LUIGI DI SAN GIUSTO

Schemagn
Israel!

Storia d'una famiglia ebrea
durante il primo anno
della Guerra mondiale

Casa Editrice G. B. PETRINI
Via Garibaldi, 15 - TORINO - Telefono 47-044

PROPRIETÀ LETTERARIA

T.I.P. - C. Palermo 43, Torino - Telef. 43-246

Intesi affermare più volte da alcuni, anche israeliti, che un vero antisemitismo non esiste in Italia. Ciò è esatto, se si vuol dire di quell'antisemitismo brutale, feroce, sanguinario all'occasione, che si manifesta con progroms, con persecuzioni periodiche, con accuse atroci, come accade troppo spesso nei paesi dell'Europa orientale e anche altrove. Ma esiste invece in Italia, non meno che in Francia e in altri stati civili, tuttavia uno spirito di ostilità latente, di ripugnanza, di antipatia, di diffidenza contro la razza israelitica; spirito animato da ataviche superstizioni, da secolari pregiudizi, da invidia, e, mi si lasci dire, anche da ignoranza.

E non è solamente nelle classi popolari, fra operai o contadini, che questa animosità più o meno velata esiste; ma anche tra la gente colta, anche in giornalisti, magistrati, professori; e specialmente poi nell'aristocrazia.

E' cosa troppo nota, per esempio, che una famiglia israelitica, anche ricca, istruita, educata con raffinatezza, di costumi illibati, non trova facile accesso nell' ambiente nobile; o almeno ciò accade raramente. Ma nemmeno nell'alta borghesia gli israeliti non sono ricevuti volentieri; tutt'al più vi sono tollerati. L'educazione, naturalmente, impedisce ogni sensibile manifestazione contro l'ospite o l'anfitrione israelita, il quale può illudersi di essere considerato alla stessa stregua di tutti gli altri frequentatori di quella società. Dirò di più; vi sono persone sinceramente legate da vincoli di amicizia con ebrei; altri da vincoli di riconoscenza; v'è chi si crede e si dice spregiudicato, e ostenta anzi di difendere la razza e di esaltarne le virtù; ma pochi sono sinceri. V'è quasi sempre, in fondo, un pensiero segreto, inconfessato, una restrizione mentale; per cui il non ebreo si crede tuttavia migliore dell'ebreo, d'un sangue più puro, d'una razza superiore. E colui che vorrà realmente bene al suo amico israelita, e ne ammirerà le doti singolari, non potrà a meno di pensare, a alta voce o tra sè: Peccato che sia un ebreo!

Ecco il marchio: Essere un ebreo.

Un tale, banchiere, uomo d'affari, negoziante, si è comportato scorrettamente… Al giudizio severo che se ne fa si aggiunge il commento: «Ha agito da ebreo». Di un altro, al quale nulla non si può eccepire, galantuomo e gentiluomo perfetto, si dice: «Non pare neppure un ebreo».

I ragazzi vanno pure a scuola insieme. Si conoscono, si salutano, si vogliono bene.

E' l'età generosa, piena di slancio, di entusiasmi; che non conosce (o non dovrebbe) pregiudizi e ingiustizie. Sono pronti a compatirsi l'un altro e a difendersi; ma per il compagno ebreo hanno pur sempre una sfumatura di sentimento, a volte quasi quasi inafferrabile, oppure più spiccata; che va dalla celia bonaria al dileggio; dal pettegolezzo innocuo alla critica aspra e rabbiosa. Chi di noi fu seduto sui banchi delle nostre scuole, ricorda di essere stato vittima o aguzzino! Piccole punture, cose da nulla, se non fossero il sintomo di un male più profondo.

Dalla scuola all'impiego, alla carriera. E dovunque e sempre l'israelita si accorge che v'è tra lui e gli altri una, sia pur sottile, barriera; qualchevolta solo un velo, una nebbia, ma basta a impedire la perfetta fusione delle anime. Dall'alto e dal basso l'ebreo sente quell'atmosfera ostile, anche se il superiore lo tratta con perfetta cortesia, e l'inferiore gli mostra un viso sommesso.

Ma vi sono persone della servitù, che per nulla al mondo non si collocherebbero in casa di israeliti; come vi sono proprietari di casa, che non appigionano nè appartamenti, nè ville agli ebrei; e se ne chiedete loro la ragione, vi dicono che non ne hanno alcuna, fuorchè questa: perchè sono ebrei.

Conosco persone, del resto buone e educate, che non accetterebbero mai un invito a pranzo in casa di israeliti; o sono capaci di domandarvi: Ma come si mangia da quella gente? E credono proprio che gli ebrei preparino i cibi e li gustino in una maniera tutta particolare. Insomma ancora regna la ignoranza fra i cristiani sugli usi, sulla religione, sulla psiche degli ebrei; e non solamente fra il popolo, ma anche fra persone colte!

La colpa non è tutta dei cristiani. Bisogna confessare che l'ebreo ha sempre una certa riluttanza a parlare con altri dei suoi riti, delle sue feste, della sua vita familiare. Ciò ha prolungato la diffidenza, e ha favorito il sorgere di leggende, ora ridicole ora atroci, intorno ai creduti misteri della religione israelitica.

Io penso dunque che gli ebrei, pur senza per nulla abbandonare o modificare i riti, consacrati dall'uso millenario, dovrebbero parlarne più apertamente anche coi cristiani; spiegarli e all'uopo difenderli; l'alta e profonda bellezza di certe loro cerimonie, di certe loro preghiere, quando fosse più nota, sarebbe apprezzata e ammirata, e anche il volgo cristiano guarderebbe con simpatia a quel culto, per il quale sente oggi un misterioso ribrezzo.

Sta bene che oggi nelle scuole, anche nelle elementari, si insegnino i fatti più belli e notabili dell'antico Testamento; il che è non solo un mezzo educativo assai dilettevole per i fanciulli, ma serve anche a conoscere e a pregiare il popolo ebreo, nelle sue pagine più gloriose. Conosceranno così che la nazione dispersa e spregiata è forse la più antica del mondo; che ebbe grandi legislatori, capitani, re, poeti; che non era in nulla diversa dagli altri popoli, quando possedeva le proprie terre per coltivarle, le proprie citta con i traffici, i commerci, le industrie, le arti, comuni a tutte le nazioni civili; che ebbe una morale e una religione così sublimi da resistere all'urto di tanti secoli, sì che oggi è viva, bella, vera, come era il giorno in cuì Mosè la gridò fra i tuoni, dal monte.

Per ciò che riguarda le funzioni religiose, gli atti del culto, le solennità, io ne dico solo quel tanto, che mi pare necessario per convincere gli ignari della purezza e della elevatezza dei riti ebraici, confondendo così indirettamente gli stolti pregiudizi che al riguardo vivono ancora.

Si dirà forse che io ho scelto delle figure ideali? No. Fra le tante che conosco, di appartenenti alla razza ancora misconosciuta e avversata, mi si affollavano alla mente le buone. Elessi fra queste i personaggi della mia storia, e mi pare ben naturale. Dei difetti non ho taciuto, ma non era mio compito metterli in rilievo.

Di cattivi, egoisti, viziosi non si compone forse la grande maggioranza della società umana, a qualunque religione e razza appartenga?

Gigetta ascoltò dietro l'uscio, finchè udì il passo del padre dileguarsi per le scale, poi aprì e fece per uscire.

—Dove vai?—le gridò dietro la siora Catina, con quella sua voce un po' stridula, che non faceva punto paura a sua figlia.—Tutto il giorno lì; e lo sai che il tuo papà non vuole —brontolò senza convinzione la mamma.

E già Gigetta era fuori, sul pianerottolo. Fece in due salti, con le sue buone lunghe gambe di tredici anni, le due scale al piano superiore e tirò il vecchio campanello di ottone; canticchiando un'arietta per prendere pazienza a aspettare. Sapeva che Lia, la serva, ci avrebbe messo cinque minuti buoni per arrivare dalla cucina all'uscio, e che lì avrebbe parlamentato attraverso la spia prima di decidersi a aprire.

Infatti, eccola; Gigetta distingue benissimo lo strascicare delle vecchie ciabatte, poi il solito colpo di tosse, infine il lieve cigolio della spia e la voce nasale e cadenzata:

—Chi è?

—Amici.

—Che amici?

—Oh, bella! io!—Gigetta ci si divertiva:—Ma apri dunque, Lia, non mi vedi?

—Ah, è lei, Gigetta! ma che scherzi, che scherzi!—e la vecchia serva tirava brontolando il catenaccio.

Gigetta entrò e subito le giunsero all'orecchio da una stanza lontana le note voci dei ragazzi che si bisticciavano. Ma ella non si affrettò; per quanto ci andasse ogni giorno in quella casa, era sempre per lei uno spettacolo curioso quel corridoio ingombro dei più svariati oggetti. I Levi erano rivenditori di roba usata e, benchè avessero un piccolo negozio in Riborgo, tenevano anche in casa una grande quantità della loro merce. Così, lungo le due pareti del corridoio erano, uno accosto all'altro, cassettoni di svariata forma e grandezza, speechi, tavoli, armadi, sedie e seggioloni; la roba piccola sulla grande, accatastata; e poi lumi di ogni genere, pendole, quadri, vasi, figurine, bronzi, porcellane; il tutto ricoperto da onorata polvere.

Da questo lungo corridoio Gigetta sboccò nella stanza di fondo, che serviva da pranzo e da salotto, dove in quel momento erano radunati parecchi membri della famiglia Levi, che accolsero la visitatrice con svariate esclamazioni, ma tutte di gioia. Gigetta li salutò a uno a uno, ridendo.

—Buongiorno, siora Sara; buongiorno, Rachele; buongiorno Bianca; buongiorno Ester. E Davide non c'è? E neppure il maestro? E io che avevo bisogno di loro!

Parlando tutti insieme, i ragazzi e la madre, le dissero che lo zio Benedetto c'era, di là, nella sua camera, e che Davide era uscito un momento, ma non poteva tardare; e le fecero posto presso a loro, accanto alla finestra aperta. Gigetta si sentiva così bene là, in mezzo a quella gente buona, che le era divenuta una seconda famiglia, data l'intimità quotidiana. Quel giorno, che era un sabato, nessuno lavorava materialmente in casa Levi, e le donne avevano vestiti migliori degli altri giorni: La signora Sara, coi suoi capelli nerissimi ancora, lisci e ben pettinati, la carnagione opaca, il naso aquilino, gli occhi ridenti, piccolina e piuttosto grassa, o meglio rotonda, era serrata dentro a un abito di seta nera, a frangie, della moda di quattro o cinque anni addietro; alle orecchie le scintillavano due begli smeraldi montati all'antica, le dita bianche e grassoccie aveva cariche di anelli, e dal collo le pendeva la lunga catena doppia, col ciondolo grosso come un uovo, e pieno di fotografie e capelli di familiari. Gigetta, che conosceva bene la storia sacra, insegnata in tutte le scuole dell'impero austriaco, la guardava con compiacenza, e la paragonava in cuor suo alla biblica omonima, benchè pensasse che l'antica Sara dovesse essere stata più fiera. Questa Sara, invece, la moglie del rigattiere Adamo Levi, non era altro che una donna mite, assai affettuosa, che amava il marito e adorava i suoi sei figliuoli; in quella breve cerchia cominciava e terminava il suo mondo.

Uno di questi figliuoli, il primo, il più diletto segretamente, l'orgoglio della casa, Giosuè, aveva già ventiquattro anni, si era laureato in medicina a Vienna, e ora faceva pratica nella stessa città presso l'illustre professor Herrlich, che lo teneva come il suo migliore alunno. Gli altri due maschi, Davide, di diciotto anni, e Tobia, appena di dieci, davano invece qualche preoccupazione ai genitori; Tobia per la sua nessunissima voglia di studiare, e Davide per certe sue idee troppo moderne, che stonavano in quella vecchia casa.

Delle tre figliuole, la prima, Rachele, aveva vent'anni, e veniva somigliando alla madre. Tenera, serena, di intelligenza comune, aveva smesso presto di studiare, e stava volentieri a casa a tener compagnia alla mamma e a occuparsi di faccende domestiche.

Ma la seconda, Bianca, di nove anni appena, prometteva già di diventare una vera bellezza. Magra, tutta occhi, capelli e gambe, il suo visetto color camelia, la bocca viva e perfetta, la grazia molle e felina del suo corpicino nervoso, avevano una bizzarra e attraente leggiadria. Gigetta l'aveva sopranominata Capriccio, e così la chiamavano tutti, quando volevano farla arrabbiare.

L'ultima, Ester, non era che una sparuta piccina di sette anni, di carattere malinconico; era già stata due o tre volte sul punto di morire, e ciò la rendeva ancora più cara ai suoi. Ella si nascondeva nel grembo di mamma, perchè quel noioso di Tobia si divertiva a tormentarla.

—Andiamo, smettila—gli diceva la signora Sara, con quella cadenza tutta particolare agli ebrei di Trieste, quando parlano il dialetto, che sa di veneziano con qualche lieve sfumatura di nordico—va piuttosto a dire a zio Benedetto che Gigetta è qui, e vorrebbe domandargli qualche cosa.

Tobia sparì e ritornò subito a dire che zio Benedetto aspettava Gigetta. Ella si mosse, un poco a malincuore. Avrebbe pur voluto vedere Davide un momento… Ella aveva simpatia per Davide; era una delle ragioni per cui andava volentieri dai Levi. Ma andò nonostante, con Rachele, alla camera di zio Benedetto, dove l'amica la lasciò sola, dopo averla introdotta.

Fin dalla soglia, la fanciulla si sentì presa da un senso di benessere, che le fece aspirare lungamente l'aria profumata di sigarette fini, di caffè, di lavanda, di sapone, di tutti quegli aromi diffusi nell'appartamento, di un uomo che ama l'eleganza la bellezza e la pulizia.

—Ah!…—fece lei—com'è buono!… Buon giorno, signor maestro.

—Avanti, Gigetta, avanti—rispose lui, dal tavolo presso al quale scriveva, e fece l'atto di alzarsi. Ma ella, sapendo che l'atto cortese gli sarebbe costato fatica, fece un salto, e fu in un attimo vicino a lui, con un bell'inchino, tutta ridente. Si guardarono un momento negli occhi, contenti tutti due di vedersi; erano due anime simpatiche, benchè la vita le avesse collocate lontane una dall'altra; lei appena uscita dall'infanzia, lui sulla soglia della vecchiaia; lei piena di forza e di salute, lui da molti anni infermo di una gamba, piccolo meschino di corpo. Ma si intendevano e si volevano bene.

—Cosa c'è? cosa c'è? sieda—disse lo zio Benedetto, chiudendo il suo libro.

—Disturbo, al solito—disse Gigetta, pur sapendo che non era vero.

E il maestro non rispose altro che con un sorriso.

—Vuol vedere questa algebra? E' sempre così difficile!— disse Gigetta, mettendogli sotto gli occhi un foglio. Egli rimise gli occhiali che s'era levati, esaminò il fitto intrigo delle cifre, in silenzio. Anche Gigetta, in silenzio, osservava intorno quella camera pur nota, e dove tornava sempre volentieri.

Era tutta diversa dal resto dell'appartamento. Mentre nelle altre stanze i mobili erano accatastati quasi alla rinfusa, ingombranti, eterogenei, quasi sempre provvisorii, perchè esiliati dalla bottega troppo piena, nella camera di zio Benedetto c'era una eleganza sobria e piena di gusto.

I toni erano piuttosto scuri e profondi, rallegrati da qualche ninnolo dalle tinte vivaci, dal lucicchio di qualche cornice. Gli occhi di Gigetta si fermarono come al solito avidi sulla bella grande libreria, che lasciava vedere oltre il lustrare dei vetri le costole dei libri ben rilegati e le dorature dei titoli.

Ah, potere mettere le mani su quei tesori! leggerli tutti, quei libri dai titoli affascinanti! Gigetta sogna la bellezza della vita così: Possedere quella camera profumata, e passarvi lunghe ore, immersa nelle deliziose letture. Ma lo zio Benedetto è scrupoloso; egli le presta bensì qualche libro, di tanto in tanto, ma non tutti, non tutti quelli ch'ella vorrebbe!… Ah, poter essere già una donna, padrona di leggere e di fare quanto volesse!

Il maestro corresse qualche lieve errore e restituì il foglio. Ma lei non mostrava voglia di andarsene, e lui la guardava con benevolenza.

—Dunque, a scuola va bene? ci va sempre volentieri?— domandò per avviare uno di quei discorsi ch'erano per loro una cara consuetudine. Naturalmente ella parlò dei suoi professori; quale più quale meno simpatico, delle compagne… Fino all'anno prima ella aveva frequentato le scuole tedesche, ma ora, al Liceo, tutto l'insegnamento era in italiano, e le piaceva assai di più.

—E siamo quasi tutte italiane!—disse con orgoglio.— Nella mia classe, aspetti, due, tre, cinque… sono tedesche, e tre sole slave…. Dunque…. venticinque italiane! E così siamo noi che abbiamo sempre ragione!

—Anche quando hanno torto?—domandò sorridendo il maestro.

—Ma non abbiamo mai torto! Quelle non osano parlare con insolenza, come facevano nelle scuole tedesche! Là eravamo in minoranza noi italiane, e non dicevamo nulla, perchè ci avrebbero mandate via! Ma qui, siamo padrone noi!

—Così è sempre—disse il maestro, scotendo il capo— dappertutto chi è in maggioranza ha ragione. L'anno scorso nella scuola tedesca voi avevate il torto di essere italiane; quest'anno nella scuola italiana, hanno il torto quelle di essere tedesche.

—Non capisco—disse Gigetta, impacciata del suo sorriso. —Non abbiamo forse ragione noialtre, che vogliamo essere italiane?

—Oh sì, sì—disse con più calore il maestro.—Amare la propria patria, la propria nazione è legge di natura, come amare i nostri prossimi parenti, i fratelli. Esiste un antico legame, di sangue, di tradizioni, di linguaggio tra i cittadini di una stessa nazione. E è assai triste cosa per l'umanità che ogni nazione non sia tutta chiusa nei confini d'un solo stato. Forse così sarà un giorno. E allora ogni popolo, libero e indipendente, si legherà volentieri con gli altri popoli, formando una sola immensa famiglia di tutte le genti incivilite. E allora cesserà ogni ragione d'odio e di guerra fra le nazioni. Ma intanto, mia cara,—e riprese a sorridere abbassando la voce —è assurdo odiarsi perchè uno è tedesco e l'altro italiano.

—Ma son loro che han torto, son gli austriaci i nostri oppressori! —esclamò Gigetta con enfasi.

—E se è così, quale vantaggio otterremo noi triestini irritandoli sempre più, mostrando loro antipatia e disprezzo? Quale colpa hanno i singoli individui, nati austriaci e dimoranti qui con noi, che lavorano con noi, che ci sono compagni di studio, quale colpa, dico, hanno, di professare fede al loro sovrano e di credersi nel buon diritto? Io, per esempio, che mi sento italiano, perchè i miei antichi vennero da Venezia, ho alcuni ottimi scolari e ottimi amici fra gli austriaci qui a Trieste. Sono persone di alto valore intellettuale e morale. Vede, mia cara Gigetta, non bisognerebbe mai generalizzare troppo… Ma noi facciamo oggi discorsi troppo seri!

—Oh già! lo so che lei pensa ch'io son tanto bambina!… e non è vero!

—So che lei è una ragazzina intelligente e buona… Ho grande stima di lei, ma è pur sempre molto molto giovane… per fortuna!

—Son giovane, ma capisco tante cose… e penso tante cose… che non dico. Sento che lei ha ragione, così in generale. Io amo tutte le nazioni… meno gli austriaci e i sciavi! (1) Si pronuncia s-ciavi. ecco.

—Ah sì i sciavi! gli sloveni…—replicò il maestro e rise.—Noi, triestini italiani, ci crediamo di molto superiori a loro. Li crediamo ignoranti, barbari, stupidi…

—E cattivi, prepotenti e caparbi!…—aggiunse Gigetta.

—Ecco. E non pensiamo che proprio noialtri triestini siamo in gran parte discendenti di questa razza… o pura o mescolata con la slava.

—Oh!

—Ma. Gigetta, e la sua propria mamma, quella ottima signora Catina, non è di famiglia slovena? Una Krailich, mi pare….

Gigetta divenne di fuoco. Era vero, sua madre era una slava, ma nata a Trieste; era tutt'altra cosa. E quanto soffriva ella quando suo padre, bisticciandosi con la signora Catina, e accadeva spesso, la chiamava per ingiuria sciava! E ora anche il maestro…

—Vede. E che c'è da vergognarsi? E' un pregiudizio di pensare che razze o religioni siano tutte intere disprezzabili. O perchè non disprezza me, che sono un ebreo?

—Lei!… Ma lei è bravo, lei è buono. Che m'importa che lei sai ebreo o turco?

—Eppure suo padre disprezza gli ebrei!

—Papà?…—mormorò imbarazzata Gigetta.

—Sì, lo so. Non li può soffrire. Ci giudica male, ecco tutto, perchè non ci conosce. E quando, in piazza, può fare un rimprovero o una contravvenzione a un venditore ebreo, ci ha più piacere che a farla a un cristiano.

—Oh no! questo no! chi lo dice?—esclamò Gigetta con indignazione.

—E non è naturale, mia cara? Il signor Furiani è persuaso che noi siamo ladri, usurai, fannulloni, imbroglioni… e ci tratta in conseguenza. Lei non pensa così, e ci vuol bene. Almeno, vuol bene a me, alla mia famiglia; e io ne sono tanto contento.

Il tono affettuoso di queste parole fece scomparire ogni nube dal viso di Gigetta. Stava per rispondere, quando si udì uno squillo di campanello, seguito da rumore di passi e di voci, tra le quali si distinguevano quelle di Bianca e di Tobia.

—Sono Adamo e mio padre che tornano dal tempio— disse il maestro alzandosi.

Passarono insieme di là, nella stanza da pranzo, Gigetta misurando i suoi passi su quelli di zio Benedetto, che camminava saltellando sopra la sua gamba sana, e picchiando il pavimento col bastone che gli serviva di gruccia.

Il vecchio Samuele Levi era già seduto nella sua poltrona vicino alla tavola, sulla quale stava aperto un libro di preghiere in caratteri ebraici. Tra le sue ginocchia si era rifugiata Ester; il nonno aveva appoggiato sulla sua testolina arruffata la mano lunga ossuta esangue, con gesto di tenera carezza. Egli era vestito di nero, con l'abito delle feste, pulito ma assai logoro; la barba perfettamente candida scendeva sino a toccare i capelli neri della bambina; la calvizie era coperta da un berrettino nero sotto il quale appariva più pallido l'avorio del viso scarno, illuminato solo dagli occhi ancora vivaci. Eppure quel vecchio doveva avere poco più di settant'anni: ma una vita di lavoro assiduo in mezzo a roba usata, nell'aria polverosa della bottega, gli dava ora una apparenza quasi decrepita.

Suo figlio Adamo, il marito di Sara, era un uomo sui cinquant'anni, nè bello nè brutto, di statura mediocre, magro, con una rada barbetta, che accentuava la sua somiglianza col fratello Benedetto. Ma Adamo non aveva altra intelligenza che per gli affari, e scarsissima coltura; il che non gli impediva di essere adorato dalla moglie e dai figliuoli.

Gigetta ebbe il suo posto in mezzo a loro; la trattavano come se fosse di famiglia, ammiravano il suo ingegno, la ascoltavano con piacere e spesso la signora Sara le domandava il suo parere circa agli studi dei ragazzi.

—E Davide non è tornato?—domandò il nonno.

—A momenti sarà qui—si affrettò a rispondere la mamma—è andato in casa Galli; non può tardare.

Nessuno replicò. Rachele aveva intanto coperto la tavola di un bel mantile ricamato, lavoro suo, e vi andava disponendo le tazze per il caffèlatte; uso pomeridiano assai diffuso nelle famiglie triestine. Gigetta non fece cerimonie e prese subito la sua tazza quando gliela offrirono. Un vassoio colmo di bei kiffeli al burro fu vuotato in un attimo; tutti avevano appetito, meno il nonno, che si contentò di bere il suo caffè.

—Molta gente al tempio?—domandò il maestro cortesemente. Lui non ci andava mai, ma voleva mostrare di interessarsi a ciò che stava a cuore alla sua famiglia.

—Molta—rispose Adamo.—C'erano…—e numerò parecchie famiglie ebree, rappresentate dai loro maschi alle funzioni del pomeriggio, alle quali le donne non sogliono partecipare.

—Castiglioni è guarito?

—Guaritissimo. C'era, naturalmente.

—Che Castiglioni? il professore?—domandò Gigetta.

—Sì, il rabbino maggiore.

—E' il mio professore di pedagogia e filosofia—disse Gigetta con compiacenza.

—E' molto bravo—disse il maestro Benedetto.

—Oh, bravissimo!—esclamò Gigetta con entusiasmo.— E' severo, ma io gli voglio più bene che a tutti.

—Lei non dice: peccato che sia un ebreo?—domandò sorridendo il vecchio Samuele.

—Io?—rispose Gigetta arrossendo.—E che mi importa che sia… israelita? Fosse anche pagàno, se è bravo!…

—Perchè ha paura di dire ebreo?—continuò pacatamente il vecchio—non è una brutta parola; è brutta solo in bocca di quelli che ci ingiuriano.

—Io non voglio che mi dicano ebreo—disse a un tratto Tobia con impeto.—Me lo dicono a scuola!

—Se lo dicono con intenzione di offenderti fanno male— disse il nonno.—Ma tu fai peggio a offendertene. Ti vergogni forse di essere ebreo? Nessuno deve vergognarsi della propria religione. Sei nato ebreo, i tuoi antichi erano tutti ebrei; io potrei dirti il nome di mio nonno, del mio bisnonno e piu in su. Vedi che se la nobiltà dipendesse dall'antichità della razza, tu saresti più nobile di chi sa quanti tuoi compagni, che forse ignorano persino chi era il padre del loro padre!

—Verissimo—approvò Gigetta.

—Oh, Tobia non si vergogna della sua famiglia!—disse la signora Sara teneramente—egli studierà, si farà onore, e farà onore a noi; è vero, còccolo?

—Tobia dovrebbe capire proprio questo—disse allora suo padre—che, ebrei o cristiani, siamo al mondo per lavorare; e chi lavora e vive onestamente è rispettato.

—Proprio—aggiunse ancora il vecchio.—Vedi me; io ho vissuto in tempi brutti, quando c'era ancora il ghetto, e noialtri ebrei eravamo tenuti come lebbrosi, e ci disprezzavano, ci dicevano: cani di ebrei. Eppure, guarda, io personalmente sono sempre stato rispettato dai cristiani. Non ebbi mai a dire con nessuno di loro; eppure si facevano affari insieme. C'era il conte Rauch, per esempio, che aveva in me una fiducia illimitata. Sono io che gli feci vendere tutta l'eredità dello zio; roba che valeva milioni; oggetti d'arte e gioielli che non si trovano. Ebbene, tutto io ho fatto, e lui è rimasto contentissimo e mi diede una buona senseria. Galantuomini bisogna essere!

—E avere voglia di lavorare, e imparare qualche cosa— aggiunse Adamo, guardando il figlio con severità.—Tu hai ingegno, e noi ti diamo i mezzi. Approfittane. Al giorno d'oggi, chi vuol essere rispettato, deve sapere. Non è più come una volta….

Il rimprovero paterno, che Tobia ascoltava in aria di rassegnazione forzata, venne interrotto dall'ingresso di Davide, che esclamò allegramente:

—Oh, che bella compagnia! Buongiorno, buongiorno a tutti! Siora Gigetta… e andò a prenderle la mano, che la giovinetta gli diede ridendo, e un po' rossa in viso.

Davide si sedette vicino a lei e reclamò la sua tazza di caffèlatte.

Davide era proprio un ragazzo simpatico, benchè non così bello come lo credeva sua madre. Di statura un poco al disopra della media, lineamenti irregolari, labbra vive, grandi occhi grigi e capelli biondoscuri, non aveva della sua razza altro che il naso leggermente aquilino. Somigliava alla madre della signora Sara, che era stata un tipo biondo, quasi rosso, bellissima donna.

—Ma che cosa vai a fare continuamente da quei Galli? —brontolò il signor Adamo.—Mi pare che almeno il sabato lo potresti passare con la tua famiglia.

—Lascia fare, Adamo—disse Benedetto con tono indulgente —Davide non lo fa nè per mancanza d'affetto nè per irriverenza. E' giovane; abituato a pensare con la sua testa; lasciatelo agire come pensa; del male non ne fa.

Davide e sua madre gli risposero con una occhiata di riconoscenza; ma il vecchio Samuele scosse il capo, malcontento.

—Ai tempi miei, i giovani—disse—sapevano che la loro testa non era abbastanza matura per pensare senza il consiglio dei vecchi, e perciò ascoltavano quello che i vecchi dicevano, e facevano quello che facevano i vecchi. E non se ne trovavano punto male, credetemi. Se abbiamo sopportato secoli di persecuzioni e di privazioni, senza sparire dalla faccia della terra, è appunto grazie a questa concordia, a questo santo rispetto per le tradizioni, che, del popolo più piccolo, più disperso e più tenace, hanno fatto il popolo più resistente, indistruttibile. Se noi fossimo stati simili a voi, da un pezzo Israele non sarebbe più.

A queste parole piene di amarezza seguì un silenzio riverente; ma poi il maestro riprese la parola, e disse con ferma dolcezza:

—Papà, la legge di conservazione, che è per gli individui come per le razze e per la specie, insegnò ai nostri padri quello che dovevano fare. Ora le forme della vita sono mutate. Che cosa occorre all'uomo altro che un po' di felicità? E dove si trova questa, fuorchè nel possesso del regno dello spirito in ciascuno di noi? Il cuore del nostro Davide è buono e generoso. Egli troverà la sua via, anche attraverso qualche errore.

Le parole di zio Benedetto suonarono quasi solenni. V'era nell'aria un silenzio commosso. La voce serena di Rachele, che offriva kiffeli e latte, ruppe quell'incantesimo, e il discorso, fattosi generale, prese una intonazione più disinvolta e una piega comune.

Il commissario di piazza, Luigi Furiani, era un uomo sui quarantacinque anni, buono, generalmente onesto, zelante, amatissimo della famiglia. Che egli accettasse di tanto in tanto un pollo, una coppia di piccioni, un cestello di verdura, da qualcuno dei venditori che tenevano banco sulla Piazza della legna, non voleva dire che il sior Luigi chiudesse un occhio sulle contravvenzioni gravi, in cui eventualmente incappavano i donatori. Appena sulle minuscole, che non facevano male a nessuno, come un banco fuor di posto o altre simili; ma per ciò che riguardava l'onestà nel peso e la bontà della merce, il signor commissario era rigorosissimo. Perciò godeva la stima generale. Aveva due invincibili antipatie: gli ebrei e gli sciavi. V'erano parecchi ebrei, che vendevano sulla piazza salami d'oca e quarti; gli sloveni, poi, o sciavi, si può dire che riempivano il mercato. Erano tutti contadini venuti da Servola, Barcola, Opcina, o da altri luoghi della campagna vicina, a portare in città latte, verdura, uova, polli, e da Servola il buon pane, le cosidette bighe, che le juzke, le villane col caratteristico grazioso costume, recavano a dorso d'asino. In certi giorni della settimana venivano pure dal Carso i Cicci, rudi tipi di montanari, carichi di fastelli di legna. Contro tutte queste razze malviste il commissario sfogava la sua antipatia, non con vere e proprie ingiustizie, ma con una severità meticolosa e persino eccessiva. I suoi superiori lo stimavano molto, e lo qualificavano come ottimo funzionario.

Come mai il signor Luigi, con quella sua avversione contro gli sciavi avesse sposato la siora Catina, che era precisamente figlia di sloveni, si spiega semplicemente con l'amore di cui era stato preso, quindici anni prima, per la signorina Krailich, che egli aveva conosciuto durante una gita a Miramar, sul battello. Allora Catina Krailich era una bellezzina fragile, con due occhi chiari carezzevoli, biondissima, bianca, rosea, vestita con l'eleganza delle ragazze triestine, che è piena di delicato buon gusto. Del resto, Catina chiacchierava vivamente nel più puro dialetto e non parlava slavo che con la madre, una vecchia signora, impettita e dura, la quale, pur essendo a Trieste da molti anni, non era mai riuscita a parlarne correntemente il linguaggio.

Quella suocera fu per qualche tempo un motivo di esitazione per l'innamoratissimo signor Luigi. Ma poi, quando ebbe la certezza che la vecchia signora Marietta non sarebbe venuta a abitare con gli sposi, allora si decise e fece la sua domanda.

Fu nel complesso un matrimonio abbastanza felice, nonostante che i due caratteri fossero completamente opposti. Il signor Luigi era piuttosto impulsivo, sanguigno; la siora Catina era sentimentale, dolcemente egoistica, sempre disposta a lagnarsi, caparbia sotto un'apparente soavità. Allora scoppiavano i brevi temporali familiari, nei quali il signor Luigi si sfogava a dare della sciava a sua moglie. Sciava era per lui sinonimo di testarda e sciocca. La signora, con la sua vocetta stridula, non gli risparmiava qualche titolo equipollente, e così la disputa si inacidiva, finchè il signor Luigi, sbuffando, afferrava il cappello e se ne andava pei fatti suoi.

I due figliuoli, Gigetta e Pepi, erano spesso cagione e soggetto di queste scene familiari, senza conseguenze. Gigetta era straordinariamente intelligente. Pareva che in lei si dimostrasse la teoria che afferma il prodotto di due razze diverse essere quasi sempre un'intelligenza eccezionale. Era un'anima squisita, ardente, sensibile e tenera; aveva una fantasia fervidissima, dominata da uno spirito pronto e acuto. Era la prima, a scuola; a tredici anni i suoi componimenti meravigliavano i professori; e scriveva pure versi, bellissimi, data la giovane età. Suo padre la adorava; sua madre l'avrebbe voluta più amante della casa e delle faccende; ma tutti due erano orgogliosi di lei; solo accadeva che ogni volta la fanciulla era sgridata da uno di loro, a torto o a ragione, l'altro prendeva le sue parti.

Quanto a Pepi, era un vivace e bel ragazzo di dieci anni, l'idolo di sua madre, alla quale somigliava. Era viziato quindi, troppo accarezzato e contentato, da lei; si trascinava a stento da una classe all'altra, lavorando poco, con la testa piena di sogni e di monellerie. Il padre sgridava e minacciava; la madre scusava e compativa… Tale era pei due fanciulli l'aurora della vita, l'anno 1903, a Trieste, città immediata dell'Impero Austro-Ungarico.

Era primavera inoltrata; il tempo si faceva ogni giorno più splendido e caldo; le colline intorno alla città si vestivano graziosamente di verde e laggiù il mare era abbagliante.

Uscendo dalla sua scuola, posta nel cuore della città vecchia, Gigetta prese la via che mena a San Giusto. Era una sua passeggiata favorita, in quelle calme ore pomeridiane. Le piaceva passare per quelle viuzze strette, dove sentiva palpitare il cuore della sua città, meglio che nei chiari eleganti quartieri nuovi. Si indugiava a osservare le oscure botteghe, gettava uno sguardo curioso per entro le porte aperte delle abitazioni a terreno, prestava orecchio al chiasso dei bambini', al chiacchierìo delle babe, delle donnicciuole, sedute sugli scalini degli usci a lavorare o allattare i piccoli. Seguiva con occhio curioso le gesta dei muli, ossia dei monelli triestini, così chiamati da tempo immemorabile, senza ombra di sarcasmo, anzi con una intonazione di carezza. Tutto interessava il suo spirito avido di vedere, di imparare.

Attraversò l'antico ghetto, pullulante di bambini, di mercantuzzi, di donne; pavesato continuamente di cenci appesi a ogni finestra, e su corde traversanti la strada. Il sudiciume, il brulichio, l'oscurità, erano in quel luogo forse poco diversi da quando esso era rigorosamente chiuso ogni notte, e tagliato fuori dal resto del mondo.

Gigetta vi passava e guardava ogni cosa, con una curiosità piena di simpatia. O fosse per spirito di contradizione a suo padre, o per l'ampiezza singolare della sua giovane coscienza, Gigetta non aveva alcuna avversione per gli ebrei; li studiava anzi con interesse, e difendeva la loro causa quando occorreva. A scuola aveva una cara amica, Perla Servadio, un'ebrea; per una sua maestra, pure ebrea, la signorina Coen, aveva sempre avuto moltissima affezione. E poi… non c'era Davide Levi, il più buono, il più intelligente ragazzo del mondo, per il quale Gigetta già sentiva una tenera amicizia, o forse qualche cosa di più?

Saliva, saliva ella, osservando e fantasticando; e sentiva infiniti pensieri agitarsi nella sua mente, colorirsi al fuoco della imaginazione. Ah, quando sarà capace di raccoglierli tutti, di dare corpo e anima a quei fantasmi, creando un libro, un bel libro, un'opera come non era stata scritta mai! L'esaltazione la rendeva gaia e leggera. Montò a passi rapidi la via alberata, in salita, che conduce su, allo spiazzale di San Giusto.

Entrò un momento in chiesa, non soltanto per pregare, ma per respirare una boccata di quell'atmosfera antica e nobile, densa di tante memorie, satura di fantasmi secolari. San Giusto! nome caro, palladio d'italianità, monumento sacro, che attesta le origini antiche di Tergeste… Gigetta lo amava per questo. E poi, quella penombra cheta, quei vetri istoriati, quei mosaici, nella chiesa solitaria, le elevavano l'anima a una sublimità, che non sapeva vestire di parole. Tornando indietro, sullo spiazzale, si imbattè in Davide Levi.

Fu uno stupore reciproco, una gioia. Ciascuno vide il rossore dell'altro. Gigetta si rimise la prima:

—Oh, che fa lei qui?

—Lei piuttosto—rispose egli subito, ridendo.

—Ho fatto una passeggiatina sin quassù…

—Ci viene spesso?

—… Spesso.

—E poi si va a casa tardi; e papà e mamma sgridano!— ammonì lui, scherzoso.

—No, no; mamma lo sa che mi piace fare un piccolo giro dopo scuola…

—Oh, allora si fa una cosa—disse Davide—andiamo a appoggiarci laggiù al parapetto. Vede che bel mare! Venga, facciamo due chiacchiere.

Qualche vecchio vi stava seduto o appoggiato; i due ragazzi si posero nel punto in cui non c'era nessuno, e appoggiarono i gomiti, vicini, sul parapetto. La città si adagiava nel fondo; si spingeva, petulante, fino al mare, si arrampicava gioiosa per le colline.

—Che bella vista! quante navi!—disse Gigetta. Non udendo risposta si volse a guardarlo. I loro occhi si incontrarono.

—Io guardavo lei—rispose Davide.

—Me? oh, per carità! non mi piace essere guardata. Lo so che son brutta.

—No—rispose Davide—dall'anno scorso mi pare diventata bella, anzi.

—No no—disse ella con convinzione—sarò sempre brutta. Sua sorella sì che è bella. Oh, Bianca sì! Vorrei essere bella come lei.

—Perchè?—disse lui con indifferenza.—Sta bene così. Non mi piacciono le donne belle belle.

—Perchè?

—Perchè generalmente sono stupide. E lei non è stupida. Oh no!

Risero come bambini.

—Ma noi—disse a un tratto Davide—una volta ci davamo del tu. Perchè ora non ci diamo più del tu?

—Oh, per me!… mi piace anzi di più!—disse lei.

—Proviamo se sono capace. Ti ricordi quando ti regalavo le cartoline illustrate, vecchie, si intende, e che tu ritagliavi le figure? Ecco che posso darti del tu. Vedi? E io penso che tutta la gente dovrebbe darsi del tu. Non è ridicolo dire lei a una persona presente?

—E' vero!—e risero ancora.

—Ora che comincio a vedere la vita, e a comprenderla, —disse poi serio il giovane—ogni giorno vado scoprendo tante cose poco naturali, o ridicole, o cattive addirittura, che tutti facciamo o diciamo. Non lo pensi anche tu che noi viviamo in maniera troppo lontana dalla natura? troppo artificiosa?

Lei lo guardò in tono interrogativo.

—Oh, tante cose!—continuò il giovane.—Dì, non hai mai pensato tu a tanto male che c'è nel mondo? a tante ingiustizie? a tanti dolori? a tanti errori? Non credi che tutta la gente che vive avrebbe diritto a essere felice?

—Certo sarebbe una bella cosa—rispose la fanciulla, fissandolo con ammirazione e stupore—ma temo che sarà sempre così, perchè così è sempre stato.

—E' la risposta che fanno tutti—replicò il giovane sempre più infervorato.—Ma non è giusta. Tante cose nei secoli si sono mutate; la coscienza dell'uomo civile oggi è ben diversa da quella ch'era mille anni fa. Esiste il meglio, e quindi deve esistere il bene assoluto. E' lontano, lo capisco, ma c'è. Dunque, noi dobbiamo tendere verso di esso con tutte le nostre forze. Noi non lo raggiungeremo certo, ma anche se facciamo fare all'umanità un piccolo passo avanti, sarà sempre un vantaggio. E questo è dovere di tutti gli intelligenti, sappilo.

—E come vorresti fare?—domandò lei, trascinata da quella ardente parola.

—Oh, ci sarà tanto da fare! Ce n'è per tutti. Naturalmente è necessario ch'io compia i miei studi. Allora sarò un uomo. E mi dedicherò tutto alla ricerca e all'attuazione di questo Meglio, che farà cessare qualche dolore, che riparerà qualche torto. Lavorerò, scriverò, darò il mio denaro… fin che ne avrò; e poi, non sarò solo. Sai, il mio amico Galli, Alvise Galli, mio compagno di scuola, e anche mio compagno di idee, direi meglio fratello, la pensa come me, sente, come me. Egli si darà alla medecina; è una buona cosa. C'è tanto da fare anche in quel campo! E se riesco a convincere anche mio fratello, Giosuè, e impegnarlo per la nostra causa, oh, allora!… Perchè, sai, Giosuè è una forza, Giosuè è un genio poderoso; e io lo sento, egli lo metterà al servizio dell'umamità, e non del denaro!

—Ma Alvise Galli è ricco? Non è figlio di una vedova? come farà a studiare tanto?—domandò Gigetta.

—Galli è povero, poverissimo—disse Davide—ma il barone Rosenwald provvede ai suoi studî. Oh, egli non si vergogna di dirlo! Suo padre era il custode del palazzo Rosenwald, e faceva già studiare il ragazzo, che ha moltissimo ingegno, quando morì quasi improvvisamente. Il barone allora assegnò una pensione alla vedova, e promise di provvedere a tutte le spese per gli studî del figliuolo, fin dove questi volesse arrivare! Non è generosità, questa?

—Rosenwald è… come voialtri… israelita?

—Sì, è ebreo, e ricchissimo. Essere troppo ricchi è certamente un torto, ma lo si può perdonare a chi fa largo uso delle proprie ricchezze in favore degli altri.

—Oh, un torto, poi!—esclamò ridendo Gigetta—a me piacerebbe essere immensamente ricca; prima di tutto perchè farei come dici tu; aiuterei tutti, tutti quelli che soffrono. E poi, pensa; potrei viaggiare, vedere tutte le belle cose che ci devono essere nel mondo; e possedere libri inquantità, e quadri, e statue, e giardini… Ah, Davide! anche questa è una felicità!

Egli scosse il capo.

—Dico che essere troppo ricchi è un torto… prima, perchè una grande ricchezza non può essere stata acquistata con onesto lavoro. Infatti, il padre del barone era un usuraio, e ha accumulato così i suoi milioni. E il figlio ha ereditato quell'immenso patrimonio, dunque, non ha lavorato per guadagnarlo. E pensi tu che sia giusto che uno nasca ricco? Perchè? quali meriti ha un bambino per essere milionario, mentre infiniti altri bambini muoiono di fame? Ecco, vedi, uno dei torti sociali! Nessuno dovrebbe poter lasciare in eredità un patrimonio troppo vasto. Le leggi dovrebbero fissare un limite; così la ricchezza eccedente andrebbe, per mezzo dello Stato, a espandersi su coloro che hanno troppo poco; e l'equilibrio economico verrebbe a stabilirsi gradatamente.

Gigetta era troppo giovane per giudicare se queste fossero solo belle utopie, o idee possibili a effettuarsi un giorno. Ma le piaceva udire quelle generose parole, e mirare il viso di Davide singolarmente animato, i gesti delle mani, che accompagnavano e sottolineavano la sua eloquenza. Le frequenti discussioni tra giovani, i comizî, le conferenze scolastiche, avevano dato a Davide non solo facilità di parola, ma anche l'abitudine della perorazione, e il caratteristico gestire degli oratori popolari.

Pure, la fantasiosa artistica natura di Gigetta prese il sopravvento. Ella tornava a fissare il mare scintillante, che si andava tutto coprendo di luci rosee. E i navigli nel porto si accendevano in colori smaglianti; le iridescenze delle acque e del cielo danzavano come animule ebre di vita.

—Come'è bello! Oh, essere laggiù, lontano… non so! in un paese incantato. Perchè noi non abbiamo le ali, come la nostra anima, che vola dappertutto?

—Che bambina sei!—disse Davide con an leggero tono di compatimento.—Sei un'artista tu; diventerai forse una grande scrittrice. Ebbene! tu rivestirai d'una forma smagliante idee generose, e così saranno bene accolte nel mondo. Anche un'opera d'arte può avere un grande valore sociologico e morale; spesso è per mezzo della fantasia che si giunge a parlare al cuore e alla ragione; e un bel libro, che faccia pensare e commuova, può essere assai più utile di un arido trattato.

—Oh sì! oh, mi piacerebbe diventare una scrittrice— esclamò Gigetta.

—A ciascuno la sua strada—sentenziò Davide.

—Come sei serio, oggi—rise Gigetta.—Sto pensando a chi somigli… non so… Ah, ecco! solo se avessi la barba, somiglieresti tutto a un Gesù, che ho io nella mia camera.

Egli sorrise.

—Anche Gesù era un ebreo—disse.—Forse noi l'abbiamo nel sangue, l'apostolato. O forse, l'abitudine del soffrire, tanti secoli di persecuzioni, di ingiustizie, hanno dato alla nostra razza una sensibilità particolare. Ma tu hai ragione, sai? Io sento in me qualche cosa del Cristo… una smania di sacrificarmi per gli altri, di non vivere per me… Così io non prenderò mai moglie… come il Cristo, e come lui sarò forse crocifisso…

—Che idee!—disse Gigetta, provando a un tratto nel fondo del cuore un dolore sordo, indistinto. Poi, con voce lievemente alterata:—E perchè non prenderai mai moglie?

—Perchè sarei un pessimo marito. Chi si dedica corpo e anima a un'idea, deve rinunciare al matrimonio, che porta con sè una folla di piccoli doveri imperiosi, i quali allontanano dal grande dovere. Ah, se mai volessi prendere moglie… prenderei te, Gigetta!… a meno che tu non mi volessi.

Egli sorrideva, e lei non capiva se dicesse sul serio, ma era tornata lieta; e scotendo il capo con civetteria lo guardò teneramente.

—Invece, sai ciò che andrebbe bene?—continuò lui seriamente,—che tu sposassi mio fratello Giosuè. Ah sì! tu sei la moglie che occorrerebbe a un uomo di genio!

—Oh, caro mio!—rispose lei tra ridente e indispettita, —prima di tutto, bisognerebbe vedere se tuo fratello mi vorrebbe; e poi… se non mi vuoi sposare tu, lascia che ci pensi io a trovarmi un marito.

Si staccò dal parapetto, e disse: «E' tardi». Egli la seguì in silenzio. Per la strada parlarono di cose indifferenti, ma Davide sentiva che lei gli teneva il broncio. Quando furono poco distanti da casa, si separarono; egli disse che doveva ancora, prima di cena, vedere un amico; ma il fatto è che tutti due sentivano la convenienza di non farsi vedere insieme. Eppure, non avevano fatto nè detto nulla di male.

Entrando nel portone, Gigetta si felicitò di questa decisione, perchè vide il signor Adamo Levi, fermo a parlare con uno dei figliuoli del portinaio. Il ragazzetto aveva un viso rosso e supplichevole; il signor Adamo scoteva il capo; ma d'improvviso tolse qualcosa dalla tasca del panciotto e la mise nella mano del fanciullo. Poi si allontanò frettoloso, senza voltarsi e senza riconoscere Gigetta.

Carletto, il figlio del portinaio, la salutò con faccia ilare e scomparve nella sua abitazione.

Gigetta capì che egli aveva chiesto dei denari al signor Levi, e le tornarono in mente le parole di Davide sulle ingiustizie e sui dolori della gente. Quei portinai, marito e moglie, erano estremamente poveri, benchè lavorassero da sarti. Avevano parecchi figliuoli, ancora piccoli, perchè Nani, la donna, era giovane. La miseria in parte se la meritavano; Toni, il sarto, era un ubriacone, che prendeva una sbornia solenne almeno ogni quindici giorni. Ma anche il lavoro era così scarso, e mal pagato, e i figliuoli erano tanti e non guadagnavano nulla; e tutti insieme vivevano in una unica stanza, che serviva da camera da letto e da cucina! Gigetta si sentì stringere il cuore a pensarci, e benedisse tra sè il buon signor Adamo, che aveva certo dato un soccorso a quei poveretti.

—Almeno per stasera mangiano—pensò, e salì le scale in fretta, più contenta. Altri passi si sentivano più in su, poi ella riconobbe le voci: Bianca, la sorellina di Davide, e Pepi.

Ridevano forte.

—Olà! dove siete stati?—gridò Gigetta, dal fondo.

—A giocare, giù in cortile!—rispose Bianca. Pepi si mostrò seccato della presenza della sorella.

—Sempre giocare!—ammonì Gigetta—e il lavoro di scuola, scommetto, non l'hai fatto.

Pepi rispose con una spallucciata; ma erano giunti al terzo piano, dove abitavano i Furiani, e Bianca li lasciò.

—Vieni giù demani!—le gridò dietro Pepi. E la bimba gli mandò una risata, gentile come un gorgheggio.

—Addio, Capriccio!—le gridò Gigetta.

Appena in casa furono accolti da una sgridata della mamma. Così tardi! Pepi aveva ancora da prepararsi per la scuola, e Gigetta poi, che la avrebbe dovuta aiutare, come fanno tutte le ragazze alla sua età, a spasso, chi sa dove; e non c'era verso di tenerla in casa! Gigetta non rispose nulla a quei giusti rimproveri, preparò la tavola, si diede da fare in cucina, ma il suo pensiero era altrove. Ella vedeva sempre il bel viso animato di Davide, e ne udiva le parole vibranti.

Durante la cena il signor Luigi raccontò di avere letto sopra un giornale che in un villaggio d'Ungheria i contadini avevano quasi massacrato il rabbino, incolpandolo di avere ucciso un bambino cristiano, per adoperarne il sangue negli abbominevoli riti pasquali.

—Oh, che orrore!—esclamò la sensibile signora Catina.

—Ma non puè essere! ma io non lo credo!—gridò Gigetta con indignazione.

—Già, tu proteggi sempre gli ebrei—mormorò sua madre.

—E perchè non dovrei proteggerli!—replicò Gigetta infervorata.—Tutti gli ebrei che conosciamo non sono forse gente buona, gente onesta?

—Anche i Milano?—domandò ironicamente il signor Luigi.

I Milano, padre e figli, che abitavano sul davanti, nella medesima casa dei Furiani, erano notissimi strozzini.

—Forse che delle canaglie non ce ne sono dappertutto? —rispose Gigetta.—Non ci sono degli usurai anche tra i cristiani?

—Ma tra gli ebrei, in proporzione, ce ne sono di più.

—Sarà—rispose Gigetta.—Ma io so che gli ebrei sono stati costretti a esercitare il commercio e a trafficare col denaro, perchè, fino a pochi anni fa, erano impediti a prendere parte alla vita comune, e non potevano perciò darsi a altro genere di lavoro. Dunque, si è radicata in loro l'abitudine di trafficare… Ma io vedo che quando si tratta di qualche opera di carità, sempre gli ebrei sono in prima riga!

—Dovresti far l'avvocato—disse Pepi. Ma suo padre, benchè non condividesse quei sentimenti, ammirava l'ingegno della sua giovane figliuola.

—Vedi, papà—continuava lei, come se qualcuno le dettasse internamente le parole (era ancora la voce di Davide in lei!)—in questa casa non abitano quattro famiglie ebree? I Levi…, e mi pare, che sono buoni, onesti, generosi, intelligenti più di tanti cristiani che conosco…

—Sì… sì, i Levi—mormorò il signor Luigi,—ma sono sempre ebrei.

—Lasciamo i Milano, ma i Kohn, non sono brave persone?

—Sì, con quel figliuolo scemo—disse la siora Catina.

—E' una disgrazia, poveretti—replicò Gigetta.—Ma quante cure hanno per lui! come sono tutti d'accordo in quella casa! E poi ci sono gli Israel, che conosciamo poco, perchè stanno sul davanti, sono ricchi, fanno vita elegante. Ma non ho mai sentito dir male di loro.

—Il fatto si è che ce n'è troppi—disse il signor Luigi.

—Ce n'è molti qui a Trieste, come in tutte le grandi città, dove si fa molto commercio,—ribattè Gigetta—ma io non capisco perchè dobbiamo preoccuparci se uno sia ebreo o no. Che ce ne importa?

—Si diceva così, per la razza—insistè il signor Luigi, che non cedeva su quel punto.—E' inutile, sono al tutto differenti da voi. Vedi pure di che cosa li accusano!

—Ma è una atrocità! E io dico che non ci credo, e non ci credo! Sono calunnie, sono pretesti per perseguitarli!

—E' certo che dei misteri ce ne sono in quella loro pasqua—replicò il signor Luigi.

—Che misteri? Non ci sono misteri. Scusa, da quanti anni conosciamo i Levi? E anche nella settimana di pasqua, non sono sempre andata in casa loro? Quante volte ho mangiato il loro pane? ne ho portato anche a casa.

—Ah, io non l'ho assaggiato certo!—gridò la signora Catina.

—E' pane di schietta farina—disse Gigetta.—Ma dicevo, che io di misteri non ne ho mai visti. Hanno certi atti di culto come noi, come tutti quelli che praticano una religione. Io ero troppo piccola per interessarmi, per capire. Ma voglio informarmi, voglio domandare… e sono sicura che non c'è neppure l'ombra del male.

—A chi vuoi domandare?

—Al maestro Benedetto—rispose Gigetta arrossendo. Un altro nome le era venuto alle labbra…

Sulla fine di quell'anno tornò da Vienna il primogenito della famiglia Levi, il dottor Giosuè. L'aspettativa era grandissima; amici, parenti, tutti si informavano animatamente del giovane dottore, che oramai doveva esercitare la sua professione a Trieste, dove già l'aveva preceduto la fama. La famiglia era come pazza di gioia; la signora Sara non aveva tempo di asciugarsi le continue lagrime di tenerezza; il signor Adamo nascondeva la sua commozione soffiandosi ogni momento il naso; i ragazzi, cominciando da Davide, che pure era già un giovinotto, sgambettavano, canticchiavano, non potevano frenare la loro gioiosa impazienza; persino il bastone di zio Benedetto pestava il pavimento a colpetti giocondi; solo il venerando nonno pareva calmo, ma le sue labbra mormoravano spesso: «Schem boruch hou, (colui il cui nome sia lodato) lo protegga!».

Il dottor Giosuè non aveva che venticinque anni, ma ne mostrava dieci di più. Piuttosto piccolo, asciutto e magro, con la faccia completamente rasa, i capelli più grigi che neri, lo sguardo dolce e assorto, dietro gli occhiali cerchiati d'oro, vestito di scuro, con una serietà non priva di eleganza, era una figura che imponeva subito rispetto, e eccitava interesse e fiducia. Gli otto anni passati a Vienna avevano dato al suo parlare un forte accento tedesco, che aggiungeva un carattere di singolarità alla sua non comune apparenza. Quando Gigetta lo vide, si sentì invadere da una commozione profonda. La sua fantasiosa anima adolescente mise le ali, per sollevarsi sino a quel piccolo grande uomo, che le pareva come cinto da una aureola.

Ella era andata dai Levi subito, appena aveva saputo dell'arrivo. E lui, il dottor Giosuè, l'aveva riconosciuta immediatamente.

—Ma questa è… tu sei… oh, scusi, signorina! lei è la Gigetta? Così grande! più grande di me. Quanti anni ha dunque?

—Quattordici—disse Gigetta, vergognandosi di averne così pochi.

—Oh, si direbbe di più! S'è fatta grande, s'è fatta grande… Eh! sono anni che non ci vediamo!

Gigetta non stava in sè dalla gioia. Già pregustava il piacere di vedere il grand'uomo tutti i giorni, perchè egli sarebbe venuto a abitare nella medesima casa, sul davanti (che era la parte più aristocratica) dove già suo padre aveva appigionato per lui un appartamento; ma i pasti li avrebbe presi insieme con la sua famiglia, almeno quando fosse stato libero. A un tratto Gigetta incontrò lo sguardo di Davide fisso su di lei. Ella si sentì arrossire, come fosse colpevole. Ma l'espressione del viso del giovinetto era di beatitudine, di orgoglio sodisfatto. Pareva le domandasse: Vedi se avevo ragione?

Poche sere dopo, la famiglia Levi volle festeggiare il ritorno del caro figlio, invitando parenti e amici. Anche i Furiani vennero, benchè la signora Catina brontolasse contro la tribù, e dichiarasse che non avrebbe accettato neppure un dolce. Ma non erano tutti ebrei, come ella pensava. C'erano tre o quattro dottori, cristiani, e con un bel nome, venuti volentieri a salutare il bravo collega alunno del famoso Herrlich; v'erano alcune signorine, già compagne di scuola di Rachele e qualche loro parente, tutti di buone famiglie cristiane; Alvise Galli, l'amico di Davide, alcuni vicini di casa, tra i quali i coniugi Dillyani, che erano greci. A tutta questa gente e a numerosi parenti e amici correligionari, la famiglia Levi faceva la più festosa accoglienza, e la stessa signora Catina dovette riconoscere che la cordialità non era però disgiunta dalle maniere in uso nella buona società borghese. Per l'occasione, la casa era stata ripulita da cima a fondo, e sbarazzata dai mobili inutili; c'era da sedere per tutti; i ragazzi potevano stare in una stanza preparata per loro; i grandi avevano a disposizione, oltre la vasta sala da pranzo, altre due camere attigue, tutte bene illuminate, in cui i letti erano stati mascherati da bei paramenti. E Rachele e le sue amiche passavano spesso tra gli ospiti, offrendo abbondanti dolci e rinfreschi, e l'umore era ottimo, l'allegria schietta; ognuno si trovava a suo agio, si formavano e scioglievano gruppi; chi scherzava, chi discuteva con interesse; insomma, benchè tutta la festa consistesse in mangiare, bere, ridere e chiacchierare, senza nemmeno un briciolo di musica (anche per la ragione che in casa Levi nessuno suonava) si vedeva benisimo che tutti ci stavano volentieri e si divertivano.

A un tratto la signora Sara sparì verso la cucina, e Gigetta che l'aveva seguita, per dar un'occhiata a Pepi, la vide che metteva roba in un canestro, e udì che diceva a Tobia:

—Va giù dai portinai, Tobia, porta questi dolci e questa bottiglia…, bada di non lasciarla cadere…, dì alla Nani che stiano un poco allegri anche loro.

—Oh! non può andar Lia?—brontolò il bambino, che non voleva lasciare la compagnia.

—Lo vedi bene che Lia ha tanto da fare; sii un ragazzo ubbidiente!

—E non si possono portare dopo? adesso stavamo giocando!…

—Dopo è tardi. I bambini della Nani saranno già a letto. Perchè vuoi privarli del piacere di mangiare un po' di dolci stasera? Sono anche essi bambini come sei tu.

Tobia, scontento, prese il canestro, e allora due o tre altri bambini, ch'erano lì a giocare, si offrirono di andare con lui, tanto per fare un po' di chiasso per le scale…

—No,—disse la signora Sara,—non sta bene. Pare che andiate tutti insieme per vantarvi di portare qualcosa… La carità non va fatta con tanto fracasso; Tobia ci deve andar solo.

Gigetta pensò:—Non è curioso che questa donna ebrea dica come dice il Vangelo? La tua mano sinistra non sappia quello che fa la destra!

Vide Pepi e Bianca seduti sulla medesima sedia, che si tenevano a braccetto e ridevano fra loro. La simpatia fra quei due ragazzi cresceva ogni giorno, e trovavano sempre cento pretesti per essere insieme; del resto? che c'era di male? l'una aveva dieci anni, l'altro undici; due bimbi, proprio. Eppure Gigetta li guardò seriamente e divenne pensierosa. In quella fanciulla c'erano, talvolta, come sùbite divinazioni…

Tornata in sala andò a sedere tra i grandi, col gusto di osservare e di udire, così vivo in lei. I dottori avevano formato un gruppo intorno a Giosuè, e naturalmente erano caduti a parlare di medicina. Ma quando lui apriva la bocca, lo ascoltavano in religioso silenzio. E lei ammirava quel giovane che pareva vecchio, quel suo parlare calmo, che doveva esserè l'espressione di pensieri profondi. Che peccato che ella non capisse quelle cose troppo difficili, per quanto tendesse l'arco dell'intelletto! Ma poi intese che uno di loro nominò le malattie nervose, e pareva che il dottor Giosuè avesse trovato un certo siero, che si iniettava nel midollo spinale, e provocava certe reazioni, dette con parole scientifiche e ignote a lei.

—Sarebbe una scoperta meravigliosa!—esclamò uno di quei dottori, e tutti guardarono con profondo rispetto Giosuè. Gigetta toccava quasi all'esaltazione, quando udì al suo orecchio la voce di Davide:

—Senti chi è mio fratello? Oh, egli farà cose grandi!— La giovinetta accennò di sì, col viso raggiante, ma incontrando lo sguardo di Davide si fece pensosa. C'era nel suo cuore, o forse nella fantasia, come un conflitto; sentiva per Davide un'amicizia fatta di tenerezza, per Giosuè una specie di venerazione romantica. Ecco, ora ella tendeva ancora l'orecchio a ciò che egli diceva…

—Tutti sanno che, se le malattie nervose sono abbastanza frequenti nella nostra razza, ciò è dovuto principalmente alla sua antichità, e alla frequenza di matrimoni fra consanguinei. Ma fortunatamente noi siamo quasi immuni da altre mallattie; la tisi tubercolare è rara, l'alcoolismo è, si può dire, sconosciuto; anche le infezioni, celtiche sono scarse, perchè noi siamo generalmente casti,—continuava il dottor Giosuè, senza badare che una fanciulla lo ascoltava.—Da noi i matrimoni si fanno presto; molte volte il giovane va al talamo vergine come sua moglie. E la fedeltà coniugale è mantenuta quasi sempre. Perciò le malattie nervose difficilmente prendono tra di noi molta gravità. Il mio sistema di cura…— e tornò a usare parole che Gigetta non capiva.

—Ah!—disse Alvise Galli, che s'era accostato al suo amico Davide,—ecco proprio lo studio al quale voglio unicamente dedicarmi; la pazzia, e il modo di curarla.

—A proposito di pazzi,—rispose Davide,—ho saputo che il povero Samuele Kohn è stato oggi chiuso in una casa di salute. Te lo ricordi, Kohn, che era stato nostro compagno al ginnasio?

—Oh, quanto mi fa pena!—mormorò Gigetta.

—Chi sa sua madre!

—Sì, poveretta,—disse Davide.—Andremo un giorno a trovarlo, Alvise.

—Ah, io non metterei piede in un manicomio!… mi farebbe troppa pena,—disse la fanciulla.

—Non è spettacolo per signorine,—disse Alvise ridendo; —ma io invece voglio vedere come è fatto un luogo, dove si raccoglie tanta miseria umana. E, se avrò ingegno e denari, un giorno!… So io quel che farò.

—Che cosa farà?—chiese Gigetta.

—Costruirò una casa di salute per i poveri… ma con sistemi tutti moderni… So io, so io. Ma mi occorreranno molti denari.

—Il barone Rosenwald te li darà,—disse, metà scherzando, Davide.

—Chi sa!—rispose serio Alvise.

Un movimento si era fatto nei vari gruppi. Giosuè si era avvicinato al nonno, che sedeva con aria patriarcale nella sua poltrona, fra due o tre altri vecchi israeliti. Quando il signor Samuele vide il nipote, lo guardò con volto trasfigurato di gioia, e disse:

—Il Signore ha voluto darmi consolazione nei miei vecchi giorni,—e alzò le due mani.

E allora Giosuè chinò il capo fin quasi sulle ginocchia dell'avo, e questi, imponendogli le mani, mormorò una benedizione. Quindi Giosuè prese una sedia e sedette presso quei vecchi, intrattenendoli con fare cortese e rispettoso.

—Questo mi piace,—mormorò il signor Furiani a sua moglie,—uno dei nostri ragazzi, che avesse studiato tanto come lui, chi sa che arie si darebbe, e lascierebbe in un canto il vecchio nonno! Invece, guardalo, pare un bambino, davanti a lui.—Poi, vedendo la signora Sara avvicinarsi, le fece dei complimenti su quel suo figliuolo.

Ella ringraziò, senza falsa modestia. Ma, vedendo che la signora Catina faceva quel suo viso acidulo, come di chi non sente volentieri lodare gli altri, disse gentilmente:

—Ma come è allegro stasera il suo Pepi, signora commissaria! Ah, è proprio un ragazzo molto bello e simpatico!

—E' robusto,—rispose la commissaria, lusingata.

—E intelligente,—aggiunse la signora,—chi sa che bella carriera farà anche lui!

—Eh! Pepi non ha mica tanta voglia di studiare!— disse il signor Luigi,—piuttosto Gigetta; quella sì!

—Ma è ancora tanto bambino!—rispose la signora Sara, guadagnandosi così il cuore della siora Catina, che non voleva sentir dire male del suo prediletto.

A un tratto il dolce e raggiante viso della signora Sara si velò di un' ombra di scontento. Ella aveva udito la voce di Davide pronunciare un nome, che avrebbe potuto turbare la simpatica armonia della serata, un nome pericoloso, come una nuvola densa di uragano:

—Chi potrebbe affermare che Dreyfus?…

Ah, sempre quell'eterna questione! Alla padrona di casa dispiaceva che si mettesse sul terreno quel tema, in presenza di ospiti cristiani, che potevano forse pensare diversamente da loro. Seguì, infatti, un'incrociarsi di voci; ma tutte esprimevano la più viva simpatia per il riabilitato martire dell'Isola del Diavolo. Poi, su tutte le altre, si alzò la voce ascoltata del maestro Benedetto:

—Il lungo martirio di Dreyfus ebbe tuttavia una conseguenza assai buona per la causa della giustizia. Ha sanato pregiudizi, ha scaldato cuori indifferenti; nello scatenarsi delle passioni, si sono pure accese nobili discussioni e sentimenti generosi. Dreyfus è stato il nostro cireneo; esso ha portato la croce per il popolo ebreo, ma invece di condurlo al calvario, lo ha menato sopra una cima illuminata di luce simpatica. La causa degli ebrei, oso dire, ha fatto un gran passo avanti nella pubblica opinione col processo Dreyfus, e con essa la causa della umanità.

Il discorso continuò per qualche tempo pacato su questo argomento, ma siccome nessuno contradiceva, esso si esaurì presto. Il signor Dillyani, un ricco negoziante, di religione greco-scismatica (mentre sua moglie era cattolica), disse a mo' di conclusione:

—Al giorno d'oggi non dovrebbero più esserci antipatie religiose, in nessun luogo.

—Io dico,—aggiunse arditamente Alvise Galli,—che non dovrebbero più esserci religioni… al di fuori di quella della umanità.

Ebrei e cristiani, specialmente le donne, fecero un viso scandalezzato.

—Giovani, giovani…—mormorò il vecchio Samuele,— i giovani sono sempre eccessivi. Le religioni esisteranno, sin che esiste l'umanità. E ognuno farà bene di rispettare quelle degli altri, e di attenersi alla sua… che è la vera.

—Come, come!—ribattè un giovane ridendo,—tutte allora saranno vere?

—Certamente; la sua è sempre la vera per chi la professa sinceramente,—disse serio il vecchio.—Non vi racconto la storia dei tre anelli, perchè già la sapete.

—No, no, noi non la sappiamo,—esclamarono le voci più giovanili. Ma anche coloro che l'avevano già letta, quella storia, o udita raccontare chi sa quante volte, dal vecchio stesso, insistettero per udirla, in segno di rispetto per l'avo. I ragazzi era usciti da un pezzo dal confine della cucina, e ascoltavano curiosi.

—Oh, ben!—cominciò lui, volgendosi particolarmente a loro, con quel suo spiccato trascinato accento veneto, e in tono di chi racconta una fiaba,—c'era dunque, dovete sapere, un gran signore, che possedeva un anello di brillanti di un valore immenso. Questo anello era sempre stato nella sua famiglia, di padre in figlio; e l'aveva sempre posseduto il primogenito, perchè, vedete, l'anello, oltre a avere tanto valore, possedeva pure certe virtù magiche, e rendeva felice in questa vita e nell'altra il suo possessore. Mi capite? Ma dovete sapere che questo gran signore aveva pure tre figliuoli, tutti tre buoni e belli, e il padre li adorava. Ma nessuno era il suo prediletto, egli voleva lo stesso bene a tutti tre. Intanto egli pensava che un giorno o l'altro sarebbe venuto a morire. E a chi lasciare l'anello? Al primogenito? Ma anche gli altri due lo meritavano, e il padre non voleva lasciarli scontenti. A forza di pensare, sapete che fece? Chiamò in segreto un bravo orefice, e senza badare a spese gli fece fare altri due anelli, precisi come quel primo. Ah, erano così ben fatti, che nessuno poteva distinguere l'anello autentico dagli altri! E quando egli fu per morire, chiamò a uno a uno i suoi figliuoli, e a ciascuno diede un anello, e gli disse: «Ti dò la mia benedizione, tu sei il mio figliuolo più caro». E quando fu morto il padre, ognuno dei figliuoli mostrò il proprio anello, e si vantava di avere il talismano della felicità in questa vita e nell'altra. Ma chi sa quale dei tre ce l'aveva? Così vedete è stato delle religioni. Dio il Signore, che il suo nome sia sempre lodato, ha dato agli uomini tre religioni principali: la giudaica, la cristiana, la mussulmana. Una di esse è certamente la vera. E ognuno crede che sia la sua. Chi dunque possiede l'anello autentico?

I ragazzi risero. Il commissario Furiani, che era stato a udire anche lui, disse:

—Allora, signor Samuele, tutte le religioni sono ugualmente buone? E nessuno sarà sicuro che la sua sia proprio la vera?

—La mia è la vera certamente,—rispose il vecchio con un sorriso.

La storiella non era spiaciuta al signor Luigi, che non possedeva abbastanza studi letterari per conoscerla. Egli si fece un'idea migliore del vecchio Samuele, e pensò che poteva avere ragione: ciascuno di noi crede che le proprie convinzioni siano le giuste, e di solito non ha nessuna tolleranza per quelle degli altri. Da qui partono tutti i malintesi fra gli uomini, e nascono gli odî e le discordie. Cercò con gli occhi sua figlia, come per comunicarle queste sue impressioni, ma la vide tutta intenta a parlare con Davide.

—Come se la intendono bene quei due! Peccato che lui sia ebreo!—pensò il commissario, dimenticando subito le idee liberali di un momento prima.

Ma il soggetto del discorso fra Gigetta e il giovane era innocentissimo. Gigetta aveva notato con meraviglia che durante tutta la sera Rachele era accostata e seguita da un signore, evidentemente un ebreo, non giovane, non bello, neppure ben vestito. Costui le parlava spesso piano, la guardava con insistenza, si comportava, insomma, come uno che fa la sua corte. E ciò che stupiva maggiormente Gigetta era che Rachele non mostrava affatto di sgradire quei corteggiamenti. Ella parlava cortesemente al brutto uomo, gli sorrideva, tornava spesso a lui col vassoio pieno di dolci e di rosolio, lo serviva con le sue proprie mani, e qualche volta arrossiva alle parole, che egli le rivolgeva in tono basso e confidenziale. Finalmente Gigetta volle sodisfare la sua curiosità, e raggiunse Davide nel vano di una finestra.

—Come mai quel signore così antipatico… come si chiama? quello che è vicino a Rachele, insomma…

—Il signor Modigliana.

—Sì, ebbene, come mai egli fa la corte a Rachele? Davide rise.

—Credi che le faccia la corte?

—Eh, lo vedrebbe un cieco! e quello che mi fa meraviglia, è che Rachele mostra di accettarla. Dio mio! non vorrete mica far sposare la cara e bella Rachele con quel brutto muso!

—No,—rispose ridendo Davide,—egli ha già moglie.

