LUIGIA CODEMO
Di Gerstenbrand

PAGINE FAMIGLIARI
ARTISTICHE CITTADINE
(1750-1850)

Non vi ha doveri ignobili
A. Manzoni.

VENEZIA
TIPOGRAFIA DEL COMMERCIO DI. MARCO VISENTINI
1875.

Questo lavoro contiene le memorie della mia famiglia paterna e materna, ma specialmente le notizie biografiche di mia madre, già da me promesse, fin da quando pubblicai i suoi versi. Contiene oltre a ciò i ricordi artistici della mia prima gioventù, e quanto posso riferire di cose cittadine.

Agli elementi domestico, artistico, patrio procurai d' innestare tutto che di forte e in un d' attraente il core mi diceva, persuasa che alle lettere giovi la morale e che una letteratura, non bigotta, ma sana possa darci il bene che più ci occorre.

Deploro che per la forma non mi riuscisse d' infiorare, quanto desideravo, il mio lavoro delle grazie che la diffusione del vivente linguaggio toscano e romano resero necessarie, ma che in me non sarebbero sempre spontanee, sicchè ai vezzi fiorentini ho preferito più spesso quelli della nativa parlata, in cui, dice Tommaseo, v' è schietta ispirazione italiana.

Devo anche scusarmi se nella lunga esposizione di pitture fedeli mi sfuggì qualche rozza parola. Difficilissimo è scrivere qualcosa che si vuol rendere popolare, qui dove la letteratura popolare è un po' guardata d' alto in basso; ma anco in ciò ho la mia fede, comune a qualche eletto spirito: ossia che in avvenire le tocchi la sorte della Cenerentola, la quale da attizzare mesta il foco diventò regina.

In ogni modo io prego tutti, ma specialmente i giovani di non considerare questa un' opera letteraria, che in onta ai miei sforzi, mille e mille supererebbero in bellezza, ma di tenerla per un buon ricordo.

Non tutto quello che racconto ha eguale interesse; perciò le pagine soltanto famigliari, m' ingegnai di esporle nel modo più gradevole, dicendo semplici storie a guisa di romanzo, anche a meglio vincere la ripugnanza che si prova a parlare di cose personali.

Ho diviso il lavoro in quattro parti, le intime separando da quelle di viaggio, in cui emerge l' arte, e queste da quelle più serie, e a me dolorosamente sacre della guerra d' indipendenza; chè tutte stanno da per loro, ed è permesso interromperne il filo, sebben siano legate insieme da un solo carattere, la verità. Talora così importante, che se non v' entrassero i miei, io le chiamava a dirittura Memorie illustri. Le storie cittadine, il paesaggio, i ritratti dei grandi italiani tutto è scrupolosamente dal vero; ho solo, senza ombra d' inganno, sottinteso ciò che convenisse velare, e ricoperto più d' una spina coi fiori.

Quanto ai giudizî li dichiaro miei, da che, estranea a partiti, ho le sole mie forze e la mia buona volontà; sorretta dalle belle anime, che sempre m' hanno ajutata, inspirandomi l' inalterabile proposito di conservarne la stima. Lucro difficilmente le lettere ne danno in questi paesi; nè è quello ch' io cerco. Resterebbe l' ambizione, ma anco le riprese della vanità, ammesso di conseguirle, incutono tema, e presso ch' io non dico orrore a chi sa come poi le si cambiino in tanto veleno.

Gli affetti figliali sono eterna voce del cuore. Imperitura è l' arte. Di più osservo che una società giovane va come la mitragliatrice, e spazza e tiene per vecchi gli elementi da cui fu costituita. Raccoglierne quanti potevo e presentarli nel loro aspetto casalingo m' è parso legare in un bel nodo il culto del passato all' esperienza del presente.

Se queste pagine adunque, per la devozione con cui le scrissi, non dispiacciano ai giovani e rendano contente le madri, degne di questo nome, io non avrò altro da desiderare, e il pensiero di rimaner nella buona memoria delle famiglie mi farà intravedere nel riposo la vera mercede a chi lavora con coscienza.

Venezia, Gennajo 1875.

Mia famiglia paterna - Il Memoriale.

Della mia famiglia paterna pochissimo ho a dire; d' onde provenga non so: certo in Primolano v' è ancora una casa detta dei Codemo, quantunque da cento anni nessuno si trovi più di questo nome nè in quella casa, nè in Primolano. Parrebbe adunque i miei discendessero dal Tirolo, denominato il Trentino, e si stabilissero in Pederoba, dove fin dal 1600, tenevano modesta possidenza e piccolo commercio di lino e di canapa.

Ignoro se lo stemma, scolpito in pietra sul muro d' una casa in Cavaso, appartenga alla mia famiglia, ma so che la era proprietà d' un dottore Codemo, lontano parente, e l' arma che ho in un sigillo, tratta da quell' originale, è, come si dice, parlante. Un leone che rampa in campo rosso, fra sbarre argentee diagonali e una cometa, a lunga coda, in alto.

Piccola nobiltà dev' essere in ogni maniera, dacchè sullo stemma nemmeno torreggi una coroncina da cinque palle; ma un cimiero chiuso e pennacchi ricascanti, in gran copia, ch' io ritengo una licenza poetica, per fargli fare più buona figura.

Pederoba è ameno villaggio, a' piè dell' Alpi, sinuosità morenti delle carniche e rettiche, di fianco al Piave, ossia fra questo e il Brenta.

Il carattere del paese non è punto italiano, è svizzero; qualche tetto di capanna acuminato, la terra piuttosto sassosa, le piante qua e là incurvate dal soffio di tramontana, la gente tranquilla e tenace. Ma il sorriso della pianura italiana gli sta davanti; lieto colore gli dà, fra il bel verde delle praterie e il bianco delle case, la arenaria rossa, d' onde il nome di Petra rubea o Pederoba. A vedere quando, a cielo sereno, ci giuocano, per ampiissimo spazio, l' aria e la luce del mezzogiorno, e' s' intende, come a quella maestosa bellezza si ispirino poeti, pittori, scultori, primo fra tutti Canova, che i più bei numi dell' Olimpo trasse dai tipi di questi montanari suoi compaesani.

Mio padre essendo fra i novellieri italiani mi parve ben fatto trascrivere, da una raccolta di novelle boccaccevoli, intitolata Il colle di S. Sebastiano, questa mezza pagina:

« Non fia mai vero che dalla mia memoria escano i ben augurati momenti, cui le noje, sì frequenti compagne di cittadineschi diletti, mai non perturbarono; no, non iscorderò fra gli altri quel dì felice, in cui ebbi a passarmela solo fra schietti pastori e pastorelle innocenti ».

Dopo di che, proseguendo a raccontare come in una certa compagnia s' era ridotto in vetta al colle di S. Sebastiano, leggiadra fra le eminenze, che circondano Pederoba, là dove sorge una chiesetta, e dove una volta ci fu anco un romito, dipinge il luogo a questa maniera:

« In fatti da quell' eccelso colle signoreggiasi un vastissimo piano, a guisa di cerchio disposto, e nella settentrional parte rinchiuso da montagne altissime, che sembrano col cielo le merlate lor torri confondere. Gli oscuri valloni, che ne intersecano il dorso, ed i nugoli raggruppantisi presentano un aspetto d' orrida bellezza, cui nulla si agguaglia. Continuano esse fino all' oriente, dove varie maniere di monticelli, qua e là, con vaga confusione dispersi a loro sottentrano. Antichissimo e venerando bosco si stende verso la plaga del mezzogiorno, al terminar della quale una doppia catena di colline si scorge fino all' occaso, e qui altri monti dirupati ed alpestri ti riconducono al settentrione. Ampio e ridente anfiteatro, ma non sì chiuso che il degradar dei colli tratto tratto non lasci i tuoi sguardi vagare fino alla spaziosa pianura, ove in uno sfumato orizzonte si perde la vista. Cupamente mormorando sbuca dalla serra dei monti il fiume Piave, che prima unito in un tronco poscia in varì ramicelli diviso, padroneggia una vasta pianura e mille aggradevoli scene a' riguardanti presenta. Là vedi scalzo pescatore distender le sue reti, e trarle gravide di saltellanti trote; qua una forosetta sue stoviglie far monde e guardare sottecchi alcun mandriano, che, da lei non lunge, disseta l' armento; ed, intento al vociferar dei remiganti, t' accorgi scendere con equabil corso le zattere, delle quali alcune prendono terra sotto a' tuoi occhi, ed altre in compagnia dell' onde proseguono il viaggio. Ecco inoltre sparse barchette, dove galleggiare presso la riva, dove snelle snelle rompere il fiume e guadagnare l' opposta sponda ».

Tal frammento basta a dimostrare l' amenità del luogo, nonchè il nerbo di quello stile; tutto latinità e insieme realismo, che se io riportassi altri tratti di queste novelle da esse vedrebbesi la bellezza dell' animo, l' intemerato carattere e come in ogni congiuntura ispirasse l' amore del bene, della bella gloria, della fede e della patria. A lor modo ne sentivano i cuori ben fatti anche allora, e la non è proprio un' invenzione d' adesso.

Di persone notevoli trovo menzione d' un sacerdote Codemo assai stimato in paese, e d' uno zio, il barba Nanne vecchio rinomato, e per sapienza economica ed agronomica, tenuto in gran conto. Un piccolo Agnolo Pandolfini di cui è peccato non conoscere i dettami e la pratica rurale e domestica.

Il padre di mio padre chiamato sor Giacomo, ottimo uomo, non isprovvisto di cultura, amantissimo di tutto che sapesse di lettere, ma specialmente sacre; conosceva un po' il latino, e quando scriveva a' suoi figliuoli ci innestava sempre qualche passo biblico, qualche sentenza tolta al Vangelo.

Sebbene creduto d' origine tirolese, il tipo del nonno era veramente latino; testa rotonda, tratti grandiosi, una bella faccia di vecchio a solchi profondi come un bronzo fiorentino, la ruvidezza dei tratti contrastava coll'espressione angelica dell' occhio pietoso. E l' anima nutriva analoghi sensi. Quest' uomo antico era talmente devoto all' onore, che avrebbe preferito di veder morire i proprî figli al saperli disonorati. La vita senza onore equivaleva alla morte, la morte d' un innocente volea dire il cielo.

Nei più lontani ricordi lo vedo sopra una grande scranna dai piedi lunghi a retro, attizzare il fuoco mentre Gottardo, buon servitore, di quelli alla vecchia, dimenava una omerica polenta in una gran caldaja e scodellava i saporiti e fragranti fagioli per gli uomini a opera, che lavoravano nei campi o abbattacchiavan le castagne. Difetti quel caro vecchio n' ebbe certamente, ma la vita la conduceva da santo; più ascetico che pratico, più entusiasta che mercante e padrone.

Ecco il perchè da agiata la famiglia del nonno si trovò al dissotto. Richiesto di qualche garanzia, da un amico, rispondeva subito, sì: e non immaginava neanche ci potesse essere al mondo chi manchi agli impegni, alla parola data.

Ma come scadevano i pagamenti ben s' accorgeva del contrario il dabben uomo che dovea, lui garante, supplire pei debitori infedeli.

A rifarsi dello sbilancio economico cercò d' acquistare merci a minor prezzo, e rivenderle meglio; affidatosi a mercanti furbi e' gli davano roba di contrabbando, ciò che procacciava quindi al povero vecchio impicci, paure e nuovi dissesti pei quali, nel suo integerrimo carattere, ebbe fierissimi crucci. Però a lungo ei non durava sgomento, e la fede in Dio gli infondeva sicurezza a bene sperare.

Più di venti figliuoli ebbe il nonno; e quando un nascituro si annunziava in famiglia se taluno, storcendo il capo mormorasse: — Oh!… sor Giacomo, un altro! E' non bastavano quelli che già c' erano …. con quest' anni che corrono (era circa il 1817) e con tante disgrazie? —… Il patriarca levava gli occhi al cielo, moveva le mani a una certa maniera sua e rispondeva, tra festoso e devoto:

— Il Signore manda l'agnellino, e manderà l' erba! Uomo di chiesa e di carità, tutto il tempo che non occupava nelle bisogne commerciali o campestri, ei lo passava alle funzioni, alle messe, ai rosari!…. non ne perdeva nessuna …. Tantum ergo, fioretti di maggio, esequie, prediche, tutto quello che il povero tempio di Pederoba potesse offrire. Ci stava in un posto, per consenso comune, a lui riservato; e d' ogni sacra cerimonia, e prima d' andarci, e dopo venuto via parlava con santo fanatismo tutta la giornata. Bisognava udirlo a parlar del Lajano, un predicatore in quel tempo famoso … non la finiva più.

La nonna, Francesca Piazzetta di casa sua, discendeva dal pittore Piazzetta, che lasciò belli e buoni lavori alla scuola veneta.

La casa, detta ancora dei Piazzettoni, si trova quasi fuori del paese, a ridosso del monte. Nel racconto Anzù delle Scene e descrizioni, là c' è illustrata da Stella. Della nonna in due parole è detto tutto; una santa creatura, la vera mater familiae; piuttosto pingue, ma non piccola, da giovane la dovette essere bella: lineamenti regolari, naso greco, bocca sorridente con dolce e in un severa espressione: nella grandiosa forma del mento, e nelle belle labbra sinuose molto la ricordava mio padre.

Tuttochè morbide e dolci quelle linee del suo viso, pur non erano incerte: anzi spiccate e decise: così nel suo carattere, tutto mitezza e amabilità, non mancava la risolutezza nel bene. Buona, buonissima, pur la sapea cosa la doveva e cosa la voleva, e ciò dava alla sua bontà una forza, una vita che le libere pensatore neanche sanno di che color la sia.

Anco la nonna nei dì festivi, quando le occupazioni della famiglia e della cucina lo permettevano, andava assai di buon grado in chiesa: o a casa leggeva la bibbia o la storia sacra o libri di devozione adatti alla sua modesta intelligenza e cultura.

Ancora la vedo, co' suoi capelli bianchi, con quel suo fare riposato e benigno, e alla memoria di quella onoranda vecchiaja provo un sentimento di affezione e di reverenza.

Prima di lasciare la modesta casa paterna pel palazzo Sale di Vicenza, trascrivo alcune pagine del Memoriale di mio padre, e le riporto nella loro benedetta ingenuità di fede e di costumi. Chi non gli talenta passi oltre, ma se può legga, perchè l'idillio è pur troppo finito.

« Dal mio Memoriale trascriverò io i giuochi e i desiderî della mia fanciullezza?

Le son ricordanze di poco o niun momento. Tuttavolta da qualcheduna bisogna pure incominciare, affine di aprirsi la via alle maggiori; e così faccio, quantunque non abbiano fra esse la minima connessione, trascelte siccome sono da un numero assai più grande, che, in varie riprese, consegnai alla carta, e che non potrei nella loro integrità pubblicare; dovendone anzi ommettere parecchie, altre compendiare, altre mozzare.

Dirò adunque che, fanciulletto, io mi viveva contento a piccole palle di cuojo e ad un tamburino, e che quando mi veniva fatto di spingere le prime oltre i confini della giostra, ne provavo una grande compiacenza. Mi pareva che sarei stato felice, ove riuscissi il primo giuocatore delle patrie contrade. Ma le palle ed il tamburino non s' ebbero da me in progresso nè il culto, nè la estimazione di prima. Agognavo ad una civetta; ed un martedì sera, non potendo più resistere al desiderio, che vivissimo mi accendeva, scrissi una lettera al babbo mio, supplicandolo a comperarmela domani sul mercato di Montebelluna, aggiungendovi tutte quelle promesse, che san fare e disfare i garzoncelli. Collocai lo scritto sulla tavola della cucina, tra mezzo alla lista delle memorie, che egli si avea fatte, e vi sovrapposi il calamajo. Tutta notte non chiusi occhio aspettando l'aurora.

In sull' aurora il padre mio avrebbe trovato quel foglio, e al primo spuntare, io mi diceva: or s' alza, ora discende le scale, forse legge …. e ansavo e sospiravo; quando uno scroscio di frusta, uno scorrere di ruote mi avvertono ch' egli partiva. Mi sentii tutto sudore, sbalzai dal letto, corsi al balcone, ed il mio occhio s' incontrò colla coda dell' occhio del mio genitore che se ne andava celeremente al mercato.

Il voltarsi di quella testa serena e patriarcale, specchio d' un' anima santa e pura, verso la mia stanza, mi fu di lieto augurio, e mi chinai speranzoso dinanzi alla immagine d' una Madonna, che di colore nerigno mi stava dipinta, in campo d' oro, sovra il letto, e le rinnovai le preghiere, che più volte durante quella notte le avevo dirette, affinchè inspirasse benignamente al padre mio di volermi accontentare.

Venne la sera di quel giorno agitato, trascorso tra i timori e le speranze, e all' udire il ritorno del padre mio, il cuore mi balzava fortemente nel petto. Sappiasi che in quel giorno io fui buono, compiacente, amoroso verso la mia genitrice ed i miei fratelli; tantochè la prima per quel cambiamento ne andava impensierita, temendo non io ammalassi; mentre non ero sempre così. Soprastare agli altri, comandare a bacchetta, rispondere arrogantemente, insolentire, erano le mie prodezze; ed ora, al rammentarlo, ne sento dispiacere, specialmente per la madre mia, che mi amava del più tenero amore. Ma in quel giorno il piccolo aspide s' era tramutato in una colombella.

Colla malizia, che nasce e cresce con noi, io ragionava a questo modo: Il babbo mi comprerà certamente la civetta: ma prima di regalarmela, chiederà a mia madre come mi fossi diportato in quella giornata. Dunque giudizio …. nè m' ingannai. La cosa fu appunto così.

Se la notte passata non trovai sonno fra le alternative dello sperare e del disperare, anche nella susseguente mi risvegliai più fiate, pensando al tesoro che possedevo.

Il dì appresso i cannoni invescati e la gruccia furono belli ed approntati; ed io tutto mi diedi a tendere agguati sulle siepi, dall' alba alla sera, dal monte alla campagna, agl'innocenti abitatori dell' aria, e mi pareva che avrei raggiunto il non plus ultra dell' umana felicità, se fossi salito al grado di primo civettante delle patrie contrade.

Se non che, dopo alquante mattine, il festivo cacciare dei bracchi, il solenne suonare dei corni ed il rimbombo delle archibugiate mi faceano ribollire il sangue nelle vene, e mi tornavano in fastidio quel trarre, nel maggior silenzio del mondo, i panioni dal fodero, appendergli alla siepe, appiattarmi, con un ginocchio per terra, di sotto ad un macchione, che tutta la persona irrugiada, far saltare colla funicella la civetta dalla gruccia sull'erba e viceversa; e tutto questo perchè mai? Per un uccelletto mingherlino, che con un soldo si acquista.

Al guaire dei cani, che facea rintronare la valle, mi pareva di vedere una lepre, una gran lepre correre, correre, talvolta azzuffarsi con essi e fuggire pei dirupi della montagna, tal altra capitombolare… Quello dev' essere, pensavo fra me, un gran piacere! Lotta ci vuole, e lotta a fronte scoperta, in faccia del sole; ma in questo covile, a guisa di assassino….

E come irritato davo di molte rabide strappate alla corda; tantochè quella povera bestiolina, che non si avea la menoma colpa de' miei mutati sentimenti, dovea portarne la pena, saltellando ora in basso, ora in alto, senza remissione, alla balìa de' miei capricci.

Su quante mogli non si riversano di rimbalzo le ire dei mariti, arrabbiatisi colle amanti, e viceversa!

A dir breve, que' tranelli senza opposizione, senza difesa, senza contrasto mi aveano un che di basso, che mi rivoltava…. e poi, accalappiata la preda, sbucare dal nascondiglio, a guisa di avoltojo, staccarla dal panione, schiacciarle la testa e giù nel carniere…

Sii libera, o civetta, vile ministra d' insidie, e ritorna nei campi dell' aria.

Ecco or dunque tutt' i miei pensieri in un bracco! l' archibugio lo avevamo in casa.

Ma qui c' era del duro, del duro assai, vivendo in famiglia uno zio celibe, nemico giurato dei cani.

Mi strinsi attorno a mia madre, amantissima dei figliuoli, le appalesai gli affanni del cuor mio, piansi come può piangere un ragazzo; ed ella intenerita mi comperò un vispo bracchetto, cui diede a dozzina in una casa prossimana. Io lo visitava sovente, ed esso veniva a restituirmi le visite. Quante carezze gli prodigavo!

Fattomi cacciatore, il dì della mia comparsa nella venagione, fui così fortunato da uccidere col primo sparo una lepre. Gli applausi de' miei compagni echeggiarono per la vallata; ed io me ne pavoneggiava, godendo nell' animo all' udire da essi, che sarei divenuto il primo cacciatore delle patrie contrade!

Di quest' inezie anche troppo; sebbene in quelle palle, in quella civetta, in quel cane, che presto dimenticai; in quell'appetire, in quel disappetire per un diverso appetire, si compendii l' altalena del nostro pellegrinaggio terrestre.

Avevo dieci anni, e di sotto al portico, attiguo al mio domicilio, godevo ai saltellini d' un agnelletto appena nato, saltellando io stesso, allorchè entra nel cortile, e viene alla mia volta un vecchio, curvo degli anni, lacero, tutto piaghe le gambe, cui gli stracci malamente coprivano, e cogli occhi infossati, ma tuttavolta ancor vivi e lampeggianti. Parmi tuttora vederlo…

— Se permettete, signorino, mi disse, riposo qui un poco su questa panca. Sono così stanco!

— Accomodatevi pure, gli risposi, ch'io frattanto andrò a prendervi qualche cosa da mangiare.

E così feci; indi presi ad interrogarlo: Quanti anni avete? Di che paese siete?

Ed egli: Signorino mio, abbiate un po'di pazienza.

Di fatto, dopo essersi refocillato, incominciò: « Mi mancano due mesi per compiere i settant' anni; e nacqui nel paese di….. I miei vecchi avevano da tempo immemorabile una possessione a metadia, che lavoravo io stesso; e ce la campavano alla meglio da poveri contadini; se non che un nostro vicino tanto malignò, che il padrone ce la tolse per darla a lui. Chi. discaccia non regna, diciam noi; e chi discaccia, si guadagna l' odio dei discacciati. Metterci sulla strada! »

E si morsicò le labbra, fece un po' di pausa, indi continuò:

« Io me la legai ad un dito, e non avevo pace nè giorno nè notte, sempre spiando il momento di potermi vendicare. Una sera vengo a sapere che colui, il mio mortale nemico, sarebbe andato, prima del sole, a stipar legne nel bosco. Non potete immaginarvi, o signorino, l'allegrezza, che mi apportò questa notizia. Un terno al lotto sarebbe stato un nulla a petto di essa. La notte non chiusi occhio, aspettando impazientemente l' alba: e prima ancora che sorgesse io era già in piedi, e mi avviavo al fatal luogo, tastando spesso il manico del coltello, che portavo in saccoccia. I viottoli aspri, montuosi, voi nol crederete, mi parevano piani e facili; giardini i boschi, e la prima luce, una luce di paradiso. Saltavo di burroncello in burroncello come un capriolo. Arrivo nel punto che l' infelice appoggiava una lunga scala a piuoli ad un castagno; io gli sono alle spalle senza ch'egli se ne accorga, e meno colpi da disperato. Non ebbe tempo di dire Gesù e Maria, che cadutomi rovescioni sul petto, e bagnaudomi del suo sangue, spirò ».

All' atroce racconto io tremava qual foglia, e andavo a ritroso allontanandomi da colui come da cosa, che ad un tempo mi facesse schifo e ribrezzo.

« Fermatevi, signorino, cupamente mi disse, e udite il resto. Colui nel morire mi ficcò addosso due occhi, che mi trapassarono l' anima. Avrei voluto ajutarlo, chiedergli perdono: ma era troppo tardi! Il timore frattanto s' era impadronito di me, e, datomi alla fuga, quale cambiamento, signorino mio, negli oggetti, che rivedevo! Quel monte, quei prati, quei campi, quei boschi e quei viottoli, che mezz' ora prima mi erano sembrati cotanto belli e deliziosi, mi apparivano allora orribili e maledetti. I burroncelli mi parevano abissi, e penavo a valicarli, sì che mi convenne oltrepassarne taluno a carponi. Se una foglia scrosciava sotto ai miei piedi, io tremava tutto quanto; se udivo una pedata, mi credevo già in mano della giustizia. A questa potei sfuggire per la protezione d' un nobile, che a que' dì tutto poteva…. Ma che importa? Io certo nol benedico… Era meglio che la terminassi per mano del boja una volta per sempre. Così non vedrei più gli occhi del moribondo fieramente stralunati e ficcati ne' miei, non farei brutti sogni, e non temerei di trovare in ogni sconosciuto, che incontro per via, un nemico, che abbia sete del mio sangue… »

Tacque, e alzatosi di sedere, già si avviava, quando, dopo alquanti passi, fermossi, soggiungendomi: « Non vi ho parlato, signorino, che di cose al di sotto delle tegole…. ma là sopra…. là sopra…. il Signore non paga il sabato! »

E partì, lasciando in me, giovanetto, tale uno sgomento, misto di orrore e di compassione, che, quantunque vi siano passati sopra di molti anni, lo sgomento mi si ridesta nell' animo ogni qual volta il pensiero mi trasporta al portico attiguo alla mia casa!

Crescendo in età, io commisi parecchie spavalde scioccherie, per non dir peggio. Fuggii dal tetto paterno, mi ascrissi volontario alla milizia, e che so io.

Sopprimiamo.

La religione peraltro, che avea un santuario nelle domestiche pareti, mi fu di scudo in molti incontri; e specialmente in quello, nel quale un romano cavaliere, avanzo dell' armata napoleonica mise in opera tutta l' astutezza delle sue arti per indurmi ad inscrivermi alla setta massonica di … alla quale egli apparteneva. — Viaggerai, mi diceva, tutta l' Europa, senza spendere un quattrino del tuo: da per tutto troverai fratelli, che ti stenderanno la mano …

Benedico al Signore d' avermi salvato dai continui assalti di quell' uomo, ch' io amava per la vivacità dello spirito, la svegliatezza dell'ingegno e le molte sciagure; e mi sorride nell' animo una speranza, la speranza che là nella lontana America, dove ha dovuto rifugiarsi, siasi ricordato negli estremi momenti di quell'imberbe giovanetto, che per mesi e mesi gli fu sostegno al corpo acciaccato, e che, a sollievo delle sue pene, dettava un dramma intitolato Almanzore, che più non gli restituiva; siasi ricordato di quell' imberbe giovanetto, che alle sue argomentazioni oppose sempre la santità della nostra religione.

Divenuto omai vecchio, rifaccio col pensiero l' arco della vita, e rabbrividisco. Dove sono gli amici della mia infanzia e della mia gioventù? Dove gli esseri che intessero un qualche filo di seta nella ruvida trama della mia vita? Dove i personaggi, che in queste ed altre contrade mi onorarono della loro affezione? Dove i cari parenti, dove? …. Io tutti gli annovero colla mente ad uno ad uno, ed ahi! quanto scarso è il numero dei bene sopravvissuti! »

Fin qua il mio diletto padre, ora trasportiamoci dalla casetta di campagna al palazzo, dalla selvaggia bellezza d' una terra alpina al giardino inglese. Innanzi di chiudere questo capitolo io per altro osservo, essere l' orrore di mio padre per le sette, schiettissimo. In questi ultimi anni si fe' di tutto per attirarlo nella Società di s. Vincenzo di Paola. Ricusò sempre. Cristiano e cattolico sì, ma sette nessuna.

Può darsi che fra quelle v' abbiano idee alte, persone sincere. Ma troppo lasciarono supporre che si tratti d' interessi mondani, sì che resero quasi sospetto, a chi non vuol mestarci, il nome di maggior significato nel mondo, il nome cattolico.

Vicenza a volo d' uccello - Casa Sale -
Fiorenza Vendramin - sua vita e sua morte.

Nel bel mezzo della pianura veneta si eleva un gruppo di colli, appartenenti ai terreni di sollevamento prodotti da fuochi sotterranei; li chiamano Berici. Chi gettasse sopra un bel tappeto una coroncina, un monile ei vi resterebbe forse nella figura capricciosa con cui si disegnano quei colli. Vicenza, continuando il paragone del monile, verrebbe a rappresentare il vezzo o la medaglina. Il Monte, come si suol nominare il luogo dov' è il santuario, fra mezzogiorno e ponente di Vicenza, vi sta sopraccapo; fa spalla alle sue belle ortaglie e in una parola la domina. Di là vedesi la città nella sua pianura, come in un mare tranquillo, il quale verso levante si dilegua e trema in una zona morbida e vaporosa; ma a settentrione, via via che si discosta, s' eleva in immense onde immobili, che son le colline a ridosso delle grandi Alpi.

Bei lontani, segnatamente in primavera! maestoso attendamento, di cui non si scorge che la parte superiore, ma basta ad abbellire il paesaggio, a dargli un senso austero e in un delicato: con quel colorino viola aereo, fuso, trasparente, che sfumerebbe all' occhio, se non lo fermasse il bianco delle nevi alla cima, con quattro pennellate allegre, che vi spruzzano i più brillanti tocchi di porcellana soavissima.

Se invece dal santuario volti le spalle a Vicenza, e prosegui lungo la spina dorsale dei monti Berici, ecco nella medesima serenità di aria, un diverso aspetto, perchè di là si abbraccia tutto quel gruppo di colli, lo si vede emergere distinto dalle sconfinate pianure, protendersi, alzarsi, abbassarsi, pieno di accidenti, di curve eleganti, di sinuosità graziose. Per di qua è la valle Trissina, per di là è Arcugnana: più oltre verso gli Euganei, sono i Margaritoni, un castello, in antico un convento a cui rimasero magnifiche vestigia di alberi secolari, e formano una macchia di verde cupo magnifica, che si vede a non so qual distanza, e di cui in tutto il Veneto la simile non si trova. Guardando invece a ponente, in lontano, là dove il gruppo confina col contrafforte cretaceo di Montebello e di Valdagno, le cime ondeggiano in vetticine discrete, appena mosse. Quivi c' è anche il suo romanzo, ossia i castelli dei Capuleti e Montecchi, e il vetturino vi racconta la pietosa storia degli amanti infelici; sicchè vi commovono quelle due torri remote, sopranuotanti come alberi di nave, dopo il naufragio. Immediatamente sotto in vece la vista si allieta di cose meno poetiche e più proficue: intendo di vigneti, di terre colte, di piantagioni e uccellande o fresconaje, che da noi si domandano rocoli. E tutto l' interno di questa vaga coroncina è un bell' insieme di accidenti, di valloncelli, stradette, ripieni, lembi erbosi, che sfaldano; humus fecondo, pini eretti, solitarî, dal tronco nudo, dal ciuffo di bronzo, che distacca nel più riciso tono dall' azzurro dell' etere.

Non parlo delle ville sul Berico, presso a Vicenza, delizie che farebbero diventare aristocratico il più irsuto demagogo … ogni sguardo è una poesia, ogni passo un fiore? Qualche villino di più sarebbe la passeggiata ai colli di Firenze, e se il Davide di Michelangelo domina da quella, il monumento ai martiri spicca maestoso sul Berico. Non è un adolescente colosso, è un angelo colla spada ultrice, sulla soglia d' un sepolcro: laconicità mirabile! e dice che là del 48 avvenne un combattimento, e su quelle fiorite pendici fu versato sangue italiano, il quale vi rigermoglia un popolo risorto.

Quanto alla città due elementi la informano. Il primo la passione, e passione efficace, il secondo la grazia. Una schiera d' architetti a capo di cui è Palladio, e di poeti confermano questo carattere, e permettono di dire che i Vicentini son gli attici del Lombardo-Veneto, e che in Italia sola Firenze può competere su questo punto. Il dialetto è rozzo, ma destinato a sparire, già si trasforma.

La nobiltà fu potente, ricca ed illustre. Nelle lettere diede il Trissino, autore del famoso poema e della prima tragedia, che nessuno legge, ma nessuno ignora. In questi ultimi tempi di mollezza, non meno degli altri patriziati si corruppe. Tristi fatti copersero le mura di quelle alte dimore, ma anche questo fu segno di grande vitalità; anime forti a cui l' inerzia tornava impossibile e, non potendo alla virtù, andavano alla colpa. Dal 1848 rifulse. Un conte da Porto morì sulla breccia, per non nominarne molti altri che sagrificarono vita e sostanze. Auguro a Venezia cittadini simili a quelli di Vicenza, che si appassionano per le piccole cose, quando non ne hanno di grandi: perchè tutto è preferibile all' ignavia, alla noncuranza, al letargo mortalissimo, generatore d' ogni rovina.

Ora vengo alla mia famiglia materna, traendo dal manoscritto Memorabili delle famiglie vicentine, dell' illustre cittadino e scrittore conte Giovanni Da Schio le notizie storiche, più sicure e più importanti.

« Sale, famiglia potente e nobile di Vicenza; nell' età moderna Donato, cittadino di Trevigi, addetto all' ufficio del Sale, la condusse in Vicenza circa l' anno 1414.

Arricchitasi e nobilitatasi, non lasciò di imitare le ciarlatanerie delle altre famiglie, e si spacciò discesa da due cavalieri, non si sa se tedeschi o francesi, venuti in Italia al tempo di Carlo Magno. Ai nostri tempi si faceva credere anche parente di s. Francesco di Sales; in fine del secolo dev' essere salita in potenza di ricchezza, perchè viene adulata dal Pagliarino, ove dice ch' essa fu illustre d' uomini chiarissimi. Io non conosco alcuno chiarissimo, nè chiaro; nè prima, nè dopo quel tempo ».

Fin qua il manoscritto dei memorabili; dal quale non torrò che quanto strettamente concerne i Sale da S. Lorenzo, ossia la famiglia di mia madre.

Tacendo tutti quei nomi da Donato, che primo piantava la famiglia a Vicenza nel 1414 fino al marchese Luigi, padre di mia madre … inutile noja il copiare ed il leggere quella filza di Vincenzi, Antoni, Graziani Ottavi, Curzi, Venceslai, Domitille, Doristille, Paole, Corone, notaì, dottori, preti, capitani, monache e gentildonne; dirò soltanto la discendenza diretta, che è questa:

Donato che da Treviso venne ad abitare in Vicenza nel 1414.

Bartolomeo,

Donato, notajo al sale (1418) padre di

Francesco marito a Maria, figlio di Giacomo da Roma, la quale portò quattrocento ducati in dote. Da questo matrimonio vengono:

Nicolò dottore (1489) il quale si sposa a Tarsia Thiene. Da questi fra molti figli e figlie, un Lodovico (1545) capitano di fanteria al servizio veneto; a lui fu moglie Margherita Trissino di Antonio Nicolò.

Da Antonio Nicolò Sale, sposato a Ottavia S. Giovanni (1590) viene Ottaviano il quale, è detto nella nota, arricchì la famiglia co' suoi risparmi.

Questo economo ebbe due mogli: Virginia Revese e Orsolina Egano.

Antonio Nicolò, il quale nel 1703 ebbe anch' egli il titolo di marchese di S. Damiano, procurato a' discendenti dalla nuora del generale Repetta (sic).

Marito a Sabina Squarzo ha per figlio:

Luigi uomo versato nei sacri studi e nei filosofici, a lui venne dedicato dai più celebri letterati, Orazio Maria Pasoni e Camillo Boniolo, il libro delle parti sensibili ed irritabili negli animali. Venezia 1757, tipografia Occhi.

Luigi, sposo a Beatrice Manfredi Repetta di Manfredo. Da questo connubio nasce:

Ottaviano, ch' ebbe per moglie:

Cornelia Arnaldi e a questi due avi di mia madre io mi fermerò, riprendendo la narrazione e intendendo che appunto da questo momento datino le presenti memorie.

Le quali, come non ebbero proprio nulla di sinistro e nemmeno di fiero fin qui, cominciano adesso con un triste fatto, di cui narra la cronaca, si rese colpevole il mio proavo Ottaviano. Pare che, perduto il senno, per amore di una donna virtuosa, moglie d' un lacchè del marchese, questi gli attentasse la vita. Non mi consta che ciò fosse realmente, nè desidero di assicurarmi, anzi m' è caro il dubbio. Certo un forte sospetto corse in quel tempo, dacchè la serenissima Republica emise un bando, pel quale il disgraziato restò vent' anni in esilio a S. Marino. Ottenuta quindi grazia ripatriò.

La passione può benissimo offuscare il giudizio, tanto più in persona potente, cresciuta alle idee assolute di predominio feudale.

Tolto questo impeto di passione, impeto a cui è soggetto ogni grande ed anco ogni buon cuore, poichè è umano l' errare, il marchese lasciò nobilissima memoria di sè. La cronaca aggiunge che fu uomo colto, e si conservano di lui lettere originali nel codice degl' illustri corrispondenti del celebre padre Carlo Barbieri.

Non pertanto avrei forse taciuto la dolorosa storia, se accanto ad essa non brillasse il raggio più puro d' una fedeltà e d' una abnegazione conjugale degna di proporsi a modello.

La nobil donna Cornelia Arnaldi, moglie al marchese Ottaviano, educata rigidamente nei principì della più severa virtù, rimase come un' immagine sublime nella mia famiglia materna. Di lei basti dire, che seguì fedele il consorte, esiliato per quella causa!… V' hanno azioni che compendiano il più bell' elogio. Darò in seguito altri particolari di lei, via via che m' avverrà in queste memorie d' oltre-culla; ora passo senz' altro al matrimonio del marchese Luigi Sale, loro unico figlio, colla contessa Fiorenza Vendramin, patrizia veneta, miei avi materni.

Quale educazione ricevesse il marchese Luigi, dove passasse la sua gioventù durante l' esilio del padre, cosa facesse, cosa pensasse io non l' ho mai inteso dire, nè vado a cercarlo.

Educato in collegio di nobili certamente, allevato colle idee feudali, ultra blasoniche è più che sicuro; la cronaca riporta di lui: « Ottimo cavaliere, che amò la patria sua. Fu tra quelli che nel 1803 mandarono l' abate Parise a Vienna. Studioso di scienze esatte, lasciò una cospicua libreria di 9000 volumi. Si conservano sue lettere nel codice Barbieri ». Ignoro chi fosse l' abate Parise, che il marchese Luigi Sale nel suo amore per la patria, mandò a Vienna. So benissimo che il nonno sapeva di matematica, e che possedeva belle macchine e istrumenti di fisica. Ma ancora queste cose non mi danno certezza della gioventù di mio nonno.

Che il suo matrimonio colla nobildonna Fiorenza Vendramin si concludesse nel modo con cui si stringevano i nobili parentadi d' allora ho tutte le ragioni per crederlo, e mi conferma questa lettera, che dalla sposa, soltanto promessa, fu scritta allo sposo; il quale allora senza dubbio come tale erale stato presentato. La lettera allude alla prima intervista, succeduta ai preliminari, scambiatisi fra i nobili genitori, e forse fra i rispettivi fattori incaricati, quali ministri di regnanti, a trattare le illustri nozze.

Sposo mio pregiatis.mo ed amatis.mo

Venezia, 15 febbrajo 1792.

« Stavo quasi sperando dalla gentile vostra affezione le notizie del viaggio di Padova, ed il vedere così bene verificato il mio presentimento mi riempie di vero piacere. Vi ringrazio veramente di cuore, perchè assai m' interessa quello che vi riguarda con quel di più di premura, che non ponno a meno d' ispirare le singole vostre qualità, e le convincenti maniere con cui le date a conoscere. Sento vera esultanza nel potervi spiegare la persuasione dell' animo mio, senza timore che le mie espressioni siano da voi interpretate come frasi di complimento, ma bensì di sincerissima amicizia. Vi prego dunque nuovamente di tralasciare ogni formula di cerimonia come niente necessaria fra noi, che usar non dobbiamo d' un linguaggio così arido e insignificante. Ho piacere grandissimo nel sentire che non siate rimasto scontento di me, benchè la novità della circostanza, un temperamento non abbastanza deciso (sebbene forse in apparenza lo sembri), tutto insomma dovesse portare sopra di me delle alterazioni sfavorevoli, e se queste non sono state molto forti dovete compiacervene con voi medesimo, che avete saputo così bene ispirarmi la più grata sicurezza e fiducia. Vi fo intanto i più cordiali saluti, vi assicuro dell' ottima mia salute, vi prego d' usare tutti i riguardi alla vostra, vi ringrazio della memoria che conservate per i miei congiunti, che con ogni distinzione vi corrispondono, e contentissima di avere così bene impiegato questi momenti vi do un addio. Pregovi de' più sinceri complimenti alli amabili vostri Genitori.

La vostra affett. ed obb. sposa, amica
Fiorenzetta Vendramin

Al nobile signore
Il sig. marchese Filippo Luigi Sale Manfredi Repeta.

VICENZA

Mi compenso di non poter parlare della gioventù di mia nonna, e riporto un ritratto che di essa fece sua sorella Maria Vendramin, moglie poi al marchese Ricci, madre a Domenico, ava del genero d' Azeglio. L' essere scritto in francese e il supporsi inglesi ambedue deve ascriversi ad amabile eccentricità del tempo … pur troppo e a gran vergogna, cominciava il farnetico delle mode forestiere.

« Portrait de Miss F. W. par sa soeur M. W.

Mademoiselle de W. est d' une taille moyenne, mais svelte et bien prise. Elle à le teint brun, deux grands yeux noirs et perçants, une figure interessante et spirituelle. Elle danse vivement, se presente et s' assoit avec grace, quelquefois avec distraction. Elle à un bon sens innè, un esprit précis, un tact juste et de la force dans l' entendement.

Elle agit avec rapidité, se désespère avec excès, s' égaie avec vivacité, se chagrine avec pénetration, conseille avec concision, loue dans les cas necessaires et avec brieveté, blâme avec mordacité, comprend avec promptitude, écoute avec attention, parle aisement, et se tait avec éloquence. Elle à l' amour propre qui anime, la modestie qui plait. Une heureuse aptitude à touts les talents, qu' elle saisit avec finesse, repend sur sa personne une charmante singularité. Sa parure est toujours simple, mais pas du tout commune. Elle ne se donne pas l' air d' aimer par échange, mais par sentiment. Elle hait la contrainte, l'étiquette, le serieux, aime la confiance, la familiarité.

Per dare un' idea dello stile di Fiorenzetta copio il ritratto di Maria, grazioso scambio ch' ella fe' alla sorella.

« Portrait de Miss M. W. pas sa soeur Miss F. W.

Mademoiselle de W. est d' une taille élancée, d' une physionomie pathétique, d' un maintien doux et parlant. Sa taille vous rappelle les contours adoucis et élegants des groupes antiques, et la simplicité touchante du dessein de la Kauffmann. C' est une de ces figures favorables, dont toutes les parties concourent à un accord très gracieux. Si elle est gaye et animée sa physionomie vous annonce une tranquillité ou un enjoument enfantin, un instant de plus de froideur ou d' indifference vous allez lui attribuer un leger soupçon de melancolie. Au reste, sans être point du tout mélancolique, deux choses contribuent quelquefois à cette apparence. Ce sont la sensibilité, toujours remuante et sa susceptibilité à l' ennui et à la distraction. Son coeur est capable des sentiments les plus doux, et sa reflexion met toujours à l' analyse les mouvements de son coeur. Son concentrement est bien plus assidu, plus insistent dans le developpement d' une idée morale, que dans l'acquisition d' une notion suivie ou d' un travail ingénieux. C' est un fond naturel de paresse qui lui fait soupçonner de ne pas beaucoup valoir, mais son amour propre une fois aiguillonné, elle va plus loin qu' on ne semblait l' exiger. Elle a l' art de faire reluire dans son discours sa raison et son esprit. Tout lui fournit matière de l' enrichir et de l' animer. Son observation en société est des plus fines et des plus amusantes. Rien ne lui échappe des ridicules, ou des tics des personnes qu' elle observe, elle a le talent charmant de les rendre à l' evidence. Elles est d' ailleurs très modeste, sans jamais parler de sa modestie. Elle a beaucoup d' aptitude aux talents qu' elle cultive, et le plus cultivé est toujours chez elle le plus florissant. Elle a beaucoup de goût pour ceux qui embellissent la figure et la taille, cependent elle n' a pas besoin pour plaire, que de sa taille, de sa figure, et de sa bonne humeur ».

Paragonando questi due ritratti io ci vedo dentro tante cose che fanno leggere il destino delle due amabili creature da cui vennero scritti. Nella prosa della giovinetta Maria si scorge un che di posato, se non di freddo. Certo, dipingendo una fanciulla focosa, tutta brio, tutta anima qual era sua sorella Fiorenza, la pittrice poteva aggiungervi qualche pennellata più viva. In vece la ritrasse com' era ella stessa: quelle antitesi, quelle formule: « elle agit avec rapidité, se desespère avec excès » fino a concludere: « elle parle aisement, et se tait avec éloquence » pare un ritratto adattabile, con leggere variazioni ad altri dello stesso genere. Fiorenza in vece quando dipinge Maria, la copia con fedeltà, e nota quella paresse, per cui la Maria ci die'un ritratto sbiadito della vivace sorella. Non basta; anco la vi aggiunge, e certo ci mette del suo; colorisce con quell' immaginazione piena di slancio, una pittura per sè stessa tranquilla, giudica con intelligenza sviluppatissima, ed analizza il morale d'una giovane, in cui certo comprende più che non dimostri: insomma le dà quello che l'altra le toglie. Quasi sempre in una famiglia dove son due ragazze l' una è seria, l' altra faceta, l' una posata, l'altra immaginosa.

Di queste, ossia della Maria, è il destino, divenuta moglie di un patrizio romagnolo, il marchese Ricci da Macerata, da lei sposato, credo, per procura, senza nemmeno conoscerlo, star ferma al suo posto, esser madre-famiglia, zia, ava, matrona, morire vecchia, felice, non so, ma stimata fra le più nobili dame di Bologna.

Della seconda, Fiorenza, dirò poi e accennerò adesso al momento in cui le due rose, che folleggiavano sullo stelo, mosse dalla medesima aria soave di gioventù, scambiandosi per impeto di vita i loro profumati sentori, furono divelte dalle gelide mani di due sposi, e si separarono per sempre.

Come la gentildonna veneziana, appena sposa, comparisse a Vicenza io non riferirò. La deve avere destato quell' interesse che suol svegliare una sposa di casato cospicuo, in ogni paese. Col di più che vi aggiungeva la fama di bellezza e di brio di quella sposa e la curiosità della Vicenza d'allora. Certo la veniva come una bella ninfa dalle sue lagune, e vi stava come una regina. Avea un palazzo principesco, appartamento a sè: pareti coperte di raso, pavimenti a tappeti preziosi, mobili dorati e tutto il lusso possibile in quel tempo. Servitori, lacchè, carrozze: in mezzo ad esse una tanto bella che poco manco è quella con cui il papa andava ogni anno a s. Filippo Neri; o quella del sacro di Carlo X, che si vede a Versailles. Forse le dorature e le sculture stanno molto al disotto, ma gli sportelli, dipinti da Rubens la rendono un capo pregiatissimo d'arte, e tanto che Napoleone I il suo ingresso a Vicenza lo fece trionfalmente in quella splendidissima fra le carrozze di casa Sale.

Un cavaliere servente, scelto apposta, e stabilito nel contratto dovea accompagnare la dama ove le piacesse: e Dio solo sa quel tapino ganimede con quanta grazia venia beffato e martirizzato nel suo singolarissimo ufficio.

Par di vederla quella bella marchesa, aggirarsi per le sue stanze con signorile mollezza strascicando la coda d' un abito, secondo costumavano, d'un colore sfumato e indeciso; sporgere un bel piedino, calzato d' una scarpetta di raso bianco, pestarlo impazientita, agitar la ventola e nascondere dietro a quella una matta voglia di ridere alle goffaggini del nobile servo.

E il marito? senza dubbio egli amava la sposa, e col proposito fermo di renderla felice. Ma i caratteri non s' incontravano punto. Ciò non tolse pertanto, che dal poco bene assortito connubio non venisse al mondo nel 1794 una bambina, a cui s'impose il nome di Cornelia, quello della nonna Arnaldi, la cara vecchia di cui v'ho parlato.

Ecco ciò che di questo avvenimento riferisce nella Autobiografia d'una fanciulla ossia nella propria, la mia adorata e sempre pianta madre: Può darsi che questa descrizione somigli a qualche pagina di romanzo: ma cosa dire? Che v'han favole che pajono storie e storie che pajono favole.

« … Intanto che mia madre, presa dai dolori del parto, s'affaticava per darmi alla luce, un servidorame numeroso, chè di siffatta genia d'oziosi era abbondanza in quei giorni nelle case dei ricchi, stava raccolto nelle cucine, dove novellando, cioncando, giocando e facendo l'ignobile chiasso, ingannava il tempo, attendendo la beata novella, apportatori della quale, sarebbero iti di casa in casa per buscarsi la mancia, che era convenuto, come d'un pane d'un soldo, diciamo noi, per un maschio consister dovesse in un zecchin d'oro (le felicità non si pagano mai troppo care a questo mondo) e per una femmina d'un ducato veneto d'argento.

Ora, immagina, tu, o lettore carissimo, come doveasi accogliersi da quella gente il sospirato messaggio, il quale loro recava, che invece del marchesino desiderato, aspettato da tanti voti, una marchesina, cui niun volea, a cui niuno avea mai pensato, era uscita allora dall'alvo materno! un gittare sprezzante delle carte da giuoco sul desco, un alzarsi impetuoso e romoroso dalle sedie, un percotersi di queste nel mure, o negli altri arredi della cucina, e, tra il suono sommesso di qualche bestemmia, uno sbandarsi per di qua, per di là, ciascuno pe'fatti suoi, quindi un sepolcrale silenzio, una solitudine profonda, succeduta al rombazzo, ai sollazzevoli e sguajati parlari di prima, indicavano bastantemente il modo non dubbioso del come questo fatto venisse accolto da quella ciurmaglia. Ma ciò non basta: l'ava mia, marchesa Cornelia, d'altra parte santissima donna, rispettabile sotto ogni riguardo, stette più di cinquanta giorni senza volermi vedere, senza quindi dispensarmi una sola carezza, senza imprimere un solo bacio sulle guancie della sua innocente e ignara nipotina. Quanto a mio avo, marchese Ottaviano, credo che fosse vietato ai famigliari perfino di rammentare il mio nome alla sua presenza, e di ricordare quindi l'avvenimento, succeduto pochi giorni prima a funestare la sua nobilissima casa …. Ma a dir poi tutto schiettamente, ed a rendere il debito onore alle anime dei due rispettabili vecchi, quanto affetto non prodigarono poi alla tapina orfanella!… »

Tornando alla marchesa Fiorenza, e leggendo il manoscritto dell' egregio conte da Schio, che riferi quanto udiva, io vi trovo tristissime cose, possibili tutte, una sola fatalmente sicura, e la più lugubre.

Accennata con una parola legittimamente crudele da mia madre, è debito mio spiegarla, non attenuando un fatto di cui umana potenza non può scemare la gravezza, ma presentando candidamente le circostanze, che valgono a renderlo meno fiero, nell'atto che porgono ai giovani lezioni efficacissime di vera esperienza.

I tempi, lo sa ognuno, i tempi sul cadere dello scorso secolo correvano brutti e d'una veramente laida e mortale bruttezza. Questi poveri paesi, dopo lungo periodo di gloria, di sicurezza, di opulenza e dominio, decaduti fin dalla lega di Cambrai, sentivano più che qualunque paese civile l'aria morbosa, la mollezza corruttrice per la quale si sfasciava al soffio di libertà, più d'una monarchia in Europa.

L'aver lasciato il mare per la terra ferma; i carnovali, il sonuo, le ricchezze ereditarie e sopra ogni altra cosa i privilegi ereditarî, furono più che sufficienti cause di innervazione prima alla capitale, quindi alla nazione.

Per tener su un corpo così floscio non occorreva di meno d'un rigido feudalismo il quale mantenesse soggetti ai superiori gl' inferiori, bestie irragionevoli ed irresponsabili, per modo che agli uni spettasse il comando, agli altri l'obbedienza, senza sindacato e senza esame. La moglie infedele, o anche soltanto calunniata o sospetta, potesse venire chiusa in un convento; le figliole maritate contro genio, i figli preti o frati per forza … Che preti, che frati, che figli, che mogli, che subalterni risultassero da quel metodo lo sappiamo già per le mille tradizioni vocali, scritte per le mille testimonianze vive e palpitanti di quel passato, del quale Dio sa quanti dolori ancor sopravvivono, a cui non si sa qual origine assegnare e che non ne hanno altra che quella, perchè: « serpe a guisa di rovo e usanza avviva la mala pianta ».

Quando in una società decrepita vien dal di fuori un soffio di vita giovane, selvaggia, potente come quella della rivoluzione francese, chi mai può misurare i disordini che vi produce? In un mare morto, in una palude stagnante un altro mare furioso che precipita!… Sarebbe da scolaretto di rettorica il descrivere parte a parte quei disordini, e tutti già intendono come al tremar della terra sotto l'urto della cavalleria francese, cadessero sul nostro terreno le case, che a stento, a forza di puntelli e di ferramenti, mal si reggevano.

La giovinetta Fiorenza Vendramin nella casa paterna, presso la madre, Alba Corner, e il padre che fu bailo a Costantinopoli vi godeva grandissima libertà. Ottimo cavaliere il nonno di mia madre, ma forse trascurato: stranetta la nonna, di lei si raccontavano graziose eccentricità, come le dicono adesso. Eccone una:

La desiderava conoscere Vittorio Alfieri e gli scrisse press' a poco queste parole. « estro mi prende, bramo vederti, addio ». Ignoro se la bizzarra chiamata persuadesse o no il fiero Allobrogo a farsi vedere, ma io suppongo di no. La si vestiva in modo che tutti le guardavano appresso; contigiata, tutta fronzoli, e cappì: le guance coperte di liscio: quando il genero, marchese Luigi Sale, dovea condurre questa gentildonna della republica a spasso, non sapeva che atto fare per nascondersi, tanto la dava nell'occhio con quella mettitura curiosa.

Se la libertà di casa Corner fosse di questo tenore ignoro, ma credo. Certo praticavano di gran parassiti, la peggiore genia che pullulasse sul lastrico di Venezia e di terraferma in quel tempo. Darò un esempio. A Treviso la casa dei conti di Rovero apriva il suo ospitalissimo tinello a più d'uno di questi vermi roditori dello stato e dell'onore delle famiglie: essi ci andavano ogni giorno, scapoli e conjugati, soli e colle rispettive consorti. Un dì il placido Sile straripa: oh, non si fanno quei commensali portare a predella, uomini e donne, alla nobile mensa, dove mangiavano gratis? Appena giunta la cara e savia sposa del conte Francesco, nobildonna Sanseverino da Crema, fece, con un provvidissimo ukase terminar quell'abuso; ma fu un colpo di stato.

La giovinetta Fiorenza, che già quattordicenne provò une forte inclination pel figlio del celebre incisore Bartolozzi, conobbe un Campos, segretario all' ambasciata di Spagna, e ne innamorò fortemente.

Riamata dal Campos, quest' amore divenne infelicissimo, chè non solo le famiglie si opponevano al matrimonio, ma la politica del governo, contrario ai connubî fra le patrizie e gli ufficiali delle ambasciate estere.

Ecco adunque in sul'più bello di questi affetti senza speranza si presenta il marchese, che la sposa non vide mai, nè conobbe. È ricco, cioè a dire è in fama di grande ricchezza. I Vendramin sono nel più grande sconquasso economico; a Campos tant' è tanto è inutile pensarci … Vedete voi un seguito di malanni, di disgrazie da questo primo anello venir giù a costituire una catena di cui l' ultimo è fra una culla e una tomba?

La nobile sposa divenuta marchesa Sale, regina del suo palazzo, della città, della moda, vi brilla per la bellezza, per lo spirito, per la coltura.

Campos al cuore del quale certo l'immagine del primo amore non si dileguò, viene a Vicenza. Rivede nella sua edificante grazia il fiore, tanto bello, già appena sbocciato. La leggiadra damina che trasvolava a fianco della sorella sotto i gloriosi portici di Sansovino, o s'inginocchiava sui musaici di S. Marco, o ballava sui battuti del palazzo ai Carmini, ora gli appariva ben più seducente, o dalla carrozza, o sul lastrico del Corso, o dal bel verone, che prospetta la romantica piazza di S. Lorenzo.

Signora di sè e d' altrui, corteggiata, amata dallo sposo e da quanti la circondavano, la avea un ben altro portamento, una ben altra avvenenza nello sguardo e nel gesto. Le mode cambiate, non più cipria, non più nei, non più caricature artificiali; i capelli neri della marchesa Fiorenza, in magnifica copia di innumerevoli anella venian su in natura, sostenuti mollemente da una zona o benda celeste, secondo costumavano alla Tito. Un piccolo sciallo o fazzoletto da spalle, ingroppato per di dietro, dissimulava, senza alterarne la grazia, il corpicciolo svelto ed eretto, quale arbusto, che si dilata in corimbo.

Così la ritraggo da una piccola miniatura, conservata preziosamente. Chi volesse farsi un' idea viva di quella immagine non ha che da guardare, fin che ce ne sono, le nostre più belle patrizie, pur che brunette, abbian di quegli occhi da far dannare i santi; naso aquilino, l' ovato del viso piuttosto lungo e un sorriso che tiene dell' infantile, per cui suol dire il nostro popolo « la pare un bambino ». Bel sorriso cui la soave peluria, che si segna in tinterelle fredde sopra il labbro e ci dà il sospetto di baffi agli angoli, rende più caro, come una nota che comincia acuta e col finir grave penetra il core. Non dico poi cosa sia lo scintillar di bei dentini fra quelle labbra. Certamente chi vide allora la marchesa, la paragonò a Maria Antonietta, e nell' arieggiar del capo, in quel che d' insinuante e d' imperioso, di regale e in un di femmineo.

Tutta questa pittura è qui perchè si compatisca al povero Campos, se rivedendo la sua prima fiamma bruciasse più che mai per la bella creatura, già tolta al suo onestissimo amore.

Dissero in quel tempo che la marchesa gli abbia risposto, ma io non lo credo. Troppo spesso odo calunniare una donna, tanto più s'è bella, e s' è dama. Le più grandi accuse si gettano con incredibile leggerezza, chi si oppone è un imbecille, chi non crede è connivente o poco meno. Nella realtà c' è poco o nulla di vero. Per lo più son galanti canzonati dalla signora civettuola, disoccupata, briosa, i quali si vendicano poi, gettandole addosso un po' di fango. La platea che invidia, astia e adora la diva, sta attenta a tutto; interpreta, esagera, applaude o freme, pesta i piedi nella sua impazienza d' ogni superiorità, d' ogni lusso, d'ogni grandezza, e intanto non bada a chi fa il male davvero, alla cheta, alla sordina.

Molti furono oltre al Campos coloro che si disputarono l' ambito favore di corteggiar la marchesa. Dico semplicemente corteggiare, perchè il marchese non era poi così dolce di sale da tollerare scandali: quantunque la cronaca manoscritta avverta « la dissolutezza francese avea sparso un elixir d'indifferenza sopra tutti i connubì del mondo civilizzato ».

Fra tanti adoratori parve notasse un Nicolò Salvi: ma il satirico Testa, da lei trattato con amabile benevolenza in publico, si vendicò del non potere realmente conquidere il cuor della donna; e ne scrisse una vita degna d'oblio, più vituperosa per lui, tanto vile e codardo da immaginarla, che a lei calunniata.

Accrebbe i trionfi della bella amazzone il veder di lei preso un Altasty, celebre pel favore con cui lo teneva la grande imperatrice di Russia Caterina II. Un francese Rizzoni, un Alessandro Trissino, un Lodovico Carcano sospiravano anch'essi avvinti al caro della Diva, ma la cronaca aggiunge ch' ella, piena d' ambizione e di spirito, godeva soltanto vedersi da loro corteggiata, ben lontana dall' occuparsi di così frivoli uomini: se mostrava premura per un bravo pittore, era soltanto perchè le insegnava a dipingere, e con grande perizia, come attestano le prove rimaste … Cosa importa? non basta pel mondo che una donna dia da discorrere, perchè si creda più di quello che è, e anche quello che assolutamente non è?… Immaginiamoci la marchesa avida di celebrità, vaga di far discorrere un paese, che ne avea tanta voglia: udiamo la cronaca manoscritta cosa ci riferisce a questo proposito: è storia intima, quindi poco nota e buona a conoscere: « La nobiltà vicentina, ancora stretta nei legami della antica riservatezza, non tollerava gl'individui suoi nelle panche dell'osteria. La democratica armata francese traeva ai club, alle taverne tutta la gioventù, che tanto più vi si affollava, quanto più sapeva ciò ai vecchi dispiacere. Una sera volle pure la marchesa Fiorenza intervenirvi. Invano tentarono gli amici suoi dissuaderla, chè fu loro giocoforza seguirla ».

Ci andò adunque e perchè la cosa facesse il rumore da lei ambito, o presentendo i molti commenti, prima di partire scrisse di sua mano, col carbone, sul muro:

La Marchesa e quattro amici Furo a cena qui in Casanza, Ben sarebbero felici Se, a dispetto dell'usanza, Non andasser per la bocca Di qualcuna lingua sciocca.

Casanza è voce disusata e indica una camera riservata nelle trattorie vicentine.

Certamente la fu un' arditezza, ma non un male: l' idea n' è esclusa appunto da quell'aver lasciato i versi a testimonianza del fatto.

Ma pensiamo un po' quell' azione stramba quanti chiacchiericci deve avere sollevati nella Vicenza d' allora: e non è pur troppo esagerazione affermare che la caduta della republica non diede certo a discorrer tanto quanto l' impertinente improvvisata della marchesa.

Caro lettore, tu li vedi i buoni borghesi di Vicenza incontrarsi agli angoli delle vie, arrestarsi, ghermirsi l' un l' altro il polso, mormorando con un misto di sorpresa e di convinzione:

A gavio sentio?… la marchesa è sta in Casanza … — E, fatto un moto pauroso, scantonare rapidi a testa bassa come a dire: — che tempi!

Eppure quei tempi eran meno tristi di quanto si crede, e rinnovarono la società: eppure la marchesa valeva molto più di quello che le sue originali scappate dimostrerebbero: e consta del bene la non ne fosse avara.

« Era buona, d' elevati sensi » dice il manoscritto e narra come salvò ella stessa un amico, che l' avea derubata. Credo ciò avvenisse al cavaliere servente, il quale munito d' una ricca pezzuola della marchesa, la lascia una sera a teatro, e va al palazzo a farsi dare una gemma incastonata in un prezioso anello. La dama, discreta e misericordiosa, lo ricompra dal monte, e così castiga il colpevole, a cui forse ella, senza nemmanco accorgersene, avea rubato il core.

Del resto dare una esatta immagine di questa donna è impossibile. Non v' è camaleonte, Proteo multiforme, uccello dalle penne cangianti che si possa a lei somigliare. In una specie di autobiografia, favoritami dal conte Schio, intitolata: Memoires et Confessions de Madame Vendramin-Sale (1795-1797) c' è bastanza da fare dieci ritratti di una sola persona. Porta per epigrafe: Ut nemo in se se tentat descendere … Nemo! (PERSIUS, Sat. IV, 25) e più sotto Dans mon être, dans moi je cherche à pénetrér. VOLTAIRE.

Da queste citazioni si scorge quanto la fantasia della cara donna fosse rovinata, massacrata dalle novità dell' epoca, in quanto avean di più pericoloso.

E la convinzione s'acquista che non la sapesse nemmeno ella cos'era; sebben la si calunnii a tutto potere, e intenda mostrarsi sotto l' aspetto più brutto con un orgoglio, che tocca il cinismo.

« Lecteur je ne vais pas te tracer ma vie » comincia ella « c' est mon coeur que je vais te developper » e procede confutando i biasimi de' suoi nemici e le lodi degli amici: punto per punto, paragrafo per paragrafo, ripetendosi spesso senza stile, ma non senza vivacità e non senza una certa potenza, che dà rilievo al pensiero e scolpisce quella fisonomia capricciosa, inquieta, bizzarra d'angelo o di demonio. Ora la si dà per menzognera, e sappiamo ciò inesatto; indifferente, quantunque si riconosca sensibile: dichiara di non potersi dir buona … « il est vrai » soggiunge, que ma raison n'a point une voix grêle et effeminée, mais elle n'a pas un ascendent decidé sur mon âme ». Si confessa ignorante, e dovea esserlo perchè l'educazione femminile d'allora non potea che dar frutti d'ignoranza, ma afferma la sua buona volontà d'imparare. Vana non parrebbe « Je n'envie point aux femmes leurs bijoux et leurs gazes, j'envie aux hommes, jusqu'à la souffrance, leur talents et leur connaissances: je n'ai de moments plus heureux de ma vie que lorsque je comprends de bien envisager un objet, et d'en savoir autant que les grands hommes, je ne suis jamais indifferente sur l'article des connaissances. C'est un instinct, c'est un sixième sens à moi. Quelquefois ce transport, cette demangeaison de savoir me fait plus de mal que de bien, en m'òtant la tranquillité, la patience; ainsi ne puis-je me vanter d'aucune connaissance profonde … »

Di fatto ella adduce in prova di poter tradurre il latino senza averlo studiato, e di eseguire concerti in musica ed accompagnamenti, ignara delle basi musicali « mais ayant seulement en moi-même je ne sais quoi de brillant, et d'inquiet qui me pousse au bout, et en force du quel, il ne m'a jamais été possible de m'arreter ». L'istruirsi è dunque il solo lato solido di questo carattere; ed io vi aggiungerei anche la modestia nello spendere, e l'odio d'ogni ostentazione di fasto e di ricchezza: la era nata grande … e questa dote ben la ereditò la mia adorata madre. « Je n'aime l'argent que parce qu'on peut le depenser en cachette, et je ne suis jamais contente de l'usage que j'en fais, que j'arrive à bout de ne savoir pas comment je l'ai dépensé » e più oltre « je ne suis pas en état de cacher mon dedain pour le faste et le bruit. Je ne voudrais être connue qu'à dix ou douze personnes, toujours de mon goût, et ignorée par toute la terre. J'ai l'air mutin et dédaigneux quand on veut me louer également que quand on me blame ». Insomma la è indecifrabile, e questo c'è bisogno di dirlo per non disistimarla, e non prendere sul serio le professioni di fede filosofica, calcata sui modelli del tempo. Gergo insipido tolto a prestito allo stile robespieriano: Oh la pretesa che avean coloro di strappare i veli alla realtà, come se poi arrivassero a intender qualcosa …. « elle se règle par des principes màles et philosophiques » ma quindi: « me voila bien riche dans la misère!… » la marchesa è costretta a soggiungere.

Questa autobiografia conclude:

« Si je n' en avais pas assez dit, c' est que méme en descendant dans nous mêmes il nous arrive comme à ceux qui descendent dans une caverne, où l' air est impur et peu respirable. Il sont si fatigué par la souffrance que leurs facultés ne sont point aussi promptes qu' il le fallait pour examiner le local ».

D'un altro ritratto in versi, fatto a sè stessa dalla marchesa riporto solo queste strofe, già riferite nel mio Veneto letterario. Le son migliori fra tutte:

« Sento in seno un' alma forte. Ch' è talor di me maggiore; Le vie cerco dell'onore Pel cammin della virtù. Son del bello ammiratrice, Del mediocre son tiranna Sol mi cruccia, sol m'affanna Pregiudizio e servitù ».

La cercava l' onore quella povera bell' anima sul cammino della virtù ….. ahimè i tempi lo rendevano malagevole, pieno d' abissi pel gentile piedino d' una figlia della nobiltà veneziana, che al rigido dispotismo feudale accoppiava tutta la mollezza, tutto il lascivire d' oriente; imponeva matrimonî colla ferula dell' aguzzino, e permetteva che issero poi alla peggio, e tollerava colla noncuranza, direi colla vile compiacenza del manutengolo!

Tutto questo, ch'io dico per mettere in luce il bello ed il buono della cara ava, si riferisce alle cose in cui è possibile reintegrarla. Rimane una cosa pur troppo sicura ed è la sua morte.

Fatto misterioso, lugubre a cui è lecito dare molte interpretazioni, a cui il mondo ne diede una sola: mille essendo in vece le conseguenze che da tal fiero e veramente drammatico caso ne vennero, per infinita serie di mali, perchè e chi mai terrà conto di ciò che accade in una famiglia nella quale la madre diserta il suo posto?

Fu detto in quel tempo che un certo Lassalle, capitano di cavalleria nell'armata francese, invaghisse della marchesa; la cosa non ha niente di straordinario. Ch'ella corrispondesse corre voce, ma io di quelle voci non fo nessun conto, perchè so quanto valgono le dicerie del mondo. In ogni maniera questo amore, queste corti furono d'un genere così romanzesco e cavalleresco da far sì che tutta Vicenza se ne occupasse. Il capitano, cogliendo il pretesto di scaramucciare coi Tedeschi, quando la città stava fra due armate belligeranti, veniva a caracollare colla spada sguainata, ed anco insanguinata, e passava sotto le finestre della dama de'suoi pensieri. Cosa malissimo fatta, perchè così rendeva publico un corteggiamento senza dubbio ordinario, e fin a un certo punto voluto dalle circostanze d'un'epoca eccezionale e balzana.

Ma a tali publicità lo portava l'indole dei militari francesi. Di più, sofferente nella salute, anzi condannato, in lui s' aggiungeva allo sprezzo della vita, nei campi di battaglia, quello del qu' en dira t' on nella vita civile. Chi lo conobbe assicura che fosse tisico, e patisse tali insulti di tosse da fargli saltare via i bottoncini d' oro della sua uniforme da ussero.

Pallido, con due mustacchietti neri, sentimentale e fantastico, Dio sa quali conquiste di belle italiane aveva sognate nel suo Parigi. Non gli parea vero di afficher, ossia di far sapere urbi et orbi come fossero caduti sopra di lui gli sguardi della — très haute et très puissante Dame marchesa Fiorenza… — e s' apprestava a raccontare nel suo ritorno i rapidi trofei, a quel qualunque Tortoni d' allora; ben lontano quel povero giovane dal supporre che la piccola, amabile farsa volgerebbe alla tragedia. La qual però non fu, come si tenne generalmente, il risultato della farsa, ossia degli amori apparenti o reali; io ne adduco le prove.

Primo. La nobildonna Fiorenza, leggera per sua natura, non poteva prendere sul serio una passione fugace fino a sacrificarle la vita.

Folleggiare come farfalla di fiore in fiore e non morir per nessuno è d' ordinario la vita d'una dama del gran mondo, e di quello spirito.

Può benissimo in un cuor tenace agli affetti radicarsi tale affezione profonda da divenire questione urgente di vita o di morte il perdere la persona cara. Ma questo domanda lunga consuetudine, reiterate prove, stima, necessità di protezione o crcostanze, che tolgano per sempre ad un' anima ogni possibilità d'altri affetti. Quello non era il caso.

Secondo. La era perduta dietro a costui e perchè non seguirlo? Donne che seguivano i francesi ce n' ebbe più d' una: essi nojati di quegl' impicci se ne liberavano slanciandole giù dai burroni, fra gli abissi dei monti: essi vendicatori dei padri, dei mariti offesi, i quali però, giova ripeterlo, era da incolpare in tutto e per tutto.

La morte della marchesa avvenne dunque perchè, coll' interessante capitano, partiva l' armata francese, cessavano le istituzioni democratiche e tutto lo splendore di quella vita affascinante, guerriera, potentissima e creatrice, giacchè da essa fu rinnovato un popolo.

La famiglia della marchesa, aizzata dal patriziato, fremente per le eccentricità da me riferite, s' apprestava, ritornando gli Austriaci, a porvi un termine, e anco a vendicarsene. Dio sa cosa la vivace immaginazione della poetessa e della pittrice attendeva di tenebrose rappresaglie. Che i tempi infarciti di classico e di romanzesco fossero vaghi dei colpi alla Bruto, alla Seneca nessuno negherà. Un ritratto di donna, coronato di rose, con una maschera in mano, disegnato dalla marchesa stessa porta dietro, fra la carta e la tavoletta della cornice, queste parole:

« Wat Cato died, and Addisson approuved, can not be wrong » (Ciò che Catone fece e Addison approva non è cattivo).

Sopraffatta dallo spavento, risoluta dunque a torsi al temuto avvenire, la marchesa domandò « ad un suo amico, il conte Nicolò Loschi, il volume dell' enciclopedia, che conteneva la voce oppio, e provvistasi la dose indicata, la prese una sera delle prime nel 1797, mentre la sua famiglia era intenta alla conversazione ordinaria ».

Scorso un certo tempo le convulsioni si manifestarono, poichè, a punizione della infelice, non operò soltanto come narcotico il tossico, ma le destò quelle terribili spasmodie, che sogliono molte volte accompagnare l' avvelenamento coll' oppio.

Chiamata gente, la povera creatura, pentita, pentitissima d' un momento d' oblio, dal quale sperava l' oblio eterno, e che le portava in vece, quegli spasimi, lasciandole nello stesso tempo intravedere a mente chiara la morte, iva ella dal letto accennando alla scrivania …. angosciava per non essere intesa, e per non potersi fare intendere dagli atterriti astanti, i quali ignari tuttavia, ma posti in sospetto dall'atroce spettacolo, pur cominciavano a connettere insieme alcune circostanze, fra cui una sopratutte eloquente: l' essersi la marchesa fatta portar alla sera prima la sua creaturina; l'averla baciata, ribaciata con grandi carezze e si può dire insolite. Pur troppo s'accorsero e troppo tardi di ciò che era: e la sventurata morì.

Ognuno può nel corso de' suoi giorni aver subito un tal concorso di dolori da giungere a falsargli l' istinto della vita: e decidersi a terminarla. Ha preparato quanto occorre a mettere la sua fiera determinazione in atto, ma al punto di eseguirla, per poco che la mente gli resti, per poco che sia nutrita di idee religiose egli pensa: ancora un momento io saprò cos' è il mondo di là: un attimo mi separa dalle regioni eterne: secondo gli atei sarà nulla, secondo i cristiani eterno castigo. Immagina la famiglia attorno del proprio cadavere, sente i loro gridi a cui non potrà rispondere, prova un insuperabile ribrezzo, il cuore gli tumultua e trabalza nel petto, i capelli gli si arricciano … guai se levando gli occhi ad uno specchio vede la propria immagine, già divenuta spettro: non dura nel miserando proposito, getta la bevanda, respinge il laccio funesto, e si rassegna a vivere e a sopportare quali che sian le sue pene.

Una donna giovane, bella, cullata dalle blandizie d'ogni ricchezza, non usa a verun atto forte, non famigliare a veruna difficoltà della vita, a nessuna miseria … certo non la vide mai morire nessuno, il suo cuore pietoso non assistette a nessun fiero spettacolo, non reggerebbe a veder uccidere, o nemmanco soffrire una bestia. Ma le false idee politiche, sentimentali tanto travolsero il suo schietto criterio, che la si decide a torsi dalla famiglia, ad abbandonare la sua bambina, l'arte che tanto amava, le bellezze di natura che tanto sentiva.

Essa è là su quel letto di stoffa e d' oro: in quella camera tutta preziosità ed eleganza. Il bell' occhio d' andalusa, che projettava dardi soavissimi di vita, annunzia la morte. Il suo corpo, modellato dalle grazie, è contorto dalle smanie d' una disperata agonia, a cui succede la immobilità della morte!…

Cosa dire dell' orror profondo succeduto a tanta catastrofe? Credo che per anni ed anni non fosse sofferta una sola parola allusiva a quel fatto in famiglia: soltanto una volta, venuto il conte Vendramin, già bailo della Republica in Costantinopoli, padre della marchesa Fiorenza, e quindi avo di mia madre, si videro i due vecchi marchese Ottaviano e lui, e la fu una di quelle scene, che non si descrivono.

Chiuso l' appartamento vi rimase per anni ed anni, tal quale stava la sera della morte della sua abitatrice. Trine, gioielli, abiti, cavalletto, cembalo, pitture, carte manoscritte dov' ella colla grazia e leggerezza francese, descriveva le proprie impressioni; gli epigrammi, i sonetti, le poesie, alcune robuste, altre leggiadre, tutte espressive, in cui la Gaspara Stampa, la Saffo della Laguna versava i suoi pensieri, i suoi affetti.

Di lei restano:

Cinque egloghe pastorali;

Il pomo diviso (dramma posto in musica dal cognato marchese Ricci);

Le sue confessioni (in francese);

La contessa di Castelrono (commedia);

Leandro (cantata stampata);

Il suo ritratto;

Poesie varie. Di lei si lodò un sonetto in morte del padre Macchi Cassinese.

Di pitture abbiamo in famiglia un bel genio, o un amore di grandezza più che al vero, dipinto ad olio, con bell' impasto, vigor di colore e abbastanza corretto disegno; una Maddalena, mezza figura, espressiva più che corretta, e una bella testa di Filippo II.

Ignoro ciò che avvenne del Lassalle; ho ben vista una lettera, non mi ricordo a chi scritta, nella quale, in termini rispettosi e composti, deplora la perdita di tanta donna e si mostra atterrito ad un annunzio inaspettato quanto terribile.

Il Monitore francese, annunziando la catastrofe, disse: « così muojono le eroine, per fuggire al disonor della patria». E queste parole appunto mi diedero animo a fermarmi sopra il doloroso argomento, dacchè il giornale francese con la serietà maccaronica dello stile dell' epoca toccava giusto senza saperlo. Fu il generale delirio delle idee filosofiche da cui venne travolta la fantasia della marchesa: fu ad un'erronea interpretazione di grandi e nobili idee, che la cara infelice sagrificò sè stessa. Ho dunque voluto, posto che il fatto nascondere non si poteva, diffondermici sopra e ragionarne, dimostrare come le più chiare intelligenze, i più bei cuori possono smarrire la divina luce del vero, la coscienza e credere di far bene. Oh miserabile tempo! … chi applaudì al cader d'uno stato di quattordici secoli, si uccise al partir degli invasori. Ma il proprio governo autonomo era tiranno, e gl'invasori parlavano di libertà … O non è dunque sciagura mortalissima il non sapere conservarla?

Infanzia di mia madre - Dolori e consolazioni.

L' infanzia di mia madre passò tetra e dirò anzi fantastica. Confinata in un appartamento sotto i tegoli, colle donne di servizio, che, dietro l'ordine ricevuto, non parlavano mai dell' avvenuta catastrofe, ma che si lasciavano sfuggire parole tronche, reticenze, monosillabi pieni di allusioni e di mistero, la povera fanciulla crebbe paurosa, divenne proclive ai sogni stravaganti, malinconica e malaticcia.

Due affetti confortarono la sua prima vita. Uno alla Vergine, e così vivo, ingenuo e profondo che la si immaginava perfino di vederla, di riceverne visite notturne … Una sera fra le altre la si tenne certa d'un tanto onore, vedendo all'improvviso inondata la sua camera di luce. Nè, cessato il pietoso inganno, accortasi ch'eran vampe d' un' infornata, allestita all' imprescia dal fornajo vicino, per dar pane a non so qual reggimento d' armata invaditrice, la povera bimba sentì diminuire l' incanto secreto di quel prodigio. Come lo combinasse colla realtà, questo è da chiedere ai miracoli della fede: basti il sapere che un cuoricino d'orfana illustre ricevea conforto e compagnia da sì pietose finzioni.

L'altro affetto, di assai diversa natura, ma parimenti forte e costante, mia madre lo provò per la sua guardiana, la buona Eleonora, donna di qualità singolari, religiosa senza superstizione e istrutta, per quanto lo comportavano i tempi e la condizione.

Questa vecchia e questa fanciulla passarono in una specie di soffitta molti anni: intrattenendosi insieme in discorsi famigliari, ma più ancora religiosi, leggendo le vite dei santi, recitando preghiere e rosarî, ed esercitando tutte le pratiche del culto casalingo, con giojosa e scrupolosa esattezza. Per mia madre non v'avea che la Madonna e la Eleonora. Per la Eleonora non v'avea che Dio e la casa de' suoi signori.

Del resto quella vita per una giovinetta di fantasia immaginosa, non valeva che a riempirla di paure e specialmente di quella dei morti.

Ella stessa ci narra la prima origine di tale angustia dell' animo suo ed io nel riferirla dico: avviso a chi abbandona in mano altrui i proprî figli. La custode che precedette la buona vecchia nella guardia della piccola orfana era pazza! Tanto pazza che la finì accoppata giù da un balcone della casa d' un paroco a cui serviva, dopo rimandata da casa Sale. I pericoli corsi da mia madre fanno orrore. Un giorno non si trovano più nè custode, nè bambina …

Cerca per ore ed ore finalmente le si scoprono addormentate in non so quale stambugio, sopra non se qual canile, su d' una scala dove nessuno mai ponea piede. Un' altra volta, durante una baruffa della pazza col cuoco, mentre si dicevano le loro ragioni a pugni, la piccola, spinta dai due indemoniati cadde, rotolò giù da una ribalta della cucina, fino ad una stanza di sotto. L' angelo dei bambini la salvò, ma o non c' è da fremere a raccontare queste miserie di splendide case?…

Due avvenimenti seguono nella prima vita di mia madre a quello luttuoso per cui perdette la sua. La morte del nonno, marchese Ottaviano, a proposito della quale non ricorda che la indifferenza del marchese figliolo, e d'essere stata mandata in tal giorno fuori di casa, per quella vieta smania di liberarsi, nelle serie circostanze, dai bimbi.

L'altro avvenimento fu il secondo matrimonio del marchese Luigi, mio nonno, con la marchesa Vittoria Trisino, donna d' alto lignaggio e, credo, discendente dal Trissino, celebre nelle lettere.

Le notizie raccolte da mia madre, intorno al carattere, alla cultura, alla finezza di educazione della marchesa Vittoria sono curiose.

Ma io, colla medesima giustizia della mia adorata genitrice, che ben sapeva conoscer sè stessa, aggiungo che questa in ogni età fu eccentrica: soprammodo difficile andarle a genio: più ad una matrigna dissimile, dissimilissima dalla leggiadra estinta, marchesa Fiorenza Vendramin, tutta poesia e tutto amore. La marchesa Vittoria avea belle e buone qualità, mai disconosciute nemmen da mia madre, la quale nell' odiare, per quanto è permesso ad una bell' anima giovine e cristiana, la matrigna, comprendeva d' obbedire ad un sentimento istintivo e in certo modo irragionevole … Già la abborriva la casa dei vecchi feudatarî, e quei giorni in cui la ci dovea andare eran giorni di lutto: perchè la orfanella domandava confidenza, bonarietà, gente alla mano e quivi la trovava ancora più musoneria e sussiego, un' atmosfera più pesante del palazzo Sale, dove almeno la discorreva colla buona Eleonora.

A questo punto della sua autobiografia mia madre consacra un capitolo apposta per descrivere l' economia della famiglia Sale; e a farsene un' idea basterà la definizione, che di essa dava il marchese ne' suoi momenti di poesia e di buon umore: — la è — diceva egli — una bruttissima e vecchia megera.

Appoggiato cavallerescamente a questo assioma ei la trattava con pochi riguardi quella povera vecchia!…

Venti gaglioffoni di servitori; disutilacci mantenuti per niente o peggio che niente; equipaggi: villeggiature costosissime, pranzi, cene, ricorrenze di lauti conviti. E intanto che loro si gingillavano così, lo stato invaso da Francesi e Tedeschi: contribuzioni di guerra spaventose; campagne calpeste e rese infeconde; iti a male cespiti d' entrate, colpa il disordine publico ed il privato. Di che nessuno pareva accorgersi: soltanto un giorno in cui non ci aveano armate nè francesi, nè tedesche in Vicenza un tale disse si starebbe pur bene così! ma fu tanto per dire … i poeti soli piangevano in segreto.

La vecchia, a chi le desse retta, suggeriva per l' appunto un po' di risparmio: oh! vendile quelle livree dei lacchè, sfolgoranti d' oro dal beretto alle costure delle calze: sta pago ad una tenuta decente in città e in villa: cerca di rifarti di quel tanto che, per la viltà de' pari tuoi, tu perdi, nelle guerre che gente estrania combatte sul tuo stesso suolo!..

— Oibò!.. che si dica: il marchese è in malora … chi sarà mai che osi proferire una tanta bestemmia!.. Peccato di non poterlo mandare sotto ai piombi, quell' arditone che parlasse così aperto da far giungere fino ad un tanto signore le sue irriverenti osservazioni.

Ma quando in un solo giorno fu dovuta vendere tutta la argenteria massiccia, per darla, s' io non erro, in tributo al generale Massena, allora sì che la vecchia megera rise d' un mal riso, e profetessa di mal augurio, decise i destini della nobile famiglia.

Di che entità d' argenteria si trattasse può chiarirlo un fatto, per sè stesso grazioso; poichè essendo tutto il servizio da tavola d' argento massiccio, mia madre usava, dopo aver mangiato, buttar via il tondo: e quanti piatti di porcellana e di majolica rompesse prima che divezzarsi, e intendere la differenza dal metallo alla terraglia, io non lo vo' riferire.

Quanto al marchese, in vece di mettere un po' in sestò le conquassate bisogne domestiche, ei si dava un gran pensiero, per qualcosa di meno. Egli non voleva alla nobile mensa venissero polli delle proprie campagne. Dio liberi!.. un segno di decadenza, una lesineria, una roba da pitocchi, o per lo meno da genterella. Bisognava dunque i polli si comperassero in piazza, e che il cuoco della gran casa fosse visto trionfalmente per la città, con un galoppino ai taloni, il quale portasse la sua brava paniera ricca di provviste, e superba di pippioni e polli dalle penne ricascanti, come quelle del cimiero blasonico … sennò l' onore era perduto.

Gran faccenda le pollerie davano in casa Sale: e ogni dì accadevano baruffe a tavola per simili inezie. Ora per sospetto che i polli non fossero compri; ora perchè in luogo di prendersi l' ala o il petto la marchesa madre si prendeva la coscia … o che so altro.

Quando un piatto non gustava al padrone nessuno a tavola dovea trovarlo buono, nè mangiare: non basta: il buon patrizio girava gli occhi torbidi, osservava con inquietudine irosa se non solo tutti si astenessero dal mangiare, ma se mostrassero dispiacere dall' astensione. L' ultimo erede dei re sassoni, che in vece d' angustiarsi perchè il trono rimanesse, con gran dolore del fedele Cedric, ai Plantageneti, si crucciava pel soverchio sale nelle vivande, fu da Walter-Scott dipinto in modo che resta come tipo dei nobili decaduti.

Io già credo e' fosser tutti pretesti per litigare fra loro. Disoccupato, il padrone, senza altro pensiero fuor che quello del futuro marchesino, di là da venire, il quale tramanderebbe ai posteri l' illustre casato, cosa rimaneva fuor che rugumare malamente, e cercare col fuscellino motivi di rabbiosaggini? Le quali tutte si riversavano sulla marchesa madre, buona, santa donna è verissimo degna della Cornelia romana; ma, non priva di stravaganze, e che, se tollerava le collere del marchese figliolo, sapeva poi ben anco fargli subire il peso delle sue.

Un dì a tavola, appuntamento diurno d' ogni dissidio, mia madre, bambina, scappò fuori con uno di quei tratti di spirito, da fanciullo terribile; per cui la nonna capì che i suoi libri di conti dov' ella, con la stessa cura di Rodolfo d' Habsburg, notava le più piccole spese di cucina, libri che la tenea per degnissimi di venir custoditi, finivano invece in soffitta, od in papigliotti o a tenerci la seta. A questa scoperta scena tragica fra la vecchia marchesa Vittoria, il marchese; e tutti e due a sgridare la mamma, capro espiatorio in questo magno affare.

Dacchè si comprende come la povera bimba dovesse trovarsi malissimo, e come alla sua culla d' oro si appiattassero più furie che angeli custodi, e tanto che in quel tira-molla avrebbe dovuto intisichire, se a segretamente nutrirla non veniva, assidua e fedele, la dolce ombra materna.

Bisogna dire che l' affetto dei figli verso la madre sia cosa divina, se resiste all' assenza, al disprezzo, alla collera, a tutto. Certo la mia cara genitrice, quantunque bambina, ben intendeva dai detti tronchi, dal silenzio cupo, ma eloquentissimo, dalla specie di riprovazione sistematica, sotto a cui giaceva la memoria della marchesa Fiorenza, ben indovinava se non tutta la verità almeno quanto occorresse a renderla consapevole del fatale abbandono … eppure la idolatrava in segreto: la chiamava con la potente, soave tenerezza d' un' infanzia solitaria, e priva di quelle affezioni, che più le mancavano.

Sempre l' affetto per la madre le si mantenne vivo in cuore e la più bella pagina dell' autobiografia è relativa ad essa, perchè in quel punto nel quale narra della sua caduta giù della ribalta, durante la baruffa della prima custode maniaca e del cuoco, essa dice:

« Le circostanze di questo fatto, mi furono per il vero raccontate, o meglio revocate da altri, ma vi fu un punto, un punto solo, cui non ho mai saputo dimenticare, e che mi rimarrà incancellabile nella memoria, se vivessi mille anni. E' si fu quello in cui portata nel letto di mia madre, la poveretta sedutami dappresso con quel suo fare grazioso e disinvolto, con quei suoi capelli neri come l' ebano, diffusi giù per le spalle, secondo la moda d' allora, con quei suoi sguardi di foco, ma cui sapeva, volendo, temprare a mitezza, e mansuetudine, questa volta all' amore di madre, mi accarezzava, m' imprimeva caldissimi baci, e mi gìa rinfrescando con acqua la piccola ferita, fattami alla tempia. Ora tu, lettore mio, fa di sognare o di vedere in visione, o desto pur anco per quella specie di allucinazione o delirio della mente, a cui taluni vanno soggetti, un grande spazio dappertutto perfettamente privo di luce, ma che solo in un angolo sia rischiarato da un misterioso e divino raggio, il quale ivi ti lasci vedere al vivo le sembianze, che ami, e non ti avverrà, tel giuro, che tu le possa dimenticare per tutta la vita »

e più oltre:

« E meglio pensando trovo ancora che non è in quest' unica situazione in cui si rappresentasse al pensiero la mamma mia, poichè anzi all' opposto io l' ebbi a scorgere sovente, mentre correndole addietro con vezzo ed impertinenza puerile, le andavo sollevando una sopravveste, che solea portare color dell' aria, e com' essa leggera, ed ella a ridere o fingere d' impazientarsi e sgridarmi. Qualche altra volta ricordo mentre accarezzavansi, e si davano, e si stringevano amichevolmente la mano essa e il papà … Ma ahimè! che ben diversamente la sua immagine mi si offeriva stringendomi il cuore di terrore e d' affanno allorquando nello scendere dalle mie soffitte, passando dinanzi la sua camera, dove probabilmente era passata di vita, me la pingea in atto d' uscire, d' afferrarmi per un braccio e seco menarmi … »

Ricorda quindi le carezze prodigatele prima dell' orribile fatto e prosegue: « Fra le eccentricità, le fantasticaggini, che avevo da fanciulla non so se mi sia sfuggito di rammentare una specie di terrore, che m' ispirava la vista di certe pitture, massime se osservate al lume d' una face notturna. Ma poichè mia madre era pittrice, e come dilettante assai esperta, non avveniva già lo stesso dei quadri tratteggiati dal suo pennello: tra questi la testa d' un filosofo assai bella ed espressiva, ma il cui lavoro non peranco completo. Ora chi può immaginare il misto della solita paura, ma ben più di tenerezza e di piacere, che provavo allorquando un vecchio servitore, pigliandolo fuori tra i molti vecchiumi, di cui facea tesoro nella sua stanza, mi poneva questo quadro sotto gli occhi? »

Che scena e cosa non si pensa, e cosa non si sente al vedere cogli occhi dell' immaginazione in quel palazzo dell' opulenza e della miseria, del lustro e del delitto, un servitore che mostra di nascosto le tele, dipinte dalla mano materna, alla erede unica, nel piccolo cuore della quale l' affetto supera lo sbigottimento e la paura! Qui mi piace riferire un sonetto che a mia madre, già adulta, ispirò un ritrattino della marchesa Fiorenza, esso compendia tutto:

Quest' è il guardo soave e' l dolce riso Che allegrò la mia culla, e poi sparìa… No, non m' inganna amor, io ti ravviso: Tu sei l' imago della madre mia! Oh! quante volte piansi il fior reciso De' tuoi verd' anni e la mia sorte ria, Ch' orfanella mi rese, e d' improvviso Le tue dolci carezze a me rapìa! Solo retaggio mio, ma più diletto Dell' auro vil, che l' alme vili adesca, Vien ch' io ti baci, ch' io ti stringa al petto. Solo retaggio mio, deh! non t' incresca Qui qui posarti ed aver qui ricetto, Finchè lo spirto dal mio fral.non esca.

Però con un' indole come quella di mia madre anco la postuma tenerezza verso la genitrice non andava scevra di inconvenienti, voglio dire che aumentava la mala disposizione verso la matrigna, e la risolveva in odio assoluto.

È curioso leggere nella autobiografia quanto ha relazione colla marchesa Vittoria … oh come guizza amabilmente satirico, impetuoso e capriccioso dalla sua penna di poetessa. Come la dipinge con colori d' una tavolozza tutta sua quando, nell' atto che la marchesa si pettinava le facea da catechista; quando le voleva insegnare il francese, il ricamo; quando le facea da professore di grammatica o da medico, o da moralista o che so altro. Bisogna leggere qual graziosa caricatura ne fa per vendicarsi, che le si imponesse a calligrafa: ella che scrivea con una zampa di gallina, o col griffo d' una bestia senza nome. Cosa verissima, perchè la marchesa stessa ne conveniva e rideva per la prima. O quando la ci capitava come il nibbio a fare un periodico viso repertur, a porle a soqquadro, ossia in ordine le sue robe.

Tutto quello che la matrigna amava, la fanciulla lo odiava e viceversa: la matrigna predileggeva i nobili veronesi, perchè schiatta sua. Mia madre, anco dopo cinquant' anni, che la non ci avea più che fare, nè colla matrigna, nè col patriziato dell' illustre città ghibellina, lo aborriva e fremeva a sentirne parlare.

Non pertanto, mai ebbe mia madre ad accusare la matrigna in ciò che veramente non meritasse, nè trattien l' elogio se lo crede ben dato, e fra la marchesa Cornelia sua nonna, che facea di lei una vera bimba viziata, fino a darle per giocare in convalescenza figurine preziose di Sassonia, e la matrigna che invigilava severamente le diete, e sapeva tenerla a stecchetto, mia madre giudicava benissimo da qual parte stava la saviezza materna e la debolezza senile.

Del resto anco la buona vecchia, per uno spirito di economia specialissimo in quella casa, dove ogni anno rimanevano col corto da piedi, ma dove si rifuggiva dalle più necessarie, minime spese, la ne faceva di belle alla povera nipotina.

Odiosissimo dispotismo, puerile cattiveria quando le si volea far indossare gli abiti della defunta madre …. non le si diceva aperto a chi appartenessero quelle vesti, ma ella, con l' acume del cuore, lo intendeva: al far misterioso delle ancelle, al colore, alla stoffa, da tutto un che di indefinibile ma reale con quella sua fantasia alata, sospettava, fremeva … cominciavano le domande suggestive: — oh dove fu egli comprato quest' abito?.. e da chi?.. e quando?.. — seguivan le risposte incerte, sgomente.. — Marchesina, o che?.. non le par bello?.. animo la si vesta … il babbo l' aspetta e la sa che non si vuol mica farlo aspettare, il signor marchese.

E la marchesina a replicare, guatando impaurita ad uno sciallo di origine dubbia:

— E quello d' onde viene?.. — (l' ancella) ma io non lo so…a Noventa sul mercato…

— A Noventa dove non c' è che zoccoli e guarnacche da contadini… a chi la volete dare ad intendere … e poi, con impeto di tenerezza e di dolore, rifiutava di indossare le spoglie materne esclamando:

— No! quelle vesti le non mi si porranno sul dosso, no, non le metterò, vi dico, perchè la è cosa dei morti, roba della mia poveva mamma, che la mi è apparsa anco sta notte in sogno, e la mi ha detto che mi facevano adoperare de' suoi vestiti, come è vero che san tutto di là … poveretta la mamma mia … voleva ella, secondo mi parve, ch' io la seguitassi, ed io allora a dirle: — o mamma mia, e non pigliarmi con te quando sei ita?.. — (Le cameriere qui si guardavano in volto, stupite, con aria di meraviglia e di mistero, e qualche lagrima furtiva scendeva loro dagli occhi…) — se non che in quello ch' io mi sforzava a seguirla dal mio lettuccio, improvvisamente mi parve che questo mi si sfondasse di sotto, e quell' ombra diletta dileguasse per l' aria. »

In fine la si adattava, e la indossava le vesti, per lei ridotte della elegante marchesa Fiorenza: ma poco durava la calma. L' animo passionato di mia madre, la sua indole fiera prendevano il dissopra; perch ella, appena sofferto il contatto di quelle stoffe, appena udito il fruscìo di quelle sete, entrava in tal furore, bastante a lacerare un tessuto di corda; gridi, pianti, lamenti, lotta corpo a corpo colle ancelle, quasi al sangue, fino a che si rabboniva; e un po' racconciata, lavata, ma colle vesti gualcite, la si lasciava condurre nell' appartamento della nonna, che l' aspettava con alcune vecchie dame, amiche e parenti per condurla in carrozza … Oppure la attendeva il babbo, pronto a sgridarla del ritardo, onde ella, tremante se ne scoprisse la cagione, spiava nel severo occhio paterno e nella faccia sculturale dell' ava se sapevano di quella scena terribile, e assicurata del contrario, iva a diporto con quelle povere vesti, ancora bagnate del suo pianto.

Tale avvenimento era per la povera reclusa uscire di casa!

Già fin dalla primissima infanzia, quando una volta o due l' anno le si annunziava — che el cocio ga avudo ordene de tacar, per condur la marchesina a spasso — la basiva di gioja — Ah!.. e dove?.. e come?.. e con chi?.. — tutto stava sepolto nel mistero, ma il mistero afferma un autore, giova a crescere l' interesse. Insomma o con la governante, o con la nonna o con chicchessia, la marchesina scendeva i rami palladiani delle scale, si affacciava tremante di giubilo al cortile; il marchese e la marchesa miravano l' insolito spettacolo dalle logge interne del palazzo, e con tenue accennar del dito, e con severo sorriso inauguravano, la solennità…. Intanto la marchesina poneva il piede leggero sullo staffone, disceso dai lacchè ai lati, sedeva nell' ampia carrozza da cardinale. Il cocchiere, montato a cassetto, sfiorava colla frusta il dorso dei due formidabili cavalli; questi dopo alquante cerimonie e zampate superbe sui ciottoloni del cortile voltavano, passavano l' atrio e imboccavano la strada per procedere poi maestosi fin alla prefissa meta di quella gita trionfale, il convento di Ognissanti… Una visita a quelle monache… e dopo essersi eletrizzata in quei melensi discorsi la marchesina riascendeva in carrozza; caso mai la gita si effettuasse in settimana santa, la passava davanti a qualche negozio improvvisato di cose mangerecce, illuminato a festa: o per le più dritte rifacea il cammino, rientrava per lo spalancato portone, i cavalli ripestavano i sassi del cortile, ridiscendeva la montatoja, si riapriva lo sportello. Padroncina e venerabile guida si riducevano alle somme stanze per un altr' anno o poco meno.

Oh! care giovani, che mi leggete e chi sa quante volte deste guai alla mamma e al babbo; mai paghe d' ogni maniera di svaghi diurni e serali, cittadini e campestri!.. vedete che infanzie e che adolescenze eran quelle!.. Eppure… e ve l' ho a dire?.. le eran più felici di voi altre le fanciulle d' allora… perchè in quella pacifica gita annuale ci trovavan più gusto, che voi nella continuata dissipazione: e, io cito Tommaseo: come dall' astinenza il piacere, così dalla modestia viene dignità. Riprendiamo il racconto.

Ho detto pacifica gita; e tale era quando non c' entrasse la nonna Cornelia Arnaldi. La quale, come il defunto duca di Modena, che mai non riconobbe la linea secondogenita sul trono dei Borboni, così ella mai non volle ritenere caduta la Republica Veneta.

Quando la usciva in carrozza la pretendeva che sul cammino da lei scelto non si trovassero inciampi.

Ignari di ciò, e anche non ignari punto non le avrebbero badato, tutti andavano pei fatti loro; e più di tutti i militari francesi o tedeschi: i quali, più ancora che a Sua Eccellenza la nobildonna Cornelia, irriverenti alla povera patria, andavano trascinando per le contrade lunghi traini d' artiglieria, carri enormi di fieno, e ciò accadeva sempre e fra gli altri giusto appunto in quel giorno, che la marchesa o sola o colla nipote si degnavano apparire in mezzo ai mortali.

La carrozza si fermava: la dama rizzava gli orecchi simile a corsiero che adombri, dava un colpo ai vetri della carrozza o tirava la cordicina, attaccata al mignolo del cocchiere.

— Cos' è stato?.. perchè non si va avanti?..

— Eccellenza è impedita la strada.

— Impedita?.. e da chi?..

— Un carro di fieno, eccellenza, è foraggio per la cavalleria.

— Un carro di fieno?.. sulla mia strada?.. — La marchesa si voltava tutta d' un pezzo, con uno stupore pieno d' indegnazione nel quale si includeva — a questo tanto siam giunti!

Quando molti anni dopo la mia diletta madre, essendo con noi in carrozza, si arrovellava ad ogni inaspettato inciampo, il babbo mio le percoteva un ginocchio, e sclamava faceto: marchesa Cornelia!.. e alludeva a' sifatti sdegni della buona vecchia. Però e' non si possono considerare come esclusivo carattere di quel tempo, e mi sovviene d' una grande principessa o marescialla, che in una festa, datasi a Treviso per la benedizione delle bandiere del reggimento Zannini, uscì fuori con una pretensione non meno ridicola di quelle della nobildonna Arnaldi.

La principessa, vestita come una regina portava una pesantissima e ricchissima vesta di tal periferia, che affacciatasi ad una porta dell'appartamento nel Municipio (antico casino dei nobili) la non ci potè passare.

— Questo è troppo pretendere! — esclamò la dama inviperita, voltando da un' altra parte, con un dispetto che la era da dipingere.

Non quei costumi soltanto educavano dunque la superbia, e almeno allora i nostri avi ci aveano una scusa, e l' ingenuità ne temprava il fiero, l' odioso. Ma del 1843, in pieno secolo XIX una sciocca, che pretende le si apparecchino gli usci a seconda della periferia, che a lei piace dare alle sue vesti!

Torno di volo ai conventi. Parlando di quelle visite ignoro se le fossero mai volte a certe vecchie monache parenti, che facevano nel chiostro eterna penitenza di non so quai capricci. So che le poverine esistevano, e che ogni anno le mandavano in regalo ai nobili congiunti certe ciambelle, ammannite di loro mano. Ricevute queste ciambelle con mistero e quasi di frodo, ogni anno provocavano gli stessi diplomatici ringraziamenti, senza che nessuno in famiglia osasse fare osservazioni sul periodico incidente. E ciò noto per un esempio di più, che non tutto quello che ci si narra della moralità nei vecchi sistemi medio-evali, s' ha a prendere per oro in verga.

Oltre alla gita in carrozza, ossia all' andar fuori di casa, mia madre idoleggiava la villeggiatura di Campiglia. La villeggiatura!.. altro modello, altro specimen d' una famiglia nobile d' allora.

Tutto in disordine, tutto in isconquasso ed in rovina. Le armate belligeranti ponendovi stanza per più e più anni, ognuno può credere se vi facessero il diavolo a quattro, ch' era un desìo. Qualche volta strepitavano per legna, e, non trovandone, spezzavano e ardevano i mobili. A tanto strazio il marchese non si lagnava: non rimpiangeva il perduto imperio della sua nazione, o nemmeno quello della sua casta… Ma se, incontrato da' soldati briachi, nella sua stessa abitazione di Campiglia, i quali urlavano — dov' è quel… del padrone!.. — Il padrone è morto! — rispondeva tra brusco e disinvolto e correva a nascondersi per fuggire alle loro esigenze.

Il palazzo di Campiglia, signorile d' aspetto andava adorno nelle pareti delle sue stanze di pitture classicoeroiche: le scene del Tasso e dell' Eneide: immagini nelle quali bevve mia madre l' amor del classicismo, poichè non v' ha niente di più efficace a renderci famigliari i fatti ed i personaggi della storia, come le pitture della propria casa e più quelle della villa.

Sempre ricordò con mesto entusiasmo mia madre quella sua dilettissima terra di Campiglia: ancora del 1844 a Nicolò Zamboni, ito appunto là per dar termine ad alcuni affari, ella diresse la seguente poesia, a lei cara, perchè sgorgata dal cuore:

Te felice che il terreno Premi pur ch' io tanto amai, Dove l' animo sereno Gustò in pace i di più gai, Poichè gioja è sol nel fiore Dell' etade e dell' amore; Poichè dolce rimembranza Solo è vita di colui, Che, al fallir d' ogni speranza, Scorrer mesti i giorni sui Di già vede, e vizzo il fiore È degli anni e dell' amore. Fossi teco ah! sol per poco Che vedere ti farei Di memorie ciascun loco Popolarsi agli occhi miei, Perchè là libato ho il fiore De' begli anni e dell' amore. Non v' ha zolla, non v' ha sasso, Nulla quivi ch' io non ami, Che non parli e ad ogni passo Un pensier non mi richiami, De' bei giorni in cui al mio core Sorrideano gli anni e amore. Non un sol vorrei negletto Di que' luoghi a me sì cari; Teco gli orti e' l bel boschetto Di castagni e gli ampli lari Rivedrei, chè lieto il core Là mi fea degli anni il fiore. Qua, direi, con pie' leggero Mi lanciava ad agil corso, Là pazïente un somiero Mi portava sul suo dorso, Tutto è gioja se d' amore, Se degli anni arrida il fiore Stanze ai greggi ed ai coloni, Scorreremo i lunghi volti, Dove stan di Bacco i doni E di Cerere i ricolti… Ebben là, nel mentre il fiore M' arridea degli anni e amore. Quante volte in cor giulìa, Fra trastulli io scorsi il giorno! No, per tempo non s' obblìa Il lietissimo soggiorno ' Ve libammo il più bel fiore Dell' etade e dell' amore. Ma ahimè! gli anni, ahimè la gioja Son sì ratti a disparire! Tutto cangia, è affanno, e noja: Sol ci resta il sovvenire De' bei dì, ne' quali il core Fean pur lieto e gli anni e amore. Pari a larva che sgomenti Fanciulletto a notte oscura Quindi avvien che ne tormenti Fin l' aspetto delle mura, Già un di care e dove il fiore Si libò degli anni e amore. Là non zolla più, nè sasso, Nulla or più cui non disamí. Triste il loco, che a ogni passo, A te misero richiami Il pensier dei di, che il core Duol non s' ebbe o sol d' amore. Sta … più invidia or non mi desti. Nè esser teco io là vorrei: Turberebbero funesti Tetri sogni i pensier miei. Notte e di, là dove il fiore Delibai degli anni e amore. Là d' amor più idee leggiadre, Gioje il cor più non s' intinge: Ma l' imago ahi! sol del padre, Che crucciato mi respinge, Dal soggiorno dove il core Visse sol di gaudio e amore. S' abbian altri lieta stanza In que' luoghi già a me cari; Nè mai triste rimembranza Non li torni ad essi amari; Nè anche allor che vizzo il fiore Fia degli anni e dell' amore.

Tipo squisito e oramai fra quelli perduti era il mansionario di Campiglia: tipo d' ignoranza e bontà idiota da dare spasso a cento villeggianti in una volta …. poichè allora a quel turpe svago di celiare un sacerdote ci si ingrassavano: e il sacerdote non lo prendeva a male. Già, la maggior parte, non andavano preti che per vettovagliare, come si dice, il ventre; dunque un calcio più, un calcio meno cosa importava?… Era un onore, e tanto che qualunque persecuzione o furor di partiti, com'è al presente, tornano di minor disdoro agli individui e alla casta.

Una volta il marchese, finita la villeggiatura, diede un pajo di fogli di carta da lettere al mansionario, affinchè, caso che dovesse scrivere, il buon prete, non fosse costretto a mandare fino a Vicenza.

Ogni anno allo stesso tempo, nel montare in carrozza il marchese gli domandava: — Don Vicenzo, se gli occorre carta da lettere …. — E il buon prete a sprofondarsi in inchini. — Grazie, grazie, signor marchese: ho ancora di quella che m' ha favorita …. oh! la conservo!… Di fatto la teneva sotto gelosa custodia, anzi per conservarla meglio, la lasciava stare, e a lui la cancelleria dava pochi fastidî: e il marchese lo sapeva benissimo, e la domanda suggestiva, o meglio satirica, non valeva che a mettere in buon umore lui e le donne in carrozza, a spese del povero idiota, che mai non potè proferire il nome di Napoleone. Sicchè all' oremus ogni giorno pregava pro famulo tuo Napoli. E se non pestarono a fargli dire Napoleon. Non ci fu verso, e continuò quell' oremus come una protesta viva del dominio di quel grande imperatore, impotente a debellare la lingua di don Vicenzo.

La infanzia di mia madre si chiude con un altro aneddoto curioso d' un altro prete, primo maestro della giovine marchesina, aneddoto di genere diverso, ma notevolissimo esempio dei tempi anco quello.

La pudicizia di don Domenico Cortivo si intitola nell' autobiografia di mia madre, il capitolo relativo al suo primo maestro; perchè ad un certo punto, in cui ella toccava gli anni dell' adolescenza, la fu vista accorrere alle ginocchia paterne, e implorare che la mandasse nel convento delle Terese: ella intendeva torsi al mondo, alle sue pompe, dedicarsi per sempre a Dio, affine di dar consolazione a lui primo, al babbo, alla nonna. — Cos'è questa novità? — esclamò il marchese, protendendo il labbro inferiore, che non di rado atteggiava allo sdegno.

Bisogna avvertire che la seconda mogliera, dopo un bimbo, mortole sopra parto, non mostrava di più figliare, sicchè unica ancora di salvezza, per quell'importantissima cosa di tramandare il casato ai posteri, era la Cornelia.

Perciò e per quell' affetto insito in ogni padre verso la sua creatura, produsse la domanda della piccola devota, un pessimo effetto, e le indagini cominciarono. Il marchese uscendo dal suo freddo riserbo, dal suo mutismo abituale:

— Oh! cosa ti salta?.. che grilli?.. oh! non si può esser buoni a casa?…

— Sì, babbo, anco la Teresina Branzo, la mia cara amica ci andette; così l' ha salvato l' anima … ha acquistata la gloria eterna.

Il marchese allibiva, e trasecolava: oh come la figlia sua, detta furia francese, la odiatrice dei conventi, e di ogni luogo d' onde non si può uscire a propria voglia; quella giovinetta a cui si rizzavano i capelli al solo racconto delle paurose storie di monache, e di fanciulle nelle chiuse stanze mortuarie, tra cataletti, croci ed attrezzi analoghi, ove furon trovate e tali rimasero (secondo la voce comune) tutta la vita, mostruosamente deformi… la imperiosa e briosa figlia della marchesa Fiorenza, volersi chiudere in un chiostro…

Se non che il nome della Teresina, a cui mia madre anelava di ricongiungersi, fu il lampo scopritore delle tenebrose macchinazioni; e chiarì il seduttore.

Si chiama don Domenico Cortivo, abate di casa Branzo, e maestro della marchesina, e gli si domanda perchè s' impicciasse in cose, che non riguardavano la scuola. È probabile che don Domenico sinceramente sentisse quella gran pudicizia manifestata, ma se la fingeva o non da è aggiungere al Tartufo codesta pagina ch' io in parte trascrivo?..

« Allora il maestro di scuola si scusò col dire che la coscienza non gli permetteva di prestarsi all' educazione d' una giovinetta decenne (cresceami un anno il buon uomo) e molto più che le mie vesti non erano della più scrupolosa decenza, mentre nella stagione estiva le maniche non iscendevano fino al gomito, « (ogni giorno prima della lezione gliele facea strascinar giù più che potesse) » e il corpetto non montava al collo, secondo il dovere d' una giovinetta cristiana, e che essendo prossimo a liberarsi d' una di queste allieve, mercè il mouastero, sperò poter fare il medesimo dell' altra, e che insomma prendeva licenza.

I piccoli drammi d' un gran palazzo - Nozze illustri.

Partito il fragile, virtuoso don Domenico gli fu sostituito don Andrea Signorini: veramente un degno sacerdote, e un valent' uomo. Mia madre prese con lui ad amare unicamente lo studio, sì che nè di musica volea saperne e la imparò per forza, tralasciandola in seguito: nè di ricamo, cui invece le piacque più tardi.

Ma le lettere, specialmente quelle classiche, lo studio del francese, qualcosa di logica e di filosofia, divennero il pascolo del suo cuore. Ella nomina i libri, che le dava a studiare don Andrea, e già per poco che oltrepassino la sessantina, i miei lettori se li immaginano. Corticelli per la grammatica; Boufier per la geografia, per la storia Millot, per quella romana l' indispensabile classico Rollin, le novelle del Soave o simile per lettura: le quali però non andavano a genio della matrigna, dacchè tenessero, secondo ella affermava, della natura del romanzo.

Quali maraviglie non farebbe ella mai la buona marchesa, ora ch' è tutto romanzo?.. ora in cui agli stomachi deboli dei nostri grandi bimbi niente è abbastanza dolce, zuccherato, e in una parola, interessante?.. Eppure la vecchia dama non avea torto: non va bene fare fascio d' ogni erba, sì bene ghirlanda d'ogni fiore; raccogliamo dunque l' insegnamento della marchesona, come la chiamavano e diciamo questa verità: i pasticetti svogliano dalla carne, chi troppo presto legge romanzi non ha più stomaco robusto da digerire le storie; siano pure aspersi di soave licor gli orli del vaso, ma con temperanza, affinchè questo licore non superi nella dose la medicina.

Un' altra prescriveva, la educatrice di mia madre, gelosissima cosa e in cui la ci vedea molto da lungi… la non permetteva amicizie con ragazze coetanee … oppure le permetteva dopo d' averle ben pesate.

Già con tutti si comandava un grande riserbo, a pochi del tu: stare prese per mano tra ragazze dio liberi, uso triviale, che sapea di scomposto… Forse retta ingiunzione; ma allora tutto riusciva facile, perchè il sistema di educazione si prestava al metodo negativo.

Ora isolare le ragazze, tenerci d' occhio con tanta sospettosa vigilanza parrebbe sotto altri punti pericoloso. Di certo una fanciulla va più guardata dalle tristi amicizie femminili, che da quelle degli uomini. Cogli uomini ordinariamente le non si lasciano trattare in confidenza; e scambiarsi consigli, fomentare gl' istinti di vanità, di curiosità accade più facile dunque fra amiche.

La sola che mia madre ricordi con una specie di rispettoso entusiasmo è la Camilla Thiene; soavissima persona, che le ispirò alcune sentite parole, quando la descrive o nell' atto di suonare, da grande artista che ell' era, e per di più compresa d' un amore, quale la sua natura sentimentale poteva nutrire col presentimento che sarebbe, come fu, infelicissimo.

Questa nobile giovinetta, che poi sposò il conte Gnecco da Genova, morì di languore, nel paese dove il destino l' avea trabalzata: ma lasciò in tutti che la conobbero, e più nella memoria di mia madre un' immagine piena di poesia, come resta l' impressione arcana di qualche leggiadro fiore, visto passando tra bei giardini, e portato via subito dalla bufera.

La marchesa Vittoria nell' escludere le amieizie femminili mirava ad un altro scopo pratico, praticissimo e veramente ben inteso. Mia madre, ereditaria unica di tanto casato, con chi dovea mescolarsi?.. uguali?.. no… perchè le stavano a casa loro, dunque disuguali; e di fatto in principio accorsero le figliole del cuoco premurose a giocare con la figlia del padrone… ma che?.. vi par che ad una bimba come la marchesina Cornelia fosse agevole andare a versi?.. Niente affatto, fecero baruffa subito e l' amicizia finì, perchè le ragazze, anco se si sapevano figliole del cuoco, non vollero stare al despotismo della piccola signora.

Prevedeva bene dunque la matrigna quando condannava la figliastra alla solitudine, e non posso tenermi dal riflettere che la educazione di quei nobili ci avea pure del buono: fra l' altre cose l' abnegazione alla propria volontà.

Esempio: « Il padre della marchesa Vittoria, famoso aristocrata, se ve ne furono, raccontava che un giorno alla sua mensa di semidei, essendovi un piatto di fegatelli di pollo assai bene conditi, il giovane suo figlio non ne volle assaggiare: — perchè non gli garbavano.. — disse allora il padre in tono grave: — oh! male, malissimo: che potria venire la volta in cui tu non ti trovassi in caso di poter mangiare altro che fegatelli. — Da quel dì ogni giorno un piatto di fegatelli decorava la mensa dei nobilissimi conti, il giovinetto dapprima lo ingollò per forza, poi non gli spiacquero, poi ne fece suo pasto quotidiano. Cosa dirò in confronto dei sistemi presenti in cui i poveri buoni genitori si fanno servi umilissimi dei loro figlioli?.. e questi diventano piccoli mostri d' ingratitudine, difficili, intrattabili, mai contenti? figlie di pizzicagnoli trattate da regine e a cui puzza il fiore d' arancio, figli di impiegati o di mercanti usi a trattarsi come i principi?… Eppure i principi, che divennero grandi furono tirati su a un' altra maniera. Laharpe istitutore dei figli di Caterina II imperatrice di Russia, gli faceva scrivere ogni giorno il loro esame di coscienza in un diario, detto; archivio di vergogna: in esso trovasi fra gli altri: « io divento ogni dì più incurante ed inetto, somigliando sempre più agli sciocchi, che si credono perfezioni perchè principi » sottoscritto Alessandro … il futuro rivale di Napoleone, il vincitore di Leipzig, il conquistatore di Parigi!

