Virginia Martini Salvi:

COLLECTED POEMS





Assembled by
The Italian Women Writers Project


The University of Chicago Library

Chicago
2005

[Bottrigari, Ercole, ed., Libro quarto delle rime di diuersi eccellentiss. autori nella lingua volgare. Nouamente raccolte (Bologna: Anselmo Giaccarello, 1551), p. 190.]

HONOR del Tosco, & ben gradito lido Saggi leggiadri, & valorosi amanti, Che'n dolci rime i martir vostri, e i santi Pensieri alzate al Ciel con lieto grido. De la istessa vertù vi fate nido, Et vi togliete à questi amari pianti Del mal oprato tempo, over cotanti Sepolti sono, ed ove anch'io mi annido. Deh, mercè vostra, un raggio ricolgete De vostri alti pensier ne l' alma mia, À cio mi furi al tempo, & à la morte. Pregio frà chiari spiriti eterno havrete Di sì bell'opra, ed ella non desia Altro, che gire al Ciel, che vostre scorte.

[Bottrigari, Ercole, ed., Libro quarto delle rime di diuersi eccellentiss. autori nella lingua volgare. Nouamente raccolte (Bologna: Anselmo Giaccarello, 1551), p. 190-192.]

MENTRE, che 'l mio pensier da i santi lumi Prendea fido riposo, Ben non vid'io, che al mio ben fosse eguale, Hor che 'l Ciel vuol, che 'n pianto i mi consumi, E à forza tenga ascoso Il troppo accerbo, & doloroso male, Piacciavi darme l' ale Cosí veloci à ritrovarmi poi, Che sempre vivo in voi, Et ne piglio cotanta, & tal dolcezza Che' l mio car lasso, ogni altra vista sprezza. M' è à noia, ove ch'io miro, se sembianza Di voi ben mio, non veggio, Et se di chiari spiriti hò sempre'ntorno Vago drapel, l' acerba lontananza Fa che col duol vaneggio, Ne gioia, ne piacer fa in me soggiorno, Tal che à voi sempre torno, Ch' ivi è la mia richezza, e 'l mio tesoro, Ivi le gemme, & l'oro Son, che cotanto l' alma honora, & prezza, Che 'l mio Cor lasso, ogni altra vista sprezza. Movo tal hor le piante, ove 'l bel piede Prememndo se ne gia Le tenerelle herbette, e i vaghi fiori; Per veder s'orma almen di quel si vede: Ma l' alta speme mia Nulla ritrova fuor, che i suoi dolori, Et se Ninfe, ò Pastori Veggio domando pur, se del sol mio San nulla, & mentre un rio Fan gli occhi mesti, & sono à avezza, Che 'l mio cor lasso, ogni altra vista sprezza. Ma che spero io trovare in altri mai Di voi sembianza vera, Se l'alma bella, e 'l valoroso velo Fe senza eguale 'l Ciel per piu miei guai, Che dunque' l cor piu spera Temprar senza voi stesso il caldo, e 'l gielo Che con grave duol celo Frà finto riso, & simulato volto? Et dove ch'io mi volto, Non possendo veder vostra bellezza Il mio cor lasso, ogni altra vista spezza. Se pur altro disio di eterno honore Di piu lodate 'mprese Vi face star da me, cor mio, lontano, Ben che mi doglio, per sento 'l valore Vostro con l' ale stesse Girsen poggiando ogni hor per note, & piano. Veggio la bella mano Far con la spada al reo nimico danno, Et con tenna, ed affanno Farlo cattivo, onde sua forza spezza, E 'l mio cor lasso, ogni altra vista sprezza, Canzon mia passa i monti, Et ratta vanne, al chiaro mio bel sole, Et di queste parole, CINTIA vive à te lungi in tanta asprezza Che 'l suo cor lasso, ogni altra vista sprezza,

[Arrivabene, Andrea, ed., Delle rime di diversi eccellenti avtori, nvuovamente raccolte, et mandate in lvuce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli (Venezia: Al segno del pozzo, 1553) p. 109-111.]

