MARCHERITA SARFATTI
TVNISIACA

EDIZIONI A MONDADORI MILANO ROMA



MARGHERITA G. SARFATTI

TUNISIACA

EDIZIONI MONDADORI MILANO-ROMA

PROPRIETÀ LETTERARIA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono
riservati per tutti i paesi, compresi
la Svezia, la Norvegia e
l' Olanda

Copyright by Casa Ed. A. Mondadori 1924

“….. Une colonie italienne administrée par des fonctionnaires français…..”.

Paul Leroy - Beaulieu

Se la questione di Tunisi è diventata o sta diventando di sempre più ardente attualità in Italia, ciò si deve ad un vario ordine di ragioni. Prima di tutto la guerra vittoriosa ha raffinato la sensibilità nazionale degli italiani. Problemi che una volta, prima di Vittorio Veneto, erano trattati da pochi studiosi, o saltuariamente, nonchè superficialmente, da inviati speciali giornalistici, oggi interessano circoli vasti di persone di ogni ceto; dal politico al finanziario. In secondo luogo la coscienza di quella che si può chiamare la nostra tragedia demografica costituita dal rapporto fra la estensione del nostro gramo e troppo spesso accidentato territorio colla crescente popolazione, è acuta oggi come non mai, specie da quando i grandi mercati d' oltre Oceano, che assorbivano la nostra mano d' opera eccedente, sono praticamente sbarrati. Infine il problema di Tunisi ha interessato profondamente gli italiani, per il fatto che colla denuncia delle convenzioni del 1896, la sorte degli italiani a Tunisi è diventata di una precarietà altamente drammatica. La spada di Damocle della snazionalizzazione pende su di loro di tre mesi in tre mesi. Ciò li angoscia e ciò umilia anche noi, italiani della Madre Patria. Questi sono, a parer mio, i motivi fondamentali che appassionano l' opinione pubblica italiana di fronte alla grave e delicata questione tunisina.

Vale forse la pena - malgrado il fatto compiuto da ormai quarant' anni - di rievocare le tristi e mediocri vicende, per cui noi non andammo a Tunisi, mentre vi andò - evi rimase tranquillamente - la Francia.

Non v' è dubbio che l' occupazione di Tunisi da parte della Francia, rientrava nei calcoli di Bismarck, il quale per attirare l' Italia nell' orbita del sistema politico austro-tedesco, aveva bisogno di creare un motivo di dissenso tra Francia e Italia. Certo il piano francese fu favorito dall'Inghilterra, la quale chiuse un occhio su Tunisi pur di avere dalla Francia la adesione al Trattato Russo-Turco del 4 giugno 1878 con cui la Turchia consegnava all' Inglilterra in perpetuo affitto l'isola di Cipro. Nè bisogna dimenticare che la Francia battuta in Europa nel 70-71 cercava con una fortunata e relativamente facile impresa di ordine coloniale, di rialzare il suo prestigio di Grande Potenza. Le vicendè diplomatiche che condussero la Francia a Tunisi ebbero, per meglio precisare, le seguenti fasi:

Nel 1877 prima del Congresso di Berlino il Governo germanico fece sapere al Ministro degli Affari Esteri d' Italia, Mancini, che la Germania avrebbe visto con piacere un incremento dell' influenza italiana in Tunisia. La risposta fu “che il Gabinetto di Roma voleva andare al Congresso di Berlino colle mani libere per uscirne colle mani nette”. Durante il Congresso di Berlino, Benedetto Cairoli declinava nuovamente simili offerte, dicendo che l' acquisto della Tunisia avrebbe forzatamente messo l' Italia in opposizione alla Francia e che il Governo italiano preferiva escludere tale eventualità. Il Bismarck fece le stesse avances al Governo francese e trovò, da questa parte, minore spirito di francescana rinuncia.

Al Marchese di Salisbury, rappresentante britannico, che intendeva ingraziarsi la Francia per farle accettare il Trattato anglo-turco circa l' affitto perpetuo di Cipro, e che aveva sondato il Ministro francese Waddington sulla disposizione della Francia riguardo alla Tunisia, il Waddington rispondeva che la Francia sarebbe stata felice di fare predominare la sua politica in Tunisia e, tornato a Parigi, comunicava al suo Governo la cambiale in bianco che tanto Inghilterra che Germania erano disposte a dare alla Francia.

Più tardi (1 luglio 1878) il Waddington si assicurava che i sentimenti dell' Inghilterra non fossero cambiati a questo riguardo; e il Gabinetto inglese, a richiesta del Governo di Parigi, confermava di riconoscere le speciali ragioni che la Francia aveva di metter mano sulla Tunisia, sottomettendola al suo Protettorato, e che, disinteressandosi la Gran Brettagna di questo Paese, essa non avrebbe posto alcun ostacolo alle imprese che lo concernessero.

La Germania, d' altra parte, era felice di vedere la Francia cacciarsi in una impresa lontana, che l'avrebbe distolta da immediati propositi di rivincita e l' avrebbe inimicata con l' Italia. La presa di possesso della Tunisia da parte della Francia sarebbe stata, come fu difatti, una delle ragioni per cui l'Italia uscì dall' isolamento politico, entrando nell' orbita della politica tedesca, e trasformando l' alleanza austrotedesca (conclusa nel 1879) in Triplice alleanza.

I calcoli di Bismarck riuscirono pienamente. Giocando la carta di Tunisi, l' Italia doveva entrare nel sistema austro-tedesco, ma vi poteva entrare avendo Tunisi, vi entrò invece senza Tunisi. Il gioco ebbe una utilità territoriale per la Francia (acquisto di Tunisi), ne ebbe una politica per la Germania (adesione dell' Italia al sistema austro-tedesco), non ne ebbe alcuna per l' Italia. Schematicamente riassunte le vicende diplomatiche che diedero la Tunisia alla Francia, è superfluo rievocare le ragioni di contrasto fra Italia e Francia che precedettero la spedizione. Basterà ricordare l' opposizione formale francese, alle concessioni d' ordine telegrafico che il Bey pensava di fare all' Italia, e la vertenza della Società Rubattino per la ferrovia Tunisi-Goletta.

Finalmente, agli inizi del 1871, la Francia credè giunto il momento di agire, prendendo a motivi taluni trascurabili incidenti di frontiera algero-tunisina.

Il 7 aprile il Gabinetto francese faceva approvare dalla Camera dei Deputati dei crediti per finanziare la spedizione tunisina, allegando che era necessario che la Francia si preparasse a castigare le tribù dei Krumiri, e a garantire l' esecuzione, da parte del Governo beylicale, delle chieste riparazioni. Analoga notificazione venne fatta lo stesso giorno dall' Agente francese al Governo del Bey, significandogli altresì che le truppe francesi, per punire le tribù dei Krumiri, sarebbero entrate in Tunisia. Alle proteste del Bey per la minacciata violazione del suo territorio, l'Agente francese rispondeva dichiarando (9 aprile) che il Governo di Parigi non intendeva modificare le già prese determinazioni; nessuna intenzione vi era di muover guerra al Governo beylicale, anzi lo si invitava a cooperare con le truppe francesi nella repressione; o quanto meno a dare ordine, alle proprie truppe, di non opporsi alle operazioni delle truppe francesi. Il Bey, pur rifiutando di aderire all' invito francese di collaborazione nella repressione, e pur protestando, sia presso le Potenze europee che presso la Sublime Porta, (alla quale ricordava la sua posizione di vassallo) per la violazione che avveniva nel suo territorio, dava ordine alle proprie truppe di non opporsi all' avanzata delle truppe francesi. Queste, quindi, poterono invadere la Tunisia senza colpo ferire.

Due colonne partirono dal confine algerino, mentre quasi contemporaneamente avveniva a Biserta uno sbarco di un corpo di spedizione sotto gli ordini del Gen. Briard, il quale, dopo una rapida marcia giungeva alla residenza beylicale del Bardo, e costringeva con la forza il Bey alla firma del Trattato di Kars-Said, secondo il quale il Bey confermando tutti i Trattati anteriori con la Francia, accettava l' occupazione del suo territorio da parte delle truppe francesi, riconosceva la Francia e i suoi agenti come intermediari obbligati fra lui stesso e gli Stati esteri, prometteva di non concludere nessun Trattato senza l'assenso francese, subordinava tutta la sua amministrazione al controllo di un Residente francese, consentiva alla riorganizzazione delle sue finanze, ammetteva che la Francia imponesse una contribuzione alle tribù non sottomesse, ed infine rinunciava al diritto di introdurre nel suo Stato armi e munizioni. L' art. 4 stabiliva altresì che il Governo della Repubblica si portava garante dell' esecuzione dei Trattati in vigore fra il Governo della Reggenza e i diversi Stati europei.

Una prima eco degli avvenimenti tunisini si ebbe alla nostra Camera il 6 aprile in seguito ad interrogazioni dei Deputati Massari e Di Rudinì e ad una interpellanza del Deputato Damiani. Il Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri, Cairoli, rispondendo, smentiva che vi fossero stati accordi fra Gran Brettagna e Francia per un' eventuale occupazione da parte di quest' ultima; assicurava che la Francia aveva fatto dichiarazioni di voler mantenere lo statu-quo nella Reggenza; esponeva la versione ufficiale francese sulle aggressioni dei Krumiri, e aggiungeva che tali aggressioni essendo ammesse anche dal Governo tunisino “non si potrebbe certo negare alla Francia il diritto di difendersi alla frontiera”. Comunicava che le guarnigioni francesi in Algeria risultavano rinforzate e che nuove truppe si facevano partire da Tolone. Prendeva formalmente atto delle dichiarazioni fatte dal Ministro degli Affari Esteri francese alla Camera e al Senato “trattarsi cioè di difesa con mezzi eccezionali, bensì però consentiti da eccezionali circostanze” e confidava che la Francia “pur provvedendo alle necessità della difesa, rispetterà nel modo più assoluto una situazione politica la quale, intimamente connettendosi con l'equilibrio europeo, non potrebbe considerarsi con occhio indifferente, nè dall' Italia, nè da altri Stati”.

L' indomani veniva in discussione una risoluzione del Deputato Damiani sulla politica estera del Governo. Su proposta Zanardelli di sospendere tale discussione per continuare l' esame della legge elettorale politica si veniva ad un voto, in seguito al contrario risultato del quale, il Ministero si riservava di prendere ordini da S. M.

Le sedute dalla Camera venivano aggiornate fino al 28 aprile, e in questo frattempo il Ministero veniva riconfermato.

è solo dopo tale riconferma che il Ministero Cairoli invia istruzioni all' Agente d' Italia a Tunisi.

Nel dispaccio del 19 aprile 1881, che veniva spedito quando già erasi iniziata la marcia francese in Tunisia, vengono esposti i concetti fondamentali che avevano inspirato “e tuttora inspirano” il R. Governo nella trattazione delle questioni tunisine: difesa dello statu-quo a Tunisi e legittima tutela delle colonie e degli interessi italiani. - “Di fronte ai propositi francesi di svolgere le operazioni militari anche oltre la frontiera algerina, noi - dice il dispaccio - non abbiamo certo volontà e neppure il diritto di vere obiezioni”. Solo obiettivo del R. Governo dover essere il mantenimento dello statu-quo, imprimendo però alla sua azione diplomatica tale carattere da “evitare il pericolo di spiacevoli complicazioni”. A tale scopo essere necessario procedere d' accordo con l' Inghilterra. “Questa ha mostrato di voler abbondare nel senso della temperanza e della conciliazione; ha inviato quindi al Bey il consiglio di far concorrere le sue truppe alla repressione francese”. Conviene quindi anche al R. Governo esortare il Bey “a volgere ogni suo studio a che non si possa concepire neppure il più lontano sospetto che voglia suscitare indirettamente degli imbarazzi alla Francia o renderne meno agevoli le operazioni militari”. Alla richiesta fatta dal Signor Macciò dell' invio di regie navi da guerra alla Goletta, si risponde che la loro presenza nelle acque tunisine potrebbe “creare l' erronea opinione che il Governo del Re voglia sostenere presso il Bey una parte che non è punto negli intendimenti nostri”. Il dispaccio termina dicendo che ciò che a noi sopratutto importa è che “si eviti nel periodo critico che attraversiamo ogni ragione di attrito, ogni pretesto a provocazioni che possano aggiungere nuove complicazioni a quelle già esistenti. Procedendo per questa via possiamo confidare che la fase attuale della questione tunisina abbia a chiudersi senza detrimento al prestigio e agli interessi del nostro Paese”.

Di fronte a queste istruzioni, il R. Agente a Tunisi era ridotto a compiere la parte di informatore e di passivo spettatore degli avvenimenti. Non risulta dai documenti diplomatici che una qualsiasi azione sia stata svolta presso il Governo di Parigi per chiedere affidamenti circa il carattere ed i limiti della azione francese in Tunisia. Timidi assaggi vennero fatti a Londra per provocare una mediazione del Governo Britannico, ma questi, oltre agli impegni già assunti in Francia di disinteressarsi della Tunisia, non intendeva alienarsene le simpatic in un momento in cui si discuteva la conclusione di un Trattato di commercio anglo-francese. Bismarck, svolgendosi tutti gli avvenimenti secondo i suoi piani non rispose nè alle proteste del Bey, nè a quelle della Sublime Porta. L'Austria seguì docile la Germania. La Russia lontana e assente. La Turchia protestò invano per il violato diritto di sovranità del suo vassallo, riuscendo soltanto ad ottenere in risposta dalla Francia che questa “non ha mai avuto notizia e non intende riconoscere il firmano del 1871, e che considera quindi il Bey come Sovrano completamente autonomo e indipendente”. Più tardi la Turchia si accontentò della assicurazione del Governo di Parigi che le truppe francesi non avrebbero oltrepassato il confine tripolo-tunisino.

Alla notizia della conclusione del Trattato di Kasr-Said che, pur senza far parola del Protettorato, toglieva al Bey qualunque vestigio di indipendenza e dava la Tunisia in mano alla Francia, l'opinione pubblica italiana si commuove; e si ha subito eco degli avvenimenti in una interpellanza mossa alla Camera dei Deputati dagli onorevoli di Rudinì, Billiac Crispi al Ministro degli Affari Esteri sulla politica estera del Governo. Il Ministro Cairoli non affronta la discussione e, nella seduta del 14 maggio 1881 dichiara di dover “subordinare ad interessi superiori anche la propria difesa” e comunica di aver deliberato di rassegnare al Re le dimissioni del Ministero.

Il nuovo Gabinetto (costituito con l'On. De Pretis alla Presidenza e l'On. Mancini a Ministro degli Affari Esteri) si presenta alla Camera il susseguente 2 giugno. Nelle dichiarazioni ministeriali che il De Pretis in detta seduta fa alla Camera non vi sono che poche e vaghe parole sulla politica estera. Tunisi non è nominata. Forse volle farsi un indiretto accenno alla grossa questione, dicendo che “non dimenticheremo che nei momenti di passioni e di diffldenza i grandi interessi degli Stati non altrimenti si custodiscono che con la calma serena e longanime che accompagna la coscienza del diritto”.

Si andava frattanto completando l'occupazione francese della Tunisia.

Il 9 giugno il Rappresentante francese a Tunisi, assumendo, in relazione alle disposizioni del Trattato di Kasr-Said, il nuovo titolo di Ministro Residente della Repubblica francese, comunicava a tutti gli Agenti esteri residenti a Tunisi il resto del Trattato stesso, le lettere patenti con le quali il Governo della Repubblica lo nominava Ministro residente della Repubblica in Tunisia, e un decreto del Bey che lo costituiva suo solo intermediario ufficiale per i rapporti da intrattenersi coi rappresentanti delle Potenze e lo incaricava di notificare ciò a questi ultimi ed al proprio Governo.

L'accoglienza fatta dalle Potenze a tale notificazione può così riassumersi: La Germania, l'Austria-Ungheria, la Russia accettavano dopo pochi giorni di trattare col Rappresentante francese nella sua qualità di Ministro degli Affari Esteri del Bey. L'Inghilterra, dopo un periodo di incertezza, dava istruzioni al proprio Agente di trattare col Signor Roustan, quale Signor Roustan e non quale Ministro di Francia. Successivamente, però, in seguito ad assicurazioni ottenute dalla Francia che sarebbero stati rispettati i trattati conclusi fra il Governo tunisino ed il Governo Britannico, nonchè che sarebbero stati mantenuti integri gli interessi dei cittadini inglesi in Tunisia, riconosceva di fatto il nuovo ordine di cose.

Le istruzioni che il R. Ministro degli Affari Esteri Mancini, inviava al Vice Console d'Italia, Reggente la Rappresentanza a Tunisi gli prescrivevano invece di non compiere alcun atto che potesse significare riconoscimento, non solo di diritto ma anche di fatto dello stato di cose creato dal Trattato del 12 maggio. Tale atteggiamento del R. Governo è confermato in un dispaccio del 10 novembre 1881 diretto al R. Incaricato d'Affari a Parigi, col quale si rende noto un colloquio avuto dal Ministro Mancini con l'Incaricato d'Affari di Francia a Roma e le dichiarazioni a quest'ultimo fatte: “essere cioè intenzione del R. Governo di evitare qualunque atto che potesse significare un esplicito od implicito riconoscimento dei fatti avvenuti, o che potesse modificare in diritto la posizione del R. Governo rispetto al nuovo stato di cose creato in Tunisia dal Trattato del 12 maggio”.