Infine (e qui, saltando agli antipodi, citiamo Mazzini) — la è tutta question d' educazione quella che agita il secolo — e fa progredire il mondo …

Secondo esempio. Il dovere sacro d' ogni giovane ben educato consisteva nel salutare tutti, incontrassero il re o lo spazzino: in questo praticavano l' eguaglianza più di certi democraticoni, liberi villani di adesso.

Mia madre veniva condotta a casa Trissino, perchè la mettesse in pratica tale insegnamento: e lascio pensare come stessero a guardare attenti se la salutava tutti, cominciando dal portinajo, dal guattero alla bambinaja, al mozzo di stalla.

Comunque sia di questi sistemi, mia madre, vedendo impossibile stringere amicizie colle sue coetane, e sentendosi in petto un cuoricino che desiderava di voler bene a qualcheduno, pensò di voltarsi al sesso non vietato. Ella invaghì dunque d' un giovane, chiamato Battistino, di nascita poco distinta, ma fornito di qualche sostanza; la quale non poteva, in nessun modo, venir presa in considerazione dai marchesi Sale, dacchè essi avrebbero, prima di accondiscendere a un tal parentado, annegata colle loro stesse mani la figlia.

Del resto il primo amore della mia diletta genitrice io riassumerò in capitoli da romanzo, perchè i giovani di buona volontà e di bello spirito vi rifacciano le polpe, e creino un qualunque componimento drammatico, per servire al confronto dei tempi.

La marchesina scorge dal suo balcone per la prima volta il giovine Battistino, che le stava di faccia. Egli vede lei e prontamente s' accendono uno dell' altra. Una cameriera letterata, assidua lettrice di Metastasio, e non ignara del francese, porta il primo messaggio di amore alla marchesina: ebbrezza di questa nel leggere « t' amo, t' adoro, ardo …». La marchesina e l' ancella bas-bleu, mediatrice, cercano i più riposti angoli della casa per parlare, senza essere scoperte … effetto curioso d' inappetenza prodotto in mia madre da queste prime, ingenue impressioni amorose. Suo sgomento a tavola, per tema che la marchesa non si avveda di quell' insolita astinenza e non le chiami il medico: oppure che i servitori, attenti coll' occhio avido, reclamino la borida (avanzi devoluti ai servi) dalla marchesina gettata sotto la tavola, a quel qualunque canino niente innamorato e pronto ad ingollarla.

Qui pro quo, ossia imbroglio comico a causa del nome, pel quale vien sospettata la giovine marchesa di amoreggiare con Battistino Arnaldi. Segue un' inquisizione formale, inaspettata, condotta con arte ispanoturca, e la nobile famiglia si assicura non essere la marchesina ad amoreggiare con Battistino Arnaldi, ma la cameriera, a cui certo la grammatica francese e Metastasio inspirarono il desiderio di divenire gentildonna veneziana.

Alto stupore della vecchia dama Cornelia nell' apprendere che un suo congiunto fa il bello e corrisponde per lettera ad un' ancella di casa, talchè la esclama queste memorabili parole — e stimo che così si perde la riputazione d' uomini onesti! …

Messa in chiaro la cosa, riconosciuta l' innocenza della marchesina, torna il sereno, ma per poco. Le vecchie cameriere insospettite dei continui a parte fra padrona e ancella e dalla gelosia con cui la prima ascondeva una cassetta, corrono a sfringuellare quello che sanno alla marchesa. L' intervento del fabbro è richiesto, dopo il quale la marchesa s' impadronisce della lettera di Battistino. Furore, del resto naturalissimo e giustificatissimo, che la marchesa prova acquistando una cosi solenne prova che la nobile giovine Cornelia dei marchesi Sale-Manfredi-Repetta, signora di Campiglia e di cento altre terre, con o senza ipoteca, ama un arricchito per accidente, un paria, un uomo del trivio!

La marchesina è chiamata davanti al suo giudice in cuffia, che serrate porte e contraporte la fulmina, sciorinando una carta: — conoscete questa lettera? — Vignetta illustrativa, analoga a quella dei Promessi Sposi quando il duca di Leiva, signore di Monza, mostra a Virginia la carta fatale « in cui avrebbe fatto meglio a non iscrivere niente » Tremore della marchesina, la quale però, all' inverso della signora di Monza, si dispera, grida, si strappa i capelli… E qui terminerebbe il romanzo se non ci avesse il suo epilogo; interessantissimo, avendo scoperto il modo di telegrafare dal sommo d' una terrazza, mezzo giardino pensile del palazzo; un suono di flauto era il segnale di quelle interviste aeree, e bisognava sentir lei a raccontare come un semplice sorriso, un povero fiore gettato dalla finestra del giovine sulla terrazza, bastava a versarle in core una felicità incomparabile; tanto candidamente pura ed ingenua si apriva, nel mattino della vita, quell'anima alle prime aspirazioni.

Breve; si scopersero appuntamenti, telegrafo, e la cameriera manutengola si cacciò. Il giovine fu chiamato da un rispettabile ed autorevole parente, detto il Cavalierone: questi ingiunse al signor Battistino di badare a' fatti suoi e non levare gli occhi ad una donzella di condizione tanto diversa, e gli fu minacciata una rammanzina dallo stesso Prefetto se insisteva. A questo modo insuperbiva ancora, prepotente e foresto, il ceto dei nobili … Dal canto suo la matrigna, continuando l' usato metodo, sempre più battè il ferro, coll' inventare storielle a carico del giovane; una volta avvenne una zuffa, fra giovani vicentini e soldati francesi, volarono poma ed ova in teatro fra le due parti contendenti … ahimè non per alto sentimento nazionale … pur troppo non trovo una nota sola relativa a così importante fatto … una zuffa dunque simile a qualunque altra. La marchesa nominò fra i caporioni quel bon capo: ossia quell' arnesaccio, quel figuro. La mamma mia venne condotta in una villa, dove convenivano giovani d'alta sfera, e dove ballavano allegramente … fuori che mia madre, a cui la matrigna lo vietava.

Mia madre provò dapprincipio un penoso contrasto fra lo stato del suo cuore, in cui volea persistere, e quegli svaghi. Provò anco a digiunare, per proposito sta volta, ma poi i sedici anni prevalsero. Pensò che durando in quella malinconia mai più la si mariterebbe a nessuno o nobile o plebeo, e la rimarrebbe sotto la ferula della marchesa in perpetuo; laonde tornò a Vicenza guarita. Ma per poco. Un secondo amore, anco questo per un borghese, ossia per uno che non era de nostra relazion: come diplomaticamente definiva i profani, la vecchia signora.

Però questo secondo da vero furbaccio avea saputo andare a versi della stessa, e veniva ricevuto in quella sublime villa.

Io qui riporto le stesse parole dall' autobiografia di mia madre: le son semplici, ma favellano puro amore: ora nel candido affetto di due giovani c' è sempre un po' di sole, e dà al quadro quella vita che non ci prestano tutte le filosofie della terra.

« Carlo Annibale » dice essa al Capitolo II della IV parte, accolto dunque colla solita cortesia ed ospitalità dai signori del luogo, presentato quindi a questi ospiti, pei quali riusciva un nuovo personaggio, e lo vedeano per la prima volta, incontrò l' approvazione di ognuno per quel suo fare disinvolto, e quella sua fisonomia aperta e geniale, per cui senza essere bello potea veramente dirsi simpatico. Non grande di statura di buon colorito, che indicava l' uomo sano e robusto non gli sarebbe mancato, secondo la moda così universale com'è al presente, se non se i baffi e la barba, che a giudicarne dai capelli, doveano essere di un bel colore tra il biondo ed il nero, per dare al suo volto un carattere ed una significazione che veramente piacesse. Ma il punto in cui il nostro Carlo-Annibale potea divenire veramente pericoloso e seducente era quello in cui, pregato a fare un qualche brindisi (ora toast) in lode d' uomo o donna, se gli infiammava la faccia, se gli inturgidivano le vene della fronte, gli lampeggiavano gli occhi, nell' attitudine insomma di vero poeta, quando è invaso dal furore d'Apollo. Ma sotto queste apparenze si celava un abisso, e guai per quella che vi avesse camminato sull'orlo!….

Di spirito non mancava; e di lui si narravano graziosi aneddoti, ch'ei lasciava dire in presenza sua con maggior bonarietà e tolleranza di quello si potesse aspettarsi da un tal capo scarico. Fra gli altri curioso il modo con cui, nel sospetto di ammalare, fuggì da una villa patrizia, e non volendo lo si sapesse, in sull' alba, saltò a cavallo del primo ronzino venuto, involgendosi bene in un copertojo di damasco rosso, talchè i contadini lo presero pel diavolo, allora sbucato d' inferno »; e più oltre: « m' era avveduta ma in modo di poterne avere sicurezza come gli occhi di Carlo-Annibale, rivolti sempre sopra di me, pareano cercare ansiosamente che un mio sguardo, non osservato da altrui, fosse quasi garante che il mio pensiero di lui s' occupava, quando a farmene più certa ancora, un dì che c' incontrammo dinanzi una porta, mentre altri in quella facean ressa, per entrare nella sala da pranzo, sentii susurrarmi all' orecchio in fretta, in fretta queste magiche parole: « Marchesina, io t'amo, ma tu mi ami del pari? » — Qual cosa io abbia risposto nol so nemmen io, perchè oppressa in prima dai sopravvenienti, che, spinti forse dall' appetito, voleano ad ogni costo passare, e più ancora dalla novità e dalle conseguenze che poteano avere que' brevissimi cenni. D' altra parte, troppi avvenimenti sono passati sopra questo piccolo fatto, perchè io possa conservare ancora in me viva e distinta la memoria di ciò che allora provai, ma la deve essere stata certamente non leggera impressione, poichè il mio fisico e la mia salute ne restarono come la prima volta turbati e scossi con la perdita del sonno e dell' appetito. I miei sguardi rivolti ancor più spesso sovra di lui, il mio silenzio in ogni argomento cogli altri e la mia aria pensierosa, avranno convinto anche lui, non essere quelle sue prime parole sonate indifferenti al mio orecchio ed avere avuto veramente un effetto magico nel mio cuore. Di fatto, ancora nel corso di quel giorno mi parve di vedere sulla sua fronte lampeggiare una insolita letizia, ed egli più affabile ancora e più lepido cogli altri che non solea… »

E seguita a descrivere gl' incidenti di questo innocente amoretto. Come Carlo Annibale fosse stato bravo di dare nel genio alla matrigna, come le facesse visita, come si vedessero loro due giovani, come correvano in segreto bigliettini dalle mani dell' innamorato a quelle della marchesina, e da queste alle proprie scarpe, dove li nascondeva in fretta, fingendo inchinarsi per raccorre non so cosa da terra, fin che potesse, al sicuro da ogni sguardo leggerli, ossia assaporarne la passionata eloquenza. « Le sue lettere poi erano tali da innamorare di lui, anco senza conoscerlo. Era Rousseau schietto. Di quante lagrime non ho io inondate le pagine della novella Eloisa, scorgendoci in essa i nostri cuori, la nostra situazione?…» Le lettere amorose però non sono che proposte anzi inviti ad altre, che lor diano risposta. La risposta, se gli amorosi son dello stesso pensiero non è dubbia, non c' è quasi a metter nulla di nuovo e le frasi son belle e pronte, ma tant' è, una risposta ci vuole, la è di rigore. Ebbene! la marchesina non rispondeva… lagni, querele del giovine, che die' fondo a tutto il frasario classico-romantico d'allora, e se la prese cogli Dei e colle stelle pur di vincere l' ostinato mutismo della giovinetta. « E alla fine perchè cotanta ripugnanza a far quello che tutti avrebbero fatto nel caso mio? Or eccolo questo perchè così misterioso …. Mia matrigna questa volta, facendola da scaltra veramente, avea saputo persuadermi che fra tutti quei giovani allora in moda, per bellezza, spirito, galanteria, i lions in somma dell'epoca, non ve n' avea pur uno che non praticasse, o non fosse nell' intima amicizia de' suoi conti fratelli e che per tale intimità tra essi non era più un segreto immaginabile al mondo, massimamente ove si trattasse d' amore, o di quello a cui ella dava il nome di storditaggine e di civetteria. In occasione poi di lettere, aveano per patto solenne di leggerle pubblicamente la sera in certa trattoria, intitolata la Casanza, ove convenivano tutti, e di farvi sopra i più leggiadri commenti, a carico probabilmente di quelle incaute o civettuole che vi si esponevano scrivendo.

Con questo terrore ch' ella m' aveva messo nell' animo, e diciamolo pure con questo argomento di disistima per quei giovani, che non potevo non sentire pel loro cinismo, come fidarmi a segnare le mie cifre d' amore sovra una carta, perchè poi se ne facesse a mie spalle un sì empio bordello? La cosa mi pareva incredibile, ma pure a sentir la matrigna era la pura verità. Or non è punto a stupire, se quando cedetti e vergai tremando poche righe in una carta, la diedi alla sola condizione, che quello scritto da me tracciato, quasi a testimonianza d' infamia e di delitto, ritornasse possibilmente, subito dopo letto, nelle mie mani? Ciò che Carlo-Annibale eseguì puntualmente, ma non già senza farne anco in iscritto altissime lagnanze, dicendomi soprattutto, ciò che dovea essere vero, che quella condizione sì ignominiosa pel suo onore, e la malafede dimostrata, aveano, se non distrutto, amareggiata d' assai tutta la dolcezza a lui procurata dal mio breve foglio ».

Essendomi prefissa di additare il bene e il male dei vecchi metodi, io osservo come l'ingiunzione fatta allo sposo… o che almeno tale pretendeva divenire, dipendesse dal sistema di educazione, dal terrore in cui l' anima della fanciulla soffocava ogni più nobile istinto. Via, la non era ingiunzione da fare ad un galantuomo, da lei stimato veramente. Se non che all' idea che la marchesa la chiamasse a mostrarle una seconda volta una carta… la fanciulla si sentiva morire dall'angoscia al solo supporlo. Ora io domando: la severità può esser buona e benedetta, ma dal terrore e dalla soggezione che ne deriva? …

Ma anche qui, similmente alla marchesa Fiorenza, in sul meglio di questi amori, ecco sopravvenire chi, senza nemmeno saperlo, li manda a picco. Ecco lo sposo nella persona del conte Alvise Mocenigo, Commendatore di Malta, cospicuo per nome, per censo, per attinenze e in tutto e per tutto degno della marchesina Sale. La qual marchesina se lo tenne per detto, dacchè lo sposo legittimo le piacque veramente e non ci fu bisogno di prediche acciocchè lo accettasse: anzi la matrigna la lasciò libera, fin l' ultimo istante, di che si vuol renderle elogio, visto lo splendore d'un partito che uguagliava qualunque altro principesco, nella gloria e nell' importanza del titolo di conte veneziano, sebbene Venezia più non regnasse. Credo che prima ancora di vedersi nascesse uno scambio di ritratti. Certo mia madre possedeva una miniatura in cui il conte era dipinto al vivo. Fisonomia simpatica, univa il carattere del gentiluomo a quello del tipo orientale, proprio ai Veneziani. Quel biondo acceso dei capelli a onde, quella bella modellatura delle guance, quel sorriso fino ed aperto, in una parola, asiatico. Pien di brio, e d'atticismo nel discorso, colto, dilettante di pittura assiduo, teneva dalla madre Laura Cornaro belle qualità di intelligenza e di cuore: soprattutto la disinvoltura semplice e cordiale, così aliena dalla stupida boria, di chi si erige sui trampoli d' un fasto senza gloria.

Quanto al signor Carlo Annibale, vista la marchesina divenire fredduccia, diradò le visite da uomo di mondo e contenne il suo dispiacere. Solo in un dì, nel quale si trovavano tutti a un pranzo per festeggiare gli sposi promessi, il damo, rimasto come si dice volgarmente in asso, intonò un brindisi in cui sfogava la piena degli affetti delusi, e diceva alla sposa:

«Ma a te celinsi e pianti e omei, Saper che pianga alcuno Nata a bear non dei!»

Cosi il pover omo diè un po' di sfogo all' interno bruciore dell'anima, vedendosi portata via la sua fiamma. Il bello si fu quando il vero sposo si levò da tavola, e, dopo susurrata una parola alla sposina, che si confuse un pochetto, andò all'anfitrione Apollo e lo ringraziò con espansione e nobiltà di quei versi, intesi ad onorare la sua fidanzata… Certo quello sfortunato amatore conservò sempre un'amabile memoria di quel primo affetto, uno forse dei più puri che provasse, e ancora vecchione scriveva a mia madre: Marchesina!… Marchesina!… come avessero tutti e due quindici anni.

Gli sponsali si celebrarono con gran pompa e le partecipazioni furono tante, che vi vollero due servitori a portarne l'immensa paniera alla posta.

Un po'di storia in generale ed in particolare.

Giunti a questo momento, in cui mia madre entra nel patriziato veneziano, amerei diffondermi sulle condizioni politiche e domestiche di esso: ma è troppo lungo il metterle in luce, oltre di che ripeterei cose quanto viete, altrettanto tristi. Non per piccole cause un grande e bello stato decade e muore come « vil, mansueto bruto ». Nessuna congiuntura politica, nè guerre sfortunate, nè insolenze di estranei conquistatori possono condurre a un tal risultato. Ciò accade quando i suoi concittadini pensano ad altro che a sostenerlo; sì che le virtù individuali, di cui ogni patria cadente ha inutile copia, contino solo a rendere più miseranda la sua rovina; quando la famiglia, il tessuto vitale delle nazioni, il prezioso parenchima, tutto fradicio si dissolve.

Che ci fosse più d' un Emo e d' un Morosini per intelligenza, vigore e grande animo fra i patrizì veneziani, ciò non toglie che gli ordinamenti domestici di quelle famiglie non andassero alla peggio. Viziosi, ebeti, egoisti e tiranni vorrebbesi a dipingerli nelle loro splendide dimore la più bizzarra e imbrattata tavolozza. Ora prendere a prestito lo stilo agli storici della decadenza romana; ora il pennellino, dai tocchi sapienti, del loro contemporaneo Goldoni, ora quello matto, e punto presentabile fra la gente a garbo, del francese Paul de Kock.

Di politica nessuno s' occupava più, nè pensava all'avvenire di quella nave in burrasca sulla quale pur stavano tutti. Preoccupati delle private faccende, delle loro ville, del loro stato lasciavano ire in isconquasso anche quelle; e tal fu il crollo del secolare edifizio, che ci vollero settant' anni di vergogna e di triboli perchè l'antica pianta, innestata alla madre patria ritornasse autonoma.

I documenti per servire alla storia d' una grande oligarchia decaduta sono tali che è meglio ignorarli, e star contenti a scongiurare per sempre la possibilità d' un tanto danno pei tempi avvenire.

Illustre fra le più illustri la famiglia Mocenigo produsse molti grandi uomini di stato, guerrieri, scienziati, letterati e diede sette principi alla republica: « sicchè » (dice il cav. Federigo Stefani, nell' opera di Litta, famiglie celebri italiane) « dopo i Contarini e coi Badoeri e i Partecipazì, è quella che conta maggior numero di personaggi elevati alle supreme dignità. Sempre ricca, come ricordava un proverbio veneziano, protesse gli artisti. Ne' tempi luminosi della Republica si contavano fino a venti case dei Mocenigo: quattordici diramazioni se ne spensero nel secolo XVII od oggi ne restano due sole ».

Non posso tenermi dal sorridere riscontrando che il primo stipite dei Mocenigo da S. Stae, (S. Eustacchio), si chiama, secondo lo Stefani « Tommaso dal pepe » imperocchè codesto illustre senatore, ambasciatore, generale, nipote di due dogi; era in gioventù gran mercante di pepe ». Da questo, che morì ottuagenario, alla vigilia di divenir Doge, scende la famiglia rappresentata nel 1815 da Alvise I, letterato, dice la nota storica, marito di Laura Cornaro; conte dell' impero, terzo conte di Cordignano, signore di Latisana, del quale era figlio il primo marito di mia madre.

Aggiungerò, a meglio definire questi cenni, doversi a un Piero Mocenigo le maggiori ampliazioni del nostro arsenale; come Alvise Mocenigo savio di terraferma, fu il primo a proporre il grido di defensio Italiae, nella guerra contro le armate nemiche della republica, durante la lega di Cambrai.

Intanto che noi si fiuta la fredda polvere delle pergamene, i nostri giovani sposi stanno già a Padova, dove, a cagione delle recenti guerre e degli assedì dimorava la famiglia Mocenigo, in una bella casa presso al ponte di Santa Sofia, e vi iniziano la vita coniugale.

La iniziano fra gli svaghi, fra ogni maniera di feste, in relazione alle alte attinenze, e a quel po' di voglia, ch' era in ambedue. di dare il lasso al loro gajo umore, alla libertà, alla curiosità, fin allora tenute molto, e fin troppo, a cavezza.

Adesso in generale per le fanciulle, andare a marito gli è cominciar la vita seria, e in certo modo la penitenza, così ai giovani condur moglie. In quegli anni nelle case patrizie il dì del matrimonio equivaleva a vestire la toga pretesta, uscir di pupilli, divenire padroni … fino a un certo punto però, dacchè il vecchio della casa, il padre, il suocero, il capo insomma giammai non abdicasse fin l'ultimo giorno. Potevano i figli sguattajolare dì e notte al di fuori, piantar debiti e improvvisar babbi-morti. In famiglia e' doveano stare agli ordini del solo padrone o a meglio dire dell' unico despota.

I figli mordevano il freno e già dopo i rivoltoloni politici, anco l'autorità domestica la si cominciava a scassinare. Fra vecchi e giovani eran continue baruffe per inezie; presso a poco in ogni casa patrizia si riproducevano i battibecchi del palazzo Sale. Per le corse, per l' opera, per una moda; quello che piaceva al vecchio, dispettavano i giovani, e viceversa … partito preso, senza conoscere ciò per cui litigavano. Avean cuore di venire ai pugni per la bravura d' una cantante; di portarla alle stelle o agli abissi, e non l'avean nemmanco sentita!

Quanto all' economia, altro fac-simile di grandezza principesca e di taccagneria unica. Un vecchio nobile mi raccontò egli stesso tal grazioso incidente. Un giorno viene una visita in casa sua, e le si porta, come di metodo, il caffè. Il patrizio, allora giovine e sulfureo, vede il servitore e adocchia il vestito: va a lui, lo ghermisce pel braccio e gl'intima — via di qua e levati quella livrea scandalosa! — Ma non per questo consentiva a innovarla il Sior Todero, che, piuttosto di dar fuori un quattrino bene speso, avrebbe preferito non so che, e in vece, per lasciar tutto ire alla peggio, ci andava di vena, come non fosse suo fatto, senza pensare che l'avarizia dei vecchi prepara la prodigalità dei giovani. Ma su per giù eran tutti così, e chi fa colpa ai nostri nonni se portavano cipria e parrucca?

Tutto ciò non implica che, tolti i temporali di metodo nelle case nobili d' allora vi si trovassero male… Tutt' altro!.. allegrissimi tutti, e ognuno badava a passarsela il meglio possibile.

Adesso una scena, poco dopo allestirsi pel ballo, o per la veglia o pel pranzo. Appetiti eccellenti, buone bocche, a cui gustavano assai le merende forti; cuori teneri, pronti a incendiarsi, ogni pensiero serio era escluso da quelle esistenze, passavano come farfalle di fiore in fiore, di leggerezza, in leggerezza, sì che in altro non consisteva la loro vita che spendere, spandere, svagarsi, fare l'amore e fare baruffa.

Fra le cose importanti ci avean le fiere e prima quella di Vicenza; le solennità a corte, l'apertura della Fenice, o che so altro. Devo però notare che a corte, colle dame sue pari, la mia cara madre ci stava di gran mala voglia. Con quel talento, con quel carattere poteva adattarsi a quella elegantissima musoneria ufficiale, stare ai ninnoli dell' etichetta, che impone ascoltare, tacere e non far niente di proprio impulso? Gran caso fu in uno di quei circoli perchè una delle più alte dame disse ad una imperatrice d' Austria questo tanto: — Trovo vostra maestà alquanto ingrassata dall' anno scorso.

Ognuno può credere come in un mondo tutto vernice e artifizio potesse adattarsi mia madre eccentrica, vivace, briosa, attratta da un istinto, ancora latente, alle cose grandi e serie. Tra le quali ci fu per lei la speranza d' un viaggio… dove mai?.. a Ferrara: la sua musa, ancora fra le quinte, diede, per quel viaggio, rimasto sempre ideale, il primo vagito, in un povero sonetto di cui ella stessa rideva più tardi, in quegli anni che la corse tutta Europa.

Per quanto si concertassero insieme quelle illustri signore in mascherate, compagnie, mai la ci si poteva trovare. Meglio la si prendeva sollazzo a dar guai, atribolare tutti quei farfalloni che le giravano attorno, ma la non ci metteva malizia, nè ce la mettevano i galanti corbellati. E' non aveano altro da fare.

Ebbra del più saldo amore pel marito, gelosa fino al coltello, ella non correva come moglie pericolo di distrarre un solo pensiero, un solo palpito dallo scopo unico del suo legittimo amore. Cogli scherzi occupava il tempo, teneva allegri i suoi e primo il caro sposo, che sapeva abbastanza quanto gli fosse affezionata.

Questo facevan presso a poco tutte le morbinose (e qui altro che la parola veneziana non ci può stare) signore di quel tempo. Da cui ne veniva infinito chiacchierio dei capi scarichi, dei mattacchioni dell'alta vita, dei florianisti d' allora. Satire, versi, in istile mitologico, ire degli offesi, contro satire, ma allora non v' aveano i briganti della stampa, un fogliettuciaccio a mano, che logoro e sudicio ricevea degna tomba nel corbello della spazzatura. Tutto finiva in celia, e nessuno più ci pensava.

Che se mia madre tentasse, come fortemente ci era inclinata, di dedicarsi ai figli, che belli, sani, maschi venian su uno dopo l'altro, a comporle una splendida corona di sposa e di madre, essa trovava nel costume in generale della sua casta e in quello altresì degli attinenti una invincibile contrarietà; sì che da coloro, che più d' ogni altro doveano incoraggiarla, la si udiva proverbiare, canzonare, chiamare Madama di Genlis. Ora questa parola avea dello scherno, riuscendo allora le donne letterate, il più delle volte, soprammodo antipatiche, massime all' alta vita. Volea dir pedanteria, sussiego, caricatura; le teneano per dottore, impancate a predicare; qualcosa di goffo, e contrario alla moda. Forse è da incolparne le autrici stesse, più d' ogni altra le mediocri: e forse l'ignoranza dei tempi a cui però gustava una certa letteratura che oggi, Dio mercè, nemmeno la si osa nominare. Non pertanto mia madre sempre volentieri andò dalla illustre Renier-Michiel, che amabilissima le prodigava mille finezze, e si tenea beata quando, alla sua celebre conversazione europea, potesse presentare la sposina da Vicenza.

Nemmen della ironica, sistematica opposizione alle cure materne è da incolpare nessuno. La bega arcadica di far da balie, messa in moda al cadere del secolo precedente da Rousseau, non penetrava per anco nell' alto ceto, persuaso che una gran dama la non fosse precisamente una donna simile alle altre, e la si potesse occupare dei suoi marmocchi.

Adesso v'ha chi obbietta esser meglio pei bimbi le balie come allora, e che la vita del gran mondo la ci sta colla nourricerie quanto il latte e il fiele. Ma come contentar tutti?.. e gli eterni critici quando mai si fanno tacere?

In mezzo a tutte queste vicende i primi anni scorsero felicissimi, d' una felicità ignara, sconosciuta alle nostre famiglie: quando un incidente funesto alterò quella pace, ruppe quel qualunque ordinamento domestico. Il conte non sapendo resistere all' invito d' una sirena, si persuase a torsi dal tetto famigliare e a seguirla. Ciò, avvenuto, mia madre, che lontana dallo sposo non potea vivere, determinata d' irgli appresso, in vece di aspettarlo a casa, dove sarebbe indubbiamente tornato, scrive una bella lettera ai suoceri; afferma la sua rispettosa affezione verso di essi e più verso la venerata suocera, che la tenne sempre qual figlia. Ma protesta di non tollerare l'assenza del caro marito e volere seguirlo. Tutto ciò senza i romanticismi e la rettorica di cui un pochetto abusano ora in parole. La nasconde quella lettera sotto il capezzale: poi la ordina che s'attacchi: ossia che s' appronti la carrozza. La monta; — per dove, eccellenza? — Fuori di porta Savonarola. — A un certo punto il cocchiere si volta, domanda rispettoso. — S' ha a voltare, eccellenza? — Ed ella — Avanti. — Si ripete la inchiesta, ed ella sempre — Avanti — Finchè la arriva a Vicenza: per poi di là ripartire, in traccia del caro infedele. Ignoro dove lo trovasse, credo a Treviso in casa sua, alla Commenda di Malta; ma so che l'accolse affabile, nè fu detta una sola parola, relativa a soggetti permalosi, e parve che la vita conjugale fosse dai nobili sposi di nuovo iniziata quietamente in questa dimora. Però una volta lontani dal tetto paterno non accadde loro di più orientarsi. Il conte ripartì, e la contessa via di novo anch' ella, andavano come anime in pena; addio ordine, economia, pace. Scorsi non già mesi, bensì anni la mia diletta madre si trovava istessamente a Treviso, non più in Commenda, ma in casa privata, e quante ne cambiasse è difficile riferire. In una di quelle case la mi raccontava d' esser morta… E fu nel palazzo Cestari, ora Giacomelli, in faccia al Sile; all' ultimo la si trasferì in casa Onigo: inferma, e con altalene di tregua o di inasprimenti, somigliantissimi a insania: tanto i nervi avea scossi, e la fantasia esaltata da tutta una condizione di cose in cui nessuno era da incolpare più d' un altro. Venivano da sè… guai al primo passo!

La gente subalterna, fattori, sottofattori, gastaldi, peggiorava assai quella condizione, ossia tutto il servitorame abbietto, padrone dei padroni, che si ricattava della superiorità patrizia, con ogni maniera di tradimento.

Tutte le grandi famiglie ne tenevano una schiera, fra cui pochi buoni, taluno sublime, tal altro infame. Costituivano una piccola corte di buli; vera ciurma, carissimi ai signori, che nell' udirsi incelenzare da quei cagnotti credendosi ancora potenti, non badavano se eran ribaldi. Talchè viveano della loro vita, si associavano alle loro gioje; assistevano loro alle nozze, ne tenevano a battesimo i figli.

Ognuno può credere, venendo ora dal generale al particolare, come si trovassero due sposi giovani, senza esperienza, generosi, confidenti in mezzo ad una turba, che lusingava le loro passioni e ne profittava per loro eterno danno.

Il conte, con nobile risoluzione, si tolse da quello stato d' ozio e d' incertezza, piena di gravi pericoli. Entrò in un reggimento di cavalleria e visse qualche anno fuori di paese. Rimpatriò più elegante, più cavalleresco di prima e quasi ringiovanito. Ma l'amore degli svaghi e soprattutto del ballo gli fu mortale. Gettatosi nel turbine delle feste, con l'usato ardore, cadde infermo, venne a Venezia. Mia madre benchè quasi inferma anch'ella, accorse più volte a trovarlo, e si rividero con affetto, perchè eran bei cuori, nei quali la benevolenza sola sopravviveva. Una volta fra l' altre la fu vista ritornare oppressa, e piena di dolore gettarsi sopra una poltrona e piangere. Il primo sacro affetto le si era desto nell' anima, al veder le sofferenze di quell' uomo, con che angelica pazienza le sopportava, e ritornava a Dio. Pochi giorni dopo il conte morì: nè di lui mi resta altro a dire se non che, nato al tempo dei forti, egli, con lo slancio di cui natura lo dotava, avrebbe o per terra o più facilmente in mare, aggiunte altre pagine. a quelle tanto splendide della sua casa. Ma pur troppo in un paese corrotto, perfino dalle buone e belle qualità si genera il male, con dolorosa moltiplicazione, per quanto alto sarebbe stato il bene.

Qui passando a considerazioni lontanissime dalle cose riferite, ma non estranee alla grande causa, mi giova osservare ai giovani una cosa troppo dimenticata: ossia che non si vuol tenere gli eroi uomini perfetti, quali ce li dipinge la storia e quali se li figura la nostra anima.

Quei tipi immortali, che traversano i secoli, in mezzo ad una aureola, furono uomini; se prospere circostanze li sollevarono, l'aureola ce la mettiamo noi. Per un lato è veramente bellissima cosa questa, che innalza la creta al di sopra di quanto, per sè medesima, potrebbe levarsi. Ciò indica la essenza del nostro spirito, destinato a sublimarsi: l' aspirazione all'ideale, perfino in chi lo nega. Ma ciò può anche divenire crudele, può renderci esigenti, può farci pretendere dall' uomo una perfezione che non è assolutamente in lui.

Vediamo adunque di non tenere per Iddii coloro che si sobbarcano all' arduo compito della cosa publica, perchè ciò non serva poi di pretesto a incriminare ogni loro atto, a condannarli anco nell' intenzione, e a gettarli a terra, dopo di averli fantasticamente portati all' empireo.

Un Petrarca galeotto - Pitture retrospettive -
Seconde nozze - Miei primi ricordi.

Un giorno, in quegli anni, accadde sulla via che da Treviso conduce a Postioma un incidente così leggero che nessuno, all' esserne testimonio, avria supposto di quanti altri importanti divenisse il primo anello.

Ecco l'incidente. Una carrozza non elegante, ma signorile, con servi in livrea punto splendida ma patrizia, trottava, tirata da formidabili cavalli di razza paesana, lungo la strada or ora nominata.

Ad un certo momento passò celere una carrettella di quelle a stecche, e fra una delle due persone che stavano in carrozza e una delle due che giacevano nella carrettella fu scambiato un rapido, cordiale saluto.

Poco dopo i due ruotabili, così differenti, dovettero ambidue fermarsi per lo intoppo d'un carro di fieno, che sbarrava la strada. Mentre aspettano, salta giù di carrettina un giovane, messo alla buona, ma disinvolto e gioviale; e s'affaccia allo sportello della carrozza. Lì nuovi saluti e una presentazione: intanto il carro di fieno si move; il giovane torna al suo modesto veicolo, la carrozza riprende l'aire. Di questo incidente nulla rimase se non le lodi che la buona Menica (così si chiamava la donna, che avea presentato alla eccellenza padrona il giovine) non cessava dal ripetere con passione, dicendo il miglior bene di lui, già professore di belle lettere e della famiglia sua patriarcale, amata da tutti.., tanto ben visto e protetto da quel grand'uomo ch'era il conte Negri, famoso letterato, e cento e cento cose che la signora, a cui erano riferite, nemmanco ascoltava. Dimenticate subito, appena udite.

Se non che, scorsi pochi giorni, ecco una visita rinfrescarle la memoria. Il giovine professore in persona, che stavolta si presenta da sua posta, dacchè a luì, pieno di slancio, attratto da un segreto impulso verso le sfere superiori, non occorrevano inviti per farlo andare da una giovine dama d'illustre casato.

L' avvicinamento verso chi comincia a decadere dalla parabola sociale, è in chi la ascende provvido, fecondo di bene, anzi di vita nel consorzio civile. Comunque sia, e proprio senza pensare a così alte ragioni, il giovane montagnolo e la dama veneta passarono molto bene quella prima visita. Si parlò di classicismo, di latino, un po' anco di greco: si discorse letteratura, si declamarono versi e all'ultimo ci fu un Petrarca prestato.

Al qual Petrarca, veramente galeotto, e che andò e tornò, in quel via vai, fu fatto un segno, precisamente al verso. — Se non è amor che cosa è quel ch' io sento? — Mai non si seppe da qual mano, e credo lo ignorassero loro due, essendo nata una certa confusione relativa a quel segno, perchè prestissimo al primo ne fu aggiunto un altro in risposta.

Dopo di che, visto che Petrarca avea ottenuto l'effetto, il giovane professore cambiando stile e genere di letteratura, un bel giorno si presentò alla dama con un libro di conti.

Occorre ch' io dica chi erano quel giovane e quella dama? No veramente. Occorrerebbe piuttosto ch' io narrassi la condizione miseranda così d' anima come di salute in cui si trovava la mia povera madre in quel tempo. Ma io dovrei troppo rincarar la dose su quanto ho detto cos' erano allora i servitori e specialmente delle grandi famiglie. Piaga terribile codesta, che la progrediente civiltà va rimarginando; laonde mi ripugna parlare di miserie che mai, è a sperarsi non potranno ripetersi.

È ben vero cha la ignoranza crassa di quel volgo non escludeva buone qualità, esempì di devozione più rari a trovarsi nella gente d'adesso, meno triviale, meno brutale, un po' inverniciata, più superba, men rispettosa. Adesso i nostri servitori sono educati: nei paesi di tutta civiltà leggono giornali, fatti apposta per essi e ci scrivono, non so se per battere più sul tema dei loro diritti o dei loro doveri. Ma in quella gran fedeltà dei famigli d' una volta v' avea anco il sentimento della propria degradazione in faccia ai potenti, insito come una necessità fatale, che il più delle volte, in tal genia, diveniva maggior fomite di odio e di sprezzo, che d'affezione e di gratitudine.

Una povera donna abbandonata, malata, che al tetto conjugale non volea tornare, perchè non la ci trovava più il caro marito, che da quello paterno rifuggiva perchè sempre vi trovava, in vece della madre, la matrigna … il cuore non mi regge di dipingere quel quadro, che tante volte ella mi fece con serenità angelica e colla superiorità di chi si sentiva sempre immune da ogni vitupero, sia per la nascita, sia per l'ingegno, sia pel carattere, sia pel raggio d' una fede inconcussa. Ella passò quegli anni di tutto dolore un po' studiando, un po' componendo versi, dacchè precisamente in quelle angosce le muse andarono a lei, e la sostennero di loro discrete consolazioni; un po' vinta dal male, un po' ridendo come il fanciullo, che scherza sull' orlo dell' abisso: e sempre con quella inconsapevole noncuranza, che eleva in mezzo al pericolo i grandi spiriti, e fa a chi n' è spettatore più vivo e più crudele il sentimento della loro miseria.

Mio padre intervenne in quest' orrore come un angelo: egli chiamò i servi all' ordine, impose il rispetto alla loro padrona, a lei offerse nobile occupazione, ajutandola nei cari studî, già malamente nella sua dolorosa solitudine incominciati da sè. Ed ella in quell'uomo, che la ridonava alla vita pose tutto il suo amore, divenendo sua davanti a Dio e davanti agli uomini.

Quando dico davanti agli uomini, eccetto il marchese padre, che a fatica potè abituarsi a quella strana idea d'una sua figlia, maritata a un povero maestro di scuola. Era troppo vecchio per cambiare idee, nè mai le cambiò sebbene più tardi lo dimostrasse.

Tolto questo rammarico della disapprovazione paterna, il primo tempo della loro unione, quasi matrimonio clandestino, scorse soavissimo. Fu il più bel periodo nella vita di mia madre. Perchè ella era poetessa, figlia d' una donna romanzesca, ma anco nipote della virtuosa matrona Cornelia. Lo spirito di queste due creature, così dissimili, riverberava in lei e ne formava il carattere, misto di passione e di dovere. Amare, dopo tante traversie, un giovane posato ma ilare, avveduto ma confidente, appartenergli incontrando ostacoli, disapprovazione, allontanamento dai parenti e forse di tutta la sua casta, equivaleva per lei vivere due vite. L'amore e la virtù: il suo ideale sulla terra.

Mia madre si trovò dunque in quegli anni nella felice condizione a cui allude Dumas, descrivendo i tipi d' un immaginario conjugio, da ritemprare la cadente civiltà francese. Ella viveva sotto la salvaguardia d' un uomo amato e rispettato, offrendogli obbedienza intelligente, in cambio d' un' autorità responsabile, e poteva, se non torsi alle tempeste della vita, non esser sola a combattere.

Raro sempre più, via via che l'incivilimento procede, si fa tale armonico scambio nella dinamica conjugale. L'anima umana in generale, oltre che tendere al maggiore sviluppo di sè, non abbandona, per un analogo istinto, le proprie conquiste. Ciò succede alla donna, ma cosa mai può compensare di sicurezza, di pace, cosa le dà importanza se la si isola, e la si chiude la via agli affetti?

Tornando a quel romito e caro modo di esistenza dirò che si concentrava tutto negli studì, fuori che qualche passeggio sull' ora bruna. A piedi che s' intende, poichè il mio caro padre fece tabula rasa d' ogni apparenza di lusso, via carrozze, cavalli, servitorame inutile; medici, consulenti poco tra piedi; visite di pettegole, mettimale, arruffoni, parassiti alla porta, e che baciassero i chiavistelli d' un uscio, oramai chiuso.

La gran faccenda stava, io lo ripeto, nelle geniali occupazioni dello spirito e soprattutto in far versi. La vena di mia madre era inesauribile allora e veramente ricca. Tutto le serviva; soggetti amabili o tetri, serì o di capriccio, perfin le figure sgorbiate, Dio sa da qual frescante di dozzina sulle pareti.

Ho fra le carte ereditate cogli altri manoscritti di mia madre, un amorino copiato appunto da un soffitto di casa Onigo. Sotto la stessa sua mano che copiò l'amorino la ci scrisse a bei caratteri, propriamente detti italici, come s' usavano allora, i seguenti versi:

Lucida fiamma e pura Dispensi quella face Riso, candore e pace, Sian teco, o divo amor. E al scintillar di lei Fuggano i rei pensieri: Sol gaudio e sol piaceri Porta sui vanni d' or.

Di carattere del maestro e consorte v' è di fronte:

De' rei pensier la nebbia Disgombri pur tua face, Solo di gaudio e pace Sii tu ministro, o amor. E alla crescente prole Inspira un santo affetto, Simile a quel che in petto Divampa ai genitor.

In queste due poesiette vi sono due caratteri: una poetessa ed un padre.

Qui, acciò non diventino soverchio monotone queste memorie, io penso d'innestarvi i miei primi ricordi: credo non sarà alterarne l'intento, principalmente volto a parlare de' miei e non di me. Ma la vita nell' infanzia è tanto stretta a quella dei genitori che parlar d' essi senza di me è impossibile.

Il giorno 5 di settembre dell' anno 1828 la mia cara madre, essendo stata presa dalle doglie del parto, mi diede alla luce. Più volte essa ebbe a dirmi come il male la colse mentre stava facendo versi: e come felicemente io venni al mondo; mentre d'ordinario la correva in pericolo della vita, secondo attesta una lettera del grande Aglietti; ma se ciò, riguardo mio, fosse o la ingannasse la memoria io non voglio indagare. So che mi portarono a balia in una casipola di contadini a San Lazzaro, fuori di porta Altinia. E là cominciano le primissime rimembranze, perchè ci stetti quattordici mesi, rinfrescate poi dalle visite alla balia, cara donna a cui volevo un gran bene, e ch' io perdetti pur troppo durante il colera del 1849.

Anco la casetta è carina, la è una specie di barchessa, cioè a dire l'adiacenza d'un villino lì accosto, e da cui la dividono belle siepi frondose.

Apparteneva esso in quegli anni ad un benestante di Treviso, che ne' più remoti ricordi mi restò come il tipo dei feudatarì. Ritengo ciò sia da attribuire soltanto al viso un po' burbero di quell' uomo: al cappello alto, dalle ale rilevate e alla cravatta nera in cui teneva sepolto il mento: in tutto, e nell'andar via impettito e nel salutar breve, arieggiava il militare. Per ciò, quando leggo storie dove sia contrapposto fra castellani e povera gente, fra possessori e fittajoli, fra servi e bojari io rivedo quell' antica scena e quel buon benestante, che di tutte queste cose non ne sapea nulla. Così sono indestruttibili le impressioni d' un tempo ch' è il limbo dell' anima, cioè una vera esistenza di sogno.

Comunque sia di questo nido campestre, una bella mattina venne mia madre, mi prese, mi nascose in fondo dell' ampia carrozza (prima che bandita), poi ordinò al cocchiere di tornare in città, dove entrai come una merce di contrabbando, ma pacifica lungo tutta la strada, fino a casa, là dove m' aspettava una sorellina, di cui appena mi sovvengo. Ma so che la si chiamava Vicenza, e la mostrava un tale ingegno sfacciato, un tal potente acume, che facea restare chi la udisse, laonde accennava divenire un genio. Dio nella sua clemente misericordia l'ha tolta con sè bambina.

Per continuare la graziosa stranezza delle prime impressioni, dirò che fino ad una certa età ogni sera m' addormentavo sulla spranghetta della poltiona, dove mia madre scriveva o leggeva ad alta voce, mentre il babbo, ascoltava passeggiando su e giù, secondo costumava, nella stanza.

In quelle lezioni, che io non capiva, v'avea fra tante parole taluna, che mi sonava con misteriosa dolcezza nell'anima. Fra le quali due: prosa e Carlomagno. « Prosa » mi pareva una nota di musica e mi svegliava un senso di cosa nobilissima e cara, di Carlomagno in vece mi facevo l'idea d' un personaggio stupendo, ch' io mi figurava vestito da Vescovo, la più alta dignità umana di cui avessi nozione: e tanto che l'immagine del grande imperatore mai non m' apparve che in piviale e colla mitra, a quel modo insomma, ch'io vedeva monsignor Sebastiano Soldati funzionare in Duomo.

Quanto a svaghi pochi o nessuno. Ma ce n'è di bisogno in quell' età? Abitavamo allora nel palazzo Onigo, il quale sorge sopra un' altura, ch' è il suo giardino, e domina il Sile; su quelle rive comincia la mia vita, e tanto ch' io posso veramente tenermi figlia di quel pacifico fiume.

Quel maggiore svago che un bello e ridente spazio di terra, semplicemente coltivato, con qualche ajuola come viene viene, da saltarci su senza riguardo, e qualche bell' albero da sedersi all' ombra?..

Tutto è festa nei primi giorni dell' esistenza, e in quel luogo la festa e più allegra. Ogni passeretta che cammina a salterelli, giojosa e domestica e che si crede di poter acchiappare, mettendoci, secondo insegnano, un grano di sale sulla coda. Ogni scarabeo dalla cappa smagliante d'oro e d'ogni più vivo colore. Una ciocca di ciriegie, una nuvola bianca nel bel celeste dell'aria… che so? … un niente, eppur tutto è qualcosa.

Per conto mio ci correvo tutto il giorno, e non vi correvo sola; correva insieme con me, ora in pace ed ora in guerra, il mio fratellino Giovanni, o come lo chiamavano Zannetto, il terzogenito dei conti Mocenigo. Amabile ragazzo, che nella ingenuità disinvolta dei modi infantili e nella prontezza dell'ingegno ritraeva tutta l'anima espansiva e la distinzione innata della madre. Poco ei stette con noi, reclamato dall'avo materno, con cui stavano gli altri due, figli del primo letto: sì che lo vedemmo partire con grande rammarico. Mio padre, istitutore suo come di tanti altri giovanetti, e che si sentiva per elezione padre a'suoi scolari, lo educava con amore, tanto più che in lui trovava solide qualità d' ingegno; le quali diedero poi ottimi frutti nella fisica, e ognun sa che Giovanni ha inventate le caldaje solari, importante scoperta, che merita diffondersi ed applicarsi sempre più agli usi della vita.

Quanto a me non dico niente che dispiacere perdere l'unico compagno di giochi… Quello fu il primo dolore della mia vita, e quando mi domandavano: — Cosa daresti perchè tornasse Zannetto? — io rispondeva nominando la più gran somma di cui avessi idea.

Rimasta sola passarono alcuni anni che contengono un poema di potenti affezioni. Poema ignorato, di cui non è ràro s'intessano le fila d' oro in più d' una casa: raccontarlo è impossibile, anzi pare di profanarne la sacra intimità, e a tacerlo si lascia fuori il più bello.

Mille circostanze fecero sì che in quegli anni, essendo occupatissimo nelle scuole il padre mio, che appena vedevo a pranzo, io vivessi quasi esclusivamente con mia madre. Ella frescha dalle sofferte burrasche, o tuttora in lotta; oppressa da crucciose memorie e dalla apprensione indeterminata di nuovi dolori, rejetta dal padre, lontana dai figli, isolata dal mondo, parea non la vivesse che della mia vita ed io della sua. Vita piena d'avvenimenti, di confidenze, d' amori, di collere, di gelosie, d'allegrezze e di paure. Luce discreta, riflessa da un mondo anteriore, basta a colorire tutta la esistenza, che fin gli ultimi giorni vi attinge forza di arcana soavità, come le correnti si alimentano della prima fonte, sebbene remota. I primi racconti, le immagini di un libro, la freschezza d' un frutto, certi bei colori, la ricorrenza di solenni funzioni, tutto è avvenimento, tutto divien centro di calore a cui si riscaldano in ogni età i focolari del sentimento.

Fra le paure prima di tutte mi angosciava quella di perdere mia madre. Guai se la indugiava a destarsi; mettevo in combustione la casa. Istessamente quando sognavo che la era morta: sogno che, da me riferito con gran disperazione, la riempiva di sgomento, onde ella, pia e per istinto e per educazione, moltiplicava le pratiche religiose, accendeva lampade all' altare domestico, a scongiurare quei letali oroscopi.

Ma se per una passionata, anzi estrema tenerezza, dipendente dal non conoscere quasi altro congiunto fuori che lei sulla terra, io la funestava co' miei sogni, sapevo poi anche benissimo, con un dolce impero, esercitato a tempo, calmare i suoi affanni.

Spesso spesso, in preda a turbe nervose, la si perdeva d'animo. Gemeva, invocava Dio, vedea terribili fantasmi, smarriva quasi ogni speranza di bene, e imprecava a'suoi mali. Allora io, affine di calmarla, ne facevo d'ogni specie, ricorrevo a mille espedienti, e quasi sempre ci riuscivo. O con giochi o con racconti, anco inventati lì per lì, o con danze o con canti. I bimbi sono vere scimmiette, che imitano quanto vedono e sentono. Da un tapino improvvisatore, passato per Treviso, e che diede un'accademia nella sala d'un palazzo disabitato, avevo appresa una cantilena, con cui egli s'accompagnava le poesie a soggetto dato. Fra le altre una: il ritorno dell' esule, col ritornello d'obligo:

« Cara patria, io ti ritorno Finalmente a riveder »

Ripetuto molte volte dal poeta e da una vecchia padella, che la pretendeva a cembalo, mi era rimasta in mente la cadenza monotona di quel motivo e molte volte lo canticchiavo da sola. Ma quando occorresse deviare da'suoi dolori l'immaginazione della cara inferma, facevo di più che cantare, e al canto aggiungevo la declamazione. M'acconciavo un certo collaro di velluto nero, già dimesso da mia madre, perchè sbiadito e stralogoro; me lo acconciavo sulle spalle in modo che mi serviva da mantello e lo tenevo alla spagnola; poi, figendo accompagnarmi sul mandolino, intonavo una canzone qualunque sul motivo dell'improvvisatore.

Preferita era la Rondinella pellegrina di Grossi e con che estro la dicevo tutta!… In principio la mia cara mamma appena mi dava retta, ma poi un poco alla volta la si ammansava, guardando di stiancio alla piccola canterina, la cessava i lagni, si volgeva alla donna da cui era assistita, e le diceva, additandomi, a quella guisa delle mamme, che non possono trattenersi dal trovar cari i loro figlioli: — la è pur la gran strega — e a me — Va, zingara! — fin che messasi a ridere, la si rifaceva del tutto. Nè ciò avveniva senza altri trasporti. Mutato il metro, era la stessa eloquenza nella passione, ora non più disperata, ma giojosa. Nel suo slancio di poetessa, trasvolava dall'inferno al paradiso, mi chiamava coi più dolci nomi, ringraziava Dio, mi paragonava a Davide, che calma le smanie di Saul, mi didiceva angelo dalle penne d'oro, arpa incantata, e che so quante altre denominazioni di questo genere, a cui io non badava, già tornata alla mia eterna occupazione, il gioco.

A taluno potrebbe parere ch' io mi diffondessi di soverchio sopra tali particolari; ma in ciò ho obbedito al sentimento. Son cose leggere, ma possono esercitare un nobile ascendente in chi legge, insoavire gli animi ai più cari affetti. Mamme e figlioli fin che durerà il mondo ce ne saranno, e raccontare le fasi di una condizione differente dalle altre, e per sè stessa sconosciuta, non è male, anzi bene. Qui troncando il dolce mistero delle pagine intime do principio alla seconda parte di queste memorie. Si cambia casa, attinenze, abitudini, vita, e bisogna cambiare lo stile.

Dal Sile al Cagnano - Il Colera - Il Polesine - Ferrara -
Venezia nel 1838.

La casa dove andammo a stare era ed è ancora una delle prime di Treviso. Intendo che la confina al Nord coll' orticello d' una casa minore al pie' delle mura. In quel punto il Botteniga, ossia il Cagnano, passa sotto le mura, ed entra in città, separandosi in sette ramicelli, che tutti, si gettano nel Sile, uno in quella situazione dove fu eretto sul ponte un piccolo monumento a Dante, opera del valente Borro, in memoria del verso allusivo a Treviso. Fra due di quei sette rami è la casa; un piccolo orto dietro, attiguo all' orticello della casetta a tergo. Un grande orto davanti con portone e cancello in fondo e tutt' attorno muriccioli d' ineguale altezza o fabbricati diversi. A levante, c' è altre ortaglie e poi un altro ramo dello stesso fiume, largo che pare un laghetto di giardino inglese. A ponente, altri lembi di terra coltivata, e altri fili d'acqua da cui si alimentano mulini e purgaoro. Poi una bella piazza aperta, e in lontano ancora un canale. Di faccia, al di là del portone e della strada un altro giardino, ch' era di casa Sugana, ora del Municipio.

Stavamo insomma come in un' isola incantata, fra cielo, acque e verdure: senza dire che al nord, oltre le mura si godeva della aperta campagna, vedendola chiusa delle Alpi, di cui, massime nell' inverno ci parea di toccare i gioghi nevosi. Questa casa serviva d' abitazione anco al proprietario, che fabbricava candele di cera; anzi nel terreno davanti ci aveano i tavoloni con suvvi distese le cere per l' imbiancatura.

Francesco Dall' Ongaro venendo a trovarci esclamò: — non negherete che da casa vostra non parta la diffusione dei lumi!

Come casamento rinunzio a descriverlo, da tanto irregolare e stravagante. Il padrone di esso lo riteneva un antico convento, spiegando così i cortili, cortiletti, le celle lungo il muro del giardino davanti: e poi il carattere di vetustà di quelli a settentrione, con ancora visibilissimi i segni di archi e di volte basse, per quel po'che se ne poteva scorgere sotto alle folte edere: qualche resto di colonna sepolta. Assicurava d' aver trovato, scavando, ossa umane in quel recinto, a cui non mancava che questi paurosi racconti, per divenire tutto quanto v' ha di più pittoresco e romantico. Appena installati, ecco la prima visita del colera, allora detto colera-morbus. Visita lunga, visita seria che fece gran colpo per mille giustificatissime ragioni, e in capo a tutte esser nuova! Nessun'altra preoccupazione politica o amministrativa distoglieva il peusiero da quella calamità, quanto orribile, altrettanto universale e sconosciuta. Durante l'epidemia si rinovarono i fatti più sublimi che la carità ardente, assidua, proficua moltiplicò in questi paesi. Un semplice cappellano, poi Vescovo, ebbe lui a portare cadaveri sulle spalle.

Di fatti atroci come in qualche capitale del mezzogiorno, dove i becchini uguagliarono e sorpassarono i turpi monatti nelle imprese più nefande, non s'intese mai a parlare nè ad alta voce, nè a piano. Bensì nel volgo persisteva l' idea dell' olio fumante: conseguenza della quale stolta idea derivava il non curarsi … che dico?… il disprezzo d'ogni elementare cautela. Il mangiare, il bevere come niente fosse, anzi peggio, per fare dispetto al contagio o ai medii … È inutile il dire che quei dispetti si cambiavano in morti fulminee, e che nelle classi inferiori il morbo menò stragi. Nelle successive invasioni coleriche l' idea dell' olio fumante non cessava dal molestare il cervello della povera gente, e forse la non è tolta ancora.

Nel 1835 un medico di mia stretta conoscenza ne ne vide un esempio, ch'io riporto.

Tenea egli sotto la sua cura una donna, colerosa, in grande pericolo: e tanto la vigilava con premura che non potendo, per la estrema stanchezza, reggersi a visitarla in certe ore tarde, si facea portare da due facchini, uno per braccio. La lotta colla morte non si potea considerare vinta, non ostante le molte cure, ed egli pensava a quali mezzi ricorrere, quando avviato, alla casa dell' inferma, vede un uomo che gli si affaccia in attitudine dubbia e niente allegra. Lo guarda, lo ravvisa, è il marito della donna. — Come va?.. — Oh! la sta male! — e l' uomo tentenna il capo con fare pieno di mistero. — Eh! lo so bene! — susurra il medico. — L' uomo tace e resta a guardarlo di stiancio, sempre torbido e con un pensiero occulto. — E cos' è quel male? — domanda mezzo triste, mezzo ironico. — Oh! bella gli è il colera! che novità, — esclama il dottore cominciando a uggirsi. — Ah! il colera! — urla minaccioso l' uomo e si scopre violento il petto. — Ecco il colera! ecco il corpo del delitto, ecco l' olio fumante! — E agita una boccettina, mostrando coll'altra mano una macchia circolare nella scarsella della giacchetta, prodotta da un po' d' acido solforico in cui si scioglie talvolta il chinino, al quale ricorreva il medico.

— Ah! olio fumante! — grida questi di rimando, e piomba sull'uomo, e fuori di sè lo abbranca alla strozza. Non sentiva più la stanchezza, e un legittimo furore gli dava in quel momento una forza, che se l' uomo non gli sfuggiva, povero lui.

Ritorno al trentasei. In casa nostra, nemmeno un'ora di sgomento. L'ottimo padre mio mantenne, secondo soleva, la sobrietà, la calma, l' ordine materiale, coll'esempio senza esagerazione, della serenità d'animo senza allegria, insulto in mezzo a tanta miseria di morti. Proibito in famiglia, per quanto fosse possibile, parlar di mali e funestare mia madre, a cui dopo tanto soffrire ci volea tutt'altro che l'ansietà prodotta dagli allarmisti, odiosi a Napoleone primo.

Sul finire della state declinò il colera: ma innanzi che ci lasciasse, un altro flagello venne a rincarar la dose di tanti affanni. Voglio dire il terremoto; furon momenti soli, ma d'un terrore che superò quello del colera.

Nel settembre, more solito, andammo in Polesine, come in primavera si passava qualche dì a Pederoba. La villeggiatura la si faceva alla Polesella, punto centrico delle possessioni di mia madre, ereditate dalla sua, e del viaggio e delle dimore vale la spesa di parlarne pei confronti.

Intanto da Treviso alla Polesella ci si metteva due o tre giorni. Un vetturino, che si chiamava qualche dì innanzi, procurando di conoscerlo bene e sapere a qual birba ci affidavamo, veniva a chiudere il contratto. Tipo oramai in dileguo, che poco si sente a nominare el nolesin, presentavasi un uomo, vestito in velluto di cotone verde sporco, imbianchito alle costure, ammaccato e per lo più logoro. Calzoni stretti al ginocchio, larghi verso il piede, aperti ai lati e coi rispettivi bottoni; quell'arnese, un po'spagnolo, tenea su alla cintura una fascia detta romana. Pel resto giacchetta corta, cappello di feltro come presso a poco si vede ancora. Quello che meno si vede è l' orecchino tondo o a triangolo: son quei ricci lungo le tempie, rattrappiti, dondolanti, i quali ci davano un che di donna: e su quelle faccie avvinazzate, per lo più furbesche e sgherre produceva un effetto strano e quanto ripugnante.

Stretto il contratto, il vetturino lasciava la caparra, di solito un francescone: moneta d' argento a cui toccò qui da noi, come a ogni altra simile, lo sfratto.

Poi, eseguita la distribuzione dei premî, a cui mio pâdre, allora professore di belle lettere dovea assistere, partivamo. Distribuzione solenne, solennissima pel paese; e per noi uno dei pochi svaghi concessi.

La mattina dopo, un lieto suono di campanellini annunziava il legno: ossia l' enorme baraccone fuori di piombo, con soffietto, stoje, paglia, cordami e rinforzo di catene. Venivano issati i vecchi bauli di pelo, alternato a cuojo. Poi la carovana si metteva in viaggio. Fatta sosta a Noale, si sbarcava a Padova. S' intende che alla porta della città si consegnava il passaporto ad una guardia di polizia, la quale informatasi dell' alloggio, dava uno scontrino in cambio, per portarci poi, solennemente vidimato e ratificato, il detto passaporto entro la giornata, e precisamente alla Croce d' oro. Poi subito nel tempio pedrocchiano. La mattina seguente, s' ascoltava messa al Santo, si pregava per la felice continuazione del cammino: e si ripartiva per Rovigo: e là pranzo obligato alla Cappa: nella stessa camera, dove, con voce nasale lo stesso cameriere recitava la monotona litania della carta: a sapere: le tagliatelle, il fegato dolce-garbo, le animelle, e che so io?… tutti mangiari paesani. Ma l' appetito s' accomodava d' ogni pasto, pur che netto. Dopo pranzo, per lo più, il baraccone riprendeva, coll'usato cigolio di rote e di catene, la strada. Si imboccavano quei lunghi e veramente maravigliosi viali fra due filari di pioppi d'Italia, e passato il Canal-Bianco, si toccava la Polesella.

Molto predilegeva mia madre quelle campagne, le quali non potevano altrettanto piacere al suo caro marito, avvezzo ai maestosi orrori della chiusa natale. Ma ei si facevano l' un l' altro concessioni e mia madre dinanzi all' anfiteatro alpino del Piave, mormorava — gli è pur bello. — Così lui alla calata di Garofolo, quando la moglie esclamava entusiasta e non finiva di bearsi a quella vista. Perchè di là si scorge il Po, che ad oriente svolta lontano, e l'occhio abbraccia la curva grandiosa della riva, piena di abitazioni, anzi di paeselli; a chi si trova là in sull' imbrunire gli è uno spettacolo, formato solo dai lumi sparsi e riflettuti in lunghe striscie nell' acqua. Anco il paesaggio ha del singolare in quelle biche di canape, specie di comignoli argentei che risaltano sul verde dei prati, e fra le molte case dipinte in rosso.

Gran bellezza fanno in quei luoghi i pioppi; ei son la decorazione del Polesine, adattatissima alla semplice architettura delle ville italiane. Guglie, obelischi, alberì di nave non saprei a cosa somigliarli. So che ce n'è d' isolati e in fila a trenta a quaranta: eretti, regolari, torniti si distendono in cortina sulle rive d' un' acqua, e le ombre che ivi si baciano la trasformano in rivo di smeraldo.

Noi abitavamo presso un commissario distrettuale accanto la Posta: sicchè si godeva d'un perpetuo via-vai di messaggerie e diligenze, e un alternato passaggio di Lordi e di Ladies, facienti il loro giro sul continente.

In quel mese autunnale ogni giorno, quasi ogni ora si udiva un trin trin di campanelli, uno schioccare di frusta, non di rado un suono di trombetta. Si accorreva al balcone e si vedeva una gran carrozza, e talvolta più carrozze giungere alla stazione postale. Eleganti donne, forestiere e signori ne scendevano per respirare un poco, guardavano la Fossa confluente del Po, la quale fiancheggia la strada al lato opposto dell' ufficio: comperavano frutta, bevevano acqua; talvolta proseguivano a piedi, lasciando l'ordine di raggiungerli. Poco dopo cambiati i cavalli i carrozzoni si rimettevano in cammino: nuovo schiocco di frusta, trin trin di sonagli, e suon di trombetta. Le velette verdi delle cameriere, sedute retro volavano, e, fra un gran polverone, tutto iva in lontano; quanti principi, quanti personaggi celebri udii nominare! Una volta tutti si mostravano a dito una bella donna, vestita da uomo, che scesa di carrozza, proseguì a piedi. Portava un elegante berretto, ricamato in oro e sotto cui sbucavano bei capelli neri ondosi. Non posso ricordarmi se dicessero la Malibran o la Sand.

Meno confuse memorie io riporterò d' ora innanzi, soffermandomici un poco, quanto io lo stimi opportuno. Son gli anni in cui si apprende più che in qualunque altro e in cui le impressioni ci si destano schiettissime, non pensate, ma a caso. Di più, parlare di sè fanciulli trovo offenda meno che mai la modestia. È passato tanto tempo! Mille e mille avvenimenti sopravvennero!… infiniti sentimenti modificarono l'ente nostro, sì che a fatica si riconosce sè medesimi nell'amabile spettro della propria giovinezza.

Quella villeggiatura non somigliava a nessun' altra, nè lo permetteva la casa dove si era a pigione; non la salute, o le condizioni o l' economia, nè i gusti. Di campestre avevamo per sommo conforto la visita del nostro fattore il quale ci apprendeva: come il frumentone andò arso pel sole, e il frumento lo rovinò la piova: gli animali minacciati dal carbonchio; le case coloniche tutte per cadere; gli attrezzi rurali dovere rifarsi, e via di seguito: una continuata sequela di malanni. Che rispetto in quei discorsi … e un inchinarsi, e non dire una parola senza premettere — seensa — ossia — Eccellenza — ma rendite poche.

La sera i miei genitori la passavano in casa dei conti Grimani, famiglia patrizia, composta di madre e figlio. La signora principessa, così la chiamavano perchè di casa sua la era Chigi, colmava noi tutti di gentilezza, a me donava le chicche. Il conte Michel Grimani mi invitava a mangiare con lui la polenta, i fegatelli al tegamino, e altri pasti su questo tenore.

Originale nella sua grandezza il conte non si trovava bene che con gente alla mano, coi coloni, colla piccola borghesia, e usava domestico e popolare quasi per passione. Parea venuto al mondo per far vedere come un nobile, pari ai re, può affratellarsi colla gente inferiore.

Non convien credere peraltro che ignorasse d' essere un Grimani: tanto lo seppe che passò tutta la vita nell' adorazione perpetua di sè stesso; adorazione a cui l' affetto esclusivo e un po' dispotico della madre innocentemente e maggiormente lo suadeva.

Se negli ultimi anni della vita gl' increbbe, che per l' adorazione sterile di sè e la cieca deferenza al santo egoismo materno, si estinguesse l'alta prosapia, lo ignoro, ma ho ragioni di supporlo. Magnifici pranzi davano i conti Grimani, a cui teneano appresso corse in carrozza, e non dico quanto mi ci godessi… I fanciulli inclinano a sensi aristocratici; mi divertiva un mondo il classico sediolo, e la sedia polesana, ma il percorrere la strada di Polesella e guardare dall' alto d' un magnifico equipaggio la gente appiedi mi empiva d'ambizione.

Meno attraente avean le veglie, dacchè vi si giocasse a tresette, o a concina, o a non so qual altro gioco analogo. Gioco importante di certo, poichè eccitava nei giocatori un tal contrasto di curiosità, ansietà, collera, dispetto, recriminazioni, che a descriverle e'n' uscirebbe un bozzetto gustosissimo… E tutto per quei pochi centesimi di guadagno! e nessuno di loro poveri. E la princìpessa poteva comperare tutta la Polesella. Ma tant'è tanto, benchè gran dama, a quel gioco la perdeva la bussola. Non parlo degli altri, del commissario distrettuale, del medico, del parroco, e d'altri frequentatori assidui e passionati giocatori… Una sera poco mancò non venissero alle vie di fatto, e le persone raccolte non si dividesse in due campi, come nelle osterie al tempo di don Chisciotte… Quando c'entra quel benedetto amor proprio!

Anco i tipi di quella società meriterebbero due segni. V'era il suo Aretino « che disse mal d'ognun fuorchè di Cristo » di lui si citava un tratto spiritoso a carico d'un avvocato dai denti lunghi: e di cui egli diceva mettesse in piedi le famiglie. — Oh! come mai — rispose chi se ne poteva lagnare — E'gli mangia perfin le scranne! — rispose il maldicente — E così dove toccasse bruciava. Un goloso, e di lui n'avevo terrore; e per mangiare qualche ciambella con sicurezza correvo a nascondermi, perchè quando, come si fa ai bimbi — guarda che te lo mangio — ma si dice per celia — egli minacciava e ingolava davvero. Del parroco riportavano un grazioso aneddoto; ma sarà poi esatto? La predica della morte pretendevano la dividesse in tre punti. Morte repentina, morte subitanea, morte improvvisa. La si crederebbe una satira, ma a noi lo raccontò chi assicurava d'esserne stato testimonio.

Lasciando queste facezie reali o inventate parlerò di impressioni che si riferiscono a qualcosa di più serio, voglio dire alla terribile condizione del Polesine, tutto sotto al livello del Po, nemico formidabile che perpetuamente lo minaccia.

Certo la è cosa che opprime al veder al basso degli alti argini le case, e perfino il palazzo Grimani, tuttocchè sorpassi la strada; ma per andarci che cordonata bisogna discendere!.. sicchè fa senso, più senso ancora, vedere un bel fabbricato, invano grandioso, superbo d'un grande stemma e d'una corona d'oro sulla fronte, sepolto in quella bassura, coi belli e corretti vestiboli, minacciati, non meno che sotterranei, dall'acqua!..

Quel palazzo, più di ogni altra abitazione modesta, pare l'emblema della miseranda condizione d'una fra le più feconde provincie d'Italia!

Talvolta ci accadde trovarci là nei giorni di pericolo; e'son tali da non dimenticarli più. Fra il graduato elevarsi del Po, la minaccia d'inondazione, e gli effetti, v'è tale un mondo d'angoscie, di terrori, che non si sa come quelle popolazioni continuino ad abitar le rive del fiume tremendo.

È ben vero che a scongiurare il danno v'han mille provvedimenti stabili e cento improvvisati nei giorni delle vicine battaglie, ma non sempre bastanti, e se Italia non vi provvede, Dio sa qual è il futuro destino del Polesine e quello del basso Veneto!.. Chiaviche ce ne sono ad ogni passo, pronte ad aprirsi in caso di bisogno: sono là quai piccoli, inesorabili baratri, pronte anco ad ingojare silenziosamente l'incauto, che vi mettesse dentro il piede: ciò avvenne ad un egregio giovane, figlio unico; ei camminava di sera e non s'avvide, e non fu mai più visto…

La chiavica maggiore è quella dove la Fossa entra nel Po. È a quel punto, importantissimo fra gli altri durante le minacciate inondazioni, che con un idrometro misurano l'altezza del fiume.

Quando il primo all' armi suona con le parole « Il Po è in guardia » tutti vanno a vedere, a informarsi. Là, in quel luogo stanno perpetuamente i custodi, allargano o frenano il passaggio. In certi momenti esser su quell'impalcatura, guardare di sotto, da dove le acque precipitano, tenute come mastini al guinzaglio, trovarsi in mezzo a quel tremolio, a quel fracasso impaurisce l'animo più fiero.

Ma quando il Po sale alla maggiore altezza, allora non è già una paura d'immaginazione, ma reale, e di una imminenza inesorabile; allora non c'è che un discorso — l'ha tanti gradi — è cresciuto da jeri, da stamattina, da un'ora, cresce tuttavia, minaccia rompere… o di sopra o di giù ha rotto.

Allora è un visibilio d'uomini e di cose: allora è un portar fascine, agglomerandole lungo gli argini a rinforzare i siti più minacciati, ad aprire le chiaviche: lavorano dì e notte; al raggio ardente del sole, al lume delle stelle e non si può dire lo spettacolo di quelle vampe oscillanti nel bujo, e di quelle macchiette, che vanno su e giù come formiche, intese a combattere un nemico che non si vede, ma si sente, e desta un senso ignoto, che alla paura dà una significazione fantastica, quasi la reale non bastasse!

Quella reale per cui più nessuno si stima al sicuro nella propria abitazione, chi può fugge, chi non può dorme col fardelletto pronto sotto al capezzale!

Di bel giorno il Po in piena è magnifico: spinge innanzi violento quell'immenso volume delle sue acque, color della lisciva, fra due rive lontane: e in quel mare, che fugge vorticoso e terribile, non si riconosce il Po nella magra, che incassato fra due alti argini, procede maestoso ma lento, co'suoi mulini ai lati, pacifico come un industriale.

Anco senza piena, nei giorni burrascosi, è imponente, e a me riesce caro quel ricordo anzi cosa famigliare, dacchè nella villeggiatura della Guarda Veneta dei marchesi Ricci, e dove noi pure si passò un autunno, v'è contiguo al giardino il padre Eridano. Questo mi fa attaccare il filo del discorso ai Ricci, famiglia che per molti riguardi è nota all' Italia, e fu carissima a mia madre, dacchè la considerasse la sola, che le rappresentava la diletta e sventurata sua genitrice. E la zia, per quanto è possibile amare in quella casta e con quell' educazione, ricambiò sempre il cordiale affetto della nipote.

Vedova la marchesa Maria Vendramin nei Ricci, vivevano con essa i suoi figli marchese Amico, Domenico e la Albina. Giacomo stava da sè. Il marchese Amico, uomo di bella cultura, lasciò scritti di storia e d'arte, in quel tempo molto lodati. Che gli apprezzamenti suoi in materia di pittura, di architettura possano considerarsi anche adesso di peso, io non lo giudico, perchè la non è soma per le mie spalle.

L'opera sua più voluminosa è « la Storia dell'architettura in Italia, dal secolo IV al XVIII. Modena, 1860, coi tipi della Regia Ducal Camera ». Opera, dice l'egregio professore Dall'Aqua Giusti, a cui ho donata la copia che Amico mandò a mia madre, opera piena di erudizione e che dà tante idee e fatti, che non si troverebbero in altri libri più divulgati o più famosi.

Veramente Amico avea un fondo di dottrina non comune, e un modo di farla valere ancora più notevole. Molto ajuta per noi quella bella pronunzia fra il romano e il toscano: e poi nel discorso una certa unzione, un' enfasi corretta da abitudini di compostezza, che diventa una grazia. Bianco di capelli fin dalla gioventù, pallido in viso, l'ho visto sempre eguale. Lindo, freddo, eppure amabile e loquace nel suo cauto riserbo.

Domenico, padre a Matteo, il genero di Massimo d'Azeglio, non era meno colto, nè di minor ingegno; ma avea un brio, una disinvoltura che piaceva a tutti e alle signore di più. Matteo, di cui mi sovvengo benissimo, e che rividi fatto uomo, poteva dirsi, un bel bambino; o a dir meglio garzoncello, di fisonomia nobile e lineamenti eleganti.

I marchesi Ricci tenevano casa aperta e ben poteva considerarsi quella una villeggiatura formale; c' era qualche balletto, qualche pranzo ai notabili del paese, qualche recita; ci fummo anche noi una sera, ma non mi restò impressa che una cosa a guerra finita … Il rientrare in casa, ossia nelle quinte della prima donna, la marchesa Albina: e quanto mi stupì il liscio, ossia il belletto di cui teneva impiastriciate le guance, e tutte le altre piccole soppiatterie del mestiere a cui non possono rinunziare nemmeno i dilettanti!.. Vedevo simili cose per la prima volta e mi colpivano assai. Del resto tutto in quella villa mi riusciva nuovo e mi dava l'idea d'un genere di vita diverso dal nostro. I costumi dei Veneti erano allora, se così posso esprimermi, paesanissimi. In casa dei conti Grimani si vedeva opulenza, abbondauza, ma tutto alla buona, all'antica veneziana. Bologna invece, capitale delle Romagne, avea un certo tono come lo chiamano ora schic; al tocco la colazione alla forchetta, o proprio il digiune all'inglese: pranzo tardi assai, e poi nel fare dei domestici in tutto un'altra aria dalla nostra, in quel tempo niente intrisa di forestierume, benchè fossimo sotto al dominio straniero.

Un giorno fummo anche a pranzo alla Guarda Veneta, in casa della zia, e mi ricordo d'un lieve ma caratteristico incidente. Matteo, per vezzo infantile, s'era acconciato con un certo garbo pittoresco dei rami di salice sul capo, a guisa di ghirlanda, sicchè grondava di fronde, tolte a un bell'albero piangente, sulla montagnola del giardino. A me, a dei villanelli ci diede a tenere in bocca, a guisa di freno, altri rami di salice, dei quali reggeva le estremità in mano, e poi via; egli figurando l'auriga, noi i puledrini… Giunti ad una svolta della riva, anzi dell'argine, chè in quei paesi tutto è mezzo in alto, mezzo al basso, ad una svolta dopo la quale saremmo discesi ed entrati in un piccolo bosco di sempre verdi e leggiadri alberelli, la zia, nonna di Matteo, ci scòrse.

Ella stava seduta vicino ad una statua e pareva statua ella stessa: in veste di raso scura, sciallo fermo sul petto, cuffia annodata sul mento…

— Bei giochi, mormorò ella, guatandoci severa, senza scomporsi, vera immagine del dio Termine, custode di quei luoghi campestri.

Matteo mormorò non so che parole, e schioccando la frusta flessuosa, tolta anco quella dal salice, ci diresse altrove. Tal quale l'ho vista essa mi rimase impressa nella memoria, e pensandoci molti anni dopo mi parve dicesse, là diritta e fredda, con quell'occhiata di gelo, con quella parola di riprovazione. superba, il destino della sua vita: destino tanto diverso da quello della elegante sorella marchesa Fiorenza.

Che se questa si estinse come un fuoco fatuo, brillante fin l'ultimo punto, la marchesa Maria, fin nella tarda vecchiaja durò composta, regolata, severa, ma niente allegra, anzi tetra. Dacchè concludo che l'antico sistema di vita aristocratico o traviava le anime o le chiudeva in un artifiziato contegno.

Detto questo, nobilissima nell'aspetto, la marchesa conservava una certa grazia, una certa avvenenza, che in quel fare matronale imponeva rispetto. Non un gesto, non una parola che potesse dirsi volgare, vecchia ma sempre dea. La voce soprattutto avea un timbro grave, un che di leggermente commosso: del nativo dialetto dimentica, ella parlava lenta, misurata un bell' italiano puro senza affettazione, che, come in suo figlio, facea comparire importanti i discorsi più semplici.

Con maggior libertà giocavo alla Polesella coi figli del padrone di casa: due ragazzi e una femmina.

I ragazzi dotati del bernocolo della costruttività non facevano che innalzare edifizî, case pel cane, terminate le quali si inauguravano con canti e merendate. Era una famiglia originale, con cui si prendeva svago, senza uscire dal ricinto delle mura. Ogni sabato sera la padrona di casa sottometteva ad opportune abluzioni i suoi birbantelli. Mentre le acque lustrali tergevano quelle mani lorde di calce, la preghiera usciva dalle loro labbra, preghiera ebdomadaria come i lavacri. Graziosi incidenti nascevano da questa doppia azione. — Ave Maria — fermo colla testa — gratia plena — lasciati tagliare le unghie! — E il coro che ad alta voce monotona dicea su le orazioni, non badando al metodico interrompere, continuava trionfante. Sicchè in quella camera, fra una cosa e l'altra ci avea un bel frastuono tutti i sabati. Io ascoltava senza batter becco. Poi rifacevo la scena tal quale davanti i miei cari, imitando voci, gesti, i minacciati scopaccioni, quelli dati. E furono le prime prove di quella, che il buono e bravo Facen suol denominare scenografa: prove che venivano quanto un discorso d'ateneo o di tribuna vivamente applaudite.

Profonde restano le impressioni infantili, e mi ricordo cosa provai quando, davanti al campo santo di Polesella, uno dei fanciulli miei compagni, mostrandomi una gleba, mossa di fresco mi disse con semplicità: — là c'è la più bella donna del paese. — In quel punto appresi la morte.

E molti altri mesti ricordi mi lasciò quella villeggiatura, perchè la stagione vi è propizia: il novembre, le funzioni commemorative ai defunti; il suono delle campane e il carattere del luogo piuttosto monotono.

Quella Fossa, un canale sempre torbido e solitamente simile a gora: per varcare da una riva all'altra si montava in una certa barca, mezzo coperta da un soffietto; la piccola imbarcazione passava, tenuta da una corda da sponda a sponda, scorrendoci col mezzo d'una navetta…e bisognava vedere il navicellajo: un vecchione, un vero Caronte: sicchè dopo tanti anni ho di quel varco l'idea d'una scena dantesca.

Colla ragazza le eran altre vicende: piccola, gobbetta, difettosa di struttura, tanto che morì prestissimo, a lei non parea vero stare a'cenni d'un diavolo mio pari. Io la trascinava a correre oltre pei campi, attraverso prati, saltando fossi, lungo le siepi: mi seguiva come una confidente di tragedia, senza comprendere il perchè di quelle corse furibonde, sotto l'ardente sferza del sole. Non lo sapevo nemmen io, so che andavo ansiosa di scoprir nuove terre e di mettere il piede sopra certi serpenti, detti carbonazzi (coluber flavescens) o saettoni, dal modo con cui, afferma il Boerio, si slanciano sugli animali, che feriscono come dardi.

Certamente di gran racconti udivo intorno a tali occulti ospiti della campagna; paurose descrizioni sul gran bastonare, ch' e' fanno le gambe di chi vi s'intoppa; e tutto mi eccitava ribrezzo e curiosità, laonde nel correre, coll'animo combattuto da questi due sentimenti, spingevo l'occhio a spiare se vedessi fra lo smeraldo dei prati, tralucere quello del famigerato colubro.

Tornate a casa eravamo in fiamme e per non venire sgridate, e per non dar motivo ai nostri genitori di mettersi in pena, ci andavamo ad acquattare in una camera, che per solito avea l'imposte chiuse; io sedeva sopra un trespolino, la gobbetta in faccia a me, e si stava chete fin che il bollore cessasse e le guance tornassero al color naturale.

Ho detto che non sapevo il perchè di quelle corse furibonde e non lo so ancora, ma credo ch'io facessi romanzi. Quello di cui non ho dubbio è la efficacia, ossia la potenza dell' alternare un movimento rapido alla calma; perchè le cose viste, le impressioni provate fuori mi si imprimevano quindi al favor della quiete e della oscurità nell'intelletto, in modo indelebile; e quel silenzio profondo, rotto dal canto periodico delle galline, favoriva la riflessione.

Di più quasi sempre da un foro dell'imposte penetravano raggi di sole, che intersecati riproducevano sul muro la fedele immagine del paesaggio vicino, projettato nell'atmosfera. Io ci guardava estatica e al fissar quella bella pittura, capovolta e tremante sulla parete, comprendevo quello che dal correre in mezzo alla bella campagna, al trovarmi quieta, avveniva in me stessa. Era l'arte che dianzi mi parlava diffusamente e indistintamente in mezzo alla grandiosità della bella natura, e poi mi veniva a trovare tacita e discreta nell'ombra e nella calma.

Prima di lasciare la Polesella riferirò un fatto di cui molto si discorreva allora, accaduto, s'io non erro, in quei dintorni. Un gran delitto era successo, con circostanze dolorosissime di aggressione e violenza, sopra un prete e la sua vecchia governante. Trovati uccisi da anni ed anni, si cercava invano scoprire i rei, restando senza risultato le ricerche delle preture locali per rintracciare il filo dell'atroce mistero.

Un commissario fra gli altri, pieno di ardore nelle indagini, mandava spessissimo all' ufficio d'un paesello vicino, sempre aspettando ottenerne lo sperato raggio di luce. Un giorno (la cosa durava da anni) questo commissario riceve il cursore, solito a portare le carte relative al processo.

— Niente! mormora scoraggiato il commissario.

— Niente risponde, lugubre il messo, facendo atto di ritirarsi.

— Pur troppo! ma lasciate pur là — esclama il degno magistrato — una volta o l'altra lo scopriremo il reo, in qualunque luogo ei si nasconda; già ei le deve avere le mani sporche da sangue!

Il commissario disse questa parola, come ne avrebbe detta un'altra, senza pensarci, ma non appena proferita ei s'accorse di lieve cosa, per la quale, foss'egli uomo forte e famigliare appunto con tal genere di impressioni, dovette rimanere senza fiato. Egli, vide a quella parola il cursore cambiarsi in cera e guardarsi furtivo e disperato le mani. L'assassino era lui.

Tornati a Treviso si riprese la vita romitica, di pace e di studio, tanto diletta a mia madre e confacente alla sua salute. Pochi amici, che in carnovale venivano a mangiare il riso, formula veneziana d'invito che m'inquietava un poco, non sapendo se dopo il riso gl'invitati dovessero andarsene: il che non accadde mai per verità: ma la logica dei fanciulli è così stringente!

Fra gli scolari del babbo uno di modesta apparenza, ma di gran levatura, ci favoriva nell'eremitaggio di casa Grotto, e passava la giornata con noi. Trabalzato dalla sorte in condizione diversa da quella in cui nacque, tendeva con nobile, assiduo studio a rifarsi l'avita fortuna. Studente di medicina, ma passionato lettore di versi, poeta egli stesso e novelliere, leggeva con mia madre i più bei squarci della nostra poesia o le odi di Hugo. Il mio orecchio infantile, percosso dalle splendide note della musa di Hugo, musa allora nel maggior fulgore della sua vita, già tanto robusta poichè come poeta, nessuno gli vola innanzi, il mio orecchio ricevea un senso confuso e lo tramandava all'anima, quasi recondita preparazione alle norme del bello. Quel giovane che a me raccontava le fiabe: Guerrino, detto il meschino, e gli alberi del sole, si chiamava Antonio Berti.

Nel 1836 si riaperse il teatro Onigo, dianzi bruciato. Questa nuova Fenice, risorta dalle sue ceneri con grande pompa inaugurò la Virginia de Blasiis cantandovi nella Norma. Mi ci condussero la sera della beneficiata; sera in cui la venne coperta da un nembo di fiori; l'entusiasmo, che destò in me la gran cantante, e tutte quelle fulgide novità, quei lumi, quei canti, non è facile riferire. Una dea discesa dal cielo, anzi il cielo stesso dischiuso a'miei occhi non avria potuto produrre maggior effetto di quello spettacolo alla mia fantasia, che non conosceva ancora in fatto di splendori altro che il Vescovo in Pontificale.

È perciò ch'io mal persuadendomi quella bella signora, adorna del carbaso, quella maestosa sacerdotessa la fosse una creatura umana, mi dovettero condurre dov'ella abitava, e precisamente presso una cara amica d'infanzia, per assicurarmi che la Norma diventava la signora Virginia De-Blasiis, una donna simile alle altre, appena dentro delle quinte.

Nell' anno 1837 avvenne qualche cambiamento nella nostra famiglia: mio padre allentò le redini dell'azienda domestica, e ci permise di buttarci un po' fuori. Anche a noi fu schiuso l'adito di frequentare il caffè Pacchio, sede favorita dei semidei trevisani, là dove stava famigliare abbastanza il burbero Bianchetti, per fuggir solo quando vedesse i canterini girovaghi: di colà io passava sempre con un sospiro nella speranza del sorbetto, poche volte fino allora concesso.

Venne in quel torno da campagna, dove rimase lungo tempo a balia, mia sorella Eleonora: bella bimba dagli occhi neri, dai capelli ondosi e di mansueto e affettuoso carattere. Poi tutti insieme andammo nell'autunno in Polesine, ma alla Guarda Veneta questa volta, ossia nella villa dei Ricci, che per tema del colera, punto non si mossero da Bologna, e cedettero a noi il palazzo.

La non fu certo una villeggiatura briosa come quella dei marchesi Rieci, la nostra; ma non fu nemmeno romitica come le precedenti; qualche invito, qualche ballonzolo. I Baldo, i Tenan, e tutti chi s' imbatteva, basta che fossero onesti. La domenica veniva un prete a dir la messa nella cappella addetta alla villa, e noi la s' ascoltava da una ringhiera, stupiti di trovarci come piccoli feudatarî.

Quanto a svaghi, a corse sui somarelli quell'anno fu una gazzarra continua. Io giocava colle villanelle, e coi villani del vicinato, e colla mia nuova piccola compagna Eleonora, a cui davo anche lezioni di letteratura: ma la strana pretesa, che la imparasse subito mi faceva ricorrere ad un espediente ancora più strano; qual era quello di menar le mani colla massima violenza, finchè la povera puttella, buona, ma sdegnata di quel metodo pedagogico, si rivoltava e, suol dire Azeglio, minestrava anch' ella. Mio padre vedendo che queste lezioni terminavano troppo spesso in quella maniera, al punto da lasciarci i segni, i graffi sul viso, minacciò metterci in due collegî separati, e bastò a far cessare quelle scene, perchè ci volevamo un ben dell'anima, e le bastonature non erano che una maniera d'intenderci.

Di quell'autunno mi rimase indelebile memoria in un fatto del mondo fisico, la quale si rinnova ogni volta ch'io v'assisto. Ed è che s'io mi trovo in luogo boscoso, e che il vento in giorni di burrasca li commova mi torna all'anima il sibilare degli alberi della villa Ricci alla Guarda Veneta; il particolare e quasi modulato stornire dei salici dalle lunghe chiome e dei pioppi e degli ontani dalle lagrime d'ambra, come li chiama Claudiano, antico poeta. Sicchè a quel suono mi apparisce il miragio di quell'autunno, il Po, contiguo al brolo e che dalle finestre vedevamo correre vorticoso, veloce, tremendo: e tutte le scene, e tutta la vita di quel tempo.

Durante l'ottobre si fece una corsa a Ferrara di soppiatto; passando il confine col permesso d'un signore, possidente di beni sulle due rive.

Di Ferrara nulla dirò: accennerò solo dell'entusiasmo di mia madre, la quale molti anni prima avea inneggiato alla sola speranza di quel viaggio… Ferrara era un viaggio…e all'estero! Di più, si trattava nientemeno che di toccare il suolo pontificio, cioè a dir terra santa! Per la mia diletta genitrice, educata dalla nobil donna Arnaldi, che ogni dì le facea ringraziar Dio di aver sortito il nascere in grembo alla chiesa cattolica, apostolica, romana; per mio padre, uso anch'egli nella sua campagna alla venerazione di tutto che fosse religioso, fu un momento solenne quello in cui, dopo varcato il Po, senza neanche scendere di carrozza, ci trovammo sulla sospirata riva. Mia madre volea ben ella precipitarsi a terra e baciarla, gridando: terra santa! terra santa!… Devo però, per obligo di verità, aggiungere come in tanto entusiasmo ci fosse un po'di poesia. I miei genitori mai consentirono a trapiantarsi e vivere sotto le somme chiavi, come potea avvenire. Mio padre mai non soffrì sua moglie perdesse la libera disposizione delle proprie sostanze, che la legislazione austriaca lasciava alla donna maritata, e quella pontificia vietava.

I miei cari parenti però non immaginavano mai che una tale condizione di cose, mista d'indiscretezza, di barbarie e di stupidità, ci sarebbe importata non da un governo jeratico, despota di sua natura e apertamente assoluto, ma da un governo che ci die'la libertà, e ha un codice fatto da uomini che pretesero, raffazzonando le leggi francesi, rínnovare moralmente la loro nazione, nell'atto che la redimevano dalle armi straniere.

L'autunno seguente fummo invece a Venezia, in feste pel passaggio dell'Imperatore, reduce dall'incoronazione di Milano. Non so perchè mi ripugna il parlarne: non è certamente ostentazione di patriottismo, perchè a dieci anni appena, e di giudizio ancora meno, io non capiva niente. Ma di quelle feste mi rimase una memoria lugubre.

S'alloggiò in casa Mocenigo a S. Benedetto. Quell'appartamento così ampio, così tetro, a chi soleva abitare una specie di campagna, in mezzo ad una perpetua esposizione di verde, di luce e di chiare acque, mi opprimeva. Là era morto il primo marito di mia madre: nè mai la porta della camera si aperse durante la nostra dimora in quell'appartamento. La mia diletta genitrice vi passava davanti con un tremito, che si rifletteva a mille memorie sopite, non cancellate, e i sentimenti suoi si riverberavano in me con un ascendente d'impero e di tenerezza.

Coll'animo preparato alla mestizia, non è a dire cosa mi facesse nei dopo pranzi veder la luce penetrar giallognola e moribonda pei vetri ottangolari delle elevate finestre. I quadri soprattutto acquistavano in quel punto una nuova e misteriosa vita: vedevo moversi, tremolare, la nobildonna Contarini, distaccata dal suo fondo, maestosa e severa in atto di scendere, portando il lungo strascico sul battuto della sala: così gli altri personaggi, guerrieri, capitani, dogi e senatori o incastrati in cornici sublimi, o sopra gli stipi delle porte, fra marmi parimenti preziosi.

Ciò non toglie che mancassero i giochi, di cui ero caporiona. Il portinajo si chiamava Alessio, veterano di Napoleone, ambizioso perchè nella messa lo nominavano ogni dì: Lectio, e credeva volesse dire Alessio.

Marito d'una buona quanto imperfetta donna, era padre di molti e bei figli, e con loro si giocava sempre. Nelle entrate dei palazzi di Veuezia costumano tenere un pontile; sollevato a un lato, forma un declivio dall'altro, e serve d'approdo, quando l'acqua è alta, e non si possa metter piede sulla riva.

In quel pontile si eseguivano danze acrobatiche come sopra una corda. Tutto sta illudersi a questo mondo; un bastone di scopa in mano, figurava il contrappeso. Chi non danzasse facea da publico, e le risa e gli applausi andavano alle stelle: cioè alle travi annerite, della grande entrata severa, ricca di gonfaloni, elmi, fanali, e trofei guerreschi della famiglia patrizia.

Quando il chiasso divenisse troppo forte compariva l'imponente figura del signor Pietro Greguol, l'agente generale, e, col solo quos ego della sua presenza, metteva in fuga la turba tumultuante, sì che da un momento per l'altro tornava un silenzio, in armonia con quella cupa entrata.

Innanzi di lasciare Venezia per casa nostra si fe'una scorsa in Polesine; ma di volo, poichè le scuole ricominciavano ai primi di novembre.

Nel ritorno da campagna a Padova i nostri genitori si staccarono da noi, che colla servitù, andammo a Treviso. Mia madre progredì oltre fino a Vicenza; ripassò la soglia del palazzo natale, rivide il padre e gli presentò suo marito; dopo tanti anni di lontananza e di amarezza, ella riabbracciò i cari figli.

Fu in quest'anno 1838 che il mio caro zio Giuseppe Codemo prese la laurea in Padova.

Era un giovine di nobile aspetto: fronte da talento, gli occhi davano lampi, e la bocca esprimeva una bontà divina. Compagno a Berti e a Carraro negli studî, nel sentire e nell'ingegno, la solennità lasciò bella impressione nell'aula universitaria; quantunque lo zio, modesto di sua natura, vivesse colla semplicità d'un filosofo.

Ma appunto la gravità di quell'uomo, che appena dall'adolescenza passava alla gioventù: già virile nei pensieri e nel fare, imponeva un certo rispetto e insieme un indistinto accoramento, e come il presagio, che un'anima così bella, che un ingegno così elevato non ci farebbe ambiziosi di lui che per poco.

Questo senso fugace ch'io indovino ora più che non lo provassi in quel tempo, non impedì le più liete feste, i sonetti, i pranzi.

Dalla sua Pederoba venne il nonno, tutto arzillo e gajo; circondato da'figli, tutti in posizione onorata: suocero d'una vera gran dama, più umile e mansueta, di quello che lo sarebbe qualunque villana arricchita. Al buon vecchio non parea vero, e si pavoneggiava un pochetto nel suo vestito nuovo, proprio da signore, non senza un tantino di galanteria, perchè volle i tiranti sotto la staffa dei calzoni. Di che lo canzonavano piacevolmente dicendo — Sor Giacomo!.. vo'mi diventate un moscardo! — ma egli non lo prendeva in male: sorrideva, voltava gli occhi al cielo, e d'ogni suo gaudio ringraziava — quello là in alto! —

Bologua nel 1839 - Un autunno a Firenze.

Nell'anno 1839 mio padre, dopo di avere solleticata amabilmente la nostra curiosità, ci annunziò una gran cosa, dietro alla quale ne sarebbe venuta un'altra, di gran lunga maggiore.

La prima di queste gran cose fu un avvenimento semplicissimo, ma che, per la moderazione delle nostre idee, parve immenso, cioè a dire l'acquisto d'una carrozza, vecchietta, ma comoda e racconciata un po'alla meglio. Carrozza senza i cavalli, bene inteso, ma tanto e tanto l'allegria nostra non si può descrivere; ci andavamo in ogni ora del giorno dentro e fuori a guardarla e toccarla; adesso ci pareva che le mancasse una cosa, adesso un'altra; non c'è bimbo guastato che sia scopo di tante sollecitudini come quel legno. Mia madre rideva a vedere le nostre smanie di genterella arricchita o di parvenus, per dirla con una parola sola, che significa tutto.

Venuto l'autunno però, anch'ella ci si trovò benissimo in quella carrozza, specialmente quando una bella mattina due cavalli di posta la trassero, con bel trotto, fuori di Porta Altinia e, imboccato il Terraglio, vi corsero come sopra un liquido piano; meta del viaggio era Bologna.

Allora i postiglioni portavano la tromba, e il nostro, sapendo che mio padre non istava troppo sul tirato in quanto alle oneste retribuzioni, la suonò allegramente, portando la manifestazione del nostro buon umore al massimo grado, permesso in così ristretto spazio. Del soggiorno di Bologna dirò il poco che stimo non dia soverchia noja ai lettori, e prosegua il filo di queste storie domestiche.

S'andò ad alloggiare in un appartamento presso S. Domenico, e si fece casa da noi.

La mattina di grande spasso ci riusciva fare la spesa. Vivace, animatissimo è il popolino bolognese, e per un forestiero, trovarvisi in mezzo, udir quel frastuono, quel via vai di parole in quel dialetto così sonante e rotondo, ha del curioso. Mi rimasero all'orecchio alcune desinenze, tanto che nel ricordarle mi par d'esser là: sgnaur e sgnaura — Parunzen, capunzen, pavol, bajoc: vedo quelle donne del mercato mostrare trionfanti un caponcino, invitandoci a comperarlo.

Quanto alle opere d'arti, è egli mestieri ricordare che Bologna racchiude tesori? Che la diva Cecilia di Raffaello è là che suona l'organo, come gli ispirò il suo divino Creatore? Che gli angeli della Risurrezione aspettano nel cimitero sparso di monumenti, monumento esso stesso, decoro della città e d'Italia? Che nel palazzo Baciocchi la memoria di Napoleone ti si mostra sotto mille aspetti uno più importante dell'altro?…

Una serata solenne fu in quell'autunno la messa in iscena della Elena da Feltre, del maestro Mercadante colla Frezzolini prima donna. La Frezzolini esordiva nel suo splendido arringo, e se là in quel teatro comunale di Bologna, che ha il prestigio delle maggiori scene d'Italia, con quella musica e quel direttore, una Frezzolini giovinetta apparisse qualcosa di raro e di sorprendente sotto ogni aspetto, ognuno facilmente lo immagina. Noi vi assistemmo dalla platea, ma in bonissimo punto, in compagnia della contessa Mantica Gabardi, valente donna a cui eravamo raccomandati.

Poco mi sovvengo di quella sera: appena in ombra la bella Frezzolini, sotto le spoglie della tradita Elena, venire col volume delle chiome sparse, diviso in brune onde, da cui « come una vela al lume di luna usciva l'omero leggiadro » … All'opera successe il ballo Luigi XI, ballo spettacoloso, storico: un di quei balli, che formavano il vanto delle scene italiane, e istruivano il publico meglio di quegli stupidi balletti che si sostuiscono ora, tanto per fare come fanno a Parigi.

Tornando alla contessa Mantica dirò com'ella, cultissima donna, traduttrice dei martiri di Chateaubriand, amabile ed ospitale, ci usò ogni sorta di cortesie. Fummo invitati a pranzo, e il nostro posto non lo indicava un volgare biglietto, ma quattro belle strofette, adatte alla persona, che dovea sedervi.

Questo pranzo non fu di solo nettare, ma di buone pietanze della cucina bolognese; a cui femmo onore con allegria tutto veneziana. Esso offerse anche occasione a mia madre di apprendere la lingua spagnola, perchè a commensale la buona contessa ci diede un signor Gioachino Mûnoz, cappellano d'armata, il quale a lei porse i primi rudimenti del suo bell'idioma.

Trasvolando sul resto non posso tacere un piccolo fatto a noi successo in Bologna, il quale dirà la potenza della fantasia in chi si è lasciato dominare da essa.

Essendo mia madre un po'stanca, all'università, la non si sentì di montare le ultime scale e visitare l'osservatorio, rimase dunque in una bella stanza terrena con mia sorella. Noi ascendemmo il babbo ed io col resto dei viaggiatori fra i quali un romano, dotto e intrepido, reduce da lunghi viaggi; ch'ei raccontava, destando vero interesse. Seduti intorno a lui in una sala a panche circolari ascendenti, lo ascoltammo con attenzione, mentre ci descriveva la salita al monte Bianco, e ciò che avea provato in quelle solitudini, quando l'aria gli mancava rarefatta, e il sangue gli usciva dai pori, non più compressi. Vaga di simili racconti mia madre pendeva più intensa degli altri dalle parole del viaggiatore, improntate di quella maschia pacatezza serrata, ch'è nel dire e nella pronunzia romana. E noi lasciatala nella bella stanza, piena di strumenti geografici, mappe, carte, eccetera procedemmo alla specola.

Ci si trovavamo da pochi secondi; appena il nostro occhio cominciava a fissarsi sulla lente del cannocchiale, volto al sottoposto S. Michele: quando udimmo grida e il suono di ripetuti colpi ad una porta. Al primo momento non vi si bada, ma al rinovarsi di quei suoni indistinti, sebben disperati ci poniamo in attenzione fin che ci viene la certezza ch'erano le nostre care, lasciate nell'appartamento inferiore, scendiamo come fulmini… Era mia madre che trovandosi chiusa in quella stanza, immaginò di starvi perpetuamente dimenticata. Nessuno può tener conto degli effetti d'un errore così strano, anzi impossibile. Essi furono indimenticabili… e la irragionevole angoscia fu tale che un poco ancora e la trovavamo morta.

Di Bologna altra volta mi occorrerà discorrere, e tanto ch'io passo all'anno dopo, precisamente all'autunno del 1841 nel quale, lasciata la famosa carrozza sconnessa a Bologna da un carradore, e fatto un contratto con un vetturino, si parti per Firenze.

Di quella traversata dell'Apennino mia madre stata tanto tempo, se non inferma, reclusa; ella che di monti la non ne volea sentir a parlare, e fu trascinata anni prima per forza a Feltre, a Belluno; nel passaggio degli Apennini dunque la se ne fece uno spauracchio, la ci pensava da mesi e l'immaginazione ingigantiva, nell'aspettarlo, il pericolo. Ella stessa disfogava queste sue apprensioni in qualche ingenua scrittura, che leggeva al babbo coll'umiltà d'una scolara e col brio d'una poetessa, la vi paragonava Firenze al giardino delle Esperidi, l'Apennino al Drago … Però il giorno innanzi di partire lo si passò di bonissimo umore in un villino presso a Bologna, dove stava la zia Ricci, troppo malata per villeggiare alla Guarda Veneta.

Il viaggio quindi cominciò di buon umore e delle sue ubbie mia madre non si fece schiava, tanto da indietreggiar nemmeno un'ora la partenza.

Ma quando poi si incominciò ad internarsi nelle gole, ad ascendere e discendere, passando di valle in valle fra bei pratelli, fra liete verzure, che il bianco degli agnellini e il bruno pezzato delle mandre a pascolo rendea più soavi e vivaci ad un tempo, quando vide che le rupi e le roccie a cui si dovea giungere non impedivano al castagno, all'ulivo e più innanzi al pino di crescere e dilatarsi in boschi, e in selvette, allora inincominciò non solo a smettere la paura, ma a compiacersi tutta, a respirare con voluttà quelle arie montanine.

Giunti alla Fabbrica, prima stazione toscana, all'incanto degli aspetti s'aggiunse quello dei suoni. Quando venne la servetta a fare gli acconci nelle camere per la notte, e la uscì in simili parlate: — La non dubiti, signora, le lenzuola son di bucato, la si metta costì, che l'aria non le dia noja …. e pover anima l'avrà bisogno d'un po'di rinfranco — e altri cari modi, che non parea vero uscissero dalla bocca di una contadina, colle maniche della camicia rimboccate e i piedi scalzi … allora la si credette in paradiso.

In quel tempo mia madre nutriva sentimenti avversi al reggime austriaco. Piena la mente di classiche ispirazioni, uggita al massimo grado dalla compatibilissima usanza degli austriaci, di conversare fra loro in tedesco, alla presenza d'italiani, ella bevette l'onda del puro eloquio toscano come un ristoro.

Prima di coricarsi si pranzò alla mensa comune. Dalle finestre vedevamo il fuoco discosto ma continuo d'un vulcano e bella ci parve in quella solitudine la fiamma remota, mentre intorno a noi, i commensali di varie nazioni, intrattenendosi con isvariate descrizioni delle loro capitali, ci offrivano l'idea viva della civiltà d'Europa in mezzo al più amabile ritrovo se non selvaggio, campestre e montano.

In Firenze ci accomodammo in un bel quartierino sul Lungarno, in casa d'un greco il sig. Cabanis, al n. 1085.

Nell'appartamento di sotto avevamo lord Adam, governatore delle isole Jonie. Ogni mattina all' alba, mentre tutti i casigliani d'ogni appartamento dormivano, egli faceva il bagno russo in entrata, dopo di che montava a cavallo e via di galoppo. Quando noi si usciva bisognava far l'entrata in punta di piedi, perchè prima che s'asciugasse, dopo quell'artificiale aquazzone ci voleva dell'altro. Ma le eccentricità inglesi crano padrone di Firenze, cominciando da casa nostra. Carino, allegro assai era il quartiere del Lungarno. Mia madre ci si trovò come nella sua casa natale: e per noi la fu una gazzarra… soltanto che davanti a quelle sultane, a quelle poltrone a sdrajo, a quei mobili così diversi dalle anticaglie tarlate e zoppe di casa dicevamo: — o come faremo a tornare al nostro tugurio? — E il babbo tra grave e faceto: — Ora godiamoci il bel quartiere del Lungarno, torneremo contenti alla antica abitazione. Tanto dove c'è sole, aria e dove si lavora è un buono stare. La casa di Treviso a un povero villano la parrebbe un palazzo…

Il primo dopo pranzo in cui uscimmo era di festa. Un'aria lieta e serena pioveva dai colli circostanti; una bella luce, che ancora ricordava l'estate, senza lo stemperato ardore, facea più palese la dolce allegria dei vesperi festivi, e pareva diffondere più vivo quel soavissimo odore di tuberosa, che abitualmente profuma le vie di Firenze.

Cosa dirò per noi poveri provinciali a cui tutto appariva sublime, a cui fin le parole nuove di cose a noi sconosciute, sonavano con un senso recondito e un'aspettativa di giubilo!

Il nostro segreto desiderio ce l'avevamo tutti, ma il capo della turba solo arbitro sempre, e più in viaggio non parlava. Passa un fiacre; ci parve che il babbo gli accenni: noi stiamo trepidando, ma la fu un'illusione… o il cenno passò inavvertito. Avanti di novo, e passa un altro, questa volta è proprio vero, e al cenno l'automedonte si ferma — Quanto a condurci alle Cascine?.. — Forse adesso ci saran le tariffe; allora, dato il caso, si contrattava. Il cocchiere dalla serpe, noi da terra coi visi levati e il core sospeso fra timore e giubilo.. Il fiaccherajo domandava troppo, e fu lasciato andare. Secondo disinganno e attenti al terzo. Passa un bel vecchietto con una faccia rubizza e impresciuttita. Gli si fa gran gesti e subito si va d'accordo. Giù la montatoja, su nel legno, e poi via …. Non dico altro!… che contentezza … un guardarci, uno stringerci furtivi le mani … un dire: ci siamo arrivati!… ci andiamo a queste Cascine … al nuovo mondo…

Dove comandano i bimbi di così schiette allegrie neanche immaginarle.

Mio padre montato a cassetta col cocchiere lo interrogava beandosi di quel linguaggio, di quella sc uola viva, e stava tutto orecchi ad ascoltar le risposte. Al buon vecchietto non parea vero, e lascia fare a lui a raccontargliene delle novelle. Antico d'anni si ricordava di Ferdinando, di Leopoldo d'Austria, gran duchi di Toscana, succeduti ai Medici. Non finiva di parlare del giorno in cui, essendo stata abolita la tortura, ne vennero bruciati, alla vista del publico, gl'istrumenti… e ancora, nel riandar quelle memorie, ei piangeva, il povero vecchio!

Care creature che mi leggete, cosa vi pare?… queste le sono avventure di viaggio veramente drammatiche… Una trottata in fiacre alle Cascine e anco la su'brava paginetta di storia, e da un testimonio de visu!..

Delle cose d'arte di Firenze io non parlo, che avrei da dire senza incorrere nella meritatissima taccia di pedante? Noto solo, e ciò ha relazione col mio doppiamente caro soggetto, come, visitando le Gallerie degli Uffizi, in una camera superiore, fu proprio davanti un quadretto fiammingo di paese, che provai una cosa, somigliantissima a quando vedevo, alla Polesella, gli effetti della camera oscura. Un senso di freschezza interna, un desiderio di quel verde, di quell' acquetta, di quegli alberi, che mi metteva tutta sossopra.

Laonde mio padre, senz'altro, decise farmi apprendere il disegno.

È perciò che, se niente vieti adempire il mio proposito, intendo offrire a quella Galleria il mio ritratto autografo, con fondo di passaggio: affinchè, dato che lo accettino, serva di ringraziamento al tempio sublime dell'arte, rimanga come un ex voto d'un' umile operaja, che se col pennello non eseguì quanto l'anima le ispirava, tentò almeno di trasfondere questo amore dell' arte, e divulgarne collo scritto i nobili intendimenti.

Le nostre relazioni poche, ma illustri.

Prima la signora Rosellini, nata Fantastici, zia della valente moglie di quel Nestore de' tipografi, Luigi Minelli: la signora Luisa Kiriaki.

Amabilissima e colta, celebre donna la Rosellini, autrice dalle commedine, da cui ottenne fama più che dall' Amerigo, noi ebbimo da essa le più care accoglienze, e le più fruttuose sotto ogni rispetto, massime quello letterario ed artistico.

Legata colla marchesa Lenzoni, nata Medici, la conosceva il mare sociale; e i misteri dell'alta vita fiorentina le erano famigliari. Perciò le commedine composte con piccoli soggetti e ingegnosi intrecci alla Scribe valgono un tesoro.

Io voglio riferirne qualcheduno: tant'e tanto nelle Memorie biografiche, qualche intermezzo d'aneddoti ci sta a piacere. Ecco il sunto della Vanarella.

Una contessa Livia, gentil donna fiorentina, tipo io spero, perduto, ma frequentissimo allora, ha una figlia e la viene educando alla moda … speriamo d'allora. Tutto inglese, tutto francese; se potesse far che somigliasse ad una ottentotta… basta che non italiana. Dunque tutto fiori, tutta apparenza, tutta vanità: la intende farne un modello, e la tira su una caricatura perfetta. C'è in casa una suocera, donna di garbo, soffrente in core di quel che vede; nell'assenza del figlio, sposo alla contessa Livia, il quale sta a Parigi per una eredità, è costretta a tacere ed essere sofferta.

Tutto nasce in un giorno, secondo la supposta regola di Aristotile. Giorno natalizio della contessina, festeggiato con pranzo d'onore, nuove eleganze e … all'aprir della scena la Malvina prova appunto davanti uno specchio a bilico caricatamente un balletto.

Malvina: Com'è joli questo a solo, e con quanta grazia lo ballo! Anche monsieur Petilot dice ch'io sono la sua più brava scolara. Infatti, ho imparato perfettamente ad accompagnare le mosse della vita e delle braccia col volgere della testa e degli occhi: e questo è utile anche nella conversazione. Stamane per esempio, Albano di qui, Roberto di là, mi presenteranno de' mazzetti di fiori; ed io mi volgerò così, ora all'uno, ora all'altro, dicendo merci, monsieur…. obligèe. Oh com'è bello…. com'è odoroso!…

Parole codeste naturalissime, la Rosellini deve averle udite dalla bocca di una fanciulla, quella stessa che probabilmente Giusti udi giovinetta « convulsa e sbiadita », gorgogliare con squarrata voce très bien, rapita in estasi da qualche tenore di cartello al pianoforte. Segue l'acconciatura dei capelli: seriissima, affare di stato, perchè la Malvina vuol essere pettinata alla cinese come miss Lalley, che Albano loda sempre. La cameriera prova, riprova, ma irrequieta com'è la giovane non vi riesce.

Ire, pianti, sussulti, Alfieri col suo parrucchiere ebbe una scena simile. Questa finisce altrimenti: ossia col bell'abito nuovo della Malvina gualcito, e col licenziamento della cameriera, ragazza dabbene, nata e cresciuta in casa.

Sopraggiungono gl'invitati; e lì uno scambio di complimenti da non finire, e un mazzo di fiori alla Malvina. La contessa Livia da madre sapiente ammonisce la figlia di rasserenarsi, da non fare il cipiglio perchè le guasta la fronte, la invita piuttosto a recitare un pezzo di poesia, nientemeno che la Lucrezia Borgia, la Francesca da Rimini perchè uno stile così passioné gli è quello per l'appunto che piace alla contessa. Dopo mille smorfie e leziosaggini c' è il pranzo … e dopo subito lo sviluppo della breve azione. Perchè la piccola regina della festa, non ancora satolla di laudi, coglie il destro di nascondersi per udire cosa mai dicono di bello sopra di lei, entusiasti del suo merito, gli adoratori lasciati per un momento soli.

E lì la povera contessina ne sente d'ogni colore. E i parassiti in vece di lodarla a piena bocca, tirano giù a refe doppio, scherniscono tutto; di lei fanciulla dicono che la pare una scimmia, svelano il segreto dei fiori, tolti su da trenta mazzi gettati ad una ballerina, fanno i conti alla madre… uno solo fra gl'invitati, il più serio, quello meno apprezzato dalla contessa e dalla figlia, le difende … A ciò s'aggiunge la novella della causa perduta. La nuora confessa alla suocera, dianzi anch'ella disprezzata, confessa d'avere presi, nell'aspettativa dell'eredità, duemila zecchini al venti per cento: poi la volle rilegare le gioje come quelle di Lady Mondan, e le costarono un orrore … La contessa che non credea respirabile altra aria che quella della Pergola, e delle Cascine, a cui non parea di poter fare una visita a piedi, è costretta di ritirarsi in campagna.

Le figure son toccate appena, ma giuste, ma al vivo: e quei maestri della Malvina, e quegli altri fannulloni, annojati di tutto, maldicenti, scrocconi, son loro i fiorentini di quel tempo, insozzati di forestierume. Thouar, parlando di certi forestieri libertini ed oziosi, « che si danno l'aria di signori splendidi e ragguardevoli, e che presumono d'umiliare un paese, spargendovi oro, mal esempio e debiti », aggiunge: « nello stesso modo la vanità e la bassezza d'animo conducono anche le persone d'alta sfera a passar coi forestieri i limiti dell ospitalità doverosa, corteggiandone l'albagia ruvida e raffinata, imitandoli a guisa di scimmie, rinegando costumi, inclinazioni, lingua. »

Mi intrattenni dunque su questo argomento in vece che sui quadri della Tribuna, poichè la bella ispiratrice di Raffaello è sempre la stessa, così nel suo dolor disperato la Niobe, mentre i costumi cambiano ed è bello il confronto, adesso che l'aura nazionale avrà senza dubbio disperso quel brutto germe di vita servile.

Oh! la gentile Firenze, quella a cui guardiamo come a patria comune, poichè intendiamo far nostro il suo idioma, ossia la vera formula del pensiero d'una nazione, essere un raddotto di corruttela per lo straniero, e quindi per essa!…

La signora Rosellini stava compiendo un altro lavoro drammatico di maggiore importanza per giovam già nubili, e volle che mio padre le fosse guida in quell' arduo proposito. Più tardi la si volse anco al cav. Carena, ne prese consiglio e gli dedicò la commedia, quando nel 1844 la publicò col titolo i Sotterfugi.

Il motivo, che non la lasciava tranquilla circa la morale della sua produzione consisteva in ciò, che allora tutto quanto avesse intento educativo si tenea per cosa d'alta importanza; si passava allo staccio, e niente niente che v'entrasse quella storia così pericolosa ai giovanetti, l'amore, si mettea in contumacia, o gli si dava lo sfratto. Non si sarebbe allora sofferto che in libri di educazione si svolgesse con quanta innocenza è possibile, le fasi d'un cuore preso da passione amorosa. Avevano ragione? avevano torto?…. Ecco ciò ch'è difficile dire. Le forme del vivere civile essendo cambiate, e'si vuol cambiare sistema: prendere il meglio dalla libertà americana, che inesorabilmente guadagna terreno e fa dell'uomo ancor giovinetto, e fa della donna enti responsabili, costretti a badare ciascuno per sè, e guadagnarsi un pane, e mescolarsi agli attriti della vita… Ma la misura, ma il discernimento? qual sapienza lo indicherà, quale affetto?

Comunque sia noi in una sera di quel settembre, raccolti nello scrittojo della signora Massimina, udimmo da lei la lettura d'una graziosa commedia di cui narro l'intreccio, e trascrivo, la prima scena: tutto quello ch'è drammatico appartiene alla scuola militante: quattro scene ben cucite possono valere, per qualunque uditorio, un trattato. Queste poi le sono scritte in toscano, e pare, a udirle, d'essere a Firenze. I personaggi sono:

La signora Eugenia, madre d'Adele, un Fulgenzio fratello dell'Eugenia, Ernesto giovine avvocato. Le signore Claudia ed Emilia, casigliane. Caterina serva: nel manoscritto la si chiamava Vespina, nome adattatissimo. Che fosse Carena a sbattezzare questa briccona?

