NICAULE
aggiuntevi alcune traduzioni
DI POESIE SACRE EBRAICHE
DI
EUGENIA PAVIA GENTILOMO.

VENEZIA
Co' tipi di Gio. Cecchini
1847.

L'ingegno poetico della signora Eugenia Pavia Gentilomo diede già altre volte bella prova di sè con componimenti che riscossero i più giusti applausi. Sollecitala da amici ed ammiratori a misurare le proprie fore in più vasto campo, prese a svolgere sacro tema, cui abbelli con vaghi episodi attinti in parte alla Bibbia, in parte a Flavio ed a religiose tradizioni. Ma il grave poemetto rimasto sarebbe senza più nell'oscurità del silenzio per la rara modestia dell' Autrice, se pensato non mi fossi di darle tale un impulso a cui reggere non seppe l'animo suo gentile, chiedendolo in dono onde metterlo alle stampe e devolverne l'utile ad uso caritatevole. Il nobilissimo scopo, già designato dal suo diletto Giuseppe vinse la difficile ritrosia, ed il biblico poema, aggiuntavi la libera versione di parecchie ebraiche poesie, viene ora alla luce sotto la scorta di piissimo sentimento di beneficenza.

ABRAHAM LATTES
Rabbino Magglore della Comunità Israelitica in Venezia.