Tale atteggiamento venne mantenuto, nonostante la difficoltà di continuare col Governo tunisino la regolare trattazione degli affari correnti, fra i quali assai importanti quelli derivanti dai torbidi gravissimi avvenuti nel secondo semestre del 1881 in tutta la Reggenza, con conseguente repressione sanguinosa operata dalle truppe francesi, dalla quale risentirono rilevantissimi danni le colonie italiane che ebbero molti membri uccisi o feriti.

Anche quando, nel 1884, in seguito alla abolizione della giurisdizione consolare in Tunisia consentita alla Francia da tutte le altre Potenze, il Ministro Mancini si vide costretto a fare altrettanto, egli evitò di riconoscere formalmente il Protettorato francese sulla Reggenza; ed il Protocollo del 25 gennaio 1884, stipulato a Roma tra il Ministro Mancini e l'ambasciatore francese, per sospendere in Tunisia l'esercizio della giurisdizione dei Tribunali consolari, determina esplicitamente che “la giurisdizione esercitata da tali Tribunali sarà trasferita ai Tribunali recentemente istituiti in Tunisia, dei quali S. A. il Bey ha, con un decreto del 5 maggio 1883, estesa la competenza ai cittadini degli Stati che consentissero a fare cessare di funzionare i loro proprii tribunali consolari nella Reggenza”. Come si vede non si nominano in quest'atto i Tribunali francesi e ci si riferisce soltanto a tribunali riconosciuti da un provvedimento del Bey.

Un riconoscimento sostanziale, per quanto non espresso, della situazione di fatto creata dalla Francia in Tunisia coll'imposto Protettorato si ebbe invece all'atto della conclusione delle tre convenzioni del 1896 (Convenzione di commercio e navigazione, Convenzione Consolare e di stabilimento, Convenzione di estradizione); stipulate in seguito alla tempestiva denuncia ed alla successiva scadenza del Trattato italo-tunisino del 1868.

Questa storia di Tunisi per quanto nota e conosciuta, è sempre suggestiva ed acquista alla luce di avvenimenti recentissimi, un singolare rilievo. Nel modo che qui si è raccontato la Francia and ò e restò a Tunisi; in modo analogo altre potenze sono andate e restate in altri paesi del mondo. Hanno dunque perfettamente ragione gli italiani di sorridere davanti a certi predicozzi di natura morale propagati da Ginevra dopo la temporanea occupazione di Corfù!

Il problema tunisino si pone oggi, per l'Italia in termini di una semplicità cristallina. Non è il caso di parlare di rivendicazioni d'ordine territoriale e politico. Perduta l'occasione del 1881, si poteva fermare la mutevole ruota della fortuna nel 1914, quando le armate di Von Kluck puntavano direttamente su Parigi, da dove gli appelli più commoventi e disperati venivano lanciati per sollecitare l'intervento della sorella latina. Non lo si fece. Inutile adesso indagare perchè. La seconda occasione è passata. Il problema, escludendone l'elemento d'ordine territoriale, si riassume così. Ci sono a Tunisi e in Tunisia oltre centomila italiani. Come ci siano andati, i pionieri italiani, come siano aumentati nel corso del secolo XIX, che cosa abbiano fatto e che cosa oggi rappresentino; quali siano i loro bisogni, i loro interessi, le loro angoscie, le loro speranze, la loro italianissima fede è detto in questo libro di cui mi onoro raccomandare l'attenta lettura agli italiani. è un libro che Margherita Sarfatti ha scritto sul luogo, a contatto diretto con la Colonia che non dispera malgrado tutto; è un libro di una obiettività assoluta, nonostante la fiamma profonda che lo pervade e lo illumina.

E chi potrebbe scrivere con animo indifferente di questo problema? Chi è l'italiano che non si commuova al pensiero del pericolo che gli italiani di Tunisi corrono di tre mesi in tre mesi? Noi crediamo che la Francia non vorrà riaprire e rendere inguaribile la ferita del 1881, con l'applicazione di un provvedimento che colpirebbe a morte la nazionalità italiana a Tunisi. Vale certamente la pena di evitare che Tunisi comprometta —sia pure soltanto moralmente—i rapporti fra Roma e Parigi. Che cosa si debba fare è chiaro. C'è un programma massimo ed uno minimo. L'essenziale è che gli italiani di Tunisi non siano sradicati dalla loro Patria. Questa veglia sul loro destino. Veglia come Governo e come popolo.

Tunisiaca” non è soltanto un libro è—anche— un messaggio di Amore che ravviverà la fede fra gli irriducibili italiani di quella Tunisia che serba ancora così numerose, solenni e ammonitrici le impronte di Roma.

Latinus.



Porta di Sidi-Abd-Slem a Tunisi.



La Piazza dell'Alfauin con la Moschea, a Tunisi, nel vecchio quartiere arabo.

La colonia Italiana della Tunisia è composta di circa centomila persone. I censimenti francesi, che si ritengono tendenziosi, danno la cifra di 88.080 italiani nel 1911 contro 46.000 francesi (guarnigione di 7-8.000 soldati, funzionarii di ogni genere e impiegati compresi). Le stesse statistiche segnano per il 1921 un aumento di 8.000 francesi (54.477), contro una diminuzione di 3.200 italiani (84.819).

Ora è vero che negli anni 1919 - 20 vi fu un esodo di circa diecimila italiani verso il Marocco, dove la Francia, bisognosa della nostra mano d'opera, agevolava e incoraggiava in tutti i modi la immigrazione italiana; ma questa perdita, e i dolorosi lutti seminati dalla guerra, a cui la nostra colonia diede tributo larghissimo di opere e di sangue, devono essere stati compensati, in dieci anni di tempo, dall'aumento della forte natalità e dalla corrente immigratoria continua. Un censimento molto grossolano, abbozzato dal consolato italiano nel 1922, sulla sola base dei connazionali ad esso noti, portava già la cifra a 88.000.

Si trovano essi nella città capoluogo in numero di circa 60.000. Secondo il censimento francese del 1921, nella città stessa vi sarebbero: 42.592 italiani, contro
22.206 francesi,
7.399 maltesi
1.295 fra greci, spagnuoli ed altri europei.
73.475 europei in totale, contro
79.175 arabi mussulmani e
19.030 israeliti indigeni; dunque
171.680 abitanti della città in tutto. La sproporzione aumenta se si prendono le cifre del circondario della città di Tunisi (prefettura, ossia Contrôle civil), dove vi sono all'incirca 28.000 francesi, contro
55.000 italiani
153.000 mussulmani
23.000 israeliti indigeni
270.000 abitanti in totale,
sempre secondo le tendenziose statistiche francesi.

Naturalmente, nel computo non entrano le famiglie di origine italiana già naturalizzate francesi.

L' aristocrazia della colonia è composta specialmente dal ceto intellettuale dei professionisti. Un numeroso gruppo di famiglie toscane, e in particolar modo livornesi, la più parte di religione israelitica, si stabilì poco poco a Tunisi negli anni fra il'30 e il'70.

Medici, avvocati, insegnanti, commercianti, industriali, tennero alto e rispettato il nome d'Italia e si fecero benvolere dalla aristocrazia e dalla corte indigena come dalla borghesia e dal popolino. Patrioti fervidi, taluno di loro discepolo e amico di Mazzini, formarono il primo nucleo saldo e granitico di italianità, intorno al quale vennero a cristallizzarsi i flutti successivi della emigrazione popolare, di sardi, e sopratutto di siciliani.

Le affinità del siciliano con l'arabo, sia per la stirpe mista di sangue saraceno, sia per la identità del suolo e della coltura fra la Tunisia e la Sicilia, ne fecero un altro elemento prezioso di penetrazione. Il siciliano è l'unico europeo che viva in assoluta intimità di esistenza con l'arabo: negli stessi quartieri, nelle stesse strade e case; spesso avviene che due camere, ad uscio ad uscio, sullo stesso pianerottolo, o magari l'una dentro l'altra, accolgano in piena armonia le due famiglie, i cui costumi sono sostanzialmente simili. L'arabo, come il siciliano, è frugale e semplice; i bisogni della sua vita fisica e spirituale sono elementari; gli basta che vengano rispettate la sua donna e la sua religione, come ciò basta ed è necessario al siciliano, uso a non guardare la donna altrui.

Date queste premesse, gli italiani in Tunisia avevano una posizione di netto predominio culturale e anche linguistico sino all'81, e di preponderante simpatia.

E' noto come nell'81, alla vigilia dell'occupazione francese, il Bey allora regnante, impaurito da quanto già vedeva avvenire in Algeria, mandasse a chiamare il console italiano di allora, dicendogli: «Fa sapere al tuo paese che venga qui Garibaldi con i suoi soldati»: testimonianza viva del fascino che pure su quella mentalità rudimentale e ignara esercitava l'epopea italiana e il nome di «Garibaldi»! E del fascino il merito spettava in parte anche alla nostra colonia di allora.

Il povero console, il quale già da un pezzo aveva visto delinearsi la situazione, e ne aveva avvisato l'incredulo, fiducioso ed ignavo governo di Benedetto Cairoli, tornò ad avvisare, a chiamare e telegrafare.

Per la storia aneddotica e un poco comica di un periodo e di un episodio, per noi così triste, narreremo che si chiamava, quel console, Macciò. Con il console di Francia, Monsieur Roustan, parecchie volte si erano incontrati e scontrati, nel corso della loro carriera diplomatica, a rappresentare due influenze rivali antagonistiche. Anche, mi pare, in Egitto. A Tunisi la rivalità si era acuita, oltrechè per il grave conflitto politico, anche perchè entrambi aspiravano alle grazie e al cuore di una bella signora. Macciò fu battuto, insieme, su entrambi i campi dall'emulo.

Telegrafò invano, che almeno mandassero quattro corazzate a incrociare al largo di Tunisi; sarebbero bastate. I francesi vengono, vengono, vengono!

Non fu creduto. Si credette alla parola d'onore «personale» data dall'Ambasciatore di Francia, a nome anche del Capo del suo governo; e si obbedì al divieto di Bismarck: «nessuno a Tunisi», mentre frattanto il Cancelliere tedesco si era messo d'accordo con la Francia.

Alcuni dicono, apposta per isolarla clamorosamente e per sempre dall' Italia e preparare e rafforzare la Triplice.

Dal canto loro, i francesi avevano corrotto con denaro il capo dei ministri tunisini; uomo intelligente, abilissimo, astuto, ma cupido ed intrigante, il quale, per essere stato allevato e cresciuto nel secondo harem del Bey, quello maschile dei giovinetti, conosceva bene il suo regal padrone e ne era il favorito.

Ma l'Italia, non era matura, nella sua nuova unità di nazione, ai problemi di politica estera: essa, che divisa in frammenti possenti e pur dolenti come lacerti, si era già chiamata Venezia e Genova e Pisa, le repubbliche marinare dai domini d'oltremare, con ammirabile valore conquistati, retti con la tenacia e con la sapienza, con acuto senso delle fortune politiche e commerciali della patria.

Adesso, che era la grande Italia una, con la grande Roma capitale, d'un tratto la sua visione si immiseriva! E come dunque si spiegherà la sua sensibilità d'improvviso ottusa, il suo sguardo sul mondo ottenebrato, quando altra volta lo aveva così limpido?

Furono le ideologie democratiche le colpevoli, come alcuno sostiene? O non fu piuttosto necessaria la miopìa di quel periodo di raccoglimento?

La miopìa stessa, non fu prodotta dall'indebolimento generale del suo organismo, e dal bisogno di irrobustirsi, concentrandosi in sè? Forse le famigerate frasi della politica «del piede di casa», e della politica «dalle mani nette», corrisposero a necessità fatali di quel triste momento.

Certo la parte migliore, ma solo un'esigua parte, dell'opinione pubblica italiana, a quella perdita e a quell'affronto insorse ribellandosi. E se tutta Italia ne sentì lo schiaffo, lo sentì, la grande maggioranza, come ovattato dall'imbottitura dei «grandi principii».

Ferdinando Martini, il futuro governatore della nostra povera colonia Eritrea, quel misero succedaneo della succolenta torta di cui gli altri si eran distribuite lautissime porzioni; Ferdinando Martini, uno dei pochi parlamentari che sin da allora spingessero lo sguardo oltre i confini, invece di noverare le farfalle sotto l'arco del caffè Aragno, mi scrive una lettera di amare, ma gustose rivelazioni retrospettive.

«Ah, quanti aneddoti mi tornano in mente ripensando ai fatti dell' '81—e al buon Macciò ch'era pistoiese—e alla sopraffazione francese e all'inerzia cairoliana! Le mie arrabbiature di quei giorni si sfogarono persino in un'ode, che, contro ogni mia consuetudine, osai di stampare. Brutta, ma sentita».

Di fronte alle tarde, fiacche, platoniche proteste italiane, il Governo di Parigi assicurava che aveva soltanto voluto punire «con una semplice passeggiata militare» le pretese incursioni dei Krumiri sul confine algerino; incursioni che, al dire dei testimoni del tempo, non esistettero mai.

Ma la «passeggiata» si prolungò.

Da allora, la colonizzazione francese procedette gradualmente, sicura, rapida, potente, efficacissima.

La Francia più o meno velatamente, e piuttosto meno che più, possiede il territorio del protettorato tunisino. I decreti beylicali, dopo tributato «Lodi a Dio» cominciano con la formula: «Noi, Mohammed en Nacer - Pacha - Bey, proprietario del Regno di Tunisi»; però seguitano: «dopo esserci assicurati del consenso del Governo Francese», e sono firmati unicamente e solamente «per la promulgazione ed esecuzione» dal Ministro Residente Generale della Repubblica Francese.

Ciò che occorre ora alla Francia—e dal suo punto di vista è un interesse vitale—dopo e più ancora del territorio, è di possedere la popolazione.

Il tentativo di colonizzare la Tunisia con popolazione operaio-agricola francese, perseguito dal Governo con tenacia, fervore e ricchezza di mezzi, non è riuscito; oramai può dirsi anzi irrevocabilmente fallito. E citiamo a testimonianza—ex ore tua te judico—un brano polemico della Tunisie française, il giornale chauvin per eccellenza del Protettorato. All'avvocato Corrado Masi, direttore del quotidiano italiano di Tunisi, L'Unione, che aveva parlato della «miseria demografica» della Francia, La Tunisie française rispondeva, anzitutto, la «miseria demografica» esser stata causata dalla guerra. Ciò non è vero, perchè anche l'Italia si è svenata di più di 600.000 uomini, tutti italiani; circa l'equivalente dello spaventoso olocausto della Francia, le cui vene generose hanno dato un milione di morti, comprese però nel computo, in una con le truppe metropolitane, le numerose e sacrificatissime Legioni straniere e truppe coloniali di colore, chiamate a raccolta da tutto il suo vasto impero.

E soggiungeva la Tunisie (1 Maggio 1923):

Que le Gouvernement du Protectorat se procure des terres, fussent-elles d'un prix élevé, qu'il laisse à ceux qu'il y installera un laps de temps pour les payer beaucoup plus long que celui actuellement concédé; qu'il soit sévère sur la nature du recrutement des futurs occupants, que ce soient des «gens de la partie», qu'au besoin il les aide dans les années du début, comme on en use dans certaines contrées étrangéres, et malgré nos lourdes pertes en hommes, le paysan français,—le vrai—ne restera pas introuvable.»

Anche con il delizioso eufemismo di quel «non introvabile» queste parole documentano e illuminano abbastanza la situazione. La rara emigrazione francese è un fatto non economico, anzi, anti-economico, a fini esclusivamente politici.

In realtà, il francese abbandona con difficoltà la douce terre de France dei suoi antichi novellatori, dove lo spazio non manca, come manca da noi in Italia alla popolazione sempre crescente; dove ognuno ha le sue franches coudées e un certo benessere. Se si sacrifica a lasciarla, lo fa in vista di uno scopo ben determinato: raggranellare nel più breve numero di anni possibile un discreto gruzzolo, gettar le basi di un solido patrimonio, divenire quello che è l'ideale borghese di Francia, un rentier. Raccolta in dieci a vent'anni di indefesso lavoro la somma prefissa —di solito dal mezzo milione in su—torna con la moglie a godersi gli agi dell'età matura in Francia, piccolo possidente e ottimate locale del suo paese, oppure ufficiale accademico con le palme violette e titoli di Borsa a Parigi, dando al di solito unico figlio una buona educazione e lasciandogli in eredità una modesta agiatezza. Che si affezioni al paese, che intenda di vivervi, che vi fondi, come vi fondano gli italiani, il forte nucleo di una popolazione acclimatata al suolo africano di generazione in generazione, e che unisce in cuore l'affetto per la patria lontana e non obliata con l'amore della terra adottiva; questo no: questo è da escludere.

Un esempio caratteristico.

Essendomi io recata nella lontana oasi di Tozeur nel deserto, ai limiti estremi della Tunisia, vi trovai l'eccellente albergo della Societè Transatlantique, che possiede ed esercita per conto proprio, a vantaggio del turismo internazionale, tutta la rete degli alberghi dell'interno (un esempio che dovrebbe essere un monito per noi italiani). I due direttori dell'albergo, marito e moglie di mezza età, parigini residenti nella Tunisia da anni, si rallegravano della imminente chiusura, durante i calori torridi dell'estate, per correre a Parigi, «a veder gli ippocastani in fiore», disse il marito. E la moglie sospirò: «ah, purchè arriviamo in tempo per vederli, ancora in fiore sui boulevards!»

