NUOVA
ANTOLOGIA
DI
SCIENZE, LETTERE ED ARTI

TERZA SERIE

VOLUME VENTUNESIMO
DELLA RACCOLTA VOLUME CV

ROMA
DIREZIONE DELLA NUOVA ANTOLOGIA
Via del Corso, N˙ 466
1889

In quella parte d'Italia così bella e pittoresca che si stacca dalla marina adriatica co' suoi colli feraci coperti d'ulivi e di castagni, dove una gente mite e di gentile sangue etrusco sente scrosciare la Nera spumeggiante, viveva nella casetta de' suoi padri Antonio il boscaiolo.

Tutti lo conoscevano per un bel tratto di paese intorno, tutti si lodavano di lui, tutti stendevano volentieri la mano e la posavano sulla palma della sua, solcata da grosse righe, aspra e incallita dal lavoro della scure, dell'accetta e della mazzola, quando scorzava le quercie e portava giù nel paese industrioso della vallata presso al fiume la corteccia ai conciatori di pelli.

Seduto sulla mula, avviando colla voce e colla corda le bestie alla fontana nella selva, col suo viso lieto e aperto, cantando le belle canzoni innamorate delle sue montagne, col suo cappello a cono sulla nuca, da cui penzolavano i nastri che glielo raccomandavano al collo nei giorni del vento e della procella, col petto largo e scoperto su cui luccicavano le medagliette di Santa Casa e gli amuleti tradizionali della Marca, Antonio il boscaiolo era così pittoresco da poter dare da sè le linee d'un quadro. Sempre gaio nella sua semplicità montanina e nella sua arguzia sottile e bonaria, pronto a cavarsi il cappello alle immagini delle colonnette lungo la via, ai signori che s'incontravano qualche rara volta sull'erta, e a salutare con un evviva i carabinieri in cerca di cacciatori di contrabbando o di ladruncoli di galline e di frutta, il forte montanaro era l'ammirazione dei conterranei, l'invidia dei giovanotti della sua età e l'amore delle fanciulle: perfino godeva la simpatia del signor sindaco a cui recava le corbe piene di fichi, di nocelle e di mandorle, che godeva fama di tiranno; e aveva avuto la soddisfazione di sentirsi lodare dal signor Curato, all'altare una domenica, perchè tornato in congedo aveva guadagnato la medaglia per aver salvata una povera donna e un bambino in un incendio, a rischio della sua vita. E si! che il signor curato non lodava nessuno!

Perchè Antonio il boscaiolo, rimasto orfano in età giovanile, affidato alle cure paterne d'uno zio, che stava nell'altro versante, benchè figlio unico, aveva dovuto fare il servizio militare: e aveva servito con fedeltà e con onore, ed era stato congedato prima di ogni altro della sua classe, perchè aveva imparato a leggere e scrivere ed era riuscito il primo del reggimento nel tirare al bersaglio: nel quale sopra a venti colpi non ne aveva fallito che uno, e si era meritato il grand'encomio in presenza del Generale, nel giorno dello Statuto.

Durante i suoi tre anni passati sotto le armi, il vecchio zio gli aveva mandato avanti quel po' di robetta che era rifiorita poi al suo ritorno, colle economie sue durante il servizio e il suo lavoro dopo, nelle carbonare e nelle vigne, e ora riusciva ad avere sempre una ventina di scudi al suo comando.

Il mondo era bello per Antonio il boscaiolo, Antonuccio come lo chiamava il vicinato: gli mancava il sole quando era nuvolo, e l'acqua quando non pioveva, com'egli soleva dire. Il che naturalmente dava un po' in testa agli altri giovinotti del villaggio: ma egli era sì piacevole di modi e di aspetto, tanto umile e mansueto, tanto gaio e servizievole, che in ultimo le invidie non avevano presa su di lui. Il che gli faceva dire nella sua furberia ingenua di montanaro: è proprio vero che l'agnello umìle può poppare due pecore.

Fra tante fortune, una più di ogni altra gli stava in mezzo al petto e gli brillava sulla fronte serena e senza pensieri: l'amore di Menica, la più bella fanciulla del vicinato, alta, forte, fatta apposta per lui, con due occhi neri come grani di pepe, capelli leggermente ondeggiati sulla fronte purissima, e denti sì piccini e belli che si vedevano rilucenti nel perpetuo sorriso di due labbra d'un rosso così assassino, da farti cascar morto a guardarli.

