SERMONI
DI
IPPOLITO PINDEMONTE
DI GASPARO GOZZI
DI
GIUSEPPE ZANOJA
E
DI TERESA ALBARELLI
VORDONI.

MILANO
PER GIOVANNI SILVESTRI
M. DCCC. XXVI.

SERMONI
DI
TERESA ALBARELLI
VORDONI

MILANO
PER GIOVANNI SILVESTRI
M. DCCC. XXVI.

Ecco Dicembre, ed ecco brevi giorni, E sacre a voluttade od ai sbadigli Eterne sere. Non ha il servo ancora Le tavole levate, è notte: il lume Tu chiedi e vai, chè in solitaria stanza Ti conduce il dover: sola io mi seggo Presso al cammin, e del ginocchio al braccio, Al mento d'una man fatto sostegno, Sonnecchiando, con l' altra ora le molli, Or la paletta prendo, e tratto tratto Vado sbraciando od attizzando il foco. Vedi gioconda vita! io compiangeva Ne' miei primi anni le artigiane donne Quando udiva di lor, che alle faccende Sorgon col sole, e van col sole a letto. Si anch'io faceva; chè la buona madre, Come abbujava, di bollito pane E cotte mele fanciullesca cena Solevami apprestar, e poscia orando Mi conduceva a ritrovar domani: La seguiva ingrognata, in cor bramando Vegliar con la sorella. Ah! m' ingannava A partito in quel tempo; or mi tradisce La folla dei pensier, l' uno sull' altro Accavallati sì, che invan riposo Cerco sovente nella tarda notte, E lunghe ore m'annojo. — E tu lavora, Cuci, ricama. — Trattar l'ago e il filo Non m'è grave nel dì; ma da lucerna Opre queste non son. — Leggi. — Tu sai Se de'nostri miglior le dotte carte Volgo e rivolgo; ma pur sai che torna In fastidio ogni troppo. — E tu le Muse, Che avverse non ti son, fa che la noja Rimovano da te. — Ben di': qua presto Il calamajo. Or taci. Ho in man la penna. — Ma che scriver non so: manca il soggetto, Mancano le parole. — Oh donde avviene Che argomento non trovi? Il mondo intero Più materia non ha, su cui tu possa Quattro versi dettar? — Sono infiniti, Egli è il ver, gli argomenti; ma gl' ingegni Tutti eguali non sono, e al buon volere Il valor non risponde: nella mente Cento progetti accolgo, e cento a un tratto Dalla mente discaccio. Epica tromba, Perchè squilli sonora, vuol esperte Labbra e polmon robusto; e chi potria Cantar qual' arse del divin Pelide Vendetta in cor, quando da' Teucri estinto Patroclo ei seppe, e quale orrendo un grido Mettesse allora, onde i trojani petti Tutti tremaro, ed ai destrier sul collo Per lo spavento si rizzâr le chiome? Nè men fa d' uopo per descriver fondo All' universo, e scender negli abissi A noverar de' rei l' eterne pene, Poi, per lo calle del dolor che spera, Salire in Cielo, e l' incrëata luce Farne patente del SIGNOR DEL MONDO. Argomento sublime egual richiede Sublime ingegno. — E tu l' esempio segui De' lirici pöeti. — È pöesia Codesta degli affetti: averli in core Pria si dee, poi dettar, finger non mai, Nè a me finger convien. — Dunque tu, amica Dell' Orazio dell' Adria, a che lo stile Che gli fe' tanto onor non segui? — È vero; Ma al par di lui poss'io gridar la croce Addosso ai mille ch' oggi son pöeti, E dir com' entro alla castalia fonte Chi sol de' versi la misura e il suono Conosce, o s'imbrattò presso al buratto De' riboboli antichi, or si sciaguatti? Chi se' tu? mi diranno; e qual ne desti Saggio del tuo saper, che a noi mäestra Sorgi, e sputi sentenze? — Altro argomento Ne presti dunque il battagliar de' dotti: Si scenda nell' agon di questi nuovi Gladiatori, veggiam la sanguinosa Pugna, che mai non resta, o alfin non giova Che a sollazzar la letteraria plebe. — Ma s' io dirò, che degl' ingegni madre Fu la critica un tempo, e obbedïenti Avea figliuoli, che prendeano a grado Le sue