Atto primo, scena prima, Adele e Caterina.

Adele. No, no, Caterina; io non posso nè voglio darti questa chiave. Tu ti sei fatta indiscreta. Ogni giorno, o per dare la colazione all'amica o la merenda al cugino, vuoi la chiave della dispensa. La cosa comincia ad eccedere. La mamma affida a me il maneggio degli affari di casa; ed io non debbo tradire il suo interesse.

Caterina. Ha ragione: la non s'inquieti: ho capito. Ella faccia il suo dovere, ed io farò il mio. Conosco, pur troppo! quanto ho mancato al mio sino ad ora, lasciandola scendere il giovedì a veglia dalla signora Claudia. Stassera, non occorre ch'ella ci pensi nemmeno; e può andare a studiare il disegno e la musica: o, se volesse fare a suo modo, non conti più sulla mia segretezza (Ingoja questa pillola). (Si pone a spolverare le sedie).

Adele. Oh quanto mi costa questo sotterfugio! Eccomi qui legata colla serva in maniera da dover soffrire tutti i suoi capricci, e tener di mano alle sue mangierie).

Calerina. (A poco a poco s'ammansirà).

Adele. (Questo mistero però ha da terminare: perchè, appena giungano a Guglielmo i fogli e il permesso di suo padre per ammogliarsi, egli chiederà la mia mano. Frattanto, è meglio ch'io non mi guasti con questa donna). Caterina?

Caterina. Signora … (Il merlo casca).

Adele. Anche per questa volta, voglio compiacerti: ma non abusare della mia condiscendenza. (Le dà la chiave).

Caterina. Le pare! non sono capace. (Eh! non se n' esce: o bere o affogare).

Al sopravvenir della madre questa interroga l'Adele del perchè la si mostri più seria e meno allegra d'una volta. L'Adele si schermisce, e dice che è la lor vita monotona… Oh perchè non frequentare alle conversazioni della signora Claudia lì a basso?… Peggior tasto non si poteva toccar alla madre che nutre pochissima stima della casigliana e di sua figlia: in quella casa si gioca rovinosamente… l'Emilia, non più giovanetta, passò la vita in passioni infelici — Perchè la si è imbattuta sempre in scapestrati — salta su l'Adele. E la madre di rimando — Perchè son quelli che la pratica; però faccia come crede, quanto a te sta contenta a questo metodo: meno son vedute le ragazze, più facilmente trovano da collocarsi per bene: un uomo non isceglie la sposa al passeggio o al ballo.. — Questi sono i luoghi dove nacquero le grandi passioni. — Esclama la fanciulla con vivacità, che dà sospetto alla madre. Essa quindi interroga l'Adele, ma senza rilevar niente, fin che giunge dalla Maremma Fulgenzio, un buontempone, fratello della signora Eugenia: anch' egli nota il dimagramento della nipote, che si ritira. Rimasti soli loro due, Fulgenzio dice alla sorella se vuol dare un vecchio usurajo riccone per marito alla figlia. Rifiuto della savia madre, che ha delle viste su un onesto giovane — Oh! vedi le ciarle che si fanno, si credeva fosse da te prescelto per passare alle seconde nozze. — Esclama il fratello; e vanno via insieme per affari; l'Adele preferisce rimanere a casa e approfitta della libertà per leggere un romanzo a lei prestato dall'Emilia la nouvelle Hèloise; intanto viene l'Emilia stessa, e qui si scopre il sotterfugio più serio. La giovinetta, a cui fu permesso dalla povera madre, senza sospetto, andare una sera dalle casigliane a veglia, v'incontrò un milord Favers, ricco inglese e se ne innamorò. Il dialogo fra le due ragazze, una innamorata, ma pura, l'altra scaltrita e perfida, è bellissimo. L'Emilia corrompe il cuore di quella, che a lei si confida, con discorsi esaltati sulle grandi passioni, sulla bellezza del mistero, che le circonda mentre l'Adele di quel mistero tanto soffre. Di più la trista fa commenti troppo caritatevoli, perfide insinuazioni contro la madre e ripete le parole di Fulgenzio sul conto del giovine dottore. — Ma se lo vuol dare a me? — interrompe l'Adele. Intanto è l'ora in cui passa milord Favers e le ragazze vanno alla finestra.

Nel secondo atto la madre apre il cuore al dottore Ernesto, e gli dà a capire che sarebbe felice d'affidargli la figlia. Ma il dottore è un poggia piano, uno di quelli che cercano il pelo nell' ovo… Non si rifiuta… ma… il carattere della fanciulla non gli apparisce chiaro, e lui vorrebbe intenderlo meglio. Torna il fratello della signora Eugenia, e si scusa se non resta a pranzo, perchè s'è impegnato con una brigata di capi scarichi, simili a lui, di pranzare al nuovo ristoratore La Villetta, e intanto prende in mano la novella Eluisa, dimenticata dall' Adele.

Che colpo al cuore per la povera madre..s'impianta un processo e l'Adele dice da chi l'ebbe. La madre rimanda il libro alle casigliane, e loro intima, per bocca della Caterina, come qualmente non la soffre elle prestino romanzi o altre letture alla figlia. L'Adele parte piangendo, ma intanto le due comadri vengono in persona a giustificarsi… questa scena è d'un realismo, che incanta. Le due ciane un po'più maliziose di quelle di Camaldoli o di Cannareggio, son lì lì per ispifferare il segreto dell'amoroso.

Claudia — io sono una madre avveduta e non ho bisogno che nessuno m' insegni come si debbono tener le fanciulle. Pur troppo! le mamme mie, molte volte son peggio delle altre…. Non intendo pregiudicare; ma… — e poi la prosegue a gara con la figlia a dire: dacchè il mondo è mondo si sono fatte pazzie per amore e ch'elle hanno letto migliaja di romanzi, senza per questo perdere il giudizio. — La signora Eugenia dice che intende educare a suo modo la ragazza.

Claudia. Ho capito, la volete mantenere innocente. Oh! fate bene, fate bene davvero. Il male si è, che da un pezzo in qua i bambini non nascono più ad occhi chiusi; e molte volte, usando tanto rigore, si fa peggio.

Ernesto. (Che donna ineducata e maligna!)

Emilia. Cara signora Eugenia, l'Adele, bella e di sedici anni, troverà cento maestri migliori del mio romanzo, per imparar cos' è amore.

Al terz' atto ritorna Fulgenzio, ricondotto dal dottore Ernesto. Le pigionali hanno allora raccontato alla signora Eugenia, che in quelle sere in cui ella andava da una vecchia parente, l'Adele scendeva da loro e che non lo permetteranno più. Nuovo colpo alla madre e fierissimo… un sotterfugio di questa sorte… non la se ne sa dar pace… si sforza a contenersi, e domanda al fratello come andò il pranzo. — Male, risponde Fulgenzio … ma chi son queste signore?

Eugenia. Le signore Violetti, mie castigliane.

Claudia. E vostre serve.

Fulgenzio. Mie buone padrone. Ma…. il vostro casato è Violetti?

Claudia. Appunto.

Fulgenzio. Perdonate: tenete voi giuoco di faraone in casa vostra?

Claudia. Non si può dire che tenga giuoco….

Emilia. I nostri amici si divertono.

Claudia. Sì; si divertono innocentemente.

Fulgenzio. E sono vostri amici milord Favers e monsieur Picquet?

Adele. (Qual nome! Lo zio conosce milord!)

Claudia. Sono brave persone, gentili giovani, che mi favoriscono.

Fulgenzio. Mi dispiace dirvi, che questi gentili giovani non vi favoriranno più.

Per accorciare, quel milord Favers sotto gli occhi di Fulgenzio era stato arrestato alla trattoria, in qualità di giocatore di vantaggio, fabbricatore di cambiali false … di più seduttore di fanciulle: già più d'una ei ne rapì per tradirle in Francia e in Inghilterra, e anco a Firenze a più d'una ei riservava l'istessa sorte…

Qui l'Adele sviene: la slacciano: le trovano la lettera di milord Favres… È ben vero che in essa ei supplica per un abbocamento, fino allora sempre negato… ma l'è una brutta vicenda. Le casigliane vengon richiamate giù perchè… i gendarmi picchiano alla loro porta, ond'elle s'affrettano a nascondere certe carte turchine. E la tela cala sulla piccola tragedia domestica, alla quale sarebbe a capello per epigrafe: la sentenza di S. Girolamo. « La madre non lasci lontana da sè la figlia nemmeno un'unghia ». Non racconterò certo le Corse, ossia quadro della società moderna, perchè troppo mi svierei dal mio tema. Oh! ma quant'è cara anco quella, e quanto figurerebbe sui teatri non da collegio, in vece di certe scipitezze a cui manca perfino il tristo merito della efficacia nel male…. ma è roba forestiera e non occorre di più. Mi limito a un cenno.

Un gentiluomo fiorentino, anglomano passionato per lo sport a segno che fa profumare con più e più barili d'acqua odorosa le stalle, addobbate con mobili ed utensili di magogan e d'acciajo fino; poi invita i suoi amici a far colazione in quel tempio equestre, perchè così si usa a Londra — molte cose migliori c'è da imitare da noi — dice un inglese che disprezza, lui per il primo, le scimmie d'ogni nazione. Ma il gentiluomo fiorentino non gli dà retta: e non s'avvede che mentre lui fa il chiasso co'suoi compagni della barcaccia (da noi palcone dei Febi) a teatro, e getta fiori e corone preziose alle ballerine, mentre si mangia tutto l'aver suo nel mantenere splendide scuderie e cavalli inglesi, un traditore tenta rubargli il core della sposa… La quale sebben trascurata e infelice resiste, e l'amante si vendica; alle corse (steeple-chase) presso Firenze, il cavallo del gentiluomo, condotto da un groom famoso, dee vincere e guadagnare una grossa somma; l'amante fa subornare Frontino il groom, a cui promette 300 zecchini in oro, se fermerà il cavallo. Il che avviene; ma siccome si trattava d'una scommessa, il perdere è una compiuta rovina pel gentiluomo, che ricorre al fellone da lui creduto amico. Ma la sposa stessa gli apre gli occhi; furore del giovine marito…. si viene ad una spiegazione, alla presenza di tutti, nell'ultimo atto: e lì Frontino confessa, che ricevè una somma in diciannovini e in monete tosate da un cavaliere, che prima gli promise 200 zecchini d'oro, se tratteneva il cavallo. — Birbante! esclama il falso amico, alla sua volta tradito dal manutengolo, io t'ho consegnati 300 bei zecchini d'oro — la parola gli sfuggì e si smaschera da sè… Ognuno vede se l'intreccio è ingegnoso senza dire dei particolari, studiati con sapienza fisiologica, quantunque alla brava, come dev'essere in un lavoro teatrale. I caratteri son sempre ben toccati, e più quelli difettosi, i buoni riuscendo monotoni … del resto la ne vedeva tanta della gente e la potea studiarne dei tipi, massime quello dell'anglomano, ch'è… voglio dire, che era il peccatuccio preferito il pechè mignon della signoria fiorentina.

Ogni lunedì la Rosellini riceveva e noi fedelmente andavamo a quella conversazione, principalmente letteria, a cui s'adunava quanto Firenze poteva offrire di meglio. Vi conobbimo anche parecchi artisti, che tutti si fecero nome. Tra gli altri Giuseppini da Udine e Salghetti zaratino.

In generale tutte brave persone, artigiani del pensiero, operaî dell'istruzione o dell'arte: e non si udiva in quel tranquillo areopago della via Ghibellina se non un continuo scambio di — e come va avanti col suo quadro? e la tragedia a che punto si trova? — ce la dà finita presto la bella statua? — Oh! il prezioso libro… e quand'esce il secondo volume?… — Un amabile incrociarsi di interrogazioni lusinghiere, di modeste risposte; una sottile aura d'incenso non senza sobrî ammonimenti, cortesi e gentili riserve.

Mia madre figurava fra quella plejade per un titolo singolare, in cui trovava pochi competitori, nessuna competitrice: ossia di grecista e traduttrice d'Omero.

Fra i letterati chi parlava più di tutti era Pieri, il corcirese, uno della colonia italo-greca, che allora splendeva o per brava gente viva, o per belle memorie del nostro cielo. Pieri nel suo modo di ragionare e nel fare pizzicava d'aspro, d'intollerante e irascibile. In mezzo a quelle poetesse, a quei giovani scrittori e artisti dettava legge e parean tutte sue vittime. Una sera la buona Rosellini disse, che amerebbe la scoltura moderna, in soggetti moderni, si foggiasse secondo il nostro costume. Non l'avesse mai detto — Allora tanto fa, esclamò Pieri con un guizzo d'orrore — tanto fa che vogliate le statue in giamberga — ossia in giubba.

Cosa direbbe Pieri a vedere le statue in berretto da notte! Ultra classico, le controversie, anzi i diverbî che facea nascere la sua intemperantissima bile formerebbero volumi e volumi. Dei romantici non soffriva d'udirne a parlare se non per abbominarli; esagerazione che usava in tutto, anco nel patriotismo. Laonde, appartenendo alle Isole jonie. Allora sotto protettorato inglese, odiava gl'Inglesi d'un odio a cui non saprei che nome dare, perchè ogni espressione è pallida in confronto di quel furore con cento erre. Io credo per altro il Pieri tanto galantuomo da sapere lui stesso che caricava le tinte, e si atteggiava alla spartana, al modo con cui sotto il direttorio i bei moscardini di Parigi vestivano per moda la clamide, la toga, e si mettevano in bella mostra colla mano sul mento o sull'anca da statue greche.

Domenico Sardi, segretario della contessa Petrettini, corcirese anch'ella e scrittrice, amica di Cesarotti e di tutti gl'illustri contemporanei, poteva guidicare della sincerità di quei furori quando vedeva Pieri, nemico dei romantici venuto a veglia presso di lei, rincantucciarsi coll'Ettore Fieramosca o coi Palleschi di Azeglio, leggere tutta la sera senza batter palpebra, reggendo con una mano il libro e con l'altra la candela.

Così quando Pieri esclamava — Vorrei trovarmi in un bastimento con tutti gl'inglesi che sono al mondo e appiccarci il fuoco io stesso e saltare tutti per aria, pur di estirparne la razza — o non eravamo nel diritto di crederla una proposizione in cui la sicurezza fosse in ragione della impossibilità d'attuarla? Pieri voleva una cosa, la nomea … l'immortalità… ora ammesso che la sia un bene reale, non la ottiene chi la cerca a parole, per quanto reboanti ed accese.

In ogni modo anco dalla modesta stanza della Rosellini si poteva benissimo arguire il grado di civiltà e il grande progresso morale di Firenze sotto tutti i punti, ma più sotto quello delle lettere.

A questo proposito devo ricordare una cosa da me mai più vista altrove nè prima, nè dopo, una scuola di mutuo insegnamento; ed anzi ne trascrivo le note; e a chi desse noja non ha che a saltarle, a me pare importantissimo il riferire un'istituzione nello spirito della quale era la futura Italia; poichè se negli ordinamenti scolastici ebbe Raffaelo Lambruschini a domandare dal governo austriaco le norme vigenti nel Veneto, dall'altra parte in tutto quanto dovea rinnovare la vita nazionale, Firenze fu prima; taluno potrà maledire quei metodi o stimerà necessario il correggerli, altri li benedirà senza riserva, nessuno li potrà dire impotenti.

« Quando entrammo nella scuola i ragazzetti si occupavano a scrivere. Ei si dividevano in nove classi. Noi ci fermammo a vedere quelli della I. classe. Nei capi delle panche c'è delle aste, e un cartello con suvvi le lettere dell' alfabeto. Al suone d'un campanello i giovanetti danno di piglio ad una cannetta d'ottone, fornita di una punta di gesso e copiano sopra una tavoletta nera l'esemplare, diretti da un Monitore, fanciullo di maggior età. Sull'esempio di questo si conosce il metodo delle altre classi. Di nuovo al tocco del campanello i ragazzini incrociano le braccia, portano la mano alla fronte, siedono in varie posizioni, camminano fra due linee parallele, cantano, tacciono, ricantano, fanno silenzio. Dopo di che tutti si trovarono in faccia alla parete laterale della stanza. A un'altra scampanellata istantaneamente si sollevano molti semicerchi di legno attaccati a quella parete, a un'altra scampanellata ancora i monitori, posto contro il detto semicerchio uno scanno, vi sedettero, distribuirono ai fanciulli circostanti delle tavolette con suvvi una carta e, a lettere stampate, l'alfabeto sì minuscolo che majuscolo.

Il monitore con uno stilo accenna quelle lettere, ne pronunzia il nome, che i giovanetti ad uno ad uno ripetono. Dalla conoscenza delle lettere passano alla lettura, senza perdere il minimo tempo a compitare e sillabare seguendo il metodo dello scritto. Noi, trascorsi di semicerchio in semicerchio, sorprese l'udire negli ultimi i fanciulli leggere speditamente e correttamente.

Il monitore scelto fra gli scolari si cambia ogni giorno; di qui lo insegnamento simultaneo. V' han poi due ispettori, fra i giovanetti anco quelli, e girando notano gl'insubordinati; e bisogna vedere con che sussieguo esercitano il loro ufficio, con che puntualità quegli omini la fanno da pedagoghi, oppure come invigilano dalla catedra a tener in freno quella piccola moltitudine, e quando il tumulto minaccia di crescere giù una botta al campanello a scatto, che fa tremare.

Di professori anziani c'è il direttore e il sotto direttore, ma governano col mezzo degl'ispettori e dei monitori. La sera si stende il processo verbale ».

Questo saggio di scuola ci lasciò l'idea d'un che nuovo; in quei fanciulli altieri, padroni di loro stessi, in quei bimbi dalle movenze imperiosi e militari, noi, senza intender niente, presagimmo il futuro. Alcuni vecchi in nostra compagnia, scrollavano il capo, accennavano con mistero, come a dire — Oh! cosa diverranno? — E avevan ragione; in quei piccoli superbi cresceano i commilitoni di Mantova e di Curtatone, e chi sa che non uscisse da quel semenzajo Elbano Gasperi, quell' umile eroe, che basta ad illustrare una campagna? Nè le arti in Firenze stavano molto addietro delle scuole, basta ricordare Bartolini e Pampaloni; questo lo conoscemmo anche di persona; gioviale, disinvolto uomo di studio e di società. Conoscemmo anche Pollastrini e di lui conservo una stupenda Madonna a lapis, col bambino in braccio e una pecorella ai piedi, due segni ma che non gli poteva fare che quella matita. Nell'autunno del 1840 Pollastrini espose la morte d'Alessandro de' Medici; scena fiera, davanti a cui tutti si fermavano. Io non ne parlo, ma penso che chi può raffrontare quella tela col quadro del professor Ussi, la cacciata del Duca d'Atene, ha due bei punti di paragone per l'arte.

Solenne ricordanza è quella d'aver visto a incidere il Leon X da Samuele Jesi, nel suo proprio studio. Uno studio romito, sulla sponda opposta al Lungarno, dove anco ci avvenne di incontrare un artista compaesano, Fabris da Udine, col quale stringemmo subito relazione. D'un'altra relazione io dirò, perchè notevole la persona e il modo di conoscerla.

La sera si passava al caffè Donney: una fra l'altre ci accadde vedere un inglese a fianco della sua Lady, adagiare le gambe sul marmo del tavolino, a cui stava in faccia. A noi, povera gente, mezzo campagnola, educati all'uso vecchio, la ci pare quella il nec plus ultra della sguajattaggine; e tanto che non ci potemmo trattenere dall'esprimere ad alta voce le nostre maraviglie. Un signore anziano d' età, serio, forte, attaccò discorso con noi appunto per calmare tanta sorpresa. Ci disse che probabilmente quel tale veniva dalle Indie, dove pel soverchio calore del terreno si genera una malattia ai piedi, e che così s'avvezzano a tenerli sollevati. Fosse vera o no la giustificazione, c'entrassero le Indie o l'albagia britannica, dopo Waterloo giunta all'apice, donde discese quando il Leopardo fu ferito alle Indie, io non so. So che quel signore, col quale s'entrò in relazione si chiamava Marcucci, il famoso viaggiatore romano; stato cinque volte alla China di cui parlava come di casa sua: e così delle altre parti del mondo. Quantunque non dedicato alla scienza, ma trafficante avea una certa celebrità. Scettico, ma bonario, innamorato della potenza inglese, parlava con quell'accento romano, che stringato e satirico, insapora piacevolmente i discorsi.

Fatto vecchio, non s'avventurò più a grandi viaggi — Soltanto da Roma a Londra, o da Roma a Berlino … per lui equivalevano a campagnate. Uscendo da teatro una sera in Copenaghen morì, s'io non erro dopo il 1842, l'anno stesso in cui l'avevamo riveduto in Roma.

Innanzi di rimpatriare si fece il così detto giro toscano, ch'io trascorro di volo, e nomino appena il villone Puccini a Pistoja, pel rammarico provato di giungervi tardi; però ci rimase impresso quel famoso getto d'acqua, visto alla luce vespertina e il non meno rinomato affresco di Luigi Sabatelli, Bramante, che presenta Raffaello a Giulio II.

Molto si lamentava in Pistoja di barzellette e sorprese non troppo amabili, nascoste come agguati fra le splendide zolle del famoso Villone. Ma noi da quei lagni ne inferimmo soltanto: nemo propheta

A Livorno si ascese al santuario di Montenero, si salutò la Capraja e la Gorgona e poi si tornò, per Firenze, a casa.

Ho qui a notare che in quell'autunno si diede il Nicolò da Procida del principe Poniatowsky alla Pergola.

L'opera, quantunque messa alla scena con vero splendore da capitale, colla Ungher per prima donna, Ronconi per basso ed altri grandi cantanti; benchè sortisse buona fortuna, non divenne popolare in Italia, quanto lo divennero poi quelle di Verdi o il don Desiderio dello stesso principe Poniatowski.

Tralasciando d'occuparmi dello spartito, una seria riflessione mi viene spontanea al ricordo di quella scena grandiosa, dove si rappresentava un dramma nazionale, a cui fu pronubo il genio di Nicolini. La riflessione cioè che tutto a Firenze si inspirava alla vita futura nazionale, e che la quarta civiltà italiana spuntò la bella gemmula in quel suolo, d'onde ancora escono, fragranti di grazia, gl'imperituri avanzi della vita primitiva.

Tutto accennava a libertà; scuola, studio artistico, scena, chiesa: dicono che i Toscani dormivano, e sarà vero, ma svegli o cos'avrebbero fatto? Qui la chiesa mi fa ricorrere alla mente un piccolo fatto artistico famigliare, ch'io non senza commozione riporto. Una delle fioraje fiorentine, sapendo che noi si partiva, ebbe il gentile pensiero di portarci nella mattina stessa della partenza un bel mazzo di fiori. Avviati a S. Croce vi portammo il bel mazzo, ma nell'uscire da quel panteon, dove lasciavamo il core, e nel riascendere in carrozza, un pensiero balenò a mio padre. Dà di piglio al bocchè e poi tutti, grandi e piccini, padroni e servitori ci conduce nel chiostro.

Ognuno può sapere che, nel monumento alla Virginia De Blasis, la gran cantante è in atto di pregare; un libro di musica a suoi ginocchi, formula con un verso della Beatrice di Tenda la preghiera:

« Deh se un'urna è a me concessa » Senza un fior non la lasciate.

Devo avvertire un'altra cosa. Il mio adorato padre non disprezzava nessuna professione; severo nelle relazioni sociali, pure bastava che un uomo o una donna facesse il dover suo, perch'egli li proponesse a modello. Mai l'attenzion nostra fu da lui fermata sopra nessun alto personaggio, sopra nessun riccone, secondo l'usanza di questi borghesi, adoratori del vitello d'oro, che poi stupiscono se i loro figli prendono in uggia la modesta condizione e rinnegano il babbo!

Il nostro carissimo, rispettando tutti, unico scopo d'ammirazione faceva chi adempie seriamente a'suoi impegni. A Venezia abitavamo con una cantante, che si esercitava in solfeggi e scale dalla mattina alla sera … noi non se ne poteva più; lui solo diceva — vedete questa brava donna, la studia sempre, la arriverà a un bel punto e guadagnerà presto decorosamente la vita; voi non sareste da tanto. — Venendo particolarmente alla De Blasis, rispettabile, studiosa, immune da censura, ella dava nel genio più che altre a mio padre, anche pel modo sublime o, dirò meglio, religioso con cui cantava la Casta Diva nella Norma, cioè da vera Diva.

O non si pensa dunque egli quel giorno in Santa Croce di deporre là sul monumento della Virginia il bel mazzo di fiori? Pochissimo persuasa la mamma e forse gelosa d'una estinta e di una statua, non pertanto, dopo compiuto questo atto, ci ritraemmo in disparte. I passanti guardavano e sclamavano: — O chi ci ha messo un bocchè alla De Blasis! — E chi sia stato? — Oh il bel mazzo! — Saranno stati i parenti, sarà qualcheduno che ne fu innamorato.

Del resto quel mazzo dava all'occhio; la parola non esprime l'effetto di così bei colori sul colore smagliante del marmo, quelle tuberose molli e trasparenti: il vivo carminio delle verbene, l'oro delle gaggìe, il verde che salta fuori negli interstizì, e dando risalto, tempera ed armonizza.

Noi cheti, cheti partimmo non senza volgere ancora la testa a salutare la bella Virginia, e, si vuolcompatir l'illusione, ci parve che, nel guardarci con lo sguardo opaco e senza pupilla, un leggero sorriso animasse quella sua bellezza da morta, in ringraziamento di chi le avea deposto un fiore sull'urna, e adempiuto il suo voto cortese.

A Bologna conoscemmo quest'anno il conte Olivo Gabardi, figlio della contessa Mantica, vedovo, padre di tre vispi ragazzi.

Adorno di cultura e di bellissimo cuore, sentiva per l'Italia, fin d'allora, un affetto fervido e pieno di poesia. Si occupava della sua storia; ha stampate leggende in ottava rima di cui non posso apprezzare il merito, poichè non le conosco, ma l'idea certo è bellissima, e tale parve all'editore Lemonnier che ne ha, dietro l'iniziativa dell' illustre Gino Capponi, stampato un bel volume.

In quell' autunno si passò dunque una sera con quell' egregia famiglia; mia madre vi recitò versi: versi recitò l'Enrichetta Fornaini, una cara ragazza, che abitava nella stessa casa. Versi declamò il conte Olivo, ma non basta de'suoi, ne declamò d'una signora, a noi ancora sconosciuta, ma nota nel mondo letterario, la Isabella Rossi, fiorentina. Figlia d'un uomo rispettabilissimo, in vita e nella memoria dei suoi concittadini, i versi della egregia, declamati da Olivo, buttavano foco. Foco d'amor di patria, aspirazioni di rinovamento, nobili proteste. E nello stesso metro sonavano quelli del conte, in risposta ai versi della signora Isabella, la quale, s'io non erro, fu lei ad opporsi altera a non so quale francese, che accusava le donne italiane d'ignoranza. È a proposito di ciò che Giusti scrive nei proverbî « Fu fatta una lista delle muse italiane ».

Noi però non eravamo tanto senza malizia che non ci avvedessimo come oltre al foco patrio ce ne fosse un po'd'altra specie. Di fatto la era precisamente così; quelle due anime, accese nel bello amore della loro infelice nazione, s'intesero. Nel mestare iusieme fra le ceneri dei grandi, a rintuzzar l'orgoglio straniero, le loro mani si congiunsero prima ch'ei si fosser veduti. E noi presagimmo quella sera il lieto connubio, che avvenne appunto l'anno dopo.

Mi cade qui in acconcio dire una parola sulla Isabella Rossi e osservare che la si mostrò fino da allora coraggiosa; ma di quel coraggio di dire quello che dicono gli altri si ha più d'un esempio. Intendo che adesso la mostra un altro ardire parimenti nobile e più raro, la osa mantenersi italiana e cristiana. Ella scrisse libri ascetici, fra gli altri l'Eva cristiana, l'Eco dell'anima che le valsero encomî « d'un Tommaseo, d'un Aleardi, e d'altri, che non vogliono separare i due sublimi affetti dell'anima, Dio e Italia » come scrisse un onesto ed elegante critico, il cavaliere Mikelli. In vero la prefazione dell' Eva cristiana è fervida e ragionata, piena di sentimento e in un persuasiva: espone le ragioni storiche della donna quale l'ha elevata il cristianesimo coi fatti alla mano e coi fiori d'una retorica, che ad essere passionata non ci perde niente.

La brava donna non ebbe dunque paura. Un'altra avrebbe tremato di far ridere a comporre salmi in questi tempi, d'ignobile scetticismo. Ella prosegue animosa. L'ingegno è un gran privilegio, ma la fede, l'ardore nel sentimento, la persuasione delle cose celesti atta a superare e ridere alla sua volta dei riguardi umani, la vale di più.

Rapidamente, passando il Po in piena, ci restituimmo ai quartieri d'inverno.

Studio del disegno - Trieste - Dall' Ongaro
Si spiega il modo di far il sapone a Tommaseo.
Il Friuli.

Prima cosa fu per me in quest'anno (1841) studiare il disegno; e la è una memoria domestica e d'arte che domanda un po' di pausa.

Il professore Greguoli, buon' anima sua, costumava mettere davanti gli scolari il Morghen, e cominciava da un occhio; e fin qui è naturale, per quanto il Morghen, tutto improntato dei vecchi modelli, possa apparir naturale. Ma su quell' occhio, dianzi appena contornato, il buon professore facea nelle ombre tirare tante linee verticali, diritte, parallele; e poi altrettante orizzontali, parimenti diritte e parallele e poi altrettante diagonali da dritta a sinistra, e poi lo stesso da sinistra a dritta e queste si dicevano a mandorla. Negli interstizî prodotti da questa rete di linee, il diligente maestro insegnava a passeggiare pian piano colla punta della matita, per otturarli e torre le macchie in chiaro, e così, a punta di mollica di pane, portar via le macchie scure; poi veniva il fondo collo stesso metodo, tanto che, se invece d'un occhio la era una testa, il campo portava via sei mesi, e più nero riusciva, più il lavoro si stimava una bellezza.

Quel metodo giudicatissimo e rimesso fra le antichità col Megaterium ed altri fossili, spegneva i genì più robusti. Il mio non resse e misi tutto da banda, occhi, modello e professore, continuando però, con accorata passione a sgorbiare quel che potevo, quel che mi capitava: una sedia, la granata, un fiore, il mucino, le mosse graziose del quale mi svegliavano con gran diletto l'estro pittorico.

Ora dirò come mi ritornasse il coraggio di studiare. Si partì per Trieste nell' ottobre del 1841 dopo un mesetto, scorso a Pederoba colla nonna, perchè il nonno era con gran dolore de'suoi figli, mancato l'anno innanzi.

Bisogna dire che i ricordi della prima giovinezza si vestano di colori più belli della stessa realtà. Poichè mi pare che un giorno sereno come quello dell'autunno in cui ci avviammo per la strada della Callalta, verso il Friuli, non si possa assolutamente vederlo in questi anni. Eppure il sole è lo stesso: quelle siepi d'ontani son lucide come allora; e la strada brilla al raggio mattutino e quelle acque limpidissime scorrono ai lati della via precisamente le stesse, portando diamanti e brillanti, sopra i morbidi letti di erbe, mosse come piume.

Si crede che le tante aquette, scorrenti in ruscelli le siano filtrazioni del Piave.

Certo la via è amenissima, e specialmente da Oderzo alla Motta e a Latisana si trova un continuato giardino. Filari di gelsi, festoni di viti, curve sotto il peso di grappoli d'uva, degni della terra promessa: ciliegi, noci, campi irrigui, terre coltivate, ridenti praterie e poi quella bellezza d'acque, profuse come fili di perle al collo d'una sposa regina.

Noi si viaggiava a piccole giornate, per non faticare la mamma, spesso indiposta nella salute. Passati per Portogruaro e Palma attraversando la Livenza, il Tagliamento; poi Torre e per ultimo il fatale Isonzo, toccammo il suolo illirico. A un certo punto della strada ci parve scoprire Trieste, e senza nessun dubbio l'Adriatico; bello, immenso, lucente: tanto più sereno a vedersi in quanto la strada, man mano che si avvia alle gole del Carso è arida, severa e d'un aspetto propriamente grifagno. Il terreno è alluvionale sulla costa, cretaceo più in su.

Avevamo con noi una ragazza trevisana ed una signorina francese: ci veniva a mente una fiaba udita al filò, ossia alle veglie d'inverno: racconto immaginoso in cui, per non so qual castigo e incantesimo, a rovescio dell'antica tradizione, che dalle pietre facea emergere uomini, son trasformati gli uomini in pietre.

Trovarci, dalle liete prospettive dell' agro veneto, dalle pianure friulane, solcate da torrenti che, a secco pajono essi stessi pianure; trovarci in quella strada, incavata nella roccia, vederci ai lati montagne petrose o lande infeconde, coperte di sassi, e rammentarci quel racconto delle mille e una notti, era tutt' uno. E che esclamazioni a ogni mucchio di teschi umani, e di scheletri, perchè a noi le groppe di quei monti parevano una popolazione petrificata.

A Monfalcone queste idee cedettero il posto a qualcosa di più allegro e più reale: perchè sostammo in una osteria rallegrata di suoni e balli a usanza tedesca. Ci fu ammannita saporitissima colazione, in una stanza terrena dove si mangiava in comune. Bella stanza, fornita d'una grande stufa inverniciata, anco quella come costumano in Germania.

Belle giovani, coi capelli biondi, spartiti dalla fronte alla nuca; composti in due treccie, una per parte, acconciati quindi o a guisa di ghirlanda o ricascanti dietro le spalle. Bella moda, che a paragonarla con questi orrori di parrucche, la è una vera passione.

Là ebbimo anco uno spruzzo della vicina capitale illirica. Famiglie signorili, carrozze eleganti, lioni in arnese parigino; i quali fumavano con grande sprezzatura i zigari d'Avana da più di una lira: gettati superbamente appena accesi: essi facevano, quei zerbini, alle fraile (corruzione di Freulein, ragazza) ossia alle simpatiche cameriste, scherzi e tenerezze così confidenziali, che a noi tutt' altro che avvezzi (fra la corruzione italiana) ad una libertà simile, destavano un certo stupore.

Da Monfalcone a Opschina la scena cambiò aspetto, perchè avanzava la giornata, e già la luna, lottando col sole al tramonto, cominciava a splendere, e noi la vedemmo, scorso Duino, tremare in un bel laghetto, come in una conca romita a cui gli aspetti circostanti e l'ora incerta davano un colore tutto suo.

Sicuramente il romanticismo deve esser nato in riva d'un bel lago pari a questo: le gentili, ma fredde larve delle ondine, le willi che s'addormentano ballando, le leggende dei morti nacquero in luoghi a questo somigliante. Tutto è slavo in quei paraggi, e la civiltà vi trae ancora più dal Nord che da Italia la sua luce.

In quegli anni si saliva fino ad Opschina, e di là si scendeva a Trieste, che appariva da quell'altura (quattromila leghe al disopra del mare) veramente magica: tanto più di sera, coi fochi lontan lontano degli ultimi crepuscoli e i lumi della città a mille e mille.

Era di domenica, le Cragnoline, donne del paese, nel loro bel costume, i loro fazzoletti in testa, adorni di merletti, sfilavano davanti a noi parlando quel linguaggio incomprensibile, ch' è il cragnolino: ossia il dialetto della Carnia, una delle tante diramazioni della lingua slava.

Le note triestine io fo precedere da una notizia ed un aneddoto, che vi han relazione.

Il mio ottimo zio Giovanni Codemo fu chiamato in quell' autunno a Trieste per istituirvi gli Asili d'infanzia, come li aveva istituiti in Venezia nel 1836: a Udine nel 1839: Udine in memoria gli presentò una bella medaglia d'oro.

Le difficoltà incontrate nell'istituire il primo furono serie, dacchè il Patriarca Monico gli si atteggiasse a formidabile oppositore. Egli colle idee d'un vecchio prete non molto illuminato, quantunque eruditissimo e, a'suoi tempi, felice poeta, la novità degli Asili accolse con molta diffidenza per non dire antipatia, e mise in opera quanto poteva per contrariarla.

Mio zio, dotato delle qualità, che abbiamo comuni ai nostri connazionali Piemontesi; belle e solide qualità d'alpigiani, non si fece brutto, e, benchè semplice maestro di scuola, carico di famiglia, e dovesse tremare di di trovarsi in competizione con un prelato di quel calibro, un Patriarca di Venezia, pur battè saldo. Il vecchio sacerdote ebbe un bel gettare il discredito sulla istituzione, poco men che sovversiva, e sulla persona, qualcosa più che imprudente ed ardita, la carità animava lo zio, ed egli vinse.

Venne il giorno della visita e fu, come s'intende, invitato il Patriarca: il quale onorando di sua presenza l'asilo stette con una sostenutezza ed un rigore in armonia con ciò ch'ei pensava degli asili e del loro fondatore. Ad un certo punto gli scolari inaspettatamente levarono la voce ad un canto: musica piana, semplice, e che par più bella in bocca di bambini. Il viso di Sua Eminenza incominciò un poco a disturbarsi: lo si vide aggrottare il ciglio per non farsi scorgere … Ed ecco da un momento all'altro, nella camera attigua, s' innalzain risposta a quello de' maschi, un canto di bambine e vanno insieme al cielo, come incensi soavissimi, queg; inni del povero in mercè di chi soccorre, di chi prende cura di loro … Allora il Patriarca non resse, egli pianse e quello fu il più bel momento della vita di mio zio.

La prima conoscenza fatta a Trieste fu di Francesco Dall' Ongaro: egli vi abitava colla sua famiglia: ed è là ch' ei passò forse il tempo più rispettato e quindi meno infelice: ciò assevero non ostante dei vili lo oltraggiassero con satire a forma di salmo, in cui si bestemmiava al suo nome anagrammato Dal-il-On-gur. Ma erano nemici oscuri, oltrechè isolati.

Venne subito a trovarci, recitò alcune poesie, udì i nostri saggi di comporre: quanto al disegno mi suggerì di copiar dal vero tutto che mi capitava sott' occhio; e a ciò non occorrevano incitamenti.

Noi stringemmo anche amicizia colle sorelle di Dall' Ongaro, amabili giovani, a cui egli faceva da padre, ed era commovente vederlo animato da un affetto, che potea confessare, e di cui ricevea nobile ricambio, specialmente dalla Maria, che sempre visse con lui e fu sin l'ultimo istante il suo buon angelo; quella per la quale, con sì nobile intendimento, provvide in questo stesso anno il professore De - Gubernatis, publicando l'opera Francesco Dall' Ongaro e il suo tempo.

In quel tempo Dall' Ongaro non diceva messa; questa gli fu tolta dal Vescovo per leggerezze, cose da nulla, ma che davano all' occhio, e da cui non sapeva tenersi nemmeno durante l'esercizio di funzioni, che domandano un po' di gravità e di raccoglimento. I maligni odiatori dell' ingegno di Dall' Onga e cominciarono a levar le alte grida, a mostrarsi scandalezzati, e tanto che il Vescovo, quantunque in paese di costumi tutto militari, e quindi non troppo severi, dovette castigarlo. Quanti più colpevoli, ma meno imprudenti!…

Quel castigo non pertanto determinò la rea corrente dei mali onde fu bersagliata la vita di Dal Ongaro, ed io mi proverò a dimostrarlo.

Indotto, non so perchè, a divenir prete gli seppe amaro un tal legame, non appena lo ebbe contratto. Pure se in quel sentiero, incautamente intrapreso, ei batteva saldo, c'è da scommettere, che gli riusciva meno grave. In vece il trovarsi, dopo la prescrizione, libero, lo persuase ad illudersi di non essere mai stato legato, e che, come lui dimenticava una situazione incresciosa e odiosa, tutti potessero ignorarla per sempre. Ciò diede fomento alla sua piccola mania di atteggiarsi a trovatore innamorato, quando, oltre che la condizione sua, glielo vietava anche l'aspetto, perchè sebbene non insignificante e non ingrata la fisonomia di Dall' Ongaro, avea del satirico: espressione smentita, smentitissima dalla di lui bontà e dalle dolci poesie. Ma tant'è nell' esterno, dalla testa ai piedi, teneva più del Fauno che del Ganimede.

Gettato nel vortice del mondo, mescolato nelle veglie fra le belle signore, i damerini galanti, la gente del bon tono insomma; frequentando i teatri, le quinte, ei non divenne per questo meno infelice. Anzi gli si configgeva sempre più la spina in core, misurava di più la distanza dal suo primo stato.

E nelle splendide adunanze ei pensava forse, senza volerlo, che al letto del povero, nell' esercizio d'un ministro di carità, le sue piaghe sarieno più miti; e non avrebbe sprecata la dignità, non dirò di sacerdote, ma d'uomo, di poeta civile, di cittadino d'Italia.

I suoi dolori a noi, è verissimo, sono sacri; ad essi forse dobbiamo i più belli, spontanei fiori di quel versatile ingegno. Ma possibile che se, come dio sa quanti altri bei cuori infelici, ei li portava nobilmente, possibile che non giovasse pure alla causa della redenzione civile, meritando così una commiscrazione tutta rispetto, in luogo che il dileggio e i suoi titoli?

Io mi fermo su così delicato argomento per osservare ai giovani che un uomo non isceglie impunemente due volte nella vita, e che il passa to non si distrugge, neanche Dio lo potrebbe, perchè ciò implicherebbe contraddizione.

In ogni modo, ancora a quel tempo se ne stava tranquillo: vestiva con un po' di goffaggine a mo' dei preti in abito secolare; ma raso la barba e una gran cravatta nera con un certo puntapetto, che avea dell' ostensorio, di che lo facevamo ridere, senza che lo prendesse in male. Anche allora, dato il caso, predicava, e non se ne nascondeva. Quando noi partimmo da Trieste egli pure partì per Tremeacque, sua patria a farvi il panegirico di non so qual santo.

Come fu che di passo, in passo, di anello in anello si lasciò trascinare non altrimenti d'uno che casca a sassate dei monelli?… Questo è il mistero doloroso di quell' anima, che nell' abborrire la sua condizione, parte adunque dal suo ente morale, non sapeva più dove correre, per fuggire a sè stesso.

Di Dall' Ongaro scrisse una biografia Carlo Raffaelle Barbiera; è un largo studio che nulla ostante gli invidiabilissimi difetti giovanili, ossia la mancanza di economia, merita esser letto. Non citerò il bel ricordo biografico dell' esimio professore Angelo De-Gubernatis. Crederei darmi un' importanza ridicola lodando, anche in questa occasione, uno dei più nobili e forti ingegni italiani, che l'ingegno italiano sa intendere, porre in luce, onorare tanto col biasimo che con la lode.

Non pertanto l'illustre amico, sebben coraggiosamente e generosamente sostenga Dall'Ongaro, non è ingiusto. Egli sa dov'è da assolvere o meno. In altra parte dei Ricordi biografici, è scritto che il più delle volte dipende da noi stessi l'essere o stimati o disprezzati. In questa bella parola, veramente da padre, dell' esimio professore Angelo, è la sentenza del gentile poeta. Imprecare ai giornali!… ahimè! tanto varrebbe come Xerse castigar l'onde furiose dell' oceano. Bisogna navigar bene, e sfidar quelle onde col coraggio di chi si sente forte in coscienza, e allora si può ridere in faccia anco ai tristi buffoni.

Una lettera scritta al professore De-Gubernatis da Francesco Dall' Ongaro mi ha fatto senso. Esso dice — « per quei signori io sono sempre il maledetto: » - Oh! dio piuttosto che dir prete ei si maledice!… Quanto ha da aver sofferto, ma quanto!… Sofferto senza scopo, perchè o credeva quel legame divino, e dovea rispettarlo, o non lo credeva tale e dovea infrangerlo alla prima. Piantar casa, divenir marito, padre famiglia, uomo serio, meglio che istrione, poeta o poeta stornello, insomma tutto meglio che far ridere. Per chi ha scelto male non v' è che la carità, la beneficenza, la religione: unico filo d'oro che guidi in quel labirinto di tutto dolore.

Questo è detto solamente per dovere di giustizia: perchè di Francesco Dall' Ongaro allora io non ebbi che da lodarmi. Egli scrisse sul mio giornale una bella poesia, spontanea, che fu l'anno scorso inserita nella Strenna italiana, edita per cura del rinomato autore di Giovanni dalle Bande Nere, marchese Capranica.

A Firenze arte, a Trieste industria, di cui la si poteva tenere una vera capitale. Prime fonti di lucro il Lloyd, la società fondatrice di esso si era già presentata a Venezia, che disse no: allora premeva la Fenice e bastava Florian. Cosa volesse dire quel no, chiariranno le seguenti notizie ch'io traggo da una dotta memoria dell'egregio cav. Cecchetti. Trieste e le sue istituzioni.

A sapere: che del 1836 il Lloyd possedeva 7 piroscafi, ed ora ne ha 70. Aumentò il tonnellaggio da 1974 a 75945. Ne' suoi viaggi percorreva allora appena 43 m. miglia, ora supera 1,200 mille.

Noi si visitò quei cantieri del Lloyd, coll' anima compresa da un senso di grandezza, perchè in fine quel luogo è centro mondiale, d'onde partono e vengono legni per tutti i mari ed ha per nobile divisa quell' insegna del mondo moderno. Forwärts! (avanti!)

Ci stupì un operajo inglese, il quale colla massima disinvoltura tagliava lastre enormi di rame e di ferro, senza che il potentissimo polso desse a veder nullo sforzo: ma precisamente come farebbe una signora stagliando l'orlo della battista colle cesoine da ricamo.

Adesso i mulini a vapore son cosa vecchia: quello che a Trieste ci fu fatto vedere parve nuovo e terribile, ma anco in quel battibuglio ci fermò una cosa.

Essendo in una stanza in vetta dello stabilimento, vedemmo un foro quadrato a cui corrispondevano, perpendicolarmente, altrettanti fori ad ogni piano, fino a quello terreno. Da quel foro con regolarità inesorabile, con celerità fulminea s'alzava un pianerottolo: e portava un uomo: l'uomo, comparso come in teatro dalla sotto scena, prendeva un sacco di farina, scompariva, inghiottito dal suolo: ricompariva poco dopo, per di novo sparire. E tutto ciò in mezzo al fracasso, al cigolìo, al diavolesimo in cui a noialtri spettatori, mancava il fiato, e stavamo quasi aspettandoci d'esser pesti, malmenati, travolti…

La signora Chiozza, nata Lazzarich possedeva una fabbrica di saponi, tenuta fra le prime d'Europa. Quantunque la signora mantenesse casa signorile, carrozza, palco e fosse in tutto e per tutto una dama co' fiocchi, pure la non isdegnò condurci ella stessa, in compagnia d'una sua cara nipote, dianzi conosciuta da noi a Palmanova, a visitare quel grandioso ed unico opifizio.

Io non lo descrivo, ma ritornati a casa ci fu da parlare molto e con chi?… nientemeno che con Nicolò Tommaseo, venuto ad onorarci in compagnia di Salghetti: poi giunse Dall' Ongaro e più tardi Furlanetto, il famoso antiquario, grecista, col signor Gallo, professore di nautica, sicchè la fu una giornata campale; bel ricordo soprattutto perchè fu anche l'unica volta in cui vidi Tommaseo; e come, sapendoci reduci dalla fabbrica di saponi, quell' illustre volle udirne le novelle, esaminare, guardare per ogni verso i pezzetti di soda o altre materie analoghe! E lascia fare a mio padre con quella sua chiarezza, concisione, filatura d'idee a riferire a modo le cose osservate: come qualmente: e la soda e la calce s'amalgamano insieme, e che poi le vanno in vasche quadre, colla lisciva, la quale impregnata di quegli elementi esce per certi canaletti di legno e va, ruscello ardente, in altre vasche dette bugadiere, e poi in una caldaja dove si versa olio: la caldaja bolle d'un bollor sostenuto in una fornace, e un uomo la mescola, la riduce una pasta, d'onde si cavano quei bei pezzi di tutte le forme a seconda dello stampo, di tutti gli odori a seconquesta: che il mio caro babbo, professore di belle lettere, insegnò al futuro legislatore di Venezia a fare il sapone.

La Borsa ci parve un tal nido o albergo da uragani, che nemmen la bora tradizionale, nelle gole di quei monti, ne risveglierebbe di simili. La Borsa di Parigi sola può starle a paragone. Allora si erigeva la borsa col nome di Tergesteo. A Trieste s'usava e s'usa spendere Fiorini e largamente. Il Tergesteo si valutava una spesa di settecento in ottocento mila Fiorini. Il solo fondo ne costò già quattrocento mila. Cosa non ha costato il Metternich, albergo allora unico al mondo con quelle novità del pianerottolo mobile, dei campanelli a scatto, dei matterassi da lavare giornalmente, e altre belle intime pulizie!

Il dì prima della partenza ci fu dato assistere in uno colla famiglia Dall'Ongaro ad una solennità artistica, vero onore anche per Venezia. E fu l'innalzamento della pala, dipinta da Felice Schiavoni, per la chiesa di Sant' Antonio.

Momenti terribili e splendidi in cui batte il core in petto all'artista ed agli spettatori, e i palpiti crescono quanto è più grande il merito dell'autore e l'importanza dell'opera. Quella pala figurava La Presentazione della B. V. al tempio.

La mattina della partenza ci fu donato all'albergo un magnifico mazzo di fiori, e noi, come un anno prima alla De-Blasis, lo ponemmo, ignota offerta, alla divina scena, che il raffaellesco pennello di Schiavoni aveva dipinta.

Del 1848 in autunno in un'altra scorsa a Trieste, la trovammo ricca parimenti anzi più, ma logorata dalla stessa malattia, che le è, si può dire costituzionale; il non appartenere a nessuna nazione.

Un poco slava, un poco italiana, un poco tedesca; l'interesse la porta alla Germania, schietta velleità di sentimento all'Italia; la gratitudine la tiene all'Austria, la speranza la fa guardare a noi. In mezzo di questo dibattimento di forze intime, le si scema la vita, che non può derivare che dal senso morale. Nessuna ricchezza compensa il non avere anima. La ricchezza suade a simulare una vita di godimenti, un'ansietà di guadagni nei traffici, circolo vizioso che trae a corruzione e rovina.

Bisogna che Trieste si decida, ch'essa scelga risoluta la propria bandiera. Ciò che mantenne freschezza di vita immortale a Firenze è l'essere il core d' un popolo: son le tradizioni onorate di patria. Oramai la famiglia non basta, essa è minata nel codice stesso, perchè se i figli son pochi, è dubbio il suo mantenersi, se molti son poveri, costretti a lavorare a disperdersi per vivere. Dunque il socialismo, bello e piantato fra le nostre generazioni, ha tolto l'importanza alla famiglia, e resta quella del paese. Guai al popolo che non ha vita sua, egli andrà confuso come volgo senza nome e senza avvenire! Se Trieste non esce da questa situazione essa è inferiore a Chioggia, nel mare della quale si riflettono, modeste ma vive, le belle tinte d' un'amata bandiera.

Da Gorizia, dove si fece sosta, dopo Trieste, andammo a Castagnavizza, alla tomba cioè di Carlo X. L'autunno avanzato copriva quel remoto sepolcro di foglie appassite, e l'aspetto del paese, bello d'un carattere severo, e come disperso ci dava una tinta, se così posso esprimermi, di esilio. Alcuni anni dopo al Père Lachaise, mo a Castagnavizza, alla tomba cioè di Carlo X. L'autunno avanzato copriva quel remoto sepolcro di foglie appassite, e l'aspetto del paese, bello d'un carattere severo, e come disperso ci dava una tinta, se così posso esprimermi di esilio. Alcuni anni dopo al Père Lachaise, sopra un rialzo, nello stesso mese d'autunno la stessa impressione di tristezza ci colpì, richiamando al nostro animo più viva la malinconia provata a Castagnavizza.

La sera fummo a Cividale, pittoresco punto che la mia illustre amica e sorella d'arte Caterina Percoto così ben descrisse nel suo Sciarnete.

Cividale è sopra le due rive del torrente Natisone, e il ponte, che le congiunge' si chiama Del diavolo. Ci ha la sua leggenda come tutti questi paesi del Friuli e della Carnia, pieni di storie fantastiche.

Dall' Ongaro della leggenda suddetta, oltre a moltissime altre, compose una ballata. C' entra, ben inteso una donna: la sta sopra una riva del Natisone e l'amoroso, nemmen di questo una ballata può far senza, abita l'altra. Occorre che il giovane, impedito un giorno di visitare la bella, per la improvvisa piena del torrente, si vota nella sua disperazione al diavolo: il quale è appunto là a sentirlo, e subito si presenta sotto le sembianze d'un signore, torbido in vista, ma risoluto.

Cosa vuoi? — gli domanda.

« Vo' passar dall altra parte, Getta un ponte su quel mar, Se può tanto la tua arte, Fa di me quel che ti par.

Sconosciuto discende nel letto, si pianta ritto sopra un masso; quello che primo gli capita sotto l'unghia: vuol dir non in mezzo, e là:

« Bipartite sulla fronte Due gran corna gli spuntar, E dall' uno all' altro monte In due archi si curvar ».

Appena stabilito, mediante questa diabolica architettura il passaggio, l'amico ci va di fuga, e picchia alla porta della sposa; ma non resta il tempo agli amanti di rallegrarsi del conquistato mezzo, perchè il diavolo reclama il pagamento. La termina ch' ei si porta via uomo e donna e il Natisone travolge tutti, compreso il diavolo:

« Gonfiò l'onda il Natisone E travolseli con sè ».

Per fortuna ha lasciato il ponte, fattura bellissima, ardita e solida nella sua pittoresca irregolarità.

Cividale è antica, nera, feudale o per meglio dire gotica. Ma tanto più bella risalta la freschezza de' suoi contorni, appunto come le rose che si arrampicano sui vecchi monumenti de' suoi monasteri Longobardi vi pajono più soavi.

Non ci sfuggì in queste campagne friulane un tratto caratteristico degli abitatori …. Un rispetto, un far di cappello da per tutto dove si passava. Vedevano quella siffatta veneranda carrozza, un servitore con un tantin di bordo al beretto. Ciò bastava perchè ci credessero signori, e perchè salutassero con deferenza, avvezzi alla sommessione del colono al padrone: non servi della gleba, ma attaccati alla terra e a chi comanda. Cosa ne possono fare i signori di questo popolo, ch' io sento non essenzialmente cambiato, che preziosa popolazione posson dare alla Italia… La donna friulana o non è ella il modello delle madri - famiglia, delle padrone di casa, delle brave massaje? … Poi un tratto di terreno così bello, così unito e così vario! che accoglie ogni genere di paese dall'orrida balza alla collina, dalla collina alla piana, dalla piana al litorale ed al mare!

La classe agiata può cavare il ben di Dio da questo popolo così ben disposto: e per sè stessa e per noi: basta che lo ami, e si spogli d'ogni egoismo: guai se non mette a questo intento il più gran buon volere! … Guai altrimenti… perchè son gente fiera… hanno la flemma slava, l'ostinazione tedesca, il foco italiano, e se cominciano a prenderli in uggia, o come si dice a strapelo, allora ciò che di terribile accadde in altri luoghi, diverrebbe idilio in confronto delle rappresaglie possibili ai Friulani. E avanti che perdonino!…

A Udine rivedemmo Giuseppini, caro, infelice pittore, quello stesso che fece un gran ritratto a Carl' Alberto. Allora Giuseppini andava famoso per un quadro, il soggetto del quale venne in uggia a forza di vederlo riprodotto in mille maniere, quantunque la sia sempre quella. I due ultimi rimasti dopo il diluvio universale. A Trieste n' era piena l'esposizione: e come ripeto con pochissima varietà: il solito padre, la madre morente, i figli annegati, con decorazione di serpentoni striscianti sulle rupi, o sbucanti dalle grotte, e di saette, piova e grandine mista. Giuseppini (e così pure Clerici in un quadro da noi visto a Modena) ritrasse una copia sola. È un epilogo tremendo di due vite umane, l'ultimo battito di due cuori, l'uomo un po' più alto, s' appoggia alla punta d' una rupe, guarda il cielo, stringe la sua donna, che rifinita e morente par s' abbandoni; verrebbe quasi a memoria, davanti l'attitudine passionata dell' uomo, il verso di Prati:

« Stringiti allor sul core Quest' angiol di pietà: Tesori inaspettati La tua miseria avrà.

Molto già fin d'allora sofferse il quadro di Giuseppini. Pur tuttavia un certo raggio di ispirazione in quel cielo squallido, in quell' espressione dell'uomo disperato, nel sublime dell'orrore, nel modo con cui guarda in alto e si raccomanda… Il pittore forse non ha spiccata in quella tela una gran potenza, e non vi è il rilievo che la scuola moderna esige. Ma c' è il poeta ed è già qualchecosa, anzi, sotto un certo riguardo, è tutto.

Un passaporto - Partenza per le Marche -
Nembi e tempeste - Una cupola che si vede da lontano.

Chi intraprendesse un viaggio in quegli anni di grazia dovea per primo umiliare una supplica alla Delegazione del paese, la quale passava le carte al Governo centrale: ufficio che più tardi, in un giorno di liberalismo, fu dall' Austria ribattezzato col nome di Luogotenenza. Il governo allora si volgeva alla Polizia centrale, che alla sua volta scriveva alla Polizia locale, per informazioni, circa i costumi del postulante. Dopo di che, ricevuta la patente netta, l'assicurazione della perfetta innocenza politica di esso, graziosamente degnavasi concedergli libero l'andare nello stato e fuori. Non basta: pei pensionati ci avea quello che c' è adesso, dacchè loro fosse ingiunto d'implorare pel trattenimento della pensione fino al ritorno. Prudente misura di buoni babbi, affinchè il denaro dello stato venisse speso in casa. Il governo dunque scriveva al magistrato delle Finanze e questo ordinava all' Intendenza locale di sospendere il pagamento della pensione.

Ognuno intende che almeno tre mesetti occorrevano al via vai complicato di questa rutina, e s' io mi ci fermo sopra gli è perchè all'impazienza dei nostri giovani, un po' di storia antica la torna a capello.

Mio padre nell' inverno del 1842 stese la supplica d'un passaporto per Roma e Napoli, la chiuse, come di metodo, con un rispettosissimo grazie, e la innalzò alle autorità competenti. Noi intanto si diede mano ad allestire i bauli, allegramente, anzi allegrissimamente.

Per mia madre poi, educata all' amore degli studi classici, andare a Roma equivaleva tradurre in realtà il sogno della sua vita: sogno riputato impossibile durante gli anni dolorosi, quando era per lei miracolo il moversi da casa e talvolta da letto. Le idee religiose si univano eziandio a infervorare quella bellissima aspettativa; talchè non minore entusiasmo avrebbe sentito nell' accingersi ad un pellegrinaggio in Terra santa.

La supplica partita da alcun tempo: aspetta un giorno, aspetta due: passa una settimana, ne passa un' altra. Il passaporto non viene, e si comincia, nè senza ragione, a mettersi un po' sopra pensiero.

Allora non solo occorrevano tante pratiche pel passaporto, ma poteva anche darsi che lo negassero. Poco volentieri vedevano le autorità governative che i fedeli sudditi viaggiassero fuori degli imperiali dominî. Peggio poi s' andasse in Italia: quantunque i tirannetti d' Italia si modellassero sul babbo a tosare di seconda mano, pure il Governo austriaco non vedeva di buon occhio si bazzicasse troppo tra fratelli. Anzi precipuo scopo d'un viaggio in Italia dovea risultare: la salute. Che se ci entrasse l'istruzione o lo svago, rispondevano con una esitazione disgustata, permalosa — O perchè non andate a Vienna? — Per di là si trovava aperta la via, è in conseguenza forse di ciò che non ci mettemmo piede; tanto nei più buoni è insito lo spirito di contraddizione.

Scorsi venti giorni mio padre non si tiene alle mosse: scrive, manda… fatiche inutili parole tronche, risposte sibilline, da metterci un' inquietudine… una paura. Durante quegli anni di profonda pace, in cui le Opere nuove o le ballerine di cartello facevano le spese della storia, un ritardato svago ad una famiglia felice appariva non solo disgusto, ma affanno.

La mia buona mamma ne perdette l'appetito ed il sonno… Chi le vietava la sua Roma?… quale occulta potenza malefica si frapponeva ben altrimenti che l'Apennino davanti a Firenze, sul limitare della santa città, dell' eterna metropoli?… Nella sua inquietudine la sbalza a Venezia, la va da un consigliere ad un altro, si getta quasi ai piedi d'un magistrato altissimo… Il grande arcano viene in luce. Il babbo, dimentico della sua condizione di pensionato, ricordata nella domanda di passaporto, ommise la formula: — Che l'autorità si degnasse trattenere il denaro, fino al ritorno… Così volevano le pratiche, non e' era verso: — Indrio ti e anca muro — Bisognava dunque rinnovare la supplica — Subito — disse mia madre … ma e quanto staranno?… — Ma… ma… signora contessa, e' non si può sapere…. alle volte le carte vanno a Vienna! — Ella stette per cadere a terra… Vienna!… fu come l'evocazione d'uno spettro… Intanto la stagione avanzava… per quell'anno addio disegni di viaggi … E per un altro?… alla povera creatura, salvata da tante burrasch, un anno di aspettativa destava un grande sgomento, le pareva un secolo. E lascia a lei uscire in invettive contro la livrea di carta sugante, chè di quel colore la portavano i pensionati… Anco per noi la ci riusciva amara. Tutto pronto, tutto riposto e nei forzieri e in casa. Visite di congedo fatte: le quali ci incontravano e ci canzonavano un tantino per giunta. — Oh i Romani!…

Per la gola di veder Roma una giovane romantica, ancella d'una contessa, nostra conoscente, si licenziò da questa che la tenea soprammodo cara, e venne a noi, che cervavamo cameriera. L'antica padrona, a torto stimando mia madre complice di quella seduzione, la prese in ira. Un ibis e redibis di chiacchiere, di pettegolezzi, un torci il saluto… alle volte basta un niente a inimicarsi con mezzo paese, specialmente quand' è piccolo… e intanto il passaporto non veniva, ciò che ulcerava tutti gli altri dispiaceri e li convertiva in rabbia.

Momentaneo pascolo alla quale ebbimo una sera di cui forse nessuno de'miei paesani ricorda. Nel teatro, allora Onigo, la compagnia Tessari dava col massimo impegno, rappresentazioni di comedia e otteneva favore: a maggiormente cattivarsi il quale pensò di mettere in iscena una produzione, tradotta dal tedesco Due piani, già accolta con entusiasmo a Vienna, e rappresentata centinaja di volte, cosa naturalissima in una città, dov il publico si rinnova.

Il capocomico intraprende adunque alcune spese, (dacchè il palco-scenico vuol essere in quella rappresentazione doppio, uno sta a mezz' aria) manda avvisi sopra avvisi, stabilisce la recita per la domenica. In platea quella sera non ci sarebbe caduto un granino di panico. In principio la andò bene; ma poi via via che si procedeva cominciarono a manifestarsi i segni d'un malumore generale, e come a dire, pensato. La morale della comedia dimostrava contemporaneamente i dolori dei grandi e le consolazioni del povero. E la cosa lusingava gli istinti democratico-umanitarî del publico, ma ciò che lo urtava erano i costumi tedeschi, in cui svolgeva l'azione, e già cresceva il tumulto. Ma quando nel piano di sotto, quello dei poveri, dopo un certo ballo torno torno, specie di trescone maccaronico, si venne alla mensa e alla benedizione del pane… allora fu il diavoleto…

Una tal salva di fischi, una baraonda per cui si dovè calare la tela … Ciò accadde nulla ostante le precauzioni del commissario di pulizia, zelantissimo, quasi maniaco per eccesso di premura… E veramente quella benedizione del pane era cosa naturalissima e bella; ma vai un po' a discorrere con certe anime pie, che Dio non lo riconoscono altro che bestemmiando; di più la platea covava il morbo politico: anzi quello sfogo puerile, contro una tedescata in teatro, parve un segnale come quei crepacci d'un monte, o come quegli scoppl solitarî d'un tuono a cui nessuno fa attenzione, fin che non s' è scatenato il nembo che quelli presagivano.

I fischi per altro non ci davano il passaporto, e noi lo s' aspettava ansiosi.

Una mattina stavamo tutti, chi nelle stanze, chi in orto a lavorare la terra, si ode una scampanellata giojosa, prolungatissima dallo scrittojo del babbo… vi si accorre perchè lo sapevamo segnale della venuta del passaporto… Era proprio desso, e due giorni dopo ci mettemmo in viaggio. Partiti il 20 marzo 1842, si fe' sosta di qualche giorno a Bologna per tener compagnia e rallegrare la marchesa Ricci, sempre più tetra e malata. Un male d'indole apopletica, la afasìa, le toglieva la memoria di certi nomi; la volea dire per esempio — datemi pane — non le riesciva di esprimersi altro che dicendo — datemi teatro. — Crudele martirio suo e de'suoi. Non pertanto quei pochi giorni ella li passò meno male, e i discorsi furono, se non giocondi, animati, dacchè giusto allora la dotta Bologna, usa intrattenersi di alta letteratura e di politica, non finiva di parlare dello Stabat Mater di Rossini, cantato là di recente dai più grandi artisti d'Italia; sicchè tuttavia compresa dai penetranti e gravi ritmi di quel salmo, e della gloria del gran romagnolo, le note dolenti di quella solenne festa sacro-musicale oscillavano ancora… Prima di imprendere la via delle Marche avverto che si viaggiava a piccole giornate, per non affaticare la nostra diletta, a cui quel metodo giovava assai. Le giovava levarsi per tempo, e così pure le abitudini d'ordine, di sobrietà, la distrazione, da cui non era escluso lo studio. Anzi lo studio si faceva continuo e inavvertito. Mai il nostro caro istitutore ci stancava: apprendevamo senza accorgersi. Poco, di poche cose: ma variate, ma benissimo digerite; tanto le esponeva chiare, precise; in carrozza, al passeggio, senza pedanteria, in mezzo ai giochi, alle facezie amabili, alle sciarade. Laonde nessuna maraviglia che, transitando per quel bello stradale litorano dell' Adriatico, si leggesse lo Stabat Mater, lo si traducesse, confrontando le varie traduzioni, e anche un poco ridendo alle ingenuità dei quattrocentisti, come fra Jacopone da Todi. Tutto con giojosi intermezzi di qualche tenue refezione: e d'alcuna sosta o di qualche tratto a piedi: ciò a cui ci invitava quella bella via attraversata da fiumicelli, seminata di paesi.

Da Fano a Sinigaglia non fu viaggio, bensì una campagnata: perchè quel trovarci in riva all'Adriatico, veder sotto i nostri occhi sboccar nel mare confidenzialmente quei fiumi, ci parea d'essere a casa nostra. Splendeva quel bel sole di primavera, che rende l'aria un brillante, e in che modo il mare bevesse nel suo grembo maestoso l'ozono di quella luce, riflettendola in mille begli specchietti di lapislazzuli brillanti, è meglio rinunziare a dirlo.

A mia madre la era tanta vita: la sorrideva, la gridava anch' ella come una bimba, poi la scriveva; e quanti taccuini la ha riempiuto!..

Di quelle cittadelle marchigiane ci rimase grata memoria. Bisogna riflettere che dopo tanti anni di pace ogni luogo si mostrava ne' suoi abbigliamenti da festa, perchè l'industria e ogni arte fiorendo tranquilla, fa sentire il beneficio, ascendente nelle più rimote contrade; e tanto più in luoghi che son tutti una ricchezza di dentro, di fuori, nella terra, nel cielo, nella gente viva, nelle memorie dei morti.

Il Governo papale, quantunque dispotico e retrogrado, non poteva trattenere quelle ricchezze, anzi sotto certi punti le favoriva: intendo con quella cura speciale che vi mette un piccolo stato, alieno da guerre, da pretese di politica.

A Forlì ci ha colpiti il Foro annonario, fregiato di statue con bell'ordine disposte, atte a contenere le vittovaglie, il macello, la peschiera ed altre simili cose. In fondo al cortile d'ingresso sta una lapide, e sopra s'innalza in marmo, il gruppo d'un uomo che doma un toro.

L'iscrizione latina esprime che i « moderatori della cosa publica, sotto gli auspicî di Alessandro Spada, cardinale legato, compierono nel 1840, il foro annonario, cominciato sotto il reggimento del cardinale legato Nicolò Grimaldi ». E tutto è pieno di traccie storico-artistiche. A Cesena una grande statua del papa Braschi, eretta alla vista di tutti, sopra una loggia sulla strada. Avanti di arrivare a Rimini un bel ponte romano sulla Marocchia… E poi il Rubicone!.. È vero che si chiama il Pesciatello. Ma per quanto povero d'onde, qual altro fiume più ricco potrà valerlo in nobiltà, se la parola di Giulio Cesare lo rende illustre fino alla consumazione de' secoli! Ecco una prova che la vera nobiltà non potrà mai abolirsi; quando nel varcare un povero fosso si esclama, si palpita, perchè in antico udì quel famoso alea jacta est!

Da Ancona in poi cominciarono le pettate, le salite a forza di bovi, lo scendere a rota ferma nella scarpa. A Osimo s'andò a trovare una signora Leopardi, parente della mamma, per parte dei Ricci, e, se non erro, parente di quel grande infelice, che spirò fra così belle sedi la sua vita di poesia e di dolore. La suocera della congiunta nostra era sorella di Pio VIII, Castiglioni.

Non si possono descrivere, bisogna vederli e nella bellezza d'una splendida primavera, quei paesi dell' Apennino. Verde per di qua e per di là: in mezzo una bella strada bianca sinuosa, ora piana, ora elevata o in declivio; le selvette incantate dell' Ariosto: alberi e campi… e che vegetazione! I venti di marzo commovevano quelle fiorite boscaglie, curvavano potentemente l'una verso l'altra quelle piante, nelle feste della fecondazione aerea.

La gente cresce in perfetta armonia con quegli olivi, con quelle quercie prestanti. Veri figli dell' alma genitrice, quei montanini sono d'un bellissimo sangue, gran barbe, occhi vivi: stature magnifiche. In processione ci fu dato vedere taluno di quei giovani reggere, poggiandone appena l'estremità sulla cintura di cuojo, enormi croci, formidabilissime e per altezza e per grossezza; reggerle con tale disinvoltura di equilibristi da strappar quasi l'applauso.

Nel salire a Loreto avevamo per guidatore dei buoi un buttero o pecorajo, la vivacità e robustezza del quale fu il nostro spasso.

In calzoni corti, e per di sopra un' ampia camicia; che dallo sparato aperto lasciava vedere un collo toroso, un petto da modello. Cappellino contadinesco in testa, bacchetta in mano, era in tutto e per tutto il suo costume… In quella strana foggia ei correva avanti, indietro: ghermiva i buoi per le corna, li tirava a dritta a sinistra: poi spariva giù per le rive, si nascondeva dietro le folte siepi… poco dopo eccolo sbucare come un lepratto, dando un grido selvaggio in segno di esultanza; e su quel tenere ei son tutti da quelle parti.

Che cacciatori, che bersaglieri!… se tanto se ne giovò Napoleone, cosa non ne farà un' armata nazionale!

A Recanati fummo a trovare la nobile famiglia Politi, altri congiunti materni, i quali ci fecero le più care, sentite accoglienze, laonde a noi della patria di Leopardi restò un' impressione dolcissima e quasi famigliare. A Macerata si passò tutto un giorno col marchese Domenico Ricci; si pranzò nel suo elegante, avito palazzo, trattati con signorile cortesia; e mai più se n' ebbe tanto bisogno.

Allora in Romagna (non so adesso) si portavano alla sepoltura i morti scoperti: usanza nova per noi quanto ingrata. L'aspetto della morte, è un fiero contrasto per chi ha fantasia ricca, serena, nutrita dalle consuetudini d'un vivere se non del tutto splendido, certo agiato e ridente.

Già a Loreto, nel tempio della Santa Casa, ci occorse il dì prima voltarci, senz' ombra di sospetto, e quasi inciampare nel cadavere d'una vecchia, che irrigidita, colle mani in croce, parve guardare minacciosa gli estranei disturbatori del suo feretrale riposo. Quella apparizione d'una morta, senza poesia e senza interesse, a tutti fe' tristezza; tanto più a noi giovani, chiamati a tutt' altre idee dalla vita, nella sua più dolce allegria. Laonde nemmeno il bellissimo quadro di Guido Reni, una scuola di fanciulle, nemmeno il tesoro, potè distorci da quella potente impressione.

A Macerata ci fu qualcos' altro.

La mattima si esce… piove: il primo incontro è un buon galantuomo, che va agli eterni riposi; incappucciato, duro, stecchito; e il grave dondolamento, pel moto della bara, faceva più sensibile la pesante immobilità della testa. Avanti dunque col cuore oppresso e i piedi in molle. Si entra in duomo ad ascoltarvi la messa, era la domenica in Albis. La prima cosa in cui si intoppa sono tre cadaveri, distesi per terra; e altri due sui cataletti. Si fugge da questa chiesa, e si corre ad un' altra, chi lo direbbe che per fuggire i morti andavamo incontro alla morte? Pajon cose trovate, ma le son vere; perchè mentre ascoltavamo la messa, cominciarono lampi, tuoni; il tempo, dianzi chiuso, si fa nero e pieno di minaccie: imperversa la piova, mista a grandine grossa, e in tal copia, e con tal furia che c' impedisce uscire… e sul più bello di quella musica giù un fulmine, e poi un altro … Pareva come quando fanno guizzare le saette in teatro, colla differenza che qui le scoppiavano per davvero, e nientemeno che una in piazza e una rasente la facciata della chiesa… anzi poco mancò non la incendiasse; e tanto che la chiesa fu per qualche momento il campo d'una vera tragedia: le donne s' abbracciavano strettamente in ginocchio; le fanciulle s' attaccavano al collo delle madri strillando, i giovani uscivano animosi… In mezzo a quella desolazione entra un uomo pallido, i capelli irti, la barba scomposta con in braccio una bambina, che per un moto convulso contorceva la bocca e singhiozzava… il fulmine era caduto vicino alla portiera della sua bottega. nell' atto che il pover' omo vi entrava colla figlietta in braccio. Il terrore, la disperazione aveano assalite l'infelice padre in modo da lasciarsi cader la bimba a terra, per fortuna il fulmine lo colpiva solo alla punta dello stivale, ma ognuno può credere in che stato entrarono quelle due anime…

Tutti questi malori non e' impedirono peraltro, lo ridico, di passarcela benissimo col nostro caro Domenico Ricci, il quale coronò l'opera conducendoci a visitare l'Asilo d'infanzia, da lui fondato in Macerata, con intelligenza e carità singolare per un uomo, che parea mondano, tutto inteso all' economia e niente più filantropo de' suoi confratelli patrizî. Ma in vece lui in quell' asilo ci mise una passione nobilissima, e mio padre, che avea fondato quello di Treviso, non finiva di beatificarsi in un elemento suo. Crederei fosse allora il solo Asilo delle Marche, e forse dello Stato pontificio: nè ci voleva di meno dell' autorità d'un tanto signore per effettuare così reo proposito; ecco il perchè Giordani voleva illustri per nascita i propugnatori dell' Italiana indipendenza.

Dopo l' Asilo Domenico ci condusse ad un anfiteatro, che serviva di caccia del toro, ed ora c' è il gioco del pallone. Dall' ultima loggia si discopre un' ampia e variata vista. Ma intanto che ci si spiegava non so che di evoluzioni delle armate napoleoniche, in quei magnifici terreni, ricompariscono i morti… scoperti che s' intende… scortati dalla Compaguia del sepolero, a cappuccio calato e soli visibili gli occhi, dai fori della maschera. Scendemmo le scale; per via ne incontrammo degli altri… prima un vecchio, poi un fanciullo…

Alla fine si chiese spiegazione di quelle morìa, E ei fu risposto esservi grande mortalità in quell' anno a Macerata, e solo in quel giorno ne furono portati selle al camposanto!

Dopo Macerata in vece di morti ebbimo il mal tempo a perseguitarci: via via che s' andava internandosi nel cuore dell' Apennino, il vento, la piova, la gragnuols con intermezzo di temporali paurosi: meno infesti del tempo buzzo, del piovigginare continuo, che ci davs spesso molestia anco quello.

Qualche tregua la si ebbe da Tolentino a Colle Fiorito, accompagnati dal Chienti, bellissimo fiume. Ci lasciò quivi incancellabile impressione un tramonto goduto dal basso d'una valle oscura, intanto che le cime superbamente involte nelle nuvole ricevevano l'ultima indoratura, a foco vivo dei raggi solari e i pastori accompagnavano sulla zampogna quell' addio.

Già per noi, famiglia poco mondana, e niente fatta per le meschine etichette, per le gare e le finzioni della società ufficiale, quell' aggirarsi fra burroni e spelonche, passare di valle in valle, di pendice in pendice avea un attraente di cui si sentiva la dolcezza allora e mille volte di più dopo.

A mia madre, secondo accennai, la era vita: qui di più, dacchè gli acuti sentori delle erbe crescenti su per quelle rive, le calmassero i nervi: ond' ella aspirava le fragranze dei bossi, dei giossiami, delle valeriane, della menta selvaggia; si compiacea nel vedere gli scobigli in fiore e le siepi vestirsi della foglia nuova, che nell'aprile par le involga in un vapor verdolino, tanto lieve e tanto caro.

A Colle-Fiorito, montagna ardua quanto le grandi alpi, ci sorprese di nuovo il mal tempo. Ivi si fe' sosta e ci sovvenne d'una famiglia di nostri amici, marito e moglie, che un anno prima avea in quell' albergo sofferta la fame. Sia pel luogo, vera tana da ladri, sia pel cielo ordinariamente nemboso, sia per la serva, incarnazione sparuta d'una delle Parche di Michelangelo, fatto sta che un compagno di viaggio dei nostri amici, li persuase essere avvelenato il pranzo.

Che argomenti trovasse quell'oscurantista, come dicono a Roma, non si sa: taluno a cui fu riferito l'aneddoto la stimò un' astuzia per mangiare lui solo quel che c' era; certo quei signori si videro passare davanti un bel pollastrello arrostito a puntino, e non so cos' altro, che odorava squisito e non vi toccarono, sebben venissero meno di fame.

A noi la stessa parca, nello stesso antro offerse un mediocrissimo pranzo, da noi accolto senza sospetto, anzi di buona voglia. Quel tale con noi ci perdeva indubbiamente il suo latino: poeti, è vero, ma non tanto da scambiare un' osteria in un covo d'assassini, in quella povera, buona vecchia vedemmo una tapina serva, che aspettava la mancia, come le fu data, come la ricevè, a cuore aperto.

Ma così fatta è la gente del mondo! Sorride ai begli abiti, alle belle faccie, anche se coprono cuori infami, e col suo crudele discernimento diffida, e abborre da chi ha la sventura di non piacergli!

Presso Colle Fiorito v'ha un bel laghetto, come sul Cenisio, di limpide acque, circondato da montague, abitato da uccelli d'una specie a noi ignota, che vi sorvolavano a fior d'onda con libertà selvaggia.

Poi il cammino diventa orrido: e quel giorno la piova ed il vento rendevano vieppiù desolate quelle solitudini. Di tanto in tanto, da sentieri nascosti, fra i burroni e le balze compariva un mendicante; veniva innanzi, correndo incappucciato in fetidi cenci grondanti, sotto cui, trasfigurato, perdeva quasi l'effigie umana. L'uomo seguiva la carrozza a mano tesa, pestando il fango a pie' nudo: ripetendo la solita querela con ansiosa e monotona cantilena, a sbalzi per lo scotimento del correre. Noi gli si gettava la moneta; vedevamo il selvaggio ghermirla, rintanarsi, fre le balze inaccesse, all'orrore del suo nido.

L'immaginazione della nostra diletta madre ebbe ad eccitarsi per una paura al tutto fantastica. Dall' alto del più immane precipizio scorgemmo nel fondo un paesello, le case del quale, somigliantissime a gusci di noce, ci davano la misura del culmine dove ci aggiravamo fra turbini e venti.

L'idea di dover scendere laggiù agitò mia madre; sì che non potea contenere lo sgomento, sebbene con semplice e grave bonomia il caro duca la rincorasse… quando da un momento all' altro la strada si spiana, cambia aria e scena; di balze scoscese, di lande o di burroni profondi non si discorre più. Ai lati, quasi per incanto spuntano boschi d'ulivi, la strada diventa regale, fiancheggiata da filari d'alberi, e così s' entra in Foligno. Da Foligno a Spoleto, per graziosissimo diversivo si viaggia quasi in pianura. Paesetti, luoghi e fiumi famosi. Il Clitunno è poco prima della città. Sopra una delle porte leggemmo in latino la seguente iscrizione ch' io tradussi: « Annibale, disfatti i Romani al Trasimeno, andando verso Roma, in ischiera nemica, cacciando da Spoleto, con grande strage de' suoi, diede colla celebre fuga il nome alla porta ».

A Spoleto un bel sole, belle strade di cui ci piaceva perfin la polvere dorata piuttosto che il fango del dì innanzi. Moto di forestieri gl'inevitabili inglesi, e fra essi un venerando vescovo, in cappello dalla gran tesa, cordoncino verde e oro; al fianco la signora moglie; spettacolo di gran meraviglia a noi, che prelati anglicani non se ne conosceva e non sapevamo come fosse fatta la moglie d'un vescovo.

A Termini rivedemmo vescovo e vescovessa: inzuppati d'acqua, fradici come noi: pure nel dopo pranzo si potè uscire e anco copiare e tradurre dalla porta dei Taciti un' iscrizione:

« Essendosi terminato il ristauro di questa porta, ch' ebbe sin dall' antico, nome dai vicini cenotafî dei Taciti, gli abitatori di Terni per ricordare alle genti la patria, memori di quelli posero 1839.

Nella Piazza di Terni sopra una bella fontana ci ha in vece: Civitatis comodo, Fori ornamento.

Non è a semplice erudizione ch' io riporto queste epigrafi, specialmente le storiche; ma ad esempio … Un paese morto o che tale si crede non sa qual importantissima cosa esso faccia collocando una lapide in un luogo, dove la sua storia meriti di venir ricordata. Forse quella lapide è l'elemento d'una nuova vita, le lapidi si posson paragonare al tronco stimato perso, reciso, gettato in un canto, e che pure in primavera emette dall' arida scorza annerita foglioline soavi, timidi ramicelli, da cui forse cadran novi germi e dalla terra spunterà un' altra pianta.

Le Romagne sono un tesoretto. Qua è la colonna dove Giulio Cesare arringò i soldati, là è Rimini che ispirò Dante. A Faenza resta il nome d'una strenua difesa di Astorre Manfredi. A Spoleto sul Clitunno un tempio a Vesta, reliquia antichissima. Da Terni si fece una corsa alla cascata delle Marmore, ossia del Velino, che da una grande altezza si precipita nella Nera. Cosa giova parlarne?… Dire il salto d'un fiume dentro in un altro fiume: abisso che la violenza dell' onda cela a sè stessa, bollendo, ribollendo sollevata in globi di lana, con perpetua roteazione? … Fa orrore a fissarvi l' occhio, eppur dolce si sente addosso il pulvischio dell' acqua, che ricade a gran distanza, formando mille iridi al sole. L'andarci è ameno: si passa fra belle campagne, giardini d'aranci, mirti, lauri; e le fragranze delle piante e il rombo sonante della cascata in lontano, producono una così straordinaria e stupenda sensazione da non sapere in che mondo uno si trovi.

Da Terni a Monterosi: burroni, precipizî, città nere. passaggi dalle cime elevate alla bassura e viceversa: con accompagnamento particolare di piova, grandine. venti. Da Narni, ch'è collocato in alto, veder quelle regioni così accidentate e lussuose di varia vegetazione fra selvatica e agreste; vederle attraverso una tenda di fili argentei obliqui, perpetuamente svolta a precipizio, chè tale ci parea quel diluvio… e il luccicar d'alberi, e in mezzo la Nera, quel magnifico fiume. Quasi si è contenti che la piova venga giù a catinelle. A questo proposito mi ricordo un disegno d'un libro della locanda a Narni: nel quale un giovane viaggiatore ritrasse sè medesimo dinauzi ad un camminetto; dalla finestra aperta si scorge la piova, ossia tante striscie diagonali, che voglion dire scataroscio, tropea … Sotto: un jeune enthousiaste venant se rechauffer au beau ciel de l'Italie.

Il giorno dopo, ripresa la via, che si interna fra burroni dove mugge la Nera, ci sorprende ancora il temporale. Che fare?… i cavalli hanno a riprender fiato. Si discende a Otricoli, all'aspetto, tana di ladri, come sopra: ma in quell' albergo leggendario, non tappa designata dei viaggiatori, mancava quel tal quartiere di lusso: quel piccolo santuario del comfort, riservato agli inglesi, o a chi come loro viaggiasse con un carozzone a tiro quattro, col corriere, e tutto il treno da gran signori. Ma pazienza, mancava un'altra cosa più necessaria: intendo che non avean nulla per gente a garbo. Si tira dunque fuori la macchinetta da caffè, i bianchetti da Padova: un frutto: ci danno un po' di pane e bonissimo: si improvvisa una refezioncella: appetito ed allegria sempre all' ordine. Mentre si mangia capita un frate, anche lui sorpreso dal mal tempo: e s'appicca discorso. — Loro di dove sono? — Da Treviso — Ah! c'è un convento di carmelitani scalzi anche là — e poi ci racconta de' suoi viaggi — Bisogna sentire dove, coll' umile cavallo di san Francesco era stato! Sopraggiunge un pellegrino. Allora ai pellegrini non ci s'attaccavano idee politiche: e quello si presentava con buona grazia pulito, quasi elegante. Un sarocchino di tela incerata, e la tradizionale cappa sul petto, cappellone a larga tesa, bordone, già lo vedemmo al pie' d'una riva, innanzi di giungere in Otricoli, e ci salutò: ora rinnova le cortesie: ci dona un' immagine, e vorrebbe parlare, ma è tedesco, non sa spiegarsi e noi intenderlo… Intanto la bufera s'acqueta e si riascende in carrozza.

Da Otricoli a Civita Castellana strada perfida, terreni vulcanici tutti, in quella località si passa sugli avanzi d' un' eruzione sepolta. Alberi fossili, glebe affumicate, tutto nero; nero poute romano che traversa il precipizio, irto di cupe roccie, prima di giungere a Civita Castellana, nerissima anch' essa.

Adesso Otricoli la strada di ferro non lo tocca. Dopo Orte ci si passa di sotto. In una valle scorre, tra dirupi il Tevere, che divide la strada dall' altura dove resta il paese, o dirò meglio il castello. Irto, annerito, povero, simile a rocca del medio evo: avanzo di una civiltà non morta o sepolta, ma in piedi sulle sue rovine, guarda superbo a quella novità che corre sotto alle sue ereme pietre, deciso a cadere, ma non mai a trasformarsi.

Nulla ostante la bora, urlante in quella gola, ci rimettemmo in istrada. Si avvicinava la meta: un nome magico si pronunziava intorno a noi… i monti, le rupi, ogni bell' aspetto, ogni attraente prospettiva divenia pallida in paragone di quella. Nepi, Monterosi, Baccano, la Storta e Roma!

A Settevene si dormì l'ultima notte. Luogo deserto, tetro, di mal aria, in piena campagna romana. Non e'è che la locanda, del resto cielo e terra. L'occhio spazia per quell' ampia solitudine di mare morto, e in quella immensità desolata scopre tutto quanto può suggerire la vista del cimitero d'un gran popolo… Roma nel suo massimo fulgore toccava, co'sobborghi, Otricoli.

Questa solitudine colpevole sparirà senza dubbio e Roma, capitale italiana, il triste vestigio della secolare decadenza lo perderà col rifiorir del suo agro a civiltà e cultura. Eppure un pensiero di rammarico sorge a tal lieta previsione. E si guarda indietro a quel terreno brullo, dove fra boscaglie selvatiche e scaturigini perenni, pascolavano liberi i bufali ed i cavalli; e dove l'immaginazione rivedea le scene primitive, fin da quando Romolo e Remo, cacciando, interrogavano dalle alture famose il volo degli uccelli, per conquistare il diritto di fondar la culla d'un mondo.

A questo punto dovrei, ascoltando il giovanile entusiasmo d'allora, empire tutta una pagina di lirismi e di slanci. Dovrei, cominciando cogli antichi poeti latini esclamare:

« O Roma, o madre degli uomini e di tanti Dei: primo ed ultimo soggetto de'miei canti, chi può vivere e dimenticarti? Il sole si può dimenticare, ma tu no; anzi il sole non gira che per te, si leva, si corica sui tuoi dominî…. O Roma che prendesti luogo nel cielo stellato, O Diva, che d'una città facesti il mondo, o madre del genere umano…» e terminare coi voli della moderna Corinna, madama di Stäel quando inneggiava a quella terra in riposo, dalla stanchezza di tante glorie…

Ma tutto il di più lo lascerò dire alle belle anime accese di poesia e d'amore di patria: esse sapranno immaginare tutto ciò che ispiravano di alto, di nobile i luoghi ed il tempo a persone, anche prima di trovarcisi, devote al loro culto.

Già ad una discreta distanza si cominciò a presentire l'avvicinarsi d'una grande Capitale. Le strade belle e larghe, candide al raggio del sole mattutino, ondeggianti fra siepi e rialzi in un continuo sali e scendi, per miti declivi. Par che le native ginestre, le piccole quercie, le mortelle si ravvivino, si facciano acconce come i servi nell' anticamera d'una gran dama. A un certo punto vedemmo due signori inglesi: parevano padre e figlia. Ambedue procedevano lenti, pensosi, tenendo con la mano dietro la schiena le redini dei loro cavalli: la giovine miss, acconciato con bel garbo lo strascico della gonna sul braccio, sollevata la testa, adorna d'un cappellino da uomo, guardava intenta nel vano dell' aria; scambiava qualche monosillabo col grave compagno, che anch' egli sorrideva e pareva ammirasse cosa vista ancora, ma non mai abbastanza.

Volti a quella parte anche noi, in quella direzione, scorgemmo la cupola di san Pietro, quel miracolo, quella maraviglia… Eravamo a sedici miglia di distanza.

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Si narra d'un Santo, il quale passando per una selva romita, sorpreso da ignota musica celeste, non potè fare a meno di soffermarsi un istante. Un istante ei lo credette; ma rimesso in via ebbe molto a stupire, ritornando alla sua città; quando vide tutto cambiato, e si accorse che non un minuto, ma anni ed anni egli stette fermo nella selva ad ascoltare l'incantatrice musica del cielo.

A noi, iti a Roma coll' idea di fermarci un venti giorni, un mese tutt'al più, scorsero quattro mesi come un giorno, come un' ora. E tale incanto avea Roma che altri forestieri, andati per poco, ci si trovavano tuttavia da venti o trent' anni, e vi stettero per tutta la vita.

Qui sarebbe da copiare un lungo giornale di visite agli studî, alle gallerie, alle chiese, agli edifizî, alle rovine: cosa al solito da evitarsi, perchè uggiosa ed inutile. Ma non inutile riuscirà il discorrere della Roma di quel tempo: riferire di volo le condizioni, riportare qualche aneddoto, confrontare il presente, il passato, chè nulla è indifferente quando si tratta d'una città così importante nei destini d'Italia, quanto in antico lo fu nei destini del mondo.

Due correnti, se posso esprimermi, formavano la vita di Roma in quegli anni. Diversissime, anzi oppostissime, pur trovavano la maniera di spirare amabilmente insieme e impartire un carattere proprio ad un paese, già per sè tanto originale.

Una di queste due correnti era: prima quella locale: antica, classica, pagana e cristiana, similmente al Panteon, al Colosseo da cui in certo modo veniva rappresentata. Studio di latini, ricerca di lapidi, amore dell' arte greco-romana, non esclusa quella moderna di Raffaello e Michelangelo … e come da qualunque elemento si sarebbe potuto escludere il Vaticano? … Seconda corrente: la vita chic, e allora questa parola non si conosceva, si conosceva la cosa. Intendo i forestieri, la bionda Germania, la Francia, più di tutto gl' inevitabili Inglesi, i quali a frotte, a falangi, in numerosa colonia stavano mesi ed anni in Roma.

Ci stavano e precisamente at home, in casa loro. S'internavano nelle famiglie cittadine, assistevano alle veglie, agli svaghi, alle funzioni: figuravano ai corsi o nel Diagôts dei loro splendidi quartieri; studiavano i ruderi, e metodicamente si entusiastavano nelle gallerie, insomma ripeto — ci stavano come a casa loro.

Qui mi piace fra Roma e Firenze un cenno di paragone. Firenze più avanti d'ogni città italiana, Roma apparentemente più indietro di tutte: eppur v'avea nell' attitudine dei cittadini romani una gran deferenza, ma nello stesso tempo anche una segreta alterigia, una pacata benignità, rifiesso d'un glorioso passato, e presentimento d'un ignoto ma sicuro avvenire, nello stesso modo, d'un uomo che guarda giocare dei piccoli e sorride se lo sfidano, perchè sa che volendo li vince.

Nella condotta di Firenze verso i forestieri si scorgeva non pertanto più smania di imitazione, che nei Romani, sempre romani, che non accettavano mica tutto d'oltremonte, e meno le letterature: appena cominciavano a riconoscere Walter-Scott, di cui da noi non si parlava quasi più.

Tutto ciò assai ci stupiva: ci stupivano quelle turbe di eleganti gentelmens, quelle processioni di giovani ladies che andavano tenendo con grazia sprezzante la gonna, per non s'insudiciare (piccola satira alle vie di Roma) e lasciavano come le bisce un profumo lungo ed acuto di muschio, fra i ruderi vestiti d'edere, inghirlandati di rose. Vedevamo due civiltà, l'una sopra l'altra: quella spenta dei Romani antichi, quella viva dei Romani moderni: tali si potevano considerare gl'Inglesi d'allora. Essi vi portavano il loro potente spirito d'investigazione, la tradizionale alterigia, anco la eccentricità; ma senza dubbio il culto alle libere istituzioni, che dovea fruttare la nuova vita. Fra Roma e Londra correvano più strette relazioni che fra Roma e l'alta Italia: i gentiluomini Romani parlavan di Liverpool, d'Edimburgo, e Venezia gli era ignota.

Molto ci stupì anche non vedere i preti come ci furono descritti: impudenti girare colle amiche al fianco, e fare e dire cose da scandalezzar ogni timorata coscienza. Molti ne conoscemme, tutte persone stimate e stimabili. Saranno stati furbi, ma corrotti da dare scandalo no. In Romagna ci si dipinsero anche i Romani preti o laici, superbamente intrattabili, guai a un romagnolo chiamarlo romano … oh i romanacci superbi!

Le gentilezze, le cortesie, la bontà longanime, aperta, squisita, con cui ci trattarono i Romani, fu tanta da produrre quel miracolo ch'io riportai fin da principio. Un mese come un giorno, un giorno come un' ora. Questi ci dava i biglietti per un' accademia, quegli il posto per una funzione. Oggi ci portavano (come dicono loro) all'anfiteatro Corea a vedere i fochetti ossia i fochi d'artifizio.., domani al teatrino Fiano a veder, magari le marionette; di solennità in solennità, di festa in festa … Nemmeno fummo avvicinati da Gesuiti, di coloro che s'infiltrano, secondo l'opinione generale, nelle famiglie, o per ispiare o per altri fini di setta e di propaganda. Uno ci veniva benissimo tra piedi, spione politico, laico, barbuto con pretese di galanteria; ma tanto poco accorto, che si scoperse da sè, e mio padre, aborrente da quella persecuzione odiosa, se lo levò subito da'piedi.

Non tutti potevano dire lo stesso, in quanto a propaganda religiosa. Una delle più lagrimevoli storie, già narrata da mio padre, riferisco in poche parole, perchè troppo è gran patimento pel mio carattere fermarmi nei particolari d'una coperta nequizia.

Vivea una signora vedova con la figlia a cui dedicava tutta la sua vita. Un individuo laico, ma legato con preti e frati, le si introdusse in casa, guadagnò la confidenza della madre, divenne maestro e si fece amico della ragazza. Un giorno la madre non potendo accompagnarla a spasso si persuade a lasciarla ire col maestro: stimabile stimabilissimo, e proprio uomo da porgli il capo in grembo.

I due, giovanetta e precettore, si scambiano un' occhiata d'intelligenza a quel permesso, da gran tempo aspettato, forse preparato colle più sottili e più lunghe arti. Escono: la signora, senza sospetto, li vede partire: raccomanda di non indugiare troppo … Ma che?… torniamo subito!… stia quieta!… dice il volpone, rassicurando la madre con un sorriso di beato, mentre di stiancio vibrava, coll' occhio grifagno, dardi a rinforzare la vittima nel suo divisamento. Breve! essi partono: passa un' ora: ne passano due: tre: un giorno, due giorni, un anno… tutta la vita!… La madre non riavrà più la sua figlia, che chiudono le porte d'un convento, ove dopo lunga seduzione la trasse il perfido amico… Nè preghiere, nè istanze, nè recrimininazioni o minacce non prevarranno. La figlia è perduta. Ella stessa potrà in seguito gemere, fra quelle inesorabili mura il fiore di sua giovinezza, e il cuor della madre tradita, macerarsi nel rimorso e nel rammarico; estinguersi in un lento martirio, sarà tutto invano.

La storia desta ribrezzo, ma è vera. Quella madre l'abbiamo vista noi, ce la presentò la marchesa Caucci, ottima dama, che nel nominarla fe' un gesto misterioso. e accennava a qualcosa di straziante; perduta la figlia, quella madre indossò il lutto profondo e con esso discese nel sepolcro.

Del resto anime prave ce ne han dappertutto: soltanto cambiano scena. Ora che pei conventi non c'è più da far bene, annaspano a un'altra maniera, diventano mestatori, demagoghi: attossicano le anime e portano via i figli e li appestano in modo diverso: sempre eguali sotto altra maschera, come il serpente è lo stesso anco se muta la pelle.

Miserande cose udimmo dei monasteri, specialmente delle Sepolte vive: le udimmo non già da teste calde, o da personaccie, intese a denigrare la religione e i suoi ministri. Potrei nominare gentiluomini di specchiata virtù; prelati stessi, che poi tennero seggi cospicui nell' alta magistratura di Roma.

Distaccate dal mondo, le sepolte vive diventavano estranee alle loro famiglie, a segno che perfin la morte dei genitori, si annunziava in comune. — È mancato uno dei vostri. — Pensasse ognuna chi era. Nessuno penetrava in quella tomba: il medico solo ne sapeva qualcosa, ma poco parlava e niente poteva. Cosa accadeva là entro!… raccontavano d' una che fuggì minacciando alla priora di soffocarla, se non le apriva l' uscio tremendo… La più parte finivano tisiche o pazze.

Nei secoli venturi si stenterà a credere che il fanatismo religioso, ossia la politica sociale mal camuffata sotto il manto di religione, creasse tai lenti martiri di creature umane, degne dei bonzi indiani o dei selvaggi del Messico. La società civile li ha condannati per sempre non solo coll' abolirli, ma col permettere e col mantenere solo le sante professioni di suore di carità e di maestre. Le quali senza distaccarsi dal grembo umano, penetrando anzi dov'è più grande il dolore, dov' è più urgente il soccorrere la miseria, sono un attestato vivo del legame fraterno nei vincoli della carità terrena, o per meglio dire celeste.

Un giorno in Roma assistemmo ad una professione di monacanda, e ce ne rimase un senso di cupa tristezza. La giovane signora piena di vita e bella, piangeva, piangeva, dissero, di commozione; a noi le pareano lagrime a dirotto e qualcosa più che per tenerezza. Certo fu spettacolo odioso: e del cardinale Patrizi, che presiedeva ci restò memoria di spavento. Vedevamo Virginia de Leyva innanzi a noi, e non ci parea vero di uscir dalla chiesa, distrarre gli occhi da quel sito inumano e lugubre, venir via all' aria aperta, alla vita.

Fra le bellezze di Roma ci colpirono le fontane. Oh! bello e stupendo spettacolo le fontane di Roma! Quella dell' acqua Paola, a mio avviso, le supera tutte: è per ciò che trascrivo da un' antica guida la presente notizia: son due linee, ma esatte:

« Fonte dell' acqua Paola; sull' alto del Gianicolo fa pomposa mostra di sè questo fonte dove confluisce la maggior parte dell' acqua Paola così detta da Paolo V Borghese, che la condusse in città. Giovanni Fontana e Carlo Maderno ne furono gli architetti. Si compone di un gran prospetto o facciata a tre archi maggiori e due minori, adorni di sei colonne, delle quali due di granito bigio e quattro di granito rosso d' ordine jonico. Nel mezzo dell' atrio, che termina con un frontespizio o timpano, è collocata la grande iscrizione indicante l' opera di quel pontefice. L' acqua esce impetuosa da tre grandi sbocchi maggiori e da due minori. Sembran fiumi questi tre sgorghi, ed è tale il fragore, che accompagna la loro caduta, da superare la facoltà dell' udito. La massa di queste acque si compone di 1,800 pollici di Fontaniere. Questo fonte fu quindi restaurato ed abbellito da Alessandro VIII ed Innocenzo XII con la direzione di Carlo Fontana ».

Il bello è che si arriva di fianco, intendo che si è ancora in una contrada laterale, fuori di vista della fontana stessa, quando già si scorge il bacino: ei si presenta dunque improvviso e non si capisce cos'è. Si vede un piccolo mare, un pelaghetto di limpide onde, che fluttuano e susurrano in ampia conca marmorea. Quella sorpresa a noi strappò un grido, perchè ci venne a mente la patria laguna.

Anco in Parigi v'han fontane magnifiche, ma non pare producano l'effetto arcano di quelle in Roma. Forse la è cosa personale: per noi forse la piazza della Concordia ha troppo acri sentori di sangue, e troppe grida mondane all'intorno in confronto di Roma, e della Roma d'allora.

E le fontane di San Pietro!… quel getto maraviglioso, che si slancia come virgulto dal suolo e nel ricader si dilata, e si spande come un velo nella bella aria profonda e trema e traluce in piova di gemme ai raggi del sole! Anco il silenzio aggiunge all' incanto e fa più sensibile il sacro orrore di quel monotono suono… Che dire di tutte le altre in Vaticano e nel cortile di Belvedere, fra le statue, fra i capolavori?… Quantunque io mi riservi di parlare d'arti alla terza dimora in Roma, devo accennare un piccolo fatto che all' arte e precisamente alla mia, si riferisce.

Perchè trovandomi appunto nelle gallerie vaticane io copiava sul taccuino, con uno di quegli ardimenti proprì all' età giovanile, copiava un padre Eterno, di Raffaello, la bella figura che divide le tenebre dal Caos: e mi pareva di far maraviglie, ma un giovane artista, ch'era con noi, figlio del celebre incisore, Ignazio Pavone, mi avvertì, vedendo quelle prove, ch'io gettava la fatica, e mi consigliò a studiare modelli più adatti, offrendomi egli stesso belle teste, tolte dal Ghirlandajo, da Masaccio, dal Lippi, da Giotto.

Quella Roma pareva più indietro auco nell' arte, ma era più avanti!… Bisogna però dire che dalla cosmopoli venivano tutti gli artisti del mondo, e su ciò posso in anticipazione spendere una parola.

Nello studio dello scultore Tadolini per esempio si girava come in una piccola città, dove i committenti affluivano da ogni parte della tèrra. Di androne in androne, di studio in istudio, non si sapeva da qual parte voltarsi.

Il solo monumento della principessa Giovanna Regum Sombre da Sirdanah, delle Indie orientali, si componeva di non so quante statue, bassorilievi, ornamenti… Prima la principessa, in costume indiano. Fra le statue simboliche l'indigenza, sotto le vesti d'un povero; poi la carità; la statua de! marito in uniforme all' europea; e quella del nipote; il quale s'io nomino è perchè al Quirinale si mostrava un quadretto come suo. Forse ci sarà ancora; in quel quadretto il buon nipote, quanto rozzo pittore e niente prospettico, ritrasse la pia principessa Regum Sombre, nell' atto di presentare ad un vescovo alcuni regali.

Certo, per finiti lavori, Tadolini stava al disotto di Tenerani, ma anco per compiere un monumento così grandioso con una popolazione così varia di statue ci volea polso, e immaginativa… E qui, senza la tema di riuscire indiscreta, vorrei dire come alla rimembranza di quel grandioso monumento mi vengono singolari pensieri. L' assolutismo è più favorevole alla donna di quello che libertà? Il dubbio può parere sproposito. Esso però mi balenava di nuovo in questo stesso anno alla viva ed esatta descrizione che mio marito, reduce da un viaggio in Russia, ci fe' del monumento inaugurato or ora a Pietroburgo, a Caterina II, il quale conta non meno di sette statue, intorno a quella della imperatrice, colossale come la gran figura storica di quella czarina. Essa è in piedi, il manto sulle spalle, il diadema sulla fronte, lo scettro in una mano, la corona d' alloro nell' altra, imponente, anzi imperante anco nel bronzo. Ai suoi piedi la principessa Dashkoff, presidente della sua accademia, e poi Potemkin e Souvoroff, il poeta Derjavine e tutti i raggi che formarono il sole di quel secolo a cui Caterina diè il nome. Questa donna ha potuto fare cose grandi, o in bene o in male; ma le ha fatte. Nella libertà dove la strada è aperta ad ogni mediocre si potrebbe mai tanto? Oppure la questione deve essa voltarsi e dire — all' ingegno giova più il privilegio? — Sono dubbî e nient' altro.

Tornando alla vita di Roma io dirò che una parte assai simpatica ci fu quella dei diagôts: cosa nuova per noi, usuale ai romani, paurosi dell' aria.

Abitavamo in via Pontefici e un lungo pergolo, col suo bravo diagôt, dava sul corso. Da quella specie di cameretta sospesa vedevamo sfilare tutto il fiore dell'aristocrazia europea e presso ch' io non dico del mondo. In nessun paese si sono incontrati più abitualmente che in Roma tanti re e regine e principi e principesse d'ogni contrada: di che i Romani si davan pochissimo per inteso. Ogni giorno una maestà di novo. Oggi una regina di Spagna, domani un re di Baviera e Don Miguel e Don Carlos e principi e principesse, spodestate o in seggio. Visitavano il papa, che subito restituiva la visita: si scambiavano regali, complimenti e benedizioni.

Le maestà visitavano quindi gli studî, comperavano, davano commissioni ai pittori, agli scultori, che le accettavano di buon grado, e appena ito fuori dello studio l' auguste committente, ne segnavano la macchietta col carbone sul muro: lo imitavano per celia ne' gesti, nel parlare ne facevano insomma cagnara, ma senza metterci malizia, con quella disinvoltura, con quella naturalezza ch' è nei costumi romani, tanto avversa ai gravi ninnoli dell' etichetta… Imponentissima cosa ci parvero anche le ville; ma più della loro bellezza ci fermò la opulenza veramente romana dei proprietarî; i quali non meno che re, tenevano aperte quelle ville al pubblico tutto l'anno, e in taluna occasione davan spettacoli a loro spese, munificenza unica, e non si poteva trovare che là principi, i quali gettassero per uno svago al popolo migliaja di scudi. Come soltanto nello Stato pontificio, vigeva ancora il diritto di primogenitura e il resto del codice feudale. Quando ad uno dei principi di Roma nacque in quegli anni il primogenito, ventotto villaggi festeggiarono tal nascita, perchè il principe vi tenea jus-patronato…

Non è dunque a stupire se qualcheduno dell' alto patriziato non è poi così tenero dei nuovi venuti buzzurri, che irriverentemente fecero tabula rasa di molti antichi privilegi, rimasti, anco dopo le riforme di Pio IX, a quei beniamini del potere, chiamati a Roma miracoli di san Pietro: ossia nipoti o parenti ai Pontefici. Non già ch' e'non si sentano italiani, e disprezzino la grandezza d'Italia. Cosa impossibile ad un Romano per quanto grullo o inselvatichito, in non so quale cinismo d'uomo e di cittadino.

Soltanto ei non possono andar lieti delle stremate ricchezze, e dei privilegî. Quando le nuove generazioni si saranno persuase che la importanza delle famiglie nobili, tuttochè grande, non è la prima d'una nazione, ma che nella vita d'una nazione si chiudono le vite di cento famiglie, allora diverran buoni patrioti, e porteranno nel « Daghela avanti un passo » d'Italia, uno slancio e una fermezza degna di loro. In quel tempo la cosa stava assai lontana, e pel nobile romano tutto si riassumeva nel conservare la famiglia. Il prevedere acciocchè un don Marcantonio sposi una donna Tarquinia, dai quali procederanno altri che si sposeranno alla loro volta per moltiplicare ogni maniera di don e di donne.

Per popolari e alla mano eran dessi! in caso d'inondazione del padre Tevere portavano legne, ajutavano, da semplici manovali. Caritatevoli, umili; le loro signore, appartenenti alle più gran case cattoliche del mondo, taluna avente diritto al titolo di altezza reale, non pertanto si notava in loro, come nei patrizî veneti, l'essere alla mano cogl' inferiori, tenersi sull' alto cogli eguali. E in tutto e sempre un' umiltà permalosa, e da guardarsi bene di prenderla sul serio: perchè il più delle volte la boria non mancava, solo avea trovata la maniera di coprirsi colla veste dell' umiltà.

Però anco la apparente bonarietà paesana valeva e varrà sempre meglio di quella stupida musoneria elegante, che s'inspira al bon tono d'oltremonti. Del quale i giovani patrizî e i nuovi ricchi si tingevano fino al ridicolo. Le novelle di Roma importanti si aggiravano su incidenti di questo tenere. — Il principe tale fece venire tutte le livree da Londra. — Il duca tal altro prestò il suo corriere al lord tale per un gran viaggio — acquistò la più bella carrozza di Parigi, darà un the danzante o uno steeple-chase nella sua villa ecc. Quanto male portasse questa smania di forestierume, in giovani potenti per ricchezza, nascita cospicua, ognuno lo immagina. Credo sia la vicenda di tutti i patriziati d'Italia e chi sa d'Europa; è perciò che il medio ceto dappertutto li soperchia e per ingegno, buon volere e all' ultimo per ricchezza.

È ben vero che tutti ordinavano quadri, statue e sostenevano le arti: ma v' ebbe chi fece di più; allora e dopo fu Torlonia, un nuovo ricco, un tabaccaro, come lo chiamavano i patrizî, perchè avea l'appalto dei tabacchi. Ma quel tabaccaro seppe asciugare il lago Fucino: dar terra al paese, pane alla terra e alle braccia lavoro.

Raccontavasi d' uno fra i figli della nobiltà romana, nome storico, il quale mercè il prestigio della nascita e d' altri pregi proprî innamorò di sè una giovine romana di minor condizione, promettendole di sposarla. Passato quindi in Inghilterra, corsa una vita brillante col fino fiore dell' alta vita inglese, dimenticò il primo affetto: forse provando fra il lionismo delle eccentricità forestiere nova ansa alla boria nativa, vergognò anche delle disuguali nozze. La giovane abbandonata, donzella romana, capace di forti affetti, di squisito amor proprio, morì di crepacuore. Grande compianto produsse quella morte e le esequie furono tali da sollevare in altri tempi una rivoluzione.

Lungo le vie di Roma la bella vergine, tradita dall' indegno patrizio, fu portata in un feretro, sparso di fiori, vestita di bianco, coi capelli sciolti, un concerto di maledizioni e di obbrobrio all' autore di quella sciagura e alla nobiltà, che si scusava riprovando o fingendo riprovare il giovine traditore.

Uno di questi obiti drammatici vedemmo anche noi nel 1846 in Roma: la giovine parimenti romana, ma tradita da un figlio della perfida Albione. Passò sotto alle nostre finestre, sul Corso a san Lorenzo in Lucina, in veste di raso bianco, sparso di fiori, con perle al collo; le chiome discinte; sicchè vederne di sera fra le torcie il viso pallido, e udire il mormorio lamentoso era cosa da lasciare profonda impressione: spettacoli che non se poteano vedere che a Roma. Egualmente memorando ricordo, ma senz'ombra di amaro, aveano lasciati nel 1842 i funerali d' una principessa romana, sebben nata a Londra: o a meglio dire in cielo, dacchè la fosse un angel, in terra. Le virtù della Guendalinda Borghese, nata Schrewsbury-Talbot, fra le più cospicue, anzi storiche irglesi, son troppo note per parlarne, ma giova il toccarre di volo. Dissi angelo non potendo trovare altra parda ad esprimere la bontà e la celeste bellezza, incarnate in una creatura umana, e lo ripeto.

La Guendalinda fu dunque angelo in casa sua cone sposa d' un marito invidiato e madre felice: ma sopra tutto angelo nel tugurio e al letto dei poveri. Ella soleva, deposto l' abito da gran dama, uscire a piedi, ella che possedeva non meno di quaranta equipaggi in graduata scala di magnificenza; allontanarsi guardinga e premurosa dalla principesca dimora per portare agli infelici soccorso di denaro, e quello per avventura più splendido del suo affetto.

Perchè non soltanto li confortava, ma le parole e gli atti di non comune delicatezza con cui accompagnava il soccorso ne addoppiavano il senso, e a una povera vecchia malata, la quale si schermiva, temendo destarle schifo, ella gettò le braccia al collo, la baciò, la mondò di sue lagrime… a tanto giunse nel suo slancio d'amore quella pia che ben interpretava la parola evangelica: Cristo esser rappresentato in terra da' poveri.

Non è dunque a stupire se alla sua morte improvvisa fu un lutto per tutta Roma: i più nobili cavalieri romani trassero essi la bara, e dopo le esequie di Raffaello mai fu visto per quelle storiche vie più alto compianto. Esso non si fermò alla illustre donna, perchè i tre figli la seguirono poco dopo, lasciando il vedovo principe quasi demente per dolore.

Di tutto nel 1842 si parlava con passione e si leggevano inoltre poesie analoghe, fra cui il seguente sonetto di Francesco Fiorini.

Presso al Tamigi un Fior di Paradiso La Fe' piantò con somma cura un giorno; Bello ei crebbe in quel suol più che un narciso; Tanto era il suo candor di grazie adorno! Quindi la carità, fiammante in viso, Del Tebro il trapiantò nel bel soggiorno, E qui destava in tutti amore e riso Per la fragranza che spandea d'intorno. Ma il grato olezzo anche su in cielo ascese, Onde averlo fra loro ebber desìo L'alme ch'ivi si stanno al gaudio intese Allora a un divin cenno Angiol partìo, Che svelto il Fior con tre germogli, il rese All'amor de'beati in grembo a Dio.

Dopo quattro mesi d'incantatrice dimora in Roma si venne dunque ai congedi, ai preparativi di partenza, i quali furono dolorosissimi. La cara nostra madre soprattutto non sapeva capacitarsi di lasciar la sua Roma divina. I suoi lagni espresse in una poesia…:

Ahi! mesto il dì, che svellermi Dovrà da questo suol; Donde spiccò già l' aquila Alteramente il vol. Nè la gran mole splendere, Più bella a' rai del dì Vedrò, che a Pietro estollere L' Italo genio ardì; Nè della luna al pallido Raggio brillar vedrò L' arena, che de' martiri Il sangue, ahimè! bagnò; E un vale agli atrii, ai portici Ai templi io dovrò dir, Ai fori, che di Tullio Gli alti concetti udir….

La diresse a monsignor Muzzarelli, egregio uomo e poeta; oh! poeta, com'egli stesso diceva, dalla testa ai piedi. S' andava a trovarlo nella sua bella abitazione del Campidoglio; egli declamava versi, veniva lui, recitava versi suoi o non suoi, ma belli perchè buon gustajo e di ottima scuola. Mi duole di non trovar più la risposta ai lagni di mia madre, ma ne so il ritornello grazioso, con cui la invitava a restare:

« Chè degli umani è patria Quella ov' è lieto il cor ».

Persino in istrada lo udimmo recitare poesie; tanta era la sua passione. Passione comune a tutta Roma, dove le adunanze letterarie, l' una all' altra si succedevano, e mi ricorda di qualche bella sera alla. Tiberina. Là conobbi la Rosa Taddei, cara donna, semplice, amabile, all' antica italiana, vuol dire senza smorfie, caricature, muschio e spiriti forti: ma dottrina, buoni studî, spontaneità e affetti. Vederla si sarebbe presa per una cameriera e non per la celebre improvvisatrice. Fra le tante poesie, udite da lei, colpì una di cui basta dire il soggetto per intendere che non è cosa volgare. Ad un fanciullo visto a danzare sopra una tomba, e strappò vivi applausi. Della Rosa Taddei possedo un sonetto fatto per un disegno del mio album e lo trascrivo:

Questo che vedi fra lo sparso armento Chinato a terra pastorello umile, Tutto a ritrar le vaghe agnelle intento, Che ai pascoli guidò fuor dell' ovile; E quei che il mira, e trae dal giovanile Trastullo a nova speme alto argomento E par dica: — Oh! vien meco, alma gentile, Nata ad oprar del mio miglior portento. Son Giotto e Cimabue, che dal profondo Sonno l' arte destaro, e fur lo sprone Del genio onde l'Italia impera al mondo. Natura ad ambi in man pose il pennello, E senza lor nè Giulio, nè Leone Vanterian Bonarotti e Raffaello.

S' intende che la letteratura del tempo s' informava prettamente al classicismo, e che Manzoni a Roma poco si conosceva. Mi sovviene anzi di aver visto, in mezzo ai mille preziosi autografi, posseduti da monsignor Muzzarelli, una lettera, non mi ricordo precisamente (in quell' età in tanta letteratura ci stavo per forza) se di Perticari a Monti, o di Giordani a Foscolo; ma d' uno di questi classici ad altro classico famoso; in essa si dava notizia della recente publicazione dell' Adelchi e del Carmagnola, in termini di cui basta a dare idea la conclusione. « Povere lettere italiane! a cosa mai son ridotte! » A noi, veneratori di Manzoni, la cosa fece colpo: sebbene quelle tragedie non tenessimo, eccetto i cori, fra le prime perle delle corona d' un tanto maestro.