Oscure visïon, tetri spaventi, Promesse inadempiute e desir vani La circostante appresta ampia e diversa Scena del mondo all'uom, ch'erra affannoso Fra i dubbi e l'ansie della speme infida. Sovente in essa inebrïato attinge Ardir novello, e lusingato affronta L'aspra battaglia ove a morir s'impara. Ma da lo spazio, che ha misura e tempo E assidua vece di dolor, non puote Levarsi a vol la pronta fantasia? Ecco ella sorge qual reina augusta, E lo scettro stendendo in nobil atlo, La diffusa divide aura pesante E nuovo mi dischiude ordin di cose. La Palestina palma a se m'invita Col sacro mormorar delle sue frondi: Sotto l'ombra ospital m'assido e levo All' infiammato Ciel secura il guardo. Bello è il Cielo d'Italia che d'azzurro S'ammanta limpidissimo e di luce, Ma più fulgido e immenso si distende L'orïental zaffiro; il mattutino Vento le frondi del gran cedro scuote E un murmure ne tragge armonïoso, Inno d'Amor che la commossa pianta Riconoscente al suo Fattore invia. L'ardue vette del Libano sublime L'alba sorgente illumina di calde Tinte, e somiglia grandïoso incendio Mirabilmente in tortüose spire Di ciel piovuto in terra, e in cui tra 'l vasto Oceàno di fiamme, i tronchi, i rami, O portento gentil! restino illesi. Inspiratrice al canto, e guida all'orme Irresolute Sapïenza viene E magnanime cose mi ragiona Del più savio fra i savi, onde la chiara Fama, i remoti secoli varcando, Serba l'opre sublimi e il nome eccelso. Schietta Pietà da lei non si scompagna, Fida alla terra interprete del Cielo; E l'eterna Beltà col divo riso D'insüeto splendor cinge la lira. Dalla sacra quïete e da'felici Soggiorni, ove s'oblian le brevi gioje E della vita i lunghi tedj amari, Ascollarli godrà l'Alma diletta, Che in terra io piango e s'è beata in Cielo! Memoria de'gentili e casti affetti Dura oguor desta fra i superni gaudi, Non vil gaudio pur essa ove perenne D'amor ricambio è la perenne vita. Alma celeste e cara, d'ogui mio Desir meta secura e d'ogui speme, Da te movea l'eccitalrice e dolce Aura di pocsïa che mi s'aggira Ancor per entro, e il cor mesto commove. L'amabile sorriso e la parola Ingenua e culta, e l'indole soave, E il santo amor che mi beava, invitto M'erano ai carmi eccitamento e sprone. Movea dalla tua fronte un dolce raggio, Benigno raggio, a cui limpido e terso Mi si fea l'intelletto, e pronto e ardito Di visïon in visïon correa. Fra il dolce plauso e il riso di sì caro Tenero amor cresciuto, il nobil tema Vestilo di moltiplice armonia Tributo io t'offro, Alma diletla; gramo Tributo e scarso, ma dal cor gli viene Luce e vigor d'affelti e di memorie, Prezïoso tesor che intatto e puro Offrir ti posso colla schietta fronte Che interprete ti fu dell'alma mia. Facile il carme surse ne'ridenti Giorni dell'esultanza, ma sudato Lavor v'aggiunsi tra le veglie e il pianto: Poi che d'arguta lima elaborando Le parole, i pensieri, l'armonia, Stornai, corressi, aggiunsi; a simiglianza D'artefice novello che i contorni Nel bosso impressi, o nel forbito avorio, Senza posa ricerca infin che l'opra All'archetipo suo torni sembiante. E come a lui di providi consigli E largo il buon maëstro, e senza ferro Oprarvi, pur col detto ai vari ufficj Piega il docile allievo, tale un raro Inclito Ingegno all'inesperto mio* Luigi Carrer, il cui solo nome esprime uno splendido elogio. Volo fu scorta, e invigori la mente D'alti e nobili avvisi; e tu, celeste Alma adorata, memore di tanta Amistade pur sei, cui nudri molta Reverenza, e d'affetti e di pensieri Inneffabile e dolce consonanza. Or tu m'arridi, Alma adorata, un caro Riso dall'alto, e mistico linguaggio, Al senso ignoto e al vulgo, a me favella, Ond'io, secura di piacerti, un qualche Tragga dal canto a'miei dolor conforto. A torme a torme i greggi e i pingui armenti, Per la vasta campagna vagolando, Cogli acuti belati e il muggir grave Salutano l'aurora risorgente. E qui saltella il caprïol leggero, E là timidamente l'agnelletta Va brucando le tenere erboline. L'adiposa giovenca adagia il largo Fianco e rumina lenta, e a quando a quando Mira i torelli suoi cui non intero Spuntò l'onor del fronte minaccioso, E provansi a ferir colle nascenti Corna sottili, lievi segni e pochi Ne'robusti solcando annosi tronchi. O petto a petto, e curva testa a testa Giungon cozzando vïolenti, e in corso Ratto pesante ad inseguir si vanno. Ma l'utile cammello i vigorosi Ginocchi piega, e un agil garzonetto Scherza sedendo sul gibboso dosso. Poderosi corsieri a cento a cento Lunghi ondeggianti crini all'aura spandono, Impazïenti di ritegno fremono, E appena sciolti dai legami volano, E l'erbette novelle e i fior calpestano. I servi ed i pastori si riposano D'ombrellifere palme all'ombra amabile, E l'idrie colme dell'umor purissimo, Di cui scarcarsi, ad ora ad or riguardano. I fidi cani sugli armenti vegliano E ad ogni lieve suon l'orecchie drizzano. Quand'ecco lungi scalpito e rimbombo Echeggia fragoroso, e d'in fra i rami Consertati mostrarsi e sparir pronte Immense schiere di cammelli carchi, E vivaci destrieri, e cani, e armati Che si dileguan, visïon fugace, Proseguendo il cammin ver la cittade. I pastor giovinetti e le fanciulle Punti ne van da curïosa brama A sogguardar con inarcate ciglia; Ma i providi vegliardi, i crin canuti Lentamente scuotendo: o figli, o figli! Ivan chiamando con voce affannata, Tornate, o figli, che si sbanda il gregge; Fra i burron si disperdon l'agnellette, Il caprïol s'invola, e a noi ricusa Seguirne il corso de'molt'anni il pondo. Riede sommessa e vergognosa alquanto Velocemente la giojosa schiera, E il giovanil desìo, di nuovi aspetti E nuove cose vago, in lor favella. O quante genti, o qual splendor mirammo! Di chi saran quelle superbe spoglie? Quelle schiere d' armati a che verranno? Un veglio allor, cui la cadente barba Rendea più venerabile, rispose: Appagarvi vogl'io; giunge Nicaule,* Storie degli Ebrei, ovvero Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, tradotte ed illustrate con note dall'abate Francesco Angiolini. Libro VII.°ree; Di Saba famosissima Reina. A questi liti la sospinge viva Brama di contemplar del nostro saggio Monarca l'alta gloria; sapïenza Quasi divina onora in esso, e spera In consigli eruditi averlo a guida. Plaudente mormorio, voci di gioja Sursero al grato annunzio, e fra le inchieste Dei giovanetti garruli e giocondi, Voci di laude all'inclito Monarca. Segue il vïaggio alteramente bella, Da guerrier circondata e da matrone, La regal donna intanto, e colla mano Blandisce il collo all'arabo corsiere. Il fianco adagia su guancial trapunto Turgidetto e gentile, e i vaghi panni Ondeggianti al corsier scendon sull'anche. Tacitamente allato le venia Un saggio Prence, del suo regno onore, E nel consiglio e in guerreggiar valente. A lui si volse con sereno ciglio La magnanima donna, e disse: Oh! come Impazïente il cor mi batte! Alfine lo l'eletto vedrò saggio e guerriero, De'suoi popoli re, padre e campione. Nobili sensi in nobili parole Con esso cambierò, gli enimmi accorti Il dotto labbro disciorrà benigno, Di sublimi consigli avrò conforto, Nuove leggi vedrò, costumi nuovi, E se fama maggior del vero sia, Com' è pur spesso, o se l'avanzi il vero. A lei rincontro favellò Ismaëllo: Oh! degna brama del tuo cor gentile! Oh! dell' alto pensier ben degna cura, La virtude onorar che in altri splende, E il tuo merto obliando, umilemente Avida ricercar l'altrui consiglio! Va pur secura! nell'illustre gara D'accorgimento e di saper non fia Chi ti vinca, seppur v'ha chi t'adegui. Troppo speri, Ismaëllo, e ti prometti Da femminil ingegno. Tra i miei fidi Il più fido sei tu; se adulatore Altri mi parla, non dò retta al suono De'lusinghieri accenti, e li disprezzo. Ma sol vere parole a me tu dèi, Che dalla turba scerno e amico bramo. Sì rispose, e severa il ciglio torse. Al detto inopinato impallidia L'attonito guerriero, e in rotti accenti Tal fe' risposta con dimessa fronte: Se il mio labbro t' offese, alta Reina, Già punito son io, pria che tu stessa A colpa me l'apponga; pur di bieche Cortigianesche insidie ho netta l'alma. Duol sì verace trasparia dai detti E dagli occhi, e dal volto d'lsmaëllo, Che a lui si volse la Reina, e stese La bella mano di perdono in atto. Già lunge biancheggiar vedeansi i muri Della santa cittade, e alteramente Le torri al cielo sollevar la cima Giganteggiando fra i palagi eccelsi. S'udia confuso suon di voci, e acuto Stridor di seghe, e rimbombar di magli, E in mezzo un' onda di giulivi canti, Che dolcemente si spandea; siccome Fra il cupo rintronar della foresta, Ove rugge il lïon, sibila il vento, Gorgheggia il caro peregrin de'boschi. D'avorio e d'oro nobilmente intesto* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Splende il trono regal nell'aula adorna; D'ammirando lavor d'intaglio è tutto Distinto, e pari a tribunal eccelso. Di sei gradini breve ordin leggiadro, Politi e lisci, al lucido di gemme Scanno conduce, e quindi e quinci in vista Fiera scolpiti son fulvi lioni. Due ricchi d'or sostegni a dritta e a manca, Di braccia in guisa, le dischiuse mani Tendon quasi ad accôr il chiaro Sire; Ricca non meno e d'or, occupa l'alta Spalliera forma insiem valida e snella Di giovenco dal capo a mezzo il corpo Sorgente, e con industre arte rivolto A mirar Salomon quando s'asside. Ma i ricchissimi ammanti, e le divise Splendide offusca il maëstoso aspetto Del seduto Monarca; e tanta è in lui Gloria e virtude, che dal volto fuora Traspar, e meglio il regal serto irraggia Che pellegrina d'or copia e di gemme. Ondeggiando la porpora di Tiro Dall'omero discende in ampie falde, Con esso il bianco lino, ond'ha succinto I lati fianchi, d'auree frangie orlato. Di sotto il diadema il crin nereggia Sovra il nitido collo; al bel sembiante Maschio ornamento è bruna barba e folta. A lui d'intorno in atto grave stanno, Savj e guerrieri, in belle spoglie avvolti. I più cari e più fidi, al soglio accanto, L'augusto aspetto del Signor contemplano, Dal mover del suo labbro immoti pendono; Favella, e tosto gli occhi tutti e i cori Volgonsi a lui ch'è di saggezza fonte. Lieto avviso ne giunse, o fidi miei; Di Saba la regal ornata donna, Ricercando amistà, mosse per lungo Pellegrinaggio a questi luoghi, ond'io Vò farle aperto in alti modi quanto Benedisse l'Eterno il popol suo, E a me fu largo d'ineffabil pace E d'avite ricchezze, utili avvisi Spirandomi nell'opre ardite e grandi. Ogni pompa gentil studisi, e schiuda Gerusalemme i vanti suoi, d'allegri Inni risuoni la mia reggia, e in lieta Gara di feste la città risplenda. Chinar la fronte del Monarca al cenno Que'valorosi, e presti uscian dell'aula, Ma li rattenne Salomon d'un guardo, Chè repente sui cardini dorati L' ampia porta girossi, e amabil schiera Di giovani inoltrò; così parlando, Come appiedi del soglio esser si vide, Colui che sovrastar sembra ai compagni: Salve, eletto Signor, caro agli Dei! D'amistade il saluto a te rechiamo, Che t'invia la regal donna di Saba. Dell'altera città giunta alle porte, A te messi ne manda, e se t' è a grado La sua venuta, a cui fama l'indusse Dell'alto merto tuo, saper desia. Tai brevi detti aperse, e in volto ascese Rapida fiamma di rossor gentile. Piacque al Signor la giovanil baldanza Da modestia temprata, e gli rispose Con blanda fronte: Nota giunge e attesa L'eccelsa donna onde sì caro nunzio M'apre il tuo dir; Gerusalemme plaude E onora sua venuta, e in me sì pronta Brama è d' accorla in queste mura, ch' io A lei rincontro moverò ben tosto. Ma rimembranza dèi serbar d'annunzio A me si caro; a che t' abbi tu questo Monile di mia man che t' orni il petto. Fiammeggiante il garzon levò la faccia, Grazie rendendo con sermon leggiadro; Della splendida porpora al Monarca Il diffuso baciò lembo ondeggiante, E i ginocchi piegaro intorno al soglio Negli umili congedi i suoi compagni. Cosi vedi talor sulla collina Aggruppati fioretti in picciol ramo Crescere all' ombra di sublime palma. Benigno in volto e maestoso assurse, Benedetto dagli uomini e dal Cielo, L'ammirando Monarca, e i fidi suoi Tosto levarsi a lui d' intorno, e uniti, Eletta schiera di tal Re ben degna, Dell'aula uscir silenzïosi e gravi. Nel palagio dorato allor si sparse Confuso favellar di mille voci, Suon di passi accorrenti, e d'armi suono. L'aspro di gemme e d'oro eccelso carro, Lavor stupendo di materia e d'arte, Traevano i famigli dai terreni A cento e cento cocchi addatti alberghi. I vivaci cavalli, usi nel corso A contender coi venti, altri aggiogava; Altri cingea di fregi prezïosi Il collo agile e il petto, e le agitate Coscie al disìo dell'imminente cenno. Sale alfine il Signor; splendido il cinge Nobilissimo ammanto, e il santo capo Par che nuova circondi eterna luce. L'esperto auriga colla mobil sferza Lieve tocca i destrieri, e il fren ne allenta; Nitriscon di piacer, si slancian ratti, E di polve li cinge un bianco nembo. Ardente raggio l'infiammato Sole Sull'or vibrando e i cristallini arredi, Lampi ne trae qual d'infuocato occaso. Tal, sorvolando le cedenti nubi, Il Tesbìte mirabile veggente A incognito cammin pei campi eterni Sovra un carro di foco al Ciel redia. Fra l'amico tripudio e il caro plauso Del popolo seguace, che l'orecchio De're lusinga dolcemente come Profumato e soave olio diffuso, Torna il Monarca dal solenne incontro. Sceser dal cocchio avito la Reina E a compiacerla intento il Saggio e tutti Seguirne i passi: a lei, la circostante Di mirar vaga alma cittade, inciampo Era il volubil corso in cui fuggirle Pareano al guardo, siccom' ombre immani, I validi edifici e le gran torri. Alto lodando riguardava l'ampie* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Vie lastricate nereggiar di pietre Agevoli e polite; e non sol tutta La città n'era adorna, ma del pari Le esterne vie selciate: onde l'estrano In ver Gerusalem drizzando i passi, L'inclito ingegno encomïava, e il divo Provedimento dell'eccelso rege. Allieta l'aure un' onda armonïosa Di cantici festivi; allo strepente Echeggiar delle trombe, de'tamburi L'addoppiato rintocco si confonde. Talor succede un'armonïa soave Di cetere sonore e flauti molli, Cui rompon spesso i cembali squillanti. Il variato suono immagin rende Dell'agitato mar quando lontana S'addensa la procella, e il buon nocchiero Alternamente l'onda e il Ciel rimira: Al mugghio intanto fragoroso e cupo, Che nel fondo ribolle prolungato, Alto spumeggia candido e s'infrange Il fiotto senza posa alle scogliere; Indi, allentando l'ire, in basse note Mormora e geme, e l'alcïon si mostra A fior dell'acque ritentando il volo. S'innoltra pien di maestade in volto D'Israëllo l'onor colla Reina, Che d'onesto rossor dipinta, serba Nobilissimo aspetto: incede altera, Lento il passo mutando, e della porpora Ondeggia il lembo sovra i fior che sparsi Sull'augusto sentier calpesti olezzano. A manca vienle venerando, e d'alma Serenità pieno lo sguardo, il sommo Pontefice Sadòc, de'sacri ammanti Sacerdotali rivestito, e segue Lunga schiera di grandi in ordin bello. I sapïenti pria che a degni studi Drizzan l'ingegno investigando arcani Di scïenza profondi, ignoti al vulgo, Nel calice d'un fior, ne'rai del Sole, Ne' monti alpestri e nell'ondoso mare. Ai saggi accanto lunga schiera move Di minor sacerdoti in sè raccolti. Seguon nell'armi scintillanti, ornati Di ricchissime spoglie i duci alteri Cui lampeggia il valor ne' vivid' occhi. Di guerrier li circonda immenso stuolo, Che il suon dell'armi al suon de'passi alterna. A tergo di costor l'ordin vien meno. A torme, a torme, a sette, a dieci seguono Confusamente d' Israël le turbe, Di femmine, vegliardi, e fanciulletti Giocondamente garruli. I garzoni In Salomon s'affisan reverenti, Muti all'aspetto di sì nova gloria. Ma già la nobil schiera s'avvicina* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Al palagio regal, d'oro fulgente, E di cedri olezzante che sul Libano Il vertice frondoso ergean superbi. Maestosa s'innalza inclita mole Su doppio di colonne ordine altero, Con saggio avvedimento in bella foggia Correnti a fiancheggiar i peregrini Cortili, sotto cui l'ampia ripara Folla adunata allor che i gran negozj Si trattano, e i supremi alti giudicj. Ben cento interi cubiti misura Il bel palagio, divisato in guisa Che mille e mille aver comodo albergo Entrovi ponno, e si dilata largo Cinquanta, e trenta cubiti s'innalza. Tutte di cedro son l'eccelse e vaghe A quattro facce sculte ampie colonne. Apron l'accesso all'intime pareti Acconce porte, tutte uguali in vista Nella misura e nella forma, e solo Ne'fini intagli varïate ond' hanno Fregio le salde ed eleganti imposte, Miracolo gentil d'arte perfetta. In tre file disposte ben construtte Le gran finestre sono in ordin bello; E gli adeguati vani, ed i robusti Stipiti quadri figurò l'artista, E rispondenti in triplicate file. Nel mezzo appunto dell'immensa mole Un altro sorge non men bello e ornato Quadrangolar palagio, che si stende Largo ben trenta cubiti, e s'appoggia Su validi e ben posti colonnati. Sorge di fronte al Tempio il bel palagio Ricco d'eccelso trono, in cui sovente Siede il Monarca, e dall'avito scanno Detta provide leggi, e sapïenti Giudizi dall'Eterno a lui spirati. Dell'edificio sontüoso accanto Altro del par magnifico s'innalza A Tafnèsse, l'Egizia principessa Che dall'estinto Faraon traea L'origin, figlia a lui diletta, e sposa All'alto Salomon non men diletta. Dipendono da quei fabriche elette Ove regali accolgonsi delizie Quante ne porge arte e natura, dolce Compenso all'ardue austere cure in cui Spende il Monarca infaticato l'ore. Selciate son di cedro; e in molta parte Gli edifici superbi gigantesche Compongon liscie pietre, che di cinque Cubiti e cinque misurò l'artista. Le mura abbella prezïoso marmo Polito, che a decor di sacri templi E di regali alberghi, alta fatica, Cercansi in terre a gran tratto remote, Di cui son quelle cave il primo vanto. Nobilissimi portici d'intorno Aggirano la Reggia, e verdeggianti Boschetti, e fonti limpide, e sculture Bellissime e sottili; ma che giova In detti risuonanti e studiati Pinger le grandi meraviglie, cui Ridir s'attenta invan l'indotta e scarsa Fantasia sbigottita innanzi a tanto Splendor cospicuo? No; se mille ancora Avessi bocche, e d'ogni bocca un fiume D'eloquenza gentil sgorgasse in nuovi Arditi carmi, non sarien bastanti D'ombrar, non che pinger compiuto il vero! Sol questo lice rammentar, che tutta L'immensa mole bianco marmo, cedro Olezzante compone, nitid'oro, E, vile quasi pietra, in copia argento. Giunsero innanzi ai portentosi alberghi I nobili Signor, e nuovo surse Concento armonïoso in care note, E di plausi eccheggiò la Reggia immensa. Ma in tutti i cuor non era ugual letizia. Ne' chiusi alberghi di delizie pieni, Ov'arde della mirra il dolce odore, Ove ricco di gemme il suol disegna Gentilmente col piè, fosca è la sposa Di Salomon: a confortarla indarno A lei d'intorno affrettansi l'ancelle Argute novellando; invan le danze Grazïose in leggiadro atto alternando Serenarla vorria l'egizïana Prediletta fanciulla; disdegnosa Torce il bel guardo inumidito, e tutta In se romita, cosi al duol dà sfogo. « Alfin respiro! Dileguar le folte Plaudenti, e taccion l'armonie festive! Inesplicabil cosa! Ebbi ognor caro Suon di musiche note alternamente In varïate melodie disposto, E spesso m'evocò dal cor profondo Silenzïosa e dolce estasi amica: Grate sempre mi fur l'inclite pompe Onde s'ammanta il mio Signor, l'illustre De'principi corteggio, e de'stranieri Regi l'umile omaggio, e il reverente Contegno innanzi a lui che a tutti imprime Sensi di meraviglia e di rispetto; Ma irrequïeta oggi mi sento, e il core M'invade mai non più sentito affanno. Per onorarlo e ricambiar con esso Dotti consigli, e arguti enimmi offrirgli, Da regïon lontana alla beata Gerusalemme quell' altera mosse D'Etïopia reina che de'miei* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Padri sul trono ascese, e dell'egizie Terre è signora. Avventurata! il suo Doppio serto non è cotanto in pregio Agli occhi miei siccome il luminoso Serto di gloria che le cinge il capo! E fra le donne sapïente, e puote Altamente parlar col mio Signore! Oh! cosi fossi io pur! Questa caduca Bellezza deporrei con lieta fronte Se degna io fossi a paragon venirgli! A fianco gli incedea, com'esso augusta… No, no com'esso! Mai nessun t'agguaglia, O Salomon, nessuno! Sol tu rendi Dell'eterna virtude immago in terra! Oh! come bello m'apparisti il giorno Che tua nomasti la donzella ingenua; Tenera e ingenua sì, primo tu fosti Un palpito a destar nel vergin core! Sol della madre l'amoroso sguardo S'affisava nel mio; caro diletto M'eran canti romiti, e del natio Fiume le limpid'onde, ove secura Immergermi godea ne'lieti giochi, E colle amiche novellar scherzosa!« Così sommessa mormorando gia; Tacque, e al dolce membrar discese un velo Di lagrime sul ciglio, e il caro pianto Lento stillava su le rosee gote Qual d'aromati goccia prezïosa. Innoltra l'ora pel regal convito Già statuita, e i paggi in elegante Veste succinti e presti al grato ufficio Contemplan l'apparecchio sontüoso; Poi quando dansi vispi a lor faccende, Sembran farfalle volteggianti in giro Su collinetta aprica, ove a colori Vario dipinti schiudonsi i fiorelli In beltà varj e in novero infiniti. Talun dell'aula le pareti ammira* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Che per tre parti son d'eletto marmo Mirabilmente inteste, e nella quarta Intorno intorno artefici eccellenti D'intaglio opra leggiadra hanno condotta Cui di mirar non è mai sazio il guardo. Ombrosi sicomori, inclite palme, Validi cedri, e gracili erboline Morbidissime e intatte, con stupendo Lavor ritratte son, tal che t'avvisi Tremolar nelle foglie il zeffiretto; E via per la campagna il bianco gregge In securtà vagarne alla pastura. Nell'opposta parete maëstosi Monti eccelsi sorgeano attraversati Da ruscelli fuggenti, che dall'alto Devolveansi sonando all'ima valle. D'augelli nido, delle fere asilo, Il folto orror de'boschi altrove sorge; Ecco il lïon magnanimo innoltrarsi E fulva chioma agli omeri squassando Inquïeto girar l'ampie pupille. Mentre lunge tra il fosco delle piante Al torvo aspetto del maggior nemico Impaürite fuggono le belve. Rendean le volte altissime sembianza Dell'etere seren tinte in azzurro Limpidissimo e schietto, di leggeri Nugoletti dipinti vagamente Parea qua e là velato l'orizzonte. Splendea d'elette perle in mezzo un fregio, Che imitava la forma e il bel candore Del sol notturno quando mezzo il disco Niega alla vista nel lontan vïaggio. Lucide, cerulette, rosee gemme A mirïadi splendean di stelle a guisa. L'opre cospicue e prezïose, il vago Ordin superbo e in copia immensa l'auro E le vivide gemme, ampia ricchezza In eleganti fregi intorno sparsa, Attoniti rendea gli estranei paggi Che già tanta mirar magnificenza Di Nicaule gentil ne'regi alberghi. Le note avite pompe, e quelle stesse Splendide e dive quasi, che l'ardente Fantasia pinge nell' ebbrezza prima Dell'alma giovanile, e confidente; Che più? fin quelle che tra il cheto orrore Notturno, visïon di paradiso, Schiudonsi in lieto sogno, al ver minori Confessano che s'apre a lor d'innante. Dall'attonita gioja li rimosse De'regi illustri l'apparir, che in bello Ordin sedèro al genïal banchetto. Di Salomon a destra la reina Amabil sorridea ma dignitosa Il decoro regal serbando ognora. A manca s'assidea, figlia d'Egitto, Del Monarca la sposa, in ricchi veli Leggiadrissimi avvolta, fiammeggiante Di gemme il crin, di bei monili cinta, E dell'oro d'Ofir trapunto il manto. Sul caro volto sdegnosetto e mesto La smanïosa gelosia traluce Come in turbato ciel stella sanguigna. Accanto ad essa, quasi specchio fido, L'istesso affanno più celato in core Nutre Ismaëllo, e tacito sospira. Scevri da tutte cure i convitati Esultano ammirando il re sublime D' ogni chiara virtude esempio al mondo. L'almo licor nelle capaci tazze Zampilla e ferve, da coppieri lesti Agli ospiti mesciuto intorno intorno, Con angurio gentil che dolcemente Lusingando l'orecchio al cor discende. Di fulgid' oro son gli arredi tutti Del genïal convito, chè l' argento Vil cosa troppo Salomone estima. Qual piropo lucenti sculte vasa Sorgon sul desco a vaghi fior ricetto. Spiega il giglio la candida sua veste, Inorgoglito perchè Iddio lo fece Coll'eterna sua man di rugiadose Goccie tessendo un bell'ordito, e un raggio Argentino mescendovi di luna. Vivace sorge al caro fior d'accanto Rosa di Saron, di rugiade intesta E del caldo vapor di che s'ammanta Innamoralo il cielo al primo raggio Che l' Orïente amabile saëtta. A que'pregiati fior fanno corona A ciocche, a ciocche, screzïati o pinti In un colore, o mollemente penduli, O ritti sullo stelo, o a larghi petali, O a minute fogliuzze, altri bellissimi Fiori odorosi, e all'orlo in giro corrono; E miste ad essi in vaga mostra lucide E allegre foglie, o verde cupo e pallide. Sorgon ne'canti dell'ornata stanza Ampi tripodi accesi, cui dal centro Fuggon leggeri nugoletti d'oro Spargendo d' aloè misto alla mirra Süave olezzo a ricrëar gli spirti. Dagli aperti veron scorre lo sguardo A contemplar nuove delizie, nuove Pompe innocenti, di natura e d'arte Meraviglie commiste, in cui non puote Scerner occhio mortal se l'arte ottenga Maggior il pregio, o se maggior natura. Verdeggiante giardin tutto smaltato Di culti fiori e di spontanei a mille, Ove tra il fosco delle palme, e il caro Frondeggiar della vite, e i folti rami De'sicomori, e de'ginepri, il canto Soavemente l'augellino alterna; Ove s'innalza il melogran di vividi Purpurei fiori onusto tra le foglie; Spazïoso si stende e si dirama In morbidi vïali, invito al piede. Dal veron semi-aperto contemplava Nicaule il bel giardino, e lungamente Immota stette a riguardar poi disse: Quale incantevol si dipinge all'occhio Gioconda scena! assai grato mi fora Errar fra l'ombre di giardin sì ameno, O assisa presso gli odorosi arbusti I concenti ascoltar di placid'arpa! E compiacerti voglio eccelsa donna! Il Monarca rispose: I miei cantori Allegreranno il non ignobil ozio Con possenti armonie; tuo desiderio Franca m'esponi ognor, nè mai s'arresti Sovra il tuo labbro quando il cor l'inspira.— Inconsapevol quasi un lungo sguardo Fisò la donna a Salomone in volto, E d'amistà pieno le parve, quando Più tenero pensier vi trasparia. E in adeguati accenti a lui rispose. Muto non fu quel guardo, e i cari accenti Muti non furo d'Ismaëllo al core Nè al cor trafitto dell'egizia sposa. Diè fine intanto al genïal convito Di Salomone un cenno, e surser tosto Le glorïose turbe, seguitando Le famiglia regal che s'avvïava De'rideuti giardini all'ombra queta. Tra i folti rami de'boschetti tremano I timidi cerbiatti, e si nascondono Di tante genti all'apparir che i placidi E romiti soggiorni a lor conturbano. Torme di pinti augelli si sollevano Confusamente dall'erbette morbide E dai celati rami in cui saltellano, E più securo asil stridendo queruli Cercan fra l'ombre delle quercie altissime. Intenta la reina al grazïoso Tumulto disse: oh! come impaurite Fuggirne innanzi quell'innocue belve E i piumati veloci! È istinto in loro La ritrosìa, nè facilmente credo Vincer si puote naturale istinto. Nè obbedïenti all'uom corrono tosto, Siccome è fama che agli antichi vostri Padri avvenìa cui Dio le fea soggette.— Un lieve riso illuminò la fronte Del saggio re. Novo portento chiedi, Rispose, e l'otterrai. Fe' un cenno, e tosto Da percossi metalli un suon squillante Trasse de' parchi il vigile custode. Accorser saltellanti a lui rincontro, Ma peritosi ancor, cervetti e damme Ed agili camosci, e preste lepri, E fin macchiati pardi, cui le fere Voglie domar con lungo studio, e argute Imitatrici scimmie, al cenno usato. Molti augei peregrini in larghe rote Spiegando l'ali si posaro al suolo Impazïenti con gridìo vivace. D'odorose radici, frutta e grani Ebbero premio, e trangugiati appena, Altri al corso si diede, altri librando L'ardito volo dileguar frettosi. La ratta fuga accompagnò col guardo L'amabil donna, e a Salomone allato Venne ove sorge di sedili un cerchio. In cedro sculti, al ver sembiante immago Rendon di varie belve. In mezzo posa, Maggior degli altri e irsuto la criniera, Giovin lïone che la curva groppa Nobil sedile a Salomone appresta. Giaccion d'intorno in umil portamento Vellose agnelle, e in atto più vivace Svelti capri, e gazzelle amorosette. Gl'industri seggi ad occupar ne vanno In giusto ordin le genti, e per non molto Spazio discosti a schietto fonte in riva Stanno di Saba taciturni i vati Cui punge l'estro bel disio di gloria. Di regali cantor schiera onorata In disparte s'accoglie, in cui primeggia Iram valente, al gran Monarca accetto; Ond'ei fu scelto fra i compagni esperti Dell'altera Nicaule a dir le lodi Accompagnando colla cetra il canto. Allor ch'ei mosse dignitoso, e in volto Di bell'ardir acceso, in ogni core Favorevol destò senso plaudente. Suscita, cetra mia, lieti concenti, L'estro inspirato mi ridesta in seno; Facili al labbro mio spuntin gli accenti Come tocchi dal sol fiori al terreno; Chè un ardente me pur raggio feconda Dal ciel riflesso sull'egizia sponda Aure, ascoltate la mia voce! ascolta, Suol verdeggiante, la parola mia! Fatemi, amiche palme, ombrosa vôlta; Cessate, augei, la dolce melodia; Qual util pioggia mia favella grondi E d'eletto piacer l'anime innondi! A te rivolgo la parola e il canto, Alta donna, magnanima regina; Chè a te conviensi ogni più nobil vanto, A te plaudente ogni pensier s'inchina. In te grazia, saper, regal costume E d'ogni alta virtù l'eccelso lume. Bella tu sei! qual melogran fiorito Purpurea appar la tondeggiante gota; Del corvo brune come l'ala, invito All'aura fan che lieve in lor si rota Le bell'onde del crine; i tersi denti Agne bianche somigliano pascenti. Il fulgid' occhio immagine mi porge, Sulla sembianza florida e amorosa, Del chiaro sol che mattutino sorge Colle tinte del giglio e della rosa; Grazïoso palmizio è la figura, Miracolo d'amore e di natura. Della tua voce il suono si diffonde Come il sospiro di leggero vento, Come il soave mormorio dell'onde, Come dell'arpa il genïal concento; E da tuoi detti una potenza piove Che infiamma i petti a generose prove. Giustizia a destra t'accompagna e regge Il saldo fren de'popoli sommessi; Clemenza a manca vienle e li protegge Onde qual madre pia sii mite ad essi; Amor patrio ti guida, e il bel disìo D'onor che i regni illustra, e piace a Dio. Beata! di tua mente al nobil lume I secreti del ciel s'apron sinceri: È gloria somma dell'Eterno Nume Avvolger d'alta nebbia i suoi misteri; Ai re del mondo investigarli è gloria Se disperano ancor della vittoria. A te, Nicaule eccelsa, il divo aggrada Re nostro interrogar cui sapïenza Sul labbro sta siccome in fior rugiada, Come al pargolo in fronte alma innocenza. Fa tesor de'suoi detti; ei, che lo puote, L'eterne t'aprirà mistiche note. Tacque il cantor; la cetra appese a un ramo Di verdi foglie ornato, che gentile Serto intrecciò sulle commosse corde. Dall'eccelsa straniera ottenne un caro Plauso e un saluto, guiderdon cortese. A lui si volse anch'ei benignamente Il Monarca assentendo: d'infiammato Rossor si pinse, e impallidi repente L'egizia sposa al suon di quelle lodi, E dal trafitto cor mandò un sospiro Che Salomon riscosse; a lei rivolto Vide tremar la lagrima sospesa Sul bruno ciglio, e tocco di pietade, Con uno sguardo tutto amor fisolla Bëando l'inquïeta alma gelosa. Levossi intanto fra i cantor di Saba Della reina al grazïoso cenno Lieve bisbiglio, un giovinetto uscìa Dalla schiera onorata, ed a cortese Atto composto, l'arpa al sen recossi Preludïando. Al ciel volse la faccia, E scintillò di giovanil baldanza, Sciogliendo il canto, nell'azzurro sguardo. Ti schiudi al canto, - o libero mio labro, Non vile fabro - d'alta poësia; E fantasia - benigna ti secondi; Tutto t'innondi - de'suoi cari accenti. Portino i venti - il genïal sermone Di Salomone - al delicato orecchio; Verace specchio - di virtudi tante A lui dinnante - senza tema porga, E un riso sorga - nel sovrano aspetto Che mostri accetto - il canto mio sincero.