I MARTIRI DI BELFIORE
LETTURE PATRIOTTICHE
PER
I GIOVINETTI ITALIANI
DI
FRANCESCA ZAMBUSI DAL LAGO

MONUMENTO IN MANTOVA

VERONA
G. FRANCHINI Edit:

“Farò come colui che piange e dice”

La patria! Oh, nome benedetto e caro, che trova un palpito di tenerezza in ogni cuore ben fatto, e suona dolce all' anima quasi che il nome della madre istessa!

Santa cosa è la famiglia, e la patria è una grande famiglia, ove sono affetti i più soavi, doveri i più sacri, gioie e lagrime, glorie e sventure.

Ma quanto la terra che abitiamo deve tornarci più cara, se redenta dal sangue dei martiri fratelli, che quali sui campi delle patrie battaglie, quali in amaro esiglio, in dura prigionia, e più orribile a dirsi, sulla forca lasciarono la generosa lor vita!

Egli è appunto degli Undici martiri del Mantovano, che io voglio parlarvi, o giovani figli d'Italia, perchè se è bello il conoscere gli eroi di Roma e Grecia antiche, è dovere di cittadini il rammentare a chi dobbiamo questa patria, fatta libera e una, forte e riverita fra le nazioni.

E voi, che fin dal nascere spiraste aure di libertà, mal potete comprendere di quanto peso sia stato agli eroi dell' italica indipendenza, il riunire le sparse membra di questa terra del pianto, da fatali politiche vicende divisa, tagliuzzata in tanti piccoli stati, retti la maggior parte da straniere Signorie, o da esse gelosamente guardati.

Tali erano: il regno di Sardegna che comprendeva Piemonte e Liguria, il solo che fosse governato da re di pura stirpe italiana; quello di Lombardia e Venezia sotto il ferreo giogo dell' Austria; il ducato di Parma, Piacenza e Lucca; quello di Modena; il Granducato di Toscana; lo Stato Pontificio; il regno di Napoli o delle due Sicilie.

Fino dal 1820-21 i vari Stati, a forza soggetti, cominciarono a sollevarsi, a scuotere le catene, a chiedere riforme, ma ben presto le sommosse venivano spente nel sangue dei più generosi patriotti.

Nel 31, 41, 44, 47, gli odî si rinfocarono, proruppero in rivolte, qua e là represse ma sempre ripullulanti.

Finalmente, aurora del nostro politico risorgimento sorse il 1848. Le aspirazioni dei vari popoli italiani si incarnarono, quasi, in una sola, al grido di viva Carlo Alberto!

E questo magnanimo monarca, dopo concesse al suo Piemonte le chieste franchigie, scese a capo del suo esercito, a cui ogni laude sarà ognor poca, e venne a liberare Lombardia e Venezia dall' oppressore Austriaco. Vinse gloriose battaglie, ma sopraffatto dalle preponderanti forze nemiche dovette cedere, luttuosamente ritornando nel suo Piemonte.

Un anno dopo, richiamato dai sospiri di queste popolazioni, dal fremito di tutta Italia, intimò nuova guerra all'Austria, ma dopo magnanimi infruttuosi sforzi, e dopo aver invano cercata la morte sui cruenti campi di Novara, là volle cedere il trono al maggiore de' figli suoi, a Vittorio Emanuele, che divenne poi il salvatore d'Italia!

Col trono lasciò Carlo Alberto la patria, e un anno dopo morì di crepacuore in Oporto nel Portogallo. E così la corona de' nostri Regi ebbe anch' essa il suo martire augusto, e il nuovo regno d'Italia poggia inconcusso sovra intangibile scoglio!

Che non fecero dopo quel giorno tanti generosi figli di questa terra, resa più vile mancipio dello Straniero? … Se il cuore ci sanguina al rammentare i dolori, gli strazî di tanti innocenti rapiti alle loro famiglie, e dietro un semplice sospetto, la delazione di un vile, un detto, un motto a caso sfuggito, processati e condannati a orrendo supplizio, oh, non sia il pianto infecondo di cittadine virtù nei superstiti figli di questa patria redenta.

Ahimè, quale orribile carneficina si compiva nel nostro suolo, specialmente negli anni 1851-52 e successivi! Quale iliade di sventure e di lagrime nella pietosa istoria dei Martiri di Belfiore!

Immaginiamo questi giovani eroi, entro le orride loro segrete, nella più squallida privazione di tutte cose, in una struggente solitudine, languire giorni e mesi, e molti perfino dei lunghi anni, ammalati nel corpo, oppressi nello spirito, ma sempre pronti a mostrare come gli italiani sappiano degnamente morire.

Chè se qualche cosa turbava l'animo de' prigionieri, era il pensiero della famiglia, della patria lontana, che aspiravano invano di rivedere.

Primo della bella schiera fu un giovane prete, uno della schiatta benedetta sul cui vessillo sta scritto: sapienza e carità!

Il buon pretino, di cui oggi narriamo prigionia e morete, era D. Giovanni Grioli, figlio a Luigi e Livia Nardini, roveretana, nato a Mantova nel 1821. Suo padre era fabbricatore di oggetti di chiesa, e da ciò forse nacque nell'ignaro fanciulletto il primo desiderio di farsi prete. Aveva egli indole dolce, carattere ingenuo, spirito vivace, cuore sensibilissimo e modi più gentili. E tutto ciò congiunto a umile sentir di sè stesso, che più caro il faceva a superiori e condiscepoli.

Ordinato sacerdote l'anno 1846, fu tosto destinato alla Vicaria di Cerese. Là presto divenne l'amore di quei buoni parrocchiani, cui dava con l'aver suo, tutto il suo cuore. Piangeva co' mesti, pativa con gli infermi, si faceva piccolo co' piccoli, lontano da ogni orgoglio per sè medesimo, da ogni adulazione verso i grandi.

E come il cuore, aveva immacolato il costume.

L'aurora del 1848, foriera di libertà, scosse l'anima bella del giovane prete, che discepolo e amico del più tardi sagrificato D. Tazzoli, ne divideva i generosi sensi.

Chè quello affollarsi di politici avvenimenti, le costituzioni concesse, o almen promesse, il Pontefice a capo delle aspirazioni degli italiani, tutto pareva promettere giunto il giorno della nazionale riscossa.

E se la sconfitta di Novara aveva per poco prostrato l' animo degli oppressi, si risollevavano ben presto a novelle speranze. Da ciò, le cospirazioni, i tumulti a forza repressi, lo stato d'assedio, le catture, i supplizî.

Come addetto alla Vicaria di Cerese, piccola borgata, venne comandato al D. Grioli di fare l'anagrafe di quegli abitanti. Il paesello confinava col forte di Pietole, ove in quell'anno 1851 si lavorava dai forzati in nuove fortificazioni.

Colà giunto gli nacque naturale desiderio di vedervi le opere in costruzione. Ecco avvicinarglisi uno di quei galeotti, lacero e smunto si da muovere a compassione. Lo richiedeva di una elemosina e il generoso pretino gli donava due lire, accompagnandole di dolci parole.

Spiato dalle guardie, fu subito richiesto il forzato, di che cosa il regalasse, e quel miserabile sperando di comperare con la menzogna la libertà, disse che il prete gli offriva due lire perchè disertasse! …

Non ci volle di più, e l'accusa di un galeotto tedesco, fece tosto incarcerare un innocente prete italiano.

Il dì seguente che era il 28 ottobre 1851, recatosi D. Grioli con il fratello suo Giuseppino a Mantova per vedervi il padre, sempre pedinato dagli sgherri della Polizia, fu fatto entrare in un ufficio di Ricevitoria, cui passava vicino, e intimatogli l'arresto e ben bene assicurato, fu condotto dinanzi lo Auditore militare, e tosto rinchiuso nell'antico convento dei Domenicani. Il tenebroso monastero aveva un tempo servito a tribunale della Inquisizione e a carceri del Santo Uffizio.

Da ciò si giudichi dell' interno tenebrore! Non che il convento non fosse di bella architettura dorica, ma le carceri vi erano chiuse a ferrei poderosi catenacci, e parean dire: «lasciate ogni speranza, o voi che entrate.»

Giorno e notte guardava quelle porte un'armata sentinella. Chiuso là dentro stette il Grioli de' giorni senza essere interrogato. Fu tutto capovolto nel luogo del suo domicilio, ma nulla vi si rinvenne che giustificasse il suo arresto. Condotto poi dinanzi ai giudici, si voleva a forza strappargli delle confessioni ch'egli non potè fare, rispondendo a ogni suggestiva inchiesta: Io non volli fare che una elemosina.

Corsa nella borgata di Cerese la voce che il buon pretino era stato incarcerato, quella popolazione in tumulto si proponeva di strapparnelo a forza! …

E il padre, disgraziatissimo padre! Disperato correva da questo a quello, si gittava supplichevole dinanzi ai potenti, sperando ottenere dalla loro interposizione la salvezza del figlio. Ma ricorsi, preghiere a nulla valsero, chè la brutalità degli oppressori richiedeva una vittima, a intimorire gli oppressi!

Volevano gli Austriaci che il sacerdote venisse dal suo Vescovo sconsacrato, ma non vi riuscirono, perchè di nulla trovato colpevole, e andò quindi al supplizio con la veste immacolata dell'Agnello. Confortato fino agli ultimi istanti da un amico sacerdote, non venne mai meno alla virtù del forte.

Tradotto alla valle dolorosa di Belfiore fra immenso popolo esterrefatto e gemente, chiuso fra soldati pronti a colpirlo, levò gli occhi pietosamente al cielo, raccomandò al suo confortatore i desolati parenti, si allacciò poi di sua mano la benda sugli occhi, e molte palle trapassarono l'innocente suo petto! … Ciò seguiva il giorno 5 novembre 1851.

Non luogo benedetto che ne accogliesse la sfracellata spoglia, ma la coprì poca terra, dello stesso suo sangue bagnata! …

Salve, o primo degli eroi di Belfiore, di quella schiera eletta, i cui martiri furono tutti eguali nella invitta costanza, nella morte gloriosa, perchè la virtù del sagrificio fu il retaggio di tutti gli italiani …. di quel tempo!

La storia dei martiri di Belfiore, è la storia dell'epoca più gloriosa del nostro politico risorgimento. Fu un'epoca di sagrificì sublimi, di cui alcuni compiuti nel mistero delle famiglie, altri alla luce del sole, col sicuro pericolo della vita. è la storia di nobili esistenze spese per la santa causa, di morti gloriose sui campi delle patrie battaglie, di altre, più orribili su vile patibolo, e tutte incontrate con la serenità dell'apostolo, per l' ideale altissimo della italiana indipendenza.

E quale utile ammaestramento per questa e le venture generazioni! Solo è a deplorarsi che alla maggior parte di noi, ai grandi fatti pur tanto vicini, la storia di tanti dolori sia poco meno che sconosciuta, nè sappiano i giovani con quanto cumulo di opere santamente patriottiche, questa terra frastagliata e negli animi divisa, oppressa la maggior parte dagli stranieri, siasi fatta libera e una!

Come i monumenti serbano la impronta del tempo in cui sorsero, così i benedetti martiri di Belfiore, ricorderanno sempre all' Italia, all' umanità intera, l'epoca di sangue che essi hanno glorificata.

I detenuti per sospetto di cospirazione, negli anni 1851-52-53 e successivi furono a centinaia; di essi, quarantatre confessi e non confessi furono condannati: uno alla fucilazione, dieci al capestro, e gli altri a lunghi anni di durissima prigionia.

