RICORDI
E
STUDI ARTISTICI
DI
ADELAIDE RISTORI

1887
L. ROUX E. C. - Editori
Torino-Napoli

PROPRIETÀ LETTERARIA

Quell'insigne attrice e gentildonna che è A delaide Ristori, ritiratasi da parecchio tempo nella quiete della vita privata, aveva scritto per consiglio di amici, di colleghi e di discepoli, alcuni studi sulle principali produzioni drammatiche che per interpretazione sua avevano sollevato maggior rumore sui primi teatri del mondo. E già aveva rimesso a noi il manoscritto per pubblicarlo a stampa. Senonchè ci parve che l'opera di lei così ristretta, per quanto fosse pregevolissima e utile a chi intraprenda la carriera drammatica o voglia cono scere l'arte finissima e lo studio usati della grande attrice, riuscisse tuttavia troppo monca e parziale. Certo, a nostro avviso, avrebbe acquistato maggior interesse, e sarebbe riuscita più completa, se allo studio critico dei drammi e dell'arte di recitarli avesse aggiunto alcune note biografiche o alcuni ricordi della propria vita; i quali ricordi avrebbero lumeggiato e chiarito meglio gli studi accennati e avrebbero anche meglio spiegato parecchi punti di essi.

D' altronde doveva riuscire molto accetto al lettore il conoscere la via percorsa da questa egregia artista che ispirò parecchi fra i più celebrati lavori drammatici moderni, che ebbe tanta influenza sul teatro nazionale, e il nome dell'arte italiana fece applaudire nelle più lontane contrade.

Alle insistenze nostre perchè la nuova parte fosse scritta e aggiunta alla prima, si unirono le esortazioni di illustri amici consultati dalla Ristori, tanto che ella dovette accondiscendere all'invito ricevuto d'ogni parte. Così avvenne che noi possiamo oggi presentare questo volume, non solo più interessante e piacevole per ogni sorta di lettori, ma anche più completo e meglio informato allo scopo dell'autrice. «Se non altro, come bene scrisse l'esimia donna, nutro speranza che le vicende della mia vita, cominciata così modestamente, ed il cammino percorso possano servire d'emulazione e d'esempio ai giovani che avendo una seria vocazione, si decidessero ad affrontare le difficoltà della carriera teatrale».

Riguardi facili a comprendersi non permisero all'autrice d'estendersi sovra alcuni particolari della sua vita. Ma quanto ella scrisse non potrà che soddisfare la giusta curiosità del pubblico, desideroso di conoscere il trionfale svolgimento di quella carriera artistica, che pose il nome della Ristori presso quelli della Rachel, di Talma, e di pochi altri sommi.

Nè a questo punto si arrestò l'audacia delle dimande. Ma si ottenne ancora dalla Ristori cosa alla quale sulle prime la modestia di lei si era mostrata affatto riluttante; vale a dire si ottenne— e bisogna aggiungerlo—quasi per indiscretezza, la pubblicazione d'una piccola parte fra le innumerevoli poesie, lettere e dissertazioni critiche scritte in lode della famosa artista, e finora inedile, o sparse in fogli volanti, giornali e libri diversi(1) Questa Raccolta, perchè non riuscisse troppo voluminesa, fu anche dovuta limitare assai, tantochè fu escluso ogni articolo o giudizio della stampa estera, eccettuata quella francese. E sì che di lodi e apprezzamenti per la Ristori essa fu meritamente generosa..

Molti fra questi scritti hanno un vero intrinseco valore storico e letterario, essendo dovuti alle penne del Lamartine, di Alfredo de Musset, Alessandro Dumas padre, Giovanni Prati, Garibaldi, Cavour ed altri non meno celebri personaggi. Tutti poi tornano a maggior gloria del teatro italiano, e d' incoraggiamento a coloro che muovessero i primi passi nella spinosa e ardua carriera del teatro.

Tale è il volume che noi pubblichiamo: offrendolo al pubblico italiano, siamo fiduciosi che esso gli farà quell' accoglienza che si meritano il nome dell'autrice e il valore dell'opera sua.

GLI EDITORI.

Il proverbio che assimila la vita umana ad un viaggio, pare inventato apposta per me. La mia esistenza infatti è trascorsa quasi interamente in continui e lunghi viaggi per far valere l'arte mia in ogni paese. Sotto i climi più diversi mi fu dato rappresentare la parte di protagonista in capolavori immortali, e riconobbi che gl'impeti delle umane passioni suscitavano sensazioni intense fra i popoli d'ogni razza.

Posso dire altresì che nel proposito da me assunto, e spesso greve per le mie forze, ho spiegata tutta la mia coscienza d'artista, cercando sempre d'immedesimarmi coi personaggi che io rappresentava, studiando a tale scopo i costumi dei loro tempi, ricorrendo alle fonti storiche per ricostituire la loro personalità fisica e morale nelle loro manifestazioni, ora mansuete, ora terribili, ma sempre grandiose. Gli applausi di cui i più eletti uditori mi onorarono, furono certo adeguata ricompensa ai miei sinceri sforzi; ma debbo aggiungere che le più vive soddisfazioni d'animo mi provennero appunto dall'essere riuscita ad identificarmi coi personaggi che rappresentava e ad inspirarmi alle loro proprie passioni. Quante volte uscii di scena coi nervi contratti, affranta dalla fatica e dalla commozione, ma sempre felice del mio successo perchè adoravo l'arte mia!

Pensando che forse non sarà discaro a chi di quest'arte si interessa, il seguire le fasi di questa lotta giornaliera fra l'artista e l'opera che essa rappresenta, mi accingo a farne il racconto fedele senza scemarne gli entusiasmi, nè i disinganni, nè le gioie, nè i dolori. Noterò pure, e quasi giorno per giorno, gli episodi principali della mia vita artistica, riconoscente alle benevoli accoglienze sempre incontrate nelle mie lunghe peregrinazioni, accoglienze che mi hanno costantemente sostenuta ed alle quali debbo la perseveranza ed il coraggio che mi han condotta in porto.

Prima comparsa in scena entro un paniere.—Secondo memorabile debutto a tre anni d' età.—Prime gesta d'enfant prodige.—Rapido avanzamento. —A anni, mi si affidano le parti di prima donna.—Entro a far parte della Reale Compagnia Comica Sarda.—Irrequietudine nervosa.—Alcune considerazioni sull'arte comica nella prima metà del secolo corrente.

Mio padre e mia madre erano due modesti artisti drammatici; io doveva quindi naturalmente essere dedicata all' arte loro; e come se fosse stato decretato dal Cielo che proprio tale dovesse essere il mio destino, sembrò che i miei parenti mi volessero far esperimentare le emozioni della scena, fin dal mio nascere.

Non avevo ancora tre mesi di vita, quando, occorrendo una sera un bambino in fascie per la rappresentazione di una piccola farsa intitolata: I regali del capo d'anno, il Capocomico, approfittando della buona occasione che gli procurava una neonata in Compagnia, mi fece fare il mio primo debutto, col consenso di mia madre.

Il soggetto della commediola era semplicissimo e comune. Una signorina, a cui il padre vieta d'amare un giovine, pel quale essa delira, si unisce clandestinamente in matrimonio con lui, e ne ha un figlio.

Non avendo il coraggio di palesare questo terribile fatto al padre inesorabile, pensa confidarsi, come al solito, ad un buon vecchio servitore della casa, il quale, mosso a compassione delle pene di quei due disgraziati, promette d'aiutarli ad ottenere il perdono paterno, ed immagina a quest'uopo un comico stratagemma.

Allora, come adesso, vi era l'usanza di mandare regali ai conscenti pel capo d'anno. Nei piccoli centri di provincia i proprietari di terreni, di case, sono considerati come i principi del luogo, ed i loro affittaiuoli gareggiano nell'offrire al padrone le migliori frutta, le più grosse galline e le più belle uova. Il buon servitore immagina di porre in un gran paniere coperto, fra le uova, le frutta e le galline, il povero bambino della padroncina; non senza però aver prese le debite precauzioni, perchè il bimbo non soffocasse, nè rimanesse schiacciato. Quindi fa portare il tutto al padrone. Il colpo di scena era così anticipatamente preparato.

Tutta la famiglia del signore e le persone da lui invitate al pranzo del capo d'anno, si affollano intorno al paniere portato in quel punto, per ammirarne il contenuto; come fondo del quadro spicca la macchietta comica del buon servitore, che con aria furba e sorridente, stropicciandosi le mani, attende pazientemente l'esito della sua bella invenzione!

Il padrone apre alla fine il paniere…. Con viva soddisfazione comincia ad estrarne e ad esaminarne i doni. Prima i polli, poi le uova… poi le frutta… ma ohimè! sembra che la fragranza nuova, eccessiva per un nasino di tre mesi, mi avesse infastidita, poichè prima del tempo stabilito io mi misi a vagire: Huaa!… Huaa!… Huaa!… Chi non si figura quel curioso colpo di scena?… Stupore generale!…

Il padre trasecolato dà un passo indietro!… Il buon servitore senza tante cerimonie solleva il bimbo dal paniere, e lo pone fra le braccia del nonno sbalordito.

Gli astanti rimangono a bocca aperta, i due sposi tentano giustificarsi, ma i miei vagiti in quel punto crebbero tanto, che, fra le smascellate risa e il grandissimo baccano che il pubblico faceva in platea, la mia voce squillante non lasciava comprendere più nulla di quello che gli attori dicevano, e dovettero portarmi di corsa nel camerino della mia mamma per darmi… ciò che solo poteva acquietarmi in quel momento!

I miei polmoni non smentirono mai le splendide promesse da me date, uscendo dal paniere miracoloso… Questo primo famoso fatto della mia infanzia fu poi fonte costante di gaiezza per la mia buona mamma, che aveva le lagrime agli occhi per le risa, ogniqualvolta me lo raccontava!

Esordii una seconda volta all'età di tre anni. Si rappresentava un vecchio dramma intitolato: Bianca e Fernando scritto dall'avvocato Avelloni: epoca, medio evo. Io dovevo fare la parte del figliuoletto di una bella castellana vedova, la quale amava ardentemente un gentile cavaliero; ma un alto personaggio al quale il marito morendo aveva affidata la consorte, e che era investito del supremo potere su quelle terre, contendeva al cavaliere la mano di lei.

Ad un certo punto, il tiranno, adirato dalle costanti e recise ripulse della bella vedova a divenire sua sposa, e dall'annunzio della ferma risoluzione presa da costei di unirsi ad ogni costo soltanto all' uomo scelto dal suo cuore, suscita un alterco infernale. I partigiani dei due contendenti stanno per venire alle mani; la castellana, abbandonando per un istante il suo bimbo, tenta interporsi per far cessare il conflitto. Allora il tiranno si getta sul figliuoletto lasciato solo, lo afferra, e minaccia di ucciderlo, se la madre non si arrende ai suoi desideri; sgomento generale! Invano si tenta strapparmi alle braccia di colui. Le grida della povera madre arrivano al cielo! Quegli urli forsennati mi spaventano; la commedia diventa per me una realtà; comincio a piangere, a dimenarmi e a tormentare colle mie piccole mani il viso di quel brutto coso, tirandogli la barba, graffiandolo perchè mi lasciasse andare! In fine tanto feci che potei scivolargli dalle braccia, e gridando a squarcia gola; Mi fa male!… Mamma!… Mamma!… Mi fa male! le mie gambette si misero a correre come quelle di un lepre, nè fuorno capaci a trattenermi gli sforzi che gli attori facevano per acchiapparmi. Non riuscirono a trovarmi che nascosta fra le vesti della mamma! e il pubblico dàgli a ridere… di modo che furono costretti a calare la tela.

Coloro che hanno la manìa d'investigare le tendenze dei bambini appena sanno mettere insieme quattro parole, e di trarne il vaticinio della loro vita avvenire, che avvrebbero predetto di me dopo la scappata or ora riferita? Che la scena mi sarebbe riuscita odiosa, che mai avrei potuto sostenere parti tragiche, nè veder brandire una spada o un pugnale… Ed invece, dacchè dovetti dedicarmi alla tragedia, i brandi ed i pugnali divennero per me strumenti familiari!

A quattro anni e mezzo mi facevano recitare piccole farse, nelle quali mi si affidava la parte principale, nè mi si accusi d'immodestia, se in omaggio al vero, io registro in questi ricordi l'utile non indifferente che il Capo comico ritraeva dalla mia comparsa sul palcoscenico.

Vedendomi tanto benvoluta dal pubblico, e comprendendo che formavo una parte essenziale della nostra piccola Compagnia, avevo cominciato a prendere il tono e le astuzie delle persone adulte. Ricordo che allora si usava che l'attore più loquace e più disinvolto della Compagnia, nell'intermezzo che precedeva l'ultimo atto della serata, esciva fuori dal sipario, ed annunziava al pubblico lo spettacolo della sera seguente, indicando quale attore o attrice avrebbe avute in quella produzione una parte principale; e secondo l'interesse che inspirava al pubblico l'attore menzionato, si sentiva, o un mormorio d'approvazione, o un applauso.

I componenti la Compagnia stavano curiosi dietro il sipario per udire questa manifestazione del pubblico. Naturalmente io pure avevo la mia piccola ambiziosa curiosità, ed allorquando si annunziava che la commediola che avrebbe dato fine allo spettacolo sarebbe stata di particolare fatica della piccola Ristori, ed il pubblico prorompeva in un applauso, e tutti si accostavano a me congratulandosi, io mi allontanavo fra le quinte con le mani nelle tasche del grembialino e, dondolando la testa, alzavo le spalle dicendo con tono seccato: «Che noia farmi recitare sempre sempre…» Ma in cuor mio giubilavo.

All'età di 10 anni, mi affidarono di preferenza parti di piccoli servi, spesso incaricati di portare o porgere una lettera, còmpito ben meschino; il Direttore mi faceva provare e riprovare più volte, perchè non paressi goffa, nè troppo familiare, nè troppo stecchita.

A 12 anni ero scritturata col famoso attore e direttore Giuseppe Moncalvo per le parti di bambina; poco dopo, grazie ad una statura slanciata, mi camuffarono da donnina, destinandomi le particine di servetta… A quello che pare s'erano fitti in capo, che, o come uomo, o come donna, non fossi tagliata che per rappresentare tale genere di personaggi. Giunta a 13 anni, essendo io sviluppata della persona, mi assegnarono anche qualche parte di seconda donna!! Vera mostruosità, ma a ciò non si bada nelle piccole Compagnie. A 14 anni dovetti recitare parti di prima donna giovane, o di prima donna, a vicenda con una provetta attrice, e fu allora che recitai per la prima yolta la Francesca da Rimini (di Silvio Pellico) nella città di Novara (Piemonte). E per essere così giovinetta, l'esito fu tale, che subito mi vennero fatte offerte importanti per assumere, a 15 anni, le parti assolute di prima donna, con emolumento vantaggiosissimo.

Il mio ottimo padre, che era dotato di un gran buon senso, non si lasciò sedurre da quelle offerte. Riflettendo che lanciandomi così prematuramente nelle difficoltà della scena, ne avrebbe potuto patire ad un tempo la salute e l'arte, ricusò quelle proposte, e preferì il posto più modesto per me, d'ingenua, offertomi dalla Reale Compagnia al servizio del Re di Sardegna, la quale risiedeva parecchi mesi dell' anno a Torino. Essa era diretta dal capo-comico Gaetano Bazzi, il più intelligente ed il più abile fra i direttori di quel tempo. I consigli di questo uomo colto, alquanto severo, rendevano la sua direzione notevole, e ricercata come quella che si addiceva a formare i buoni artisti.

Brillavano in quella Compagnia i luminari dell'arte italiana: il Vestri, la Marchionni, la Romagnoli, il Righetti, e molti altri, che vengono citati ad esempio nell' arte drammatica; come la Pasta, la Malibran, Rubini e Tamburini nella lirica.

La mia scrittura per la parte d'ingenua doveva durare 3 anni, ma dopo il primo mi passarono a fare le parti di prima donna giovane e nel terzo le primarie assolute.

Ecco a quale insperato e lusinghiero risultato io potei giungere salendo gradino per gradino sotto l'impulso e la direzione della mia eccellente maestra Carlotta Marchionni, esimia attrice che con Gaetano Bazzi, gareggiava d'affetto per me. Allora cominciò realmente la mia educazione artistica. Allora fu che acquistai cognizioni, regole che mi ponevano in grado di discernere i pregi che qualificano il vero artista. Appresi a ben distinguere e delineare le passioni comiche e drammatiche. La mia indole mi faceva inclinare maggiormente alle tenere, alle gentili. Non pertanto nelle tragiche il mio vigore aumentava. Imparai a curare le transitorie, solo per meglio fondere i contrasti fra loro, studio capitale, difficile, minuzioso, talvolta tedioso, ma della massima importanza e necessità. Le transizioni, in una parte in cui siano in giuoco due estreme opposte passioni, sono quello che nella pittura è il chiaro-scuro per fondere le tinte, e per tal modo raggiungere la verità senza che l'artifizio vi trasparisca.

Per riuscire a questo intento è duopo prendere a modello i grandi cultori dell'arte, ed essere dotato dalla natura di una ben temprata intelligenza artistica, non per circoscriversi nella sterile imitazione, ma per accumulare un ricco materiale di erudizione scenica, tale da imporsi al pubblico come individualità originale ed artistica.

Credono alcuni che la distinzione della nascita e la squisita educazione li rendano atti ad affrontare la scena colla stessa facilità e franchezza, colla quale si entrerebbe in una sala da ballo, e non si peritano affatto di calcare quelle tavole, presumendo poterlo fare al pari di un attore cresciuto su quelle.—Errore madornale!

Una delle principali difficoltà ch'essi incontrano è il saper camminare sopra un palcoscenico, che per il sensibile pendio della sua costruzione, facilmente fa vacillare il piede, massime quello di un principiante, e specialmente alle entrate ed alle uscite!… Io mi cito come esempio di questa difficoltà. Sebbene fossi stata dedicata all' arte dall' infanzia, ed istruita colla più grande cura, giorno per giorno dalla mia ava paterna, pure all'età di 15 anni i miei movimenti non avevano ancora acquistato tutta quella scioltezza e quella naturalezza necessaria a rendermi padrona della scena, e quelle voltate or ora accennate sempre m'impensierivano.

Allorquando incominciai il mio tirocinio artistico, quello della dizione era un pregio al quale si annetteva grandissima importanza per giudicare del valore di un attore. Allora il pubblico si poteva dire critico severo; ai di nostri questo pubblico è divenuto meno esigente, meno sofistico, e non mira troppo al vanto di formare l'artista, correggendolo de' suoi difetti. A parer mio questo sistema non è giusto, perchè non è già coll'eccessiva indulgenza e col tener conto soltanto delle buone qualità senza accennare e far correggere le cattive, che si fanno i veri artisti.

È pure mia convinzione che la persona che voglia dedicarsi alla scena, non debba principiare i suoi studi con parti di grande importanza, siano comiche, drammatiche o tragiche. L'assunto riesce troppo grave per un principiante, e può in esso produrre due effetti dannosi al suo avvenire: o lo scoraggiamento per le difficoltà che incontra, o una eccessiva vanità, cagionata dalla simpatia che il pubblico nutre apparentemente per lui. Ambidue i sentimenti condurranno in breve tempo l'artista a trascurare lo studio. Affidandogli invece piccole parti, gli si rende famigliare, corretta e naturale la maniera di porgere; convincendolo che col rappresentare correttamente personaggi di poca entità, ne avrà dei più importanti in seguito. Così si otterrà che il suo studio sia più accurato.

Ma torno alla mia narrazione.

Nell' anno 1840, la mia posizione di Prima Attrice assoluta si trovò regolarmente stabilita: avevo raggiunto la meta desiderata, non senza aver lottato contro grandissimi ostacoli … ma adoravo l'arte mia, e negli ostacoli appunto attingevo nuova forza, nuova energia.

La fatica non mi abbatteva mai; tale e tanta era la mia passione per la scena, che quando avveniva che il mio Capo comico mi dava una sera di riposo, per non troppo abusare delle mie forze, ed anche… allo scopo malizioso di farmi un tantino desiderare dal pubblico, io mi sentiva come un pesce fuor d'acqua! Avevo un bel propormi di mettere a profitto quella serata di libertà per dedicarmi allo studio di qualche nuova e difficile parte. Mi vi applicavo appassionatamente, col massimo entusiasmo, ma quando scoccava l'ora in cui doveva incominciare lo spettacolo, s'impadroniva di me tale irrequietezza, tale smania, che nulla valeva a calmare! Mi sembrava u dire i primi accordi dell'orchestra, l'impaziente mormorio del pubblico… l'inebbriante frastuono degli applausi! Allora misuravo la stanza a lunghi passi, tentando, per distrarmi. di ripetere a mente qualche brano di quello che avevo studiato… ma che! Infastidita di non poter riuscire a nulla di buono, di botto entravo nella stanza della mamma, dicendole: «Vuoi tu che andiamo a passare n'ora in teatro?… » «Eh! andiamoci pure, mi rispondeva, se proprio non ne puoi stare un sera lontana!» Subito ci mettevamo mantiglia e cappello, e via! Giunta al teatro, spesso l'umor gaio mi assaliva, ed allora immaginavo ogni sorta di facezie alle spalle de' miei compagni. Mi ricordo che in una di quelle sere si recitavano Le Memorie del Diavolo, e molte maschere dovevano figurare in un dato punto della commedia. Il capriccio mi prende d'entrare in scena anch'io in mezzo a quelle comparse per sorprendere il primo attore. Inutilmente si tentò dissuadermi da quella ragazzata! Indossare un domino, coprirmi il volto colla mezza mascherina nera, fu affare di un minuto! Mi presento sulla scena in mezzo ai figuranti. Allo scatto di mezzanotte tutti dovevano smascherarsi. Che visacci mi fece il primo attore accorgendosi della mia presenza! Ma io immobile, soffocando le risa, non mi scomponevo affatto; il pubblico, accortosi della burla, proruppe in un forte applauso.

Avvedutami però come il mio camerata se la pigliava a male. mi nascosi fra le comparse che più mi stavano dappresso, e dietro a quelle, mi ecclissai furtivamente agli occhi di tutti, chiedendo poi perdono della mia pazzia a quel mio buon compagno; perdono che facilmente ottenni dietro una mia bella risata, essendo egli convinto che avevo fatto quella scappata solo per divertirmi!

Ma non sempre il mio umore era gaio; spesso s'impadroniva di me una inesplicabile tristezza, che posandosi come piombo sul cuore, mi empiva la mente di cupi pensieri. Credo che questa strana ineguaglianza di carattere fosse da attribuirsi intieramente alle emozioni eccessive che provavo nel recitare le parti appassionate.

Mi incarnavo così vivamente nel personaggio da me rappresentato, che perfino la mia salute ne era scossa. Una sera in cui recitavo Adriana Lecouvreur, mi accadde che, per la grande tensione dei nervi e della mente, durante quell'ultimo atto di passione e di delirio, poichè venne calata la tela, alla fine del dramma, fui assalita da una specie di attacco nervoso e nel cervello provai tale sconvolgimento da non riacquistare piena conoscenza di me stessa, se non dopo un buon quarto d'ora!

Quando ero sotto l'influenza di simili commozioni, un vero spleen s'impadroniva di me. Allora prediligevo le passeggiate nei cimiteri. Mi fermavo a lungo in quel recinto di pace, arrestandomi a leggere di tratto in tratto le iscrizioni delle diverse lapidi, e m'impietosivo fino alle lagrime se m'imbattevo in una tomba di giovanetta rapita, nel fiore degli anni, o ai desolati genitori, o ad un adorato sposo, o a teneri figli, e rientrava con l' animo oltremodo addolorato. Sovente, appena giunta in una città nuova per me, dopo aver visitato le gallerie di quadri e di sculture, procuravo di ottenere un permesso per visitare il manicomio. Quando non andava al cimitero era là dove l'incubo del momento mi portava.

Le fanciulle dementi erano quelle che attiravano la mia simpatia; e se le loro pazzie meste, tranquille, potevano permettermi di penetrare nelle celle di quelle infelici, m'intrattenevo a lungo con esse, e queste mi predevano in speciale affezione, mi mettevano a parte delle loro segrete pene!… È ben vero che spessissimo udivo la stessa vecchia storia!… Abbandoni!… tradimenti!…

Man mano però che gli anni crescevano, riuscii a non più cadere in simili eccentricità; dominando i miei nervi, giunsi a spogliarmi di quelle idee romantiche, e nulla potè più distrarmi dai miei studi prediletti.

Le condizioni dell' arte drammatica in Italia, specialmente a quei tempi, non consentivano che i corsi delle recite nelle diverse città abitualmente oltrepassassero i 30 o 40 giorni; raramente poi le recite si prolungavano per due mesi. Il cambiare così sovente di pubblico, aveva grandissimi vantaggi. Non era necessario aver affiatato uno svariato repertorio, e il pubblico non aveva il tempo d'abituarsi agli attori, a detrimento degli entusiasmi. Qual potere non ha sovra una mente creatrice d'artista quel vivo e continuato fascino del pubblico! Così dunque ne avevo sempre davanti a me uno nuovo, cui facilmente scuotevo a mio grado, ed il quale, grazie alla corrente magnetica, che prontamente si stabiliva fra noi (condizione necessarissima per me), mi comunicava quelle scintille che completano l' artista, e, senza le quali, ogni studio porta l'impronta dell' aridezza, della deficienza.

Trascorsi così la mia giovinezza; mai scemò in me l'amore allo studio, anzi, col progredire degli anni, venni completando la mia educazione. Che la natura mi aveva chiamata all' arte, lo sentivo dal febbrile desiderio che mi predominava di vedere, di studiare tutto ciò che man mano mi si parava innanzi nelle mie peregrinazioni d' artista. Hanno avuto sempre sopra di me un' attrattiva affascinante la musica, la pittura, la scultura; ed a prova di ciò, ricordo che una sera, a Firenze, affaticata per le successive rappresentazioni, anelavo un giorno di riposo come supremo refrigerio, ma quel mio desiderio non era condiviso dall'Impresario del Cocomero (ora Niccolini) sig. Somigli, cui doleva mettere il catenaccio alla cassetta, interrompendo le recite della Pia de'Tolomei, che aveva immensamente incontrato il gusto del pubblico.

Quand'ecco l' accorto Impresario chiama ad alleato un suo fratello che in quel momento, ricordatosi di un mio desiderio, lo riteneva come il punto vulnerabile; quegli venne da me, dicendomi:—«Via, recitate anche domani sera, ed avrete un bel regalo». —«Non so che farmene dei vostri regali» risposi ridendo.—«Eppure, soggiunse, se spapeste!… Vi ricordate quel bel disegno della facciata del nostro famoso San Miniato al Monte che tanto ammiraste in casa mia? ebbene, se acconsentite a recitare, è vostro».

Non seppi resistere… Accettai. L impressario fece un altro pingue introito, ed io recitai tutta una sera per un disegno.

Anche oggidi mi giova il rammentare la fermezza di proposito con cui non venni mai meno, giovine e adulta, ai sacri precetti della mia illustre maestra Carlotta Marchionni.

Appena entrata in scena neppure per un secondo scemava in me il timore che m'inspirava il pubblico. Che l'uditorio fosse numeroso, o scarso, intelligente o no, per me era tutt'uno. La probabilità che potesse esservi in quello, una sola persona veramente intelligente, colta, capace di giudicare con giusto discernimento del mio valore artistico, bastava perchè io non trascurassi il menomo gesto, il menomo concetto.

Venne allora in gran voga il porgere semplice, famigliare della scuola francese, e lo si magnificava a preferenza della nostra recitazione, che spesso, in molti attori, aveva una cadenza faticosa. Io, senza allontanarmi totalmente dalla mia recitazione abituale (che grazie al cielo non aveva la pecca suaccennata) ho voluto fonderla con l'altra, perchè sentivo che dovendosi progredire in ogni cosa, anche la drammatica era chiamata a subire qualche trasformazione; però non fui una servile imitatrice. Nel dramma e nella tragedia non fece mai difetto in me la vivacità, e la spontaneità del carattere italiano, essendo proprio della nostra natura il sentire le passioni al vivo, ed esprimendole, di non circoscriverci in regole accademiche, razionali. Se si toglie ad un artista italiano lo slancio della passione, il colorito proprio insomma, diventa un attore fiacco, insoffribile.

Adottai il sistema di una colorita naturalezza. Il pubblico rimunerò largamente i miei studi, nonchè gli sforzi fatti onde rendermi veramente meritevole di tanto favore.

Infine la mia patria mi fu prodiga di quanto era in suo potere per dimostrarmi il suo affetto, la sua predilezione, e mi penetrava l'anima… mi trasportava, il sentirmi arbitra sulla scena di smuovere ognuno a grado mio, penetrandone tutte le fibre del cuore, sia colle dolci, quanto colle energiche passioni. Spero che il lettore vorrà perdonarmi tale linguaggio, considerando che l'artista vive delle soddisfazioni che i lunghi suoi studi e le dure lotte gli hanno fatto conseguire, e di leggieri comprenderà come, al solo ricordo d' aver raggiunto quella meta che le procurò gioie inenarrabili, l'anima resti elettrizzata!

Quando per la prima volta, all'età di 18 anni, mi fecero recitare la Maria Stuarda dello Schiller, da quanto mi costò quello studio grandioso, profondo, ben compresi come duro, spinoso mi sarebbe stato il sentiero che dovevo percorrere onde ottenere ciò che acquistai dipoi!

Il lettore rimarrà sopreso leggendo nello studio analitico che fo di quella parte le penose giornate che mi costò.

Mio matrimonio.—I miei figli.—Gli spettacoli drammatici e gli spettacoli lirici.—Spr. loquii delia censura teatrale.—Mi ritiro per breve tempo a vita privata.—Viaggio artistico a Parigi nel 1855.—Mie relazioni colla Rachel.

Giunse l'età in cui il cuore provò l'imperioso bisogno d'altri affetti, che non fossero quelli dell'arte! Il trasporto che nutrivo per i fanciulli in generale, non solo era innato, ma straordinario in me, sembrandomi ch'essi soli fossero destinati a realizzare la vera felicità in terra. Però non sapevo decidermi al matrimonio nella tema che questo potesse nuocere alla mia carriera, della quale ero infatuata; ma la sorte mi aveva destinato a compagno un' anima gentile, che, dividendo meco il culto per le arti belle, lungi dal rattenere il mio slancio, lo eccitava stimolandomi a proseguire con tenacità nella mia via.

Dopo una serie di gravi contrarietà, di romantici avvenimenti, già narrati da molti miei biografi, mi unii in matrimonio col marchese Giuliano Capranica Del Grillo.

Penosi avvenimenti ci obbligarono nei primi anni della nostra unione a vivere spesso separati, ma pur venne anche per noi il giorno della pace e della tranquillità. Ebbi la suprema gioia di divenir madre di quattro figli. Sventuratamente due fra essi ci furono rapiti dalla morte. I due superstiti, Giorgio e Bianca, furono destinati a riempire nelle anime nostre il vuoto fatale lasciato dai loro due poveri fratelli.

Non ce ne volemmo mai separare; essi crebbero sotto i nostri occhi, e furono per noi sorgente di grandi gioie.

A poco a poco però credetti accorgermi che le prime dolcezze dell'affetto materno prendevano tale impero su me, che, quasi senza avvedermene, il mio amore per l' arte gradatamente scemava d'intensità. Questo stato anormale dell'animo mio, congiunto a cause secondarie, mi determinarono a ritirarmi dalla scena, trascorsi appena tre anni dal nuovo contratto da me firmato colla Reale Compagnia Sarda.

Sebbene il repertorio della Reale Compagnia fosse ricchissimo, e figurassero in quello le produzioni dei nostri sommi e celebri autori, quali Alfieri, Goldoni, Niccolini, Monti, Pellico, Carlo Marenco, Nota, Giacometli, Ferrari, Gherardi del Testa, Leopoldo Marenco, Fortis, Castelvecchio e tanti altri degni di essere annoverati in questa pleiade, pure non si poteva lottare colla concorrenza, che alla drammatica faceva la lirica! La melodiosa Musa godeva quasi sola il pubblico favore.

Pegli spettacoli d' opera e di ballo le Direzioni, o Deputazioni, o Accademie teatrali si rovinavano, prodigando somme ingenti; i prezzi per accedere a tali spettacoli erano enormi. Un grande spettacolo era un solenne avvenimento. Tutto a quello si sacrificava, ed alla povera arte drammatica, per non essere del tutto lasciata in non cale, toccava fare sforzi erculei.

Nei primi anni della mia carriera, tale era il trasporto che si aveva per le produzioni francesi, venute di gran moda a preferenza delle nostre, che se si voleva esser certi di far accorrere il pubblico affollato in teatro per più sere consecutive, bastava annunziare una commedia dello Scribe, o di Legouvè, Melesville, Dumas, ecc. ecc. Non già che le produzioni dei nostri ingegni nazionali non incontrassero il favore del pubblico, nè che poco ne apprezzassero il giusto valore; ma se accordavasi loro il merito letterario, quello della spontaneità della sceneggiatura, e quello della purezza della lingua, salvo poche eccezioni, non andava in visibilio che per un lavoro francese.

Però il decadimento del nostro teatro derivava anche in gran parte dal danno che cagionavano alle nostre produzioni la censura austriaca e pontificia.

I soggetti patrottici erano assolutamente inibiti; la morale era svisata, o compresa in modo fantastico. Riducevano le produzioni ad un ammasso di controsensi, quando pure non le rendevano completamente insulse, prive d'ogni interesse.

Voglio dare una piccola idea dei cambiamenti insensati, che si operavano in ispecie dalla censura ecclesiastica in quegli anni.

Dovendosi dire da un dottore «Io l' ho curato da una malattia pericolosa», il censore cassava la parola «curato» perchè riteneva essere una profanazione il pronunciare sulla scena un vocabolo che designava il capo d' una parrocchia! Non era permesso di pronunciare nè il nome di Dio, nè quello di Angiolo o di Diavolo. Agli attori era vietato sulla scena di chiamarsi Gregorio, regnante Gregorio XVI; o Giovanni, o Pio, regnante Giovanni Mastai Pio IX.

Il profferire la parola Patria era considerato come una bestemmia! Un giorno venne presentata al censore una produzione, il cui protagonista doveva essere muto; ritornava in patria dopo un lungo esilio. Sul libro vi erano le annotazioni indicanti ciò che l'attore dovesse esprimere coi gesti. Fra le altre era questa: «Qui l'attore deve far comprendere la gioia, che prova nel rivedere la patria»; orbene, dalla censura fu cassata la parola patria, sostituendovi paese, come se il pubblico, dai gesti, dovesse rilevarne la differenza!

Altra volta si doveva rappresentare a Roma il Macbeth, in cui una delle streghe doveva dire: «Oh ve'! che cosa è qui? il dito d'un nochiero, che naufrago peri!» Il censore cancella questa frase.—Perchè?-richiede il capo-comico?—Ma crede Lei-risponde il censoreche il pubblico non vedrà in questa frase un'allusione alla Barca di S. Pietro, che per le nequizie dei tempi sta per sommergersi?!!!—A petto di simili mostruosità non v' è buon senso che possa reggere!

E non si creda che ai libretti d'opera non fosse dalla censura riservata la stessa sorte. Nell'opera di Verdi, Luisa Miller, nella bella romanza del tenore, vi sono le seguenti parole:

Ed ella in suono angelico: Amo te sol! diceva…

Quel «suono angelico» offese i nervi del censore, che vi sostituì «in suono armonico!». Questo cambiamento eccitò tanta ilarità perfino nei popolani, che un bello spirito si diverti a scrivere sotto la denominazione Via di Porta Angelica, sita presso S. Pietro in Roma: Via di Porta Armonica.

Quando a Roma si volle dare la Norma dell'immortale Bellini, il censore non la permise che colle seguenti modificazioni: 1°ree; Che il titolo di Norma fosse cambiato in Foresta d' Ireminsul, per togliere il sostantivo di norma, che figura su molti libri di devozione; 2°ree; Che i due figli della sacerdotessa divenissero suoi fratelli; 3°ree; Che la sua condanna al rogo fosse cagionata dall'avere essa patteggiato col Romano. E nella famosa scena finale, prima di salire il rogo, invece di raccomandare i figli al padre suo Oroveso, essa dòveva raccomandare questo ai Druidi, dicendo: «Deh, non vogliatelo vittima, ecc.» in luogo di «Deh! non volerli vittime, ecc., ecc.!!!»

In Verona è rimasto celebre quel veronese Imperiale Reale censore, che in una poesia che dovevasi declamare volle sostituire alla frase «Bel Cielo d'Italia» quella di «Bel Cielo del Lombardo Veneto». Nè questo è il colmo del genere!…

In questo stato di cose, come il teatro italiano poteva prosperare, come promuovere, mantener vivi gli slanci del pubblico? Mancandomi questi, ero come un corpo senz'anima! Mi sentivo paralizzata sotto tal giogo insopportabile, che regolava i miei gesti e sopprimeva le parole. A me non bastava sapere che si aveva per me un affetto sincero, inalterato, vivace, e una costante simpatia. Io mi ero omai avvezzata ad immedesimarmi col personaggio che rappresentavo, a vivere, per quelle poche ore, della vita artistica dell' opera da me interpretata, e quando questa, o mal concepita o sconciamente mutilata, non suscitava più quegli entusiasmi, non induceva quelle correnti elettriche che scuotono, trasportano, trascinano e trasformano l'artista, io mi sentivo ripiombare in giù dall'altezza sublime delle mie aspirazioni, gli applausi prodigati a me sola mi parevano freddi, e me ne rimaneva in cuore come una tristezza invadente.

E così fu che a Torino, nell'epoca accennata sul principio di queste memorie, decisi improvvisamente di ritirarmi dalla scena, sembrandomi che l' entrare nella quiete della vita domestica dovesse farmi realizzare il mio più bel sogno.

Ma questi progetti miei furono di breve durata… Che il sacro fuoco dell'arte fosse stato soltanto assopito in me, lo provai di poi, percorrendo per più volte i due mondi.

Però nel decidermi a staccarmi dalla scena, una idea mi preoccupava incessantemente: rivendicare all'estero il nostro valore artistico, mostrando che anche in ciò la nostra non era terra dei morti. Ma in qual modo riuscirvi? Come un baleno da un cantuccio della mia mente scaturi l'ardito progetto di andare in Francia. Disgraziatamente l' esperimento fatto nella primavera del 1830 dall'altra Compagnia Italiana, diretta dai celebri attori Carolina Internari e Luigi Taddei, non era a dir vero incoraggiante; ma potevo attribuirne l'insuccesso agli avvenimenti terribili che si verificarono in luglio e alla fuga della loro protettrice la Duchessa di Berry, che segui nell'esilio Carlo X. Allora la povera Compagnia Italiana era stata costretta a chiedere una recita di beneficio per potere rimpatriare. Invece nel 1855 le circostanze erano molto propizie. La Francia era fiorente, l'Esposizione universale attirava a Parigi l'Europa intera; era noto come gli emigrati italiani, la maggior parte dei quali facevano onore al nostro paese, avessero trovato in Francia la più simpatica accoglienza. Si ammiravano i Veneziani aggruppati intorno al grande Daniele Manin, come intorno al vessillo della loro futura redenzione. Nè minore interesse inspirava ogni Italiano condannato all'esilio.

Tutto poteva quindi far presagire che il mio progetto venisse coronato da un ottimo risultato. Lo manifestai a mio marito, che lo approvò subito. Considerammo che la Compagnia Reale Sarda rappresentava degnamente il valore dell'arte nostra.

Ornamenti principali erano l'ora celebre Ernesto Rossi, Gaetano Gattinelli, Bellotti-Bon, la Cuttini-Mancini, Righelli, Boccomini, Glech e molti altri. Era lungi da me il proposito di gareggiare con gli attori francesi, la cui perfezione nel recitare la commedia non è uguagliata da alcun'altra nazione; ma desiderava di provare a quei nostri gallofili, che portavano ai cieli il merito degli attori francesi, a scapito dei nostri connazionali, che in Italia pure si conosceva che fose l'arte vera, nonchè il modo d'interpretarla degnamente.

Tenemmo di ciò parola al nostro egregio ed intimo amico, il comm. Alessandro Malvano, sulla cui perspicace intelligenza sapevamo poter fare assegnamento Egli trovò eccellente il mio progetto. Incoraggiati da lui, se ne parlò subito al Righetti, nostro capocomico. All' udirci, egli rimase di sasso, cominciò col qualificare chimeriche le mie idee e finì coll'opporsi recisamente a realizzare il sogno della mia ardita fantasia.

Prese ad enumerarcene i rischi, le possibilissime perdite, il probabile insuccesso artistico. In quella, il Malvano sopraggiunse, e dichiarò essere tanto persuaso della buona riuscita dell'affare, che ne assumeva tutta la responsabilità; aggiunse: Se vi sarà perdita, sarà mia; se guadagno, vostro!

Oltre il mio stipendio, io avevo una parte degli utili, che si verificavano nell'introito dell'annata. Ebbene, per terminare di vincere le sue esitazioni, la sua titubanza, gli proponemmo, nel caso di perdita, di dividere con lui la mia parte degli utili.

Queste parole, e la forza degli argomenti persuasivi che c'inspirava la fede che avevamo riposta nel buon esito del tentativo, riuscirono a far dividere al Righetti le nostre convinzioni.

Alla scadenza del mio contratto mancavano molti mesi. Da noi, le scritture degli artisti drammatici cominciano col primo di Quaresima e finiscono il dì primo delle Ceneri.

Furono fatte le pratiche necessarie; si stabilì la partenza per i primi di maggio 1855 e fu contemporaneamente pubblicato a Parigi che si sarebbe data la prima recita il 22 dello stesso mese. Si combinò il repertorio dei drammi da rappresentarsi.

Nostra prima cura fu di non scegliere drammi, che potessero dare occasione di stabilire confronti cogli attori francesi. Sapevamo che la tragedia era il campo nel quale potevamo misurarci; anche nei drammi italiani non avevamo da temere confronti.

Si scelse per la prima recita la romantica tragedia di Silvio Pellico, Francesca da Rimini, e la commediola in un atto, I Gelosi fortunati, dell' autore romano Giraud. Io recitavo pure in quest' ultima produzione, rappresentando il personaggio di una giovine sposa innamoratissima e gelosissima del marito. Il passare dal tragico al comico nella stessa sera ci sembrava dovesse fare impressione sul pubblico francese.

Prima di partire, mi munii di qualche lettera commendatizia; fra queste una ve n'era per l'illustre appendicista Jules Janin e pel nostro compianto Pier Angelo Fiorentino, che tanto si adoprò poi alla buona riuscita della nostra intrapresa.

Partimmo col cuore pieno di speranza. Il viaggio si compi allegramente. Vedevamo per la prima volta quella superba e pittoresca contrada. Suscitavano la nostra ammirazione i gonfi ed impetuosi torrenti, che, costeggiandola e traversandola, le danno un carattere spaventevomente grandioso.

Si era unita a noi una piccola schiera di amici, che, per il loro amore per l'arte drammatica e per i vincoli di amicizia che di padre in figlio li legavano agli artisti della Reale Compagnia, nel loro bollore giovanile avevano voluto dividere con noi i palpiti, le gioie di questo arrischiatissimo tentativo, colla speranza d'essere testimoni dei nostri trionfi.

Giungemmo a Parigi verso sera; il mio appartamento era stato fissato in antecedenza. Era situato nella Rue Richelieu, presso la Fontana Molière, n. 36, 2°ree; piano.

Da quell'epoca, ogni qual volta mi è dato passare davanti a quella abitazione, si ridestano in me i più cari ricordi.

La Compagnia scese e si divise in due modesti Alberghi situati presso il Teatro Italiano.

Con mio marito ed i nostri amici andammo subito a vedere i tanto decantati Boulevards. Alla vista di quell'onda di gente, in parte affaccendata, in parte oziosa, che gesticolava animata, o passeggiava indifferente, mi ero ammutolita. Il trovarmi in quel centro mondiale mi faceva quasi paura!… Entrammo nel Cafè Vèron, per non perdere nulla di quello spettacolo per noi affatto nuovo, e ci facemmo servire tazze di cioccolata sul Boulevard: così si potè godere di quella interessantissima fantasmagoria! Tanta e tale fu la impressione che mi fece quel movimento agitato, quel non udirmi risuonare all'orecchio, in mezzo a quella babilonia, una sola parola del mio idioma, che l'anima mi si riempì di sgomento e tristezza.

Rientrammo in casa senza profferir parola. Non osava parlare, nè a mio marito, né agli amici dello scoraggiamento da cui ero invasa, e, come può ognuno pensare, passai la notte agitatissima.

Nei dì seguenti, fui alquanto distratta dai preparativi della nostra prima rappresentazione. Mi confortava la fiducia nel buon esito della nostra impresa, ond'erano animati gl'innumerevoli esuli italiani, dai quali eravamo sempre attorniati.—Ohimè! il maggior numero di essi non leggerà questi miei ricordi! Manin -Montanelli-Musolino-Cariini, direttore della Revue Franco-Italienne, divenuto in seguito Generale nel nostro esercito-Dall'Ongaro-Ballanti-Toffoli, antico collega di Tommaseo-il Dott. Maestri-Federici -Sirtori-Pier Angelo Fiorentino-il generale Galletti-non che tanti altri che si resero benemeriti della patria, non esistono più!…Che il lettore mi permetta di deporre sulle loro tombe la corona dell'amicizia!

Colla nostra giovine comitiva torinese si volle assistere a qualche spettacolo. Tutti eravamo ansiosi di udire la grande tragica Rachel, che aveva empito il mondo della sua fama. Con nostro grande rincrescimento si venne a sapere ch'essa non recitava più a Parigi in quel momento, avendo preso un congedo regolare per recarsi agli Stati Uniti, e che anzi per ciò i Parigini le tenevano broncio.

Non potendo dunque vedere Rachel, scopo principale della nostra curiosità, limitammo il nostro desiderio a voler assistere ad una recita della Commedia Francese, tanto rinomata pel perfetto affiatamento, per l'accuratezza che metteva nelle sue rappresentazioni, ciò che le valeva il primato in Europa; anche senza la gran tragica, rimaneva il desideratum di qualunque forestiero che fosse venuto a Parigi. Non avevamo tempo da perdere per procurarci il sommo piacere d'assistere ad una recita nella Casa di Molière, giacchè le nostre rappresentazioni dovevano cominciare al 22, ed eravamo di già al 17. Vedemmo annunziato sul manifesto che Mlle Augustine Brohan, rinomatissima per il brio del suo talento comico, recitava in quella sera una delle sue favorite creazioni, il Caprice, d'Alfredo de Musset. Benchè occupatissimi dei preparativi per la nostra andata in iscena, pure desideravamo vivamente assistere a questa rappresentazione; ma non avevamo avuto il tempo di prendere anticipatamente i nostri biglietti. Alcuni momenti prima che cominciasse lo spettacolo, ci presentiamo tranquillamente al botteghino del teatro e domandiamo: «Une loge».—«Une loge?» esclama l'impiegato, guardandoci con curiosità: «Une loge pour ce soir? Vous n'êtes pas pressès! Pourquoi n'êles vous pas venus huits jours plus tard? 1»—Però il nostro imbarazzo gli fece compassione, ed egli ci offrì, generosamente, des billets pour le…paradis!!! Mio marito esitava; i nostri giovani amici, col loro buon umore abituale, volevano accettare; io, lo confesso, per mio conto ero poco lusingata di fare una simile entrata nella casa di Molière… Ma non v' era da scogliere; ci consultammo per un istante… e salimmo, ridendo, i cinque piani per stabilirci trionfalmente nel… loggione. Dall'altezza in cui ci trovavamo, potevamo applaudire liberamente coll'entusiasmo italiano. Lo squisito modo di recitare di Mlie Augustine Brohan fece a tutti un gran piacere; ne conservai una impressione incancellabile.

Prima di dar principio alle mie recite, portai la mia commendatizia al signore ed alla signora Jules Janin. Per essere questi legato in stretta amicizia con Mlle Rachel, gli chiesi il favore di presentarmi a lei, per conoscere da vicino una tale celebrità e chiederle nello stesso tempo, a titolo di consorella, il suo appoggio nel mio difficile esperimento. La mia domanda non sorti buon effetto; il mio ardente desiderio non potè essere soddisfatto. Rachel era in una sua villa; volevo scriverle, ne venni dissuasa dal signor Janin e da altri, i quali mi assicurarono che la grande artista stava per venire in città, e così avrei avuto ogni opportunità di parlarle. Dato il carattere nervoso ed impressionabile di Mademoiselle Rachel, un tal passo da parte mia poteva raggiungere lo scopo diametralmente opposto ai miei intenti… Scriverle, senza far precedere alla lettera la formalità della presentazione, era quasi un trattare da pari a pari con chi si credeva giustamente in possesso di una posizione eccezionale e privilegiata, era un prevenire, un forzare la sua volontà… era, forse, pretendere di darle una lezione di cortesia, facendo quello che le leggi d'ospitalità avrebbero dovuto suggerire alla padrona di casa verso una straniera, che ne varcava la soglia.

Mi lasciai convincere da codeste argomentazioni, sebbene mi sembrassero soverchiamente sottili, o troppo ingegnose; ma ebbi luogo più tardi di pentirmi della mia docilità.

Nella sera fissata, si principiò la serie delle nostre rappresentazioni collo spettacolo da noi stabilito. L'impressione che producemmo nel pubblico francese fu assai soddisfacente per il nostro amor proprio. La Stampa ci fu tutta favorevole, ed ebbimo l'approvazione della maggior parte dei critici rinomati. La famosa scena del 3°ree; atto, in cui Paolo e Francesca si svelano a vicenda il loro amore (1) La parte di Paolo era sostenuta da Ernesto Rossi. fu molto applaudita; e la morte di lei, quantunque non porga all'artista occasione di trarne grandi effetti e di suscitare nel pubblico forti emozioni, pure inspirò al grande Alessandro Dumas un articolo molto lusingherio per me.

I giudizi imparziali del giornalismo, fra i quali primeggiavano quelli di Alessandro Dumas, che in seguito divennen mio grande amico, di Thèophile Gautier, di Pier Angiolo Fiorentino, di Jules Janin, di Jules de Premoray, di Paul de St.-Victor, si Léon Gozlan, di Merry, di Théodore Anne e di tanti altri, furono per noi molto benevoli.

Qualcuno dei devoti a Rachel, timidamente mi accordava qualche attitudine per la tragedia, e conveniva che possedevo in maggior grado di lei le corde tenere; ma mi negava recisamente la forza, il vigore necessario a bene interpretare le passioni violenti più proprie del poema tragico; mi negava pure quella classica plasticità di movenze e di atteggiamenti, quell'incesso di Dea, che la grande artista possedeva in sommo grado, quando traversava la scena ammantata nel peplo.

Avrei potuto piegare la testa sotto codesto giudizio e credere che la natura e lo studio mi avessero rifiutato quelle doti che la simpatia, l'indulgenza e l'affettuoso interesse dei miei concittadini si compiaceva di riconoscere in me; ma la sentenza così frettolosamente pronunziata mi parve sospetta. Parlare di energia, di forza, di violenza a proposito del dolce e patetico personaggio di Francesca, era un controsenso che rivelava il deliberato proposito di fare opposizione a qualunque costo, e di farla subito, senza dar luogo a riflessioni e a confronti, senza dar tempo al pubblico di manifestare liberamente la sua opinione. Quella condanna poteva servire ad eccitare il mio orgoglio, piuttosto che a suscitare in me l'onesto sentimento della modestia; ma l'orgoglio non era davvero il mio peccato abituale, e quelle opposizioni precoci mi sgomentarono, perchè mi fecero intravedere come la mia comparsa sulla scena francese fosse da alcuno male interpretata.

«Io non ebbi mai» dicevo agli amici più intimi o ai critici più severi, quando l'occasione mi si presentava «la presunzione di venire a Parigi per rivaleggiare colla vostra sublime artista; il mio scopo è più modesto e, permettetemi di dirlo, più generoso. Voglio dimostrare che anche in Italia l'arte drammatica, già nostro vanto e nostra gloria, vive tuttavia ed ha culto affettuoso ed appassionato. Quanto a me personalmente, mi giudichino pure con la massima severità; prima però di pronunciare la mia condanna, aspettino almeno che in tutte le varie parti del mio repertorio io abbia dato prova delle mie forze, e, se insistono a stabilire un paragone che io non desidero, ma che non mi è possibile evitare, mostrino la loro imparzialità e la loro serenità d'animo aspettando a giudicarmi in una parte che possa fornir loro la base di un ragionevole confronto. Mirra, per esempio, può paragonarsi a Fedra». Questo paragone minuzioso forma uno fra i principali studi analitici compresi in queste mie pagine.

Per la terza recita, il 26, si dette Un curioso accidente e La Locandiera del nostro immortale Goldoni. La parte di Mirandolina era una delle mie predilette. Nell'immedesimarmi in quel personaggio, nel tradurlo sulla scena, ho studiato di mettere in azione la maniera dello stile goldoniano. La civetteria di quella scuola, bisogna ben comprenderlo, era totalmente diversa da quella d' oggidì. Il colorito deve assolutamente risentire della naturalezza, direi convenzionale, che è principale impronta dei caratteri goldoniani. La scaltra Locandiera non è la Lusinghiera del Nota o una Celimene dei nostri giorni; come Mme Aramente, nelle False confidenze del Mariveau, non ha nulla a che fare con una civettuola della scuola moderna francese. La parte di Mirandolina fu una tra quelle che più hanno rallegrato la mia vita d'artista, per il trasporto gradissimo che provavo a recitare la suddetta commedia del Goldoni.

Vorrei che le attrici che la rappresentano ora si penetrassero dell'osservazione qui fatta; e questo dico, non per vanità, ma per desiderio di vedere l'arte interpretata a seconda dei tempi e delle diverse scuole.

Questa commedia piacque moltissimo; ma il genere comico in lingua straniera non era facile a comprendersi dai Parigini.

Si pensò allora di dare Mirra di Alfieri, senza però farla precedere, per mancanza di tempo, da quelle speciali pubblicità, che eccitano la curiosità del pubblico d'ogni paese; nullameno il teatro era più affollato delle sere precedenti, e tutta la stampa assistette alla rappresentazione. Questa tragedia di puro e severo stile italiano, con forme greche distinte, mi offriva il campo di mostrare quale fosse il mio sentimento artistico, lo studio profondo, psicologico, che avevo fatto di quella parte, e come la nostra scuola italiana sapesse accoppiare alla plasticità greca la naturale spontaneità del porgere, staccandosi interamente dai convenzionalismi accademici. I precetti accademici non difettano di qualità pregievoli, ma noi argomentiamo che nell'impeto e nella foga delle passioni non si possa pôr mente all'altezza maggiore o minore del braccio o della mano. Purchè i gesti sieno nobili, e non discordino coi sentimenti espressi, bisogna lasciare all'attore la spontaneità: lo stentato ed il convenzionale, a parer mio, offuscano il vero.

Uno degli esempi viventi di questa scuola del vero, è l'illustre mio compagno d' arte, Tommaso Salvini, col quale ebbi la sorte, di condividere per parecchi anni le fatiche della scena, come le condivisi con Ernesto Rossi. Egli fu ed è giustamente ammirato, perchè le sue rare qualità drammatiche non hanno nulla di convenzionale, ma emergono per quella spontaneità che è la vera e la più convincente rivelazione dell'arte.

La ricchezza della plasticità, di cui dispone il Salvini, in lui è dono naturale, perfezionato collo studio della natura, ma che nessuna scuola avrebbe saputo infondergli o accrescergli. Tommaso Salvini è una vera incarnazione dell'ispirazione italiana.

Per riprendere a parlare di Mirra, dirò che l'esito di questa recita sorpassò ogni nostra aspettativa. Dopo il 4°ree; atto, maestrevole concepimento del grande astigiano, l'intero pubblico sembrava delirante. Il foyer della scena fu invaso da celebri letterati ed artisti. Alexandre Dumas baciava il mio manto e le mie mani; Janin, Legouvè, Scribe, Théophile Gautier, e molti attori ed autori drammatici univano il loro entusiasmo a quello dei miei connazionali, che giungeva al parossismo.

Al 5°ree; atto della famosa scena fra Mirra e Ciniro suo padre (che Ernesto Rossi recitava con talento unico piuttosto che raro), il pubblico non cessava dall' applaudire, dal prorompere in esclamazioni di ammirazione.

