lo braccia, le staccò le mani dal viso lagrimoso, e baciò quel viso. Poi riprese a parlare con insistente dolcezza e con più coraggio.

Le dipinse il difficile della loro situazione, le parlò della necessità in cui erano di troncare, per un po' di tempo, i loro rapporti; solo apparentemente, per riprenderli poi, con maggiore passione ancora, se fosse stato possibile.

Ella si era calmata, cullandosi nella dolce voce di lui, senza forse ascoltarlo neppure, cogli occhi fissi sul logoro tappeto, col pensiero rivolto a una sola idea: prolungare, il più che era possibile, quella felicità. Poi, non trovando nulla, gli disse con voce dura, come per rendere più solido l'argomento che sentiva mancante.

— Ma, infine, non partirai mica oggi, nè domani, eh? Lui, impacciatissimo, rispose:

— Ma, veramente…

Poi, intimidito, vedendo il viso di lei farsi più scuro, disse tosto:

— No, no, diamine, così in fretta; facciamo le cose bene, con calma, ma fissiamo qualche cosa, e quello che resta stabilito si faccia; non siamo bambini.

Presa alle strette, ella si accinse a dare l'ultimo combattimento.

— Ebbene, fissiamo… oggi ad otto.

Egli chinò il capo, estremamente confuso.

— Veramente, — disse, — sono un po' molti. Ma via, ti voglio tanto bene che farò come vuoi. Oggi ad otto dunque, eh?

Quando, verso le sette, egli prese il cappello per andarsene, ella lo ritenne ancora un momento passandogli un braccio intorno al collo, e disse, come ricordandosi allora:

— Adesso che ci penso, io ho pagato la quindicina alla padrona di casa, giusto oggi, mentre t'aspettavo.

Egli fece un gesto di dispetto.

— Ma come! Se t'avevo detto che volevo comparire io solo con quella donna; che tu non dovevi entrarci per niente…

Ella continuò a mentire con disinvoltura.

— Eh, che importa! Ella mi ha veduta tante volte!… Oggi mi pareva di cattivo umore; temevo fosse perchè è incominciata la quindicina. Sai? è incominciata già ieri…

— Come ieri! Ma no, incomincia oggi! fa il conto.

Enrichetta lo interruppe con impazienza:

— Eh, sia pure! l'ho pagata, insomma! Ma, per dire la verità, mi dispiace di lasciarle tutto il denaro mentre noi non dovremmo stare che soli otto giorni ancora…

Ma egli, che la sapeva niente avara, capi subito, e tentò rivoltarsi.

— Ti rimborserò io…

— Non si tratta di me; che dirà quella donna?… Infine, adesso che abbiamo pagato, stiamo comodamente ancora dieci o dodici giorni. Un bel giorno non veniamo più e non le diciamo nulla. È finita.

Lo spinse fuori, gli mandò ancora un bacio e rinchiuse l'uscio.

Dio! che fatica! che lotta continua per ogni briciolo di felicità, e come, in fondo, essa era amara!

Si trovò sola in quella camera straniera che conoceva la sua vergogna, e, improvvisamente, il suo amore sceva Luigi le sembrò cosa ben meschina e vile, un'onda di rossore le coprì il volto, e avrebbe voluto nascondersi a sè stessa.

Sul cassettone, in un candeliere di rame, ardeva una candela che Enrichetta aveva accesa poco prima. Le due madonne di creta dipinte luccicavano sotto le campane di vetro, tra i fiori finti che erano deposti ai loro piedi.

La giovane si fermò a guardarle fisse, come inebetita.

Le vesti nere di seta, a stelline d'oro, stavano rigide, cadendo con pieghe dure intorno ai corpi sgraziati delle due statuette; sulle teste brillavano corone dorate, e i volti lucidi, inanimati, di creta dipinta, parevano prendere una dura espressione.

Improvvisamente il pensiero di sua madre, caduta, ma tanto meno basso di lei, attraversò il cervello della donna colpevole; e sua madre era morta nel dolore e nella miseria, disonorata, mentre lei portava dinanzi al mondo alteramente il nome illustre che aveva macchiato in secreto, e godeva di ogni migliore dono della fortuna. Una disperazione immensa, una muta angoscia le empi il cuore. Stava già per piegare i ginocchi, aveva già unito le mani in atto di supplica davanti a quelle rigide madonne, in un bisogno violento di accusarsi e di piangere; ma il suo cuore, troppo indurito nel peccato e nell'incredulità, si ribellò a un tratto, e quell'umiliazione le parve strana e grottesca commedia.

Era pazza? che la prendeva ora?… Si rimise in fretta il cappellino sui riccioli scarmigliati dai baci dell'amante; si legò strettamente il velo sul viso, e usci, quasi fuggendo.

Alla casa dirimpetto Nicola Piovino rinchiuse allora la sua finestra.

Nella chiesa dei Santi Martiri, in piedi, dietro un pilastro, un uomo aspettava.

Lo sguardo fosco lampeggiava di sotto alle sopracciglia nerissime che s'incrociavano sulla fronte, e il naso d'avoltoio si curvava fremente sulla bocca sottile, maligna, dura come il ferro.

Nella chiesa solitaria, in quell'ora del pomeriggio, non c'erano che due o tre donne inginocchiate nelle cappelle laterali. Una di esse borbottava a mezza voce le sue preghiere, e il mormorìo monotono saliva nell'alta pace della chiesa come il ronzio d'un insetto; mentre un raggio di sole cadeva con serena lietezza sopra un oscuro San Pietro crocifisso.

Il rumore d'un passo di donna, leggiero e sicuro, risonò a un tratto sul marmo del pavimento, e Nicola Piovino si voltò a guardare l'arrivante.

Riconosciutala, le fece un segno col capo e non si distaccò dall'ombra del pilastro, nella quale Carolina lo raggiunse. I due, nascosti così, parevano due amanti stretti in un dolce e misterioso colloquio, e una delle bigotte, uscendo, gettò loro un'occhiata di sdegno.

La donna aveva consegnato all'uomo un pacco, ben chiùso, avvolto in un fazzoletto a colori. Egli l'aveva preso e aveva detto grazie, ma le sue sopracciglia si erano contratte in uno spasimo di dolore e di rabbia e le sue mani, che tenevano l'elemosina, tremavano. Poi fece sparire il pacco nel suo mantello, mentre la donna diceva:

— Un pezzetto di carne, don Nicola, un pezzo di ragù proprio buono. Alla locanda dove mangiate non ne fanno di così buono; cucinano male questi napolitani: perciò ve l'ho portato.

Non disse del grosso pane che aveva' aggiunto al ragù e parlò subito d'altro: dei loro affari.

— L'appuntamento è sempre al solito posto?

— Sempre. Voi sapete ch'io abito dirimpetto. Li ho visti anche ieri sera. E voi sapete nulla di nuovo?

— Nulla. Cioè una piccola cosa soltanto. Staranno a Napoli tutto novembre e dicembre, e forse, forse anche gennaio.

Lui diede un balzo di sorpresa e la guardò bene in faccia, come per leggervi ogni possibile menzogna.

Ma il viso di lei, indifferente e chiuso come sempre, mostrò solo un sorriso candido, e i suoi grandi occhi bruni non si volsero in là.

— Lo sapete di certo? — disse lui, dubitando ancora.

Ella assentì gravemente. L'aveva inteso dire dalla padrona al padrone il giorno avanti; era stabilito. Il conte aveva anche parlato di far venir giù i figliuoli che stavano a Pianbasso, ma non aveva potuto capir bene che aveva risposto la contessa.

Egli allora disse:

— Se è così, non occorre affrettarsi per il gran colpo finale. Posso anche aspettare.

Carolina alzò le spalle colla solita noncuranza.

— È vero, non c'è bisogno di affrettarsi; ma, del resto, perchè rimandare?

Piovino, perfettamente rassicurato, rispose:

— Sì, davvero; si può fare presto a ogni modo. Meglio anzi far presto. Tanto io sono stufo della vita che faccio. Capite. Faccio lezione di grammatica in quest'istituto di preti, e mi dànno trentacinque lire al mese. La stanza sola me ne costa quindici, ed è un vero bugigattolo. Non posso mica mangiare e vestirmi con venti lire. Già a quest'ora ho un debito di cinque lire col fornaio, che non vuol darmi altro. Quella maledetta stanza! Per stare dirimpetto a loro e sorvegliarli l'ho dovuta prendere. Quindici lire!

Carolina si offri amabilmente.

— Se volete, don Nicola, cinque o dieci lire le ho da parte. Me le restituirete col comodo vostro.

Egli stese la mano avidamente, benchè dicesse:

— Non voglio abusare, commà Carolina; proprio, non voglio abusare.

Carolina alzò le spalle. Nicola Piovino andò allora diritto al fine.

— E per quando combiniamo, commà Carolina?

— Mah! vedete che combinazione. Il conte oggi s'è posto a letto con un po' di febbre e un raffreddore fortissimo. Il medico ha parlato di bronchite. Bisognerà aspettare qualche giorno perchè si rimetta.

— O diavolo! ma allora…

— Capite, don Nicola; o la signora contessa non andrà più all'appuntamento fino che il conte è malato; o, se andrà, ci starà pochissimo. In tutti i casi, il conte non potrà uscire; insomma, la cosa sarebbe poco sicura; vi pare?

— Già… — masticò lui fra i denti.

La sua faccia s'era fatta più scura che mai; una sorda impazienza gli bolliva nel cuore. Ogni ritardo frapposto all'esecuzione della sua opera gli pareva insormontabile. Tutte le sue speranze egli le aveva collocate nella riuscita di quel tradimento. Era la vendetta contro l'insolente fortuna che la povera maestrina aveva avuto, mentre lui era nel frattempo divenuto un miserabile; era il rancore contro la sua antica fidanzata, che si era permessa di divenir felice senza di lui; un ribollimento forse dell'antica passione amorosa inappagata, una rabbia gelosa alla vista dello spreco che lei faceva di quei vezzi ch'egli non aveva potuto godere; era infine la certezza che il conte avrebbe pagata cara la rivelazione che avrebbe distrutta la felicità rubata a lui, Piovino.

Si scosse finalmente.

— Carolina, tenetemi informato di tutto; capite? di tutto; se volete che riusciamo. Abbiate piena fiducia in me, non fate nulla da voi sola, senza consultarmi. Se siamo d'acordo, quei due non ci sfuggiranno sicuro; ma è necessario che mi dite tutto; venite tutti i giorni, sapete? Ora devo andarmene: sono le tre e mezzo; alle quattro devo trovarmi da quei maledetti preti. Eh, sorte birbona! Basta; arrivederci domani, eh?