L'attaccamento e la nostalgia per la metropoli non aveva le cause occasionali affettive che può avere per noi italiani: relazioni di famiglia, di sentimenti o di affari. Era veramente il senso primordiale degli esseri non avventurosi, non «ulissidi», come si direbbe oggi, che sospirano con delicata poesia, singolare in piccola gente dedita ai commerci, il volto stesso della patria, il senso di quella sua vegetazione urbana, umida e fresca, l'ippocastano con i suoi grassi grappoli rosei, per contrapposto all'aridità lustra e tropicale della palma.

Il programma francese, anche per i più avventurosi, è ancor quello del poeta della Pleiade di quattrocent'anni fa, Du Bellay, quando sospirava da Roma i Regrets: «Felice chi, come Ulisse, ha compiuto un bel viaggio, e poi ritornò, pieno d'esperienza e di senno, a viver fra i suoi il restante degli anni… E in quale stagione rivedrò il chiuso della mia povera casa, che mi è una provincia, e gran che di più?»

Sbaglia chi crede, da noi, che la questione tunisina sia per la Francia questione di territorio coloniale. Oggi, la metropoli cerca, attraverso la colonizzazione, di annettersi non solo e non tanto territorii, quanto uomini. Per completare quella «statura della Francia» di cui parla il recente, tipico libro di un esponente delle nuove generazioni e delle nuove preoccupazioni francesi, Drieu de la Rochelle, la Francia ha bisogno del concorso di tutte le popolazioni che le è possibile annettersi: senegalesi, congolesi, e arabi, ove occorra; e ai fini della mano d'opera in pace e sovrattutto in guerra; ma naturalmente, di preferenza gli europei: i tedeschi delle regioni renane ricche e prolifiche; e noi italiani, che abbiamo con i francesi tante affinità.

Insomma, la Francia e l'Italia hanno lo stesso imperioso bisogno di colonizzare, ma per ragioni diametralmente opposte: noi per riversare nella colonia il soprappiù della popolazione metropolitana; la Francia per rimediare alla sua diminuzione. L'ideale, per noi, sarebbe una colonia fertile e deserta; l'ideale, per la Francia, una colonia superpopolata.

La nostra emigrazione nella Tunisia, come, e ancor più, nel Marocco, è necessaria alla Francia, e sarà sempre la benvenuta, a patto che sia per noi una colonia di snazionalizzazione e di spopolamento e che consentiamo a inviarvi il nostro esuberante flutto demografico, per perderlo.

Questo sacrificio non essendo, da parte nostra, ammissibile, ne consegue un antagonismo vivo, sordo, continuo. Potrà essere più o meno acuto e svolgersi anche in forme cavalleresche, cortesi, amichevoli; ma l'antitesi e il latente conflitto di tendenze, il cozzo di interessi esiste, necessariamente, per fatalità di cose.

E' però nell'interesse nostro come nel bene inteso interesse francese che la lotta, o almeno la competizione, sia contenuta entro limiti legali circoscritti e ben delineati, nelle forme le più temperate e amichevoli; tali da lasciar adito il meno possibile al sopruso da una parte, al rancore dall'altra.

A tale scopo funzionarono, sino a pochi anni or sono, ottimamente; le convenzioni stipulate nel 1896, sotto l'allora ministro degli Esteri Visconti-Venosta, sotto l'on. Di Rudinì e l'on. Luigi Luzzatti, tra la Francia, per conto della Tunisia, e l'Italia.

Per tali convenzioni l'Italia abbandonava in molta parte, se non del tutto, le forti posizioni di privilegio godute sino allora.

E cioè, fino al 1884, vigeva ancora il trattato italo-tunisino del 1868, a noi favorevole specialmente perchè ci concedeva il trattamento della nazione la più favorita. E sebbene nel 1884 si firmasse l'accordo franco - italiano, che sospendeva la giurisdizione consolare, tutte le altre clausole rimanevano in vigore, compresa espressamente quella della nazione la più favorita.

Il trattato del 1868 veniva a scadere ventotto anni più tardi, nel settembre del 1896, per la denuncia fattane dalla Francia. In seguito a ciò, nel 1896, l'Italia riconosceva di fatto (benchè non di diritto) il protettorato francese, e rinunciava alla clausola della nazione la più favorita, riconoscendo alla Francia piena libertà di tariffe per i propri prodotti. Acconsentiva inoltre alla soppressione dei suoi uffici postali autonomi, e, fatto grave, consentiva che la importante ferrovia La Goletta-Tunisi, la ferrovia del porto, passasse dalla Società di Navigazione Italiana (Rubattino) in proprietà della Società francese Bona Guelma. Nel suo bellissimo volume: La questione tunisina e l' Italia (Zanichelli 1922), molto esauriente per quanto riguarda i precedenti e i documenti diplomatici, Cesare Tumedei assevera che queste due ultime stipulazioni furono dal Ministero celate alla Camera ed al Senato, anzi vi si addivenne alcun tempo dopo la ratifica dei trattati palesi.

In compenso però, mediante le convenzioni del 1896, l'Italia si assicurava per clausole espresse il diritto di riconoscimento della italianità dei suoi sudditi, anche se da due o più generazioni stabiliti in Tunisia, come è il caso, e già l' ho dimostrato, per il nucleo vitale della nostra colonia. E si assicurava il diritto di riconoscimento delle nostre associazioni

Senza queste stipulazioni, sarebbe avvenuto in Tunisia, come era già avvenuto in Algeria, l'assorbimento automatico della nostra colonia, assimilata e inghiottita dalla legge francese sulla nazionalità: è francese, anche contro la sua volontà, senza possibilità di scelta, chiunque nasca sul suolo francese da padre, anche straniero, ma nato a sua volta sul suolo francese.

Stabilivano inoltre, le convenzioni, equità piena di trattamento per gli italiani, in confronto agli indigeni e ai francesi, anche nell'esercizio di ogni mestiere, arte e professione.

Questa clausola purtroppo spesso fu violata; e violata in modo clamoroso ed evidente per quanto riguarda gli avvocati. Possono, nominalmente, essere indigeni o italiani; ma in realtà devono aver preso in Francia la laurea, seguendo i relativi studii universitarii, non solo; ma con il conseguimento anche del bacchalauréat francese, ossia la nostra licenza liceale. Il che vuol dire aver seguito le scuole medie francesi, abbandonando la nazionalità italiana in pratica e in sostanza, se non formalmente. Analoghi espedienti e divieti si misero in opera contro i farmacisti, i medici, gli imprenditori, e via dicendo, di nazionalità e di studii italiani.

Assai più grave è la questione che riguarda le nostre scuole. Lo statu quo stipulato per le scuole regie governative venne interpretato in modo restrittivo assoluto, come un divieto di aumentarne, non solo il numero, ma la quantità e la capacità, malgrado le mutate condizioni demografiche, e l'enorme accrescimento della popolazione scolastica. Non solo: da un errore materiale di compilazione della lista delle scuole allora ufficialmente riconosciute, e dove furono da noi elencate due scuole private, si dedusse la proibizione di aprire nuove scuole italiane, anche private!

Questa pretesa venne più tardi abbandonata come insostenibile; in teoria, è riconosciuto il diritto dei sudditi italiani di aprire nuove scuole private, sotto la sorveglianza francese e con determinate condizioni di programma scolastico, specie per l'insegnamento del francese. In pratica, con il decreto Flandin sulle scuole private, del febbraio 1920, la apertura di scuole private italiane è resa impossibile. Basti dire che la materia è affidata di volta in volta all'arbitrio dei ministri, il cui giudizio non occorre che sia motivato ed è inappellabile.

Malgrado queste riserve, le convenzioni del '96 furono provvide, sopratutto perchè garantirono i diritti inalienabili, fondamentali, della cittadinanza e della parità di trattamento.

Fu colpa di governi ignavi ed ignari, se la paplicazione pratica ne peggiorò e ne deteriorò di continuo le posizioni iniziali e le possibilità teoriche. Poichè non esiste trattato, il quale possa garantire la dignità di un popolo, se il governo e il popolo non sono pronti a difenderlo. Non esiste clausola solenne, che non divenga lettera morta, se uno dei due contraenti non vigili per proibire all'altro di calpestarla, usurpando o trascurando i diritti consacrati dalla carta scritta. Un solo nome di governante nostro degli ultimi anni si ricorda laggiù con riverenza ed affetto: Francesco Crispi. E soggiungiamo, per esser onesti, che dalla morte di Cavour fino al 1914, tutta Italia, non solo i governanti ma anche la nazione, in quei tristissimi anni, parve esausta dallo sforzo del Risorgimento, e si immiserì nel letargo. Il: «via dalla Dalmazia!» il: «via dall'Albania!» di sinistra memoria; e molti altri «via», stanno a documentare la verità, anche recente, anche post-belliea, di questa dolorosa confessione.

Ogni qualvolta la Colonia italiana di Tunisi, con la sua coscienza nazionale e patriottica sensibilissima, esasperata dall'insidia, insorgeva contro taluna di queste usurpazioni, il Governo centrale la difendeva male e svogliatamente, con l'aria seccata del superiore a cui l' inferiore turbolento procura delle grane: pareva accusarla di assurde velleità irredentistiche, da cui era in realtà lontanissima. Se i fatti erano più gravi e gli uomini di Governo più volonterosi di resistere, la Francia poneva innanzi, come sempre fece con arte finissima, la denuncia dei trattati di commercio italo-francesi, abbinando in qualche modo le questioni di tariffe con le questioni tunisine. Pressato dai setaiuoli lombardi o dai viticultori piemontesi o dagli agrumetai meridionali, per un ribasso o una facilitazione di esportazioni commerciali della metropoli, il governo cedeva terreno sui diritti della colonia, sacrificando la Tunisia: sacrificava, sacrificava.

E fece di peggio che lasciar correre, quando, con un errore politico, che fu ed è una mancanza imperdonabile al senso della dignità e dell'onore nazionale, consentì, mediante l'accordo 16 giugno 1914, che l' arabo tripolino, il nostro suddito di Libia e Cirenaica, in Tunisia non venga considerato come cittadino italiano.

Egli è considerato, se mussulmano, alla stregua di «correligionario straniero della nazione la più favorita», cioè dipende dai tribunali mussulmani tunisini, non da quelli francesi, come avviene per gli altri sudditi europei. E gli ebrei indigeni tripolini vengon considerati come «sudditi tunisini protetti dalla Francia», anzichè come sudditi italiani.

Gli arabi, sensibilissimi alle questioni di prestigio politico, giudicano unanimi che noi non siamo riusciti a ottenere il riconoscimento francese per la conquista libica, e ne diminuisce il nostro credito. Non senza dire che alla nostra politica coloniale era utilissima la distinzione di nazionalità, fra mussulmani e mussulmani. La unità islamica dell'Africa Settentrionale, vantaggiosa alle aspirazioni e alle ambizioni francesi verso l'unico vasto impero coloniale mediterraneo, dovrebbe essere avversata con tutte le sue forze da una politica nostra, savia e previdente.

Nel settembre del 1918, durando ancora la guerra combattuta in fraternità d'armi e di sangue sui due fronti, a cementare un'alleanza che si sperava e si credeva amicizia, scoppia improvvisa, da parte della Francia, la denuncia delle convenzioni del 1896.

Per rendere la cosa alquanto meno clamorosa, giunse, contemporaneamente con la denuncia, l'impegno di rinnovazione tacita delle convenzioni, di tre mesi in tre mesi. Anche allora, il nostro governo tacque, arrivando buon ultimo al traguardo della rinnovazione dei trattati.

Di peggio avvenne nel dopoguerra, con il paese e il governo in tutt'altre faccende affaccendati che a guardar oltre frontiera. Del febbraio 1919 è il decreto Flandin sulle compre - vendite, che proibiva in pratica l'acquisto di terre da parte degli italiani. Fu abrogato nel successio dicembre dello stesso anno, perchè danneggiava gravemente i francesi; come dissi più su, il colono o il capitalista francese compera, o si fa dare in concessione gratuita o semi - gratuita la terra, sacrifica un periodo della sua vita o una somma di denaro a metterla in valore, ma poi si affretta a realizzare vendendo. E l'acquirente veramente affezionato alla terra, disposto a pagarla anche cara, è sempre l'italiano, per lo più il siciliano. Del febbraio 1920 è il decreto sulle scuole private. E l'8 novembre 1921, al filo di una convenzione revocabile a piacere, fu appesa una spada tagliente, sottile e perfida, che minaccia la vita stessa della nostra colonia, per renderla tailléable et corvéable à merci, sino al giorno in cui cali a reciderle i nervi di ogni resistenza e fedeltà patriottica italiana!

Parlo dei due decreti sulla nazionalità, promulgati l'8 novembre dal Bey e dal Presidente della Repubblica, per integrarsi a vicenda. Chiunque nasca nella Tunisia, di padre europeo non francese, ma a sua volta nato nel territorio tunisino, perde ogni diritto di scelta e assume, automaticamente e necessariamente, la cittadinanza francese. Se è straniera di cittadinanza, ma tunisina di nascita la sola madre, la figliolanza ha la facoltà di rinunciare alla nazionalità francese, con pubblico atto notarile, dopo raggiunta la maggiore età. Se trascura tale formalità, anch'essa diviene francese.

Queste le inesorabili, e a noi micidiali disposizioni, che durante la visita ufficiale del Bey a Parigi per partecipare alla festa nazionale della presa della Bastiglia, il Parlamento francese convertì solennemente in leggi.

E del resto, ancor prima che questo ultimo gravissimo fatto ne consacrasse la minaccia, erigendoli a legge dello Stato, e coronando solennemente tutta quanta la tenace e pervicace opera politica dell'attuale residente francese, Monsieur Lucien Saint, a questi decreti la Francia teneva tanto che l'Inghilterra stessa non riuscì a farglieli ritirare.

E' bene che Governo e Paese, in Italia, non si facciano illusioni sulla difficoltà dell'impresa che è necessario compiere: necessario e indispensabile; ma ciò non toglie che sia arduo; e bisogna sapere che lo è.

Ha l'Inghilterra in Tunisia da sette a ottomila sudditi, isolani di Malta, in parte agricoltori, operai e marinai, in parte specializzati nel mestiere di cocchiere, che sono i soli a esercitare. E un elemento, per i francesi, prezioso. Come l'isola del miele, Melita, che gli antichi geografi attribuivano all'Africa, è arcata di ponte fra i due continenti, così i maltesi, popolazione bianca e cristiana di vernacolo e di costumi semi - arabi, servono di lega coibente tra l'indigeno e l'europeo. Il loro dialetto, una delle rarissime sopravvivenze glottologiche puniche, da Cartagine in poi si è arricchito e alterato di molto arabo e di molto italiano. E in fondo gli isolani maltesi sono molto affini ai nostri isolani di Sicilia; anche i più rozzi sanno, o almeno comprendono, i rudimenti dell'italiano, che è la lingua ufficiale delle classi colte.

Forse l'Inghilterra non tiene enormemente a questi sudditi, straniati oramai dall'isola angusta, che non potrebbe dar loro ricetto; ma naturalmente tiene al prestigio del suo nome. Malgrado la sua legislazione restrittiva, che commina la perdita della cittadinanza a chi da più generazioni vive fuori dei dominii britannici, protestò vibratamente contro i decreti dell'8 novembre, sino innanzi al Tribunale della Società delle Nazioni all'Aja. Al solito, il Tribunale se ne lavò le mani, come usa per le questioni grosse fra rivali ugualmente potenti, consigliandole a sbrigarsela in particolare, con l'accordo fra loro due.

È dubbio se l'Italia avrebbe avuto convenienza di associarsi alla protesta e all' azione diplomatica inglese. Non lo fece, affermano gli ottimisti, per non pregiudicare la sua posizione speciale di privilegio; mentre gli scettici e i malevoli attribuiscono la sua inazione e la sua astensione ad amore di quieto vivere. Tira a campà. Un guaio che non è ancora avvenuto, anche se imminente, per i passati Governi era un guaio inesistente. Fra tre mesi, con i mutevoli umori delle crisi, venisse il diluvio!

Anche convertiti in legge, come purtroppo or ora avvenne, i decreti dell'8 novembre non sono a noi applicabili sino a quando duri, rinnovato di tre mesi in tre mesi per tacita convenzione, il patto del 1896. Ma che cosa sono tre mesi di respiro, di volta in volta? Eche cosa è la vita di una popolazione numerosa, attiva e ineffabilmente attaccata alla madre patria, sotto l'incubo di una simile minaccia, per sè, per i figli? La nostra colonia, per così dire, trattiene il fiato: non osa più muoversi, nell'attesa della definizione!

Oggi, l'avvento del Governo fascista, le parole che l'onorevole Mussolini in persona mandò a dire attraverso autorevoli fiduciarii, come il Bastianini ed altri, che la questione della colonia di Tunisi, essenziale per l'avvenire e anche per la dignità dell'Italia, gli è viva e presente in fondo al cuore—e non tanto in fondo da non venire a galla, come accadeva con altri governi, i quali seppellivano l'italianità tanto addentro nelle intime fibre, da non trovarne più traccia nelle manifestazioni esteriori - oggi questi sintomi e questi affidamenti hanno ridato ai nostri connazionali coraggio e fiducia. Anche di fronte al recente, gravissimo attentato perpetrato contro loro e contro noi, contro l'Italia, il comunicato ufficiale, pur senza venir meno alle necessarie cautele delle forme diplomatiche, suonava alto e forte.