L'esito che quella tragedia ottenne a Parigi, mi ha ad usura compensata delle pene infinite da me durate per riescire ad interpretare degnamente la parte difficilissima di Mirra.

Dalla breve analisi che ne feci più sopra, il lettore potrà figurarsi quanto scabroso fosse il mio còmpito.

Mio successo nella tragedia Mirra.—Assisto ad una rappresentazione data da Rachel.—Valore artistico di questa grando tragica.—Nuovi tentativi d'amici comuni per avvicinarmi alla Rachel.

Nella sera in cui rappresentammo la tragedia Mirra, conquistammo la simpatia anche di coloro che non si erano mostrati molto favorevoli dopo aver inteso la Francesca da Rimini.

Per dar campo agli altri valenti artisti della Compagnia di potersi distinguere, si dovettero subito rappresentare le produzioni di loro speciale impegno.

Il 31 si dette il Burbero benefico di Goldoni, ed il Niente di male di. F. A. Bon.

Il 2 giugno La suonatrice d'arpa di David Chiossone, e Mio cugino di Angelo Brofferio. Il giorno in cui si doveva dare il Burbero benefico. venni a sapere, con mia sorpresa e rincrescimento, che Rachel, non solo era tornata dalla campagna, ma si era procurato un palco per assistere alla recita della sera. Ne fui dispiacentissima! Se dopo tutto il rumore sollevato dai giornali, era intenzione della grande attrice parigina di venire a giudicarmi, ella aveva scelto male la rappresentazione che doveva fornirle gli elementi del giudizio!

Il Burbero benefico è certamente una fra le migliori commedie del nostro Goldoni; ma in questo componimento, la parte della prima attrice è intieramente sacrificata e lasciata in seconda linea, quasi in ombra per far meglio risaltare e spiccare la figura e la personalità originalissima del protagonista. Io non potevo nel rappresentare la parte di Mme Delencour mettere in evidenza le mie qualità artistiche quali esse si fossero, nè dimostrare il grado della mia intelligenza, come lo faceva interpretando la difficile parte di Mirra.

La risoluzione presa dalla Rachel, mi poneva ancora in un altro imbrazzo. L'aver essa, a mia insaputa, e senza neppure parlarne cogli amici comuni, mandato ad affittare un palco per venire al nostro teatro, dimostrava chiaramente la sua volontà di tenersi in disparte, e quasi di serbare l'incognito. Poteva io, doveva io farmi innanzi e presentarmi a lei, offrirle un palco e così, in certo modo, toglierle l'intera libertà di giudicarmi a modo suo? Era una questione di delicatezza, di decoro, e nello stesso tempo di amor proprio artistico. Se avessi dovuto invitare Rachel ad una delle mie rappresentazioni, avrei desiderato ch'ella mi avesse intesa in Mirra, o Maria Stuarda, o Francesca da Rimini. Ma non volevo parere importuna. Sembrava che essa mi volesse giudicare come attrice, prima di accogliermi come ospite.

Il giorno seguente corsi dai miei amici Janin, ai quali espressi il mio dispiacere per l'accaduto. Essi mi tranquillarono, assicurandomi che se io avessi mandato a Rachel un palco alla prima mia importante rappresentazione, ella non avrebbe certo rifiutato l'invito; intanto essi avrebbero procurato al più presto di vederla, e organizzare il pranzo che doveva avvicinarci.

Frattanto noi non eravamo troppo soddisfatti dei risultati finanziari della nostra speculazione, ed il signor Righetti (mio capo comico), non mi rispiarmiava i suoi lagni, i suoi rimproveri, nè si faceva scrupolo di farmi responsabile della sua sedicente rovina!

Noi non eravamo preoccupati che di trovar il modo di pôr riparo a quella specie di disfatta. I nostri amici ci calmarono, assicurandoci, che se avessimo potuto colpire il pubblico rassodando il successo di Mirra, lo avremmo attirato a noi facilmente.

Martedì, 5 giugno, si ripetè Mirra. Dopo le entusiastiche critiche del giornalismo, il pubblico accorse in folla, ed il successo superò ogni aspettativa.

Da quella sera in poi, non si voleva che Mirra. L'esito artistico e finanziario fu intieramente assicurato. La tragedia si ripetè fino a che non si pose in scena Maria Stuarda.

La Stampa unanime fu trascinata dalle ovazioni del pubblico! L'analisi e gli apprezzamenti finirono per tornare poco benevoli a Rachel. A questa significantissima evoluzione nei giudizi della Stampa, aveva indubbiamente contribuito l'accusa, che la celebre tragica aveva corrisposto con ingratitudine al grande amore che il pubblico le portò sempre, adorandola come una Musa, come una sua creatura. Se questi addebiti fossero fatti a torto, o a ragione, io non poteva giudicarlo, ma in tale stato di cose non era più certo conveniente che la invitassi a venirmi ad udire. Avrebbe potuto supporre che io la volessi testimonio del mio trionfo… Me ne astenni, ed in ciò ebbi anche l'approvazione dei miei amici Janin, Ary Schefer e d'altri coi quali mi ero consultata; gli amici di Rachel invece, cominciando ad allarmarsi del mio successo, tentarono paralizzarlo: temevano potesse nuocere a Rachel, eclissare il fulgore della sua aureola… Era un vero errore il supporlo.

Allorchè per un inaspettato ritorno di Rachel alla scena, mi fu dato, la sera del 6 giugno, di udirla nella parte di Camilla negli Orazi, sempre più mi riaffermai nella mia convinzione.

Mr Arsène Houssaye mi aveva gentilmente offerto un palco, a nome della Società della Commedia Francese, di cui era allora Amministratore generale, perchè potessi assistere a quella rappresentazione solenne che coincideva coll'anniversario della morte del gran Corneille.

Al presentarsi di Rachel sulla scena, compresi subito la potenza del suo fascino. Ella sembrava una statua romana; il portamento era maestoso, l'incesso reale; il panneggiamento del suo manto, tutto era studiato con mirabile talento artistico. Forse la critica avrebbe potuto farle un appunto sulla immobile sistemazione delle pieghe dell'abito, che mai non si scomponevano. Come donna, mi fu facile comprendere la ragione di tale sistema… Rachel era magrissima, e poneva ogni studio nel clearlo. Ma con quale arte mirabile lo faceva! Possedeva in alto grando la modulazione della voce… talvolta era affascinante. Nel punto stupendo, culminante, della imprecazione contro Roma e i Romani, le traboccavano dal cuore tali accenti d'odio, di furore, che tutto l'uditorio ne fremeva. Io aveva confermato—senza esitare—il giudizio dato da tutta Europa sulle qualità eminenti che hanno acquistato a Rachel la sua gloriosa fama. Essa non aveva soltanto il genio della scena, lo slancio, la mobilità dei lineamenti, la verità e la nobiltà delle pose; essa sapeva incarnarsi nel personaggio che rappresentava, e vi si manteneva dal principio alla fine della produzione, senza trascurare alcun dettaglio, producendo magistralmente tutti i suoi grandi effetti, e scrupolosamente anche i più inosservati. Solo soddisfacendo a queste esigenze si può essere proclamati grandi artisti.

Io non sentivo, non vedevo che lei: le tributai i più frenetici applausi. Quanto apprezzai da quella sera in poi il giudizio dei critici imparziali che sostenevano non esistere fra noi tali punti di contatto da nuocere l' una all'altra.

Seguivamo due vie totalmente opposte, avevamo due diversi modi d' espressioni. Ella poteva entusiasmare coi suoi trasporti, sebbene accademici, tanto era bella la sua dizione, e statuario il porgere. Nelle situazioni più appassionate, le sue espressioni, il modo di atteggiarsi, tutto era regolato dalle norme compassate della tradizionale scuola francese; nullameno la potenza della sua voce, il fascino dello sguardo eran tali, che bisognava ammirarla ed applaudirla.

Noi invece nella tragedia non ammettiamo che nei punti culminanti delle passioni la nostra persona non si scomponga; ed infatti, quando si è colpiti da improvviso dolore, o da subitanea gioia, non è forse naturale istinto il portare subito la mano al capo e per conseguenza rabbuffare i capelli? Orbene, nella scuola italiana, riteniamo che uno dei principali scopi della recitazione sia quello di rendere al vivo, ed al vero, quanto la natura ci mostra.

Quello che mi addolorava era il sapere che ogni tentativo fatto dai miei amici per riuscire ad avvicinarmi alla Rachel era fallito, per la decisione presa dagli adoratori della tragica francese di tenerci separate l'una dall'altra. Disgraziatamente si trovano sempre degli zelanti, pronti ad inasprire le situazioni con invenzioni inverosimili! Si compiacevano far credere a Rachel che io parlassi con astio di lei. Altri voleva assicurarmi che Rachel, negli accessi di artistica gelosia, tenesse discorsi malevoli a mio riguardo; si giunse perfino a volermi persuadere, che essa, bramando di assistere ad una rappresentazione di Mirra, si fosse recata al mio teatro vestita in modo da non essere riconosciuta, e per isfuggire alle osservazioni ed ai commenti dei curiosi, stesse nel fondo di una bagnoire: che dopo il 4°ree; atto, uno, come accennai, dei più culminanti della mia parte, mentre il pubblico prorompeva in applausi, essa, non potendo frenare un impeto di rabbia, strappasse il libro della tragedia che teneva fra le mani, esclamando: «Cette femme me fait mal, je n'en peux plus», e risolutamente se ne andasse dal teatro, inutili tornando le esortazioni dei distinti personaggi che l'accompagnavano per trattenerla. Io non ho mai prestato fede a simili dicerie, ed avrei voluto calmare gli amici di Rachel, provando loro che il suo immenso merito la poneva al disopra della instabilità dell' opinione pubblica, e che malgrado la realtà dei miei successi, questi non menomavano affatto la potenza del suo genio.

Le mie recite proseguivano fra il costante favore del pubblico. Lo scoppio d' applausi coi quali ero salutata al mio apparire sulla scena non mi era sì gradito quanto il profondo silenzio che ad esso subentrava. Oh come il silenzio dell' uditorio è fecondo di ispirazioni! Quando mi veniva fatto di rappresentare soggetti di massima importanza dinanzi ad un pubblico uso a consacrare all'arte culto fervente, pronto ad immedesimarsi nelle passioni riprodotte… direi quasi, a battere degli stessi palpiti del personaggio che lo commuove—tutto ciò m' inebbriava, mi faceva sentire raddoppiate le forze, trovavo d' improvviso per subitanea ispirazione, effetti mai studiati, ma più veri, più vivi di prima… era il predominio di un legittimo orgoglio, quello di sapere che in me racchiudevo ancora germogli fecondi per l'arte.

Maria Stuarda di Schiller, tradotta in splendidi versi italiani da Andrea Maffei, terminò di consacrare il mio esito a Parigi. Alternai la serie delle repliche della Maria Stuarda colla Pia de' Tolomei. Non posso dire che questa tragedia abbia ottenuto il successo di Mirra e Maria Stuarda; ma tuttavia, riuscì a impressionare vivamente il pubblico. Pei letterati poi, essa aveva un particolare interesse, perchè ispirata dai versi famosi dell' Alighieri. Il nostro rinomato autore tragico, Carlo Marenco, ha saputo incontestabilmente innalzare assai in alto l' azione dell' ultimo atto e far sì che la straziante impressione finale abbracciasse in una sola commozione tutto lo sviluppo del soggetto.

La critica ha potuto essere severa, analizzando gli atti precedenti; ma era sufficiente l'essere stato obbligato a dare il suo tributo di lagrime a lei che dice:

Ricordati di me che son la Pia, Siena mi fe', disfecemi Maremma, Salsi colui che inanellata in pria Disposata m'avea colla sua gemma.

La morte di Pia nel 5°ree; atto mi aveva imposto studio maggiore, volendo io riprodurre fedelmente gli spasimi dell'agonia e gli ultimi aneliti di una giovine donna chiusa per comando di un marito ingiustamente crudele, in un castello delle pestifere paludi maremmane. Questa fine m'impensieriva; come esprimere sulla scena con perfetta verità il lugubre quadro di una lunga agonia? Mentre stavo così sospesa nelle mie titubanze, un fatto veramente straordinario, mi fece assistere, mio malgrado, agli estremi momenti di una infelice che soccombeva per febbre maremmana. Questa scena di desolazione mi si fissò sì profondamente nella memoria, che sebbene fossi riuscita a riprodurre fedelmente quella fine straziante, immedesimandomi per così dire con la poveretta che avevo veduto morire, ad ogni rappresentazione quel ricordo penoso mi si affacciava alla mente, turbandomi profondamente.

Dopo sei recite di questa tragedia si dovette riprendere Mirra e Maria Stuarda. A questo punto si potè dire che lo spettacolo drammatico italiano era entrato nelle abitudini parigine. I partigiani della grande attrice non potevano consolarsene, e gli attacchi contro di me continuavano senza posa; fu quindi con mio grande stupore che ricevetti un giorno da taluno di loro un invito ad un banchetto notturno, ove dovevo finalmente incontrarmi con Rachel nella casa di un letterato. Mio marito, dopo aver scorso la lista dei convitati, non credette potermi autorizzare ad accettare e trovammo un pretesto plausibile per ricusare l'invito.

Il tempo trascorreva ed io più non pensava alla possibilità di un incontro con Rachel, allorquando una mattina mi si annunzia che Mme Ode, la famosa modista dell'imperatrice Eugenia, desiderava parlarmi per cosa importante. Credetti si trattasse di qualche mia acconciatura, essendo essa pure la mia modista.

«—Vengo da parte di Mlle Rachel a compiere presso di voi una missione diplomatica!

—Per parte di Mlle Rachel?» risposi stupita.

«—Sì, o signora, e spero che voi me la renderete facile».

Mme Ode, vedendomi di più in più sorpresa, entrò subito in argomento.

«—Voi avete certo saputo, riprese Mme Ode, quanto Rachel sia punta dagli attachi di cui è vittima, e ai quali voi serviste di pretesto! Ignorate forse che si è tentato inasprirla contro di voi, riferendole che voi non parlavate di lei colla considerazione ch'essa merita.

«—Non è vero» risposi io vivamente «e speravo che Mlle Rachel non avrebbe prestato fede a tali maligne insinuazioni più di quello che feci io, sebbene mi si riferissero i giudizi poco benevoli da lei emessi a mio riguardo! Io fui ad udirla negli Orazi, e non nascosi tutto l' entusiasmo che essa aveva in me suscitato. Incaricai intimi amici di manifestarle la mia ammirazione, nonchè il vivo desiderio di conoscerla personalmente, ma ogni tentativo fatto da essi per riunirci riuscì infruttuoso!… Ora non parliamone più.

«—E se vi dicessi, o signora, che Rachel mi ha manifestato il desiderio di vedervi?

—Se ciò è vero, venga pure da me che sarà ricevuta come si conviene ad una celebrità qual esse è».

Ma vedendo come a Mme Ode non sembrava andare troppo a genio il senso della mia risposta, e si forzava a volermi far comprendere che spettava a me fare il primo passo, mi credetti in dovere di risponderle: «—Io non credo dover rinnovare le pratiche fatte dagli amici da me ufficiati quando arrivai a Parigi e desideravo ardentemente conoscerla. Vi ripeto: Non ne parliamo più.

—Ma se Rachel vi mandasse un palco per udirla recitare, lo accettereste?

—Con trasporto, e rinunzierei a qualunque impegno avessi assunto, per non privarmi di tal piacere».

Infatti, il giorno seguente ricevetti una lettera con accluso un biglietto di palco per la Commedia Francese, in cui era scritto a Mme Ristori sa camerade Rachel, lettera che io conservo gelosamente.

Alla sera indicata, io era già nel mio palco prima che lo spettacolo cominciasse. Si recitava Fedra. Indescrivibile era la mia brama di vedere Rachel in quel capo d'opera di Racine, anche per essere quella una delle parti favorite del mio repertorio, e che fu oggetto per me di seriissimi studi. Sebbene mi fossi accorta che gli spettatori tenevano gli occhi sopra di me, non perciò il mio applauso era prodigato a Rachel per qualunque cosa facesse. Ho trovato statuaria la persona, magnifico il sentimento della sua prima entrata in scena; però la prostrazione che dimostrava mi parve eccessiva, e molto più perchè trascurava di far apparire chiaramente come quella prostrazione fosse dipendente soltanto da abbattimento morale, che scompare allorchè ne è rimossa la causa, e lascia al fisico riprendere la sua vigoria.

Magistrale e meravigliosa la scena del 2°ree; atto con Ippolito, svelandogli la sua passione… ma in quella situazione, contro le sue abitudini, essa esagerava forse certi impeti d' un realismo troppo espressivo. Nel 4°ree; atto Rachel fu veramente sublime, e l'ammirazione l'emozione irresistibile che essa eccitò in me fu sì grande che ne ero vivamente commossa. Mi rammaricavo di non poter esprimere il mio entusiamo che con semplici applausi!

Calata la tela, con il cuore riboccante dell' artista scrissi in fretta sopra una mia carta da visita qualche parola, che feci pervenire a Rachel nel suo camerino! Dopo ciò non ebbi più rapporti con lei.

Il lettore vedrà in appresso quale concetto mi sia formato nell'interpretazione di questa tragedia.

Addio a Parigi.—Le sei lire de Dumas.—Prontezza di spirito sul palcoscenico —I drammi dello Shakespeare.—Disgraziato incidente accadutomi a Napoli.—Ottengo grazia.. per un condannato a morte, in Ispagna. —Commovente gratitudine del graziato.

Al fine del mio soggiorno a Parigi, ricevetti molte proposte di consacrarmi intieramente al teatro francese. Ma niun potere sarebbe riuscito a farmi rinunciare a recitare in italiano. Opponevo sempre il più costante rifiuto, allegando a pretesto la grandissima difficoltà d'acquistare la purezza della lingua, la perfezione dell'accento francese. Fu allora che il ministro Fould insistette su tale domanda a nome dell'Imperatore, offrendomi di passare un anno in Parigi a spese dello Stato, per vincere queste difficoltà, sotto la direzione di professori distinti, ed occupare in seguito il posto che Rachel partendo lasciava libero alla Commedia Francese. Tenni fermo nel rifiuto, non senza ringraziare il Ministro dell'onorevole offerta, e soggiunsi che la grande attrice non potrebbe a lungo rinunciare agli applausi del suo pubblico, il quale, dal canto suo, non rinuncierebbe ad ammirare nuovamente la sua prediletta. Però la mia ripulsa non indispose punto il Ministro, giacchè con molta buona grazia mi accordò il favore, che gli chiedevo, di lasciarmi per tre anni consecutivi l'uso della Sala Ventadour, affine di darvi una serie di rappresentazioni drammatiche italiane. Per tal modo, non solo ebbi la grande soddisfazione di aver raggiunto lo scopo che mi era prefisso, cioè di far apprezzare l'arte nostra in estero paese, ma apersi una fonte di risorsa alla numerosa famiglia artistica italiana a traverso l'Europa e l'America, facendo onore al nostro paese.

Con mio grande rincrescimento lasciai Parigi, dove avevo avuto la sorte di conoscere ed avvicinare quanto vi era di distinto nella società francese e di sommo in quel gran mondo dello lettere e delle arti; portai meco il più caro ricordo di Lamartine, Giorgio Sand, Guizot, Mignet, Henry Martin, Ary Schefer, IIalevy, Janin, Legouvè, Scribe, Thèophile Gautier, Reignè, Samson, Mlle Georges, Mme Allan, Mmes Madeleine e Augustine Brohan, e tanti altri che troppo lungo sarebbe il rammentare.

Dovevo dare un addio a tutti questi, prendere congedo da quell'eccellente Alexandre Dumas, che veniva, per così dire, a portare giornalmente in casa nostra il tributo del suo spirito inesauribile. Quante ore avevamo passate insieme! Come era ameno il sentirlo discorrere colla vivacità e facondia prodigiosa che possedeva! Erano avventure di viaggi, anneddoti intimi della sua vita, pagine staccate delle memorie ch'egli è andato spargendo ne' suoi libri. Si stava ammirati ad udirlo, e ci si guardava bene dall'interromperlo. Mi pare di sentirlo ancora quando raccontava che nei primi tempi del suo fervore per me, una sera, uscendo da una rappresentazione di Mirra, e misurando a passi concitati il Passage Choiseuil, incontrò un suo intimo amico:

«—Che ne pensi tu?» disse.

«—Di chi?

«—Della Ristori! non esci tu dal teatro?

«—Non l'ho mai intesa.

«—E non ne hai vergogna? e vivi?» E cosi schiacciando l'amico sotto la valanga del suo fanatismo, l'aveva bruscamente lasciato, dicendogli: «Non ti rivedrò mai più, se prima non vai a sentire quella donna».

Qualche giorno dopo, imbattutosi collo stesso amico sull'angolo della via di Berlino, colla mente piena sempre della medesima idea, gli dice:

«—Ebbene, in quale produzione l'hai vista?

«—Oh lasciami un po' in pace! Non si hanno mica sempre sei franchi in tasca, nè sono ridotto allo stato di claqueur.

«—Vuoi sei franchi? eccoli, così applaudirai liberamente».

E siccome l'amico se ne andava via infastidito, Dumas depose la somma sopra un limite, gridando: «Se non li vuoi, se li prenderà il primo povero che li vedrà», e voltò la cantonata. Ma fatti pochi passi, l'amico si ferma su due piedi, e dice fra sè: Infin dei conti, sei franchi non sono un tesoro!… Glieli posso presto restituire; lasciandoli là, chiunque nel vederli dirà: «posto che un imbecille ve li ha messi, prendiamoli!…» e dietro tale logica riflessione, risolutamente torna indietro… Con sua grande sorpresa s'incontra davanti allo stesso limite faccia a faccia con Dumas, il quale dal canto suo aveva fatto la stessa riflessione… Vedendosi, scoppiarono entrambi in una grande risata, e l'amico ricalcitrante promise che in ogni modo sarebbe venuto a sentirmi recitare.

Nel raccontarci questa curiosa avventura, il Dumas ne rideva ancora, e prometteva di scriverla più tardi, intitolandola: «I due milionari».

Un altro giorno il Dumas ci diceva che avrebbe sfidato qualsiasi cuoco italiano a cuocere e condire i maccheroni alla napoletana, meglio di lui. In seguito alle nostre esclamazioni d'incredulità, ci propose di provarcelo il domani. Alloggiavamo allora all'Hôtel de Bade, Boulevard des Italiens. I preparativi fatti dal cuoco dell'albergo acciocchè il Dumas trovasse tutto pronto al suo arrivo, si riseppero da ognuno. Le finestre erano gremite di forestieri e d'altre persone curiose di vedere il celebre autore dei Trois Mousquetaires col berrettone bianco sulla testa ricciuta, la giacchetta ed il grembiale di prammatica, la casseruola in mano, dimostrare in quel momento di aver dimenticato i trionfi ottenuti, fra le preoccupazioni che gli cagionava un piatto di maccheroni!

Con questa gaia reminiscenza, pongo fine al racconto del nostro primo soggiorno in Francia.

Triste e trionfante al tempo stesso, lasciai Parigi dopo avervi ricevuto quello, che oserei chiamare il battesimo della fama! I Francesi mi avevano provato che per essi non vi è confine nel dominio dell'arte; ed io serberò ognora nel fondo del cuore un sentimento di profonda gratitudine per la generosa accoglienza che essi fecero alla straniera.

La nostra Compagnia passò quindi nel Belgio, non senza aver data qualche rappresentazione lungo il viaggio, nel Nord della Francia; infine si recò a Dresda ed a Berlino, ottenendo dovunque lietissime accoglienze.

A novembre, ritornai nel mio caro paese per finirvi il mio contratto con la Compagnia Sarda, dando varie recite a Milano e Torino. Invitata a Vienna per produrmi al Karthnarter—vecchio teatro imperiale—feci prima una breve sosta a Verona, Udine, Trieste. Al rivedermi, il pubblico italiano non sapeva come meglio dimostrarmi la sua riconoscenza per aver fatto apprezzare l'arte nostra all'Estero.

Mi presentai per la prima volta il 14 febbraio 1856 nella capitale austriaca con una Compagnia da me condotta e diretta. Colla Mirra dell'Alfieri feci la mia prima recita. Una più entusiastica accoglienza di quella che io mi ebbi dal pubblico viennese non avrei potuto bramare. Ad ogni mia rappresentazione il teatro rigurgitava di spettatori, la Corte mi onorava sempre di sua presenza. Emozione grandissima fu quella che provai alla prima recita di Maria Stuarda, sapendo quali grandi paragoni dovessi sostenere, quale pubblicità ed importanza si fosse data a quella serata. I miei nervi erano scossi, ed una certa agitazione si era impadronita di me.

Infine, all'ora mia abituale, mi avvio al teatro, entro nel mio camerino, in perfetto possesso di tutti i miei mezzi, e con una mal celata nervosità mi appresto a vestirmi. Il caldo eccessivo delle stufe, che erano numerose in teatro, cominciò ad infastidirmi… a farmi montare il sangue al capo… ad infiammarmi l'organo vocale. Mi sentii stringere il cuore, temendone qualche grave conseguenza! Poco a poco la mia voce si velò… ad un certo punto era quasi sparita!… Senza riflettere nè indugiare, mentre la mia cameriera e il direttore di scena facevano ricercare premurosamente il medico del teatro, spalanco la finestra che dava sopra uno spalto della città, e senza badare al freddo intenso della stagione (eravamo al 17 febbraio), nè alle conseguenze funeste che da tale imprudenza potevano derivare, mi schiudo il corpetto dell'abito che indossavo, ed espongo il petto a quella gelata temperatura, ritenendo che la reazione che si sarebbe riprodotta in me, avrebbe avuto il potere di farmi ritornare la voce, e così permettermi di rappresentare la tragedia.

Il medico al sorprendermi in quell'attitudine, credette che il cervello mi avesse dato di volta! «La voce, dottore, la voce per carità!» Mi rispose che se avessi avuto coraggio di gargarizzarmi con un forte rimedio da lui usato in casi simili con famosi cantanti, poteva ritornarmene almeno tanta da non obbligarmi a rinviar lo spettacolo. «Datemi anche del veleno, se occorre, purchè possa recitare!…»—Se però quel rimedio non era un veleno, era pestifero tanto da giudicarlo tale!—

Non ricuperai del tutto la mia voce, ma con un annunzio al pubblico per farmi di ciò scusare, potei recitare Maria Stuarda ed ottenerne un insperato successo.

Quest'aneddoto serva a provare quanto potente fosse in me il sentimento del dovere. Non è a dirsi come il pubblico m'imponesse! Fin da giovinetta mi venne inculcato tale rispetto e tale soggezione di esso, che mi abituai a non mai confondermi; per ciò feci uno studio speciale per saper sostituire immediatamente con altre parole quelle che io od un altro attore dimenticava, affinchè lo spettacolo non riuscisse indecoroso.

Una delle sere in cui mi accadde di mettere in pratica questa massima fondamentale, fu nel rappresentare Giuditta, tragedia biblica, per me espressamente scritta dal mio amico ed autore prediletto, il compianto Paolo Giacometti.

Nella situazione più culminante della tragedia, dopo aver reciso il capo ad Oloferne, la sua schiava favorita, Arzaele, scoprendo l'assassinio del suo amante, doveva in modo impetuoso scagliarsi sopra di me, ed io afferrarla, gettarla a terra, e terminare producendo un grande effetto. Improvvisamente, mi si avverte dalle quinte, che all' attrice cui era affidata la parte di Arzaele erano venute le convulsioni, e che essa non poteva quindi presentarsi sulla scena. All'istante dico alle attrici mie compagne: «Qualcuna di voi indossi il suo vestito, si ponga un velo sul capo, e corra a me». Colla rapidità del baleno il mio ordine fu eseguito… Ma quella poveretta che sostituiva l'attrice indisposta non sapeva che dire! lo non mi sgomento… Con destrezza l'attiro a me… come se ella volesse uccidermi; e trovo modo di far nascere fra noi, li per lì, un piccolo dialogo.—Dio mi perdoni quei versi!—Il pubblico non si avvide di nulla e il risultato fu eccellente.

Dove spesso dovetti mettere a prova il mio possesso di scena, fu recitando Medea. Quando in varie città dell'estero dovevo dare una sola recita, sceglievo di preferenza la tragedia di Legouvè. Per non possedere in Compagnia che un solo bambino, e occorrendovene due onde rappresentare i figli di Medea, il Trovarobe o il Capocomparsa avevano l'incarico di trovare chi sostenesse le parti dell'altro bambino, ben inteso senza parlare. Spesso ero obbligata fra un atto e l'altro ad istruirlo con gesti, dacchè non ci comprendevamo vicendevolmente.

Una volta mi accadde che uno di quei piccini, non abituato alla scena, allorchè io apparivo da principio sulla montagna tenendolo fra le braccia, si spaventasse. All'udire lo scoppio d'applausi con cui ero ricevuta, al vedere per la prima volta quei lumi, quella gente affollata in platea, cominciò a gemere, a muoversi, a tentare di svincolarsi dalle mie braccia! E quali sforzi non dovevo fare per conservare il sangue freddo necessario per incominciare la mia parte, non cadere dalla montagna, e tentare di fare comprendere colle carezze a quel poverino che nulla aveva a temere da me, che stesse quieto. Spesso, o la mamma, o la sorella, o il padre, erano costretti a rimanere fra le quinte per fargli dei cenni, rivolgergli a mezza voce delle paroline confortanti, onde calmarlo e assicurarlo che non correva nessun pericolo. Ma una sera il caso più sgradevole mi avvenne alla fine della tragedia, nel punto più essenziale, quando, vistami assalita dai Corinti, correndo disperatamente per la scena, trascinavo dall'uno all'altro lato i miei figli, e confondevo le mie colle grida del popolo. Infine, non trovando altro scampo, mi affrettava a gettare sui gradini dell'altare di Saturno i due bambini, fingendo d'ucciderli; e coprendoli quindi colla persona, rimanevo immobile, esterrefatta! Il bambino-comparsa comincia ad urlare, e spaventato, si alza, fugge fra le quinte, senza che io potessi fare un movimento per trattenerlo! E dire che il pubblico doveva crederlo ucciso da me!… Per quanto l'uditorio fosse compenetrato della situazione rimarchevolmente tragica di quella scena non potè frenare una grande risata alla vista di quel morticino che scappava.

Nell'aprile del 1856 ritornai a Parigi, secondo era stato stabilito nell'anno antecedente con Mr Legouvè, si cominciarono subito i preparativi per porre in scena sollecitamente Medea. Nella studio analitico di questa tragedia, una fra le sei prescelte nelle produzioni del mio repertoria, il lettore troverà la narrazione delle più minute, interessanti e curiose circostanze relative a questa tragedia, sia per quanto concerne l'accettazione della mia parte, la messa in scena del lavoro, e l'esito clamoroso che essa ottenne la sera dell'8 aprile.

Da Parigi si passò a Londra. Al 4 giugno nell'elegante teatro del Liceo ebbe luogo la prima mia recita con Medea.

Il pubblico inglese era così favorevolmente prevenuto dal giornalismo francese, tedesco, belga, che mi accolse con immensa simpatia, ed in folla accorse alle mie rappresentazioni, facendomi segno all più lusinghiere dimostrazioni d'affetto e di stima.

Parecchi fra i più distinti letterati inglesi mi facevano rimprovero di non avere nel mio repertorio Macbeth, il capolavoro, a mio avviso, dell'immortale Shakespeare. Adducevo a ragione di ciò che da una Compagnia straniera, girovaga, non potevano rappresentarsi tali lavori per difetto di scenari e del numero d'artisti indispensabili per tale genere di spettacoli. Mi risposero che in Inghilterra, operando vari tagli, adattavano la produzione non solo alla capacità ed al numero degli attori delle diverse Compagnie, ma pure al gusto ed alle esigenze del pubblico, non sempre in grado di formarsi un giusto criterio dei tempi, dei luoghi e delle condizioni nelle quali il teatro shakespeariano ebbe il suo sviluppo…

«Io falcidiare Shakespeare, commettere tale sacrilegio! Impossibile. Noi italiani non oseremmo mai di mutilare le opere dei nostri classici; pensate un po'se io vorrei mutilare l'opera del vostro grande poeta…» Mi ripetevano ch'essi lo facevano senza scrupolo, nell'intendimento di renderlo comprensibile a tutte le intelligenze. Per vero dire, non era illogica la loro argomentazione, ma non valse a convincermi. Allora mi proposero d'assumersi essi medesimi tale incarico; ed infatti, al mio ritorno a Londra, nel giugno 1857, al teatro Covent Garden, Macbeth, accorciato, adattato alla mia Compagnia da Mr Clarke, tradotto in bellissimi versi italiani da Giulio Carcano, fu messo alle prove. Il rinomato Mr Harris lo mise in scena, secondo le tradizioni inglesi. Rappresentare la parte di Lady Macbeth, che divenne poi una delle mie predilette, mi preoccupava grandemente, conoscendo quali importanti confronti ne sarebbero seguiti! Il ricordo della maravigliosa creazione di quel personaggio fatta dalla famosa Siddons ed i tradizionali giudizi della stampa, dovevano certo rendermi il pubblico assai difficile e severo.

Posi tutta l'arte e il sapere a sviscerare, rivelare e trasmettere le più minute intenzioni dell'autore, e parve agli Inglesi che mi fossi così realmente incarnata in quel tipo perfido, scaltro, ma pur grande da sorpassare la loro aspettativa.

Il dramma si dovette ripetere per più sere, producendo una profonda impressione nell'animo dell'uditorio, specialmente nella grandiosa scena del sonnambulismo. Tanto m'investivo in quella situazione della parte, che per tutta la durata della scena la mia pupilla rimaneva immobile nell'orbita, così da farmi lagrimare. Debbo anzi a quella forzata immobilità il principio dell'indebolimento della mia vista. Dallo studio analitico che farò di questo diabolico personaggio, il lettore si formerà un giusto criterio di quanto mi abbia costato la sua interpretazione (specialmente nella scena finale culminante), per trovare la giusta intonazione della voce, la vera espressione della fisonomia e dello sguardo.

Al 7 novembre mi recai a Varsavia. Posso dire che le mie recite in quella città sortirono un esito brillantissimo, ma giustizia vuole che non trascuri di qui osservare come tali risultati lossero agevolati dalla notevole simpatia, di cui fui fatta segno, al mio primo esordire, dalle eleganti e gentili signore della società polacca. Anche colà mi sì usarono attenzioni delicate specialmente dal Governatore, Principe Gorgiakoff, nonchè dalla Principessa, sua sposa; e queste manifestazioni m'invogliarono a ritornarvi nel 1858.

Sul principiare del 1857 visitai per la prima volta la bella Napoli, ove la sera del 14 giugno, al Regio Teatro del Fondo, diedi principio con Medea ad un breve corso di recite.

Qual pubblico gentile ed entusiasta! Mano a mano che si stabiliva fra noi quella tanto decantata simpatica corrente, vieppiù mi sentiva trasportata a meritarmi centuplicati i suoi favori.

Con molta fatica mi venne accordato il permesso dalla rigorosissima censura borbonica di rappresentare Fedra di Racine. Tenevo per fermo che, quantunque falcidiata, tali e tante bellezze racchiudeva quel lavoro, che avrebbe prodotto in ogni modo la più soddisfacente. In un breve periodo di 15 rappresentazioni, per cinque sere fui costretta ripetere la tragedia Fedra, fatto piuttosto raro in quel tempo. L'ultima recita fu destinata a mio beneficio. Già molti giorni innanzi, tutti i posti erano stati accaparrati. Una gran parte delle signore dell'alta società avevano invaso, per mancanza di palchi, i posti distinti. Una cantata, espressamente composta, era preparata in mio onore. Sembrava di essere in un giardino, tale era l'abbondanza dei fiori che mi si dovevano offrire e che ornavano i palchi. Giudichi il lettore come tutto ciò mi avesse esaltata, e quale impulso dovesse dare all'ispirazione dell'artista!… ma a tale splendido ricordo va per me unito quello di un disgraziato incidente!

Nella grandiosa scena del 4°ree; atto, allorchè per la gelosa furia da cui è assalita, Fedra prorompe in tali smanie da portarla al delirio, mi ero così immedesimata nella parte, specialmente in quella situazione, che in luogo d'indietreggiare, dicendo: «Fra i martir l'anima spiro» mi avanzo senza avvedermene verso la ribalta e cado su quella. L'uditorio getta un grido! Un giovine signore che occupava un posto vicinissimo alla scena, vedendo che l'attrice, a cui era affidata la parte della confidente Enone, rimaneva stupidamente immobile pel terrore, s'alza dal suo posto e mi spinge all'indietro, salvandomi cosi da un grande pericolo; egli non potè però impedire che mi risentissi seriamente di quella caduta. Uno dei tubi di vetro della ribalta, rottosi sotto il peso del mio braccio destro, mi cagionò una profonda ferita! Sarebbe qui il caso di ripetere il nostro antico adagio «Tutto il male non viene per nuocere», imperocchè se il Governo napoletano non avesse avuto la strana idea di far riprendere l'uso dell'olio in luogo del gaz (1) Il Governo, in seguito ad una esplosione avvenuta in un legno da guerra, aveva soppresso il gaz in ogni stabilimento pubblico. per timore di attentati politici, molto più grave sarebbe stato il mio danno.

La scena fu tosto invasa da una folla ansiosa d'avere mie notizie. Fra i primi accorsi si trovava il conte di Siracusa, fratello di re Ferdinando, che aveva condotto il medico di Corte. Quando fu fatta la medicatura, si diceva intorno a me, che io doveva quel deplorevole accidente alla presenza nella sala di un celebre iettatore. Il conte di Siracusa che, pur esso ne era convinto, distaccò da'suoi ciondoli un artiglio di falco montato in oro, e me l'offrì dicendomi: «Ho ucciso io stesso la bestia, portatelo pei iettatori dell'avvenire». Questo ricordo non mi ha mai lasciata.

Il pubblico uscì dal teatro compreso dalla più viva emozione.

Venni trasportata all'albergo, e per due mesi dovetti portare il braccio appeso al collo. Questo però non impedi che, forzata dagli impegni assunti, recitassi in appresso col braccio fasciato, ponendo cura di moderare l'energia de' miei movimenti. Il malaugurato incidente mi lasciò la traccia di una larga cicatrice.

Andai a Madrid nello stesso anno, dando un corso di recite nel teatro detto della Zarzuela.

Il 16 settembre incominciai il mio corso di recite con Medea. Dal naturale entusiasmo dei Madrileni, ottenni quanto un'attrice non può facilmente raggiungere. Il teatro era affollatissimo. La regina Isabella, dotata di fine sentimento artistico, era nel suo palco, non perdendo un gesto, uno sguardo degli attori, e proropendo ad ogni istante nelle più vive esclamazioni.

La sera seguente diedi Maria Stuarda, poi Mirra.

Il 21 dovetti ripetere Medea. Alla sera mi accadde un fatto commoventissimo, il di cui ricordo ho scolpito nella mente e nel cuore.

Andai al teatro all'ora abituale; precedeva i camerini degli artisti una bellissima sala di conversazione. Mentre la mia cameriera preparava l'occorrente per vestirmi, fra gli artisti e me si cominciò a passare in rassegna tutte le magnifiche ed interessanti cose storiche vedute in quei pochi giorni, non che le usanze tradizionali di quel superbo paese che tanto sorprende chi le vede per la prima volta.

«A proposito» dissi io «che mai avrà voluto significare quella campanella, che per lungo tratto di strada oggi era agitata da un uomo di una confraternita?» Mi si rispose che ciò era per raccogliere elemosine, onde suffragare l'anima di un condannato a morte, per nome Nicolas Chapado, la cui sentenza doveva essere eseguita il giorno appresso. L'infelice era un soldato, il quale, in un impeto di collera, aveva messo mano alla sciabola per inveire contro un sergente, che lo aveva percosso. Di più seppi che la sua povera sorella, ignara di tutto, trovandosi a caso in una bottega, visto quel confratello della compagnia di S. Giovanni decollato che raccoglieva le elemosine, chiese il nome del poveretto condannato alla fucilazione pel dì seguente. «Nicolas Chapado» le venne risposto. A tale terribile annunzio ella cadde a terra tra mortita! Questo racconto mi riempì di tristezza.

«Dio mio, esclamai, mentre noi stiamo qui pieni di gaiezza, attendendo applausi e trionfi, quel disgraziato conta i minuti che ancora gli rimangono da vivere! Con l'animo pieno di tristezza mi avviai al mio camerino. Poco dopo due persone chiesero parlarmi. «La signora sta vestendosi» fu detto loro. Vedendo che l'insistere era inutile, esse espongono a mio marito il motivo che le conduceva. Si trattava di quel disgraziato di Chapado che volevano salvare.

Mio marito, commosso, venne a me e senza preamboli mi disse: «Sai che un uomo è condannato a morte e domani dev'esser fucilato?» «Lo so», risposi. «Ebbene dicono che la sua vita è nelle tue mani… e che se lo vuoi, la sua grazia è fatta!…» A tali parole impallidisco!… Un sudore gelato m'invade tutta. «Sappi, soggiunse, che una deputazione è venuta poco fa a dirmelo; fra pochi minuti ritornerà. Il soldato infelice è un ottimo giovine; in suo favore parla una condotta irreprensibile da lui tenuta durante ll anni di servizio militare. È vittima di un impeto di collera, mente alla presenza dei suoi compagni. Chapado non fece che mettere mano all'impugnature della spada, e ciò bastò perchè fosse condannato a morte. La vita di quell'uomo dipende dalla Regine; dicono che essa ti ami molto, se tu le chiedi la grazia, non te la negherà». «Ma la Regina mi crederà insensata, risposi io nel più grande sgomente! Che cosa sono io, al confronto a ripetermi quanto già sapevo. Io balbettavo!… Non potevo profferire parola, tale era l'orgasmo da cui ero invasa; pure promisi di tentare la prova. Ma mi trovai subito innanzi ad una difficoltà. Il generale Narvaez, Duca di Valenza, presidente del Consiglio dei Ministri, era generalmente temuto per la sua eccessiva severità: da ciò la preghiera a me rivolta di fare un tentativo diretto ed a sua insaputa alla Sovrana. «Questo mai, risposi loro. Fui raccomandata al Generale, ho trovato in lui un uomo franco, leale, distinto, amabile, quindi mio divisamento è di rivolgere prima a lui la mia preghiera. La via retta fu sempre guida alle mie azioni».

«Ma voi lo perdete, quel poveretto», mi dissero. «Non è egli forse già perduto? risposi… di peggio non gli potrà accadere. Mi lascino fare». E quelli, stringendosi nelle spalle e crollando il capo, si licenziarono da me, convinti anticipatamente dell'insuccesso.

Fortunatamente il Presidente del Consiglio era in Teatro; lo feci pregare di venire un momento da me. Il Duca di Valenza, cortese sempre, si affrettò a compiacermi. Appena mi trovai sola con lui, lo invitai a sedere. Il mio aspetto, e la mia voce che tradiva l'emozione che si era impadronita di me colpirono il Duca.

«Generale, voi mi diceste più volte che non sapreste respingere una mia preghiera, tanta è la stima che vi piace portarmi. Grazia, grazia, dunque, per quel povero soldato! Io sono straniera, da poco mi trovo a Madrid, ma dall'interesse che l'intera cittadinanza risente per quel giovine, argomento che la meriti. Mi suggerirono di rivolgermi direttamente a Sua Maestà senza interpellarvi, ma io sono convinta che a voi pel primo io debba indirizzarmi, certa che mercè il vostro efficace appoggio, potrà la mia parola più facilmente insinuarsi nel cuore della Regina. Mi è noto quale e quanta stima nutra per voi, la fiducia che ha in voi riposta, in grazia della esperimentata vostra fedeltà alla sua persona, nonchè per i vostri consigli, che hanno saputo scongiurare tanti pericoli alla Stato».

«Mia buona signora, risponde il Duca, è impossibile… Sono dolente, ma bisogna dare un esempio. Le nostre rivoluzioni cominciano quasi sempre dall'esercito; poco tempo fa accaddero vari fatti simili… —si usò clemenza—vedetene i risultati. Bisogna dare un esempio! L'intera municipalità assediava or ora la Regina per ottenere questa grazia, ed io l'ho consigliata a non cedere, a non lasciarsi commuovere. Dopo ciò, come potrei io consigliarla ora a fare il contrario?» Non mi perdetti d'animo! persistetti nella mia perorazione con tutto l'entusiasmo che sa renderci eloquenti. Finalmente, potei impietosire il Duca di Valenza. «Ah! signora, commosso esclamò, cedo alla vostra preghiera!… Ascoltatemi bene: fate chiedere a Sua Maestà un'udienza, che vi verrà subito accordata. Fra un atto e l'altro sarete ricevuta. Gettatevi alle sue ginocchia… perorate la causa di quel disgraziato coll'enfasi colla quale la imploraste da me. Supplicate… la Regina vi ama tanto… essa rimarrà perplessa, risponderà che il Presidente del Consiglio vi si opporrebbe… fatemi allora chiamare… io accorrerò… e… sperate… altro non vi dico!»

L'emozione, stringendomi la gola, mi impediva di rispondere a tali parole. Gli afferrai la mano con trasporto, e seguii il suo consiglio.

Appena uscito il Generale, tutti si accalcarono intorno a me opprimendomi d'interrogazioni… Che cosa ha detto?… Acconsente?… Ha rifiutato? «Zitti, zitti, per carità, lasciatemi… lasciatemi… non posso dirvi nulla… aspettate, aspettate».

Dopo il primo atto, la Regina mi accordò l'udienza richiesta, ed accompagnata da uno dei miei impresari, signor Barbieri, distinto maestro di musica, salii al palco reale. Fui pregata d'attendere per pochi minuti nella sala attigua al palco della Sovrana, quando ad un tratto si odono delle voci confuse, dei pianti, un accorrere di gente; seppi che un antagonista di Narvaez, facente parte della Corte, per fare cosa sgradita al Duca, senza che la Regina ne fosse prevenuta, voleva introdurre bruscamente nel suo palco la sorella del povero Chapado; ma al sopraggiungere di Narvaez il tentativo andò fallito. Nondimeno la Regina, turbata per i pianti che aveva inteso, si senti venir meno, debole come ella era perchè gravida dell'infelice Alfonso XII, che nacque un mese più tardi. Appena rinvenuta, domandò di vedermi… Tosto fui introdotta alla sua presenza. La buona Regina mi chiese scusa d'avermi fatto aspettare, nonchè della commozione cui era in preda. Tutti i ministri la circondavano. Senza por tempo in mezzo, mi getto alle sue ginocchia, le bacio le mani che mi aveva porte e grido: «Maestà, grazia per Chapado! Si commuova alle nostre preghiere. Egli ha maneato, è vero, ma per un istante si degni V. M. di giudicare benignamente questo infelice, spinto a reagire dal sanguinoso insulto che, ingiustamente, subì alla presenza dei suoi compagni. Accordi la vita ad un suddito devoto, valoroso, pronto a spargere il suo sangue per la propria Sovrana! Se i miei poveri meriti ebbero la sorte di cattivarmi la simpatia della Maestà Vostra, mi conceda la grazia che a mani giunte Le chieggo».

La Regina, commossa, riprese: «Calmatevi signora… calmatevi… io vorrei… ma il Presidente del Consiglio assicura che…» Mi permisi subito d'interromperla dicendole: «Se Vostra Maestà si degna esternare gli impulsi del suo cuore generoso, egli, umano, certo non avrà la forza di opporvisi». Tosto Narvaez, s'avanza di un passo, abbassando il capo in atto di assentimento. La Regina allora, stringendomi le mani, mi rialza… «Ebbene… signora… sì… gli faremo la grazia». Sentendo lo strepito che il pubblico faceva, affinchè si proseguisse lo spettacolo, col cuore gonfio di contentezza, presi congedo da Sua Maestà.

«Quali diverse tragedie si passano questa sera! Eccone una almeno che ha una lieta fine» ella mi disse; poi fattasi dare una penna, firmò la grazia richiesta. Un suo Aiutante corse a comunicarla al paziente.

La folla mi attendeva ai piedi della scala, essendosi sparsa la notizia dei miei tentativi presso la Regina. Io non scesi quei gradini, volai, gridando: «Grazia è fatta!… Grazia è fatta!»

Al mio riapparire sulla scena scoppiò un uragano di applausi, di grida! Nell'entusiasmo degli astanti, il nome della Regina si confondeva col mio. Coi gesti indicavo però che a Lei si dovevano i ringraziamenti, ed essa, sempre gentile verso di me… «No, no» l'udii esclamare dal suo palco «è lei… è lei!»

Debbo a questa Regina una delle sere più memorabili della mia esistenza, e quella penna che segnò la grazia di un bravo ed onesto uomo, e che mi fu poscia donata, sarà per i miei figli un santo ricordo d'una gioia immensa provata dalla loro madre!

Ma quantunque mi fosse concessa la vita di quel soldato, pure, per non derogare alle leggi militari, esso venne relegato a vita nel carcere d'Alcalà. Dura era la pena, ma un nulla a petto della vita ottenuta! Tuttavia, quando la regina Isabella diede alla luce il principe delle Asturie, implorai una commutazione della condanna, che fu ridotta a sei anni.

In uno dei miei viaggi a Madrid, volli conoscere questo sventurato; le lettere che mi scriveva, senza avermi mai veduta, me lo appalesavano di ottimo cuore, pieno d'onore e della più viva riconoscenza. Chiesi un permesso per visitare il suo carcere, che poco distava da Madrid; il Governatore me lo accordò.

Giunta colà, con mio marito ed un mio vecchio amico, fui introdotta in parlatorio. Mi si presentò subito Nicolas Chapado; vestiva il costume del forzato; stava col capo chino, stringendo convulsivamente il berretto fra le mani… si gettò ai miei piedi baciandomi con trasporto le vesti, l'emozione che lo dominava non gli permetteva di profferire parola.

Tutti erano commossi. Non potrei ripetere quali sentimenti di riconoscenza alla fine seppe manifestarmi, e come io ne fossi compresa!… Seppi in seguito, che per la sua irreprensibile condotta, si era guadagnata la benevolenza dei superiori, nonchè l'affezione dei suoi compagni di pena; ed essendo stato promosso al grado di sorvegliante di alcuni laboratorii, tutti lo amavano e l'ubbidivano; che quel sergente, causa della sua disgrazia, caduto gravemente malato, al punto di morte volle vederlo per chiedergli perdono del gran male ingiustamente cagionatogli; Chapado non esitò un momento a perdonarlo. Io promisi di porre in opera ogni mezzo per ottenere la sua completa liberazione.

Tosto che si sparse la notizia della mia visita nella prigione, ognuno voleva vedermi, e mentre stavo per scendere lo scalone, avendo il Comandante da un lato e Chapado dall'altro, tutti quei condannati s'inginocchiarono rispettosamente al mio passaggio, scoprendosi il capo… Non è a dire da quale emozione fossi invasa, e come a quel quadro commovente i miei occhi si riempissero di lagrime.

Avendo io ottenuto, in seguito, la piena libertà di Chapado, ogni qual volta andavo a Madrid egli correva a vedermi; e quando gli fornivo i mezzi per assistere alle mie recite, non potevo desiderare un claqueur più forte di lui! Fra gli atti… ed anche in seguito a qualche scoppio d'applausi del pubblico, mi riferirono che allorquando gl'imponevano silenzio, raccontava a' suoi vicini la sua lugubre storia! Diceva, anche a chi non lo voleva sapere: «Ma non ricordate che io stava già nella cappella ardente col confortatore accanto, che mi raccomandava l'anima?… Che fu lei che implorò ed ottenne la mia grazia dalla regina Isabella!… Che io l'amo più d' una madre… Che per lei mi farei uccidere?» E terminava questi suoi impetuosi trasporti, gridando a squarciagola: Viva la Ristori! Viva la Ristori!… a rischio proprio d'esser preso per pazzo!… E che lettere mi scriveva quando ero lontana, piene di pensieri gentili, poetici, direi quasi orientali. Mi chiamava: «Mi madre querida!»

Granchio a secco preso dalla Polizia a proposito d'un telegramma.—Mio viaggio artistico in Olanda.—Le barbe degli studenti di Coimbra.— Mia prima recita in lingua francese.—In Russia.

Dopo aver visitato nuovamente Vienna, Pest e l' Italia, nell' aprile dello stesso anno, feci ritorno a Parigi. Ogniqualvolta dovevo riapparire dinanzi al pubblico parigino, così simpatico, io procurava di provvedermi di qualche lavoro nuovo che potesse interessare i frequentatori del mio caro teatro Ventadour.

Durante l'anno antecedente, l'amico mio Montanelli, uomo eletto per ingegno, che traeva modestamente la vita in esilio, per la strenua parte presa nei nostri rivolgimenti politici, ebbe in animo di scrivere per me una tragedia in 3 atti. Pel soggetto, veramente tragico, s'inspirò a Plutarco, intitolandolo Camma, una delle sacerdotesse di Diana, notevole per rara bellezza. Come si sa, aveva per consorte il tetrarca Sinato; Sinoro, principe di Golazia, a tradimento fece perire Sinato, onde sposare la vedova, di cui erasi pazzamente invaghito.

Camma, scoperto come costui ne fosse stato l'assassino, finse d'arrendersi alle sue brame, e lo condusse al tempio per celebrare le nozze. Il rito si compiva col bere successivo dei due sposi in una coppa.

Come sacerdotessa, il gran ministero imponeva a Camma di apparecchiare il nappo nuziale, ed essa se ne prevalse per mettere in quello del veleno.

Il primo ad appressarlo alle labbra, fu il malaccorto Sinoro; ne mori straziato da spasimi atroci, dopochè Camma gli ebbe svelata la premeditata vendetta. Insofferente della vita, anche Camma bevve e mori giubilante, secura di ricongiungersi negli Elisi al suo amato Sinato.

Ed a proposito di questa fine, narrerò un comico incidente. Siccome il Montanelli, mano a mano, mi spediva la parte già composta della tragedia, per sottometterla al mio giudizio, trovai che la morte della protagonista era assai prolungata, che mi si faceva parlar troppo! Tutta piena di questa idea, avrei vovoluto comunicarla al mio amico colla rapidità del lampo. In fretta e furia decisi di telegrafargli in questi termini: «Dimentichi che ho fretta di morire, e che in presenza del cadavere della vittima, con cui ho diviso il veleno, non debbo parlare eternamente».

Può ognuno immaginare come questo dispaccio, diretto a persona ben nota per gli avvenimenti politici del giorno, meravigliasse e mettesse in sospetto il telegrafista; come questi si affrettasse a trasmettere il dispaccio al ministero, e quale ridicola figura gli toccasse soffrire di poi!

Nella sera del 23 aprile 1857, ebbe luogo la prima rappresentazione di questa tragedia, che ottenne un esito clamoroso.

Nell'anno 1858, mi recai nuovamente in Francia, Inghilterra, Austria, Germania, Italia.

Pel giugno 1859, firmai un contratto coi principali teatri d'Olanda. Feci la prima sosta ad Amsterdam.

Siccome non ignoravo che gli Olandesi sono in fama di essere di natura fredda, poco facili ad esaltarsi, mi attendevo ad una accoglienza deferente, nulla più. Ma quale non fu invece la mia meraviglia nel vedere quel pubblico accendersi, commuoversi come un popolo meridionale! Il mio stupore, poi, non ebbe più limite, quando appresi che in una sera di mio riposo si stava organizzando con solennità una dimostrazione, che i giornali annunziavano qual festa dell'arte.

Più di 20,000 cittadini di tutte le classi vi presero parte, e gran numero di associazioni operaie, artistiche, universitarie, tutte precedute dalle rispettive bandiere. Quella massa di gente, alle 9 di sera, cominciò a sfilare sotto le mie sinestre, acclamandomi. La scena era rischiarata da migliaia di torce, da fuochi di bengala dai colori dell'Italia e dell'Olanda. Era un vero incanto! Ma la ressa ebbe le sue spiacevoli conseguenze! Diverse persone si trovarono precipitate nei canali; fortunatamente uscirono sane e salve da quel bagno forzato. Si può più facilmente immaginare che descrivere un simile spettacolo. Per darne un'idea, dirò solo che mi fu riferito averlo il Re qualificato con questa espressione. «È poco per una rivoluzione, troppo per una dimostrazione!»