— Net tuo severo - e in un sereno ciglio Alto consiglio, - gran Monarca, io leggo. Espresso veggo - nella fronte arguta, Ancor che muta - nella bocca io scerno Lo Spirto Eterno - che il tuo core inspira, E in te s'aggira - come fiamma ardente Che in trasparente - lampana scintilla. Il labbro stilla - ognora sapïenza; A te scïenza - suoi misteri scopre, E le bell' opre - ti rivela, e gode Della tua lode. - Da tuoi labbri vola Facil parola - qual di mirra olezzo, Qual d'alto prezzo - perle che fan belle Alle donzelle - le diffuse chiome. Spazia siccome - l'aquila reina, A cui s'inchina - la pïumata schiera, Tua mente altera: - in faccia a te non sono Che vano suono - i più sublimi accenti De'sapïenti. - È in te giustizia ognora, E in te s' onora - perchè ben l'intendi, E a lei tu rendi - culto vero e pio. Ti guarda Iddio - dal seggio in paradiso, Il suo sorriso - ti rivolge, e addita All' infinita - schiera luminosa Celeste cosa - Salomone in terra. Valente in guerra, - come in pace augusto, Di ferro il busto - giubilando cingi, E al corso spingi, - come folgor presto, Il tuo funesto - alle nemiche schiere Prode destriere. - Su tuoi passi viene Vittoria e tiene - di sua man costretto Il ferro eletto - alla tua man secura; Pur come oscura - la tua gloria e poca Con voce fioca - risuonar s'udisse, Come fuggisse - lieve la tua fama, Fasto non ama - di profano onore L'umil tuo cuore - alle lusinghe sordo. Il dolce accordo - d'inni allegri e santi, Ed i fumanti - all'ara sacrifici L'armi felici - onorano del prode, Mandando lode - che all'Eterno è volta. Egli l'ascolta; - l'umiltade apprezza, Nuova grandezza - tutto ti circonda, Maggior t'innonda, - al tuo valor compenso, Di lode incenso. - O popolo felice, A cui s'addice - contemplar sovente La fronte ardente - di virtude tanta, A cui non vanta - pari l'universo! Beato il verso - che di te s'inspira, E beato il mio labbro - e la mia lira! Cessò appena il cantor che surse lungo Plauso echeggiante, all'alma sua gradito Piucchè favo di miele a labbro adusto. Grazie rendendo si ritrasse in mezzo A suoi compagni giovinetti, a lui Poco diversi nell'aspetto; solo Lo distingue fra lor d'aquila il guardo. Seguìa lungo silenzio, che interruppe Della regal Nicaule il caro accento. Almo Signor, perdona se indiscreta All'inchieste sospingo il labbro ardito. D'un cantico gentil mi giunse fama Che tue nozze plaudìa, narrando i pregi Dell'illustre Tafnesse, e un adequato Tributo le porgea di giuste lodi. Tacquesi a tanto, e lungo volse un guardo Alla figlia d'Egitto, indi riprese. Pur sì leggiadra e vereconda parmi Che immaginar non so come pignesse Beltà cotanta del poeta l'inno. Deh! fa che udirlo alfin mi sia concesso! Cosi parlò l'amabil donna accorta, Chè indovinato avea della Reina L'intime pene e molcerle volea. L'augusto Salomon lieto mostrossi Dell'inchiesta cortese, e amica via Stimolla a serenar l'afflitta sposa. A me s'appressi Iramo; disse, e il suo Comando espose; e quei, disciolti i rami Sulla cetra aggruppati, il canto ergea. La poetica fiamma accende Iddio! Sgorgano i carmi dall'ardente cor Come l'onde purissime del rio Fuggon dal monte zampillanti fuor. Calamo imita di scrittor veloce Ratto scorrendo il genïal sermon; Soävi cose parlerà mia voce, Nè ingrata suonerà la mia canzon. Oh! sei pur bello! come palma altera Sorgon tue forme in giovanile età. Brilla il tuo sguardo come stella a sera, Splendon congiunte in te grazia e beltà. Belli sou d'Israëllo i figli eletti, Ma tu più bello sei d'ogni garzon; Son tue gote sembianti a meli schietti, Tutto dolcezza è di tua voce il suon. Cingi la spada paventata, o prode; Baleni agl'infiammati rai del sol. Da tuoi fedeli a te s'innalzi lode Che altera giunga al più lontano suol. Cingi l'acciar terribile, tua gloria; Ama qual dolce suora l'equità; Non mai lunge da te n'andrà vittoria, Qual fida ancella ognor ti seguirà. Le tue saëtte non cadranno in fallo; I popoli stranier, vinti da te, Fideranno nel rapido cavallo Che li sottragga al fulminar del re. Ognor cara ti fu l'alma giustizia, Bieco guardasti l'empietade ognor, Però ti cinse Iddio d'alta letizia, D'ogni rege il tuo Dio ti fè maggior. Ti si fè Sapïenza come figlia, I tuoi cenni è ognor pronta ad inchinar; Il saggio innanzi a te stolto somiglia, Somiglia ruscelletto innanzi al mar. Hai sparso il manto di profumi eletti, Cari unguenti distilla il bruno crin, E nel palagio sacro a tuoi diletti Ardon soavi aromi senza fin. Son le figlie dei re tue vaghe ancelle, La tua vergine sposa asconde un vel; Pur fra le sue compagne oneste e belle Sfavilla siccom' astro in fosco ciel. Essa il guardo soave innalza appena A contemplar con timido desir La tua sembianza nobile e serena E la pompa che cinge il tuo vestir. Porgi l'orecchio, o timida fanciulla; Del trepido pensiero arresta il vol; Scorda il tuo fiume e la tua fida culla E l'aëre e i campi e il profumato suol. Obblia le gioje della casa antica, I cari giochi della prima età, Obblia l'accento della voce amica, Il tuo popolo obblia, la tua città. La tua beltà, d'Egitto amabil figlia, Troverà grazia innanzi al tuo signor, Chè dolci sensi all'alto cor consiglia Il tuo pudico timidelto amor. A te s'inchineranno, o benedetta, Le genti colla prece, e coi sospir; In dono t'offriran porpora eletta, Le gemme, e l'or del prezïoso Ofir. O beata! le genti a te diranno, Ch'eletta fosti a tauto eccelso onor! I popoli i tuoi figli accoglieranno Educati alla gloria ed al valor. Signor, ti volgi alla colomba pura Che geme dolcemente innanzi a te, L'aura le sembra gelida ed oscura Se non l'avviva di sua luce il re. La tua gloria, Signore, eterna suona In ogni onda di mare, in ogni suol; La tua gloria fa splender la corona Come la nube se l'irraggia il sol. Trepida e bella di speranza in volto, Intenta al suon degli amorosi versi, L'egizia sposa non sentia la gota Inumidirsi di leggiadre stille, E sol quando mancò la nota estrema Scosse la fronte, come quei che desto Da cari sogni, di scacciar fa prova L'infida larva lusinghiera invano: Una lagrima ignota appesa all'orlo Delle brune palpebre al lieve crollo Tremolando spiccossi e in sen le corse. Vergognosa chinò la fronte allora Di timido rossor suffusa, e volse Rapido e incerto a Salomone un guardo. Ei pur mirolla, ma fugace e incerto Il suo sguardo non fu; la destra invitta Benigno stese alla gentil consorte Con parole d'affetto. Aperse un riso Sfavillante d'amor l'ardente egizia Tutta commossa e mille baci impresse Sulla man glorïosa. Palpitava Alla tenera vista, e sospirando Chinò il bel guardo la regal straniera. Perche d'affetti nel suo cor sorgea Fiero tumulto, or che l'onesta brama Compiendo, serenò la fosca doglia Ond'era ingombra Tafnes? Doloroso Un palpito l'opprime al caro amplesso Di pace nunzio, e gelida le serpe Una smania nel cor, che pur non osa A sè stessa spiegar, di sè non degna. Tacitamente la tranquilla sera Spiegava intanto il suo ceruleo velo Tutto dipinto di rossor fuggente, Saluto estremo che le manda il sole. A mille, a mille pallidette in pria Spuntan le stelle, cari fior nascenti Sull'orme dell'Eterno allor ch'Ei move Viator pei deserti ampi del Cielo; O vaga polve d'or che scuoton l'ali De'Serafini, quando in bella schiera Seguon del Nume i glorïosi passi. Surse alfin Salomone, e tutti seco Sursero tosto, allo splendor riedendo Dell'intime pareti in cheto oblio A posar sulle piume, e dolci sogni Evocando a bëar l'ore notturne. Irrequïete visïon sul capo Alïar di Tafnèsse, ilari o meste. Sapïenza parlò negli alti sogni A Salomon discesi dall'Empiro Misterïosi e sacri che al profano Incompresi verrian, forse spregiati. A Nicaule fur tetri e dolorosi; Non feste, non sorrisi, ma di lagrime Amarissime fonte; non di vividi Fiori corone, ma di spine roride Di sangue e pianto. E se più cara immagine Balenava al pensier, si dileguavano Il sonno, i sogni, e duol profondo angevala. Ismaëllo sdegnò le molli piume, Chè la gelosa angoscia alcuna tregua Al misero concesse; fra i boschetti Chiusi al trepido lume delle stelle Meditabondo, assorto, errò solingo. Alto dardeggia il sole: il caldo raggio Chè pur penètra fra i conserti rami, Argin lieve frapposto al vivo ardore, Niega l'errar de'bei giardini all'ombra. Nell'aule risplendenti accolti stanno In geniali eloquii il sapïente D' Israello signor, e la sublime Di Saba illustre donna. Ella tremante Salomone contempla, e quella troppo Forte vaghezza con che a lui si volge E ne brama il sermon, scusa coll'ampia Virtude pellegrina onde ammirato È da tutti l'altissimo Monarca. Del vïaggio s'applaude e rïandando Viene i consigli eccelsi, e l'amistade Che il magnanimo sire le comparte; I veduti costumi, le stupende Opre, le leggi di gran senno figlie, Norma secura a ben regnár: altera E d' ogni vanto degna insigne coppia! Ma poi che in vario ragionar lung'ora Scorse, Nicaule cosi a dir riprese: Augusto saggio onde s' emana tanta Util virtude, mi consenti un altro Gradito dono; accorti enimmi tosto, Se non t' è grave, andrò esponendo, e l' arduo Senso ne scioglierai col divo ingegno. Annuì Salomone al suo dimando, E questo udia proporsi arguto enimma.* Gli enimmi proposti da Nicaule ed interpretati dal monarca Sapiente si trovano, pochi l'ignorano, nel libro de' Proverbii; e mi parve di poter acconciamente attribuirli alla dotta regina, la quale, come appare dalle sacre carte, glie ne fece dicifrare parecchi, benchè nessuno sia giunto fino a noi. Similmente le risposte di Salomone ritrassi dal libro de'Proverbii. E qui mi giova notare che molti proverbii, spesso ampliati, talora fedelissimi, innestai ne' discorsi del Saggio, onde colle sue proprie sentenze decorarli alquanto; chè se mi fossi attenuta alle mie sole invenzioni, troppo povera cosa sarebbero riusciti ed affatto indegna di chi era fra gli uomini il più sapiente. Alcuni ne feci dire da Nicaule, come colei che innamorata della massima dottrina di lui, ne ripeteva i detti ammirandone il valore. Tre cose occulte mi sono, ed anzi Appieno occulte quattro mi son. Si raccolse un istante il saggio, e poscia, Retto parlando, rispondeale pronto: La traccia invano cerchi nell' Etra D' aquila ardita: su liscia pietra Del serpe nulla traccia riman. Di nave l'orma nell' ampio mare, E d' uom le impresse sembianze care In cor femmineo ricerchi invan. Plaude Nicaule, e dalle argute inchieste Non rimanendo, in simil guisa parla: Non son due cose satolle mai, Anzi satolle tre mai non son. E compiacente il gran Monarca e dotto Senza indugio risponde in questi accenti; L' atro sepolcro di salme ognora Colmo a migliaja; l'empia dimora D' ululi eterni, d'ira e di duol, Sazii di preda non son giammai; Nè l' uomo incerto fra il riso e i lai Satolla gli occhi, bramoso ognor. Amabilmente la reina, in cari Detti assentendo, nuovi enimmi espone. Quattro t' accenno minime cose Che sulla terra saggie pur son. E Salomone, a cui secura e ratta È ognor ministra sapïenza, disse: Popoli imbelli ma providenti Son le formiche, che a' di ridenti Sanno pel verno l' esca apprestar; Ed i conigli possa non hanno, Ma nelle roccie timidi vanno Invïolata stanza a trovar. Locuste accorte, voi non corregge Duce supremo, pur senza legge A stormi, a schiere, balzate fuor. E te, ramarro, stimo sagace Che ben t' aggrappi con man tenace, E in regi annidi palagi ancor. Assentia la Reina ai dicifrati Involuti problemi, e soggiungea: Tre cose han passo bello e securo, Anzi pur quattro lodate son. Sollevando un istante gli occhi e il capo, Ristette il Saggio, indi rispose accorto: Bel passo alterna superbamente Lïon, fra tutte belve possente, Che mai non torce per tema il piè. Di snelle forme gallo, o barbuto Capro, o monarca da ognun temuto Cui farsi uguale dato non è. E l'altra donna de'chiariti enimmi Lodando Salomon, questo v' aggiunse: Di vel profondo, di fitta nebbia Cinte al mortale tre cose son. Sorridea Salomon, siccome quei Cui nota è la proposta, rispondendo: Del ciel l' altezza vasta, infinita, Seppur s'innalza la mente ardita, S'attenta invano d'investigar. Nè della terra gli abissi immani, Nè il cor de' Regi non pon gli umani, Arcane cose, giammai scrutar. Inclito re! sclamò Nicaule, oh! come Pronta e viva è tua mente in cui riflessa È la divina sapïenza! Oh! come Provido e amico il Cielo consentìa Del gran Davidde ai voti! A me li disse Dotto vegliardo or dianzi, e ad uno ad uno Tutti li tengo nella mente sculti; Che ogn' un d' essi avverasti, o core invitto! Deh! concedi, signor, che sian ridetti, E d' ogni lode ti saran più grati Dal mio labbro proferta, caldo e dolce Del venerando genitor ricordo. Al caro nome riverente il sire Pur tacendo annuì, chè l'efficace Gesto, e lo sguardo al eiel levato assai Parlarono eloquenti e fur compresi. Obbedïente all' alto cenno il dotto Vegliardo mosse a lei dinnanti, e in queste Note disciolse la sonora voce: O mio Dio, del re lo spirito Sia temprato al tuo consiglio: Tu lo guida, tu l'illumina Coll' eterna tua pietà. Di monarchi nobil figlio, Abbia scettro d' equità. Ond' ei segua rettitudine Ne' supremi ardui giudìci, E governi il fido popolo Di giustizia col favor; Pronto al ben degl'infelici, Mansuëto nutra il cor. Spunteran da' monti altissimi Alma pace e pia letizia, Di clemenza i raggi amabili Da' bei colli sorgeran, E del frutto di giustizia l soggetti esulteran. Regga ognora i molti popoli Con solerte amor paterno, Siangli uguali primi ed ultimi, Grandi alteri, e plebe umil, E con vigile governo Nulla gente tenga a vil. Alto levi dalla polvere I traditi ed i giacenti, Ma si mostri minaccievole Tutto armato di terror Agli spirti turbolenti, Ai protervi, agli oppressor. Sia famoso a tutti i secoli! Il suo nome si ripeta Finchè il ciel notturno illumini Il bell' astro pellegrin; Finchè il Sole a certa meta Drizzi il lucido cammin. Rassomigli pioggia valida Su falciata praterìa, Che le glebe nude e squallide Util scende ad avvivar; Pioggerella amica gli aridi Prati estivi a fecondar. Nel suo regno i buoni crescano, Lo consoli stabil pace, Che perfetta e lieta effondasi Nelle floride città; Finchè tarda la sua face L'alma Luna spegnerà. Dall'un mare all'altro domini, Signoreggi glorïoso; De' suoi vanti tutto abbellisi; Ampio estenda il suo poter Dal sonoro Eufrate ondoso Ai confin del mondo inter. Al cospetto suo paventino Gli abitanti dei deserti; Mordan rabidi la polvere I nemici del Signor, Sien d'obbrobrio ricoperti, Lor non giovi il fiero cor. Dell'insigne Tarso i principi E dell'isole i signori Bei tributi gli consentano, A lui giurin salda fe; A lui rechino tesori D' Etiopia e Arabia i re. Gl'imperanti a lui s'inchinino E l'adorin riverenti: Volontarie si sommettano Le superbe nazïon; Ei benigno de'gementi Porga orecchio al mesto suon. Di soccorso affidi i miseri Nella polve prosternati; Di sua luce un raggio spandasi L'alme afflitte a consolar; Gl'infelici al suol dannati Sappia dolce confortar. De' pusilli, delle vedove Abbia ognor solerte cura, Alte leggi li proteggano, Apra ad essi certo asil; Ei li tolga a frode oscura, Li sottragga a mano ostil. Prezïosi i dì gli corrano Di chi vive nell'inopia, E per lui redento il povero Grati doni gli offrirà, E dell' oro d'Etïopia La sua reggia abbonderà. Benedirlo saprà fervido Con assidua e calda vece Di preghiere e voti fervidi Ogni core a lui fedel; Chè dei miseri la prece Esaudisce amico il ciel. Abbondanti e colme emettano I bei germi l'auree spiche; Fino in vetta ai monti altissimi Inatteso spunti il gran, Come in terre culte e apriche, In fecondo e largo pian. E la messe bionda e lucida Così eresca fitta e soda, Che se il vento tutta l'agili Col suo rapido alïar, All'orecchio di chi l' oda Sembri il Libano eccheggiar. Nel paëse felicissimo, Come l'erbe in glebe opime, Numerosi si diffondano Fortunati abitator; Ei fra tutti sia sublime Ammantato di splendor. Sia perenne in mezzo ai secoli Il suo nome glorïoso, E dai padri i figli apprendanlo, Da un' etade un' altra età; Duri ognora luminoso Finchè il sole durerà. Benedetto il Nume massimo Crëator d' almi prodigi, D'Israëllo il Nume provido Che d'onore il ricolmò, E d'insoliti vestigi L'universo illuminò. Benedetto, o Nume altissimo, Il tuo nome in tutti i tempi! Così i voti, o Nume amabile, Di portenti operator, Di Davidde i voti adempi Figlio all'umile pastor! Poich' ei si tacque la reina il guardo Levò ver Salomon, cui risplendea Di nuova luce la serena fronte Mentre il vegliardo con benigni detti Accomiatava. E la reina: troppo Forse ti chieggo, o re; solo m'affida Tua cortese amistà; ti fora grave Soverchiamente a qualche altro dimando Corrisponder benigno? E a lei rincontro Riprese Salomon: regal Nicaule, Tutto che move dal tuo labbro è grato All'alma mia, libera parla, io t'odo. In se raccolta soffermossi alquanto L' augusta donna, e a interrogarlo prese. Dimmi, o supremo saggio, qual de' regi È la gloria maggior?—Così m'appaga La tua richiesta, ch'io volonteroso A risponder m'accingo, benedica L'Eterno, e inspiri verità miei detti. Magnanimo de'regi altero vanto È il guerriero valor; del re la spada Afforza Iddio, la man benedicendo Che nel suo nome armata pugna e vince; Ma pur la gloria ch'ogni gloria eccede Orna colui ch'è di giustizia amico. Sull'orme dell'Eterno avvien che mova Chi a lei move compagno; ella che mai Dall'eterno Signor non si diparte. Da clemenza talor temprato è dolce Ai soggetti il suo fren, che dal sentiero Delle colpe li svolge e li sorregge.— L'immagin tua tracciasti, o re sublime, Involontario, ed io la riconosco! Disse Nicaule, e al suol fiso lo sguardo, Meditabonda stette, indi riprese: A nuova inchiesta non ti sia discaro Nuova dettar risposta; qual de' Regi È la maggior magnificenza? E il sire: Di popol folla innumeranda come L'onde del mare, o la minuta arena Di spazïosa landa, è la più certa Magnificenza onde s'abbelli un regno; La ruina del prence è nella scarsa Moltitudin de' popoli soggetti. Paga mostrossi la reina, e dolce Sguardo innalzò di Salomone in volto Consentendo al suo dir. Tacque Ismäello Che più lunge sedea, ma in cor l'affanno Secreto lo rodea; n'ebbe pietade Nicaule e disse: Taciturno e mesto A che ti stai, consigliator mio fido? Perchè tua voce non aggiunge anch'ella Una parola amica! Il tuo silenzio Modesto io lodo innanzi a tal, cui pari Non vanta il mondo; ma sebben minore, Severo troppo a tua virtude sei: Nobile ingegno e altri sensi nutri Non indegni di re.—Quei miti accenti Del fido prence serenar la fosca Sembianza, e a lei con un sospir rispose: Ammirato mi taccio; fiacco troppo Stimo l'ingegno mio; levar non oso Nel consiglio de' re la mia favella. L'interruppe il monarca: de'valenti M'è caro il senno, e sei valente: noto A me ti fer della reina i detti E l'onesto decoro onde t'ammanti.— Chinò la fronte rispettoso al suolo L'addolorato prence e si rispose: Le tue labbra, signor, spandon scïenza Come vena di fonte alma e perenne; Pur sì m'affida il generoso ed alto Animo tuo, che ardisco interrogarti. De' giovani qual è, signor, il vanto? Qual de' vegliardi? E il Saggio: è nella forza De' giovani la gloria onde a bell'opre Muovon securi e confidenti. È gloria Maëstosa de' vegli il crin cannto; Esperienza li sostien, la via Calcan securi di giustizia, e al cielo Che a lor s'apre dinnanti ergono gli occhi. Ma nel tuo volto nobil brama io leggo Di novella richiesta: or via l'appaga.— Mestamente Ismaël sorrise e disse: Penetrar ne'misteri della mente A te dato è, signor; qual più funesta Smania tu credi, il fremito dell'ira, Di collera il furore, o il lungo anelito Di cupa gelosia?—Tremende, il sire, Passïoni son queste, la tua pace Mai non turbino, o prence! È cruda, amara La collera, e simìle a furïosa Demenza l'alma di tenèbre ingombra. L'ira orribile freme, e l'uom per essa Simil diventa a torvo lïoncello Famelico, ruggente sulla preda. Ma chi di gelosia l'intime angoscie Chi mai potria durar?—Tacque; sul volto Cosparso di pallor, nello smarrito Sguardo del prence sventurato ei lesse Il mistero d'amore e impietosinne. Al ragionar vivace succedea Un penoso silenzio; ma lo ruppe La provida Nicaule. Anco un'inchiesta M'assenti, o gran monarca: come riede Il fanciulletto a limpido ruscello Che l'assetate fauci gli rinfresca, Al fonte del saper cosi ritorno. In unico fidar giova a chi regna Consigliator accorto, o fra diversi Avvisi scerre qual più torni all'uopo? E Salomone a lei pronto rispose: D'un sol ramo, alta donna, nou s'adorna L'inclito cedro, e un flutto sol non volge Il vasto mar; schiera alternata accogli Di gravi ingegni e di bollenti e arditi. A tal tempri l'ardor che sovrabbonda L'altrui pacato spirto, e il troppo freddo Sillogizzar s'infiammi ai vivi tocchi Di fantasia: moltiplice dovizia Di consigli prudenti è gloria al rege E al popolo salvezza in pace e in guerra.— Ognor saggio è il tuo dir! Grazie ti rendo, O Re sublime! I tuoi consigli in cima D'ogni consiglio io pongo; ognor saranno Scolpiti nel mio cor come nel bronzo; Attornïati si staranno ognora Alle mie dita come prezïose Gemme in anella aurate; sontüosi Veli decoro alla mia fronte, e, giunta La suprema ora mia, manto funebre!— E conturbata l'alma fronte il sire: Oh! qual triste pensier s'affaccia, o donna, Dell'amistà fra i placidi colloquii? M'è grave il tuo lodar quando ti costi Ancor che breve affanno; a tarda etade S'avveri il tetro voto; mie parole, Quai si sien, rimembranza esser ti denno Piacevole nei lunghi di felici Dall'altero tuo regno!—Il caro voto Serenò la Regina, e così disse: Non più mi volgo al venerando sire Ma all'amico benigno, al sapïente. Me venturosa, cui dalle remote Terre condusse di tua fama il grido All'eletta città! Quanta m'apparve Meravigliosa gloria, e quanta pompa Ti circonda, o signor! Sei pari al sole, Che spazïando in vasto giro ammanta Di luminosi rai l'eterea vôlta, E di natura animator sovrano, Equabil la ristora e la feconda. Oh! beati color che a te soggetti Sempre innanzi ti stanno, e dal tuo labbro Dipendon disïosi, sapïenza V'altingendo perenne! Benedetto Il tuo Dio che t'inspira e ti fa grande! Benedetto il tuo Dio che tanto i figli D'Israëllo dilesse, e all'eminente Seggio t'assunse onde per te giustizia Fermo in Gerusalemme avesse regno!— E lieto Salomone ai dolci detti Che dal labbro gentil fuggiano come Fresca rugiada ai primi rai dell'alba: Cessa, deh! cessa, amabile reina; Tropp'alto poni dell'Eterno il servo. Egli è mia gloria, ei mia possanza, ei luce; Sul cammin della vita ei mio riposo.— Nicaule intenerita all' umil detto Proruppe: Tanta fede ognor più rende Maravigliosa tua virtude. Or dunque Al servo dell'Eterno, al prediletto Figlio del ciel grave consiglio io chieggo: L'estremo ei fia! Sospesa stette: un palpito Dubbio l'assalse, un brividìo nell'intime Fibre le corse; e la speranza indocile Fra il tumulto dell'alma inconsapevole Surse, brillò, fuggì, qual lampo rapida. Alfin riprese con favella trepida: Dimmi, Signor; regger paëse vasto Può imbelle donna, a mansüeti uffici Cresciuta, e a cheti studi? Il dïadema Sacro la debil fronte cinger puote E sostenerlo degnamente sola, Senza un compagno che ne allevii il pondo? O meglio ad essa ed al suo popol torna Se provida un compagno a sè presceglie?— Ardua è l'inchiesta, o mia reina, e a molti Capi riguardo vuolsi aver, che ponno L'islesso avviso far prudente o folle A seconda de' casi; e tuttavia Quel che mi detta il cor non vo' tacerti. Mirasti nel giardin fiorento e lieto Di bei grappoli d'or la vite onusta? Se il debil tronco non commette a fido Sostegno, il vago onor delle sue frutta Sull' umile terren presto ricade Sott' esso il peso soverchiante domo; Ma se i felici rami protendendo Fido sostegno abbraccia, ecco dilata Rigogliose le frondi, e le sue gemme Al sol dischiude che le indora e scalda. La donna è fragil cosa, delicato Giglio cui nuoce un'aura, una leggera Orma d'insetto. Nobile e sublime Oltre ogni donna sei; d'animo forte, D'unica sapïenza, d'alti sensi; Rara è la gloria tua, che grazïose, Sembianze accoppii a vigile intelletto, E con giustizia il popol tuo governi: Pur, non sdegnarti, d'un compagno allato Più felice vivresti, e più secura. Impallidìa Nicaule ai saggi detti Del buon Monarca; amaro in cor le surse Inesprimibil duol di cento opposti Sentimenti commisto. Era l'affanno Dell' incompreso amor? Un'inquïeta Brama ansïosa? Un mesto senso arcano A rimorso simil? L'immagin viva Dell'egizia Tafnesse palpitante, Infelice, tradita, s'affacciava Al confuso pensier; quell'innocente E benedetto amor turbar col pianto! Tutta raccolse la virtù natìa Dell' anima smarrita, raffrenando La lagrima dai bruni occhi sporgente; E dignitosa e placida nel volto, Benchè tremante in cor, mosse le labbra De' schietti sensi grazie a te sian rese, Suggello all'amistà verace ed alta Che in me non fia mai scema. Il tuo consiglio A meditar, permetti ch'io raccolga I miei pensier: alle mie slanze io riedo. Iddio t'inspiri! Salomon rispose, E lungamente seguitò col guardo L'orma gentil della straniera amica. Quando spiccollo, immoto vide, assorto Ismaëllo e tacente, a cui lontana E fioca speme balenava; speme Soave pur, benchè lontana e fioca. Sovra morbido letto il fianco posa Meditabonda, tacita, solinga Di Saba la bellissima reina: Inanellato il folto crin circonda La fronte illustre e al delicato e curvo Quasi di cigno flessüoso collo Accresce grazia ricadendo intorno. Ad ora ad ora un gemito fuggente Agita il colmo petto, e schiude il labbro Con lievissimo suon, come di foglia Agitata dall'aura, o come nota In cui muor d'amorosa arpa il concento. Alto le suona ancor di Salomone L'onesto senno, e la parola amica, E più n'avvampa innamorato il core. Ahimè! proruppe alfin vinta dal forte Ribollir degli affetti cui rendea Più cocente il silenzio: ahimè infelice! Sconsigliata farfalla anch'io m'esposi A gradito periglio, e al par di quella Vittima anch'io ne pero. Ella s'aggira Alla fiaccola intorno che l'alletta Col radïar vivace, e sol ne fugge L'ardor soverchio quando già n'è colta! Fuggir, fuggir io debbo, e qual trafitta Cerva meco recar lo stral infisso! Oh ciel! svelommi forse il dubbio accento E il pallor della faccia, e la tremante Voce all'aprir la malaccorta inchiesta? Come tranquillo e persüaso apparve Salomon ne' suoi detti! Il suo consiglio Che il cor mi lacerò, come dal labbro Fuggiagli senza sforzo! E il ver parlava! Ma di mie nozze lieto il popol mio, Me lassa, come far? non sempre ho innanzi Di Salomon l'immago glorïosa? Oh privata donzella almen foss'io! Delle paterne mura abitatrice, Scevra dell'ardue cure onde son cinta Reina in trono! L'inesperto ingegno A facil'opre volto, in cerchio angusto Ristretto, non avrìa questa possanza D'immaginar che mio tormento è fatta. Che dissi? Ahi! quanto il mio pensier delira! La regal mäestade, i venerandi Dritti del nobil sangue io troppo offendo! Destati, orgoglio! La tua voce abborro, Ma l'invoco un istante! Mi solleva L'abbattuto pensier, poi ti dilegua E cedi il loco a più gentil possanza Che della mia regale alma s'indonni! Si disse: e surse dall'adorno letto Imporporata in volto, e le brillava Inspirato lo sguardo, e le fremea Dall' acceso parlar commosso il labbro. Venga Ismaëllo a me! sclamò repente, Volta a un giovine paggio a un primo cenno Accorso ed aspettante. Il grato messo Udendo il prence, giubilo, sull'orme Della sua guida raffrettando i passi. Nè al suol prostrato umilemente il volle Mirar Nicaule, e disse: Sorgi, o fido Mio consigliero, e il divisato ascolta Proponimento: alla partenza lungo Indugio oppor non giova, anzi vicina L'ho in me già ferma, e che tal segua intendo. Grato soggiorno mi è l'alma cittade E la splendida reggia ove congiunti Senno e amistà trovai tanto perfetti, E gloria tal ch'ogni altra gloria eccede; Ma son reina io pure, e non indarno Tornar de'il serto alla mia fronte, i miei Popoli mi son sacri, e sacra insieme, Per quantunque difficile, la cura Ch'al lor meglio provegga. A ciò mi fieno Utile esempio del Monarca eccelso Le portentose opre felici, e i dotti Consigli onde arricchì la mente mia. Ma pria della partenza un qualche segno A Salomon vo'porgere d'amico Riconoscente cor: che se di tanti Ricambiarlo non so doni superbi Quant' ei men porse; almen per la tua mano, Prence, desìo che i doni miei recati Sieno al monarca, si che dal facondo Tuo labbro nuovo a lor pregio s' aggiunga.— Brillò di gioja il nobile sembiante D'Ismaëllo a quel dir, comprese il muto Linguaggio de' suoi sguardi la reina, E a un mesto riso componendo il labbro L'affisava tacendo. Egli rapito D' inneffabil speranza, era beato Di quel guardo al fulgor; se osato avesse Allora un detto proferir, si fea Tosto l'arcano del suo cor palese. —Parmi che lieto di partenza il nunzio A te giunga, Ismaëllo.—Caro sempre M'è il tuo cenno, o reina; e ammiro e lodo Il tuo cor nobilissimo, d'amore Quasi materno caldo pei felici Tuoi popoli con giusto amabil freno Corretti, e diva sapïenza. Ognora, Magnanima Nicaule, il ciel ti serbi Sì provido intelletto, alma sì grande! —Che ti spinge Ismaël queste sul labbro Quasi dubbie parole? A miei soggetti Uguale ognora mi mostrai, di grazie E pene dispensiera equa, siccome Mel consenton l'età, la mente, il sesso. —Deh! mi perdona! Non t'offenda il detto Involontario! Tua virtude insigne Celeste cosa appar, ma s'un compagno Sceglier ti piace, e il grave pondo alquanto Allevïando del poter, dividi, Se non il trono, che lo vietan nostre* Leggi Egizie. Figeac, Egitto Autico. Antiche leggi, ma le cure seco, Chi n'assecura che in virtude pari E non dissimil da te sia?—Precoce Dubbio t'affanna, o prence; ancor non dissi D' eleggermi un compagno, e già tu pensi Se di me degno ei fia?—Rapida fiamma Cercò le fibre ed avvampò nel volto Del prence innamorato. Ei troppo ardìa Scrutar nell'alma dell'altera donna. Del suo fallo s'avvide, e ne fe scusa Con umili parole, a cui rispose La reina così: Del ciel l'altezza, Gli abissi della terra, e il cuor de'regi Investigar non puote umano sguardo.— E dignitosa il congedava in quella. Ond' ei, china la fronte, uscìa veloce Ad eseguir della reina i cenni. Nelle stanze recondite, d'arredi Vaghissimi fregiate, cari eloquii Salomone alternava co' più fidi Del suo cor consapevoli ministri; E in sapïenti detti ampia dottrina Versava, come rio d'acqua corrente Giù per la china, l'inspirato labbro. Ma in umile contegno un de'preposti All' esterno atrio guardïani, un paggio Accompagnava nel regal cospetto Che d' Ismaëllo nunzio ne venia Ricercando udïenza, e con benigne Parole n'ebbe il disïato assenso. Indi il monarca a prodi suoi rivolto Lo commendava in questo dir. M'è grato Il principe stranier; lo schietto labbro Ben rivela il suo cor scevro d' inganni, E il culto ingegno: forse non è lunge Il dì che ad alta meta scorgerallo, Nè gli fia grave, se m' appongo al vero, Ogni suprema cura, ogni alto incarco.— Alla spoutanea lode di quel divo Labbro adoralo più spirava in tutti Per Ismaëllo favorevol senso D' onoranza e rispetto, e quand' ei mosse Dignitoso nell'aula, surse intorno Un bisbiglio sommesso che plaudìa L' almo decoro, e la gentil sembianza. Venti il seguono e venti d'Etiopia Paggi dal sol rïarsi, cui tra il fosco Color del volto quai carbonchi accesi Fiammeggian gii occhi; crespa lana pare Di bruno agnello il folto crine, e il labbro Tumido splende di corallo a guisa. Scintillan di monili petti e polsi, E pinte sorgon ne'turbanti piume Di peregrini augei che le fronzute Selve allegravan de'natii paësi. Le brevi in bianco lin tuniche adorne Di ricamati fregi, all' ampie brache Di porpora intessute e d'oro, ondeggiano Fino a mezzo il ginocchio; e lisci cerchi Le caviglie ricingono tornite. Gli asciutti piè, che sulle sabbie aduste Orme imprimean veloci, in elegante Calzamento ristretti van mutando Sui pregiati trapunti orme più lente. Poichè silenzïosi, a capo basso, Nella stanza regal posero il piede, In ordinata schiera s'arrestaro. Nè scarco move alcun: larghi bacini Recano molti sulle aperte palme Equilibrati, e vi lampeggian d'oro Talenti in copia, o di pitture insigni Adorni vasi. A intarsïati cofani Soppongon altri quinci e quindi l'omero; Ed altri in chiusi rotoli trapunti Recan voluminose istorïate Tele, che svolte offron portenti ai paghi Sguardi dell'ago industre e della spola; Altri d'opera egregia urne capaci. In atto ossequïoso le ginocchia Piegò dinnanzi al sire il nobil prence, Poi, sorgendo, un saluto anco rivolse Agli adunati suoi ministri, e a lui Mosse tai detti: Alto Signor, perdona Se alla pompa sublime che ti cinge Aggiunger osa la regal Nicaule Povera offerta; ma non sdegna il mare Tributo accor le scarse onde de'fiumi (Così m'impose dir l'eccelsa donna) Nè tu disdegnerai, sebben minori Tanto al dovuto pregio, i doni suoi. Deh! nou ti spiaccia ch'io li esponga in parte Al tuo cospetto con devoto omaggio. E a lui rincontro Salomone: Accetti E prezïosi mi saranno i doni Dell'illustre reina, che straniera A me ne venne, e lascerammi amica. Nè grato meno il tuo parlar mi giunge, Prence cortese, e per tua man m'è dolce Che a me s'ostenti la pomposa vista. Pronto Ismaëllo un cofano dischiuse Che recavau due paggi, e di smeraldi Bellissimi gran copia al guardo offerse, Simili alle novelle erbe crescenti Dell'olezzante maggio ai primi giorni. Ivi purpurei brillano rubini, Ivi pregiati dïamanti in larga Dovizia seminati, ivi azzurretti Il modesto fulgor spandon zaffiri. Ivi di tonde perle in lunghe file Il soäve pallor biancheggia al guardo, Al carbonchio vicin che par scintille Di fuoco emani. Ma non trovi alcuna Gemma volgar, non come in vasto prato Ai fiorellin commiste abbondan rozze Inculte piante, ma siccome in ricco Giardin s'accoglie ogni leggiadro fiore. Poscia di schietti aromi peregrini Offerse il prence largo dono, e disse: Questo scarso volume al tuo cospetto D'aromi esposi, eccelso re, che tutti A contenerli loco era ristretto Quest'aula immensa; ne' terreni alberghi Deposti sono, e al tuo comando presti. Ma rara accetta egizïana pianta* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Di balsamo, non vil presente, sendo Alla regal Gerusalemme ignota.