parole, ad avanzar nell' arti; E ch' oggi tutti, di pupillo usciti, Scuotono il fren materno, e fan dell' arme Il viso, tosto che garrirli ardisce; O se dirò, che del saper consorte Fu già tal madre, e a cui la vuole adesso Disgiogata s' accoppia; che conforto Più di ragion non han suoi detti, e ai figli Di veleno mortal mensa imbandisce, Da invidia preparata, che persegue Oltre la tomba chi ha di grande il nome; Vedi, m'udrò sonar, donna che appena Squadernò due volumi, de' censori Fatta è censor; tanto di sè presume, O con tai detti di cansar si spera Della critica il marchio? O saccentuzza, Miglior senno farai, se ragionando Verrai di nastri e cuffie, onde a gran pezza Prì ti conosci. — Ebben, dunque si parli Di cuffie e nastri. Non si tardi: entriamo In uno di que' tanti vota-borse, Che fondachi son detti. Oh qual soggetto Mi porge solo il soffermarmi all' uscio! Ma se al sermon l' affido, o se il sermone Mi trascina più addentro, e fa ch' io spinga Curïosa lo sguardo in sui quaderni Del vencitor, io vi vedrò segnate Sentenze di mariti, alle cui case È terremoto, ed è tempesta ai campi L' eterno varïar de' figurini; Io vedrò come le sagaci spose, Per piacere ai consorti, volar fanno Corrieri per l'Italia, o vêr la Senna, A saper pria dell' altre di quai panni, Di quai cappelli o trine instabil moda Verrà tra poco a ridestar l' andazzo. Ma taci, udrò gridare, al par di queste Non vai; perchè mal grado tuo ti frena Il non poter: a te parlar di donne Forse convien? Il biasimo non vedi, In che sarai condotta? — Il veggo: dunque Agli uomini torniamo; i lusinghieri Sieno a' miei versi têma; i lusinghieri, Che a cintola il rasojo, in bocca il mele, Han per costume a tal, che mai sul labbro Lor non deriva il cor; ma questo e quello Piaggiando vanno, e nell' altrui segreto Tentano entrar, per poi svelare arcani, Macchie scoprir, ed, ove il destro venga, Fino colpe inventar. Ma già una voce Sento gridar: — di chi favelli adesso? Non rispondi? il sappiam: con tal crucciata A lui l' attacchi. — Invan protesto, giuro Che crucciata non son, che il vizio sferzo, Che a null' uomo l' attacco; ho bel che dire, Predico a' porri: oh me tapina! troppi Ha scogli questo mar; chè l' un fuggendo, Forza è romper sull' altro. E che far deggio? Dettare, o non dettar? — Pensai. — Dettiamo, E lasciam dir: chi fa la casa in piazza, O la fa bassa, od alta; è dura impresa Piacere a tutti. — A verità si piaccia. Michel, se ingordo topo mai non roda Alcun de' libri tuoi, dimmi, leggendo Di quegli antichi, che doppiere altrui Erano per trovar filosofia, Di lor pietà ti prende, ovver di noi, Che per altro sentier messi ci siamo A saper dove sta? Poi dimmi un tratto Filosofo qual è? Chi scarno ha volto, Ispida barba, scarmigliato crine, Veste cenciosa, e gran bisaccia al collo Tu filosofo chiami? Andar girone Con la lanterna in man di giorno fitto, Far d' una botte casa, o gir narrando D' esser nato sei volte, or uomo, or donna, Or pavone ed or gallo; basta, dimmi, Onde un per noi filosofo si appelli? — Stolta sorella, di que' gravi capi Eran trovati ad allettare il volgo, Che tutto vuol gigante. Orfeo si disse Figlio del Sol per ammansare i Traci. Chi abbaglia vince sempre; entro al midollo Vuolsi mirar. Per lungo studio e stento A' reconditi arcani di natura Attigneano saper; seguian virtude Ne' detti, e più nell' opre, e solo allora Di filosofi aveano eccelso nome, Apriano scuole, ed eran torcie al mondo. Odi bei paroloni! Miserandi Erano, credi a me, quegl' imbecilli Filosofi