Lasciando Amsterdam, ho compito il giro di questo industriale paese, visitandone le principali città, ottenendo ovunque le più cordiali e lusinghiere accoglienze.

All'Aja, fui fatta segno di premurose attenzioni da parte della defunta sovrana, la regina Sofia, colta protettrice delle arti; essa mi continuò le manifestazioni della sua benevolenza sino a che visse, e me ne diede ripetute prove ogniqualvolta l'incontrai. Anche S. M. il Re mi onorò più volte della sua presenza, e l'ultima, in cui ebbi occasione d'incontrarlo a Wiesbaden, volle conferirmi la gran medaglia d'oro, istituita in Olanda, per oncrare i benemeriti dell'arte. Non è quindi da meravigliarsi se io accolsi col più vivo piacere l'offerta di visitare nuovamente quel paese. Mi vi recai nell'anno successivo, piena dei ricordi qui brevemente narrati.

Non descriverò questo secondo viaggio, per non ripetermi, ma non posso esimermi dall'accennare ad un'altra dimostrazione, che per il modo con cui fu immaginata ed eseguita, ha un carattere affatto speciale. Mi si permetta di far annotare che questo periodo della mia vita d'artista, cioè il 1860, coincideva con i fasti guerreschi, di cui l'Italia andava riempiendo il mondo.

Arrivai ad Utrecht, e quella giovine scolaresca, affascinata dal prestigio meraviglioso di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, volle accogliere me, artista italiana, con l'entusiasmo con cui salutava lo svolgimento della nostra epopea nazionale.

Fu l'intera popolazione, la gioventù intelligente, studiosa di quella celebre Università, che trovai alla stazione per accogliermi. Mi attendevano vetture scoperte, a 4 cavalli. Fu un ingresso solenne, e risento tuttavia la soddisfazione che provai, perchè compresi che quell'omaggio era reso, più che alla mia persona, all'Italia!

Il corteggio si mise in movimento; la carrozza, in cui presi posto colla mia famiglia, era preceduta da un'avanguardia a cavallo, della gioventù dell'Università. Un'altra parte di questa eletta scorta, mi fiancheggiava, o mi seguiva; così ho percorso le vie principali della città gremite di popolo, per recarmi all'albergo.

Andai in scena quella sera stessa. Fu un'accoglienza delle più festose. Dopo lo spettacolo, ebbi a godere di una di quelle serenate con fiaccole, così pittoresche nei paesi del Nord.

Di questo episodio, si è voluto perpetuare il ricordo con accurate incisioni, di cui tengo caro il primo esemplare offertomi.

Ai primi di ottobre del 1859, mi recai nel Portogallo, ove diedi un corso di 24 recite a Lisbona e ad Oporto.

Non potrei tradurre colla penna l'impressione che provai alla vista maestosa di quel grandioso panorama di Lisbona, di quelle imponenti rive del Tago, veduto dal mare; altre penne più eloquenti della mia non lasciano più campo ad aggiungere cose di rilievo, senza tema di ripetere il già detto.

Quale prezioso mecenate era per gli artisti il compianto Re Ferdinando! Me lo provò con ogni gentile e cortese dimostrazione. Tuttora conservo gelosamente un disegno ch'egli si compiacque fare per il mio album. Ogniqualvolta mi recai a Lisbona, trovai costante la benevolenza del pubblico e la considerazione del Re padre; ed anche allorquando nel 1878 visitai nuovamente la capitale del Portogallo, trovai sempre un uditorio benevolo. Dalla famglia reale, di cui è principale ornamento Pia di Savoia, ebbi manifestazioni di simpatia.

Giacchè mi trovo a parlare del Portogallo, non posso tacere di una recita che diedi nel febbraio dell'anno 1860, al mio passaggio per Coimbra, e della quale serbo un allegro ricordo.

Come è noto, ivi siede la principale Università portoghese. In quell'Ateneo, vi è un graziosissimo teatro destinato ai divertimenti della scolaresca. Qualche volta, allorquando gli artisti, che avevano ottenuto il favore del pubblico di Lisbona, transitavano di là, erano pregati a prodursi su quella loro scena. Il corpo universitario mi pregò di dare Medea. Io vi aderii con piacere. Era mio desiderio d'esperimentare un pubblico, la cui maschia caratteristica mi aveva colpita l'anno precedente, traversando quella città. Mi era rimasto impresso l'assieme pittoresco del loro costume. Lo studente indossa un vestito abbottonato al petto di forma quasi talare, pantaloni corti, colletto bianco ritto; in capo ha un berretto alla foggia dantesca; un ampio mantello copre tutta la persona. Quell'insieme di colore nero che inquadra la fisonomia a tinte marcate; la folta barba, generalmente scura, contribuiscono a dare maggiore risalto al grande occhio nerissimo (1) Quella foggia di vestiario, quasi medioevale, destò in me la curiosità di conoscerne l'origine. Appresi che il Re D. Diniz, nel 1288, fondò in Lisbona una Studio generale di Scienze. Questo studio si componeva delle facoltà d'arti, di diritto canonico, di diritto civile e medicina. Nel 1290 il Papa Nicolò IV lo convalidò. Nel 1306 il Re lo trasferì a Coimbra, e lo costitui in Università, pari a quelle esistenti in allora nell'Europa colta..

Come dissi, dovevo rappresentare Medea, la cui esecuzione offriva alcune difficoltà sceniche, che mi parve difficile superare. Una delle prescrizioni fondamentali dell'Istituto vietava di servirsi, per le comparse, dell'elemento femminino! Come rappresentare quindi le scene ove le Canefore erano indispensabili? Ma ecco che gli studenti propongono un espediente degno della loro effervescente immaginativa! Offrono di camuffarsi da giovinette, seguaci di Creusa! Sebbene la proposta mi sembrasse un po' strana, considerate le folte barbe, che non potevano essere soppresse, pure fu giuocoforza accettare, raccomandando loro di celare il viso nel miglior modo possibile sotto fitti veli.

All'entrare in Teatro, per dispormi alla recita, fui ricevuta con molta solennità dai professori e dalla scolaresca. Quei gentilissimi giovani mi avevano allestito un camerino, che per eleganza e buon gusto poteva rivaleggiare con qualunque sfarzoso gabinetto di toilette. Ma eccoci alla rappresentazione. Il teatro era affollatissimo; le più eleganti invitate riempivano i palchi. Confesso che mi sentivo preoccupata, temendo che nei momenti più salienti la tragedia non assumesse il carattere della farsa! Fortunatamente ciò non avvenne; solo per un momento dubitai che le mie previsioni si avverassero. Per abituarmi alla vista di così originali Canefore, avevo avuto cura, prima della recita, di passarle tutte in rivista, ma non potevo prevedere quello che accadde di poi! In una delle importanti situazioni del 1°ree; atto fra Medea e Creusa, a caso rivolgo l'occhio ad un palchetto prossimo alla scena… Che cosa vedo? Delle Canefore, che poco prima avevano figurato con bianco velo e ghirlande di rose, e che Creusa aveva mandato a pregare nel tempio di Diana, fumare con la massima indifferenza lunghi sigari d'Avana! Sebbene abituata alle comiche vicende del palco scenico, pure alla vista di quel ridicolo quanto inaspettato gruppo, io stava per scoppiare dalle risa. Padroneggiando me stessa, mandai a pregare in fretta e in furia quelle Canefore di nuovo conio, di volersi rimpiattare in fondo al palco.

Dal Portogallo, per la via del Belgio, feci ritorno in Francia, ma mi trattenni qualche giorno in Hannover, dove diedi due rappresentazioni.

La Famiglia Reale, tutta intiera, mi prodigò gli attestati della più affettuosa amicizia. Il re Giorgio, non solo era interessante per la crudele infermità che sopportava tanto eroicamente fin dall'età di 16 anni; egli era ancora un brillante parlatore, e non era affatto cieco nel dominio dell'arte. L'accoglienza che abbiamo ricevuta in quella Casa Reale, ove dolcemente regnava una madre amatissima, primeggia fra le mie più care rimembranze.

Da Hannover mi recai a Parigi. Eravamo nell'aprile 1860. Per la sera del 21 doveva aver luogo alla Commedia Francese l'annuale rappresentazione a beneficio della pronipote di Racine Mlle Trochu. In quella circostanza si cercò di comporre lo spettacolo con gli elementi più svariati.

Fu allora che quel mio buon amico Legouvè ebbe l'idea di chiedere il mio concorso alla rappresentazione, non soltanto recitando il 4°ree; atto di Fedra, ma declamando una poesia in francese da lui composta. Il lettore facilmente comprenderà che, sebbene disposta a prender parte, recitando in italiano, a quell'opera di beneficenza, non volevo consentire all' altra sua proposta! Consideravo la grande difficoltà della pronunzia, l'orgasmo in cui mi sarci trovata recitando dinanzi ad un pubblico importante e severo, come quello che frequentava la Commedia Francese. Di più, mi era noto che durante la declamazione, sarei stata circondata dalla maggior parte delle attrici di quel teatro: tale preoccupazione mi spaventava, ma Legouvè insisteva e fini per indurmi a recitare li per li alcuni suoi versi che mi era andato ripetendo colla sua perfetta dizione.

Mi sembra udire ancora il grido formidabile del mio autore quando allora esclamò: La patrie est sauvèe! La patrie est sauvèe! grido che fece uscire dalla stanza attigua molti amici che aspettavano il risultato di quella prova. Soggiogata dalle manifestazioni del poeta, mi misi a studiare sul sodo quel componimento: Audaces fortuna juvat.

Quell'ardito tentativo sorti un esito felice… il pubblico mi accolse come una prediletta figlia della casa di Molière… ma ciò che, più delle acclamazioni del pubblico, maggiormente mi penetrò il cuore, furono le calde approvazioni dei miei camerati della circostanza!

Ecco il programma dello spettacolo;

Atalia.

4°ree; atto di Fedra, recitato da Mme Ristori.

Un omaggio a Racine. Stanze di Mr. Legouvè, recitate da Mme Ristori.

Les Plaideurs.

Da questo fortunato esperimento derivò un tentativo anche più difficile ed importante. Non trattavasi più di un concorso momentaneo, ma di cosa di maggior rilievo. Legouvè non era guarito dalla fissazione di farmi recitare in francese, anzi, egli, uomo dei grandi espedienti, faceva suo pro di tutti i mezzi atti a convincermi, e si valeva particolarmente della mia profonda gratitudine per la nazione francese, per l'imperatore, per l'eroico esercito, il quale aveva appunto in quei giorni compito il suo ingresso trionfale in Parigi, proveniente dai campi di Magenta e di Solferino. Già più di una volta gli avevo espresso il desiderio di poter soddisfare il mio debito di riconoscenza verso il pubblico francese, che primo co' suoi applausi mi aveva schiuse le porte dei principali teatri d'Europa. «Ecco l'occasione» mi diceva egli «lo sforzo che state per fare, sarà la prova dei vostri sentimenti; nessuno potrà interpretarlo diversamente». L'avvocato ebbe causa vinta; questa volta ancora cedevo alla forza dell'eloquenza. Consideravo pure che avrei appagato il pubblico parigino, bramoso di vedermi cimentare in una impresa tanto difficile, qual era quella di recitare nel suo idioma.

Cessate le titubanze, consentii ad assumermi lo studio di un dramma in 4 atti che Legouvé prendeva a scrivere per me, e nel quale, per felice inspirazione, immaginava di farmi rappresentare la parte di un'italiana, la cui intuonazione straniera non avrebbe fatto difetto. L'argomento mi piacque.

L'eroina del dramma era una giovane artista di molta riputazione: invitata a passare di Corte in Corte, finisce per incontrarsi con un giovane Principe che se ne innamora pazzamente e vuole sposarla, ad onta delle dificoltà provenienti dalla posizione e dal grado. Quella giovine artista lo comprende e lo ama in segreto. Ma la riconoscenza ch'essa doveva alla madre del giovine principe, per la bontà di cui era stata l' oggetto a più riprese, le vietava di mettere lo scompiglio nella famiglia della sua benefattrice. Essa non voleva mentire, nè si sentiva la forza di resistere, e si allontanava segretamente dalla Corte in cui si trovava il suo augusto amante.

Era l'artista che interpretava l'artista; gli entusiasmi, gli abbandoni, le disillusioni facevano della parte un complesso di difficoltà e di contrasti.

Ero pronta a mettermi allo studio, e per facilitare l'esecuzione del nostro piano, Legouvè mi propose di raggiungermi in un viaggio che stavamo per intraprendere lungo il Reno. Fu un continuo provare da mattina a sera. Egli approsittava di ogni istante per inculcarmi la parte, e vincere in me la difficoltà della pronunzia. Spiegò un'arte infinita a diminuire in me quegli erre italiani serrati, che sono per la nostra lingua un elemento di espressione e di energia.

Al termine del nostro viaggio, gli studi erano compiti, e potemmo stabilire che, nel susseguente marzo, Beatrix sarebbe rappresentata all'Odeon.

Lasciando Parigi mi recai nuovamente in Olanda. Percorsi il Reno, la Livonia, la Curlandia.

Giunsi a Pietroburgo nel dicembre dello stesso anno, e vi ritornai nel novembre 1861. Fui a Mosca nel febbraio 1861 e febbraio 1862.

Il mio cuore è pieno di ricordi affettuosi relativi al mio viaggio artistico in Russia; e sempre viva è in me la memoria delle accoglienze fattemi dal pubblico di quel paese. Benchè la Corte non potesse intervenire in teatro, in causa d' un lutto di famiglia, pure l'Imperatore Alessandro II e l'Imperatrice vollero udirmi; perciò mi fecero invitare ad una serata al Palazzo d' Inverno. Declamai alla loro presenza l'atto 3°ree; di Maria Stuarda. Non scorderò mai la gentile accoglienza ricevuta. Ma di quale slancio siano capaci le popolazioni del Nord, mi fu dato formarmi un giusto criterio dal modo con cui venni accolta a Mosca.

È vero che nell' antica capitale russa predomina l'elemento giovanile, attratto dalla rinomanza di quella Università. Anche qui, come in Olanda, la scolaresca si distinse, ma con nuove forme d'entusiasmo. Molto apprezzai, e conservo come oggetto di grandissimo valore morale, l'omaggio che mi fecero gli studenti, di un braccialetto in oro con amatista, simboleggiante il globo su cui posa fulgente una stella… l'astro dell'arte! La maggior parte della gioventù universitaria non è ricca, quindi mi riuscì doppiamente caro quell'attestato di simpatia e di affetto venutomi da essa.

Al mattino della mia partenza, la scolaresca in massa attendeva alla stazione. Appena vi fui giunta, mi si affollò intorno, e, quasi per incanto, mi transportò nel compartimento destinatomi. Come meglio potè, la mia famiglia mi raggiunse. Fino al punto della partenza, il vagone si era trasformato in uno spaccio di autografi. Per centinaia di volte ho dovuto ripetere la mia firma sopra pezzetti di carta… taccuini… brani di giornali… ed altro! Il fischio della locomotiva dette il segnale della partenza e fra le più clamorose dimostrazioni il treno si allontanò.

Care rimembranze! Auguro un patrimonio altrettanto ricco d'affetti e di dolci memorie alle attrici che verranno dopo di me.

Da Mosca corsi difilato a Parigi, dovendo ivi aver principio le prove di Beatrix. Man mano che queste progredivano, cresceva in me la simpatia per la mia parte. M'investivo così profondamente in questo personaggio creato, sviluppato sotto ai miei occhi, che venuto il giorno della rappresentazione, il 25 marzo del 1861, mi sembrava dovessi recitare una delle mie parti abituali, nè punto mi preoccupava la considerazione del pubblico. Un sentimento intimo mi faceva persuasa ch'esso avrebbe apprezzato l'audacissimo mio tentativo, accettandolo come tributo riconoscente di una Italiana. Questo pensiero fu la mia salvezza; infatti mi sentivo così sicura, così tranquilla, che risposi con una risata, lo ricordo, alle esortazioni dei miei camerati, di farmi coraggio… Ma entrata in scena ricordai il nostro vecchio adagio: «Altro è parlar di morte, altro è morire!»

Io, sebbene usa ai pubblici delle principali città di Europa, alla vista di tanta folla che si accalcava in quella sera all'Odéon, mi sentii sgomenta. L'applauso unanime con cui fui salutata, più che incoraggiarmi, m'impaurì, facendomi comprendere quanto si aspettasse da me. Tutto lo sforzo di una volontà assoluta non fu soverchio per superare quel momento di esitazione … Cominciai, e riuscii a vincere me stessa… Ripetei quella parte per 40 sere.

Per pôr termine a quanto concerne Beatrix, aggiungerò che questo lavoro piacque immensamente in tutte le provincie francesi, nonchè in Olanda ed in altri paesi.

Alcuni anni più tardi, vale a dire nel 1865, ripresi a recitarlo, in Parigi, per 20 sere consecutive, al Teatro del Vaudeville.

In Germania.—Fra le rovine dell' Acropoli.—Una recita con Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.—Mia fede agl' impegni presi.—Passaggio d'un ponte.—Mio primo giro artistico in America.—Una notte all'Avana.

Mi recai a Berlino per la seconda volta, nel marzo del 1862, recitando per sette sere nel Teatro Regio. La Reale Famiglia mi fu prodiga di attenzioni, e l'ottimo imperatore Guglielmo, in allora re di Prussia, mi conferi la croce dell'Ordine del merito civile.

Quindi fui invitata a dare due recite al Teatro Ducale di Weimar. In tale occasione mi usarono molte cortesie il Duca e la Duchessa di quel piccolo Stato.

In una scrata a Corte potei apprezzare la cultura di questo principe. Egli sapeva a memoria moltissimi brani del poema di Dante, che in parte aveva tradotti; ed ogniqualvolta ebbi occasione d' incontrarlo, ho potuto maggiormente convincermi ch' egli conosceva il nostro idioma, e se ne serviva mirabilmente.

Fra i ricordi delle infinite distinzioni di cui fui fatta costantemente oggetto dalla Corte di Berlino, non posso dimenticare che debbo all'imperatore Guglielmo l'onore di aver conosciuto da vicino il grande Meyerbeer, ed ecco in quale circostanza. Nei pochi giorni che mi trattenni a Weimar, ricorreva il genetliaco di re Guglielmo. Il Duca che, come si sa, è fratello della Regina di Prussia, ora imperatrice di Germania, mi pregò a nome di questa di recarmi a Berlino, all'insaputa del re, per rappresentarvi I Gelosi fortunati. Fu segretamente allestito un grazioso ed elegante teatrino in una delle sale della reale residenza. Il Re si mostrò contentissimo dell'affettuosa sorpresa preparatagli dalla consorte, e la commediola ottenne un esito brillantissimo.

Dopo la recita, era imbandita una cena. Varie tavole stavano situate nella sala. Fu in tale occasione che l'Imperatore mi presentò l'illustre Meyerbeer, a cui inguinse di servirmi di cavaliere per il resto della serata. Il celebre maestro non durò fatica ad interessarmi vivamente con la sua briosa conversazione. L'indomani venne a farmi visita colle sue due figliuole e passammo un'ora amenissima parlando dell' arte e dell'Italia.

Durante il rimanente del 1862, fino al settembre del 1864, visitai ripetutamente le città ed i paesi dove mi ero di già antecedentemente recata. Feci lunghe soste in patria, e specialmento nella Sicilia, che lasciai nel settembre 1864, per recarmi ad Alessandria d'Egitto.

Nella terra dei Faraoni esperimentai quale sia la potenza che l'arte esercita sulle diverse nature.

La società di Alessandria, la più cosmopolita del mondo, mi fece grandi dimostrazioni di stima e di gentilezza, specialmente nella sera di mia beneficiata. Sollecitata da pressanti inviti, mi recai a dare una recita al Cairo, in un teatro improvvisato in pochi giorni, dacchè quello della città era stato consumato da un incendio.

Il 2 dicembre partii per Smirne. Infelice fu quel viaggio! Ci eravamo imbarcati sopra il battello del Lloyd Austriaco L' Imperatrice. All' uscire da Alessandria c'imbattemmo in un mare tempestoso, e davanti al Colosso di Rodi, la caldaia della macchina esplose! Per 48 ore il nostro legno fu in balia delle onde! Il capitano e gli ufficiali gareggiarono di valore. Vani riuscirono i segnali di soccorso, che si ripetevano ad ogni momento. Infiniti erano i nostri patimenti. Già sembrava a noi tutti di dover soccombere ad ogni colpo di mare; i pianti delle donne e dei bambini, accompagnati dalle preci le più ferventi, ci dilaniavano il cuore! Ma grazie ai provvedimenti presi dal capitano, il guasto della macchina potè esser riparato alla meglio, e ci fu dato ritornare ad Alessandria. Per molti giorni provai una grandissima prostrazione; nulladimeno m'imbarcai nuovamente, pochi giorni dopo, sopra altro piroscafo del Lloyd istesso, l'Arciduchessa Carlotta. Non esagero dicendo che ho dovuto sostenere una lotta interna, perchè il sentimento del dovere prevalse in me sull' inerzia proveniente dalle tristissime condizioni fisiche e morali in cui mi trovava; ma constato che nella mia vita d'artista, a qualsiasi costo, non sono mai venuta meno agli obblighi miei.

Di passaggio, nel recarmi a Costantinopoli, diedi una recita a Smirne. A Costantinopoli non potei dare che 30 rappresentazioni, in causa de' miei precedenti impegni, e perchè ardevo dal desiderio di far sosta ad Atene. Ma per quanto il mio soggiorno nell'antica Bisanzio sia stato breve, nullameno fu per me fecondo di cari ricordi.

Giunsi ad Atene il 19 del 1865. Non potei darvi che cinque recite. Toccato il Pireo, mi tardava di visitare l'Acropoli. Soddisfeci questa mia vivissima brama, il giorno dopo la mia prima rappresentazione, avendo a cicerone l'eminente archeologo diplomatico Rangabey, ora ministro a Berlino. Questa mia dotta guida faceva man mano rivivere dinanzi a me il mondo della Grecia antica colle sue classiche bellezze. Che fortuna per me il ritrovare in quei marmi sublimi tutti i nobili atteggiamenti che io avevo cercato con tanto ardore di riprodurre davanti al pubblico! Rimanevo estasiata innanzi a tante meraviglie; contemplando il tempio delle Cariatidi, studiavo i panneggiamenti greci per riprodurre, alla prima occasione, sovra i miei abiti quelle pieghe stupende. Il signor Rangabey dovette quasi ricorrere alla violenza per staccarmi dal meraviglioso bassorilievo della Vittoria Actere, di cui volevo imprimere nella memoria i menomi particolari.

Grande impressione mi produsse pure una visita che feci al tempio di Teseo ed al teatro di Bacco.

Quale incanto nel mirare da quelle sommità sfavillare i raggi infuocati del sole, sulle vette imponenti dei monti Imetto, Pantelico, Parnete, che circondano l'Acropoli! Che panorama! Quali effetti meravigliosi, sorprendenti! Che emozioni! Quanti palpiti provai nel trovarmi in mezzo a quei ruderi che parlano della storia di tanti secoli, testimoni eloquenti del vero bello, di cui la Grecia fu maestra a Roma, e dirò meglio, al mondo intero! Come avrei bramato prolungare all'anima mia quella sublime contemplazione! ma quante volte l'arte non viene sacrificata alla necessità del momento! ed appunto in quell'epoca ebbi ad esperimentare questa dura verità.

Un contratto, che non avrei potuto rescindere, mi vietava di corrispondere alle cortesi premure del Re Giorgio, ed accettare una sua preziosa offerta. Sua Maestà, vedendo le entusiastiche manifestazioni del suo popolo, immaginò di far rivivere, in pieno secolo XIX, la tragedia greca, con i suoi costumi, con i suoi cori, con tutto quell' assieme, infine, che non sì confà più alle imbastardite esigenze del Teatro moderno. Desiderò si recitasse una tragedia di soggetto greco in pieno giorno, nel teatro di Bacco, ove tutta la Grecia sarebbe accorsa. Quel classico recinto doveva essere messo in migliori condizioni nel minor tempo possibile dagli architetti ateniesi. Il mio cuore giubilava al pensiero che avrei potuto nella Grecia stessa calcare una scena del teatro antico, tornare per un momento al classicismo dell' arte, a Sofocle, ad Eschilo, posare collo spirito nella maestà dell' Olimpo! Sarebbe stato un avvenimento memorabile. S'immagini il lettore il rammarico da me provato nel dover rinunziare alla grande attrattiva offertami da S. M., ma fatalmente l' incanto poetico doveva svanire davanti alla prosa di uno sciagurato contratto!

Addio poesia! Addio caro pubblico ateniese! Addio mia amabile guida!

Io dovevo recarmi a Parigi per recitare in francese al teatro Lirico il dramma di Legouvé Les Deux Reines. Ma al ritorno, toccando Messina, un telegramma di Legouvè, mi fece noto che per incidenti politici colla Santa Sede, Napoleone III ne aveva vietata la rappresentazione.

Per fortuna, potemmo subito recarci a recitare in altri teatri d'Italia, e ciò con mia grande soddisfazione, dacchè, quanto più durava il mio soggiorno all'estero, maggiore si faceva in me il desiderio di rivedere il mio caro paese. Con vivo piacere accolsi quindi la proposta di compiere un giro artistico in Italia. Trascorsi a Napoli, Livorno, Firenze, Milano, Torino, il tempo che avrei dovuto impiegare a Parigi.

Ritornai in questa grande metropoli allo spirare dell'aprile 1865, per adempiere all' impegno preso di recitare nuovamente Beatrix al teatro del Vaudeville.

In quei giorni Firenze festeggiava solennemente il 6°ree; centenario di Dante. Tutto il mondo civile era invitato ad onorare il divino Poeta.

Il Sindaco di Firenze mi fece premurose istanze perchè io mi recassi colà, onde concorrere unitamente a Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi a maggior lustro di quella gran festa nazionale.

Con gioia aderii all'onorevole invito.

Il potermi associare con quelle due sommità dell'arte, era per me un caso fortunato. Fu da questa felice circostanza, che sorse in alcuni il pensiero di udirci recitare assieme nel teatro del Cocomero, ora Niccolini, a scopo di beneficenza, un lavoro tanto adatto alle attitudini di ciascuno, come era Francesca da Rimini, di Silvio Pellico.

La parte di Paolo fu sostenuta da Ernesto Rossi; Salvini rappresentava Lancilotto—della qual parte fece una creazione inattesa—ed io Francesca.

Ognuno di noi gareggiava di passione, di zelo… Gli effetti nuovi scaturivano come per incanto! Ernesto Rossi ben dimostrava di appartenere a quella scuola che non ha maestri, nello stretto senso, ma che agisce per impulso di un genio superiore. Nudrito dei precetti del capo scuola, Gustavo Modena, al pari di Tommaso Salvini, Ernesto Rossi non avrebbe potuto divenire una celebrità, senza una disposizione speciale, un ingegno potente.

La serata riuscì una vera solennità, e perchè ne restasse la memoria, si volle apposta una lapide commemorativa nell'interno del teatro.

Fu questo un avvenimento al quale mi compiaccio di aver partecipato, e che ho voluto rammentare in queste pagine per tributare un nuovo omaggio di affetto e di stima ai miei due illustri compagni.

Dopo aver pagato il mio tributo di devozione e gratitudine al gran Poeta, alla patria italiana, premurosamente ritornai a Parigi per riprendere le prove di Beatrix.

Fu al 22 maggio che mi presentai nuovamente al pubblico parigino, accolta colle medesime espressioni d'affetto degli anni trascorsi. Nè questo secondo esperimento ebbe nulla da invidiare al primo.

Da quell' epoca a tutto il luglio del 1866, percorsi parte d' Italia, d' Austria, d' Olanda, di Francia e del Belgio.

La salute non mi fece mai difetto nei miei viaggi lunghi e faticosi, sebbene sventuratamente io non abbia mai potuto abituarmi ai viaggi di mare. In queste corse vertiginose acquistai una robustezza a tutta prova; questa mi trasfondeva energia per guidare ogni cosa colla risolutezza ed autorità di un generale d'armata. Ognuno mi obbediva… importante risultato, cui pervenni con una imparzialità assoluta, pronta sempre a biasimare o correggere chi non adempiva ai propri obblighi, a lodare, senza distinzione di grado, chi lo meritasse; incontrai quasi sempre molta sommissione e cortesia negli artisti da me diretti; che se qualcuno fra essi ardiva di turbare l'accordo, era subito messo a dovere dalla fermezza del mio contegno.

Mia esclusivamente era la direzione artistica in tutte le sue particolarità. Da me partiva ogni ordine, ogni disposizione; mi occupava di tutte quelle grandi e piccole cose, che ogni artista sa comprendere, e le quali concorrono a far completa la riuscita di uno spettacolo.

Dei miei interessi era incaricata un'amministrazione speciale.

Ma io sono orgogliosa di dire che il mio caro marito era l'anima d'ogni intrapresa. E poichè parlo di lui, il mio cuore mi porta a dire che egli non ha mai cessato d'esercitare su me e sulla mia carriera una influenza costantemente benevola. Era lui che sosteneva il mio coraggio, quando esitavo innanzi alle difficoltà; egli mi faceva intravedere la gloria che potevo conseguire, mi mostrava lo scopo da raggiungere, mi facilitava ogni cosa per arrivare alla meta. Senza di lui, non avrei mai osato tentare l'audace avventura di portare fino agli antipodi la bandiera dell'arte italiana.

La mia renitenza era in allora scusabile, perchè, più dell'arte, mi preoccupava la malferma salute della mia povera vecchia madre, e mi tormentava il pensiero che, lontana, essa avesse potuto mancarmi… ed è stato veramente così; eìla è morta parecchi anni dopo, mentre ero in viaggio, alla volta di Rio Janciro. Dieci anni prima, avevo avuto il dolore di perdere il mio povero padre a Firenze, senza avere avuto il supremo conforto di chiudergli gli occhi… mi trovavo a Wiesbaden.

Per riprendere il filo della mia narrazione, dirò che ponevo grandissimo studio a farmi citare come esempio d'esattezza. Alcuni de' miei lunghi viaggi furono disastrosi; se taluno dei miei artisti, per pusillanimità od altra ragione, era renitente a seguirmi; afline di spronarli, davo io per la prima il buon esempio.

Lasciando Mosca, nel febbraio del 1862, per andare a Dunaburg, a darvi una recita, mi accadde di dover attraversare di notte, a piedi, un lungo ponte presso Kowno. Stante l'imperversare della stagione, il traversarlo sembrava molto difficile, dacchè stavano ricostruendolo. Al nostro arrivo colà, gli operai erano ancora intenti a lavorare, rischiarati da torcie a vento. Il torrente sottostante, gonfio per le pioggie cadute e per le abbondanti nevi liquefatte, incuteva spavento a guardarlo, tanto più che si sapeva come nella mattinata uno sventurato operaio vi fosse caduto, affogandovisi.

I miei attori, a tale racconto, ed alla vista poco rassicurante del ponte, tutto ingombro di travi e di assi, recisamente ricusavano di passar oltre. Il tempo incalzava, giacchè il treno destinato ad operare il trasbordo attendeva alla piccola stazione che trovavasi alla sponda opposta, ed era trascorsa l' ora della partenza. Rimanendo in quel luogo tutta la notte non v'era da trovare il minimo ricovero. Per le assicurazioni fattemi dal capo sorvegliante dei lavori, mi persuasi che realmente non esisteva pericolo di sorta, se la traversata si fosse operata con cautela. Colla mia famiglia, da cui non era mai divisa, scherzando e deridendo i più restii, traversai quel lungo ponte… A quella vista, a guisa di pecorelle, la Compagnia, lentamente, inciampando spesso, mi segì. Potei così arrivare a Dunaburg, proprio il giorno fissato per la rappresentazione.

Nel settembre 1866, traversai, per la prima volta, l'Atlantico per visitare gli Stati Uniti, ove restai fino al 17 maggio dell'anno seguente. Nell'elegante teatro Liceo esordii il 20 settembre con Medea. Non potevo desiderare più festose accoglienze di quelle avute. Ero impaziente di calcare quelle terre vergini e fare risuonare il sì, io per la prima, in quella nobile patria di Washington, ove sapeva che nella febbre degli affari e la corsa vertiginosa verso la fortuna, la scienza e l'arte non erano dimenticate. Durante il mio soggiorno a New-York, ebbi un successo costante; da quell'epoca datano relazioni d'amicizia, che nè tempo nè lontananza hanno intiepidite. Scrivendo queste linee, mando un affettuoso saluto a quelli che conservano di me un ricordo costante di là dell'Oceano.

Lasciando New-York, fui chiamata in quasi tutte le città grandi e piccole della Confederazione; ma mi guarderei bene dal tentare qui descrizioni che sì sovente sono state fatte da eminenti scrittori.

Passo sotto silenzio le dimostrazioni calorose che mi accolsero. Aggiungerò soltanto: «Grazie agli Americani!».

Un fatto è da notarsi. Gli Americani han dato alla vecchia Europa, sul terreno teatrale, un esempio di cui essa ha profittato ben in ritardo. Essi hanno introdotto, come abitudine, ciò che non si faceva che accidentalmente da noi—la rappresentazione diurna— matinèe, che permette alle donne, alle giovinette d'assistere allo spettacolo senza mancare ai loro doveri o ai loro studi, senza esporsi alle fatiche di lunghe veglie.

Nell'America del Nord, hanno generalmente luogo due rappresentazioni in ogni teatro drammatico, nei giorni di sabato e giovedì. Gli applausi sono naturalmente meno fragorosi e più modesti; ma i bravo! sono accordati con tanta intelligenza, ed esprimono così bene, al momento voluto, le emozioni provate, che l'artista si sente sempre sostenuto dal suo uditorio. Le giovinette accorrevano alle mie rappresentazioni in tanta folla, che spesso mi accadde d'essere obbligata ad ordinare che gli artisti uscissero d'in fra le quinte, per far posto a quelle fra le mie ascoltatrici che non avevano potuto collocarsi nella sala; ero forzata di misurare i miei movimenti, e situarmi, mentre recitava, in modo che le mie vicine non perdessero un solo mio gesto, un solo mio sguardo… I miei sforzi erano ricompensati dalle espressioni riconoscenti di quei visi freschi e carini.

Queste gentili entusiaste non trascuravano di assistere alle repliche di Elisabetta Regina d' Inghilterra del compianto Paolo Giacometti. Questo lavoro, per essere pieno di effetti scenici, ebbe il più grande successo. La parte d'Elisabetta mi riusciva più difficile d'ogni altra, poichè in questo personaggio non parlava che l'arte. Scorrendo l'analisi che ne faccio più oltre, il lettore potrà giudicare quanto m' abbia costato il riprodurlo.

Moltissime furono le città da me visitate in America. Troppo lungo sarebbe l'enumerarle, troppo parrebbero ripetute le tinte dei quadri descrittivi. Fu un complesso di risultati superiore alle mie aspettative. Posso dire che ho percorso palmo a palmo gli Stati Uniti. Ne partii, come dissi, nel maggio del 1867, per ritornarvi nel settembre dello stesso anno.

Nei primi giorni di quella mia seconda traversata dell'Atlantico, sul battello Europa, fummo sorpresi da un tempo cosi burrascoso, che costò la vita ad un camerire di bordo, portato via da un colpo di mare. Si seppe poi che quel disgraziato aveva a Marsiglia moglie e figli, che vivevano dei suoi guadagni.

Fu un caso miserando, che rattristò tutti i passeggieri. S'immaginò di organizzare uno spettacolo, onde venire in soccorso di quella infelice famiglia. Il capitano vi si prestò con caritatevole premura, e pose ogni cura per trasformare in un elegante teatro la sala da pranzo. Il palco scenico era tracciato da due ranghi di lumi che fungevano anche da ribalta.

Avendo la sorte d'avere a compagna la De La Grange e d'aver meco i miei artisti, potemmo assieme stabilire un attraente programma per la serata.

La De La Grange avrebbe cantato tre pezzi suoi favoriti, io avrei rappresentata la scena dell'incontro di Maria Stuarda con Elisabetta, nella tragedia di Schiller. Un signore francese si era offerto per eseguire una romanza. Il tempo si era messo relativamente a bonaccia, quindi era permesso lo sperare che nella sera susseguente, fissata per lo spettacolo, il concerto potesse aver luogo senza inconvenienti. Ma col mare si fanno male i conti! Appunto alla metà della giornata, il mare comincia ad incresparsi, il vento a farsi impetuoso, il bastimento se ne risente e l'ondulazione si fa più sensibile. I nostri visi si abbuiavano sempre più. Io mi domandavo: «se la dura così, come reciterò?» Verso sera successe un po' di tregua. Si potè, all'ora fissata, dare principio allo spettacolo. Entro in scena, quasi sicura di trionfare sugli elementi; piena di vivacità, rivolgo la bella invocazione della Stuarda alle nuvole… ma le vere nuvole fatalmente si addensano sul cielo, e il mare di nuovo s'ingrossa! All'entrare d'Elisabetta, i capogiri si fanno sensibili, traballo… la gola mi si serra… sento i goccioloni di sudore, forieri del terribile male!… quasi non connetto più le parole… mio fratello, che sosteneva la parte di Talbot, prevedendo che la faccenda doveva finir male, corre in cerca di una boccetta di sali, che mi fa aspirare ad ogni pausa! Con questo espediente riuscii ad arrivare alla fine, sorretta da Anna ogniqualvolta stavo per cadere. Terminato questo sforzo, corsi subito precipitosamente sul ponte, e gettatami su di una poltrona, attesi Mme La Grange, mia compagna di sventura, per conoscere come avesse potuto giungere alla fine della sua parte; però dal luogo ove mi ero ricoverata, potei udire la romanza del dilettante che si era offerto di prestare l' opera sua; il povero uomo non poteva scegliere un più lugubre soggetto, cantando con voce sepolcrale: «Richard est mort!… Richard est mort!…» egli contribuì ad accrescere le sofferenze che provavamo! ma tutte queste peripezie ci furono compensate dall'abbondante danaro raccolto.

Questa festa della carità ebbe anche un episodio divertente all'indomani. Un passeggero che si era lagnato energicamente col capitano per l'abbandono in cui riteneva si fosse lasciato il bastimento, mentre gli uffilciali di bordo si divertivano nel salone, spaventato dalle onde sempre crescenti, si era bravamente infilata la cintura di salvezza, ed aveva passata tutta la notte sul ponte. Quest' uomo stralunato lanciava sguardi furibondi a noi, causa innocente del pericolo che aveva creduto di correre.

Alla fine di gennaio del 1868 partii per l' isola di Cuba. Che pubblico appassionato trovai all'Avana!…

Ad ogni recita, mi si preparavano nuove dimostrazioni di stima.

La sera del 16 marzo, diedi la mia beneficiata colla tragedia Camma ed una commediola in un atto dal titolo: Ciò che piace alla prima attrice, scherzo comico del popolare commediografo pistoiese, Gherardi Del Testa, per me espressamente da lui composto. In questa commediola, ad un dato punto, travestita da Giovanna D'Arco, declamavo quegli addii famosi di Schiller, tanto mirabilmente tradotti dal nostro illustre e compianto poeta Maffei.

Dopo le 2 pomeridiane non era più possibile trovare un posto, giacchè quelli dei palchi e i numerati erano stati accaparrati molti giorni prima.

Siccome, per usanza di quel paese, molte signore vanno in platea o in una parte speciale d' una certa galleria detta Cazuela, così moltissime fra esse, temendo che per la ressa che si sarebbe verificata prima di principiare lo spettacolo non avrebbero potuto procurarsi un buon posto, od occupare quello già da loro fissato, vi s'installarono alle 2 pomeridiane, e vi si fecero servire il pranzo.

Noto questi ragguagli minuti non per mero vanto, ma per dare a conoscere a qual grado può giungere l'entusiasmo di quel popolo.

Al mio ritorno all'albergo, dopo lo spettacolo, si tentò staccare i cavalli dalla mia carrozza, al che energicamente mi opposi. Non potei però impedire che molti giovani si arrampicassero come gatti sull'asse delle ruote, sui raggi di quelle, accanto al cocchiere, dietro il mantice, pure di essermi vicini.

Ero letteralmente sepolta sotto una valanga di fiori.

Spesso mi trasporto col pensiero allo spettacolo magico di quella notte del Tropico, dove, sotto un cielo scintillante, io passava in rivista quella folla entusiasta, in mezzo a due file di volantes, dalle quali le eleganti Cubane, in abito da ballo, mi mandavano baci, mentre i cocchieri a stento rattenevano i loro cavalli, spaventati dal chiarore delle torcie. Delle mille e una notte che ho passate a ciel sereno, tornando dal teatro, quella fu certamente la più bella.

Questo paradiso è rimasto nella mia memoria come un quadro incantevole. Ma anche di questa natura tropicale, e di questa vita, seducente nella sua noncuranza orientale, sono state fatte tante pitture, che io non oso tentarne alcuna descrizione. Saluto dal fondo del cuore gli Avanesi, che, invadendo tutte le sere il nostro teatro, non cessavano dall'acclamarmi.

Prima tumultuosa rappresentazione di Maria Antonietta a Bologna.—Il Brasile ed il suo imperatore.—Nelle steppe russe.—Una moglie contenta d'essere battuta dal marito.—Recito una scena di Lady Macbeth in inglese.

Reduce dagli Stati Uniti, nel settembre 1868, percorsi nuovamente, per un lasso di 9 mesi, l'Italia. Vi rappresentai, per la prima volta, il popolarissimo dramma di Paolo Giacometti, Maria Antonietta, che tanto entusiasmo aveva destato agli Stati Uniti. Per l'amore che portavo a questo dramma, e per l'antica amicizia che mi legava all'autore, posi un singolare impegno nell'esecuzione, che doveva aver luogo al Teatro Brunetti di Bologna. Provvidi a far sì che nell'esecuzione tutto fosse rigorosamente storico. Avevo posto la maggior diligenza nel curare l'esattezza dei costumi, e i menomi accessori. Questo amore alla verità mi spinse a studiare alla Conciergerie la cella che fu ultima dimora dell'infelice Regina di Francia. Rammento tuttora l'impressione dolorosa provata a quella vista! Col pensiero tutto compenetrato dal soggetto che stavo studiando, mi pareva d'avere dinanzi quella martire rassegnata, e sentire aleggiarmi intorno i suoi ultimi strazianti sospiri!

Era stabilito che la produzione dovesse avere il suo battesimo da uno dei pubblici più intelligenti d'Italia, e dal meglio atto, per la natura stessa della sua indole, ad appassionarsi alle grandi situazioni. Avendomi quindi la buona fortuna portata a Bologna per darvi 12 recite al Teatro Brunetti, stabilii di porre in scena colà Maria Antonietta la sera del 9 novembre.

Si ebbero a superare molte difficoltà per ottenere il permesso della recita. L'Autorità politica, la censura, poste in avviso dal soggetto del dramma, sospettarono (prima ancora di leggere quel lavoro) che si trattasse di un'apoteosi della democrazia più scapigliata. Anche il partito repubblicano, persuaso di trovare nel dramma la glorificazione della rivoluzione francese, ed insospettito dall'attitudine del Governo, menava un grande scalpore; ma finalmente, grazie all'intromissione di autorevoli personaggi, convinti che mai da me sarebbe venuta cosa che potesse menomamente turbare l'ordine pubblico, il divieto fu revocato.

Finalmente giunse la sera attesa con tanta impazienza. Per una prudenza forse esagerata, il numero delle guardie venne rinforzato da un picchetto di cavalleria. Il pubblico, accorso in gran folla, stava stipato così, che, come si suol dire, non avrebbe toccato terra un grano di miglio gettato sovra di esso. L'emozione del pubblico era vivissima; mano a mano però che lo sviluppo dell'azione progrediva, gli ultra liberali si avvedevano che non si trattava già dell'apologia della rivoluzione e delle loro aspirazioni, ma bensì della condanna di un esecrando delitto… Il dramma era un'esposizione dei casi disperati di quella disgraziata famiglia reale; esso doveva destare quella commiserazione che offre un tributo di lagrime, non di fremiti; ma agli irrequieti, ciò non garbava. Alla fine del 2°ree; atto si manifestarono segni di disapprovazione accentuati; crebbero talmente al 3°ree;, da impedire alla maggioranza spassionata, di gustare la produzione.

Il questore, nel suo palchetto di proscenio, impallidiva, temendo lo scoppio di qualche disordine! Il disgraziato Giacometti s'asciugava la fronte, facendomi dalla quinta dei segni di disperazione. Da parte mia, impazientata per le difficoltà che avevamo a superare, esasperata, vedendo che una infima minorità voleva sostituire la sua collera e imporre le sue passioni alle dolci emozioni ed alla seria commiserazione che aveva fino allora tenuto attento l'uditorio, mi avvicinai alla quinta dove s'appoggiava l'autore presso a venir meno dicendogli: «Ma venite danque a parlare al pubblico, voi, vecchio liberale; vi ascolteranno». Egli era troppo turbato per comprendere lo scopo e l'utilità della mia proposta, mentre il pubblico diveniva sempre più minaccioso; ci voleva un ardito espediente… non potevo più contenermi… allora, assalita da uno dei miei accessi d'impazienza, mi alzo risolutamente dalla poltrona dove stavo seduta, mi avvicino alla ribalta, accenno di voler parlare. Di subito si ristabilisce un silenzio generale. Padrona della situazione, comincio il mio discorso così: «Signori, nel presentare all'Italia questo lavoro del nostro illustre compatriota, ho creduto agire assennatamente, scegliendo per primo a giudice il pubblico bolognese, note essendo ovunque la sua intelligenza e la sua gentilezza. Non impongo ad alcuno d' applaudire ciò che non gli garba, ma per giudicare con savio criterio, bisogna ascoltare senza lasciarsi sopraffare dallo spirito di parte, molto incomodo, in questo caso, ai pacifici cittadini, che accorrono numerosi al teatro per divertirsi e non per battagliare».

Questa mia filippica mi guadagnò uno scoppio generale d'applausi ed impose ai perturbatori. Calata la tela, fui chiamata al proscenio per più volte, e mi vi presentai tenendo stretto per mano il povero Giacometti, tremante e piangente per l'emozione.

Il questore ed altre Autorità irruppero sulla scena per ringraziarmi e felicitarmi del coraggio dimostrato, come se avessi salvato la patria!

Però da quel punto l'esito di questa produzione fu assicurato… e tanto divenne popolare il lavoro, che per le vie, le donnicciuole mi additavano alle compagne, con un «guarda! guarda! Maria Antonietta!»

Non mancò la polemica sui giornali! Pei radicali, le sevizie del ciabattino Simon, crudele aguzzino dell'infelice Delfino, erano falsate, o per lo meno, esagerate! Le sofferenze, le umiliazioni, i martirii dell'infelice famiglia reale, poetiche composizioni!… ma finalmente, il buon senso, e la verità storica, la vinsero sul fanatismo, e da quel tempo, Maria Antonietta fu accetta dovunque col più grande successo.

Ai primi di giugno dell'anno 1869, dall'Italia ci recammo a Rio Janeiro. Il 28 esordii con Medea, nel teatro Fluminense. Sebbene la brama di sentirmi fosse viva nei brasiliani, ed avesse attirato grandissima folla in teatro, sebbene fossi onorata pure dalla presenza dei Sovrani e delle Principesse Imperiali, tuttavia, con mio grande stupore, al mio presentarmi in scena dall'alto della montagna, aggruppata coi miei figli, mi venne fatta glaciale accoglienza! Non un applauso, nè un mormorio d' aggradimento!! Questa freddezza inaspettata mi stupì, chè la fama della gentilezza di quel pubblico per gli artisti m'era ben nota.

Ma come di subito al primo effetto scenico, l'entusiasmo dissipò la freddezza! Quando Medea, con parole desolate, straziata dal lamento del figli chiedenti pane, esclama:

Non poter vuotar mie vene Fino all'estrema goccia, e dir: prendete Nutritevi, bevete il sangue mio!

Questa invocazione uscita impetuosa dalle labbra, dal cuore, suscitò un fremito che ebbe per risultato uno di quegli scoppi d'applausi che sono il battesimo dei grandi successi. Quando Medea, rivolta a Creusa, afferma che, scoprendo la rivale, si precipiterebbe d'un balzo su lei a guisa di leopardo per farla a brani, il pubblico mandò un grido frenetico.

Di quanti onori e distinzioni non fui fatta segno dalla popolazione e dai sovrani del Brasile! Quale anima gentile, quale spirito eccezionalmente colto trovai nell'Imperatore! Egli mi onorò della sua amicizia, della quale mi sento orgogliosa; nè tempo, nè lontananza l'hanno potuta scemare nell'anima mia. Ricevuta a Corte con mio marito ed i miei figli, non mi attento a descrivere quanta bontà ed affabilità abbia incontrate in quell' angelica famiglia. Quante occasioni non mi ebbi d'ammirare la coltura, l'ingegno profondo di Sua Maestà! Tutte le letterature gli sono famigliari. Per la rettitudine de' principii, per la giustizia nel governare, egli è adorato dai suoi sudditi, non mirando che allo sviluppo ed al benessere di essi; spesso prova il più vivo desiderio d'intraprendere dei viaggi in Europa, perchè il suo paese possa fruire di tutti i risultati ottenuti dal progresso della civiltà. Ma trovo superfluo l'enumerare qui le doti infinite ch'egli possiede. La fama le ha propalate…

Passavo di sorpresa in sorpresa, di commozione in commozione in quel pittoresco paese.

Non starebbe a me dire che cosa si seppe immaginare per tributarmi la loro ammirazione. Abitavo una graziosa villetta nei sobborghi della città. La sera di mia beneficiata, dopo la recita, migliaia di persone, molte delle quali munite di fiaccole accese, mi accompagnarono fino alla mia casa. Nelle diverse piazze che il corteggio doveva traversare, un corpo di suonatori intuonava inni nazionali e italiani. La strada disseminata di fiori era, tratto tratto, illuminata da fuochi di bengala a svariati colori.

Giunta alla mia abitazione, la musica, le acclamazioni durarono fino ad ora avanzata.

Da Rio Janerio passai a Buenos Ayres, inaugurando, al 10 settembre, con Medea, le mie recite. Altre e nuove gioie mi attendevano in quella amena terra, dove la numerosa colonia italiana, che onora in quel paese, come in ogni lontana regione, la madrepatria, mi fece segno ad accoglienze veramente reali, mostrandosi orgogliosa di quelle prodigatemi dagli Argentini. Nella simpatica città di Buenos Ayres ebbi dimostrazioni tali, da serbarne nel cuore il più vivo ricordo. Feci sosta quindi nell'ottobre a Montevideo, ottenendo i medesimi risultati; poscia ritornai in Italia per Rio Janeiro, dove gli echi della mia prima comparsa colà, non erano ancora spenti.

Nel settembre del 1871, visitai i Principati Danubiani, Bukarest, Galatz, Braila, Jassy. Quale viaggio non fu il nostro per recarci da colà in Russia! Difficilissimi e scarsi erano i mezzi di trasporto, si dovevano traversare lande incolte, senza traccia di sentiero … la si poteva proprio chiamare una Chaussée naturelle. Si noleggiarono veicoli di ogni forma, di ogni genere; a taluni di essi mancava una gran parte del necessario per starvi a sedere sicuri; ma fu giuocoforza servirsene per mancanza di meglio!

Ci accomodammo come si potè, e partimmo. Si aveva proprio l'aspetto di una carovana d'emigranti! Ai cavalli della prima carrozza, ch'era la mia, avevano applicato grossi sonagli, onde nell'oscurità della notte, essi potessero servire di guida a quelli che venivano appresso. Ad ogni momento, avevamo sobbalzi fortissimi che ci obbligavano tenerci ben fermi alle maniglie per evitare d'essere slanciati sulla via. La strada, per i suoi continui avvallamenti, aveva l'aspetto d' un mare in tempesta gelato! La notte era freddissima (era il mese di ottobre) e quantunque imbacuccati nei mantelli e nelle coperte, di cui ci eravamo largamente premuniti, essendo i legni scoperti, soffrimmo di un freddo pungentissimo.

A mattino inoltrato, i nostri vetturini, senza consultarci, fecero sosta, staccarono i cavalli nel bel mezzo di una landa, e cominciarono a dar loro la razione di fieno e biada. Visto che non ci era neppure da sognare il lusso di una casa per fare un po' di colazione, pazientemente ci rassegnammo ad imitare la semplicità dei nostri antichi padri!! Seduti per terra, sopra i plaids, furono imbandite le provviste che, previdenti, avevamo portate con noi. L'originalità della mensa, il feroce appetito destatoci dal freddo della notte, l'aria aperta della campagna e le risate di cuore che si facevano, durante l'insolita colazione, tutto contribuì a rendere quella refezione gustosa.

Giunti a Kischeneff, il 20, scendemmo nel migliore albergo. Che felicità, dopo la nostra spedizione da nomadi! Ma prendendo possesso delle nostre camere per gustare un riposo ben meritato, ci accorgemmo che non avevamo di che rallegrarci tanto. I nostri letti non avevano che un solo ed unico lenzuolo. Le persone di servizio erano tutte coricate; bisognò suonare a stormo per avere il necessario. Finalmente dormivamo, quando, nel mezzo della notte, grida di donna risvegliarono tutti gli abitanti della casa; prestammo attenzione dietro le nostre porte socchiuse; i campanelli sono di nuovo in movimento, i domestici accorrono da tutte le parti. Ci si dice che la moglie d'un Russo è la causa di questo strepito; il suo amabile marito stava amministrandole una correzione di cui deve serbare poco grata memoria. Le grida continuano. Presi da pietà e da indignazione, mandammo il più vigoroso dei nostri in soccorso della disgraziata; la porta era chiusa; sotto i colpi raddoppiati del salvatore, che vuole entrare, si fa silenzio, e vediamo comparire nel corridoio… la signora colonnella irata, ma leggermente vestita, gridando con una voce stentorea «Che volete? Di che v'immischiate? Mio marito ha bene il diritto di battermi, se ciò gli piace». Al che, il più flemmatico de' nostri rispose, con una calma di cui rido ancora: «Ebbene, signora, se questa cura vi è salutare, vogliate sopportarla senza gridi. In quanto a noi abbiamo bisogno di dormire! Buona notte!» e allegramente ce ne tornammo a letto.

Da Kischeneff mi recai ad Odessa e di là a Kieff. Sul finire del 1871, toccando Berlino, Weimar, percorrendo il Belgio, finii per prendere i quartieri d'inverno a Roma, e quindi riposarmi dei lunghi viaggi, e delle fatiche della scena. Qui mi giova avvertire che complessivamente, all'infuori dei Principati Danubiani, deila Turchia e della Grecia, che visitai una sola volta, nelle altre parti del mondo fui due e più volte, preferendo sempre Parigi e Roma, per i pochi riposi che mi furono acconsentiti.

Nel 1873, per la quarta volta rivisitai Londra.

Non avendo nuovi lavori da interpretare, stanca di ripetere sempre le medesime cose, provai il bisogno di ravvivare lo spirito con qualche forte emozione… d'immaginar cosa, infine, la cui esecuzione non fosse stata tentata da altri.

Un giorno mi parve aver trovato ciò che poteva appagare questa mia brama. L'ammirazione di cui ero compresa per le opere di Shakspeare, specialmente per il personaggio di Lady Macbeth, mi fece formare il progetto di recitare nella sua lingua originale la gran scena del sonnambulismo, concepimento gigantesco del sommo poeta.

A questo mio proposito m'indusse pure il desiderio di ricambiare, il meglio che per me si potesse, l'affetto costante di cui mi circondava il ceto più intelligente della grande metropoli… Ma come riuscirvi? Questa era la domanda che titubante rivolgeva a me stessa!…

Mi consultai con una mia buona conoscente, Mme Ward, madre della distinta attrice Geneviève Ward. Essa, non solo m'inspirò fiducia, ma mi offerse di aiutarmi ad imparare quella scena.

Conservavo qualche reminiscenza degli studi di lingua inglese fatti da giovinetta, ma non vi è idioma più difficile di quello per riabituarvisi, se per anni lo si trascura. Tali considerazioni mi spaventavano, ma tuttavia attingevo coraggio dalle stesse difficoltà.

In quindici giorni di studio indefesso, mi trovai in grado di tentare la prova; però, non volendo compromettere la mia riputazione col rischio di un insuccesso, mi regolai con cautela.