Almeno questo era il parere di Antonio il boscaiolo, il quale aveva per esprimersi delle frasi acute, taglienti, semplici, qualche volta arrischiate, cosa perdonabile nella sua bella gioventù, qualche volta d'una mestizia dolce, quasi solenne; un misto si direbbe di famigliarità e di adorazione, come del resto v' ha in tutto il linguaggio non imparato da altri che dal cuore.

Menica, o Menicuccia per vezzeggiativo, era povera: ma chi è bella non è tutta poverella; eppoi era sì piena di bontà, sì laboriosa, sì tenera; quelle sue mani sapevan far tante cose; il suo refe era filato e torto sì fine; il suo panno tanto serrato; il suo saio tanto capriccioso di quadri, di strisce e di licci, e la sua voce tanto soave nel cantare i lamenti e gli stornelli che in quelle montagne, dove pure, il che non parrebbe credibile se non fosse vero, l'essere sta nell'avere, Menicuccia era amata da più d'uno che possedeva campi e vigne, case e stalle e anche occhi di civetta in fondo alla cassa. Eppoi non poteva neppure dire si trovasse in miseria, poichè la famiglia era di contadini non di pigionanti; e se non avevano terra al sole della loro, facevano fruttare la terra altrui con lavoro e diligenza: nella etichetta campagnuola Menicuccia, se non apparteneva all'aristocrazia dei proprietarii, non apparteneva neppure al terzo stato dei pigionanti: era contadina: la borghesia, che è come ognuno sa il nerbo d'ogni società costituita. La famiglia di Menica teneva in colonia il beneficio della Cura, la più grossa possessione dei dintorni. Tutta la gente si rivoltava indietro a guardarli quando la domenica sera uscivano dalla chiesa del villaggio dopo la benedizione, e Antonuccio l'aspettava nel sagrato, ed essa passava colle donne per tornarsene a casa con quell'occhio timido chinato a terra e il suo fazzoletto puntato sulle grosse treccie, co' suoi anelloni dalla stelluccia tintinnante alle orecchie e i suoi coralli a ossicini di morto intorno al collo, e si accompagnavano sul sentieruolo rapido e scosceso del monte.

Quando Antonuccio andava alla benedizione, dov' era sicuro di trovare Menica, si metteva la sua bella medaglia dal nastro turchino sul cuore: era un' immagine anche quella: e ostentava i suoi stivaloni da soldato di cavalleria, che si era fatto fare a doppia suola e alla scudiera, quando ritornò in congedo: anzi sapevano tutti che la doppia suola aveva un fregio fatto a furia di bullette lucenti: era un'emme e un'esse che volevano dire Menica Sestini; ingenua e innocente compiacenza di uomo semplice, che voleva nella polvere della strada, nella cenere del focolare, nella riva umidiccia della fontana veder impresso il nome di Menicuccia, la donna che doveva diventar madre de'suoi figliuoli.

Ed essa arrossiva di piacere e di superbia quando lui le indicava col dito l'impronta del suo stivaletto, e a lei che non sapeva leggere e non doveva imparar mai, perchè le donne non hanno da saper certe birberie, diceva che quello voleva dire il suo nome e la casata; due cose che si sarebbero cancellate, come egli faceva sulla polvere, quando fosse diventata sua moglie e si sarebbe chiamata senz'altro nome o distintivo—la sua donna.—

Era la primavera fiorita e promettitrice di grasso raccolto e il matrimonio si sarebbe celebrato nell'ottobre di quell'anno, quando le pannocchie del granturco appese ai festoni indorano le casette montanare e i grappoli scendono biondi o bruni dagli oppi accomodati a canestro e a ghirlanda nel tralcio; quando finiscono i grossi lavori e cominciano le quiete veglie, dove la donna fila e annaspa, pel bello lessere e lo dolce dormire dell'aprile, e quando l'uomo intreccia i canestri e le stuoie e frequenta i grossi mercati de'bestiami e delle derrate. La madre di Antonuccio si era sposata anch'essa nello stesso mese, e cosi la sua nonna e la nonna della nonna: nelle casse c'erano pronte le biancherie e le coperte; le loro fatiche e le loro ricchezze: e i pendenti e i coralli sfaccettati che avevano rinomanza dei più belli della villa, attendevano di circondare il collo di Menica, come diceva Antonuccio strizzando un occhio e mostrando i suoi trentadue denti in un sorriso a cui la malizia non toglieva punto di ingenuità, e, anzi n'avevano più impazienza di lui, che pur ne aveva tanta, come ognuno può credere.

