NUOVI ESTEMPORANEI


DI

ROSA TADDEI

TRA LE PASTORELLE D' ARCADIA

LICORI PARTENOPEA

Raccolti senza l' ajuto di Stenografia

DA

G˙ B˙ Trabalza di Fuligno

Quae legat ipsa LYCORIS.
-- Virgilio

SPOLETO 1826
DALLA TIPOGRAFIA BASSONE
Con permesso.

ALLA CHIARISSIMA SIGNORA
TERESA DINI PIERMARINI
SOCIA DELL' ACCADEMIA LATINA DI ROMA,
DELL' ACCADEMIA ARCADICA
E DELLE BELLE ARTI DI PISA EC˙ EC.

L' Editore

Io consacro alla più modesta delle colte Donne gli estemporanei della più modesta delle Figlie di Apollo. Noi abbiamo ammirata la Signora Taddei nella felicità de' suoi rapimenti poetici; Voi avete saputo ammirarne, e penetrarne insieme tutto il valore, e l' interne bellezze.

Saffo sarebbe andata superba degli elogi di Aspasia: La Signora Taddei si onorerà sempre di trovare in Voi una degna ammiratrice, ed un' amica rispettabile che sa temprare anch' Essa la Lira delle Musa. Ciò mi da il più bel dritto a presentarvi l' omaggio di questa raccolta, che riunisce i più bei temi da essa cantati fra gli applausi di questo pubblico, e ne' quail la celebre Improvisatrice ha impresso non solo il suo Genio Poetico, ma l'illibatezza del suo carattere, e le virtù del suo cuore. Quanti titoli perchè questi versi debbano appartenere quasi esclusivamente a Voi, di cui le virtù eguagliano i talenti!

Ricevete dunque nel volumetto che vi offro, un monumento inalzato alla Gloria del Bel Sesso. Possano le Donne finalmente sentire, quanto gli uomini debbano essere più vivamente toccati dalla nobile coltura del loro spirito, che dal fragile incanto della loro bellezza.

Fuligno 20 Gennajo 1826.

DI
LICORI PARTENOPEA

Note1. Il carattere corsivo denota il tema, l' obbligazione della rima e dell' intercalare.

Già le Romane giovani
  Son tratte a indegno ostaggio,
  Ma sopportar l' oltraggio
  Non può di Clelia il cor;
Quando la notte stende
  Più fosco il denso velo,
  Volto lo sguardo al cielo
  Così favella in se: Dunque Porsenna altero
   Andar portà del vanto
   D' aver veduto il pianto
   Dal ciglio mio sgorgar?
Ah! Non fia mai; Chi nacque
   In vetta al Campidoglio,
   Del natal suo l' orgolgio
   Fa sempre rispettar.
Fanciulle! or via, se intrepide
   Siete, qual' io mi sono,
   Di libertade il dono
   V' invito a ricomprar;
Salite, com' io salgo
   Un rapido destriero;
   Fia degli Dei pensiero
   Di trarci in libertà;
Disse: e nel cor magnanima,
   Come feroce in volto,
   Lascia al destrier disciolto
   Tutto sul collo il fren;
Ed il destrier si slancia
   Rapido in mezzo all' onde,
   Rimbombano le sponde
   Di quello slancio al suon. L' altre donzelle allora
   A esempio così forte
   Spezzano le ritorte
   Ch' hanno d' intorno al piè.
E il nome della patria
   Sol pronunciando ognora,
   Colla novella aurora
   Tornano a Roma in sen.
Fremon gli Etruschi intanto,
   Corrono a lor d' appresso,
   Ma al vil non è concesso
   Il forte seguitar.
E mentre i dardi scagliano
   Con non più visto metro,
   Tornan que' dardi indietro
   A ricader sul suol.
Porsenna a tal portento
   Più non si oppose al fato,
   E il patto desìato
   Segna di pace alfin;
E Roma ne' suoi Fasti
   Nella sua eternal Istoria,
   Questo d' immensa Gloria
   Fasto novel segnò.


Tema ed intercalare dato dal M˙ U˙ Dr˙ Francesco di Mattòli

Presso il sasso, che racchiude
   La gran spoglia di Torquato.
   In aspetto desolato
   Stà l' Italia a sospirar.
Io l' ascolto in mezzo ai gemiti
   Scior le labbra a mesto canto:
   A te debbo il primo vanto,
   Se m' invidia lo stranier.

Grande fu Dante, che il primo
   Saggio diè d' un' opra arcane,
   Ma quell' opra sovrumana
   L' opra tua scordar non fa;
Se con lui nel cor si freme,
   Con te poi si versa il pianto,
   E a te debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.
Fu Petrarca immense Genio
   Che innalzò la Gloria mia,
   E l' estesa fantasia
   Di Ariosto m' innalzò;
Tu però vestir mi festi
   Di Melpomene l' ammanto,
   E a te debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.

L' Epopèa per te si vide
   Sorger nuova al mio terreno,
   Di bell' estro il cor ripieno
   Fecondasti il tuo pensier;
E chi fia, ch' equipareggi
   Della Selva il vento incanto?
   A te debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.

E chi fia, ch' equipareggi
   L' alta mente di Buglione,
   Chi d' Argante la tenzone
   Con Tancredi almo guerrier?
Chi Rinaldo, che si strappa
   Dalle chiome l' amaranto?
   Sì, a te debbo il primo vanto
   Che m' invidia lo stranier.
Ebbi, è ver, dai primi Genj
   Ebbi il don dell' aurea Cetra,
   Tu però m' inalzi all' Etra
   Con quell canto inebriator.
La tua Tromba ha sì gran suono,
   Che non fia chi n' abbia tanto;
   E a te debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.

Son più secoli, ch' io piango
   Sulla tomba che ti chiude,
   Ed il tempo sulla incude
   Va battendo ogni altra età;
Ma l' alloro che ti cinge,
   Mai farà che cada infranto;
   Né potrà rapirmi il vanto
   Che m' invidia lo stranier.

Se di ogni altro altero Genio
   Io perdessi la memoria,
   Basterebbe alla mia Gloria
   Sul Torquato rammentar.
Ch' io per lui del Greco Omero
   Ho l' alloro, e vesto il manto,
   E a lui debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.
Se l' avara ingiusta sorte
   Di capricci ognor feconda
   Tentò togliergli la fronda
   Ch' é la Gloria del Cantor,
Il suo Carme sovrumano
   Fra le stelle alzò cotanto,
   Che a lui debbo il primo vanto
   Se m' invidia lo stranier.
Di Virgilio gli argomenti

   Belli son, sono perfetti,
   Ma i sublimi suoi concetti
   Hanni tanto di beltà,
Che per lui più non invidio
   Il Cantor del Trojan Xanto;
   E a Torquato debbo il vanto
   Che m' invidia lo stranier.

Ahi cieco amore! ad anime
   Prive di bei consiglj
   Ah perchè far di figli
   Un disgraziato don!
Nò che tal don non merita
   Chi 'l suo dovere obblìa,
   Chi dell' error la via
   Va trascorrendo ognor;
Chi dè suoi vizj il cumolo
   Soverchiamente accresce,
   E l' albero, che cresce
   Chi coltivar non sà.
Chi ha cor nel seno, i figli
   Trar dee pel buon sentiero,
   E all' infantil pensiero
   Dipinger la virtù. Ma quanti padri, ahi miseri!
   Privi dell' intelletto
   Quest' importante oggetto
   Io veggo trascurar;
Per capriccioso istinto
   Sacrifican la prole,
   E di corrotte fole
   Empiono ad essa il cor.
Da questo così barbaro
   Sacrificar crudele,
   Nasce dell' odio il fiele,
   Smarrita è la pietà;
E i vizj soli restano
   Alla fatal famiglia,
   E fa a più d' un le ciglia
   Di pianto inumidir;
I vizj rei, che spargono
   Di mille mali il seme,
   E il padre e i figli insieme
   Costringono a penar.
Si accorge allora il barbaro
   Del suo destino amaro
   Ma più non v' è riparo,
   Speranza più non hà: Vede le calde lacrime
   Della famiglia abbietta,
   Che misera, e negletta
   Cerca soccorso invan.
A così rio spettacolo
   Beve la morte a sorso,
   E da un crudel rimorso
   Si sente lacerar;
Rimorso troppo tardo,
   Inutil pentimento,
   Che accresce lo spavento
   Che dall' inedia vien.
Questo è l' aspetto orribile
   D' un genitor, che ai figli
   De' pravi suoi consigli
   Spesso l' esempio da.


Tema ed intercalare dato dall' Uomo Dr˙ Lorenzo Diomedi Camassai

Rossini, ha tal suono
   L' aurata tua cetra,
   Che dolce penètra
   Nel fondo del cor;
Rossini, di gloria
   Sì cinto tu sei,
   Che Giove fra i Dei
   Ti volle innalzar;
Rossini di pregi
   Sei tanto fecondo
   Che stupido il mondo
   Hai fatto restar;
Stupor che con gli anni
   Non cessa, o declina;
   La cetra divina
   Sapesti temprar.
La critica invano
   Ti punge, ti offende,
   Più grande ti rende,
   Più bello ti fà:
Al lauro ch' io t' ergo
   Ogn' uomo s' inchinia;
   La cetra divina
   Sapesti temprar.

Qual Jopa, che innanzi
   A Dido suonava
   Aveva men brava
   La mano di te;
Quel Jopa, che onora
   La musa latina
   Mia cetra divina
   Non seppe imitar.

Fra quanti finora
   Mi furon seguaci,
   Tu solo mi piaci,
   M' alletti tu sol;
Tu sol, che mi rendi
   De' cùori regina
   La cetra divina
   Sapendo temprar.
Ma gli uomini grandi
   Ch' han sommo intelletto
   D' invidia l' oggetto
   Si rendono ognor;
D' invidia, che insulta
   Con alma ferina,
   La cetra divina
   Sentendo temprar.

Vorrebbe seguirti
   Co' vanni sul polo
   Ma l' alto tuo volo
   Non puote seguir;
Che rade la terra
   L' invidia meschina
   La cetra divina
   Sentendo temprar.