Carolina assentì col capo e gli stese la mano. Una manina piccola e bruna, un po' ruvida, ma che si posò in quella lunga e dura di lui con una movenza quasi carezzevole.

Egli la tenne un momento, quella mano, meravigliato come d'una cosa nuova; e improvvisamente un'idea, non venutagli mai prima, gli attraversò come un lampo la mente. Esitò un momento, ma poi gliela disse:

— Sentite, Carolina… se le cose vanno bene… e se dopo quell'imbecille di don Luigi non volesse sposarvi… o se voi non lo voleste più lui; io… m'impegno con voi; guardate; m'impegno già adesso. Mi piacete; si, davvero che siete carina, e così buonina anche. E non abbiate paura, io potrò mantenervi. Con quello che mi darà il conte farò qualche cosa, vedrete; ho i miei progetti; e allora… se voi verrete…

Qualche cosa come un luccicore strano era passato negli occhi di lei; e, un momento, le sue labbra pallide avevano tremato. Ma fu un solo momento. Quando egli ebbe finito, ella aveva sulla bocca un sorriso gentile, e con voce calma gli rispose:

— Ne riparleremo, don Nicola. Non dubitate, ne riparleremo.

Egli, incoraggiato, felice di quel nuovo pensiero che, in qualche modo, gli riscaldava il cuore, avrebbe voluto parlarne ancora, sfogarsi; gli pareva ora come se avesse amato quella donna da un pezzo.

Gli piaceva… non avrebbe voluto andarsene così presto; ma ella non ebbe bisogno di rammentargli l'ora che passava; egli se ne ricordò subito e, vincendosi, con una nuova imprecazione alla sorte, se ne andò, frettoloso, umile, nel povero abito sdruscito, chiuso fino al collo.

La malattia del conte era durata poco. In pochi giorni aveva potuto alzarsi; era stato proprio un semplice raffreddore.

Enrichetta non aveva però mai tralasciato i suoi appuntamenti all'Olivella; le erano troppo preziosi quegli ultimi momenti che doveva passare col suo amante per volerli perdere inutilmente; tanto presso al conte e'erano sempre donna Rosalia e il deputato Jorselli, che — da quando era rimasto vedovo — passava tutte le ore libere in casa della figliuola.

La casa porò era triste; il conte si sentiva trascurato, e ne soffriva senza lagnarsi e senza sospettare; donna Rosalia fissava nel vuoto i suoi occhi vaghi e non sorrideva più; le pareva di sentir nell'aria qualche cosa di greve, che da un momento all'altro dovesse cadere.

Jorselli osservava con occhio inquieto suà figlia; le sue lunghe assenze, benchè giustificate sufficientemente da lei, gli mettevano nel cuore vaghe apprensioni. Ma Enrichetta passava indifferente e distratta in mezzo a loro; quando era in casa non si occupava di nulla; passava lunghe ore accovacciata in una poltrona, con un libro fra le mani, nel quale non leggeva, fantasticando sull'avvenire, pensando al suo amante soltanto; come se il resto del mondo non fosse esistito. Rare volte pensava a suo figlio, anzi scacciava quel pensiero come importuno; a che pro pensarci? suo figlio stava certamente bene, — Isabella scriveva tutti i giorni, — eppoi le apparteneva così poco!

E subito le ritornava il pensiero di lui; l'unico, assorbente pensiero. Lo vedrebbe quel giorno, fra poche ore, — e le contava, — non era mai mancato all'appuntamento; che gli direbbe? e lui che risponderebbe? se fosse malinconico o annoiato come quel giorno? se fosse invece molto, molto amoroso e gentile?

Così passava le ore in lunghi sogni; e sulla fronte, già così liscia e serena, la cura aveva scavato una ruga, — una piccola ruga che dava un aspetto penoso alla fine fisionomia impallidita. Spesso ella si chiamava dappresso Carolina; quel volto sereno, quegli occhi tranquilli la calmavano. Se la faceva sedere vicino; la faceva parlare; ella stessa non l'ascoltava nemmeno, tante volte; pure quella voce così calma e dolce le metteva nel cuore una pace soave.

Ma spesso, improvvisamente, Enrichetta ricordava. Quella donna pure, e prima di lei, era stata amata da Luigi. Era anzi per lei che ella non era divenuta la moglie di Luigi: per uno scrupolo vano, per un orgoglio malinteso! Era per colpa di quella donna che ella si era avvilita così… e allora la odiava, la mandava via, presa da una collera più acuta, da una punta di rimorso; e la ruga, che fendeva la bianca fronte, si faceva più profonda, e gli occhi azzurri divenivano cupi e foschi, riflettendo l'interna tempesta.

Erano già passati dieci giorni da quello in cui Enrichetta aveva forzato il suo amante ad acconsentire dì fermarsi più lungamente a Napoli; e man mano che il termine fatale si avvicinava, ella diveniva più inquieta, più torbida, tormentata da un'angoscia indicibile al pensiero ch'egli partirebbe, mentre lei sarebbe costretta, per prudenza, a fermarsi a Napoli ancora, almeno per un altro mese, giacchè ella stessa aveva deciso così con suo marito, quando aveva avuto la folle speranza di incatenare il suo amante lungo tempo, in una felicità senza confine.

Quel giorno aveva anticipato l'ora dell'appuntamento.

Pretestò l'invito di un'amica, con la quale avrebbe dovuto fare delle compere ai magazzini di Miccio; e si accinse ad uscire che non erano ancora le tre. Giacchè quel giorno pioveva, aveva risoluto di prendere una vettura; cosa che faceva raramente, per eccesso di prudenza.

Indossò un soprabito grigio, di taglio maschile, e mise in capo una specie di berrettino, con piume, coperto da un velo grigio chiaro, morbidissimo, che dava al bel viso una grazia soave. Così vestita Enrichetta andò a trovare suo marito, che quel giorno si era sprofondato di nuovo in una poltrona, senza volersi più muovere, vinto da una inerzia triste.

Con lei entrò un raggio di sole, e il volto di lui si fece per un momento radioso; ma vedendola vestita e pronta per uscire, si oscurò di nuovo, e gli entrò nel cuore un cruccio pieno di malinconia.

Ella si avvicinò sorridente, e gli stese la mano. Il conte non chiese nulla; Enrichetta aveva tirato fuori la sua scusa durante il pranzo, sicchè egli sapeva già ch'ella doveva uscire.

Si contentò dunque di domandarle se aveva abbastanza denaro per le spese che voleva fare, e gliene offerse, con una tale quale timidezza. Ma lei non volle accettare, presa da uno scrupolo improvviso, benchè realmente ne avesse bisogno.

Il suo amore le costava anche denaro. Luigi non era molto generoso; in fondo aveva ancora delle grettezze di contadino che ha lavorato la terra e sa quanto costa il denaro; eppoi non ne aveva molto neppur lui, perchè i suoi genitori lo tenevano sempre in una specie di dipendenza. Ella invece, abitualmente generosa, faceva ogni tanto qualche regalo a donna Pasquarella, la sua padrona di casa; e costringeva anche il suo amante ad accettare piccoli prestiti o altri doni; anche due giorni prima gli aveva dato cento lire, poichè egli gli aveva confessato di avere un debituccio di giuoco. Bisognava bene che il giovanotto facesse qualche cosa per passare il tempo in tutte quelle ore che non era presso di lei; eppoi, se giuocava, non avrebbe forse altre tentazioni…

Enrichetta corse giù per le scale, traendo un profondo sospiro di sollievo.

Partita lei, la stanza ridivenne tetra, e il conte fu ripreso dalle sue malinconie. Non si mosse più dalla poltrona, annoiato, spossato, sentendosi vecchio e uggioso, guardando la pioggia picchiare sui vetri.

Oh, la sua bella gioventù com'era già lontana! E non tornerebbe giovane più mai, anzi diventerebbe ogni giorno più malato, più vecchio. Il suo vigore, la sua salute, la sua allegria, tutto se n'era andato; era come se non li avesse mai avuti; come se fosse stato sempre così rotto, così sfinito; ah! egli era rovinato, rovinato!

Sopratutto si annoiava. Con quella maledetta pioggia non verrebbe dunque nessuno? Jorselli prima delle cinque gli aveva detto di non poter venire; non c'era altra speranza che in donna Rosalia, che sarebbe forse venuta tra poco a chiacchierare o a fare una partita con lui; magra speranza! Ma almeno fosse venuta presto!

E, siccome non veniva ancora, il conte annoiatissimo, pensò di chiamar qualcuno della servitù a tenergli compagnia. Si ricordò di quella specie di cameriera di sua moglie, quella Carolina — una buona ragazza tranquilla, che gli piaceva molto. — Le direbbe qualche cosa, la farebbe chiacchierare finchè donna Rosalia fosse venuta. Ma il vecchio domestico di casa Ghilardi gli disse che Carolina era uscita allora anche lei, subito dopo la signora contessa, e donna Rosalia dormiva nella sua poltrona.

Allora il povero conte piegò la testa, desiderando di addormentarsi anche lui; ma subito udi alcuni passi nell'anticamera. Qualcuno dunque veniva finalmente!

Era lo stesso domestico di prima; egli veniva ad annunziare al signor conte che una persona desiderava parlargli.

— Chi è?

Colui non seppe dirlo; un uomo vestito piuttosto male, una faccia antipatica. Doveva rimandarlo?

— Non gli hai domandato il nome almeno, asino? Va, fatelo dire.

Un momento dopo il signore lo seppe, quel nome; esso era là, scritto a mano sopra un cartoncino da visita, che il servitore gli teneva dinanzi in un vassoio.

Come, colui?! lo prese la collera e stava già per gridare al domestico di cacciarlo via, quell'intruso; quando nel vano dell'imposta lasciata aperta dal servitore apparve quella faccia, quella persona, che gli erano sempre state così odiose; e la faccia aveva una espressione beffarda, e la persona si curvava in un ironico inchino.

Con uno sforzo il conte Mariani si rizzò in piedi. Il vivo rossore della collera gli aveva colorito il pallido viso aristocratico, e i suoi occhi fiammeggiavano.

— Che volete?

La sua parola era tuono; e certo in quel momento ne tremò anche Nicola Piovino. Ma subito questi riprese l'ardimento di chi ha tutto da guadagnare e nulla da perdere in un giuoco, e con serietà non esagerata disse:

— Ho da parlarvi di cose molto serie, signor conte. Vi pentireste poi di non avermi ascoltato. Vi prego, rimandate il servitore: vi spiacerebbe poi che io avessi parlato dinanzi a lui.