I felici sono fidenti; è una legge; poichè la felicità è come la luce che colora le cose su cui si posa e tutte le abbella. Antonio il boscaiolo era in vena di amicizia con tutto il mondo; cantava a squarciagola le sue gaie canzoni, e qualche volta i vicini lo vedevano ridere da sè nell'accompagnare le mule alla fontana. I suoi garzoni che gli curavano le bestie e le derrate, dicevano che mai si era visto un padrone più buono e costumato: uno specialmente ch'egli chiamava il cane, lo seguiva come l'ombra, gli dormiva attraverso la porta della camera e gli facea da Marta e da Maddalena. Era un esposto dall'occhio falso e dalla tinta livida, mezzo sciancato e tutto storto.

—È tanto brutto, diceva Antonuccio, che fa compassione.— Il buon uomo non sapeva dividere la deformità dalla sventura e in questo si dimostrava più artista che filosofo: dappoichè tutti lo sanno che le cose non vanno precisamente giudicate così: ma Antonio il boscaiolo non sapeva di siffatte alchimie, non aveva studiato il metodo sperimentale, e si fermava alla buccia delle cose senza analizzarle con cura, per averne quella sintesi perfetta, la quale ci conduce alla scoperta del vero. Per Antonio la bruttezza era una disgrazia: ed egli sentiva una gran pietà per gl'infelici: nel che sarebbe stato più da lodare, se alla sua bontà avesse dato per compagna la temperanza, che è una virtù, e avesse badato al vecchio zio Venanzo il quale gli soleva dire: fidarsi è bene e non fidarsi è meglio; ma è scritto nel libro del destino che l'esperienza degli altri non debba mai giovare ad alcuno: si potrebbe dire anzi che non giovi talvolta neppure quella che ognuno fa da sè.

Lo Storto altrimenti detto il cane, era stato per garzone un paio d'anni in casa di Menica. Fu forse per questa ragione che Antonuccio se l' era preso, non foss'altro, per parlare di lei: l'amore è loquace.

Sul principio attento, riflessivo, pieno di premure, negli ultimi tempi s'era fatto così trascurato e distratto che non fu più possibile di tollerarlo, e fu licenziato. Ma siccome aveva dimostrato una speciale affezione per Menica, che in un giorno di buon umore gli aveva affibbiato il nomignolo di cane, i vecchi padroni non avendo ragione di lagnarsi della sua probità lo avevano raccomandato ad Antonuccio, che ne cercava uno. Forse egli l'avrebbe ridotto al dovere mettendolo al servizio delle carbonare. I vicini dicevano che avevano fatto male a mandarlo via, perchè uno affezionato così non l'avrebbero trovato più; ma in fondo non andava tanto lontano e si poteva dire che non cambiava nemmeno casa, chè già tanto tutti sapevano delle nozze imminenti: e ricordavano che in una malattia di Menica, quel disgraziato con una neve alta un metro, s'era trascinato di notte fra la bufa fino in città a prendere non so qual droga che non si trovava nel capoluogo.

Agnese, la donna che aveva la virtù di scantar l'occhio e di guarire i vermi dei bambini, la buona strega della montagna, soleva dire con la sua aria fatidica che l'affezione dell'uomo per la donna è sempre una cosa pelosa, tanto più se la donna è bella. Ma chi badava ad Agnese la strega all'infuori dello scantar l'occhio e del far morire i vermi?

Del resto che il cane alzasse gli occhi verso Menica non era neppur da pensare: e se Menica ne aveva avuto un sospetto, una temenza lontana, quel terrore che è istintivo nelle anime primitive all'approssimarsi d'un pericolo indistinto, era bastato la fedeltà e l'affezione dimostrata dallo Storto al suo Antonuccio, per accusarsene come d'un cattivo pensiero, fino a dire ad Antonuccio in un'ora di abbandono:—Guardate se sono sciocca io! aveva paura che lo Storto sentisse amore per me. Doveva essere il diavolo per tentarmi.—E dopo averne prima riso insieme poi compassionatolo gli avevano fatta una mancia di trenta soldi per espiazione.