Gli innumerevoli atti di virtù cittadine compiutisi, in quel tempo nel seno di generose famiglie, orbate de' loro cari, e che pur non osavano di rimproverare alla patria tanta loro iattura, superano ogni potenza di immaginazione. Nè penna verrebbe a ritrarre lo strazio de' martiri prigionieri, che nel silenzio desolante de' loro cupi sepolcri, subirono il lento veleno de' giorni, de' mesi, degli anni, senza il suono d'amica voce, senza un raggio di pura luce, senza speranza di men triste dimani!…

Giovanni Zambelli, di Gaetano e di Anna Maratovich, nacque in Venezia, di civile condizione, il 19 giugno del 1824. Fece ivi i primi studì nello istituto Cavanis, e passò poi nel ginnasio di S. Paolo. Ma la sua indole insofferente delle pedanterie allora usate, fe' ch' egli ne traesse scarso profitto, mentre l'ingegno suo svegliatissimo prometteva assai del giovane allievo.

Era di quegli intelletti che hanno uopo di aprirsi da loro stessi una via, e avvenne infatti, che libero dalle scuole obbligatorie, si diede con grande amore a coltivare i severi e gli ameni studi, occupando le ore d'ozio nelle arti belle, poesia, musica e pittura.

Ciò dimostra come avesse nobile la mente e gentile il cuore. Se un triste fato non avesse recisa questa giovane pianta, ella sarebbe certo cresciuta forte e gloriosa! E se a lui ancor tenero non fosse morta la madre, questa avrebbe forse frenata quella sua indole insofferente d'indugio, nè il piangeremmo estinto!

Ma segnato era in cielo che il sagrificio di pochi giovani eroi, dovesse dare ai molti la libertà, e il sangue di que' generosi lavare l'onta del lungo servaggio.

Lo Zambelli era di que' cuori magnanimi, che si dànno tutti a tutti; ciò che aveva non era suo, per cui veniva idolatrato dagli amici non soltanto, ma da quanti lo avvicinavano. Aveva la vera religione del cuore, la carità!

Difficili circostanze di famiglia il tolsero giovinetto al padre, per affidarlo alle cure del vecchio avo paterno, per il troppo rigido costume non atto a guidare quest'anima ardente fra le turbinose vicende dei tempi. Fu da lui posto a un ufficio presso il Capitaniato del Porto di Venezia, ufficio non confacente al suo genio, e che abbandonò appena gli fu possibile. Felice di trovarsi libero, salutò con entusiasmo gli albòri del 1848.

In que' primi fatti d'armi crebbe gigante il suo coraggio e la militare sua valentia. Sempre fra i primi, accorse alla difesa di Vicenza, aggregandosi poi al corpo degli artiglieri Bandiera e Moro, indi a quello de' Veliti l'anno 1849. Nè volle esulare, quando il rimanere a Venezia era pericolo!

Il nostro giovane era alto e ben tarchiato della persona, aveva aspetto severo, pensosa la fronte, e in sè ritraeva del Machiavello. Se però trovavasi fra schietti amici, quel suo grave aspetto si rivestiva di un dolce sorriso, e la virile parola di facili scherzi.

Negletto nel vestire, non lo era negli scritti suoi, che mostravano avere egli attinto alle classiche fonti. Il suo fiero carattere sapeva a tutti imporsi, e non è a dire come fosse tenuto d'occhio dall'astuta Polizia austriaca, a cui i forti intelletti facevano paura.

Cresciuti più e più i sospetti su di lui, veniva imprigionato è condotto al tenebroso Castello di San Giorgio in Mantova. Contemporanei ad esso venivano arrestati lo Scarsellini e il Canal pure di Venezia, il sacerdote Tazzoli e il medico Poma di Mantova. E nello stesso giorno furono poi tutti e cinque impiccati! …

Gli scritti dello Zambelli, com' è naturale, vennero sequestrati dalla Polizia, onde nulla ci rimane di questo fervido ingegno. Per ascondere la parte attiva che egli prendeva alle italiane cose, si diede negli ultimi tempi di preferenza al disegno, per cui fu annotato quale pittore ritrattista. Di lui abbiamo, la sua stessa immagine fatta a carboncino, che pietosi amici fecero riprodurre per sua memoria.

Fra le oscure pareti del carcere, si occupava nello studio delle lingue straniere, in alcune delle quali era versatissimo.

Ma quando comprese inevitabile la sua condanna, sentì più ardente risvegliarglisi in petto la fede de' suoi avi, inspirata a lui bambino da pietosi parenti, e attinse dal cielo la virtù del martire.

Tradotto dal Castello al confortatorio di S. Teresa (1) Il castello di S. Giorgio fu incominciato l'anno 1394 e compiuto nel 1406. Ne fu architetto Bartolino da Novara. Fu eretto per ordine di Francesco IV dei Gonzaga, Capitano di Mantova, e servì a que' Signori di rifugio nelle continue lotte medio-evali. Venne innalzato sul luogo detto della Corte Vecchia, a nord-est della città, e le acque del Lago lo ricingono tutto intorno. Ha forma quadrangolare e architettura semplicissima. Nello interno ha tre piani, i due primi servono per uffizì, e quello superiore, con mura di forte spessore, a piccolissime fenestre, con sbarre e grate di ferro, fu ridotto dagli Austriaci, dopo il 1814, a prigioni di Stato. Ogni segreta vi è chiusa da due grosse porte con catenacci e altre armature di ferro. Le fenestre hanno fitta tela in luogo di vetri, onde poca e cupa cade sul prigioniero la luce. A un apposito ispettore è affidata la sorveglianza dei rinchiusi, e guardie e secondini ne fanno il servizio. Una sentinella armata ne sorveglia la porta.
Il Confortatorio di S. Teresa è un antico convento annesso a una chiesa dello stesso nome. Ha pure esso forma quadrangolare, con un porticato tutto in giro. Le anguste celle furono ivi convertite in prigioni, e servirono per i condannati di Belfiore. Su quell'angusto ricinto, sparso di immagini innocenti e che risuonava, un tempo, di voci angeliche di benedizioni, faceva peggior contrasto lo strillante suono delle catene, il lugubre rullare de' tamburi, il calpestio de' soldati, il gridare all'armi delle sentinelle, l'agitarsi sospettoso della rozza sbirraglia! Da una fenestrella applicata a ogni segreta, potevasi dalle guardie spiare in ogni momento i detenuti, su cui pareva esser corso il soffio distruttore della morte! Un pagliericcio, immondo d'insetti, una sedia, una brocca d'acqua, talor pur fetida, erano gli arnesi di ogni antro, e solo conforto, sovra rude tavolino stava un Crocefisso, a cui si abbracciavano i prigionieri prima di salire l'erta che conduce alla valle di Belfiore.
ultima stazione de' condannati, parve affievolirsi il suo coraggio, al pensiero di abbandonare il vecchio genitore senza un addio!

Oh, andava sclamando, potessi gittarmi alle sue ginocchia, e morire da lui benedetto! E quando ciò gli si ottenne, e vide entrare nel carcere il cadente suo padre, gli si gittò al collo, e die' in tale un singulto, che un prigioniero dalla stanza vicina credette giunta l'ora del supplizio, e svenne! …

Il padre, a cui lo schianto del cuore e l'età cadente facevano insopportabile quello strazio, cadde siccome morto, e il prigioniero prostrato alle sua ginocchia, la matrigna e un minor fratellino che invocavano misericordia, tutto faceva di quel loco il soggiorno dei tormenti e dei tormentati!

Quando a Dio piacque tornò la vita nel misero vegliardo, e l' ultimo amplesso fu come quello di un morente che si stacca dalla terra e da ogni cosa più caramente diletta! …

Quanto più il mortale sente accostarsi al tramonto della vita, la santa luce de' cieli più risc hiara la sua fronte, e così Giovanni, riconfortato dalla speranza, leggeva nella vicina sua morte il trionfo quaggiù della idea, lassù dello spirito purificato dal sagrificio! …

È l' ora, è l' ora, si udì echeggiare per quelle vôlte di orrore, e lo Zambelli con i quattro suoi compagni di sventura, fra una turba instupidita, su lacero veicolo, venne tratto alla valle infame di Belfiore.

Lungo la dolorosa via, chi mandava baci a quei condannati, chi si levava lor dinanzi il cappello, chi prostrato sul loro passaggio pareva volerne impedire il transito!

I soldati dell'Austria, si schierano in nanzi alle cinque forche, e la sentenza di morte vien letta fra un silenzio sepolcrale!

Lo zambelli fu destinato a essere la prima vittima. La sua giovane minacciosa testa fu la prima a colorirsi di una tinta cinerea, e que' suoi profondi occhi in cui si leggeva tutta una storia di dolore e di amore, parevano mandare anco spenti sull' inimico lampi d'indignazione e di vendetta!

Ciò seguiva nel luttuosissimo giorno 7 dicembre 1852.

Compiuto il sagrificio dei cinque eroi, il popolo circondò quelle salme benedette, come figli il cadavere paterno. Quel generoso sangue fu fecondo di nuova vita a una intera nazione!

Coperti di poca lurida terra, là aspettarono i martiri della patria, il giorno del nazionale riscatto.

Portati sulle braccia di un popolo riconoscente, que' sacri avanzi oggi riposano gloriosi nelle urne lagrimate de' loro avi.

Un fremito sordo, una agitazione febbrile, un rimescolarsi di tutte le classi della società, la potenza delle memorie, lunghi secoli di servitù e di tormenti, prepararono gli animi degli Italiani alla grande riscossa! E gli undici Martiri del Mantovano suggellarono la libertà d' Italia col sagrificio della lor vita.

Angelo Scarsellini fu tra questi. Nacque a Legnago veronese ove suo padre era giudice, l'anno 1823. La sua famiglia, originaria di Ferrara si trasportò poi a Venezia, e si chiamava Scarsella, assunto il nomignolo di Scarsellini da due distinti pittori della casa, di piccolissima statura ma di alta fama.

La madre discendeva dai nobili Trevisani, e tanto essa che il padre univano alla nobiltà dei natali quella ben più apprezzabile di un intemerato carattere.

Il figlio, unico dei maschi, di spiriti vivacissimi, si compromise da giovinetto in patriottiche dimostrazioni, per cui gli fu tolto di frequentare le pubbliche scuole e venne istruito fra le pareti domestiche.

D'ingegno svegliatissimo, riuscì bene addottrinato nelle scienze giuridiche. Di squisito sentire, pensatore profondo, tale si appalesava nel grave aspetto sempre in sè raccolto; parco nel dire, aveva voce sonora e parola insinuante. Alto e ben tarchiato della persona, bruno del colorito, l' occhio scintillante gli illuminava la spaziosa fronte e i nobili lineamenti del volto.

Venuta la rivoluzione del 1848 egli con i giovani pari suoi, prese parte alle generose gesta di Venezia, e dopo quelle partì con la prima crociata per Palmanova onde assistervi al duro assedio. Là si segnalò per il suo valore, la costanza nello spegnere gli incendì provocati dalle bombe austriache, e le cure negli ospitali, ove al letto dei feriti era come una dolce madre di santo affetto.

Caduta Palmanova dovette co' suoi ridursi a Ferrara, e di là sarebbe volato a combattere con Garibaldi, se Venezia non avesse abbisognato del braccio de' figli suoi per fare resistenza all'Austria, che scacciata voleva ritornare.

Ma dopo lungo patire anche la Repubblica dovette cedere, e lo Scarsellini si rifugiò nel Piemonte, divenuto l' arca del nuovo patto! Là conobbe di persona il Mazzini e i molti propugnatori del nazionale riscatto, e ne divenne l'amico e il confidente.

Promessa dall'Austria generale amnistia agli esuli, tornò il baldo giovane a Venezia, e morto a lui il padre, vendette porzione del paterno retaggio per recarsi a Londra, e là spendere in delicate missioni, in far proseliti alla nobile causa, formar comitati, spargere proclami e obbligazioni Mazziniane.

Ma per andare da Venezia in esteri paesi, occorreva un salvocondotto austriaco, e per ottenerlo rinunciò al sospetto titolo di nobile e possidente, e si finse macellaio, approfittando di avere avuti il padre suo ni proprietà negozî di quell'arte.