Come fu che nell'animo inconscio del marito d'Enrichetta balenò, a quelle parole, la certezza del tradimento? Un sudore freddo gli bagnò la radice dei capelli; la sua faccia si scolorì orribilmente e gli tremarono le gambe. Prima che Piovino dicesse altro, egli sapeva già: sua moglie!

Poi lo prese un nuovo accesso di rabbia. Che veniva a dirgli colui? Quale infame menzogna? Egli non voleva udirlo, non voleva saper nulla, nulla! Ma, mentre stava già per cacciare il delatore, la smania di sapere tutto, di essere certo della sua sventura, lo punse così acutamente, che si volse al servitore e gli fece segno di andarsene.

E aspettò guardando fisso il suo interlocutore, sul cui viso passò ancora un lampo d'ironia.

In dieci minuti il marito ingannato sapeva tutto. Tutto, meno il luogo dell'appuntamento, l'ora e il luogo.

Queste ultime rivelazioni andavano pagate; e Piovino fece le sue proposte.

— C'è il collegio degli orfanelli civili a San Vito, il cui direttore si ritira. Il collegio è floridissimo ed è sovvenuto dal Municipio. Lo cedono per cinquemila lire, ma non lo danno al primo venuto; bisogna che la persona sia conosciuta; che abbia serie garanzie morali; non so se mi spiego. Ora, ecco, quello che esigo in cambio della mia rivelazione. Cinquemila lire per comprare l'Istituto; altre cinquemila per mettermi a posto. Sapete, signor conte, ho qualche debituccio; eppoi ci saranno delle spese. Infine, voglio la raccomandazione vostra o d'altri presso il presidente direttore e presso il Municipio; ma, intendiamoci, una garanzia in tutta forma. Vi conviene, signor conte?

Egli parlava a voce bassa, ma sicura, con aria di grande confidenza; e il conte non se ne sentiva offeso, non vi badava forse, tutto assorbito da quella sventura estrema: tradito! era tradito! E acconsenti a tutto, lasciando che Piovino facesse le condizioni del pagamento. Decisero che il conte avrebbe pagato diecimila lire il giorno in cui, per mezzo di Piovino, avrebbe sorpreso la moglie coll'amante; e poi, al più presto, avrebbe mantenuto la promessa di farsi garante per lui al collegio.

Il delatore promise dal canto suo che, — se nulla si opponeva, — lo stesso domani sarebbe venuto a prendere il conte, per condurlo sul luogo.

Erano le sei quando ritornò Enrichetta tutta rossa e tutta fradicia dalla pioggia. Nell'anticamera s'imbattè nel padre, che usciva dalla stanza del conte. Ella lo salutò allegramente, ma la faccia scura di Jorselli la colpi.

— Che hai, papà? Sei di malumore?

Egli si chinò verso di lei, e le parlò a voce bassa, tremando.

— Tuo marito ha qualche cosa; forse sa qualcosa. Bada, Enrichetta!

Enrichetta rabbrividi, si scolori in viso', e non rispose. Suo padre fece un gesto disperato.

— Ah, dunque è vero! oh, io l'ho supposto da molto tempo! Ti sei perduta, disgraziata figliuola!

Ma lei lo interruppe impazientita.

— Che cosa sai tu? che cosa sa mio marito? che t'ha detto? dimmelo!

— Nulla m'ha detto. Che vuoi che dica? È di umore pessimo; eccessivamente tetro e nervoso; passeggiò per la camera tutto il giorno; chiese due o tre volte di te, di Carolina; voleva uscire. Insomma, sa qualche cosa, ti dico.

Ella era ridivenuta tranquilla.

— Se non è che questo!… no, no; è spesso così, quando la sua malinconia lo tormenta. Oh, è poco piacevole davvero! ma ci sono avvezza. Non è nulla. Vai via? buona sera, papà!

E lo lasciò lì, fermo, colpito al cuore; mentre lei entrava leggiera e graziosa nella stanza di suo marito.

Lo trovò seduto presso alla finestra, molto calmo. Le sorrise anzi, vedendola, e lei fu pienamente rassicurata.

Fino a ora di cena il conte e sua cugina giocarono a carte; il conte ebbe una fortuna indiavolata, e intascò molte lire di donna Rosalia, che pareva stupefatta. La serata passò in una gran calma; Enrichetta era felice: quel giorno Luigi le aveva promesso di restare altri otto giorni.

Carolina era ritta davanti alla chiesa dei Santi Martiri ad aspettare che aprissero. Il giorno prima, che c'era stata, non aveva veduto Piovino, e l'inquietudine e l'impazienza non le avevano più dato un momento di riposo. Perchè non era venuto, mentre fino allora non aveva mai mancato?

Spesso ella, sotto le fitte sopracciglie incrociate, aveva veduto balenare un lampo di diffidenza; ma l'ultima volta che s'erano parlati, egli si era mostrato così aperto, e le era apparso tanto sincero! Pure non c'era da fidarsi.

Per quanto Carolina avesse usato ogni arte per fare che la sua signora avesse tempo di partire prima che Piovino facesse al conte la temuta rivelazione, aveva capito che egli era troppo impaziente per aspettare; troppo timoroso che la preda gli sfuggisse; era dunque decisa — benchè ciò le costasse, — di rivelare alla signora il pericolo che correva, appena questo fosse imminente; ma perciò bisognava ch'ella fosse informata, che lui non agisse senza avvisarla prima; e lei poteva essere sicura di Nicola Piovino?

A ciò pensava Carolina davanti alla porta della chiesa che stentava ad aprirsi; e il suo cuore tremava d'angoscia, e il suo cervello lavorava attivamente, mentre qualche raro passante si fermava a guardar quella donna che pareva così perplessa, e un povero sciancato, che s'era venuto ad accovacciare sul gradino, gracchiava:

— Signurì! per l'amor di Dio!

Ella se ne accorse, gli diede un soldo, e pensò che la chiesa ora doveva aprirsi; una campana suonava la ventun'ora.

Difatti la porta si mosse, cigolò, cedette, e apparve la faccia gialla del sagrestano, che diede una bieca occhiata a Carolina. La vedeva lì, a quell'ora, tutti i giorni, e poi vedeva l'altro; era scandolezzato di quegli appuntamenti in un luogo santo. Ma ella non se n'avvide neppure, e stava per entrare, quando, voltandosi ancora una volta, vide a pochi passi Nicola Piovino che veniva anche lui, frettoloso.

Carolina, dal fondo del suo cuore, ringraziò la Madonna addolorata, e San Nicola, suo santissimo protettore. Aveva temuto che non venisse più, e l'aspettò lì sulla porta, mentre il sagrestano s'allontanava grugnendo.

Entrarono dunque insieme. Lui aveva un aspetto raggiante e la barba rifatta e un colletto pulito; ella il suo solito viso chiuso e sereno.

Prima ancora di raggiungere il fido pilastro, egli le disse:

— Carolina, è fatta. Carolina, usciremo di stenti. Nessuna paura più; è riuscito tutto bene.

Un brivido corse per la schiena alla giovane, e buon per lei che l'ombra del pilastro nascose l'orribile pallidezza della sua faccia.

Voleva domandare qualche cosa, ma le parole non uscirono dalla sua gola troppo serrata, e stette muta a guardarlo con occhi spalancati.

Piovino continuò, felice:

— Ho voluto farvi una sorpresa. Che giovava aspettare di più? Se avessimo continuato ogni giorno a pesare le probabilità, il pro e il contro, non avremmo finito più. E voi l'altro giorno mi avete messo in core una nuova speranza, Carolina, e così io ieri mi son deciso. Ero troppo impaziente per aspettare ancora. Mentre voi mi aspettavate qui, sono andato dal conte, mi ha ricevuto, per forza… ho parlato… ho fissato il prezzo. Oggi, se quei due si trovano come al solito insieme, e lo spero bene, eh? li sorprendiamo. Stasera io avrò in tasca diecimila lire. Capite? diecimila lire! e me ne avrebbe date di più! e sapete ciò che voglio farne? Ascoltate.

Ella non lo udiva; faceva degli sforzi penosi per riordinare il suo cervello scomposto. Dunque era tutto perduto! Per colpa sua, per colpa delle sue esitazioni! Perchè non aveva avvisato la padrona subito, già a Pianbasso, prima della partenza per Napoli! Se ella le avesse detto che Piovino sapeva tutto e aveva deciso di tradirla, la signora sarebbe stata più prudente, o avrebbe tralasciato di vedere don Luigi.

Aveva voluto far lei di sua testa. Aveva sperato di riuscire a scongiurare il pericolo lottando d'astuzia con Piovino; sperato di salvarla lei sola, senza che la signora sapessa nulla; ora invece tutto era finito; erano perduti, perduti!

Ah! ora le restava a far l'ultima cosa. Impedire che gli amanti andassero al solito appuntamento; non dovevano essere trovati laggiù insieme, e perciò era necessario, almeno adesso, dir tutto alla signora.

Allora, in un ultimo sforzo, Carolina trovò ancora un sorriso, e potè parlare ancora, senza che la sua voce tremasse.

— Ciò va benissimo, ma a che ora dunque andrete col conte?

— Io vado via subito, siamo intesi così. Non appena sua moglie uscirà di casa egli farà lo stesso e mi raggiungerà in via Santa Chiara. Prenderemo una vettura e andremo a casa mia. Essi non hanno mai avuto la precauzione di chiudere le persiane e sono al primo piano. Dalla mia finestra, dietro alle persiane, si vede benissimo quando ci sono. Sì, proprio la posizione è ben scelta; essi vengono spesso vicino alla finestra, si vedono muovere le tende, eppoi la loro camera è piccola. Il resto lo capite. Ho voluto venirvelo a dire, era giusto che lo sapeste anche voi che era per oggi. Eh, ma a proposito! Il babbuino d'un conte non sa ancora il luogo e non sa nemmeno chi sia lui. Vogliamo ridere, avrà una bella sorpresa.

Il suo riso risuonò davvero, per un momento, sotto le navate silenziose, e Carolina ne tremò e le parve che avesse riso il demonio.

Correva rapidamente verso il palazzo Ghilardi tormentata da quel dubbio terribile. Arriverebbe in tempo? Non erano ancora le quattro, e quella era la solita ora dell'uscita della signora contessa; avrebbe potuto dunque arrivare in tempo.

E Carolina correva, correva, affannata; grosse goccie di sudore le incollavano i capelli neri sulla fronte e sul collo; il respiro le mancava e sentiva un'acuta puntura nel fianco destro che la forzava ogni tanto a rallentare il passo o a fermarsi.

