ALLA NOBILE DONZELLA
METILDE FOLCO
NEL GIORNO DELLE SUE NOZZE

Vicenza 1870, Tip. Naz. Paroni.

Narrasi sull' origine dei fiori e intorno alle piante grandi portenti, che successero in quella prima felice età del mondo, in cui gl' Immortali avevano per costume di convenire sulla terra, e intrattenersi con gli uomini. Questi allora andando per le loro faccende udivano senza stupore o nei piani o per l' erta dei clivi o ne' penetrati boschi divini accenti; o tra le frondi scoprivano sfavillanti pupille e forme sovranamente belle.

Non ancora erano i saggi che imponessero ai fiori dotte denominazioni, ma gli avi antichi chiamavano con nomi soavi ed immortali la Rosa, la Viola, il Narciso l' Alloro e mille altri che già abbellivano i giovani prati; ascoltando per l' erme rupi e le silenti valli il murmure delle maestose piante selvaggie dicevano Quercie e Faggi, e Salici le meste frondi inclinate sulle acque.

Le bellissime Ninfe, mortali donzelle d' origine celeste od anco figlie degli uomini, non conoscevano la triste vecchiaia che disonora la bellezza; tenevano loro dimora non nelle città fra il consorzio degli uomini, ma in siti taciti e romiti, presso le fonti fresche e limpide, nelle chete valli, nelle magiche grotte sotto i fiumi ed il mare; nè adornavansi come sogliono le donzelle d' ogni epoca e d' ogni paese di preziosi arredi e di foggie strane, ma elleno istesse tessevano le brevi loro gonne del colore dell' aria, dell' aurora o delle nubi con le corolle dei fiori e con le dipinte ali delle farfalle, e le stille mattutine sulla loro chioma scintillavano meglio che le gemme.

E narrasi che la mortal bellezza di queste fanciulle fosse ai Celesti di cara meraviglia, e schivi delle loro sedi gloriose in terra discendevano per vagheggiarle. Il Paradiso non aveva opera pari alla donna, che stimolasse l' attenzione dei Divini. Certo curiosità era di scoprire l' intimo spirito di lei, cui il velo della mortal bellezza nascondeva. E conobbero questo misto di bene e di male, come ogni cosa terrena, che è la donna; questa eterna oscillazione di virtù e di mollezza, d' energia d' entusiasmo e d' inettitudine; questa intelligenza amorosa ma fragile e caduca, e l' amarono meglio che se fosse stata opera perfetta e divina.

E si dice, il dolore e la morte esservi già in terra; ma gli uomini per la loro inesperienza giudicavano sempre bella la vita, come la giovinezza si crede felice, benchè le cagioni del male durino senza riguardo ad età. Inoltre il facile consorzio con la Divinità mostrava il Cielo ancora vicino agli umani.

In quei splendidi mattini della terra sotto le divine orme degli Immortali e la eterna bellezza delle Ninfe spuntavano i fiori novelli.

La Rosa, a quanto assicurano quelle antiche leggende, bevè la prima luce in Grecia. In tal di fortunato una leggiadra vergine errava pei verdi recessi d' una solitaria valle, quando impaurita da lieve stormire delle frondi fugge, ma la vesticciuola svolazzante intorno alle divine sue forme s'appiglia ad un roveto; la tremebonda pensa che mano ignota l' arresti, ed un giovinetto di celesti sembianze si mostra. Le gote verginali della Ninfa d' improvviso pudore s'invermigliano, ed una fiocchetta voce spira sul suo labbro porporino. Il dio Bacco, tale essendo il bellissimo giovane, sente cortese pietà di quell' attonita, e lascia di seguirla; ma vuole eterna memoria di lei, e toccando con la verghetta d' oro il roveto ordina si copra di fiori, che al soave pudore della vergine somiglino. Al divino scongiuro la Rosa apparisce, il più bel fiore che rallegri la terra, immagine della bellezza.

Ma le rimembranze del passato registrano accanto ai casi felici le sventure; lo sciagurato Adone fu vicino ad un rosaio dal cinghiale, cui inseguiva e intendeva uccidere, azzannato. Il suo sangue spruzzò quelle rose e tinse di porpera il mita incarnato. Ed ecco rose purpuree spandere profumi e vivaci colori per le fortunate contrade della Grecia.

Pindaro ci racconta come la Viola diede nome illustre a Giamo (che vuol dir viola), al quale i Numi concessero origine celeste, tesoro di mente fatidica; e fu progenitore dei Giamidi, famosi Sacerdoti d' Apollo.

Evadne, prole gentile di Nettuno e della bella figlia dell' Eurota, (allora i fiumi generavano figli) era custodita da Epito, il quale teneva impero sugli Arcadi e reggia sulle rive dell' Alfeo.

