F. T. MARINETTI

ENIF ROBERT

UN
VENTRE
DI DONNA

ROMANZO CHIRURGICO

FACCHI
EDITORE
MILANO



F. T. MARINETTI
futurista
Signora ENIF ROBERT
futurista

UN VENTRE
DI DONNA

ROMANZO CHIRURGICO

1919
FACCHI, EDITORE—MILANO
VIA DURINI, 18

La Conquête des Étoiles, poème épique, 3e édition. Éditions de la “Plume” Paris… 3 fr. 50

Destruction, poèmes. Léon Vanier, éditeur, Paris. 3 fr. 50

La Momie sanglante, poème dramatique. Edizioni del “Verde e Azzurro”, Milano… 2 fr. 50

D'Annunzio intime, 4e édition. Edizioni del “Verde e Azzurro”, Milano… 2 fr. 50

Le Roi Bombance, tragédie satirique, 3e édition. Éditions du “Mercure de France”, Paris… 3 fr. 50

La Ville Charnelle, 4e édition. E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

Les Dieux s'en vont, d'Annunzio reste, 11e édition. E. Sansot et C., éditeurs. Paris… 3 fr. 50

La Conquête des Étoiles, 4e édition, suivie des jugements de la presse internationale. E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

Poupées électriques, drame en trois actes en prose, avec une préface sur le futurisme. E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

Enquète internationale sur le vers libre, précédée du premier Manifeste futuriste, 8e mille. Éditions de “Poesia”… 3 fr. 50

Mafarka le Futuriste, roman africain (21e mille). E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

Mafarka il Futurista, romanzo, tradotto da Decio Cinti (Processato e condannato. Due mesi e mezzo di prigione all'autore). Edizioni Futuriste di “Poesia” Sequestrato

Distruzione, poema, tradotto in versi liberi, col Primo pro. cesso di “Mafarka il Futurista” (Edizioni di “Poesia”) Esaurito

Re Baldoria, traduzione del Roi Bombance. Editori Fratelli Treves, Milano… L. 3, 50

Le Futurisme. Théories et Mouvement. 12e mille. E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

La Bataille de Tripoli, récit futuriste de la journée du 26 Ottobre 1911. Edizioni Futuriste di “Poesia” 1 fr. 50

La Battaglia di Tripoli, vissuta e cautata da F. T. MARINETTI. Edizioni Futuriste di “Poesia”.. L. 2,—

Le Monoplan du Pape, roman prophétique en vers libres. E. Sansot et C., éditeurs, Paris… 3 fr. 50

Zang-tumb-tumb. (Assedio di Adrianopoli), parole in libertà. Edizioni Futuriste di “Poesia”… L. 3,—

Guerra, sola igiene del Mondo. Edizioni Futuriste di “Poesia”… L. 2,—

L'Aeroplano del Papa, romanzo profetico in versi liberi, traduzione del Monoplan du Pape. Edizioni Futuriste di “Poesia”… L. 3, 50

El Futurismo, traducción de German Gomez de la Mata y N. Hernandez Luquero. F. Sempere y C., editores, Valencia… 4 reales

Futurisme, traduction russe. Éditions de “Prométhée” Saint-Pétersbourg… 1 r. 25 k.

Noi Futuristi. Edizioni Quintieri… L. 2,—

Manifesti del Futurismo, 4 volumetti dei “Breviari intellettuali” dell'Istituto Editoriale Italiano.. L. 8,—

Teatro sintetico Futurista, in collaborazione con B. CORRA e E. SETTIMELLI (2 vol). Istituto Editoriale Italiano, Milano… L. 4,—

Versi e prose di Stephane Mallarmé.—Prima traduzione italiana. “Breviari intellettuali” dell'Istituto Editoriale Italiano, Milano… L. 2,—

Come si seducono le donne. Ediz. dell'Italia Futurista L. 3,—

L'Isola dei Baci, in collaborazione con B. CORRA. Editore Facchi, Milano… L. 3,—

Democrazia Futurista, Dinamismo politico. Facchi, editore, Milano… L. 5,—

8 Anime in una bomba, romanzo esplosivo. Edizioni Futuriste di “Poesia”… L. 3,—

Un Ventre di donna, romanzo futurista, in collaborazione colla Signora ENIF ROBERT. Facchi, editore, Milano… L. 4,—

Non abbiamo ancora ben compreso, mi sembra, ciò che vuol dire «DONNA FUTURISTA».

Questo aggellivo non deve aver l'aria di atteggiamenti cinici o audaci, di pose ribelli, di corsa frenetica verso le cime impennacchiate e multicolori della NOTORIETA AD OGNI COSTO.

E neppure vuol dire un diversivo da détraquée per frugare nella nausea della vita con l'ultima illusione di una novità che valga la pena di essere vissuta.

Va inteso, invece, come un'energica cura di

CORAGGIO + VERITA.

Sarebbe dunque l'ora di smettere il tono civettuolo e inconcludente che è caratteristico della letteratura muliebre d'oggi, e di cominciare con energia l'enunciazione vigorosa di realtà ANCHE NON ESTETICHE, delle anime nostre.

Via le tiritere di stati d'animo velati, graziosi, assurdi, quali la contemplazione aeriforme delle stelle luminose, delle notti lunari, la descrizione meticolosa delle quattro stagioni rifritte in tutte le prose e le poesie maciullate da generazioni e generazioni di grandi, mediocri, infimi prosatori e poeti!

Sappiamo ormai a sazietà che la primavera ci porta il fiorellino blu; che in estate c'è la cicala che frinisce sull'olivo dell'orto; che l'autunno è languido e voluttuoso nei semi-toni appannati delle foglie estenuate; che l'inverno è buono, passato presso il fuoco mentre fuori la neve non cade mai abbastanza a «larghe falde».

È veramente l'ora di passar oltre questa decadenza di tritume letterario e di adoperare le sottigliezze di stile, in alcune donne di oggi veramente singolare ed acuto, per far conoscere A NUDO la forza vera delle nostre possibilità di affermazione. Coraggiosamente dunque, quelle fra noi che abbiano il dono di esprimersi con facilità e con ardore, mettano da parte i comodi languori della letteratura-fremito a base di erotismi mascherati di grazie cesellatrici, e còmpiano il bel gesto nuovo di parlarci davvero di loro con serietà audace e forte.

Non più, per carità, sprecare tesori di bello stile per dirci che il sole è un amante divino, o che un giardino autunnale è capace di dare la vertigine del piacere più intenso!

Vien voglia, leggendo queste magnifiche cretinerie, di prendere per un braccio la fluttuante scrittrice, scuoterla ben bene per riportarla in pieno verismo quotidiano, e dirle forte: «No, cara: tu fai una sostituzione bestiale di pensieri e di cose. Un bel giovanotto dalle maschie fattezze è il tuo sole e il tuo giardino. Ma di', dunque, con rude franchezza il tuo desiderio umano e carnale, quale te lo suggerisce la tua sensibilità legittima e consapevole; parla del tuo diritto sensuale e fecondo, senza impasticciarlo con analogie di raggi e di profumi assolutamente estranei alla tua nudità che canta l'amore. Sei fuori della vita e del verosimile; cammini per vie già battute da passate decadenze romantiche, e perciò non hai nemmeno l'attenuante di portare, sia pure in un campo mellifluo di assurdità inorpellate, la parola nuova».

No! tutto già detto, di sentimenti estetici, di ondeggiamenti aerei nello spazio azzurro: tutto da dire, invece, delle realtà d'ogni giorno, delle sinuosità che la vita torce e ritorce senza posa nelle anime nostre tormentate. È questo, dunque, che dobbiamo affrontare.

Rendere la verità, LA VE-RI-TÀ, senza il groviglio di veli e di lievi accomodamenti che la deformano rendendola… graziosa. Ecco: la verità non può essere soltanto graziosa.

Una bella signora mia amica era da molto tempo ammalata. A me, a tutti, raccontava di disturbi nervosi, di… febbri del pensiero (testuale!), di angosciosi stati d'animo che le davano alte temperature, ecc. Si faceva, insomma, credere affetta da una malattia interessante. Infatti, quel povero sistema nervoso vibrante, sensibile, scosso di continuo da fremiti elettrici, com'era… estetico! Quanto il bel viso pallido, quanto la bella persona sdraiata in posa pittoresca di sofferente… intellettuale!

Per caso, parlai col suo medico curante, che mi disse con semplicità: «Povera signora! Soffre molto. Ha un tumore rettale che sarà difficile estirpare anche se riusciremo a vincere le molte ritrosìe».

Il ridicolo dei suoi inauditi sforzi estetici per velare il suo vero male, uccise in me la compassione.

Trovo un formidabile nesso logico fra la mia amica languidissima, affetta da tumore rettale, e le scrittrici azzurre. E mi sono convinta che una non ultima ragione di quelle sue pietose pose plastiche andava ricercata nel genere letterario ch'ella prediligeva. Libri, giornali, riviste, dove le donne letterate sfiorano «con dita d'azzurro» le più inconcludenti rarità del senso che vuol parere roffinatiiiissimo e sedicente vibrante; dove la ricerca di snobismi spirituali è così intensa da raggiungere a volte incredibili spunti di ridicolo.

Siate sicure: nessuno più crede, ormai, alle nostre divertenti giravolte di belle parole dal ritmo elegante—NESSUNO—neppure gli studenti liceali malati di adolescenza.

Cerchiamo quindi di cambiar strada e di convincere, raccontando d'ora in poi la nostra vita vera, intessuta di realtà non sempre sorridenti. che MAI PIU' dobbiamo diluire nel sogno.

Facciamo che «donna futurista» voglia dire

CORAGGIO + VERITA.

Marzo 1918.

ENIF ROBERT
futurista.

Approvo incondizionatamente.

F. T. MARINETTI
futurista.

Il Giugno 1915.—Quattro anni sono passati dalla morte di mio marito. Che cosa ho fatto, che cosa ho pensato in questi quattro anni? Nulla, quasi nulla. Il vuoto assoluto. Vedova e bella a venticinque anni, avrei dovuto subire la legge impostami dalla società e specialmente dalle mie amiche: rimaritarmi. Non volli, per quella tipica mania di contraddizioe che costituisce in certi momenti l'unica mia energia vitale. Urtai mia madre, mio padre, i miei fratelli, le mie amiche, e accolsi gradualmente la corte, l'assiduità, le strette di mano, un bacio, i baci, le carezze e finalmente il corpo di un uomo simpatico, intelligente, che oggi si chiama Lui.

Tutto ciò, meccanicamente, per fare qualche cosa di non voluto dalle mie amiche e per essere accompagnata a teatro.

Devo confessare a me stessa che sperai ancora una volta di trovare l'amore, tutto l'amore. Credetti, sotto il primo bacio di Giulio, che una felicità inaudita, profonda, completa, mi dovesse colmare deliziosamente il cuore.

Giulio ha fatto tutti gli sforzi umani e sovrumani per essere adorato da me. In realtà, lo adoro. Ma il mio spirito scontento, ironico, scatta via, mentre egli mi bacia con tenerezza, e si slancia altrove, cercando, frugando, lontano, vicino, nel passato, nel futuro, in fondo a me stessa, un'altra realtà, un'altra gioia, un capriccio senza forma, un altro uomo, senza corpo e senza voce, un tipo astratto… una pazzia, insomma.

NOn sono pazza. Mi annoio.

Ho certamente dell'ingegno. Nel guardare da questa finestra che beve tutto il golfo di Napoli, caldo, accecante e odoroso, io penso che sarei stata un poco pittore e un poco poeta, se fossi nata uomo. L'amore non mi basta. Mi sento veramente, in questo momento, poco donna.

Nulla di comune fra me e quelle flaccide, enormi matrone napoletane in costume da bagno, nere, viscide e stomperate come foche sulla sabbia, con la loro prole che guizza e bolle scodellata intorno.

Ricordo però la gioia profondamente carnale che provai otto giorni dopo il mio parto, quando il mio spirito fissò nettamente questo pensiero: «Ecco la mia creatura, nata da me, voluta da me, portata da me, nel mio ventre»

Giulio tarda un po' troppo, oggi. E. quasi l'una. Non mi preoccupo. Ha una quantità di affari, non sono mai stata gelosa, non lo diventerò, credo, mai.

Luglio 1915.—Non ho più la salute di una volta. Giulio ha preso in affitto questo villino, a Posillipo, perchè io possa fare dei bagni di mare.

Freschi, il nostro medico di casa, mi trovò, quindici giorni or sono, eccessivamente nervosa e dichiarò solennemente che il mare mi sarebbe pernicioso.

Credo che il mio malessere non sia affatto grave. Sento di tanto in tanto dei doloretti ai fianchi e alle gambe. Reumatismi, certamente.

I miei nervi, però, vanno peggiorando. Ieri sera feci a Giulio una scena, assurda, pazzesca. Lo insolentii violentemente per un ritardo di mezz'ora. Sembravo pazza. Ridevo di mè stessa, internamente, mentre mi accanivo contro Giulio che ormai è convinto che io sia gelosa. Il mio spirito ironico si divertiva malignamente, mentre mi abbandonavo ai più violenti rimproveri. Rimproveri non meno sentiti che violenti. In realtà, fremevo della più irruente collera e del più disperato dolore di donna gelosa, e in realtà sentivo anche che tutto ciò era falso e che m'infischiavo assolutamente dei ritardi di Giulio.

Non sono pazza. Ho i nervi di una donna non comune, nervi che pensano, vogliono, si avviticchiano e si staccano, si arrampicano sull'impossibile, e che l'amore non può soddisfare.

Giulio, per distrarmi, mi ha presentato un futurista. Un tipo stranissimo di poeta e d'artista, pieno di bizzarrie naturali e volute, ma simpatico e allegrissimo: il poeta Biego Fortis.

Lo dicono un uomo di genio.

Forte, atletico, gran nuotatore, sempre in acqua, ci segue a nuoto nelle nostre gite in canotto su questo mare napoletano che succhia, spreme i miei nervi e ingoia completamente ogni mia volontà. Io sonnecchio, coricata sulla prua, abbandonando la mia mano fra i gioielli liquidi e tintinnanti dell'acqua. Giulio rema e Fortis, il futurista, caprioleggia nella schiuma, improvvisa mille giochi, ci spruzza, recita versi, fa il morto, l'annegato, e mi dimostra lungamente che il futurismo è la nuova religione di domani.

Io non lo ascolto. Sonnecchio sotto il mio ombrello, ma mi diverto a sentir vibrare intorno a me quella vitalità potente, impetuosa, irrequietissima.

Ieri ci spingemmo fino a Marechiaro. Il sole spaccava il cervello. Ero veramente abbacianata dagli specchi trepidanti del mare. Un caldo tropicale. Mi sembrava di essere fusa nella colata di questo mare di mettalo che mi ricordava una lontana visita agli alti-forni di Terni.

Ero completamente assopita, abbandonata orizzontalmente sulla prua. Scivolavamo tra gli scogli neri verso il piccolo stabilimento di bagni: cabine verdi su trampoli di ferro muscoso.

Capri sembrava il fumo perlaceo della gran fusione metallica del mare. Vedevo, di tra le palpebre socchiuse, le arcate chiesastiche della vecchia osteria, che sembravano oscillare e ammollirsi anch'esse per torpore nella luce, o forse per ghiottoneria sui piatti monumentali di sanguigni spaghetti alle vongole.

Ad un tratto, quel matto di Fortis si avvicina nuotando, e afferrata la mia mano abbandonata la copre di baci frenetici. Io do un balzo e un grido involontario. Giulio si volta e mi dice: «Che è successo?». Fortis fa un gran tuffo, poi, riemergendo dall'acqua grida a Giulio: «Uno scherzo! Un bellissimo scherzo!».

Io mi mostrai molto seccata e non rivolsi più la parola al futurista. Credevo di aver scoraggiate per sempre le sue bizzarrie intraprendenti, ma mi sbagliavo.

Infatti, la sera stessa accadde una mezza catastrofe.

Eravamo a tavola tutti e tre. Solite chiacchiere, nel forte odore di salsedine. Un'altalena di canzoni lontane e il vocìo dei barcaioli si alternavano collo schiamazzo degli scugnizzi che vedevamo friggere, laggiù, come sardelle, nell'olio bollente del mare incendiato dal tramonto.

Non so se attribuire alla dolcezza erotica dell'aria o ad una subitanea pazzia ciò che fece Fortis: sta il fatto che, approfittando di una momentanea assenza di Giulio, egli si alzò da tavola, mi venne dietro le spalle e fulmineamente, prendendomi il capo fra le mani, me lo rovesciò e mi piantò sulla bocca un lungo bacio.

Soffocata, annientata, stupitissima, lo subii. Fortis si staccò da me ed uscì sul balcone. Io non seppi nè gridare, nè ribellarmi. Feroce contro me stessa, contenta e scontenta insieme, mi alzai e andai a coricarmi, in camera mia. Giulio mi trovò a letto, irritatissima, colla febbre.

Egli attribuì naturalmente tutto al mio carattere bizzarro.

Non volli più rivedere Fortis. Trovai delle scuse. Sapevo che doveva partire per il fronte e inventai una nuova malattia per evitare di salutarlo.

La nostra vita è ridiventata monotona. Questa mattina però, come diversivo, Giulio, entrando, mi ha consegnato una lettera dal fronte: una lettera di Fortis. Con molta calma, e divertendomi pazzamente dentro di me al pensiero di sbalordire Giulio, gli ho letto la lettera, che presentivo pericolosa o, quanto meno, imprudentissima:

“Cara amica,

“Vi amo; lo sapete. Il mio bacio riassume i cento anni del mio sogno delirante pensando a voi prima che ci conoscessimo. Cent'anni di corte assidua che non vi feci perchè non ne avevo il tempo, centomila notti di amplessi furenti che realizzeremo dopo la vittoria.

“Sono in trincea; fa un freddo torturante, ma io mi scaldo le mani al ricordo della vostra dolce faccia, cotta di passione e di sole, rovesciata all'indietro nella lunga remata sul mare napoletano.

“Cari capelli verdi-dorati! Cara selvaggia nuda sotto le foglie cadute di alberi non vostri! Cosa facevate? Cosa eravate? Aspettavate il gran vento?… Sono io, il gran vento equinoziale. Lasciatevi travolgere. Le vaste perturbazioni atmosferiche prodotte dai bombardamenti ci preparano qui, sul Carso, delle meravigliose notti di amore elettrico. Venite. Io vi amo ferocemente, come amo ferocemente la vita. Quando si vede giorno e notte la morte, sguinzagliata e azzanante, si ama ferocemente tutto, anche il ricordo di un bell'attimo vissuto, e si rischiano tutti i paradisi, ridendo.

“Voi, un paradiso? Macchè!… Siete un inferno. Un inferno di voluttà che dei pompieri albini-esquimesi si sforzano di spegnere con getti di latte materno.

“Non ho carta assorbente. Asciugo, spengo, brucio il sangue-inchiostro di questa lettera con la punta accesa della mia sigaretta, prolungamento spiralico della mia anima”.

Giulio è scoppiato in una risata frenetica e se n'è andato, senza ascoltare la fine della lettera e senza commenti.

In fondo, questa sua mancanza assoluta di gelosia m'irrita e mi offende. Non attribuisco a questa irritazione la crisi di lagrime che mi ha sconvolta subito dopo. Ho pianto a calde e grosse lagrime, assolutamente senza ragione. Forse per riempire gli smisurati pozzi della mia noia.

Talvolta si scatena in me un temperamento di attrice veramente insospettato. Invento dei trucchi prodigiosi: quello, per esempio, di far scricchiolare forte i miei denti, cosa che dà a Giulio un vero terrore. Egli teme che i miei denti abbiano a spezzarsi, tutti. In realtà, ottengo questo effetto orchestrale sfregando la punta di un solo dente contro quella di un altro.

Mio Dio! quanti dottori nevrastenici, pel mondo! Freschi è certamente nevrastenico, poichè, inorridito anche lui dai miei digrignamenti, gridò ieri sera alla cameriera: «Mettetele un fazzoletto fra i denti!». E uscì dalla camera dicendo: «Mi chiamerete quando avrà finito».

Tutto ciò mi diverte, o, meglio, mi distrae dalla mia terribile, spaventosa noia.

Non conto più le mie scenate a Giulio. Vorrei attribuirle a bizzarie o a cabotinage. Sono, invece, ammalata.

Ieri sera, a pranzo, una piccola contrarietà, e subito rovesciai ogni cosa, sollevando la pesante tavola col ginocchio.

Giulio, irritatissimo, scattò, la qual cosa gli accade molto raramente. Io fui presa da una specie di pazzia.

—Sì! Sì! Se mi diverte, rovescio tutto!… Le tavole son fatte per girare! Viva lo spiritismo!

Scagliai infinite cretinerie di questo genere; lo insolentii, lo esasperai. Ingigantiva in me una strana, vertiginosa e deliziosa paura di stancarlo definitivamente e di disgustarlo per sempre. Cercavo fra gl'insulti l'irrimediabile, l'indimenticabile.

22 Luglio.—Ho passato tre giorni a letto. Un po' di febbre. Ma una febbre strana, accompagnata da una malinconia inconcepibile, assolutamente senza ragione.

Freschi mi ha visitata con molta cura, è rimasto pensoso. Mi ha lungamente interrogata sullo stato del mio stomaco e del mio intestino, e se ne è andato rasserenato, senza dirmi nulla di preciso.

Giulio è rientrato poco dopo la partenza del dottore. Sperava di trovarlo, e si è molto irritato.

Non so spiegarmi perchè Giulio sia tanto preoccupato.

15 Agosto.—È tornata la piccola febbre. Dal mio letto, ho assistito con un piacere veramente infantile ad un violentissimo e rapido temporale che in poche ore ha rivoluzionato il golfo, sconquassando e spiaccicando tutte le forme, rimescolando i volumi azzurri delle montagne, delle isole e delle nuvole, che sembravano torcersi e sfasciarsi fra i lampi, come enormi balene nelle rete tumultuosa della pioggia.

Ora c'è il sole, Padrone assoluto, testardo, solenne, cocciuto, che accarezza e stringe tutte le curve, penetra in tutte le bocche della lasciva marina posseduta, che gode imbevuta di lui.

Farò una gita in barca, verso il tramonto. M'infischierei della febbre; ma sono tanto debole!…

Giulio e Freschi saranno qui fra poco e mi proibiranno di uscire. Che seccatura! In realtà. sono una schiava!

Di tutti e di tutto! Nessuno è libero! Domani, zia Maria tornerà con Carlino. Voglio assolutamente fare dei bagni di mare col mio piccolo.

22 Agosto.—Il mio dolore al fianco destro si accentua. Anche la gamba destra mi fa un po' male. Freschi non capisce nulla. Mi sono divertita per tre ore a ridicolizzare la medicina. Freschi è uscito irritato.