Si sforza l' indegna
   Con vecchj precetti
   Trovar de' difetti
   Nel dolce tuo suon.
Ma invan, che alla gloria
   Il mondo destina
   La cetra divina
   Che t' ode temprar:
Se alcuno rampogna
   Il suon rimbombante,
   Il cor trionfante
   Risponde così:
E' questa quell' arte
   Che tutto raffina,
   Sì l' arpa divina
   Si deve temprar.

La vita dell' uomo
   Somiglia a quel fiore
   Che sparge l' odore,
   Ma punge talor;
La lode sia rosa,
   L' invidia sia spina,
   La cetra divina
   Continua a temprar.

La Poetessa, presentata di una pioggia di Sonnetti, cominciò il Tema proposto con il seguente ringraziamento.

Tutto è poco quanto possa
   Dire a voi l' umìl Licori
   Che di tanti sommi onori
   Vi degnaste ricolmar;
Se vi basta il buon volere
   Accogliete il mio desìo,
   Che per tormi dall' oblìo
   Altro merito non ho.
Il silenzio è ancor facondo
   Più che dir non potrei mai,
   E talor si spiega assai
   Chi risponde col tacer.
Ma se al canto m' invitate,
   Voi per me cortesi tanto,
   Obbediente, al rozzo canto
   Il mio labbro scioglierò; Canteró, se pur soffrite
   Di ascoltar le incolte rime,
   Il Filosofo ch' esprime
   Gran sentenza in poco suon.
Son felice: dicea Creso,
   Son fra i Regi il più giulivo:
   Non vantar finchè sei vivo
   Questa tua felicità,
Al Regnante della Lidia
   Solon spesso ripeteva;
   Ma i suoi detti derideva
   Della Lidia il Regnator,
Lungi ancor però non era,
   La terribile occasione,
   Che il precetto di Solone
   Dovea fargli rammentar.
Venne Ciro a recar guerra,
   Duolo e strage in ogni Iato,
   E quel regno fortunato
   Un deserto diventò;
Si vedean dal sol percossi
   Splender brandi, aste e cimieri,
   E del sangue de' guerrieri
   Il terreno s' innondò; Scorrea sangue in ogni loco,
   Per il pian, pel colle aprico,
   E dell' ira del nemico
   Cresco vittima restò.
Al furor d' avversa sorte
   Freme invano, invano duolsi;
   Ha di ferri carchi i polsi,
   Ha di ferri carco il piè.
E fra i ferri ond' è gravato,
   Ed al suon di sue catene
   Di Solone si sovviene,
   E confessa il cieco error.
Pur credea, che la fortuna
   Tributaria al suo gran nome
   Con lo stendergli le chiome
   Lo tornasse a favorir.
Folle speme! questa diva
   Che ognor muove e mai non stassi,
   Quando volge altrove i passi
   Non ritorna adietro più.
Fa l' ardito allor che sente
   La sentenza della morte,
   E da intrepido e da forte
   Piega il capo al suo destin; Ma condotto al palco infame,
   Mentre a morte si dispone
   Si rammenta di Solone,
   E comincia a palpitar;
Di Solone, sospirando,
   Pronunciava il dolce nome
   Quando appunto le sue chiome
   Il carnefice afferrò.
L' udì Ciro, che in quell' atto
   Del suo duol restò sorpreso,
   Ma all' inchiesta il mesto Creso
   Schiuse il labro, e replicò:
Io Solon chiedea negli ultimi
   Fieri istanti della vita,
   Che la favola compita
   Non ancora era per me.
Mi credea mortal felice
   Di fortuna al colmo giunto,
   Ma dolente in un sol punto
   Pinager devo il mio destin.
Ciro allor sbandì dal core
   Il desìo del tristo scempio,
   Riserbando a se di esempio
   Quel che Creso sopportò. Così il grande onor di Grecia
   Diè in un tempo a due lezione,
   E il precetto di Solone
   Tutto il mondo ricordò.


Dato dal Signor Professor Pizzoni

Almo sol che su questo terreno
   Riflettevi il benefico raggio,
   Deh rimira l' offesa e l' oltraggio
   Ch' or si apporta ad un Regno, ad un Rè!
Me vedesti pacifico un giorno
   Dettar leggi sul regio mio scranno;
   Ma l' Ispano feroce tiranno
   Quì la strage, e il delitto recò.

Tutto cangia di aspetto, ed in mezzo
   Ad un cielo tranquillo e sereno,
   Noi veggiamo del lampo il baleno,
   Noi sentiamo del tuono il fragor.
E si sa d' onde viene tal fulmine
   Che ci reca si orribile affanno;
   Fu l' Ispano feroce tiranno
   Che la strage, e il delitto recò.
Qui regnava la pura innocenza,
   La fraterna amorosa catena;
   Or vi regna il delitto, la pena,
   La vergogna, il rimorso, l' orror.
Sotto veste d' umane sembianze
   Ci portarono e l' arte, e l' inganno,
   Ah! l' Ispano feroce tiranno
   Qui la strage, e il delitto recò.

Per scavar dalla terra i tesori
   Che son fonte d' ogni empio delitto,
   Il fratel sul fratello trafitto
   Versa il sangue e ne inonda il terren.
Ci rapiscano i barbari l' oro
   Ma non lascino a noi tutto il danno;
   Ah l' Ispano feroce tiranno

   Qui la strage, e il delitto recò!
Pria nel nostro terreno era il sole
   Raggio a noi di sovrana bellezza,
   Ora il raggio del sol si disprezza
   Come fonte d' affanno e di duol;
Maledìco quel giorno funesto,
   Nè lo pongo fra i giorni dell' anno,
   Che l' Ispano feroce tiranno
   Qui la strage, e il delitto recò.
Se le gemme, che mi ornano il crine
   Son per essi di guerra la face
   Se le prendano, e vadano in pace,
   Ch' io di gemme non curo il fulgor;
Eh che gli empj mai sazj non sono!
   Che più n' hanno, più aver ne vorranno;
   E l' Ispano feroce tiranno
   Qui la strage, e il delitto recò.

Le consorti, le figlie che amiamo,
   Più che amar non si puote la vita
   (Ed è al cuor la più acerba ferita)
   Ci veggiamo dal seno rapir.
Ed i fulmini in cielo ozïosi
   A tal vista pur' anco si stanno
   Sull' Ispano feroce tiranno
   Che la strage e il delitto recò.

Cosí un giorno di affanno ripieno
   Gìa spargendo l' amaro lamento,
   Montezuma, che un solo momento
   Ebbe al crin la corona di Re;
La corona da cui poche volte
   I periglj disgiunti non vanno,
   Che l' Ispano feroce tiranno
   Pien di rabbia dal crin gli strappò.


Dato dal Sig˙ G˙ B˙ Trabalza

Egli è ver, che suol l' arido legno
   Avampar più del giovin sul foco,
   Ma in amore non val questo gioco,
   E t' inganna, Sileno, il desir.
D' offerirmi gli affetti tuoi sterili
   Com in volto non provi rossore?
   A destare la fiamma d' amore
   Non é questa, Sileno, l' età.

Sul giumento che a stento ti regge
   Pel gran vin che a riprese tracanni,
   Tendi invano alle ninfe gl' inganni
   Tu ti mostri, esse fuggono allor
E pel vino, e per gli anni che opprimonti
   A seguirle ti manca l' ardore,
   Che a destare la fiamma d' amore
   Non è questa, Sileno, l' età.
Ti destai con que' gelsi che in viso
   Ti scagliava per riso, per vezzo,
   Ma ora sento del fatto ribrezzo,
   Se lo scherzo tu interpreti amor.
Della tarda canizie col gelo
   Non può unirsi degli anni il vigore;
   A destare la fiamma d' amore
   Non è questa, Sileno, l' età.

Corri, corri, t' invita il tuo Bacco
   Che ha legate le tigri sul cocchio,
   Ma pel vino mal fermo quell' occhio
   Vede tutto d' intorno girar.
Tu nol siegui, e vai dietro alle ninfe,
   Alle ninfe che ti hanno in orrore;
   Che a destare la fiamma d' amore
   Non è questa, Sileno, l' età.

Vien piuttosto, se Bacco ti spiace,
   Se di lui seguitar non vuoi l' orme,
   Dalla massa confusa ed informe
   Narra come la terra sortí;
Narra come era il mondo raccolto
   Del caosse nel torbido orrore.
   Che a destare la fiamma d' amore
   Non é questa, Sileno, l' età.
Ma se poi speri avere uno sguardo,
   Un accento, uno scherzo, un sospiro;
   Non sperarlo che più ti rimiro,
   Più del riso mi desti il desir;
Ma se poi ti fa audace Cupido,
   Il mio riso si cangia in furore;
   Di destarmi la fiamma d' amore,
   Non è questa, Sileno, l' età.

Tu mi guardi, ed ancor non rispondi
   All' inchiesta che fatta ti abbiamo,
   Or scortese così ti troviamo,
   La vendetta ti macera il cor;
La vendetta ti desta nel seno
   Del desìo più gagliardo il bollore;
   Ma ad offrirmi le fiamme d' amore
   Non é questa, Sileno, l' età;

Così allor s' esprimeva Licori,
   Come appunto Virgilio ci dice,
   In quel tempo amoroso e felice,
   Che dell' oro splendeva l' età;
E l' udiva Sileno bavoso
   Tutto acceso di rabbia e furore.
   A destare la fiamma d' amore
   Questa dunque non sembra l' età;
Ripeteva Licor: se in petto
   Delli scherzi ti senti desìo,
   Vedi come dell' Indie il gran dio
   T' offre a scherzi un aperto sentier;
Va a guastar delle viti ubertose
   Il gradito e soave sapore;
   Che a destarmi le fiamme d' amore
   Non è questa, Sileno, l' età;

Vedi come di gioja ripieni
   Van fuggendo i Silvani pel monte,
   E palesa cornuta la fronte
   A ciascuno la gioja del cor.
Su; t' unisci a quel crocchio che sparge
   Pel piacer dalla fronte il sudore;
   Che a destarmi la fiamma d' amore
   Non è questa, Sileno, l' età.