—Ma allora?…

—Il signor Modigliana è un agente matrimoniale,— spiegò il giovane.—Da noi c'è ancora quest'uso. Quando una ragazza, o un giovanotto, son da marito, accorre subito uno di questi agenti; si informa minutamente della dote o del patrimonio, poi della salute, delle varie virtù del candidato, o della candidata; ne frequenta per qualche tempo la casa, dove è sempre accolto con deferenza. Infine prende nota, cerca nel suo taccuino l'anima gemella che potrà convenire al caso, e combina il matrimonio; prima tra i rispettivi parenti, poi tra i due fidanzati. E ti assicuro che i matrimoni fatti a questo modo, non sono punto i peggio riusciti!

—Ma è possibile?!—esclamò Gigetta,—matrimoni combinati da terzi, senza che i due si amino, senza che quasi si conoscano!…

—Appena sono fidanzati, cominciano subito a amarsi, siine certa,—replicò Davide.—Altrimenti non si promettono. Se i due giovani si trovano reciprocamente convenienti e simpatici, basta. Sanno che si devono voler bene, e vi si acconciano senza sforzo.

—Ma se non si piacessero?

—E' difficile, perchè il sensale è un uomo accorto. Egli conosce le inclinazioni e i gusti, non solo delle rispettive famiglie, ma anche dei giovani, e mette insieme così bene interesse e gusti personali, che raramente i due, da lui scelti, non si convengono.

—Ma se così fosse?…

—Ah, allora, se proprio non si trovassero d'accordo, la famiglia non sforza, esorta soltanto, consiglia. Se i due non si persuadono, sono lasciati liberi. Ma è raro, ti dico.

—Potrebbe pur essere che la ragazza fosse innamorata di un altro! Infine, anche voi avrete un cuore!—esclamò Gigetta con una certa indignazione.

—Oh, i genitori, da noi, non sono mica tiranni! In questo caso cercano, nei limiti del possibile, di contentare i figliuoli. Ma succede raramente, che, una fanciulla particolarmente, si innamori per conto suo di uno, sul quale già la famiglia non avesse messo gli occhi.

—E sempre ci deve essere di mezzo il sensale?—domandò Gigetta.

—Oh, non è indispensabile! Ma succede spesso.

—E anche tu ti sposerai per mezzo di un sensale?— domandò con malignità Gigetta.—O forse sai già quale sarà la tua fidanzata?

—No,—disse Davide semplicemente.—Ti ho già detto che non voglio sposarmi… E, nel caso… farei a meno del sensale.

La guardò con tenerezza, e lei ridivenne buona e allegra.

—A ogni modo,—disse,—non mi piacerebbe sposarmi così. Un matrimonio fatto a questa maniera è un affare qualunque; è privo di poesia.

—Credi tu che anche fra voialtri cristiani il matrimonio non sia generalmente un affare?—replicò Davide.—Quanti sono, anche tra voi, che si sposano veramente per amore? E tutti gli altri come fanno? Lui si informa prima d'ogni cosa della dote. Quanto ha lei? La nostra razza è generalmente poco sentimentale; ma ha un alto concetto del dovere, e tiene in grandissimo conto la famiglia. E' raro tra noi che uno dei coniugi tradisca l'altro. Vi è stima, vi è tenerezza reciproca. E poi, i figliuoli! Gli ebrei sono padri affezionatissimi. E' questo uno dei segreti della conservazione della nostra razza. Noi ci amiamo molto, l'uno con l'altro, molto; le nostre famiglie sono quasi sempre concordi; tu vedi la mia; ma devi far conto che la maggior parte sono così. Eppure noi, in casa nostra voglio dire, siamo tanto diversi uno dall'altro! Il nonno è religiosissimo, papà e mamma pure; zio Benedetto, niente; mio fratello e io rispettiamo la religione dei nostri padri, ma non pratichiamo punto. Ebbene, tolleriamo ciascuno le opinioni degli altri; cerchiamo di non urtarci, evitiamo le discussioni fra di noi; insomma ci vogliamo bene e ci stimiamo reciprocamente. E che vuoi di più?

—Niente,—rise Gigetta, alla quale la madre faceva già cenno ch'era ora di andarsene;—dico che hai ragione, che siete un popolo felice, voialtri ebrei.

—Perchè no?—rispose Davide tra serio e scherzoso,— non siamo forse il popolo eletto da Dio? e il Messia non deve forse uscire da noi?

—Ma davvero credi che debba venire il Messia?—domandò la giovinetta curiosamente.

—Certo. Perchè è necessario. Vedi quanto male c'è nel mondo! Tante ingiustizie, e oppressioni, e tanto dolore! Dovunque ti volti non vedi che affanno, angoscia, delitto. Dovrebbe essere questo il destino dell'uomo? No, no. Occorre venga qualcuno a ripetere la parola d'amore, di fratellanza. E non importa che i farisei lo crocifiggano! Vorrei essere io quel Messia! Ma che discorsi ti faccio, povera Gigetta! Sei tanto giovine! non hai potuto vedere ancora queste cose…

—Ma anche tu sei giovane,—disse la fanciulla. Eppure nel momento che lo diceva, non lo pensava più.—Pensava anzi:—Ma è un uomo, Davide! un uomo! che aria seria c'è sul suo viso! che strana luce nei suoi occhi!…

Un istante dopo, stringendo la sua mano per salutarlo, lo ritrovò come sempre: allegro, un fanciullo quasi, con una espressione di candore e bontà, come se l'anima sua non sapesse altro che il gioco e la gioia dell'adolescenza.

Il novembre del 1904 portò due notevoli avvenimenti nella famiglia Levi: Il matrimonio di Rachele, e la partenza di Davide per l'università di Innsbruk. Fu la stessa Rachele che annunziò a Gigetta improvvisamente il suo fidanzamento con Mieko Ladeski, un ebreo della Polonia, la cui famiglia era da molti anni stabilita a Trieste, e vi esercitava il commercio della pellicceria. Gigetta non potè capire dal tono di Rachele se ella fosse o no innamorata di questo fidanzato, e non si arrischiò a domandare come l'avesse conosciuto. Forse per mezzo del sensale?… Rachele pareva contenta e sorrideva. Ma Gigetta avrebbe voluto vedere in lei più slancio, più ardore; un poco di quella passione romantica, che i suoi quindici anni sognavano. Rachele era troppo calma, troppo fredda; la sua amica non poteva a meno di compiangerla in fondo al suo cuore, e si figurava che fosse sacrificata, costretta forse dall'interesse, dalle convenienze, a fare quel matrimonio.

Quando conobbe lo sposo, si confermò ancora di più nei suoi sospetti. Mieko era un giovane sulla trentina, biondo e roseo, come sono generalmente gli ebrei polacchi, ma d'una carnagione color avorio, che denotava un sangue povero, e lieve tendenza alla pinguedine. Non brutto, in complesso, ben vestito, se non che portava le spalle curve, il che lo rimpiccioliva. Gigetta pensava che, lei, certo non lo avrebbe sposato.

Un giorno che s'incontrò con Davide, su quel medesimo piazzale di San Giusto, dove di tanto in tanto si trovavano, come a caso, Gigetta non si tenne dall'esporgli qualcuno dei suoi dubbi sulla eventuale felicità della sposa. Davide non ne parve punto impressionato.

—Mieko?—disse calmo.—E' un ottimo giovine. Proprio quello che ci voleva per Rachele, che è una ragazza saggia, tranquilla…

Non convinta, Gigetta scoteva il capo.

—Vedremo a chi il tempo darà ragione,—disse Davide. —Conosco mia sorella. Oh, se si trattasse di quella testa sventata di Bianca, non direi così!—E la sua fronte si rabbuiò.

Gigetta non osò continuare il discorso.

Ella fu tra le invitate alle nozze. Il venerdì sera ricevimento, in casa Levi, di tutte le amiche di Rachele. Per la circostanza avevano affittato un piano, e qualcuna delle signorine suonò e cantò. Ma l'attrattiva più forte fu l'esposizione dei regali e del corredo, che occupava una camera intera. Quante cose ricche, quante cose belle! e oggetti di valore, generalmente.

Le ragazze ammiravano, o criticavano sottovoce. Ma in complesso tutte erano contente per Rachele; le volevano bene.

E quella sera ella era veramente bellissima.

Aveva un vestito rosso cupo, guernito di pizzi bianchi, che faceva risaltare la sua magnifica carnagione di bruna. Le mani ricoperte di anelli, tra i quali il grosso brillante del fidanzamento; sui capelli neri un pettine d'oro con scaglie di diamante. Una regina orientale. Ella non pareva accorgersi dell'ammirazione che destava; sorrideva alle amiche, rare volte i suoi occhi calmi incontravano quelli dello sposo. Piuttosto si indugiavano sul viso tenero amoroso della madre. La buona signora Sara era così contenta, ma così commossa! Rachele era sempre stata il suo braccio destro; l'aveva aiutata a allevare gli altri; ah, sarebbe un gran vuoto nella casa, quando ella se ne fosse uscita! Ma… non è il destino della donna quello di lasciar padre e madre, e andare altrove a formare il suo proprio nido? E poi, Rachele era proprio creata per la casa, per i dolci affetti domestici. Non aveva avuto mai grande inclinazione per lo studio. Non era come, per esempio, la sua amica Miriam Liliental… eccola là, con gli occhiali sul naso, e con quella faccia da donna matura, anzi già appassita, benchè non avesse che due anni più di Rachele. Ma si era data tutta allo studio, quella; si era laureata in matematica, e insegnava nel ginnasio. Del resto, andava sempre dicendo che non si sarebbe mai maritata.

Ecco pure la signorina Perla Servadio, giovanissima ancora, appena diciott'anni, che scriveva già su pei giornali… Una intelligenza, anche quella! Niente affatto bella, no; ma ricca. Se Davide avesse voluto! Ma sì! conoscerlo il cuore di Davide! Sua madre sapeva che egli era buono, che l'adorava, ma non lo aveva mai capito, non lo intendeva, quel ragazzo! Aveva troppo ingegno, ecco; e non un ingegno pratico come quello di Giosuè. Magari! ma un figlio come Giosuè, in una famiglia, non può essere che solo. Sarebbe una smisurata fortuna, se tutti gli altri fossero come lui! Buoni tutti, però; sarebbe stata ben ingiusta a lagnarsi. Tobia, sì, un po' monello, un po' svogliato… ma con gli anni si sarebbe assodato. E poi, entrerebbe in commercio. Ma vedete quanto è bella stasera Rachele! Domenica le nozze, e poi… che vuoto nella sua casa! Ma intanto, delle tre figliuole, una era provveduta. E per Bianca c' era tempo; figurarsi! non aveva che undici anni quella monella, ma già prometteva di diventare bellissima; tutt'altro genere che Rachele, però; un poco leggerina… Quanto a Ester, carina! guardatela là, al solito, in un angolo, tutta seria e sola; era la più piccola, forse la meno bella, così magrolina, stenta… ma via, aveva tutto il tempo di crescere!

Così, confortata di speranze, la signora Sara si asciugava in fretta e di nascosto gli occhi, e prodigava agli ospiti il suo buon sorriso.

La domenica successiva si fecero le nozze solennemente, al tempio. V'era tanta tanta gente, perchè i Levi erano molto conosciuti; il desiderio di festeggiare le nozze della sorella del dottor Giosuè aveva pur fatto affluire una folla di cattolici, uomini e signore, colleghi, clienti di lui, ora famoso pure nella sua città natale. Tutti ammiravano la sposa, veramente splendida, sorridente pacata nel lungo vestito bianco, sotto il gran velo. Con le tempie cinte dalla corona di fiori d'arancio, il viso sparso d'un roseo di fior di pesco, le rosse labbra socchiuse, i grandi neri occhi umidi e dolci, le forme rigogliose e pure, Rachele pareva rappresentare veramente il tipo della femminilità più compiuta; era la Donna dei tempi primitivi della terra, destinata all'amore, alla sommissione, alla maternità. Non c'era occhio, nè cristiano nè ebreo, che non la guardasse con simpatia.

Lo sposo portava sulle spalle il Taled, molto ricco, tutto ricamato di seta bianca, dalle mani della sposa, come s'usa. Quando il rabbino diede loro la benedizione nuziale, egli coprì con un lembo del proprio Taled le due teste inchinate dinanzi a lui, e pronunziò le parole rituali:

—Faccia il Signore che la donna ch'entra in casa tua, sia come Rachele e come Lia, che edificarono la casa d'Israele! —E aggiunse l'augurio, accompagnato dal movimento delle labbra di tutti gli astanti:

—Sia saggia come Rebecca, goda lunga vita come Sara! Vivano insieme questi sposi sempre uniti, e veggano i figli dei loro figli fino alla quarta generazione; indi salgano negli ammirabili tabernacoli del Signore, a godere il riposo dei Santi. Amen.

Il piccolo rabbino che benedisse gli sposi pareva un po' ridicolo ai profani, con quel suo cilindro sul capo, di moda antica e alquanto arruffato, che non si levò mai, neppure nei più solenni momenti; con le spalle coperte dallo scialle di rito, e il canto nasale, pieno di voci misteriose, ignote ai molti. Ma presto gli animi si lasciavano soggiogare dal profondo arcano di quei gesti e di quelle parole; come se l'antichissimo rituale, da tanti secoli immutato, avesse in sè una magica forza d'incanti; forse era la mistica parola Adonai che ritornava ogni tanto, con un suono di umile supplica o di esaltazione ardente? V'era, nel cantico sacro, tutto un lungo appello fatto di pianto, di gioia, di implorazione, di adorazione imperiosa, di orgoglio e di annientamento. La voce secolare di un popolo intero, che pur nella sua festa più bella ricorda i propri dolori, e domanda al suo Dio l'attuazione della promessa antica… Tale almeno pareva a Gigetta, che non intendeva nessuna parola, ma sentiva vibrarle nell'anima tutte insieme quelle commozioni. Poi lo stesso rabbino fece un discorso in italiano agli sposi, e qui riprese la sua bella, simpatica voce naturale, tanto nota a Gigetta, perchè era quella del suo professore.

Il rabbino Castiglioni era un uomo di non comune ingegno e buon parlatore. Egli ricordò ancora una volta le spose bibliche, Rebecca, Rachele, Sara, Rut, e ne esaltò le umili e grandi virtù, offrendole come modello alla nuova sposa.

Naturalmente tutte le donne nel tempio piangevano, e più di tutte la signora Levi, la madre, che si struggeva di commozione. Quindi il rabbino rammentò allo sposo i propri doveri, e lo fece in forma così semplice, senza retorica nè declamazioni, che ogni uomo presente alla cerimonia le accolse in cuore, come fossero per lui.

—Ebbene?—domandò Davide alla giovinetta, appena si trovarono vicini, dopo il pranzo sontuoso, al quale ella pure era stata invitata;—che ne pensi di questo giorno?

—Ho in mente che tutto andrà bene, e che Rachele sarà una moglie felice,—esclamò Gigetta;—sì, questa è la mia impressione.

Davide sorrise.

—Ecco la solita testolina romantica! Sarà un poco felice e un poco infelice, anche lei, come tutti; ma ho piacere che la cerimonia ti abbia interessata; e l'ho veduto.

—Sì, davvero. C'era in voialtri ebrei una serietà raccolta, direi, come se tutti foste compresi dell'atto solenne che si compiva. Il pubblico cristiano mi piacque meno.

—Perchè i riti di una religione che non si conosce fanno sempre l'effetto di cose stravaganti o anche grottesche. Infatti, ogni culto ha le sue origini in un'epoca antica, spesso primitiva, e risente della natura del momento etnico in cui fu creato. L'umanità fanciulla adolescente amava i simboli, lo sfarzo, i canti, le cerimonie complicate, e esprimeva i suoi sentimenti di devozione, di angoscia, di giubilo in forma appassionata, ancora un poco selvaggia. Le religioni solo in questo modo poterono esistere, come la nostra, per migliaia d'anni. Chi cresce in una religione e si abitua alle sue funzioni, non ne avverte la singolarità. Il profano invece si sente urtato dall'inconsueto dei riti, se ne stupisce o ne ride.

—Oh, hai ragione!—rispose Gigetta, avvolgendo il suo amico in uno sguardo di ammirazione.

Egli le piaceva sempre più. Il sentimento che la fanciulla provava per lui, se non era ancora propriamente amore, gli somigliava assai. Egli le pareva il più bello e il più intelligente dei giovanotti che conosceva. Aveva bensì avuto una passioncella romantica per il fratello di Davide, il dottor Giosuè, ma essa stessa confessava ch'era una bambinata. E poi, il dottore o non si accorgeva neppure di lei, o la trattava come una bimba; era umiliante. Ma il dottore era un uomo celebre, ormai, aveva una numerosa clientela; era divenuto primario all'Ospedale; aveva quindi anche poco tempo da stare a casa, coi suoi, e pochissimo tempo per badare a quella giovinetta, che vedeva quasi sempre in compagnia dei suoi fratelli e sorelle.

Davide invece, pur senza farle per nulla la corte, cercava la compagnia di Gigetta, la trattava come un amico ma con una sfumatura di tenerezza che a lei non poteva sfuggire. Avevano il loro piccolo segreto. Nessuno sapeva che qualchevolta si incontravano fuori… Non che pensassero di far nulla di male, e nemmeno non si erano messi d'accordo per tacere; ma erano troppo dolci quei loro incontri per darli in balìa alla curiosità altrui. Si trovavano spesso su quel piazzale di San Giusto, così deserto nei giorni feriali, e così bello; ma anche altrove. Qualchevolta sulla spiaggia di Sant'Andrea, lungo i viali alberati, dove, seduti su di una panca, ascoltavano il cinguettìo di innumerevolî uccelli, e la voce del mare, dolce e solenne. Oppure su per i sentieri freschi e ombrosi del Boschetto, sulle alture che da quella parte coronano la città di ville graziose, di châlets, di giardini.

Il giorno anteriore alla partenza di Davide, per Innsbruck, si erano dati appuntamento in Montuzza, una solitaria collina, prospiciente sulla piazza della Legna, dove sorge un convento di cappuccini. Vi si accedeva per due strade. L'una attraversava la città vecchia, e era lunga cheta romita, fatta proprio per devoti o per innamorati. L'altra era tutta un zig-zag di scale, che salivano a perpendicolo dalla piazza e menavano su in un momento; scelsero la strada lunga e solitaria, e per quella s'incontrarono.

Era una giornata di bora, ma chiara, azzurra. Il vento li respingeva ululando; essi si presero ridendo per mano, e affrontarono così i rèfoli stizzosi e mugolanti. Per tutta la via non parlarono, occupati nello sforzo del salire; ma quando furono sull'alto di Montuzza, insieme si volsero a mirare la città ai loro piedi, e Gigetta disse:

—Non dimenticarci, Davide!

—Chi?—chiese il giovane, stupito,—te, no, certo; e chi altro?

—La tua Trieste,—rispose Gigetta.—Ora tu vai in una città straniera; amerai altre cose e altre persone; ma rimani triestino, cioè italiano; questo ti raccomando.

—E pensi ch'io possa mutare?—domandò egli con dolcezza, —io sento bene che la mia anima è italiana, benchè i miei antichi abbiano potuto venire chi sa da quale remoto oriente. Credi tu forse, come qualcuno, che gli ebrei siano senza patria? Secoli di vita in un paese, presso una nazione, rendono l'uomo cittadino di questa nazione. Forse che l'Umanità tutta è sempre stata nelle sue sedi presenti? La fiumana dei popoli si è sempre andata movendo da un punto all'altro della terra, ora rapidamente, ora lenta, a seconda degli stimoli che la spingevano. Ma il paese dove rimaneva più a lungo, dove si fondavano le famiglie e si creavano le leggi, diveniva la patria, e lo si amava… più della casa, più del campo, più della tomba degli avi… E così anche noialtri ebrei. Anzi, forte sentiamo noi il vincolo che ci lega alla terra natìa; noi sappiamo anche soffrire e morire per essa. Non sai che durante le guerre dell'indipendenza italiana molti furono gli ebrei che combatterono valorosamente, e molti caddero sul campo? E così gli ebrei francesi si battono per la loro patria; gli ebrei polacchi per la Polonia; i tedeschi per lo Stato in cui vivono, e al quale appartengono.

—Ma non sentite quasi una nostalgía dei vostri paesi d'origine?—domandò la giovinetta.—Perchè ricordo di avere letto che vi fu qualche tentativo di ridare agli ebrei la loro patria antica, di farli ritornare tutti a Gerusalemme…

—Sì,—spiegò Davide,—è il cosidetto sionismo. L'idea fondamentale ne sarebbe questa: Riscattare Gerusalemme e le terre vicine, mediante denaro, s'intende; denaro offerto da ebrei ricchi; l'idea ne era venuta dal banchiere Hirsch, e vi aderirono subito i Rotschild e molti altri. E aprire in quei luoghi una specie di asilo, per gli ebrei di tutto il mondo, e particolarmente per quelli perseguitati in Russia. Là in Palestina potrebbero costruirsi case, lavorare la campagna, darsi a mestieri e industrie; ridivenire, insomma, un popolo, come fu in antico, e perdere così i difetti che lunghi secoli di persecuzioni e di sprezzo ha radicato in essi.

—Ma sarebbe una magnifica cosa!

—Più in teoria che in pratica… Vedi, noialtri ebrei teniamo, generalmente, alla nostra religione e alle nostre tradizioni, e ciò istintivamente, appunto perchè fummo perseguitati. La razza intuiva che, per vivere, doveva attaccarsi fortemente ai suoi primitivi caratteri. Rinunciare a questi, significava morire, fondersi con gli altri popoli, sparire… Perciò si strinse tenacemente alla religione, ai suoi libri sacri, e non ne mutò sillaba, in tanti secoli, in mezzo a tanti culti diversi. Ma intanto non è possibile supporre che le influenze esterne del mezzo ambiente restassero senza penetrare più o meno profondamente negli individui che ci vivevano a lungo. Ogni ebreo divenne così un italiano, un inglese, un russo… prese abitudini diverse, acquistò il linguaggio e la coltura del paese, tanto che, eccettuato quel vincolo tradizionale che è formato dalla religione e dalle memorie comuni, un ebreo di Londra non ha più assolutamente somiglianza con uno di Mosca, per esempio; sono correligionari, ma non connazionali. Come sarebbe possibile imaginare tutta questa gente diversa in contatto continuo di affari, di politica, di costumi? Senza contare che ciascun ebreo ama il luogo dove da tanto tempo è ospite, e ne è divenuto cittadino. Quando feroci persecuzioni cacciano turbe di ebrei da qualche villaggio della Russia o della Polonia, quei disgraziati ne partono piangendo, disperati; è il loro proprio paese quello che abbandonano forzatamente!

Intanto erano arrivati fino alla chiesa dei frati e vi entrarono. Gigetta si fece il segno della croce, più per consuetudine che per vera fede. Davide si tolse il cappello. La piccola chiesa molto chiara era perfettamente deserta.

—Ti ricorderi di me?—domandò improvvisamente Gigetta.

—Sempre,—rispose lui con serietà.

—Ora non ci rivedremo più che a luglio.

—Sì, e così sarà per quattro anni.

—Lunghi!—esclamò Gigetta.—Chi sa che cosa succederà in questi quattro anni!

—Che deve succedere?—rispose Davide,—non vedo all'orizzonte probabilità di grandi avvenimenti. Più tardi, forse, chi sa!…

—Che pensi che debba accadere più tardi? Qualche guerra? qualche rivoluzione? Speriamo di no! Io ho orrore di queste cose.

—Io pure,—disse Davide.—Ma c'è nell'uomo pur sempre qualcosa d'inquieto e di torbido, che lo spinge a menar le mani, a sputare ingiurie contro qualcuno, che d'improvviso si accorge di odiare. Ci sono profondi lieviti di rancore nel mondo; sono lieviti sociali e politici. Presto o tardi ne vedremo le conseguenze. Ma inutile pensarci, per ora. Facciamo ciascuno quello che l' ora presente ci impone. Studiare, prepararsi. Combattiamo con tutte le forze l'ignoranza, che è ancora in noi; cerchiamo la luce, la luce! E poi vedremo quale sarà la nostra strada.

In quella separazione, che fu per allora definitiva, si promisero di scriversi frequentemente; ma nessuna parola d'amore fu scambiata, nemmeno quel giorno. Gigetta, forse, l'aspettava, ma Davide pareva risoluto a non dare e a non ricevere promesse. Egli sentiva in sè una forza, assai più potente dell'amore per una donna; una voce che lo chiamava, e ammoniva che non dovesse indugiarsi per via. Eppure provava per Gigetta una tenerezza, che gli confondeva nel cuore l'imagine di lei con tutte le altre care imagini familiari. La sera fu insolitamente pensoso, accorato, e il maestro Benedetto lo chiamò dopo cena nella sua camera:

—Ti dispiace partire, lo vedo,—gli disse sorridendo,— via! son pochi mesi appena.

—Non mi dispiace, zio,—rispose Davide,—sono io che desidero partire; ho sete d'imparare, lo sai.

—So che sei un ragazzo singolare,—disse lo zio,—ma, dopo tutto, ti rincresce lasciare una certa persona…

—Sì, zio, mi rincresce lasciare Gigetta, come pure tutti voialtri, e tante care consuetudini,—rispose il giovane semplicemente.

—Non vuoi proprio dirle a me le tue intenzioni?—insistè lo zio.—Temi forse che potranno nascere difficoltà per la questione religiosa?

—No, zio. Io non ho intenzione di sposarmi.

—Per ora, lo capisco. Tu devi compiere i tuoi studî, è giusto. Ma fra qualche anno…

—No, zio. Mai. Tu conosci le mie idee. Quando avrò studî sufficienti, in modo che la questione sociale sia chiara agli occhi miei, io mi dedicherò tutto a quella; la mia vita apparterrà all'Umanità; voglio conoscere le cause del dolore e della miseria, e tentare di distruggerle, o almeno di attenuarle. Quello che mio fratello Giosuè fa nel campo fisico, io voglio farlo nel campo morale. Come potrei, dunque, avere cura di una famiglia? Io non devo prendere moglie; sarei un pessimo marito e padre.

—Ragazzo mio,—disse gravemente zio Benedetto,— io non ti farò nessuna osservazione. Quando il tuo criterio sarà interamente formato, forse parlerai diversamente. O forse tu sei veramente della stoffa di cui si fanno gli apostoli… e i martiri. Non so. Ma bada, figliuolo, c'è una cosa che ti conviene considerare: Tu puoi essere padrone della tua volontà, della tua anima; ma non di quella di un altro. Che fai tu della povera Gigetta? Mi pare che ella ti ami.

Davide si fece pallido.

—Zio, Gigetta sa le mie intenzioni.

Lo zio scosse il capo.

—Sì, tu le avrai fatto di bei discorsi. Le avrai proposto di essere amici, di essere come fratello e sorella… Ho indovinato. Ma queste sono romanticherie, sono fanciullaggini. Le giovinette, caro mio, sognano un innamorato per davvero, un marito; e si innamorano esse facilmente; molte volte sul serio. Queste relazioni sentimentali, fra un giovanotto e una ragazza, non sono prudenti; dirò anzi non sono da galantuomo. Ella si farà delle illusioni, trascurerà altri partiti, per aspettare il tuo beneplacito, soffrirà a ogni modo. Tu non hai diritto di farla soffrire.

—Dovrò dunque,—esclamò il giovane con amarezza,— rinunciare a questa, che sarebbe stata forse l'unica gioia della mia vita! Gigetta è seria, zio, è intelligente; le ho parlato chiaro, non si farà illusioni.

Zio Benedetto taceva.

—Farò di più,—disse Davide,—la mia prima lettera da Innsbruck conterrà tutte le mie idee, per esteso, tutti i miei propositi; e non una espressione di tenerezza. Le dirò che tra me e lei non ci devono essere equivoci. Ti giuro, zio, che agirò da galantuomo; farò in modo che la mia coscienza non abbia mai nulla a rimproverarmi!

Il giorno dopo che Davide era partito, Gigetta già entrava nella stanza del portinaio, a ritirarvi la posta. Ma non c'era nessuna lettera di lui. Infatti, era troppo presto; come avrebbe potuto scrivere? Pure, ella aveva sperato, chi sa? un saluto per via, una cartolina…

S'indugiò un momento nella camera dei portinai, a parlare coi bambini, ai quali diede qualche confetto. Erano cinque, fra i tre anni e gli undici; tutti pallidi, pallidi, patiti, vestiti male. Giocavano fra di loro, seduti in un angolo, per terra. La Nani cuciva a macchina vicino alla finestra. Era una donna di trentacinque anni, che ne mostrava cinquanta; portava, tra i segni di un'antica bellezza, quelli della miseria e delle sofferenze. Gli occhi bruni erano come velati di tristezza, e quasi sempre umidi di pianto.

—Come va, siora Nani?

Ella rispose tra il rumore della macchina, senza perdere un minuto, china sul suo lavoro:

—Male, signorina. Come vuole che vada? Miseria, fame. Si lavora come bestie, e non si ha neppure pane abbastanza.

—Povera siora Nani!—mormorò Gigetta, cercando nel fondo della tasca qualche soldo (ne aveva pochi anche lei), e mettendoli di nascosto in mano a Carletto. Poi girava gli occhi intorno su quella miseria, una stanza tutta ingombra dal letto matrimoniale e dai giacigli dei bimbi, col focolare per far cucina, ma allora spento, e pochi mobili con su roba ammucchiata a caso. C'era là dentro un tanfo, una esalazione di miseria incurabile. Quando Gigetta uscì, s'incontrò col sarto, che rientrava, terribilmente ubriaco. Quella vista accrebbe la sua profonda malinconia; anche lei, come Davide, provava piuttosto pietà che disprezzo per i vizi umani; ella ricordava di avere udito dire da lui: Ogni male deriva dall'errore o dall'ignoranza. Suo padre, e più ancora la signora Catina, erano furibondi contro il portinaio, come del resto anche gli altri inquilini. Ma usavano pazienza solo per pietà della povera moglie e dei bambini; e non si lagnavano perciò col padrone di casa. Il quale li avrebbe indubbiamente mandati via, perchè era un uomo duro, ricchissimo, un certo signor Czeicki, che per fortuna abitava altrove, e lasciava fare al suo amministratore, il quale, pur essendo burbero all'apparenza e severo, chiudeva un occhio, per non mettere sul lastrico quei disgraziati.

Mentre Gigetta attraversava il cortile, udì grida e strepiti uscire dalla stanza dei portinai. Era il solito. La povera Nani non sapeva tenersi, e quando vedeva il marito in quello stato lo assaliva con rimproveri. Toni aveva il vino cattivo; rispondeva con busse, e allora i bambini si infrapponevano, gridando, volevano difendere la mamma, e ne toccavano anche essi. Gigetta tornò indietro, risoluta di affrontare le ire dell'ubbriaco, ma vide appunto il maestro Benedetto entrare nella stanza del portinaio, certo con la medesima intenzione. Allora ella aspettò di fuori, finchè il maestro dopo qualche minuto ne uscì. Ora dentro era silenzio; quell'omettino zoppo aveva saputo domare le furie del sarto, quattro volte più forte di lui.

—E' andato a letto, e sta già russando; nemmeno le grida di sua moglie non potrebbero svegliarlo,—disse sorridendo, quando vide la giovinetta. E si avviarono insieme.

—Vieni su da noi?—le domandò affettuosamente. Ella esitò un momento; il maestro capì bene che era triste.

—Vieni,—insistè,—mia cognata è tanto malinconica. Quel ragazzo ha lasciato un gran vuoto.

Gigetta si sentì subito un poco consolata. Le pareva che lo zio di Davide la considerasse come della famiglia; che toccasse a lei confortare la madre del figlio lontano. Ma non volle parlare di lui col maestro; non voleva che egli le leggesse nel cuore.

—Che pena mi fa quella povera gente!—disse, salendo lentamente con lui, che arrancava col suo piè zoppo.—E' una vera piaga nel popolo l'alcoolismo!

—Terribile. Ah, quel dottore che riuscisse a trovare un rimedio contro questo male, si renderebbe più benemerito di uno che trovasse il mezzo di guarire la tisi. E' una cancrena che si estende sempre più.

Passettini leggeri e frettolosi scendevano la scala. Parevano d'un bimbo. Apparve invece un vecchietto singolare. Piccolo come un gnomo, e curvo come un arco di violino, magro, anzi, succhiato, col visuccio solcato di mille rughe, pareva un vecchissimo bambino vestito da uomo. Riconobbe il maestro e si levò il cappello; un piccolo cappello nero bisunto, ma troppo grande per lui, che gli scendeva alle orecchie.

—Oh, Salomone! come va? come va?—disse il maestro.

Dall'ugola di quel minuscolo personaggio uscì una vocina stridula e scordata.

—Sono stato a fare la mia solita visita alla signora Sara, benedetta sia! Ora passo dall'altra parte; ci vado sempre dopo; la prima visita per Levi, sempre per Levi. Poi vado dai Kohn, dagli Israel, e infine dai Milano.

—I Milano… sono un poco tirati…—disse il maestro.

—No no; qualche cosa mi dànno anche loro. Tutta brava gente, sia benedetta. Ma nessuno come la signora Sara, perchè quella, insieme al denaro, dà buone parole.

—A casa tutti bene?—domandò Benedetto cortesemente.

—Tutti. La Lisa sta per averne un altro. E saranno undici. Sempre con l'aiuto di Dio.

Benedetto pose nella mano scarna del vecchio qualche soldo, ricevuto con grandi dimostrazioni di riconoscenza. E quando i passettini si furono dileguati giù per le scale, il maestro disse sorridendo:

—E' uno dei nostri poveri. Lo aiutiamo un po' tutti. Ma non è un ozioso; da giovane faceva il merciaio, poi il sensale; ancora fa qualche affaruccio quando gli càpita; ma ha più di ottanta anni. Ha una famiglia numerosissima; la Lisa è la sua nipote più giovane.

—Ci son dunque dei poveri anche tra gli ebrei?

—Come no? C'è chi è sfortunato e fa cattivi affari. Ma difficilmente accade che uno sia povero per colpa propria, per ozio, per vizio. L'ubbriachezza appunto, come l'hai vista ora in Toni il portinaio, e tanto frequente nelle classi povere, è quasi sconosciuta fra gli ebrei. Non conosco neppur un ebreo ubbriacone, a Trieste. E anche la povertà non è mai miseria. Anzitutto perchè la Comunità aiuta sempre le famiglie povere; e nessun ebreo stende la mano a mendicare; e poi, perchè veramente tutti si industriano, uomini e donne, per guadagnare qualcosa; e la sobrietà e il risparmio aiutano a tirare innanzi la baracca. O eccoci. Entra, entra pure.

La presenza di Gigetta in casa Levi era divenuta così consuetudinaria e familiare, che tutti oramai le davano del tu, come a una parente. Forse pure tutta la famiglia pensava alla eventualità di un più stretto legame, conoscendo la simpatia fra Davide e la giovinetta; e benchè certamente i Levi avrebbero preferito un matrimonio con una correligionaria, tuttavia non pensavano a mettere ostacolo fra i due giovani. Pur tenendo alla loro religione, erano di spiriti aperti e liberali, e non si sarebbero mai opposti alla felicità dei figliuoli; poi, avevano tutti per Gigetta una affezione sincera, e la stimavano degna di diventare la compagna del loro Davide, al quale pronosticavano un brillante avvenire.

Nella stanza comune c'erano i ragazzi, Tobia, Bianca e Ester, la signora Sara e il dottor Giosuè, salito un momento a salutare la mamma afflitta.

—Ah, cara! vieni, vieni!

Tutti l'accolsero affettuosamente, e il dottor Giosuè, che era il solo a trattarla da signorina, le cedette la propria sedia.

—Tanto, io devo andare subito—disse, ma poi rimase ancora qualche tempo, interessato dalla presenza della fanciulla.

Ella non era bella, no, punto. Alta, magra, con la faccia piuttosto angolosa, il colorito pallido, non aveva morbidezze veramente femminili. Ma il suo sorriso, aperto su denti bianchi e piccoli, era bello, e la sua voce aveva un fascino singolare. I lineamenti mobili del volto riflettevano i rapidi moti dell'animo, l'intelligenza, il pronto balenar del pensiero; ma insieme anche l'intensità del sentimento, e forse della passione. Una piega delle labbra, insolita nelle giovinette, la faceva parere più vecchia di com'era.

—Ecco una ragazza che non piacerà mai agli sciocchi, —pensava Giosuè. A lui piaceva, ma piuttosto per curiosità che per attrazione fisica; gli pareva un tipo originale e degno di studio. Del resto, anche lui pensava che Gigetta era la sua futura cognata, e non gli sarebbe mai caduto in mente di farle la corte.

La giovinetta fu assai contenta di vederlo, e quella punta di affanno, che le veniva dalla lontananza di Davide, e forse più ancora dal suo silenzio, si mitigò come per incanto. Ella osò domandargli notizie dei suoi lavori scientifici, delle sue scoperte, di quel famoso siero, del quale già si parlava sui giornali, e che pareva dovesse guarire la pazzia!

—No no,—disse lui ridendo,—sarebbe troppo bello! Ma qualche cosa sto tentando, è vero. Quello che occorre sopra tutto è un grande, un immenso edifizio, per farne una casa di salute, una specie di manicomio modello, dove i malati non fossero agglomerati, ma divisi in padiglioni, fra cortili e giardini. Là vorrei sperimentare un sistema di cura interamente nuovo. Ma…—continuò sospirando,—ci vogliono molti denari, e per il momento non c'è da pensare a tutto questo.

Gigetta, che lo ascoltava ammirando, poichè su quel suo cuore sensibile, su quella viva fantasia, si rifletteva subito ogni aspetto del bello, fu scossa da una chiamata di Lia, la vecchia serva.

—Gigetta! c'è sua mamma che la vuole. E' alla finestra della cucina, in cortile.

—Vengo,—rispose Gigetta con fare annoiato. E non si mosse.

Un momento dopo irrompeva nella stanza Pepi, il suo fratellino.

—Vieni o non vieni? C'è nonna a desinare con noi, e…

Ma s'interruppe e perdette il filo, per guardare Bianca, che gli faceva dei vezzi, sorridendo. E si accostò a lei, le prese la treccia bruna, cominciarono a ridere e a giocare.

—Andiamo,—disse allora Gigetta con serietà. Ogni volta che vedeva suo fratello giocare con Bianca provava come un senso di fastidio e non sapeva perchè.

—Andiamo,—ripetè; e poichè i due fanciulli, al solito, si tenevano le mani, ridendo, e cercando di lottare, così per gioco, ella afferrò Bianca, e la distaccò dal ragazzo.

—Signorina Capriccio, quando metterai giudizio?—le disse con un tono di rimprovero mal celato sotto lo scherzo; poi salutò rapidamente tutti e uscì con suo fratello, tirandoselo dietro recalcitrante.

Durante tutto l'anno che Davide rimase a Innsbruck, i suoi rapporti con Gigetta furono piuttosto freddi. La sua prima lettera era come aveva promesso allo zio Benedetto, d'intonazione compassata, seria, da amico preoccupato dei gravi problemi dello studio, e del desiderio di riuscire al fine, per la via intrapresa, immemore di qualunque sentimentalismo. Se v'era dell'ostentazione in quella lettera, la giovinetta non la intese; si sentì urtata, delusa, come ingannata. Davide le parlava molto delle difficoltà per trovare una camera, insieme al suo compagno Alvise Galli, dal quale non voleva separarsi; le descriveva l'appartamento infine trovato, i nuovi professori, qualche studente… e infine si esaltava nei progetti dell'avvenire, nei quali Gigetta non aveva nessuna parte.

Ella stette qualche giorno senza rispondere, infine scrisse una letterina assai compassata, alla quale Davide non potè resistere, perchè rispose subito, e con slancio affettuoso. Nondimeno, la corrispondenza continuata a sbalzi, irregolarmente, con gradi di affettività che andavano dal gelo dell'indifferenza all'accensione subitanea del sentimento, servì piuttosto a distaccare che a unire i due giovani cuori.

Del resto, Gigetta aveva delle distrazioni. Nel corso ultimo del suo liceo c'era una giovane ebrea, che portava un nome glorioso, e era intelligentissima e geniale; si chiamava Vittoria Colonna. Questa giovinetta, di due anni più vecchia dell'amica, cominciò a esercitare su di lei un fascino singolare. Era cresciuta in un ambiente di artisti; suo fratello Leone era un violinista di grande valore, suo padre, un vecchio patriarca enfatico ma sincero, era stato poeta e drammaturgo; la madre, Marina Casadoro (una veneziana), nei tempi della sua gioventù, che non voleva confessare passati, aveva avuto gran voga sui teatri come artista drammatica. Gigetta, approfittando della libertà che le lasciavano in famiglia, cominciò a frequentare casa Colonna, e a piacersi straordinariamente in quella compagnia.

Erano tutti zelanti patrioti, ardenti irredentisti, che aborrivano tutto ciò che sapesse di austriaco. Gigetta si entusiasmava nell'udire quei discorsi vibranti, e le speranze politiche, espresse con la profonda convinzione che dovessero presto avverarsi.

Erano idee già care a Gigetta, accarezzate a casa e al liceo, e quei discorsi appassionati la interessavano più di ciò che avessero fatto le teorie socialiste umanitarie di Davide. Almeno le pareva. Il suo cuore si faceva sempre più sveglio al bacio impetuoso della giovinezza, e sentiva il bisogno di amare ammirando. Davide aveva il torto di essere lontano e timoroso; la fanciulla si accorse di pensare con una certa frequenza a Leone Colonna, che somigliava a un ritratto di Enrico Heine, che Davide le aveva regalato.

I Colonna erano ebrei, ma quasi nessuno se ne ricordava, nemmeno essi. Appartenevano alla classe degli indifferenti, in fatto di religione, e non conoscevano altra fede, o altro ideale, che quello patriottico. Giovani e vecchi, erano tutti quarantotteschi; odiavano cordialmente il governo austriaco, non sognavano che la redenzione di Trieste, la sua riunione alla grande madre comune, Italia. In casa loro convenivano molti irredentisti, specialmente uomini, giovani; e si passavano ore fervorose in discussioni e esaltazioni di spirito.

Non si trattava di veri convegni. La casa era come un buon albergo, continuamente aperta agli amici. In qualunque ora del giorno ci si capitava, si era certi di trovarvi altre persone; tutte nella grande sala, alta, ricca, che sapeva di quarantotto anche lei, come i padroni. La signora Marina vi troneggiava, d'inverno in una veste di velluto viola, con grandi merletti di Venezia; d'estate in una giaconetta lilla, a fiori bianchi, di moda antica, che conteneva appena la sua grassa eburnea bellezza. D'inverno, nonostante il calore delle stufe, donna Marina teneva le mani in un piccolo manicotto di pelo bianco; d'estate agitava con le dita cariche di anelli un enorme ventaglio cinese a fondo rosso; ma in nessuna stagione Gigetta non si ricordava di averla mai vista altrimenti che seduta nella enorme poltrona dirimpetto al piano; con la bella testa classica, sormontata da un casco nero di dubbia autenticità, sapientemente avvolta da una morbida penombra, nella quale scintillavano i vivi diamanti delle orecchie e del collo.

Vittoria, l'amica di Gigetta, era una personcina magra, con un viso di capra, illuminato da due grandi occhi neri. La bocca grande era già ombreggiata da una peluria scura, che la faceva rassomigliare singolarmente al fratello. Era tuttavia vivacissima, irrequieta, ciarliera, tanto quanto lui malinconico e taciturno.

Tutta la famiglia Furiani era in buoni rapporti coi Colonna; la stessa signora Catina ci andava spesso al mercoledì, giorno di ricevimento, benchè donna Marina non restituisse mai nessuna visita. Ma accettavano volentieri questa eccentricità della signora ex-grande artista, alla quale, si sa, tutto era permesso. Gigetta prese l'abitudine di andare quasi tutti i giorni dai Colonna, dove non trovava che cose e persone interessanti. In quella casa conobbe parecchie personalità della plutocrazia israelitica, come gli Israel, che erano anche suoi coinquilini, gente ricca, allegra, simpatica; il padre vedovo, e sei figliuoli, tre giovanotti e tre signorine da marito, ricercatissime. Tutti appassionati per la causa italiana, agitatori, parlatori, soci della Lega nazionale, pieni di patriottiche speranze. Il barone Rosenwald, che era stato un antico adoratore di donna Marina, continuava a porgerle i suoi omaggi, una volta alla settimana, in forma di un mazzo di fiori e di un sacchetto di dolci. La baronessa era da molti anni paralitica; l'unica sua figlia si era sposata in Francia; e il barone, un originale, prodigava il suo tempo e il suo denaro capricciosamente; ma le sue piccole manìe, come quella di comperare oggetti d'arte, di cui non s'intendeva punto, o di lasciarsi corbellare da qualche furba donnina, e di credersi assai più giovine di quel che fosse, gli erano tutte perdonate per la grande bontà del suo cuore generoso. Egli non negava mai nè un prestito nè una elemosina, anche quando lo avvertivano che sarebbe ingannato. Nel dubbio dava meno, ma non era capace di mandar via nessuno a mani vuote. C'era pure il banchiere Coen, tondo e tozzo, afflitto da una moglie bruttissima e da tre figliuole più brutte della madre; ma tutti pazzi per la musica, e specialmente per Wagner.

Oltre a questi frequentavano casa Colonna il signor Mendez, uno spagnolo, ex-ebreo, che aveva sposato una cristiana, tanto carina; egli faceva il corrispondente di giornali; Abele Herz, un Alsaziano, poeta delicato, già noto nel mondo intelettuale, nonostante la sua giovinezza; Marco Modena, professore di filosofia, sionista appassionato, scrittore di una eccellente storia ebraica. E v'erano pure alcuni giovani triestini cattolici tutti di buona famiglia, colti, fervidi italiani, come Gino Rapich, Lucilio Conti, Andrea Steffani; e i Balder, padre e figlio, luterani; e Spiridione Dillyani, un greco, giovane bello e di ottimo ingegno, nipote dei coniugi Dillyani, che erano vicini di casa di Gigetta.

In questo ambiente la fanciulla si piaceva moltissimo. Udire Leone Colonna trarre voci meravigliose dal suo violino incantato, poi i giovani infiammarsi per la grande causa dell'italianità; gli uomini maturi trattare questioni d'arte o di politica, era per lei un godimento nuovo e raffinato, che ella assorbiva da tutti i pori. E questo sempre in una scena varia e ricca, in un'atmosfera piacevolmente eccitante di galanterie, di corteggiamenti, di passioncelle, che si accendevano e spegnevano come fuochi fatui; in una decorazione quasi teatrale e bizzarra, che stimolava la sua fantasia e sfercava il suo giovane sangue.

La sera, quando era a casa sua, sola nella camera, l'assaliva però un malcontento contro se stessa, un vago indistinto rimorso, come se avesse fatto torto a qualcuno. E a chi dunque, se non a Davide Levi? A Davide? e perche? forse gli importava di lei? se ne ricordava appena! Che cosa poteva mai valere una ragazzina ignorante come lei per un giovane così dotto, e che studiava a Innsbruck!

Si sforzava di essere ironica e sprezzante contro la memoria di lui lontano; ma cessava tosto, perchè il cuore non si prestava a quel gioco.

—Eppure, non mi vuol bene,—pensava;—come son fredde le sue lettere! E mai, mai non mi ha detto una parola d'amore!

Ricordava i complimenti uditi nella giornata, gli sguardi carezzevoli o ammirativi, nel salotto della signora Colonna… Ecco, quei giovani si amavano; gli uomini facevano la corte alle fanciulle; era come nei romanzi, e anche la vita doveva essere così. Perchè Davide non era così?

In casa Levi ci andava meno, e si fermava poco. L'ambiente semplice e familiare, che tanto le piaceva una volta, ora le pesava, l'annoiava. Che differenza fra la signora Sara e donna Marina! Questa ancora brillante, malgrado gli anni; amante delle visite, delle conversazioni; un po' frivola, forse, ma briosa, simpatica, di vedute larghe; ricca di esperienze di persone e di cose; inesauribile nel ricordare, nel citare a proposito parole e fatti interessanti. L'altra, la buona signora Sara, così modesta, così insignificante (diceva ora tra sè Gigetta); tutta casa e figliuoli; sempre a corto di argomenti, se si usciva dalla ristretta cerchia delle cose quotidiane. In fondo la giovinetta sentiva di essere ingiusta verso i suoi antichi amici; ma attraversava un periodo di irrequietezza, di fastidio; l'anima sua cercava e aspettava qualchecosa e non sapeva che; forse un idolo da adorare, e l'idolo andava a poco a poco prendendo la forma e la voce della Patria.

Quando si trovavano insieme quei giovani ardenti, Lucilio Conti, Andrea Steffani, Giorgio Balder, Spiridione Dillyani, Gino Rapich, Leone Colonna, facendo cerchio intorno alla signora Marina e a qualche giovinetta amica di Vittoria, era un entusiasmo, un fremito di speranze, un ardore sempre crescente, che prorompeva in discorsi ribelli, in imprecazioni contro l'odiato oppressore, in voti e augurî formulati con generose impazienze. E uno declamava, a un tratto, versi patriottici, l'altro intonava uno di quei cori

che tanti petti han scossi e inebriati,

nel quale tutta la comitiva si accordava, con voci frementi. Il va fuori d'Italia era ripetuto dieci volte, accompagnato dal ritmico calpestìo dei piedi, dal battere delle palme in cadenza. Si parlava del giorno della liberazione come fosse vicino; si facevano progetti, si distribuivano le parti. I giovani avrebbero, nel gran giorno, disertato, passando rapidamente la frontiera, e sarebbero tornati a Trieste insieme all'esercito italiano, vittorioso. Le donne lavorerebbero a fare propaganda tra il popolo, aiutando la Lega nazionale. Già alla Lega erano inscritti tutti, e tutti, nascostamente, diffondevano libri e giornali di sensi italiani.

—Bisogna lanciare qualche bomba,—diceva il mite Leone con occhi lucenti.

Qualcuno dei più vecchi consigliava la prudenza.

—Quando vi siate fatti metter dentro,—diceva il barone Rosenwald, lisciando il suo pizzo quarantottesco,—cosa ci avrete guadagnato? e cosa avrà guadagnato la nostra causa?

—Eppure, qualcosa bisogna fare!—esclamava or l'uno or l'altro dei giovani,—se non ci muoviamo noi, nessuno ci aiuterà.

—Aspettate. La vittoria è di chi sa aspettare,—ammoniva il barone. Anche il venerando Marco Modena sentenziava che i tempi non erano ancora maturi.

—Vedrete che tutto quello che desideriamo accadrà. Le nostre impazienze non possono affrettare quello che deve fatalmente avvenire. Sappiamo noi quello che il destino prepara fra cinque anni? fra dieci? Può scoppiare una guerra fra gli Stati di Europa, e allora l'Italia si prenderà Trieste, con la stessa facilità con cui si coglie un frutto maturo dall'albero.

—Una guerra europea!—esclamava stupito e quasi sdegnoso lo spagnolo Mendez,—che utopia! Fra dieci anni, signor Modena, non si parlerà più di guerre, almeno in Europa. La guerra sarà lasciata ai barbari, ai selvaggi. Il periodo delle guerre sarà chiuso per sempre; è stato chiuso col '70. Ora devono trionfare gli ideali umanitari!

Anche la signora Coen era pacifista, e diceva non essere più possibile la guerra fra popoli civili.

—E siamo noi, donne, e dico specialmente noi donne israelite, che dobbiamo propugnare la pace,—diceva ella con tono inspirato,—la giustizia deve essere arbitra delle contese fra le nazioni, e verrà il giorno in cui Trieste sara italiana, senza versare per questo una goccia di sangue, solo in forza del diritto delle genti. Sì, noi israeliti dobbiamo esserne specialmente persuasi, perchè abbiamo pur veduto i nostri diritti sacrosanti di libertà e di eguaglianza trionfare, dopo secoli di dolore, ma senza guerre, senza rivoluzioni…

La signora Coen era brutta, ma quando parlava con tanta convinzione il suo viso scimmiesco rifletteva una luce interiore che lo rendeva simpatico. La ascoltavano con deferenza, perchè era la moglie del ricchissimo banchiere, e in relazione con cospicue personalità; era grande amica di Berta Suttner, l'ardente pacifista. E poi tutti la sapevano molto buona, d'una carità inesauribile; e una volta ancora la bontà faceva dimenticare la bruttezza.

Era il giorno dopo una di queste riunioni, delle quali Gigetta diceva che le scaldavano il cuore. Ne stava parlando con suo padre; il quale, pur senza mostrare entusiasmo, le dava ragione in fondo al suo cuore. Il signor Furiani adorava la sua figliuola, della quale intuiva l'ingegno anche non comprendendolo interamente. La signora Catina invece, e pure la nonna, la buona e rigida signora Marietta Krailich, preferivano il ragazzo, il biondo Pepi svogliato e birichino come i veri muli di Trieste. La signora Marietta era venuta quel giorno a pranzo in casa del genero, il che accadeva regolarmente una volta al mese, con scarsa sodisfazione di lui. Naturalmente alla vecchia sciava non piacevano punto quei discorsi di italianità, che urtavano tutte le sue ben radicate convinzioni.

—Son cose che imparate in casa degli ebrei,—diceva col suo duro accento slavo, storpiando il bel dialetto triestino, —na, na… le persone oneste non parlano così. Non ho mai sentito un cristiano fare questi discorsi. Nostro buon imperatore, nostro Franz Josef…

—Perdio, mamma! lo lasci stare!—prorompeva il commissario, —io non voglio dir male dell'imperatore; lui è certo che non sa nulla; sono i suoi ministri, sono quelli che lo consigliano! Io sono sempre stato buon austriaco, ma dico che i triestini finiranno col perdere la pazienza! Perchè si ostinano a volerci fare diventare tedeschi? perchè ci tolgono tutte le libertà? Non si può parlare, non si può scrivere, bisogna vergognarsi di essere italiani! Con gli sciavi il governo non agisce mica così. Li tratta bene, gli slavi! E tratta bene gli ungheresi, i quali dicono: siamo austriaci, ma non tedeschi! E così i croati, i boemi… E perchè noi solamente siamo trattati come i cani?

—Tutte eresie che dicono gli ebrei,—ribattè la vecchia ostinata.

—Sacr…!—bestemmiò l'irascibile signor Furiani, che per contraddire alla suocera, prendeva persino la difesa degli ebrei,—che c'entrano essi? Sono italiani anche loro, e parlano come italiani, e fanno bene!

—Qui a Trieste,—replicò la signora Marietta,—tutti lo sanno che chi vuole l'Italia sono gli ebrei…

—Bene! così comincio a stimarli di più—gridò il signor Luigi, picchiando il tavolo col pugno;—benissimo! e mi fa piacere di vedere che gli ebrei spendono per la nostra italianità, che aiutano la Lega nazionale, la società ginnastica e tutte le iniziative italiane!…

—Oh Dio!—sospirò la signora Catina,—che uomo! sempre urlare, sempre bestemmiare. Non ci mancava più che l'Italia qua dentro per andar d'accordo. Che c'è? che hai?— domandò poi a Pepi, che entrava di corsa, rosso in viso.

—Mamma! papà!… lo hanno arrestato!—gridò il ragazzo ansando per la corsa fatta.

—Chi arrestato?

—Leone! Leone Colonna! la polizia! lo hanno menato dentro!

—Leone arrestato?! Sei pazzo?—gridò Gigetta.

—Me l'ha detto Tobia, proprio adesso. Lui l'ha saputo da suo fratello, il dottor Giosuè.

—Arrestato! ma perchè?

—Così. Non so. Tobia dice perchè è contro all'imperatore…

—Ecco, vedete. E' quello che si guadagna,—brontolò la nonna,—finirete tutti così.

La notizia aveva gettato un freddo in mezzo a tutti. Della polizia avevano tutti paura; anche il signor Furiani, che sentì tosto sbollire i suoi entusiasmi patriottici.

Gigetta si mosse per andare.

—Dove vai?—le gridò la madre?

—Dai Levi,—rispose ella tranquillamente.—Devono sapere qualcosa.—E uscì senza badare ai rimproveri che le suonavano dietro.

—Bella educazione date a vostra figlia!—brontolò la nonna.—Lasciatela pur fare quello che vuole, e vedrete!

La signora Catina rispose con un gemito; e suo marito; riconoscendo in fondo la giustezza del rimprovero, se ne andò senza replicare, curioso e impressionato anche lui.

Gigetta aveva fatto le scale di corsa, e palpitava ancora quando la vecchia Lia le aprì, un poco stupita di vederla. Il cuore le batteva forte entrando nella sala comune, dove era sempre stata accolta come persona di famiglia. Bisogna dire che ora si vergognava un poco. Ma quando si trovò in presenza di quegli onesti, simpatici visi, che l'accolsero come se l'avessero veduta il giorno prima, sentì scenderle in cuore una pace calda e sicura; erano pur sempre i suoi buoni amici quelli; che follìa di averli trascurati per estranei!

Là era la signora Sara, coi suoi calmi occhi ridenti, e il viso opaco incorniciato dalle bande liscie dei capelli; e appoggiata a lei la piccola Ester, che si stringeva al seno una pupattola informe; là era il maestro Benedetto, venuto a leggere la quotidiana lettera di Davide alla mamma; e madamigella Capriccio, che si faceva sempre più bella; e Tobia, col suo viso rotondo di bamboccione, un poco indietro per i suoi dodici anni. E pure Rachele, c'era, perchè non sapeva stare un giorno senza venire a vedere la mamma, e respirare una boccata d'aria di casa sua. Ella mostrava già i segni di una gravidanza piuttosto avanzata, e il suo placido viso diceva la tranquilla e seria sodisfazione con cui viveva la sua vita. E lei, Gigetta, perchè era sempre così agitata, malcontenta, e non sapeva neppur volere veramente, tendere a qualchecosa di preciso, di desiderabile?

—Ma è vero di quel povero Leone Colonna?—proruppe, dopo i primi saluti.

—Altro che vero!—disse il maestro,—la polizia pare voglia farsi più severa; e gravar la mano sugli irredentisti. In casa Colonna si chiacchiera troppo.

—E' dunque un delitto scambiare le proprie idee?— replicò Gigetta subitamente accesa,—è un delitto parlare di patria, di libertà, in una casa privata?

—No, figliuola, non è un delitto, ma una imprudenza,— rispose calmo il maestro.—La tirannide è dolorosa a sopportare, è vero. Ma chi scuote impaziente le braccia, per liberarsi del laccio, non fa che stringerselo più fortemente intorno ai polsi.

—Ma allora, che dobbiamo fare? soffrire sempre? Tacere? —mormorò la giovinetta con dolore.

—Saper aspettare,—disse il maestro sorridendo. Si guardarono profondamente.

—E allora,—disse dopo un poco Gigetta,—per Leone non c'è nulla da fare?

Il maestro alzò le spalle.

—E… che gli faranno?

—Forse un processo. Forse nulla.

—Ah, ma infine, povero giovane, egli non ha nessuna colpa più di noi tutti!—esclamò Gigetta, lasciandosi, al solito, trasportare dal suo animo impetuoso.—Quello che ha detto lui, noi tutti lo si diceva. E non ha fatto nulla di nulla poi!

—Non lo sappiamo,—disse il maestro,—e, mia cara figliuola, chi ci assicura che non saranno arrestati o interrogati anche gli altri?

Gigetta sentì un piccolo brivido nella schiena, nonostante la temerità che ostentava.

—Io la consiglio, Gigetta, di non frequentare più per qualche tempo la famiglia Colonna,—aggiunse Benedetto,— non c'è nulla da guadagnare. Sono ottima gente, piena di buone intenzioni; ma non basta. E mi dispiacerebbe moltissimo che lei avesse a soffrire qualche noia.

Il maestro parlava con cordialità, ma Gigetta sentiva quel lei, adoperato cerimoniosamente, mentre tante volte egli le aveva detto tu, con tutta l'effusione del suo cuore! Ne ebbe dispetto.

—A ogni modo,—disse—se si fa il processo, saranno interrogati tutti coloro che frequentano casa Colonna. Anch'io. Ebbene, risponderò!

—Sicuro, sicuro,—disse il maestro, mentre Gigetta, irrequieta, cercava di scoprire qualche ironia in quella voce calma,—i testimoni saranno molti.

—Ma,—interruppe la buona Sara,—tu sai bene, che Giosuè ha promesso di interessarsi per Leone. Si può sperare che tutto finisca con una paternale del commissario di polizia.

Gigetta guardò il maestro con fare interrogativo. Egli rispose con un sorriso.

—E' vero, signor maestro?

—Sì. Giosuè ha promesso. Egli ha dei clienti di gran peso! Sai che è stato chiamato persino dall'arciduchessa Valeria? Speriamo che le sue alte relazioni servano a cavar d'impaccio il povero Leone,—disse Benedetto con l'antica cordialità.

—Non sapevo,—disse Gigetta,—che foste tanto amici coi Colonna.

—Perchè no? siamo in ottimi rapporti, anche se ci frequentiamo poco. E' gente che vive a modo suo… e noi viviamo a modo nostro. Ma ci stimiamo a vicenda, benchè essi siano usciti alquanto dalla nostra sfera. Sono di quelli ebrei che entrerebbero volentieri nell'alta società, e, senza vergognarsi della loro modesta origine, hanno tendenze superiori. Gente che vive molto con la fantasia. La signora Marina fu ai suoi tempi una ottima artista; Leone suona divinamente, e mi dicono che compone assai bene. E ci sono di quelli che negano agli ebrei il temperamento artistico? E' un pregiudizio, come tanti! Forse che Abram Basevi, il celebre compositore di musica e contrappuntista, non è un ebreo? E Michele Bolaffi, anche lui musicista eccellente? E Mendelsohn non era ebreo?

—Ma, caro Benedetto,—disse ingenuamente la siora Sara,—tu dimentichi il nostro re Davide, il salmista…

—Veramente è tanto un pezzo che è morto!—rise il signor Benedetto,—ma tu hai ragione, cara mia; il più famoso compositore di musica dei tempi antichi fu un ebreo!

—Musicista e poeta,—disse Gigetta,—e dei poeti, ebrei, moderni, ne conosco anche io. Heine, per esempio, il mio favorito.

—Ah sì!—esclamò zio Benedetto,—l'inimitabile Heine! Chi gli negherà il genio e l'originalità? Conosci, Gigetta, le sue Melodie ebraiche? Non ne ho mai veduta una traduzione; e son tanto belle!

—Voglio provarmi io,—disse Gigetta.

—A tradurle? E' un lavoro difficile, figliuola mia! Ma puoi sempre tentare. Ah, per me, Heine è intraducibile!

—E il nostro Revere, triestino, non fu buon poeta anche lui, e ebreo?—disse Gigetta.

—Oh,—aggiunse Rachele,—io conosco anche delle donne, che scrivono bene, e sono ebree; per esempio, la nostra Haydée, la nostra Barzilai-Gentili…

—Brava, Rachele! E Gustavo Uzielli, e il d'Ancona, e Salomone Morpurgo, e Eugenio Camerini, e Salomone Fiorentino, e Sabatino Lopez non sono tutti scrittori, poeti, letterati di grido? E non nomino che gli Italiani, così come mi cadono in mente!… Ma ci sarebbe da farne una raccolta interessante.

—Si dovrebbe farla,—suggerì Gigetta.

—Non so se sarebbe tanto opportuna; forse accentuerebbe la differenza di razza e di religione, che la civiltà modérna viene attenuando. Oppure bisognerebbe farla molto bene, con tatto e genialità. Ma occorrebbe allora ricordare anche i grandi scienziati e medici, che furono o sono ebrei; per esempio il nostro grande Pescarolo; e son tanti! E anche i nostri più famosi teologhi, ritualisti, talmudisti, e poeti in lingua ebraica… Quanti! una legione! Elia Benomozegh, per esempio, teologo di grande valore; David Castelli, scrittore di storia ebraica e critica biblica; Joseph Ergas, rabbino, e autore di opere rituali e cabalistiche, assai pregiate nel secolo XVIII in cui visse. E così il rabbino Malachìa Coen, anche lui ritualista e poeta, e Joseph Attias, e cento altri… Ah, sarebbe una storia molto istruttiva, che insegnerebbe, a chi ancora lo ignora, come la nostra razza, nonostante la secolare oppressione, non si dedicava tutta al commercio e al lucro, ma era capace, e lo è sempre, anche di astrazioni artistiche, di concezioni geniali. Se poi si nominassero i filosofi ebrei…

—Spinoza….—disse Gigetta.

—Lombroso…—mormorò dubbiosamente la signora Sara.

—Lombroso non è propriamente un filosofo, corresse il cognato,—ma, tant'è, fai bene a ricordarlo. Lombroso è una gloria italiana, ma è pure una gloria della nostra razza. Ma finiamola, perchè questa furba di Gigetta deve ridere di me nel suo cuore vedendomi vantare puerilmente i nostri.

—No, no, ne sono anzi contenta,—protestò la fanciulla. E aggiunse arrossendo,—buone notizie di Davide?

—Ottime,—rispose zio Benedetto. Ma la siora Sara scosse il capo.

—Studia troppo quel figliuolo; finirà con l'ammalarsi. E poi, nelle sue lettere parla tanto poco di sè! Ecco, anchè questa: «Sto benissimo, non dubitare, mangio con appetito…» e poi si rivolge allo zio, e parla di professori e di studi… Ma tu, Gigetta, non ricevi lettere di Davide? Credevo vi scriveste, voi due.

Il viso di Gigetta era in fiamme, e la confusione le impediva di parlare.

—Oh,—continuò la brava signora Sara,—non volevo mica dirti niente di male! Eravate amici, come fratello e sorella, tu e Davide, e credevo…

—Sì, siora Sara, difatti, ci scriviamo,—disse Gigetta; non tanto di frequente… L'ultima lettera sua era di quindici giorni fa… Ma mi parla continuamente del suo amico Alvise Galli, e dei loro progetti!… Di sè mi dice assai poco!

—Sì sì,—mormorò la madre,—è un ragazzo fatto a modo suo… Dio lo benedica! Chi sa cosa finirà col fare! Anche quell'Alvise è un esaltato… Preferirei che Davide avesse un amico più calmo….

—Alvise è tanto simpatico!—disse quella pettegolina di Bianca.

—Ma guardate un po'!—rise lo zio. Bianca fece una smorfia, e Tobia disse maliziosamente:

—Bianca è ora innamorata di Alvise!… Prima lo era di Pepi, ma…

Non finì, perchè già Bianca gli era adosso, con le due manine tese per graffiarlo, e, furibonda, gli gridava con voce soffocata:

—Non è vero, bugiardo! non è vero!

—Bianca!… Tobia!…—sgridava la madre, mentre Ester, stringendosi a lei, guardava i due lottatori con occhi sbarcati. Tobia si era già agilmente liberato dalle unghie della sorella, e, rifugiandosi dietro Gigetta che rideva:

—Sì, sì,—continuava,—di Alvise ci ha persino il ritratto!

—Il ritratto!…

—Sì, quella istantanea, dove c'è anche Davide…

—Bugiardo, bugiardo!—gridava Bianca, inseguendolo per la stanza.

—Finiamola, ragazzi,—disse con voce severa lo zio.— Certi scherzi non mi piacciono. Tu Tobia, fai male a far arrabbiare tua sorella; e tu, Bianca, sempre con quella furia, sempre pronta a picchiare e a graffiare… E non pensi che tra poco sarai una signorina? Belle maniere, davvero!

I due già si erano quietati, e stavano lontani, guardandosi in cagnesco ma ridendo, mentre Rachele e sua madre continuavano la predica incominciata dallo zio.

Gigetta prese congedo, ma anche il maestro doveva uscire, si accompagnarono.

—Dunque,—chiese egli col suo sorriso ironico e indulgente, —tu e Davide siete in freddezza? E la colpa l'ha il bel Leone Colonna, eh? Ah! cuori di donna!

Ella si difese. Ma no, che c'entrava Leone? Per Davide ella anzi aveva sempre lo stesso affetto, ma era lui che…

—So, so;—rispose serio zio Benedetto, fermandosi sul pianerottolo, dinanzi alla porta dei Furiani,—conosco mio nipote… E' meglio non esaltarsi, da una parte nè dall'altra; lasciar far al tempo… e al destino.

—Lei crede al destino, maestro?

—Sì, figlia mia. Non ci credo a modo dei turchi, ma sono peruaso che tutto accade perchè doveva accadere. Sono il nostro temperamento, la nostra natura, l'educazione, le circostanze, che formano il nostro destino…

—Allora, la volontà nostra non esiste?—domandò pronta la fanciulla.

—Sì, esiste anche quella. Ma perchè uno ha una volontà forte e vittoriosa, e un altro piega qual piuma al vento? Non dipende dai fattori che ho nominato prima? Ma non facciamo della filosofia qua sulla scala. Arrivederci, Gigetta, e procura di farmi quella traduzione di Heine!

—Sì, proverò,—promise Gigetta—e lei, e il dottore… si occuperanno di Leone, non è vero?

—Non dubitare. Vado appunto in casa Colonna. Ma tu, accetta un mio consiglio! Non andarci troppo spesso, e… non fare delle chiacchiere inutili… Scusa, sai!

Nell'ampia camera occupata in casa della vedova Stein dagli studenti Davide Levi e Alvise Galli, erano convenuti, quella sera, altri cinque amici e compagni d'Università, tuttì cinque di nazionalità diversa, un polacco, un croato, un russo, un ebreo boemo, un tedesco di Monaco. La lingua adoperata era la tedesca.

La vedova Stein aveva servito svariate bevande, secondo il gusto di ciascuno; Augusto Paulewski e Fedoro Michiewitz, che non potevano rinunziare all'alcool, bevavano un grog con molta acquavite; Stefano Ciaich, il croato, vuoteva una bottiglia di vinello rosso; Moses Kuhner, il boemo, centellinava una Pilsen bionda come lui; il tedesco Peter Schröder ingurgitava larghi sorsi di una scura Monaco, e i due italiani bevevano un caffè, preparato da loro stessi, vale a dire fortissimo e senza zucchero. Tutti sette fumavano l'inevitabile pipa, e la camera era già avvolta in dense nuvole biancastre, nonostante la finestra spalancata sul tepido pomeriggio di aprile.

—Che l'agricoltura salverà la Russia, come dici tu, Michiewitz, è sicuro,—diceva Davide, agitando il braccio destro con una mossa che gli era divenuta abituale, a forza di parlare in pubblico. Perchè Davide Levi, studente dell'ultimo anno di legge, e iscritto ufficialmente al partito socialista, è oratore in tutti i comizi, e ha acquistato una eloquenza persuasiva assai apprezzata dai compagni.—E' sicuro. Ma non v'è buona agricoltura primitiva, barbara, meschina, intrisa di sudore e di sudiciume, senza edifici, senza macchine, senza strade, senza irrigazioni, senza commercio. Finchè i ricchi non si persuaderanno di impiegare il loro capitale nella terra, il vostro cammino verso la civiltà sarà lento, nonostante tutte le libertà che venite acquistando.

—E poi,—aggiunse Ciaich,—avete ancora viva la questione dell'antisemitismo; e finchè essa dura, avrete sempre una piaga aperta nel fianco della vostra civiltà.

—L'antisemitismo ce l'avete anche voi, in Austria,— replicò il russo,—e poi, che volete? io non ho pregiudizi di sorta, ho buonissimi amici anche fra gli ebrei, e infatti, —disse, accennando cortesemente prima Davide poi Moses Kuhner,—voi due siete fra i miei ottimi; ma gli ebrei di Russia sono proprio una razza antipatica, piena di vizi, con la quale noi non potremo mai stringere fratellanza.

—Tu mi permetterai di prendere la parola in difesa di quei miei correligionari!—esclamò con calore Davide.

—E' un fatto,—disse Augusto Paulewski,—che, nonostante tutte le leggi libertarie emanate in favore degli ebrei, in alcuni stati la guerra contro di loro è risorta ciecamente irosa. E' guerra religiosa e guerra economica; anzi in Germania, nell'Austria, nella Francia e nella stessa Russia sono avversati per motivi economici, ai quali si da una apparenza di religiosità. Qui in Austria e peggio nell'Ungheria l'odio per gli ebrei dà spesso luogo a scene feroci. Ricordate che, solo pochi anni fa, fu condannato a morte a Kuttenberg nella Boemia, un ebreo, Leopoldo Hilsner, accusato di avere ucciso una fanciulla cristiana, per intridere col suo sangue gli azzimi di pasqua?

—Sì,—disse Michiewitz,—è orribile che si creda ancora al giorno d'oggi alla fiaba dell'assassinio rituale, e che si trovi un verdetto di giurati a confermarla!

—E il processo di Tisza-Eslar, in Ungheria, che nel 1883 fu cagione del sacco di Zala-Egerszeg, nel quale si fecero cose orrende contro gli ebrei, non ebbe forse la stessa origine?

—E nel 1889 non si fecero forse a Vienna le elezioni municipali in odio agli ebrei, e la plebe non mise a ruba i loro negozi?

—E forse che oggi, in Rumenia, non esiste ancora contro di essi il divieto di possedere beni stabili, a onta che il Congresso di Berlino, nel 1878, avesse imposto l'ammissione degli ebrei a tutti i diritti della cittadinanza rumena?