Esso morto, l' Adelchi e il Carmagnola furono proclamate dai campioni moderni, fra cui Paolo Ferrari, e il nostro bravo Angeloni-Barbiani fra le più sublimi opere di tal genere, che conti la umana letteratura. Vedano e confrontino i giovani, e traggano da ciò un augurio ed un indirizzo.

Oltre a monsignor Muzzarelli ci praticava in casa un sapientissimo dantista; erudito antiquario e grecista. La sua astrazione profonda lo rendeva allora celebre: da tanto sempre immerso negli studî, non sapea nemmanco d' esistere. Un giorno di orrendo caldo (corse per tutta Italia un vento africano) e in Roma credettero di morire, entra dalla buona marchesa Caucci il professore, abbottonato come in gennajo, e dice assorto, secondo il solito, — fa caldo, oggi mi pare — Immaginarsi se vollero ridere!… Benchè sempre nelle nuvole, il buon dantista innamorò d' una buona e bella ragazza. E credeva d' esserne riamato e di sposarla. Ma un dì vide la famiglia venirgli incontro e annunziargli che la sposava un altro. Il professore rimasto perplesso, dovette discendere dal cielo dove commentava Dante, per domandare il perchè d'una così strana avventura. Non gliene lasciarono il tempo dicendogli: — Vi daremo Tullia — Tullia era la sorellà — sposerò Tullia — rispose il buon professore — e la sposò. Pretendevasi che la signora Tullia a castigare delle distrazioni letterarie il marito, avesse, ella, distrazioni mondane: e che di più lo trattasse fieramente, dandogli dell' aringa affumicata e al caso bastonandolo.

Ma noi ebbimo in vece una prova del potente affetto materno di quella donna e ciò escluderebbe, mi pare, qualunque distrazione. Un dì il professore viene a noi con la sua figlietta: cara bimba in sui sett' anni. Lo preghiamo che ce la lasci a pranzo: lui ce la lascia e va a casa. Dopo mezz' ora ecco una scampanellata. È il professore cogli occhi fuori della testa — Per carità, scusino. — La mia Tullia è talmente disperata di non aver la sua creatura con lei, che son venuto a riprenderla; teme che la vada in pericoli, la trema, peco manca non la si getti dal balcone, scusino per carità… Gli si restituì il prezioso deposito. E lui non finiva di ringraziare e protestare… così amano le donne romane.

Innanzi di partire da Roma fummo ammessi per la seconda volta a visitare il santo Padre.

Bella usanza a cui la politica ha mescolato il suo fastidioso elemento: allora erano gli aggregati d' una società divina, come la chiama il venerando Tommaseo, i quali prestavano omaggio al loro capo spirituale: e veniano ricevuti senza differenze, fossero principi o semplici borghesi; bastava che fosser civili. Adesso l' han fatto diventare un significato, una dimostrazione che ripugna ad ogni cuore italiano e con che costrutto, mio Dio!… non riedifica il potere temporale e rovina un poco di più il sentimento. Gregorio nel 1842 si mostrava, ancora più che gagliardo, assai fiero nell'aspetto, e tale si conservò fin poco prima della sua morte, come dirò più avanti.

Ci accolse nella sala della Biblioteca, intrattenendoci assai nobilmente e parlandoci di Treviso: nominò gente vecchia antenata, o morta e sepolta da un pezzo. Rammentava i particolari più minuti, e d' una casa signorile dove solea praticare da Frate in compagnia del Guardiano degli Scalzi: lodò il bel metodo di educazione di quella casa: cioè a dire, che quando lui e il suo superiore andavano a far visita, appena comparissero davanti la contessa madre, via subito le contessine figlie: confinate nelle somme stanze colla servitù: — Quelle eran famiglie!… quello era un sistema! — affermava Gregorio, accennando minaccioso del capo, e disapprovando il moderno. Ma noi che conscevamo, precisamente in quel caso, gli effetti ci demmo un' occhiata!…

Gregorio, come tutti i vecchi robusti, della sua robustezza se ne teneva moltissimo. Per lo che a udir le congratulazioni che il babbo nostro gli faceva del suo bell' aspetto, si mosse tutto arzillo e ci condusse lui a vedere oltre due magnifici vasi donati da Napoleone a Pio VII, e un vaso di malachite donato a Gregorio dall' Imperatore di Russia Nicolò.

Il papa ci precedeva tutti con quella gamba potente, ci faceva da cicerone con un' enfasi, con una vita… Un piccolo incidente ci fe' sospettare una cosa vicina alla verità. La poca simpatia dei clericali pei Tedeschi, e la propensione spiegatissima pel clero francese, di cui a Roma vedevamo stuoli continui.

Mio padre, ricevuto incarico-di portare al pontefice i saluti d' un alto magistrato austriaco del Veneto, colse il momento in cui il sovrano camminava. Due volte cominciò e mai il Papa gli dette ascolto… mentre l' ottimo padre mio declina nome cognome e titoli dell' alto magistrato tedesco, Sua Beatitudine guizzava da una altra parte come non dicesse a lui.

Gregorio, simile al vescovo Soldati, era capacissimo di portare tuttavia odio alla nazione d' Arminio in grazia di Enrico IV, ch' ei sarebbe stato capace di far girare alla piova, scalzo come il suo tremendo antecessore Ildebrando. Da Gregorio solo ebbimo un lieve cenno di seduzione monastica; perchè, mentre ci regalava corone e crocifissi d' argento, sogguardava tenere e faceto alla mia sorellina, bimba in sui sette anni, e con vezzo autorevole le dicea: monachella. Forse il mite aspetto di lei gli suggerì quell' epiteto, perchè con me quantunque solo in sui tredici, e benchè facessi i più lodevoli sforzi per mantenermi nel più edificante riserbe, Sua Santità non si volle impicciare.

Devo però avvertire che tutti in famiglia si sentiva per la clausura un orrore istintivo e invincibile.

Il nome di Gregorio mi richiama Tivoli, dove restano di lui opera romana, i Cunicoli, ossia la foratura d'un monte, d'onde si slancia l'Aniene e forma una cascata bella quanto quella di Terni.

Se non che al guardarla al punto di partenza, questo dei Cunicoli è impossibile a chi non c'è avvezzo… Camminare sull'orlo di quell'imponente fiume, che volgendo rapido tanta massa di onda va inesorabile verso la china, è cosa che dà il ribrezzo, vengono le vertigini, bisogna voltar via e dimenticar quel pacifico orrore.

Parimenti cupa, misteriosa è l'impressione alla Grotta della Sirena. Affacciarsi ad un antro, ad una specie di pozzo coperto; udir là entro un inferno, intravedere appena una massa rotante che non si sa di dove viene e dove vada, lo si può intendere ancor meno: perchè nessuno scopre i sotterranei avvolgimenti in cui si perde quell'onda, e già ancora che potesse scorgerla glielo impedirebbero i vortici, i globi rimbalzanti, che pajono lana..; cosicchè il fragore giunge all'orecchio in confuso come una battaglia di mostri sconosciuti…

A Tivoli visitammo una ferriera, e fu bello in mezzo a quelle stupende viste di natura, ammirare le grandi opere dell'industria, e vederle da quel punto elevato in mezzo allo squallore della campagna romana.

Il ritorno fu squallido e tetro; il tempo chiuso, e già a Tivoli di rado è sereno e non mente il proverbio:

« Tivoli dal malcontento O piove o suona a morto, o tira vento. »

Il tempo chiuso facea dunque parer più malinconica quella strada: non un campo seminato, non una villa, non un casolare: ma terra incolta, sparsa di sterpi e di male erbe. A metà del cammino scorrono le acque albule, le quali contenendo gran quantità di zolfo, varie parti alluminose di sali e di argilla, tramandano orrido puzzo. Noi varcammo il pestifero fiume, sul ponte della Solfatara, e non fu senza una certa curiosità e insieme antipatia, che vedemmo quelle onde rapidissime e d'un colore celeste opaco, insolito ai fiumi del mezzogiorno. Sarà quella stomachevole puzza a persuaderci di questo; ma la ci parve acqua diversa dalle altre. Dicono l'addormentarsi in quelle parti pericoloso, anzi letale.

Noi sia la monotonia d'una strada deserta, dove non si udiva che il suono delle rote, sia la stanchezza poichè in compagnia di pochi, ma gioviali buoni amici veneti, e artisti romani avevamo fin dalla prima aurora girato per Tivoli: corso sui somarelli e, come dicono a Roma, fatta un po de cagnara, sia tutto assieme, ci colse un insonnamento di piombo, reso più fastidioso dalla puzza e dall'obbligo di scuoterlo, pena la vita…

Quando Dio volle si passò il Teverone (Aniene) sul ponte Mammolo, s'entrò per porta San Lorenzo e si tornò in via de'Pontefici.

Ossia a casa a fare i bauli e non per Napoli, che la famosa nostra carrozza ci contendeva… Di grandi avventure incontrò quel venerando rotabile: ne citeremo le due più importanti e che fanno al caso nostro.

Una domenica s'era in corso: noi dentro; il cocchiere e il servitore in serpe; da un momento all'altro si sente una scossa violenta, un moto repentino che ci suscita un'impressione disgustosa e rimanda indietro. Stavamo per domandare il perchè di quel brutto urto, quando una confusione di voci e un alterco ci fermano le parole in bocca: stiamo in ascolto e si ode un — Che possi cascar morto! — slanciato da un uomo al nostro cocchiere, Cencio… Accorre il dragone a cavallo, rotando la spada, Cencio crede che gli voglia tagliare la testa e si dispera; noi non si capiva niente. Di novo stavamo per isporgere il capo e interrogare, quando un'altra esclamazione, da uno della folla, ci spiega che l'aveano proprio con noi — Son Veneziani, — dicea quella voce, — Accidenti alli Veneziani! — rispose l'uomo, che primo scagliò il romanesco augurio al nostro povero cocchiere.

Ecco ciò che era accaduto. Cencio, il più bravo vetturino del mondo, non poteva aver pratica di stare alla fila, nel corso d'una gran capitale. Egli non consentì dunque prontamente al moto retrogrado, in momento in cui moto retrogado occorreva: il timone della nostra carrozza die'un tal urto a quella davanti, che la passò fuori per fuori, con danno della carrozza e spavento dei signori seduti dentro, a cui anche fece male nella schiena e nei fianchi. Ognuno può credere che confusione, che busìo, non sapevam cosa dire, cosa fare; Cencio piangeva come una vite tagliata. Intanto ci vedemmo quei signori furenti allo sportello, chiederci e notare il nome e cognome nostro e del cocchiere, sicchè mio padre il giorno dopo fu citato in giudizio e condannato a pagare una trentina di scudi.

Piccola cosa per verità; troppa a chi non mise da parte nelle spese di viaggio l'indennizzo d'una carrozza sciupata … ma ci tolse d'impiccio il generale Zamboni.

Capitano sotto l'Austria, poco, anzi pochissimo contento di come lo si trattava nella i. r. armata, passò in quella pontificia, e divenne generale; pochissimo contento anche là. Forse ciò dipendeva dal suo carattere, proclive al lagno, anzi al pianto, che sebben valoroso di sua natura, spesso spesso lagrimava.

Antica conscenza di mia madre, appena ci seppe in Roma, ci venne a trovare e ci fu compagno fido, ma querulo nella nostra dimora. Alle riviste, alle parate ci facea avere buoni posti, a noi non parea vero che quel bel generale con tante piume, fiocchi, cordoni, nel passare, caraccolando vicino a noi, ci ammicasse con un sorrisetto di protezione e d'amicizia.

La qual amicizia raggiunse uno scopo pratico, facendoci risparmiare quel gruzzoletto di scudi, che dovevamo pagare per l'incidente surriferito. Perchè mio padre, presentandosi in giudizio col generale a fianco, fu assolto senz'altro … La fu precisamente così… e devo aggiungere che, accomodandoci assai tale effetto, ci lasciò vergognosi e sgomenti come d'un sopruso; noi avvezzi alla scrupolosa giustizia dei tribunali austroveneti; noi che stupivamo di trovare da Muzzarelli, da M. Silvestri, da altri gran personaggi uditori di Rota, di trovare persone e raccomandarsi, a pregare favorevole il giudizio di qualche importante causa… Formula certamente, ma a noi la riusciva cosa strana e non permessa, e non l'avremmo creduta se non la vedevamo c'o nostri occhi e spesso, fra le altre, nella persona della famosa marchesa Guìccioli; ancora bella, ancora bionda ed elegante, seducentissima nei modi, come allorchè piacque al Corsaro inglese, e fu celebrata ne'suoi canti.

La seconda avventura della carrozza fu che si ruppe e l'acconciatura la si stimò una spesa di oltre ad una settantina di scudi.

Ciò fece sì che per quell'anno si dimettesse ogni idea d'avanzare, e si tornasse a casa: girando al nord in vece che al sud; contentandoci d'aspirar di lontano il caldo sospiro di Partenope bella, chiudersi in core il desiderio di vederla a un'altra volta.

Mio padre non intendeva scherzi in fatto d'economia; uno scudo fuori del conto era come mille. O si può o non si può: tutto il resto non contava per niente: vero cittadino inglese o d'America. Egli ci avrebbe lasciato girare scalzi pel corso di Roma, pei Boulevards, o pel Regents street di Londra piuttosto che varcare d'un punto la linea proposta. Inutile parlare; meglio lavorare di spaghi, e fare, occorrendo i calzolaî, i guantari e aspettare: egli non guardava in faccia a nessuno e rispetti umani non ne conosceva. Taluno sorriderà a questi racconti; ma io rispondo coi fatti: con uno stato modesto, quell'uomo intraprese grandi viaggi, profuse per lo nostra educazione, sparse in segreto oh!… quanti benefizî. Dio e i poveri soli sel sanno. Eppure fu mantenuto il reddito, e sebben di poco, ogni anno aumentato il patrimonio.

E questo è dover sacro. Nessuno ha diritto di possedere, ma tenendosi depositario scrupoloso, davanti alla società d'un patrimonio ch'essa lo autorizza a considerar suo, e che gli dà il mezzo di difendere, deve prepararsi a renderne conto severo a sè medesimi, alla famiglia ed alla società.

Così la intendeva mio padre, sublime socialista, così la intendo io, e tale selvaggio sentimento d'onore ci impresse nell'anima che a mancarci correremmo rischio di perdere la ragione; ond' io lo porto ad esempio.

Ritorno - Siena - Firenze -Lutti domestiei
Rimpatrio - Studî - La Ristori a Treviso.

Non so se pel caldo o per d sposizion nostra o per dar ragione a quella goffa idea superstiziosa, che vieta d'intraprender niente in giorno di venerdì, tenuto nefasto, il nostro viaggio non andò senza disgustosi incidenti.

Primissimo a Pontemolle, in quella magnifica via trionfale, ci cadde il cavallo di rinforzo. Si dovette perder tempo e viaggiare di notte in arie malsane e malsicure. Il giorno appresso mia sorella ammalò a Viterbo: piccolo malore che i locandieri cercavano di farci comparir più serio, per trattenerci… prospettiva tanto orribile, che appena la febbre die'alla piccola inferma un po'di tregua ci rimettemmo in via; nell'atto di montare la fu una tragedia. — Ma che vuol partire con una bambina in questo stato?… ma non ci pensi neanche, ma avrà a pentirsene!… — esclamava la ostessa… E gli altri a farle coro: nè ci volle di meno del sangue freddo di mio padre, per resistere a quella confusione, vedendo anche la bimba sbattutella: ella per altro, smentendo gli oroscopi, prestissimo ebbe a rinfrancarsi. Tolto quel pericolo restava il guajo del caldo: guajo serio…

S'intende che si partiva all'alba, si camminava fino alle nove, alle dieci, e quelle ore di crescente ardore potevano dirsi veramente crudeli. Perchè di mattina a'cavalli essendo prescritto l'andare adagino, in principio quel caldo ce lo godevamo tutto: che se taluno di noi provasse talvolta a impietosire il cocchiere — Cencio! susurrando colla maggior buona grazia — oh vai un po'prestino!… — Ma signore, o signora i cuai … (i cavalli) rispondeva. Cencio non conosceva al mondo altra autorità che i cuai: rispettava tutti, ma veramente importanti non credeva che le due bestie affiate alla sua esperienza. Quando udivamo quel non possumus non c'era che sbassare il capo, e adattarsi ad andare colla vettura del Negri.

Poi, raggiunta la tappa, si sostava fino alle cinque: sempre a scuro come i polli, dopo pranzo si riprendeva il calvario fin che a sera, si toccava l'altra tappa. Ignoro se nell'estate quella regione dell'Italia centrale sia sempre così, ma quell'anno ci parve di traversare il deserto africano. Oh! veramente avremmo potuto invocare con Carducci i Lucumoni e gli Auguri: nè mai una goccia di piova, nè mai una sola nuvola compiacente venne a temperar quell'ardore… noi avvezzi ai lucidi battuti delle nostre abitazioni, e là in quelle orribili tane, non ci avean che mattoni, sudiceria, pulci e odore di sevo. Qualche momento si provava a scappare dalla nostra prigione. Per me, tuttavia memore delle randagie abitudini d'infanzia, quel correre per lande sconosciute sotto la sferza del sole mi sarebbe piaciuto. Ma chi poteva resistere?. Appena fuori bisognava correr dentro. Pochi alberi; ombre corte, immobili, ardenti e bruciavano anche quelle.

Il caldo parea cosa solida, quasi da prendersi colle mani, e il ronzìo continuo, fortissimo degli insetti gli dava più corpo: come se fossero le stesse molecole di quell'incandescente atmosfera a cantare e a turbinar nello spazio. Dopo il pranzo le cose prendevano migliore aspetto, sapendo che s'andava verso il fresco, si pativa con pazienza. Cencio con qualche gotto di quei vini traditori in corpo diveniva un altro. Disinvolti, egli e il servitore, prendevan commiato dagli osti con famigliarità cordialissima. Nel montare a cassetto si udiva un annamo! e quando Cencio parlava romanesco, era buon segno. I cuai ne sentivano il benefico ascendente, le semi rozze pigliavano il trotto, e via per monti e per valli, fin che si facesse l'entrata trionfale al pessimo albergo d'un povero paese per passarvi la notte. Qui avverto: si sopportano meglio mali inevitabili, che quelli che si possono mitigare. La nostra diletta madre si immaginava, in ogni città, che fossimo giusto smontati al peggiore albergo. Il suo caro marito lasciava sbollire per lo più quella collera… o la quietava subito, cambiando alloggio. Si prendevano su i fagotti e si emigrava, una volta, anco due, per tornare al primo luogo; e bisognava vederla come rimaneva senza parole, tra avvilita e faceta, a ogni delusione, così spesso ripetuta e sempre nuova…

Come cambiare a Montefiascone, Acqua Pendente, alla Scala a S. Quintino?… ringraziar Dio di trovarlo un tugurio! Non parea vero, e quando si toccava la meta, le osterie, come a don Chisciotte le ci apparivano castelli incantati: già nei logaccioli del mezzodì, sogliono gli abitanti al tramontar del sole uscire di casa, e stare sugli usci a chiacchierare. Ciò fa allegria. Nei villaggi dove, non c'è che la locanda, è altrettanto bella la solitudine: e nell'estate i potenti sentori dei prati dove passò la falce, imbalsamano l'aria.

A Bolsena vi fu anco una cenetta di trotte pescate nel lago. E che bellezza quel lago al chiaro di luna, che siti incantevoli! Si comprende che Sestini vi s' inspirasse alla Pia; quella leggenda in versi, che allora tutti sapevano a memoria, e recitavano con passio, nesecondo portava il pietoso fatto della bella Sanese, che traversa, ombra dolente, l'immortalità per bocca del suo Dante.

Passa paesi e varca monti, fra gli altri Radicofani, varca fiumi torrenti, anco il celebre Arbia, giungemmo in Siena, primo respiro dopo Roma. Che dire d'una nazione che fra le città non capitali, non fra le primissime piazze d' industria e di commercio ha una città come Siena? Che ha tesori solo nella sagrestia del suo duomo, gemma esso medesimo fra le gemme d'Italia?… Una sagristia ch'è un'accademia con quadri, uno attribuito a Raffaello! A Siena ci fe'cordiale accoglienza l' egregio uomo conte Spannocchi, a cui eravamo raccomandati.

Colonnello sotto l'Austria, conosceva i nostri paesi, ne conservava nobile e cara memoria. Guida nostra per Siena ci condusse all'accademia Fisiocritica e là femmo conoscenza con un sacerdote, scienziato, il professor Baldacconi. Ilare di carattere, alla buona, alla veneziana egli colla massima naturalezza ci spiegò varî fenomeni fisici, mostrandoci animali petrificati, sostanze minerali, preparati in cera e una famosa raccolta d'uccelli.

Baldacconi in quel ricco museo pareva un re e ne portava le insegne, ossia un bel parrocchetto a colori in ricamo sulle spalle d'un camiciotto di tela russa: cosa che risvegliò il nostro buon umore, senza che se ne avesse a male, anzi ridendo lui primo.

Un'altra singolare conoscenza ci accadde incontrare a Siena, avendo passato coi conti Spannocchi una sera a veglia, in casa di certe dame inglesi. La ragazza, disinvolta, bella, istrutta poteva offrire modello per una statua della regina Margherita di Navara. Tanto maestosa e avvenente! Eppure la si prestava ai più graziosi giochi di bussolotti!.. e a veder con che appiombo tutto britannico facea sparire anelli e gingilli bisognava, rimanere gradevolmente sorpresi, più ancora che del prestigio, della prestigiatrice; grazioso contrasto formava la presenza d'una signora della Vandea, francesina amabilissima, colta, aja presso il colonnello Spannocchi. Quella si buttava via quanto la inglese, miss Giulia Mastress, si sosteneva nella sua disinvoltura: ma intanto noi passammo la sera fra tre nazioni, che tutte si davan la mano per farci gli onori di Siena, e dagli aperti balconi vedevamo la Lizza riboccante di equipaggi, piena di gente, e un mondo e un' eleganza!..

La popolazione sanese, gentilissima fra tutte, non ancora potea dirsi libera del vecchio peccato italiano, il municipalismo. — Brutta gente quei Fiorentini! — ecco una parola che ci parve udire talvolta — e ci occorse vedere in altra congiuntura processioni, e gonfaloni portati con aria di bravura e di sfida come al tempo delle funeste guerre civili fra provincia e provincia, fra contrada e contrada! Del resto ogni città italiana pretendeva a una supremazia: ognuno possedeva il primo pittore d'Italia, il primo scultore d'Italia, e l'autore d'un romanzo da mettere subito dopo i Promessi Sposi.

A Firenze cademmo, fuori che il babbo, tutti malati di febbre e si piantò, allo scudo di Francia, un piccolo ospedale. Chiamato il medico per fare un salasso a mia madre, questi indugiò: viene, si scusa: — Che tornava allora di Bologna dove fu a consultare per la marchesa Ricci, morta pochissimo dopo il consulto.

La povera mamma ebbe questo colpo inatteso in un momento, che batteva la febbre, e le si apriva la vena. Il papà va alla posta e trova la notizia della morte di sua madre: egli fece la piazza del Palazzo Vecchio sotto l'ardente sole, che gli parve di dar volta al cervello.

Quelle due care donne, così vicine a noi per legami di sangue e d'affetto; così lontane fra loro nella condizione sociale, ma eguali nella dignità di madri-famiglia, ci lasciarono ambedue nello stesso momento, e furono due bruttissimi colpi ai miei genitori.

Nel vivo rammarico della mamma per la morte di quella che le rappresentava la genitrice sua, ebbe la compiacenza di rivedere il marchese Giacomo, suo cugino, e sopra di lui c' è da spendere qualche parola.

Figlio alla zia Maria Vendramin nei Ricci, allora defunta, l'aspetto di Giacomo teneva un po'di quell'attraente d'un giovane nobile al tempo di Luigi XIV. Tuttochè semplice, disinvolto, si vedeva il gentiluomo: non alla buona e dimesso come fratelli. Giungeva in carrozza con treno da signore, e sebbene vestito a lutto profondo, tradiva abitudini di eleganza, eletta quanto più sobria.

Nel parlare incantava: e quando, uomo del gran mondo, narrava le corse avventure, volavan le ore senza che uno s' accorgesse. Similmente a tutti i cadetti di famiglie patrizie, Giacomo provò in gioventù istinti di ribellione, messi nobilmente a profitto dell'infelice suo paese. E in uno dei tanti moti delle Romagne, credo in compagnia di Orsini e di Napoleone III prese le armi. Fuggitivo, esule, attratto dall'eterno miragio del patriotta italiano, andò dopo molte vicende a Parigi, regnante Luigi Filippo. Sotto quel liberalissimo governo fu, senza ragione carcerato, tenuto al segreto niente meno di quanto si potesse durante il despotismo; rimandato per diligenza per la più breve fuori del suolo francese.

Dopo questo tratto della indegna polizia parigina, come la chiama Pellico in una lettera a Confalonieri, mai più Giacomo volle saperne di politica: e tenne il proposito. Ma fu infelice lo stesso, perchè, sposo d'una bella e cara gentildonna fiorentina, dovette vedersela languire nella salute e nella mente. Oltre di che a lui diede travaglio fierissimo un giovane, pel quale tanto fece ma non abbastanza: di ciò, senza tornare su questo proposito, avrò da occuparmi più tardi.

S'intende che i nostri buoni amici di Firenze ci vennero subito attorno e questa volta ci si trovò uno de'più illustri uomini d'Italia, Giuseppe Borghi.

Borghi allora non vestiva da sacerdote, e viveva irregolarmente: ma non appariva ridicolo. Serio, grande nell'errore come nella gloria, poteva destare il dispetto, la collera, richiamare le più grandi riprensioni, ma non gli scherni. Aveva nella figura qualcosa di Puoti: tarchiato, più basso che alto nella statura; un po'di pretesa alla galanteria, se vi fosse riuscito, o dirò meglio, se vi avesse pensato. Ma in quella gran mente non istavano a loro agio che le cose sublimi. Portava la parrucca, ossia un frontino: frontino ribelle, che nel calor del discorso e nel mover del capo perdeva spesso l' equilibrio; ond' egli, senza avvedersene e dopo una concitata dimostrazione, una formale protesta, ghermina quel povero frontino alle tempie, ci dava una tirata per fissarlo come solea fissare nei suoi versi splendidamente le idee.

Note sono le poesie di Borghi, e fra gli altri l' inno alla Speranza, che comincia con quella stupenda apostrofe alla vita.

Bellissimo canto è il Museo di Versailles, di cui Borghi stesso ci declamò qualche squarcio; e quale effetto producesse udir lui con voce tonante, con estro di creatore e di poeta recitar le terzine relative al colera di Palermo, portatovi per la ostinazione di Ferdinando Il di Napoli, che volle si ricevesse in porto una nave infetta!.. È a ciò che allude il verso di Giusti:

» Non volse l' anno in lui sentì Palermo La vecchia razza ».

Luigi Filippo rimunerò largamente Borghi e credo gl' impartisse una onorificenza, ma del carme di Borghi odo poco parlare: esso per le cose storiche descritte, e pel modo merita popolarità e menzione durevole: e i giovani ci guadagneranno a conoscerlo.

Rimessi in salute, cominciammo a girare, a visitar la nostra bella Firenze, la quale ci parea piccola dopo Roma, divina lo stesso.

Taluno si meraviglia che non la si dolse quando ha cessato di essere capitale. Oh! che bisogno ha Firenze d' una reggia e d' un parlamento?… La è capitale della lingua e del pensiero italiano, fin da quando eresse una tribuna a Raffaello ed una a Galileo. Prediletta fra le cento città italiane, sofferse meno d' ogni altra e ottenne più di tutte, senza rivoluzioni sanguinose, o assedî o terrori, sicchè nel suo giglio fiammante splende, più tranquilla ma più limpida e più continua, in un solo fascio, la luce della nostra gloria.

Una domenica dopo pranzo, per porta san Gallo, passando di fianco al gran parterre, e sotto l' arco di Francesco I, traversammo il Mugnone, e via cheti, cheti giungemmo alle Maschere, dove tre buone vecchiette, che parevano l' insegna della loro osteria, tenuta all'antica come una villeggiatura del secolo scorso, ci approntarono la zuppa e le bistecche.

Da Vaglio veniva la banda, che suonando allegramente ci passò davanti, in mezzo alle gentili torme di montanini vestiti a festa, e in così dolce idillio, fra la sempiterna bellezza dell'Apennino toscano e i cari sentori di quell' erbe partimmo.

A Bologna, fatta sosta, ivi trovammo i frutti d'una nobilissima affezione, nata fra i versi e l'amore d'Italia.

La nostra cara Isabella Rossi, divenuta moglie del conte Olivo Gabardi: stava a letto puerpera del suo primo nato. Conoscemmo la brava sua madre Elvira Giampieri Rossi, autrice di lodati racconti per l' infanzia.

Poi si fe' ritorno a casa; senza nessun danno fin l' ultima sera dove il malo influsso, cominciato a PonteMolle ci die' ultima sassata e quasi la più seria. Perchè ci sorprese un uragano fra Padova e Treviso, e se i cuai non erano le tanto costumate e prudenti bestie che sappiamo, le ci avrebbero rovesciati e gettati in fosso. Convenne attendere, indugiare, trovarci nel massimo bujo d' una notte da ladri in una strada deserta e, in quegli anni, poco sicura.

Si presero dalla prima capanna in cui c' imbattemmo, alcuni villani, che in carretto, armati di falci e di forche ci fecero scorta: ciò che parve anche pittorico, quando, al chiaro di vivi lampi, brillava l' acciaro delle falci, e tanto che ci saremmo creduti in teatro, se i tuoni che seguivano ai lampi roboando in quella notturna, paurosa solitudine non fossero stati qualcosa più che quelli ammanniti al pubblico dentro le quinte.

Nell' autunno di quest' anno 1842 andammo per pochi giorni a Padova: ivi si trovava Amico Ricci, e con lui si fece vita: il conte Gröberg de Hemsö, con sua figlia; il grande naturalista e geografo che tutti ricordano: sordo, gli si parlava col mezzo d' una trombetta d' argento; nonostante a ciò, assiduo scienziato, mai non mancava a nessuna solennità.

Del Congresso di Padova, splendida memoria per la presenza di Giacomini fulgente allora nella sua gloria, campione in tremende lotte, vinte fino alla morte.

Con belle feste onorò Padova, gl' illùstri che nel suo antico ricinto si radunarono. Di Andrea Cittadella fu la sua apoteosi. Pedrocchi aprì il tempio della gola, e le sale affrescate da Demin, Paoletti e Caffi. Poco degne veramente furono quelle pitture del luogo e del momento, e a noi, reduci da Roma, quelle di Demin assolutamente spiacquero, perchè, scorrete e sbiadite, loro manca perfino il gusto con cui sogliono i frescanti abbellire le decorazioni. Anco per ciò che spetta gli ornamenti delle stanze Pedrocchi si fe' poco onore. Lui che abbasso in quelle sale uniche, prodigò, auspice il genio di Japelli, il marmo, e con semplicità romana si contentò di segnar capovolti gli emisferi; nell' appartamento superiore ammassò tende, tendine, vetri, cristalli, imbrattati non so di cosa, a dare ad intendere che son marmi: e se ciò aguzzasse la lingua e la penna del marchese Selvatico!… Già irritatissimo di ciò, che s' imbiancava dappertutto la sua Padova, chiamava tal farnetico — la febbre bianca — capacissimo d'averlo inventato lui, con quello spirito, il grazioso epigramma. E un altro ne inventò, che vale un tesoro; e fu giusto allora, perchè il conte Ferri, con ottimo intento, a cui venne meno il discernere, fe' una raccolta di scrittrici italiane: ma per ingrossare la lista, ci mise dentro anco la più tapina, basta che la avesse scritta una strofa. A quella raccolta l'arguto critico mise un nome terribile, e la chiamò insettologia: nome che non ha mai più perduto, senza che il merito del generoso raccoglitore ne andasse scemato. Nelle sale Pedrocchiane conoscemmo anche Rosini, autore della Monaca di Monza … e poi quanta altra gente illustre, là convenuta da ogni parte d' Italia!…

Una cara, sebben fuggitiva, memoria famigliare è tuttavia presente al mio spirito. Due giovani sposi, in tutto lo splendore della gioventù, della nobiltà, della ricchezza, vennero in quelle sale davanti a mia madre e l'abbracciarono e la chiamarono cugina. Erano il conte Sebastiano Giustiniani e la contessa Anna Venezze, figlia della defunta Orsetta Mocenigo-Venezze, cognata di mia madre. Questo in apparenza è un piccolo fatto: in realtà è grande, perchè la cugina non apparteneva più alla loro casta, e riconoscerla davanti a tutto il fiore della aristocrazia, e tenerci come prossimo anche noi tanto lontani, questo dimostrava in loro cuor nobilissimo, aperto agl' impulsi più schietti e spontanei, che l'aquila imperatoria scolpita nei loro stemmi, per quanto antica e gloriosa, non potè intiepidire.

Da Pedrocchi si passavano ore ed ore, e anco là si piantava un piccolo areopago. Il prof. De-Mori, Medoro, Furlanetto, Stefani, Berti, Giuseppe Carraro, condiscepolo all' ottimo zio; Carraro, giovane di prontissimo ingegno, sapeva tutto: versatile, quanto tenace nel ritenere, tanto avea a memoria una pagina della Sand, quanto poteva far la nomenclatura esatta dei sassi e delle conchiglie nel territorio euganeo. Furlanetto, un' urna di antica sapienza, e ci stavano talvolta davanti Beppo Carraro e Furlanetto come due secoli « l' un contro l' altro armati ». Beppo con la cieca foga dei giovani, oppositore ostinato, analitico ardente, volea andare avanti, ma sempre per dire di no. Il vecchio prete conservatore, stretto alle sue tradizioni, intendea conconfermarle. Dirgli a Furlanetto che non fu Antenore a fondar Padova!…

Gli ultimi giorni, precisamente quando si doveva andare a veder la Taglioni, il nostro caro mentore ci chiamò a consiglio di famiglia. Egli ci mostrò un gruzzolo di marenghi (allora se ne potevano mostrare) pronti per quella sera. Da un' altra parte ci avea una raccolta di stampe magnifiche, offertaci dall' abate Pertile, che ci ospitava. — Se li spendiamo nel teatro vanno tutti in una sera, e di quelle gentili pirolette della Taglioni non ci resta niente. Se prendiamo le stampe s' adorna la stanza da ricevere, ci rimane una bella memoria e abbiamo per sempre sott' occhio i capolavori dell' arte italiana!… che ne dite? — Si optò per le stampe. La Taglioni ci figurammo averla vista, ma tuttavia nelle nostre stanze l' amor della bella Clizia piange la crudele puntura, e i putti dell' Albani festeggiano la rapita Proserpina…

Con questo non si vuol pretendere di abolire i ballerini; ma già chi profonde ai pollici d' acciajo ce n' è tanti!.. e fu detto in quegli anni d' un elegante, il quale perchè non so qual diva, scendesse di carrozza, senza toccare lo staffone, le fece arco della schiena alla vista di tutti, sì che per molti anni gli restò il soprannome.

Nel novembre di quest' anno morì l' avo nostro il marchese Sale senza vedere mia madre. In tal circostanza ella ebbe alto conforto nell'affezione dei figli, uno dei quali, Ottaviano, le donò il ritratto di lui, espressamente per lei tolto da una stupenda tela di Busato: stupenda e miracolosa, in quanto il vecchio non seppe mai che un pittore osasse dal buco d' una chiave ritrarre la sua effigie.

Al dono della copia di suo figlio, notevolissima, una delle poche da lui compiute, e ch'io conservo, mia madre rispose con rime simili al sonetto da lei fatto per la sua, questo ch' io trascrivo.

II ritratto di mio padre.
Ecco l' austera fronte ed il sorriso Cui non sai dir se vero o finto sia, Nè quello è pur che sul materno viso Di dolcezza e d' amor sì mi rapia. Ma quale all' affacciarmisi improvviso Di quell' immago o fascino o malìa Sì m' incatena, che più in lei m' affiso Men le luci da lei staccar vorria? A che stupir…. se quelle leggi sante, Cui natura scolpìa dell' uomo in petto, Non sofferse pur mai spregiate o infrante? Padre! se tanto il tuo dipinto aspetto Parlami al cor, che fora se spirante M' avesse il labbro tuo pur benedetto!

A quella bell' anima ingenua le arti sorelle davano il conforto, che le sublimi consolatrici riservano a chi le intende.

Tornando alle notizie artistiche dirò, che appena rimpatriati, fin dal 1842 ricominciai a studiare il disegno. Grande incertezza regnava fin d' allora nelle nostre scuole; chi predicava il classicismo, chi presentiva il purismo, chi non conosceva che il barocchismo. Da copiare davano le litografie francesi o il Morghen, e fu di questi ch' io mi accinsi allo studio, talora sotto la direzione della mia illustre concittadina Rosa Bortolan, già avviata al suo nobilissimo arringo; talora d' un altro compaesano scolaro dell' Accademia, adesso pittore in America, Nicolò Facchinetti.

Verso quel tempo lessi e imparai i Sepolcri d' Ugo Foscolo: compagna nostra di giochi, d' entusiasmo e di studi veniva a passare qualche giornata nel recinto delle mura, quasi campestri, una fanciulla trevisana di varia cultura e di grande ingegno. La Caterina Bernardi a dodici anni traduceva Virgilio, componeva bei versi, valida operatrice d' aritmetica in cui, proseguendo, poteva avanzarsi fino all' algebra. Con tutto questo, alla mano come noi: il baco di sdottorare la non ce lo avea proprio niente, sennò ci sarebbe ita in odio. Ma tanto la ci stava a recitare i Sepolcri tutto d' un fiato; gl' inni di di Manzoni, di Mamiani, di Monti, le traduzioni di Maffei o d' altri, tanto a mangiare la polentina col sugo, a lavorare in orto, o a lustrare in nostra compagnia, e coll'ardor di marinaro, gli arnesi d' ottone dello scrittojo, o a far la tappezzeria. Per giocare poi la ci andava di vena. Nel cortile respicente all' orticello domestico, dietro la casa, si radunavano i ragazzi dei padroni di casa: una giovane grandina e due maschi; oltre ad essi i figlioli degli operaî addetti alla fabrica, onoravano di loro presenza quel convegno spesso numeroso, lieto sempre. Da certi muriccioli, da certi ammassi di pietre antiche, si spiccavano salti come chi si slancia da una rupe nell' onda, e si cadeva a perpendicolo sull' erbetta. Oppure sui muriccioli stessi venivano improvvisate comedie e drammi, che finivano colla morte, immediatamente dopo la quale si prendeva il contravveleno e si risuscitava, per continuare a recitar nuovi pezzi, con tirate da teatro diurno, che ci parevano il non plus ultra della bellezza.

All' ora di lavoro si tornava su e molte volte una di noi leggeva il Tasso o le novelle del Grossi.

Venivano ad ascoltare anco le donne di casa, e al pezzo che descrive la morte d'Ildegonda fu un gran piangere. Quando leggevo io ci mettevo, con un po'di malizia, molta enfasi, provando fin da allora una certa ambizione di movere gli affetti. In qualunque modo il mio uditorio non si facea pregare a intenerirsi o ad irrompere in lagrime, sul più bello delle quali entrava talvolta mia madre; ella che dianzi potè veder co'suoi occhi dalle finestre, tanti demonietti in orto, esercitarsi nei ludi spartani, ora trovando quella desolazione si smarriva e rimanea tutta sgomenta, fin che non le dichiaravamo il perchè del pianto, onde la comprendeva trattarsi di un cambiamento dalla scuola classico-pagana al più sfogato romanticismo.

A questo proposito mi piace dire quanto divergenti le opinioni de'miei genitori, perchè mia madre mi porse l'Eneide, il papà i Promessi Sposi: essi credevano di darmi gli antipodi e mi davan babbo e figliolo, o meglio nonno e nipote. I Promessi Sposi divennero il mio pane quotidiano, dacchè li lessi la prima volta, li rileggo ogni anno, li so a memoria, e sempre vi scopro qualcosa di nuovo, e ogni volta benedico l'ispirazione di quel divino, che li ha composti… Per quel che concerne gli studî, ottimo era il metodo di mio padre… volea spiegare le zone della terra? Tagliava una pesca, e a chi imparasse subito la andava in dono: qual bimbo non desidera di inghiottirsi un globo terracqueo sì dolce?

Istessamente pratico, si manifestava in ogni ramo dell' insegnamento. Ci conduceva a uno svago: tornati a casa si facea la descrizione semplice, schietta, alla buona, senza ambagi e senza incertezza raccontando le cose viste. Oggi la baruffa d' un' osteria di campagna a cui per accidente si assistette: domani l' abbruciamento della vecchia, in mezzo ai fochi d' artifizio, come si usa in mezza quaresima. Insegnava entrar subito in argomento: afferma la Brujère — avete a dir che piove? dite piove: Nelson inculcava per piano di battaglia — subito addosso. — Qual nemico resiste?…. e qual idea fugge aggressa da uno spirito sicuro di sè?

In questo modo con poca fatica si ottiene molto. A poco più che undici anni io sapeva a mente un quattrocento versi di Virgilio, tutti già da me tradotti. Dieci canti di Dante, e un milione d' altri versi. E studiare? …. Mi vergogno a confessar che non istudiavo proprio niente, quel pochissimo che non potevo fare a meno, favorita da una singolare memoria; versi non mi riusciva farne, con mio dolore, chè mi parea d' averne diritto fin dalla nascita.

Qui passo ad argomento più attraente, interessantissimo sotto ogni riguardo.

Ci avea in quegli anni a Treviso un teatrino Dolfin, sito in una contraduccia a cui dava il nome. Questo teatro si apriva di rado, e soltanto quando il teatro Onigo stesse chiuso; nè l' apertura succedeva senza qualche preliminare pratica di pulizia e d' ornamento. Di pulizia dacchè, proprietà d'un buon vecchio Ebreo, ricco da altra parte, quel teatrino serviva di magazzeno ai formaggi, e vi venivano depositati in gran copia quegli enormi dischi neri, tutti luccicanti d'ontume. Dietro a tale mercanzia è agevole supporre s'aggirassero i soliti rosicanti, frequentatori dei magazzeni; laonde, innanzi di trasformarsi a tempio dell'arte, e'si volea dargli di fieri colpi di scopa e un po' di ventilazione per disinfettarlo. Quindi acquistato qualche braccio di percallo rosa o celeste, del più lustro, se ne ornavano i palchi a festoni; e con un tantino di vernice e di ori e di argenti o altre stoffe sgargianti si dava un po' di allegra ciera alla piccola sala.

Bello e' non lo facean diventare quel teatrino, ma ogni vecchia rimpannucciata, a forza di liscio, e di cipria in un dato momento, la si trasforma, e chi ignaro delle condizioni di quel luogo entrava nelle solenni circostanze d' illuminazione o di serata, lo trovava press' a poco un teatro come un altro.

E in questo appunto venne la compagnia Mascherpa nel luglio del 1843. Compagnia di cartello al servizio di S. M. il re di Sardegna. Prima attrice Adelaide Ristori: caratterista Dondini, Gattinelli generico. Adelaide Ristori, appena ventenne, bella d' una bellezza, che poi maggiormente si sviluppò, come un fiore delicato nello sbocciare diventa magnifico, la si poteva tenere, benchè giovanissima, attrice perfetta.

La prima sera, rappresentando Ricco e povero, la venne fuori colla paniera delle lingerie, lavorate pei signori Boissard, messa con la più squisita semplicità, da vera operaja, un pettine bianco le sosteneva una modestissima treccia a rota, una vesta senza ornamenti le copriva la persona. Ma sotto quell'apparenza dimessa traspariva qualcosa di magico nelle movenze, un soffio misterioso tradiva la gran tragica.

In quel teatro adunque da pochi quattrini la bella musa diede i primi lampi della sua gloria, quando ancora appena la si conosceva in Italia. Certo pochi la videro più seducente di quel tempo, quantunque le mancassero i pregi soliti a contrassegnare ordinariamente la bellezza, ossia occhi magnifici, copia maravigliosa di capelli, guancie di mela ingranata. Il suo occhio bigio, sereno e ben disegnato non mandava il fulgor delle pupille nere, nè i capelli biondo-cenere avean la ricchezza delle chiome corvine. Pallida in viso come la willi, che danza sulle tombe al chiaro di luna, nemmeno una goccia di sangue parea scorrerle sulle guancie di gelsomino; di più la non esprimeva molto, ma, nel recitare queste qualità divenivano vive, assumevano un significato, a cui la bellezza raffaellesca dei lineamenti aggiungeva la sua perfezione: allora lo scintillar del sorriso le abbelliva il volto, allungando nella maniera più gentile il bell' ovato e il mento bipartito da una leggiadra pozzetta; la era maschera da modello non altrimente che le più riputate dell' arte antica e moderna.

Bisognava vederla nella Maria Stuarda, e precisamente nel secondo atto, quando venia fuori a goder della breve libertà nel parco di Fortheringa; parea la gazzella che torna al deserto. Nel brio, nell' impeto della persona avvenente, nella elasticità del passo alato e superbo la incarnava il tipo della regal prigioniera, qual se lo figuravano certo gli spettatori, qual forse lo vide Schiller. Nel mondo delle idee non ci è interruzione, di secolo in secolo il genio ha le stesse visioni, s' inspira alle stesse immagini. La creatura passa, ma l' arte è immortale.

All' annunzio che la andava a Parigi, molti anni dopo, noi tutti tenemmo per certo, che avrebbe affascinato quel publico. E così fu, nessuno capiva niente, ma nel vederla, colla rete d' argento stretta sul capo, e il vestiario poetico della Francesca da Rimini, in quel punto in cui tradisce il suo affetto, e appoggiata alla spalla del padre irrompe nel grido: — Paolo!.. — e richiama il cognato, risoluto e avviato alla partenza, un torrente di note sgorgò dalla sua voce in una nota sola. Tutta l' armonia dei nostri cieli, tutto il sereno della nostra bellezza ondulava in quell' inflessione potente, spontanea, viva, delicata e insieme profonda. La Rachel non poteva competere, essa la musa dei morti, con una musa che in quei giorni rappresentava una nazione destinata a risorgere. Perciò Lamartine bene cantò:

« Toi qu'au tragique Arno la riche France envie »

E e se invidiava la ne avea ben d' onde.

Viaggio a Napoli nel 1844 - La neve sugli Apennini
Firenze - Duprè - Memorabile incontro a Civita-Castellana.

In un giorno pieno di nembi e di tempeste del Febbrajo 1844 ci riponemmo in cammino diretti verso Mantova.

Di questa bella fra le cento città io nomino prima il palazzo del T, il quale, ognun sa, ne porta il titolo per la forma della sua pianta d' un T majuscolo. Non è certo mia intenzione descriverlo, perchè n' uscirebbe un poema; dirò quel che basta a dedurne alcune riflessioni.

Del T Giulio Romano ha istoriate le belle stanze terrene, dipingendovi a fresco soggetti mitologici, eroici. Qua bei cavalli dalle nari ardenti, e scalpitan colle zampe; là i dolci miti di Venere, d' Amore e Psiche. L' orrida gigantesca figura di Polifemo; poi Venere ancora e Psiche nel giorno di nozze: e ognuno immagina sotto al potente pennello, che quadro n' è uscito!… che intrecciarsi e carolar di fauni e faunesse: che satiretti, che ninfe, che najadi, che lieto tripudio di feste fescennine; par di sentirne il riso discreto e di scorgerne l' aria gioconda.

Altra stanza; altra scena; è il fulminato arcangelo dei Pagani, che cade strepitosamente dal cielo: è la caduta dei giganti.

O dove mai s' è ispirato il Pippi, ossia il Romano che questo è il nome con cui lo si conosce, dove le ha trovate quelle figure rovescie, quegli scorti tremendi, quell' insieme che colpisce e interessa?…

Nè il realismo, nè il purismo apprenderanno mai a dipingere, in un Olimpo irritato, Giove imperante, che si vendica e fulmina: meno ancora il precipitare dei giganti dai monti sovrapposti negli abissi della terra e nei gorghi dei fiumi… Chi s' avvinghia ad una rupe, chi è fracassato dai massi, che rotolano dall' alto, chi piomba a capo in giù, chi nel cadere prega a mani giunte, chi sbarra gli occhi ed impreca.

Non v' è certo nessun modello tanto compiacente e tanto bravo da rimanere in quelle posizioni nemmeno un attimo. Sono scene che le indovina e le inventa il genio. Egli prova e comanda il sentimento d' orrore, imprime l' idea d' un fracasso universale, gli alberi svelti da terra, le roccie staccate dal monte, le colonne spezzate, che trasportano in quel precipizio i giganti colpevoli: la prospettiva di bei paesaggi, la evidenza di quel moto, di quella vita bisogna averla in core per esprimerla. Esser poeti; ecco la scuola!

S' intende che ci vuol profondo studio dal vero a nutrire la poesia del pittore, ma con questo solo, e ajutato da soli aridi teoremi, da servile realismo, invano egli trascinerà l' estro sulla falsariga… perchè c' è da ribadire il chiodo: una figura rovesciata a mezz' aria o dove la copia?…

Anco nel palazzo dei duchi Gonzaga v' hanno affreschi di Giulio Romano, in cui spiegò la magnificenza del suo genio e del suo sapere. I cavalli che trascinano il Sole, da ogni parte si guardino e ti riescono di prospetto. Fa piacere e maraviglia veder quei poderosi palafreni aerei, scintillanti per bianchezza, seguir chi li osserva come a un cenno segreto, nel loro corso superbo. Di simile artifizio, in cui riusciva per consumata pratica e magistero di prospettiva, usò per l' affresco della Notte: soltanto i corsieri son negri come la pece; simile per una figura di donna che stende il braccio e tiene un cerchiello; a dritta pare a dritta, a manca pare a manca. Questa piccola reggia dei Gonzaga, con affreschi preziosi, giardini pensili, rende la città di Virgilio interessante: ma le acque del Mincio, che forma in quella celebre e forte situazione un lago, le danno aspetto assai triste, e nei giorni tetri e piovviginosi uno ci si trova in mezzo come in paese di sogni.

Partiti di là, a S. Benedetto, varcato il Po, ci fermammo nella chiesa dei Benedettini per visitare il sepolcro della contessa Matilde di Toscana, l'avo della quale, conte di Canossa, le innalzava il primitivo tempio.

Non vi è certo più nemmeno la polvere della gran Contessa in quel sepolcro, e delle grandi cose da essa operate, pel fondamento del poter temporale non resta che l' ira inutile dei vinti e dei vincitori. Sarà dunque bello, nobile, alto studio l' indagare nella storia qual parte la avesse nel successivo svolgersi dei grandi fatti nazionali, che prepararono l' Italia d' oggi. Se i doni della pia regnante ai Pontefici cooperarono a mantenere italiano, inviolato moralmente il cuore della penisola, oppure se ne ritardarono lo sviluppo. La rivoluzione emerse nel 1848 da Roma: questo è un fatto; ma noi siamo troppo vicini per giudicare senza passione e toccherà alle generazioni future dire la verità: e a quel sepolcro di S. Benedetto dar l' ultimo in pace d' abbominio o di benedizione.

A Modena ci colpirono le belle pitture del Malatesti; e il suo Resurrexit è vivo ed ispirato, stupenda modellatura, rilievo, divino spirito.

Anco dello scultore Obizzi vedemmo egregi lavori, e tutta la reggia del duca di Modena conteneva preziosità artistiche d' ogni genere.

Quel rampollo di casa d' Este rimase nei versi di Giusti e nella memoria dei contemporanei, come il tirannello dei tempi moderni: nè vi sarà chi spezzi una lancia in favor suo, ma non si trova terra selvaggia dove non ispunti un fiore. La corte era artisticamente delle più leggiadre; quadri, statue, giardini, feste, conviti, e un piccolo embrione d' armata, tenuta con grande amore. Tutto modellato all' Austriaca giacchè per tedesco era desso, tutto d' un pezzo, quel regnante; facea un po' da ridere quella cavalleria greve con grandi mantelloni bianchi e squadroni, che un poco più lunghi uscivano dal territorio; ma pur chi prende le cose sul serio è sempre più rispettabile di chi schernisce e trascura.

Un' ultima nota, e mi par singolare e bell' esempio.

Le regio-ducali scuderie contenevano più di cento ottanta cavalli, di tutti i paesi del mondo. Ai cittadini si permetteva montare cavalli da sella di tale scuderia e addestrarsi nella cavallerizza, eretta lì accosto. Per un tirannello la era idea garbata.

Dalle terre fiorite di Francesco II ricche di fiori di ogni clima, in mezzo a cui nuotavano, in belle vasche cigni candidissimi, e trillavano uccelli d' ogni piuma, ci troviamo in una orrida bettola degli Apennini. Tali passaggi ha la vita di chi va per monti e per valli all' accatto di avventure. Eccone una di trista.

Poche miglia fuori di Bologna cominciarono a soffiare Austro e Borea, congiurati a nostro danno: la piova mista a neve fina ed agghiacciata, cadde obliqua dal cielo; sempre più aumentando, man mano che si saliva, di cinghio in cinghio e internandosi fra gioghi dei monti, tutti coperti di neve.

Bella quella solitudine, in mezzo alla tormenta e quel turbinare delle foglie secche, staccate dai rami dei grandi alberi, portate nel vano dell' abisso colla neve, che tutto lo copriva, e lo rendea pauroso come un pericolo di cui non si può misurar l' estensione. Ma per quanto magnifico spettacolo si dovette rinunziarvi, a nulla valsero i cavalli di rinforzo, sicchè fatto un fronte indietro ci ricovrammo a Lojano, patria del predicatore tanto diletto a mio nonno paterno, e vi ci trattenemmo quasi una settimana; dimora niente amena, ma carina a descrivere adesso, perchè sepolti nella neve, carcerati in un covile, ci furono dolci riprese mille incidenti, a cui in giorni lieti appena si bada.

Intanto le abitudini di lavoro, di studio, mai vennero interrotte: il piccolo areopago domestico si mantenea negli Apennini nevosi quanto altrove. Poi vi ebbero grandi emozioni, spessissimo ripetute; l' arrivo delle bare, dei grandi carri, transitanti anch' essi in quel cammino impraticabile; perchè ad ogni trin trin di sonagli, ad ogni schioccare di frusta correvamo tutti, padroni e seguito, tutti alla finestra appannata dal gran freddo, e in furia la si ripuliva …

— Oh! d' onde viene? … vien da Firenze? … allora siamo liberi, siamo salvi!…

— Che! la viene da Bologna!.. — Dalla regina dei fiori non giungevano nemmanco gli uccelletti dell' aria.

La sera ci raccoglievamo in una sala (chiamiamola così) e si barattavano quattro parole coi nostri compagni di sventura, cavallari e carrettieri, gente schietta, rispettosa e di buon umore. Servetta dell' albergo una giovine pallidina, bionda con bei lineamenti corretti ed armonici; io segnai due linee del suo profilo. Questo die' un poco a ridere ai cavallari, a cui la montanina parea brutta anzi che no.

Di fatto per una montanina la stonava con quel visetto di cera, e le gentili occhiaje da signora.

— Oh che! la non vi piace? — chiedemmo ad un omaccione barbuto, stivallato alla cosacca.

— M' ha da piacere il brutto? — E lui: Ecco una risposta che può fornire tema inesauribile a chi studia l' essenza del bello.

Il guajo maggiore stava nel dormire: prima cagione le pulci, che in onta al freddo intenso, saltavano piene di vitalità e di buon umore, e poi le mosche dagli acuti pungiglioni. Mosche cavalline; e la cosa si spiega, perchè attigua alle nostre camere la stalla, piena di cavalli e di animali bovini. Fra essi uno stambecco o caprone non ci lasciava prender sonno, tanto cozzava maledettamente nelle pareti, sicchè in mezzo alla quiete della notte, nel più profondo di quel silenzio di gelo, si sbalzava improvviso:

— Cos' è?…

— Gli è il caprone — In gioventù serve tutto a ridere, anco messere stambecco ci metteva in giolito, e al suono armonico delle sue corna riprendevamo lieti i sogni interrotti.

Riaperta finalmente la via, che cambiamento di scena! Man mano che s' avanzava incontro a Firenze si sentiva un' allegria nell' aria, un tepore nel sole, che ci sviluppavano dal brutto inverno di prima, quasi per magia, fin che in una di quelle giornate di marzo, in cui a' pie' del viaggiatore crescono le viole, si raggiunse la bella capitale toscana.

Non posso dimenticarmi quanto a Pratolino le care sensazioni della mutata atmosfera si facessero più vive, per le bellezze d' arte e per le rimembranze della storia. Tutti sanno esservi nella Villa, che il Buontalenti disegnò pei Medici in Pratolino, una grande statua, detta l' Apennino. È in vece Giove Pluvio, opera del gran Bologna; figura un vecchione pien di barba, e fa atto di premere una roccia d' onde scaturisce l' onda. Dopo scorsa, ossia trascinata una settimana confitti in sorbettiera, trovarsi fra quelle bellezze fu un vero incanto, qualcosa di molle, di passionato, nell' erba, nei zampilli delle fontane e un' aura soave di gioventù nelle rimembranze di Bianca Cappello, ospite un giorno di tante delizie… E cosa ci parve all' appressarci a Firenze, vederci a dritta ed a manca le ville tirate a coltura… tutto un giardino!… E che scintillar di sabbie dorate al sole, che biancheggiar di statue fra gli agrumi, e poi all' ultimo il panorama di Firenze.

All' albergo della Vigna, dove si stette parecchi giorni, tutti i nostri buoni amici vennero a trovarci, e oltre il balsamo dell' aria primaverile ebbimo il sorriso della civiltà più fiorita.

La Rosellini, la Isabella Rossi-Gabardi col suo caro marito, Filippo Parlatore, il professor di botanica, amato per la sua bontà, riverito per la sua scienza, Chiarini, Duprè, Borghi, La-Farina.

Una volta sola ci fe' visita questo illustre e ci lasciò quantunque all' alba delle sue geste, bella memoria.

Alto della persona e ben proporzionato, una certa snellezza ingentiliva le sue membra formose. Vestiva di nero, succinto ma senza caricatura. I capelli alla nazarena, lunga la barba castagno-nera, bipartita, arieggiava nella fisonomia il carattere del Cristo; poichè sebbene serio e grave, il celebre Palermitano non mancava nell' espressione del viso la mansuetudine propria alla immagine di Gesù: espressione resa più evidente assai quando parlava col molle accento siciliano, paragonato da' poeti all' aura « che mormora sulla rosa e non la piega ». Già fin d' allora la vita di La-Farina si complicava di avventure politiche e drammatiche. Profugo dal regno del Borbone, vivea in Firenze colla moglie, da lui rapita alla tirannia domestica e monacale.

Non mi sovviene il perchè la amata giovine fosse contesa al caldo e non volgare amante. Forse per ragioni da medio-evo. In Sicilia quando a una ragazza si vieta un tal matrimonio la scappa. Una bella mattina trovano una scala alla finestra come ai beati tempi dei don Bartoli e delle Rosine, la pecorella è via dall' ovile, e a ciò segue il matrimonio e una vita conjugale, che non tollera nemmeno il sospetto.

La giovine innamorata di La-Farina messa in convento, guardata a vista, con gelosia da monache, le quali però non sì bene presero le loro precauzioni, che la non ci sfuggisse di mano. E bisognava sentir con che astuzia aperse una porticina, di cui dianzi nascose sopra un armadio la chiave: i segnali della fuga, e l' incontro dei due giovani avventurosi, per non più separarsi.

La-Farina scrisse sul mio album le seguenti parole.

« Vero, bene, bello non sono che tre raggi d' una sola luce. — Chi dice d' amare il Bello e non ama il Vero o il Bene mente. — Il vile non può essere nè filosofo, nè artista. — L' adulazione snerva il cuore e spegne la luce dell' intelletto. Volete essere uomo di lettere? Non siate nè avaro, nè ambizioso; non isperate nulla, non temete nulla, accogliete con la stessa indifferenza la corona della gloria e quella del martirio — amate il Vero, il Bene, il Bello — non disperate dell' avvenire, non disprezzate il passato ».

Tutto ciò si risente delle idee un po' vaporose, furieriste, sansimoniste di La-Farina; ma un siciliano profugo, liberale non poteva star pago a semplici aspirazioni moderate e sbiadite, bensì ardentemente volere, scalzar la fabbrica da' fondamenti.

Però l' affezione pura ed intensa per la sposa, la condotta sua come uomo politico, il dolore da lui manifestato per le inevitabili, ma funeste cose avvenute nel cambiar di governo, contrarie alla morale, anzi alla probità, dimostrano ch' ei si mantenne onesto.

Beati i paesi dove l' ingegno è ricco di fede e di sentimenti: perciò io non cesso dal volgermi a quelle contrade inondate di sole, tuttavia incolumi dalla gelata corruzione del Nord. Striscia, è vero, e si cela dietro il terebinto africano la serpe, ma nei serpi ancora c' è vita, e dov' è guasta la si può curare foss' anco al fuoco. Nel mostro incolore, che stermina le popolazioni civili dell' alta Europa è non solo morte, ma negazione di vita.

Oltre a La-Farina conoscemmo Duprè, il giovane scultore, la fama del quale dava presagi di splendida vitalità: adolescente come l' Abele da lui scolpito, morto nella grazia e nell' abbandono delle membra giovanili, già in lui si disegnava l' uomo e lo scultore.

Duprè ci venne a trovare subito il giorno dopo che noi visitammo il suo studio. Forse gli piacque il nostro schietto entusiasmo de' suoi lavori, la statuina di Dante cogitabondo, Caino straziato da rimorsi; la Beatrice, il modello della statua di Giotto, che poi andò in una delle nicchie agli Uffizî.

Venne dunque e colla bella cortesia, coll' amabile ingenuità dell' artista, sedette fra Borghi e La-Farina per disegnare sull' album un Redentore. Lunghetto, asciutto, una figura spirante il più squisito purismo: la ombreggiò collo stesso metodo sobrio e composto, allora tutti ce la invidiarono: adesso la vale un tesoro.

Devo non pertanto riflettere che forse alle pure ispirazioni della prima scuola è da ascriversi il cattivo effetto del monumento Cavour dello stesso Duprè in Torino. Altro è la statuina d' un genio, altro è Dante, altro è tutto che trae il pensiero dalla vita religiosa o ideale, altro ciò che spetta alla vita reale; un vecchio marinajo napoletano mi disse che la via Toledo gli parea tremare sotto i piedi. Per lui il mare era fermo e la terra si movea. Ordinariamente chi spazia nel sereno e vola, quando ha da scendere e camminare straffà per tema di non raggiungere lo scopo. Con ciò si spiega la statua di Cavour, spirito e non uomo, e la Italia spiacevole e per le forme e per l' attitudine.

E Borghi? … non più vestito da secolare, ma grande e nobile anzi di più, senza parrucca, ma senza che la canizie lo facesse minimamente sfigurare. Egli mi lasciò pure un ricordo e quantunque si riporti agli anni giovanili e sia cortesia di poeta, non ho coraggio di trascriverlo.

Devo dire che Borghi, benchè più sereno, ci parve umiliato, presentiva forse la vicina morte. Ci raccontò non pertanto con grazia, d' essere stato a Venezia, che gli piacque assai come città monumentale, ma non per la sua singolare costruzione. — Quei fossi, quei fossi… — non gli andavano a verso. Volea dire i rivi.

Una sera fu da noi passata in casa della marchesa Lenzoni, nata Medici, che le pareti del suo salotto, come lo chiamano, avea affrescate con bellissimi quadri tolti da soggetti del Decamerone. Gentile, nobilissima idea, di quelle che non vengono che a Firenze.

Ripreso il bordone di pellegrini ci avviammo a Roma. A Figline mio padre andò dal professor Lambruschini e stette con lui tutta la sera. A Passignano, seconda tappa, si godette la veduta pittoresca del lago, in antico detto Trasimeno. Bella solitudine, freschezza di ombre, interrotte dai riflessi cristallini delle case, che sorgono sulle montagne intorno il lago.

Al nome del lago rimase un sentore di grandezza per le guerre avvenute fra Romani e Cartaginesi, condotti da Annibale, e sebbene in gioventù poco si pensi alla storia antica, pure una tal memoria non ci lasciò indifferenti, in quanto che le condizioni del luogo portava la mente a pensieri elevati. Veder quelle balze maestose, il sole che, ritirandosi lento come l' onda dallo scoglio, le lambisce e le infoca, e fa pel contrasto ancor più soave la trasparenza della scena inferiore, già allo scuro … Pensare qui successero alti fatti storici, patri; questo sole, dopo tanto giro di secoli, discende adesso come allora: questo lago lo movea a fior d' onda la brezza della sera in quegli anni come oggi. Si vorrebbe interrogar quegli oggetti e nel trovarli muti, questa brama non cessa, anzi s' accresce il sentimento pel quale intendiamo l' anima del creato.

La sera fu da noi passata men male a udire i discorsi dell' oste, inteso a dimostrare che la Russia ambiva impossessarsi dello Stato pontificio, egli allegava in appoggio i grandi acquisti recenti della figlia dell' imperatore, Granduchessa Olga moglie al duca di Leuchtenberg. Noi s' ascoltava senza aprir bocca, memori di certi scherzi toccati all' egregio Thouard, a cui la Polizia pontificia trovò da incriminare un portafogli, o non so che altro lavorino ricamato a fiori, nei quali si notarono certe tinte sospette … bianco, rosso, verde …

Ascoltammo ammirando la facondia, l' acume di quell' uomo dagli occhi neri, dai quali scappavano lampi di intelligenza. O non è di quella bella stoffa romagnola toscana che si formano i grandi politici, o con le insegne del ministro, o col berretto da cardinale?

Trapassando in fretta la bella Perugia nella sua lieta pendice coronata d' olivi e d' ogni maniera di ricchezze campestri, al di fuori, come di preziosità d' arti e di vestigi antichi al di dentro, varcammo il Tevere, al di là del quale è S. Francesco d' Assisi, là ove si fonderà l' importante istituto per gl' insegnanti e pei loro figli. Ivi sono i bei dipinti d' Owerbeck.

Transitando da Otricoli a Civita Castellana, in un giorno piuttosto piovoso, fui sorpresa da un leggero malessere. Per rifarmi più presto mi coricai, pranzai a letto, lasciando aperto l' uscio che, dalla mia camera metteva al salotto da pranzo. Stavo leggendo un libro donatomi dalla impareggiabile autrice delle commedine, la Rosellini, il suo poema dell' Amerigo a cui mise amore come tutti i genitori pei figli infelici, intendo che un poema ora è fatica gettata, e che Amerigo è un usurpatore. Per forza assistevo ad una baruffa di venti, battezzati coi nomi più strambi; i quali congiuravano a danno d' Amerigo Vespucci come quelli pagani congiuravano a danni d' Enea, tanto per offrire a Virgilio il tema d' una burrasca, diventata il modello delle burrasche. Intanto il locandiere, venuto con bel garbo in salotto, chiedeva a mio padre se gli spiacesse di far tutta una tavola con un signore, ospite anch' egli. — È una persona civile — disse il locandiere, affine di persuadere mio padre. — È con sua madre, una signora a modo. — E il babbo:

— Venga pure! … ci terremo compagnia.

Poco dopo intesi uno stropiccìo di piedi e quel mormorio di voci che indica saluti e complimenti reciproci.

Avevamo con noi due giovani compaesani, fratello e sorella; e pranzavano con noi: la ragazza portandomi la minestra mi disse, che gli ospiti parevano persone pulite, e molto a garbo.

Mentre stavano dunque a tavola, io, interpolando la lettura alle cucchiajate di zuppa, non potevo trattenermi dal prestare attenzione ai discorsi della stanza vicina. Udivo due voci soprattutto, due belle voci, una di mio padre, l' altra del forestiere, e facevano un po' di chiasso d' un certo proclama di Gregorio, uscito allora, appiccicato alle mura delle città romagnole. La gente (qui è il sovrano temporale di cui si discutono le frasi) la gente si stringeva nelle spalle all' udire il Papa gridare ajuto, e dichiarare in pericolo la navicella di s. Pietro: rideva supponendo che il pericolo consistesse nell' urgente bisogno di danaro, e il salvataggio possibile non potesse essere che un prestito, il quale subito dopo fu contratto.

Lo sconosciuto commensale facea dunque le chiose a quel manifesto con una grazia, con uno spirito di fiorentineria tanto originale, predicendo che Rotschild, un ebreo, sarà lui per l' appunto a trarre in salvo la mistica nave; pareva la prosa d' una certa poesia di Gherardi del Testa, attribuita a un altro … io in vece di dar retta alle zuffe aeree di Catapulca o di non so qual demonio, nemico al fortunato fiorentino, ascoltavo il forestiero.

Poi il discorso cambiò e vennero tutti a lamentare le divisioni d' Italia. Diceva mio padre:

— Non ci conosciamo l' un l' altro, signore: la muraglia della Cina separa il Veneto dalla Toscana, dal Piemonte e via e via. Veda, noi abbiamo un bravo giovane, che posso chiamar mio discepolo; ha composte poesie popolari, novelle, ed è uno dei valenti ingegni del nostro paese. Antonio Berti … a Firenze nemmeno l' han sentito a nominare. Parimenti intesi dalla nostra amica Rossi-Gabardi proclamare un certo Giusti, primo poeta della Toscana: noi non se ne sa nulla: è la prima che udiamo sul conto di questo giovine, che diverrà, avvisano tutti, gloria italiana.

Non appena ebbe la sonora voce di mio padre proferite queste parole, ch' io non intesi più niente; a mille miglia dal supporre la verità, non capivo perchè, dopo tanti discorsi, diventassero tutti muti: stavo per tornare senz' altro alle baruffe di Eolo, quando la voce del forestiero elevandosi chiara, sebbene commossa, proferì:

— Giusti sono io! — E a questa parola io non voglio aggiungere altro.

Finito il pranzo vennero tutti a me, che non potevo più aver pace; Giusti mi si presentò grande, nobile, faceto, cordiale: con quella fronte di pensatore e in un di poeta: mi ammonì arguto e mordace — di non badare ai medici, perchè non sanno niente. — E io subito l' assalto dell' album: e lui subito a dire di si, senza smorfie, basta che non avesse a scrivere colle penne e col calamajo dell' albergo. Dio liberi! — Presto camerieri in moto … — e andargli a prendere giù nella carrozza la cassettina coll' occorrente. Il che fu fatto: e seduto ad un tavolo di faccia scrisse il Re travicello, e una dedica a me; tutto con bella scrittura inglese, lunga, limpida come i suoi versi. Quest' avventura è inesattamente narrata nella vita di Giusti, premessa all' epistolario, edito dal Lemonnier: ognuno si persuade che la mia versione è la vera, e che a me la memoria non falla.

Quando ripenso a quella sera lo credo un sogno: e dico. — Era proprio Giusti quell' amabile toscano, che rischiarato da un'umile lucerna mettea giù quelle strofe nella pagina d'un oscuro album? … eppure era lui! … era quel grande! … Perchè Giusti fu grande, sebbene qualche biasimo ombrasse la sua altissima fama. Ciò conferma la notizia corsa che morisse di veleno, propinatagli da non so quai settarî, a cui egli parve oscillante nell' amore d'Italia e della gran causa.

Tutte fole, ma da qualcosa trassero origine, nè su questo argomento una parola è male spesa. Tutto importa quando si tratta d'un alto spirito come questo. Giusti fu ben giudicato da Guerrazzi: uno che scote una fabbrica e non tollera ne cadano i materiali. È bene adorare, venerare il genio, ma approvandolo in tutto, anco dove non va, o non si finisce per approvare il male? … Sublime nel rivendicare i diritti della nazione, e nel castigarne al tempo stesso i difetti; primo di tutti il forestierume, peste mai vinta e che pur troppo non ha più in un ingegno così originale, vivo, eloquente, un nemico adatto al suo sottile impero … oh! chi se non quello che proclamava:

« Oh beato colui, che si ricrea
Col fiasco paesano e col galletto,

potea fustigare queste scimmie paesane, che vogliono parer forestiere? … Sublime, pari a nessun altro Giusti non sopportò le baraonde inevitabili colla pacata indulgenza necessaria … Volea la rivoluzione, ma che tutto procedesse a modino … Certamente, vivendo avea agio di raccapezzarsi, e anco di rivedere qualche suo scritto.

Inconcepibile debolezza fu quella degli editori dei Proverbî illustrati, che non ebbero cuore di togliere ciò che andava tolto da un libro, d' altra parte prezioso.

Primo: e non una sola volta egli getta il discredito sugli scrittori, e ciò è male in uno che scrive: dà adito a chiedergli. — Oh perchè la esercitate voi quella professione? … oppure è essa lecita a voi solo? — Nè lo giustificano le scuse premesse: « che non si dia importanza a quanto sarà per dire, ch' è uno sfaticato, che parla a caso … » anzi la pare una malizia per tutto permettere alla sua critica penna. Un uomo come lui dovea ben sapere ogni sua parola importantissima e rispettare in sè stesso le lettere e il publico.

Meno di tutto gli si perdona l' insolenza gratuita alla Sand. Io non conosco a parte la vita di questa celebre persona, e le sue opere tutte. Può darsi che ci si trovi motivo di censura e fortissima. Ma ciò non autorizza quel severo giudizio: della vita lasciando giudice Iddio, per le opere esaminandole senza toccare la vita, soggetta a tali eventi di cui non si può apprezzare la potenza terribile.

Che Giusti disapprovasse la donna che scrive, in questo nessuno può negargliene il pieno diritto. Benedetto pure chi avverte da galantuomo le giovani, ansiose di fama, e le ritrae da un arduo cammino dove, mal guidate, rischiano di perdere affetti e coscienza … Benedetto le cento volte! … ma sempre che sia coerente a sè medesimo: e non dia giù botte adesso, per mostrarsi al caso in altra circostanza benigno ed incoraggiatore; ciò si riscontra nella lettera alla Turrisi-Colonna, che certo gli mandò, con gentile accompagnatoria, i suoi versi. Giusti buono, gentile, schietto, leale la ringrazia, la avvisa di non badare a chi non le consiglia lo studio, e le presagisce la gloria, insomma la incoraggia. Quando nei due mondi si leggono le opere della Sand, e in Boemia v'è una scuola, ossia una letteratura, che si inspira alla potenza di quello stile, tutto infecondo non sarà. Ella ha pur scaldato il core alla causa liberale, e di noi e dell' Italia disse bene, risparmiandoci più che i suoi connazionali non usino. Giusti oltre a ciò fu bene imprudente: e imprudentissimi gli editori: non v' ha figlio che nel trovare offesa la propria madre non desideri vendicarla. Tanto più figli amati quanto quelli della celebre donna in questione, che ne assunsero il nome di guerra, ossia d' arte e se ne gloriano.

In ogni modo avesse parlato così un uomo mediocre in cui si può supporre un sentimento d' invidia; ma un alto spirito come lui … lui gettare una manata di fango al genio! Giusti un gran poeta, un genio lui stesso, egli che sapea quanto costi! …

Passo rapidamente da Civita Castellana per Roma Velletri: ossia sulla strada di Napoli, al quale avvicinandoci sentivamo un tepore, una delizia, un dover gettar via i tabarri, un' allegrezza nel guardare quella vegetazione stupenda; le macchie selvose di Albano, Genzano, la Riccia … A Velletri, dove ci si stette una notte, salimmo nel dopo pranzo la famosa scala del palazzo Lancellotti, lo stesso, io credo, di dove Garibaldi vide dalla finestra fuggire le truppe borboniche nel 1849, e da quel punto ebbimo il primo sorriso della Italia meridionale, perchè ciò che si scopre di là è una maraviglia. Da una parte montagne fiorenti ma elevate coi cocuzzoli al cielo. Alle loro falde pini, cipressi, salici, oliveti che vi formano selve, interrotte da paesi, borgate abitazioni; fra i paesi c' è Cora. Al mezzogiorno la prospettiva opprime, tanto è immensa; come la grande aria toglie il fiato. Dal di sotto, torno torno comincia una pianura che si dilata, si spande come un mare, tutta campi a solchi regolari, tutta prati di felpa verde soavissima. Man mano che quell' onda s' allontana men distinti appajono i particolari, fin che termina all' orizzonte la scena; qua e là si scorgono i promontorî e l' isola d' Ischia. Tutto in ombra, tutto segnato da striscie azzurre e in quella incertezza l' anima apprende una bellezza di più. Non si sa dove cielo e terra finiscano, e dove comincia il mare: tutto è fuso in quell' atmosfera lucente, tutto si libra e sospende in un perpetuo bacio. Discesi in piena Palude Pontina, fatta sosta a Capua, lontana, oh ma quanto, dalle delizie d' Annibale, entrammo in Napoli.

In vece che una gran cupola in aria e due pensosi cavalcatori britannici, che la ammirano, fra le rovine di un' ampia solitudine, la vicinanza di Napoli ci fu rivelata da un via vai di carrozze mortuarie nella strada del Campo: il turbine della gran metropoli lo annunziarono i morti, ed era vita anche quella.

Il nostro ingresso più che modesto; uno dei cavalli zoppicava; dovevamo scendere alla Vittoria; un cicerone per via ci disse:

— Eccellenza, venite a Nuova York.

— Dov' è? …

— Sta qua, Eccellenza, lasciatevi condur, signorino! — A noi, perplessi, giunse la pietosa voce di Cencio, implorante pe' suoi cuai.

— Signor, andemo alle Minorche.

E ci andammo: vico del Piliero, in vista del mare, nè più cercammo altro alloggio.

Una primavera a Napoli - Puoti - La
Guacci a Capodimonte - Roma - Classici e romantici.

Descrivere una bella primavera in gioventù a Napoli par di dipingere un brillante. Chi lo dipingerà quel guizzo di luce in cui è l' iride in mille faccette, che ne fanno una sola? … La pittura dà un povero brillante, e le pagine una povera idea.

Nè intendo soltanto di accennare alle bellezze naturali, intendo alle persone, alla società, al fiore di quegl' ingegui, allo splendore di quella vita, che malgrado il reggime dispotico, erompeva, come il fuoco, dal suo terreno e infiammava gli spiriti. Molte volte intesi dir male dei napoletani, e accusarli di gravi peccati. Certo non istà a me confutar quelle accuse, ma devo dire che nè in tutta quella primavera, nè l' anno dopo, fra la eletta ed ampia accolta di persone là conosciute, non ci fu una sola, che ci lasciasse impressione sinistra dei Napoletani. Eravamo raccomandati ad una egregia famiglia Castelli, congiunti del celebrato anatomico trevisano cavaliere Cortese. Rimasti due giovani don Luigi e don Francesco alla testa della numerosa famiglia essi disimpegnavano più uffici ad una volta; nell' armata, nel commercio, e nella bella cultura, essendo nello stesso tempo padri a una florida schiera di sorelle, e protettori alla loro madre.

Questo esempio di singolare attività ci stupì non poco, dacchè ci aveano detto che a Napoli nessuno fa nulla. E che subito dovessimo proprio imbatterci noi in modelli simili non ci potevamo persuadere …

Oltre ai buoni e bravi Castelli, con altre persone preclare si strinse amicizia; e tutti ci favorivano di giorno e di sera: il salotto di New York brillava continuamente di stelle napoletane, e a raccoglier quei discorsi c' era da farne di bei libri; sempre ben inteso senza pedanteria, esclusa dall' animazione, dal brio di quella gente. Qui mi si affaccia un ritratto che vuol due tocchi e col cuore.

Il marchese Basilio Puoti, conosciuto per tutta Italia qual guardiano della lingua pura, passava anco per uno di quei tipi originali, di cui la nostra vita uniforme va sempre più difettando. Buono quanto la stessa bontà, vi avea nei suoi modi una certa bruscheria, un che di burbero, fatto apposta per avvincere i cuori, poichè dà la sicurezza d'un' anima aperta e leale. V' hanno, è vero, di quelli che simulano queste qualitâ e vi nascondono i loro brutti pensieri, ma tale non era il caso, e Puoti si mostrava in tutta la sua sincerità.

Già s' intende i suoi furori volti a chi peccasse in cose di lingua: e poveretto a chi lo contrariava! Già tutti di Vesuvio e' n' hanno un tantinetto in corpo; ma presto passa, e non resta ombra di rancore; ciò che non vuol dir leggerezza, ma solidità di carattere, nato al bene. Puoti nella figura ricordava Borghi (prima maniera), ossia da secolare. Il suo bel parrucchino e colpetti analoghi per assestarlo. Lindo, pulito nel vestire, maniere da gentiluomo del secolo scorso, e di lui si citavano graziose avventure galanti: nè questa nobiltà la perdeva mai, nemmeno quando per le sue rabbie linguistiche, usciva dai gangheri: dico linguistiche, giacchè altre non ne conosceva quell' egregio, sempre sagrificato, e sempre tradito per la sua gran buona fede.

Degli autori che scrivevano calmo per pacato, azzardo per ardisco, interessante per attraente e altre parole scomunicate, nutriva mediocrissima stima, eziandio come persone. Le loro opere potevano essere il substrato della sapienza e della bontà non soffriva che se gliene parlasse, e gli chiamava porciglioni.

— Marchese, la conoscete la tale? — Un' autrice di quelle, mettiamo il caso che non facessero testo di lingua, ma che anzi scrivendo usassero qualche parola illecita, gallicismi, idiotismi e simili sudicerie, Puoti avea coraggio di rispondere furioso e disinvolto:

— Chi? quella? — E definirla collo stesso epiteto al femminile. E vederlo quel caro vecchio con quai gesti d' abbominazione lo accompagnava quel titolo. Che se le povere autrici avessero potuto sospettarlo, c'è da credere le si sarebbero date a scrivere nel più purgato toscano.

Puoti è stato detto pedante, e come tale corbellato; ma fu, io credo, utilissimo. Certo è allo spirito di quella purissima scuola che si formarono i Bonghi, i De-Sanctis e gli altri che lungo sarebbe annoverare.

Ora mi piace concentrare tutta la luce di queste pagine sopra una bella immagine, che la vita di Napoli d' allora riflette come nitidissimo specchio d' argento.

Se Maria Giuseppa Guacci, moglie al professor Nobile meriti un quadro a parte dica chi la conobbe. Ma io non intendo dar qui la sua vita: nelle memorie si tocca e si va oltre: della poetessa parleranno i biografi venturi in quella edizione, che delle sue poesie farà un Barbera dell' avvenire, il quale brami arricchir la letteratura nazionale d' un tesoretto.

Io parlo adunque della donna, ancora più che della musa, e tanto più volentieri in quanto la donna era sempre musa, e la musa donna; ma virilmente e nell' alterezza dei sensi a nessuno seconda.

Ci andammo la prima volta di sera, la stava in alto di settanta scalini, e fuori del suo appartamento abitava un calzolajo, di cui si vedeva la mostra, particolarità che non ci scemò il rispetto dell' illustre persona, che stavamo per visitare, anzi ce lo accrebbe e ponemmo il piede come in una reggia nella sua stanza da ricevere.

Della prima volta in cui fummo presentati a Maria Giuseppa Guacci non mi ricordo, tanto fu cosa naturale e semplicissima. A vederla apparì una donna come un altra, nè più nè meno; anzi qualcosa meno, tanto la stava umile, raccolta. Non alta di statura ma proporzionata, capelli biondi, d' un biondo come ce n' è una vena a Napoli: biondo acceso, che inclina al rosso. La carnazione partecipava di quel carattere, sparsa di panne, che ne ombravano amabilmente il candore.

Bella non potea dirsi, ma piacente; e più nel sorriso tutto suo: un certo sollevar grazioso della bocca a un angolo e uno scintillar di bei denti …; visto e non visto, dacchè contegnosa per natura, facea grazia a ridere, ma in quel lampo la determinava gli animi alla simpatia, la avvinceva i cuori. Perchè la signora Maria Giuseppa Guacci era di sua natura superbetta: che la vestisse di percallo o di raso: la parlasse in versi o in prosa; guardasse il cielo o allacciasse le calze ai bimbi, la sapea tenere i suoi interlocutori al di là d' una linea, che imponeva il rispetto. Forse anco non essendo quella gran poetessa, ossia indipendentemente dai versi, la avrebbe avuto quel carattere, e io m' incontrai in per sone oscure, d' umile condizione sdegnose al pari di lei.

Altra particolarità, che forse a questa si lega, stava nel suo sdegno contro le realtà della vita, e di questa col maggior riguardo mi piace ragionare.

Il marito della Guacci, buono e brav' uomo quanti altri mai, sposata povera la giovine musa, la teneva colla rispettosa affezione d' un uomo di cuore e d' intelligenza, possessore d' una gemma preziosa: ed ella lo ricambiava con premura cordiale.

Però è da credere che non le fosse adatto nè per attitudini, età e spirito, e che forse la necessità fatale, da cui derivò questo matrimonio, le lasciasse un segreto rancore non contro dell' uomo, bensì contro la sorte.

Il marito della Guacci, valente astronomo, serio ed onesto, all' apparenza si mostrava freddo, impacciato: non già napoletano, ma gelido e ombroso tedesco. Questa ingannevole apparenza die' motivo a supposizioni del pubblico, il quale è, ognuno sa, il romanziere per eccellenza; si pretendeva dessero noja al marito quei perpetui lagui della musa imprecante e a cui la sola nota del dolore pareva rispondere. Ma io rifiuto questo commento.

La Guacci, irreprensibile, docilissima sposa, avrebbe cambiato indubbiamente metro, accorgendosi che i suoi lagni venivano presi più sul serio di quello che si suole delle lamentazioni poetiche; le quali, è verissimo, più che estri malinconici di poeta, parevano segreto sfogo di contrariata affezione, brama di nuotare in pieno etere azzurro, lontana dai noti fastidî della vita terrena. È dunque possibile che a cor sodisfatto certi guizzi amari della corda non le fremessero sotto le dita, ma poi chi sa? … e i poeti per iscriver bene o non devono essere malcontenti? …

Detto ciò la non si impancava a predicare; non montava sul trespolo, anzi discorrea come gli altri: sosteneva arguta e modesta le ragioni dell' amor platonico, senza ostentare soverchia ritrosia se taluno dei suoi ospiti facetamente e amabilmente tentava persuaderla del contrario. Voglio dire che non la si dava per ispirata, ma lo era; e i bei versi lo attestano; sopra tutte la ode a Clorinda di Visconti, la suonatrice.

Una sera a Capodimonte, dove, come astronomo il signor Nobile, passava l' estate, raccolti nella specola, all' aria aperta, egli ci fece osservare col telescopio Venere, il pianeta più vicino alla terra; ci spiegò alcuni fenomeni, e ci diede insomma una lezione d' astronomia; la moglie lavorava e ascoltava, i bambini giocavano. Più tardi sopraggiunsero gli abituali ospiti, tutti degni di lei. Capuano, D' Ayala, Florio, Arabia Puoti, col suo bravo alunno Bruto Fabbricatore, Poerio, il marchese Sauli.

Seduti intorno a lei, in un salottino modesto, col verone aperto, la ci fece udire canzoni inedite, rime allora allora sgorgate dal cuore. Nel recitare i suoi versi la avea una maniera propria; che le era naturale, e in cui riusciva come in certi artifizî una grande attrice. La fissava gli occhi ad un punto, li teneva elevati, immobili, e pareva che la pupilla intenta, leggesse nel vano cose note ad essa sola. Noi stavamo tutti ad ascoltarla, ansiosi di scoprire il senso recondito di quella disperazione, da cui traspariva non il tedio di uno spirito voto e deluso, ma il dolor di chi rinunzia a ciò, che non può avere e a cui fervido agogna; ascoltavamo innamorati della musica, perocchè usava la Guacci strascicar le sillabe di certe parole lunghe, di cui usava spesso, e forse troppo. veramente, abbandonatamente; e ciò dava un che di molle e di grave all' onda del verso, alla risonanza della rima, perchè nel prolungarsi di certe note l' anima sente maggiormente la loro dolcezza.

I luoghi, le ore, le persone, tutto concorre a far più o meno bella una qualunque cosa d' arte o di natura. E noi, dopo la lezione astronomica, davanti alla trasparenza d' un cielo di Napoli, in quell' aerea pendice, ancora calda dei sospiri di Leopardi, noi la in una sera di maggio, col rembo lontano della gran metropoli per accompagnamento, e del mare intravisto là sotto, e udir quella donna o non c' è da far le meraviglie se ci credevamo fuor della terra.

Si descrive talora Saffo; si mostrano le immagini d' una o reale o immaginaria Corinna: ma noi la avevamo innanzi agli occhi la Camena del Sebeto, viva, potente, nell' atto che con quel suo modo, bello, serio, e sdegnoso la recitava, e superba anche cogli astri, fissava l' empireo. È dunque per ciò che mi fermai su questa memoria domestica, artistica e patria, sì, patria e tanto che alla sua Napoli incombe obbligo di erigerle un busto; quantunque ella di monumenti non avesse vaghezza quando dettava, parlando della Visconti:

Oh! non ergete a lei Una marmorea tomba Ove sia sculta la partita amara, Chè in tempi audaci e rei Ha serto il vizio e tromba, E fin della sventura il dritto impara! Ma sulla zolla lagrimata e cara Ov'è la bella spoglia S' erga un lauro sublime, E dilati le cime, E accolga l' usignuol tra foglia e foglia, E tu co' tuoi splendori Spirto gli nutrirai perpetui fiori.

Bei versi molti ce ne hanno, e per la fattura squisita di questi non si fan meraviglie, ma quello che penetra, solleva e inspira il sentimento ignoto d' una superiorità morale, è l' alterezza per entro trasfusa. Non vi par ch'è il suggello del genio? La mesta nota che vibra e passa? Questo bel carattere di musa avrebbe dato in altre congiunture, quali splendidi frutti! …

Del resto le veglie ossia il Cenacolo di Capodimonte non fu il solo luogo, dove la poesia ci si manifestasse; in Napoli essa è dappertutto.

La sera innanzi di partire le demmo un addio da Posilipo; e fu tale che alla mia diletta madre valse uno de' suoi più bei sermoni. Ancora eravam lontani di là, vedevamo in pensiero dalla tomba di Virgilio, sotto i melagrani in fiore e le palme, quell' immensa curva della sirena, che tenea in grembo un mar di lapislazuli, e poi Capri, Miseno, Procida, e in fondo, ultimo giojello, vera ametista ardente, il Vesuvio. Mi riservo ad altro viaggio altri particolari.

I Napoletani son, per quanto io credo, mal noti. Si tengono specialmente dai forestieri per materiali e sensuali: in vece son sobrî, semplici e più che altri poeti. La loro potenza è nel calor de' più cari affetti di famiglia … Oh sanno amare! In mezzo a quella apparente noncuranza, insofferente di legami e pedantesche dimostrazioni di calendario, v' è più amore in un solo atto fervido della loro amicizia, che nelle compassate regole delle società del Nord. Pur troppo a veder come in certi uffici, e massime al primo entrare in città i doganieri, i bassi impiegati accettavano mancie per lasciar passare i forestieri, senza dargli noje, si comprendeva il mal governo, il quale contribuì a incancrenire la piaga, non ancora sanata, e che per molto tempo lascierà nelle popolazioni un debole sentimento del dovere, così nobilmente impresso in quelle del Piemonte. Manterrà pure quel lievito d' opposizione che disfà e non riedifica; lievito più che altro apparente, e che fa chiasso perchè lo portano i deputati alla camera. Ma rappresentano essi veramente lo spirito del paese quei sistematici oppositori? D' un paese che perdette il regno e la capitale senza versare una goccia di sangue? Eppur non la è molle quella stirpe, che per domarla occorsero ai proconsoli romani io non so quanti trionfi, e ai moderni altrettanti. Anco i briganti stessi son prova di vita. Di loro si può fare un eroe, ma d' un fannullone da caffè? …

V' è chi obbietta essere i Napoletani impotenti a creare una civiltà, se altri non vi importa la propria. Ma questo non si dee dir d' ogni popolo? … Per nominarne uno solo cosa avrebbero fatto gli Spagnoli senza gli Arabi? … Ma la civiltà napoletana, ov' essi lo vogliano, innestati alla madre patria, può riuscire magnifica. Mille vantaggi inerenti al suolo, alle felici condizioni di quella contrada assicurano di questo. Ad essi occorre meno cibo, meno sostanze forti, meno forti vestiti, men solide abitazioni: tutto è dunque loro più facile; di più i loro sensi sono più acuti. Vedono più presto, sentono più di lontano, sono più pronti, benchè in apparenza più pigri.

In principio del secolo, che offese e vituperì non davano agli Italiani gl' Inglesi, i Tedeschi, i Francesi? … Eravam commediaî, ballerini corrotti ed imbelli! I poeti soli protestavano. Byron, la Sand, la Stäel. Ora qualched' uno di loro è male in gambe, e noi o male o bene ci reggiamo. Così sarà dei Napoletani, i quali se l' Italia alta si adagia nella sua incontestabile superiorità, sarà vinta da quella bassa. E i popoli della magna Grecia, quei figli della luce e dell' armonia generatrice di civiltà, nella gara delle regioni italiche, andranno più avanti di tutti.

A Roma ci trovammo alloggio nel palazzo Bernini e appena ci fummo assestati cominciò la turba cortese degli amici, poeti, poetesse, artisti, eruditi, scienziati. Questa volta parlerò di Salvator Betti e racconterò qualcosa non relativo a lui, ma al classicismo e al romanticismo in quel tempo.

C'è prima da sapere che in quegli anni si cominciava nel Veneto a nominare Aleardi, e che i giovani n' andavano pazzi. Un giorno venne a me, alla Caterina Bernardi, ad altri amanti di cultura moderna, Antonio Pavan, allora non cavaliere e commendatore, trevisano faceto, poeta lui stesso: egli ci declamò questi versi attribuiti ad Aleardi; è un paragone della vita:

Egli è un ponte che s' inarca Su un torrente gemebondo, Che riunisce due voragini Senza capo e senza fondo, Egli è un mondo fra due vuoti, Una nota felicissima Fra un silenzio universal, Una vampa che serpeggia Sotto un volto sepoleral.

Di questi versi penserà il lettore ciò che vuole; a me parvero la bellezza di tutte le bellezze, niente di più superbo, di più arcanamente filosofico, e che superasse la magnificenza tonante di quelle similitudini.

Usa a far parte co' miei cari d' ogni entusiasmo, corsi a recitar loro quello squarcio …; ma il risultato della passionata declamazione fu tutto altro da quanto io m' aspettava; dacchè essi giudicarono tali strofe la quintessenza del barocco e delle stravaganze romantiche. Una lavata di capo ad Antonio Pavan, discreto complice d' Aleardi, nel corrompere il gusto delle lettere italiane, e poi … qualcosa di più serio perchè quei versi mi convenne recitarli a mezza Italia, affine di dare un saggio della china riprovevole su cui correva la poesia. — E dove andiamo? … e cosa sarà se tale andazzo continua? — Ed è appunto per ciò che più di tutti mi è rimasto impresso il professor Betti, il quale, a udir quei versi, quasi andò in accidente, e agitava le braccia come chi affoga, accennandomi di tacere … Già non ne volea sapere nè di Dumas, nè di Balzac, li teneva per grulli e peggio: l' autore di questo ponte che s' inarca gli parve l'anticristo alla prima: e la similitudine della vita un segnale della fine del mondo, profetata dalle Scritture.

Taluno crederà ch' io scherzi, ma la è proprio così, e così doveva essere, dacchè Aleardi fosse potente per sè stesso e nella rivelazione d'una forma nuova ed originale trascinasse i giovani a seguirlo in alture a lui solo permesse.

Forse il primo esempio ei lo ebbe da Prati, di cui parlerò a lungo più innanzi; ma ancora tutti e due hanno qualcosa di nobile, di grande nelle loro stravaganze, che non si ravvisa negl' imitatori della scuola. In quel misticismo della passione giovanile, in quella esagerazione balzana, tutta la gioventù d'allora scopriva un senso corrispondente a ciò che avea ella stessa nel cuore. Una ricerca ansiosa d' un avvenire vagheggiato, ma oscuro, un tedio, un languor mortale della vita presente. Certi concetti di quella scuola pajono ispirati da un Dio: l' Italia giovane erompeva dal suo guscio di perla e stampava orme incerte e storte, ma con una forza che presagisce la vita. Ora però si vuol che non si manifesti più sotto le forme del neonato, ma con quelle complete, regolari d' una bella e potente civiltà! E al contrario quando si vede cosa trovano fuori pur di fare colpo e dir cose nuove! … Almeno Aleardi rimase gentiluomo. O cosa diranno per sopraffarli i poeti dell' avvenire? La è cosa tanto triste che non ha che un solo conforto che, per allora, noi non ci saremo!

Ad altro capitolo le notizie artistiche di Roma: adesso ci rimettiamo in viaggio, e c' è di bei siti e qualche grazioso incidente.

Ritorno pel Furlo - Una cameriera superba -
Una poetessa umile - Da Ravenna ad Arquà - I Bandiera.

Nel primo tratto dopo Foligno verso Gnaldo la strada è comoda, fiancheggiata da bei campi, ricchi di messi, di viti, d' alberi, ma a questa compagnia succede e si alterna quella del Topio o Topino; fiume tortuoso, rapido e d' un seducente e molle cilestre, che non se ne può staccar l' occhio, e quantunque scorra tutt' altro che placido, pur non se ne ha paura, e si fa nel camminargli a lato confidenza con lui, come fosse un ruscello; procede ampio, maestoso, schiumante, veramente regale; domina il paesaggio, in modo che la strada è come un lembo dello stesso fiume a secco.

È questo che dà al sito il carattere di selvaggia novità, la solitudine; il succedersi d' alberghi, allora orribili, in brutti paesi, fa il resto.

Ci credemmo per quel tratto fuori del mondo civile, e non senza vaghezza dopo la splendida vita di Napoli e di Roma. Il terzo giorno si pranzò a Nocera; e poi su per valli e per colline, prendendo in ajuto alle buone bestie trevisane i corsieri romagnoli, che i giovanotti di là cavalcano e fanno andare come saette, così come nelle pettate come nelle discese: procedemmo a fianco non più del Topino, ma del Metauro.

Questo fiume, celebre nei fasti della storia romana, a tempo di Claudio Nerone e di Livio Salinatore (Asdrubale vi fu vinto) ha un corso degnissimo di servir di paragone alla vita umana, e dar tema a poesie molto più naturali della strofa dianzi riferita.

Perchè nato fra burroni, questo celebre fiume ti comparisce limpido e quieto a lato d' una via, ampia, ridente, rallegrata da ricche messi, mentre allo intorno le colline col più ameno verde vi fanno bellezza. Da un momento all' altro volti strada e ti trovi incassato in mezzo a due pareti di montagna o per meglio dir di macigno, fra le quali è segnata la via, che devi percorrere. I paesaggi hanno i loro accidenti drammatici anch' essi, ed è certo che tal cambiamento repentino di decorazione colpisce; tanto più che il cielo vi si presta anch' esso; ciò almeno si crede, perchè la situazione stessa è quella che rende più tetra la luce, piovuta da un' apertura lunga, stretta quanta gliene concedone le cime delle roccie fin oltre le nuvole erette, tutte di durissimo sasso dove non cresce un fil d' erba, nè un povero fiore.

Dicono la strada s'aprisse un tempo di terremoti profondi, per cui la montagna andò spaccata dall'imo al fondo: non è da me risolvere la questione, ma certo un qualche cataclisma dovette presiedere alla formazione di tal corridojo petroso, fra giogaje scoscese ed aride in piena campagna. Il Metauro non lo si vede quasi nemmanco, sebbene segna il cammino, ma lo segue nel profondo burrone, dove ci fa l'inferno: è lui solo a dar segno di vita in quella solitudine bigia, in quell'aria paurosa e selvatica, tanto che a spinger la testa per vederlo trabalzare schiumante in quegli abissi si prova un istinto, che ricaccia indietro.

Finalmente trascorsa una galleria, scavata nel monte si torna alla luce, ai lieti campi, alla verzura, alle acque tranquille: il sito ha nome il passaggio del Furlo. Ma la vita del Metauro la si vede terminare a Fano, dove magnificamente, da un rialzo artificiale si slancia nell'Adriatico. Infanzia, adolescenza, contrasto di virilità, ultimo varco nell'immenso mare o non ci son esse tutte le fasi della vita e tutte in breve spazio?

A Fano ci occorse un incontro, che romperà la monotonia del viaggio, piacevolmente ed anco utilmente. Per solito le locande andavano allora adorne di pitture tanto più drammatiche o eroiche quanto era più brutto il luogo. In Fano però la locanda pulitissima conteneva pitture non solo eroiche, ma anco da ridere, avendovi l'artista rappresentate in una gran sala le muse, colle loro relative iscrizioni, una fra le altre in atteggiamento d'ispirazione, peplum sulle spalle e gli altri emblemi ai piedi: e ci si leggeva sotto: Musa da pollo (d'Apollo).

Messi in buon umore da quella seriissima satira alle muse si appiccò il discorso con due amabili signori americani, marito e moglie, e si strinse con essi relazione di un'ora. La giovane lady, piuttosto bella e di gentili modi, il signore un banchiere in ritiro; alla mano, alla buona: ci richiesero del nostro paese. — Da Treviso — dissimo e li sollecitammo a venirci trovare. — Ma! … Treviso!… non c'è nella Guida … oh cos'ha Treviso da vedere? — C'è una pala di fra Sebastiano dal Piombo, c'è un quadro del Tiziano in Duomo; c'è la chiesa di s. Nicolò. — Ma Treviso non è illustre. — Eppure si crede la patria di Totila. — E si vede un' iscrizione che dice: — Qui nacque Totila? — No. — Male! — esclamò l' americano tra serio e gioviale. — A Treviso c'è l' antica casa dei Bonaparte, dov' è ora il Caffè Pacchio. — E c'è una pietra che indichi dov' è questa casa? — No — Male! — replicò lo spiritoso Yankee: — e noi: — In generale non usano, come nella gentile Toscana o in Lombardia, innalzare lapidi commemorative, storiche nei nostri paesi. — È proprio così, nemmeno in città, nè in provincia, nemmeno una che dica: « Io sono Gaspara Stampa, quella misera Anassilla che poetando e suonando il liuto, in riva allo Anasso, tentai disacerbare la doglia del cuore »(1) FAPANNI, Iscrizioni per onorare illustri trivigiani. con quello che segue, e poi quante altre ce ne sarebbero da mettere … — Male! … malissimo! … replicava il signore, e tagliando con estrema disinvoltura e garbo le costolette ai piselli concluse: — Quando avrete le lapidi verremo a Treviso. — La signora si profondeva in elogi sul nostro mite costume, e sulla vera democrazia, ch' è nella vita italiana: ella aborrente della alterigia inglese ci disse che le ladies ella le fuggiva come luciferi. — Ah! le sono insopportabili — esclamò — immaginatevi che fin chi bazzica con esse diventa ridicolo alla loro maniera. State a sentire: Noi si viaggiava in posta fin poco tempo fa. La spesa ci riusciva pesante, si pensò di viaggiar per vettura. La cameriera, inglese, avvezza alle gran famiglie di Londra subito si è da noi licenziata, dichiarandoci che lasciava il nostro servizio, perchè il suo decoro, il suo onore non le permetteva di rimanere presso persone che viaggiano per vettura!

Preso ch' ebbimo commiato dai gentili signori, io nello scendere adocchiai l'ancella inglese, in mezzo allo scalone; ritta, interita, in mantello di raso turco: la guatava al cortile dove si attaccavano i cavalli alla vettura: una bonissima vettura, ma col soffietto, a cui per di più, con maestria romanesca, si era aggiunto a forza di frasche, una cosa simile alle forcine che i carrettieri tengono sul davanti del carretto, nominate anche da Azeglio. Ma tale originalissima nicchia addosso un' altra dava un aspetto ancor più pittoresco a tutta la baracca: lascio pensare il dispetto della superba inglese, nel fissare lo stambugio dove la dovea entrare tutta d' uu pezzo col suo decoro e col suo mantelletto di raso turco! … Quantunque impassibile per di fuori la mi svegliò l' idea di lady Macbeth: tanto la masticava bile e la scagliava cogli occhi improperî al miserabile trespolo, ella usa a dominare dall' atto della serpe d' una carrozza a tiro quattro! Ecco bozzetti impossibili colle strade di ferro.

Da Fano a Rimini, da Rimini per la Pineta a Ravenna. Nella Pineta non vedemmo che serpi, soli padroni del sito. Eppure una poesia arcana ci parlava al core in quella ardente solitudine. Byron cavalcava in ispirito ai nostri occhi in mezzo a quelle piante: pallido, i capelli agitati dal vento e dal corso: una immagine poetica dalle chiome bionde di cui vedemmo a Roma la realtà, scorreva leggera al lato di quella del poeta. E molto si discorse di lui in carrozza, e nessuno di noi ricordò che in un paese di quella strada, chiamato Alfonsine, povero luogo ignorato, nacque Vincenzo Monti! … Uno dei padri della letteratura italiana, cui pur s' inspirarono le generazioni moderne; ma allora decaduta la sua fama, quanto era serva Italia, tal gloria patria appena si ricordava anche dai più zelanti cittadini e cultori delle lettere. I morti delle ballate tedesche ballavan la ridda sui nostri allori sepolti, come i Croati calpestavano le nostre glebe:

« sì che i nepoti ancor ne piangeranno! »

E chi sa quanti rigidi censori di Monti erano meno italiani di lui, e meno compatibili di lui per mille circostanze personali e di tempo e di luogo? … A Cervia mio padre portò una lettera del bravo e buon Muzzarelli ad una cara poetessa, che subito accorse premurosa e gentile all' albergo.

Sposa recente quella simpatica musa romagnola, non ancora a quei tempi troppo conosciuta, ma molto stimata dove si conosceva, la Teodolinda Franceschi-Pignocchi ci lasciò la più soave impressione. Pregata, ci recitò, senza artifizio, alcune canzoni belle, trasparenti e tutte sapore d' antica poesia italiana. Ma il modo, con cui le disse, le conquistò a lei i nostri cuori. Mai non vedemmo una poetessa più umile, più modesta; appena si sentiva la sua voce, eppur ci penetrava lo stesso: tenea gli occhi bassi, la persona raccolta; eppure ci dava l' idea d' un nobile carattere, che è veramente suo, ch' ella non ha mai smentito rimanendo qual era. Pietosa, schietta italiana modesta nella gloria letteraria e ferma nei principî del bene.

Questa è lode che si conviene a tutte le nostre muse, quanto più sono elette; ma chi stima che lo ingegno renda superbi, confronti la cameriera inglese davanti al trespolo, colla poetessa romagnola, recitando versi.

Del soggiorno di Ravenna dirò che fu bello, anzi eletto, sì che non si fece che passare da una visita artistica ad un geniale convegno, dove in vivaci discorsi, le impressioni avute riceveano pulitura e suggello … e di tutto ci rimase nobile impressione. Ora quando si sente a dire — a Ravenna s' è ucciso uno proditoriamente, o vi accaddero più grassazioni — non ci par vero. Come! … Ravenna! l' Avignone degl' imperatori, e la Pompei dei tempi gotici e bizantimi, in quella città piena di memorie dell' esarcato, un antico regno quasi italiano; là dove t' aggiri fra monumenti regali, che sono anche monumenti artistici, come s. Vitale, la più strana forma di chiesa che si possa vedere, e dove pare si desser convegno gli architetti avidi d' inventare capitelli di colonne: e poi la tomba di Galla Placidia, e la rotonda di Teodorico, l' Accademia delle belle arti, così elegante, così ben sistemata … oh! non par vero che vi si possa assassinare la gente come in una foresta delle Calabrie.

A Ravenna c'era allora la tomba di Dante: e ognuno può credere a quai lirismi, un po' di comando, si è slanciata la mia penna, e quanto la rettorica usufruttè frasi di convenzione, sul fiero Ghibellino, e sulle ceneri inonorate. Il Re di Sassonia scrisse semplicemente su quella tomba dei versi in tedesco, che suonano:

« Pace alla tua cenere! or sei cittadino, Dante, di una vera città, ove dimentichi l' acerbo dolore dell' esilio nella luce che non ha ombra » ((1) Ricordo del re Giovanni di Sassonia, per Giovanni Sforza. Lucca, 1874.).

A Ferrara, dove andammo subito dopo Ravenna, ci fu raccontato di lord Byron, il quale fattosi aprire il carcere del Tasso, specie di buco o stambugio simile a quello dove un tempo ci si teneva nelle nostre case il carbone: un canile insomma, cui nemmen la vicinanza del ducale giardino fa meno tetro. Dicevo Byron, entrato in quel camerino, ci stette non so quanto, e use fuori coi capelli irti, pallido, tremante, simulando una emozione tragica. Sulle muraglie della brutta carcere si leggono i versi degni senza dubbio di quell' eroe teatrale davanti il mondo, immenso poeta innanzi alla musa. Ma chi dei nostri più grandi si sognerebbe di fare atti simili? … Diversi grandi nomi vedemmo là: come Lamartine, Dumas, Casimiro, De La-Vigne ecc.

Del cimitero di Ferrara taccio perchè in questo argomento io troppo direi: solo riassumo un pensiero mio: tanto questo che quello di Bologna mi parlano al core più del Père Lachaise e del cimitero di Napoli.

Senza partito preso, senza disconoscere altri culti mi pare che le onoranze funebri del vecchio culto cattolico siano filosoficamente, artisticamente più in analogia col mistero della morte di quello che un giardino … Le leggiadre apparenze della campagna, la freschezza dell' erba, il colorito vivace dei fiori e tutto quello che vi può essere di più gentile in questo gentilissimo genere di cose, fa troppo gran contrasto coll' idea del cadavere da cui sono alimentati. Da quel contrasto l' anima è più turbata che innalzata; esso non rende adunque meno dura l' idea della morte, ma fa quasi antipatica e odiosa quella dei fiori. In vece assistere tanto a Bologna che a Ferrara alla funzione dei morti, udire i cantici sotto quelle volte severe è cosa che nessun altro sentimento può superare in grandezza e nobiltà. Di più v' è in questo Ferrarese un' apposita cappella eretta a Panteon, col busto a Cicognara e una statua a Monti.

Ecco un' altra città della Romagna, spopolata, deserta ma non del tutto decaduta di spirito e che attestava nobimente in mezzo alla morte la vita.

Nella Certosa ci arrestò un curiosissimo quadro di Benvenuto Tisi da Garofolo, rappresentante il Testamento vecchio ed il nuovo. Una confusione d' oggetti simbolici, di parole mistiche, scritte in lunghissimi cartelli, e di bizzarre figure; non si può raccapezzarvisi, ma il significato è: che giunge il testamento nuovo, e parte il vecchio. Ossia Cristo dà lo sfratto alla legge ebraica, la quale a cavallo d'una mula, tutta insanguinata se ne va e cede il campo. Qualche faceto ci susurrò: — se la legge è partita malconcia son rimasti i dottori, pieni di denari. — Per verità in Ferrara e' fanno il ben di Dio, come nel Veneto. Di nobiltà poco se ne discorrea: fannullona o dissoluta la si dileguava come cera al sole, il buono e il meglio restando agl' Israeliti, ossia a chi lavora. Serio significato ha pure questa breve lapide: — « A Michele Bergrando, morto d' anni 69, li 22 luglio 1839 pregate pace ». — A noi la diede i brividi perchè a Roma udimmo discorrere del processo, dibattuto per l' uccisione di questo infelice. Bergrando, mortogli il fratello, si ridusse a vivere colla cognata; avaro, la tiranneggiava tanto che pare la si inducesse a torgli la vita: certo una mattina fu trovato ucciso nel suo letto. Condannata a morte la donna dal tribunale di Ferrara, assolta da quello di Bologna, morì pazza in un ritiro a Perugia. A Ferrara la nominavano con orrore.

Visitato il sepolcro di Virgilio, del Tasso a Sant' Onofrio, di Dante a Ravenna, dell' Ariosto a Ferrara, si pensò di terminare la peregrinazione poetica in Arquà, alla tomba del Petrarca. Da Monselice, di mattina, con vettura e cavalli di posta (quel fuor d' opera non era per Cencio e i suoi diletti cuai) ascendemmo la collina, sacra alle ceneri del divino cantore, e sciogliemmo in certo modo un voto ad onore della nostra poesia.

Di quella gita mi sovviene poco, ma ne ho la memoria d' un segreto incanto. Un' alba d' estate in quei paraggi, con quell' allegria di cielo: un vapor d' oro a mezz' aria che cresceva, cresceva, ci avviluppava tutti come se ricadesse in piova dorata. Sui dorsi della collina, sui prati le viti a festone, tutte piene di grappoli, che anco quelli pareano oro. Quella uva di Monselice e in lontano la chiusa degli Euganei e più in fondo i Lessinei, e davanti l'infinito sorriso della pianura italiana.

Il sonno così necessario alla gioventù mi gravava le ciglia: dell' arca mi ricordo appena, benchè scrivessi poi non so che rettoricumi e voli scolastici, riferendo i sentimenti provati davanti quell'urna. Ma (e in ciò dire v' è da parte mia ingratitudine) non era proprio vero niente, morivo di sonno, ecco tutto. Poco mi ricordo altresì della casa e della gatta imbalsamata. Ma questa la mi tornò a mente vedendo, anni sono, la morte del Petrarca del bravo scultore Dal Zotto; il quale ritrasse la fida compagna del celeste poeta ai piedi di lui, morente, con tale espressione di dolore, che non si può veder nulla di più vivo e compassionevole. Il dolore nel bruto ha qualcosa di straziante, dacchè non si suppone possa spiegarlo, e non lo può sfogar con parole.

Rimpatriati, molto s' ebbe a discorrere d' un gran fatto da poco successo: la morte dei fratelli Bandiera. Devo però dire, coll' usata schiettezza, che ne parlarono con maggior entusiasmo nell' Italia meridionale che da noi. Allora i nostri giovani, che tanto operarono da prodi quattro anni dopo, di politica troppo non davano a vedere d' occuparsi. I vecchi giudicavano da vecchi: accusavano Bandiera di ingratitudine perchè il padre ebbe tutto dall' Austria. Non disconoscendo l' inutilità del generoso tentativo, pur diversi commenti si udivano in Napoli e Roma: i cuori battevano d' affetto e di passione per quei due veri martiri, d' odio contro il Borbone e contro l' Austria. Da noi l' entusiasmo si manteneva segreto: — Ecco l' opera delle sette! … oh cosa pretendevano quegli sconsigliati? … rovesciare l' Austria, dopo che li colmò di favori? — c'era fino chi accusava Mazziui d' un pensato tradimento, a castigo del vecchio barone Bandiera, ostile ai carbonari italiani, devoto corpo ed anima agli stranieri. Mazzini, secondo fu detto, ebbe a discolparsi di aver retribuito al vecchio marinajo veneziauo i cadaveri dei proprî di lui figli. E le ragioni parvero giuste, s' io mal non rammento, ma ricordo solo che la nostra rivoluzione si fece tra gli scherni della gente seria.

Qui riporto un tratto spiritoso d' un commissario di polizia, del quale già ho accennato. Era commissario in Treviso: il più buon pastricciano del mondo, perchè allora quell' impiego, affidato a gente del paese, non implicava perfidia o disonestà. Soltanto l' uomo di cui parlo avea una fantasia così accesa che male s' adattava a quell' impiego, e tanto che al sopravvenir del turbine al 48, vedendo che fissava il chiodo dovettero rimoverlo, e quindi pensionarlo.

La gente si godeva anco a fargli paura: una volta nell' occasione d' una gran festa, e di questa pure toccai in principio, data per la benedizione delle bandiere del reggimento fanti Zanini, un ignoto bell' umore avvertì per lettera anonima il commissario come al cader d' una guantiera scoppierebbe una congiura, si uccidederebbe l' arciduca Federico, e si farebbero non so quali altre enormità. Ognuno immagina le angosce del povero commissario … I miei Trevisani già lo vedono: con quel cravattone bianco, faccia accesa, occhiali lustri, dietro ai quali giravano due occhietti pieni d' inquietudine, capelli grigi, tutti ritti, che gli formavano un' aureola sempre ferma, simile al diadema d'un re persiano. Volle il caso o fu ad arte che cadesse la guantiera, non la monarchia austriaca, in quella notte, ma il povero commissario, a quel tonfo, oh cosa divenne!

Tornando al 44 ci trovammo dunque una sera a veglia presso una famiglia dove convenivano persone serie, alti impiegati. Uno fra gli altri commentava il fatto dei Bandiera sedotti dai settarî. Colto, istrutto questo signore, consigliere aulico, tedesco di nascita, pieno di probità e dell' antica buona fede austriaca, non poteva concepire l' idea d' un riscatto nazionale. Per lui il sole spuntava alle Bocche di Cattaro, e tramontava dietro le montagne della Boemia. Il mondo stava nell' impero d' Austria: laonde non è a stupire se, parlando dei rivoluzionarì, logicamente proferi, battendo le sillabe con la persuasione onesta del galantuomo, che sa esser quella del suo uditorio: — Questi si possono veramente chiamare pirpanti! — E stimo — scappò fuori il commissario, colla passione di chi tradisce un' abituale paura segreta — e stimo che la prima cosa ch' e' fanno in un paese la è quella di appiccare il commissario di polizia!

Questo grido che mi scosse, richiamandomi dalla mia distrazione profonda, dovette esser molto spontaneo, molto eloquente; e perciò lo riferisco a pittura dell' epoca, esso vale una pagina.