Dato dalla Ch˙ ma Signora Teresa Dini Piermarini

Fra i mirti beati
   Tu guidami amore
   Laddove dell' ore
   Non cangia il tenor;
Di Bice, e di Laura
   Fa ch' oda la voce. . .
   Già il Nume veloce
   Mia guida si fa
Ascolto una flebile
   Soave armonìa
   Di Laura sarìa
   La voce gentil?
Sì; è Laura cha parla,
   Conosco l' accento
   E tace anco il vento
   Quei detti ad udir. E' dessa: Ravviso
   Quegli occhj modesti;
   Ravviso le vesti
   Che aveva quel dì,
Che immersa nelle acque
   Le appese ad un ramo;
   Più volte la chiamo,
   Ma è vano il chiamar.
Al Ciel non ascende
   La voce mortale,
   Co' Numi non vale
   L' umano parlar.
L' angelico suono
   Nel cor mi favella,
   Di lor la più bella
   Qual siasi non sò.
Ha Bice nel volto
   Un dolce pallore
   Commisto al rigore
   Che Dante atterrì,
Allor che alla fonte
   Rivolse lo sugardo;
   E a passo più tardo
   Movevasi il piè. Vaghissima è Laura,
   Siccome in quel giorno
   Che all' acque d' intorno
   Petrarca girò;
E oppressa la vide
   Da un nembo di fiori,
   Umil fra gli onori
   E n' arse d' amore.
Ancor serba il nobile
   Modesto contegno,
   Che scosse l' ingegno
   Del dolce Cantor.
Fallaci non sono
   Que' casti costumi;
   Nel regno de' Numi
   Mentir non si può.
A Bice domanda
   Se in mezzo a que' mirti
   Fra i teneri Spirti
   Sia seco Alighier;
E' meco risponde
   L' altera donzella,
   Che quando favella
   Rassembra Giunon; E' meco, e i suoi lauri
   Consacra a me sola,
   Che a lui la parola
   Dettavo e il pensier;
Per me fu Poeta,
   Per me fu sì grande,
   Che il nome si spande
   Pei regni del sol.
Dal dì, che il mio viso
   Seren gli mostrai,
   S' accese a' miei rai
   Divenne cantor.
Laura ode, e modesta
   Suoi pregj non vanta;
   Ma i pregj ne canta
   Il fido amator;
Suonando la Cetra
   Amor degli Dei,
   Petrarca per lei
   Rispose così:
Se Laura non era,
   Io pur non sarìa;
   Che forse invilìa
   Nell' ozio il pensier; Per lei sollevandomi
   Con rapido volo
   Le strade del polo
   La mente varcò;
Per Laura soltanto
   Che l' alma m' accese,
   Di nobili imprese
   Il cor s' infiammò.
Così van cangiando
   Fra loro l' accento,
   E stupido il vento
   Non osa fischiar;
Da gioja compreso
   Fischiare non vuole,
   Le loro parole
   Temendo turbar.
Ma giunge Alighieri
   Che ha tutto raccolto
   Nel macro suo volto
   L' immenso pensier;
A Bice rivolgesi,
   E fervido esclama:
   E' tua la mia fama,
   Fui grande per te; Per te con la mente
   Trascorsi i tre regni,
   E vinsi gl' ingengi
   Che furo, e che son;
Per te dell' esiglio
   Scemavasi il duolo,
   Per te fui quel solo
   Che Italia ingrandì;
Per me la favella
   Ottenne l' impero
   Che ad ogni straniero
   D' invidia é cagion;
Io primo per Bice
   Nel Tempio d' Apollo
   La cetra sul collo
   Facevo suonar.
Ed io, rispondeva
   Petrarca, ai poeti
   Apersi i segreti
   Del regno d' amor.
Diceano più ancora,
   Ma amor m' abbandona,
   E quanto più suona
   Non posso ascoltar. Ancor forse parlano
   Con flebili note,
   Ma l' uomo non puote
   Fra i Numi restar.

Canto l' alta cagion di quella guerra,
   Che intorno a Troja poi durò dieci anni,
   A desolando la Trojana terra
   I Teucri duci pose in gravi affanni;
   Il passato al pensier già mi disserra
   Le promesse fallaci, i tristi inganni. . .
   Vener, sei bella, ma sei pur funesta,
   Se si toglie beltade, e che ti resta?
Già insorta era la lite, e già sull' Ida
   Moveano i passi le sdegnate Dive,
   Il dio Cillenio rapido le guida,
   Ed il fato di Troja i passi scrive.
   Paride il gregge suo minaccia e sgrida,
   Perchè l' accesso a quelle circoscrive;
   Che certo immaginar non si potea
   Che a lui venisse l' una e l' altra Dèa. Quando verso di se venir le vide
   Si fè di fiamma il pastorello in viso,
   E udita la cagion che le divide
   Il cor commove a un palpito improviso.
   Giudice destinato alle disfide
   Fra speranza e timor stassi indeciso.
   Il pomo guata, e in mille dubbj avvolto
   Muto tien fisso sul terreno il volto.
Minerva prima ad ostentar suoi vanti
   Mostra l' Egida immensa e il gran cimiero:
   Avrai quanti splendor tu brami e quanti
   Pregi può immaginare il tuo pensiero;
   Della virtude i sovrumani incanti
   Ti formeran corteggio immenso e altero;
   Avrai quanto d' onor il tuo cor brama
   E il nome tuo consacrerò alla fama.
Dicea; Ma altera si presenta Giuno,
   Io son moglie di Giove, ha scritto in fronte;
   Vede ei l' ardito ciglio e l' occhio bruno,
   E il labbro pronto alle minaccie, all' onte;
   Ch' ei fu ben troppo vil dirà taluno,
   Ma quest' uno io veder vorrei sul monte
   A scioglier, s' egli ha cor cotesta lite
   Che tanti Eroi quindi sospinse a Dite. Venere ignuda, e sol stretta dal Cinto,
   Ch' ha in uso di portar continuamente,
   Si mostra appena e dice in core: Ho vinto;
   E quel pomo egli è mio sicuramente.
   All' amoroso inusitato istinto
   S' impallida nel volto e nella mente,
   Paride ascolta un mormorìo di cose,
   Gli cadde il pomo, ed ei non ne dispose.
Involontario fu quel moto, e ratta
   Citerea lo raccolse e mise in seno;
   Minerva dal furor, dall' ira tratta
   Si spinse sulle strade del baleno;
   Giunone dalla rabbia sopraffatta
   Sciolse agli accenti minacciosi il freno;
   Paride di timor tutto s' investe,
   Sente strisciar sul capo le tempeste.
Ma Vener con un riso, con un vezzo
   Lo rassicura, e gli promette Eléna;
   Ne sente gioja, e ne dovrìa ribrezzo
   Perchè trista cagion di danno e pena;
   Ma il canto qui interrompo e tronco a
   Diverrìa fosca l' aria or ch' è serena (mezzo;
   S' io dir volessi la funesta Istoria
   Ch' è ad Omero cagion d' eterna gloria.

Già torna dalla Maga disperato
   Il Rege d' Isdrael, che udito avea
   Da Samuel l' inevitabil fato;
Il cor gli preme acerba doglia e rea,
   Piange ed insulta in suon d' altra minaccia;
   Ma pianger sì non insultar potea;
Rosso talor, talor pallido in faccia,
   Ora innanzi si spinge, or torna indietro;
   Nè sa quel si voglia o quel che afaccia.
Così con disperato e incerto metro
   Passa il giorno funesto, infin che a notte
   Torna tutto a mirar l' orrido spetro;
Lungo il seguian per le silenti grotte
   Tetri fantasmi, spaventose larve,
   E immagini terribili e corrotte. Nuovamente gigante gli comparve,
   Nuovamente gridò per ben tre volte:
   Morrai Saulle, e in così dir disparve.
Non morrò, con le chiome al vento sciolte
   Esclamò il Re del popolo diletto:
   Ma morrai, ripetean le cupe volte.
Alla seconda voce: Ah dunque stretto
   Dal mio destin, del nuovo giorno ai rai
   Sarò solo d' orror misero oggetto?
Sarà ver ciò che vidi ed ascoltai,
   Oppur m' inganna l' agitata mente
   Per soverchio dolor confusa assai?
Disse; e ad un tratto diventò furente,
   E non avea Davidde con quel suono
   Che calmar lo poetea, benchè demente.
Ode da lungi rimbombare il tuono,
   Sull' occhio ha il lampo, le saette in core,
   E chiede morte per estremo dono.
Ma mille volte pur vivendo muore;
   Ahi vita più di morte dipserata
   Di rammarico piena, e di terrore!
Al sorger dell' aurora intorbidata,
   Dell' altra tromba in ascoltar l' invito
   Scente l' anima in sen che si dilata; Si scuote, e corre alla battaglia ardito,
   Ma vede a mezza via l' Angel di morte,
   Che la sentenza gli segnò col dito.
Le terribili cifre appena ha scorte,
   Sente piegarsi le ginocchia al suolo;
   E tutto abbandonato alla sua sorte
Grida fremendo: Ah! si finisca il duolo,
   E dai mali ch' io soffro, e dalla vita
   Mi tolga in questo giorno un punto solo.
Volge poi l' occhio, ed ahi cruda ferita
   Pel cuor d' un padre! de' trafitti figlij
   Vede l' alma dal petto a far partita.
Allora sì, che gli ricopre i ciglj
   Un vel di morte, e sente intorno al core
   Di mille furìe i sanguinosi artiglij.
Tragge l' acciar dalla vagina fuore,
   E gridando: Ti appaga, Eterno Iddio;
   Spinge la punta in mezzo al petto e muore,
   Spargendo sul terren di sangue un rio.

S' è ver che in petto, Irene,
   Hai brama di consorte,
   Pensa che fino a morte
   Teco dovrà restar.
Pensaci, e queste note
   Scolpisci bene in core:
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.

Irene dal capriccio
   Prender non dei consiglio,
   Nè denso vel sul ciglio
   Metter ti deve amor;
Cerca assai più de' vazzi
   Dell' anima il candore;
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.
Bellezza, è ver, può molto,
   Ma non è tutto ancora,
   E un volto che innamora,
   Specchio del cor non è:
Se i giorni non vuoi vivere
   In mezzo allo squallore,
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.

Come fugace lampo
   Beltà passa e non dura;
   E' un dono di natura,
   Che stabile non è.
Rassembra appunto in tutto.
   Ad un leggiadro fiore.
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.