DA FIAMMA sì gentil nasce i mi' ardore, Che'n me si faccia eterno io sol desio, Il laccio, con che l'alma avinse Amore È tal, che in piacer volge il martir mio, Questo sol mi tormenta, e affligge il core Non poter torre altrui quel timor rio; Questo la mia dolcezza turba, e atterra, Pace non trovo, e non ho da far guerra. Rapace ingorda, e velenosa fera, Seme, che spegni ogni dolcezza mia, De gli altrui danni sol ti godi, e altera Te'n vai troncando il ben, che'l cor desia, Felice, e chi da te fuggire spera, Ò infernal furia, ò iniqua gelosia, Che'n te pensando mi consumo, e sfaccio E temo, e spero, & ardo, e sono un ghiaccio. Amo, e non nacque dal mio Amor già maì Questo verme crudel, ch'altrui divora, Amo, quant'amar puossi, i santi rai Del mio bel sol, che nostra etade honora Ne mai tal doglia nel mio cor gustai, Che tanto altrui, quanto se stesso accora E pur Amor sue forze in me disserra E volo sopra'l Ciel, e giaccio in terra. Da l'altrui gelosia nasce il tormento Che del caro mio ben, lassa, mi priva Questa sol mi disface, e ha già spento L'humor, che questa spoglia tenea viva, Ella mi toglie il dolce, e bel concento De le parole, ov'io già mi nudriva; Et è cagion, ch'io mi consumo, e taccio, E nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio. Si mi vince talhor l'aspro martire, Che per mio minor duol corro à la morte La ragione poi si sveglia, e prende ardire E à l'empio mio desir serra le porte, E dice, ahi lassa, vuoi dunque finire Tua vita in così dura, e acerba forte? In questo van soccorso il pensier erra Tal m'ha pregion, che non m'appre ne serra. Ò effetto rio, che'l più felice stato, Che goder possa alma d'amore accesa, Col velenoso tuo tosco hai turbato Rotta la sua bellezza, e l'alta impresa, Havess'ancor'il debil fin troncato, E à la prima madre l'alma resa, C'homai da me la vita, ond'io mi sfaccio, Ne per sua mi ritien ne scioglie il laccio. Amor, non volev'io, che'l mio gioire Senza, ch'à te piacesse fosse eterno Con la tua aita al Ciel sperai salire, Che senza te non ho guida, ò governo, E se pur sai, che tal fu'l mio desire Perch'infondi nel cor'il duolo interno? Ahi mia già lieta speme, hor sei sotterra, E non m'ancide Amore, e non mi sferra. Non mi sferra il crudele, e non m'ancide, Non mi dà morte, e non mi tiene in vita Mostra troncar, lo stame, e non recide, Tormenta l'alma, e mostra darle aita Del misero mio stato io piango, ei ride, Con queste amare tempre tiemmi unita, E così mesta mille morti faccio, Ne mi vuol viva, ne mi trae d'impaccio. Poi che la vista del mio chiaro Sole Gelosia altrui, pront'al mio mal, m'ha tolto, Risuonan'anco in me quelle parole, Che dal basso pensier m'hanno 'l cor sciolto, Ne l'alma ho sculte quelle luci sole Sostegno mio, e 'l vago, e dolce volto, E seco del mio duol piango, e sorrido, Veggio senz'occhi, e non ho lingua, e grido. Senza lingua grid'io, senz'occhi veggio, Quel ben, ch'oggi al mio Sol posseder lice, Fin ch'ivi ho'l mio pensier altro non chieggio, Che'l possessor di quel tropp'è felice. In tal pensier, fra ma stessa vaneggio, E se goder il ver mi si disdice La mente mia col falso tiemmi in vita, E bramo di perire, e chieggio aita; L'alta cagion del mio fermo pensiero Mi porge per salire al Ciel le scale, E mi conduce à quell'oggetto vero, Ov'è l'opra infinita, & immortale; I sensi frali poi da quel sentiero Mi tolgono, ond'io lassa, vengo à tale, Ch'io fuggo'l Sol, e i chiari raggi sui, Et ho in odio me stessa, et amo altrui. Misero stato de gli amanti, in quante Morti si vive, e in qual tormento, e morte? Vn dolce riso fa gustar le tante Amare pene dolci; e se per sorte Il suo bel Sol si vede irato innante Apre il pianto al dolor le chiuse porte, Et io, che in queste tempre oggi m'annido Pascomi di dolor, piangendo rido. Fuggir deuriansi, se fuggir si puote D'Amor i lacci, e le lusinghe amare, Amare, poi che son si fede uote, Larghe promesse, e sol d'effetti avare Per un piacer mille dolor percuote, Entr'al cor lasso, e anche à me fur care Le lagrime, ch'al duol davano uscita. Hor mi spiace egualmente, e morte, e vita. Satio del tormentarmi Amore stassi Lo stato mio mirando interno, e fiso, E vede gli occhi miei di pianger lassi, E l'imagin di morte entr'al mio viso. Son questi i merti ch'à suoi servi dassi Amor, poscia c'hai'l cor di pene anciso? Io per men doglia ir bramo à i Regni bui, In questo stato son, mio ben, per uui?