Certo i demagoghi possono essere atroci. Ma dove trovare atrocità simile a quella per la quale alla madre Bandiera si mandò il conto del boja, uccisore dei figli, perch' ella lo pagasse? … proprio a lei? … E se non era il cognato della baronessa a ricever lui quella carta orrenda, giunta per tramite ufficioso, la andava in mano alla madre … a lei, in quella camera dov' ella, quasi in un tempio, aspettava il ritorno dei figli; conservando tutto come il giorno della loro partenza? fino il boccione d' acqua preparato per la sera? Alla madre, che dopo sei anni, vide venire sotto i suoi balconi il popolo, fitto da riempir quel bel campo di s. Giovanni in Bragora, e acclamarla e congratularsi perchè li avea perduti, perchè invece di figli possedeva due eroi, due martiri in Dio e nella patria?

La spesa del carnefice alla madre, oh cosa possono fare di più i pelli-rossa? e i più efferati selvaggi?

Secondo viaggio a Napoil - Parma - Giordani - Dalla
Spezia per Livorno a Firenze - De Boni - Chiusi -
Orvieto - La Ristori in convento - Monte Cassino -
Congresso del 1845.

I viaggiatori ed i geografi affermano che un fiume, ancor lungo tempo innanzi di giungere ad una gran cateratta, affretta il suo corso con una segreta violenza, di cui se a tempo coloro che vi navigano entro non s' accorgono, sono perduti. Esempio primo il Niagara: nulla si vede all' esterno: l' immenso fiume procede come un' ampia pianura, fra rive serene: nessun romore, nessun segno al di fuori: eppure esso trascina il volume delle sue onde con furia sempre crescente, fin che trascorso un certo punto non si può più lottare, e bisogna lasciarsi portar via e precipitar nell' abisso. Tale era l' Italia negli anni, che precedettero il 48. Essendo stato mio padre dall' Ateneo di Treviso nominato a rappresentarlo al congresso di Napoli, noi partimmo nell' agosto del 1845, e ci aviammo alla bella Partenope.

Non si può descrivere quale aspetto di profonda pace, di serenità incomparabile avesse in quel tempo nella sua abituale magnificenza la vita italiana: ossia la vita morale, sociale, artistica: la prosperità dei campi, la quiete degli animi; invano la penna tenta interpretare lo splendore di tanta pace, in questi ricordi … Bensì vedo cogli occhi dello spirito in quell' estate i paeselli per cui si transitava e mi rimane l' impressione che ogni giorno fosse festa. Su pei muri scritto: Viva VERDI: per le strade, nei lieti convegni sento a cantare il coro dei Lombardi: nei dopo pranzo le bande percorrere allegramente le vie, in mezzo allo spensierato buon umore di popoli, a cui parevano ignote le passioni, che più tardi li portarono a così serî destini.

Intrapresa la via dei ducati, prima sosta si fece a Parma; e subito ci venne ad onorare di sua visita l'illustre Giordani, della quale io ritenni la parte leggera, ma non indifferente, ora che la storia s' usa prenderla pel suo lato piccino, e perfino pettegolo.

Giordani era un vecchio di aspetto nobile, ma non venerando. Alto, asciutto nelle forme, vestito non da quaquero, ma con decorosa semplicità, aguzzo il mento, bocca rientrante, calva la testa e due ciocche di capelli bianchi, che volavano leggeri a ogni mossa. Amabilissimo nel tratto, manieroso, pien di cerimonie e di complimenti in lui si mostrava quel po' di leziosaggine, che c'è talvolta nel suo stile; in quelle lettere modello, quando fa le professioni di amicizia e di ammirazione sviscerata, manda baci, e usa epiteti, che a lui parevano senza dubbio naturali, a chi legge pajono caricature.

Ci accorgemmo che peccava di curiosità; ma, schietto, non la nascondeva. Egli vide per esempio nella nostra locanda una dama romana, d' alto lignaggio; ci chiese chi fosse: non potendo noi rispondere, si volse a chi lo informò: alla seconda visita sapeva nome, vita, morte, miracoli. Questo mi fa credere che nel gentile accorrere a noi per conoscere la traduttrice d' Omero, c'entrasse un po' di curiosità: ma noi gliene fummo grati lo stesso.

Un altro signore cultissimo e seriissimo ci tenne valorosa compagnia in quei giorni. Sofferente e triste dopo che nell' ultima invasione colerica perdè tutti i suoi, unica ripresa trovava nello studio. E molto sapeva e raccontava benissimo. Di Maria Luigia, di Neypperg raccontava aneddoti e commenti: e tutto con quella sobria intimità riguardosa di uno, che dice meno di quello che potrebbe. Come sovrana benefica, provvida, operosa, lodava quel signore Maria Luigia; ma pretendeva infelicissimo il connubbio morganatico della vedova di Napoleone col soldato austriaco: e che scemando il prestigio, pel quale affascinata, obbliò sè stessa davanti il mondo, ella tanto poco ascondesse l' intiepidita affezione, che il marito medesimo lo sentisse. Vari racconti si facevano di gelosie, non senza ombra, e di drammi occulti; Neypperg, nel delirio dell' immaginazione eccitata, si teneva per vittima di scellerati, che nell' alto posto e negli affetti tentavano di soppiantarlo. L' amore è una grande potenza, ma le disuguaglianze sociali sono pure un gran fatro. Chi sa quante volte il prode ussero, divenuto illustre, quasi re, deplorando negli ultimi anni il turbine degli eventi, per cui era stato travolto al fianco della figlia dei Cesari, infelicissimo nella prole malsana, non pensò quanto meglio varrebbero a lui le premure d' una donna della sua condizione, che lo curasse pietosa, di quello che la noja mal simulata d' una amante regale …!

Questo non toglie che con grandi onori non gli si elevasse nella cappella ducale un bel monumento. Opera di Bartolini, nel solo bassorilievo del dipinto v' ha cosa da cui si rivela il grande artista; voglio dire il cavallo di Neypperg. Dianzi in Treviso ci era occorso assistere al funerale d' un graduato dell' esercito austriaco, e dietro il carro seguiva il cavallo. Veder quello di Neypperg, scolpito da Bartolini, e provare la commozione sentita alle esequie militari in Treviso, fu cosa spontanea per noi. Niente di più sublime che la verità quando raggiunge nell' arte l' archetipo del sentimento. Quell' andar via a passo tardo, la testa in giù la criniera cadente, sollevando la zampa in atto dimesso par ch' esprima il dolore di non sentir più il caro peso sul dorso, di non portar più anelante di vita, il caro padrone alle battaglie; par ch' ei pensi: — gli è là morto! — Questo in un semplice tocco di bassorilievo, fino ed elegante come un disegno a penna, fece esprimere Bartolini a quel marmo eloquente e patetico … In alto c'è il ritratto del guerriero: fisonomia viva, tipo militare; baffi da ussero, all' occhio la benda: gloriosa senza dubbio, e che non poco ha contribuito a renderlo meno interessante … La poesia è poesia; ma, nella pratica del vivere cotidiano una ferita è una malattia, e trae con sè inconvenienti non sempre amabili, e che sopporta l' abnegazione sola d' un core devoto.

Anco lo studio di Toschi fu da noi visitato: egli lavorava quegli stupendi bulini di cui non si può parlare, bisogna vederli. Del pittore Scaramuzza ci si mostrarono belle opere eseguite all' encausto; credo sia con olio, cera e foco. Due grandi quadri rappresentanti due scene della divina commedia, una il Limbo, ossia quel verde smalto dove Dante ha visti gli spiriti magni, l' altra di minor conto: quando sente proferito da Virgilio: — Onorate l' altissimo poeta. — Taccio anco delle opere del Coreggio perchè dirne poco non giova.

Rimessi in via, per la strada che traversa il Taro, sul magnifico ponte di Maria Luigia, la sera giungemmo a Fornovo: sia il solito effetto dell' alternare la vita artistica alla sociale, sia il prestigio di quel nome storico per la vittoria dei Francesi condotti da Carlo VIII (1494), sia la incomparabile bellezza del sito, noi vi provammo un' impressione solenne.

Gli è un immenso anfiteatro, le pareti del quale, erette e superbe son le Alpi, già divenute Apennini. La notte scende in quel ricinto in modo maestoso, perchè i torrenti, che si danno il ritrovo nell' arena del gran circo, non si scorgono più che in confuso: e il luccicare di quei nastri, serpeggianti sulla superficie sassosa, dà maggior rilievo e una grazia particolare a una scena tanto pittoresca. Il giorno dopo altre viste, altri spettacoli. Il golfo di Spezia valse a mia madre versi fra i migliori ch' ella componesse: le cedo il posto, e li trascrivo di buon animo, perchè i rimpianti sulle sventure italiane ora fuor di luogo, servano alla storia.

Una corsa sul mare tra Sarzana e Pisa. Pel Congresso degli Scienziati di Napoli nell' anno 1845.

Salve, salve, o bel mar, che in me doleezza Piovi infinita, mentre in te m' aggiro E novamente di tua mite brezza L' alito io spiro! Che te rendere ignoto al guardo mio Nè il nome ponno, nè i mutati lidi … Ma qual genio, o bel mar, dimmi qual Dio Nei fiutti annidi? Poichè tanta belta spieghi allo sguardo Nel ciel, nell' onda che un cristallo appare, Donde alle piante e al fermo suolo io guardo Senza tremare. Ma tutto sparmi, se alla mente piena Di gloriose memorie evoco i giorni, In cui tu fosti di gran fatti arena, E tal le torni. Carco il tuo dorso allor di cento e cento Navi, non già qual sei deserto e muto, Armate, pronte a scior le vele al vento lo ti saluto! Ma de' tuoi flutti, o mar, dentro la pace Notte e di attento a vigilar t' invito: Disertare potria mano rapace Spesso il tuo lito. Poich è destin che una genìa rubella, Discorrendo pel mar, lunghi anni infesti L' Itala piaggia, vagheggiata e bella, Anco ai celesti. E qual tremenda la bufera piomba Sovra un sol campo, mentre è il ciel tranquillo, Senza insegna spiegar, o che di tromba S' oda uno squillo, Quasi falcon dal nido insanguinato L' Arabo irrompe colle sue masnade: Sorgon grida di guerra e un disperato Cozzar di spade. È flagello di Dio, che dove tocca Arde, abbatte, distrugge e il segno imprime. Qual è difesa contro a lui, qual rocca. Che non s' adime?… Or pei popoli oppressi e pei distrutti Sangue chiede, e vendetta il ciel severo. Fia l' oprarla di tal che d' esti flutti Cresce allo impero Ah se non fosse che in laudar sui campi Del valor prisco le virtù degli avi, Forza è che l' ira e la vergogna avvampi Ne' figli ignavi, Vorrei il giorno cantar che il pro' Pisano, Varcato il mare colle navi preste, Mille in campo mietea del Mussulmano Barbare teste. E quello al par, che della croce il petto Anch' ei fregiato, se n' andò in Sorìa, D' onde carco d' allori al patrio tetto Poscia reddìa. E l' altro in cui non più veder sofferse L' isole ispane di felloni stanza, E, come nebbia in faccia al sol, ne sperse L' empia possanza. Virtù di donna più encomiar non s' oda, Nè ad esempio nomar Greche e Romane Da chi al pari non vanti o non dia lode Alle Pisane; Quando appo i legni, con virile ardire Pria che partisser pel tremendo ludo, Voller chi al padre, chi al figliuol vestire L' elmo e lo scudo; Astringendo ogni caro al giuramento, Fra i baci e' l pianto, sì temuto e bello, Di non reddir che collo scudo, o spento Sovra di quello. Alto di plauso sollevarsi un grido Dal partente navile allor s' udia: Religïone, auspicando a lui dal lido, Il benedia. O valorosi che da care mani Non v' aveste di fior l' urne ricinte, Poichè lasciaste dentro a mari ispani Le salme estinte, Sofferite; se storia i nomi vostri Si tacque ingrata, e li coverse obblio; Mercè maggior che di perenni inchiostri Serbovvi Iddio. Breve aveste compianto e qual s' addice A chi nel campo dell' onor soggiacque, Quando lieta la flotta e vincitrice Tornò in quell' acque. Lei vede Pisa, poi sua chiara stella Corse al tramonto, perchè infida e rea Non contro a strani, ma in città sorella L' armi volgea. O città stolte, io grido, a che l' impero Per crude, emule gare un di perdeste, Di ben solo feconde allo straniero, Per voi funeste! Or n' hai Italia mercè! Schiava, divisa Perchè l' onor di tue memorie serbi, Come terra di spenti, ognor derisa Con motti acerbi. Nè perchè lunga pace ti restaura Te loda, o cessa dal motteggio insano Chi ad allegrarsi di tua tepid' aura Vien di lontano. Ma altra corda tocchiamo, e il cor m' innonda Tu d' insolita gioja, o amabil seno, Che alla vaghezza, ch' oggi è in te, risponda, E al ciel sereno. Vaghi figli del mar, su, a' rai del giorno Sovra cocchi di perla o di corallo, Su via venite, e m' intrecciate intorno Allegro ballo. Ahi! passò età che di leggiadro sogno, Di fugace visïon l' alma ha diletto. Solo del ver, benchè spiacente, agogno Il nudo aspetto. E invano di pensier più dolci e gai Questo golfo sperai leggiadra stanza, Bel Tirreno ingannar cosi vorrai La mia speranza? A no! dove Sorrento in mar si specchia, E della tua bellezza è tanto il grido, Caro e fidato ostel deh! m' apparecchia Sovra' l tuo lido. Nè il tuo cielo vapor, nè nube imbrunì, Ma prepara bei dì, notti festive Allor che Sapïenza i suoi raguni Su le tue rive. Ed ella nuova luce al cielo amico Piova, che aperse e fecondò i pensieri A Bruno, un giorno, a Campanella, a Vice E a Filangeri. Io per te un inno, (se non scemi possa Tristezza agli estri) sposerò alla cetra, Siccome il dì, che di Marron commossa Baciai la pietra.

Singolarissimo è il costume delle donne di Sarzana. Portano esse un piccolo cappellino, nel quale starebbe appena la testa d' un pollo, e tengono i capelli raccolti addietro in una reticella nera terminata da un sacchetto, che li imprigiona: dall' ultimo capo di quel sacchetto scende un lungo cordone a nastri, a vezzi, ch' è meraviglia a vederlo. Una gonnellina corta, stretta alla cintura con maniche ornate di merletti e trine: una sottana fin a mezza gamba, un corpetto aperto sul dinanzi ed allacciato con cordoni alla foggia del medio evo, termina questo elegante costume in cui c'entra lo scarlatto, l' oro, il nero, i fiori e tutto un insieme dei più vivaci colori.

A Sarzana ci fu mostrato un giardino d' un gran signore: riccone, nobile, proprietario d' un paradiso e in quei luoghi per avere il paradiso basta un po' di terra al sole; il resto lo fa lo splendore d' una natura unica: perchè là muore la riviera di Nizza e di Genova, e comincia quella di Viareggio e Livorno. Due bellezze che si dan la mano. E che fiori! … che varietà di tinte, che verdeggiar di dossi, che armonie nel suolo, nell' aria e nel mare! Tutto quello che la zona tropicale può dar di più potente, e quella temperata di più gentile si trova in quel punto. — E saran beati quei signori di possedere un tal eden? … — chiedemmo al giardiniere del marchese.

— Chi? … loro? … ma che? Sono infelicissimi, aveano un unico figlio e lo hanno perduto. — Oh! andate un po' a cercare la felicità in mezzo ai fiori!

Lasciata Sarzana ci dirigemmo a Pisa, passando per Carrara dove c'era un via vai d' artisti e specialmente di scultori; anco di begli studì ci vedemmo, specialmente uno dello svedese Ristom. Noto perchè gli scultori ne facciano loro pro: — la vanità fra l' amor puro e quello profano. — A chi si volga la bella ammaliata inutile il dire. Da Pisa si fece una corta escursione a Livorno, dove fummo presentati a Guerrazzi. Soprammodo cortese fu quell' inclito scrittore, ma per poco ci permise godere del nobilissimo eloquio. Ci ricevette al palazzo tribunalizio, ma non si sentiva bene; pallido, vestito alla buona, ci accennò più volte — che avea male al hapo. Ma per quel tanto che si è parlato rimase a noi l' impressione di belle forme e d' animo elevato.

Altro, sebben diverso senso grandioso ci fe' il cisternone, opera romana di Livorno. Fa ribrezzo veder quell' acqua tranquilla, limpida, profonda: è l' idea della morte silenziosa, oscura, inesorabile di chi cadesse in quei cassoni dal pavimento marmoreo, ha qualcosa in sè che agghiaccia come un' insidia. Però quel tempio dall' onda immobile non lo costrusse Leopoldo perchè la gente ci affoghi, ma perchè serbi acqua alla città, come dice la bella iscrizione.

A Firenze i nostri buoni vecchi amici corsero tosto a farci festa: uno nuovo fu il feltrino Filippo De Boni, profugo dagli imperiali e regi domini.

Quest' uomo, che passò una cosi fortunosa vita, cominciando chierico e terminando protestante, e battendo sempre la estrema via a precipizio, senza morirne, ci si manifestò allora uomo se non posato, tranquillo e conforme all' indole forte de' nostri alpigiani. Benchè niente d' accordo anzi agli antipodi co' miei, non nacquero controversie: grazie al cielo il frullo di litigare ancora stava lontano.

Allora si giudicava un De Boni così: — testa calda, uno della giovine Italia; un bel talento, un illuso: — ma lo rispettavano e lo ammiravano. Egli si mostrò cortesissimo e pieno di deferenza pe' miei. Da me volle che segnassi un piccolo ritratto e ancor lo conservo.

Biondo, la barba intiera, pallido in viso, non bello, ma non volgare, Filippo De Boni piaceva pel modo di parlare, e più per quello di declamare i suoi versi. Una sera ci recitò il Venerdì santo; poesia di cui non mi sovvengo sillaba: ma so che la ci produsse una bella e forte impressione. Ammalato di petto, spesso tossiva e la voce rauca e cavernosa, contenuta per non farsi udire troppo alto in locanda, rendea più fiere le invettive da lui slanciate a' tiranni.

De Boni vivea di lavoro; condannato a morte dall' Austria, tollerato dal Gran Duca passava di angoscia in angoscia: poi dovette fuggire nella Svizzera sottostare a mille privazioni e disastri: eppure egli guarì!

Signore, curato in casa, con mille riguardi egli probabilmente sarebbe morto in gioventù … perchè al momento in cui lo conobbimo, il suo petto non era certo incolume: egli stesso, da noi sellecitato ad usare di qualche rimedio, ci promise di sottoporsi ad un regime energico, per guarire. E in vece … Appassionato frenologo, il nostro compaesano ci fe' stupire nel dirci che non so chi di noi aveva il bernoccolo dei piccoli confronti: cosa verissima. Egli ci raccontò inoltre come lo sfratto da Venezia credeva gli venisse dall' inimicizia d' una gran dama, ai figli della quale fu ajo: la dama credette scorgere sè stessa in un personaggio di romanzo, scritto dal De Boni: il Pellegrino, se non erro; può darsi ch' io confonda dagli Eccellini, cui ripublicò il Rinnovamento, ma è ancora più facile che fosse il Pellegrino, innamorato della gran dama, la quale di quell' orecchio non la intende: lui si vendica mettendo in iscena personaggi ideali, ella da un imperiale e reale commissario lo fa mandar via. Ecco il romanzo d' un romanzo, il quale, essendo libro veneziano, morì certo appena nato. Insieme con De Boni, Dall' Acqua, bravo pittore triestino, ora nel Belgio, con Facchinetti, che viaggiava con noi, andammo a Santa Croce, e questa volta il maggior compianto fu davanti alle tombe dei Sabatelli. Di loro non parlo: parlano abbastanza i quadri: parla il Buondelmonte ch' è a Pitti. Ogni parola pare una profanazione: ognun sa cos' avrebbero dato all' Italia vivendo, e continuando così splendidamente nell' arte.

Da Firenze a Siena stesso viaggio; ma da Siena Orvieto fu tutt' altro. Per lande inospite dove non s' incontra una casa, dove non s' ode che il mormore delle foglie, mosse dal vento, trapassando di boscaglia in boscaglia, piene di spine, di sterpi. A Turrita ci piacque girare pel paese: un' orrida strada, il ciottolato della quale piantarono senza dubbio i Romani. Monelli beceri come nei più brutti siti del Napoletano; ciere arruffate di megere … spaventati rientrammo in locanda.

I luoghi però non mancano di poesia: anzi, man mano che si procede, la si sviluppa in quanto ha di silvestre, di verginale in una contrada isolata, piena di memorie recondite e di avanzi, che rimontano alle prime origini della storia: e quell' aspetto di abbandono, e quel carattere d' una solitudine diversa dalle altre forma un bel contrasto, segna un modo particolare di bellezza nella nostra penisola.

Ora quel tratto lo si percorre in ferrovia, e non è meno desolato e selvatico. Anzi per esser visto un po' più dall' alto e con rapidità, quel paese o meglio quella vera landa fa più tristezza, perchè se ne abbraccia maggiormente l' insieme. Tutto quel terreno è cretaceo, immense onde d' argilla, come a dir mamelloni. Le piove vi segnano un' infinità di solchi profondi, quali crepacci di vulcani, e le macchie di ginestre e di rovi, coi loro fiori di rosso arancio, crescono su quelle glebe terragne per renderle più aride.

A Chiusi ci si stette un giorno, e fummo condotti nella famiglia Casuccini, dove nel pianterreno ci mostrarono utensili scavati nelle vicinanze, tutte piene di monumenti etruschi. La bella copia d' arnesi preziosissimi accenno di volo: lampade di terra cotta, vasi, altari, busti di calcarea fetida: d' ogni maniera frammenti di colonne, di sepolcri: tutti i segni d' un popolo sepolto: l' impronta del loro genio, ciò che adoravano; ciò che usavano: i vestigi della loro civiltà, del loro linguaggio, senza dei quali non sapremmo che tutta una gente passò, come un' onda di più, in questo gran mare della vita!

Un vase mi colpì per la sua forma, e ne trassi una memoria. Sotto al corpo suo principale questo vaso ne ha quattro, dove starebbero i piedi: non parlo delle curiose scanalature trasversali, che lo adornano, solo dico: avea qualche significato questo singolare vaso etrusco? e non sarebbe esso buono ad imitare?

Oltre a tutto ciò v' ha in Chinsi un resto di mura a costruzione pelasgica: cioè senza cemento. In mezzo a tanta vetustà ci fu caro conoscere un vecchio sacerdote nonagenario, possessore d' una pregevolissima raccolta di scarabei, scolpiti ed incisi; il vecchio venerando ci accolse colla massima buona grazia: con brio da giovane, ma sapendosi vecchio e dimostrandoci che aspettava la morte con la placidezza più che rassegnata, gioconda, di chi attende la carrozza per tornare, in città dopo una campagnata.

Tutto quello che la strada perde in foresto ed in solitario da Chiusi a Orvieto, lo guadagna in ampiezza e in grandioso, perchè l' Apennino a larghe linee svolge i suoi dossi, vestiti della più ricca verdura; la strada non fa che andar dentro e fuori, su e giù per amabilissime chine, cambiando gli oggetti immediatamente vicini, ma non il prospetto generale. A piè d' Orvieto si vede anche un bel fiume, la Paglia.

La mia adorata madre soleva dire essere prosa tutte le province transpadane; tutta poesia dal Po al piede d' Italia. Di fatto, e' mi giova ripeterlo, l' Apennino è poesia, e questi punti ne sono il nocciolo, l' amandorla saporosa quant' è più recondita. Le strade di ferro ci han tolto assai: ma allora! … vagare tutto il dì per quei monti selvosi, per quelle valli piene d' ombra, di freschezza, incontrare le mandrie condotte dai pastori, col pittoresco costume dei pifferari aborigeni, cappello a pan di zucchero, pennino a un lato, i piedi nel calzare di corda, e udirli sonare fra quei greppi la zampogna …

Ma come ciò non bastasse, di tanto in tanto a queste bellezze di natura s' aggiungono quelle dell' arte; sicchè uno s' arrampica per ore ed ore e si crede nel deserto; poi si trova in faccia ad un capo d' opera, ad un miracolo. Ciò avviene appunto a chi, salita quella rupe tuffacea, su cui siede Orvieto, si trova davanti alla facciata del duomo.

Un poema quella facciata! … a descriverla non basta un libro, e come far vedere in una fugace apparizione di lanterna magica una cosa composta di tante e che pare tutta d' un pezzo? … Pur non posso trattenermi dal parlarne, e chi non gli va, passi oltre.

La è di marmo bianco con cornici in marmo verde, il resto dell' edifizio è a cortina di pietra bianca e oscura a linee orizzontali. Tre frontispizî, quattro obelischi o guglie, che la costeggiano sopra un piano lastricato, magnifica base di marmo rosso, tutta a scolture di Nicolò Pisano, di Arnolfo da Firenze. Cosa v' hanno effigiato? ecco la questione. Ma non par dubbio siano le scene dell' antico testamento; la Genesi v' ha di certo, tra le altre la creazione della donna, e la si vede tratta dal fianco di Adamo, dentro cui tiene ancora i piedi. Testo a discussioni moderne questa creazione dell' ingenuo artefice. Potrebbe parere una conferma agli ultimi trovati della scienza: esser nell' uomo la donna al suo compiuto sviluppo. Tre porte mettono al tempio, gli archi di tutto sesto con architravi in piano della porta di mezzo, e quelli a sesto acuto delle porte laterali, son formate di colonnine spirali, pilastrini adorni di bassirilievi in foglie e frutti intarsiati di mosaici e d' oro. Non v' è gentilezza di aggemina o leggiadria di cesello che superi la grazia di quegli arabeschi. Ovoli, fusarole, dentelli condotti col sottile lavorio dei pizzi di Burano, maraviglie di squisito gusto e d' abilità meccanica.

Sulle due porte, ai lati due angeli, e dietro ad essi due finestroni d' alabastro bianco; e quanto gli fa bene in certe ore lucenti quella trasparenza di marmo soave, nell' interno del tempio, è un incanto a ricordarlo. Sulla porta di mezzo la bella sposa ci ha il vezzo, il giojello, col suo ritratto: voglio dire la statua della Vergine, a tutto rilievo in marmo, a cui fanno ala gli angioli, sostenendo i lembi del padiglione. Tutto ciò non è che la base, pel resto questa facciata si slancia a tre cuspidi d' onde il nome di tricuspedale. Tre immensi triangoli si elevano dalle base degli obelischi e il fondo è d' oro e mosaico. Poi un loggiato che li taglia e in certo modo li ferma. Sopra del loggiato tre altri grandi triangoli coi vertici perpendicolari a quelli di sotto, inquadrati da ricchissimi cornicioni ad intagli e trafori, staccano gentilmente maestosi dal vano dell' aria, fulgidi quant' è più serena. Questi sei frontoni o timpani son tutti mosaici e scolture, inferiormente a sinistra è il battesimo di Cristo, sugli specchi l' annunziazione della Vergine. Per di qua è lei, per di là è l' angelo; che non si vedono, perchè divisi dalla punta del triangolo. A destra la è in vece una scena domestica: sant' Anna ha partorito; la si scorge a letto, e le donne s' affaccendano intorno alla puerpera e alla Diva neonata. Bel quadro famigliare che non par vero possa starci coll' alta solennità d' un edifizio, innalzato a più che cose umane. Ma al basso, ecco il concetto mistico nelle figure dei due profeti, Isaia da una parte, Naum dall' altra e ciascheduno ha una cartella spiegata.— Lux orta est, sol ortus est. — Tutta la fede di quei secoli è in questa epigrafe. E il tranquillo aspetto d' una madre a letto da parto, e inconscia della sua grandezza, nobilita il senso recondito di quelle profezie.

Nel campo sulla porta di mezzo la Madonna è assunta. Nei tre frontoni dai triangoli superiori, altre fasi della sua vita. In quello a sinistra la si sposa, in quello a destra la si presenta al Tempio. Nel sommo di quello di mezzo, più alto di tutti, con cui termina la facciata, ella s' incorona. Queste son le linee principali di così unirabile disegno. Ma come dir gli accessori? Se il finestrone di mezzo, fra il loggiato e il culmine del triangolo dov' è la Vergine coronata, il solo finestrone, nel di fuori del suo ampio quadrato, ha sei edicole ai lati, dove son dodici statue in marmo, rappresentanti i profeti… Al di sopra è chiuso da dodici nicchie, coi dodici apostoli, e nell' interno, altri quadrati, cinquantadue rose intagliate nel marmo, e ognuna ha una testa? Ai quattro angoli sono i quattro dottori, fin che nel centro, con la ruota di santa Caterina, si forma il bel finestrone a vetri di colore. Come numerare pezzo per pezzo di questo mirabile insieme, se ogni piedestallo ha un busto, ogni torre una guglia, ogni guglia una statua, ogni cornice ha mille fronde, mille intagli, mille trafori, e in cima del triangolo di mezzo, proprio nel culmine, campeggia la croce?

Non v' è nell' arte nessuna idea assoluta; bensì un archetipo, si compone di mille bellezze. Ci vuol l' aria, essa la pittrice per eccellenza, e chi sa anco essere in sulla aurora della vita, con un bel vespero davanti agli occhi. Etere leggero, alata fantasia, perchè angeli ed arcangeli, profeti, evangelisti e dottori, scene scolpite o dipinte o effigiate nei musaici, risaltino vigorose dal bel fondo e tutto quel conserto di linee e triangoli, armonizzando in una sola pagina d' or e di marmo, stacchi dal suo cielo e dal fondo che corona la lieta pendice, dove siede Orvieto.

Nè l' interno è di minor conto; la chiesa è a tre navi a croce latina, e la cappella dell' altar maggiore contiene bellissime pitture di Luca Signorelli. Nei quadri affrescati, che ornano il coro, c'è di belle cose e mi colpì la figura di sant' Anna, per un magnifico partito di pieghe, degno di studio. A questo proposito io tocco di volo per celare un po' di vergogna. In Orvieto stavano un dieci o dodici artisti, architetti, pittori; fermi da settimane, da mesi, ad attingere norme di bellezza da quei modelli. Quegli artisti erano tutti polacchi, francesi o di non so dove, ma d' italiani non ne ho punto visti.

Eppure una visita a una bella cattedrale come questa la fa tanto bene all' anima che solleva, e dà ispirazione al pensiero; pel significato religioso porta ai giorni della bella Fede, efficace in un amore divino, per l' arte la vale più di cento libri ad aggentilire il gusto.

L' organo, il pulpito, il fonte battesimale; la capella del ss. corporale, vorrebbero descrizione a parte, e più ne vorrebbe la cappella di s. Brizio, ricca di stupende pitture del Signoreili, che vi istoriò paradiso, inferno, giudizio, venuta dell' anticristo, i profeti, i santi, la resurrezione dei morti, fatti della mitologia; qua Medusa impietra Sineo, là Giove fulmina i giganti, e poi Venere, e poi Pallade, Enea e perfin Cerbero!… Che ci si provassero un poco i pittori, a cui par troppo, grande un biglietto da visita, per dipingervi sopra un briccelluccio di scena domestica.

La parete che rappresenta la fine del mondo, or ora lavata, ha un tal sugo di colore che par dipinta jeri, magnifico quadro di Luca Signorelli. La predicazione dell' Anticristo ha un po' della satira, e nel rivederla, or fa l' anno, ci trovai allusioni ignote nel 1845. Veglio dire che l' Anticristo predica, e per avvalorare i popoli alla persuasione ei non trova di meglio che far spargere oro da' suoi adepti; di gran pecunia ha raccolto quel semi-diavolo predicatore e tentatore, che compra i voti. Dall' altra parte si vede l' eccidio di coloro che ricusano di venirgli seguaci…. o non pare il tramenio delle elezioni e lo scandalo delle polemiche su pei giornali e su pei muri? Chiudo questi cenni ricordando che il duomo d' Orvieto è opera di Lorenzo Maitani sanese: papa Nicolò IV, seguìto da cardinali, arcivescovi, vescovi, conti e signori di molti castelli nel 1290 a dì 13 novembre vi pose la prima pietra. E nel 1309 Guido di Farnese, vescovo d' Orvieto potè cantarci la prima messa solenne. Ultimamente fu ristaurata, e benedetti pur sian coloro che la religione di patria indussero a conservare un così bel monumento.

Nel punto di torci alla facciata del duomo co' suoi angeli celesti, ci passò davanti un bell' angelo terreno, La Erminia Frezzolini; apprendemmo esser ella nativa d' Orvieto, e che la ci stava un po' in famiglia per rifarsi delle fatiche teatrali e della gloria; non la ci conosceva, ma ci salutò cortese, e a noi saperla un fiore cresciuto su quelle poetiche balze, in piena vita italiana, là dove le viti gemono oro, ci rallegrò assai, e ci chiarì meglio il segreto della sua passionata sublimità nel canto.

Del pozzo di Orvieto, cerchino i giovani per loro esercizio del perchè ha cordonate « dove scendono uomini ed animali; fatte eseguire da Clemente VII all' architetto Sant' Angelo ». È una notizia storica e artistica insieme.

La via da Orvieto a Viterbo è ancora più primitiva e originale delle precedenti; perchè si varca una boscaglia, mai, almeno fino allora, tocca dalla scure, adesso c'è la strada di ferro che per Orte conduce a Roma, non la si fa più, e si lascia da parte la foresta vergine. Ma è sempre bello e poetico il salire ad Orvieto. Un omnibus si trova ad ogni corsa alla stazione e con quattro mule poderose porta su alla cima. Più bello è scendere, specialmente di mattina all' alba, quando la città cotanto nera è tutta nell' ombra; si intravedono appena ai crociati delle vie sassose e montuose i somarelli fermi, col basto sul dosso: pare che siano i brougham del paese. I cacciatori col fucile sotto il braccio e i cani all' avanguardia s' avviano in silenzio. Appena fuori della porta a lato del giardino comunale, s' affaccia quell' ampia distesa terminata all' est dai monti dell' Umbria, che toccano più in giù quelli della Sabina. Non è raro veder fuochi accesi qua e là, chi dice per purificar l' aria, chi dice sono i pescatori, che in riva alla Paglia scaldano le membra intirizzite. Certo a chi tocca veder quelle fiamme sparse in un paese solitario, mezzo addormentato, gode uno spettacolo bello quanto novo.

Adesso facciamo un po' di sosta a Viterbo dove ci aspetta l' arte, ma quella viva, incarnata in una delle due più elette creature, voglio dire che a Viterbo trovammo una lettera della Adelaide Ristori, da noi conosciuta nel 1843 in Treviso: essa ci avvertiva dov' era alloggiata e ci attendeva. Ci si andò. Medea stava a pranzo colla sua famiglia e precisamente alle frutta: quando mi vide irruppe in un vivacissimo — ti xe qua! ti xe qua! — con pretto accento trevisano, che a noi fe' balzar il core; ma ella proferisce ogni idioma come suo, e perciò che a Southampton la Ristori destò entusiasmo recitando in pretto inglese. Nel dopo pranzo la ci condusse al convento di Santa Rosa dove per uno speciale invito la poteva entrare.

Ella vestita di velo nero, con un abito a due sottane, semplice e quasi da monaca, a fianco della madre badessa, aperse la marcia. Noi tutti in comitiva la seguimmo pei chiostri: la famiglia della Ristori, la nostra in coda; una buona trevisana zoppa, al servizio di Medea, chiudeva la processione.

Giunti ad una certa nicchietta o cappellina, le monache fecero vedere alla illustre ospite una poesia a Gesù Bambino, appesa in cornice: poesia che fu dalla bella Melpomene recitata con un' unzione, con un sentimento da far andare quelle buone suore in visibilio. Davanti l' arca della santa, che si vede benissimo conservata, nove dimostrazioni pietose con nova e maggiore beatitudine delle suore. Bisogna dire che le avea ammaliate con una sola parola, di quelle che le monache le toccano proprio nel debole. Ossia coll' esprimere il voto di rimaner sempre là, chiusa in quel convento.

— Co' miei libri, il mio ricamo, un pianoforte e con Dio! sarei felice tutta la vita. —

Forse non la sapeva ella medesima, la grande artista, che terribile verità la dicesse, e chi sa quante volte, correndo tutta la terra, che appena ora le basta, non la invidii il riposo e la felicità della vita oscura? Quanto a noi, affascinati da una situazione originalissima, potemmo dire, nel ricordarla più tardi — i due mondi videro la gran tragica italiana commovere i più illustri uditorî dei più famosi teatri; ma a noi toccò udirla recitare in un povero monastero di Romagna, e ottenere da quel publico ovazioni non meno vive che da qualunque altro di Europa e d' America.

Dalle monache di Viterbo saltiamo sul dorso ai somarelli, presso ai frati di Monte Cassino, in s. Germano, paese finitimo dell' Abruzzo.

Monte Cassino, è sopra un' aspra e sassosa montagna, la quale insieme colle altre circostanti, forma anfiteatro: ed è bello assai vedere di mano in mano, che si va salendo per l' erta, tutto diventar piccino. Il terreno colorito e variato ad intervalli di prati e campi in piani distinti, ma ben commessi, la strada fulgente di bianchezza, le boscaglie, qua e là i gruppi d' alberi, i grandi alberi isolati… e tutto s' allontana, i boschi diventano macchie, gli alberi steli.

Dopo alquanto camminare il cielo s' oscurò, per rischiararsi e ottenebrarsi ancora: e non si può dir quanto quel suo fare a gatta cieca somigliasse ad una fantasmagoria. I colpi di sole, le ombre di nuvole, sfumate in zone, lungo la sottoposta pianura apparivano e poi via subito, e quell' ampia distesa tutto tornava allo scuro. Quando il vento e la piova sopravvennero, e le grandi quercie si agitarono, la polvere si sollevò dal suolo, allora tutti gli oggetti si confusero e quel magnifico quadro prese un aspetto di desolazione sublime. Salire ad un cenobio, fuor dell' abitato umano, e vedersi i nembi al piede gli è pure straordinario! A noi però in quel momento non parve così, e meno al nostro vetturino. Questa volta non era Cencio, coi cuai trevisani. Era un giovine bassanese di buone maniere e di bella presenza; egli, stimando l' ascesa a Monte Cassino cosa di poco momento, volle accompagnarci a piedi, e guidare le nostre cavalcature; forse fu eccesso di compitezza, massime verso l' ancella o il non voler rimaner solo al paese, dove per non so che litigio, altri ospiti dell' albergo lo minacciavano d' una coltellata: e là non si scherza. Ma a metà strada cominciòad accorgersi; retrocedere non si degnava, sicchè toccò la cima in uno stato compassionevole; la cravatta slacciata; il cappello sulla nuca, rosso, scalmanato, e accennava col capo a dire: — un' altra volta!… se mi ci colgono! — Ma lassù ci si va una sola nella vita, e per quella il pover' omo dovette star pago di soffiare per un pezzo e ajutarci a scendere dai nostri ciucchi, e anco per giunta, vederci ridere alle sue spalle.

La chiesa di s. Cassino è bella e tenuta con una pulitezza veramente rara. Magnifici marmi d' ogni qualità, d' ogni colore ornano questo tempio a tre navi. Nei pennacchi della cupola v' han dipinti di Paoletti, e son portati a un punto raro per affreschi. Altre cose viste non nomino per brevità; ma c'è il suo piccolo bozzetto.

Per quel cenobio avevamo una lettera di raccomandazione ad un marchese napoletano, il quale, insieme con un buon frate, ci condusse da per tutto, con isquisita gentilezza. Noi nel manifestargli la nostra gratitudine non potevamo trattenerci dalle maraviglie, perchè se ne stesse là in alto, fuori del consorzio degli uomini: e lascia far a noi congratularci della sua virtù, del suo amore allo studio — ma bravo, noi si badava a dirgli, ma è da ammirare; ma io non vi starei nemmanco in pittura in questo eremo — A tali discorsi il marchese rimaneva con un riso a fior di labbra, come uno che accoglie per forza una immeritata lode.

Quella maniera di sorridere ci fu spiegata più tardi. Non per amore alla scienza e per distacco alle cose terrene, quel signore vivea ritirato là in alto, egli espiava, per ordine del re di Napoli, non so quai scappatelle nel monastero di Monte Cassino.

Il ritorno fu disastroso, piova e vento; approssimandosi alla greppia gli asinelli affrettarono il passo: quello montato dalla mia cara sorellina spiccò il trotto di carriera, ond' ella, poco forte in arcioni, quasi pericolava. Le chiome copiose e nere come quelle della Frezzolini, a cui somigliava, le cadevano giù per le spalle, sicchè in atteggiamento d' eroina dell' Ariosto la dovè ingredire a san Germano; e noi tutti dietro, inzuppati fradici, ma allegri e pieni di fame.

Il giorno dopo riprendemmo la via, e la sera tardi, dopo passato a lume di luna il bel ponte sul Garigliano, giungemo a Capua. Dovemmo ascrivere a nostra sorte che non ci toccasse verun sinistro, poichè le son strade mal famose, e trovarcisi noi soli, isolati di notte, a chi patisse quel brutto male della paura, avrebbe potuto, se non altro, scaldare la fantasia. Si sa che di notte le ombre diventano corpi, e par che si movano: una immaginazione accesa poteva benissimo vedere un brigante sbucar dalle macchie ai ciglioni della strada… Mai simile paura ci rese sgomenti: la nostra diletta madre nervosa, impressionabile si conservava d' un umore festoso anco lì dove altri trovasse ragion di temere. Avverto però che il nostro caro padre non accennava mai alla paura, come la non ci fosse. Ed è la più bella maniera di dar coraggio. Noi dunque traversammo quelle solitudini vedendo le belle ombre dei cactus, dei palmizi e di tutte le produzioni della flora napoletana, tanto vicine a quella tropicale, e se le ci balenarono diversamente dalla loro pittoresca forma fu per apparirci in altra molto più eterea: ossia le larve di re Manfredi, i guerrieri, le battaglie e quanto la memoria evocava dai poemi storici. Alla mia ottima e cara madre, delle realtà della vita immemore, e poetessa fin sopra ai capelli, era più fitto in pensiero Manfredi che i briganti: di quello vedea le bionde chiome agitarsi nell' ombre notturne dei famosi campi, dove ricevè la ferita e la morte: la regina Elena, Yole e tutto il quadro pietoso, che ispirò un giorno Guerrazzi… Degli assassini si preoccupava pochissimo: anzi la non ci credeva, scarterebbe ora certo la legge Cantelli. Per fortuna essi non ebbero la tentazione di provarle che ci sono veramente, e il nostro viaggio fu felicissimo.

L' arte a Napoli - Angelini e Calì - Di nuovo la Plejade napoletana - Pocrio - La Pulli - Ingarriga - I quadri vivi in casa Liberatore - quelli dipinti da Marko e Azeglio in casa Ala-Ponzoni - Caserta - Aneddoti.

In quel tempo di pittori, degni della grande metropoli e che reggessero nella fama al paragone di Hayez, Podesti, Schiavoni, non si conoscevano in Napoli. Il genio covava, ma le vere scintille le die' poi al sole di libertà, colla scuola napoletana realista d' oggi.

D' un pittore seguace di Camuccini ed erede della sua cattedra in Roma, un professore, Marsigli, si mostravano orribili cose. Per orribili intendo esagerate nella forma e nell' espressione: teste cogli occhi fuori dell' orbita, muscoli gonfì e presso a scoppiare: colori strambalati e in ordine al disegno.

c'è a Capo di Monte un ritratto di Maria Luigia di Spagna, moglie a Carlo, serva a Manuelito, principe della Pace. Il professore la dipinse talmente orrida che a noi la strappò un grido d' avversione: e poichè è rimasta nella storia a quella donna un brutto nome di licenza e di scorrette passioni, così la ci apparve come la incarnazione, anzi come il demonio del vizio. Il pittore non ha certamente pensato a codesto, ma ei fece opera buona. Ogni giovine signora guardando quel ritratto e immaginandosi che, a deviare dalla virtù la possa mai somigliare a quella brutta regina, deve giurare in cuor suo di mantenersi pura tutta la vita. Tanto quella immagine è ingrata a vedersi.

Detto questo, ripeto, begl' ingegni si maturavano e si preparavano in Napoli nulla ostante il barocchismo di scuola. D' Auria, Maldarelli-De-Vivo e tanti e tanti altri; ma pur troppo all' esposizione pel congresso chi figurava?… I Francesi. Mi sovviene di due ritratti i quali a chi li guardava lasciavano un' impressione misteriosa. Erano questi del francese Cour e rappresentavano due gentilissime ladyes, mascherate, una sta per levarsi il volto, l' altra lo ha già levato. Non parea vero che due ritratti attraessero l' attenzione di chi non conosceva gli originali; ma tal fascino ci avea nella bellezza di quei tipi, e nella ricchezza d' un pennello maestro a toccare le carni e gli accessori; una rosa di seta, appuntata nel bel mezzo del seno pareva messa allora dalla modista… Dove saran quelle due immagini sorridenti?… n qual palazzo di Londra o d' America?… E saran poi belle ancora … o la tela screpolata, ingiallita starà nelle soffitte o dal rigattiere? Dopo venti anni e' si vuol vederlo un quadro francese!

Illustri campioni avea la scultura in Napoli. Angelini fin dal 1842 modellava e scolpiva il famoso gruppo: Telemaco persuaso da Mentore d' abbandonare Eucari. L' inclita Guacci scendeva qualche mattina dal suo Capodimonte, veniva a bearsi davanti a quella scena ideale, eppur sempre vera. La passione, la seduzione, la saviezza. Incerta la prima fra la seduzione della ninfa, che idoleggia, e la saviezza del consigliere che stima. La ninfa dolente di veder distrutto il suo fascino, il vecchio freddo, severo, ma sicuro nel suo proposito. La differenza di questi tre tipi si alterna benissimo, specialmente nelle mani intrecciate in un' azione discorde.

Non altrettanto lodata fu la statua della Religione che Angelini modellò pel cimitero di Napoli.

Di Calì, autore della Psiche, ho qualcosa da raccontare ai giovani: vedano essi, a cui pare che talvolta loro manchi la libertà, e confrontino.

Calì autore della famosa Psiche ebbe per questo bel lavoro seriissimi dispiaceri dal re, che non potea perdonargli un' opera di soggetto profano ed una donna ignuda. Tale è infatti, ma un nudo composto, che non offende l' animo più timorato; poichè la bella giovane, simbolo eterno d' un mistero inesplicabile, fatta accorta della fuga d' Amore, si solleva da coricata ch' era sul fianco e, in atto del più soave dolore, richiama il fuggitivo. Certamente l' arte religiosa è il culmine dell' arte, come Dio è la sola idea assoluta dell' uomo, e un re, che si tiene qual padre del suo popolo, deve benissimo incoraggiare quanto crede di più nobile nell' intento del bene. Ma il male dove non è, oh! guai a lui se lo vede.

La statua del veneziano Corradini, custodita in Napoli, nella cappella de' Sangri, rappresenta la Pudicizia. Almeno di nome. Nel fatto la sua sola pudicizia è l' essere coperta da un velo; magistero stupendo, artifizio mirabilissimo, vero tesoro dell' arte. Ma l' attitudine è sguajata, la mossa impronta: la ha l' aria di una Ciana di Camaldoli o di Cannaregio, che s' appunta le mani al fianco e sta per dire qualche bella impertinenza. In vece nè la Leda, nè la Psiche vi pajono tali. Non apparivano scomposte a nessuno, fuori che al re. Tanto ch' ei ne fece ogni vessazione all' incauto artista; ci volle del bello e del buono prima che permettesse di esporre la bella Psiche non solo, ma, quando assentì, diede ordine la venisse mostrata in un camerino a parte, con una guardia davanti, quasi oggetto osceno.

Il povero scultore offeso, ma anche sgomento, perchè l' uomo di sola gloria non vive, pensò d' avvicinarsi al re e di placare la sua collera. Ciò che fece manifestando il bel proposito di scolpire il gruppo della Pietà; che in fatto vedemmo in lavoro; come in fatto il re perdonò subito la Psiche, e offerse allo scultore ajuto di cadaveri adatti all' uopo, e divenne insomma umano come prima. Bisognava sentire Ernesto Calì, nipote del valente artista, del qual nipote ho un piccolo disegnino appunto della Psiche, bisognava sentirlo a descrivere l' intervista; e come il real visitando, che passeggiava nelle loggie del suo palazzo, ricevesse prima il Calì in gran sussiego; ma poi, udita l' intenzione di scolpire il gruppo espiatorio, gli dicesse sbirciandolo di traverso, e guardandolo coll' occhialino:

— Ah!… vi siete convertito finalmente!… vi siete ravveduto! — ravveduto! — esclamava con quella vivacità napoletana che colorisce e incide ad un tempo: — come se mio zio fosse stato un assassino, un ladro! —

Di fatto se il re stimava in coscienza di dover fare così, meglio pel re, egli che agiva mosso da un sentimento di rettitudine, egli solo potea giudicarne. Ma questa maniera grifagna di inculcare la verecondia, imponendo le pastoje all' ingegno, o non la è forse peggiore di qualunque noncuranza?

Mentre il re badava a simili inezie, il Vesuvio preparava da lungo tempo le sue eruzioni. Intendo quelle morali. Nel giorno 4 ottobre si chiusero le sessioni del Congresso scientifico, di cui porgo un altro cenno.

In esso convennero da ogni parte d' Italia chiari ingegni, e col pretesto della scienza, s' intesero benissimo in ciò che premeva: la rivoluzione d' indipendenza italiana. Si disse che, segnatamente alle catacombe di s. Gennaro, si riunivano i capi; ma in verità non c'era da nascondersi: e tutti s' intendevano alla bella luce del sole.

L' ultimo dì Brofferio uscì con una sfuriata contro i poemi epici, e volle si stabilisse pel futuro Congresso una sezione di letteratura. Fu un diavoleto. Regaldi sostenne Brofferio, ma altri dissentivano: — Cos' ha da venir fuori lui con queste vecchiate dei poemi?… e che c'entrano coi Congressi? I Congressi son tollerati, e lui semina la discordia…. vedrete che non li permetteranno più.

Di Congressi ce ne furono in vece due: di sezione letteraria non si parlò. nè di poemi. Ma la grande epopea nazionale, che di là traeva le mosse, si svolse per non arrestarsi che in Campidoglio.

Il duca d' Avellino, preside all' aula, dove nacque il diverbio, con sane parole mostrò la sconvenienza di quella proposta; essere la letteratura poca cosa senza la filosofia, e la filosofia includere argomenti gelosi; prese quindi nobilmente commiato da' suoi ascoltatori; fra i quali fedeli eravam noi per non lasciarci fuori. Poi gente di ben altra e nota importanza. I conti Miniscalchi da Verona, padre e figlio. Il nostro Amico Ricci, Biscarra padre e figlio degne persone, e riputati artisti piemontesi, con cui stringemmo conoscenza. Il professor Parlatore e un' infinità di pezzi grossi sotto ogni riguardo.

Devo dire che il Piemonte cominciava a figurare da per tutto. Si lodavano le sue armi, si mostravano con vera compiacenza i generali di Carlo Alberto nella sobria nazionale uniforme; e noi pure ci legammo con egregi militari piemontesi.

Insomma a Napoli convennero tutti da tutte le parti d' Italia, e il re fece festa, e quanto di cuore lo seppe lui, agli scienziati, strinse la mano a Orioli e ad altri capi un po' pericolosi; e cooperò al miglior andamento di quel Congresso che fu brillantissimo.

Uno scienziato veneziano ebbe cuore di stampare un diluvio d' impertinenze contro Napoli: la frase che più colpì diceva — esservi un' aura di lazzaronismo diffusa in tutte le caste. — La libertà di difendere la loro metropoli i Napoletani l' aveano, quanto noi di difendere la nostra Venezia. E ognuno immagina se fecero difetto le risposte, e di fatto se il lazzaronismo allude a qualche strada sudicia, non sarà niente più, forse molto meno che altrove.

Partiti i dotti noi si rimase: anco sta volta a Nuova-York, e per tre mesi fu uno scambio di visite, di amabili discorsi di seriissime disquisizioni, a cui il brio della gente e l' allegria del sito toglievano ogni ombra di pedanteria. Essere a Napoli e chiacchierare la sera a veroni spalancati di dove entravano i raggi di una luna folgorante come sole; vederli guizzare in lame d' acciajo sulla rada; il Vesuvio in lontano, e nel bujo le fiaccole di chi vi saliva: oppur qualche piccola eruzione, di quel

« Di lave incoronato italo monte…!»

Ecco il primo verso d' un sonetto improvvisato, giusto in quelle sere da Regaldi… E mentre lui colla sua voce potente, col suo gesto da teatro improvvisava, Mussini, primo pittore adesso di Siena e fra' primi d' Italia, aquarellava ritratti. Florio discuteva sul bello ideale, Bruto Fabbricatore, Puoti, Gargallo, Arabia sostenevano le ragioni della lingua: Selvatico brillava col bel fuoco d' artifizio de' suoi discorsi d' arte. Camardo, Matranga (segretario di Mezzofanti), siculo-greci, recitavano Anacreonte nella versione originale; musica anche a chi non sa di greco. O le belle odi del Melli, musica che tutti intendevano o sentivano:

» Dimmi, dimmi apuzza nica, Unni vai cussì mattino… »

Un giovine veneziano provava al pianoforte i motivi d' un' opera, che poi credo si rappresentò per la prima volta in Venezia e piacque, ma non si resse. Franceschini si chiamava il giovine maestro, Enrico Poerio gli stava facendo il libretto. Tutti colti, tutti letterati, artisti che non domandavano altro di poter dire ciò che fervea nelle loro menti. Sopra ogni altro Regaldi godea descriverci i suoi trionfi. Ci si passionava, declamando, e parea ancora e sempre davanti a quelle turbe inebbriate di lui, ebbro dei loro applausi e delle loro corone. D' altro non si occupava, d' altro non sapea, unicamente, fervidamente poeta.

Una memoria dolorosa ci lasciò Alessandro Poerio, l' inclito patriota, e, come posso, mi proverò a rendere quell' amara impressione.

Convien sapere che dalle pene sofferte in esiglio, e più in prigione, era rimasto a Poerio una specie di convulso; un orribile male per cui gli usciva dal petto un grido, somigliantissimo all' urlo d' un cane. Questo segno morboso de' suoi patimenti morali e fisici avea un altro carattere non meno funesto. Bastava nominarlo perchè l' infelice ne venisse repentinamente assalito. Non credo che tale spasmodia potesse divenire pericolosa o mortale; ma una spasmodia è per sè stessa cosa fiera, ed è agevole supporre quanto e quanto il sofferente tremasse di provocarla. E ciò appunto accadde a noi pur troppo una sera: mentr' egli ci descriveva la lunga iliade de' suoi viaggi in Germania, dove stette esule dopo la sua prigionia… ci sfugge una parola… una parola che sveglia quella orribile convulsione. Vediamo Poerio, vero gentiluomo, sempre cortese, e, in presenza d' altri, padrone di sè, lo vediamo oscurarsi, accennar della mano, premersi il cuore… come a dir di tacere. Noi si stava sorpresi, senza osar più di mover parola… ma troppo tardi… d' improvviso gh eruppe dalla gola un urlo, e poi un altro e un altro, e pareva precisamente un cattivo cane che abbajasse.

Agostinis, napoletano, dovette pure all' essere desto nel cuor della notte, e strappato dalla polizia borbonica alla famiglia, dovette un crudelissimo e funesto morbo cardiaco… tale era stato lo schianto di quell' angoscia improvvisa.

Adesso io narro di un altro celebre uomo, poeta e tribuno, del quale pure a noi restò una reminiscenza curiosa e in tutto diversa dalla idea che ne ha il publico. Voglio dir Giuseppe Montanelli, il quale fu lui a farci se non conoscere, certo apprezzare Prati. Stava a Nuova-York anche lui, e spesso spesso scendeva da noi; e ci leggeva ad alta voce, e ci recitava le più belle liriche del celebre poeta. Chi lo crederebbe il futuro legislatore della toscana, che due anni prima pacificamente declama canzoni tutt' altro che guerriere, alla gente più modesta e pacifica del mondo!… E in che modo le recitava!… con quale soavità piena di sentimento! con che pronunzia melodica, con qual estro pacato e in un vigoroso! Il poeta giovine e la società, per esempio, quella che comincia:

« All' uccellin che vagola per le celesti rive »

cosa pareva sentirla da Montanelli!… è impossibile che Prati medesimo la proferisse con tanta enfasi delicata, e quasi con quella religione di Montanelli. Istessamente Il poeta e la società, e tante altre. Qualche poesia sua recitò Montanelli, e d' una mi ricordo: con cui rimproverava una contadinella delle Alpi di cantar per mercede, e si vedea buon poeta, d' alto sentire, ma niente uomo pratico, perchè quella montanina e tutte le montanine del mondo cantano per mangiare: ciò a cui gli Alpigiani pensano più che alla poesia, di cui hanno d' avanzo.

Altri Toscani si trovavano a Nuova-York. Leopoldo Cempini, figlio di quel Cempini, che fu poi ministro di Leopoldo, giovane spigliato del quale tutti noi godevamo udir la parlata fiorentina; e talvolta si provava per celia ad imitar la sua gorga, e lui credende lo si canzonasse — O come s' ha a dire? — E noi — sempre cosi! meglio è impossibile. — Cempini apparteneva alla baraonda gioconda frequentatrice dell' Ussero a Pisa; conosceva Giusti e ne diffondeva, vivace rapsodo, la cognizione. O a quanto avrebbe penato un Giusti non toscano a farsi nome, se a tanto nemmeno poteva giungere!

Montanelli prese da noi commiato nella più trista maniera: soffriva il mal di mare in modo, che, al solo immaginarsi di montare nel vapore, cominciava la mattina a provar nausee e passare da un affanno all' altro. Noi salimmo alla sua camera, e in uno alla signora Parra, che partiva con lui, gli demmo coraggio. Che passione!… Veder un uomo di così alto sentire, e lo provò combattendo in Tirolo, dove, prigioniero ha lasciato memoria d' animo forte, vederlo a non potersi superare, magro, patito, in attitudine di scoramento, abbandonato sopra una sedia! — cosa sarà prima che arrivi a Livorno? — Ci dicevamo fra noi. Ma forse l' aspettativa è peggiore del male: e in ogni caso son fenomeni che gli spiegherà Mantegazza medico e fisiologo.

Oltre alla Guacci v' avea un'altra brava autrice in Napoli con cui si trattava famigliarmente: la Virginia Pulli-Filotico. Buona prosatrice, non da appagare le esigenze dei puristi, ma da aggradire il più dei lettori. È suo il Carlo Guelfi, storia domestica napoletana, stampata nella piccola biblioteca Lemonnier. Libro onesto, di cui udimmo la lettura, innanzi che si pubblicasse; in esso è tratteggiata la vita napoletana, e fra gli altri vi spicca il Paglietta, mezzo avvocato, mezzo faccendiere, tipo originalissimo… e per verità la buona Pulli ci mise tutto l' amore a questo quadretto domestico… ma cosa potean fare le lettere in un paese tenuto, sotto certi riguardi, come un pascialato turco?… dove le tipografie doveano essere a pian terreno, sempre sotto gli sguardi e l' ugne poliziesche?.. La poesia vola, non c'è zampa di censore che le tenga dietro. Dall' altra parte alla Pulli, ingegno virile, ma non potente, maucava la potenza del dolore. La era felice, ricca, moglie, madre; possedeva campagne in provincia, una bella casa in città: un bravo cuoco, una conversazione fiorente, cantava, sonava, disegnava, era amata dai suoi figli e tenuta come un uccello raro a zuccherini in una gabbia d' oro. Il genio rimanea soffocato in tanta opulenza, in tanto adipe morale e materiale.

Dalla conversazione della Pulli io passo a cosa di cui udimmo a parlare in quell' elettissima accolta di care persone. Intendo d' un autore romantico, ma ultra, il solo, crederei, allora in Napoli. Però, da vero Napoletano, ei non ci s' era messo per niente. Valentini si chiamava: e in pochi versi avea condensati tali furori da sorpassare Hugo. Due frasi sole mi sovvengo, dirette ad una sua innamorata: « T' amo fino al coltel: fino a sbranarti il cuore a mangiarmi quelle tue viscere beate, che pur son mie. » — Ecco un amore micidiale. E tutto così. Ma in quel paese di forti ombre e di splendida luce non ci avean mezze tinte. O le immacolate, eteree canzoni di Ajello, della Guacci, di Florio o questo diavolerio.

Delle poesie d' Ingarriga temerei di far troppo ridere a riferirle per intiero. Ingarriga era popolare più di Dante. Un povero impiegato, che per non so qual pietosa intenzione volle ridur in versi tutto lo scibile umano; l' eclissi la definì così:

Ecliss' è quando s' incontra Fra il sol la lun' sovente, O fra lun' la ter movente, E scuror ne vien quaggiù.

Non credo nessuno potrà accusarmi di parzialità pei Napolitani, se confermo che tutto è originale, direi quasi, potente in essi perfino l' idiotismo. Quest' uomo è creatore.

Ma il più bello fu una parodia, almeno così fu ritenuta, d' un brillante ingegno napoletano, che imitando lo stile e gli stornelli di Ingarriga scrisse alcune strofe in morte della regina Cristina. Il solo titolo è un capolavoro di umorismo.

« L' autore ha inteso di dimostrare, nella morte della defunta regina e de' suoi amici in otto ottave anacreontiche di due volte quattro versi. » Di otto ne trascrivo tre:

O Re grande che nel duolo Sai più forte dimostrarti, Io qui voglio consolarti Per la morte di Cristin. Ella è andata in Paradiso, Tu restato sei fra noi, Operar con noi tu puoi, Ella prega il Dio Divin.

E quest' altra al principino quant' è cara:

O Francesco, sei piccino E mi sembri tanto grande, Che Golia, quel gran gigante, È pigmeo vicino a te. Possa presto la fortuna Farti ascendere sul trono, E sarà il più gran dono Che può farci il nostro Re.

Ecco l' ultima, in discolpa dei medici:

Medicin, sebbene è un' arte Che suol l' uom spesso salvare, Pur se Dio sel vuol pigliare Seguir deve il suo destin. Fu Cristina inver curata Con grand' arte e attenzione, Lasciam dunque le persone E accusiamo il Dio Divin.

La Pulli ci condusse una sera in casa delle signore Liberatore a vedere i quadri vivi o, come dicono, plastici. Una gran casa dove vedemmo raccolto il fiore della società napoletena e straniera, perchè gl' Inglesi si trovano da per tutto. Le signore Liberatore andavano rinomate per scienza, così la madre come le figlie, e per non comune cultura: e di esse non ho altro a dire se non che ci fecero mille finezze con espansione propria di quei cuori. Quanto alla società raccolta nella veglia, troppo alta per essere originale, somigliava a tutte le veglie del gran mondo. La giovinetta convulsa e sbiadita che gorgoglia très-bien, i lioni, tutti morchia e vernice, il buffo caricato che siede al piano e s' inspira alla sua goffagine, quell' altro che ti storpia brontolando pardon, o ti sloga un braccio per istringerti la mano all' inglese. Ma la fu una bella serata; e begli oggetti ci fu dato vedere in quelle sale; una piccola raccolta di piante grasse, dono, s' io non erro, del conte di Salerno, e altre preziosità, le quali da noi ammirate ci venivano subito offerte con ispontanea cortesia napoletana: uso che c'è anco nella Spagna, ma come accenna Sardou nella Fernanda, la gente a garbo non lo prende sul serio.

Parlando dei quadri vivi li organizzava niente meno che Mussini. Riuscirono stupendi. Nulla mancava: ricchezza di vesti, sfarzo di lumi concentrati. La figlia maggiore, signora Elisa, figurò Sisara nell' atto di piantare il chiodo nella testa al gigante, rappresentato parmi da Enrico Poerio. Mussini volle farmici stare anch' io in un quadro e (gli artisti hanno il dono della seconda vista) immaginando qual sarebbe il genere d' arte a cui inclinavo, mi collocò in una scena fiamminga.

Ora i quadri dipinti. Comincierò a mo' di storia.

c'era a Napoli un povero gran signore, il marchese Ala-Ponzoni, misantropo, pieno di malinconie viveva in un profondo ritiro, confortato da uomini egregi per ingegno e per cuore che lo ajutavano a stornare le tetre immagini della sua fantasia. La quale, dicevasi, rimanesse nella prima gioventù colpita dalla bellezza di Maria Felicita Garcia Malibran. Cosa possibile, e non fu il solo, e Dio sa a quanti la fiera amazzone ricambiò le corone d' alloro e di mirto, che entusiasti le gettavano, con dardi alla loro ragione.

Altri pretendevano che il nobile signore espiasse meno poetico errore, non suo, ma della maga dipinta colla benda agli occhi: la fortuna. Ossia gli dessero agio a crearsi fisime un tremila lire al giorno. Il dottor Perazzoli, medico del marchese e nostro, ci fe' veder le maraviglie d' arte, ammassate nella casa di quel povero gran signore… e c'era da piangere girando in quegli appartamenti vuoti, e dove tutti s' incontravano fuor che il padrone. Appartamenti del palazzo Esterhazy a Chiaja, in uno dei più bei punti di Napoli e del mondo!

I quadri stavano dove stavano. Sopra una sedia in un cantuccio, al muro, in qualunque camera, in uno stambugio, a pian terreno, fra gli arnesi di scuderia… le tele erano segnate da questi nomi. Hayez, Podesti, Mussini, Marko, Lindau, Canella, Azeglio.

Di Mussini, degno campione del purismo, senza pedanteria, si mostrava in quella stravagante raccolta un quadro storico sacro. Gesù Cristo scaccia i profanatori dal tempio. Ma di questo eletto artista mi riservo accennare più innanzi. Il quadro di Marko ora non farebbe, come dicesi, epoca: tanto progrediscono gli studî dal vero.

Una strada di campagna, un ponte largo quanto la strada, con due muriccioli alle bande. Alberi per di qua e per di là; le tre figure degli Apostoli e di G. C. che vanno in Emaus. Un sole limpidissimo s' alza dall' Oriente e indora tutto. Niente di più e niente di meno, ma io nel parlarne perdo il coraggio di descrivere quella maraviglia.

Vuol dire che ha la verità: il senso della luce nascente, digradata, soave e l' allegria, ch' essa desta. Le strade proprio come sono a quell' ora in cui le ombre le toccano, anzi le lambiscono appena, ma con una leggerezza e con una trasparenza molto diversa dal fuggire dell' ombra al tramonto. E tutto si move e tutto vagola, ombre e macchiette.

Per noi, avvezzi a viaggiare in sull' aurora, ci guardavamo in silenzio per non perdere la freschezza di quell' ora, il cinguettio degli uccelli fra gli alberi, gl' insetti che appena cominciano la cantilena che a mezzogiorno sarà piena orchestra. Accosto al quadro di Mark stava quello di Azeglio. Attendolo Sforza, invitato dai soldati a seguirlo; interroga la quercia col gettarvi una scure, e Azeglio reggeva al paragone di Marko. La scena piena di luce, di brio, di colore, le macchiette dei mercenari a cavallo, pittoresche assai; ma devo dire che Marko in minor campo e con minori mezzi ci destò maggiore impressione. Aver quelle due tele davanti c'era da fare un magnifico studio di bellissima arte comparata. In quel di Marko era un senso devoto, e qualcosa di mistico da cui l' anima si sentiva compresa al levare del sole in una povera campagna deserta. Ciò accadde ancor più che pel soggetto per tutto ciò che v' impresse il pittore; il quale fu una sola cosa, pittore: almeno unicamente per questo è conosciuto. Si sente che d' altro non si occupò in tutta la sua vita, passata nella contemplazione fedele, anzi religiosa della natura. Azeglio cominciò tardi: ebbe distrazioni molteplici, che lo resero utile alla patria e lo innalzarono più tardi a grande cittadino italiano, ma lo distolsero dal culto dell' arte. Qualche ribellione del suo pennello alla forma la si riscontra spesso anche nel frondeggio, nell' onda, in certi passaggi, come le crudezze nei versi d' Alfieri, suo confratello e paesano. S' io mal non m' appongo, le piccole tele riuscirono meglio al nostro bravo Massimo di quello che le maggiori. La Disfida di Barletta, posseduta dal conte Papadopoli, un' aurora sui Gioghi, che Azeglio stesso donò al compianto Caffi, si elevano quasi all' altezza del quadro di Marko. Ma il gran quadro, ch' è a Brera, e rappresenta un delitto ed un temporale in sito montuoso, non ha i veri caratteri nè dell' uno, nè dell' altro. Grande studio di particolari, un certo effetto teatrale, ma non è sublime di realismo come quelli di Lange e di Holzer, e non s' innalza all' ideale, secondo ei ne avrebbe l' intento.

Lì accanto ad Attendolo (per terra) ci avea un quadro di Lindau, allo stesso posto… Due contadini, un marito e una moglie, questa sur un cavalluccio e il marito la sorregge; e si capisce che vanno al mercato, sotto un' ombrella che li ripara dal sole. L' ombrella è rossa e il riflesso ardente di quel sole e di quell' ombrella, sul viso della bella paesana, è una maraviglia insuperabile. Tacerò pure della Malinconia di Hayez, poema in mezza figura. Come arte ci sarà da dire, ma come espressione!.. e di quella arcana « che si sente e non si dice ».

Dal campo artistico vengo ad uno più modesto, ma che al più dei lettori parrà forse meno arido: quello degli aneddoti. Chi viaggia ne ha un mucchio, anzi non varrebbe la pena di moversi ove non s' incontrassero graziosi incidenti, e non restasse quella gran compiacenza di raccontarli.

Eravamo a Caserta, e precisamente in quel magnifico viale lungo il canale o, a dir meglio fiume, che Vanvitelli fece sbucare da una roccia innanzi alla corte, convenuta apposta per assistere al preparato miracolo. Ci ricordavamo come la prima volta il miracolo non succedette; e l' infelice architetto smarrisse i sensi pel dolore, non vedendo l' acqua sbucar dalla roccia, nel momento prefisso. Mancasse quasi di gioja la seconda volta; nel giorno cioè in cui, al tocco della magica verga l' onda irruppe e trabalzò agli applausi degli astanti commossi.

Riandando questo fatto, così importante nella vita d' un architetto, non ci avvediamo d' un bimbo, che passa accanto a noi accompagnato da una signora: quando improvviso si ode dalla bocca del bimbo un — Imperdinendi …. — proferito con la voce più fiera, e in un più piagnolosa, che potesse in quell' età.

Il cicerone accortosi, fa subito di cappello … e accenna a noi di inchinare i due personaggi: mentre la signora iva quietando il regale infante e gli diceva manierosa. — Sta bono, figlio mio, sta bono.

Il piccolo, già tanto ligio alle esigenze della sua posizione, era un figlio del re, un conte di non so qual provincia. Morì piccino, ma prometteva molto spirito e molta alterigia.

Il mio caro padre, puntuale nei rispetti dovuti alla autorità si levò subito il cappello, ma non ci fu nessuno di noi che, vedendo quella venerata canizie inchinarsi al piccolo imperdinende, non soffrisse e non provasse anche la voglia di dare a quest' ultimo un bel scapellotto.

A quest' altra. Una volta, venendo giù per la magnifica galleria coperta del palazzo del ministero, fermatici davanti a quattro statue, collocate in nicchie apposite, noi stavamo per copiare la iscrizione, sotto quella di Federigo II allorchè una guardia si appressò a mio padre, intimandogli di levarsi il cappello. Quella volta il babbo tirò dritto.

L' ultimo aneddoto è lietissimo e tutto personale, ma forse non del tutto inutile insegnamento alla gioventù chiacchierina.

Nel tornare da Caserta in istrada di ferro s' appiccò discorso con un vecchietto, che viaggiava umilmente in secondi posti come noi. Portava un cappello usato, un soprabito un po' sdrucio color verde-bottiglia. All' occhiello, è ben vero, teneva una fettuccina, ma tanto sbiadita, che non se ne distinguevano quasi i colori.

I discorsi fatti con quel signore non me li ricordo, benchè di preferenza egli si volgesse a me. Eran questioni generiche, sociali, sul bene, sul male: sulla cautela necessaria a condursi nella vita, sul non creder facilmente a tutti… Io sostenevo il bene a spada tratta, con la foga e la confidenza giovanile: e alle proposte argute, pensate, da uomo di cultura e d' esperienza davo risposte ardite quanto più il vecchio m' incuteva poco rispetto, pel suo cappello poco lustro, non senza accorgermi però d' un certo sorriso fino, che gli appariva di tanto in tanto. A Napoli discendiamo; il signore ci saluta grave e se ne va; ma vediamo alcuni amici, che ci aspettavano alla stazione, salutar lui ben altrimenti ossequiosi.

— Chi è?…

— Quello?… È Lebersen. — Così stroppiavano i buoni Napoletani il cognome di S. E. il signor conte di Lebzeltern, ambasciatore dell' impero d' Austria, presso alla corte di Napoli. Ci scambiammo un' occhiata in famiglia, come a dire: — di cosa s' è parlato?… — vatel' a pesca. Bisognava chiedere alle onde del mare ciò che dissero alle sabbie, nel venir frettolose alla sponda lungo alla quale noi si era corsi… E poi subito un' occhiata al nostro compagno di viaggio, il quale già si dileguava fra il dedalo ferroviario della stazione; andando rapido, come chi non vuol tradire l' incognito, sì che appena ci apparivano già in lontano i lembi del suo soprabito verde-bottiglia.

Del resto un ambasciatore non è un reporter di polizia, ma ha da dare, al caso, informazioni esatte. Eran tempi paurosi, e da un momento all' altro una sola parola mal interpretata provocava uno sfratto improvviso, e specialmente dai reali dominî di qua e di là del Faro. Tanto più che, sebbene il mio amatissimo padre fosse rigido osservatore della legittima autorità, ei si teneva sempre lontano dalla società ufficiale e segnatamente in viaggio. Badava benissimo a dire: — bisognerà pur ch' io ci vada, ch' io mi presenti al nostro ministro… non andarci mai lo si potrebbe notare in mala parte. — Talvolta ebbe anche lettere di rispettabili persone a gente altissimo locata, s' apparecchiò anche in giubba e guanti lattati: messo così egli, pavoneggiandosi ammiccava malizioso, e uscia in simili discorsi: — Ah?… cosa direbbe il barba Nanne vedendomi vestito da signore?…— dicea, ridendo per non dare importanza a questa lezione d' umiltà. Ma tutto finiva lì, perchè egli non andava in nessun luogo. La mia cara madre lo secondava nel prediligere la società della gente alla buona. Nel gran mondo la ci stava come un pesce fuori dell' acqua, e la perdeva il suo spirito. Quanto a me, allora desideravo tutt' altro e solo per forza stavo nelle modeste compagnie, conducendo con me una schiera di principi e principesse invisibili, per discorrerci in uno sdegnoso a parte. Ma chi non lo sa che i giovani hauno l' istinto delle gazze, e cercano quello che luce?

Agli ultimi di dicembre ci staccammo dalla bella blanda Sirena; dopo tre giorni di viaggio, come da noi in aprile, femmo sosta in Roma, in un bell' appartamento a s. Lorenzo in Lucina, dove passammo tutto l' inverno.

Un carnovale a Roma - Il purismo - Owerbek - Pellico
- Si balla fra le statue - Transtevere - Ultima visita
a Gregorio - Il duomo d' Orvieto in fiamme.

Dedico queste pagine agli artisti, e dirò, come il solito, il poco che so, imparato per pratica.

Nel 1600 le arti decaddero; ciò è ben noto, e divennero barocche, barocchissime! Bernini è là colle sue statue che risponde per tutti. Tiepolo a Venezia colle tele, tanto che i mille e mille esempî di barocchismo la fanno parere un' invasione colerica.

Di fatto, come persuadersi che tutti fossero allora d' intesa per atteggiare le loro figure a quelle mosse sguajate, sgraziate e contorte? a modellare svolazzi di pieghe, simili a rupi ed a scogli? barbe e capelli che pajon foreste? tutto pesante, artefatto…. architetture a cui torna a capello una graziosa satira dei Romani alla chiesa di Piazza Navona, verso la qual chiesa stende una mano la grande statua della Fortuna di faccia, per tema che le venga addosso. E qui s. Moisè può destare la stessa paura.

Succeduta la rivoluzione francese, prevalsero nell' arte forme greco-romane, come nella politica imperò l' idea delle republiche antiche. Questa scuola, rappresentata da Appiani, da Politi, da Benvenuti, da Camuccini, diede generalmente poco lodevoli frutti. Non era più il barocchismo di prima, ma un altro barocchismo, ossia una nuova convenzione: tutto rigido: tritume di pieghe a cannelloni, ombre senza intelligenza, colore senza sugo. Emerge in quei capi-scuola una pedantesca servilità dell' antico. Come la gente doveva sedere su mobili duri, disagiati per imitare i Greci, così l' occhio dovea star pago di quelle affettazioni, ispirate più che altro al manichino: caricature al di sotto di quelle del barocchismo, che almeno copiava sè stesso.

Canova però vi rifulse; non raggiunse la perfezione, ma ne mostrò la via.

Terminato quel farnetico, venne una scuola senza nome, un po' barocca e un po' classica. Campioni valenti (e senza grande ingegno, non riuscivano al certo in un metodo senza metodo), Podesti, Hayez, Bezzuoli, Grigoletti ed altri molti; il pregio maggiore delle loro opere consisteva in una vaghezza e franchezza di pennello; un talento di composizione ardito; certe tinte sporche contrapposte ad altre seducenti e vivaci; guizzi di luce soave, tocchi morbidi, ombre fortissime: una sprezzatura generosa, un buttar lì inconsiderato, ma non senza furberia, che guastava i giovani mediocri, appunto perchè ai grandi permette ogni cosa, e non insegna niente ai piccoli.

Il purismo, capitanato in Italia dal marchese Selvatico, splendeva nel 1845-46 della maggior luce ed era in vece una scuola: anzi il maggior vanto lo ritraeva dall' offrire una regola di condotta fissa e, secondo i suoi partigiani, infallibile, che i genî frenava, e ai minori apriva una strada. Cara sopra ogni altro argomento ai puristi la pittura religiosa, perchè Dio è il culmine dell' umano pensiero, essi predileggevano i quattrocentisti, ne facevano severissimo studio, e si informavano alla loro ispirazione. Quanto alla forma, si mantenevano semplici nel disegno: nessuno sgonfio, nessuna linea contorta, ma linee dritte, un succedersi di squadraturine dove occorre che svoltino: figure lunghette, gentili; in una parola, pure. Per le ombre, esclusi i negrumi, quei fondi cari ai barocchi: ma conservavano mirabilmente la unità della massa, poco studiata dagli altri, che spargevano mille lumetti di qua e di là, senza intelligenza, lavorando di maniera, senza guardar l' originale o il modello, con mano pesante e testa leggera.

Regole, per dir così, matematiche, non in onta, ma consentanee a quelle di natura, prescriveano ai puristi il bel metodo. Perchè appoggiati a questa teoria: che la tangente d' un circolo, per quanto si prolunghi, lo tocca in un punto solo, dividevano compiutamente il chiaro dallo scuro. Per di qua della tangente di questo corpo sferico, è tutta luce, per di là tutta ombra: uno sfrego leggero al contorno, perchè svolti, un rinforzo al mezzo della colonna di scuro a produrre il riflesso: poi un tocco più forte agli sbattimenti. Di più: concentravano il chiaro al sommo d' ogni figura, degradandolo al basso. A molte altre teorie s' informava quella scuola, anco nella struttura della piega, nell' equilibrio delle tinte; ma queste mi pajono troppo compassate e contrarie al libero genio pittorico: rifletto però che la velatura venne principalmente messa in uso dai puristi, che diedero quel sugo, pieno di forza e di trasparenza, dalla pittura a corpo, cercato invano.

La velatura è un processo naturale e scientifico anch' esso. O non è per istrati che dipinge l' aria ogri cosa terrena? … Si guardino dunque i giovani da ogni pedanteria; ma questo metodo, che produce castigati disegnatori, modellatori ottimi e buoni coloristi l' abbiano a cuore, perchè esso ha presagito il realismo.

Il qual realismo pur che non sia una copia servile, e nobilmente s' inspiri, diviene l' ideale dell' arte. Ma quanto difficile è raggiungerne l' apice! Quando uno ha davanti a sè l' originale, e lo ritrae, egli vede in quel suo primo abbozzo, un' impressione del vero, che lo trasporta. Ma un abbozzo non è l' arte. Conservar quell' impressione preziosa, modellando, intendendo, completando, ecco il terribile! … A prima vista si presentano semplicemente gli oggetti; poi a ben considerarli, quante complicazioni!… la stessa ombra d' un fabbricato si modifica in più e più maniere. Qua è riflesso d' un muro vicino, là è rinforzato da uno sbattimento; in altro è inondato da luce aerea, sotto è opaca, e come a dire sorda… L' abbozzo può egli rendere questi effetti? Mi fermo su ciò perchè questo è il tempo degli abbozzi, carissimi, gustosissimi veramente, ma un' opera finita è meglio: non tormentata però. Io conchiudo con un paragone. La società umana in istato di natura è libera e parrebbe felice: eppure selvaggia non può campare, si distrugge da sè; è tale, che non merita nome di società. È l' abbozzo. La civiltà la ordina, la innalza, la mantiene, ma se la civiltà trascende, è micidiale come il primitivo stato. Quel punto fra lo stato di natura e una ben intesa civiltà è la relativa perfezione umana, come lo è dell' arte.

Venendo al particolare io dirò che in quel tempo il purismo lo rappresentava in Roma Federico Owerbek, già da me nominato per le sue pitture in Assisi. E fu un vero avvenimento quando egli espose nel proprio studio la sua deposizione dalla croce.

Avverto che spesso si discuteva in casa nostra, dove convenivano molti artisti delle varie scuole: principale argomento di litigio, il purismo. Un pittore di talento, Sampietro, e un altro bravo scultore, Bisetti, chiamavano quelle veglie l' areopago: perchè oltre che discutere, anche si disegnava, si recitavano versi. Fra i Veneti usi a frequentare l' appartamento di S. Lorenzo in Lucina era Pietro Roi da Vicenza, appassionato purista con quel fervore ch' è il vanto, il pericolo della gioventù; e dal quale l' esperienza della vita, le persecuzioni, le mille miserie si danno la briga di liberarci.

Pietro Roi ha certamente qualche volta passato il punto in cui lice all' arte penetrare nei segreti di natura. Come-altri tirano via per inerzia, per ostentazione di genio, o per non so cosa altro, egli troppo finisce per soverchio scrupolo. È questo pure il difetto ch' io crederei rimproverare a Molmenti. È un bel difetto però, che dà opere coscienziose, e a questo proposito ho un piccolo aneddoto. Un giorno dovetti andare per una pietosa ricerca nella casa di forza della Giudecca. Passando davanti ad una grata m' accorsi io, e chi m' accompagnava che di là si vedeva in chiesa. Ci inginocchiammo davanti, e inostri occhi si fermarono sopra una bella pala, da noi subito giudicata di Giambellino o d' altro pittore di quello stile. Ma la freschezza del colore ci teneva un po' sospesi: e non finivamo dall' esclamare — oh! la bella pala! — oh! la bella pittura. — Eppure io l' ho vista ancora questa tela — dissi finalmente …

— La è di Roi — oi mormorò la suora all' orecchio — e l' avrà vista nel suo studio. — Ora se Selvatico scrisse che Roi va sulle orme di Raffaello, è uno di quegli spropositi come li sa dir lui. — Torniamo a Roma.

Dal canto mio, nel mio piccolo, non vedevo che purismo, e come ora si guarda un libro non per saper s' è bello, ma se sa di clericale o di radicale, domandavo a un quadro con qual metodo fosse eseguito. Convinzione generosa per sè stessa, ma inefficace a dare buoni giudizî. Roi una sera trovatosi da noi con artisti barocchi, quasi ne nasceva un alterco, perchè io, appoggiava le sue idee; avevo il suo fanatismo; eravamo insomma due prepotenti compagni.

Memore di tali controversie la mia buona madre, al primo vedere la deposizione della Croce di Owerbeck esclamò con l' usata semplicità, piena d' acume: — È questo il purismo? … — e al mio cenno affermativo rispose — Allora io sono purista.

E stupenda veramente appariva l' opera del grande tedesco. Disegno, colore, rilievo, accuratezza degli accessorî, bel fondo giambelliniano di paesaggio. Il cadavere del Cristo circondato dalle pie donne piangenti, la Maddalena dalle chiome bionde diffuse … e poi tutto quello che costituisce l' ideale in un' opera d' arte: una cosa istintiva; il sentimento della pietà e insieme della bellezza, uniti in un solo raggio che riverbera in core e fa d' un quadro dipinto una scena divina.

Tutti tacevano in quello studio del palazzo Cenci, nessuno osava fiatare… e c'era tanta gente!… Sacrario chiuso ai profani, come lo studio del nostro Felice Schiavoni. Appena si seppe in Roma libero l' accesso, tutti accorsero; tutta l' aristocrazia tedesca era là, nè mai alla porta della casa d' un pittore vidi ferme tante carrozze. Owerbeck si trovava all' età in cui la gran pratica rende barocchissimi i barocchi, e dà un fare più largo ai puri. L' arte si scioglieva in quel momento da suoi lacci e al pittore un po' istecchito, un po', così per la scuola come per la maniera tedesca duretto, mostrava ciò che potesse di più forte e magnifico.

Lo studio di Owerbeck, nulla ostante gli eccelsi visitatori, non si scostava dalla semplicità romana: pareti nude, nessun mobile, quattro povere sedie; e la sola cosa, di cui s' avvedeano gli occhi rapiti, era il quadro. Quanto al pittore: alto, secco, i capelli lunghi, tenuti dietro l' orecchio, in zimarra lunga, stretta alla cintura, berrettone di velluto nero in testa, in lui non si vedea la potenza del genio, ma un pensiero fisso, efficace, quanto elevato. Dicono che la sua ostinazione propria dei santi riuscisse funesta ai figli d' Owerbek; di questo non potrei asserire se sia vero; ma so che al vederlo si indovinava in lui una freddezza nel fervore, una devozione beata e fanatica… di quelle con cui è vano lottare. Modestissimo, con me, che allora sapevo qualche parola di tedesco, si trattenne a discorrere; e poichè gli dissi — Ella è il primo pittore vivente: — No! Kaulbach e Cornelius sono i primi pittori viventi — rispose. Eppure non appartenevano alla sua scuola. Mi mostrò una serie di disegni a contorno fatti col carbone, per un signore tedesco rappresentanti la passione di Cristo, degni di frate Angelico. Ogni volta che Owerbeck nominava Cristo egli si levava la berretta, ma se devo dire la mia ingenua impressione, ei mi parve sincerissimo e veramente religioso di cuore, come caritatevole e buono era in fatto co' suoi scolari.

Qui devo fare un raffronto e mi affretto ad avvertire ch' esso è tutto personale. In quei giorni conoscemmo Silvio Pellico il quale passava colla signora marchesa di Barolo, l' inverno a Roma. Di Silvio Pellico, la fantasia più modesta si facea un'idea poeticissima, del drammatico, appassionato cantor di Francesca, del martire politico, dell' autor delle Prigioni… Due volte ci andammo, e a lungo si stette con lui. Povero Pellico! quanto diverso da quello di prima! Piccolo, contraffatto, un po' gibboso, col petto in fuori, parea che respirasse a disagio. Le sue opinioni poi, la severità dei suoi giudizî! … egli diceva oramai illegale attaccar l' Austria, perchè lo vietava la prescrizione, ossia l' essere da trent' anni in Italia. Se non l' udivo co' miei orecchi, non lo crederei. Molto co' miei genitori fu da Pellico parlato di Gioberti e i giudizî non mi parvero benevoli; già co' miei Pellico andava d' accordo; perchè erano schietti codini; di quelli che non perdonavano a Francesco I di aver tenuto i beni delle mani morte tolti da Napoleone, e lo condannavano come inonesto. Detto ciò, non posso negare che qualche parola, qualche intonazione di voce virile e che tradiva l' antica potenza non venisse fuori dal petto di quel grande, così avvilito.

Pellico, ne' suoi momenti più belli, somigliava come goccia d' acqua ad un' altra, al dottore Pastro, il nostro patriota egregio, che sette anni stette in carcere sotto l' Austria, ed è conosciuto per uomo di levatura e di gran carattere. E tale era l' inclito Silvio, che ci apparve misero a quel segno unicamente per gli anni passati in vero martirio allo Spielberg. L' Austria liberava allora i suoi detenuti politici, quand' ei non potean più camminare, respirare e quasi pensare.

Dell' alta vita di Roma noi pochissimo se n' è saputo. Il mio caro padre non amava i festini, perchè non credea che facessero girar bene il denaro, ma bensì calunnie, dissipazione, spalle nude e cambiali in protesto.

Le novelle del bel mondo ce le raccontava un barone napoletano, un bell' uomo, facondo, simpatico, di maniere affabili, disinvolte, espansive; bastava lasciarlo parlar sempre lui e descrivere. La gente ammodo lo teneva un ciarlatano, un avventuriere, e per verità il giudizio si appoggiava alla stessa apparenza del barone; il quale sulla cartella di visita portava tre indirizzi. Prima quello di Napoli, poi quello di Londra, uno street qualunque, e il suo relativo numero. Quello di Parigi … una rue delle più chic: Gran faccenda gli dava il vestito, e farsi venire dalle più gran capitali d' Europa la giubba o il panciotto o le cravatte.

— Il mondo guarda questo — diceva prendendo con gran delicatezza il lembo del soprabito… — e chi sa che toccasse giusto! Il barone pretendeva d' avere offerto colla sua testa, a Lavater il più bel campo da scoperte fisiologiche, frenologiche possibile.

— Mi ha visto — ei diceva — a Londra, m' ha fermato, supplicandomi di lasciarlo studiare la mia testa, perchè una forma così straordinaria maí non la vide. — Slanciato nel gran mondo, il barone ci descrivea le feste di Torlonia, ci rappresentava la etichetta prescritta a ricevere in tre diverse maniere le tre categorie diverse d' invitati, secondo li annunziava ai principi il maggiordomo: raccomandé, tres raccomandé, extremement raccomandé: i gradi variavano a seconda dei gradi di nobiltà e del numero di milioni. Gran diletto ci procuravan quei racconti, massime alla mamma. Per lei ci volea così; gente espansiva, allegra, non importava che tutto fosse vangelo quel che dicevano… Per piacerle bisognava star bene, esser belli, vivaci. Il contrario le suscitava la sua erudele nevrosi, tanto la ne soffriva. E niente di meglio che poterla contentare … ma quando non si poteva … oh che guajo … che terribile guajo!

Noi in case principesche non ponemmo piede; del 1844 ebbimo solo occasione di andare più volte dal duca di Musignano, Luciano Bonaparte; molto ci piacque la compostezza di quelle veglie, dove poteano starci le monache: inoltre l' amabilità del principe don Giuseppe, e la disinvoltura del principe padre, da noi conosciuto ai congressi, dove figurava come scienziato. Ma la cordialità degli alti personaggi non la era appunto quella che ci andasse a sangue, perchè s' era avvezzi a un' altra. Vi ha in chi pratica luoghi al disopra della sua condizione, un' idea fissa, un sospetto di non esser ben accolti. Un giorno, per non so qual santo ci vengono da casa Bonaparte regalati dei fiori. — Noi, gente alla buona, si va a ringraziare la principessa madre; ed ella salta sa fiera: — c'est mon fils! — Eppure la era un fior di gentildonna, e una volta alla sua villa ci fe' ella stessa fare un bel mazzo, e ce lo porsero le amabilissime figlie: la morale di questo discorso è codesta: ognuno stia nel suo centro. Si narrava su questo proposito allora in Roma un aneddoto. Non so qual grande società diede un ballo ad un Imperatore. Scelsero a ricever le dame una baronessa, ricchissima, non patrizia, ond' ella vestito un abito di trine preziose, non sapea qual atto fare a mostrarsi degna d' un tanto posto. Però, abituata all' ordine, ogni volta che la sedeva, dopo un ricevimento, s' acconciava la gonna, a modo, per non gualcirla. Certa principessa, inglese di nascita, piccata di non esser stata scelta lei in luogo della nuova ricca, nota quell' armeggio, si china, con superba confidenza, e, simile alla vipera che iucurva rapido il collo a mordere e schizzare il veleno, la ammonisce:

— Baronessa non fate, ch' è plebeo. — La povera donna da quel momento persa la bussola, la annaspava peggio che mai, tanto che, a veglia finita la ebbe quasi a farne una malattia. E se le rimandava la botta con un: — Principessa, i plebei l' hanno sempre insegnata la economia ai nobili?.. è perciò ch' io mi trovo al suo posto? — Ecco una rimbeccata che la ci stava come il basto all' asino.

E nostro, e nobilissimo centro lo trovammo in casa del conte Gnoli, marito ad una brava e buona signora, padre a due belle e care fanciulle; una di esse, ora nei conti Gualandi, improvvisava versi. Dico improvvisava perchè una mattina i genitori udirono quel caro angelo, appena svegliato, recitare una poesia ingenua allora composta; a cui nel progresso tennero dietro altre, soavi fiori di quella animetta, appena schiusa al soffio dell' arte. La piccina più vivace scrivea in prosa, e tutti di quella famiglia gareggiavano di cultura, spirito e squisita morale senza bigottismo. Il padre, conte Gnoli, ci fece anche molto ridere recitandoci un sonetto, che girava per Roma, piccolo saggio dell' ignoranza delle dame romane. Se la fosse una satira io non lo so: in ogni modo la è storia antica, mi duole di non ricordar per intiero il sonetto che è un invito: e può servire di scorretto ai giovani.

Carro sigor Guseppe Goacino, Cassa a dì vetisei, mi faco ardita Madargli la mia dona Margerita, Latricie del presete bigletino. Per dirgli che mio socero gl' invitta Se per domani al gorno, al suo gardino Vuol divertirsi a fare una partita.

Poi veniva la descrizione del divertimento: in cui si gofiavano due palloni, si arrostivano due picconi; finiva:

Questa sera a Argentina no l' aspetto, Perchè so che dev' essere impiccato.

Impiccato per impicciato, ecco una chiusa degna del poeta romanesco, tanto popolare, il Belli. E poi non c' è a stupire dello spirito dei Romani, se Roma è patria a Pasquino.

Altra casa elettissima apriva la contessa Dionigi Orfei, e con modesto patrimonio figurava col maggior decoro della Roma di quel tempo. Un appartamento in un vecchio palazzo: arredi antiquati, vecchia argenteria, servitori anziani: e soprattutto gran semplicità e cordialità primitiva.

Poetessa di ben nutrito stile e di severi concetti, la contessa Enrica Dionigi Orfei accoglieva tutti i poeti di Roma intorno a sè. Di più, amantissima di musica, ci si faceano di bei concerti nel suo salotto; e le arie moderne si alternavano ai sonetti, alle odi, un po' troppo classíche. Così i signori inglesi, che là convenivano, parea dessero un tono d' eleganza moderna al fondo un po' da museo di quelle veglie.

Quanta illustre gente non conobbe la Orfei nella sua vita! Cominciando da madama di Staël e venendo a lady Wortley-Montague; d' ogni illustrazione del secolo si ricordava l' egregia dama. Marco Monnier descrisse madama di Staël, docile, alla mano, mansueta ad ogni critica. La contessa Orfei ne conservava memoria diversa. La dipingeva superba come Lucifero: narrava che richiesta d' una parola in un souetto a rime obligate rispose — inferno! — E nell' udir ripetere, dalla poetessa romana, con fredda alterigia vivace tal rima, si ricevea l' impressione di quella da lei provata tanti anni prima. Di lady Morgan ne parlava la contessa Enrica con poca simpatia, chiamandola Protea Circe.

Del resto in quel salotto ci si trovava un profumo soave di poesia, d' arte, la vera republica delle lettere, l' eguaglianza schietta dell' ingegno, e quell' aura discreta per la quale aver un milione equivaleva all' aver una lira il giorno: basti che ci sia un po' di sapere, condito di modestia; abito decente e nome senza macchia.

Conoscemmo in casa della Orfei una celebre poetessa la signora Mertens-Schoffhausen; la signora Lalaing del Belgio: innamorata del Tasso, la ne tradusse in parte le opere, e viaggiava per cercarne le vestigie e raccogliere tutto quanto a lui si riferisse.

Con mia madre si legò, perchè questa le fe' udire in casa della Orfei una usa bella canzone sulla Quercia del Tasso. Quercia rispettata fin da quando il poeta infelice vi sedea sotto, gli ultimi giorni della sua vita in Sant' Onofrio, fulminata l' anno precedente all' inverno di cui parlo. Il conte Giulio Arrivabene, nobile e gentile pittore mantovano, fratello al noto publicista e patriota Oprandino, donò a mia madre un quadretto ad olio, che rappresenta a tinte romantiche il Tasso, sotto la quercia, da lei cantata.

Anche il poeta Massi udivamo spesso dalla Orfei, e in casa nostra: valentissimo, anzi eletto fattore di versi, quanto disgraziato uomo: egli compose un poema le Notti vaticane che ha letterarie bellezze non comuni, ma lo spirito dei tempi nuovi gli manca, ed è peccato, perchè una bell' anima come quella del Massi poteva sentirli nella loro più nobile altezza.

La contessa Masino di Mombello e la contessa Fava-Ghisiglieri Tanari, ecco due inclite dame con cui si strinse relazione. Della prima parlerò ancora, della seconda parla abbastanza Italia, e loda l' instancabile zelo di questa potente operaja nei lavori di civiltà e di cultura, liberale nel vero senso della parola, a cui il suo paese deve importanti uffici e bellissimi esempî.

Non mi parrebbe d' essere stata a Roma se non parlassi dell' Arcadia e delle sue solenni tornate. Ne rida chi vuole; io per me credo che Roma fosse meno arcadica di quello che pareva, e cosa potesse, lo mostrò nel memorando assedio. L' arcadia belava è vero, e a noi veder quel nudo appartamento in inverno, a cui guidava un vecchio guardiano, una specie di mummia in calzoni corti e magre polpe; cravatta bianca, soprabito logoro; istessamente veder quel piccolo anfiteatro, all' aria aperta, in cui si raccoglievano gli accademici in estate, ci facea un po' ridere, noi che andavam là da un paese irto di cannoni e riboccante di soldati … eppure Roma è risorta, e da noi quei cannoni e' non ci sono più. L' alloro è sempre fresco, non si vuol che cambiargli la terra e rinnovarci il vaso. Ciò che intende fare l' ortolano di Caprera. Da Roma partì il primo segnale della rivincita, perchè sotto i sicomori dell' Arcadia il nume stava nascosto, e dormiva al suono delle fonti castalie, e del rivo d' Ippocrene; ma non era morto, perchè i numi ossia la poesia sono immortali.

Del carnovale non parlo. I reporters dei giornali fanno descrizioni ben più vivaci delle corse, dei confetti, dei moccoletti, di quello che lo possan queste memorie; i quadri di Caffi, sparsi pel mondo o ben conservati dalla sua cara vedova, Virginia Missana, ritraggono quegli effetti mirabili in modo che toglie il coraggio alla penna di tentare simile impresa.

Verrò a un ricordo più personale, ma non meno singolare.

Un giorno capita a noi Rinaldo Rinaldi, scultore padovano e nostro carissimo amico.

— Voi altri che conoscete la Ristori potreste farmi un piacere? ho a modellare la Melpomene, vorrei la mi permettesse di copiarla. — Noi ci si va subito. Si sale una scala a chiocciola accanto al Metastasio, dove la recitava: si batte al suo appartamentino. Melpomene pranzava, per esser pronta alla sera la desinava alle tre. Ma ella, amabile sempre, volle che le sedessimo attorno; semplice, frugale nelle sue abitudini, e trevisana nei pasti, che a lei ammanniva quella servetta nostra compatriotta, con cui ci eravam trovati a Viterbo. Sicchè alla mensa dalla gran tragica ci si vedevano risi, le lasagne, i fasioli imbragai, e non la stava contenta fin che non se ne gustava un tantino.

Devo dire che di molte virtù dava l' esempio quella donna: specialmente nel dedicarsi alla sua famiglia, ben educare i fratelli, le sorelle, e torli al teatro, di cui conosceva i pericoli e lamentava, fin da allora, la vita nomade. Almen così la diceva. Conoscemmo da lei il marchese del Grillo, che divenne poi suo marito.

— Ne ho quattro in ballo dei ritratti! — esclamò la Adelaide … ma basta … a voi altri non posso dire di no — E noi via, e si trotta dal babbo Rinaldi.

— La verrà.

— Ah!.. davvero!.. — e il caro vecchio si dava una fregatina alle mani, iugenuo nel suo fervore artistico quanto un giovane.

— Senti, vecchietto, e la senseria ce la paghi?…

— Volentieri … ma come?

— Sai come? … si fa un ballonzolo, già ce l'han promesso.

— Qua nello studio? … benone — e il grande artefice padovano chiama le tose, i ragazzi. Tutti in giolito, un tripudio generale. Più di tutti saltellava la Elettra, da noi chiamata Faonzin piccolo Faone, perchè l' avea il padre suo tenuta a modello nel gruppo della Saffo. La sera prefissa ci trovammo tutti nello studio, ossia in un seguito di androni a pian terreno: parea un antica chiesa tramezzata. Ognuno sa che effetto produce uno studio di scultura illuminato, e grande fu la nostra sorpresa al trovarci in mezzo di quegli statuoni, visti ad una luce nuova.

L' orchestra aspettava il segnale per incominciare il concerto, il quale da un freddurista si definirebbe con l' aggiunta d' una sola esse davanti.

Non mi sovvien mai, nemmeno al Malibran, nelle sere più nefaste d' aver udita musica simile. S' intende che tutti andavano da per loro, nel lodevole scopo di ritrovarsi, scopo mai conseguito.

Di tanto in tanto, come in un mercato d' animali, si sente un bue, un vitello cacciare improvviso un urlo, che domina per un momento gli altri, così si udiva una tromba emergere e stonare in quel generale stonamento. Ma cosa importa? … Fu quell' orchestra il maggiore spasso; tutti i concertisti del Conservatorio di Parigi non ci avrebbero messa più allegria.

La Tarsilla, figlia maggiore, cantante fra le prime di Roma, ella avvezza alle case principesche e forestiere, la non sapeva darsi pace di quell' orrore, e la fe', per dispetto, il più originale, dinoccolato e tentennino a solo del mondo.

Del resto movere il piede in uno studio tutto a buche, ad assi male infitti, insomma fra veri trabochetti, c'era d' andare col viso avanti; ma dirò ancora e più che mai. — Cosa importa?… — Ulisse curvo al cane fedele parea raccontar la sua gioja, Saffo nel sonar la cetra, guardando l' amato giovine, parea tremare al soffio della sua ispirazione: la sibilla Delfica incuteva paura; tanto le ombre projettate in qua, in là sul soffitto, contrapposte ai lumi strillanti, dove batteva il chiaro, rendeano quelle forme imponenti.

A metà veglia il babbo Rinaldi affettò il pane di Spagna, la signora Costanza mescè il Chianti … fiasco paesano, allegria paesana. Ciò non vuol dire che anco là non ci fossero le sue ire, le sue gelosie, ma tutto si fondeva nel buon umore, sola nota fondamentale, che mai non facesse difetto in quella sera.

Durante quell' inverno Rinaldi modellò il busto di mia madre, ma non colpì il suo caratteristico tipo; quel naso imperatorio, quella espressione; infine non è lei, ma il lavoro è ottimo.

Che angelo quel Rinaldi! che sant' uomo! il vero giusto!… potente nel genio, ei ne sapea tanto quanto un bimbo delle cose del mondo, non pensava che alla sua scultura. Alla mattina, appena desto, giù nello studio… — cos' è quella furia? — dicea fra sè la Costanza; il vecchio andava a plasticare un motivo di pieghe, a modellare un accessorio … certo li vide in sogno, perchè più freschi di così non potevano riuscire. Per ciò morente delirava — Come potrò modellar quelle ali? — E ciò tolgo dalla affettuosa, nobile necrologia che il bravo Carlo Osvaldo Pagani scrisse nella Libertà. Parole che riassumono la vita del grande scultore, il suo pensiero, il suo genio.

La Tarsilla ci compensò delle stonature di casa sua conducendoci allo Stabat Mater, cantato nel palazzo Costa al Corso. La fu una memoranda sera, ci cantò la Finetti, allora prima dilettante di Roma, e altri virtuosi di cartello, accompagnati da quattro pianoforti.

Sebbene la famiglia Costa non fosse patrizia, ma, come allora dicevano dei ricchi borghesi, famiglia particolare, tutto il fiore della società romana e forestiera convenne in quella sera, e i dragoni ebbero un bel da fare a tener su le carrozze.

In Transtevere ci avea un' altra casa Costa, con un bel giardino una palma grandiosa, degna dell' Egitto. Noi la vedemmo in uno di quegli splendidi dopopranzo di Transtevere e là ci fece maggior effetto che in qualunque altro luogo. Nelle belle creature che ti passano accanto, nelle formidabili figure dei loro uomini, e in tutto insomma la bellezza ci sta di casa là, è padrona del luogo: sì la bellezza e dirò anco la fierezza. Io tremo di riuscire uggiosa, aggiungendo ai molti un aneddoto. Già essi ajutano a leggere … di più questo, che ci fu riferito da un testimonio oculare, ed è caratteristico; d' una originalità e grazia, sui generis non poteva accadere che in Transtevere.

A un bel giovane, marito d' una bella Giuno pure di quel rione, die' ombra un gobbetto galante, che gli bazzicava in casa. Ammonisce la moglie: ch' egli non lo vuol vedere; la badi a lei e non se lo faccia dire due volte, guai se troverà quel sor paino tra' piedi.

La bella Giunone, offesa senza dubbio che il marito s' adombrasse di quel gobbetto, non prese troppo sul serio le ingiunzioni del suo signore e consorte, il quale un bel dì viene a casa e lo incontra. Lui non apre bocca, ghermisce il miserello all' occipite, lo solleva, lo porta, come si fa d' un muccino, a cui si vogliono insegnare le creanze, poi lo scaraventa sopra un armadio. Ognuno può credere i lagni del disgraziato, e come nicchiasse e domandasse ajuto. L' Ercole transteverino, in attitudine di calma, fieramente piantato sull' anca e le braccia al petto lo stava a guardare. — Eh? … che te ne fai là, ber figijo? … vuoi che te dia mano a scenne? … vuoi? … — Quanto durasse non so. Ma colla mogliera ci fu una scena e qualche bella coltellata, che la lasciò malconcia per terra. Non che il marito dubitasse di lei: tutto altro: ma per castigare la sua disubbidienza. Di fatto un mese dopo eccoli a braccetto in s. Pietro tutti e due in ghingheri … due paini, che parevano sposetti d' un giorno. La persona che vide la donna un mese prima non crede a sè: l' avvicina — Come va, sora sposa? — Bene sor … tale — e voi? … — La era guarita, e di quel nembo sanguigno non restava traccia nella sua splendida bellezza ricomposta e quasi rinata. Che anime e che sangui!

Nel mese di aprile, mentre ci apparecchiavamo a partire ci invitò il pontefice Gregorio XVI, che già cominciava a star male, ma che mai ci apparì più energico, più risoluto di quella volta, la settima e l' ultima in cui gli parlammo. Sentiva egli di morire? … immaginava che sulla sua tomba, già aperta, spunterebbero d' improvviso i fiori insanguinati della libertà e della indipendenza italiana?…

Avverto che nello stesso inverno, passato per Roma Nicolò di Russia, accompagnando la consorte a Napoli, ebbe una conferenza col papa. Durante il nostro soggiorno in Napoli, tacqui delle feste con cui il Borbone accolse nella sua capitale la czarina e lo czar. Le furon cose spettacolose. Ferdinando mise al servizio dell' imperiale ospite e reggia e scuderie. Qualche ajutante della maestà cosacca fe' strage delle ricche mobiglie: lasciò dai molossi del seguito lacerare i preziosi tappeti, dono della regina d' Inghilterra; il re sofferse da quei barbari ogni increanza, e li adorò prono durante la loro lunga dimora, cui rallegrava con riviste, parate militari da non finirne più. L' imperatore innanzi partire gli scrisse un biglietto di ringraziamento a lettere formate di brillanti.

Diversamente procedettero le cose fra Gregorio e l' imperatore Nicolò, il quale avea, come il solito maltrattate, perseguitate alcune monache polacche, con manifesta violazione d' ogni senso di giustizia. Valse all' autocrata una bellissima lavata di testa dal pontefice, ed egli a noi la riferì: — Gli ho detto — concluse Gregorio: — badate, noi siamo tutti mortali, tutti abbiamo da comparire davanti a Dio, e rendergli conto del male commesso: non crediate che per essere un regnante vi sia lecito conculcare il debole; il debole ha Dio che lo protegge e lo vendica… — E così proseguiva il pontefice, già in piedi per darci il commiato; sicchè, vestito di bianco, atteggiato ad autorità per le parole che diceva con enfasi da predicatore, egli, che possedeva qualità da pergamo notevolissime, ci parve più grande e veramente ci commosse. Udir quell' uomo, partito umile fraticello da un chiostro di Treviso, come avea ammonito un grande della terra, ci parve il padre Cristoforo: non già fautor dei tiranni, ma potente nell' esercizio del bene, protettor degl' inermi, rappresentante gl' inalienabili dritti dell' anima umana …, in una parola sparì il principe e comparve il sacerdote.

Qualcheduno ha posto in dubbio la sincerità del pontefice nella difesa ai Polacchi, cosa di cui è impossibile sincerarsi. Le parole le udimmo noi e ci parvero nobilissima espressione di sinceri sensi.

Oh! non val meglio codesto? … oh non è il più bel dritto di cui possa insignirsi un uomo? … chi può darlo a chi non l' ha? … chi può torlo a chi lo possiede? … E quei miseri quattro soldati, che conduceano i bimbi alla dottrina cosa aggiungevano allo splendor morale d' un tal ministero? … Associare la Chiesa agli interessi popolari e ricollocarla in trono, ossia nel cuore della gente colla semplice applicazione della legge evangelica? Dio conservi all' Italia questa dignità sublime del pontefice, rappresentante il mondo spirituale, oppositore magnanimo delle sopraffazioni brutali.

Chiudo la relazione della dimora in Roma, dicendo come vedemmo nella Girandola uno spettacolo sublime e fatto, pareva, appositamente per noi. La chiesa d' Orvieto. Quella facciata, da noi vista irradiata dal sole, ora ci balenò trasfigurata, fra mille fiamme dei fuochi d' artifizio, fra le stelle cadenti, che illuminavano di luce opaca il Tevere sottoposto, e cosa apparisse quella bellezza architettonica in mezzo a quell' ordinato incendio…

Genova - Cose intime - Pio IX - La Villetta di Negro -
Cenacolo aerco al Bisagno - Primi moti - O bulin!
Inaugurazione del Lombardo - Un pranzo a Pegli
tra il diavolo c i fiori.

Dall' albergo di Civitavecchia ci fu dato assistere alla magnifica vista d' una burrasca, in cui più che altro ci piacque la fine: ossia gli ultimi furori del Mediterraneo, e quel vedere i marosi, partiti dal largo, venire avanti, tutti in fila in gran furia, alti ed eretti, per abbattersi e morire … Ogni volta che la capigliatura bianca del gigante faceva quella comparsa era uno spettacolo; e ci consolava di dover rimaner chiusi, e lasciare andar via il Castore, un bellissimo vapore, attendendo la buonaccia. Il mal di mare incuteva uno spavento indicibile alla nostra diletta madre, innamorata dei bello, abborrente dalle misere realtà della vita; sicchè la prospettiva d' una burrasca le dava angosce morali simili a quelle fisiche, sofferte in aspettazione da Montanelli. Però anche aspettando non si perdeva tempo e si studiava, e si stava in ottima compagnia. Nella sala comune dell' albergo ci trovammo con alcune dame inglesi; cospicue, ricchissime, di grande educazione e riserbo. Il nostro caro padre e mentore ci fece osservare di quanto rispetto vien circondata dagli inglesi la madre-famiglia: mentre nei costumi italiani, sia per la vivacità d' indole o la innata trascuranza, c'è molto ma molto a desiderare su questo punto … e se almeno, tolto il rispetto, restasse l' affezione! … In Inghilterra comincia il marito a stare davanti alla madre-famiglia come davanti a una regina … allora sì che i figli la obbediscono. O cosa volete ci badino, quando la sia tenuta poco meno e poco più d' una ciabatta vecchia? … Il nostro mentore toccava dunque giusto; egli poi da fino filosofo ci additava modelli simpatici. I Cresi britannici, la gente d' alto affare, le damine profumate invogliano i giovani d' imitare le loro virtù; assai più che non lo possano le persone modeste a cui manca il prestigio della moda.

Coll' Ercolano s' andò finalmente da Civitavecchia a Livorno: noi non soffrimmo, quantunque il mare fosse grosso, e la notte piena di lamenti, sospiri e guai, non che altre tristissime cose.

A Livorno si fe' pausa: rivedemmo Guerrazzi; era a cavallo, con un giovine al fianco; credo suo nipote: scambiammo cordiali saluti col grande autore, ma brevi, perchè procedemmo oltre, dove ci condusse una buona amica, la signora Verico, a veder la contrada abitata da quel mostro, noto quivi a tutti, che ordinava omicidì per sola ebbrezza di sangue. Se Guerrazzi dipinge certi orridi tipi egli n' avea ben davvicino il modello.

Da Livorno a Genova notte splendida: pranzo, ossia cena sopra coperta, mare scintillante, fosforescente, e il panorama della bella capitale della Liguria sull' albeggiare. Avevamo raccomandazione intima e cara per un egregio giovane il professor Francesco Cogorno, il quale ci tenne affabile, premurosa compagnia, durante i quattro mesi di stanza a Genova. Educato agli eccellenti metodi della buona scuola, ei mi fu guida nell' arte, mi diede a ritrarre, a due matite, una sua stupenda copia della Maddalena Doni; e quanto possa giovare quel capolavoro di Raffaello, per la maravigliosa economia delle ombre e la purezza del disegno, chi l' ha studiato lo sa.

Altra nobile conoscenza fu la Bianca De-Simoni Rebizzo e di lei non posso degnamente parlare senza dir qualcosa di me, quantunque in breve.

Devo avvertire come in quegli anni nell' ansia di tutto comprendere, il mio pensiero vagando troppo, e riuscendogli impossibile decifrare ciò ch' è mistero, avea trovato solo espediente il negare. Forse effetto d' un' ipocondria che nell' infanzia mi ispirava una esagerata devozione superstiziosa.

Questo scetticismo, vero tormento ai miei genitori, i quali sempre lo combatterono coi più gravi argomenti, opponendo i loro principî alle mie obbiezioni, mi rendeva triste la vita: non comprendevo più il bene, provavo una segreta rabbia di maggiori ricchezze, un' inquietudine fantastica e fastidiosa. Donna Bianca De-Simoni, lombarda, maritata a Rebizzo da Genova, il più bizzarro uomo del mondo, che mai stette vicino a lei, moglie soltanto di nome, legata dunque, ma senza affetti, con tesori d' amor materno in cuore, la si prese a volermi bene e a farmi da madre.

La mia, tuttochè amantissima, e piena di zelo religioso, metteva, in così delicato argomento, soverchia passione, troppo furore a convincermi. Eravamo due spiriti troppo altieri per intenderci subito. Ella, nella rettitudine del suo sentimento, afflitta da questo prevaricare d' una fantasia vagabonda, mi prendeva d' urto, rimproverandomi colla forza propria del suo carattere; io la ascoltava colla insubordinazione propria del mio, dacchè la ribellione e la vivacità indomabile del pensiero mi rendessero in quegli anni, secondo avvertivo, irrequieta, in lotta colla mia indole, già inclinata al bene.

Più persuasivo e serio sarebbe stato mio padre, ma con lui non si faceva tanto a confidenza. La mamma, un poco meno furiosa, avrebbe ottenuto meglio, e i più fieri alterchi mi accrescevano l' amore. Per solito, anco nelle sue ire esagerate, quando parea che la dicesse i più grandi spropositi, le uscivano parole d' alto significato ed acume, parole di passione e di rivelazione ad un tempo. La irritava sul momento, ma poi la commoveva; colla gravezza de' miei torti, sentivo che la valeva cento volte più di me, e tuttavia con rimorso, la vedo alzar l' occhio espressivo al cielo a domandargli, perchè l' avesse voluta infelice sopra ogni madre al mondo!…

La Bianca, animata da idee più liberali, ma religiosa per educazione, per convincimento, per abitudini di pietà, di carità, di senno civile, che gettavano un così bel prestigio sul suo aspetto, mise più presto e più facilmente balsamo sullo sconforto del mio spirito, fuori di via. Le dolci insinuazioni, le blande eppur forti ragioni, di cui ella penetrò il mio cuore, persuadendolo all' evidenza di quel concatenamento di cose, che di mille anelli, uniti fra loro, compone un solo cerchio, a cui diciamo Dio, perchè un nome bisogna pur darglielo, ma senza comprenderlo altro che negli effetti, nel bene prescritto, e nel male a cui segue il castigo e soprattutto nella coscienza.

Così dunque mi porse nobilissimo e valido ajuto morale quella inclita donna, ed io adempio il sacro obbligo di rinovare il mio ringraziamento sulla sua tomba. Più tardi lo spettro dello scetticismo ricomparve davanti a me, ma per poco; appena il pensiero ha respinto da Dio, esso vi torna e ansioso lo cerca, perchè non ne può far senza.

Riserbandomi parlare ancora della Bianca, accennerò di volo ad un gran dolore, da cui fummo colpiti in Genova. Ossia la notizia della morte, già avvenuta del caro zio Ginseppe, in età d' anni 33, nel fiore della vita. della intelligenza, e nel più bel momento del suo arringo in medicina. « Trentenne confutò Bufalini, caldo, robusto pensatore ». Ecco le brevi parole della epigrafe del professor Rambaldi, la quale però dice tutto, quello che si può dire.

Storia di passione la è quella del mio caro zio Giuseppe, di cui solo mi limito ad affermare che più bell' anima è difficile trovarla. Era la nostra ambizione, la nostra tenerezza; mai non costò un dolore a mio padre, che a lui pure fu tale. La sua vita si riassume in due parole: amore e studio: pel primo, scelse male, diede troppo al secondo.