Giulio insiste perchè io consulti altri medici.

23 Agosto.—Per la prima volta, oggi, mentre rispondevo a tono alle domande di Freschi mi sono divertita ad analizzare fisiologicamente questo strano tipo di giovane dottore scienziato, simpatico ma frigido c come chiuso sotto vetro dai suoi occhiali.

Ha mai amato qualcuno, Freschi? Ha mai baciato una donna? Ho sentito veramente che quelle labbra e quel corpo d'uomo sono di un tessuto animale assolutamente diverso da quello che vibra, arde, si attacca, gode, si accende e muore.

Freschi è un dottore venuto dalla luna o dal polo. Un dottore esquimese. Questa idea mi diverte, quando sono fra le braccia di Giulio. Da qualche tempo in qua mi accorgo di non governare perfettamente il mio spirito.

Devo assolutamente assoggettarmi a una visita completa e rigorosa di Freschi. Prima, dovrò subire una serie di iniezioni. Tortura indicibile.

24 Agosto.—Sento Carlino, che comanda con grandi strilli un piccolo esercito di bambine, sulla spiaggia. Il sapore caldo-fresco e salato del mare vince l'odore delle medicine. La vecchia lotta della Vita, tutta gonfia di azzurro e di porpora, con la Morte, che se fossi un pittore oggi dipingerei in giallo e nero.

Questo pensiero piacerebbe al mio amico Marinetti. Oggi ho ricevuto un suo saluto dal fronte…

Che schifo, essere un utero sofferente, mentre tutti gli uomini si battono! E pensare che non ho nemmeno il coraggio di sopportare le iniezioni!

25 Agosto.—Oggi, seconda iniezione. Freschi dice che non è stata una iniezione, poichè mi sono mossa, sfuggendo all'ago con ribrezzo.

Ieri sera, lunga visita accuratissima, minuziosissima di Freschi. Non credevo che il mio pudore, violato da una mano tecnica, dovesse tanto soffrire.

Sotto la mano di Freschi, provai la più curiosa. la più inaspettata sensazione erotica!

Egli aveva la più impassibile faccia di medico che sì possa immaginare.

In me, però, un altro individuo, un essere misterioso che non conoscevo valutava cinicamente nel medico, il maschio.

Dopo la visita. Freschi sentenziò:

—Annessite di destra accentuata. Consigliabile l'operazione.

No! Non voglio farmi operare. Sono decisa a tutto, anche alla morte, pur di non farmi operare! Questa decisione è però compenetrata di stranissimi sofismi.

La mia immaginazione è già partita e naviga in uno stranissimo mare di coraggio-paura, affascinantissimo.

Sono a letto. La finestra è aperta sul golfo arrossato dal tramonto. Penso che dal mio ventre sia colato tutto quel sangue, formando una pozza smisurata. Laggiù, quelle montagne impallidiscono, come la mia carne sotto il terrore di una nuova incisione.

Una piccola falce di luna d'acciaio, una luna chirurgica, domina il paesaggio anatomico.

26 Agosto.—Non domino più i miei nervi. Sono intrattabile, ridicolmente cattiva con Giulio e con Freschi. E m'interesso veramente un po' troppo di Freschi….

Durante le sue odiate iniezioni, osservo la cura veramente maritale del giovane dottore, e mi stupisco di sentire in me una quasi-gratitudine per la sua mano calma, precisa, buona.

Amo Giulio e non amo che lui. Ma la mia sensibilità sparpagliata si arrampica, si abbarbica alle più assurde e contradittorie illusioni.

Ho pregato Giulio di farmi fare un viaggio, di condurmi non so dove. Egli mi sorride, con una punta di pietà nello sguardo. È convinto che io non sia più veramente padrona del mio cervello.

Freschi non si cura affato del mio stato morale. Forse perchè lo vuole, è assolutamente ignaro dello stato d'animo della sua cliente.

Ieri mi accennò con maestria ai suoi scrupoli religiosi e a certi peccati non commessi anche a costo di sacrifici.

Poi scntenziò: “Non desiderare la donna d'altri!”.

Diedi un balzo nel letto. rivoltandomi per soffocare nel cuscino una gran risata frenetica….

—Per carità, signora!—gridò lui.—Bisogna assolutamente evitare questi contorcimenti!

Sono dunque veramente ammalata! Eppure, mi alzo e cammino come prima….

Il dolore continua, però.

Freschi partirà questa sera per Roma.

28 Agosto.—Ieri Giulio, entrando, mi disse:

—Devo andare a Milano, per una fornitura militare. In quindici giorni mi sbrigo.

—Vengo anch'io! gli dissi.

E Giulio subito a supplicarmi:

—No! No! Rimani, ti prego! Non devi muoverti… Sii ragionevole!

Impossibile. Stamattina ho stabilito tutto definitivamente e perentoriamente:

—Se non a Milano con te, a Roma a farmi operare, poichè non ho niente di meglio da fare!…

Irritazione di Giulio, ma senza eccessiva meraviglia. È assuefatto a simili stravaganze da parte mia. In fondo, è felice della mia risoluzione, ormai insperata.

—Peccato, mi dice, che tu non ti sia decisa prima della partenza di Freschi! Si poteva andare a Roma con lui….

29 Agosto.—Decisione telegrafica:

“Egregio dottore: accetto il suo consiglio. Vengo a mettermi nelle sue mani e in quelle della celebrità che lei mi ha tante volte decantata. Mi faccia sapere se tutto è pronto”.

Dopo aver spedito il telegramma, mi sono addormentata profondamente, d'un sonno fresco, tondo, assoluto, infantile.

Giulio è rientrato con un altro dottore. Ha veramente la mania dei dottori! Questo è un medico condotto ignorante e malaticcio. Porta veramente su sè stesso tutte le sconfitte della medicina.

A mezza voce, con uno sguardo di mercante invidioso mi mette in guardia circa la gravità dell'operazione. È stupito del mio coraggio.

lo Settembre.—Freschi ha risposto:

“Sì, l'aspetto quanto prima”.

Infinite formalità familiari. Che la mamma non sappia nulla. Non deve soffrire. Che nessuno sia presente nel momento grave”. “Nemmeno tu, Giulio”. Da tempo, la mia volontà è legge. Quindi, tutto accordato.

Diramazione di telegrammi alle amiche di collegio romane, Bianca, Lucia.—Ma, quasi inconsciamente (giuro che è così) annuncio il mio arrivo all'hôtel per 24 ore dopo.

Roma, 4 settembre.—Freschi è, la sera stessa del mio arrivo, nella mia camera d'albergo. Desidera rivisitarmi per studiare i progressi del male. Nuova constarazione più positiva. Urgenza di operare. Convulsione mal celata di sensualità sotto la fredda esplorazione professionale.

—Perchè questo, eh? Non deve tremare così. Si vinca.

Ritorno fulmineo alla realtà. Penso al “non desiderare la donna…”, ecc.

Freddezza riconquistata.

Indifferenza dei nervi. La mia ironia si scatena, elegantissima, finissima. Le mie risate sconvolgono gli stati d'animo. Infernale disinvoltura di scherno ben mascherato.

—Bene. Allora, domani verrà qui a prendermi per condurmi all'ospedale.

Indugio titubante di Freschi. Il freddo uomo di scienza è preso da un'inaspettata curiosità mondana, quasi erotica.

—La ritroverò qui, nella sua camera?

—Sì.

Sorrido, convinta che per domani gli scrupoli religiosi cadranno.

Il giorno successivo prego le mie amiche di non lasciarmi sola un momento. Le tengo a colazione con me. Poi, rimane soltanto la più oca, ma è sufficiente.

Con Maria, nella sala di lettura. Chiacchieriamo sparpagliatamente d'amore, di cretinismo maschile e di pudori.

Entra Freschi, e, subito dopo, una giovane signora, che una nebbia di ricordo mi fa ravvisare a poco a poco.

Dopo breve esitazione, mi alzo di scatto.

—Tu?!

—Sì, mi riconosci?

È un'amica di collegio. Lontanissima memoria di adolescenza erotica. Emozione violenta di ritrovarsi. Abbraccio lungo, affettuosissimo. Attimo denso di reminiscenze saffiche.

—Ci ritroviamo in un momento di dolore…. Tu, ammalata, alla vigilia di un'operazione grave; io, venuta a Roma per le pratiche di separazione!

—È una gran gioia, rivedorsi. Il destino ci ha dato questo conforto per compensare i nostri dolori.

Qualche lagrima, fra i sorrisi.

L'uomo di scienza scruta, dice che devo evitare ogni emozione. La carrozza attende.

—Andiamo, signora? Dirò io alle sue amiche quando potranno rivederla. Ora la sottraggo alle sensazioni troppo forti.

Via in vettura, soli.

—Perchè non era in camera sua, come mi aveva promesso?

Indefinibilmente, lo guardo, rispondo:

—…. tardivo!!

(Quell'aggettivo vale un perù!).

All'ospedale, grazioso, nel piccolo padiglione nuovissimo, pulito, bianco, scelta della camera N. Il, ultima verso la saletta delle medicazioni.

Suore giovani. Una, bellissima, viva d'occhi e di bocca, di giovinezza sana: Suor Giovanna. È addetta a me. Ciò mi ristora, mi rende meno tetra la prima notte di ospedale.—Ma piango. Il bambino mio lontano… in viaggio… senza la sua mamma….

Visita mattutina del professore decantato. Reciproca antipatia istintiva. Due esseri nervosi che nell'incrociarsi degli sguardi si sentono nemici. Il dottor Freschi neutralizza la sensazione spiacevole. Racconta lui il male. Il mistero intimo delle sue indagini su di me, detto come una lezione. Mi sento sezionata da loro, conservando l'indifferenza di un cadavere.

Visita interna del professore, collo stesso procedimento dell'altro. Mani che frugano con delicatezza brutale gli organi interni. Enunciazione precisa:

—Utero intatto; ovaia infiammata, gonfia; annessi colpiti.

Le dita continuano, dentro, l'attento esame; indicano il male. Identico modo di esplorazione. Ma, diverso il medico, diverso l'uomo, profondamente diverse le sensazioni.

Adesso, i miei denti scricchiolano per la ripugnanza.

Sento che i due medici, nell'andarsene, dicono a bassa voce:

—Essere stravagante…anormale…

—… Resistenza fisica meravigliosa. Operazione necessarissima…

—… Intelligenza che influenza il sangue

—Il professore non mi va, caro dottore… Mi è antipatico. Mettere la mia pelle preziosa in mani nemiche!…

—Oh! ma che esagerata! Che donna impossibile, è lei!… Via! si lasci guidare da me. Ci sarò sempre anch'io, accanto al suo letto. Egli non dovrà che operare, quando lei dormirà e sarà quindi insensibile anche alle simpatie e alle antipatie istintive.

Digressioni scientifiche sui segreti istinti dei nervi, che ricevono questi diversi urti di sensibilità. Io sostengo che dobbiamo tenerne conto grandissimo. Egli afferma che quasi sempre sono errati.

—La terremo in osservazione per qualche altro giorno.

—No! Far presto!… Far presto!

Visite quotidiane delle amiche buone. La dolente separata dal marito porta nella camera bianca la sua grazia bionda. Senza più alcun cenno della violenta adolescenza, il nostro bene si è composto a solo conforto.

Bianca, elegantissima, nervosa, in adorazione decennale del suo secondo marito (è divorziata) porta la nota mondana del suo sorriso fine e furbesco. Lucia, in lutto recente del suo tardo amore coniugale, piange spesso accanto al mio letto amari singhiozzi di rinuncia. Maria, beata di essere bene appagata fisicamente dal suo maturo Paolino, di cui vanta ad ogni istante la resistenza al facchinaggio notturno, aggiunge alle precedenti note squisitamente femminili l'accordo pratico, un po'pesante, del ménage. Parla spesso di zuppe di fagiuoli, di gusti bucolici…

Le mie amiche mi sono tutte e quattro necessarie per sopportare l'attesa del giorno ormai vicino, del quale sento il fascino indefinibile e pauroso.

Scrivo dal letto alla Duse, che so per caso a Roma.—Ella viene subito da me, con una pianticella di quadrifoglio fra le mani divine. S'informa con ardore, dal medico assistente, del mio male malvagio; mi conforta, mi sostiene.

—Tutto passerà… Stai certa… Guarirai.

Il professore gelido, dagli occhi taglienti, mi dice con appena sufficiente urbanità:

—Scelga il giorno, signora… Questa settimana… O mercoledì, o giovedì, o venerdì.

—Giovedì.

—Resta inteso.

Mi sfogo con l'infermiera, un povero essere quasi deforme, ligio al proprio dovere fino allo scrupolo:

—Il professore è odioso! Sono ancora incerta se farmi operare da lui… Non mi va!

Ella mi assicura che il professore, invece, ha per me delle attenzioni speciali: quella, per esempio, di farmi scegliere il giorno… Generalmente, fissa lui la data, senza occuparsi del soggetto.

—Non importa… Non mi va! Lo sento ostile…

Ma il fascino dei ferri, una inspiegabile attrazione verso il terrore, il fremito di un'ora grave da attraversare, il giuoco del pericolo fin sull'orlo della vita, il diversivo cruento alla noia, mi tengono lì inchiodata; sono più forti della mia antipatia istintiva.

Cara,

“Non ho trovato Emerson, ma lo troverò poi.

“Intanto, ti mando questi tre amici.

“Arrivederci presto.

«ELEONORA».

(Tre libri).

Mercoledì.—Inquietudine incalzante ad ogni ora. Un tremito nervoso mi scuote tutta. Non vale che la Duse, con grazia inimitabile, sul soffio di un fresco profumo, tenti di togliermi al pensiero ossessionante di ciò che avverrà domani. Ella mi mette sul letto altri bei libri un po' gravi di saggezze passate,—Emerson, Anile.

Scopre sul tavolinetto, nel portalibri elegante donatomi da Lucia, dei libri futuristi.

—Ah!… Come!… Futurista?!

Spiego con ardore la mia passione del nuovo. Le mie impressioni sul futurismo, come caotica forma d'avanguardia che va organizzandosi nella formazione di sensibilità diverse e nuove, la scuotono un poco.

—Tutte le manifestazioni d'arte e di pensiero sono degne di rispetto, ella dice. Non vedo ragione di irridere a questa, nobilissima. Credo che tu sia nel vero, ammirando e compredendo.

Bellissimo contrasto: accanto al Zang-tumb-tumb, a Ponti sull'Occano, a Sam Dunn è morto, c'è… I miracoli della Madonna di Lourdes!

Una pia signora, mia conoscente, mi aveva, con un po' di trepidazione, raccomandato di leggere quel libro prima dell'ora grave, per attingervi conforto. Non avevo osato dire la mia superiorità di atea convinta a quell'umile fede canuta. Per questo il libro era lì fra gli altri.

La notte prima, nell'insonnia ardente, avevo pensato ad un tratto all'ironia del contrasto di quelle vicinanze discordi. La fantasia sferzata aveva immaginato il dialogo delle pagine chiacchierine, vocianti le passioni diverse. Poi, mi era parso che i libri s'agitassero e sostenessero fra loro una sorda lotta distruttrice. Infine, nella mia fantasticheria, la dolce Madonna aveva ceduto completamente il campo al lirismo incendiario e guerresco di Marinetti, alle sue mordenti ironie.

—Sei devota della Madonna di Lourdes?

Mia risatina di scherno.

—No: affronto sola, senza conforti spirituali e divini, l'emozione di rischiare la vita. Pensa: domani a quest'ora, potrei non essere più… Ma tutto è meglio della noia!

Tuffo la testa nel mazzo magnifico di rose bianche che la fine pietà affettuosa, conscia del conforto, mi aveva portate. Poichè mi torco visibilmente sotto la vivezza acuta dell'immutabile domani, la mia Grande amica tenta un diversivo. Mi parla del suo lavoro, della sua attività. Deve appunto andare subito (sono le Il) ad eseguire dei quadri cinematografici per «enere».

—Lavoro con Mario. Lo conosci?

—Sì, simpaticissimo… Un uomo che ha del fascino.

—Allora, te lo mando. Te lo porterò, anzi, qualche giorno…

Mi calma ridendo. Addormenta il mio tremore. Parla alla dottoressa che è venuta a misurarmi il cuore.

—Domanderò notizie a lei, dottoressa… Saprò da lei quando potrò rivedere l'ammalata senza darle emozione.

Il professore non si fa vedere.

Ha saputo che c'è la Duse da me; odia, disprezza tutte le raffinatezze femminili; sfugge la camera dal profumo troppo forte che urta il suo misantropismo squartatore, annusatore di sangue. Ma egli è, ormai, una figura secondaria del mio dramma vicino.

Una monaca compie la formalità di avvertirmi che il prete è in cappella ad attendermi per i conforti religiosi. Rispondo con gentilezza sorridente che ho già provveduto alla mia anima. E riprendo a scrivere una lettera forte a Giulio, una lettera in cui racchiudo in uno slancio appassionato le divergenze religiose che ci fecero soffrire un poco, sul principio, i desiderî sull'educazione del Piccolo, il mio affetto per la sua bontà così dolce…

M'interrompe un'altra suora, che evidentemente torna alla carica. Dall'uscio semiaperto, sento, intuisco che le altre suore confabulano sul caso, per loro doloroso. La più coraggiosa tenterà di persuadermi.

—Signora… La santa Comunione… Tutto riuscirà meglio… L'aiuto di Dio…

Freno un gesto di noia, e mi sforzo di essere ancora educata.

—Ho detto no, sorella… Non insista, la prego… Preghi lei per me…

Andirivieni inquieto delle suore nel corridoio.

Arriva Lucia con molti fiori, col lungo velo di lutto sulla faccia ancora dolente. È col dottore assistente, che mi scruta con ansia celata, per misurare con lo sguardo la febbre dei miei nervi.

È necessarissimo che io sia calma.

Parlano, ridono, mi distraggono con mille modi seducenti. Io tento di essere con loro, ma il mio pensiero si snoda, fruga le prossime ore, s'allunga al domani ignoto, così grave di denso pericolo.

C'interrompe l'infermiera semi-deforme dal cuore grande e buono, che già si è affezionata, in pochi giorni, all'essere strano, incomprensibile per lei. Ella indovina, per istinto, che per me ci vogliono più cure che per le altre, più pazienza che per le altre…

—Andiamo, signora, a far toilette…

—Che toilette?… Non ho balli in vista…

—Ah! ride il dottore. Adesso, chi sa quante storie ci fa, col suo caratterino!… Si tratta di una depilazione provvisoria.

Nella saletta delle medicazioni, mi sdraio sul lettuccio chirurgico nella inestetica posizione delle gambe divaricate. Esigo esser sola con la piccola Angelinin armata di rasoio.

Difficoltà tremenda di star ferma. Dalla stanza accanto, il medico perde la pazienza ai miei piccoli gridi:

—Ferma!… Si farà tagliare!

Finito il piccolo martirio, vado difilata in camera. Risolutissima, apro il cassetto, l'armadio, sotto gli occhi attoniti di Lucia e del medico. Arruffo le mie cose sul letto, senza dir parola. In camicia, pallida, infilo la culotte, poi mi metto il cappello.

Mi scuote un tremito fortissimo. Mi dibatto nella stretta forte del dottore, che vorrebbe impedirmi «altre schiocchezze».

—Voglio andar via!

Sibilo di parole furenti che si spezzano in una risata isterica. Lo specchio mi ha riflessa la mia buffa immagine in culotte e cappello. La suora, il medico, l'amica mi adagiano senza sforzo sul letto. La tensione ha ceduto di colpo.

—Dove voleva andare?! Non si può camminar molto, con la depilazione recente… Il tessuto più fine dà irritazione.

Il dottore ride, ansando un poco. Io soffoco sotto le lenzuola un rabbioso:

—Imbecille!

Ma capisco che è inutile fuggire e vado al bagno con l'infermiera e con Maria, che intanto ha dato il cambio a Lucia nell'assistenza affettuosa. Lucia tornerà a sera e passerà la notte con me.

Il calore dell'acqua mi addormenta un poco i nervi. Maria mi fa ridere con i suoi elogi un po'goffi del mio corpicino nudo. L'agilità della mia magrezza snella contrasta con la sua quadratura grassa di donna forte.

Nella sala da bagno, la mia buona Angelinin, ignorante e mansueta, mi spennella il ventre di tintura di iodio, mi fascia.

Torno a letto, vigilata da Lucia. Sono le 17. Mando alla Duse la lettera da consegnare a Giulio nel caso di una catastrofe, e chiedo una fotografia sua, ch'io la veda al risveglio, se mai…

Alle 18 passa il professore. Desidero parlargli. Egli si appressa, gelido, tagliente. Lucia si ritira.

—Professore… dal momento che l'operazione devo subirla, dal momento che è necessaria, urgente, vorrei almeno avere la sicurezza di evitare altre gravidanze. Mi spaventa l'idea di mettere al mondo altri esseri, in condizioni anormali, e… d'altra parte… credo che a trent'anni io non possa, guarendo, rinunciare del tutto alla vita…

La voce che taglia mi risponde nasale, chioccia, maligna:

—È mio dovere, signora, lasciare qualunque piccolo pezzo buono, asportare soltanto quanto non è più sano. Non so cosa portò constatare, aprendo. Ma dalle visite fatte finora, mi sembra che potrò lasciare, invece, tutti gli annessi di sinistra…

Non insisto per non scattare, ed ho, partito lui, una crisi di rabbia che Lucia dura grande fatica a calmare.

Prepariamo insieme la cuffietta per l'indomani, la camicia, le calze bianche sterilizzate…

Alle 22 ella si dispone a coricarsi sul sofà, presso di me. Sono relativamente tanquilla. Ho i nervi rotti, disposti al riposo.

Siamo al buio da 10 minuti, quando si sente un lieve passo nel corridoio. Mario, l'attore geniale, si presenta alla porta. È mandato dalla Duse, con la parola di conforto, con la grande fotografia… Entra.

—E il vostro bambino?… Mi ricordo quando, a 7 mesi, gli cantavamo:

«Carlino, Carlino,
fa al babbo una risatina
…».

Ma spesso dovevamo correggere:

«…fa al babbo una pi…scia…tina…la-la-la
rilalà, lalalalà!
»

Mi avvento con tutto il cuore verso di lui, il mio tesoro lontano, che ora riderà con i cuginetti, senza l'ombra d'un pensiero triste. Domani, potrebbe essere orfano… Crescere senza la sua mammina… No, no… calma!

Ascolto con attenzione l'amica che Mario ha condotto con sè e che mi racconta di altre operate, di lei stessa… Ma se ne vanno presto, poichè la suora li ha fatti passare per pochi minuti. È tardi.