Se la beltà risente
   Della virtù le tempre
   Sempre risplende, e sempre
   Più innamorar ci fa.
Ha allor di stringer l' anime
   Più forza e più valore;
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.
Pensa, che Olimpia amabile
   Che ci descrive Ariosto,
   Il suo piacer riposto
   Avea nella beltà;
Bello Emiren, ma l' anima
   Chiusa alle vie d' onore,
   Nel seguitar l' amore
   Non conoscea virtù.
Quanto saría terribile
   Se, dopo il giuramento,
   Venisse il pentimento
   La gioja a funestar.
La gioja trasformata
   Vedresti in rio dolore,
   Se non guidasse amore
   La man della virtù.

Già poco fa cantai
   Di Paride, e di Elèna;
   Beltà richiese, e pena
   Con la beltà trovò.
Beltà a virtù congiunta
   Sempre ha poter maggiore;
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.
Pria che ne' lacci suoi
   Ti stringa il cieco nume,
   Esamina il costume
   Di chi ti offerse il cor;
Poi di quel fuoco accogli
   In sen tutto l' ardore,
   E guidi il cieco amore
   La man della virtù.

Ma quando ancor sembrassero
   Per te vani i consiglj,
   Pensa ai futuri figlj
   Che avran natal da te.
Vorresti ad essi un padre
   Dar privo di pudore?
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.

Puote l' esempio assai
   Nell' alme de' fanciulli,
   E i teneri trastulli
   Pingono il genitor.
Non far che ti secuda
   Un lusinghier languore;
   Sia guida al cieco amore
   La man della virtù.
Se questa il cor ti lega,
   E se all' altar t' invita,
   La tua felice vita
   Ciascuno invidierà;
Ch' ogni piacer si sente
   Nascer d' intorno al core,
   Se guida il cieco amore
   La man della virtù.

Ma se virtù non curi,
   E sol desii bellezza,
   Ripiena di tristezza
   La vita tua sarà;
Ch' ogni piacer nell' anima
   Illanguidisce e muore,
   Se non conduce amore
   La man della virtù.


Dato dalla Ch˙ sma Signora Teresa Dini Piermarini

Oh! de' partiti
  Il genio pera
  Che in cruda fiera
  Cangia il mortal.
Veggo Ugolino
  Co' figlj oppresso
  Mirar se stesso
  Ne' volti lor.
Piange quel padre,
  Non già per lui,
  Pe' figlj sui
  Parte di se. Vorrìa piuttosto
  Soffrir la morte,
  Che ad equal sorte
  Color mirar.
Sta nella carcere
  Che li rinserra,
  Ove sol' erra
  Morte, ed orror.
Del Sol non entra
  Un piccolo raggio
  A dar coraggio
  Agli egri cor.
Pel suole tremendo
  Già più non piange,
  Ma il crin si frange,
  Morde la man;
Piangono i figlj
  In tanta doglia. . .
  Padre la spoglia
  Distruggi pur;
Tu ne vestisti
  Cotesta carne,
  Tu puoi spogliarne
  O padre ancor. Freme all' immagine
  Di tanto orrore;
  Al Genitore
  Si rizza il crin.
Volge le luci
  Sdegnose al cielo;
  Lo rende un gelo
  Tanto dolor.
Ma giunti al quarto
  Giorno dolente,
  I figlj sente
  Chieder del pan;
E il pan non solo,
  Ma insiem pietade,
  E Gaddo cade
  Disteso al suol.
Fra il quinto giorno
  Tutti moriro,
  Ed il sospiro
  Ei ben n' udì.
Volea soccorrerli,
  Ma non potea,
  E non piangea;
  Tanto impietrì. Quando un silenzio
  Di morte intese,
  I nomi imprese
  A richiamar:
Ma alla sua voce
  Nessun rispose,
  O lamentose
  Le voci fur;
Che l' eco sola
  Diè a lui risposta
  Cupa all' opposta
  Parte del ciel.
Richiama i figlj
  Ad uno ad uno
  E più il digiuno
  Del duol potè.
Ahi dura terra
  Agli atti tristi
  Che non ti apristi
  Per la pietà!


Dato dal M˙ U˙ Dr˙ Francesco di Mattòli

Creator dell' Italico suono,
  Dipintor dell' immensa natura,
  Chi descriver tuoi vanti procura
  Contar tenta l' arene del mar.
Esser grande, sublime ed immenso
  E' il primiero d' ogn' altro tuo vanto;
  E' pur tuo quell' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.

Tanti secoli sono che attendo,
  Che natura un' eguale produca,
  Ma un' eguale che tanto riluca
  Questa etade ahi che mai non avrà!
Al sparir del tuo spirto magnanimo
  Di tal speme è sparito l' incanto.
  E' pur tuo quell' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.
Tutto è grande nell' opra sublime
  Che a ragione divina chiamasti,
  Ma Francesca, e Ugolin fia che basti
  L' alt' idea per serbarci di te.
E chi fia, che rattenga nel leggere
  Quell' Istorie sugli occhj 'l suo pianto?
  E' pur tuo quell' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.

Ah non fia che si trovi nel mondo
  Chi sorpreso non l' oda, o non l' ami!
  Quel Sordel che cortese tu chiami,
  Perch' ei sente di patria l' amor.
Quest' amore, cui l' egual non può darsi,
  D' ogni amore il più puro, il più santo;
  Ah ch' è tuo quell' altissimo canto

  Che d' Italia fa il nome eternar!
S' egli è ver, che dal sommo volume
  Del Poeta del Lazio gentile
  Tu prendesti l' immagin, lo stile
  Che sí grande e glorioso ti fè;
Non cantava più dolce di Enea
  Che fuggiva dal patrio suo Xanto.
  Ah ch' è tuo quell' altissimo canto

  Che l' Italia fa il nome eternar! E Petrarca, ed Ariosto e 'l mio Tasso
  Nati son dall' altera tua mente,
  Al pensiero t' aveano presente;
  Quegl' ingegni fur grandi per te.
Sì che il lauro che 'l capo ti cinge
  Mai vedrassi sfrondato ed infranto,
  Perch' è tuo quell' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.

Vero è pur che sia il Tempo de' numi,
  Tristo nume, il maggiore e possente,
  Ma con te non ha forza il suo dente,
  Perchè eterno il tuo nome vivrà.
Come vive nel fuoco avvampando
  Il filato dal sasso amianto;
  E' pur tuo quell' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.

Quanto tempo è ch' io piango, e in Italia
  Niuno asterge il mio pianto dal ciglio;
  Ah Calliope ha perduto il suo figlio,
  E l' egual la natura non ha!
E se eguale al mio Dante non nasce
  Quell' allor che coglieva già spianto;
  Più non s' ode l' altissimo canto
  Che d' Italia fa il nome eternar.

Porta per la Giudea l' orrendo Editto
  La Diva che ha cento' occhj e cento penne,
  Ed ogni madre col cuore trafitto
  In quella Regia spaventosa venne;
  Non resta un figlio solo derelitto
  Che materna pietà non lo sostenne,
  Teme a recarlo, ed in lasciarlo teme,
  Sta sempre incerta d' ingiustizie estreme.
Di rabbia e di timor ripieno il petto,
  Sta sovra il soglio assiso il reo regnante,
  Porta in fronte scolpito il rio sospetto,
  E si legge il timor su quel sembiante:
  Tutte le furie gli spargeva Aletto,
  E il rendevan confuso e delirante;
  Vedea la man che lo voleva oppresso,
  E fuggendo d' altrui temea se stesso. Nascere in quell' etade ahi fu gran fallo!
  E fallo ch' espiar dovea la morte;
  Aperto era alla Reggia immenso il vallo.
  Ma non si uscìa di là con egual sorte;
  Bastava un solo indizio, e un intervallo
  Non rimanea d' uscir da quelle porte;
  Ch' ogni fanciullo appena nato al mondo
  Di morte al sonno si gittò profondo.
Or mi si apre la scena atra di pianto,
  Quasi rifugge nel narrarla il core;
  Scuote appena il gran Re per segno il manto
  Che sbucca da ogni lato un' uccisore;
  Tenta ogni madre spaventata intatno
  Fuggir col caro pegno del suo amore,
  Ma il tenta invan che la raggiunge il crudo
  E vibra in sen del figlio il brando ignudo.
Un ne veggo da due nel sen trafitto
  Stendere a lor le braccia tenerelle,
  L' altro, che ignora in lui qual sia delitto,
  Ricerca della madre le mammelle;
  Un' altro fugge oppresso e derelitto,
  E della madre al seno altro si svelle;
  Si rinnuovano intatno a cento a cento
  Le scene di terrore e di spavento. L' una madre, prendendo dall' orrore
  Di tanta ferità forza e coraggio,
  Stende una mano al suo figliuol che muore,
  Con l' altra all' uccisor far cerca oltraggio;
  Un' altra con incerto afflitto core
  Se stessa tenta offrir per lieve ostaggio,
  E chiede almen, se non ha scampo o speme,
  Solo poter morir col figlio insieme.
Che val ch' io narri l' orrido contrasto
  Che succedeva in quel fatal momento,
  Tant' orrore a narrarvi ahi che non basto!
  Di tanta atrocità minor mi sento.
  Ma invan la strage per quel regno vasto
  Sospingeva d' Erode il reo talento;
  Beveva il Redentor nel suo ritiro
  L' aure di vita, e sorridea l' Empiro.

Quando Minosse giunse
  Di Niso al vasto regno
  Della ragione il segno
  La figlia oltrepassò.
Scilla d' amor la fiamma
  Raccolse a poco a poco,
  E inestinguibil foco
  Tutto le accese il cor.
Già di Minosse il volto
  Per essa ha un dolce incanto,
  Già lo vagheggia, e tanto
  Sente per esso amor
Che nel suo seno soffoca
  Ragion, dover, natura,
  E sol d' amor procura
  Le leggi seguitar. Pendea dal crin petarno
  La sorte di quel regno,
  E il feminile ingengo
  Quel crine a lui strappò;
E allo strappar di quello,
  Per il voler del fato,
  Niso in sparvier cangiato
  Pel vasto cielo errò.
L' aria agitando ancora
  Siegue l' indegna figlia,
  Che di rossor vermiglia
  Cangiavasi in augel.
E l' amator Minosse,
  Come nel ciel fu scritto,
  Di tanto reo delitto
  Il frutto conseguì.