Se viveva ce lo avrebbe rapito l' Italia, perchè ei sentiva altamente il dolore dell' occupazione straniera, anco allora che noi non ci si pensava, e quell' affetto nutrito, col fervore a lui proprio, lo avrebbe tratto indubbiamente a darlesi tutto e anima e corpo. Avea la stoffa di cui si fanno i santi; o i grandi perversi, mai in niente mediocri: o cosa sarebbe stato al primo albore della redenzione aspettata?… Della qual redenzione scoccava in quei giorni l' ora solennissima, colla morte di Gregorio e coll' assunzione di Pio IX.

Ognun sa come Pio IX desse il foco alla polveriera, soltanto con riforme volute dal buon senso. E' non faceano proprio bisogno i paroloni di civiltà e di progresso. Lungo tempo conservammo un decreto, ossia un ukase d' un cardinale legato il quale, nell' inverno del 1845, ordinava: alla terza febbre d' un ammalato intimasse il medico i sacramenti, pena di perdere l' esercizio della sua professione. Prescriveva certe regole da osservarsi fra giovani sposi promessi, nell' accettare i regali, nel ridarli: regole odiose nella loro applicazione, perchè stabilivano per l' autorità governativa un sistema di spionaggio e di violenza domestica, degna appena della Turchia e non degli Stati pontificî. Strade di ferro tutti le aveano: loro no: Gregorio pretendeva dessero agio ai ladri di fuggire … ma dicevano i miei, in questo progressisti: — E non ci possono colla stessa rapidità correre appresso i carabinieri? — Fin che ho gli occhi aperti io strade di ferro no! — sosteneva il vecchio ostinato. Della censura non parlo. Una censura che irritava e non impediva, perchè ogni signore potente si faceva venir quanti libri proibiti volesse, e li spargeva. L' Arnaldo da Brescia in casa del principe di Musignano c'era come l' Uffizio della Madonna..; ma guai a quel librajo che lo vendesse … È vero però che da Parigi ai libraî romani veniva qualcosa di peggio, e di più attraente. In teatro un anno fu proibita la Norma, e convenne metterci un altro nome, probabilmente ridicolo quanto la inibizione. Ora sui teatri di Roma c'è altri orrori e goffaggini, tanto per andare sempre da un estremo all' altro.

Certamente in quell' inverno un' agitazione sorda, compressa la c'era in Roma; coperta da nembi di fiori, e di confetti nel carnovale; da musiche, da melodie, da versi; ma che non impedivano di udire discorsi violenti, perfino in piazza, durante la benedizione del papa, dalle logge di s. Pietro. Molto si cantavano le canzoncine delle opere, ma molto si parlava di Gioberti, e tutto facea presagire qualche movimento a segno, che Gregorio ebbe ad esprimersi: — Ed io chiamerò i Tedeschi! — Ultimo limite di disperazione per lui.

L' assunzione di Pio al pontificato fu dunque una levata di sole e di scudi. Da questo punto data la rivoluzione d' indipendenza italiana, mescolata d' ora innanzi a tutti gli avvenimenti di che mi resti a parlare.

Genova siede, come ognun sa, sul dorso della riviera ligure, che, protendendosi in punte, rientrando in seni, compone d' una sola vista più viste, col perpetuo scenario dell' Apennino per fondo, trasformato in Eliso dai giardini, dalle case, da tutto quello che l' uomo può mettere in opera ad abbellire una natura, per sè stessa sublime. E tale è quella di Genova, pari a Napoli, ma con un altro carattere; meno orientale, più severo. Una sorride molle, l' altra pare che nel sorriso accenni a fierezza.

La villetta Di Negro era ed è con l' Acquasola, alla punta del più ampio seno di quella costiera: adesso fa parte del giardino publico, allora, per liberale ospitalità del marchese padrone, accoglieva quanto Genova e Italia, anzi Europa, potessero aver di più splendido e illustre.

E noi non ci si badava neanche! … Per due mesi ogni sera ci trovammo vicino a Massimo d' Azeglio: veniva; sedeva sotto un pergolato sul mare, dove tutti eravamo raccolti. Taceva quasi sempre. Non assorto, nè distratto, nè pensoso: era lui: in un' attitudine particolare di uomo che non pensi a nulla e quasi s' annoi: ma che in vece si prepara. Appunto allora preparava, macchinava, e « Gli ultimi casi di Romagna » furon scritti in quel tempo.

Una volta gli mostrai la Madonna di Fuligno, copietta ad olio, mia prima prova; e quanto la guardò fisso, attento cogli occhi sopra, essendo, come dice lui stesso, orbo … Gli piacque? … gli dispiacque? … quella bocca non s' è aperta: ma a me parve d' interpretar bene quel silenzio. L' unica volta in cui lo udii emettere un giudizio la fu questa, e la merita speciale ricordo. Si sosteneva dai più della gentile, colta brigata, raccolta come il solito nella villetta Di Negro, si sosteneva la necessità d' abbattere tutti i conventi. Io che in publico di quistioni sociali e di politica mai non mi impicciavo, amando assai meglio studiare la polka con la gioventù, che discutere cogli anziani, quella sera mi impancai a discorrere, e, certo per fare un po' la corte al grande pittore liberale, che mi sedeva a lato, emisi anch' io la mia sentenza di distruzione ai conventi, — chè tutti meritavano essere tolti… — Ma con quei talenti è difficile azzeccarla giusta.

— Tutti no … — m' interruppe Azeglio: perchè bisogna lasciare un asilo a chi non ha altro al mondo, a chi è stanco della vita, a chi si vuol ritirare, e non rimaner proprio solo.

In questo senso Massimo si diffuse lungamente, con l' usata calma nelle parole e nei modi, e quasi non curanza, ma con grande efficacia di pensieri.

In quegli anni una mosca bastava a distrarmi, e non badai alle riflessioni d' Azeglio. Nel progresso le mi apparvero indizio d' un cuore dolente. Carlo Nodier, parlando in generale su questo tema, esclamava: date un asilo agli spiriti ammalati, privi di illusioni, è meglio un frate che un pazzo o un suicida. Oltre di che l' esempio dato dai ricchi di tanto in tanto di fraternità evangelica, povertà volontaria, astensione, ritiro e anco di lavoro giova agli adoratori dell' oro e del mondo, e consola i poveri. Particolarmente parlando di Azeglio, egli come tutte le grandi anime dovette bevere in un breve sorso ogni ebbrezza della vita. Agi, ricchezze, onori, impeto di passioni, gloria, voluttà dello studio e dell' arte egli non le assaporò a centellini. Spaziando piuttosto d' un volo a gran cerchi, alla maniera dell' aquila, toccò presto l' ultima sfera d' uno splendido cielo… e poi? … come trascinar la vita pedestre e monotona dopo quei voli?… Eppure ancora gliene mancava una delle ebbrezze, e la più grande. La prima levata degli scudi italiani…

Di Balzac, della Sand si ricordavano gli ospiti fedeli di quel piccolo eliso: e diceano che questa ci stette senza aprir bocca, fumando e guardando superbamente in giro. Che fumasse non vi è niente da opporre, chè la padrona di casa, marchesa Fanny; tanto la era alla buona, dava ella l' esempio, tenendo il suo bravo zigaro in bocca, colla massima disinvoltura. D' altro io non posso garantir la verità. Due volte fummo invitati a pranzo alla Villetta, si stette all' aria aperta, sotto ad una volta di stalattiti. Davanti a noi il busto di Paganini, del quale ripetevano ancora quei siti le sublimi armonie. Dalle aperture dello speco si vedeva in lontano il golfo, immediatamente sotto gli occhi le sabbie scintillanti delle nitide stradette, dei terrazzi del giardino: all' intorno i recessi di verde, e le ajuole fiorite. E decantano il Bosforo! … oh cosa ci può essere di più bello? …

Di faccia la villetta Di Negro, al di là d' un seno di mare, al di là del torrente del Bisagno v' avea la villetta della Bianca. Più modesta, anzi campestre, e non giardino, la era un ritrovo non meno illustre. Si sonava ad una porticina, si saliva un pendio, si sedeva sotto un pergolato, davanti un piccolo promontorio a terrazza, dove la china divalla al mare. Quivi si raccogliean gli spiriti magni. Antonio Crocco, Prasca, Celesia, Costa, Giuliani, Pareto. E come campestre apparia la villetta, così tutti alla mano, tutti amici fra loro si mostravano, in buona armonia, quegli egregi. Crocco là era Tognin Celesia Scesin. Il marchese Pareto Siaa Loenzo. E i discorsi di quel cenacolo!… che onore si farebbe un reporter a riferirli!… Giuliani, un profondo conoscitore della lingua, che studiava allora in Dante, come adesso nel vivente linguaggio della Toscana; nobilissimi studî che lo infervorarono sempre più nel bell' amore di patria, senza che smarrisse la dignità d' uomo e di sacerdote. Celesia, quel robusto poeta, che tutti conoscono; potessi ricordarmi un sonetto da lui quasi improvvisato, contro una gran cantante, a cui nella sua serata si porse in Genova una corona d' alloro… e gli anatemi alla maliarda impura che usurpava l' alloro di Dante!

Fieri sentimenti; aspri, ma virili e magnanimi erano in quei poeti genovesi, e dalle loro parole, e dai loro concetti emanavano effluvî potenti, come da certi fiori delle cactee, cresciuti fra le roccie o sull' arida sabbia; pungono a toccarli, ma imbalsamano l' aria tutto intorno. Tale mi par l' ode d' Antonio Crocco a Paganini: bella d' una bellezza di quelle, che non cambiano col passare degli anni, e, secondo si esprime l' inclita Guacci « fremono ancor delle dolcezze antiche »:

Quando inchini il fiammante occhio alle mute Corde e ne svegli i numeri coll' arco, Quando trasvola su le fila argute, O le affatica di tua man l' incarco, E in un lene sospir muojon le acute Voci, o alle gravi apri inusato un varco, Quando il freno all' acceso estro abbandoni, E nettarea dischiudi onda di suoni; Oh! di che vive immagini la mente Ferve e s' allegra da quel suon compunta…

E tutta l' ode va di questa maniera svolgendosi nella sua forte venustà di forma, senza stravaganze e nemmeno arditezze di gusto dubbio: castigata e originale, la piace e solleva, la accarezza ed insegna.

Prasca pareva, più che genovese, veneziano e toscano: amabile, faceto, imitava il dire, il fare di questo o di quest' altro con insuperabile grazia. Rebizzo, originale sopra quanti ve ne furono al mondo, Prasca lo copiava nel discorso, nel moversi in modo che lui stesso non potea reggere. E il buon marchese Di Negro? Ognuno sa quanti versi compose, quanti epigrammi: riempirebbero una biblioteca … Egli solea cantarli sull' arpa, e, vecchio ormai, la cosa riusciva ancora più comica che epica. Non dico niente quando Prasca si metteva a cantare come lui. Quel buon umore del gentile poeta, ch' ei tenea da natura e dalla sua buona condizione, marito ad una bella donnina di Tangeri, che cordialmente amava, quel buon umore non lo stoglieva da serî lavori: un poema che appunto gli valse una poesia del marchese: e tanto che lo conosciamo pel cantor di Vitichindo, e poi Dio sa quante altre, perchè la sua vena era felice, abbondante, spontanea.

Un giorno, su quella bella terrazzina del Bisagno, Prasca ci recitò una magnifica ode saffica contro i nobili. Il soggetto allora poteva stare, adesso no. Dal 46 a questa parte la nobiltà genovese, quella piemontese, la toscana, tutte le nobiltà della penisola cooperarono alla redenzione della patria; cadute regionali si son rialzate italiane, di quel resticciolo incapponito a sonare a morto quando gli altri sonano a battesimo, non è da parlare. Sferzarli, politicamente adesso sarebbe il coraggio delle galline che beccavano il lupo ucciso.

Appena Prasca ebbe, con nobilissima enfasi, con vivacità superba declamato l' ultima strofa di quella poesia, tutti applaudimmo. Applaudì mio padre, che di quella vecchia rabbia gentilizia ne sapea qualcosa; applaudì Cassini, ch' era con noi, Crocco, la signora Parodi, Rubattino e non so chi altri. Taccio di me, che per sante ragioni, nel mio piccolo nutrivo un Mongibello demagogico. Non applaudì mia madre.

Quella nostra diletta già cominciava a non sentire col suo tempo: forse per ispirito di opposizione, forse perchè patrizia di nascita e ghibellina di sentimento: forse in questa circostanza speciale per contrariare la Bianca, a cui non volea bene. Non glielo volea ella probabilmente perchè gliene volevo io, e la crucciava il nobilissimo ascendente preso sulla mia anima, dianzi restia a sensi di fede, ora tutt' altra. Ogni madre è gelosa. Nè alla mia sola dette ombra la Bianca. Ci furono altre madri, punte dallo stesso strale, e in più delicate congiunture, sì che non sempre la calunnia ha risparmiata la donna di slancio, di aperto sentire, di subiti entusiasmi, secondo la definì Crocco; definizione per la quale il buon Tognin ebbe di bei rabbuffi dalla cara Bianca, e il nobile litigio non volle finir così presto. Donna di subiti entusiasmi, ella non nascondeva le sue simpatie: quando a lei si offrisse una bella e santa causa, quando un cuor giovane si volgesse a lei, per averne ricambio d' affezione e conforto, ella rispondeva con impeto generoso, lunge dalla calcolatrice perizia degli ipocriti. Non sempre la sua nobile fiducia trovò adeguata corrispondenza, e non sempre il mondo interpretò come dovea gli slanci di carità d' un' anima veramente celeste. Anzi di tutto l' accusavano, di tutto sospettavano, e poi glielo facevano sapere. Ella qualche volta si irritava e moltissimo, qualche altra rideva e aizzava ella stessa i maledici colla più amabile impertinenza, da vera donna lombarda. Ma il più delle volte chi le riportava, sgomento, quelle calunnie, ne partiva ancor più compreso di ammirazione e di stima.

Oltre a questo la Bianca avea un difetto; estrosa, e distratta alla maniera de' poeti, la non conosceva artifizî di società. Se un pensiero la tenesse in angustia, la non si sforzava a dar retta a nessuno, foss' ella davanti un re. Chi non ha niente in core è sempre uguale. Ella, sofferente nel fisico, tenerissima de' suoi amici, premurosa, bastava un dubbio sulla loro salute perchè la si disperasse; e perchè li rimproverasse acerba in presenza di tutti, se non si curavano, secondo ella li consigliava. Oggi toccava Crocco, domani Giuliani, o la nipote, o la cugina. E tutto perchè, legata, le mancava una famiglia, ond' ella soffriva la solitudine del celibato, senza la libertà che lo accompagna e lo compensa; di più soffriva il servaggio dei mal conjugati e le offese d' un mondo che, troppo stupido, vuole almeno mostrare spirito con un po' di malizia.

I nobili, tuttochè fondatrice d' asili, pia, mansueta nel più caro senso della parola, ella non li poteva soffrire. Ben inteso gli arroganti. Volea tutti magnanimi, liberali, cortesi come la Teresa D' Oria, a lei amica e quasi sorella.

I xe da sciafe! — esclamò la Bianca in quel giorno al Bisagno, poi che Prasca ebbe recitato la ode saffica, e in così dire la mi ghermiva, come solea, il braccio, lo teneva stretto, e le si accendeva la fisonomia, già sempre tanto espressiva …

Il dì innanzi la Bianca, trovatasi in casa di una gran dama genovese, la vide da un momento per l' altro, divenire fredda e non guardarla più in viso. Ciò accadde all' annunzio ed alla conseguente venuta d' una principessa da Milano, alla quale la dama, dianzi cortese verso la Bianca, parlò sempre non solo senza presentarle la signora Rebizzo, ma senza mai più guardarla in faccia.

Caso simile avvenne a noi in Parigi, presso una dama romana, del più alto nome, divenuto poi famoso per seriissime e publiche sventure domestiche; perchè, entrata una signora duchessa della Cisterna, amabilissima veramente e piena di garbo, a visitar la dama romana, mentre noi, raccomandati a questa, le si faceva visita, ella nè anche si prese il disturbo di nominarci, nè di guardarci in viso, fin che stette presso di lei l' altra ospite illustre. Ond' io, vedendo i miei cari vecchi in un canto, dissi fra me: — Tu ha' pur ragione, Bianca — i xe da sciafe! — Di questi peccatucci la nobiltà e l' alta vita, ne commette più d' uno; e li sconta col sangue, ma pulito la non si corregge mai.

Credo da altra parte di poter osservare che senza un lievito di santa collera forse la Bianca non operava quanto splendidamente fece per la causa italiana; sicchè l' idea democratica fu stimolo, per quel forte carattere sdegnoso, a coadjuvare il gran lavoro del rinovamento sociale. Quando negli anni venturi, davanti al busto, eretto nel Municipio alla Bianca, dalla gratitudine cittadina, si domanderà alla pia immagine contegnosa i suoi segreti e' son questi: uno, la feroce posizione, che le rendeva inutili tesori d' affetto, l' altra il legittimo orgoglio di uno spirito superiore: e tutto insieme le fu leva a sostenere con pericolo proprio e con danno la magnanima impresa della patria indipendenza. Aleardi nobilmente da poeta, parlò in morte della Bianca; a me, umile cronista, una sola cosa si spetta; la verità.

Un altro dopo pranzo ci venne presentato pure alla villetta del Bisagno, Lorenzo Costa. Memorabile ora del cenacolo aereo, vi discussero gli egregi convenuti intorno alla dotta padrona del bel riposo campestre, il quesito presente: se dall' essere il poema d' Omero opera tutta del gran cieco, oppure canti portati in giro dai rapsodi, ne venga, a quei poemi, maggiore importanza, dignità, splendore. Ecco un tema che i giovani d' ingegno potranno discutere; fra un atto e l' altro di elezioni elettorali e d' altre serie cose, sarà pur bello tornare a discussioni relative all' eterno vero, ch' è nell' eterna bellezza delle discipline filosofiche e dell' arte, perchè appunto di là, ossia dal pensiero d' un popolo conservato alto nella dejezione, partì la nostra vita.

Dopo quel dì noi visitammo più volte Lorenzo Costa, egli visitò noi: anzi ci lesse alcuni squarci del suo Colombo; uno contro Santippe, e parea ispirato da furor personale, caratteristico in mezzo ad una letteratura di sentimentalismo, non sempre schietto. Molto si parlava allora di quel poema, già sotto il torchio, il qual poema, se le circostanze non lo vietavano, dovea divenir popolare, in quanto lo consentano la serietà di un gran lavoro, così opposto all' indole dei tempi, e lo stile spesse volte arduo, chiaro sì ma sublime. I fatti sopraggiunti impedirono a quel monumento di poesia innalzarsi e dominare sopra tutti, ma ho ferma convinzione che il Colombo non cadrà mai in oblìo. In ogni tempo qualche pittura di quel grandioso affresco, strettamente legato alla storia nazionale, per l' eroe di che narra, pel poeta che lo cantò, sarà agl' Italiani prezioso.

Di Lorenzo Costa mi rimane una singolarissima, particolare memoria. Gli è che avendo visto, or non son molti anni, una bella immagine del monumento, eretto a Cristoforo Colombo da Vela, per ordine della imperatrice de' Francesi, io confondo la fisonomia del gran genovese, marinaro, con quella del suo cantore. Mi par che il Costa d' allora somigliasse al Colombo, da poco scolpito. Quella faccia a squadrature armoniche, quelle guance spianate, quell' espressione ingenua, nobile, forte: l' uomo di mare e il cittadino, il cristiano e l' eroe: soprattutto me lo ricorda la fronte; una fronte ampia, serena, che par rifletta l' imponente calma dell' oceano e la possibilità d' immensi commovimenti nelle rughe maestose.

Tutto ciò era Costa; semplice, buono, abitudini paesane, studicirc; e propositi virili. Se mi tradisce la memoria riguardo alla somiglianza fisica, tra il cantore e l' eroe, c' è sempre la somiglianza morale; la patria, la fede e l' arte, che direbbe il gran genovese s' intrea in un solo concetto.

Intanto la rivoluzione d' indipendenza procedeva, e come non le dessero ansa bastante gli avvenimenti di Roma, cominciarono le vertenze pei vini fra Austria e Piemonte: fulmineo fu l' effetto di quei dissapori: tanto la materia combustibile stava pronta da per tutto.

Un dì, girando in palischermo nel porto, si parlava fra noi d' una probabilissima guerra fra Sardegna e l' Impero. — O butin! — irruppe fiero uno dei marinaî, che ci conduceva — O butin! — replicava. Ci guardammo stupiti. Il bottino!… e' si preparava al bottino, quell' ardente ligure, e nel dire gli spirava sulla faccia, tutta seppia e tutta sole, un alito guerriero, mentre raccoglieva le pugna al petto, incurvandosi sul remo: sì che nel rigittarsi indietro, vogando a ritroso, ci pareva, che stringesse l' arma e prendesse lo slancio, per saltare all' arrembaggio.

Posto che siamo in mare, io chiuderò questo capitolo con una splendida memoria di giovinezza, ch' è anco un piccolo avvenimento cittadino.

La Bianca non solo colta, anzi poetessa, era anche economa. La univa in sè le due qualità necessarie in questi tempi, in cui la donna assunta ad uffizi, dianzi a lei sconosciuti, non che vietati, deve come un uomo adoperarsi alle cose più serie. E in questa grave responsabilità, in questo arduo compito sta la sua più bella possibile emancipazione.

Sconcertato il patrimonio dalle prodigalità del marito, che correva l' Europa, secondo gli dava l' estro, la Bianca si ristrinse in casa, e dirigeva l' azienda domestica, e commerciale, poichè l' avea interessi e rilevanti, colla società Rubattino. La qual società costrutto, in quel tempo, un magnifico vapore, lo denominò il Lombardo, e fece della inaugurazione di esso una festa, a cui parteciparono tutta Genova, il cielo ed il mare.

Il nome del vapore indicava per sè stesso un pensiero occulto: ossia il nome della provincia serva, che si dovea redimere. Le pareti delle stanze, sotto coperta, rappresentavano le principali scene del romanzo i Promessi Sposi, e la banda militare, sonando i sublimi cori di Verdi, ben diceva tutto quello, che i cuori sentivano. Il vapore, preso allegramente l' abbrivo, si diresse trionfalmente alla lanterna, a S. Pier d' Arena, poi voltò di bordo e andò verso il promontorio d' Albaro, per poi ritornare al porto.

Vedere il prospetto di Genova da quei punti! Perchè quando ci si giunge dopo una notte di patimento, difficile riesce gustarne le bellezze. Nei palischermi lontano e' non ci si va. Ma dal vapore!… trovarsi, come quella volta, innanzi a quell' anfiteatro; qua eretto in nuda costiera, che emerge dall' onda, e l' onda flagella, là spianato in riva dove il mare si corica; alcuni puntì boscosi, altri biancheggianti per ville, palazzini, terrazzi: da una parte le rigide linee della fortezza, da un altra le cento braccia dell' industria terrestre e navale! Scorso il Bisagno, verso Albaro, si spiegò tale magnificenza di verdi, che a tutti i passeggeri strappò un grido… e tutti corsero a guardar quelle rive fuggenti, inselvate d' alberi, i quali senza un po' di marino, che spirava dolce, dolce e da cui venian mosse lietamente le fronde, si sarebbero creduti un albero solo.

Il sole cominciava a declinare dietro le lontane coste della riviera di Ponente. Sovra l' acqua, appena mossa, il sole in cento luci fuggitive tesseva le più belle gradazioni di cento colori, la trasformava in raso, in arazzo morbidissimo, dove il saffiro, l' opala, gli smeraldi, i rubini frizzavano a vicenda: drappo d' oro, tappeto turco su cui la scia luminosa del legno lasciava lo strascico d' un abito da corte del più profondo azzurro.

La signora contessa Ottavia Borghese Masino di Montebello, egregia e rinomata dama piemontese, mi stava accanto, e disse: — Oh! se non si divien poeti qui non lo si diventa mai più — Intanto successe un grazioso, voglio dire un prezioso incontro. Entrava a piene vele un naviglio mercantile, da quattro anni in viaggio. Il capitano era il padre d' uno dei principali marinaî del Lombardo. Sicchè fu un grido, un riconoscersi, un istante sublime. La Bianca, piena di brio, camminava sulla tolda: una bella piuma gialletta, ondeggiante, ch' io per vezzo, paragonava a quella di Riccardo, Cuor di leone, sempre vista in battaglia, la facea spiccare sopra tutti. Non molto alta, pur la avea una certa andatura maestosa e spigliata; istessamente nel fare un che di ispirazione da musa a cui s' alternava qualcosa di maturo. Quel giorno la era la regina della festa. — E negano la felicità — diss' ella. E la cara entusiasta si volgeva intorno, guardava quel prospetto, la incantatrice bellezza di quel sole morente che, avverando non so quale antica tradizione poetica, parea svegliarvi misteriose armonie.

— La vi è, sai, la felicità — mi ripeteva additando alternatamente le due navi, incontratesi allora, fissandole con quel suo bell' occhio, brillante e lucido come quello del falco. Di fatto era vero: non si potea negare in tal momento la felicità: ma ancor meno la eccellenza del cuore d' una donna, beata del bene altrui e che, non potendo esser felice, stava paga del bene de' suoi simili.

Durante quell' estate un altro ricordo io trovo nella mente o, dirò meglio, in cuore. Poichè passamino un giorno a Pegli (comune di Moltedo) in casa dell' avvocato Bisio. Senza descrivere quelle delizie, io dirò che, durante tutta la giornata, non udimmo che alti e fieri propositi d' indipendenza nazionale. Libri di Mazzini e di tutti gli altri agitatori di sociali riforme, giravano per le mani dei padroni di casa, sì degli anziani che dei giovani, dei figli cioè che, robusti, addestrati ad ogni esercizio ginnastico, di cui ci diedero mirabili saggi, crescevano con la più prospera salute su quella riviera dalle falde boscose, inondata di luce e di mare. La mia buona madre stava tutta sgomenta a udir quei discorsi, ad ascoltare qualche frammento di quelle pagine incendiarie — oh! Dio che orrori… cosa n' avrebbe detto la marchesa Arnaldi di quei libri?… tutta bruciaglia per l' inferno … — La mamma temette in cor suo che il diavolo ci portasse via tutti, ospiti ed ospitati. Ciò non fu, e tranne la più schietta cordialità in un pranzo, goduto al rezzo dei faggi, tra i fiori, che ornavano perfin le vivande, nessun altro incidente ci occorse.

Congresso di Genova. Torino - Rivista militare - Quadro
vivo della famiglia reale - Ventisette anni dopo
- Ritorno per Milano - Prati e il re di Prussia.

Venuto il settembre dello stesso anno 1846, s' aperse il Congresso coll' usata solennità e con quel di più nel fervore che potea aggiungere, in tal anno, una città come Genova. Repentinamente trasformata, le rote lucenti di cento e cento carrozze signorili volavano sui selciati delle belle vie Balbi e Carlo Felice. La Staël disse di queste che parean preparate per un congresso di re. Vi è qualchecosa di divino nelle apprezziazioni del genio. Soltanto i re d' allora divennero i popoli adesso. Una moltitudine di persone a piedi percorse ogni via, s' adunò a ritrovi, popolò i giardini. Un formicolare di uniformi, un via vai d' abiti neri, tempestati di ciondoli e di croci. Mille visi diversi, e diverse favelle, ma in tutti un solo pensiero; segreto e inteso da tutti.

Quanto Genova possedea di più bello emerse e di più splendido. L' oro profuso nelle sale de' suoi palazzi, scintillò riprodotto da mille fiamme di sfarzose illuminazioni nelle veglie, ai balli, ai concerti, dove le dame comparvero con tale sfoggio di trine, di perle, di pietre preziose da contendere quei fulgori. Le belle chiese, già tanto ricche, si apersero a nobilissime funzioni.

Invano qui mi sforzo a mantenere la quieta andatura d' uno stile modesto. Tutto è splendido, tutto è potente: perchè siamo a Genova. Ma un solo punto riassume le memorie di quel congresso: e fu quando, nella sezione d' archeologia, il marchese Lorenzo Pareto, disse quelle parole di chiusa, che aprirono la rivoluzione. Quando per bocca di quest' uomo, il Capponi, il Vanucci genovese, un di quei cittadini che Dio dà alle nazioni, che vuol redimere s' udì: — Che Genova prima si leverebbe nel gran movimento della indipendenza italiana; quando lo si vide lui, col prestigio dei santi costumi, dell' ingegno e del nome, lui così serio, così ispirato, così sentimentale nella sua vita, nel culto personale delle care memorie, levarsi a pronunziare quella professione di fede, in nome della sua Genova, allora fu il finimondo!.. Le voci gridavano, piedi e mani battevano, e più ancora tumultuavano i cuori.

L' anno dopo a Genova mentre Carl' Alberto, passava a cavallo per le vie, gremite di gente, nei memorandi giorni in cui dava libertà a' suoi popoli, fu udita una voce potente: — Sire, passate il Ticino e soccorrete i fratelli lombardi. — Tanto covava d' amor patrio in quel paese. Anco a Napoli ardeva, fin dagli anni avanti, la fiamma. Oh! ma qual differenza!… Napoli bastava a sè stessa, e basta ancora, benchè non più capitale. Genova, con un grande passato, mantenuto vivo nella memoria da tradizioni popolari e da monumenti, si trovava aggregata e soggetta ad un piccolo regno: essa ebbe dunque bisogno d' espandersi, per non esser più sotto il Piemonte, ma brillare fra le più fulgide gemme della corona d' Italia.

Là dappertutto, in quel tempo, spirava il pensiero della indipendenza. Alla esposizione delle belle arti il primo oggetto, che si vedesse entrando, era la statua di Balilla, nell' atto di gridar morte ai Tedeschi, e scagliare la bomba, come fece il vero Ballila, allor stavano per compiersi cent' anni. Ognuno conosce la storia, e sa che il general Botta, scherano dell' Austria, angariava Genova conquisa, fin che un monello di contrada Portoria die' il segno, gettando la pietra della riscossa; ancora si mostra il punto nella strada eve nacque il fatto.

Inutile riferire i discorsi della Villetta, dove tutta Italia convenne; tanto che il padrone non conoscea nemmeno chi avea in casa …. e iva chiedendo agli ospiti più famigliari: — Chi è quella signora?… chi è quel cavaliere?

Gl' improvvisi del poeta Masi, tutto patriottici, le dissertazioni, le cantate, i cori, le arie dell' Attila… oh quella Villetta ardeva! c'era bensì fra i tanti ospiti, qualche vecchio signore, alcuni alti impiegati lombardi, the vedendo un tal diavoleto inarcavan le ciglia, stringevan le mani, mormoravan fra di loro, confusi e atteriti: — Oh! cosa vogliono questi matti? vincere l' Austria?… con un sonetto?… Oh! provvidenza divina… non san cos' è l' Austria?… ha vinto Napoleone!… E' troveran pane pei loro denti… e chi gli farà fare giudizio; montagne di carne troveranno … e' bisognerà bene che attacchino la voglia all' arpione… intanto Dio sa in che guai ci piombano … Dio ce la mandi buona! …

A Torino, dove noi andammo, subito finito il congresso, medesima vita, ma altre vicende, altro cielo.

Devo dire schiettamente che dopo quel concitato marezzo ai raggi del più ardente sole, nel bel mar di Liguria, un po' di quiete ci parve un benedetto riposo A noi altri, povere malve del Veneto, quel trovarsi fra Travetti puntuali e zelanti, fra sudditi niente ribeli, anzi teneri del loro re, ci parve d' essere a casa nostra, e in quei tempi in cui l' avversione, sviluppata poi così fiera contro il governo, ancora non si conosceva: quardo s' andava incontro, colle carrozze, al vicerè Raniei buon' anima sua, e lui per tutto il Terraglio stava a capo scoperto, accennando a dritta, a sinistra, atteggianob metodicamente il suo grosso labbro austriaco al sorris.

Però un pajo di giorni non iscorsero a Torino cle ci accorgemmo esservi qualcosa più di Genova in fato di spiriti ribelli, e guerrieri; che là era quistione dinamica, qui meccanica. Là il cenno, qua il braccio. E un bel dì, giusto appunto il primo ottobre, dai veroni dell' Europa, dove stavamo alloggiati, vedemmo il dejilè, la rivista militare, ossia non so quanti mila uomini, ben equipaggiati, bene istruiti: bersaglieri, artiglieri, fanti, cavalli. E ci fu anco una novità: alcune bande aveano i cori, che cantarono sotto la loggia della famiglia reale.

Non so se fosse in quella rivista che l' ambasciatore austriaco, interrogato del come trovasse quella tuppa rispose — « Pour des pères nourriciers ce n' est pas mal » — Il che torna, per babbi braccianti e' non v' è male. —

Ma il detto si spiegherebbe coll' animosità già scoppiata per la vertenza dei vini. Animosità che incendiava tutti i cuori, e là in quella piazza Castello, in istrada, nelle case, e non una in sola, ci accadde trovarci invitati ed accolti dalla ospitalità piemontese, da per tutto insomma non sonava che una parola — Via gli Austriaci — e guai contraddirla quella parola! Quei pochi soldati piemontesi erano un esercito: quelle trombe avean la virtù di far cadere ogni mura in cui s' annidasse qualunque potere …. Nobile cecità, sacra illusione, verificata col sangue, con ogni maniera di sagrifizio da quell' incomparabile paese durante un quarto di secolo. Pare un sogno! e pur tanto e' doveano ancora combattere in casa loro, perchè lo spirito reazionario avea sede principalissima in Torino. Tocco di volo, sennò per ora non finirei delle relazioni carissime. Prima e sotto più riguardi illustre la contessa Masino di Mombello, già conosciuta a Roma, e che ci fece gli onori di casa in modo singolare; così il baron Plana, Petitti e tanti altri.

La contessa Ottavia, nata Borghese, era la illustre donna, celebrata da Romani in quella sua famosissima canzone, che termina:

Qui lascia almen la santa brama in carte, Qual pellegrin, che appende un voto e parte. »

Questa canzone mentre esaltava, con aerei tocchi di lira, le virtù della egregia donna e la soave bellezza, dicea anco della sua villa di Grugliasco — « e saluto d' un canto, — questo che nome avrà di paradiso sereno chiostro, del tuo lume acceso ». A noi in quel chiostro occorse un fatto molto meno poetico, anzi tutta prosa. Ma che prosa squisita! un pranzo, che ci diè la signora, pranzo condito di tal gentilezza, che inutile è parlarne. E così di tutti quei giorni, e di tutti quei cari Torinesi. Già che cuori son quelli è noto notissimo, ma chi lo provò non lo dimentica più in vita.

Ogni domenica vedevamo la famiglia reale mentre dal suo appartamento la andava alla chiesa attigua, per ascoltarvi la messa. Il pubblico poteva accedere liberamente e noi non ci si mancava mai. A un lato dell' aula, specie di anticamera, che si trova appena su dallo scalone, si aggruppavano i camerieri, che Carlo Alberto volea alti come lui. Sicchè, vestiti in rosso, formavano una gran massa di scarlatto, un fondo più che capriccioso alla scena.

All' ora della messa compariva dall' interno dell' appartamento la corte, traversava il salone, ed entrava nella cappella della sacra Sindone, dove le si leggeva la messa. Ognuno sa che la cappella è elevata, e la chiesa, aperta ai fedeli, è al pian terreno.

In quella corte emergeva Carlo Alberto, per bella statura. Venia innanzi a testa alta e sorpassava tutti. Più notevole aspetto gli davano i capelli grigi, quasi bianchi, tenuti corti, fuori che un po' di ciuffo sulla fronte, i grandi mustacchi nerissimi. L' occhio del re era severo, ma ti guardava nel viso. La regina, Maria Teresa, più piccola di statura, e benchè niente matronale nel suo aspetto, pure avea un carattere che si potrebbe chiamare augusto. La vestiva con sobrio lusso da anziana, con colori scuri, un' acconciatura a foggia di diadema le stava sulla fronte. Non che imponesse, ma a vederla si comprendeva la sua grande austerità, gli alti sensi, la devozione religiosa e domestica, fatta per esser regina d' un buon popolo, madre di figli amorosi e intrepidi, ava d' una Clotilde. La duchessa di Savoja, figlia di Raineri, cara, disinvolta, vestita per lo più di bella stoffa nera a marezzo, un velo sul capo; soda, ma. adorna di qualche vezzo, che lucea come sole. L' espressione modesta del viso non le scemava l' aria d' insita grandezza, come la veste pesante non dissimulava la grazia e l' ondulare della bella persona.

Il duca di Savoia, ora Vittorio Emanuele II, veniva appresso col duca di Genova, giovani ambedue, snelli, disinvolti alla militare. Il duca di Savoja non mostrava allora di prendere quello sviluppo nelle forme, che lo rese poi così grandioso e potente. Allora per la agevolezza delle mosse e l' avvenenza somigliava a un di quei giovani capitani di cavalleria, a un di quei principi o magnati ungheresi dell' armata imperiale, nati, per così dire a cavallo, tipo vero fra il gentiluomo e il soldato. A ricordarsi quel fare nobile e sciolto, così lontano dalla stupida rigidezza solita negli altri regnanti, si intende ora come fosse predestinato alla più nobile popolarità.

Presa nel suo insieme questa famiglia reale, così semplice e severa, col suo re e patriarca davanti, nell' atto di adempiere un precetto della religione, professata ed anche sentita, offriva un bello e commovente quadro, che mai dalla mia mente non potè cancellarsi.

Volle un caso imprevisto, che dopo ventisette anni, trovandomi per ore in Torino, andassi di volo a quel palazzo. La reggia era deserta. L' appartamento d' onde usciva la famiglia reale vuoto e libero. Soltanto nella sala del trono restava la memoria dei ricevimenti solenni con cui il giovine re avea accolto dalle deputazioni italiane, i voti de' vari popoli divisi, ma risoluti a riunirsi. Il vecchio re, morto in esilio spontaneo: morta la regina vedova; in vece della duchessa di Savoja, una statua al posto ov' ella stava nella cappella della sacra Sindone, a messa. Il duca di Genova morto, prima del tempo: via tutta la corte. Solo, nel giorno di cui parlo, il re abitava l' ampio castello, e vi si preparava a partire la mattina vegnente per Vienna. Volle il caso che, tornando a casa mia, io precedessi d' un' ora il convoglio reale: e vedessi, lungo la strada, tutto pronto ad aspettare quel memorando passaggio. Il vecchio Piemonte parato a festa, bande in atto di sonare; la Lombardia, il povero Veneto, ancor sanguinante, rozzo, ma schietto, povero di denari, ma pieno di cuore, e tutti aspettavano la comparsa del regal viaggiatore.

Ahimè! passando sopra una strada famosa, per tradizioni ancora fresche e per monumenti appena eretti, premendo quegli ossarî ancora tepidi, bisognava piangere in tal grandioso compiersi d' un avvenimento, a cui nessun altro nel secolo può stare di fronte. Piangere di consolazione, ma anco di dolore, perchè troppo ha tardato, in confronto alla breve esistenza umana. Perchè il re andava a Vienna a suggellarvi la pace, ma il suo gran padre era stato il primo olocausto della guerra, e poi a mille a mille vittime oscure, e a mille a mille i dolori in ogni famiglia. Onde il re stesso, che ha cuore, deve averlo sentito oppresso in quel trionfo, com' io lagrimava pensando, che i miei cari non divideano con me la maraviglia d' un tanto spettacolo, e che una parte della gioja era, nelle nostre povere campagne, sepolta con essi.

Non senza grande rammarico ci staccammo da Torino. A Milano si fe' sosta: ma per la stagione ed il tempo, bruttissimo, questa grande città ci apparve in aspetto sfavorevole, lontano dalla sua bellezza; abbandonata dai cittadini, inondata da un perpetuo acquazzone. Nemmeno uno dei nostri amici vi stava; nessuno, nessuno.

Dirò di più, dopo Genova e Torino, Milano a quei giorni non poteva colpire. La vita cominciava a splendere nella vera Italia, lasciando nell' ombra l' Italia austriaca. Milano, fin da Maria Teresa prediletta, e avviata a bella civiltà, innalzata sotto Napoleone a capitale di un nucleo di regno italiano, ricevette germi tali, che al venire degli Austriaci, potenti, vincitori, pacifici, diede sublimi frutti. Perciò fu l' Atene d' Italia; perciò la potè creare, nudrire fra le sue mura fortunate un Manzoni, un Grossi, un Cantù, essa che fra le antiche avea una Agnesi, un Luino, un Da Vinci, un Beccaria.

Ma col risvegliarsi del sentimento nazionale, e fin che non potesse scotere il giogo, la dovette dare un passo indietro, per quel tanto che le città vicine lo davano innanzi. Ciò da un momento all' altro; chè fino allora Milano avanzava tutti: e a conferma di questo dirò che in Genova, durante quell' istesso congresso, la questura non volle lasciar passare in un tapino giornale, semi-letterario, che là si stampava, la frase seguente: — che l' idea vale più del cannone — Così eran tenuti a cavezza! Ma la scintilla era accesa, ma la scossa era data, e nel venir via di là, entrare a Milano, trovar quell' ussero a cavallo davanti la porta, colla spada in pugno, facea l' effetto d' entrare in fortezza.

Quell' ussero impediva di crescere all' alloro, sorto allora per incanto nella provincia vicina. Bisognava o cacciare il primo o lasciar morire il secondo. Delle due Milano s' attenne a questa, e fe' le cinque giornate.

Tetri correano dunque i giorni per Milano: il conte Tiretta, già guardia nobile veneta, poi capitano in un reggimento di stazione appunto colà, ebbe a narrarci quale orribile vita vi conducessero gl' imperiali. — Quando si torna dagli esercizî del campo, si vorrebbe passar sotto terra, — diss' egli — corriamo a casa, gettiam via l' uniforme, torniam fuori vestiti da borghesi… da uomini, cioè, da cristiani, e si sa che quel martirio non ricomincia fino al giorno appresso.

Il giovine conte Tiretta, venuto subito che potè sotto le bandiere italiane, fu, al cader di Venezia, una delle tante vittime della rivoluzione, morì esule, lontano da' suoi, quando poteva e per la bella istruzione avuta, e pel suo valore divenir utile al paese. Di Milano io adunque non parlerò altro che per dire come ci è rimasto nella memoria il suo splendido giojello, ossia il duomo, ma una memoria curiosa che parea un sogno. Quella facciata, quelle guglie, quei trafori si vedevano in mezzo alla nebbia e alla piova quasi una veduta magica, l' effetto della quale non può fallire, perchè ha una luce sua, e brilla e trema fra il bujo più denso.

I viaggi in Italia si chiudono con un bozzetto. Perchè a Verona ci toccò lo stesso diluvio e di questa gran città monumentale poco non è permesso dire. La inclita Bon Brenzoni non la conoscevamo ed era allora poco conosciuta: nè sulle rive dell' Adige ci avea ancora quella musa forte e soave, la Francesca Zambusi Dal Lago, che ne ha raccontata ai fanciulli la storia.

In Chiari, sorpresi da un acquazzone tremendo, ci convenne fermarci. Scendemmo all' albergo, guardandoci in viso con dire: — come s' ha a logorar le ore?… — Ma nel dopo pranzo apprendemmo che v' avea opera al teatro, essendo quello tempo di fiera. Ci parve una fortuna, e ci andammo. Si rappresentava l' Ernani: due sere prima alla Scala, quella sera al teatro di Chiari, in platea, che s' intende. Ma eppur chi lo direbbe! Più ci piacque l' Ernani al teatrino di provincia, che non so qual operone antico, di Rossini, prima maniera, alla Scala. Quei contralti, quelle arie con fughe e volate, ci aveano dato noja. Il povero spettacolo di Chiari ci andava al core. Sola cosa che ci disturbasse fu, vicino incomodo, un giovine postiglione il quale, appoggiate le braccia alla panca davanti, e la testa sulle braccia dormì tutta la sera, facendo un tal susurro che talvolta passava l' orchestra, ma noi non ebbimo cuore di destarlo; fa tanto bene un buon sonno! Ci svagammo piuttosto col guardare i palchi, dove pompeggiavano le dame del luogo e con che importanza, e con che sfoggio di nastri, di veli!… Tornati in locanda ci accorgemmo che vi albergava la prima donna, e che in quella sera le si dava, dai lioni di Chiari, una cena: sicchè passando vedemmo la tavola imbandita e bocchè e lumiere. Attigue le nostre camere a quel salotto, quella sera non si potè dormire fino a tardi. c'era un destino in quel Chiari; che il dormire disturbasse la musica, e la musica, ossia i musicanti, il dormire. Perchè giunta la prima donna, rigida inglese che interpretava la musica di Verdi con meccanica passione e con voce da gatta, quando la fu in camera divenne vivacissima, e bisognava sentire che complimenti di quei ganimedi, e com' ella rispondeva amabile e disinvolta, e che paragoni io non dirò alla Malibran, ma poco meno — e quella cabaletta, e quel rondò e quel finale — e poi scoppî di bottiglie di Sciampagna, che una non aspettava l' altra.

Io ridico: taluno si stupirà che, in vece di fare uno sproloquio davanti la tomba di Giulietta e Romeo in Verona, mi arresti a tali incidenti in Chiari. Ma su quella tomba lo scetticismo ha già sovrapposto il suo velo di dubbio, e questi incidenti son proprio vere scene contemporanee, per quanto poco importanti. Di più quella tomba ci parve, parlando con riverenza, un truogolo da porci, tanto era mantenuto in un orribile sito; meglio dunque non parlarne, mentre i bozzetti di Chiari possono destare un innocentissimo buon umore, e chi non lo sa che il sorriso aggiunge un filo alla trama della vita?…

Ritornati a casa, fino al 1849 mai non ce ne distaccammo. Delle notizie artistiche riassumerò in breve più innanzi, ma questo capitolo io voglio chiuderlo con un cenno relativo alla vita domestica e cittadina, il quale mi par notevolissimo e, s' io mal non mi esprimo, storico, ammettendo che nella storia d' un paese c'entri il progresso del pensiero e dell' arte.

In questa lunga lanterna magica si presenta dunque una figura a chi simpatica, a chi no, indifferente a nessuno. Io voglio dire Giovanni Prati.

Nel 1846-47 abitando egli Treviso, ci venne presentato dal nobile Marini, professore di matematica, e noi lo pregammo di favorirci la sera nelle modeste veglie, o di recitarci qualche poesia. Il che fece subito, volentieri, onorandoci al sommo grado, chè noi vedevamo in lui un vero poeta e quindi un illustre italiano; nè della sua vita ci potevam costituire giudici in nessuna maniera. Quanto a lui venne e ritornò, mangiando fritelle di bonissima voglia, e panna battuta con più piacere ancora: chè gli gusta moltissimo, anzi ci raccontò che una gran dama milanese (o la principessa Samoiloff?) gli fece uno scherzo: conoscendo la sua gola per quel piatto, gliene ammannì uno bellissimo di cartone… ma bello, lucido, e tanto che il gran lirico ne fu ingannato … va per piantarci il cucchiajo (forse a Milano non c'è storti) e trova cartone. Quel disinganno però, certo fra i più lievi, sarà stato prontamente riparato…

Giovanni Prati era in quell' età uomo di bella presenza. Non della elegante e liccata lindura dei damerini poeti, ma con quell' abbandono, che non istà male ad un uomo di talento. Capelli lunghi, cappello a larga tesa: baffi e barba sul mento, decoro della fisonomia quanto disdice quella foggia sgherra, che credono all' inglese. Di maniere piuttosto alla buona, se compariva affettato, ciò accadeva perchè in un dato momento, lo volesse lui espressamente. Io parlo d' allora, chè da molto tempo non l' ho riveduto. Solea spesso arricciare il viso, aggrizzando il naso e stringendo gli occhi a dargli maggior acume. Moto che fa talora Cabianca; e a tutti e due ci dà un che di dantesco.

Anni prima Prati fu il lion di Padova e di tutto il Veneto. Destò passioni vivissime, era veramente il sospiro delle educande, e di tutte le giovani di fantasia eccitabile. Conobbimo una, sposa quindi d' altro poeta, la quale si sarebbe gettata in un precipizio, pur di sposarlo. Si faceva gran lode a Prati che, saviamente, lui primo, la dissuase da quell' amore.

Le ragazze in iscuola si copiavano le sue poesie; in vece di « sovr' ali d' oro il mio pensier lucente — salir vid' io » — copiavano Alidoro, e lo credevano un cavallo; ma tant' è, piaceva tutto lo stesso.

Le poesie recitate da Prati ci inebriarono; voce plastica, maschera potente, pronunzia perfetta, inflessioni romantiche, ma senza che vi perdesse la robustezza e il sapore della sua musa.

Qui mi viene in mente una cosa e voglio dirla. È un apologo.

Giovanni Prati, capo scuola della poesia moderna, romantica italiana, è il più corretto di tutti quelli che lo seguirono. Qualche volta egli potrebbe essere classico, foscoliano e scrivere come un latino. Al contrario di Aleardi, a cui il rifare è impossibile. Bisogna che resti com' è, e quello che aggiunge e modifica nelle sue poesie non le migliora. Potrà riuscir più pittore di Prati, anzi per pittore ha tocchi insuperabili, pennellate che dicono tutto, come gli angeli colpevoli a cui treman le ale, i rubini che pajono impietrate gocciole di sangue, i fulminanti arcangeli, e mille altre… Carducci è potente, ma Prati è lirico, e l' onda del suo verso sgorga e va come i ruscelli nelle praterie lombarde, o come le note di Verdi, che a quelle bevette le sue ispirazioni.

Mi parrebbe dunque di poter dire che, appena venuto al mondo il genio di Prati, si stava per battezzarlo grande, ma a quel battesimo, preparato con pompa solenne, fu dimenticato di invitare una fata, invidiosa e maligna di sua natura, la quale scrisse sulla culla del neonato — Tu non farai quanto potresti. —

Le altre buone madrine e comadri si provarono a scongiurare il destino, ma del tutto non riuscirono che venisse rivocato.

Prati non fece dunque quanto poteva, ma restò grande lo stesso perchè tale era nato. Aggiungerò: la sua noncuranza, quel po' d' abbandono, quel po' di morbido e di patito nel bruno e maschio della sua musa, come nella fisonomia di lui, quando era giovine, gli accresceva vaghezza; in ciò consisteva forse un segreto delle sue seduzioni. L' anima si compiace di veder che qualcosa manca; ama l' eroe vulnerabile, apprende volentieri che abbia il tallone d' Achille; lo immagina umile, lo preferisce colpevole. Ma ciò pur troppo non fa che le opere sue possano venire seriamente studiate e tutte, come quelle di Manzoni, sfidino il tempo.

Le varie fasi della vita letteraria di Prati provano quanto affermo, perchè il suo genio s' accrebbe in ragione della grandezza d' Italia, e in ciò vi è la lode e il biasimo. Quando s' inspira a sè stesso, canta sotto veli e allegorie bironiane, senza quei due bei trampoli nobiltà e ricchezza inglese, quando allude alla sua personalità, allora esprime il dubbio, è disperante, incolore, e gli manca fin quella seduzione, che sarebbe pur vita nel pallore e nella tristezza. E ben trista è la conchiusione dell' Armando. Quel Childe - Harold linfatico termina come un povero diavolo, che s' annega per accidente. In vece, quando Prati non crea, ma interpreta il sentimento nazionale, allora si solleva, allora la musa gli sorride, gli tempra i numeri, e il suo bel verso cascante sfolgora delle bellezze d' un ritmo, ch' è musica in pensieri efficaci, originali e talvolta sublimi.

Fu appunto in quell' estate 1847 ch' egli, componendo i canti politici, venne a noi e in certe mattine, dopo esserci tutti ben assicurati che nessuno udiva, chiusi in uno stanzino remoto, recitò quei carmi dove c'è il verso profetico:

« Pende la spada a tedio Sui femori alemanni, La ruggine degli anni il fil ne consumò. »

Mia madre era entusiasta di Prati, l' ultima poesia ch' ella potè gustare fu di lui, ma su ciò più tardi.

Mi par di chiudere nobilmente la II parte di queste memorie trascrivendo un bel sonetto, che Prati compose per mia madre, e di farlo seguire da una lettera di Federico re di Prussia. Ambedue nello stesso soggetto, ossia diretti alla traduttrice d' Omero.

In te certo di Leutra e Salamina Debbe fremere il sacro estro guerriero, In te, che puoi, d' Italia pellegrina, Interrogar d' Alceo l' urna e d' Omero: L' idïoma trattando alto e sincero, Con che pianse d' amor Saffo divina. E quel di Tebe giovinetto austero Eternò i circhi e la vocal marina. Chè se il numero greco in me fluisse Come in te spira a sua virtù conforme, Mentre tu meni all' aspra Itaca Ulisse. Sulle tessale strette io salirei Per evocar Leonida, che dorme. E condurlo animoso a' lidi miei.

Nell eslate del 1847, Treviso.

Giovanni Prati.

A madame le comtesse Cornelia Sale Codemo, douairière
comtesse De Mocenigo, Treviso.

Madame la Comtesse!

c'est avec de bien vifs regrets que je rèponds si tardivement à l' aimable attention, que vous avez eue de M' adresser votre interessante traduction de l' Odyssèe. La lettre, qui avait sans doute accompagnè cet envoi en 1849, a été égarée par quelque accident imprevu, mais, en faisant de soigneuses recherches, on vient heureusement de trouver votre poétique ouvrage, placé à Mon insu, dans Ma bibliotheque, déjà assez volumineuse. Il est consolant de voir qu'à une epoque de tristes agitations politiques, il vous a été donné de trouver dans des nobles inspirations, et les souvenirs de l' antiquité de bienfaisantes compensations. En vous témoignant, Madame la Contesse, la reconaissance qui vous est due à tant de titres, j' aime à rappeler que vous continuez à illustrer le beau nom que vous portez. Sur ce je prie Dieu, Madame la Comtesse, qu' il vous tienne en sa sainte et digne Garde.

A Postdam, le 24 novembre 1851.

votre bien affectionné
Frèderic Guillaume.

Venezia nel 1847. - Ricordo intimo - Scene del
Congresso - Morte dell' arciduca Federigo.

Penoso mi riesce parlare degli anni che precedettero l' epopea della rivoluzione d' indipendenza, dacchè pur troppo. Venezia avesse prevaricato: ma, chiamata dal destino ad essére sempre grande, anche il male fu nuovo impulso al bene.

Singolarmente caratteristica negli anni, che precedettero il nazionale riscatto, era la condizione di Venezia, la quale senza il dominio della terra e del mare, senza prestigio di ricchezza, di arti, di patriziato, di commercio pur la viveva e, frutto di lunga pace, prosperava.

Certamente un paese non fu per nulla, durante quattordici secoli, il centro d' un gran regno, sempre autonomo: e, ancorchè atterrato, un colosso mostra negli immani frammenti delle sue forme cosa fu. A ciò si ascrive la vita, che a Venezia venia dal Levante, dove si parlava e si parla tuttavia il veneziano, e dove le tradizioni dell' antica Republica duravano nella venerazione dei popoli, ancora e sempre devoti al Leone di s. Marco. Chi stava allora in Venezia sa quale corrente le spirasse dalle coste dalmate e come dai lidi orientali le sbarcassero i datteri freschi, in gran copia e quella bella gente d' Albania coi mantelli orlati di martoro, colle ampie brache rigonfie o col costume greco o schiavone.

Incontrarne a stormi per la piazza, vederne ai caffè sotto le Procuratie, vere stazioni marittime, non pareva strano, ma anzi una cosa sua particolare, senza di cui non si potesse quasi credersi a Venezia.

A questa esposizione di gente levantina corrispondevano molto e tuttavia corrispondono i costumi d' una parte della popolazione, parte poco nota, ma essenzialmente veneziana. Vuol dire quelle famiglie mezzo nostre, mezzo schiavone nelle quali di padre in figlio si perpetuavano tradizioni di vita marinaresca.

Uomini sempre per mare, donne sempre a casa, dedicate ai figli con passione esclusiva: ne conobbimo taluna che fin a sessant' anni, e forse mai, non venne a s. Marco. Profondamente ignoranti, ma capaci di affezioni potentissime, cieche ed eterne. Mille poemi nascono a muojono fra le oscure pareti di quella popolazione, sto per dir asiatica, perduta in mezzo alla civiltà occidentale, e chi pone il piede in una di quelle case, sempre più rare, vi prova la dolce emozione di qualcosa di primitivo, torna ai costumi patriarcali, alle antiche nuore venete e alla luce di quel sole, che illuminò i bei giorni dell' Adria.

Simile non in tutto, ma molto, una parte della nobiltà, la più povera, vivea ingrullita, e come non ci fosse. Il pregiudizio della sua condizione le vietava il mare, sdegnando farsi commercianti, imitare i Greci che seppero nella dura schiavitù conservarsi libera vita nella marina mercantile; di più non potendo campare col magro prodotto della terra, si davano agli impieghi; le loro donne, o per amore o per forza, sposavano impiegati o militari austriaci, basta che fossero nobili. Tiravano su e con gran cerimonia un maschio, perchè poi entrasse nella imperiale e regia armata.

Del resto in quelle famiglie non rimaneva un solo raggio dell' antica gloria. Non ne sapevano niente, altro che le loro eccellenze nonni e bisnonni, traricchi un dì comandavano; che ciò più non era e non ritornerebbe: e che la nobiltà non poteva sperare niente altro che dalle eredità gentilizie, o dal guadagno di qualche signoria in Germania, o chi sa anco dal lotto. Sapevano che in parocchia la quaresima passata predicò il tal reverendo, e che quella ventura predicherebbe un altro oratore famoso; l' autunno andavano in campagna e ci stavano fino a Natale, seguendo i metodi delle villeggiature del secolo scorso.

L' alta nobiltà si divideva in due parti: una rimasta paesana, raccolte le tradizioni doppiamente splendide della gloria patrizia e di quella letteraria, continuava, non dimessa, ma semplice; non superba coi forestieri, ma nemmeno servile, vivendo come se non ci fossero, continuava, dico, le conversazioni della Renier-Michiel, della Teotochi Albrizzi.

L' altra più vivace, più giovane, coi forestieri un po' la ci trescava, ammettendoli alle proprie veglie, trovandosi insieme ai teatri, ai brillanti ritrovi notturni.

I signori dell' alto ceto austriaco, educatissimi, amabili, la accoglievano col segreto disprezzo della nobiltà di spada e d' una spada vincitrice, verso quella vinta, incoraggiavano in ogni modo una sognata fusione, meditando in vece di imporre la propria vita a quella indigena. E di fatto qualcosa ottenevano; perchè veramente in quel mondo leggere filtrazioni d' usi germanici pur le si notavano. Dai Tedeschi prendevan la moda: stufe ardenti nelle quali di pieno inverno le nostre dame reggevano a dieciotto gradi e più di caldo: è vero però che le ci stavano leggerine. Se davano un balletto da bimbi in vece che ad un bal d' enfants, invitavano ad un Kindertanz: le giovinette eleganti richieste d' un walzer rispondevano: sono engagirt, come ai tempi francesi avrebbero detto engagée. Così nelle consuetudini della vita gli usi nordici si immettevano in quelli nazionali, ciò che allora pareva più strano d' adesso: perchè era assai meno mascherato il paese con:

Leggi all' inglese, musica tedesca, Drammi e romanzi alla moda francese,

secondo scrisse in un sonetto giustiano Alessandro Arbib. Stavano dunque in alto gli scandali.

Nell' occasione di nozze, o di carnevali funebri, nelle ricorrenze degli onomastici, nelle etichette della società, perfin nei giochi e nelle feste dei bimbi; perchè alla vecchia befana, la Redodesa, aspettata qui in Epifania colla calza piena di regali, si cominciava a sostituire un Cristbaum, albero di natale.

Lievissime cose in apparenza. Importantissime in mezzo al graduato, inesorabile maturarsi d' eventi, pei quali una nazione fu chiamata a rivivere. E certo le furono fra le piccole cause della reazione patriottica, si che penetrate nel sorriso della sicurezza e della pace, vennero respinte nel dolore e nel sangue.

Intendo dire che quel po' di unione artificiale e momentanea d' una parte dell' alta vita veneziana coll' alta vita forestiera servì a far che più presto scoppiasse la rivoluzione d' indipendenza. Perchè non si vuol credere che la sia il prodotto d' una volontà. Un uomo, per quanto energico e potente appena la dirige! Diversità di usanze e di tradizioni, come di sangue e di carattere divide le stirpi una dall' altra, e più quella teutona dalla latina. Se per poco tal divergenza si attenua, gli è per tornare più forte quanto, costretta a dissimularsi, fu contrariata.

L' aristocrazia tedesca burocratica e militare, per quel tanto che si associava dunque alla nostra, parve le divenisse sorella. Già i ceti superiori sociali tutti si assomigliano negli usi e nelle inclinazioni, nelle virtù, nei vizî e nella superbia. Ma poi, a forza d' attriti accidentali o voluti o subiti, venne dalle due parti maggiore conoscenza scambievole. La nostra gente sempre più scorse, e prese in uggia i difetti della gente forestiera, che doppiamente la dominava. Sentì la loro cocciuta pedanteria, massime in materia d' araldica: avvennero piccoli incidenti. Una dama nobile di quattro quarti stava una sera alla banda in piazza: le siede accosto un' altra nobile di tre quarti soltanto, o giù di lì: la prima si leva dispettosa e va lontana; la cosa fece chiasso, e i commenti passionati del pubblico furono fra i mille atomi del pulvischio rivoluzionario, pronto a incendiarsi al primo raggio di sole.

Già allora il dominio della moda prevaleva terribile. Tutto il Veneto seppe della giovane sposa d' un macellajo, che per contendere il primato di eleganza alle dame, andò in rovina. Si raccontava d' un vestito famoso tutto sparso di camelie, tenute da brillanti, con cui la bella ambiziosa comparve all' Apollineo, gemme che, come tutte quelle del lusso, si conversero in lagrime.

Dall' altra parte i forestieri, tenaci ai loro difetti, e diffidenti delle nostre buone qualità, essi a cui dal nascere si dicea l' italiano essere falso. Come noi da piccini in su udivamo ch' e' son tangheri, barbari: i forestieri dunque, vedendo un mutamento delle relazioni dianzi amichevoli o almeno pacifiche, tanto più si persuasero che noi si valeva pochissimo: che siamo anzi fanatici, leggeri: oggi agli osanna, domani al crucifige, adesso ci buttiamo via, idolatri per gli oggetti d' uno smodato entusiasmo, per domani respingerli ed aborrirli. Quello poi ch' è curioso, e merita speciale studio fisiologico, si è che in noi le scoperte sgradevoli generavano avversione e allontanamento; in loro accrescevano gli affetti, voglio dire, la rabbia del possesso.

S' intende che io parlo del quarantasette, perchè prima la era una calma splendida, o dirò meglio ancora, letale. Chi conosce Venezia sa cos' è; per chi non la connosce torna inutile la descrizione. Eppure l' attitudine di questa serva-regina la quale, in tresca lusinghiera col soldato, che la offese, s' è cambiata a grado, dì per dì, ora per ora, talchè egli se la trovò al fianco guerriera e vendicatrice, meriterebbe studio anco questa. Una città molle, effeminata, una popolazione tutta feste e tutta sagre!… Bisognava in quegli anni veder le regate, i baccanali! … Una gioventù, che pensava, quel poco che la stesse desta il giorno, come serenar la notte!… Prima d' addomentarci, noi altri di terraferma, nella stagione dei bagni, udivamo quei cori, quelle barcarole giojose nelle belle sere splendenti; le voci fresche dei giovani, usciti dai teatri, ripetevano intonati e spontanei le arie, apprese a orecchio. Un trimpello di chitarre e di pianoforti lungo i canali… e qui danno suoni particolari e d' un misterioso attraente.

Tutta la poesia di Carrer è inspirata a quegli anni. La biondina in gondoletta: un' altra che cominciava: Quando penso alla Marietta, bellissima canzone col ritornello, una sola me innamora e' l pericolo è passà, ritornello che dopo il ritmo vivace e quasi di scherzo delle strofe, passava ad una cadenza languida e tutta passione… talchè a sentirlo allora, ma più a ricordarlo adesso l' anima ricorre col pensiero ad una gondola e ad un barcajolo, il quale curvo sul remo si dilegua pei meandri del rivo. Queste son le note fondamentali di quella vita. E poi da un momento all' altro il barcajolo-trovatore getta il remo, sfodera il pugnale, salta alla gola d' Oloferne inebbriato dalla musica e dall' occhio della sua Odalisca…

Qui alle memorie cittadine innesto una famigliare, perchè ad entrambe essa appartiene.

Un bel dì, nell' agosto di questo anno 1847, mia madre venne a Venezia per passare una giornata con suo figlio Ottaviano: gli altri due, Alvise e Giovanni, li vide ai Congressi di Napoli e di Genova, dove si passarono lieti giorni.

D' Ottaviano ella non conosceva ancora la giovine famiglia, ed egli, appunto per fargliela vedere, cordialmente la invitava e la attendeva. Fu in questa bella congiuntura che ci trovammo la prima volta tra fratelli, e il modo nobilissimo con cui Ottaviano ruppe quel ghiaccio m' ha lasciata impressione indelebile di tenerezza e di gratitudine.

È ben vero che un sacro vincolo ci univa, ma tanto sono crudeli i discernimenti del mondo che l' animo più vivace, più aperto può, stimandosi in condizione inferiore, tenersi indietro per tema d' esser disconfesato e respinto. Ma non basta. Allora la nobiltà manteneva il suo prestigio, specialmente se ricca e pura da male alleanze, talchè v' avea un abisso tra una famiglia, si può dire, principesca e quella d' un semplice borghese che, da borghese, provvidamente la manteneva. Ottaviano non era un ragazzo scapolo, ma padre-famiglia, marito ad una delle più illustri dame di Vicenza, e non è punto a stupire se si stava in soggezione, quasi in faccia ad un estraneo, come se il vecchio avo marchese sporgesse fuor della tomba la mano a tenerci divisi. Eppure io particolarmente desiderava tanto di parlargli: lo sapeva pittore brillante, me lo immaginava della mia passione per l' arte, del mio slancio nel sentire, e nel carattere, colle stesse qualità e cogli stessi difetti.

Tutte queste cose, ch' io tocco di volo, fecero sì che quando Ottaviano mi venne incontro, e mi domandò manieroso ed affabile perchè gli dessi del lei, e mi disse che lo trattassi da fratello, e che sempre m' aspettava nel suo studio, e lo preparava sapendo che anch' io dipingeva, allora non gli potei rispondere perchè le lagrime me lo impedirono…

Eravamo sul molo, il resto della famiglia attendeva in omnibus: tutti beati e più di tutti la mamma.

Poco dopo Ottaviano venne a Treviso e mi fece da maestro. Di quel poco ch' io so in arte molto devo a lui, che avea intuizione squisita. Nè mai, indipendentemente da ciò, la sua affezione si è smentita fino al giorno in cui pur troppo, immaturamente, nel funesto anno della pace di Villafranca, ebbimo a perderlo.

Anche nelle lettere mi die', senza volerlo, un indirizzo; ei parlava di raccozzare un libro d' arte. — Come lo scrivi? — domandai — Come si parla — rispose. E quello che lui ha detto procurai sempre di fare.

Qui parendomi bene unire alcun cenno biografico di questo caro, dirò innanzi tutto della sua arte. La pittura apprese dal Bellio, professore a Vicenza, e se desse prove stupende mostrano un suo ritratto autografo, da me posseduto. Una copia del celebre ritratto del marchese Sale, opera di Busatto, di cui parlai ancora; il ritratto della contessa Laura da Porto, sua moglie e un altro della stessa colle due bambine; gruppo insuperabile per naturalezza, vivacità e somiglianza. Molti altri lavori, fra' quali il più bello una testa di donna a imitazione di Felice Schiavoni, rappresenta la malinconia, ed è per espressione e per fattura sublime. Questa appartiene alla nobile signora contessa Anna Morosini in Michiel, per la quale fu da Ottaviano dipinta. Qualche quadro di genere compose e con gran verità. Pur troppo non tutti i lavori che incominciò li ha terminati: e taluni, sia la fretta di dipingere innanzi che ben asciutti, o la poca cautela e parsimonia nell' adoperare i disseccanti, andarono guasti, ed è peccato perchè non vi è in essi pennellata che non valga.

Il ritratto suo specialmente, è bellissimo: pare di Rembrandt. Disegno franco, virile; ben condotto a gentilezza di modellatura e d' impasto, pieno di trasparenza e di luce. Si dipinse com' era in quegli anni: fisonomia nobile, lunghetta: naso aquilino dalle narici mobili, fine, in cui tutto esprimeva le generosa indole: la incassatura dell' occhio profonda, espressiva, intelligente, e dolce. Avea gli occhi di sua madre castagni con una punta di foco: come ne avea gl' impeti, gli odî, gli amori. Capelli d' oro e il bel sorriso, appena segnato sulle labbra sinuose e di vivo carmino, che alla nobiltà dei lineamenti dava una significazione tutta ingenuità e placidezza.

Irresistibile quando volea affetto, passava alla noncuranza ed alla avversione senza misura.

Di cultura ricchissimo, sapea di tutto, senza che si sapesse dove e quando studiava, parendo anzi non curante d' ogni cosa fuor che dipingere o lavorare di fotografia. Primo a sentire aspirazioni di libertà non fece mai nulla per mettersi in vista: nè discorsi, nè stampe, nè dimostrazioni per apparenza, ma diede tutto, anima, quiete e sostanze. Portava nell' idea patriottica e popolare la ferrea ostinazione d' un patrizio del medio-evo. Questo mi fa supporre che, a sua insaputa, egli sotto alla schietta democrazia, covasse un fiero e veramente legittimo senso d' orgoglio del proprio casato. Che fremesse di vedere la sua stirpe indossare la livrea d' un governo straniero, là dove, servendo il paese, rifulse padrona.

Ciò mi conferma che, sebben democratico fino al socialismo, pure in cose delicate sapeva non contraddire, discernere. Le figlie volle educate coll' antica severità, da una brava donna, già istitutrice in casa della duchessa di Berry, il corifeo dell' aristocrazia. Pregiudizi e politica a parte, v' ha nella educazione cristiana un principio d' ordine, di virtù, di eguaglianza vera, e a questo pensò Ottaviano a cui, come ai giovani liberali di talento, le donne libere piaciono fuori di casa.

Quanto a lui era semplice, alla mano, buttato là, senza ninnoli, e soprattutto senza eleganze forestiere. Eppure qualunque straccetto d' abito indossasse, il primo che gli capitava alle mani, gli stava a pennello; in lui sempre si vedea il gentiluomo, ma più di tutto a cavallo.

Ci sarà certamente a Vicenza chi lo ricorda in quegli anni. Solea montare una cavallina araba di pelo bianco, lucente come raso; chi lo vedea passare per quelle vie leggero e bilanciato in sella, fermo in arcioni, premendo colla punta dei ginocchi i fianchi della focosa ginetta, non sapeva se fosse lui a sollevarla da terra o essa a portarlo, tanto volavano tutti e due come piume. Oh! egli amava assai cavalcare; nel 48 avea organizzata una guardia nazionale a cavallo; all' ultimo tempo della sua vita, non potendo più montar lui, guardava gli altri in cavallerizza, e solea dire che morrebbe a cavallo. Dalla sella al cavalletto come Azeglio, secondo ho notato in altro libro. E ci ho anco notato doversi deplorare che, costumato al lieto vivere ed alle abitudini della ricchezza, egli non potè scendere, intendo salire alle regioni dell' arte o del lavoro. Mettere con maggior serietà l' anima sua in un solo concetto, in una vita sobria e contenuta, per conservarsi a sè, al suo gran nome, al paese che ne farebbe ora tanto pro.

In vece egli potè dire, soltanto, come il maresciallo di Sassonia — la vita è un sogno, il mio fu corto, ma bello!

Questo è dunque fra la mia gente il secondo caro perduto: primo fu lo zio Giuseppe l' anno innanzi: per la stessa intensità di sentire ma diversamente applicata. Troppo serio questo, non abbastanza quello. Perciò i tesori nella gioventù sono inutili senza una savia misura, ed io prego gli adolescenti di ingegno e di cuore, che mi leggono ad avere questi tipi davanti, perchè due più squisiti io non potrei offrirli ad ammirazione ed esempio. Non chiuderò senza avvertire che la sposa di Ottaviano fu quella bella giovine contessa Laura da Porto, che morì nel 1862, quattro anni dopo il suo caro marito, per essa Iacopo Cabianca scrisse quella bella canzone:

Gran Dio! non vidi io stesso, Occhi miei, sarà lungo il vostro pianto,

e oltre non cito, converrebbe copiarla tutta. Mai la musa del poeta vicentino seppe creare più mestamente nobile, e più altamente espressiva elegia, senza perdere l' usata compostezza ed eleganza, parendo anzi più bella e nuova in un forte sentimento di vera affezione.

Nelle antologie future la starà bene accanto alle canzoni di Leopardi e di Romani, proposta qual modello di squisita fattura e di egregi pensieri.

In quest' anno nacque al caro barba Giovanni un figlio che in memoria dello zio perduto, si chiamò Giuseppe. È quello che, ancor fanciullo, scoperse da sè il modo di ageminare, quasi perduto, e dotò il nostro paese di un' industria nobile quanto rara.

Ripiglio i ricordi cittadini.

Nell' estate del 1847 ci fu Cobden a Venezia e il partito liberale gli offerse un banchetto; la polizia subodorando i gran discorsi, che verrebbero fatti all' inclito uomo di stato inglese, e niente persuasa dello stile a cui s' informerebbere, mise due bande ai lati nella sala del banchetto: le quali, or l' una or l' altra sonavano: quando si fu ai toast e a quei brindisi in cui gli anfitrioni, volevano dire ciò che tutti sapevano ed aspettavano, ecco la banda prontamente a dar di fiato alle trombe. Con questa mistificazione la censura si liberò dall' uggia di quei discorsi pericolosi, e nessuno poteva lagnarsi … nei suoi bei giorni la polizia austriaca, tant' e tanto, un po' di malizia la ce l' avea.

Del congresso dirò poco, e il poco di cui fummo testimonî; fra gli altri un aneddoto.

Ogni giorno s' andava al palazzo ducale, nella sezione di geografia e archeologia, sezione tranquilla, modesta, studiosa. Sempre gli stessi compagni fedeli, l' illustre naturalista Gröberg de Hömsö e sua figlia, quell' aurea persona del conte da Schio, il povero Nicolò Erizzo, la contessa Maddalena Montalban-Comello. Solita a brillare nei palchetti della Fenice, all' Apollineo, alle splendide veglie della nobiltà veneziana e ci parea strano trovarla in quel ricinto severo. Ma la ci stava di buona grazia e con noi, sebbene d' un mondo tutt' opposto al suo, la si mostrava piena di gentilezza; fu là ch' ella cominciò la brillante carriera politica, continuata in carcere e che a lei diede agio di esercitare un ascendente simpatico al publico e utile alla causa, poichè ogni valore aggiunge a una gran somma.

Una mattina però la pacifica sezione d' archeologia e geografia venne turbata da un curioso incidente. Un signore, il quale già si fece notare per una certa esagerazione e violenza di linguaggio, quando sosteneva qualche dì prima che — il municipalismo è morto — questo signore vedendo scartato un certo ordine del giorno uscì fuori per la seconda volta dalla sua tranquilla attitudine, e incrocicchiando le braccia, e fissando superbo l' assemblea intimò con voce terribile:

— Sull' ordine del giorno ho diritto di parlare!… Certamente quell' ordine del giorno si credeva pericoloso, e da ciò proveniva lo eliminassero, perchè i germi di ribellione si moltiplicavano nel congresso e più assai in quella stanza.

Un rumore confuso, un sgomento, un misto di segni … chi approvava, chi no: visi bianchi, occhi spauriti che guatavan la porta, d' onde potean venire a ristabilir l' ordine, certi scienziati, coi mustacchi unti di sego, dai calzoni stretti e con in pugno argomenti irresistibili …. ossia i Croati, che c'erano in realtà. In mezzo alla confusione l' ignoto furioso badava a replicare: — che sull' ordine del giorno avea diritto a insistere — nè bastarono le preghiere della moglie, che lo tirava pel soprabito, lo supplicava, piangea, come fan le mamme coi figli…

— Chi è, — fu chiesto — chi è quell' esaltato, quel demente, che vuol cozzare con l' autorità?… — Gli è un avvocato: un tal Manin, che lavora pochissimo. Oh! una testa calda … tutto il dì legge romanzi, e fa d' occhietto alle belle giovani. —

Chi gli avesse risposto a chi parlava così: quell' uomo, quell' avvocato senza cause, quel lettore di romanzi, guardalo!… perchè egli di qua poco farà niente meno che queste memorabili cose.

Si alzerà per proprio impulso sul volgo schiavo e su quello patrizio, conquisterà inerme un arsenale imprendibile; gloria della borghesia, manterrà alto il nome di Venezia, fra la miseria ed il sangue, morirà in esiglio dopo vent' anni, lui e la sua famiglia. Tutta Italia gli farà onore e nel corteggio de' suoi funerali si vedranno i gelidi tipi delle valli Alpine, e le faccie africane di Sicilia. Tutte le bandiere saranno abbassate sul gran passaggio, ma egli non vedrà quella che innalzò nell' impeto primo perchè, in tal trionfo da re, non esulteranno che le sue ossa umiliate!

Allora nella generalità queste confidenze sarebbero riuscite propositi da pazzi. La gente, ancorchè per un principio di moda liberale, pensava molto ai baccanali di Lido, ai Ridotti, e più che al soggetto patriottico della Giovanna d' Arco, badava alla Lagrange e ai point d' orgue con cui la innamorava il publico della Fenice.

Del resto i giorni bruschi non si limitarono a questo di cui ho accennato.

Ci fu la chiusa della sessione: e un discorso di Cantù, il quale in tal giorno fu l' eroe, il leader, il portavoce del liberalismo. Fiquelmont chiamò quel discorso scintilla di rivoluzione, e l' entusiasmo fu tale e tanto che convenne trasferirsi dalla solita aula, troppo piccola, alla sala dei Pregadi, atta a contenere tanta gente, e gente entusiasta, che applaudiva frenetica. Fu una bella ora, di quelle che consolano un galantuomo e devono dargli forza a non lasciarsi mai vincere dall' ira per l' ingiustizia umana.

L' anno prima i Genovesi furono ingiusti verso Cantù, e noi ne soffrimmo. Amici suoi da tanti anni, riconoscenti per la bontà con cui ci trattava, per la imparziale attenzione che, a differenza d' altri Lombardi, prestò al Veneto; ammiratori di lui come grande scrittore, ci pareva che nessun difetto personale, autorizzasse tale animosità; e che d' uno, il quale, ancor giovane, fe' passare in rassegna i secoli, portando così il nome italiano fuori d' Italia, si dovessero dimenticare gli errori delle opere, imperfezioni o mancanze.

Ma quel benedetto uomo con tanti talenti mai non ebbe quello di farseli perdonare.

Appena ritornati a Treviso vi udimmo una novella inattesa. La morte dell' arciduca Federigo, che alcune circostanze rendono interessante.

Federigo, arciduca d' Austria, comandante in capo della marina austro-veneta; cresciuto e vissuto quasi sempre a Venezia era amato qui per la bontà sua e per quella del nostro popolo.

Quando un principe non è assolutamente altiero e sprezzante, quando i suoi costumi non sono del tutto apertamente corrotti, se diffonde qualche elemosina se fa qualche bel tratto, e soprattutto se non manca di salutare affabile, ciò è sufficiente perchè tutti gli vogliano bene, perchè tutti dicano — oh! gli è buono, una degna persona, un gran principe.

Qualche luce di gloria irradiò anche nei primi passi della sua vita marinara il principe: sebbene i beffardi, per partito preso denigrassero quella fama, spargessero o descrivessero una caricatura, nella quale il preteso eroe si mostrava in poltrona, col ventaglio in mano davanti S. Giovanni d' Acri.

Taccia di mollezza non credo che il principe la meritasse; anzi lodavano la sua riserva e perchè stava ai consigli d' un anziano, il Dandolo, e ne rispettava, reverente, la consumata esperienza e il gran nome.

Più della gloria che i tempi assai poco favorivano, sorrideva all' immaginazione di Federigo l' amore: e se ne colse soltanto gli spini, ciò si deve più che altro alla malvagità delle istituzioni sociali, dacchè pareva nato a sentir nobilmente.

Il principe fin da primi anni avea locato il suo affetto in una fanciulla di gran casato, tedesca, d' antica origine italiana, di ricco censo e della più eletta educazione. Ognuno fra coloro che vissero in quegli anni a Venezia ricorda la leggiadra apparenza d' una giovine dama, quale si dipingono le visioni aeree del Walhalla d' Odino. Non è meraviglia se il principe ne invaghisse, e sperasse di veder corrisposto un affetto in cui non poteva esserci ombra di male.

Però l' alta corte di Vienna, sapendo il principe tenero di cuore, temette non cadesse nel massimo degli errori, e facesse sua davanti a Dio una giovine onesta a cui volea bene. A evitare dunque per sempre la mala alleanza fu ingiunto al principe di prendere gli ordini come ballì dei cavalieri di Malta, ai quali è prescritto il celibato. Si svagasse Sua Altezza in cento altre maniere; niente lo vietava. Feste, lieti convegni, amori appena sfiorati senza impegno e senza interesse, a edificazione della morale e dei buoni costumi.

Perduta la speranza di consacrarsi ad un puro affetto, secondo l' elezione del cuore, il principe si die' troppo al lieto vivere: o troppo ai faticanti esercizî del suo stato. Certamente delicato di complessione, soggetto anche fin dall' adolescenza a malattie mortali, da un momento all' altro Federigo cadde infermo: e appena colpito, sebben di lieve male, poichè si trattava d' itterizia, ei si tenne perduto.

Sogliono i signori di case regnanti dare importanza alle loro famiglie in ordine ai grandi eventi del mondo.

L' arciduca, vinto da una segreta oppressura, presagio di morte, e vedendo un misterioso legame fra questo fatto e quello di cui da poco, nella medesima sede del suo regno, era spettatore: (ognuno sa cosa toccò all' arciduca Ranieri), Federigo confidò ad un suo famigliare che qualche imminente danno si preparava all' Impero, essendo nelle tradizioni di famiglia che quando un giovine arciduca muore, la casa d' Austria minaccia rovina; e ch' egli vedea in sè medesimo, fragile ramo divelto dal tronco, il segnale che l' antica pianta stesse per cadere. Ciò contribuì a rendergli più tetri gli ultimi giorni, e più penoso il morire.

È dunque ben naturale che gl' increscesse il distacco dalla vita, e con alto rammarico vedesse dal suo letto di morte le immagini seducenti, use accarezzargli i sogni, allontanarsi come belle figure dai loro quadri, col furtivo sorriso di chi nel ritirarsi invita.

Assicurano coloro che assistettero l' arciduca nella sua agonia che quando gli amministrarono il viatico, accompagnato dalle cerimonie prescritte per un arciduca, ballì dell' ordine gerosolimitano, ammiraglio, ossia con pompa mezzo ecclesiastica, mezzo militare, fra la luce delle torcie ardenti, fra le turbe in ginocchio attorno il suo letto, Federigo non nascondesse la sua commozione, e sospiri profondi gli uscissero dal petto, misti ad esclamazioni, ad invocazioni a Dio — (allmächtiger Gott! ewiger Gott!). — Sicchè tutti piangevano.

Tutti, fuor che un solo, che conservava, a quanto si disse, asciutta anzi arida la pupilla, e mostrava più che la impassibilità austera del marinajo, la ruvidezza d' un' anima chiusa ad ogni affetto, aperta solo all' invidia. Marinovich, taluno pretende, mosso da gelosia per l' alto grado del principe, a cui forse aspirava, Marinovich in grande assisa, la mano sull' elsa, alta la testa, fissando con occhio imperterrito il regale moribondo lo ammoniva:

— Vostra altezza vide la morte sul mare in battaglia. Vostra altezza deve essere abituata all' idea di morire, come si conviene ad un arciduca, ad un ammiraglio di marina.

La mente non può fare a meno di riflettere, dato che veramente quell' uomo accogliesse nel profondo del cuore idee d' invidia e di cupidigia … Infelice, e dopo non ancora sei mesi tu la dovrai vedere la morte, tu stesso, ma non sul tuo letto, circondato dai conforti della religione e dalle lagrime dei tuoi famigliari; dovrai vederla davanti ad una turba di sgherri, e riceverla non in mare, non in guerra, ma nel sommo d' una piccola torre d' arsenale, dove ti lascierai prendere come in un agguato, d' onde ti trascineran giù con uno spiedo nel corpo, e invocherai chi per misericordia, ti finisca e ti tolga ad angosce che fan morir l' anima al solo immaginarle!…

Taccio i molti discorsi, che tennero dietro alla morte dell' arciduca. Ancora nel cinquanta si accennava ad una novella misteriosa, che si credeva legata alle avventure della sua vita. Perchè, dicevano, nel dicembre del 1847 il patriarca di Venezia ebbe segreto ordine da Vienna di ritirare da un collegio di marina un piccolo allievo: il che eseguì sua eminenza, e mandò il neo-marinaro a Mestre dove lo attendeva una gran carrozza con livree signorili, e dove il fanciullo partì circondato da segni di rispetto. Interrogando il patriarca su quest' avventura, aggiungono mormorasse: quel giovinetto essere di sangue reale. Ma se tutto ciò sia pretta invenzione di fantasie scaldate, io non lo saprei decidere.

Treviso nel 48 - Morte della sorella di Manin - Fattl
terribili - Il podestà Olivi - Concerto di bombe e uno
peggiore di campane.

Treviso solea il dottor Bianchetti denominare la Focide, ossia la piccola Marsiglia del Veneto, così gli spiriti vi sono ardenti, i caratteri esagerati, pronti all' entusiasmo ed all' abbominazione: nè la bontà è minore della forza, anzi è all' altezza sempre della passione. Per originali son dessi!… V' ha chi pretende che la gente più grave, più seria non manchi d' un piccolo ramo d' estro poetico; il che vale ch' e' son matti un tantino. In verità la cosa è stata detta, ma se ciò sia non è qui il luogo di decidere. Questo peraltro non esclude nel trevisano grande finezza, accortezza squisita e una certa flèmma, che li rende di prima forza nei traffici, e mantiene in diffidenza la gente dei territorî vicini, quando si trovano con loro sui mercati.

La nobiltà, che diede campioni, nei Spineda, negli Avogadri, nei Panigai è da gran tempo quasi distrutta: la borghesia non raggiunse ancora il grado di coltura, che la moderna civiltà le prepara, ma ha molto ingegno naturale; il mal costume non potè mai porvi radici, ed ciò è fortuna, perchè in un paese, che va in tutto agli estremi, sarebbe riuscito spaventoso.

Nel popolino si concentra tutta la originalità, tutto il colorito della intiera famiglia. Vivaci, arditi, pronti di lingua, ma non ignavi del braccio; capaci d' un delitto, ma difficilmente d' una viltà, forti e snelli son gli uomini. Belle per lo più le popolane; capelli abbondantissimi, corvini: forme sculturali; voci maschie da contralti, ma che fan più care le inflessioni soavi; gesti risoluti e passo da scena. Fatte per crear figli maschi, queste transteverine del Sile, danno un bel contingente alla patria, come abbelliscono col sorriso d' una ingenua bellezza la loro contrada. La figura plastica e viva, pomposa e battagliera, modellata da Luigi Borro a rappresentare la provincia di Treviso, nel monumento ai martiri, è la sintesi scolpita di quel tipo magnifico.

Cosa divenisse l' idea nazionale in paese siffatto si dimostra da sè. Lunga pezza muggì il temporale, ma dopo il Congresso di Venezia, prese un' andatura determinata al suo definitivo sviluppo.

Si rappresentava con una discreta compagnia di cantanti l' opera i Lombardi, la quale ha in sè un che di di religioso, non del tutto etereo, ma che prende la sua sostanza dal fatto d' una conquista materiale, ispirata da alti sentimenti. Quel vedere espresso, in vece che coi soliti amori di convenzione, l' entusiasmo d' altri popoli, a noi non peranco estranei, commosse il publico di Treviso, che in quei guerrieri devoti, a capo scoperto, coll' elmo a terra, davanti l' attesa aurora del riscatto d' una tomba sacra, vide la nuova Gerusalemme, la sua Roma, sè stesso, l' aspirazione segreta dei secoli, il suo ardente sospiro.

Ogni sera il coro: O Signor, che dal tetto natio, dove c' è quel verso Noi siam corsi all' invito d' un Pio, in cui si scorgeva un' allusione, era accolto con novo furore e se ne domandava la replica; finita quella, un' altra, e poi ancora, fin che il teatro divenne l' arena d' un vero duello a morte fra popolo e autorità governativa.

Il teatro, finita la stagione del s. Martino, si chiuse, ma allora si apersero le prigioni, e uno dei primi imprigionati fu Daniele Manin; ciò mi dà tristo argomento ad uno dei più nobili ricordi famigliari e storici di queste pagine, perchè il solenne funerale della signora Ernesta Viezzoìi fu uno dei punti salienti della rivoluzione in Treviso.

Daniele Manin avea tre sorelle: la signora Arpalice, moglie al valente pianista Fanna, madre di bella prole. La Ildegarde, bellissima donna sopra quante ne furono; bellezza molle, bionda, ricca di carnagione, quanto fervida e fiera nei sentimenti. Del suo nome appena alterato, Prati compose il bel poemetto: Edmenegarda. La signora Ernesta, moglie a Girolamo Viezzoli, nota per sublime altezza di affetti domestici e religiosi.

Tutta questa famiglia possedeva qualità notevoli; si distingueva per qualcosa che la mettea fuori del comune: sia per la bellezza, sia col prestigio della pietà o delle passioni, o per grande orgoglio, che più d' uno e soprammodo la nobiltà fastidiva.

Parlando della signora Ernesta, cara, benevisa, rispettata da quanti la conoscevano, vivea essa nel nostro paese, da molti anni stabilita col proprio marito, dalmata di nascita, al quale la tenevano stretta, oltre i vincoli conjugali, comunanza di aspirazioni religiose, di cultura, d' arte e specialmente di musica. Un pajo di giorni la settimana tutto il meglio della società di Treviso si raccoglieva alle veglie di casa Viezzoli; ivi si sonava, si cantava. Davan l' esempio, e della più buona voglia, i padroni, e nessuno può dire in quel geniale convegno, spesso cambiato in vere accademie vocali e istrumentali, o in balletti vivaci, quantunque intimi, nessuno può descrivere la discreta gajezza, la bonomia cortese e in uno composta, a cui dava il tono la stessa affabilità di quella famiglia ospitale.

Ciò concerne soltanto le relazioni dei signori Viezzoli col paese: quelle di loro l' uno verso l' altro, è impossibile riferirle, perchè il cielo chi mai ci riesce a dipingerlo? Un vivere riposato, un accordo come quello soave difficilmente s' incontra sulla terra: eran due anime, intrecciate con bel nodo saldissimo in un' anima sola: e nemmeno la mancanza di prole bastava a ottenebrarne il sereno, dacchè ai due veri cristiani mille modi s' offrissero di esercitare nella carità, nella protezione dei nipoti quel di più che il loro cuore avesse dato ai figlioli.

Simile pienezza di felicità nell' affetto parve certamente soverchia, a chi misura il bene ed il male alle creature umane.

Un giorno, qualche anno prima di quello a cui tocchiamo in queste memorie, si trovavano in viaggio, poichè spesso le due rondini pellegrine migravano a visitare le città italiane e aveano in compagnia, degna di loro, la Rosa Bortolan; la signora Ernesta fu sorpresa da un male, che lasciò sospettare una paralisi, o qualcosa di analogo e sommamente pericoloso.

Ritornata in patria subito si rifece, e parve sparisse quella fiera minaccia. Ma il pugnale del dubbio oramai stava infitto nel core di Viezzoli, che non ebbe più pace. Possedere una donna così rara: amarla, riverirla, tenerla condizione unica di vita e prevedere di perderla, eco uno di quei segreti martirî, ignoti all' inferno.

Perchè in ogni altra pena egli poteva confidarsi a lei, averne conforto; mentre in questa supremissima cura bisognava simulasse il contrario, e ridesse col sospetto nel cuore: ciò che a lui schietto, anzi talvolta burbero, gli riusciva male … La guardava, la interrogava — e come stai, come ti senti … — un continuo martirio. E tanto da accrescere i tormenti della signora Ernesta, alla quale, sebben religiosa, sapeva amaro morire … Oh il puro affetto che le abbelliva una così onorata esistenza, la teneva legata alla terra … Questo è il premio d' una vita felice!

Con tutto ciò a forza di cure, di svago; le parole amiche dei conoscenti, è dei congiunti; soprattutto quelle della Bianca Rebizzo, venuta apposta a Treviso per tenerle compagnia, come durante il Congresso di Genova andò la signora Ernesta col marito alla Villetta del Bisagno, per respirare quelle arie, e ritemprarsi all' affetto della sua degna ospite… Nonostante tutti questi rimedì morali e fisici la signora campava non bene, sperando il meglio, e con lei tutti quelli che l' amavano.

Quando da un momento all' altro giunge a Treviso la nuova che Manin fu messo in prigione, Viezzoli colpito, sgomento e per l' affezione sua verso il cognato, e per la diletta Ernesta, risolve di tacere. Allora in Treviso si leggeva generalmente la Gazzetta di Venezia, nella quale non si stampava che quanto paresse buono al Governo.

In questo caso non credo che la Gazzetta desse nessuna, sebben lontana novella.

Facile riuscì dunque, per un certo tempo, mantenere il segreto … intanto chi sa? Daniele uscirebbe di carcere, la signora Ernesta sarebbe condotta dal marito a Venezia, dove lo stesso fratello le racconterebbe in tono semi-burlesco le sofferte vicende …

Viezzoli avvisa tutti chi può; fa avvisar cui non arriva, e per un poco tutto va secondo i suoi provvidi consigli. Ma col progredire dei giorni cominciò tale una angoscia nel core di quell' uomo, custode d' una vita così preziosa, che più non resse. Ogni persona ch' egli, uscito colla signora Ernesta, incontrava, eccolo a tremare o ignorasse il divieto o non vi ponesse più mente. Facea il viso dell' arme, corrugava il cipiglio, accennava badassero a chi gli stava a fianco: e non si rimettea di quel tremito, fin che non si trovasse oltre a scampare il pericolo. Così d' ogni lettera, d' ogni carta … insomma un batticuore d' ogni minuto, e tanto che a far cessare tale situazione insopportabile bisognò risolversi e dire alla sorella il pericolo del fratello … D' un fratello, ch' ella tanto amava … e chi non amava ella quella santa, che passò sulla terra niente altro che per lasciarvi memoria di affetti celesti? Fu chiamata la signora Arpalice; la Ildegarde da Venezia, il chiarissimo Parolari, l' autore delle Nozze cristiane, altro amico di quella eletta famiglia: la Caterina Bernardi, tenuta in conto di figlia dai Viezzoli: e, dopo una opportuna preparazione, fu detto alla signora Ernesta l' imprigionamento di Daniele. Ella immaginando bene da quei preparativi quanto to tremassero tutti, e il suo caro consorte sopra gli altri, di vederla sgomentarsi, la si contenne. Fe' mostra di credere cosa di poco momento il processo: si sforzò di mantenersi non ilare, ma almeno tranquilla: al che tutti plaudivano, senza sentirsi niente sicuri essi medesimi. Giunta l' ora del pranzo sedettero e fu manifesta in ognuno dei convitati la mira di discorrere e distrarre l' attenzione dal terribile soggetto. A un certo punto la signora Ernesta domandò al servitore — se aveva provvisto le prugne. — Il servitore rispose — no — con mal garbo. — Ella, modesta con tutti, fe' un moto come per dire — scusate. — L' ultimo atto di quella pia fu d' umiltà. D' improvviso s' udì la Caterina Bernardi esclamare — Oh! Dio ci ha preso male alla signora! —

Questo grido fu il segno d' una tragedia. La signora Ernesta venne trasportata sul sofà, le fu fatto quello che umanamente si può fare nei casi disperati. Mai più la die' segno di vita. Viezzoli la chiamava con voce tonante, da svegliare i morti: niente valse… nè gemiti, nè pianti; le punsero la vena, la cauterizzarono a foco vivo … Nella notte, quando fu certo dell' irreparabile sventura, e non si udì più nemmeno il rantolo dell' agonia, Viezzoli disse a voce alta alcune parole così gravi, che destarono un senso profondo. Riflessioni sulla vita, pensieri che esprimevano sublimi idee. Pareva inspirato, e che l' anima della sua donna passasse momentaneamente in lui. Ma fu l' ultimo lampo fuggevole, e da allora in poi la mente di quell' uomo grado a grado si spense. Negli ultimi anni, avvilito, quasi imbecille, non pertanto anco in mezzo alla sua povera intelligenza, nel limbo del cervello annebbiato, conservò un culto geloso alla memoria di quella creatura angelica. Ne possedeva in due segni delicati, schiavoneschi; un profilo a matita, ritratta che par la voli in cielo.

Io vidi Viezzoli un anno dopo in una casa dove sonavano una sublime elegia di Ernst. Nessuno gli badava. Io compresi cosa passasse in quell' anima, che ricordi, che dolori, gli andai vicino, gli dissi — ha sofferto abbastanza adesso? — Ed egli, senza poter parlare, accenna cogli occhi, coi sospiri… poi si volta al vicino e mormora — La Giggia m' ha capito.

Quando uscì di carcere Manin, egli trovò mille braccia, e mille mani plaudenti: ma le braccia della sua Ernesta non le trovò più. Ei si vide, come gli attori che devono recitare colla morte nel cuore, portato in trionfo e dovette chiuder quella ferita … Già l' uomo politico soffocava le lagrime dell' uomo privato.

Chi volesse tener conto dei cambiamenti avvenuti da quell' anno in poi troverebbe materie da poemi. Una rivoluzione la è pure un gran mutamento di scena, ma come noi, nel Lombardo-Veneto nessuno potè esserne testimonio. All' ombra d' una lunga pace, in paesi ospitali, fra gente tutta cordialità e abbandono, molte relazioni amichevoli, molte parentele si strinsero dal 15 in poi nell' alta Italia e più nelle provincie venete, fra dominatori e dominati. Ognuno può credere come quei legami on impeto dagli uni, con dispetto e terrore dagli altri, venissero infranti. Oltre a ciò, e come dianzi notai, prima del 48 la nobiltà e la ricchezza imperavano ancora. Avvenuta la rivoluzione fu dal vedere al non vedere tutto al rovescio.

Gente oscura, o conosciuta solo con disprezzo, la si cominciò a nominare: divenne importante, se ne ambì l' amicizia, se ne ricercò il consiglio: persone al contrario, le quali fino allora mantenevano un gelido contegno di superbia, respingendo gli umili, e facendo grazia agli eguali, al sentirsi poi improvvisamente involte in una riprovazione, in un abbominio odioso ma fatale ed irresistibile, cambiarono attitudine. Divennero se non modeste dimesse… le si videro implorare i saluti di chi appena degnavano d' uno sguardo.

Persone buone, amabili, caritatevoli, miti fin ch' erano in seggio, fin che il ceto o la nazione a cui appartenevano dominava, o era di' moda, divenire tutt' altre appena respinte; farsi perfide, capaci, di ogni nequizia per astio del bene altrui: invidiarci per fino i nostri dolori, e far di tutto per trarci al loro inferno. Ed oh! quanti altri spettacoli passarono davanti a noi, inconscii… Vedemmo nei giorni dell' allegrezza unirsi fra loro persone divise da un odio mortale. Stringersi la mano insieme il marito offeso e l' amante, inneggiare all' Italia con lo stesso grido cuori piagati da ben diversa piaga. Vedemmo atti magnanimi di chi con una sola parola potea vendicarsi di segrete offese, e non vi pensarono neanche, anzi soccorsero primi le persone che li aveano offesi.

Dei fatti storici non parlo. La rivoluzione di Vienna, la costituzione a noi largita, da noi accolta, perchè s' intendeva torsi da chi ne la donava, la discesa di Carlo Alberto, le legioni romane… Delle vicende famigliari quel poco che mi riuscì lo toccai nella Rivoluzione in casa, è il solo lavoro mio di cui oso parlare, quantunque più imperfetto degli altri; ma, senza togliere qui il segreto filo, che separa il romanzo dalla cronaca, posso asserire che ogni particolarità vi è scrupolosamente esatta. Una singolare attitudine fa sì ch' io in ogni circostanza della vita, e senza saperlo, ma più ancora senza volerlo, veda quanto più si presenti di notevole, anzi di caratteristico in una scena qualunque, che mi ritorna all' anima dopo alcun tempo, allorchè meno lo aspetto e meno lo desidero: e nel ritornare si presenta nel concetto per così dire tipico in cui deve esser colto dall' arte. Una parola udita con distrazione, rimasta per molti giorni confusa o meglio ignorata, erompe all' improvviso all' orecchio mentale, mi mette sulla strada del segreto d' un' anima, mi sviluppa il nodo d' un' azione, ch' io scorgo distinta. Se non la colgo bene è mio danno, se nel riferirla io traviso vuol dire che la rettorica ci si mette di mezzo, ma la prima immagine è esatta come quella che si fissa nella lastra del fotografo. Ciò fa che per quanto a bella posta e per cattivo gusto, ispirato alle abitudini della scuola barocca o romantica, io possa guastare quelle ingenue pitture, sempre qualcosa di spontaneo vi rimane, e la primitiva fedeltà difficilmente può in tutto alterarsi.

Notissimo quanto terribile è l' assassinio di Puato e dei due infelici compagni. L' ufficiale d' ordinanza, che li accompagnava a Venezia, stava in casa nostra, ci era anche parente, ossia figlio d' una Ricci maritata in Politi di Recanati, di cui fin da principio parlai in queste memorie. Egli prese commiato da noi quel giorno, e gli tardava, perchè nel popolo i tre infelici si denominavano le spie: e in un sobbollimento simile, con tanta ciurma di ogni paese, padrona della strada non occorrevano scherzi.

Stavamo a pranzo in undici o dodici fra persone di casa e romagnoli, o siciliani, credendo il nostro cugino col pericoloso deposito sul Terraglio, quando si ode una gran schiopettata — Cos' è?… han fucilato le spie…— Ritorna l' ufficiale d' ordinanza non più riconoscibile. Lui! un uomo di quella forza, un figlio dell' Apennino un atleta dai muscoli d' acciajo, venuto da Roma a capo di bande indisciplinate, ch' egli frenava col solo sguardo severo… — Cos' è?… — Il popolo ci assali, dovemmo fare fronte indietro, ci strapparono i prigionieri dalla carrozza e li trucidarono … Udimmo quindi i particolari e sono orribili.

Persona che vide la vettura, non appena voltata, al cenno imperioso della plebe, e diretta al borgo dove accadde il massacro, ci dipinse il tetro convoglio, il quale avanzava a mala pena, fra la gente così spessa, così fitta da somigliare a un solajo nero, ineguale, a formidabili onde, mosse con lentezza, ma senza mai fermarsi. Gridi nessuno: un buscio sommesso, un brontolamento sinistro come fa il cane prima che assalti; nessuno parlava, e tutti dicevano — morte!

Il nostro cugino, che li conduceva, giunto al mercato nuovo non potendo più reggere in carrozza, perchè le bajonettate divenivano sempre più spesse, e tanto che la uniforme sdruscita nel petto mostrava le gualciture, gli strappi, montò in serpe ad arringare il popolo … le vittime intanto, più morte che vive, coi capelli irti, si scambiavano sguardi paurosi; fin che si videro tratte a terra, trucidate con sevizie, delle quali venne di rimbalzo qualche orribile lampo fino a noi: e vedemmo la gente nostra, gli uomini della fabbrica, i facchini ballare squassando in aria i brandelli delle vesti, lacerate per baldoria; ai cadaveri.

Orribile spettacolo, non è vero? … eppure v' ebbe qualcosa, io dico, più orribile ancora; il non poterlo chiamar tale e manifestare la propria vergogna di quegli atti senza nome.

Inabile a contenermi, tanto più in sì legittimo sdegno, lo espressi con violenza. — Volete che Dio abbandoni la nostra causa? — esclamai … — Grave imprudenza. Ancora vedo una persona, cogli occhi ardenti, le guance livide saltarmi davanti, e agitando le misere insegne, urlare: — morte alle spie e a chi le protegge!.. — Quella persona sfogava un segreto rancore contro di me, credendo giorni prima d' essere stata offesa nel suo amor proprio e nei sentimenti d' eguaglianza, che tanto potevano allora sul popolo. Ma non vi fu nessuno che in quel frangente osasse difendermi, e contrapporre una sillaba di riprovazione a quella selvaggia parola. Se riprovazione vi ebbe la fu per me che prendevo partito, e mi scaldavo per cose in cui non dovevo entrare … Solo un ufficiale da Cervia, a noi raccomandato, mi guardò con simpatia e rammarico, e niente più. Ho molto sofferto! non tanto per me, quanto per la viltà umana, che solo a cose quiete sa mascherarsi a coraggio … Però i tempi correano paurosi, il delitto stava nell' aria, e vi si fiutava il sangue.

Ond' io osservo ai giovani che conviene mantenersi modesti, perchè può venire il giorno in cui nè ricchezza, nè gioventù, nè alterezza d' animo, nè spirito, nè prestigio di onestà valgano a superare una situazione penosa, e che ai più arditi convenga davanti ai più vili, inghiottire e tacere.

Altri cimenti fierissimi, ma grazie a Dio senza danno, passarono gli ostaggi.

E noto come in Treviso stesse la figlia del conte Nugent, baronessa Dorsee. Allorquando Nugent si presentò sotto le mura a domandare la resa, gli fu risposto: che se non si levava subito vedrebbe sulle mura stesse la testa della figlia. Il povero maresciallo fu padre, più che soldato, procedette oltre, e si congiunse a Radetzky andando per Castelfranco.

La baronessa rimase prigioniera e in un Treviso! Educata alle blandizie della più alta posizione sociale, aggentilita da abitudini di lusso e di piacere, questa gran dama, figlia d' una principessa napoletana, ammirata per grazia e originalità di maniere, mise in opera quanto sapeva di più atto ad ammansare i suoi carcerieri, e la ci riuscì con quel bel modo di superiorità e insieme di disinvoltura proprio ai gran signori; vale un tesoro, e ad essi non costa nulla. Qui però la ci potea costar cara.

A guardia della figlia di Nugent v' aveano i Siciliani, giovani venuti in piccolo drappello dalla loro isola tutta fuoco e tutta amore. Eleganti nelle forme, sebben coraggiosi al cimento, quei Siciliani parevano più adatti a poetare alla corte d' un re Manfredi, di quello che a dar morte e a riceverla. Con rispettosa deferenza trattavano essi il prezioso ostaggio, che li invitava, li trattava colla generosa gentilezza con cui li avrebbe accolti nelle splendide veglie di casa sua: recitavano versi, ne componevano: una poesia improvvisò gentilissima e toccante Luigi Sampolo da Palermo, anima eletta, quanto squisito autor di canzoni: e la intitolò, se ben mi ricordo, La prigioniera…

Tutte queste cose però le si andavano sempre più commentando malissimo dai ringhiosi mastini della plebe sanguinaria. Si dicea che i giovani si lasciassero adescare dalla pericolosa sirena straniera, che li induceva poco a poco a darle libero il varco, a tradire. Si riportavano amabili tratti, confidenze piacevoli; si trovava pessimo, che loro stessero a cantare, a sonare, mentre gli altri morivano.

La guardia fu cambiata… ma il pericolo d' un secondo delitto, sotto il mite cielo di Treviso, fu Iddio, e nessuno sa in qual misteriosa maniera, a stornarlo. Un accidente? una voce?… un po' di piova?… chi sa!

Però fuori si parlò di sevizie usate contro la baronessa. Il baron Dorsee, accampato nei dintorni, espresse un' ira terribile pei mali trattamenti a cui, assicurava, soggiacesse la moglie nella nostra città e prometteva sterminio … le novelle questa volta sbagliavano; ma fu miracolo! E qui a proposito, mi cade in acconcio ricordare in prova un altro breve fatto, di cui garantisco l' esatta verità. c'era in Venezia ritenuto in ostaggio un tenente maresciallo austriaco: abitava le Zattere, ogni giorno ad una certa ora lo conducevano a camminare: un dì fra gli altri un soldato, guardia civica, si presenta al suo capitano, e gli dice — Senta, questo tedesco, che abbiamo qui in ostaggio è un impiccio; può darci noja. più che utilità, è vecchio, il vangelo dice di ardere i rami persi, che non giovano più … o cosa ne pensa?… — e fe' un moto, che terminava la orrenda proposizione — ossia finiamolo, mandiamolo all' altro mondo! — Il capitano, uomo integerrimo, cuore d' artista, rabbrividì a tal proposta, fatta con freddezza che supponeva un fanatismo della più ostinata natura; che fare?… risponder no, pericolo, risponder sì, pericolo.. Intanto sopraggiunsero altri; ci fu da firmare delle carte, da provvedere a non so quali urgenze. Il capitano subito, segretamente fece cambiare i posti. La fiera minaccia si sfantò, e nessuno allora la seppe.

Due piccoli incidenti graziosi, sempre relativi alla nostra rivoluzione ho a riferire; e se con qualcosa di faceto s' interrompono questi orrori non sarà poi male. In piazza di s. Marco fervea una procella contro il Patriaca. Il padre Bassi, mosso da un buon sentimento cercava stornarla: egli disse: — perdonategli, non è cattivo: è la sua camarilla … — In quegli anni tale espressione spagnola non era famigliare al volgo, e vi fu chi lo frantese. Scappa fuori uno, s' appunta le mani ai fianchi urlando: — anca la camariera! … — e il chiasso ammansò quegli spiriti infelloniti.

La seconda me la raccontò Bianchetti e a riferirla ei rideva d' un gusto!… Nacque a Firenze, mentre Guerrazzi esortava il popolo a partire per la crociata e impedire il ritorno degli Austriaci, invadenti … — Verranno i Croati! — dicea quel sublime oratore con angoscia e con forza — verranno i Croati, si porteranno via le vostre figliole, le vostre mogli…— Un fiorentino, spirito bizzarro, lo interrompe — Oh! si portassero via la mia!— e la esclamazione manda tutti a casa, in mezzo alle risa.

Nessuna facezia valse a stornare pur troppo l' attentato nel palazzo Quirini. Monsignor Plancich, uscito allora da Venezia, ci descrisse quel giorno, e l' ammiranda attitudine del Patriarca. Egli, inginocchiato davanti al Crocifisso, aspettava la morte, e pregava pei suoi offensori. Oh! non è un tratto sublime questo, e non commove immaginarsi il povero vecchio in tal punto supremo! Perchè, autocratico e codino, i suoi dolori non sono meno sacri… egli era uomo infine!… La grandezza gli veniva dalla tradizione cristiana, che dà veri eroi e non da teatro!

Ritornando a Treviso, fra i ricordi uno de' più cari è quello in cui vidi Azeglio; e fu in un giorno che il duca Lante di Montefeltro, e il generale Durando passarono una rivista militare, fuori di porta s. Tommaso, in faccia ai passeggi, di cui, per ordine del nostro cugino Politi, si erano allora tagliati gli antichi bellissimi tigli. Ci riconobbe Azeglio? fra la moltitudine, che ammirava entusiasta quel brillante stato maggiore, davanti al quale sfilarono in bell' ordine Svizzeri, granatieri, volontarî, guardie nazionali, riconobbe gli ospiti della villetta? … Io non lo so. Certamente a me egli parve tutt' altro. Non più curvo, malinconico, l' occhio velato e mezzo coperto, come quando, seduto sotto la bella pergola del giardino Di Negro, mi faceva quel malinconico discorso, circa ai conventi, e sulla necessità di lasciarne qualcheduno ad asilo delle anime afflitte.

Montato in vece sopra un bel cavallo sauro, fermo in arcioni, stivali alla scudiera, cappello a due punte di cui il vento squassava le penne, Azeglio guardava le coorti sfilare sotto a' suoi occhi: le contemplava in sussiego, ma pien d' animo, frenando il cavallo impaziente, ma più ancora sè stesso, perchè l' entusiasmo dell' artista non gli facesse perdere l' appiombo del soldato.

Egli avea dunque ciò che gli rianimava la vita, e delle tante sue incarnazioni quella mi apparì la più splendida. Mai più c'incontrammo; laonde quell' inclito italiano m' è rimasto impresso in tal punto come in un ritratto equestre; il sole al tramonto gli batteva obliquo sul viso, già biscottato dagli ardori di quella primavera incandescente, bruniva capelli e mustacchi biondi, che pareano di rame infocato. A un cenno la briosa cavalcata si mosse e via tutti come fulmini.

Ben altrimenti che entusiasti erano i generali Durando e Lamarmora: questi si mordeva le dita di vedersi esposto, di dover sostenere l' urto delle armate austriache, e non aver che pochi veri soldati, e il resto quattro ragazzi… ragazzi ardenti, caporione Francesco Sartorelli, che poi divenne mio cognato, e battè saldo da Montebello a Marghera, da Marghera a Condino. Questa volta Lamarmora credette allontanare il pericolo facendo bruciare il ponte sulla Piave.

Il povero colonnello Guidotti, nobilmente suicida, andò incontro, per disperazione, alle palle nemiche, e cadde morto sul colpo … almeno così non lo chiamaron fellone.

Ma già allegrie e terrori, luminarie e fatti d' armi volgevano al fine. Welden intimò la resa sotto minaccia di bombardare la città, e, alla risposta negativa, mandò le bombe. Quel giorno fu di terrore pel paese, ed anche di disastri: non quanti se ne aspettavano, ma non fu certo per niente che durante lunghe quattordici ore caddero projettili infiammati in una cittadina, gremita di case e di popolazione.

Oltre alla ingrata piova ci aveano anche le altalene della disperazione, del furore, della pietà, della collera, per cui una parte bramava seppellirsi sotto le rovine, un' altra uscire e combattere; i non liberali, anelanti alla fine della rivoluzione, non osavano dirlo; soffrivano dunque anch' essi in altra maniera, i timidi sì per paura di chi scagliava le bombe, quanto di chi le difendeva; sospiravano il beato momento di una capitolazione. E ci si venne … ma dopo quante fiere baraonde!

In mezzo ad esse devo ricordare il podestà Olivi, che in quei giorni fu veramente all' altezza del suo posto. Già da quattro mesi, fin dal giorno cioè in cui, proclamata la costituzione a Vienna, e nel Lombardo-Veneto, si persuasero le truppe austriache di abbandonare, come le altre città, la nostra, egli non ebbe tregua nè di giorno, nè di notte. A capo del comitato stette colla pazienza d' un martire perfin dieci, undici ore al tavolo a spedire ordini, a provvedere ai reclami … a ricevere comunicazioni, dispacci. Gli portavano un caffè, un pane, una zuppiera di riso, tanto perchè in fretta ingojasse un boccone. Alla notte, quando poteva andare a letto e starci un' ora, la banda civica lo svegliava per rendergli onore … uggioso per verità, ma spontaneo. Semplice avvocato e possidente, ma vecchio liberale e napoleonide nei tempi del primo impero e del regno d' Italia, Olivi si trovò salutato dal partito liberale a capo della rivoluzione. Uomo di gran presenza, alto, ben proporzionato, in qualche momento appariva d' una maestà formidabile. Però una certa bonomia, qualcosa di confidenziale nello sguardo, davano alla imponenza del suo aspetto un' aria tutta sua. Olivi parea fatto apposta per riuscire in difficili incontri. La grande finezza, la accortezza asiatica del Veneziano, e più della gente di Treviso, egli sapeva usarla quando occorresse appuntino: vestendola d' uncandore, o infervorandosi ad un' enfasi, tanto naturale e domestica, che anco scoprendola un po' artefatta non si potea volergliene male. Forse un carattere tutto d' un pezzo non valeva in quelle terribili congiunture a risparmiare la città, quando risparmiarla era l' unico eroismo possibile.

Olivi, passati i primi giorni, non credeva alla decadenza dell' Austria, ed alla risurrezione d' Italia. Vecchio Napoleonide lo persuadeva una massima all' inverso di quella: — che l' idea val più del cannone. — L' Austria da cinquant' anni in qua è sempre cresciuta — diceva egli … ci vuol dell' altro a vincerla! … almeno salviamo il paese.

Olivi dunque, nelle ultime giornate contenne quel popolo, colpito a morte per l' idea di ridivenire austriaco. La Masa lo coadjuvava, è vero, ma solo non sarebbe stato neanche inteso. Più volte l' onda irrompente delle passioni stava per portare Dio sa quali rovine: infrangere patti dolorosi, ma inevitabili. Olivi sapea che ogni infrazione sarebbe causa di sterminio; garantiva lui davanti ai generali austriaci accampati fuori. Una sola volontà prava o generosa, una sola voce nobile o sinistra facea di Treviso una Parga, una Sagunto … con quella moltitudine così varia, e tutta passionata … dagli Alpigiani del Cadore, ai figli dell' Etna, dai Veneti della bassa ai Francesi sotto Antonini … e poi i corpi franchi delle Romagne … e poi chi sa quanta gente fuggita in quelle confusioni ai bagni, agli ergastoli!

Olivi, ammirabile in tante distrette fu il nume tutelare di Treviso. In piazza, nei borghi, da per tutto dove accorse, arringò il popolo: niente frasi oratorie: colla semplice parlata paesana: — ma figlioli, ma cosa fate, ma cosa volete, abbiate pazienza, fidatevi a me… — Molto, ripeto, contribuì la sua persona: quel dominare la folla, con una testa se non veneranda, statuaria, e su cui si concentrava la luce come sopra una cupola. Un formidabile naso a padiglione simile a quello di Gregorio XVI, che gli rendea la voce sonora, da magistrato; l' occhio paterno, insinuante e che inspirava fiducia.