—La questione semita,—disse Schröder,—esiste in tutti i paesi, meno che in Italia; fin dal tempo dell'imperatore Giuseppe II, il sovrano illuminato, era stata proclamata in Lombardia l'eguaglianza dei diritti di tutti i cittadini, a qualunque religione appartenessero; negli altri stati italiam gli ebrei dovevano bensì abitare nel ghetto, ma nessuna ira feroce si scatenava contro di loro. Oggi poi sono considerati come tutti gli altri cittadini…

—E' vero… fino a un certo punto,—disse Alvise Galli.

—In Francia l'antisemitismo non può assumere le barbare forme della Russia e dell'Austria,—disse Kuhner,— ma esiste anche là. Prova ne sia il processo Dreyfus!

—Ma se c'è in Francia tutta una letteratura antisemita, capitanata da una donna, quella Gyp, che finge di avere ingegno, e spirito… perchè scrive romanzi grossolani contro gli ebrei!…

—Sì,—concluse il russo Michiewitz,—ma da noi, come dicevo prima, l'odio contro gli ebrei è in parte giustificato. Sono essi che esercitano il commercio minuto, specialmente quello dei liquori. Sapete che da noi ci sono interi villaggi di ebrei? E la popolazione cristiana si espropria un poco alla volta per loro. I nostri contadini sono ignoranti e ubbriaconi; bevono l'acquavite venduta loro a credito dagli ebrei; le loro donne vanno a comperare a credito gli alimenti e anche vesti e oggetti di ornamento. L'ebreo dà, finchè un bel giorno il debito è così grosso, che il contadino non può pensare a pagarlo. Allora l'ebreo fa mettere all'asta la casa, il campicello, e se ne impadronisce; che meraviglia se poi, ogni tanto, gli spogliati si vendicano con l'assalire le case e i negozi degli ebrei, con i saccheggi e gli incendi, anche con le uccisioni?

—E le nostre leggi,—interruppe Schröder,—sono assai miti, e i giudici sempre indulgenti contro simili eccessi! Ai perseguitati non resta altro scampo che l'emigrazione.

—Eppure,—disse Michiewitz,—la Russia fu il primo stato che permise agli ebrei la proprietà fondiaria; un ukase imperiale del 1835 concede loro anzi dei privilegi, se divengono agricoltori e possidenti…

—Non fu la Francia che, dopo la Rivoluzione, riconobbe il diritto degli israeliti?—domandò Paulewski, che era francofilo.

—E' un fatto assai curioso!—disse Michiewitz,—ma l'Assemblea costituente, nella memoranda notte del 4 agosto, in cui si abolirono tutti i privilegi, e tutti i cittadini furono dichiarati uguali dinanzi alla legge, le interdizioni civili che gravavano sugli ebrei non furono tolte! Essi presentarono parecche petizioni in questo senso, che non furono accolte. Mentre tutte le interdizioni venivano abrogate per ogni sètta religiosa, solo quelle contro gli israeliti furono mantenute. Solo alla fine del 1791 gli ebrei francesi poterono godere della comune cittadinanza.

—In Italia, o meglio in Lombardia,—disse Alvise,— ciò era avvenuto fin dal tempo del codice Giuseppino.

—A ogni modo, fu il codice francese quello che primo accordò agli ebrei tutti i vantaggi sociali,—insistè Paulewski; —anzi, siccome le leggi non riconobbero più nessun matrimonio che non fosse celebrato dall'autorità civile, e quindi tolsero ai rabbini la facoltà di fermare le nozze, si cominciarono a stringere legami nuziali anche tra cristiani e ebrei; il che prima accadeva rarissimamente.

—Ebbene,—disse Davide, che aveva aspettato pazientemente, —ora permetterete che io parli, poichè Michiewitz si è mostrato così severo verso i miei correligionari, e tenti di giustificarli…

—Ti ripeto che io non ho pregiudizi contro gli ebrei,— esclamò Michiewitz,—ve ne sono di quelli che io stimo profondamente, senza parlare di voi due presenti. Non furono ebrei Marx e Lassalle, i due più grandi apostoli del socialismo? E, perdio! san Paolo e Cristo stesso non erano ebrei?

—Lascia,—disse Davide,—che se volessi enumerarti ebrei illustri, grandi veramente, nei campi dell'attività umana, sarebbe cosa troppo lunga, e farei torto a te se non ti credessi capace di ammirare il genio, la capacità, la virtù dovunque si trovino. Ma tu, Michiewitz, socialista fervente e convinto, tu devi spargere fra la plebe della tua Russia la buona parola, la grande promessa. E nella plebe da redimere devi comprendere anche gli ebrei! Invece tu, nel fondo del tuo cuore, li escludi; tu pensi anzi: Io salverò i contadini dalle unghie dell'ebreo!… E, pensando così, tu frustrerai i vantaggi dell'opera tua, e continuerari a fabbricare barriere tra le caste del tuo paese. Tu invece devi convincerti che gli uni e gli altri sono egualmente miseri, gli ebrei e i contadini; tutti degni della tua pietà e della tua giustizia. Intendi?

—Ebbene dunque, convincimi, non domando di meglio! —disse sorridendo Michiewitz,—e allora per prima cosa spiegami perchè, in generale, gli ebrei raccolsero presso tutti i popoli piuttosto l'avversione che la simpatia? Non è forse perchè si meritarono diffidenza e dispregio? E' inutile, che io ti ripeta, Levi, e a te pure, Kuhner, che noi facciamo una discussione puramente accademica.

Davide scosse il capo, e il suo viso prese una espressione di malinconia.

—Vi sono,—rispose,—uomini e popoli che sembrano predestinati alla calunnia. La sentenza non è mia, ma del milanese Carlo Cattaneo, un uomo che ha parlato di noi con profondo senso di giustizia. Gli israeliti, quando erano ancora una nazione governata dalle leggi mosaiche, si tenevano separati dagli altri popoli, perchè il commercio con questi non alterasse la purità della credenza monoteistica. Questa esclusività, questo isolamento volontario dovettero, certo, creare un senso di antipatia nei popoli confinanti, che cominciarono a guardare gli ebrei con diffidenza e disprezzo. La profonda diversità del concetto religioso e del culto scavò indubbiamente un abisso tra la nazione ebraica e tutte le altre. E allora, badate bene, gli israeliti erano avversi al commercio e alle peregrinazioni di qualsiasi genere, appunto perchè non volevano venire in contatto con gli idolatri; e perciò erano attaccati al suolo natìo, amavano la terra e la lavoravano, e quindi esercitavano tutti i mestieri che occorrono alla vita stabile nelle città e nelle campagne. Tacito racconta che, quando erano forzati a mutar paese, preferivano la morte! E Tacito non è sicuramente, uno storico favorevole agli ebrei!

—Ecco,—disse il russo,—anche i romani odiavano gli ebrei, eppure erano tolleranti verso tutte le religioni!

—Eppure le dottrine monoteistiche suscitavano gelosia e timore nei pagani, specialmente nella classe sacerdotale. I preti romani sparsero atroci calunnie contro gli ebrei; li accusarono di adorare nei loro templi una testa d'asino. In mezzo alle oscene favole pagane, a una teologia senza moralità, le leggi ebraiche, emanate in nome della divinità, erano le sole che contenessero alti precetti umani e morali. Perciò erano avversate e calunniate! Non toccò forse la stessa sorte ai cristiani? Non fu appunto la purezza e la nobiltà del loro precetti la ragione dell'odio dei corrotti pagani?

—Sì,—disse Michiewitz,—ma presto il Cristianesimo trionfò e salì addirittura sul trono; gli ebrei invece furono involti in odio sempre più profondo.

—Perchè all'odio dei pagani si aggiunse pur quello dei cristiani!—esclamò Davide.—Il pretesto del deicidio attribuito agli ebrei scatenò contro di loro una superstiziosa avversione. Nel IV secolo, quando la religione cristiana si era resa generale, ebrei e idolatri furono messi al bando dalla legge. Ogni matrimonio misto fu considerato come adulterio, gli ebrei furono esclusi dalle pubbliche cariche. Giustiniano, così saggio raccoglitore di leggi, interdisse agli ebrei la milizia e l'insegnamento. Più tardi si ordinò la distruzione delle loro sinagoghe, e la confisca di ogni loro bene. Anche il diritto di credità fu loro interdetto!

Che dovevano dunque fare, i poveri ebrei, se non cercare di guadagnare la vita con mezzi segreti e anche illeciti? Ogni lavoro era proibito loro, nessuno avrebbe pagato mercede agli ebrei! non potevano possedere nulla in beni stabili, nè case nè fondi, nè merci. Per forza di queste insane disposizioni gli ebrei furono spinti al possesso di beni mobili, al denaro insomma, che si poteva nascondere, asportare e che… conveniva far fruttare, poichè altri mezzi per vivere non c'erano per essi!

—Nel nono secolo,—aggiunse Schröder,—gli ebrei possedevano, si dice, quasi tutto il denaro contante dell'Impero. E si capisce! i baroni di Carlomagno non si degnavano di esercitare il commercio.

—Ma quanto maggiori si facevano le ricchezze degli ebrei, tanto più essi eccitavano la cupidigia dei sovrani cristiani! Sono orrende le persecuzioni cui furono sottoposti gli ebrei, per carpire loro il denaro. Filippo Augusto, nel secolo XII, confiscò loro tutti gli oggetti preziosi e tutti i loro crediti; poi li cacciò dal regno; e infine vendette loro la licenza di ritornare! Il re Giovanni d'Inghilterra faceva torturare gli ebrei perchè confessassero dove tenevano il denaro. Luigi VIII di Francia cancellò d'un tratto di penna tutti i debiti dei suoi baroni verso gli ebrei. Durante il regno di Luigi IX le stragi degli ebrei erano così feroci, che lo stesso papa Gregorio IX dovette pubblicare una Bolla, nella quale si proibiva ai cristiani, sotto pena di scomunica, di uccidere gli ebrei e di disseppellire i loro morti, per costringere i parenti a ricomperarne le ossa!

—Il che non impedì,—disse Kuhner con aria lugubre,— che più di 3000 fossero assassinati in Francia, e altrettanti in Germania e in Boemia.

—E si continuò così non per anni, ma per secoli!— esclamò Davide.—La storia delle persecuzioni degli ebrei non è stata ancora completamente scritta, e quando lo sarà parrà incredibile ai popoli civili! Il re Eduardo IV d'Inghilterra cacciò tutti gli ebrei dai suoi stati, e circa 20.000 ne andarono così pellegrinando per il mondo. Filippo il Bello, nel 1306, fece incarcerare, in una notte, tutti gli ebrei di Francia, confiscò loro tutti i beni e i crediti, e poi li cacciò fuori dei confini. Molti morirono per le strade, di stanchezza è di dolore!

—Eppure,—disse il francofilo Paulewski,—la Francia íccolse più tardi gli ebrei…

—Sì, per esporli nuovamente a persecuzioni da parte di sètte di fanatici! Nel castello di Verdun in un giorno solo ne furono sgozzati 500, e la sètta dei Pastorelli faceva macello di ebrei in tutte le terre di Francia. Poi, quando ci fu intorno al 1320 una epidemia di lebbra, si diffuse la voce che fessero gli ebrei quelli che spargevano il veleno per far morire i cristiani; e così ebrei e lebbrosi furono arsi a migliaia!

—E forse che si stava meglio nella Spagna?—mormorò l'ebreo Kuhner con amarezza.

—Era forse peggio anzi!—disse Davide.—Gli spagnuoli eran persuasi che gli ebrei operassero sortilegi e scannassero vergini e fanciulli cristiani. Nel 1391 ne furono uccisi più di cinque mila. E più di un milione furono fatti battezzare a forza! Naturalmente si diffidava di questi equivoci convertiti, che il popolo chiamava marrani; e nel secolo seguente, il terribile tribunale dell'Inquisizione ricominciò la persecuzioni contro gli israeliti non meno che contro le famiglie dei marrani. Si calcola che allora ottocentomila ebrei furono costretti a sgombrare dalla Spagna.

—E chi dirà il numero degli ebrei sgozzati o arsi vivi con vari pretesti in Boemia, in Moravia e nella Slesia?— aggiunse Kuhner.

—E nella Polonia e nella Russia?—disse il polacco.— In Francia, bisogna confessarlo, gli ebrei cominciarono a star meglio nei tempi più moderni.

—In Francia,—continuò Davide,—c'erano, nel secolo XVII delle leggi, che costringevano i figliuoli degli ebrei a abbandonare il loro domicilio alla morte del padre. E il re Sole, il grande, il magnifico Luigi XIV, nel 1685 ordinò che tutti gli ebrei stabiliti nelle colonie francesi sgombrassero fra tre mesi. In Alsazia fin dal 1796 un editto proibiva agli israeliti di comperare case; insomma in Francia le leggi contro gli ebrei erano così assurde, che nel 1774 il celebre avvocato Lacretelle osò chiamarle, in pieno tribunale, leggi insensate e perfidamente crudeli!

—Oh, dal lato umanitario,—disse il croato Ciaich, che era piuttosto taciturno,—nessuno può dar torto agli ebrei, ma nei miei paesi, e anche nella stessa bella e grande città di Fiume, sono generalmente accusati di essere egoisti e misteriosi; è questo il motivo, forse, per cui il popolino attribuisce loro riti strani e anche criminosi.

—E come non sarebbero divenuti, se non egoisti, almeno, chiusi fra di loro e diffidenti verso gli estranei? Disperso in piccoli gruppi, in mezzo a popolazioni ostili, il popolo ebreo doveva condensare più potentemente le proprie affezioni. Era solo nella famiglia e nel consorzio della propria sètta, che gli ebrei potevano mostrarsi quali veramente erano, dare tregua ai sentimenti penosi e amari, cessare di sentirsi umiliati. Là tornavano a essere uomini quelli che per gli sprezzanti cristiani non erano altro che cani di ebrei! Conforto, aiuto, consiglio non potevano sperarlo altro che nella loro sètta! E che un velo di mistero avvolgesse la loro vita e gli atti del culto, è pure spiegabile, se si pensa che la loro vita errabonda doveva stendere molto lontano le loro relazioni, e che queste relazioni dovevano essere mantenute segrete per sicurezza delle persone e degli averi. Si aggiunga che, fuori degli ebrei, nessuno intendeva la loro lingua e le loro scritture; e siccome per secoli ogni diritto all'istruzione fu loro conteso, essi non imparavano altra scrittura che la propria; e benchè facilmente apprendessero le lingue e i dialetti dei paesi in cui vivevano, fra di loro, dispersi in tutto il mondo, e cittadini di nessun paese, è più che naturale che usassero l'idioma ebraico. Le leggi civili impedivano agli ebrei di tenere servi o operai cristiani; e in alcuni luoghi anche servi della loro propria religione; perciò tutti gli affari si trattavano fra parenti; il ghetto era un recinto impenetrabile, per volere e opera delle medesime leggi cristiane. E gli ebrei, maltrattati, disprezzati, e, quando si poteva, sfruttati, avevano tutto l'interesse a tenere nascosti i loro affari e i loro guadagni ai cristiani. Donde nacque e si diffuse uno spirito di simulazione e di finta umiltà, che sono dovunque le armi e le difese degli oppressi. Invece nessun ebreo aveva vantaggio a tradire un ebreo, donde veniva una fiducia reciproca, una sicurezza, che stringeva sempre più i vincoli di questa razza tenace. E poichè i matrimoni si facevano tutti fra consanguinei o vicini, anche i legami di parentela erano fra gli ebrei così intricati, che, nel medesimo ghetto, dimorava, si può dire, un'unica grande famiglia. E quanto al mistero dei riti, come avrebbe potuto essere diversamente? I cristiani non mettevano piede nelle sinagoghe e nei templi israelitici; quei muri disadorni, quei versetti in caratteri misteriosi, quella lingua nasale, gutturale, irta di suoni senza significato per i profani, dovevano produrre un senso di paura su coloro che avevano ereditato gli antichi pregiudizi antisemitici… E tutti sanno a che punto può giungere la fantasia popolare, eccitata dall'odio e dal terrore!

—Non dimenticare, o David Levi,—disse Kuhner,— che gli ebrei, pur così perseguitati, erano nel medioevo giunti, di emporio in emporio, fino ai più lontani paesi, all'estremità del mondo allora conosciuto; e avevano fondato in Arabia il regno degli Amjari, che giunse a grande potenza, e che fu distrutto dagli Abissini. Ma pure in Abissinia gli ebrei fondarono una repubblica, e un'altra nel Malabar. Gli serittori arabi Ibn Haukal e Massudi parlano di due regni, quello di Bat e quello di Amol, che gli ebrei avevano edificato sulle frontiere orientali dell'Europa, e che fiorivano ancora nel decimo secolo.

—Il che prova apertamente,—disse Schröder,—che gli ebrei hanno tendenze nazionalistiche e politiche, anche al di fuori del sionismo, che mi pare piuttosto utopistico che pratico.

—Ma,—dise Paulewski,—confesso la mia ignoranza; un punto nel discorso di David Levi non mi riesce del tutto chiaro. Egli afferma che gli ebrei non potevano fruire dell'istruzione. Eppure sono tanti gli ebrei famosi per dottrina, anche nell'oscuro medioevo!

—Gli ebrei,—riprese Davide,—non potevano prendere nessun grado accademico; erano quindi esclusi dalle università. Solo nella Spagna, durante la dominazione araba, fu permesso eccezionalmente a qualche ebreo di studiare filosofia e metafisica. Allora i rabbini vollero rivendicare l'eccellenza speculativa della razza, e, secondo la filosofia scolastica, tentarono di sottilizzare sulla semplicità dei testi sacri. Non era che una vana schermaglia di parole, eppure sarebbe bastato a tenere negli ebrei vivo il gusto della dialettica, e a dare ai cristiani un'idea migliore della religione e della filosofia giudaica. Il filosofo cordovese Moisè Maimonide, e il poeta Jehuda Ben Halevi e molti altri pensatori israeliti ebbero grande fama allora. Ma anche l'esercizio della dialettica, i sofismi della scolastica, per quanto vacui, furone impediti agli ebrei; i loro libri cabalistici e talmudici furono proibiti e condannati come empi; si voleva abbrutire l'intelligenza loro, condannarla all'ignoranza; a Venezia fu vietato agli ebrei persino di esercitare l'arte della stampa, e di fare stampare libri, anche se fosse sotto nomi di cristiani! E sapete quando? nel secolo XVI! proprio in quel magnifico Cinquecento, nel quale tutte le arti parvero rifiorire e gli studi liberali rinascere!

—Dimentichi, o David Levi, che ciò accadde nel 1566, quando già l'ombra cupa e fredda del Concilio di Trento aveva ucciso i fiori e i frutti del Rinascimento,—disse Kuhner,—nella sua solita maniera malinconica.

—Orbene, Fedoro Michiewitz,—perorò ancora Davide, —farai tuttavia una colpa al popolo ebraico di non avere amato altro che la sua famiglia e il danaro? Agli israeliti era vietato lo studio e l'esercizio della medicina; vietato l'assistere gli infermi, se cristiani; chiuso lo studio delle leggi; quello delle scienze naturali e delle matematiche; quello delle arti belle. Dimmi dunque quale poteva essere l'ideale di un giovane ebreo, al quale ogni via di operosità e di onore era preclusa. Se anche l'anima sua era generosa, egli non poteva esercitare nessuna di quelle professioni che, anche con scarso lucro e molta fatica, menano alla gloria, alla stima universale. Gli era riserbata solo quella di far denari; e nessun generoso o gentile sentimento veniva educato in lui, da quella società che lo spregiava. A lui non si insegnavano le virtù cavalleresche, non il punto d'onore, non il modo di maneggiare le armi in difesa del paese che egli amava come sua patria. Che cosa dunque gli restava se non l'amore e l'attività per la ricchezza?

—Converrai, che appunto l'enormità dell'opulenza ammassata, è la causa più profonda della avversione dei cristiani contro la razza ebraica,—disse Michiewitz.

—Non lo nego. Ma furono appunto i cristiani che, con le loro leggi non permisero che il denaro accumulato dagli ebrei venisse messo in circolazione altrimenti che per via del prestito. Quella stessa esclusione degli israeliti dagli studi, e dall'esercizio di arti liberali, impediva loro di spendere, come facevano gli altri giovani ricchi o nobili. Inoltre, la legge costringeva l'ebreo a vestire sordidamente; gli si imponevano segnali degradanti. Fin dal secolo XIV a Venezia gli israeliti erano obbligati a vestire in maniera da non confondersi con i cristiani. Le ordinanze di Carlo V prescrivevano un cappuccio giallo all'uomo e una specie di mantelletto pure giallo alla donna. Così l'ebrea doveva vetirsi quasi come le meretrici, che erano pur esse pubblicamente segnate! E lo stesso era in Roma, dove gli ebrei erano distinti con un berretto azzurro; e in tutti gli altri stati d'Italia il codice prescriveva questo odioso marchio alla razza giudaica. E ciò accadeva ancora sul finire del '700, il secolo del filantropi e degli umanitari!

—Presso i turchi era lo stesso,—disse Schröder;—i maomettani odiano gli ebrei più ancora di ciò che odiano i cristiani. Nel Marocco, nel Fezzan, in Algeria, in Arabia, e persino nel centro dell'Africa, a Tombuctù, gli ebrei erano, e, in molti luoghi, sono tuttora, costretti a vestirsi in maniera diversa dagli altri, e a abitare un quartiere separato.

—Queste odiose distinzioni furono causa non piccola dell'avarizia degli ebrei e del loro amore per il lucro,—spiegò Davide.—Nell'età giovanile specialmente, quando la naturale vanità e il desiderio di divertirsi e di piacere spinge l'uomo non meno che la donna, alla prodigalità, al lusso, all'amore per le cose belle, l'ebreo e l'ebrea dovevano portare adosso il segnale della loro ignominia, che li impediva di prendere parte a feste, a riunioni, di mescolarsi con gli altri giovani ben vestiti, di godere degli esercizi cavallereschi, di addestrarsi alle armi; tutte cose care alla gioventù ricca, e che gli ebrei avrebbero potuto, meglio di tutti, procurarsi, dando corso al denaro lungamente accumulato. Perchè, non è vero, che gli ebrei non amino il fasto. Vedete oggi, nei paesi civili dove essi hanno finalmente ottenuto il riconoscimento pieno dei loro diritti, quanti magnifici edifizi non hanno saputo fabbricare! palazzi privati, ospedali, templi, sinagoghe… Quante opere d'arte vanno comperando! Consco un grande scultore, il quale dice che gli israeliti sono i suoi migliori clienti…

—Oh, senza andare a cercare per le lunghe,—interruppe Alvise Galli,—vi dirò che se io studio, lo devo alla generosità di un signore israelita. E se un giorno il mio sogno diventerà realtà, l'ospedale che io fonderò porterà il nome del mio benefattore.

—Ciò fa onore a te e a lui,—rispose Michiewitz,—ma mi pare che Davide ha leggermente deviato la questione. Io parlavo dei nostri ebrei in particolare. L'ebreo russo, secondo me, ha tutti i difetti della sua razza, difetti che io riconosco essere dovuti per grandissima parte alle condizioni d'ambiente, e a tutte le cause enumerate dal mio amico Davide. Ma…

—Ebbene, se tu riconosci che i difetti degli ebrei sono dovuti più alle cause esterne che alla loro indole, occorre allontanare queste cause, e educare nell'ebreo russo tutte quelle buone attitudini che esistono in lui, la laboriosità, la sobrietà, la serietà, la costanza, l'intuizione rapida, l'economia, la religiosità… Sì, mio caro, la Russia possiede nella sua popolazione ebrea una forza che ha ignorato sino a oggi; una leva di prosperità avvenire; ma occorre che essa se ne serva liberamente, con fiducia. Date agli ebrei russi il mezzo di costruirsi sinagoghe decenti, cimiteri, scuole, ospedali… Ci sono nella Russia ancora villaggi dove i sepolcri degli ebrei vengono schifati come impuri, dove le assemblee religiose si tengono in luoghi appartati, per timore di insulti e saccheggi. Sollevate dunque dalla polvere millenaria gli ebrei, permettete loro di vivere, pensare e operare alla viva luce del sole, e vedrete che le loro faccie sordide muteranno espressione, e riconosccrete nei loro lineamenti l'umanità che ci affratella tutti.

—E' certo,—osservò Paulewski,—che in paesi come i nostri, vale a dire in Polonia, in Russia, e anche nella Prussia orientale e nella Ungheria, dove gli ebrei formano il venti per cento della popolazione, si deve riconoscere il valore almeno numerico della razza ebraica; e invece di avversarla stupidamente, come fa la nostra plebe, con la tacita complicità o con l'indifferenza del governo, incanalarla nelle forze dello stato, e servirsene con saggezza. Certo, quando io sarò tornato in Polonia, voglio adoperare la mia capacità futura di professore o maestro nell'istruire i nostri contadini e in particolar modo gli ebrei…

—Sei dunque sempre deciso di darti all'insegnamento? —domandò uno degli altri.

—Sempre. Il mio ideale è aprire scuole, istruire, e specialmente educare.

—C'è in te un'anima pestalozziana,—disse Schröeder ridendo.—Quanto a me, non credo ci sia stato più invidiabile del giornalismo. E' un'arma potente nel bene e nel male. Io spero di giovarmene per la difesa di tutte le cause giuste…

—Sì,—disse Kuhner, l'ebreo boemo,—intanto la Jugend di Monaco, il giornale in cui tu collabori, non lascia occasione senza divertirsi alle spalle nostre, e fa spesso crudeli e sarcastiche allusioni…

—Quando io sarò padrone di un giornale…—disse Schröder,—vedrai, Kuhner, vecchio fratello (alter Bruder), che tutto andrà bene e non avrai a lagnarti di me…

—Io,—disse il futuro economista Ciaich,—scriverò un libro per dimostrare il valore della razza ebrea e la sua importanza nell'economia politica di uno stato libero. Vedrete!

—Andiamo, che non voglio lasciar credere al mio amico essere io il solo non persuaso della sua bella orazione. Qua la mano, fratello mio ebreo, è se i miei concittadini avranno tanto buonsenso di mandarmi come loro rappresentante alla Duma, vedrai che le tue parole di oggi non saranno cadute nel vuoto…

Così discutevano, filosofavano, politicavano i sette amici, il fior fiore della Università di Innsbruck; e in ogni cuore era una giovane speranza, in ogni cervello un generoso ideale, pronto come un aquilotto a prender il suo volo verso il sole.

«Ne le favole d'Arabia vi son principi incantati, che a suo tempo hanno di nuovo la figura primitiva: Il peloso mostro è un bello di re figlio ritornato, che in sontuose ricche vesti suona, il flauto, innamorato, Ma, trascorso il tempo, ohimè, si rinnova ecco, l'incanto, e Sua Altezza ridiventa il peloso mostro ancora. Tale un Principe oggi canta il mio canto. Egli si chiama Israele. E d'una strega il motto in cane l'ha mutato. Cane, con pensier di cane, per l'intera settimana ei nel fango si trascina ai monelli riso e scherno. Ma ogni venerdì, al tramonto d'improvviso ecco l'incanto si dilegua, e in creatura d'uomo il cane è trasformato. Uomo, con pensieri umani, alto il capo, alto anche il cuore, e, vestito a festa, egli entra ne la reggia di suo padre. «Salve, salve, amata reggia del regal mio padre! Tenda di Giacobbe, la mia bocca bacia la tua sacra soglia!». Ne la casa c'è un susurro di mistero, un soffio arcono; l'invisibile Signore nel silenzio alto respira. Nel silenzio. Il siniscalco, (servo della sinagoga) qua e là movesi operoso ed accende i candelabri. Luci d'oro consolanti, come splendon, come brillano! La balaustra dell'Almemor raggia di superbi ceri. Presso al cofano che serra, nel coperchio pien di gemme ammirabili, la Thora in sue sete preziose, là, davanti al suo leggìo sta il cantor de la congrega; un ometto civettuolo nel suo nero mantelletto. Per mostrar la mano bianca or con l'indice la tempia, or col pollice la gola va tentando stranamente. Prima trilla piano piano, poi d'un tratto, giubilando, alza la sua voce e canta: «Lecho Daudi Likras Kalle!… Vieni, amato, già ti aspetta la tua sposa, già ti svela il suo volto vergognoso!». Questo bell'epitalamio fu composto dal famoso trovator di nostra gente, Don Jehua ben Halevy. Nel suo carme celebrate son le nozze d'Israele con la principessa Sabbath, taciturna principessa. Perla e fior d'ogni bellezza è la sposa. Non più bella la regina fu di Saba, tanto cara a Salomone. Un bas-bleu d'Etiopia quella, che volea far la brillante, ma eran pur noiosi infine quegli eterni indovinelli! Ma la principessa Sabbath personifica il riposo, e aborrisce ogni fatica del cervello, ogni questione. Così pure odia l'enfatico declamar de la passione, che con crin sciolti vi recita un patetico discorso. Ne la cuffia i crini asconde la modesta principessa da lo sguardo di gazzella, mite e dolce come un'Adda. Allo sposo ella permette ciò che vuol; fuorchè il fumare: «Non si fuma, oggi, Diletto, perchè è Sabato, lo sai. Ma in compenso, a mezzodì, fumerà su la tua mensa, oggi, un piatto celestiale; oggi mangerai tu Schalet». «Schalet! oh, pensier divino, figlio dell'Elisio!». Così Schiller canterebbe, se gustar mai lo potesse. Quando il principe ha mangiato tale ambrosia, con lucente occhio allenta il suo panciotto, e favella con beato riso: «Non sento io il Giordano mormorar? non le fontane tra le palme di Beth-El, dove albergano i camelli? Non dei greggi le campane? Non son questi i grassi agnelli che dai monti di Gileath spinge a sera giù il pastore?» Ma il bel giorno, ahimè, è finito! Con le lunghe gambe d'ombra de l'incanto ecco s'avanza l'ora perfida. Sospira, come, il principe, se il cuore con man gelida una strega gli stringesse; e sente i brividi di canina metamorfosi. Gli offre allor la principessa il suo astuccio di profumi. Lentamente odora, e inebriasi una volta ancor di aromi. Allor mesce ella al suo principe il bicchiere della staffa. Beve ei tosto, e ne la coppa poche goccie ancor rimangono. Ei ne spruzza allor la mensa, quindi immerge un piccol cero in quell'umido; e si spegne cigolando la sua fiamma.

«Mio caro Davide,

Dunque, eccoti dei versi. Li riconoscerai subito, anche nella loro veste italiana. Sono di Heine; l'insuperabile poeta ebreo, che non si dimenticò e non si vergognò mai di esserlo, ebreo, anche quando le vicende della vita e la mobilità del suo cuore lo portarono a altre rive.

Questi versi li ha tradotti Gigetta, o, per meglio dire, Luisa Furiani. Perchè, mio caro, Gigetta, la nostra Gigetta, non è più; ella è divenuta una gentile donzella, che sa poetare e scrivere con grazia e efficacia, e che spera, proprio, di conquistare un posto nella letteratura contemporanea. Ella sogna la gloria e tante altre cose belle! Le raggiungerà? o sarà di una quelle stelle che brillano un momento sull'orizzonte letterario, e poi spariscono nella notte dell'oblìo, senza lasciar traccia di sè? Che ella abbia ingegno e genialità, tutti lo sappiamo. A me è impossibile giudicare quello che sarà la sua arte. Per ora muove esitando i primi passi, ancora incerta del cammino che prenderà. Mi pare che ci sia già vigore e freschezza nel suo stile (hai letto la novella che ti ho mandato, e che fu stampata nella Scintilla?), ma io son vecchio, e ella scrive, si capisce, a modo dei giovani. Vedremo! O meglio, vedrai tu, che sei giovane e hai tempo; non io. Gigetta sa che ti mando questa traduzione. Ringraziala dunque liberamente. Mio caro ragazzo! tu hai agito da galantuomo verso di lei; eppure, qualchevolta rammarico chè voi due non vi siate amati come fanno comunemente un giovane e una giovinetta, e con la buona e sana intenzione di sposarvi. Temo che voi due siate troppo complicati, e che non sappiate nemmeno bene quello che volete. Questo è oramai il quinto anno che tu sei lontano da casa, e anche le vacanze degli ultimi semestri non le passasti con noi. Hai fatto bene, benissimo a viaggiare. La conoscenza delle grandi capitali è indispensabile per chi si dedica, come fai tu, alle scienze sociali. Così hai potuto, tanto giovane ancora, farti un'idea di Roma, di Berlino, di Parigi; e alla fine del prossimo semestre vuoi visitare Londra. Ne sono tanto lieto. Ma, mi rincresce che tu viva sempre così lontano dalla tua famiglia, e tua madre, che ti ama teneramente, ne soffre; ti confesso pure che mi spiace la estraneità (passami questo neologismo), che ne è sorta fra te e Gigetta. Dì pure che io ho una debolezza per questa figliuola; invecchio, e mi vengono così delle piccole manìe…

Ma io ciarlo come una baba, e non ti do le notizie che mi chiedi. Prima quelle di casa nostra. Papà mio, il tuo povero nonnetto, porta valorosamente i suoi settantasei anni, e ancora esce di casa, va al negozio e sbriga qualche affare… Ma è vecchio, è vecchio, e… qualchevolta la tua prolungata assenza mi fa paura.

Tuo padre sta benissimo, e mamma pure, tranne che ingrassa… il che la secca terribilmente (Toh! faccio dello spirito, senza accorgermi). E sì che non sta ferma, si può dire, un minuto. I tre bimbi di Rachele le dànno un gran daffare! ne ha sempre qualcuno lei, in casa; oppure è lei che va dalla figliuola per aiutarla a allevare i marmocchi. E poi ci sono i nostri, Tobia, Bianca, Ester, che non la lasciano riposare un momento, povera mamma! Tobia tu non lo hai più veduto dal giorno in cui compiva tredici anni, mi pare. Sì, perchè poi lui fu in collegio quasi due anni… Due anni sprecati, veramente, e fece bene tuo padre a ritirarlo. Già io non ho mai avuto simpatia per l'educazione collegiale. Se uno è discolo e svogliato fuori, lo sarà ancora più in collegio. Peggio poi collegi confessionali, come quello dove era stato internato Tobia! Già, non capisco l'idea di fare un collegio o una scuola per soli israeliti. Sarebbe lo stesso che farne una per soli cattolici, escludendone tutte le altre confessioni. Il che, grazie a Dio, non c'è più; dunque, abbasso i collegi confessionali! E Tobia ne è uscito assai poco migliorato, o nulla. Non è un ragazzo cattivo, ma spensierato, superficiale, amante dei piaceri, prodigo. E poi, non ha punto voglia, nè di studiare nè di lavorare. Davvero non so quello che ne potremo fare.

La nostra Esterina continua a preoccuparci per la sua scarsa salute. Ha quasi tredici anni e ne mostra nove; non cresce; è tristina, malinconica, pallida… Forse tua madre ha avuto torto di non averla mandata a scuola. Io penso che le avrebbe fatto bene, ma lei non ha mai voluto staccarsela dalle gonnelle. E Bianca?… merita sempre più il nome di madamigella Capriccio, che le ha messo Gigetta. E' bella, si, troppo bella. Perchè quando una ragazza è tanto bella, lo sa; e allora ne diventa vanitosa. E Bianca, se lo sa! E sgraziatamente anche lei è come Tobia; leggera, incostante, desiderosa di divertirsi e di vestirsi bene. Qualchevolta mi fa l'onore di uscire col suo vecchio zio; e allora bisogna vedere come la gente mi guarda! cioè… come guarda la mia compagna. Parola d'onore che tutti si voltano, i giovanotti specialmente. Non è, come sai, molto alta, ma tuttavia di bella statura, snella, slanciata, eppure… come direi? pastosa. Con quel viso color camelia, gli occhi grandi, scuri, ora languidi ora ridenti, sotto sopracciglia di un disegno perfetto; con quella bocca rossa come un fiore di melograno… sì, ne convengo che vale la pena di voltarsi a ammirarla. Ma… ma… sarò forse più tranquillo quando le avremo trovato un buon marito. Perchè è civettuola assai, la signorina! Fino all'anno scorso temevo che avesse una simpatia per Pepi Furiani; un altro capriccioso sul genere di Tobia. Anche lui si capiva che veniva volentieri a casa nostra, ora con un pretesto ora con un altro… Ragazzacci!

Ma quest'anno le cose sono mutate assai. Bianca si accorge di essere oramai una signorina, coi suoi sedici anni… quasi. E lui, della stessa età o poco più, è ancora un fanciullo. E così ora non si guardano neppure; lei frascheggia con altri; lui si è dato allo sport; rema, nuota e che so io.

Ecco casa nostra. Di Giosuè non ti parlo, perchè vi, scrivete con una certa frequenza. Oramai, dal punto di vista materiale, la sua fortuna è fatta. E' uno dei medici di corte, e forse il preferito, nonostante la sua giovane età; anche la settimana scorsa è stato chiamato a Vienna, alla Hofburg, per un consulto circa la sacra imperiale apostolica persona. Ma egli è ancora qualcosa di meglio e di più. Egli è il medico dei poveri, il generoso consolatore, il taumaturgo, che i malati degli ospedali implorano e benedicono. Grandi cose ha in mente tuo fratello! egli dice che vuol diventare ricco solo per attuarle. Sono lieto, sono fiero di lui. Mi piace, vedi (perdonami questa grande vanità), mi piace che egli sia un ebreo. Un ebreo, illustre dottore, e buono e popolare!… Comprendi tu quanto bene questo fatto porta alla nostra causa? E considera che egli è chiamato a corte, presso il più bigotto sovrano del mondo; in quella Vienna dove l'antisemitismo ha rialzato ferocemente la testa, sotto la benevola tutela del borgomastro Lueger! Giosuè non nasconde neppure i suoi sentimenti di italianità; del resto, li ha confessati altamente al tempo del processo di Leone Colonna, e tutti sanno che l'assoluzione del giovane è dovuta all'energico intervento di Giosuè in favor suo.

A proposito. Mi domandi di lui nella tua ultima. Non sai dunque che, dopo l'improvvisa morte di donna Marina, tutta la famiglia si è trasferita a Firenze? E fecero bene, perchè veramente questa polizia, quando comincia a prendere di mira qualcuno, non gli dà più tregua. Veramente… forse farei meglio a non dirtene nulla, ma è inutile, io sono chiacchierone come un barbiere. Veramente dunque, dicevo, anche noialtri ora siamo in un impiccio, dal quale vorrei che uscissimo presto e bene.

Adamo ha voluto ospitare in casa nostra un certo Bucovich, un ebreo, di origine dalmata, ma nato a Varsavia, che mi puzza molto di nichilista. Lui dice di no; dice di essere solo socialista, anzi tolstoiano, benchè ebreo. A ogni modo è ricercato dalla polizia russa, e… temo, anche dall'austriaca. Ma egli è venuto a trovare Adamo con una lettera di presentazione da parte dell'ebreo Israel Schachner, nostro corrispondente a Varsavia, e Adamo lo tiene, finchè non gli capita l'occasione di imbarcarlo segretamente per l'America. Il povero diavolo è arrivato a Trieste dopo molte peripezie, in uno stato veramente compassionevole. Lo si è dovuto rivestire da capo a piedi. Certo che, nichilista o no, è un uomo taciturno, triste, in apparenza mite come un agnello. Non vedo tuttavia l'ora di esserne sbarazzati! Gigetta lo sa; lei, dopo tutto, è come di famiglia; ma temo sempre che lo vengano a sapere il sior Luigi o, peggio, la siora Caterina, che ci potrebbero far avere dei guai. Eppure… non so dar torto a Adamo e a papà (perchè è stato anche lui a volerlo!), di averlo accolto come un fratello. Sono certo del resto che cattive azioni non ne ha commesse; questo si legge sul suo viso di bontà e malinconia; e poi, Schachner è uomo onesto, e non ce lo avrebbe raccomandato. E' proprio la stessa figura dell'Ebreo errante, e la sua sorte non è molto migliore…

I Milano… te ne ricordi? hanno avuto la sventura di perdere una figliuola. La poveretta si è uccisa; pare perchè la si voleva costringere a un matrimonio odioso. Ah, sono ben puniti di quello sfrenato amore per il denaro, che li ha sempre accecati! Di quelli posso ben dire che mi dispiace sieno ebrei… Non ci sono avari anche fra i cristiani? Certamente. Ma, lo sai, ogni nostro difetto personale lo si attribuisce alla razza: Già, sono ebrei!… E non sono ebrei anche i Kohn? Ma il dolore per quel loro figliuolo pazzo spinge invece quegli infelici genitori a beneficare più che possono. La madre si è fatta quasi infermiera nella casa di salute dove è suo figlio, e mi dicono che compie miracoli di generosità e di abnegazione. Le tre signorine Israel si sono sposate, se ciò può interessarti. E son le sole novità.

Mi parli anche di politica, nella tua buona lunga lettera. E parliamo pure di politica! Ma solo per poco, ragazzo mio, perchè scotta troppo, e anch'io le tengo il broncio, come diceva di fare Silvio Pellico.

Le cose non vanno bene, figliuolo! Secondo me, la tattica dell'Austria è sbagliata. Tu mi dici che anche a Innsbruck c'è sempre una tensione fra l'elemento universitario tedesco e l'italiano. Qui è assai peggio. I nostri giovani vorrebbero una università italiana; il governo non ne vuol sapere. Non solo. Ma esso governo osteggia in tutti i modo il nazionalismo italiano, mentre favorisce l'elemento tedesco, che sarebbe scusabile, ma anche lo slavo. Anche l'altra sera, sotto i portici di Chiozza, ci fu un tumulto provocato da slavi in un negozio italiano. E le guardie stavano a guardare… ma, quando si trattò di allontanare i più forsennati, arrestarono un italiano! Sono provocazioni continue, che non possono condurre a niente di bene. La polizia guarda di malocchio anche gli ebrei, perchè ci sospetta affetti di irredentismo. Felice Venezian, il leader del partito italiano a Trieste è, infatti, un ebreo. Il barone Rosenwald, anima della Lega nazionale, è pure ebreo. Ebrei sono gli Israel, notoriamente avversi al governo; ebreo è, o almeno era, il giornalista Mendez, che, sebbene di origine spagnola, non nasconde le sue vive simpatie per la questione dell'irredentismo. E così sono ebrei Marco Modena e Abele Herz; l'uno e l'altro ferventi liberali. Perciò l'Austria diffida di noi. Di chi la colpa? L'ebreo è generalmente attaccato al suo paese; se è israelita per religione, è, per patria, italiano, polacco, tedesco… Ora, questo conflitto fra il nostro paese e il suo governo chi l'ha creato? E posso io non sentirmi italiano, se i miei antichi lo erano, e mi hanno lasciato in cuore come eredità l'amore della nostra patria? E' perciò che io non ho voluto mai predere la cittadinanza austriaca. Mio fratello, tuo padre, Davide, ha pensato diversamente, e s'è fatto cittadino triestino, austriaco dunque, perchè gli parve leale abbracciare la nazionalità del paese in cui vive e lavora, e dove conta morire. Non gli do torto. Del resto, egli non si occupa di politica; egli pensa solo alla sua famiglia e al suo commercio. Ma io soffro di questo stato di cose, che si va sempre più acutizzando, direbbe Giosuè, come una malattia. E i sintomi mi sembrano ogni giorno più gravi. E non so come si andra a finire…

Mi dimenticavo di dirti che ho notato un aumento nel moto sionista in Austria. Questa settimana erano di passaggio a Trieste dodici famiglie ebree dei dintorni di Leopoli, che andavano a stabilirsi nella Palestina, nei terreni comprati dagli ebrei. Erano gente povera; naturalmente tutti abbiamo contribuito a mantenerli alcuni giorni a Trieste, finchè fossero in condizione di proseguire il viaggio; perchè c'erano tra loro donne e qualche bimbo malato. E poi si sono aiutati, si sa… e tuo padre ha fatto molto. E' un gran brav'uomo; questo volevo dirti.

Ah! per finire, e saltando di palo in frasca! Sai chi è diventato fervente irredentista? Carletto del portinaio, figurati! Un ragazzo di sedici anni, che lavora da tipografo e comincia a guadagnare qualcosa. Ebbene, s'è già fatto arrestare in una dimostrazione! Fortuna che lo hanno rilasciato con una paternale… Ma la povera Nani, la madre, pareva pazza. E' ben da compiangere quella povera donna, con quel marito che sai, cinque figliuoli malaticci, e ora questo Carletto, che era tutta la sua speranza…

Ma ora ho vuotato il sacco davvero e finisco, tanto più che, ecco qui tua madre, che mi domanda se ti scrivo, e vuole metterci una parola anche lei…».

Davide leggeva la lunga lettera dello zio passeggiando solo sopra un bastione deserto, nella malinconica ora del tramonto. D'un tratto ricordò un altro tramonto, lontano. Quello guardato dal colle di San giusto, mentre una fanciulla era vicina a lui, appoggiata allo stesso parapetto… E erano come due fanciulli, felici. Rilesse ancora una volta i versi di Heine, tradotti da Gigetta… no, da Luisa Furiani. Traduzione fedele, ma di scarsa eleganza. Più bello l'originale, senza dubbio. Eppure, gli faceva piacere che ella li avesse tradotti. Voleva dire che Gigetta aveva ancora la medesima simpatia di una volta per la sua razza… per lui. Questo pensicro gli faceva bene al cuore. Oh, sì, ella gli era cara! Non la amava di amore, no; non voleva amarla; ma non poteva ella essere davvero la donna superiore che egli sognava, compagna del suo pensiero, delle sue aspirazioni? Ma poi si vergognò di questa debolezza. Egli doveva essere un uomo, non un fanciullo, che ha bisogno di una spalla feminile per appoggiarvi la sua testa, a sognare… forse a piangere. Una strana analogia andava sorgendo nella sua mente tra quel principe allegorico, di cui parlavano i versi e… sì, quel popolo, oppresso, conculcato, avvilito, per i cui diritti egli voleva insorgere! Il proletario miserabile, prostrato come un bruto sotto la fatica diuturna, non era forse lo stesso mostro della favola, cui una iniqua fata ha tolto fin la nobile effigie umana?

Ma l'Ebreo incontra ogni settimana la principessa Sabbath, che gli restituisce la sua figura primitiva, e lo introduce, per un giorno almeno, nella casa reale di suo padre. Ma chi, chi sarà la fata, che restituirà il misero proletario alla sua dignità umana? Chi gli dirà un giorno: alzati, tu pure sei figlio di re? Vieni nella casa del Padre tuo; siedi anche tu alla mensa coi tuoi fratelli?

Non già che Davide non fosse pensoso della sorte dei suoi correligionari, le cui condizioni, in alcuni paesi della Russia orientale, erano peggiorate in quegli ultimi anni. Ma quel Sionismo stesso, nel quale sul principio metteva poche speranze, ora gli appariva in tutt'altra luce, dalle lettere che riceveva da un rabbino di Gerusalemme, col quale si teneva in corrispondenza.

Difatti, l'impresa sionistica pareva ora fiorire meravigliosamente. Ecco ciò che in varie riprese gli scriveva l'amico:

«Il nostro millennario sogno costante, la Terra promessa, scorrente latte e miele, i campi ubertosi, gli ulivi carichi di frutti profumati, le viti piegate sotto il peso dei grappoli, la casa colma di viveri, gli armenti numerosi e grassi, la pace, la tranquillità della campagna, tutto ciò pare che ora sarà effettuato, qui, nei luoghi medesimi, dove la nostra razza fu già prospera e grande.

Il movimento antisemita si accentua in questi ultimi anni, è vero, culminando in Russia, in Rumenia, in Bulgaria; ma forse è provvidenziale, perchè il movimento sionista, accentrato a Ginevra, ingigantisca, al punto da farci sperare la riconquista, almeno economica, della patria perduta.

Noi ci siamo dedicati alla colonizzazione progressiva, come la più sicura. La liberalità dei ricchissimi, come Hirsch e Rotschild, ci ha permesso di comperare molti terreni, nei quali collochiamo i profughi ebrei.

Ogni settimana quasi i piroscafi russi e rumeni riversano nei porti famiglie numerose dei nostri fratelli, che giungono squallidi, laceri, luridi; e queste le incanaliamo nelle città e nelle colonie agricole, a seconda del mestiere che esercitano, o che vorrebbero imparare.

A Gerusalemme, su 100.000 abitanti, sono già 70.000 ebrei. Le nostre colonie agricole sono meravigliose, ma anche le colonie cittadine accennano a diventare sempre più fiorenti.

A Nord di Giaffa, la nostra colonia Tel Abid, forma il sobborgo più ridente e pulito della città. Essa ha un proprio regolamento, cui tutti sottostanno; il quartiere signorile è davvero elegante, con le sue case bianche, in mezzo a giardini, con le vie diritte, selciate, ombreggiate. La colonia funziona perfettamente. Ha grandiosi fabbricati per la Sinagoga, le scuole, le pubbliche adunanze, l'assistenza dei malati; non mancano nè la luce, nè l'acqua potabile, nè nulla del comfort moderno. E' uno stridente contrasto con la Giaffa dei Turchi, piena di luridi tuguri, dalle vie tortuose e sucide, prive di aria e di luce. C'è persino un tram, che porta i coloni da Tel Abid a Giaffa. Qui gli ebrei dimostrano chiaramente che se i loro antichi ghetti erano sporchi e pestiferi, la colpa non era loro!

Ogni colonia ha un proprio reggimento, e tutte si tengono unite fra di loro. Tutti i coloni hanno l'obbligo di imparare l'ebraico e di parlarlo; così la nostra bella antica lingua riunirà nuovamente i fratelli già dispersi per il mondo.

Alcuni dei nostri coloni hanno persino rimesso in uso le antiche foggie pittoresche del vestire; anche le costumanze nazionali sono tornate in onore e le solennità religiose vengono celebrate con grande pompa e pubblicamente.

Noi santifichiamo il Sabato, rigorosamente; ogni traffico cessa, tutto è silenzio e raccoglimento. La mattina tutti sono nella Sinagoga; e la sera tutti, con abiti festivi, a passeggio. E' proprio il giorno del Signore!

Noi non trascuriamo nulla per renderci utili a queste popolazioni, che vivono accanto alla nostra. E' per nostro mezzo che in queste mirabili città si svolgono ora i commerci e le industrie già abbandonate; noi fondiamo banche, apriamo ambulatori medici gratuiti; uffici legali, agenzie d'affari. Noi soccorriamo gli indigenti e ricoveriamo i numerosissimi ciechi, a qualsiasi religione appartengano; pur preferendo, si capisce, i nostri correligionari. Abbiamo, per noi, ospedali e istituti di beneficenza; scuole elementari e superiori, scuole agricole e professionali.

Le nostre colonie sono oggi ventidue, riunite, per la direzione economico-tecnica, nell'Ica (Juish Colonial Associaton). La sede dell'Ica è, come sai, a Parigi, ma l'ufficio direttivo per la Palestina è a Giaffa.

Fu un errore quello di voler favorire il lavoro agricolo per mezzo di numerose e complicate macchine moderne, che spaventano i nostri contadini di Russia e di Rumenia; ma ora, che si lascia molta libertà all'iniziativa individuale, pur favorendola e illuminandola, l'agricoltura fiorisce dappertutto. Ogni tanto ci giungono, dai Rotschild, e da altri patroni, sussidi e regali; ora semi eccellenti, ora bestie magnifiche, ora strumenti.

Le nostre più importanti Colonie sono quella di Richonle-Zion, fondata da Rotschild; quella di Diran, e quella di Artufè.

Quella di Richon-le-Zion, detta in arabo Ajùn-Cara, è la più numerosa, e conta 300 famiglie. E' una bella e industre cittadina, ricca specialmente del suo importante enopolio. Gli abitanti ebrei sono benvestiti, umani, gentili, laboriosi. Il reddito principale, oltre le mandorle e le arancie, è l'uva.

La nostra cantina rivaleggia con quella di Bordeaux, e forse la supera.

La colonia di Diran è assolutamente agricola e straordinariamente prosperosa. Il benessere si manifesta dai visi contenti dei coloni, dalle larghe comodità della vita, dalle case ombreggiate, dai giardini fioriti. Ma grande è in tutti questi nostri fratelli la moderazione nei desideri, e giusto il concetto che si sono formati della vita. Essi non sono venuti qui per fare fortuna, ma per condurre una vita serena e tranquilla. Nemmeno le loro donne non conoscono le vanità e le esigenze dei grandi centri; tutti amano la sacra vita rurale, e la libertà.

Quanto alla colonia di Artufè, tu diresti di essere in una delle nostre ricche campagne lombarde. Tutto vi è moderno: le case coloniche sono costruite secondo i sistemi più recenti. Ogni caseggiato è composto d'una casa civile, di tre casette rustiche, d'una stalla modello, d'una scuderia, d'una tettoia ampia, per le macchine e gli attrezzi rurali, di un pozzo cisterna nel centro; il tutto racchiuso in un recinto quadrangolare.

Questi coloni coltivano erba abbondante per i loro bovini numerosi; mandorli, ulivi, eucalipti, viti, cereali, sesamo.

Eccoti, fratello, una scarsa idea, di quello che è, e di quello che potrà diventare la vita in questi paesi, già incolti, deserti, devastati dall'incuria, dalla ignoranza, dalla barbarie, se Dio vorrà concederci una lunga, una perpetua pace; quella che assicura ai popoli prosperità e sviluppo, e che sola occorre perchè la Palestina ritorni, fra non molti anni, a essere la Terra promessa, e non di una sola nazione, ma di quanti hanno al mondo due braccia sane e desiderio di lavoro».

Dal maestro Benedetto si ebbe Gigetta, alcuni giorni dopo, due o tre foglietti manoscritti, che ella lesse attentamente:

«Poichè ancora si crede, o per malvagità o per sciocchezza, da taluni, che gli ebrei compiano riti misteriosi e inconfessabili durante la solennità della Pasqua, ecco alcuni appunti per te, che sei una fanciulla intelligente, dai quali rileverai con fedeltà quali siano le nostre usanze durante questa cara antica e semplice festa, che a noi ricorda la liberazione dalla schiavitù d'Egitto, e ci sarà quindi sempre simbolo lieto di speranza, di libertà, di nazionalità.

Alcuni giorni avanti la festa, le nostre donne ripuliscono da capo a fondo la casa. Tutti i vasi della cucina vengono accuratamente lavati, perchè nulla di fermentato rimanga in essi.

Tu sai che ciò si fa solo per ricordo del comando di Mosè agli israeliti, che dovevano partire dall'Egitto. Egli proibì loro di preparare pane fermentato, evidentemente per non perdere tempo, e anche perchè nel lungo viaggio la pasta àzzima si sarebbe conservata più a lungo.

Provvedono quindi farina finissima di grano, quanto basta per fare gli àzzimi per otto giorni.

La sera della vigilia pongono alcuni pezzetti di pane in qualche parte della casa; e allora il capo di famiglia va poi con un lume, con una spazzolina di penne, e una scodella in cerca di quei pezzetti, che pone con la penna nella scodella e poi rinchiude accuratamente sino al domani mattina, Pasqua, che è il giorno quattordicesimo della luna di marzo. La ricerca del pane è un divertimento per i fanciulli della casa, e tu vedi che nulla è più innocente. Il giorno di Pasqua, terminato il desinare, accendono un fuoco di legna, e vi bruciano il pane trovato, dicendo una specie di scongiuro:

«Tutto il fermento che si trova nella mia casa, che io l'abbia veduto o non veduto, levato o non levato, sia nullo, e si paragoni alla polvere della terra».

Da quel momento, come sai, non si mangia più pane fermentato, per tutti gli otto giorni, ma soltanto gli àzzimi, quei semplici àzzimi fatti d'acqua pura e farina, che la stoltizia umana sostiene ancora, in qualche luogo, essere impastati con sangue d'innocenti!

Nelle famiglie religiose come quella di mio fratello, il giorno di Pasqua il primogenito digiuna, in memoria dei primogeniti egiziani, percossi dall'angelo della morte.

Tutti poi, in quel giorno, si astengono dal lavoro; solo fanno alcune àzzimelle più piccole, dette scimurin, che si distribuiscono anche ai poveri, e servono per le funzioni della cena pasquale.

Verso sera si va al tempio, e tutti gli inni e le preghiere, assai belli! sono di ringraziamento al Signore per la liberazione dall'Egitto.

La cena pasquale è la delizia delle nostre case! Delizia dei sensi e dello spirito. Ciascuno adorna la mensa con la maggior pompa possibile. Nel mezzo si pone un canestro coperto, nel quale si mette un poco di agnello o di capretto, tre àzzimelle, di quelle scimurin, alcune erbe amare, come indivia, lattuga, apppio, e un piatto di charòset, ossia di quella strana vivanda, che tu pure hai assaggiata, fatta di mele, pere, fichi, mandorle, noci, tritati insieme e mescolati nel vino, insieme con un poco di terra di mattoni…

A te non occorrerebbe neppure che io spiegassi, che son tutti ricordi e simboli della schiavitù d'Egitto.

Prima di sedere a tavola, l'anziano benedice la Pasqua, e allora tutti bevono vino, sedendo, e tenendo il braccio sinistro appoggiato alla tavola, o anche, come usano ancora i più devoti, a un guanciale; questo è segno di libertà, poichè le loro braccia non sono più incatenate, o costrette a servili lavori. Bevuto il vino, si lavano le mani, prendono un poco d'appio, l'intingono nel charòset e il capo di casa dice: «Benedetto sii tu, Dio, Dio nostro, re del mondo, che hai creato il frutto della terra».

E mangiano, sempre appoggiati, l'erba intinta. Poi il capo prende i tre scimurin, ne spezza uno in due parti, e ripone una parte fra le due àzzimelle intere, e l'altra parte sotto la tovaglia. Alzando allora il canestro, dove si conservano gli àzzimi e l'erbe e il resto, ciascuno mette la mano destra sopra di esso, e grida a alta voce:

«Questo è il pane dell'afflizione, che mangiarono i nostri padri in terra di Egitto. Chi ha fame venga, e mangi, chi ha bisogno venga, e faccia la Pasqua, e mangi l'angello pasquale, quest'anno qui, quest'altr'anno nella Terra d'Israel. Quest'anno qui siamo servi, quest'altr'anno nella Terra d'Israel saremo liberi».

Allora il capo di casa, il mio vecchio padre, narra la storia della schiavitù d'Egitto e la liberazione, e quando arriva alle dieci piaghe, mandate dal Signore a Faraone e agli Egiziani, prende un bacile, e vi versa a poco a poco un bicchiere di vino, dicendo:

«Queste sono le dieci piaghe che Dio mandò a Faraone; sangue». Poi, sempre versando il vino dice: «rane», e via via nomina le dieci calamità.

Ma, per non dilungarmi inutilmente nelle altre particolarità del rituale, ti dirò che, insomma, gli àzzimi, le erbe e tutto il resto viene consumato, accompagnandolo con la preghiera, e coi ricordi evocati.

S'intende che per tutta la settimana pasquale il tempio è sempre frequentato, che si prega e si fa elemosina, più che al consueto.

I riti ti sembreranno forse puerili. Ma non lo sono forse sempre, in ogni religione? E non è la loro bellezza appunto in quella ingenua semplicità?

Ricordiamoci che le religioni sorgono nell'infanzia dei popoli; un popolo maturo, saturo di civiltà, non sarebbe capace di crearsi una religione, non ne sente il bisogno.

Perciò ogni culto ha in sè del fanciullesco, dell'imaginoso, come la fantasia dei popoli è vivace e fervida, prima che la cultura la inaridisca.

I riti che durano eterni sono appunto i più fantasiosi, perchè parlano sempre a quel resto di infanzia, che rimane, fortunatamente, nel fondo di ogni anima umana o popolare».

Con vivo dispiacere di suo padre, Davide Levi, terminati i suoi studi a Innsbruck, non si era deciso a abbracciare una professione lucrativa. Il signor Adamo aveva sognato per il suo secondo figlio la carriera dell'insegnamento. Davide avrebbe potuto divenire un eminente professore; certo qualunque università dell'Austria o dell'Ungheria gli sarebbe stata accessibile con poca fatica. Ma Davide si scansava. Voleva vivere ancora qualche anno libero, studiando a modo suo; aveva bisogno di viaggiare, di conoscere molte cose… Non si sentiva ancora maturo per insegnare agli altri ciò che non sapeva bene egli stesso.

La verità era che egli voleva prepararsi alla vita politica, Egli voleva diventare un giorno il rappresentante del popolo alla Camera; e non già per ambizione; non ne aveva alcuna. Ma l'anima sua era da molti anni affannata del problema sociale, del perchè delle ingiustizie umane; della nera miseria di tanti—cupa legione infinita—della vita gaudente e crudelmente spensierata dei privilegiati. Egli voleva prestare l'opera sua, la sua parola ai fratelli sventurati; combattere per la loro causa santa, che gli pareva l'unica veramente degna d'interesse. A questo scopo occorreva studiare ancora; conoscere tutti i generi delle miserie umane e le loro ragioni; mettersi a contatto coi capi del movimento socialista di tutti i paesi… Intanto si era messo a lavorare intorno a un'opera, che doveva appunto raccogliere tutte le sue osservazioni e idee personali; una specie di grande manuale di scienze sociali, vivo di esempi e di esperienze.

Nella sua famiglia solo il padre era contrario a questo sistema di perdere il tempo, come diceva lui. Adamo non era punto avido di guadagno nè avaro; ma fin da piccolo aveva imparato a conoscere il valore del denaro, e sapeva che esso va procurato col tempo e con l'operosità. Volentieri aveva fatto studiare quelli tra i suoi figliuoli, che avevano mostrato ingegno e volontà; e egli era superbo di Giosuè, che aveva fatto una riuscita meravigliosa. Quello sì che era stato uno studio bene impiegato! Ecco, ora Giosuè era un uomo utile alla società; tutti sapevano che faceva molto bene senza nessun interesse, là dove era necessario; ma intanto era sulla strada di divenire milionario, perchè la sua scienza fruttava molto coi ricchi! Ma Davide, con tutto il suo ingegno, non restava forse un uomo inutile, e con la testa piena di ubbìe? A ventisei anni non era ancora capace di guadaguarsi la vita!

La madre, la signora Sara, pur dando in parte ragione al marito, non contraddiceva punto a suo figlio. Aveva ora per lui una grande ammirazione, mista a un certo sgomento; le pareva impossibile che dal suo matrimonio posato, ragionevole, calmo e felice fosse nato quel fanciullo singolare, che pensava e parlava così diversamente da tutti gli altri.

Lo zio Benedetto, col quale Davide esprimeva più volentieri che con altri i suoi progetti, lo ascoltava con benevolenza; sorrideva a qualche esagerazione, rettificava qualche giudizio avventato, ma finiva per concludere:

—Fa, fa dunque. Tenta, prova. Noi, ebrei, che abbiamo conosciuto tutto il mondo, e dappertutto abbiamo sofferto, intendiamo forse meglio di tutti il dolore umano. Ma c'è un mezzo per sollevarlo? Ecco la questione.

—Zio mio; noi siamo giunti a un punto della vita del mondo, in cui un fatto immenso e nuovo si comprià certamente. Sarà una rivoluzione sociale? sarà una evoluzione pacifica e grandiosa? Non so…

—Sarà una guerra?…

—Ah no! una guerra no, zio. Sarebbe oggi impossibile. Perchè oggi le guerre non possono più farle i re; dovebbero farle i popoli. E i popoli vogliono pane, istruzione, libertà; ma non si odiano più; non esistono più barriere tra nazione e nazione… E allora chi farebbe la guerra? perchè?

Il maestro rispondeva a volte con un malinconico sorriso, ma non continuava la discussione. Gli pareva inutile. I bei sogni umanitari di Davide gli piacevano; perchè non lasciarglieli sognare, finchè, forse, la vita, con mano brutale, non li infrangesse?

Quanto al vecchio nonno, il signor Samucle, che era oramai verso l'ottantina, raramente prendeva parte ai discorsi, che si facevano intorno a lui. Non usciva più di casa, che per andare al tempio; rimaneva molte ore chiuso nella sua camera, e là lo si udiva pregare a alta voce, continuamente. Il suo viso aveva oramai presa quella specie di immobilità senile, che prelude a quella più assoluta e non lontana della morte. Ma i suoi occhi velati sorridevano di tenerozza quando la piccola Ester, tanto piccola sempre, nonostante i suoi quindici anni, veniva a appoggiarsi carezzevole a lui; o quando i bimbi di Rachele, erano tre già, di maschietti, e una bimba, gli facevano corona intorno, è, suggeriti dalla mamma o dalla nonna, chiedevano al venerando bisavolo la sua benedizione. Egli pronunziava allora, a voce alta, la formula, in lingua italiana:

—L'angelo, che mi ha guardato da ogni male, benedica questi fanciulli; rammentino essi sempre il mio nome e quello dei padri miei: Abramo, Isacco e Giacobbe, e la felicità li accompagni su questa terra! Benedicili, mio Dio, con tutto l'amor tuo; e fa che prosperino come Efraimo e Manasse; come Rachele e Lia.

Aveva invece qualche parola severa per Bianca e Tobia. Bianca, a diciotto anni, era splendida, e vana di quella sua non comune bellezza. Vestiva in modo da farla valere pienamente; con un gusto alquanto teatrale; la debolezza materna le concedeva troppo, in fatto di ornamenti e acconciature. E poi, non c'era nessuno nella famiglia, e anche tra altri parenti, che non si compiacesse di farle qualche dono, solo per vedere un nuovo ninnolo, un vezzo di più intorno a quella gentile persona. Pareva così un idolo, lietamente adornato a gara dai suoi fedeli. Non si poteva negare che ella fosse civettuola, ma non era possibile sgridarla sul serio. Ella disarmava col suo sorriso, col suo sguardo vittorioso, con la parola piena di carezze… Solo il nonno le incuteva timore; e qualchevolta ella si vergognava di essere così bella, così giovane e ben vestita, se incontrava lo sguardo grave e pensoso di lui.

—Bisogna trovare un marito a Bianca,—diceva il vecchio ai suoi figliuoli.

Oh, non erano i partiti che le mancassero! E il signor Modigliana, il sensale, aveva fatto più decine di volte le scale di casa Levi, offrendo matrimoni magnifici. Ma madamigella Capriccio non si contentava mai.

—Lasciatemi godere ancora un poco la mia gioventù,— diceva a sua madre,—Dio mio! una volta sposati è finita. Un figliuolo all'anno, come Rachele… Bel divertimento! E poi… tutti questi pretendenti sono brutti… Io non mi sposerò, come Rachele, con un uomo brutto…

Aveva dalla sua il fratello Giosuè, che ridendo le dava ragione. Egli non mancava di venire ogni giorno a salutare la famiglia, ma assai di rado si fermava a desinare. Ogni suo minuto oramai era prezioso. Ora aveva una clinica tutta sua, nella quale accettava anche qualche pensionante; malati di nervi, malati di noia e di malinconia… Non pazzi però. Egli non voleva fare il medico alienista, benchè avesse fatto studi speciali su questa materia… Diceva che era medico, per tutti i mali che la scienza aveva imparato a conoscere; e li diagnosticava infallibilmente. Era divenuto primario all'Ospedale civico, dove i malati lo aspettavano come un angelo; faceva cure meravigliose, tanto di ricchi che di poveri. E ogni sera tornava nel suo modesto appartamento di via del Canale, nella casa abitata dai suoi genitori. Aveva ora una governante, una donna matura, di religione luterana, fervorosa lettrice della Bibbia; e un servitoruccio; un povero ebreo sui cinquant'anni, che gli era devoto come un cane. Non gli si conoscevano relazioni mondane nè amori; e a sua madre diceva che non prendeva moglie per non perdere tempo.

La solita spina nella felicità domestica era Tobia. S'era oramai fatto un ragazzotto tarchiato, non grande; di lineamenti comuni ma piuttosto belli… Rideva volentieri, spendeva tutto il denaro che aveva in tasca, correva dietro alle ragazze; qualchevolta, se lo trascinavano, giocava e faceva qualche debito; aveva studiato poco e aveva poca voglia di lavorare. Suo padre lo aveva preso con sè in negozio, e gli dava uno stipendio mensile. Ma Tobia trovava cento pretesti per allontanarsi un momento, che durava ore; o per non andarci affatto. E sì che gli affari prosperavano, e oramai il negozio di Adamo Levi era uno dei primi della città. Non ora più una bottega di rigattiere, ma di mobili artistici antichi e moderni, con una grande fabbrica annessa. V'erano parecchi operai e commessi, e Adamo sperava che un giorno suo figlio Tobia avrebbe menato innanzi quell'ottimo affare, divenendo il suo successore… ma per intanto il giovinotto non si mostrava sollecito se non quando suo padre prendeva qualche graziosa impiegata come cassiera o dattilografa… La sua leggerezza ne aveva fatte già licenziare parecchie di quelle ragazze! Ma per quanto il negozio prosperasse, la famiglia Levi continuava a condurre la solita vita modestissima nella solita casa. Solo il mobiglio si era alquanto rimodernato, e quando Gigetta vi entrava (cioè ora la vecchia Lia la annunziava come signorina Luisa); non vedeva più il lungo corridoio ingombro di cose vecchie, come un bazar. No, tutta la casa era ora linda, comoda, chiara… effetto dei figliuoli che vi avevano portato dentro le boccate d'aria moderna.

E Gigetta ci tornava spesso anche lei, ora. Le sue relazioni con Davide erano ritornate serene e cordiali. Pareva che entrambi avessero attraversato un periodo alquanto torbido, come se un malinteso fosse stato fra di loro e li avesse divisi. Ora si intendevano invece perfettamente; erano divenuti seri, ciascuno occupato di una propria idea, di un proprio sogno, che apparteneva un poco anche all'altro. Luisa voleva assolutamente divenire una grande scrittrice, ecco. Se ne sentiva nell'anima la potenza; era certa di riuscire. Il suo amico non dubitava punto del genio di lei; egli ascoltava con compiacenza le creazioni del suo spirito; leggeva volentieri quanto ella già andava stampando qua e là; e criticava liberamente la forma ancora incerta, puerile o pretenziosa, le idee comuni, il colore dannunzianamente romantico che prendevano dalla sua anima giovanile e dalle letture. Ma era sicuro che tutti quei difetti avrebbero ceduto a una alta poderosa maturità artistica.

—In fondo, tu scrivi piuttosto come un uomo che come una donna—le diceva; e lei ne era orgogliosa.

Le rincresceva soltanto di essere costretta a dare qualche lezione per guadagnarsi la vita. Ah, sarebbe stato così bello poter darsi tutta all'arte, liberamente! Ma i Furiani erano quasi poveri. Pepi, a diciott'anni, non prometteva gran cosa. Per ora, non guadagnava un soldo. Aveva finito le scuole secondarie, senza infamia e senza lode; e non era il caso di pensare a fargli prendere una laurea. Se anche la famiglia si fosse sacrificata, sarebbero stati denari buttati via. Gli si cercava un impiego; ma Pepi ne voleva uno che gli permettesse di avere molte ore di libertà e molte corone in tasca. Era difficile trovarlo. Intanto, perdeva il suo tempo nei caffè, e faceva il bellimbusto sul Corso. La signora Catina adorava quel ragazzo; e anche la nonna, la vecchia signora Marietta, aveva una debolezza per lui. L'una e l'altra gli fornivano vestiti eleganti e un po' di denaro… Si sa; i giovinotti, proprio senza, non possono stare… Poi, per darsi un'occupazione, Pepi faceva della politica. Faceva anche volentieri all'amore, quando gliene capitava l'occasione, e spesso lo si vedeva per via dell'Acquedotto o al Boschetto con qualche graziosa sartorella… Ma questo impiego del suo tempo, per quanto piacevole, non bastava. Pepi faceva la politica, che facevano tutti i giovinotti triestini di buona famiglia; cioè dell'irredentismo. Del resto egli era convinto e sincero nelle sue idee, benchè in lui ci fosse molto snobismo, come diceva sua sorella. Prendeva la politica come uno sport, che gli piaceva molto, perchè vi prendeva parte il fiore della gioventù cittadina; tutte persone colte, piene di entusiasmo e di idealità, ma anche ben vestite e di bei modi, perchè a Pepi non piaceva nulla di ciò che era pezzenteria.

—Se i tuoi compagni di fede, come li chiami tu, fossero dei poveri diavoli, a quest'ora saresti un austriacante,— gli diceva Gigetta in qualcuna delle frequenti discussioni, che avevano tra loro.

Pepi alzava le spalle, annoiato.

—Dacchè ho l'uso della ragione, mi sono sempre sentito italiano, e ho fatto voti per la nostra libertà politica. Tanto meglio se le persone che la pensano come me sono persone civili anzichè degli straccioni! A ogni modo, io non ho cambiato bandiera, e tu sì. Tu che eri irredentista, e sei diventata socialista, per far piacere… al tuo ebreo.

—A chi?!

—Ma sì, al tuo Davide! Va là che lo sappiamo!

Era la volta di Gigetta di alzare le spalle.

—Dici delle sciocchezze, mio caro!

Quando il signor Luigi li udiva, ci si arrabbiava anche lui.