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. Libro nono. p. 1.]

SI come gli alti effetti dal Motore Eterno, son produtti, & essi poi Son le vere cagion, potenti in noi, Per le quali opra l'infimo, e'l maggiore; Così quel immortal, chiaro splendore, Che per essempio hà dato il Cielo à uoi, Volgendo in me, sol un de' raggi suoi, Mi face oprar, quel ch'io non hò valore: E di quì fassi il mio desire ardente Di giunger al suo fin, ch'in voi traspare, Come in puro Cristallo, il chiaro Sole E mentre tarda quì, s'afflige, e duole, Poi che le Parche, del suo ben avare Fan, ch'al disio, l'effetto non consente.

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. libro nono (Cremona: Vincenzo Conti, 1560), p. 2.]

S'alta virtù, ch'eterna fama attende, Hà il vostro cor, d'alto desir' acceso, Chi potrà dunque far, che mai consento Mi sia quel vero bel, ch'in voi risplende? E s'il senso mortal, tal'hor contende Con l'alma, onde ne resta al fin offeso Merta pietà, che da voi uinto, e preso, Di godervi, e mirarvi, ogn'hor s'accende, Toglia à quest' occhi mei l'altero monte Vederui, e'l fiume al piè contenda il passo, Tengavi Adon da me sempre lontano; Che fin, ch'impresso portarete in fronte Sì bel pensier, quest'alma à passo à passo Vi seguirà per boschi, monte, e piano.

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. libro nono (Cremona: Vincenzo Conti, 1560), p. 3.]

Piangete meco afflitti occhi dolenti, Privi del vostro chiaro e vivo Sole, Piangete luci, sconsolate, e sole, Che i suoi bei rai per voi son hoggi spenti, Tu mesto cuore, à i miei sospiri ardenti Dà larga via, poi ch'empia morte uole, Ch' io pur mi viva in si dogliose scuole, Tenendo i sensi al primo aggetto intenti, Altro suggetto ò mio pensiero imprime Nel petto, perch'io scriva in uiue carte, Con altro stile hor le sue glorie prime, E dove manca in me l'ingengo e l'arte, Supplirà il duol, che con acute lime Mi punge, e rode dentro à parte à parte.

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. libro nono (Cremona: Vincenzo Conti, 1560), p. 4.]

Se voi Donna immortale volete, ch'io Possa cantar il vostro alto valore, La divina virtù, quel bel splendore, Che di godervi apien, aprona il desio, Volgete un raggio vostro entro al cuor mio, Ch'ei dar puote à quest' alma il vero honore; All'hor mostrarà lieta al mondo fuore Gli alti pensier, fuor dell'eterno oblio, Che senza è l'aspro mio terreno asciutto, Pien di spini, e di sterpi, e non produce Per se stesso giamai, fior, fronde, ò frutto, Date dunque mio Sol, la vostra luce Al lasso spirito, in pene arso, e distrutto, E siate à Me, di s` bell'opra duce.

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. libro nono (Cremona: Vincenzo Conti, 1560), p. 5.]

Se la virtù del mio bel Sol ordio Il laccio, che per sempre il cor m'avvinse, Se'l tempo l'annodò, ragion lo strinse Lungi dal vano oprar, dal cieco oblio; Chi scemar puote in me, l'alto desio, Che dolcemente già quest' alma cinse? E il suo, nel mio pensier si ben dipinse, Che lui seguendo al Ciel, ogn'hor l'invio? Ahi del mio caro ben, invidia morte, Tu sola, à l'alta speme, hai tronche l' ale, Tu suelta del mio ben, hai la radice, Tu uolta in toscho, hai la mia dolce sorte, Onde la uita ho à noia, e son già tale, Che viver sol piangendo hoggi mi lice.

[Offredi, Giovanni, ed., Rime di diversi avtori eccellentiss. libro nono (Cremona: Vincenzo Conti, 1560), p. 5-7.]