Ma il pensiero che le era tortura tornava a spingerla avanti.

Dio mio, Madonna Addolorata, chi sa se ella non arriverà troppo tardi!

Non le era venuto in mente di cercare una vettura; così inesperta era degli usi della città, e la strada era lunga, lunga! Dio!… non finirebbe mai?

Finalmente vide il palazzo nel fondo della via; anche due minuti e vi sarebbe… un ultimo sforzo!

Una comare, venditrice di latte, vedendola passare correndo la chiamò; ma ella, senza dar resta, continuò a correre, giunse nel portone, salì le scale e tirò con forza il campanello. Il tempo che mise il vecchio servitore per venirle ad aprire bastò a calmarla alquanto. Oramai era arrivata, era lì davanti all'uscio; era certa che la signora non poteva essere uscita così presto.

— Drea, la signora?

— È uscita in vettura cinque minuti fa.

Le parve che le avessero dato un colpo in mezzo al petto, e barcollò.

Le gambe le tremarono, e dovette appoggiarsi allo stipite dell'uscio aperto, mentre il vecchio la guardava meravigliato.

Era dunque finito davvero? Doveva lasciare che oramai la terribile cosa si compiesse? Dei passi nell'anticamera la fecero riscuotere, e Drea diede un grido di stupore. Il conte, che non era uscito da tanti giorni, si avanzava, vestito per uscire, con passo fermo, con faccia pallidissima e risoluta.

Il servo gli si precipitò incontro, ma don Francesco gli disse con voce tranquilla:

— Sta quieto, Drea, non ho bisogno di te; io esco.

E passò diritto; scese con passo fermo le scale, mentre il vecchio servitore si metteva le mani al capo colpito da uno stupore immenso.

— Carolina, io vado a dirlo a donna Rosalia. È straordinario ciò che fa sua eccellenza.

Allora Carolina ridiscese le scale anche lei con un'idea in capo.

Prenderebbe una vettura anche lei, come aveva fatto la signora; sarebbe andata al luogo dell'appuntamento; forse sarebbe ancora in tempo di avvertirli, prima che il conte ci andasse.

Il conte svoltò al primo angolo. C'era lì un caffè, e poco distante quattro o cinque carrozzelle erano ferme. Il conte salì in una, che prese il trotto; Carolina montò in un'altra e diede al cocchiere l'indirizzo di San Cristoforo all'Olivella; c'era già stata una volta con Piovino e conosceva la casa.

Mentre la vettura correva, ella pensava che il conte sarebbe andato prima a prendere Piovino a Santa Chiara; poi sarebbero i due andati insieme all'Olivella; dunque ella avrebbe avuto qualche po' di vantaggio. Il cavallo che la tirava pareva buonino e correva abbastanza; già incominciava a sperare, e stava per svoltare nella via fatale, quando le parve di riconoscere don Luigi in un signore alto che andava in su senza affrettarsi.

Carolina diede un grido di gioia e si slanciò allo sportello, scuotendolo e gridando. Il cocchiere, spaventato, saltò giù, e corse ad aprire; alcune persone che avevano sentito gridare si avvicinarono; anche Luigi Murgillo si era fermato. Ma Carolina, senza rispondere a nessuno, corse a lui, accesa in viso, stravolta; sicchè lui, riconoscendola, si scansò istintivamente, impallidendo. Ma ella lo prese per un braccio.

— Don Luigi, per carità, fermatevi; non andate lì; ascoltate, il conte sa tutto.

Luigi impallidi ancora di più e non rispose, guardandola stupefatto.

Intanto i curiosi aumentavano; chi rideva; chi si aspettava una scena; il cocchiere incominciava a impazientirsi; allora Carolina soggiunse a precipizio:

— Salite con me, don Luigi, vi dirò tutto.

Egli si lasciò condurre. La vettura riprese a correre e i curiosi se ne andarono ridendo.

Allora Carolina, in fretta, gli disse tutto; il conte era uscito per sorprenderli. Luigi pensò allora che lei lo aspettava all'appuntamento; il marito poteva insultarla, ammazzarla anche; era necessario che egli pure vi andasse per difenderla.

Ma Carolina fece fermare nuovamente la vettura, alcuni isolati più in su; forzò Luigi a scendere, e gli spiegò che, secondo lei, era peggio se egli ci andava.

Il conte non sapeva ancora che era lui l'amante di sua moglie; forse si sarebbe potuto ancora riparare a tutto. Ma egli andasse via, presto: ella intanto correrebbe a prendere la signora; la salverebbe in un modo o nell'altro.

Luigi si lasciò persuadere a metà; voleva però essere da quelle parti per accorrere se ci fosse stato bisogno di lui. Carolina lo scongiurò ancora di non farsi vedere, e riprese la corsa col cocchiere, che si arrabbiava e brontolava che quella gente era pazza; e fece fermare un'ultima volta poco lontano dalla casa di donna Pasquarella.

Stava già per scendere, quando vide il conte Francesco solo entrare nel portone e sparire. Alzò gli occhi allora alla casa dirimpetto, alla nota finestra, e vide la persiana socchiusa muoversi e la testa diabolica di Piovino spingersi in fuori per spiare quella vettura arrivata allora che gli dava sospetto.

Ella capi che tutto era perduto. Benchè il conte non trovasse l'amante, la presenza di sua moglie in quella casa era una prova schiacciante. Però, la fedele, non volle andarsene ancora: voleva essere presso alla sua padrona, difenderla forse, e condurla via, se fosse possibile. Allora scese dalla carrozzella, improvvisamente decisa; aveva nel portamonete più di dieci lire — un avanzo di spese fatte alla mattina per la signora — ne diede cinque al cocchiere e gli ordinò, o meglio lo pregò, di aspettarla ancora, di non andar via, qualunque cosa avvenisse, e entrò lei nel portone, mentre alla finestra dirimpetto appariva la faccia livida di Nicola Piovino che stringeva i pugni gettando un'orribile imprecazione.

Carolina salì le scale tremando, e sul pianerottolo vide donna Pasquarella che, pallida e tremante anche lei, origliava dietro l'uscio della camera a destra.

Il conte Mariani era entrato facilmente; sua moglie in persona gli aveva aperto l'uscio, sentendo picchiare; ella aveva creduto che Luigi avesse dimenticata la chiave, o che fosse la padrona di casa.

All vedere suo marito le tremarono le gambe, le si oscurarono gli occhi, e la gracile e fine persona si piegò su stessa, come se l'offeso marito l'avesse colpita alla nuca con un pugno disperato.

Invece egli chiuse l'uscio dietro a sè, e, senza dir una parola, si slanciò in mezzo alla camera. Essa era vuota; il tradito girò intorno uno sguardo feroce; pareva cercasse un'altra porta, un nascondiglio qualunque, e, non trovando nulla, si avanzò verso la donna, che, bianca e muta, si teneva appoggiata alla parete, e lo guardava con occhi dilatati dal terrore. Dalla gola arida gli uscì a stento la parola:

— Dov'è lui?

Ella tremò più forte, e l'idea del pericolo che correva lui, se fosse venuto, le bagnò di sudore la radice dei capelli. E non rispose.

Egli, preso da rabbia cieca, le prese colle sue mani nervose i polsi sottili, e, torcondoli con forza, disse ancora:

— Dov'è? dillo!

Il dolore le strappò un leggiero lamento, le labbra le si sbiancarono del tutto, e i grandi occhi azzurri nella paura estrema si torsero verso l'alto, quasi cercando aiuto, e poi si fermarono un momento a guardare l'uomo furioso che la tormentava.

Quello sguardo disperato, pieno di supplica e di angoscia, invece di calmarlo, lo sconvolse del tutto. Egli non vide più: un velo di sangue gli si calò sugli occhi, lo assalse la smania di ucciderla, quella donna così bella e così falsa; e, lanciandosi pazzamente su di lei, la staccò dal muro, la gettò a terra; e lei cadde presso al piccolo canapè giallo, dando appena un debole grido e chiudendo gli occhi come stanca, aspettando la morte.

Lui, quasi pazzo per l'orribile collera, si chinò per terra, le mise un piede sul petto, e colle due mani frementi le prese i capelli, glieli dilaniò colle unghie, e, tenendola ferma così, ripetè ancora stupidamente:

— Dov'è lui?

Ella non riaperse gli occhi; solo l'orribile spasimo le mandava per la pelle un brivido; e, sentendosi soffocare, la sua bocca si apri convulsamente e una spuma bianca le bagnò gli angoli delle labbra. Allora sulla fronte, di sotto ai fini capelli d'oro, due grosse goccie di sangue cominciarono a scorrere, uscendo di tra le dita convulse di lui che le aveva ficcato le unghie nella carne; e quel sangue venne giù, giù a rigarle la faccia e si perdette nel collo.

Don Francesco Mariani guardò come inebetito quei due rivoli sottili. A un tratto perdette la memoria del perchè si trovassero lì tutti e due a quel modo; tutto gli si fece oscuro nella mente, e le sue mani rallentarono la stretta.

Poi, preso da orrore, distaccò del tutto quelle mani dai capelli della misera e le guardò rabbrividendo. Erano sporche di sangue, e fra le dita alcuni fili d'oro si avvolgevano attaccati dal sudore e dal sangue; ed egli si rizzò tosto in piedi come pazzo, coll'idea di aver uccuso qualcuno, spinto alla fuga da una vigliacca paura.

Si slanciò all'uscio, ma non poteva aprire, non sapeva più e scoteva rabbiosamente le imposte; esse si aprirono dal di fuori e nel vuoto scomparvero le faccie spaventate di donna Pasquarella e di Carolina.

Il conte le guardò senza riconoscere la giovane, e balbettò in modo ch'esse udirono appena:

— È morta, l'ho ammazzata.

E scese le scale, mentre le donne si precipitarono nella camera urlando, e, visto il corpo inerte a terra, si misero con ogni sforzo a rialzarlo per portarlo sul letto. Carolina piangeva disperatamente e si torceva le mani; ma donna Pasquarella, che era assai più calma, s'accorse subito che la giovane non doveva esser morta e si affrettò a rassicurare Carolina, che non voleva credere e continuava a piangere e a disperarsi.

Infine un debole lamento usci dalle livide labbra di Enrichetta; ella riaprì alquanto gli occhi, e li richiuse subito, ferita dalla luce che entrava dal balcone.

Come si trovava li? che cosa era avvenuto? Quello che ricordava non era stato un orribile sogno? E come, se ella era in quella camera che riconosceva benissimo, lui, Luigi, non c'era?