—Siete due pazzi! Vi hanno rivoltato il cervello a tutti due! Anche Pepi è diventato irredentista per colpa degli ebrei!

—O che c'entrano?…

—Sì, credi che non lo sappia che tutto questo movimento politico, che dura da vent' anni a Trieste, e va sempre peggiorando, e che ci porterà chi sa dove! è provocato dagli ebrei? Ci sono quelli che da Trieste andarono in Italia, e là hanno annodato intrighi con ebrei italiani; di là partono le fila, che mettono capo ai ricchi ebrei di qui; è tutta una congiura contro l'Austria, che ci trascinerà alla rovina. I Morpurgo, i Barzilai, i Boralevi, i Salomen, i Venezian, non sono forse tutti ebrei emigrati in Italia? E quelli rimasti qui, i Rimini, i Sinigaglia, i Finzi, i Segrè… e tutti quelli che conoscete voialtri, insomma, non sono forse tutti contro il governo?

—Ma, papà!—interveniva Gigetta,—ci son loro, ma tanti altri anche, cattolici, o anche protestanti e schiavoni… Non si vuole da tutti, oramai, a Trieste, l'annessione al Regno? Tu stesso sei sempre stato di sentimenti italiani!

—Eh! altro è il sentimento, altro il fatto! I vostri son tutti sogni, cari miei! Essere italiani di cuore, sta bene. Manteniamo pure la nostra lingua, la nostra nazionalità. Ma voialtri che vorreste fare? Ribellarvi all'Austria? Ah sì, eh? Credete che si possa fare una rivoluzione, così come niente? E non sapete che l'Austria è forte? O sperate che l'Italia faccia guerra all'Austria? Povera Trieste! sarebbe rovinata! Trieste vive di commercio, e il commercio ha bisogno di pace. Credete voialtri che il popolo voglia passare all'Italia? Il popolo è indifferente; esso vuole guadagnare, vuol vivere; con l'Austria o con l'Italia, poco importa. Sono, vi ripeto, gli ebrei che alimentano questa pazzia…

—Papà, non è vero che il popolo non sia nazionalista. Anzi! gli operai naturalmente non hanno tempo di andare alle sedute dei Comitati e delle Leghe, come fan Pepi e i suoi amici ricchi… Ma sono della stessa opinione, crèdilo!… e poi, un'altra cosa. Tu dici che il movimento irredentista è fatto dagli ebrei, e che la ricchezza di Trieste ne soffrirà… Dunque, ciò vorrebbe dire che gli ebrei son pur capaci, per un ideale, di sacrificare gli interessi materiali…

Il signor Luigi usciva, brontolando.

Per quanto Gigetta amasse suo fratello, gli serbava rancore. Non solo per quella sua vita indolente e inutile, per quella leggerezza, che a lei pareva più perniciosa ancora in un uomo che in una donna, ma anche per un più grave motivo. Un giorno che la siora Catina aveva preso una giacca di Pepi, per spazzolarla, Gigetta vide caderne dalla tasca una lettera sgualcita. La raccolse, con l'intenzione di porla sul tavolo di suo fratello, quando, sulla busta già aperta, riconobbe la scrittura incerta, ineguale di Bianca Levi. Istintivamente ella nascose il foglio, e andò a leggerlo nella sua camera. Ebbe un grande stringimento di cuore, quando vide che la fanciulla dava un appuntamento a suo fratello, sotto i Volti di Chiozza. Era in luogo pubblico, sta bene; ma il tono della lettera era pieno di tenerezza e di intimità. Ah, da un pezzo ella nutriva quel timore! Bianca e Pepi… due nature singolarmente affini; cuori e cervelli leggeri; lo stesso istinto di piacere, la stessa civetteria… E poteva essere un gioco pericoloso!

Ne parlò corrucciata a suo fratello.

—O che mi fai la spia, ora? e vai frugando nelle cose mie?—disse, dispettoso. Ma poi rise:—Ebbene! che male c'è? Si fa di tanto in tanto una passeggiatina insieme.

—Ma, Pepi,—disse ella con serietà e in tono di preghiera, —pensa che Bianca è una giovinetta onesta, di buona famiglia; che siamo amici e vicini… Sarebbe una cattiva azione!….

—Che cosa? Se non facciamo niente di male, ti dico! Si passeggia, si chiacchiera, si prende un gelato… Di solito paga lei, perchè io già son sempre tenuto a stecchetto…

—Ma intanto la gente vi vede. Tu la comprometti…

—Ih! va là, che ne sa una più del diavolo. E' una civetta consumata. E poi… alla peggio la sposerò!

—Come, alla peggio?! Ma Bianca è di condizione assai superiore alla tua!

—Un'ebrea, che suo padre ha fatto fino a ieri il rigattiere!

—Sei un pazzo; non sai quello che dici! I Levi sono una eccellente famiglia, negozianti onorati, e ricchi… E tu sei un….

—Un?… sentiamo.

—Un fannullone, almeno per ora. Non guadagni un soldo. E tu credi che te la darebbero, Bianca? E poi, i Levi ci tengono alla propria religione, più che tu alla tua; e se tu fai perdere il cervello alla povera Bianca commetti un delitto, capisci?

—Ma va là con le tue tragedie! Che delitto! Si fa così, per scherzo. Non ho che vent'anni; non penso mica ancora a sposarmi.

Gigetta restò nel dubbio se doveva ammonire Bianca o no. Pensò che era meglio aspettare. Bianca non era che una bambina capricciosa; non l'avrebbe ascoltata… Parlarne a Davide?… No, non osava! Ella si vergognava della leggerezza di suo fratello, e temeva la collera di Davide… L'unica era tenere gli occhi aperti; sorvegliare i due sventati… Non era difficile, perchè Pepi lasciava le sue lettere qua e là per la camera… Ella avrebbe tenuto dietro al piccolo intrigo, e sarebbe intervenuta a ogni costo se si facesse serio. Ah, sì non avrebbe voluto che i Levi avessero un qualche dispiacere da parte di persone di casa sua!…

Perchè, era un fatto curioso. Gigetta si trovava meglio coi suoi vicini che in famiglia. Voleva tanto bene ai suoi genitori, anche a quel caposcarico di Pepi, anche alla vecchia nonna, che ora vedevano con maggiore frequenza di una volta, perchè il signor Luigi non si mostrava più così accanito contro gli sciavi… Ma, scambiate quelle poche parole di uso quotidiano, Gigetta non trovava più niente da dire ai suoi… Invece, dai Levi, tutto la interessava. Ella prendeva parte alla loro vita; conosceva la data e la durata delle loro feste, c se ne faceva spiegare dal vecchio Samuele l'intimo significato. Sapeva le preghiere del rituale, quelle che si dicevano in italiano, ma anche qualche espressione ebraica, che aveva ritenuta.

Del resto, Luisa Furiani si interessava alla religione dei suoi amici, non sole per simpatia verso di loro, ma anche per quel solenne sapore di antico che ella vi gustava come artista. La Bibbia era per lei una lettura piena di godimento intellettuale. Ne leggeva anche i passi scabrosi per una giovinetta; ma ella non se ne turbava punto; alla sua mente pura tutte le cose consegnate al gran libro apparivano ingenue e curiose. Era avida di sapere, di vivere mille vite. Forse davvero ella era già vissuta, in altri secoli, sotto quei padiglioni, e aveva udito scrosciare il Giordano…

Di solito gli ebrei sono restii a mettere a parte dei loro riti gli estranei; hanno quasi un pudore delle loro preghiere… Ma per Gigetta non avevano misteri. Ella anzi non mancava di venire in casa Levi ogni venerdì sera, quando la signora Sara accendeva con le sue mani la lampada sabbatica a sette becchi, simbolo della eterna luce, e recitava la preghiera rituale:

«Sii lodato tu, eterno nostro Dio, Re dell'Universo, che ci hai santificati coi tuoi precetti, e ci hai comandato di accender la lampada sabbatica!».

E, stando tutta la famiglia intorno, in piedi, l'avo intonava il salmo di adorazione all'Eterno:

«Venite! cantiamo all'Eterno, prorompiamo in voci di gioia in onore di Dio, rocca di nostra salvezza!».

E quando tutti si genuflettevano, piegava il capo anche lei, e ascoltava il vecchio dir con voce grave il cantico della benedizione:

«Cantiamo all'Eterno un cantico novello; tutta la terra magnifichi la sua potenza! Diciamo fra le genti: l'Eterno regnò; si allegrino i cieli, giubili la terra…».

Quindi tutta la famiglia insieme recitava il capitolo dei Proverbi, che si chiama comunemente Donna di virtù; quello in cui Salomone esalta la donna virtuosa nella sua casa:

«Ella si leva mentre è ancora notte, e dà il cibo alla sua famiglia, e ordina alle sue serve il lavoro.

«Ella si cinge i lombi di forza; la sua lampada non si spegne di notte!

«Ella mette la mano al fuso, e le sue palme impugnano la conocchia.

«Ella allarga la mano all'afflitto, e porge le mani al bisognoso».

Gigetta, no, Luisa Furiani, vedeva con la sua mente evocatrice di poeta, la dolce antica famiglia patriarcale; gli uomini andare ai campi e ai pascoli, con mandre infinite; le turbe di bruni bambini ruzzare sull'aia; le donne biancovestite, dai grandi miti occhi neri, filare e tessere la lana e i veli, che rivenderanno poi al mercante; gli anziani sedere accanto alle porte della città, e rendere le loro semplici e pronte sentenze ai querelanti, o interpellare il pellegrino, che viene da altri paesi…

Un'aura di pace scendeva sulla casa israelitica dove, pur mutati coi secoli i costumi, gli antichi cuori vivevano ancora. La lampada del Sabbato diffondeva la sua mite luce simbolica sulla famiglia ebrea non meno che sulla fanciulla cristiana, e pareva che lo stesso profondo senso di amore e di letizia palpitasse in tutti.

Un giorno che Gigetta era rimasta a colazione dai Levi, Davide le disse:

—Se hai lezione dopo, ti accompagno.

Sì, ella aveva lezione in casa Coen; istruiva la più giovane delle tre brutte figliuole, con le quali aveva stretto relazione dai Colonna. I Coen stavano in una palazzina su, verso il Boschetto. Una bella passeggiata da fare! Uscirono dunque insieme. Era cosa che succedeva di rado. Anzitutto Davide teneva a non compromettere la sua giovane antica, e poi, realmente egli era tanto occupato coi suoi studi e anche coi viaggi frequenti, che non gli rimaneva molto tempo per accompagnare una signorina a passeggio. Gigetta penso che avesse qualche cosa da dirle… Forse di Pepi e Bianca?…

Ma si rassicurò vedendo il viso di lui calmo e sereno.

—Sai che stamattina Alvise Galli mi è venuto a dare una buona notizia?—cominciò lui.

—Una buona notizia? Forse per l'ospedale?

—Sì. E' cosa fatta oramai. Il barone Rosenwald dà un milione. Tutto il dippiù che occorresse lo provvederà mio fratello.

—Ah sì!—esclamò Gigetta,—è una bellissima cosa!

—Un ospedale proprio moderno,—spiegò Davide.

—Il corpo principale sarà la casa di salute del dottor Manzi, quello che morì l'anno scorso, sai, che aveva quella casa di salute sulla strada di Barcola? Ebbene, si incomincia con quella. Perchè, a fabbricarlo tutto nuovo, sarebbe costato assai di più… e poi, ci voleva del tempo. Alvise voleva far presto, e ha ragione. Non si tratta, tu capisci, di costruire uno di quelli edifizi grandiosi, ornamentali, che ci vogliono anni a fabbricarli, e ci mangiano su ingegneri, architetti, impresari, e son poi là a attestare la vanità del cosidetto benefattore. Noi abbiamo bisogno di raccogliere i poveri malati, ecco l'importante! Perchè non ci saranno letti a pagamento; tutti gratuiti; per i poveri, davvero…

—Ma e come si manterranno?

—Anzitutto con una rendita annua, che verrà stabilita dal barone e da una società di altri capitalisti… (sono la maggior parte ebrei!); poi con un sussidio che il Comune ha promesso e voterà prossimamente. Infine, Giosuè ha avuto dal Ministero serie assicurazioni che esso concorrerà pure con una somma rilevante. E lo stesso imperatore se ne interesserà… Questa sarà anche la parte di Giosuè. E poi, la cittadinanza vorrà pur fare qualchecosa; ci saranno dei lasciti, dei doni. Oh, vedrai!

—Ne sono tanto tanto contenta,—disse Gigetta che sapeva essere quello da anni il sogno dei due amici.—E figurarsi Alvise!

—Alvise sarà, naturalmente, il direttore sanitario. Oh, intanto poi si cominceranno a costruire piccoli padiglioni dietro il casamento principale! Saranno di mano in mano anch'essi occupati dai malati. Fra un padiglione e l'altro, alberi, fiori… Sarà una bellezza! Mai i poveri diavoli non avranno goduto un simile lusso! Non vorranno più andarsene…

—Ma il vecchio barone non voleva dapprima fare un ospedale solo per gli ebrei poveri?

—Sì, era la sua intenzione. Ma gli abbiamo dimostrato, fra altro, che in tal modo egli non serviva la causa degli ebrei; anzi la danneggiava. Che tali distinzioni di religione, nella beneficenza, separano maggiormente gli individui, e fomentano le antipatie… Insomma si è persuaso…

—Già lo so che il merito è specialmente tuo,—disse Gigetta.

—No. Qui non si tratta di merito. Non li vediamo coi nostri occhi i bisogni del popolo, le sue sofferenze? E' un dovere cercare di alleviarle, ne sei persuasa anche tu. Ora stiamo pensando a un'altra opera bella e necessaria: un asilo notturno… Ah, Gigetta! se tu vedessi l'ondata di miseria umana che si abbatte ogni notte, in quel porto di riposo, offerto solo per poche ore! Ma di ciò avremo tempo a parlare. Purtroppo non sarà cosa fatta presto. Oggi volevo dirti altra cosa. Senti; tu sai che ti amo come una sorella… Sì, e perciò comprendo anche tutte le tue preoccupazioni… Vorrei che tu non ne avessi! sì, vorrei che tu fossi sempre lieta e felice. Ma come?… Intanto ho pensato a tuo fratello, che ti dà dei pensieri, lo so…

Gigetta si fece pallida.

—Tu vorresti vederlo lavorare, guadagnarsi la vita, com'è giusto. Ebbene, se a lui garba, il posto io glielo avrei trovato. Il nuovo ospedale avrà pur bisogno di impiegati. Non molti, il meno possibile… Tuttavia per Pepi ci sarebbe il posto. E' giovane, non può pretendere tutto in una volta. Avrebbe intanto duecento corone; terrebbe i conti, la corrispondenza, e poi, col tempo…

Gigetta gli strinse la mano e non diede altra risposta; ma i suoi occhi parlavano per lei. Era una fortuna, quella, per suo fratello!… E in un momento la sua vivace fantasia corse più oltre. Chi sa! se Pepi diventasse qualchecosa… perchè no il direttore dell'amministrazione?… e che quell'amoretto di Bianca fosse cosa seria, e chi sa, chi sa!…

Continuarono la passeggiata così contenti, così felici di essere vicini, come non lo crano mai stati! Era già una frizzante aria autunnale quella che strappava agli alberi le loro chiome rosse; piacevole il senso del caldo vestito sulla persona; buono l'odore del viale, e così riposante la vista del cielo velato e della non lontana campagna corsa dal vento! Camminavano vicini, senza prendersi per mano, perchè non erano più fanciulli. Eppure si sentivano come fanciulli!

—Oh, tu sei allegra oggi! Che pensi?

—E anche tu sei allegro. Io penso che la vita è bella.

—Ah!

—Sì, sì, lo senti anche tu. Non siamo felici in questo momento? Guarda, laggiù, la nostra bella città, come pare quieta! eppui ferve di lavoro. Pare tutta abitata da gente tranquilla. Pare la città della pace, di cui parla Heine. Ti ricordi? Tradurrò quei versi per te. E tutto quello che ne circonda è bello. Anche la mia anima. La mia anima mi pare leggera, leggera; come se fosse vuota… Non so come farti capire. E tu che pensi?

E si scambiavano così idee fanciullesche, sorridendo di nulla; fingendo che la strada per cui camminavano menasse a un paese incantato, e che quel momento di gioia perfetta fosse eterno!

Ciò accadeva nell'autunno dell'anno 1912; che fu uno dei più belli, dei più ricchi e placidi per Trieste. La citta pareva più popolata che mai e come pervasa da un senso di allegria, che la portava a spendere e a divertirsi. Teatri, balli, concerti, esposizioni d'arte… e profusione di donne belle e benevesite, dovunque. Forse Gigetta aveva ragione, forse tutti erano felici di vivere. Lei sì, lei certamente.

Anche dopo quel giorno, ella aveva continuato a camminare per la medesima strada, verso un paese d'incanto. E sentiva di non essere mai sola. Ora faceva con Davide quella via meravigliosa, ora con altri esseri, che popolavano la sua fantasia d'artista. Non desiderava particolarmente nulla, altro che svegliarsi al mattino e assaporare la vita. Si inebriava di piccoli successi letterari; aveva messo mano a un romanzo… il cui intreccio era un segreto per tutti, anche per Davide.

Dava lezioni senza ripugnanza, ora. Anzi le piaceva entrare nelle case di altra gente, vivere un pochino la loro vita, leggere nelle loro anime. Era curioso, ma le sue scolare eran quasi tutte ebree, perchè ella le aveva trovate per mezzo dei Colonna e dei Levi. Ne aveva alcune carine, alle quali si era affezionata. E dappertutto si sentiva stimata, trattata bene, perchè sempre l'Ebreo ha rispetto dello studio, e della persona che sa. Il suo guadagno andava formando un gruzzoletto di cui era fiera. Anche quella era una sensazione nuova, e punto sgradevole! Vedeva anche con piacere Pepi recarsi al suo ufficio, regolarmente, se non con entusiasmo, e si augurava solo che la vita in famiglia continuasse così. E' vero che non vi regnava una concordia perfetta! Il signor Luigi si andava facendo sempre più brontolone e fastidioso; se la prendeva col figlio, che consumava quasi tutto il suo stipendio nel vestirsi e nei di vertimenti, e che la sera rincasava tardi; con la moglie, che lo scusava e proteggeva. Ma erano, infine, piccoli temporali passeggeri di nessuna importanza; la vita sarebbe divenuta insipida se fosse stata troppo dolce! No, no; Luisa sapeva perfettamente apprezzare quel periodo di pace serena, ravvivata da qualche fremito d'entusiasmo; proprio quello che occorre per dar sapore all'esistenza; come il sottile increspamento sulle limpide onde del lago non ne turba la calma e lo rende più piacevole a guardare.

Anche le leggerezze di Pepi non le parevano temibili. Un giorno, rincasando, aveva ben creduto di vedere lui e Bianca, stretti vicini, chiacchierare sommessamente nel porticato della casa anteriore… Era un posticino quasi sicuro; perchè quella parte della casa, abitata da gente aristocratica o ricca, formava come un palazzo a sè, la cui scala, al fondo, era separata con un muro dal portone comune. I due innamorati, approfittando della assenza del portinaio, che dal suo gabbiotto avrebbe potuto vederli, se ne stavano, lì ricantucciati, quando l'improvvisa apparizione di Gigetta nel portone li indusse a fuggire precipitosamente su per le scale. Ella avrebbe potuto facilmente raggiungerli, perchè quella scala, occupata da gente dove i due giovani non avrebbero potuto, insieme, riparare, sarebbe stata per loro come una trappola. Ma quelle parti non erano di suo gusto. Deliberò piuttosto di confidare la cosa al maestro Benedetto, e agire con lui. Intanto però la cosa stessa non le faceva più l'effetto di prima, e la considerava con una certa indulgenza e ottimismo. Dopo tutto quei due si volevano bene. Che male c'era? Bianca era allevata troppo onestamente per…. e poi, anche Pepi, che diamine! non era capace di una così cattiva azione. Per ora erano tutti due troppo giovani. Più tardi, chi sa! La differenza di religione non era poi un ostacolo insormontabile. Gigetta aveva capito benissimo che, se si fossero messi d'accordo, lei e Davide non avrebbero trovato nessuna opposizione da parte della famiglia Levi. Dunque… Invece il bello era che nè lei nè Davide non pensavano a sposarsi. E lei era molto contenta così. Il matrimonio ora le appariva come una cosa volgare, un poco stupida. Sposarsi! ma perchè? Perchè si vuol bene a un uomo? Ella voleva tanto bene a Davide, ma non sentiva più nessun desiderio di sposarlo.

Qualche anno prima, sì. Dio, come era stata bambina! Ora rideva tra sè e si vergognava delle sue pazzie fanciullesche. Era già stata tante volte innamorata prima dei vent'anni. Prima, di Davide. Oh, non poteva negarlo! Era proprio stato il suo primo amore. Poi, per qualche tempo, anche di Giosuè. Ah, era ben ridicolo! e quando la cosa è passata, pare impossibile che uno abbia avuto così poco buon senso! E Leone Colonna? Eh sì! anche di lui e del suo violino quella pazzerella di Gigetta si era innamorata. Come le pareva lontano tutto ciò! Ora ella aveva già ventidue anni; cominciava a essere una vecchia zitella. Ebbene, che importava? E' un pregiudizio, indegno di un secolo di progresso, credere che ogni ragazza abbia a trovar marito, pena il ridicolo. Lei diventerà una vecchia signorina, senza essere punto ridicola. Avrebbe seguito il matrimonio delle sue amiche, con l'interesse di un'artista. Per esempio, ecco che pochi giorni prima aveva ricevuto l'annunzio di quello di Vittoria, la sorella di Leone Colonna, che aveva sposato un milionario, e ora era col marito a Livorno. Sì, sì; il denaro è una gran bella cosa. I milioni permettono a una donna intelligente di viaggiare, di vivere a modo suo, di circondarsi di cose belle, e di far tanto bene agli altri! Ma i milioni, insieme a un marito antipatico, no, non le piacerebbero punto. Ah, che gioia, essere libera, sentirsi piena di ingegno e di forza, e dire al mondo: Sei mio! Come era bella la vita, quel giorno!

Era stata in questi pensieri per tutta la via, benchè oggi non avesse la compagnia di Davide; e era giunta ancora alla medesima casa, dove lui, pochi giorni prima, l'aveva lasciata. Davanti al portone era fermo un'automobile, che le parve di riconoscere. E sì! ecco lo chauffeur del dottor Giosuè, che la saluta. Dunque, il padrone è dentro. E siccome in quella palazzina non stanno che i Coen e un'altra famiglia, che è ancora in campagna… Qualcuno vi sarà malato? Lo domandò subito alla cameriera, che le aprì.

—Sì, il padrone ebbe un piccolo attacco di arteriosclerosi… Ma si è subito riavuto.

Attraversando il salottino, Gigetta si imbattè nelle signore Coen, che accompagnavano il dottore fino in anticamera. Esse, la moglie e le figliuole del malato, chiacchieravano a voce alta, tutte quattro insieme; lui ascoltava conaria seria e lievemente annoiata. Riconoscendo Luisa, il suo volto si rischiarò, e prese quell'espressione ridente, scherzosa, con cui aveva l'abitudine di parlarle.

—Oh, signorina Gigetta! pardon… signorina Luisa Furiani. Mi permetta di dirle che sono felice di vederla in così buona salute. Lei non ha bisogno delle mie cure. Peccato!

—Come! vorrebbe che io fossi malata?…

—Oh no, malata no! Qualche maluccio di nervi, qualche piccola indigestione… tanto per il piacere di guarirla.

—E allora non chiamerei lei.

—No? lei mi mortifica!

—Lei è un professore troppo caro per me…

Ridevano; e le signore Coen, stupefatte al vedere il dottore, sempre così serio e grave, parlare con tanta affiabilità e scherzare persino, erano rimaste tutte quattro mute un istante. Ma subito si slanciarono tutte quattro avanti; vollero spiegare al professore che la signorina Furiani dava lezione di letteratura alla Mìzele; la quale ne profittava assai e si aveva ragione di sperare che sarebbe un giorno riuscita a scrivere bene, come la signorina Furiani. Che si erano conosciute in casa Colonna, quell'anno medesimo quando il povero Leone… eh? si ricordava?

Il dottore che aveva ripreso la sua fisonomia seria e fredda, si accomiatò in fretta; era aspettato altrove. Ma con Gigetta scambiò una stretta di mano affettuosa e ancora un sorriso.

—Dunque, niente di grave al signor Coen?—domandò Luisa.

—No, no, per fortuna! Ora papà riposa. Stasera il professore ritornerà. Non occorre; ma l'abbiamo pregato tanto! per essere tranquille. E' così buono il professore! Ma lei, signorina, lo conosce assai!… Si vede che sono amici.

—Siamo vicini di casa; io ero bambina quando ci siamo conosciuti,—spiegò Luisa sorridendo.

Le tre signorine Coen, così brutte, poverine, che uno le aveva chiamate le tre disgrazie, sarebbero state ciascuna ben felice, se il dottor Levi avesse voluto sposarne una. Si volevano bene, e ognuna avrebbe goduto della fortuna dell'altra. Erano ricchissime, e nessuna aveva ancora trovato marito; la Tilde, primogenita, contava già trentadue anni, e Mìzele, l'ultima, ventitrè… Ma non erano stupide, e non avevano voluto sposarsi per il loro denaro. Avevano più volte fatto circuire il dottor Levi da abili sensali, ma egli non sì era lasciato punto sedurre dal milione di dote, e aveva dichiarato di non avere intenzione di prendere moglie. Ora, le maniere usate verso la signorina Furiani, una semplice maestra, dopo tutto! avevano messo nei tre cuori un briciolino di gelosia; anzi, nei quattro cuori, perchè la madre, la signora Allegrina, sentiva all'unisono con le sue figliuole.

—Si accomodi, signorina Furiani, si accomodi. Tanto, oggi non si fa lezione. Che vuole? la Mìzele si è spaventata tanto! No, no; non vada via. Si fermi un poco lo stesso. Prenda una tazza di caffè.

Erano assai buone persone in fondo, quelle povere ebree, tutte quattro afflitte dal medesimo male, che è una sventura per la donna: la bruttezza.

Si somigliavano terribilmente. La madre pareva la sorella maggiore delle altre tre. Ciascun viso, con qualche ruga in più o in meno, era un gran naso, una grande bocca con denti enormi e sporgenti, un paio d'occhi piccolini, e niente mento. La natura si era dimenticata di farlo alla signora Allegrina, e questa non aveva cambiato modello per fabbricare il viso delle figlie. E tutte quattro erano della medesima precisa statura, con una lieve tendenza alla gobba.

Gigetta non poteva guardarle senza un senso di pietà, nonostante le loro ricchezze. Quelle poverine avevano nella persona accumulate tutte le miserie millenarie della razza. Esse rappresentavano l'effettò dei matrimoni consanguinei, ai quali per secoli i loro antenati erano stati costretti; l'avvelenamento del sangue per mezzo di miasmi del ghetto; il rachitismo, frutto di cattiva nutrizione e di mancanza di moto all'aperto… Esse ereditavano anche i milioni accumulati dai loro avi negli antri mefitici, dove nessun raggio di simpatia umana era mai penetrato, dal di fuori. E non era un miracolo se quei quattro aborti della civiltà erano anime generose e buone, invece di vendicarsi con spietata avarizia contro la società che le aveva fatte infelici? Buone erano, sì, benchè non avessero ingegno altro che per la musica tedesca che adoravano! Ma Luisa stessa aveva loro raccomandato molte miserabili famiglie scoperte da Davide, e le signore Coen le avevano soccorse largamente e prontamente.

Perciò Luisa si trattenne volentieri con loro qualche minuto, e dileguò la piccola ombra gelosa dal cuore delle povere brutte, parlando del dottor Giosuè come di persona che, tranne l'amicizia di famiglia e la stima per l'uomo, le era del resto affatto indifferente.

—Oh,—esclamò Nina, la secondogenita, con entusiasmo. —E' un uomo grande! Lo sa che va pure dal principe Hohenlohe, il governatore?

—Sì, lo so, e ne sono lieta, perchè il dottor Levi approfitta sempre della influenza che acquista sulle autorità morali o politiche per fare del bene al paese.

—Oh, come dice bene, signorina! E' vero. Mio marito anche ieri mi diceva che se il principe di Hohenlohe continua a ascoltare il dottor Levi, sarà una fortuna per Trieste.

—Speriamolo! Se tutti si potesse vivere in pace, non è vero, signora? Italiani, tedeschi, slavi, cosa importa? Non siamo tutti uomini? Basterebbe rispettarsi reciprocamente, e che nessuno volesse opprimere l'altro e togliergli la sua naturale libertà…—continuava Luisa, infervorata, e ripetendo senza accorgersene le idee che sapeva essere care a Davide.

—Come parla bene la signorina!—dicevano in coro le quattro brutte, ammirando sinceramente quella bella e forte fanciulla così piena di intelligenza.

—Ebbene, signorina Mìzele, se non fosse indiscrezione, io la pregherei ora di farmi sentire una volta… una volta sola…

—Oh, lo so già! Grieg, non è vero?—rispose Mìzele alzandosi.

—Ma forse… il suo papà…

—No, no; papà ha la sua camera dall'altra parte,—rispose cortesemente Mìzele, mettendosi al piano,—e io sa che suono sempre volentieri.

La signora Allegrina lasciò sole le signorine, e andò a vedere il marito. E Mìzele attaccò le note dell'Erotik. Luisa non conosceva affatto la musica, non aveva neppure un vero gusto musicale. Ma c'erano delle melodie, che aveva udito qua e là, e che la avevano impressionata violentemente. Un giorno aveva udito Mìzele sonare Grieg, e gliene era rimasta sempre in cuore la nostalgia. Spesso ella pregava la sua alunna di sonare, solo pochi minuti. E le chiedeva sempre la medesima cosa. Grieg la trasportava in un mondo chiaro e dolce, sotto un cielo azzurro, in riva a acque azzurre. Ma come suonava Mìzele!

La piccola brutta ebrea, che aveva lunghe mani ossute di rachitica, traeva dai tasti il loro spirito più profondo; gemiti, sospiri, baci, risa, singhiozzi. Oh, era così dolce che faceva male! Dio, quel motivo che ritornava ogni tanto!… Iungo, cullante, carezzevole… come buono! come triste!… ma no, non è triste; oh, non cessasse mai!

La piccola fata trasse ora dal suo piano gli accordi giocondi della Primavera. Baci, baci, fiori, sopra un mormorio di ruscello… o stormire di foglie, o susurrare di venti sulla landa. Era meraviglioso! Luisa non vedeva della suonatrice altro che il dorso sgraziato e le lunghe mani che sfioravano i tasti. E la trovava bella, stranamente bella, bella come un genio fatto di spirito, non importa se smarrito in una spoglia deforme. E poi, ancora… E' Peer Gint, il fantastico sognatore, che torna dai suoi regni incantati verso la dolce creatura che da tanto tempo lo aspetta?

«Ma tu a me ritorni!… Tu ritorni per me!…».

Ah, potere attaccare alla propria vita quel prodigioso strumento fatto di due mani vive, che con un tocco mutano sapore colore all'anima che ascolta! E quella deliziosa Mìzele non aveva trovato marito! Nessuno, almeno, che fosse capace di intendere il fascino segreto di quelle mani!

Quando Mìzele si volse, Luisa vide che ella aveva le lagrime agli occhi, e che il suo volto era trasfigurato. La povera piccola ebrea non era più brutta.

—Mi dia un bacio, ora, la prego,—disse Luisa.

Uscì da quella casa portando con sè una dolcezza ancora più profonda. Sentiva il suo cuore rigurgitante di simpatia, non solo per i poveri, ma anche per i ricchi, per quelli che aveva qualche volta invidiato…

—Bisogna che io impari a amare tutti,—pensava.— Sento che la vera felicità sta nell'amore. Voglio dire a tutti gli uomini, anche se mi offenderanno: Fratelli viviamo in pace.

Con questo colore evangelico, che la musica aveva dato alla sua anima, Luisa, appena a casa, si accinse a tradurre la lirica che aveva promesso a Davide; Pace di Eurico Heine; e ne trasse questa versione letterale:

Alto nel cielo stava il sole, da bianche nuvole cinto, il mar taceva; al timon de la nave pensoso io giacevo; pensoso e sognante—e mezzo vegliando e mezzo dormendo io vidi Gesù, salvatore del mondo. In bianco ondeggiante vestito, andava ei gigantesco su la terra e sul mare; il suo capo si ergeva nel cielo, le mani tese benedicendo su la terra e sul mare; e come un cuore nel petto portava il Sole, il rosso fiammante Sole; e il rosso fiammante cuore di sole versava i suoi raggi di grazia, e la sua mite simpatica luce illuminando e scaldando, su la terra e sul mare. Suoni di campane traevan solenni or qua or là; traevan come cigni, con nastri di rose la docile nave; la traevano scherzando alla verde riva, dove abita gente in alto-turrita elevata città. O miracol di pace! che muta città! Pasava il cupo rumore de le ciarlanti afose industrie, e per le pure vie porticate andavan persone, vestite di bianco, recanti rami di palme, e dove due s'incontravano guardavansi in viso, intendendo; e rabbrividendo d'amore e rinunzia dolce, baciavansi in fronte, e guardavano su al cuore di sole del Redentore che giù il suo rosso sangue di gioia conciliatrice irradiava, e tre volte beati dicevano: «Lodato sia Gesù Cristo!».

Il ventotto giugno del 1914 tutta la famiglia Levi era riunita in casa dei vecchi, a festeggiare il giorno natalizio del signor Samuele. Egli compiva in quel giorno ottantun anni, e i suoi sensi erano sani come la sua intelligenza.

Era grande gioia avere intorno a lui tutti i suoi cari! Suo figlio, il buono onesto Adamo, in capelli grigi, perchè aveva passato i sessanta anche lui; l'altro figlio Benedetto, vecchio di cinquanta anni oramai, ma così sereno e vivace come vent'anni prima; l'eccellente signora Sara, nei cui capelli neri lucidissimi erano sparsi molti fili bianchi, ma sempre fresca, sorridente, affaccendata, e felice della sua famigliuola. E poi i nipoti: Giosuè, uomo maturo ora e al colmo della celebrità e della fortuna; Davide, sempre col capo pieno di sogni, è vero, ma erano pur sempre sogni generosi; Tobia, che compieva allora il servizio militare, e da Gorizia, dove era distaccato, aveva ottenuto una breve licenza; Bianca, uno splendore di bellezza, coi suoi venti anni radiosi; Ester, piccolina e magra a diciott'anni come a dodici, ma tanto carina e affettuosa! Poi Rachele e l'altra famigliuola; quel brav'uomo di Mieko, così laborioso e innamorato morto di sua moglie, e i loro figliuoli, cinque, che siano benedetti! cinque fiori, parevano, al bisnonno!

L'intera giornata era passata così, lietamente. E, mentre si aspettava l'ora di cena, e il ritorno di Davide e di Giosuè, i soli che fossero usciti nel pomeriggio, il venerando patriarca recitava a alta voce le sue preghiere, rendendo grazie a Dio della lunga vita che gli aveva concessa, e finiva dicendo:

«Quando suonerà l'ora mia suprema, fa, o mio Dio, ch'io mi addormenti senza angoscia, e in pace io ritorni nel seno dei padri miei».

Mentre tutta la famiglia diceva: amen! entrò Davide. Era pallido, turbato.

—Che hai?—gli domandò la madre.

Il nonno disse:

—Tu porti un annunzio di sventura. Ne sento già il soffio.

—Hanno assassinato gli arciduchi,—disse Davide con uno sforzo.

—Chi ha assassinato? Che arciduchi?

—L'arciduca Francesco Ferdinando, l'erede dell'impero. E sua moglie. A Serajevo. Sono stati i serbi.

Parlava con voce tronca, triste.

Tutti rimasero in silenzio.

Il vecchio fu il primo a parlare.

—E' una grande sventura. Lo sento.—E rimase col capo chino. Il giorno della sua festa quella notizia!

—E' un crudele e bestiale assassinio,—disse infine lo zio Benedetto.—Ma perchè dovrebbe essere una sventura, per noi? L'arciduca era antisemita; era cattolico fanatico. Certo tutti aspettavano con preoccupazione il giorno in cui avrebbe regnato. Era un intransigente. Piango la sua morte come segno della folle barbarie umana, ma per noi e per gli italiani può essere un bene.

—Dal male non può nascere il bene,—replicò il vecchio con voce grave.

Un momento dopo entrò il dottor Giosuè. Anche egli aveva un viso serio, costernato.

—E' un fatto che può avere terribili conseguenze,— disse anche lui. Portava i giornali della sera, e i particolari dell'assassinio furono letti e commentati per tutto il resto della sera. Nessuno ritrovò più il buon umore di prima, e la festa finì tristemente.

Seguirono giorni di agitazione sempre crescente. Il dottor Giosuè fu chiamato telegraficamente a Vienna presso l'imperatore, che si diceva essere preso da violente crisi nervose; e il fantasma della guerra si rizzava minaccioso. Le due famiglie Levi e Furiani si trovavano giornalmente insieme, strette dalla comune ansia. Anche Pepi era soldato, come Tobia, e l'eventualità di una guerra con la Serbia spaventava le madri.

La signora Catina era particolarmente inquieta.

—Non so che ha mio figlio,—diceva alla vicina,— dapprincipio non faceva malvolentieri il soldato, benchè abbia le idee che lei sa! Gli rincresceva un poco vestire la divisa austriaca, ma siccome tutti gli dicevano che stava bene… E è anche vero; è così un bel ragazzo! E poi… era riuscito a non muoversi da Trieste; era una grande fortuna! Era come se fosse a casa. Ma ora, non so, da quando si parla di guerra, è divenuto serio, agitato… Mi fa dei discorsi, che se lo udissero i suoi ufficiali, guai! Insomma, non so, ho paura…

—Ah, cara signora Catina! e il mio Tobia, anche… Se dovesse andare contro i serbi!… Sembra robusto, ma è poì un ragazzo delicato!… La guerra! oh, mi fa terrore!

Intanto il linguaggio dei giornali si faceva sempre più minaccioso. Dopo il compianto per le vittime e per l'imperatore così duramente provato, ora non si parlava più che di responsabilità e di castigo. I giornali dell'Austria e della Germania, con voce concorde, additavano la Serbia, e particolarmente il suo governo, come colpevoli del regicidio, e ne chiedevano una punizione esemplare.

Tutta la monarchia era in fermento. Trieste si dibatteva come in una crisi dolorosa. Improvvisamente la polizia era divenuta più severa con i sospetti di irredentismo e con gli ebrei, che per essa eran quasi la stessa cosa. Ogni pretesto era buono per fare perquisizioni nelle case, per sequestrare i giornali italiani, per sciogliere circoli e società sospette. Pareva all'Austria che il dolore di Trieste, per l'assassinio degli arciduchi, non fosse sincero, e l'indignazione contro i serbi non abbastanza profonda. Si videro per la città, in gran numero, faccie che sapevano di spia solo a guardarle. Nei pubblici ritrovi, nei teatri, nei caffè, due non osavano parlar forte tra di loro.

Erano invece più frequenti le riunioni in famiglie, tra parenti o amici ben fidati. Là si commentavano le notizie, e ci si abbandonava francamente a espansioni di timore e di speranza, a seconda del colore degli avvenimenti. In casa Levi affluivano molti giovani ebrei, per parlare con Davide, il quale, benchè notoriamente socialista, godeva stima in tutti i partiti, come uomo politico serio e onesto. Le sue relazioni con uomini eminenti di altri paesi, lo mettevano in grado di conoscere e giudicare la situazione meglio di tanti.

La maggior parte di quei giovani erano irredentisti, e soggetti prossimamente alla leva; perciò riguardavano con grande ripugnanza l'eventualità di una guerra, che li avrebbe non solo costretti a indossare l'odiata divisa, ma pure a battersi per l'Austria, a darle forse il sangue!…

Quanto a lui, personalmente, Davide era internazionalista, e fautore della pace a ogni costo.

—Non ci sono guerre giuste,—diceva. Pure in fondo al cuore, egli condivideva la simpatia per gli italiani, e quando ne parlava diceva francamente:

—Non è forse umano di amare più i nostri, del nostro sangue, che gli estranei? Io amo tutta l'umanità, ma più di tutti quelli che parlano la mia lingua e sono della mia nazione.

Tutta la famiglia Levi, del resto, propendeva verso gli stessi sentimenti. Il vecchio Samuele era rimasto di nazionalità italiana, come i suoi antichi. Nella profonda rettitudine del suo animo, il signor Adamo si sentiva tenuto a obblighi di fedeltà e di amore verso il paese, del quale aveva preso la nazionalità. Perciò, pur avendo più simpatia per gli italiani che per i tedeschi e gli slavi, egli non diceva mai male dell'Austria, parlava con rispetto del vecchio imperatore, Io compiangeva per le tante sventure familiari che lo avevano colpito; e non desiderava nessun cambiamento politico, perchè soleva dire che un uomo laborioso e onesto, che accetta risolutamente i propri doveri, si trova bene dov'è e com'è. Con tutto ciò lasciava a tutti la loro propria opinione, anche ai suoi figliuoli; era tollerante e mite; non sentiva il bisogno di discutere nè di meditare; la cerchia delle sue idee era forse angusta, ma ciascuna di esse era semplice e chiara, e non andava mai a confondersi con le altre.

In mezzo all'agitazione generale, strano a dirsi, Luisa Furiani era molto calma. Luisa (chi si ricordava più di Gigetta?), non aveva veduto nel regicidio di Serajevo altro che il lato artistico; una tragedia bella e terribile: quei due serbi selvaggi, che per una idea, buona o cattiva non importa, uccidono, sapendo bene che avrebbero pagato col martirio e con la vita il loro attentato. E quei due nobili arciduchi, aureolati da una storia d'amore, morti d'un colpo, nello stesso momento, uno presso all'altro… spariti in un lampo d'orrore! E i loro bambini adorati, che attendono, inconsci, nel principesco castello, dove il padre e la madre, partiti per un viaggio regale, non torneranno mai più!…

Bello! assai più bello di un romanzo. E Luisa si accinse intanto a farne una novella, che sperava di pubblicare sopra una grande rivista… Quando l'ebbe finita, andò dai Levi, perchè voleva leggerla allo zio Benedetto e a Davide. Venne a aprirle Bianca, la quale fece un viso stupito e malcontento vedendo la sua amica. La fanciulla aveva il volto pallido, smagrito, e a Gigetta parve che avesse pianto.

—Cos'è? Non mi vuoi? Sei di cattivo umare, madamigella Capriccio?

Bianca alzò le spalle, dispettosa e malinconica.

—No, niente; non credevo che fossi tu.

—E chi credevi che fosse?… C'è mamma?

—No. E' da Rachele. La bimba non sta bene, e mamma è andata da lei con Esterina.

—Ah!… E c'è Davide?

—Sì, è nella camera di zio Benedetto. E c'è dell'altra gente.

—O chi c'è?

—Non so. Qualcuno dei suoi amici di Innsbruck; non fanno che parlare della guerra!

—Della guerra! Ma speriamo non ci sia guerra!

Bianca si mise a piangere. Gigetta la guardò assai stupita; la carezzò:

—Ma che hai? ma che hai?

—Come! se i soldati vanno alla guerra, ci andrà pure… pure…

—Ah, capisco! Tuo fratello!

—No, il tuo… Cioè, mi dispiace tanto anche per Tobia, poverino. Ma… Pepi… tu sai, Pepi…

I singhiozzi non le permisero di continuare. Gigetta era divenuta pensierosa. Non la impressionava l'eventualità della guerra, che le pareva impossibile, ma la violenza di un sentimento, che Bianca nutriva da anni, e che non si poteva più prendere per una fanciullaggine. Le balenò anche un sospetto.

—Quando io ho suonato, tu sei venuta a aprirmi, credendo che fosse… Pepi?

—…Sì,—mormorò Bianca.

—Ma… e Lia, dov'è?

—E' di là. Sapeva che doveva venire lui, e ha lasciato che aprissi io.

La vecchia serva era dunque complice!

—Ma… e zio Benedetto? e Davide?…

—Oh, loro ne hanno per un pezzo a chiacchierare!…

—Sì che non si sarebbero accorti di nulla. E… dì un po', lo ricevi spesso così, di nascosto, Pepi?

—No, no. Qualche rara volta. Come oggi, che la mamma è uscita con Esterina. Ma esce così di rado!

—E quando non potete vedervi qui, andate a spasso insieme, —disse Gigetta, che si ricordò di averli veduti.

—Sì, che male c'è? Che tu forse non vai a spasso con Davide?

—Ma non è la stessa cosa!—esclamò Gigetta stizzita. E subito pensò: Perchè non è la stessa cosa?

—Senti, Bianca,—disse poi affettuosamente,—tu sai che ti sono più che amica; sono una sorella maggiore per te! Senti, bisogna che io ti parli, a lungo, seriamente. Non ora… Più tardi… Tu sei una bambina… Pepi…

—Aspetta,—disse Bianca.—Tu non volevi parlare con Davide?

—Sì, ma se ha gente!

—Eh, che importa! son certa che gli farà piacere, son tutti suoi amici.

—E tu intanto riceveresti Pepi?…

—No. Oramai non si può più. Manderò Lia a avvertirlo… Ha soggezione di te…

Poi, senza aspettare risposta corse alla camera di zio Benedetto, e annunziò la visita.

—Oh, venga, venga!—esclamò il vecchio maestro.

E Davide venne premurosamente incontro alla sua amica.

Luisa entrò, un poco confusa. Non erano che uomini, e Davide fece le presentazioni, indicando lei come una scrittrice ancora poco nota, ma intelligentissima e piena di genio. Il che le fece non poco piacere.

Gli uomini erano tutti antichi pensionanti della vedova Stein, compagni di Università di Davide; poi c'era Alvise Galli, e un certo Hirschberg, ebreo tedesco, residente a Costantinopoli.

Il discorso fu continuato in presenza di Luisa, che lo ascoltò con crescente stupore.

Fedoro Mickiewitz diceva:

—In questo momento, il presidente della Repubblica francese, e Viviani,- il capo del nuovo ministero radicalsocialista, sono a Pietroburgo. Da questo viaggio possono uscire grandi cose.

—Per esempio?—domandò Augusto Paulewski.

—La guerra.

—Una grande guerra tra la Russia e l'Austria?

—Una guerra europea.

—Andiamo,—disse in tedesco Peter Schröder, il giornalista, che, come tutti gli altri convenuti, capiva perfettamente l'italiano, solo che non osava parlarlo col suo cattivo accento bavarese,—queste sono ubbie. Una guerra europea non può più farsi.

—E sei proprio tu, tu, germano, tu, barbaro, armato sino ai denti, avido di conquista, pronto a lanciarti sulla preda, sei tu che parli così?—disse scherzando Alvise Galli.

Peter Schröder vuotò il bicchiere che aveva dinanzi a sè, e rispose serio.

—Quello che fanno e pensano i nostri imperatori, non ci riguarda, noi uomini liberi. Io credo fermamente che una guerra tra popoli non possa più oggi avvenire, perchè i popoli non si odiano, e non possono più sposare le passioni dei loro padroni…

—Allora…—obbiettò Davide,—perchè ci sono ancora padroni?

L'ebreo Hirschberg, residente a Costantinopoli, disse:

—Lo Stato del quale meno possiamo fidarei, è l'Inghilterra. Non ha scrupoli; la sua ambizione è fredda e metodica. Può aspirare a tutto. E giocherà sempre una minima posta.

Davide rispose:

—La crisi violenta dell'Home Rule, che si scatena ora in Inghilterra, tiene quel governo sempre più lontano da complicazioni all'estero. L'Inghilterra non può desiderare la guerra, e l'Internazionale vi ha basi solide e sicure. Da quel lato non vedo nessun pericolo.

—Ma voialtri, irredentisti italiani, non creerete voi qualche pretesto di malcontento? qualche complicazione?— domandò con acredine il croato Ciaich.

Davide lo guardò qualche momento senza rispondere, poi disse:

—Il tono della tua voce mi è nuovo, Stefano. E mi impensierisce più di qualunque considerazione teorica. Che vuoi tu dire?

—David Levi,—rispose il croato,—io so da fonte sicura che i sudditi italiani della monarchia austriaca sono oggi più turbolenti che mai. Essi cercano di pescare nel torbido; e non sanno nascondere la loro gioia per l'assassinio di Francesco Ferdinando.

—In questo campo io non ti seguirò, amico Ciaich,— rispose con calma Davide.—Il patrimonio della nazionalità è caro a ognuno. E ora vedo, non senza meraviglia, che tale questione potrebbe appassionarci tutti, fino a menarci fuori da quella serena obbiettività, che ci siamo prefissi. Noi dobbiamo trattare un altro argomento. Per questo sono lieto che il caso e la volontà ci abbiano riuniti a Trieste in tale momento. Io vi rivolgo dunque una domanda, alla quale ciascuno di voi risponderà, se vuole, con la massima franchezza; e come uomo, non come cittadino di questa o quella nazione. Desiderate voi la guerra?

—No,—disse a voce alta Moses Kuhner, l'ebreo boemo.

—No,—aggiunse Hirschberg.

Gli altri scossero il capo negativamente.

—Dunque, occorre che noi tutti facciamo quanto sta in noi perchè essa non avvenga. Alcuni di noi sono membri della Internazionale; gli altri hanno tutti una sfera d'azione considerevole; hanno una personale influenza sopra partiti, o giornali, o uomini politici. E' necessario che ognuno di noi l'adoperi, senza risparmio, per tenere lontana dall'Europa una calamità senza esempio.

Fedoro Mickiewitz disse:

—Lo czar è personalmente avverso alla guerra. E' uomo mite, che aborrisce dal sangue. E la czarina è una psiopatica, impressionabilissima; una mistica… Senza dubbio non è il partito imperiale quello che darà la spinta. Ma sono i granduchi. Ambiziosi e frivoli, dissoluti, autocratici assai più dello czar, essi non esiteranno a lanciare la Russia in un'avventura bellicosa, alla quale dànno leggera importanza. Il pericolo è là.

Il maestro Benedetto parlò allora con pacatezza e fermezza:

—Se le mie parole suonano amare a qualcuno, credetemi tutti, che io non parlo per prevenzione o astio. Io sono nato e rimasto italizno; non ho rinunziato a nessuna delle mie aspirazioni nazionali, ma ne ho sperato sempre l'attuazione per mezzo della pace, e non per mezzo della guerra. Son troppo vecchio per vederla; ma quelli che verranno, la vedranno, ne sono sicuro. Vedranno il giorno in cui si parlerà e si penserà liberamente in italiano, su queste terre… Quanto a me, non odio l'Austria! Ma non si può negare che le due alleate, Germania e Austria, sono pericolose per la pace europea. La Germania vagheggia l'egemonia in Europa; l'Austria vuole il dominio degli Stati balcanici, che le due ultime guerre balcaniche le ha levato di mano.

—Un momento!—esclamò Peter Schröder,—il popolo tedesco è sempre preparato alla guerra, è vero. Ma non è vero che voglia la guerra!

—Il linguaggio dei giornali a Berlino e a Vienna è minaccioso, —replicò Benedetto.—Per esempio, la Militärische Rundschau eccita apertamente la Germania a cogliere questo momento propizio. Eccovi il passo. L'ho stralciato ieri:

«Il momento ci è tuttora favorevole. Se non ci decidiamo ora alla guerra, la dovremo fare fra due o tre anni in circostanze meno propizie per noi. Presentemente a noi tocca l'iniziativa. La Russia non è preparata. I fattori morali, il buon diritto e la forza sono con noi. Poichè un giorno noi dovremo necessariamente accettare la lotta, provochiamola subito!».

—Noi non possiamo accettare tutto ciò che scrivono i nostri giornali,—rispose Schröder,—e specialmente una rivista militare. Essa non è la voce del popolo. E io vi ripeto, il popolo tedesco non chiede la guerra! L'opera diffusa e continua del socialismo ha creato un legame di solidarietà fra i proletariati, che non si potrà facilmente spezzare. Il popolo tedesco non farà la guerra se non trascinato.

—E posso dirvi,—aggiunse Hirschberg,—che mi consta che l'ambasciatore russo a Vienna ha chiesto un congedo, per recarsi pacificamente in campagna; dunque le intenzioni per ora non sono cattive.

—E io vi aggiungo,—disse Ciaich,—che il barono Macchio, nostro segretario generale del ministero degli esteri, ha promesso all'ambasciatore di Francia che le condizioni da porsi alla Serbia, e il tono con cui saranno formulate, permettono di contare sopra uno scioglimento pacifico.

—Ascoltate,—disse Augusto Paulewski,—io non vi nascondo che si dice da noi che siano gli ebrei tedeschi a volere la guerra.

—E perchè la vorrebbero?—rispose pacatamente Moses Kuhner.

—Specialmente per l'enorme movimento di capitale che ne verrebbe!

—No,—rispose Hirschberg,—lasciate chiarire questo punto a me, che sono tedesco e ebreo, e in relazione coi principali ebrei di Germania. Noi non vogliamo la guerra. Non la desideriamo dal punto di vista finanziario, perchè l'enorme movimento di capitali, che dite, porterebbe pure a uno squilibrio enorme di ricchezza, a un sovvertimento generale, nel quale molte banche e case commerciali naufragheranno; e nessuno di noi è sicuro di non essere uno dei naufraghi. E se voi conosceste bene l'animo della razza, sapreste che essa ama piuttosto la prudenza che il rischio. Noi siamo divenuti ricchi a poco a poco, a forza di perseveranza e di pazienza. Non sarà questa l'ora, in cui tutte le nostre tradizioni si butterebbero via, per lanciarci in una speculazione così incerta e pericolosa come la guerra.

—Questo dal punto di vista materiale,—disse Davide, —permettete a me di dirvi ora che anche dal punto di vista sentimentale l'ebreo non ama la guerra. E perchè l'amerebbe? La nostra nazione, dispersa nel mondo, non aveva più mezzi di difesa bellicosa; essa dovette piegarsi, e divorare le lagrime e le ire in silenzio. Nei tempi di guerra, sempre gli ebrei ne andarono di mezzo. Essi non potevano guardare con simpatia lo stato guerresco. Dunque noi abbiamo imparato a temerla e a aborrirla, come causa di pericoli e di danni, la guerra. La nostra condizione di popolo vagabondo e disperso, mettendoci in contatto con tanti altri popoli, ha coltivato in noi la simpatia umana. Miseri e oppressi, noi abbiamo conosciuto le miserie e le oppressioni dei proletari. E sappiamo per esperienza che la guerrà è specialmente terribile per essi. No, l'ebreo non può volere la guerra!

—I francesi,—disse Fedoro Mikiewitz,—accusano specialmente gli ebrei di avidità e di scarso patriottismo.

—I francesi si accorgeranno, se mai giungesse il giorno tremendo, che gli ebrei sono ottimi patrioti, e li vedranno spargere il loro sangue sul campo di battaglia, come fecero sempre dacchè la coscrizione fu estesa anche a loro.

—E così l'Austria ci vedrà concordi, con lei, nel suo campo di battaglia,—esclamò il boemo Moses Kuhner,— se scoppiasse la guerra tra lei e un'altra nazione.

—Come! tu, Kuhner, ebreo nonchè boemo?…—mormorò con fare incredulo Peter Schröder.

—Sì, io, e con me tutti, boemi e anche ebrei! Noi czecki desideriamo ardentemente la nostra autonomia. Noi siamo un popolo slavo, e convinti, che una grande nazione slava potrebbe formarsi nel centro dell'Europa, al di fuori della Russia. Noi sopportiamo con impazienza il freno tedesco. Ma finchè facciamo parte dello stato austro-ungarico, nessuno di noi negherà il suo braccio per la difesa della monarchia. Come, ne sono convinto, non lo farà nessun ungherese o nessun croato.

—Ebbene,—disse il maestro Benedetto,—ora che questo scambio di vedute ci ha reciprocament illuminati, vi prego, concludiamo. Vogliamo tentare, ciascuno nei limiti del suo potere, di impedire il precipitare di gravi avvenimenti? Sinceramente noi tutti desideriamo la pace. Facciamo che essa sia mantenuta, se è possibile!

—Io sono fatalista,—disse con leggerezza Peter Schröder, —credo che la volontà nulla possa contro il destino. Che volete che faccia io, per esempio, contro la guerra?

—Voi combattete sul giornale, in favore della pace,— disse Benedetto.

—Combattere per la pace!—disse Schröder ridendo.— E' quello che dicono sempre i principi belligeranti. Noi combattiamo per la pace! Ebbene, lo prometto.

—Io sto per recarmi a Berlino,—disse Hirschberg,— là mi intenderò col rabbino, e ci metteremo d'accordo per una ottima propaganda fra tutti gli ebrei di Germania.

—Sarà certo cosa utilissima, e dalla quale io spero molto, rispose il russo.—Io andrò prossimamente a Ginevra, e di là ci metteremo in relazione con i nostri connazionali. E rimanete tranquilli! Lo czar non farà la guerra.

Stefano Ciaich disse:

—Io ricevo ogni giorno notizie e giornali da Fiume. Il linguaggio della stampa ungherese è violento contro la Serbia, e rispecchia perfettamente lo stato d'animo croato e ungherese. Ma credo di poter affermare che, una volta definita la questione con la Serbia, i miei connazionali si diranno sodisfatti. o sto preparando un opuscolo, che andrà subito in Croazia e di là si spargerà in Ungheria e Transilvania, nel quale dimostrerò con le cifre che la guerra sarebbe una rovina della prosperità nazionale, e specialmente dei paesi danubiani.

—Bene!—approvò il polacco.—Quanto a noialtri poveri diavoli della Polonia ci abbiamo tutto da perdere in una guerra tra la Russia e l'Austria, che si combatterebbe proprio sulla nostra terra. Per me, ho già predicato dalla cattedra, ho scritto lettere a amici influenti, e spero ardentemente che un tale flagello ci sia risparmiato…

—Tu, Davide, batti forte sul partito socialista,—disse ancora Ciaich,—bisogna persuadere il popolo che è lui che forma il nerbo della guerra, che la guerra al popolo non frutta che danni, anche con la vittoria; e che, in una parola, se il popolo non vuol farla, non ci resta nessuno a battersi… E' tanto chiaro!

«Et le combat finit faute de combattants»—declamò Peter Schröder.—E' logico; ma voi credete ancora che la logica entri facilmente nei cervelli delle masse? Ma noi, qui, discutiamo da più di due ore di cose noiose per una signorina. Abbiamo quasi dimenticato di avere qui una gentile visita, einen holden Besuch!

Luisa, alla quale il complimento era rivolto, rispose con un sorriso. Ma tutti quei discorsi la avevano fortemente impressionata.

—E' impossibile,—esclamò allora,—che si parli sul serio di guerra! Io credevo che le guerre fossero solo nella storia, fossero cose passate, impossibili a ripetersi oggi, col nostro grado di educazione morale, di coltura!

—Lo credevo anch'io, lo confesso,—disse Davide con viso pensieroso;—e ora mi limito a sperarlo!

—Quanto a me,—disse Schröder,—vi dirò una cosa della quale sono profondamente convinto. L'uomo è sempre lo stesso, e lo sarà finchè ne esisterà un campione sulla terra. L'uomo è capace di istruirsi, oh, questo sì! egli impara moltissime cose tutti i giorni. Questa è la coltura, la quale non fa che sviluppare sempre più il suo egoismo, e mette l'uomo in grado di procurarsi più facilmente tutto quello che gli piace, e di nuocere al suo prossimo, se ciò gli conviene. Noi usiamo poi chiamare educazione morale una vernice mista di buone maniere e di nervosismo sentimentale, una malattia dunque; e questa bella vernice si distacca subito, ogni volta che una vampa di passioni ataviche si accende nell'animo profondo. Allora l'uomo si mostra com'è veramente: brutale, crudele, avaro, avido, sanguinario… Insomma la bestia o il selvaggio, questo rimane sempre l'uomo, nonostante la tinta brillante dei suoi colori di civiltà…

—Io non condivido questo pessimismo,—disse lo zio Benedetto,—e ho fede nei destini alti dell'Umanità.

—Io pure,—disse Davide.

—Ci permettete di salutare il venerando signor Samuele? —domandò Hirschberg, mentre tutti erano per accomiatarsi.

—Ma egli vi vedrà con grande piacere!—esclamò Davide.

E tutti insieme si recarono nella camera dal vecchio, il quale raramente ne usciva. Già dal corridoio udivano la sua voce ancora robusta pregare. Erano le parole del sesto Salmo, quello che si recita nell'affanno, nel timore della imminente ira divina.

«Signore, non mi riprendere nel tuo furore, non castigarmi nella tua collera.

«L'anima mia è fortemente turbata; mio Dio, calma l'anima mia, ascolta la voce della tua misericordia».

—Si direbbe che pianga! che cosa dice mai?—domandò Schröder, che non capiva la preghiera recitata in ebraico.

—Da quando ha saputo dell'assassinio dei principi, egli non fa che gemere così,—disse Benedetto.—Implora sempre misericordia, come se sentisse prossima una grande sciagura. E' molto cambiato da due settimane in qua.

—E ciò che mi impensierisce specialmente,—disse Davide, —è che ha spesso delle allucinazioni. Dice di vedere gente furiosa, con occhi stravolti, vesti coperte di sangue. O vere turbe di affamati, di pezzenti, di appestati… E' triste per un uomo che ha condotto una lunga vita operosa e serena…

—Questi vegliardi acquistano talvolta uno strano senso profetico,—mormorò Paulewski.

Entrarono nella camera, senza che il vecchio avesse risposto al loro picchiare. E lo videro, ritto in piedi, come inspirato, con le braccia coperte dai tefilin, levate in alto, come pure gli sguardi, che eran pieni di angoscia.

Egli continuò a pregare:

«Misericordia di me, o Signore, secondo la tua grande misericordia!».

Gli avvenimenti precipitarono in maniera così rapida e terribile, che sorpresero e travolsero come in un gorgo di orrore tutti i personaggi di questa veridica narrazione.

A mezzogiorno del 24 luglio Davide rientrò in casa col viso cosparso di un pallore ardente, e gli occhi lucidi come per febbre.

—L'Austria ha consegnato ieri alla Serbia una nota, che può chiamarsi un ultimatum! E' la guerra, la guerra inevitabile! Essa è un documento spaventevole, come ha dichiarato lo stesso Edward Grey all'ambasciatore d'Austria! Nel termine di quarantotto ore la Serbia dovrebbe arrendersi, mani e piedi legati, all'Austria! Porre sotto il suo controllo l'esercito, le scuole, i tribunali, la polizia, l'amministrazione! Insomma, si vuole il suicidio della Serbia. Questo mi importa mediocremente. Ma la guerra dell'Austria alla Serbia porterà con sè complicazioni tremende.

—La guerra!—gemette la signora Sara,—il mio povero Tobia!

Con lo stesso senso d'orrore e di ripugnanza fu accolta questa notizia in tutte le case di Trieste. O per ragioni sentimentali o d'interesse, nessuno voleva la guerra, tranne quei generosi sognatori, che già vedevano balenare nel futuro qualche complicazione favorevole ai loro ideali patriottici.

L'aspettazione durò tutto il giorno dopo, febbrile.

La sera del 25 telegrammi giunti alla Borsa annunziavano la partenza da Belgrado del ministro austriaco e di tutto il personale della legazione.

Da quel momento parve che un velo di lutto scendesse a avvolgere la città. Si sentiva una prossima calamità minacciante tutti. Una inquietudine, un'angoscia, un'oppressione… Le vie erano gremite di gente, che andava e veniva, affannosa, come si vede in un formicaio, se minaccia un temporale. I caffè e le birrerie erano sempre affollati, ma la folla si rinnovava continuamente; come se nessuno potesse rimanere a lungo fermo in un luogo. Si udivano le voci degli austriacanti, o degli ufficiali e impiegati tedeschi, levarsi a lodare l'energia del governo, e a minacciare giusto sterminio agli assassini di Belgrado; ma erano le sole. Il popolo tremava; la borghesia ascoltava fremendo o sospirando, e andava in cerca di parenti o amici fidati, per sfogare sicuramente la sua ira e la sua paura.

Già parecchie classi erano richiamate sotto le armi; i giovani venivano fatti vestire in fretta, e partivano per ignote destinazioni. Le madri rabbrividivano, gli uomini stringevano i pugni; un malessere profondo dilagava dappertutto; era il fiato avvelenato del tetro fantasma della guerra, che si diffondeva sulla città lieta e prosperosa, e si preparava a ucciderne il benessere, i commerci, la gioia delle famiglie; tutto ciò che v'era di buono, di bello, di caro.

A ogni ora del giorno qualcuno della famiglia Furiani era dai Levi, sia per averne qualche amichevole conforto, sia notizie. La signora Sara piangeva sempre. Tobia era a Gorizia; ma non lo farebbero partire? Rachele e i bimbi erano là, anch'essi, tutto il giorno, per tentare di consolarla, ma la povera donna non trovava altro conforto, che quello di scambiare le sue paure, le sue angoscie con la signora Catina, che era nello stesso suo caso.

Perchè anche Pepi potrebbe essere costretto a partire da un momento all'altro. Lo stesso incubo doloroso premeva sulle due madri. Si isolavano in un canto della casa, parlavano e piangevano insieme.

Gigetta, che si trovava ora improvvisamente di fronte a una realtà, che non avrebbe mai creduta possibile, tremava ora anche lei, per il fratello; per Tobia, che pur le era caro; e tremava anche di una paura indistinta, di una qualche minaccia oscura, che si drizzava davanti a lei, formidabile. In quegli ultimi angosciosi giorni di luglio, ella non abbandonava quasi più la casa dei suoi amici, e aspettava trepidante le notizie che vi portavano incessantemente ora il maestro Benedetto, il quale le sapeva direttamente dal rabbino, che era in relazione con eminenti uomini religiosi e politici dell'estero; ora Davide, che era sempre ben informato dai suoi compagni di fede politica; ora il dottor Giosuè, che, per le sue alte relazioni, e specialmente perchè quei giorni appunto aveva in cura la principessa di Hohenloe, moglie del governatore, riceveva le notizie più precise e più rapide.

Il precipitoso ritorno dell'imperatore Guglielmo a Berlino aveva serrato i cuori di tutti.

—Là c'è la soluzione dell'enigma,—aveva detto Davide. Ma nelle successive quarantotto ore le speranze rinacquero; pareva che il cancelliere germanico e l'imperatore non volessero la guerra… La sera del 28 Guglielmo manda allo czar un telegramma quasi affettuoso:

«In nome dell'amicizia cordiale che ci lega strettamente da molto tempo, uso tutta la mia influenza per decidere l'Austria a una intesa leale con la Russia…».

Ma ogni speranza cadde due giorni dopo. La notizia della nuova complicazione la portò in casa Levi il dottor Giosuè. Anche il signor Furiani era presente.

—Il focolare dell'incendio si è spostato,—annunziò egli.—A Potsdam si è tenuto ieri un consiglio di ministri, presieduto dall'imperatore. E subito, Bethmann Holweg, ritornato a Berlino, conferì con l'ambasciatore inglese. Posso già dirvi quale fu il soggetto della loro conferenza: Il contegno dell'Inghilterra, durante una eventuale guerra tra Germania e Francia. D'altra parte, a Pietroburgo, Sazonoff ha ricevuto già parecchie volte la visita dell'ambasciatore di Germania. E il loro colloquio non fu punto cordiale. Il conte di Pourtalès insiste perchè la Russia cessi i suoi preparativi militari e minaccia la mobilitazione della Germania. E' la guerra, e prende proporzioni sempre più ampie.

Udì le due madri piangere, e disse gravemente:

—Non nascondo che si accostano tempi dolorosi. Ma perchè piangere? Il pianto indebolisce e non consola. Armiamoci tutti di forza; temo che ne avremo bisogno tutti.

Il signor Adamo, rientrato allora dal suo negozio, aggiunse con fare triste e rassegnato:

—Sono passato dal rabbino, il quale mi ha detto che dobbiamo pregare fortemente e in comune. E che il giorno di Tisnà beav sarà quest'anno particolarmente consacrato alla deprecazione del male. Ma ha raccomandato che il digiuno sia rigorosamente osservato da tutti. Egli prevede tristi cose.

Gigetta domandò a Davide che cos'era quel Tisnà beav, di cui parlava il signor Adamo.

—E' il giorno del digiuno in memoria della distruzione del tempio di Gerusalemme, e quest'anno scade dopodomani, il 2 di agosto.

—E tu osserverai il digiuno?—domandò la giovane.

—Sì, certo. Anzitutto per non dispiacere a mio padre e al nonno, specialmente in giorni di tanta preoccupazione; e poi… digiunare di tanto in tanto fa bene al corpo e allo spirito. E' un godimento singolare quello di rimanere un giorno intero senza mettere nulla in bocca, nemmeno acqua. E pensa quanta gente lo fa per forza, il digiuno, e anche più lungo; e senza provarci godimento; te lo assicuro io!

Si sorrisero amicamente, e ne provarono un sollievo. Raramente si parlavano; da un pezzo non si ritrovavano mai da solo a sola, eppure erano contenti di sapersi vivere non lontani uno dall'altro, di vedersi nella semplice intimità della famiglia, di scambiarsi un'occhiata calma, ma piena di gioia.

—Quel giorno non ci vedremo,—disse Davide,—la nostra casa sarà chiusa per tutti. E' giorno infausto per noi, nel ricordo, e lo passeremo nella più stretta intimità domestica. Si sperava che potesse venire Tobia, in breve licenza; ma ha già telegrafato che non può. E' cattivo segno anche questo. Sarà dunque un giorno assai più triste del solito. Pensa a me; mi pare che con quel giorno debba incominciare un periodo di tenebre, per tutti. E' come una porta che mette in una stanza scura e piena di mistero.

Luisa si stupì del tono quasi mistico con cui erano pronunciate quelle parole. Davide le pareva cambiato, invecchiato… Vedeva crollare il suo sogno di pace e fratellanza umana, e aveva ancora l'anima ingombra di tutti quei rottami.

La sera del primo agosto la signora Sara aveva già accesa la lampada rituale, che illuminava tutte le teste care, raccolte sotto la sua luce mite, chine nella stessa preghiera, quando venne, non aspettato, Giosuè; l'unico che anche nelle feste più solenni si assentava, quando i suoi doveri professionali glielo imponevano.

Ma nemmeno il suo arrivo non turbò la cerimonia della preghiera e della benedizione che il venerando Samuele pronunciava a gran voce, e a cui tutta la famiglia rispondeva amen! Poi sedettero al pasto, che precedeva il rigoroso digiuno, e allora gli occhi di tutti si volsero ansiosi al dottore.

—Ebbene?—domandò Davide.

—Nulla di nuovo,—rispose Giosuè, ma la sua occhiata voleva dire al fratello: «Aspetta, non turbiamo questo pasto… Sarà l'ultimo, fatto in compagnia della speranza…».

Quando ebbero finito, mentre il resto della famiglia cominciava il lamento di Geremia:

«Per noi sono stati il terrore e la fossa, con la distruzione e la rovina! Il mio occhio si fonde in ruscelli di lagrime, a causa della rovina della figliuola del mio popolo.

«Il mio occhio piange e non cessa mai, perchè non c'è tregua, fintanto che l'Eterno guarderà e vedrà i cieli».

Giosuè andò in camera dello zio, e là lo raggiunse subito Davide con l'ansiosa domanda:

—Dunque?

—Dunque, stasera, alle sette e mezzo, la dichiarazione di guerra della Germania è stata rimessa alla Russia.

I due uomini accolsero in silenzio queste parole. Poi lo zio Benedetto disse:

—E' orribile.

—Dunque,—aggiunse con amarezza Davide,—da questo momento cesso di credere. Non ho più ideali… L'umanità torna a essere il bruto che era…

—Non ha mai cessato di esserlo,—disse Giosuè,—e per di più è una bestia malata.

Tacquero tutti, ciascuno covava la propria agitazione angosciosa.

Nella stanza chiusa penetrava la tetra lamentazione, gridata in coro da tutta la famiglia, e a ciascuno parve l'eco di una sventura immanente, anzichè dell'antica… un presentimento di dolori, di miserie inaudite strinse i loro cuori, come se il profeta, risorto dalla tomba, urlasse al suo popolo il vaticinio nuovo di un orrendo inevitabile fato.

«Coloro che sono nemici miei, senza ragone, mi hanno data la caccia come a un uccello. Mi hanno gettato le pietre; le acque montarono al di sopra del mio capo; io dissi: sono perduto!

La lingua del lattante si attacca, per la sete, al palato; i bambini domandano pane, e nessuno gliene dà.

Coloro che già mangiavano carni delicate, periscono per le strade; coloro che erano nutriti sullo scarlatto, abbracciano il letamaio.

Coloro che muoiono di spada sono più felici di coloro che muoiono di fame!

Non hanno avuto pietà per i vegliardi…

Errano come ciechi per le strade…

Noi siamo come orfani senza padre…

Le nostre madri son divenute vedove!…

I nostri occhi si sono consumati dietro un vano soccorso. Dall'alto delle nostre torri, noi abbiamo guardato verso una nazione che poteva liberarci!…».