«Per quanto l'azione del nostro Governo si sia inspirata al desiderio di eliminare dai rapporti italo-francesi ogni causa di malessere, le istruzioni impartite all'Ambasciatore a Parigi Barone Avezzana, sono state dirette a rappresentare con evidenza al Governo della Repubblica il doloroso stupore del Governo Italiano per il fatto che sia stato tradotto in legge il Decreto 8 novembre 1921, prima di aver provveduto alla stipulazione di nuove convenzioni, ed in pari tempo a significare al Governo Francese l'urgenza di regolare il problema pendente il quale tiene in legittima ansiosa preoccupazione la nostra operosa colonia della Tunisia.

«Si può aggiungere che mentre continuano a svolgersi le conversazioni fra i due Governi intorno alla delicatissima questione, opera concorde di pacificazione si sta compiendo a Tunisi sia da parte del nostro Console Generale comm. Beverini, sia da parte delle autorità francesi, affinchè nessun incidente sia per verificarsi fra i nostri connazionali e gli elementi francesi ed indigeni, finchè dura questo stato di preoccupazione e finchè—risoluta la questione —non siano tornate negli animi degli italiani di Tunisi la tranquillità e la serenità cui hanno diritto.»

Misurate e pacate parole, ma parole di un Governo consapevole di sè e dei propri diritti e doveri; e di fronte ad essi non intende scendere a vergognose rinuncie.

Bisogna rinnovare le convenzioni; questo il proposito chiaramente inteso e formulato con lucida, netta energia. Il primissimo, fondamentale ubi consistam di ogni azione per la difesa della italianità in Tunisia, è la sicurezza di un trattato che offra ai nostri cittadini ampie e sicure garanzie, per un ragionevolmente lungo periodo di tempo.

L'ideale, naturalmente, sarebbe l'aggiunta, alle convenzioni scadute, di nuove clausole riguardanti le scuole, con la facoltà di aprire e far funzionare nuove scuole di Stato italiane, in numero adeguato ai bisogni della accresciuta popolazione.

Se invece si dovesse accontentarsi del rinnovo delle Convenzioni, tali e quali furono stipulate nel '96 (e forse sarebbe meno difficile e meno complicato, per entrambe le parti, che non il ridiscutere tutte le clausole di un trattato ex novo) nelle stipulazioni bisognerebbe stabilire almeno espressamente il diritto degli italiani ad aprire nuove scuole private.

Ma, sopratutto, comunque, a qualsiasi costo, la questione vitale è: rinnovare le convenzioni, con una lunga, possibilmente lunghissima, scadenza.

E bisogna agire prontamente, sinchè è recente il trattato di commercio italo-francese, anche perchè non torni ad appuntarsi contro di noi la insidiosa —e per noi vituperevole—contrattazione fra le merci d'Italia e i figli d'Italia.

D'altronde, la situazione dell'Europa e del mondo è così complicata, e arduo il bilancio del dare e dell'avere, e delicato il giuoco del tira e molla reciproco; gli enigmi e i problemi di un assestamento non dirò definitivo, ma stabile e duraturo, si trovano in tale caotico ribollimento, che se è lecito e direi doveroso temere tutto, è anche permesso, in questa acutissima crisi, sperare qualcosa. Un' azione oculata ed energica può avere reazioni e ripercussioni più vivaci e più fortunate che non abbia nei momenti normali.

Per ora, le convenzioni fan da contrappeso alle nuove leggi, in capo all'esile filo di un rinnovo trimestrale, tacitamente concesso: spezzato il filo, la mannaia cala su cinquanta o sessantamila polloni di nostra gente.

Ogni dimora è pericolo.

Dell'animo e della italianità di questa nostra gente, non è inutile qui parlare. Anche perchè si sappia che la perdita non sarebbe solo quantitativa. Anche perchè si sappia, questi sacrificati, chi e di qual qualità sarebbero, e questo nostro mirabile popolo come resista invitto e granitico sull'altra sponda mediterranea alle minacce e alle insidie, alle lusinghe e alle promesse.

Grande il tuo nome, Italia, possente il tuo fascino, se gente, che mai vide il tuo volto, qualunque sacrificio accetta, pur di serbare l'orgoglio di appartenerti; se uomini e donne, nati e radicati qui, a nessun costo vogliono appartenere al popolo, che qui vedono padrone e signore, per non perdere la dolce qualifica di tuoi cittadini!

Bisogna rendersi conto che fuori d'Europa, come pure in Europa, nei paesi storicamente più arretrati (questo avviene nei Balcani, in Rumenia, in Albania, in Russia) «Italia» vuol dire anzitutto «Roma». È un fenomeno ottico per il quale la distanza materiale nello spazio annulla la distanza spirituale nel tempo?

Oppure in queste terre d'Oriente, vaste e immobili, il tempo ha cessato d'esistere, e la sabbia del deserto fluisce nella clessidra così lentamente, che segna la nostra ora di molti secoli fa?

Se è vero quanto affermano i conoscitori di sociologìa geografica, questa è la antica sponda meridionale d'Europa. Non il mare separa le civilità e i continenti; specialmente ai primordii delle società, il mare avvicina; sono le vaste distese di terra inabitata ed incolta, come il deserto, che allontanano e dividono gli uomini. I trasporti terrestri erano altra volta difficili e lunghi, ma per mare Catone portava in Senato i fichi di Cartagine ancor freschi e li lasciava cadere dalle pieghe della toga: tre giorni di navigazione, e non molti meno noi ne impieghiamo. E fu l'argomento che decise la terza guerra punica.

Certo ancor oggi, ma specialmente allora, l' Africa Settentrionale si trovava più lontana dall' Africa equatoriale che non sia lontana da noi europei, da noi italiani che ne possediamo, con la Sicilia, un lembo avulso in epoche geologiche recenti. Certo si è che Roma signoreggia, venerabile e commovente, lungo queste sponde, e fin nell'interno, fino agli orli del gran Sahara.

Anche lungo «la Tenia», il nastro di terra che divide il golfo di Tunisi dal pantanoso lago salato di Tunisi, là dove sorse l'antica Cartagine, Cartagine non esiste più neppure come rovina e ricordo. Esiste soltanto Roma con Bisanzio, la sua tarda figlia, «posciachè Costantin l'aquila volse contro il corso del Ciel».

Ovunque, affiora dal suolo Roma con inaudita ricchezza di monumenti: mosaici, statue, colonne, e le prime basiliche cristiane, prese poi a modello dai saraceni. A Kairouan, sosta delle carovane - e di qui il nome - una delle quattro città sante dell'Islam, con la Mecca, Medina e Gerusalemme; a Kairouan la santa, sorse una fra le più antiche e le più favolosamente belle moschee mussulmane, la Moschea delle cinquecento colonne. Omar, che la fondò, prese a Cartagine romana non solo il piano architettonico, ma anche il materiale della costruzione. Delle cinquecento mirabili colonne non una è saracena, poche bizantine, quasi tutte sono romane! Così, persino la città santa degli arabi, che non esisteva ai tempi di Roma, nel suo monumento maggiore ricorre alla grandezza, serba l'impronta dello stile di Roma.

A Sfax, a Susa, a El-Djem con il diadema dell'orgoglioso Colosseo, fatto sul modello di quello romano, ma forse più maestoso, perchè più intatto, e perchè sorge, nel deserto, dal nulla; a Bulla Regia, che solo adesso sta lentamente risollevando il capo di sotto la coltrice di terra, provvidamente asconditrice durante le età barbare; a Medinet-el-Khedima, «la città vecchia», l'antica Thelepte; a Djlma, l'antica Cilma; a Kasserine, o Cillium, l'antica Colonia Cillitana, città sotto la coltrice ancora addormentate; ovunque, onnipresente, onnipossente, è Roma.

Sulla collina di Cartagine, visibile di lontano dal mare; in cospetto ad uno dei grandi panorami del mondo; nella terra dove ebbe termine il primo duello storico fra la vetusta Africa e la giovine Europa, si innalza oggi la vasta cattedrale ideata, voluta, fondata dal cardinale-vescogo Monsignor Lavigerie, Primate d'Africa, in imitazione dell'architettura araba. Fu suo sforzo di avvicinare il Cristianesimo all'Islam, per cercare di penetrarlo con la duplice propaganda, francese e cristiana, Gesta Deo per Francos, rivendicando alla Francia la sua funzione di «figlia primogenita della Chiesa», zelatrice e scudo della fede in Oriente.

Anche per questo, valorizzò al massimo grado, ed era naturale, la commovente morte di S. Luigi di Francia a Cartagine. Episodio del resto simbolico, perchè, attraverso le Crociate, di cui Luigi IX guidò le due ultime, a Damietta e a Tunisi, si inorientò la Francia con i suoi signori e cavalieri, e assurse al primato; a quell'egemonia, che attraverso i millenni toccò costantemente alla terra-crogiuolo fra l'Oriente e l'Occidente, e si spostò via via che si spostò la funzione: Egitto, Grecia, Roma, Bisanzio, e di nuovo Italia, e la Francia, e l'Inghilterra.

La cappella eretta a Cartagine sul luogo stesso dove Luigi IX morì di peste, nel mirabile modo che il Jonville racconta, è oggetto di pellegrinaggìo e di venerazione, come quella di un apostolo, con la croce più che con la spada; egli voleva evangelizzare il re di Tunisi e il suo regno pacificamente convertendolo, come con il soldano tentò Santo Francesco. Un altro segno di questa volontà di affratellamento e di conciliazione politico-religiosa fu la fondazione dei Missionari d'Africa, i «Padri Bianchi», vestiti in modo identico agli arabi, con il candido burnous, e persino il rosario bianco nero dai grossi grani, come quello arabo. Dediti la più parte a missioni di studio, di coltura e di archeologia non meno che di religione.

Il Lavigerie seguiva in ciò le orme e l'esempio romano. I romani demolirono Cartagine, ma si guardarono dal toccarne nel cuore del popolo le divinità, anzi le adottarono, parte adattando sè a loro, parte adattandole a sè. Ovunque, il suolo restituisce esempi di un culto orfico diffuso e profondo. Grandi mosaici di Orfeo, simbolo della armoniosa euritmia dello spirito, che domina e ammansa la forza bruta della belva, ornavano le ville e i palazzi. Sono tra i magnifici mosaici romani che io mi abbia visti, superiori a quelli di Palermo, non inferiori a quelli di Napoli, dei musei del Vaticano e delle Terme Diocleziane. A Sfax di Tunisia, alcune tombe di notabili romani, tombe di alto pregio, non ancora studiate e rivelate nei loro caratteristici simboli, ancor esse attestano, a mio parere, l'esistenza di culti orfici ermetici per gli iniziati.

Questo per i ricchi, gli intellettuali, le classi colte, che si avvicinavano con nostalgica ammirazione alla sapienza essoterica degli antichi continenti d'Asia e d'Africa. Per il volgo e le forme popolari del culto, vi fu l'assimilazione, assolutamente geniale, delle due principali divinità che avrebbero potuto, se avverse, e simbolo d'inimicizia per i conquistati, fomentar rancori e fastidii. Tanit, l'Astarte punica, il principio della conservazione, l'influsso astrale mite e femmineo del culto fenicio? Ma certo: pure noi romani in ogni tempo la venerammo —questioni di pura forma e di favella diversa—è la nostra Juno Caelestis. E Baal-Ammone, l'elemento solare, il principio maschio guerriero e devastatore, si immedesima e identifica con Saturno, come altrove lo si era trovato invece rispondente con esattezza a Giove. «Non ti vergogni, o Zeus, gli grida Luciano per bocca di Momus, di quelle corna di montone che porti appiccicate in fronte?» Una ragione di discordia diviene così motivo di fratellanza. Pessimo carattere avevano quei cocciuti fanatici di Palestina, popolo di dura cervice, che non lasciarono identificare il Cristo con Zeus o con Apollo! E ancora, malgrado il sangue versato dai martiri per allargare la voragine, non è certo che l'annessione non sia avvenuta, in qualche modo, qualche secolo dopo.

Con lavorio più delicato il bronzo Altri farà spirare, altri dal marmo Vive sembianze caverà: sia pure. Arringherà; disegnerà, val meglio, Del ciel le corse; col quadrante gli astri Narrerà, quando ognun sorga e tramonti. Tu dei, Romano, governare il mondo, Ricordati, e a civil pace le genti Piegar. Di Roma è questa l'arte. Al vinto Perdono, e guerra guerra a chi resiste.

Così Virgilio ammoniva.

Debellare gli spiriti e gli animi, attraverso il



Tipi e scenette della vita tunisina: 1) Una beduina del deserto, la sola fra le mussulmane che non porti il velo in pubblico. - 2) Ebrea indigena di Tunisi. - 3) Signora araba nella sua casa. - 4) e 5) Arabette dell' interno della Tunisia. - 6) Il tessitore al suo alto telaio verticale in una via di Tunisi.



Castello del Bardo presso Tunisi. - Mosaico romano, rappresentante Virgilio fra Clio e Calliope, ritenuto contemporaneo, o di poco posteriore al Poeta, e perciò di grande importanza anche iconografica.

subcosciente religioso, che determina le azioni degli uomini, era l'arte di Roma, esperta conoscitrice della psicologia delle folle, sapiente conciliatrice della pace civile, della romana pace. Ma guerra guerra per debellare i superbi che le resistevan, come la caparbia odiatissima rivale. I romani ci misero il tempo, ma la «delenda» fu «deleta»: a fondo e per sempre, come usavan fare ogni loro cosa. Di tutta la enorme città, non sussiste più traccia; inseguita con furore persino nel sottosuolo, esso ne rende testimonianze scarse e di scarsa importanza: qualche vaso, qualche lampadina fittile, tanto più rozze di quelle romane, meno adorne, primitive al confronto.

Il Reverendo Delattre, dei Padri Bianchi d'Africa, direttore degli scavi, attribuisce l'unica notevole scoperta del genere nientemeno che alla miracolosa intercessione del defunto cardinal Lavigerie. Nel giorno onomastico del santo porporato, gli riuscì di rinvenire le quattro tombe puniche, vanto e decoro del museo; fra esse, è un sarcofago con il bassorilievo di una sacerdotessa di Tanit, bellissimo. Un succinto tessuto di velo—il marmo leggermente colorito ne conserva la duttilità pieghevole—veste la donna, ieraticamente, di ali incrociate a guisa di sparviero, con uno stile fra l'egizio, il babilonese e il greco arcaico. Questa confluenza di maniere e di influenze è caratteristica dell'arte punica. I fenici, e in ispecie i cartaginesi, navigatori avventurosi e abilissimi mercanti, uomini d'affari e di denaro, non erano maturi alle disinteressate meditazioni dell'arte. Facevan l'arte come facevan la guerra, attraverso i quattrini: acquistando opere e mercenarii, con la brutale convinzione dei ricchi, che il denaro basti a procurar tutto, bellezza come prodezza e sicurtà.

Di questa convinzione morirono…

Un popolo guerriero e povero fondò la «Colonia Julia Carthago» dove era stata Cartagine. Un altro ne fece la capitale vandala. Vennero i Mori. Al dominio Saraceno segue ora il dominio di un altro popolo occidentale, disceso da Roma; e il suono di quei popoli antichi ora è scomparso. Ma a Tunisi dai rubinetti scorre in ogni umile o ricca casa l'acqua dei monti Zaghouan, lontani più di sessanta chilometri, e viene dal «Nymphaeum» romano, attraverso l'acquedotto che fu di Roma, alle cisterne cartaginesi di Bordj-el-Djerid. Gli arabi ne favoleggiavano come delle cavernose dimore del diavolo, per tutta l'età di mezzo, e sino a cinquant'anni fa. Ma ai francesi bastò, nell'84, pulirle e riattarle, per avere i serbatoi d'acqua pura da condurre alla capitale: diciassette vasche di trenta metri di lunghezza e quattordici di larghezza ciascuna, con sette metri di profondità, costruite come costruiva Roma: per l'eternità.

E se, intorno a Tunisi, fioriscono meravigliosi gli argumeti e dan frutto gli orti, i giardinieri sanno che la ricchezza viene da un altro sotterraneo canale d'acque, derivato dai Monti Rossi lontani: opera di Roma, che ancora dura.

Mi piace esprimere una mia supposizione arbitraria, che spiega l'anomalia dell'unico monumento punico intatto, a fior di suolo, rispettato dai romani sulla terra d'Africa conquistata, nei pressi di Cartagine.

E il monumento funebre di un re numida, il cui nome fu grande, come ora è ignorato, quattro o cinquecento anni innanzi l'età di Cristo. Anche qui, sovrapposizione di stili eterocliti—ionico, egizio assiro —come dappertutto nell'arte fenicia, fusi tra loro non senza efficacia, con un certo vigoroso accento barbarico e raffinato insieme. Di questo re guerriero e vittorioso, ormai più nulla sappiamo. Ma ai quattro angoli del terzo piano del monumento, prima di alleggerirsi nell'ultimo cono piramidale, sopra le colonnine ioniche dai capitelli egizii a fior di loto stilizzato; ai quattro angoli del monumento, quattro grandi vittorie alate tramandano, oltre il tempo, il ricordo di obliate gesta.