Decisi di chiamare a convegno in casa mia i redattori dei giornali cittadini più competenti in cose teatrali, senza dir loro il motivo dell'invito. Tutti gli invitati intervennero all'adunanza; allora esposi loro il mio progetto e lo scopo che me lo aveva ispirato. Li pregai vivamente d' udirmi e darmi francamente il loro parere, assicurandoli che ove esso non fosse stato favorevole, non me ne avrei avuto a male.

Recitai la scena studiata; i miei giudici se ne mostrarono soddisfattissimi; mi corressero nella pronuncia di due sole parole, e mi sollecitarono ad annunziare al pubblico l' audace tentativo. Alla sera della rappresentazione, all'avvicinarsi di quella scena importante, io tremava… Non potevo frenare il battito del cuore, padroneggiare l'emozione! Peraltro, l'accoglienza benevola fattami dal pubblico ridestò tutta la mia vigoria. L'esito felice mi compensò a mille doppi delle ambascie provate, ma il successo ingrandì i desiderii. Aspirai a misurarmi in maggiori cimenti! Mirai all'ardito còmpito di rappresentare intera la parte di Lady Macbeth in inglese, ma tanto mi parve temeraria l'impresa, che scacciai da me tale tentazione.

Partenza per un viaggio artistico nelle principali città del mondo.—Nello Stretto di Magellano.—Il Perù, le sue rivoluzioni ed i suoi rivoluzionari. —Sierra puerta!—Deliziosa giornata di Natale, sul golfo messicano.— Vera Cruz e Nuova York.—Storia d' un neenato e della sua nutrice a quattro gambe.

Nel maggio del 1874 ci imbarcammo a Bordeaux, per intraprendere il giro del mondo. Conducemmo con noi, oltre ai nostri figli, il vecchio amico, generale Galletti, che fu per noi un allegrissimo compagno.

Ecco l'ordine dell'itinerario seguìto:

Bordeaux, Rio Janerio, Buenos Ayres, Montevideo, Valparaiso, Santiago, Lima, Messico, Puebla, Vera Crux, Stati Uniti, S. Francisco, Isole Sandwich, Nuova Zelanda, Sydney, Melbourne, Adelaide, Ceylan, Aden, Suez, Alessandria d'Egitto, Brindisi, Roma.

Dopo aver dato, come già dissi, principio a questo giro artistico, da Rio Janeiro, Buenos Ayres, Montevideo, c'imbracammo, il 15 luglio, sullo splendido battello inglese Britannia, di partenza per Valparaise. Si attraversò il famoso Stretto di Magellano, avendo da un lato la Patagonia, dall'altro la Terra del Fuoco. Troppo mi dilungherei, se dovessi qui registrare tutte le emozioni provate, contemplando per la prima volta la scene che la natura mi parava davanti. Dirò solo che il delizioso tempo che incontrammo, contrariamente alle informazioni esagerate, ci permise di strare tutti sul ponte ad occhi spalancati, intenti ad avere il vanto di scoprire per il primo qualche punto di vista o qualche oggetto a noi sconosciuto. Non tardammo a soddisfare la nostra bramma. Ecco una piroga che si avvicina alla nostra nave. Conteneva una famiglia di Patagoni, dalla statura altissima, dai visi olivastri, dalla capigliatura lunga, incolta, ruvida come setole. Per quanto concerne le caratteristiche della larga bocca, degli zigomi salienti, dei denti lunghi e bianchissimi, trovai molti punti di contatto fra questo tipo e quello non meno speciale delle mie vecchie conoscenze, le Pelli rosse, che avevo incontrate lungo il mio viaggio per la California. Mi sembra ancora vedere quegli altissimi Patagoni, solo in parte coperti da pelli oscure, supplicare con cenni che si desse loro da mangiare e fumare.

Affrettandoci a contentarli, pregammo il Comandante a rallentare la corsa del piroscafo, come suolevano fare, in quel luogo ed in quei casi, gli altri comandanti; ma, non ricordo per qual ragione, il nostro non acconsentì, dimodochè quei disgraziati, facendo sforzi di remi, tentarono invano di raggiungerci. Ma dai loro gesti si comprese quante imprecazioni ci scagliassero, vedendosi delusi nelle loro speranze.

Uscendo dallo Stretto, la cui traversata durò 36 ore, si sboccò presso il Capo Pilar. Vi trovammo un mare così infuriato, da rendere difficile lo stare ritti in piedi. Io, anzi, essendomi fatta assicurare con una cigna al grosso anello della finestra superiore al mio lettuccio, fui salutata da un colpo di mare così violento, che gettò a terra me ed il mio letto, e mi fece rimanere sospesa col braccio legato! Il male che provavo era troppo forte perchè potessi togliermi da sola a quella incomoda posizione. Le persone accorse per aiutarmi traballavano esse pure, offrendo così agli altri passeggeri un curioso spettacolo! In tal modo cominciarono i miei rapporti con l'Ocean Pacifico.

Il 1°ree; agosto esordii a Valparaiso. Il mio soggiorno in quella città, in Santiago e Quillotta durò due mesi. Non meno grandi furono che negli altri luoghi, i favori cui fui fatta segno da quel pubblico.

Il 18 ottobre ero a Lima, la bella capitale del Perù. Là come dovunque, per prima rappresentazione recitai Medea. Vi trovai un uditorio intelligente, e che mi prodigò attenzioni infinite; ma poco mancò mi trovassi testimone d'una guerra civile.

Io ero ben lontana dal prevedere che fra i pochi passeggieri presi a bordo dalla Britannia, nel passare da Puenta Arenas, proprio in mezzo allo stretto di Magellano, ve ne sarebbe uno che, due mesi dopo, ci avrebbe turbato il pacifico soggiorno di Lima. Questo personaggio era piuttosto piccolo di statura, d'aspetto ardito, poco loquace; i suoi modi burberi non prevenivano in suo favore. Le dicerie che correvano sul suo conto, nella nostra piccola colonia galleggiante, non erano tali da ispirare il desiderio di conoscerlo più da vicino. Si asseriva essere egli il signor*** peruviano, che era stato capo di una vasta congiura tendente a rovesciare il Presidente della Repubblica. Si trattava nientemeno che di far saltar in aria un intero treno ferroviario, che portava il Presidente ed i Ministri all'inaugurazione di una linea di strade ferrate. A torto od a ragione, si accusò il sig.*** d'essere conscio di questo attentato, e lo si bandì dal territorio peruviano. Il nostro pericoloso compagno sbarcò a Coronel, primo posto del Chilì, ove la Britannia faceva scalo.

Eravamo appena giunti a Valparaiso, quando si sparse la notizia che il signor***, raggiunto da un certo numero di partigiani, aveva noleggiato un clipper mercantile, e fatto vela per destinazione ignota.

L'ameno soggiorno di Valparaiso e di Santiago ci aveva fatto dimenticare il nome e le gesta del signor***; ma arrivando a Lima, venimmo a sapere ch'egli era sbarcato sulla costa peruviana e guerreggiava alla testa di una piccola armata contro le truppe del governo. I Limesi, abituati a tali vicende, non ne erano gran fatto commossi. Le rivoluzioni e le contro-rivoluzioni si succedono in quel paese, ove il posto di Presidente, tanto ardentemente ambito, costa il più dello volte la vita all' ambizioso che se ne è impadronito; tale era stata generalmente la sorte dei capi del governo fino al 1874.

Oltre ai giornali che ogni mattina ci davano notizie della guerra, possedevamo noi un gazzettino vivente, nella persona di un servo indigeno, che avevamo preso per aiutare i nostri domestici. Benchè non avesse altro incarico che quello di andare al mercato e fare le commissioni, egli si era attribuito il titolo pomposo di maggiordomo. Alle prime notizie di guerra non fu più possibile fargli varcare la porta di strada. Ad ogni notizia poco favorevole al partito presidenziale, il maggiordomo diveniva tragico, ed a noi toccava sopportare i suoi lamenti.

Dapprima non potevamo capire come mai costui preferisse sequestrarsi in casa; ma un giorno, volendo noi costringere il nostro cameriere ad uscire, egli si munì d'un bastone a stocco, col quale, diceva lui, saprebbe difendersi, benchè non fosse certo uomo da menar le mani!! «Ma che vai dicendo, soggiunse alcuno; si tratta di andare al mercato e non di battersi!» «Ma non sapete, rispose il maggiordomo, qual pericolo ci minacci ad ogni angolo della via? il Governo, avendo bisogno di soldati, li fa prendere di forza, e se mi mettono le mani addosso, sono perduto!!» E così era. Potemmo accertarcene poco dopo. Un sergente con due soldati intimava l'arruolamento ad ogni popolano che incontrasse, e se questi resisteva, gli si gettava il laccio come ai cavalli selvaggi nelle pianure del Messico.

Intanto il signor*** ed i suoi aderenti si avanzavano verso la capitale. Un bel mattino il Presidente partì alla testa di tutta la guarnigione di Lima, per andare a combattere quel nemico, temuto dalla gran maggioranza del paese, e non lasciò nella capitale che le guardie di polizia. Di tutta la popolazione noi eravamo i soli, cred'io, a meravigliarci di quanto accadeva, essendo gli abitanti abituati da lungo tempo a simili eventi. Una sera ritornavamo da una escursione interessantissima sulla gran linea ferrata che portava ad Oroyo, intraperesa dal Meiggs attraverso le Ande per riunire il Perù al fiume delle Amazzoni. In poche ore eravamo ascesi ad un'altezza di 14,000 piedi, traversando le più variate zone di vegetazione, incontrando numerosi gruppi di lame, ora libere, ora impiegate come bestie da soma. Eravamo riuniti a tavola e raccontavamo ad un amico peruviano che pranzava con noi, le impressioni della giornata, quando tutto ad un tratto dalla strada si odono le grida di «Sierra puerta, sierra puerta». Una donna spaventata si precipita nel nostro palio, gridando fuori di sè: Jesus Maria! la revolucion! Il nostro valoroso maggiordomo, più spaventato della donna stessa, si slancia verso la porta della casa, la chiude precipitosamente e l' assicura con catenacci e spranghe. La curiosità ci spinge alla finestra donde vedemmo i nostri vicini in fretta e furia usare le medesime nostre precauzioni. La fucilata che si sentiva poco lontano ci fece prudentemente ritirare la testa. «Ma che significa tutto ciò?» domandiamo al nostro ospite. Questi, senza scomporsi, ci dice: «non è che un sierra puerta.—Ogniqualvolta il Presidente è obbligato a lasciare la città colla guarnigione per reprimere un moto rivoluzionario, gli è raro che i rimasti non vengano alle mani fara loro nella capitale istessa. Le guardie di polizia, troppo scarse per poter mantenere l'ordine, hanno la consegna, prima di rientrare in caserma, di percorrere le vie, gridando: Sierra puerla! Ciascun abitante allora chiude e asserraglia il meglio che può la porta di casa, ed aspetta con pazienza gli avvenimenti. Nella via si correrebbe il rischio di prendersi una fucilata, ma le abitazioni non sono mai invase, e noi possiamo continuare tranquillamente il pranzo». Questa sublime indifferenza non modificò punto la nostra curiosità, e malgrado i consigli che ci venivano dati, non ci staccavamo dalla finestra. Non si vedeva e non si sentiva più nulla, le fucilate lontane erano cessate. Poco dopo, le porte cominciarono a socchiudersi, la gente di casa a far capolino, le guardie di polizia a ricomparire nella strada, spargendo notizie rassicuranti. Non era stato che un falso allarme, ed il telegrafo annunziava una gran vittoria del Presidente sui ribelli. All is well that ends well, dice il gran Shakspeare. Aprimmò la porta, ridendo dell'interruzione comico-tragica, e riprendemmo gaiamente i nostri posti a tavola.

Nella capitale del Perù le signore sono belle, buone e gentili. Non basterebbero pagine e pagine a registrare tutti gli affettuosi ricordi che mi si affollano alla mente ora che scrivo.

Al 28 novembre lasciammo Callao, porto di Lima, che dista appena un quarto d'ora di ferrovia dalla capitale, e salimmo a bordo dell'Oroya, attorniati dai nostri nuovi e simpatici amici, che avevano sì largamente contribuito a rallegrare il nostro troppo breve soggiorno in quel paese. Il viaggio dal Perù al Panama fu per noi veramente incantevole. Il mare, sempre calmo, permetteva ai meno agguerriti fra noi di rimanere sul ponte, sdraiati nelle nostre poltrone di vimini, e godere della vista dei pellicani e degli albatros che, sorvolando sul bastimento, tracciavano lunghe striscie bianche e grigie sul fondo azzurro del cielo.

Dopo aver costeggiate le isole Labos de Tierra e l'arida giogaia della Silla de Prysta, la scena cambia, ed ecco isole coperte da una vegetazione fantastica, ove crescono allo stato selvatico ed alla rinfusa tutti i saporiti frutti dei tropici.

L'istmo di Panama è un vero paradiso terrestre. È l'Eden cantato dai poeti. V'è una flora gigantesca, variopinta, che seduce ed abbaglia, e un azzurro di cielo molto più diafano, più vaporoso del nostro.

A Panama lasciammo l'Oroya per scendere a terra, ed in poche ore la strada ferrata ci trasportò da un Oceano all'altro attraverso un paese meravigliosamente bello, che s'imprime nella mente del viaggiatore come un racconto di fata; pure la temperatura elevata, l'atmosfera pesante e malsana di queste regioni, fecero sì che provammo un vero sollievo nel lasciare la terraferma, e nel mettere piede sulla Saxonia, nave tedesca, che ci trasportò alla graziosa città di S. Thomas, dopo breve sosta a Cuiraçao. Ai 16 dicembre c' imbarcammo sovra un vapore della Compagnia Inglese diretto al Messico.

Il 25, dopo di aver toccato l'Avana, eccoci di nuovo a bordo dell' Ebro. Navigavamo placidamente sullo specchio brillante del golfo messicano. Ciascuno di noi, salito la mattina sul ponte, prova una dolce, ed in pari tempo, melanconica emozione, e sorride ai compagni di viaggio nel dar loro il solito shake hands. Oramai non siamo più estranei gli uni agli altri. Le antipatie, se pure ve ne sono, svaniscono, un legame comune ci unisce, tutti si sospira e si desidera qualcosa. È Natale, e migliaia di leghe ci separano dai nostri cari e dai nostri tetti. I pensieri che in tal giorno s'involano come le rondini sotto questo cielo sfavillante, si comprendono, si sentono a vicenda, e vanno a portare un effluvio del nostro cuore a quei che sono laggiù, lontano, lontano. Il nostro palazzo galleggiante è oggi in festa, e fin da ieri sera la sala da pranzo non ha più l'aspetto giornaliero; le pitture che fregiavano i muri sono scomparse sotto le ghirlande d' agrifoglio, venuto d'Inghilterra; i larghi nastri di seta che corrono lungo la cornice, portano cartoni bianchi, con scritto sopra in caratteri cubitali: A happy Christmas (felice Natale). Ghirlande di fiori pendono dal soffitto; la tavola, fino dalla prima ora mattinale, ha preso proporzioni gigantesche, perchè al nostro Capitano è venuto il gentile pensiero di sopprimere le distanze sociali e confondere la prima colla seconda classe dei passeggieri, onde farli sfilare davanti al pudding monumentale che le cucine di bordo hanno manipolato. Alle 7 si è tutti in piedi davanti ai rispettivi posti, ed il Capitano, recitata una breve preghiera, mettendosi a sedere, ci saluta tutti con queste parole: A happy Christmas to you all, ladies and gentlemen.

Finito il pasto, si risale tutti sul ponte, dove è preparato un fuoco d'artifizio. Non si potrebbe immaginare nulla di più fantastico di questi fasci di razzi e di questa pioggia d'oro in una bella notte, sotto il tropico, in quel mare dai bagliori argentei, ove il nostro bastimento lascia dietro di sè una striscia luminosa. I marinari, con voce stentorea, prorompono in hourrah! pronunciando il nome di ognuna delle nazioni rappresentate a bordo da viaggiatori; hourrah formidabili che si perdono nell'immensa solitudine dell'oceano, e trovano un' eco nei nostri cuori.

Dopo i fuochi artificiali, s'improvvisa una festa da ballo in onore dei marinai e dei passeggieri della terza classe, ed il Capitano dà principio egli stesso alle danze. L'orchestra, composta di una fisarmonica a mano e di un trombone, combinazione originale e per certo nuova, si era collocata sotto un enorme ramo di vischio, sospeso con una corda al di sopra del ponte. Stesi sulle nostre poltrone, godevamo dell'allegria di quella brava gente, prendendo parte alle loro risa, ogniqualvolta la ballerina passava sotto il ramo fatale, ciò che in Inghilterra autorizza il furto di un bacio da parte del ballerino.

A mezzanotte regnava nuovamente a bordo la calma ed il silenzio. Quanto a noi, rimanemmo qualche tempo sul ponte, estatici e muti, a contemplare quel bel cielo ove ogni stella sembrava sorriderci e versare su noi un fascio di luce.

Non potevo decidermi a rientrare nella mia cabina. Più che mai in quella notte di Natale sentivo l'anima compresa di profonda riconoscenza verso Iddio che ci aveva protetti, me ed i miei, nel lungo viaggio attraverso i mari, e mi concedeva questo sentimento di riposo, di tranquillità e di speranza per quel che mi rimaneva a fare. La campana di bordo, che suonava le due, mi fece alzare dalla mia sedia. In quel momento un marinaio mi passava vicino: A happy Christmas to you and your dear ones (Buon Natale a voi ed ai vostri cari), gli dissi. Non potei resistere al desiderio di ripetere a lui l'augurio, col quale il nostro ottimo quartiermastro (nostromo) mi aveva accolta quella mattina.

A Vera-Cruz, mi attendeva una festosa accoglienza. Fui ricevuta, si può dire, dalla popolazione intera, preceduta dal Corpo municipale, che ebbe il gentile pensiero di farmi trovar pronto l'alloggio, ornato di fiori, e di quanto altro io potevo desiderare.

Il 31 dicembre cominciai le mie recite nella città di Messico; mi limiterò a dire che anche colà ebbi attestati della maggiore considerazione.

Nel ritorno per recarmi agli Stati Uniti, recitai a Puebla e a Vera-Cruz. Nel visitare per la seconda volta questa città fui maggiormente colpita dal lugubre suo aspetto. Non a caso fu chiamata da Cortes la Vera Croce, in memoria dei tanti suoi compagni caduti vittima del vomito nero e della febbre gialla, che vi allignano in modo desolante. Confesso che le mie inquietudini cessarono solamente mettendo piede sul battello francese «La Ville de Brest» che doveva portarci a New-York. Era il 17 febbraio; dalla sera prima, alle preoccupazioni del clima si aggiungeva per noi la prospettiva di una partenza difficilissima, giacchè si era levato un forte vento del nord (abituale e temuto in quei paraggi) che andava d'ora in ora crescendo in violenza. Diffatti all' indomani, l'aspetto del mare terribilmente infuriato giustificava ampiamente i nostri timori. Parecchi artisti con una parte dei nostri bagagli furono imbarcati la mattina per tempo. Ma il mare andava sempre più ingrossando, e quando venne il momento di recarci a bordo, giunti al molo, i barcaiuoli, mostrandoci le onde alte e minacciose che s'infrangevano contro gli scogli della riva, rifiutarono di trasportarci alla «Ville de Brest», che vedevamo ballare come un guscio in mezzo alla rada. Il semplice pregare non valse a nulla, e fu solo quando grandatamente arrivammo ad offrir loro 20 scudi per ogni lancia, che trovarono abbastanza coraggio per arrischiarsi a quel tragitto di tre quarti d'ora! Furono eterni, tanta era la trepidazione cui eravamo in preda per la tema d'annegare. Con un sospiro di sollievo ci arrampicammo sulla piccola scala del bastimento, tanto in fretta quanto ce lo permettevano i nostri vestiti, resi pesanti dalle ondate ricevute. Il Capitano aveva avuto la cortesia di ritardare per più d'un'ora la partenza, cosa inusitata per un piroscafo postale. Una gran parte però del nostro bagaglio non potè essere imbarcata, causa il rifiuto dei barcaiuoli di avventurarsi in mare con un grosso carico. Dovemmo rassegnarci a lasciarla colà fino al postale della seguente settimana, confidandoci nella nostra buona stella per trovare a New-York quanto ci fosse stato indispensabile, dacchè per gli obblighi assunti non si poteva ritardare la prima recita.

Finalmente partimmo, e mentre le prime rotazioni dell'elice ci allontanavano a poco a poco dalle terre messicane, che si andavano dileguando in un cielo grigio e triste, 150 Suore di carità, espulse dal governo, in ginocchio sul ponte, malgrado il rullio, il vento impetuoso e gli sprazzi delle onde, con canto religioso e mesto davano l'addio alle loro case, ai loro cari, alla patria, ove quelle sante donne non dovevano più prodigare i tesori della loro carità. A quel quadro così pietoso e solenne, che rappresentava tanti oscuri sagrifici, tante costanti abnegazioni verso un ideale purissimo, ognuno di noi si sentì profondamente commosso, e vidi poco lungi da me un marinaio con la mano ruvida e callosa asciugarsi una lagrima.

La traversata fino all'Avana, ove ci depose «La Ville de Brest», riuscì penosissima, nè il mare ci fu più benevolo dall'Avana a New-York, ove ci trasportò il «Crescent City». Sebbene questo piroscafo fosse nuovo e solido, la sua dimensione relativamente piccola, e le scosse vigorose cagionate dall'impeto delle onde, facevano sì che ad ogni momento scricchiolasse come se fosse rinchiuso in uno strettoio. Con vera soddisfazione ci trovammo infine sulla terraferma. Si giunse a New-York il 27 febbraio 1875.

Ma siccome noie e guai non mancan mai, per più giorni fui preoccupata fortemente della mancanza degli oggetti più necessari all produzioni, chè i vestiaristi di colà non erano fra i meglio provveduti! Tale inconveniente durò un mese, e tutte le volte che entravo in scena, il non trovarmi vestita colla precisione storica, ch'io solevo porre nei miei costumi, m'impediva d'identificarmi nella mia parte. La povertà del manto, a mo' d'esempio, inceppava i movimenti della mia persona. Perfino i piccoli accessori mi facevan difetto!… Finalmente coll'arrivo del nostro bagaglio uscii da simili pene!

Dal 27 febbraio fino alla nostra partenza per Sydney, rimanemmo negli Stati Uniti, trovandovi sempre le medesime gentilezze e le stesse prove di simpatia. Il mio giro artistico in America doveva aver termine a San Francisco, donde dovevamo imbarcarci per l'Australia. Disgraziatamente però gli ultimi giorni della nostra permanenza furono funestati da un luttuoso avvenimento.

Mio fratello Cesare, che io aveva sempre a compagno, fu colpito da una grande sventura. La povera sua moglie venne a mancare, dando alla luce il suo primo figlio!

Era impossibile abbandonare quel bambino fra le mani di una balia americana. La distanza, la difficoltà dei rapporti lo sconsigliavano. Come toglierci dall'imbarazzo? Come trovare una buona nutrice che volesse intraprendere così di subito un viaggio tanto importante? Ci venne suggerita un'idea che ci parve eccellente; comperare una capretta. Venuto il giorno dell' imbarco, la piccola nutrice a quattro zampe fu fatta segno di tutte le nostre premure, ma disgraziatamente il mare non fu altrettanto pietoso!!…

La partenza da San Francisco venne stabilita per il 21 gennaio 1875.

Avevamo preso il passaggio sopra il piroscafo City of Melbourne.

Dal Capitano che lo comandava, Mr Brown, ebbi l' avviso che la partenza doveva aver luogo alle 12, mentre l' Agenzia successivamente mi fece prevenire che era stabilita per le 2 pomeridiane. Dalla mattina tutto era pronto. Casse, bauli, panieri, ogni cosa venne spedita a bordo. Siccome in quei tempi, solo una volta al mese si effettuavano le partenze da San Francisco per l'Australia, per non correre il brutto rischio di dover attendere un altro mese, posi ogni cura a che tutto fosse allestito sollectamente per trovarci allo scalo all'ora indicataci dall'Agenzia. A mezzogiorno, accompagnata da mia figlia e dai domestici, mi avvicinai al molo, da cui si distava 20 minuti, ed ove poco dopo dovevano raggiungerci mio marito e mio figlio. Arrivata allo scalo, una folla di gente mi attendeva per augurarmi il buon viaggio; ma dai segni che mi facevano, compresi che qualche cosa d' insolito succedeva; ed infatti mi accennavano d'affrettarmi, chè il legno salpava, essendo trascorsa l'ora fissata dal Capitano. Quale sgomento non fu il mio! Chiedo se mio marito e mio figlio fossero giunti, ed alla risposta negativa che ne ebbi, recisamente rifiutai d'imbarcarmi! Il comandante, impazientito, ordina di levar l'àncora! Vane furono le suppliche di tutti i miei attori per rimuoverlo dal suo proposito! Era un vero lupo di mare! Ognuno può comprendere le angoscie mie in quel frangente! Alla fine, mio marito e mio figlio giunsero trafelati, già prevenuti di ciò che succedeva. Ma il Comandante, forse per punirci della nostra supposta inesattezza, diede ordine di eseguire una falsa manovra di partenza. Quando vedemmo retrocedere il piroscafo, ci si allargò il cuore.

In fretta e in furia, aiutati dagli amici e conoscenti, facemmo gettare sul ponte alla rinfusa i piccoli involti che avevamo a mano, ed in un baleno fummo a bordo, abbandonandoci sul primo sedile offertoci, affranti dalla commozione. Quello stato di prostrazione non m'impedì però di lanciare delle occhiate fulminanti al Comandante, che non voleva prestar punto fede alle nostre giustificazioni. Al primo uscire dal porto, fummo messi tutti fuori di combattimento. Trovammo mare grosso, e dovettero trasportarmi sul mio letto.

Mio fratello non essendo più in grado di accudire al povero suo bambino, senza esitare entra nella cabina ove mi trovavo con mia figlia, me lo depone fra le braccia e si precipita sul ponte. Il piccolo viaggiatore comincia a strillare, ad agitarsi. Io, per le sofferenze, ero ridotta all'impossibilità di provvedere. Per fortuna un'attrice della Compagnia che aveva di cuore accettato l'affettuoso incarico di vegliare unitamente alla mia cameriera sul povero piccino, corre in nostro aiuto, e lo porta nella stanza destinata alle signore, ove era stata preparata una piccola culla.

Dopo pochi giorni cominciarono nuove pene. L'interessante capretta, che fino a quel giorno aveva disimpegnato egregiamente l'ufficio di nutrice, in causa delle sofferenze del viaggio, perdette il latte. Comprenderà il lettore a quale sgomento si fosse in preda! Perfino i marinai se ne commossero! Chi correva a prendere del latte condensato… chi un farinaceo, che assicuravano essere un eccellente nutrimento… a udirli, ognuno di loro era un esperimentato padre di famiglia. Ci rimettemmo fra le mani della Provvidenza, e si lasciò fare. Dio mercè, al bambino fu tanto confacente quel modo di nutrizione, che potemmo portarlo a Sydney bello, grasso e rubicondo.

Per riprendere il filo della mia narrazione, dirò che per molti giorni tenni il broncio al nostro burbero Capitano, ma vista poi la perizia con cui ci guidava, e, direi anche, l'interesse che dimostrava portare particolarmente a me, alla mia famiglia, condonai molto alle sue rozze abitudini, e diventammo i migliori amici del mondo.

Il re d' Hawai in frack e cilindro.—Suo spirito e sua cortesia.—Nuova Zelanda ed Australia.—Termine del mio viaggio artistico intorno al mondo.—Irrequietudine d' artista.—Stocolma, la Venezia del Nord.— Scampo da un terribile pericolo.—La scolaresca d'Upsala.

Il 27 arrivammo a Honolulu, Isole Sandwich, ove si fece una sosta di 24 ore. Il console d'Italia, l'eccelente Mr Schaefer, venne a prenderci a bordo e ci condusse in un delizioso albergo con veranda, nascosto sotto la verdura di una vegetazione tropicale. Eravamo rapiti dallo spettacolo che ci si parava dinanzi, e pronti a seguire la nostra guida nelle amene campagne che circondavano la città. Dopo aver fatto toeletta, vedemmo venire Mr Schaefer che ci recava un invito del re Kalakaua per una colazione a Palazzo.

Eravamo lietissimi di poter vedere quel Re insulare in mezzo ad una Corte che credevamo trovare più o meno grottesca. Tutte le donne che avevamo incontrate in città erano vestite con una semplice tunica di tela variopinta, colla testa ornata di una corona di fiori quasi sempre gialli: esse galoppavano a cavalcioni sopra piccoli cavalli, ridendo sempre fra loro. Quanto agli uomini, lo stesso costume e la stessa gaiezza.

In attesa dell'ora nella quale dovevamo presentarci in palazzo, si fece una gita di poche ore alla valle di Paly, specie di imbuto profondo e dirupato, nel quale Kamehameha I, soprannominato il Napoleone del Pacifico, precipitò i vinti soldati dei principi delle vicine isole, e pervenne in tal modo a regnar solo in queste. Dopo otto giorni di tediosa navigazione, era per noi un incanto il percorrere quelle verdi e profumate campagne, veri gioielli di natura, ove le variopinte liane stendendosi da un albero all'altro, si intrecciano in graziose ghirlande fra i rami fronzuti, carichi d'aranci, di banane e di frutta d'ogni sorta.

Ma le ore scorrevano, e ci restava appena il tempo di rientrare in città per recarci al palazzo reale.

Sempre accompagnati dal gentile Console, facemmo il nostro ingresso in un bel giardino, dove ci aspettavano due aiutanti di campo, bei giovani biondi, con uniformi all'europea ricamate in argento. Essi c'introdussero, precedendoci, nel vestibolo semplicissimo della casa, tutta al pianterreno. Le porte del salone si aprirono; due servi in livrea celestrina con galloni d'argento sostennero le cortine, ed entrammo in una vasta camera, le cui mura erano coperte dai ritratti di tutti i Sovrani del mondo. Il nostro gran re Vittorio Emanuele dall'alto del suo quadro sembrava augurarci il ben venuti. A poco a poco, le speranze d'incontrare dei selvaggi se ne andavano in fumo! e quando S. M. Kalakaua si avanzò graziosamente stendendomi la mano, eravamo definitivamente disillusi. Il re, il cui viso era d'un colore leggermente bronzato, era di statura piuttosto alta; portava un soprabito e dei favoriti all' inglese. La sua fisonomia simpaticissima, il suo fare semplice e franco lo indicavano un perfetto gentiluomo. Il re ci parlava in puro inglese, e una delle prime sue domande fu per sapere se preferivamo il valzer a due o a tre tempi. Il lunch era servito, e prendemmo posto ad una tavola, dove il vasellame di Sèvres faceva risplendere l' argenteria del servizio. Per iscusare l'assenza della regina, il re si degnò dirci: She is in the woods (1) Essa è nei boschi.. Ecco la sola nota che potesse ricordarci il colore locale. La colazione fu squisita e la conversazione interessante; tanto più che, oltre il nostro Console, avevamo fra noi a commensale il giudice Allen, amabile vecchio, col quale avevamo fatto il viaggio da San Francisco in poi.

Terminata la colazione, il re mi offerse il suo braccio per scendere in giardino, ove fummo seguiti da tutta la comitiva. In quel giardino era situato un padiglione, e di là sentii intuonare i nostri inni nazionali. Non è a dire quanto mi commosse quella gentile attenzione. Come sono dolci, in lontane regioni, questi ricordi della patria!

Ci saremmo trattenuti più a lungo con S. M., se non avesse dovuto assistere al concerto che la signora De Murzka, cantante distinta e nostra compagna di viaggio, dava in quella sera. Fatta un po' di toeletta, ci affrettammo a recarci nella grande sala che serve agli svaghi degli abitanti di Honolulu. Stavamo per metterci ai nostri posti, quando il re, dando il braccio alla regina, ritornata dai boschi, venne ad assistere al concerto. La regina aveva fattezze aggradevoli, ma una tinta molto incerta. Portava un abito nero in coda; un largo nastro turchino le attraversava il petto. Il re indossava pantaloni neri attillati, stivaloni inverniciati; in mano teneva un frustino che agitava continuamente, stando seduto sulla sua poltrona dorata. Devo dire che i suoi cerimonieri e le dame d'onore, per la maggior parte ricordavano il puro tipo hawaiano. Vestivano il frack.

Finalmente, a mezzanotte, dopo una buona cena all'albergo, eravamo tornati a bordo e ci eravamo ritirati nelle nostre cabine, allorchè sentii battere alla mia porta, e mi trovai alla presenza di un aiutante di campo del re. Teneva in mano un pacchetto misterioso, avvolto in un gran fazzoletto rosso, che svolse fra le mani. S. M. si era ricordato della buona opinione che avevo esternata riguardo le frutta che ci erano state servite a colazione. Fra due cerimoya, trovai come carta da visita il ritratto di Kalakaua II colla sua firma. Vuotato il fazzoletto, l'aiutante di campo si affrettò di riprenderlo e si licenziò.

Ripartimmo il dì seguente. Per la durata di due giorni incontrammo sulla costa della Nuova Zelanda un mare così burrascoso, che il Comandante istesso ne era impensierito, causa la poca portata del piroscafo, capace di 800 tonnellate soltanto.

Dopo 22 giorni di penoso viaggio, arrivammo ad Auckland, nella Nuova Zelanda, dove scendemmo, e rimanemmo un giorno intero… Camminare senza traballare, sedersi ad una tavola coperta di candida biancheria (qualità di cui si defettava sulla nave!) avre pane fresco, vivande appetitose, e desinare tranquillamente, senza preoccuparsi se all'orizzonte spuntasse una nube o il sole si oscurasse, era tale soddisfazione che ci fece scordare i disagi e le pene sofferte.

Dopo una buona notte di riposo, si continuò il viaggio per Sydney. Quattro giorni dopo, arrivammo in quella magnifica baja.

La sera del 26 luglio, comparvi per la prima volta innanzi il pubblico di Sydney, che con molto rincrescimento abbandonai dopo un mese di continue ovazioni. Lasciai sulle deliziose colline di Porto Jackson degli amici, ai quali rinnovo l'espressione della mia viva riconoscenza.

Da Sydney passai a Melbourne, ove recitai per 34 sere, ottenendo i medesimi risultati di Sydney; quivi ritornai l'll ottobre per darvi le ultime recite d'addio. Adelaide doveva essere la nostra ultima stazione in quel delizioso paese.

Colla tragedia Maria Sturada, il 4 dicembre chiusi la serie delle mie 312 rappresentazioni. In questo giro artistico ho percorso—lo registro a titolo di curiosità—35283 miglia di mare; 8365 di terra. Sono rimasta 170 giorni in mare. Passai in ferrovia 17 giorni e otto ore. In una parola, partii da Roma il 15 aprile del 1874 e vi ritornai per la via delle Indie e Brindisi il 14 gennaio del 1876: il viaggio durò quindi 20 mesi e 19 giorni.

Confesso che, quantunque portassi meco un tesoro di soddisfazioni, pure mi sorrideva la prospettiva di un riposo che io credeva dovesse essere definitivo… ma che invece interruppi più e più volte in seguito!! Gustare la gioia di rimpatriare! Rivedere la propria casa… trovarsi nuovamente fra i parenti, gli amici… godere d'una libera volontà—piacere di cui tanto ero priva—rendermi utile con recite o concerti per opere di beneficenza, erano propositi che sembravano dovessero garantirmi di perdurare a lungo nel mio allontanamento dalla scena.

Ma quella febbre che infiamma l'artista, e contro la quale non si può lottare, mi condusse a privarmi nuovamente di quella quiete tanto desiderata. Infatti, nell' ottobre del 1878, mi recai ancora una volta in Spagna e in Portogallo per un nuovo giro artistico della durata di tre mesi, che ebbe fine in Italia. Nell'ottobre del 1879 giunsi in Danimarca, e soddisfattissima dell'accoglienza ivi ricevuta, vi ritornai nel successivo novembre.

Da Copenhaghen mi recai in Svezia. Feci un piacevolissimo soggiorno a Stocolma, giustamente denominata «La Venezia del Nord».

Di quali facili entusiasmi non trovai capace quel popolo!… e quale nobile ed elevato ingegno non possiede il re Oscar! egli è poeta e distinto cultore di musica. Ci rivelò ben tosto la finezza del suo spirito. Fra gli idiomi stranieri che gli sono famigliari, notai che si compiaceva conversare meco di preferenza nel mio.

Fra le innumerevoli prove di benevolenza che mi ebbi da lui, con orgoglio annovero quella datami nella sera di mia beneficiata.

Recitavo l'Elisabetta Regina d'Inghilterra, cui S. M. assisteva con la Corte. Terminato lo spettacolo, il re, accompagnato dai suoi figli, si recò nel mio camerino e dopo essersi espresso nei termini più gentili e lusinghieri, a prova della sua grande soddisfazione mi porse di sua mano una decorazione in oro, portante da un lato la divisa «Litteris et Artibus» dall'altro l'effigie di S. M. sormontata da una corona reale in diamanti.

Un avvenimento che poteva riuscirmi fatale occorse nel breve mio soggiorno in Svezia e Norvegia. Gli studenti di Upsala mi rivolsero calde preghiere affinchè dessi una rappresentazione in quella grande Università. Dopo ripetuti rifiuti finii per cedere alla tentazione di recitare dinanzi a quel pubblico giovine ed intelligente. Le rappresentazioni a Stocolma dovevano aver luogo nei giorni 24 e 25; ed a Guttemburg il 27. A rischio d'affrontare fattiche superiori alle mie forze, decisi di sacrificare il solo giorno di riposo che mi ero riservato. Decisi di recitare il 25 ad Upsala, ed il 26 a Stocolma. Presi un treno speciale e partii precipitosamente. Dopo lo spettacolo, fui accompagnata alla stazione da una folla immensa venuta per salutarmi; ascesi nel treno con mio marito e mio nipote, Giovanni Tessero, e quivi, stanca dalle fatiche e dalle emozioni della serata, mi addormentai placidamente. Il paese che dovevamo percorrere era intersecato da grossi canali accessibili ai bastimenti d'alto bordo; i ponti giranti, la cui manovra è affidata a cantonieri, permettono alternativamente il passaggio ai treni ed ai navigli. Verso l' una del mattino, fummo svegliati da una violenta scossa; ripetuti segnali, che poi seppi essere di allarme, si ripercuotevano nell'aria. Il treno si era fermato ad un tratto davanti un ponte girante aperto. Ci fu detto che eravamo scampati, quasi per prodigio, ad un grande pericolo.

Il telegramma che avvertiva il passaggio del nostro treno lo indicava per le 12 1/2. Il cantoniere lo interpretò per mezzogiorno e mezzo, perciò non ci attendeva. Aveva lasciato aperto il ponte dopo il passaggio d' un grosso bastimento, ed era andato a coricarsi! Se il macchinista, per prudenza o presentimento non avesse rallentata la velocità e fermato il treno, in pochi secondi saremmo precipitati in quell'abisso che stava spalancato a pochi metri di distanza da noi!

Per più di mezz'ora i segnali di soccorso riuscirono vani. Per fortuna un altro cantoniere, su cui Morfeo non aveva sparso a piene mani i suoi papaveri, intese i segnali, il ponte fu chiuso ed il treno potè proseguire il viaggio. Gli innumerevoli telegrammi di felicitazione che mi pervennero nei giorni seguenti, furono una nuova prova della simpatia di quelle popolazioni per me. Dal gentillissimo ministro italiano in Isvezia, conte La Tour, seppi che, la mattina dopo la nostra partenza, si era sparsa la voce a Stocolma, che il treno era caduto nel fiume!!

Ma per contrasto a questo lugubre ricordo ne registro un altro ben lieto.

Mi risuonano ancora all' orecchio quelle deliziose melodie svedesi cantate dalla gioventù d'Upsala sotto il balcone, dove gentilmente mi aveva situata il Governatore, uscendo dalla cena data in onor mio.

Il dì seguente, al momento di lasciare Upsala per ritornare a Stocolma, trovammo nella sala d' aspetto quei meravigliosi studenti coristi che mi attendevano. Ci accolsero intuonando un canto giulivo, seguito da molti altri, che a poco a poco divennero tristi! Entrati nel nostro vagone, quei bravi giovani si schierarono dinanzi a noi; e non appena si udì il fischio della locomotiva, essi intuonarono la celebre nenia nazionale chiamata «Polka di Necker» che Ambroise Thomas ha così abilmente innestato fra i tanti gioielli che racchiude l'atto della morte d'Ofelia in Amleto!

La neve cadeva a fiocchi!… il treno lento, lento si mosse… s' allontanò… mentre il suono di quelle melanconiche armonie andava spegnendosi in lontananza.

Recito Lady Macebeth ed Elisabetta d'Inghilterra in inglese,—Difficoltà incontrara per ottenere una buona pronuncia in questo idioma.—Ultima recita a Parigi.—Secondo giro artistico negli Stati Uniti.—Una recita con Edwin Booth.—Un' attrice italiana che parla in inglese con attori tedeschi!—I vagoni-appartamenti americani.—Addio al Lettore.

In Danimarca, in Isvezia ed in Norvegia trascorsi un mese, ricevendo ovunque le più calde accoglienze.

Mi portai nuovamente in questi Stati nel mese di ottobre del 1880. Discendendo verso il Sud, recitai per la prima volta a Monaco di Baviera, dandovi 4 serate che furono altrettante dimostrazioni della più schietta cordialità: quivi più che altrove, ebbi dagli attori tedeschi fraterna accoglienza.

Al terminare di quell'anno, decisi di non prendere ulteriori impegni, e di godere in Roma della tranquilla vita domestica; però presto potei avvedermi che l'inazione non si confaceva all'energia del mio temperamento.

L'artista è paragonabile al soldato. L'uno, inebbriato dai trionfi, desidera la lotta della scena, l'altro, pieno di gloria acquistata sul campo, non sa rassegnarsi alla pace.

Un giorno mi parve che frullasse di nuovo nella mia mente quella vaga idea, che per 7 anni era stata assopita in me! Ripresi come gradita occupazione lo studio dell'inglese. Mi vi dedicai con passione. A misura che le mie lezioni progredivano, con soddisfazione delia mia eccellente maestra, Miss Clayton, più si raffermava in me il proposito di riuscire ad ogni costo. Sfortunatamente la necessità dei viaggi estivi, e di tante altre cure, interrompevano per 6 mesi dell'anno il mio prediletto studio. Resa impaziente da questi indugi, risolsi di non mirare ad altro che a ben riuscire nell'acquistare quella facilità ed esattezza di pronuncia che la scena esige, poco curando d'impratichirmi e perfezionarmi nel conversare.

Con tenacità di proposito raggiunsi l'intento, ma quale studio minuzioso, perseverante dovetti impiegarvi!

Il grande Oratore greco, coi suoi sassolini in bocca, sulla riva del mare, fu egli più energico di me nel mio gabinetto da studio? Per appropriarmi quanto più fosse possibile il meccanismo della lingua, immaginai un metodo speciale. Mercè linee ascendenti e discendenti, sapevo su quale sillaba della parola dovessi alzare o smorzare la voce; mercè altre linee, ora curve ed ora convesse, conoscevo quando in una data sillaba dovesse la voce farsi cupa o sonora. Con alcuni dittonghi francesi riuscivo ad ottenere uno degli speciali suoni inglesi difficilissimi ad emettersi da gola italiana; talvolta al dittongo francese aggiungevo altra vocale, che accoppiata a quella dei dittonghi francesi eu ed ou, mi faceva riuscire a trovare la nota voluta e quella eufonia tanto necessaria ad ogni idioma.

Ma finalmente raggiunsi l'intento. Incoraggiata pure in questa contingenza dall'avviso di persone competenti, potei presentarmi sulle scene inglesi a recitare l'intera parte di Lady Macbeth, il 3 luglio 1882, al teatro Drury Lane. Ciò che provai in quella sera di orgasmo, di palpiti, non è a ridire, solo il fortunato risultato ottenuto potè far svanire ogni mia trepidazione.

Si venne da tutte le parti a felicitarmi nel mio camerino. Molti miei amici inglesi ebbero la franchezza di dirmi, ciò che del resto io sapeva benissimo, che non avevo potuto sbarazzarmi intieramente delle intonazioni italiane; ma vollero aggiungere che la melodia della nostra lingua dava una graziosa originalità alla mia riproduzione. Dopo una serie di rappresentazioni di Macbeth, detti il dramma Elisabetta Regina d'Inghilterra.

Nella prima recita, sebbene il pubblico fosse molto cortese, pure non rimasi certo soddisfatta di me stessa. Abituata, per tanti anni, agli attori italiani, i quali comprendevano l'interpretazione che si doveva dare ad ogni situazione, ad ogni controscena: preoccupata dalle difficoltà del dialogo interrotto di quel dramma tutto diverso dalla sostenuta recitazione di Lady Macbeth, mi trovava come disorientata. Per un momento mi sentii venir meno il coraggio! ma il sentimento dell'obbligo assunto, preodminò in me, e mi scosse. Procurai non udire, non vedere, e riuscii quella sera a terminare lo spettacolo con un risultato superiore alla mia aspettativa. Nelle susseguenti recite, tutto andò per il meglio. Con queste due produzioni, nei mesi di settembre, ottobre e novembre, feci un giro nelle provincie inglesi, con ottimi risultati. Tornata nella mia casa in Roma nel 1883, ebbi il piacere, durante l'inverno, di recitare più volte a scopo di beneficenza.

Nella seconda metà dello stesso anno percorsi nuovamente l'Inghilterra col mio repertorio inglese, aumentato di Maria Stuarda, e Maria Antonietta.

Durante il mio soggiorno colà, avevo sottoscritto un contratto per un lungo giro nell'America del Nord ove avrei dovuto recitare i drammi che erano stati meglio accolti nel Regno Unito. Ero di passaggio a Parigi, aspettando il momento della mia partenza per l'Havre, donde il St-Germain doveva partire il 18 ottobre, allorchè si venne a pregarmi di prender parte ad un rappresentazione, che doveva aver luogo il 15 ottobre al Teatro delle Nazioni, a beneficio dei colpiti dal colèra, ed a cui dovevano prender parte la Compagnia Francese ed alcuni grandi artisti lirici di passaggio per la capitale francese. I miei bauli erano già pronti o partiti; non avevo con me alcun attore italiano… nondimeno accettai con entusiasmo, perchè si trattava di soccorrere alle miserie francesi ed italiane.

Mio fratello Cesare, venuto a Parigi per dirmi addio, consentì a servirmi d'interlocutore, insieme ad una signora dilettante, lieta di farsi attrice per una serata di beneficenza. Potei così in qualche ora mettere insieme la scena del sonnambulismo di Macbeth che esige tre personaggi. Aggiunsi alla mia contribuzione il quinto canto dell'Inferno di Dante. Da molti anni non avevo più recitato a Parigi, e prima di lasciare l'Europa, provai una vera soddisfazione nel trovarmi ancora una volta in comunicazione con quel buon pubblico, che mi aveva procurate le mie prime gioie fuori d'Italia. Due giorni dopo, ero a bordo del Saint Germain, portando meco, per ricearmi durante la lunga traversata, i benevoli articoli di tutta la stampa francese, che mi ringraziava dell'ultimo mio saluto alla Francia.

Per la quarta volta mi recai agli Stati Uniti; sotto i più lieti auspicî, cominciai da Filadelfia una serie di rappresentazioni in varie città per la durata di sette mesi.

Col giorno 4 maggio del 1885 terminò il mio contratto. Prima di ritornare in patria, ebbi il piacere di rappresentare Macbeth, unitamente al rinomato attore Edwin Booth, il Talma degli Stati Uniti. Non potemmo dare che una sola recita a New-York, la sera del 7, all'Accademia di musica, e un'altra a Filadelfia. Ambedue riuscirono una vera solennità artistica, cui il pubblico accorse in folla straordinaria.

Dietro tali risultati, la Direzione della Compagnia tedesca, permanente al Teatro Talia in New-York, fece le più calde pratiche acciocchè recitassi, il 12 a sera, Maria Stuarda di Schiller, con i suoi artisti, parlando io in inglese, ed essi in tedesco!!

Sulle prime, mi pareva la proposta inaccettabile! Non conosco sillaba del loro idioma; però, lo confesso, questa nuova difficoltà mi tentava, mi solleticava… Riflettei che prestando molta attenzione alla espressione dei volti dei miei interlocutori, con una controscena analoga alla situazione, quando non dovevo parlare, forse avrei potuto riuscire a non confondermi.

Dopo breve esitazione, accettai l'offerta, e si vide allora in America questo strano avvenimento: un'attrice italiana che parlava inglese con attori tedeschi!

Nell'unica prova che feci con loro per concertarci ebbi cura di farmi ripetere le parole, che precedevano le mie risposte, ponendomi bene negli orecchi il loro suono. Per tal modo tutto procedè regolarmente; lo spettacolo riuscì applauditissimo, e—suprema illusione! —la maggior parte dell'uditorio usci dal teatro convinto che l'idioma tedesco mi fosse famigliare!

Il 23 maggio 1885, sbarcammo a Southampton. Prima di lasciare il Fulda, magnifico battello tedesco, volemmo mandare un affettuoso saluto al caro nostro paese: e facemmo un brindisi alla prosperità sua e dei nostri Sovrani Umberto e Margherita di Savoia che ne sono la gloria e la felicità. Molti distinti compagni di viaggio desiderarono unirsi a noi in quell'espansione patriottica.

Malgrado tutto eravamo felici di rivedere la nostra vecchia Europa e trovare la fine di un viaggio che per lo spazio di sette mesi mi fece visitare 62 città del Nuovo Mondo. Non saremmo riusciti a percorrere in si poco tempo queste distanze, se il genio industrioso che in America presiede a tutte le intraprese di locomozione, non fosse venuto in nostro soccorso. Esistono negli Stati Uniti delle Compagnie, le quali hanno per iscopo di affittare per settimane, o per mesi, dei vagoni-apparlamenti, che si attaccano successivamente ai treni per tutte le destinazioni (questi vagoni servono spesso a delle partite di piacere). Si evita così di soggiornare nei cattivi alberghi delle piccole città; non si è costretti d'aprire e chiudere i bauli in ogni stazione; si può vivere come in casa propria, tanto commodamente, come se si viaggiasse a bordo di un yacht. Tale metodo di locomozione è così bene infiltrato nelle abitudini americane, che tutto è organizzato nelle stazioni per le soste notturne e per l'approvigionamento dei viveri al mattino. Fu alla partenza da Filadelfia che prendemmo possesso della nostra casa ambulante. Nello spazio di 66 piedi inglesi avevamo: anticamera, salotto, due camere da letto coi rispettivi gabinetti di toletta, due stanze per servi, cucina, credenza, ed inoltre, sotto il vagone stesso, in guisa di cantine, vaste casse di ferro che custodivano le abbondanti provvigioni.

La nostra sala di ricevimento presentava una comodità particolare. Le tende erano formate da mezzeri di Genova. Avevamo pianoforte, biblioteca, ètagères piene d'ogni sorta di oggetti; fotografie ed anche piante da serra, che ci accompagnarono fino nei paesi più freddi. Avevamo affittato il nostro yacht roulant per cinque mesi. Spesso vi passavamo 15 giorni senza accorgerci delle distanze percorse; e quando nelle grandi città lo lasciavamo per andare all'albergo, lo si custodiva in una rimessa della stazione sotto la sorveglianza di due negri, destinati specialmente a tale servizio dalla Compagnia.

Non è senza rammarico che lasciammo sulla terra del Nuovo Mondo quella graziosa abitazione, mercè cui non avevamo provato fatica in un così lungo viaggio. Tali sono i principali avvenimenti della mia vita d'artista, che il cuore, guidato dalla memoria, mi ha dettati. Se, evocando i miei ricordi, ho dovuto far risuonare di nuovo gli applausi che mi furono accordati, gli è perchè ricordi e successi s'identificano gli uni cogli altri, e sopra tutto perchè, ricordandoli, provo un legittimo orgoglio, attribuendoli in gran parte agli omaggi che i pubblici d'oltre monte e d'oltre mare han reso in splendido modo all'arte italiana.

I miei lettori s'avvedranno che ho messo da parte ogni amor proprio d'autore, ogni pretesa di stile, ed ho lasciato a queste memorie l'impronta di quella spontaneità, che per tutta la mia vita è rimasta impressa nei miei atti, come nei miei pensieri.

Siccome vi è un dettato il quale insegna non esservi pagina che non contenga qualche cosa di buono, cosi nutro speranza che le vicende della mia vita, cominciata così modestamente, ed il cammino percorso, possano servire d'emulazione e d'esempio ai giovani, che, avendo una seria vocazione, si decidessero ad affrontare le difficoltà della carriera teatrale.

Ed ora, addio! Non ho più che un dovere da compiere, quello di stendere una mano amica ai miei fedeli compagni d'arte, così a quelli che mi hanno seguito a traverso i due mondi, come a quelli che hanno assistito e contribuito alle nostre vittorie.

Poichè lo scopo di questo mio lavoro è puramente artistico, e come tale non è mio compito fare delle dissertazioni nè discutere sopra le contrarie opinioni emesse nel decorso di quasi tre secoli da celebri autori sulla innocenza o colpevolezza della sventurata Maria Stuarda, dirò solo che mi parvero così chiare ed evidenti le persecuzioni esercitate su questa martire, che esse mi servirono di guida, ispirazione e misura per l'interpretazione di questo personaggio.

I fatti cui intendo alludere non fecero che rafforzare in me la convinzione che Maria Stuarda fu vittima della sua straordinaria bellezza, del fascino che esercitava, e della sua fervente fede cattolica; essa fu colpevole solo di alcune debolezze che in qualsiasi altra donna sarebbero rimaste inosservate, ma che si esagerarono da chi meditava la perdita di Maria Stuarda. Non si tenne conto nè dell'età sua giovanile, nè dei tempi in cui ella viveva; e di quelle apparenti leggerezze, i suoi persecutori fecero la base dell' edifizio spaventoso che doveva in appresso schiacciarla. È mia convinzione che i capi d'accusa, fonte a lei d'immensi dolori, e specialmente quello dell'uccisione del marito, vennero nell'interesse dei suoi persecutori alterati, svisati, ingigantiti e divulgati sotto mille aspetti ributtanti, e solo la bassezza, la malvagità, l'impostura cospirarono per la perdita dell'infelice Regina di Scozia.

È noto come, per porre Maria nell'assoluta impossibilità di sventare le perfide macchinazioni, fu tenuta prigioniera per il corso di 19 anni, durante i quali l'infelice più e più volte con lettere, proteste e suppliche strazianti chiedeva inutilmente le si accordasse di giustificarsi dinanzi ad Elisabetta ed al Parlamento delle perfide calunnie scagliate contro di lei… ma non fu mai esaudita!… prova evidente del timore che si nutriva che Maria riuscisse a convincere ognuno della sua innocenza.

Come poteva ella combattere? quali armi, quali resistenze opporre a tante forze collegate fra loro a suo danno, se la sua voce non fu mai ascoltata? se ogni appoggio le fu negato? se ad ogni passo si vedeva travolta nei più infernali raggiri? se di 44 anni di vita, 19 ne trascorse nella più umiliante e dolorosa prigionia? È fuori di dubbio, e moltissimi storici lo provano, che la condotta di quell'infelice principessa fu sempre irreprensibile dalla sua infanzia fino alla morte del conte Darnley. Può mai concepirsi che un essere qual era Maria Stuarda, gentile, colta, insinuante, dotata di tutte le qualità che rendono una donna sovranamente stimabile, abbia potuto ad un tratto rinunciare alle virtù per precipitarsi nell'abisso del vizio e commettere nequizie degne del più abbietto delinquente, quale vollero farla credere i suoi persecutori?

Queste considerazioni non fecero che accrescere la simpatia che il destino di quella sventurata Regina aveva sempre ispirato in me. Ed è perciò che allo studio di questo personaggio consacrai, oltre ai miei deboli mezzi, tutti gli slanci dell'anima mia, onde vigorosamente porre in rilievo la nobiltà dell'indole, la dignità della Sovrana vilipesa, la sofferenza della vittima oppressa e la rassegnazione della martire. A ciò m'indusse lo studio accurato che ho fatto del periodo storico in cui apparve e morì questa donna sventurata, all'esistenza della quale si collegano le investigazioni che ho pur fatte sul conto della regina Elisabetta.