Tanta annegazione di sè stesso gli valse più e più la stima dei buoni patriotti, che il vollero capo del Comitato centrale, e lo supplicavano di non ritornare a Venezia per non cadere in mano dell'inimico. Ma a lui parevo ciò facendo di disertare dal campo di azione, come il soldato che suonata la tromba si ritirasse. Dopo avere sagrificato alla patria la pace dei domestici lari, gli affetti di figlio e fratello, gli agi di un discreto patrimonio, una brillante carriera giuridica, nascondersi per porsi in salvo?

Non mai, non mai! …

Veniva frattanto imprigionato a condannato uno de' più fidi compagni suoi, e lui a visitarlo, soccorrerlo, confortarlo fini agli ulfimi istanti e spargere lagrime e fiori sulla spiata sua fossa.

Non poteva tutto ciò rimanere occulto ai giustizieri dell'Austria, e il 27 giugno 1852 veniva egli pure arrestato in un pubblico caffè e scortato alla sua casa, perquisita e capovolta. Sapendo di aver in dosso un documento che svelerebbe il nome di amici suoi, presenti gli sgherri armati, lo trasse dal portafoglio, e benchè in carta voluminosa lo trangugiò d' un tratto, malgrado che quelle belve lo stringessero chi al collo e chi all' esofago per istrapparglielo. Ben bene ammanettato il condussero alle carceri di S. Silvestro, donde poi al castello di San Giorgio in Mantova.

Convinti i suoi giudici che lo Scarsellini per l'alta sua intelligenza possedere dovesse i segreti tutti del Comitato, com'essi lo chiamavano rivoluzionario, che non fecero, a quali mezzi non ricorsero perchè svelasse e fatti e nomi? Ma egli sempre chiuso nel suo silenzio, come torre che non crolla!

Altri dopo di lui venivano catturati, e fra questi un qualche vigliacco, che per salvare sè medesimo tradì i compagni. Posto lo Scarsellini a confronto col miserabile: vile, tre volte vile gli gridava in faccia, ma! … in quel ma, era il giudizio di una intera nazione!

Un medico tedesco famoso per ignominie, lo visitò in carcere squadrandolo d'alto in basso allo scopo di scandagliare se sarebbe atto a sopportare la prova del bastone. Non isfuggì il maligno sguardo al prigioniero, e bastonatemi, tormentatemi gli gridò, non mi strapperete un solo accento!

Dal duro carcere scrisse pietose lettere alla sua desolata famiglia, specialmente alla madre ch'era in cima de' suoi pensieri. E quando vide farsi buio intorno a lui, e che il non esser confesso non lo avrebbe pure salvato da morte, cercò di prepararvi i suoi più cari.

E madre, madre mia, ripeteva ne' suoi scritti, il tuo figlio vuol morire degno di te, del nome che porta, e della patria che vuole redenta!

Condannato con altri quattro al capestro, non impallidì alla lettura della cruda sentenza, ma si preparò a degnamente sopportare l'infamia del patibolo.

Tratto dal lurido carcere al tetro Confortatorio di S. Teresa, volse tutti i pensieri al cielo. E come fu eroico nell' amare la patria, lo fu del pari nella fede in una vita migliore, fede inspiratagli dalla benedetta sua madre. La religione de' suoi avi gli addolcì gli ultimi crudeli istanti, e se il pensiero dello spietato abbandono d' ogni più cara cosa gli strappava furtiva lagrima, egli risollevava lo spirito abbattuto nella speranza che il sacrificio dei pochi, avrebbe prodotto la risurrezione dei molti!

Ah come al confronto di questi nuovi eroi, s'impallidiscono gli antichi di Grecia e Roma!

Per dimostrare quanto accanito negli oppressori fosse l'odio contro questi rivendicatori della patria libertà, diremo come con raffinata barbarie vollero adoprata una scure di nuova invenzione, che più straziante rendeva lo spettacolo del loro supplizio!

Quella scure, o tiranni, con le teste de' nostri eroi, spezzò le catene degli schiavi, e l'infame colonna si mutò nell' albero della patria libertà!

Ah, solo chi per dovere del suo ministero, disse un santo uomo che agonizzò con i martiri di Belfiore, solo chi dovette al pie' delle forche veder penzolare l'esanime spoglia di un condannato, oh! lui soltanto può far fede di quanto l'Italia ha patito nei figli suoi!

Mentre lo Scarsellini con le braccia al sen conserte, com' era di suo costume, dignitoso moveva per l' augusta stanzetta del Confortatorio aspettando l' ora del supplizio, gli si avvicinò un pio sacerdote, e in nome di un pentito prigioniero il richiese di perdonare a un misero, che per debolezza d' animo potè esser causa della morte de' suoi compagni.

Ditegli, egli rispose, che io gli avevo già perdonato, e solo gli do mando di non voler più oltre mostrarsi indegno figlio della giovane Italia!

Provò una gioia di paradiso nel rivedere per l' ultima volta i dolci parenti, e per essi mandò alla madre tutto il suo cuore. E a quella pia volle dedicati i suoi ultimi istanti, con edificantissima lettera, che la madre portò sul seno fino alla tomba.

Si lasciò sperare a tutti della grazia sovrana, ma non vi credette lo Scarsellini.

Il mattino fosco e piangente del 7 dicembre 1852 fu destinafo al supplizio dei cinque giovani eroi; lo Scarsellini giudice e pensatore profondo—Zambelli gentile pittore—D. Tazzoli dotto e pio sacerdote—il Canal filosofo—il Poma medico confortatore dell' umanità sofferente.

I cinque condannati rappresentavano tutta l'italiana gente. Era una sfida a sangue fra oppressi e oppressori, fra la virtù e la forza brutale.

Immenso popolo attratto più che da vile curiosità, dalla speranza di veder prosciolti i prigionieri, brulicava per le vie e si affollava sulla vasta spianata che mena a Belfiore. A veder trascinati su povere carrozzelle quei benedetti, tutti piangevano e piegavano le ginocchia per reverenza.

E intanto si preparavano le cinque forche, e la truppa gialla e nera, vero simbolo di morte, schierata in armi le circondava per tenervi lontana la moltitudine.

Forse che in que' momenti di aspettazione, più non palpitassero di terrore i tiranni che non le vittime!

Venuta la volta del capestro allo Scarsellini, egli senza esitare salì la scala infame, e porse il collo al carnefice, ma poi …. da quella severa sua morta faccia, ancor pareva sfidare i nemici!

Di Belfiore, ahi dura terra perchè non t' apristi?

Più si medita sulla prodigiosa nostra liberazione dallo Straniero, e se ne ragiona con gente d'alto senno, più è forza convincersi, che la pagina più sfolgorante del nazionale riscatto fu scritta col sangue e le lagrime dei martiri di Belfiore!

Gentinaia e centinaia d'integerrimi cittadini, vennero imprigionati, come dicemmo, negli anni 1851-52 e nei successivi.

Molto e molti di essi sarebbero stati come gli Undici, sagrificati dalla ferocia austriaca, se l'invitto coraggio nel difendere loro stessi e i compagni, non avesse spuntata l'arma omicida.

Ma nella lunga prigionia, da sferzate e digiuni più rincrudita, fra le subdole arti de' carnefici, nulla potè mai strappar loro, nè una parola accusatrice nè un doloroso lamento!

Sempre ch' io m' incontri in taluni di questi pochi superstiti, le ginocchia mi si piegano per reverenza e sento dentro rimproverarmi, come da taluno di noi mal si apprezzi una libertà con tanto sangue e tante stragi acquistata!

Chè se fatalmente abbiamo a deplorare fra le centinaia di eroi un qualche indegno accusatore, che col sangue de' compagni comperò la propria salvezza, e se il grave suggello del sepolcro, o una vita di vergogna e di lagrime non valgono a coprire una tanta infamia, deh, che il velo della fraterna carità si stenda su que' miseri, ben più a compiangersi che non gli spenti sulle forche di Belfiore!

Le nefande atrocità ivi dagli Austriaci commesse, furon l'arma più possente in mano a Cavour, quando al Congresso delle Nazioni, altamente gridò: impossibile più oltre un Governo che gavazza nel sangue d'integerrimi cittadini!

Le fetide carceri del castello di S. Giorgio, i tetri conventi di S. Domenico e S. Teresa, la fiera Mainolda, riboccavano de' nostri prigionieri politici.

Era fra questi il professore don Enrico Tazzoli.

Nacque egli a Canneto sull' Oglio, il 19 aprile del 1812, da Pietro giudice di quel luogo e Isabella degli illustri Arrivabene di Mantova. Il fanciulletto Enrico aveva carattere dolce sebbene vivacissimo, cuore aperto, modi i più gentili, volto soave, animato da due occhi di foco che in lui predicevano un grande uomo.

Il padre suo gli fu maestro ne' primi studi, a cui mal si prestava l'indole irrequieta del figliuoletto. Suppliva in lui però al difetto del buon volere, una prodigiosa memoria, vero tesoro delle menti. Cresciuto negli anni, venne posto da prima nel Seminario di Verona, e passato poi in quello di Mantova, ove si innamorò delle ecclesiastiche discipline e spiegò vocazione per il sacerdozio.

Correndo l'anno 1835 venne ordinato prete, e la sua buona famiglia festeggiò in lui il suo angiolo. Dotto nei severi come negli ameni studi, fu ben presto eletto professore in quel Seminario, ove divenne l'idolo di maestri e discepoli. Là, con le dottrine del sacerdozio, imparava ai giovani l'amor dei fratelli e le forti virtù che tornar dovevano Italia alla gloria di un tempo!

Nè pago di predicare dalla cattedra la gran parola, la tuonava pure dal pergamo, unendo al precetto l'esempio. Correva ovunque erano lagrime da tergere, afflitti da consolare, caduti da redimere, al Ricovero, agli Ospitali, negli asili della povera infanzia, nel cupo orrore delle carceri!

Venuto il 1848, che non fece egli mai a pro' dei prigionieri Toscani e Napoletani, caduti a Curtatone e Montanara? Il suo zelo troppo ardente lo fece cadere in sospetto della polizia austriaca, che da quel punto nol perdette più d'occhio. Dopo una fatta predicazione, lo imprigionò per alcuni giorni, e ciò più gli valse la stima de' buoni patriotti che ne fecero uno dei loro capi.

Intorno a questo tempo gli venne a morte il padre, e don Enrico con gli altri fratelli si strinse più fortemente alla madre, da cui aveva succhiato col latte la fede pura del Vangelo, e gli alti sensi di patria carità, ereditari nella famiglia.

Oh, le madri, le madri! …

Ben presto il nome del giovane prete volò per le bocche di tutti, nei circoli come nelle piazze, e divenne spauracchio dell'oppressore. Dietro semplice sospetto di congiura, non si temette di penetrare le sacre mura del Seminario, e nel dicembre 1851 farvi prigioniero il D. Tazzoli, con altro, ahi, pusillanime sacerdote. Alla inaspettata carcerazione non si dolse l'Enrico, che per il dolore che ciò recherebbe alla vedova madre!

E pur troppo quest'anima squisitamente sensibile, non resse a tanta seventura, e dopo lenta agonia, spirò quella santa, bendicendo al caro suo prigioniero! Fu questo, vero colpo di fulmine al carcerato, che non rifiniva di accusare sè medesimo di tanta perdita!

Inaspettatamente, fra l' orrore di tutti, nel dicembre 1852 venne pronunciata sentenza di morte su vile patibolo, contro il sacerdote D. Enrico Tazzoli, e quattro eroici suoi compagni di prigionia.

Non pago il Tedesco di sfogare la cruda rabbia, togliendo dietro sospetti non bene fondati la vita all' innocente prete, obbligò il suo Vescovo a prima spogliarlo degli abiti sacerdotali, sperando di così abbattere la fermezza dell' eroe.