Menicuccia aveva ben altri pretendenti che le parevano più pericolosi. Fra i suoi amanti timidi era da notare il nipote del signor Curato, un proprietario che abitava presso la Cura e che per campagnuolo poteva dirsi un riccone.

Era il sopracciò della villa; parlava in punta di forchetta e cantava in coro nella messa solenne, nel che lo zio poneva la massima compiace nza; portava la cravatta con un largo spillo di corniola e un grosso anello d'argento all'indice della mano destra. Egli teneva ambo le chiavi del cuore dello zio prete, misto curioso di cacciatore e di asceta, impastato per metà di rabbia e per l'altra di unzione religiosa; pronto a strapazzare e anche a percuotere col nerbo un fanciullo che si sbagliasse a dire la dottrinella, e a privarsi dell'ultimo soldo per soccorrere un infelice; gran formalista per vestire dei chierichetti nel giorno del Corpus Domini con cappa e roccetto e generalmente vestir quelli che erano i più famosi ladrun coli della campagna, purchè sapessero stare in fila e cantare il Pange lingua: scrupoloso con le donne fino all' esagerazione, la soglia della sua casa non era mai stata macchiata (era la sua espressione) da orme femminili; ciò che non gl' impediva di alzar la mano su certi peccatucci che erano un po' troppo noti nella villa, specialmente sul suo nipote di cui si raccontavano a veglia cose tutt'altro che belle: ma si raccontavano piano, perchè anche le fratte non hanno le orecchie, ma qualche volta se le mettono e anche i muri della stalla potevano fare la spia. Il signor Curato che non aveva occhi che per questo nipote, se avesse saputo delle mormorazioni delle sue pecorelle, subitaneo com'era, ne avrebbe fatto aspra vendetta e proprio nel luogo dove meno si sarebbe dovuta fare; nel Vangelo della domenica, cominciando a spiegare la parola di Dio e finendo per dare delle pettegole alle femmine, dei contadinacci cocciuti agli uomini e concludendo, come aveva già fatto tante volte: « Ma già, uditori umanissimi, con voialtra canaglia è inutile di predicare che bisogna non pensar male, che non bisogna far giudizii temerarii, che bisogna perdonare le offese e amare il prossimo come voi stessi: parlare ai villani è come lavare, cen rispetto, la testa all'asino: si perde il sapone.»

Poi si voltava a diceva: Credo in Deum Patrem Omnipotentem.

Antonuccio sapeva delle pretese di questo signor nipote e se ne era sempre riso, poichè Menicuccia non ne aveva mai voluto sapere di lui, malgrado i terreni, le ricche mandrie, lo zio parroco e gli occhi di civetta in fondo alla cassa: non gliene portava rancore: lo compassionava di aver preso questa passione e, lui come lui, gli perdonava: gli amanti fortunati possono ben essere generosi. Solo la portava carica al signor Curato per questa cattiva abitudine di strapazzare i cristiani dall'altare: gli pareva una enormità. « Non dico che non dico: siamo tristi e qualche bestemmia ci scappa, e anche qualche mormorazione: ma se guardasse un po'i pidocchi di casa sua, il signor Curato; con quel brillantino del nipote, che ne fa d'ogni erba fascio sotto il manto della chiesa; se avesse un po' più di pazienza coi poveretti, e insegnasse con quella misericordia che ti persuade, mi pare a me che non farebbe mica male. L'esempio l'hanno da dar loro. Noialtri, si sa, siamo ignoranti, ma è sempre dal capo che viene la tigna, con rispetto della chiesa. »

Antonuccio non era stato prudente a dire queste verità al suo fido garzone, il quale le aveva ridette al nipote del signor Curato per quelle ragioni che in parte sappiamo e in parte immaginiamo, e che Menica e Antonuccio ignoravano ed erano ben lontani dal supporre. E difatti il signor Curato non gli aveva fatto portar la croce nella processione e aveva finto di dimenticarsi di tenergli in serbo il camice della confraternita nel giorno della festa.