SORGEA nel mondo un così chiaro sole Ch' à le tenebre nostre eterna luce Prometta sì, ch' à l'altro facea scorno; Ne di ciò liete eran le stelle sole, Mà il gran' Monarca, di tant' opra Duce, Ne mostrò segno con sereno giorno: Quando mirand' io intorno; Invida nube in atre, e oscure tempre Vidi venir, con ria tempesta grave; E la luce suave Ne tolse, noi lasciando in pianto sempre; Che ben non è, che'l gran' danno contempre. Peregrino Falcone, à cui d'altiere Voglie era colmo il cor, di pura fede, Cinto di quel valor, che mai non muore, Nacque frà Noi, e di speranze vere Nodriva e cuori; e così degne prede Pascean l'alta sua voglia, e'l suo bel core; Ch'il di lui chiaro honore Ornava il mondo di vittorie estreme, Quando per l'aria venne horrendo mostro, E al ardito augel nostro La vita tolse, e tanto al mondo preme, Ch' anc'hoggi ulula il Cielo, e oscuro geme. Felice pianta in un bel prato nacque, Adorna di vezzosi, e vaghi fiori, Ch'al mondo odor rendea, dolce, e felice; Questa cotanto à gli aurei gigli piacque, Che unir la uolson co i lor grati ordori; Ò fortunato innesto, s'infelice Destin' la sua radice, Non percuotea co'l rio fulmine irato, Ò non sperata morte, che suelt'hai (Rinovellando i guai) Quella pianta gentil, che'l disiato Frutto, al mondo rendea, raro, e pregiato. Saggio Pastor, ch'à regia Ninfa l'alma Hauea sacrata vidi, e la sua testa Era di gemme ornata, e in man tenea Vna uittoriosa, e bella palma, Di purpurei fior tutta contesta; E volti gli occhi al Ciel, così dicea, Ahi mia fortuna rea; Veggio, che nel fiorir de gli anni mei Troncarai il filo alla mia lieta vita; Quì tacque, e senza aita Potergli dar, percosso il vidi, e fei Al Ciel voti per lui, pur il perdei. L'augel di Giove inanti à gli occhi nostri, Venne da l'alto suo valor condotto, Spiegando i bei, veloci, altieri vanni In quella parte, ove gli atroci mostri Ogni lieto gioir tornan in lutto, Colmando altrui di duol, d'ira, e d'affanni, Iui per torne i danni Si pose ardito (ahi lassi Noi) d'avanti, Feroce cor, empio furor c' el tolse, E lo spirito sciolse, Morte dal vago seno; o lumi santi, Che ne sete cagion d'eterni pianti. Cinto d'alti trofei Phetonte assiso In un bel carro vidi ardito, e solo, Valoroso, gentil, cortese, e saggio, Che sembianza rendea del Paradiso; Pareva tutto lieto alzarsi à volo, E verso il Ciel drizzare il suo viaggio; Quando cadendo, oltraggio, I suoi fieri destrier, co'l carro fero Al bel corpo; onde l'alma indi partio; O caso acerbo, e rio, Degno, che sempre il Ciel, stia oscuro, e nero, E' l mondo pianga, il grande Oratio altiero, Canzon; se quale è il danno, Tal potessi mostrar tua pena ria, Teco la terra, e il Ciel pianger deuria.

[Manfredi, Muzio, ed., Per donne romane rime di diversi raccolte, & dedicate al Signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi (Bologna: A. Benacci, 1575), v. 1, p. 59.]

In uoi due sole adamantine, e forti COLONNE la beltà, il senno, e ‘l ualore Quanto mai uide il sol dentro, e di fuore S'annidan come in riposati porti. Lasciando i suoi sentier spinosi, e torti La nobil Roma; ogni suo antico honore Spento, raccende con meglior splendore Da uoi ritolta da ben mille morti. Che se l'antiueder mio non m'inganna; Maggior Trionfi assai del tempo antico Condur farete al uostro Campidoglio. Così disse di ricca, e uerde canna Cinto il capo il gran Tebro in loco aprico, Poi corse al mar più lieto, e pien d'orgoglio.

[Manfredi, Muzio, ed., Per donne romane rime di diversi raccolte, & dedicate al Signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi (Bologna: A. Benacci, 1575), v. 1, p. 60.]

Vidi, & ornate di tai raggi ardenti, Che mirandoli son tanto possenti, Ch' tengon l'alma mia sempre à lei uolta. Beato è poi chi dolcemente ascolta Quelle saggie parole, e quegli accenti Da fermar l'onde, d'acquetar i uenti, E da legar qualunque anima sciolta. Coppia felice, che con gli occhi uostri Beate altrui, e al Ciel con spedit'ali Ven gite sciolte da' terreni chiostri. Fosser miei detti al metro uostro eguali, Come dal uostro bel questi miei inchiostri Si farrebbon qua gi` più ch'immortali.

[Manfredi, Muzio, ed., Per donne romane rime di diversi raccolte, & dedicate al Signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi (Bologna: A. Benacci, 1575), v. 1, p. 60.]