meschini; e saggi noi, Noi saggi, che sappiam ciò che ne torna. Filosofia moderna oggi è una merce Di più facil mercato, e in ogni dove V' ha filosofi e scuole. Eccoti all' uopo Nuovo caffè; v' entriamo. Or vedi quale, Di sua sorte contenta e di sè paga, Giovanaglia qui trovi; e seco insieme Mira quanti vi sono attempatelli Che stanno schiamazzando. Buon compagni Tu gli diresti: oibò! felice schiera Di mäestri e scolari. A che sudare Su libri e carte, e seppellirsi, e strema Vita menar? Sono i caffè, le piazze, I passeggi, i tëatri oggi le scuole In cui tutto si appara. Scollacciato Guarda colui, che in una man le carte, Nell' altra tazza di liquor fumante Tiene, e contende: del paterno scrigno È saggio vôtator; e il suo rivale, Che vincitor commendano gli astanti, Già servo, parrucchier, mezzan, baratto, È fido Acate a tanto Enea. Del volgo Sprezzano entrambi la mordace lingua, Sprezzano l' avvenir; filosofia Gli solleva così: così que' due Che loro vedi allato, uno sdrajone, L' altro che appoggia sulla sedia il fianco, E cenni fa, che rende poi lo specchio All' onorato vincitor, son essi Filosofi indovini, e del futuro Sicuri a tal, che ognun di lor scommette. Or meco vieni. Escir vedi del tempio Colui che ancor si segna, e tale ha indosso Un giubberel, che fu a' suoi tempi nero, In cui capisce a stento? Un libricciuolo Porta sotto il ditello. — Sacre note Certo contien. — T' inganni: di pitocchi Abitatori delle sue stamberghe Nomi e sentenze. Con quel libro in mano Pigioni va chiedendo, e cenci arraffa, O carceri minaccia; e tutto a fine Di poter poi soccorrere gli afilitti, E a' miseri pagar devotamente Quattro ciò che val cento. Bada, bada Come si fan delle botteghe agli usci Le genti per vederlo; maledetto! Da ogni lato gli vien; scuoti se sai, Su buon ramo egli sta; filosofia Imperterrito il rende; al borsellino Mette la man, stringe il danaro, e passa. Filosofia così dall' importuno Rossor libera quei che baronando Va per la stessa via che il vide in cocchio Intronizzato d' una Taide al fianco; Libera quei che andar senza pastoje Lascia prole perversa, e si compiace Che la pudica moglie abbia servente Ricco di chiaro nome, pingui entrate, Cuochi, fanti e cavalli, onde onor vero Ed oneste speranze a sè deriva Filosofo marito. Finalmente Oggi filosofia tutti per campo Libero e aperto nell' oprar ci pone; E chi leggi calpesta, e Dio non teme, È filosofo primo. Or di costoro Chi più saggio e felice, e qual fia mai Più abile mäestro? Con l' esempio Si addottrinano i figli, e mille e mille La nostra età filosofi prepara Che avanzeran Senocrati, Zenoni, Socrati, e Grecia tutta. Ov' uno vada Per aspra, lunga e dirupata via, Quando ir potrebbe per iscorciatoja Piana e fiorita, per tua fè rispondi, A folle non lo avrai? Di chi sel piglia È questo mondo. Ridi? a te favello Del miglior senno; nè sapon, nè ranno Perder non soglio, e so che invan si affanna Chi agli sparvieri vuol drizzare il becco. Piero, avanza stagion, per cui deserte Si fanno le città; minuta plebe, O miseri dannati dal bisogno Alla catena del giudizio, stanno Fra le roventi cittadine mura; Ogni altro n' esce, e chi palagi e ville Solo in mente possiede, alle altrui spese Dassi tempo, e villeggia. Anch' io mi sento Ruzzo di villeggiar. — Dove? — M' ascolta: Degli uomini il cervel, fonte d' ingegni, Onde per tutti di goder v' è taglio, Mezzana gente assiste, e a capo venne, Vedi trovato, di spacciar salute A voluttà congiunta. Or dove scorre D' un' onda mineral bollente vena, Là