Dormiamo! Lucia mi copre, mi bacia lieve, indugia con tenerezza grave la bocca piegata dal dolore sulla mia fronte buia.

All'alba, mi desto. Ho negli occhi, netta, precisa, la visione dei ferri lucenti che ho intravisto il giorno prima, andando al bagno, nella sala grande operatoria.

Sento il freddo delle lame sottili, mi dibatto sotto il ribrezzo vivissimo, mi agita un tremore che si risolve in un singhiozzo secco.

—Lucia… voglio andarmene! Mi vesto. Vieni con me. Via!… Pensa che facce faranno, non trovandomi più qui!

Rido figurandomi la scenetta: le ricerche, le furie del professore nevrastenico che non avesse per quel giorno la sua porzione di carne da tagliare con metodo….

La suora direttrice, per la terza volta tenta la conversione.

—Il buon Dio, signora…. Se ella volesse….' Il prete verrebbe in camera…. Scatto seccatissima:

—La finisca!…. Possibile non abbiate capito che non desidero indegni intermediarî fra la morte e me? ! Perchè volete forzare la volontà delle ammalate? Io non critico la vostra fede, ma ho diritto di non seguirla.

Lucia mi calma. Dopo brevi momenti, una lettera mi viene consegnata:

«Cara,

Accettazione serena. Tutto andrà bene. Sta calma. Dio vede e provvede.

TUTTO ANDRÀ BENE.

ELEONORA DUSE»

Dio ? ? ? Che è. Dio? Dov'è? Non lo sento, nè m'importa di sentirlo. Il conforto soprannaturale non ha per me alcuna importanza. Mentre compio una toilette accuratissima delle mie unghie che vernicio con precisione, senza tremare, mi vertigina nel pensiero la vuota immagine del Dio barbuto venerato dalla gente ignorante, e la idea astratta di un Dio invisibile, creatore del mondo, forza superiore che governa i destini, venerata dai sapienti.

Nessuna considerazione di tal genere mi commuove. Non mi convinco affatto della necessità di aggrappare la mia anima ai sostegni della religione. Sta benissimo in piedi DA SE'.

Lucia è stupita della mia calma. Mi asseconda in tutto; crede forse che la mia attenzione sia tutta assorbita nella vernice rosea che brilla alla estremità delle mie mani troppo bianche di male.

Le suore mi vengono a prendere. Ho una lunga vestaglia bianca sulla camicia sottile. Attraverso una terrazza inondata di sole. Lucia mi segue ansiosa. Mi soffermo a bere con avidità la freschezza del mattino. Mi balena in un attimo la possibilità che per l'ultima volta mi sorrida così un Giardino fiorito.

Entro risoluta nell'antisala operatoria. Le suore mi fanno lasciare sulla soglia la vestaglia, la camicia. Infilo un piccolo matinée sterilizzato, che scende solo fino alla vita. Bacio Lucia con l'anima sulle labbra. Le raccomando brevemente a mezza voce mille cose tronche. Sento la sua emozione contenuta.

—Addio…. Il mio bimbo!… Telegrafa a Giulio….

Mi slancio risoluta, con passo rapido, nuda dalla cintola in giù, nella vastissima sala. L'infermiera è intorno all'autoclave; ridicolissima colla cuffietta bianca sulla faccia rossa bitorzoluta. Il mio istinto ironico mi ferma un momento nella valutazione estetica di quelle sgraziate fattezze, devìa lo spasimo della paura.

Cerco i ferri con lo sguardo affascinato. Nulla appare. Il nudo lettuccio di vetro dove mi corico mi dà un sussulto freddo alla schiena.

—Dove sono i ferri?

—Non ci pensi…. Non ci sono ferri. Stia calma …. Così. È molto coraggiosa. Brava!

Il medico assistente giunge con allegria rumorosa. Veste il camice bianco. M'è intorno, lieto della mia indifferenza.

—Che belle mani! Guardi, sorella, come luccicano queste unghie curate! Lei non le ha così, eh? Lei lavora umili cose….

Suor Giovanna dallo splendido sorriso sano e infantile, dolce e procace insieme, mi aggiusta i capelli sotto la cuffia trinata.

—Suora, le raccomando la piccola pianta di quadrifoglio che è nella mia camera. La prego, se ne curi…. Io non sono cattiva; mi comprenda …. Innaffi la piantina simbolica che dovrà portarmi fortuna….

La dottoressa, piccola, lieve, tutta bianca sotto il casco di capelli rossi, entra all'ufficio duro quotidiano. Anche il professore dalla calvizie giallognola, con una lieve tinta biliosa diffusa nella pelle, sul viso sempre contratto, comincia, gelido, silenzioso, la disinfezione delle sue mani. Contemporaneamente Angelinin mi libera dalle garze sterili e disinfetta a lungo, con millé precauzioni, il mio ventre segnato di scuro dall'iodio. Preparativi cauti delle suore.

—Verrà il giorno in cui la medicina riderà di noi, dei nostri microbi a cui forse non crederanno più i medici dell'avvenire?

È l'assistente che parla, che vuol rompere l'aria grave che è nella stanza e che potrebbe opprimermi.

È necessario conservarmi quella calma così insolita, quel coraggio effimero in contrasto colle «pazzie» di ieri.

Il professore mi lancia ogni tanto delle lame di sguardi che tagliano odiosamente, prima del bisturì. Non lo guardo mai. Voglio, per progetto, conservare la mia calma, e la sua fisonomia mi indispone.

Parlo allegramente, col medico, di arte, di letteratura, coricata nuda, spelata, aperta, senza più pudore, cosa morta fra le mani dei prossimi sezionatari. Le suore, l'infermiera, stupite di non assistere a stravaganze. Sento che una dice piano:

—Che miracolo! Mi aspettavo un teatro, stamane!

Guardo per l'ultima volta il piccolo ventre puro, domani deturpato dalle cicatrici. La dottoressa viene con la mascheretta metallica e la boccetta del cloroformio. Sussulto sul vetro bagnato; respingo la mano che s'avvicina.

Le parole sorridenti di calma decisa mi muoiono sul labbro. Con la bocca bianca, vinta dal terrore, tento una dilazione.

—Un momento!… Senta, suora… la pianta…. Dottore, vado via!

Mani possenti immobilizzano la mia rapida mossa. Cerco soccorso verso il professore, che mi volta le spalle per non vedermi.

—Professore!… Nelle vostre mani, raccomando il corpo che racchiude lo spirito mio!…

Non riesco che a balbettare le prime parole. Ricado con la testa giù sul vetro. Mi chiudo in me stessa. Sento l'ostilità delle mani decise a imprigionarmi. Vertigine del pensiero che mi presenta rapide immagini care. Imbavagliarmi la bocca, il naso, con la maschera.

Un'onda fredda sul viso, e l'odore violento del liquido sale al cervello….

Sapore disgustoso. Voglio dire che è troppo, che mi soffocano…. Balbetto, sotto la tortura della piccola rete sottile e tenace. Il mio sguardo deve essere terribile di spavento e di strazio, poichè nessuno di quelli che mi tengono—sono 8—riesce a sostenerlo!

Tutti i miei cari lontani: il babbo, la mamma, Carlino, Giulio… non vederli più…. La vita… finire……… Rapida palpitazione dal cuore al cervello. Sensazioni vertiginose di caldo-freddo. Ondate di disordine nelle membra in sussulto. —Sottarmi.—Ma le mani rafforzano la stretta.

—Un'altra suora ! sento che ordina l'assistente. La forza mi fugge. Il cervello batte colpi fitti, acuti…. Poi il soffio letargico fascia la sensibilità sempre più stretta. Nebbia che s'addensa.—Torpore. —Driiiiin driiiiin… tac-tac-tac-t-a-c.

Leggiere dita affusolate sulla fronte, sulle tempie. —Risveglio torpido.—Sforzo del cervello a riprendere con fatica il ritmo della vita. Silenzio caldo. Nessun dolore. Fascia stretta intorno al ventre sepolto sotto metri e metri di ovatte, di garze. Senso di solitudine interrotto da un fruscìo di sete….

Apro gli occhi pesantissimi. Intravedo Bianca, più elegante che mai. Parla sommessamente con la suora. È col marito. C'è anche Lucia colla mamma sua. Richiudo gli occhi, sorridendo alle immagini amiche che hanno popolata la mia solitudine. Tento di balbettare «grazie !». ad un caro volto che s'è chinato su di me, mentre la testa mi si snebbia lentamente.

Sono forzata all'immobilità dal cloroformio padrone ancora delle mie membra. Ma vivo. La suora allontana lievemente le persone pietose. Non posso esprimere la volontà che restino, che non vadano via.

—No, sola, no…. no… non….

Sorda rivolta alla pesantezza incrollabile che mi pigia le parole giù in fondo alla gola. Vanno, spariscono tutti. Ripiombo nel sonno.

A notte alta, imploro da bere. Mi se ne dà. goccia a goccia. Arsura insoffribile. Tormento dello stomaco, che rovescia il liquido amaro, liberandosi del sonnifero potente.

—Sorella…, che mi hanno fatto?… Che ho?… Mi parli…. Da bere.. da bere…. Ghiaccio…. Ghiaccio….

Silenziosa, attenta, sublime, paziente, la suora placa il mio spasimo, la mia inquietudine. Questa prima notte è spaventosa. Sembra un'agonia, ed è invece un episodio atroce della lotta organica che riprende vigore.

Due giorni dopo, mi viene la febbre. Non posso sapere quanti gradi, ma la sento nella mia carne bruciante, la intuisco negli occhi dell'infermiera che consulta il termometro.

—Quanta, Angelinin?

—Niente, niente…. Non c'è febbre…. Stia calma.

—Sono calma. Ma voglio vedere il termometro.

—No, non si può. Il professore dice che le ammalate devono far le ammalate. Alla cura, all'andamento della malattia, ci pensa lui.

—Il professore è una bestia, Angelinin…. Mi faccia vedere il termometro.

La fida infermiera si ribella. Da 20 anni è nell'ospedale, e inorridisce a questa mia franchezza di giudizio sull'essere che a lei pare inattaccabile.

Le amiche vengono. Hanno telegrafato tutte a Giulio. Anche il medico assistente gli ha telegrafato, assicurando che tutto è andato bene.

—No, bene…. Niente bene, dottore! Ho la febbre.

—Ma non si preoccupi…. È una lieve febbretta, prodotta dall'intossicazione cloroformica. Succede spessissimo…. Non è vero, dottoressa?

—Sì, sì….. Non c'è da stupirsene, specialmente nel caso attuale…. Ho dovuto darle, signora, delle dosi altissime di cloroformio. Anche addormentata, non voleva star ferma!

Curtiosità intensa di sapere lo svolgimento dell'operazione. Riesco a ricostruire pochissimo.

Vorrebbero parlar d'altro. L'operazione è durata un'ora e quaranta minuti, senza incidenti notevoli. Ma trovato diffusissimo il male. Necessità di asportare tutto. Profonde suture dell'utero, che cominciava ad intaccarsi.

Dall'infermiera, dalle suore, raccolgo qua e là, staccate, altre notizie. Voglio sapere, ricostruire la scena. Riesco in parte.

So che il professore ha messo una cura meticolosa nell'eseguire la sutura esterna, per rendere quasi invisibile la cicatrice. Egli si è dunque preoccupato dell'estetica, eseguendo una difficile lunga manovra di punti complicati. Operazione che da moltissimi anni—mi dice l'infermiera—egli non faceva….

—Vede, dunque, che ha per lei delle attenzioni speciali, ecc.

La povera donna vorrebbe sanare il dissidio penoso che è fra noi, far sparire l'antipatia, la ripulsione che è invece salda nei nostri nervi.

Ho un riso cattivo e scricchiolo i denti fino a farmi male, quando so che nel mettere gli ultimi punti, egli ha detto forte a tutti, rompendo il silenzio solenne:

—Povera signora! Desiderava tanto avere ancora dei bambini, e non abbiamo potuto accontentarla!

L'ironia fredda, pecata, di quell'uomo mi solca l'anima addentro.

A sera, egli viene al mio letto per la visita consueta. Ha in mano un telegramma. Chiede alla infermiera lo stato della giornata, consulta il foglietto della temperatura. La voce odiosa domanda, assente:

—Come sta?

—Non so; male, mi sembra….

La faccia gialla ha degli stiramenti di collera, e la voce ghiaccia riprende:

—Ho qui un telegramma. Eccole la rispostapagata, acclusa. Risponda lei, signora…. Se io dovessi scrivere a tutti i parenti delle ammalate, starei fresco!

Non ha ancora passato l'uscio, che mi torco sotto lo spasimo della rabbia. Penso di vomitargli addosso l'onda di bile che lo stormaco debole, rovesciato, mi spinge alla gola.

Chiamo la suora, chiedo singhiozzando una penna, della carta. Scrivo poche parole rassicuranti, poichè il telegramma disperato diceva così:

«Scongiuro lei darmi notizie direttamente. Inspiegabile silenzio assistente incaricato telegrafarmi…, ecc., ecc.».

Notte agitatissima. Febbre in aumento. Mi sfogo al mattino con dottore e dottoressa. Essi mi spiegano che il professore ha la fobia dello scrivere. Protesto.

—Ne ha tante lei, delle fobie, delle stravaganze! Perchè non vuole ammetterle in un altro essere nervoso? mi dice l'assistente.

Intanto lui, amiche, amici telegrafano d'urgenza. Sappiamo poi che i telegrammi erano fermati dalla censura e che Giulio stesso non poteva partire da Carrara, perchè dichiarata, quel giorno, appunto, zona di guerra. (Necessità di passaporto, ecc.).

La sera, nuova visita del professore. Nuovo telegramma fra le sue mani. Lo posa sul letto, con queste testuali parole:

—In casa sua sono diventati tutti matti, mi pare….

—Villano! sibilo fra i denti, mentre, sotto le coperte mi contorco di rabbia, incurante della ferita fresca di cui sento, muovendomi, tirare i punti.

—Ferma!…. Vuol rovinarsi, lei!…

Anch'egli stringe i denti. Se ne va subito. Il telegramma è questa volta di mio cognato. Anche egli supplica notizie. Mia sorella, la sola che sapesse della gravità del mio male, è in pena profonda.

Rispondo anche a questo in modo rassicurante, mentre sento la febbre pulsare più forte.

Nella notte, desidero di parlare a Freschi. Non voglio più stare sotto l'aguzzino squartatore di pance! Lo battezzo Jack lo sventratore.

Investo con preghiere, rammarichi e singhiozzi il povero medico, che comincia ad accorgersi del valore assoluto che possono avere gli avvertimenti dei nervi, quando questi toccano col loro linguaggio di sensibilità le corde vibranti di un organismo attento.

—Voglio andar via! Mi faccia trasportare altrove. Io muoio, se seguito a star qui! Soffoco dalla bile…. Mi porti via! Mi porti via!

Estrema difficoltà di tenermi ferma. Mi aggrappo; mi dibatto. Preoccupazione intensa di lui, per la ferita che esige immobilità….

Finalmente decido di aspettare l'arrivo di Giulio, annunziato al medico per il giorno dopo.

L'infermiera mi porta da vedere, in un vaso di vetro, due masse oscure, grosse come pugni. Sono i miei pezzi anatomici.

—Porti via!… Porti via!…

Lampi di occhiate cariche di ribrezzo.

La Duse viene per vedermi, ma non vuole entrare quando sa che ho la febbre. Mi lascia un biglietto, che leggo avida con occhi semispenti:

«Cara, son qua, come la sono sempre, e aspetto di poterti vedere senza darti nessuna emozione. Tornerò. Sta tranquilla.

«Tanti baci a te, al tuo piccolo. Sta serena.

«ELEONORA».

La gioia di rivedere Giulio, il bambino, mi fa sopportare le visite brevissime del professore.

L'incontro, preparato con cura dalle suore, dalle amiche, avviene con emozione contenuta. La voce del piccolo mi sembra più grave, più forte di prima.

Racconto a Giulio mille particolari, mentre egli vorrebbe che non parlassi, che non mi stancassi. Il bimbo si trastulla in un angolo con un puntaspilli che ha trovato sulla tavola. Credo che non segua il nostro discorso, quindi parlo con grande libertà dello stato in cui furono trovate le mie salpingi.

—Hanno dovuto togliere proprio tutto, sai?… Ovaie, annessi e connessi…

—Ci avevi anche una gallina a far le uova, nel tuo pancino? dice la vocetta grave.

Il piccino ha parlato con indifferenza, seguitando a giuocare. Non posso ridere. Il convulso mi scuote là dove la ferita incomincia a dolermi…

L'infermiera mi racconta poi la buona impressione che Giulio ha fatta al profesosre, che si è lungamente intrattenuto con lui del mio male.

—Come dev' essere buono! Che contrasto fra lui e lei! È veramente un uomo molto simpatico, per bene!

Io rido freddo.

—Già!… secondo lui, io sono… per male! Con pazienza infinita mi si convince a rimanere.

Il dottore dice:

—Ormai, la febbre cloroformica farà il suo breve corso. Tutto passerà… Sopporti…

E a Giulio.

—Persuada lei la sua signora…

—Cara… cara… ti prego…

Mille tenerezze risorgono. Rimaniamo soli. Medico, amiche se ne vanno.

Nella sera avanzata, presso il letto del mio martirio, rifiorisce meravigliosamente un sentimento che era sopito forse dall'abitudine, forse dalle divergenze di caratteri opposti.

Ci sentiamo più uniti di prima. Egli spera che l' asportazione del male valga a calmare le mie irrequietezze, a rendermi… normale.—Me lo dice.

lo sorrido appena, ma prometto. Spero anche io che sia così.

—Sai? Il professore mi ha detto che non ti dava due mesi di vita… tanto eri ammalata! Ora starai bene, salva… mia!…

La febbre non passa. Presente Giulio alla visita mattutina. Il professore, glaciale ma cortese. Parla ancora a lui solo.

Voglio sentire quel che dicono. Mi è impedito dalla suora. Ma l'infermiera mi ripete che «… il mio stato era gravissimo e l' operazione fu difficile».

—Febbre cloroformica, dunque…—egli ripete la sera, passando all' ora consueta.

—Professore, potrebbe dirmi che decorso hanno, in genere, tali febbri?

Egli contrae la faccia verde in una smorfia ironica.

—Eh, cara signora… Bisognerebbe andare a domandarlo al Padre Eterno!…

Ed esce dopo questa graziosa boutade.

Giulio, che deve ripartire la sera stessa, è presente. Mi mordo le labbra per contenere l'ira. Fingo di ridere, anzi, perchè Giulio parta tranquillo.

La febbre non alta mi sostiene quel tanto che mi basta per difendermi da sola.

—È un po' villano… dice Giulio quando il professore è uscito.

—Non importa… Lascia andare… Mi sono abituata, ormai… Non m'interessa… Voglimi bene tu.

Egli deve partire tranquillo, ritornare al suo lavoro. Verrà ancor, presto.

E poi, confesso a me stessa che la lotta sorda, crudele, mi giova. Comincio a divertirmi, a trovare interessante battermi con la Scienza arcigna, da sola!

Scrivo:

Professore,

“Mi mancò la prontezza di risponderle, ieri sera, che tocca naturalmente a Lei, se mai, andare dal Padre Eterno per le spiegazioni del caso.

“Io resto qui. Ma poichè credo soltanto nella Scienza, posso pregare un suo collega di recarsi a casa sua a ripeterle la lezione su le febbri cloroformiche, che Ella ha forse dimenticata nei suoi lontani studi.

“Così, ella sarà in grado, domani, d'essermi più preciso, senza ricorrere a pareri ultraterreni.

«ENIF ROBERT»

Do all'infermiera da consegnare. La povera Angelinin inforca gli occhiali, spalanca gli occhi. È inaudito, per lei, mordere il suo professore. Da anni, ella ne subisce le stranezze rudi. Mi confessa che qualche volta ha pianto: ma, soggiunge:

—È così bravo!… così bravo!… È collerico, ma la collera subito gli cade. Non lo irriti, la scongiuro!

La lettera non è mandata. La buona donna vuole evitare guai maggiori.

Al mattino, ancora la febbre. C'è Maria presso il mio letto. Entrano le suore, la dottoressa, lui.

Devono urtarlo un gran mazzo di rose bianche, accanto alla fotografia della Duse, e un altro di rose rosse della mia bionda dolente. La sua faccia, infatti, si scompone e l'epidermide glabra trasuda la noia, il dispetto.

Da Il giorni ho la febbre, e mi rifiuto ostinatamente, perchè non posso, di trangugiare latte, brodo, ecc. Bevo soltanto acqua minerale in ghiaccio.

—Come va? domanda la voce assente, mentre la mano preme il polso.

—Ma, professore… Ho la febbre.

—Macchè febbre!—scatta inviperito.—Chi le ha detto che ha la febbre?

E, voltandosi, in collera:

—Proibisco assolutamente, d'ora in avanti, di dire alla signora la temperatura! Qui, altrimenti, si peggiora l'ambiente, si fa un disastro!

L'infermiera tenta di dire che mai ho veduto il termometro. Io bollo, sto per slanciarmi, mi freno.

—Ma non c'è nessun bisogno ch'io lo sappia dal termometro, professore… Che cosa ridicola! La febbre si sente nelle arterie, nel sangue… La finisca di fare il tiranno!

Anch'egli si frena. Domanda all'infermiera se mi sono decisa a prendere qualche cosa. L'infermiera sente venir la tempesta. Mi scongiura collo sguardo buono. Risponde con titubanza. Intervengo:

—Non prendo niente perchè sto male. Non posso sopportare che l'acqua, la sola acqua. Tutto il resto mi nausea, mi fa dolere il ventre in un punto, qui in alto. Non posso!

—Sono capricci!—riprende la voce sdegnosa. E all'infermiera:

—Se si ostinerà, prenderete una cannuccia, e butterete giù latte, latte, latte!

Tento di alzarmi sul letto. Ho la faccia tragica. L'idea della violenza mi sconvolge. Debbo dire delle cose mostruose, perchè le dolci facce monacali sono costernate. Urlo affannosamente la mia esasperazione. Mi scateno in un delirio frenetico, in fiotti di parole mozzate dal singhiozzo.

Maria tenta frenarmi. Non posso più. Dico, dico, dico… finisco in un pianto acuto, ributtandomi sui guanciali. Il professore assiste attonito, senza replicare e se ne va mormorando:

—Oh! che caso! Che caso!

Per più di due ore, mi dura la crisi nervosa. Al mio medico racconto poi quanto è accaduto. Torno all'idea di non rimanere un minuto di più. Ancora una volta, egli mi calma. Parlerà; sarà presente alla visita di domani.