Prima d'imprendere il mio studio artistico, credo non sarà discaro al lettore conoscere le circostanze nelle quali incominciai ad interpretare questo importantissimo lavoro.

Chi mai crederebbe che l' interpretazione di un personaggio così importante come è quello di Maria Stuarda di Schiller, si potesse affidare ad una giovinetta diciottenne, che per la prima volta assumeva le parti di prima attrice assoluta? Eppure così accade fra noi.

Se un Direttore di una Compagnia drammatica da noi chiamato capo-comico, scrittura un' attrice che egli crede atta, sia per la sua presenza, sia per valore drammatico, a sostenere le parti di prima attrice, poco si cura che l'aspetto sia in disaccordo coll'età del personaggio che deve rappresentare.

Terminato il mio contratto con la Reale Compagnia Sarda, passai (lo accennai nelle mie Memorie) quale prima attrice assoluta in quella di Romualdo Mascherpa, al servizio della Duchessa di Parma, Maria Luigia.

Sebbene gli studi fatti per 3 anni nella Reale Compagnia mi avessero resa esperta sulla scena, pure le parti di prima attrice che mi si affidavano non erano adatte alla mia giovinezza.

Quando mio padre mi scritturò col Mascherpa, considerò che allora di rado si recitavano tragedie dalle Compagnie girovaghe, e quindi non correvo il rischio di assumere un impegno ed una responsabilità superiori alle mie forze. Invece, senza riguardi alla mia giovinezza ed alla poca esperienza che naturalmente dovevo avere, il mio capo-comico mi assegnò subito ciò che di più serio, importante e difficile si potrebbe affidare ad una provetta prima attrice.

Il Mascherpa era un eccellente vecchio tagliato all'antica, ma non un'aquila in fatto d'intelligenza artistica. Egli sapeva essere nel suo diritto l' affidarmi tutte le parti per le quali mi aveva scritturata… per conseguenza io dovevo saperle rappresentare.

Cominciò ad affidarmene delle importantissime, tali che, sebbene in allora il repertorio di una Compagnia drammatica fosse pari a quello delle altre, pure la mia maestra Carlotta Marchionni, per non essere più in età fresca, le aveva abbandonate, o mai aveva avuto occasione di recitarle, cosicchè neppure m' era dato imitarla. Quando mi si diede a studiare la parte di Maria Stuarda (ciò accadde nella città di Trento), io mi credetti perduta! nè valevano ad incoraggiarmi il crescente favore del pubblico, ch'io attribuiva in gran parte alle forme esteriori ed alla giovinezza, nè gl'incoraggiamenti degli amici e parenti valsero a rassicurarmi. Pure, non potendo mancare agli obblighi assunti, dovetti rassegnarmi, raccomandandomi però a tutti i miei santi protettori per la buona riuscita dell'esperimento. Col massimo zelo e senza frapporre indugi, non solo mi diedi ad imparare i bei versi di Andrea Maffei, ma, per immedesimarmi sempre più nel personaggio, lessi anche un sunto della storia relativa all'infelice regina.

Poco tempo avevo dinanzi a me per tal còmpito. Di più dovevo anche occuparmi del mio costume. Avevo bensì durante gli anni passati nella Reale Compagnia Sarda recitata qualche parte in tragedia, ma non mai dell' importanza di questa. Mi si diceva, è vero, che dimostravo attitudine a quel genere di recitazione, ma mi si aggiungeva che bisognava mi formassi collo studio e coll'esercizio: non aveva però mai creduto di dover iniziare questo tirocinio con un esperimento di tal fatta.

La notte che precedette la prima rappresentazione, come ognuno può pensare, non chiusi occhio. Parevami aver la febbre… sentirmi inferiore alla difficile prova!… Sembravami trovarmi già innanzi al pubblico che di quando in quando mormorasse per la mia incapacità… Tutti quegli occhi che vedevo fissi su di me, mi sembravano lame acuminate che mi torturassero. Se per un istante potevo abbandonarmi al sonno, le visioni più strane e più penose mi apparivano. Nell'incubo opprimente, parevami udir mormorare da ogni lato: Poverina, non potrà mai essere all'altezza di sì gran compito! E la tela calava lenta lenta, in mezzo al silenzio generale, dacchè neppure una mano amica osava applaudirmi. Allora sentivo il cuore battermi forte, forte; grosse goccie di sudore scorrevano sulla mia fronte. La cara mamma, sempre buona e carezzevole, venne a svegliarmi da quel sonno agitato. La luce del sole dissipò le tristi idee ed intieramente cessò l'orgasmo al quale ero in preda.

La temuta sera della recita giunse! Al pubblico era nota la mia trepidazione, esso conosceva gli sforzi che avevo dovuto fare, ed era disposto a tenerne conto. Al mio presentarmi s'avvide della cura che avevo posta nello studio di quel personaggio, studio che, secondo le usanze d'Italia, specialmente d'allora e delle compagnie girovaghe, si faceva a vapore!

Il mio portamento, il costume che indossavo, l'acconciatura rigorosamente storica, l'ovale e la pallidezza del mio viso (dovuta in gran parte all'orgasmo che tutta m'invadeva), i miei biondi capelli, l'insieme infine, che ricordava molti tratti di quell'infelice Regina, mi guadagnarono prontamente la simpatia del pubblico che con un prolungato applauso mi rincorò ben presto, rendendomi certa della sua indulgenza.

Feci il meglio che per me si potesse, e l'uditorio, specialmente dopo il 3°ree; atto, che è il culminante della produzione, calata la tela, mi chiamò al proscenio più volte, e le esclamazioni più lusinghiere mi vennero ripetute da ogni parte. Parevami di essere divenuta la conquistatrice del mondo, e mi tenevo sicura che il mio capo-comico sarebbe stato orgoglioso di me, e si sarebbe affrettato ad incoraggiarmi, esprimendomi la sua grande soddisfazione per la buona riuscita di quell'esperimento.

Pensi il lettore come rimanessi allorchè scorgendolo gli dissi con vanità infantile: Spero sarà rimasto contento di me!—ed il buon vecchio, stringendosi le spalle, inarcando le ciglia e facendo un mezzo sorriso d'indulgenza, mi rispose: Senti, mia cara bambina, tu hai una tendenza marcatissima per la commedia; ma la tragedia… lascia ch'io te lo dica… non è per te, per cui ti consiglio d'abbandonarla completamente. (È ben vero che io ero molto portata per la commedia, ma… credo… che… in seguito abbia cercato farmi onore anche colla tragedia!) All' udire le parole del capo-comico rimasi di sasso! Certamente non aveva interpretata allora quella parte come dopo gli accurati, profondi studi che ne feci in appresso; pure mi pareva di non meritare quello scoraggiante consiglio.

Effettivamente allora mi persuasi di quale importanza fosse l'espressione del volto, il contegno ed il portamento che dovevo avere al presentarmi sulla scena sotto le vesti di quella regina. Il mio viso doveva portare l'impronta della donna in cui le torture e le persecuzioni non avevano potuto spegnere quella forza d'animo colla quale sopportò il martirio infittole da Dio, nella seconda metà della sua esistenza.

Di ciò compresa, senza menomamente scompormi, con aspetto paziente e rassegnato, ascoltavo annunziarmi dalla fedele Anna Kannedy come Paulet avesse brutalmente forzato il mio scrigno, manomessi e toltone fogli, gioielli e perfino la corona di Francia che Maria Stuarda conservava gelosamente come ricordo di passata grandezza; anzi per provare che la vanità terrena, non poteva più su di lei, la regina diceva:

Un ornamento La reina non forma—Anna ti calma. Pôn far di noi vilissimo governo, Avvilirne, non mai! Troppo, o mia cara, A soffrir m'avezzaro in Inghilterra Per dolermi di questo!

Poi, dirigendomi a Paulet, calma e dignitosa davo luogo alla breve scena che avevo con lui; ed allo sdegno di Anna che a stento sopportava di vedermi trattata dal mio crudo carceriere con tanta rozzezza, io opponeva un'angelica pazienza. Solo per la profonda convinzione che nutrivo dell'innocenza della Stuarda, con poco colorito dicevo i versi nei quali lo Schiller fa che Maria s' accusi di complicità nell' uccisione di Darnley (si vede ch'egli era tratto in errore dagli storici Hume e Buchanan, avversi a Maria Stuarda). Nella scena di Maria con Mortimero, di tratto in tratto dimostravo come un raggio di speranza fosse venuto ad irradiare le tenebre della mia cupa esistenza, facendo brillare ai miei occhi la possibile mia liberazione. Ma rivolgendo lo sguardo intorno a me, la vista delle tetre mura che mi circondavano, la considerazione della mia miseria, faceva svanire quel baleno di luce che per poco, penetrandomi nell'anima, mi aveva sedotta.

Con Mortimero il mio cuore si apriva con abbandono, scorgendo in lui l'angelo consolatore mandatomi da Dio per liberarmi. Nella scena susseguente invece ben diverso era il mio contegno alla vista del perfido Cecil Burleigh, ministro e perverso consigliere di Elisabetta.

All'avvicinarsi di lui seguito da Paulet, riprendevo tutta l'alterezza del mio grado per confondere ed abbassare la petulanza dei miei persecutori. Udendomi accusare da Cecil, con tuono insolente, di complicità nella congiura di Babington e di ribellione alle leggi d'Inghilterra, assumendo tutta la giusta alterezza della regina offesa, della donna calunniata, della straniera oppressa, rispondevo:

Ogni accusato giudicar si debbe Da giurati suoi pari. Or chi di voi È mio pari? Nessuno. Io non conosco Altri pari che i re.

(Storiche parole). E dicendomi Burleigh che io avevo già ascoltate le accuse in giudizio, che vivevo sotto il cielo britanno e ne respiravo l'aria; che mi trovavo sotto la protezione delle leggi britanne, e quindi dovevo rispettarne i decreti; mi rivolgevo repentinamente a lui, fissandolo con irato cipiglio, e dicendo con sorriso beffardo:

Io l'aria spiro D'un carcere britanno! È forse questo Un fruir delle leggi d'Inghilterra? Appena io le conosco, e sottopormi Non potrei, volontaria, al loro impero. Io non nacqui britanna, una reina Liberissima io sono, una reina Di straniere contrade.

Continuando con lo stesso tuono, ribattevo una ad una tutte le incalzanti e false accuse ch'egli mi scagliava. Ma finalmente, avvedendomi che inutili erano le giuste ragioni da me espresse per scolparmi e provare la mia innocenza, con voce che tradiva l'emozione, a studio fino allora repressa, dicevo:

Io sono L'inerme, essa è la forte! or via, si valga Del suo poter! mi sveni e sull'altare Del timor l'innocente ostia trafigga. Così palesi che la forza adopra, Non la giustizia.

L'autore protrae a studio questa scena per dare a divedere la tensione a cui era in preda l'anima della Stuarda. Interpretandone da questo punto di vista l'esecuzione, seguivo con l'accento, collo sguardo, lo svolgimento della scena finchè la piena dell'amarezza traboccava colle parole:

Delle sante leggi Non invochi la spada a tôr dal mondo La temuta rivale, all'ardimento Della crudele prepotenza strappi Questo manto onorato e non inganni Colle sue menzognere arti la terra.

Quindi, dando pieno, assoluto sfogo alla mia indignazione, rivolta con espressione di sprezzo a coloro che sembravano avidi di umiliare la mia potenza reale, dicevo:

Uccidermi ella può, non giudicarmi! Cessi omai di velar colla mentita Larva della virtù, gl'iniqui frutti Del suo delitto. E qual è veramente, Tale ardisca mostrarsi al mondo intero.

Così, il lettore potrà immaginare, più che io possa esprimere, con quale sguardo fulminavo Burleigh, allontanandomi rapidamente dalla scena.

Nell'atto 3°ree; è evidentemente dimostrato come anche un'anima nobile, elevata, piena di fede religiosa, avvezza ai dolori e rassegnata ad ogni colpo della sorte, possa obliarsi, mancare a se stessa, trasformarsi, allorchè l'insolenza e la perversità oltrepassano il colmo dell'umana pazienza.

Seguìta dalla fida Anna, entravo in scena con passo frettoloso, raggiante di gioia, inebriandomi dell'aria refrigerante che respiravo in quel parco e che, accarezzandomi il viso, dava al mio corpo abbattuto nuovo vigore.

Immedesimata della situazione, volendo indurre nella stessa commozione lo spettatore, facevo apparire l'allegrezza di cui ero momentaneamente invasa, quale desolante amaro contrasto alle pene atroci in cui la Stuarda in quell'ora era assoggettata. E per provare la ragionevolezza e la verità di questa interpretazione, basterà seguirmi col pensiero nella declamazione dei seguenti versi:

Lascia ch'io mi ricrei di questa nuova Libertà! E tu m'imita. Lascia, che le veloci orme fuggenti Esercitando io mova Per la molle de' prati erba fiorita. Son'io dall'ombre uscita Dell'antica prigion? Nè la profonda Fossa del mio dolor più mi circonda! Oh, ch'io disseti l'affannata lena Nell'aperta de' cieli aura serena! O verdi amiche piante, io vi ringrazio! Voi colla fronda oscura Celate o pie, le mura Del mio carcere amaro! Io vo' sognarmi E libera e beata: Perchè la dolce illusïon rubarmi? L'interminato spazio Del Ciel non mi s'aggira Lietissimo d'intorno? E la veduta, Da vincoli disciolta e da ritegni, Per lo spazio del Ciel non va perduta? Colà dove s'innalza e si dilata Il ceruleo vapor della montagna Confinano i miei regni, E quelle nubi che il meriggio attira Cercano «l'Ocean» che Francia bagna. O nugolette rapide e leggere Peregrine dell'aria! Oh potess'io Con voi venirne per lo Ciel a volo! Salutate cortesi in nome mio Il benedetto suolo Dalla mia prima gioventù felice! Io son prigione, io son posta in catene, E non ho che voi sole a messaggere! L'immense aure serene Voi libere scorrete, Nè di questa inumana usurpatrice Sotto la cruda tirannia gemete.

Ma tanta dolcezza, tanto abbandono dell'anima dovevano ben tosto dar luogo alle più terribili emozioni. All'annunzio dell'abboccamento accordatomi da Elisabetta (sebbene del tutto maestrevolmente immaginato dal genio drammatico di Schiller, e che forma la parte culminante di questo atto), io mi mutavo tutta d'aspetto, tremavo, volevo ad ogni costo allontanarmi, e nulla descriveva più al vero il misero mio stato, dei seguenti versi coi quali rispondevo alle parole affettuose di Talbot, che ogni via tentava per persuadermi ad abboccarmi colla rivale:

Io stessa, o Talbo, L'ho sospirato! In lunghi anni disposta Mi vi sono, e nel core, e nella mente Ho cercata, ho scolpita ogni parola Che piegarla potesse, intenerirla! Tutto in quest'ora è cancellato e spento, Nè vive in me che il sovvenir crudele Delle ingiuste mie pene! Un'efferata Rabbia il cor mi divora, e lo solleva Contra costei. Mi sfuggono in un punto Tutti i buoni pensieri, e le infernali Furie, agitando le viperee chiome, Sole, al fianco mi stanno.

Quindi, penetrata dalle persuasive parole e dai consigli affettuosi di Talbot, acciò mi abboccassi con Elisabetta, con animo più pacato, ma pieno di profonda tristezza, dicevo:

Ah non dovevamo unqua vederci. Nessun utile, o Talbo, io ne presento.

Turbata pel timore di vedermi dinanzi anche Burleigh, mio acerrimo nemico, allorchè venivo a sapere che solo Leicester accompagnava Elisabetta, ripetevo quel nome con un grido di gioia. All'arrivo della regina Elisabetta, mi rifugiavo frettolosamente in fondo alla scena, celandomi fra le piante, rimanendo però in osservazione onde scrutare il volto della mia persecutrice. Dopo di ciò, udite le parole che Elisabetta, fingendo dirigerle al suo seguito, pronunziava con vanità ampollosa allo scopo evidente di far conoscere all'infelice prigioniera l' amore che il suo popolo risentiva per lei, con somma tristezza dicevo:

Oh Dio! da quel sembiante il cor non parla!

Frattanto, Anna e Talbot, coi più supplichevoli cenni, m'incoraggiavano ad avvicinarmi, a prostrarmi ai piedi d'Elisabetta—al che io tentavo opporre viva resistenza. Però, cedendo infine alle loro incalzanti preghiere, con evidente sforzo, con passo stentato, mi accostavo alla regina, per inginocchiarmi dinanzi a lei, lasciando chiaramente scorgere quanto costasse alla mia dignità il compiere quell'atto.

Ma non ancora il mio ginocchio aveva toccato il suolo, che il rispetto di me stessa, insofferente di tale umiliazione, mi faceva indietreggiare prontamente con raccapriccio, come se dicessi: «No, non posso» e cadevo nelle braccia di Anna. Questa, ponendosi in ginocchio, mostrava supplicarmi a non persistere nel mio rifiuto, facendo appello alla mia fede religiosa, ed alla forza delle circostanze.

Allora, superando me stessa, rialzavo con affetto la fida nutrice, dimostravo lo sforzo sopranaturale che facevo per acconsentire a quanto ella mi domandava, e sospirando profondamente, dicevo:

I sia! Vo' sottopormi All'estrema vergogna.

Poscia con un'intuonazione di voce consentanea al senso dei seguenti versi, aggiungeva:

Esci dal petto O dell'anime eccelse e generose Impotente alterezza. Io più non voglio Rammentarmi chi sono e che soffersi; Io voglio umilïarmi a chi di tanto Obbrobrio mi coprì.

Dopo tanta virtù di rassegnazione, alzavo lo sguardo al cielo, mi premevo contro il cuore il crocifisso appeso al rosario che mi scendeva dal fianco, offrivo a Dio il sacrificio che ero pronta a fare della mia dignità, e raccogliendomi pochi istanti, come invocassi da Dio d'infondermi forza e coraggio, con voce ferma e tuono pacato dicevo ad Elisabetta:

Iddio, sorella, Per te decise, e di vittoria ha cinto Il felice tuo capo.

Poi, arrestandomi ad un tratto, esprimevo con marcata esitanza quanto grave fosse per me inorgoglire nuovamente la mia implacabile nemica abbassandomi davanti a lei alla presenza dei suoi cortigiani; ma per ispirazione istantanea, inginocchiandomi con slancio dicevo:

Il nume adoro, che t'innalzò.

È chiaro, che l' autore, in questo felicissimo passaggio, vuoi denotare al pubblico che non ad Elisabetta, ma all'Ente Supremo, Maria si umiliava.

Dopo breve pausa, con intuonazione di voce supplichevole, riprendevo:

Ma tu pietosa e grande nel trionfo Ti mostra e non lasciarmi D'obbrobrio ricoperta. Apri le braccia, Stendi, clemente, la regal tua destra E mi rialza dalla gran caduta.

Ad un cenno di degnazione regale di Elisabetta mi alzavo sospirando tristamente. Poscia in tuono sommesso e rassegnato, allorchè dovevo rispondere alle accuse di lei, enumeravo prima la sequela delle ingiustizie patite; chiamavo in testimonio Iddio d'essere costretta ad accusarla mio malgrado; le dimostravo com'ella non fosse stata con me nè pietosa, nè giusta; che, sebbene fossi sua pari, ella, calpestando i diritti delle genti e dell'ospitalità, nè tenendo conto del soccorso a lei implorato, m' aveva chiusa vivente in un sepolcro, m' aveva tolti gli amici ed i servi, e, per colmo d'ignominia, trascinata davanti a insolenti tribunali… Poi, dietro un atto di risentimento che Elisabetta doveva farmi in questo punto, cambiavo totalmente il linguaggio, che, involontariamente, a poco a poco erasi inasprito, e soggiungevo:

Ma non più del passato. A fronte or siamo; Manifesta il tuo cor! dimmi le colpe Di che rea mi ti feci. Io pienamente Satisfarti desio.

Ma l'inumana Elisabetta non si rattiene, dal dire a Maria:

Non il fato innocente, il tuo perverso Animo accusa. La sfrenata, accusa, Ambizion di tua casa. Ancor fra noi Lite non era allora che il tuo degno Congiunto, quel feroce ebbro vegliardo (1) Pio V. Che stende a tutti i troni invereconda Man temeraria, la sfida m'indisse, L'ardimento ti diè di attribuirti I regali miei titoli e lo stemma…

Maria, udendo il dispregio col quale Elisabetta parlava del Pontefice, e le attribuiva colpe che mai ella aveva avute, congiure alle quali non aveva mai partecipato, si rivolge al cielo dicendo:

Sono in braccio di Dio!

poscia, indirizzandosi ad Elisabetta:

—Ma tu non puoi Con un'opra di sangue, apertamente Soverchiar la tua possa. —E chi potrebbe Impedirmi dal farlo?

risponde quella in tuono arrogante.

Non uno dei passaggi di questa scena magistrale era da me trascurato per far comprendere lo strazio ch'io subivo onde sopportare l'indegno procedere di Elisabetta, ora implorando col gesto l'aiuto del Cielo, ora chiedendo collo sguardo un conforto da Talbot, cui facevo giudice delle ingiuste provocazioni della mia rivale. Però l'anima mia era in procinto di ribellarsi quand'ella mi diceva velenosamente:

Omai secura Non mi fa che il poter. Nessun accordo Colla razza de' serpi.

A tali parole simulavo di sentirmi ad un tratto mancare, barcollavo… Anna e Talbot prontamente correvano a soccorrermi, ma con gesti espressivi affabilmente il ringraziavo, pregandoli ad allontanarsi, denotando che mi ero riavuta dalla prostrazione da cui per un momento ero stata assalita. Ma convinta dal tuono aspro, beffardo, insolente con cui Elisabetta proseguiva, esser vano sperare ch'ella riconoscerebbe nonchè la mia innocenza, la legittimità dei miei diritti, persuadendomi che mi era giocoforza rinunziarvi per sempre, lentamente rivolgevo il capo dal suo lato, e con un lungo penetrante sguardo, accompagnato da un leggero ironico sorriso, intendevo voler esprimere:

«Tu vilmente abusi del potere che dà la forza sull'inerme!» ed un impeto di rivolta contro il mio perverso destino, mi spingeva a chiedere a Dio, con espressione amara, se mi fossi meritata tanta sciagura! Però subentrando tosto nell'animo mio il sentimento religioso, chiedeva al Signore perdono di quel mio ribelle trasporto, e, sospirando, chinavo il capo rassegnato come creatura che cede ad una forza inelutta bile, offrendo a Dio il martirio a cui è condannata. Con visibile sforzo quindi, ma dignitosamente, riprendevo:

Tranquillissima regna! Ogni diritto Sul tuo scettro abbandono! Omai tarpate Al mio spirto son l'ali, e la grandezza Più non m'alletta. Tu la tieni; ed io Non son che l'ombra di Maria. Domato Nella vergogna delle mie catene, È l'antico ardimento! In me l'estremo Di tue prove facesti. Hai nel suo fiore La mia vita distrutta. Or poni modo! Pronuncia la magnanima parola, Per cui venisti a me; che non poss'io Crederti qui venuta all'empia gioia D'insultar la tua vittima! Pronuncia Questa parola sospirata, e dimmi Sei libera, o Maria! Di me provasti Sol la potenza: la grandezza or prova

ed addentrandomi nel concetto del poeta che ha anatomizzato il carattere di quella creatura infelice, ho interpretato il rapido passaggio dal risentito al patetico, quasi che l'umile intuonazione della parola fosse l'espressione della speranza fugace di poter commuovere la rivale a pietà. E perciò pronunciavo con tuono immensamente affettuoso:

O Sorella

nella speranza di poter commuovere il suo cuore.

Ma siccome il carattere di Elisabetta, secondo l'intenzione del poeta e l'esigenze della storia, non doveva mai essere smentito, all'invocazione affettuosa di Maria, la regina assumendo un aspetto sprezzante, fissa la vittima, con sguardo glaciale. Pel che questa prorompe:

Non per tutta Albion, non per le immense Terre che abbraccia l'Ocean profondo, Io vorrei presentarmi inesorata Al tuo sembiante come al mio tu stai!

Questa giusta e naturale commozione, lungi dallo scuotere Elisabetta, non fa che maggiormente accrescere la sua jattanza, e farle maggiormente sfogare l'avversione che nutre per Maria. Senza ritegno o considerazione al grado, all'avvilimento dell'opressa rivale, con feroce soddisfazione la investe e quasi per ricordatle il prestigo perduto, le domanda:

Più sicarii non hai. Non ti rimane Un solo avventurier che in tua difesa Imprenda coraggioso i tristi uffici D'errante cavaliero?

Perciò beffardamente la compiange; deplora il di lei fascino svanito; e per terminare di torturarle il cuore, col più alto disprezzo le dice:

Invan tu cerchi Ne' presenti Britanni il quarto sposo Perchè non men che gli amatori tuoi, I mariti tu sveni.

A tale basso oltraggio una fiamma mi saliva al viso, e stavo per scagliarmi contro di lei dicendo:

Oh Dio!… Soessa!…

ma prontamente Talbot ed Anna correvano a me per trattenermi e per calmarmi; allora fatto uno sforzo sovrumano per contenermi, convulsivamente e rapidamente premevo il mio rosario contro al cuore, esclamando:

Oh Dio, m'ispira sofferenza.

Era il predominio del sentimento religioso che quasi d'improvviso veniva a cambiare la situazione. Per mantenere poi sempre vivo il contrasto, Elisabetta mi contemplava con sovrano disprezzo, deridendo Leicester per aver egli costantemente proclamato non potersi vedere impunemente Maria, senza esserne accesi, che per bellezza non potevasi paragonarle veruna altra donna in terra; e per porre il colmo alla sua perfidia, con procace sorriso, diceva:

Altro non costa Il suon di bella universal che il farsi A tutti universale!…

A sì turpe oltraggio l' ira mia a lungo compressa, impetuosamente trabocca io grido:

Ah! questo è troppo.

Nè pago sentendosi pienamente il perfido animo di Elisabetta, con accento infernale, ella soggiungeva:

Or sì ti ostro, nel tuo vero aspetto, Finor non eri che una larva.

A questo punto fingevo di voler parlare, ma che me lo impedisse l'eccesso del furore, che aveva scolorato il mio viso e posta in tremito le persona. Quindi stentatamente, e con voce soffocata, interrotta, davo principio all'invettiva:

Umano Fu l'error che mi vinse in giovinezza; Mi tradi la potenza… Io… no 'l copersi, Io… no'l mentii… Con nobile alterigia Sdegnai le tenebrose arti de' vili.

Quindi, cominciando ad animarmi e mostrando di sfogare l'astio lungamente rattenuto in petto, e bramando di rendere insulto per insulto a colei che tanto vituperata mi aveva, alla presenza d'ognuno, riprendevo:

Il peggio è di me noto, e dir mi posso Di mia fama miglior.

Quindi accostandomi a lei soggiungevo:

Te sciagurata, Se cade un giorno l'onorata veste Di cui ricopri, iporita maligna, L'oscena tresca, de' tuoi sozzi amori!

ed indicavo il parossismo del furore giunto al colmo quando con voce potente e sguardo infuocato gridavo:

Figlia di Anna Bolena, ereditata L'onestà tu non hai! Note già sono Quelle caste virtù che sotto il ceppo L'adultera tua madre hanno tradotto!

e rimanevo immobile, fulminando Elisabetta collo sguardo e facendo comprendere che mi sentivo all'apice della gioia per avere alla mia volta umilita la mia nemica. Elisabetta, mortalmente ferita dalla mia oltracotanza, doveva lanciare lampi fulminei verso me; Leicester e Paulet correvano a lei onde tentare di disarmare la sua collera, mentre Talbot ed Anna spaventati, si avanzavano verso di me; il primo coll'autorità che gli accordavano l'età, e la devozione per me nutrita da tanti anni, prorompeva nei seguenti rimproveri:

Questa è, o Maria, la sofferenza? Questa L'umiltà?

al che, fuori di me rispondevo:

Sofferenza? Io tollerai Quanto può tollerar petto mortale! Via codarda umiltà! Via, dal mio core, O conculeata pazïenza. Infrangi Le tue catene e dall'abisso irrompi, O lungamente rattenuto sdegno! E tu che desti all'irritato serpe Uno sguardo omicida, arma il mio labbro Di venefici strali e il cor m'infiamma.

Frattanto ognuno affrettavasi ad attorniare Elisabetta onde persuaderla ad allontanarsi… io fremendo e cercando avidamente nella mia mente un insulto più terribile di quelli già fino allora a lei scagliati, tornavo ad affrontarlo, e rotto ogni freno, gridavo:

Il trono d'Inghilterra è profanato Da una bastarda! il popolo britanno Da una mima è ingannato! Ove il buou dritto Regnasse, tu saresti or nella polve Stesa a' miei piedi, chè tuo re son io.

e rimanevo in atto minaccioso.

A tale eccesso Elisabetta, svincolandosi da Talbot e da Leicester che procuravano trattenerla, tenta scagliarsi su di me, ma con l'imponenza della maestà oltraggiata, le accennavo imperiosamente di partire, ciò che Elisabetta faceva nel massimo furore, strappata quasi a forza dai suoi cortigiani. A mano a mano che la vedevo allontanarsi, e sentivo che mia era la vittoria, afferrando la mano di Anna con trasporto di gioia per la vendetta ottenuta, scendendo fino al limitare della scena, dicevo:

Ella si parte Di rabbia accesa e colla morte in core. Anna! quanto son lieta! Io l'abbassai Agli occhi di Ruberto. Alfine, alfine Dopo tante vergogue e tanti affanni Un'ora di vendetta e di trionfo!

Lasciavo quindi la scena, con passo concitato, seguita da Anna.

Da tutte le osservazioni fin qui fatte, il lettore si sarà persuaso come nel rappresentare questo 3°ree; atto (parte essenziale del dramma), io cercassi sopra tutto di porre in rilievo il grande contrasto che emerge dal carattere diverso di due congiunte, rivali ad un tempo, infelice l'una, onnipotente l'altra e già ferma nel truce proposito di fare della Stuarda una vittima.

Per meglio apprezzare la giustezza di questa interpretazione, giova ricordare ciò che si è già qui avvertito, cioè che l'incontro fu arditamente introdotto dall'autore appunto per aver l'occasione di meglio approfittare dell'effetto sì vero dei contrasti; di porre in luce l'alterigia di cui era legittimamente compresa la Stuarda, che si sapeva e si sentiva regina.

Ho avuto cura di dare risalto al sentimento religioso che animava Maria, e che era una manifestazione essenziale da non potersi disgiungere dallo spirito travagliato di donna.

Come è noto, Maria Stuarda non appare nel 4°ree; atto. Ma prima di dar principio allo studio analitico del 5°ree;, trovo opportuno di farlo precedere dalle ragioni che mi hanno portata a non tener conto delle indicazioni di Schiller, circa il costume che Maria Stuarda deve indossare in questo atto.

Molte sono le relazioni circa le vesti che la misera Maria usava all'atto dell'esecuzione; però ho ragione di ritenere che le cause di tutte le disparità d'avviso, sono specialmente conseguenza di fantastiche relazioni. V'è chi la invia alla morte vestita intieramente di rosso, chi in pompa regale, e Schiller la vuole con un maestoso abito bianco, adorna di ricchi gioielli, con corona in capo, coperta di lungo velo nero, col crocifisso fra le mani.

Per ciò che concerne quest'ultima foggia, dirò non essere ammissibile nè verosimile che Maria Stuarda, prigioniera fin da quell'età in cui le impressioni del dolore sono più profonde, e specialmente quando dall'apice della grandezza si piomba nel baratro delle miserie, possa dopo 19 anni di torture, di spasimi, di lacrime, e ridotta al punto di chiedere al buon Melvil che l'aiutasse a scendere le scale avviandosi al patibolo, per il gonflare delle sue ginocchia, causa l'insalubrità delle diverse prigioni, una martire infine della Fede, possa nutrire dei sensi di vanità femminea e pensare di produrre ancora, colla bellezza, impressione su coloro che dovevano per l'ultima volta vederla.

In secondo luogo Maria non avrebbe potuto adornarsi in quel modo senza il consenso di Elisabetta. Come credere probabile che una donna della tempra di quella Regina volesse concedere alla rivale i mezzi di far pompa di quelle doti che avevano più che altro determinato l'odio ed eccitate le persecuzioni, ammessa pure l'ipotesi, non però presumibile, che Maria ne avesse fatto domanda?

E questi convincimenti si sono radicati in me sino dai primi giorni in cui ho cominciato a studiare il difficile personaggio della Stuarda.

Infatti, fino dal mio primo apparire (all'età di 18 anni) sotto le vesti della infelice regina, avevo adottato il costume che a me sembrava più logicamente storico. Ha voluto una fortunata combinazione che mi trovassi a Londra nel 1857, all'epoca in cui, sotto il patronato di S. A. R. il Principe Alberto, consorte alla Regina Vittoria, l'Istituto Archeologico di Londra faceva una grande Esposizione di tutto ciò che nel mondo si potè raccogliere di ricordi della infelice Stuarda. Io ebbi la sorte di poter visitare quella Esposizione. Ivi erano riuniti alcuni preziosi oggetti che avevano appartenuto alla sventurata Maria fino all'ultim'ora di sua vita, e che erano stati conservati dalle antiche famiglie cattoliche scozzesi devote all'infelice Regina. Tra vari altri oggetti, vi si ammiravano il rosario ch'ella portava, in smalto bianco e celeste (che per l'effetto della scena io feci intieramente in oro); il velo che aveva in capo salendo il palco, era di un tessuto in fil d'oro e seta bianca, ornato intorno da una piccola trina bianca e con uno stemma reale in ciascuno dei quattro canti.

Fra gli innumerevoli quadri che la rappresentavano nelle diverse foggie, la di cui autenticità è incontestabile, perchè eseguiti pochi giorni dopo la morte di Maria, uno ve ne era che mi impressionò e che vedo tuttora con l'occhio della mente. Rappresentava la sua esecuzione a Fotheringay, ed è attribuito al pittore Mytens.

Essa è ritta in piedi: indossa un abito di velluto nero impresso, sormontato da una specie di zimarra senza maniche, secondo l'uso dell'epoca.

Una randiglia bianca le contorna il collo. In capo porta una cuffa di trina bianca (della forma che da lei prese il nome), e la copre interamente fino a terra il velo parimenti bianco, del quale parlai più addietro. Dal collo le pende un piccolo crocifisso di avorio e due catenelle congiungono quasi sul petto le due parti della zimarra. In una parola, era il costume che io avevo già ideato, senonchè alla cuffa ed al velo bianco avevo sostituito il nero, sembrandomi che rispondesse di più all'effetto della scena.

In quello stupendo quadro, Maria tiene nella destra un Crocifisso, al fondo del quale sta un teschio. La Stuarda, protendendo il braccio, tiene appoggiata la sacra immagine al tavolo, in cui l' artista ha rappresentata la scena tremenda dell'estremo supplizio di lei. In questa si vede Maria inginocchiata sul palco. Le avevano tolto il corpetto della veste; ed è appunto il busto che portava di sotto, di seta damascata a colori, che ha potuto dar luogo alle fantastiche descrizioni da me accennate. Dal collo, che già aveva ricevuto il primo colpo di mannaia, scorre un rivo di sangue.

Il carnefice è in atto di vibrare il secondo colpo. Son presenti all'esecuzione parecchi Lords ed altri personaggi. Nel fondo si vedono le fedeli Marie coperte di gramaglie.

Tre iscrizioni latine completano il quadro.

La prima nell'angolo destro superiore dice:

Reginam serenissimam regum filiam uxorem et matrem astantibus commissariis et ministris R. Eliz carnifex secure percutit atque uno et altero ictu truculenter sauciatae tertio caput ascindit.

Il carnefice con uno o due colpi di scure ferisce la serenissima Regina, figlia, consorte e madre di Re, alla presenza dei Commissari e Ministri della Regina Elisabetta, e alla ferita crudelmente con un terzo colpo recide il capo.

La seconda, sotto l'effigie che rappresenta l'ese cuzione:

Maria Scotiae Regina Angliae et Hiberniae vere princeps et haeres legitima Jacobi Magnae Britanniae Regis mater, quam suorum haeresi vexatam, rebellione oppressam, refugii causa verbo Eliz. Reginae et cognatae inixam in Angliam an. 1568 descendentem 19 annos captivam perfidia detinuit: milleque calumniis Senatus Angliae sententia haeresi instigante neci traditur ac 12 Calend. Mart. 1587 a servili carnifice obtruncatur an. aetat. regnis 45.

Maria Regina di Scozia, vera Principessa e legittima erede d'Inghilterra e d'Irlanda, Madre di Giacomo Re della Gran Brettagna, la quale, vessata dall'eresia, oppressa dalla ribellione dei suoi sudditi, fidata sulla parola della Regina Elisabetta di Lei cugina, si rifugia in Inghilterra l'anno 1568, ove per 19 anni fu dalla perfidia tenuta prigioniera, e con mille calunnie e con crudele sentenza del Senato Inglese provocata dall'eresia, viene messa a morte il 18 febbraio dell'anno 1587 per mano d'un vile carnefice, contando 45 anni d'età e di regno.

La terza ai piedi di Maria:

Sic funestum ascendit labulatum Regina quondam Galliarum et Scotiae florentissimae, invicto sed pio animo tirannidem exprobat et perfidiam, Fidem catholicam profitetur Romanae Ecclesiae semper fuisse et esse filiam plane palamq. testatur.

Così salì il funesto palco quella che fu Regina della Francia e della floridissima Scozia; e con animo invitto, ma pio, rimprovera la tirannia e la perfidia, confessa la fede cattolica e protesta apertamente di essere mai sempre stata, ed essere divota figlia della Romana Chiesa.—

Riprendendo a dire dell'esecuzione della mia parte, debbo prima di tutto osservare che il mio cambiamento dal terzo al quinto atto doveva essere notevolissimo per lo spettatore. Null'altro di regale doveva apparire nel mio portamento se non la dignità. Ogni traccia di quanto aveva tormentato la Regina e torturata l'esistenza della vittima doveva sparire dalla mia persona; io manifestava tutti i miei sentimenti, comunicava tutti i miei voleri con la dolcezza d'una martire paga del suo martirio; perciò nel presentarmi ai miei servi sulla soglia della mia stanza, non dovevo ispirare che ammirazione e riverenza, come s'io fossi una santa apparizione.

Un lungo velo nero mi scendeva dal capo ai piedi. Nelle mani stringevo una croce ed un plico a suggelli neri, che conteneva le mie ultime disposizioni.

Alla vista dei miei servi piangenti, io dolcemente rimproveravo quel pianto inopportuno, quando invece avrebbero dovuto esultare vedendomi giunta al fine d'ogni oltraggio, d'ogni strazio.

Un sorriso sfiorava le mie labbra nel dire che vedevo accostarmisi la morte come una dolce amica, come un balsamo riparatore delle mie pene. Scorgendo quindi fra gli astanti il mio fido Melvil, consideravo il suo ritorno come grazia celeste, perchè almeno da una bocca fedele sarebbe narrato al mondo in qual modo la mia vita si fosse chiusa.

Nelle disposizioni che io dava non traspariva che dolcezza ed affetto. Però, sentendomi mancare il coraggio di proseguire, e volendo far cessare quella scena straziante, con moto risoluto dicevo:

A me venite Tutti! tutti venite, e ricevete L'estremo amplesso.

E tutti si precipitavano ai miei piedi.

Al contemplare quei volti addolorati, quelle braccia protese, non potevo frenare un senso di commozione, ed esclamavo:

Io fui Molto odiata, ma pur molto amata!

Finalmente mi scioglieva da quella stretta, e con un triste, prolungato Addio, mi separavo da quei cuori fedeli.

Da quel momento io più non appartenevo alla terra: i sentimenti, le passioni di quaggiù non avevano più impero sull'animo mio. Solo dolorosamente deploravo che non mi fosse stato concesso il conforto d'un sacerdote della mia religione:

Mi niegano un pastor della mia chiesa Ed io disdegno dalle impure mani Di bugiardo ministro il sacramento. Morrò costante nell'avita Fede; L'unica vera che salvar mi possa!

Con trasporto d'inesprimibile gioia io scoprivo in Melvil un angelo mandatomi dall'Eterno, onde assolvermi dalle mie colpe e compartirmi la sua benedizione. Osservando con circospezione intorno a me se nessuno venisse a sorprendermi, prendevo il crocifisso che avevo posto nella mia cintura, e con la massima compunzione m'inginocchiavo dinanzi a Melvil, cominciando con flebile voce la mia confessione. Con accento in cui traspariva tutta la verità, io mi accusava d'aver nudrito un odio possente, di aver concepito idee di vendetta, e di non aver mai saputo perdonare a colei che mi aveva tanto offesa. Ma dove mancava in me la spontaneità e l'energia era allorchè Melvil, dopo avermi chiesto se altre colpe mi pungessero il cuore, rispondevo:

Un grave misfatto Da gran tempo confesso or mi s'affaccia Con novelli spaventi, e mi contende, Come fantasma tenebroso, il varco Alle soglie celesti. Il ro, mio sposo, Trafiggere ho lasciato, e mano e core Porsi al mio seduttor. Coi più severi Flagelli della Chiesa il sanguinoso Mio delitto espiai, ma nel segreto Animo il verme roditor non tace!

Questa parte di confessione che l'autore mette sulla bocca dell'infelice Regina, non poteva essere da me espressa con accento di verità, perchè è mio intimo convincimento la falsità delle accuse mosse contro Maria Stuarda dai suoi innumerevoli e potenti nemici.

Maria, perfino sul palco di morte, protestò della sua innocenza (presso a comparire davanti al Giudice Supremo non poteva mentire!), e il non averle mai voluto accordare di giustificarsi pubblicamente e far toccare con mano al Parlamento, che doveva giudicarla, la verità delle sue asserzioni, è, a parer mio, prova manifesta che sono nel vero gli autori, che hanno sdegnato raccogliere delle asserzioni che dovevano apparire menzognere e calunniose.

Nel passaggio della confessione, là ove Melvil, dopo aver udito da Maria esser scevra da qualunque altra colpa, in tuono austero l'accusa di menzogna, perchè tentasse celare la grave colpa per cui è condannata, quella cioè di aver partecipato alla congiura di Paris e Babington, onde uccidere Elisabetta, io a fronte serena, con la calma e la spontaneità che fornisce una coscienza tranquilla, dopo breve pausa, solennemente dicevo:

Io m'avvicino A' secoli immortali! Anzi che l'ora Tutto compia il suo giro, alla presenza Mi vedrò dell'Eterno, e non di meno Ti ripeto animosa: Io son confessa!

Ed all'incalzare che Melvil fa acciò Maria non deluda con sottile artifizio l' accusa, nuovamente protestavo della mia innocenza; non celavo però d'aver avuto ricorso a tutti i prenci perchè mi liberassero dall'ingiusta prigione, a cui mi avevano condannata i miei persecutori:

E tu sali il patibolo, convinta Della propria innocenza?

diceva Melvil; ed io rispondevo:

Iddio m'assenta Per questa morte immeritata, il grave Antico fallo cancellar per sempre!

volendo alludere alla morte di Darney.

Fra le lagrime che riempivano i miei occhi, sapevo far scintillare tanta luce di verità, tanta fede nella celeste giustizia, che appariva anche più sublime la commozione di Melvil che m'assolveva colle più cristiane parole, e terminava la sua invocazione a Dio, posando la mano sul mio capo per benedirmi. Io, in ginocchio, tenendo nella mano stretto il crocifisso, col capo rialzato e sulle labbra il sorriso deila fede inconcussa, parlava come se le beatitudini celesti si fossero aperte dinanzi a me.

Dopo aver passati pochi istanti in quell'estasi religiosa, Anna sopraggiungeva; si accostava rispettosamente a Melvil, e in tuono sommesso gli susurrava all'orecchio alcune parole. Melvil, dopo un profondo sospiro, mi rialzava, senza però che mai i miei occhi si togliessero da quel punto luminoso, che la mia imaginazione esaltata sembrava mostrarmi.

Un penoso conflitto ancor ti resta,

mi diceva tristamente Melvil,

Puoi tu vincere il core, e por silenzio Alla voce dell'odio e dello sdegno?

Con flebile ed armoniosa voce rispondevo:

Io di nulla più temo: al mio Signore L'odio e l'affetto in olocausto offersi.

All'udirmi annunziare la venuta di Burleigh e di quel conte di Leicester, che un tempo doveva essere mio sposo, facevo si che l'espressione del mio viso non si alterasse menomamente, e solo ritornavo col pensiero alle miserie terrene allor che Cecil mi diceva:

Io vengo A prendere, o Signora, i tuoi supremi Voleri.

E qui, assorta tutta nel pensiero di Dio, con pienezza di calma io ringraziavo Cecil, dirigendogli pure alcune preghiere a favore dei miei famigliari, e pel riposo della mia salma; per ultimo lo facevo messaggero di un Addio alla Regina Elisabetta. Ma al dirigermi che Burleigh faceva la seguente domanda:

Ancor rifiuti Il ministro del loco?

soggiungevo con voce ferma:

Io già mi sono Col mio Dio conciliata!

ed al «mio Dio» davo un accento marcato, che valeva ad esprimere come la fede cattolica fosse stata guida costante della mia vita.

Dopo aver chiesto perdono a Paulet per essere stata cagione involontaria della morte del nipote Mortimero, venivo scossa dal grido straziante delle mie ancelle. Mi rivolgevo repentinamente. La gran porta di fondo si era spalancata. Alla vista del carnefice, dello Sceriffo e delle guardie con faci accese, dimostravo come la fragilità umana riapparisse per un istante… vacillavo… gli occhi mi si chiudevano. Melvil sollecitamente mi sorreggeva prendendo la croce, che già mi sfuggiva di mano. Allora riprendendo i sensi, flebilmente dicevo:

L'ora è trascorsa! Lo sceriffo arriva Per condurmi alla morte. È giunto il tempo Del separarci!… Addio… Tu, buon Melvil, E tu, diletta, i miei passi reggete.

Appoggiata a loro, con incerto piede m'avviavo al patibolo. Burleigh, volendo privare Maria di quell'ull'ultimo conforto, le impedisce di farsi accompagnare dai suoi fedeli, dicendo non aver ordini che l'autorizzassero a ciò. Al che ella risponde nutrire certezza che la sua regale sorella non vorrebbe giammai permettere che il suo corpo fosse offeso dal contatto delle rozze mani dell'uomo. E mi rendevo anche mallevadrice che col suo pianto, Anna non avrebbe conturbata la esecuzione.

Alla preghiera diretta da Paulet a Burleigh perchè acconsenta a quella domanda, Maria ne riceveva l'adesione. Da quel punto il mio volto si trasformava e col più fervente slancio religioso dirigendomi al cielo, così mi esprimevo:

Or dalla terra altro non chieggo. Mio conforto divin, mio Redentore, Come le braccia sulla croce apristi Aprile, e teco mi ricevi!

Detto ciò, lentamente congiungevo le mani accostandole al petto. Melvil, al mio fianco tenendo in pugno il crocifisso, dirigeva il mio passo tremante. Ad un tratto, scorgendo Leicester, venivo sopraffatta da una grande emozione. Tutto il ricordo del mio funesto passato m'appariva dinanzi… barcollavo e, senza aver la forza d'impedirlo, cadevo nelle braccia del conte, il quale frettolosamente mi si era accostato per sorreggermi. Riavendomi a poco, con flebile voce ed accento riprendevo:

Hai sciolta La tua fede, o Ruberto… Il braccio tuo Togliere mi dovea da queste mura, E il tuo braccio men toglie!

Scorgendo la massima confusione di Leicester a quelle parole pronunciate con voce piena di dolce rassegnazione e di lieve rampogna, riprendevo:

Addio! E, se lo puoi, vivi felice! Ambisti Due scettrate ad un tempo: un amoroso, Tenerissimo cuore hai disprezzato Per averne un superbo…

Avevo predisposto che il conte si mostrasse profondamente scosso da tali accenti: si rivolgesse a me con gesto supplichevole, come per scolparsi, onde dare maggior risalto alle seguenti parole, che con espressione quasi profetica pronunziavo:

Alla reina D'Inghilterra ti prostra, e non diveuga La mercè che n'ottieni il tuo castigo!

A questo punto si udivano i lenti rintocchi della campana, seguiti dal rullo del tamburo. A tale richiamo alle cose terrene, Melvil, pieno di fervore cristiano e nell'attitudine di rampogna, mi spingeva sul davanti della scena per darmi l'opportunità di contemplare la croce, dinanzi a cui io mi prostrava, pentita dell'emozione provata.

Accostavo ferventemente alle labbra il crocifisso del mio Rosario, mentre Melvil mi presentava la croce, come per significarmi: Pensa ad apparire al cospetto di Colui che in breve ti dovrà giudicare, purificata per la vittoria riportata sulle passioni terrene!

Profondamente penetrata e scossa, a tale pensiero mi raddrizzavo, sorretta dal mio confessore, e tenendo sempre confitto lo sguardo sopra il segno della Redenzione, che tuttora mi stava davanti, volgendomi lentamente, mi avviavo verso il fondo. Giunta sulla gradinata, avendomi sempre al fianco Melvil che mi accennava la croce, facevo comprendere col gesto alle ancelle ed ai miei servi prosternati e lagrimanti, ch'io dal Cielo avrei pregato per essi, e stendevo le mani per benedirli.

Poscia, con atto supremo abbracciata la croce, davo loro un commovente eterno Addio e scendevo la scala interna, seguita dal carnefice e da alcune altre persone.

È innegabile che il riprodurre al vero lo storico personaggio di Elisabetta, regina d'Inghilterra, sia un còmpito alquanto difficile. Il coonestare la regale dignità, l'alterezza, l'ingegno trascendente, la dissimulazione, l'ipocrisia, l'assolutismo più spiccato con la frivolezza, la futilità di una donna, talvolta volgare, tuttochè regina, è un arduo assunto, massime per un'attrice, dalla quale il critico esige autorevolmente quello che in ragione della fama di lei si crede in diritto di pretendere.

Quando nel 1854, pensai di arricchire il mio repertorio della parte di Elisabetta regina d'Inghilterra, nel dramma di tal nome, in cinque atti, del nostro illustre e compianto autore Paolo Giacometti, necessariamente dovetti dedicarmi corpo ed anima alla ricerca di tutte quelle nozioni che potevano elucidare il carattere, l'indole di questa celebre regina.

Il risultato di questo studio fu il convincimento che, sebbene le qualità di Elisabetta come sovrana, come personaggio politico, fossero grandissime, eminenti, la rendessero famosa nel mondo intero, ed adorata specialmente in Inghilterra, pure le sue ben note crudeltà, le sue ipocrisie e i suoi irrefrenabili accessi d'odio, che la storia ci ha trasmessi, la dovevano rendere oggetto ben più di ripulsa, che di ammirazione per gli animi ingentiliti della nostra epoca; per cui il lettore di leggieri comprenderà lo sforzo che dovetti fare sui miei intimi sentimenti per rappresentare quel tipo unico, piuttosto che raro, di donna e di sovrana.

Perchè mi accingessi allo studio di una nuova parte, condizione necessaria, assoluta, per me, doveva essere quella, che non solo mi offrisse difficoltà notevoli e preconcette interpretazioni, ma che altresì non riuscisse ripugnante alla mia natura, al mio organismo. Io stavo quindi per rinunziare al proposito di assumere la rappresentazione di quel personaggio. Questa ripugnanza si era andata sempre più sviluppando mano a mano che apprendevo atti crudeli di questa Sovrana, specialmente contro l'infelice Maria Stuarda. Ma il mio capo-comico, allora direttore della R. Compagnia, al servizio di S. M. Sarda, mi faceva riflettere a quali inconvenienti lo esponeva il mio rifiuto. Durante le mie investigazioni, i preparativi per la rappresentazione del dramma si erano continuati. Tutto era pronto; l'impegno preso verso il pubblico, formale. Mi fu giuocoforza rassegnarmi e rappresentare quella parte. Però, sebbene il carattere di Elisabetta non potesse riuscirmi men che odioso, e tale da togliermi la passione d'interpretarlo, pure in ragione stessa della fatica durata per incarnarmi in esso, anche a dispetto dei miei sentimenti, credo non errare, affermando che il pubblico trovò sempre questa parte uno dei più elaborati e completi studi del mio repertorio.

Al primo apparire sulla scena, il portamento, il gesto, il tuono di voce dovevano essere di persona a cui il disbrigo dei difficili affari di Stato è familiare, la cui opinione è considerata indiscutibile, la cui coltura e la cognizione profonda delle lingue straniere, le davano spesso delle soddisfazioni non comuni, come quella, fra le altre, d'aver potuto un giorno mettere a dovere in latino un ambasciatore polacco, che arringandola in questa lingua, le aveva rivelate pretese indiscrete, ritenendo che la Regina fosse poco versata nel latino. Ella si lagnò poi con i suoi favoriti, perchè fosse stata costretta a dirugginare il suo vecchio latino.

Io avevo cura di far rilevare allo spettatore come, in onta all'inclinazione vera che in quel tempo Elisabetta provava per il conte d'Essex, il suo animo altero ponesse tutti al medesimo livello coì sarcasmo ed il disprezzo, allorchè poteva supporre che qualcuno de'suoi favoriti osasse innalzare le proprie mire ambiziose, fino al possesso della sua mano.

In questo primo atto era notevole la scena nella quale Giacometti, con una di quelle ispirazioni a lui familiari, immaginò un difficilissimo contrasto d'azione, e nello stesso tempo un tratto caratteristico di questa grande regina, porgendo altresì occasione all'attrice di dar prova della sua capacità.

Elisabetta deve scrivere due lettere nello stesso punto, servendosi del suo segretario Davison e del giovine filosofo Bacone. La prima era dettata per Leicester, con tuono d'irritata Sovrana, in risposta ad un messaggio dallo stesso inviatole, nel quale egli partecipava a S. M. le ovazioni di trionfatore che aveva ricevute in Olanda, e spingeva l'audacia fino a chiederle se potesse accettare la corona del Belgio, che a nome delle provincie riunite, i conti d'Egmont, Horn e Flessing erano andati ad offrirgli; tutto ciò era inoltre espresso con tuono ampolloso, e col linguaggio usato dai sovrani, cosa che maggiormente inaspriva la regina.

La seconda conteneva un ordine ch'ella voleva dare al giudice Pophan.

Benchè Bacone conoscesse quanto Elisabetta fosse avversa all'ultimo lavoro di Shakspeare, l'Enrico VIII, per aver egli osato di porre sulla scena il padre e la madre sua, nonchè ella stessa, pure, volendo riuscire a strapparle il consenzo di rappresentarlo, la supplicò in ginocchio di ascoltarne alcuni brani. Ella di mala voglia acconsentì.

Allora Bacone, con tutta l'enfasi, colla quale un autore potrebbe leggere un suo lavoro, per farlo apprezzare (alcuni perfino sostengono essere il detto dramma opera di Bacone stesso), le declama alcuni squarci notevoli nei quali si profetizza la grandezza, la prosperità, la lunga vita di Elisabetta, e si esalta la sua esemplare magnanimità, la sua fama di Regina vergine!… E lo stratagemma di Bacone riesce pienamente. Sentendosi così esaltata, Elisabetta di suo pugno scrisse subito ai piedi del manoscritto, essere sua volontà che il dramma dell'Enrico VIII fosse rappresentato tra 15 giorni a Windsor, nel suo teatro di Corte. Ma udendo da Bacone che la cosa non poteva aver luogo così sollecitamente, essendo Shakspeare in carcere per debiti, la regina pensa di dettare subito a Bacone una lettera pel gran giudice Pophan, colla quale gli fa sapere aver ella acconsentito che l'Enrico VIII fosse rappresentato. E perchè Pophan aveva inconsideratamente vietata la recita di un lavoro in cui esaltavasi la sua Sovrana, ella trovò modo di punirlo col fargli pagare tutti i debiti di Shakspeare «secondo la nota che gli avrebbe presentato Bacone». Terminava la sua lettera col dirgli: «che sperava egli si sarebbe messo in avvenire gli occhiali per distinguer meglio il bianco dal nero».

Io dettava queste due lettere nel medesimo tempo, dando a quella destinata al conte di Leicester il massimo accento di rigore, dichiarandogli «che le corone non erano fatte per la sua testa, e meno poi quella del Belgio, ricusata dalla sua padrona». Gli ingiungeva di rassegnare subito il comando delle truppe nelle mani di sir Gualtero Releigh, altrimenti l'avrei fatto arrestare da un reggimento di cavalleria. Ed a questa dettatura, fatta con lampi d'ira, alternava l'altra per Pophan con tuono familiare, freddo, autorevole, e comico nel medesimo tempo, come lo scopo della lettera richiedeva.