Piace pensare che i romani, religiosi come tutti i popoli forti, superstiziosi come tutti i guerrieri, abbiano rispettato il mausoleo regale, già sin da allora antico, per non divellere dal suolo conquistato, per non offendere profanandolo, il simbolo sacro della Vittoria.

Questo mausoleo si innalza a Dugga, città romana nel cuore di una vallata berbera solitaria, a più di cento chilometri da Tunisi. L'ultimo centro abitato è Tebursuk, borgata araba fra le mura di una fortezza bizantina. Il mercato a Tebursuk, sul fianco diruto della collina, tra l'erba arsiccia, è una scena della Bibbia rivissuta oggi. Ai piedi dell'altura, presso l'eccellente piccolo albergo francese, si allineano, sì, cinque o sei automobili: ma quassù scompaiono persino i carretti indigeni, rimangono soltanto le cavalcature originarie, cavalli e muli, con quel vetusto compromesso di cavallo, deformato dalle necessità del deserto, che è il cammello.

Ovunque, montoni sgozzati e scuoiati pendono dai pali piantati a terra. È il Ramadan, non si mangia, nè beve, nè fuma, per trenta giorni consecutivi, con il calore torrido e il duro lavoro, dalle quattro di notte alle otto di sera, quando il cannone annuncia la prima stella tremula nel crepuscolo. I contadini che falciano ed arano (l'ordine delle operazioni agricole è diverso che non da noi, specie per le semine) e i lavoratori delle miniere di fosfati, gli scaricatori di carbone nei porti, con le fauci aride di polvere nera; nessuno tra di loro infrange il divieto. Ma con la prima stella, accesa la prima sigaretta che si era rotolata nei minuti dell'attesa, scoppia la festa araba: si mangia, si beve il caffè nelle botteghe e nelle piazze, si scende dalle case appiè dei minareti illuminati, si sale nelle moschee spalancate. Le danzatrici arabe si agitano, il prestigiatore opera incanti, il domatore di serpenti zufola sul flauto le sue nenie stregate, le giostre girano, le marionette, nei teatrini affumicati, hanno pantomine così eloquenti che offendono, anche a non comprenderne i lazzi, la vista se non l'udito di noi europei; tutto è movimento, luce, suono, fremere e scintillar di vita. Poi gli uomini tornano dalle lor donne a casa, per il secondo pasto, alle due di notte. Verso le tre o le quattro, con l'impallidire delle stelle, un altro colpo di cannone annuncia che il digiuno riprende i suoi rigori.

Nell'attesa dei due banchetti che lo compenseranno dell'astinenza, molte sono dunque le compere degli uomini mussulmani al mercato, le mattine del Ramadan. Una donna che si rispetta non esce se non in casi eccezionali; tutt'al più vanno a far la spesa le domestiche vecchie. E alle vettovaglie uniscono i doni per la casa e la moglie: il tradizionale taglio di tre metri di seta sgargiante, di cui le arabe, per grazia insita di drappeggi, sanno farsi un vestito ermetico e magnifico, senza toccarlo con l'ago, tutt'al più aiutandosi con qualche grossa fibula d'argento o d'oro, simile per la forma alle fibule preistoriche dell'età del bronzo. Comperano i tappeti che sono gli unici mobili essenziali dell'arabo: per la preghiera e per il sonno, per lavorarvi e per cavalcarvi sopra, sella, letto, sedia, canapè, inginocchiatoio, borsa da viaggio, arazzo, lusso, fasto, buon gusto, il tappeto è tutto e serve a tutto, attraverso innumeri gradazioni di bellezza e di preziosità, dall'alto al basso della scala sociale. E comperano i portakohl d'argento inciso, per cerchiare di una languida voluttuosa morbidezza nera i loro occhi e quelli delle loro donne; comperan per le donne portaspecchietti e babbucce di cuoio ricamato a colore, e gli alti zoccoli di legno verniciati in rosso, scalfiti a disegno, simili alle antiche mulette delle cortigiane di Venezia, quali le raffigura il Carpaccio. E per sè comperan le gandure di seta dagli opulenti rossi, verdi, gialli vegetali, così diversi dalle nostre miserabili tinture ad anilina, false e stonate; così densi colori, così profondi e delicati; risale la loro paternità diretta allo splendore del sole che li nutrì di sè: e questo si sente. E comperano i burnous candidi, di lana filata e tessuta a mano; e i camiciotti blù per i poveri, rude tela, o cotone plebeo, eppur belli ancor essi di colore; e le sciarpe da rotolare a turbante, e le zucchette rosse, centro obbligato di ogni turbante, e che per tutti i turbanti dei fedeli d'Oriente vengono dai souks di Tunisi, fabbricate da una dinastia privilegiata di operai: i loro antenati furono espulsi di Spagna, e le zucchette serbano ancora l'antico nome castigliano di chechias.

Ecco ancora, per gli agricoltori, gli sterminati cappelli di paglia di palma guarniti di cuoio fulvo a losanghe; e il vasellame di argilla di Nabeul, così puro di forma saracena, di così moresco gusto nelle policromie geometriche.

Qui, a Tebursuk, non vi sono i souks ricchi di Kairouan, la patria dei tappeti, o di Tunisi, con i



Sulla via del Bardo, presso Tunisi: l'acquedotto che adduceva alla capitale le acque sorgive del Zaghuan.



Le antiche tombe puniche, scavate nella roccia, a Cartagine.

chilometri di porticati a colonnine striate di rosso e di verde a spirale, i colori del Profeta, e i giuochi di luce dall'alto, e i profumi che inebbrian: poche botteguccie scure, dove si vende un poco di tutto, come nei fondachi di «sale e tabacchi» dei nostri villaggi. Ma il mercato settimanale è importante per il traffico dei grani, e vi giungon d'ogni parte merci e vettovaglie, come vi giungono arabi d'ogni parte, e beduini nomadi, con le loro superbe donne non velate, alte, aduste, tipi di cariatidi classiche, fatte per reggere sul capo l'architrave di un tempio come reggono il loro fardello pesante; e tintinnan d'argento enorme e pesante alle orecchie, alle braccia, alle caviglie brune dei piedi nudi: tutto il frutto del buon raccolto dell'annata (non possiedono, in proprio, lavoran, randagi, la terra altrui) portano su di sè in braccialetti, anelli, pendagli. Se l'annata è magra e non c'è lavoro, l'inverno si vende ogni cosa e si ricompra all'estate. Ed ebree con gli amplissimi calzoni di cotone bianco il cui ricamo chiude le caviglie e batte gli zoccoli; e qualche rara saracena, la persona e il capo ravvolti ermeticamente nel tendaggio di cotone bianco, il volto ermeticamente bendato con il crespo di cotone nero, scoperti soltanto i morbidi occhi allungati dal kohl. Se per caso sono giovani, il velo è molto teso, e la donna si ferma —certo per puro caso—nei posti dove il sole batte controluce: l'ombra le modella, in trasparenza, i lineamenti e il corpo.

A quel pozzo, presso il centro del pendìo, all'ombra d'un albero, là dove fellah e beduini, presso i cammelli inginocchiati, riempiono le borse di pelle di montone e le grandi anfore di terra porosa; certo a quel pozzo il fido servo trovò la sposa per il suo giovin signore, quando Rebecca abbeverò lui assetato, venuto sopra i cammelli di lontano.

Ma passato Tebursuk, anche la Bibbia diviene anacronistica e moderna. Pascoli radi soltanto, solitarii per il declivio a perdita d'occhio, per molte miglia. Questa è la terra scarsamente abitata dei primi uomini pastori.

E improvvise, a uno svolto della valle, lungo la strada, auguste, vigili, intatte, quattro colonne marmoree: scolte sacre di Roma. Un'altra svolta improvvisa; e a piè della collina è il teatro romano; sopra la collina è il Campidoglio. E sul Campidoglio, nel timpano triangolare del frontone, innanzi al Foro con il rostro degli oratori, sovra il propileo delle colonne corinzie, l'aquila di Roma si accampa ancora. Con l'ala diminuita di penne, ma non franta, ancor valida, essa vola—e regna immota nel silenzio dell'altipiano.

Nitida, ancor oggi, è la linea dello spigolo nelle venticinque gradinate di sedili marmorei, in cospetto alla scena del teatro. E nitida, tagliente, non consunta dagli anni, come incisa ieri, la scalpellatura, nel filetto e nel grosso, di ogni lettera nelle iscrizioni lapidarie, che veramente furono «i caratteri» di Roma: chiari, saldi, perspicui. Quando le lettere si allungano, dal quadrato aspirando all'oblungo, e si accapigliano in equilibrio di solo capriccio, è la invadenza orientale di Bisanzio che si accenna, è il declino, non è più Roma.

Del flamen perpetuus, sacerdote a vita, Marcius Quadratus, che per gratitudine della nomina donò a sue spese così il teatro come il Campidoglio, il nome appare ancora inciso, con quell'adorabile chiarezza delle lettere romane, sull'architrave di fondo del palcoscenico, pressochè intatto. È un colonnato a tre nicchie, la decorazione stabile unitaria del treatro classico, reggia di Micene e piazza di Tebe per la tragedia, o via di Roma per la commedia, che sfonda sulle colline e il trasparente, immenso orizzonte d'Africa. Sopra l'orchestra infossata—il «golfo mistico» non è una novità wagneriana—e accanto alla buca del suggeritore, si scorgono 1 fori preparati per l'impianto delle decorazioni mobili, che di volta in volta si adattavano allo scenario fisso trasformandolo.

Più oltre si erge la suntuosa villa di qualche magistrato o proconsole, con il patio a colonne, e la fontanella lastricata di pesciolini rossi a mosaico. O nostalgia della terra di Sicilia, e la fontana moresca nel patio-chiostro di Monreale! Più oltre ancora, vicino alle terme, è il luogo delle pubbliche ritirate, marmoree, perfette, irrorate da scanalature di rigagnoli che portano ogni bruttura a piombo nella cloaca sottostante.

E poco più su, i templi di Tanit, divenuta Giunone Celeste, di Baal Hammon, convertito in Saturno. Pur conservando all'esterno la facciata tradizionale del tempio romano, la pianta architettonica interna rende omaggio all' eclettismo politicoreligioso dell'Impero. Saturno-Baal, dietro il porticato latino-corinzio, nasconde il sacrario del tabernacolo semitico, e nell'atrio reca ben visibili ancora le impronte dei piedi, segnate e incise per l'orientazione e l'adorazione verso il Sol levante: lo stesso ufficio a cui oggi adempiono nelle moschee i mihreb di marmo o di legno intagliato, orientati verso la Mecca e il Levante. Attraverso la fedeltà del sangue e della terra, mutano i nomi: gli istinti delle tradizioni si tramandano uguali, frutti organici che non possono non ripullulare uguali dall'uguale linfa. Così dietro l'altare classico, greco-romano, di Giuno-Tanit, il tempio si arrotonda nel semicerchio dell'arco lunare, caro allora all'Oriente punico come all'Islam d'oggi. E Sole e Luna, placati, si ricongiungono all'accomodante Olimpo di Roma.

VICTORIIS
IMPERATORUM
NOSTRORUM
COLONIA THUGGAE DEVOTA

La «Colonia Licinia Septimia Aurelia Alexandriana Thugga» così si accomiata da noi, con questa scritta sopra il marmoreo arco trionfale di Settimio Severo.

Il pio fervore della Colonia italiana di Tunisi ha raccolto in cuore questo grido di pacato orgoglio, oggi che Thugga è tornata ad essere, come nell'antico berbero preromano diceva il nome, un luogo di pascoli.

E sulla «Casa degli italiani» che sorgerà in Tunisi per concordia di volontà e di opere si leggerà ancora:

ALLE VITTORIE DELLA PATRIA
GLI ITALIANI DI TUNISI
DEVOTI

Il tronco ferroviario per Sbeitla si diparte a uno dei capi della Tunisia, inghiottito da gallerie profonde, fischia e si divincola fra le gole del torrente, popolate di sciacalli gialligni, piccoli, lugubri, che dal fondo valle seguono il treno con lungo trotto sinistro. Di qua e di là, i monti della Seldja torreggiano fulvi ed erti, bastioni ciclopici tondeggianti, per miglia e miglia, quale nessun' altra montagna fu mai. No, neppure le dolomie del Sella, i massicci danteschi che lassù nell'Alto Adige s'invermigliano, al tramonto, dei fuochi della Città di Dite. È quello un inferno d'Occidente, ragionevole e umano; nulla di comparabile e questo desertico senso dello smisurato e dell'arido. La catena del Seldja è un lineamento caratteristico dell'Africa, caratteristico quanto il Sahara.

Di qui, dove già furono Oceani e poi si corrugarono, dai Carpazii per le Alpi all'Atlante, i grandi cerchi dei monti, la polvere degli sterminati banchi di pesci preistorici, più preziosa dello sterile oro—il fosfato, si spande a fecondare con i residui marini la terra. E, come da per tutto dove svela qualche tesoro delle sue viscere, pullula dalla terra la fungaia improvvisa delle abitazioni. Oltre i sublimi torrioni spaccati dei monti, la ferrovia inoltra per pianori deserti, e nella sera si ferma a un tratto, senza stazione o tettoia, in piena campagna. Un brusìo giulivo e affaccendato di folla, da una parte delle rotaie, e profili, e lumi poco lontani di baraccamenti e di case: piatte e nitide linee rettangolari. È la popolazione di una di queste «città dei fosfati», maestranze di sterratori italiani con ingegneri e capitecnici francesi, eche viene a veder passare l'unico treno, l'unica distrazione della giornata, l'unica voce affannata e veloce dell'Occidente. Se l'industria continua prospera, e i filoni della miniera non si esauriscon qui per riapparire altrove, fra pochi anni questo sarà un centro importante; di dieci, di ventimila abitanti.

Ma dall'altra parte della via ferrata, silenzio e primo quarto di luna sulla praterìa romita. Accosto alle rotaie, chiaror bruno e fioco sotto una bruna tenda primitiva: la famiglia nomade accende il suo focherello, il cammello legato all'aperto bruca le foglie spinose del ficodindia, un cavallo con il cavaliero di bianco ammantato springa e dilegua in tacite lontananze.

E la fine del mondo.

Pure, anche qui, poche ore distante, toccò proprio ai prigionieri germaniei, durante la guerra, di risollevar dal suolo il segno della latinità trionfante.

Oltre il quadrato Arco trionfale, la Via Sacra di Sbeitla, ancor lastricata a gran pietre, fiancheggiata da un popolo di stipiti senza architrave, soglie spalancate sul vuoto; la Via Sacra mena ai tempi del Campidoglio, puri e armoniosi come l'Acropoli di Atene. Minerva specialmente ha pensato a proteggere la sua Casa dello Spirito contro la forza bruta degli uomini e delle cose. Non fu questo, dagli albori del mito umanissimo, il suo còmpito di dominatrice? Frontone e timpano alti sulle colonne; cella interna con gran parte della volta girante sopra i peducci, ancora sorgono, belli. Dietro la vuota nicchia del nume, ancora è la bocca dissimulata per gli oracoli; ancora è praticabile la porticina e l'adito segreto dei sacerdoti nel penetrale, fra muro e nicchia, per ritirare offerte e pronunciar vaticinii. Più in là, a sinistra, sorge il palazzo delle Terme, con calidarium, piscina, e i banchi intarsiati d'oro della stufa a vapore: quel che noi, forse attraverso Bisanzio, denominiamo oggi bagno turco, o bagno russo; e fu bagno romano. Sul fiume, l'unico ponte che ancora esista e resista, utile al varco, è un ponte romano. Lo deturpa, appiè del pilone, un contrafforte posteriore arabo, di vile pietriccio a forma convessa, moresca. Ma la muratura romana, rettilinea e squadrata: la lastricatura romana, levigata e compatta, si conoscono ancora, là dove passava, sopra il ponte, l'antico acquedotto che gli arabi abbandonarono.

Perchè si perdette Sufetula, l'odierna Sbeitla? Acque pure e abbondanti, nella terra d'Africa sitibonda, significano il permanere di colture, di traffici, di abitazioni.

Narrano gli arabi di una maledizione sopra quelle acque, dal tempo dei Rumi, i Romani, in poi. Scomparsi i Rumi che le raccolsero, guai a chi tentasse di renderle prigioniere ancora! Guai, tre volte guai, a chi tentasse poi di addurle in cattività, lontane dal suolo donde Allah le fè scaturire! Ma la città di Sfax, assetata in riva al mare e al suo porto ricco di traffici, pensò alle linfe di Sbeitla perdute vanamente nella sabbia. Gran rumore e ammutinamento di tutta la popolazione araba. La faccia del sole si sarebbe oscurata, cataclismi e sciagure su tutta la terra, se la maledizione vetusta venisse sfidata. Occorsero soldati, cariche di cavalleria e fucili per domare la sedizione; e soldati e fucili a custodire i lavori, durante tre o quattro anni; sinchè furono condotti a termine.

La mattina del 28 luglio 1914, con una cerimonia solenne, a Sfax veniva ufficialmente inaugurato lo scaturire del primo zampillo dell'acqua stregata di Sbeitla. La mattina del 28 luglio: zampillare di sangue sul mondo…..

Dovunque andasse, prima cura di Roma, la costruzione di un acquedotto. Poi le terme; in terzo luogo, veniva il teatro.