Come il Motore eterno de le stelle, Alhor ch'acceso d'un'ardente zelo Distinse il tutto, e per sostegno al Cielo Fece i duo Poli, e l'altre cose belle; Due COLONNE à la terra diede, e felle Sì chiare, e salde, che ‘l calore, e ‘l gelo Sprezzano, e le uestì di mortal uelo, Onde il Mondo s'appoggia à due sorelle. Anime scielte, e ueramente illustri, Degne figliole à sì gran Padre, à cui Sacrar spoglie, e trofei Marte, e Bellona. Così la Musa mia, che roca suona Viuesse al par di tutti quanti i lustri, Come sete sostegno al mondo uui.

[Manfredi, Muzio, ed., Per donne romane rime di diversi raccolte, & dedicate al Signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi (Bologna: A. Benacci, 1575), v. 1, p. 165.]

COLONNA di Virtù sostegno fido, In cui tanto ualor chiaro risplende, Che chi fiso la mira; al Ciel si stende Alto, e beato lascia il terren nido. ORSO felice, e ben d'eterno grido Degno, poiche à te sol non si contende Goder l'alta beltà, beltà che rende Merauiglia da l'uno à l'altro Lido. Rara FRANCESCA à uoi conuiensi sola Le Palme hauer, che del gran Padre uostro Memoria eternal al mondo ne rendete. Così la fama uostra al Ciel se ‘n uola Mentre di gemme ornate il secol nostro, Che uoi, non altra nel bel seno hauete.

[Manfredi, Muzio, ed., Per donne romane rime di diversi raccolte, & dedicate al Signor Giacomo Buoncompagni da Mutio Manfredi (Bologna: A. Benacci, 1575), v. 1, p. 166.]

MVTIO gentile tu de la Donna mia: Anzi de la mia uita il raggio uero Godi presente, & io sol co ‘l pensiero Vado, oue ‘l mio destin (lassa) m'inuia. Deh s' à la pena tua pietosa sia Chi n' è cagion; mira com'hoggi io pero Priua del Sol, che questo basso Impero, E me con la sua luce alluma, e cria: E quanto apporta acerba noia al core La lontananza di quei cari lumi, Le cui fauille in me non sian mai spente. Poi dì come uiurò, se lungamente Me ne tien lunge, acciò ch'io mi consumi Fortuna ognihor pi` presta al mio dolore.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 152.]

O Mio bel Sol, per quell' interno ardore, Che l' alma mia sì dolcemente avviva, Per quella vera gioja, che nodriva Quando in voi pria mirai l' afflitto core; Per quei caldi sospir, che a tutte l' ore Passano della Tressa, oltra la riva, Per ritrovar, chi d' ogni ben mi priva, E la vera cagion del mio dolore; Per le lagrime triste, e pei martiri, Che m' ancidano ogn' or presso, e lontano, Onde non sò, com' io lassa respiri; Per gl' occhi vaghi, e per l' amata mano, Che m' empie il petto d' alti, e bei desiri Deh, non rendete il mio sperare or vano.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 152.]

SIccome è senza par l' oggetto mio, E fra mill' altri belli, ei solo splende, Onde la nostra età beata rende, L' alme ingombrando d' immortal desio; Così privo d' eguale è l' ardor, ch' io Sento di lui, e s' egli nol comprende La colpa è sua; che il mio cor fido attende, Finire ivi il suo corso; ed io il desio. Ne puote sua mercè, basso pensiero; Far nido in me; che l' alta, alma bellezza Sua lo percuote, e indietro lo discaccia. Talch' io felice vivo, ed egli altero, Di ciò sen va, che se ben me non prezza, Quel ch' hò di lui forz' è, che pur gli piaccia.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 153-154.]