—E' strano tutto ciò,—disse Davide riscotendosi.— Il vecchio Geremia ci predice assai tristi cose. Non è singolare che la guerra abbia a cominciare proprio il giorno della nostra più triste solennità? Se fossi superstizioso…

—Lo sci,—disse Giosuè sorridente.—Ma speriamo che il vecchio brontolone esageri un poco…

—E ora, che cosa accadrà?—domandò Benedetto con profonda tristezza.

—Fra due giorni avremo la dichiarazione di guerra alla Francia,—disse Giosuè,—e domani comincerà la mobilitazione in Germania e in Austria.

—E poi?…

—Oh, questo, poi, non lo so! Ma ricordiamoci che ora tutto è possibile, anche l'inverosimile, e che dobbiamo essere preparati a tutto.

—E il povero Tobia?

—Seguirà anche lui il suo destino.

—Povera mamma!—mormorò Davide.

—Sì, è triste,—disse Giosuè.—E ora devo lasciarvi. La principessa di Hohenlohe è malata; non può dormire… E' una malattia che diverrà assai comune da domani in poi…

Gli avvenimenti infatti precipitarono in maniera impensata e terribile. L'entrata dell'Inghilterra, nel conflitto, parve renderlo d'un tratto assai più vasto e pauroso. E mentre le schiere tedesche invadevano il Belgio e la Francia, quelle austro-ungariche si lanciavano verso la Russia e verso la frontiera serba. Trieste si sentì tutta invasa da un gelò di orrore…

Trieste vedeva partire in suoi figliuoli, i suoi migliori, il fiore della sua gioventù. Li vedeva strappati alle madri, alle case, per una guerra che pareva a tutti una iniquità, una pazzia. E ciò che appariva ancora più atroce era il vedere che l'Austria, sempre sospettosa dei possibili moti irredentisti, incorporava tutti i triestini nei battaglioni destinati alla Gallizia… Ciò pareva un malvagio dispetto, un evidente desiderio di sbarazzarsi dei giovani, come più pericolosi, mandandoli al macello… Era, in ogni caso, la maniera più sicura per allontanarli dalla città, che poteva divenire un focolare inestinguibile di agitazione, in un prossimo futuro, perchè la condotta dell'Italia, sebbene alleata, non appariva chiara, e non rassicurava punto il governo…

Una cupa disperazione invadeva i cuori, e rinfocolava l'odio antico contro i mal sopportati padroni. I giovani partivano frementi, maledicenti. Molti, senza aspettare la chiamata alle armi, ai primi insistenti sintomi di guerra, erano fuggiti, e avevano passato il confine verso l'Italia. Altri, che già si trovavano a prestare servizio militare allo scoppio della guerra, avevano disertato, con pericolo della vita. Ma la grande maggioranza, o non seppe osare, o non potè, perchè la sorveglianza si era fatta più severa che mai; moltissimi appartenevano a famiglie operaie, povere, che non potevano fornire al figliuolo i mezzi per partire e vivere fuori paese… Questa grandissima maggioranza dunque, quarantamila uomini, furono messi in prima fila nell'esercito destinato a combattere i Russi. Fra questi era Tobia Levi. Egli si trovava a Gorizia col suo reggimento, quando gli giunse l'ordine di partire. Per lui fu come un fulmine. Quel povero Tobia era un ragazzo spensierato, di intelligenza vivace ma non profonda, di animo lieto, anzi un po' fanciullesco, molto attaccato alla famiglia e specialmente alla mamma.

Eppure, era già stato causa di parecchie contrarietà ai suoi; non aveva mai mostrato serietà e fermezza in nessun utile lavoro; aveva fatto qualche debituccio; in parecchie occasioni aveva mostrato una leggerezza, che aveva indotto il signor Adamo a trarne i peggiori auspici per l'avvenire…

Quando l'ordine di partenza fu comunicato a Tobia, e egli capì che non poteva più ritornare a salutare i parenti a Trieste, che andava alla guerra, e che nessuno poteva prevedere se e quando sarebbe ritornato, rimase come istupidito.

Non sapeva cosa fosse la guerra, non ci aveva mai pensato. L'aveva trovata solo nella Bibbia e nel poco di storia che aveva studiato; gli appariva come una cosa passata, lontana, che era soltanto nei libri… Ma, o che la guerra doveva farsi ora sul serio? uccidere, far del male, a gente che non conosceva, che non gli aveva fatto nulla? Ma egli non odiava nessuno! E forse che il quinto comandamento della Legge non proibisce di ammazzare? Egli non aveva odio per nessuno, quel buon Tobia! Anzi, aveva un cuore inclinato alla simpatia universale; amava la gente, amava la vita, e tutte le buone cose che sono in essa. Il pensiero della morte gli era venuto assai di rado, confusamente; non aveva mai veduto un cadavere, sapeva che si muore tutti, ma non si era mai persuaso che lui pure dovesse morire. La morte aveva per lui un mistero pauroso e ripugnante… E poi, quella partenza brutale, senza potere neppure andare un giorno a casa sua, a salutare i suoi!… quel sentirsi a un tratto, divenire una cosa, privata di qualunque volontà; uno strumento, in mano di violenti, trascinato qua e là, adoperato a fini che egli ignorava!… Dunque, egli non era più lui; aveva cessato di essere Tobia Levi; non era più che una unità, facente parte della tal compagnia, battaglione tale, tal reggimento; che marciavano tutti in una massa unica, compatta, dello stesso colore, verso una ignota ma terribile meta lontana.

Il povero figliuolo, che da alcuni mesi faceva il suo servizio di soldato, era sempre stato di una docilità esemplare, e non aveva trovato nulla di troppo gravoso o di antipatico in quella vita di caserma; perchè sapeva che presto sarebbe finita e lui sarebbe tornato a casa sua… Era come una parentesi necessaria nell'esistenza di un uomo; gli pareva di essere ritornato un'altra volta a scuola; e anche la scuola, benchè non gli piacesse molto, era stata sopportabile, perchè doveva finire, e era finita… Ma la guerra!… Ma questo aspetto nuovo e tremendo che prendevano tutte le cose!… Egli avrebbe pianto, se avesse osato; invece cantava, con gli altri; cantava canzoni stupide, in cori sguaiati; ma alle canzoni oscene taceva. La sua bocca non aveva mai proferito certe parole, indegne delle labbra di un israelita; gli sarebbe parso di insozzarsi.

Si era sforzato di bere, con gli altri, che quando avevano bevuto parevano così allegri! Ma il suo stomaco si ribellò; ebbe male, e insieme vergogna… Che avrebbe detto sua madre se lo avesse veduto in quello stato! La mamma! oh, Dio! Montò nel vagone, più morto che vivo, nel vagone, dove erano, pigiati come acciughe, i suoi compagni, le altre unità della massa lanciata verso l'ignoto, a morire o a uccidere… Cantavano, urlavano; gli urli parevano singhiozzi… Si sforzò a gridare anche lui, per farsi coraggio.

A casa sua, intanto, gli animi, travolti in uno stupore senza nome, pur si pascevano almeno della speranza di un rivedersi. Il rabbino di Gorizia, al quale il signor Adamo si era rivolto, aveva assicurato alla famiglia, che Tobia avrebbe avuto una breve licenza, e che poi lo avrebbero fatto partire direttamente da Trieste per la frontiera. Infatti, così gli era stato promesso. E la signora Sara, povera donna, viveva nella trepidazione angosciosa di quell'addio, che poteva essere l'ultimo. Riandava nel pensiero tutte le parole che gli avrebbe dette, le raccomandazioni che gli avrebbe fatte… e poi voleva attaccargli nella giubba un certo amuleto nel quale aveva molta fede, e che era stato nelle mani di suo padre moribondo… E poi, come lo avrebbe baciato, e ancora, e ancora… e come mai si sarebbe potuta staccare dalle sue braccia… Ah, questo no! impossibile, impossibile!… E faceva l'atto di riafferrarlo ancora. Chi, chi avrebbe potuto strapparle via dal petto il figliuolo delle sue viscere, che ella aveva portato con tanta gioia, partorito con tanto dolore, e allattato, e cullato, e accarezzato… Portarglielo via per mandarlo a morire!… A morire! perchè? che aveva fatto? un così buon figliuolo! Lo aveva sgridato qualche volta; ah, come ne era pentita adesso! Gli voleva domandare perdono, voleva buttarsi in ginocchio dinanzi a lui… Figlio, figlio!…

Quella sua crescente esaltazione impensieriva tutti i suoi. Davide specialmente tremava al pensiero del distacco. Il dolore di sua madre gli dava una pena insopportabile. E un giorno, invece del figliuolo tanto atteso, un telegramma:

«Parto. Datemi vostra benedizione».

Un fulmine. Un qualchecosa che li atterrò, e gettò la madre come morta sopra una sedia. Dimenticarono ciascuno il proprio dolore per quello di lei. I figliuoli, il marito, la supplicarono, la chiamarono coi più teneri nomi. Ella non rispondeva. Guardava con occhi incantati, come stupida. Infine le si accostò il vecchio Samuele, che non si muoveva più dalla sua camera che per andare al tempio… Tese verso di lei le sue mani tremanti:

Schemagn!—esclamò con la sua voce, che l'abitudine del pregare aveva mantenuta sonora e robusta.—Schemagn! Ascolta, Sara, ascolta!

La solenne parola, così cara a ogni orecchio israelita, fece riscuotere la madre dal suo funesto torpore. Ella guardò e riconobbe il suocero, e inchinò leggermente il capo in segno di saluto.

«Schemagn, ascolta Israele! L'Eterno è il nostro Dio, l'Eterno è unico. Lodato sia in perpetuo il nome del suo regno glorioso!».

Tutta la famiglia raccolta ripetè con venerazione la preghiera più sacra, che ogni israelita, in ogni parte del mondo, recita tre volte al giorno. Anche Giosuè, accorso presso la sua madre dolente, la recitò, e vide con gioia che pur la donna aveva ceduto al fascino consolatore di quelle parole.

Quando ebbero pregato, il vegliardo, ritto in piedi, e respingendo il braccio di Davide, che voleva sostenerlo, continuò con voce in cui la tenerezza si univa al rimprovero:

—E che dunque, Sara! che, figlia mia? Dov'è dunque la tua forza, che ti faceva essere la perla più preziosa di questa famiglia? Alcune cose voglio fare presenti al tuo intelletto, che un maligno spirito oscura. Ascolta, figlia! E per prima cosa ti domanderò: Di chi fai lutto? Di un uomo che non è morto! E non temi tu lo sdegno dell'Eterno, che ti potrebbe punire per la tua poca fede e per la tua presunzione? Vuoi tu stabilire fin da ora la sorte di tuo figlio? Forse che tu la conosci? Lui solo la conosce, perchè l'ha già stabilita!

E un'altra cosa ancora ti voglio dire. Non hai tu pietà e amore altro che per quel solo figliolo? E per tuo marito, per gli altri tuoi figliuoli e parenti, che soffrono ciascuno per sè, perchè Tobia è caro a noi tutti e non a te sola, non hai tu nè pietà nè amore? Perchè ci accumuli sul capo anche il tuo dolore? Non sei tu quella che deve sorridere al marito dolente, ai figliuoli afflitti? E tu, invece di consolarli, accresci la loro pena, tanto che essi non pensano più al loro caro lontano, perchè tu li costringi a pensare a te sola?

E una terza cosa voglio dirti, Sara, madre di Tobia. Credi tu di avere generato tuo figlio solo per te? Viviamo noi forse soli, come bestie selvaggie in un deserto? E non viviamo noi forse in mezzo a una società umana, della quale facciamo parte? Quanto non abbiamo sofferto e lottato prima di avere questa parte uguale agli altri! Vorresti forse che Israele fosse un'altra volta disperso per il mondo fra gente estranea e nemica? Quando abbiamo preso il posto che ci spettava in mezzo alle nazioni che ci ospitano, non abbiamo forse accettato anche la nostra parte di obblighi? E' forse il tuo figliuolo solo costretto a partire, perchè il sovrano di questo paese lo chiama? Sono tutti i figliuoli, di tutte le madri; e non solamente il tuo. O dunque lascia che egli faccia il suo dovere, come lo faranno gli altri, e non desiderare che il tuo figliuolo, per un falso amore della vita, si rifiuti di fare ciò che è chiamato a fare. Trista cosa sarebbe per noi se un israelita si mostrasse vile in mezzo ai suoi compagni cristiani! e io preferirei essere nella tomba piuttosto di sapere che questo vile è il figlio di mio figlio!

Il vecchio parlava come inspirato. Il tono concitato e solenne della sua voce penetrava suadente nei cuori. E non solo in quelli semplici di Sara, di Adamo, di Rachele e Mieko; anche Davide, anche il dottor Giosuè ascoltavano commossi; anche zio Benedetto, che, scambiando coi nipoti uno sguardo profondo, voleva dire:

—E quale filosofia varrà più di questa, che ha le sue radici nell'intimo convincimento di un uomo onesto?

Ora la povera Sara piangeva; e quelle lagrime, spetrando il suo cuore, le davano una consolazione insperata, una forza, come se un potere misterioso preparasse la madre ai futuri dolori.

Si era nella seconda metà di settembre, e le feste di Ros-ascianà, che dovevano dare principio all'anno israelitico 5675, si avanzavano tristi e solenni. Mai il mese di Elul, il mese che precede il giorno della Espiazione, non era stato più grave e penoso. Non soltanto in casa dei Levi, ma in quasi tutte le case israelite, si piangeva qualche figliuolo lontano; la fecondità delle madri ebree dava un forte contingente all'esercito, e era la prima volta che si rammaricavano di avere partorito tanti figliuoli!

Parecchi, anche tra gli ebrei, erano riusciti a fuggire in Italia. Erano fuggiti Abele Herz e Marco Modena; Simeone Israel e Salvatore Milano. Fuggiti quasi tutti i giovani, sì ebrei che cristiani, i quali avevano appartenuto al gruppo irredentista che anni prima si riuniva in casa Colonna. E era appunto presso Leone Colonna, a Livorno, che riparavano generalmente.

La polizia prendeva perciò in sospetto più che mai. gli ebrei. Le loro case erano segretamente sorvegliate; la loro corrispondenza dall'Italia manomessa o sequestrata. Poche crano le famiglie ebree rispettate dalla polizia, e tra queste la famiglia del dottor Giosuè Levi, il quale, essendo medico curante del governatore, e medico consulente di corte, godeva anche la fiducia degli austriacanti. Eppure, tanti e tanti giovani ebrei erano partiti per la Gallizia, rassegnati, se non entusiastici, riconoscendo all'Austria il diritto di servirsi del loro braccio, poichè erano cittadini austriaci. E quasi tutti si distinguevano per disciplinatezza, pazienza, coraggio e serietà. Lo riconoscevano anche i superiori onesti, che si compiacevano di avere negli ebrei soldati un elemento di moralità e di sobrietà prezioso, specialmente in tempo di guerra. Anche Tobia aveva scritto a casa dando buone notizie; stava bene, gli ufficiali e i camerati lo trattavano con bontà; egli non dimenticava i suoi doveri di israelita, diceva al nonno, e ai fratelli che non dimenticava i suoi doveri di soldato…

La lettera consolò alquanto la madre, la quale quella sera di Ros-ascianà accese la lampada sabbatica, mostrando una cera più serena del solito.

Il vecchio nonno cominciò le preci, circondato da tutta la famiglia in piedi. Aprì la bocca col salmo di Isaia:

«Ricercate il Signore mentre siete in tempo, invocatelo; egli vi è vicino».

E quindi lodò il Signore per l'opera della creazione, che si ricorda dagli Ebrei in tale giorno, e gli chiese perdono, per sè e per la famiglia, di tutti i peccati commessi nell'anno. Poi con gran voce suonò nel Sofar, la bùccina fatta di un sol pezzo di corno, che rammenta all'israelita il giorno del giudizio universale, quando l'Angelo di Dio risveglierà dal sonno i buoni e i cattivi. E continuò, pregando:

«Tu, o Padre degli uomini, che conosci i nostri bisogni, hai istituita questa giornata sacra fra tutte, l'hai rivestita d'una solenne maestà. Tu hai detto a Israele: Ecco join azicaron (giorno dei ricordi); o, voi tutti, che siete caduti in gravi peccati, e avete dimenticato il Signore, purificate i vostri cuori, pentitevi delle vostre colpe. Un solo giorno di pentimento sincero può cancellare ogni colpa. Se i vostri peccati sono rossi come il sangue, io li renderò bianchi come la neve».

Suonò ancora una volta lo Sofar, e quelle strane note, da tanti millenni ripetute, echi dei monti della natia Palestina, rimembranza dei lontani tempi, quando tutte le tribù erano pastore, fecero su tutti una impressione di sgomento.

—Ho peccato contro di Te e contro gli uomini miei fratelli,—proseguì il vecchio;—non li ho sempre amati, li ho invidiati e forse li ho odiati! Io implorerò il perdono da chi offesi; o Padre mio! io perdonerò ai miei nemici. Ma v'è una legge ancor più santa in Israele; essa ci impone da amare i nostri nemici! E come farò io, Signore, per amare coloro che mi odiano? Ah, basterà che io pensi che pur essi devono morire! E coloro che dormiranno domani nella stessa polvere, possono odiarsi oggi?

Queste parole così semplici e sublimi scendevano consolatrici nei cuori angustiati. Un'aura di pace, di benevolenza pareva piovere dalle sette luci della lampada festiva, e avvolgere la famigliuola. C'erano anche Rachele coi suoi; solo Giosuè mancava, chiamato al letto di qualche sofferente.

—Mamma, hanno suonato!—esclamò Ester.

—Oh, mi dispiace!—disse la signora Sara,—sarebbe bene rimanere soli questa sera. Ma… e se fosse qualcosa di Tobia? Corri, Lia, corri a aprire.

Lia, che diventava sempre più sorda a lenta, si mosse malvolentieri. Alle feste religiose era ammessa anche lei, che faceva quasi parte della famiglia.

Mentre andava, il campanello elettrico squillò ancora.

—Chi sarà mai?—mormorò Sara, già pallida di emozione.

Davide andò a vedere; rimase fuori un poco, e poi ritornò a chiamare la madre.

—C'è la signora Catina… vuol dirti una parola.

—Ma… perchè non entra?—e andò sollecita incontro alla vicina.

La signora Catina aveva il viso inondato di lagrime.

—O Dio! che c'è? che c'è? Pepi, forse?…

—Sì, Pepi, Pepi!… Per carità, signora Sara, che nessuno senta… Voglio dirle una parola…

La signora Sara, inquieta e stupita, condusse l'amica nella sua propria camera. Qui, la signora Catina le si gettò al collo, singhiozzando.

—Si calmi, signora Catina, si calmi!

—Ah, signora Sara! lei deve salvarmi! Lei deve salvare il mio figliuolo! Senta; lo sa che Pepi fa così malvolentieri il soldato, perchè lui non vuole servire l'Austria. Già da un pezzo egli pensava di disertare in Italia, come già fecero tanti suoi amici. Ma non gli riuscì mai, perchè lo tenevano d'occhio al reggimento. Ora s'è saputo che fra due giorni anche il suo reggimento partirà per la frontiera; andrà in Gallizia! Pensi, signora Sara!

—Il mio Tobia c'è già,—rispose Sara con amarezza.

—Ah, è vero! Ma, vede, come dice anche Pepi, se si trattasse di fare una guerra giusta, per il paese nostro, pazienza la guerra! dice lui. Anzi, lui dice che correrebbe subito. Per me, dico che la guerra è sempre guerra, sempre brutta, per noi mamme! Non è vero? Ma gli uomini! i giovani specialmente! Dunque, le dicevo, che Pepi cercava il momento buono per disertare… Quando ha saputo che il reggimento stava per partire, ha pensato che, una volta in Gallizia, non gli sarebbe più possibile… E ha fatto un colpo di testa!… Pensi; è uscito di caserma ieri, e non è più rientarto, e non vuole rientrarci più!…

—Mio Dio!—esclamò la signora Sara,—ma verranno a arrestarlo! E' qui?…

—Sì, è a casa. Questi due giorni non lo hanno cercato probabilmente; c'è tanta confusione! Ma appena faranno l'appello!… Pensi, signora Sara!

—Ma sì, capisco. E lo arresteranno. Non può essere diversamente. A meno che non gli riesca di fuggire in Italia…

—Questo spera lui. Ma intanto, signora Sara, intanto?… Sono venuta a chiederle un favore d'amica… Io la supplico di nascondere per qualche giorno il mio ragazzo…

—Nasconderlo!…

—Sì, a casa sua. Vede, signora Sara, io ho pensato: Appena si accorgono che Pepi è assente, verranno per prima cosa a cercarlo a casa. Ma a casa sua non ci andranno sicuro.

—O perchè no?

—Perchè di loro non sospetteranno mai. C'è il professore Giosuè, che è amico fin dell'imperatore! E poi… c'è il suo Tobia sotto le armi. Che ragione avrebbero di sospettare di loro? Se Tobia avesse disertato, non dico…

—No, non ha disertato,—mormorò con la stessa amarezza Sara.—Non gli è venuto in mente, al mio povero figliuolo! Ha preferito andar a rischio di farsi ammazzare!…

—Oh, cara signora! anche il mio, sa, appena l'Italia farà la guerra all'Austria, tornerà a farsi soldato, e si batterà… ma contro l'Austria. Ma il suo sangue, dice lui, non lo vuol versare per una causa ingiusta. Dunque, cara signora Sara…

E continuò a supplicare.

Sara, nonostante la sua bontà, sentiva che la vicina abusava veramente delle loro relazioni amichevoli, chiedendo cosa che poteva compromettere gravemente tutta la famiglia. A ogni modo, disse che non poteva decidere nulla, senza avere parlato con questa, e condusse la signora Catina di là.

Il nonno già era ritornato nella sua camera, e si udiva ancora la sua voce levarsi alta, pregando; il suono trascicato, alquanto nasale, riempiva tutta l'abitazione.

La signora Catina tornò a esporre la sua preghiera, con quella medesima prolissità di prima, indugiandosi sui grandi meriti del figliuolo e sui suoi sentimenti patriottici.

Tutti l'ascoltarono in silenzio, poi il signor Adamo prese la parola:

—Lei ci chiede una cosa assai grave e pericolosa, signora Catina; se suo figlio viene scoperto in casa mia, siamo tutti rovinati. Perchè Pepi non si nasconde nella casa di qualche suo compagno di fede?

—I suoi amici,—rispose la madre,—sono già tutti via, o fuggiti, o alla frontiera russa. E poi… egli non osa più uscire nella via, perchè teme di essere veduto. Oh, signor Adamo!…—e ricominciò a piangere.

Il signor Benedetto prese allora a parlare:

—Per quanti giorni dovrebbe rimanere nascosto Pepi?

—Due giorni… tre…—rispose la signora Catina,— finchè si trovi l'occasione di farlo partire per l'Italia.

—Dunque!—esclamò Adamo—non c'è nulla di determinato, di preciso… Ciò può durare assai più. Il pericolo diviene sempre più grave.

—Ma pensi, signor Adamo, ma pensi che potrebbero arrestarmelo anche stanotte! Lo ricoveri solo questa notte! E domani ci penseremo. Domani cercheremo la maniera… Lei mi consiglierà; si farà quel che vuol lei!—disse la signora Catina.

Davide, che fino allora era stato pensieroso e muto, disse a suo padre:

—Papà, prima che dal punto di vista del nostro vantaggio o danno, noi dobbiamo considerare la cosa sotto due aspetti: La famiglia Furiani è amica nostra, nostra vicina da parecchi anni. Abbiamo noi qualche obbligo verso di essa?

A questo punto si udì una vocina mormorare timidamente: —Oh sì!—E Davide diede una occhiata a Bianca, che, tutta sorpresa e sconvolta da quei casi, aveva finalmente sospirato quell'oh sì!… e forse il fratello e la sorella si intesero…

—Il secondo punto,—continuò Davide, con quella dialettica, che aveva appreso nei comizi e nei congressi,—è di stabilire se, aiutando Pepi, noi serviamo o no a una giusta causa. E anche qui io rispondo: Sì.

Tutti lo guardarono, un poco stupiti di quel fervore. Egli continuò:

—Pepi si rifiuta di seguire il suo reggimento in una guerra, che egli giudica iniqua. Dichiaro che la mia opinione è che egli ha ragione.

—Oh, signor Davide! oh, bravo, signor Davide!—interruppe la signora Catina, mentre il signor Adamo mormorava:

—Ragione… ragione… E allora il nostro Tobia avrebbe torto di essere partito soldato…

—No, papà,—disse Davide dolcemente,—Tobia ha avuto ragione. Non è questo il momento per fare un discorso. Dico che il nostro Tobia si è riconosciuto suddito di questo Stato; ha riconosciuto come suoi i doveri che questo Stato impone ai suoi sudditi; vi ha obbedito; è partito. Non ci fu nel suo cuore nessuna lotta. Egli fece benissimo a partire.

—Ah!—gemette la madre di Tobia.

—Mamma cara!—disse Davide,—tu sai bene che è così. Ma Pepi, noi lo sappiamo tutti, non riconosce la legittimità del dominio austriaco su questa città dove egli è nato. Egli rifiuta il suo braccio a una guerra, che è fatta in favore di questo Stato, contro una nazione che fu provocata, trascinata alla guerra. Badate che io non pronuncio la mia opinione in proposito; giudico solo l'animo di Pepi. Egli spera in un altro avvenimento, sognato da molti nostri concittadini. La guerra dell'Italia all'Austria. E preferisce combattere quella guerra. Possiamo noi dargli torto? Io, nemico di ogni guerra, non gli do torto.

—E che cosa concludi?—gli domandò suo padre.

—Concludo,—disse Davide,—che non possiamo negargli il nostro aiuto.

—E mettere in pericolo tutta la famiglia?—mormorò Adamo, perplesso.

—Sentite,—disse allora Benedetto,—io farò una proposta, che forse renderà la cosa più facile. Non è necessario che Pepi sia nascosto proprio in casa nostra. Ci sono, su all'ultimo piano, delle soffitte, e mi ricordo che sono belle, abitabili… Non è molto che fui su nella nostra, a cercarvi un libro, che era in una cassa, e vi vidi un letto, e altri oggetti in buono stato…

—Sì,—disse Sara,—noi vi teniamo alcuni mobili, del tempo in cui si vendevano usati…

—Appunto; non vergogniamoci, mia buona cognata, del tempo in cui tuo marito faceva il rigattiere. Ebbene, io propongo questo: Pepi si contenterà di rimanere lassù, il tempo che occorrerà per trovare il modo di farlo fuggire. Sarà per lui un piccolo sacrifizio, ma non gli mancherà nulla, fuorchè la libertà. Io credo che la signora Catina abbia ragione e che la polizia non cercherà Pepi a casa nostra. Lo crederà partito, come gli altri, per l'Italia. Tanto meno, poi, lo cercherà su nella nostra soffitta. Ma, ammettiamo pure il peggio, e che lo trovino là… Si potrà sempre negare ogni complicità. Noi potremo affermare di non saperne nulla. I signori Furiani, nostri vicini, hanno avuto facilmente modo di impossessarsi della chiave della soffitta, dove noi non si va quasi mai. Noi non sappiamo nulla… Dico ciò per tranquillizzare mio fratello, ma sono persuaso che non ci sia pericolo.

—Oh, signor maestro! Dio la benedica!—esclamava la signora Catina; e Adamo disse:

—Benedetto ha trovato una strada, che forse è la buona. Ma… non dobbiamo fidarci molto. La faccenda dovrebbe essere sbrigata in un paio di giorni.

—Ora si studierà la maniera,—disse zio Benedetto,— ma intanto sarà bene far venire Pepi, e toglierlo dal pericolo di essere sorpreso a casa sua.

—Oh, è vero! E' specialmente la notte che ho paura, —disse la signora Catina,—è sempre di notte che fanno gli arresti. Ora scendo e lo mando su… Mio marito non ha osato venire. Davvero; gli pareva troppa bontà da parte loro! E Gigetta… sanno bene come è, lei. Le ho detto vieni, vieni anche tu a pregare quei nostri buoni amici. Non ha voluto; diceva: E' troppo, è troppo! Solo io ho avuto questo coraggio…

Venne, invece, Gigetta, a accompagnare su suo fratello. Ella era così pallida, che Davide ne ebbe grande pietà. Le strinse la mano e disse:

—Coraggio, Gigetta! tutto andrà bene.

Ello lo guardò con occhi pieni di lagrime e disse:

—Non so giudicare in questo fatto. Non so più se abbiamo torto o ragione… Ma, certo, ora Pepi è in pericolo. E voi… voi!… Oh, non lo dimenticherò mai più!

Pepi invece, vestito in borghese, aveva un volto chiuso, scuro. Ascoltò in silenzio tutte le raccomandazioni che gli fecero, mormorò appena un grazie, e poi seguì su in soffitta la signora Sara, che volle assicurarsi lei, che nulla gli sarebbe mancato nella sua prigionia.

Quando ella ritornò giù, disse:

—Per fortuna c'era un'altra chiave della nostra soffitta. Eccola, la terremo noi, per portargli ciò che gli occorre… L'altra la ho lasciata a Pepi…

—No, no,—disse suo marito,—poichè son due le chiavi, una la nasconderemo, ma non c'è nessun bisogno che si vada noi a trovarlo. Noi dobbiamo mostrare di non saperne nulla.

—E' verissimo,—disse Gigetta,—combineremo noi con Pepi la maniera di picchiare per farci aprire. Loro non devono salire mai… devono ignorare che Pepi è là. E io stessa non verrò qui da loro questi giorni. Se la polizia viene, è meglio che non sappia la nostra intimità.

E così d'accordo si separarono. Sull'uscio, Bianca abbracciò teneramente Gigetta.

—Mia cara!—mormorò Gigetta accarezzandola, e le sentì il viso umido di lagrime. Pensò allora a quell'amore della giovinetta, alla prossima partenza di Pepi, alla nessuna probabilità di un ritorno… e ebbe un senso profondo di pena per lei. Ma poi, quando fu sola nella sua camera, mormorò tra sè:

—Chi sa che non sia meglio per lei! Povera Bianca! Si sarebbe mai potuto fare quel matrimonio? E lui l'avrebbe resa felice?

Intanto in casa Levi non si andava ancora a letto, per cercare la maniera di salvare Pepi. Da parte del signor Adamo specialmente c'era in quella premura anche il desiderio di liberarsi da una responsabilità pericolosa. Non che egli fosse un vile; ma, oltre che per natura e per educazione amante della pace e della tranquillità, il brav'uomo pensava che egli non aveva diritto di rovinare la famiglia per amore di un estraneo. Dopo averci pensato un poco, disse:

—Forse ho trovato. Vi ricordate il buon Mejer?

—Il capitano?—domandò Ester facendosi rossa.

—Sì. Egli presta servizio sopra un vapore del Lloyd, e fa il viaggio Trieste-Venezia. Forse egli non si rifiuterà di accogliere Pepi e di nasconderlo…

—Oh, certo! che buona idea!—esclamò Bianca,—lo pregherò tanto anch'io!

—Tu…—le rispose il padre con serietà,—faresti bene a ricordare che il capitano Mejer ti aveva mostrato della simpatia… alla quale tu hai risposto piuttosto male.

—Oh Dio mio!—disse con leggerezza Bianca,—non si può mica badare a tutti quelli che ci fanno la corte!…

—Bianca!—esclamò Adamo.—In questa santa sera di Ros-ascianà, procuriamo di non ricadere in nessun peccato. Tu non devi servirti della tua bellezza a scopo di civetteria. Ciò è male. Mejer è un galantuomo. Tu lo hai un poco lusingato… E ecco, ora abbiamo bisogno di lui…

—Ma, papà, non c'è nulla di male,—disse Bianca— se non sposerà me, sposerà Ester. L'essenziale è che ci aiuti, e che faccia scappare Pepi!

Disse ciò con un tono che fece stupire tutti; il signor Adamo pensò in cuor suo che forse era un bene se Pepi partiva per non ritornare tanto presto… Ester, fatta di fuoco, aveva nascosto la faccia in seno alla madre.

—Chi sa quando parte Mejer?—disse Benedetto.

—Bisognerebbe che tu domani lo cercassi, Adamo.

—Domani!…—esclamò il pio israelita,—domani è Ros-ascianà, e non penserò a altro. Mi porterebbe sfortuna se mi occupassi di altra cosa fuorchè di Dio. Lo cercherò dopodomani.

—Ma è un giorno perduto!—esclamò Benedetto,—e questa è una cosa così eccezionale!

—No,—replicò Adamo,—ci siamo occupati già troppo di cose estranee in questa santa vigilia. Domani non parleremo di questo. Se Dio è con noi, ci aiuterà anche dopodomani.

Il domani andarono al tempio tutti, meno Davide e le ragazze. Davide non lo faceva per ostentazione, o per disprezzo verso la religone di suo padre e dei suoi avi, ma perchè oramai gli mancava la convinzione, e gli sarebbe parsa una ipocrisia assistere alle funzioni. Invece Benedetto, benchè poco credente anche lui, invecchiando provava il bisogno di rituffarsi in un'atmosfera mistica, di ritornare ai pensieri e alle consuetudini della sua pacifica infanzia, e spesso accompagnava la famiglia al tempio, con grande consolazione di suo fratello.

Il tempio era gremito; tutti gli uomini, col capo coperto in segno di rispetto, erano abbasso, e tutte le donne su, nella galleria.

Ma invece della consueta festosità, vi regnavano una inquietudine, un affanno, che sulla porta e nel vestibolo si erano sfogati in lamentele e domande infinite; la preoccupazione del domani, la dolorosa certezza delle sventure presenti erano il tema di ogni discorso. Cominciare l'anno sotto si tristi auspici!

Quando apparve il vecchio Samuele, appoggiato al braccio di suo figlio Adamo e di Davide, e seguito dal resto della famiglifa numerosa, ma non più completa, un mormorìo di venerazione passò da un gruppo all'altro. Poi tutti si addensarono sul suo passaggio; qualche donna piangeva… Il vegliardo fece l'atto di benedire, con la mano tesa orizzontalmente su quelle teste inclinate; e una profonda malinconia scendeva da quell'atto, che pareva l'ammonimento a una rassegnazione inesorabile.

Mai le preghiere non salirono con più intenso e amaro fervore all'Eterno! Quella coincidenza tra il principio del biblico anno e la tragica fatalità incombente pareva a tutti un augurio funesto, tanto più che gli israeliti riguardano il giorno dell'anno nuovo come decisivo per i destini, che si compiranno di ciascuno, secondo il suo merito o demerito; destini che verranno immutabilmente fissati il giorno di Hoschanà-Rabbà, l'ultimo della festa delle capanne. Ma è oggi, è il giorno di Ros-ascianà, che fu creato il mondo; è oggi il giorno in cui la misericordia o la giustizia divina sono più vicine a noi…

Perciò l'israelita prega il Signore:

«O Eterno, fa che prevalga la tua clemenza, e non giudicarmi nel tuo furore! Simile al povero, che va mendicando di porta in porta, io vengo innanzi a te con l'anima oppressa; al tuo cospetto io non sono che un verme che striscia. Signore! abbi pietà delle nostre miserie!

«Signore! la nostra sorte è nelle tue mani! Questo è il giorno dei ricordi; il giorno in cui tu, o Eterno, creatore del mondo, evochi a te i pensieri e le azioni degli uomini per giudicarli».

La preghiera divenne più fervorosa e intensa quando la Torà fu portata fuori dall'Arca, e tutti i credenti, genuflessi, implorarono sommessamente la pietà divina.

«Signore! scrivi nel libro della vita e della salute il nome mio, il nome dei miei cari, il nome di tutti i miei fratelli e le mie sorelle in Israele!

«Come un giorno alle falde del Sinai, Israele oggi è prostrato dinanzi a te. Il Sofàr, che fra poco farà udire il suo squillo, non sarà forse la formidabile tromba del giudizio finale? Forse questo è l'ultimo giorno che ci rimane. Abbi misericordia del tuo popolo, Signore, e rammenta le parole che dicesti a Geremia: «Io mi ricordo, dice il Signore, dell'affezione che mi mostrasti nella tua giovinezza, della tua pietà e del tuo amore, quando mi seguisti nel deserto, in una terra nella quale non si semina!».

Quindi i lugubri suoni del Sofàr echeggiarono nel tempio, e i cuori si strinsero di angoscia. Ah, quanti già ne mancavano dei figliuoli d'Israele, i più cari, i più giovani, i più forti! Aspettati con tanta compiacenza, partoriti con tanto affanno, cresciuti con tanta speranza! Dove erano quel giorno? Nulla ancora si sapeva di quelli che erano morti, ma quante stragi dovevano essere state, su quei funesti campi di Polonia e Gallizia! Di molti non era più giunta alcuna notizia. Marcivano forse nei fossati pieni di fango, gemevano mutilati dietro le prese trincee; i corpi giovinetti, così teneramente carezzati dalle madri, erano forse pasto di lupi e di avoltoi…

La preghiera del rabbino Amnòn martire sgorgava dalle labbra pallide di emozione:

«In questo giorno del ricordo tu decidi, Signore, quello che nel giorno di Kipur sarà irrevocabilmente sentenziato. Decidi chi sarà rapito da morte e chi creato; chi perirà affogato nell'acqua, chi arso dal fuoco; chi morirà di ferro e chi di fame; chi spirerà tra tempestosi flutti e chi consunto da morbo; chi godrà placida vita, chi trarrà giorni agitati e tristi; a chi toccherà la gioia; a chi il dolore; a chi ricchezza a chi miseria; chi da basso stato sarà levato in onore; chi da alto seggio sarà precipitato nell'abbiezione.

«Creatore dell'uomo, tu conosci la sua fragilità. Egli non è che carne e sangue, terra e polvere, e deve tornare alla polvere. Simile all'erba disseccata, al fiore appassito, all'ombra fuggitiva, si dilegua come un sogno, e non è più!».

Ma qual era la potenza misteriosa di quelle parole, pur così note e tante volte ripetute, che riuscì a far penetrare in ogni anima un senso pacato di rassegnazione? Se questo è dunque il destino dell'uomo, perchè rivoltarsi, perchè disperarsi? Tutta la radunanza sorse in piedi, come portata da un unico impeto di dedizione:

«Egli è il nostro Dio, nè altri ve ne ha!».

E l'ultima invocazione, l'Haiom Harat Olam (anniversario della creazione del mondo), fu detta con pacatezza misurata e tranquilla, come se ciascuno deponesse veramente la propria sorte nelle mani dell'Eterno, sicuro che la vita e la morte sono ugualmente un suo dono.

Mentre i Levi si occupavano attivamente per facilitargli la fuga, Pepi si annoiava terribilmente nella sua soffitta. Era una stanza spaziosa e chiara, ammobigliata decentemente coi mobili sovrabbondanti dell'antico negozio di rigattiere, e più volte aveva servito per dare ospitalità a qualche israelita di passaggio a Trieste, povero, e raccomandato da qualche rabbino. V'era, infatti, anche tutto uno scaffale di libri rituali, in ebraico, in tedesco, in italiano, in polacco e sul davanzale, che sporgeva sopra i tetti, la vecchia Lia coltivava dei garofani dentro a cocci di pentole. Per una prigione non e'era male, ma era sempre una prigione…

La signora Catina, suo marito, Gigetta salivano ciascuno una volta al giorno, a portargli da mangiare, e a tenergli un poco di compagnia; ma solo poco, perchè temevano sempre una sorpresa a casa loro, e volevano trovarvisi; o, se assenti, essere ciascuno regolarmente alle proprie occupazioni, per non dare sospetto.

Quanto alla famiglia Levi, non parlavano di Pepi nemmeno fra di loro; nessuno andava a trovarlo, per non essere, forse, osservati dai vicini a salire in soffitta, e tutti erano ben d'accordo di salvare il giovane disertore, se fosse possibile, ma di ignorarlo assolutamente nel caso che egli fosse scoperto. Anche il dottor Giosuè e il vecchio Samuele, posti al corrente della cosa, dichiararono che stava bene così; la confessione della parte presa in un fatto così grave sarebbe stata rovinosa, non solo per la famiglia Levi, ma anche per la comunanza israelitica in generale, perchè la polizia già andava accusando gli ebrei di Trieste di spirito antiaustriaco e di congiure irredentiste.

Erano i giorni tra Ros-ascianà e Kippur, la solennità dell'Espiazione, che quell'anno, 1914, cadeva ai trenta di settembre. Giorni penitenziali, che ogni buon israelita trascorre pregando, a casa e nel tempio; e in quel terribile anno la devozione pareva farsi dovunque più intensa; si vedeva nel tempio più d'uno, che si era vantato libero pensatore; moltissimi, che per indifferenza, o anche per vergogna di essere ebrei, frequentavano le funzioni religiose assai scarsamente, ora apparivano, con barbe incolte e vesti dimesse, e visi fatti tristi e compunti, e univano le loro voci dissuete alla preghiera comune, e si accusavano dei loro peccati. Perchè il nembo si addensava sempre più sulle loro teste, e l'ira del Signore si faceva ogni giorno più minacciosa.

Giungevano cattive notizie dai campi della Polonia e della Gallizia. Il quattordicesimo corpo di armata, formato per due terzi di italiani del Trentino e di Trieste, aveva subito perdite gravi; e si sapeva che gli italiani erano stati messi in prima linea! Già a qualche sventurata famiglia era giunta la tremenda notizia della morte del figliuolo, o di gravi ferite, o della sua prigionia in Russia (e questi ultimi erano gli invidiati); di alcuni non si sapeva più nulla; erano dispersi, probabilmente morti… E la fatalità faceva che molte di queste prime vittime della guerra fossero ebrei! La parentela estesa, che li univa tutti, per un verso o per l'altro, immergeva nel lutto molte famiglie per una che era colpita, e ogni dolore echeggiava cento e cento volte, e diventava terrore.

Ma, nonostante lo scrupoloso adempimento dei suoi doveri religiosi, Adamo Levi pensava costantemente al suo impegno con i Furiani, e alla maniera di agevolare la fuga di Pepi. Era riuscito finalmente a vedere il capitano Mejer, il quale era appena ritornato dal viaggio consueto, e non sarebbe ripartito per Venezia che la sera del 30; proprio la sera della festa di Kippur.

Il capitano Mejer era un brav'uomo, di spiriti liberali, alieno da intrighi, solitario per elezione, e innamorato di Bianca, che aveva veduto due o tre volte per anno, da sei o sette anni in qua. Quando il padre di Bianca venne a proporgli di trasportare Pepi sino a Venezia, segretamente, e non senza pericolo, Mejer pensò alquanto… Egli era di famiglia oriunda dell'Austria inferiore, ma da tanti anni trasportata a Trieste, che non aveva serbato quasi più nulla delle origini tedesche. Favorire la fuga di un disertore, in tempo di guerra, era un delitto politico, quindi non disonorante; e Pepi, di origine italiana e di sensi italiani, si rifiutava di combattere in favore dell'Austria, di cui egli non si riconosceva suddito… Infine, si trattava di fare un favore al padre di Bianca, e di trarlo da un impiccio… Mejer promise il suo aiuto…

Da tre giorni, che gli parevano tre anni, Pepi stava chiuso nella sua prigione, mortalmente annoiato, e impaziente di prendere il volo; e quel pomeriggio, specialmente, un pomeriggio domenicale, che dalla sua finestra egli vedeva tingere tutti i tetti di una opaca tinta rosea, e diffondere nell'azzurro del cielo un tepore più dolce che quello della primavera, egli sentì la chiave girare nella serratura della sua porta. Si stupì, perchè i suoi parenti, quando venivano a trovarlo, picchiavano alla porta in una maniera convenuta; e era lui che apriva; poi, suo padre e sua madre gli avevano già fatto, ciascuno, la loro visita giornaliera; e Gigetta non saliva che la sera… Che fossero?

Mentre pensava, un po' bene, un po' male, la porta si aprì, qualcuno entrò, e richiuse con la chiave, precipitosamente.

—Bianca!—mormorò Pepi, stupefatto.

La fanciulla venne avanti correndo, e si precipitò fra le braccia aperte di lui.

—Bianca! mia cara! mia bella!

Ella piangeva e rideva, e gli ricambiava i suoi baci.

—Sei venuta finalmente! Quanto ti ho aspettata! Sai che dicevo: ma perchè non trova un momento? Perchè non viene? E sei qui! Cara, sei qui! Oh, mia piecola colomba!

Si dissero le cento, deliziose cose assurde degli innamorati. Egli era pazzo di gioia e di amore. Quella cara bellissima Bianca! Quanto egli l'amava! Non la aveva mai amata così! Pepi era sincero. Egli aveva sempre voluto bene a Biancà; era la sua piccola amica, fin da quando erano bambini. E' vero che non aveva mai pensato sul serio a sposarla. Egli non era uomo capace di lottare contro le difficoltà. La diversità di religione e di fortuna dava assai scarse probabilità al loro matrimonio. Ma erano appunto questi ostacoli forse invincibili, che rendevano il loro amore piccante, per Pepi. Non che egli fosse stato sempre fedele alla povera Bianca; aveva qua e là passioncelle per attrici e sartorelle; sono così graziose a Trieste! Ma dopo queste brevi scappate, e anche durante, Pepi ritornava alla sua amica d'infanzia, carezzevole, monello; e così le piaceva. Era tanto bello passeggiare qualchevolta insieme su per il Boschetto, a Sant'Andrea, in riva al mare! tenersi per mano, or ridere pazzamente, così, di nulla! come due fanciulli che erano ancora! La mamma credeva che Bianca fosse da una qualche amica… dalla quale anche andava, ma più tardi. Che male c'era? Pepi era così allegro e simpatico, e sapeva dirle tante cose gentili! Mentre quei tre o quattro, che avevano domandato la sua mano, ebrei, s'intende, erano così insulsi, e così brutti, compreso il capitano Mejer! No, no, ella aveva giurato in euor suo di non sposare un ebreo; e a Pepi aveva giurato di non sposare che lui… giuramento accolto con una certa indifferenza.

Sì, ma oggi, oggi era un'altra cosa, e lui sentiva di amarla smisuratamente.

—Ma come hai fatto?… come hai potuto?…

Bianca raccontò che aveva veduto dove suo padre avesse messo la chiave della soffitta, e se ne era impossessata. Aveva detto ai suoi che scendeva un momento da Gigetta, a chiederle un libro…

—Sai? sono giornate, che nessuno ha la testa a posto. Tra le preghiere e le visite al tempio; perchè, tu forse non lo sai, siamo in un periodo festivo… Ma non è una festa allegra! è un poco come per voialtri la quaresima… E così, c'è anche da fare in casa; e poi la mamma, povera mamma, è sempre sossopra per il nostro Tobia, che da due settimane non scrive. Perciò badano poco a me. Ecco come sono riuscita a scappare. Ma non resto che un minuto.

Egli ascoltava, rapito, quel cicaleccio, senza badare a altro che al suono soave della voce, e al movimento delle labbra rosse come fragole. Fu costretto a baciare quelle fragole, a morderle…

Ma lei gli sfuggì dalle braccia, mezzo adirata, mezzo ridente.

—Se sei cattivo, me ne vado subito!

—No, no, sono buono, sono buono…—e la inseguiva correndo.

—Mio Dio!—esclamò lei,—tu fai tanto rumore, qualcuno di sotto può sentirti!…

—E' colpa tua; vieni qua dunque, sta vicino a me!…

La sera, quando venne Gigetta a trovare suo fratello, e ebbe chiuse accuratamente le imposte della finestra, perchè i vicini non si accorgessero del lume, ella esclamò:

—Che profumo di violetta c'è qua dentro!

—Davvero?—rispose Pepi con indifferenza,—sarà la pomata nuova che adopero.

Gigetta lo guardò con diffidenza, poi lanciò uno sguardo in giro, e subito scorse, per terra vicino al letto, una forcina di tartaruga. La raccolse.

—Che cosa?—disse Pepi senza turbarsi.—Una forcina da donna? Sarà tua… o di mamma. L'avrà smarrita rifacendo il mio letto. Non penserai mica ch'io riceva delle visite femminili qua dentro? Magari!

Gigetta tacque. Lo forcina veramente era di quelle comuni, come ne portava anche lei, e sua madre… Perchè pensare subito a male? E il profumo… Pepi era un poco effeminato; poteva essere benissimo la pomata… Ma perchè non se n'era accorta prima?

—Pepi,—disse seriamente al fratello,—lo sai che quell'ottima gente qui abbasso si occupa continuamente di te, e sta combinando ogni cosa per la tua fuga. Tu non sarai ingrato con loro, Pepi.

—Io! e perchè dovrei essere ingrato? Anzi!

—Oh, sarebbe un'infamia!—esclamò lei, seguendo il proprio pensiero.

—Ma di che? Tu hai sempre delle idee strane. E sopratutto, mi credi un mascalzone, ecco. Sarai contenta di essere liberata di me!

—Io? oh, no, Pepi!

Ella lo abbracciò con affetto, pentita dei suoi sospetti, e rattristata al pensiero della prossima separazione.

Quando entrò in casa sua, poco dopo, una brutta sorpresa l'attendeva. Tre gendarmi stavano perquisendo l'abitazione, e non si contentavano di cercare Pepi in ogni ripostiglio, come se fosse stato un ago; buttavano anche sossopra ogni cosa, frugavano fra le carte, per scoprirvi lettere o stampe sospette.

Anche lei subì un interrogatorio, quando fu entrata. Chi era, e sopratutto di dove veniva a quell'ora.

L'indignazione di vedere mobili e cassetti aperti, mucchi di carte e biancheria gettati in terra alla rinfusa, e la sua scrivania, la sua propria scrivania spalancata, con i suoi cari libri, i suoi cari scritti manomessi, diede a Gigetta un coraggio straordinario. Ella lanciò un'occhiata a suo padre e a sua madre, pallidi e tremanti, e rispose:

—Sono la padrona di questa camera e di questi oggetti, che loro stanno toccando… non so con quale diritto…

—Cossa?—gridò uno dei tre,—cossa la dise? Cossa la vol ela? Dove xè so fradel? Non la sa che so fradel xè disertor, passibile de fucilazion immediata, e che loro xè i so complici, e che i filerà tuti soto consiglio de guera?

—Noi non sappiamo nulla di mio fratello,—rispose con voce ferma la fanciulla.—E poi non credo che cercheranno mio fratello dentro a quel cassetto…

I gendarmi le risposero villanamente, con nuove minaccie, fecero un involto di alcuni libri e giornali, che si portarono via, dicendo:

—Tutta roba proibita, tutta roba pericolosa,—e se ne andarono, promettendo di ritornare.

Invece, si contentarono di piantonare la casa. Nessuno poteva entrare o uscire nel portone, senza dar conto del proprio essere; anche la notte un gendarme montava di guardia nell'interno stesso, dietro le imposte chiuse; è vero che generalmente, chi rincasava tardi trovava il bravo milite addormentato in fondo alla scala, ma il rumore dei passi lo svegliava, e allora egli ricominciava il suo fastidioso interrogatorio.

Gli abitanti della casa erano molto annoiati di quella sorveglianza, e qualcuno protestava presso la polizia, dichiarando che essa era perfettamente inutile, in quanto che il disertore evidentemente era da un pezzo in salvo. Di ciò era convinta anche la polizia, ma manteneva la guardia al portone, solo per dispetto. Avrebbe ceduto forse se il professore Giosuè Levi fosse andato a lagnarsene, ma egli se ne guardava bene, perchè era proprio lui che, d'accordo contutti i suoi e con i Furiani, preparava la salvezza di Pepi.

Questi era più che mai annoiato della sua prigione, nonostante qualche altra visita di Bianca. Ma anche lei rimaneva poco, sempre in timore per sè e per l'amato. E poi, la povera fanciulla diveniva sempre più triste; l'imminente partenza di Pepi, e il grave pensiero del proprio fallo le davano spasimi continui. Gli faceva giurare che, appena fosse possibile, egli l'avrebbe sposata; e Pepi giurava convinto. Certo non gli sarebbe mai passato per la mente di abbandonare la fanciulla da lui così irreparabilmente compromessa; e perciò prendeva la sua colpa con molta leggerezza. Che c'era da piangere? Una breve separazione, e poi si sarebbero riuniti, per tutta la vita! Oramai, ogni ostacolo doveva essere vinto; nessuno poteva più opporsi al loro matrimonio.

Ma la povera Bianca, terrorizzata al pensiero di dover forse fare una confessione ai suoi, non si calmava a quelle promesse. Come! sua madre, la più santa delle donne, le sorelle, il buon babbo… e Davide, e Giosuè, e il nonno venerando… tutti avrebbero saputo che lei, educata in una famiglia, dove l'onestà era la prima legge, aveva mancato ai suoi doveri di giovinetta! Ah, piuttosto morire!

Ma Pepi si annoiava di quei piagnistei. Egli interrogava con impazienza i suoi parenti, che venivano a vederlo di rado e per pochi momenti, con l'angoscia in cuore. Egli voleva partire, a ogni costo. E anche i Levi erano di questo avviso. Se la dimora di Pepi, nella soffitta, si fosse prolungata, era impossibile che i casigliani non finissero con lo scoprire qualche cosa.

Finalmente, proprio il 29 settembre, la viglia di Kippur, salì Gigetta a dirgli che si tenesse pronto per quel giorno. Poi ella lo abbracciò con passione, e egli vide le sue lagrime.

—Ci rivedremo, ci rivedremo presto…—balbettò Pepi, cui non piaceva intenerirsi.

—Chi sa!—rispose la sorella sospirando. Poi gli reiterò le raccomandazioni:

—Andrai subito a Roma, dove s'è trasferito da poco Leone Colonna, per seguire più da presso il movimento irredentista, che vuole la guerra all'Austria. Ecco le lettere, per lui e per tutti gli altri triestini, che ti aiuteranno… Vedi; Barzilai, Zenatti, Salomon, Morpurgo, Piazza, Tedeschi, Treves…

—Ma son quasi tutti ebrei!

—Che ti importa? E chi ti salva oggi non sono forse gli ebrei? Essi ti raccomandano particolarmente ai loro parenti e amici; mi pare sia già molto!

—Sì, sì, scherzavo. Non ho da lagnarmi degli ebrei, io!

—Lo credo. E qui… guarda, Pepi, qua c'è del denaro… Sono mille corone…

—Mille corone!

—Oh, non siamo noi che possiamo offrirti mille corone! E' Giosuè Levi; te le presta… Tu capisci! Vedi quanto è generoso e delicato! E se un giorno potrai, gliele restituirai.

Pepi era divenuto rosso rosso.

—Pepi, tu sarai riconoscente verso i Levi, che ti fanno tanto bene!

—Sì, Gigetta. Sinceramente. E…

Gli erano venute sulle labbra parole che ricacciò indietro.

—Che cosa, Pepi?

—Niente, niente. Volevo dirti: Sii amica di Bianca!

—Certamente, Pepi. Povera Bianca! Ti vuol bene, e soffrè della tua partenza…

—Sì, e tu, consolala.

—Farò quanto posso… Una volta lontano, ti dimenticherà, forse…

—Credi?…

—Almeno lo spero. Del resto… sarà quello che è destinato.

Fratello e sorella si separarono molto teneramente. Nella giornata salirono, a uno per volta, il padre, la madre e pur la nonna di Pepi, per salutarlo, ma nessuno dei Levi, per prudenza, e neppure la povera Bianca non osò andarci, nonostante che le si spezzasse il cuore. A una certa ora, tutto come era stato convenuto, Pepi lasciò la sua prigione, scese le scale, cogliendo un momento in cui non v'era nessuno, attraversò il cortile, e salì all'abitazione del dottor Giosuè, che era al primo piano sul davanti.

La porta era socchiusa, e lo stesso Giosuè lo introdusse.

—Nessuno?

—Nessuno.

—Bene. Mettiti lì e aspettiamo.

Pochi minuti dopo due individui entravano nel portone della casa. Il gendarme che stava sulla soglia li fermò. Uno dei due era un signore ben vestito, sui cinquant'anni; l'altro era un giovane sui venti, magro, biondo, dall'aria sofferente, con un empiastro nero su di una guancia. Camminava appoggiato al braccio del più vecchio.

Il gendarme interrogò. Il signore disse essere lui Giacomo Minzi, industriale; il giovane era suo figlio e si recava dal prof. Levi (il signor gendarme lo conosceva certo: il primo medico di Trieste, dottore curante di sua Eccellenzà il governatore…), per farsi curare di un male… un male strano.

Il gendarme guardò quasi con simpatia il povero giovane, e non fece osservazioni.

I due salirono sino all'abitazione del professore. Mezz'ora dopo ecco ridiscendere il vecchio e il malato. Questo pareva più sofferente che mai, e camminava tanto curvo, che suo padre disse, proprio davanti al gendarme:

—Andiamo verso quella vettura vuota, che è li a pochi passi… Sarà meglio che tu non ti stanchi.

Salutò il gendarme, che si degnò di rispondere, e un minuto dopo i due erano già rapidamente trasportati dalla vettura.

Il gendarme fu poco dopo rilevato da un suo compagno, e se ne andò. Alcuni momenti dopo comparvero nel portone il professor Levi e un giovine biondo, che il nuovo gendarme non conosceva. Parlavano insieme ad alta voce, di malattie. Passando dinanzi alla guardia, il dottore disse leggermente:

—Il mio collega, dottor Minzi.

Il gendarme salutò. Tanto lui che il suo compagno, che da sette giorni si alternavano nel fare la sentinella alla casa, avevano in tasca una fotografia di Pepi; e quel giovane amico del professor Levi non era certamente il disertore cercato. Di ciò era sicuro il milite, anche se avesse osato dubitare della parola del dottor Levi, medico di corte!

Infatti quegli era veramente il dottor Minzi, complice, insieme al proprio padre, nella fuga di Pepi. Era tanto invisa ai triestini quella guerra, erano così indignati di doversi battere per l'Austria, che si facevano una gloria di favorire la partenza per l'Italia dei giovani che disertavano, i quali erano stati moltissimi da principio; ora no, perchè tanti erano stati fatti partire, quasi a tradimento, e perchè la sorveglianza si era centuplicata.

Pepi, che era uscito dal portone della sua casa in pieno giorno e proprio sotto gli occhi del gendarme, mascherato con quell'empiastro, che aveva prima coperto la guancia (sanissima del resto), del giovane dottor Minzi, era intanto arrivato sano e salvo in casa di Rachele. Là il buon Mieko lo fece rivestire con una completa divisa di marinaio del Lloyd austro-ungarico, dopo avergli fatto lavare il viso e le mani con un forte decotto di the, che diede alla bianca pelle del giovane una magnifica tinta bronzata di lupo di mare…

L'idea era stata suggerita da Rachele, che rideva come una bimba di quella trasformazione.

Il neo-marinaio lasciò verso sera la casa dei Ladewsky, dove dovette per forza accettare un involtino di cose necessarie, preparategli da Rachele, e pure una somma di denaro, offerta, sempre a titolo di prestito, da Mieko. Uscito appena l'ospite, Rachele accese la lampada rituale, e la famigliuola sedette a cena. Fra un'ora cominciava Kippur, il giorno della Espiazione.

Sul molo, in mezzo a una folla confusa, stava Davide Levi, il quale si era incaricato di portare a casa la notizia della partenza di Pepi. Si videro, si guardarono, e non si salutarono, come era convenuto. E, come era pur convenuto, il capitano Mejer, che stava sul ponte della nave, gridò, appena scorse il marinaio, che egli sapeva chi fosse:

—Andiamo dunque, Vucovich, devo mandarvi incontro una lancia?

Il finto marinaio si affrettò, come temesse altri rimproveri, e passò sotto il naso delle guardie, che ispezionavano il piroscafo in partenza; un momento dopo egli era nella cabina del capitano, dove Mejer lo chiuse. Il tutto era accaduto con tanta celerità, che nessuno dei veri marinai non se n'era accorto. Mezz'ora più tardi, il piroscafo salpava per Venezia, e Davide si affrettò a portare agli interessati la nuova che Pepi era salvo. Trovò la famiglia Furiani in grandissima ansia, dalla quale la signora Catina uscì per cadere in convulsioni; tanta fu la gioia per la notizia recata da Davide. Mentre la vecchia signora Marietta, anche lei piangendo di commozione, calmava sua figlia, il signor Luigi prese da parte il giovane, e gli disse con voce rotta:

—Caro signor Davide, quello che lei, quello che la sua famiglia han fatto per noi, io non lo dimenticherò mai! Vede… non so dirle di più… non posso parlare…

—Una buona stretta di mano, signor Luigi, e basta! Sono felicissimo di sapere Pepi in salvo.

Cercò con gli occhi Gigetta, che non parlava, ma il suo pallore, i suoi sguardi commossi dicevano tutto.

Egli si accomiatò subito, perchè era aspettato a casa; e Gigetta lo accompagnò sino alla porta. Là egli le stese la mano per salutarla, ma lei, silenziosamente, gli cinse il collo con le braccia e lo baciò sulle due guancie.

Si separarono così, in silenzio, ma ciascuno portando in cuore una strana, una nuova dolcezza; e il suo sapore potrà consolarli forse di tutto l'amaro che il destino prepara.

Anche in casa Levi la buona nuova fu accolta con sodisfazione. Il rischio era stato assai grande; ne erano usciti bene, e avevano anche potuto rendere servigio ai vicini; specialmente per quella cara Gigetta erano contenti.

E' vero che la signora Sara non poteva pensare senza amarezza che, mentre i figliuoli delle altre mamme si mettevano in salvo, il suo era continuamente esposto alla morte! Ma ciò non le impediva di rallegrarsi per la fuga di Pepi.

Solo Bianca, livida, muta, pareva indifferente a quei casi. Ma le preghiere tosto incominciate, con le quali si apriva la solennità di Kippur, distolsero da lei l'attenzione.

Il domani, giorno di gran digiuno, il pallore di Bianca fu attribuito a languore; il suo mutismo non stupì, perchè da un po' di tempo ella si mostrava di umor capriccioso; cosa attribuita da Giosuè a un principio di anemia. E poi le visite al tempio, e le interminabili preghiere per il Kippur, tenevano tutta la famiglia molto occupata, meno Davide e lo zio Benedetto, i quali fecero colazione con Giosuè, e che di solito non seguivano tutti gli atti del culto, pur senza disdegnarlo. Anzi, entrambi furono veduti nel tempio, quando il rabbino disse il Scemoneh-Esreh, la preghiera delle diciotto benedizioni, composta da Esdra, profeta, in modo che essa rispondesse a tutti i bisogni dell'uomo, allorchè gli Ebrei furono schiavi di Nabucodonosor, e i fanciulli nati in terra straniera non avevano facile la lingua nazionale. Tutti la ascoltano restando in piedi. Ah, come penetrava profondamente nei cuori, quell'anno! Uno sgomento di lontano esilio, un presentimento di sventura alitava su quella folla raccolta, come se ancora fossero in paese di schiavitù, estranei e dispersi, coloro che pur non chiedevano al mondo altro che una patria!

La giornata parve lunga e triste a tutta la famiglia Levi. Il corpo estenuato dal digiuno, la lunga dimora nel tempio, e a casa la continua e monotona cantilena del vecchio Samucle; e i riti penosi delle tre confessioni, della preghiera per i morti, della preghiera per i martiri, le riflessioni sulla morte, tutto concorreva a deprimere gli spiriti, già rattristati e agitati.

La preghiera finale fu pronunciata con un senso di sollievo.

—Salvami, mio Dio!…

Anche le smorte labbra di Bianca la mormoravano, ma un brivido di terrore le scorreva nelle ossa. Anche lei, anche lei aveva fatta a Dio la sua confessione! Ah, quanto era colpevole, e indegna di stare nel tempio, al cospetto del Santo dei santi; indegna di pregare nel seno della sua famiglia!

—Salvami, mio Dio!

E, più che pregare ella stessa, ascoltava le parole pronunciate dagli altri:

—Io sono riconciliato con Dio, io sono purificato dei miei peccati…—Lei no, lei sola.

—Possa io, da questo giorno di riconciliazione fino al venturo Kippur, condurre una vita santa, conforme alla tua volontà.—A lei ciò non era più possibile.

—Assistimi, o Dio, perchè io serbi la purità e la innocenza fino all'ultimo giorno della mia vita!—Che ironia, che ironia! come osava ella dire quelle sacrileghe parole!

—Deh, il peccato stia sempre da me lontano, affinchè l'ora della mia morte non sia amareggiata nè da terrore nè da angoscia, e che io possa, esalando l'ultimo respiro, esaltare ancora il tuo nome, gridando come oggi: Scemagn, ascolta, Israele; l'Eterno è Dio nostro, l'Eterno è uno!

A questo punto, un sospiro uscì dalle sue labbra, e ella cadde, come morta, bianca come un cencio. Per più di un'ora, nessuna cura valse a rianimarla, e quando ritornò in sè aveva una febbre fortissima.

Rimase otto giorni tra la vita e la morte, e, caso strano! anche nel delirio le sue labbra non pronunciarono mai il nome di Pepi, e nessuna parola che rivelasse il suo segreto. Il terrore e la vergogna vegliavano nell'anima sua, anche quando ogni altra forza era vinta dal male. Finalmente fu dichiarata fuori perocolo, e quando potè alzarsi parve un'altra. Non solo erano spariti i sorrisi luminosi e le tinte rosee come petali di camelia, che davano al suo viso una bellezza meravigliosa; ma l'espressione stessa era mutata; qualcosa di cupo, di ostinato e doloroso aleggiava impalpabile intorno alla sua bocca, si annidava nel fondo dei suoi occhi…

Ma ben presto le gravi preoccupazioni destate nella famiglia dallo stato di salute di Bianca, furono assorbite da pene e paure incalzanti, che i formidabili avvenimenti andavano accumulando su tutti.

Bianca era appena convalescente, quando venne Gigetta a leggerle la prima lettera di Pepi, indirizzata, per prudenza, al dottor Giosuè. Gigetta notò che le pallide guancie della giovanetta si coloravano vivamente. Ella aveva ben capito che la partenza di Pepi era una delle cause, se non l'unica, della sua malattia, e, senza volere soffermarsi sopra un sospetto troppo doloroso, comprendeva che l'amore dei due giovani era cosa assai più seria di ciò che avesse creduto.

Pepi narrava abbastanza diffusamente i particolari del suo viaggio, l'arrivo a Venezia, e l'impressione grande, incancellabile, provata nel toccare suolo italiano, nel vedere il tricolore sventolare liberamente, le divise dell'esercito, al quale bramava di potere presto appartenere.. Poi Roma, e la violenza dei propri sentimenti alla vista della capitale d'Italia, e le fraterne accoglienze di Leone Colonna e degli altri.

«Sono quasi tutti giovani, questi triestini, trentini, dalmati, istriani, che ho trovato qui assai numerosi. Ma ce n'è anche dei maturi e dei vecchi; quelli che fuggirono dall'Austria nel 1878, quando le persecuzioni irredentiste si fecero più acute».

Dava il nome di alcuni, i più fervorosi, che erano alla testa del movimento interventista.

«Come vedi, sono parecchi ebrei; ma ho simpatizzato subito quasi con tutti. Sono pieni di ardore patriottico, desiderosi di entrare come volontari nell'esercito, e di andare in prima fila a combattere gli austriaci. Son bravi giovani davvero. Ci troviamo tutti i giorni, e si vive come fratelli».

Dava altri ragguagli di quella vita, che gli piaceva sommamente, e poi l'indirizzo al quale si poteva scrivergli, che era quello di un amico. Infine ricordava tutti, parenti, amici, e con particolare affetto la famiglia Levi. Per potere salutare Bianca nominandola, egli aveva enumerato a uno a uno tutti i membri di quella famiglia; il nome della giovanetta era scritto con maggior cura, e Gigetta lo fece notare a lei.

—Come ha potuto arrivare questa lettera, senza essere aperta dalla censura?—domandò Bianca.

—Oh, non è stato facile! Sempre per via del tuo bùon fratello! La lettera è passata per la Svizzera, di là è stata inviata al Consolato svizzero, al nome del dottore, e lui andò a ritirarla.

Bianca si notò l'indirizzo dell'amico di Pepi.

—Così… tanto per mandargli un piccolo saluto… qualchevolta.

—Bisogna scrivere solo cose innocue,—ammonì Gigetta, —altrimenti la censura non lascia passare.

Bianca non aveva da scrivere altro che il suo amore e il suo dolore! E lo fece appena fu in grado di reggere una penna tra le dita.

Intanto dai giornali, per quanto guardinghi, trapelavano notizie di gravi perdite austriache sul fronte russo; e Gosuè aveva appreso particolari terribili sul numero dei morti e dei feriti. Già arrivavano sino a Trieste i primi convogli di prigionieri, di infermi, di feriti; gli ospedali rigurgitavano. Si parlava di nuove chiamate di classi, e un giorno Davide, rincasando, diede la notizia che egli era tra i richiamati.

Mentre tutti gli altri della famiglia prorompevano in esclamazioni di meraviglia e di dolore, solo la madre lo guardava, come se non avesse capito. Egli la abbracciò.

—Tu? anche tu?…

—Senti, mamma,—disse con calma Davide,—ora ti dirò una cosa. Sono contento che mi ascoltino anche zio Benedetto e il nonno. Non gridate, non esclamate, consideriamo tutti le cose con la maggior freddezza possibile. Io sono uno che odia la guerra, e giuro che non sparerò mai sul mio simile, nè lo toccherò con la mia baionetta. «Non uccidere», dice la nostra legge, che io reputo santa.

—Ah!—gemette la signora Sara,—se tu fossi partito con Pepi!

—No,—rispose Davide,—io non potevo. Pepi ha disertato dall'esercito austriaco, ma per entrare a far parte di quello italiano. Anche Carletto del portinaio è fuggito…

—Fuggito! Quando?

—Ieri. Ha preso verso i monti. Non credo che riuscirà a salvarsi… Ma anche lui, anche gli altri fuggono per arruolarsi in Italia. Io, se fuggissi, non mi arruolerei in nessun esercito del mondo. Fuggire, in questo caso, parrebbe viltà. Ma poi v'è un'altra ragione. Se io fuggissi, lascerei voialtri in pericolo. La polizia diventa sempre più feroce con le famiglie sospette. E specialmente con gli ebrei. Perchè esporvi a maltrattamenti e persecuzioni? Io non avrei pace un momento, se ciò fosse per colpa mia!

—Ma allora, che cosa intendi di fare?—gli domandò suo padre.

—Ecco. Io mi sono già inteso con Giosuè e con Alvise Galli. Alvise è richiamato anche lui… Naturalmente, egli va come dottore, a dirigere un ospedale da campo… Quanto a Giosuè… egli pure ha deciso di partire per la frontiera…

—Giosuè?

—Sì, verrà a momenti lui stesso a dirvelo. E' stato personalmente pregato dall'imperatore di ispezionare gli ospedali militari sulla fronte russa, dove il colera e il tifo fanno strage. E io l'ho convinto di adoperarsi perchè io sia impiegato come portaferiti o infermiere della Croce rossa, alla fronte.

—Ma il pericolo è lo stesso!—esclamò il signor Adamo.

—Il pericolo è per tutti. Ascoltatemi, cari miei! si avvicinano tempi terribili. Io non so quello che sarà di noi e dell'umanità. Tutta la mia filosofia, le mie belle teorie sono naufragate. Non so se noi vedremo mai ristabilirsi quell'equilibrio sociale, pur così incerto, che ci era costato tanti sforzi. Tutti i principii di umanità, sui quali poggiava la nostra vecchia società, sono crollati. Abbiamo fatto ritorno alla bestialità, e non so se potremo rifare il cammino perduto. Noi, oggi vivi, no, di certo. Forse le generazioni avvenire. Dunque, io voglio dire che ho compassione di me e di tutti gli altri. E che voglio far diventare attiva la mia compassione. Finora non ho che parlato. Ora le parole son poca cosa. Andrò, curerò i feriti, sarò il servo di quei poveri umili soldati straziati nella misera carne. Laverò le piaghe, procurerò che soffrano meno. Altro io non ho da fare.

Era entrato Giosuè frattanto, e vide sua madre e le due ragazze piangere. Ne ebbe piacere, perchè quel fare assorto della madre, e la inesplicabile malinconia di Bianca lo impensierivano. Le lagrime erano nervi in moto, erano vita. Quanto alla piccola Esterina era stata sempre di temperamento dolce e malinconico; ora, la lontananza del fratello Tobia, e forse qualche altra causa, accresceva la tristezza della sua espressione.

—Cara mamma,—disse,—sai? andremo dalla parte dove è Tobia. Gli saremo vicini…

Le lagrime della signora Sara sgorgarono più forti e più dolci.

—Sì, sì,—disse, alquanto racconsolata.—Se ci siete anche voi due… Lui è tanto ragazzo!

Alla povera donna pareva veramente che la protezione dei due fratelli maggiori servisse a garantire Tobia dai pericoli della guerra! E poi, ella aveva tanta stima del suo Giosuè, che sapeva tutto, e poteva tutto!

—C'è ancora un altro,—disse allora Giosuè,—anche Mieko è richiamato…

—Mieko!

—Sì; Rachele deve averlo saputo or ora. Povera Rachele!