Erano i tre segni del suo andare, per le vie miliari diritte, dove il miglio era il suo passo, misurato sui mille passi ritmati delle legioni. Il palazzo è assiro; la tomba, egizia; il tempio, greco; segni di una forza che sempre più si spiritualizza, e a cui la comunità sempre più partecipa. Ma l'arco, unità ed equilibrio di spinte opposte, è invenzione italica, e Roma lo utilizza per cementare e consacrare l'equilibrio delle spinte sociali antagonistiche nell'unità dello Stato. Anfiteatro, terme, acquedotto, le concrete civiltà della vita pubblica son romane.

A Tozeur, l'oasi nel cuore del deserto, si arriva oggi, dopo ore e ore di ferrovia, un giorno e una notte lontano dai porti. Non case, nell'oasi. E' una cesta di verdura a tre piani, chiome di palmizii, su in alto a metà del fusto liscio diritto gli alberi fruttiferi, al loro piede erbe e ortaggi. Non si può inaridire di costruzioni neppure una particella di tanto preziosa fecondità. Dalle case, gli arabi escono a mattino, e l'oasi è piena di canti che si spandono da bronzei giovani biancovestiti in vetta ai ciuffi: i giardinieri salgono a fecondare i grappoli della palma dattifera con il pòlline del palmizio maschio, e salendo cantano, come le allodole che impazzano di volo e strepito nella gran luce del deserto; più alto, via via che salgono, sempre più in alto, intonano una cantilena propiziatoria. E' l'invocazione maliosa al santo marabutto che li proteggerà contro il morso delle serpi, là sul gran fusto. Alla melopea sacra, cadrà, fulminata, inoffensiva, la gente strisciante.

Si spingono i cavalli e i bianchi muletti attraverso l'oasi, ora accanto, ora dentro i canali di fresca acqua sorgiva, dove le cavalcature diguazzan gioiosamente. In una conca argillosa, si bagnano i bimbi, pelli pulite come il metallo, e sulle membra lustran riflessi di sole; al guado del sentiero, un vecchio venerabile per candida barba e ieratici lineamenti carica a dorso dell'asinello le ghirbe d'acqua; inginocchiati sui sassi un gruppo di uomini, maschili Nausicae, deterge e risciacqua gravemente in silenzio i bei pepli. E ovunque, dalle sponde, le corde villose delle radici di palma si snodano e tendono avide verso l'acqua.

Strano albero la palma! Patisce d' itterizia, soffre di mal d'amore, con l'alto fusto inclinato sulle fronde di qualche compagna femminile—si rode il cuore—diviene mabul (pazzo) e non sa più orientarsi verso la luce. La nomenclatura, le diagnosi, le cure escogitate per le sue diverse malattie dalla millenne esperienza dei giardinieri, gli attribuiscono una fisiologia e una psicologia tutta umana, sino a incidergli il tronco perchè il cuore malato o illanguidito d'amore si liberi dalla gravezza dei troppi umori vitali.

Leggi e costumanze antiche e curiosamente salomoniche regolano di padre in figlio il regime dell'acqua datrice di vita, e conciliano il beneficio della collettività con il diritto di proprietà del singolo. Sono provvidenze delicate e gelose come i «diritti d'acqua» nelle nostre marcite di Lombardia: la linfa sotterranea forma con il suo resistente tepore la invidiata ricchezza del suolo tra noi come la alimenta qui con la sua freschezza. «Cinque minuti d'acqua» sono la misura d'acquisto unitaria per tradizione. Con mille franchi, si comperano «cinque minuti» alla settimana di passaggio d'acqua attraverso il proprio giardino, in perpetuità. Viene dalla chiusa vicina, e all' altra chiusa vicina la si trasmette, trascorso il termine contrattuale. Dove scorre, è benedizione; chi più ne ha, più è felice; ogni cosa viva nel deserto, di lei solo vive. E' il principio stesso della fecondità, nello squallore e nel terrore cosmico del Sahara.

Ma dove cessa, con l'ultima stilla gemente sotto la terra, l'ultima palma lanciata al cielo, al cominciar del deserto, ivi si affolta il villaggio arabo, miserabili mura di pietruzzame sgretolato, motte di fango impastato con la paglia e asciugato al sole. Solo i ricchi han le case di cotto, pittoresche, con i mattoni di taglio e di costola, disposti a disegno, secondo i fregi geometrici cari ai saraceni; e ogni tanto si innalzano i mamelloni gonfi, intonacati di crudo bianco, delle moschee. Poi, l'infima popolazione dei fellah, ricoverata sotto una coperta distesa fra due pali. L'arabo non ha il senso della durata. Il domani non esiste, il tempo è nelle mani di Allah.

Nel cuore di questa pittoresca imprevidenza, improvvisamente appaiono macigni saldi squadrati, e ben connessi blocchi di pietra rettangolare. Da quali lontananze piovuti?

Ostica all'arabo quanto il concetto della durata, è la pratica della linea retta. Ha curva la spada, numeri e scrittura fatti a virgole agglutinate. Dove il simbolo del vecchio Testamento è il duplice triangolo chiuso di Salomone con i suoi vertici acuti, e quello del Cristianesimo le due implacabili rette intersecate, il mondo mussulmano, come prima di lui il fenicio, ha per segnacolo la luna crescente, la più inadempiuta delle forme.

Tutto occidentale e latino è il linguaggio di quei lastroni e massi di pietra quadri. Roma, duemila anni fa, costruì la diga che ancor oggi incanala e regola le acque dell'oasi e ne fertilizza le sabbie.

Fu qui che mi dissi «Ben Roma»—figlia di Roma—all'arabo che ci guidava. Qui, con commozione d'intimo orgoglio, come lo dissi all'arabo accovacciato a terra fra le pieghe del suo burnous, in faccia all'Acropoli di Sbeitla, nell'ombra delle colonne del Campidoglio—meno vivo, l'uomo, di quelle colonne.

«Di quanti anni fa queste cose?» mi chiese egli, con un gesto circolare sul Foro. «Di seicento anni prima che in tuo Profeta nascesse» risposi all'interprete. «Le fece Roma. Io sono di quella schiatta. Ben Roma».

In una scuola elementare di Tunisi, di classe in classe le bambine del popolo, piccole italiane che non avevano mai visto l'Italia, e non sapevano la più parte di qual regione fossero in origine i genitori (e molti erano nativi essi stessi di Tunisi) rispondevano ad una voce che ciò che desideravano di vedere in Italia era «Roma». E dicevano la parola con tremore di orgoglio.

«Ben Roma»—senso di continuità della stirpe sulla terra straniera,—«Ben Roma» orgoglio a cui non si abdica a nessun costo.



Alcune cisterne rovinate dell'antico acquedotto romano, a Cartagine. Gli arabi ne han fatto la loro casa.



Museo del Padre Delatre, sulla Collina di San Luigi, a Cartagine: statua romana della Vittoria.

«A nessun costo» non è una espressione verbale di vana retorica.

Il costo è grave. Per la borghesia, significa limitata possibilità d'azione in tutti i campi, esclusione da certe funzioni, diminuzione di guadagni, di influenza e di considerazione sociale; significa essere tagliati fuori dalla vita politica e da molte imprese, a meno che l'italiano, dando idea di lavoro e capitale, non lasci figurare e capeggiare il francese come presidente, direttore e gerente di ogni nuova iniziativa anche commerciale.

Per la borghesia e le classi agiate, significa ancora sapere e dover dare, sempre, con prontezza e con generosità, opera e danaro.

Dare alle opere italiane perchè ne hanno bisogno, dare alle opere francesi per mostrare che si dà; dare con una larghezza, assai superiore alla consueta nel computo del superfluo. Anche recentemente, la sottoscrizione per la Casa degli italiani raccolse in pochi giorni un milione di franchi, e i promotori calcolan di raggiungere i tre milioni.

La Tunisie française constatava questo entusiasmo, non senza una certa acredine, esasperata in questi tempi dalla questione dei sopraprofitti di guerra, da cui gli italiani tunisini sono esenti; esenzione recente e a cui i francesi del Protettorato si ribellano con il grido: o tutti, o nessuno! E un vero movimento d'entusiasmo, questo della Casa degli italiani, constata la Tunisie française; la colonia ha «marché comme un scul homme», in vista dello scopo essenziale, «entretenir le culte de l'italianitè parmi ceux de ses nationaux qui sont ici, et conserver intactes traditions, moeurs et coutumes, dans un pays étranger.

«Nous le savions déjà, le mouvement actuel nous le confirme…

«Cette colonie maintenant est importante, numériquement d'abord et au point de vue de l'instruction ensuite.

«Elle a ses écoles, ses quartiers; elle s'est rèpandue dans les campagnes et règne dans les villes.

Cette colonie donne, en outre, l'exemple d'un esprit solidaire, d'une entente parfaite entre ses membres, dont nous ferions bien, nous Français, de nous inspirer».

Ma più grave sacrificio fa, per rimaner fedele, l'italiano della piccolissima borghesia e delle classi popolari.

Artigiano, agricoltore, operaio, dai trams alle ferrovie, dalle miniere alle aziende pubbliche, dalle fattorie alle fabbriche private, è un solo ritornello e una sola lusinga: fatti francese se vuoi migliorare la tua posizione, avanzar di grado, lavorar di meno guadagnando e comandando di più. E la parola d'ordine che i francesi seguono con la disciplina e il chiaro, razionale senso logico che li distingue, e insieme con il magnifico patriottismo che non conosce distinzioni e categorie, e li accomuna tutti, massoni, preti, socialisti ed anarchici, quando si tratta di la France. Uno dei già citati articoli proclamava questa parola d'ordine, non senza certa ingenuità: l'afflux des travailleurs étrangers, des Italiens si l'on veut, aux grandes qualités desquels nous avons toujours rendu justice, nous sera fort utile pour concourir à l'exécution de notre outillage économique, pour nous fournir la main-d'oeuvre industrielle, voire commerciale, et même pour constituer des groupements de colonisation qu'encadreront nos nationaux.

Benvenuta la bassa truppa della mano d'opera italiana, indispensabile a un paese di decrescente natalità, purchè inquadrata per intero da ufficiali e sottufficiali francesi «pour qu' au bout d'un temps relativement court l'influence française se fasse sentir et grandisse».

Assimilare, insomma; ognuno dei nostri operai o artigiani migliori, a un certo punto, si vede chiamar dal padrone o dal capo: siamo contenti di voi, da tramviere vi promoviamo controllore, da fuochista macchinista, da contadino fattore: naturalizzatevi francese. E l'operaio, l'artigiano, il contadino carico di famiglia rifiuta. Il rinnegato, che accettasse, susciterebbe contro di sè l'odio e il disprezzo dei connazionali.

Casi simili si ripetono a centinaia, di continuo, Nè il sindacato di mestiere è, come in teoria dovrebbe, estraneo a queste infiltrazioni e competizioni. Anche nei Sindacati, i posti dirigenti sono tenuti esclusivamente da francesi. La sperequazione delle paghe a parità di lavoro, a profitto dei francesi contro gli italiani e gli indigeni, é accettata, anche dai capi socialisti, come articolo di fede. Negli scioperi, la solidarietà francese con l'elemento straniero è solo parziale e limitata.

Ma, quel che a noi può sembrar forse più strano e doloroso, all'opera di proselitismo, in certi casi e in certi momenti zelante come una persecuzione, si associa un elemento che dovrebbe essere di pace e di conciliazione tra fratelli di fede in terra infedele; voglio dire, il clero.

Da un anno all'altro, l'attuale vescovo Monsignor Lemaître si è visto portare la prebenda governativa da cinquantamila a cinquecentomila franchi. L'elemento italiano fra i preti (ne avevamo e ne abbiamo tuttora, grazie a Dio, degli ottimi) è stato diradato via via dalla Tunisia e sostituito con elementi francesi.

Sinora il Catechismo veniva insegnato ai bambini italiani, nelle chiese, da frati italiani; ordini severi furono impartiti da Monsignor Lemaître perchè l'insegnamento si faccia d'ora in avanti in lingua francese, esclusivamente.

Sinora, i giorni della Cresima e Prima Comunione, nel Protettorato erano due, l'uno per i cattolici francesi ed arabi, l'altro, designato dagli italiani e maltesi, con i loro sacerdoti e con la parte non latina della ufficiatura, in italiano. Con quest'anno (1923) si stabilì una giornata unica e un'unica cerimonia francese. Non solo; ma un curato di una parrocchia quasi tutta italiana (credo la cosidetta Piccola Sicilia) vecchio, e uso ai vecchi metodi conciliativi, aveva diffuso fra i cresimandi un foglietto a stampa di preghiere francesi, con sotto la traduzione italiana. Fu chiamato al vescovado, vivamente redarguito, gli fu imposta la immediata distruzione dei foglietti bilingui.

L'opera tutrice del nostro Governo dovrebbe preoccuparsi di tali deplorevoli inframmettenze e prepotenze. Bisognerebbe richiamare su di esse la vigile attenzione del Vaticano, il quale non può e non deve permettere che i suoi sacerdoti violino troppo apertamente la neutralità, o per lo meno il riserbo, imposto dalla santità delle loro funzioni.

In quanto all'opera delle autorità centrali, del pubblico e della pubblica opinione della metropoli, basti dare un'occhiata all'importante rivista L'Afrique française che si pubblica mensilmente a Parigi, bollettino del Comité de l'Afrique française et du Comité du Maroc.

Presidenti del Comitato, il defunto Presidente della Repubblica, Deschanel, e il signor Jonnart, senatore e governatore generale onorario dell'Algeria; membri del Comitato, i maggiori uomini parlamentari, politici, scrittori e giornalisti di Francia. Le adesioni si contano a migliaia, allo scopo di organiser et appuyer des missions d'exploration et d'études dans les régions africaines, soumises ou à soumettre à notre influence:

De développer l'influence française dans les pays indépendants d'Afrique;

D'encourager les travaux politiques, économiques et scientifiques relatifs à l'Afrique;

De poursuivre des ètudes et recherches destinées à préparer ou à appuyer les établissements privés de nos nationaux dans ces régions:

De tenir les adhérents régulièrement au courant des faits concernant l'Afrique, spécialement au point de vue de l'action des nations européennes colonisatrices.

Dans la limite de son programme, le Comité disposera librement et sous sa responsabilité des sommes qui lui seront confiées.

Insomma «i denari furono spesi come occorreva spenderli», secondo la perifrasi di Pericle: con la larghezza senza controlli indispensabile nel paese del backschich, dove la corruzione è regola. La storia del Comitato «fu la storia stessa del predominio francese nell'Africa,» afferma la rivista con legittimo orgoglio. Le sue missioni «servono la causa dell'influenza francese senza impegnare le risorse e la responsabilità dello Stato» e, grazie al fattivo entusiasmo del pubblico francese, il Comitato potè organizzare un'opera di esplorazione e di propaganda «qui permirent à la France de revendiquer, puis d'obtenir une large et précieuse part dans l'attribution diplomatique du continent africain»

Tra le pubblicazioni del Comitato, segnaliamo quella recente di un funzionario ufficiale francese, il signor Monchicourt, controllore civile (prefetto) a Beja, intitolata La Tunisie aprés la guerre. Il libro



L'anfiteatro romano di El-Djem, sulla strada fra Susa e Sfax (Tunisia meridionale).



Particolare dell'arco di accesso al Foro e del tempio di Minerva a Sbeitla (Tunisia meridionale).

del signor Monchicourt, che fra parentesi ha moglie italiana e un fratello stabilito a Busto Arsizio, proprietario di ricche fabbriche in terra nostra, è tutto un grido di allarme contro l'elemento italiano in Tunisia, sintetizzato nello stesso pseudonimo da lui scelto, Rodd Balek, cioè, in arabo, Sta in guardia.

Bisogna difendersi da tale propaganda, attraverso due mezzi pacifici ed efficaci: scuole e prestigio; le prime per alimentare il vigile, devoto senso dell'italianità, il secondo per consacrarlo.

Le scuole sono, per le ragioni già esposte, ristrettissime al bisogno. La nostra popolazione scolastica è di novemila alunni circa in tutto il Protettorato. Ma altrettanti, se non più, gli scolari italiani che frequentano le scuole francesi.

Nella stessa città di Tunisi, ogni anno si devono respingere da mille a duemila iscrizioni, specie per gli alunni delle prime classi elementari. In quanto poi ai centri dell'interno, anche importanti, ma sorti a maggior fiore dopo il 1896, sono completamente sprovvisti di scuole italiane, sia pubbliche, sia private. Quanto fece la Dante, ad opera dei suoi benemeriti presidente e tesoriere, i commendatori Brignone e Calò, per fondare scuole private, anche modeste, a Mateur e a Ferryville! Non le riuscì. Ogni anno, è un rivolo di trecento, e più, piccoli italiani che da ognuno di questi centri, attraverso la scuola si incanala verso la lingua, la coltura, il pensiero francese, perdendosi per noi, deviato dal suo centro intellettuale naturale.

Bisognerebbe, almeno in parte, supplire qui all'opera scolastica con biblioteche, conferenze, propaganda di pensiero e di lingua italiana; e anche attraverso missioni religiose italiane. E questione di cultura e di sentimento italiani, non di politica.

Occorre pensare anche a tener viva la lingua italiana nell'uso quotidiano parlato, perchè il popolano italiano conosce e adopera di consueto solo il suo vernacolo, che imbastardisce di vocaboli e forme straniere, e alla seconda generazione rimane facilmente soffocato dalla consuetudine e dalla supremazia di una lingua, non un dialetto, chiara e perspicace come la francese, e ottimamente insegnata in ottime scuole.