Ho Bianca presso il mio letto. Il medico la prega di ritirarsi un momento.

Mi sfasciano.

Finalmente potrò vedere il mio ventre! Ma non ho coraggio di guardare. Colgo un'occhiata del mio medico. che è poco rassicurante.

Appena buttato lo sguardo sulla ferita, il professore, voltandosi un poco, ordina:

—Un bisturì.

Mi prende una follia di terrore, di ribrezzo, di spasimo…

Urlo:

—No! Sveglia, no!… Assassini! Macellai! Sveglia, no! Tagliare, no! La mia carne è mia!… Comando io!… Ho diritto…

Il professore si ritira aspettando nel corridoio. Il mio medico, atletico, immobilizza le mie contorsioni.

—Non è niente… Un piccolo taglio per un punto suppurato… Non sia così vigliacca…

Vigliacca! La parola mi schiaffeggia in pieno. Ma il mio parossismo non si frena. Urlo. Mordo la mano che mi serra la bocca. Le suore mi tengono le gambe. Un gomito del dottore mi preme il petto. Il ventre può contorcersi, nudo, malato, gonfio… Altre mani lo inchiodano.

—Vigliacchi! Assassini! Macellai!

Durano fatica a tenermi. Urlo ancora sotto la pressione della mano che torna a imbavagliarmi. Sento il freddo della lama che affonda nella carne floscia… sento un getto di pus caldo sul ventre ghiacciato.

—È fatto!

La stretta si allenta, insieme colle mie forze. Possono lasciarmi. Non mi muovo più. Un mugolìo di spasimo mi esce dalla gola. Tengo chiusi gli occhi, vinta, sfinita.

Le mani del professore strizzano l'ascesso. Lascio fare, inerte, con un piccolo lamento di dolore.

—Speriamo che venga fuori tutta la cattiveria! —dice la voce fredda.

È una scudisciata in pieno. Rialzo la testa, mi libero dal tremore, dico forte e chiaro:

—Professore! non ritiro nessuna delle parole che le dissi ieri… Ma forse non dovevo dimenticare che lei mi ha salvata la vita.

—Ah! oggi sono di nuovo sull'altare!

Ironico, freddo, viscido, crudele, egli se ne va. La dottoressa mi rifascia, mi calma con dolcezza, poi mi lascia a Bianca.

Il marito viene a prenderla dopo poco. Telegraferanno a Giulio che tutto va bene. Infatti il mio medico rientra trionfante nella stanza.

—Oh! va benissimo! Adesso siamo sicuri che la febbre cadrà in due o tre giorni. Ci eravamo ingannati. Il cloroformio non c'entrava per niente. Era invece una febbre di suppurazione, per un punto di seta.

La mia fiducia nella medicina, nella chirurgia è scossa profondamente. Domando:

—Perchè è suppurato, il punto?… Forse deficienza di disinfezione nella seta?…

—Oh! ma neanche per sogno! Sono i suoi tessuti, signora, che non reggono il filo… Sa: ella era ammalatissima… Molto più di quello che credevamo! Infezione dovuta alla poca resistenza della sua carne, che non riesce a digerire la seta.

Il ragionamento mi persuade poco. L'idea di questa mia carne che si disfà è atroce. Varrebbe a fiaccare resistenze più forti della mia. Per fortuna, mi soccorre la logica tagliente che mi si presenta nettissima. Combatto con forza, per istinto di difesa, la tesi de miei tessuti frolli.

—No! no! Non è consì! Non può essere così! Perchè, allora, i tessuti avrebbero ceduto in un punto solo?

Lo dico al medico con ardore. Mi difendo, con l' energia della disperazione. Ho le lagrime nella voce quando insisto che dev'esser colpa della seta.

Con una crudeltà del mestiere, si insiste invece sui mio male gravissimo, a cui s'è riparato all'ultimo momento…

Ma la povera infermiera si tradisce. Nel suo italiano barocco, lei, la responsabile della disinfezione, mi dice addoloratissima:

—Mah! Quando il diavolo ci mette la cua … Sagrin! Chi sa com'è andata!… Ci ho badato tanto!…

È una mezza confessione. Ne gioisco, poichè mi rende la fede nella mia carne salda, fede che la scienza stessa tentava di togliermi!…. Ah! mestiere, mestiere, in fondo ad ogni alta mira del pensiero umano!

Ma Angelinin aggiunge accorata: —Vede?… Se avesse fatta la comunione…

La febbre non passa. Il professore se ne va, in vacanza. Mi lascia al mio medico, alla dottoressa. Medicazioni giornaliere. Alti e bassi di temperatura. Lotte accanite per medicare a fondo.

Ho ormai il terrore dei ferri. Non resisto. Pazienza inaudita della dottoressa, che perde al mio letto delle buone mezz'ore, coi ferri in mano, senza poter neppure appoggiarli sulla mia carne offesa.

Si tira avanti alla meglio, con disinfezioni superficiali. Evidentemente, si aspetta il professore

La Duse, carica di piante in bei vasi verdi densi di foglie, si presenta un giorno, ansante, sulla soglia. Come per prodigio di una fata, la nuda camera si muta in una graziosa serra. Le suore entrano dietro di lei, con altre piante, scaricate dall'auto che aspetta.

Gaia, col suo fascino unico che dà un brivido di dolcezza e di ammirazione al solo vederla, lieve e ridente, Ella crea con gusto un'oasi per il mio spirito. Esige ch'io non parli… Si curva sulla mia fronte arida… Mi bacia tanto. Svanisce… Come una fata.

Suor Giovanna mi prega, una sera, con la sua aria dolce, e confusa di bimba timida, di scrivere una bella lettera a nome di tutte le suore, per l' onomastico della Superiora.

La mia prosa a base di sante aspirazioni, di rifugi casti nel grembo di Santa Madre Chiesa entusiasma le semplici anime sorridenti, e tutte vengono a ringraziarmi commosse. Io, l' Atea, ho saputo interpretare la loro fede primitiva con alte parole toccanti. Assisto alla festa infantile che esse fanno alla loro superiora, più infantile di loro nelle espressioni di gratitudine.

Le 15, ora del termometro.

Per malattie muliebri, la temperatura si prende vaginale. Dei finissimi termometri fatti apposta. Angelinin aspetta, per toglierlo, i 5 minuti. Entra la suora della posta. L'idea ossessionante della povera donna è quella di convertirmi. Molte volte ha tentato di riprendere il tema religioso. Mi dà due lettere.

C'è anche Lucia, da me. Vedendo l'infermiera, la suora comprende.

—Ah! povera signora! È l' ora del termometro, eh? Io pregherò il suo angelo custode che ce n' entri solo poco poco!

Lucia soffoca una risata, ma aspetta ansiosa una risposta tremenda a quell'infelicissimo modo involontariamente pornografico di entrare nel santo argomento.

—Sorella, non so se ella sia abituata a pregare gli angeli per questioni di tal genere. Ma ricordi, la prego, che io non ho angelo custode…

Confusione, rossore della poveretta, che se ne va mortificata.

Jack lo sventratore ritorna.

Mi sono sopraggiunti, intanto, dei tremendi dolori al fianco sinistro. La dottoressa constata una forte infiammazione delle cicatrici interne.

Febbre più alta.

Sono decisa a essere docile col professore che spero, in vacanza, migliorato di nervi. Intanto però, nei lunghi giorni della sua assenza, ho parlato di lui con orrore, con terrore, con disprezzo, ira, ironia… Molti dei miei discorsi devono essergli stati riferiti.

Egli si presenta gelido. Non risponde al mio mansueto «Buon giorno». Resto un momento sola con lui, domando con fervore contenuto e desolato:

—Professore, mi dica, la scongiuro, cosa ho, quale complicazione è successa in me… Mi dica!

Egli, impassibile, senza rispondermi, guarda dalla finestra…

Giulio viene spesso a vedermi da Milano. Decide di farmi visitare da un altro professore. È difficile, però, poichè non posso muovermi da letto. Freschi ci sconsiglia, ci rassicura. La febbre è mantenuta dalla suppurazione.

Ho paura di morire. La febbre cresce. I dolori al fianco sono acutissimi. Preparo il mio annunzio funebre:

«Enif Robert muore a ternt' anni, vittima della chirurgia.—Vuole essere cremata. Non preghiere, non fiori.—Ma un ringraziamento particolare della defunta all'Ill. mo Professore… Primario dell'Ospedale… che, operandola, ha saputo darle la vita eterna».

Le amiche ridono, mi dànno della matta. Il mio medico dice che sono assolutamente insopportabile, e che d'ora innanzi, prima di consigliare una operazione, vorrà studiare, non il corpo dell' ammalata, ma la sua psicologia.

Angelinin è spaventatissima dell' eventuale pubblicazione dell' annuncio funebre. È così comica che debbo rassicurrarla. Ella spiega così il dissidio fra me e il professore:

—È inutile… Siete troppo uguali per capirvi! Avete gli stessi scatti, lo stesso carattere, lo stesso modo di digrignare i denti quando una cosa non va!

—Ma io sono un' ammalata, Angelinin, e lui avrebbe il dovere di essere educato, almeno… Non soltanto macellaio!…

Con me, il professore non parla. A Giulio dice che ho sopratutto bisogno di tranquillità.

—Ma col suo carattere, povera signora, è ben difficile, questo…

—Voglio sapere la mia temperatura, Angelinin!

—No; impossibile! Ordini severissimi del professore!

Mi prende l' ossessione di possedere un termometro. Le mie amiche, imbeccate dalle suore, rifiutano di portarmelo. Con uno strattagemma, ne posseggo finalmente uno. La suora delle commissioni me lo porta, senza saperlo, sigillato in una scatoletta con diversi altri oggetti che ho chiesto per lettera a una dottoressa proprietaria di una farmacia.

Ho il termometro! Posso sapere, finalmente, e, sapendo, sono più tranquilla!

Comincio ad alzarmi, dopo 56 giorni di letto. Le medicazioni mattutine sono il tormento mio e la preoccupazione di tutti.

Stesa sul lettuccio di tortura, spasimo, mi torco, impedisco che mi si tocchi. Non lascio levare i punti che vengono a fior di pelle. Con le pinze argentee, lunghissime, Jack lo sventratore spennella la ferita, che si riapre infiammata, con batuffoli imbevuti di tintura di iodio. Urlo, non voglio, mi faccio forza, prego, piango… I denti scricchiolano da spezzarsi, mentre dei grugniti, degli «uuuuff!» significativi s'intercalano al mio tormento.

—Un teatro! Un vero teatro!—dice la suora che restò delusa il giorno dell'atto operativo.

Capisco che non posso durare a lungo. Sento in tutti la stanchezza delle mie stravaganze. Suor Giovanna mi sta vicino più che le altre. È un miracolo di bontà affettuosa.

Il professore, interrogato da me con più forza, resta impassibile, non risponde.

—Voglio sapere perchè la ferita si è riaperta! Voglio sapere se posso andarmene!

Il suo silenzio mi esaspera.

La dottoressa mi consiglia di attendere ancora, di cominciare le punture ricostituenti. Mio rifiuto assoluto, reciso. Mai mi sottoporrò ad una puntura!… Le amiche mi prendono in giro. Freschi è in collera, pentito di avermi consigliato di operarmi. Scommetto che pensa: «Meglio morto, un essere così matto!».

—È certo che il giorno in cui ella andrà via, qui, in questa camera, ci metteranno una lapide! E le suore canteranno il Te Deum…

—Dottore, sia sincero… Mi dica esattamente cosa pensa di me.

—Ecco: per quanto sia difficile definirla, dirò che lei mi sembra un cervello troppo virile in un corpo troppo femminile…

Sono sempre più inquieta. Una mattina ho un battibecco con l'infermiera, per la porta della camera, che lei voleva tenessi chiusa e che io aprivo.

—Guai, se il professore trova aperto!… Scatto.

—Ma chi è questo professore? ! Ma questa non è una casa di cura: è un carcere duro, nel quale il direttore viene a vedere ogni mattina quali delitti hanno commesso le recluse nelle ultime ventiquattr' ore!…

Mi rivolgo, per dei piccoli appunti sul vitto, all' economo dell' ospedale. Gentilissimo, egli cerca di accontentarmi, mi dà ragione. Lo trovo così compìto, che mi vien voglia di raccontargli i miei dissapori col professore…

Lo conoscono anche loro, ormai. È malato di nervi… ma è bravo!

(Che cosa s' intende, in medicina, per… bravo?) Per la terza volta, affronto la questione:

—Mi dica, professore… Voglio sapere che cosa ho!

Nuovo silenzio più fondo, più strano, più indisponente… Allora gli scrivo con frasi risentite una lettera che gli mando a casa. Ho la debolezza di farla leggere prima alla dottoressa. Ella certo avverte il professore del suo contenuto, e la lettera mi ritorna, chiusa, con questo indirizzo: «Signora II».

Scrivo in cartolina: «Non mi stupisce il suo atto scortese, che fa seguito a molti della stessa specie, ma trovo strano che nell'infinita quanto vana sua superbia, Ella non abbia attinto il coraggio di leggere delle vibranti verità».

Ho appena spedita la cartolina, quando vedo entrare il professore. È pallidissimo. Si asciuga le mani, che tremano un poco. M'investe con voce di furia:

—Signora! Non ne posso più!… Lei mi mette il disordine dappertutto… Tutti sono stufi di lei… La mia pazienza per le sue stravaganze ha un limite!…

Rispondo per le rime, pallidissima anch'io, vacillante.

La disputa, a voce contenuta, si prolunga.

—Non ne posso più!—egli ripete.

Ma io scatto, ricordo i telegrammi portati sul letto, il silenzio ostinato sul mio male, la noncuranza per le mie preghiere di togliermi le sofferenze al fianco sinistro.

Egli incalza ansante:

—Io non faccio il telegrafista… Io non ho mai creduto a questi suoi famosi dolori così forti.. lo non voglio dire a lei che malattia ha, perchè sono un uomo di cuore e potrei farle molto male, dicendoglielo!

Un freddo mortale mi prende tutta. M' appoggio al tavolo.

—Lei, il cuore, non sa nemmeno dove stia di casa! E poi, adesso, mi ha detto abbastanza!

—Io ho agito con lei da gentiluomo, mentre fin dal primo giorno dovevo dirle il fatto mio, quando ella venne a farmi delle proposte indecorose per un professionista di conscienza!…

Lì per lì, non ricordo. Poi, scatto di nuovo più forte di prima. La dottoressa è presente, cerca di frammettersi, con parole di calmo. Ce ne diciamo ancora, vuotando il sacco della lunga repressa ira reciproca. Insisto per sapere la malattia.

—No! parlerò soltanto a suo marito, e l'avverto che le darò querela, se dice ancora che l'ho trattata male!

—Male! Malissimo! Lei doveva fare il professore di matematiche, col suo carattere!

—Cosa credeva? Che diventassi il suo servitore umilissimo?… Che mi occupassi delle sue ridicolaggini, dei suoi libri, dei suoi fiori?…

Ah! ecco!… Egli era seccatissimo di tutto l'apparato estetico, disprezzatore profondo di tutte le belle cose che la grazia femminile mi aveva messe intorno a lenire il mio spirito. Lo avevo già supposto. Ora ne ero sicura.

—È stata una villania, rimandarmi la lettera chiusa… Lo sa? Del resto, io le chiedevo semplicemente che si spiegasse sul mio male…

—Mi spiegherò coi suoi parenti…

—E intanto, le ho scritto stamane una cartolina…

—Se la cartolina contiene delle impertinenze, la porto immediatamente al mio avvocato. Le do querela.

—Faccia quel che crede!

—E ho ancheautorità sufficiente a farla rinchiudere in un manicomio, capisce?… Perchè lei è pazza! pazza! pazza!

—Oh! ci sarà un procuratore del re…

—No! no! Nessuno potrà levarla di là! Lei è pazza!

Giulio viene a prendermi. Anche il mio medico pensa che il togliermi da quell'ambiente possa essere un passo verso la guarigione.

Non vedo più il professore. Interrogo inutilmente Freschi per sapere del mio male. Ho fissa in testa l'idea di questa malattia grave che porto in me. Cos'è?… La dottoressa, Angelinin, tutti impenetrabili! Giulio mi calma come può, e mi assicura che il professore gli ha garantita certa e perfetta la guarigione… Ha parlato lungamente con lui, ed ha la diagnosi che mi si vorrebbe tener nascosta. Riesco finalmente ad afferrarla: leggo avida, ansante:

“La signora fu operata di annessientomia bilaterale, essendo offesa da salpingo-ovarite-caseosa con peritonite adesiva bilaterale di probabile natura sospetta (Koch).

“La paziente guarì dell'atto operativo; ma nella fossa iliaca sinistra rimasero degli essudati, che si spera siano soltanto di natura infiammatoria semplice e che col tempo possano riassorbirsi.

“Consiglio ora completare la cura con iniezioni alla Durante.

“D. r…,
“Chirurgo primario Ginecologo”.

… Natura sospetta? Koch?… Non mi viene in mente. lì per lì, a qual male spaventoso sia legato il nome dello scienziato tedesco… Rilevo soltanto che la diagnosi manca di precisione.

Un chirurgo che ha aperto, visto, operato, curato per 76 giorni la paziente (!) non ha diritto di mettere un “probabile” nella sua diagnosi! O è, o non è. Vorrei andare da sola a dirlo di nuovo al professore, a esigere una sentenza più precisa…

Al mio medico assistente, dico un sacco d'improperi ch'egli sopporta con relativa pazienza. Egli esorta Giulio ad aver fede, e ad infondermela, nella guarigione, lontana ma sicura.

—Non sprecate altri denari in consultazioni di celebrità, non vi spaventate di febbri anche alte. Non c'è nient'altro da fare che aspettare la suppurazione lentissima dei punti. Ne son venuti fuori sei; verranno anche gli altri. Poi, la guarigione…

Rispondo seccatissima che non credo più una parola di quanto la Scienza mi dice. Sono ironica, tagliente, cattiva. Ho l'aria di mandarlo al diavolo! Egli se ne accorge e inveisce contro le donne:

—In quattro anni di ambulatorio, con una quarantina di donne da visitare giornalmente, le assicuro che le poesie passano, e sempre più ci convinciamo che la donna è un solenne pasticcio!

—Ma faccia il piacere! I medici sapranno forse, dico forse, il suo meccanismo uterino, ma sfugge loro completamente il problema psichico della donna, che ritengo abbia importanza somma sul fattore fisico. Dunque, non noi siamo un pasticcio, ma voialtri, incapaci di spiegare…

—Certo, però, in tanti anni di professione, non ho mai trovato un tipo come lei…

—Sì?… Tanto piacere!… Con questo, me ne vado non guarita, anzi più ammalata di prima per colpa loro…

Proteste vibratissime. (Egli protesta, d'altronde, per puro spirito di solidarietà professionale, poichè è la negazione della venalità).

Parto per Napoli. La buona Angelinin ha le lagrime agli occhi. Suor Giovanna mi stringe forte le mani, le braccia. Sento che vorrebbe baciarmi, ma il suo regolamento lo vieta. Immagino che un essere così vibrante debba ad un certo punto della sua vita gettare velo e rosario, nauseato di castità.

Mi separo dalle amiche instancabili nell'assistenza affettuosa, con una pena accorata. Ho la convinzione di morire molto presto, di non vederle più.

Viaggio pieno di cautele, e come Dio vuole arrivo a Napoli.

Accoglienze affettuosissime di conoscenze. Per le medicazioni giornaliere, chiamiamo il medico condotto, quello stesso che nel luglio mi sconsigliò d'operami. Mi rivede, mi rimprovera con dolcezza di non avergli dato retta. Voglio restar sola con lui. Voglio sapere che male ho.

—Nella diagnosi si parla del bacillo di Koch… Tubercolosi!!… Ma io sono convinto, signora, che ciò è falso.

Il terribile nome mi agghiaccia.

—No! no! Non è vero! Sono cattivi… Dica… Ho bisogno di sapere che non è vero!

—Le do la mia parola d'onore, signora, che non ci credo. La prova è che può tenere con sè il suo piccino senza ombra di pericolo, e che guarirà presto presto…

Giulio torna in camera. Poichè ormai so di cosa si accusa il mio organismo, ne parlo anche a lui con passione. Egli mi spiega allora molte cose interessantissime. Racconta che professore e medico erano discordi sulla diagnosi. Il professore escludeva la tubercolosi, ma era in dubbio nel precisare le origini del male. Il medico dichiarava invece lampante la presenza del bacillo nelle salpingi… Ora afferma, però, che tutto è stato asportato con precisione.

Il capitano medico, intelligentissimo e modesto, sorride con ironia buona. È di un terzo parere; il più sicuro:

—L'infezione è dovuta alla seta non bene sterilizzata. Lo affermo senza l'ombra del dubbio.

Passano i giorni. Sono a letto con febbre. Il dottore è costretto a consigliarmi un piccolo taglio per accelerare l'uscita dei punti. Crisi solite di dolore.

Egli torna, la sera, con un collega. In due non riescono a mettermi la maschera. Tentano addormentarmi con tamponi di etere, ma la mia resistenza al sonnifero è eccezionale. Se ne vanno. Il nuovo medico è inquieto con me, per le mie paure. (Egli non tiene conto, in quel momento, dello stato dei miei nervi, disordinati dal lungo martirio, dalle tensioni di mesi e mesi torturanti).

Giulio deve scongiurarlo di tornare al mio letto. Egli torna con un nuovo assistente. Riescono a imbavagliarmi con un mascherone pesante. Nuova narcosi. L'etere solo non dà nausee. Il risveglio è totalmente diverso da quello del cloroformio. Sono come ubriaca. Un'ebbrezza tutta fremiti. Ho sognato bene… Una lunga fila di bambini vestiti di rosa, in pieno sole…

—Mamma, mamma… Adesso capisco le morfinomani, le eteromani… Ti ricordi?… Maria… Sì, Maria, con le iniezioni di morfina… Maria, alla pensione Flora, a Firenze… Bello! Dormire così!… Voglio etere! Ancora!…

Rido, parlo, scherzo, afferro il dottore per le braccia. Vedo lo spavento della mia follia sulle faccie pallide di mia madre, di Giulio.

Il medico rassicura:

—È ubriaca di etere… Non è nulla… Passerà subito.

Ma la nuova piccola operazione non mi guarisce, nè accelera la guarigione. I punti di seta macerano con esasperante lentezza la carne ribelle. Ne troviamo nelle fascie sempre qualcuno ogni 15 giorni circa.

Passano i mesi. Il professore di Roma vorrebbe rivedermi. Mi scrive la dottoressa se sono in grado di viaggiare. No. Ella insiste perchè io faccia le iniezioni. Sono necessarie. Senza quelle non guarirò.