Ah! se Roma discacciommi,
  Io cangiar non saprò tempre
  Benchè ingrata è patria sempre,
  E la volgio vendicar.
S' io nascea degno di lei
  Dimostrar saprò pugnando.
  L' oro nò, ma il roman brando
  Sia de' Galli il domator.
Col metallo non si cangia
  D' esser nati in lei la gloria,
  Ah si perda la memoria
  Di quest' atto di viltà!
D' oltraggiarci gli stranieri
  Cesseranno, e chi sa quando?
  L' oro nò, ma il roman brando

  Sia de' Galli il domator. Tenti invan coll' oro Brenno
  Bilanciar la spada ultrice,
  Ne' tuoti fasti ognor felice
  Io saprotti rintuzzar.
Fuggi a vol da questa terra,
  Che la peggio avrai restando.
  L' oro nò, ma il roman brando
  Sia de' Galli il domator.

Se dal sonno ci destava
  Quell' augel sacrato a' Numi,
  Roma ai liberi costumi
  Torni, e al prisco suo splendor.
A scacciar le turbe basta
  Un aspetto venerando.
  L' oro nò, ma il roman brando
  Sia de' Galli il domator.

Venerando fia ogni vecchio
  Senator sul soglio assiso,
  Che dipinta porti in viso
  La romana libertà.
E vedrem quel Brenno cedere
  Delle schiere altrui il comando.
  L' oro nò, ma il roman brando
  Sia de' Galli il domator.
Se pugniamo il nome basta,
  Bastan solo i nostri aspetti,
  Tronchi i braccj, anco co' petti
  Sarem pronti a contrastar.
E non sperino un trionfo
  Che saria per noi nefando.
  L' oro nò, ma il roman brando
  Sia de' Galli il domator.

Tristo amore ardea nell' anima
  Di Tanacro, che feroce
  Sol d' amor sentia la voce
  Chiuso il core alla virtù;
E lo sposo di Drusilla
  Per le man di cento sgherri
  Sotto i crudi ignudi ferri
  Trucidato fa morir.
Si credea che col delitto
  Non venisse il pentimento,
  Quel carnefice cruento
  Cui il delitto è genitor;
Ma lo prova e in sen lo soffoca
  Tanto gli empie il cor, la mente
  Quella fiamma che possente
  Gli destava in petto amor: Ma Drusilla al caro sposo,
  (Come l' uom sempre non crede)
  Gloria al sesso, serbò fede
  E sul cener la giurò.
Il serbar, se nulla costa,
  Del consorte la memoria,
  A me sembra poca gloria,
  A me sempra poco onor.
Bel serbarla, allor che puote
  Alla vita esser d' oltraggio,
  Bel serbarla offrendo omaggio
  Allo sposo col morir.
Quest' esempio offre Drusilla,
  Quest' esempio alto e tremendo,
  Ed io questo a dirvi imprendo;
  Ch' il desio m' infiamma il cor.
Finge. . . oh! bello il finger, quando
  La finzion da virtù nasce;
  Di lusinghe l' empio pasce
  E vendetta cova in sen.
Vuol, se stringer deesi il nodo,
  Allo spettro del marito
  Offerir prima quel rito
  Che offrirebbe al patrio suol. Acconsente il cieco amante
  E si arrende al suo pensiero,
  Che un' omaggio passaggiero
  All' amor luogo darà.
Lieta allor Drusilla volgesi
  All' antica e fida ancella,
  E in tal guisa le favella
  Tutto a lei svelando il cor:
Donna, chiede il caro sposo
  La vendetta dalla tomba,
  E altamente mi rimbona
  Quella voce in mezzo al cor.
Quella voce a me risuona
  Quando l' aere si fa fosco;
  Tu mi porgi un ferro, un tosco;
  Ch' io lo possa vendicar.
Porge il tosco a lei la vecchia,
  Onde il nappo ne cosperge,
  Poi l' altar coll' onda asperge,
  E porzion ne versa in sen.
Indi il nappo offre all' amante
  Che si mostra a lei sereno,
  Ed inghiotte quel veleno
  Che vendetta preparò. Ha bevuto; e a lei distende
  Poscia Tanacro le braccia,
  Ma Drusilla lo discaccia
  Che più fingere non sa;
Empio pensi in tal' instante
  A immodesti abbracciamenti,
  E il veleno non ti senti
  Per vene serpeggiar?
Io morendo è ver son teco,
  Ma tu scendi al pianto eterno;
  Tu trabocchi nell' averno,
  Io m' innalzo lo spirto al ciel.
Io raggiungo l' adorato,
  E da tu mio spento sposo,
  Tu nel tartaro affannoso
  Vai la morte a ritrovar.
Tace, che vien meno omai
  Coll' anelito il respiro,
  Volge i lumi mesta in giro
  Poi l' innalza lieta al ciel:
La vendetta, escalama, io feci;
  A te volo, amato sposo;
  E nei regni del riposo
  La bell' anima volò.

La schiava mia rapirmi!
  E Atrìde osò cotanto?
  Porti la guarra al Xanto,
  Ma Ilio in piè starà.
Che distruttor di lui
  Esser potea sol' io;
  Tremi chi all' amor mio
  Torre Brisedie osò.

Quanto pungò da fote
  Ai rei Trojani avverso,
  Tanto negli ozj immerso
  Achille resterà.
E ad ogni impresa nobile
  Il core avrá resto;
  Tremi chi all' amor mio
  Torre Brisedie osò.
Quando Larissa io vinsi
  L' ebbi gradita spoglia,
  Che questa ancora si voglia,
  Ah sopportar nol sò!
Era del cor costei
  L' unico e bel desìo;
  Tremi chi all' amor mio
  Torre Briseide osò.

Madre sei Diva invano
  Se ple figliuol non vali;
  Se in mezzo a tanti mali
  Achille resterà.
. . . . . . . . . .
  . . . . . . . . . .
  Tremi chi all' amor mio
  Torre Briseide oso.
Stanno in mia man di Troja
  Tutti racchiusi i fati,
  Vedranno i Greci ingrati
  Che possa il mio furor.
Tutte le imprese andate
  Ricoprirà l' obblìo;
  Tremi chi all' amor mio
  Torre Brisedie osò.
Ma il dir che giova? Io piango!
  Di pianto versa stille
  Quel formidato Achille
  Che mai non lacrimò?
Sento che l' alma investe
  Di morte il brividìo;
  Termi chi all' amor mio
  Torre Briseide osò.


Dato dal Ch˙ mo Monsignor Marchetti

"Non è ver che sia la morte
  "Il peggior di tutti i mali,
  "Ma è il sollievo de' mortali
  "Che son stanchi di penar.
E ad un cor puro e sincero,
  A uno spirto generoso
  Egli è il sonno del riposo
  Nel bel sen d' eternità.
Teme sol di questo nome
  Chi di colpe ha il cor macchiato,
  Nel mirar l' estremo fato
  Vede eterno il suo soffrir.
Ma chi porta di delitti
  Scevro il core e l' alma integra
  Alla morte si rallegra
  Che non sa che sia timor. Veggo il Giusto sulle piume
  Aspettando il fato estremo,
  Che al divin voler supremo
  Piega il ciglio e piega il cor.
Tu signor nel tuo bel regno
  (Dice in se) chiamar mi vuoi,
  Ai supremi cenni tuoi
  Io rassegno il mio voler.
Veggo intorno al mesto letto.
  La miseria desolata,
  Da quel giusto consolata
  Ne' suoi giorni di dolor.
La pietà mesta nel viso
  Cinto il sen di bianco ammanto,
  La pietà gli sta d' accanto
  La miseria a consolar.
Già prorompe: E' vano il pianto,
  Che al Signor chiarmarmi piace,
  Io men vò; restate in pace
  E tergete il lacrimar.
Non è ver, non vado a morte,
  Vado in bracci od' altra vita;
  La mia favola è compita
  Vado il vero ad imparar. Tronca i detti il giusto, e passa
  Col piacer dipinto in viso,
  Apre il labbro ad un sorriso
  Che la speme gli destò.
E perchè ripiena ha l' alma
  Di costanza, amore e fede,
  Trova in ciel pronta la sede
  Che il Signor gli destinò.
Ah! che invidio quella morte,
  E disprezzo questa vita;
  Ch' ei la favola ha compita
  E or conosce il vero appien.


Dato dal Ch˙ mo Sig˙ r Cap. Michelangeli

Serbar fede a vivo sposo
  Di virtude è un bell' istinto,
  Ma serbarla a sposo estinto
  E' demenza, è vanità.
Se il consorte cadde spento
  Io suo spirto dorma in pace.
  Io mio bene estitno giace,
  Ah! si cerchi un' altro amor.

So che Dido anch' ella un tempo
  Con color feroce e reo
  Allo spettro di Sicheo
  Giurò fida eterno amor; Ma vedendo Enea, lo scorda
  E a novello amor soggiace,
  Io suo bene estinto giace
  E ricerca un' altro amor.

Artemisia è ver che intrepida
  Sopportò la sua catena,
  E cambiar non volle scena
  Sul teatro dell' amor;
Ma però di seguir questo
  Strano esempio a me non piace;
  Io mio bene estinto giaceo
  Ah! si cerchi un' altro amor.

E nemmen seguir volg' io
  Dell' Indian l' empio costume
  Che costringere presume
  Una sposa a eterna fè.
Che se l' uom perde la vita
  Imeneo spegne la face;
  Io mio bene estinto giace
  Ah! si cerchi un' altro amor.

So che Evadne, a consorte
  Del superbo Capanèo,
  Su quel rogo andar volèo
  Sorte istessa ad incontrar. Stolta fè che altrui non giova;
  Ed è a se troppo fallace;
  Io mio bene estinto giace
  Ah! si cerchi un' altro amor.

Così dice quella vedova
  Che l' affetto non sentìa,
  E con voglia strana e ria
  Sol fingea sentire amor;
Non si spegne amor nel seno
  Quando è puro ed è vivace;
  Se lo sposo estinto giace
  Non si cerchi un' altro amor.