Ivi crescea soletta Evadne giovinetta, E con Febo rapiva I primi doni della cipria diva.

Il tutore se ne accorgendo, si ravvolge in mille dubbî, e pieno di sconforto corre a consultar l' oracolo.

Fra le quete ombre intanto Di spinose foreste, Un pargolo celeste Evadne partoría; E volto al suo bel pianto Il genitor possente Dalla chioma lucente, Pronte dal cielo invia Le Parche a confortarla ed Illitia. Cagion di dolce ambascia Vagisce il piccol Giamo, E abbandonato e gramo Sull' ispido terreno La genitrice il lascia; Ma duo, si piacque ai numi, Draghi dai glauchi lumi L' umor salubre in seno Gli versavan dell' api, e lo nutrieno. Or discendendo Epito Dall' alpestre Pitona, D' Evadne alto ragiona, E progenie sicura Del padre aurierinito Chiama il fanciul divino, Veridico indovino Sui primi vati, e giura Che fia la luce dell' età futura. Ma ognun rispose allora, Che nulla udi, nè scerse; Eppur da flutti emerse Ben cinque volte il giorno, E non tentato ancora Difficile roveto Chiudea l' orror segreto Al fanciuletto intorno Nel concesso alle fere aspro soggiorno. Nembo gentil di belle Viole porporine, E stille mattutine Nel tacito recesso Le membra tenerelle Irrigavano a gara: Onde gli diè la cara Madre felice appresso Nome immortal dell' immortal successo.1) Pindaro, Ode Olimp. VI trad. Gius. Borghi.

I narratori di queste prime istorie ci dicono; i Numi nel mostrarsi agli uomini e loro favellando presciegliere certe piante, per cui gli uomini desiderosi della loro vista, nel circondare di quelle i delubri e gli altari, pensavano renderli inchinevoli a mostrarsi.

Sull' ardua cima del Gargaro boscaglie di faggi e di quercie erano al sommo Giove gradito soggiorno; quivi un altare fumava senza mai posare, ed ei dall' Olimpo vi discendeva Di là lo sguardo a Troia rivolgendo
Ed alle navi degli Achei.2) Illiade, lib. VIII.

Ed i pii Dardani avevano presso le porte Scee della città piantato un faggio ad onoranza di Giove, e ne' casi supremi sotto le sue vaste frondi adunavansi a consultazione.

E Virgilio dice. — Il pioppo è gratissimo ad Ercole, la vigna a Bacco, la bella Venere ama il mirto, Apollo il lauro: ma Filli predilige il nocciuolo, e finchè Filli lo amerà nè il mirto di Venere, nè il lauro d' Apollo vincono il nocciuolo.—

Ma al tramontare della giovinezza del mondo gl' Immortali si ritirarono nelle loro sedi celesti; le Ninfe perdettero l' eterna bellezza e furono fragili donne; e gli umani invecchiando esperirono i loro mali insanabili; sfiduciati e delusi dissero la terra una ralle di pianto.

Però nella tenace memoria ricordavano i diletti della passata età, che chiamarono età dell' oro; ed ebbero sacri quei luoghi in cui godettero le celesti visioni.

Avvi nei boschi, dove è vasta solitudine, supremo incanto, sia che le frondi posando immote mantengano le ombre tacite profonde, sia che il vento fischiando tra fronde e fronde desti confusi rumori ed ululi prolungati. Quelle genti immaginavano le voci e le ignote favelle d' Immortali vaganti per gli antichi ritrovi, e rispettose e tementi ascoltavano. L' austero portamento delle piante, la loro vita longeva aumentavano il sacro terrore.

La Grecia gentile, brillante di spiriti vivaci, e ispirata dal sublime genio dell' arte, prostravasi tremante sotto le vetuste quercie del bosco di Dodona, ricercando i responsi arcani del gran Saturnio che dalla fatidica sorgente useivano, e gli echi sacri delle valli ripetevano.

Più tardi le quercie della tetra Armorica, dell' aspra Caledonia, della Scandinavia austera occultavano i riti e le pietre druidiche e gli altari cruenti del sanguinario Odino, parlando cupi oracoli agli atterriti mortali. I quali credevano anche le anime dei loro eroi, morti senza le lodi dei bardi e i funebri onori, errare per quelle paurose selve; e tutti in uno stormo di compianti e di lamenti passassero e ripassassero a guisa d' uccelli che vanne al verno or sù alti or giù bassi. La leggenda assicura di vederli in forme azzurre e vuote a cavalcion dei venti, o avvolti in fosche nebbie come turbine che aggira ogni cosa e le meteore notturne fargli corteggio, e sotto il turbinoso passaggio piegarsi le cime delle boscaglie, come furioso mare che mugge.

I druidi austeri dalle più antiche venerate piante coglievano il sacro vischio per gli augurî del nuovo anno, e nei sagrificî inghirlandavansi della misteriosa verbena.