non di reumi, gotte, ed ossa infrante Ricettacolo trovi, e del dolore, Qual già credi, l' albergo; cento ricchi Di beni e di capricci, e cento a cui Non illumina il Sol scrigno nè zolla, Ma seguir denno del bel mondo i riti, Traggono sani a visitar le Terme. Andiamo. Vettural, doppio avrai nolo, Ma sia comodo il cocchio. Economia Questo sacro ai diletti estivo mese Non tollera, e disprezza. Di bäuli, Scatole, cassettine, illustri fregi, È grave la carrozza; il cane, il servo, Il marito son pronti; impazïente Freme l' auriga; eccomi al posto: or movi. — La salmeria della città le strade Lenta trascorra; dilicati nervi Non reggono al brandir. L'occhio frattanto Sulle finestre e sui passanti vola, E ricerca, e distingue in mezzo al volgo Quanti narrar potran, ch' io pur non sono Dell' altre men, ch'io pur d' invidia oggetto Vo tra gl' infermi a ritrovar la gioja. Fra tai pensier dalla città mi scosto Mille incontrando in cor; e come sento Rumor di fruste o ruote, allo sportello Ratta mi faccio, e caratando il fasto Di maggiori superbi, o compiangendo Lo stento de' minori, ecco mi trovo All' albergo incantato. In men che il dieo Balzo dal cocchio; saltelloni seguo Il fante che precede, il volto ascondo, E mal paga di me lascio l' infesta Temerità dell' ozio. Poco stante Scendo verso l' agon, in cui raccolti Gli altri già sono. Doppia schiera trovo Di pompeggianti Ninfe. Allato allato Siede a ciascuna, e da'suoi cenni pende Infermo fortunato; men felici Seggono i tardi giunti sulle scranne Che son scabello delle Dive al piede. Della lizza nel mezzo i poco esperti, O quelli che di sè tengono indegne Le Ninfe tutte del sedente coro, Van passeggiando. Al tavoliere impanca Le madri, le custodi e le matrone Necessaria prudenza; alma corona Lor fanno del tressette e del picchetto I severi Minossi. Del recinto Ne' quattro canti annicchiansi meschini Pesi di gruccie, che träendo omei Star vogliono tra' vivi. Al mio venire Il cicaleccio si rimane, e in cambio, Quale di pecchie che nemico zolfo In fuga volge dalle industri case, Ronzìo si leva, e il buccinar sì piano Esser non può che il nome mio non oda Zufolar negli orecchi a questa e a quella. Tale che mi conosce, mi fa motto Con le solite inchieste; uno, che appena Di veduta m' è noto, come amico Mi fosse dalla culla, mi rimbrotta Del mio lungo tardar, ed un Narciso Con chino sguardo, fioca voce, e in atto Di timida donzella, a dir mi viene Che quinci innanzi più ridente il cielo Sarà per lo splendor di nuova stella: — Galanti bolle. — In quello a me s' accosta Ignoto un uom col crin brinato, in volto Tutto ridente: al mio vicino chiede, Come se d' altro a ragionar m' avesse, Che la sedia gli ceda: il suo casato Tosto mi dice, inutil noja crede Altri cercar che il faccia, e mi assicura Come, non già per medico consiglio, Ma per fuggir mattana, ei da vent' anni Suol rallegrar di sua presenza il loco. Quanti qui vedi, segue, io li conosco Non sol di nome, ma il perchè venuti, Lo stato loro, e fino a' lor pensieri Tutto m' è noto: io, consiglier di tutti, Di tutti rido; ed or di questi pazzi Rider vogliamo insieme. A tai parole Il valent' uomo io fiso; ei buon augurio Ne prende, e sì comincia: — Qui pur v' hann Uomini saggi, giovani discreti, Femmine valorose; ma son gemme, E la mondiglia è molta. Tal vedrai Che Vestale diresti: quattro amanti Muojono del suo fatto: i tre qui sono, E le stan sempre al fianco; il quarto è lunge, E va imbrattando sdolcinate carte Per la fedel sua Nice. Altra vedrai Sposa