Resti pur cotesta stolta
  Al desìo che la molesta,
  Ma la vita che le resta
  Fra le lacrime vivrà.
Che altro sposo fia che moderi
  Quella lingua sua loquace;
  Se il secondo estinto giace
  Non invoca un terzo amor.

Già di Giunon terribile
  Il minacciato sdegno
  Riduce in polve il regno
  Che d' Asia fu splendor.
Veggo le fiamme e il fumo
  Sparsi per ogni loco,
  Dove non splende foco
  Risplende il greco acciar.
Già di Sinon l' inganno
  Aperse immenso vallo
  Al micidial cavallo
  Che asconde insidie in sen:
Mentre che il sonno ingombra
  De' Teucri l' egre menti,
  Pronte le Greche genti
  Da quel cavallo uscir. Ma invan descriver tento
  L' eccidio aspro e funesto,
  E sul confin m' arresto
  Del torbido avvenir.
Sieguo il figliuol di Venere
  Che riede ai lari suoi,
  In mezzo ai Greci Eroi
  Forza facendo ognor;
E in rimirar quel Priamo
  Che cade oppresso e muore,
  Rammenta il genitore
  L' amato figlio ancor.
Pensa, risolve e vola
  Dove quei dolci oggetti
  Stavan battendo i petti,
  Ed oltraggiando il crin.
Al comparir di lui
  Ciascuno un grido mise,
  Ed il buon vecchio Anchise
  Così proruppe allor:
Salva la sposa amante,
  E il pargoletto figlio,
  Ahi troppo duro esiglio
  Lunghi dal patrio suol! Ma se, soggiunse, parti
  Glorioso tornerai,
  E Troja innalzerai
  Dov' ella cadde un dì.
Volea restar quel vecchio
  Preda d' orribil guerra,
  Ma un' astro si disserra
  Dai cardini del ciel.
E nel lambrigli il crine,
  Mentre egli il capo ha chino,
  Gli addita il suo destino
  E vuol che viva ancor.
Allor prosiegue Anchise
  A ragionar col figlio:
  Dal doloroso esiglio
  Enea mi salverà.
S' incaminò tra i fumi
  Del patrio tetto offeso,
  E coll' amato peso
  Enea da Troja uscì;
E nel partir diceva:
  Sgombra ogn' idea di gioja
  Parto distrutta Troja,
  Ma un dì ritornerò; Sì tornerò, lo spero,
  Sì tornerò, lo sento,
  E sacro il giuramento
  Del mio tornar sará.
Bacia, così dicendo,
  Del limitar la soglia,
  Ch' ora è cagion di doglia,
  E di piacer lo fu.
E mentre incerto muove
  Infra le fiamme i passi,
  Le mura, i tetti, i sassi,
  Tutto saluta il cor.
Ma intanto che dolente
  Prorompe al mesto addio,
  Già de' destini il Dio
  Lo chiama al Lazio in sen;
E nel fuggir la patria
  Il fato rio seguiva,
  Venere gli rapiva
  Creusa il caro ben;
Ond' ei, per l' aer cieco,
  Caliginoso e tetro
  Poscia tornava indietro
  La sposa a ricercar.

Nel sottrarmi all' empio amante
  Cui l' egual mai non si vide,
  Quella destra che m' uccide
  Nel morire io bacierò;
Bel morire, se me toglie
  Alle insidie, alle ritorte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.

. . . . . . . . .
  . . . . . . . . .
  . . . . . . . . .
  . . . . . . . . .
Venga pure un altro Bruto
  E mi dia l' istessa sorte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.
Vado lieta in riva a Lete,
  Ove Icilio omai mi attende
  Che la braccia a me distende,
  E m' invita a riposar.
Giá raggiungo col desìo
  Quello spirito consorte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.

Appio invan le accuse esponi
  Ed invan Marco ti aita,
  Mira in petto la ferita
  Che mi rende libertà.
Ora venga a incatenarmi
  La servile tua coorte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.

Madre mia, deh perchè piangi?
  Rasserena le tue ciglia,
  Che la vita della figlia
  Tu dovresti deplorar,
Non la morte che mi toglie
  Alle atroci liti insorte;
  Vado lieto in seno a morte,
  Ma conservo io mio pudor.
Mira l' empio, che credea
  Di sfogar l' iniqua brama,
  Che Virginia implora e chiama,
  Ma Virginia più non è;
Vedi come intorno volge
  Quelle luci fosche e torte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.

Resti pur, resti alla terra
  Di quell' empio il mortal velo;
  Alma bella io vado in cielo
  Dagli affanni a riposar;
Già di Genj elette schiere
  Ne disserrano le porte;
  Vado lieta in seno a morte,
  Ma conservo il mio pudor.

Tristo esempio feral d' amor paterno
  Scordar se stesso per l' ucciso figlio,
  Scordar perfino l' odio antico eterno
  E insiem qualunque idea d' ogni periglio!
  Certo che fu voler d' alcun superno
  Nume che porse a Priamo un tal consiglio.
  Come potea senz' opera di un Nume
  Scordar l' età, cambiar perfin costume?
Mercurio il guida ai piè del gran Pelide
  Che non rivolge a lui neppur lo sguardo,
  La vista di quel crudo il cor gli uccide
  E muove il piè tremante allor più tardo,
  Tanto dappresso il vecchio mai nol vide
  E del duolo gli avea scoccato il dardo,
  E gli vedea ne' suoi furori insani
  Del sangue del figliuol lorde le mani. Pur quel truce e terribile guerriero
  In lui del padre suo vide la sorte,
  Pelèo tosto ricorse al suo pensiero,
  Pallido come quel tinto di morte,
  Versa lacrime allor fuor del cimiero
  E a senso di pietade apre le porte,
  Ma Patroclo, l' amico, alla sua mente
  Ritorna, ed ei ritorna allor furente.
Patroclo che non sazio di Vendetta
  Vuol come il figlio ucciso il genitore,
  Ahi discordia infernal la tua saetta
  Abbastanza scoccasti a lui nel core!
  A tornar nell' abbisso ora t' affretta
  Che spargesti abbastanza il tuo furore,
  Cessi dell' ire tue l' orribil' angue;
  Abbastanza versò Troja di sangue.
Priamo si volge a quella man rubella
  Che aveale ucciso il figlio, e al sen la stringe,
  Si scioglie il labbro a tenera favella,
  E di vivo colore il volto pinge:
  Se discordia più il cor non ti flagella
  E ti saziò la strage che ti cinge,
  Or pietoso t' arrendi alla mia voglia,
  E dammi almeno del figliuol la spoglia; Se pietade di lui già non ti muove
  E porti l' ira al regno d' ogni estinto,
  Ti muova il pianto che dagli occj piove,
  Ti basti il dir che due volte m' hai vinto:
  L' una, quando facesti in lui le prove,
  L' altra, ora che di duol mi vedi cinto
  Baciar la mano, e bagnarla col ciglio,
  La mano stessa che m' uccise il figlio.
Vada pur Troja mia tutta in faville,
  Or ch' ho perduta in lui l' ultima aita;
  Vengano i Mirmidoni a mille a mille,
  Sfoghino l' ira lor nella mia vita;
  Oppur tu stesso, tu mi svena Achille
  Che già vinto mi festi altra ferita;
  Con l' acciar di tua mano aprimi il seno,
  E sul corpo del figlio io muoja almeno.
Pietà del vecchio re Pelide prende,
  Volge d' intorno inumidito il ciglio,
  Nel suo dolor quello del padre intende,
  Vede in quello d' Ettorre il suo periglio;
  Alfin nel dar la spoglia, non offende
  Patroclo, che uccidea di Priamo il il figlio,
  Se di Troja a feral, cupa sciagura,
  Tre volte il trascinò presso le mura. In mirar Priamo che più non è irato
  Tutto sul cor gli si restringe il sangue,
  Deplora d' Ilion l' ultimo fato
  E bacia il corpo del suo figlio esangue,
  Ed in quel pianto il duol tutto ha placato,
  Nè di disperazion più il ode l' angue;
  E verso Troja sotto l' aer tetro
  Colla spoglia feral ritorna indietro.

Accennai già di Troja il pianto, il foco,
  Del partire d' Enea nell' argomento,
  Ma torno nuovamente al primo loco,
  Or che al tema feral chiarmar mi sento.
  Tristo della fortuna orribil gioco,
  Funesto odio implacabile e cruento,
  Tu rinnovi la strage, e tu lo sdegno,
  E distruggi dell' Asia il più bel regno.
Narrai siccome entrò dentro le mura
  Per opra di Sinon l' empio cavallo
  Che racciudeva in seno ogni sventura,
  E della notte uscì nell' intervallo;
  Laocoonte d' opporsi invan procura
  Ch' ebbe la morte in pena di tal fallo;
  Si oppon contro di Troja irato il Nume,
  E l' uomo opporsi al cielo invan presume. Non si ode squillo nò di greca tromba,
  Tutto è silenzio orribile di morte,
  Dove prendevan sonno hanno la tomba
  I Trojani in balia di fiera sorte,
  Ecco il Greco improvviso; ecco che piomba,
  Ecco già tutte spalancar le porte;
  Ad arrecar strage, rovina e sangue
  La discordia del crin scoteva ogn' angue.
Tardi avveduti di quel greco inganno
  Sbalzano i Teucri dalle calde piume,
  E la corazza a rivestir si vanno
  In belligero e rapido costume;
  Fra lor medesmi allor la guerra fanno
  E della notte non splendeva il lume,
  Che Cinzia stessa inorridita in cielo
  Si faceva di nubi un denso velo.
Orribile sorgea del fiero Achille
  In atto minaccioso il truce spetro,
  E sangue, sangue vuol per quante stille
  Ei ne versava con terribil metro.
  S' odon voci ferali a mille a mille
  Una turba si avanza, una va indietro;
  E così orrenda è quella mischia atroce,
  Che più non si distingue umana voce. Lo spettro insanguinato altro di Ettorre
  Quanto diverso dal primiero aspetto!
  Nei. . . . . . . . . . .
  Mostrando ancora lacerato il petto.
  . . . . . . . . . . . . .
  . . . . . . . . . . . . .
  Facea fè del valor del nostro regno,
  Or dell' ira de' Greci è fatto segno?
Sorse Enea, rimirò siccome avvampa
  Tutta intorno la Reggia gemebonda;
  Vede il Greco infedel che là si accampa,
  Dove di Troja il fior più bello abonda;
  In mezzo ai corpi rovesciati inciampa,
  In mezzo al sangue il piede si sprofonda,
  Ovunque ei vede, ahi vista di spavento
  Fiamme, strage, rovina, e tradimento!
Invan dirvi vorrei l' aspro conflitto
  Dei mischiati terribili guerrieri.
  Per man di Pirro Priamo fu trafitto
  Della Reggia fra i placidi sentieri;
  Polite desolato e derelitto,
  Ahi lasso! ora ridir non è mestieri
  Come cadesse sotto il padre oppresso
  Ferito anch' egli da quel ferro istesso.