SI' bella è la cagion, che a amar m' accende, Che col pensiero appago il mio desio; Beata, e altera poi, così mi rende, Ch' ogni oggetto mortal pongo in obblio: E fà, che sua mercè, quest' alma intende L' eterno amor dell' immortale Iddio; Onde nasce quel lume, in cui già mai Non si sazian mirare i nostri rai. Ivi la gran beltà lieta rivolse, Per mostrar sè fra noi; suoi lumi santi: E d' ogni bello, e buono il meglio tolse, Per farne esempio, a tutti gl' altri amanti: Ivi Natura, ogni poter raccolse Dando cagione altrui di gravi pianti; Perche concesse a un sol, tutto quel bene, Ch' esser potea, di mille interaspene. Ardo, gioisco, ed ivi il cor s' infiamma, Ne m' ancide a star lunge empio timore; Che tanto puote in me, l' ardente fiamma, Che il pensier porta, ove è di me il migliore; Ond' avvivar mi sento, a dramma, a dramma; E di questa dolcezza io pasco il core; Ma l' alma, che il suo fin solo desia, Alla prima cagion, ratta s' invia. Ma questa spoglia del suo danno accorta, Non previsto il suo fine, a se la chiama, E garisce il desio, veloce scorta, Che troppo ratto, quel, ch' ell' odia, ei brama. Vorrebbe a' suoi pensier, chiuder la porta, Ma non puote il mortal, che il divin ama Privar l' alma di quanto ella possede, Mercè del vero ben, che tutto vede. Come la mente angelica a Dio volta, Gode quanto per sè, goder le lice, Ed ivi tiene appien sazia la molta Sua voglia, che il desio non le disdice; Tal' io verso il mio Sol tutta rivolta Godo quella beltà, dove felice M' alzo coll' ali del pensiero, e poi, Vivo al chiaro splendor de' lumi suoi. E perche questo mio basso intelletto Del suo valor, non cape il merto intero, Ei coll' ingegno suo, raro, e perfetto; M' alza vicino al ben celeste, e vero, E colmo di divino ardente affetto, Mi toglie a questo oscuro, e basso impero, Ed ei con meco in parte poi s' estende, Che fino il vero ben, vede, e comprende. Sia dunque eterno il mio sì nobil foco, Ne per sdegno già mai lo senta offeso; Stringa Amor il bel laccio, e a poco a poco, Morir mi faccia in così dolce peso: Ch' io provo ogni martir diletto, e gioco, Si puote la cagion, che il cor m' ha acceso, Ch' è più dolce morir mirando i suoi Lumi, che goder quì quanto è frà noi. S' io potessi ridir quanto, ch' io veggo Il bell' animo suo di lode degno, Mi saria forza il basso, e terren seggio Lasciar volando a più felice regno. Ma tal qual io mi son con ragion deggio Fermar lo stil di sì bell' opra indegno, E restar col pensier dove vorrei Finire amando tutt' i pensier miei.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 155.]

DOlci sdegni, e dolc' ire, Soavi tregue, e paci, Che dolce fate ogni aspro, e rio martire: O d' Amor liete faci, Che ad ambi il petto ardete, Con così grato foco, Che m' è caro il penar, la morte gioco. Frutto raro, che miete Un breve sdegno: o più d' altro beato, Se mai fin non avesse un tale stato. Se in sogno ciò sentire, Dolce cor mio, mi fate, E moro senza mai di vita uscire; Ditemi, se m' amate, Qual pena esser potria, Che fuor del sonno poi Agguagliar si potesse a questa mia? Deh non vi piaccia, dacche io moro in voi, Darmi la morte, e ne' bei vostri lumi Dolcemente lasciar, ch' io mi consumi.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 155-156.]

AFflitti, e mesti intorno all' alte sponde Del Tebro altero, i cari figli vanno, Della mia Patria il grave, acerbo affanno Ciascun nel petto suo dolente asconde. Miran lungi il bel colle, ove s' infonde Ira, sdegno, furor, rapina, e danno Del famelico augello, in cui si stanno Ingorde voglie, a null' altre seconde. Spargon per l' aria alti sospiri, ardenti, Versan dagl' occhi largo pianto ognora, Movono i sassi, ai lor giusti lamenti. Piagne, Regina mia, la vostra Flora Più di tutt' altre mesta, e son possenti I vostri rai far si, ch' ella non mora.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 156-160.]