Ma tutto fu invano! Soffocò il martire nell'intimo petto lo strazio sovrumano, e mentre gli astanti piangevano tutti, ei si serbò mestamente sereno.

La sua famiglia chiese e ottenne di vederlo per l' ultima volta, e in quel solenne istante s'illuminò il mesto giovane volto di una gioa di paradiso! Ma chi descrivere potrebbe quello scambio di parole, d' affetti, di sospiri, di uno strazio senza confine?

Chi baciavalo in viso, chi sui capelli, chi stringevasi alle sue ginocchia, chi alle vesti, e chi pietosamente al suo povero giaciglio! ….

Per tutti aveva Enrico voci di conforto, di consiglio, di perdono! Troppo brevi ahi, quei momenti ai tanti desolati cuori. Sul punto di separarsi, prese il buon prete il Crocefisso in mano, tutti li benedisse, nè più li rivide qua in terra! …

Venne il giorno del supplizio.

Il condannato, è uopo ripeterlo, come lo assetato ha irrefrenabile bisogno di spegnere la sete dell'anima nel cuore di fido amico, e un sacerdote da lui richiesto, non lo abbandonò che spento sotto il palco di morte.

Pria di esser tolto al confortatorio di S. Teresa scrisse lettere commoventissime a tutti i suoi cari, nè d' altro moveva lamento che di dover morire qual vile malfattore.

Tre sue amorose desolate congiunte vollero pur tentare di commuovere il Radeschi, si portarono perciò a Verona, e prostrate sulla fredda neve lo aspettavano alla uscita della chiesa di S. Anastasia, ov' egli ascoltava la messa. Da' suoi cagnotti vennero barbaramente respinte, e tornate a Mantova, vi furono accolte da folto popolo sospiroso e tumultuante.

Il giorno fatale salirono i cinque condannati l'erta di Belfiore, fra una siepe di armati sgherri, che circondò le forche lor destinate. S' inginocchiarono i quattro compagni al sacerdote Tazzoli che tutti li strinse nell' amplesso di morte, benedicendoli e loro additando il cielo! E mentre i due primi venivano barbaramente strozzati, ei devotamente pregava, e venuta la sua volta, strettosi alla Croce, che invano il carnefice tentava strappargli, a imagine del divino Maestro senza un lamento porse il capo all' infame laccio!

I due altri venivano poscia sagrificati, e quelle morte teste inclinate sul petto, stavano pur tutte rivolte al Tazzoli, che pareva ancor benedirli!

Nemmeno la terra sacra alle tombe venne concessa a quelle inanimate spoglie, che deposte sotto le orribili forche, coperte da poca polve, mal difese dalle ugne de' cavalli, dal pascolar degli armenti, aspettarono il giorno della giustizia! … E sebben tardi, pur venne!

Ombre vendicate e vendicatrici dei maritiri di Belfiore, che il suolo d'Italia dal vostro sangue redento, mai non calpesti orma nemica!

Se la storia di ognuno dei martiri di Belfiore si rassomiglia, se eguale fu in tutti que' generosi la costanza nel martirio, ciò afferma che il santo amore di patria fu sublime, insuperabile in questi fattori della italica indipendenza. Sono inenarrabili gli atti di eroismo allora compiuti dai figli della giovine Italia.

I supplizì di Belfiore furono, la maggior parte, causati dal prestito indetto dal Mazzini, per fornire i mezzi con cui scacciare gli Stranieri dal nostro suolo. A quest'uopo l'anno 1851 più che altri mai, si vendevano Cartelle obbligatorie, e come avviene, in sul principio assai cautamente, ma poi senza i dovuti riguardi. I giovani, perchè più animosi, se ne facevano propagatori, compromettendo bene spesso, per soverchio di zelo, loro stessi, i parenti e gli amici!

Molti, ahi pur troppo, vennero da ciò tratti nell'abisso delle persecuzioni e dei supplizî.

Fra queste anime più ardenti di patria carità, fu Bernardo dei nobili Canal, nato a Venezia l' anno 1821, da Giacomo e Maria Battistella. Ultimo di molti figli, e per giunta ammalaticcio, era il beniamino della famiglia, per quella legge provvidenziale che fa sopratutto dalle madri prediligere il figlio più bisognevole di cura.

Disgraziatissimo nelle gracili membra, ebbe anche fatalmente a perdere un occhio, e per poco non ri mase cieco pur dell'altro. Senonchè, se la vigoria del corpo gli faceva difetto, aveva forte e svegliata la mente, memoria ferace anzi prodigiosa, e irrefrenabile desiderio di tutto imparare, tralasciando per i libri i passatempi, così da divenire il primo della scuola fra i molti suoi condiscepoli. Fatti i primi studì in patria, li compì alla Università di Padova ove fu laureato in legge.

Era d'animo mite, d'indole dolce, amorosissimo de' parenti, e tenero di quella fede che la pia genitrice gli aveva infusa nel giovanetto cuore.

Fattosi conoscitore profondo delle glorie e sventure d'Italia, cominciò ben presto a sospirarne l'indipendenza, stringendosi ai campioni della patria libertà.

Nel 1848-49 spiegò in Venezia tutto l'ardore del patriottico zelo, servendo il suo paese, e con la penna e con il brando. Caduta la Repubblica per manco di sostegno, egli ne fu desolatissimo, e se l'amore per la madre e le fallaci promesse dell'Austria non lo avessero trattenuto a' suoi lari, egli, come altri cittadini i più compromessi, sarebbe andato esule, portando la patria in cuore.

Nè seppe frenarsi nel desiderio ardentissimo di liberarla dal giogo straniero. Questo sogno ardente della sua giovane vita, il trascinò a immatura e crudel morte sul capestro di Belfiore!

Tutto fu mistero alla sua amorosa famiglia, fino al giorno che improvvisamente sel vide strappare dal seno, per chiuderlo nelle segrete di Mantova, donde uscir non doveva che per esser tratto al supplizio! Fu arrestato il giorno 28 giugno 1852.

Le carceri del castello di Mantova, erano come ben sappiamo, de' muti orribili sepolcri, e tali che sulla porta di qualcuno di essi lo stesso oppressore aveva scritto: da non più usarsi! …

Il processo di questi detenuti politici venne là dentro condotto nell' orrore del mistero più profondo, senza confronto di testimonî, senza difesa di autorevole parola che potesse almeno attenuarne la pena!

Il Canal, fecondo, eruditissimo scrittore, per la propria noncuranza nel raccogliere i suoi dettati, e per il terrore che fece alla sua famiglia tutte distruggere le sue carte il giorno della sua improvvisa carcerazione, non lascia testimonio alcuno della sua dottrina, ma la sua eroica costanza prova a evidenza la profondità delle sue politiche convinzioni.

Dal castello di S. Giorgio come dal Confortatorio di S. Teresa, scrisse lettere commoventissime a' suoi più cari, dolendosi con essi di non lasciar loro larga eredità d' affetti! …

Martire nostro, e qual più santa eredità di affetto, del tuo eroico patire, per cui dai viventi e dai posteri sarai benedetto? …

Bernardo era alto della persona, aveva nera la capigliatura, bruna la non folta barba, spaziosa la nobile fronte, e risplendente quell'occhio che crudel malore non gli aveva spento. Dal patito suo volto, spirava tanta soavità d'affetto, che ognuno era costretto di amarlo!

L' asprezza del suo carcere, il trovarsi da solo a solo con la sua coscienza, ravvivò in lui quella fede, forse dalle turbinose passioni indebolita, ma che come fu la gioia degli innocenti suoi ani, divenne il conforto de' suoi ultimi giorni.

Egli non seppe resistere al bisogno di rivedere almeno il padre, e il venerando vecchio, nell' ultimo abbraccio del figlio suo, quasi quasi al dolore veniva meno! …

Dal Confortatorio di S. Teresa, con funebre corteo, assieme a quattro compagni di sventura e di gloria, fu tradotto alle forche di Belfiore.

Ahmè, che come più sopra accennammo, con raffinata barbarie volle il nemico usato uno strumento di nuova fattura, quasi temesse che le recise teste sorgessero vendicatrici del nazionale diritto!

Come son ciechi i carnefici della libertà dei popoli! Più altamente di ogni voce, parla la virtù di questi eroi, il loro esempio, perchè non si spenga il sacro foco del patrio amore!

Con il Canal, caddero quel giorno per mano del carnefice, D. Enrico Tazzoli, Giovanni Zambelli, Angelo Scarsellini, Carlo Poma, sante primizie di quei benedetti martiri.

Quarto dei cinque, fu chiamato al supplizio il Canal, e venuta la sua volta, si tolse di sue mani la cravatta dal collo, la consegnò al sacerdote che gli stava confortatore a lato, dicendogli: Questa, per la mia povera mamma, e un bacio a tutti i cari miei.

Barbaro suolo di Belfiore, e chi nel ricalcarti di tanto eroico sangue bagnato, non sentirà la coscienza rimproverargli le basse invidie, gli odî di partito che oggi funestano la terra dei liberi?

Vile, chi di noi sostituire volesse alla libertà la licenza, al regno dell'ordine il caosse dell'anarchia, che per tortuose vie ci ricondurrebbe alla schiavitù, al dispotismo!

Sulle ginocchia materne si formano gli eroi.

Carlo Poma, valente in medicina e chirurgia, sagrificato dagli Austriaci a Belfiore, nacque a Mantova l'anno 1823 il sette dicembre, e fu spento pure nel fatal sette dicembre del 1852.

Gli fu padre il giudice Leopoldo Poma, consigliere di Tribunale, uomo riverito per rettitudine, dottrina, e patriottici sentimenti. Sua madre fu la illustre Anna Filippini, donna di antica virtù, e di cui non saprebbesi se più ammirare l' altezza della mente o quella del cuore.

Morto di crudel morbo l' anno 1836 ai figli ancor teneri il genitore, ella si strinse più fortemente alla numerosa giovane famiglia, e con essa abbandonò il luogo natio, per recarsi in Pavia a compiervi l' educazione dei figli maschi. Ritornò a Mantova quando Carlo, il minore di tutti, aveva già côlta laurea in medicina e chirurgia.

Salito ben presto per il suo merito in alta fama, venne invitato a prestare la generosa opera sua nel patrio ospitale, quel santo albergo degli umani patimenti. E tanto intelletto di amore egli vi pose, che dir solevasi, avere per i suoi malati il cuore di un padre e le viscere di una madre! Di ciò sia prova, che spento egli già da tanti anni, la sua memoria benedetta viene colà tramandata di bocca in bocca, e ai visitatori del pio luogo si mostrano con reverenza le stanze che esso occupava, i suoi libri e quanto ancora di lui parla al cuore degli infelici, che la sua carità sapea confortare!

Le azioni del medico Carlo Poma erano improntate di quell'ardore disinteressato, che distinguer deve i seguaci di quell'arte che più accosta l'uomo a Dio. E quando stanco delle fatiche del giorno, cercava riposo fra le pareti domestiche, divider soleva le brevi ore fra le amorose accoglienze della pia genitrice, e l' occuparsi in severi o più ameni studi. Profondo conoscitore delle scienze naturali, trasfonder sapeva ne' suoi giovani allievi, col sapere, lo zelo di giovare all' umanità sofferente, onorando in pari tempo la patria. Seguace del poetico genio materno era buon poeta come buon prosatore, e bene istrutto in varie lingue straniere.

Tutto ciò congiunto a un illibato carattere, lo faceva ricercato in ogni più culto ritrovo, e in lui posero ben presto fidanza i più atti patriotti italiani.

Eravamo al 1850, epoca delle cospirazioni per iscacciare d'Italia lo Straniero. Si formarono, come sopra dicemmo Comitati, e questi divisi in Circoli, ognuno de' quali presieduto da uno de' più forti nostri campioni.