novella, che il marito uggioso Da sè volle partir: per disperata Qui giunse insieme a men austero amico. Vedrai Saffo novella: il suo Faone D'altra fiamma s'accese; ella qui venne L'amor tradito a soffocar nell'onde. Due poi ne abbiam che, di nessuno amanti, Dell' oro il sono; e ti parrà gran fatto Che a costoro ingannar si lasci il senno. Ne udrai di belle: pria che doman passi Io ti farò stupir; tra' bell' imbusti Uno ti mostrerò, che innamorato Di tutte donne, ed a nessuna in pregio, A' rivali s' appaja, e si compiace Se ti par suo quel ben che un altro gode. Un v' ha di lui peggior, che ad ogni passo Scocca sguardi e sospiri; eccolo, vedi Ch' or sull' omero destro ed or sol manco Cader si lascia l' olezzante capo, Zerbin languente: è questo sciagurato Millantator d' erotiche conquiste Moderno insetto; ma più assai funesto Colui ch' ora gli parla: dadi e carte, Smugnendo borse, a ben trattare insegna. Tal poi ti mostrerò, che a far mercato Qui vien del senso che or ti vo togliendo Con le mie ciarle. — Volea dire ancora; Ma giunse un altro: ei tacque. In quell' istante Fede non gli prestai; pur lingua d' oro Troppo parlò, ma disse il ver pur troppo. Piero, che te ne par? Te non fe' il Cielo Lieto di prole, ed a me pur contende Tal dono il Fato; ma se un giorno mai Darammi un figlio, massime o precetti Non udrà dal mio labbro. A queste rive Il guiderò: vedrà quai su quest' onde Regnan venti e procelle, e quanta guerra All' audace nocchier fan scogli, sirti, Banchi e sirene. — Qui le ciglia inarca, Dirogli allora; il vasto mar del mondo, Vedilo, è tale, Or va, sciogli le vele. — Mute sono le vie: tuona ne' templi Penitenza; e com' uno ad uscio fassi Od a finestra, più non vede in frotta Correr le genti, con cerate tele Travisate la faccia; anzi que' dessi Che jeri udisti le facezie stolte Dello Zanni imitar, o 'ngonnellati Sesso mentir vedesti, e in su le piazze Esser zimbello della impronta plebe, Uomini da faccende, alle consorti Ed a' figliuoi di contenenza e senno Sputau oggi sentenze. Oh strana forza De' calendarj, io dico; e a' di passati Vola il pensier, e in un la mano al foglio: Seggo, detto, ti scrivo. Or soffri, e leggi. E' non ha guari, mentre ad opra inteso Stavi tu forse, che l' umana razza Vie più sproni a virtude, io giovin donna Di vicina città trassi nel grembo Popoloso con altre, al grido presa Di giuochi e danze, care al nostro sesso. Giunsi'nsù l' annottar. Fervea la pressa Nel maggior campo. Vado. Ecco mi serra D' uomini e donne una trincea, qual muro Insuperabil salda. Or un di cozzo Dammi ne'fianchi; or mi riurta e preme Le spalle un altro, con villana prova I gomiti alternando. Mi pensai Che m' arian morta. Allor, fatto scabello Degli altrui piedi a' piè, de' bracci altrui A' miei puntello, in un caffè vicino I' ricovrai con affannata lena. Eran vôte le stanze. Incantucciato, Serrato nel mantel, forte russava Un sol; chè alle migliaja delle genti Sì crucciate al di fuori, entrar disdice Moda crudel, insin che l' ora scocchi. Il bëato battaglio alfin percuote La mäestra campana. Ecco primiera Sculettando s' avanza ampia matrona, Che alle trine, a' cincischi e fiorellini, Anzi che donna, fondaco di merci Detta l' avresti. A lei venìan dallato, Con lento il grave passo seguitando, Un garzoncel bilustre, ed avvenente Figlia d' età maggior. Qualche gran fatto Mi credei che si fosse. A me vicina S'accoscia, e un risolin, stando sul grave, Sottocchi mi concede. A cento lezj Uno starnuto segue. Per usanza Il capo io chino, e un gran