** Dioscoride, Materia medicinale. Utile pianta e vaga, anzi arbuscello Crescente a ciocche a ciocche, di perenni Frondi simili all'odorosa ruta, E biancheggiante. D'attributi propri Distinte vanno molte specie, e asprezza Diversa hanno, e misura, ed ergon meno O più lunghi gli steli. Ben fronzuta E sottile ve n'è cui facilmente Il provido cultor miete e raccoglie; Ma quella onde il pregiato olio si spreme Allor che il sole alto fiammeggia, e invasa D' ardor la terra si feconda, dura Corteccia veste, ed ugne aspre di ferro A pungerla s'adoprano, e una lenta Stilla ne piove; venti appena, o trenta Annue mezzette assidua man ne aduna. Grato licor, quand' è recente, molce La lingua in caro modo; eppur si falsa Per mal nata di lucro avida brama Con olëosi aromi di lentisco, Di gigli, di balani, di metopio, E cera, ed altre a raccontar soverchie Frodolenti misture. Ma l'arguto Esplorator dal finto il vero scerne A molte prove. Su lanoso panno Versate goccie, e con lavacri poscia Deterse, s'è rëal balsamo, alcuna Non lascian orma, ed il falsato macchie Durevoli v'imprime, ancor che in bella Onda corrente a depurar si lasci. In nitido versato fresco latte Il sincero licor bianco si spande E al latte si confonde, ma raguna L'altro le sparse goccie, e a galla viene Siccom'olio, e di stella assume forma. Benefica virtude è compartita Alla pianta gentil; commista al latte, L'odorifera stilla all'influënte Aconito malefico s'oppone, E i crudi effetti ne impedisce e smorza. L'avvelenato morso disacerba Di rabidi animai che il dente acuto Insanguinaro in membra umane, e giova A cessar della febbre i rinnovati Tremiti spessi, ed a ferite e piaghe Non men utile torna, e a chi nell'ansie Si trangoscia del petto, o per oscura Vertigine s'adombra; e ad altri molti Gravi malori è salutar conforto. Gradito a Salomon giunse tal dono Più d'ogni ampio tesor, di cui dovizia Infinita serbava, chè gli estrani Aromi e l'util pianta offrìan subbietto All'alte sue ricerche sapïenti. Poscia bei vasi con industre zelo Pinti a mosaico ricrear gli sguardi E la mente del re, d'allegorie Fregiati con mirabili apparenze. Ampia valle distinsevi l'arguto Antico dipintor, di begli onusta Arbori verdeggianti, e vi s'aggira Con orme preste un bel garzon cui viva Ansia traspar dal volto, e dalle tese Impazïenti braccia; tra i fioriti Cespi di rose ei passa, e non s'avvede Dell'irte spine ond'ha lacero il manto; Velata insegue femminil immagine Che rapida gli fugge innanzi, e guidalo A scabroso sentiero aspro di triboli. Ha screzïata veste, e le circondano Due serti il crin, uno di rose morbide A cui rapisce l'aura i vaghi petali, L'altro sfavilla d'or, ma nere il rigano Striscie di ferro, e lo splendor ne oscurano. Le insïdiose orme premendo, il baldo Giovinetto non erge la pupilla Alla vôlta celeste, e la superna Non cura visïon ch'ivi risplende. Fra bianche nubi di purpurei e vivi Riflessi irradïate, augusta siede Sembianza femminil, cui le divine Forme riveston qual di cigno intatta Piuma i nitidi veli in molli pieghe; Serto di raggi splendidi circonda La bellissima fronte, e gli occhi suoi Cara luce diffondono simile D'estiva luna al dilicato raggio. Alla sua destra siede eccelsa donna D'un'aureola ricinta il sacro capo; Inestinguibil face in una mano Reca, e nell'altra l'inclito volume Dell'Eterna dottrina, onde s'innalza L'uomo mortale all'immortal speranza. Bella di santa pace, a manca assisa Sta la terza compagna, con sereni Sguardi securi, e di sua luce brilla E de'rai che sovr'essa in copia spande Della compagna la benigna face. A lor d'intorno fra le nubi alato Drappel di genii sorridenti appare. Piacque il vago dipinto a Salomone E così disse ad Ismaëllo volto: Ammiranda pittura! Illustre e degno Subbietto a ricrëar svegliati ingegni! L'improvido garzon che dietro l'orme Anela d'empia larva, mentre a lui Felicità si mostra cui la santa Religïone e la virtù fan scorta, È lagrimevol ma verace esempio. È caligin profonda degli stolti L'adombrato cammin, nè certa meta Antivedendo, a inevitabil, fera S'affrettano ruina. Ah! non è tale Il cammino de'giusti. D'alma luce Più e più sempre s'ammanta, infin che tutta La bella pompa spieghi il chiaro giorno. Questa solenne allegoria che tosto A te fu conta, alto Signor, ben molti Ozïoso terrian vago dipinto; Rispose il prence, e fe'recargli un altro Vaso ugual nella forma, ma dal primo Diverso ai fregi e alla gentil pittura. Sovra gemmato eccelso trono siede Incoronata donna: ampio papiro Ha schiuso in grembo, di segrete note Vergato, e adorno in bei disegni; intera Ivi è dipinta la stellata vôlta Col rotëar degli astri nel segnato Mirabile cammin da mano eterna; Al disïoso sguardo altrove s'apre Il multiforme della terra aspetto. Sull'ammirande pagine fisava La regal donna il guardo, e sollevando L'invitta destra parea dir: Sorgete! Dalle squarciate nuvole una schiera Glorïosa vedeasi di matrone Uscir e di donzelle. Le matrone A gravi studi attendono; e del prode Numer una, levati al ciel gli arguti Occhi, esplorando va le soavissime Armonie degli eterni astri danzanti; Di stelle ha sparso il manto azzurro, e cinge La bella fronte pur di stelle un serto; D'ottici vetri arma la manca, e un globo Nella destra si reca de'celesti Segni cosparso. Accanto a lei s'innoltra, Canuta il crin, severa il volto, e lenta Gli atti, una sua compagna, cui nodosa Canna è sostegno ai dubbi passi, e reca Balsami, e in varie fogge attorti ferri. Poi lieta move, coronato il capo Di spiche d'oro, e in man colmo portando Gentil canestro di gioconde frutta E d'erbaggi e di fior da lei cresciuti, Una terza matrona. Utile aratro Si trae dopo le terga, ed affilata Lucida falce tiene al fianco appesa. Stretta al suo braccio la compagna viene Cinta di frondi il crine; un fior contempla, Colle dita smovendone i minuti Petali, ingombro al calice, simìle A ritondetta tazza, e par si bei Di scoperta felice: un fanciulletto Vispo la segue, e a lei va presentando Copïosa di fiori e d'erbe messe. Altre mostravan venerande donne Dalle nebbie sporgente il volto e il petto, Altre seguian con maëstoso incesso. Ma il cupid'occhio attrae delle fanciulle La giovïal falange; alcuna reca Armonïose cetre, sistri, e flauti, Lievi passi alternando in care danze Che accompagnan del labbro i modulati Musicali concenti; altra solerte Coll'agil dita forma bei trapunti E tessuti pregiati. Una pensosa Donzella innoltra, cui move dagli atti Grazia celestïal, e gli occhi innalza Eloquenti così, che par raccolga L'alma nel guardo. Eburnea lira assume Al casto petto, e le sottili corde Ne fa vibrar, la chioma scherza intorno All'alma fronte, e mentre il labbro schiude A nobil inno, l'inspirato volto Di poetico ardir tutto lampeggia. D'altra parte s'avanza una fanciulla Di bellissimo aspetto; incarco è l'arduo Scalpello della destra, e della manca, Sovra base gentil, marmoree sculte Effigie d'animali o eletta forma D'umane crëature. A lei simile Negli atti onesti e nel piacevol viso Vengonle accanto vergini sorelle Addette ad altri uffici. Erge la prima In brevi marmi nitidi modelli Di grandïosi templi, e ben construtte Torri, e palagi, e ricche loggie ornate. L'altra dipinti simulacri espone Ai curïosi sguardi, e in confin breve, Scortando industre, è di raccor capace Con grata illusïon spazii infiniti. Seguìan molte non ben note sembianze Di vergini accorrenti al grato cenno Della regal matrona, ma l'augusto Savio gli occhi ne torse, e parve tutto In se romito concentrarsi, e alquanto Tacque, la fronte veneranda ergendo D'insüeto ricinta almo splendore. Lunge, lunge parea tender lo sguardo Meravigliando, e alfin con voce chiara Alta, solenne, in questo dir proruppe. Sapïenza è colei che siede in trono Altera, e sono le accorrenti schiere Scïenze ed Arti in dolce nodo avvinte Di fraterna amistade, a lei figliuole. Palese è il bel subbietto, ma l'antico Dipintor fra scïenze ed arti, note Pe'chiari emblemi onde le cinse, molte Accennò lontanissime di nebbia Immagini velate. Avventuroso Pittor! a lui dell'arte i dotti arcani Erano aperti, e fantasia, di grandi Idee ministra al nobil cor, potea Un lembo sollevar del fitto velo Che i venïenti secoli ricopre. Ma il profetico lume, ond'ebbe scarsa Fuggente vïsion l'artista illustre, A me limpido splende e le snebbiate Future cose mi rivela, e schiude Agli attoniti sguardi meraviglie Non pria sperate negli arcani studi Cui sapïenza è guida, e fonte Iddio. O scïenze sublimi, alte maëstre Dell'uom, per voi d'investigar capace Della varia natura ardui segreti! O nobili scïenze, obbedïenti Voi siete all'uom, ma non è senza impero La vostra servitude, e vivi raggi Perenni spande il vostro volto e il guardo. A mill'opre v'astringe la superba Voglia mortal, ma pur v' accresee gloria Mentre a servir vi sforza, onde reine E faticanti ancelle in un sarete. Per voi l'estensïon dell' ampia terra Fia misurata, e gli elementi tutti V' obbediranno, e schiuderanvi pronti I loro arcani. Fin l' eterea vôlta Interrogando, de'pianeti erranti Spïerete il cammino, e l' auree chiome Spuntar vedrete in ciel di nuove stelle. Le pianure fiorite e gli aspri gioghi, Le inculte lande, e il grandïoso mare Alta meta saranno a studi vostri: Lo spazïoso mar di mostri informi, E di squammose schiere, e di guizzanti Rettili albergo; di coralli altore, E d'alghe, e di conchiglie attorte, in vaghi Color dipinte, e di gentili perle: Lo spazïoso mar dell'infinita Bontà verace emblema, se d'azzurra Calma s'abbella; e se d'orror vestito Insorge procelloso, dell'ultrice Ira del Nume paventoso emblema. Nè l'erte roccie orribilmente scabre Vi fien ritegno, e da'gran fianchi nuovi Ritrarrete metalli, cui se il primo Vanto non cederà l'oro fulgente, Pur adequato fia sovente in ricche Opere di cesello, e per salubre Natìa virtude talun d' essi in pregio Maggior da'sapïenti fia tenuto. Ma che? L'acuta visïon dell'alma, Come la debil visïon de'sensi, Traviasi forse? Le sonanti io miro Onde premer fuggente ardita prora Cui nè sospingon remi, nè di vele Biancheggiano l'antenne! Denso fumo In tortüosa spira da cavato Bronzo s'innalza mormorando, e annera La circostante aura serena: ruota Volubil gira quinci e quindi al fianco Della nave, rompendo impetüosa Le contrastanti invano onde spumose. Poi su ferreo sentier immane io veggo Fuggir ratta qual lampo lunga schiera Di strani cocchi con stridor arguto E gran rimbombo, nè corsier possente L'adeguerìa, nè svelto cervio, o strale. Ma già, già si dileguan: nuovo surge Meraviglioso aspetto. Qual riflessi In forbito metal sono i presenti Vicini obbietti, e allontanati, nulla Traccia vi lascian finchè nuova appare Persona o cosa ad improntarli; tale Apparir veggo, e dileguar future Insigni opre ammirande. O giganteschi Monti, che il ratto vol d'ardita appena Regal aquila varca, i fianchi orrendi Ecco vi squarcia il rimbombante scoppio D'accesa polve, e qua e là slanciando Macigni infranti con tonar simìle A celeste saëtta, io veggo aprirsi lgnota via di lungo arco coverto, Onde s' abbrevia per cammino ascoso Il frapposto sentiero a gran paësi! Nè a voi, fiumi veloci, fia concesso Opporvi tempestando all' ardir sommo Dell'intelletto uman che tutto sparge Di nuove meraviglie il vasto mondo. Non pur varcar le vostre onde animoso Saprà, frementi indarno, ma sott' esso Il vostro letto innalzerà d'addatte Pietre portici saldi; e nell'ascosa Via scorreranno i romorosi cocchi E le stridule carra, e i scalpitanti Cavalli, e l'uom che vincitor v'irride; Mentre precipitando le sonore Onde mugghianti, sul difeso capo L' inutile furor fiaccar dovrete. I volanti vapor ignei, nell' aure Sparsi e diffusi, al suo comando presti Saprà l'uomo ridurre, e per sottile Di ferro stesa aerea via l'irata Saëtta guiderà, cui non prefisse Un segnato cammin l'Eterna mano, Ma spazïar concessegli pei vasti Campi del cielo, e rotëar fiammante. Nè a tanto pago accheterà l' altera Bramosìa del saper. Ei le correnti D'infiammate astringendo aure veloci, Da mirabil virtude attratte, baldo Imiterà del fulmine irrompente Lo scoppio e l' atra luce, e congegnando Macchine industri, grandïosi effetti E salubri traendone, le affini Virtudi mostrerà d'umane salme. Fin anco inerti estinte membra forte Esagitando, ne trarrà di vita Ingannevole scossa e fuggitiva. I lontani paësi, a cui frapposti Erti monti saranno, e mar profondo, Oh maraviglia! varcherà più ratto Del lampo, e più del fulmine securo Il formidabil fluido, e d'una in altra Terra scoccato, in mistico linguaggio Ai potenti sarà pronto ministro D' alte notizie, imprevedute, o attese. Ma qual m'abbaglia un'improvvisa e chiara Luce simile al delicato raggio Di luna estiva, eppur lieta e vivace Come raggio solar? Accolta in vaghi Penduli vetri biancheggiar la miro Amabilmente ed allegrar la notte. Miracolo gentil d'alta scïenza, Che gli atomi fuggenti ricompone Nell'aëre vagolanti, e via dirama In liquida sostanza per occulti Bronzi cavati, ond' abbiano fulgore Le cittadi inatteso, e le sonanti Officine perenne e pieno il giorno. Queste, e mill'altre all'avvenir serbate Sublimi cose io veggo; e non le dotte Scoperte e aggiunte ai cogniti splendori Scorgo sol io di fisiche dottrine Patenti al senso, ma ben anco veggo L'uomo scrutar dell'uom la mente occulta E i sentimenti, e un picciol mondo in ogni Vivente rintracciar, che a tutti inspira Un'alma, in tutti alma distinta, Iddio. Veggo all'esterne forme, al volto, al guardo, Al portamento, a'cavi o ricrescenti Segni del cranio, giudicar le arcane Propensïon con varia legge infuse Nella creta mortal; alto mistero Cui non concesso è deffinir in tutto, Pur dell'accorte indagini s'onora Dell'uomo il senno, o l'ardimento almeno, E di forbiti armato acuti ferri Talun rimiro che le spente membra Incide pazïente, e vien ne'freddi Visceri speculando la compage Di fibre e nervi senzïenti, e vene Invisibili spesso e innumerate, Onde dagli ardui esperimenti sorga Avvalorata esperïenza i crudi Morbi a fugar, che il viver nostro breve Fanno e d'angoscie e d'aspri tedii carco. Pur fra quell'alme del saper ministre Che movon franchi ad alta cima i passi, Ritrosa miro e ognor di nebbie involta La medic'arte! Ah! chiaro in ciò si mostra Il divino voler che all'uomo insegna Toruar vano ogni studio ogni fatica, Quando, rivolto il termine assegnato, Superna voce irresistibilmente Di quà ne chiama all' eternal riposo. Oh! d'inclita bellezza ornate suore, Arti virginee, ai luminosi rai Onde splendete si dilegua il tetro Pensiero, e lusingato il caldo ingegno I venturi precorre ardui portenti Che immortale faran la gloria vostra. Educatrici all'uom nella remota Del giovinetto mondo età primiera, Per voi s'aggentili l'ottuso spirto; E del turpe bisogno e dell' istinto Gl'impeti feri moderando, in copia A lui schiudeste peregrine gioje. Tu divina esponesti arte de'carmi Le prime leggi ond'ebber freno e guida Gl'inculti abitator dell'universo: Tu ammaëstrasti in amorosi eloquii Di venerandi antichi padri i figli Obbedïenti e fidi a' lor precetti; E famiglie reggesti, che adunate Ebber civil costume, e a popolose Tribù crescendo dominar la terra. E tu che movi a lei compagna in caro Nodo d'amor, bella armonia, che dolce Dell'angeliche note eco diffondi, Miti desiri suadesti all'uomo, Le truculenti voglie, e la soverchia Foga temprando dell'ardito core: Ond'ei, vinto all'incanto onnipossente, Il rude mitigò natio costume E fè di grati cantici e d'accordi Solenni offerta all'immortale Iddio. Te, di severe discipline altera, Arbitra delle seste, io non oblio; Pria di capanne altrice, indi d'augusti Palagi e templi sontüosi, e vaste All'uopo universal fabbriche elette; Nè voi che d'almi decoraste ammanti L'inclite reggie e i riveriti altari; E l'uom che in pace, e in guerra, al caldo, al gelo Addatte spoglie trova, di sue membra Ristoro, util difesa, adornamento. Nè inosservate mi scorrete innanzi Di nitidi disegni e vive tinte E di scolpiti marmi grazïose Maëstre all'uom, che in voi spesso rallegra Il non ignobil ozio, e spesso in voi Tutto si fonda, e vi consacra l'alma Innamorata dell' invitto lume Che in voi risplende, e non verrà mai spento! Ma in lunga schiera, o vergini celesti, Seguirvi io veggo le minori suore; Minori sì, ma d'alto onor fregiate. Da voi s'informa alcuna d'esse e imita Le illustri opere vostre in vari modi. O vergini celesti! A qual movete Meravigliosa altezza, e quai perenni Di gloria eccelsi rai vi stanno in fronte! Già già vi miro in regio manto avvolte L'aureo scettro brandir delle più culte E più leggiadre al sol terre dilette. Ove mutate i passi ecco riveste Spontanei fiori il suolo, e s'orna l'alba Di più soave lume, e immenso e bello Sorriso allieta la diffusa vôlta Del celeste zaffiro, e i monti e i mari Plaudon festosi al trïonfante impero. A'riti vostri alti ministri io scorgo Sorger poëti illustri, cui del canto Darà la palma Iddio, del canto insigne Che durerà nei secoli, possente A'lontani nepoti incitamento. A voi ministri non saran men degni Pittor gentili, i cui molli contorni Sul papiro segnati e ordite tele Guiderete voi stesse, inclite suore, Amabili alternando ombre e vivaci Color, con saggio avvedimento accorto. Taluno alletterà malinconia Nell'estasi romite, e virginali Pinger godrà sembianti, ed accorate Madri amorose, e, di tranquille e pure Gioie casto pittor, tenere storie Col pennello godrà ritrar pudico. D'altri il bollente ingegno più robuste Fantasie pasceranno, e in vasto campo Orridi ludi e marzïal tumulto Pingerà fero; e tal da le spiranti Sue tele moverà forte virtude, Che il suon dell'armi e della mischia il grido Udranno i riguardanti impäuriti. Altri l'ampia natura circostante Si farà tema, e monti, e laghi, e belle Per correnti fiumane alme pianure. Altri la fosca notte, altri l'estivo Tramonto, altri le roccie aspre e solinghe. Altri l'ondoso mar che maëstose Solcan veloci antenne, e dell' umile Misero pescator sdrucita barca. Ai marmi stessi la vital scintilla Infonderan gli artefici famosi, Se agli ondeggianti panni, all'animato Volto, e al vero conformi atti, e alle belle Celesti forme guarderan le genti. Ma poi che luminosa, ampia, perenne Gloria raggiungerete, illanguidirsi Veggo il vostro poter: l'alte scïenze Sorgon reine ad occuparvi il soglio; L'alte scïenze cui primiere il varco Dischiudesle felice negli esordi Del civile consorzio, allor che avvolte Eran d'atra caligine le menti. Voi le guidaste, o Vergini divine, L'ombre sgombrando coi benigni rai, Simili a mattutina alba sorgente, Di sapïenza amabili ministre: Ond'è ben dritto che d'onor v' ammanti L'ingentilita stirpe, e a voi non osi Con profana rapir man vïolenta Il dïadema dalla fronte augusta. In questi detti ragionò il sagace Monarca, e dipendean dalle sue labbra L'alme sospese. Quand'ei tacque surse Ismaëllo sclamando: Un'inesausta Fonte di vita dal tuo labbro scorre, O re sublime, e gli inspirati accenti Nuove dischiuser meraviglie a nui De'secoli venturi; pur non tutto Esponesti il subbietto dell'antico Profetico dipinto. Sapïenza Che del suo trono al piè le figlie chiama È del tuo regno la felice istoria; E se il taci, o magnanimo, ben sorge Di molte genti ad attestarlo il grido. Alto plauso seguia quei degni accenti: Gioinne Salamon, chè sempre grata È non mercata lode ai cori eccelsi. Poichè tacquero, e alquanto ricomposti Tutti si furo, al riverito cenno Del chiaro sire nuovi doni espose Conturbato Ismaëllo. Eran tappeti Sottilmente trapunti dalla mano Dell'adorata sua reina: troppo Gli si fea grave presentar ei stesso Un tanto dono altrui. Tacea diviso Fra due pensieri. E Salomone: Or dimmi, Se cortese a me sei, qual mano industre Si mirabil lavor trapunse?—Quella Di Nicaule regal, l'altro rispose Con represso dolor. Poichè del giorno Occupò l'ore in glorïosi studi, O saggia provedendo all'ampio regno, Il calamo depone e l'aureo scettro, E fide ancelle a sè d'intorno accoglie Entro segreta stanza. Ivi, la lunga Calma notturna ad avvivar, leggiadre S'alternano novelle, e non disdegna L'ago e la spola maneggiar la mano Usa stringer lo scettro e vergar leggi. E il saggio: Ben m'apposi; in me sorgea Questa speme gentil, ma udirla io volli Dal tuo labbro più certa; assai m' è grato Il nobil don che dell'eccelsa donna Presente ognor mi fia cara memoria. Un gelo, un brividìo cercò le vene D'Ismaëllo a quei detti, e il cor gli scosse Un sussulto simil d' aspide al morso. Mirava intanto Salomon con nuova E diligente cura il bel trapunto. Di frondi attornïato un tempio è quivi Sontüoso, stupendo, e negli interni Penetrali si compion sacri riti. Delle sgozzate viltime discorre Il sangue sull'altar, cui tortüose Lambendo van le fiamme, e i tronchi membri Di volubili spire circondando, Rapide struggon l'olocausto offerto. Candidi lini in oro intesti e bende Veston due sacerdoti al fuoco intenti, E in due schiere divisi altri minori Sacerdoti si stanno a capo chino. Ne'bei tripodi ornati ardon profumi. Appiè dell'ara giovin donna sorge Per florida bellezza insigne e cinta Di nobil manto; venerando gli atti E la persona le stà incontro antico Sacerdote supremo, e il dïadema Regal le posa sull'altera fronte. Più lunge è accolta di ministri schiera Plaudente e lieta, e in caro atto d'amore Della nuova reina a fianco innoltra Decorosa matrona, a cui fa scorta Lunga schiera di vergini leggiadre E vegliardi che il labbro aprono agl'inni. Stuol di guerrieri ingombra i rimanenti Spazii, e negli atrii affollansi prestanti Garzon cui ride d' alta speme il volto. Il re additando la gentil, cui preme Nuovo pondo il difficil dïadema: La riconosco! iva sclamando, è dessa! Nicaule è dessa, d'alto onor raggiante Nella sembianza! Della tua reina Va superbo, Ismaëllo! E a lui fean eco Le genti ivi adunate: Va superbo, Ripetendo, Ismaël, di tal reina Quali noi siam del nostro re superbi! Come celeste cosa io già l'adoro, Rispose il prence, e meco il popol suo. Della tua lode il suon non puote, o grande, Più in alto collocarla, ma novello Serto di gloria alla sua fronte aggiunge! Si dicendo levò gli occhi infiammati Di rispetto, d'amor, di gelosìa A Salomone in volto, ma un sorriso. Che tenue balenò fra la solenne Serenità del saggio, accorto il fece De'troppo caldi accenti onde tradìa Se stesso quasi, e il suo celato affanno. Desideroso d'occultar la fiamma Onde il volto pingeasi, il tenne basso; Mentre schiudendo prezïosa un'urna D'armi tesor ne trasse, d'azzurrino Vivissimo splendore. Un ampio scudo Di finissimo acciaio, intorno a cui D'arabesco correan lavor pregiati, E il largo campo d'ammiranda e vaga Opera di cesello avea decoro, Fermò gli occhi del sir sull'altre tutte. Cento valenti, e cento, di feroce Proponimento sfavillanti gli occhi, Fremer pareano di soverchio indugio. Da le schiere disgiunti in furïoso Conflitto singolar pugnavan due Fulminanti guerrier, cui l'ampie targhe Cadean sfasciate al piè nel ferir crudo Coi brandi e l'aste insufficienti all'ira. Petto a petto serrati ergean l'acuto Pugnal rivolto alla nemica testa. Pur maëstoso nell'atroce lotta Serbavasi un de'duo, cui gli aspri studi Guerreschi impresser di precoci rughe L'invitta fronte di regal corona Attornïata. E questi riguardando Chiese il monarca: immaginosi eventi Espressi son nell'ammirando scudo, O antico e vero battagliar rimiro Di celebri guerrier? Colui, che d'anni Appar più grave, dignità circonda Siccome avito manto, e l'ampia fronte Di bella splende marzïal virtude. E il prence rispondea: Quello che tanto, O mio signor, t'è grato, fu de'prodi Nobile esempio, di Nicaule eccelso Genitor degno. E l'altro, che pur vedi Intrepido pugnar incontro a lui, D'Africa nacque in seno ov'è più rozzo E selvaggio il costume. A fiere genti, A montüosi orridi luoghi baldo Signor si fea colla rapina, e l'empie Stragi, e l'ingiuste guerre. Alma feroce Nudria, nemica di gentili studi; Ma conobbe Nicaule, e il cor gli tolse La celeste beltà che in lei rifulge. Sposa la chiese, e come fu negato Fior sì leggiadro al barbaro cultore, D'iniqua brama arse il fellone, e l'opre Maledette dispose nelle buie Ore notturne… oh rio disegno! Al solo Rimembrarlo d' orror mi raccapriccio! Rapir volea la non concessa donna E seco addurla, de'rifiuti suoi Meditando la pena; nè guidarla, Come a figlia di re conviensi, a illustre Talamo e ornata reggia, ma negletta Volea guidarla fra neglette ancelle. Alle stanze regali infido e compro Servo lo addusse, e gli erano compagni Molti de' suoi, altri de' suoi vascelli Tendean le vele nel vicino porto. Tacito i passi, qual l'osceno lupo O l'atroce sciacàl che anelo attende L'oscura notte a disbramar la fame, Il rapitor malvagio ai casti alberghi Reconditi giungea, ma le veglianti Ancelle scosse il suon dell'orme lievi Nell'inusata ora notturna, e acuti Stridi mettendo, dalle guardie udite Fur tosto vigilanti, e cento prodi Subitamente si mostraro in armi. All'inatteso scontro il prence iniquo Fuggìa per l'aule adorne e gli atrii vasti Con alle reni il vindice pugnale De' guerrier fidi. Accorse il re; lo scampo Della figlia mirò, ma l'alto a un tempo Periglio indovinando, furïoso, Fuor di sè tratto all'empio ardir, disgiunse Le combattenti schiere e a gridar fessi: A me si deve aspra vendetta e piena! E de'nemici tra le schiere folte, Accorse anch'esse al subito frastuono, Lanciossi, e trasse il sir ribaldo fuora D'ira e di scorno acceso, eppur non meno Alla pugna disposto. Dato il cenno, D'ambo le parti dal ferir restaro I minori guerrieri, e soli i prenci Quai lïoni pugnar di pari ardire Avvampando. Fu lunga, faticosa Fu la pugna; prevalse il dritto alfine, E bestemmiando uscì l'alma perversa Del traditor fra l'irrompente sangue. L'alta vittoria a rimembrar del padre, Ch'estinto or posa in glorïosi marmi, Questo scudo ordinò la mia reina; E a te in dono l'invia; nobil ricordo E di valore monumento egregio. Quest'è il pugnal che l'empio cor trafisse; Miralo, chè lo macchia tuttavia Fosca striscia di sangue. Sì dicendo, Traevalo Ismaël nudo dal fianco Ove il recava ognora. Damaschina N'era la tersa lama, e scintillava Ai raggi esposta del cadente Sole. Di sua clemenza e di mia fede in peguò La Reina mel diè con questi accenti Che in core mi staran finchè la fredda Mano di morte a cancellar li venga! Serba, mi disse, o fido prence, questo Solenne dono, al nobil padre mio Arme diletta più del ferro illustre Ch'egli in mille brandìa vinte battaglie, Perchè vendetta fe' d'insidia atroce. Ugual t'infiammi ardito zelo, uguale Valor t'inspiri, o mio campion, del regno, Del popolo, di me per la difesa! I cari detti rimembrando, gli occhi Lampeggiar d'Ismäello, e un bell'orgoglio Scintillò sulla fronte imporporata. E il monarca benigno: Assai m'è grato Il magnanimo dono, e la narrata Ventura, e il zelo onde t'infiammi al solo Pensier d'illustri fatti; alla regale Nicaule degno consiglier ben sei. E commosso Ismaëllo al sapïente Piegò un ginocchio innante, e sulla mano, Che a rialzarlo protendeagli, impresse In umil atto le tremanti labbra. Indi seguendo a offrirgli i prezïosi Tributi, di forbite armi lucenti Gran copia gli dischiuse, e inghirlandate Coppe d'auro scolpite, vaghi arredi, Porpore elette, e celebrati bissi. Al fin si tolse dal regal cospetto, I detti raccogliendo che a Nicaule Fidato messo riferir dovea; Ad ogni cor piacevoli siccome Pioggerella sottil che allegra i campi, All'inquïeta anima sua crudeli Come ardenti scintille in secca stoppia. Era quell'ora taciturna e piena Di tranquilla dolcezza, in cui più lento Palpita il core e più benigna è l'alma Ai dolci sensi di pietade aperta. Fra i rosati crepuscoli declina » Il ministro maggior della Natura Poi che largo diffuse in Ciel la pompa De' mirifici raggi, e come prode Riedente dall'agon, stanco alle tende Luminose s'avvía d'onor vestito. Vaghe di croco e porporine assumono Tinte in quell'ora e di vïola languide Gl'incostanti vapori, onde s'avviva Il limpido seren dell'orizzonte. L'ardue vette del Libano corona Diffusa nebbia, e ne' recessi ombrati Posano i svelti capri e le gazzelle. Ai nidi alpestri l'aquila raccoglie L'audace volo, e il pellican gl'implumi Figli riscalda, che, d'amor materno Mirabil specchio, col suo sangue nutre. Taccion gli augelli garruli, e sol move Mesti gorgheggi l'usignuol romito; E de' fior rugiadosi i cari effluvii Rapisce l'aura, che talor, più ardita Spirando, scuote i giovani arbuscelli E sibilando n'agita le frondì. Spazïoso si stende il bel sentiero D'allegre viti adorno, di fronzuti Sicomori ombreggiato, e insigni palme, Utili ulivi, platani, e ginestre. Eccelso cocchio discorrea fra quelle Ombre cortesi, e vi sedea l'altero Monarca, e a destra risplendea Nicaule Qual dïamante, e Tafnes come perla Pallidetta sedeasi incontro a lei. Delizïosa villa Etam gli attende* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Ricca di vive fonti e di giardini. Folta e onorata compagnia li scorta D'uomini d'alto affar, prementi il dosso A vivaci corsier, di cui ben venti** Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; E due mila ne' vasti alberghi nutre D'elette razze pellegrine il rege. Altri ne' cocchi innoltra d'elegante Forma e valida molto, le cui rote Di squisito lavor giran veloci. Ivi fra i primi ha seggio il prence Egizio; E mentre ode e risponde accorti accenti, Spesso gli sguardi innamorati volge Inconsapevol quasi alla Reina Che di non lungo spazio lo precorre. Di prestanti garzoni una leggiadra Schiera è seguace, d'Israello scelti Fra i più gentili, a cui porpora tiria Veste le belle forme, ed abbondante* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Sugli omeri va sciolto il bruno crine Di polve d'or cosparso, onde scintille Par che emanin di fuoco, lo splendore Riverberando del cadente raggio. A focoso destrier premon la groppa Cui lampeggiano gli occhi, e il largo petto Spumoso imbianca del negato corso L'impeto e l'ira; che se il fren lentasse Cavalcator ardito, in tal veloce Foga lanciarsi lo vedría fremente Che corridor nessun l'adeguería Emulator di venti e di saette. Armi acute, turcasso, arco dipendono Dall'arcion addobbato, e l'auree redini Sull'arduo collo a' bei cavalli ondeggiano, E gemmati ornamenti tra le mobili Orecchie, e sul frontale ampio rifulgono. La straniera regal girava gli occhi Intorno intorno paghi, e a Tafnes volta, Favellava così: Magnificenza Alta è diffusa in tutto che circonda Il tuo signore e dolce sposo, ond'io Meravigliando di sognar talvolta Credo, e se inver fossero sogni tante Opre ammirande, dal soave sonno Non vorrei ridestarmi. E a lei rincontro L'egizia donna rispondea cortese: Detti soavi e lusinghieri all'alma Odo, Nicaule eccelsa, e sul tuo labbro Veritade favella, eppur non tutto T'è noto lo splendor che lo circonda. Oh! di qual gioia innonderiati i sensi Rapiti il vago treno onde s'abbella, Nelle silenzïose ore notturne Per la città movendo, or l'uno, or l'altro De'suoi palagi a visitar, laddove L'attendono conviti e liete feste! E bramosa Nicaule: oh! non ti spiaccia, Amabil Tafnes, pingermi l'illustre Corteggio, e tu perdona, inclito rege, Al curïoso femminil talento. Rimembra che non v'è sotto mortali Spoglie un'alma sì fredda cui non tocchi Senso di maraviglia e desiderio Al suon del tuo gran nome; il caro labbro Permetti che si bei della tua sposa Di te parlando! E il saggio: Ognor m'è grata Legge, o reina, il tuo voler; la mia Gentil compagna a te ragioni, e pregio Accresca al vero l'eloquente detto. Tinta di bel rossor Tafnesse il volto Come rosa di Saron, timidetta, Gli occhi levando, incominciò: La prima Fïata in cui dal mio veron segreto Mi fu palese l'alta vista, e poscia Mill'altre ancor, così m'apparve, quale, Alma Nicaule, a pingerla m'appresto. Pria che l'occhio discerna fra l'oscura* Giusta la dottissima interpretazione del chiarissimo prof. S. D. Luzzato, che mi fu largo di molta cortesia e di benigni consigli, com'è suo stile consueto; onde il suo nome, oltrechè illustre pel molto sapere, si fregia de' titoli carissimi d'amico e padre degli studiosi. Notte lontane cose, inebbrianti Spandonsi effluvii, precorrendo quasi, Nunzi al popol solerte a frotta a frotta Sbucante dalle vie, l'ampia lettiga. Ben sessanta le stan prodi guerrieri Fior d'Israëllo intorno, e sulla coscia Recan la forte spada all'ardue pugue Esercitata, dell'ardita mano Pronta all'impulso se la cheta notte Fosco turbasse ed improvviso evento. Cogli odorosi cedri onde l'alpestre Libano s' orna i fianchi, fu construtta L'altera mole; son d'argento eletto Le scolpite colonne, e la spalliera, E i bei sostegni quinci e quindi tesi, D' or prezïoso e liscio; e celebrata Porpora tiria il molle seggio ammanta. L'interna leggiadria spirante amore, Languor soave e delicate e blande Delizie e vaghi desiderii, meglio Immaginarla puoi ch'io farla aperta. Mentre in cotal voluttüosa e ricca Pompa s'innoltra il mio signor, di plausi Echeggian le notturne aure silenti. Dall'intime pareti al limitare Accorrono le donne e le fanciulle Reiterando inviti alle compagne: Uscite, esclaman giubilanti, uscite A mirar Salomone, il re possente, Inghirlandato come al di festoso Delle sue nozze! così l'alma ei varca Gerusalemme; e luce io tolsi al vero, Anzi che ornarlo con accorti accenti. Si favellò Tafnesse, e a sè raccolti Gli occhi söavi, rïandando i lunghi Detti, quasi stupìa d'averli esposti Innanzi a lui, che un'ineffabil, pari All'amor grande le incutea rispetto. Pendea Nicaule da'suoi labbri, e quando Tacque, gratificando al magno sire, Encomïò la narratrice, e l'alte Pompe, ond'ebbe al suo dir fecondo tema. Indi a lui rispondea, che le richiese, Ampie notizie del suo regno, quali Di ricercarle conveniasi a tanto Illustre donna da si gran monarca. Poi mutando sermon, narrando ei stesso Venìa sagaci cose, come acconci Riscontri glien porgea Nicaule dotta. Dal grandïoso cedro all'umil pianta D'isopo trasvolò con ratti accenti, Le varie specie rimembrando, quasi Catena gradüal che si congiunge Ai capi estremi l'un nell'altro anello. Nei dilettosi accenti assorti, alcuno Del fuggir delle preste ore volanti Non s'avvedea; ma la cerulea sera Spargea l'aere di stelle, e i cespi, e gli alti Alberi apparian sol fantasmi immoti Nel buio della notte a schiere, a schiere. Brillavano distinte del palagio Le ornate cime alla campagna in mezzo Luminose, eleganti, quai di fuoco Piramidi sorgenti in bella mostra. Ai rami appesi delle folte piante Oscillan pinti vetri, in cui rispleudono Fiamme odorose d'aromatic'olio. Un vïal d'alte palme illuminato Al palagio bellissimo conduce Di bianchi marmi e prezïoso cedro E fulgid'or mirabilmente adorno. Sulle splendide soglie cento paggi Vegliavano solerti, e mille servi E mille etïopi schiavi. La reina Compiacente girava il guardo, e in volto Rideale amabilmente meraviglia. Pe'vïali lunghissimi la prese Desio d'errar, e coll'Egizia sposa Stretta a braccio venìa come sorella, E in cor le serpeggiava occulto il foco Del combattuto amor, cui la suprema Gloria del sir porgeva esca perenne. Seguianle quattro oneste e decorose Matrone non discoste, e sei donzelle, Ed ultimi venian ben cento paggi. Erano Egizie entrambe! Oh! come è dolce Ragionar della patria allor che lunge Scorre la vita dall'amate sponde! O patria! o sacro asil de'primi affanni, O delle prime gioie eccitatrice! Quei cor, che separar dovea l'amara Gelosìa, ricongiunse il tuo bel nome. Van rimembrando le reine eccelse Del mistico solenne Egitto molte Avite glorie, e il sole ardente, e il Nilo Di settemplice bocca, onde cotanto Si feconda la terra, e i verdi prati; I cospicui sepolcri, le superbe Piramidi, i gran templi, l'are, i numi. Nè qual torrente tortüoso o turbine Sterminator le Perse armi irrompeano Per anco a devastarne le pacifiche Contrade e i sommi monumenti, e gl'incliti Riveriti colossi e i segni mistici; Nè con truce furor le invïolabili Estinte salme profanava l'invido Tiranno, e dalle regie arche l'esanimi Reliquie, empio, traea fra immonda polvere. Il Macedone invitto, che dal Perso Giogo ti scosse, in men remota etade Nacque all'ire guerresche, alla vittoria. Sede ei ti fece dell'avito impero, Dal suo nome fondando alma cittade Ch'indi frequente e popolosa crebbe E si fe l'util perno cui d'intorno Legarsi in nodo d'amistà tenace L'incivilita Europa, la possente Africa, e l'Asia di dovizie altrice. Nè i pacifici regni ancor vedevi Fiorir che t'abbellian d'arti, d'eccelse Scïenze e di novello almo splendore. Non ancora a sbramar le ingorde voglie L'aquila ardita, ond'ebbe Roma vanto, Il largo vol librando, t'asservia Coi forti artigli e l'indomabil rostro. Lungo giro d'età correr dovea Prima che ti giungesse il dì funesto Che d'armati profeti menzogneri Ligio ti fece, o Egitto; onde una schiatta Peggior t'invase poscia, e miserando Di servitude esempio e di sfrenata Interminabil tirannia ti rese. E tu, ratto qual lampo, e come raggio Di sol benigno e lucido, venuto Non eri ancor, superbo Corso, e in nome Di Francia tua non anco la man forte, Usa a librar la non fallibil spada, Possente offrivi a rïalzar sua gloria! Pari nell' opra ardimentosa al grande Macedone guerrier, che pria modello Formarti osasti, e di cui vinto hai poscia L'emulata possanza, e il nome insigne. Ahi d'un subito sparve quella gloria! Ma canuto guerrier, prode nell' armi, Arguto nel consiglio, imperïoso Nell' indole superba, un lungo e tardo Disegno meditato a fin condusse Feroce, e per sentiero atro di sangue E mutilate membra e tronche teste, Guidò pace alla misera contrada. E stabil fosse! Ma rugiada orrenda D'umano sangue non feconda il suolo Di fortunate messi, e come l'onda L'onda sussegue in mar, sangue si versa Ove rosseggia il sangue, e la discordia Paürosa ululando agita i cori E d'ebbrezza crudel le menti offusca. Ma ne'beati giorni in cui d'eloquii Soavissimo cambio le reine Fean nel patrio idïoma, e d'amistade Annodava gentil vincolo l'alme, Pacifico fiorente d'iusüeta Gloria abbellìasi l'ammirando Egitto. Nicaule e Tafnes, lungamente assorte In care rimembranze, ampio cammino Avean trascorso, e l'orme pria veloci Rallentando, venian, conserte in caro Atto le braccia all' agil fianco quasi Vicendevol sostegno, al regio albergo Sontüoso a fruir dolce convito. Stendea frattanto in ciel l'umida notte Fosco lucente manto, e gli occhi bei Blandìa lene sopore, ed occupava Languor le membra delicate, al sonno Soave incitamento. Accorte ancelle Le accompagnaro a più romite stanze. Ivi composte in placido riposo, Racconsolate, i genïali eloquii Rimembrando, plaudian in lor segreto A bel legame d'amistà congiunto. Surto era appena il sol de' caldi raggi Allegri attornïato, fra purpurei E candidi vapor, siccome sposo Che dai talami emerge di vivaci Rose cosparsi, e intatti gigli in copia. Al chiaro lume uscir l'alta Nicaule, Tafnes gentile, e il gran monarca, a cui Venian seguaci venerande donne D'accorti modi, e savi, e duci invitti, E il popolo innalzò di lieti evviva Allo fragore ond' echeggiaro i monti. All'augusto regnante allor Nicaule Così parlava, riguardando intorno: È questo il loco ben ch'jer sì mi piacque Leggiadramente illuminato, o forse Fra tante belle di natura e d'arte Pompe traviasi il mio pensier smarrito? Di piacer si dipinse a quegli accenti Del saggio il volto. Non t'inganni è questo. Opra è dunque d'incanto, o signor mio! Esclamò la reina, ed ei crollando Lieve l'inclita fronte: Opra d'industre Mano contempli, artefici eccellenti Tacitamente convocai, che tutta Notte vegliando faticosi, queste, Ch' io mi compiacqui immaginar, crearo Non ardue cose, a me gradite poi Che d'un plauso le onori, eccelsa donna! Al guardo s'offeria vasta pianura D'amene zolle, cui scorrevol onda Iva rigando com'argentea rete