Carolina, vedendola rimettersi, pensò che la miglior cosa era di condur via di là la sua padrona, al più presto possibile; non le pareva decente che continuasse a star lì, in quella stanza… se qualcuno estraneo fosse salito?… eppoi chi sa cos'era per fare il conte che pareva impazzito?

E lo disse alla signora. Sotto era forma una vettura; ella avesse potuto muoversi un pochino e venir via… Enrichetta accennò col capo di sì, e, coll'aiuto delle due donne, si rizzò a sedere sul letto.

Guardò allora a terra il piccolo tappeto sul quale prima era caduta e ricordò nettamente tutto. Solo non capiva come non s'era trovato Luigi e ne chiese con un fil di voce a Carolina.

— Vi dirò tutto, vi dirò tutto; non abbiate nessuna paura, sta bene e non lo ha trovato; non abbiate paura.

E Carolina l'accarezzava timidamente, le toglieva i capelli dalla fronte, le asciugava con un fazzoletto bianco la faccia, presa da una compassione immensa al veder la signora in quello stato; mentre donna Pasquarella le dava a bere qualche cosa da un bicchierino per rimetterla in forze. Anche a costei premeva che se ne andassero. Le pareva impossibile che quelle pettegole del vicinato non si fossero accorte di nulla, specialmente quella beghina di donna Francesca e quella sfacciata di Rosinella.

Finalmente Enrichetta potè essere in piedi. Carolina le infilò il mantello, le mise il cappellino e il velo e le diede il braccio, conducendola adagio giù per le scale.

Il cocchiere colla sua carrozzella aspettava fedelmente, ma chiacchierava anche a bassa voce con due o tre donne, che si avanzarono curiose a guardare. Carolina fece salire la signora, salì anche lei e diede al cochiere l'indirizzo di una via qualunque, tanto per sviare le curiose.

La carrozza andò; e allora appena Carolina domandò alla signora dove voleva essere condotta. Enrichetta parve risvegliarsi da un sogno. Già… dove andare ora? A casa? Che casa? Ella non aveva più casa. Dove dunque? Ma il pensare le faceva fatica e alzò le spalle rassegnata e indifferente. Carolina ebbe allora un'idea.

— Non sarebbe bene che la signora andasse dal signor Jorselli?

Enrichetta fece segno di sì, e chiuse di nuovo, stanca, gli occhi.

Allora Carolina si tranquillò. Le cose non erano poi andate tanto male, e tutto si poteva ancora aggiustare. C'era il bambino in mezzo, Ciccillo; quello aggiusterebbe tutto; c'era il signor Jorselli che, — ormai si sapeva dai più, — era il padre della signora; il conte Francesco poi era così buono, eppoi era malato. Da fuori dell'uscio, dove aveva origliato, ella aveva inteso poche parole; forse l'aveva battuta un poco, povera signora! ma, Dio mio, come fare, quando un uomo trova sua moglie così, e perde il lume degli occhi?

E tornava a ringraziare la Madonna Addolorata, e San Nicola di Bari, e Sau Nicola Tolentino, che non fosse andata peggio di così.

Luigi Murgillo aveva atteso una buona mezz'ora, nascosto in una via laterale, spiando e aspettando qualche avvenimento che gli permettesse di intervenire. Ma non si vedeva nulla di nuovo; le vie erano tranquillissime come sempre, e proprio davanti al portone della casa di donna Pasquarella, due o tre comari si erano farmate e ridevano e cicalavano col cocchiere della carrozzella lasciata là da Carolina. Nel vicolo, dove egli passeggiava su e giù, fu presto fatto egli stesso segno alla curiosità della gente; due o tre monelli si misero a ruzzargli tra i piedi; qualche donnicciuola usci sulla porta; un bottaio, che attraversava la via, chiamò con un fischio un calzolaio; e l'uno gettava all'altro delle parole di beffa, il cui significato non poteva essergli dubbio. Certo lo conoscevano anche lì, e sapevano la storia dei suoi ritrovi; presto la sua posizione gli divenne intollerabile, e, non potendo più resistere, uscì nella via principale, deciso di aspettare lì piuttosto, a rischio di venir riconosciuto.

Ma vi fu appena che vide, con sua estrema meraviglia, Nicola Piovino passeggiare anche lui lentamente vicino al muro, e guardare con ansietà la casa di donna Pasquarella. Quella vista lo turbò. Dapprima non pensò altro che:

— Piovino è del paese; se mi vede, mi riconosce; sono perduto.

E, spinto dall'impulso di nascondersi, fece rapidamente alcuni passi in giù, infilò un'altra via qualunque, e si allontanò frettoloso.

Ma quando fu lontano e sicuro di non essere più veduto, ripensò a quella combinazione di trovar Piovino a Napoli, e giusto vicino a quella casa, e non gli fu difficile sospettare la verità, che Carelina non aveva avuto tempo di rivelargli.

Il traditore era lui, non v'era dubbio; e a quell'idea lo prendeva il furore, e avrebbe voluto averlo fra le mani e dargli una lezione a quel miserabile. Ma non ritornò indietro, e si affrettò anzi sempre più verso casa sua; colui era sempre in tempo a ritrovarlo; quanto a Enrichetta che pericolo poteva correre? Il conte Francesco era debolissimo, malaticcio, eccessivamente buono. Eppoi Carolina era là, pronta a salvare la padrona, e all'uscio vicino c'era donna Pasquarella, che origliava sempre sul pianerottolo e udiva ogni più piccolo rumore. Chi sa che quella furba di donna Pasquarella, insieme con Enrichetta e con Carolina, non inventasse una storia da darla a bere a quel povero conte? Ma già Carolina sarà arrivata a tempo, avrà condotto la padrona subito via, — in camera di donna Pasquarella, sicuro, — e non ci sarebbe nemmeno bisogno di dir bugie.

Assolutamente dunque non c'era pericolo; solo gli dispiaceva di non aver dato nessun indirizzo a Carolina; non sapeva come fare ora a saper qualchecosa; poi si rassicurò proponendo di ritornare al domani o quella stessa sera da donna Pasquarella, dove certo sarebbe informato di tutto.

Difatti la stessa sera ci andò; ma donna Pasquarella non potè raccontargli che quello che sapeva lei, ed era poco. Le due donne andando via non avevano lasciato nessun indirizzo, e la descrizione dello stato in cui era stata portata via Enrichetta turbò profondamente Luigi.

Dove trovare altre notizie? Gli venne in mente di passare davanti al palazzo Ghilardi, e ci andò pure; ma il portone si chiudeva presto la sera; il palazzo era muto come una tomba. Luigi stette fermo alcuni minuti a guardare qualche finestra illuminata, sperando che qualcuno uscisse, ma il portone non si apri.

Allora ritornò a casa sua, e gli venne in mente che forse il domani il conte avrebbe mandato a sfidarlo. Un duello. Ciò non gli piaceva affatto; pensava ai suoi parenti e al paese, dove non si sarebbe più finito di parlare di quella sciocca avventura; ne era veramente seccato! E sarebbe stata bella se ci avesse ancora lasciata la pelle lui; erano cose che si vedevano tutti i giorni. Anche ammazzar l'altro gli sarebbe garbato troppo poco; con che sugo? Ma! colpa sua se l'affare aveva preso quella mala piega; perchè spingere le cose all'estremo?

Intanto per quella notte non chiuse occhio, tormentato da mille pensieri; e il domani mattina aspettò fino a mezzogiorno, senza aver voglia di far colazione, se qualcuno venisse.

Era già rassicurato, quando un picchio all'uscio lo riscosse; egli pensò: sono qui; e andò ad aprire, mentre il cuore gli ritirava ogni goccia di sangue dalla faccia.

Era invece Carolina, e fu accolta con un alto grido di gioia.

Veniva mandata dalla signora contessa… — Ah! finalmente! — Ella era al sicuro presso il signor Jorselli; stava meglio, benchè fosse molto debole e pallidissima; Enrichetta pregava il signor Luigi di non inquietarsi per lei; di partire anzi al più presto; di ritornare presso sua madre e di dimenticarla.

Stupito egli ascoltava; certo era molto commosso, ma insieme gli entrava in cuore come un sollievo, e domandò con una certa esitazione se non potrebbe andare a vederla.

Carolina alzò le spalle, con un moto caratteristico che esprimeva una grande esitazione.

— La signora non me l'ha detto; pare molto tranquilla; non so se le farebbe bene o male vedervi, don Luigi. Del resto, se volete venire…

Egli si affrettò a cambiar discorso, perchè neppur lui sapeva se ci avrebbe o no piacere in vederla. Del conte si sapeva nulla?

Ella disse di no; nessuna notizia; poi aggiunse esitando:

— La signora contessa non vi ha mai nominato, don Luigi, quando il conte la gettò a terra e voleva sapere…

Luigi divenne rosso, e parve andare in collera. Che idea! Se il conte voleva saperlo, perchè non dirlo? Fosse pur venuto a cercare di lui, egli sapeva come accoglierlo. Del resto poi il conte lo sapeva lo stesso; figurarsi se la spia non glie l'aveva detto! E domandò schiarimenti a Carolina: la spia era proprio Piovino?

Allora Carolina gli narrò il suo complotto, e come ella lo avesse sempre assecondato colla speranza di salvar la signora; invece… e la povera giovane si rimise a piangere, molto dolente dell'accaduto, accusando sè stessa.

Luigi tentò di consolarla: è vero che lei avrebbe dovuto parlar prima; ma ad ogni modo le cose sarebbero venute fuori, se quel maledetto Piovino sapeva tutto; ora il disperarsi era inutile; eh, purtroppo, quelle cose li finiscono sempre male!

Poi le domandò che cosa intendeva di fare la signora.

— Parla pochissimo, — disse Carolina, — anche con me. A me pare che non ritornerà più col marito; starà con suo padre, e sarebbe certo la miglior cosa, a pensarci bene; ma c'è il bambino, San Nicola benedetto! il bambino non glie lo vorranno dare, io credo, e lei come farà, povera signora!

Luigi fece un gesto ci compassione. Già, era da compiangere, povera donna! Ma disse poi che certamente il conte non poteva durare a lungo; era molto giù, molto giù; se moriva, Enrichetta avrebbe forse ripreso tutti i suoi diritti.

Carolina scosse il capo, poco persuasa, e poi si accinse ad andarsene; non voleva lasciar tanto tempo sola la signora in quello stato.

Luigi avrebbe voluto dirle qualche cosa, non sapeva bene nemmeno lui; forse una parola affettuosa, un incoraggiamento per quella povera Enrichetta; Carolina stessa pareva aspettare quella parola.

E invece lui non trovò nulla; rimase lì ingrullito, confuso, sentendosi ben piccino davanti a lei.