— O che abbia con me il signor Curato? domandava qualche volta a Menicuccia. — E tutti e due cercavano e cercavano, eppoi si persuadevano che gli era in causa del nipote, che l'aveva fatta cercare a babbo e mamma, essendo essa l'unica fanciulla da incontrare nel gusto dello zio e degli altri parenti. E bisogna dire che la cosa pareva accecasse un pochino anche la famiglia di lei, che non faceva più la solita accoglienza ad Antonuccio, benchè non si facessero scorgere, e da qualche tempo mostravano di non aver premura di concludere quelle nozze prima già tanto ambìte.

—Ci sarebbe un rimedio, aveva detto timidamente Menicuccia ad Antonio una sera sulla porta di casa intanto che gli altri erano entrati a cena; ci sarebbe un rimedio, ma…

—Ma cosa? aveva chiesto Antonuccio cominciando a impensierirsi.

—Ma non ho il coraggio di dirvelo: morirei prima cento volte.

—Nemmeno una morirete, Menica, prima di avermi sposato: dopo, sarà quel che vorrà Iddio; qui è buio, non ci si vede lume, se anche diventate rossa, come mi piace tanto, nessuno vi vede: infine debbo essere il marito vostro: confessatevi con me, per questa volta.

La fanciulla era rimasta perplessa, poi dopo esser pregata tanto e aver pianto di confusione e di tenerezza, gli aveva confessato che i suoi s'erano montati la testa, che compar Ferdinando, detto sor Fiorino, l'aveva fatta chiedere dal signor Curato in persona; che i suoi per l'onore ricevuto non si trattenevano che per la parola data a lui, e che, ma per carità non si fosse fatto scorgere chè guai a lei! I suoi fratelli cercavano di attaccar briga per vedere di sciogliersi e di fargli rimangiar la parola. E finiva singhiozzando — Tutto per l'ambizione, tutto pei quattrini, come se i quattrini potessero fare contento il core mio.

Antonuccio ascoltava quasi non comprendendo bene. — Rimangiarmi la parola io? Il figlio di mio padre si rimangia la parola? E vogliono litigar con me, vogliono? Vengano vengano, che so bene io come si fa a spianar le costure ai cristiani: glielo darò io a quello scempiato di sor Fiorino con tutta la sua camicia di tela e la sua giacca di panno! E anche al signor Curato che usa una stadera falsa pei peccati dei poveretti e per quelli di casa sua: ah! ce la vedremo, ce la vedremo!

Ma questo discorso non piaceva a Menica, la quale colla sua drittura mite e timida e sapendo bene le cose come stavano capiva che questo non era uno scioglimento ma una complicazione.

—Madonna Santissima! cosa dite ora, Antonuccio, ci mancherebbe proprio questa di vedervi perdere il timor di Dio! Che c'entrano queste parole? Bisogna trovare il rimedio, bisogna trovare, e non mica far scene e mettere confusione nelle famiglie. E quando uno sa che un altro lo vuol tirare a litigare si scansa e non gli corre dietro. Non capite che è quello che vogliono, Madonna mia? Questo è proprio un voler andar a bagno per le doglie.

—Ma dunque, Menica, il rimedio che ci sarebbe secondo voi ditemelo: lo sapete che vi voglio bene: io per voi anderei all' inferno, salvando…

—Non parlate così, Antonuccio: le brutte parole non s'hanno mica da dire: voi criticate gli altri e fate peggio. Andare all'inferno Madonna scampaci! Vi sentisse mamma e la parola ve la ritoglierebbe essa, benchè povera donna sia già abbastanza in croce con questi uomini, che le vanno dicendo che è essa che mi tien piede, perchè vi voglio voi, e non mi curo delle ricchezze e di mettermi lo sciallo.

—Menica, se sposate me, vi voglio coprir d'oro e di coralli. Vi condurrò a Loreto a veder la Santa Casa e la marina, bella che pare il cielo caduto in terra, eppoi anche a Roma vi voglio portare: dove vorrete, sulla ferrovia, in carrozza, in biroccio! mai non poserete questi pieducci in terra, e le vostre mani non fileranno altro che il fiore della seta.

Antonuccio diventava poeta e stendeva le mani per afferrarne una di Menica che si ritraeva come la sensitiva, con una paura piena di quella tal piacevolezza che le anime semplici conoscono sì bene senza comprenderla.