Raccontandoci poi simili vicende, Olivi dicea — per uscirne in bene e' si vuol che batta il core.— Probabilmente il core non gli batteva affatto, ed egli ingannava sè stesso, ma salvò la città, in un rivoltolone così pericoloso, e tanto basta. Gl' Italiani del primo impero tutti cosi, su per giù. Vasi vuoti, ma riempivano la scena, strumenti ciechi ma davan l' intonazione giusta.

Se Treviso saltava iu aria non vedea il lieto di della risurrezione. Memorabile incontro! Nel luglio del 1866 avea il Municipio annunziato che la campana di palazzo avviserebbe l' avvicinarsi delle truppe, e così fu. La popolazione si precipita fuori della porta, le case restano vuote. Nelle cucine gira lietamente solo l' arrosto. Le ragazze saltano sui cavalli dei lancieri, che ingrediscono con una bella putta in groppa. Atto ardito, ma guai a trovarci malizia … Torniamo al 48.

Noi in mezzo ad orti, fuori di mano, a pochi danni fummo esposti. Senza sgomento e senza noncuranza, il nostro caro mentore provvide a tutto, ad un blocco eventuale, alle bombe. Una ne venne in casa, ma gli uomini appostati in soffitta la raccolsero e la gettarono in un mastellone d' acqua. Il solo toccare il solajo ruppe il tetto della camera sottoposta e se la passava! …

In città fecero strage, dove caddero. Al Monte di pietà enormi vecchi libri di pergamene solidissime, ridussero come verze o come trippe; sui muri tante fiammelle che parevan cifre di foco, dipinte dal diavolo, e poi un polverone, un puzzo, un tanfo! …

Dopo due giorni, al nostro destarci, dovemmo udire un solenne scampanare a distesa, e un lontano clangor di bande sonanti la marcia trionfale: erano i Tedeschi che lindi, puliti per farci maggiore dispetto, rientravano nella nostra città, ridotta sepolcro di gente, peggio che morta: la generosa parola di Gino Capponi — almeno non li vedrò — tornava inutile. Non bastava esser ciechi, bisognava essere sordi e molto per giunta. La fu una brutta mattina! ad ogni bomba, anche nel cuor della notte, i giovani di ogni sesso avean sempre gridato — Viva Italia — cosa dire a quel tedeum profano dei bronzi e delle trombe? Niente, altro che piangere, e così si fece … e furon lagrime di quelle che vengon dal core. Sentivamo che per noi era finito tutto. L' anima in confuso presagiva il solenne chiudersi d' un' era, che per noi certo, non tornerebbe mai più… Quelle campane sonavano l' agonia della nostra giovinezza: addio gaudi beati d' un' aurora senz' odio e senza paura, scevra di aspettative di violenza e di memorie di sangue … A quelli che verranno, pace e letizia … a noi rammarico eterno. Dio risparmii alle generazioni presenti e a quelle future simili feste. e vedano soprattutto di non meritarle!

Il più terribile anno della rivoluzione - Come mori Iacopo
Tasso - Vita intima - Mio padre e mia madre -
Agonia di Venezia - Misterî dolorosi, episodi toccanti
- Manin nel suo Getsemani.

Il cupo orrore dell' inverno 1849 non si rinovererà, credo, per cento e cento anni. Anco il 48 cominciò tetro, colla sospensione d' ogni svago e d' ogni traffico, colle vie deserte, coi teatri chiusi o aperti solo alle dimostrazioni pericolose; ma pure la vita c'era tuttavia. Si vedea l' ingrossarsi del nembo, si sentiva lo spettro della rivoluzione, terribile, ma vivo, minacciare da ogni parte. Fin che lo spettro gettò via il lenzuolo e divenne, col fatto, angelo di risurrezione, in mezzo all' ebbrezza da me riferita; non tutta però. Dimenticai dire che i primi giorni della rivoluzione in Treviso, nessuno morì. Tutti esclamavano che la durasse!… Infermi da anni uscirono di casa, valetudinarî non sentirono i loro malanni. Nel 1849 in vece! … mi par che in quell' inverno mai non ispuntasse il sole; vedo il mio paese come un' arida steppa, come una landa maledetta, dove sia passata la morte.

Tutti via, nostri soli compagni i Croati; proibiti giornali e libri dai Tedeschi, i trattenimenti piacevoli dai liberali, e anco senza ciò nessuno vi avrebbe pensato. Due governi dunque: la polizia austriaca collo stato d' assedio da una parte, la corte veemica dall' altra. Odiosa l' una, amata questa; temute, ascoltate tutte e due; la prima per forza, la seconda per amore. Rotte le comunicazioni con Venezia, separati dalle provincie italiane, uniti a quelle nemiche, isolati in un sepolcro vivo, nemmeno la quiete, che della tomba offre almeno un pensiero di riposo, poteva essere il retaggio di questi infelici paesi.

Ma per dipingere quella condizione la storia non basta. La storia si occupa degli avvenimenti in grande, registra le alte cause ed i risultati, non può tener conto delle scene della vita intima, della trama segreta, del parenchima doloroso dove si andava sviluppando il lento prodotto della rivoluzione d' indipendenza italiana.

Ah! … io l' ho detto dolori occulti nessun paese n' ebbe tanti quanto il Veneto, perciò più di tutti ei dura fatica rialzarsi.

Trattato col maggior disprezzo dall' Austria, il Veneto in confronto della opulenta Lombardia, e di essa meno attivo, dovette per la maggiore vicinanza colle provincie austriache limitrofe stringere in più maniere maggiori relazioni con essa: non tanto quanto Trieste, ma certamente nell' alto Friuli, nella Trevisana stessa più d' una famiglia nobile, rica, potente passava gli inverni a Vienna, e si tenea più dell' aristocrazia tedesca che di quella italiana. Non pochi matrimonî fra ufficiali dell' armata e le figlie della nostra nobiltà e della borghesia: non pochi figli aggregati alla guardia nobile di Vienna, e passati nei reggimenti austriaci, dove era d' obbligo rinegassero tutto della patria; alcuni, usciti dai collegi dell' Impero non aveano più nemmeno il viso della loro stirpe. Molte di queste famiglie miste e di questi individui, partiti al sopravvenire della rivoluzione, rimpatriarono al tornar degli Austriaci. Amati prima o tollerati, o ricercati senza sospetto, piuttosto con affezione che con diffidenza, trovarono tutt' altra vita dopo lo scoppio delle ostilità, senza che il trionfo delle armi attutisse l' odio, cresciuto anzi a mille doppî. Si videro disconosciuti dagli amici, con cui solean vivere a tu per tu, rinegati dai parenti, aborriti da tutti. Trattarli in privato era imprudenza, in publico vera follia. Tutte cose di cui non potevano assolutamente capacitarsi. Bisognava che si restringessero insieme, per espandere le loro querele in famiglia. per dissentire o per odiarsi anco fra loro; quante vendette furono esercitate, quante rappresaglie! … Ma la condizione peggiore era quella delle nostre donne, mogli ai militari austriaci, a cui venia detta la sentenza di Ugo Bassi: — esser preferibile la concubina d' un italiano alla moglie d' un austriaco. — Attaccate con vincoli di sangue alla madre patria, con quelli del dovere alla patria adottiva, respinte, maledette nel proprio nido, era fatta segno di abbominio perfino la loro virtù.

Uniche distrazioni avevamo requisizioni militari, di tre, di cinque, fin di 20 mila lire alla volta. Mia madre come tutrice dovette interposi perchè al figlio Ottaviano furono messe 30 mila lire, in castigo della sua emigrazione. Fu ricevuta in modo tanto brutale che ella stessa ne rimase sdegnatissima. A noi pure fu ingiunto di versare non so quante migliaja di zvanziche, tutte in un giorno. Poi le restituirono, ma intanto fu un bel colpo! perquisizioni notturne, arresti, condanne, trasporti in fortezze e fucilazioni.

Jacopo Tasso, convinto di seduzione per reclute da mandare a Venezia, fu uno degli infelici, che in Treviso soggiacquero alla orrenda sorte. Fu una tragedia domestica e cittadina, avea moglie, figlioli, e ognuno immagina se piansero e gemettero ai piedi del proconsole, maresciallo Susan: a lui davanti vennero i vescovi di Ceneda e di Treviso, degni campioni di quel nobile clero che die' i Bricito, i Bernardi, i Zanella.

Monsignor Soldati, pallido, infermo, si fece reggere sotto le ascelle e disse queste memorande parole: — « se assolvete questo infelice voi dividete il vostro potere con Dio; se lo mandate a morte è col carnefice che lo dividete ». — Il gran prelato, l' inclito scrittore, quello che paragonò i volontarî di Montebello ai trecento di Gedeone, disperse quella sublime parola al vento. Il nove aprile, in una mattina da delitti, con un cielo di piombo, Tasso fu condotto fuori del Portello; e nel sito destinato ai supplizî dei malfattori si udì una fucilata ….

Giovanni Bindoni lesse quest' anno (1874) all' inaugurazione del modesto monumento a Tasso un bello, sentito discorso; io riferisco le particolarità della morte di quel martire, raccolti da un mio famigliare, solo testimonio che a mia conoscenza rimanga.

Nell' ora, che si porta il viatico agl' infermi, la seconda festa di Pasqua, scortato dai cappellini (volontarî tedeschi con cappellino alla calabrese e piumetta bianca), Tasso si mise in marcia. Davanti casa Giacomelli, sulla riviera del Sile, di fianco al Portello, si fermarono i professori (medici) aspettando ansiosi la grazia, per vedere se la grazia veniva, e al caso levar sangue all' infelice. Disceso di carrozza, con due sacerdoti, pallido, un fazzoletto bianco a sciallo annodato per di dietro il collo: in mano una corona, gli fu raccomandata l' anima. Tasso alzò le braccia: appena terminato di raccomandargli l' anima il Profosso gli bendò gli occhi, e lo fece ingirocchiare dov' è ora la pietra commemorativa. Tasso si sollevava il fazzoletto per nascondersi meglio la luce. Il prete intonò il credo, e ad ogni parola s' allontanava: all' ultimo il Profosso spezzò la bacchettina. Allora i sei caporali, allineati in faccia al paziente, tirarono, egli cadde sul momento. Una sfacciata cappellina (volontaria) gli corse sopra per dargli un colpo di revolver, o per insultarlo. Il capitano dei cappellini insultò lei e la gettò per terra. Alla notte stessa Tasso fu sepolto co' suoi vestiti, come si trovava. Dissepolto si rinvenne lo scheletro tutto in un gruppo, e qualche frammento di vestito, come i talloni degli stivali; le fibbie furono riconosciute dalla moglie.

Ecco il racconto genuino; ei fa piangere nella sua semplicità, e si pensa: qua le palme e le corone prodigate ai feretri della vanità e della menzogna; là a chi giurava l' amor suo col credo del supplizio, sepoltura da caue. Così crescevano i fiori dei nostri prati, e i pesci dei nostri fiumi si cibavano dei cadaveri di dieci nazioni. L' anno innanzi i contadini, istigati ad armarsi a tener lontani i Tedeschi e le possibili rappresaglie, soleano rispondere: nualtri no credone insin che no vedone. Ora le case arse, distrutte, saccheggiate nelle campagne; gli alberi scavezzi, trapassati dalle palle, negri scheletri colle braccia al cielo, mostravano le stimmate della nostra passione.

Un fratello accusò il fratello come detentore di armi. Un figlio accusò il padre…inorridito il generale austriaco assolse il padre, additando alla riprovazione publica lo snaturato parricida.

A Giacomo Gaggio, capo d' una fra le più elette famiglie di Treviso, intimo di Manin e liberale, i suo sentimenti attirarono una condanna…La disperazione della figlia lo salvò. A queste contingenze eravamo esposti!.. Giovinette, il più serio impegno delle quali era stato notar gl' impegni pel walzer, dovettero destarsi dal sogno d' oro d' una spensierata gioventù, e trovarsi davanti un patibolo o a più infamante pena. Dovettero gettarsi ai piedi d' un feroce, bagnarli di pianto…allora nè lirismo di poeti, nè sentimentalismo di giornali ce ne potea. O una fucilata in pochi giorni, o coricarsi sopra una panca col ventre in giù, nella pubblica piazza, e subire le verghe…fossero uomini, donne, signori o poveri…

Ogni giorno il tenente maresciallo Hauser abbrucia. va non so quante anonime con rivelazioni d' orrore contro i cittadini patrioti. I delatori appartenevano senza dubbio all' infame schiera, che dianzi incitava alle persecuzioni, al massacro; le loro mani forse nello scrivere quei documenti di polizia non ancora erano nette del furto e dal sangue.

Ma se questo quadro della vita cittadina è grave, ancora più triste è quello della vita privata, perchè inpossibile essendo che nelle famiglie si trovassero tuttidi un pensare, ne avveniva, o più o meno, un continuo malumore e dissidio. Amicizie vecchie violentemente rotte; nuove, mal fide, di gente che mai, senza la causa politica si sarebbe l' una all' altra avvicinata; patrimonî floridi sconnessi, altri iti alla prima in isfacelo, negozî rimasti senza padrone, famiglie senza capo e senza pane.

Nè la nostra famiglia andava esente dai mali comuni, anzi la ne avea di speciali, e su di ciò è ora ch' io mi diffonda. In fine è la storia de' miei che racconto, e questa serve a quella del tempo. I giovani d' allora sono vecchi o morti, o hanno altro che fare. I giovani d' adesso non c'erano. Nella mia disattenzione profonda nulla m' è sfuggito, e delle lagrime della rivoluzione io ne ho alcune come goccie di piombo fuso nel cuore.

Il venerato e caro padre mio, come più d' uno anziano in età, credeva smisurata la potenza dell' Austria e giudicava, ci volessero per vincerla uomini ed armi che mancavano all' Italia, non atta colle sole sue forze a rivendicare sè stessa. — Pane e ferro — dicea egli occorre per una guerra d' indipendenza, ma per ridursi a tali cimenti si vuol esservi costretti dalle sevizie d' un padrone barbaro… e questo non è. A cose quiete tant' e tanto non governano male, certo meglio dei Francesi, e Italia ha bisogno del pedante. — Dietro un tal criterio esso vedea la gioventù, le famiglie, le sostanze perdersi irreparabilmente per nulla, e inasprire un nemico fino allora moderato, e del quale Dio liberi svegliare sul serio la rabbia…Perchè in ogni caso, come Manin, volea la sua republica… Venezia regina… e la teneva per impossibile…

Oltre a ciò egli nella rivoluzione vedea tutt' altro che una causa poetica. Credea che la volesse dire un modo di diventar poveri per gli uni, un modo d' arricchire per gli altri. Avaro non era; anzi nobilissimo retribuiva generosamente, non risparmiava dove occorresse; fuori che per lui. Mai non volle un sofà nel suo scrittojo, perchè non gli servisse di pretesto a poltrire, e, insomma, per suo conto sapea vivere da povero. Ma non tollerare la povertà per la sua famiglia e meno per la moglie. Avea raccolto dal fondo d' ogni patimento un povero fiore, l' avea sollevato, vivificato. Simile alla pianta benefica fra le rovine l' avea sostenuta, oh! non reggeva all' idea i ch' ella sopportasse nuovi travagli.

Istessamente se della rivoluzione potea giovarsi, ciò non gli poteva piacere. Fortunato, fortunatissimo in affari, di essa non si fidava, perchè le sue fortune appartenevano ad un' altra categoria. Raccontarne una non sarà digressione, ma conferma. Pochi anni prima mia madre passa in Treviso davanti una bella casa, tenuta, con ragione, per palazzo. La se ne invaghisce, la loda, e mio padre la compera. Si fa per andarci, ma coi mobili vecchi, perchè in quell' anno il budget non tollerava più spese. La mia cara madre si mette a piangere, prende in odio la casa, e lui la vende. In otto giorni ci guadagna mille talleri: mezzi son dati all' asse patrimoniale, cogli altri si va a Firenze. Ecco una fortuna, ma di quelle che vengono in tempi quieti; gliela portava il nome illibato, la fama di esattezza, talchè ognuno ambiva aver che fare con lui che voleva tutto bello, netto … che abborriva da guadagni illeciti, da aspettative di eredità anco naturali, dal mestare, dall' imbrogliare … Erano insomma sorrisi della pace.

Ora, dico io, chi non intende che coloro i quali colla rivoluzione fecero danari (mica discorso di farli) non li fecero proprio così?… Anco per l' eguaglianza ho da osservare: mio padre rispettava tutti, e i servi trattava come impiegati, ma del quarantotto la plebe si comportava in modo che agli uomini educati sotto Francesco I la non potea andarci a sangue.

Mio padre adunque generoso, ardito quanto fermo credeva dovere d' un onesto uomo predicare in publico simili teorie, esercitare un ascendente benefico, richiamando i giovani alla vita di studio o di lavoro, lontana insomma dai tumulti della vita politica. A ciò lo incorava la diletta madre … e anco di lei ho tratti salienti da riferire.

Affetta da sordità, che poi sempre crebbe, e stando sempre vicina al caro marito, che dei discorsi della gente le riportava quello soltanto che non la irritasse, la ne sapea niente del mondo. Ella studiava la vita in Dante, e là apprendeva esser l' Austria il sacro romano impero. Poi Dio sa da quali altre origini traeva la prima sorgente, l' avversione al movimento politico! Forse perchè la matrigna era a' suoi tempi giacobina? (così li dicevano in vecchio). Chi può rispondere? In una rete inestricabile s' intrecciano le memorie della vita: su quei fili, siano d' odio, siano d' amore, va come elettrico il sentimento. La ragione non ce ne può. Mia madre era in tutto osservatrice profonda, mio padre fisiologo arguto; in politica non aveano capito niente. Perciò io ricordo ai giovani che badino prima di accogliere un senso per quanto giustificato, legittimo di disistima verso qualche persona. Se lo lasciano diventar padrone, essi diverranno servi. L' anima una volta presa quella piega la non si raddrizza più. Essa nel suo rapido, fulmineo giudizio ben sa perchè sceglie o rifiuta, perchè ama, perchè aborre. Una causa ignota, riposta sotto le più occulte latebre del cuore, decide delle più importanti azioni della vita. Odiatrice dei parrucconi aristocratici, la mia cara madre facea solidaria la republica di Manin dei mali sofferti nella sua infanzia solitaria … Era dunque sempre lo spettro della bella marchesa Fiorenza, era la terribile sera del 97 che esercitava il suo terribile influsso, o era nient' altro che lo spirito d' opposizione, insito in mia madre?

D' altra parte nemmeno la causa democratica non poteva entrarle subito nell' anima.

È ben vero che, schietta e modesta, la era più democratica in realtà di certe persone tutte d' apparenza, ma bisogna pur ricordarsi in che casa la era nata. Di più vi avea gente stolta, che rinfocava quelle ire: la persuadeva che tutto riuscirebbe colla distruzione della famiglia, della proprietà, della religione… Un giorno un fanatico retrogrado le disse: — oh! sa Ella… e' voglion che lei, la marchesa Sale la ci vada a cucinare il riso…— Ognun sa ch' è la nostra zuppa. — Mi spiace per loro… la mangieranno molto cattiva…— rispose con la sua inesauribile grazia mia madre, che non sapeva neanche per dove si comincia a passare il brodo…

Però anch' ella magnanima nel suo fiero risentimento alla rivoluzione ed ai ribelli non lo celava; anzi lo manifestava amplamente. Eran babbo e mamma tutti e due di quei partigiani come al tempo dei ghibellini, anime antiche, spiriti fieri. Però in modo diverso.

Ogni anima ha due caratteri, ma in poche ciò appariva distinto quanto in quella di mia madre. Inetta a calcoli, ad astruserie di scienza, una volta che le si accendesse l' estro, la intendeva tutto. Aritmetica, algebra, astronomia… e basta leggere il suo Sole per convincersene. Prodiga del suo, chè il mensile lo spendea in carità, ninnoli d' oro falso, creste di cui n' avea d' avanzo prestissimo, la rispettava il budget di famiglia con un rigore degno d' esempio. La ci pensava due volte alla minima spesa, avvezzandoci a interrogare e chiederne licenza al nostro diletto capo. Come nobilmente stette alle privazioni del 49!… e a quel disnareto da guerra (così lo cniamavamo), riso e carne… e nei giorni di gala un magro pollastrello… e ciò infine per una causa a lei avversa. Qualunque regaluccio fattole dal babbo la non finiva più dal ringraziarlo, ce lo mostrava tutta contenta… Al contrario di certe pizzicagnole, tanto rubeste, perchè portarono miserabili centomila lire, la si dimenticava sempre ch' era tutto suo.

La stessa contraddizione devo notare pel coraggio. Ordinariamente non l' andava da una camera all' altra di sera senza accompagnatura e due lumi. Salvati agli strilli nel caso che si spegnessero! Nell' ira la diventava sublime: il sangue dei Vendramin e dei Corner le bollia nelle vene; le lampeggiavano gli occhi, dilatava le narici del suo naso superbo: avrebbe dato fuoco ad una polveriera, si sarebbe esposta ai furori d' un popolo. Non guardava in faccia nessuno, non temea di comprometterci, andassimo tutti al diavolo, ella la prima! Dopo le passava tutto … ma intanto!.. Nel giorno delle bombe, sdegnata coi ribelli, la stette come se non cadessero. Nel dopo pranzo andò, secondo il solito, a leggere su quel letto dove cento volte la morte poteva coglierla.

Infine, per dir tutto, religiosi e classici i miei genitori ambedue fastidivano i romanticismi della rivoluzione, e temean per la Fede, sicchè partiti da punti opposti della scala sociale si trovavano nello stesso punto per misurarla colla massima severità.

Il coraggio civile di quei nostri diletti potea non pertanto costar loro aimè! quanto caro… Nei tempi torbidi c'è sempre qualche ribaldo che ne profitta per esercitare un interno risentimento, una vendetta, di quelle che non si osa manifestare, ma a cui più si anela. L' invidia delle ricchezze, del mutuo affetto in famiglia, della nobiltà, della bellezza, dell' ingegno. c'è chi fu urtato da un discorso, da una critica, da un buon pranzo, da un bel viaggio. Piccole cause latenti come serpi d' inverno, colgono il caldo d' una rivoluzione per isvolgersi nelle loro spire e, se possono, mordere e uccidere.

Chi non passasse per liberale (e a ciò bastava la delazione d' un servo… poichè il fiero volto della rivoluzione sapea prendere il melenso aspetto del pettegolezzo), s' esponeva allora ai più serî danni: si trattava di bruciargli la casa, di sorprenderlo, di maltrattarlo… forse… chi sa dove si arresta una vendetta brutale e in un calcolata?… Aimè! nel sepolcrale silenzio delle sere desolate di quel lungo inverno, ognuno che si credesse sospetto temeva: l' immaginazione sentiva i gridi e le minaccie della plebe, e, non senza motivo, tremava o per sè o pei suoi…

È ben vero che dominava il terrore dello stato di assedio: ma, e questo è un dato veramente storico, la osservazione d' un fenomeno degno di studio morale e psicologico, non ostante la presenza degli Austriaci e la loro zampa grifagna sul petto, ancora nelle popolazioni durava la fede, la speranza, l' invitto amore alla causa. Bastava una novella, una lusinga qualunque… i morti si guardavano in faccia, si incoravano l' un l' altro, col solo sguardo: e in tutti un lampo d' indestruttibile entusiasmo di non fallire lo scopo. Coloro in vece che non ne desideravano o ne temevano l' adempimento avean sempre la minaccia nel core, tremavano sempre: le famiglie dei militari tenevano il fagotto lesto … vedevano un' insurrezione pronta, una sortita da Mestre, come avvenne e in cui tanto brillarono i figli del Sile …

A cosa giova il despotismo?.. Ma tutto questo rendeva la vita una vera altalena d' angoscie, e ognuno può credere quanto noi, figli e nipoti, i giovani insomma, si patisse per quel farnetico dei nostri buoni vecchi. Tanto più che le loro opinioni retrograde non li rendeano a noi meno cari. La stima, il rispetto, che c'imponeano sotto ogni altro riguardo, non diminuiva per niente; in questi casi il dissidio non implica alterazione d' affetti. Prendono è vero nuove forme; l' anima vuol conquistare un' altra anima, che le sfugge e che è parte di sè stessa, prova collera, ma insieme pietà… e in quel funesto anno c'era tanto bisogno d' amarsi, di stringersi assieme, che l' affetto domestico diveniva passione!…

Noi comprendevamo dunque ch' essi credevano di dovere pensar così; che sapevano di navigare contro corrente, per un alto motivo; e che non ignoravano la responsabilità assunta in faccia a noi. I genitori nello scegliere una condotta di vita ne lasciano le conseguenze alle loro famiglie; essi scrivono il destino dei loro figli con lieta o mesta, ma indelebile cifra.

È appunto per questo che la loro convinzione, non partendo da interesse privato, ma da un concetto filosofico, diveniva inutile il combatterla; devo a tale proposito dire quello che Azeglio scrisse di suo padre; che quel suo retrogrado zelo non trovò nessuna riconoscenza dalla parte, ch' ei sosteneva colle parole e colle più ardite dimostrazioni.

Così mio padre non andava a versi di nessuno. Nelle sfere officiali non si vuol gente passionata, magnanima: ci vuol gente cauta, fredda, cortigiana; i caratteri franchi non gli fanno pro. Un libro offerto all'Imperatore da mio padre, fu respinto: egli lo mise nello scrigno e ci scrisse sopra filosoficamente — Dormite, dormite, dormite — surtout pas de zèle. Lo stesso gli accadde poi coi clericali.

E per costoro ei mise a repentaglio la sua quiete, e il suo nome caro e riverito! Ebbe però campo a rifarsi, e in altro luogo l' ho riferito. Uomo d' affari potea perdere chi lo avea combattuto e perseguitato, e li salvò con suo danno. Alvise Semenzi in una necrologia commentò questo fatto con le seguenti parole. « Il romano oratore avrebbe messo, per quest' azione Michelangelo Codemo al pari dei numi. » E noi di quest' azione, degna d' un eroe di Plutarco, non ne sapemmo niente fino al 1861, in cui come dal fulmine ci venne rapito!

Nel progresso però mio padre s' avvide che il movimento nazionale diveniva irresistibile, e che nemmeno i giganti valevano ad arrestarlo. La mia cara madre visse tanto da persuadersi che la monarchia italiana, sotto il governo d' un re, ch' è il più nobile fra tutti i monarchi e il più paesano fra i suoi cittadini, non volea dire la rovina d' ogni sentimento buono; ma che anzi ei solo, con una moderazione, che par noncuranza, ci salvava dall' irrompere dei demagoghi. Allora ella si cambiò del tutto, alla venuta di Vittorio in Treviso gli fece offrire una copia del suo caro poema Il Sole: ma una tanta gioja di veder lei contenta della coccarda tricolore al petto, la pagai col più gran dolore della mia vita, perchè poco, dopo dovemmo perderla. Gli ultimi versi recitati a lei da me furono quelli di Prati per la guerra del 1866, che cominciano:

» Quest' Absburgo, che Italia ha premuto Leva l' asta dai campi fatali… »

Magnifica idea che dipinge la fine di tutta l' era storica del mondo feudale… e anche a lei la piacque… E noi vederla sorridere ammansata, e pensare: — è per poco… ah! fu un dolor da morire…

Qui tronco le memorie domestiche e torno alquanto su quelle patrie.

Fulgidi come in nessuna città d' Italia furono i primi albori del riscatto in Venezia.

Oltre che il bello e il brutto sono in essa straordinari, il doppio carattere che la fa europea ed orientale, maravigliosamente si unisce in un unico punto di ritrovo, di memorie storiche, di supreme bellezze d' arte e di natura.

V' hanno giorni ed ore che rendono la piazza di s. Marco una scena ideale: dopo i tramonti, resta quell' aria ardente, che illumina la facciata della Basilica. Bisogna vedere come sul traliccio d' oro, ch' è il fondo a' musaici, risaltano le figure, vigorose quai dipinti, vaghe come arazzi di seta. Il Cristo sotto alla volta di mezzo trionfa; splende nel funerale o sotto la smagliante coltra azzurra, nelle lunette, il venerato santo titolare della chiesa, sfolgora il metallo di Corinto dei cavalli, conquistati in Levante.

Più tardi in vece, se vi batte la luna, il quadro cambia aspetto, ma non tipo. Le cupole bizantine spiccano da quell' aria profonda, ancora più orientali che di giorno, mentre i trafori del palazzo ducale, a quel pallido raggio, si vestono del loro carattere di medio evo. Tutto un mondo si presenta all' immaginazione di chi ne conosce la storia. I suoi cento re, cittadini ed eroi, balenano nel miragio del passato: Dandolo, il gran cieco vien primo, prende le redini, lancia al corso, in questo ippodromo della sua gloria, la divina quadriga. Più in là ecco il sospiro di Pellico, o le rime d' amore di Gaspara Stampa, l' impronte di Byron, quelle della Sand. Un mistero di grandezza latente è in quel punto, le nuvole son quai le dipinsero Veronese o Tintoretto, poichè là si trova il genio de' suoi pittori e de' suoi poeti. Quest' è la fisonomia dell' alma dogaressa, e qua, se lasciano perire la bella incantatrice nelle onde, resterà il suo ultimo sorriso, l' ultimo palpito fra le macerie sublimi.

Chi può dire cosa facesse il vedere dai tre grandi alberi o guglie, davanti a s. Marco, pendere e spiegarsi all' aria, nella primavera del 48, le tre immense bandiere tricolori? E il suono delle campane, suono veramente arcano per armonia particolare, a cui forse aggiunge qualcosa di straordinario tutto quell' ambiente, e le idee che vi si attaccano?… Squallidi, come in nessuna altra città d' Italia, furono in vece gli ultimi giorni, anzi gli ultimi mesi… Dirò qualcosa dalla sera in cui cominciarono a cadere le bombe, come ne raccolsi la notizia da una mia buona amica, abitante in Merceria. Stava ella appunto per andare a letto, quando vide la madre correre a lei, piena di affanno e d' una nuova trepidazione.

— Senti, o non ti pare un' altra maniera di cannoneggiamento? — E le si mettono in ascolto tutte e due.

La figlia, sia non volesse spaventare la madre, sia che ingannasse sè stessa, rispose che non udiva niente. E la madre:

— Eppure gli è un suono diverso dal cannoneggiamento solito. Non senti un zt, zt? Le mi pajono bombe.

— Neanche per sogno — le fu risposto dalla figlia e dal genero, che le diedero la felice notte; ma, giunti ambedue nella loro camera, respicente la Merceria, il sospetto si cambiò in certezza: perchè dal basso della strada incominciò a venire un brusìo, un pissi pissi, un rumore indistinto ma continuo, eguale, crescente. Aprono le imposte, guardano al basso, scorgono tanta gente diretta da Rialto a s. Marco… quieti, in mezza ombra, appena si capiva cosa fosse. In quel fiume scuro qualche oggetto distaccava per chiaro: erano le donne coi bimbi in collo, coperti da un cencio: e poco meglio vestivano gli altri di quella città dolente in viaggio. Stanchi dal lavoro, che non bastava a nutrirli, chiuso l'occhio allora allora sulle povere cuccie, furono desti dal cadere delle bombe, e a scampare da tanto pericolo si misero in via. Procedevano dunque serrati, non lieti, ma non irosi e non perduti d' animo. A mio avviso, è questo uno dei più gran quadri della rivoluzione; niente stringe il cuore come questa trasmigrazione notturna. Immaginarsi come partirono dalle case loro; quanto in pochi tornarono, se ritornò più nessuno. Povere famiglie, a cui mancò da un momento all' altro tutto e dovettero patire per quattro mesi, nascere, ammalare, morire… Quella stessa sera una donna diede alla luce un bambino: il misero mori senza dubbio appena nato, e là dove provvisoriamente stettero, le contestate ceneri di Manin, ebbe cuna e tomba.

Fra i non molti danni portati dalle bombe, un signore mio amico me ne riferì uno.

Camminava questo signore sulla fondamenta di s. Simone, e discorreva con uno al suo fianco. Gli passano accosto due popolane, abbastanza pulite, in mulette, di bella presenza, canareggiotte di certo, e le entrano in chiesa. Dopo due secondi un certo fracasso avverte i due dello scoppio d' una bomba. — La dev' essere caduta vicina — dicono essi. Appena proferite queste parole, comparisce a' loro occhi, dalla porta della chiesa, uno spettro in forma di donna, precipita dai gradini, passa, volta, dispare. La credettero un' ombra, tanto fu ratta; ma in essa ravvisarono una delle due entrate in chiesa. Di fatto era lei, che vide, allo scoppio della bomba, rotolare per terra la testa della compagna, inginocchiata a poca distanza. La persona, da cui tengo questo fatto, mi assicurò che non potè capacitarsi come lo spavento e la pietà di quella morta trasformassero la giovane di Canareggio a quel punto, e soprattutto erigessero sulla fronte della Medusa viva i capelli, dianzi distesi e lucenti…

Cosa potesse lo spavento in quelle tristi circostanze, lo seppe una madre che si vide morire la dilettissima figlia per un rimescolo di sangue, avuto appunto in una delle tante confusioni di popolo, credo, al primo venir delle bombe. Un male misterioso colse la figlia della contessa Cecilia Petrobelli-Cortesi; giovinetta cara quant' altre mai, nota anche pel gentile acume, per la singolarissima grazia, con cui solea comporre in mazzi figurati i fiori, e tanto che all' esposizione di Padova era stata premiata con medaglia d' oro per un ammirabile pappagallo di fiori di campo. Certo nel suo animo poteva l' armonia dei colori e la confidenza col fiore, che ella sentiva della stessa natura sua. Oh! come le grandi e terribili vicissitudini d' una grande città in quelle distrette non le sarebbero riuscite funeste?

La buona giovinetta cadde adunque inferma e niente al mondo valeva per essa. Unicamente cari erano ancora a lei i fiori, e la ne poteva avere, dacchè i fiori, nemmeno in carestia, si mangiano. Nei momenti di tregua la facea su, colla usata grazia, un mazzolino: lo guardava, si compiaceva, pareva rifarsi, respirare: la madre guardava lei non osando fiatare dal gaudio, e tremante alla speranza che un solo sorriso di quel suo angelo le irradiava l' anima. Ma poco durava. Riprendevano il sopore e il male, e così durò quattro mesi, finchè addormentatasi fra i fiori terreni, la si svegliò fra quelli del cielo… Mai la madre non valse a superar quel dolore, facea mostra di vincersi, e la pensava sempre alla sua Cecilietta.

— Litigavano per l' Italia, per Venezia — disse ella, alludendo ai medici, alla famiglia, che con lei circondarono per quattro mesi quel letto — litigavano! e a me non m' importava di niente! — mi disse la madre, sublime di noncuranza. Oh! chi non glielo crede, chi non si sente passato l' anima da questo sublime grido d' un core piagato?… Gli altri particolari, già da me riportati per bocca altrui, relativi alla rivoluzione in Venezia, sono esattissimi. La madre di terra ferma che cerca i figli, e le vien mostrato da una finestra il lenzuolo dove spirarono il giorno prima. Il figlio che va nella lunetta a cercare il padre, una bomba porta via ad entrambi il capo. La gran dama spirata sopra una barca in mezzo ad ogni miseria.

Pagine dantesche son l' assedio, ed io raccomando ai poeti dell' avvenire di non trascurarne alcuna; nemmen queste poverissime, da cui possono movere nell' indagine di molti segreti. Un medico mi raccontò essere di notte stato costretto ad assistere ad un terribile duello fra due giovani napoletani, a lui sconosciuti. Probabilmente appartenevano alla invitta falange di Pepe. Essi, nudo il petto e le braccia, si batterono fin all' ultimo sangue. Pare che sotto si nascondesse un segreto amoroso. Anco di ciò restano le memorie del tempo. Satire molte volavano pungentissime, e il Sior Antonio Rioba, il Père Duchène d' allora, ebbe a registrare incidenti, che dipingevano quei costumi, e la comedia e la farsa ivano di pari passo colla tragedia. Un nobile di terraferma, profittando del blocco, dissimulò ad una fanciulla, fortemente invaghita di lui, la propria condizione. Benchè ammogliato, padre di figli, la sedusse. A perta Venezia, fu scoperta la frode: quella fanciulla tradita passò anni di vergogna e dolore, fin che il caso, c'si direbbe la Provvidenza, la vendicò. Un galantuomo le offerse nome e stato; ella andò lieta all' altare nella stessa mattina in cui il suo seduttore moriva di cholera nel luglio 1855; e moriva disperato di lasciare la propria famiglia in rovina e sulla via del disonore.

Del resto tumulti e disordini nessuno: e a me non ispetterebbe riferirli. « La vita e i tempi di Daniele Manin » furono raccontati dai signori Finzi ed Errera. Di lui trattarono il professore Fulin, Gerlin, il compianto Casarini, per tacere d' altri… lo non parlo che di ciò di cui ebbi particolare contezza. Ma la bontà di questo popolo, si mostrò unica; è vero che a legislatori avea grandi uomini, grandi patrioti e filosofi. E, senza nominare gli astri minori, non basterebbe Tommaseo?

Aggiungerò che a molti tratti nobilissimi die' origine questo tempo di prova. Bianchetti vi fu superiore a sè stesso… lui rustego, ipocondriaco, assottigliatore andava ogni dì a portare un pane in una famiglia amica, e si esponeva alle bombe…. Fa piacere a scriverle queste cose, s' intende una volta di più quanto santa è la povertà, quanto son vive le ispirazioni d' un nobile patriottismo, che fin sugli aridi steli gemmano il fiore del sentimento.

Ma le scene degne di memoria avvennero in piazza, in quell' antico foro, meraviglia del mondo. Adesso il bello Elìodromo Ponti misura il corso dei giorni, delle ore… ah! nessun istrumento potè misurar quei dolori, la più parte ignoti, benchè alla vista di tutti.

Recentemente si è rappresentato al Malibran un dramma popolare, ossia un seguito di scene, sbozzate alla brava, ma nelle quali la grandiosa epopea si svolse davanti al publico. Dal momento in cui apparve Manin, portato a predella, poi venivano i forti, armati a resistenza: e tutto insomma, fin l' ultimo atto, nel suo squallore, e nella sua grande miseria. Materassi per terra, donne, bimbi, vecchi languenti, ma a cui restava tanto fiato da sospirare: — Viva Italia!

Benchè rozzo, quel dramma ci parve sublime. E mancava il più. Mancava il colèra… Ora per un caso o due si sgomentano i popoli. Allora morivano cento e cento…

Nelle povere famiglie, scampate alle bombe, chiuse in due camere, o in una sola, piombava, tremendo ospite, il male. Mancava a combatterlo tutto; fuori che la carità. Inutile anco quella! Ci furono casi in cui morirono tutti in una abitazione: e a chi picchiò a portarci il pane, con gran cautela, nessuno aperse. In qualche altro tugurio remoto morì uno; o più d' uno quasi nello stesso momento. E non trovavano braccia da portarli via; non c'era luogo da fuggire, e i parenti dovettero rimaner là, davanti ai corpi dei loro cari, non in pietosa veglia, ma in disperata prigione… là, senza aver da mangiare, senza aver da bere, col dolore nell' anima, coll' orror del contagio!

Certo quando Manin, in quella piazza prese commiato dalla Civica, egli fu oppresso da tanti patimenti, egli ne sentì la responsabilità nel suo cuore onestissimo. Uomo politico non era, tanto è vero che si contraddisse, approfittando tardi della fiera lezione datagli da Bianchetti. Egli non sapeva che il trionfo coronerebbe la grande opera, e che le sue ossa esulterebbero nell' istesso luogo del suo martirio.

Ora l' uomo più forte vien sopraffatto dalla condizione momentanea, perchè in fin dei conti nel futuro chi legge?… Di più egli, nato in modesta condizione, non poteva avere quella fredda, necessaria disinvoltura di chi nacque al trono, di chi si sente, per tradizioni antiche, arbitro dei destini d' un popolo. Era dunque la prima volta, che si accorgeva della gravità d' un' impresa, stimata agevolissima da principio, iniziata per impeto di patriottismo, senza partito preso, senza computi di ambizione, non immaginando a quali impegni lo legava, stimando sè stesso niente più d' un buon cittadino, ben lontano dal supporre il suo gran nome già promesso alla storia!

Quando Manin chiese ai cittadini dolenti « di non dubitar mai di lui, di ritener sempre; che si era ingannato, ma che mai non ingannò » egli fu vinto dalla tristezza. Fu il suo Getsemani quello! Passano secoli prima che un' ora simile si aggravi sul cuore d' un uomo, e l' anima si stringe all' idea di questo condottiero improvvisato, di questo capitano d' un giorno, allorchè lo vede in quel momento dall' alto della mistica nave, squarciata i fianchi, offesa nelle opere vive, contemplare intorno a sè lo squallor del naufragio…

Quanto a Venezia, m' inquieta perfino il dubbio che essa domandi niente a nessuno, e non la aspetti tutto da sè medesima, adesso e sempre.

Ma se la mia voce può giungere dove si regolano le sorti avvenire di questa nobile Sparta dell' antichità, di questa Londra del medio evo, che moribonda seppe sollevarsi dal fianco e porgere alla gran madre la sua più bella corona, io amo ricordare che per l' eroismo di una popolazione, martire spontanea non per giorni, ma per mesi ed anni, le sia facilitata ogni strada a rialzarsi, le sia dato più di quello che essa cerca, poichè nessuno più di questa ne acquistò il diritto col dolore e con l' amore. Forse a lei si deve tutto quanto avvenne da vent' anni nella politica europea. Perchè il dover ricorrere l' Austria alla Russia, per domar l' Ungheria, e contrarre un debito, che non potè quindi pagare, la lasciò isolata e fece Solferino… Non sia dunque mai nè pel plauso dei trionfi, nè per la gioja della pace che si dimentichi il gemito d' una povera plebe, che diede la vita non avendo altro che quella. Dimenticarlo sarebbe non già far fremere i morti; questa è frase rettorica, e i morti stanno benissimo dove sono, ma sarebbe insegnare ai vivi, che non importa morire per nessuno, nemmeno per un sacro principio.

Torino - Gli emigrati veneti - Pareto alla Camera -
Da Chambery per Lione a Parigi.

La gran mendica dava l' ultimo respiro, tanto che a Brescia ci toccò veder trionfante Radetzky dirigersi alla città conquistata, quando ci mettemmo in viaggio per Parigi.

In Torino, dove si stette, ci vennero attorno premurosi gli emigrati veneziani, e li rivedemmo con un misto di profonda compassione e di curiosità. Devo dire che nessuno si mostrò perduto d' animo; nessuno da meno della grande impresa, in cui avea posto il capitale della propria esistenza. Già innanzi di partire un giovine bellunese, cugino di mio padre, Giovanni Simoni, reduce dall' assedio di Venezia, ci dichiarava che, come si battè fin l' ultimo giorno, tornerebbe, al primo annunzio di ripresa, a dar sangue e vita alla redenzione di Venezia. Gl' identici sensi manifestarono gli emigrati di Torino, e li mantennero.

Di essi ricorderò solo il conte Onigo, a cui mio padre conservava riconoscente affetto, stimando di dovere al padre di lui, come all' egregio letterato nobiluomo Negri, incitamento ed ajuto di torsi al villaggio nativo, e intraprendere l' arringo letterario - scolastico. E glielo manifestava, sebbene pensassero diverso, anzi in religione discordassero, ma da galantuomini, a viso aperto. Qual patriota, Onigo fu sublime. Cosa patì!.. a quante privazioni non sottostette!… e con quanto coraggio e muta ostinazione.

Un signore, un patrizio, educato nel cotone, perdurare in un assedio di Venezia! Ci disse egli stesso in Torino, che un pezzetto di manzo allesso gli parve una pietra sullo stomaco, e gli costò dolori a digerirlo. Nè li finirono i guai. Avvenuti i sequestri, Onigo, senza mezzi di sussistenza, e in condizioni e in età da non poter guadagnare, patì assai lui e la sua famiglia, colla quale campava gloriosamente a stecchetto, e fu non potendone più che domandò di tornare alla sua Pederobba. Ma vi stette in condizione penosa, sempre minacciato d' essere ostile al governo, respinto da' suoi lari.

E di fatto lo era più di nessun altro: lo era di quell' instancabile odio che si nutre per ciò che vien da noi considerato prima causa di dolore o di onta nella propria vita. Ciò non gli scema il merito; mostra soltanto che la pertinacia in una causa è più fiera quando trae la sua origine, oltre che dall' idea poetica, da particolari sentimenti dell' uomo privato.

Parlando di Torino, quanto ci apparve trasformato!… quanta gente!… che pressa… che via vai. Alla Bonne femme, non ci si potea chiuder occhio.

Della Camera ci rimase un' impressione incerta fra l' alta emozione e un po' di disgusto. Peroravano deputati demagoghi, e in quel tempo facevano maraviglia, con tal chiasso che a momenti pareva un' osteria. Perfin le tribune si agitavano: vicina, amabilissima con noi senza conoscerci, avevamo la moglie di Brofferio.

I vecchi veneziani trattavano i loro negozî e le faccende di Stato con gran semplicità: essi dibattevano, da uomini pratici il pro ed il contro con ragioni a cui non occorreva la rettorica: e meno poi le esclamazioni e gli urli: — Questo vi pare buono a conchiudere?… Mette il conto sì o no?… — E secondo la votazione si sceglieva. Così fanno ancora i nostri barcajuoli durante certi consigli detti bevarine, in cui trattano i loro interessi di traghetto. Mi consolai vedendo Pareto sul seggio presidenziale: placido, nobile, severo nella sua benignità e nella sua compostezza, pareva ei solo comprendere il valore di quel posto e i destini di quel popolo, che gli stava davanti. Da quando lo vidi a Genova, che differenza!… Là entusiasta, presidente in un congresso, levarsi a dare il segnale della riscossa; qua seduto intimar l' ordine nella marcia già avviata.

Partiti da Torino ci dirigemmo al Cenisio, dove, giunti al sommo, sulle sponde d' un freddissimo, azzurro laghetto in cui si pescano trotte, demmo un addio mesto alla povera, cara Italia di cui, da quel momento, non giungeva più a noi il dolce sì. In due giorni si discese il versante francese e si entrò in Chambery: una cittadina tutta orti nel chiuso delle sue mura; e come tenuti! e che prodotti danno alla paziente industria di quegli alpigiani! Più d' una settimana ci trattenemmo in quel pittoresco paese, dove la civiltà parigina delle contrade e delle botteghe (magasins) contrasta cogli orrori delle ghiacciaje circostanti. Ben altra mostra di orribili cose ci offerse lo stabilimento termale di Aix les Bains.

Raccomandati dal nostro egregio amico Maurizio Silvin, professore di mnemotennica, stenografo della Camera, al barone Spina, medico dello stabilimento, egli ci fece penetrare in ogni angolo del mesto e potente ritrovo. Tale raccolta di teste e membra umane, effigiate in cera, nello stato in cui si trovavano allo entrare delle persone affette, poi in quello raggiunto o alla guarigione o alla morte. Ancora, dopo tanti anni, mi desta ribrezzo il ricordare il miserando spettacolo. In quegli armadî, dove noi vedemmo le spaventose forme ci saranno ancora: quei preparati saranno là in maggior numero: alle ossa fradice, alle ossa purulente, altre carni, altre ossa saranno state aggiunte: chi viaggerà da quelle parti le vedrà; basta una volta sola per tutta la vita.

Una parola delle terme. Scaturisce dai crepacci di un monte caldissima l'acqua termale, rapida s'incanala in un vano, praticato ad arte, donde tributa l'acqua ai camerini dei bagni, per iscomparire subito dopo in occulte voragini sotterranee. Si raccontava quest'orribile fatto. Una dama del seguito di Giuseppina, moglie di Napoleone, visitando lo stabilimento, e non vedendo nel bujo l'onda torrida che le scorreva al piede, sdrucciolò, trasportata in quei silenziosi abissi, e nessuno ebbe mai più contezza de'suoi miseri avanzi. Nemmen questo racconto fu tale da metterci in allegria: e non ci ha persona che, trovandosi sulla traditrice sponda, non prema per impulso istintivo i proprî cari, specialmente se giovani, al seno, allontanandoli dal baratro.

Del resto tutto è malinconico ad Aix les Bains. Non s'incontrano che visi gialli e macilenti; gente che zoppica, chi bendati, chi storpî. Nè a rompere tanta malinconia bastano gl'inevitabili Inglesi. A Haute-Combe non ci si potè andare pel vento che gonfiava le onde del lago, ma ancor più ci parlarono all'anima di lontano le antiche sepolture dei reali di Savoja, a noi vietate da quella superficie azzurrina, che parea un campo di giacinti sconvolti dalla bufera.

Nella vita di Chambery si dovette passare qualche ora al caffè, sulla strada che mette alla piazza, dove sorge la fontana degli elefanti, eretta a De-Boigne. c'era di guarnigione in Chambery la brigata Genova, e io la conosceva dalle mostre bianche. A quel caffè convenivano gli ufficiali: io li udiva parlare italiano, e con che amaro conforto! Almeno un lembo di terra fraucese è sotto di noi, pensavo… Brutto pensiero; ma il sapersi in condizione infelice, non può suggerirne di migliori.

Andare da Chambery a Grenoble fu una gita autunnale. In pieno settembre, una carrozzella-omnibus; di compagni un sacerdote, una fanciulla africana e la sua istitutrice. Traversare la Savoja, trovarsi in mezzo alle grandi Alpi, non più barriere tremende alla vista ed al varco, ma formidabili nemici vinti, divenuti protettori ed amabili, quanto più gli si va lontano… Ameni pratelli, valli aperte fra l'immensa chiostra, bel serpeggiare di strade montanine. Usciti da quel singolare luogo, o meglio grotta, chiamata les échelles, perchè la è segnata a striscie che pajono scale, si riuscì ad una bella pianura a ondulazioni grandiose, e poco dopo si toccò Grenoble. Ognun sa che la è fortezza nel Delfinato, luogo montuoso e importante sito strategico.

Bella è la Francia nel suo aspetto campestre; fanno piacere quei paesani in blouse (camiciotto blu), dal viso intelligente e vivace; i soldati in congedo, in gamurrino succinto, coi calzoni ciniglia, girare pronti ed allegri per le strade, che li riconducono alle loro capanne. Il Drac e l'Isère sono i fiumi della bella cittadina del Bajardo, che vi ha un monumento. Quantunque provincia, pure a Grenoble si comincia a fiutar il profumo di Parigi: sensazione molto più forte a Lione, dove andammo il giorno dopo.

Nessuna città, fin allora da noi veduta, per quanto grande, magnifica, nemmeno Milano, ch'è pure l'anticamera della Francia, ci colpì di un senso di grandezza pari a Lione. Intendo che vi si rivelò un carattere nuovo di popolazione, di paese; severo, imponente, ma non bellezze d'arte: all'arte neanche ci si pensa in quell'immensissimo centro d'industria, in quell'emporio; in mezzo a quei quai, noi li chiameremmo fondamente, in riva al Rodano: così spaziosi, così ricchi di sontuosi magazzini… Al vedere appunto quelli per la vendita dei cachemires, non potevamo raccapezzarci: e di fatto Parigi non li supera. Cachemires francesi, cachemires delle Indie: cominciando da mille fino a diccimila lire! Tenuti in mostra a venti, a trenta, a cinquanta: ripiegati a sciallo, acconciati sopra fusti, che figurano un corpo di donna. Tutta la sala era per essi. Uno in qua, uno in là; uno colla coda a strascico sul terreno, coperto da pregiato tappeto; uno sospeso; uno gettato con asiatica noncuranza; questo in tutta vista, l'altro in tre punti; quell'altro in profilo. Tutta la luce, che folgorava dalle lampade a specchi su quei simulacri di donne, armonizzando nelle belle tinte la mollezza pastosa, il fioscio delicato di quei magnifici tessuti, rendea quelle mostre un vero spettacolo da teatro. Chi passasse distratto, senza por mente alla realtà, le avrebbe prese un convegno di gran dame del primo impero. Istessamente è a dirsi dei negozî di minuterie, con quel di più che le mille faccette scintillanti degli arnesi esposti possono mandare alla luce di cento e cento fiammelle a gaz. Una mattina intiera fu da noi trascorsa a vederci spiegare davanti arredi vescovili e paramenti da chiesa. Tutto quanto la seta, l'argento, l'oro ed il talco insieme congiunti, nella più armonica e severa armonia, danno di più smagliante, si trovava riunito in quelle stoffe.

Cosa dire della fabbrica di nastri di st. Etienne? e di quelle di seta?… In ogni stabilimento, in ogni contrada, lungo il Rodano, lungo la Saona, l'immane mostro dalle cento braccia, anima telaî e vapori: spande a mille a mille dal suo cornucopia gigantesco i prodotti, versati prontamente di là in tutto il mondo.

Eravamo raccomandati ad una famiglia italiana stabilita, pel commercio delle sete, in Lione. I signori Cobelli, marito e moglie e due bimbe, ci fecero provare la doppia dolcezza dell'ospitalità, in suolo straniero. Cobelli, uomo di spirito e di estesissima cultura: l'Angelina, sua moglie, amabile e bella, d'una avvenenza rara a vedersi da per tutto e più fuori d'Italia. Alta, snella, era in lei quella bellezza molle a un tempo e maestosa che, dice Manzoni, brilla nel sangue lombardo. Quel bel fiore, sulle rive d'un fiume francese, destava ammirazione in tutti; sentimento che accresceva la sua aria mite di Madonna; per cui tanto la corretta forma, quanto la soave espressione, ci richiamavano alla nostra Italia, sotto il doppio lato della natura e dell'arte. Le care accoglienze di quelle anime cortesi è impossibile riferirle. Fu un seguito d'inviti, di corse, di presentazioni, di veglie, di colazioni. In quei paesi, col pretesto che il clima usa lo stomaco, non ci si fa che mangiare.

La sobrietà italiana è impossibile trovarla. Passate le Alpi a noi parve che neanche il dì delle nozze da noi si fa un banchetto come loro a un semplice déjeuner. Non dico niente il pranzo: e poi il gouter, e poi… non si termina più. Eppure i Veneti fanno cucina solida … cosa parrebbe a un siciliano?… Anche il popolo è di buon pasto: a quelle osterie non c'è che una processione di operaî colle loro famiglie, qua per le ostriche, là per lo stufato … insomma e'si nutrono bene!… Tutto è sontuoso, tutto dà idea di opulenza in quelle contrade. Un semplice mercante ha quadri di valore alle sue pareti; mobili preziosi, stoffe di lusso; le signore non portano che abiti di seta e tessuti più ricchi di questa.

Accanto al lieto quadro v'hanno ombre sorde, ombre terribili, e sempre invadenti. È la ribellione degli schiavi non già della gleba, ma del telajo. Come li temevano in Lione!… come dicevano con terrore: — Oh! les ouvriers! — La Marianna, società sommersa nella inondazione del Rodano (1851), stendeva le sue fila minacciose da per tutto. E a quest'ora le saranno rifatte con altro nome, cogli stessi orribili intenti.

Fa senso immaginare una città così splendida, e in così magico punto! Perchè Lione siede là dove il Rodano e la Saona si uniscono insieme: alla magnificenza delle industrie accoppia dunque bellezze di natura; e più là dove, tra il verdeggiar di belle rive, nasce il connubio, a cui le montagne guardano perpetuamente da un lato, e la pianura popolata di case dall'altro. Belle son quelle montagne, ma fra il vago serpeggiare di dossi vi ha la Croix rousse, e di là in un giorno tremendo gli operaî minacciaron Lione… Il mostro divorava sè stesso!

A noi la sera, quando venivamo via da casa Cobelli, e passavamo il Rodano sopra un bel ponte, facea bell'effetto veder in quel fiume regale tante ombre di barche e di vapori: e nella lontana curva le striscie di foco a regolare distanza, dritte, prolungate, tremanti dei fanali a gaz. E'ci ricordavano il nostro povero e caro Sile, e la differenza aumentava il nostro affetto per esso.

Di pitture non accade parlare: c'è musei e quadri famosi; ma chi s'ispira a parlar d'arte nella capitale dell'industria?… Ricordo per celia che ci destò un tristo sorriso la porta del Duomo, laddove intorno vi stanno scolpiti un'infinità di santi, a cui i Tribuni del 93 fecero tagliare il capo. Concluderò, la vita di quella gran città è tutta commerciale; vita letteraria niente: vita aristocratica niente; artistica niente; tutto il meglio va a Parigi.

Non contenti delle cortesie usateci, i buoni amici Cobelli ci accompagnarono a Chalon-sur-Saone, dove si giunse dopo tutto un giorno di navigazione amenissima a bordo della Coquette. La quale giustificò il suo nome strisciando rapida sull'onda, senza fermarsi in nessun luogo, mandando nuvole bianche di fumo all'lle-Barbe, di cui lambì appena le rive fiorenti. Quando il sole al tramonto indorava la superficie del fiume, noi scendemmo, e subito entrati all'albergo ci rendemmo a pranzo.

Eravamo appresso alla bistecca quando vediamo aprirsi la porta del salotto a due giovani ballerine; vestite alla spagnola, le nacchere nelle palme delle mani, i capelli sparsi di fiori, le si misero a ballarci attorno, ora prendendosi per mano, ora facendo passi a due, una di rincontro all'altra, con le mosse solenni e graziose del Fandango e della Gitana.

In principio quella novità ci tentò grandemente a ridere, noi tutt'altro che avvezzi, nei nostri umili simposî, a godere d'un balletto come la regina Cleopatra, od altri monarchi d'Africa e d'Asia. Ma poi, guardandole, il riso ci morì sulle labbra, e per poco non piangevamo scorgendo l'appassimento precoce di quei visi giovanili, la malinconia che vi traspariva in pelle sotto all'allegra maschera; la stanchezza di quelle braccia, nelle molli circonvoluzioni della danza. Invece di ballerine ci apparvero due larve coperte da vecchi cenci di raso a romane d'oro, sfilato e a brandelli, adorne come due morticini sulla bara. Appena finirono e, sporta la mano, ottennero il prezzo di quella danza venale e partirono. Ci demmo tutti un'occhiata; un pensiero, dirò meglio, un sentimento ci strinse il cuore… povere anime, senza genitori, o peggio che senza, condannate a ballare una triste danza mentre altri comodamente mangiano; condannate senza dubbio alla corruzione, senza schivar la miseria… era un guizzo di Parigi.

A Chalon prendemmo commiato dai nostri cari compagni e procedemmo in ferrovia a Dijon, dove colla diligenza andammo a Tonnerre. Da Dijon a Tonnerre si dovette viaggiare di notte, e ci successe un piccolo incidente, reso impossibile oramai dalle strade di ferro; perchè da più ore s'andava pel bujo con una celerità da fare spavento; su e giù per monti e per valli, con furia tutta francese, non ostante la quale pel gran sonno stavamo per appisolarci un tantino… Da un momento all'altro ci scosse un tal urto, che ci credemmo tutti morti. Nel girare di carriera aperta, anzi allo scantonare d'una strada, la diligenza diè nella casa che formava angolo un tal colpo, che si scrostò e cadde l'angolo stesso. Quelli che stavano sull'imperiale ebbero addosso le macerie di quel muro, troppo tenero per parete, ma troppo forte per la nostra carrozza che, scombussolata, andò avanti come a Dio piacque, e tanto che per iscendere a Dijon convenne coll'ascia spezzare la cornice della carrozza che, violentemente abbassata, teneva lo sportello chiuso.

Alle tre pomeridiane dello stesso giorno montammo in vagone dicendo a noi stessi: — Questo si ferma a Parigi. — Gli è un vero fascino, perchè da più secoli questo nome indica il centro della civiltà moderna, nel suo maggior splendore. È a credere se di questa civiltà non restassero nei secoli futuri che gli avanzi, a ognuno che si vi appressasse batterebbe il cuore.

A metà strada il convoglio si fermò; scesi in frotta, entrammo in una stazione tutta illuminata, dov'era un buffet, precisamente come quello della stazione di Milano, a scalini, dove con indescrivibile grazia, in vasi di porcellana, in coppe d'argento, tra i fiori ed i sempreverdi, s'offriva i riffreddi, le paste ed ogni maniera di vivande e bottiglierie per tutti i gusti. Una bella signora, capo orchestra, si teneva ritta sul maggiore scalino e dispensava fette di salame, polli d'India, vitello ecc. La sacerdotessa del dio Como ci ammanniva un pezzo di arrosto, quando sonò la campanella, e tutti via come foglie d'autunno trasportate dalla bufera, o, meglio, come le ombre dei dannati di Dante, colle braccia alte in segno di disperazione. La quale non era punto disperazione, ma cautela. I fuggenti tenevano brandita in alto la loro cena, laonde ripreso l'aire s'udì nel mezzobujo un rosicchiare sommesso e discreto a destra ed a sinistra.

Non posso riferire cosa ci parve, allorchè la voce monotona e sonora del conduttore gridò: — Auxerre — Joigny — Sans — Fontainebleau — Melun — Ville-Neuve — Paris — a noi avvezzi alla leggenda di — Preganziol — Mogliano — Mestre …— Nell'intravedere appena la foresta di Fontainebleau provammo un senso mille volte più bello che se l'avessimo vista in pieno mezzogiorno. La fantasia animava quelle ombre d'altre ombre; passavano rapide le schiere regali, le caccie; vedevamo Napoleone I con lo splendido corteo, inseguire fra le alte piante della Gallia nemorosa, i cervi … Ma tutto fu niente in confronto dell'annunzio che già si scorgeva Parigi. Ci affacciammo allo sportello e, nell'immenso bujo della notte, ci apparve una sterminata conca, anzi una valle di fuoco. Tanto l'ardeva, tanto la scintillava quella Babilonia moderna! Ecco la Gheenna, la valle del veleno, delle fiamme e delle lagrime… ecco Palmira, ecco Cartagine… Un ammasso innumerevole di fanali, un milione di case, di stabilimenti, di edifizî, tutto quello che il consorzio umano può accogliere in un ricinto solo. Tutto è là… in quell'inferno, del quale fu per noi anticamera la grande sala terrena della dogana di Bercy. Dopo tanto tempo rifuggo dal parlarne. Il tuono e la rivoluzione della borsa di Trieste e di Parigi stesso è niente a paragone di quello. Ci fu un momento in cui ci guardammo smarriti in mezzo al gridare, al via-vai, alla confusione. Non sapevamo più ove erano i nostri bauli, ma poi levando gli occhi ci occorse alla vista un forzieretto che, dal fianco squarciato, mostrava babbuccie, vesti di nostra conoscenza. Allora si ebbe aggio a raccapezzarsi e uscimmo all'aperto, e subito dentro in un omnibus. Ci si stava pressochè al completo, quando un signore, ultimo venuto, volle sedersi per forza. Stippati, e come tante acciughe, in quella botte ambulante, ci rallegrò un incidente parigino. Una signora, mal reggendo a quel piggìo, fe'atto di levarsi intonando un—Mais, monsieur, c'est inconcevable, on ne peut plus y tenir — e la si diffonde in lagni sull'insolenza di quell'invasore, il quale chiotto, chiotto non dicea verbo. La signora raddoppiava le invettive, quanto meno le si rispondea, finchè il conduttore con voce nasale profferì un stentoreo — Mais, madame, il a quelqu'un qui compte pour deux ici! — dopo di che tutto silenzio, e un ridere a forza trattenuto da ognuno, meno che dalla signora che, piuttosto voluminosa, riconobbe sè sola colpevole. Era proprio lei che contava per due. Nè più parlò, finchè giunta alla Rue des bons enfants brusca la domandò discendere. Intanto noi, già passati davanti la Colonna di Luglio, imboccati i Boulevards, si fe'sosta alla via Richepanse, e all'Hôtel Richepanse prendemmo alloggio.

La casa - Organo maraviglioso - Il Canean - Michelet.

Nel parlare di Parigi, dove si stette dal principio di autunno fino alla primavera dell'anno seguente, non torna opportuna una certa filatura. Per sè stesso il quadro della vita parigina è spezzato, è inquieto. Si compone a piccoli, spessi tocchi di pennello, non come fiu adesso, nel grandioso campo della nostra vita, una solenne e ben modellata esposizione.

V'ha in certi giornali francesi una rubrica intitolata bigarrures anedoctiques; niente di serio, ma tanto si fanno leggere.

Comincierò dalla casa. Abitavamo in piazza della Maddalena numero 7. Un Hôtel, come lo chiamano, e vuol dire palazzo, non albergo, perchè la era casa privata. Come la più parte delle costruzioni parigine l'ostello si stringe man mano che si eleva. Vuol dire che il verone, ossia ringhiera ricorrente, lungo ogni piano è più largo il superiore di quel tanto che avanza pel rientrare del muro.

Il nostro quartiere, l'ultimo, composto di un salotto, sette camere ed una cucina, risultava dunque il più piccolo di tutta la casa. Magnifico il primo piano deve essere stato, a giudicare dal secondo, che, rimasto vuoto, noi vedemmo un giorno. Scadente il nostro e noi eravamo i paria della casa, nè mai gli abitanti del primo piano, ricconi della Russia, ci guardarono neanche in viso in più di mezz'anno di comune domicilio. Talvolta si vedeva dal portone uscire una carrozza lucentissima a lastre di cristallo, sulla housse (serpe) senza schienale un enormissimo cocchiere in parrucca, in gran zimarra, reggere i freni, dondolandosi con una certa solenne gravità. Quella carrozza era soggetto di celia alla nostra cara madre; mai non la poteva dimenticarsi le principesche abitudini della sua nascita. La guardava quell'Ospadaro tornare a casa tronfio, pettoruto, in pelliccie di martoro, lisciandosi con superba noncuranza i baffi da moscovita: ella lo additava seria in apparenza e disdegnosa.— Quel birbante, lui ha d'avere quella bella carrozza e noi altri no. Han ragione i demagoghi, anch'io divento giacobina. — Queste celie ci mettevano in buon umore: sapevamo per prova che di quella carrozza non gliene importava proprio niente, e supplizio maggiore di dover trottare in vettura per lei non ne esisteva. Il suo vecchio Omero, uno straccetto vocabolario greco-latino. Oppure il suo lavoro … oh! benedetta lei per lavorare, la lavorava sempre. Qualunque visita solea riceverla con un brusco e rapido — umilissima! — cioè — andatevene presto — e non si ammansava che per bontà di cuore. Puerilmente ambiziosa nelle piccole cose la era d'una filosofia piena di grandezza riguardo agli onori, alle pompe. Ah! non la dovea a ciò l'aver vinte nei momenti brutti le contrarietà della vita … la dovea ben piuttosto all'occupazione, alla semplicità il non esser morta o impazzita… e per questo nell'occupazione la trovava il paradiso.

Il babbo lo stesso. In un posticino nella mansarde (soffitta) che chiamano tabatière, egli stava tutto coperto per reggere al freddo, rileggeva Foscolo, Torti, Parini, i nostri grandi. Oh! cosa ci vuole per anime così semplici, così nobili a farle contente? Qualche cosa meno di quella bella carrozza.

Al piano secondo abitò, sino ad un certo punto, una elegantissima signora con due De', e una figlia o figlioccia, se ben mi ricorda. Innanzi di sloggiare ci fece visita, e la ragazza fu con noi amabilissima. Un mese dopo scorgiamo questa bimba alle Tuilleries, dove la saltellava con altre briose ed abbastanza sguajate compagne. Ci avviciniamo per salutarla, per carezzarla: la ci pianta gli occhi addosso con sorpresa e disdegno: — Qui êtes vous? — e ci volta le spalle. Un mese in quel mondo è un secolo.

Oltre ai grandi quartieri ci aveano piccoli appartamenti detti da garçons da oltre cento franchi al mese. Gran signori, questi garçons! non si videro mai uscire che verso le tre a cavallo, seguiti dal groom. Pieni d'alterigia anch'essi, mai non s'ebbe a ricambiare una parola e nemmeno un saluto.

Uno di essi, che abitava sullo stesso piano del nostro, facea lieta vita; non di rado si vedevano camerieri con provviste per colazioni, che basterebbero a sfamare Dio sa quante famiglie. Si vedevano altri signori amici e signore del bon-tono entrare da lui, che veniva incontro alla lieta brigata vestito da turco o da beduino, e poi si udivano scoppiare i tappi delle bottiglie di Sciampagna, fra i più vivaci toast; fin che la turba usciva fuori e scendeva le scale, non colla letizia di buona gente che passò bene un'ora, ma collo scherno a fior di labbro di chi mangiò alle spalle d'un gonzo.

L'interno della casa dava nel cortile: dalle finestre si vedevano la mattina i paltonieri delle annesse scuderie forbire l'argento dei finimenti, dar colpi di setola al cuojo, ravviare le redini. Pettinati essi stessi colla discriminatura lungo la nuca, cravatta bianca, rasi la faccia, basette arriciate, gilè a maniche scure. Contigiati e superbi come principi, guardavano con pietà chi non abitasse i sontuosi appartamenti dei loro Nababbi. Dai quali appartamenti venivano su tutta la mattina vari suoni di pianoforti d'Erard o di Marsiglia; corde sonanti, tocche da mani esperte che le percorrevano rapide, instancabili; qualche volta per caso si accordavano insieme, nel monotono concerto d'arpeggi e di scale, in un'armonia stravagante, ma non senza effetto. Parean cori sotterranei, gente in collera… e il non conoscere chi li sonava, facea più curioso il mistero.

Dal verone davanti si godea la vista della piazza: a Venezia lo si chiamerebbe Campo e a Napoli Largo: e veramente è un Largo quello della Maddalena, e di là parte il Boulevard e va fino alla Bastiglia. Quattro leghe di strada, e che strada!… Parigi materialmente è bellissimo quanto non si crederebbe; perchè le case hanno ringhiere a ogni piano, veroni in ferro dipinto che pajon ricami; e la lunghezza e la copia di esse, una sopra l'altra, forma un aspetto di eleganza piena di civetteria. Le son belle francesine anco le abitazioni. Tutte adorne di fiori. Dio liberi uno sconcio, un oggetto esposto che non appartenga alla famiglia delle dalie, dei rododendri, dei sempre-verdi.

A questo proposito c'è il suo bozzetto. Mia madre tenea cari certi fazzolettini bianchi da essa stessa ricamati, e non soffrendo si dessero alla lavandaja, venivano lavati in un bucatino a casa. Così s'era fatto da per tutto, così si fece a Parigi; e un bel giorno la donna tirò sul verone, o meglio terrazzetta, una cordicina e ci distese col miglior garbo possibile i fazzolettini, tenuti assieme per gli estremi lembi con altrettanti spilli appuntati. Appena raggiunta la perfezione di questo meccanismo ingegnoso, si ode sonare con un passionato colpo di campanello alla porta. Si apre, entra la fattora intendente) della casa: donna piuttosto pingue, brava massaja, una vera hausmaisterin, viso e attitudine da madre badessa. Le andiamo incontro un po'sgomenti, vedendola come procedea minacciosa, scalmata, soffiando, ponsando per le tante scale fatte in prescia: i nastri della cuffia le si agitavano regolarmente, come le ali di un uccello stanco dal volo.

— Qu'est-ce qu'il y a, madame Berger?… — Si temette un qualche brutto annunzio, un incendio, una ribellione nei sobborghi …. ma ella, non appena potè parlare:

— Vous.. des.. ho.. no.. rez.. la.. mai.. son!… (voi disonorate la casa!).

Poveretti noi altri, far tante centinaja di leghe per disonorare Parigi! E tutto per quella tapina funicella stesa al sole! Oh! Dio accordi cento madame Berger alla mia Venezia, che ne ha un così urgente bisogno!

La chiesa della Maddalena pare, nel suo interno, una sala da ballo. Dal pavimento di marmo nitido e leggiadramente connesso, emergono per varie inferriate correnti d'aria tepida. Belle pitture della scuola purista di Ingres; e un organo … simile non ne udimmo in nessun paese. È un immenso melodium, credo inventato da Mooser, e dà suoni di tutti gli istrumenti da arco, da fiato, imita lo stormire del vento tra le foglie: voci umane; cori e salmodie e pajono voci d'angeli, adesso vicine, poi remote, poi di nuovo vicine, e che poi ancora dileguano tremanti. L'uragano vi è imitato in modo insuperabile. A Natale fu sonata appunto una musica che figurava un mal tempo: cominciò la melodia soave d'un giorno tranquillo, poi man mano si oscurò quel concetto: un po'per volta il soffio dell'aria, il muggito, la grandine, l'imperversar della bufera, lo scrosciar del tuono. Tutto ciò accompagnato da suoni di pianto, da voci tremanti, cori di vergini, preghiere lontane o prossime a seconda del vento. Ma al cessar della bufera, al sopravvenir di più miti armonie, che arieggiavano il ritmo delle pastorali, ricordando i pifferi e gli altri strumenti villerecci, noi tutti, a cui quella maraviglia riusciva cosa nuova, si provò un effetto curioso. Il bisogno di coprirsi, una dolce sensazione di quella frescura che succede ai temporali, un parerci di vedere un valloncello, dianzi arido, inumidito dalla piova, l'erba più morbida e d'un bel verde vivace…

Nella stessa chiesa della Maddalena furon fatte le esequie a Chopin, pochi giorni dopo che noi ci stabilimmo nell'appartamento della Maddalena. Tutto Parigi convenne ai funerali, e vi fu sonata la marcia funebre dello stesso grande autore.

Parlare di musica non è da me: non pertanto mi è lecito accennare a quella marcia funebre di Chopin, dacchè durante la non breve dimora in Parigi m'occorse udirla sul pianoforte quasi ogni giorno, e tanto che, se l'ascolto dopo tanti anni, la mi riproduce tutto quel tempo passato con una potenza da non credere e da far male; sento quel profumo di violette che imbalsama intiere contrade; sento il sapore del fior di arancio, di cui si usa continuamente coll'acqua; si riproducono insomma tutte le sensazioni di quella vita.

La potenza di poche note aggruppate dal genio è dimostrata in simile fenomeno. Quella elegia che si ripete, con lento andare, in una frase musicale, sempre quella, eppur varia; d'un contorno così puro e preciso: una lamentazione, una nenia che si ravvolge in sè stessa, monotona, è vero, ma straziante come una voce umana che racconti un dolore. A me la pare ancor più del lamento d'un'anima tocca dal sentimento della propria fine. Ognun sa che Chopin morì consunto; la pare il suono del vento nelle infelici lande slave, ossia uno dei canti della Polonia morente. Forse ciò ricorre al pensiero perchè il divino artista è gloria polacca: ma simile impressione udii manifestare da altri, dunque una efficacia superiore alle solite musiche la deve averla.

Dall'altra parte ci stava di faccia il Caffè Anglais famoso, citato nei romanzi come il ritrovo della gioventù dorata. Da poveri buoni borghesi ci desinammo anche noi e ci parve un trattore come un altro. Solo un po'caretto. Una pera costava un franco; adesso la ne costerà due. Una pera da bastarci a tutti, bene inteso: tanto era grande.

Da Véfour, da Véry i nostri pari nemmanco ci ponevan piede. I babbi prudenti ci passavano davanti con religioso orrore. Una cenetta, un gôuter, un niente porta via le centinaja di lire: e chi ha giudizio sta contento a guardar per di fuori: le enormi dindie tutte a bernoccoli, ossia piene di triffole, i raffreddi, le gelatine, gli uccelli rari, le insalate d'ananas, i gamberi mostruosi, i frutti d'ogni stagione. Astenerci da quelle delicature non ci costava proprio niente: e credo che in generale ogni italiano deva dire lo stesso. A chi sa conservare sano appetito un tozzo di pane fa pro ed ha i migliori sapori. Oh! perchè spendere un denaro prezioso in cibi, che vanno giù, fame o non fame, secondo li consiglia la gola? E c'è gente che per quelle miserabili splendidezze vende l'anima!

In più modeste trattorie andavamo spesso al Palais-Royal, trovandoci con molti esiliati lombardi, Lorini, Gori ed altri di cui non mi sovviene. Uscivam tutti in comitiva, si scendea per Rivoli, per st. Honoré: ai canti di qualcheduna di queste belle strade ci stavano i piccoli piemontesi a vender le bruciate. Consolazione vera a chi è fuori di casa sua udir la parlata nativa. A Parigi il piemontese diveniva per noi italiano, e i marroni arrosti un vero cibo nazionale.

A proposito di che devo dire che molto ci pesava il non avere polenta. Parigi era bello e buono, ma non poter far colazione d'un ovo al tegamino e d'una fetta di polenta a scotta-dito! Un bel giorno il babbo ci conduce in una certa strada fuori di mano, a un certo negozio dove si respirava un'aria paesana; il bottegajo ci saluta in italiano, era un milanese. L'Italia in quel genere non la rappresentano che i Lombardi cauti, instancabili nell'operosità. Ivi, in mezzo alle salsiccie, ai formaggi, ai butirri, si vendeva anco la farina gialla: e noi comperatane una libbra ce la portammo a casa, passando, come il fatto non fosse nostro, superbi tra la fashion e l'alta vita dei due mondi, ossia tra gli eroi della moda, che in quell'ora passeggiano i quartieri eleganti della capitale, e venimmo, tenendo con cura in saccoccia il prezioso cartoccino, pieno del blé de Turquie… Ridendo un poco al pensiero che se una di quelle petites maîtresses, cocottes, gommeuses, o non so con quanti altri nomi le chiamano, ci urtavano, noi avremmo seminata la polenta in pieno Rivoli.

Una sera, nei primi giorni della nostra dimora in Parigi, si tornava dal Palais-Royal, e levando gli occhi ci fermò quest'iscrizione: Bal Montesquieu. Un nome che è simbolo di virtù e di morale ci persuase ad entrare; ma la fu una delle tante volte in cui una bella bandiera copre una brutta mercanzia. Entriamo dunque, si monta per una scala di fianco, si va ad appostarsi ad una ringhiera dove altre persone stavano sedute. Un cameriere ci porta sigaretti, birra e giornale; accendiamo i sigaretti, beviamo la birra, dispieghiamo il giornale. Accanto ai noi signori e signore inglesi fanno lo stesso: essi guardavano in giù, e noi pure guardavamo. Niente di bello veramente, cioè a dire il Cancan.

Chi possede un Gavarni non ha che aprire la pagina ai bals de Paris, dare un'occhiata a quelle graziose vignette a cui c'è sotto. maniera di condurre la dama alla pastorella, e vedrà in disegno quello che noi s'è visto in realtà.

Quella pastourelle la ci parve la più buffona cosa del mondo. Per non ridere davanti a quello spettacolo e'si vuole esser morti. Un uomo, se non anziano, certamente non giovinetto, e che in un ballo publico, e a suon di musica porta una donna in braccio, assolutamente come si fa d'una bimba, che non si possa reggere da sè: ed ella, un pezzo di Marcantonia tant'alta, in cappello, e li usavano smisurati, sicchè la pareva sotto un portico. Sciallo appuntato; Dio sa se la infelice avea nemmeno il corpetto! sottane a volanti, stivalini col tallone: ritta, interita, e en avant en arrière … a mirarli dall'alto pareano figure del gioco degli scacchi. All'a solo il ballerino si trasformò in un'altra mostruosità: e ballò il vero Cancan. Cominciò ad avanzarsi e retrocedere, gettando braccia e gambe; la testa in qualche momento più non gli si vedea, non si capiva più cosa fosse quel granchio, una pleura, un uomo di gomma.

Quel ballo è la delizia di tutto Parigi. Tanto vi sono avvezzi che alcuni giovani di buona famiglia, non sopportano di contenersi nelle società di garbo, dove avrebbero a ballare da galantuomi. Del resto in quella sala famosa, scura, poca gente ci avea nella sera di cui parlo. I sergenti di città, immobili, ai loro posti, nè certo vi succedono risse, o sconci o furti quanti potrebbero avvenire, stante la poca educazione dei frequentatori.

Ma son brutti siti lo stesso: passarci per accidente va bene, tornare no. Uno s'abitua a quell'abbandono, a quella scompostezza: finisce per trovarla cosa naturale, si persuade che le donne abbiano ad esser portate a quel modo, e gli uomini a gesticolare in quell'altro, perde l'orrore istintivo del male, salvaguardia d'ogni anima onesta.

Qui mi torna opportuno un'osservazione: ossia che un ordine scrupoloso regna generalmente in Parigi, e che l'indole militare dei Francesi la si rivela ai balli publici, come in qualunque diverso ritrovo. Ciò mi trasporta ad una lezione di Michelet, è un gran salto in verità, ma siamo sempre in Parigi.

Noi vi s'andò una mattina, dietro l'annunzio dei giornali, e, giunti prima assai del celebre maestro, fummo costretti ad attenderne la venuta: nè attendemmo soli. Più di un centinajo di giovani, tutti in piedi, in un emiciclo a banchi, o meglio a scalini, si trovavano nella sala: e l'inferno, l'urlio, il fracasso… è impossibile dirlo. Noi, insieme con qualche altro pacifico spettatore, vedevamo come dal fondo d'un pozzo quelle bolgie, che in certi momenti pareano minacciarci e schiacciarci: gente meno avvezza di noi alle baraonde nei viaggi, si sarebbe un po'sgomentita, perchè al disordine dei movimenti corrispondeva l'orrore dei gridi sediziosi. — Viva Marat — Viva Robespierre — viva l'inferno — viva la Guillotina — E che so?… altre galanterie simili. — Come si farà intendere Michelet, da questa turba imbestialita? — chiedemmo a noi stessi…

Michelet comparve. Un uomo di mezzana statura, asciutto nelle membra; vestito con sodezza e non senza una certa eleganza: capelli grigi, lisci, tenuti dietro l'orecchio; aspetto severo, dignitoso e simpatico certo più dello stile de'suoi libri. Michelet sedette senza nemmeno invitare al silenzio; sedette vicino a noi ad un tavolino, e cominciò a parlare. Parve la sua apparizione lo scatto d'una molla; tutti quei giovani s'aquattarono: per due ore che durò la lezione nessuno fiatò: l'ala di un insetto, vagante in quell'aula, avrebbe disturbato l'oratore che a voce bassa, in modo semplice e dimesso esponeva semplici idee.

Lessi in una biografia di Michelet che l'abitudine di perorare in publico alterò il suo modo di scrivere, e losforzò ad un certo manierismo necessario, credeva lui, a dominare il publico… Io non lo nego, ma quel giorno certo non dovette farne uso…

E su cosa trattò egli?… Sull'impero, ossia sull'ascendente della donna in questo secolo nella società civile. Riportò paragoni, raccontò un aneddoto relativo ad Alessandro di Russia, il quale per non dispiacere a certe dame attenuò una legge crudele ai Polacchi. E cosa ne importava a quei giovani, dianzi demonî?… E perchè divennero da un momento all'altro tanti agnelli?…

Raccomandazioni - Il dottor Louis - L'assemblea - Madama
Fouqueau de Pussy - Ballo all'Hôtel de Ville -
Napoleone III - Un divino concerto.

Da quanto ho fin qui riferito si intende come Parigi è tutto ciò che vuol essere. Qua sfolgora di ricchezze procaci; là è grave come un dottore della Sorbona; da una parte è burocratico quanto una cancelleria tedesca; da un'altra sciamannato al pari d'uno studio d'artista romano: qua bono, bono come un bimbo: vende i santini in apposite botteghe, gli Agnus Dei, i cuori di Gesù e tutto quello che la più pietosa persona può ricercare … Altrove ha in vendita libri di cui non si può nemmen leggere il titolo; al canto d'una strada ecco piantata una lurida figura sinistra, sotto cui si può scrivere la parola di Gavarni: chemin de Toulon; alla porta di Notre Dame una bella dama, dal profilo delicato, dalle occhiaje gentili… un angelo insomma, che vi domanda la carità pei poveri. Tutto ha Parigi sulla fronte. Il mostro ha le insegne della forza, quelle della infamia, i fiori della più squisita virtù, le disorbitanze del vizio… Ora toccherò delle nostre relazioni più importanti.

Una dama russa, la principessa Wolkonska, amica della signora Cavos-Coronini, la sorella del rinomato defunto architetto ingegnere, ci diede lettere per una marchesa di Monferier, moglie al dottore Louis, noto anch' esso per celebrate opere sulle malattie di petto. Per le cure a Parigi lo chiamavano un grand médecin; il che non vuol dir altro che la sua visita costa almeno un marengo.

Madama Louis fu amabile con noi: ma senza buttarsi tanto fuori. Già in Parigi, come in tutti gli altri paesi del mondo, la cordialità si assottiglia mano mano che si ascende alle sfere sublimi: madama Louis ci invitò una sera a bever l'acqua col zucchero: l'eau sucrée. Specie di medicina, ossia due o tre pezzetti di zucchero, una goccia di fior d'arancio, un biscottino di Savoja (savojardo). È un trattamento che si fa in Parigi: è bevanda rinfrescante, sobria e a buon mercato.

Madama Louis ci condusse all'opéra comique a veder la Pars du diable: favore prezioso a chi lo riceve, e non costa niente a chi lo dà. Ogni sera vengono dispensati gratis migliaja e migliaja di biglietti o agli autori o alla stampa, tanto che uno può andare tutta la vita a teatro senza spendere un quattrino. Una volta il dottor Louis, pregato d'indicarci un medico che mi venisse a visitare per un leggero disturbo, venne lui.

Questa politica, suggerita dalla vecchia esperienza paterna, ebbe il suo frutto: la visita d'un grand médecin. Il quale arrivò come un fulmine: entrò, fece la visita come una rivista militare: si trattava d'un torcicollo. Ordinò uno sciroppo di viole, o una tisana … e andò via. Due volte fummo alla sua casa nelle ore di consultazione. Ogni volta scrisse almeno otto facciate. Innanzi di partire io chiesi per suggerimento, anzi per ordine del mio ottimo padre, quanto si doveva al dottore Louis. Egli rispose per la posta immantinenti queste laconiche parole: « La signora Luigia Codemo deve trenta lire ». Le quali furono subito mandate col mezzo d'un commissionario. A Parigi uno s'avvezza a fare senza medico, perchè non mette conto chiamarlo troppo spesso. Non tutti i medici però costano a una stessa maniera, e i piccoli mandano la loro specifica — 5 lire la visita. — E i nostri poveretti se facessero così!… e quante volte non istettero contenti a un — se vedaremo dotor! Pasquali ricevette fin trenta centesimi da qualche disgraziata famiglia, e li mise in saccoccia colla stessa nobiltà come se fossero trenta lire. Anco per la dottrina io non so se i nostri non le superano quelle gran celebrità: meno fumo e più arrosto forse da noi, dove ciò che l'ingegno specula può chiamarsi una scuola, e non empirismo … Ma laggiù ei sanno fare!

La sorella della signora Louis era moglie di Abele Hugo, fratello del grande poeta. Vidi io sul tavolo di madama Louis una copia del romanzo Notre Dame magnificamente illustrata e legata, con suvvi di propria mano dell'autore: à ma chère soeur Zoé. E valeva per cognata.

La moglie di Abele Hugo, anch'ella di casa sua marchesa di Monferier, brava, colta d'una bella coltura, piaceva per la bontà di cui tutti questi pregi andavano in certo modo conditi. Vestiva con una trascuratezza originalissima, secondo le dava l'estro; si vedeva una donna di talento che, pensando ad altro, metteva ciò che le capitava alla mano, e così la iva pei Boulevards distratta e dimessa, ma sempre degna e di modi attraenti e cortesi. Qualche mattina la veniva da noi e la ci dava lezioni di francese. Ah come lo pronunziava lei, e come lo insegnava!… dianzi avevamo la stolta presunzione di parlarlo a modo … Ella si prese il disturbo di disingannarci, ma dopo la sua scuola… e'si poteva davvero ingannare qualche parigino!

Oltre che la brava madama Hugo era d'una morale severissima: e che discorsi la facea sull'autorité, assicurandoci che piuttosto di fare spendere un centesimo a suo marito più di quello che le permettesse, avrebbe preferito non so cosa!… Coll'illustre cognato si trovavano agli antipodi. Non ci parea vera tanta virtù in un Parigi. Abele Hugo, un ometto piccolo, grasso; i figli giovani di cultura e di educazione quanto la madre, biasimavano l'autore di Nostra Donna, esule di Iersey: anzi, per dirla schietta, gli davano del matto alla prima, andando perfettamente d'accordo co'miei cari vecchi, conservatori ultra, codini.

Nè questi sentimenti, naturali nelle famiglie di due donne aristocratiche e al di là di massaje, per l'amore dei figlioli, si incontrano di rado anche nella gente di minor condizione. Il nostro calzolajo, legittimista ardente, additandoci le parole scritte sulla facciata della Maddalena: charité, egalité, fraternité, declamava con enfasi: — c'est trois mensonges ça!… — son tre bugie quelle!

Non fu il solo caso di legittimismo, ossia di aristocrazia in gente del basso ceto. Bisognava sentire quel custode che a Neuilly mostrava le rovine del castello reale. Con che passione conduceva alla camera dove la regina Amelia tenea, preziosamente raccolte, le corone dei premî conquistati dai cari figli. E anche lui con quell'enfasi: — c'est-ici que la mére contemplait… — e giù una filippica contro i rivoluzionarî.

V'hanno due correnti in Parigi: una solitamente in cravatta bianca, l'altra in camiciotto, ossia in blouse. Alle volte occorre trovarsi fra i due tipi in uno stesso punto. Un giorno passando in omnibus davanti la Colonna di luglio, un operajo esclamò: — Ecco dove il popolo vincitore ha vinti i suoi tiranni! — Noi tutti ci volgemmo a guardarlo, non senza un segreto tremito. Tipo incarnato del popolo e della rivoluzione, pallido, magro, giovanissimo e decrepito, coi capelli alla nazarena, il caschetto messo alla brava, crânement, dicono loro. Ma il modo con cui lo sbirciò un signore che gli sedeva di faccia, vestito di nero, composto nei modi, barba rasa, cravatta bianca, in contegno serio e da diplomatico … L'occhio torvo, ma passionato, dell'operajo, e quello gelido e riprovatore del destro, si scambiarono una minaccia, e in ambedue c'era una condanna… E'son là Franchi e Galli, perpetuamente in presenza gli uni degli altri, in quel tremendo duello…

All'assemblea fummo testimonì di ben diversa sfida. Il signor Farconnet, deputato della sinistra, ma niente sovversivo; capo famiglia, marito d'una signora Armandi e, se non erro, sorella d'un colonnello Armandi, noto fra i patrioti italiani, Farconnet non nutriva sensi molto fieri, benchè democratico. Egli si comprometteva pochissimo; perciò lo denominarono subito « deputato del silenzio ».

Con noi l'egregio uomo fu amabile, fin da quando lo conoscemmo a Dijon e ci condusse ad ammirarne la bella fontana e il bel parco; a Parigi ci invitò a casa sua, dove convenivano molti republicani e fra gli altri Barman, console svizzero. Farconnet sosteneva la nostra nazionalità con un calore che non si smentì mai nelle frequenti volte in cui ci ritrovammo assieme. Anzi una mattina nella chiesa degli Invalidi, levando gli occhi alla cupola ci scorgemmo, tra un'infinita copia di bandiere di tutti gli stati del mondo, una bandiera tricolore, conquistata all'assedio di Roma. A noi corse un freddo per le ossa. Non vi fu nessuno, che non tremasse nello scorgere fra tanti simulacri di gloria, quel povero segno d'una vita, allora spenta e senza speranza. Ma il moto di rammarico o dirò meglio di vergogna fatto dal nostro buon amico ci fu di amaro conforto.

Avendoci egli adunque aperti gli usci dell'assemblea, noi vi andammo; e di essa ci restò l'impressione presso a poco della Camera di Torino, meno la commozione. Favre, Simon, Leroux ed altri consorti predicavano dal banco e dalla presidenza. E cosa predicavano! e con che urlìo e con che gesticolare. — Ci fece ancor più senso del cancan!

Favre con quel suo zazzerone spettinato, arruffato, indecente; vero spaventa-passere. Le tribune gli ringhiavano contro: il popolo, il vero popolo disconosceva così tristi difensori de'suoi diritti. Gran buon senso c'è nel popolino: là dove è più rimasta schietta l'impronta dei Gallo-romani, v'ha criterio e naturalezza come da noi. Ogni volta che ci vi trovammo in mezzo, ci parve d'essere fra gente nostra: un amabile scambio di parole e di pensieri ci rallegrò l'anima, gelata nell'attrito di quella, che chiamano alta vita.

— Vorrei esser io! — vociferava un uomo vicino a noi, stomacato delle stupide cose dette da quei pazzi di allora — vorrei esser io… un cannone e caricarli a mitraglia. — E tutti gli astanti assentivano.

Composta e piena di coraggio si mostrava la destra. Il marchese di Larochejaquelin, Montalembert e altri campioni celebri. Larochejaquelin enorme come Lablache, portava una calottina di velluto verde in testa, attorno a cui sbucavano capelli ancora biondi, in un cannellone a guisa di certe pitture del medio Evo. Una figura veramente originale. Montalembert proferì un discorso, ma non me ne sovviene punto.

Continuando le relazioni una ne ho di illustre, o per lo meno rinomata. Intendo la signora Fouqueau de Pussy. Soci al suo giornale, il Journal des Demoiselles le femmo visita, ella assente. Venne difilato a casa nostra con quella cordiale tenerezza del redattore di un periodico pe'suoi fidi associati. La mostrava oltre i cinquant' anni, di mezza statura, fisonomia intelligente e tipo francese; la parrucca non le disdiceva: anzi non vi si badava, perchè l'occhio simpatico e vivace attraeva, attestando la giovanile freschezza d'una mente in continuo esercizio di bella cultura.

A collaboratori il Journal des Demoiselles contava le migliori penne di Parigi. Dumas, Deschamps ed altri, ma la Redazione si dovea tutte a donne, con alla testa madama Fouqueau de Pussy.

Fin qua non e'è niente da dire: ma ci parve strano che la capessa d'un giornale, scritto da donne, avesse una triste idea delle scrittrici, pittrici, poetesse… Le tenea in pochissima considerazione per verità, e sosteneva che — la donna non ha di meglio da fare che assistere malati: un grembiale bianco, una tazza di tisana, ecco la sua poesia.

In queste parole v'avea una nobilissima sentenza, e fin che il mondo sarà mondo, carità sarà il tuo nome, o donna. È anche verissimo che l'arringo letterario può, lo ridico, riuscire funesto, mortalmente funesto alla donna, perchè la ci può perdere affetti e coscienza, e trasformata dalla vanità, divenire un mostro … Or ora la Beecher-Stowe, per far parlare di lei i due mondi, o non si pensò ella di svelare che la vedova di Byron, ebbe a confidarle in punto di morte il terribile arcano della sua separazione dal marito … ossia un amore colpevolissimo di lui per la propria sorella mistress Leigh? La Revue des deux mondes parla a lungo di questo lavoro dell'illustre americana (Lady Byron vindicated) e la canzona con quella pacata aggiustatezza, che mette quel giornale fra i primi del mondo.

Ciò tocco per dimostrare che la smania di far parlare di sè toglie il senno, e una autrice dianzi intesa ad una immensa opera di rigenerazione morale, cambia in una volgare ed indiscreta calza turchina, buona a sollevare scandoli. Qui da noi la cosa sarebbe impossibile; perchè nessuno se ne darebbe per inteso. Ma benedetta sia pure la noncuranza italiana!… chè Dio sa cosa la vanità ci saprebbe consigliare di bello, quante goffaggini; e quanto se ne vantaggerebbe il diavolo, il quale però, alla muta, alla sorda, qualcosa arranfia e bada a perdervi il meno possibile.

Ammesso dunque benissimo, che l'orgoglio è brutta fonte di male, resta a provare se il solo campo letterario ne coltivi la rea vena, o se in quello mondano non ve n'abbia altrettanta, e più velenosa.

Poi venendo al concreto si domanda — Una donna che viva del denaro, da lei tenuto in grandissimo pregio, del denaro che per lei guadagnavano quelle povere au rici facea ella bene a dirne orrori?…

Madama Fouqueau neanche di matrimonio la non ne volea udir a discorrere… le donne infermiere e monache: senza ricordarsi che ben presto in quel modo non ce ne sarebbe più di bisogno. Se la vivesse ora, Decharrette la annovererebbe fra le sue più zelanti partigiane. In quel tempo scrissi una scena domestica, in francese, la s'intitolava: Le vrai bonheur. Una povera ragazza che sceglie bene, si sposa ad un bravo operajo, mentre un'altra sedotta dall'amor proprio vuol levarsi dalla sua condizione e finisce male. La cosa mi venne raccontata da chi ne fu testimonio in Grenoble. Compiuta che la ebbi la diedi a madama Fouqueau, che non si fece niente brutta all'idea d'inserirla nel giornale.

Passa un mese, passano due, passano tre… Un giorno si montava in carrozza davanti casa nostra, un commissionario ci si avvicina, e ci porge un plico.

— Quarante sous! —

— Cos'è? —

— c'est un manuscrit. — Era il Vrai bonheur, che tornava indietro triste ed umiliato. La signora Feuqueau accompagnando il rifiuto con amabili parole, mi rivolgeva questa interrogazione: — est-ce le vrai bonheur? — Un matrimonio onesto di povera gente, contrapposto ad uno disuguale, per vanità, non le pareva un vero bene. Mi consigliava però a ritentare la prova e a scrivere… concludendo: vous le pouvez! Se questo fosse o no, a me non istà il giudicarlo. I miei cari genitori soffersero della negativa, essi trovavano il quadretto a modo: ma i genitori, per quanto severi com'erano i miei e rispettosi alla critica, son sempre indulgenti. Per conto mio veramente posso dire che nella piazza della Maddalena ebbi il primo fiasco: e se così lo chiamo è perchè a questa irriverente parola del frasario teatrale nessuna altra si può sostituire. Madama Fouqueau avea un altro piccolo travers: una manìa. Un canino prepotente, chiamato Darling, famoso nei due mondi, poichè saluti amabili gli veniano dalle fedeli socie di New-York, e così da Londra, o da Pietroburgo. Questo cane (levrette) seguiva sempre la padrona, tenuto a mano da una cordicina. Riceveva lui primo in casa sua, quando s'andava a trovarla; ricevea con insopportabile abbajare, per cui tutte le prime parole si perdevano in quel susurro. Quando, seduti, si cominciava a discorrere, volea prender parte alla conversazione; saltava in grembo alla signora, che per farlo tacere lo copriva colla sopravveste. Incamuffato a quel modo Darling dava capate, si storceva, abbajava sordamente… talchè la parea ventriloqua. Impossibile rimaner serî, e non pensare che di quei bozzetti bisogna andare a Parigi per goderli … Ma lasciando la buona signora, che del resto per educatrice a tavolino la valea tanto oro, veniame a un altro personaggio e a un altro argomento.

Non mi ricordo bene da chi, se da Hübner, ministro d'Austria, da noi veduto dal Nunzio pontificio, e al quale questo presentò mia madre come una rossa sfogata, senza che Hübner credesse; ma facendo anzi comparire su quella faccia da diplomatico (che nel 59, al discorso con cui Napoleone dichiarava la guerra all'Austria, seppe conservarsi marmorea) un fino sorriso; ebbimo biglietti per una festa data all'Hòtel de Ville; e fu là che vedemmo Napoleone III, allora presidente della republica, quale è ora Mac-Mahon all'Eliseo.

Della festa non parlo: tanto le son tutte eguali; i poveri reporter, costretti a scrivere da modiste e da sarte, hanno abbastanza da fare a dipinger donne e cavalieri in quegli amabili tornei del lusso e della moda. Padrona di casa non ce ne avea, e quindi i parigini ci vanno a quelle veglie senza certe etichette.

Dirò solo di Napoleone, e ciò non perchè avessi quella volta più agio di vederlo da vicino. Meglio assai m'occorse osservarlo di giorno alle riviste, fra i suoi generali, oppure ogni volta che ei passava accosto nella sua carrozza, quanto lo permettessero i corazzieri a pistola tesa, ma in piena luce. È dunque perchè all'Hôtel de Ville, il futuro imperatore mi lasciò un'impressione particolarissima, singolare: la quale nel progresso del tempo ricevette un suggello terribile, doloroso, ma storicamente vero. Ei mi parve in quella sera un uomo affetto da un'affissazione, in una parola, un maniaco.

L'impressione è tutta mia, personale, non pertanto la non è proprio tutta fantastica; la s'appoggia un poco alla verità.

Napoleone III, fu, sin dalla sua prima giovinezza soggiogato e spinto da un'idea fissa: l'idea di regnare, e di emulare il divo imperatore suo zio. L'Europa lo battezzò per pazzo, e senza saperlo, la vecchia esperta disse il vero.

Napoleone III da giovane, narrano le cronache, educò, tenendo brandelli di carne sul proprio cappello, un'aquila a seguirlo, affinchè i popoli, nei cerchi aerei descritti intorno a lui, dal grande uccello, leggessero un segno di predestinazione al trono avito. Fu riferita una frase di lettera dalla Svizzera in cui diceva — che il sangue dei Buonaparte gli lacerava le vene; — che più? Negli espedienti per sottrarsi dal castello di Ham, si scorge, oltre che il desiderio comune ad ogni prigioniero di fuggire, lo studiato acume di chi ha nella evasione un potentissimo scopo da raggiungere. Il contegno di Buonaparte in Parigi come deputato all'assemblea, e come presidente stava in perfetta relazione con questo sistema di idea fissa, cioè a dir di manìa: è sempre delle anime grandi aspirare alle cose grandi: è naturale dunque, forse anche nobile, ma sempre manìa; e la può quindi condurre alla gloria o al delitto.

Quell'ometto, pallido in ciera, colla testa un po'inchinata, impassibile all'aspetto, e sofferente che ci pass ò davanti più volte all'Hôtel de Ville, portava impressa nella sua attitudine dimessa la forte ostinazione di un pensiero padrone, anzi tiranno. c'è nelle scuole dei ragazzi taluno fra essi d'un carattere… come lo chiamerò?… musone: di quelli che non si arriva a comprenderli; castigati, pajono pentirsi, e si ritirano, ma per fare subito peggio di prima.

Napoleone all'idea fissa di regnare sacrificò la Francia e sacrificò la coscienza.

Certamente questo fu il senso che mi rimase di Napoleone, ancora presidente, ma che rugumava in core il colpo di stato. Allora lo dimenticai subito, ma nove anni dopo quella figura mi tornò alla memoria, non altrimenti che un'apparizione.

Ciò accadde al momento della pace di Villafranca, allorchè, dopo tante promesse, dopo tante aspettazioni vedemmo un popolo repentinamente tradito, senza sapere quanto durerebbe quell'inganno, quanto si perpetuerebbe il nostro servaggio.

In quel punto, colla fantasia stravolta dal dolore e dalla confusione, ho scorto quell'ometto pallido, e proprio da nulla, io l'ho scorto cambiare attitudine: affacciarmisi non più sotto l'aspetto di un mal fido, o almen debole amico, ma d'un nemico alla prima, e tutto quello che di perfido si può nascondere nelle anime tenebrose e profonde mi si svolse in terribili segni. Laonde minaccioso, erigendosi e smascherandosi da un momento all' altro, mi parve di vederlo a cavallo, volgerci il tergo: dalla bocca gli uscivano fiamme, col piede, trasformato in zampa da Satana, ei premeva la staffa, e ci lanciava queste parole:

— V'ho promesso che farei la guerra per un'idea; la idea era la mia: scendere in Italia come conquistatore e guerriero. In vece di ajutarvi per niente, voi mi pagherete a milioni e vi porterò via due provincie. V'ho promesso che Italia sarebbe franca dall'Alpi all'Adriatico; vi lascio libero soltanto un paese scoperto, senza fortezze, senza ombra di difesa, e che gli stessi nemici con una passeggiata militare contano di ritorvi. Perciò G restate dissanguati, in peggiore condizione di prima; là feudo imperiale, qua dipartimento francese: ma io ritorno vincitore di Magenta e di Solferino; un arco di trionfo m'aspetta: avrò sorrisi per chi vi conculca, per voi segreto disprezzo: state là, maledetti!… — e scappava ripassando quella nobile provincia di Lombardia, ancora ardente delle feste, nella sublime esultanza d'un' ora, che gli prodigò tutto quanto la umana immaginazione può idear di più bello!…

Si oppone che allora Napoleone non potea fare di più: ma è dubbio che di più volesse… (Vedi le note di Lord Cawley) e se da noi quindi l'ottenemmo l'intento, fu perchè la biscia beccò il cerretano, e non si adesca ad una legittima ambizione un popolo per niente. La diffidenza era naturalissima dopo quel fatto, ed io, sempre con quello spettro di Mefistofele davanti gli occhi, quando seppi che chiamava il Piemonte « un piccolo Stato a pie'delle Alpi », ho tremato: ora, io pensai, egli medita rapirci il nostro Palladio, la nostra Macedonia, come suo zio ne strappava i figli, perchè li educassero in Francia, e dimenticassero d'Italia perfino il parlare!

Perciò quando Carlini mise in atto la commissione di S. E. il senatore Torelli, di quel cittadino egregio fra gli egregi, esempio colle opere, come ha da fare chi vuol bene alla patria; quando Carlini, col suo piglio ardito, dipinse Vittorio Emanuele e Napoleone III, per la cappella dell'Ossario a Solferino, ben s'avvisò improntando di maschia risoluzione l'aperta e schietta fisonomia del nostro Re, e di tenere quell'altra se non oscura, in ombra. La fu ispirazione da poeta e acume di filosofo…

Generosamente sentì anco Milano e tutte le provincie nell'innalzare al Monarca francese, non ostante i suoi torti, un monumento, perchè volere o non volere fu lui a darci mano. Ma a coloro che offersero l'obolo per tale edifizio storico e artistico, si vuol consigliare questa epigrafe: — Mercè ti sian rese: ma cadesti a tempo. La tua ombra si dilegua dietro Chiselhurst, ma ancor vivi sono i nostri dolori, e noi badiamo a chi ti succede! —

Ritornando alla veglia, io devo passare a relazioni ben più leggere, e in Parigi le sono appunto le importanti. Una grande notizia circolava nelle sale splendidissime del palazzo di città: — La principessa Matilde ha la collana della regina, — L'avete vista? — Dov'è? — Quel torrente si avviava lungo la fulgentissima fuga di stanze, giungeva ad una porta dove, proprio dietro lo stipite, sedeva in una bella poltrona di velluto, stile medio-evo, una bella signora grassa, vestita con soda eleganza, adorno il collo di quella tale collana che toglieva gli occhi. L'immensa luce di quelle sale si ripercoteva sulle mille fascette scintillanti delle limpidissime gemme e le facea brillar come piccoli soli … E in tutti un appassionarsi, un ammirare quei sassi lucidi, che tutti però non valeano una spiga di frumento.

Di una serata o meglio accademia, al conservatorio di musica, non posso trattenermi dal parlare perch è fu cosa semplicissima quanto sublime. Due soli attori si mostrarono su quella elettissima scena: due soli pezzi vi furono eseguiti: uno di cembalo, uno di canto. Prima comparve madama Sontag, vestita da città, con una piccola acconciatura a marabouts in capo. In mano teneva la partizione, ossia il libro di musica, e sulla coperta impressa in oro una corona o, come la chiamano, un tortil di baronia. Salutata da vivi applausi, ma composti, perchè la sala conteneva il fiore della società europea, là si vedea un Richelieu, più in là una Chartoriska; in altre logge ambasciatori, consoli, madama Sontag ringraziò con grande sostenutezza poi, senza nemmanco guardare al libro, incominciò a cantare.

Orchestra non ce ne avea: in vece di quella i giovani allievi a una certa distanza, quanto permetteva il piccolo palco-scenico, tutti seduti, uomini e donne, ora più forte, ora meno, quasi sempre in coro sommesso, accompagnavano il canto. E così il mirabile accordo, la misura di quelle cadenze riuscivano perfette, che parea una voce sola. Parea il fiotto che si rompe alla spiaggia, lo stormire del vento fra le foglie, o altra sospirosa monotonia, che riproduca i suoni più simpatici della natura. Sopra questo fondo, io direi perduto, con rara maestria e colla serietà d'una cantante di regali camere, la Sontag ricamava a filagrana le più belle variazioni sul tema del Freischütz. Ala d'insetto o tubar di colomba; note finissime come luce di stella che fila e trema nell'onda; gorgheggio d'uccellini in sull'alba… io non saprei a cosa assomigliarla. Tutti ascoltavano rapiti, nessuno più respirava… e in ognuno un pensiero, il timore che quell'incomparabile melodia presto cessasse… Di queste ore ha Parigi, di queste carezze ha la incantatrice sirena; ha essa poi a lagnarsi se le sconta a sangue e a petrolio? Dopo la Sontag venne Thalberg… ma succeduto a quel paradiso della Sontag, a tutti die'noja. Del resto quello è il genere di musica più gustato dai Parigini. La musica di Verdi la giudicavano da menestrello di villaggio, non fu se non a forza di genio, di passione, di potenza che piacque a quei buongustai.

Seguita la vita di Parigi - Dumas padre e Dumas figlio -
Veglie - Colonia italiana - Un vaudeville in azione -
Riflessioni.

Ritornando alle conoscenze, non di tutte, perchè allora il libro non vorrebbe finir più, ma a quelle degne di maggiore ricordo, io verrò alla prima quanto a nominanza, voglio dire a Dumas padre e alla sua famiglia.

Un bravo e buon galantuomo di librajo, il signor Garnier, che ci prestava libri e ci colmava di gentilezze, ci promise farci conoscere l'autore del Monte-Cristo: anzi noi, a maggiormente impegnarlo, si mandò a Dumas padre una lettera per manifestargli il nostro desiderio.

Non vedendo effettuarsi la cosa, una signora conosciuta per nostra disgrazia, ci offerse ella di procurarci la visita del celebre uomo, facendoci prima conoscere il figlio.

Una sera dunque di quel carnovale in una veglia o balletto, il giovane autore ci fu presentato, ed io riferirò semplicemente l'impressione da noi provata.

Dapprincipio Dumas figlio ci parve un po'sostenuto e che arieggiasse, come dicono loro, al piccolo Byron. A uno dei nostri, che non ha pelo sulla lingua, gli fece l'effetto di un piccolo Dante. Ma quando l'autore delle Camelie ci sedette vicino, e si cominciò a parlargli in confidenza, allora fu tutt'altro. Trovammo in lui un giovane alla buona, alla mano — un bon fiol. — Il primo argomento fu quello del suo rinomatissimo padre: e si espresse la tema di avere commesso un'indiscretezza scrivendogli. Dumas ci rassicurò con amabile semplicità: — Cento e cento lettere simili alla vostra giungono sempre a mio padre! — Quindi ci promise che verrebbe a noi in sua compagnia. — State quieti che ve lo condurrò e lo assorbirete come un punch! — diss'egli con una di quelle amabili facezie con cui, pittore dai frizzi brillanti, dà risalto ai dialoghi delle sue comedie.

In fatto di letteratura ci si mostrò fino apprezzatore delle cose più elette: noi non conoscevamo il Visconte d'Armenthal, uno dei più bei lavori di Dumas padre, ed egli ce lo additò. Pretende uno spiritoso libellista che il Visconte d'Harmental è di Augusto Maquet. Di ciò non possiamo giudicar noi lettori, e stiamo al nome ch'è sul frontespizio. A questo proposito non posso tralasciare una piccola digressione, ed osservo che talvolta le migliori cose passano sconosciute al publico. Le poesie di Hugo non sono certo popolari quanto i drammi e i romanzi. Eppure fra le poesie, specialmente quelle composte in gioventù, v'hanno giojelli. Chi non preferirebbe la raffaellesca ispirazione d'Una notte di estate « Hier la nuit d'été qui nous prêtait ses voiles » ai miserabili sforzi di enormità, con cui nelle ultime opere s'industria a non parere imbecillito?

Anche dell'Amaury fu discorso, altro bello studio fisiologico di Dumas padre, e che noi gustammo, squisitamente tradotto da Giannautonio Piucco per la Gazzetta di Venezia. Dell'Italia ancora Dumas figlio non conosceva che Firenze, se ben mi ricordo; ma si prometteva d'andare a Roma. Noi gli si raccomandò di vedere il colosseo … ma al chiaro di luna — Decisamente! — esclamò il giovane autore — il colosseo non vuol esser guardato che a quel lume!.., e sarebbe proprio fargli torto il contemplarlo al sole… — Di che si rise, ma più ancora di madama Fouqueau de Pussy e di quel benedetto cane! Oh! quel Darling gli dava fieramente a'nervi anco a Dumas. È da credere che a lui non toccasse uno di quei graziosi bozzetti onde ho accennato.

Ci separammo quella sera come vecchi amici, e con un: a rivederci.

Dumas allora giovane, nel primo fulgore della sua gloria, avea nell'aspetto quello che più è simpatico in un giovine autore. Di maniere sciolte, ma lontanissime da famigliarità soverchia; nello stesso modo che nel suo stile è una vena di serietà, mista alle vivaci riprese della parlata parigina, altrettanto è nella sua persona: nella agevolezza delle movenze, corretta da un naturale contegno; cioè a dire l'abbandono dell'artista e l'educazione d'un uomo già iniziato al gran mondo. La fisonomia ritraeva dal padre ossia del tipo creolo, aggentilito: ma con un'altra fronte, più meditativa: occhi vivi a Parigi pochi se ne vedono, e i grandi occhioni dei poeti napoletani bisogna scordarli. Ma nello sguardo intelligente del giovine autore francese già si leggeva una grande attitudine all'analisi, che dinotarono quindi i suoi studi. Egli è vero vi si mostrò più fisiologo che filosofo, per fortuna del teatro francese; ma qual pensatore colse verità terribili, e presagì i barbari sulla nuova Roma, quando nessuno li vedea. Poche sere dopo egli ci condusse suo padre e sua sorella Maria. Caccianiga disse che Dumas venne con un servitore senza testa: ecco il fatto. Al servizio del valoroso moschettiere delle lettere c'era un negro; forse uno di quelli chiamati da Algeri, quando si costrusse la celebre isola di Montecristo, ornandone alcune stanze all'araba, con versetti dell'Alcorano sulle pareti. Questo negro vestiva di bianco, ossia d'un paltò che dal barbozzo gli toccava le caviglie; la cravatta essendo bianca… è ben naturale che di sera, e un po'nell'ombra si vedesse camminare un uomo senza testa, a guisa della figura dantesca, e senza che lui la portasse in mano. Alexis (credo così si chiamasse) restò fuori, e nel salotto entrò il babbo Dumas coi suoi due figlioli.

Amabilissimo nel tratto, e di maniere da vero gentiluomo fu con noi e con la nostra piccola società (eravamo in pochi) il celebre romanziere. Vestiva di nero, ma senza caricatura e senza trascuranza. La sua fisonomia, a ognuno è noto, avea il tipo creolo, essendo creola l'ava sua, madre del generale Dumas.

Grande di statura, e nelle forme quadrate, arieggiava un po'la spigliata imponenza di Vittorio Emanuele, son figure che piacciono al publico, e lo seducono. I capelli crespi, piantati intorno al fronte come gl'individui della stirpe da cui discendeva, gli stavano dritti simili ad un'aureola o a un diadema. Raso la barba, gli si vedevan le labbra tumide, e il naso un po'schiacciato. La figlia, madamigella Maria, alta, slanciata di statura non poteva non piacere per una espressione dolce e che innanzi di parlare ispirava simpatia. Il capo le adornava una certa cosa un poco bizzarra: crederei indiana o africana. Una collana formata di anelli in ottone piatti, larghi, ricascanti ai lati delle guancie, in giù per le spalle e che poi tornavano sulla testa. Nel processo Clemenceau, Dumas descrisse un'acconciatura simile. Del resto vestita di scuro, colla massima semplicità ed eleganza.

Dumas padre stette quell'ora di bonissimo umore, prese il the, immollandovi i cantucci, ossia le sbreghe, come noi le chiamiamo, e chiacchierando allegramente. Primo argomento fu Venezia, dacchè è la prima città nota nelle varie del Veneto. Dumas ci disse che la dipinse molte volte, ma che gli spiaceva non averla mai vista. Non fu che dopo il 60 in cui egli venne e fece anche letture in publico. Così si spiega come nell'Antony dicesse che Byron correva a cavallo per la piazza di san Marco. Da Parigi simile cosa la si poteva immaginare, ma a Venezia no certamente. Noi gli si parlò delle sue opere, e io in specie toccai di Gaule et France. Pretendono che la si ispiri alle storie di Agostino Thierry. È possibilissimo; non pertanto quello che ci ha messo di suo il romanziere ajuta a far leggere; e questo è molto, perchè uno coglie, senza avvedersene quella sintesi, quella vicenda progressiva nel cammino d'una nazione, avviata ai grandi destini d'una civiltà compiuta; sicchè colle seduzioni, mettiamo cogli inganni, d'un gran colorista fa che si prenda gusto alla storia. Dumas fu lusingato assai e mi disse — Voi leggete opere così serie?.. — Una lode io devo fare a Dumas; lode comune in generale ai Francesi. Ed è che son giusti, magnanimi per la gloria dei loro fratelli. L'invidia l'avranno anche loro perchè son uomini e donne, soggetti dunque alle umane passioni; ma e'non ci pare. Come Dumas si espresse a proposito della Sand!..— Ella ha raccolte tutte le perle del Berry — esclamò egli, con vera ammirazione ed amicizia — la è il primo poeta della Francia — e coll'istessa schietta stima il figlio esaltava Balzac. Eppure il publico li potea credere antagonisti!

Io penso: quale autore italiano direbbe d'un altro (non parliamo d'una donna): gli è il primo? Ma loro han tributari due mondi, guadagnano i denari a palate, cosa gliene importa d'esser primi o secondi? Così si fa presto a esser buoni … Fin che la dura però…

Una vera compiacenza ebbimo quella sera: e fu di presentare Mussini a Dumas. Mussini, incontrato a Parigi per caso, si trovava da noi quel sabato a veglia, e noi fummo veramente lieti di nominare uno dei più grandi artisti italiani al celebrato romanziere francese. Dico grandi per la fama, e meritatissima. Dacchè in Parigi lavorava e guadagnava secondo il suo merito. Vedemmo una copia della sua Musica sacra, ordinatagli dal ministero della guerra… Possono tenersene paghi in vero, e poche ricchezze simili possedono in Parigi. Grande adunque moralmente, ma non per la statura, in confronto a Dumas, Mussini il giovine toscano, pareva un fanciullo davanti a quel ciclope, curvo innanzi a lui, e come sul punto di divorarlo. In vece gli strinse la mano con vera compiacenza: Dumas figlio se lo prese sotto il braccio e lo portò via, per presentarlo alla sua volta nel circolo degli artisti, alla Rachel e ad altre sommità.