ALma, per qual ragion meco t' adiri? Non sai, che 'l primo dì, che agl' occhi piacque Quel Sol, che fra noi nacque Ci fu promessa eterna, e vera pace? E quanto ogn' altro appo quel bel ci piacque Lo sanno i miei sofferti, aspri martiri, Che co' gravi sospiri Mostrar quel, ch' entro a te con duol si tace; Ma se tanto il penar nostro ti spiace, Va, chiedi aita, a chi del primo errore Fu la cagion; ch' io teco ardo, e pavento, E col pensiero accresco il mio tormento: Che se non troverai pietà minore Del suo chiaro valore, Non credo di finir, così mia vita; Ma così dolce aita Ci promette la speme, e sua virtute, Che del nostro martir fia poi salute. A che paventi, se il mio dolce oggetto Puote adolcir le nostre amare pene, Ed avvivar la spene, Che n' alza al Ciel, per raro erto sentiero? Ivi ti ferma, e spera in lui, che tiene La mente volta, e il suo puro intelletto; Che non c' è più perfetto Ben per condurci a quel celeste, e vero, Ch' ei bear puote il nostro alto pensiero, E tenerci lontani al volgo rio, Da cui si miete non sperata morte, Guidando il bel desio per strade torte Al cieco, e da noi tanto odiato obblio; Che dov' è il pensier mio Altro non scorgerai, che virtù rara, Per cui solo s' impara Di farsi eterno al Mondo, e in Ciel beato, Sprezzando morte, e il tempo avaro, e ingrato. Alma, non ti lagnar, ma spera, e taci; Che la bella cagion compensa il danno: Lascia a quei, che non sanno Veder nel caro bene, opra lodata Dolersi con sdegnoso, e grave affanno: Che del nostro bel Sol, l' ardenti faci Le guerre in dolci paci Divengon sì, che tu sola beata Fra mille anime belle sei chiamata: E di vaga ghirlanda la mia testa Cinge pur con invidia di coloro; Che han posta la lor speme in gemme, e in oro. Lascia dunque il dolor, non viver mesta; Che s' or tanto t' infesta Il rimembrarti i nostri acerbi guai, Tempo verrà, che avrai Del tuo penar così dolce mercede, Ch' alma beata, quì più non possede. Intenta l' alma al mio predetto fine, Scossa d' a un' alto, e profondo desiro, Dice, se ben m' adiro Teco talor, non è però, ch' io voglia Privarmi di quel bel, che sempre miro; Ch' omai forz' è, che in tal sentier cammine Benche d' acute spine Sia punto il pronto piè, che a gir c' invoglia, Ma vince sempre il mio desir la doglia, E quel, che più m' affligge, e piu m' ancide, E' l' aspro freddo, e rio timor, che il seno M' ingombra d' amarissimo veleno. Questo spesso da te, lassa, divide Gli spirti, ed ei si ride Del nostro danno, ond' io dico talora A te; se ci addolora Tanto il timor d' una tal pena ria, Dunque provando il ver, ch' esser devria? l' ascoltar poi le dolci sue parole Piene di varj effetti, il fren ritira Al desio, che non gira, Se non dove il suo ben fermo risplende; E se nol trova a se volto s' adira, E meco piange, si lamenta, e duole; E ingrato il suo bel Sole Chiama, che giusto merto non le rende; Poiche il suo amore, e la sua fede offende. Nulla a te par, dacche, com io non senti I timori, i martir, le morti gravi, E quei pensier, ch' han del mio ben le chiavi, Che fan gli spirti miei mesti, e dolenti. Non bastan quegli ardenti Lumi mirar s' egli si mostra poi Tutti gli effetti suoi Lunge dal nostro fin, che solo brama Tor l' armi a morte, e al Cielo alzar la fama. Sai ben, che passan gli anni, i mesi, e i giorni, E con essi il pensier fallace, e vano Sen vola, e poscia in vano Ten penti, e ingombri il cor di duolo estremo: Che il porger larga al senso fral la mano Non merta lode; e lunge al ben soggiorni; Onde, se non ritorni La vela a miglior vento, io sò, che avremo Dalla tempesta fracassato il remo. Adunque meco i perigliosi scogli Fuggi, e ti ferma in piu sicuro porto, E segui il bel cammin, che il ver t' ha scorto. Togli consiglio, sconsolata, togli; E tua salute vogli; Poiche la ti dimostro, acciò che meco In tenebroso speco Non resti; che pur sempre un desio vive Di lasciar l' opre nostre al mondo vive. Vogliti meco a più lodata impresa, Se ben sei nata quì caduca, e frale; Prendi ratta quell' ale, Che t' ergeranno in più sicura parte: E dal soggetto tuo faranti eguale; Che t' ei d' un tal desio vedratti accesa, Mai non faratti offesa, E vista la sua lode in mille carte, Fin, ch' ei vivrà non resterà d' amarte. E farai quì del tuo bel Sole il nome, A scorno della morte, eterno, e chiaro, Se come mostri t' è cotanto caro. E dalle gravi insoportabil some, Ond' hai tue spalle dome Resterai scarca, e questo fragil velo Sciolto dal terren zelo Lieto, e felice, s' alzerà da terra, E godrà il bel, che il Ciel beato serra. Canzon, del Tebro intorno all' alte sponde lieta ten và, mirando i sette colli, Ove il mio chiaro, e vago Sol s' annida. Ivi piangendo, ad alta voce grida, Pietà del duol, che ci tien gl' occhi molli, E dì: dal dì, ch' io volli Fermar in lui la desiata speme, La vita, e l' alma insieme Diedi al suo merto, che in lui solo asconde Lodate voglie a null' altre seconde.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 160.]