Tale spiccatissimo contrasto riusciva completamente a produrre quegli effetti che l'autore si era ripromessi.

Nel secondo atto vi sono scene veramente rimarchevoli, e l'autore ha trovato il modo di così bene delinearle, riunendo vari passi della vita d'Elisabetta, collegandoli maestrevolmente fra loro, servendosi di tutte le licenze di tempo e di luogo concesse alla scena, senza però offendere o alterare menomamente il regolare andamento dell'azione, così che ne appariva naturalissima ed interessante la connessione.

Io prediligeva questo secondo atto, perchè mi porgeva l'opportunità di recitare un po' di commedia, genere che tanto mi piaceva. Anche più tardi era per me una festa, quando per qualche imprevista circostanza poteva recitare o la Locandiera di Goldoni, o I Gelosi fortunati.

In questo secondo atto Elisabetta ha una scena di civetteria col conte di Essex, nella quale, da scaltra lusinghiera, ora dimostra comprendere ed accettare l'amore che egli nutre per lei, e compatirne gli impeti mal repressi di gelosia per il conte di Leicester, creduto da lui fortunato rivale; ora, assumendo d'improvviso il tuono di Sovrana offesa, caccia Essex dalla sua presenza, allorchè questi, udendo la regina vantarsi «che nel suo cuore di re, non entrò mai un debole affetto», non potendosi dominare, con sarcasmo si lascia sfuggire «che però dovevansi eccettuare il Duca d'Anjou, e l'ammiraglio Symour!». Ma quando Essex, avvedutosi, per la collera della regina, di essersi spinto tropp'oltre, si getta ai piedi di lei, chiedendo perdono; io, in apparenza, prendeva il sembiante della Sovrana offesa, mentre al pubblico indicava chiaramente che in fondo mi compiacevo di quell'infrenato impeto di gelosia. E nel dire con cipiglio: «Dunque voi ardite amare la vostra Sovrana… sciagurato!», facevo che d'Essex tentasse prendermi la mano per imprimervi un bacio, ma io con atto sdegnosamente autorevole la ritiravo. Poscia a poco a poco, senza essere dal Conte osservata, ammiravo, di sfuggita, con compiacenza amorosa, quel nobile e bel cavaliero in quell'attitudine sommessa, e vincendo in parte quei sentimenti d'amore e d'orgoglio che lottavano in me, con tuono quasi scherzoso, diceva: «Che fate? recitate le vostre preghiere? alzatevi… alzatevi!» Nel proferire queste ultime parole, la mia mano, indicandogli di sollevarsi, sfiorava leggerissimamente, e con dignità, i capelli del Conte, talchè questi incoraggiato da quell'atto, si alzava afferrandola vivamente, e coprendola di baci me la stringeva fortemente fra le sue, esclamando con slancio: «Ah! la regina d'Inghilterra mi ha stretta la mano!»; al che io, svincolandomi, ed allontanandomi da lui, con affettata modestia terminavo il dialogo dicendo: «Non me ne sono accorta!» Se non che, frenando poscia la mia emozione ed il mio amore, nell'udirmi profferire dolcemente dal Conte le parole: «Che non era possibile amare un'altra donna dopo aver veduto Elisabetta!», estremamente commossa, con uno sguardo prolungato, dal quale traspariva l'amore che tutta in quel momento mi dominava, dopo una leggera esitazione, togliendomi una gemma dal dito, la offrivo al Conte, promettendogli solennemente: «Che se per un delitto qualunque, un giorno egli perdesse la grazia della sua Sovrana, presentandomi o facendomi presentare quell'anello, sarebbe stato perdonato, pel che ne impegnavo la mia parola di re!»

Nel monologo che segue questa scena, l'autore mette a nudo tutti i sentimenti caratteristici della regina Elisabetta Mentre l'amore sembra dovere, alla fine, soggiogarla, vincerla… il suo indomabile orgoglio, la febbre del dominio assoluto, che sempre la divorava, soffocandole nel cuore i teneri e gentili sentimenti femminili, la fanno vergognare della sua momentanea debolezza. All'idea di dover cedere all'insistenza del Parlamento, dei Puritani, di Wentworth, perchè ella faccia alla fine la scelta d'uno sposo: «la tema di dover dividere il suo regno con un altro, non essere più arbitra di tutto e di tutti», la confermano più che mai nella sua risoluzione di rimanere libera e padrona di se stessa.

Nella poco benevole disposizione d'animo di Elisabetta, in quel momento le si presenta il suo segretario Davison, apportatore di una lettera di Maria Stuarda per lei, nonchè della sentenza di morte della stessa, acciò il regale suggello vi sia apposto.

Elisabetta a stento reprime un'espressione di gioia, ed ipocritamente copre la sua emozione con la larva della pietà. Scorre la lettera dell'infelice prigioniera con mal dissimulata impazienza, ma leggendo alla fine che Maria dichiarava suo unico erede, e successore al trono di Scozia (credendo suo figlio Giacomo collegato coi suoi uccisori) l'invitto Filippo II, re di Spagna; assalita da uno dei suoi accessi d'ira, dice fra sè, con sorriso beffardo: «che assumerebbe lei l'incarico dell'esecuzione del testamento, ma che intanto l'avrebbe mandata fra gli angeli!» orribile scherno, degno di un'anima perversa.

Nella scena di simulazione che ella ha con Giamono VI, venuto a chiederle la vita di sua madre, minacciando di vendicarne la morte, se le sue preghiere non fossero ascoltate; coll'espressione marcata del mio volto, collo sguardo bieco e penetrante, colle labbra serrate, mostravo al pubblico la tempesta che s'andava condensando in me.

Ma all'arrivo di Davison, il quale veniva ad annunziare ad alta voce: «che il carnefice aveva mostrato al popolo la testa di Maria Stuarda», alla tempesta che la collera stava sollevandomi nel petto, in un baleno tutta la mia persona subiva una completa trasformazione, ed un grido di gioia irrefrenabile, mi sfuggiva dal petto, grido, che nella costernazione degli astanti per il terribile annunzio, andava inosservato, e che tosto io reprimevo, irrompendo con furore contro coloro che avevano fatto eseguire la sentenza. Con la stessa rapidità improntavo istantaneamente sul mio volto tale espressione esagerata di dolore, tali smanie insensate, da trarre in inganno perfino lo stesso Giacomo VI, che non sapeva discernere «se vero o finto fosse il mio dolore». Rimasta sola coi miei cortigiani, volevo continuare anche con essi l'ipocrita finzione, col piangere, col dichiarare d'aver deciso di terminare in un chiostro il resto de'miei giorni nella penitenza e nella contemplazione; quando, al ritorno inaspettato dell'avventuriero Francesco Drack, da Elisabetta inviato nelle regioni spagnuole per invaderle, e scoprire i movimenti della Spagna, il mio viso, la mia persona subivano un istantaneo e totale combiamento. La morte della Stuarda, i proponimenti ipocriti, la falsa politica, tutto essa metteva in non cale, invasa solo dall'ansia febbrile di conoscere il risultato della missione affidata al Drack.

All'udire che gli armamenti dei nemici «erano così poderosi, da bastare a conquistar l'Europa, che la flotta, divisa in due squadre, occupava in mare uno spazio di sette miglia da un'estremità all'altra, che i più valorosi capitani stranieri erano collegati con gli Spagnuoli, i quali, già certi della vittoria, davano alla loro flotta il titolo d'invincibile armada» gettavo fiamme dagli occhi, e con uno scoppio di voce prorompevo: «Finalmente! ci sono riuscita!» Poscia, come un ardente destriero che si impenna al rombo del cannone, Elisabetta, elettrizzata dal presentimento di una grande vittoria, dimostrava sentirsi ribollire il sangue nelle vene, esaltarsi l'immaginazione.

All'udire l'ambasciatore di Spagna, Mendozza, con tuono arrogante dichiararle la guerra in nome del suo sovrano Filippo II, Elisabetta ne lo ringrazia sdegnosamente. Quindi, come espertissimo duce, con ardore febbrile io davo gli ordini per i preparativi della guerra, ripartivo le attribuzioni, stabilivo i diversi poteri, ed infiammata da bellicoso entusiasmo, assicuravo i miei lordi «che una potente spada avrebbe combattuto per l'Inghilterra». «E quale?» chiede Mendozza. «Quella di Enrico VIII» rispondevo io piena d'orgoglio. «Chi avrà il coraggio di brandirla?» soggiungeva con petulanza Mendozza. «Io!» rispondevo, slanciandomi vivamente verso il trofeo formato dalle armi di Enrico VIII. Ed impugnando con impeto guerriero la spada formidabile che doveva assicurare la vittoria all'Inghilterra, con voce tuonante, soggiungevo: «E dite a Filippo che Elisabetta ne lanciò lungi da sè la guaina. Quando queste due nazioni, come due atleti giganti s'incontreran sull'Oceano, il mondo ne fremerà, e dopo lo scontro, una di queste, pari al sasso dal fanciullo scagliato nell'acqua, sparirà nei gorghi sanguigni! O Inghilterra, o Spagna; o Elisabetta, o Filippo. Pel re mio padre il giuro!»; e rimanevo colla spada alzata, stendendovi sopra una mano in atto di giuramento. Tutti gli astanti sguainando le loro, le appuntavano sulla mia, ripetendo: «Giuriamo».

Su questo quadro calava la tela.

Il terzo atto non contiene per Elisabetta numerose scene d'interpretazione notevole per difficoltà artistica, eccetto due situazioni molto interessanti; cioè l'episodio storico di Margherita Lambrun e la punizione d'Essex.

Quando mi veniva condotta dinanzi Margherita, in seguito alla scoperta del suo proposito di attentare ai miei giorni, la interrogava con voce irata, decisa come io ero di punirla colla morte; ma all'udire il tuono risoluto col quale essa mi dichiarava, senza scomporsi, che suo divisamento era di uccidermi per vendicare la sua infelice padrona Maria Stuarda, ed il povero suo marito, morto di dolore per non aver potuto sopportare l'orrida fine della sua Sovrana, io ne rimanevo fortemente compunta. Le chiedevo che cosa avrei dovuto fare di lei dopo tale confessione; all' udirmi rispondere arrogantemente che avrei dovuto perdonarle, piena di stupore soggiungevo: «E quale sicurezza avrei io che tu non attenterai nuovamente alla mia vita?» Al che Margherita rispondeva: «che una grazia fatta con tante restrizioni, non era più grazia, per cui prendessi pure la sua testa!» Quella arroganza, quella temerità, quel coraggio d'espressione, non mai riscontrato in alcun uomo nel corso del suo regno, avevano soggiogata Elisabetta… e dopo un istante d'esitazione, cedendo ad un impulso di generosità, frettolosamente, per tema di pentirmi, le dicevo: «va con Dio, ma fa presto!…»

Pel colorito che avevo creduto di dare a questa scena, mi è sembrato di ben cogliere l'intenzione dell'autore, esprimendo marcatamente, con le intuonazioni di voce ed espressione di volto, quei contrasti di generosità, di severità e di grandezza, che erano caratteristici istinti di questa gran Regina.

L'altra situazione importante ha principio col ricevimento che Elisabetta fa ai vincitori di Cadice. Nel mio aspetto doveva apparire il proposito di volermi vendicare del conte d'Essex per aver scoperto l'amore ch'egli nudriva segretamente per Lady Sarah, e per avere oltrepassati i poteri affidatigli, non essendosi conformato ai miei voleri. Principiavo il discorso che dirigevo ai vincitori, encomiandoli e ringraziandoli a nome mio e di tutta l'Inghilterra, per la portentosa vittoria ottenuta sulla formidabile flotta spagnuola. Creavo Drack grande ammiragio, lord Haward conte di Nottingham. Quanto ad Essex, che si era come gli altri inginocchiato rispettosamente ai miei piedi, attendendo egli pure la retribuzione dovuta alle sue prodezze, cominciavo per ammirare il valore che egli aveva dimostrato durante il conflitto, e ciò con voce insinuante, pacata, come se lo preparassi ad averne adeguata ricompensa. «Però, proseguivo dicendo, considerato aver egli mancato ai doveri di suddito, negando obbedienza a chi da me era rivestito dei supremi poteri sulle armate di terra e di mare, rendendosi anche ribelle agli ordini della sua Sovrana, avrei aspettato, per premiarlo, di ottenere da lui prove di obbedienza e sommissione».

Tutto ciò era detto con viso austero, voce ferma e vibrante, quasi volessi che ognuna delle mie parole gli pungesse il cuore, umiliandolo in faccia a tutti. Il Conte, riavutosi dal suo sbalordimento, cominciava a dar sfogo al suo rancore per l'ingiustizia patita, e terminava col rampognarmi di aver colmato di distinzioni ed onori lord Haward, ch'egli sapeva aver vinto la battaglia solo perchè una furiosa tempesta aveva spinto e rotto contro gli scogli i galeoni spagnuoli! Inutilmente io gl'imponevo di tacere. A grado a grado poi il mio sdegno cresceva, nell'udire il Conte vantarsi di scendere da progenie di re. Ma quando, per avere Elisabetta voluto impedire a lord Haward di accettare la sfida che il Conte gli aveva lanciata, questi, con sorriso beffardo soggiungeva: «ma i Duchi ed i Conti non possono più battersi in Inghilterra senza il permesso della Regina!» l'ira mia traboccava, e mi acciecava al punto di farmi scagliare contro di lui impetuosamente il mio guanto sul volto! Essex, perduto ogni lume di ragione, esasperato per lo sfregio ricevuto, mettendo in non cale ogni considerazione di convenienza e rispetto verso la Sovrana, irrompe in terribili invettive contro di lei. L'accusa «d'aver fusa la sua corona con quella dei Duchi e die Conti, di aver uguagliato il Parlamento d'Inghilterra al Divano di Maometto, d'aver annullato ogni privilegio»; e come se tutto ciò non bastasse, egli colma la misura dei suoi insulti chiamandola: «Vestale d'occidente, che più d'una volta aveva lasciato spegnere la sacra fiamma sul tripode di Giove».

Tutta la controscena e l'accento che dovevo dare alle poche parole che profferivo nei diversi punti culminanti di questa fine d'atto, erano talmente bene indicati e così chiaramente tracciati dall'autore, che non mi costava alcuna difficoltà a comprenderlo e ad investirmi della situazione. Ponevo ben cura a non mai dimenticarmi ch'ero una regina, anche in mezzo al furore, e che questa regina era Elisabetta d'Inghilterra!…

Dal terzo al quarto atto passano alcuni anni, durante i quali Essex, dopo essere stato perdonato del fallo commesso, entra nuovamente in favore presso Elisabetta. «È da lei mandato come Generale in Irlanda, investito di pieni poteri per reprimervi con energia la rivolta e i tumulti, che ivi avevano luogo ad ogni momento. Ma questa impresa ebbe un esito infelicissimo per l'incapacità del nuovo Generale. La sua alterezza, le sue imprudenze lo condussero al punto di sollevare lo stendardo della rivolta contro la sua sovrana. Fu arrestato e condannato a perire sul patibolo». A questo punto si apre l'azione del quarto atto. Elisabetta comincia a curvarsi sotto il peso degli anni! Il dolore di vedersi costretta al rigore contro un uomo che le era stato sì caro, l'unico che avesse veramente amato, contribuisce ad abbattere il suo spirito. Io mi studiava di far apparire gli effetti del progresso dell'età (Elisabetta aveva allora 65 anni) coll'incurvare alquanto la mia persona, ma non soverchiamente, per dimostrare ch'ella conservò quella ferrea costituzione fino alla morte del suo favorito.

Vedendo come Lady Burleigh fosse allarmata per l'agitazione che scorgeva in me, io mi forzavo di celarle il vero motivo della mia alterazione, tentando persuaderla: «che ogniqualvolta dovevo condannare qualcuno alla morte, provavo pene ineffabili, crudeli». Ma, mio malgrado, mi lasciavo poi sfuggire dal labbro che la vera cagione del mio turbamento era la tema che d'Essex non mi mandasse in tempo l'anello, che gli avevo dato in un momento di tenerezza, accompagnandolo colla solenne promessa di perdonarlo qualora me lo avesse fatto presentare. Lady Burleigh, convinta che il Conte non avesse ancora osato spedirle l'anello, conoscendo quanto fosse colpevole e temendo irritare maggiormente la Regina, si offre di recarsi alla Torre, non come inviata da lei, ma per sua sola ispirazione, onde consigliare il Conte a confidare nella clemenza e nella magnanimità della sua sovrana. Allora, senza essere osservata da Lady Burleigh, esprimevo la gioia che tale offerta produceva in me; ma, temendo mancare alla mia offesa dignità col cedere ad un impulso del cuore, con evidente sforzo le vietavo autorevolmente di porre in esecuzione il suo progetto: «Fermatevi—le dicevo severamente, —se è orgoglioso come Lucifero, vada a trovarlo». Venuto il ministro Burleigh a recarle la sentenza di morte del conte d'Essex per sottometterla alla firma regale, Elisabetta non può reprimere intieramente l'emozione penosa che suo malgrado la domina. Ordina ad ognuno di ritirarsi, e nello stesso tempo dice a Burleigh d'inviarle il guardasigilli Davison.

Rimasta sola e potendo così dar sfogo ai miei sentimenti, dapprima emettevo lunghi sospiri, spiegavo sul tavolo la fatale pergamena, la consideravo con atto mesto e doloroso, come se mi sembrasse incredibile di dovervi apporre il mio nome, mandando alla morte l'uomo che solo avevo amato! Mille volte perplessa, altrettante risoluta, il pubblico doveva travedere quale battaglia si combattesse in me! Ora, per rafforzare me stessa e non cedere ad una femminile debolezza, mi parava dinanzi la giustizia, la necessità di questa morte: «Bisogna ch'ei muoia—dicevo— come sono morti gli altri cospiratori: Soffolk… Pary… Babington… Lopez… come è morta una regina di Scozia!…» Ad ognuna di queste interruzioni facevo il gesto d'intingere la penna per firmare la pergamena fatale, ma poscia mi mancava il coraggio di compiere tale atto. Per spronarmi a farlo, dicevo a me stessa: «Ma se io lo perdonassi, sarebbe lo stesso che confessare la mia debolezza!… Debole io?… Non mia!…» e nuovamente mi accingevo a firmare; ma nuovamente il coraggio m'abbandonava, e, con un gesto di collera verso me stessa, gettavo a terra la penna. Una speranza però mi balenava per un istante, quella cioè «che forse la superbia del Conte poteva essere caduta davanti all'idea della morte… che forse Essex aveva consegnato già a qualcuno l'anello, perchè me lo portasse». Ed animata da tale lusinga, scuoteva con veemenza il campanello; chiedevo se qualche messaggio fosse giunto per me dalla Torre. Ma alla risposta negativa che ne ricevevo, esausta di forze, mi accasciava nuovamente nella mia poltrona, sclamando: «Orgoglio! orgoglio! morire colla vita fra le mani…».

L'autore introduce questo episodio storico dell'anello per dimostrare quale importanza abbia avuto questo oggetto nella morte del conte d'Essex, e quanto abbia contribuito ad accelerare quella di Elisabetta. Dice Lally Tollendal: «Egli perdette la testa sovra il palco ed il dolore che la Regina provò nel vedersi obbligata ad un tale rigore contro un uomo che le era stato sì caro, la immerse in una profonda melanconia. Due anni dopo, allorchè la Contessa di Nottingham, al letto di morte, confessò la infedeltà di cui suo marito l'aveva forzata a rendersi rea, impedendole di trasmettere alla Regina il fatale anello, testimonio del pentimento di Essex, e pegno della clemenza della sua sovrana, Elisabetta non fu più padrona di ritenere in sè la sua profonda commozione.—Dio vi può perdonare—disse alla Contessa moribonda—quanto a me non lo potrò giammai!—Da quel momento fu vibrato il colpo fatale, ella acconsentì appena a prendere qualche nutrimento, e ricusò tutti i rimedi, dicendo non bramare più che la morte».

Poi con amarezza soggiungevo «che Lady Burleigh non aveva saputo comprendermi». Deploravo di vedermi costretta, per la prima volta in tanti anni di regno, a desiderara di non essere obbedita! Per soffocare in me qualunque senso di pentimento, mi rappresentava Essex come un ribelle degno di tutto il mio rigore. Pio la tema di commettere un'ingiustizia mi faceva nuovamente trepidare!… Cominciavano i rimorsi a tormentarmi, ed in preda a questi, la mia immaginazione mi faceva apparire anche lo spettro di Maria Stuarda, che già dopo la sua tremenda fine, ogni notte veniva a turbare i miei sonni… a farmi sbalzare dal letto esterrefatta!… Quindi rientrando in me, arrossivo della mia fanciullagine; ed al colmo dello sdegno, dello sconforto, per non vedermi apportare l'annello desiderato, con tutta l'energia del mio animo virile, del mio amore vilipeso, non ponendo più mente che alle ragioni di Stato, alla dignità della Corona, sanzionava la decisione dei giudici, e sottoscriveva rapidamente la sentenza. Lo schianto del cuore era compiuto! Davison, inviato da Burleigh, mi si presentava onde ritirare la sentenza. Alla sua vista mi scuotevo dolorosamente, procuravo celare la alterazione del mio volto; però, costretta a subire il sagrifizio impostomi dal dovere, porgeva lentamente e con mano tremante la pergamena al Guardasigilli… Ma come se, ritenendola più a lungo stretta nel pugno, mi sembrasse di prolungare di qualche minuto la vita di Essex, facevo sì che Davison, benchè umilmente, tentasse trarmela dalla mano, che convulsivamente la stringeva.

Davison, avuto lo scritto, s'avvicinava alla porta per uscire; ma per un nuovo ritorno d'affetto subitamente lo richiamavo. Davison si volgeva, credendo ricevere nuovi ordini; ma tosto, scossa dal sentimento della mia dignità, gl'imponeva di affrettarsi a far eseguire la sentenza. Partito Davison, lasciavo libero corso alla disperazione, ed accusavo Essex d'avermi trascinata a quel passo.

La comparsa di lady Sarah Nottingham, che viene trafelata a chiedere la grazia del Conte, aumenta di nuovo la mia collera e non scorgo in lei che una rivale. Ma all'udire che Haward le aveva strappato l'anello confidatole da Essex per consegnarmelo, dapprima mostrando dubitare della sua asserzione; però, dietro il suo giuramento che per l'anima di sua madre lady Sarah proferiva, ogni sospetto si dileguava. Nel massimo orgasmo ordinavo ad un paggio di far montare il mio fedele Giaurro, di farlo morire nella corsa se occorresse, purchè si raggiungesse Davison andato alla Torre; imponevo si facesse in brani la sentenza d'Essex, promettendo una corona di Conte a chiunque dei miei vassalli riuscisse a raggiungere Davison. Dopo pochi istanti, si avanza Burleigh seguito da Bacone, venendo mestamente ad annunziarmi l'eseguita sentenza! A tale nuova rimanevo come impietrita, poi cadendo sulla mia sedia a bassa voce susurravo: «Morto! Morto!…» A poco a poco mi rialzavo, e con gli occhi iniettati di sangue, colle labbra tremanti, esclamavo: «Ma prima che il sole tramonti, tuonerà un'altra volta il bronzo fatale», (alludendo alla morte di Nottingham ch'ella voleva); ed aggirandomi furente per la scena, gridavo: «Ho bisogno di aver fra le mani la testa del Duca di Nottingham!» Quindi con scoppio di disperato dolore, continuavo: «Ah! il mio Roberto non è più!… Il solo uomo che io abbia veramente amato!… E sono io che l' ho ucciso!… e nessuno ha osato chieder grazia per lui!… tutti l'odiavano! e non uno era degno di baciare la polvere che il suo cavallo sollevava in un giorno di battaglia!…»

Scorgendo Bacone rimasto in disparte, mi scagliavo come furia sopra di lui, l'obbligavo ad avanzarsi, e piena di veleno, gli dicevo: «E tu vile, miserabile! tu eri un nulla, e devi solo a Roberto se sei divenuto qualche cosa; a lui devi gli onori di cui ti ho colmato. Egli, che generoso ti aveva redento dalla vergogna dei tuoi debiti, doveva contare sopra di te, e tu non l'hai difeso… Era tuo sacro dovere di contrastare la sua vita anche con me… dovevi mostrarmi l'Irlanda sottomessa… Cadice in fiamme… dovevi squarciare la sua corazza… contare una ad una le sue ferite… offrirmele a riscatto della sua vita… Invece, tu preferisti guidare la mano dei giudici quando decretarono la fatale sentenza, e la mia quando l'ho confermata!… Maledetto! Maledetto al pari di Caino!…»

Ognuno degli astanti si avanzava per calmare il mio furore, intimavo loro, con tuono imperioso: «Uscite! uscite tutti… lo voglio!…».

Rimasta sola, affranta dall'angoscia, scossa da tante terribili emozioni, non osavo alzare gli occhi al cielo, temendone la sua collera, e cadevo boccone, pronunziando queste parole: «Qui… sola… in un lago di sangue! Sola coi rimorsi… e con Dio!…»

Calava la tela.

Nel quinto atto Elisabetta tocca alla sua fine. Secondo la storia, sebbene prostrata da una malattia di languore, pure la sua tempra d'acciaio si manifesta ancora tratto tratto prodigiosamente; il fuoco che le serpeggiava nelle vene, durante gli anni trascorsi, manda tuttavia qualche scintilla.

Nell'apparire sulla scena, il mio aspetto presentava le alterazioni che l'età avanzata doveva avere operato sul mio volto, nonchè l'impronta del malore che lentamente mi consumava. Le mie parole dovevano denotare lo studio che ponevo nel deludere i miei cortigiani sui rapidi progressi del male, che mi affliggeva. Entravo in scena di ritorno dalla Camera dei Comuni, al braccio di Burleigh, coperta del manto reale, con la corona in capo. L'aspetto doveva essere di persona che tuttavia si trova sotto l'impressione d'una agitazione nervosa; cagione ne era stata una vivace discussione avvenuta in Parlamento. Narrando l'accaduto, mostravo un brio, una forza che doveva sorprendere, ingannare che mi circondava. La trascurata acconciatura dei capelli, le rughe del volto, il tardo movimento delle braccia, delle mani, del passo, dovevano far indovinare al pubblico come più dell'età, un dolore che gelosamente celavo nel cuore logorasse la mia esistenza. A Burleigh che mi consigliava di sedere per riposarmi, rispondeva: «che il moto era la vita, che per essere stata troppo a sedere nella mia lettiga, mi era parso di soffocare».

Viva impressione aveva prodotto in me, nel ritornare al palazzo reale, lo scorgere così poche persone adunarsi sul mio passaggio. Però non volevo lasciar comprendere al mio vecchio ministro l'impressione penosa provata a quella vista. Quindi, fissando Burleigh con uno sguardo scrutatore, ostentando un tuono trascurato, gli dirigevo la seguente domanda: «Dimmi, hai tu ordinato che il mio buon popolo inglese non si accalcasse di troppo sul mio cammino… e… non mi… applaudisse?» Al che rispondendo Burleigh negativamente, senza essere scorta da lui, aggrottavo le ciglia sospirando. Poi ricorrendo a un artifizio, con aria indifferente dicevo, che la mia supposizione era fondata dal sapere com'egli mi ritenesse sempre ammalata, e per ciò avesse creduto che la vista della folla accalcata sul mio passaggio per festeggiarmi avesse potuto infastidirmi o alterarmi. Per accertarlo maggiormente che ora ero perfettamente guarita, cominciavo gaiamente a render conto della vittoria riportata alla Camera dei Comuni, difendendo le prerogative reali. Detto ciò con una compiacenza quasi infantile, soggiungevo: «Eh!…» come convinta di aver parlato mirabilmente, e Burleigh con preniuroso zelo cortigianesco si affrettava di approvare. Poscia, rivolta a Bacone, gli ordinavo di far conoscere a Shakspeare essere mia volontà che si desse un'altra recita dell'Enrico VIII, perchè «godevo vedermi appena nata, fra le braccia della mia Matrina!» Davo le disposizioni per gli allestimenti d'una festa. Quindi, ponendomi a sedere, chiedevo quali notizie corressero per la città, e, udendo parer certa la cattura del formidabile irlandese, Conte di Tirone, rivolgendomi a Burleigh, scherzando, gli dicevo: «Mi sembra aver scacciate parecchie mosche dalla Corona d'Inghilterra!» Approfittando dell'opportunità, Burleigh soggiungeva che «certamente il suo successore l'avrebbe ricevuta splendente e rispettata». All'udire queste parole, drizzandomi, fissavo uno sguardo lungo e penetrante nel volto di lui, lo scrutavo con sospetto, avendo avuto già sentore delle sue segrete corrispondenze con Giacomo VI. Burleigh, che indovina i sospetti della Regina, scusa le sue parole, adducendo il timore che prova «di morire prima di vedere assicurata la successione della Corona». Io fingevo prestare fede alle sue parole e le approvavo apparentemente pacata. Ma volendo por termine a quella ridicola commedia, gli chiedevo «su chi, a parer suo, dovesse cadere la sua savia scelta». «E su chi altri meglio che sul giovine Re di Scozia?» rispondeva egli. Allora, scoppiando l'ira che a stento avevo repressa fino a quel punto, gli gridavo afferrandolo per un braccio: «Qui ti volevo, traditore». «Burleigh traditore?» «Sì, perchè tu mantieni una segreta corrispondenza con Giacomo». «No, ma egli solo forse potrebbe fare evitare una guerra civile alla nostra Inghilterra». «Tale è pure la mia debole opinione» soggiungeva Davison.

Io riprendevo in preda ad un parossismo di collera: «Guerra civile! sempre guerra civile!… Con questo fantasma m'avete fatto condannare alla morte Soffolk, Maria, Babington, Roberto d'Essex!…» A questo nome, le fibre del cuore erano scosse, l'affanno mi serrava la gola, gli occhi si riempivano di lagrime; non potendo più rattenere il pianto, ripetevo il nome di Roberto, gemendo. Tutti si affollavano intorno a me per calmarmi; ma, subentrando all'affanno un impeto d'ira, ordinavo a tutti di allontanarsi, aumentando il mio furore la insistenza che ponevano nel volermi consolare. Affranta dal dolore, dai patimenti fisici, a stento riuscivo a far cessare quella esacerbazione. Dopo una breve pausa, accertatami che ognuno fosse uscito, non vedendomi più forzata alla simulazione, il corpo e lo spirito apparivano in tutta la loro triste realtà. Il ricordo della morte d'Essex, da me stessa ordinata, mi dilania il cuore; i rimorsi mi straziano, mi prostrano, provo il bisogno di gettarmi sul letto. Io mi vi trascinavo a stento, con il corpo piegato, il capo chino, e ponendomi le mani alla fronte, toccavo la Corona che la cingeva.

«Ah! essa è pure un gran peso!» dicevo sospirando «eppure l'ho portata pel corso di 44 anni e mi è sembrata sì lieve!» Dopo un breve istante mi chiedevo: «E chi la porterà dopo di me?…» ma tosto con voce alterata, spingendo la corona lontano, mormoravo: «non voglio saperlo».

Con mestizia riandava col pensiero al mio glorioso passato, deploravo di non sentir più dire: «che cavalcavo come Alessandro, che passeggiavo come Venere, che suonavo e cantavo come Orfeo!… Non udivo più il pubblico applaudirmi al mio apparire. Deploravo che la mia lettiga procedesse nelle vie come un feretro! Allora chiedevo a me stessa se causa ne fosse l'essere io divenuta molto vecchia! Però gli anni non lasciarono traccia su me—dicevo—non un filo d'argento sui miei bei capelli d'oro!…» e passava la mano tra i capelli con vanità e compiacenza giovanile. Poi con gesto espressivo lasciavo comprendere al pubblico che per accertarmene volevo consultare lo specchio; ma appena mi contemplavo in esso, me ne scostavo con disgusto, scorgendo i profondi solchi impressi sul viso, il languore degli occhi, le guancie livide e macilenti. Il respiro cominciava a farsi affannoso, l'occhio ad offuscarsi, la mente a sconvolgersi. Spaventata gridavo ripetutamente: «Aiuto!» ma per un istantaneo ritorno d'orgoglio, soffocavo le mie grida, comprimendo il fazzoletto sulla bocca; il male imperversando, la ragione cominciava ad alterarsi. Mi figuravo vedermi avvolta dalle tenebre, scorgeva ombre bianche e spettri insanguinati venirmi incontro. Per sfuggirli e non essere afferrata da loro, mi rannicchiava nel letto; ma i capi recisi, che mi sembravano rotolare ai miei piedi, mi atterrivano, ed in preda a spasimi orrendi cadevo nuovamente sul letto, chiedendo a mani giunte, e con voce soffocata, misericordia e pietà! Dopo una lunga pausa, ritornavo in me. Senza aprire gli occhi e con voce semispenta, chiamavo Burleigh, acciò venisse a soccorrermi. Ma Giacome VI, che trovavasi celato nel gabinetto di Elisabetta, accorre alle mie grida e mi aiuta a rialzarmi senza ch'io lo riconosca. Tosto in piedi, ravvisando Giacomo, esterrefatta, con alte grida chiamavo le mie guardie, le mie dame per difendermi; tutti accorrevano e mi circondavano. Allora con accenti interrotti per lo spavento e col gesto tremante, indicava Giacomo a Burleigh, che mi rassicurava dicendomi: «Altri non essere che il Re di Scozia venuto a Londra per informarsi della mia salute» e soggiungevo: «Ma perchè si reca tra le mani la testa di sua madre? che vuol farne? forse gettarmela in viso?» A tali parole, Giacomo si avanzava verso di me. Io, atterrita, gettando un grido, mi rifuggivo tra le braccia dei miei fedeli, coprendomi il volto con ambo le mani, come per respingere il contatto dei mozzo capo della Stuarda. Dietro le assicurazioni dei miei cortigiani, nonchè dello stesso Giacomo VI, mi calmavo, e, facendomi velo agli occhi con la mia destra, con infantile e paurosa esitanza guardavo attraverso le dita se veramente Giacomo non avesse mentito, e, accertatami della verità, mi rincoravo gradatamente, il respiro usciva più libero dal petto, un sorriso sfiorava le mie pallide labbra, ripeteva ad ognuno non essere stato che un sogno il mio, e terminava col dire: «Sto meglio! sto meglio!» In quel punto Drack ritorna dalla sua missione, recando l'annunzio dell'arresto di Tirone. Sebbene affievoita dal male e dalla scossa patita, Elisabetta a tale annunzio getta un grido di gioia per sentire umiliato colui che l'aveva fatta tremare sul trono, ed ordina che gli si tronchi subito il capo. Ma Drack le fa riflettere che non avrebbe mai avuto nelle mani il terribile Irlandese s'egli stesso non si fosse arreso, confidando nella grandezza d'animo della Regina. Penetrata da tali parole, per un ritorno di magnanimo sentire, rimanevo per un istante meditabonda, perplessa. Con una occhiata significante consultavo Burleigh, il quale per cenni rispondeva doversi perdonare. Allora dicevo con molta dignità a Drack: «Chi mi ha stimata grande non mi troverà minore della mia fama… Gli perdono!»

Ma già l'ultimo momento d'Elisabetta s'avvicina, già le forze l'abbandonano; Burleigh e la consorte la conducono barcollante al suo letto, sul quale l'adagiano. Sentendosi morire, Elisabetta acconsente a scegliere un successore. Guardavo Giacomo in modo come se volessi significare che forzatamente la mia scelta doveva cadere su di lui; lo facevo inginocchiare davanti a me; Lady Burleigh mi porgeva la corona, ed al momento in cui stavo per incoronarlo, gli dicevo stentatamente: «Inginocchiatevi… io v'incorono… re!…» Queste parole mi uscivano dal labbro come se mi fossero strappate dal cuore. La plebe avvisata dal balcone con un cenno di Davison che il grande atto era compiuto, si pone a gridare: «Viva Giacomo I re d'Inghilterra».

All'udire tali voci, furente, chiamavo il mio popolo indegno. Dal capo di Giacomo strappavo la corona, la ponevo sulla mia testa, tenendovela con le due mani, gridando: «Popolo ingrato! Io vivo ancora!…»

Ma le forze abbandonandomi intieramente, mi adagiavo sul letto; col rantolo della morte raccomandavo a Giacomo «la Bibbia e la spada di mio padre».

Subentrando allora il delirio dell'agonia, il ricordo d'Essex si affacciava alla mente; sembravami di vederlo, gli protendevo le braccia, come lo volessi attirare a me per dargli il bacio del perdono, e dopo breve lotto con la morte, finalmente soccombevo, rimanendo cogli occhi invetriti, attorniata dalla mia Corte, che piangente, ripeteva: «È morta!»

Ecco, come io ho ritenuto di dover interpretare questo magistrale lavoro del compianto Giacometti. Ho studiato, come dissi, nei limiti rigorosi della storia quello strano carattere di donna e di regina. Le ultime scene, che sono, si può dire, l'epopea del dramma, io le andai sviluppando colla fermezza, colla persuasione, che tutta l'amarezza di quei passaggi, dall'abbattimento alla vigoria, erano il preludio d'un addio amarissimo ad un lungo passato di potenza; e tutto ciò mi sono studiata d'interpretare e di fare comprendere come un riepilogo del fascino che man mano andava spegnendosi, e dei rimorsi che si facevano anche più giganti, all'appressarsi della morte.

Lo studio di questo personaggio mi offrì grandissima difficoltà, vedendomi dinanzi non ad un essere comune, ripieno di abbiette passioni, di frivoli eccessi, ma ad un concepimento colossale di perfidia, di dissimulazione, d'ipocrisia, tratteggiato con tanta maestrevole grandiosità dallo Shakspeare, con tali manifestazioni iperboliche, da sgomentare qualunque ingegno drammatico.

Alcuni, risalendo alle origini prime della leggenda cui attinse Shakspeare l'ispirazione, opinarono che in lady Macbeth predominasse l'amore del consorte, così da indurla a divenir colpevole per vederlo regnare.

In me invece la disamina di questo carattere, produsse la profonda convinzione che in lady Macbeth l'affetto pel consorte fosse l'ultimo dei moventi del suo operare; che ella fosse animata solamente dall'eccessiva ambizione di regnare col marito, e che, conoscendone la inferiorità di concepimenti, la debole indole, che non riusciva ad invigorire neppure la sete del dominio, che tanto gli ardeva le vene e il cervello, non se ne valesse che come mezzo per giungere alle sue mire. E forte del fascino che esercitava su di lui tanto la sua maschia natura, quanto la straordinaria potenza infernale che possedeva, ne approfittò per filtrargli nell'animo il veleno del delitto sotto le forme più naturali, e coi ragionamenti più insinuanti e persuasivi.

Non già che Macbeth avesse un'indole non proclive al male, dacchè Shakspeare ci dimostra quale germe d'ambizione fosse in lui, quali chimere gli frullassero per la mente. Le celava ad ognuno solo perchè gli sembrava impossibile il realizzarle. Non potrei meglio dipingere l'indole di quest'uomo, di quello che meravigliosamente lo fa Shakspeare in una parte del primo monologo di lady Macbeth, la quale, con la sua profonda perspicacia, l'aveva pienamente compreso. E questo mio giudizio apparirà anche più evidente nell'analisi che farò del messaggio. Forse avrebbe anche potuto ammettersi una simile mostruosa tenerezza in lady Macbeth, se non avesse diviso col marito il potere e la grandezza regale; ma partecipandone, sostengo altamente che, non solo per ambizione ed amore del consorte essa divenne il suo istigatore infernale, ma per ottenere gli onori supremi del potere cui agognava. Chi fu madre, chi dice conoscere quanto grande sia l'amore pel figlio che si nutre col proprio latte, ed è capace di dichiarare al marito, senza raccapriccio, che se avesse giurato di sfracellare il cranio della sua creatura non avrebbe esitato un momento (e ciò per far vergognare Macbeth della sua pusillanimità nel retrocedere davanti all'unico mezzo che convenisse al suo reo proposito) non è una donna, non una creatura umana, ma un essere peggiore della belva, e come tale non può ammettersi in lei l'esistenza di un dolce affetto. Nullameno, non volendo tenere per infallibile il mio concetto, non cessai dal fare nuovi studi e nuove indagini sugli apprezzamenti della tragedia stessa, e sulla interpretazione che le avevano data alcuni valentissimi artisti.

Quale non fu la mia soddisfazione, leggendo in appresso in The Nineteenth Century, feb. 1878, il magnifico studio che Mr G. J. Bell, dotto professore di giurisprudenza nell' Università di Edimburgo, fece sulla interpretazione che la celebre attrice inglese Mrs Siddons, diede alla parte di lady Macbeth! Fra le note vi è appunto questo passaggio, per me importantissimo: «La sua turbolenta ed inumana natura fa tutto. Essa trae Macbeth al suo proposito, e fa di lui un semplice instrumento, divenendone essa la guida, la direzione, insinuandogli tutto il complotto. Come genio malvagio di Macbeth, lo spinge nella pazza carriera di ambizione e crudeltà, alla quale egli avrebbe voluto sottrarsi».

Dopo ciò, nella lusinga di aver dimostrato bastantemente, con argomenti e prove irrefragabili, che la mia interpretazione del personaggio di lady Macbeth sia quale Shakspeare l'ha ideata ed indicata con le sue stesse parole e con la natura dei fatti, passerò ad analizzare altri punti importanti di questa difficile parte.

Varii sono i pareri sulla interpretazione della lettura del messaggio, che Macbeth dal campo fa pervenire alla consorte, e che Shakspeare le fa tenere nelle mani al suo primo apparire sulla scena. V'è chi sostiene che un messaggio, venutole in quel punto dal marito, deve farle nascere tale bramosìa di conoscerne il contenuto, da non parer naturale in lei l'aver atteso di venire davanti al pubblico per leggerlo, e perciò avrebbe dovuto prenderne immediata cognizione.

Io invece dirò non essere nemmeno naturale e verosimile che Shakspeare, quel gran poeta, quel gran filosofo scrutatore della natura umana, abbia potuto servirsi del frivolo espediente di far venire a leggere la lettera in scena da lady Macbeth, all'unico scopo di farne conoscere allo spettatore il contenuto, e per esporre quelle profonde riflessioni che avrebbe dovuto già fare antecedentemente. Soltanto uno scrittore di poco conto, novizio, arido di mente e povero d'inventiva, sarebbe ricorso a tale ripiego; ma non già il gran poeta dall'immaginativa più fervida, che passa dal grandioso al bello con somma facilità.

Dev' essere stato per certo divisamento dell'autore che apparisse avere lady Macbeth ricevuto il messaggio appunto nel momento in cui entra in scena, ed il modo è facilissimo e naturale. Presentandosi ansiosa, agitata, fa comprendere al pubblico che da quello scritto essa presentiva dovessero rivelarsi a lei grandi avvenimenti, che avrebbero cangiata la sua esistenza, trasportandola alla più suprema altezza, purchè le circostanze avessero dato un indirizzo a quel turbine di propositi, che nella sua mente si condensava. Altra prova più convincente che lady Macbeth nel presentarsi al pubblico aveva già cominciata la lettura del messaggio è il primo verso dello scritto da lei letto:

Nel dì della vittoria io le incontrai.

Può mai essere questo il principio d'un foglio così importante? Non le doveva già aver reso conto Macbeth della battaglia, della vittoria riportata e dell'esistenza di queste magiche sorelle?

Io pensai di leggere quello scritto difilato, come se ne avessi già lette le prime parole, entrando in scena, non arrestandomi che nei punti nei quali la strana conoscenza dell'accaduto si accorda con quello che il destino regolatore di tutti gli eventi le aveva lasciato da lungo tempo intravedere.

Per esempio coll'espressione della fisonomia io esprimevo una meraviglia superstiziosa, leggendo che le fatali sorelle si erano sciolte in aria dopo il vaticinio che gli avevano lanciato e dopo «O tu che Re sarai, salve!»

Terminata la lettura, io facevo una lunga pausa, come se analizzassi di quello scritto il fatidico contenuto, così conforme a quello che io sperava. Ma poi per un momento rimanevo tristamente dubbiosa, cupa, considerando e temendo la debole natura del consorte; quindi, riflettendo ai punti più salienti del messaggio, dicevo:

Glami e Caudor tu sei, quel che promesso Ti fu, sarai.

Ed al «sarai» dava una forza ed un'espressione soprannaturale.

In seguito fui ben lieta di leggere nelle interessanti note del Prof. Bell che Mrs Siddons pure, con un tuono profetico, esaltato, come se tutti i misteri del futuro si fossero interamente svelati all'anima sua (Exalted prophetic tone as if the whole future were present to her soul) nel passaggio «Glami e Caudor tu sei, quel che predetto—Ti fu, sarai»

Glamis thou art and Cawdor, and shalt be What thou art promised,

accentuava fortemente il «sarai» shalt be.

È questa un'altra prova convincente come la Siddons pure comprendesse l'importanza di analizzare il foglio, di ponderarne ogni frase, di trasmetterne il mistico valore al pubblico nella sua cupa febbre di ambizione; naturalmente ben diversa ne sarebbe stata l'espressione, se lady Macbeth avesse avuto intera conoscenza dello scritto.

I seguenti versi che fanno parte del monologo cui più sopra ho accennato, e che dipingono coi più vivi colori la natura del carattere di Macbeth, trovai logico di recitarli come se mi figurassi di proferirli dinanzi a lui stesso, fissando il mio occhio di avoltoio nelle latebre dell'anima sua, quasi ve li volesse imprimere con caratteri di fuoco:

Pur tua natura io temo Che d'umana bontà soverchio latte Bebbe per trarti alla più corta via. Grande esser vuoi; d'ambizione non scemo Se' tu, ma in alto salir credi, senza Il mal che l'accompagna. Quel che agogni Santamente il vorresti; un falso giuoco Abborri, pur non ti disgrada a torto Vincere!—Sir di Glami, a un ben tu aneli Che grida: ciò far dei per possedermi: Ciò che di far paventi, e pur non sai Bramar che non sia fatto.

A dimostrare poi che la preoccupazione era cessata, e che anelavo ardentemente il ritorno del marito per cominciare a stendere le fila delle malefiche arti, dicevo:

Or qui t'affretta, Che negli orecchi il mio coraggio io possa Versarti, e col valor del labbro mio Ogni inciampo spezzar che fra te sorge E l'aureo cerchio a cui ti chiama il fato E un poter sovrumano.

Mi rivolgeva allora verso quella parte per cui doveva ritornare Macbeth onde esprimere che, cessate le riflessioni, cominciava a formarsi nella mia mente il piano che la lettura del messaggio doveva necessariamente suggerirmi.

Lo spaventoso soliloquio della scena che segue la partenza del messo, rivela tutta la infernale perfidia e crudeltà di questo mostro in sembianze umane, e di quali forze soprannaturali essa si armi per riuscire a condurre il marito a divenire lo strumento della sua ambizione. In una parola essa diventa lo spirito satanico del corpo di Macbeth. Egli ha un bel lottare fra il volere e non volere; questa donna, questa serpe si fa padrona assoluta di lui, lo stringe nelle sue spire, nè verun potere umano varrà a strapparlo da esse. Per conseguenza, le prime parole di questo monologo le pronunciavo con voce cavernosa, con occhi iniettati di sangue, con l'accento d'uno spirito che sorge dagli abossi, e lo terminavo con un crescendo di voce tuonante, che si mutava in una esagerata esclamazione di gioia, alla vista del consorte.

Durante questa prima scena con Macbeth, ho creduto dover tenere un contegno freddo, riservato, paziente, non compenetrandomi punto dei deboli dinieghi del marito di ascoltare le insinuazioni delittuose che gli fa la moglie, quantunque convinto che presto gli sarà giuocoforza cedere al suo potere. Perciò ho immaginato una controscena all'uscita dei due personaggi, che esprimesse il fascino potente che questa donna esercita sul marito. Io mi figuravo che Macbeth volesse nuovamente interrogarmi, chiedermi ulteriori spiegazioni; per impedirgli di farlo ho ideato d'indurlo a passare metà del suo braccio sinistro intorno alla mia vita. In questa attitudine prendevo nella mia mano la sua mano destra, e ponendomi l'indice sulle labbra, gli imponevo di tacere, e frattanto lo spingevo dolcemente dentro le quinte, cui egli volgeva le spalle. Tutto questo era eseguito con un concatenamento di sentimenti, di sguardi magnetizzanti, al cui fascino Macbeth doveva indubitatamente cedere.

Eccessive poi debbono essere l'ipocrisia, la finta umiltà di lady Macbeth quando va ad incontrare il re Duncano, e con la più perfida simulata dolcezza invita il buon vecchio ad entrare nel castello.

Nella scena susseguente col marito è necessario ben delineare, ben colorire con tinte vivissime due cose; prima il contrasto delle arti perverse di lei, che rampogna energicamente Macbeth per la pusillanime volubilità di non volere egli, in quel punto, ciò che agognava poco prima; e ciò per una puerile riscossa di coscienza; in secondo luogo l'infernale arte persuasiva adoperta da lei per far trovare facile, semplice e naturale il piano del delitto e l'impossibilità d'essere scoperti.

Vari sono i passaggi terribili di questa scena; sono magistrali quello in cui Lady Macbeth rampogna il marito per aver lasciato così improvvisamente la cena, facendo notare la sua assenza; e quello, nel quale Macbeth supplica la consorte a non voler proseguire più oltre, perchè il commettere il progettato delitto sarebbe un'orribile ingratitudine…

A tale preghiera la perfida donna risponde:

Ebbra era dunque la speranza Che in cor nudristi? Or sonnecchiò, e si desta Allividita nel mirar l'aspetto Di ciò che volle pria? Da questo punto L'amor tuo ben lo apprezzo. Tremi farti Nell'opra e nel valor, qual nel desire Già sie? Tu aspiri a ciò che pregio estimi Di vita, e vivi da codardo in faccia Di te medesmo, dalla brama acceso, Rispinto dal timor come la volpe Di quella fola antica…

Ognuno sa che allude al proverbio registrato dall'Heywards: «il gatto vorrebbe i pesci senza bagnarsi piedi».

Macbeth. Deh! ten prego:

Quant'uom può fare io l'oso, e chi più osa Uomo non è.

Qui Lady Macbeth, nel procinto di veder dileguarsi ogni suo sogno ambizioso, con accento infernale dice:

Qual mai dunque ti spinse A palesarmi questa arcana impresa Stupida idea? Quando osavi, un uomo Ben eri tu. Maggior di quanto fosti Diventi, e più che uomo esser non sai? Nè a te s'offriano allor tempo, nè loco, E l'uno e l'altro tu cercasti; or essi S'offrono pronti, e tu disfatto langui, Tu cedi? Il latte io porsi, e so di quanto Amore il nato che dal sen le pende Ami una madre.—Or ben, nel punto stesso Ch'io sorrider mirassi il figlio mio, I molli labbri suoi sveller da questa Fonte di vita, frangergli saprei Anche il cerèbro, ove profferto il giuro N'avessi qual tu l'hai profferto.

Dopo di che, la perplessità che è caratteristica dell'indole di Macbeth, lo induce a chiedere tutto impensierito all consorte:

E dove si fallisse?

Al che, con tuono di scherno, rispondevo:

Fallir? Rinsalda il tuo Coraggio; ove non crolli non potremo Fallir noi. Quando al sonno a cui del duro Vïaggio la fatica già lo invita Ceda Duncano, io stessa con ricolme Coppe di vino e d'idromele i due Seguaci vincerò sì, che svanita La memoria, custode del cerèbro, Non sia che un fumo, e di ragione il seggio Un fragil vetro. Poichè in vinolento Sonno, quasi di morte, la lor ebbra Natura giacerà, che non potremo Sovra Ducan, d'ogni difesa ignudo, Compir tu stesso ed io? Chi ne divieta Di por sugli ebbri duci orma che soli Rei li dica del nostro alto misfatto?

Questi frammenti testuali, a me sembrano sufficienti a confermare il giudizio dal quale faccio precedere i versi.

Salto di piè pari il secondo atto, non essendo in quello che situazioni chiare, conseguenti all'andamento dell'azione, e che non offrono alcuna difficoltà d'interpretazione, sebbene abbraccino le tremende impressioni che tormentano in appresso le veglie e l'agonia di Lady Macbeth. Ognuno comprenderà di leggieri l'ansia che essa doveva provare di conoscere il risultato dell'attentato contro Duncano, da lei ben predisposto; la gioia di saperlo effettuato; l'agitazione che la doveva dominare per i terrori, le smanie ed i rimorsi esagerati del consorte. Lo spavento che essa prova allorchè sente bussare alla porta del castello con tanta insistenza, non è per effetto della tema vigliacca che venga subito scoperto il delitto, bensì per quella, che lo stato di totale prostrazione di Macbeth compromettesse ogni cosa, facendo svelare i piani architettati nella sua mente con tanta satanica maestria.

Nel terzo atto vi sono situazioni degne di speciale commento, le quali mi accingo con studio minuto ad analizzare dimostrando che ho procurato di renderle quali l'autore le ha tracciate.

In quest'atto, nel quale maggiormente si vede la perizia di Shakspeare, Lady Macbeth se non con la parola, con la importanza del suo giuoco di scena, può diminuire o ingrandire molte fra le bellezze del dramma. Questa considerazione mi portò a fare uno scrupoloso studio logico-analitico. Per esempio, io non doveva trascurare l'entrata del sicario che viene ad annunziare a Mecbeth il compito assassinio di Banquo ed il fallito attentato contro Fleanzio, che gli cagionano due sì diverse, ma grandi emozioni da non isfuggire ad un occhio vigilante, come quello di Lady Macbeth. Allora, alla vista del sicario che si presenta sulla soglia della sala del banchetto, essa sola lo scorge parlare sommesso al marito; ne nota i concitati movimenti, non perdendolo mai di vista. Essa deve temerne qualche imprudenza, rammentandosi averle egli detto poco prima «che un grande fatto doveva compiersi che l'avrebbe stupita».

Ho considerato che in tale scena Lady Macbeth debba temere fortemente che i convitati avvertano quello strano colloquio, in quel luogo, ed in quel momento, e possano concepire gravi sospetti a danno dei loro progetti. Ho trovato quindi necessario, ed opportuno, fare un doppio giuoco di scena cioè, con una mimica piena di cortesia, prender parte alla conversazione ed ai brindisi che mi dovevano dirigere i convitati —rimasti però sempre sui loro scanni—e ad intervalli, lanciare alla sfuggita degli sguardi timorosi ed investigatori sul gruppo del marito col sicario; finchè poi, per trovare un mezzo onde rendere accorto Macbeth del pericolo che correva di tradirsi con una imprudenza, dicevo in tuono molto vibrato e con ostentata giovialità:

Tu non desti, Mio Sir, letizia qui; se grazia e amica Sembianza no 'l ravviva e' par venduto Non già offerto il convito; al cibo basta Il proprio desco, fuor di casa primo Condimento a vivande è cortesia, O ti parranno insulse!

Con lo stesso giuoco di scena, ma con accento più vibrato di prima, con un tuono di rimprovero fra il serio ed il faceto, gli dava il seguente avviso:

Ad aspettarti Gli amici tuoi qui stanno, o mio consorte.

Profferiva però queste parole sempre in modo che solo Macbeth potesse comprendere lo scopo del secondo richiamo. Questo era apparentemente giustificato dall'intenzione che Macbeth potesse mancare di cortesia verso i suoi invitati, trascurandoli.

Io dimostrava grandissima agitazione e sgomento per le incomprensibili furiose visioni di Macbeth, vedendolo in procinto di rivelare tutto il segreto delle nostre colpe. Evidentemente in questa situazione devono essere bene scolpite le espressioni e lo sforzo che fa Lady Macbeth, per cuoprire le allucinazioni del marito e tentare di ricondurlo a se stesso. Benchè i rimproveri fossero acerbi, Lady Macbeth doveva, parlando coi suoi ospiti, conservare la larva di gaiezza impostasi sul volto, scusare le stravaganze del consorte, attribuendole ad un'antica infermità.

Alla fine delle inconsulte smanie di Macbeth, riuscendo vani tutti i di lei sforzi per frenarle, la gentildonna si vede costretta a congedare convulsivamente i suoi commensali per rimaner sola con lui, e far cessare una situazione divenuta impossibile e perigliosa.