Per salvarti dal nembo fosco e tetro,
  Non pronunciar l' incauto giuramento;
  Parola che sfuggì, non torna indietro.
Ahi che le mie parole io spargo al vento,
  Ei non m' ascolta, e già pronuncia il voto
  Che gli sarà cagion d' alto tormento.
Il nemico furore è andato a vuoto;
  Nè più in sen dell' olimpica regione
  Contrastano fra loro Aquilo e Noto.
Già sopra il patrio suolo il piè ripone
  Il vincitor delle Ammonite genti,
  Tutto a gioja per lui si ricompone;
Ma più che non gli fur contrarj i venti,
  Quella calma per lui sarà funesta,
  Meglio se andava in preda agli elementi. La sola unica figlia che gli resta
  Tosto si allegra al vicino ritorno,
  E si raddoppia nel suo cor la festa.
Si fa di nuove gemme il capo adorno,
  E in anella compone il biondo crine
  Ch' era prima disciolto e disadorno.
Lo copre a fior, dovea coprirlo a spine
  Che moriva delgi anni nel bel fiore
  Giunta di prima etade in sul confine;
A braccia aperte incontra il genitore
  Ch' ha consacrato il primo in voto al nume
  Onde di orror tosto si agghiaccia il core.
Non, come prima avea dolce costume,
  Consente a quel filiale abbracciamento,
  Ma di pianto dagli occhj versa un fiume.
Maledice quel torbido elementi,
  Poi muto rivolgendo gli occhj al cielo
  Spiega assai col silenzio il suo tormento.
La figlia a vista tal resta di gelo,
  Comprendere non sa l' alta cagione
  Di tanto affanno, a fassi agli occj un velo
Della sua man; All' atto si dispone
  Di trucidarla. . . Ma il cor gli si agghiaccia
  E contrasta il dover con la ragione; Dovere il giuramento gli rinfaccia,
  Pietà gli grida al cor ch' essa gli è figlia,
  E il dover la pietà dal cor discaccia.
Disperato al dovere alfin si appiglia,
  Snuda la spada a trapassarle il core,
  Ed altrove in vibrar volge le ciglia.
Comprende allor Seìla il voto, e muore
  Benedicendo il colpo che la uccide,
  Ed il nome chiamando il genitore.
Il colpo in mezzo al cor rimbomba e stride;
  Ahi di costanza non più visto esempio!
  Nò; che fatto simil mai non si vide;
  Ei pianse, e l' armi sue depose al Tempio.

Curiosità funesta
  Ai cupidi mortali,
  Per te dal vaso i mali
  Fece Pandora uscir;
E fra cotanti affanni
  A noi soltanto avanza
  Un filo di speranza
  Chiuso nell' avvenir.
Curiostià funesta
  All' uno e all' altro sesso,
  Pur dir mi sia concesso
  Per chi peggior sei tu.
Orfeo perchè curioso
  Volse lo sguardo addietor,
  Al morto regno e tetro
  La sposa sua tornò, Ma nelle donne è vero
  Questo maligno istinto,
  Più che nell' uomo, è spinto
  Ben spesso volte al cor.
Quando per giusta legge,
  Per meritata pena
  Di fiamme oppressa e piena
  Sodoma s' incendiò;
Sara al desìo curioso
  Rapida impennò l' ale,
  E fu cangiata in sale
  La spoglia sua gentil.
Dina perchè curiosa
  Sospinse il suo talento,
  Diè luogo al rapimento
  Che sangue assai costò.
Psiche, cedendo al barbaro
  Troppo maligno invito,
  L' amante suo schernito
  Misera! un dì perdè;
Scese fatal scintilla
  Dalla fatal lucerna,
  E in una doglia eterna
  La misera restò. Ma questo pur non basta,
  Altro desìo curioso
  Nel suo camin penoso
  Il cor gli molestò.
Quando la vaga Diva
  Chiusa le diè beltade,
  Onde le immense strade
  Dovesse rivarcar,
Psiche curiosa ancora
  Aprì quel vaso atroce,
  Ed il sopor veloce
  Al capo le salì.
Curiostià funesta
  Ai miseri mortali!
  Per te dal vaso i mali
  Pandora rovesciò.


Dato dall' Dr˙ Franco Niccoletti

Rosa sei simbol divino,
  E pel fiore e per lo stelo,
  Quando cedi al brumal gelo,
  Quando al tiepido calor.
Come te dell' uman vivere
  E' la via scabra e spinosa;
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.

Il giacinto, l' Amaranto,
  Ed il Croco e la Giunchiglia,
  E dei fiori la famiglia
  Non ha alcun simile a te.
Di te sol s' adorna il crine
  All' altar la fresca sposa;
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.
E Catullo, Ariosto e Tasso
  A vezzosa verginella
  Te vivace, quanto bella,
  Somigliarono talor.
Ch' or ti mostri, e fra le siepi
  Or modesta stai nascosa;
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.

Il natal dal Dio traesti
  Ch' è signor d' uomini e Dei,
  Ornamento a lui tu sei
  Quando al petto stringe Imen;
Ed allor splendi più bella,
  E fai l' aria più odorosa;
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.

Quel buon vecchio Anacreonte
  Di te sol cingeva il crine;
  E di vita sul confine
  Sol di te sapea cantar;
Sol per te dettava rime
  La sua Musa allor ritrosa.
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.
Egli è ver che un giorno a Venere
  Il bel piede tu pungesti,
  E il colore ne traesti
  Che gelosa sai serbar.
Ma non t' odia, anzi gentile
  Sulle fronde tue si posa.
  Sei tu rosa rugiadosa
  La regina d' ogni fior.

Tristo, se a un cuor Cupido
  Le sue saette avventa,
  E chi di opporsi tenta
  Al sommo suo poter
Tenta di far ritorcere
  Alla sorgente i fiumi;
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.

Che Giove, il primo in mezzo
  Ai numi abbia atterrato,
  E' tal poter che il Fato
  Già contrastar non può;
Che a lui soggiacque spesso
  Son pieni ampj volumi;
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.
Depor gli veggo il fulmine
  E il diadema d' oro,
  E trasformato in toro
  L' ascolto anche mugghiar.
Di toro ha il piè le corna,
  Il passo ed i costumi;
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.

E perchè mai d' Europa
  In sulle verdi sponde
  Fra il gregge si confonde
  Manda il muggito al ciel?
Perchè piagato il core
  Gli hanno d' Europa i lumi;
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.

Lo vede Europa, e amabile
  Prorompe in un sorriso,
  E a raddoppiar quel riso
  l'alpa l' irsuto sen.
E alcuni fiori strappa
  Fra qulle erbette, e i dumi . . .
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.
Ma già la veggo; Ah incauta!
  Salir l' infido dorso,
  E di fioretti un morso
  Di propria man compor;
Europa una difficile
  Impresa ora ti assumi.
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.

Già il toro amante gittasi
  Ebro d' amor nell' onde,
  Già lungi dalle sponde
  La ninfa sua portò.
Giuno di rabbia invano
  Gelosa ti consumi
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.

Europa al mondo il nome
  In parte almen darai,
  Asciuga i tuoi bei rai
  E cedi al tuo destin.
D' opporti al gran Tonante
  Misera invan presumi;
  Anche nel cor de' numi
  Ha sua possanza amor.


Dal Ch˙ mo˙ Professore Vitale Rosi

Quel gran Dio che nell' esiglio
  Guidò i passi degli Ebrei
  Sarà scorta a' passi miei. . . .
  O gran Dio confido in te.
Io temere? allor che geme
  Io mio popolo in affanno?
  Di quel cor trionferanno
  La bellezza e la virtù.

Chi al consiglio si presenta
  Non richiesto, a morte vola;
  Ma si ascolti una parola,
  E poi lieta a morir vò.
Pria si sveli ad Assuero
  Il tenor del truce inganno;
  Forse in lui trionferanno
  La bellezza e la virtù.
Si dicendo, Ester vezzosa
  Si presenta al gran regnante,
  Che rammenta esser l' amante
  Di colei che al piè gli sta.
Dal suo labbro tutta intese
  L' arte perfida di Amanno.
  Ah! di lui trionferanno
  La bellezza e la virtù.

Non resiste a quei begli occhj,
  Non resiste al dolce incanto
  Di quel tenero suo pianto
  Che le accresce la beltà.
Tanto il ciel l' assiste allora
  Contro l' opra del tiranno;
  Che di lui trionferanno
  La bellezza e la virtù.

Mardochèo, dicea, si vede
  Sulle soglie tue negletto,
  Mentre accogli nel tuo tetto
  Chi t' insidia e vita e onor.
Egli sol n' ha il merto, il vanto
  E d' altrui fia tutto il danno;
  Ma di te trionferanno
  La bellezza e la virtù.
La beltà, che il ciel pietoso
  A sua immagine mi diede,
  Mira oppressa al regio piede
  A impolrar la tua pietà;
E a pietà, se tu t' arrendi,
  I miei mali fine avranno.
  Del tuo cor trionferanno
  La bellezza e la virtù.

Fa, che Amanno audace soffra
  Del fallir dovuta pena,
  Offra il piede alla catena
  Che il mio popol preparò;
E per opra tua si veda
  Rovesciar dall' alto scranno;
  Così alfin trionferanno
  La bellezza e la virtù.