Carlo Poma veniva a ciò destinato. Scopertasi la congiura e per la colpevole debolezza di alcuni anche il nome de' compromessi, si passò tosto agli arresti.

Era una notte buia, buia, e Carlo immerso in profondo sonno, sognava di rivedere la madre, che tornar doveva col nuovo giorno dalla campagna.

Fra il terrore della desolata famiglia, veniva strappato dalle braccia de' fratelli e condotto alle prigioni della Mainolda, da cui poscia al castello di S. Giorgio. E là rinchiuso in umida stanzaccia, dalle mura insudiciate, il soffitto a vôlta, ove la curva incominciava dal pavimento a fare di quell'antro un vero soggiorno di morte!

Soli arredi, un duro pagliericcio, due olle una per l'acqua, l'altra per le immondizie. A sei ore del mattino vi entravano due soldati con un secondino, slucchettavano la finestruola togliendone per pochi istanti le impannate. Il prigioniero, impedito dalle catene di sollevarsi da solo, si faceva da essi prestare aiuto, e correva a bevere da quell' abbaino qualche boccata d'aria, di cui sentiva irrefrenabile il bisogno. Sparite le guardie, rimaneva là solitario per ore e ore, a misurare il tempo che lo avvicinava all'eterno! …

La madre di Carlo, all'improvviso annunzio della carcerazione del figlio, non mandò pure un lamento, perchè le spie dei carnefici non si pascessero delle lagrime materne.

Nel segreto però della vedova stanza, schiacciata, i giorni e le notti, sotto un pensiero unico, desolante, non ebbe più momento di pace! … Dal suo cuore stillava sangue, ma ella trovava pur nondimeno parole di speranza per il suo prigioniero! E che non immaginava a confortarne la solitudine? …

Le quante sere, fratelli e amici passavano e ripassavano sotto le cupe vôlte di quel suo carcere, facendo penetrare alle sue orecchie le sospirose lor voci!

E beata più ancora quella relitta se ascoso fra le pieghe di qualche veste al prigioniero concessa, poteva fargli giungere un solo fiore! …

Era poi una festa per tanti cori, se per ingegnosi ritrovati del chimico carcerato, egli riusciva a imprimere su di una camicia riportata alla famiglia, i suoi confidenti caratteri, sfuggiti a profano sguardo. E queste preziose memorie, gelosamente custodite dall'amor de' parenti, con altre de' compagni sagrificati, sono ora glorioso retaggio di tutto un popolo!

Come onda incalzata dall'onda, pensieri e affetti del condannato si combattono entro il suo cuore, e ne fanno strazio. La terra e il cielo, il mortale e l'eterno, tutto a un punto gli si affaccia! …

Se a chi versa in pericolo della vita, pur confortato dalla speranza che mai non abbandona, è doloroso il morire, che non sarà mai di chi nella pienezza della vigoria, vede avvicinarsi ineluttabile l'ora suprema? E questa non confortata dal sorriso d'amici volti, ma fatta più cruda dal ceffo rude del carnefice! …

Quando tutti aspettavano la grazia sovrana, fatta sperare ai prigionieri politici, ecco piombare come folgore sentenza di morte su vile patibolo, a Carlo Poma e quattro compagni suoi. Invano nobili matrone si portano in Verona ai piedi di Radeschi, e ne tornano sconosolate!

Chè la settantenne madre del Poma, affranta più che dagli anni dai patimenti, nel più crudo di un rigido verno, vuole trascinarsi a Vienna ai piedi dell'augusta Regnante, che pur essa è madre, a implorare dalla sua intercessione la vita del figlio! …

Ahi, non sapeva la misera che i despoti non hanno un cuore!

Giunta a Trieste, le si ingiunge di rifar la sua via, e quando a Mantova ella ritorna … non trova più che un cadavere! …

E il derelitto figlio, ottenuto di rivedere i suoi cari, non vide fra essi la madre, ch'era in cima dei suoi pensieri, il sogno delle sue notti, il sospiro de' numerati suoi giorni! … Lei sempre chiamava, e benedicimi diceva, che io voglio morire di te degno!

Tu con l'esempio e col precetto mi inspirasti la religione del dovere, la carità per gl' infelici, l'amor del lavoro, e tutto il poco che io sono, a te sola lo debbo! Tu fosti sempre un libro aperto per i figli tuoi, che furono le sole tue gioie, e ahi me misero, che con la mia morte ne fo' il tuo martirio!

Perdono, o madre, chè se io volli far libera l'Italia a prezzo della mia vita, non macchiai le mie mani dell'altrui sangue, ma come meglio seppi, salvai da morte il mio stesso nemico!

Carlo, era di que' forti caratteri che col sagrificio di loro medesimi, cercavano educare il popolo alla virtù. Voleva la concordia degli animi, che sola dar poteva alle moltitudini quella forza morale, a cui nessun despota saprebbe resistere. Confidava sopratutto nel progredire dell'idea, che qual fiume giù giù scende, e a poco a poco s'ingrossa, finchè supera ogni argine, e tutto trascina nel vorticoso suo corso.

Rammentava i primi albòri di libertà, il 21, 31, 48. Vedeva gli antesignani del nostro politico risorgimento, andar carponi fra le tenebre, poi a capo chino e finalmente sollevare le fiere teste alle forche di Belfiore!

Da ciò intravedeva non lontana la libertà e l'unione d'Italia, sotto un Re italiano!

Tradotto, dopo la condanna, dal Castello di S. Giorgio al Confortatorio di S. Teresa, chiese di un amico sacerdote, che gli fosse a canto nel duro passo. A questo pietoso confidò tutto sè stesso, e l'ultimo bacio per la pia genitrice che andrebbe a precedere in paradiso!

Quel giorno e molti altri appresso, furon giorni di italiano lutto! I cittadini di Mantova, scontrandosi per via, si salutavano con un sospiro.

Un tristissimo caso rese più straziante il transito dei cinque, dal Confortatorio di S. Teresa a Belfiore. Fatalmente la casa dei Poma era posta in contrada larga, a cui il funebre corteo passar doveva vicino Da una finestra spalancata si udì un orribile grido: era di una sorella del Poma, a cui fino a quel giorno si era lasciato sperare nella grazia sovrana!

Alla nota voce, Carlo abbrividì, venne meno! … Ma un de' compagni gli susurrò all'orecchio che tutta Italia era a' suoi martiri intenta, e tornò nel martire la virtù sopita!

Nè più il commossero, il rullar de' tamburi, le stridule voci delle guardie, nè quella dell' auditore che sotto le forche rilesse la sentenza di morte.

Carlo Poma, fu dalla sorte destinato a essere l'ultima vittima, e così quest'anima pietosa agonizzò non una, ma cinque volte. Le sue estreme parole furono: Signore, vi raccomando la madre e la patria mia!

—E la madre? …

Il suo immenso cordoglio, compresso al di dentro, scavò più profondo un abisso in quel delicato suo cuore. Visse anni di una vita peggior che morte! Si strusse invano nell'ansia brama di portare lagrime e fiori sul cenere del figlio! Nel suo dolore senza speranza, invidiava alle molte madri, meno di lei sventurate, cui ogni giorno novello avvicinava all'istante di veder libero il prigioniero! …

Insopportabili le divennero que' luoghi testimonî delle sue gioie materne, e che echeggiare or parevano dei gemiti del figlio suo! Si ritrasse a vivere in un suo recinto, nel silenzio de' campi, ove sfogare lontana da umano sguardo la piena del materno dolore!

Il 15 giugno 1863, stanca dell' umano patire, volò al suo martire in cielo!

—Deh, che le inenarrabili angoscie di tante itale madri, non tornino infeconde a questa patria con tanto sangue redenta, e risollevando lo sguardo alle forche di Belfiore, duri virtuosa e forte, sotto lo scettro del magnanimo Re italiano, all'ombra della gran Croce Sabauda!

L'aureola de' Santi pareva riflettere
sulla sua nobile testa una letizia
di paradiso!

Gloria di Verona e d'Italia, qui nacque il 14 settembre dell'anno 1810, da nobili e specchiatissimi genitori, conte Carlo Montanari. Cresciuto alla scuola della famiglia nella religione de' suoi avi, e nel vero amore di patria, fede e patria furono i due più forti affetti della intemerata sua vita.

Se fin da fanciullo in lui non apparve quel fulgore del genio che abbaglia, vi si manifestò un intelletto avido di sapere, un fermo proposito nel bene, che mai nol lasciarono indietreggiare dinanzi a pericoli. Fatti a Verona i primi studî, li compiva splendidamente alla Università di Padova, qui ritornando laureato in matematica.

Viaggiò poi tutta Italia, attingendo agli avìti glorisoi monumenti, maggior lustro al suo giovane ingegno, e più ardente desiderio di tornare la patria al prisco onore. Si prestò poi sempre a quanto di bello e di utile si faceva in Verona, messo a capo di scientifiche e filantropiche istituzioni.

Di lui ebbe a dire l'illustre Cavalletto, che col Montanari e altri martiri ebbe comune l'amor santo di patria e la prigionia, che il cittadino veronese era veramente di tempra romana.

Venuto il 1848 co' suoi splendori e i troppo presti disinganni, fu allora che il Montanari giurò a sè stesso di tutto consacrarsi all' Italia, morendo, per cosi dire, alla propria famiglia. Di quell'epoca fece anzi il suo testamento quasi a suggello del forte proposito.

E che non oprò egli mai per inspirare fiducia negli oppressi, e tener desto il coraggio nei generosi? Amico per conformità di sentimenti ai più caldi propugnatori della italica indipendenza, cadde ben presto in sospetto della gelosa polizia austriaca. Una prima volta venne arrestato, e subir doveva nelle carceri di Venezia otto mesi di prigionia, di cui ne scontò soli cinque, a merito del zelante Patriarca Mutti, che sendo prima vescovo di Verona, aveva conosciuto gli alti meriti del Montanari nella sua città nativa.

Liberato dagli artigli dell'Austria, all'avvenuta carcerazione del suo adorato fratello che non fece per ridonarlo alla desolata madre, alla sposa, ai figli? Oh, come anelava di scontare la pena in vece sua, avido di correre per sentiero di spine al maritirio a lui destinato!

Avvenne in seguito che alcuni suoi amici di fede politica vennero pure fatti prigioni, e la madre, il fratello supplicarono il loro Carlo di torsi con la fuga a nuovi pericoli. Ma egli rispose che starebbe fermo al suo posto, che l'uomo d'onore non deve mai venir meno a sè stesso, e che fuggendo aggraverebbe forse la condizione dei compagni prigionieri.

Non valse al Montanari essere l'amico, il coadiutore di D. Mazza, quel santo apostolo della carità in Verona, che quando il pericolo pareva già scongiurato, il giorno 8 luglio 1852 venne improvvisamente arrestato e tradotto nelle segrete di Venezia, donde al Castello di S. Giorgio in Mantova.

Nelle prigioni come ovunque divenne l'amore e l'ammirazione di tutti, per la dignità del carattere, e il molto sapere accoppiato a una modestia senza pari.

Fra le torture dell'aspra sua prigionia, fra i subdoli interrogatorî e gli starzî di ogni maniera a cui lo sottoponevano gli spietati suoi giudici, egli mantenne la serenità del giusto, e solo il pensiero della madre ottuagenaria gli strappava una qualche lagrima, che divorava nel segreto della tenebrosa sua cella.

Dopo avere il Tedesco sparse ingannevoli voci di perdono a tutti i prigionieri politici, forse a calmare le agitazioni ognor crescenti delle città nostre, che fremevano al sospetto di vedere sagrificati altri integerrimi cittadini, il giorno 25 febbraio 1853 fu dal Consiglio di guerra pronunciata sentenza di morte, su orrendo patibolo, contro Carlo Montanari, il parroco Grazioli e Tito Speri.