— Fatele i miei saluti, neh Carolina! ditele… ditele… che si faccia coraggio… che io… insomma che si faccia coraggio.

Così Carolina se ne andò, e lui uscì pure per andare alla stazione a domandare quando partiva il primo treno per Bari.

Il deputato Jorselli, molto invecchiato e molto triste, si presentò due giorni dopo a palazzo Ghilardi, quando ebbe veduto la figliuola stare un po' meglio e levarsi dal letto.

Fu ricevuto nella solita camera del malato, e la solita figura del conte, sprofondata in una poltrona, gli apparve; sicchè Jorselli avrebbe potuto credere che nulla era mutato e che Enrichetta doveva comparire da un momento all'altro in quella camera, per salutare suo marito con uno dei suoi sorrisi distratti.

Il conte salutò il vecchio amico colla solita aria stanca, e appena un lieve rossore gli era passato, al vederlo, sulle guancie magre.

Jorselli prese una sedia e sedette vicino a lui, benchè il conte non ve lo avesse invitato, anzi guardasse fuori con ostinazione nel cielo invernale; e s'informò della sua salute.

— Sto meglio, caro, meglio, — rispose il conte; e la sua voce non era mutata.

— Si? ciò mi rallegra; infatti io l'ho sempre detto; sei tu che vuoi essere malato. Se facessi del moto… e ti dessi un po' di coraggio…

Il pover'uomo era imbarazzato a continuare; il conte rise sinistramente e disse:

— Ho fatto del moto.

Jorselli pensò che era più da uomo andar diritto al fatto; e gli parlò di Enrichetta; gli disse ch'ella era presso di lui, e malata.

Il conte disse:

— Me ne dispiace — collo stesso tono che se avesse parlato di tutt'altra cosa. Jorselli, stupito, disse:

— Davvero?

— Sì, me ne dispiace — ripetè il conte, eppoi tacque.

Jorselli gli parlò allora lungamente e con calore. La povera donna era certamente molto colpevole; ma la sua inesperienza, la sua bellezza, anche un pochino l'apatia del conte erano state causa della sua caduta. Egli poteva perdonare e incatenarla così a sè per sempre col legame della gratitudine; almeno doveva farlo per salvare le apparenze, per non abbandonare il proprio onore alle chiacchiere del mondo; c'era in mezzo il loro figlio e non era giusto ch'ei pagasse per le colpe di sua madre. Insomma, era da uomo prudente e savio il perdonare; riaccogliere in casa la pentita e ricominciare insieme una vita di affezione, tutta dedicata al loro figlio; il caro innocente che non doveva venir abbandonato così.

Parlò in tal modo per un pezzo, e il conte continuò a guardare fuori della finestra come se non udisse; e non volse il capo quando Jorselli ebbe finito.

Questi, senza stancarsi, ricominciò daccapo, pazientemente, cercando ancora nuove cagioni di scusa per la colpevole, traviata, sedotta da un…

— Taci! — gridò il conte a questo punto, volgendosi e afferrandogli la mano. Il suo volto era cambiato, le guancie gli si erano arrossite, e i suoi occhi sfavillarono stranamente.

Jorselli diè addietro, colpito dalla nuova vigoria che rialzava il corpo, già così debole e accasciato, e dalla maschia aristocratica bellezza del viso. Anche la voce era tutta diversa, forte, risonante, senza un tremito.

— Taci! Non so chi sia colui, non voglio saperlo. Non l'ho domandato nemmeno a quel Piovino, eppure mi ha venduto il suo segreto. L'uno o l'altro, che importa? Mia moglie… (qui la voce tremò un momento) sarebbe sempre ugualmente colpevole. Ch'io non sappia nulla. Tu vuoi ch'io perdoni… Che cosa? Non le serbo rancore. Non mi ha mai amato, e io son divenuto presto vecchio, vecchio imbecillito. Non la odio io, no; perchè dovrei odiarla? Ella non ha saputo essere fedele ai suoi doveri, perciò quella donna non sarà mai a contatto con mio figlio. Se esso è veramente mio. Venga a dirmi che non lo è, e allora… (la sua voce tremò di nuovo) io glielo renderò. Ma so che è mio, sì, il fanciullo è mio, e non voglio che egli conosca sua madre. Ella ha macchiato il mio onore; un onore che dura da secoli; posso io perdonarle questo? Ne chieda il perdono a tutti i miei antenati, ai miei parenti, a mio figlio e a chi verrà dopo di lui; quella donna ci ha offesi tutti; ci ha macchiati di fango. Io le ho dato un nome, qual nome! ella non ha saputo conservarlo puro, dunque ne è indegna; mai, nè me vivo, nè me morto, ella non rimetterà piede in casa Mariani!

La voce si estinse, la persona si ripiegò nell'ampia poltrona; le guancie ridivennero flosce e pallide.

Jorselli, colpito nel fondo del cuore, gli prese una mano; una mano di vecchio, diaccia e tremante.

— O Francesco, mio vecchio amico, lascia stare i pregiudizi; a che serve ora parlare di nobiltà e di antenati? La vita è così breve; perchè dobbiamo, ancora sciuparla per gli altri, per vecchie ubbie? Perdona a tua moglie e riprendila; guarda, ella sa ch'io sono venuto a pregarti. Non voglio ingannarti dicendoti che mi ha mandato ella stessa; ma lo sa, e non si è opposta. Sono certo che è pentita, molto pentita; oh, fallo per amor di tuo figlio, Francesco!

Il padre di Enrichetta era quasi scivolato in ginocchio davanti al suo amico, e gli teneva sempre stretta la mano; ma il conte fece un gesto stanco, e con voce debole rispose:

— Ti prego, amico; a che serve ciò tra noi? Io non posso riaprirle la mia casa, non posso. Sarà un pregiudizio, ma non posso vincerlo; sono troppo vecchio per imparare. Ma senti: io ricordo che le ho voluto bene a quella… disgraziata; e, in memoria di quel bene, ti dirò quello che posso fare. Permetterò che ella veda tutti gli anni suo figlio; noi verremo a passare ogni inverno a Napoli; poi, non appena si possa, metterò Ciccillo in un collegio pure qui a Napoli, ella lo potrà vedere… fisseremo poi l'epoca, quando sarò più… tranquillo. Intanto la mia vita se ne va, e non la rimpiango, oh no! io sarò morto da qui a qualche anno; ma nel mio testamento confermerò tutto questo; voglio che ciò duri fino a che Ciccillo avrà raggiunto i ventun anni; dopo, farà lui come vorrà.

Don Francesco tacque, affaticato; la sua testa si chinò sul petto; egli stette muto a guardare il pavimento.

Jorselli non replicò, avvilito nel vedere la sua missione finire così male, mentre aveva sperato in un accomodamento completo, calcolando sull'animo debole e mite del conte.

— Non vuoi almeno vederla qualche volta?

Don Francesco stette ancora qualche momento senza parlare, poi si decise, senza alzar gli occhi.

— Vederla? Può ciò farle piacere? Ebbene la vedrò volontieri di tanto in tanto, ma non ora, ti prego. Ella è malata, e io pure; ciò non gioverebbe a nessuno. Io parto domani; ritorno a Pianbasso. Ci rivedremo di qui a qualche mese; quando staremo meglio tutti e due.

Non dissero altro. La notte era calata; una grave tristezza penetrava nella stanza insieme col freddo di fuori. I due uomini ebbero dei brividi; si sentirono a disagio, e nessuno trovava più parole.

Finalmente Jorselli si congedò, toccò la mano ghiacciata che il suo vecchio amico gli porgeva, ma, quando fu fuori, diede un gran sospiro di sollievo. Sua figlia era certamente colpevole, ma, Dio mio, con un uomo simile!

Luigi Murgillo ebbe davvero molto da fare per riconciliarsi con sua madre, che non poteva perdonargli la sua sciocca scappata.

Per prima penitenza aveva dovuto raccontargli tutto, per filo e per segno; e la collera di donna Rosina si sfogò in ingiurie all'indirizzo di quella viziosa, di quella ipocrita, che l'aveva quasi ingannata per tanto tempo colle sue arie di donna onesta e di gran dama.

E pensare che era stata sul punto di prenderla per nuora, per accontentare quel baggiano di suo figlio che si lasciava inretare da ogni gonnella di sfacciata che gli cadesse tra i piedi. Ah, l'avrebbe fatta bella!

Naturalmente non osò più andare a palazzo Mariani. Seppe che il conte era ritornato solo con donna Rosalia; nel paese si inventarono mille chiacchiere sull'assenza di Enrichetta; ma nessuno sapeva qualchecosa di certo, e, benchè tutti si avvicinassero al vero colle loro induzioni, non potevano fare alcun nome.

Qualcuno osò pure pensare a Luigi Murgillo, la cui partenza e il cui ritorno coincidevano quasi con quelli del conte; ma la voce non trovò eco e cadde.

Isabella Mariani, più stupita che dolente della lontananza dell'odiosa matrigna, ne domandò al padre; ma egli si contentò di rispondere asciutto che Enrichetta era ancora a Napoli, per ragioni di salute. Donna Rosalia, interrogata anche lei, rispose lo stesso.

Nel palazzo Mariani si riprese la vita solita, ma più malinconica e più monotona di prima. Il conte però sembrava guarito; usciva, ma sempre a cavallo, per smarrirsi nei suoi vasti oliveti e nei suoi campi coperti di brina; oppure in carrozza, per andare a galoppo fino a Bari o più in là, senza uno scopo, o forse con quello di dimenticare.

Ma Isabella era veramente triste, ora che sapeva del ritorno di Luigi Murgillo e non lo vedeva riprendere le sue visite d'una volta; e ciò che stupiva e inquietava la fanciulla ancora di più era l'assoluta assenza di donna Rosina.

Infine la notte di Natale, alla messa di mezzanotte, donna Rosina e Isabella si incontrarono; si trovarono per combinazione proprio vicine.

Isabella, spinta da un vivo sentimento di gioia, che fece tacere in lei l'orgoglio offeso, le stese lietamente la mano: donna Rosalia Ghilardi, che accompagnava la nipote, fece a donna Rosina un gentile saluto. Non l'aveva riconosciuta però; solo si ricordava vagamente di averla già veduta qualche volta.

Donna Rosina, rossa di confusione, e stupita eccessivamente, ricambiò le gentilezze e i saluti. E mentre la musica in chiesa suonava, e mentre i cori cantavano la ninna-nanna al Bambino celeste nato allora, le tre donne chiacchierarono cordialmente, e donna Rosalia pregò donna Rosina di venir a vederle spesso: erano tanto sole al palazzo! Isabella ripetè più caldamente l'invito, e donna Rosina, — pensando che infine sarebbe difficile incontrare il conte, il quale o era nelle sue stanze o fuori di paese, — si lasciò indurre a prometterlo.