mercè disserra La chiavica all'inchieste. E patria, e nome, E stato, e stanza, e quanto in casa e fuora Io m'abbia, saper vuol. Quindi mi narra, Non ricerca, i suoi casi, e del taccagno Sospettoso marito, e de' non sciocchi Figli arrozziti, perchè lor si vieta Usar le veglie; e come di soppiatto Quivi condotti, perchè almen la figlia, Che da marito è pur, veduta fosse. Volea più dir; ma balzelloni entraro Quattro a sei perdi-giorni, e a' lor cachinni Drizzò tosto di gana orecchi e mente. De'bellimbusti la contenta ciurma Si volge al sonnecchiante. Eh dormiglione, Che non fostu con noi! Vegniam dall' oste, E nosco fuvvi la vezzosa Frine, De'tëatri splendor. Pesci non piglia, Babbion, chi dorme. Stende l' altro allora Sbavigliando le cuoja, e il più facondo Del casto crocchio a lui pinge le forme Dal capo al piè della notturna Diva. Al mäestro pennel con un sogghigno, Che svela l' imo cor, la nuova Ortensia Fa plauso e ammicca; poscia, oh pazzi! sclama Alla figlia rivolta; arrossa questa, Sta il putto ammirativo. Dei festanti Uno s' addà di noi. Nel sovrapposto Cristal si mira: la ricciuta chioma D' una man si compone, e difilato A la mia volta vien; ma pe' suoi ferri Terren non trova, e alla fanciulla volge Il traguardo e le piante. Altri alïando Le vanno intorno; ed e' si tiene a loda, Come di quadro in fiera, or le pupille, Or gli aurei crini, ed or l' acerbo seno. Gli occhi al suol fisa, vereconda in atto, L'impacciata donzella; ei dell' amante, Che molti deene aver, le parla e chiede. La punzecchia la madre, e le garrisce, Chè non regge alla celia; indi l' escusa, Se all' anticaccia l' ha cresciuta il padre. In quel, come del chiuso escon gli armenti, Entran carnascialando a diece a diece D' ogni età, d' ogni sesso, i mascherati In varie fogge. Il damerin ghermisce A quest' una la man, a quella il braccio, E tal punge co' motti, e negli orecchi Ad altra tal di notti in dolci spese Cure d'amor va zufolando, a modo Che l' odano i vicini. Intempestiva L' aurora spunta; amor di pace scuote La prudente matrona, e alla fanciulla, Sol perch' è tardi, la partita intíma. Or il cervello in su le carte, amico, Perchè ti stilli? Infin che di tai scole Si gioveranno i figli, e tai custodi Lor darà gentilezza, è vana speme Che il mondo muti; e per mutarlo, credi, Ben altro vuolsi che sermoni e ciance. — Candida micia in femmina vezzosa Gli Iddii cangiaro: lieto stuol d'amanti Sedeale intorno. Un topolin repente Sbuca da un lato; in piè balza la bella: Ratto carpon si lancia, il topo insegue, Adunghia, addenta, strazia, e se ne pasce: Lungo costume di natura ha forza, Nè si cangia natura: — il gatto è gatto. Egli è il vero, Ghirlanda! in ogni dove, Se di tëatri a ragionar t'abbatti, Di cantanti e mäestri odi taluno Deplorar la mancanza. Oh Pacchierotti! Dicea jer l' altro un vecchierello, e forte Batteasi l'anca; oh Cimarosa, oh Sarti, Babini, Rubinelli, ove ne andaste, Onor vero d'Italia! Il vostro canto Era diletto che non sol gli orecchi, Ma l' anime nutriva: oggi aspre selve Son di crome i spartiti; oggi è cantante Chi ha polmoni di ferro, e a testa grida Quanto n' ha in gola; son falangi armate Di sonatori le moderne orchestre Di oricalchi, di timpani, e tamburi, E cannoni, e bombarde; e palma a palma Là più si batte, 've maggior frastuono Assorda e sbalordisce. Italia un giorno Era prima nel canto; oggi sotterra L'arte audò co' mäestri; onde oltremonti Armonia fugge, e a noi resta il rimbombo. — Sì dicea quel buon uomo ad un vicino Ch'iva crollando