Dal Castello di S. Giorgio vennero allora passati al Confortatorio di S. Teresa, ultima stazione del doloroso Calvario.

Il Montanari, come i compagni suoi, udì dignitoso la ria condanna, e la sua fede sincera in una vita migliore, tutta apparve nella calma del suo spirito imperturbato.

Tanto è vero, che si può essere veri credenti e veri patriotti!

Al pietoso sacerdote che gli fu a canto nei supremi momenti, come al più fidato amico apriva desideroso la pura anima sua, manifestandogli l'ardente brama di rivedere ancora una volta la sua adorata famiglia. Temendo egli però che questo voto di un morente venissegli contrastato, scrisse pietosa, edificante lettera al fratello, con cui aveva comuni i sentimenti, gli affetti, e a lui raccomandò l'addolorata madre, tutti i suoi cari, gli amici, i servi che con l'ultima testamentaria disposizione lasciava beneficati. E al fratello commise pure di mantenere immacolato l'onore dell' illustre sua casa.

Concesso alla famiglia del Montanari il sospirato bene di rivedere per l'ultima volta il martire caro, i parenti angosciosi furono in sull'ore prime del giorno destinato, a Mantova, e là lungamente aspettarono d' essere a lui condotti! ….

E Carlo intanto, abbracciato al Crocefisso impetrava dal Divin martire la forza di mantenersi calmo innanzi a quei desolati, per non accrescere col proprio il loro strazio.

Allo schiudersi del ferrato cancello, si slanciò il prigioniero in mezzo a' suoi, e voleva tutti a un punto abbracciarli, mentre quegli esterrefatti, quali stretti al suo seno, quali alle sue ginocchia, gli si tenevano afferrati come il naufrago alla tavola di salvezza.

Sgorgata nei singulti la piena del dolore, giunto l' istante del separarsi, si strinse il figlio convulsamente alla madre, e indi ponendola fra le braccia del fratello, rimase là immobile a riguardarli, nè ben morto nè ben vivo! ….

Varcato ch'ebbero i derelitti il limitare della stanza fatale, rivolsero lo sguardo angoscioso per vedere ancora una volta il figlio, il fratello, lo zio, ma già il rigido Croato guardava il cancello della buia sepoltura! …

Riavutosi a poco a poco il prigioniero dal fiero colpo, seguiva i passi di quegli abbandonati, benedicendo il Signore di avergli concessa quest' ora di suprema consolazione.

Ultima grazia, chiedeva a' suoi spietati carnefici di venire almeno sepolto entro a sacro recinto, ove parenti e amici confortassero le sue ceneri di pianto, ma questo voto non fu esaudito. Chè troppo premeva all'oppressore di cancellare, se possibile, dagli oppressi la santa memoria de' loro martiri!

Il mattino scritto a caratteri di sangue nella storia, destinato al supplizio di Montanari, Grazioli e Speri, fu il 3 marzo 1853.

Salì conte Carlo Montanari, senza un lamento, l'erta che conduce alla sanguinosa valle di Belfiore, posta a destra della via che univa fra di loro le città lombarde. Là, su quel suolo ancor caldo di altro generoso sangue, i tre eroi si scambiarono un ultimo sguardo, quasi a promessa di mantenersi forti dinanzi al capestro.

Primo a montare il patiboto fu il Montanari. Posto a lui barbaramente sul collo il laccio infame, levò gli occhi al cielo per non più staccarneli che quando l'anima benedetta fosse già volata al suo Fattore!

Per una crudele ironia, troppo consueta a chi vuole ammantare di giustizia la barbarie, il carnefice dell'Austria chieder doveva perdono alla vittima pria di strozzarla, e a lui il Montanari rispose con un calmo amaro sorriso.

Il parroco Grazioli, e ultimo il giovane Tito Speri subirono un'egual sorte, e in sulla sera di quel tenebrosissimo giorno, le tre venerate spoglie furono sepolte sul luogo del supplizio!

Verona, Mantova, Brescia, generose città, culla amorosa dei tre eroici figli, a dispetto della fremente polizia austriaca portarono lungamente il lutto dei tre loro martiri. E non appena, queste provincie furono unite alla madre patria, con uno slancio d'ineffabile amore corsero a diseppellire i preziosi avanzi di questi antesignani del nostro riscatto, e fra le lagrime di tutto un popolo, anche il nostro Montanari, vivente ancora la madre antica, venne onorevolmente riportato a Verona, e deposto nella illustre tomba de' suoi maggiori, le cui ossa fremettero per tanta gloria! …

Qui posa in pace, o benedetto, e questa forte terra guarda per sempre da nemico oltraggio! Al tuo esempio imparino i giovani a degnamente amare la patria!

E chi di noi, al passare dinanzi la soglia della signorile tua casa, sulla via che da te prese il nome, alla vista di que' luoghi che ti videro nascere, di quelle stanze, quel giardino, quelle piante annose, di cui nulla mai venne mutato dalla tua morte, e par tutto sospiri di rivederti, chi non sente corrersi per le ossa un gelo, e non vorrebbe prostrarsi a que' marmi, su cui a caratteri eterni scolpì Verona riconoscente, di Carlo Montanari le glorie e l'eroica fine? …

Ogni classe, ogni ordine di cittadini, sacerdoti integerrimi, uomini della scienza e del lavoro, militi generosi, tutti tutti concorsero a formare l'Italia, una, libera e forte fra le più colte nazioni. In questi si compendia la storia di due generazioni, che dal 1821 al 1866, in amaro esiglio, sui campi di sanguinose battaglie, su patibolo obbrobrioso, diedero la generosa lor vita!

Onore della chiesa e della patria fu il sacerdote Bartolomeo Grazioli. Egli nacque da poveri ma onoratissimi genitori, nella borgata di Fontanella sul Bergamasco, l'anno 1804. Nell' umile sua famiglia regnava quella buona fede, che chiameremo antica e che lungamente si mantenne ne' luoghi dalle città più appartati.

Fin da giovinetto apparve nel nostro Bartolo uno spirito pronto, un' indole vivacissima, un carattere schietto, un cuore il più affettuoso. Fatti i piccoli studi nel suo paesello natale, li compì nel Seminario di Mantova, ove l'anno 1827 fu ordinato sacerdote. Egli amava di preferenza le scienze più severe, non intralasciando però di erudirsi negli ameni studi, ben conscio che il prete deve essere luce di sapienza per bene istruire le genti alle sue cure affidate. Col più avanzare dell'età coltivò di particolare amore la sacra eloquenza, facendo prediletto suo libro il Vangelo, suo autore l'angelico S. Tomaso.

La debole salute il tenne per più anni legato al luogo natale, e là divenne consigliere e sostegno de' suoi compaesani, che ammaestrava con l'esempio e con la parola.

L' anno 1842 fu eletto parroco della importante borgata di Revere, che festevolmente l'accolse. A provare l'umiltà di quel cuore, diremo come egli andasse ripetendo: e potrò io mai soddisfare ai bisogni del mio popolo, così umile di nascita, d' intelligenza, di modi, e così inesperto del vivere cittadino?

è forza invece d' asserire, che tanto più potrà il buon pastore conoscere e sollevare la miseria dei poverelli, quanto meno ne sia lontano.

Non parve vero al buon figliuolo di seco condurre i semplici suoi genitori, per dividere con essi, non il tesoro dei poveri, ma la parca mensa che a sè destinava.

D' indole irritabilissima, pronto all'ira come al perdono, egli seppe sempre dominare sè medesimo, dando agli altri esempio di mansuetudine. Dall'altare predicando, egli snebbiava le menti dai pregiudizì e andava ripetendo, che la religione del Cristo è una legge d'amore, nè si deve convertire in tirannide, facendone pretesto di basse passioni. Nè questa religione di carità, spegne le sante affezioni del cuore, spezza i vincoli che legano il prete ai propri fratelli, ma fa che il sacerdote sia anello di congiunzione fra la terra e il cielo!

Sempre modesto per sè medesimo, tenne egli però alto il decoro del sacerdozio; pietoso fino alle lagrime per le altrui sventure, era largo di conforto agli afflitti, di consiglio agli erranti, di appoggio ai deboli.

Stretto con una mano il Crocefisso, con l'altra la fiaccola ardente della carità, non temè di offrirsi vittima sull' altare della patria per gli oppressi fratelli. Dall' alto del suo patibolo egli fece maggiormente risplendere, insieme congiunte, la virtù del sacerdote e quella dell'eroe!

Mentre intento alle cure del suo ministero, testimonio agli atti più solenni della vita, riceveva l'uomo dal nascere e ultimo l'abbandonava sul letto di morte, era il rifugio della vedova e dell'orfanello, il 17 giugno 1852, dietro subdole accuse, il buon parroco venne improvvisamente catturato e tradotto nelle segrete del Castello di S. Giorgio in Mantova! Fu ciò vero colpo di fulmine per tutta l'indignata popolazione di Revere, che altamente onorava il suo adorato pastore.

La calma dell' uomo giusto non lo abbandonò un solo istante, e la sua cristiana rassegnazione ne fece un vero martire.

Un superstite compagno di cattura, che sostenne lunghe torture nel carcere, e bene addentro nelle segrete cose, assicura, che il parroco don Grazioli, per il grave suo ministero, non si era immischiato nei Comitati liberali, nè reso d'altro colpevole che di troppo amare la patria. La sua condanna fu dunque una solenne ingiustizia, e l' innocente suo sangue cadde sui propri crocifissori!

Ma le vittime erano già destinate; il sacerdote Grazioli, il conte Montanari, Tito Speri vennero insieme condannati alle forche di Belfiore! Dal Castello di S. Giorgio furono perciò trasportati nel luttuoso Confortatorio di S. Teresa, ultima stazione del doloroso calvario. I giorni estremi di un condannato sebbene i più dolorosi, pur fuggono come lampo, perchè l'anima par fuggire con essi.

Il buon prete, dopo la sua condanna venne sottoposto alla ecclesiastica degradazione. Lugubre cerimonia, ch'egli però sostenne con la dignità dell'uomo che sa di compiere un alto dovere!

Scrisse brevi e commoventissime lettere a' suoi desolati genitori, agli amici più cari, ma ricusò il sospirato conforto di rivedere i suoi poveri vecchi, per risparmiare a quelli l'estremo addio!

Il giorno 3 marzo fu destinato al supplizio. Si alzò assai per tempo, pregò, meditò sull'Evangelo, affidò ogni sua cosa a un degno sacerdote che doveva accompagnarlo fino sul palco di morte, e al cuore di lui pietosamente raccomandò i derelitti suoi genitori.

Quand'ecco odesi per le segrete un muoversi inusato, uno zittire, un romorìo di soldati tristamente intenti a severo ufficio; vedesi passare su e giù dal finestrello della prigione, un ufficiale in abbrunita divisa, impartendo ordini alle sentinelle.

I tre prigionieri, tratti fuori dai loro antri, s'incontrarono ne' corridoi, e là si scambiarono uno sguardo di celestiale saluto!

Alla vista dei tre condannati, si fece dall'accorsa gente un sepolcrale silenzio, solo interrotto da qualche mesto sospiro. Passandosi innanzi a Porta Pradella don Grazioli proruppe in lagrime, giacchè quella metteva alla dimora dei suoi poveri vecchi.

A Belfiore stavano le tre forche innalzate poco lunge dal sito, ove alcuni mesi innanzi venivano sagrificati i cinque altri eroi! Con gli occhi sollevati al cielo salì il sacerdote sul palco a lui destinato, e nel cader del suo capo reciso si udì da quello uscire un gemito che fece gli astanti prorompere in pianto.

Poca lurida terra fu gettata su quei preziosi avanzi; senonchè un'anima generosa, fra tanti vili sgherri dell'Austria, slanciò il proprio mantello sul volto di quell'unto del Signore!