Adesso è certo che se non guarisco essi ne dànno la colpa a me, che non posso vincere il ribrezzo della puntura.

—È stranissimo, dicono tutti, medici e profani, che si sia sottoposta ad una laparatomia gravissima con singolare disinvoltura, e ora muoia di spasimo per la sola idea di una iniezione!

Io mi stringo nelle spalle.

—È un rimedio da selvaggi!

In un giorno di quiete, il dottore riesce a farmi una puntura. È un avvenimento! Ma rimango talmente scossa, che egli stesso comprende ch'è meglio non continaure.

Ogni tanto, col mio medico, cogli amici, parlo di futurismo. Ho da tempo l'idea di scrivere in parole in libertà le mie sensazioni chirurgiche. Marinetti, che conobbi un giorno a Prato, presentatomi da Settimelli, mi chiede con insistenza dal fronte queste impressioni interessanti. Sento che è un diversivo al pensiero troppo tetro del mio male l'occuparmi di letteratura futurista.

Cara amica,

Ciò che mi scrivete del vostro male e delle vostre sofferenze, mi accora. Non siate pessimista, però. Guarirete.

Queste parole vi fanno sorridere, e le attribuite certamente a della simpatia. Sbagliate. Voi non sapete, per esempio, che ciò che accade oggi al vostro ventre è profondamente simbolico. Infatti, il vostro ventre somiglia a quello della terra, che ha oggi un'immensa ferita chirurgica di trincee.

L'ossessione che attira e concentra i vostri sguardi sulle labbra della vostra ferita è identica alla nostra. Ci sporgiamo ai parapetti, e osserviamo attentamente il terreno che ci divide dal nemico. Sono 40 o 50 metri, talvolta 20 o 30. Per gli occhi comuni, è un terreno qualsiasi: fango, erba, piccoli avvallamenti, ciottoli, arbusti. Per i miei occhi visionari, invece, è un terreno fantastico, soprannaturale, mistico, cerebrale.

Ogni punto è carico di significazioni. Ogni pietra concentra in sè, come una dinamo, migliaia di volts psichici. Quel filo d'erba pensa, quella pozzanghera guarda la luce, felice di aver portato fortuna a un soldato che evitandola evitò anche una scheggia omicida. Gli arabeschi di quel sentiero si sono incurvati e modificati per preparare o contrariare dei destini umani…

La trincea nemica, cioè uno dei labbri della grande ferita, sembra, a chi la guarda, eterna, inamovibile. Malgrado tutte le rivoluzioni di terra prodotte dai bombardamenti, un senso di eternità regna sulla grande ferita aperta. L'alternativa di attacchi e contrattacchi sembra la legge di questa eternità.

Ho voluto studiare il valore psichico di quel terreno intermedio, e uscii ieri sera con una pattuglia che non doveva rientrare prima dell'alba.

Gli uccelli e gl'insetti s'infischiano della guerra. Cinguettii e ronzii infiniti. L'artiglieria taceva. La vita vegetale e animale ferveva intorno ai miei passi. Ma troppo preoccupato di non sdrucciolare nel buio, non mi fu possibile godere le mie sensazioni che all'alba.

Stanco, alla prima luce mi sdraiai coi miei compagni in una piega di terreno che ci nascondeva. A 100 metri dalla trincea austriaca. Il primo raggio di sole, lungo, d'oro blu, che penetrò obliquamente, scintillò come un bisturì.

Pensai a voi.

Il tenente che ci guidava era irritato, perchè avevamo sbagliato sentiero e dovevamo, in piena luce, rientrare allo scoperto. Perdemmo tempo, e rientrammo senza disgrazie, ma con un ritardo enorme. Il colonnello ci assalì con un cicchetto violentissimo. Sembrava veramente un chirurgo esasperato di non trovare più i propri ferri, che li ritrovi, infine, nella ferita aperta!

Simboli… analogie… Sono sicuro che la gran ferita sarà chiusa presto da una nostra nuova operazione.

Auguro altrettanto alla vostra ferita.

F. T. Marinetti.

Con un fine senso di conforto, Marinetti mi fa spedire altri libri. Scrivo. Risponde. La corrispondenza, molto nuova, mi fa un piacere immenso. Sento che la vita, se la tengo stretta coi denti, che non mi sfugga, può darmi ancora altissime ebbrezze spirituali. Perchè non cimentarmi nelle appassionate battaglie artistiche che i futuristi sostengono con tanta fierezza?

Giulio è lieto che io parli d'altro, che insensibilmente io mi tolga all'idea ormai dominante della fine prossima.

Si giunge a Pasqua, in alternative continue di bene e di male. Una febbre più forte delle altre —39.5—spaventa un poco il medico. Giulio, la mamma, Albertina, altra amica mia napoletana, cercavano, fino dal novembre, di persuadermi a sottoporre il mio disgraziato ventre ad una visita di celebrità.

Rifiutavo con furore.

—Basta! Non voglio più professori! Non voglio più specialisti! Basta!

A Giulio, che mi pregava con un'infinita pazienza accorata di cui mai abbastanza potrò essergli grata perchè accettassi Mangiagalli, risposi con ira:

—Alla prima barba di professore che spuntasse dalla porta di questa camera, giuro che mi butto dal balcone!

Molte volte quel volo dal terzo piano mi ha sedotta come una via di scampo.

Il dottore curante, che fino allora aveva esclusa la necessità di altri interventi chirurgici finisce invece col dir chiaro che una visita è necessaria. Per dividere le responsabilità, forse…

Giulio supplica per il bambino, per sè… Viene il professore Alteni. Sono talmente irata contro i chirurghi ginecologi, che rispondo appena cortese alle sue domande. Ma l'aria soave di quel bell'uomo maturo, dai modi paterni, insinuanti, la fiducia, la calma, mi vincono quasi subito. Egli compiange il mio caso, ripete:

—Otto mesi, povera signora, che lei soffre così!… che resistenza, però!

—Sono tubercolotica, professore?… Mi dica…

—Non posso escluderlo senza esame più attento, ma propendo a dire assolutamente no, per molti sintomi chiari. Però, si persuada… Venga alla mia clinica. Potremo vedere di togliere i punti che vi sono ancora…

Mi ribello. Rifiuto. Egli consiglia a Giulio di pazientare, di giungere a persuadermi a poco a poco.

Il 14 aprile sono in clinica. Risoluta però a non farmi più operare. Starò qui in osservazione. Voglio sapere se la tubercolosi esiste nel mio povero ventre. Spero che il nuovo professore potrà dirmelo, dopo un periodo di degenza.

Mi sento in un altro mondo. La vigilanza affettuosa del professore mi sorprende, m'intenerisce, abituata com'ero all'alterigia stizzosa dello specialista romano. Giulio, gli amici, le amiche, confortano il mio nuovo tormento.

Con la dolcezza, mi si vince ancora una volta. È il 17 aprile. Mi strappano un “sì” pieno di paura e di segreti ritegni.

L'infermiera procede anche questa volta alla solita toilette. Conosco ormai le formalità che precedono l'atto operativo. Mi sottopongo con minor ripulsa alla necessaria manovra. Ma non sono niente affatto decisa a farmi operare. Mentre l'infermiera lavora di rasoio, mi viene consegnata una lettera. È di Marinetti, magnifica di energia violenta. Viene da Gorizia. La calligrafia è tumultuosa, gonfia di lirismo. La mia attenzione è fissata dal rapido pensiero veloce e preciso che corre sul foglio di carta pazzesco:

Gentile amica,

Sono convinto che se fossi vicino a voi, saprei guarirvi. Non scherzo. Ho un metodo sicuro. Ascoltate:

Teoria:

La salute è la somma di tutti i desiderî-forze che ci tengono legati alla vita. In tutte le malattie gravi si verifica la lacerazione o il rammollimento di questi nodi.

Si vive in quanto si hanno molte ragioni di vivere. Si muore in quanto si perdono a poco a poco le ragioni di vivere.

Bisogna dunque, per guarire, stringere dei nuovi legami con la vita, mediante forti nodi.

Pratica:

Pensate ogni giorno a qualche cosa di piacevole che avete visto o sognato e che vorreste vedere, toccare, mangiare, bere, stringere, possèdere.

Un'anima, uno spirito, un corpo, un libro, un quadro, un viaggio…

Per esempio, pensate al piacere di sentir pulsare sotto i vostri piedi una bella nave veloce che scivola all'alba in una rada africana azzurra azzurra… Calma preistorica… casupole bianchissime, gridìo gesticolante di ragazzi nudi, di carbone, fra la schiuma sulla spiaggia… altri coricati come des escarpins vernis… e i lenti ventagli delle palme!

Sognate l'isola di Capri svenata, svenuta in un molle chiaro di luna primaverile… La luce di carne trema come uno spasimo di piacere. L'isola galleggia sulla beatitudine del mare!!

Sognate di scrivere un poema, espressione alta di tutta la vostra anima…

Sognate di centuplicare con un gesto d'amore l'azione o il genio artistico di un uomo amato…

Sognate la toilette ideale della vostra grazia…

Bisogna però desiderare con uno slancio di tutto il vostro Io!

Bisogna che sia un'ossessione, un accanimento del pensiero, un chiodo divino nella Carne!

Bisogna che il cuore precipiti i suoi palpiti all'idea di toccare o vedere la cosa desiderata.

Dopo un mese di questa cura sentirete in voi una forza enorme agitarsi tumultuosamente per rompere ad ogni costo la rete infame del male…

(Ho uno scatto involontario che fa sussultare i miei fianchi.

—No! no! per carità! Se si muove così gliela faccio io, l'operazione chirurgica!

E la buona suora rimane col rasoio brandito nella mano destra, mentre con la sinistra preme sul mio ventre nudo per fermarne i sussulti.

—È stato involontario… Ora starò assolutamente immobile.

Riprendo la lettura della lettera di Marinetti).

Il male è una rete simile a quelle reti nelle quali si dibattono i meravigliosi tonni, muscolosi, elastici e metallici che balzano subitamente facendo, con una codata, schizzar via a 20 metri i canotti odiati.

Perfezionare il desiderio di un oggetto. Lanciare il sangue all'assalto di una cosa desideratissima.

Non consiglierei questa cura ad un'anima vinta. Ma voi siete forte, alta, vittoriosa. Vi sento intelligentissima, tutta accesa di volontà, come un faro sulla scogliera aspra del vostro male.

Non rivelate a nessuno questa cura del desiderio, e provatela. Consiste nell'aumentare, mediante un desiderio sistematico i legami ardenti con la vita terrestre. Si crea così una gioventù artificiale, una nuova massa di desiderio—nuova massa di vita.

Verrò a trovarvi fra due mesi, spero. Il mio desiderio di vedervi guarita è forte forte e tenace. Una buona stretta di mano.

F. T. Marinetti.

Forte e prezioso amico,

Grazie: dite cose meravigliose che frustano la volontà illanguidita.

Mi è sembrato, leggendo, che un fascio di luce nuova mi aprisse e penetrasse un più vasto orizzonte, che il ritmo stanco della mia vitalità quasi vinta dal male riprendesse a pulsare violento e vittorioso. Certo mi avete additata una strada non percorsa, ignota alle verbosità inutili dei medici e della scienza che mi ha solo torturata per lunghi mesi senza guarirmi.

Dunque… la cura del desiderio!

Soltanto, voi dovete sapere per esperienza quanto sia fugace la gioia del “raggiunto”, nè immagino quale cosa possa avvincermi alla vita “con forti nodi”. anche duraturi oltre che possenti.

Ma il magnifico impeto vostro cancella ogni lenta obiezione di una filosofia decadente e mi spinge a fuggire le pesanti riflessioni della logica. Sarebbe un rallentare l'efficacia dello sforzo volonteroso, mentre mi è necessario afferrare con tutto il fascio dei nervi vibranti questa salvezza possibile ed unica che devo poter raggiungere con un balzo energico, felino, disperato, liberante, assoluto, altissimo.

Vi son grata dell'aiuto che mi viene da Voi in questa difficilissima crisi di smarrimento nella quale la mia anima si assopiva quasi adattandosi ad una rassegnazione passiva e noncurante.

Accoglievo con un sorriso amaro ma non più nemmeno desolato le dotte e logiche ripetizioni dei professoroni monotoni, inconsapevoli delle meravigliose virtù curative che può contenere l'Io insondabile di un'anima forte.

Oggi, leggendo le pagine vostre, la fiducia e l'amarezza sono scomparse, fugate dal soffio energico d'ottimismo e di promessa.

Non sottilizzo con un'analisi meschina e deprimente, accetto grata la parola nuova, la faccio mia e plasmerò da buona artefice la duttilità del desiderio da trasformarsi in salute. Vi dirò in seguito quali siano le più efficaci ragioni di vita, quali i lacci più potenti che sprigionano le migliori energie contro il male.

Ho già in me uno smagliante groviglio di nodi e me ne balenano alla fantasia, per il domani, di più vividi ancora…

Mando a voi, eccitatore ed intuitore meraviglioso di forze latenti, il primo saluto vibrante di questo mio risveglio salutare, e vi stringo la mano con fede riconoscente, serena.

Aprile.

Enif Robert.

Giulio, la sera stessa, rileggeva con me la lettera di Marinetti, commosso dell'aiuto validissimo giunto di lontano da persona quasi sconosciuta.

È necessario ammettere la tesi delle intuitive attrazioni o ripulse che impongono o subiscono i nervi degli organismi più sensibili. Io sentivo ormai d'essere capace di sopportare la narcosi e i ferri.

Il giorno dopo, senza sussulti, con coraggio freddo, sorpassando ogni aspettativa di familiari e di curanti, mi metto io stessa la maschera, vigilo con acutezza le sensazioni del sonno imminente.

Quasi subito, mi penetra un violento ronzìo nelle orecchie, caldo-freddo al cuore, accelerato nel suo palpito, lotta cerebrale contro l'avvilupparsi confuso del pensiero, fascia stretta, sempre più stretta contro il cuore, ser… mo!

… Ma non guarii. A metà maggio sono ancora in clinica, con la ferita laparatomica ostinatamente aperta. Il professore Alteni non sa più cosa dirmi. Egli ha tentato ogni mezzo. La scienza ha ormai detta l'ultima parola.

… A meno che io non mi sottoponga… ad una nuova laparatomia…

Contro ogni previsione, I'idea non mi sconvolge. Anzi prego il chirurgo dai modi affabili, paterni, di operare ancora… Egli è titubante. Mi avverte dell'estrema gravità del caso. Potrei non svegliarmi più. Non garantisce l'esito.

Ma la vita, in queste condizioni non ha alcuna attrattiva. Meglio andarsene una buona volta…

—Qualunque cosa, professore, ma non mi dica che non può più far nulla!…

—No… Medicheremo ancora… Cercheremo…

Ma la fede nella possibilità umana è spenta negli occhi buoni, che riflettono tristezze di ben altre accorate impotenze… La sua figliuola, giovane, intelligentissima, non potuta strappare alla morte, pochi mesi prima…

Avverto il mio buon capitano medico, che per tanto tempo ha lottato col mio male, dandosi poi anch'egli quasi per vinto, della mia nuova decisione. Aprire ancora il povero ventre, tentare l'ultima carta… Come va, va.

Egli mi sconsiglia risolutamente.

—Ma è una nuova pazzia, mia cara signora… È voler morire! È uccidersi! Può guarire con lentezza…

Mi racconta che durante l'ultima operazione del 19 aprile, la quale non fu una vera e propria laparatomia, ma soltanto un'incisione profonda fino al peritoneo per cercare i punti di seta che ancora potessero esserci, vi fu un momento di grande pericolo per la mia vita.

Sotto il bisturì sicuro del chirurgo esperto, di larga e solida fama, sprizzò ad un dato momento un lieve getto d'acqua. Come una piccola vescichetta che si rompesse. Il chirurgo s'interruppe, temendo di aver leso peritoneo e vescica. Ma non era così. E rimase un enigma quell'acqua isolata in mezzo al mio sangue…

—Lei è tuta una cosa inspiegabile, cara signora…

Il professore mi consiglia di scrivere a Roma, per avere comunicazione più precisa circa l'esame di laboratorio che dovrebbe essere stato eseguito sui pezzi asportati dal mio ventre. Anch'egli è poco persuaso del “probabile” che il collega di Roma ha messo nella diagnosi. Dice che è necessario sapere se il bacillo tubercolare esisteva realmente nelle salpingi.

—Non possono saperlo che loro, dall'esame chimico…

Da Roma rispondono, in sostanza, che l'esame dei pezzi anatomici fu omesso. Non si sa perchè. E il mio dottore scrive testualmente:

“Non faccio torti di asepsi, poichè il professore è rigorosissimo anche con sè stesso (ma non colla seta, dico io!)… Sono persuasissimo della diagnosi, e certamente il… “probabile” rappresenta solo le ricerche di laboratorio non fatte. Diagnosi clinica esclusiva, ripeto, lampante, senza dubbi, senza probabilità. Le salpingi d'ambo i lati trasformate in due ascessi caseosi, e di quelli imponenti, che rendono superfluo ogni ulteriore sussidio di laboratorio. Non posso addentrarmi in particolari, ma farò questo a voce, se lei avrà il… futuristico desiderio di ritornare sull'argomento, coraggiosamente. Del resto, le masse caseose furono asportate molto bene, ed è da rimpiangere che l'esito non sia stato migliore… ecc., ecc.”.



Questa sera, per distrarmi, penso energicamente alla cura futurista propostami da Marinetti.

Voglio desiderare, desiderare, desiderare! Intensificare il desiderio fino allo spasimo, concentrarlo su uno scopo da raggiungere. Quale scopo? Eccolo: il più assurdo, il più difficile, il più lontano, quello di diventare… una scrittrice futurista!

Scriverò subito, riunendo tutti i rottami della mia povera volontà, un volume di parole in libertà, intitolato “Sensazioni chirurgiche” e lo manderò a Marinetti.

Subito al lavoro.

—Suora! della carta, un calamaio!

E avanti!

SENSAZIONI CHIRURGICHE.

bianco bianco bianco abbagliante chiarore di cielo di sole da finestroni lucenti [silenzio] piccole suore candidetacite sorridere di volti dolcissimi abitudine allo strazio quotidiano delle carni ammalate. Rabbrividire del corpo al contatto freddo del lettuccio di vetro—FREDDO—brivido della calda nudità e corrispondere dell'urto tortuoso al dorso al cuore forte battito vigile sospettoso… Affaccendarsi della piccola infermiera pratica brutta rapida sicura [silenzio] a grandi caratteri nella parete in faccia. Entrare rigido agghiacciante della “Scienza” calva fredda arcigna ansioso colpo nel cuore.

Sciacquìo d'acqua correnti mani braccia nude volti intenti candidi càmici lunghi LUNGHI e sciacquìo cic-ciac-cic d'acqua calda sul ventre sul male nascosto.

Riddare nel cervello la parola tortuosa laparatomia la-pa-ra-to-mia e poi? [silenzio] la-pa-ra-to-mia. Immobilizzazione dell'anima attenta e presa nelle spire delle due parole ripetute all'infinito… interrompere l'incanto la giocondità simulata del medico assistente consigliere-amico-distrazione voluta attenzione ritorta su le unghiette lucenti—Non dimenticata nella tensione nervosa neppure la sottile eleganza! Meccanico sorriso della bocca e tremare del cuore che avverte il giuoco della conversazione futile coprire l'attesa —E poi? forse [silenzio] sempre sempre sempre… lieve dottoressa piccola bianca attenta—fra le mani la boccetta scura—il solo punto nero nel bianco abbagliante CI SIAMO volteggiare di pensieri



e pensieri vertiginosamente rapidi concisi fermi sicuri chiarissimi—attrazione di fàscino verso la boccetta scura e dietro lo sguardo ampio e fisso ancora lavorìo d'idee che si rincorrono presentarsi di care persone lontane alla fantasia —un sùbito slancio fiducioso—l'atto di fede nella “scienza” arcigna “Professore nelle vostre mani raccomando il corpo che racchiude lo spirito mio” morire delle parole sul labbro la “Scienza” arcigna nè comprende nè vede al di là del macello.

Richiudersi violento dell'anima in sè stessa nelle parole consolatrici della Duse Elettalnsuperabile pronunziatrice “accettazione serena” ma il conforto naufraga nell'imminenza del tormento.

Avvicinarsi della maschera al volto esangue dibattersi del corpo nell'istinto pauroso salire al cervello la prima zaffata coloroformica disgustosa insidiosa gridare soffocato della ribellione mentre la maschera preme già forte—istinto di fuga—salvarsi—mani ferme potenti immobilizzano la convulsione serpentina.

turbinare disperato delle idee—riconcentramento terribile del pensiero—unico ancora libero—lasciatemi!!!! Mugolìo di parole rotte schiacciate dalla rete sottile tenace implorare dello sguardo atterrito coglie



sui volti vicini cambiamento d'espressione prima dolce ora risoluta aggressiva [silenzio] [silenzio] barbaglìo di sole su le sillabe inesorabili—inutile sforzo di fuga—accorgersi che tutto precipita sentire il cervello battere colpi violenti un suono di campanello vibratissimo acutissimo lacerante driiiiiiiiinn-driiiiiiinnn nella testa che si rompe—calma improvvisa—immobilità repentina —larghe onde di vita fuggente—due battiti lenti ovattati pesanti della macchina fer-ma. ???????? un attimo Risveglio un secolo prima sensazione:

piccolo tormento sul viso—leggère dita monacali affusolate sulle tempie—sentire e non poter muoversi—capire la morte ancora nelle membra inerti. Seconda sensazione:

piombo fruscìo di seta—faticoso sollevare palpèbre di sonnolento riconoscere di volti amici Bianca—Lucia debolissima intuizione confusa fasciata che la suora li allontana—silenziosamente—impotenza di fermarli—arsione improvvisa terribile insoffribile ghiaccio ghiaccio ghiaccio…

incresparsi lento spasmodico delle labbra in una smorfia sorriso-strazio.

… LA VITA RICOMINCIA… E IL DOLORE…

Gentile amica,

“Ho ricevuto le vostre parole in libertà. Originalissime, profonde. Brava! Bene! Sono sicuro che il vostro ingegno ha un grande avvenire.

“Non mi dite nulla della vostra salute. Intuisco che avete cominciato la cura futurista del desiderio. Sto preparandovi un piccolo manuale da leggere e da imparare a memoria.

“Volete conoscere la mia vita?

“Sono a Vertoiba, a 60 metri dalla trincea austriaca, in una lurida e tragica fangaia, ma non darei questa mia vita per nessun'altra mai sognata.

“Ho fatto per giorni e notti il capomastro di piazzuole, camminamenti, riservette, sotterranei di bombarde, sotto la vôlta sibilante di un continuo duello di artiglierie.