Stesa fra l'erbe. I lunghi error cessati, Svolgeasi quindi il terso umore in larga Volubil zona, e l'accoglieano alfine Eleganti bacini di politi Lucidi marmi. Quivi entro cadendo Dolce l'acque romor feano e gorgoglio, E usciano ripartite in bei zampilli Da traforati bronzi, in varie foggie. Talun più ardito si lanciava in alto, E poì che ritto alquanto ergeasi, curvo In mille s'effondea brillanti goccie, E le mìnute stille pari a nebbia Lieto il raggio solar attraversando, Terrena vi pingea vario dipinta In confin breve un'iride gentile. Altri larghi sorgean sprazzi con meno Impeto e feangli cerchio, altri da sculte Di rettili figure attorno, attorno, Fuggian del gran bacino all'orlo estremo. Così ridea l'ampia campagna, d'arte E di natura coi favor, già bella E amena in vista pria, poi di recente Splendor ornata da quel divo senno. Eriger fe' nella notturna calma Ben duecento capanne di mature Auree spiche intessute e verdi allori. E sulla soglia erbosa i cari effluvii Esalavan la rosa, il giglio, il nardo Il cinnamomo, l'aloè. Catene Fra le piante correan di fior leggiadri, E ondulanti al soffiar di mite orezza Avvivan de'tronchi il bruno aspetto. Così cadente veglio che l'etade Mesto alla terra incurva, attornïato Dagli amorosi fanciulletti gai, Scioglie il tremulo labbro ad un sorriso Che la fronte rugosa rasserena. Sorgean di zolle agevoli fiorite Alture, ove sedean quasi a consiglio Vegliardi in giro e gravi donne, e lieti Pargoli, e fanciullette; ma frenarsi Tanto non può la vispa donzelletta, E alterna l'orme rapide qual suole Nel libero de'monti erlo sentiero Affrettarle agilissima gazzella. L'animoso garzon da lunge intende In essa il guardo, e segue le scherzose Orme fuggenti con ansante corso. D'una capanna oltrepassar le soglie I regi a contemplar l'interno aspetto Del campestre abituro. Un picciol desco V'era imbandito, e dipendean dal curvo Tetto di belle poma ramuscelli Che allegravan la vista, e l'odorato. Dalle pareti ricadeano in onde. D'eletti fior cento ghirlande e cento. Poi che breve sostarvi, drizzar l'orme Ove sorgea campestre ed elegante Soglio di sovrapposte a grado a grado Compatte arene, a cui morbide zolle Erano ammanto, con gentil fattura Di freschi fior smaltate in bel disegno; Avean leggiadro padiglion d'altere Ombrellifere palme. Ivi primiero Il gran monarca, poi sedeano a destra La straniera regal, Tafnesse a manca. E ridestossi universal l'applauso. Avea disposto il re nel lieto giorno Le sue gioie annodar colle vivaci Campestri gioie, e libero l'accesso Aveano i supplicanti appiè del trono. Della cara novella al primo nunzio Ad Etam s'affollar le genti in copia Per varia speme: avvi chi sol desia Contemplar Salomone il re famoso; Altri sprona dell'orrida miseria L'acuta voce che sovente doma Ogni onesto ritegno, ogni baldanza; Altri cui preme il cor soave pondo Riconoscenza per magnauim'opra O per util consiglio; e a torme, a torme Si prostravano appiè dell'alto sire. Ei conforti largia benigno, ed equo Rendea giustizia. La regal Nicaule Arbitra fea talora, ed assoluto Impreteribil del suo labbro il cenno. In brune vesti squallide ricinta,* Parmi necessario di spendere qualche parola a mia giustificazione per gli episodii tratti dalla Bibbia e dalle storie di Flavio, e in via di narrazioni messe sul labbro di personaggi che, seppur esistevano, non lasciarono di sè notizia alcuna, ed in particolare dei discendenti di Gioabbo, di cui non vien mai fatto menzione nei libri sacri. Ma e per questa e per altre licenze simili spero d' ottenere l'indulgenza di chi benignamente vorrà chinare gli occhi su queste carte, quando addurrò a mia scusa, che, vista la scar sezza e aridità del soggetto, mi si rendeva indispensabile di arricchirlo con qualche mia particolare invenzione, e avvivarlo con qualche interesse drammatico, sempre però in conformità a quanto abbiamo dalla storia, e al rispetto dovuto ai libri santi. Pare non essere del tutto inverosimile che Gioabbo, sulla cui stirpe possono credersi diffuse le tremende maledizioni a lui scagliate nell'estrema agonia, abbia lasciato un nipote, che, miseramente cresciuto in ira a Dio, agli uomini, a se stesso, traesse vita errante e sconsolata. Pallido il viso, il crin diffuso, incolto Grave di pianto il ciglio, e palpitante Di timor, di rispetto, e di speranza, Al soglio s'atterrò vergin dolente. Mirolla Salomone, e impietosito L'invitava a parlar; indi a Nicaule, Indovinando il suo desìo, dicea: A te spetta, o reina, le sue preci Udir benigna, a senno tuo disponi. Lieve chinando l'alma fronte tosto Annuì la reina, e consolata E più fidente che in femmineo core Potea deporre il pianto, la fanciulla Levò gli sguardi, e di rossor modesto Tingendo il volto, incominciò: T'arrida Innefabil letizia, o benedetta, Che gl'infelici accogli, ed oh! perdona Se il pianto troncherà le mie parole! D' Eleazzaro io nacqui, egregio figlio A Dudia; ahi! caro padre! con te cadde L'onor di nostra stirpe, e tetro lutto E doglia invase la deserta casa; Eleazzaro uom prode, e tal che molto Grido levò di sua virtude. Conte, Sendo straniera, alta reina, forse, Non ti saran sue geste; a farmi scusa Dell' ardir troppo onde implorando venni La tua pietà, concedi ch'io n'esponga Alcuna prova. Del gentil lignaggio Quest'unico m'avanza almo tesoro! Poi di Nicaule al cenno proseguìa: Allor che in Jesdomim il sacro capo Davidde, padre al signor nostro eccelso, I Palestini a guerreggiar movea, Con altri molti valorosi in campo Pugnava il padre mio, tra i più fidati Fortissimi campion del re possente. Avversa ad Israèl l'empia dell'armi Fortuna incrudelìa, già, già domate Quasi fuggian le schiere; ei solo a fronte De'nemici pugnò fero, e dal molto Sangue nemico ond'era colmo il brando, Quasi la man se gl'impigliava all'elsa. Sull'orme illustri, di vergogna, e d'alto Emulo ardor compresi, si versaro Quasi torrente innondator le folte De'guerrier fidi, e fu compiuta e piena La gran vittoria, e il primo vanto ei n'ebbe. D' alma divota e bell'ardir non meno Inclito esempio, a due compagni unito, Ei porse in altro tempo; quando fieri Per molte forze i Palestini il sire A combatter movean, che nell'interne Mura vegliava. All'ardua torre ascese Davidde, e supplicò l'Eterno, ognora Clemente a suoi richiami, perchè lieto Termin la guerra avesse; e le nemiche Tende sorgean per l'ampia valle estesa Fino a Betlem dalla regal distando Gerusalemme dieci stadii e dieci. E il monarca agli amici: Oh! di che dolci Acque è feconda la mia patria! E quella Miglior su l'altre tutte che s'accoglie Nella cisterna prossima alla porta! Oh! se lecito fosse al labbro mio Suggerne qualche sorso! Più di ricco Tesor cara l'avrei ch' altri mi desse! Appena udirlo i tre valenti, in ratto Corso lanciarsi fra l'ostili turbe Attraversando il campo, ed a Betlemme Incolumi arrivar, attinser l'onda, Gli alloggiamenti rivarcar, con alto Stupor de'Palestini, nell'audace Valor rapiti si che in loro danno Non balenò pur d'una spada il lampo. Ma il santo re gustar la limpid' onda Non s'attentò, che de'suoi prodi il sangue Potea costargli, e consacrolla a Dio. Tal era il genitor: figlia infelice, Orbata io son dal valido sostegno! Molta serie di casi dai natii Agi mi trasse all' orrida miseria. Langue la madre mia da lenta febbre Consunta, e scarso un nero pan la nutre Del mio assiduo lavor povero frutto. Tender la mano al passeggiero osai Ma un tremito mi colse, un vel discese Sui languid' occhi miei stanchi di pianto, E caddi come corpo morto cade! Deh! valgami l'aver in sì festoso E lieto giorno tua pietà richiesta O gloriosa donna! Umile schiava M'accolga il gran monarca, a faticose Opre mi danni, esalterò l'Eterno E il clemente mio re, se tetto oscuro Ma certo albergherà la madre, e un pane Onorato potrà sbramar sua fame! Così dicea piangendo, e a lei Nicaule: L'alte cose narrate, la tua angoscia Degne son di compianto, e non sarai Obliata da me. Fratlanto un qualche Avrai sussidio all'uopo, o pia fanciulla. In lagrime si sciolse festeggiante Il nembo ond'eran fosche le pupille Della vergin prostrata. O benedetta! Sclamò commossa, ognor t'arrida il cielo! E dipartiasi, nell'umil congedo Ossequïando; ma proruppe pronta l' Egizia sposa: O vergine modesta, Ti sofferma un istante. All'alto cenno L'altra rattenne il passo, e proseguìa Di Salomon la donna: A me d'appresso Ancella mia ti chieggo, genïali Lavor, tranquille gioie io t' offro, e cheta Vita operosa fra compagne ingenue: Teco sarà la madre. Tel promette La tua reina: non tremar, rispondi. Lo stupor della gioia inaspettata Invase sì la misera, che parve Venir meno, repente di pallore Si tinse in volto, e fra i singulti e il pianto Grazie rendeale, e le giurava eterna Gratitudin sommessa, amor veracc. Al dolce aspetto intenerito il sire: Non fia, non fia, a dir prese, che in si bella Gara si taccia Salomon; d'un prode Diletto al mio gran padre la prosapia Onorerò. Da te, reina invitta, Il largo don riceve; a te, mia sposa, Fida promette amore ubbidïenza; E di mia mano accetterà consorte Un prode mio che la farà beata Fra l'altre donne, e doterolla io stesso. Repente sollevossi acuto grido: Benedetto il Signore! Era la mesta Madre, che della febbre l' ansie ardenti Non curando, seguia l'orme veloci Dell'ignara fanciulla e udia nascosa La preghiera efficace, e il fortunato Premio alla filïal virtù concesso E del consorte all'onorando nome. Si sciolse appena l' adunata folla Delle genti che fean cerchio e sostegno All' amorosa donna in delirante Amplesso stretta alla gentil fanciulla, Allor che ratto si piantò dinnanzi A Salomone un uom d' orrendo aspetto. Squallido e bruno è il volto, fosco il guardo Come luce di folgor che lampeggia Fra il livido de'nembi atro colore; Di tigri e d'orsi le dipinte veste Spoglie ferine; il più securo sguardo Lungamente affisarlo non potria. Sbigottimento arcano in cor diffonde Quel sembiante feroce, timidetta Di Salomon la sposa impallidendo I begli occhi ne torse. Il chiaro sire Solo mantenne imperturbata fronte E lo richiese: Chi sei tu cui tanto Dolor grava? Da me qual speri aita? Della jena il ruggito allor che il ferro Micidïal sue dure vene agghiaccia Parve il suono indistinto che dal petto Del misero fuggì. Tosto represse Quell'arcano linguaggio onde fea conta La smanïosa ira del cor trafitto, E con voce profonda, e roca, ed aspra Proruppe in questi accenti: Chi son io? Oh! chi son io, nol sai? Misero! tanto Sfigurato è il mio aspetto, che non scerni Nel mio volto d' un altro a te ben noto Volto rassomiglianza? Il nome mio Forse è d' uopo ridir? Solo degli antri L' eco il ripete, e geme a udirlo il vento. È maledetto il nome mio! se mai L' udissi dal mio labbro, il sen profondo Mi schiuderia la terra a inabissarmi! Ma se brami saper in queste spoglie Qual anima s'alberghi dolorosa Parlar e lagrimar vedraimi insieme! D'inclita stirpe io son.… Ma a che ridirti Cognite cose? Sì cognite cose, Invan mel nieghi, o re: l' ira tremenda D'imprecata vendetta a tal mi trasse. All' avo accanto giovinetto imberbe Movea sovente.… Ahi! misero m'invade Le accese vene un brividìo nomando Quell' infelice, eppur seguir m'è forza! Sterminio, ed onta comandata il capo Minacciava del veglio, ed ei fidente Di salvezza sperò sicuro porto L'augusta casa del Signor, e meco L'orme inoltrò nel sacrosanto asilo. S'udian passi accorrenti, e crude voci D'armati sgherri a tergo risuonarci Orribilmente, ed ei non pur smarrito Del Tabernacol rifuggendo all'ombra Con vigor disperato al destro corno S'aggrappava dell'ara: oh! rabbia immane! Oh! dispietate tigri! Esci, gridava L' empio stuolo, esci fuora! Ed ei con ferma Voce sclamò: Qui, qui, su questo sacro Terren d'antico prode il sangue scorra! Ma io, mal vivo, pel terror soverchio Fatto immemore e stolto, fra il confuso Tumulto mi celai! Rimorso assiduo Ancor mi strugge il core! Ai forti detti Pareano impietosir; regio comando Sorgiunse, e tosto la pietà fu spenta! Ahi! miseranda strage! Avido ferro, Agli altri guida e sprone, di sinistra Luce brillò del caro sangue intinto Che a torrenti fuggìa dalle squarciate Tepide vene; fra i singulti intesi Proferir il mio nome dal trafitto Prode vegliardo: stramazzar il vidi Sul terren barcollando e la morente Pupilla illanguidita me cercando A fatica girar! E non volai Vile a raccor l'anelito supremo In un amplesso disperato e pio! Fin l'ultim'ora avvelenargli i crudi Vïolenti evocando ira celeste: Maledetto il tuo nome! E il tuo sepolcro Sia maledetto, e la tua stirpe iniqua! Erede io son dell'orrida nefanda Imprecata miseria. Oh! quale io traggo Vita peggior d'amara e lenta morte! Fra i deserti più inospiti e solinghi, Fra i dirupi scoscesi, o fra romiti Boschi errando, i miei dì traggo funesti, Affannosi, tremendi. Mai dell' uomo Affiso il guardo! Il pellegrin talvolta, Se da lunge mi scorge, affretta il passo Mormorando una prece. Mai di donna Un dolce bacio liberan mie labbra! Maledetto son io! spenta pur vada La progenie infelice! Io non ho sposa Che pargoletti figli all'onta cresca! Solo son io nel mio dolor, e solo Nella morte sarò. M' udisti? Or pensa A dispor de'miei giorni, io più non temo! Sì parlò l' infelice, e i torvi sguardi Balenar fosca luce, al suol confitti. E Salomone, a cui solenne pace Sul volto risedea: Non più, rispose, Ignoto resti il nome tuo, ritorna A'tuoi deserti. Pur tra i detti austeri Brillava un raggio di pietà, ma indarno; Chè a più forte dover ceder il loco Talor dee a'regi in cor. Fu cupo gemito Sola risposta. Delle vesti un lembo Recò sugli occhi con tremenda calma Da cui l'interno irrefrenabil duolo Trasparìa furïoso; ed il pallore Livido del suo volto, e le goccianti Stille d'acre sudor sull'irla fronte, Se il labbro tacque, fur loquaci assai, Com'ombra sparve fra le turbe strette Da insolito sgomento, e lunge, lunge S'udian poscia suonar voci di pianto, Singulti, e strida disperate ed alte. Così il cielo di fosche ombre s'ammanta, E or qua, or là dall'impeto sospinti Di fero vento i nugoli ingrossando Minacciosi s' accalcano, e al contatto Guizza infiammato il lampo, ed imminente Par la tempesta; ma se grave e forte Il miglior vento domina e gl'incalza, Ad altre regïon calan veloci, E fra le cupe balze montanine Dal chiuso grembo irrompe la procella Sterminatrice, e scroscia il tuon che lunge S'ode mugghiar con sordo brontolìo. Fra i più vicini al soglio, che presenti Furo ai detti scomposti, surse allora Sommesso chieder ansïoso, e lieve Timido accento di risposta: nullo Osò ridir di quell' ucciso il nome, Ma l' aura errante mormorò: Gioabbo! E tre volte, Gioabbo! ripetea. Tetro seguìa silenzio, e non brev'ora Scorse pria che inoltrasse alcun, ma un veglio Alfin si volse al figlio, e disse: guarda Guarda chi move appiè del soglio; e l'altro: Dal nostro tetto non lontana alberga La donna onde m'inchiedi; mira è quella Di cui sovente la ventura udii Da te narrata, l'accompagna il figlio. Incominciò la donna: Almo Signore, Non disdegnar che umile ancella giaccia A' piedi tuoi. Riconoscenza è sola Guida a'miei passi, e in me più ferve quanto Dal benefizio la dilunga il ratto Volubile girar de'non brev'anni. Il figlio, mio conforto unico e fido, Dal tuo senno divin serbato in vita, Concedi, augusto re, che a te dinnanzi Meco si prostri, e a venerarti impari. Si dicendo additavagli un prestante Garzon cui biondeggiava il mento appena, E pinto in viso di rossor modesto Le tremule ginocchia alla temuta Maëstade inchinò di Salomone. E quei benignamente: Grato aspetto Il raccomanda, o donna, agli occhi miei; Nè dissimile fia da'bei sembianti Il cor gentile. Tu quella mi sembri Che già molt'anni a mia giustizia festi Caldo appello allorchè la tua vicina Volea rapirti fraudolente il figlio. E la donna commossa: O benedetto Re nostro! Come in te favella ognora D'Iddio lo spirto! Quella io son cui degni Rammemorar clemente, e il gran giudizio Presente mi si fa, qual se l'avessi Negli occhi ancor! Micidïal, tremendo Ecco lampeggia il ferro, e la fallace Madre veggo assentir che sian partite Del pargolo le membra. Ahi cruda! ed io, Furibonda pel duolo orrendo fatta: A lei si ceda, a lei si ceda, e vivo Cresca il mio figlio d'altra donna al seno. Così gridai veloce rattenendo Il sospeso pugnale. Al vero grido D'amor materno t'arrendesti, o grande, O sapïente giudice! La tua Voce solenne risuonò qual dolce Armonia sulla paga alma amorosa, E qual tuono piombò sopra l'infida Madre crudel; dal venturoso giorno Lagrimai le mie colpe, e penitente E memore, d'un qualche pio consiglio Inesperte conforto alme innocenti. Una preghiera anco m'assenti, o rege: Questo diletto ch'unico mi resta Conforto in terra, e pegno di perdono Dal ciel che tanto, sconsigliata! offesi Ne'primieri miei giorni, a te non sia Straniero affatto! A lui pietoso mira, Che figlio della colpa ei puro cresce Siccome pianta che le ascose mette Salde radici fra le immonde glebe, Ma di rami poi s'orna e fior gentili. Deh! fa che in pace gli occhi stanchi io chiuda! All'ombra del tuo trono, o generoso, L'orfano accogli, fra tuoi servi egli abbia L' ultimo loco, ma tuo servo ei sia! Qui troncava gli accenti, ed uno sguardo, Che tutta raccogliea la lunga prece, Ansïosa levò. Se degno ei cresce D' un mio vigil riguardo, spera, o donna; Obliato non fia. L'addurrai teco Al mio palagio quando splenda il terzo Giorno da questo. E congedolla in atto Benigno, ed altri a consolar si volse. T' allegra o fantasia! Troppo di pianto Queste carte spargesti; or tu m'assenti, Se pur labile e scarso, un tuo sorriso: Orna di rose il crin, dal manto effondi Aromati olezzanti, e dalla cetra Dolcissima e vivace un' armonia, Che al nuzïal concento si disposi Delle vergini caste e dei garzoni. Di bianco lin vestite onde non abbia* Queste notizie tratte dai sacri fonti, e le quattro strofe seguenti da me così foggiate in versi italiani, mi furono largite dalla cortesia dell'egregio sig. A. Lattes. Nel lieto giorno ad arrossir chi serba Men di ricchezza nei paterni tetti, Tutte han pari l'ammanto le donzelle lvi raccolte a festeggiar nel caro Giorno che si rinnova a ogni annuo giro Di sol due volte. Caro amabil giorno, In cui di nozze a fidanzarsi vanno Giovani e pie fanciulle. Un alto senno Così provide, e alla campagna in mezzo Alternando le danze vereconde, Schiudono il molle labbro a questi accenti. Ergi gli occhi, o garzone, e vedi quale Dolce compagna eleggeresti a te: Non t'adeschi bellezza, è cosa frale; Oggi risplende e più doman non è. Bada al lignaggio; da terren felice Intatti fior la culta pianta elice. Grazia è talor fallace e menzognera; E soverchia bellezza è vanità. Colei che teme nell'Eterno e spera Dall' alme oneste onesti plausi avrà. Di sue mani il lavoro acquista pregio, E la città n'esalta il nome egregio. O figlie di Sion! Donzelle e spose, Caste matrone, uscite uscite fuor, Mirate il saggio re che si compose Sul capo il serto e brilla d'alto onor: Il serto onde lo fe' la madre adorno Delle sue nozze nel beato giorno. E i fervidi garzoni, inebrïati Sguardi volgendo tra la vaga folta, Affisano la cognita sembianza Onde spira gentil raggio d'amore, Che all'anima s'avvia misterïoso Destandovi un tumulto, un nuovo senso D' irrequïeta eppur soave speme. Già il nome di colei fra tutte eletta Stan sull' ardenti labbra e del monarca Attendon l'alto ccnno: ecco già l'hanuo, Già si slanciano incontro alle prescelte Vergini, la pia mano tremebonda Impalmano commossi; un alto plauso Echeggia intorno, e de' vegliardi il tardo Stuolo s'affretta, chè la gioia impenna I gravi piè. Dal ciel, dagli amorosi Genitori e dagli avi antichi e santi Benedetti già sono i fidanzati. A coppia, a coppia, in caro atto modesto, A lenti passi inoltrano dinnanzi L' augusta mäestà del soglio, e umìli Ossequïando piegan le ginocchia. Leggiadri doni le reine, e il divo Monarca a lor dispensano, e d'augurii Religïosi e lieti, e di consigli Utili li conforta il sapïente. D'amiche verginelle una corona Le palpitanti fidanzate cinge Come al cespite verde d'olezzanti Purpuree rose sorgono d' intorno Vaghi bocciuoli tutti in se raccolti, Che il vivo raggio e l'umida rugiada Schiuderanno fecondi al nuovo sole. Trepide, sorridenti, gli occhi appena Sollevano, e le sforza a rechinarli Vergognosette de'garzoni il guardo Che le affisan da lunge. O quai soavi Primi d' amor sospiri dagli ingenui Petti ignari s'esalano frequenti! Quanti nodi s'intessono felici Che al disïato della sesta luna Rinnovato splendor verran congiunti In questi luoghi ove le prime anella Scherzando congegnò timido amore! Ma di salteri e d'arpe melodia Soavissima echeggia ne'divisi Cori di pie donzelle e di garzoni, Al canto nuzïal preludïando. Della reina allato fervea l'alma D' Ismaello, e un sospir lungo traëndo Dall'imo petto, rechinò la fronte Sulle tremanti palme; a lui Nicaule Girò gli sguardi, e tacita ed assorta Ristette alquanto in due pensier divisa: Se favellargli, a dileguar il troppo Turbamento del prence, o se lasciarlo Inosservato e volgersi a Tafnesse O al rege illustre con parole accorte. Ma tanto non potea velar la dolce Eloquente sembianza che il buon prence, Cui dell'atto dolente e del sospiro Rimordeva nel cor l'ardir soverchio, Incerto ergendo il guardo non vedesse, Oh conforlo gentil! l'amabil volto Pensoso e basso e di pietà dipinto. Soave in cor gli surse inopinata Trepida gioia, e in se la tenne ascosa. Ma dolcemente ridestollo il canto Nuzïal, che soave eco parea Di lontano lietissimo presagio. In vago coro le donzelle unite Sciolser limpide voci in questi accenti: O tre volte beate! amor v'arride Nel palpito primier del giovin petto; Dell'alma pura l'innocente affetto Il fervido garzon con voi divide. O tre volte beate! amor v'arride! O benedette! innanzi a voi risplende Di felice avvenir cara speranza, Ch'ogni gioia mortal vince ed avanza; E l'amato garzon pur la divide. O tre volte beate! amor v'arride! Poi siccome usignuol solingo un'altra: Qual di bruno ruscel volubil onda È il vostro crin diffuso in lunghe anella; Recisa vi sarà la chioma bella, Ch'or le floride gote e il sen v'innonda Qual di bruno ruscel volubil onda. E riprendean leggiadro coro tutte: Or che il dolce lasciate ostel natio Di fortezza cingete i lombi e il core, Alto vi scaldi maritale amore, Di sante gioie vi consoli Iddio Or che il dolce Iasciate ostel natio. Ma i garzoni con ferma e chiara voce D'almi consigli confortar gli amanti: O fidanzati, vi sorrida amore! Guardate la pudica verginella Cui la speranza del suo raggio abbella, Fiorellin semichiuso al primo albore. O fidanzati, vi sorrida amore! E un solo soggiungea garzon prestante: Come innocente agnella grazïosa Segue il vigil pastor, nè si devìa; Così vi segua la consorte pia Al fonte, al piano, ai monti, in valle ombrosa Come innocente agnella grazïosa. Poi com'eco vicin l'altro dicea: Ma nel retto sentier tracciate il passo, Perchè non pianga nel cammin smarrita Da scabri sassi e triboli ferita Seguendovi sul monte, e in valle ombrosa Come innocente agnella grazïosa. E tutti uniti riprendeano il canto: De'lieti giorni la consorte amate, Ch'ogni diletto un santo amor racchiude. Bella d'ingenue grazie e di virtude, Tutta d'onor veslita, e d'onestate, De'lieti giorni la consorte amate. La donna forte dignità circonda, Se pur la bruna chioma s'inargenta Al volo dell'età che non s'allenta, Brilla d'onor vestita e d'onestate. De'lieti giorni la consorte amate! Poi garzoni e donzelle al maschio suono Il molle suon giungeano in doppio coro: Arrida all'amor vostro il sommo Iddio, Di sante gioie vi circondi il petto; E consoli di pace il vostro tetto. Di voi s'onori il caro suol natìo, E arrida al vostro amor l'eterno Iddio. Alla gloria crescete i cari figli, Forti come lïon, presti qual dardo, Perchè li degni Salomon d'un guardo E più s'onori in essi il suol natio. Arrida all'amor vostro il sommo Iddio. Si sciolsero le schiere giovinette Poichè cessar dai cantici festosi. E l'acre suon de'cembali squillanti Disposando alle note del liuto E de'sistri vivaci, e d'amorose Arpe, e flauti gentili, un'armonia Improvvisa destar valenti artisti. Vispe carole rinnovar le vaghe Donzelle, e gli ondulanti all'aura in preda Nitidi lini, le diffuse chiome, I grand'occhi raggianti, e i rosei volti Le fean sembianti a cherubin celesti. Le volubili danze ed innocenti Cessar soltanto al giunger delle fosche Ore notturne, e fra congedi e lieti Augurî, ritirarsi, a torme, a coppie, Le molte genti consolate e paghe. Nell'avito palagio si raccolse La rëal comitiva; e le secrete Camere entrando, scese lento lento Sugli occhi stanchi un placido sopore. Appena rise il ciel de'primi albori Nel tenue raggio, dipartirsi i prenci Dalla splendida villa, e il di secondo Fu da Nicaule alla partenza fisso. Sorge il Tempio sublime, ardita mole* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Sul Moria edificata, ove Davidde L'avea disposto in prima; e l'eminente Vertice ad eguagliar, angusto spazio Al disegno vastissimo, profonde Valli colmar d'arida terra e ghiaia Di Salomon gli artefici valenti. Profonde si che invan spingea lo sguardo Entro agl' immani abissi curïoso Esplorator per misurarli; e tanto Le gran valli colmar, e colme, tante Vi sovrapposer pietre, arene, e ghiaia, Da farne liscio pian, che ben due cento E due cento salìa cubiti interi L'eretta cima a pareggiar del monte. Così l'area dovuta misurando, Ebber libero campo l'edificio Ad innalzar mirabile; e compiuto In ogni parte, anco d'intorno un piano Riquadrato avanzò non pur ristretto. D'Israëllo levò ben trenta mila Uomini destri e forti il providente Saggio a'Sidonii uniti cui cortese Iram, Tirio Signor, spedì all'inchiesta Che fatta gliene venne, in larga copia Per mar recando tronchi prezïosi Di cedri e abeti; e un adequato e giusto Ricambio corrispose il sapïente. Sul Libano ordinati a muta, a muta Diecimila invïava Israeliti, Che abbattevan gli eccelsi alberi, e accouce Ne fean robuste travi, e più finiti Ardui lavori di sottil congegno, Un mese intero faticavan ivi, Poscia in città rediano, e due trascorse Lune in riposo e in più tranquilla industria, Volonterosi ripigliavan l'opra. Adoniram sovr'essi era vegliante. Gravi pesi a recar settanta volte Uomini mille disponea l'altero Monarca, e ottanta volte uomini mille A sveller pietre e dirozzarle al monte. E tre mila trecento all'operante Popol prepose commissari e capi. Quattrocento volgeano e quattro volte* Bibbia, Libro de'Re. Vent'anni dai felici e memorandi Giorni di libertà quando Israëllo L'indegna scosse egizia aspra cateua, E il quarto risplendea giro di sole Annuo dal dì festoso in cui salìa Allato a Salomon Giustizia il trono, E del mese di Ziu splendea la Inna, Allor ch'ei pose i fondamenti primi Dell'eccelsa al Signor devota Casa. Di vivo sasso construiti a grande Profondità nel preparato suolo S'incorporar possenti, onde la molta Superïor altezza sopportando, Non temesser de'secoli l'oltraggio Resistendo fortissimi e inconcussi. La sacrata all'Eterno illustre Casa Sessanta si stendea cubiti lunga E venti s'allargava, e trenta interi Cubiti ergea sublime l'alma fronte. Di bei portici eretto innanzi a quella Il vestibulo apriasi con robusti Archi superbi, e dieci e dieci cubiti Siccom era la Casa s'allungava; Cinque cubiti e cinque si stendea, E Tempio fu nomato esterïore. Reticolate le finestre e in vago Ordin disposte all'inelito edificio Diero abbondante lume ed ornamento. Intorno intorno alla gran mole, tutti Di misura e di forma eguali in vista, Attenenti alle mura ond'era cinto Il vestibulo, e il santo interno luogo Oracol detto, eresser vasti palchi Di ben construtte camere, con saldo Mirabile artifizio insiem contesti. Non sibilo di scuri o fragorosi Rintocchi di martello, non d'alcuno Ferreo strumento acre stridor, o grave Rimbombo i sacri conturbò silenzii; Però che al gran lavor polite e preste Pietre quant'era l'uopo fur condotte E i marmi sculti in opera perfetta:* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Perfetta sì che nell' esterne mura Nulla traccia apparìa delle connesse Pietre tornite, e, maraviglia al guardo! Pel magistero eletto, un solo strato Di liscio marmo somigliava immenso, Non opra umana ma idëal portento! Dall'imo al sommo le superbe mura** Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Interne ricoprir fin ne'soppalchi D'assi olezzanti d'util cedro, e il suolo D'assi d'abete intavolar robuste. Il Tempio anterïor ben venti e venti Cubiti misurando lo compiro In magnifica foggia, e dieci e dieci Cubiti misurar l'intima parte Che del gran patto riserbaro all'Arca Nobilissimo asilo invïolato. Dell'oracol solenne all'alma soglia Apposer reggi di forbito olivo. Gli stipiti eleganti e l'antiporta Construsser nella valida parete Sì, che d'ampiezza le occupar il quinto; E le due reggi in bei lavor d'intaglio Finissimi adornando, cherubini Leggiadri vi distensero, intrecciate Palme ed aperti fiori, e d'or lucenti Lamine vi condussero sottili. Alle soglie del Tempio simiglianti Locar di saldo abete eccelse reggi Con securo artifizio due fiate Facili a ripiegarsi l'una e l'altra, Di bellissimi intagli divisate Uguali a quelle dell'arcana e santa Parte del Santuario più remota. Deh! voi schiudete il varco, auguste porte, Al gran Tempio di Dio! Sovra i sonanti Cardini v'aggirate, la sublime Del Santo Asilo maëstà rifulga Del popol fido al guardo! Vi schiudete, Auguste porte, Salomon s'avanza D'alta pompa vestito; ei brilla come Sorgente in puro ciel l'astro del giorno. Aprite il varco alla regal straniera Che accanto al sire dignitosa incede, E il bugiardo splendor de'vani templi A muti Dei sacrati offuschi l'alta Magnificenza delle sacre soglie! Meravigliando discorrea lo sguardo Dell'egizia reina fra le somme Pompe del Tempio. D'or fiammeggia tutto* Bibbia, Libro de'Re. Nell'ampie mura, e ne'soppalchi in belli Intagli e ne rifulge il pavimento. Di gemme prezïose hanno decoro Quinci e quindi le altissime pareti A cherubini, a palme ed intrecciati Ornamenti distinte, e gli usci eguali Abbellan d'oro nitidi lavori. Crescon vaghezza le portiere in bianco** Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Fino bisso intessute, variopinte In vivissima porpora, ed in chiara Grana, e in flavo giacinto a striscie alterne. I peregrini adornamenti, e quanto*** Bibbia, Libro de'Re. Di più cospicuo accoglie il nobil Tempio Chiram valente artefice compose, Che l'amica inviò Tiro superba A Salomone, ne'lavor di rame, D'argento e d'oro, esperto, e sue fur l'opre Che a parte a parte rimirò Nicaule. Due sublimi elevò gravi colonne**** Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Che per diciotto cubiti dal suolo Sorgono, e ben misura quattro cubiti Chi l'intero dïametro misura. N'è tre volte maggior l'eccelsa base. Son di fulgido rame prezïoso; Ma il bel lavoro più del rame, e d'ogni***** Bibbia, Libro de'Re. Ricco metallo è in pregio; chè sovrasta All'alta vetta di ben cinque cubiti Il capitello a vasto giglio pari Cui tutto ammantan intrecciate reti Conserte in bel lavor qual di catena A sette, a sette ricadenti in giro. Eleganti corone accrebber pregio All'opra rara; e pendule, distinte A più file d'intorno avean leggiadre Due volte cento melograne, al vero Tanto simìli per mirabil arte, Che par le scuota un'aura, e le ristori Mattutina rugiada avvivatrice. Compiute le colonne dal valente Chiram, il rege al destro una ne pose Stipite del vestibulo, e nomolla Jachin, e l'altra che locò nel manco Booz la disse, e fur sostegno e ornato* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; All'architrave dell'augusta porta. Spazïoso bacin fuse di poi Tondeggiante all'intorno, cinque e cinque'** Bibbia, Libro de'Re. Cubiti largo; nel capace seno Serbar potea ben mille e mille bati, E dal capace sen lo disser mare. Sovra dodici buoi che drizzan l'alte Cervici a'quattro venti per ciascuno A tre divisi, sopponendo il curvo Groppon al fondo, il gran bacin fu poslo. Ristringendosi in giro anco si fea*** Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Vieppiù profondo: con mirabil arte Così lo fuse e solido artifizio. Di limpid' onda fino al margin colmo,**** Bibbia, Libro de'Re. Ai sacerdoti appresta l'ampio seno Pei solenni lavacri, pria che all'ara Innoltrin reverenti. Nè codeste Opre superbe solo vanto danno All'artefice illustre; ardue e leggiadre Pur ne condusse a compimento molte. Cinque e cinque innalzò basi di rame, E ciascheduna a sostener formata Un capace bacin di cristallina Linfa ricolmo fino all'orlo estremo. Delle vittime offerte in olocausto Le palpitanti ancor viscere calde, E sanguinose, di rossiccia spuma L'irrigano qualor la santa mano Del sacerdote pio quivi le immerge Unite ai tronchi piè d'immacolata Agnella, o di colomba, o d'adiposo Giovenco ai membri preparati all'uopo. Ivi sommersi depurar li lascia Nel comandato rito, pria che posti A rosolar sull'ara santa, il pingue Fumo volubilmente in tortüose Colonne sorga; non ingrata offerta All'Eterno Signor cui le devote Alme son care, e i consacrati doni. Il bel lavor dell'alte basi tale* Bibbia, Libro de'Re. Elegante apparìa: leggiadre ajuole V' erano poste fra conserti, a guisa Di cornici, begli orli, e in mezzo a quelle Mirabili scolpiti eran lïoni, Tori robusti, ed almi cherubini. Gli orli superïor di fin lavoro Reggean la conca, che ritonda e ornata Quaranta bati contenea nel grembo. Avean gl' inferïori orli sopposti Bassi rilievi di sottil congegno. Tanta mole reggean quattro stupende Ruote onde i perni s'atteneano saldi Alla gran base, e maraviglia all'occhio N'era l'eletto magistero. A'quattro Angoli della base in un sol getto Composte s'innalzavan larghe spalle, Alla conca sostegno ed ornamento. Il monarca fe' por l'eccelse basi E l'ampie conche, a cinque, a cinque in tale Ordin perfetto: nella destra parte Cinque loconne a mezzogiorno volte, E cinque ne locò nella sinistra Alle nordiche piaggie in bella mostra. Poi Chiram fe' l'altar per gli olocausti Eretto, di fin rame, da ben venti* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; Cubiti lungo, e simile in ampiezza, E dieci alto dal suol cubiti interi. Bacini, e raffi, e calderotti, ed altri Pei sacrifici necessari in larga Copia strumenti, in rame fuso, all'oro Sembiante, tanto appar lucido e bello! In tal copia li fea che il pondo indarno Ricercarne, e ristettero, chè troppo Arduo incarco venìa tutti pesarli. Un'ampia mensa d'oro ove i sacrati Pani s'offrono a Dio del gran monarca Compose al cenno, e diecimila a questa Minori, e d'altra foggia, su cui sorge Ricco vasellamento: sculte coppe E caraffe, di cui ben venti mila Annoverò d'or prezïoso, e venti E venti mila di forbito argento. E dieci candellier fe' pari all'uno Già comandato ne'vetusti tempi Dall'uom Divino, e quinci e quindi tutti Locati fur nel Tempio appo l'altare; A quello incontro in ver settentrïone Coi pan sacri la mensa, e il venerando Altar giacea fra l'uno e l'altra. Molte Di quest'opre stupende nel recinto Che s'estende per ben quaranta cubiti, Di qua dal vel misterïoso stanno Ov'è la sacrosanta Arca deposta. Dall'artista valente fur dirette O compiute le tante opre ammirate Secondo il cenno dell'augusto e saggio Monarca, che alla gloria dell'Eterno Fervidamente inteso, d'ogni ricca Magnificenza volle ornar la casa A Lui sacra, e v'accolse ampi tesori Da lui disposti, e dall'eccelso padre. Quaranta volte numerò due mila Auree caraffe, e fur due volte tante Numerate d'argento; e d'aurei piatti, Onde all'altar si rechi il niveo fiore Di ben trita farina, ottanta volte Numerò mille, e fur d'argento il doppio. Leggiadre coppe d' or a schiera, a schiera Ripose e fur sessanta mila, e tante Due fïate allestì di schietto argento. L'Ju e l'Assaron, da Mosè disposte Misure, annoverò d'or ventimila, E fur d'argento eletto il doppio appunto. Poi cinquanta ordinò mille fïate Vasti bracieri, in cui s'accolgan tolti I fiammanti carbon dal grande altare Di rame che perenne arde e sfavilla Di sacro fuoco, ond'esca abbian gli incensi Sull'aureo altar deposti; e ventimila A contener gli incensi preparati Pel consüeto rito, aurei allestìa Turiboli scolpiti in vaga forma. Ai pontefici sommi fur l'auguste Sacerdotali vesti in fino bisso Intessute, e le cintole di ricca Porpora apparecchiate in copia, e dieci Mila serbonne ne'riposti alberghi, Cogli spallini e le talari robe, Le illustri gemme, e il razional; l'avita Corona, ove segnò l'immortal nome L'inspirato Mosè, fu sola ed una. Le strepitanti argute trombe due Fïate annoverò ben cento mila, Al disegno simìl che ne tracciava L'alto Mosè legislator e duce. In bianco bisso inteste, pei cantori Leviti anco allestia dugento volte Mille vesti. I dolcissimi stromenti Che il nobil suono de'famosi salmi Accompagnin soavi, arpe e salteri. Quaranta mila fur tutti d'elettro. Queste ed altre stupende opre, che al Tempio Accrescono decoro, Salomone Saggio provide; e Chiramo ingegnoso, D' ogni leggiadra disciplina dotto, Molto col senno e colla mano oprando, Fu guida illustre di valenti artisti. Del sacro Tempio impenetrabil parte L'Arca racchiude; di perdon, di pace E d'allëanza pegno, ivi recata Con solenne, regal, religïosa Pompa, sicchè n'andrà l'altera fama A'più remoti secoli, e i più tardi Nepoti ancor ripeteran: Beate Quelle genti che videro l'immenso De'popoli concorso, numerosi Come l'erbe del prato allor che il verde Manto dispiega la gentil stagione! Beate quelle genti a cui fu dato Contemplar del monarca sapïente L'inspirata dal ciel santa letizia! E il corteggio magnifico, e de'santi Augusti sacerdoti il radïante Aspetto, e le festose accorse turbe Cospargenti di fior belle ghirlande: Dai lucenti turiboli, odorosi Nembi fuggian d'aromati, versati In tanta copia ch'eran l'aure tutte D'effluvii carche, e trasvolando d'una In altra regïon recavan grato Nunzio ai remoti popoli del santo Vïaggio dell'augusta Arca sublime. Al caro suon de' cantici, e di liete Danze alternate si mescea la dolce Armonia delle cetre e dei vibranti Salteri; e giunta al sommo Tempio, in atto Reverente recarla i sacerdoti Nell'assegnata invïolabil parte. Di Salomone ai benedetti accenti Ivi arrise il Signor, e di sua gloria Diffuse tosto maëstosi indizii, Onde tremar d'alto rispetto ingombre L'alme de'pii ministri, e degli astanti. Quinci e quindi locò due cherubini* Bibbia, Libro de'Re. D'auro scolpiti il prode artista, ed alti Dieci cubiti son dall'imo al sommo Della celeste forma. Non distanno Di molto spazio; e l'ali in ammirando Artifizio conteste, alla parete Spiegano opposta: un l'una ha volta ad ostro, L'altro all'occaso, e le fra lor congiunte Qual padiglion superbo copron l'arca In mezzo posta. Ne'recessi arcani* Storie degli Ebrei. Flavio, Libro VII.