Usciti gl' invitati, pensai far cominciare da quel punto la prostrazione di quella donna; immaginare una controscena di abbattimento, di sconforto, già compenetrata com'io ero della dolorosa convinzione che vano era lottare contro un destino divenuto avverso in un baleno. Lasciavo intravedere come i rimorsi cominciassero a tormentarmi, a rodermi il cuore; ed il lasciar intravedere il principio di quelle terribili sofferenze lo trovai necessario per giustificare e rendere più verosimile la precipitata fine di questa gran delinquente!

Al termine dell'atto, al momento di partire, davo a conoscere come fossi penetrata da un senso di affettuosa pietà per Macbeth, per mia cagione ridotto il più miserabile degli uomini, e nel dirgli:

Il balsamo ora invoco Che acquieta ogni natura, il sunno,

prendevo la sua sinistra colla mia mano destra, me l'appoggiavo sulla spalla diritta, e poi ora chinando cupamente il capo in atto di chi riflette dolorosamente, ora sollevandolo verso il cielo con espressione di sgomento, e rivolgendolo poscia verso il marito con uno sguardo pieno del vivo rimorso che mi agitava l'anima, lo trascinavo lentamente verso le nostre stanze nel modo stesso che si conduce uno spossato demente. Poi, giunta quasi al limitare della scena, facevo sì che Macbeth, spaventato da un lembo del suo manto intricatosi fra i piedi, avesse un altro pauroso soprassalto. Allora con repentino slancio gli passavo dall'altro lato, esterrefatta io pure, e, forzandomi di padroneggiare quel terrore dal quale, mio malgrado, mostravo al pubblico d'essere assalita; con un po' di violenza riuscivo a spingerlo dentro le scene, procurando calmarlo con modi affettuosi.

Questo giuoco di scena, che non dissonava menomamente con la logica e la verità della situazione, produceva sempre un grandissimo effetto.

Nel quinto atto Lady Macbeth non ha che una scena di breve durata, ma esso è uno dei più meravigliosi e filosofici concepimenti dell'autore, ed all'attrice che la rappresenta offre immense difficoltà d'interpretazione.

Questa donna, questo colosso di forze fisiche e morali, che con un suo detto aveva il potere d'immaginare e far eseguire tele ordite con sapere infernale, eccola ridotta larva di se stessa, per effetto dei rimorsi che, come acuto rostro d'avoltoio, le straziano il cuore, turbandole la ragione, pel che diventa si esattamente inconsia di se stessa da svelare nel sonno il suo tremendo segreto. Ma che dico «sonno» È una febbre che, salendole al cervello, glielo assopisce; i patimenti fisici, impadronendosi del suo spirito col ricordo del male di cui ella è stata cagione, padroneggiano e regolano i suoi movimenti, dando, a sbalzi, indirizzi diversi alle sue idee. Lo provano le stesse parole che la gentildonna dice al dottore:

Poichè il re sta in campo, Ogni notte dal letto uscir lo vidi Indossar la sua vesta, il gabinetto Aprir, torne dei fogli e ripiegarli. Scriver, legger lo scritto e suggellarlo, Ed a letto tornar poscia nel sonno Più profondo.

Il dover rendere vera questa artificiosa e duplice manifestazione e fonderne gli effetti fra loro senza cadere nell'esagerato e nel fantatisco ad ogni strano cambiamento di fisonomia, di gesto, di voce, mi cagionò uno studio faticosissimo. Entravo in scena coll'aspetto d'un automa, trascinando i piedi come se portassero una calzatura di piombo. Posavo macchinalmente il mio lume sopra il tavolo, avendo ben cura che tutti i miei movimenti fossero tardi, inceppati dai nervi intorpiditi. Coll'occhio fisso, che guarda, ma non vede; le palpebre sempre aperte, il respiro stentato, affannoso, dimostrava incessantemente l'agitazione nervosa prodotta dalla disorganizzazione del cervello. Infine bisognava ben chiaramente esprimere che lady Macbeth era una donna in preda d'una malattia morale, i cui effetti, e le cui manifestazioni partivano da una causa terribile.

Posato il lume sulla tavola, mi avanzavo sino quasi alla ribalta, fingevo scorgere sulle mie mani ancora del sangue, e nello stropicciarle, facevo l'atto di chi prende col concavo delle mani una quantità d'acqua per lavarsele. Avevo ben cura che questo movimento ripetuto in vari punti, fosse variato. Dopo quest'atto dicevo:

Ancor qui c'è una macchia, Oh macchia maledetta! Via… via ti dico.

Quindi, ascoltando, dicevo sommessamente:

Un'ora!.. due! farlo… ecco il momento.

poi come rispondendo:

Buio è nell'inferno. Ti vergogna, o consorte! tu guerriero Tremi? Perchè temer ch'altri lo sappia, Quando sarem possenti e niuno fia Che ne chiami a ragion?

E qui, tornando alla causa del suo delirio:

Pur chi mai Avria pensato che quel vecchio avesse Tanto sangue?

e mostrava essere colpita dal color del sangue da cui parevami aver intriso le mani. Tornando alle manifestazioni del delirio, riprendevo:

Il Sir di Fife Aveva una consorte, or dov'è dessa?

e rimirando le mie mani con espressione tra lo stizzito ed il triste:

Mai queste mani non potrò far monde.

Con moto convulso nuovamente le stropicciavo. Poi, sempre in delirio, in tuono acre, parlando concitata, fingevo bisbigliare all'orecchio di Macbeth:

Non più signor, non più, co' tuoi timori Ogni cosa tu perdi.

Quindi ritornando all'idea primiera, fiutava leggermente le mani, e fingendo odorasero di sangue, prorompeva, addolorata:

Qui odoro di sangue sempre! Oh non potranno Lassa, tutti i profumi dell'Arabia Giammai lenir questa picciola mano!! Ah! Ah! Ah!

e facevo queste esclamazioni come se un brivido interno mi serrasse il cuore ed a fatica mi si sprigionassero dal petto, dopo di che rimanevo col capo riverso, respirando a stento, in preda a profondo letargo.

Durante il piccolo dialogo tra la gentildonna ed il dottore, fingevo nel delirio essere trasportata alla scena dell'uccisione di Duncano, e come l'obbiettivo del mio cambiamento d'espressione fosse la vista della stanza del re, curvandomi col corpo, avanzandomi lentamente con mistero, verso il mio lato destro dove immaginavo avesse avuto luogo l'uccisione, davo a divedere d'udire il passo accelerato del marito, ed ansiosamente con la tensione dell'orecchio nell'attitudine di chi attende, esprimevo come Macbeth venisse a confermarmi il compimento del fatto. Allora con uno slancio di gioia, come se lo vedessi apparire, annunziandomi la compita uccisione, vivamente agitata, dicevo:

Le man ti lava. Vanne, ponti la tua veste di notte! Sì pallido non sii, tel dico ancora, Banco è sepolto, e da sua tomba uscire Non può!

Però avevo cura di non mai dimenticare che la donna che parlava era in preda ad un sonno agitato; perciò usavo, durante tutta questa scena, fra un pensiero e l'altro, un respiro lungo ed affannato.

I seguenti versi:

A letto, a letto! Là si batte alla porta; vieni, vieni, Vieni qui; la man dammi; quel ch'è fatto Non può disfarsi. A letto, a letto…

li pronunciavo con un tuono d'insinuazione, come se si trattasse di cosa che si dovesse aver cura di far prontamente; poi, spaventata dal figurarmi si battesse alla porta del castello e si venisse a sorprenderci, mostravo una emozione, uno sgomento maggiore; e quasi trovassi necessario celarci prontamente nelle nostre stanze, mi avviavo verso quelle, invitando Macbeth a seguirmi dicendo: «Vieni! vieni! vieni!…» in tuono imperativo e furioso. Poscia, simulando d'avergli afferrata la mano, mostravo trascinarlo in salvo suo malgrado, e spingendolo a gran fatica, sparivo dalla vista del pubblico, dicendo con voce soffocata: «A letto! a letto! a letto!…»

Qui ha fine il compendio di manifestazioni e di sentimenti siffattamente singloari, che quasi non paiono concepiti da animo umano, e lo studio dei quali mi è riuscito tanto difficile, quanto è evidente la singolarità delle situazioni in cui mi vedevo trasportata dalla fantasia del poeta.

Per quanto abbia l'intimo convincimento d'essermi addentrata, il meglio che per me si potesse, nello spirito del personaggio, affido questa analisi della mia interpretazione al giudizio della critica; da ciò che ho detto dovrà almeno apparire chiaramente lo studio e la fatica che tale interpretazione mi ha costato.

Senza risalire alla più remota antichità, anzi per non occuparmi che dei tempi nostri, dirò che l'argomento di Medea fu rimesso sulle scene verso il 1810 da una illustrazione della letteratura italiana, cioè da Gio. Batt. Niccolini. Ma sebbene di tratto in tratto apparissero in questa sua tragedia dei lampi d'ingegno, e la forma fosse d'imitazione greca, essendovi stati adattati anche alcuni passaggi tolti dall' Euripide e da Seneca, pure, essendo stata trovata scarsa di quegli effetti che colpiscono i sensi dello spettatore, e nel dialogo qua e là alquanto prolissa, non venne rappresentata colla frequenza delle altre opere di questo rinomato autore.

Altra Medea pubblicava poco dopo il duca Della Valle, e fu trovata assai meritevole, per avere egli svolto sì vieto argomento in modo assai conciso; in mancanza della grandiosa impronta greca, seppe trovare effetti scenici che resero quella tragedia popolarissima; non vi era prima attrice di grido che non la recitasse, e i capo-comici gareggiavano fra loro nel porla in scena.

Io non volli mai rappresentarla. Avendomi la natura dotata al più alto grado di sentimenti materni, rifuggiva dall'idea che una madre di sua mano e con proposito preconcetto potesse uccidere i proprii figli! Nè ammettevo tale mostruosità neppure sulla scena. E per quanto vive fossero le preghiere che mi venivano fatte dai miei capo-comici, nulla valse a distogliermi da una tale istintiva avversione.

Al mio arrivo in Francia nel 1855, erano ancora recenti i dissapori fra l'illustre Legouvé e quel vero genio della tragedia francese che si chiamava Mademoiselle Rachel.

Dopo poche rappresentazioni da me date alla sala Vantadour, nelle quali ebbi la sorte di accattivarmi la simpatia del pubblico parigino, un giorno la mia cameriera venne ad annunziarmi che due signori desideravano farmi visita. Non aveva ancora terminato di desinare (gli artisti drammatici sono forzati a farlo di buon' ora), ma li feci entrare.

—Io sono Mr Scribe—mi disse l' uno.

—Ed io Mr Leguové—soggiunse l'altro.

Chi non conosce in Italia questi due nomi? In quel tempo si davano presso di noi commedie dello Scribe a tutto pasto; alcune fra esse formava una parte attraente ed integrante del mio repertorio, ad esempio: Adriana Lecouvreur, Luisa Lignarolles, ecc., ecc. Per conseguenza, nel trovarmi innanzi a uomini di tanto ingegno, rimasi confusa, ma al tempo stesso lietissima. S'intavolò fa noi una gaia e vivace conversazione, nella quale passammo in rassegna tutte le loro produzioni da me recitate; e in seguito alle cortesi insistenze dei due visitatori, acconsentii a recitare loro qualche brano di Adriana Lecouvreur, che, naturalmente ebbero l'amabilità di trovare di loro piena soddisfazione! In quella visita non si andò più oltre. Ma pochi giorni dopo, rividi Mr Leguové e fra noi ebbe luogo il seguente dialoge:

—Perchè, signora, non recitereste la mia Medea?

—Caro signore—risposi—per una ragione seriissima. Io porto un affetto così vivo ai bambini in generale, che, giovinetta ancora, allorchè il caso mi faceva imbattere in un visetto carino, dalle guancie paffutelle, dallo sguardo raffaellesco, biondo, ricciuto, fosse egli in braccio alla nutrice o tenuto a mano dalla cameriera, me lo baciavo con trasporto, incurante delle bieche occhiate che quelle donne mi lanciavano. Da ciò deducendo quanta adorazione abbia per i miei figli, comprenderà che neppure per finzione potrei fingere di svenare sulla scena quelli improvvisati per la circostanza. Veda, in Italia noi abbiamo una Medea che piace moltissimo, che fa l'interesse dei capo-comici, e le attrici ne formano un perno del loro repertorio; ma, per me, sia pur valente l'attrice che lo rappresenta, non vado mai a udirla recitare.

—Eppure la mia Medea uccide i figli in modo da lasciar indovinare che è la madre che commette quel nefando delitto, ma al pubblico non si offre lo spettacolo di vedere materialmente compiere tale atto.

—Perdoni, Mr Legouvé, ma non potrò mai persuadermi che l'orrore che deve ispirare in quel punto la protagonista non debba indisporre il pubblico contro di lei.

—Vorreste farmi almeno il favore di leggere la mia Medea, per accertarvi della verità delle mie asserzioni?

—Sia pure, non voglio essere scortese con voi che siete gentile con me; ma fin d'ora vi prevengo (non ve n'abbiate a male) che non mi sarà possibile di ammettere la vostra Medea nel mio repertorio.

Come se nulla avessi detto, Mr Leguové stava per congedarsi da me con queste parole:

Sì, sì, leggete e poi ne parleremo.

Ma tosto lo trattenni, soggiungendogli:

—Vi è un'altra ragione che m'impedisce di recitare la vostra Medea. A nessun costo vorrei far supporre che io abbia voluto profittare del momentaneo capriccio di Rachel, per surrogarla in una parte scritta per lei. Per conseguenza io non potrei mai acconsentire a rappresentare Medea, se voi non v'impegnaste ad esprimerne altamente e pubblicamente il vostro desiderio.

—Dacchè Rachel l'ha rifiutata, che scrupolo vi rattiene?—mi disse.

Ma infine comprese la ragionevolezza della mia obbiezione, e promise di fare la dichirazione da me richiesta, quando avessi accettata la parte.

Il giorno seguente, per atto di compiacenza soltanto, approfittando della mezz' ora di libertà che avevo mentre la mia cameriera stava rassettandomi i capelli, pensai di leggere Medea, però colla profonda convinzione di sprecare il tempo, sembrandomi logicamente impossibile che il suo autore avesse potuto celare gli effetti della inevitabile catastrofe. In queste poco favorevoli disposizioni, mi accinsi a giudicare quel lavoro.

Con una sorpresa più facile ad immaginare che a descrivere, quella lettura cominciò ad inspirarmi tanto interesse, che mano a mano che progrediva, prorompeva in tali esclamazioni, in tali gesti, che la mia povera cameriera tutta stupita mi grida:

—Oh, Dio! signora, cosa è stato? io non posso continuare a pettinarla.

—Via… via… prosegui… non è nulla… non badare a me.

Al termine di quel primo atto (che io trovo superiore a tutti quelli delle altre Medee) esclamo: «Oh! come è bello! che magnifiche situazioni… come ha potuto mai Rachel rinunziare a rappresentare una parte splendida come questa?…» Non me ne potevo capacitare.

Dopo il secondo atto, il mio entusiasmo crebbe; ma con la più avida attenzione aspettavo il mio autore al varco, cioè alla scena finale. Voleva proprio vedere qual mezzo egli avesse potuto trovare per far uccidere in scena i figli dalla madre stessa, senza che il pubblico ne raccapricciasse.

Non ho parole per esprimere l'entusiasmo che suscitò in me la completa lettura di questa tragedia. Il Legouvé ha trovato modo di far apparire giusta e necessaria quell' uccisione, come il lettore potrà giudicare alla fine di questo studio.

In preda ad ammarazione entusiastica, mi lasciai cadere il libro dalle mani, nè più ardeva che pel desiderio di cimentarmi in quella parte.

Rivedendo Mr Legouvé, poco mancò non gli saltassi al collo per manifestargli la mia ammirazione.

—Sì, sì—gli dissi gridando—reciterò la vostra Medea con immenso trasporto, ed insieme combineremo una finta uccisione, che farà andare il pubblico in visibilio.

Senza frapporre tempo in mezzo, cercammo chi dovesse tradurla in versi italiani.

Parigi fortunatamente possedeva allora nella numerosa colonia italiana molti dei più insigni letterati condannati all'esilio per amore di patria. Fra questi, Montanelli parve il più idoneo a tradurre in buoni versi italiani l'opera egregia di Legouvè, e di buon grado Montanelli accettò l'arduo incarico. Il nostro eroico patriotta Daniele Manin, ed altri molti ne approvarono la scelta; fu stabilito che per l'anno seguente il lavoro sarebbe compiuto.

Al mio ritorno in Parigi, nella primavera del 1856, durante 11 giorni, non si fece che provare con un ardore, un' attività nervosa, per affrettare la comparsa in scena di questa tragedia. Già molto se ne parlava.

Io non vedevo, non sognavo che Medea. La scelta del mio costume m'impensieriva assai, le molte ricerche ch'io facevo non mi avevano ancora portato a trovare quello che desideravo. Venne in mio aiuto il rinomato pittore Hary Schefster, onde la sorte mi guadagnò la stima e l' amicizia delle quali andavo orgogliosa. Egli disegnò ne' suoi più minuti particolari il costume che riusci veramente ammirabile; solo lo imbarazzava il manto, la di cui soverchia ampiezza era necessaria alla mia prima entrata in scena, ma che poi riusciva molesta ai varii atteggiamenti ch'egli aveva ideati. Con un movimento semplice e naturale dovevo far ricadere le larghe pieghe artisticamente disposte dietro le mie spalle; riuscire a tale scopo fu mia cura.

Il giorno fissato per la prima rappresentazione era l'8 aprile, ed io che per istinto abituale non procrastinava mai cosa già stabilita, volli che tutto fosse pronto per quel giorno, e così fu.

Allora una novità teatrale eccitava negli animi grandissima e seria curiosità. L'elemento italiano e francese erano in grande agitazione. I Parigini erano curiosi di vedere e giudicare se MHe Rachel avesse realmente avuto torto o ragione di rifiutare quella parte, dopo averla gradita, accettata, studiata e provata più volte con vivo interesse artistico, felicitando anche l'autore per la creazione di quel personaggio.

Gli Italiani dal canto loro annettevano a questo mio esperimento una importanza quasi nazionale, e il fermento per conseguenza era grandissimo. Quelli del paese che simpatizzavano per noi e che erano intimi amici dei più notevoli esuli italiani, dividevano la loro trepidanza. Fra questi citerò per brevità solo i carissimi miei amici, i signori Planat de la Faye (1) Furono i signori Planat quasi fratelli d'affetto del nostro illustre patriotta Daniele Manin, di cui raddolcirono il duro esilio e la morte, colle prove del più profondo attaccamento. E per essere stata la signora Planat vera amica dell'Italia ed aver scritto due superbi volumi sulla vita di quell'uomo insigne, documentati con prove auterevoli, Venezia riconoscente le conferì la cittadinanza..

Prima di cominciare la rappresentazione, molte persone vennero nel mio camerino ad offrirmi i più caldi auguri di un esito fortunato, ed Hary Schefster volle vedere l'effetto che produrrebbe il mio costume, e se questo fosse inappuntabile come egli lo aveva disegnato.

La sala Ventadour era piena zeppa della più scelta società. Mme Devallière, figlia dell'egregio Mr Legouvé, era convulsa per l'emozione e pel panico che la dominava. L'autore, comprendendo che in quel momento giuocava una gran carta, in conseguenza del chiasso che aveva provocato l'anno prima l'incidente Rachel, per quanto si studiasse, non poteva dissimulare la sua ansietà, che si tradiva colla soverchia attenzione che prestava ai minimi dettagli della messa in scena, benchè lo facesse coi modi di uno che sorveglia gli interessi d'un amico.

Dal canto mio, per quanto sembrassi disinvolta, pure provavo un non so che… mi sentivo le mani gelate; con un moto rapidissimo e ripetuto non facevo che stropicciarle l'una contro l'altra, dicendo a chi mi era vicino: «Mi pare che questa sera venga molt'aria dal soffitto… sento freddo.. ho dei brividi».

Si alza la tela.

Un mormorio lusinghiero annunzia l'attenzione simpatica del pubblico.

La bellissima parlata di Orfeo (signor Boccomini) è seguita da un prolungato applauso.—Oh, quanto in una prima rappresentazione le manifestazioni benevoli di un pubblico infondono animo e coraggio a quegli artisti che ancora debbono presentarsi!

Alla fine, il momento della mia comparsa era giunto, ed io stavo già preparata sulla piattaforma del praticabile che simulava il basso della montagna, da dove fingevo di salire a stento. Portavo fra le braccia il piccolo Melanto, che appoggiava il suo biondo capo sulla mia spalla, e quella parte di manto turchino, che doveva poi ricadermi sul dorso, e che aveva tanto preoccupato Hary Schefster, coprendo per metà la mia testa, celava quasi intieramente quella del bambino. Avevo situato l'altro figlio Licaone al mio lato sinistro; esso si sorreggeva al mio fianco, in atto di eccessiva stanchezza. La melodia delle Canefore, che accompagnavano Creusa al tempio, precedeva la mia venuta.

Al mio apparire, il pubblico scoppiò in un forte e prolungato applauso, che non cessò se non quando profferii i primi versi.

Giunta al sommo della montagna, io mi arrestavo d'un tratto, come sfinita. Osservo che questa attitudine, come molte altre, io aveva adottata studiando gli stupendi gruppi di Niobe, raccolti nella famosa galleria degli Uffizi di Firenze, nella sala detta di Niobe.

Quando cominciavo a parlare, il mio accento lamentevole doveva essere tale da dimostrare che la prostrazione del corpo proveniva non solo dagli stenti, dalle privazioni patite nel lungo e duro viaggio per valli e dirupi; ma dallo scoraggiamento che mi assaliva alla vista dei figli esausti, cui non poteva più offrire che il mio sangue per nutrirli. E questo stato d'animo Leguové lo descrive nel modo più commovente e di sicuro effetto scenico.

Il piccolo Melanto, seduto col fratellino, quasi privo di forze, sui gradini della statua di Diana, dice in tuono lamentoso:

Madre, son stanco! Medea Caro, mi spezzi il cor. Non abbiam tetto Che ne ricovri. L'origliero vostro Oggi fia questa ignuda orrida rupe. Licaone Madre!… ho fame!…

A tali laceranti parole io, con atto disperato, come se mi chiedessi: «in qual modo saziarli» Esclamavo fuori di me:

E non poter vuotar mie vene Fino all'estrema goccia, e dir: Prendete, Nutritevi, bevete il sangue mio!…

Questo tuono di affevolimento durava una gran parte dell'atto; solo allorchè la piaga del cuore si riapriva pei ricordi dell'amor perduto, cessava la prostrazione, come pianta ravvivata da benefica rugiada riprende il suo vigore. Così nella magnifica scena con Creusa, nella quale ero indotta a supporre che, mentre affranta dai dolori, dai patimenti, correvo in traccia del mio bene, egli potesse vivere felice in braccio ad una mia rivale—il mio aspetto tutto si trasformava, le mie membra si contorcevano, l'occhio gettava flamme, la bocca pareva vomitasse veleno, e, coll'aspetto di una furia, alla domanda che Creusa mi rivolgeva: «che avrei fatto a Giasone e alla sua amante, se li avessi rintracciati…»

Che farei loro?

rispondevo guardandola con occhio bieco, e prendendola per mano, la facevo avanzare fino alla ribalta:

Che fa nel cupo della selva Il leopardo, allorchè in subitaneo Balzo, ruggendo di terribil gioia, Precipita qual folgore, ghermisce La preda, in suo speco la porta, e i membri Sanguinanti ne squarta brano a brano!

Pronunciavo questi ultimi versi coll'espressione di una belva che sta per isfamarsi, e facendo col gesto l'atto di sbranare la mia preda, rimanevo con la persona e col volto in atteggiamento, che incuteva spavento ed orrore.

Questa attitudine di ferocia mi sembrava logica, non solo per l'indole di Medea, ma per quella di ogni donna di forte tempra, capace di eccessi sia in amare, come in odiare. E questa convinzione valse a formarmi un giusto criterio ed a servirmi di norma nelle frequenti transizioni della parte. Con un profondo studio poi riusciva ad interpretare queste due passioni, come l'autore le aveva ideate, e senza mai scostarmi dalla verità.

Alla comparsa inaspettata d'Orfeo, il movimento scenico si cambiava. Alla conferma ch'egli mi dava d'essere tuttavia Giasone in vita, una gioia convulsa faceva sfavillare il mio volto. Ma quando scopriva in Creusa la mia rivale, e l'udiva sfrontatamente sfidare la mia collera col dirmi:

Cessa! l'eroe rispetta, Quei che la fede a me giurò,

replicavo con sguardo feroce:

Tu l'ami? Creusa Sì, l'amo, e sposo mio doman dirallo Il sacerdote!

Pari a una fiera, che sa non poterle sfuggire la preda, con accento beffeggiatore dicevo:

Ei, sposo tuo?… Vedremo!…

ed in quell'istante stendevo la destra verso lei, come per sfidarla, e rimanevo in questa posizione fino a tela calata.

Rammento ancor con gioia che quel primo atto destò il massimo entusiasmo e che fui richiamata più volte al proscenio, salutata da applausi frenetici. Il così detto foyer degli artisti era gremito di gente. Gli ammiratori profondevano complimenti; gli amici mi stringevano la mano con quell'entusiasmo che non ha parola, ma che suol comprendere un poema d'affetto. Altri si affollavano intorno a me piuttosto muti che loquaci, nella loro profonda emozione. Ben inteso che l'autore divideva con me gli entusiasmi della festa.

Tutti esprimevano la loro meraviglia per la esattissima esecuzione, così bene studiata, così bene indovinata, così ben condotta, dopo un brevissimo numero di prove.

In Italia ciò non stupirebbe affatto, perchè, in causa delle condizioni teatrali meno floride che quelle delle altre nazioni, più imperioso è l' obbligo di allestire sollecitamente molte novità, mentre in Francia questi preparativi durano talvolta alcuni mesi!

Il secondo atto abbonda di situazioni e di effetti scenici meravigliosi, offrendo pure all'attrice un largo campo di far valere le sue capacità drammatiche.

La scena fra Medea e Giasone è una delle principali. Allorchè Giasone ipocritamente rimprovera se stesso d'aver procurato involontariamente ai figli suoi una vita di stenti, di privazioni, e, non reggendogli il cuore di saperli nuovamente esposti all'onta ed al vituperio, dice essere in suo potere il mezzo di sottrarli a tanta vergogna, purchè la madre s'immoli alla loro salvezza, premurosamente chiedevo: «In qual modo?» Giasone Rompendo il nostro marital legame!

A tale proposta rimanevo atterrita. Però, tentando contenermi, soggiungeva con mal frenata ironia:

Ah, ripudiarmi?…

e già il mio occhio s'iniettava di sangue per la tempesta, che si andava suscitando in me.

Non potrei qui enumerare brevemente le mille rapide alternative, che racchiudono i pochi versi precedenti quello in cui causticamente rispondevo:

A tutto provvedesti!

E dando luogo all'odio e alla brama di vendetta, che, secondo la tempra indomita di Medea, doveva informare ogni mia parola nel progresso della scena, sfogavo l'ira che a stento avevo rattenuta. Debolezza, affetto, tutto spariva, ed il giusto risentimento di un'anima sprezzata, avvilita, derisa nelle sue più care e veementi passioni, veniva espressa da me colla ferocia d'una tartarea tempra.

Che il tradimento tuo mi squarci il core, Che tu mi scacci, e ad altra mi posponga, Sì, il comprendo, delitto è di tua razza! Ma favellar de' figli, e tutto in preda Agli istinti brutali, ostentar cura Di lor salvezza, e lor candida imago Mescolando agli adulteri pensieri, Sotto l'usbergo del nomarti padre, Amoreggiar!… ciò eccede ogni misura. Orror mi fai!

Dopo l'assoluto rifiuto dato a Giasone di consentire allo scioglimento del nostro nodo, nell' accertarmi dalle aspre ed insultanti sue parole, ch'egli, non solo sfidava la mia collera, ma che ogni sentimento di affetto per me era spento in lui, mio malgrado ne rimanevo angosciata. Ma il massimo dolore lo esprimevo quando Giasone, stanco delle mie rampogne, poco curando il mio rifiuto, accertavami che al nuovo giorno io sarei cacciata in bando, che Creusa diverrebbe sua sposa, ed i venti che avrebbero spinta la mia nave m'apporterebbero gli inni del loro imeneo. Queste minaccie mi lasciavano come impietrita. L'odio più feroce subentrava all'amore. Come lava infuocata mi uscivano dal labbro le seguenti parole:

Sangue! sangue! straziar, spezzar suo core! Un che di spaventoso, atroce, strano! Un supplizio a natura umana ignoto! Pari, alfin, che si puote, all'odio mio!

E come belva colta al varco, io m'aggirava per la scena, quasi cercassi un nuovo e terribile modo di vendicarmi; nè la voce dei figli che correvano a me, profferendo il dolce nome di madre, acquietava il mio furore; allorchè essi mi dicevano:

I tuoi figli odi!

io rispondevo con veemenza:

I figli di Giason non son miei figli. Licaone Non ci ami più? Medea No…

aspramente rispondevo.

Funesta razza!… Via!… odio tutti… e sopratutto voi!… Perchè ei creovvi, da lui vi ebbi, e imago Sua siete!

Ma poi, rimirando il mesto viso di quei due poveretti, dopo aver detto:

Giason, vuoi tu ancora Colle sembianze tue perseguitarmi E i tuoi figli…

si ridestava in me l'altro affetto, che potente dominava la mia natura, e ripetevo commovendomi:

Tuoi figli?… No, no, i miei!…

e stendendo loro le braccia materne, li invitavo a precipitarvisi, ciò che essi con trasporto facevano.

Caduta sullo scanno, prendevo sopra un ginocchio il più piccino dei due, stringendomi l'altro con trasporto al seno; per tal modo formavo un gruppo, che produceva grandissimo effetto sull'uditorio.

Non appena passato quest'eccesso di tenerezza materna, nel profferire in tuono di compianto:

Io, che vi porto sviscerato amore! Io, io, che voi soli ho sulla terra! Io, che un'ora, un istante non vivrei Se vi stappassero a mie braccia i Numi!… Io odiarvi! io discacciarvi! sciagurata!… Chi siete per Giasone voi, Li sciagurati figli di Medea!? Spezzato avrei mio cor, non tocco il suo! Vi conosce egli forse? Altro ravvolge Nell'alma che un pensier solo, un sol nome Un solo amor… costei… la sua Creusa!

Al pronunziare quel nome, tutte le smanie della gelosia si ridestarono in me. I figli, spaventati da quell' improvviso cambiamento, fuggivano dalle mie braccia.

Rimasta sola, meditando i più truci propositi di vendetta, afferravo il più pronto e decisivo, quello di spegnere col ferro la rivale.

Più certo, ai colpi duce il cor geloso, Del velen fora il braccio.

Alla vista del pugnale, che toglievo di sotto al mio peplo, con ebbrezza feroce dicevo:

Oh! gioia!

Quindi, con voce cupa e tuono circospetto, riprendevo:

A notte Rasente i foschi muri, entrar, qual ombra, Dov'ella posa, e in sue piume giacente, Sotto mia man mirare l'abborrita Greca; e col ferro, che improvviso piomba Sul suo seno, cercar nelle latebre Del petto, l'alma… Apre gli occhi, mi vede, All'estremo suo grido, in subitano Risvegliamento della reggia; amante, Congiunti, accorron tutti esterrefatti, E veggon sulla salma di Creusa Terribilmente in pie' sorger Medea!

Ed a quest'ultimo verso, mi rizzavo sulla persona in modo da parer gigante, tenendo in alto stretto il pugnale, come se si dovesse alla mia vista rimanere fulminati. Quando sopraggiunge Creusa, al pensiero di assaporare all'istante la mia vendetta, di subito il mio viso s'irradiava d'un lampo di gioia, ma prontamente mi celavo dietro una colonna per piombare su lei al momento propizio.

Nel precipitarmi sulla rivale, m'incontravo seco lei petto a petto. Creusa accorreva a rintracciarmi nel generoso intento di prevenirmi, come la turba ammutinata assediasse la reggia per impossessarsi di me.

Te la furente Turba persegue, e se la soglia varca, Perduta sei!… Accorro… Medea A che? Creusa A salvarti!…

Tale risposta disarmava lo sdegno di Medea, la quale, per un ritorno agli istinti di regal razza, ripeteva meravigliata e commossa:

Ti salvarmi!… salvarmi!…

e scorgendo quindi il pugnale che afferrava, vergognosa di se stessa, lo celava con senso di raccapriccio.

Quindi aveva luogo una breve scena, nella quale pregavo, supplicavo con accento angoscioso di lasciarmi quell'uomo, che tutto era per me sulla terra; ma, ai dinieghi recisi di Creusa, l'odio rinasceva in me più potente di prima, e stavo per lanciarmi su lei nell'intento di trucidarla, quando, alle grida della figlia, Creonte accorreva spaventato, seguito dal popolo.

Nell'ultima scena, dopo di essermi impadronita dei figli, li teneva stretti al petto, perchè non mi venissero strappati dalla plebe, che furibonda faceva atto di scagliarmi le pietre che teneva strette nelle mani, quando appariva d'improvviso Orfeo.

Chi non ama sua prole, il primo strappi Questi pargoli a lor madre!

diceva egli con tuono imperioso.

A quell'aspetto, a quelle parole, il popolo riverente si traeva in disparte, lasciando cader le pietre, e Creonte, Giasone e Creusa rimanevano soggiogati dal fascino esercitato dal divino poeta. Rassicurata dalle parole di Orfeo, che mi accennava un sicuro varco, copriva del mio manto ambo i figli, e soddisfatta mi allontanavo, mormorando sommessa:

Trovata ho alfin la mia vendetta!

Non occorre insistere sull'effetto prodotto nel pubblico da tutte queste situazioni drammatiche.

Per gli assestamenti della scena la mia prima apparizione nel 3°ree; atto era preparata in modo veramente artistico. Dal lato destro dello spettatore, una lunga tenda foggiata a greco stile indicava l'ingresso d'una stanza, cui si accedeva per una corta gradinata.

All'alzarsi della tela, Giasone ascolta impaziente gli ammonimenti di Orfeo. Creusa sopraggiunge tenendo per mano i figli dello sposo, beandosi delle loro carezze. Gruppo domestico, scena d'espansione, di teneri sentimenti verso i fanciulli, che Creusa ambisce di adottare quali suoi proprii. Fra queste liete speranze, Giasone si allontana, seguito dagli esseri a lui cari, e dietro a loro il mesto Orfeo. A questo punto io mi affacciavo sul limitare della mia stanza, scendevo d'un piede il primo gradino, e, sollevando con la mano destra la larga tenda, rimanevo nella penombra, fredda osservatrice della nuova prova del tradimento di Giasone.

Nel corto monologo ch'io dicevo, sempre più mi confermavo nei propositi di vendetta, e solo attendevo il cader della notte, onde furtivamente fuggire co'miei figli, mentre si sarebbe tripudiato nella reggia, per le fauste nozze di Creusa!

Questi ultimi versi li pronunziava col sarcasmo derisorio di chi prepara altra fine a quella festa!

Orfeo ritorna, apportatore di un ordine di Creonte in cui si diceva come, dietro i responsi che l'indovino aveva dato al Re, si prediceva fatale la presenza di Medea nel dì delle nozze, pel che mi s'imponeva di partire all'istante, ma senza i figli. Tale annunzio trafigge il core di Medea, che ama più i figli che odii Creusa, ella supplica Orfeo d' intercedere presso il Re, onde le si lascino i figli. Nella seguente scena, tutto doveva dare risalto alle fibre umane di quella donna messa a sì dura prova; quivi si poteva comprendere qual difficile còmpito fosse il riprodurre al vero tale strano personaggio, ponendo in evidenza con tinte analoghe il perenne contrasto tra l'affetto e l' odio che l'agita incessantemente.

Vedendo riescir vane le istanze e le suppliche, per mezzo di cui avevo cercato d'ottenere dall'inflessibile Giasone, che mi lasciasse partire accompagnata dai figli—all'udire che uno soltanto di essi mi avrebbe potuta seguire, io, colla più commovente espressione, rivolgevo a Creusa ed a re Giasone le più reiterate preghiere. Immutabile era il divieto! Allora, vedendomi abbandonata anco dai miei figli che eransi avviticchiati a Creusa nella tema di dovermi seguire, sorda ad ogni parola di conforto che si tentava di rivolgermi, imponeva che mi si lasciasse sola in preda al mio dolore. Scorgendo poi che i miei figli erano scomparsi, con uno schianto del cuore gridavo:

Miei figli!… Miei figli!…

e stramazzavo quasi priva di sensi sui gradini dell'altare di Saturno. Dopo breve pausa, cominciavo il seguente maestrevole monologo:

Sola! Sola nel mondo! Non più padre! Non più lo sposo! non più figli! Nulla! Tu piangi… tu!

Alla desolazione subentrava la vergogna, ed arrossivo nel rimirar le mie mani begnate dal pianto, di cui avevo pregni gli occhi, ed esclamavo:

Tu piangi? E Giasone? Ei trionfa! Sì, mercè mia compiuto è ogni suo voto. Nostro imen gli era soma, io lo dissolvo, I miei figli chiedeva, a lui li rendo! Mia stessa man lo accompia alla sua druda!

Poscia, grado a grado ch'io riandava la sequela dei torti patiti, e pungendomi il ricordo d'avere io stessa inconsciamente favorito e procurato a Giasone il compimento della sua felicità, le furie di nuovo mi assalivano, e nel dire «Mia stessa man lo accoppia alla sua druda!» balzavo in piedi, scuotevo il capo risolutamente come per gettare lungi da me il cumulo della vergogna. E al raffigurarmi l' ebrezza del loro amore, della loro felicità, ruggivo a guisa di leone ferito.

O Dei d'inferno! Aiuto! aiuto! Sangue! pianti! grida! Ferro!

Da questo punto decidevo l'esterminio di tutti.

Qual io tentar opra m'appresti, Ancor non so… ma vuo' che sconosciuto Misfatto, sopra questa inorridita Terra intorno distenda ampia gramaglia Tempestata di sangue… Che Giasone, Creusa, il padre suo, miei stessi figli…

Il mio furore scemava alquato al tenero ricordo di questi, raccapricciavo all'idea di ucciderli di mia mano… ma al riflettere che con questo colpo potevo rendere a Giasone eterno il dolore, soffocavo il grido di natura, dando ai seguenti versi tutta la forza della rabbia che più non teme:

Basta a Giasone io sempterni il duolo, Basta il delitto mio per lui diventi D'innumeri carnefici semenza, Basta a punirlo tutto si scateni Delle mie patrie Deità l'inferno. O della tetra Tauride ferali Numi!

E rivolgendomi impetuosamente alla statua di Saturno, furibonda prorompevo in questi accenti:

Tu sopra d'ogni altro che d'infanti Culto trucidator chiedi, o Saturno, M'odi!… Tue squallide are aman di figli Dalle lor madri trucidati il sangue: La terribile offerta da me avrai! Ma per mercè, mio complice t'invoco! Figgi avoltoio di Giasone al core, Il cui rostro lo roda eternamente! Per sua Creusa amor… sì, amor raddoppia, Perchè gli costi raddoppiato affanno!… Bontà gli dona, e viscere paterne, Perchè pianga, qual madre, i figli suoi! Perchè infin scompagnato, ramingante, In delirio di larve spaventose Viva, e a me pari disperato muora.

In quel mentre, i figli condotti dalla nutrice di Creusa, ricompariscono. A quella vista mi arrestavo quasi spaventata dal profferto giuramento, ordinavo che si scostassero da me, come se temessi di vedermi forzata ad immolarli all'implacabile Nume. Ma nell'apprendere che Giasone li attendeva all'altare, quasi per averli testimoni del suo spergiuro, ogni pietà spariva in me e, ritornata alle mie smanie, risolutamente imponevo loro di accostarmisi.

Avevo prestabilito che dopo i versi:

Il ver dicesti… l'ora fugge, Il tempo incalza… s'appressino… Orsù, non fia che la pietà mi vinca! Padre e figli d'un colpo stesso… entrambi…

Melanto e Licaone si gettassero alle mie ginocchia, afferrandole colle loro tenere mani, mentre mi guardavano con occhio supplichevole. Commossa a quella stretta, stornava il braccio già alzato per ferire… la mia voce s'inteneriva, le mie mani, cadendo, s'incontravano nelle loro, e quel contatto mi trasfondeva nell'animo tale dolcezza, che, svanita ogni idea di vendetta, esclamavo vivamente commossa e con voce riboccante d'affetto:

Lor man!… lor dolce mano!… essa è… la sento! Vacillo… il cor non regge… il labbro mio In vïolenza di soave affetto Al labbro lor s'inchina… Ah, pria ch'io vibri il colpo…

ed inchinandomi, stava per baciarli; ma, riaffacciandosi alla mente il giuro fatto a Saturno, mi volgevo a lui quasi per implorare mi acconsentisse quel breve istante di gioia, prima di vibrare il colpo estremo; contemplando nuovamente i figli, davo a divedere il risveglio in me del sentimento materno, e con scoppio di pianto e d'ebbrezza gridavo:

No, non basto a tanto strazio! Lungi da me, funerei disegni! Ho ritrovato i figli miei!

Ciò dicendo, cadevo ginocchione in mezzo a loro, coprendoli di baci e premendoli con trasporto contro il petto.

In questo mentre, Orfeo frettoloso correva a me, spronandomi a pormi in salvo coi figli. Con gioia accoglieva l'offerto scampo… quando ad un tratto lontane e confuse grida rattengono i nostri passi. Scarmigliata e piangente un'ancella corre ad annunciarci che Creusa muore in causa d'un velo avvelenato. Desolata io gridavo:

Si, il mio! quello che le donai!…

Orfeo, furente, esclamava:

Sciagurata! Ti strappa esso i tuoi figli!… —Mai!

rispondevo.

In quel mentre afferro il piccolo Melanto, lo sollevo, lo stringo sotto il braccio, mentre coll'altro trascino Licaone, e tento evadere dal lato destro con una fuga precipitosa. I boati della plebe minacciosa mi obbligano a indietreggiare spaventata. Invano tento aprirmi un varco dall'opposto lato… le grida di morte! morte! che fanno rintronare la reggia, mi costringono a tentare altra via. Ma in quel punto, come un torrente, irrompe la turba da ogni lato, cercando strapparmi i figli per comando assoluto del Re che grida:

Si prendano!… si uccida!

Allora disperatamente esclamavo:

Mai! non li avrete!

e d'un balzo mi getto veemente sull'altare di Saturno, trascinando meco i miseri figli. Il popolo di Corinto si avventa sopra di me, attorniandomi da ogni parte, quando un grido d'orrore, scoppiato da quei petti, annunzia che il nefando sacrifizio è consumato. Rifugge il popolo a tale spettacolo, e, indietreggiando, lascia scorgere al pubblico Medea coi trucidati figli ai piedi, coll'occhio torvo, lo sguardo impietrito, e raggruppata in se medesima nell'attitudine che converrebbe alla statua del rimorso.

Dopo un breve istante di generale terrore, si ode la voce di Giasone, che accorre, gridando:

Lasciatemi… svenarla io stesso voglio! —Non t'appressar:

sclama Orfeo.

I figli!

riprende Giasone.

Uccisi!…

gli grida l'addolorato Creonte.

Entrando in scena, il disperato Giasone, grida

Uccisi!… Chi, chi li uccise?… —Tu!

gli risponde Medea, rialzatasi imponente e feroce con braccio teso verso Giasone, come l'immagine dell'inesorabile destino.

Qui cala la tela.

Nell'introduzione di questo studio, ho detto che mi sentivo compresa quasi da una ripugnanza istintiva a rappresentare un carattere, che mi doveva portare ad una azione finale ribelle ai più sacri sentimenti di natura. Il lettore sa pure perchè mi sono successivamente indotta a mutare di proposito. E quando mi vi sono indotta, si era pure desta in me la più viva passione per il soggetto che ero chiamata a rappresentare.

Allo studio di questo mi applicai con trasporto prepotente di volontà. Per usare la frase comune, consideravo questa tragedia come il mio cavallo di battaglia. Studiai e approfondii il contrasto di due passioni, che, se non sono comuni, non sono nemmeno straordinari: la gelosia e l'odio; dall'uno e dall'altra deve poi necessariamente derivare la sete di vendetta. Era uno studio esemplarmente filosofico, che trovava la sua origine e la sua spiegazione nelle tendenze dell'animo umano.

Ho cercato di esprimerlo nel modo migliore che per me si potesse; riandando il passato e sentendomi rivivere nelle impressioni di quelle ore, mi pare di averlo compreso come dovevo e potevo.

Chi è famigliare con la letteratura drammatica dei nostri grandi autori, di leggeri comprenderà come fra tutte le tragedie scritte dall'immortale Astigiano, Mirra sia il più difficile e straordinario argomento da lui trattato.

Ed infatti, porre sulla scena lo spettacolo d'una figlia irresistibilmente innamorata del padre e assalita di tratto in tratto da impeti di gelosa ira contro la madre, è cosa indubitatamente mostruosa.

Ma al certo non sarà reputata cosa indegna, incompatibile colla pubblica moralità, qualora si ponga mente che questa passione è voluta dal fato. Dice l'Alfieri che avendo Cecri, madre di Mirra, vantata la bellezza di costei col dirla superiore a quella di Venere, la Dea offesa ne traesse vendetta, insinuando nelle vene di Mirra un amore incestuoso.

Con una maestria senza pari, l'Alfieri non solo rende sopportabile, ma altresì commovente la rappresentazione di questo dramma.

Infatti, nell'assistere alla lotta incessante, dolorosa, alla quale deve essere in preda un'anima pura, vinta da una passione orrenda, che le cagiona rimorsi, vergogne, desiderii incompresi, ma di cui il raccapriccio, che ella stessa ne prova, fa sì che ne misuri l'enormità, è indubitato che lo spettatore debba esser mosso ad un senso di compassione, e l'Alfieri stesso ha espresso questo parere alla fine della sua tragedia.

Ma se arduo fu il còmpito dell'Autore per trattare e fare accettare sulle scene questo amore nefando, quale enorme peso doveva essere per l'Attrice destinata ad interpretarlo, a renderlo tollerabile ed ammissibile?! Però francamente io dico, che questa interpretazione fu il solo studio, nella mia carriera, non riuscitomi di primo getto e le cui immense difficoltà paralizzavano i miei mezzi.

Quel dover dimostrare gl'immani contrasti che si succedono senza tregua nell'anima di questa infelice, in perpetua lotta co' suoi feroci martirii; quel dover dare a divedere, che tutto ciò che è in lei di reo, non è suo; ma sue sono bensì la virtù, la forza che sa trovare per strapparsi dal cuore quella rea passione, con l'incrudelire perfino contro se stessa, togliendosi la vita; e il dover far scoppiare, tratto tratto, il fuoco di questa fatale passione, rendendone terribili tanto gli effetti, quanto gli impeti incompresi, mi sembrava cosa impossibile a riprodursi.

Da quando giovinetta quattordicenne ho potuto, mercè il dono naturale di forme precocemente sviluppate, sostenere la parte di protagonista nella Francesca da Rimini, fino all'ultimo de' miei studi artistici, ebbi una grande facilità d'imitazione, che mi aiutò ad immedesimarmi del soggetto così da ottenere un esito felice in ogni mia parte, solo a fronte degli ostacoli scabrosi di Mirra mi sentii sbigottita. Se mai orgoglio avesse potuto allignare in me, sarebbe stato ben presto abbattuto, perchè quella difficoltà, per molto tempo, mi è sembrata superiore alle mie forze.

Si era nel 1848, quando l'improvviso cambiamento di Governo permetteva di riprodurre sulle scene di Roma lavori sino allora condannati dalla censura pontificia. Quindi ai miei capo-comici sorrise l'idea di rappresentare Mirra, una delle tragedie messe all'indice. Io stavo per dare alla luce il primo de' miei quattro figli, e mi pareva un manifesto controsenso rappresentare, nelle mie condizioni, quella pura e modesta giovinetta di 20 anni invasa dalla febbre di un amore così orrendo.

Mi opposi per quanto potei, ma nulla ottenni dai miei impresari Domeniconi e Gaetano Coltellini, i quali naturalmente speravano buoni incassi dalla rappresentazione di questa celebre tragedia. Nella mia qualità di dipendente, non avevo autorità di rifiutarmi, e come gli altri compagni d'arte, dovetti acconsentire. «In quattro giorni imparai la parte di Mirra, che contiene 370 versi circa».

Come mai era possibile lo studiarne ed approfondirne nemmeno la quarta parte ed immedesimarmi in un tale personaggio? Non ebbi neppure il tempo di imprimermi in mente ciò che v'era di più materiale nella mia parte, tanto più che ognuno conosce quali difficoltà presentino i versi di Alfieri, e come strane sieno le sue circonlocuzioni! L'esito fu quale era da aspettarsi! povero… insignificante. Ne rimasi tanto compenetrata, che giurai di mai più rappresentare questa tragedia. Fu solo nel 1852 che per savio consiglio mutai proposito. La nostra illustre prima attrice e mia carissima amica Carolina Internari, che mi portava vero affetto di madre e per la quale l'arte tragica era primo culto, un giorno, parlando di Mirra, mi rimproverò acerbamente la mia pusillanimità nel non voler ritentare la prova di rappresentarla; ed alle mie insistenti negative ella mi offriva, se avessi aderito, una festa artistica, brillantissima, che mai avrei neppure potuto immaginare. Tanto era in lei l'amore dell'arte e del bello, che, sebbene avesse sempre rappresentato in quella tragedia la parte della protagonista, eccitando dovunque il maggiore entusiasmo, per spronarmi ad acconsentire, mi offriva di assumersi la parte della nutrice Euriclea, parte d'importanza sì, ma del rango d'una seconda donna. Mi vinse la generosa proposta, cessarono i miei rifiuti e ripresi lo studio di Mirra. Ma quale studio! Meditando verso per verso, sviscerando minuziosamente ogni concetto, analizzando ogni parola, studiando l'espressione dello sguardo, giunsi ad intravedere finalmente con quale intendimento quell'eccezionale personaggio doveva interpretarsi. Questo studio nel suo complesso e nei suoi dettagli era curato con quell'amore con cui si amava allora la grande Arte, della quale il pubblico italiano, non distolto dalle convulse aspirazioni di ogni giorno, era giusto ammiratore, mostrando inesprimibile diletto, spinto spesso al delirio, nell'assistere a quelle tragiche rappresentazioni.

Verso la fine del 1852, dopo tre mesi di lavoro, mi presentai sulle scene del Teatro Niccolini di Firenze (allora Cocomero) per ritentare la prova. Lo avermi accanto quella vera incarnazione della tragedia, Carolina Internari, mi diede tale impulsiva forza, tale slancio, e la mia anima si sentì così compresa da quel bello incantatore, che pel magnetismo comunicatomi dal concetto di quella Donna, il sangue mi bolliva nelle vene, l'immaginazione mi trasportava, ed ero tutta investita delle miserande vicende di Mirra.

Questa tragedia me la feci tutta mia, mia esclusiva, e fu quella che nel mio tentativo sulle scene della Sala Vantadour di Parigi, nel 1855, mi accattivò il pubblico e la stampa francese, seguita poi e presa ad esempio dalle altre Nazioni.

Se l'amore incestuoso di Mirra era ripugnante, si teneva però gran conto della di lei innata castità, colla quale io avevo colorito la mia interpretazione, collo sviscerarne tutte le più recondite ed arcane bellezze.

Mia principal cura era il poter provare al pubblico che, se il soggetto appariva a tutta prima immorale, pure nell'azione non era tale. Se nella favola antica Mirra riesce odiosa e spregevole, nella tragedia d'Alfieri la passione della donna è dominata dalla naturale castità della fanciulla; ed infatti a mia soddisfazione ebbi ad udire da parecchie madri: «non aver nulla veduto che potesse offendere la pudicizia delle loro figliuole». Anzi racconterò qui un piccolo aneddoto curioso, che viene in appoggio della mia asserzione.

Una giovanetta, tornando a casa tutta impressionata di quello che aveva veduto, ragionava co' suoi amici e parenti sui varii punti della tragedia, e diceva loro:

«Ma perchè quella Mirra era così strana, incontentabile? Ora vuole lo sposo, ora non lo vuole; i genitori sono sempre del suo parere; fissa essa stessa il giorno delle sue nozze, non vuole sentire parlare di protrarle; si sforza di dimostrare che anzi le desidera ardentemente; ed ecco al punto di stringere il nodo, va in furore, e, in preda a terribili smanie angosciose, rifiuta lo sposo, inveisce contro la madre e finisce la tragedia coll'uccidersi, dopo aver detto al padre:

Raccapricciar d'orror vedresti il padre, Se lo sapesse… Ciniro…

ma che cosa aveva?»

Allora il padre della ingenua giovanetta, la cui penetrazione uguagliava quella della figlia, trovandosi imbarazzato, si avvisò d'immaginare un ripiego degno di lui, dicendo che «la poverina avea la tarantola in seno».

Ed infatti per una persona di non acuta intelligenza quei contrasti furiosi impressionano e confondono non poco la mente.

Nella prima scena che Mirra ha con Pereo, suo futuro sposo, ponevo ogni mia cura persuasiva per celare la lotta che dovevo in quella situazione significare, per occultare la causa del mio martirio e l'avversione che provavo per ogni uomo che non fosse il padre. Pure a qualche lampo di debolezza dovevo accennare, perchè così indicava l' autore; per modo di esempio; allorchè Pereo le diceva:

Or d'esser mia Non sdegni adunque? e non ten penti? e nullo Indugio omai?…

Sentendosi vacillare il coraggio, rispondeva Mirra:

No, questo è il giorno ed oggi Sarò tua sposa, ma doman le vele Daremo ai venti, e lascerem per sempre Dietro noi queste rive. Pereo Oh che favelli? Come or sì tosto da te stessa affatto Discordi? il patrio suol, gli almi parenti Tanto t'incresce abbandonare, e il vuoi Ratta così per sempre. Mirra Io vo' per sempre Abbandonarli… e morir… di dolore…

Questi passaggi sono anche una prova della costante risoluzione di Mirra, che, pur certa di morire nello staccarsi dal padre, antepone la morte al prolungare la sua penosa dimora presso di lui.

Era indispensabile accennare, il più brevemente che mi fosse possibile, alcuni concetti, alcuni passaggi difficili ad esprimersi, per chiamare giudice il lettore della mia interpretazione.

Così nell'atto 3°ree;, quando Mirra è invitata da'suoi genitori a parlar loro, da principio mi avanzavo con passo fermo, cosicchè sembrava che i miei martirii avessero tregua per un momento; e, venendomi incontro la madre con modi affettuosi, facevo che il padre restasse celato a' miei occhi. Cecri, nell'avvicinarsi a me, diceva:

Amata figlia, Deh, vieni a noi; deh! vieni.

Ma dopo il «vieni a noi», accorgendomi d'aver il padre di fronte, mi arrestavo come colta da un brivido… e questo dava ragione alla madre di dire il secondo «Deh! vieni», come significasse: «Perchè t'arresti?».

Al che, Mirra diceva fra se stessa:

Oh ciel che veggo Anco il padre!…

Alle affettuose esortazioni di Ciniro, alle carezze della madre, dimostravo al pubblico lo strazio dell'anima, dicendo fra me:

(Havvi tormento al mondo Che al mio si agguagli?…)

Ed allorquando, incalzata dal padre, supplicata con insistenza dalla madre, non sapevo più quale scampo trovare per fuggire a quell'abisso e celare gelosamente la mia vergognosa passione, il combattimento interno non aveva più freno… sembrava che il cuore dovesse scoppiare!

Dopo un sovrumano sforzo per non tradirmi, mormorava tra me risolutamente:

O Mirra, è questo L'ultimo sforzo: alma, coraggio…

E poichè il padre, alla vista dello stato miserando della figlia e all'udire i patimenti a cui essa è in preda, con forza ed autorità le dice:

No, mai non fia Pereo non ami; e mal tuo grado indarno Vuoi darti a lui…

io, col grido in un'anima che si vede sfuggire l'ultimo scampo a sottrarsi da quella malvagia passione, esclamavo:

Deh! non mi torre ad esso; O dammi tosto la morte.