— Non è mica questo che dicevamo Antonuccio; lasciatemi stare: ho altro a pensare io in questo momento colla guerra in casa e fuori di casa.

— E dunque il rimedio, Menica?

— Madonna santa! diceva lei giungendo le mani.

— Lasciatela stare la Madonna che ci aiuterà perchè essa è santa e noi le portiamo rispetto. Cosa si può fare, Menica, per levarci di pericolo?

— Far presto, sussurrò essa vergognosa e timida; si coprì gli occhi col grembiale, e fuggi in cucina dove erano tutti radunati per la cena.

— Far subito, disse lui, e via di corsa per intendersi collo zio Venanzo, che andasse il giorno dopo a far la domanda e a stringere il parentado.

Disgrazia volle che s'incontrasse prima coll'esposto e gli si confidò. Abbiamo già detto che la prudenza non era la prima delle sue virtù e la compassione faceva la ragione serva del cuore. Poi era tanto fuor de'gangheri; gli era parsa cosa si strana e inaspettata, che aveva perduta tutta la sua calma e la naturale contentezza dell'animo.

— Che ne dici Cane? chiese infine.

— Padrone voi avete sempre ragione.

— E se si fa subito il parentado, la casa sarà a sesto?

— Si fa presto a mettercela.

— Ma le carbonare che ardono?

— Fate una corsa, date un'occhiata e siete a cavallo.

— E il Curato?

L'esposto chinò per terra lo sguardo serpentino.

— Oh! che c'entra il Curato?

— Che c'entra che c'entra! Infine il Curato è il Curato, ed è lui che deve dar l'anello.

Lo Storto non rispose.

— E dunque Cane? che stai lì impalato?

— Padrone avete sempre ragione.

— Somaro!… fece esso con l'impazienza di chi vorrebbe avere un consiglio, un conforto, un aiuto e si sente dare una risposta di cui non sa che farsi. — Anderò da zio Venanzo. — E tirò via sul monte, che già annottava. Lo Storto strisciò lungo la siepe, guatò e d'un salto fu ad avvertire sor Fiorino, che lo regalò di venti soldi d'argento.

Antonuccio faceva le cose in fretta sempre: quella sera poi aveva il diavolo addosso e si fece promettere dallo zio Venanzo che il mattino appresso sarebbe sceso in paese a fare la domanda e l'ambasciata, poi di corsa fu a casa e trovò lo Storto tutto sudato che governava le bestie.

— Oeh!… e da dove vieni?

— Garbatino s'era sciolto e correva via ch'era una furia: si che m'ha fatto faticar poco! rispose senza scomporsi. Antonuccio non fiatò: pensava che in quel giorno anche le bestie erano indemoniate; e intanto l'altro garzoncello giù nel presepe cantava sull'organetto un dispetto contro lo Storto, perchè aveva detto una bugia al padrone: Fior di limone Ti voglio dare il marmo da mangiare Ti voglio far morire di passione, Ti voglio dare il marmo da mancire Di passione ti voglio far morire.

E per paga ne ebbe uno scappellotto da Antonuccio e un pizzicone dallo Storto, che si cucì nella giacca il suo pezzo da venti soldi d'argento.

Al domani mattina Compar Venanzo si mise le sue calze di mezza lanetta, la sua giacca di panno e la cappelletta del dì di festa, e sul suo bastone, lento e un cotal po' impensierito della piega che prendevano le cose, s'incamminò verso il paese che stava a mezzo la costa. La casa di Menica era la prima verso la Cura, quasi adagiata sul fianco del monte da un lato, e di fronte le si apriva la vasta e azzurra vallata in fondo a cui capricciosamente scorrevano le acque del fiume fra i massi variopinti.

Il colle in declivo dolcissimo si stendeva fin giù presso le vetriche, i salici e i pioppi argentati, coperto d'un bell'uliveto, a cui il vigore d'una recente potatura rendeva cupo il cinereo delle foglie, e un bel quadro di vigna rigogliosa, recinta da una siepe di spini che si coprirà nell'autunno de' suoi semi corallini, si alzava fin verso l'aia, formata a terrazzo sull'altipiano, e che aveva già i grossi pagliai del fieno e le quattro antenne per quelli della messe imminente.