°ree; I mistici volgendo almi sembianti Deluse fan le curïose brame, Nè mortale potria ridir quai furo. Della regal di Saba pellegrina Errava il guardo ancor fra le cospicue Meraviglie del Tempio, quando surse Nunzio del sacrifizio un suon di trombe. Il pontefice santo oh! come augusto, Da folta schiera popolar seguìto, Incede al Tempio e i sacrosanti ascende Gradi del Santüario. Ei brilla quale Vivace dïamante in or legato In regal dïadema, qual benigna Luna che sorge ed uniforme allieta D'amabil luce la natura, o quale Angiolo dell'Eterno a cui s' inchina Il più altero mortal: di reverenza L' alme commosse e in un di rispettoso Senso d'amor quel maëstoso aspetto. Della regal Nicaule al saggio esempio Chinar la nobil fronte le matrone Venerande, e i guerrier prodi, e gli accorti Uomini d'alto affar seguaci a Lei. Egli ascendeva intanto, di celeste Gloria vestito, degli arredi insigni Pomposamente adorno; sull'altare Poichè le sacre cerimonie, e i puri Lavacri ebbe forniti, al sacrificio Diè compimento, e in tortuose spire Il pingue fumo dall'ardenti membra D'immacolate vittime salìa Colle preci e gl'incensi al divin trono. Dell' ineffabil glorïoso Nome Quadrilittero al suon, che il puro labbro Sacerdotal pronunzia tremebondo, (Religïoso tanto senso inspira) Si prostrarono al suol, sovra le palme Il volto rechinando, del fedele Popolo i figli, benedetto il Nome Del glorïoso impero! ripetendo. Seguìa lungo silenzio; l'alme piene Di santa reverenza in quell'umile Atto solveansi dal mortal viluppo, E raggiavan d'amor, di caritade E di speranza accese. Dalla sacra Estasi trasse il popol fido un suono Armonïoso di salteri e cetre, Acri tamburi e flauti, e de'cantori Leviti il primo con solenne voce Intuonò l'inno dell'eccelsa lode. Alma mia, benedici il tuo Signore,* Di questo salmo, forse il magnifico fra i salmi, fu da me tentata la versione per secondare un desiderio invincibile di provarmi ad affrontare le molte difficoltà che rinchiude, senza sperare di superarne pienamente nessuna; e tanto di poter dire: m' accinsi all' ardua prova.—M' attenni a due riputate traduzioni, l' una stimata la migliore, letterale per quanto il comportano le somme difficoltà del testo; l'altra, bella di vigoria, di calore, di passione, sviscera le più riposte bellezze del testo, le fa risplendere della lor luce, ma in qualche parte dà nella parafrasi, secondo che la potenza dell'ingegno e del cuore consigliavano allo scrittor giovinetto. È questa seconda lavoro di Sansone Gentilomo, cognato mio, rapito alla famiglia, agli amici, all'Italia da immatura morte. Generalmente m'attenni alla prima perchè più fedele; in qualche caso dubbio giovaronmi le illuminate interpretazioni dell'egregio Lattes, che me le comunicava a viva voce. Amo però di pubblicamente protestare, qual doveroso tributo alla memoria diletta del mio parente, che lungi dall'accomunare la versione di Lui colle molte eseguite senza ottenere il pieno e luminoso scopo, come parve opinione di qualche giudice dotto, ma troppo severo, (poichè ogni speranza di futuri studii era tolta al giovine traduttore, e più non vivea il Gentilomo che nella memoria de' suoi) se avessi secondato l' impulso del mio cuore, mi sarei attenuta unicamente a questa versione. La tema di allontanarmi dal testo soverchiamente, recando in versi liberi una libera traduzione, e la pubblica opinione, e il tempo che contrastarono al giovine traduttore la palma, mi comandarono quasi il partito preso. Così conciliai, quant' erami concesso, il desiderio del cuore coll'intento di dare una versione, se non elegante, almeno possibilmente fedele. Nè perchè fui prevenuta da qualche animo cortese, apparirà, spero, meno spontanea e siucera la mia protesta. Che inenarrabil sua grandezza rese, Di maëstà vestito e di splendore. Ei s' ammanta di luce e soprattese Qual padiglione il cielo; alla sua reggia Palco son l'acque sovra il ciel sospese. Delle celeri nubi, ove fiammeggia La folgore, si fà cocchi scorrenti, E sull'ali del turbine passeggia. I fragorosi irrefrenabil venti Son messaggi a'suoi cenni, e si compone Ministri il foco, e le sue fiamme ardenti. Su forti basi l'ampia terra Ei pone, Nell'aere immota sovra perno fisso: Ch'ella sia smossa non verrà stagione. Come d'un manto del profondo abisso Tutta la cinse, e l'acque avean ricetto Sugli ardui monti; ma il cammin prefisso Preser, cercando in ima parte il letto; Calar dai monti come il tuo s'udia Tonar dall'alto imperïoso detto. Un termin lor segnasti, onde non fia Che trapassino mai l'umida valle Ad innondar la terra come pria. Così costrette nel segnato calle Le invia sciolte in torrenti e amene fonti De' colli ad irrigar le curve spalle. Vengon le belve a rinfrescar le fronti, A dissetarsi nel vivace argento L'onagro accorre da'vicini monti. E fra gli alberi accolti a cento a cento Stan gli augelletti su le verdi cime L'aure allegrando di soave accento. Ei bagna i monti dalle stanze opìme Ove i tesori della pioggia accoglie, E dall'arida terra i frutti esprime. Così l'abbella delle verdi spoglie, E grata agli animai l'esca fuor mette Varia a seconda delle varie foglie. Fa biondeggiar in colme spighe elette Il frumento che l'uom sazia e rintegra E largo premio a suoi cultor promette. Il cor dell'uom col dolce vino allegra, Coll'olio ne fa il volto rilucente, Col pan sostenta l'alma fiacca ed egra. Gli alberi dell'Eterno largamente Ne sazia, i cedri suoi che l'Immortale Sul Libano piantò validamente. Di que'rami alla cheta ombra ospitale Annidansi gli uccelli, e sugli ombrosi Abeti ferma la cicogna l'ale. Trova asilo ne'monti a suoi riposi Il saltante camoscio, e fan dimora Nelle roccie i conigli paürosi. Ei fa delle stagion guida e signora La luna; e l'alma luce in giro addotta, Conosce il sol del suo tramonto l'ora. Tu mandi le tenèbre e tosto annotta, E dalle selve, finchè il giorno rieda, Sbucan le fiere formidate in frotta. Famelici anelar dietro la preda S'odon feroci lïoncei rugghianti, Chiedendo a Dio che d'esca li provveda. Ma quando spiega il sole i rai fiammanti, Raccolgonsi a giacer ne'lor ricetti Fra le spelonche gli animai vaganti. L'uomo abbandona i genïali tetti, Torna all'opre interrotte ed al sudore Finchè notte confonda i varii aspetti. Quanto son grandi l'opre tue, Signore! Con sapïenza ogni crëata cosa Empie la terra di supremo onore. Ecco il mar ampio in cui la numerosa Stirpe alligna de'rettili, e tacente Di misura inegual turba squammosa. Lo solcano le navi alteramente, E uscito di tua man lo sferza e imbruna Col vasto corpo il Leviatan possente. A te volgon bramosi la digiuna Gola i varj animai, da te sperando, O benigno Signor, l'esca opportuna, La raccolgon se appaghi il lor dimando; S' apri la mano providente, versi Copia di beni lor disìo colmando. Ma se torci la faccia, ei d'alma persi Rimangonsi; e se affreni il lor respiro, Van nell' antica polvere conversi. Ma tu rimandi il Crëator tuo spiro E riprodotti sono, e la figura Della terra rinnovi in ampio giro. La gloria del Signore eterna dura: S'allegri il mio Signor nella suprema Infinita beltà della natura. Riguardata da lui la terra trema; Fumano tocchi i vertici eminenti: Salmeggerò finchè morte mi prema! Al mio Dio canterò finchè possenti Palpiti scuoteran l'acceso core, Finchè dal labbro fluiran gli accenti. Fia gradito all'Eterno quel fervore Che al fido labbro le sue lodi inspira, Rallegrarmi potrò nel mio Signore! De'soli peccator sperdasi l'ira; Sol questa venga meno ebbra genia, Che fra le colpe e l'empietà delira. Il Signor benedici, anima mia! Sulle facili labbra del cantore Tacque l'inno inspirato. Un senso arcano Cercava i petti delle turbe accolte, E fin l'alme più fredde e mute ai cari Desideri e alla speme generosa Dall'estasi fur vinte onnipossente. Ma nell'alma gentil della straniera Suscitò mille affetti, e la solenne Maëstà delle pompe sacrosante, De'sacerdoti il riverito aspetto, Il silenzio profondo, quell'arcana Caligin densa, che al profano asconde Dell'Eterno i consigli e un qualche raggio Sol concede agli eletti, l'educata Mente a vasti concetti inebbrïaro. Sereno in volto d'Israëllo il sommo Monarca surse, e uscian dal magno asilo, Seguendo l'orme del regal corteggio, Silenzïose le adunate genti. Poichè recossi alle superbe stanze, Precedenti a'bei talami odorati Che a lei dispose il sir, l'alma straniera Volle a sè innanzi il fido prence, e questi Lieto vi si condusse. A me t'appressa Amico e consiglier, prode Ismaëllo: Diss'ella tosto; favellarti io bramo, Siedi e m'ascolta. O mia reina, troppo Clemente sei; basti che solo io possa Udir tuoi cenni. Ma Nicaule: siedi; Rispose; io tel comando. Indi con guardo Mansuëto soggiunse, io te ne prego. Grato, Ismaëllo, il tuo rispetto assai Giunge al mio core, e tua virtù m'è nota. Ai sensi generosi, al tuo valore Non sarò ingrata: ma per or si taccia L'intima cura; e ben vedrai tu stesso, Etïopia vedrà, vedrà l'Egitto Alte cose di te. T'intendo, o prence; So che von dir quelle interrotte voci; Ma in calma ti componi, e a me l'incarco Lascia di compensar l'amico zelo. Così parlò l'accorta donna, e molto Palesò brevemente, o molto parve Il prence interpretar ne' dubbi accenti. Allettavalo amore a folle inganno Con ardite speranze, ed altro premio Meditava Nicaule? Oppur, commossa Dal lungo affetto e la provata fede, Il non concesso amor vincer volea Che le inspirava Salomon? Ondeggia Forse fra due pensieri, e or l'uno abbraccia, Or all'altro s'appiglia irresoluta. Ed Ismaëllo, cui soverchia gioja Fea intoppo a'detti, in van parlar tentava; E di sospiri, e di sconnesse e poche Voci incompresa le formò risposta. Come se vase d'ampio fondo, e quanto Più s'allunga ristretto a tal che pari A sottil collo d'anitra selvaggia Assume forma, capovolto sia Da sovrastante man, l'onda non puote Largamente versarsi pel soverchio E repentino impulsò, ma stentando E gorgogliando indugia, in fin, che alquanto Il concorso scemato, al succedente Umor larga ed ugual via si conceda: Dal caldo petto d'Ismaëllo in folla Traboccavan gli accenti, se, uno sguardo Fra severo e benigno a lui rivolto, Nol frenava la donna, ad altre idee Richiamando l'ardente alma bramosa. Della partenza è omai prefisso il giorno, Incominciò Nicaule; il sol novello Mi vedrà salutar Gerusalemme, E la sorgente in ciel novella luna Col dolce raggio splenderà sui nostri Tornanti passi. Oh! quante glorïose Oh! quai meco verran care memorie! Il gran monarca che d'amico affetto Altamente m'onora, oggi nel Tempio Volle il cielo implorar coi sacrifici Benigno al mio vïaggio. Spettatore Tu fosti, o prence, del solenne rito; Dimmi, vedesti mai ne'templi nostri Così augusto splendor, e tanto ricca Magnificenza? Ancor l'anima ingombra Di rispetto mi trovo, e d'un arcano Religïoso senso. Accrescer voglio De' miei Templi il decoro in nuove foggie. Ah! ben si cinge di sublime pompa De' Numi l'alma stanza, ove le umíli Preci, e i devoti sacrifici santi Gl'implorano benigni e protettori.— Giusto, o reina, come sempre, e retto Il tuo pensier mi suona; e, a gloria mia O Nicaule, l'ascrivo, anch'io lo stesso Voto formar osava, e ricercommi L'alma quell'ineffabile rispetto De' sacri riti all'apparecchio. Oh gioja! Del tuo pensiero m'era a parte anch'io! Ed ella riprendea, poichè d'assenso Cortese cenno feagli: Non vil dono Offerir bramo al sommo Tempio, e quale Scerre ben degno non saprei, fra i molti Incerta onde gran copia anco mi resta Egregi obbietti. Preferir degg'io Il calice gentil che d'un zaffiro Intero è sculto? Ma simil ne vidi, Del Tirio re tributo Iramo illustre, Amico al divo Salomone. O l'ampio Vaso preferirò di gemme onusto E ricchi intagli, di bacino a foggia? Di questo diedi un altro uguale al sire. Or tu favella, o prence, ed a tuo senno Pensa e decidi.—Ed Ismaëllo: Tanto A me lice, o reina? Ma se lice E a tua clemenza il deggio, ecco m'attento Di rimembrarti che d'avite abbonda Ricchezze il Tempio; e che di gemme e d'oro Profusïon immensa ovunque miri Abbaglia il guardo; ed al monarca istesso Copia porgesti già d'ogni dovizia. A più leggiadra e peregrina cosa L'animo volgi. Non più vista serbi Fra cento arredi prezïosi un'arpa Di mirabil bellezza; a te dinnanzi L'esporrò se v'assenti. E a lui Nicaule: Buon consiglio mi porgi; or ben rammento L'arpa di cui favelli; pur vaghezza Di mirarla mi prende; pria che lunge Per sempre se ne vada. Essa a me cara Fu per l'egregio suo lavor, ma lieta Al Tempio l'offro non indegno dono. A quegli accenti dipartiasi ratto Il nobil prence, e con due paggi a tergo Tornò ben tosto, e quei recavan l'arpa. Del color fiammeggiante, onde s'avviva L'eterea vôlta allor che i raggi d'oro All'orïente quasi tenda spiega Il rinascente sol, splende la bella Arpa che molto al suo fattor diè vanto. Rispondono sonore a lieve tocco Delle tremule dita, armonïosa Onda spandendo di soavi note, Le corde sottilissime: celeste Cherubo par che intorno aleggi e sciolga Divini accenti; o che s'asconda un qualche Spirto gentile fra le corde, e amico All'ingegno mortal che glien richiede, Consenta in parte l'armonia de'cieli. Di sottile fattura i vaghi bischeri Tempran le corde, o lente, o tese alquanto. E qual cimiero a sommo dell'ornato Strumento spiegan l'ali d'or due vaghe Colombe amorosette, cui circonda Di lauro un fino intaglio, e le sue bacche Alternate alle foglie imitan grosse E ben ritonde prezïose perle. Bellissime conchiglie peregrine, Figlie lucenti degli algosi abissi Ove raggio di sol non le consola, Con artifizio grazïoso unite A guisa di ghirlanda, intorno vanno Le si aggirando. Oh! quai leggiadre tinte Abbellano il ricurvo in cave spire Dorso d'alcune picciolette, a cui Splendon vicine ricche perle inteste A grappoli pendenti come in orto Pendon da'tralci flessüosi l'uve. Alternamente frondeggiar s'ammirano Fra queste e quelle argentee ed auree foglie, E curvi steli ove legò l'industre Artefice di cinque larghi petali Fior simulato; e i petali pur sono Cinque gusci leggiadri, e quai sementi Gialle perle inserì nell'ampio fiore. Seguian le aurate foglie e le argentine. Poscia di sette petali composto Fior peregrino; e i petali son nuove Picciolette conchiglie, che nel liscio Lucente dorso recano d'arcane Note bruno mirabile disegno Indicifrabil pei mortali sguardi. Oh! qual mistero ivi s'asconde? Mano Celeste ve le impresse ed han profondo E sapïente senso ignoto all'uomo, O fur leggiadro di natura scherzo? Questi e diversi grazïosi e belli Gusci dell'auro più pregiati aduna La durevol ghirlanda, e s'avvicenda Or l'uno or l'altro fiore, or l'una or l'altra Con superbo lavor distinta foglia. L'ampia base dell'arpa ombreggia in torti Rami diffusa porporina pianta Di corallo. Crescea fra le sonanti Di lontana marina onde ignorate, Di forte scoglio sovra i fianchi appesa; E le tempeste fragorose, e i venti Sibilando iracondi, fur la molle Terra che l'accogliea, le miti pioggie A ristorarla, il zeffiro gentile Che aleggiavale intorno. Avventuroso Il pescator che a piè della reina, Trepidando smarrito, deponea L'ammirando tesor! Il fido legno, Che sull'onde il guidò ramingo e privo D'ogni soccorso, il ricondusse al caro Albergo marital di ricchi doni Dovizïoso e di letizia pieno. Tal era l'arpa che all'augusto Tempio Offerse in dono Ia regal straniera Da carissimi accenti accompagnata. Consenta, disse, il gran monarca e il sommo Pontefice che lieve un mio tributo Accolga il sacro Tempio, e se non lice Al mio povero don brillar di viva Luce fra tanta gloria, almen non abbia D'un rifiuto lo spregio e la vergogna. Tocche dalla tua destra, inclito rege, Queste nobili corde schiuderanno Incognite finor note söavi. Al tremulo alternar delle tue dita Risponderanno degnamente, e un eco Avran tuoi canti che all'età future N'andran maëstri di pensier sublimi. E il monarca rincontro, ilare in volto: Al bellissimo don, regina, è pari La gentilezza del tuo cor; nè solo Al dono è pari, benchè insigne, e tanto Sovranamente a me gradito, e ai santi Sacerdoti non meno; appesa l'arpa Alle sacre pareti fia decoro Ed ornamento; la mia man talora Godrà cercando fra le corde un suono Che l'estro mio ridesti; e sollevando Cantici ed inni, cercherammi il core Söavemente la memoria tua! Del mio gran genitor chè non risuona La possente favella, dall'Eterno Inspirata armonia, di caldi affetti Pura sorgente, educatrice agli alti Cuori d'alta virtude! Oh padre mio! Giace inerte la destra onde traevi Dalle corde vibranti una divina Estasi che molcea dell'alme dome L'irrompente ferocia, e il cruccio tetro! Consolatrice di Saül lo spirto Caramente blandìa. Qual da procella Furïosa turbate le marine Onde sorgon terribili mugghiando Con orrendo fragor, se un raggio d'oro Vibra il sole fra i nembi, e in bei colori Dipinge iri serena, alla fremente Rabbia succede un mormorar più lento, S'appianan l'onde, e un zeffiro gentile Leve, leve le increspa; tal veduto, O donna, avresti susseguir un dolce Commovimento al rio furor del prode. Del venerando genitor pur giunse La fama altera a miei remoti lidi; (Gli rispose Nicaule) e perchè sia Davidde in pace ricomposto, e prema Il gelido origlier col santo capo, Nol perdette la terra; ch'ei rivive Nel tuo seno magnanimo e la gloria De'suoi lungh'anni superasti in breve Giro d'etade! Ma commosso al caro Ricordo io già ti veggo; non conturbi Il nostro aspetto quel tributo sacro Di memorie e di pianto: alle mie stanze Meco ritorna, o prence; in libertade Co'suoi pensier rimanga il gran monarca. All'ombra cheta delle palme assiso, Che i bei rami spiegavan, grazïosa, Vôlta incurvando sull'invitta fronte, Salomon meditava. Il guardo acuto Affisavasi al ciel che trasparìa Splendidamente azzurro tra le frondi Dall'aure ad or, ad or scomposte, e in larghi Pertugi aperte; e dell'umane cose Oblïoso, pascea l'alto intelletto Di meraviglie a sapïenti ignote. Ciò che ricinto di gelosa nebbia Appar ad essi, sì che il guardo indarno Sospingonvi per entro, finchè stanco Il rechinano al suolo vergognando, Di viva luce al prediletto savio Sfavillava distinto. A lui vicina Amabilmente sorridea la bella Figlia d'Egitto, e rispettosa in caro Atto d'amore al suo Signor volgea I vivid'occhi e respirava appena, Quasi temendo dileguar potesse Tenue respir quell'estasi solenne. Ma la tacita calma interrompea Chiramo, il prode artefice, tornato Da non breve vïaggio, le novelle Di Nicaule recando, a cui fea scorta Fino al lido Eritreo con molti servi. Da'suoi pensier riscosso il gran monarca Lietamente l'accolse, e disse: Parla, Chiram valente, da'tuoi labbri attendo Felice nunzio; e alla consorte volto, Soggiunse: Udrem grate novelle, io spero, Della regal di Saba pellegrina Cui molto spazio già da noi divide; Di lei membrando allegrerem la mente. E a lui rincontro rispondea Tafnesse: Dolce memoria in cor ne serbo anch'io, E d'amistà verace a lei m'annoda E la patria comune, e un dolce senso Di simpatia; Chiram di lei favelli. E l'artefice sommo, obbedïente All'alto cenno, incominciò: Del molto Onor che m'impartisti, o Signor mio, Grazie ancora ti rendo. Alla regina Fui guida e scorta, e sua bontà mi valse Sì, che al suo fianco io la seguìa fra i primi Del suo corteggio; di tuo servo il nome Tanto favor mi schiuse, e tanta gloria. Sovente ancor degnò l'artista umìle Interrogar, varcando alme cittadi E terre illustri per famosi eventi; Onde a lei dotta non suonar discare Le indotte mie parole. Sospingendo L'occhio per entro all' aere circostante Accennavami or questo, or quello eccelso Monte, o vasto deserto qual venìa, Proseguendo il vïaggio, or quello, or questo Più vicino mostrandosi ed aperto. Di cedri altore il Libano sublime Giganteggiar mirammo, e l'ineguale Catena prolungar sicchè lo sguardo Intorbidato rechinarne è forza. E la donna regal proruppe in questi Caldi accenti dal core alla sua vista: O vertici eminenti, fianchi alteri, Opache ombre silenti! O dirupate Vette, rifugio al capro, e invïolato All'aquila superba alpestre nido! O scorrevoli d'acque ameni fonti Giù per le roccie valide con ratto Volubile alternar di bianche spume E con vario rimbombo, addio per sempre! Ma seguendo il vïaggio di lontane Acque s'udia romor, e a me si volse L'alta Nicaule, e men richiese, ond'io Sollecito risposi: l'onde chiare Suonan così del nobile Giordano Che lunge scorre; non ignoto nome Certo per la sua fama a te, cui tanto Educò sapïenza de'remoti Tempi a cercar le più veraci istorie. Alma reina, il sacro fiume ascolti Muggir che il varco portentoso schiuse Al popol prediletto, e all'Arca santa Securamente; alto prodigio! l'acque Superïori s'ammucchiaron ratte, Dileguar le sopposte, e in secca arena L' orme stamparo i fidi pellegrini. Nell' ammirando corso di rimpetto A Jerico passar, la bella e ricca Jerico un tempo, ma per man divina Resa di lutto miserando esempio. Chè ben sei giorni attornïata in giro Sola una volta, e il settimo ricinta Sette volte, al boàto delle trombe Squillanti in suon vittorïoso, al baldo Mutar de'passi alteri le possenti Falangi d'Israël, dell'allëanza L' Arca recando i sacerdoti, surse Del riverito condottier la voce: Acclamate festosi! Iddio v'assente L'alma cittade! E proseguia severo E in un benigno ammaëstrando i forti. Onde acclamar le turbe, l'acre squillo Echeggiò delle trombe, e fra gli orrendi Gridi di guerra, e delle trombe il suono, Non tocche s' atterrar squarciate in vasti Macigni l'ampie mura circostanti: S'arretrarono l'aure al paventoso Rovinìo rimbombante, e le macerie E la polve offuscar l'aere sereno. Alto Signor, tal'io m'effusi antiche Glorie narrando, in lor beato, e pago Di ridirle a colei che fra le donne S'innalza eccelsa come palma in mezzo A fioriti arbuscelli. Ed io pur vanto L'origin prima da quegli avi illustri; Chè Neftalita fu la madre mia, E in Tiro nacque, ma discese anch'egli Da Israëlite genti il caro padre. Il vïaggio seguìa senza che alcuna Sorgesse a varïarlo altra vicenda Tranne le antiche memorande, a noi Parlanti in ogni obbietto. Taccio i brevi Riposi della stanca vïatrice E del corteggio: inosservata nulla Meritevol fuggia terra o cittade All' illustre reina, al fido prence Ismaëllo, e a non pochi Egizii savi. E allor che l'aure trasvolando carche Degli effluvii maligni, ne recaro Dello stagnante lago il lezzo immondo, Al prence volta la Reina disse: Chieder non giova del fetente lezzo La cagion turpe, l'indovina l'alma Istruita da'sensi: ecco ove giace Immota la fangosa acqua romita Fin da' squammosi abitator deserta. Ribrezzo all' uom, le desolate rive Sterili lascia l' esalante grave Mefitic' aura, nè d'augelli il canto La tetra solitudine rallegra. O Sodoma, o Gomorra! Ebbre festanti Colpevoli città! Voluttüosa Aura spirava fra i boschetti ameni, Ne' splendidi palagi, e ne' giardini Di fresche rose; e gorgogliavan l'onde De' vostri fonti mollemente, e tutta V' era un tripudio, un canto la natura. Di lungo obblìo ne' folli impeti lieti Qual d'atra e fitta nebbia ricingeste Religïon, virtude; e quella sacra Voce che suona ognora a' travïati Umani ammonitrice, con accordi Di cembali e di lire addormentaste. Ma l'opre inique a maledir levata. La Diva man, d'orribil pioggia il cielo Fecondò portentosa, e fiamme e zolfo In larghe falde da' squarciati nembi Rovesciò senza posa, infin che tutti Arse, spianò, distrusse, orti e palagi, Piani, colli, campagne, uomini e belve. Dell'ira ultrice memorando esempio E di giustizia sono ancor quell' acque. Già non ti fia discaro, o signor mio, (Se non erra il pensier) che ad ora, ad ora, Come feci finor, frapponga qualche Dell' eccelsa straniera udìto accento Ai poveri miei detti; ch'ei mi sembra D'intrecciar fra negletti e rozzi lini Dalle mie man filati, un aureo stame A rabbellirli e decorarli alquanto. E seguirò narrando del cammino Percorso in mezzo agli aridi deserti Interrotti talor, talora estesi Per lunghissimo spazio. L'orme lente Mutavano i cammelli, e ragionando Venian le turbe, e la Reina sempre A me cortese, mi volea seguace E non discosto; e benchè tutta appieno L' antica istoria non le fosse ignota, Udir chiedeva d'Israëllo errante Le venture mirabili, e stupìa Ai ripetuti cogniti portenti. Poi disse: Altro m' appar tener lo sguardo Sovra i dotti papiri, o in cheta stanza Ricordar favellando lo stupendo Pellegrinaggio, ed altro la contrada Famosa io stessa traversar. Mi presta Le fiammanti sue penne fantasia, E i secoli varcando mi trasporta Presente al gran vïaggio. Eccelsa veggo Turrita nereggiar l'ampia colonna Dïurna, che sul capo al venturoso Popolo mosse e gli fu guida; veggo La notturna non men, che gli fu guida Fra l'ombre alta stampando orma di foco. E i fonti amari in dolce acque conversi, E le roccie stillanti cristallina Refrigerio alla sete onda improvvisa, E la provida pioggia che alimento Corse alle turbe innumeri di manna Celestïal, e le inconsunte vesti Per sì lungo vïaggio, e cento e cento Beneficii ricordo in un istante. Ma niun aspetto di fervor cotanto L' alma le accese, qual le vette alpestri Di nugoli perenni incoronate Ch' eleva maëstoso il sacro Sina, Ove suonò ne' prischi tempi augusta La gran voce di Dio fra il rimbombante Fragor de' tuoni, e il tortüoso guizzo Dei lampi, e delle trombe acri lo squillo. Orribilmente ne tremava il monte Atro fumo esalando in larghe rote; E fra i tuoni incessanti e le saëtte, Il tremito, le fosche ombre diffuse, Non atterrito ma securo in fronte L'alto legislator parlava a Dio. La regal donna alle lontane cime Ergendo il guardo ripetea: Beato Popolo d' Isräel cui fe'la prima Culla di tanto onor privilegiato, Che pari non potrà salir la gloria D'altre genti benchè lungo le cinga Di secoli splendore, e imperii vasti Vantino e suono di vittorie eccelso. Favellando così venìa l'altera Reina, e pendevam taciti e assorti Dalle sue labbra; e allor che presso a molti Luoghi passammo per vittorie antiche Famosi ripetea: Chi mai t'avanza, Eletta gente? O popoli sconfitti, Salme insepolte degli eroi caduti, Preda ai corvi, alle belve, gioco ai venti, Alle tempeste segno; anco risuona L' aere d' ululi tetri, e moribonde Grida, e lamenti, e orribili bestemmie! O popoli sconfitti! invan di forti Braccia e validi petti, e ferree voglie Foste possenti incontro a lor che un alto Poter guidava alle promesse stanze! Meglio per voi se i non concessi varchi Volonterosi offrendo, amiche destre Tendevate a Israël! Così la spada Vi mietea senza posa; e i campi aviti E le chiuse fontane, e i verdi paschi, E le feconde messi il sangue vostro Abbondante rigò, di bianco ossame Lungamente lasciando orridi i campi. Poscia soggiunse: Di cotanta luce Brillar dovea di Salomone augusto Il popolo natio; così l'aurora Lucida il sol precede, e il nunzia al mondo. La via seguimmo assidui: i raggi ardenti Tempravan le frapposte nuvolette, Mitigando il calor; bruna la sera Velò le cose, e all' apparir dell'astro Melanconico, a poco a poco il cielo Rasserenossi. Vïaggiammo intera La cheta notte, ed aggiornava quando Scendemmo al lito ove s'infrange l'onda, Che un dì commossa da possente verga Schiuse l' asciutto fondo al gran passaggio. Era nitido il cielo, e l' orïente Di più colori si pingea vermiglio. Sul mar placido e bello i ben costrutti Vascelli mollemente eran cullati E dall'aure e dall'onde; la sublime Veduta mi destava in cor desìo Di navigar lontano, e susurrava Interna voce all'alma mia: Beato L' uom che fra l'onde e il ciel passa la vita, Fra l'immenso sospeso, e di natura Contempla ognor la maëstà suprema! Nella calma del mar, nella procella Furïosa, ne'prosperi ed avversi Soffi del vento, l'immutabil fronte Erge sicuro, e sorridendo sfida I pericoli, i tedï, e l'affacciata In mille forme immagine di morte. Ma dov'erra il pensier? … Signor, perdona L'ardir soverchio; ecco il mio dir riprendo. Con doni oltre la speme i servi tuoi Rimunerando, questi accenti aggiunse La regale Nicaule: Ritornate Al signor vostro, e de' miei sensi in parte Interpreti vi fate, e gli porgete L' ultimo mio saluto: ultimo io spero Non sarà per la vita, e forse un giorno Onorarlo potro nel regno mio! Poscia a me si rivolse, e di tua gloria Favellommi non breve; da' suoi labbri Scorrean gli accenti qual da profumato Vasello sgorga l'aromatic'olio. Tacquesi alquanto, e il nobil guardo intorno Girò meditabonda all' orizzonte, Quasi a cercar lontane plaghe intenta. Indi proruppe in questo dir: Là sorge Gerusalemme; oh! città cara, o bella Città di pace! Il guardo invan sospingo A rimirarti! I tuoi palagi e l'alte Torri ricerco invan, ma ben ti scorgo Col guardo del mio cor, città diletta! Gerusalemme, addio! La tua memoria Sempre innanzi starammi; de'miei gaudi, De' più secreti miei pensier terrai Sempre gran parte! Addio! sorrida ognora La tua bellezza a lui che si l'accrebbe, Onde fra tutte le cittadi il vanto Di principale ottieni. Entro tue mura Gioja il circondi, e de' tuoi figli il core Sempre gli sia fedele. Sì dicendo Levò gli sguardi al cielo, e il caro voto Espressero compiuto; indi a me volse Queste parole: Anco un saluto reca Alla söave del tuo re compagna; Dille ch' io l'amo, e dille che talvolta A me ripensi, e se talor ne'sogni Dell' anima beata ai dì primieri Di sua vita ritorni, e disïosa Ripensi il ciel d'Egitto, anco ripensi Ch'egual la culla avemmo e l'aure prime. Con piè legger scorrea l'arene ancora Di rugiada impregnate, indi affrettossi Guida e sostegno al principe chiedendo La fida mano, e la seguìano i paggi I tuoi doni recando, che al suo legno Volle addotti con essa. Sovra ogni altro Cospicuo dono, s'ebbe caro molto Del tempio il simulacro che d'avorio Per tuo voler ritrassi. Non sì folle È il mio pensier che immaginar presuma Esserle il mio lavoro in tanto pregio, E ben compresi che le fu gradito Della santa città recar memoria Che a'suoi fedeli di tua gloria parli. Sulle rive del mar che mormorando Parea giulivo del sublime pondo Mi soffermai. Vidi gonfiar dall'aura Le vele candidissime, e superbe Le navi spazïar sull'acque, larga Zona a tergo lasciando; e le divise Spume correan d'intorno ai curvi fianchi Gorgogliando frementi, in bei colori Pinte, dal solar raggio attraversate. Nè dalla sponda dipartirmi volli, Che al guardo in prima dileguarsi a poco A poco l'alte non vedessi antenne; E solo allor che sul diffuso azzurro Lontan lontano ed a fatica io scorsi I gran vascelli sorvolar siccome Turba d'augei peregrinanti, il guardo Rechinato, tornai pel noto calle L'alme novelle a riportarti inteso. Chiram così narrava, e il chiaro Sire E l'egizia Tafnesse da' suoi labbri Pendean bramosi; mentre l'ampie vie Dell'Eritreo solcava con propizî Auguri la regal donna di Saba, Il popol fido a rallegrar movendo Coll'amata presenza. Così l'astro Apportator di vita e di letizia D'Orïente si leva, e fuor dell'onde Ergendo il capo di bei raggi adorno Alla terra languente il ricco schiude Di sua luce tesor che la ricrea. Siccome stanco vïator che i passi Improvido sospinse in lungo calle Spazïoso, d'assai vepri e di pochi Fioriti cespi, sull'asciutta sabbia Rifinito abbandonasi e rïanda I verdi campi, l'onde fresche e quante Ebbe lungo il cammin liete vicende; Torno all'ombre romite che un fuggente Raggio allegrò talor degli evocati Dal facil estro glorïosi tempi. Tremiti spessi e lamentevol suono La già sospesa al salcio amata cetra Ancor tramanda, e l'eco fievolmente Sul cor mi piomba ripetendo i lai. V'intendo, o note arcane, via per entro Al memore stromento ancor s'aggira Aura di poësia ch'io mal tentai Di suscitar coll'inesperte dita. Pur non ignobil palpito scotea Tumultüando il core, e accese spesso Trascorrer mi sentia le vene e i polsi Veloce fiamma; e come lampo ratta Passò talora un'insüeta idea Che tutto mi commosse l'intelletto. Ma ratto spare il lampo, e niuna lascia Splendida traccia. Immota stella invece Brilla di luce non caduca, e avviva Della tacita notte il mesto orrore.