Ma i magi della Persia invece innalzavano le are per la prece in sulle alture ed al vertice dei monti eccelsi, pensando la Divinità nella luce; per cui ricercavano i vasti spazî, i fulgidi orizzonti, e adoravano Dio unico all' apparire del sole tenendo sollevati ramoscelli di verbena, e sacra l' avevano per gli incantesimi.

Dalle sacre acque del Gange e del Nilo fecondo sorge una pianta con magnifiche foglie distese e candido fiore a larga corolla. È il sacro Loto, il quale si erge fuori dalle onde all' apparire del Sole e al tramonto si rituffa. Si dice che gl' Indi e gli Egiziani vedessero una misteriosa corrispondenza tra questo fiore e l' occhio eterno risplendente nella face del Sole lungi-veggente e l' adorarono. Infatti gl' ignoti caratteri di quelle civiltà scomparse, le rovine disseminate e sepolte nei deserti portano presso l' effigie degli dei il sacro fiore.

Ma se quelle genti non sono più che una lontana memoria, la candida ninfea non cessa di far belle le acque dei sacri fiumi, è sempre innamorata del sole, si adagia al suo partire; e sempre il vischio inghirlanda la sommità delle antiche quercie, e pegli inarati colli i fiorellini bianco-cilestri della verbena si aprono.

Adunque le piante ed i fiori danno documenti delle antiche genti quanto le istorie scritte; anzi a più lontane epoche ci riconducono, e ci narrano del genio dei popoli dei climi della natura in mezzo a cui vissero, meglio dei fatti clamorosi che li fecero sorgere in fama o dal mondo li tolsero.

Le leggende seguirono i popoli nel loro spargersi sulla terra; ma l' aspetto dei nuovi paesi agisce sulla mobile fantasia, ed ecco quelle espressioni degli intimi loro sentimenti, delle loro credenze, delle loro speranze assumere nuove tinte; nè serbare della loro origine che la lontana rimembranza.

Anche nel fervido oriente vi è la patria delle rose. Il Suristan, cioè l' Assiria, non vuol dir altro che paese delle rose; paese veramente felice dove il Sole sempre fulge e le spiaggie e le campagne fioriscono sempre, e l'aria sempre placida imbevuta dei balsami del cedro, dell' arancio e dei tanti aromi cala sui mille e mille rosai che fanno splendide le solitarie valli, eterno asilo d'amorosi usignoli.

La leggenda del paese delle rose dice: In principio eravi il Bulbul cioè l' usignuolo, il quale cantava il verbo Tsukut! Tsukut! Al suo canto tutto dovunque fioriva e l'erba e la viola e la margherita; poi col beccuccio si ferì il petto e cadde in terra una gocciolina di sangue. Da quel sangue ecco sorgere il rosaio. Bulbul se ne compiacque, trovò bella la rosa, l' amò, intorno a lei passò la sua vita cantando; e furono mille le sue canzoni. .… ivi la rosa in fra i dirupi
E le vallee dell' usignol sultana,
La vergine per cui le sue melodi,
Le sue mille canzoni a l' aura ei scioglie,
Di pudico vermiglio a le querele
Del piumato amator schiva si tinge.
La reina de' fior, la sua reina,
La sua rosa colà da vento intatta,
Inoffesa da gel, schiusa e remota
Da verni occidentali, accarezzata
Da stagioni e dall' aure al ciel ricambia
Co' più molli profumi i suoi favori,
E grata e liberal di sue più vaghe
Sembianze e de' sospir suoi più soavi
Quelle piagge e quell' aere imbeve ed orna.3) Byron, Il Giaurro.

E le fidanzate d' oriente presentano agli amanti in segno d' amore e di fedeltà la rosa fida amica del Bulbul.

Ma anco le tetre fantasie dei popoli nordici quando parlano dei fiori rischiaransi d' idee miti e soavi.

I bardi raccontano, che nei palagi della luce di sopra alle nubi vi è un sito ameno, olezzante di mille profumi e l' ale del zeffiro agitano i più lucidi colori; è l' officina dei fiori, custodi ed operaî sono le anime dei figliolini morti prima di vedere la luce. Le turbe innocenti che non conobbero il male, ne provarono il dolore e la cupa tristezza, sono eterne artefici di questa divina opera, immagine della felicità e dell' innocenza. Milioni e milioni di mani tenerelle si affacendano d' involgere in germi inpereettibili i fiori, che ad ogni primavera devono sbocciare in sulla terra; ed ogni mattina la infantile schiera tripudiante di gioia, splendente di luce cala sopra la terra e sparge con le lagrime dell' aurora questi germi. Ed ecco la rosa chiusa nel suo bottone, il granello di frumento nei suoi involucri, la sacra quercia co' suoi vasti rami in una sola ghianda e forse in minuto seme una intiera selva.