E purtroppo ciò non avviene solo per il popolo, anche per le classi dirigenti, appena si esca dalla capitale verso l'interno. E in questa competizione d'influenze e di coltura, reca più danno perdere un capitano che trenta soldati. Fu già grave colpo per le nostre scuole medie l'obbligo del bachot o bacchalauréat (licenza liceale) francese, per conseguire poi la laurea universitaria francese che conferisce il diritto di esercitare la professione di avvocato. La colonia si acconciò anche a questa rinuncia. Colpo più grave ci inferse l'abolizione, da noi stessi venuta, di ogni forma di internato, pubblico o privato che fosse, a fianco delle nostre scuole medie, sia maschili che femminili. Il popolo italiano spinto dalla necessità e dall'istinto profondo, fa come quelle erbe vivaci, che, attecchite in un posto, con il pòlline trasportato dal vento e con i polloni, si propagano poi ovunque, anche lontano, sul suolo anche inospite. E arrivato con il lavoro e la creazione di industrie e floridi commerci ai più remoti paesi, a Susa per gli olii e i saponi, a Sfax e a Kairouan per i traffici, a Philippe-Thomas e nella Seldja per i fosfati, a Sbeitla per lo sparto; nelle oasi del deserto, i più forti negozianti di datteri e lane sono i residenti italiani; persino a Nefta, la stazione estrema per la grande traversata carovaniera del deserto sino a Toggurt (dieci giorni e dieci notti di cammello) persino a Nefta vi è un italiano fra i sette abitanti europei, funzionarii compresi. Se questa gente vuol far dare una educazione ai suoi figli, è obbligata a mandarli alle scuole elementari francesi prima, ai collegi francesi di Tunisi poi: collegi italiani non ne esistono. Ne viene la strana conseguenza, e per noi tanto dolorosa, che uomini e donne di fervidi sentimenti italiani, giovani, tra gli altri, che hanno fatto bravamente la guerra in Italia, sappiano a mala pena l'italiano; e quando lo parlano si sente che stentano a tradurre il pensiero dal francese!

Dove sono, e sin dove arrivano, le nostre scuole sono magnifiche, superiori ad ogni aspettativa per il fervore e l'abnegazione intelligente in cui gareggiano maestri e maestre, direttori e direttrici.

Quante volte si trovano di fronte qualche brava popolana, turbata e affannata: il suo bambino piccolo non ha trovato posto alla sovraffollata scuola italiana, e il direttore o la direttrice della scuola francese lo accoglie sì con entusiasmo, ma, per dargli la cancelleria, i libri e magari la refezione gratuita, le strenne di Natale e il resto, esige che pure i fratelli o le sorelle maggiori abbandonino la scuola italiana per la francese. E il maestro o la maestra si sacrifica, fa posto al piccolino in una classe già affollata. Così avviene che aule capaci normalmente di quaranta o cinquanta alunni, ne contengano sino a novanta, per non respingerli dal grembo della madre patria!

Il governo che cedesse questi elementi e strumenti efficacissimi, ammirabili e possenti di italianità, le nostre scuole di Stato all'estero, in mano di privati anche eccellenti, come gli ordini religiosi che ad esse scuole aspirano, commetterebbe un delitto di lesa patria. Ma gli ordini religiosi potrebbero compiere una funzione altrettanto efficace e più utile, a lato delle scuole di Stato, con collegi, internati e scuole private; istituzioni ottime, in cui si sa che eccelle la tradizione di molti ordini gloriosi, come i Barnabiti e gli Scolopii.

Nel novero delle eccellenti nostre scuole bisogna purtroppo fare un'eccezione per le scuole di Susa, che rappresentano una vergogna dell'Italia. Non certo per colpa degli ottimi insegnanti, ma per gli obbrobriosi locali, a cui ci ha ridotti la disonestà degli uni, la criminosa insipienza degli altri.

Fu venduto già anni, per somma inadeguata, il



Dugga, l'antica Thugga romana: Il tempio di Juno Coelestis, identificata con Thanit.



Dugga, l'antica Thugga romana: il grande mausoleo punico, sormontato da quattro Vittorie alate, il solo monumento punico superstite in Tunisia.

bellissimo locale scolastico di cui eravamo proprietari, e oggi stringe il cuore il vedere i nostri bimbi, i loro maestri, i direttori—ma i bimbi sopratutto, il fiore e l'avvenire della razza—stipati in cantine umide e scure, sotto il livello stradale, dove l'acqua stagna in pozzanghere persino l'estate. E proprio accosto, sul terrapieno al cui piede giunge appena il tetto della nostra scuola, si estolle ampia e magnifica la scuola francese, aerata da leggiadre ogive arabe, lucente di maioliche iridate, ombreggiata di superbe palme.

Per fortuna, lo sconcio scomparirà, sta già per scomparire. Il nostro bravo vice console, un maggiorente della Colonia locale, ha fatto provvedere oramai all'acquisto del terreno nel centro della città fra i due quartieri siciliani di «Capace Piccolo» e «Capace Grande». Il Governo, avvertito, ha stanziato allo scopo una generosa donazione brasiliana, e prepara le altre somme occorrenti; uno dei migliori architetti d'Italia ha concorso all'opera, donando graziosamente il progetto per l'edificio nuovo. Insomma, la scuola di Susa sarà; e sarà presto; e sarà quale la richiedono l'igiene, la necessità, e il nostro prestigio.

E bisogna stanziare subito un milione per la sede del nostro Consolato a Tunisi.

E questione complicata. Anni fa, il Bey offerse in dono ai Consolati europei le case che già occupavano a sue spese; pensassero essi alla manutenzione poichè ne avevano la proprietà. O se no, pagassero un canone formale, cinque franchi o mille franchi, con concessione perpetua, purchè gli stabili rimanessero adibiti a Consolati.

Francia e Inghilterra accettarono la donazione, demolirono e ricostruirono, ciascuna a suo modo, due superbi palazzi. Il Consolato d'Italia, forse perchè il più anziano, si trova nel cuore della vecchia città araba, proprio a fare la guardia ai quartieri innominabili. Forse per questo l'Italia non accettò la donazione, o per risparmiare le spese di manutenzione? Rimase nella ignobile bicocca, che non è migliorata con gli anni. Nella linda e bianca Tunisi, dove ogni arabo intonaca ogni anno i suoi quattro muri con il latte di calce, è la più lercia casa del quartiere, con le malte cadenti a pezzi, i vetri rotti e i locali insufficienti. Anche la bella ed elegante villa alla Marsa, che il Bey offerse più di recente ai consoli per abitazione privata e gli altri consoli accettarono, fu rifiutata dal Consolato italiano, credo per ragioni di economia. Ciò rende i pochi locali disponibili per ufficio anche più ingombri e indecorosi.

Data la mentalità araba, il nocumento che ce ne viene è enorme. E del resto, occorre proprio esser arabi per giudicare la gente da come si presenta, da come veste, da come e dove abita?

Questo benedetto «prestigio» si riflette in tutto un complesso ordine di fatti. I francesi non hanno poveri, sono funzionarii, agricoltori, commercianti agiati, e si quotano con larghezza, non per i loro connazionali, ma per i nostri e per gli indigeni. Anche in ciò portano, insieme con il sentimento della carità e solidarietà, un criterio di competizione e di influenza politica, e dovunque la colonia italiana fa sorgere una sua istituzione, nello stesso quartiere la fiancheggiano con due loro istituzioni analoghe. Così avviene per gli orfanotrofii; così per gli asili, gli ambulatorii, gli ospedali, le gouttes de lait.

Occorre che l'Italia ufficiale lo sappia e lo tenga presente, e che il necessario esercizio della lesina, sacrosanto in patria, rallenti i suoi rigori all'estero.

La nostra colonia fa quello che può, e anche di più, `con tenacia e con fervore. Ma all'opposto della francese, pullula di famiglie numerose e povere.

Un mattino fra i mattini, come narra il libro delle «Mille Notti e Una notte», capitando per caso ai piedi delle vetuste tombe consacrate dei Bey (anche l'ultimo degli Abencerragi, i sovrani spodestati di Spagna e di Granata celebrati dal romantico Chateaubriand, ha trovato quivi sepoltura in terra d'esilio) mi vidi sfilare innanzi inaspettatamente, con il braccio verso me teso nel saluto romano, i maschietti della vicina scuola Giovanni Meli, che per mancanza di spazio venivano a prender aria ed esercizio all'aperto. Ve n'eran tanti, e tutti belli, e marciavan per quattro, e non finivano più di sgorgare dalla bocca spalancata della Medrissah, secondo chiaman laggiù la scuola. E un altro passante, che mi vide stupita, mi interpellò di botto in siciliano: «Il Governo non si lagnerà di non aver soldati».

Il fondo della razza è magnifico e magnificamente vitale. Ma la miseria, e purtroppo anche la trascuranza delle norme di igiene e di pulizia, indispensabili nei paesi caldi, favoriscono la scrofola, il linfatismo, e sopratutto il tracoma, la terribile malattia contagiosa degli occhi, a cui si deve il pietoso spettacolo dei tanti ciechi, mendichi e scheletriti per le piazze e le moschee tunisine, coperti di nugoli di mosche ancor più che di cenci. Non si guarisce dal tracoma, ma la buona nutrizione, la pulizia e le cure di ogni genere ne scongiuranc i fatali risultati; lo si vede alla Marsa, nella splendida villa donata e dotata dalla Colonia italiana, per provvida iniziativa della contessa Caccia - Dominioni, moglie del nostro penultimo console generale, a favore delle orfanelle di guerra tracomatose. In questo, come in tanti casi analoghi, sarebbe delitto abbandonare i nostri connazionali alle insidie fisiche e morali della terra d'Africa; specialmente bisogna soccorrere i bimbi, per trasformarli, da gravoso rifiuto, in utilità sociale.

Il nostro piccolo ceto agiato, composto di lavoratori intellettuali e scarso di vistosi patrimonii, non può bastare a tutto. E l'italiano che si vede chiusa in faccia la porta del soccorso da parte del connazionale, se ne va irritato contro la patria. Trova largamente aperto l'ospedale francese, l'ambulatorio francese, il soccorso ostetrico francese, la Guotte de Lait francese, l'asilo e la magnifica scuola francese… I legami della riconoscenza sono vivi, nella nostra impulsiva ed impressionabile popolazione meridionale. Il senso del rancore è più vivo e tenace ancora, contro la patria, o i suoi rappresentanti, se si pensano immemori, o si creda di averne patito sopruso od ingiuria.

Anche di fronte all'indigeno, all'arabo che di tutto ciò è testimone impassibile ed attentissimo, implacabile come un bimbo, questi dolorosi, inevitabili confronti si risolvono a nostro scredito. La Colonia se ne rende conto e coltiva intorno a sè una fioritura di istituzioni, orfanotrofii, asili, sale di custodia e specialmente l'ospedale. Tutte sono buone, tutte sono povere e anemiche; tutte sono bisognose e meritevoli di soccorso da parte della metropoli, che deve darglielo.

L'istituto più importante, l'ospedale, deve poter allargare e svolgere la sua azione anche per



Dugga, l'antica Thugga romana: il Campidoglio (Sul timpano del frontone, l'aquila).



Dugga, l'antica Thugga romana: II Teatro.

un concetto di benintesa economia. Un italiano indigente, ricoverato negli ospedali francesi, viene a costare al nostro governo, cioè a noi contribuenti d'Italia, una diaria di compensazione assai più forte che non sia la diaria dell' ospedale italiano, dove medici, assistenti, suore e amministratori, tutti si prestano gratuitamente, anzi, chi può, dona denaro oltrechè lavoro.

E tocco qui un punto delicato: la necessità che le pratiche burocratiche delle nostre colonie all'estero vengano sbrigate a Roma con puntualità e sollecitudine, anche per quella tale ragione solita dei confronti e del discredito.

E penoso—e rifuggo dall'usare parole peggiori— che i nostri minorati di guerra, mutilati, vedove, orfani o comunque pensionati, debbano faticare per ottenere da Roma le poche lire del loro sostentamento, attraverso pratiche interminabilmente dilazionate (si potrebbe parlare di certi incartamenti che gli impiegati romani smarrirono tre volte di fila) quando i molti più franchi della loro pensione vengono pagati con sollecita puntualità, non solo dalla Francia ai francesi, ma agli indigeni stessi, dal governo beylicale!

La maggiore esportazione dell'Italia in Tunisia, dopo quella di uomini e mano d'opera, era la esportazione di cotonine, che nel 1921 oltrepassava gli undici milioni e si avviava ai dodici, poichè i nostri tessuti, da Milano e la Lombardia si diffondevano a vestire tutto il mondo arabo, anche dell'interno. E a questa dozzina di milioni di franchi, occorre aggiungere più di tre milioni di filati di cotone.

Un recente altissimo dazio protettore sulle importazioni dei cotoni da altri paesi, che non sia lo Stato protettore, ha messo in fin di vita questo nostro fiorente commercio. Anzi, l'ha ucciso tanto, che, fosse vero quanto si buccina circa la prossima unione doganale franco-tunisina, poco più danno ormai può derivarcene.

La nostra esportazione per questo suo ramo principale, poco importa che venga bersagliata a cannonate, se già prima fu uccisa a colpi di rivoltella. Piuttosto è da dubitare che la Francia intenda prendere tale provvedimento, contro il quale insorgono così i tunisini, come la popolazione agricola della metropoli. La vita a Tunisi costa relativamente poco, è di almeno un terzo a miglior mercato che in Francia; i dazzi protezionisti francesi la farebbero subito rincarare. E, d'altronde, i prodotti agricoli della colonia venduti in franchigia in Francia farebbero a quegli agricoltori una efficacissima e temuta concorrenza di ribassi.

L'Italia, in questo genere di argomenti, potrebbe forse intervenire a difendere i suoi pescatori, molto danneggiati dal decreto del 15 aprile 1906. Devono le nostre paranze pescare in fondi di almeno venti metri d'acqua, e al tempo stesso sono obbligate a rientrare tutte nel porto a sera; il viaggio non può superare le ventiquattro ore. Ciò ridonda a tutto profitto dei chalutiers a vapore francesi, che si spostano rapidamente, portandosi oltre al limite del basso fondo, pescano e rientrano in porto: facilità di movimenti che non è consentita alle barche a vela.

La pesca delle spugne, per analoghe ragioni, è stata distrutta dallo stesso decreto. E da ciò si può trarre per noi un vantaggio, se sappiamo fare, e se sappiamo regolarci in modo da avviare quella stessa proficua industria sulle nostre coste libiche, dove, nei bassifondi tuttavia poco sfruttati, la spugna abbonda.

Del resto tutto l'esempio della Tunisia è degno da parte nostra di attenzione e di meditazione.

La Francia ha fatto della Tunisia, bisogna convenirne perchè è la verità, un modello esemplare di colonizzazione europea.

Dicono gli intenditori che, novanta anni fa circa, nella prima sua colonia, l'Algeria, avesse accumulato errori su errori, e per Tunisi poi abbia messo a profitto quella esperienza.

Certo l'organizzazione del possesso e quella del protettorato si distinguono per differenze essenziali, a cominciar anche dalla parte esteriore, puramente estetica.

Ad Algeri, la Francia snaturò, distrusse, riedificò, europeizzò senza riguardi e senza piano, a caso. A Tunisi, quasi appena sbarcata, dichiarò zona monumentale tutta la parte interna, i vecchi quartieri arabi della città, e costrusse verso il mare, su piani regolatori moderni e razionali, una bella città nuova europea. Chi giunge a Tunisi, vede larghe strade intersecate, una avenue centrale alberata e vasta, corsa da trams, fiancheggiata da palazzi, con vetrine di negozii e brillanti caffè. Si può credersi a Marsiglia.

In fondo all'Avenue Jules Ferry si passa sotto una arcata, la Porte de France: per un colpo di bacchetta magica, lo spettacolo è mutato di botto. Ecco viuzze scure, odorose, ricche di portici e sfondi, dove i radi turisti europei scompaiono nel flutto delle gandure di multicolore seta e dei burnous bianchi; opulenti souks, aggruppati per qualità di merce secondo le strade e i quartieri, rigurgitanti, dai fondaci scuri, di colori e di odori; porticati dai pilastrini bassi dipinti di rosso e di verde, i colori del Profeta, moschee e marabutti (le tombe dei santoni locali), luci oblique, trasversali che brillano come lame di coltello, il venditore di mazzolini di fiori, quello del pane col sesamo, quello dei dolci al miele fritti nell'olio bollente, d'un bel color d'oro, che passano cantilenando il richiamo della lor merce: il paese delle Mille e una Notte, fiabesco immutato. Harun-Al-Rascid e il suo fido visir potrebbero aggirarvisi stanotte senza trovarvi cambiamenti notevoli

Si pensa, non senza rimpianto, che quando Roma nel'70 divenne capitale del nuovo Regno, i quartieri nuovi avrebbero dovuto espandersi fuori e la vecchia Roma pontificia e medioevale venir dichiarata, per certi rioni almeno, ancor essa «intangibile.» Quanti vandalismi, distruzioni, rifacimenti e contaminazioni sarebbero stati evitati da un provvedimento radicale così semplice!