Ci andò difatti per capodanno, e non vide don Francesco.

Ci tornò altre volte, sempre accolta con gioia; ma un giorno, mentre chiacchieravano nel salotto, il conte passò e, vedendo una signora, salutò gentilmente.

Donna Rosina, spaventata, avrebbe voluto sprofondarsi sotto terra, ma egli, riconoscendola e ricordandosi che era stata un'amica di sua moglie, le stese la mano e le disse qualche parola gentile.

Donna Rosina se ne andò quel giorno stupefatta, cercando invano di capire l'enimma. Come poteva il conte parlare con quella indifferenza cortese alla madre di Luigi?

Per la prima volta sospettò che il marito ingannato ignorasse il nome del seduttore di sua moglie. Ma era ciò possibile?

No, la cosa le pareva tanto inverosimile che non osò sperarla. Pure ne parlò a suo figlio; ma egli alzò le spalle, seccato da quella storia che non voleva finir più, e pregò sua madre di lasciarlo in pace.

Ma una mattina, in febbraio, mentre Luigi era a caccia presso uno stagno paludoso, che i piambassesi pomposamente chiamano lago, improvvisamente si vide vicino il conte, — anche lui col fucile, — che lo guardava.

Un sudor freddo passò per la schiena al giovane, che irrigidì aspettando, preso da un terrore indicibile. Ma il conte gli fece col capo un cenno amichevole, e domandò colla sua solita voce indifferente:

— Avete preso nulla?

Poi, vedendo che Luigi, ancora colpito da stupore, non rispondeva, aprì il carniere e tirò fuori un'anitra selvaggia, grossissima, che aveva ucciso quella mattina.

Allora anche Luigi mostrò la sua preda: una dozzina di uccelletti che non valevano gran cosa.

E chiacchierando, i due continuarono la via insieme; e poichè dopo un'oretta avevano fame, si sedettero preso un tronco caduto, e mangiarono insieme quello che avevano portato con loro. Dunque era cosa certa. Il conte, che non aveva saputo nulla da sua moglie, non aveva domandato altro a Piovino, e ignorava ancora il nome di chi gli aveva rubato il suo onore e la sua felicità.

Allora, insensibilmente, le relazioni si riannodarono; i Murgillo, tutti, tornarono in casa Mariani; solo Luigi continuò ad andarci raramente, e solo quando sua madre ve lo spingeva.

Era una debolezza, ne conveniva, ma non poteva entrare da quel cancello di giardino, dove la primavera metteva già il suo primo verde, senza sentir fremere la sua carne in un brivido di rimorsi e di ricordi.

Un giorno, che aprile era splendido oltre ogni immaginare, egli andò con sua madre a fare una di quelle visite che gli costavano tanto. Trovò Isabella con donna Rosalia nel giardino; egli pure dovette fermarvisi; ma gli parve che la terra gli tremasse sotto i piedi quando fu obbligato di seguire le signore nell'aranceto, dove donna Rosalia voleva far vedere un cedro curato da lei, un cedro mera viglioso.

L'aranceto era in fiore, come in quei primi giorni quando Enrichetta, fulgida nella splendidezza del suo bel viso, dei capelli d'oro e del vestito chiaro, gli apriva la via tra il lucido fiorame.

Nell'acuto odore dei fiori d'arancio gli pareva di risentire il sottile profumo di lei: non era là che si erano amati? L'anima di lei non errava ancora in quel fresco luogo odoroso? A un tratto gli parve di venir meno nel trovarsi vicino a un arbusto dal quale ella, tante volte, aveva spiccato rami fioriti per darli a lui; ed egli ne aveva strappati i fiori per gettarglieli in seno, mentre la luna, nelle splendide notti, li immergeva nella queta pace dei suoi bianchi raggi.

E lo prese, in quella, un acuto desiderio di rivederla, — malata e ben cangiata forse, — ma pur sempre lei, colla sua anima appassionata e cogli splendidi occhi azzurri — abissi inesplorati come il mare.

Per fortuna uscirono presto di là; donna Rosalia sentiva l'aria troppo fresca in quel cupo fogliame e aveva paura dei reumi; così ritornarono in casa, e Isabella fece una magnifica tazza di caffè per la zia e per donna Rosina, e offrì a Luigi del liquore forestiero d'un profumo delizioso; ed egli, bevendolo, scordò le sue ubbie d'un momento prima, e, rendendo il bicchierino alla bella fanciulla, la guardò bene negli occhi, — occhi neri che valevano bene qualunque magnifico paio di azzurri, — e lei li abbassò arrossendo.

Poi, siccome la stagione inoltrava e l'aria non era più fresca, andarono spesso nell'aranceto. Egli non ci stava molto volentieri, ma bisogna dire a suo onore che faceva di tutto per vincere quella vergognosa debolezza.

Un giorno dei primi di giugno Luigi Murgillo andava in campagna, tardi nel mattino, per dare un'occhiata alla raccolta delle ciliegie: e passò per quella via solitaria che menava dinanzi al giardino Mariani; strada che egli non aveva più fatto da molto tempo, volendo risparmiarsi dolorose memorie.

Quella mattina egli era insolitamente sereno; la campagna andava bene, il suo cuore era calmo, e Luigi, percorrendo quella via, non pensava ad altro che a un vestito nuovo, che voleva andarsi a comandare a Bari, da un sarto in voga.

Quand'ecco, allo svolto della strada, dove il cancello del giardino Mariani appariva, egli si fermò, colpito da stupore e gli tremarono le gambe. Lì, appoggiata al cancello, una bianca figura appariva dietro le sbarre, il sole la irraggiava tutta, e un albero di mandorle mandava lunghi rami sul suo capo. Le visioni del passato tornavano dunque vive?

Ma l'illusione fu breve. Quel gentile capo era bruno, e il volto, — bellissimo pure, — non aveva però i fini e soavi lineamenti di lei.

Era Isabella Mariani che, come già Enrichetta, aspettava dietro lo stesso cancello nella speranza che passasse colui che amava; ella lo aveva veduto e gli sorrideva, movendo le due mani in gentile atto di saluto; ma lui, preso da un gran freddo al cuore, si avvicinò lentamente, guardando con occhi foschi e turbati la ridente figura che gli cennava sotto i verdi rami.

Luigi Murgillo stette poi molti giorni senza ripassare per quella strada; ma una mattina, che aveva molta fretta, non volendo fare un giro più lungo, ci ritornò ancora.

Nessuno era ad aspettarlo dietro il cancello, ed egli fu meravigliato di sentirsi abbastanza indifferente; era dunque proprio guarito, e tornò a passare di là ancora, tutti i giorni; e quando lei l'aspettava dietro le sbarre, egli si fermava a ciarlare, a dirle cose gentili; e finì col desiderare quell'incontro che prima lo spaventava.

Così passò l'estate. Donna Rosina spingeva il figlio a fare la sua dichiarazione alla innamorata ragazza. Che c'era più da temere? La fanciulla l'amava, e aspettava solo ch'egli glielo dicesse per confessarglielo; il conte era indifferente, e certo non si sarebbe opposto.

Donna Rosalia era favorevolissima; lei, donna Rosina, lo sapeva di certo, perchè un giorno aveva buttato là qualche parolina in proposito; dunque che aspettava? Voleva ancora perdere, per le sue sciocche esitazioni, la sua fortuna?

Eppure egli esitava; non sapeva ancora decidersi.

Avrebbe prima voluto sapere qualche cosa di lei, di Enrichetta; mai più veduta! mai più intesa nominare! Poteva essere sparita così dalla sua vita, ella, che prima vi aveva avuto tanta parte?

E decise in cuor suo di non cedere ancora a sua madre, fino a che non avesse saputo qualche cosa di certo.

E passò anche l'autunno senza che la fanciulla si stancasse di amare e di sperare, e senza che il giovane parlasse.

Improvvisamente un giorno Luigi la trovò in lagrime.

Che era avvenuto? Il giorno prima il conte aveva dato gli ordini della partenza per Napoli; non aveva voluto udire le proteste della figliuola dolorosamente sorpresa, e non aveva risposto alle domande di donna Rosalia. Egli aveva deciso che si passerebbe l'inverno a Napoli; nulla lo potè smuovere da quella volontà. Un intiero inverno lontani! fino a marzo o aprile! ah! ella ne morrebbe di dolore!

Davanti a quella disperazione così ingenua e sincera il giovane fu costretto a parlare. Le disse che egli la amava, che l'avrebbe già chiesta a suo padre se non avesse temuto un rifiuto.

Ella, felice, presa da trasporti di gioia, rispose subito che anche lei l'amava, oh! da tanto tempo! e gli giurò che sarebbe stata sua moglie; che si sentiva abbastanza forte da sfidare la volontà di suo padre, se egli si fosse opposto; ma lei non credeva che suo padre si opporrebbe; no, egli non gli avrebbe rifiutato la mano di sua figlia quando lei gli avesse detto che sarebbe stata per la vita infelice.

Così donna Rosina fu incaricata da Luigi di fare la domanda lo stesso giorno, e la fece, con una umiltà dignitosa, con una tenerezza commovente, sicchè il conte, confuso, non trovò dapprima parole.

Veramente l'idea di maritar sua figlia non gli era più venuta da un pezzo; altri pensieri l'avevano distolto da quello, e una profonda apatia gli faceva desiderare di non cambiare in nessun modo la vita che conduceva. Rispose a donna Rosina che Isabella gli pareva ancora giovanissima, troppo giovane, una bambina; egli veramente non aveva ancora pensato a maritarla.

Ma donna Rosina gli fece osservare che ciò non voleva dir nulla; sono cose che arrivano sempre quando non ci si pensa; era vero che Isabella era assai giovane, ma già da marito; anzi, così bella e buona come era, avrebbe potuto già esser maritata cento volte. Suo figlio Luigi, benchè fosse un giovane d'oro, — non toccava a lei il dirlo, — non era nemmeno degno di quella perfezione; ma… (qui donna Rosina abbassò la voce) i due giovani si amavano; oh sì! si amavano alla follia, e da un pezzo; il signor conte era uomo di mondo e sapeva come andavano quelle cose. I due ragazzi si erano visti tante volte; era naturale che si fossero piaciuti, perchè suo figlio Luigi, — non faceva per dire, — ma era…

Il conte finì col promettere di parlarne alla figliuola e a donna Rosalia; ma non poteva impegnarsi ancora; e, ad ogni modo, la partenza per Napoli non doveva essere rimandata; era affare dunque da combinarsi appena nella ventura primavera.