“Razzi bianchissimi troppo lenti, spasimosi, estenuati, come Lyda Borelli caricaturata da Molinari.

“Vampe numerose e veloci come le cretinerie a noi lanciate dai passatisti nelle serate futuriste.

“Tutti i trams milanesi correnti e rimbalzanti ininterrottamente sulla mia testa.

“Navigo, guazzo, remo nel fangobroda dei camminamenti, grassi, luridi intestini di questa pianura sventrata. Tutti questi corridoi di fango conducono all'unica vasta latrina: impero austroungarico.

“Nuoto con piedi stivaluti di sterco ed unghie dantesche. Liquefazioni di sfinteri sozzalisti. Parecchio sterco giolittiano rimasto su pezzi di Stampa.

“Al primo raggio di sole, i soldati sentono il bisogno di spidocchiare la loro camicia sollevata, come i critici dànno alla luce un volume di critiche con la speranza di farle rileggere.

“Solo il pidocchio si nutre di sangue eroico.

“Piacere acutissimo di schiiiiiiiantare quaranta metri di trincea nemica con le sei prime bombe della mia bombarda. Caddero senza dubbio sulla mensa-pentola di ufficiali al Kraut, poichè dieci minuti dopo schizzarono contro di noi trecento granate feroci, inesperte: una nostra cabina telefonica sotterranea sfondata.

“Colpire col cannone equivale a un ardente amore epistolare: non si vede però, nè si sente, la lontanissima bocca baciata. Colpire con le bombarde, invece, equivale ad un furioso amplesso radiotelegrafico, o, meglio, ad un bacio telefonico. Due brevetti che regalerò presto al pubblico…

“Se per un miracolo impossibile voi foste qui, in trincea con me, guarireste fulmineamente. Ecco un altro principio curativo futurista. Oggi non ho tempo di spiegarvi il mio concetto. Ma vi manderò presto il mio manuale, intitolato:

Cura del Desiderio-immaginazione”.

“Una forte stretta di mano dal vostro

“F. T. Marinetti”.

Ormai non credo più che nei futuristi.—Per fortuna, il professore Alteni vuole evitare di operarmi ancora. Tenterà, prima di riaprirmi un poco la ferita, che tutta si è di nuovo richiusa, meno un centimetro. Passo lunghi giorni ancora di martirio con le torturanti medicazioni a base di laminarie introdotte per sette centimetri nella viva carne del ventre.

Il calore umano le dilata, e le ferite si allargano a poco a poco… Una vera tortura!

Tengo per 21 giorni di seguito un cannello di vetro incastrato a fondo fra le labbra rosse del taglio crudele. Soffro tremendamente. Non ho più fede nei medici, ma li lascio fare.

In una notte penosa di febbre e d'arsura. I'infermiera che mi veglia mi confida i suoi amori. Timidamente mi prega (ha sentito dire che io scrivo tanto bene!) di esserle interprete, presso il carabiniere che le fa la corte. dei suoi sentimenti di buona ragazza innamorata. Rispondo alla prima lettera del pretendente con frasi terra-terra, e mi diverto del suo fervore stupito, che ha una certa analogia con la grazia ingenua delle suore entusiaste per la lettera d'augurio alla loro superiora…

L'assistente dottor Gigli, paziente, cortese, s'interessa alle mie audacie futuriste. Legge qualche cosa mia, critica, sorride. Anche il professore è un po' ironico.

—Ah! nervoson! con quei matti di futuristi!…

I futuristi che aprono simbolicamente i cranii duri, per saettarvi la scintilla del genio dinamico, creatore di ardimenti vertiginosi, sono meno matti di voi, freddi squartatori di ventri bianchi, che troppe volte studiate sulla viva carne palpitante!

Un colpo di testa: parto per Santa Margherita. Ho orrore dei medici e degli ospedali e una strana fiducia ultra-ottimista nel sole. Il sole e il mare mi guariranno. Ne sono convinta.

Non trovo ostacoli. Tutti sono favorevoli alla mia decisione, e dopo dodici ore sono in un buon albergo.

Il sole è dappertutto, violento, trionfante, esuberante, enfatico, ossessionante, divinamente offerto a tutti, gratuito come una grande festa popolare. Ma io lo voglio per me, aristocraticamente dosato e riservato a me come una medicina da imperatore.

Ho a mia disposizione un vasto balcone, chiuso agli sguardi da mura a destra e a sinistra. Nuda nella mia vestaglia aperta, mi corico su una sedia a sdraio e offro il mio ventre al sole.

L'astro incandescente manifesta subito la sua meravigliosa brutalità incivile avventandosi con furia selvaggia e senza diplomazie sulla mia ferita. Sento, vedo la concentrazione di un miliardo di sguardi solari che vi penetrano acciecandola di luce. Ressa di fiamme cocenti che vogliono tutte penetrarvi profondamente con una soave e pur dolorosa, lenta e pur velocissima ferocia. È un amplesso avvolgente e una lacerazione insieme.

Ogni poro del mio ventre è una bocca che si apre, trema, e vorrebbe fuggire.

La mia ferita ferve di un'ansia precisa e confusa. La sento immensificarsi, come se fosse la bocca di un vulcano. La guardo, e mi stupisco di trovarla così piccola. Contiene indubbiamente il travaglio di tre o quattro miliardi di formicai solari. Tutto il sole, più vasto della terra, è nella mia ferita. Intorno, si allargano dei cerchi concentrici di calore decrescente, tagliati da deliziosi pruriti, e tutt'in giro ai fianchi circola una delicatissima frangia di lievissimi spasimi.

Sono spasimi di piacere, velati da sfumature di dolore. Ma il calore solare li domina, li nutre e li consola come l'affetto domina, nutre e consola le brutalità nell'amore e nei giuochi violenti.

Mi sento affondare in una semi-incoscienza di svenimento, sotto la potenza massiccia del fuoco solare. Poi mi riprendo, e mi metto a esaminare con cura il mio ventre.

È veramente bellissimo, giovane, perfetto, senza una piega, con un'elastica solidità muscolare e un velluto epidermico dolce, attraente allo sguardo e al tatto. Non ha che un difetto: quella ferita terribile, piena di mistero.

Penso alle forme ambigue, quasi terrorizzate e terrorizzanti di certe ferite mortali di pugnale. Ferite che parlano, raccontano disperatamente, quando la bocca del cadavere è già chiusa, convinta, pacificata nell'al di là.

La mia ferita è certo più eloquente della mia bocca.

Penso che dieci minuti prima del gran terremoto di Messina-Reggio Calabria, dei barcaioli videro nella luce tagliente e implacabile del plenilunio, un grande avvallamento metallico e geometricamente preciso scavarsi ad un tratto nel mare, da una riva all'altra dello Stretto, mentre tutto il mare, a destra e a sinistra, rimaneva immobile come una lastra d'acciaio. S'era dunque aperto in un punto il fondo dello Stretto per un improvviso sfasciamento delle vôlte sotterranee.

Analogie infinite che mi suggerisce il mio ventre. Il Golfo di Santa Margherita non è forse un dolce ventre voluttuoso tutto imbrigliato di diamanti che tremano sotto una lenta brezza? Questa, con grazia pianistica, fa scivolare le sue dita di seta e di carta velina sugli orli della mia ferita, mentre si precisa e si accentua un dialogo curiosissimo fra il sole incandescente e il mio ventre che cuoce felice:

IL SOLE.

Dimentica te stesso… Slègati… Sciogli le tue paure… Apriti… Colerò una lava di forza nella tua forma convessa levigata succosa di frutto. La ferita che ti fu fatta da un ordigno inadatto non ha importanza. La chiuderò perfettamente, come si chiudono perfettamente le ferite aperte dal remo nel mare.

IL VENTRE.

Ho dimenticato tutto… Tutti i pensieri, i pensieri della testa ormai lontana. Non mi preoccupo dei terrori della gola lontana che palpita con me e per me. Son tutto aperto, offerto a te. Mi struggo di piacere nella tua vasta bocca di caucciù rovente! Ma modera per pietà la tua violenza scottante. Mi sento come un pane nella tua bocca di forno. S'addensa il sapore vitale della mia mollica e si fortifica la coesione della mia crosta dorata; ma temo di carbonizzarmi!

IL SOLE.

Non temere. Io taglio, apro, rimescolo, divido e ricongiungo, brucio i germi della morte, pèttino ogni piccola treccia di nervi, rifaccio i nodi dei tessuti, le alleanze delle cellule, rianimo le pompe dei vasi sanguigni. Tutto con la velocità delle mie lunghe dita spiraliche, di fuoco liquido inesauribile.

IL VENTRE.

Perdònami; sono tuo; fa di me ciò che vuoi. Sono quasi liberato da ogni coscienza. Mi sento leggiero, impersonale, staccato dalle altre membra, e m'inalzo verso di te nella luce, rapito dal tuo ardore sradicante che appassionatamente mi succhia in te… Taglia! Ferisci! Lacera! Dilania! Spalanca! Sarò tuo a brandelli. Tuo! Infilzami! O stritolami! Carbonizzami! Così! Ancòra! Ancòra!…

Mi sento fasciata, presa, stretta dal sole, come dalla spirale metallica di un boa incandescente. Amplesso sintetico, unico. Simultaneamente però questo amplesso si moltiplica in mille amplessi minuti. Tutti i sali jonizzati dell'aria agiscono con accanimento sincrono. In ogni poro vibra una molecola salina. Si determinano correnti elettriche fra il sole, il mare, le nuvole e il mio ventre. La mia pelle beve con avidità l'aria fortemente mineralizzata e carica di cloruro di sodio, di iodio, di bromo. Le mie nari sensibilissime valutano il sale di calcio, il magnesio, il fosforo, il litio. Il mio ventre è una pila elettrica di carne beata.

Un benessere indefinibile invade ogni più piccola mucosa, ogni più piccola valvola, ogni più piccolo vaso.

Sulla superficie nervosa della pelle i raggi pungono e stimolano le estremità dei nervi periferici. Questi ripercuotono le vibrazioni sui centri nervosi che dirigono la nutrizione generale. Il mio corpo tutto se ne rallegra. Sento che le emanazioni di radio, di uranio, di torio, trasformano metodicamente l'urato monosodico insolubile in urato solubile.

Il senso di peso epigastrico è sparito. È finita l'angoscia del polso stretto e accelerato. Ecco: il sangue rallenta il suo ritmo con gravità precisa e solenne. L'ossigenazione del sangue e la benefica combustione organica propagano un'azione decongestionante e solvente e una sudorazione di flora paradisiaca.

Mi sono addormentata alle tre, e risvegliandomi nel crepuscolo tutto allagato di languidissimi rosa e lilla, ho cercato invano intorno a me il sole, mio nuovo chirurgo, e non ho visto che il suo cilindro d'oro e la sua mano guantata di verde, che mi salutavano con eleganza morbida dalla porta del golfo.

Sono stanca di ascoltare i dialoghi prolungati del sole col mio ventre. Sono uscita per distrarmi: due giovani mi hanno guardata con sguardi precisi. Sono dunque ancora desiderabile e non troppo sciupata.

Una grande allegria di raggi e di profumi mi ha invitata, e in motoscafo ho scivolato con piacere, sulle pelle increspata del ventre marino, verso Portofino.

Ma sono ossessionata dal mio male. Non vedo che ventri dovunque. La piccola rada di Portofino mi è apparsa anch'essa come un ventre insanguinato da una operazione chirurgica.

Rimescolìo e trambusto di barche. Vocìo di barcaioli per la pesca di un delfino.

Lungo il marciapiede marino, sotto le case gialle, porpora, rosa, lilla, sovraccariche di balconi, ballatoi, verande e pollai, ondeggiava e scricchiolava una rissa di antenne e di vele. Galline, galli, polli e pulcini umani schiamazzavano fra gli alti pennacchi dell'acqua sghignazzante e schiumosa che il delfino ferito a morte schiaffeggava convulsivamente.

Trenta pescatori, le braccia tese nello sforzo, lo tiravano uncinato sulla riva. Ma il pesce, formidabile, con scattanti contorsioni, li ritrascinava in mare.

Due pescatori lo percuotevano con un lungo remo, ma le sue codate esplodevano tra le chiglie, mentre dal suo ventre lacerato colava una profusione di carminio vivissimo.

Moriva eroicamente, con sussulti spaventosi. Voleva morire solo. Faceva il largo intorno a sè. Ebbe una agitazione diabolica del dorso lucidissimo, come un avvinghiamento di lottatori ignudi. oliatissimi. Sembrò una gomena di caucciù e metallo, invasa da migliaia di correnti elettriche. La piccola rada di Portofino era ormai tutta rossa del suo sangue: fantastico scolatoio della sanguinosa conflagrazione mondiale.

Il ventre del mare aveva semplicemente partorito un delfino. O meglio un virilissimo membro divino si era insanguinato sverginando quella solitaria rada-ventre, che ora si assopiva, violazzurraverde, nella penombra umidissima.

Ero rimasta inchiodata, le mani gelide sul sedile del motoscafo, durante tutta la scena inaspettata. Ma mi battevano i denti. Un po' di febbre e tutte le allucinazioni nei nervi. Benchè avessi il ventre perfettamente fasciato dalla forte e utile cintura elastica sentivo, realmente sentivo con terrore, aprirsi sempre più tragicamente la mia ferita e grondare.

Volli vincermi con uno sforzo di volontà. Mi feci accompagnare su per la salita, fino alla chiesetta che domina l'alto mare. Il grande fiato dell'orizzonte non mi calmava. Avevo negli occhi l'agonia tumultuosa del delfino, e la mia anima non trovava pace nella sconfinata distesa delle onde, che si coloravano per me, forse soltanto per me, di tutti i rossi più tragici e più crudeli.

Le nuvole erano vere bende di ferito, sul viso eroico, violento irruente del sole.

Anche gli alberi. Due alberi in un cortile trascinavano le radici come gambe, appoggiandosi sui rami, come su stampelle. Alberi mutilati, con sangue di sole.

Le stelle ferirono il cielo e le mie braccia come punture sbagliate, fatte in fretta sul campo di battaglia. Punture che inòculano la pazzia.

All'orizzonte, in fila, le vele bianche e rosse come crocerossine.

SANTA MARGHERITA.—Inverno.—Pomeriggio. —Sole troppo caldo. Languore. Ottusità sdraiata nelle fonde poltrone verdi di una terrazza a mare. Occhi socchiusi che hanno raggiunto l'infinito per popolarlo di chimere.

La mia vicina di destra, grigio-smorta, svertebrata, evoca forse una blanda storia d'amore, senza sussulti, però.

Amore calmo per malati di petto e di cuore. Quella di sinistra è certo passata anche stamane sotto l'agile tocco del medico che forse ne vigila da anni il torace piatto e delicato.

Che cosa mi ricorda quello sguardo vuoto, rassegnato, socchiuso, senza vita?… Ah ecco! La testina di vitello lessa!

Balbettìo sommesso del mare, cioc-cioc di ninnananna ipnotica.

«Ancora un quarto d'ora, e dormiamo tutti».

Mi tiene desta il soffio prodigioso di tramontana che la mia montagna di Spazzavento, mi manda da chilometri e chilometri: la vedo nuda nitida, scossa nei rami secchi con un rumore d'uragano e di pazzia. Bella! Più bella di questo mare dolce.

«Voglio andare lassù… Ho sete di freddo energico! Qui… si dorme!».

Silenzio caldo. Mare fermo; pausa ironica della natura.

E il «contrasto» si scaraventa su di noi con una risata chiara prolungata, di quelle che si propagano correndo, invadendo l'aria ed i cuori, mista a parole dette forte da una voce di timbro perfetto.

Mi volto verso la scalinata, di scatto. Altri colli troppo lenti e troppo bianchi girano su loro stessi a fatica.

È una meravigliosa creatura che scende i gradini con passo regale. Straordinaria fusione di allegria e di maestà, nel passo, nel gesto, nello sguardo che ride e scruta.

Tre ufficiali la seguono, ai quali ella sgrana un'altra risata fresca che lacera l'aria. I colli dei nostalgici semi-dormenti hanno dondolii di lieve sofferenza. Colgo sulle sbiadite pupille della «testina lessa» un abbozzo di pensiero molesto.

La dissonanza la disturba. Dissonanza? No. Armonia violenta.

Donna di prim'ordine, infatti, quella che ora s'è appoggiata alla balaustrata volgendo le spalle al mare. (Non è contemplativa, lei; non ha tempo di popolare l'infinito di chimere!).

Con una rapida occhiata a ventaglio, intuisce l'ambiente. I denti purissimi nella bocca rossa splendono in una nuova risata. Il silenzio attonito, forse un po' ostile non la scompone.

La «testina lessa» mormora alla vicina una parola di commento femminilmente malevolo. Un pallido imbacuccato fa abbassare gli occhi alla sua accompagnatrice molto seria. Sorella o sposa. Scruto quel viso che si piega. Rimpiange, o rimprovera? È invidia, o sussiego? Con studio palese, ella non guarda più verso il gruppo allegro. Ah, sì! Un fulmineo mezzo-giro di pupille!…

Certo, l'acido ammalato l'avrà messa in guardia, con adatte parole per bene, che da quella parte c'è nell'aria odor di peccato. Mi pare che le narici di quel naso casto pàlpitino pel desiderio di sentire un po' del profumo ignoto.

E la donna, impassibile, continua la sua allegra storia, accompagnata dal tintinnio ridente di sei speroni battuti sull'asfalto.

Nessuno dei tre uomini, malgrado le divise fiammanti, può però competere in forza d'attrazione con lei, eretta nell'alta persona armoniosa, sola creatura VIVA in quel mondo sonnolento, triste e vinto.

Donna da preda e da assalto. L'impeto trattenuto del suo gesto mi suggerisce l'immagine di lei che si strappa al nodo lussurioso e lo riannoda subito.

Non vedo intorno a lei nessun uomo degno di seguirla a letto.

L'altalena in fondo alla terrazza è libera: Vediamo la bella donna correre là, aggrapparsi alle corde, slanciarsi nella vertigine del vuoto. Un ufficiale la spinge, sempre più forte. Non ha paura. In alto, garrisce il suo riso. La sua volontà sicura, amica del temerario, deve raggiungere sempre così, anche nella vita, altezze e profondità.

Parlano di lei in un crocchio elegante sopraggiunto.

Ci-ci-ci… ci-ci-ci di donne armate di lingua sapiente, maestre nell'arte mondana di demolire il soggetto della loro conversazione senza averne l'aria.

—Bella, vero?

—Molto.

(Luccicare di lorgnons).

—… Forse troppo alta.

—… Già… Elegantissima, però. Si serve a Parigi.

(Pausa d'invidia contemplativa).

—… Però, scandalosa! Divisa dal marito… Una scena… ricordo… l'anno scorso… Figurati, c'ero anch'io, in hôtel; fu…

Tac! La bella salta giù con grazia dall'assicella dell'altalena. Vola via col suo seguito di grigioverde, fende il cerchio d'aria dove fluttuano ancora le parole che hanno raccontato il suo passato di tempesta. Porta via i germi della maldicenza, sottile abilità donnesca, paziente ricamo femminile in cui ogni traforo è un tranello.

Le quattro ricamatrici tacciono al passaggio rapido. I nostalgici, liberati dal rumore argentino, si rituffano beatamente nelle poltrone scaldate dal sole, anemici fiori in vegetazione nella serra elegante della Riviera.

L'aria si ripopola di fantasmi, di parolette sommesse. Le infaticabili hanno ricominciato in sordina il loro lavoro paziente, con dei punteruoli che non fanno più soltanto dei buchi, in bella simmetria, in disegno armonico, ma delle falle addirittura… dei trabocchetti all'antica, dove precipiterebbe senza rumore la più robusta riputazione.

Tutto ritorna tenero, tremolante, morto. La vita sana è fuggita con la bella persona tumultuosa.

Ora più venire il becchino a sotterrare questi cadaveri vestiti di pellicce calde…

Freschi decide di mandarmi a Salsomaggiore. Forse, i fanghi, i bagni, mi faranno bene.

Parto.—Arrivo con Pina nella celebre cittadina jodica. Giulio ci accompagna, in grigioverde. Poi mi lascia, affidata alla dolce amica, che dovrà rinunciare per me alla stagione brillante. Infatti, dopo il terzo bagno e fango, la mia febbre sale a 40,2.

Mentre aspettiamo il medico, leggo alla mia amica, a voce alta, Mafarka il Futurista. Desidero che ella apprezzi, alemeno, il futurismo, se anche non ne dividerà le idee. Vedo infatti che la sua ironia aprioristica va cambiandosi a poco a poco in attenzione profonda. Poi, in parte approva, in parte dissente. Ecco! Almeno, DISCUTETE!

Il professore Falchi batte discretamente alla porta. Avevo dimenticato il mio male, ma la Scienza, anche questa volta impersonata da un ampolloso imbecille, mi ricorda che ho la febbre, e che non va bene parlare, accalorarsi.

Poi mi dice che Salsomaggiore non è indicato per il mio male; che devo partire subito!… Lo guardo trasognata. Capisco che dando retta a loro c'è da finire davvero là dove l'ineffabile professore romano voleva mandarmi: al Manicomio!

Sto meglio.

Un giorno, ballo perfino un lieve boston, nel salone dell'albergo.

Mi abituo all'idea che la mia ferita disgraziatissima non si chiuderà in fretta. Tengo il ventre fasciato con cura. Sopporto gli strascichi interminabili del male… Ma tubercolosa, no!… No, Scienza impotente che sei il peggior bacillo che infesti il mondo!

1) Coloro che possono muoversi hanno a loro disposizione la cura efficacissima della Velocità.

Un ammalato costretto all'immobilità del letto deve trasformare con un sforzo d'immaginazione tutti gli oggetti e i mobili che lo circondano, magnificandoli, elegantizzandoli, combinandoli insiemer per costruire una specie di paradiso tipico e personale.

Ogni oggetto: una tazza, un cucchiaio, una catinella, un orinale, una boccetta, è suscettibile di modificazioni immaginative radicali. È questione d'intensità d'immaginazione. L'immaginazione si allena come qualsiasi muscolo.

Le coltri bianche si prestano a innumerevoli modellazioni di un paesaggio d'alta montagna. Curve nevose, abissi bianchi, scoscendimenti alpestri ai quali le vostre gambe possono imprimere un giocondo movimento di terremoto.

Le vostre scarpine rilucenti di vernice, colla piccola prua diamantata, stanno per essere varate nel mare nero di quell'ombra, sotto la finestra. Voi, malata, immobile a letto, imbarcatevi nelle vostre scarpine per quel dolce mare d'ombra viola-nera.