Del Signor Lorenzo Perucchini

Al sorger dall' onde
  Di Venere il viso
  La gioja ed il riso
  Dal nulla sortir;
E l' ore tarparono
  Del tempo le penne;
  Più belle divenne
  Il mondo per te.

Che pria che nascessi,
  Bellissima Diva,
  Natura languiva
  Nel torpido orror.
Regnava nel mondo
  La noja perenne;
  Più bello divenne
  Il mondo per te.
Al volger che festi
  Del placido lume,
  Il rozzo costume
  Cangiossi in gentil.
Nè il mondo la ruvida
  Sua scorza sostenne;
  Più bello divenne
  Allora per te.

Negar non si puote
  Che amor sia tuo figlio,
  L' avevi nel ciglio
  Al sorger del mar.
Con te delle Grazie
  Il coro pur venne.
  Più bello divenne
  Il mondo per te.

Al tutto diè norma
  Più nobile impero,
  Tu fosti il pensiero
  De' numi e dell' uom.
Reggesti tu allora
  Nell' onde le antenne:
  Più bello divenne
  Il mondo per te.
Tu fosti al pastore
  Nell' opra conforto;
  Tu fossi nel porto
  Delizia al nocchier.
Da te nuova vita
  Ogni essere ottenne;
  Più bello divenne
  Il mondo per te.

Il Sole, che sempre
  Cingeasi d' un velo,
  Comparve nel cielo
  Più bello con te;
E i raggi primieri
  Brillando ritenne;
  Più bello divenne
  Il mondo per te.

Tu sei quel bel foco
  Che serpe ne' cuori,
  Pudica agli amori
  Presiedi, a al desir.
Per te la natura
  Così si mantenne;
  Più bello divenne
  Il mondo per te.

Va spergiura fastosa e superba
  Della fè non serbata allo sposo,
  E rimira ad ogn' atto amoroso
  In qual modo risponda il Trojan.
Pianto eterno nel baratro aspetta
  I diritti di sposo chi lede;
  Ad un cuor che tradisca la fede
  Serba il ciel questa giusta mercè.

Va raccogli del mare sul lido
  Quel Trojan da Giunone odiato,
  Quel Trojan che dimentica ingrato
  Quanto debbe all' amore e alla fè.
Quel Trojano, a cui stolta offeristi
  Di Cartago novella la sede.
  Ad un cuor che tradisce la fede
  Serba il ciel questa giusta mercé.
Sei tu quella che in atto dolente
  Cinto il crine da benda funesta
  Su quel sasso piangevi egra e mesta
  Che l' estinto mio corpo coprì.
Donna trista! egli è stolto il mortale
  Che da cieco alle femmine crede;
  Ma ad un cuor che tradisce la fece
  Serba il ciel questa giusta mercè.

Sei tu quella che all' empio fratello
  S' involava, fuggendo il suo regno,
  E dell' onde affrontava lo sdegno
  Per serbarsi alto sposo fedel?
. . . . . . . . . . . .
  . . . . . . . . . . . .
  Ma ad un cuor che tradisce la fede
  Serba il ciel questa giusta mercè.

Non rammenti la caccia fatale,
  Non rammenti la grotta funesta
  Ahi l' accento sul labbro si arresta
  Per lo sdegno che mi arde nel cor
Giuno, e Vener congiunte fra loro
  Ti accendevan sugli occhj le tede;
  Ma ad un cuor che tradisce la fede
  Serba il ciel questa giusta mercè.
Empia! Invano lo spettro rammingo
  S' aggirava d' intorno al tuo letto,
  Che l' antico inviolabile affetto
  Dissipava l' amore novel.
E del volto e dei modi di Enea
  Imploravi dai numi un' erede.
  Ma ad un cuor che tradisce la fede
  Serba il ciel questa giusta mercé.

Avess' io, tu dicevi nel duolo,
  Un fanciul che tergesse il mio pianto,
  E nel volto serbasse l' incanto
  Che il suo padre nel cor mi lasciò.
Ma quel figlio bramato cotanto
  Giusto il cielo al tuo dir non concede,
  E al tuo cor che ha tradita la fede
  Serbò invece cotesta mercè.

Or fra l' ombra del tartaro il veggo
  Che discende cercando di Anchise,
  E sul bosco de' mirti si mise,
  Forse ancor ricercando di te.
Ma l' idea del sofferto disprezzo
  Nuovamente t' investe e ti fiede;
  Ad un cuor che ha tradita la fede
  Serba il ciel questa giusta mercè.


Del Ch˙ mo Antonini Abbate di Collepino.

E pur ver? Colui che dorme
  E' Saulle mio nemico;
  Dell' ingiusto odio suo antico
  Or mi posso vendicar.
Già la mano il ferro stringe. . . .
  Già il ferisco. . . Il cor non osa.
  Alma grande e virtuosa
  Sa le offese perdonar.

Ma ben cento e cento teste
  Mi chiedea, maligna dote,
  Ed il brando ne percuote
  Più che il Re bramar non sa.
E quel premio ebb' io dell' opra
  Tanto altera e generosa?
  Ah! . . . che un alma virtuosa
  Sa le offese perdonar.
Ma se alcun qui non mi vede
  Non si presta fede al vero,
  E il mio labbro mensognero
  Ciascheduno accuserá.
Che l' onesta, in me diviene,
  Opra perfida e orgogliosa;
  Ma quest' alma virtuosa
  Sa le offese perdonar.

Empio Re, son' io pur quello,
  Che nell' ira tua furente,
  Col mio suono dolcemente
  T' alleviava ogni dolor.
E del cor ti ricercava
  Ogni via la più nascosa;
  Ah che un' alma virtuosa
  Sa le offese perdonar!

Questo nappo si rapisca,
  Ond' ei sappia, se si desta
  Che in mia man fu la sua testa,
  Che s' ei vive fu mio don.
Ben' uccider lo potrei
  Mentre in quieto sonno posa;
  Ma quest' alma virtuosa
  Sa le offese perdonar.
Resta pur ch' io non invidio
  Il regal tuo diadema,
  Godo qui pace suprema
  Fra la greggia e fra i pastor.
Che il trar vita nelle corti
  Ella è impresa assai spinosa;
  Resta, e un' alma virtuosa
  Or t' insegni a perdonar.


Tema ed intercalare dal M˙ U˙ Dr˙ Francesco di Mattoli

O Cantor delle Grazie, che ignude
  Stanno assise di Venere accanto,
  Se la voce mortale può tanto,
  Deh tu scendi mia Cetra a temprar!
Sento l' aura più dolce, più lieve
  Che co' fiati odorosi respira;
  Odo il suon di tua magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.

Tu d' Orazio, e del vecchio Tejano
  Possedesti lo stile sublime,
  E mostrasti con facili rime
  Quanto possa l' umano saper.
Quando volgo lo sguardo a' tuoi carmi
  L' alma sente, arde il core e delira:
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.
Se Temistocle canti, quel prode
  Cui l' esilio fu dato da Atene,
  Sento il suono delle aspre catene,
  Bramo seco il velen trangugiar;
E se Regolo assiso in Senato
  Nel consesso de' Padri si mira;
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.

Se Temistocle canti, quel prode
  Cui l' esilio fu dato da Atene,
  Sento il suono delle aspre catene,
  Bramo seco il velen trangugiar;
E se Regolo assiso in Senato
  Nel consesso de' Padri si mira;
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.

Quando Issipile, in mezzo all' inique
  Donne, salva l' amato consorte
  Io la sieguo e pavento la morte
  Che incontrar quella fida potrà.
Se a Ipermestra lo sguardo si volge
  Di pietade un' esempio si ammira.
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.

E quel Tito, quel Tito, è sì grande
  Che formato mi sembra dai numi,
  E di pianto dal ciglio escon fiumi
  Quando Sesto tal vita insidiò.
Fremo allor che quel Sesto sì vile,
  Di Vitellia si lagna e sospira.
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.
Dove lascio quell' opra sublime
  Che primiera t' uscí dall' ingegno,
  La Sovrana del Libico regno
  Tratta a morte dal crudo amator;
Io la veggo fra il torbido incendio
  Risalir di Virgilio la pira.
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.

Se dai drammi alle facili rime
  Poscia a volo trascorre il pensiero,
  Tutto è bello, ed è semplice e vero,
  La natura in quei versi parlò.
Quanto è bella la Flora che intorno
  A suoi fiori s' innalza e s' aggira.
  Tu sol puoi colla magica Lira
  Trionfar del più rigido cor.


Dato dal Ch˙ mo Cap˙ Michelangeli

D' Euterpe eletto alunno
  Onor del Patrio suolo,
  Vada il tuo nome a volo
  Pe' regni bei del Sol.
Dai lauri, che cogliesti,
  Novelli lauri spera,
  Applaude Europa intera
  Al canto tuo divin.

Palermo alle sue sponde
  Lieta ospital ti accolse,
  E Fama il vol disciolse
  Tuoi vanti a celebrar;
E t' inalzò di Venere
  Alla celeste sfera.
  Applaude Europsa intera
  Al canto tuo divin.
La Dora, il mar superbo
  Ed il Ticin ti udiva,
  E l' Arno alla sua riva
  T' accolse e t' onorò.
E ovunque il piè portasti
  Cogliesti gloria vera;
  Applaude Europa intera
  Al canto tuo divin.

Del fratel tuo ricevi
  Questo amoroso omaggio;
  Che non arreca oltraggio
  La lode alla virtù.
E tua virtù s' inalzi,
  Ma non si renda altera;
  Applaude Europa intera
  Al canto tuo divin.

Non appagai d' udirti
  La generosa brama,
  Ma mi narrò la fama
  L' eccelso tuo valor.
Innanzi a cui l' invidia
  Tace, o si asconde fiera;
  Applaude Europa intera
  Al canto tuo divin. Euterpe in cielo, io miro,
  Già prepararti il serto
  Che si conviene al merto
  Della tua patria in sen.
Per te la gloria sua
  Non fia che manchi o pera,
  Se applaude Europa intera
  Al canto tuo divin.

Quando di tanti allori
  Stanco alla fin sarai,
  Contento tornerai
  Al tuo natìo terren.
Venga codesta aurora
  D' ogni piacer foriera;
  E applauda Europa intera
  Al canto tuo divin.

FINE.