N. B. Questi versi, e l'Idillio cui s'accompagnano, furono scritti nell'anno 1842 per le nozze dell'egregio sig. Lattes, con una gentile mia cugina; così ai nodi di cordiale amicizia ch'erano fra noi, s'aggiunsero quelli della parentela. Non videro la luce nella felice occasione cui erano destinati, ed ora li faccio di pubblica ragione in attestato dell'alta stima in cui tengo il riverito editore del mio libro.

Poichè nodo beato oggi vi stringe, I puri affetti coronando, in lunga Consüetudin d'armonia, di pace E söavi dolcezze, e caste gioje, E indivisi pensieri, il vergin core Alla gioja schiudete e vi sorrida Eternamente quell'amor che primo Ai palpiti vi desta. Rasserena, O timida fanciulla, il bruno ciglio D'una perla irrorato, e sul natìo Cinabro della bocca spunti un riso Che tutta irradii la gentil sembianza. Allo sposo ti volgi, e nella queta Maëstà della fronte, e nell'amico Guardo contempla il bel candor dell' alma Che illumina il suo volto come chiara Face racchiusa in trasparente lampa. Impalma la pia destra onde sì larga Copia di beneficio ognor si spande Sovra gli egri languenti, e li consola, Siccome pioggia dalle rotte nubi Sgorgante sovra i prati aridi in breve Ora li abbella del fiorito ammanto. Dell'alto ministero, onde la grave Cura sul giovinetto animo scese, Degno ei si mostra, e nella fresca etade In cui tutto sorride, e folleggianti Danzan le vane illusïon sul vario Pinto sentiero della vita, bando Alle vivaci passïoni impose, E tutto si raccolse in una santa Universal bontade il prepotente Degli affetti bollor: ma nell'ascose Latebre del suo core una scintilla Dal vasto incendio giovanil fuggita Solinga ardea: l'amabil tuo costume, O vergine felice, l'innocente Grazia che ti circonda, e de'tuoi sguardi L'ardor modesto ridestarla, e viva Fiamma ne suscitar, che dolcemente Irradia, scalda e non distrugge: sei Colomba di letizia apportatrice, O giovinetta; colle bianche piume Alïando d'intorno al capo ingombro Di mille cure, refrigerio e calma Diffonderai sul tuo diletto. Iddio Il vostro nodo benedice, e come Nelle remote e fortunate etadi D' Isaacco e Rebecca il nodo strinse, Così v'unisce. La soave istoria Sulla mia cetra suoni, e sia preludio Di gioja alla gentil che a se fa speglio Il candor di Rebecca e la beltade.
Sovra i colli scendea della petrosa Mesopotamia la tranquilla sera E di fosc'ombra si pingeano l'ampie Falde de'monti, mentre il raggio estremo Indorava le vette, una söave Malinconia piovendo sulle cose. Redìan le gregge dagli erbosi paschi Coi pingui armenti, a doppia e lunga fila L' orme seguendo di solerti e vispe Conduttrici donzelle: accompagnate Dalla cittade di Nahòr talune Uscieno, ed altre dai vignetti; e molte Redìan solinghe dagli aperti campi. Bianche, brune, vergate capriolette Con acuti belati ivan chiedendo Il fresco umore, e timidette agnelle Erravano d'intorno, mentre alcuna, Fra tutte accorta, alla gentil sua guida Porgea lieve cozzando la vellosa Testa, la man lambendole, e preposta Alla torma, spegnea l'arida sete. Ma inver la fonte a passi lenti move Uno straniero vïator, cui bianco Qual neve intatta il venerando crine È alle tempie corona; a lui seguaci l servi son, che cinque e cinque forti Guidan carchi cammelli, e giunti all' orlo Della fonte ristanno, ed ai robusti Animai dan riposo sull'arena, Piegando lor ginocchia affaticate Dal cammin lungo sotto grave pondo. Supplici sollevò le mani al cielo Orando il buon vegliardo; non raccolse Suoi detti orecchio umano; alto saliro All'Eterno dinnanzi, e fur graditi. Ancor sui labbri suoi tremuli errava La mistica preghiera, e di saluti Un mormorìo levossi, ond'ei lo sguardo Girò profondo e scrutator d'intorno. Della cittade uscìa fra tutte bella La vergine Rebecca, amabil fiore Da Betüel cresciuto; il tondeggiante Braccio ricurvo sostenea dell'ampia Idria l'incarco; il casto sen velava La gonna intesta a bei color; sottile Fascia cingea l'agili forme, il fianco Ritondetto gonfiavasi siccome Anfora colma; lo splendor degli occhi Un lucido parea raggio di sole Cui specchio è l'onda; e il crin molle cadente A nereggiar sugli omeri, simìle Era alle frondi di pieghevol salcio In cui sospira il zeffiretto estivo. Ad attinger movea per le paterne Case la limpid'onda, e poi che n'ebbe Il vase colmo, alla città redìa Con piè leggero; ma rincontro a lei Mosse il vegliardo, e con amica voce: Deh! mi disseta con quell'onda pura, Se non ti spiace, disse; ed ella tosto: Bevi, rispose con piacevol riso, Mio signor; e dagli omeri avvallando L'idria ricolma glie ne porse l'orlo. Poichè a sua voglia lo straniero bebbe, Cortese aggiunse: Or, se t'aggrada, ancora Attingerò pe'tuoi cammelli, tanto Che il lor disìo s'appaghi; e prestamente Alla fonte tornata, tante volte L'onda ne trasse, quante volte l'uopo De'cammelli volea. Trepida gioja Nell'anima s'effuse, e sull'aspetto Dello straniero apparve; taciturno Meditava se Iddio benignamente Arrideva a'suoi preghi, la segreta Missïon del vïaggio coronando; E la guardava, anco nell'umil atto Piena di grazie. Poi che ad uno ad uno Abbeverò i cammelli, a lei si volse Racconsolato, e la fregiò d'un aureo Monile, e di conserti in bella guisa Smanigli d'oro le ricinse i polsi, Interrogando: Qual diletto al cielo Uomo felice figlia sua ti noma? Oh dillo! e dimmi se in tua casa albergo Ospitale io ritrovi? Ella rispose: Di Betüel son figlia, che di Milca È prole, Milca di Nahòr consorte. Appo noi v'è pastura, e strame, e tutto Ciò ch'è d'uopo ai cammelli; ad albergarti Stanza non manca. Lo straniero a'detti Esultò di Rebecca, ed inchinossi Adorando l'Eterno in questi accenti: D'Abraam benedetto il Dio possente Che a lui propizio arride, e me condusse Con immensa pietà sul retto calle Del mio signor alle fraterne, avite Case ospitali!—La fanciulla intanto Tornò veloce ai cari alberghi, e disse Il lieto incontro, i doni con gioconda Fronte mostrando alla diletta madre. Fratello alla gentile era Labano, Speme del vecchio genitore; udendo La narrata ventura, e i bei monili Lodati ond'era cinta, dell'ignoto Vïator guiderdon, ratto a lui corse Con amico sorriso; accanto al fonte Immoto egli era; a lui fattosi presso Sclamò Labano: Le mie soglie varca, O benedetto! Perchè qui restarti A tuo disagio, mentre albergo lieto In mia casa t'attende? Pe'tuoi servi V'è stanza, e pei cammelli anco v'è asìlo. Le amiche soglie oltrepassò con chiara Fronte il vegliardo; gli ridea sul volto La speranza del cor; poichè le cure Ai cammelli fornite ebbe Labano, All'ospite recossi, e nei capaci Bacini porse a'suoi lavacri l'acque. Saporite vivande, e vini poscia Gli pose innanzi, ma non tenne il grato Invito lo straniero, e in un sospeso E commosso, sì disse: Alla mia bocca Non s'accosti vivanda infin che tutta A te aperta non sia del mio vïaggio La felice cagion. Libero parla! Laban rispose. E il fido messo in questi Detti s'aperse: D'Abraam son io Antico servo; Iddio lo benedisse In ogni cosa, e il fè possente, e ricco Di greggi innumerevoli siccome I bianchi gigli, decoroso ammanto Della convalle. A mille, a mille, pingui Giovenchi, obbedïenti e forti ei nutre Cammelli, e pazïenti asini; e sono D'argento e d'oro l'arche sue ricolme. L'ampie sue case, i vasti campi albergo Ristretto sono a'molti servi. Sara, Al mio signor fida consorte antica, Sterile in giovinezza, a tarda etade D'un figlio il fè beato, ed ei gli aviti Tesori ragunò sovra il diletto Capo. Or giunge al virile onor degli anni Degno de'padri suoi; sazio di vita Il mio signor disìa giovin famiglia Mirarsi intorno, e in pace i giorni estremi Chiuder racconsolato; in cor raffermo Questo pensier, chiamommi (a lui son io Da prim'anni compagno) e sì mi disse: Giurarmi dèi, se veramente hai cara La grazia mia, che al mio figliuol consorte De' Cananei fra cui viviam donzella, Sia pur leggiadra, non torrai: la terra In cui nacqui ricalca, ed alle case De'miei padri ritorna, ivi compagna Degna trascegli ad Isaacco mio. Ed io risposi: Forse la donzella, A seguirmi restìa, d'un suo rifiuto Gravar mi puote. Il saggio allor di contro: L'Eterno Iddio che il mio cammino ognora Sgombrò di spine, perchè sempre io fui De'suoi precetti osservator, benigno Al suo fedel, d'un angiol la celeste Guida daratti e compirà la speme. Ma se, deluso, indarno varcherai De'miei padri le soglie, e di ripulsa Udrai parola amara, appien disciolto Dal giuramento imposto io ti dichiaro. Così parlommi il mio signor; la sua Terra natale ricalcai fedele. Esecutor del cenno, rintracciando Di Nahòr, vostro albergo, giunsi appena Sul margin della fonte che cercommi Intima speme il core, e con devota Prece mi volsi al Creator de'mondi: Deh! se ti piace, o benedetto Iddio, Arridermi propizio, del vïaggio Lieto rendendo il fin, di quest'umile Servo il prego consenti; ecco io m'assido Alla fonte vicin, già imbruna l'ora In cui dalla cittade escon le pure Vergini di Nahòr l'onda attingendo Per le case paterne; la fanciulla A cui volgendo la parola io chieda A dissetarmi l'acqua, e umanamente: Bevi! risponda, e a miei cammelli ancora Senza inchiesta ne porga, quella sia La prescelta da te sposa a Isaacco. Sì dissi; e intorno riguardai sospeso E dubbïoso. Ed ecco uscir la dolce Rebecca, prestamente alla fontana Drizzando i passi; io l'ammirava; intanto Palpitavami il cor d'indefinita Contentezza: Deh! porgimi, sclamai D'acqua una stilla, ed essa con soave Grazia la colma idria calommi innanzi: Bevi, dicendo; indi soggiunse: ancora Attingerò pe'tuoi cammelli! ond'io Meravigliando la guardava, e poscia L'interrogai, dicendo: Chi si vanta Di tal figliuola? Ella rispose: Figlia A Betüel son io, di cui s'incinse Milca, a Nahòr consorte. De'monili Le feci dono a quegli accenti, e lieto Benedissi l'Eterno; d'Abraamo Adorando il Signor che i passi miei Avea guidato all'ospitali case De'suoi parenti, e pel diletto figlio L'amabil prole del fratello avea Fra mille scelta! Or libera esponete La vostra mente; al mio signor vi piace Lëalmente assentir, la speme lunga Di sua vita compiendo? Deh! vogliate Farmelo aperto, e s'un rifiuto è sola Vostra risposta, i passi miei terranno Altro cammino. Il venerando veglio Betüello ed il giovine Labano Con blanda fronte dissero: Del senno Divino è figlio un tal proposto; a noi Non lice dubbïar nè oppor parola Di ripulsa; Rebecca ai cenni tuoi Assoggettiam: teco l'adduci e sia Moglie a Isaacco come Iddio dispose. Il fido servo poi che udì l'amica Favella a terra si prostrò, l'Eterno Nuovamente adorando; poi le gravi Arche schiudendo, di tesor dovizia A'lor sguardi produsse: argentei vasi, E vasi d'or leggiadramente sculti, E ricche vesti di trapunti ornate Mirabilmente, e gemme prezïose Alla vergin Rebecca, ed all'antica Madre, e al fratello porse; genïale Pegno di certe nozze: all'imbandito Desco sederon lieti, e novellando Scorsero l'ore, infin che buja e tarda Calò la notte; allora alle riposte Stanze recossi la famiglia, poscia Ch'ebbe Laban guidati ai loro alberghi Gli stanchi vïatori, a cui sugli occhi Facil discese il placido sopore. D'incerta luce all'orïente appena Si dipingea l'azzurra vôlta, e il lieto Degli augelletti garruli concento Salutava del giorno i primi rai, Allor che surse dai tranquilli sonni Il fido nunzio. La famiglia accolta Disponea l'opre del mattino, e sola Era assente Rebecca, ad altri intenta Coll'ancelle lavori. I cordïali. Saluti ricambiati, d'Abraamo Il servo disse: Al mio signor vi piaccia Ch'io tosto rieda; alle mie cure sia La vergine concessa, ond'io la guidi Sposa a Isaacco. D'inquïeta speme Palpitante la madre, a lui rivolse Supplice quasi il guardo, e disse: Almeno, Poichè lunge n'andrà la mia fanciulla, Per l'amor de'suoi cari un qualche indugio Frapponi alla partenza… Dieci ancora Giorni rimanga al nostro fianco; scorso Sì breve tempo, riederai con essa A chi t'invia. Poi tacque.—Alle sue preci Caldi detti iterar Labano e il padre Indarno. Duolmi, replicar s'udìro, A sì giusto desìo d'uno scortese Rifiuto dar risposta: ma, vi prego, Non ritardate il mio vïaggio; Iddio Guidommi, e l'alta speme coronando, Felice il rese; alla partenza alcuno Non opponete indugio, ond'io ritorni Abraamo a bëar colla presenza Della vergine pura che i suoi tardi Anni di gioia spargerà novella. Consentiro a'suoi voti gli amorosi Di Rebecca parenti, e la fanciulla, Dissero, interroghiam. Al noto accento Di Labano accorrea la docil suora Come agneletta grazïosa e vispa. Candida ricingea l'alme sue forme Semplice veste; e sul mattin succinta La sua casta beltà più risplendea, Che d'ornamenti ingombra. Il guardo pieno D'ineffabile amor volgea sovr'essa La buona madre; e nel solenne istante Che la rapiva al sen materno, un vivo Tumultüoso palpito, una brama Di lagrime, di baci, di sospiri Tutta l'invase: pur composta a queti Modi, e la fronte serenando, a lei Dignitosa si volse, e interrogolla: Dimmi fanciulla mia se lietamente Seguirai d'Abraamo il messaggero Che allo sposo ti guida. I vivid'occhi Chinò Rebecca, e s'infiammò nel volto Di pudico rossor. Così talora Del sole il raggio pinge il delicato Seno di bianca nuvoletta. Alfine La verginal vincendo ritrosia: Lo seguirò, rispose. Indi confusa Alla madre si strinse. La partenza Laban dispose; alla diletta suora Compagne scelse ancelle giovinette Fra tutte a lei gradite, e la sua fida Nutrice di seguirla fu giulìa Al maritale albergo. Indi con ferma E chiara voce benedir la dolce Vereconda Rebecca, in questi accenti Prorompendo dal cor: Dio t'accompagni Nel tuo cammino! E a mille a mille, o cara, Scenda dai lombi tuoi moltiplicata Forte progenie che de'suoi nemici L'ardua porta possegga, e il nome oscuri! Ai caldi voti glorïosi il core Rinvigorì la timida fanciulla E all'amplesso materno offrì secura La bella fronte imporporata al raggio De'fausti auspici; e i teneri congedi Iterando, levossi: i passi suoi Seguìan le ancelle umilmente. Il curvo Dorso salir de'placidi cammelli Del fido nunzio al cenno; ed ei, contento Dell'adempiuto voto, all'orme incerte Era seguace, guida, e in un sostegno. Solinghe vie premendo, alla paterna Magion redìa di verso il memorando Pozzo di visïon, poichè sue tende Avea piantate a mezzogiorno, il pio Isaacco, dai cari alberghi uscito Pria che splendan le stelle, e la notturna Ombra s'addensi, per ridir l'usata Prece seral, in mezzo ai dolci effluvii, All'amico spirar di molli aurette Nell'aperta campagna. Ed ecco il guardo Girando intorno, rimirò da lunge Molti cammelli biondeggiar; l'acuto Guardo v'intese; trepida Rebecca Arrossendo il mirava, e poichè giunta Gli fu dappresso, prestamente scese Con agil salto dal cammello, e china Gli stette innanzi. Non a caso in tale Atto l'accolse; poichè al fido servo Ella avea chiesto in pria: Chi a noi rincontro Pei campi move dignitoso? E quegli Rispondea sorridente: È il signor mio. Al caro annunzio palpitò più ratto Il cor della fanciulla, e raccogliea Sulle belle sembianze il vel diffuso. L'antico servo brevemente espose Ad Isaacco i benedetti e giusti Atti compiuti nel fedel messaggio, E n'ebbe lode. La gentil compagna Guidò Isaacco alla materna tenda, E in sacro rito a lui fu moglie: assai L'ebbe diletta, forte e santo amore Le pose invïolato; della tolta Al filïale affetto nobil Sara, Rincongiunta a'suoi padri, meno acerbo Dolor gravollo, e il consolar l'aspetto E i cari accenti dell'amante sposa. Sul doloroso letto il debil fianco Riposava Giacobbe, un dì sì forte; Di sua lunga canizie oppresso e stanco, Consolato sentia venir la morte; Ma pur gli era cagion d'affanno molto Il non veder de'cari figli il volto. Nebbia oscura velava il ciglio tardo, Ed ascondea gli aspetti desïati Del moribondo genitore al guardo. Ad uno ad uno tutti fur chiamati Con ferma voce, e alla viril sua prole Queste saggie rivolse alte parole: Vi rïunite a me d'intorno, o figli, V'adunate con me nell'ultim'ora, Ch'io vi conforti il cor de'miei consigli. Io chiarirò quel che non venne ancora, E nel bujo de'tempi ognun di voi Quasi a specchio vedrà gli eventi suoi. Fatevi a me vicin tutti raccolti! Conte son l'ore già del viver mio. Israële ancor son! ciascun m'ascolti, Israël vostro padre ancor son io! È sacra de'morenti la parola, E l'uom che la rispetta Iddio consola. Ruben! tu primo all'amor mio nascesti E la mia possa ebbe principio in te; Di nobile decoro ti rivesti E magnanima forza il ciel ti diè. Ma com'acqua fuggente per la china Ogni speranza tua si dileguò, Nessun de'tuoi fratelli a te s'inchina, Chè la tua maggioranza omai cessò. Del genitor non ti fu sacro il letto, D'onta macchiasti il mio canuto crin, E l'empio amor che t'infiammava il petto Inonorato lascia il tuo cammin. Son Levi e Simone bollenti d'ardire, Di sangue fratelli, fratelli nell'ire, Furenti, indomati nel truce livor. Non entri il mio spirto nel di del periglio Nel lor tenebroso segreto consiglio, Non brilli sovr'essi del padre l'onor! Ahi crudi! da rabbia tremenda sospinti, Sui corpi cruenti de'popoli estinti Travolsero i campi, le mura spianar. Sia in odio alle genti la turpe vendetta! La rabbia tremenda sia pur maledetta! Divisi, dispersi li danno ad errar. Te, mio Giuda, gli umìli fratelli Loderanno,—famoso diranno; La tua destra, spavento ai rubelli, De'nemici sul collo starà. E la prole del tuo genitore A te onore,—a te gloria darà. Lïoncello il mio figlio è tremendo, Quando aggiorna—dai boschi ritorua. Il gran fianco s'ei posa dormendo, Se qual forte lïon giacerà, Qual lïon che rival non paventa, Chi lo tenta,—chi lui desterà? Non sarà l'onorato fulgente Scettro avito—a sue mani rapito. D'alte leggi è custode possente, Di gran gente—gli è sacra la fè. Finchè al popol l'atteso non viene Cui pertiene—lo scettro de're. A legar il suo mite giumento Sovrabbonda—di vite la fronda; E il ripara dal sole dal vento Nobil vite coi grappoli d'or. Le sue vesti nel vino egli immerge, E le terge—nel grato licor. Generosa una fiamma s'accende E scintilla—nell'ampia pupilla; Come il vino rosseggia, risplende, Che rintegra la gioia nel sen; Come latte son nitidi i denti, Nè lucenti—nè candidi men. Ove devolvesi L'onda marina A forte e nobile Città vicina Zabulon stabile Dimora avrà. Porto marittimo Frequente e lieto Ama lo spirito Irrequïeto; Ama l'instabile Varia beltà. Ove galleggiano L'eccelse navi, Di bella estranëa Dovizia gravi, Con l'ampia Sidone Confinerà. Issàcar è un onagro di membra possente Che in mezzo alle sbarre s'accoscia indolente. Degli ozii spregiati gli è cara la pace, L'ameno paëse l'alletta, gli piace. Ei pone in oblio—l'onore natìo, Soggetto si noma,—s'incurva alla soma, Che all'omero altero vil pondo sarà, E ad altro signore tributi offrirà. A giudicar fia eletto Il popolo soggetto L'accorto Dan prudente Come tribù possente Del nobile Israël. Astuta serpe ei fia Strisciante sulla via, Tremenda al passaggero; Colubro sul sentiero, Pieno d'amaro fiel. Fra l'erbe e i sterpi ascoso, Di pungere bramoso, Le avviluppate corde De'pasturali ei morde, Fere al corsiero il piè. Onde pel duolo insano Fugga al signor di mano, E con frequenti balzi Di sella lo trabalzi Pria ch'ei proveda a sè. La tua salute, o Dio, Invoco nel dolor! Ascolta il voto pio Dell'uomo che si muor. Di Gad sugli ampi—fertili campi Scorron l'altere—nemiche schiere Con armi ultrici,—coll'odio in sen. Dal forte vinto—feroce istinto Anch'egli affretta—l'aspra vendetta, E de'nemici—scorre il terren. D'ampia dovizia fertile Bellissimo paëse Aser possederà. Degli alberi fruttiferi Fra l'ombreggiar cortese Il campo fiorirà. Tesori eletti e facili I solchi suoi daranno Al genïal lavor. Senza cultura assidua Regali produrranno Deliziè ignote ancor. Disciolta cervetta È l'agil Neftàli, Par cingano l'ali L'ardito suo piè. S'ei parla, diletta La mite favella, Che facile e bella, Mendace non è. È Giuseppe un ramo eletto Di feconda vite ombrosa, Sorta accanto un fonte schietto, Che si stende racemosa Lungo il muro a frondeggiar. E sebben di molti affanni Ne'prim'anni—minacciato, Sebben vittima d'inganni, Dagli arcìeri nimicato Col tremendo saëttar; Men securo, men valente Non è l'arco del mio figlio; L'afforzò l'Onnipotente, Lo sorresse nel periglio Coll'aita, coll'amor. Ei l'ha fatto sì famoso Allegrando i foschi eventi; Ei l'ha reso glorïoso: D'Israëllo fra le genti Il fè pietra, il fè pastor. Di letizia e di ventura Tanta copia a te proviene Dal mio Dio che m'assecura; Egli è scudo alle mie pene, Tua difesa Ei si nomò. Sei dal cielo benedetto, Dall'abisso interminato; Dal materno fido petto, E dall'utero beato Che nascente ti portò. Di tuo padre la favella A te in morte benedisse Ampia e lieta più di quella Che dai padri a me si disse, E si leva fino al ciel. Del tuo capo sulla cima Già risplende annunziatrice, E su lui che si sublima Tra i fratelli più felice Buono e nobile fratel. Lupo rapace, Tremendo, audace È Beniamin. La preda ognora Giunge e divora In sul mattin. Allor ch' annotta Dalla sua grotta Cauto uscirà. Le spoglie uccise Di sangue intrise Dividerà. La profetica voce affievolia Del morente Giacobbe, e la sua possa Si smarriva nell'ultima agonia Che gelida scorrea le vene e l'ossa. Delle molte tribù principi eletti, Pendeano i figli dai paterni detti. Poichè in atto solenne e grave tanto, Conforme all'opre lor, li benedisse, Benedicendo ognun nel carme santo, Con fioca voce ma secura disse: Fra poco al popol mio sarò raccolto! A' miei padri vicino io sia sepolto. Nella spelonca d'Abraam romita, Che nel campo d'Efròn Itteo si giace, Ivi sia la mia spoglia ai padri unita Onde con essi mi riposi in pace. Sua la fece Abraam perchè secura E sacra abbiano i suoi la sepoltura. Ivi riposa; e a lui vicin la pia Sara, Isaacco e Rebecca consorte, Ivi ho deposta la perduta Lia … Volea più dir, ma l'arrestò la morte. Ritrasse i piè, chinò pallido il volto, E fu lo spirto al popol suo raccolto. Mentre in fosco squallor la viva luce Di Saulle improvvisa si spegnea, Davidde eccelso e fortunato duce Dalla sconfitta d'Amalec riedea, E in Siclag soggiornò, non anco instrutto Del fero caso onde Israel fea lutto. Ma non appena il mattutino raggio Illuminò la terza volta il cielo, Udì sonar l'orribile messaggio; Via per le membra gli discorse un gelo, E prorompendo in gemiti funesti, Vinto dal duol si lacerò le vesti. A lui d'intorno fean lugubri pianti I suoi guerrieri immersi in tetro affanno, Coprir di polve il crin, squarciarsi i manti, D'Israello plorando il grave danno: Giaccion Saulle e Gionata! Gl'invitti Signori d'Israël giaccion trafitti! Cadde con essi il popolo di Dio, Cadde la casa d'Israël con essi. Lamentano i fedeli il caso rio, Stan nella polve e nel digiuno oppressi.— Ma David sorge, e l'uccisor del Sire Sconta col sangue il sacrilego ardire. Piombò volente sull'infitto brando Saul, ma il colpo vano riuscìa; Il giovin troppo ligio, al suo comando, Dell'atto infausto agevolò la via. E affondando l'acciar nella ferita All'unto del Signor rapì la vita. Punito lo stranier per l'opra atroce, Il buon Davidde ad onorande lodi Il canto mosse con solenne voce Deplorando caduto il fior de'prodi; Tal che di Giuda i figli a quegli accenti Nel tender l'arco si rendean valenti. O gentil d'Israëllo almo paëse, Sull'alture scoscese Gli estinti prodi giacciono! Deh! come i prodi tuoi cadder così? A rapportarlo in Gat nessun s'attenti! Le novelle dolenti D'Ascalon non risuonino Nelle piazze superbe e popolose! Di Filiste le spose E le vergini audaci Non gettino su noi scherni procaci! Al fero nunzio non ne menin vanto Nel tripudio nel canto De'gentili le floride Figlie, beate al duol che ne colpi! O monti ardui di Ghilboa! non v'irrori Coi benefici umori Rugiada fresca e limpida; Nè a fecondarvi l'util pioggia scenda, Nè in cima a voi distenda Zolle di fior smaltate Campo ove addur le offerte consacrate. Quivi de'prodi giacque in aspro ludo Il luminoso scudo: Lo scudo di Saul, qual se di nitidi Ulivi non l'ungesse il sacro umor. Non mai volgeasi l'infallibil arco Del mio Gionata scarco, Se prima in viva porpora Tinto non era nel nemico petto Il forte strale eletto. Nè di Saulle inulto L'acciar redìa dal marzïal tumulto. Saul, Gionata, ornati in vita loro D'amabile decoro, Come indivisi vissero Furo indivisi nella morte ancor. Più dell'aquile ardite eran veloci, Più di lion feroci Eran gagliardi e intrepidi. O figlie d'Israël, Saul piangete, Omaggio gli rendete! Ei che di ricchi manti Bellissime vi fece e folgoranti. Di scarlatto ei cingeavi fra gentili Delizie, e di monili Aurati le volubili Vesti, e l'agili membra vi fregiò. Oh! come giacquer nella pugna i prodi, Usi a trionfi, a lodi? Come fu ucciso il nobile Gionata sulle tue vette scoscese, O d'Israël paëse? Gionata, fratel mio, Per te distretto nel dolor son io! Per tua cagion mi struggo in pianto amaro, O riverito e chiaro, O desïato giovine All'alma mia che fida ognor t'amò. Oh qual alta amistà teco annodai! Più dolce m'era assai Dell'amor che fra i palpiti Per vaga donna ne divampa in core! Come de'prodi il fiore Così giacque, c i temuti Saldi arnesi di guerra ahi! son caduti?
Disserra, o Nume provido, Le tue superne sedi, E copïose e valide All'uopo ne concedi Pioggie, che i semi avvivino E producan di germi util tesor. Primordïal benefica E tarda pioggia invia, Che renda il suol più fertile, Ed ogni stilla sia Fecondatrice, e agli alberi Pingue di frulta e foglie accresca onor. L'aita tua sollecito Ne manda pria che spoglie Tramutino, e volubili Cadan le ombranti foglie: A nostro prò rammentati Chi Beersaba d'alberi piantò. Delizïoso e florido Ergi il tuo bel giardino, Il verzïer per vividi Granati porporino; All'almo Tempio riedere Fa la splendida gloria onde brillò. Ristabilisci l'inclita Cittade in cui ristette Davidde, e la fortissima Torre ove schiere elette Salìan di prodi armigeri De' baldi passi al fragoroso suon. Di merli minaccevole Ghirlanda la cingea; Di mille scudi un ordine Superbo vi pendea: Accorreranno rapide Al magno asilo intere nazïon. Tu che di nubi i limpidi Cieli sereni ammanti, E le stagioni equabile Guidi nei giri erranti, Onde al prefisso termine Movon secure avvicendando il vol; Apri, o Signor, dell'utili Pioggie il tesor fecondo; Ed i crëati esultino, Tutto s' avvivi il mondo; Tu che sprigioni l'impeto De'venti e d'alme stille irrighi il suol. A te, Signor, si volgono Dall'uno all' altro polo Belve, ed umani innumeri: In te sperando solo, Tutta la terra volgesi Fidente e disïosa al suo Fattor. Tu che de' venti rapidi Il grave soffio desti Nelle stagioni cognite Che ad essi concedesti, E colle pioggie valide Rattempri della terra il troppo ardor, Apri, o Signor, dell' utili Pioggie il tesor fecondo, Onde i crëati esultino, Tutto s' avvivi il mondo; Tu che sprigioni l'impeto De' venti e schiette fai pioggie stillar. Ogni terreno squallido, Ogni inamabil sponda All' alïar del provido Tuo vento si feconda, E si converte in florido Irrigato giardin l'occhio a bear. Uomini erranti e poveri, Belve bramose invano, Che a tue dovizie agognano, Se la benigna mano Largo vorrai dischiudere Grati satolleransi de' tuoi don. Apri, o Signor, dell'utili Pioggie il tesor fecondo, Onde i crëati esultino, Tutto s'avvivi il mondo; Tu che sprigioni l'impeto De'venti, e sciolte per te l'acque son. I sitibondi ed aridi Solchi, già già deserti Dell'erbe liete e morbide Ond'erano coverti, Del culto fien, del rapido D'aurate messi instabile ondeggiar, Per la tua man benefica Ancor rifioriranno, E di bei germi vivido Ammanto vestiranno; Così ti piaccia l'inclito Sembiante della terra rinnovar. Padre e Signor, che facile Stendi il perdon su noi, In tua pietade libera L'alma de'fidi tuoi Da insidïosi vincoli; E benchè integro non abbiamo il cor, Mentre emendiamci unanimi Tu compi il divo accento: Darò alla terra provido Di pioggie nutrimento Ai primi giorni tepidi, E ai tardi giorni d'autunnal pallor. Tu che di nubi i limpidi Cieli sereni ammanti E le stagioni equabile Guidi nei giri erranti, Onde al prefisso termine Movon secure avvicendando il vol, Apri, o Signor, dell'utili Piogge il tesor fecondo, Ed i crëati esultino Tutto s'avvivi il mondo; Tu che sprigioni l'impeto De'venti e d'alme stille irrighi il suol. Mio Dio, che i detti fervidi Del labbro comprendesti, E preferisci i cantici Che in bocca mi ponesti A ricca merce, e i cupidi Solerti passi miei drizzi ver te; Tu che m'assenti facile Gola inesausta ognora, Pronta a invocarti supplice, Nè fioca mai sinora Pel troppo assiduo volgersi A tua pietade onde implorar mercè; Tu che mi tergi l'anima D'ogni rea labe, ond'ella È pari a lana candida Immacolata e bella, E i palpiti cessarono Che il paüroso core m'assalir; Sii tu, Signor benefico, Perenne e salda aìta Siccome fosti, e nobile Sostegno di mia vita; Me di tua grazia illumina; Scudo e difesa mia, non differir. I cari tuoi satollinsi Per la tua man feconda, Si sazii d'acque limpide La terra sitibonda; Invia riscatto e giubilo A quei che doppia angoscia sopportar. Mentre due giorni volgonsi Chiamane a nuova vita; O Dio vivente, schiudasi Tua ricchezza infinita, Ed i tuoi venti spirino, E veggansi le schiette acque stillar. Con pioggie favorevoli Il popol tuo ristora, Che, avviluppato in torbidi Affanni, s'addolora Come raminga passera Di lacci indegni circondata il piè. Del patrïarca i meriti Presenti al tuo cospetto A nostro prò rammentati, Che il genïal banchetto Di preparar compiacquesi Ai divi ospiti suoi con santa fè. E a lor movendo amabili Detti con blanda fronte, Sclamava: l'acque limpide Siano ai lavacri pronte. Deh! pel suo merto spirino I venti, e stillin l'alme pioggie alfin. Fecondatrici e valide Pioggie i terreni adusti A ravvivar fa scendere Dai cieli tuoi vetusti, Ove tu regni, o massimo D'alti portenti operator divin! E di colui per l'inclito Merto che avvinto stette Del Moria sulle ripide Per lui famose vette, E fè dell'incrollabile Sua virtù l'ampio mondo risuonar. Poscia redento ai placidi Suoi padiglion riedea E in Palestina solidi Pozzi scavar si fea, Utili venti spirino Possano l'alme pioggie distillar. Di libertà fa splendere A tuoi fedeli un raggio, Di pace accorda al popolo Amabile retaggio; E del tuo santo spirito Partecipe lo rendi in tua pietà. Pei merti, o Nume altissimo, Dell'uomo integro e pio Che delle verghe morbide La facil buccia aprìo, E collocolle provido U'a dissetarsi all'onda il gregge va, O Dio vivente, piacciati Schiuder l' eccelsa stanza, De' tuoi tesor mirifici Diffonder l'abbondanza, Onde i tuoi venti spirino E stilli delle nubi il fresco umor. Spargi la luce splendida Del tuo divin sembiante Sul derelitto popolo Smarrito ramingante, Che a te si volge, e in gemiti Da te implora salute, alto Signor. Ahi! d'ogni parte attornianlo I lacci di sventura! Tutta ei colmò la torbida De'mali atra misura Ed a salvarlo indugiasi La suprema giustizia che lo può! In grazia di quell'umile Che Faraon fuggiva E stanco riposavasi D'un pozzo d'acque in riva, Veloci i venti spirino, Sciolgasi in pioggia il nembo che addensò. Dalle tue sedi l'argine Ritogli, onde qual tenda S'ammanti il ciel di nugoli, E in folti gruppi scenda L'irriguo umore l'arida E sitibonda terra a rinfrescar, Onde s'abbella, e fertile Lieti tesor produce; E per l'invitto merito Del savio accorto duce Che il labbro aprìa profetico E tal s'udiva al popolo sclamar: Nuova fiala arrechisi Di sal ricolma: e tacque; E al rito inenarrabile Salubri si fer l'acque; Deh! sua mercede, spirino I venti e stillin l'alme pioggie alfin. Di bei germogli allegrisi La terra fecondata, Sia tutta di fruttiferi Arbusti coronata, E colle tue mirifiche Pioggie alimenti il verdeggiante crin. Deh! accogli i voti fervidi Dell'anime dolenti; Arridi, o potentissimo, Ai disïosi accenti; O forte, eccelso, ed unico De' vasti mondi eterno animator! E per te stesso piacciati Ver noi piegar la fronte, Tu che fai l'acque limpide Sgorgar dall'aspro monte; Utili venti spirino E stilli dalle nubi il fresco umor. O Nume eccelso, in tua giustizia pio, De'padri nostri e nostro sommo Iddio! Pioggia di luce provido disserra, E illumina la terra. Con miti pioggie di secondi auspici La terra benedici. Pioggie di gioja provido disserra, E allegrisi la terra. Con pioggie d'esultanza il suol feconda, E de'tuoi ben l'innonda. Pioggie di gloria provido disserra; Glorifica la terra. Con pioggie di precetti utili e buoni La terra, o Dio, disponi. Pioggie di salmi dal tuo ciel disserra; Fa salmeggiar la terra. Deh! con pioggie ristorisi di vita La terra inaridita! Pioggie di ben, provido Dio, disserra; Benefica la terra. Con pioggia di salute, o Nume santo, Salva la terra in pianto. Di nutrimento pioggie, o Dio, disserra A sazïar la terra. De'padri nostri e nostro sommo Iddio, Grande in clemenza ed in giustizia pio, Che l'impeto de'venti alto diffondi, E il suol di pioggie innondi; Deh! fa che in luce scenda ed in contento, In gloria, in lieto evento; In santa gioja, in utili precetti, In vita, in salmi eletti; In letizia, in salute, in abbondanza, In provida speranza. Tu che il soffio de'venti alto diffondi, E il suol di pioggie innondi; De'padri nostri e nostro sommo Iddio, Grande in clemenza, e in tua giustizia pio! Quei che Signor s'appella Con facile favella Devoto esalterò: L'invitta sapïenza, L'amabil tua clemenza, Signor, non tacerò! Tosto che il suo gran nome Giunse all'orecchio mio Non surse dubbio rio La mente a intorbidar; Nè chiesi prove, o indocile Mi spinsi a interrogar. Ah! si vil creta come Potria levarsi tanto, Chieder de'santi al santo Al proprio crëator: Che fai? perchè tal operi? Con orgoglioso cor! Sempre che lui cercai Benigno il ritrovai Volto rincontro a me. Ei mia difesa accorre, È inespugnabil torre, Rocca secura egli è. Luce perenne, chiaro Splendor diffonde intenso; Vapor non ha sì denso Che il possa minuir; Non è frapposto nugolo Che il faccia impallidir. S'esalti il nome caro Siccome è a noi concesso, Venga dal labbro espresso Dell'anima il fervor; S'encomii, si glorifichi L'altissimo Signor! Tua gloria maëstosa, Tua mano vigorosa, Che stanca mai non fu, I cieli manifestano, Onniscïente attestano L'eterna tua virtù O la sublime volta Splendido sole ammanti, O rida d'astri erranti Il luminoso vel. E quei che invïolabili Vanno tra il foco e il gel, Gli angioli fidi, ascolta Plaudir con divi accenti, Al cenno obbedïenti Che movesi da te, Il senno indeffettibile Dell'ineffabil re. Re non mai stanco ei regge Con sua divina legge L'ampio universo inter, E all'opera infinita Non cerca estranea aita, Ma basta il suo voler; Ei con supremo vanto Governa terra e cielo; Chi cinge etereo velo, Chi veste il corpo fral; I suoi celesti eserciti, Il trono senza ugual. S'esalti il nome santo Siccome è a noi concesso, Venga dal labbro espresso Dell'anima il fervor; S'encomii, si glorifichi L'altissimo Signor! Qual mai labbro eloquente E a definir valente Cotanta maëstà? Di lui che i cieli tese Con sapïenza, e apprese Al mondo verità? Del sommo Ente perfetto, Vestito di splendore, Nell'inclite dimore Celato al guardo uman? Che i voti ascolta fervidi, E non li ascolta invan? Di lui che d'almo affetto Beava il buon legista E volle alla sua vista Il divo aspetto offrir? Nelle sue tende piacquesi L'alta sua gloria offrir. Nel profetico lume Ivi gli apparve il Nume, Nè forma tramutò; Nel suo fulgor gli apparve, Non cinto d'alte larve A lui si rivelò. D'altri profeti al chiaro Spirto si fè palese, E il grande aspetto prese D'eccelso, illustre re; Ma schiuse l'ineffabile Sembiante al pio Mosè. S'esalti il nome caro Siccome è a noi concesso, Venga dal labbro espresso Dell'anima il fervor; S'esalti, si glorifichi L'altissimo Signor! Chi d'adeguati accenti Gli eterni suoi portenti Facondo vestirà? Chi narrator fia degno Del suo celeste regno? Lodarlo chi potrà? Beato l'uom che in cima D'ogni più dolce obbietto, D'ogni gentil diletto L'alma sua gloria pon, E canta l'opre splendide Con inspirato suon! E fa sua cura prima L'onnipotente Iddio, In lui confida pio Che regge terra e ciel; L'esalta, lo magnifica Coll'anima fedel; Con sante voglie pronte Piega l'altera fronte Ai cenni di lassù; I gran giudicii adora, Umil confessa ognora Ingenuo in sua virtù, Che pel divino vanto Crëati i mondi sono, E al suo tremendo trono Trarrà l'Eterno un dì L'opera immensa e varia Che da sue mani uscì. S'esalti il nome santo Siccome è a noi concesso, Venga dal labbro espresso Dell'anima il fervor; S'esalti, si glorifichi L'altissimo Signor! Tutta, o mortal, la possa Dell'anima commossa Raccogli a meditar; Disponi il dubbio core, Lo cingi di vigore Te stesso a consultar. Pensa, o mortal, chi sei, D'onde l'origin traggi; Chi ti costrusse e saggi Consigli preparò, E di scintilla insolita Tua mente illuminò. Ed a qual forza dèi, A qual portento ignoto L'aura vital che il moto Agil propaga in te; I bei prodigi medita Con piena e salda fè. Su via riscuoti l'alma, In troppo inerte calma Non lasciala languir; La desta dal letargo, Chè a lei t'è dato largo Sublime campo aprir. L'opre supreme, il chiaro Splendor contempla; solo Frena l'ardito volo, Troppo non indagar In ciò ch'ei vuol di mistiche Tenebre circondar. S'esalti il nome caro Siccome è a noi concesso, Venga dal labbro espresso Dell'anima il fervor; S'encomii, si glorifichi L'altissimo Signor! O Signore, ch'è l'uom? Di carne frale E di sangue natura lo vestì. Fuggon ratti com'ombra, e la ferale Ora inattesa guidangli i suoi dì. Repente giunge la sua fine: ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. O Signore, ch'è l'uom? Vil corpo, cui Convien coprir d'oltraggi e conculcar; Di vïolenza amico e inganni bui, Inique frodi intento a meditar. Qual fior caduco ei spunta, e non appena Alto si leva il sole, non è più. Di lui che fia se offuschi la serena Sembianza e il chiami al gran giudicio tu? Se di sue colpe il chiedi, nel volume Eterno di tua man segnate già, Come regger potrìa, possente Nume, Alla grand'ira che confin non ha? Di tua collera allenta il pronto dardo; Deh! non trabocchi l'alto tuo furor! Clemente gli consenti un tuo riguardo, D'alma pietade lo conforta ancor! Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. O Signore, ch'è l'uom? Nel fango aggira L'orme fallaci, e vi s'immerge alfin; Menzogna segue, e dietro a lei delira, È vanitade scorta al suo cammin. Quant' è quaggiuso nobile e gentile Contamina col tocco di sua man, E obbietto rende dispregiato e vile Quant'era bello e prezïoso invan. Se d'austero rigore, o Dio, t'ammanti E del malvagio oprar chiedi ragion A crëature stolte e balbettanti, Qual erba secca al tuo cospetto son, E qual germoglio gracile reciso Di sovrastante falce al ratto vol. Sia da pietade il tuo furor conquiso, Tregua consenti all'affannoso duol! Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell' eterna pace. O Signore, ch'è l'uom? Spirto superbo Che mai non piega a pentimento il cor; D'ogni ingenua virtù nemico acerbo, Ei di malizia sugge l'acre umor. Esca gli è grata di perfidia il pane, Infido e procelloso è come il mar: Da folli suoi pensier non si rimane, Com'ardente fornace ardente appar. Se di sue passïon l'impeto insano In cui tutti raccoglie i suoi desir A investigar tu prendi, ei spera invano Dall'inegual tenzone integro uscir. Ma come un fiacco che un valente affronta In difficile lotta, ei perirà; Deh! sommo Iddio, la tua mercè sia pronta, All'opre sue perdona in tua pietà. Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. O Signore, ch'è l'uom? Abbominando, E sozzo, e tutto dì dubbio e sleal; Suoi torbidi pensier va meditando, Gli avidi sguardi tende e cerca il mal. Se a lui chiedi ragion dell'inoneste Opre sue, ne l'incoglie aspro terror; D'onta è cosparso, e qual logora veste, Qual fumo lieve è dissipato allor. Vedi! cosa, o gran Dio, tanto meschina Della collera tua degna non è! A clemente perdono, o Dio, t'inchina; L'espïazion ne accogli, usa mercè. Pietoso guarda, o Dio, chi di vil creta Construtte case sua dimora fa; E intende gli occhi a più superba meta Mentre sua base nella polve sta. Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. O Signore, ch'è l'uom? Pianta troncata E di sue frondi priva; e se talor Medita il pondo delle sue peccata, Atterrito dal sen gli fugge il cor. Qual secca foglia stritolata in mille Frantumi minutissimi divien; E piangerà con inesauste stille Di quanto un tempo il fè beato appien. In quel dì paventato, in ch'egli fia Qual da tignuola roso, acerbo dì! Se a lui chiedi ragion dell'opra ria Invan d'oltracotanza ei si vestì. Qual lumaca dissolvesi, e qual cera Liquida e molle al tuo cospetto appar; Deh! il risparmia, Signor; mercede ei spera, Addentro l'opre sue non ricercar. Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. Signor, ch'è dunque mai l'egro mortale Se pienamente l'abbandoni a sè? Come dal turbo instabil foglia e frale Di colpa in colpa trabalzato egli è. Se tu lo libri in infallibil lance D'ogni più vana cosa è più legger; Pur d'inganni si nutre e folli ciance, Son pieni di nequizia i suoi pensier. Qual di piumati polli colma stia, Tal è pieno di frodi e d'empietà; Se glien chiedi ragion, di lui che fia? Qual labil fumo dissipato andrà; E qual tarlato panno ei fia distrutto; Onde il risparmia, o provido Signor! Nol giudicar com'è di colpe brutto, Ma il giudica secondo il tuo favor. Repente giunge la sua fine; ei giace E s'addormenta nell'eterna pace. Un insüeto ardore, Un ineffabil palpito M'empie di gioja il core Allor che volo memore Al dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; E intuono mesti lai E pietose canzoni di dolor Se il giorno ch'esulai Da te, Sïonne, si rammenta il cor! Cantava un inno altero, Ch'eterno incancellabile Fia nell'uman pensiero, L'alto Mosè nel mistico Giorno del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; E Geremia con metro Lugubre risuonar suoi canti fè Nel di penoso e tetro Quand'esulai, Sïone mia, da te. In mezzo a genti elette S'eresse il Tabernacolo, E sovra gli ristette La diva nube splendida Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; La collera di Dio Qual nube si distese e mi colpì Terribile quand'io Lasciai Sïonne nell'infausto dì. I flutti a me dinnanti Quai mura eccelse stettero Immoti e torreggianti, E il varco mi concessero Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Impetüose apriro Sgorgo improvviso l'acque in forte suon, Sul capo mio saliro Quand'esule io fuggìa la mia Sïon. Di manna util tesoro Piovea dal cielo, e limpido D'acque gentil ristoro Sgorgar le scabre selici Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Assenzio ingrato, amara Onda piovea, malefico velen, Quand'io, Sïonne cara, Lagrimando esulava dal tuo sen. Lieto l'intero giorno Mi trascorrea dolcissimo Al monte Orebbe intorno, Fra l'ombre altere e placide, Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscia del fosco Egitto; Sui fiumi di Babele Luttüoso alternavasi clamor Quand'io tetre querele Fuggendo da Sïon ruppi dal cor. La gloria del Signore Suprema, inenarrabile, Qual foco voratore, A me dinnanzi ergevasi Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Tremendo acciar fu presto Allo sterminio nell'infausto dì Quand'io fuggiva e il mesto Estremo addio la mia Sïonne udì. Devoti sacrifici, Oblazïoni mistiche, Di sacro olio felici Aspersïon balsamiche Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Digiuni, e tetri omei, Ed incessabil lutto, e iniqua fè Sacrata a falsi Dei, Quando, Sïonne mia, fuggii da te. Com'eran belle e altere Le tende del mio popolo, Divise in quattro schiere Con ordine mirabile, Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto! E d' Arabi funeste Belliche tende, e d'armi alto fragor, Nemiche schiere infeste Quand'io fuggiva da Sïonne fuor. E giubileo solenne, Beato anno sabbatico, E di pace perenne Belle dimore amabili, Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. In schiavitude ria Cacciati, atra ruina ne' colpi Quando la dolce mia Sïonne abbandonai nel tetro di. L'arca temuta e cara, Nunzia di pace al popolo, Le pietre ch'ogni chiara Alta memoria eternano, Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Pietre micidïali, E di morte stromenti e di terror Allor che di ferali Pianti, Sïon lasciando, alzai clamor. Leviti venerandi, A Dio fedeli nobili Sacerdoti, di grandi Senatori bel numero Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Oppressori e nemici; E orribile mercato si compiè Quand'io con tetri auspici Torcea, fuggendo, da Sïonne il piè. Mosè supremo duce Mi dirigea magnanimo, Vedea d'Aron la luce A guida innanzi splendermi Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Ahimè! Nabucco rio E l'indomito Cesare Adrian Cacciavanmi quand'io Lasciai Sïonne, lagrimando invan. All'ardua pugna presti Ne invigorìa l'Altissimo; Fummo ai nemici infesti, Ch'Ei ne sorresse provido Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; Immemore e lontano La divina ascondea faccia immortal Quand'io, pel duolo insano, Da Sïonne fuggìa nel dì feral. Il santüario avito Velavan tende mistiche, Compiasi il divo rito Con sacre pompe splendide Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. La collera celeste Tutta sul capo mio si rovesciò, Ammantommi qual.veste Dal dì che da Sïonne esule vò. Devoti sacrifici, Olocausti santissimi, Di venturosi auspici Sacrati fochi limpidi Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto; E di Sïon trafitti Gl'incliti figli dal nemico acciar Quand'esulando afflitti Omei, Sïonne mia, m'udisti alzar. Reverende tïare Con pompa alta e magnifica Ornavano le chiare Fronti de'gran pontefici Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Ululi, scherni atroci, E di bestemmie e strida orrendo suon Quand'io con fioche voci Ti salutai fuggendo, o mia Sïon. Aurato dïadema, Gloria, ricchezze, ed inclita Dignitade suprema, Potenza eccelsa, massima Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Speme d'aita invano, Rejetta la corona e infranta al piè Quando, pel duolo insano, Fuggìa, Sïonne mia, lunge da te. Santitade, onorandi Alti spirti profetici, Del Nume venerandi Apparimenti splendidi Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Ahi! nefande sozzure, Di malefici spirti empia tenzon, Tenebrose paure Quand'esule io fuggia l'alma Sïon. Vittoria, illustri vanti, E fragoroso bellico Suono d'arditi canti, Guerresco altero giubilo Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Di pargoli innocenti Strida angosciose, e squallido terror, Gemiti di morenti Quand'io fuggiva da Sïonne fuor! La mensa consacrata, Il candelabro mistico, E di profumi grata Offerta söavissima Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Idoli falsi, strane Abbominande cose, iniqua fè Devota a immagin vane Quand'esul torsi da Sïonne il piè. Del glorïoso Nume La legge indeffettibile, E il riverito lume De'riti sacri e nobili Nel dì del gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. De'savi eccidio rio, Olocausto non più quotidïan, Non più riti quand'io Lasciai Sïonne lagrimando invan. Ma chi solo è perfetto, Signor imperscrutabile, Fia che al nostro cospetto Lieti prodigi susciti Come nel gran tragitto Quand'io libero uscìa del fosco Egitto. Si; tornerà l'Eterno Nell'inclita Sïonne a soggiornar, Con vigile governo Il suo culto in Sïonne a rinnovar! Dicea Sïonne immersa in tetro affanno: L'empia misura de'peccati rei Già sovrabbonda, ed esuli ne vanno Di terra in terra errando i figli miei. Ma se per gran misfatti abbominata, Ahi! cruda rimembranza, io mi rendei, Ov'è, Signor, la tua clemenza usata? E rispondea l'Eterno ai mesti lai: O Sïonne, mia sede, o travïata, De'popoli corona io t'appellai; Pur negasti piegar la fronte altera A miei saldi precetti e invan parlai. Ond'io libero il freno all'ira austera Lasciai, poichè ponesti, empia, in non cale La mia legge inconcussa e sola vera. E riprendea Sïon: Mia speme frale Improvvisa vanì nel fosco orrore; Ricinse gli astri miei nebbia ferale. S'oscurò del mio Sol l'almo splendore, Degli orfani dolenti al gemitìo Cui manca per affanno ogni vigore, E van sclamando lamentosi: Iddio, L'lddio possente d'Israël la molta Antica sua pietà pose in oblìo? Il supplice dolor più non ascolta? Si fè dell'ira impenetrabil manto? Dal suo consiglio la clemenza è tolta? E all'aflitta dicea de'santi il Santo: Molte nefande colpe commettesti, Turpi fur l'opre onde menasti vanto. Del tuo fattor l'abborrimento avesti. Delle viscere tue creati i figli, I figli stessi alla ria madre infesti, Primi a tradirti furo; empi consigli Avvicendando all'inaudito scempio, Spietatamente in te fisser gli artigli. E Sïonne sclamava: Ahi! triste esempio D'ogni sventura! Ahi! qual da prima imprendo A lamentarne? Il mio deserto Tempio, O de'miei figli il luugo esiglio orrendo? O l'alta strage che tua man compìa, O santo, invitto, Signor mio tremendo? Tu che di fitti nugoli la dìa Sembianza ricoprivi, onde l'umana Preghiera non udita a te salìa? E rispondea l'Eterno: Per la vana Stoltezza tua cadesti, e tue peccata Ceppi ti furo, e tua superbia insana. Per l'orride tue colpe desolata Solitudine è il Tempio, atra ruina Da silvestri animai contaminata. Del santo tuo Signor l'ira divina Il folle ardir corregge, e l'empia ebbrezza Che a rei consigli docile t'inchina; L'improvido bollor di giovinezza Onde peccasti, al divo amante infida, Ad opre torte e niquitose avvezza. E Sïonne sclamava: Oh! chi m'affida? Oh! che dirò? Se pei miei falli è volta Mia gioia in lutto, e in angosciose strida? Vien meno il cor dilanïato: molta Doglia m'invade meditando il tetro Insolito squallor che sì m'ha colta. E vò gridando in lamentevol metro: Ahimè! la pace mia sparve qual lampo, Ch'essa m'arrida vanamente impetro! L'Eterno rispondea: Non hai più scampo; Ogni tua speme disparìa repente, E gli avversarii tuoi qual torbo vampo T'assursero rincontro orribilmente. Ammonita io t'avea de'gran perigli Con minacciosi annunzii; providente, Alternando ai terror dolci consigli, Col labbro de'profeti favellai Temuti avvisi ai travïati figli. E Sïonne dicea: Deh! quanto errai! Trista a me, per l'oscena mia sozzura, Tanto estrema ruina io ben mertai! E se i palagi miei son polve oscura Dal nemico distrutti, santa e degna Fu la terribil legge, e non fu dura. Ma se di colpe e iniquitade pregna A te dinnanzi, eppur pentita io sono, M'avrai pur sempre di pietade indegna? E sempre lasceraimi in abbandono? E rispondea l'Eterno: Oh! ti conforta; Già già t'arride il mio divin perdono; E se per l'atre colpe in ch'eri assorta Distrussi tua magion, di lume eletto Ravviverò la tua sembianza smorta. Memore guarderotti; il forte petto Ti cingerò del prisco suo valore; Fidente ascolta l'infallibil detto: Splendida sorgerai di novo onore! Sparsa d'amare lagrime Di Sïonne la figlia udii sclamar: Ahimè! bevetti il calice, E fino all'atre feccie ebbi a succhiar. Lamenti tetri e flebili Innalza la diletta al suo Signor, Cui langue fioco e pallido Quel che tanto l'ornò primo splendor; Qual donna d'atro manto Ricinta, che speranze più non ha, E i florid'anni in pianto Trae pel marito di sua fresca età. Echeggia la vetusta Del Libano foresta in roco suon, Chè i cedri ond'era onusta, Gli alteri cedri suoi cenere son. E per la diva collera La porta di Sïonne odi sclamar: L'atrio di polve oscurasi Degli olocausti mistici al cessar. E del Sinedrio l'inclita Stanza lamenta i saggi che perir; L'Aule del Tempio i nobili Ministri, e i riti cui non pon compir. Il Santüario brama Indarno l'Arca che celata sta; La sacra Tenda esclama Che inutile e spregiata omai si fa. Poichè l'iniqua mano Di barbaro nemico la squarciò, E agli occhi del profano Le recondite cose rivelò. I forbiti turiboli Chiedono in suon d'unanime dolor: Ove de'grati aromati Balsamico s'effonde il caro odor? Occupa assiduo palpito L'alma del pio ministro al rimembrar I riveriti oracoli, Che sull'augusto petto usò portar. D'insolito tremore L'altar s'agita, e chiede alfin: Perchè Scorron tacenti l'ore, E preparato il rito ancor non è? Del Levita la pia Arpa domanda flebile: Chi vien La solenne armonia, Molcendo l'aure, a suscitarmi in sen? E il Candelabro mistico Siccom'eco vicin sclamando va: Oh! chi mai la settemplice Mia luce consacrata accenderà? Luttüosa lamentasi La Tenda cui nïun solleva ancor: La diva Legge mormora Che appien cessaro i fidi suoi cultor. E convulsiva freme La Mensa cui non v'ha chi rechi il pan; Il Sacerdozio geme Pei santi uffizii che negletti van. In lagrime si scioglie La mia dolente amata nazïon, Per le rapite spoglie, Pei capi suoi languenti in ria prigion. E di salute splendido Giorno, o gran Nume, aspetta da te sol; Preda a'nemici rabidi Come augello ramingo colto a vol. Difesa e scudo valido Pur un de'molti figli suoi non ha; Non trova schermo ai torbidi Affanni se le manca tua pietà. Deh! sorgi e con benigna Fronte la guarda, altissimo Signor; Pria che dell'alma vigna Sien consumati in tutto i grappi d' or. Deh! cura l'alma pianta Che trascurata e vilipesa hai tu, Poichè si giacque infranta L'eccelsa siepe onde difesa fu. I Serafini tacquero, Tacquer gli angioli assorti in pio dolor; Nè dolci risuonavano Nelle sfere gli usati inni d'amor; Quando a domar l'audace Terra segnossi l'aspra legge in ciel; Gli angioli della pace Si fer di pianto agli occhi santi un vel; D'atro vapor si cinsero Gli astri sorgendo e mesti s'offuscar; Fin gl'immortali eserciti Di squallido cilicio s'ammantar; E le celesti fere Dolenti querelarsi anco s'udir, E incontro a lor le altere Ruote animate stridere e gemir, Nel giorno abbominevole In cui levossi la nemica man Il Santüario a struggere, Il Tempio a desolar sacrato invan. Nel di de'gravi danni, Di tenebre ricinto e di squallor, Due de'mistici vanni Perdettero le fere del Signor. In tetra solitudine Colle tristi memorie errando vò, E d'adeguati lugubri Carmi l'ombre romite alletterò. Deh! quando, amato Nume, Al Tempio ritornar ti piacerà, Ove del tuo gran lume Rivelasti l'eterna mäestà? E il cuor de'padri tenero D'amor pei cari figli farai tu, Piucchè mai fosse provido, Informato d'amabile virtù? Onde con pie melodi T'acclami eccelso il popolo fedel, E con divine lodi Belve, e coorti angeliche del ciel? Con detti lamentevoli De'Serafini il luminoso stuol, E le animate mistiche Rote, e gli angiol di pace assorti in duol, Sclamar con flebil pianto L'uno all'altro dicendo afflitti in cor: È santo, santo, santo L'eterno imperscrutabile Signor! Redir nel quinto mese Dall'alma terra infidi esplorator; Parlar con labbra accese Menzognere novelle di terror. E la diurna splendida Lampa accendeva appena il nono dì Allor che il minaccevole Mendace nunzio risuonar s' udì. Discordie e stragi intenti Nella misera terra a suscitar, Mandar tetri lamenti E l'aure dolorose v' eccheggiar. Fero le genti timide Nel mese in cui s'infiamma il sollïon; E dubbïose e pavide, Sorde d'invito generoso al suon. Nessun prode sorgea A invigorir la fiacca gente umil; Il pigro ripetea: Rugge di belve avida turba ostil. E per le vie famelico Poderoso lïon corre crudel; Ahi! dopo lunghi secoli Giorno nefasto ricondusse il ciel. Con inaudito esempio L' efferato nemico si mostrò; Fe de'lattanti scempio, Dall'aspre rupi i pargoli scagliò. O Nume eccelso, attonito Com'uom starai? Più dunque d'Israel Non membri il culto assiduo, La prediletta un dì gente fedel? Nel quinto mese (ahi dura Memoria!) ardenti strali ci colpir; Al nono giorno oscura Doglia ne invase, e strida alte s'udir. Nel sollïon un rabido Lïon rugghiò qual procelloso mar: E qual con ratti vortici Gonfio torrente s'ode rimbombar. Rugghio crudel s'udìa E di belve selvaggio aspro romor: Surse la belva ria Ricinta di minaccie e di terror. Colle zanne terribili In sanguinosi lembi mi squarciò; Di mie delizie l'ispido, Ingordo, orrido ventre satollò; Deh! la tua forza, o Nume, Palesa coll'eccelso tuo poter; Tu che celeste lume Dell'uom concedi al facile pensier. Nel quinto mese squallido: Ohimè! gridammo desolati, ohimè! Nel nono giorno un cumulo Di ruine ne colse e ne abbattè. Nel sollïon lamenti, E gemiti, e singulti risuonar; Avvi chi non paventi Se lïon formidato ode rugghiar? Ah! chi potea resistere Con impavido sen nel fiero dì, Quando la turba indomita Di furenti nemici ne assalì? Chi resister potea, S'era ministra all'ira del Signor Di que'lïon la rea Falange inebbrïata di furor? Mentre negavi ai miseri Il divo raggio della tua pietà? Deh! ne consenti un farmaco, E volto in gaudio il nostro duol sarà. E d'alti sensi, o Dio, Rinvigorisci in noi la salda fè; Ripeti il detto pio: Tornate o figli travïati a me! È questo l'atro giorno Che di mie colpe Iddio chiese ragion; Fate eccheggiar d'intorno Querele e strida d'angoscioso suon. Sì; lamentate il torbido Giorno in cui s'aggirò nunzio feral, Narrando l'infrenabile Del perverso nemico ora mortal. Rifugge alla funesta Memoria inorridito il mio pensier! Piombar qual folgor presta, Nefanda strage i miei nemici fer. Ahi! con furore indomito Dagl'imi fondamenti mi strappar; Del sacro Tempio orribili Fiamme l'eccelse porte consumar. Ahi! dal tremendo acciaro Giacquer trafitti i prenci ed i signor; Deserte rovinaro L'ampie mura con lungo alto fragor. Ahimè! distrusse l'inclito Mio Tempio l'orda iniqua, e m'atterrò Qualunque più gradevole E peregrina cosa m'adornò. E tu vedesti, o Dio, La strage abbominanda dal tuo ciel, Lo strazio mio, l'indomito D'efferato avversario odio crudel! L'eredità distrussero Del pio Giacobbe; l'inclite magion, Le contrade lietissime Per l'empia strage desolate son. Orse selvaggie, e fere Di sangue sitibonde m'assalir; Rupper le porte altere, L'antemurale e i muri demolir. Ahi! desolar di floride Cittadi la signora più gentil; E trucidava i nobili Augusti sacerdoti rabbia ostil. Nelle piazze mietea A mille a mille vite il crudo acciar; Ne'baratri scendea Inaudito spavento a sterminar. La sua pietade mancane? L'Eterno Iddio soccorrerci non vuol? O la sua mano stancasi? Sclamaro i figli di Sïonne in duol. Ahi! che alla tua clemenza Ponesti, o Dio tremendo, un saldo fren; Nè valse l'innocenza I pargoletti a farne salvi almen! Tratti prigion, le tenere Membra il fero nemico incatenò! Orda di truci barbari Nel riverito Tempio penetrò. Ahimè! l'invïolato Nostro presidio e primo nostro onor Giace contaminato, Il Santüario che vietasti a lor! Sïon con voce flebile: Sventura a me! dicea, sventura a me! L'Eterno più non curami, Forti ed invitti i miei nemici Ei fè! Ahi! le vergini mie Fur tradotte in orrenda servitù; Tolti alle madri pie, De'pargoletti orrida strage fu. Oh! se narrate ai posteri Fosser le tristi mie vicende un dì! D'onte e d'affanni lugubre Ordin non interrotto a me s'apri. Palpito m'ange amaro Di dolore presago all'avvenir; Le spranghe mie sprezzaro, L'augusto Santüario mi rapir! Ahimè! voi tutti ditemi, O miei fratelli, o amiche; evvi dolor Che adeguar possa l'orrida Angoscia onde mi opprime il mio Signor? Orfana derelitta, Mentre pur vive il padre mio, son già: E fino a quando afflitta La tua collera, o Dio, mi lascierà? Fin quando, o Nume altissimo, La tua clemenza invocheremo invan? E gl'inimici il nobile Prezïoso retaggio struggeran? Mira gli affanni, il pianto In cui ravvolto senza speme egli è; Consenti, o Nume santo, Che alfin redenti ritorniamo a te! Signor, tu se'il mio Dio; Te quando aggiorna io cerco nel paëse Del mio dolor, u'd'aspro giogo e rio Sopporto atroci offese. Innalzo ai monti il guardo Mirando seppur giunge il mio soccorso, E d'onde viene, e perchè vien sì tardo, Ne affretta l'util corso. Te l'anelito ardente Ricerca del mio core a te rivolto; Deh! mi concedi, o Signor mio clemente, Or ch'ogni ben m'è tolto, D'offrirti la mia prece! In questa in cui travaglio orrida guerra Solo in te, gran fattor sperar mi lece Del cielo e della terra. Tu ne soccorri, o Nume, Dell'avversario a fronte; ch'è fallace Dell'uom l'aìta, e di sua mente il lume E vanità fugace. Concedi al servo umile (Ed ei vivrà) grazia sì dolce e pia; E di quest'alma un farmaco gentile Sani la piaga ria. Alto Signor, ti piaccia Di liberarmi da sì fosca sorte! Deh! t'affretta, Signor, pria ch'io soggiaccia Misera preda a morte. L'anime nostre oppresse Stan nella polve per l'impeto audace Di chi, stolto! rincontro a te s'eresse Sacrilego e procace. Deh! tu sorgi e n'aìta; Tu ne soccorri, e statti a me presente Quand'io t'invoco, o forte di mia vita, O redentor clemente! O soccorrevol Dio, M'ascolta, e di pietà m'apri la fonte; Mi proteggi, ond'io volga al fero mio Nemico alta la fronte. E a chi d'obbrobrii, fello, Mi coprirà per tua mercè risponda: Che tua pietade è schermo all'orfanello, E provida il circonda. Quei che agli estremi lidi Dell'ampia terra van peregrinando Mandan tetre querele, e pianti, e stridi Pel Tempio venerando. Il cor nostro anelànte All' Eterno si volge desïoso; Ei non dubbio soccorso al perigliante, E scudo luminoso. Di que'raminghi fioco Manca l'accento nel gridar: Tu sei Mia sola aita, e te soltanto invoco Con tutti i preghi miei. Tu che pietoso e santo Liberi il poverello derelitto, E volgi in gaudio l'affannoso pianto Dell'uom deserto e afflitto. Propizio ascolta il tetro Clamor, mi salva alfin che tuo son io; Te, Dio di mia salute, umile impetro, Tu ch'ergi il capo mio! Alto soccorso il Nume Guarda l'anima mia ne'rei perigli; Deh! volgi, o Dio, della tua grazia il lume Di Giuda ai mesti figli, Sicchè all'ombra securi Viviam di tue grand' ali. L' armi ultrici Deh! fa nostra difesa, onde s'oscuri La gloria de'nemici. Crescan floride messi, Abbondanti alimenti a lor serbati; S'ergon la voce nel dolore oppressi, Risorgan consolati. Poichè tu fosti, o Santo, O massimo rettor, pietoso ognora A'padri nostri, e ognor ti trova accanto Chi fervido l'implora.