I pizzi della vostra bella camicia vi ispirino immediatamente il lirismo di un miniatore medioevale, e arrampicatevi con lui sulle vetrate variopinte di una cattedrale, per dipingere accoppiamenti osceni di diavoli e vergini saggie, cancellando così le frigide madonne sbiadite e i santi stecchiti.

Poi, col miniatore medioevale, divertitevi a guardare ciò che succederà la domenica sucessiva giù nella cattedrale, quando a un tratto diaconi, vescovi e beghine punteranno in alto nasi tabaccosi e guancie avvizzite verso l'incendio della vostra vetrata spaventosamente librica bombardata da venti soli africani concentrati sulla piccola città medioevale sventrata di luce.

La bottiglia di medicina, odiata, ha le spalle solide di un bell'uomo che si avvicini gentilmente al vostro letto. Ma è di vetro! E l'immaginazione si ferma…

Prendete la bottiglia, e spaccatela contro il muro! Bisogna, con un rumore violento, interrompere il silenzio assoluto, sempre pericoloso, poichè pompa avidamente le vostre energie.

Il fragore del vetro infranto, combinandosi col movimento delle vostre gambe che riplasmano le alpi nevose delle vostre coltri, e col vento che ormai porta in alto mare le vostre scarpine, vi inviterà a desiderare di nuovo la quiete di lago tranquillo della vostra catinella piena d'acqua, già legata deliziosamente al vostro viso che arde un poco di febbre.

2) Voi che siete inchiodata nel vostro letto, evitate accuratamente di abbandonarvi al pessimismo fisico che vi spinge a denigrare e svalutare tutti i vostri atti fisici necessarî. Ogni atto fisico esiga da voi una meditazione preparatoria. Prima di bere un sorso d'acqua, pensate per mezz'ora almeno alla presenza tipica dell'acqua sulle labbra, sulla lingua, contro il palato, giù per la gola, nello stomaco.

Intensificate fino allo spasimo il desiderio dell'acqua, e quando la vostra gioconda idea di frescura strariperà in voi, bevete lentamente il vostro bicchier d'acqua.

Un sorso di latte esiga altrettanta meditazione. Pensate almeno un'ora a un'ala di pollo. Giungerete così a dare all'assaporamento di quella carne una potenza non soltanto nutritiva, ma anche magnetica ed eccezionalmente rinvigoritrice per voi.

Stesso procedimento per la vostra tipica toilette quotidiana. Pensate a lavarvi il viso prima di lavarvelo. La cura delle vostre unghie deve essere ogni giorno un'opera d'arte. Procedete in tutto ciò sistematicamente, alternando il pensiero e l'azione, e combinandoli armoniosamente.

Fate che la vostra giornata non sia riempita da lagni imbecilli o di piagnistei sul vostro male, bensì da tutti i vostri bisogni e piccoli piaceri fisici portati al massimo loro rendimento mediante una concentrazione di pensiero, d'attenzione e di simpatie.

3) Leggete dei libri futuristi.

4) Glorificate col vostro dottore, sicuramente passatista, la potenza curativa e rigenerativa del futurismo, trovando degli argomenti personali e allenandovi così alla dialettica.

5) Dite cento volte ogni giorno: «Sono guarita!». E dopo l'undicesimo giorno sarete sicuramente guarita.

Scrivetemi, cara amica, come procede la cura futurista, e gradite un'augurale stretta di mano del vostro

F. T. MARINETTI.

Caro Marinetti,

Ho letto attentamente il vostro Manuale terapeutico del Desiderio-immaginazione. Lo credo miracoloso.

Ho cominciato a seguire la cura. Ho concentrato il pensiero sul mio pettine. Questo si è immerso subito come una griglia di ferro nella corrente fluviale dei miei capelli. Contro le sbarre urtarono, ballando, e capriolando dei cadaveri. Fra loro, con gioia, riconobbi uniformi austriache. Mi sentii nell'Isonzo, la sera di una vittoria italiana.

Sera d'estate caldissima.—Mi sono svestita e sono entrata nuda nel fiume dei miei capelli. Bagno divertente: esaminavo ad uno ad uno i cadaveri… Dio! Che orrore! Ecco un bellissimo alpino sconciamente evirato! Ho pensato che le donne viennesi rivaleggiano con le etiopiche e divorano il sesso dei prigionieri italiani…

La notte dopo, la mia immaginazione si sedeva alla tavola di un arciduca, fra due elegantissimi ventri di duchesse inguainati da toilettes parigine che ad un tratto esplosero.

Potenza dinamitarda della virilità italiana!

L'immaginazione ha veramente un grande potere curativo. Comincio a star meglio. Ho 39 gradi di febbre. Sono angosciata dal ritorno possibile dei quaranta gradi.

Scrivetemi. Le vostre lettere mi fanno molto bene.

Enif Robert.

Cara amica,

Avete torto di temere il ritorno dei 40 gradi di febbre. Bisogna acclimatarsi al pericolo.

In fondo, io sono nella stessa vostra situazione. Voi inchiodata in un letto; io in una trincea fangosa, sotto la possibile pericolosa simpatia d'una palla di mitragliatrice o di una granata del San Marco.

Io, però, giro nella mia trincea col petto gonfio d'orgoglio perchè tengo a guinzaglio i miei nervi sotto le scivolanti volate della morte, che balla al piano superiore, lacerando agli alberi il suo strascico di seta, spaccando su delle teste anonime i suoi ventagli di vampe, e ogni tanto degli scrigni di gioielli splosivi sulla faccia dei suoi adoratori.

Dovete abituarvi alla minaccia dei 40 gradi di febbre, come io mi sono ormai abituato alle brutalità della nostra elegantissima padrona.

Quando c'è la luna, aeroplani fecondi ci onorano sfintericamente di uova esplodenti.

Coraggio, dunque, e guardate in faccia la febbre a 40 gradi, con orgoglioso amore del pericolo.

Una forte stretta di mano del vostro

F. T. Marinetti.

Cara amica,

Ieri, finito il mio turno di trincea, tornai a Sant'Andrea per ripulirmi.

Noi ufficiali della 73a Batteria siamo proprietari di un'unica cameretta nell'unico pezzo di casa superstite nel villaggio. Un vero pezzo di casa, lievemente inclinato, con un'unica cameretta, zeppa di brande.

Non c'è nemmeno lo spazio per una seggiola, fra una branda e l'altra. E non si può sperare di dormire.

Il villaggio di Sant'Andrea sembrava una pentola bollente di cannonate. Era preannunciato un attacco austriaco. Cosicchè, ripuliti alla meglio, alle Il ci rimettemmo in cammino tra le rovine del villaggio sventrato, tra gli alti muri equilibristi e le ombre ginnaste.



1 75 Krupp sono tutti svegli nelle loro tane. Vomitano rabbiosamente dei feroci, continui, affannosi

BUMBRiiiNG BUMBRiiiNG
BUMBRiiiNG BUMBRiiiNG

che si schiacciano contro i rottami delle case.

Gaby mi segue, la mia cagna lupa, vergine selvaggia, di due mesi. Ve la presenterò: Testone che sembra proprio sbucato dalla più fitta e nera foresta, forti mascelle, denti acutissimi, corpo fragile, ma che si rafforza di giorno in giorno, pelame di leoncino-lupa… Fia un bel collare di false turchesi.

Affamata, mangia tutto; preferisce il putridume, odora lo sterco e i topi fradici. Ma, intelligentissima, non abbaia mai in trincea.

Seguiamo il budello interminabile di un camminamento. Labirinto tortuoso. Do un calcio a una lepre che fugge casseruolando fra elmetti e fucili.

Sr vuit vr sriii di pallottole che passano sulla testa.

Gran sfarzo di razzi lenti, graziosi, femminilissimi che ricadono flessuosamente sulla linea austriaca. Geometria veloce di riflettori. La notte è inquietissima.

A mezzanotte giungiamo a Vertoiba. Una luna gialla-sporca, tenta di sporcare—se è possibile —delle casupolacce massacrate e fangose. Qua e là, delle pugnalate di luce bianca nei vetri rotti.

L'anima di Cambronne aleggia schifosamente sugli equilibrismi spavaldi delle rovine.

Giriamo fra il pietrame nerastro e irritato. Ecco, sotto i piedi, le rive fangose della Vertoibizza. Gora biliosa dal fango profondissimo, palude di marciume e di melma che ha bevuto molti nostri soldati. Ecco una trincea costruita su palafitte. Un ponticello. Ora si sale la collina del Sober, tutta forata, incisa, scavata, bucherellata, imbrigliata da telai e da fili telefonici. Graticci sdrucciolevoli.

Il mio elmetto picchia nei telai, che costringono chi passa a modificare continuamente la propria altezza.

Siamo giunti nell'osservatorio telefonico della batteria. A cinquanta metri dagli austriaci.

La nostra artiglieria tace. Io ho acquistato una vera sensibilità di prima linea. Sono un termometro preciso. Sono il vivo presentimento dei combattimenti. Dico il mio comandate:

—A mezzanotte e mezza, avremo un attacco seriissimo. Come funziona il telefono?

—Benissimo. Marra ha risposto.

Immediatamente, ta-pum a destra, ta-pum a sinistra. Fiammelle davanti. Tatatatatatatata, e dietro



di noi il ruzzolante, russante viaggio di un barilotto:

SKiiANGKRAKRAANG

(FEBBRE A 38 GRADI).

Fortunatamente rispondono gli schiiiiianti delle nostre bombarde 58 A

SKRAASKRAAKRAANG-KRAANG

A 3 passi da me si sveglia una mitragliatrice Fiat. Orchestra completa, furibonda, circolare. Siamo in un vortice di fragori. Sulla testa, lo strofinante serico volo delle pallottole. Poi cominciano i cannoni da montagna:

giiiiTUM giiiiTUM giiiiTUM
giiiiTUM giiiiTUM

Si sente la voce del colonnello Anastasi:

—Porca madonnaaaaa!… Hanno sfondato a destra! Telefona ai 75! Cosa fa il capitano Ronchi? Silenzio, carogne… e fuoco! Che razza di mitragliatrici!… Sono trappole! Non sono Fiat!… E lei, con le sue bombarde, cosa fa?…

—Il telefono non funziona più, ma la batteria spara, signor colonnello!



SCRAABRAANG tatatatatata

BRARABRAAANG viaaaa tapum

SCRAABRAANG guiii

PRAAANG vuiii tapum tatata

nnnnn BRAA GRAAANGGG

SKRAAKRAASKRAABRAANGGGG tatatata (FEBBRE A 39).

Confusione indescrivibile. Arruffìo di ordini e contrordini. Ruzzolare di gamelle, di fucili, di elmetti nel buio. Pestarsi, urtarsi, lacerarsi le mani… Un capitombolo, e giù con la faccia nello sterco.

Ma il colonnello domina tutto col vocione tonante. I rincalzi s'affollano. Il mio comandante mi manda in batteria. Mi smarrisco. Esco dal camminamento, e, per i prati, mi dirigo a fiuto verso la batteria. Vedo le grandi vampate rosse. Ruzzolo giù fra le braccia di Marra, che sta bestemminado contro un bombardiere che si è stupidamente bruciata mezza la faccia. (FEBBRE A 39 e 6).

—Sei un cretino! Ti ho detto di ripararti!…

Sulla destra, la fucileria è infernale. Cresce, si avvicina sempre più. Siamo girati.

Ad un tratto la batteria è invasa da una compagnia di mitraglieri. Bisogna puntare un'arma per difendere le bombarde. Ecco Sanduccione; mi dà la brutta notizia che le due bombarde di destra sono in mano degli austriaci!

In questo momento, cara amica, FEBBRE A 40. Non il terrore di morire, ma l'angoscia davanti alla possibilità di esser fatto prigioniero.

Io ho sempre portato con me il mio revolver con questa volontà: sopprimermi immediatamente, piuttosto che cader prigioniero!

Ma la calma non mi abbandonò nella febbre a quaranta, che diminuì gradualmente, insieme col fuoco di fucileria e delle mitragliatrici.

Il colonnello Anastasi, girato dagli austriaci, girò alla sua volta gli austriaci stessi, e ci buttò in bocca 30 prigionieri ungheresi che prendemmo a cazzotti nel camminamento, perchè, davvero, il camminamento puzzava già abbastanza!

Mezz'ora dopo divoravo una pagnotta intera.

Vi auguro di vincere, nella vostra bianca trincea, mia simpatica ammalata, e di mangiare, quando vi diminuirà la febbre, con uguale appetito violento.

Una forte stretta di mano dal vostro

F. T. MARINETTI.

Caro amico,

Grazie, e bravo! per il vostro infiammante racconto di guerra. Ora anch'io so guardare in faccia la febbre a 40 gradi, e la tengo assolutamente in rispetto, puntando contro di lei le mie ironie beffarde e i cento nuovi desiderî che sto coltivando e perfezionando con cura assidua.

Non vi dico quali, per non annoiarvi.

Scrivetemi se avete freddo e se volete delle calze di lana. Una mia amica (bellissima!) me ne ha portato oggi una quantità, per voi.

Scrivetemi. Le vostre lettere mi nutrono. Io non so con le mie riscaldarvi.

ENIF ROBERT.

Cara amica,

Questa mia lettera non vi nutrirà, ma spero vi divertirà.

Vi farò assistere a una vera grande prima rappresentazione musicale, e, insieme, a una grande operazione chirurgica in primissima linea.

Il colonnello Anastasi, che comanda il 37a reggimento di fanteria, ora in linea alla Vertoiba, è uno stupefacente personaggio, eroico e pittoresco.

Soldataccio siciliano, cinquant'anni, pancia, baffoni spioventi, occhiacci grigi un po' alcoolizzati, mascelle da stritolare reticolati. Cammina lentamente, zoppicando sulla gamba destra (ricordo di ferita) ma senza mai stancarsi, giorno e notte, visitando e rivisitando la linea delle vedette, bestemmiando, assaggiando il rancio, maneggiando la vanga, pronto a tutto: bere, mangiare, sparare, urlare. Tiene ín pugno tutto il reggimento. È adoratissimo dai soldati, che lo considerano come il vero ed unico padreterno.

Sa fare anche l'impresario teatrale, il buttafuori e il direttore d'orchestra.

Quando non piove e la serata si annuncia serena, il crepuscolo è una vera beatitudine di riposo e di igiene. La scarsa igiene concessa agli abitanti di questo lurido fangaio. A dispetto del freddo, tutti tentano di lavarsi, di ripulirsi il pesante grigioverde, zuppo e imbottito di sudiciume.

Allora Anastasi esce di sotto il tetto basso a sghimbescio della casamatta blindata e terremotata che gli serve d'ufficio. Con un lungo sigaro virginia in bocca, le mani nelle tasche, chiama a rapporto gli ufficiali.

Distribuisce tre o quattro cicchetti, in velocità, poi, a gran voce, urla:

—Questa sera il colonnello Anastasi vuol divertire i ragazzi! Gran repertorio! Tutti pagano, molti hanno già pagato… Mi dispiace di non poter far pagare soltanto quei porci di spettatori che sono nell'altra galleria!…

Il colonnello Anastasi ha una simpatia speciale per i rumeni. Ve ne sono in linea davanti a Casa Nota. Quasi ogni sera, Anastasi urla loro questo speach:

—O stasi Romeni! Romenia est fideli aleata d'Italia. Chi lupta contro Italia, lupta contro fratelli!

Intanto, l'aiutante maggiore dispone la banda, pistoni e cornette, fra le baracche, i baracchini, le tane, le celle, le latrine del camminamento.

—Va a dire al capitano che non lasci allontanare i suoi uomini… La musica, sta bene, ma ognuno al suo posto col mandolino d'acciaio fra le mani! Tutti possono godersi la musica senza muoversi.

Mentre s'accendono le prime stelle, aguzze nella sera diaccia, limpidissima, si propaga allora un silenzio veramente solenne.

Ronzii d'insetti, qualche urto di gavetta. Ma in realtà silenzio da sipario che si alza ad una prima rappresentazione della Scala.

Anastasi ama la Norma, la Gioconda e il Barbiere di Siviglia. Ieri sera, l'introduzione del Barbiere fu mirabilmente eseguita. Appena terminata, Anastasi si sporge dal parapetto e urla:

—O pezzi di mascalzoni! M'hanno detto che siete sloveni e ungheresi misti! Ungheresi! Avete sentito? Questa è musica italiana! Buona musica del nostro grande Rossini!… Altro che Wagner! quello scocciatore!… Vi piace, non è vero? E non pagate un cavolo!… Budelli di bagascia fetenti!… Ora vi farò sentire delle canzonette napoletane!… Su, in coro, ragazzi! Accompagnate!

O vita d'a vita mia! O core'e chisto core

Prima timidamente, poi con una larga ondata di voci meridionali bene intonate, si scatenavano nella notte stellata le canzoni. a scatti, a singhiozzi, piene di addii e di baci all'amante lontana, con tutta la snodata elasticità del gran golfo carnale e le cadenze molli, azzurre, del mare, fra le isole emerse dal miracolo.

La linea austriaca era veramente pietrificata in un'ascoltazione intensa. S'intuiva la presenza attenta di centinaia di bocche, orecchie, anime, che confusamente subivano la magìa italiana. A quando a quando, dei razzi di un candore dolcissimo s'innalzavano languidamente, con una flessuosità gentile, fulgide altissime figure di donne dalle braccia nude, che generosamente arricchivano di luce la lurida cenciosità fangosa di quel paesaggio pezzente. Anastasi urlava:

—Dov'è il vostro comandante?… Chi è quel bruto, quel bestione che vi comanda?… Andate a dirgli a nome mio, pezzi di cretini, che LA LINEA È MIA!… È MIA LA LINEA, avete capito?… E che vada fuori dai piedi, porcamadonna!… LA LINEA È MIAAAA!

Poi si voltava, e diceva agli ufficiali:

—Già, tanto, non capiscono mai niente!

E la musica riprendeva.

Alle 10, dopo aver verificata la precisione del suo orologio, urlava alla trincea austriaca:

—Ora, per finire, o fetentissime carogne, vi farò sentire un pezzo di musica Anastasi!… Originalissima! Ah! ah! ah!… Una musica chirurgica!



Un'opera mia! Anzi, un'operazione musicale mia!… La mia mano è leggiera e non dà dolore al paziente!… La vostra trincea ha una linea irregolare… un tumore: il baracchino del vostro colonnello!… Ve lo toglierò dai piedi!… A destra, avete un vespaio di mitragliatrici… Vi sbarazzerò del vespaio!… Operazione sicura! Tutto ben disinfettato!

«Perchè non rispondete, idioti?… State lì rintanati, a bocca aperta, ad ascoltarmi!… Vi strapperò anche i denti! Sono un meraviglioso cavadenti!… Avanti le Bèttiche!…

Subito, i nuovi suonatori intonarono 70 Bèttiche, che spararono furiosamente, accompagnaté de tutte le mitragliatrici e dalla fucileria.

SPRAGRAANG GRANG CRAC pic pac pam pam pam pam tac tac tac PRAANG PRAANG GRAANG tatatatatatatata tatata tatata tatata tatatatatatatatata

—Opp-là! Il dente è cavato. Galop finale… Ressa al guardaroba: bastone, cappello, cappotto… Viaaa! Ed ora, silenzio! Tutti ai vostri posti! Andiamo a dormire!…

Ma non potemmo coricarci subito. Si udì una voce stridula e irosa partire dalla linea austriaca. Un ufficiale nemico gridava, fuori dalla trincea, nella luce del nostro riflettore:

—Italiani! Se non la finite, farò concentrare il fuoco di tutte le nostre batterie sulla vostra linea!

E il vocione di Anastasi scoppiò:

—Me ne infischio, o idioti!… Supplemento di musica! Avanti!

E le nostre Bèttiche ripresero, raddoppiando gli effetti musicali e chirurgici…

Il giorno successivo, gli austriaci ci bombardarono la linea. Molte barelle… Ma Anastasi, la sera, replicò il concerto.

Come vedete, cara amica, non ci annoiamo, in trincea. E si sta benissimo, dal giorno in cui il colonnello Anastasi tiene con mano ferrea e con prepotenza aritistica la linea della Vertoiba. Gli austriaci sono abbrutiti, intimoriti, evirati dalla spavalderia massiccia, testarda, pletorica, di questo geniale e melomane soldataccio italiano.

Mille augurî e mille simpatie dal vostro amico

F. T. MARINETTI.

Cara amica,

Grazie. Aspetto le calze. Ne consumo una quantità enorme. È veramente l'unica tortura, il freddo umido, in questo polare pantano di fangosterco.

Oggi ho pensato, però, di combattere questa tortura, con un metodo originale e sicuro:—Dovendo passare in trincea otto giorni, per poi passarne otto a riposo, a Gorizia, mi diverto a infangarmi sistematicamente… (Sono, in questo momento, assolutamente lurido: uno spaventapasseri caduto in una cloaca) dalla punta dei piedi alla punta dei capelli, per poter gustare, poi, in un delirio di piacere, il bagno tiepido che fra cinque giorni mi concederò.

A Gorizia esiste un eccellente stabilimento di bagni caldi. Abbiamo una villetta per i giorni di riposo: villetta scorniciata dalle granate, ma piena di buoni letti (due a testa), più un cuoco abilissimo, più un giardino verde con buche predisposte ai giuochi di biliardo dello spazio…

Si prende il the col latte, alle cinque, al Caffè del Corso. Giornali, Illustrazione Italiana, Figaro, L'Italia futurista, Gli Avvenimenti, ecc.

Ogni tanto, un grido: una cameriera slava fugge, rasentando i muri, e una granata esplode sul selciato. Dei feriti in barella. Si esce, e la vita riprende come prima.

Sono veramente divertenti, queste granate che vengono, si dice, dal Monte Santo. Tutti parlano di questo monte, ma non si può vederne il profilo dal fondo delle strade, le granate piombano all'improvviso in questa atmosfera di sicurezza cittadina. Hanno l'aria di essere lettere anonime, senza la firma di una batteria. Come le lettere anonime, sono pericolosissime, ma non bisogna crederci.

Sono irritato perchè regolarmente ogni settimana la mia cagna-lupa Gaby si ammala da morire per aver divorato una quantità eccessiva d'immondizie.

A destra e a sinistra deila nostra villetta, ci sono due montagne d'immondizie alte 30 o 40 metri che incensano e profumano i nostri crepuscoli di guerra.

Ma l'Isonzo ha un fruscìo verde, serico, sssssss. placido, lento, sssssssssssss, che evoca le delizie di una villeggiatura elegante e voluttuosa nel tepore solare…

Ma il piacere tipico dei miei piedi nel calcare il selciato conquistato della città conquistata è così grande!…

Una calda stretta di mano del vostro

F. T. MARINETTI.

Caro amico,

Oggi sono nervosissima. Sono sazia, satura di desiderî, di immaginazione!