il capo; e a lui rivolto Alto sclamò: — Son baje; arte ed artisti Non mancano all' Italia: le udïenze Non son più quelle; e se vivesse ancora Cimarosa o Babini, e modi e stile Arian cangiato. Gli uomini d' un tempo Non son quelli d' un altro. Smisurati Elmi e loriche i smisurati membri Difendean degli Achilli: oggi è gigante Chi lancia o spada può impugnar dell'avo. Ossi, muscoli, nervi, e fibre, e sangue, Tutto è moderno in noi; moderne teste Han moderni cervelli. Invan gli antichi Col calzare del piombo, e in ogni cosa Eran lenti e melensi; anni cogli anni Sotto a' veroni di donzelle amate Pigliavansi l'acceggia, e a vincer belle Eran balestre polizze e sonetti; Inezie contegnose. Erano allora I tëatri musei che di anticaglie Facean rancida mostra; i vizïosi Ignoranti collegi, i monasteri, Nidi di fole, rinserrate allora Tenean cupide figlie, e prigionieri Giovani ardenti; sguinzagliáti adesso, Il vasto del piacer fiorito campo Corron tutto per loro: occhi cisposi E sdentate mascelle oggi non sono Ornamenti di logge, e più non vedi Nelle platee di libri e facellini Chierical pompa, cui presiede austero Incomodo silenzio. Passò il tempo Che lagrimare a' gorgogliati lai Dei Cesari, dei Bruti e degli Arsaci Vedeansi gli uditori. Or ne' tëatri Chi più sa più gavazza, e i spettatori Son primiero spettacolo a sè stessi. Quanto l' alta donnesca fantasia Di fogge o gale inventa, e quanto accresce Beltade o vezzi a'rugiadosi volti Di acerbe giovinette e vaghe spose, Brilla su le ringhiere. La sfidata Nemica di molesta economia, Gentilezza moderna, in ogni loggia Fa che s' ardano cere, ed alla scena Vuol che volte le spalle abbian le belle, A far bëata la sopposta turba Di zerbini dannati a far conquiste, Occhi sbarrando, ed allungando colli. Ma raviglia è il vederli: uno fa motto A questa e a quella; un rende cenno, un ride; Questi si raffazzona, e si compiace D' esser uom tutto buccia; quegli balza Per sognate venture; qui novelle Costui ti narra; là parole ed atti Colui nota, e berteggia; un crocchio gioca, Un altro gozzoviglia, e il dirivieni, E il continuo ronzìo di tante voci, E l' aprire e il serrar d' usci e palchetti Ti fa sentir che se'tra' vivi, e il core Ti solleva e t' allegra. Il canto, il ballo Sono zimbelli e nulla più: chi bada A ciò che fan gli attori, se fragore Non lo scuote di tuono, e brevi istanti A tacer non lo astringe? E che di affetti Vieni tu favellando? A'sensi, a'sensi Parli chi piacer brama, e non ristucchi Col faticarli a lungo: or non diletta Che il bello passegier, che abbaglia e fugge. M' intendesti? Fa senno. — In così dire Ad un ad un ci affisa, sputa, s'alza, Sogghigna, e parte. Il vecchierel confuso, Tu che ne di'? mi chiede. Io fo spallucce, Non gli rispondo, e penso. Europa tutta Offre il serto a Rossini; or chi d' Europa Tutto si ride, ai pazzerelli danna Guidice tutto il mondo. Ebbe nell' arti Il suo gusto ogni età; volge una ruota Tempi e costumi: un dì risorgeranno I Cimarosa e i Sarti; intanto io lodo Musica di cannoni e di bombarde. Ippolito, splendor delle natali Rive d' Adige nostro, quante volte Al pensier mi si affaccia il primo istante Ch' io te vidi da presso! Eletto crocchio, In amica magion dell' ospitale A te cara Venezia, al tuo venire, Onorando l'altissimo pöeta, Ti si fea intorno: umile tu, fra liete Iterate accoglienze, col sorriso Che virtù pone sulle labbra, accanto A me sedevi; delle caste Suore M' accomandavi il culto e di conforti, Sì m' eri liberal, che più devota Di loro io venni, e