SCema il tempo fugace ogni martire, Così può ravivar la morta speme, E far minore il mal, che l' alma preme, Per cui s' appaga poi l' altrui desire. Con maggior forza in me prende suo ardire Il grave duol, che con la vita insieme Sen và, ne pria, che giunga all' ore estreme Spero, ch' abbia a scemar, non che a finire. Che se di giorno in giorno più risplende La virtù del mio Sol senz' altra eguale, Ne voglier d' ore, o morte pur l' offende; Come può il tempo far minore il male Nel cor mio, che d' amarlo ognor s' accende, Sperando col suo Sol farsi immortale?

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 160.]

FErma il corso or dolente, o Tebro altero, Ne render più tributo al mar tireno; Che il tuo pregiato onor sen porta in seno Quel, che da luce a questo basso impero. S' attrista il Vatican, che il suo Sol vero Non vedrà qual' ei suol chiaro, e sereno: Vien d' ogni vaga Ninfa il riso meno, E ciascun piange il tolto bene intero. Chi darà il bello ai fior chi' l verde all' erbe, Chi' l chiaro all' acque, e chi alla pena onore, Se lunge a noi sen và chi tutto hà seco? Dunque fia sempre un tenebroso speco V' non vedrassi ' l chiaro suo splendore, Un' albergo di pene empie, ed acerbe.

[Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d'ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 1, p. 161.]

MEntre, che intenta i sette colli miro Gl' antichi onori, e le grandezze attendo, Dov' io pur lieta vissi, e l' ale estendo In voi, mio ben, per cui piango, e sospiro; Gl' occhi per ritrovarvi in vano giro, Onde m' attristo, e se talora intendo Nova di voi, alla mia speme rendo La vita, e dolcemente in voi respiro. L' altere sponde del bel Tebro intorno D' altri vaghi Pastori ornate veggio, Che con le Ninfe amate fan soggiorno: Io sola, dico, dal Pastor mio deggio Star lunge senza speme, che ritorno Faccia a me? E così meco vaneggio.
SONETTO, Estratto da un codice vaticano

[Trucchi, Francesco, ed., Poesie italiane inedite di dugento autori dall' origine della lingua infino al secolo decimosettimo (Prato: Guasti, 1846-1847), v. 4, p. 16.]

Se di maggior virtù l'alto valore Vostro non fosse e più raro e perfetto D'ogni altro, perchè tanto il mio intelletto Seco vorrebbe unirsi a tutte l'ore? Bramar di se non può cosa minore, Perchè creato nel divin cospetto Il basso sprezza, e tutto puro e retto Desia farsi conforme al suo maggiore. Nè meraviglia è dunque s'egli a voi Si volge sempre, e ardentemente spera Godere il ben che al ciel lo guidi poi; E se quella infinita bontà vera Rivolger degna il vivo raggio in noi, Perchè voi no la vostra luce altera?
SONETTO, Estratto da un codice vaticano. Al suo amante.

[Trucchi, Francesco, ed., Poesie italiane inedite di dugento autori dall' origine della lingua infino al secolo decimosettimo (Prato: Guasti, 1846-1847), v. 4, p. 17.]

Non per offese mai, chiaro mio sole, Scemar si puote il vero e saldo amore; Anzi per sdegno via cresce maggiore, E a voi sta l'alma volta pur qual suole. Giro sol queste luci afflitte e sole In quella parte ove il mio fero ardore Le invita a consumar i giorni e l'ore; Colpa non mia, ma d'altri, onde mi duole. Taccio gl'inganni occulti e i lacci tesi Per troncar questo laccio, e sciorre il nodo Che strinse il tempo la ragione e il cielo. Mentre ch'alla mia stella non fien resi Gli spiriti e l'alma, se quaggiù il ver odo, Sciolta io non fia dall'amoroso velo.

Atanagi, Diogini, ed., Rime di diversi nobilissimi, et eccellentissimi avtori, in morte della Signora IRENE delle Signore di Spilimbergo. (Venice: Domenico & Gio. Battista Guerra, fratelli, 1561), p. 167.

Asconda Phebo la dorata testa Ne le fals'onde sì, che'oscuro il giorno Sempre si mostri, a quest'aere dintorno: Cui senza IRENE è la sua luce infesta. L'antica madre piu non si rivesta Di varij fiori: e de la copia il corno Nieghi: e del ricevuto oltraggio, e scorno Al ciel si doglia ognihor turbata, e mesta. Osservin sempre un tanto oscuro e nero Giorno i pastor per infelice e tristo: Ne di gregge, o di ninfe habbiano cura. E d'Adria il mar di doglia, e d'ira misto Si dimostri turbto in guisa, e fero; Che tema n'haggia il mondo, e la natura.