Fine.

Nicaule Pag. 9

Rebecca Pag. 163

La morte di Giacobbe Pag. 177

Il Cantico di Davidde Pag. 187

Inno per implorare la pioggia Pag. 193

Inno a Dio Pag. 204

Sull' uomo Pag. 211

Elegie su Gerusalemme Pag. 216

D'anonimo Pag. 224

Probabilmente di Giuseppe Kimchi Pag. 228

Si crede di una figlia di Giuda Levita Pag. 231

Di David di Eleazzaro Bako Pag. 233

D'incerto Pag. 236

Preghiera a Dio Pag. 240

ERRATA.CORRIGE.
PAG. 23. Selciate son di cedro;Selciati son di cedro;
PAG. 34. Clemenza a manca vienleClemenza a manca vienti
PAG. 43. Chè la gelosa angoscia alcunaChè la gelosa angoscia nulla
PAG. id. Chè pur penètraChe pur penètra
PAG. 46. E l'altra donnaE l'alta donna
PAG. 53. Nobile ingegno e altri sensiNobile ingegno e alteri sensi
PAG. 57. Mirasti nel giardin fiorentoMirasti nel giardin florente
PAG. 63. Ogni suprema cura, ogni alto incarco.—Ogni suprema cura, ogni arduo incarco.—
PAG. 98. Allo fragoreAlto fragore
PAG. 101. Le sue gioieLe pie gioie
PAG. 102. Innefabil letiziaIneffabil letizia
PAG. 104. Orbata io son dal validoOrbata io son del valido
PAG. 114. Stan sull'ardentiHan sull'ardenti
PAG. 123. Uguali a quelle dell'arcana e santaUguali a quelle dell'arcana e sacra
PAG. 150. Corse alle turbePorse alle turbe
PAG. 165. Uscieno, ed altre dai vignettiUscieno, ed altre dai vigneti
PAG. 173. Come agnelettaCome agnelletta
PAG. 180. Dovizia gravi.Dovizia gravi