Dopo un momento di sosta, come per riassumere le mie forze e scusare l'alternativa perenne de' miei propositi, riprendevo a dire:

È ver che io, forse Quanto egli me non l'amo… e ciò, neppure Io ben mel so… Credi, ch'io assai lo estimo; E che null'uomo avrà mia destra al mondo, S'egli non l'ha. Caro al mio core io spero Pereo sarà quanto il debb'esser; seco Vivendo io fido, e indivisibil sempre, Egli in me pace, io spero, egli in me gioia Tornar farà. Cara e felice forse Un giorno ancor mi fia la vita. Ah! s'io Finor non l'amo al par ch'ei merta, è colpa, Non di me, del mio stato in cui me stessa Prima aborrisco… Io l'ho pur scelto, ed ora Io di nuovo lo scelgo; io bramo, io chieggo Lui solo; oltre ogni dire a voi gradita Era la scelta mia; si compia or dunque Come il voleste, e come io 'l voglio, il tutto. Poichè maggior del mio dolor io sono, Siatel pur voi. Quanto il potrò più lieta, Vengo in breve alle nozze, e voi beati Ve ne terrete un giorno…

Immedesimatami nel poeta, ho studiato, procurato di tradurre sulla scena lo sforzo inaudito di quella infelice nel respingere le carezze paterne, nell'addurre fallaci pretesti all'ignota causa delle sue pene; nell'amarezza con la quale talvolta impreca contro il fatale nemico che si è impossessato di lei, ora fingendo una calma, che è ben lontana dal provare, una speme che è ben lungi dal conseguire; ora lasciando pur anco intravedere la ferma decisione di morire, se fosse d'uopo, anzichè vivere accanto all'oggetto del suo nefando amore.

Alla vista dell'orribile strazio di un'anima in preda ad una passione colpevole, la quale ad ogni costo ella vorrebbe soffocare, chi non si muoverebbe a pietà per la sventurata fanciulla, bersaglio dell'avverso fato?

Ponevo ogni mio studio nel non incontrarmi mai con gli occhi del padre, non trascurando però l'opportunità di far rilevare allo spettatore con una duplice espressione, anche la gelosa ira contro la madre, vedendola mira delle tenerezze paterne.

Uno di questi momenti cui accenno era allorchè Ciniro, dopo aver ascoltate le ragioni che la figlia adduce per dimostrare la necessità d'allontanarsi da lui, tristamente si accosta alla consorte e l'abbraccia dicendole:

E tu, dolce consorte, in pianto muta Ti stai?… Consenti al suo desìo?

A tal vista facevo l'atto di volermi avventare perimpedire quell'amplesso; ma subito rabbrividendo, e vergognandomi, avvolgevo nel manto la persona e mi rifugiavo in fondo alla scena. Quindi mi congedavo dai genitori con queste parole:

Or mi ritraggo A mie stanze per poco; asciutto affatto Recar vo' il ciglio all'ara, e al degno sposo Venir gradita con serena fronte.

Successivamente scambiavo con affetto l'abbraccio materno, ed all'accostarsi del padre, pure desioso di stringermi al seno, per sottrarmi a quell'amplesso m' inchinavo con atto di simulato rispetto, dando a divedere il fremito da cui ero compresa. Dopo ciò, in preda al più evidente orgasmo, mi precipitavo fra le scene.

Nel principio del quarto atto l'autore rappresenta Mirra calma, serena, sorridente talmente da far dire alla nutrice Euriclea:

Ella è ben cruda gioia Questa che quasi ora in lasciarci mostri.

E questa gioia appariva esser la naturale conseguenza della soddisfazione che in quel momento provava Mirra, credendo aver trionfato degli ostacoli che si frapponevano alla sua partenza. Per tal modo sottraevasi al potere che il suo fatal nemico esercitava su di lei.

Con tuono pacato ed assennato dicevo a Pereo:

Sì, dolce sposo, ch'io già tal t'appello, Se cosa io mai ferventemente al mondo Bramai, di partir teco al nuovo sole Tutta ardo, e il voglio. Il ritrovarmi io tosto Sola con te, non più vedermi intorno Nullo dei tanti oggetti a lungo stati Testimoni al mio pianto, e cagion forse, Il solcar nuovi mari, e a nuovi lidi Irne approdando, aura novella e pura Respirare, e tuttor trovarmi al fianco Pien di gioia, e d'amor un tanto sposo, Tutto in breve, son certa appien mi debbe Quella di pria tornare… … Deh! non la paterna Lasciata reggia, e non gli orbati e mesti Miei genitor, nè cosa insomma alcuna Delle già mie, tu mai nè rimembrarmi Dèi, nè pur mai nomarmele. Fia questo Rimedio, il sol, che asciugherà per sempre Il mio finor perenne, orribil pianto.

Da ciò emerge che quando Mirra non era alla presenza del padre, sapeva vincere le lotte interne e dominare la sua passione. Ma all'apparire di Ciniro, per porre in risalto il contrasto della successiva suprema situazione e l'effetto istantaneo che produceva sull'animo mio la vista del padre, ero riuscita a mettere in una incontrastabile evidenza il freddo glaciale, che mi scorreva per le vene; i capelli, che mi si rizzavano… in una parola il turbamento profondo ed invincibile, che si era impossessato di me. Il pubblico, comprendendomi, s'immedesimava—il suo fremito me lo dava a conoscere—delle commozioni di questa, che è una delle situazioni più tese della tragedia.

Il primo risveglio delle furie di Mirra si manifesta quando il sacerdote intuona i primi versi dell'inno nuziale. Allora il suo volto si copre del pallore della morte… le membra si contraggono… Unica ad avvedersene è la nutrice, che, esterrefatta, s'appressa a lei e sommessamente le dice:

Figlia, che fia? tu tremi?… Oh cielo!

A cui Mirra risponde tremante dapprima:

Taci; deh, taci!

Euriclea Ma pur…

Mirra, risolutamente, con autorità:

No, non è ver, non termo.

E intanto lagrime ardenti le scendono dagli occhi. È questo uno dei magnifici passaggi di quest'atto.

Rammento che mi è costata una fatica immensa di studio, la più esatta interpretazione del tormento morale, che infliggevano a Mirra le insistenti domande materne; nonchè la lotta che si combatteva in lei per il proposito di non fallire all'irremovibile risoluzione di compiere l'imenèo a costo della vita. Due situazioni vere, potenti, espresse mirabilmente nei seguenti versi:

Cecri Ma che ti cangi Tutta d'aspetto?… Ohimè! vacilli? e appena Su i pie' tremanti?… Mirra Ah! per pietà, co'detti Non cimentar la mia costanza, o madre! Del sembiante non so… ma il cor, la mente, Salda stammi, immutabile.

Ma mentre il sacerdote proferisce la terza strofa dell'inno nuziale:

La pura Fè, l'eterna alma concordia Abbian lor tempio degli sposi in petto; E indarno sempre la ferale Aletto Con le orribili suore Assalto muova di sue negre tede Al forte intatto core. Dell'alta sposa ch'ogni laude eccede.

Il petto di Mirra si fa ansante per gli inauditi sforzi a reprimere e celare la terribile tempesta, che si agita nel suo seno. All'udir poi:

E invan rabbiosa Se stessa roda la feral Discordia,

immaginai che in Mirra dovesse essere al colmo la disperazione e che l'ira da cui era invasa dovesse quindi come uragano scoppiare; il sentimento che internamente la rode, serpe avvelenatrice, irrompere, inducendola ad esclamare, pazza di furore:

Che dite voi? già nel mio cor, già tutte Le furie ho in me tremende. Eccole intorno Col vipereo fiagello…

In quel punto mi trasfigurava completamente in viso, poi, come in preda al delirio, dopo breve pausa, dicevo spaventata:

Ma che? già taccion gl'inni? Chi al sen mi stringe? Ove son io? Che dissi? Sono io già sposa?…

Nel proferire queste parole con un repentino volgere della persona, mi ritrovavo faccia a faccia col padre, che a braccia conserte minacciosamente mi guardava! Colpita da quella vista, sentivo il sangue rapprendermi nel seno, mancarmi il coraggio, e gridando: «Ohimè!…» mi lasciavo cadere al suolo, come incenerita dal fulmine.

A poco, a poco, la madre e la nutrice mi rialzavano, tentando richiamarmi alla vita; senza che io ancora ricuperassi interamente i sensi, solo per l'effetto magnetico della voce del padre, udivo confusamente le sue austere e minacciose parole. Allora rispondevo con voce semispenta, appena intelligibile:

È ver; Ciniro meco Inesorabil sia; null'altro io bramo; Null'altro io voglio. Ei terminar può solo D'una infelice sua figlia non degna I martir tutti. Entro al mio petto vibra Quella che al fianco cingi, ultrice spada; Tu questa vita misera, abborrita, Davi a me già; tu me la togli; ed ecco L'ultimo dono ond'io ti prego… Ah pensa, Che se tu stesso e di tua propria mano Me non uccidi, a morir della mia Omai mi serbi, ed a null'altro.

Come Alfieri, in questi versi e ad ogni istante dimostra che l'amore di Mirra non può vincersi, nè aver tregua e riposo se non con la morte!

Alle ultime parole sveniva nuovamente, tal che non mi accorgevo d'esser sostenuta anche dal padre, prima che mi lasciasse.

Nelle due scene susseguenti, Mirra ritorna in sè a poco a poco e, rimasta sola con la madre, prova un lungo avvicendarsi di sensi di pietà, d'angoscia, di rimorsi, perfino di gelosa rabbia per vedersi continuamente al fianco l'odiata sua rivale, colei che possiede per intero l'affetto di Ciniro, che gode de' suoi amplessi, delle sue tenerezze; e quando Cecri le dice:

Anzi vo' sempre D'ora in poi sul tuo viver vegliar io.

Mirra, interamente fuori di sè, fuoriosamente prorompe:

Tu vegliare al mio vivere? ch'io deggia Ad ogni istante io rimirarti? innanzi Agli occhi miei tu sempre? Ah! pria sepolti Voglio in tenebre eterne gli occhi miei: Con queste man mie stesse, io stessa pria Me li vo' sverre io dalla fronte.

Ed allorchè Cecri soggiungeva:

Oh Cielo! Che ascolto?… Oh Ciel!… Rabbrividir mi fai. Me dunque abborri?…

con feroce disperazione le rispondevo:

Tu prima, tu sola Tu sempiterna cagione funesta D'ogni miseria mia!

Ma, subito commossa alla vista angosciosa della madre piangente, mostrando ad evidenza come le orrende parole mi fossero venute sul labbro per una forza irresistibile, mi vergognavo d'essermi lasciata trasportare a tali eccessi. La naturale bontà del cuore trionfava, e—arrossendo d'avere in un parossismo di furiosa rabbia trafitto così crudelmente la madre, ingiuriandola, chiedendole d'uccidermi, sopraffatta com'ero dalle terribili lotte della passione—sentivo mancarmi le forze a grado a grado; e, lasciandomi trascinare alle mie stanze dolcemente dalla madre, confondevo con lei le carezze ed i baci.

Il desolato Ciniro, saputa la morte dell'infelice Pereo, vuol porre un termine alla vita angosciosa ch'ei mena e ad ogni costo avere un decisivo abboccamento con Mirra, proponendosi di parlarle con la sdegnata autorità paterna. Ella s'avanza. I versi che Alfieri pone sulle labbra di Ciniro, prima che Mirra si mostri al pubblico, indicano chiaramente qual debba essere il di lei stato.

Ohimè! come si avanza A tardi passi, e forzati! Par ch'ella Al mio cospetto, a morir se ne venga.

Infatti, coperta di una semplicissima veste greca di finissima lana bianca, colla chioma scomposta, pallida in volto, coll'occhio infossato, con lo sguardo al suolo ed il passo incerto, mi presentavo.

Al solo vedermi, il pubblico doveva comprendere a quale lotta estrema stavo accingendomi, e prepararsi ad assistere alla catastrofe già inevitabile. Appena al cospetto del padre, io rimanevo come impietrita, col capo chino, aspettando la mia condanna.

Durante il discorso che Ciniro fa a Mirra per investigare la causa dei di lei martirii, è manifesta la convinzione che egli nutre di non esser altro che fiamma d'amore il tormento che la consuma; ma una fiamma oscura, indegna di lei, senza di che non la avrebbe celata a tutti, nè le divorerebbe così il seno. Senza proferir parola, con dinieghi, con monosillabi interrotti, ed appena espressi, con gesti di dolore, e con un'indicibile angoscia, componevo una controscena da formare quasi un dialogo col padre.

Quando Ciniro diceva:

Ma chi mai degno è del tuo cuor, se averlo Non potea pur l'incomparabil, vero Caldo amator, Pereo?…

io disponevo che egli, dirigendo questi versi dal lato dove si supponeva si fosse ucciso Pereo, rimanesse con tutta la persona rivolta da quella parte, ed io, per un impulso involontario, inebriata d'amore, al suono di quella pietosa voce, col mio braccio steso verso di lui, accennava esser «Egli» il solo che lo aveva meritato; ma, al volgersi improvviso di Ciniro, abbassavo lo sguardo atterrita, indietreggiando per non essere sorpresa in quell'attitudine; indi vedendomi vicina a tradirmi, non sentendomi più forza da opporre alle incalzanti sue ragioni, con voce cupa, prolungata e non udita da lui, dicevo tra me piena di amarezza:

(Morte! Morte! Cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda, Sempre sarai?)

Vedendo poi vano ogni scampo, inutile ogni ripetuto diniego, per sfuggire alla volontà assoluta di Ciniro, che io gli palesi il mio segreto, con l'accento di un'anima dilaniata, esclamavo:

Oh Cielo! Amo, sì, poichè a dirtelo mi sforzi; Io disperatamente amo, ed indarno.

Poi come se sperassi che questa confessione fosse stata bastevole, mi trinceravo nella ferma risoluzione di non dire di più, aggiungendo prontamente:

Ma qual ne sia l'oggetto, nè tu mai Nè persona il saprà; lo ignora ei stesso, Ed a me quasi il niego.

Quindi, dopo una breve risposta del padre, con la quale egli protesta che vuol salvare ad ogni costo la figlia, vedendo di non potermi più a lungo sottrarre ad una dolorosa confessione, con forza e fuori di me prorompevo:

Salva?… Che pensi?… Questo stesso tuo dir, mia morte affretta… Lascia; deh lascia per pietà, ch'io tosto Da te… per sempre… il pie' ritragga…

e risolutamente stavo per fuggire; ma, affascinata dal grido affettuoso del padre che esclamava:

Oh figlia Unica, amata, oh che di' tu? Deh! vieni Fra le paterne braccia…

sopraffatta dalla violenza dell'amore, come se un potere ineluttabile m'attraesse verso di lui, entusiasta stavo per cadergli appassionatamente fra le braccia…; ma a quel contatto, appena sfiorato da me, piena d'orrore indietreggiavo, respingendolo.

Quando infine non vi è più per Mirra scampo alcuno per nascondere l'empia fiamma che l'arde tutta, interpretando l'intenzione dell'autore che, con ispirazione degna del suo genio, trova modo con una sola perifrasi di tutto dire, nulla dicendo, con grandissimo sforzo, stentatamente ed a bassa voce, quasi temendo che pur l'aria udisse, dicevo:

Raccappricciar d'orror vedresti il padre, Se lo sapesse… Ciniro…

e questo nome lo pronunciavo come se tutta l'anima appassionata me lo portasse sulle labbra, rimanendo per un istante immobile, con gli occhi fissi su di lui, aspettando la sua risposta.

Lo strazio di Mirra non ha più freno, allorquando Ciniro, non avendo compreso il vero senso delle parole udite, le giura di toglierle per sempre il suo amore, se non gli svela il terribile arcano che la consuma. A tale minaccia Mirra non potendo reggere al pensiero d'essere per sempre abbandonata dal padre, perde ogni ritegno; e, pensando alla madre che vivrà sempre felice fra le braccia di lui, dando sfogo alla sua gelosa passione dice:

Oh madre mia felice! almen concesso A lei sarà… di morire… al tuo fianco?…

L'accento, il gesto, lo sguardo pieno d'immenso amore, non dovevano lasciar più a Ciniro il menomo dubbio sul significato vero di quelle sacrileghe parole, e con orrore retrocede dalla figlia. Allora Mirra, annichilita dall'obbrobrio, non trovando altro scampo per fuggire al disonore, con la prontezza del baleno afferra il brando, che pende al fianco del padre, e se lo immerge nel cuore, dicendo:

Almen la destra, io, ratta Ebbi al par che la lingua.

e cade esanime al suolo. In quel punto accorrono Cecri ed Euriclea.

Sostenuta tra le braccia della nutrice, all' udir Ciniro in procinto di svelare il fatto nefando alla consorte ivi accorsa, io tentavo rialzarmi e con gesti pietosi lo supplicavo a non proseguire, a risparmiarmi l'obbrobrio del mio fallo. Ma le mie preci riuscivano vane, ed io, sfinita, ricadevo nuovamente sul seno di Euriclea. Rimasta sola con lei, presso a morire, con voce spenta e accento di rimprovero, proferivo gli ultimi versi:

Quand'io… tel chiesi… Darmi… allor… Euriclea… dovevi il ferro… Io moriva innocenete… empia… ora muoio!…

e stramazzavo morta al suolo.

Dall'analitica esposizione di questo mio difficilissimo studio, spero saranno apparsi chiaramente al lettore gli sforzi da me fatti per raggiungere l'intento che il grande Alfieri si è prefisso, quello di dimostrare, cioè, come quella passione impura, che era rinchiusa in un'anima innocente, sia capace d'ispirare un sentimento di vera pietà per la infelice fanciulla, vittima dell'ira di Venere.

Per provare quanto grandi fossero il pentimento ed i rimorsi di Mirra, ricorderò qui quanto Ovidio le fa dire:

«Oh Dei! Se alcuno di voi è accessibile alla voce del pentimento, io ho meritato il più crudele supplizio e son pronta ad incontrarlo. Ma non vo' offendere nè gli sguardi dei vivi, rimanendo sulla terra, nè quelli delle ombre scendendo tra i defunti; escludetemi dai due regni, e con una metamorfosi, negatemi in pari tempo la vita e la morte».

Il pentimento trova gli Dei propizi, e gli ultimi voti di Mirra furono esauditi. Ella parlava ancora, quando la terra cominciò a cuoprire i suoi piedi; le radici si insinuarono attraverso le unghie per servire d'appoggio al tronco che s'innalzava. Le sue ossa si fecero di legno solido, conservando il midollo; il sangue si cambia in succo, le braccia in lunghi rami, le dita in ramoscelli e la pelle in dura corteccia. Già la grossezza del ventre era sparita fra le strette dell'albero, che aveva già rappreso il petto e stava per raggiungere il collo. Mirra, lungi dall'opporsi ai progressi del legno, gli va incontro ed immerge il suo volto in esso. Benchè abbia perduti, col corpo, i prischi sensi, essa piange tuttora. Lagrime calde colano da quest'albero e queste lagrime hanno gran pregio. Il profumo che ne distilla porta il di lei nome, e sarà celebrato per tutti i secoli avvenire.

Est tales exorsa preces: “O, si qua patetis Numina confessis, merui, nec triste recuso Supplicium. Sed, ne violem vivosque superstes, Mortuaque extinctos, ambobus pellite regnis, Mutataeque mihi vitamque necemque negate”. Numen confessis aliquod patet. Ultima certe Vote suos habuere deos. Nam crura loquentis Terra supervenit, ruptosque obliqua per ungues; Porrigitur radix, longi firmamina trunci; Ossaque robur argunt; mediaque manente medulla, Sanguis it in succos, in magnos brachia ramos, In parvos digitos; duratur cortice pellis. Iamque gravem crescens uterum perstrinxerat arbor, Pectoraque obruerat, collumque operire parabat. Non tulit illa moram venientique obvia ligno, Subsedit, mersitque suos in cortice vultus. Quae, quanquam amisit veteres cum corpore sensus, Flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae. Est honor et lacrymis; stillataque cortice Myrra Nomen herile tenet, nullique tacebitur aevo.

È noto come Racine, nel comporre la sua magnifica tragedia Fedra, siasi ispirato a tutto quanto di bello e di vero trovasi in quelle di Seneca e di Euripide, i grandi maestri delle tragiche composizioni. Ambedue queste tragedie hanno per titolo Ippolito.

Ecco ciò che Racine dice nella prefazione della sua Fedra:

«Quoique j'aie suivi une route un peu différente de celle de cet auteur (parlando d'Euripide) pour la conduite de l'action, je n'ai pas laissé d'enrichir ma pièce de tout ce qui m'a paru éclatant dans la sienne».

Egli, a mo' d'esempio, trovò sì piena di patetico sentimento e di verità la prima scena che Fedra ha con la nutrice Enone, nella tragedia d'Euripide, che volle in massima parte imitarla, quando introdusse Fedra nel 1°ree; atto.

Euripide pure la presenta risoluta a morire, vedendo di non poter vincere con castità «quel reo ed impudico amore».

Maestrevole pure, e tutto suo, è il mezzo immaginato da Racine per dare intero mutamento alla faccia dell'azione nella fine del 1°ree; atto. Egli fa portare alla Regina dall'ancella Panope l'annuncio della creduta morte di Teseo, appunto nell'istante in cui per gli acuti rimorsi che desta in lei la illegittima passione, per la certezza di non poter mai soddisfare la impura fiamma che la rende odiosa a se stessa, Fedra aveva deciso di lasciarsi morir di languore.

Come un baleno la gioia trova accesso nel suo cuore, vedendo per tal modo rotto quel nodo che rendeva il suo amore nefando e disperato.

… la catena infranse Che nefando il faceva e disperato.

Tacciano i rimorsi. La dolce speme che Ippolito, conosciuta la morte del genitore, possa corrisponderle, le dardeggia la mente come raggio di sole in mezzo ad infuriata tempesta; e pari a giovinetta che per la prima volta ode susurrarsi all'orecchio soavi parole da un amoroso labbro, Fedra ascolta i detti insinuanti e persuasivi della nutrice, combattuta da mille contrari affetti; lasciando sfiorare un sorriso sulle sue pallide labbra, decide di conservarsi alla vita, abbandonandosi intieramente in balìa d'Enone, facendo però credere che solo per «amore del figlio» ella consente a rinunziare al fermo proposito di morire.

Racine, introducendo questo mezzo nella sua tragedia, ha provato aver ben compresa tutta la verità e la bellezza del modo con cui Seneca, nella 3a scena del 2°ree; atto fa palesare da Fedra ad Ippolito, la passione che per lui nutre.

Finge dapprima la perplessità di risolversi a farnelo partecipe, indi il crescendo che la conduce allo scoppio della confessione, e finalmente il furore d'Ippolito nell'udirla, ed il suo disdegno. Racine, però, diversifica in questo: che la perfida tela di menzogne, ordita da Enone contro Ippolito, per salvare la sua amata e sventurata regina, la pone nel 3°ree; atto, e cambia in nobili ripulse ad acconsentire a tale empietà, il delittuoso tacito assenso, che Seneca fa dare da Fedra ad un'azione sì rea, non opponendosi neppure con un motto, all'infame denunzia. È bensì vero, che Fedra, pure in Racine, aderisce a che Enone accusi d'un attentato infame, l'innocente Ippolito; ma questo è giustificato dalla situazione terribile in cui la pone l'autore.

Teseo, creduto morto, ritorna e può scoprire ad ogni istante la sua colpa, il suo scorno. Certa come ella è che il figlio non tacerà il di lei adultero fuoco, Fedra, sebbene poco innanzi avesse dimostrato orrore d'acconsentire a che Ippolito fosse incolpato del proprio fallo, dicendo: «Io denigrarlo? Io perderlo? Giammai!» al vederlo avanzarsi col padre, il terrore l'assale, smarrisce quasi la ragione, e comprendendo appena le parole di Enone, dà a quel delitto il suo assenso, come unico mezzo che possa salvarla dal furor del consorte, e sottrarla al proprio disonore.

Fedra. Ippolito è con lui? Scritta è negli occhi suoi la mia condanna. Fa ciò che il cor ti detta. A te m'affido. L'ansia, l'affanno, ogni pensier m'han tolto.

In tre diversi modi e per tre diverse cause, Seneca, Euripide e Racine, fanno morire Fedra. Il primo fa ch'ella, nell'apprendere la tragica fine d'Ippolito, causata dalla perfida accusa scagliata da lei contro quell'infelice per vendicarsi delle sue repulse, ed assalita da acuti rimorsi alla vista dell'informe cadavere del misero giovine, per lei sacrificato dal padre, prorompa in furie terribili, si getti disperata sull'esanime corpo d'Ippolito; strappandosi le chiome, ella palesa a Teseo tutta l'immensità della sua colpa, della sua perfidia, alle quali trova giusto guiderdone la morte, e di sua propria mano si uccide, trafiggendosi col ferro che impugna nel presentarsi al consorte.

Euripide, nel suo Ippolito, fa comparir Fedra vittima infelice di una vendetta celeste, e, come tale, degna d'un senso di pietà. Questa si aumenta allorchè Fedra, apprendendo le smanie furibonde d'Ippolito per l'impudica fiamma che per lui nutre la matrigna, svelatagli dalla schiava Enone, in preda allo scorno, alla vergogna, furente per saper conosciuto da Ippolito il suo amore per lui, volendo sottrarsi all'ignominia, decide di morire, e compie il fatale divisamento, stringendosi con un laccio la gola. Ciò attenuerebbe la colpa del suo impuro amore e renderebbe Fedra oggetto di compassione; ma allorchè per le parole che Euripide fa dire da Diana a Teseo, dopo l'infausta fine d'Ippolito, si scopre che Fedra prima di togliersi la vita, concepisce il reo disegno di vergare un foglio nel quale incolpa Ippolito d'averla trascinata a quel disperato partito, per essere stata a forza disonorata da lui, questa bassa ed ignobile calunnia la fa divenire oggetto spregevole, obbrobrioso, e cangia in disprezzo ed orrore la pietà che si era provata per lei.

Ecco i versi che Euripide fa dire da Diana a Teseo:

Perchè d'iniqua morte Il tuo figlio uccidesti, o sciagurato, E di ciò ti compiaci? A false, oscure Note di tua consorte Fè concedesti, e certo Manifesto misfatto hai consumato. …Ma la tua sposa, Paventando di fallo esser convinta, Scrisse scritto bugiardo, e con l'inganno Te persuase, e trasse il figlio a morte.

Racine, invece, più nobilmente tratteggia la fine di questa regina. Assalita dalla vergogna d'aver svelato la sua impura fiamma ad Ippolito, vedendosi respinta con orrore e disprezzo da lui; non potendo sostenere lo sguardo scrutatore di Teseo, sentendosi colpevole, straziata dalla gelosa rabbia di scuoprire inaspettatamente in Aricia una fortunata rivale; paventando l'ira del padre suo Minosse, allorchè scenderebbe nell'Averno; lacerata dai rimorsi per avere, fuori di sè, ceduto alle perfide insinuazioni di Enone, di accusare cioè Ippolito del suo proprio fallo, ingia uno dei più potenti veleni venuti dalla Media. E sebbene cosparsa del sudor di morte, si trascina dinanzi a Teseo; riassume le poche forze che ancora le restano, per proclamare l'innocenza d'Ippolito, per accusarsi dell'impudico e veemente amore che per lui racchiudeva in seno, nonchè del perfido consenso dato ad Enone di accusare Ippolito, a grado suo. Afferma che avrebbe bramato più prontamente col ferro por fine a'giorni suoi, ma ad ogni costo ella volle svelar prima il suo delitto, i suoi rimorsi; perciò a morire scelse un lento veleno, e spira fra spasimi orrendi, ignara perfino della morte d'Ippolito. E che Fedra ne fosse inconscia, lo provano i seguenti versi.

Panope nella scena 5a dell'atto 5°ree;, viene trafelata a Teseo, dicendo:

Signor, che tenti la regina ignoro, Ma fuor di sè mi sembra e grave incute Spavento in tutti. Una mortale angoscia Sta dipinta sul volto, e già la copre Il pallor della morte. Enon cacciata Dal suo cospetto, si lanciò nel mare. L'onda per sempre sopra lei si chiuse, E sulla causa del feral disegno. Tes. Che intesi! E Fedra? Pan. Non la calma il fero Destin della nutrice; anzi più sempre Smania e delira. I figli suoi talora Quasi a schermirsi da un occulto duolo Abbraccia e piange. Poi, come pentita Li respinge da sè. Qua e là s'aggira Irresoluta, e il suo smarrito sguardo Più non ravvisa alcun. Scrisse tre volte Ed altrettante lacerò lo scritto. Signor, accorri in suo soccorso.

Dopo questa scena si presenta Tramene, e, piangendo, narra la tragica fine del misero Ippolito, accaduta presso Micene, ove rimase il lacerato corpo. Nella reggia non si conosceva l'orrendo caso; quindi Fedra non si uccise per ciò, ma per quanto sopra ho esposto.

Qualcuno forse potrà trovare superfluo questo dettagliato confronto fra le tragedie di Seneca, Euripide e Racine, del modo nel quale il personaggio di Fedra è stato da loro trattato, nonchè la minuziosa narrazione del soggetto, quasi che fossero ignote le vicende di Fedra, e come esse furono diversamente tratteggiate dai sunnominati autori. Ma nella speranza che questi miei studi possano offrire un interesse tanto a quelli che mi hanno veduta sulla scena, come a chi non ne ebbe l'opportunità, non ho creduto inutile darne importanti particolari per coloro che non completamente li rammentassero, onde invogliarli a conoscere in qual modo io abbia intuita l'interpretazione di questa parte; cosa che, se gli piacerà proseguire, il lettore potrà giudicare.

Dopo l'analisi delle immense difficoltà che ho incontrate nello studio del personaggio di Mirra di Vittorio Alfleri, si potrebbe supporre che di gran lunga minore mi sia stato quello di Fedra. In parte ciò può esser vero, perchè meno strani e meno scabrosi ne sono i contrasti, ma non bisogna neppure sconoscere che l'interpretazione di queste due personificazioni offre grande analogia fra loro, essendo le protagoniste vittime entrambe della vendetta di Venere.

Venere non odiava Fedra, ma Ippolito, ed insinuando a Fedra un potente amore incestuoso, la scelse come l'unico mezzo che le si offriva per vendicarsi d'Ippolito perchè «la chiamava Pessima Dea; perchè era schivo alle leggi d'amore, e perchè ogni suo culto era per Diana, figlia di Giove, che sola adorava, proclamandola La maggiore delle Dee». (Così Euripide fa dire a Venere nella prima scena della sua tragedia). Mirra pure non era che lo strumento della vendetta di Venere verso la madre Cecri. Questa imprudentemente «osò vantarsi di possedere una figlia la quale, per la sua straordinaria bellezza, leggiadria, modestia e pel suo senno, attraeva più gente in Grecia ed in Oriente, che mai per l'addietro fosse stata attratta dal sacro culto della Dea». (Vedi Mirra di Vittorio Alfieri).

Gli effetti di tale maledizione lanciata su due così diverse nature debbono indubitatamente palesarsi sotto forme interamente opposte fra loro. L'una pura, vergine, e spinta da un arcano invisibile potere ad una nefanda passione, e per l'orrore che essa le incute, va incontro a morte onde non divenire colpevole.

L'altra, la donna conscia a quali mostruose conseguenze può guidarla la sua riprovevole flamma, qualora l'appaghi, non la combatte e solo vuole lasciarsi morire per tema che il suo amore, svelato, non le sia corrisposto.

Mirra è morente per non trovare nella sua giovine e debole natura la forza di dominare la sua ardente passione, paventa che questa venga scoperta da chi gliela inspira, e si uccide, quando una forza sovrumana le strappa dal labbro la confessione del suo segreto. Invece Fedra, di sua propria bocca, affascinata, ammaliata dalla bellezza d'Ippolito (nessun ostacolo sembrandole insormontabile per riuscire ad appagare le sue brame) con accenti infuocati, con occhio scintillante, in un accesso di furiosa passione svela all'oggetto che gliela infonde, la flamma che per lui l'abbrucia; e ciò che la conduce a fine di vita, è il sapersi preferita un'altra donna, nonchè il rimorso di aver lasciato accusare Ippolito del suo fatale amore, lasciandolo in balìa dell'ira paterna.

Avendo così significato i miei intendimenti circa lo studio psicologico da me fatto dei due distinti personaggi, i quali, compresi di una passione ugualmente anormale, hanno tanti punti di contatto, verrò ora a dire più specialmente come io abbia interpretato, studiato ed eseguito il personaggio di Fedra.

Racine fa precedere l'entrata di Fedra, nel 1°ree; atto, da alcuni versi della nutrice Enone, per dipingerla quasi morente, e solo bramosa di riveder la luce prima di morire. Credo necessario trascriverli perchè il lettore possa formarsi un criterio di come io dovessi apparire entrando in scena.

En. Aimè! Signore. Non v'è tormento che pareggi il mio. Tocca già la Regina all'ultim'ora. Invan la veglio notte e dì; consunta Da un incognito mal che mi nasconde Fra le braccia mi sviene. Un rio delirio Agita i sensi suoi, balza dal letto Da sconosciuto turbamento colta. Chiede veder la luce, ed è si triste Ch' è mio dovere alloutanar ciascuno. Ecco che giunge…

Infatti, Fedra entra in scena, pallida, prostrata, sorretta dalle ancelle, non avendo neppure la forza di parlare.

Il mio studio consisteva nel trovare la giusta nota della voce in quanto al tuono da darsi, nonchè la esatta espressione dello stato di Fedra, proveniente da causa non fisica, ma morale, che apportandole ora lo sfinimento del corpo, doveva in appresso produrre la sua resurrezione all'annunzio di qualche lieto avvenimento; diversamente come avrebbe potuto durare fino al termine dell'azione, sopportare tante emozioni, e compiere tanti fatti? Sicchè in tutta l'espressione del tedio, dello sconforto, dovevo tenere una specie di recitazione flebilmente monotona. Solo quando la corda del profondo amore era scossa, ed il suono ne vibrava dolorosamente, la mia voce scattava d'improvviso per un impeto involontario, poi subitamente si spegneva nel petto, mancando alla prostrata fibra il vigore di proseguire.

Per modo d'esempio, Enone rampogna Fedra di abbandonarsi, come fa, ad un dolore che la uccide, celandolo ad ognuno, e cagionando per tal modo la sventura de' suoi figli, che saranno costretti a subire uno stranio giogo, quello del figlio d'un'amazzone, così esprimendosi:

I numi offendi, I tuoi numi paterni, infrangi il nodo Che ti lega al tuo sposo, orbi di madre I tuoi teneri figli e li condanni Sotto un giogo stranier. Pensa che l'ora Che li lasciassi derelitti al mondo Avrai resa la speme e la baldanza Al figlio d'una estrania, il fier nemico Della tua stirpe, del tuo sangue—a quello Che dal sen d'una amazzone discese, Quell'Ippolito… Fed. Oh Dei! En. Ti muove alfine La mia rampogna! Fed. Oh! sciagurata, cessa! Qual nome uscì dalle tue labbra!

(Questo dialogo è una completa imitazione di Euripide).

Durante la recitazione di questi versi, dapprima io rimanevo quasi insensibile ad ogni rimprovero d'Enone, al ricordo dei figli! Ma al punto in cui mi diceva:

Avrai resa la speme e la baldanza Al figlio d'un'estranea…

il mio corpo si scuoteva. E durante i due scuccessivi versi:

…al fier nemico Della tua stirpe, del tuo sangue, a quello Che dal sen d'un'amazzone discese…

la mia prostrazione cessava, la fronte si corrugava… tremava tutta la persona, il petto era ansante.

Ma, all' udire «Quell'Ippolito» d' improvviso lo schianto del cuore si manifestava col grido:

Oh, sciagurata, cessa! Qual nome uscì dalle tue labbra

E ricadevo sul mio sedile.

Quando, dietro le reiterate suppliche di Enone, perchè le svelassi la cagione della mia ambascia, mi risolvevo a parlare, la voce usciva a stento. Cominciavo a rinforzarla solo allorchè con tuono lamentevole deploravo la sorte della madre e della sorella, vittime esse pure dell'odio dell'implacabile Dea: e alla domanda che nel massimo sgomento facevami Enone:

Ami tu dunque?

come belva colta dallo strale del cacciatore, con voce disperata rispondevo:

Tutte ho le furie dell'amor in petto.

Lo slancio maggiore lo manifestavo dopo che Enone aveva detto:

Che ascolto! Ippolito!

Con impetuoso risentimento rispondevo:

Sei tu che l'hai nomato!

E facendo una «lunga pausa» rimanevo in atto sdegnoso. Terminato quel parossismo, le forze tornavano ad abbandonarmi, ed abbattuta cadevo di nuovo sul mio sedile.

Quando poi, dato uno sguardo intorno a me, per assicurarmi che nessuno mi ascoltava, cominciavo a narrare l'origine del mio fatale amore, nonchè tutti i pretesti immaginati per allontanare Ippolito da me, lo facevo dapprima a fior di labbra, per dimostrare lo stato di prostrazione in cui doveva avermi ridotta la lotta precedente. Quindi, nel progredire della narrazione, a poco a poco, mi animavo; e nel punto in cui esprimevo la dolcezza ineffabile che il ricordo delle care sembianze d'Ippolito faceva scendere nell'anima mia, il mio volto s'irradiva.

Là, innanzi all'are, fra vapor d'incenso Sacri alla Dea, mentre il mio labbro i voti Ad Essa ergea, per lui per lui soltanto Cui nomar non osava, ardeva il core; Il nume che adorava Ippolito era!…

Alla comparsa dell'ancella Panope, ricomponevo con dignità i miei sensi smarriti, e all'annunzio che mi dava della morte di Teseo, tutta la mia persona subitamente cambiava d'aspetto, esprimendo un misto di stupore, di mal celata gioia nel vedere così inaspettatamente rimosso l' ostacolo che si frapponeva al compimento de' miei voti; però procuravo di raffrenarmi, celando il mio pensiero perfino alla fida Enone. Partita Panope, ascoltavo le parole lusinghiere della nutrice con la compiacenza di colui al quale si fa balenare una felicità inaspettata e a cui non si osa prestar fede per tema che, come un bel sogno, essa sparisca. Durante il discorso di Enone, tendente a persuadermi che ora avrei potuto vedere Ippolito senza tema; che la mia flamma diveniva simile alle altre, tolto l'ostacolo che la rendeva colpevole, io rivolgevo la persona in modo ch'ella non potesse scorgere il mio volto, il quale pur anco avevo l'accortezza di celare in gran parte col ricco ed ampio velo che, scendendomi dal capo, mi avviluppava tutta. Per tal modo potevo, con una controscena analoga ai sentimenti che in me lottavano, far conoscere al pubblico, come le parole della fida nutrice, pari a balsamo sanatore, mi ridonavano alla vita ed all'amore. Poscia, dissimulando la vera ragione del mio cambiamento, davo a divedere che solo la considerazione e l'affetto pel figlio mi decidevano a rimanere in vita, e facendomi precedere da Enone, colla mia destra appoggiata sulla sua spalla, abbandonavo la scena a passo lento, chè ancora le membra non potevano avere acquistato intieramente il loro pristino vigore.

Il rinomato La Harpe ritiene che realmente Fedra si fosse decisa a conservarsi in vita per amore del figlio; ma il mio avviso è opposto, e anche le espressioni di Fedra a tale riguardo nella scena della confessione del suo amore ad Ippolito, mi confermano in esso: e lo proverò con argomenti che io ritengo giusti.

Nel 2°ree; atto, nella mirabile scena dell'abboccamento che ha Fedra con Ippolito (1) Imitazione di quella nell'atto 2°ree; nella tragedia di Seneca dal titolo Ippolito, svolta da Racine con incontestabile arte e maggior effetto., io comparivo con passo incerto, spinta ed incoraggiata dalla nutrice Enone, per raccomandarle il figlio; ma io opino invece non fosse quello che un semplice pretesto per scrutare il cuore d'Ippolito. Se fosse diversamente, temendo, come Fedra temeva, l'irresistibile ascendente che aveva su di lei colui che tanto amava, avrebbe sfuggita ogni occasione d'avvicinarlo, nella tema di tradirsi e perdersi. Intieramente convinta di ciò, nel dar principio alla mia scena, le parole mi uscivano lentamente dal labbro, ed a stento dicevo:

Dei miei proprii affanni Vorrei parlarti… e… di mio figlio.

La punteggiatura indica che la interruzione di queste parole prova come lo stesso poeta dall'Ongaro fosse della mia opinione, e la conferma per parte dell'autore come del traduttore la riscontravo nei seguenti versi:

Fedra Nè che tu m'odii già t'accuso! Avversa Sempre a te mi vedesti, e in cor, signore, Leggermi in cor tu non potevi. Io stessa Esca all'odio porgea, chè non soffersi Viver con te sulla medesma terra. Nemica tua, non che segreta, aperta, Volli che il mar ci separasse: imposi Che niuno osasse innanzi a me nomarti: Gravi torti ho, lo so; ma se la pena Dee l'offesa uguagliar, se l'odio solo Grida vendetta, non vi fu giammai Donna più degna della tua pietade, E men degna, signor, dell'odio tuo!

Questi quattro ultimi versi non è certamente di donna che voglia celare il vero suo interno sentimento; anzi, con una circonlocuzione di parole e di frasi a doppio senso, Fedra si prepara a farne comprendere il vero significato. Come più addietro dicevo, convinta di questa opinione, trovavo che dovevo pronunciare le parole a doppia intenzione con lampi di fuoco mal repressi, che dovevo accentuare, non solo con la voce, ma pur anco con lo sguardo, forzando di comprimermi in petto la passione che mi divorava, e che stava per palesarsi. Con gesti poi appena accennati, colla controscena, lasciavo divedere al pubblico il mio dolore per non esser compresa da Ippolito, ed allorchè questi, prestando fede al sentimento di Fedra per l'odio che gli aveva portato, cercava di scusarne la condotta, dicendo che ogni altra madre si sarebbe comportata egualmente verso un figlio d'un altro letto, per amore della propria prole, sentendo dentro di me che i proponimenti da me fatti di contenermi cominciavano ad afflevolirsi, senza intieramente manifestarmi, ritentavo farmi comprendere, dicendo con leggero tuono d'impazienza:

Ah! no, troppo diversa, il ciel n'attesto, È la legge cui cessi. Altro, ben altro Il pensier che mi turba e che mi strugge!

Quindi mano a mano che la scena progrediva, non potendo più comprimere la passione che tutta mi accendeva, la violenza del mio furioso ardore traboccava a guisa di gonfio torrente che impetuosamente irrompe. Voce, gesti ed accento, dovevano esprimere lo stato d'una donna che, ebbra d'amore, pone in non cale pudore, ritegno, dignità, tutto, per conseguire le dolcezze, che la sua colpevole fiamma le fa ardentemente bramare.

Poscia, vedendomi da Ippolito spregiata, di subito con l'occhio, col fremito della persona mi davo a divedere furibonda Eumenide. Colla prestezza del lampo raccoglievo il ferro che egli aveva lasciato cadere, quando per un impeto di ribrezzo e di sdegno s'era scagliato su me per uccidermi. e lo rivolgevo al petto per trafiggermi. In quel mentre Enone, che durante questa scena, non veduta, di tratto in tratto ascoltava, si slanciava spaventata sopra di me afferrandomi il braccio, che non riusciva a disarmare, ed a forza mi trascinava nelle stanze.

Questa arrischiatissima scena con Ippolito è di grande difficoltà per l'attrice, poichè, se d'una linea oltrepassasse i limiti prescritti dalla convenienza scenica, lo spettatore troverebbe la situazione ributtante, con grave danno dell'effetto.

Nella prima scena del 3°ree; atto di Fedra con Enone altro non vi è che un continuo avvicendarsi e succedersi di rimorsi, di rabbie, di speranze, di timori, di illusioni e di contrari propositi.

Ora per l'umiliazione ch'egli le inflisse, Ippolito le riesce odioso, ora lo scusa, e incolpa se stessa d'avere giudicato con troppa severità l'inesperto giovane inconscio delle leggi d'amore. In questa perplessità immagina un mezzo per ritentare il cuore di lui. A quello si abbandona, facendone messaggera la sua fida Enone.

Ma quando la fida nutrice mi annunciava, fuori di sè, smarrita, essere Teseo tuttora in vita, e che egli sta per comparirmi innanzi, con rapido passaggio assumevo l'attitudine di chi, colpito da una grande sorpresa, rimane come impietrito. Con voce indistinta, quasi mormorando, dicevo:

D'un amor che l'oltraggia, il reo segreto M'usci dal labbro. Ei vive, altro non chieggo.

E quel «altro non chieggo» lo profferivo come se avessi voluto esprimere: «Tutto è finito per me».

Da questo punto, al pensiero di trovarmi al cospetto dell'oltraggiato consorte, non potendo per onta sostenerne lo sguardo, il terrore cominciava ad impadronirsi di me. Vaneggiavo… tutto che mi stava intorno sembravami «prendesse voce e parola» per scuoprire a Teseo il mio fallo.

Colla manifestazione di un quasi totale abbattimento fisico e d'aberrazione mentale dovevo rendere verosimile il consenso che Fedra dà al piano infernale propostole da Enone, e vi riuscivo col dimostrarmi sopraffatta da uno smisurato spavento, che, all'avvicinarsi di Teseo con Ippolito, s'impossessava di me. Quel lampo di risveglio d'onesta natura per il quale poco prima avevo respinto con raccapriccio l'infame consiglio che la nutrice mi dava, appariva spento. Successivamente, impossibilitata ad evitare l'incontro del consorte, rivolgevo a lui i pochi versi che denotavano il profondo dolore, lo smisurato rimorso che mi comprendeva, nonchè la vergogna di comparire davanti allo sposo oltraggiato e al cospetto di colui che ne era stata la funesta cagione.

Confusa… non trovando in me la forza di profferire altre parole, fuggivo precipitosamente.

Magistrale è il 4°ree; atto di questa tragedia, ove l'ingegno trascendente di Racine tutto si appalesa. Certo egli non si è ispirato nè ad Euripede, nè a Seneca, nella fattura di questa parte saliente del classico lavoro. È un getto alla Shakspeare, dove il cuore umano vien messo a nudo, sviscerando tutte le cause e gli effetti che ne producono la disorganizzazione.

Mentre Fedra pentita, tormentata dai rimorsi, viene tremante a Teseo, onde implorare clemenza pel figlio, e fors'anco a svelare la falsità dell'accusa scagliata contro Ippolito, si leggeva chiaramente nel mio volto, e nel modo come pronunciavo, quale siorzo, quale lotta avevo dovuta superare per decidermi a tale passo.

Dicevo i primi versi della mia entrata in scena con tuono supplichevole, con gli occhi confitti al suolo, non avendo ancora il coraggio di affrontare l'ira del consorte, svelando il vero.

Nell'apprendere da Teseo che Ippolito «ardiva oltraggiar la fama di Fedra, tacciarla di menzognera», curvavo maggiormente il capo umiliata e confusa, come se desiderassi celare nelle viscere della terra la mia vergogna. Ma quando doveva udire che «Aricia sola era la donna che Ippolito apertamente confessava di amare, che tutto possedeva il suo cuore e la sua fede», si operava per l'efficacia dell'arte, nella mia persona una così completa trasformazione, che lo spettatore ne rimaneva sopraffatto. Non ascoltavo più Teseo; era divenuta insensibile a tutto ciò che proferiva contro il figlio, compresa sol della tromenda rivelazione che mi aveva colpita. Rimasta sola, a poco a poco davo sfogo al furore compresso fino a quel momento, solo compenetrata dalla funesta verità, che ad un tratto mi aveva gettata la morte nel cuore. Poscia lentamente, con il più amaro tuono di scherno, con crescendo di voce, pronunziavo gli stupendi versi, nei quali sono rilevati uno ad uno tutti gli strazi di un cuore dilaniato.

Eccoli:

Aricia, Arcia, Avea 'l suo core e la sua fede! E quando Sordo a' miei voti, a' miei sospir, s'armava D'occhio sì fiero e di sì ferrea fronte, Stolta, io pensava che 'l suo cor ritroso Fosse per tutti e d'ogni amor digiuno! Oh! quanto m'ingannavo! Altri, non io Trovò grazia a' suoi sguardi! Altri domava L'inflessibile Ippolito! La via Altri trovò di penetrar quel core…

Allo scherno, che quasi era simulazione, succedeva uno scoppio disperato di furore, allorchè esclamavo:

La sola io son ch'egli abborrìa, la sola!

e, non trovando più freno lo sdegno impetuoso, come insensata, mi aggiravo per la scena; quando, vedendo Enone, correvo a lei precipitosamente per renderla consapevole di quanto avevo appreso.

Con rabbia selvaggia ad uno ad uno evocavo i ricordi dei timori, delle smanie, dei tormenti patiti, per mostrare che tutto era nulla a petto del dolore tremendo, che in quel momento mi dilaniava il petto.

Sconvolta la mente dal dardo infuocato della gelosia che mi si era confitto nel cuore, non mi si parava dinanzi che l'immagine della rivale preferita, giubilante, in dolce colloquio con Ippolito!… Quella gioia che intravedeo pareva uccidermi; mi era insopportabile l'idea della loro felicità. Il pensiero della vendetta balenava alla mia mente… Davo ad Enone l'incarico di uccidere Aricia, poi volevo spegnerla di mia mano istessa. Null'altro ascoltando che la gelosia, aspide velenoso che mi straziava il seno, parevami già d' invocare dal consorte una pena per la rivale, aizzando l' odio di lui contro la stirpe cui apparteneva; quando per un istante, rientrando in me stessa, ero come costretta a meditare sulle mie proprie colpe, l'enormità delle quali mi faceva intieramente uscire di senno. Pazza… barcollante… parevami non respirare che incesto…, menzogna…, desiderio di tuffare la mia mano ultrice in un sangue innocente.

Non vedevo, non discernevo più nulla; delirante mi sentivo trasportata al cospetto del padre mio Minosse, Gran Giudice nell' inferno. Già parevami che l'urna fatale, in cui stavano racchiusi i decreti delle pene inflitte ai trapassati, gli cadesse dalle mani, ed egli s'accingesse a ideare per me pene maggiori. Vedendolo scagliarsi su di me per uccidermi, gettavo un grido, fingendo di esser da lui afferrata per i capelli. Contorcendomi per tentare di svincolarmi da quella stretta fatale, mi sorreggevo il capo, tentando sfuggire a quella collera furiosa, e con alte grida di dolore esclamavo:

Ah no! Perdona. Un Dio crudele, un Dio la tua progenie Tutta dannò. Nel mio furor ravvisa L'orrida impronta della sua vendetta. Ahi! del delitto, il cui pensier m'avvampa, Io non gustai l'orribil frutto. Il foco Tormentoso mi strazia e mi consuma, E tra i martir, l' estremo alito spiro!

E stramazzavo a terra svenuta.

Dopo lunga pausa, avevo predisposto per completare l'effetto scenico che Enone mi s'inginocchiasse accanto e con pietose e persuasive parole a poco a poco sollevasse il mio corpo esanime; lo appoggiasse in parte sulle sue ginocchia, finchè, ricuperati lentamente e gradatamente i sensi, inveivo contro di lei. Udendola, per scemare la gravità del mio fallo, asserire che i Numi stessi l'avevano commesso, gradatamente riguadagnavo le forze, e mi allontanavo da lei, cacciandola con ira e disprezzo; ma, passando dall'altro lato della scena, mi seguiva la nutrice, che, caduta ai miei piedi, m'afferrava le ginocchia, supplicante. Era in quel momento, che sdegnosa le rivolgevo, nel massimo furore, la famosa invettiva di Racine, giustamente resa celebre nella letteratura francese.

Esecrabile mostro, il ciel ti renda La mercè che ti deve. Orrido esempio Sia la tua pena, ai piaggiator tuoi pari Che dei miseri prenci, lusingando Con vili arti di Corte, i molli affetti Spingono il core dove il desìo lo incliua E più larga al delitto apron la via! Adulatori infami… il dan peggiore Che il Ciel, nell'ira sua, mandi a chi regna.

e nell'eccesso dell'ira mi dileguavo.

Nel quinto atto non si riscontrano difficoltà d'interpretazione. Fedra non ha che una breve apparizione alla fine della tragedia. Si presenta morente, sostenuta dalle ancelle, divorata dal veleno che ha ingoiato per sottrarsi agli strazianti rimorsi delle colpe commesse per fatale accecamento.

Con voce spenta, palesavo al consorte la mia incestuosa passione, la falsa accusa della tentata seduzione d'Ippolito; era straziata dagli effetti della mortifera bevanda, e poco a poco le parole uscivano indistinte dal mio labbro. Agonizzante, venivo adagiata sulla mia poltrona e spiravo rimanendo col corpo abbandonato e mezzo cadente fra le braccia d'una fra le mie ancelle, mentre le altre mi s'inginocchiavano intorno in segno di profondo dolore e di religioso rispetto.

Fine.

Al lettore pag. V

Ricordi Biografici IX

Introduzione XI

Capitolo I.—Prima comparsa in scena entro un paniere—Secondo memorabile debutto a tre anni d'età—Prime gesta d'enfant prodige— Rapido avanzamento—A 14 anni, mi si affidano le parti di prima donna—Entro a far parte della Reale Compagnia Comica Sarda— Irrequietudine nervosa—Alcune considerazioni sull'arte comica nella prima metà del secolo corrente 1

Cap. II.—Mio matrimonio—I miei figli—Gli spettacoli drammatici e gli spettacoli lirici—Sproloqui della censura teatrale—Mi ritiro per breve tempo a vita privata—Viaggio artistico a Parigi nel 1855—Mie relazioni colla Rachel 17

Cap. III.—Mio successo nella tragedia Mirra—Assisto ad una rappresentazione data da Rachel—Valore artistico di questa grande tragica—Nuovi tentativi d'amici comuni per avvicinarmi alla Rachel 35

Cap. IV.—Addio a Parigi—Le sie lire del Dumas—Prontezza di spirito sul palcoscenico—I drammi dello Shakspeare—Disgraziato incidente accadutomi a Napoli—Ottengo grazia per un condannato a morte, in Ispagna—Commovente gratitudine del graziato 16

Cap. V.—Granchio a secco preso dalla Polizia a proposito d'un telegramma —Mio viaggio artistico in Olanda—Le barbe degli studenti di Coimbra—Mia prima recita in lingua francese—In Russia 68

Cap. VI.—Il Germania—Fra le rovine dell'Arcropoli—Una recita con Ernesto Rossi e Tommaso Salvini—Mia fede agl'impegni presi—Passaggio d'un ponte—Mio primo giro artistico in America —Una notte all'Avana 82

Cap. VII.—Prima tumultuosa rappresentazione di Maria Antonietta a Bologna—Il Brasile ed is suo imperatore—Nelle steppe russe— Una moglie contenta d'essere battuta dal marito—Recito una scena di Lady Macbeth in ingiese pag. 98

Cav. VII.—partenza per un viaggio artistico nelle principali città del mondo—Nello stretto di Magellano—Il Perù, le sue rivoluzioni ed i suoi rivoluzionari—Sierra puerta!—Deliziosa giornata di Natale, sul golfo messicano—Vera Cruz e Nuova York—Storia d'un neonato e della sua nutrice a quattro gambe 109

Cav. IX.—Il re d'Hawai in frack e cilindro—Suo spirito e sna cortesia —Nuova Zelanda ed Australia—Termine del mio viaggio artistico intorno al mondo—Irrequietudine d'artista—Stocolma, la Venezia del Nord—Scampo da un terribile pericolo—La scolaresca d' Upsala 126

Cav. X.—Recito Lady Macbeth ed Elisabetta d'Inghilterru in inglese— Difficoltà incontrata per ottenere una buona pronuncia in questo idioma—Ultima recita a Parigi—Secondo giro artistico negli Stati Uniti—Una recita con Edwin Booth—Un'attrice italian che parla in inglese con attori tedeschi!—I vagoni-appartamenti americani —Addio al Lettore 135

I. Maria Stuarda (tragedia di Schiller) pag. 145

II. Elisabetta Regina d'Inghilterra (dramma di P. Giacometti) 183

III. Lady Macbeth (dramma dello Shakspeare) 211

IV. Medea (tradedia del Leguové) 231

V. Mirra (tragedia V. Alfieri) 257

VI. Fedra (tradedia di Racine) 279

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