—Mieko! coi suoi cinque bambini? Micko soldato! Ma che farà Rachele?

—Bisognerà che si faccia coraggio. E tu, mamma, bisogna che ne abbia per te e per lei. Per non vederla disperarsi, tu procurerai di essere serena.

—Tutti, tutti i miei figliuoli?—mormorò la madre con singulti.

—E' un destino strano e terribile,—esclamò come esaltato Davide.—Sì, finirò col credere a una forza cieca e superiore alla volontà umana!

—E perchè dici cieca?—ammonì il vecchio Samuele.— Credi piuttosto a una forza veggente e onnipotente.

—Ingiusta, allora?

—Perchè, ingiusta? E come osi tu bestemmiare così? Lo conosci tu forse il fine delle cose? Sai leggere nel pensiero di Dio? Ciascuna nostra vita non è che un piccolo anello della infinita catena che è la vita dell'universo. Può un anello scorgere tutta la catena? Noi non conosciamo nè il principio nè la fine. Dio solo li conosce; egli è l'alfa e l'omega.

Le gravi parole del vecchio troncarono ogni discussione, e non si parlò più che dei preparativi per la partenza, e della maniera più efficace per consolare il dolore di Rachele.

—La miglior cosa sarebbe,—consigliò Giosuè,—che ella venisse coi bimbi a stare con voi. Sarà un conforto per tutti.

—Ah sì!—esclamò la signora Sara,—ora corro da lei… Sarà contenta che Mieko non parte solo. Se ci siete tutti, se state tutti insieme…—e fece un gesto, per dire: «possiamo essere più tranquille».

Erano quelli gli ultimi giorni di «Soukot» la graziosa festa delle Capanne, così lieta di solito nelle case israelitiche! Anche quell'anno sopra il terrazzo, che metteva sul cortile, il signor Adamo, aiutato da sua moglie e dalle figliuole, aveva costruito con rami verdi di palme, di cedro, di mirto, salice e mortella, una specie di pergolato, sotto il quale la famiglia aveva preso il cibo e aveva pregato; e, poichè le giornate di ottobre erano singolarmente miti, là erano state collocate la poltrona del nonno e quella di Bianca, convalescente appena di quella sua strana improvvisa malattia. E il nonno, come gli altri anni, aveva cantate le orazioni rituali, sotto il pergolato, che fingeva le capanne, dove gli ebrei raminghi nel deserto, dopo la fuga dall'Egitto, ripararono, quando il Signore era loro propizio, e mandava le quaglie e la manna per la loro fame.

Circondato dai tre più grandi figliuoli di Rachele, da Ester e da Bianca, il vecchio raccontava con convinzione tutti quei miracoli antichi, e l'esodo meraviglioso di quel popolo unico al mondo, guidato dal più grande legislatore e condottiero, che sia mai esistito: Mosè.

E ogni mattina, levando tra le mani congiunte l'Edrog, il cedro, che insieme a un ramo di palmizio, a due rami di mirto e a tre di salice, è il simbolo della fecondità della terra e della uguaglianza degli uomini fra loro, egli pronunciava sulla famiglia riunita la benedizione, dicendo la preghiera consueta:

«Sii benedetto tu, o nostro Dio, re dell'universo, che ci hai ordinato di presentarci oggi dinanzi a te col ramo di palmizio.

«Sia lodato l'Eterno, nostro Dio, re dell'universo, che ci ha conservati in vita, protetti, e fatti arrivare a questo tempo».

Venivano in quei giorni a trovare il vecchio altri parenti lontani, e amici, ma specialmente i fanciulli, che, seduti sotto il verde tabernacolo, regalati di dolci e di frutta, ascoltavano le narrazioni del patriarca, e si figuravano intanto di essere proprio di quei figliuoli d'Israele, erranti nel deserto, aspettando che Dio li conducesse alla Terra promessa. E egli spiegava loro l'istituzione di questa festa, risaliente a Mosè, che volle nell'autunno, al tempo del raccolto dei frutti, celebrato Dio con rendimento di grazie. E il simbolo religioso che si cela sotto la costruzione delle leggere capanne:

—Nel deserto i padri nostri abitarono sotto fragili tende, e dovettero soffrire e aspettare, prima di giungere al luogo beato, che Dio aveva preparato per loro. Ciò significa, miei cari, che la dimora dell'uomo sulla terra non è che un breve pellegrinaggio; ogni casa che esso costruisce, sia pure il più sontuoso palazzo, non è che una dimora instabile e passeggiera. La terra promessa non è qui. Essa è fuori di questa vita terrena; essa è presso all'Eterno. Là dimoreremo in tabernacoli immortali.

Decriveva anche la maniera con cui la festa era celebrata dagli ebrei della Russia, della Polonia, dell'Ungheria, e in Palestina; cioè dappertutto dove esiste una forte e quasi esclusiva popolazione israelitica, in villaggi e campagne. Là sì che è bello a stare in questi giorni! Come gli avevano narrato tante volte ebrei venuti di là.

—Tutta la gente d'Israele abbandona le proprie case, e per i nove giorni di Soukot dimora sotto le capanne di frasche, da loro costruite! Che festa è quella per i grandi e per i fanciulli! Vivono tutti all'aperto, le famiglie una accanto all'altra; e pregano e mangiano e si divertono in comune. Così doveva essere quando i nostri antichi padri dimoravano sotto la tenda, e menavano una vita semplice, innocente, temendo il Signore.

—Ah!—sospirò Sara,—quest'anno come faranno i nostri fratelli israeliti di quelle provincie? C'è la guerra! Le loro campagne sono desolate, le loro case distrutte; essi dispersi, i giovani… parte uccisi. Mio Dio!—le era balenato alla mente che forse pure il suo Tobia…

—Non è la prima volta che Dio permette la guerra e la distruzione in Israele,—rispose il vecchio.—Egli sa quello che fa. Dalla morte egli sa trarre la vita. Egli è il Signore.

Come al solito venne anche Rachele, con tutta la sua famigliuola, a passare presso i parenti la festa di Hoschanà-Rabbà, che è l'ultimo giorno di mezza festa di Soukot; e c'era anche Mieko, che doveva presentarsi soldato fra tre giorni, e non aveva punto l'aria marziale nè allegra, povero Mieko!

Rachele aveva gli occhi rossi e il viso pallido; non faceva altro che piangere, non poteva darsi pace! Cinque bambini! e lei era di nuovo incinta! E un così buon marito, come era Mieko!

Benchè fosse estenuata dal piangere, e dal non poter dormire, per nessuna cosa al mondo non avrebbe voluto mancare quella sera. Avevano l'abitudine in casa Levi, che tutti gli adulti passavano la notte in religiosa comunione. Venivano anche altri parenti e conoscenti, e quella volta venne pure il rabbino Castiglioni, per confortare una famiglia, di cui ben quattro uomini sarebbero fra poco al campo. Quell'anno più che mai era una notte solenne, questa; nel giorno di Hoschanà-Rabbà avviene la conferma degli umani destini, decretata a Capodanno e nella solennità di Kippur. Quali destini maturavano in seno all'Eterno? E la preghiera ardente non avrebbe potuto mutarli, se fossero troppo crudeli?

Oh, come l'implorazione saliva su dai cuori angosciati!

«Osanna! soccorrici per tuo amore, o nostro Dio; osanna!

«Sorreggici, o nostro creatore! osanna!

«Assistici, o nostro salvatore! osanna!

«Difendici, o nostro protettore! osanna!».

Erano venuti alla pia vigilia i Kohn, che avevano l'unico figliuolo al manicomio, e perciò si erano dati interamente alle pratiche religiose; gli Israel, il padre cioè e due figliuole che erano ancora nubili; dei tre giovanotti uno era al campo in Polonia; gli altri due erano fuggiti in Italia. Gli Israel non erano mai stati molto religiosi, ma, l'angoscia dell'ora premendo sui loro cuori, faceva loro cercare conforto nell'aiuto divino. C'era il banchiere Coen e sua moglie; non aveva voluto condurre le figliuole per timore che la veglia prolungata nocesse loro. E v'erano alcuni altri amici o parenti, ciascuno provato da qualche pena proveniente dalla guerra, o timoroso di qualche pericolo. Nè Davide, nè Giosuè non assistevano all'adunanza, perchè vi vedevano piuttosto una forma superstiziosa, che un vero atto del culto.

—Non v'è forse in ogni atto del culto una forma superstiziosa? —gli disse zio Benedetto.

—Certamente; ma alla mia ragione ripugna il pensare che Dio abbia scelto un giorno nell'anno per fissare i destini all'Umanità. Tuttavia, in un certo senso, io credo alla predestinazione, perchè non credo più alla volontà.

—Quando ero più giovane,—disse zio Benedetto,— il, riflettere sui varii quesiti dell'Umanità e della Divinità, mi aveva fatto diventare indifferente a ogni forma religiosa. A settant'anni, dopo essere passati per varii sistemi filosofici, e averne conosciuta l'inanità, si ritorna volentieri al vecchio culto degli avi, che ci pare il meno assurdo di tutti. Io non ho più, sgraziatamente, la fede di tuo padre e del mio. Ma la mia anima si diletta a percorrere a ritroso le tappe della mia infanzia, seguendo le solennità religiose e gli usi, che allora mi erano tanto cari.

—E io ne sono lieto per te,—disse il nipote.—E sono lieto che mio padre e mia madre credano così profondamente. Nessun conforto è pari a quello della religione, per chi crede. E tutti avranno bisogno di conforto. Zio, se potremo sopravvivere a questi tempi tremendi, vedremo il trionfo dello spiritualismo sulla terra!

—E' ciò che diceva ieri mio padre!—disse Benedetto.

—E' strano davvero che il buon vecchio, il quale fu per tutta la sua vita un uomo pratico, serio, alieno da ogni superstizione, un uomo sano e normale insomma, in questi ultimi anni prenda spesso un tono profetico, come se vedesse realmente qualche cosa nascosta a noi! Egli diceva dunque, guardando nel futuro: Avremo tempi orribili; giorni di fame, peste e carestia; e quelli che non morranno di fame e di peste, morranno di ferite. E nel sangue le jene e i lupi, con viso umano. E dopo ciò verranno tempi ancora più orribili. I fratelli sgozzeranno i fratelli nelle proprie case, nel proprio letto; l'incendio e la morte correranno le città. E finalmente il regno di Dio sarà sulla terra, e tutti crederanno in lui, e sapranno che egli solo è l'Eterno!

—Reminiscenze bibliche,—disse Davide,—combinate con una intuizione che gli anni fanno singolarmente viva. Ma lo penso anch'io, che dopo la guerra, lunga, molto lunga, mondiale, avremo in tutto il mondo la rivoluzione… e poi l'avvento di una religione, non so se antica, o forse nuova nella forma, ma puramente deistica, profondamente spirituale.

La notte di Hoschanà-Rabbà risuonava delle preghiere mormorate in coro, finchè il rabbino stesso non prese la parola, e disse queste semplici cose:

—Fratelli, ecco, vi ripeto col Salmista, voi, come uomini, morrete. Signore! l'esistenza nostra non è meno fragile del ramo di salice, che stamane agitavamo nel tuo tempio. Le nostre ore passano come le foglie, che durano verdi un momento e poi cadono avvizzite, e il viandante le calpesta sotto i piedi.

La tua stessa legge, o mio Dio, ci ricorda la nostra fragilità, perchè la coscienza della nostra debolezza ci insegni l'umiltà.

Fratelli! ricordate le parole di Giobbe sulla onnipotenza di Dio. In lui risiedono la potenza e la saggezza; da lui dipendono quelli che errano e quelli che inducono altri in errore. E' lui che colpisce di follìa giudici e consiglieri. Egli rallenta l'autorità dei re, e serra la corda intorno ai loro reni. Egli fa camminare a pie' nudi i preti e rovescia i possenti. Egli toglie la parola ai più sicuri, e priva di senso i vecchi. Versa il disprezzo sui nobili e snoda la cintura dei forti.

Egli mette in evidenza le profondità nascoste nelle tenebre, e conduce l'ombra della morte verso la luce. Egli accresce le nazioni o le perde, e le conduce in schiavitù.

Toglie il senno ai capi dei popoli della terra, e li fa errare in un deserto senza strade.

Fratelli! dal fondo della sua miseria Giobbe esclamava: lo so che il mio Redentore vive, e che alla fine egli si leverà sulla terra, e che dopo questa pelle che si distrugge, e fuori della mia carne, io vedrò Dio. Io lo vedrò, a me propizio; i miei proprii occhi lo vedranno!

Ricordatevi dunque, fratelli, nel giorno dell'afflizione, che l'anima nostra è una sostanza immortale creata a imagine sua. Se il Signore vorrà metterci a prova col dolore e con le privazioni, rendiamo santi i nostri patimenti e la nostra povertà, accettando senza mormorare il giogo salutare della Sua legge, e soccorrendo i fratelli che soffrono, con tutto il potere delle nostre forze, con l'opera e con la parola, senza badare nè a che nazione nè a che religione appartengano, perchè Dio ci creò tutti fratelli, imponendo a tutti la medesima legge: la Morte.

Quindi il rabbino intonò un cantico di riconoscenza e di letizia, il salmo in cui si magnifica la maestà di Dio nella natura, e tutte quelle bocche, che nei dolorosi mesi di guerra già avevano appreso a mormorare e a sospirare, intonarono convinte il canto di gloria, che finisce con la promessa solenne:

«L'Eterno regnerà eternamente. L'Eterno darà forza al suo popolo; l'Eterno benedirà il suo popolo con la pace!».

Quando Davide andò a fare la sua ultima visita a Gigetta, la trovò, con sua meraviglia, davanti a un monte di roba, seduta a cucire. Non la aveva mai veduta con l'ago in mano, e sorrise.

—Siedi,—disse lei, seria.—Mamma è di là; la saluterai dopo. Papà non è ancora tornato.

—Che stai facendo, Gigetta?

—Roba per soldati. Cappucci, maglie…

—Tu? Non ti conoscevo questa abilità.

—Ho imparato. E' facile. Dunque, tu parti, Davide.

—Sì, Gigetta. Vengo proprio a dirti addio. Spero che ci rivedremo.

—Oh, sì, ci rivedremo!

—Tu lo dici come ne fossi certa. A ogni modo… sarà quel che sarà. Molte cose sono mutate da l'altr'anno a questo! Io mi sento vecchio.

—Strano! ho lo stesso sentimento anch'io. Questi terribili avvenimenti maturano le anime in fretta.

—Sei divenuta molto seria, Gigetta… Sì, hai cambiato espressione. Ora me ne accorgo. In questi ultimi tempi ci vedevamo di rado. Me ne rincresce.

—Perchè?

—Perchè era una gioia per me quanto ti vedevo. Se avessi saputo quel che doveva accadere, che ci saremmo separati… chi sa per quanto tempo! e forse anche per sempre… sarei stato più avido di quella gioia, ne avrei goduto più spesso.

—Davvero parli, Davide? Ebbene, ci vedremo ancora, ti dico.

—Sì, lo spero. Ma chi sa quando sarà?

—Presto. Fra pochi giorni.

—Così fosse! Ma tu scherzi.

—No. Oh, non scherzerei più! Parto anch'io, Davide.

—Tu!

—Parto anch'io. Guarda.

Si alzò e trasse da un armadio un costume di infermiera della Croce rossa.

—Se mi vedevi poco,—disse a lui che la guardava stupefatto,—è perchè io frequentavo le lezioni per diventare infermiera. Ci pensai fin dal principio della guerra. Ora, per mezzo di Giosuè, ho ottenuto di essere aggregata al tuo medesimo reggimento, e entrerò nell'ospedale medesimo, dove sarai tu.

—Gigetta! Ma perchè fai questo? Esporti a tanti pericoli, tu!

—Che importa? E tu? Mi credi debole; non lo sono. Ho misurato le mie forze. Non potrei rimanere qui, a far nulla, pensando a tutti quelli infelici che soffrono e muoiono laggiù! E quando ho saputo che pur tu ci andavi, e tuo fratello…

—E mio fratello lo sapeva?

—Sì, ho dovuto dirglielo, perchè lui mi aiutasse. Partirò col medesimo vostro treno della Croce rossa…

—E tua madre, tuo padre?…

—Non volevano, dapprima. Poi hanno consentito, perchè io dichiarai di partire anche senza il loro consenso. Mi credono innamorata di te…

E rise. Un riso semplice, schietto, di bimba.

—…E invece non lo sei,—disse Davide sorridendo.

—No. Non credo. Ti voglio tanto bene. Non so come farei a vivere senza vederti qualche volta, senza parlarti. La tua presenza mi riscalda il cuore. Ma non credo punto di essere innamorata di te. E poi, tu me l'hai detto…

—Che cosa?

—Che tu non prendi moglie.

—E' vero. Ma potrei anche cambiare parere, Gigetta.

—Sì? Ma se io non volessi…

—Ebbene, non parliamone più…

Avevano parlato con tono scherzoso; poi la stessa ombra passò sui loro due visi.

—Mi pare persino un sacrilegio scherzare, ora,—disse Gigetta.—Quanto è seria la vita!

—E anche la morte!

Stettero alquanto in silenzio, pensosi. Poi Davide disse:

—Vado volentieri verso la frontiera orientale, non solo con la speranza di prestare la mia opera come infermiere o altro, ma anche con uno scopo più ampio. Le condizioni degli ebrei, in Russia, in Gallizia e Polonia sono divenute più terribili che mai. Io voglio studiarle da vicino, e vedere se non mi sarà possibile di alleviarle, sia pure in minima parte. Se non potrò richiamare l'attenzione del mondo su quegli orrori! Se almeno non mi riescirà di scuotere l'indifferenza dei fratelli occidentali in loro vantaggio!

—Dunque,—disse dolcemente e sorridendo Gigetta,— tu, che avevi rinunciato a ogni ideale umanitario, ritorni alle tue idee antiche… e fai bene.

Egli scosse il capo.

—No, non è più così. Prima ero un sognatore, un fabbricatore di castelli in aria. Ho compreso che il mio sogno era impossibile; ma siccome la mia anima, o forse dovrei dire i miei nervi, non resistono all'aspetto della sofferenza umana, bisogna pur ch'io tenti di fare qualcosa per diminuirla. Credi; io non ho ora e non avrò mai più altro scopo che questo: Combattere il dolore, il male, la miseria, dovunque io li trovi e in chiunque. Sarò una specie di don Chisciotte, forse ridicolo, senza ideali lontani, senza creare e tentare nulla che sia nel domani.

—E in che cosa consistono queste miserie degli ebrei russi?

—Oh, sono indicibili! Pensa che ai confini della Russia e dell'Austria vivono masse enormi di ebrei. L'antisemitismo russo è antico e feroce; e non risiede soltanto nel popolo, no, anche molto più in alto. Lo stesso granduca Nicola e il suo stato maggiore sono il centro dell'antisemitismo. Persino i giornali di Londra e di Parigi svelano i atti di barbarie compiuti contro gli ebrei! E' un quadro fosco, orribile, che aggiunge nuova terribilità alla guerra. Si accusano continuamente gli ebrei di scarso patriottismo! Eppure, gli ebrei russi hanno accettato la guerra e le sue conseguenze con animo sereno, e si sono sottoposti a ogni genere di sacrificio per aiutare la nazione. Per citarti un piccolo fatto, gli ebrei che lavorano nelle fabbriche di munizioni di Minsk si sono offerti di lavorare anche il sabato, trattandosi di far cosa necessaria alla difesa della patria. Pare cosa da nulla; ma se tu sapessi che cosa significa il sabato per gli ebrei di quelle regioni, dove la fede è tanto più viva che qui! Il numero degli ebrei caduti sul campo è già fino a oggi molto rilevante; e l'eroismo di quei soldati e ufficiali è stato riconosciuto dalle numerose decorazioni distribuite dal Ministero della guerra a ebrei.

—S'è dunque dovuto riconoscere il loro valore!— esclamò Gigetta.

—Sì; ma mentre da una parte si distribuivano encomi e medaglie, venivano in altro luogo espulsi ebrei uomini e donne, i cui fratelli, figli, mariti avevano dato la vita per la patria!

—E perchè dunque?

—Oh, i pretesti non mancano! l'accusa principale è quella di spionaggio. Questo popolo infelice è divenuto l'oggetto di uno scherno sistematico. Non è assurda e grottesca, nel mentre è terribile, l'accusa di tradimento e di spionaggio, fatta in blocco a tutta una nazionalità? Ci saranno stati singoli casi; è assai probabile. Ma forse che questi casi isolati non si sono verificati tra le popolazioni di frontiera di tutte le nazionalità? Ma in seguito a queste accuse, che provengono tutte dalla stessa fonte, e si propagano col consenso dell'autorità militare, sono stati presi provvedimenti inauditi, provvedimenti iniqui e feroci, che ci riportano ai più tristi giorni del medioevo. Sono avvenute fucilazioni in massa! persino la tortura si usa largamente nei casi dubbii, per ottenere la confessione del presunto colpevole!

—Ma sono cose possibili!?—esclamò la giovane inorridita.

—Sì, purtroppo! I giornali non osano dire tutto. Molte nefandità resteranno per sempre ignorate, perchè la censura russa è terribile. Tutti i giornali socialisti e popolari sono stati soppressi, fin dal principio delle ostilità. E sono i soli che avrebbero parlato anche per noi! Le prigioni sono piene di ebrei, anche donne, anche fanciulli. I rappresentanti delle comunità sono stati arrestati come ostaggi. Forse è la prima volta nella storia civile, che un governo abbia il cinismo di prendere come ostaggi i suoi proprii sudditi!

—Sì, è un caso senza precedenti.

—Questa guerra, che mostra di prolungarsi per mesi e mesi, forse per anni, darà alla storia una materia inesauribile. Ma occorrerà che la storia, la filosofia e l'arte si diano mano a ricercare nel fondo, e a portare alla luce fatti che interessano più particolarmente le plebi, le quali soffrono senza lustro di gloria, muoiono senza neppure l'apparato guerriero, che esalta gli spiriti, e rende caro anche il dolore. In massa sono stati arruolati gli ebrei della Russia, strappati alle case loro, e cacciati primi davanti ai cannoni nemici. Ebbene, ti dirò come li ripaga il governo. Ho qui qualche nome. Un tale Alessandro Roschkoff, che si era recato a Kharcoff per farsi curare una ferita all'occhio, contratta in guerra, si vide porre sul passaporto l'annotazione na wyds, che vuol dire: da espellere; e fu espulso infatti, quasi cieco, dalla patria per la quale aveva combattuto. Un altro soldato ebreo, Godlevsky, al quale era stata amputata una gamba, giaceva nell'ospedale di Rostow, quando venne anche per lui l'ordine di espulsione!

Ma questi non sono che fatti individuali. Tutti gli ebrei sono perseguitati incessantemente, perquisiti, espulsi; e siccome la stampa ebraica è stata soppressa sin dal principio, nessuno può levare la voce in favore degli oppressi. Queste notizie giungono a noi incomplete, per mezzo delle sinagoghe; ma la verità è assai più grave.

—Mio povero Davide! ho paura che di fronte a simili enormità, l'opera tua non avrà alcun successo reale, e tu vai a cercarti nuove amarezze.

—Lo so. Ma non posso rimanere inerte. Sai tu che ogni sconfitta sul campo di battaglia è attribuita agli ebrei? Appena il nemico si è accostato alla frontiera, si diffuse subito in Russia e in Polonia la leggenda, che gli ebrei fanno passare il loro oro ai tedeschi, o per mezzo di aeroplani, o dentro ai feretri, o con altri mezzi escogitati dalla fervida fantasia degli antisemiti. Sai che cosa hanno inventato per eccitare la popolazione contro gli ebrei? Che, appena fu scoppiata la guerra, un vecchio ebreo, con una lunga barba, bianca, naturalmente, perchè fosse più teatrale, percorse le vie di Varsavia, sopra un cavallo bianco, declamando contro la Russia, in favore dei tedeschi! Nessuno lo ha mai veduto, si capisce, ma bastò questa voce per provocare i feroci progroms contro gli ebrei. La stessa stupida leggenda si ripetè, appena gli austro-tedeschi furono presso alla frontiera; era sempre quel vecchio, sul suo cavallo bianco, che correva incontro ai nemici, per rivelare loro Dio sa quali segreti di Stato. E così si continuò a accusare gli ebrei di costruire telefoni apposta per comunicare col nemico, e di distruggere le linee telegrafiche.

Tutte queste calunnie si diffondono con l'aiuto delle autorità locali, e assumono proporzioni inverosimili. Allora le autorità applicano agli ebrei provvedimenti atroci e crudeli, quali non vennero mai applicati a nessun popolo nel corso della storia umana. E questi provvedimenti vengono eseguiti apertamente, dinanzi al popolo e dinanzi alla truppa e all'armata, di modo che tutti credono che il governo consideri gli ebrei come nemici della nazione, messi fuori della legge. Così, a esempio, si procede improvvisamente alla espulsione di tutta la popolazione ebrea delle vanie regioni di frontiera. E queste espulsioni hanno luogo nel termine di ventiquattro, o al massimo di quarantotto ore, tra lo scherno e gli insulti dei presenti!

—Roba da medioevo!

—Oh, peggio! Si calcolano più di 500.000 gli ebrei così cacciati dalle loro case, e condannati a soffrire la fame, e a far vita vagabonda, tra una popolazione ostile. Perchè non bisogna credere che, passata la frontiera, essi si trovino meglio! Nella Polonia austriaca, nella Gallizia, Transilvania e Ungheria l'odio e la diffidenza contro gli ebrei sono gli stessi. Ho letto io la lettera, che un testimone oculare di quelle barbare scene scrisse al nostro rabbino. Dice che sono indimenticabili! Vennero cacciate via le donne, i vecchi, i fanciulli, i malati; anche i pazzi furono fatti uscire dai manicomii, e gli ebrei vennero obbligati a portarseli via! E la cosa più orribile è questa: Le disgraziate famiglie espulse avevano figliuoli e mariti sotto le armi. I soldati ebrei, che attraversavano la Polonia, per recarsi a combattere il nemico della Russia, furono testimoni della espulsione delle loro mogli e dei loro bimbi! Gli ebrei vennero spediti in treni merci come bestie; accompagnati da avvisi di spedizione così concepiti: «Avviso di spedizione, numero tale; merce 450 ebrei; destinazione tal paese».

—Ma è orribile! orribile!

—E quando gli infelici giungevano a destinazione, dopo lunghe ore di treno, pigiati peggio che bestie, in condizioni terribili di stanchezza e di disperazione, accadeva spesso che il governatore di quella provincia si rifiutava di lasciarli entrare. Lo scrittore della lettera narra di essersi trovato egli stesso a Wilna, mentre un treno intero di ebrei espulsi rimase fermo per quattro giorni alla stazione di Novo-Vileisk. Quei disgraziati erano stati espulsi dal governo di Kovno, e destinati a quello di Poltava; ma il governatore di Poltava rifiutò l'autorizzazione di farli entrare in città, e dopo quattro giorni di attesa li rispedì a Kovno. A Kovno non furono lasciati scendere, ma rimandati ancora a Poltava. E il corrispondente fa notare anche l'assurdità della ferocia del governo, il quale, mentre la Russia difetta di vagoni per il trasporto delle munizioni, faceva rimanere immobili in una sola stazione centodieci vetture piene di ebrei espulsi! Ma la violenza dell'odio rende gli uomini ciechi e stolti.

—Ah, tu hai ben ragione! L'umanità non è che la vernice della bestialità!

—E tu credi che basta? Giornalmente la canaglia assalta le case degli ebrei, col pretesto che sono spie; e con la complicità della polizia avvengono saccheggi, furti, incendi, e gli ebrei vengono battuti, feriti, anche uccisi impunemente, e non si risparmiano le donne e i bimbi! E ciò accade nel tempo che gli uomini validi sono al campo, a combattere per quella patria che li rinnega, e strazia le loro famiglie!

Gigetta sospirava di compassione e di orrore.

—Ebbene, ascolta ancora questo fatto, che sembra tolto a un romanzo, e è invece la verità. Un deputato liberale lo raccontò in una seduta alla Duma: In una città di frontiera, minacciata dal nemico, gli ebrei erano raccolti nella sinagoga a pregare. Il vecchio rabbino a un certo punto si alzò a dire la preghiera implorante la salute dello czar e la vittoria della patria, e appena ebbe pronunciate le ultime parole: «O Signore, salva la città, e richiama a te le nostre anime!» cadde morto, fulminato dal mal di cuore. Questa fu la morte del vecchio rabbino; la patria fu il suo ultimo pensiero. E la patria li ripaga così, i poveri ebrei, li calpesta e li rinnega!

—Quei popoli slavi dell'occidente sono effettivamente ancora semibarbari; nemmeno essi non conoscono ancora bene che cosa sia libertà, non la possiedono, non saprebbero usarla, non possono rispettarla negli altri…

—E allora tu credi che la grande e civile Germania, che tiene nel mondo il record della cultura, tratti gli ebrei con spirito di vera libertà e fratellanza? Gli stessi pregiudizii, la stessa ingiustificata ripugnanza, benchè non prorompa in eccessi così irruenti, come in Russia. E' un odio più freddo; una persecuzione fatta con le forme. Se i tedeschi potesscro ripristinare i ghetti, sarebbero contenti. I loro giornali lo confessano apertamente: la Germania deve difendersi contro il pericolo ebraico, porre un argine alla concorrenza ebraica. E siccome i tedeschi, nonostante quella loro apparente bonarietà (Gutmütigkeit), e quella pesantezza naturale che ne accresce l'apparenza, sono, in fondo, piuttosto ipocriti…

—I tedeschi di Germania? Oh, Davide! è un popolo degno di ammirazione però, nonostante quella iniquità della guerra, a cui furono trascinati…

—Mia cara Gigetta, ho io forse pregiudizii nazionali? Tu sai ch'io stimo ogni popolo, e stimo ogni individuo, preso come entità a sè. Ma ogni individuo ha una sua caratteristica, e pure ogni popolo ha le caratteristiche risultanti degli individui che lo compongono. E ogni individuo opera sulla massa, e la massa opera su ogni individuo…

Ah, questa noiosa abitudine di predicare!…

Scusami, dunque volevo dire che io stimo assai i tedeschi, ma realmente sono dotati di una certa furberia, che spiegano nella maniera con cui sanno liberarsi di chi dà loro fastidio…

Insomma, i tedeschi sanno quale è il lato debole degli ebrei… e su quel punto premono…

—Cioè?…

—Il sionismo. Sai che è il sogno di molti ebrei quello di riedificare il regno d'Israele, di riavere l'antica patria, e il tempio di Gerusalemme. In Germania si accarezza molto questo ideale, e i giornali anche non ebrei ne parlano volentieri. Gli ebrei tedeschi s'illudono che la Germania aiuterà la formazione di un regno ebraico, con un proprio re e propri ministri, e libertà e franchigie. La Germania! che tende unicamente alla dominazione su tutto e su tutti! Essa lusinga ora con promesse di libertà anche gli ebrei della Polonia, che hanno veramente molto a lagnarsi dei russi; ma se domani la Polonia cadrà tutta nelle mani della Germania, gli ebrei si troveranno in condizioni forse ancora peggiori! L'antisemitismo russo è fatto di violenze e di progroms, e l'antisemitismo tedesco è fatto di freddo disprezzo, di persecuzioni sistematiche. Dico anzi che la Germania è più ferocemente antisemita della Russia. L'antisemitismo russo è macchiato di sangue; la soldatesca e la folla briaca, inferocita, aizzata, spesso si abbandonano a terribili eccessi contro gli ebrei, e si dànno al saccheggio e alla strage; ma la ragione dell'antisemitismo russo non è profonda, radicata, diffusa, come in Germania. In Russia, appena cessi lo stimolo all'odio, subito l'antisemitismo illanguidisce, cessano le violenze, anzi si stringono persino vincoli di simpatia fra i contadini russi e i poveri diavoli di ebrei, che fanno i più umili mestieri; la miseria compatisce alla miseria. Ma in Germania lo stato d'animo antisemita è molto profondo; è un antisemitismo cosciente e ragionato, e che ha salde radici. In Germania l'antisemitismo si perpetuerà sempre; in Russia, quando le condizioni del popolo sieno migliorate materialmente e spiritualmente, io credo che l'antisemitismo verrà a cessare naturalmente.

—Forse,—disse Gigetta con convinzione,—questa guerra, che porta con sè tanti mali, recherà qualche bene alla nostra causa. Si sfaterà la leggenda, che dice cattivi soldati gli ebrei; si vedrà che essi sanno battersi con coraggio, sopportare privazioni e fatiche, soffrire e morire… come gli altri!

—Hai ragione. La psiche del soldato ebreo è veramente degna di essere studiata e conosciuta. E' certo che il sentimento del pericolo, l'idea della morte che minaccia di minuto in minuto, eccitano e riattivano generalmente in ogni individuo il senso della religiosità. E ciò si vede ancora più fortemente in noialtri ebrei. Per noi, religione e nazionalita sono stati sempre la stessa cosa. Rinunciare alla religione, significa uscire dalla comunità israelitica e essere assorbiti completamente da un'altra società. Dunque voglio dire che lo spirito religioso ha in noi un carattere diverso che in voialtri cristiani. A noi è difficile cessare di essere ebrei. Perciò ogni emozione profonda attinge alle radici di questo sentimento, anche se da anni fosse rimasto inerte e dimenticato. Ora, il soldato ebreo, in guerra, è il più serio, il più convinto e scrupoloso dei soldati. La religiosità vivamente rieccitata gli crea un morale di guerra stupendo, perchè gli infonde il disprezzo del pericolo, essendo la morte data da Colui medesimo che dà la vita, il sentimento preciso della disciplina e del dovere, e nello stesso tempo il senso di pietà umana, che lo fa essere generoso coi vinti, e lo tiene lontano dagli eccessi. Ho qui appunto una lettera del nostro Tobia. Vuoi sentirne qualche passo? Tobia, tu lo sai, non ha che un'intelligenza comune, e tutte le sue qualità sono mezzane. Ha un cuore buono, ma non è punto un idealista; è un ragazzo sano di corpo e di spirito, amante dei propri comodi, religioso per abitudine, che non ha mai spinto i suoi sogni al di là della breve cerchia della famiglia e del negozio. Se vive, diventerà un buon commerciante, un ottimo marito e padre di famiglia. Ebbene, senti ciò che scrive; lo stile non è certo da letterato, e c'è anche qualche errore di ortografia…

Salto le notizie generali sulla sua salute, che è buona… sulla roba, che ha ricevuto da casa… ah, ecco, ascolta:

«Faccio sempre come tu mi hai raccomandato, mamma. Ogni giorno procuro di dire le mie preghiere, almeno mentalmente, e sempre la preghiera del soldato, composta dal nostro rabbino, e che mi piace tanto. Domando fervorosamente a Dio di assistermi e aiutarmi, perchè io possa adempiere esattamente i miei doveri, perchè mi dia tutto il coraggio necessario in questi terribili momenti. E veramente sento di avere coraggio. Ti ricordi, mamma, che un taglio a un dito mi faceva urlare? che avevo paura del dentista? che una goccia di sangue mi faceva quasi svenire? Ebbene, io ora vivo in mezzo al sangue; la morte è costantemente al mio fianco; intorno a me sono feriti, mutilati, moribondi, cadaveri… Io li guardo, con pietà, e faccio quello che posso per soccorrerli, per alleviare le loro sofferenze, ma non provo più ribrezzo, orrore… penso che Dio ha permesso ciò per qualche sua ragione che noi non conosciamo, e che forse in quel momento ha deciso anche la mia sorte, e qualunque sia la accetto con calma; Egli deve ben sapere perchè è così.

«In tutto il resto mi attengo a ciò che dice la nostra preghiera: Guardami, mio Dio, da cattivi compagni e da cattivi esempi. Il vizio è il solo nemico dinanzi al quale il soldato deve fuggire. Sì, nei pochi momenti di riposo, quando facciamo qualche giornata di sosta in questa marcia vertiginosa, io sto volentieri coi miei commilitoni, che mi vogliono bene, nonostante che io sia un ebreo; ma procuro di evitare quelli che bestemmiano e che hanno sempre in bocca parole oscene. Certo non vengono mai sul mio labbro. Tu mi raccomandi, mamma, di non espormi troppo al pericolo. Ma questo è un punto sul quale mi è difficile obbedirti. Non espongo la mia vita temerariamente, no. Perchè? La vita è pur bella quando si gode la pace! E la pace non tornerà forse? Mi piace vivere, ma quando si tratta di compiere una fazione pericolosa, una qualche impresa difficile, quando l'ufficiale domanda chi vuole essere della partita, io non posso fare a meno di offrirmi, sono proprio spinto a uscire dai ranghi, a dire: Io! E come potrei soffrire che si pensasse forse: Quello non ha coraggio, perchè è un ebreo? Non sarebbe solo vergogna per me, ma per tutti gli altri ebrei. E qui siamo tanti! Non solo di quelli che parlano italiano, ma di quelli che sanno solo il polacco, o il boemo, o il tedesco. Anche molti ungheresi sono, e io finisco con imparare un po' di ciascuna di queste lingue.

«Ho notato che qualcuno di questi soldati ebrei si vergogna di esserlo. Ma pochi, assai pochi. E perchè vergognarsi? Sì, qualchevolta i nostri compagni cristiani ci dicono qualche parola che offende… Qualchevolta vola anche un paio di pugni fra noi. Ma poi, quando si è in battaglia, tutto è dimenticato. L'ebreo cade vicino al cristiano, e talvolta uno muore tra le braccia dell'altro.

«Ti ringrazio di avermi mandato la preghiera prima della battaglia. E' bella, e ti prego di scrivermi di chi è. Quanto mi piacciono quelle parole così vere: «Mio Dio, questa preghiera che t'innalzo potrebbe essere l'ultima. Oh mio Dio, fa che il mio braccio non s'indebolisca e non tremi! Concedimi che io miri in faccia la morte senza impallidire». Sì, questo io veramente domando al Signore. E sempre, prima di ogni combattimento, io vi raccomando tutti a Lui. Potrebbe darsi che io cadessi sul campo; ch'io cada almeno valorosamente. Voi proromperete in lamenti, vi abbandonerete forse alla disperazione, ma Dio vi consolerà, vi prenderà sotto la sua custodia. Non temete, Dio mi userà misericordia, e ci ritroveremo un giorno. Io gli domando il perdono dei miei peccati, lo supplico di aprirmi le sue braccia, se il termine dei miei giorni fosse arrivato; e ogni volta, prima di lanciarmi nel pericolo, pronuncio dentro di me l'atto di fede e di amore, la santa parola che voi mi insegnaste, che deve suonare sulle labbra dell'Israelita dalla culla fino alla tomba: Ascolta, Israele: l'Eterno è il nostro Dio, l'Eterno è unico».

La giornata di dicembre, gelida, cupa e sanguinosa, volgeva alla fine. In mezzo alla neve, che cadeva sempre più densa, era un infinito nero fluttuare di corvi, che ora si abbattevano gracchiando di gioia sopra la preda abbandonata, ora si levavano a volo avidamente, per ricadere più in là. Sull'ampio lenzuolo bianco si allargava ogni tanto qualche chiazza rossa, ma la neve la assorbiva subito, e copriva anche tutte quelle masse scure, inerti, immobili, onde era seminato il campo; eran quelle che provocavano la sinistra gioia dei corvi.

Nel fondo dell'orizzonte limitato dalla neve cadente scoppiavano qua e là nuvolette soffici, d'un biancore opaco, e qua e là pure si accendevano improvvisi bagliori, che solcavano l'aria come razzi. L'atmosfera gelata era tuttavia greve di un odore strano, l'odore particolare di sangue e di polvere da cannone. Gemiti e ululati, insieme a un tonfo sordo lontano e a un crepitìo, erano, insieme al crocidare dei corvi, le armonie di quel campo della strage e della morte.

Nessuna traccia di abitazioni umane, nè vicine nè lontane. Le macerie delle casupole arse e diroccate erano dalla neve uguagliate al suolo; solo laggiù, in fondo, a piedi della collina, si potevano scorgere ancora i resti fumanti di Maslova; due volte era caduta in mano degli austriaci, due volte era stata ripresa dai russi; gli uni e gli altri la avevano continuamente bersagliata con le loro mitragliatrici, e all'ultimo vincitore era toccato, al posto della graziosa fiorente città, un mucchio di rovine.

Un nugolo di corvi, piombato sopra una delle immobili forme grige stese sul terreno, si levò spaventato. Da quella massa informe si era alzato un braccio a scacciare i mangiatori di carne. E tosto anche da quel corpo giacente uscirono gemiti e suoni umani.

Il braccio alzato si posò sopra un viso tutto insanguinato, a istintiva difesa contro gli uccelli di rapina; la bocca emetteva sangue e parole, che non avrebbero avuto nessun senso per un orecchio d'uomo, anche se familiare con la lingua straniera in cui erano pronunciate. Infine l'uomo giacente allontanò il braccio e aprì gli occhi. Vide sopra di sè il cielo denso di neve; qualche reminiscenza vaga si affacciò al suo cervello; egli sorrise e tornò a chiudere gli occhi. Erano pure turbinii di neve, che egli contemplava stando dietro i vetri della finestra, in una bella stanza calda. Intorno a lui suonavano voci care, risa di donne, balbettii di bimbi, e un lieto acciottolìo di piatti, che era la promessa di un buon pranzo, un pranzo di festa, il cui ghiotto odore gli solleticava le nari dalla cucina, dove mamma e la vecchia serva erano affaccendate. E quei giocondi rumori erano tutti vinti dal suono di una voce monotona, nasale, che veniva attraverso le pareti; era il nonno che pregava nell'altra stanza.

E poi la mamma entrava, e ciascuno si affrettava al suo posto a tavola. Quanta gente! Tutti visi noti e dolci al suo cuore; c'erano anche i bimbi della sorella. E la mamma accendeva i lumi della festa. Quanti stasera? Otto, perchè è l'ottavo giorno; ogni sera ne accendeva uno di più. E' la festa di «Chanukà»; il nonno ha già raccontato la storia, che tutti conoscon benissimo, perchè la ripete ogni anno. Tant'è, fa sempre piacere il riudirla; sentir narrare degli eroismi compiuti dai sette Maccabei contro il perfido e insensato re Antioco Epifane, e come gli ritolsero il tempio profanato, e come lo purificarono, per dedicarlo nuovamente al culto del vero Dio.

—E tosto,—diceva allora solennemente il vecchio nonno,—tosto Israele, intonando inni di trionfo rientrò nella santa dimora del Signore, e celebrò la festa della consacrazione con cantici e rendimenti di grazie, e riaccese il sacro candelabro.

Nella mente del caduto ronza ora la preghiera che gridavano in coro, lui e tutti i suoi:

«Lode a te, o eterno nostro Dio, re dell'universo, che ci santificasti coi tuoi comandamenti, e ci hai imposto di accendere la lampada di Chanukà.

«Lode a te, o eterno nostro Dio, re dell'universo, che ci hai protetti, serbàti in vita fino a questo tempo!».

Nel cervello (ma perchè gli doleva così forte?), gli turbinavano i ricordi. C'era lì dentro, fitta come un chiodo, una data, la data di quel giorno medesimo, in cui egli si trovava là, a giacere sotto la neve cadente. Venti dicembre! Egli l'aveva mormorata a sè stesso quella mattina, proprio mentre era fermo, col fucile al piede, là, dietro la trincea di ghiaccio. Aveva pensato appunto: è l'ultimo giorno di Chanukà; a casa oggi non saranno allegri.

Ma poi? che era accaduto? Perchè era lì giacente? non per dormire, non poteva essere, perchè faceva ancor chiaro, il giorno non era ancora sparito. Era forse morto? giaceva nella tomba? Ma come allora vedeva il cielo, e perchè la testa gli faceva tanto male? La testa, e anche le gambe… ecco, provava a muoverle, ahi! che male! e poi aveva male anche al petto, dappertutto, dappertutto… Si sforzò a riaprire gli occhi e si guardò le mani; erano nere e bagnate; di che? di sangue. E d'improvviso si ricordò di un ribrezzo che da piccolo, gli faceva il sangue, quando gridava se ne vedeva una goccia sul suo dito; e allora lo prese una nausea terribile, sentì tutto il suo essere sollevarsi di ribrezzo, di schifo, di paura, e tentò di rizzarsi in ginocchio.

Guardò intorno e d'improvviso la memoria gli ritornò, riconobbe il Iuogo, e se stesso. Era stata qui la battaglia… dall'alba aveva durato. Oh, quale orrore! Che orrendo fracasso di granate, che ulular di palle! E ogni momento uno, due, tanti che cadevano, mandando grida di dolore, imprecazioni, gemiti. Avanti, avanti! e erano andati avanti, e erano ritornati indietro, avevano corso come pazzi, avevano strisciato sul terreno; ricordava di avere avuto un gran freddo, poi come un calore di febbre, e fame, assai fame, perchè da due giorni non avevano potuto fermarsi a mangiare, e una stanchezza infinita… perchè per due notti non avevano dormito… E poi… ah sì! egli aveva vicino a lui il suo capitano, un uomo così buono, così valoroso, che gli voleva bene… Ah, è vero che qualchevolta, quando era proprio arrabbiato, bestemmiava e se la prendeva anche con lui, gridandogli: Verfluchter Jude! (maledetto ebreo), ma gli passava subito, e cereava di far dimenticare l'ingiuria con qualche buona parola. Era buono, era buono il suo capitano! E un maledetto cosacco non gli era venuto adosso con la sua lancia? Aspetta, canaglia! Giù un bel colpo di baionetta! ecco, il capitano era salvo, e l'altro si torceva come un verme per terra…

Ma a questo ricordo un gran brivido lo scosse, l'imagine di quell'uomo trafitto da lui lo riempiva di orrore. Sentì di nuovo l'invincibile nausea, la bocca gli si riempì di sangue. Lo sputò sulla neve che lo assorbì in un momento. Allora comprese ciò che gli era accaduto. Ricordò il fragore terribile della granata scoppiata accanto a lui, e il colpo, che lo aveva atterrato. Era ferito, forse gravemente ferito, forse doveva morire.

Quelle masse scure là intorno… oh, erano uomini come lui, caduti, morti? Orrore! i corvi li divoravano, si accanivano sopra quei corpi forse ancora palpitanti; erano venuti già sopra a lui… E d'improvviso ebbe paura, provò il bisogno di fuggire, di cercare aiuto… Tutti quei corvi, tutti quei morti… Si rizzò barcollando, riuscì a muovere le gambe, ma non lo reggevano, dovette appoggiare a terra le mani, e allora cominciò a strisciare e a trascinarsi carponi; non sentiva più nessun dolore; solo sentiva il suo corpo in fiamme, e non ritrovava più se stesso e il filo delle idee; era guidato come da una forza al di fuori di lui. Di tanto in tanto urtava contro un cadavere, allora gli girava intorno, come per non fargli male, poi riprendeva il suo cammino, rizzandosi per brevi tratti, poi carponi, senza sapere dove andasse, cercando istintivamente qualcuno e qualchecosa. Il rombo del cannone giungeva ora rado e lontano; ma vicino risonavano lugubri ululati, egli vedeva ombre scure balzare tra il chiarore della neve. Allora pensò che crano lupi, venuti a divorare i cadaveri, e anche i feriti… e riprese la sua fuga con forze rinnovellate dallo spavento.

La notte era già inoltrata quando, al riflesso della neve, egli scorse una specie di edifizio, mezzo diroccato, e più in là dovevano essere altri resti di case; un villaggio distrutto, senza dubbio. E da quell'edifizio uscivano mormorii che parevano di persone umane, di gente che prega. Il suo cuore sussultò; gli parve di riconoscere quei mormorii; orano legati a qualche cosa di dolce e di lontano… ma non sapeva più.. E con un ultimo sforzo si spinse fino a una specie di atrio che vedeva confusamente, e riconobbe che là sotto erano delle forme umane; le voci uscivano di là…

Ma appena il nuovo arrivato apparve nel vano, e il suo corpo, ritorto su se stesso, si delineò mostruoso nel chiarore niveo, tutti coloro che erano là raccolti mandarono un grido di spavento e balzarono in piedi:

—Schemagn, Israel!—esclamò il ferito, rizzandosi un momento sulle gambe e stendendo le mani verso il cielo,— l'Eterno è nostro Dio, l'Eterno è unico!—e cadde pesantemente a terra.

Al suono di quelle parole ebraiche tutti coloro che si erano disposti a fuggire all'apparizione di quel soldato, ristettero, muti.

—O Dio d'Israele! è uno dei nostri! è un fratello!— urlò una voce femminile,—forse è morto!

E una donna, giovane, ma sparuta, cenciosa, coi neri capelli arruffati sulla fronte, si accostò per prima al caduto. Lo guardò senza toccarlo, per paura che fosse cadavere.

—E' tutto sangue! Poveretto! ha una ferita nella testa… Non respira più… Ma venite, venite dunque!

Anche gli altri si avvicinarono; erano altre quattro o cinque donne, vecchie e giovani, ma tutte ugualmente sordide, magre, livide. E tre vecchi, che ai cenci parevano mendicanti, e uno stormo di bimbi, pure laceri, dall'aria affamata. Uno dei vecchi disse:

—No, non è morto, respira. E' un soldato dei nostri (un austriaco) gravemente ferito. Forse si potrebbe salvare, ma ci vorrebbe un chirurgo. Bisognerebbe portarlo al posto di medicazione.

—Oh, egli avrà in qualche luogo una madre che Io piange!—esclamò una di quelle donne,—oh, come rassomiglia al mio Jossel! Bisogna vedere di salvarlo! Avete inteso? Egli ha pronunciato le parole di Israele; è uno dei nostri.

—Oh, morisse senza più rinvenire!—gemette uno dei vecchi,—farebbe una morte da santo, poichè le sue ultime parole furono sacre.

—Aiutiamolo, soccorriamolo,—gridavano insieme le donne.

—Ma come? se non abbiamo nulla. Possiamo lavargli le ferite con la neve, ma non basta. Portarlo fino a un posto di medicazione? e chi sa dove si trova? E come averne la forza?

—Oh, Sabatai!—disse una delle donne,—potresti andare sino all'ospedale, e cercare un dottore.

—L'ospedale?—rise amaramente il vecchio,—e tu credi che esista ancora l'ospedale? Le granate non l'hanno lasciato in piedi sicuro.

—Tuttavia si può provare,—disse un altro.—Andiamo. Ora non c'è più pericolo, i russi non tirano più. Bisogna salvare questo nostro fratello.—Allora anche gli altri due vecchi si unirono a quello, e i tre uscirono nella neve.

—Forse troverete in qualche luogo anche un po' di pane!—supplicarono le donne dietro ai partenti. E tutti i bimbi urlarono insieme: «Sì, pane, pane!».

I vecchi, perseguitati da quel grido lamentevole, camminavano più frettolosi che potevano nelle vie della città distrutta. Non nevicava più, e il cielo candido illuminava mucchi di macerie, e muri cadenti, e finestre e porte sgangherate. Alcune case diroccate fumavano ancora dell'incendio provocato dalle bombe. Non si vedeva un'anima. Gli abitanti erano tutti fuggiti, o morti. Quando i vecchi giunsero in vista dell'ospedale scorsero l'edifizio, crollato da una parte, ma l'ala destra era ancora tutta in piedi; qualche lumicino si scorgeva attraverso le finestre. Affrettarono il passo e tirarono la corda d'una piccola campana che era sulla porta. Si affacciò un uomo, al quale i tre vecchi dissero che un soldato era moribondo nell'atrio di Bed-hamidrasch (collegio israelitico) e pregavano che un chirurgo venisse a vederlo.

Il portinaio li guardò con aria ironica e brutale. I riccioli sulla fronte, che uscivano di sotto i berretti di pelo laceri e consumati, la veste talare, benchè cenciosa, dicevano chiaramente che essi erano ebrei.

—E credete forse, cani di ebrei, che uno dei nostri chirurghi si scomoderà per venire a cercare un moribondo nel vostro covile? Potevate risparmiarmi la fatica di aprirvi il portone. Di feriti e moribondi ne abbiamo già troppi qui, e non sappiamo dove mettere gli altri. Ancora che quegli assassini dei russi ci hanno buttata giù parte della casa.— E fece l'atto di chiudere.

—Dio sarà giudice!—esclamò uno dei vecchi,—noi abbiamo fatto quanto si poteva!

—Via, cani!—replicò il guardiano. Ma una mano forte che si posava sulla sua spalla lo fece balzare indietro e sprofondarsi in inchini.

—Riveritissimo signor dottore! servo, signor luogotenente!

Dietro a lui erano i due superiori dell'ospedale, il dottore capitano Alvise Galli, e il luogotenente Davide Levi, adetto al corpo infermieri.

Passavano per caso nel portone, quando udirono il dialogo, che li accese entrambi di collera. Il dottor Galli promise al portinaio di dargli quello che gli spettava per le sue cortesi repulse, e subito chiamò due uomini, che venissero con una barella.

—E' meglio che vada anch'io,—disse all'amico,— può darsi che il ferito non sia trasportabile!

I tre ebrei, che non avevano capito, perchè i due amici parlavano il natìo dialetto, vedendo le sollecite disposizioni che si prendevano, osarono parlare ancora.

—Ah, se le signorie loro volessero anche farci la grazia di darci un poco di pane! Sono tre giorni che i nostri bambini e le nostre donne non hanno mangiato che qualche radice cruda!

—E' possibile—esclamò Davide, che, come il suo amico, aveva imparato sufficientemente il jüdisch, che è un linguaggio mescolato di tedesco, di ebraico e di slavo, proprio degli ebrei della Gallizia.—E' possibile! Voi siete israeliti, mi pare?

—Sì, eccellenza!—dissero lamentosamente i vecchi,— non abbiamo più nulla! Le nostre case sono arse, e noi siamo fuggiti, perchè tanto saremmo morti di freddo e di fame anche in altro paese. I nostri giovani figliuoli sono tutti soldati; di alcuni sappiamo già che sono morti, sia lodato il Giudice supremo! noi ci eravamo rifugiati nel Bed-hamidrasch, quando incominciò il cannoneggiamento, ma anche quel sacro edifizio è stato colpito… Pane, eccellenza! pane per le donne e i bambini!

Alvise Galli diede ordini e i portatori si caricarono pure di un canestro di viveri.

—Abbiamo poco anche noi!—disse.—Andiamo!

—Voglio venire anch'io,—disse Davide,—sono miei correligionari; incamminatevi, vi seguo.

E salì un momento al piano superiore, dove domandò a un infermiere dove fosse Schvester Luise (suor Luisa).

—E' tornata vicino al letto del povero signor Paulewsky —rispose l'infermiere.

Davide entrò nella corsia, dove giacevano gran numero di corpi coperti di bende, alcune macchiate di sangue, visi gonfi, teste fasciate, poveri resti umani, dai quali uscivano gemiti lunghi, ora flebili ora rabbiosi. Una donna, vestita col camice bianco delle infermiere, segnato sul petto da una croce rossa, era china sopra uno di quei giacigli, e alzò la testa quando entrò Davide. Egli si avvicinò:

—Come va Paulewski?

—Sempre a un modo.

—Esco, Luisa.—E le disse la ragione.—Spero che egli non chieda di me nel frattempo.—E si piegò un istante sul giacente. Augusto Paulewski era gravemente ferito agli occhi e alla testa, da tre giorni, affetto da commozione cerebrale, giaceva là in istato comatoso.

Davide salutò Luisa con uno sguardo, e uscì correndo per raggiungere gli altri. Quando la comitiva entrò nell'atrio del Bed-hamidrasch esso era debolmente rischiarato da un fumoso moccolo di sego, attaccato sopra il piedistallo d'una colonna, accanto alla quale era stato coricato il moribondo, e già gli astanti avevano intonato le preghiere rituali.

«Il Signore libera l'anima dei suoi servi!

«L'Eterno regna, l'Eterno regnò, l'Eterno regnerà dappertutto e sempre!

«Lodato sia sempre e in ogni luogo il nome del suo regno glorioso!

«L'Eterno è il vero Dio! l'Eterno è il vero Dio! Ascolta, Israele, l'Eterno è il nostro Dio, l'Eterno è unico!».

Davide provò una strana commozione nel riconoscere quei suoni familiari al suo orecchio, e udirli là, in quella terra straniera, nella notte gelata, macchiata di tanto sangue umano. E strana e grandiosa pur gli parve la scena di quella gente lacera e affamata, tra le rovine di un tempio, intorno a un moribondo sconosciuto, cantante la gloria dell'Eterno unico e onnipotente, che così crudelmente l'aveva fiaccata al suolo… Dalla sua bocca uscirono, come per forza d'incanto, le fatidiche parole: Scemagn, Israel, l'Eterno è nostro Dio, l'Eterno è unico, mentre si accostava al ferito e lo guardava. Ma le sue labbra si chiusero impallidite, un gelo gli corse la schiena; egli aveva riconosciuto nel soldato moribondo Tobia, il suo povero fratello Tobia. …Uno sguardo, uno solo bastò al dottor Galli per comprendere che il giovine era perduto. E Davide lesse nei suoi occhi la sentenza. Allora provò come la puntura di un rimorso, che si aggiunse al dolore; sua madre gli aveva tanto raccomandato il minor fratello, e lui non se n'era quasi occupato; tutto assorbito dalle infinite miserie, dal dolore che montava d'ogni intorno come un flutto immenso, egli aveva lasciato che il ragazzo corresse al suo destino, abbandonato all'impeto giovanile, atomo di carne destinata al cannone!

E forse avrebbe potuto tenerlo vicino a sè, salvarlo dalla morte! Che hai tu fatto del tuo minor fratello? gli chiederebbe la madre. Ah, mai ella non sopravivrebbe al suo prediletto!

—Ma non è possibile?… non è possibile?—domandò angosciosamente a Alvise.—Se si potesse far venire Giosue da Lemberg… domattina potrebbe essere qui…

—Nessuno può salvarlo,—mormorò Alvise, e Davide si coprì con le mani la faccia.

Ora, dopo un lungo assopimento, il morente delirava. Certo rivedeva le scene della sua infanzia, il suo paese, la casa, perchè dalle sue labbra uscivano i nomi della mamma e delle altre persone care. A un certo punto riconobbe il fratello che lo guardava con occhi piangenti, ma non si stupì di vederlo; esso anzi faceva parte del suo sogno. Allora cominciò a raccontargli che aveva sognato una guerra, orribile, lunga… e il fragore della battaglia, fra la neve…

—Che sogno, che sogno!—diceva,—e figurati che io all'improvviso cadevo, e lupi e corvi si buttavano adosso per divorarmi… e allora io fuggivo tra i cadaveri, in mezzo alla neve. Oh, quando racconterò a mamma questo sogno! Ma dov'è mamma?

La cercava affannosamente con gli occhi, poi, vedendo poco lontano quelle faccie sconosciute, quel gruppo di pezzenti, pareva tendere l'orecchio alle loro preghiere, si faceva scuro in viso, e tornava a assopirsi…

Siccome Alvise aveva dichiarato che sarebbe inutile trasportarlo sino all'ospedale, Davide e lui si accinsero a rimanere, dopo avere rimandato i portatori.

—Vostra signoria permetta una parola,—mormorò all'orecchio di Davide uno dei vecchi ebrei,—sarebbe bene che il corpo del defunto fosse vestito di lino, come vuole l'uso, e…

—No, no,—rispose impetuosamente Davide,—egli sarà seppellito nella sua uniforme.

Il vecchio tacque.

Per più di un'ora non si udì altro che il borbottìo delle preghiere dette dai tre vecchi; le donne e i bambini, che avevano divorato le provviste recate, ora dormivano in un angolo, il più lontano, dal moribondo, e formavano come un sol groviglio di membra umane in un sol mucchio di cenci.

Infine, Davide, che teneva una mano del fratello, sentì il battito del polso farsi sempre più debole. Si chinò e lo baciò in fronte.

Il giovinetto, come elettrizzato da quel bacio, aprì gli occhi, alzò le mani… Il suo viso parve trasfigurato, e con voce sovrumana gridò: «Schemagn, Israel! l'Eterno è unico…» e non terminò in questo mondo la sua solenne professione di fede.

Pochi minuti dopo, Davide, si sciolse dall'abbraccio fraterno di Alvise, e disse con voce calma:

—Non abbiamo più nulla da fare qui. Egli è morto, non ha bisogno di noi. Occorre l'opera nostra là, dove si soffre e si muore. Andiamo, Alvise. Ritorneremo domani a dargli l'ultimo saluto.

Allora gli si accostò uno dei vecchi e gli disse:

—Se ho inteso bene, la Signoria vostra è dei nostri fratelli.

—Sì, io sono ebreo,—rispose Davide.

—E la Signoria vostra era parente di questo morto…

—E' mio fratello.

Il vecchio si inchinò profondamente:

—Sia lodato il giudice giusto! E allora io ti dirò che io sono il rabbino di questa comunità. Non ti stupisca il vedermi così lacero e povero. La guerra ci ha tolto tutto; i figli, la roba, il denaro. Noi, ebrei, in questa provincia siamo stati spremuti prima dagli austriaci, poi dai russi, poi di nuovo dagli austriaci. Non abbiamo più nulla. L'Eterno sia benedetto! E ora volevo dirti: che comandi di fare con questo morto? Vuoi tu che sia messo in terra secondo il nostro rito?

—Sì, rispose Davide,—perchè sua madre lo vorrebbe.

—Vuoi tu affidarlo a me?

—Sì, purchè sia messo nella bara con la sua divisa di soldato.

—Sarà esattamente come tu vuoi.

Davide pose nella mano del vecchio il suo portafoglio.

—Va bene,—disse il rabbino,—ti renderò il conto. Si farà tutto quello che occorre, ma modestamente, perchè le case sono rovinate e vuote, non si troveranno oggetti di lusso.

—Siamo in mezzo alla sofferenza e alla morte. Il lusso sarebbe stolto e crudele,—rispose Davide, e dopo un ultimo bacio al fratello se ne tornò con l'amico all'ospedale.

Luisa, che già era stata avvertita, gli andò incontro e gli prese la mano.

—Ah, Gigetta! la povera mamma!—disse. E si guardarono con gli occhi pieni di lagrime. Ma subito alcuni gemiti strazianti, che venivano da una stanza vicina, li riscosse, e Luisa disse:

—Ne hanno portato degli altri… E quasi tutti… sono perduti!

Allora ciascuno ritornò al proprio dovere, dimentico quasi dei proprii dolori, tutto assorto in quella opera di carità, che richiedeva forze spirituali e materiali sovrumane. Da più di due mesi erano in quell'ospedale, e ne avevano veduti venire tanti tanti! e quanti non erano stati portati fuori cadaveri! Luisa si disperava di poter fare così poco. Ella era spaventata della tenebrosa e implacabile potenza della morte, che le strappava le vite, da lei appena riattizzate con soffio materno… Eppure non c'era più paziente, più brava e instancabile infermiera di Schwester Luise! Tutti i malati e feriti la sospiravano, la seguivano con occhi, desiderosi delle sue cure, o almeno delle sue buone parole. E lei si prodigava di continuo, e resisteva miracolosamente a quelle fatiche. E donde attingeva quella forza misteriosa che la rendeva capace di ogni abnegazione, di ogni resistenza? Davide era la sorgente a cui l'anima sua si abbeverava; la fiaccola, a cui ella rianimava il suo spirito di carità, la sua fede.

Tobia Levi ebbe i suoi funerali di buon israelita; in paese straniero, devastato dalla guerra, tra gente miserabile e dispersa; pure le sacre parole dell'antico rito lo accompagnarono alla tomba, e consolarono il suo spirito dolente della madre e della patria lontana.

Il suo cadavere non fu abbandonato un momento, fino all'istante in cui ebbe sepoltura. Il vecchio rabbino, aiutato dalle donne, aveva lavato il corpo del giovine e lo aveva rivestito della sua divisa, come era stato l'ordine di Davide; e le donne piansero sopra di lui, a vederlo così delicato e bianco, come un fanciullo. Piansero, come madri, non come prefiche! e gettarono alte grida, perchè ciascuna pensava a un altro giovine cadavere come questo, caduto chi sa dove, e seppellito da mani profane in una tomba ignota, senza Kadisch (uffizio dei morti) e senza pianto. O pensava a un altro giovinetto forse ancora vivo, ma cui già la morte guatava dentro un'oscura bocca da fuoco…

Pur Luisa aveva voluto venire a accompagnare al camposanto il fratello di Davide, benchè non sia nell'uso ebraico, che le donne facciano parte del corteo funebre, specialmente secondo il rito tedesco. Ma le circostanze erano così eccezionali, che nessuno si oppose alla sua presenza, tanto più che un mantello nero celava agli occhi degli ebrei la croce rossa sul suo petto. Essi riverivano quella croce, la cui carità inesauribile si era sparsa come un balsamo su tutta la misera popolazione, in maggioranza israelitica; ma forse l'ostentazione di quel segno, in quel luogo, sarebbe loro spiaciuta. Lei e Davide andavano insieme dietro al povero feretro. Non avevano potuto ancora telegrafare a Giosuè, perchè le comunicazioni non erano state riattivate dopo la battaglia. Tutto il resto della popolazione ebrea che, dopo la fuga dei russi, si veniva raccogliendo di nuovo presso gli antichi focolari semidistrutti, segniva immediatamente, accompagnando con voci lamentevoli le preghiere che il rabbino veniva recitando:

«La grazia dell'Eterno sia su di noi! O tu, che alberghi negli arcani abitacoli dell'Altissimo, e dimori all'ombra dell'Onnipossente, ben puoi dire all'Eterno: tu sei il mio asilo e la mia rocca di fortezza; poichè Egli ti salva da laccio nascosto e da contagio micidiale! Non temi di periglio notturno, non di saetta che vola di giorno, non di peste che serpeggia nelle tenebre, o di epidemia che fa strage in pieno meriggio. Se cadranno mille al tuo fianco e diecimila alla tua destra, nessun male si accosterà a te. Non ti accadrà sventura nè flagello si avvicinerà alla tua tenda. Io voglio salvarlo, dice Dio, io voglio esaltarlo perchè conobbe il mio nome».

Il convoglio passò dinanzi al tempio distrutto dalle bombe, e si fermò qualche momento, per lasciare tempo all'anima trapassata di riconciliarsi pienamente con Dio; poi proseguì verso il cimitero. Nel momento in cui si entrava nel funebre recinto, il rabbino gridò a alta voce:

«Lodato sia il Signore Dio nostro, re dell'Universo, che vi ha creati nella sua giustizia, che vi ha nutriti e conservati nella sua giustizia! Egli conosce il numero di coloro che dormono in questa polvere, e li farà tutti risorgere un giorno nella sua giustizia. Sii benedetto, o Signore, che risusciti i morti!».

Mentre si portava il feretro alla camera mortuaria, Luisa osservava con stringimento di cuore quel funebre luogo. Tutte le tombe avevano un'apparenza misera; la neve le aveva coperte di un livido lenzuolo, dal quale emergevano appena le piccole lapidi. Non un fiore su quelle tombe desolate! In un angolo il muricciolo era diroccato, e là presso si vedeva una buca profonda, prodottavi da una granata caduta. Il giorno che si abbassava rapidamente avvolgeva ogni cosa in un velo di tristezza indicibile.

Luisa entrò nella camera mortuaria, tutta bianca, nuda, con le pareti piene di segni per lei misteriosi. Il rabbino diceva le parole della Genesi: «Polvere sei, e in polvere ritornerai». Ciò che il vecchio ministro recitò ancora, le fu poi spiegato da Davide, che, pur distratto da altri studii profani, conosceva ancora bene l'ebraico. Erano parole piene di elevatezza, e nello stesso tempo di senso profondamente umano.

«Le opere dell'Onnipossente sono perfette; egli è giusto in tutte le sue vie. Chi oserebbe chiedergli: che fai?

«Egli governa l'universo, a volontà sua fa vivere e morire; fa scendere il corpo nella tomba, ma richiama presso di sè l'anima immortale.

«Colui che crea i mondi con una parola ci userà misericordia. Si degnerà salvarci per amore di Isacco.

«Abbi pietà di noi, o Signore, ci risparmia nei figli nostri, perchè sei padre di clemenza e di misericordia.

«Tu sei giusto, o mio Dio, tu che fai morire e che richiami alla vita; tu tieni nelle tue mani le anime di tutte le creature umane, e non vuoi abbandonarle nel seno del nulla».

Quando il feretro fu calato nella fossa, Davide scoppiò in singhiozzi.

—Non è per lui che piango!—rispose a Luisa, che mormorava parole di consolazione,—ma per mia madre, mia madre! Siamo dunque al tempo in cui sono sovvertiti gli ordini della natura, e le madri devono piangere i morti figliuoli!

Intanto il rabbino dava l'assoluzione dei peccati alla salma già calata giù nel fosso, e Davide e gli astanti buttarono giù manciate di terra e di neve. Oh, come risuonavano tristi quei colpi!

«E la terra ritorni alla terra, com'era in origine, e lo spirito ritorni a Dio, che lo diede».

E poi ritornarono tutti nella cappelletta bianca, dove il rabbino disse l'Ascava, la preghiera di pace; e il Kadisch, secondo il rito tedesco. Così furono compiute tutte le formalità del culto, e Davide uscì racconsolato dal cimitero, parendogli che i genitori e il nonno dovessero trovare qualche conforto in quella stretta osservanza del rito religioso. Prima di ritornare all'ospedale, egli distribuì denaro a quei miseri ebrei, e promise loro di occuparsi ancora dei loro bisogni.

La voce della presenza di un benefico signore straniero, ma della loro religione, si sparse rapidamente tra quei poveri ebrei di Maslowa, randagi per le campagne, fuggenti davanti alla guerra, che era per loro ugualmente nefasta, sia che vincessero i russi o gli austro-tedeschi. Ben presto alcuni ritornarono alle case loro; alcuni tentarono di riattarle, altri si stabilirono nelle parti di esse che le bombe avevano risparmiato; una sembianza di vita ritornò nella povera città; i fuochi si riaccesero, qualche timida industria risorse, a riparare alle prime necessità della vita.

Davide si dava a quest'opera con tutta l'anima; ma il tempo che gli lasciavano le sue funzioni all'ospedale era assai scarso. Il povero Paulewski morì, senza neppure riprendere i sensi. Dei suoi amici di Innsbruk già erano morti tre, Paulewski, Kuhner e il croato Ciaich… Quanti bei sogni distrutti! come presto agli aquilotti erano state tarpate le ali! Ma che valore aveva oramai una vita umana? L'ospedale rigurgitava di feriti, e ogni giorno ne arrivavano dagli ospedali da campo e dalle ambulanze. Lui, col dottor Galli e con Luisa, facevano veramente miracoli; ma l'opera della carità non riusciva a riparare nemmeno una minima 'parte dei mali infiniti, che la guerra creava d'intorno. E che cos'era mai una vita salvata su cento, su mille, distrutte? E spesse volte che riuscivano a salvare? Un tronco d'uomo, un mutilato, uno che aveva perduto la ragione e gli occhi nell'orrore di una mischia mostruosa, fra l'orrendo fragore delle granate. Egli aveva avuto anzi una seria discussione un giorno col suo amico Alvise, allorchè questi riuscì a guarire un infelice giovane di venticinque anni, al quale la mitraglia aveva asportato le due gambe e un braccio…

—Perchè lo guarisci? lascialo morire!—diceva Davide, —tu commetti un delitto verso una creatura umana! Quello sventurato ti maledirà, non appena comprenda in quale stato tu gli hai permesso di vivere!

Alvise Galli rispondeva che egli non poteva fare quelle considerazioni.

—Il mio mestiere è di conservare la vita, più che mi è possibile; sono forse io che l'ho ridotto così? E se anche avessi io stesso dovuto amputargli le membra, per salvargli la vita, lo avrei fatto.

—Tu? Ah, io ti credevo un galantuomo! Ma tu sei un assassino!

—E tu un fanatico, un pazzo!…

Era la prima volta che i due amici si scambiavano così gravi parole. Luisa stentò assai a rappacificarli. Ma la lorò collera non era dell'uno contro l'altro; era solo lo sfogo della disperazione che gonfiava i loro cuori, di fronte alle immense insanabili miserie.

Oltre il peso di quei mille dolori di mille carni straziate e moribonde, Davide s'era pur assunto quello particolare della sofferenza dei suoi correligionarii. Quei poveri ebrei, riconosciuto in lui uno dei loro, e così pietoso, non cessavano di far appello alla sua carità multiforme. Vecchi e donne avevano bisogno di raccontargli le loro sventure prolissamente, per essere compatiti, compresi da una persona come lui; una persona che aveva una carica importante. Egli non aveva il coraggio di tagliar corto, sapendo che anche di parole è fatta la pietà. Gli narravano dunque tutto ciò che avevano particolarmente sofferto, essi, non solo come galliziani ma come ebrei.