Odio la posizione orizzontale, odio il mio letto e tutti gli oggetti che mi circondano! Ho spezzato tutte le bottiglie di medicina… Il fragore dei vetri infranti non mi piace più.

Vorrei alzarmi, andare in guerra, in trincea, sparare, uccidermi, finirla. Sono stuuuufa!

Scrivetemi. Sempre con simpatia,

Enif Robert.

Cara amica,

La vostra angoscia non ha nessun fondamento, e deve assolutamente essere passeggera. Intuisco che in realtà state molto meglio e siete forse vicina alla guarigione.

Non spaccate gli oggetti che vi circondano. Amateli, e combinate insieme le immaginazioni che vi suggeriscono. Potete, così, fare delle vere opere d'arte.

Sei anni fa, nello studio del grande pittore futurista Balla, a Roma, io m'imposi di costruire un'opera d'arte plastica, viva e suggestiva, combinando insieme i soli oggetti che avevo a mia disposizione. Con una mezza cornice, creai una gamba alzata in velocità; con un'altra mezza cornice un'altra gamba in velocità. Con 3/4 di cornice creai un torace e due braccia tese in avanti; una forte spazzola nera diventò la capigliatura irta nel vento, e una scatola metallica da sigarette, semiaperta, diventò la faccia tagliente dell'uomo che corre.

Alle estremità delle braccia, dei fiammiferi rossi, di legno, simularono mani infuocate; e l'Uomo in corsa, così creato da me, venne poi sospeso a un filo metallico nella nostra esposizione futurista alle Doré Galleries di Londra, dove segnò la nascita del primo complesso plastico di oggetti combinati.

Ogni oggetto ha la sua struttura, la sua psicologia, come diceva il mio povero amico Boccioni. Questa struttura dell'oggetto è carica di analogie. Combinando le diverse analogie si giunge ad un'altra architettura, ad un altro organismo, artisticamente vivo, nuovo, autonomo.

Come vedete, con le vostre bottiglie di medicina odiate, coi vostri libri di forma e di colore diversi e i vostri oggetti da toilette, potete combinare un complesso plastico futurista.

Al lavoro, dunque!

Io, qui, non ho altro che del fango… Ma, come Dio col fango plasmò l'uomo, io spero di plasmare il nuovo mondo futurista italiano.

Una forte stretta di mano dal vostro

F. T. MARINETTI.

Oggi sono come ossessionata dal mio ventre ammalato. Ogni altra cosa mi diventa meno importante, nella vita, che l'osservazione precisa, minuta, dello stato esterno e interno del mio ventre.

Analisi pedante di ogni lieve segno di sofferenza. La fitta al fianco offeso m'incatena l'immaginazione a penetrare la vita oscura che, chiusa dalla superficie bianca della pelle, vive in me l'insidia gonfia e maculata.

Nella fossa iliaca, dove più fine al tatto l'epidermide si distende con morbidezze sensuali, debbo persuadermi si annidi un groviglio iroso di forze malefiche. Stamane, mentre ero ancora a letto, le fitte erano così forti che ho dovuto guardare se mai affiorasse un segno livido sotto un più violento colpo lancinante. Nulla. Superficie lucente, distesa, chiara, con venature azzurre di buon sangue affrettato. Superficie di forza delicata, ritmo di respiro quieto, bianchezza eguale, diffusa e limpida, velata soltanto verso il tremore bruno del pube.

Perchè allora soffrire così? Neppure Giulio immagina quanto ci sia d'impero violento su me stessa per nascondere il morso del dolore. Mi fa veramente ira, questo addome dalle apparenze vellutate ed innocenti che non tradisce l'insidia quando mi lancia il suo tormento dal centro odioso del suo nido!

Rincantucciato nelle sinistre sinuosità organiche, il male distrugge con la sua bocca nera le fibre rosse della mia carne più pura.

Ahi! come stamane duole il mio fianco perverso!… Pure, oggi il mio spirito è in alto, allegro, burlone, aggressivo…

Ho conosciuto in questi giorni molta gente nuova delle specie più disparate.

Il semplicista indo-inglese, per esempio, che ha un'unica pomata per tutti i mali. Divertentissima miscela, per i calli e per la tosse… Egli assicura con serietà dottorale che la misteriosa manteca farebbe bene anche a me. Naturalmente!

Su un dito sporco, nero di razza indiana e di sudiciume europeo, mi ha presentato un po' di poltiglia giallognola, spiegandomi in un italiano tremendo le miracolose virtù dello specifico. Io inorridivo, ricordando che giorni fa una signora sofferente per un insopportabile mal di denti ebbe il coraggio di farsi fare un energico massaggio alle gengive da quello stesso dito indefinibile carico di pasta puzzolente. Non ho mai sofferto mal di denti, ma certo è un male tale da far raggiungere le vette dell'eroismo disperato. Come l'amore non corrisposto! Come la gelosia! Non ci si vede più… e si accetta in bocca il dito nerastro di Mister Thomas!

Ahi!

Non mi lasci dunque nemmeno ridere, odioso nemico rifugiato là dove dovrebbe solo palpitare un largo fiore fecondo?! Tu mordi i miei figli, quelli che aspetterei formarsi e vivere sotto il getto raggiante della creazione. Tu distruggi il mio fervore materno, e mi dilanii! Vuoi che non curi nulla che non sia tuo; tiranneggi il mio pensiero così come torci ad una ad una le sanguinanti corolle della mia fecondità…

Ebbene, no! Almeno il mio pensiero ti vince, poichè serro le mascelle larghe che portano il segno della mia volontà dura.

Mi divertirò ancora, tuo malgrado, alle spalle del prossimo. È la povera vendetta di una malata cui tanta salute gira intorno fresca nel sorriso delle donne, robusta nel passo elastico maschile.

Una signora inglese appunto, ora. Di una bruttezza indefinibile. Bizzarro tipo, vestito sempre in fogge impossibili. Intellettuale pedante, parlatrice forbita, svariatissima nelle pose complicate. Mai un accento vero sulle labbra instancabili, nella voce forte dagli o e dagli e larghi e strascicati. Leziosa, e disinvolta insieme.

Vedendola passare per la strada, con un tailleur di grossa lana chiara larghissimo e non morbido, con un cappellino conico che finisce in un mobile pompon nero alla sommità, coi capelli tutti tirati indietro e col mento aguzzo e sporgente, la si trova assolutamente ridicola.

Avvicinandola, si scopre in lei una nevropatica interessante. Maniaca di sondare e di far suo tutto lo scibile. Carica di paroloni che stordiscono, passa con indifferenza dalla citazione d'Omero alle leggi di Pitagora, alla discussione pseudoprofonda sugli ultimi risultati della chirurgia.

Mi travolse in un fiume di eloquenza complicata, quando l'intesi la prima volta, e, poco sicura su quel terreno di alta cultura professorale. quasi caddi nel tranello. Per fortuna, un dotto lì presente mi assicurò che ella diceva con perfetta disinvoltura delle discrete corbellerie…

Il suo ventre isterico, dagli scomposti sussulti, dritto, piatto, oscuro, ruvido, è difeso da una finta corazza romantica. Sulle accese fioriture del sesso, ella scarabocchia platoniche offerte di sensualità spirituale. E trova chi ci crede!

Ecco un caso che fa pensare. Una donna brutta, peggiorata da un abbigliamento barbaro, con la mente ingombra di solennità erudite, quindi la meno adatta ad afferrare i modernissimi semplificatori della vita e dell'arte, ne tiene invece, con divertente maestria, legati almeno due per volta al pagliaccesco pompon del suo cappellino assurdo!

Un grasso molle e avariato nobile russo fine di razza, che sbrendola dappertutto il suo cinismo malato, famoso biascicatore d'insolenze, vero detrito di cavalleria appiedata dalla sifilide, ma taglientissimo appioppatore di nomignoli indovinati, l'ha battezzata un giorno la Signora Ci-fu

Ha della giapponese, infatti, ma è una Ci-fu cui mancano la grazia, il profumo, il candore delle figurette orientali! Una Ci-fu caricatura dell'amor platonico offerto con sdilinquimenti jera tici, solenne pasticcio di esotismi complicati e grotteschi.

Ahi!

Non finirà dunque mai la mia pena fisica?… E perchè tutte le altre donne, quelle che io vedo passare snelle nel solco scintillante dell'ammirazione maschile, perchè, loro, stanno bene, e io no?

Il loro ventre, voglio vedere!… Vorrei spogliare quella statuetta grigia che passa ora. Le ànche nude. Un palpitare gioioso di bianchezze plastiche; fremiti di salute e di godimento nella ricchezza dei riflessi biondi e ricciuti… E forse anch'essa nasconde nel complicato ammasso organico il germe nemico che balzerà un giorno a chiuderle ogni via d'amore!

Ecco una matrona che raccoglie penosamente in un corset-corazza le placide onde rilassate e pesanti di un ventre stanco. Spoglio anche questa…

Ampiezza di superficie bruna. Pelle distesa, con macchie più scure; sembra la buccia screpolata di un frutto che abbia contenuto troppa polpa. Ventre che ha dato splendidi, turgidi rigonfiamenti di fecondità, che ha sopportato dilatan dosi i tormenti del peso irrequieto, e che ora si distende e si ripiega torpido al meritato riposo.

Ahi!

Mostro nero che mi ferisci! Lasciami un momento ancora! Voglio denudare la bruna nervosità di questa fragile donnina dagli occhi grandi troppo spesso spalancati sul mare.

Anche magre, sottili, cariche di fremiti. Sensibilità accessa al lieve tocco di una carezza; sensualità di brividi e di scatti. Pelle rosata, calda alla piegatura dolce dell'inguine, dove pare sia ricamata da una leggiera peluria su un tessuto azzurro di vene palpitanti. Pulsare nervoso di forze vive accelerate dal ritmo del respiro. Nel piacere, questo magico viluppo di fisiologia sana deve avere una larga onda di gioia violenta. Tutti i nervi, tesi a raccogliere le sonorità ardenti, a moltiplicare le sensazioni febbrili, del caldo dono virile…

Questa donna mi somiglia nel volto irregolare che talvolta brucia d'inquietudine. Se fossi liberata dal triste nemico che mi consuma, le somiglierei forse anche nel fervore della vita.

Diversea è invece questa grassoccia dai nervi ben nutriti. Placido e ridente svestirsi di buona ciccia testarda che desidera l'amplesso così come, dopo, un'abbondante refezione. Regolarità matematica di dare e avere. Tanto ho perduto, tanto rimetto di forze solide. Mai a nervi scoperti, offesi. Donna dal sanguinante equilibrio fisiologico, senza agguati nascosti nel grembo ben costrutto.

Il 15 settembre si notava un'insolita agitazione nelle vie affocate di Salsomaggiore. Da cinque giorni sedeva in permanenza nel salone principale dell'Hôtel des Thermes una commissione di altissime celebrità mediche, convenute da ogni parte d'Italia per risolvere problemi importantissimi e segreti.

Tutti però ne parlavano, benchè tutti raccomandassero la segretezza. Si trattava, apparentemente di sviluppare nel mondo intero la forza e la celebrità industriale di Salsomaggiore. In realtà quegl'illustri medici erano stati chiamati a consulto intorno al letto della giovane e bellissima sposa del principe Eutanasio De Ruderis, cento volte milionario, avaro e maniaco.

La meravigliosa principessa De Ruderis era ammalata di un male misteriosissimo e incomprensibile che le torturava il ventre, mirabilmente tornito e perfetto (dicevano i medici).

Le acque salsoiodiche avevano semplicemente moderato gli spasimi, senza chiarire il problema clinico.

La curiosità si era vivamente intensificata per la presenza dei ministri Bosellinus, Palandara e Poconetto, che si trovavano a Salsomaggiore per la loro cura annuale e che avevano domandato e ottenuto di assistere al gran consulto.

Il 15 settembre, alle due, giungeva a Salsomaggiore un'altra autorità della scienza, che nello scompiglio delle opinioni contradittorie e delle indagini fallite ispirava a tutti una strana fiducia e quasi la sicurezza di un intervento decisivo e salvatore.

Piccoli occhi grigi, freddi e perforanti, dietro le lenti doppie; viso magro tagliente, naso adunco, pizzo e capelli a spazzola rossi, il dottor Filanus era molto apprezzato e insieme molto combattuto, poichè la sua azione si svolgeva lontano dalle cliniche e dalle università, con larghezza filantropica e scopi umanitarî (alcuni dicevano elettorali).

Il sole incendiava ferocemente la facciata del Grand Hôtel des Thermes, e se ne sentiva la torrida palpitazione nella camera da letto della principessa De Ruderis. Nell'ombra difesa dai molti paraventi e dalle molte stoffe ricche si sentivano aeroplanare due ventilatori che non davano frescura.

—Anna!—chiamò la principessa.—Che ora è? Ho la sensazione di aver dormito molto.

—Sono le tre, principessa—rispose la cameriera.—Fra un quarto d'ora verranno i professori per il consulto.

—Dio! che noia! Pensa… Questo è il ventesimo consulto!… Non credo più alla scienza… Non credo più a nessumo!… Il principe è di là?

—No, signora. È uscito. Mi ha incaricato di dire alla principessa che non si sente il coraggio di rimanere per il consulto e che è andato ad assistere all'arrivo delle truppe vittoriose.

—Con questo sole?!

—Mi sono permessa di dire a sua eccellenza che avrebbe dovuto astenersi da una simile fatica… È veramente sfinito! Sono tre mesi che non dorme! Lo sento sempre muoversi nella sua camera, la notte. La sua preoccupazione per la salute della principessa finirà coll'ucciderlo!

—Povero Eutanasio! Il suo amore, però, non riuscirà a guaririmi!

—Ecco i professori, principessa. Debbo aprire?

—Sì, Anna… Apri la porta, spalanca i vetri… Luce! Luce! Voglio molta luce!… Buongiorno! Buongiorno!

Dalle finestre aperte si precipitò una valanga di fuoco solare. Dalla porta entrarono undici stiffelius neri, barbe, occhiali, tre calvizie, solennità, gorgoglii di catarro e un ritmo di pedantismo impotente.

Dietro, entrarono con rullio da palmipede e da veliero, i tre ministri: Bosellinus, Palandra e Poconetto, preceduti dalle loro tre pance.

—Non si muova, principessa!… Per carità! Non parli!…

La camera lussuosa si accendeva sempre più di calori, colori, rumori, poichè in lontananza ventava una rovente fanfara di guerra. I tappeti persiani bollivano rossi, verdi, azzurri, sotto i piedi dei dottori, come impetuosi giardini sbocciati fulmineamente per volontà fachirica. I dottori neri stonavano, scottati da quella febbre multicolore che imprimeva una strana ondulazione all'atmosfera.

Si sedettero, formando un nero ferro di cavallo intorno ál letto, che faceva pensare a uno zoccolo bianco di cavallo, poichè il male misterioso e la volontà di vincerlo scalpitavano e nitrivano insieme in quella camera. Forse l'illusione nasceva dal rumore della cavalleria e dall'odore forte, rossiccio, dello sterco dei quadrupedi cotto dal sole.

Rombavano vicini, intanto, e volavano lontani come aeroplani i ventilatori pieni di battimani di folle, con borbottii di tele tese al vento e di acque rissanti.

Il dottor Filanus si alzò per ultimo, e additando il meraviglioso corpo ignudo della principessa, disse con tono incisivo:

—L'ammalata è sana. Il caso è grave ma non disperato. Sono convinto che non si tratta di tumore maligno, ma semplicemente d'indecanuria. È un caso tipico di putrefazione intestinale. L'organismo è afflitto da eccezionali raccolte purulente.

«Consiglio delle energiche lavature dell'intestino. Ma i colleghi sono d'accordo con me nel riconoscere che queste lavature puliscono, sbarazzano e detergono solo l'ultima parte della fogna. Ma la fogna è molto lunga, tutta a svolti, a vicoletti con fondo cieco e comunicazioni impenetrabili. Il problema che si affaccia è quello di una pulizia totale.

«I microrganismi abitatori dell'immondo tubo, invece di compiere il loro abituale dovere, che consiste nell'aiutare i succhi intestinali a digerire le sostanze introdotte, a prepararle normalmente all'assorbimento e più tardi alla riparazione dei tessuti usurati dal lavoro, sembrano ad un tratto andare in collera per ragioni assolutamente inspiegabili. I microrganismi scompongono malamente quelle sostanze, le transformano in sostanze tossiche, le quali, assorbite e portate nella circolazione sanguigna, turbano gli organi della nutrizione invece di ripararli, li disorganizzano e possono talvolta anche distruggerne la funzione. Questi microrganismi manifestano poi una strana scaltrezza maligna nel colpire particolarmente gli organi più vulnerabili. A questi normali abitatori del tubo intestinale se ne aggiungono altri che per la via dello stomaco scendono ad aiutare i compagni nell'opera devastatrice. Sono orde di microrganismi putrefattori che non hanno il potere di determinare nuove malattie infettive, ma sanno mirabilmente sviluppare le intossicazioni precedenti…».

Le tre pance ministeriali russavano, gareggiando coi ventilatori.

—L'intestino è, naturalmente, sterile, puro. Le flore intestinali sono il risultato di un'assurda alimentazione e spesso dell'incapacità sterilizzatrice dello stomaco. Lo stomaco che non riesce a sterilizzare con la sua stufa purficatrice gli alimenti troppo ricchi di microrganismi, esige una cura speciale.

«Prima di stabilire le diverse cure efficaci, cercherò di stabilire l'origine di questa strana ed eccezionale indecanuria.

«La principessa De Ruderis, benchè molto giovane, ha già molto partorito. La causa però non è sufficiente…».

Le tre pancie ministeriali russavano gareggiando coi ventilatori.

—Per obbedire alla moda imperante—riprese il dottor Filanus—la principessa ha troppo a lungo imposto dei busti strangolatori al suo meraviglioso corpo già così slanciato e flettile. È avvenuto uno spostamento dello stomaco e dell'intestino. La pendenza sbagliata dell'intestino è assolutamente innegabile. Il colon trasverso cascante si piega ad arco e assume una direzione anormale. Ne deriva una stitichezza abituale, una continua accumulazione fecale e un'indecanuria constante.

«Infatti, noi possiamo constatare, ora che la principessa è assopita, come questo meraviglioso corpo primaverile abbia il tipico fiato nauseabondo che rivela la fogna. Ora voi mi opporrete l'obbiezione:—Come mai in un corpo giovane e sano le contrazioni espellitrici dell'intestino sono o troppe o troppo poche e tali da non impedire il ristagno? In realtà questo ristagno avviene nella parte grossa del tubo intestinale, che indubbiamente è difettoso. Concludo che non si possa assolutamente accontentarsi di somministrazioni per la via della bocca, nè delle solite lavature anali. Bisogna subito procedere a un'energica incisione nel tubo intestinale!».

—No! No! No!—insorsero urlando i dottori.

—È assurdo!…

—Impossibile!…

La principessa, con uno scatto di tutto il bel corpo, li fece tacere.

—Sono pronta!—disse.—Sono pronta, e felice di farmi operare l'intestino!

—Per carità, non si muova!—esclamarono tutti insieme i dottori.

—Eh! finitela, una buona volta!… Mi muovo e mi muoverò! Se non vorrete operarmi, mi opererò da me stessa, squarciandomi il ventre colle unghie!…

—Come vedete, caro Filanus, sentenziarono i dottori, lo stato nervoso dell'ammalata e le indiscutibili anormalità cardiache ci viterebbero l'uso del cloroformio…

—Macchè cloroformio! Senza narcotici! Operatemi! Operatemi!

I dottori, esasperati, si aggrapparono all'ultima obbiezione.

—Il principe non vuole!

—Il principe non accetterà mai!

—Il principe De Ruderis ne morrebbe!

Due lagrime solcarono il viso tenero della principessa, che tacque.

In quel momento, un gran clamore lacerò l'atmosfera tropicale di Salsomaggiore. Marea di folla che si avvicinava. Vocìo confuso. La camera dell'ammalata era diventata una grande orecchia attenta.

Si distinguevano confusamente alcuni gridi:

—È mooorto!

Poi:

—Assassino! Assassino!

Poi:

—Principe moooo…

Poi:

—Arrestate priiii…

Poi:

—È un futurista…

E finalmente:

—Hanno assassinato il principe De Ruderis!

Un futurista Ardito del 74o reparto d'assalto l'ha pugnalato!

I dottori erano impietriti.

Le tre pance ministeriali russavano.

Il dottor Filanus si alzò e disse:

—Essendo ormai tolto di mezzo ogni divieto, consiglio di procedere immediatamente all'operazione!

I ventilatori ridevano a crepametallo, centuplicando la loro velocità.

Il sorriso dell'ammalata esplose come una rosa di Granata sul Carso scarno.

Poi, con uno scatto, ella balzò nuda dal letto, e facendosi largo fra i dottori neri gesticolanti d'angoscia si avanzò a passi elastici verso il balcone spalancato.

Un enorme schiamazzo di spavento e di festa insieme si avventava contro l'Hôtel des Thermes. La folla che inseguiva l'Ardito giustiziere aveva rotto il corteo delle truppe gloriose.

Rimescolìo e risacca di mani alzate, di cappelli femminili, di bambini calpestati fra l'impennarsi dei cavalli e i gridi violenti degli ufficiali e il crook-crak dei fanti…

I dottori, intanto, cercavano di trattenere la principessa, gridando:

—È una pazzia!

—È pazza!

—È impazzita!…

Ma, nuda, energica e risoluta, la principessa uscì sul balcone e si sporse, gridando:

—Sono pronta! Operaaatemi!

E i soldati, dimentichi dell'assassino e dell'assassinato, applaudirono freneticamente, senza stupore, all'apparizione, pure tanto strana, di quella meravigliosa donna ignuda.

FINE

Coraggio+verità pag. IX

1. A Posillipo ” 1

2. Il futurista Biego Fortis ” 9

3. Le paure d'un ventre ” 19

4. La noia vince tutto ” 31

5. Un ventre lanciato all'assalto ” 39

6. Jack lo sventratore ” 57

7. Aspettando una nuova offensiva ” 91

8. Il ventre della terra ha un'immensa ferita chirurgica di trincee ” 111

9. La cura futurista ” 125

10. Conversazione fra il sole e il mio ventre. ” 143

11. Manuale terapeutico del desiderio-immaginazione ” 161

12. Dal ventre al fronte ” 167

13. Musica chirurgica in trincea ” 181

14. Dialogo fra due trincea ” 193

15. Lotta di ventri femminili ” 197

16. Il ventre di un'altra donna ” 207