più a me stessa in pregio. Tal, volge or l' anno, l' europeo Canova Su quel lito conobbi: non palagio D' ospite illustre per dovizie ed avi, Ma buon albergo in artigiana casa, Che l' accolse fanciullo, ei risplendente Quivi fea di sua gloria, e in quello stesso Acerba morte il colse. Ahi come! ahi come! Mi ricorda del dì ch' egli al mio braccio Appoggio fea di quel che ai rozzi massi Vestia forme immortali, e mi rammento Ch' egli a dettare per lo suo Possagno M' invitava cortese, e promettea Con opra di sua man cambiare il dono. Stolta! nol feci. Ma di me l' impresa Maggior pareami troppo, nè presaga Esser poteva di cotanto danno. Di te, di lui pensando iva jer l' altro Lungo la via che per obbliquo calle In su la nuova sbocca; ed in mio core Brama volgeva, che da voi ritratto Facesser quei che in alto stato pose Cieca fortuna. In quel mi corse agli occhi Un certo tale, a cui non vo'dar nome, Che pettoruto su la soglia stava D'un rigattier; pendeagli dagli ucchielli Di nera giubba non so quale insegna Di stirpe immacolata: entrai, fermando D' altro far vista; al Cavalier la fronte Nel passare chinai: come ronzino Che adombri, un tratto rinculò; musando Volse in altrove il capo, e con due dita Un cotal pocolin mosse il cappello. Non guari andò che trar dalle callaje Vidi la gente, ed arrestarsi un cocchio Grave d'oro e di servi. Il Cavaliere, Lesto così che ne disgrado un cervo, Previene i fanti, e col cappello in mano Lo sportello spalanca. Il cocchio cinge Popolesca improntezza. Ecco ne smonta Uom d'alto affar, che di pompose vesti, Di ricami e di gemme risplendente, Verso noi move. Il rigattier, stimando Vender ogni sua merce un gran danajo, S' alza come baleno, corre, inciampa, Cade, rompe uno specchio. — Ehi bottegajo, Serrature all'inglese; di tre usate Il baratto vogliam: dubbia il mercante Qual chi non crede il vero; alfin si scuote, Mostra le serrature, e offrendo loda Di lucerne, stipetti, armadi e scranne, Oltramontan lavoro. Il forestiero Nè risponde, nè il guarda, e sol per bocca Del Dragomanno, che le chiavi volge Provando entro le toppe, mentre squarta Lo zero nel pagar, tacer gl' impone. Molti da lor bisogne, o da desio Di veder, di sentir, quivi condotti, Stanno a canna badata; si contorce Il comprator, chè l'alito di plebe L'ammorba e lo deserta: largo largo Gridano gli staffieri; il Cavaliere Largo largo ripete; e mentre involge Le serrature in candida pezzuola, D'inchini a furia e riverenze avanza Il suo Signor, che, qual lëon che posa, Ne guata in pria, poi va corbando al cocchi Il rigattiere con la mano in mano Resta per trasognato, e gli occhi fisi Tien sul cristallo infranto. Van ronzando Nello sgombrar gli astanti; un buon cristiano Si segna, e ride: ed io nella groppiera Penso non starsi del cavallo il fatto. Oh quai ciance, dirai: pur, te lo giuro, Fior non v' ha di menzogna; e s' altre fole Vuol dettare il pöeta, ascolta. Un giorno La Mosca, proverbiando il Filugello, Sè più nobil vantava. Tu carpone Sempre radi la terra, io volo, e scorro Per miei dei Re i palagi: nude foglie Tu rodi tra' villani; io sulle mense Odorose mi poso, e vini e cibi Dolcissimi delíbo. In odio a tutti, Rispose il Filugel, tu vivi, e mori Ora tra' grandi, or nelle fogne; io grato Vivo a tutt' uom fra' miei bifolchi; industre M' affatico per loro, e dopo estinto, Vivono l' opre mie fregiando i troni. Vedi baja novella! Pindemonte, Che posso io dire? Del giardin d' Esopo Sono tai frutta, e non inutil succo Forse dar ponno chi le colga e sprema.