Tasse, taglie, requisizioni d'ogni genere, gli austriaci e i russi le avevano applicate su di loro dieci volte più che sui cattolici. Erano ebrei, dovevano essere ricchi. Invece la popolazione vi è generalmente miserabile; pochi sono gli agiati, e a dire il vero questi pochi si erano dissanguati durante la guerra, non solo per il pauperismo comune, ma anche per sovvenire generosamente ai bisogni dei più miserabili. Quando gli ordini scritti e verbali non producevano affetto, i poliziotti, i gendarmi e soldati passavano alle battiture e persino alla tortura! Che cosa non avevano fatto i russi per estorcere denaro agli ebrei! Cose incredibili a raccontarsi! Avevano fucilato donne e fanciulli; sì, bambini innocenti sotto gli occhi delle madri! ne avevano buttati nel fiume, li avevano straziati in prigione, avevano cacciato fuori del villaggio, nella neve, nella notte, famiglie intere, i cui uomini validi erano in guerra! Le rendevano responsabili della condizione di nemici, che i poveretti avevano assunto quando erano stati arruolati. E poi avevano fatto il possibile per distruggere la miseranda città. Gli austriaci, con meno ferocia, non erano stati meno inesorabili.

L'accusa più mite che si faceva agli ebrei rimasti era quella di spie. Spie dei russi per gli austriaci, e viceversa. Quanti di loro erano stati buttati in carcere, e poi trascinati via, condotti nessuno sapeva dove!

E Davide a prendere informazioni qua e là, anche per mezzo di suo fratello; a scrivere per l'uno o per l'altro, che non conosceva abbastanza il tedesco, a fare istanze e suppliche… e sempre, sempre a attingere alla propria borsa, per offrire un sollievo anche momentaneo ai disgraziati.

Non aveva più veduto suo fratello Giosuè.

Quando il povero Tobia era morto, il fratello maggiore ne aveva provato una tristezza profonda, ma non si mosse da Lemberg, che era per lui come una specie di quartier generale. Egli scriveva a Davide:

«Qui imperversano colèra, tifo, polmonite infettiva, meningite… Tutti i demòni scatenati dalla guerra. Per ora non verrò costì, non solo perchè qui l'opera mia è indispensabile, ma anche perchè temerei di portarvi con la mia persona il contagio. Sto provando, con discreto successo, un siero anticoleroso da me scoperto. Tuttavia, la mortalità è grandissima».

Anche nel piccolo ospedale di Maslowa si moriva, assai più di quello che si guarisse, nonostante l'indicibile abnegazione degli infermieri, ai quali Luisa e Davide erano esempio, e lo zelo dei due medici, che erano alla dipendenza del dottor Galli. Ma gli squarci degli shrapnels erano così orribili, che le ferite cavernose non si saldavano quasi mai. I moltissimi feriti alla testa da scheggie di granate, o impazzivano, o restavano ciechi, se pure non morivano. I casi di tetano erano molto frequenti, non meno che le polmoniti; così l'ospedale si andava lugubremente spopolando, perchè, essendo la guerra ora portata più verso oriente, a Maslowa era raro che arrivassero nuovi feriti.

Già Davide pensava di lasciare sul posto Luisa come capoinfermiera, e di recarsi a Lemberg, per ricevervi nuovi ordini, quando un nuovo avvenimento lo costrinse a rimanere là, dove il bisogno si rifaceva urgente.

La popolazione di Maslova era tornata in parte, fatta eccezione cioè dei molti morti durante i vari bombardamenti, dei militari arruolati, dei dispersi. Le case si andavano poco per volta riattando, qualche bottega era nuovamente aperta, e in tutti gli animi, anche i più duramente provati, si veniva risvegliando la lusingatrice così cara agli sventurati, la speranza. Benchè gli ebrei vi fossero in maggioranza, Luisa aveva, in occasione del Natale, preparato una festiccuola per i bimbi. Erano tanti! e tanti orfani e poveri! Furono anzi alcuni ebrei, cui la guerra non aveva interamente rovinati, coloro che aiutarono l'infermiera cristiana a preparare doni per i piccoli reietti; e intorno all'albero lucente di lumi si raccolsero la sera di Natale molte donne ebree, le une per dare, le altre per ricevere…

La dolce festa cristiana stringeva insieme tutte quelle creature umane, che credevano o speravano ugualmente in un Redentore, e che tutte erano in qualche maniera infelici; era come un'oasi di amore in quell'immenso deserto di neve, attraversato solo da lupi affamati o da carriaggi di guerra… Cristiani e ebrei si sedettero intorno al medesimo ceppo, e si guardarono con reciproca pietà. Si stringevano le mani, e gli ebrei dicevano: Massel tove! massel tove! e i cristiani rispondevano al buon augurio: Dio sia lodato! Dio ci dia pace!

Pochi giorni dopo un caso sospetto di colèra si manifestò in una famiglia ebrea. Il colpito morì, e tutti gli altri nella stessa casa ammalarono. Morirono quasi tutti.

Il pànico fu enorme. Quella gente che per tre volte era stata cannoneggiata furiosamente, che aveva veduto le case crollare sopra di loro, e centinaia e centinaia di persone abbattute in un momento, si sentiva invadere dalla disperazione al pensiero della epidemia.

Non che lo dicessero, quel nome terribile non doveva essere pronunciato; ma lo spavento gravava come una pietra tutti i cuori. I pochissimi che venivano dai villaggi vicini portavano notizie paurose. A Ostroviza un uomo era caduto morto improvvisamente nel mezzo della strada. A Ruscoè erano arrivati medici da Lemberg; a Nitzoi le vie erano barricate… contro il colèra, s'intende. A Maslova si bruciavano grandi mazzi di erbe secche nelle case; tutta la piccola città odorava di camomilla e di ruta. Immediatamente cessò ogni commercio; un lugubre silenzio discese nelle strade deserte. Solo il tempio era costantemente frequentato, e nel Bed-hamidrasch si vedevano ancora a notte alta i lumi accesi, a rischiarare la pia veglia di qualche zelante talmudista, di qualche hirassim (fedele perfetto, santo), chino sulle meravigliose pagine della Thora.

Ogni giorno, da qualche casa, uscivano lunghi involti misteriosi, che si portavano frettolosamente al cimitero, dove il rabbino pronunciava solo le più brevi preghiere rituali, davanti a un piccolo numero dei più stretti parenti. E la casa si chiudeva nel suo lutto, non si vedeva nessuno più entrarvi o uscirne, come se fosse disabitata, se non fosse chi si udivano urli di donne e lamentoso pregare di vecchi dietro le imposte chiuse.

I medici dell'ospedale avevano un gran daffare a correre da una casa all'altra; i malati più gravi venivano portati in un reparto dove si era fatto una specie di lazzaretto. Ma il peggio era che la popolazione dissimulava più che poteva i casi; non chiamava i medici, non voleva arrendersi alla parola colèra. Tutto era: dissenteria, febbri infettive, morbo nero (tifo) persino! ma non còlera. Nessuno aveva il colèra a Maslova. Il colèra, per quella povera gente, non significava soltanto la morte. L'avevano guardata in faccia tante volte, la morte! Ma significava disinfezione, quarantena, autopsia, cose orribili, cose odiose a ogni buon israelita. V'era poi anche una diffidenza non confessata se non nella massima intimità; la diffidenza verso i medici dell'ospedale. Perchè, infine, come viene, la malattia? Dio la manda! Sì, ma sono gli uomini che la portano. E' come la guerra. Sono gli uomini che la fanno; è chiaro. Quei medici dell'ospedale avevano messo sotterra quasi tutti i loro malati e feriti; ora forse il governo aveva dato loro ordine di procurarsene degli altri. Il governo sapeva che a Maslova non erano rimasti più che pochi abitanti, quasi tutti ebrei, vecchi, donne, bimbi. Che ne avrebbe voluto fare di loro? Era meglio distruggerli. E aveva forse incaricato i medici di diffondere la malattia. Che cosa sarebbe importato a quei tre medici cristiani di ammazzare un mucchio di ebrei?

Eran parole susurrate che neanche l'aria non le sentiva. E qualcuno dei più vecchi, di quelli che avevano visto un po' di mondo fuori di Maslova, rimproveravano chi le diceva; erano sciocchezze, superstizioni degni di gente ignorante. Ma tant'è, si credeva pittosto al male che alle buone intenzioni; e a tutti pareva una sventura la visita di uno dei tre medici.

Sventuratamente l'epidemia aveva carattere gravissimo. Rarissimi si salvavano, e siccome nascondevano i casi, fintanto che il malato non fosse proprio moribondo, e appena allora ne veniva qualche notizia alle autorità, i medici arrivavano sempre troppo tardi.

—Vedete,—dicevano tra loro i vicini,—non ne guariscono uno.

—Guarire? Ma se Jonah è stato malato un giorno solo! Se qualcuno non avesse fatto la spia e il medico non fosse venuto, certo egli guariva. Appena ebbe fatta una visita, ecco, era finita; il malato entrò in agonìa.

—Sia lodato il Giudice giusto! Ma certamente questi medici cristiani non valgono nulla per noi ebrei.

Qualcuno propose di andare a parlare cautamente a Davide Levi. Sapevano che era uno dei loro, e si mostrava tanto buono e pietoso! Si sarebbero raccomandati a lui. Egli non li avrebbe traditi.

Fu incaricato della missione il vecchio rabbino, che si presentò a Davide, in compagnia di due altri ebrei anziani. Il rabbino espose le paure dei poveri abitanti loro correligionari. Davide si stupì di quello stato di superstizione e di ignoranza. Come! credevano al malaugurio, al veleno occultamente propinato, agli untori forse, come tre secoli fa! E una pietà più profonda lo prese per quella misera turba che, minacciata dalla morte, rifiutava l'aiuto nel quale subodorava un tranello!

Parlò loro a lungo, con grande benevolenza; ma, siccome stentava a esprimersi nel loro dialetto, e era costretto a servirsi del tedesco, molte cose da lui dette non furono capite. Ascoltarono con umiltà, poi riferirono agli altri. Il signore aveva detto che bisognava sottomettersi all'autorità, obbedire ai medici, e non nascondere la malattia; aveva detto che il contagio esisteva nelle robe adoperate dai malati, e non nelle medicine dei medici. Il discorso fu ascoltato con incredulità. Già, quel signore forestiero, se pur era israelita, non apparteneva a loro; non frequentava il tempio, non era mai stato visto invitare nessuno per dire insieme le preghiere: era insomma un posseh Israel (cattivo israelita). No, no; erano tutti d'accordo per sbarazzarsi di loro, per farli morire…

Ma morivano anche i cristiani! E Davide, che era rimasto assai sorpreso della diffidenza dei suoi correligionarii, si accorse subito che anche nelle famiglia cristiane esistevano gli stessi pregiudizii sul morbo, lo stesso sospetto contro i medici.

—Dunque,—concluse sospirando, dopo averne parlato con Luisa,—l'ignoranza è la causa comune di tutti questi e molti altri errori. Il popolo, qui specialmente, ebreo e cristiano che sia, è sempre trattato con disprezzo, come se fosse d'un'altra razza. Esso non trova amore e pietà sincera nelle classi superiori e colte; crede che i proletari sono in troppi, che lo Stato abbia interesse a sbarazzarsene. Ho udito io uno dire ieri—e era un uomo canuto, dall'aspetto intelligente!—dire: Il governo fa la guerra perchè i giovani del popolo sono molti; il governo ha paura che essi facciano la rivoluzione per avere la loro parte di ricchezza dello Stato. Li manda a farsi ammazzare, così quelli che restano saranno o poveri mutilati, o donne e bambini. E poi ci sarà di nuovo un poco di pace, finchè crescano questi bambini; quando essi pure saranno grandi, si manderanno ancora a farsi ammazzare…

Alvise Galli s'era avviciato, e aggiunse:

—Il ragionamento che fa il popolo non è poi completamente assurdo. E' certo che lo Stato vuole avere molti uomini… non per governarli come avrebbe fatto Platone nella sua repubblica, ma per servirsene come mezzo di difesa e più anche di offesa. Difatti noi vedremo, finita appena la guerra, gli statisti e gli economisti escogitare leggi e rimedi per facilitare i matrimoni, e allettare le coppie a divenire feconde. Dopo avere distrutto gli uomini migliori, ora lo Stato studierà il modo per farne nascere altri in gran numero.

—E crescerli per lanciarli un giorno nuovamente alla strage!—disse con violenza Luisa.—Ah, no! Io penso che le donne non dovrebbero più mettere al mondo dei figliuoli; meglio che l'umanità perisca per estinzione piuttosto che per i macelli. Quanto a me, lo giuro, non prenderò mai marito, per non farmi complice di simile delitto!

I due uomini l'ascoltavano in silenzio, guardandola profondamente. Poi i loro occhi s'incontrarono, e fu un istante nel quale ciascuno parve dire all'altro: Tu l'ami.

In quell'istante si udì il rumore ronzante di un'automobile in arrivo, e ne scese il dottor Giosuè. I due fratelli si abbracciarono teneramente, poi il dottore baciò anche Luisa.

—Mia buona, brava sorellina!—le disse. Ella scoppiò in lagrime.

—Perchè? che è stato?—domandò Giosuè.

—E' la reazione,—spiegò Davide,—la povera Gigetta è tutta sconvolta dei tristi spettacoli a cui da troppo tempo assiste.

—Sì,—disse Giosuè,—anche nervi più solidi di quelli di una donna non resisterebbero. Lei dovrebbe chiedermi un congedo, Gigetta.

—No, rispose ella,—è passato. Resterò al mio posto. Ma anche lei, dottore, mi pare stanco.

Era infatti mutato. La sua testa era già tutta grigia, e molte rughe segnavano il suo viso fatto bruno dal continuo contatto col sole e con l'aria libera. Era invecchiato; solo gli occhi conservavano la loro espressione arguta e serena.

Egli incominciò subito a prodigare l'opera sua nel lazzaretto, e anche nelle case dei privati, quando v'era urgenza. Tentava anche di far penetrare la fiducia nella misera popolazione, che andava giornalmente diminuendo.

—Sono ebreo anch'io—diceva nelle case israelite,— abbiate fede nel dottore, e guarirete.

Ma pareva che nessuna forza umana potesse far argine allo spaventoso dilagare del colèra. Oramai non c'era più casa che ne fosse immune, e passando per le strade si udivano gli ululati delle donne superstiti, i pianti monotoni dei bambini, implorazioni, preghiere; e a ogni angolo c'erano grandi fuochi di ramaglie e fascine, con cui la gente sperava di scacciare il morbo dall'aria. Morì il vecchio rabbino, morirono molti fra infermieri e infermiere, non si trovavano più nemmeno seppellitori per i cadaveri. Quelli che potevano, fuggivano; la miserabile città tornò a essere solitaria come lo era stata dopo il bombardamento.

E intanto giungevano notizie terribili dai luoghi dove imperversava la guerra; essa era spinta ora verso oriente, nei campi sterminati della Russia; e tanto grande era il numero dei feriti che, dai posti lontani dei combattimenti, rifluivano sino alla Gallizia le lunghe dolorose carovane, e a Maslova si seppe che un nuovo ospedale da campo era stato istituito a non grande distanza dalla città. Due giorni dopo il dottor Giosuè ricevette l'ordine di recarvisi, e di condurre con sè il maggior numero possibile di infermieri. Egli telegrafò che, trovandosi in luogo infetto, non voleva portare il morbo nel nuovo ospedale; ma gli fu risposto che ogni luogo era ugualmente infetto; la sua presenza era indispensabile, e prendesse lui le precauzioni che credeva.

Il dottore si rassegnò a ubbidire. Disse a Davide di prendere seco alcuni infermieri e di andare con lui, dopo una disinfezione la più accurata possibile in quelle circostanze. Davide si recò da Luisa, per domandarle se ella voleva seguirlo. La trovò svenuta, buttata attraverso il letticciuolo; uno sguardo gli bastò per comprendere che ella aveva il colèra.

La festa di Purim era sempre stata una delle più belle, delle più gradite, in casa Levi, come lo è generalmente nelle famiglie ebree. Cara dolce festa! Come era gioconda tutta quella raunata di amici e congiunti, la sera, al banchetto tradizionale, e lo scambio cortese di doni, in cui non si sapeva se fosse più gradita cosa ricevere o dare! E le generose oblazioni a tutti i poveri! Non solo a quelli inscritti ufficialmente alla comunità, ma ancora a tutti coloro che venivano nella giornata a picchiare alla porta! Anzi, i Levi avevano sempre avuto la consuetudine di beneficare in quella occasione non solo gli ebrei, ma anche i cristiani, chiunque domandasse un obolo. E i ragazzi si facevano riempire le tasche di soldi e heller (centesimi), felici di porli in ogni mano tesa verso di loro.

Ma quel giorno e quell'anno! Proprio la vigilia di Purim, il 28 marzo, era nato il sesto figlio di Rachele. Era stato un parto difficilissimo. Il dolore per l'assenza di Mieko, e le scarse notizie che di lui riceveva, avevano limato la fibra della giovane donna, già scossa dai molti parti e allattamenti; la morte di Tobia, comunicata alla famiglia a metà di gennaio, le era stato un colpo dolorosissimo. Si erano sempre voluti così bene! Erano stati così uniti, fratelli e sorelle! E ora il povero Tobia non sarebbe più ritornato alla sua casa! Era un così buon ragazzo! non aveva mai fatto nulla di male. E allora? Le avevano insegnato a credere nella giustizia divina… ma dov'era dunque questa giustizia? Perchè il nonno, quando aveva saputo la crudele notizia, aveva esclamato ancora: Sia lodato il giudice giusto? Ah, questa le era parsa un'ironia! Ma la madre aveva urlato, come una belva ferita; la madre aveva ragione, perchè non si era rassegnata…

Il bimbo di Rachele era magro, grinzoso, peloso, come un colombino spiumato. Quando lo portarono a baciare alla madre, ella sospirò:

—Povero piccolo! non vivrà… suo padre non lo vedrà… —E volle che fosse chiamato Mieko.

Tuttavia, la venuta di quel piccolo essere non fu senza effetto sui cuori desolati. La stessa signora Sara, che non poteva riaversi del terribile colpo, e che aveva fino allora mostrato una cupa indifferenza per ogni cosa, uscì dal suo sogno angoscioso, quando udì i primi vagiti del piccolo Mieko. Abbondanti lagrime caddero dai suoi occhi sul visuccio rugoso decrepito del neonato; erano le prime che versava dopo la sua sventura.

Così la sera di Purim il vecchio Samuele potè raccogliere ancora intorno a sè quello che gli restava della sua famiglia: le donne, i bambini di Rachele, Adamo e Benedetto. Il vecchio maestro, che da qualche tempo si risentiva singolarmente della sua gamba sciancata e di altri malanni dati fuori con l'età, si era fatto molto taciturno e solitario; non usciva quasi mai, passava le giornate nella sua camera, a leggere e a prendere appunti, e non si rifiutava, quando il padre suo lo invitava, insieme al fratello Adamo, a formare con lui il mezoumen, la compagnia necessaria per dire la preghiera di grazie.

Samuele, dunque, sedette al posto d'onore, alla tavola, presso la stufa ben calda, si mise gli occhiali, che gli erano oramai divenuti indispensabili, collocò dinanzi a sè il Talmud, e, prima di aprirlo, gettò uno sguardo sopra ai suoi cari. I suoi due figliuoli, Adamo e Benedetto, apparivano vecchi molto, così curvi, accasciati sotto il peso del dolore; era più forte lui, il vegliardo, e a chi li avesse guardati sarebbe parso come il maggiore fratello anzichè il padre. Il suo viso esprimeva una serenità grave, che gli veniva dalla incrollabile fede nella giustizia divina. Fermò lo sguardo un momento sulle donne; così mutate in meno di un anno! Sara, la diletta nuora, tutta incanutita, col dolce viso segnato di solchi profondi; le due giovanette pallide come gigli nelle loro vesti da lutto… Gli occhi del vegliardo si velarono un momento di tristezza, ma poi, riposando sulle teste dei bimbi, ritornarono sereni. Cinque erano là! Il più piccolo in braccio alla nonna. E l'altro, il neonato, nella culla, accanto alla madre, nella stanza vicina… Rachele aveva voluto che ne lasciassero aperta la porta, per udire dal suo letto le parole del nonno e le preghiere.

Egli benedisse prima i bambini, poi gli altri, e aperse il libro di Ester. E il vecchio lesse in ebraico quella storia, che sembra tolta alle Mille e una notte, così ricca di fantasia orientale, voluttuosa e austera nello stesso tempo. E ne veniva riassumendo in italiano i passi che dovevano piacere di più ai bambini e alle donne, che di ebraico conoscevano solo le preghiere: le fastosità del convito di Assuero, il ripudio della regina Vasti, l'assunzione di Ester, la povera ebrea, al trono assiro…

Ognuno di loro l'aveva udita, da che erano nati, una volta all'anno, quella storia. Eppure, tanto era il fascino che ne emanava, che tutti quei cuori abbeverati di amarezza, non solo i bambini, la ascoltavano godendo. Persino il viso triste di Sara ebbe un'espressione più pacata; anche lei seguiva con curiosità i ben noti casi di Ester.

E poi veniva in ballo Mardocheo; quel furbo, sornione, previdente Mardocheo, che pur ebbe il coraggio di tenere testa al superbo Amanno.

«E Amanno vide che Mardocheo non si inchinava e non si prosternava punto dinanzi a lui, e il suo cuore si empì di collera. Allora pensò di sterminare in un giorno solo tutti gli ebrei che, dispersi dalla patria, dimoravano in Assiria, e tirò a sorte il mese e il giorno in cui doveva compiersi la strage. E la sorte cadde sul dodicesimo mese, che è il mese di Adar. Perciò questa festa ha il nome di Purim, che vuol dire delle sorti. (Da Pur, sorte)».

Con che pena ascoltarono allora la descrizione del dolore di Mardocheo, che, coperto di sacco e di cenere, uscì dalla città, gridando un grido forte e amaro! E poi l'angoscia di tutti gli ebrei, che, per stornare da loro lo sterminio, digiunarono, piansero, si lamentarono, e si coricarono sopra sacchi, nella cenere!

I piccoli stavano con la boccuccia aperta e il cuore palpitante. Che cosa accadrebbe ora? Il cattivo Amanno farà uccidere Mardocheo e tutti? No, Ester, la buona e bella regina li salverà. Ecco che ella si mette le sue vesti regali e va dinanzi al re Assuero… Egli le dice:

«Che hai tu, regina Ester? quale è la tua domanda? Fosse anche la metà del mio regno, tu lo avrai».

O pensate che domanda al re la regina Ester? Di venire, lui e il ministro Amanno, quel cattivo che sapete, a un festino che ella ha preparato! E non una volta sola, ma due volte ella invita il re e il superbo Amanno al suo festino, e quando il re è allegro, mentre beve il vino che ella gli ha propinato, e egli le ripete: Quale è dunque la tua domanda? Ecco, Ester rivela coraggiosamente le trame dell'iniquo Amanno, e il re lo fa appendere alla forca che era stata destinata a Mardocheo, e questi diviene primo ministro, e il popolo ebreo, già minacciato di distruzione, ebbe facoltà di vendicarsi dei proprii nemici; il che accadde il tredicesimo giorno del mese di Adar. Perciò Mardocheo ordinò che il quattordicesimo e il quindicesimo giorno di questo mese fossero considerati come festivi, e così è ancora ai giorni nostri…

Già la bella storia era finita, e i bambini socchiudevano gli occhietti, e qualche testina cominciava a ciondolare, quando squillò il campanello alla porta di casa, e Lia fu mandata a aprire. Poichè indugiava a ritornare, Sara disse che voleva andare a vedere lei; già era inquieta, e ogni minima novità bastava a farle palpitare il cuore. Ma Lia rientrava, con una lettera in mano.

—Ah,—gridò tosto la signora Sara,—una lettera del Ministero!… la riconosco…—e cadde sopra una sedia, già prossima a uno svenimento.

Adamo aveva già strappato la busta gialla di mano alla serva; aprì tremando, lesse, e un pallore mortale gli coprì il viso.

—Mieko…—mormorò.

—Mieko è morto?—gridò Sara. Il marito fece un cenno affermativo. In quell'istante si udì un altro grido, o piuttosto un gemito lugubre, che fece gelare a tutti le vene, e voltandosi tutti, inorriditi, videro sull'uscio della camera, dove ella prima giaceva, Rachele, in camicia, coi neri capelli sparsi sulle spalle, col viso più bianco dei suoi lini, e gli occhi sbarrati in uno spavento indicibile.

Riaprì ancora la bocca, mandò fuori un altro gemito più fioco, e cadde a terra, prima che sua madre potesse raccoglierla tra le sue braccia.

Quella notte stessa Rachele morì, senza avere mai ricuperato i sensi, e all'alba morì pure il suo neonato.

Per molti giorni parve che la sua povera madre fosse impazzita. Ella non parlava, non rispondeva a nessuno, come se non udisse. Rimaneva ritta in piedi, appoggiata allo stipite di una porta, e se la costringevano a sedere, a buttarsi sul letto, balzava su come una belva ferita, e i suoi occhi si iniettavano di sangue. Non schiudeva mai i denti, nè per bere nè per mangiare; una leggera schiuma le usciva continuamente dalle labbra. Nemmeno quando la bara, contenente il corpo della sua infelice figliuola e del neonato postole fra le braccia, fu portata via, la madre non si scosse, non parve capire. I bambini di Rachele erano stati portati via dalla buona signora Kohn, che dimorava nella medesima casa, e Bianca e Ester, piangendo continuamente, erano sempre intorno alla madre, a baciarla, a dirle le parole più tenere, che ella non udiva.

—Bisogna che ritorni Giosuè,—diceva lo zio Benedetto a suo fratello.—Solo lui potrà salvarla.

Lo sventurato Adamo, quasi inebetito anche lui per il succedersi di tante sventure, seduto in un angolo della stanza, teneva gli occhi fissi sopra sua moglie, e grosse lagrime cadevano incessantemente sopra la sua barba incolta. Egli non aveva più idee, non coraggio; sentiva il peso del destino sopra la sua misera esistenza, e si lasciava portar via dalla fiumana.

Il settimo giorno dopo la morte di Rachele, il vecchio nonno entrò nella stanza, dove erano suo figlio, sua nuora e le due nipoti. Era la prima volta che usciva dalla propria camera, dove lo udivano giorno e notte pregare. Le sue vecchie gambe erano più tremolanti di prima, anche le mani rugose tremavano forte, ma l'espressione del viso era sempre la stessa, anzi pareva che il suo sguardo avesse acquistato una luce nuova, come il riflesso di una profondità insondabile.

Guardò la donna, rigida statua del dolore, cui la follìa pareva già minacciare del suo dito adunco; il povero Adamo, annichilito, buttato come un cencio sulla sua sedia; le due fanciulle, che erano le ombre di loro stesse, e domandò con voce ferma:

—Dove sono i bambini?

Bianca glielo disse.

—E non avete pensato, che essi potevano salvarla?— disse il vecchio.—Mandate a prenderli.—Poi si accostò alla nuora e le pose una mano sul capo.

—Schemagn, Israel! l'Eterno è nostro Dio, l'Eterno è unico! Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Che il nome del Signore sia benedetto! Oh, misera misera creatura umana, che Dio ha voluto provare così duramente! Perchè non piangi? perchè non gridi? Anche Giobbe gridava e si lamentava; Dio permette che noi leviamo la voce verso di lui. Chiama con me i figliuoli che hai perduti: Tobia, Rachele, Mieko! dove siete? siete forse qui, e vostra madre non vi chiama per nome! Essi crederanno che tu li abbia dimenticati! Rachele! Tobia! dove sono? Tu che sei la loro madre, dimmi dove sono!

E per la prima volta, dopo sette giorni, la madre aprì la bocca e disse:

—Son morti.

Le risposero le figlie con un lungo ululato, e Adamo cominciò a singhiozzare. Allora gli occhi di Sara si posarono su di loro, e un barlume di coscienza parve brillare in essi.

—Sono morti! Sì, morti a questa vita terrena. Ma essi vivono e ti odono in ispirito. Che cosa dice Giobbe? Io so che il mio Redentore è vivente, e che in fine Egli si alzerà sulla terra, e che dopo questa pelle che si distrugge e fuori della mia carne io vedrò Dio. I tuoi figliuoli riposano ora nel seno di Abramo; essi vedono ora Dio faccia a faccia Ma non sono felici, nemmeno lassù. Mi ascolti, Sara? Non sono felici, perchè vedono il tuo dolore. Mi ascolti, Sara? Tu li fai soffrire, i tuoi figliuoli, nel seno stesso di Abramo!

L'infelicissima guardava come trasognata il suo suocero; poi i suoi denti cominciarono a battere come per febbre; il suo corpo tremava tutto, gettò un alto grido, e svenne.

Quando tornò in sè la prima cosa che la colpì furono pianti di bambini. Si rizzò e guardò intorno a sè inquieta. I figliuoli di Rachele circondavano il seggiolone dove era stata adagiata, e piangevano tutti, a vedere la nonna come morta. Ma lei stessa ruppe allora in un gran pianto, e chiamandoli a uno a uno per nome gemeva: oh, poveri orfanelli! Senza padre e senza madre!…

—Come!—esclamò con tono inspirato il vecchio,—li vuoi tu dunque abbandonare? Andrai contro le leggi divine e umane? Se Dio ha tolto i genitori a questi fanciulli, non sapeva Egli forse che rimaneva loro un'altra madre? E Adamo non sarà il loro padre? Or vedi dunque quale dovere Dio impone a voi due! Considera la sua bontà e la sua profonda saggezza! Il perchè delle sue azioni non possiamo scoprirlo noi, che siamo come vermi della terra. Ma come oseremmo dubitare che Egli non faccia bene tutto quello che fa? Siamo noi più accorti e sapienti di Lui? Nelle sue mani sta la vita e la morte. E la morte non è la fine di ogni vita terrena? Che essa venga un poco dopo o un poco prima, a ogni modo viene per tutti. Se il Signore ha stabilito che i tuoi figliuoli vadano prima di noi alla sua sede divina, perchè e di che ci lagneremmo? Egli solo sa perchè una cosa avviene piuttosto che un'altra. I nostri occhi miopi non vedono che il momento presente; invece dinanzi agli occhi del Signore sta il passato, il presente, l'avvenire.

Che cosa si poteva obbiettare a un ragionamento scaturito da una unica e incrollabile convinzione: l'esistenza di un Dio giusto? Persino il dolore della madre ne fu scosso, e Sara cominciò a sentire la sua sventura come effetto di una volontà arcana e suprema, che sa perchè vuole, e non può volere che il bene.

Da quel momento il suo dolore divenne più umano, e la sua ragione fu salva. Ella piangeva, sì, ma parlava anche. Nominava i suoi cari perduti, rammentava cento particolari del passato, si scioglieva in lamenti e sospiri. Ma aveva ripreso tutta la antica attività, e tutto il giorno sfaccendava per casa e intorno ai cinque poveri orfanelli, ai quali nulla doveva mancare.

Il suo esempio era salutare anche per Bianca. La povera fanciulla, col suo doloroso segreto nel cuore, era sempre stata come un'anima in pena, dopo la partenza di Pepi. Non aveva altro conforto che qualche breve lettera che, attraverso la Svizzera giungeva, fermo in posta, a Trieste. Per potere andare ogni giorno a farne ricerca, senza destare sospetti, aveva ottenuto dai suoi di inscriversi a un corso di infermiere israelite, che si destinavano più specialmente a curare i soldati ebrei, numerosissimi nell'esercito austro-ungarico. Bianca lo frequentava volentieri, accarezzando un suo scopo segreto; ma le serviva anche come pretesto quotidiano di uscita. Come tremava, entrando nell'ufficio postale, ora pieno di guardie, e di altri loschi individui che dovevano essere spie, e accostandosi al noto sportello, dove un ispido impiegato tedesco (gli italiani erano via da un pezzo! o al fronte russo, o morti, o passati in Italia), le chiedeva burbero quello che voleva!

Bianca doveva declinare il suo nome, cognome e indirizzo, e ogni volta daccapo, il che faceva arrossendo e tremando fortemente. Poi l'omaccio le domandava donde veniva e di chi era la lettera aspettata. Ella rispondeva: Da Zurigo, dal mio fidanzato, che è impiegato là, e si chiama Giacomo Wenzel. Avevano adottato questo nome, d'accordo con un onesto svizzero, il quale si incaricava di far passare così a Trieste la posta di parecchi disertori ora in Italia. Ma, naturalmente, la polizia aveva già aperta la lettera, la quale perciò non conteneva che poche parole, quasi sempre le stesse:

«Sto bene, ti voglio bene, lavoro. Spero di poter ritornare presto…».

Il che, senza nessuna altra indicazione, che avrebbe potuto essere pericolosa, significava: Mi preparo alla guerra; spero di venire a Trieste insieme all'esercito liberatore… Ma anche queste lettere così brevi erano rade, e Bianca si struggeva che egli le scrivesse più a lungo e più appassionatamente. Anche le lettere di lei passavano, naturalmente, a Zurigo, dopo essere state vistate dalla censura austriaca, e per quanto fosse pieno il suo cuore, nemmeno lei non osava dire tutto quello che avrebbe voluto. Così ella era diventata taciturna e cupa; come era cambiata, povera madamigella Capriccio! La morte del fratello e della sorella, e tutto quell'incalzarsi di formidabili avvenimenti avevano tratto il suo animo dalla funesta contempazione del proprio dolore, costringendolo a capirne in sè altri, ancora più spaventosi e profondi. E i cinque nipotini orfanelli, e la vista della madre che, trafitta dal più crudele degli spasimi, pure si riattaccava con tutte le sue forze alla vita, per non mancare verso i derelitti bambini, mossero il suo tenero entusiastico cuore a una immensa pietà, a una devozione appassionata. La giovinetta si sentì a un tratto viscere di madre, e il rimorso che gridava forte nella sua anima insonne, si placò un poco, calmato dal nuovo spirito di sacrificio che in lei sorgeva.

Da quando Pepi, Luisa, Davide erano partiti, le due famiglie, Levi e Furiani, si vedevano meno. La tristezza, abbattendo gli spiriti, li rendeva più alieni dalle reciproche espansioni, dai ritrovi amicali. La signora Catina si era data a una grande devozione, assecondata in ciò dalla sua vecchia madre, con la quale i rapporti erano divenuti assai più frequenti e intimi di prima. Il signor Luigi, come sperduto nella sua propria casa mancante dei due cari figliuoli (e egli non osava confessare a se stesso che la più cara e rimpianta era lei, la sua Gigetta!), non mostrava di interessarsi più a nulla, non se la prendeva nè con gli ebrei nè con i sciavi, e lasciava la suocera andare, stare e venire liberamente, anche quando le assenze di sua moglie si prolungavano troppo, e egli sapeva che le due donne erano nella chiesa di Sant'Antonio vecchio, a pregare e a confessarsi.

Quando c'erano notizie dei figliuoli lontani, le due famiglie vicine se le comunicavano subito; così fu quando, dopo alcune settimane di silenzio, giunse una lunga lettera di Davide, che portava nuove importanti anche di Luisa.

Il maestro Beuedetto scese dai Furiani nell'ora in cui il signor Luigi era ritornato dal suo ufficio.

—Ebbene, signor maestro, lei ha notizie? E buone, lo vedo dal suo viso!

—Sì, buone.

—Ah!—esclamò la siora Catina,—lo sapevo io! mi sono raccomandata a Sant'Antonio, e lui mi ha fatto la grazia!

Benedetto sorrise impercettibilmente.

—Davide dice dapprima che Gigetta è stata malata, molto malata.

—Malata!?

—Sì, ha avuto il colèra…

Quando le esclamazioni e i sospiri della signora Catina glielo permisero, il maestro lesse la parte della lettera che riguardava Luisa. Il morbo l'aveva assalita violentemente, ma infine era riuscito ai loro sforzi riuniti, di lui, di Alvise e di Giosuè, di salvarla. Giosuè era ritornato a Maslova, espressamente per curarla; le aveva fatto le iniezioni col suo siero; anzi, temendola perduta, si era arrischiato a adoperare una dose assai più forte. Ciò aveva provocato una crisi terribile, che l'aveva lasciata completamente priva di forze, ma salva.

—Per altri otto giorni almeno ella non potrà scrivere,— diceva la lettera,—ma ogni pericolo è scomparso. Io e Giosuè abbiamo dovuto raggiungere una nuova sede, dove l'opera nostra urgeva, ma Alvise è rimasto all'ospedale di Maslova, e nessuna cura umana le manca.

Avemmo con questa anche un'altra consolazione. Visto il risultato ottenuto con la nostra Luisa, Giosuè tentò le iniezioni raddoppiate di siero anche su altri colerosi degenti all'ospedale, e guarirono quasi tutti. Questo insperato successo indusse molti dei malati a lasciarsi iniettare il siero così modificato, e al momento che ti scrivo l'epidemia si può dire vinta a Maslova. E' vero che la strage era stata grande! Il morbo veramente era feroce; ma, fra le tante cause, c'era principalmente quella che, ebrei e cristiani, nella loro superstiziosa ignoranza, rifiutavano di farsi curare, e si ribellavano in modo assoluto alle iniezioni. Ora Alvise continua l'opera di Giosuè, e abbiamo conquistato la fiducia di quella miserabile popolazione. Peccato che sia tardi!».

La signora Catina non mancò di correre a cercare la mamma, e di recarsi con lei in chiesa a accendere un cero al santo per la insigne grazia ricevuta.

La chiesa di Sant'Antonio vecchio, a differenza della chiesa di Sant'Antonio nuovo, era una specie di rôcca della slovenità e del tedescume a Trieste. I preti erano generalmente gente del contado, o ex-seminaristi del Tirolo o di Vienna, fanatici e di corte vedute.

Il confessore della siora Marietta era appunto uno slavo della Carniola, uomo austero, intransigente, che non sapeva neppure parlare italiano. Quello che da poco si era scelta la signora Catina era un tedesco di Klosterneuburg, colto, ancor giovane, dolce di modi e di parole, ma tenace e suadente ancora più. L'animo della signora Catina non aveva pieghe per lui; e, attraverso le molteplici confessioni della buona donna, don Filippo conosceva tutti i suoi congiunti e amici, meglio assai di quello che li conoscesse lei.

Del signor Luigi, il marito, poco si interessava, ma l'attenzione del prete si era fermata sopra Pepi e Luisa. Quest'ultima specialmente gli pareva degna di nota. Comprese quella fantasia alata e ardente, quell'ingegno vivace, quella volontà entusiastica, e pensò che era peccato lasciarla all'ebreo Davide, il quale era piuttosto ateo ancora che ebreo. Don Filippo pensava, come del resto lo credeva anche la signora Catina, che Luisa avesse seguito Davide per amore, e rimproverava la madre di avere permesso una passione così peccaminosa.

Di due cose aveva specialmente paura don Filippo, e le aveva egualmente in abbominazione: gli ebrei e gli irredentisti, cioè i nemici della religione e dello Stato. E nella casa della sua penitente, egli trovava annidato l'uno e l'altro elemento. Quando seppe da lei che Luisa era stata salvata dal dottore ebreo, e curata con tanto amore da Davide, se ne scandolezzò profondamente.

—Hanno salvato il suo corpo,—disse,—ma l'anima? l'anima? Essa è condannata, figlia mia, se non si redime da una colpa doppiamente grave.

E con voce blanda continuò a chiederle i particolari che più lo interessavano intorno a quella famiglia ebrea, e alle loro reciproche relazioni.

La tragedia di casa Levi non era che una minima singola scena della più grande e terribile, che si andava svolgendo nell'intera città di Trieste.

Quando fu passato il primo periodo di commozione, varia, ma in tutti possente, provocata dalla partenza delle truppe, la città aveva ripreso l'apparenza normale della sua solita vita esteriore. Ma assai presto si era fatto sentire il disagio economico, il quale acuiva il disagio morale e sentimentale del sapere lontane e in pericolo tante persone care.

Le officine, già palpitanti di vita industriale, erano parte mute, parte sfollate di operai; il porto, il grande cuore di Trieste, donde veniva alla città il suo sangue vitale, presentava un triste quadro di desolazione. Dove erano le navi che già lo affollavano, le belle navi, che ostentavano allegramente le fraterne bandiere di tutti i paesi del mondo? L'immensa distesa azzurra pareva un triste deserto; e gli occhi dei rari passeggiatori si spingevano avidi e ansiosi al di là, su quell'altra riva, dove tanti giovinetti erano approdati, pieni di speranza e di spirito di sacrificio. E da quella riva non giungevano che assai scarse notizie. Tutti i giornali erano stati soppressi, di quelli che una volta giungevano di Francia, di Inghilterra, d'Italia. Perciò le notizie erano di un'unica fonte; quella che la stampa austro-tedesca versava tendenziosamente a creare nella città un'atmosfera austrofila, continuamente alimentata da un nuvolo di giornalucoli cittadini, d'occasione, venuti al mondo solo per celebrare le vittorie dei due Imperi, e prospettare una visione falsa della realtà.

Così l'anima della popolazione cadeva ora in uno stato di prostrazione apatica e dolorosa, ora si tendeva in una trepidazione acuta, spasmodica, febbrile; si aveva l'impressione di trovarsi in mezzo alle tenebre, minacciati da un pericolo oscuro e terribile. V'erano però dei luoghi dove si poteva leggere qualche giornale giunto clandestinamente d'Italia. Una copia di essi si pagava due, tre corone; ma era estremamente difficile procurarsela, e, più ancora, pericoloso. La polizia diveniva ogni giorno più sospettosa, e il numero delle spie era stragrande. Gli arresti e le perquisizioni avevano luogo al minimo pretesto. Le carceri del Castello erano piene zeppe; i condannati venivano mandati a Lubiana e a Gratz. Si susurrava paurosamente di fucilazioni e impiccagioni, che l'eccitata fantasia popolare o inventava o esagerava; e tutto ciò accresceva l'orrore, l'angoscia. Le donne erano, naturalmente, le più spaventate. A ogni tocco di campana, a San Giusto, credevano si trattasse di qualche esecuzione capitale avvenuta nel castello, e si affrettavano a raccomandare l'anima del disgraziato. Alcune affermavano di avere udito, la notte, colpi di fucile e grida di dolore…

Quando cominciarono a affluire nella città i feriti, tornati dalla fronte russa, crebbe a dismisura l'agitazione universale. Era spettacolo nuovo, a Trieste, almeno per le generazioni viventi, la vista di tutto quel carname umano sanguinolento e macellato. Il ribrezzo e la pietà inondavano i cuori. Le donne che si erano preparate all'ufficio di infermiera, corsero negli ospedali a prestare l'opera loro, ma portavano nelle proprie case l'eco di quei gemiti, di quegli strazii, di quei racconti orribili… Un fremito di compasione correva, serpeggiava da cuore a cuore, e creava, pur tra estranei e sconosciuti, un vincolo nuovo di simpatia cementata nel pianto.

La sorte del 97° reggimento di fanteria, composto quasi tutto di italiani, e che era già stato di stanza a Trieste, toccò più dolorosamente i cuori. Esso era stato mandato in prima linea, sotto il fuoco micidiale dei russi, attraverso fitte boscaglie e terreni paludosi. I soldati erano rimasti per parecchi giorni con l'acqua sino ai ginocchi, esposti ai proiettili nemici, che li falciavano a schiere. Moltissimi erano stati i morti, non solo sul campo di battaglia, ma anche negli ospedali, di colèra o polmonite.

La carità cittadina sferzata dal dolore, si faceva sempre più attiva; ma le miserie crescevano, e erano di ogni maniera. L'inverno aveva portato il freddo e la fame; il popolo, privo delle braccia più valide, disoccupato forzatamente, soffriva ogni privazione. La storia della operosità benefattrice a Trieste, durante il periodo della guerra, meriterebbe di essere scritta partitamente, intera, perchè sarebbe un monumento insigne alla Pietà umana, da contrapporsi al maledetto segno della ferocia e della distruzione.

Gli ebrei di Trieste, tutti, sia collettivamente, come comunità, sia individualmente, vi scrissero alcune delle pagine più belle. Dico gli ebrei di Trieste, ma potrei affermare che gli ebrei di tutto il mondo, a qualunque nazione appartenessero, offrirono di se stessi tutto: sangue e denaro, opera illuminata di assistenza di pietà. Dall'America e dagli altri Stati neutrali affluivano soccorsi cospicui in ogni luogo dove si pativa; soccorsi destinati, sì, in parte, a lenire le miserie dei correligionari, ma anche quelle degli altri compatrioti, a qualunque religione appartenessero. Gli ebrei del Belgio della Francia, gli ebrei della Russia, non meno che quelli della Germania e dell'Austria, mostrarono di saper combattere, di saper morire, non meno che di saper dare, incessantemente, senza contare, primi sempre e sempre più generosi nelle offerte.

A Trieste, il vecchio barone Rosenwald, energicamente aiutato dal rabbino Castiglioni, si era messo alla testa di un comitato di beneficenza, al quale aderirono le più cospicue personalità della finanza israelitica. Così furono fondate numerose cucine economiche, dove il popolo poteva sfamarsi con pochi centesimi, e anche gratuitamente. Una di queste cucine era destinata esclusivamente agli ebrei poveri, i quali volessero mangiare secondo il rito (còscer); le altre erano aperte a chiunque. Molte signore, ebree e cristiane, servivano da cuoche e da cameriere in quelle cucine; e per non umiliare quei loro poveri clienti, erano coperte ciascuna di un modesto grembiule a quadretti grigi, e nessuna portava gioielli.

Quando gli ospedali cominciarono a affollarsi di feriti e malati, le signore ebree, che si erano preparate all'ufficio di infermiere, ottennero di potere curare i soldati correligionarii, raccolti in un padiglione a parte. Qualcuno fra gli stessi israeliti mosse al rabbino qualche osservazione sulla opportunità di questa destinazione, e egli spiegò loro la cosa in tal modo:

—Le signore dell'aristocrazia tedesca, inscritte Croce rossa, non mostrarono piacere di avere nelle loro file le infermiere ebree. Si doveva dunque rinunciare a tutte queste buone energie, disposte a prodigarsi a tutti quelli che soffrono, senza domandare loro a quale confessione appartengano? Eppure, le suore degli ospedali, e in genere lo spirito piuttosto clericale che cristiano, il quale informa in Austria le opere di pubblica carità, mettevano una barriera a ogni intromissione di elementi israelitici. D'altronde noi sapevamo che moltissimi sono i soldati ebrei combattenti sulla fronte russa, e in genere sono galliziani, polacchi, ungheresi e transilvani, cioè gente povera, e quasi sprovvista di altra coltura che non sia quella religiosa. I feriti portati così lontano dal loro paese, in mezzo a gente sconosciuta, troveranno certamente maggior sollievo, se intenderanno di essere in mano a gente che ha con loro comune il vincolo religioso. E' per questa medesima ragione che si sono creati ospedali ebraici anche in Alsazia e in Gallizia, ch'io sappia, e forse altrove; necessarii specialmente là, dove gli ebrei affluiscono, profughi dall'Armenia e dalla Terra santa; perchè le persecuzioni dei turchi contro di essi sono ricominciate con la guerra, e molte colonie sionistiche già han dovuto fuggire, abbandonando le case, i campi del lavoro così faticosamente conquistati… e la maggior parte di questi misori giungono in Austria o in Russia non solo sprovvisti di tutto, ma malati per i disagi e i maltrattamenti, e bisogna creare per loro appositi lazzaretti, dove scontano qualche giorno di quarantena, per precauzione. E se non fossero i loro correligionari che provvedono a questo, chi si prenderebbe cura di quei miserabili? Li lascerebbero andare come cani famelici e rognosi, portando in giro le pestilenze, pericolo continuo per loro e per gli altri… Vedete dunque che, se si fa una distinzione fra la carità ebraica e la cristiana, non siamo noi che la vogliamo, ma è la forza delle cose; è la violenza del pregiudizio, che ancora oggi è vivo e ostile contro di noi, come nei secoli passati.

Col cessare dell'inverno, non diminuirono punto i mali della travagliata città; si resero anzi più acuti. Serpeggiavano voci contraddittorie sul contegno dell'Italia nel conflitto europeo. Gli austriaci e gli austriacanti diffondevano per mezzo dei loro giornali e in ogni maniera possibile la notizie, che l'alleata non sarebbe uscita dalla neutralita, o sarebbe scesa in campo con gli imperi centrali. Il partito irredentista invece, per quanto scemato di forze e di numero, perchè oramai tutto l'elemento giovanile maschile era assente, riscaldava continuamente le speranze di un intervento italiano a fianco della Intesa; di una guerra contro l'Austria, al solo scopo di prenderle Trento, Trieste, e tutte le antiche terre italiche, giù giù, fino all'ultimo lembo della Dalmazia. Queste speranze e questi timori rinfocolavano antichi odii e sospetti; la polizia, sempre più alacre, dava la caccia a ogni italianizzante; e catturava ogni giorno individui designati come pericolosi per la monarchia. I cittadini vivevano sotto un incubo penoso; l'uno guardava l'altro con sospetto; se due andavano insieme per via, evitavano di parlare forte; nei caffè e nelle birrerie nessuno più discuteva; ma i fanatici austriacanti alzavano la voce con tono di trionfo e di sfida, esaltando le vittorie austro-ungariche; gli altri osavano appena scambiarsi fra di loro qualche timida occhiata, o susurrarsi parole, che esprimevano sentimenti ben diversi; ma preferivano chiudersi nella cerchia delle famiglie, e sfogare il loro patriottismo con la moglie, con le figliuole, che oramai, partiti i fratelli, rappresentavano l'elemento più vivo e coraggioso della italianità a Trieste.

Anzi, le donne, o meglio le giovanette della borghesia triestina, finirono col rimanere le sole vere rappresentanti del nazionalismo. Nuove chiamate di classi avevano dissanguato ancora di più la città, dove oramai gli uomini validi si contavano sulle dita. Le classi popolane, generalmente socialiste, erano contrarie a ogni specie di guerra, e non mostravano nessuna simpatia per l'Italia, che dai loro demagoghi era dipinta come un paese di straccioni e di reazionarii. Erano dunque le giovani uscite delle scuole comunali e dal Liceo italiano, quelle che coltivavano ora nei cuori le sacre speranze della patria, quelle che incessantemente aspettavano, e guardavano sospirose le azzurre onde dell'Adriatico, se mai vi apparisse il vagheggiato tricolore! E di queste donne, di queste giovinette, moltissime erano ebree. E si comprende facilmente. Appartenevano quasi tutte a famiglie ricche o del ceto medio, che apprezzavano molto lo studio, come fanno in genere gli israeliti. E siccome gli ebrei di Trieste sono in maggioranza di origine italiana (venuti ab antico da Venezia, da Ancona, da Livorno) preferivano mandare le figliuole nelle scuole del Comune, anzichè alla Mädchenbürgerschule, che è la scuola media tedesca. E nelle scuole italiane si respirava naturalmente l'entusiasmo per tutto ciò che è italiano, letteratura, storia, nazione… e i cuori giovanili, e le vivaci fantasie si pascevano dei sogni più belli. E venne il Maggio fatale, e venne il giorno… Ventitrè. Il giorno che resterà segnato con lettere di fuoco nella storia d'Italia e di Trieste…

La notizia della dichiarazione di guerra all'Austria, per quanto già temuta o aspettata, fu un colpo, formidabile, tremendo, che lasciò tutti, sul momento, come storditi. Un alto spavento gelò quindi i cuori, anche i più infiammati di patriottismo. Si sentirono a un tratto come ghermiti da una inesorabile potenza malvagia; ebbero l'impressione immediata di uno stringersi di catene intorno a loro, quale il condannato che sente chiudersi la porta dell'ergastolo. Anche i più nobili spiriti furono presi da smarrimento. Presentirono lo scatenarsi di un odio feroce, che non avrebbe dato quartiere; di una implacabile sete di vendetta. E la forza stava dalla parte dello Stato! E lo Stato era il nemico della città! Ci fu mai nella storia una situazione più tragica? Trieste rimaneva esclusa dal mondo, messa al bando dell'Impero, considerata con occhio ostile da quello stesso governo cui apparteneva, in balìa di ogni prepotenza!

Poi rinacquero le speranze dalla stessa disperazione. Pensavano: «Purchè gli Italiani facciano presto! Purchè arrivino prima che la città sia distrutta, prima che noi siamo tutti morti!».

Intanto, dopo il primo stupore, una sorda agitazione andava manifestandosi nei quartieri popolari. Qua e là si improvvisavano dimostrazioncelle, al grido di Viva l' Austria! - Abbasso l'Italia - Abbasso i traditori! Qualche vetrina di negozio o di caffè con insegne italiane volava in pezzi sotto colpi di bastone; capannelli di gente con faccie sospette si formavano qua e là; gli arresti erano frequentissimi ogni giorno, ma non di ladri, non di guastatori, bensì di coloro che erano invisi alla polizia. La plebe accompagnava con ululati e insulti quei disgraziati, condotti a piedi, fra le guardie, e nei quali riconosceva facilmente qualche egregio cittadino, fino a ieri stimato e benvoluto.

Il grido di: Abbasso gli ebrei si mescolava con frequenza tra quelli contro l'Italia; la stampa austriacante scriveva ogni giorno colonne e colonne delle più feroci invettive contro l'ex-alleata, contro la traditrice, che colpiva a tergo lo Stato, del quale aveva da oltre trent'anni sfruttato l'amicizia.

Questi articoli di violenza estrema eccitavano sempre più la plebe, e i cittadini si vedevano minacciati dal basso e dall'alto, schiacciati da tre correnti nemiche, sempre più torbide.

Ogni contatto con l'aborrita Italia fu soppresso dal Governo e dalla polizia. Nessuna nuova giunse più a Trieste dei molti e molti che erano riusciti a passare il confine prima della dichiarazione di guerra. Anche la corrispondenza attraverso la Svizzera subì una censura assai più rigorosa, e le corrispondenze più innocenti furono soppresse. Così le famiglie che avevano qualche loro congiunto nel Regno, furono immerse nella più crudele ignoranza sulla sorte dei loro cari, e dovettero tremare anche per sè, inquantochè la polizia prese di mira le loro case, e non tralasciava occasione di vessazioni.

Nella famiglia Levi le notizie della nuova guerra non avevano prodotto grande impressione altro che sull'animo di Bianca. In lei provocò un tumulto di paure e di speranze. Pepi doveva essersi arruolato; forse era già ai confini; forse gli Italiani, rapidamente vittoriosi, entreranno fra giorni in città, e lui, Pepi c'era… Trieste diventava italiana, le cose mutavano, e di fronte a tante novità chi avrebbe pensato di fare opposizione al loro matrimonio? Pepi sarà certo un ufficiale, un bell'ufficiale italiano!… Come potrebbero i genitori e il nonno non essere contenti?

Forse quelli di lui!… per la questione della religione!… La signora Catina, sgraziatamente, era sempre in chiesa, e stava diventando bigotta proprio allora! Bianca lo sapeva, perchè, sempre che potesse, andava a trovare la signora Catina, per ingraziarsela e per avere qualche notizia di Pepi, che a lei scriveva troppo di rado… E la signora Catina, nel suo zelo rinnovato, e spinta anche dal suo confessore, approfittava delle frequenti visite della giovane ebrea per magnificarle la religione cattolica, e farle intendere essere una disgrazia il viverne fuori.

Quei discorsi non erano senza impressione sul cuore di Bianca. Ella era innamorata e anche, per il suo fallo, messa nell'obbligo assoluto di sposare Pepi. La sua passione le faceva mettere in seconda linea ogni altra cosa. Non è impossibile dunque che le germogliasse nella mente, sia pure in forma vaga, la possibilità di cambiare religione… Dopo tutto, non era cattolico colui che sposava? Già durante la Pasqua israelitica, che quell'anno era stata nei primi giorni di aprile, Bianca si era mostrata quasi indifferente ai loro riti, anzi, talvolta vi si era prestata con ripugnanza. Durante la preparazione degli àzzimi, e poi, quando si raccolgono per essere arse, tutte le briciole di pane lievitato, che per otto giorni non deve più comparire nella casa, e durante il Seder (cena di rito), ella aveva osato buttar là qualche parola, che era stata udita con doloroso stupore dal signor Adamo e dalla signora Sara; e fortuna che il vecchio nonno, assorto nelle sue preghiere, non aveva udito! Serio e solenne, come sempre nelle funzioni, il vecchio aveva scoperto il pane àzzimo, e cominciata la recita dell'Agadà con le tradizionali parole:

«Ecco il pane del dolore che i nostri padri mangiarono nella terra d'Egitto: chi ha fame, venga, si sieda alla nostra mensa, e mangi; chi si trova nel bisogno, venga a celebrare la Pasqua con noi…».

E Bianca aveva sorriso lievemente, guardando due poveri ebrei, loro lontanissimi parenti, che erano seduti al posto d'onore accanto al nonno. Erano vestiti di panni puliti e decenti, ma ridicoli agli occhi di una fanciulla moderna; la donna poi, secondo l'uso antico, aveva i capelli rasi, fin dal tempo del suo matrimonio, e coperti di una parrucca nera, a riccioli… «Una vera caricatura!».

E così pure le era parso un rito strano e inutile quello dei cibi speciali prescritti per quella sera, l'erba amara e di tante diverse sostanze tritate insieme, a ricordo sempre della schiavitù d'Egitto e delle privazioni cui gli ebrei erano stati soggetti. Tutte, tutte quelle cose sacre alla sua dolce infanzia e alla fortunata adolescenza, non avevano più lo stesso sapore per lei! E come potevano piacerle più i discorsi spesso insulsi della signora Catina e della signora Marietta, che quelli sensati e profondi del nonno?

Anche quando lo zio Benedetto ebbe portato a casa la notizia della guerra con l'Italia, la giovinetta era corsa dalla sua vicina. Forse che Pepi aveva scritto di recente? Ma la trovò in lagrime. Non solo da alcuni giorni ella non aveva nessuna notizia del figliuolo, ma suo marito le aveva assicurato che non potrebbero averne più, sino alla fine della guerra. Poteva morire, o essere prigioniero o ferito; la madre non ne saprebbe nulla!

Ah, perchè mai era fuggito! Se doveva combattere, era pur meglio che avesse combattuto per l'imperatore, piuttosto che con quegli italiani traditori, nemici della religione!

Erano le idee del padre confessore, naturalmente; ma la signora Catina le manifestava solo quando non c'era il signor Luigi…

Bianca tornò a casa sua con l'animo sconvolto. E' vero; Pepi poteva essere ferito, ucciso… E lei, che aveva ormai il suo diploma di infermiera, non sarebbe accettata che in un ospedale israelitico, e non avrebbe quindi che assai scarsa probabilità di vederlo…

Mentre entrava in casa, udì nel corridoio la voce alterata di suo padre, a cui la signora Sara e lo zio Benedetto rispondevano, come incuorando. Che c'era mai! Da un pezzo non si udivano che disgrazie! pareva che ci fosse una maledizione sulla famiglia! Accorse e seppe che il signor Adamo era stato chiamato al Commissariato di polizia, e che ci andava, appunto, non senza un certo batticuore, pur non sapendo perchè.

—Andiamo! non sarà nulla; non può essere nulla!—diceva Benedetto. Il pover'uomo andò, perchè, tanto, non poteva pensare a disubbidire.

Il signor Commissario lo ricevette dopo una lunga anticamera, e era molto sgarbato e di cattivo umore. Domandò con tono burbero al signor Adamo le sue generalità, e poi disse:

—Ebreo? non è vero?

—Sì, signor Commissario.

—Già si capisce. Voialtri ebrei siete i peggio cittadini dello Stato, e tutti nemici di Sua Maestà…

—Signor Commissario!…

—Silenzio! Ho già ricevuto un infinito numero di denunzie, tutte contro ebrei, tutte d'alto tradimento!

—Io sono un suddio fedele, signor Commissario…

—Silenzio! Un suddito fedele, che favorisce la fuga dei disertori! Negatelo, se potete! neghi lei di avere aiutato a fuggire un certo Giuseppe Furiani, disertore dell'esercito austriaco, dopo averlo tenuto nascosto parecchi giorni in soffitta!

Il povero Adamo restò come fulminato. Come poteva l'imperial regio Commissario sapere quel fatto in tutti i suoi particolari? Certo egli non pensava che la signora Catina l'avesse confidato al suo confessore, il quale era uno dei più zelanti sostenitori del Trono e dell'Altare e nemico degli italiani, specialmente se ebrei.

—Ah, non ha il coraggio di negare! Favorire la fuga di un disertore in tempo di guerra! E non sa che c'è la fucilazione per l'uno e per l'altro? Ah! che ne dice ora?

Il pover'uomo, tutto gelato di orrore, ebbe tuttavia la presenza di spirito di rispondere:

—Signor Commissario! le ripeto che sono un buon suddito di Sua Maestà… Io non ho mai badato a altro che ai miei affari… Mio figlio, il professore Giosuè Levi, è ispettore generale della Sanità, al campo; e ha l'onore di essere medico consulente di corte e dell'eccellentissimo signor governatore…

Queste parole furono come una doccia fredda sullo zelo dell'imperial regio funzionario. Egli consultò, o finse, alcune carte che aveva dinanzi a lui. Certo, non si poteva ignorare chi fosse il professore Giosuè Levi; e toccare il padre di un medico di corte, sia pure un ebreo, non era cosa prudente per un commissario di polizia. La denunzia poteva anche essere falsa; a ogni modo era meglio non precipitare le cose. Allora, con voce raddolcita, disse al signor Adamo:

—Appunto in considerazione della fiducia che gode in alto luogo il suo signor figlio, io non darò per ora corso a una accusa, che dovrebbe necessariamente svolgersi in un processo. Ma, badi, sono tempi difficili, e le raccomando la massima prudenza nelle sue relazioni. Bisogna evitare anche le apparenze, anche le apparenze! Tutti i buoni sudditi di Sua Maestà devono stringersi intorno al trono, offrire tutte le proprie forze, essere fedeli sino alla morte, e denunziare ogni persona sospetta. Capisce? Denunziare!

Così l'onesto Adamo se ne ritornò a casa sua, mormorando tra se:

—Denunziare? denunziare? sono un suddito fedele, ma la spia non la faccio!

La vita della infelice città non fu più che un incubo penoso. Cominciavano a scarseggiare i viveri, e ogni cosa era raddoppiata o triplicata di prezzo. Il popolo mormorava contro la carestìa; gli rispondevano: «E' colpa degli italiani; sono essi che hanno voluto la guerra!». La miseria che cresceva spaventosamente colla quasi assoluta cessazione del commercio, colpa degli italiani. La leva in massa, che strappò alle famiglie gli ultimi sostegni, colpa della guerra voluta dagli italiani… E l'odio si fece bieco, alimentato dal dolore e dalla fame.

Una sera il signor Adamo fu ricondotto a casa in una pubblica vettura. Era pallido, sfatto, senza voce; sul viso aveva una grossa echimosi. Le due persone che lo avevano accompagnato, due pietosi, raccontarono per lui, alla famiglia spaventata, che la folla, composta in gran parte di donne lacere e scapigliate, di monelli e di certi figuri che dovevano essere arnesi di polizia, tutti armati di sassi, bastoni, randelli, e qualcuno anche di coltello, dopo avere percorse alcune vie adiacenti, urlando, e lapidando le vetrine dei negozi tenuti da italiani, si era precipitata all'improvviso nel negozio del signor Levi, e lo aveva devastato. Parecchi colpi erano piovuti anche sul disgraziato, che aveva osato interporsi, e che infine a stento era riuscito a fuggire, con l'aiuto di qualche brava persona.

L'orrore e l'angoscia della povera Sara non trovavano lagrime, ma gemiti cupi; anche il maestro Benedetto si era lasciato cadere affranto sopra una sedia, e col viso coperto dalle mani pareva singhiozzasse. Al vecchio Samuele nulla dissero; egli continuava nella sua camera le interminabili preghiere verso quel Dio di bontà e di giustizia in cui credeva.

—E la forza pubblica? le guardie?—domandò infine Benedetto.

—Ma se sono d'accordo con la canaglia! In città si dice che la stessa polizia ha dato la lista delle persone a lei sospette, e che tra queste sono molti ebrei, perchè la folla vada a devastare i loro negozi, gridando viva l'imperatore e abbasso l'Italia!

—Ma mio fratello non può essere tra le persone sospette; non si è mai occupato di politica…

—Eh, non importa! E' questa una occasione in cui vendette private, antipatie personali, invidie, insomma tutte le malvagie passioni si possono sfogare.

Quando, il giorno dopo, qualche amico andò a vedere il negozio del signor Adamo (egli stesso era a letto con la febbre), lo trovarono vuoto completamente, con le imposte divelte; il denaro, i mobili, tutti di genere fino e preziosi, erano spariti. Sulla piazzetta vicina c'era ancora il residuo di un falò, nel quale i devastatori avevano bruciato i pezzi dei mobili che avevano rovinato, quando non li potevano asportare. Nelle stesse condizioni erano altri negozi in quella medesima strada, e la stessa ciurmaglia aveva ripreso anche quel giorno le sue gesta, prendendo di mira tutti i negozi italiani che erano ancora rimasti aperti, e penetrando anche in qualche casa privata…

Le guardie, invece di arrestare i predatori, dicevano loro aizzandoli: «Robè, robè (rubate) tanto xè roba dei taliani». E il saccheggio si riprendeva tra feroci ingiurie rivolte a questi italiani.

Ma la furia parve toccare il suo colmo, quando si sferrò contro i giornali del partito liberale. Dappertutto dove la folla giunse furono devastati gli uffici e le tipografie. L'odio maggiore era però contro il Piccolo, giornale notoriamente italianofilo, irredentista, che era sempre stato un pruno negli occhi della polizia.

Questo giornale, fondato e diretto da un ebreo di genio, Majer, aveva parecchi redattori ebrei, e era sempre stato l'antesignano del partito liberale a Trieste.

La plebe inferocita ne invase con grandi urli gli uffici; malmenò quante persone vi trovò, ferendone alcune gravemente; spezzò tutte le macchine tipografiche, le rese inservibili, ne asportò dei pezzi… Poi, quando furono sazi di rompere e di picchiare, ammucchiarono nelle stanze tutti i libri, i giornali, la carta, i mobili, le tende, e vi diedero fuoco. In un momento l'incendio divampò terribile, e la folla circondò la casa urlando e ballando; o cantava oscene canzoni contro gli italiani e contro gli ebrei, o si sgolava in invettive… Accorsero i pompieri, e non fu lor permesso di accostarsi, finchè della palazzina non rimasero che i muri rudi. Le guardie intanto facevano cordone intorno alla folla, ma non la importunavano punto, sicchè tutto il suo selvaggio furore potè sfogarsi contro il giornale, che essa diceva causa di ogni sua miseria.

Ma, arrivata a questo punto, la penna trema nella mia mano, e si rifiuta di continuare a descrivere l'orrendo cumulo di mali che da due anni si addensava sulla sventurata città, e in particolare sulla famiglia, che vedemmo così felice al principio di questa purtroppo veridica narrazione. Sarò dunque breve, come chi non osa toccare le piaghe ancora sanguinanti di un misero amato corpo.

La plebe fu per parecchi giorni la padrona di Trieste, e ne scorrazzava le vie, terribile, pazza, devastatrice. Era specialmente il rione di San Giacomo quello che dava il contributo maggiore a quell'esercito di furie; il rione dove l'elemento operaio è più numeroso e irrequieto. I loro capi li persuadevano che la causa della miseria era la guerra, e che questa sarebbe cessata subito, se l'atteggiamento dell'Italia non fosse stato prima sospetto e poi risolutamente estile. Era l'Italia che li affamava e li mandava a morire, e l'Italia era stata illusa a sua volta da quei quattro irredentisti, ebrei per la maggior parte, che, a forza di scrivere delle falsità, sui giornali venduti, avevano provocato la guerra.

Questa anarchia, fomentata e protetta dalla imperial regio polizia, arrivò a tale punto, che i cittadini, per difendersene, dovettero armarsi e formare una specie di guardia nazionale.

Pareva che la situazione non potesse, umanamente, divenire peggiore; ma un proverbio russo dice: al male non c'è fondo. Cominciarono allora le espulsioni e gli internamenti. Non solo i sudditi italiani, che ancora si trovavano nell'Impero, venivano mandati oltre il confine, o nei campi di concentramento; anche tutti coloro che, per una ragione o per un'altra, erano sospetti di non perfetto lealismo verso la dinastia, subivano la stessa sorte.

In una prima lista di cittadini italiani, da internarsi a Katzenau, perchè colpevoli di non avere ottemperato alle disposizioni delle recenti leggi riguardanti gli stranieri, che avevano stanza in Austria-Ungheria, furono compresi Samuele Levi e Benedetto Levi, suo figliuolo.

Al primo momento, quando lessero l'ordine della partenza, che doveva avere luogo entro ventiquattro ore, i Levi credettero a un equivoco. C'erano tanti Levi a Trieste! Certo non poteva trattarsi di loro. Tuttavia il maestro si affrettò a recarsi all'ufficio di polizia. Là un burbanzoso impiegato che si degnò riceverlo, gli disse:

—Lei protesta? E perchè? Non ci sono sbagli. Noi non sbagliamo mai. Lei è o non è Benedetto Levi di Samuele, cittadino italiano?

—Sì, ma…

—E suo padre, Samuele Levi fu Giacobbe, è o non è cittadino italiano?

—E' vero, ma…

—Io non ho tempo da perdere. Loro due non si sono presentati a tempo a denunziare la loro dimora qui. Sono due forestieri, e perciò sospetti. Possono essere contenti se ci limitiamo a internarli, mentre dovremmo farli arrestare…

Non valse a Benedetto ricordare la grave età del padre, e la sua propria infermità; non i lunghi anni di vita onesta, tranquilla, laboriosa, nella città che per essi era la vera e cara patria; nemmeno il nome stimato del fratello Giosuè non trovò grazia davanti a quel freddo esecutore della legge. Questi non concesse neppure la dilazione di un'ora. Si doveva partire con quel dato treno, insieme a molti altri, inviati allo stesso destino.

Benedetto ritornò a casa più morto che vivo. Per lui, si sarebbe ancora rassegnato. Ma suo padre, suo padre!

Eppure, alla famiglia che lo interrogava ansiosa, ebbe il coraggio di dire che si trattava di un malinteso, il quale sarebbe chiarito appena avessero potuto scrivere a Giosuè; ma che intanto bisognava obbedire, bisognava partire…

I pianti delle donne, dei piccoli orfanelli fecero uscire dalla sua camera il vecchio avo, e dopo poco anche la signora Catina, spaventata, domandava di entrare… Era uno spettacolo davvero straziante, tutta la famiglia, anche la serva Lia, intorno al venerando capo, chi in ginocchio, chi con le braccia intorno al suo collo, e i più piccoli attaccati alle sue gambe. Singhiozzavano tutti, e anche la signora Catina si mise a piangere, ignara del tutto che ella stessa avesse, in qualche parte, contribuito a quella loro disgrazia, parlando col suo confessore troppo a lungo dei suoi vicini…

Il vecchio Samuele era pallido e commosso anche lui. Nei suoi occhi si erano formate due lagrime che gelavano sopra le ciglia consumate dagli anni; le mani tese a benedire tremavano; fece uno sforzo per parlare e non potè.

—Oh Dio, Dio! è troppo!—gemette Sara, baciandogli la mano.

Allora il vecchio ritrovò la parola, e chiese di essere lasciato un'ora, solo, nella sua camera. Di là lo si udiva pregare, e qualche gemito si mescolava alle parole. Ma quando uscì era di nuovo calmo, e rivolto ai suoi cari disse:

—Vi ho mostrato la mia debolezza. Perdonate agli anni, che son molti; è la vecchiaia che mi fiacca l'animo. Ma che! Dovrò io lagnarmi della volontà di Dio? Non mi ha egli guidato bene sin qui? Non è lui che mi ha dato questa casa, questa famiglia, questa città, dove ho passato tanti anni? Se adesso a lui piace strapparmi via di qua, mandarmi in paese straniero, non è lui il padrone? Saprà bene il perchè? Che posso saperne io? E nemmeno gli uommi non ci usano ingiustizia, stando alla loro legge. Noi credevamo di essere al di sopra della legge, che prescrive certe formalità agli stranieri, perchè ci eravamo dimenticati di essere stranieri. E la legge ne castiga. Perchè saremmo trattati diversamente dagli altri? Ci eravamo attaccati con tutte le forze dell'anima a questo paese, dimenticando che l'uomo è dappertutto straniero, perchè la sua patria non è su questa terra. Dio viene a ricordarcelo. Andiamo dove egli ci manda. Ci offrirà occasioni per fare del bene anche là. Benedetto, ricorda di prendere con te molto denaro. Non per noi, ma per essere in condizione di giovare a quelli che saranno lì più poveri di noi, più infelici. Adamo, ascoltami, figliuolo mio; quest'anno che corre è stato terribile per te, lo so. Anche i tuoi affari sono andati molto male. Io so quello che ti è stato fatto…—(Si stupirono a queste parole, perchè nessuno mai gli aveva detto del saccheggio del negozio…).— Hai perduto molto denaro. Ma non devi affliggertene. Prima di tutto, perchè il denaro è ottima cosa, ma ci è dato specialmente per aiutare gli altri; in sè non ha nessun valore, e non bisogna attaccarci il cuore. Poi, perchè, figlio mio, considera che il Signore ha fatto prosperare tutti i tuoi affari negli ultimi anni; egli è ben padrone di riprenderti tutto ciò che ti ha dato, e si contenta di riprendertene una parte. Sia benedetto il suo nome! E te n'ha lasciato ancora molto, per te e per i tuoi figliuoli. Fa dunque buon uso di esso. Le miserie che avete vedute son molte, ma ne verranno ancora, ne verranno di più. Se i giorni passati furono amari, io vedo venire altri più amari. Ci sarà grande fame, e dolore smisurato. Ricordatevi dei più miseri di noi, non negate mai il soccorso a nessuno, e date, date senza contare. Dio ha colpito questa generazione, e anche i vostri stessi figliuoli sono stati travolti dall'uragano. Ma ecco la messe novella, ecco i piccoli, gli innocenti, che ora sentono scendere le vostre lagrime sulle loro testoline. Io dico che Dio li risparmierà. Io dico che occorre il dolore di una generazione, perchè una nuova, appena nata, possa godere della vita con animo puro, e essere prediletta da Dio.