Che la terra a te pure sia lieve, o anima benedetta!

Mantova e le città sorelle, vestite a gramaglia, protestarono solennemente contro gli oppressori del nazionale diritto. E nel dì che Italia fu libera, anche le ceneri del Grazioli vennero ridonate all'adorazione de' suoi parrocchiani.

All'orribile annunzio della morte del figlio suo, la povera madre per lo schianto del cuore ebbe quasi a morirne; il padre invece, d' indole più ardente, fece ne' primi momenti temere per la sua ragione, gridando, chiamando altamente il suo caro, sua vita, suo paradiso! …

Poi chiuso in un muto dolore, andò poco a poco struggendosi, e dopo brevi anni di una vita peggior che morte, col nome del suo figliuolo sulle labbra, aprendogli pietosamente le braccia, chiuse gli occhi alla terra per rivedere il suo figlio in Dio!

“Biondo era e bello e di gentile aspetto.”

Brescia, la nobile e generosa Brescia, posta alle falde di un colle ameno, e il cui territorio bagnato da più fiumi è fertilissimo, fu sempre terra di sensi patriottici, e l'anno 1849 con la forte sua resistenza, sostenne l'onore della causa italiana, avvilita dalla fatale caduta di Novara.

In tanto sorriso di cielo, da non ricchi ma onoratissimi parenti, nacque Tito l'agosto del 1825.

Morto a lui il padre mentre era ancor giovinetto, rimase alle cure della vedova madre, che a sopperire agli scarsi suoi economici mezzi, raddoppiò di zelo, e con l'assiduo lavoro delle sue mani potè educare il figlio ne' belli studi, a cui fin da fanciullo si mostrava inclinato. Oh, è ben vero che sulle ginocchia materne si formano gli eroi; e così Tito all'esempio della pia madre, donna di generoso sentire, crebbe in virtù e in senno, e divenne giovane ancora, l'idolo de' suoi concittadini e di quanti lo conoscevano.

D' indole nobilissima, di cuore aperto, di umore il più lieto, facile della parola, aveva fibra delicata ma energica, animo cavalleresco, mediocre statura, bruno il colorito, alta la fronte, neri e scintillanti gli occhi, biondi i capelli, rara la barba al mento.

Era pur forte del braccio, agilissimo delle membra, e gentile ne' spigliati suoi modi, vero tipo bresciano Lo svegliato ingegno gli traluceva de tutta la persona.

Nel 1848 subito dopo le famose cinque giornate di Milano, corse ad arrolarsi nella guardia cittadina, e combattè di poi nella Compagnia dei giovani lombardi.

L' anno 1849 dopo le sventure di Novara, si fe' l' anima degli insorti Bresciani, e in quelle gloriose dieci giornate di rivoluzione di un popolo, che altamente sentiva l'offeso onore italiano, egli pareva convertito in un antico eroe, mentre guidava i suoi alla difesa, impedendo loro ogni atto men che generoso contro il nemico.

Ma quando vide inutile, anzi dannosa ogni ulteriore resistenza, fu lui stesso a inalzare bandiere bianca, gridando: Entrate, ma non per amore, per forza! …

Caduta Brescia, molti de' suoi emigrarono, ma non però Tito, perchè ci aveva la madre! …

Fu ella medesima che in nome dell'estinto padre glielo impose, quando s'accorse che il rimanere poteva essergli fatale. Andò Tito prima nella Svizzera, e poi a Torino ove venne adoperato nella pubblica istruzione. Passato qualche tempo non seppe resistere al desiderio di rivedere la madre, e fidan do anche forse nell'amnistia promessa dall'Austria, tornò in patria, ove l'improvviso ritorno fe' sospettare ai malevoli della sua fede politica. Le ingiuriose insinuazioni furono schianto a quell'anima d' eroe, che dolente di non poter nulla operare a prò della patria, si chiuse nei geniali suoi studì e diede fuori poesie, drammi, romanzi, preparando inoltre documenti per una storia d'Italia dell' ultimo secolo.

Ma la sospettosa polizia austriaca, che avversava gli ingegni svegliati, da cui vedeva sorgere i debellatori del suo dispotismo, nol perdè mai d'occhio, e dopo fatti parecchi arresti, la sera del 26 giugno 1852, mentre Tito era fuori della propria casa lo fece prigione, senza pur concedergli di dare un addio alla madre sua!

Amici pietosi ne portarono alla poveretta il desolante annunzio, e ella ebbe a dire: il core me lo presagiva! … oh, potessi almeno vegliare al suo capezzale, giacchè egli da qualche giorno è febbricitante! …

Poi nel terrore di una perquisizione, abbruciò le carte del suo Tito, privando forse la patria letteratura di pagine preziose. Ma chi non l'avrebbe fatto?

Il prigioniero aveva infatti la febbre, e ciò nondimeno venne tradotto la stessa notte nel luttuoso castello di Mantova.

Al passare, egli disse, sotto la orribile vôlta, al salire di quelle eterne scale, sulla soglia della porta fatale che si rinchiuse dietro i miei passi, allo stridore dei duri catenacci, fra quelle sentinelle del colore di morte, all' essere spogliato di tutto il mio, e là solo, senza più un sorriso di volto amico, non credetti di poter sopravvivere.

E—madre, madre—gridava nel delirio della febbre: Madre ove sei che non soccorri il tuo povero figlio? …

Gettato su duro pagliericcio, schifoso per molti insetti, il male di Tito si andò aggravando e fe' temere della sua vita. Fu allora che un pietoso sacerdote ottenne di apprestargli un buon letto, beneficio che non dimenticò più mai!

Passati però quei primi giorni d' infermità e di morale abbattimento, come il leone che scuote la chioma e torna ardito, il prigioniero forte della propria intemerata coscienza, ridivenne tranquillo, anzi gioviale, e si fe' l'amore di quanti l'avvicinavano.

Fra le torture del duro carcere, trovava parole di conforto per la desolata sua genitrice, e nelle amorose lettere le insinuava di confidare nella sua innocenza, proibendole di scendere a preghiere con l'inimico per la sua salvezza.

Dopo lunghi giorni di terrori e di speranze, ad arte alimentate dall'oppressore per tener calme le popolazioni, improvvisamente si pronunciò sentenza di morte su vile patibolo, contro il conte Carlo Montanari di Verona, il parroco Grazioli del Bergamasco, e Tito Speri di Brescia!

I primi momenti dopo la condanna sono i più terribili per i condannati! Come in una visione loro si affacciano le gioie della famiglia, i baci materni, le speranze dei primi anni, le angoscie del distacco, lo strazio dell'ultimo irrevocabile addio! …

La lugubre cella di Tito invece parve da quel giorno convertita in un asilo di pace.—Guai—egli diceva, all'uomo senza fede! egli non compirà giammai opera generosa, perchè solo il pensiero di una vita futura può fare gli eroi! … E quanto più si avvicinava l'ora dell'estremo supplizio, più si ingigantiva il suo coraggio, e pareva cittadino men della terra che del cielo!

Dal ferreo Castello di S. Giorgio venne con gli altri condannati tradotto nella lugubre stanza di Santa Teresa, e di là alla valle dolorosa di Belfiore!

Giunta l' ora di morte, si vestì Tito come a festa, e sereno in volto, gentile negli atti, seguì i due compagni sul palco, non del disonore ma della gloria. Quando i tre eroi apparvero sui carri de' condannati, le accorse genti ammutolirono, e piegando il ginocchio dinanzi ad essi, altamente li riconobbero per i loro salvatori!

A Belfiore si scambiarono, il Montanari, il Grazioli e lo Speri, un pietoso fraterno sguardo, e questo chiese in grazia di essere appiccato l'ultimo, per risparmiare ai compagni la lunga agonia.

Subito dopo lo strazio di veder cadere dalle forche le mutilate spoglie de' due martiri cari, si tolse il fazzoletto dal collo e lo consegnò al fido sacerdote che gli stava a lato, pregando di darlo per sua memoria all' ingegnere Cavaletto, con cui aveva nel carcere stretta la più cordiale amicizia. Indi pose il collo sotto il capestro, e al rude tocco di quello la sua fronte allibbì, ma non il suo coraggio che non venne mai meno. Come gli uomini, i celesti per l'orrore si copersero il volto!

Oh, se que' tanti che oggi cangiano la libertà in licenza insegnando al popolo di calpestare ogni freno, per tutto sagrificare alle proprie disordinate passioni, pensassero alle migliaia di vittime per noi immolate, oh no, che non si farebbero carnefici di una patria, con tanto sangue redenta!

Si cessi una buona volta di tutto promettere alle accecate moltitudini per nulla poi mantenere. Non si incoronino di falsi diritti, ma loro s'insegni a osservare i propri doveri. Pongasi un argine alle irrompenti maree che minacciano straripare dagli argini crollanti di una società corrotta e corruttrice. Poveri e ricchi, siam tutti fratelli; doni a larga mano il ricco parte dei cumulati tesori; lavori il povero, chè nel lavoro è la vera felicità, e un vincolo d'amore indissolubile stringa le genti della libera Italia!

Dopo avere narrato il martirio di sacerdoti, nobili e ricchi, scenderemo a raccontare il più ammirabile sagrificio di un giovane figlio del popolo, cresciuto alla semplice scuola della famiglia, occupato fin da fanciullo nella mercatura, e che dovette a sè solo le cognizioni acquistate nei pochi istanti niegati al riposo del giorno, a quello delle notti.

Pietro Domenico Frattini nacque in Vigo frazione di Legnago da poveri ma onestissimi genitori l'anno 1821.

Pur troppo di questo buon popolo operoso e pio, si va perdendo lo stampo! Chè dei falsi zelatori del suo bene, ne fanno lo strumento delle loro mire ambiziose, lo spogliano della fede che sola lo aiutava a sopportare miseria e dolori, e questo infelice, accecato brucia la Croce, per sostituirvi il nulla!

Ecco il doloroso spettacolo del giorno.

Ma risolleviamo gli sguardi avviliti all'altezza sublime dei capestri di Belfiore, ove cittadini intemerati lasciarono per la patria la generosa lor vita, mentre nelle cupe segrete del Castello di Mantova, fra centinaia di prigionieri, ben altri cinquanta di questi giovani più compromessi aspettavano impavidi la stessa sorte!

Il Frattini fece i piccoli studi nel paesello nativo, e poichè il bisogno di sua modesta famiglia lo richiedeva, fu messo appena grandicello presso un negoziante di farine per impararvi il mestiere. A migliorare il suo stato, tocchi i quindici anni passò da un ricco commerciante di Mantova, ove si distinse per abilità e zelo.

Fu là che dopo avere lavorato tutto il giorno, passava la sera studiando, per istruirsi in quanto potesse, dolendogli di rimanere indietro agli altri in tanto progresso della civilità e del sapere.

Venne il 1848 e il nostro giovane fu tra i primi che corsero a inscriversi alla Guardia, allora detta nazionale, caduta però ben presto con la Costituzione promessa dall'Austria. Il Frattini impaziente di mostrare il suo patriottismo, fuggì da Mantova, e si aggregò al corpo dei bravi giovani volontarî, che di conserva con l'esercito piemontese compì atti di eroico valore.

Ma battuto l'esercito italiano dalle forze preponderanti dell'Austria, il Frattini seguì Garibaldi a Roma, ove in aspro combattimento toccò grave ferita a un ginocchio, da cui rimase zoppo e addolorato per tutto il resto de' giorni suoi.

Il maggior suo dolore fu per dover abbandonare le armi, nè più servire quale volontario a liberare l' Italia dagli Stranieri.

Dietro le ingannevoli promesse dell'Austria tornò a Mantova, e pur di non mangiare il pane della elemosina, si accontentò di fare il copista presso un avvocato.