L'aspetto di tutta Tunisi nuova, alla superficie, è tutto francese; solo chi gratta un poco quella vernice, si accorge del sottostrato profondo, italiano. La gente vi si accosta parlando in francese; francesi sono le scritte dei negozii, francese il carattere delle mode e delle strade. Ma parlate italiano al passante, e in pretto italiano vi risponderà; il negoziante, se non è italiano, ha il cognome che termina con la vocale, segno di indubbia ascendenza italiana. E inutile che scegliate negli alberghi le vivande dagli appellativi gallici, un cameriere ve li tradurrà verbalmente in schietto vernacolo di Sicilia.

Oggi ancora, come trent'anni fa, la definizione del grande vecchio economista francese, Paul Leroy-Beaulieu, è vera ed esatta: La Tunisie est une colonie italienne administrée par des fonctionnaires français.



Dugga, l'antica Thugga romana: l'arco di Alessandro Severo.



Veduta d'insieme del Foro con i tre templi, a Sbeitla, l'antica Suffetula romana, nella Tunisia meridionale.

Più giù ancora dell'italiano, negli strati profondi della popolazione aderente al suolo, da esso germinata, sta l'elemento indigeno, il nativo arabo.

Questo è, per chi si avvii laggiù senza conoscere il mondo mussulmano, una rivelazione singolare.

L'arabo tunisino è fra i tipi umani i più cordialmente cari e simpatici che io abbia mai immaginato di poter incontrare: di quei tipi umani che riconciliano con l'umanità. Buono, allegro e gentile, sempre cortese, di una ospitalità insieme delicata ed esuberante, sempre di buon umore; due arabi che litighino nei souks litigano ridendo, senza mai perdere l'urbanità e senza volgere la cosa in tragico.

Si vede in ciascuno di loro il prodotto di una civiltà millenaria ormai, e che si è elevata a grandi altezze. L'obbligo rituale delle abluzioni frequenti e radicali, per cui in ogni miserabile villaggio vi è un bagno pubblico per uomini e per donne, dà abitudini di pulizia e di decoro personale anche ai più poveri. E sono naturalmente dignitosi, di una dignità non ostentata, che non dipende dalle esteriorità dell'abito o del denaro o della posizione sociale, ma emana dalla consapevolezza interiore dell'individuo. A Tebursuk mi rimarrà indelebile, fra le singolari impressioni della mia vita, il ricordo di un passante arabo, nè vecchio nè giovane, avvolto in un mantello di sacchi vecchi, con ancora suvvi impresse le marche a carbone del contenuto; lacero, consunto e rattoppato a pezze di color diverso persino quel miserabile tessuto. Lo drappeggiava intorno all'alta eretta persona a gran pieghe, e procedeva per le vie affollate con un passo fiero, una così solenne e semplice e spontanea maestà, che mi tirai da lato istintivamente, al suo passaggio, e non avrei sentito maggiore rispetto per un imperatore nella porpora.

Ma l'arabo, quest' uomo grave e sentenzioso, è in fondo un gran bambino. Non è possibile pensare che possa reggersi da sè; farà la guerra da sè (e ancora, non a caso furono quasi sempre turchi i suoi condottieri). Dà grandi poeti ed artisti, e dette già legislatori e profeti e scienziati: è vero. Pure, non sa reggersi da solo: gli manca il senso del domani, affida ogni previdenza ad Allah.

Tunisia, Libia, Cirenaica furono terre ricchissime ai tempi di Roma, colonizzate da Roma. Caddero poi e si isterilirono nella miseria dell'abbandono.

L'opera romana è ripresa, ora, da noi italiani e dai francesi.

Afferma il proverbio inglese: «l'esperienza val meglio comperata che presa a prestito».

Tuttavia si può sperare, o per lo meno cercare, di giovarsi della esperienza francese, quella negativa dei primi decenni algerini, quella positiva di Tunisi.

Perchè, se noi italiani abbiamo fornito tutto il primo lavoro intelligente di dissodamento, di iniziativa e di penetrazione (e non solo la mano d'opera grezza, come i francesi pretendono, ma anche l'inquadramento degli ufficiali) è certo che la reggenza francese, collaborò con sapienti iniziative e provvedimenti, alla efficace messa in valore del suolo tunisino.

Basti citare quel che accadde a Sfax: terreno brullo ed incolto, pascoli magri per montoni e pecore, venne dato in concessione, gratuita o quasi, a proprietarii francesi. Il concessionario europeo dà a una famiglia di coloni arabi la terra gratuitamente, fornisce il capitale d'impianto, e di stagione in stagione la mantiene a proprie spese, sino al termine di cinque anni. L'ulivo, allevato nel semenzaio, piantato a larghi regolari intervalli in buche quadrate di un metro, inaffiato, concimato, e poi ben potato, il sesto anno deve dar frutto. Una metà del redditizio podere rimane al concessionario europeo, e l'arabo gliene paga il fitto, l'altra passa in proprietà del colono indigeno, conguagliando prima una parte degli anticipi già forniti.

Se il podere non rende, il cattivo coltivatore ha perduto le sue fatiche, l'incauto assuntore il capitale anticipato. Con questo ingegnoso contratto agricolo, misto di mezzadria e di piccola proprietà, nei pressi di Sfax si costituì dal nulla una zona di coltivazione degli ulivi, un bosco, che ha ottanta chilometri di lunghezza per cinquanta di larghezza! A perdita d'occhio, gli ulivi si stendono tutto all' ingiro, in righe regolarissime all' orizzonte. Le differenze di proprietà, non segnate, tanta è la buona fede araba, da alcuna traccia di separazione sulla superficie del suolo, si distinguono solo dalla differente inclinazione dei solchi delle piantagioni. Un uomo politico francese, a cui fu data anni fa una concessione di scarso valore, in premio di alcune sue prestazioni per la colonia, oggi può vantarvi una proprietà di più di venti milioni di franchi. Il raccolto agricolo totale della Tunisia, in questa annata 1923, eccezionalmente prospera, si cifra fra gli ottocento milioni e il miliardo di franchi!

Ebbene, la concorde testimonianza di quanti italiani di Tunisia ben conoscono la Libia, come agricoltori e uomini d'affari periti nelle industrie e nei commerci locali, certifica che il terreno e le risorse ne sono uguali.

Alcuni affermano di aver avuto in mano campioni di buoni fosfati tripolini. Parrebbe che le due colonie di Cirenaica e di Tripolitania, razionalmente organizzate e coltivate, possano condursi in non lungo tempo allo stesso grado di prosperità della Tunisia. La Cirenaica anzi è ancor più fertile, e si presterebbe, anche senza grande impiego di capitali, alla coltivazione estensiva, su vasta scala, dell'orzo; quale già la si pratica in Tunisia.

Terreno più povero, la Tripolitania ha tuttavia il fortunato privilegio di migliaia e migliaia di ulivi selvatici, che si potrebbero innestare; darebbero frutto più facilmente, in assai minor tempo e con minore spesa di quanto ne occorrerebbe alle piantagioni ex novo.

Ma da questo particolare si potrebbe assurgere ad un provvedimento d'ordine vasto e radicale.

Quando la Francia volle organizzare e consolidare il suo dominio sul Marocco, occorrendole mano d'opera agricola e industriale d'ogni genere, la cercò acclimatati alla terra e alle genti d'Africa.

Casablanca per esempio è tutta quanta popolata da italiani di Tunisi.

Così nelle nostre relativamente nuove colonie di Libia, noi avremmo interesse a immettere un largo e continuo flutto di popolazione italo-tunisina, esperta conoscitrice della coltivazione, dei costumi, della lingua araba. Bisognerebbe favorirne la corrente immigratoria con facilitazioni di ogni genere, come fa la nostra vicina: trenta anni di temporeggiamenti per le imposte, concessioni di terreni, scelta dei giudici a preferenza fra quella borghesia di Tunisi che nel Protettorato patisce l'esclusione dalle cariche e dalle professioni, specialmente legali.

Nè questa esclusione è casuale. Il Kadi è per la popolazione araba un personaggio cospicuo, circonfuso di un'aureola di infinita venerazione. E non solo il giudice; è sacro l'avvocato, e tutto quanto incarna la maestà della legge, immedesimata con il Corano, codice e libro di rivelazione religiosa insieme; questa influenza la Francia vuol riservata ai suoi.

Ma tale santità richiede e presuppone una maniera di esercitarla ieratica, come un sacerdozio. E inconcepibile che il giudice, l'uomo della legge, sia un giovanotto imberbe, volentieri gaio e motteggevole. La Francia, che lo sa, fa fare ai magistrati francesi nella Tunisia una carriera rapida e proficua, sul posto stesso. Un pretore locale avanza di grado e di stipendio, come se esercitasse alte cariche in patria, ma rimane inamovibile a funger da pretore, sino alla vecchiaia.

Conosce così gli usi, la gente, e più che tutto il linguaggio.

Non gli verrebbe in mente, per esempio, di offrire a un notabile o autorità locale, in occasioni solenni, vino o sciampagna, come si fa ancora in Tripolitania dalle autorità nostre. Obbligarlo a non rifiutarle per cortesia e per etichetta, obbligarlo a disobbedire coram populo ai precetti solenni del Profeta, è un'offesa mortale. Le autorità francesi offrono il caffè tradizionale o sciroppi colorati. A casa poi, il dono di una cassetta di spumante in assoluta segretezza, sarà il più ambito dei favori.

L'avviamento di una parte della nostra popolazione italo - tunisina in Libia offrirebbe anche il vantaggio che i vuoti lasciati in Tunisia sarebbero riempiti da nuovi arrivati d'Italia, per niente assimilati, neppur superficialmente, alla cultura francese: una immissione di nuovo sangue, e una immigrazione di cui la Tunisia ha bisogno, a cui perciò si potrebbero stipulare patti meno sfavorevoli.

E ancora, la borghesia italiana di Tunisi, conosciuta e apprezzata dai capi delle congregazioni mussulmane libiche, che risiedono tutti in Tunisia, eccetto il Senusso, potrebbe adoperarsi per farli influire a nostro favore sulle comunità delle nostre province d'Africa.

Francia e Italia hanno sulla opposta sponda del Mediterraneo rivalità e competizioni d'influenze e di interessi in piccola parte fatali e inevitabili, per una più grande parte causati da procedimenti vessatorii inutili. Ma è bene non nasconderci, che all'infuori degli antagonismi e forse sopra essi, vi è la solidarietà, necessaria e terribile, dei bianchi, dei cristiani, degli europei, di fronte all'Oriente saraceno. Non invano fu la riscossa d'Angora: Dar-el-Islam, la casa dei fedeli, contro Dar-el-Kefir, Dar-el-Kilab, la casa degli infedeli, la casa dei cani.

In ogni più piccolo negozietto arabo, nelle cancellerie, nei fondaci, nei souks, nelle case, persino sui carretti ambulanti della povera merce nei villaggi, è il ritratto di Kemal Pascià, El Ghazi, il Vittorioso.

Egli è circondato di un culto quasi feticistico.

Lo sanno gli inglesi, che dalle fabbriche di Manchester diffondono per l'Arabia pezze di cotonina con il ritratto d'El Ghazi. E questa riscossa guerriera araba, ironìa storica! fu preparata in parte dalla predicazione pacifista del presidente presbiteriano Wilson.

Quale eco destarono in questi animi ignari le sue parole sui popoli, arbitri liberamente dei propri destini!

Il fanatismo arabo non è morto: sonnecchia assopito. Dategli un' idea per cui combattere, anche solo un alibi d' idea e di giustificazione, e si ridesterà. Ogni scintilla può appiccare gran fuoco.

D' altronde, l' arabo è naturalmente guerriero. Lo stato di pace non gli appare, come a noi europei, normale e necessario. La sua vita è rudimentale, il suo fanatismo assoluto, i suoi bisogni elementari, il senso del comfort nullo. E non è credibile quanta influenza abbiano per incatenarci alle gentilezze (altri dicono: alle mollezze) del viver civile, le piccole abitudini della comodità quotidiana.

Solo dei sovrani e dei gran signori che in qualche modo partecipano del potere sovrano, è attributo politico, obbligatorio e quasi simbolico, il lusso—non la comodità, intendiamoci! anzi il fasto, che ne è spesso l' opposto.

Perchè dovrebbe temere la morte e sentirsi disperatamente attaccato alla vita come al bene supremo, questi, la cui vita è così distaccata dai terreni beni che la rendon preziosa? Il godimento sensuale dell' amore nella sua forma fisica la più convinta e la più radicale, è press' a poco il solo godimento al quale sia veramente e in alto grado



Thuburbo Majus (Tunisia settentrionale) - La via lastricata che conduce ai templi.

sensibile. E non è piacere antitetico con il piacere violento e momentaneo del rischio, e l' eccitazione del combattimento: tutt' altro.

Anormale e innaturale può invece apparirgli, e gli appare, lo stato continuativo di fatica e di sforzo monotono, la dolorosa tensione diuturna di ogni energia, per procurarsi quei beni stessi che in fondo disprezza. Per virtù di tale intimo disprezzo, qualsiasi professione o mestiere eserciti, in fondo all' anima egli è sempre un poco un santo o un guerriero: due diverse forme di ascetismo e di Tebaide anacoretica.

Narra una antica istoria araba—e forse è storia, pur con il profumo e la grandezza epica della leggenda—come una volta, dopo una strepitosa vittoria, Omar fosse ricercato, nella capitale da lui sottomessa, dal messo di un popolo nemico, che voleva patteggiare la resa e l' alleanza a buone condizioni. L' ambasciatore cercò Omar, il generale in capo degli eserciti trionfatori, il sommo califfo erede di Maometto, attraverso i palazzi della ricca città, invano. Era l' ora del mezzogiorno. Lo cercò sotto le tende, dove i capi banchettavano e i soldati meriggiavano, invano. E lo trovò infine, il trionfatore, a far la siesta sopra i gradini della moschea nella piazza principale, profondamente addormentato sulla nuda pietra; il sole gli dardeggiava sul cranio e le mosche si posavano sulle carni e sulle vesti lorde di sudore. Nel centro della città conquistata riposava all' aperto, pronto a balzare in piedi al minimo allarme. Tornò indietro, allora, senza svegliare il re; ammonì le sue genti, dopo quanto aveva veduto, ad arrendersi subito a qualunque costo: un simile capo, senza mollezze l' indomani della vittoria, veramente era formidabile.

L'arabo d' oggi pone un piccolo tappeto di ben conteste lane fra la nuda terra e sè: non più. Il tappeto è presto a divenire sella per il cavallo o il cammello, coperta all' addiaccio, o tenda, o fardello leggero. Altre impedimenta non lo attardano; ancora è guerriero. E, come Omar, quando non giostra con bellicosi uomini o piacenti donne, ancora trova che la miglior cosa, subito dipoi, è il dormire. Guerra, amore e il sonno, che è ancora sogno e poesia. Un minimo di cibo basta, con un minimo di lavoro, cioè di fatica. Il soverchio è del dimonio.

Il nostro lazzarone napoletano, quando risponde con profonda e spontanea naturalezza: «signurì, oggi aggio già mangiato», al forestiere che gli offre una ricca mancia perchè gli porti la valigia, fa solo un'anticipazione etnica e climatica sull' Oriente della vicina Africa.

Ma il dominatore occidentale scaccia il suddito arabo dal paradiso del patriarcale far poco, pungolandolo con la spada di fuoco alla reni: va, fatica e guadagna. Onde egli lo odia.

Individuo singolo per individuo, il programma della vita araba, un minimo di sforzi per un minimo di bisogni, può darsi che sia una filosofia di superiorità morale e spirituale.

Facile e lieve, è consone al paese facile, dove basta, per non morir di fame, grattare il suolo a raccoglierne qualche spiga: o alla peggio spiccare con lunghi legni dalle siepi i fichidindia, per decreto della Provvidenza più abbondanti quando l'annata è peggiore; consone al paese dove lo sterminato silenzio del deserto, e il più immenso cerchio dell'orizzonte, e le tanto più splendide stelle, e il sole implacabile, tutta la forza senza schermo degli elementi, più che da noi fanno sentire all' uomo la sua pochezza, lo annullano in religioso senso di impotenza di fronte alla natura, e per converso lo rendono incline alla contemplazione; dove il miraggio della «Fata Morgana», continuo e delusorio, esorta a diffidar della testimonianza dei propri sensi ingannati e mentitori; a diffidar di se stessi e dell'azione; dove il precetto religioso non è di portar la croce, ma di abbandonarsi con fatalistica acquiescenza ai voleri di Allah, come soma alla deriva per la corrente.

Ma se è vero che l'umanità è un uomo che non muore, le non moriture glorie di Roma sopra il suolo, dove nulla è antico che non sia romano, ammoniscono noi europei, noi d'occidente, a tener fede al motto vetusto e glorioso della nostra civiltà: costruire. Merita, sì, vivere e penare per lavorare, se di noi resti vestigia in terra, più che fumo in aria e nell' acqua la schiuma.

FINE.

Come si formò la Colonia pag. 1

La colonnizzazione francese » 9

Le convenzioni del 1896 » 17

I Decreti sulla Nazionalità » 25

L'arte di Roma » 35

Qualche aspetto della terra d'Africa » 45

«Ben Roma» » 57

L'opera di snazionalizzazione » 67

Le scuole » 77

Le nostre Istituzioni e il nostro prestigio » 85

Tunisi e Tripoli » 93

Dar-El-Islam » 105

FINITO DI STAMPARE
IL 1 DICEMBRE 1923
NEGLI STAB. TIP. LIT. EDIT.
A. MONDADORI
VERONA