E così continuò tutta la sera, ammonendo l'uno e l'altro; ora parlando di affari con Adamo, al quale dava consigli d'una lucidità meravigliosa; ora confortando la nuora e le nipoti; ora trastullando i bimbi, che gli pendevano adosso come grappoli. Volle dare con le sue mani a ciascuno un particolare ricordo, e fece la parte anche di Giosuè e di Davide.

—Quando ritorneranno, glielo darete,—diceva.

Poi, prendendo per le mani Bianca e Ester:

—Mie care!—disse con maggiore tenerezza che mai,— Dio vi benedica, e ricordatevi sempre del vostro nonno. Siate buone figliuole; non date mai nessun dolore ai vostri genitori. Seguite sempre i comandamenti della religione in cui siete cresciute, e se pure un giorno, per ragioni più forti della vostra volontà, non potreste esercitare tutti gli atti del culto, pensate però sempre a seguirne lo spirito, che è tutto di giustizia, di amore di Dio e del prossimo.

Quella immutabile serenità valse a infondere coraggio anche nella famiglia. Nonostante il grande dolore del distacco, Sara e gli altri cominciavano a persuadersi che non poteva essere che una separazione temporanea, che presto l'intervento di Giosuè avrebbe fatto cessare, e che il buon vecchio avrebbe sopportato senza eccessivo disagio il viaggio e una breve dimora a Katzenau.

Pure, il giorno dopo, quando dovettero separarsi, e fu nella casa stessa, perchè la polizia non permetteva nessun ingresso di estranei alla stazione, ricominciò il piangere dirotto, e la signora Sara, baciando un'ultima volta la mano al buon suocero, disse con voce di strazio:

—Ci rivedremo più?

—Certamente,—rispose il vecchio,—se non qui, lassù.

Così la casa si era andata spopolando di tanti suoi abitanti, e la desolazione aveva preso il posto della giocondità e della speranza.

Quando sedevano a mensa, dove per fortuna i cinque orfanelli mattevano il loro ingenuo riso, la signora Sara contava i vuoti:

—Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… Chi morto e chi lontano. Sette con Mieko… Ne mancano sette! Ah, chi li farà ritornare più?

Non sapeva ancora che fra poco dovrebbe contarne otto, di assenti; e che l'ottava doveva essere Bianca!

La giovinetta, torturata dal dolore e dalla passione, volgeva ora nella mente un progetto, che ogni giorno le pareva più seducente. Ella prestava qualche ora di servizio nel reparto israelitico, presso i soldati feriti, ma voleva andare alla frontiera italiana, entrare in qualche ospedale da campo più prossimo al confine, dove, in una o in altra maniera avrebbe ben saputo avere notizie di Pepi. E poi, la sua testolina romantica si cullava nel bel sogno di poter un giorno fuggire in Italia, dove era lui; e allora lo avrebbe seguito sempre, e sarebbero rientrati insieme a Trieste, con le truppe vittoriose, e i genitori avrebbero perdonato, e la vita sarebbe tornata bella e felice…

Ma come fare? La signora Catina le aveva indicata una via, solo che Bianca esitava ancora molto a seguirla. Con la signora Catina, tanto buona! e poi, era la mamma di Pepi! ella si era in parte confidata. Non mai le aveva detto il suo doloroso segreto, oh no! sarebbe morta di vergogna. Ma che ella voleva bene a Pepi, e che Pepi a lei, questo aveva finito col dirle. La signora Catina s'era subito consultata col buon padre, il quale avrebbe inorridito all'idea di un matrimonio misto, di un cristiano con una ebrea! ma vedeva tutti i vantaggi invece di una conversione della giovinetta al cattolicismo. Era sempre un'anima strappata all'inferno; e poi se la ragazza aveva una bella dote, meglio che i denari fossero in mano di cristiani e non di ebrei… In quest'ordine di idee fu subito anche la signora Catina.

Quando Bianca cominciò a esporle il suo desiderio di entrare in un ospedale cristiano, anche questo fu tosto comunicato al padre confessore, il quale allora desiderò di conoscere la fanciulla. Ma Bianca, nonostante il suo amore prepotente, provava ripugnanza e terrore all'idea di parlare segretamente con un prete cattolico. Se mai lo avessero saputo i suoi! E poi, era una cosa cattiva per se stessa, lo sentiva. Era quasi come un offendere la propria religione. E' vero che il cattolicismo, la religione del suo sposo (non lo era, forse?), la attirava; e in fondo al suo cuore già aveva considerato la possibilità di abiurare, nell'atto del matrimonio. Ma erano cose e progetti lontani. Invece, un colloquio con un prete era una cosa grave, e che, secondo la signora Catina, doveva farsi presto. I preti cattolici, con quel loro viso sbarbato, quel soprabito lungo e il cilindro alto (così si vestivano a Trieste, e in generale nell'Austria) le avevano sempre incusso paura, senza che sapesse il perchè. ERano gente tutta diversa dagli altri; lo stesso celibato a cui erano costretti faceva tenere loro un posto alto e solitario nella sua considerazione. Mai le sarebbe caduto in mente di andare a parlare con uno di essi!

Ma la partenza del nonno e dello zio le fecero apparire la cosa più facile e meno cattiva. Spesso aveva pensato con terrore a ciò che direbbe il nonno, se un giorno essa avesse davvero cambiato religione. Egli, che era tanto attaccato alla religione dei suoi avi! Ora, mentre egli era lontano, disubbidirgli era un peccato meno grave. E il nonno stesso non le aveva detto che la religione è più nel cuore che negli atti del culto? Ebbene, in fondo al cuore ella era proprio religiosa, e sempre lo sarebbe rimasta, anche se…

Quanto allo zio, molte volte Bianca aveva temuto che egli le leggesse nel cuore, con quei suoi occhi acuti! Oh, le dava troppa soggezione! Ma per ora non c'era. Poteva dunque profittare…

E così finalmente un giorno si decise di accompagnare la signora Catina a Sant'Antonio vecchio, dove il prete le aspettava.

Che impressione provò nell'attraversare la chiesa, lei che non era mai entrata in un tempio cattolico! Le pareva che le lastre di marmo le bruciassero i piedi, e non osò dare nemmeno una occhiata agli altari e ai dipinti sacri sui muri. Entrò in sacristia, con il viso in fuoco, e la vista turbata. La signora Catina la lasciò lì, e andò a aspettarla in chiesa. Bianca si vide dinanzi un prete in sottana e colta bianca, perchè aveva finito allora di confessare, un uomo ancora giovane, dall'apparenza grave e benevola.

Don Filippo era un uomo nutrito di buoni studii, poichè era stato allievo dei gesuiti a Klosterneuburg; non d'animo cattivo, ma della stoffa di cui si fanno i san Domenico e i Torquemada. Certo la casa d'Absburgo e l'Impero non avevano un servitore più devoto e convincente di don Filippo, e la religione cattolica non un milite più zelante. La vista di quella bella giovinetta destò nel suo cuore un sentimento di profonda compassione e di simpatia. Egli pensò che sarebbe per lui, prete cattolico, un grave peccato, se non facesse ogni sforzo per strappare quell'anima alla perdizione.

Vedendo il suo turbamento, la rincorò con paterne parole; era troppo buon gesuita e esperto confessore per non sapere entrare facilmente in una giovine anima femminile. Le parlò dell'opera pietosa di curare i feriti, delle crudeltà della guerra, della missione della donna e della misericordia di Dio. Le disse cioè solo quelle cose che, essendo fondamento della morale, sono pure base comune a tutte le religioni. E Bianca si stupì a sentire che quel prete le parlava lo stesso linguaggio del suo rabbino o del suo avo. Don Filippo la esortò a tornare, e lei tornò. Quelle conversazioni misteriose, nella penombra della sacristia cominciarono a avere per lei un fascino speciale. Ora acconsentiva anche a soffermarsi qualche momento nella chiesa, sempre affollata, ora che la guerra spingeva le madri affannate a cercare aiuto nella misericordia divina. Quei canti latini, che Bianca non capiva, e le piacevano forse appunto per il loro mistero, quelle litanie della Madonna, lunghe, flebili e ardenti, piene di lagrime e di adorazione, la cullavano nella loro carezzevole monotonia. E poi quel prete sull'altare, vestito quasi come una donna, quelle genuflessioni, quegli inchini; e il suono del campanello, che faceva curvare tutte le teste, e i segni arcani con le mani, la pomposità dei ceri, dei fiori, dei quadri, e infine quell'odore eccitante e snervante di incenso, le piacevano come uno spettacolo nuovo, che parlava, per mezzo dei sensi, alla fantasia e al cuore.

Ma quando don Filippo accortamente la menava nel discorso della conversione, trovava nella giovinetta una resistenza che lo stupiva. L'anima, che gli pareva già così bene attaccata all'amo, si ritirava improvvisamente, e si chiudeva in se stessa come una sensitiva urtata da una mano villana. Le era impossibile determinarsi a quel passo, che l'avrebbe portata per sempre fuori del mondo a lei familiare e caro, in una regione paurosa e ignota. Nonostante la sua passione, il ricordo cocente del suo errore, e la sua naturale leggerezza, ella sentiva di essere attaccata alla sua vecchia religione per mezzo di cento fili, che avevano la radice nel suo proprio cuore. Bisognava lacerarli a uno a uno, e le faceva troppo male…

Allora, quando il prete la vide rifuggire spaventata da quell'estrema risoluzione, ebbe paura che gli sfuggisse per sempre, e pensò che era prudente cedere al desiderio di lei, farla entrare in un ospedale cristiano, dove il contatto continuo con suore, frati e sacerdoti cattolici, e l'assistenza continua alle pratiche del culto, avrebbero influenzato sicuramente quell'anima.

Perciò egli fece prontamente i passi necessari, e ottenne con grande facilità il passaggio della infermiera Bianca Levi dall'ospedale israelitico a un ospedale cattolico da campo.

Quando don Filippo comunicò questa notizia alla giovinetta, non le nascose che l'aveva contentata nella viva speranza che Dio volesse toccarle il cuore, e metterla presto nello stato di grazia. Le raccomandò intanto di coltivare assiduamente la compagnia delle buone suore e del cappellano, alle quali persone avrebbe scritto egli stesso, e di tenersi in frequente corrispondenza con lui.

Bianca promise ogni cosa. Ma in cuor suo aveva già preso un mezzo termine, e fatto un patto col Dio dei cristiani, al quale volevano convertirla.

—Se tutto andrà bene, se potrò sposare Pepi, e egli tornerà dalla guerra sano e salvo, faccio voto di lasciarmi battezzare, —pensava.—Ma se succedesse il contrario, rimarrò nella mia religione, perchè sarebbe segno evidente che il Dio dei cristiani non mi vuole o che il nostro Dio è più forte di lui…

Messa in pace così, per allora, la sua coscienza, Bianca affrontò la presunta collera dei genitori, esprimendo loro il desiderio di recarsi a Gorizia, dove avrebbe ricevuto la destinazione per un ospedale da campo. Ma con sua meraviglia, la signora Sara e il signor Adamo non si mostrarono irati; le domandarono solo il perchè di quella risoluzione. Ella rispose, con un certo imbarazzo, che sperava di rendersi più utile. Nel padiglione israelitico a Trieste c'erano tante e tante brave infermiere, e relativamente pochi degenti; invece verso il confine i bisogni erano assai maggiori.

Allora il signor Adamo espresse il dubbio che per essere lei ebrea forse non l'avrebbero ammessa in un ospedale diverso. Ella ebbe il coraggio di mentire francamente:

—Ah, no! è facilissimo anzi! L'autorità militare non bada alla religione delle infermiere! E forse che Giosuè e Davide non sono ebrei?

—Va, dunque,—le disse suo padre;—la pietà va esercitata verso tutti, qualunque sia la loro fede. Solo, non dimenticarti della tua famiglia e del tuo Dio.

La signora Sara non disse nulla. Non aveva più lagrime per piangere; si sentiva in balìa di una forza perversa, che le strappava i suoi cari a uno a uno e assisteva con terrore rassegnato alla distruzione della sua felicità.

La lettera di Adamo, con la terrificante notizia dell'internamento del padre e del fratello, mise dieci giorni a arrivare a destinazione, e trovò Giosuè gravemente malato, in un ospedale di Varsavia. Mentre curava un soldato tifoso, gli si era inoculata una singolare infezione nel sangue, che gli aveva minacciato specialmente la vista, tanto che per più di un mese non fu in grado di tenere la benchè minima comunicazione col mondo esterno.

Quando finalmente, cessata la febbre e sparito il pericolo della cecità, gli fu dato di leggere le notizie dei suoi, lo sbalordimento non fu meno grande del dolore. Incapace ancora di agire egli stesso, dettò qualche lettera ai suoi genitori a Trieste, confortandoli; a Davide, che sapeva inoltrato in Russia, ma del quale pure gli mancavano notizie recenti, e infine a qualche suo autorevole amico a Vienna, perchè facesse cessare subito la grave e dolorosa ingiustizia, usata verso un vecchio quasi nonagenario, e un uomo infermo, che mai non avevano dato il minimo sospetto al governo.

Coloro che risposero a queste sue proteste, e fu dopo molti giorni, si scusarono di non avere potuto far nulla. Tempo di guerra, leggi eccezionali. Non era stato fatto un torto ai suoi parenti; erano essi che, avendo trascurato di mettersi in regola colla legge, ne subìvano le conseguenze.

Giosuè chiese e ottenne un breve permesso, e corse subito a Vienna. Nonostante la gravità delle sue preoccupazioni, fu colpito dall'aspetto della città, così cambiata, da poco più di un anno. Molti negozi e caffè, birrerie e alberghi erano chiusi. Ciò si avvertiva specialmente la sera, quando la città rimaneva scarsamente illuminata, e poca gente girava per le strade. Chiusi pure molti teatri e cinematografi. Le persone che andavano per via, avevano un aspetto preoccupato e triste, e non si notava più alcuno sfoggio di lusso. Era impossibile non vedere la scarsezza dell'elemento maschile; e, delle donne, moltissime erano vestite a lutto. Le vetrine dei negozi rimasti aperti erano quasi sprovviste; non erano necessari lenocinii per attirare i compratori; era piuttosto la merce che mancava!

Profondamente rattristato, il dottor Giosuè andò a trovare un suo antico amico, l'ex-ministro Rhame, al quale espose i suoi casi dolorosi.

—E' necessario che io veda l'Imperatore,—gli disse,— è la via più breve per far cessare una simile ingiustizia! Strappare alla sua casa un vecchio nonagenario, e un uomo infermo, l'uno e l'altro cittadini pacifici, rispettosi dell'ordine sociale e politico in cui vivono! è una crudeltà e una pazzia! La nostra famiglia ha sempre obbedito alle leggi dello Stato; non si è sottratta a nessun obbligo, anche doloroso. Ho perduto in guerra un fratello e un cognato…

—Mio caro dottore,—disse Rahme,—oggi le cose sono tutte assai diverse da ieri. Io non le nascondo, perchè a Lei si può dire tutta la verità, che questa guerra ha influito penosamente sulla questione antisemita, in Austria e in Germania specialmente. A torto, lo so. Ma noi non possiamo dominare le correnti della opinione pubblica. Sono specialmente gli israeliti del Litorale e di Trieste quelli che divennero sospetti al governo. Non ci fidiamo di loro, eccole la franca parola. Naturalmente, non alludo ai suoi rispettabili parenti. Ma è spiaccvole, molto spiacevole, che essi non abbiano preso la cittadinanza austriaca. Io mi occuperò di loro, ma dubito assai di riuscire. Quanto a vedere l'Imperatore… mio buon amico, la cosa sarà difficile. Sua Maestà non concede nessuna udienza; i suoi medici sono tutti buoni cattolici, e oggi, dico oggi, un dottore israelita, anche del suo merito, non sarebbe consultato. Tutto ciò passerà… con la guerra; ma per ora non c'è nulla da fare.

Giosuè non si diede per vinto, e mosse anche altri dei suoi antichi amici, una volta onnipotenti. Pure, non riuscì a ottenere la desiderata udienza imperiale. Fu tuttavia ricevuto dalla arciduchessa Maria Valeria, che egli aveva guarita anni prima di una forte nevrastenia. Per mezzo di lei, Giosuè ottenne soltanto il permesso di visitare, nella sua qualità di ispettore generale della Sanità, il campo di concentramento di Katzenau, di apportarvi tutti i miglioramenti possibili, e la promessa che, prima del giungere dell'inverno, i suoi parenti sarebbero autorizzati a ritornare a Trieste.

Mentre si recava a piedi alla stazione, per calmare i suoi nervi, il dottore incontrò quel Hirschberg, un ebreo di Costantinopoli, negoziante assai ricco e stimato, tanto a Vienna che in Turchia. Fecero la strada insieme, e Hirschberg gli confidò che, fallite oramai tutte le speranze di una prossima pace, egli era alla capitale per ottenere che il governo si interessasse delle condizioni degli ebrei nei paesi soggetti alla Turchia.

—Sono spettacoli miserandi!—disse,—quali nessuno di noi avrebbe più creduto di vedere ai nostri tempi. I turchi ei hanno sempre odiati e disprezzati; ora poi il loro odio si è accresciuto col sospetto che hanno di noi. Nell'Asia minore, dove molti ebrei sono da tempo stanziati, esercitando il commercio e piccole industrie, la brutalità dei turchi è stata senza limiti. I delitti commessi contro le persone e le proprietà, gli atti di bestiale ferocia, sono innumerevoli. E nessuno in Europa si cura di noi. Siamo come bestie senza padrone. I turchi saccheggiano e incendiano le nostre case, violano le donne, uccidono gli inermi; e vi sono tra quelli ebrei anche numerosi sudditi tedeschi, austriaci, francesi, italiani. I rispettivi governi o non possono intervenire, o non se ne curano. Sono soltanto degli ebrei! Per fortuna, e col solo aiuto di noialtri, ebrei di Costantinopoli, molti di quegli infelici hanno potuto mettersi in salvo, e sbarcare a Alessandria d'Egitto. Anche un grande numero furono inviati a Nuova York, e raccomandati per lavoro e aiuto ai nostri correligionarii di là. Ma ancora ne sono rimasti in Siria, e a Erzerum, esposti a tutti i pericoli. Occorre che i governi di Vienna e di Berlino intervengano efficaemente. In Armenia pure la condizione nostra è disperata, perchè il governo turco, dopo averci completamente spogliati, ci proibisce di emigrare. Tuttavia, molte carovane riuscirono a fuggire, attraversando colline e deserti, per giungere a Tripoli di Siria, o a Alessandretta, o a Beiruth, dove chiesero e ottennero la protezione del console americano. Ma la miseria di quegli infelici è così grande, che molti sono obbligati a mendicare il pane.

Ecco come siamo trattati! Eppure, lei sa, gli austro-tedeschi in Gallizia e in Polonia implorano l'aiuto degli ebrei contro i russi, e promettono speciali protezioni. Ma sono parole! Vogliono il nostro sangue e il nostro oro, e poi ci voltano le spalle, e ci abbandonano a tutti i ludibrii!

—Questa guerra,—disse Giosuè,—ha fatto fare molti passi indietro alla causa della civiltà. L'umanità ha fatto un gran tuffo indietro, nelle tenebre del passato. Del resto, amico mio, consoliamoci come fanno i dannati. Gli ebrei soffrono, e i cristiani pure. Guardi come è ridotta questa città! Son qui da alcuni giorni, e la sua miseria, i suoi dolori mi stringono il cuore. La nuova ordinanza imperiale proibisce la vendita delle carni e dei salumi, nelle macellerie, nei ristoranti e dappertutto, per due giorni della settimana. Non v'è quasi più burro, nè olio, nè grasso di nessuna specie, o si pagano prezzi favolosi. Non c'è quasi più pane, nè nulla. Da tempo incalcolabile il popolo non conobbe una simile miseria! E i feriti? i mutilati? Quanti se ne vedono qui, passeggiare malinconicamente la loro convalescenza nei parchi e nelle grandi strade! E il numero immenso di quelli giacenti negli ospedali? E che cosa sarà mai la generazione futura, la erede di tanta miseria e di tanti mali?

—E non è finita!—disse Hirschberg,—dopo la guerra avremo la rivoluzione sociale. Il diluvio insomma, mio caro; ma sarà un diluvio di sangue. Quale sarà il Noè destinato a salvare nella sua arca il seme umano?

Appena arrivato a Katzenau, il dottor Giosuè si trovò dinanzi allo spettacolo di un nuovo genere di miserie. Una immensa folla di gente portatavi per forza, da ogni parte dell'impero, come sospetta; tenuta in dolorosa segregazione dal resto del mondo; abbandonata alle sue proprie risorse; costretta a abitare in baracche e casupole, in mescolanza spesso ripugnante, scarsamente nutrita, condannata o a un ozio indicibilmente uggioso o a un lavoro di genere nuovo, gravoso, contrario alla inclinazione e alle abilità acquistate. E su tutto e dappertutto un odore di povertà e di malattia, un'impronta di sordidezza, di incuria disperata. Donne sparute e sudicie, bambini laceri, lividi, o coperti di croste; uomini con barbe incolte e capelli lunghi, vestiti di resti di abiti a brandelli. Miserabili masserizie e stoviglie esposte al sole, in mezzo ai passaggi tra tugurio e tugurio, e letamai e latrine, dovunque, con nugoli di mosche e altri insetti schifosi, che a ogni passo si levavano ronzando.

Là, in quella miseria, in quel sudiciume, il dottore Giosuè ritrovò l'avo e lo zio. Il vecchio era seduto sopra una pietra, dinanzi alla baracca che occupava, in compagnia di altri quattro ebrei. Intorno a lui, accoccolati per terra, o in piedi, pigramente appoggiati alle proprie abitazioni, qualcuno masticando un pezzo di pane duro o un po' di tabacco, qualcuno più fortunato tirando stentatamente una pipa, stavano parecchi altri individui, nei quali Giosuè riconobbe con meraviglia alcuni suoi concittadini, ebrei e cristiani. Uno di loro era il barone Rosenwald, ma così mutato che il dottore non fu sicuro che fosse lui, altro che al suono della voce. V'era pure il vecchio Kohn, il professore Servadio, il maestro di scuole Commert, pure israelita, il pianista Liliental; e le loro donne accorsero tutte dalle rispettive case, stupite e liete, a salutare il professore; ma tutti, uomini e donne, avevano la stessa apparenza trascurata e miserabile.

Benedetto ebbe una gioia grandissima per l'inaspettato arrivo del nipote; invece il vecchio Samuele non mostrò nessuna emozione, e lo salutò come se lo avesse veduto il giorno prima. Egli teneva sulle ginocchia un libro stampato a caratteri italiani nel quale leggeva a alta voce, e continuò anche quando Giosuè gli si sedette vicino, sul medesimo sasso. Era il libro di Giobbe, a quella pagina sconsolata, che risuona del grido eterno della miseria umana.

«L'uomo nato di donna ha la vita breve, e è saziato di affanno. Come un fiore sboccia e vien tagliato; come un'ombra fugge e non esiste più.

«Se i suoi giorni sono determinati, se il numero dei suoi mesi è fissato da Te, se tu gli hai prescritto dei limiti che egli non oltrepasserà, distogli il tuo sguardo da lui; che egli abbia qualche riposo, fino a che non gusti come un mercenario la fine della sua giornata.

«C'è una speranza per l'albero; se lo si taglia esso rinverdisce ancora. Ma quando l'uomo muore, egli rimane giacente; quando l'uomo è spirato, dov'è? Le acque del mare si asciugano, il fiume si dissecca; così l'uomo si corica e non si rialza più.

«Oh, se tu mi nascondessi nel sepolcro, se tu mi mettessi al sicuro, finchè la tua collera sia passata! Se tu mi concedessi un termine, dopo il quale tu ti ricordassi di me (quando l'uomo muore, rivivrà egli?), io aspetterei tutto il tempo della mia consegna, fino a che giunga il mio richiamo. Tu chiameresti, e io risponderei; tu desidereresti di rivedere l'opera delle tue mani…

«Ma la montagna crolla, la roccia è trasportata via dal suo posto; le acque minano le pietre; le inondazioni trascinano seco la polvere della terra; e così tu fai perire la speranza del mortale. Tu non cessi di assalirlo e egli se ne va…

«L'occhio che mi vede, non scorgerà più. La nuvola si dissipa e se ne va, così colui che discende nell'ombra non risalirà più. Egli non tornerà più nella sua casa, il suo luogo non lo riconoscerà più…».

—Perchè leggi cose tanto tristi, nonno?—domandò Giosuè, tentando dolcemente di chiudergli il libro.

—Tutto quello che io avevo mi è stato tolto,—rispose il vecchio,—ma io sono sicuro che mi sarà reso ogni cosa.

E ricominciò a leggere il suo libro.

—Da quando siamo qui, la sua intelligenza si è leggermente offuscata,—disse Benedetto.—Io credo che egli si figura di essere Giobbe, o forse egli impersona nella sua miseria quella di tutta l'umanità. Ma non si lamenta di nulla, legge soltanto. E' come se avesse smarrito la sua vera individualità. Ma, tolto questo, egli è sereno di animo, e comprende benissimo ogni cosa. E' una vera provvidenza qua dentro. Lui e il barone sono di una carità inesauribile, verso cristiani e ebrei. Ma si vive male qui. Vieni a vedere.

Il campo di concentramento consisteva in una specie di grosso villaggio, tutto costruito di baracche e capanne di legno, paglia, o anche cartone incatramato. I più agiati vi stavano, naturalmente, meglio degli altri, perchè potevano procurarsi pagliericci, coperte e altre cose necessarie, e tenere una baracca per un minor numero di persone. Ma i poveri dovevano contentarsi di dormire sulla paglia o per terra, accatastati li uni vicini agli altri; e mancavano assolutamente di tutto. Più di cinquemila persone vivevano così, in una comunione spesso disgustosa, come quella dei galeotti fra di loro. La maggior parte erano italiani, o trentini, triestini, fiumani, sospetti di irredentismo. Tutti gli uomini validi erano stati arruolati; di modo che gli internati eran quasi tutti vecchi, o donne, o adolescenti e bimbi.

Vi erano però anche alcune famiglie czeke, e zingari e galliziani. Moltissimi erano gli ebrei, ma c'erano pure alcuni preti cattolici dei paesi di confine. Si vedevano individui appartenenti a tutte le classi sociali, dame, artisti, banchieri, negozianti, operai; ma, pur conservando ciascuno qualche segno del loro primitivo stato, tutti erano improntati di quel marchio speciale, che è dato dalla trascuranza forzata di certe regole d'igiene e di pulizia, dalla mancanza di comodità, dal nostalgico rimpianto di consuetudini e luoghi e persone care.

—Il vitto lo riceviamo tre volte al giorno,—spiegava lo zio Benedetto,—la mattina caffè e pane; ma quando dico caffè vuol dire una broda nera, di incerta provenienza; e quando dico pane, è una pasta scura e dura, difficile a definire. A mezzogiorno c'è un piatto di legumi cotti nell'acqua, e la sera una minestra d'orzo. Questo per la gente che non può pagare. Ma c'è pure una specie di ristorante, dove mangia chi ha denari; e anche là il cibo non è buono, ma in compenso è caro.

Quanto alla vita spirituale, essa è rappresentata dalla lettura di libri, quelli che ciascuno ha portato con sè, beninteso non proibiti dal governo; di giornali che si vendono qui, e sono, naturalmente, solo giornali di spirito austriaco. Da conversazioni che si fanno fra di noi, raccogliendoci secondo nazionalità o gusti; escluso ogni argomento politico. Dagli uffici divini, che vengono recitati secondo il culto cattolico e ebraico, dai preti o rabbini di ciascuna religione. Ecco, quella è una specie di sinagoga, dovuta alla munificenza del barone Rosenwald. Lassù è la chiesa cattolica. E così siamo rassegnati a vivere, o anche a morire; certi che l'una cosa o l'altra è, dopotutto, indifferente.

—Qui godete, mi pare, di una libertà relativa.

—Sì. La guardia del campo è fatta da soldati ungheresi, che non lasciano nessuno allontanarsi più di qualche metro. Il governo è affidato a un commissario imperiale; egli non è cattivo. Ma ciò che è snervante qua dentro, oltre alla lontananza dalle case nostre, è questa promiscuità di ogni ora, che non si può evitare, data la ristrettezza del luogo. Si ha un bell'amare il prossimo, ma non lo si vorrebbe tanto vicino! Le donne poi soffrono della mancanza di cento cose. Avrai notato che in generale c'è disordine e rilassatezza, per non dire sudiciume, dappertutto. Ciò deriva specialmente dal nessun interesse che le donne pongono a queste cose e questi luoghi. Se ciascuno avesse il suo proprio appartamento, sarebbe diverso. Una donna che si sente a casa sua, istintivamente si mette a nettare, a riordinare. Qui invece ciascuna lascia questa cura alla vicina. E così tutte passano il tempo a chiacchierare e a lamentarsi. Le donne ebree poi, specialmente quelle che vengono dalla Boemia o dai villaggi orientali, si lagnano di non potere sempre cucinare coshèr (secondo il rito); e gli uomini, benchè si siano stretti in comunanza anche qui, per la recitazione delle preghiere e l'osservanza della Legge, rimpiangono il loro tempio, il loro rabbino, e la facilità con cui era dato loro di compiere liberamente tutti gli atti del culto. Eppure, vedi, anche qui gli ebrei, per quanto di nazionalità diversa, e non parlanti la stessa lingua, sentono la noia dell'esilio meno dei cristiani. La conformità degli atti religiosi, l'obbligo morale che ciascuno prova di compierli, la necessità della preghiera in comune, creano subito un affiatamento, che invece non si osserva tra i cristiani di paesi differenti.

Passò dinanzi a loro una bimba di forse dieci anni, che portava un grande secchio d'acqua con le sue piccole mani. Ma subito le corse incontro una donna, tutta premurosa, che prese il secchio e sgridò la fanciulla in linguaggio jüdisch, che Giosuè ben conosceva.

—Quella bimba è una polacca,—disse Benedetto,— è orfana di un rabbine, che morì colpito da una palla russa, mentre era nel campo, intento a confortare un soldato ebreo, moribondo. La piccola, rimasta sola, poichè la casa le fu arsa dai russi, fu raccolta da una famiglia polacca, cattolica, la quale è internata qui…

—Un fatto consimile lo lessi sui giornali francesi di questi giorni,—disse Giosuè,—e riguarda un rabbino di Lione, di cui ancora ignoro il nome. Egli pregava appunto presso un soldato ebreo ferito, quando un altro soldato, cattolico, caddè lì vicino mortalmente colpito. Il rabbino accorse a lui, e mentre gli diceva qualche parola di conforto, venne, lui stesso, ucciso da una palla.

La presenza del dottore Giosuè nel campo di internamento produsse un gran bene, e lo benedissero cristiani e ebrei, indistintamente. Con la sua autorità ottenne una maggiore pulizia; fece costruire dai soldati altre baracche, e gli internati capaci di lavorare si offrirono spontaneamente a aiutare. Così la popolazione potè essere più diradata. Fece venire viveri in abbondanza, persuadendo i più ricchi di fondare una specie di cooperativa, che andrebbe in favore delle classi disagiate; e quotò se stesso e i suoi parenti per forti somme. Comprò pure del bestiame vivo, per riserva, e parecchie volte, affinchè i bambini avessero latte, mentre prima difettava assai. Fece una larga distribuzione di medicinali, e ne arricchì l'unica farmacia, che mancava di tutto. Fece scavare pozzi, latrine, canali di scolo; provvide a una migliore sistemazione del camposanto, ahimè, troppo pieno oramai di tombe tutte recenti. Insomma rese il luogo abitabile, così che lo stesso commissario di polizia ne lo ringraziò vivamente e ne scrisse gli elogi a Vienna, dicendo che l'opera del dottore aveva certo risparmiato un'epidemia nel cuore dell'Austria.

Intorno alla baracca abitata dal dottore e dai suoi due parenti, si raccoglievano in varie ore varii gruppi di gente, chi per una visita medica, chi per consiglio o aiuto… Qualcuno, uomini e donne, venivano a raccontare i loro tristi casi al vecchio Samuele, e ascoltavano le sue parole, che suonavano sempre inspirate, come versetti biblici. Egli continuava a parlare di se stesso come di Giòbbe, a cui ogni cosa era stata tolta, ma comprendeva benissimo anche le pene degli altri, e sapeva trovare le parole più adatte a confortare. Quel vecchio, sazio d'anni e di dolori, con la sua fede incrollabile nella giustizia divina, anche quando tutti i fatti orribili inesplicabili potevano farne dubitare; con la sua parola attinta continuamente alle fonti della Thora e del Talmud, che ammoniva, pregava, risollevava i cuori abbattuti e vi riaccendeva le speranze, pareva a tutti quei miseri viventi nell'esilio uno di quegli antichi profeti, che, vicino ai fiumi di Babilonia, parlavano al ramingo popolo ebreo della patria perduta, e dicevano il giorno del riscatto e del ritorno.

Con Giosuè e Benedetto venivano volentieri le persone più colte e di mente elevata a parlare di gravi problemi sociali e filosofici. La politica era esclusa, sia perchè proibita dalla polizia, sia perchè, tra uomini così diversi di razza e di idee, non sarebbe stato facile intendersi. V'erano dei cristiani e v'erano degli ebrei in quel crocchio; gente venuta dai confini orientali, e italiani e italianizzanti. Tutti avevano sofferto molto della guerra, e si auguravano finisse presto, ciascuno celando in cuore il voto della vittoria finale. Degli austriaci nessuno osava lagnarsi, naturalmente, ma dei russi sì; c'era specialmente un dottore ebreo, un certo Adolfo Münster, che aveva visto ardere dai russi l'ospedale con dentro i malati troppo gravi per fuggire, e in quell'incendio aveva anche perduto la moglie, che abitava nel medesimo edificio; il quale non rifiniva di parlare delle atrocità dei russi nei villaggi conquistati, specialmente contro gli ebrei.

—E pensare,—diceva,—che la polizia austriaca, quando i russi furono ricacciati nelle loro steppe, mi sospettò di connivenza con quei barbari, e mi ha internato! Ironia del destino! E' vero che a me oramai è indifferente il punto del globo sul quale vivo. Ho veduto troppi orrori, compiuti da questa tigre che si chiama uomo. L'odio dei russi contro gli ebrei è fanatico, è pazzo! I giornali di tutto il mondo e di tutti i partiti hanno stigmatizzato quelle infamie. A che giova? Esse non sono finite! Leggete quello che il Kennan scrive nell'Outlook. Egli ha potuto ripetere gli orrori che aveva già narrato, della Siberia; anzi, ha dovuto ancora caricare le tinte. L'esercito russo fece dei progroms sanguinosi contro gli ebrei in più di duecento villaggi, e ha sterminato migliaia di famiglie. Lo sanno i polacchi e i galliziani che son qui, anche se non sono ebrei.

—E' vero, è vero,—mormoravano alcuni.

—A Stachew undici ebrei vennero impiccati nella sinagoga; a Klodawa due ragguardevoli cittadini ebrei furono impiccati un venerdì sera al balcone della propria casa; e la moglie di uno di essi fu minacciata di essere arsa al lume della lampada sabbatica che aveva acceso allora, se non provvedeva la corda. Sul petto del marito di lei fu posto un cartello con la scritta: «Giustiziato, perchè non volle cambiare una moneta di tre rubli».

—Possibile!

—Sì. La moneta era falsa. A Schidlovec alcune giovinette ebree furono violentate dai soldati russi, e disperate si gettarono nello stagno di Pylic, dove trovarono la morte. In un altro luogo strangolarono il vecchio padre, torturarono il figlio sino a farlo morire; poi violentarono la figliuola dinanzi a quei cadaveri.

Un urlo di orrore e di indignazione si levò, insieme a un coro di maledizioni.

—Tu sei medico?—gridò un polacco.—Ma tu dovevi fingere di essere amico di quelle canaglie, e avvelenarli quanti più potevi. Ecco ciò che dovevi fare!

Il giovine medico, che raccontando quegli orrori si era fatto pallido come un cadavere, scosse il capo.

—Avrei dunque dovuto mettermi al livello di quei bruti? —mormorò.

—Bravo!—esclamò Giosuè,—ecco una risposta degna di un uomo, intendo dire di chi ha acquistato i veri caratreri dell'umanità. E' orribile, è doloroso tutto ciò che ha detto il dottor Münster, ma sarebbe pazzia opporre alla brutalità la violenza.

—Eh! sono idealismi inutili,—disse uno.—Ferro e fuoco; ecco i veri rimedi.

—E' così che il male si eterna,—rispose Giosuè.—E' l'umanità non sarà salva per questa strada.

Pochi giorni dopo partì il dottor Giosuè, lasciando dietro a sè una folla di gente riconciliata anche con la penosa esistenza cui era condannata, e con la promessa di vegliare su di essa anche da lontano. Suo zio e il nonno, ai quali assicurò che presto avrebbe ottenuto il loro rimpatrio, gli risposero:

—No, lasciaci qui. C'è troppo da fare per abbandonare questo posto.

Difatti in quei giorni Benedetto era riuscito a organizzare una scuola gratuita per fanciulli, e il vecchio Samuele aveva cominciato a insegnare quanto occorre a alcuni ragazzi ebrei che, dovendo compiere tra poco il tredicesimo anno, si preparavano per la solennità della iniziazione religiosa.

Luisa Furiani era ritornata a casa. Le ragioni che ve l'avevano determinata erano varie. La malattia le aveva lasciata una grande debolezza, che le rendeva molto faticoso il suo compito; le continue scene di distruzione e di sangue, lo spettacolo di orribili ferite e di morti, diventavano sempre più insopportabili ai suoi nervi eccitati. Il dottore Giosuè, che era ritornato a Varsavia, ora in mano agli austro-tedeschi, le diede seriamente l'ordine di lasciar tutto e di partire.

Ella non si decideva.

Ma poi le giunse da suo padre una lettera, che le dava la notizia che egli era stato licenziato dal suo posto. Dopo trent'anni! era stato messo sulla strada, senza un soldo di pensione. La sua colpa, quella di essere padre di un disertore. Il consiglio comunale era stato sciolto; la città era tutta in mano dei poteri governativi, e questi avevano licenziato tutti gli impiegati che non fossero persona assolutamente grata all'i. r. Luogotenenza o all'ufficio di polizia.

Per il povero signor Furiani era la rovina, la miseria completa. Economie in casa non erano mai riusciti a farne; si viveva sullo stipendio, come un giorno si sperava di vivere sulla pensione. Il colpo era tremendo. Luisa se ne risentì profondamente. Ella amava moltissimo suo padre; che avrebbe oramai fatto, il pover'uomo, per vivere? E la mamma, anche lei, così subito smarrita dinanzi a ogni minima difficoltà, incapace di una energica risoluzione, e poi, fastidiosa, brontolona, tormenterebbe certo il marito con continui piagnistei e querele.

Se ella ritornava a casa, avrebbe lavorato, e anche moralmente sarebbe stata di sollievo a tutti due.

Infine, ciò che la decise fu un avvenimento inaspettato. Alvise Galli le domandò se voleva essere sua moglie. Ella rispose con molta cortesia e con molta calma, che era contraria al matrimonio, e non si sarebbe sposata mai. Lui le domandò allora sorridendo se non diceva così perchè forse il suo cuore era già impegnato?

Luisa arrossì appena e disse no. Quando la guerra fosse finita, voleva dedicarsi seriamente all'insegnamento, per guadagnarsi da vivere, e alle lettere, per suo piacere. Non si sentiva nessuna disposizione a divenire una madre di famiglia.

Alvise la pregò di riflettere ancora; il che Luisa fece davvero, ma il risultato di queste riflessioni fu che era meglio, per lei, chiedere un congedo e andarsene. La dichiarazione del dottor Galli la metteva in imbarazzo, e lei non si sarebbe più sentita a suo agio in quel luogo, dove poteva incontrarlo ogni momento. Ne volle però parlare con Davide; non era lui, più che amico, fratello suo, consigliere devoto e disinteressato?

Davide l'ascoltò seriamente e poi rispose:

—E' da un pezzo che io conosco l'inclinazione di Alvise per te. Me l'ha confidata lui stesso, perchè voleva sapere da me se… tra noi due non ci fosse già un precedente impegno…

—Fra noi due?…

—Sì. Io risposi che non c'era nessun impegno, e che egli era libero di fare la sua domanda. Ora tu mi confidi di avergli risposto no. Permettimi allora che ti domandi il perchè del tuo rifiuto.

—Non voglio sposarmi, non c'è altra ragione.

—Anche se il pretendente fosse un altro?

—Quale altro?

—Oh, tu sei diventata di fuoco, mia povera Gigetta! Dunque, può esserci un altro, che sarebbe meno sgradito.

—Andiamo! Io ti ho fatto una confidenza come a un fratello, e tu ti burli di me. Ciò non è bello.

—Non mi burlo di te; parlo sul serio. Vedi, io ho la convinzione che mio fratello Giosuè sarebbe felice di sposarti. E tu che ne pensi?

—Lui te l'ha detto?

—No; ma ne sono sicuro.

—E tu che ne pensi?

—Io sarei felice di averti per congnato. E lo sai, non potresti trovare un uomo più degno. Ingegno, celebrità, ricchezza… Tu potresti gustare tutti i piaceri dell'arte, godere tutte le sodisfazioni. E poi, tu sai che nobile cuore è Giosuè.

—Lo so benissimo. Io lo ammiro e lo apprezzo assai. Ma non lo sposerò.

—Faresti forse qualche difficoltà per la religione?

—No; tu lo sai benissimo che per me non c'è differenza.

—Allora… potrei offrirti un altro fidanzato, di meriti assai minori… Non ricco, non celebre; un po' vagabondo, un po' fantastico e inquieto; pieno di sogni vani; inesperto nella vita pratica, e, temo, assai poco capace di rendere felice una moglie; ebreo, per giunta.

—E chi sarebbe?…

Ma già Davide l'avea stretta nelle sue braccia.

—Vuoi essere la mia fidanzata, Luisa?

Ella disse sì, lietamente, dimenticando tutti i suoi proponimenti di non sposarsi mai.

—Sarò, temo, un cattivo marito,—diceva lui, un po' scherzando, un po' sul serio.—Ma tu mi conosci, sai tutti i miei difetti. E sono persuaso che nessuna donna al mondo potrebbe essermi compagna più indulgente e amorosa.

—Ma tu forse ti illudi; mi credi più buona; anch'io sono fantastica e caprieeiosa.

—Taci. Tu sei la mente e il cuore che soli al mondo possono intendermi; io sento che il mio pensiero vibra col tuo, che tu mi capisci prima ancora che io parli! Io sento che non posso rinunziare ai miei sogni umanitari. Nonostante la scossa terribile che questa guerra ha dato alle mie convinzioni, alle mie speranze, esse sono rinate, più forti. Sono destinato a questo, è inutile che io mi ribelli. Lotterò sino all'ultimo; sarò probabilmente un vinto, cadrò lontano assai dalla mèta… Ma dovessi morire in croce come il Cristo, il mio compito è questo; io devo assolverlo.

E le parlò di incontri da lui avuti a Varsavia con un insigne pensatore polacco, il Barkowitz; il quale tentava di riallacciare i rotti fili dell'Internazionale, promuovere a Berna un congresso socialista per la pace, e quindi riprendere con forze rinnovate l'opera ora paralizzata, che dovrebbe condurre alla fratellanza dei popoli, e al benessere universale.

—Tu mi aiuterai, tu lavorerai con me,—diceva Davide, riaccendendosi dell'antico entusiasmo.—Tu hai veduto coi tuoi occhi che cosa è la guerra; ebbene, l'arte ti servirà a farne dei quadri, che la presentino al mondo sotto il suo vero aspetto. Non credo che, per anni e anni, uno scrittore potrà trattare altro argomento, perchè gli animi ne sono troppo impregnati. Tu sarai il poeta di questa terrificante tragedia del mondo.

—Tu ti illudi sulle mie forze,—rispondeva lei sorridendo, —ti confesso però che già avevo pensato a un simile lavoro, e che ho già preso molti appunti, i quali potranno servirmi per una opera di gran mole. Se mi mancherà l'arte, almeno ci saranno la sincerità e la convinzione.

Così quei due singolari findanzati, che pur si amavano con tutto il cuore, formavano progetti per il loro concorde lavoro, decisi di combattere fianco a fianco la incruenta battaglia per l'umanità. E pochi giorni dopo Luisa era ritornata a Trieste.

Nonostante il suo fidanzamento con l'uomo che ora capiva di avere sempre amato, ella non poteva provare nessuna gioia. Lo aveva lasciato a Varsavia, è vero, ma poteva domani essere mandato più nell'interno, dove ferveva più implacabile la guerra. E se non avessero dovuto vedersi più?

Poi nel suo viaggio non aveva veduto che scene di desolazione e di miseria. Tutta la Polonia e la Gallizia portavano i segni della distruzione, e siccome il treno lentissimo fermava a ogni stazione, ella poteva vedere lo spettacolo di migliaia e migliaia di contadini seminudi, affamati, erranti, mendicanti, che assediavano ogni luogo abitato, invocando pane a alte grida. Gli ebrei erano assai più numerosi, e lei li riconosceva al lungo cencioso kaftan, ai riccioli cresciuti sulla fronte, e più alla loro parlata jüdisch, con cui narravano le loro miserie. A una fermata più lunga, dove ella era scesa, offrendo un po' di pane a alcuni luridi e spettrali bambini, udì il racconto di uno di quei miseri, il cui linguaggio colto contrastava con le vesti a brandelli. Egli le disse, mentre grosse lagrime scorrevano dalle sue magre guancie nella lunga barba ispida:

—Siamo più di due milioni di ebrei in Polonia, privi di tutto, oramai. Siamo sempre stata una popolazione povera, perchè la Russia non ci permette di possedere terreno. Siamo piccoli negozianti, operai, facchini, calzolai, sarti… Questi sono i nostri mestieri in generale. Io ero servo della sinagoga. Ma si viveva onestamente, aiutandosi l'un l'altro. Avevamo le nostre società di beneficenza, i nostri rabbini, le nostre scuole. Per noi la guerra è stata una vera Horbàn Jerushalaim (distruzione di Gerusalemme), che ci ha rovinati e dispersi. Siamo stati strappati ai nostri focolari; parecchie migliaia sono morti in viaggio, di privazioni e di epidemie; molte famiglie non conoscono la sorte di alcuni loro cari.

—Se l'imperatore vi garantirà una Polonia autonoma, —disse per consolarlo Luisa,—ritornerete ai vostri paesi, e godrete anche voi delle libertà concesse ai polacchi.

Il servo della sinagoga scosse il capo.

—Noi siamo tutti buoni polacchi,—disse,—e nessuno si rallegrerebbe più di noi della libertà del paese. Ma qui la questione antisemita è seria. Siamo sempre stati trattati come stranieri, nonostante che i nostri antenati vivessero in Polonia e in Lituania da secoli. Bisognerebbe che noi avessimo gli stessi diritti degli altri cittadini; solo allora si potrebbe sperare ancora in un'epoca di pace, se non per noi, almeno per i figli nostri.

Luisa che, dacchè era fidanzata di un ebreo, si interessava più che mai alle condizioni di questo popolo disgraziato, volle parlare anche con un gruppo di fuggiaschi dalla Palestina, e il buon servo della sinagoga servì da interprete, perchè a lei era impossibile comprendere il linguaggio misto di turco, di ebraico, di russo e di polacco che quella gente parlava.

Erano tutti agricoltori, che appartenevano alla grande società coloniale israelitica Ica, promossa fin dal 1875 dai ricchi ebrei Rotschild, Hirsch, Löwy, e altre personalità del mondo bancario. Essi erano della colonia di Ricon-Lezion, che è a due ore di distanza da Giaffa.

—Eravamo,—dicevano quei profughi,—duecento ottanta famiglie, con novecento abitanti. Si viveva come nostro padre Abramo con la sua tribù. Tutti lavoravano la terra, che è veramente benedetta da Dio. Aranci, mandorli, viti, albicocchi; tutto cresceva a meraviglia. E ora ci hanno distrutte le piantagioni, siamo raminghi per il mondo. Lo stesso hanno fatto alla colonia di Diran, popolata da seicento ebrei russi. Furono uccisi o dispersi dai turchi. Ma noi siamo polacchi di origine. E ci hanno trattati ugualmente.

Quando, alla fine di quel triste viaggio, fu in vista di Trieste, già dalle alture di Opcina notò che mancava il noto spettacolo della città, fantasmagoricamente illuminata da migliaia e migliaia di lumi. Tutto era buio. Alla stazione, dove suo padre e sua madre la aspettavano, non c'erano che pochissimi passeggieri, ma dentro e fuori un numero stragrande di guardie e di militari, e uno stuolo immenso di feriti, che scendevano dal suo treno stesso.

Si avviarono a piedi lungo la Riva, solitarià e scura; nessuna luce veniva dalle finestre delle lunghe file di case che prospettano il mare. Immobile, muta, fiaccata giaceva la città, già così vivace e rumorosa. Il mare piangeva e mormorava intorno ai forti muri del molo, e da lontano giungeva, nella notte, il sordo rimbombo dei cannoni. Laggiù, dalla parte di Monfalcone, salivano, come fontane luminose, i razzi.

—Oh, papà, che tristezza, che tristezza!

—E è sempre così; vedrai domani; la città sarà ancora deserta e spopolata. Anche il Corso. Ti ricordi che allegra folla a mezzogiorno, e nei pomeriggi? Quante belle signore e ragazze! Che corteo di giovanotti eleganti! E carrozze, e automobili, e scintillìo di ricche vetrine e di caffè… Nulla più di tutto questo. Pochi negozii sono rimasti aperti; nessuno di italiani. Le poche birrerie e trattorie sono tutte tedesche. Dappertutto si parla tedesco; non c'è più che il popolo il quale non sa altro che il suo dialetto, e lo adopera. Le vie sono state tutte ribattezzate, quelle che avevano nome di illustri italiani. Non sono rimaste famiglie italiane; tutte via; e anche le famiglie triestine, quelle che simpatizzano con l'Italia, o sono internate, o sono fuggite in Italia o in Svizzera. A Zurigo c'è una folla di triestini.

Parlavano a bassa voce, per timore e per malinconia.

—E quello, che cos'è?—domandò Luisa, indicando una grande casa, al cospetto del mare, dalla quale uscivano fasci di luce azzurra.

—E' il nuovo albergo; lo hanno costrutto da poco, e è destinato, si può dire, agli ufficiali; ci vanno anche famiglie della borghesia, ma specialmente uomini; e tutti austriacanti, s'intende.

Passandovi vicino, Luisa vi lanciò dentro un'occhiata. Nella magnifica sala ovale, una debole luce azzurra. Dal fondo veniva una musica viennese, piana, malinconica. Si potevano distinguere molti tavoli, a cui stavano seduti ufficiali. Il grigio delle loro uniformi si fondeva con la penombra della sala. Centinaia di lampade pendevano dal soffitto e dalle pareti, e in mezzo, dall'alto, un lustro grande, magnifico; ma non ne veniva che una scarsa luce, velata ancora da vetri violetti. Molte kellerine belle e eleganti servivano la birra spumante. Ma nemmeno da quel ritrovo di gioventù e di bellezza non uscivano voci di gioia; anche là dentro si parlava con tono temperato, come si fa nella stanza attigua a quella di un morto.

Subito, la sera stessa, Luisa volle andare a trovare i Levi, e ne fu accolta come una vera figliuola. Già Davide aveva annunziato il loro reciproco impegno.

Trovò la signora Sara completamente canuta. Il viso bianco d'avorio, sotto quei capelli folti e candidi, illuminato da due dolorosi occhi neri, incuteva un senso di riverenza e di pietà infinita. Il signor Adamo, curvo, rimpicciolito, canuto, magro, si moveva per casa come un'ombra silenziosa. La casa stessa pareva misteriosa e inquietante, scarsamente illuminata da qualche candela; ogni altro mezzo di far luce era proibito. Ester, pallida nel suo vestito nero, malinconica e dolce come sempre, aveva tuttavia nel visuccio scolorito una espressione tranquilla, come il riflesso di un pensiero sereno.

—Lo diciamo a te, Gigetta, che sei di famiglia;—disse la signora Sara, accarezzando la figliuola;—Ester è fidanzata col capitano Mejer; se saremo vivi dopo la guerra faremo queste nozze insieme con le tue.

—Massel tove!—mormorò il signor Adamo.—Il Signore non ci abbandona!

Luisa diede tutte le notizie richieste dai parenti su Giosuè e Davide; e ne chiese di Bianca. La madre sospirò e scosse il capo.

—E' sempre a Gorizia, ma pare la manderanno ora a Trento. Il nostro rabbino dice che a Trento ci sono molti conventi, e molti preti… Io credo che vorranno farla battezzare… sì, lo credo,—e pianse.

—Non succede nulla che non sia permesso da Dio,— disse Adamo.—Non piangere, chiama piuttosto il nostro ospite, e presentiamolo a Luisa, perchè egli parte domani.

L'ospite era il povero vecchio ebreo Schachner, il quale dal principio di giugno era stato internato come sospetto di spionaggio in favore della Russia; poi, liberato finalmente, era venuto a Trieste, dove era stato accolto con grande carità dai Levi, e stava per ripartire verso Laibach, dove sperava di ritrovare qualcuno dei suoi.

—Lei deve avere molto sofferto,—gli disse Luisa, osservando le sue guancie cave e gli occhi smorti.

—Tutti abbiamo sofferto,—rispose il poveretto,—e quanti ne ho lasciati là, nel campo di Chozen! Eravamo circa ventimila persone, con due soli medici autorizzati. Per fortuna c'erano alcuni dottori, tra gli internati, che non temevano di rendersi utili, quando il caso lo richiedeva. Tre di questi erano ebrei, e non erano tra i meno coraggiosi! La mortalità era tuttavia terribile. Nella baracca accanto alla mia, occupata da famiglie ebree, sei bambini morirono in una notte; due altri erano agonizzanti. I suicidi sono frequentissimi. Abbiamo avuto la visita di due deputati polacchi, uno di questi è il nostro Lapai, che fecero rapporto al Governo, perchè i bambini di fresco arrivati furono messi a dormire in letti, dove altri bambini erano morti di scarlattina; e anche quelli ammalarono e morirono. Molti impazziscono là, di rabbia, di dolore, di noia; e molti vi furono condotti già pazzi! Ve ne sono circa duecento, rinchiusi in una specie di compartimento, dal quale evadono ogni tanto, spandendo dappertutto il terrore…

Una fossa serve da latrina comune, e talvolta vi si trovano annegati dei bambini o dei malati di tifo… Non è cosa orrenda? Il tifo fu specialmente portato dagli uomini, che erano stati mandati in Serbia, a costruire trincee e ferrovie… Quei pochi che sono tornati indietro hanno recato con sè la malattia.

—Bisogna,—esclamò Luisa,—scrivere al dottore Giosuè, perchè domandi subito di essere mandato a ispezionare Chozen! Egli ha fatto dei miracoli a Katzenau!

—Ah sì!—sospirò Schachner,—è un uomo capace di farne! ma bisognerebbe che ci andasse presto, altrimenti non troverà che morti.

Il domani Luisa seppe delle devastazioni compiute a Trieste in danno di tutto ciò che sapeva di italiano: Oltre gli uffici del Piccolo, incendiati gli edifizi della Lega nazionale, il caffè Chiozza, il palazzo della Unione ginnastica; nell'assalto dato al negozio di calzature De Rossi, l'impeto fu tale che donne e fanciulli rimasero calpestati e uccisi. Le manifatture Levi ebbero a soffrire una devastazione ancor più radicale, per essere di un italiano e ebreo insieme. E' incredibile l'odio che queste due parole provocavano nella folla furibonda. I monumenti a insigni italiani, come quello a Domenico Rossetti e a Giuseppe Verdi, attaccati con martelli e tenaglie, erano in gran parte rovinati; persone ragguardevoli erano state inseguite, minacciate di morte e percosse, col pretesto ch'erano italiani; e la polizia, da parte sua, dava la caccia a tutti i sospetti. Il dottor Liebmann, israelita, uomo di grandi meriti, amico di Giosuè Levi, accusato di alto tradimento, fu arrestato e internato, insieme al dottor Modena, all'avvocato Nissim, al professore Robenstein, pure ebrei, tra i cittadini più stimati per generosità, per scienza e patriottismo.

E continuamente ella sentiva tuonare il cannone dal forte di Duino e dall'altipiano del Carso, e la poca gente che passava per le strade silenziose si guardava, ansiosa e sospettosa. Quel cannone suonava per gli uni minaccia e per gli altri speranza…

Poi, quasi ogni giorno i vetri delle finestre tremavano per lo scoppio delle bombe lanciate dai dirigibili italiani su Nabresina, sulle ferriere di Servola, sullo stabilimento tecnico, dove si fabbricavano gli obici da 305 e da 420. E allora urla di imprecazione e di dolore salivano dalle strade…

E la miseria… e la fame. I prezzi dei viveri saliti in modo spaventoso, e pure questi scarseggiavano ancora. Si vendeva un pane nero immangiabile; carne affumicata e salami a dodici e quindici corone al chilogramma, il formaggio a otto corone, la carne fresca non aveva prezzo. Tutte le famiglie erano a razione per la farina gialla e la bianca.

—Ma qui si muore!—diceva con spavento Luisa. E si stupiva che i suoi avessero potuto vivere fino allora, ridotti unicamente al poco che possedeva la nonna Marietta, la quale era venuta a stare con loro, per ragioni di economia. Allora suo padre le confessò che da molte settimane vivevano col denaro prestato loro dal signor Adamo, e con le provviste di olio, vino, patate, che i Levi avevano fatto prima della guerra, e che avevano diviso con loro…

Luisa si sentì commossa, e pure un poco umiliata da questa elemosina. Ella ne parlò con la signora Sara, e dichiarò che voleva almeno guadagnarseli in parte quei denari.

—Baderò io ai bimbi della nostra povera Rachele, farò loro un po' di scuola,—disse.

E la signora Sara accettò assai volentieri, per avere così il mezzo di soccorrere più ampiamente i suoi vicini. E Luisa poteva credere che fosse col suo guadagno possibile alla famiglia l'acquisto del pochissimo che si trovava a comperare. Volle anche cercare qualche lezione fuori, e trovò solo le signorine Coen disposte a riprendere con lei gli antichi studii. Ma ella capiva che lo facevano solo per potere aiutarla delicatamente, e, mentre ella leggeva loro un passo di Dante, o altro, esse le chiedevano il permesso di lavorare… Erano vesti per i poveri, lanerie per i soldati, corredini per bimbi i lavori che facevano, e il piano taceva ora, triste dimenticato. Chi poteva più pensare a suonare, a cantare, a Trieste?

Quando ella ritornava a casa incontrava per le scale frotte di poveri, che salivano e scendevano. Erano quelli che la signora Sara giornalmente sfamava. Il negozio del signor Adamo, che era stato saccheggiato e devastato dalla plebe, ora era mutato in uno spaccio di latte e di legumi. La merce la provvedevano, a caro prezzo, lo stesso Adamo e alcuni ricchi individui della comunità israelitica, tutti anonimi. E proprio lui, Adamo Levi, per risparmiare la spesa di un commesso, serviva quel pubblico di cenciosi, che pagava con un semplice buono rilasciato dal Municipio ai più miserabili.

E le giornate passavano, e parevano interminabili. E ogni giorno crescevano i bisogni, la fame; ogni giorno ciascuno che apriva gli occhi si chiedeva trepidante: che accadrà oggi? La scarsezza e la incertezza delle notizie accrescevano l'ansia generale. Nulla più si sapeva, se non da fonte austro-tedesca; ogni altra comunicazione col mondo era tagliata. Una greve malinconia era in tutte le case; ognuno aveva un caro perduto o lontano da piangere, o tremava per l'avvenire e soffriva nel presente. L'avanzata in Russia, la ripresa terribile della guerra nei Balcani, infersero nuove ferite alla città moribonda. Il governo voleva nuovo denaro; il luogotenente imperiale Kreckitch, conte di Stralsunda, succeduto al principe di Hohenlohe, che era parso persino troppo mite! emanò ordini precisi per la sottoscrizione del Prestito. I più ricchi furono naturalmente i più spremuti; ma anche coloro che, pur essendo rimasti a Trieste, si sospettavano non essere schiettamente austriaci e dinastici, furono presi di mira, e officiati a sottoscrivere il più che fosse possibile. Anche stavolta gli ebrei attirarono la non benevola attenzione di Sua Eccellenza; il conte di Stralsunda era persuaso che tutti gli ebrei triestini fossero nemici occulti dell'impero, e che desiderassero l'avvento dell'Italia, e agì in questo senso. I pochi banchieri, uomini d'affari, negozianti ebrei rimasti in città, furono chiamati a uno a uno, e invitati a sovvenire lo Stato in conformità dei loro averi… e a offrire in tal modo una prova convincente della loro devozione a Sua Maestà Imperiale e Reale.

Fra questi chiamati ci fu pure Adamo Levi. Egli si scusò di potere far poco, perchè il negozio gli era stato distrutto, gli affari erano tutti fermi, e egli spendeva giornalmente assai più delle sue rendite per soccorrere alle crescenti miserie del popolo.

—Andiamo, andiamo, non ci racconti delle fiabe,—gli rispose bruscamente l'alto impiegato che lo aveva ricevuto;— noi sappiamo che lei è ricco. E poi, loro ebrei hanno la fortuna di essere pozzi senza fondo; quand il n'y en a plus, il y en a toujours. Se Sua Maestà si degnasse di frugare energicamente nelle casse forti degli ebrei dei suoi stati, sarebbe il più ricco sovrano del mondo.

Nonostante questo nuovo salasso, i Levi non cessarono un momento la loro opera di carità, e con loro lavoravano instancabili altre ottime famiglie ebree; e nessuno limitava i propri aiuti da considerazioni confessionali; no, il motto di ciascuno era: prodigarsi sempre, in tutti modi, a tutti i bisogni. E' vero che la carità profusa dai comitati doveva quasi imporsi alla carità ufficiale, la quale, pur in così dure contingenze, faceva la schifiltosa, e evitava, potendo, di dare a quella la mano; ma la spaventosa miseria, che, dagli strati più bassi invadeva ora anche le classi medie, spingeva i bisognosi in cerca di aiuto, e non domandava se il soccorso sapesse di ebreo o di cristiano. Così le donne del popolo erano ben felici di trovare asili aperti per i loro bambini, dove era del buon latte e un tozzo di pane sia pur nero; non importa se le improvvisate bambinaie e maestre fossero in gran parte signore e signorine israelite; e se nelle questue di beneficenza le dame della aristocrazia ostentavano di escludere le acattoliche dal loro consorzio, queste mostravano di saper fare da sole, attingendo inesauribilmente denaro alla fonte di una carità inesaurabile. Non si viveva più; solo si aspettava… Che cosa? nessuno avrebbe saputo dirlo.

Da un giovine, compagno di Davide, ritornato ferito a Trieste, Luisa aveva avuto una lettera del fidanzato, non toccata dalla censura. In essa Davide le esprimeva con ardore il suo amore e le sue speranze; diceva del bene che avrebbero tentato di fare insieme, affrettando l'opera della redenzione, della fratellanza umana.

«Perchè non vi dovranno essere più odii religiosi e antipatie di razza; non esaltazioni orgogliose di un popolo sull'altro; occorre che ognuno impari a riconoscere in se stesso prima l'uomo, e poi le sue diverse relazioni familiari, nazionalistiche, religiose. Su questa strada, mia cara, noi dobbiamo camminare uniti, e verso questa mèta.

«Ma io non mi faccio illusioni, e non fartene tu, mia buona! Questo sconvolgimento non si placherà così presto. Nè la guerra sarà l'ultimo orrore al quale assisteremo.

«E come sarebbe d'altronde possibile? La guerra ha ridato all'uomo il gusto del sangue, l'abitudine della ferocia, l'ammirazione per la violenza; l'uomo si è ricordato di essere nato belva. Credi tu che, finita la guerra, egli potrà, d'un colpo, ritornare a quella qualunque civiltà, che così faticosamente aveva conquistato? Che da un giorno all'altro egli, da omicida, ritornerà pietoso di se stesso e d'altrui?

«Come il mare profondamente sconvolto da una grande tempesta, mugge ancora lungamente, e flagella rabbioso le rive, così l'umanità dovrà dibattersi molto tempo ancora nel turbine dei suoi sogni sanguinari, prima che venga a ricuperare l'equilibrio dei suoi valori individuali e sociali. Alla guerra succederanno altre scosse violente; rivoluzioni parziali o forse generali; impeti e furie; come succede sempre quando la società è allo svolto di un nuovo cammino.

«Se noi due ne usciremo vivi, Luisa, dobbiamo essere tra quelli che vanno innanzi agli altri, agitando la bandiera della giustizia e della pace.

«E che importa se la folla bestiale ci butterà a terra, e ci calpesterà coi suoi piedi? Verrà pur qualcuno che raccoglierà il vessillo caduto dalle nostre mani, e diventerà il condottiero di quella gente placata».

A mezzogiorno del 15 novembre dell'anno 1915, metto la parola fine sotto questa semplice e vera narrazione. E domando a me stesso: Che cosa avverrà domani, lo ignoro. Lascerò passare alcuni anni, che certamente saranno densi di formidabili avvenimenti, e allora, forse, ritroverò qualcuno dei protagonisti di questa storia, e, se ne varrà la pena, li ripresenterò al lettore. E intanto continuerà lo Sterminio a essere padrone del mondo, e l'Odio continuerà a incitare gli uomini uno contro l'altro, finchè la terra non sia un deserto coperto di rovine? Si prepara forse, dopo questo popolo di morti, l'avvento di una generazione nuova, che conoscerà solo la pace e l'amore?

Non so.

Qui la mia storia deve finire. A questo punto devo abbandonare la città dolorosa, immersa nel suo sogno d'angoscia. La rivedrò? e come sarà allora? risaneranno le sue piaghe crudeli?

E con lei devo lasciare le creature, la cui vita ho seguito per dieci anni e più, quasi giorno per giorno; creature non viventi nella mia fantasia, ma nella realtà e nel mio cuore. Che sarà di loro? Davide sposerà la sua Luisa, e daranno un giorno forma a quel loro sogno di Bontà e di Bellezza, che dovrebbe aleggiare con candidi vanni di pace sull'Umanità lacerata? O cadranno per via, con ali tarpate, votati anch'essi alla sventura e alla morte? Io non so che sarà di loro, nè della tenera Bianca, la quale in ogni ferito crede di riconoscere l'amor suo, e continua a sognare romantiche fughe e l'incontro con l'uomo, che forse l'ha già dimenticata, che forse giace già morto, al di là di quelle formibadili trincee, dove tanto sangue generoso si spande dalle due parti. E il vecchio patriarca, e il suo infermo figliuolo, ritorneranno vivi alla casa abbandonata, o riposeranno, tra non molto, nel piccolo recinto che la pietà israelitica ha destinato ai numerosi suoi morti dei campi di concentramento? Chi lo sa! Oggi ancora vivono… e sperano. Il vecchio in un premio promesso dalla giustizia divina a chi si sforza di seguire sempre le sue sante leggi; il figliuolo in grige chiome e la povera gamba impotente, nei frutti che il suo insegnamento porterà un giorno nei piccoli cuori, che in quel campo di tristezza si volgono verso la luce della verità. Egli spera che saranno un giorno migliori di noi… E se qualcuno gli dice:

—E noi non siamo andati tutti a scuola? Non abbiamo studiato? Non ci insegnarono tante belle parole di giustizia, di amore del prossimo, di pietà e di generosità? E noi siamo la generazione che ha fatto la più orribile guerra e la più grande che la storia conosca,—egli ostinato risponde:

—Non abbiamo imparato abbastanza. Quando l'uomo conoscerà bene la verità, non potrà a meno di amarla, e diventerà buono.

Povero maestro Benedetto! Anche lui si pasce d'illusioni! Ma che cos'è la vita, se non una continua illusione? E dal momento che le sue non fanno male a nessuno, nemmeno a lui!…

E la piccola Ester sarà felice? Io non ho avuto tempo di farvi conoscere il capitano Mejer, altrimenti avreste compreso la passione di Ester, e gli avreste voluto bene anche voi.

Mejer è un'anima candida; un uomo che non conosce altro che il mare, il piroscafo che guida, e il tempio, dove non manca mai di recarsi, quando nei giorni prescritti, i suoi doveri glielo permettono. E' uomo semplice, che conosce bene la sua professione e tutto quello che concerne la religione, che osserva strettamente. Non ha mai messo in bocca un pezzo di carne di maiale, e digiuna rigorosamente quando il rito glielo impone. Non ha mai amato altra donna che Bianca, la quale, con la sua bellezza, aveva turbato profondamente il suo cuore e i suoi sensi. Ma quando comprese che ella non era per lui, e quando il sensale andò a parlargli per Ester, rivolse interamente l'animo suo alla dolce e buona fanciulla, risoluto di fare il possibile, per renderla felice. Certo le portava in dono anima e sensi intatti; fatto che può meravigliare e far sorridere i miei lettori cristiani, ma abbastanza comune fra i buoni israeliti, ai quali pare ancora cosa naturale che l'uomo si serbi puro per la sposa, come questa ha il dovere di serbarsi pura per il marito.

—Gente dell'altro mondo!—esclamerà il mio lettore. Ma non dubiti. Questa sciocca costumanza va sempre più scomparendo, specie nelle città, dove i giovinotti ebrei si fanno premura di imitare in tutto e per tutto i cristiani, e di rendersi degni della spregiudicata società moderna.

Il prelodato signor lettore si sarà, a quest'ora, già stupito di ben altre cose! Egli vorrebbe forse domandarmi come mai i personaggi principali della mia narrazione siano tutti ebrei… E perchè no, se era mia intenzione di narrare per l'appunto i casi di una famiglia ebrea, di mia intima conoscenza?

Se nella letteratura nostra sono rari i libri che raccontino fatti della vita intima degli israeliti, sono invece assai più frequenti nella letteratura romantica inglese, tedesca, boema, ungherese, polacca… Sacher Masoch, Kohn, Kommert, Perez scrissero pagine fresche, deliziosamente moderne sugli ebrei, descrivendone i costumi, anatomizzandone l'anima.

E' un errore credere che gli ebrei moderni siano perfettamente uguali ai cristiani in mezzo ai quali vivono. E perchè dovrebbe essere ciò? e chi ci guadagnerebbe, se fosse? Bisognerebbe che la società moderna cristiana fosse senza difetti, e allora sarebbe desiderabile che chiunque venga assorbito nella sua orbita si fondesse pienamente in essa.

Tuttavia è assai probabile che, dopo tre o quattro generazioni, specialmente grazie ai matrimoni misti, che vengono sempre più in moda, non ci saranno più veri ebrei, almeno nelle grandi città.

Ma per adesso ce ne sono ancora, e non me ne dispiace. Eppure, ciascun ebreo si assimila prestissimo la lingua e la nazionalità dello Stato in cui vive, e ne diventa cittadino convinto e sincero. Chi raccoglierà i nomi di tutti i soldati ebrei, che giornalmente muoiono sui campi di battaglia, ciascuno per l'ideale della propria patria? Quanti quadri sublimi di rinunzie, di eroismo! Quante pagine di gloria, per ciascuna patria, poichè ogni israelita ha sposata la causa di lei! Ma io mi indugio, quasi non sapessi staccarmi da questa gente, vissuta tanto tempo con me e nel mio cuore. Occorre separarci.

Voi, piccoli figli di Rachele e di Mieko, orfanelli dalle anime incolori, tenui come ali di farfalla, voi siete il domani che io ignoro. Dio vi benedica, orfanelli! Dal pianto che irrorò la vostra infanzia, quale seme di gioia e di amore matura! Portate voi nelle vostre piccole mani il segno di un tempo sereno, in cui tutti gli animi siano fraternamente avvinti in una religione di pace e giustizia, e il Redentore aspettato e il Redentore venuto sia per tutti la nova progenie oscuramente presentita in ogni dolente cuore umano:

«Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo; Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, Iam nova progenies coelo demittitur alto».

FINE