Non si sa bene se il nostro giovine formasse parte del Comitato liberale, che aveva addetti per tutta Italia, ma è però certo ch' era fra que' sorvegliati dall' inimico, e nel giugno 1852 venne improvvisamente arrestato e chiuso nel tenebroso carcere di Stato, donde non doveva uscire che per andare alla morte.

L'animo suo dolce era però forte ne' propositi, e non si lasciò abbattere dalla sventura, altamente asserendo, che morrebbe prima di chiedere ai nemici della patria la grazia della sua vita. Condannato al capestro, diceva che avrebbe preferito qualunque altro genere di morte, essendogli faticosissimo il salire sul palco con quel suo ginocchio dolorosamente pesto.

Nel Confortatorio, ultimo rifugio dei poveri condannati, andava glorioso, sapendo essere stata la stanza sua, l' ultima dimora di un generoso confratello.

Appena là entrato parve rabbrividire alla vista di un Crocefisso, ma poi lo guardò commosso, e aperse le braccia a un pio sacerdote che a lui veniva per confortarlo al doloroso passo.

Ah, il prigioniero sente prepotente il bisogno di versare il cuore oppresso sovra altro core e intrattenere la mente in amichevoli conversari! Solo il pensiero de' suoi che lasciava abbandonati, gli strappava una qualche lagrima. E madre, madre mia andava ripetendo, nulla posso io fare per te, a cui debbo la fede semplice e pura che allegrò i primi miei giovani anni, e ora è l'ultimo mio conforto, il mio aiuto per morire da buon cristiano!

Prima di salire l'erta di Belfiore, scrisse commoventissime lettere a' suoi dolci parenti, suggellandole di baci e lagrime.

E perchè s' impari a ben conoscere l' oppressore straniero, è uopo di far osservare, che venuta da Vienna la grazia sovrana per i detenuti di Belfiore, nel giorno onomastico di quell'imperatore, si volle affrettato di alcune ore il supplizio del Frattini affinchè non vi fosse compreso.

E così i molti giovani che in dura prigionia aspettavano di seguire la sorte de' sagrificati compagni, tradotti a Belfiore, udirono il decreto di grazia sovrana, mentre dalla forca pendeva le benedetta spoglia del Frattini! … Da quest'atto imparino gli Italiani a meglio apprezzare il presente regime paterno!

Salve, o figlio del nostro buon popolo! Al tuo esempio si stringano poveri e ricchi in un amplesso d' amore, e come l' Italia da tutti fu fatta, così mercè la concordia degli animi, cresca possente e riverita fra le nazioni.

Caddero i martiri, ma rovesciando il carnefice.

Questo prode soldato fu l' ultimo degli undici martiri del Mantovano, come ne fu il primo il sacerdote Giovanni Grioli, di cui ci sono pur note le virtù soavi e la luttuosa fine.

Un prete e un milite, diversi fra loro per età, per inclinazioni, ma che pur tanto si rassomigliarono, come nell'indole giovialissima nella impassibilità dello spirito forte.

Se il giovane prete, pure ammettendo che fosse a parte dei segreti de' Comitati liberali, avesse svelato il nome e l'operare de' suoi compagni di fede politica, egli avrebbe avuto salva la vita: se il Calvi si fosse abbassato a chiedere la grazia sovrana come ne veniva pressato, sarebbe egli pure scampato da morte.

Ma carità de' fratelli nel primo, onore di soldato in quest' ultimo, fecero loro preferire il martirio, a una vita compra col disonore.

Oh, perchè questi eroi della nostra politica redenzione dormono l' eterno sonno, e noi, tanto da essi degeneri, non ci curiamo che il seme glorioso dai martiri sparso non vada irremissibilmente perduto? …

Pietro Fortunato Calvi nacque l'anno 1817 a Briana nel Padovano. Suo padre fu Federico e sua madre Angela Meneghelli.

L'avo suo paterno era impiegato della antica Veneta Repubblica e al cadere di essa, mal potendo sopportarne di veduta le offese, si ridusse ne' suoi campi a Briana, ove in mesta solitudine finì la vita. Da ciò apprendiamo, che l'amore vero di patria, fu ereditario in questa famiglia.

Il padre del nostro Pietro visse colà con i diletti suoi figli, finchè per l' educazione dei quattro maschi dovette trasportarsi a Padova. Volendo però avviare questo suo vivacissimo minor figlio nella carriera delle armi, gli fu forza di mandarlo al collegio militare di Vienna, donde venne fuori ufficiale.

Ma, al tocco del 1848, il giovane ardente di patrio amore, si riscosse, e vergognandosi di portare divisa nimica al proprio paese, senza frapporre indugio diede rinuncia al suo grado, rinuncia che dall'Austriaco non venne accettata.

Fu allora che egli sfidando inciampi e pericoli di ogni maniera, da Gratz per la via di Trieste, sopra una barca peschereccia si spinse a Venezia, ove da quel Governo provvisorio venne tosto destinato a capitanare un corpo di baldi giovani volontarî, che nel Cadore sostennero memorabile resistenza contro poderosa oste nemica, e non cedettero se non per fame! …

Il Calvi, con molti dei più generosi, riparò allora nuovamente a Venezia, ove col grado di tenente colonnello effettivo, si distinse nella disperata difesa della Regina delle Lagune, combattuta più dalle palle austriache, dalla mancanza de' viveri e dall'infuriare del morbo cholera.

E quando l'eroica Venezia come corpo morto cadde, il Calvi con tutti i più compromessi cittadini prese la via dell'esilio, e a Torino lungamente agonizzò in aspettando! …

Ma per il troppo bollente carattere, mal potendo sopportare più lungo indugio, tentò di spingersi nel Cadore, sperando in una sommossa di quella fiera popolozione.

Lo spionaggio tedesco, che già avea posta a prezzo la sua testa, lo scoperse, e come vil malfattore, carico di catene fu tratto nelle prigioni del castello di San Giorgio in Mantova.

Pietro Fortunato Calvi, come bella aveva l'anima, era d' aspetto altrettanto bello. Alto della persona, l' occhio aveva scintillante, biondi i capelli, nobile il colorito del volto, e dal maestoso portamento gli traspariva la squisita bontà del cuore. Tocchi avea i trentasette anni, quando sul patibolo finì una vita tutta spesa per il suo dolce paese.

Coraggioso fino alla temerità, era altrettanto modesto nel non farne pompa. Aveva mente svegliatissima, era bene istruito in molte cose, e maestro nelle militari discipline. Ottimo cittadino, amorosissimo figlio e fratello, amico il più fidato, era poi vero padre de' suoi soldati, che lo adoravano!

Serbava vero culto di venerazione per la madre sua, da cui diceva di riconoscere quel che di bene era in lui, e sopratutto la fede intemerata, che gli fece impavido guardare al patibolo, sicuro in una vita migliore.

Il disprezzo in cui teneva la menzogna, non gli permise di mentire nemmeno ai subdoli interrogatorî de' suoi giudici, senza però che mai gli sfuggisse dal labbro parola a danno d'altri che di sè stesso. Ciò gli valse l'ammirazione di quanti lo circondavano, e un generale desiderio della sua salvezza.

Oh, così fosse pur stato! Nessuno dal suo franco contegno sospettava sentenza di morte, quando dopo lunga prigionia, il giorno 1 luglio 1855 venne condotto a udire la sua condanna.

Benchè non preparato a morire su vile patibolo, serbò la calma dell' uomo giusto, e tornato alla triste sua cella, nel luttuoso castello, anzichè passare come gli altri condannati al Confortatorio di S. Teresa, volle darne egli stesso la dolorosa notizia ai parenti, per renderla loro men crudele con accenti di perdono e di amore! E solo esternava a que' suoi cari, il vivo desiderio di rivederli ancora una volta, per portarne in cielo l'immagine adorata! … Quest' ultimo voto gli fu esaudito.

Lo si udiva fino agli ultimi istanti, inconsapevole di sè medesimo, volgere parole di supremo conforto alla madre, così ripetendole: se perdi un figlio, in un giorno e non lontano, da mille itali figli sarai benedetta!

Il patibolo di questo prode soldato, non a Belfiore ma nella spianata intorno il forte S. Giorgio veniva eretto. Confortato fino all' ora del supplizio da un pietoso sacerdote, che piangendo ne divideva le crude ambascie, pria di salire l' ardua scala di morte, si tolse di sue mani la cravatta dal collo e al fido amico la diede per sua memoria. Poi vôlti gli occhi a Lui che volentier perdona, pareva già vedesse il paradiso aperto!

Le virtù di Pietro, il suo valor militare, in quell'epoca di tante patrie speranze, fecero alta suonare la fama di lui, e fu un immenso accorrere di gente sul suo passaggio. Tutti gli levavano rispettosi il cappello, molti piangevano, taluni gli si inginocchiavano dinanzi. Oh quale lezione ai tiranni della libertà dei popoli!

Perfino lo strumento di morte parve indietreggiare dall' orrido ufficio! Chè d'un colpo non l'uccise, e per qualche angosciosissimo istante, durò il nostro martire penzoloni dalla forca, con gli occhi pietosamente velati, pur girandoli intorno fra un convulso agitarsi delle contorte membra! …

Fuggiamo, fuggiamo dall'orribile vista!

Sola grazia venne concessa, di chiudere la morta spoglia entro una cassa anzichè sotterrarla di poca polvere coperta sotto il capestro.

Un fremito improvviso uscir parve dalle ceneri fumanti degli altri sagrificati eroi, e la terra insanguinata di Belfiore, mandò un saluto all'ultimo confratello!

Si dovette alla fraterna carità dei Mantovani, se pur sotto l' occhio della gelosa polizia austriaca, e durante gli scavi fatti per nuove fortificazioni, i sacri avanzi degli undici Martiri non furono manomessi, confusi, e forse barbaramente dispersi.

Nel maggio 1867, liberi questi paesi dallo Straniero, le ossa de' cari eroi vennero, come altrove dicemmo, solennemente ridonate alle loro famiglie.

Ma nel giorno 7 dicembre 1872, inaugurandosi dalla città di Mantova, fremente testimonio di orribili torture e morti nel suo seno inflitte ai più generosi figli d'Italia, un pietoso Monumento alla benedetta loro memoria, tutta una gente mosse concorde alla sanguinosa valle di Belfiore.

Là, da una improvvisata Cappella fu tratta un'urna contenente poche reliquie delle ossa de' martiri riportate alle loro terre natali, e gli avanzi tutti dei tre Mantovani, Grioli, Tazzoli e Poma. Ricoperta quell'urna, sulle braccia amorose di due stretti congiunti a quei cari eroi, a cui facean ala le Rappresentanze delle città madri ad essi, fra lo sventolare delle nazionali bandiere, e funebri concerti, e fiori e votive corone, e un risuonar di pianto invece di parole, fu deposto il sacro pegno entro una cripta del marmoreo monumento, eretto in Piazza Sordello.

Antiche vie della forte città, lasciato il primitivo lor nome, furono chiamate con quello dei nuovi eroi.

Se il modesto tumulo nella desolata Belfiore sarà sempre pellegrinaggio devoto a questa e alle venture generazioni, i parlanti marmi del Mausoleo che ricorda il cruento sagrificio di questi antesignani del nostro riscatto, e le loro immagini intorno scolpite, attesteranno ai viventi e ai posteri, con quante lagrime e quanto sangue l'Italia fu fatta!

A questa sublime idea inspiratosi il rappresentante di Mantova, così chiuse la pietosa cerimonia:

Dal sangue di questi generosi ha germogliato il fiore della italica libertà. Custodiamola con quello spirito di fratellanza, che fu il sospiro di tanti secoli; non isperdiamo il frutto che costò tanta grandezza di sagrificio ai caduti per la patria.

Onoriamo i nostri martiri, imitiamoli nell' amore d'Italia, nella concordia fraterna!