Donna Rosina parve contentarsi; ma invece s'affrettò a tirar dalla sua donna Rosalia e Isabella per affrettare la cosa. Ella pensava che le cose troppo lunghe diventano serpi… eppoi quell'andata a Napoli… se il conte rivedesse la moglie… se ella finalmente dicesse…

Ma tutto quello che le tre donne unite poterono ottenere fu di fare il fidanzamento subito e di fissare il matrimonio per il venturo maggio.

Due giorni dopo la famiglia Mariani era a Napoli.

Ogni mese, a Pianbasso, erano giunte al conte Mariani lettere del suo amico Jorselli contenenti qualche notizia intorno a Enrichetta. In verità quelle notizie erano state poco rassicuranti. Jorselli scriveva che la giovane donna era sempre molto debole e sofferente; tutte le cure non erano valse a ridonarle la salute; era triste, parlava pochissimo e mangiava appena tanto da tenersi su. Il povero padre aveva ormai poca speranza di conservarsi e lungo la figliuola, e non nascondeva i suoi timori al conte.

Questi aveva combattuto per molti mesi tra, il desiderio di rivedere la moglie e l'orgoglio che gli imponeva di non recedere da ciò che aveva stabilito una volta; e l'orgoglio aveva vinto. No, non doveva lasciarsi intenerire; se pur fosse morta, che perciò? Anzi, sarebbe stato un sollievo per lui poterla piangere morta e parlarne; e udire il nome tanto amato una volta ripetuto dagli altri con gentile pietà; e nominare la madre a suo figlio, al suo povero Ciccillo, che l'aveva già quasi dimenticata.

Sul finire d'autunno una lettera di Jorselli gli annunziò che Enrichetta era peggiorata molto; i medici non avevano più nascosto che si trattava di etisia, e che il male era molto avanzato. Fu allora che, improvvisamente, il conte Mariani decise la partenza.

Aveva scritto a Jorselli, ma senza precisare l'arrivo.

Non voleva ancora far facere l'orgoglio e far notare la sua angustia, il timore che lo premeva per quelle terribili notizie.

Giunto a Napoli stette ancora un giorno senza potersi decidere, tormentato da mille ansie, smanioso di andar a vederla, e dubitoso ancora di parer troppo debole.

Ma nella notte, mentre, senza trovar riposo, il suo corpo si dibatteva fra le coperte, caldo di febbre, sbattuto dall'insonnia, udì suo figlio, che dormiva con Isabella nella stanza vicina, gridare forte nel sonno e smaniare; sicchè Isabella pure balzò dal suo letto spaventata, ed egli stesso, il padre, preso da un'orribile angoscia, accorse.

Il bambino si era rizzato a sedere sul letto, cogli occhi dilatati e fissi, col viso pallido e sfigurato. Poi, ad un tratto, aprì le braccia e chiamò: Mamma! con un grido straziante, che sconvolse le viscere al conte.

Ricoricarono il bimbo, che riprese sonno, e continuò a dormire placidamente fino al mattino; ma il conte non si ricoricò, e la mattina era appena comparsa che egli usciva diretto verso la casa di Jorselli.

La città taceva ancora avvolta in un diafano velo di nebbia che si addensava dalla parte del mare. Però, dalle alture verso oriente, fasci di luce rosea si allargavano nel cielo bianco e cacciavano i vapori dinanzi a sè, che si dissolvevano e sparivano nel chiarore.

L'impressione freddiccia dell'aria umida rinfrescò la testa ardente di don Francesco: le sue idee divennero più calme e meno tetre e perdettero in conseguenza quella forza sotto il cui impulso il conte era uscito da casa sua a quell'ora per andare a vedere sua moglie che forse moriva.

Ora si sentiva di nuovo trattenuto da un sentimento di vergogna.

Egli era diventato pazzo? Che direbbe per giustificare la sua presenza in casa Jorselli a un'ora simile? Sarebbe stato un rendersi ridicolo, e lui lo era già stato abbastanza; e non voleva esserlo di più.

E pensò di lasciar passare un paio d'ore ancora; erano appena le sette; dunque fino alle nove; e per passare il tempo entrò in un caffè già aperto e si fece servire qualchecosa.

Poi lesse i giornali, ma nessuno era interessante; li aveva già veduti il giorno prima: erano notizie vecchie, e così stupide! E lo riprendeva un'agitazione nervosa, terribile; non poteva più stare fermo; e si stirava le braccia, scoteva il tavolino, moveva rumorosamente le gambe; preso dall'irresistibile bisogno di correr via, di agitarsi, di gridare.

Non resse più, e si precipitò fuori.

Allora si mise a camminare in fretta, spingendo i passanti, tirandosi dietro molte bestemmie, urtando nei carri dei lattivendoli e dei venditori di erbaggi, a rischio di farsi schiacciare.

Montò in un carrozzone di tramway e si lasciò condurre senza saper dove andasse; tornò indietro a piedi, ricominciò a camminare vicino al molo e gli venne il desiderio di salire in una di quelle barche e di farsi condurre lontano lontano, a perdersi nelle azzurrità del mare, in modo che tutto fosse finito ed egli trovasse la pace.

Ma ritornò invece indietro e si rimise a andare verso il centro della città, deciso, questa volta, di vedere sua moglie.

Erano le undici.

Il portinaio era fuori del suo casotto e chiacchierava con una serva che aveva sul braccio una sporta piena di cime di cavoli.

Il conte, passando, udì le parole: «Non passerà la giornata»; le gambe gli tremarono e credette di non poter più salire le scale.

Al secondo piano, a sinistra, dove abitava il deputato, l'uscio era aperto, e nell'anticamera era fermo un servo. Alla vista del conte, che conosceva, egli si avvicinò premuroso.

— Ah, Eccellenza! stamattina sono stato a cercarla a palazzo; e poi ho girato tanto! Il signor deputato non sapeva se Ella era a Napoli o no.

Don Francesco non udì altro; conosceva poco la casa dell'amico, ma l'istinto lo guidò: ed egli entrò nella camera dove Enrichetta moriva, pallido e sfatto come un morto lui stesso.

Nessun altro che il padre era vicino al letto; la camera era ben chiara, le tende scostate per lasciarvi entrare il sole; e la giovane donna teneva gli occhi fissi fuori nel cielo azzurro.

Jorselli s'era mosso al vedere il conte, spaventato e lieto insieme, ma non pronunciò una parola, dandogli solo una lunga occhiata di rimprovero e di supplica; Enrichetta voltò gli occhi e il viso verso il nuovo venuto.

Lo riconobbe subito; alzò la mano con gesto stanco; le si colorì vivamente il viso; aprì la bocca e la richiuse senza avere detto nulla. Egli, commosso e tremante, si avvicinò al letto, e prese quella manina che era rimasta fuori dalle lenzuola, inerte.

Com'era affilata quella mano! la pelle, d'un candore immacolato, si incavava intorno alle ossa, e le vene risaltavano d'un azzurro vivo; egli si chinò si quella mano, e una lagrima vi cadde sopra, grossa e scottante. Nessuno parlò; solo la piccola mano scarnata tremò un momento, e il conte guardò allora il viso di sua moglie; oh come mutato!

Quel viso era divenuto estremamente piccolo, e gli occhi, grandi, brillavano di bagliori strani nel cerchio livido che li cingeva. E tutto il viso era bianco, d'una bianchezza di perla; ma sulle guancie due macchie di un rosa vivo risaltavano, come date col belletto.

Pure ella disse qualche parola; egli non aveva trovato di meglio che domandarle come stava, e lei aveva sorriso stranamente, e aveva risposto che stava benissimo.

Poi aveva chiesto della limonata, e aveva detto che il sole era ancora molto caldo per essere in quella stagione; e finalmente chiese a suo marito se a Pianbasso faceva più freddo. La sua voce era sottile, ma non stanca; non pareva nemmeno facesse fatica a parlare. Ma, dopo quella domanda, tacque e tornò a guardar fuori.

Passò così forse una mezz'ora, e il sole di mezzogiorno dardeggiava più caldo; ella se ne stancò finalmente e pregò suo padre di calare le tende. Così la camera, nella semioscurità, parve un santuario; e lei, immobile sul bianco letto, già morta.

Jorselli era seduto da una parte del letto, Francesco dall'altra; muti tutti e due, colla gola serrata dal dolore.

A un tratto ella si agitò nel letto, si voltò, si rivoltò ancora; il viso le si contrasse come per uno sforzo penoso, e schiuse le labbra per parlare, ma non trovò la voce e diede in una rauca esclamazione. I due uomini, spaventati, le si chinarono sopra colla stessa premura, ma ella, scostandoli colle deboli braccia, parlò finalmente, mandò fuori le parole che la soffocavano, pesandole sul cuore.

— Dov'è mio figlio?

Non fu una preghiera, no; ma l'espressione di una volontà offesa, d'un diritto calpestato; una rivolta per quell'ingiustizia che le aveva strappato da presso il figlio, il figlio delle sue viscere, solo perchè era stata colpevole! Come se ci potesse essere al mondo una colpa grande abbastanza da meritare tal castigo!

Fu chiamato il servo, e gli diedero l'ordine di correre subito al palazzo Ghilardi, e di pregare donna Rosalia di venire anche lei, e di condurre il bimbo; subito, subito.

Enrichetta sorrise allora, soddisfatta, e fece di nuovo colla mano un gesto stanco; poi stette cheta ad aspettare.

Dopo un poco tornò a parlare; fece qualche altra domanda a suo marito; voleva essere gentile, giacchè lui era così compiacente; gli chiese della sua salute e di quella di donna Rosalia.

Le costava però domandare di Isabella; si erano amate così poco! pure le parve conveniente il farlo, e chiese, sorridendo, se stava bene.

— Oh, benissimo! — rispose lui, distratto. — Poi si ricordò, e, volendo farla sorridere ancora, soggiunse:

— Si marita.

La giacente si fece bianca tutta e le labbra le tremarono.

— Chi?

— Isabella.

— Con chi? — si udì appena questa domanda.

— Eh! — rispose il conte un po' imbarazzato, — non fa un brillante matrimonio; avrebbe potuto trovar di meglio se avesse aspettato. Ma le ragazze!…

— Chi è?

— È Luigi Murgillo.

Uscì un soffio dalla bocca sbiancata; un soffio che avrebbe voluto essere un grido; la manina scheletrita si portò sul cuore, e strinse, in una convulsione improvvisa, le tele bianche sul petto.

Era finito.

FINE.