S'intende che noi si restituì la visita al babbo Dumas, entro gli otto giorni, e ne fummo ricevuti con una aperta cordialità. Si riteneva difficilissimo il penetrargli in casa. Appena fu proferito il nostro nome ci lasciarono salire. Gl'illustri visitati stavano a tavola: d'onde madamigella balzò via per condurci alla sua camera. Una celletta, a una sola finestra, con un letticino in fondo, un tavolino, un armadio, parea piuttosto la stanzetta d'una prigioniera che d'una brillante parigina. Al muro stava appesa un'enorme corda, un cavo marinaro terminato da un arnese di cui non potevamo spiegarci l'uso. Era un laço spagnolo. Una cosa con cui gli Spagnoli s'appiccano.

Nè di questo particolare gustoso v'ha a stupire, perchè la cameretta della signorina Dumas era un atelier; ed ella una brava artista. I disegni che ci ha mostrati! con che squisitezza di correzione e di grazia! Disegni puristi, begli studî d'angeli, e di profiletti alla Perugino. Di queste abilità ce n'è un tesoretto in Parigi e, bisogna dirlo, vi si occupano molto. Ragazze che passino la vita alla finestra non se ne trova punto o poco. Fra i disegni, uno mi fermò per la giustezza dell'assieme e per la bravura con cui in due soli e nudi tratti si vedea còlta la fisonomia. Un ritrattino di Alessandro Dumas figlio, buttato giù, eppure inciso dalla sorella. V'hanno artisti provetti a cui non riuscirebbe un nitido abbozzo, improntato di verità come quello: sotto ci stava scritto da non so chi: L'héritier d'un gran nom! Iscrizione che mi persuase quanto ei si tenesse ambizioso di quell'eredità; al contrario di ciò che parea ostentasse parlando e lasciando indovinare che qualche bel milione di franchi gli facea più gola del fumo letterario. Certamente un giovane di ingegno e non ricco ha mille tentazioni, mille invidie, che, vipere assidue, gli rodono il cuore: e specialmente in Parigi, ma un gran nome è sempre una ricchezza ed apre anche il campo a ogni altra. Mentre andavamo ammirando i disegni della signora Maria, entrò suo padre, il quale ignorava che ci fossimo… perchè, sorpreso senza giubba, in maniche di camicia volea fuggire. Ma noi lo ritenemmo, forzandolo a rimanere. Ci lasciammo dopo una breve dimora; egli promettendo di regalarci biglietti per la prima sera in cui recitasse la Rachel: e di venirci a trovare a Londra, dove prestissimo noi si doveva andare.

Ciò che non fu; ma egli attenne bensì la promessa di farci udire la Rachel, e ci mandò un palco per la sera in cui la recitava in Mademoiselle de Belle Isle.

Passo di volo sopra queste memorie: perchè le son troppo amare: amare a forza d'esser sublimi. Una recita al Français è sotto il punto di vista dell'arte cosa perfetta. Nessun teatro al mondo può competere. E ciò non solo per i primi attori, per le splendide personalità, di cui han dovizie le altre nazioni e massime la nostra. Ma per l'accordo, per l'armonia, per la fusione d'ogni elemento contemperato a formare quadri inarrivabili di bellezza e di precisione. Tanto è il servitore come il primo uomo, tanto è l'infima servetta, come la prima attrice. Gente che non sappia la parte, neanche per sogno: anacronismi, sconcezze nel vestiario, negli addobbi nessuna. Nel Philosophe sans le savoir, un vecchio servitore occupa e appassiona il publico pel solo modo accorato, lento, sopra pensiero che tiene smorzando i lumi di una stanza. Non parliamo dei grandi attori, dei chiaroscuri con cui dan rilievo a un dialogo mantenuto in un sistema di naturalezza e di semplicità senza ostentazione. Ma i comici della Comédie Française sono sociétaires, sono accademici: han pensioni come i nostri consiglieri d'appello: le signore vanno alla prova in carrozza, e non si movono mai da Parigi che l'estate per fare i bagni, prendere le acque, o guadagnare qualche 50 mila lire, grazioso fuor d'opera, per le spese di viaggio.

È ben vero che i teatri dei Boulevards sono barocchi ed esagerati nel loro giuoco non meno delle nostre arene; ma all'Odéon di là della Senna, fra quelli che chiamano i selvaggi di Parigi, assistemmo al François le Champi una comedia-idillio della Sand: e bisognava vedere con che garbo, con che scrupolosa esattezza di vestiti e di scenarî … Attori ed attrici devono avere studiato in Berry quel fare, quei modi. Chi scrive può ottenere di gran bei risultati così! Ma qui dove i nostri poveri comici son costrettidi girare come saltimbanchi di fiera in fiera? In verità o non fanno essi miracoli?…

Ciò non toglie che anco in Parigi non v'abbiano ombre. In quello stesso anno (1849) la Dorval, fra le più grandi attrici del secolo, morì di disperazione e di miseria. Lei che creò il personaggio di Maria Giovanna! Ella domandava solo alla Comedia Francese un sussidio e un cantuccio. Le risposero che speravano di ottenere economia sull'illuminazione, che cercherebbero vincere la ripugnanza d'alcuni soci… e allora… forse le darebbero un pane!…

Un altro dono ebbimo da Dumas, un manoscritto suo — Il n'y a que ça dans la maison! — diss'egli. E il giorno appresso ci venne un enorme rotolo di carta turchiniccia; scritta da una sola parte, ma netta, limpida, dalla prima parola fin l'ultima: non si può vedere una più bella scrittura fra l'inglese e la francese. Le prime pagine mancavano, ma io credo sia la Dame de Monsoreau, e ancora la conservo.

Dumas non ci parve niente apprezzato dai borghesi in Parigi. — Voi desiderate conoscere quella gente là — ci dicevano — e noi ci voltiamo da un'altra parte, per non incontrarli. — Altri ci dissero: — Se vi viene di quelle specie di romanzieri e d'artisti, nessuna persona che si rispetti metterà piede nel nostro salotto. — Era invidia? … era un sentimento d'alta morale per certe irregolarità nella vita dell'illustre drammaturgo e romanziere?…

Non lo so: ma certo, non ostante queste singole disapprovazioni Dumas era potentemente di moda. E ciò significa in quel paese trovar editori che pagano, perchè sanno di vendere, fin che dura quel prestigio… io ripeto, dopo di che li lasciano morire di fame. E ciò accadeva a Balzac, se la signora Eva di Hanska non lo avesse sposato. Eppure egli è il Dante francese! O non val meglio la noncuranza italiana, che, solitamente, esalta i suoi grandi quando son morti?…

La fine della nostra dimora in Parigi fu amareggiata da un disgustoso incidente, sul quale mi fermerò quel tanto che occorre a dare qualche pennellata ultima e decisiva sulla vita parigina.

Non so s'io abbia detto, e in ogni caso lo dico adesso che tutti i sabati avevamo una piccola veglia o società confidenziale: insomma ci veniva du monde.

Principalissimo sostegno della nostra piccola conversazione contavamo anche nelle altre sere, in cui si rimanesse a casa, sulla amabile compagnia di Caccianiga, uno degli emigrati. La era una carità cristiana, perchè in Parigi star soli la sera è triste assai. Trovarsi in un appartamento alto, veder di là scorrere quel torrente umano; a mille a mille i cavalli, gli equipaggi, le donne, gli uomini… e non conoscer nessuno, e dir si muore, si vive… nessuno s'interessa … insomma gli è il deserto, senza la solitudine. In questo caso un compaesano e come Caccianiga è prezioso. Tutti consoscono l'amabile vena di facezie che fece di lui il redattore del Folletto, il più bel giornale umoristico di Milano nel 1848. Toccava così giusto! ce l'azzeccava con un garbo! che non si conosce altro che il Pasquino, impareggiabile, da stargli a petto. Peccato che presto finisse. La stessa grazia satirica avea il Folletto nel parlare, e bisognava esser morti per non ridere a udirlo canzonare il prossimo, senza ira però e lontanissimo da trivialità. Quando ci trovavamo fra noi compaesani si faceva un chiasso! … allegria di quella schietta, proprio buona, veneziana, senza malizia: chè nell'allegria parigina, del torbido un po'c'entra sempre. Una sera non sapendo cosa inventare si fece il sorbetto. Caccianiga sorbettiere in capo, tanta neve ci contornava nelle terrazze, che potevamo crederci in una sorbettiera; così dunque fu da noi ammannita quella preziosità, la più cattiva cosa del mondo certamente, ma che gli ospiti per creanza trovarono buona, e che servi anche quella a tenerci in buon umore. Il quale non toglieva qualcosa di serio… e qui, piacendomi andare pei contrarî, io riferirò un bel sonetto di Caccianiga improvvisato nel vedere una bella giovinetta ballare in casa nostra.

Quando ascolto la musica vivace O giovinetta, che a danzar t'invita, Io penso mestamente che fugace È il sorriso gentil della tua vita. Tu stessa un giorno troverai mendace Il breve gaudio dell'età fiorita, E invocherai le gioje della pace, E l'affetto d'un'anima romita. Passano gli anni e il cor s'intiepidisce, Ogni vago pensier cangia colore, Speranze ed illusion, tutto svanisce. Dunque la danza è un giovanil furore, Un'ebrezza che rapida sparisce, Lasciando il corpo lasso e vuoto il core!

In questo sonetto c'è un bel pensiero morale e spontaneo; perciò sono lieta di riferirlo, e nella bella fattura del verso si vede che stava in lui il comporne, e che se s'astenne ebbe torto. c'è chi vuol esser poeta per forza, e chi per forza non vuol esserlo: e credo giovi più il coltivarlo questo sacro fuoco di quello che il comprimerlo. La poesia, sempre detta morta, è immortale: eleva, mantiene lo stile in nobili regioni, è utile al publico, non che agli stessi autori.

Negli anni seguenti, Caccianiga non resse alla lontananza del paese e rimpatriò, occupandosi d'un podere modello a cui pose tutto il suo amore; e che ha già acquistato nome fra i poderi del Veneto. Quantunque desiderasse vivere a sè, nel 1866 gli toccò uscire dal suo poetico eremitaggio: fu deputato, sindaco e prefetto. Dopo di che, gettata la toga di magistrato alle ortiche, tornò a'suoi cavoli, a coltivarvi il cenobio conjugale, com'egli lo chiama, a scrivere novelle, romanzi, da vero filosofo, che ha tanto spirito da ridere di sè e della sua gloria… « Fumo di gloria non val fumo di pipa » scrisse la Sand, e a lei la gloria portò milioni…

Fra i compatriotti che ci favorivano v'avea Besanzoni, da Treviso, maestro di musica e compositore: ma sfortunato, dacchè in un incendio gli si bruciassero i suoi manoscritti, e fra gli altri un'opera, che stava per essere messa in iscena a Parigi stesso. Di questo evento restava a Besanzoni un furore, un astio mal represso e ne incolpava le istituzioni sociali. Democratico, anzi rosso sfogato, egli anelava ad una rivoluzione in senso comunista, contava nelle masse popolari i suoi partigiani: e quando gli si opponeva l'armata… — Che! i pomponi rossi dei soldati in mezzo al popolo son come i papaveri in un prato! — esclamava egli guardando col solo occhio con cui ci vedea (uno era di vetro), ma con febbrile aspettativa il baluardo donde attendeva le stragi redentrici. Le non vennero, lui vivo, ma ancor che fossero avvenute, gli davano i manoscritti bruciati, gli davano il genio se non l'avea?…

Besanzoni del resto, amabilissimo, carissimo uomo, componeva canzonette d'un gusto squisito. Una ne stava musicando di Alfredo de Musset, a cui chiese il permesso; che subito gli fu accordato con visibile sodisfazione del Byron francese: ed io conservo l'autografo. Un'altra era già bella e messa in musica, ossia una marinaresca di Dall'Ongaro, che incomincia:

Salpa, salpa, spiega al vento Randa, flocco e scopa mar,

Il ritornello è variato su questo tema:

Salpa, salpa, intanto anch'io, Benchè lungi t'amerò, Sarà immenso l'amor mio Come il mar che solcherò.

Non posso dire se lo spartito arso di Besanzoni fosse di valore; so che la marinaresca, e specialmente il ritornello erano piccoli giojelli di melodia, caratteristica, adattatissima alle parole, perchè insieme s'inspiravano ad un sentimento di serenità e d'ampiezza del mare, passando a certe note profonde a cadenza, che veramente andavano al core. Gli amanti di musica si procurino quella marinaresca… se c'è, se non fu travolta nei mille abissi dell'inferno parigino.

Fatto sta che quando Besanzoni canticchiava, come gli riusciva, la bella canzone e noi s'applaudiva, egli solea dire:

— Se la udiste cantata da un soprano!

— Magari pure, gli si rispondeva. E lui:

— State quieti vi condurrò una signora, che la canta a piacere.

Più volte seguì la promessa alla esclamazione, fin che una sera Besanzoni ci condusse una signora vestita semplicemente, e d'una bellezza da far colpo, come ottenne, nel nostro salotto.

Di bella statura, di forme eleganti; i capelli neri, lucidissimi, allora s'usavano acconciature composte, divisi da una dirizzatura candidissima le si bipartivano in due belle ondate sulla fronte, che in tal modo appariva più piccola: scopo urgente fra i mille artifizî della teletta parigina. L'occhio, fatto nero e veramente asiatico da quelle leggere sfumature di bistro che ci danno sotto, l'occhio, naturalmente vivace, magnetizzò tutti che videro, apparizione inattesa, questa nuova ospite. Ma quando avvicinatasi ai miei cari vecchi, disinvolta e modesta, lor disse con grande naturalezza e nel più puro accento italiano:

— Sarete contenti di quest'alloggio: avete la chiesa vicina; così non perderete messa — allora quella bella giovane loro parve un angelo…

La non poteva toccar tasto migliore quella briccona; fina, ammaliatrice… oh! la era napoletana. Poi cantò la marinaresca, la cantò benissimo, come un organetto, e ognuno rimase incantato.

Ognuno, fuori che certe signore parigine, le quali subito ne dissero orrori.

— Ie sais ce que c'est … Paris fourmille de ces femmes là… — Ma noi non vi prestammo fede, sempre, in generale, la malignità ci trovò ribelli ed in opposizione: quella volta militava per la buona interpretazione dei discorsi malevoli, il saperli mossi dall'invidia. Un amico, un italiano ci conduce una signora vedova di un conte fiammingo … O che? dovevamo cercare negli stati civili delle Fiandre chi fosse il defunto? Anche il trovarsi lontani dalla patria, con gente paesana fa piacere, dispone proprio bene. La bella napoletana, famigliare ai nostri costumi, ai nostri paesi, nell'udir che eravamo da Treviso esclamò — pan padovan, vin visentin, tripe trevisane e done veneziane. — Essere a mille leghe dal nido natale, vedersi davanti una gentile signora della Chaussée d'Antin, olezzante di violetta, e di grazia parigina e sentir nominare (tuttochè non se ne mangi mai) le trippe trevisane, o come si fa a non andare in tenerezza?

Queste belle cose non impedirono i disgustosi effetti di una tal conoscenza.

La bella napoletana era, ci disse ella, sposa promessa d'un signore inglese, di cui ci mostrò il ritratto, e che si presentò quindi come venuto apposta da Londra, per esserci alla sua volta presentato.

Quest'inglese dai mustacchi rossi, basette arricciate, contegno riservatissimo, fina educazione, parlava alla signora contessa col cappello in mano, in guanti e col rispetto dovuto ad una gran dama.

La signora però ebbe a confidarci che il core non la chiamava a quelle illustri nozze, carissime alla madre, che non vedea per altri occhi fuori di quelli del ricco inglese: ma che anzi la si sentiva presa fortemente d'un giovane di gran fama, Alessandro Dumas, dal quale sperava pure d'essere sposata; sempre a detta sua, ben inteso.

Può darsi che la povera donna si fosse innamorata da sua posta, e che il giovane autore nemmanco lo sapesse. Certamente la ci die'a leggere una poesia, di cui la si teneva ambiziosa; poesia scritta espressamente da lui per lei, secondo ella affermava. Se fosse vero, non lo so, ma so che la poesia era bellissima e degna di chi compose i versi preposti al dramma Diane de Lys, intitolati Saint-Cloud. Deploro di non averli copiati, perchè meritavano: e in essi vi si faceva una pittura fra seria e faceta d'ogni bellezza della dama, terminando con questo concetto poetico e umoristico insieme: Dio non sapendo come farle gli occhi, prese un carbone e li tracciò con un segno di foco. Il carattere, ossia la scrittura parea tutta di Dumas, similissima a quella del padre: in ogni modo non gli si faceva torto a crederla sua. Che nella sera della veglia, dove appunto lo conoscemmo, egli nemmeno la guardasse, fu cosa che saltò agli occhi di tutti. Ella povera donna la non sapea che atto fare per destar l'attenzione di lui, egli non le dava retta.

Passando per una camera dove ardeva una lampada a globo opaco, a pareti scure, lo vedemmo gettato sopra una poltrona, cogli occhi semichiusi, come chi non ne può più dal sonno, mentr'ella andava, veniva, smaniava, offesa dalla non curanza del giovine parigino. Stanco forse dallo studio, nojato degli svaghi, aspirando alla nobile quiete severa, per la quale certamente nacque; ansioso delle pure affezioni di cui si sentiva capace, e lo dimostrò nelle sue opere, specialmente nelle ultime…

Quando un autore mette nelle pagine che scrive una potenza, una emozione che fa colpo e seduce chi legge, vuol dire ch'egli le dettava non per accozzare periodi, ma per disfogare una segreta piaga, una irregolarità intima, ch'è la croce della sua vita: invano tentano i felici di imitar quella foga, di raggiunger quell'impeto nato dai più riposti penetrali della vita, e che tutta la domina fin l'ultimo giorno!

In qualunque modo, quella scena m'è rimasta nella memoria quale caratteristica non solo d'un fatto, ma di tutto ciò da cui esso potea derivare.

Una mattina la bella signora all'ultimo della disperazione ci confidò esserle tolta ogni speranza di sposare il giovane drammaturgo. Il quale a lei scrisse: che non gli restava tempo da badare agli amori, e meno a piantar casa: si appigliasse al partito onorevole e sicuro, prediletto alla madre, e di lui procurasse dimenticarsi.

Tali racconti ci trovavano proclivi al credere, perchè naturalissimi tutti: e tanto più ci urtava la malignità, la nequizia di chi astiava la bella italiana, al segno da usarei dispetti a noi e a lei: da togliercisi di casa con minacce d'oscure vendette. Un ammasso di pettegolezzi; parole riportate, scene fin sotto a'nostri occhi. La società parigina non ha la noncuranza della nostra: s'arrabbiano per davvero, son puntigliosi; dimenticano presto, ma la collera per quel tanto che dura, è d'indole soprammodo maligna.

Un altro dispiacere venne ad ingrossare il malumore latente nella società in cui un po'inquieti si viveva a Parigi.

A teatro palchi per una sola famiglia non se ne può avere; numerati i posti, bisogna contentarsi di stare in compagnia, e sperare che la sia buona. Una sera al Gymnase, durante la rappresentazione del Libro nero, entrarono due signori, padre e figlio, nel nostro palco. Impiegato in pensione e legittimista il primo; ufficiale in ritiro il secondo. Amabili tutti e due, nell'udirci parlare fra di noi in veneziano ci presero, secondo il solito, per spagnoli. Ma nell'apprendere la nostra vera patria subito ci domandarono se a Venezia le signore costumano il zendà, se ci sono maschere tutto l'anno: per poco ci chiedevano se il fante dei cai sgombrava ancora, col solo mostrarsi, la piazza. Così ne sapevano i Francesi di cose nostre. Il vecchio signore innanzi di lasciarci manifestò il desiderio di stringere amicizia: il giovane ci disse che sarebbe venuto a veglia, portando il flageolet e la musica, per sonare. Presero l'indirizzo, ci lasciarono: nell'uscire si trovò la neve e bello ci parve il Boulevard coperto da quell'inaspettato lenzuolo.

La sera dopo il giovane non si vede, e la piccola veglia passa senza le armonie del flageolet. Si tiene per fermo che perdesse l'indirizzo, e buona notte. Chi può immaginare di ritrovarsi altro in Parigi?…

La mattina dopo fummo per altro costretti di pensare a quel giovane, vedendo il padre, la madre, tutta una famiglia venirci a domandare se sapevamo niente del loro figlio, il quale, uscito di casa il dopo pranzo del giorno innanzi, colla musica e col flageolet, e beato di venire in casa de'suoi nuovi amici veneziani, si diresse alla Maddalena… e ancora lo attendevano.

Trascorsa la notte in quell'angosciosa incertezza, a un'ora di quella domenica non reggendo alle mosse e vennero a noi. Grande fu la sorpresa e il dolore dei poveri vecchi venuti dalla strada Vaugirard per notizie, a cui non potevamo rispondere. Sicchè partirono più desolati di prima.

A Parigi il ritardo d'una persona di famiglia, per poco che si prolunghi, atterrisce. La mia cara madre solea in ogni paese del mondo, anco a Treviso, mettere sottosopra tutta la casa quando il nostro babbo ritardasse, mentr'ella passando da una finestra all'altra, facea le più pietose esclamazioni di — e già me l'hanno ucciso, e già non lo vedo più… — Intanto la gente ita in traccia di lui, lo trovava o in qualche famiglia o pacificamente al caffè Pacchio, d'onde tornava per isgridarla, ma sul serio… Avea ereditato dal primo marito un grazioso proverbio — semo nati destacai — e chi ama teme, chi teme seca, dunque chi xe amà xe secà. — Sillogismo che, con brio tutto veneziano, ei chiamava cornuto. E questi glieli ripeteva mio padre … ella, avvezza alle intemerate, le ascoltava umiliata e contrita, pronta a far peggio alla prima evenienza … Ma in Parigi…se Dio liberi avesse ritardato… pensare che bisogna correre alla Morgue e cercar fra i cadaveri!

Nel separarci dai vecchi Garot (così si chiamavano), restammo dunque intesi che ci avviserebbero per la piccola posta, appena ritornasse il giovane. Il che avvenne lo stesso giorno, e tutti trionfanti ce li vedemmo comparire col figlio prodigo, vera pecorella smarrita, al ballo dell'opera… Taluno si provò a metterci in diffidenza su quest'avventura; e che badassimo a noi, non la fosse tutta una comedia per attirarci in qualche trappola. In vece noi gli restituimmo la visita, si passò una lieta serata, ci accolsero con mille finezze, con rinfreschi, paste, gazose, come qui da noi a un battesimo. Il giovane nei sabati successivi ci favorì fedelmente..; ma in questo fu il guajo, poichè egli s'invaghì della bella signora napoletana; la quale, paga nel suo amor proprio di vedersi ai piedi un adoratore di più, scherzò con lui, e non si guardò abbastanza di quella, per quanto fugace, passione, a cui il giovine andava soggetto, poichè la madre stessa dicea che ne subiva mezza dozzina ogni anno. Seria o no, fatto sta che, nojata la signora del giovine lanciere in ritiro, lo volle mettere al suo posto, e tremò che il sir inglese non prendesse ombra di quell'assiduo, sebben rejetto galante; non soffrendo di perdere un partito sicuro ed onorevole per una celia. Ma il giovane così presto non si tenne per vinto. Costumava egli per vincere le sue passioni, probabilmente tutte infelici, o per lo meno mal corrisposte, tuffarsi nella più spensierata vita; bevere e darsi allo stravizzo. Avendo ricorso al solito mezzo, un bel dì ecco egli piomba, briaco, fradicio, nello splendido appartamento della contessa, e ne dice e ne fa d'ogni colore davanti allo sposo, attonito di tanta irriverenza, e che così si mancasse di rispetto alla signora, da lui trattata con un cerimoniale da corte.

Quest'avventura, che fece un po'di rumore in quel circondario, mise sulle traccie le persone più vicine alla bella napoletana di scoprire altri fatti precedenti, e da ciò nacquero dubbî sulla sua condotta.

Noi stessi cominciammo a tentennare nella fede, e appunto nella sera stessa della sua veglia, perchè vi convenne tutta la nostra colonia d'Italiani o Veneti; oltre i Francesi, amici nostri. Come supporre che noi portassimo il contingente d'una veglia parigina? La famiglia dell'ammiraglio Arnous, infelice e decaduta, per gli avvenimenti del 48, ma fra i più notevoli dignitarî dell'armata navale. La famiglia Gasson, abitante del Quartiere Latino, imparentata con non so qual principe romano ai Bonaparte, e poi altri molti, tutta gente quanto noi onorata ed ingannata.

I discorsi che si fecero!… le supposizioni! Si disse anche la fosse figlia d'un duca napoletano e che la bella festa fosse un dono di questo babbo. Io lo ricordava veramente in quella sera, sempre davanti al buffet, tenendosi la pistagna della giubba sullo sparato della camicia per non insudiciarsi, mentre uno dopo l'altro ingojava sandwich con una unzione ed una autorità come se in quel tempio della gola egli avesse i primi diritti. Ma chi può tener conto delle maldicenze o delle calunnie parigine? L'incidente prese proporzioni disgustose; un via vai di chiacchiere, un chassé croisez di grullerie, di scempiaggini, da Vaugirard alla Maddalena, dalla Chaussée d'Antin al sobborgo S. Germano, dal Quartiere Latino a quello Europeo… Il nostro diletto padre ci disse una di quelle parole che scottano: — abbiamo respinti coloro che ci avvertivano, dimenticando le cortesie ricevute. Fummo imprudenti ed ingrati: bene ci sta.

Ma le persone che ci avvertivano erano oscure, niente chic: quella che ci parve giusto e bello difendere avea per sè lo splendore dell'avvenenza, della gioventù, e tutta la vernice del lusso, regolo che serve nel mondo ai giudizî; la virtù modesta trova pochi difensori. Una bella avventuriera è presentata nelle grandi famiglie; le signore più difficili, le principesse più contegnose le gettano le braccia al collo; le scrivono biglietti in carattere blu, in carattere viola, le dicono my dear, mia carissima… E una povera diavola che venisse accusata per la minima parte di quello onde s'incolpa la avventuriera, troverebbe alla porta un gelido servitore a dirle — La signora non riceve! —

Oltre allo spiacevole incidente narrato, altri, proprî al gran mare parigino, ci occorsero: brevemente li noto.

Il segretario del Nunzio pontificio ci nominò un giovine marchese italiano… quel nome fe'trasalire mia madre, che lo credette un congiunto suo e de'più cari. Si va, lo si cerca, e si trova un cugino di cui non supponevamo l'esistenza. Si scrive in Italia; si domanda contezza: ci vien risposto: sapersi come uno fra gli attinenti avea, fuor delle mura domestiche, un figlio: ci pregavano di mai più nominarlo. Queste paurose, caute parole ci chiarirono della cosa, senza indurci ad allontanare quel povero giovine dalla nostra casa. Nè di più aggiungo, perchè troppo è grave tutto che si riferisce a questa tenebrosa vicenda. Se fosse lecito diffondersi che terribile pagina sanguinante n'uscirebbe! Non vi ha sermone di predicatore, non v'ha ragionamento di filosofo che potesse riuscir più proficuo di questo esempio, e che scena da aggiungere al fils naturel di Dumas, quella avvenuta pochi anni dopo fra padre e figlio!… Basti il dire che il padre nelle carte relative a sì disgustoso affare nominava sempre il figlio col nome di ribaldo, di segnatario, firmatario…

Colato quell'infelice a Parigi, dove, non ostante il titolo di marchese, e la sua apparenza soprammodo inglese, lo dissero François le Champi, nome che combinava perfettamente col nome di battesimo del giovine, colla desinenza del cognome e colla sua condizione. Ognun sa che Champi si designano in Francia o meglio nel Berry, i trovatelli, e ho detto che in quel tempo François le Champi era il titolo d'una stupenda comedia-idillio della Sand, rappresentata per non so quante sere all'Odéon. Il nostro povero Champi, non quello immaginario, quello reale trascinava la vita in Parigi in mezzo ai noti trentamila individui, che aprono gli occhi la mattina senza sapere come pranzeranno. Di lui è inutile parlar altro, poichè non se n'è saputo più nulla, dopo un'altalena di vicissitudini in cui più d'una volta rinsavì, si rifece, tornò nell'abisso, e finalmente scomparve dal mondo. Ma di quelli che non sanno ove battere il capo a trovare il pane quotidiano non pochi ne contava la colonia italiana in Parigi. Mio padre ricevette una originalissima lettera, in cui gli si intimava con inappuntabile sillogismo: « O Ella non ha denari, e in viaggio e con famiglia s'espone a fare di gran tristi figure; o Ella ne ha e deve darmene. »

Il babbo rispose:

« L'interesse è lo scoglio a cui si rompono tutte le amicizie. Così avviene della nostra… » e poi due semplici, ma chiare parole con cui gli diceva di non venirgli tra piedi. Il che fu, ma a Londra l'amico, pentito di essersi, per un povero sillogismo inutile, disgustato con mio padre, fe'la pace, divenne il nostro Cicerone, e stette sempre lietamente a pranzo con noi.

Un altro, un piemontese, con un titolo di conte e un de, appendicista di non so quai giornaloni republicani, si fece presentare qual personaggio di grande importanza. In vece fummo avvertiti come corressero sinistre voci sul reporter italo-franco; lo si accusava d'aver assaltato al passaggio della Buffalora un suo compaesano profugo, e d'altre bagatelle simili.

A questo buon arnese (ammesso che tale fosse) si era unito in amicizia un giovane onorevole, che portava uno dei più bei nomi della nobiltà romagnola. Il qual giovane dovette, con un pranzo, pagare una scommessa perduta; pranzo a cui tutti fummo invitati. Pochi giorni dopo il conte appendicista, di dubbia fama, dirige il trattore stesso a mio padre con una lettera insolente, e gl'impone di pagar lui quel pranzo, chè il suo amico non poteva sodisfare l'impegno.

Il nostro caro babbo la credette una celia: ma il trattore piangeva e si disperava per davvero: fu messo alla porta: messo alla porta il conte appendicista, che una sera con una gherminella, degna di Scapin, ghermì una cena da 80 lire ad uno dei primi caffè del Boulevard. Del povero romagnolo non si udì più parlare… ma a districarsi da quella ragna ce ne volle di buono, e bisognava tenere stretto il portamonete.

— Io sono la combattuta Penelope, — disse il nostro caro genitore, con quella grazia, che temperava la severità de'suoi modi… e in vero mai fu tanto combattuto come in quel tempo, in cui Lutezia ci insudiciava del suo fango… oh dov'era la semplicità della vita italiana? Le sere di Napoli, l'inclita Guacci colla pupilla ardente fissa nella stella di Venere, l'areopago di Roma, il Cenacolo del Bisagno, fra la luce del cielo genovese, e il foco di quelle anime sublimi?

Eppur nobilissime attinenze non ci sarebbero mancate. Tutto sta trovarsi in Parigi! Montanelli abitava in faccia a noi. Lo seppimo il giorno prima di partire. È vero che così le furon tante baruffe di meno, per quella benedetta politica!… Ma già i miei cari vecchi litigavano bene coi socialisti francesi!… Toffoli, ex ministro e compagno a Manin, lo vedemmo una volta al teatro italiano, e poi più. Lo stesso ci occorse con l'inclito scrittore dei Martiri italiani, Atto Vanucci. A Manin si stava per presentarsi, ma una chiamata della polizia parigina a tutti gl'Italiani ci mise sopra pensiero. Sapevamo quant'è perfida. Napoleone, sebben presidente d'una republica, iniziava quel suo metodo incerto, quella tattica da greco di basso impero, con cui mascherava la determinata idea del colpo di stato. Ci contentammo di veder la casa del nostro grande compatriotta: Rue des petites écuries. Un tugurio! Con quanto rispetto ne parlavano tutti, massime in casa di Farconnet! — Oh! monsieur Manen! — e alzavan gli occhi, giungevan le mani in segno di ammirazione devota… Ne facevano più caso là, che qui da noi, allora. Guai ai vinti!

Una bella mattina, montati in carrozza s'andò alla stazione del Nord e lasciammo la gran capitale. Nel partire da Parigi mi cadono dalla penna considerazioni, che non mi pajono inutili. Io le metto dunque giù, come vengono, per riprendere il viaggio al capitolo seguente, e chi non gusta le riflessioni proceda a Calais.

Parigi ha come ogni grande capitale di gran mali e di gran beni: con quel di più che ci mette l'indole del suo popolo, pieno di contraddizioni. Portato alla naturalezza della vita italiana per quel tanto ch'è gallo latino, Parigi ha del nordico, per quanto è d'origine teutona. La smania d'imitazione inglese, la è un po'nel sangue e un po'nell'anima, e il costume famigliare molto se ne risente. Un piccolo esempio fra mille.

Conoscemmo una egregia famiglia di militari e ci scambiammo visite. La prima volta in cui andammo da loro, che stavano in una casa contigua a quella d'un generale (e bisognava vedere che baldacchino ci avea sulla porta di S. E.), la prima volta, dico, i signori ci annunziarono che desideravano presentarci madamigella, ossia la loro figlia. Suonano ordinano — Fate scendere madamigella — La viene e ci presentano serî — Madamigella Lucia Andrieux d' Albas. — Con questo appiombo, con questa solenne presentazione si crederebbe la fosse un personaggio come la grande demoiselle. Ebbene la figlia del buon archiatro, appena divezzata, si reggeva sulle dande. Noi si direbbe — Oh vai un po' a chiamar la bimba o la puttella o la totina … — Loro si danno del monsieur, del madame fra padre e figlio, fra marito e moglie e credono rispettarsi.

Napoleone I, stupidito da quei cerimoniali, proprî d'ogni corte e più a quella francese, perdette la sua franchezza. Oh! non fa compassione udirlo nel Memoriale di Sant' Elena nominar sempre, senza mai sbagliare, Madame, la madre sua, perchè tale era il titolo assegnatole nell'etichetta di corte? Tanto lo spirito di grave leggerezza gli era entrato in core! E i Parigini si tengono per republicani, e poichè insanguinarono sè stessi e la terra con una ecatombe, unica negli annali della storia umana, si stimano democratici! Noi altri con minori sanguinose prove possiamo dirci tali più di loro.

In quel tempo, di cui parlo, Napoleone III non avea che il titolo di presidente. Eppure ad ogni passo si vedevavano a lettere d' oro su qualche bottega — Tailleur o coiffeur du prince Napoléon, président de la Republique — Il sentimento delle divisioni sociali è dunque inveterato nel costume dei Parigini, e quel calzolajo, fin che la cosa non cambi, avea ragione di esclamare: — fraternità, libertà, e soprattutto eguaglianza: trois mensonges! — Quanto alle donne gli è argomento da non lo toccare, perchè è la piaga di Parigi. Non è per niente che un così alto spirito come Dumas se ne occupa nelle comedie, nelle scritture, nelle prefazioni terribili, da cui traspira un nauseabondo fetore di clinica, ma che colpiscono per le fiere verità che racchiudono.

Alla donna è lasciata una gran libertà, la fa quello che vuole; eppure il sentimento della vera libertà è molto meglio nei costumi e nella noncuranza italiana, e la legge salica è più di quanto si crede radicata nella famiglia francese. Poco avanzerebbe la donna col predominio francese, benchè si vantino fattori di libertà. Credo che la sia più rispettata ed autonoma presso popoli considerati se non barbari, indietro di civiltà, come in Austria, in Russia, dove furono imperatrici famose, le quali senza partito preso, senza metterci impegno, dovettero per semplice istinto favorire il loro sesso.

I Francesi, deridendo la ragazza in età, le comandano di maritarsi anco se non la può o non la ci si sente chiamata: mentre in Inghilterra, in Germania, in America la più parte esercita professioni e non le si domanda di più. Moglie, la donna francese la ci perde anco il battesimo: le si mette, come si farebbe sul collaro d'un cane, il nome del padrone, la diventa madama Giorgio, la contessa Antonio o un mostro simile.

In molte altre cose si riscontra un che di peso, di legato, estraneo alle nostre famiglie, dove gli affetti e la santità dei legami domestici non han bisogno d'essere affermati di momento in momento col codice alla mano, o con miserissime riprese d'apparenza. Rispettando la personalità della donna, l'italiano sente ch' è sua lo stesso, non si considera meno uomo e non l'ama meno. Di ciò che devono le donne lavorare e attendere ai fatti loro come uomini, le donne non han merito o demerito, è necessità.

Il buon Sacchero, poeta siciliano, che passava con noi la sera, con Gravina e altri profughi, compatrioti, domandava tutto sgomento — dove son le donne? … Io non ne vedo — Di fatto le stanno al banco (comptoir) con un libraccio aperto davanti, quali ragionieri a notare la recette: serie, imperturbabili, non c' è cosa che le distragga: di più attendono gli affari, collocano i denari a mutuo, scrivono, stampano, guadagnano … Sacchero, avvezzo a paesi dove, tranne poche eccezioni, la donna era tenuta, relativamente alla vita publica, in condizione quasi infantile, non sapeva raccapezzarsi, gemeva — non ci son donne, non ci sono affetti…. Qui la è femme, da noi la è donna. — Eppure il genio della donna è quello della Francia! … Ma la corruzione della Babilonia moderna non dipende perchè la donna sia costretta al lavoro, ben lungi da ciò … e chi potrà indagare le cause, se non col nominarne una sola? … sè stessa! Parigi, il gran cancro, secondo lo nominava Blücher, nella fiducia che la Francia ne fosse divorata. Un così grande ammasso di abitazioni e di popoli trae con sè la facilità che il male si nasconda: pulluli, germini in segreto. Una stampa men che riguardosa, la quale è causa ed effetto insieme, alimenta ed è alimentata. Copia la verità e trova chi la gusta ne'suoi stessi modelli; una generosità senza discernimento paga a peso d'oro le triste pagine corruttrici, ne incensa, ne divinizza gli autori, e loro perdona tutto, pur che si facciano leggere.

Più milioni d'uomini e di donne uniti danno e mantengono vita alle più pericolose, mostruose creazioni.

Primo fu l'uomo a scuotere col dubbio la propria coscienza: la donna, imitandolo, cominciò a non riconoscere più l'uomo stesso. Di questo si lagnano, e, credo non a torto, gli scrittori francesi, che come il profeta dalle mura di Gerusalemme, predicono rovine ai quattro punti cardinali. Una mattina eravamo in chiesa, mentre si celebravano varî matrimonî. Entra una giovane e ci siede vicina. Guardando fissa quelle coppie in così solenni momenti, la atteggia il viso ad un'espressione da far colpo: e un po'per volta si venne a parlare insieme, ed ella non istette molto ad esprimere i suoi pensieri. Sposa da quindici giorni d'un vecchio, accettato per darsi un pane, ella si trovava male; anzi malissimo, infelice quanto si può esserlo al mondo. Imprecava all'esistenza, malediceva quei riti, che vedea compiersi con tanta pompa davanti a lei. Più simpatica che antipatica, messa con qualche trascuratezza, ma non senza una certa graziosa semplicità, le orribili cose ch'ella diceva contrastavano colla fisonomia giovanile e coi modi amabili e famigliari. Orribili nel senso di risentimento e di violenza: per niente di più ci avea posto in quel cuore: come in certi casi di infiammazioni acute, che distruggono tutto, anco i cattivi umori. La stava a Battignolles, venuta coll'omnibus, tanto per essere via da casa. — E già non ci voglio più tornare, e già non ci torno da quel vecchio fastidioso; lo pianto! — affermava ella con lagrime di rabbia. Io mi provai a quietarla, ma con poco frutto: la vidi partire irritata qual venne, e risoluta a finirla. Sarà ella ita al domicilio conjugale? … e se ci andò, come avrà trattato quel misero ed incauto consorte? Quella goccia avvelenata si sarà perduta nel fango parigino, o avrà compiuta una delle tante vendette domestiche, di cui fanno miseranda pompa i giornali nei fatti diversi?

Certamente di quei matrimonî, di quelle donne ce nè può essere dappertutto: ma in quella misura no, io starei per asserirlo. La depravazione dunque della donna è, col lusso, la maggiore causa di sfasciamento nella società parigina, e in conseguenza francese, dacchè Parigi sia la Francia.

Una così bella civiltà, ridotta a un tal punto che si può dire universale, poichè due emisferi ne ricevono o poco o meno la luce, e immaginarla distrutta … fa ribrezzo a pensarlo; ma è ancora più grave il non vederci rimedio, se non la cessazione stessa di Parigi ossia di Cartagine, a cui una volta o l'altra i vincitori del momento appiccheranno per davvero il fuoco.

Noi, estranei a un tanto danno e oppressi dall'imminente catastrofe, non dobbiamo che cercare il modo per cui il male non ci si appicchi. Abbiamo a tenere in piedi l'edifizio nostro, eretto a sì gran fatica sulle rovine dei secoli, nella speranza che possa sfidarli.

La questione della donna e della sua emancipazione ci divenne uggiosa, tanto la fu maltrattata da spiriti volgari, passionati o calcolatori, che la cambiarono in arma da partito. Come queste Ciane di Canalregio o di Camaldoli, agitano le sottane quando fanno baruffa, così uomini e donne senza giudizio, dimenarono una bandiora senza convincere nessuno, disgustando e spaventando Ia gente dabbene, perfino le persone difese e che dalla loro protezione riceveano più disdoro che dagli stessi avversarî. Ciò non vuol dire che non vi sia la questione: la c' è urgentissima, e c' è fra chi la sostiene o la dirige scrittori e scrittrici di vaglia, menti illuminate, cuori integerrimi, a cui è aperta la via di portare un benefizio unico e urgente alla società civile.

Nel progresso di questa è impossibile che la donna rimanga stazionaria; la deve camminare di pari passo coll'uomo; sul come e sul dove la progredisca e si fermi, ecco ciò che gli educatori hanno ad intendere e indovinare. Vent'anni fa non usciva articolo bibliografico di penna femminile senza un preambolo, più o meno cortese sulla donna, e sull'indagare se o meno a lei sia concesso lo scrivere. Ora, generalmente, nessuno ci pensa. Avrebbero troppi trattati da fare. Ora un publicista loda o biasima l'opera, e lascia stare il trattato.

Questa osservazione pratica induce a credere che come intelligenza la conquistasse un diritto ormai incontestato: e sotto il punto di vista del lavoro è un nobile diritto, che certamente le darà agio a maggiore possesso di sè, e nella vita privata, e in quella cittadina, specialmente in ciò che si riferisce all' economia ed all' educazione: laonde chi in questo senso la emancipa non ha torto e oltre all' esser provvido è giusto. Fu detto: se collo spirito, colla volontà, col sentimento la donna si mescola alle grandi opere, alle grandi lotte dell'uomo, se la può mantenere un posto di onorevole discussione nell'esercizio della scuola e delle lettere o perchè non otterrà la stessa parte di gloria?…

Ma se questa gloria la svia da' suoi doveri, se le inaridisce l' anima, se le suscita una misera, inestinguibile e implacabile sete di amor proprio, di vanità, cosa sarebbe allora dell' uomo e della famiglia? … Cosa sarebbe non d' una città, non d' una nazione, ma del mondo? …

Terribile domanda! Mistero indecifrabile, che opprime l' anima come il trovarsi sospesi sopra un abisso, davanti un mare sconfinato … e qual sarà l' ultima parola delle civiltà moderne, un sorriso di cielo, o lo stridore e il gemito d' una Gheenna senza limite, ma non senza fine, poichè si distruggerebbe da sè stessa?

Dall' altra parte il movimento è infrenabile. Può darsi che un giovane a quindici anni sia preferibile a un uomo di trenta … Ma, se prima non muore, ai trenta ci tocca. Piangere un tal fatto è inutile, conviene reggere il giovane perchè cresca bene, e preparargli i vestiti.

Noi ritraendoci dalla sconfinata prospettiva non dobbiamo, lo ripeto, che pensare al modo di progredire scansando i pericoli. E questo mi par disegnato nell'andare avanti, con juicio, scrisse il divino, stella polare del nostro firmamento. Andare avanti senza troppo disconoscere e dimenticare il passato. Tanto il passato non si distrugge: meglio è conservarlo, in quello che la civiltà lo può, senza dare addietro.

Nella questione della donna le leggi della società cristiana sono perfette. Esse hanno riconosciuta meglio e prima d' ogni altra legge umana la eguaglianza sua come ente immortale, rispetto a Dio, come coscienza responsabile rispetto sè stessa, come intelligenza autonoma rispetto al mondo. Essa conta nei suoi ruoli profetesse, regine, martiri, legislatrici, guerriere (e chi ne diede tante quante la Francia?) essa in cambio di virtù oscure l'ha poste sugli altari. La chiesa venera una santa Zita serva, venera santa Barbara patrona degli artiglieri, l'ha collocate a splendere fra le costellazioni dell' empireo, l' ha assunte dive. Qual perfezione, qual grazia diede a queste anime d'imperare, dopo morte, sopra milioni di uomini, farli lavorare, farli stare in riposo, comandar loro la preghiera e la festa? Dove, in qual pagina di codice mortale le virtù modeste d' una donna del popolo troverebbero premio nemmeno d'una povera croce, che la società getta perfino ai suoi cerretani?

Per quanto io cerchi, per quanto mi volga non trovo nulla di più grande, di più eccellente di questa legge, che rende forte la donna al di sopra d' ogni miserabile forza materiale, la innalza e non la inebbria, la sublima e non la isola, le dà il coraggio di ridere degli scherni di tutto il mondo e non quello di disubbidire all' infimo de'suoi superiori …

Nella questione del matrimonio parrà troppo severa, ma conclude. Si cinge di sostegni, ripara con formidabili difese i precipizì della via. — La religione — dice Manzoni in quel libro ch' è il nutrimento della mia vita « Osservazioni sulla morale cattolica » — chiedendo all' uomo cose più perfette, chiede cose più facili: vuole che arrivi ad una grande altezza, ma gli ha fatta la scala. — La scuola del dubbio è più franca in apparenza, ma non conclude. I suoi campioni più segnalati non toccano che ad un forse. La Sand, potentissimo ingegno e sincera nel culto della vera democrazia, si contraddice quando va lontana dalle vere fondamenta del vero cristianesimo. Dopo aver detto che tutto ha da modellarsi sulle leggi di natura, perchè non c' è due specie, ma una specie sola, e uomini e donne possono considerarsi due pezzi d'una sola macchina, dopo negato ogni predominio dell'uno sull'altra, giunta allo scabroso punto dei figli esce con una pietosa invocazione: — O progéniture sacrée! … — Ossia che il matrimonio sia indissolubile a motivo dei figli. Codesto lo impone la chiesa da mille ottocento anni: soltanto non la manca al rigore della logica, e prima di ciò la insegna il dovere, il sacro dovere, e parte da un principio. Non la comincia col proporre a modello la bestia; la bestia che, ignara, commette i più gravi peccati, le crudeltà più spaventose, perchè v'han madri che mangiano i figli, femmine che sopprimono il maschio; e taciamo di mille altre infrazioni alle regole naturali, che Dio liberi la società se le imitasse.

Conservare dunque lo spirito di quel passato, che da secoli si sostiene è prescritto: non si lascino padri e madri sfuggire disoneste parole in famiglia, non iscemino e non turbino la fede, non deridano ciò che non intendono, non tolgano l'unico scudo che guarda i loro giovani, le loro donne, slanciati soli e per tempo, colla più terribile responsabilità, nelle correnti della vita. Non siano così imprudenti, non si straziino essi medesimi nelle loro carni, non si lacerino nel più vivo del cuore. Oh cosa faran senza figli e senza donne? Siano queste forti, fortissime, sapienti se occorre, possano tutto, anche combattere, anche difendersi coll'arma in pugno, ma non deridere Dio, ma non disonestarsi soprattutto! …

Ogni contingenza è possibile nell'avvenire del mondo. Può tornare la prima epoca, detta dai fisiologi ginicocrazia (dominio della donna), essere solo riconosciuto, come presso certi barbari, il diritto della madre: basarsi la costituzione giuridica della famiglia sulla filiazione in linea femminina. Ma per ognuna di queste contingenze, più o meno avverabili, è necessaria una forte educazione severa.

Al contrario nessuna forma riuscirebbe più pericolosa alla donna, senza principî, quanto la libertà senza freno. In nessun tempo della storia, in nessun grado di barbarie, in nessun punto della terra si riscontrano gli orribili dolori che le riserva l'avvenire se ella non si regola. Aperte le vie dell'ideale a lei, che forse deve prima di tutto tradurre in concreto l'essenza vitale umana, e creare ed educare uomini, la perderebbe il cuore. Allora non più donna ma femmina, non più femmina ma bestia, eretta sulle gruccie d'un miserabile orgoglio, la morirebbe isolata, come Creso fra le ricchezze, di fame.

Io ho visto pittori usi a buttar giù alla brava, a dipingere colla tavolozza sudicia, su cui lasciavano cadere la polvere dei loro zigari. Ma quando si trattava di fare il campo, ossia l'aria, a meno che non la volessero torbida e burrascosa, li ho veduti pulire la tavolozza, preparare con cura scrupolosa la gradazione a compor la scala del più lieto zeffiro, di quelli che bastano a far bello un quadro … Nel quadro della vita la donna è il cielo.

Partenza per Londra - Un' avventura originale a Douvres
- La vita inglese - Un altro incidente curioso in
Belgio - Malattia di mia madre - Il Reno - Passaggio
del S. Gottardo.

Trovarsi a Calais la sera d' un giorno, in cui si partì da Parigi, è tal passaggio, che non si vuol descrivere. Per non so quale incidente ci convenne viaggiare ne'primi posti, in magnifici vagoni-saloni, pieni di gente chic: crema non già, ma schiuma: ossia ricchi borghesi che, al venire della bella stagione, andavano in campagna, alle acque, ai lieti ritrovi, sulle sponde del mare; ci andavano in lieta compagnia di eleganti signore, le quali non fecero che ridere, mangiare, schernirsi e invitarci ad appiccare discorso: ma noi, ancora dolenti del sofferto disinganno, mai aprimmo bocca.

A Calais mutamento di scena, una locandaccia, una cucina fetidissima. Alla sera un silenzio, uno scuro, una quiete mortale. Si passò un' ora nella stanza terrena cogli albergatori, due milanesi marito e moglie ed un signore inglese, tutti attorno la tavola, illuminata da una lucerna, appesa al soffitto nero e affumicato. L'inglese, serrato in un gran soprabito, una mano nel petto fra un bottone e l'altro, stringeva un bicchiere di birra, a cui di tanto in tanto beveva; poi lo deponeva o lo riempiva con metodica flemma britannica.

Appena fu tempo di coricarci noi salimmo alle nostre orribili celle, dove ci attendevano candele di sego puzzolenti con una fungaja stomacosa. Bisogna dire che si vien via da Parigi con un gran bruciore nell' anima. Si vedono le belle carrozze, i magnifici equipaggi passare d' accosto, traendo rapidi le belle dame, coricate mollemente in atto di una noncuranza ch' è superiorità: e si pensa: — loro restano! — E per tutta la strada si è perseguitati da una malinconia acre, da un vuoto, da una specie di dispetto, non colla grave dispiacenza di di aver lasciato un amico, ma colla rabbia d' un' ebbrezza interrotta. Appena libero il capo da'suoi vapori non ci si pensa forse più, ma venir via costa, quanto è bello starci. Più malinconico di tutti il nostro servitore, che a Parigi avea lasciato un buon pajo di stivali e un pochetto il cuore. Vedendolo così dolente si scrive a Caccianiga perchè almeno ricuperi gli stivali. Il brioso Folletto risponde con un bello e sonante verso dantesco: — « Ahi più l'Italia — non rivedran gli stivali d' Antonio ». — Erano spariti del tutto in quel Parigi. Chi sa che non fosse la stessa fiamma del povero cuoco, proprio la su'dama, la lavandaja di casa, a impadronirsi di quella calzatura? Eccezioni ve n'han dappertutto, ma l'interesse è il primissimo, direi unico movente di quella plebe.

La mattina dopo c'imbarcammo per Douvres: placidissimo il mare, in brev' ora ecco apparirci alla vista Albione, ossia la costa, che veramente al raggio di un bel sole, biancheggiava come leggiadra ombra di bastimenti velieri, sopra lo specchio delì' acqua.

A Douvres, prima ancora del mezzogiorno, ci prese vaghezza di camminare lungo la spiaggia. Ero io con mia sorella in un bel punto solitario, in una specie di punta, e guardavamo l' Oceano, che ci si stendeva immenso davanti, e moriva al nostro piede con una larga onda gialla, ben diversa da quella del nostro golfo adriatico. Sul più bello che ammiravamo quell' infinito deserto di acqua, ci passa rasente il capo una pietra e la va a cader in mare … Si gira l' occhio per iscoprire d' onde viene il pericoloso messaggio, e vediamo tre ragazzi, due piccoli, ma uno più che adolescente, il quale inarca il braccio a slanciare un'altra pietra, e accompagna il moto col grido: — French dog! — (Francesi cani!) urla il ragazzaccio con voce gutturale e piena di odio. Ci credevano francesi. — Toco de birbi! — risposi con esclamazione trevisana.. poi giù, si ghermisce anche noi una pietra e la si slancia. I nemici via a gambe… e noi dietro: si correva come ombre sul suolo britannico; di tanto in tanto i giovani ghermivano una pietra, la slanciavano, poi avanti all'uso partico: noi si facea lo stesso, ma avanzando … e corri se sai correre. Sotto la tettoja della stazione gli assalitori fuggitivi si sbandarono e la corsa finì.

Quanto a me, posto ch' eravamo al salvo da questa avventura, assai più piacevole a raccontare che a trovarcisi in mezzo, un pensiero triste mi assalì e mi fece più male dell'ira o della paura. Quei monelli ci voleano lapidare in odio agli stranieri! … E noi? … dopo due anni appena di lotta ritornavamo sotto al giogo! … Mi sovviene d' aver fatto un penoso confronto e provato grande invidia di quella nazione, che non vuol altro che essere signora di sè. Antica nell' esercizio di libertà, non avendo mai permesso nemmeno a' Romani di dominarla tutta; in parte fieramente trincerati stettero Pitti, Scotti, Brettoni dietro una muraglia, elevata a schermo dagli stessi nemici. Lottando secoli prima di immedesimarsi colle invasioni danesi e normanne che, trasportate sul suolo inglese, in fin del conto divenivano inglesi, la religione di famiglia, ossia di nazione, prevalse e prevarrà, io credo, anche dopo la probabile decadenza di questi Romani moderni. Non possiamo sapere cosa resterà delle loro letterature, perchè, tranne splendide eccezioni, come per esempio quella di Milton, non seppero innalzarsi all'ideale, e insegnarono piuttosto il dubbio che non la fede. Il mondo, che sospira ancora coi salmi di Davide, non considererà forse con lo stesso interesse gli stupendi studî di verità del Shakspeare, di cui resterà solo il culto nei pochi eruditi indigeni. Ma il Rule Britannia non perderà mai colore. Credo che le onde stesse dell'Oceano lo mormoreranno ai figli di questa superba isola, fin che ce ne sarà uno per proteggerla.

Passò l'Oceano con noi una grande famiglia scozzese con molti giovanetti e giovanette. Istitutore di uno di questi era Nicolini, compagno di Montanelli nelle vicende toscane, profugo, tribuno, republicano. E subito si strinse amicizia. Passeggiando con lui nel dopo pranzo egli ci fece una bella professione di fede. — Io sono antimonarchico, ma sto con qualunque voglia la redenzione d' Italia, a qualunque partito appartenga. Poi ci raccontò i fatti di Firenze nei dì nefasti in cui rovinarono le nostre speranze. Egli portava le traccie dei fieri casi toccati in quei memorandi trambusti: aveva una mano storpiata dalle palle. Nobile persona ci parve quel Nicolini, quantunque da lui in molte cose dissidenti. Ma avea un che di composto, di pratico, di sicuro: ossia unita alla vivacità italiana, un' aria di gentelman, e di libero cittadino inglese notevolissima.

Il carattere dell' Inghilterra apparisce a chi per la prima volta vi tocca, diverso da quello della Francia e dell' Italia. Son paesi civili, v' hanno uomini, donne, monti, strade, case. Eppure gli è un altro mondo; nuovo soltanto perchè è più semplice e più, dirò, in natura. Si vede ch' e' sono isolani: e tanto che per noi, famigliari della vita di Venezia, ci si scopre qualcosa di nazionale. Squeri, fondamente, e poi quell' aria casalinga, quel certo che di domestico, lo at home, come da noi. Cosa dirò della pulitezza? In questo, pur troppo, sono agli antipodi, che i loro siti a parte son più brillanti di nitore e di fresco dei nostri bei ritrovi.

La mattina dopo s' andò a Londra come uccelli. Vagoni rozzi; nei terzi posti, e ringraziar Dio, che costano più dei nostri primi. V' hanno i quarti, a scoperto per la poveraglia, che va, come da noi, i manzi. Con qual rapidità s' è traversata quella contea di Kent! Di tanto in tanto tunnel d' una lunghezza … Per via il nostro caro babbo non si trovò i biglietti. Soprammodo sgomentito comincia a tastarsi nelle saccoccie, nel taschino del soprabito, guarda, fruga … ci leviamo da sedere, si guarda sotto le dure panchette di legno … niente. Ma sul più bello notte profonda: nei terzi non v' è lume … Che momenti d' angoscia furon quelli! … una somma così vistosa … dopo undici mesi di viaggio e in paese da non poter farsi intendere … Quando Dio volle, dopo un rotolare al più cupo bujo, in mezzo al rombo, al batticore e al fumo, si usci all' aperto. I viglietti stavano in una borsa della valigetta portata da mio padre a tracolla … e non se ne ricordava più.

Raccontano che s' arriva sulle case … vuol dire che la strada è più alta del livello delle case; sicchè a coloro che giungono di mattina tocca vedere i buoni abitanti pettinarsi allo specchio, farsi la barba. Poi si discende. Il lusso delle nostre stazioni è ben lontano dalla ruvida semplicità della stazione di Londra. Almeno in quel tempo. Una tettoja aperta e niente più. Ma quando si è in cab e si vola sui ponti del Tamigi e per quelle vie, animate da una popolazione severa, e tutta di gente da fatti e non da chiacchiere, allora il sentimento di una vera grandezza prende l' anima, e la solleva e la riempie assai più di quattro miserabili cenci di seta e un po' di dorature. A intender quanto son grandi gl' Inglesi bisogna proprio vederli in casa loro. E così è san Pietro di Roma, la ampiezza del quale si indovina, ma non si misura. Dí quei tipi esotici, di quei viaggiatori col cappello sull' occipite, coll' occhialino nell' occhiaja, e con tutto quell' insieme di bizzarro là non se ne vede. Vanno pe' fatti loro, vestiti come noi, senza ostentazione, senza caricatura; i mercanti stanno a' loro negozî, le donne, le massaje puliscono i vetri delle imposte, gli ottoni degli usci, sempre sporchi e fuliginosi a cagione del polvischio e della nebbia, che cade costantemente in quella contrada. Non è punto perchè solcano il regale Tamigi foreste di legni d'ogni parte del mondo, nè perchè trema la terra di sopra e di sotto al peso di cento locomotive che s' incrociano per ogni parte. È perchè son loro … british, padroni di sè stessi, e quindi degli altri … tutti dal principe all' ultimo operajo dei docks!

Sì, ciò che stupisce in quel popolo è la pacata signoria di sè stesso. Per via io chiesi a un amico nostro, il signor Payne, perchè i militari non vestono divisa. — Un inglese — rispose egli — non soffrirebbe d' incontrare un uomo armato in casa sua; ciò offenderebbe troppo le sue idee di libertà. — Ecco una pietra preziosa raccolta sul lastrico di Londra. Per conto mio la vale più della statua di Wellington, che pare un villano che va al mercato. Ma esser degni della libertà: ecco il difficile! …

Quando nasce un tafferuglio si presenta un policeman, con una bacchettina somigliante allo scettro d' un mago, e fischia sommesso e rapido alcune parole, che finiscono invariabilmente con the queen Victoria. Vuol dire che si ritirino e smettano per non usare un dispiacere a sua graziosa maestà. Se da noi a qualche baruffante si rivolgesse questa omelia, o cosa ci risponderebbero? … dove la manderebbero a stare di casa la graciosa maestà? Là, si sciolgono … Stessa obbedienza trovava il Fante dei cai sotto la nostra republica, ma il terrore finì per dominare, e guastò.

Ci fu dato un pranzo e ci stemmo in compagnia di un italiano, celebre per una causa di Biblioteca, il signor Libri; dopo pranzo, rimasti gli uomini soli, parlarono di politica, facendo girare il vino, di cui a volontà mescevano.

Più di tutto mi stupì l' albagia dei servitori, ossia il loro tenersi su: il decorum, secondo lo chiamano i Francesi. I signori Payne aveano una casa ad uso Pompei: piccoletta, appartata e da trovarci gusto al proprio at home. Il cameriere vestito di scuro, semplicemente, ma serio, benchè giovane, acconcio, pulito. Le ancelle composte, piene d' appiombo e di gravità. Your bonnets if you please — I vostri cappelli se vi piace, — ci dissero con un tono … ossia — bada ch' io servo, ma non mi credo inferiore a te per la mia condizione, la mia personalità vale la tua! — Vero popolo republicano, ma non perchè qualche istrione faccia comedie ostentare a demagogia, mentre in segreto tira al quattrino: una lunga consuetudine, una educazione di esempî e di fatti, un sentimento avvalorato dall' indole altera, tutto contribuisce a rendere gli abitanti di quell' isola quello ch' ei sono.

Però l' attitudine di quel popolo è nobile, ma non simpatica. Il nostro è più buono nella sua umiltà: forse nel senso cristiano è più grande. Loro suppongono un torto la povertà: da noi i poveri si sentono fratelli. La stessa superbia la portano gl' Inglesi nel vizio. Le male femmine camminavano a testa alta, pompose in Regent-street la sera. Nei balli, nelle veglie, date esclusivamente per esse, guai chi ci mancasse di rispetto, chi di quei signori dicesse parola, facesse un motto men che degno. Le son capaci di chiamarli in giudizio, sottoporli a condanne. Questa alterigia della corruzione fa ribrezzo, la più sguajata sgualdrina è meno pericolosa. Si sa cos' è. Ma queste miserabili, a cui si parla col cappello in mano, coi segni dell' ossequio dovuto soltanto all' onore, alla virtù, sebben modesta …

Io dissi alla signora Sara Payne: — Come potete tollerare il diritto di primogenitura? — Ed ella: — Il primo sta a casa, attende a mantenere la famiglia. — Semplicissima risposta con quella gente, che fa quello che dice. Il diritto di primogenitura a noi riesce odioso. Ma altrove mi accadde riflettere; l' eguale ripartizione dei beni, o, non distrugge essa le famiglie? … Se è solo un figlio o due figli possono morire, o vivendo non lasciar prole. Se i figli son molti, sminuzzato il pane restan poveri, costretti a vendere il patrimonio, a separarsi, disperdersi.., tutti problemi a cui risponderà il futuro.

La copia di grandi famiglie, dovuta al sistema feudale, non è più possibile colla moderna legge delle successioni . Sicchè, guardando all' avvenire del socialismo, già bello e piantato in mezzo alla nostra civiltà, non si può non provare un certo sgomento, e tremare che non la corra alla sua rovina. Dall' altra parte tornare indietro è impossibile: resta solo (io torno a dirlo) reggere tutti insieme il prezioso governo della nave in pericolo, affinchè, se la famiglia è meno preponderante, resti la nazione, e torni l' uomo alle prime epoche del mondo, in cui innanzi tutto era cittadino.

Quanto alle donne, coltissime e d' una soda coltura: le sono da casa, da tavolino e da sport: ossia, mamme, romanziere, cavallerizze. Come tutte queste cose si combinino non par vero, ma è una verità. Gl' Inglesi pratici anco in questo non si perdono a fare trattati, e in specie relativamente alla letteratura, la rendono cosa proficua. Dicono: — la intelligenza femminile è un fatto, il quale dà per risultante dei libri da vendere. — Dunque all' opera: ecco un nuovo cespite di rendita da mettere nel budget cogli olii e colle acciughe: da brava signora, lesta lady! la ci ammannisca un romanzo, ci ritragga la vita inglese, ci metta un po' di tutto: Mistress tale e il lord tal altro, co' loro ridicoli, colle loro buone qualità: gli steeplechases, i baby; le infrazioni al nodo conjugale sian velate sotto la bigamia. Il marito o la moglie indegni si credano morti, saltati per aria …. Le giornate son brevi, le sere son lunghe, la si occupa, la ci intrattiene in famiglia. Quando i libri son composti, si trova un editore: il quale compera e paga, perchè sa che vende e sarà pagato, e tutto va per lo meglio nel migliore dei mondi possibili. — Le signore non se lo tengono per detto e scrivono! … oh! le son terribili! e con che audacia toccano i più fieri soggetti. In un romanzo, parmi, di Giorgio Elliot (assai prediligono un pseudonimo virile, forse per imitare, se non altro in questo, la Sand), la protagonista è una cortigiana. Dandone il ragguaglio la Revue des deux mondes, notava anni sono l' ammirabile scrietà, la inalterata compostezza con cui la pudica figlia d' Albione mise in iscena quella infelice. V' era una parola che dava i brividi: — Tacete — esclama quell' eroina, parlando con un operajo macchinista di Liverpool — non posso vivere che ubbriaca. — La si sosteneva a gin! … Questi studî dal vero sulle carni purulente non possono che destare meraviglia, ma mostrano altresì la potenza della serietà. Quanto è funesto lo scherno, la derisione, lo spirito buffonesco di cui abusano i giovani, lasciando incerti gli animi, tanto è efficace tutto quello ch' è serio.

La verecondia delle donne inglesi prova quanto si è detto nel capitolo precedente. Che tutto sia permesso alla donna fuori che il mancare al decoro. Ciò non esclude la forza. Uno può esser denominato il forte dei forti, senza che si possa rimproverargli un esempio di mal costume. E Cristo, che impera da secoli non ebbe vita umana immacolata?.. Dalle centauresse inglesi vengono maschi pieni di ardire, ed è a credere che i loro figli saprebbero tutti morire innanzi che lasciarsi vincere.

Vorrei da così alto tema passare ad un bozzetto trevisano, accaduto sotto il Tunnel, illustre senza meriti. Cosa ci vuole a ottenere celebrità! … La Radcliffe è nota quanto e più di Manzoni, perchè ognuno ripete: — nero come un romanzo di Anna Radcliffe — senza nemmeno conoscerli. Così l' idea che di sopra c' è il Tamigi fa d' un lungo stambugio scuro, umido, tristo una delle più gran maraviglie del mondo: a me piacque il colossale God save the Queen a lettere di metallo. Esser republica e voler bene a una regina! Il bozzetto non si può riferire se non in trevisano: varrebbe un tesoro: perchè i nostri domestici si diedero appuntamento sotto al Tunnel, ma si perdettero: uno andava coi vapori verso l' Oceano, l' altra (l' ancella), verso le sue sorgenti. Quelle buone creature dei Londonesi li fecero accorti, a cenni a monosillabi, fin che si ritrovarono. Bisognava sentire Antonio a riferire quell' incontro sotto il Tunnel, e come si slanciarono furenti l' uno in faccia all' altra, e lui le scagliò un — cara la me cara! … e poi una parola trevisana che vuol dir scempia o grulla. — Certamente il vecchio Tamigi non la comprese, chè troppo a lui sono estranee le locuzioni del suo lontano, modesto fratello, il Sile: ma se ciò fu, esso deve aver brontolato nell' ime viscere — schocking!

Da Londra andammo in Belgio. Per via si fe' amicizia col conte Ceccopieri napoletano, diretto con noi a Bruxelles. Aspri ed incivili si tengono generalmente i borghesi fiamminghi, e noi n' ebbimo una piccola prova in istrada di ferro. Ceccopieri, amabile gentiluomo in tutto e per tutto, avendo acquistato alcune ciambelle volle offrircene, e così fece con qualche altra persona vicina a noi. Uno fra gli altri accetta l' offerta, la ghermisce, apre il finestrino … e via, slancia la pasta e la fa volare in piena campagna in mezzo ai bei frumenti, già talliti, rigogliosi, ondeggianti come il mare.

Stupiti al brutto atto si guarda lo scortese che il berretto alto, la bocca atteggiata allo sprezzo, parea solo occupato di fumare la sua pipetta, ma in vece guatava attraverso le sue ciglia rosse, il conte. Questi educato alla permalosa etichetta inglese non intendeva metterla via, e se non c' era chi si metteva di mezzo la finiva male. Alla prima stazione dove il convoglio si fermò, Ceccopieri discese un momento, vedo il fiammingo, rosso di pelo e infiammato negli occhi accostarmisi e vociferare. — Son porcherie da offrire quelle là? … — e accennava a un resto di ciambella, che noi non avevamo buttata via come lui. — Io ammansai quell' orso dicendogli che l' intenzione del conte fu gentile … E così terminò; ma con costoro non ci vogliono scherzi; son, più che altro, rissosi, caparbì, uomini e donne. Del resto è un tal popolo valente che questi son nei …

Giorgio Podestà, allora a Bruxelles ci rallegrò di sua compagnia. Quanto ci piacque la gentilezza, la espansione veneziana, in mezzo a quei ruvidoni! Ci recitò versi così belli, così nobili, e poi ci raccontò varie avventure sue: gustosa sopra ogn' altra la più recente. Quel vagheggino di dame, lione, florianista, era innamorato d' una ouvreuse de loge: una di quelle, che vendono viglietti a teatro o aprono i palchi. Innamorato a segno che non si sarebbe tenuto dallo sposarla. Vecchietto oramai, inclinava alla gelosia: ond' ella, virtuosa e gelosa di sè stessa, accoglieva col massimo furore questi sospetti. Credo che si spiegassero alla fiamminga, picchiandosi di santa ragione e minestrando … Dopo di che il poeta veneziano tornava più innamorato di prima da quella maledetta, da cui non sapea staccarsi. Podestà rimasto alla mano, semplice, non avea attinto alla caricatura forastiera in niente. Egli guadagnava la vita scrivendo: illustrava allora delle belle vedute dal vero, prese dalle pittoresche Ardenne: solo mi stupì che portasse inciso nella sua cartella di visita: homme de lettres. In quei paesi un tal titolo porta onori e danaro. Ma chi da noi oserebbe mettere letterato sotto al proprio nome? A noi la ci pare un' insolenza.

A Bruxelles la nostra diletta madre cadde malata. Il clima di Londra le si confaceva tanto, pareva così ben rimessa, ma è un clima traditore: la si usò forse meno riguardi e poi nella capitale del Belgio ne pagò il fio.

Una celia, da lei presa sul serio, contribuì a mal disporla. Io già dissi quanto la abborriva dalla terribile prosa del mal di mare, e per farle transitar Calais ce ne volle di buono. Chiacchierando a Bruxelles la si felicitava di quel passaggio, e il papà le facea coro felicitandosi, lui, d' averla forzata. — E se non avessi proprio voluto venire? — chiese ella. — Mi sarei diviso — egli replicò. Intendea sarebbe andato solo; posto che Londra stava nel programma … cambiarlo, Dio liberi! … Ella intese una separazione legale … pensarsi che un uomo, pel quale ella lasciò tutto al mondo, si dividesse per Londra! … Solitamente la mamma si arrabbiava cento volte il giorno … o perchè la smarriva gli occhiali, o la urtava in un mobile, o la trovava da dire per inezie. Rabbie furiose, che faceano un gran susurro. La si sfogava, la dicea orrori anche de' suoi cari; s' entrava in quella, o con un fiore, o con un gingillo, o solo con un sorriso, le spariva tutto, la tornava amabile, spiritosa, perdeva fin la memoria di quelle formidabili ire. Nelle cose grandi in vece la era magnanima, niente permalosa e, sebbene sorda, niente sospettosa … Ma quella parola del suo caro marito a Bruxelles la se la tenne dentro di sè, ci rugumò sopra; noi la vedemmo cogliere fiori dalle ajuole di un giardinetto all' Hôtel du Brabant, dov' eravamo alloggiati; riporli in una scatoletta da pochi soldi, ma carina, comperata sui Boulevards donatale dal babbo, e metterci la data in cui ella ricevette un così gran dolore … Chi avesse potuto supporlo!

Prima causa del male però furono le arie rigide … era maggio e pareva novembre in quel Bruxelles! La malattia della mamma fu una febbra sinoca, strana però, chè niente a lei venia come agli altri. Un sonno letale, un coma pericoloso la aggravava quasi sempre, con intervalli di svegliatezza e buon umore. La era lei, anco sotto la possa del morbo. E tale fu sempre. Sedici anni dopo e affetta da ben altro male, quando cioè dovemmo perderla, essa passava da un mortalissimo languore al brio del suo carattere. Il giorno innanzi di mancare, raccontando che avea fatte le cose sue da cristiana, soggiungeva: — Il diavolo non mi porta più via — e si ravviava le lenzuola con uno spirito, con una grazia, guardandoci con quegli occhi in cui s' era ritirata tutta la vita … Poi ripiombava nel torpore, fin che non si svegliò più.

Tornando a Bruxelles io stimo inutile descrivere le nostre angoscie. Consigliato dal medico il sole d' Italia, ci mettemmo in cammino trasportando la cara inferma di strada di ferro in istrada di ferro e poi in carrozza. Di quella traversata non mi ricordo che quei magnifici alberghi della Germania, che noi vedemmo sotto un velo di lagrime, perchè troppo grande l' ansietà di un tanto pericolo. Dio risparmi a chi viaggia e a chi ama il dubbio di tornare a casa colla compagnia scemata … Appena giunti all' albergo della città per dove si passava, la deponevamo a letto; si chiamava un medico e si provava a spiegargli il male e domandargli un rimedio. Bisognava pranzare a tavola rotonda: mense regali: un lusso di lingerie, di porcellane, di bicchieri tersi e di candelabri e di lumi pendenti. Ci toccava stare in mezzo a gente spensierata; giocatori che accorrevano per la stagione a tentare la rossa e la bianca. Fra di essi qualche dama; e una me ne ricordo fra le altre superba, vestita di velluto, capelli alla romana, adorna con sobrietà squisita, e a cui più d' un giovane ricco, innamorato della propria ambizione, offriva il the, ad un tavolo a parte, in magnifici apparati d' argento. Servili, quei giovani, pronti con meccanica esattezza ad antivenire ogni pensiero della diva, che li guardava con la stessa alterigia sprezzante, collo stesso occhio gelido, con cui li avrebbe fissati l' ultimo giorno, quando, spogli dell' ultimo quattrino e dell' ultimo sentimento, se li vedesse cadere sgozzati o avvelenati ai piedi. Spettacoli che serrano il cuore, quelli della stoltezza e della vergogna erette su palchi d' oro e di gemme … ma noi con quel dolore nell' anima, noi che dovevamo trovarcisi in mezzo; stare in un ambiente di ricchezza odiosa, fra la gente del bel mondo, mentre la nostra diletta era quasi moribonda! …

Passato Liegi ci imbarcammo sul Reno, e allora la cominciò a rifarsi un poco. Ma non potè gustar quelle bellezze. Io non ne parlo, son luoghi troppo noti. Solo dirò quanto ci commossero i paeselli in sagra, e il vedere da una riva idillio completo, dall' altra città, fortezze, strade di ferro, che già cominciavano da per tutto. Locomotive che scappavano fuori come serpi dai buchi e sparivano in mezzo a globi di fumo.

Un corteggio di nozze scese poco prima di Colonia e proseguì con grande allegria fino a questa città. Una allegria susurrona in mezzo al tin tin dei bicchieri di birra e al fumo delle pipe. La sposa seria, ma disinvolta. Lo sposo sedette sopra una tavola, prese per la vita la sposa e la sedette sulle ginocchia, dove la stette seriamente, senza che nessuno ci trovasse a ridire. E in verità altrove che in quel sito la cosa poteva urtare: non lì, in quella pastorale, in mezzo gente semplice, alla buona.

Passammo Magonza, dove s' è vista la cattedrale e dove si stette all' albergo come in campagna: ha il Reno davanti, ortaglie per di dietro. E tutto ciò facea bene alla cara inferma: dopo Strasburgo venne la Svizzera che si traversò a piccole giornate in carrozza. Bella memoria ci rimase d' un paesello nel cuore delle Alpi detto La Croisée, Kreutzenstrasse, ossia — Crocicchio di vie. — Lì si stette quasi tutto un giorno, e appena mangiato un boccone alla meglio, fuori per le praterie a saltar fossetti, a correre pei prati. Spirava una di quelle vive arie di primavera e là in mezzo a quelle grandi montagne, avanti che il caldo penetri ci vuole, sicchè è un tepore che non affanna: ci parve essere a casa nostra, in un di quegli allegri vesperi di quaresima, che fanno presagire tutto il bello della buona stagione.

Da questa poetica stazione, rimessi in via fra châlets e svariatissime strade alpine, ora fra boschi, ora fra praterie, ora fra dirupi, si giunse a Lucerna per passare il s. Gottardo.

Ma intanto che noi si correa in una specie di primavera nell' interno della Svizzera, sulle cime del s. Gottardo era venuta neve in sì gran copia che pericoloso diveniva il passaggio; ben più arduo di quello degli Apennini. A tavola parlavano di ciò, e noi drizzavamo gli orecchi, poi vedendo un vecchietto inglese, giunto di fresco, gli chiedemmo se ci fosse pericolo.

Je ne dis ni oui, ni non — non dico nè di sì, nè di no … Altro non si potè cavare di bocca alla sfinge; laonde un po' sgomenti ci guardammo l' un l' altro; mormorando — Pulito! — che corrisponde al — benino tanto! dei Toscani. (Pulito l' adopera, nel nostro senso, niente meno che il Guerrazzi). Il dopo pranzo s' andò fuori, si camminò sulle pittoresche rive del Lago, si videro le cime del Righi, mezzo nascoste nelle nuvole, che a lembi fuligginosi si sfaldavano giù sui fianchi e li facevano parer più ferragni. Quella vista svagò le nostre immaginazioni e pensammo a Tell.

Il giorno appresso, dopo varcato il Lago, si giunse a Flühlen, e là di nuovo con vetture si cominciò l' ascesa per pernottare ad Hospendahl, e quindi, se le nevi lo permettevano, l' indomani all' alba valicar l' ultima cima, che ci separava dall' Italia. Il primo giorno non avea dunque niente di terribile. Una salita di sei o sette ore, un viaggio di montagna e nulla più. Eppur fu quello di cui conservo una memoria paurosa, e ciò solo perchè i precipizî li ho visti: mentre il dì appresso la neve copriva tutto. Così è: l' anima umana vive d' illusioni.

Già per sè stessa la montagna del ponte del Diavolo è una formidabilissima mole. La si incomincia dal piede, a fianco della Reuss, torrente graziosissimo pieno di cascatelle, di sassi, di rumori poetici, fin che ci si cammina accosto. Via via che la strada s' eleva, tutto divien più imponente: le croci di legno infisse all' orlo di non pochi burroni, attestano qualche sciagura, stringono l' anima di un certo sgomento. L' aria si fa più chiusa, la luce più tetra; è probabile che di pien mezzogiorno sia tutto più allegro, ma già in quelle regioni le tempeste dominano. Quasi si preferisce il tempo chiuso: par che sia più in armonia della messa in iscena, e così pure ci fan benissimo le mandre. Oh! che suono all' anima in quei silenzî le campanelle … che arcana vaghezza. Il ranz des vaches del Guglielmo Tell è sonato da un' orchestra invisibile, in mezzo al maestoso orrore di quelle balze. Il senso di quel ritmo, che mollemente va e ritorna sopra sè stesso, librato a cadenza, come va e viene l' acqua d' un lago chiuso da montagne, riflettendo coi medesimi cerchi tremanti i bei colori delle cime che riflette. Ma la gran malinconia d' una natura selvaggia non è la sola che abbia ispirato Rossini nel suo capo d' opera. S' è ispirato all' arcano senso di libertà, ch' è nel popolo svizzero. Io penso perciò che i popoli avviliti mal si consolano dello splendore che possono raggiunger nell' arte … Povera vita han le arti d' un popolo corrotto. Meglio, assai meglio, esser padroni a casa propria e dar nobili ispirazioni a chi ne ha bisogno fuori! …

Solitudine paurosa, bigia, incolore. Non una punta illuminata, non un contrafforte riflesso. Rupi oltre il cielo, abissi entro la terra; silenzio fatto più solenne dal rombo lontano delle cascate, che si slanciano coll' impeto di pantere dal covo. Chiusa formidabile di pareti che opprimono, e insieme il sentimento dell' immensità, dell' eternità, della vita potentissima e d' una immobilità di morte.

Giunti presso ad Hospendahl mi prese nel mio segreto un' angoscia insolita, e che per la prima volta in mia vita durai fatica a contenere.

La strada è come tutte le strade di montagna a zig-zag o in andirivieni, che si voglian chiamarli. Ossia dall' interno viene sull' orlo, fa gomito, dall' orlo va all' interno, e così di seguito: ma quando dal fianco la si spinge all' infuori, non si vede che l' orlo all' estremo lembo: perchè la voltata è nascosta da un ciglione di rupe o da una muraglia o da siepi boscose, là dove ancora v' han siepi. Stando adunque in carrozza la si vede procedere lenta ma inesorabile, alzarsi, avvicinarsi a quell' orrendo abisso, dentro a cui nuotano primi gli orecchi dei cavalli e le teste …; sicchè par d' andarci dritti, dritti. Il vetturino smontato lasciava ire le bestie da loro posta … e noi fissare quell' orlo eretto sulla cima di uno spaventoso baratro senza fondo, e di fronte, al di là del vuoto, una filiera di roccie granitoidi, aride, minacciose come l' idea del tradimento e tanto alte che non se ne scorgeva l' ultima punta, tuttochè la minacciasse dietro il velo di nuvole … Fu un momento di ribrezzo, ma per fortuna fu l' ultimo. Giunti alla voltata di quel precipizio la strada girò; si ebbero a diritta ed a manca spalliere di muretti, di campagne, e si entrò ad Hospendahl, paese che passammo senza vederlo, perchè tutto coperto di neve: ma ce ne rimase la memoria della più desolata contrada del mondo.

La sera, innanzi di prender sonno, a immaginarsi che il monte varcato era niente in confronto a quello da varcarsi, e a cui si riferiva quel ni oui, ni non; lo spavento retrospettivo e quello in antecipazione, e poi dover portarci una donna malata, lassù a diecimila piedi parigini, e in quel modo … e quella donna era la più tenera parte dei nostri cuori!

Nel mezzo della notte ci levammo e riascendemmo in carrozza, o per meglio dire nelle nostre carrozze, chè al gran bagaglio necessitavano due rotabili. A un certo punto questi furono lasciati, e ci sedemmo in tre slitte perchè nessuna carrozza ormai poteva transitare. Lì cominciavano le nevi. Addosso ci furono messi capotti da soldati, co' suoi bravi cappucci e schiavine alle gambe. Acconciati a quel modo si pareva Esquimesi e Lapponi. Tre o quattro guide, con grandi stivali o gambali imbottiti, barbe folte, cappelli a larga tesa a foggia di briganti, ma brava e buona gente, svelta e coraggiosa: cammina e cammina; da un deserto di neve a un altro; da un oceano bianco a un altro; degli alberi qua e là, facean più paura, e accrescevan la desolazione; curvi nel loro lenzuolo di neve, come spettri gelati in un' escursione notturna, mentre tornavano ai loro sepolcri. Dolori agli occhi e alle punte delle dita: oh! ma da piangere. Averlo saputo si portavano con noi occhiali a fumo, pellicce e manicotti … ma noi dianzi temevamo di soffrir troppo caldo, perchè in giugno gli è quello che s' ha a temere.

Un sole languidissimo, senza luce e senza calore, rischiarava quelle triste lande, in mezzo alle quali non vedemmo che operaî intenti a dar giù il piccone e la marra, a spazzar le vie, a sgomberare le nevi ed i ghiacci.

Giunti al sommo si fe' sosta davanti all' ospizio. Un fabbricato severo di cui mi sovviene tanto quanto d' un sogno. Piuttosto che una veduta reale credo d' averne letta la descrizione in qualche novella: già da un istante eravamo fermi, quando mi sento al viso un' aria tepida, una cosa morbida, mi volto e mi trovo faccia a faccia col muso d' un grandissimo cane. Il buon bestione veniva a vedere se occorreva niente; se i viaggiatori stavano per morire, e se facean d' uopo soccorsi. A questo proposito io trovo nella Donna e la famiglia che nel 1873 furono curati al S. Gottardo 1108 passeggieri, 2585 albergati, 157 ammalati curati. E Dio sa quanti nel 50 … Ma noi non fummo tra quelli. Poco dopo, è vero, la slitta dei famigli rovesciò, ma senza danno alcuno, essi intrepidi, a non isgomentare la padrona tacquero, e la slitta fu rialzata senza che ella se ne accorgesse.

Ripresa la via si toccò Airolo. Lì ci fecero smontare in un' entrata così bassa che per alzare il pavimento al livello della strada vi tenevano dei tini rovesci. Passati adunque dalle slitte alla superficie delle tinozze capovolte, ci fu porto un gran bicchiere di vino tepido. Lo ingollammo tutto e ci fe' l' effetto d' acqua fresca, tanto eravamo irrigiditi da sei o sette ore di bagno in un' atmosfera glaciale.

La sera riposammo a Faido, e da quel punto la nostra diletta madre si rifece del tutto dal suo male. Un così forte deprimente poteva, Dio liberi, farla morire; esso equilibrò in vece le sue forze e la fu ridonata al nostro affetto.

Descrivere il passaggio del monte Cenere, Lugano, i laghi lombardi, Lecco e il suo ponte, mi parrebbe inutile; non che irriverente, quest' ultimo luogo, per lui immortale, avendolo descritto Manzoni. Pel giugno eravamo a casa: e qui riassumendo le memorie della famiglia paterna e materna, dirò in un ultimo capitolo dell' arte e delle notizie cittadine quello che basta a chiuderne la lunga serie.

Conclusione delle pagine famigliari, artistiche, ittadine.

Comincierò dalle notizie cittadine le quali sono tristissime. Molte volte pensando e paragonando a mente fredda gli stadî così diversi di questo gran trentennio della nostra rivoluzione ho veramente potuto confermarmi nell' idea che il più brutto fu dal quarantanove al cinquantacinque o al cinquantasei, dalla caduta di Venezia all' attentato di Orsini. In quegli anni materialmente i paesi risorgevano, è vero, ma senz' anima, ossia coll' anima avvelenata dall' apatia e dall' odio.

In tal miseranda condizione Lombardia e Veneto, ancora scossi dal grave danno materiale, se ne risentivano in quella crudele maniera che fa conscii d' un danno immenso il quale nulla ha risolto: ne fa temere di nuovi, senza precisare una speranza per cui possano divenire proficui … Allora niente autorizzava a credere che Napoleone, per nessuna vista, scenderebbe in Italia. Le nostre popolazioni oppresse dal fatto dei trionfi austriaci, dalla caduta della republica romana colle armi di quella francese, disperate dei tribuni, malfidenti dei re, stavano in un cupo torpore, a cui è preferibile la morte. Stadio foriero di cancrena morale, a nessuno più caleva di niente: nella comune indifferenza profonda, parea dicessero: — Il sogno è svanito. Ritornerà esso possibile? forse! ma Dio sa quando. Così la nostra generazione passa collo scherno sul labbro e la maledizione in cuore. — I nemici intanto portavano le loro bandiere da Ancona a Magonza: e in casa, prevalendosi della disposizione d' animo favorevole all' oblio, cercavano nei teatri e in tutto che potesse di risvegliare a suo pro la vita, quasi spenta in queste misere popolazioni.

Opere che prima non sarebbero state permesse, libri, canzoni … Il pubblico richiamato brutalmente dalla sua generosa apatia, rideva a Crispino e la Comare, applaudiva ai drammi francesi, dimentico di sè stesso. Ciò non toglieva all' autorità di pescare nel torbido, di rinvangare processi e di averne di nuovi. Chè i veri patriotti non ismettevano dal lavorare in segreto, fin che in pubblico non li fermasse il capestro.

Coloro che si occupano di queste storie cittadine cerchino gli orrendi documenti del processo fatto contro gli uccisori di Puato e compagni. Da Modena venivano gli incitamenti che domandavano sangue: c' è chi assicura che furono comperati testimonî, non importa che fossero vili: male femmine di professione, manutengoli, noti delatori. Tutto in quel delitto dovea esser nefando, anco la vendetta.

Dalle memorie cittadine vengo a quelle artistiche in quanto posso parlarne io. Il più delle notizie biografico-artistiche le quali particolarmente mi riguardano, se mai possano interessare nessuno, è tenuto dall' esimio professore De Gubernatis, il preclaro indianista, direttore della Rivista Europea, da me già menzionato col dovuto onore, che per un nobilissimo intento me le ha domandate. Il commendatore Bernabò Silorata ha pure detto qualcosa nella serie degli Italiani viventi, così il solerte e generoso Oscar Greco nella Bibliografia italiana femminile di questo secolo.

Già fino dal 1846, ritornati da Roma, ci eravamo convenuti col bravo e buon pittore Gavagnin ch' egli venisse fuori due volte il mese da Venezia, per guidarmi nella pittura. Locchè fece durante il 47. Ma con poco frutto. Il purismo, a cui bevvi le prime fonti in Roma, penetrava appena a Venezia. I vecchi non ne volevano udir parlare. Meno degli altri Gavagnin, che per altro non potea dirsi barocco, ma usava i metodi d' una volta. Questo cambiare sistema mi confuse e alterò la buona disposizione. Fra chi dice: segnate appena le ombre, e chi le vuol forti: fra chi ordina squadraturine appena mosse, e chi dà modelli pronunziati e anco contorti; fra chi ha un sistema tutto stabilito e chi non ha che una certa pratica alla come ci pare, non si sa a chi dar retta. Intanto venne il 48. Gavagnin chiuso a Venezia non potè più uscire. Fu impossibile a Treviso procurarsi l' occorrente a disegnare e dipingere.

Qui, tra le ultime figure di queste pagine, se ne presenta una che io ricordo con gratitudine, Eugenio Moretti-Larese. Allievo dell' accademia di Venezia, questo pittore mostrò fin da' primi anni quella certa cosa, che può dare buoni o tristi risultati, ma che significa indubbiamente potenza. E potenza di sentimento artistico era in lui, che avrebbe portato eccellenti frutti, se fin dal principio diversi fossero stati i metodi allora dominanti, oppure se non fosse avvenuto nel bel mezzo della sua carriera quel cambiamento che potea educar i giovanissimi, riformare gli adulti. A un certo punto le riforme alterano più che non giovino; portano alla confusione più che alla perfezione. Se Moretti non si guastò del tutto, ciò nacque dal suo vero genio e dalla intuizione dell' arte, dacchè egli era veramente pittore. Chi lo conobbe prima del 1840 lo descrisse a noi come uno dei veri tipi di quella orda vivace e terribile di artisti studenti, che pareggiava quell' altra degli studenti dottori di Padova. Terrore delle buone mamme e di quanti stimassero avere a patir guai da così fieri monelli. Egli stesso ci ha descritta la sua adolescenza, i costumi veneziano-artistici di quel tempo in cui la città, prettamente isola, vivea nelle sue calli interne, come un secolo addietro. Rissoso, baruffante, schiamazzatore, Eugenio Moretti-Larese ricorderebbe il Lelio Torelli di Guerrazzi, prima dell' amore. Scorsi i primi anni, mescolato quindi alla baraonda degli artisti più grandi, la vita scapigliata cambiò aspetto, ma rimase nell' essenza la stessa. Allora abitava con altri artisti francesi, ed italiani, un di quei palazzi cadenti, che i nobili appigionavano tanto per non perder tutto, contentandosi di guadagnare presso che nulla. Viveano i pittori insieme lavorando indefessi settimane intiere, oppur non facendo che ridere, sonare, cantare, bevere, schiamazzare allegri, in costume di selvaggi: nel quale ricevevano imperturbati visite di alte persone, commissioni di ambasciatori, principi, ecc. Questa vita non ispense per altro il sentimento artistico del Moretti: anzi cresceva in lui man mano che praticava gente di educazione. D' una cosa però ei non si sentiva la capacità, ma il bisogno, ossia d' un nobile affetto, d' un raggio di bella passione quale sogliono provarla gli artisti, sì che diventa la loro vita. Una volta incontrò una giovane dabbene e dotata di quella bellezza, che parla al cuore di coloro a cui spetta in certo modo il regno ideale. Sperava di accendersi d' una vera fiamma, quando s' accorse che un amico più abile s' era fatto suo quel cuore, e a quello non dovea più pensarci. Questa specie di piecolo tradimento rese ancor più diffidente il giovine artista e più infelice. Fu allora che, chiamato a Treviso nel 1842 da un tale che scoperse nella propria soffitta una Maddalena d' autore, affinchè il Moretti ne eseguisse la copia in litografia, noi lo conoscemmo. Era un bel giovane, alto, serio; fisonomia e pronunzia veneziana. Nel parlare piuttosto rozzo, niente superbo della sua bravura, giudicava con disdegno le scuole moderne. Gli chiesi ciò che pensava del purismo e dei puristi: — roba da pignatte! — rispose egli tra faceto ed ironico. Che vale: roba da scappellotti! Eppure più tardi egli die' a vedere che di quelle norme intendeva tutto il bello, e se non potè farle sue intieramente, ciò provenne appunto perchè un po' troppo sviato pei metodi primitivi. Non esito ad affermare che, diversamente educato, Eugenio Moretti-Larese potea divenire uno dei più nobili pittori d' Italia. La forma era sua: egli la possedeva nella più elegante espressione: bastava che prendesse un lapis, una penna, egli segnava figure slanciate, paggi alla medio-evo, donne in mosse graziose; motivi di pieghe elegantissimi. Fin dal 1848 mi resta di lui un ritrattino a due matite a cui, per ischerzo, aggiunse in alto l' apoteosi di Venezia. Basta vedere questo schizzo per comprendere se quell' uomo poteva. Scorretto lo era spesso: le tinte sgorbiava; con un certo metodo convenzionale d' allora, in cui per fare un muro, per fare un fondo, o non so che altro non si copiava la verità, si sapeva che occorrono certi impiastricciamenti, passati per tradizione, d' uno in altro artista. Ajutavano, è vero, all' effetto e come scienza decorativa ci avea un qualche vantaggio: ma quando buttava giù.., quando, come avviene talvolta a tutti gli artisti e più a quelli di quella scuola, quando tirava via! … Con tutto ciò volgare o meschino e' non riusciva mai. Anzi gli si vedeva l' impronta d' un bell' ingegno, e che nell' anima avea pur qualcosa d' epico, o se non altro, portato ad alti soggetti. Il Tasso, inciso da Boscolo, la signora di Monza son figure grandiose, in cui si vede una espressione arcana la quale non può esser mendicata, copiata dagli altri: bisogna che l' abbia lui. V' hanno pittori a cui, quando si slanciano in soggetti potenti, vien voglia di recitare questa bella strofetta dell' Allegra filologia di quel caro rivoluzionario della lingua, fra Mauro Ricci Fiorentino:

Aquila esser volevo e sono un tordo, Che, in vece di volare alto per aria, Lungo le siepi ahimè! coccole mordo.

Moretti, non fu aquila, ma stava in lui volare in alto. Del 48 Moretti si trovò a Treviso, e stette molto in nostra compagnia. Ritornati i Tedeschi, egli, senza lavoro, non sapea che fare. Era con noi la Luigia Gavotti-Ortelli, quella celebre Aracne, che lasciò un famoso s. Sebastiano trapunto, uso incisione in rame, premiato a più d' una esposizione, e che a lei costò, per l' ardua fatica, la vita. Noi due, zelanti dell' arte, disperati per la chiusura di Venezia e per la mancanza del meglio che occorresse, acconciammo un fazzoletto in testa alla brava Luigia, e la dipingemmo da povera. S' intende che la pittocchina di Moretti superava mille volte la mia, perchè egli valente, avea anche fatte sue molte norme dello sprezzato purismo, e la decisione delle masse di luce e di ombra, e il sugo del colore nelle velature gli valeva, quando vi si mettesse per davvero, eccellenti risultati. Ma un dì, in quel fatale estate di dolore e di vergogna pel nostro povero paese, un dì, mentre si dipingeva quieti nel mio studiolo, vediamo Eugenio Moretti impallidire: dice di sentirsi male. Di fatto gli cominciava uno di quei ribocchi di sangue per cui, consunto d' emoftisi, dopo venti e più anni morì: sia per troppo sviluppo al petto, proeminente, e sia pel soverchio lavoro.

* Rimesso un poco in salute, dopo alcune settimane di riposo e di cura, ebbe coraggio di passare i varchi, allora vietati dagli Austriaci, e andare a chiudersi nella sua Venezia. Nè più lo vedemmo fino al 1850. Lo vedemmo patito ancora nella salute, ma progredito nell' arte, e appunto nel senso purista. Più amabile, più serio, egli forse avea trovato un ideale, secondo voleva. Ma, nemmen quello bastò al suo genio e più tardi si volse al positivo. Sposò una brava donna, che gli divenne sostegno fin l' ultimo giorno: il ragazzotto, baruffante dei chiassuoli di Venezia, terminò, in forza del suo lavoro e delle sue nobili opere, pittore stimato, colla croce di cavaliere, e in situazione da non poter esser vinto dalla miseria, spettro orribile dell' artista malato.

Quanto a me la sua scuola finì di mandarmi come si dice all' orsa. A forza di cambiare metodo più non mi raccapezzai: laonde, vedendo che restavo troppo, ma troppo al di sotto della mediocrità, mutai il pennello nella penna. Se feci male, sta agli altri il dirlo, dato che ciò meriti di neanche pensarci.

Vengo all' ultima pagina, e queste memorie famigliari, cominciate a Pederoba, le chiudo al Fossà, presso Bassano nell' antica villa Ca Cornaro, divenuta Mocenigo, dove allora passammo la bella stagione. Le termino là, perchè questo fu il più bel momento della vita di mia madre. Ottaviano ci stava con la sua giovine famiglia, e coi fratelli parte dell' anno. Belle viste, bella gioventù allegra, si passeggiava, si cantava, si dipingeva, si giocava. V' era il tempo per la cavallerizza, quello per la chiacchiera e soprattutto quello pei canti.

Bordignon, medico di quel comune, merita un ricordo. Campione degli studenti di Padova e dei difensori di Venezia; figura tizianesca. Grande, colorito, magnifico, potente: egli cantava con misura e dolcezza belliniana le più sospirose e care melodie.

Anco a Sottovia, pittore di paesaggio gli va data una parola d' encomio. Pur troppo ei morì giovane e non lasciò quanto poteva. I suoi studì avrebbero preso quell' impronta di realtà, che la scuola moderna domanda. Poco gli mancava. Le convenzioni accademiche non lo distoglievano tanto da vietargli i più bei risultati. Pel frondeggio avea un gusto proprio: un frondeggio squisito, perchè la sua fronda, nei pochi lavori rimasti, è incisa ed aerea, naturale e pittoresca.

Con Sottovia e con quanti altri artisti o dilettanti si trovassero al Fossà, si partiva, si andava a studiar dal vero: un sasso, una rivetta, una casina. Che distese di prati, che vallicelle romite, che torrenti a pie' di quelle montagne! Nei dopo pranzi in vece tutta la compagnia usciva di conserva: allora eran canti, villotte patriottiche … poi venivano i giochi di società … Insomma era un sito di delizie, sotto ogni rispetto, e più di tutto lo rendeva caro una cosa …

Un' aria schietta, una bonarietà paesana, semplice, cordiale, all' antica. Il fare alla buona, la noncuranza amabile. Il via vai di servitori niente, ma proprio niente chic.. E bisognava vederli loro due, Ottaviano e sua madre, canzonare gli apparecchi della cena sufficientissima, dopo un succulento pranzo. Quando cominciava il buon Nicola servitore a strisciare i piedi, andando su e giù per quella benedetta sala: e Ottaviano ammiccava alla mamma susurrando: — ecco i preparativi del banchetto! — ed ella ammiccava sorridendo composta, ma con quel brio di vena satirica negli occhi, per cui parea sorgesse fra loro due il marchese Sale redivivo. Nessuno ci badava, tutto andava come dovea andare, ma il gusto di prendersi celia, mettere soprannomi gustosi, dare amabilmente guai, nessuno ad essi lo toglieva.

E qui voglio dire una cosa delicatissima, è l' ultimo tocco alla diletta immagine. La nostra cara si sentì sempre, innanzi che madre, sposa, e con l' usato candore lo confessava. Ma la convivenza era potentissima a ravvivarle l' affetto pei figli. Una volta la veniva da Vicenza ov' era stata a trovarli. A Padova ci occorse assistere al funerale d' uno studente … e la vediamo tutta in lagrime. — Cosa ha' tu che piangi? — le si chiede; ed ella: — Mi son pensata che fosse uno de' miei. — Il sentimento materno è dunque simile a ogni altro umano. Si aumenta, si illanguidisce a seconda delle circostanze, la cordialità, le buone maniere, i bei tratti gli danno vigore, la noncuranza, il distacco, lo incrudeliscono ed anche lo distruggono …. Così è, ma il secolo che vuol abolire Dio, lo vede dappertutto e fa divini gli affetti più naturali.

Non c' era pericolo che mia madre ostentasse sentimento; parea suo compito mostrarsi sotto il peggiore aspetto, si potea dunque crederle vedendo la sua contentezza all' apice in quell' estate. Ella stessa me lo confidò in quel parco, folgorante di bellezza, fra le magnificenze della grandiosa natura, che vi formano intorno le montagne bassanesi. — Mi par che il Signore abbia dimenticato tutto — disse quella bell' anima, grande nella sua umiltà. Di fatto, dopo tante burrasche, vicine a tragedie, la si vide circondata da tutti i suoi figli, riuniti sotto al medesimo tetto, dalle nuore, dalle nipotine, dai futuri generi. Non le parea vero, e il passato le appariva come un sogno remoto di delore, allo svegliarsi del quale tanto più dolce apparisce la realtà.

Questa pace, questa confidenza di belle anime, l'allegria di quei ritrovi artistici e campestri poco durarono. Il nembo che sconvolse di nuovo Italia portò il dolore, il dissidio, la rovina sotto mille aspetti in queste infelici contrade. Senza quel nembo Italia non si restituiva a sè stessa, ma i danni ho quanto durano ancora! …

Non regge l' animo a descrivere la nostra vita durante i tre lustri, che precedettero la sospirata libertà. Tirannia del governo, tirannia dei partiti: quello volea dar libertà col terrore: questi imponevano il terrore colle mode, colle seduzioni, colle arti, giustificate ma non meno oppressive d' una corte veemica: doppie imposte, doppia legge, doppio spionaggio. Ricominciarono le guerre, gli esigli, le confische, le morti: i mariti abbandonarono le mogli; i padri si staccarono dai figli, i figli strappati dal seno delle madri, a cui veniva proibito di piangere, i pettegolezzi polizieschi e quelli delle sette. I fogli andavan pieni di citazioni agli assenti e d'ignota dimora, documento sublime della nostra indipendenza. Ma partivano i migliori, i più vivi, i più forti, il paese restava senza muscoli e senza anima. L'odio, la paura, il sospetto furono il pane cotidiano delle nostre mense, senza che i nostri dolori ci dessero il minimo prestigio, anzi ci avvilivano … come avviene delle miserie mute ed oscure. Io forse troppo ripeto le stesse cose … non so cosa dire, è il core che parla!

Io vedo le famiglie senza pane, i capi casa senza impiego: io so di chi si svegliava per maledire il giorno, di chi andava a letto dicendo: — Dio ti ringrazio, uno di meno da vivere. — Gli anni da Villafranca al 66 sono orribili. Io vedo il mio diletto padre premersi il core, dove covava la morte e dire, parlando di Napoleone: — ci ha assassinati tutti! — Il resto fu nel 66, alla cessione del Veneto alla Francia, in cui il ridicolo si univa alla crudeltà, per cui ci convenne soffrire, in un falso blocco, vera sete, vere angherie, l' ultime zaffate della bestia, per sostenere io non so quali farse.

Un popolo, com' è il Veneto inclinato alla bontà, dover odiare! inclinato alla esattezza e alla docilità dover disubbidire e gloriarsene! Un popolo il primo carattere, del quale è la prudenza, dover correre i rischi più sanguinosi, più strazianti senza sapere nè dove, nè quando, nè in che modo avranno termine! … Ah! c' è abbastanza per corrompere mille e mille famiglie, non che i soli individui, e bisogna ringraziar Dio di tutto ciò che non nasce di male, dopo tanto segreto lavorìo di disordine e di corruzione.

Poi quando si crede tutto finito, c' è ancora da ricominciare. I disinganni, il malcontento, i mille resti del polverone suscitato dal carro d' un lungo periodo rivoluzionario, lo sconcerto economico, e quella gran passione di dover dire e sentire a dir male dei suoi.

Coloro che assistettero alla prima fase di passione sanno che le deve succedere una di leggerezza … Lo sanno, ma non la possono tollerare.

Sono partiti nel mattino della vita con un ideale nella mente. Le larve d' oro della bella età scherzavano in allegria pel cielo coll'iride luminoso della gloria nazionale, ai primi albori. Compagni nella volontà e nella fede, l' occhio levato verso gli stessi orizzonti, il piede impaziente verso la stessa meta, si mossero insieme i loro fratelli. I precipizî essi non li videro, ai gridi sinistri non porsero ascolto. Un amore potente e misterioso, uno spirito nuovo, ma che loro si rivelava come un sentimento antico e, per così dire innato, animava i loro cuori. Perciò il canto patriotico ebbe la solennità della preghiera, e s' inspirò agli affetti famigliari, poichè tutto quel movimento altro non fu che quello d' un popolo, che vuol tornare famiglia. È ben naturale adunque se gli entusiasti non pensarono alle difficoltà, non previdero ostacoli in quella marcia trionfale, se videro solo faccie amiche alle finestre delle case, mani che sventolavano fazzoletti, ed applaudivano …. oh! applausi senza fine in quell' ora, e tante ghirlande che appena bastavano a raccoglierle. In quel lieto aprile il vento staccò la fioritura dei mandorli, dagli orti domestici, e la sparse sul cammino dei giovani avventurosi in segno d' augurio e d' addio.

Ahimè! quante volte nell' ardua strada smarriron la luce! Il pie' non sapeva dove posarsi, i compagni gli cadevano a fianco, altri li sostituivano, è vero, ma non eran più quelli! E tutto balenava nel terribile transito … E sempre più si perdeva l' eco giojosa che accompagnò l' andante guerriero della partenza … Adesso è lo stridor di catene, sono i patimenti, la povertà, la fame … è il pianto dei rimasti, è il gemito e l' agonia della madre lontana. Oppure è qualcosa di più triste ancora, è il ghigno beffardo di chi schernisce, tradisce e fa dubitar le belle anime perfin di sè stesse!

Giunti al termine ei si guardano attorno, e non si riconoscono più. La gente non è più quella.., le rose si cambiarono in cipressi, in fantasmi le amabili larve, alla stanchezza d' un intento conseguito cesse la speranza … Che più? … Canuti innanzi il tempo, stanchi e delusi ei si trovano in una scena sconosciuta, davanti un publico presso che estraneo, il quale, con mal simulata noja, domanda altri attori, diverso scenario.

Dov' è il foco arcano che li spinse in gioventù a segnare una tappa nel cammino dei secoli? … La pace fu suggellata nel bacio fraterno, sull' altare dei primi giorni? … Dov' è ordine, economia, sicurezza?

È dunque a stupire se tutto ciò li mortifica, se li sgomenta, se la diffidenza invade il loro spirito, se, vedendo una realtà così dissimile dal sognato ideale, la virtù modesta in un canto, i tristi o i vanesì in seggio, premiato più chi non fe' niente in confronto di chi die' tutto sè stesso, è a stupire se lor cade l' animo, se la bocca s' atteggia al sarcasmo, se forse sospirano il tempo in cui le idre della rivoluzione urlavano per le vie, ma i grandi sentimenti erano nei cuori? …

Sacre memorie, è possibile che perdiate il vostro prestigio? che non sia più vero ciò che fu la nostra fede, la speranza, l' amore, il dolore della nostra vita? Quelli che ci sopravvivranno passeran via indifferenti sulla sepoltura di chi, nel fior della gioventù, andò a farsi uccidere, perchè non fossero più volgo disperso, perchè avessero un nome, da poter dire senza vergogna? … Quelle musiche, quei cori che a noi rappresentano un poema, scritto con mille e mille vite, e ci fanno provare l' ineffabile senso, come all' istantaneo apparire della persona cara, quando si credeva di non rivederla mai più, diverranno lettera morta? Sarà sconsacrato dai tripudì dei felici il patire di tanti anni? Ah! non bisogna pensarci, bisogna non crederlo, perchè allora converrebbe piangere di non esser morti, appena vista l' amata bandiera!

Io credo che queste parole troveranno eco di simpatia in più d' un cuore di vecchi patrioti. La supposizione ha un appoggio.

La principessa Dora d' Istria mi scrisse queste parole memorabili, a proposito delle Scene d' indipendenza italiana; e poichè non di me, ma di quelle stesse si parla, io le trascrivo o, meglio, le traduco:

« Qualunque ha potuto, anche giovane, contemplare quelle scene importanti, ne conserverà certo la memoria per tutta la vita. Dopo la lotta immortale sostenuta dalla piccola Grecia, contro il mondo musulmano tutto intiero, l' Europa non vide spettacolo più imponente. Ma questa gloria fu pagata con grandi sagrifizî, e da ogni sorte di sofferenze, di cui voi avete ragione mille volte di mostrare la gravità alla generazione contemporanca. I popoli, una volta che abbiano riconquistata la loro indipendenza, non son che troppo inclinati a perdere la rimembranza di quelli che colla parola, colla penna, colla spada difesero i loro diritti, e se non ci avesse chi, continuamente, loro ricorda i duri anni di prova sarebbero tentati di confondere in una medesima indifferenza i loro vecchi amici e i loro antichi avversarì. »

Queste parole d' un' inclita figlia della antica Grecia, della nobile Minerva, sulla bella fronte della quale splendono uniti i raggi della luce d' oriente e quelli della civiltà europea, mi danno adito a conchiudere secondo più che desidero.

Laonde, adempiuto l' obbligo assunto dopo la morte della mia adorata madre, anzi verso i miei genitori, non mi resta che ammonire i giovani di proporsi una cosa: di non mai più permettere che il nostro paese torni nè materialmente, nè moralmente (il che riesce quasi lo stesso) sotto servaggio, straniero o di partiti: e l' uno preparerebbe l' altro.

Allontanino i pretesti, che li portano a discutere troppo acremente; ajutino, illuminando ma non oppongano combattendo. Intendano sopratutto di fare il dover loro. Come capi-casa, come uomini politici. Come padroni, come servi, e come madri, come maestre, in ogni occasione, in ogni incontro. Quello è un gran talismano per la prosperità delle famiglie e delle nazioni. E se circostanze particolari, superiori alla miglior volontà, funestamente imperiose li distraggano dal bene e dalla virtù, ah! non se ne facciano belli, non lo portino almeno in trionfo, ma aspirino di tornarvi, appena sia loro dato, ne accarezzino l' immagine, ne onorino la memoria, le erigano, come fa l' esule alla cara patria, nel proprio seno un altare.

Felicità vera, nè perfezione non c' è al mondo, di soffrire non si termina mai, la sofferenza cambia soltanto aspetto, o se non altro, nome … ma nessuno può farci male fuori che noi stessi. Noi soli possiamo avvilirci ed essere avviliti: la nostra personalità, l' invidia e la coorte di passioni, che ci accompagnano tentando di trarci al male. E guai lasciarsi vincere! …

Non è solo disonore essere esautorati in casa propria, gli è un danno. I mercanti non traggono profitto dai traffici, gli artigiani dall' opera, gl' ingegni dalla loro fatica. Si vedono con tormento e umiliazione posposti agli ingegni stranieri. Lavorano e quasi per niente: son costretti a imitarli, a forzare la sacra ispirazione dell' anima, a divenir servili, pur d' accattarsi una momentanea attenzione, nello stesso modo che la sposa legittima si prova a somigliare alla trista, che le rubò gli affetti, pur di mercarsi uno sguardo dal distratto consorte. Ora dalla condizione del paese, deriva la condizione delle famiglie, e da questa quella della nazione; turbine morale, che feconda la società o la distrugge.

In nome dei dolori che ho detti, e di quelli che ho taciuti, io prego i giovani a penetrarsi di questa sentenza: la sarà sempre buona, ne ricaveranno, o in particolare o in generale, sempre vantaggio. Altrimenti facendo, essi non solo offenderanno Dio, la Giustizia, i sentimenti di natura, gli ordini di civiltà, ma condanneranno chi da loro discende fin oltre la quarta generazione.

Venezia, 1871-1874.

PARTE I.
Pagine intime.

PREFAZIONE Pag. 1

Cap. I. — Mia famiglia paterna — Il Memoriale. » 5

» II. — Vicenza a volo d' uccello — Casa Sale — Fiorenza Vendramin — Sua vita e sua morte. » 21

» III. — Infanzia di mia madre — Dolori e consolazioni » 53

» IV. — I piccoli drammi d' un gran palazzo — Nozze illustri. » 77

» V. — Un po' di storia in generale ed in particolare. » 91

» VI. — Un Petrarca galeotto — Pitture retrospettive — Seconde nozze — Miei primi ricordi. » 103

PARTE II.
Viaggi in Italia.

Cap. VII. — Dal Sile al Cagnano — Il Colera — Il Polesine — Ferrara — Venezia nel 1838 » 119

» VIII. — Bologna nel 1839 — Un autunno a Firenze. » 147

Cap. IX. — Studio del disegno — Trieste — Dall' Ongaro — Si spiega il modo di far il sapone a Tommaseo — Il Friuli. Pag. 179

» X. — Un passaporto — Partenza per le Marche — Nembi e tempeste — Una cupola che si vede da lontano. » 197

» XI. — Dimora a Roma — Vita romana d' allora — Monache — Patrizî — Arte — Feste — Racconti. » 219

» XII. — Ritorno — Siena — Firenze — Lutti domestici — Rimpatrio — Studì — La Ristori a Treviso. » 247

» XIII. — Viaggio a Napoli nel 1844. — La neve sugli Apennini — Firenze — Dupré — Memorabile incontro a Civita-Castellana. » 267

» XIV. — Una primavera a Napoli — Puoti. — La Guaci a Capodimonte — Roma — Classici e romantici. » 287

» XV. — Ritorno pel Furlo — Una cameriera superba — Una poetessa umile — Da Ravenna ad Arquà — I Bandiera. » 301

» XVI. — Secondo viaggio a Napoli — Parma — Giordani — Dalla Spezia per Livorno a Firenze — De Boni — Chiusi — Orvieto — La Ristori in convento — Monte Cassino — Congresso del 1845. » 315

» XVII. — L' arte a Napoli — Angelini e Calì — Di nuovo la Plejade napoletana — Poerio — La Pulli — Ingarriga — I quadri vivi in casa Liberatore — Quel li dipinti da Marko e Azeglio in casa Ala-Ponzoni — Caserta — Aneddoti. » 341

» XVIII. — Un carnovale a Roma — Il purismo — Owerbek — Pellico — Si balla fra le statue — Transtevere — Ultima visita a Gregorio — Il duomo d' Orvieto in fiamme. » 361

Cap. XIX. — Genova — Cose intime — Pio IX — La Villetta di Negro — Cenacolo aereo al Bisagno — Primi moti — O butin! — Inaugurazione del Lombardo — Un pranzo a Pegli tra il diavolo e i fiori. Pag. 383

» XX. — Congresso di Genova — Torino — Rivista militare — Quadro vivo della famiglia reale — Ventisette anni dopo — Ritorno per Milano — Prati e il re di Prussia. » 405

PARTE III.
Note della guerra d' indipendenza.

» XXI. — Venezia nel 1847 — Ricordo intimo — Scene del Congresso — Morte dell' arciduca Federigo. » 425

» XXII. — Treviso nel 48 — Morte della sorella di Manin — Fatti terribili — Il podestà Olivi — Concerto di bombe e uno peggiore di campane. » 445

» XXIII. — Il più terribile anno della rivoluzione — Come morì lacopo Tasso — Vita intima — Mio padre e mia madre — Agonia di Venezia — Misteri dolorosi, episodi toccanti — Manin nel suo Getsemani. » 467

PARTE IV.
Senna, Tamigi, Reno, Grandi Alpi.

» XXIV. — Torino — Gli emigrati veneti — Pareto alla Camera — Da Chambery per Lione a Parigi. » 493

» XXV. — La casa — Organo maraviglioso — Il Cancan — Michelet. » 507

Cap. XXVI. — Raccomandazioni — Il dottor Louis — L' assemblea — Madama Fouqueau de Pussy — Ballo all' Hôtel de Ville — Napoleone III — Un divino concerto. Pag. 519

» XXVII. — Seguita la vita di Parigi — Dumas padre e Dumas figlio — Veglie — Colonia italiana — Un vaudeville in azione — Riflessioni. » 535

» XXVIII. — Partenza per Londra — Un' avventura originale a Douvres — La vita inglese — Un altro incidente curioso in Belgio — Malattia di mia madre — Il Reno — Passaggio del S. Gottardo » 571

» XXIX. — Conclusione delle pagine famigliari, artistiche, cittadine » 593