— Malvina curva sulla tomba di Fingal piangeva Oscarre suo sposo, ed un figliuolino morto prima di vedere la luce e diceva: « Oscar te vivo ero una pianta altera adorna di rami e fiori. La tua morte venne e come la bufera nella foresta scosse i rami e uccise i fiori. La primavera tornò, le tiepide pioggie i molli venticelli tornarono, io però non germogliai nè foglie nè fiori. I miei sospiri co' raggi del mattino si alzano; le mie lagrime cadono con le stille notturne. »

— Le donzelle di Morven errando a lei d' intorno mandavano voci pietose, e con canti celebravano la morte del valoroso e del neonato. « Il prode è caduto! è caduto! Il fragore delle sue armi cccheggiò nel verdeggiante piano. La malattia che toglie il coraggio, nè la vecchiaia che disonora gli eroi non potranno più colpirlo; è caduto, ma il fragore delle sue armi eccheggiò pel verdeggiante piano.

Figlia di Toscar, tergi il pianto; lo sposo beve nel palazzo delle nubi con gli avi suoi nelle coppa dell' immortalità. »4) Ossian.

Poi con voce armoniosa cantavano: — « Il figlio che non vide la luce non conobbe l' amarezza della vita; la sua anima bambina, cullata su splendidi vanni, arriva con la diligente aurora ai palagi della luce, un' immensa schiera di anime bambine come lui chine su nubi d' oro l' accolgono, gli fanno corteggio e gli aprono le porte misteriose dell' officina dei fiori.

« Noi il vedemmo, o Malvina, vedemmo il figlio che tu piangi, cullato su lieve nebbia; si è mostrato a noi versando sui nostri campi una messe di fiori novelli. Guarda, o Malvina, fra quei fiori uno ne scorgi che è una stella, è la Margheritina. Raggi candidi e porporini circondano il suo disco d'oro. Scosso da lieve auretta lo diresti il fanciuletto che giuoca sul verde praticello. Tergi il pianto, o Malvina! il prode è morto coperto delle sue armi, ed il fiore del tuo seno adornò di fiori novelli i coll di Crona. » —

Se ascendiamo le Alpi sotto i venti turbinosi presso le nevi troviamo un bell' arbusto che dà magnifici fiori. Gli alpigiani lo chiamano la rosa della montagna, e la scienza rhododendron5) Parola greca che vuol dire albero delle rose. traducendo, forse senza saperlo, la leggenda.

La leggenda dice: — In sull' erta balza dove Hans riposa cresce un fiore che è nato dal suo sangue. È la rosa della montagna. Osservate! la rosa è rossa come il sangue e splende su ghirlande di fosco fogliame. È la rosa senza spini.

Fanciulle! coglietela e adornatevi la fronte ed il seno; è il fior dell' amore; sorge dal sangue di Hans. —

Negli antichi tempi in un paese fra le Alpi sul lago di Thoune un ricco contadino viveva con la sua bella figliola Eisi, che in quel dialetto vuol dire Elisabetta.

Ella era bellissima e molti pretendenti la guardavano; lei però dava retta a nessuno. E dicevasi: — Eisi non vuol bene a chicchessia e non scieglierà uno sposo. — Ma non era così perchè aveva scielto Hans il più bello e migliore fra tutti, e taceva per provarlo.

Un giorno di festa disse ai suoi amanti: — Sul gran dirupo di là del lago le primavere sono di già fiorite ed anche i belli fiori bianchi, che non spuntano che là in cima. Io vorrei vedere quei fiori e metterne oggi sul mio cappello. — Anima nata non era mai salita lassù. Hans solo fra tutti gli amanti arrischiossi per l' amore di Eisi, la quale era felice e diceva a tutti che Hans sarà il suo sposo.

La meschinella stette tutto il giorno a piè della montagna in riva al lago aspettandolo; ma al cadere del sole la gente senti un' acuto grido, nè Hans nè Eisi ritornarono.

Il giorno dopo le pastorelle che guardavano le capre trovarono a piè del terribile macigno il povero Hans nel suo sangue. Piangendo gli fecero sopra un tumulo di pietre, e vi piantarono a croce i fiori bianchi che stringeva tuttavia nelle sue mani.

Dopo alcuni giorni quale sorpresa! Sul tumolo di Hans trovarono grandi cespugli fioriti a rosse corolle, ed ogni sera al calare del sole udivano una mesta voce errare sul lago od uscire dagli echi della montagua la quale diceva:

La rosa delle Alpi spuntò dal sangue di Hans; è la sola rosa che non ha spini, è la rosa dell' amore!

Le pastorelle assicuravano, essere la disperata anima di Eisi vagante sul lago e per l' orrida scogliera in cerca del povero Hans.

T. B. C.