Menica era a scaldare il forno e non si mosse al vedere Compar Venanzo. Il sangue le diede un tuffo; ma la legge non vuol presente la fanciulla nel momento in cui si tratta del suo destino, e si nascose dietro la catasta delle fascine: il padre stava accomodando il manico del rastrello sotto la loggia: due fratelli aggiogavano i buoi al perticaio. La mamma, Lucia, buona e ingenua vecchia preparava la stiacciata di granturco per cocerla sotto il coperchio di ferro sul vasto focolare.

L'accoglienza fu fredda: Compar Venanzo comprese che la sua visita non faceva piacere, ma non aveva che questo nipote, gli voleva bene e dissimulando espose senza preamboli lo scopo della sua visita. Il babbo di Menica interrogò con lo sguardo il soffitto affumicato della cucina, si strofinò gli occhi con le dita come per cacciarne la polvere e il sonno, puntò i gomiti sulle ginocchia, mise il mento nelle palme, poi rispose brevemente:

— Caro Compare Venanzo, ma io mo non sarei mica comodo di maritare la fantella.

— Come mai, compare, o che vi sturba? non s'era tutti d'accordo?

— D'accordo sì e no, fece l'altro chinando gli occhi per terra. Non eravamo mica d'accordo per questo tempo.

— Non è meglio prima che poi? chiese il vecchio zio fissando i suoi occhi vispi e severi sul suo interlocutore, dietro cui s'eran venuti collocando i fratelli di Menica, con un'aria di resistenza baldanzosa.

— Nè meglio, nè peggio: le cose al tempo suo e il lupo alle pecore, Compar Venanzo.

— Questo non si chiama rispondere; o che si fanno i giochi?

— Io non gioco mai, Compar Venanzo: alle corte, adesso veramente non son comodo.

— E cosa dice comare Lucia? chiese allora voltandosi alla madre.

Era una cattiva mossa: Lucia si morse le labbra e rispose asciutto asciutto, quasi a dirgli: che diamine! non capite che fate peggio? — Compare, a me mi sta bene quel che piace al capoccio. — E stese le bragia vive sul coperchio di ferro, poi scese a chiamar le galline rumorosamente.

— Le femmine non s'hanno a impicciare di queste cose, Compar Venanzo: potrei dirvi che non mi comoda perchè non mi comoda, ma siamo sempre stati amici, siete un galantuomo, ci siamo sempre voluti bene: mi sturba per l'acconcio e per la dote, in questo momento.

— Se non è che questo! Antonuccio si piglia la ragazza come l'ha fatta mamma; senz'acconcio e senza dote.

— Oh! questo mai: siamo poveretti è vero ma non si va mica accattando. I fratelli vogliono darle il suo, non è vero figliuoli? ma ora non sono comodi.

— Non siamo comodi, confermò il maggiore, Nicola, litighino e manesco. È inutile di parlarne.

— Se sarà destinato,… proseguì il padre di Menicuccia.

— Se sarà destinato,… ripeterono in coro i due fratelli.

— Vedremo, ci riparleremo compare, e si alzò da sedere riprendendo il manico del rastrello: e sarà quel che Dio vorrà.

Compar Venanzo rimase trasecolato. Un contadinello che poteva seminare venti coppe resisteva a lui proprietario, che non si riconosceva altro erede che Antonuccio; e il suo Antonuccio stesso era respinto, il più bel ragazzo della montagna, il più gaio e lieto compagno, il più agiato, il più buono e costumato di quanti ne fossero intorno. Non poteva credere a sè stesso. — È questa la risposta che debbo dare ad Antonuccio?

— Questa, compare.

— Senz'altro?

— Senz'altro.

— Ma non so mica come se la sentirà: infine Menicuccia gli vuol bene.

— Menicuccia non c'entra, Compar Venanzo, disse con voce altezzosa Nicola il manesco.

— E nemmeno tu, ragazzo mio, che se fossi tuo padre t'insegnerei a guardare negli stracci tuoi: e se Antonuccio se la pigliasse a male…

— Oh! Compar Venanzo, non dubitate che altre barbe della sua ci han messo su un granello di sale, ribattè Nicola il manesco ritornando all'aratro e fischiando una sua serenata, che teneva in serbo pei giorni di cattivo umore.

Così si lasciarono senza salutarsi: Compar Venanzo vide Menicuccia sporgere il capo al di sopra del cumulo delle tacchie e guardare in modo interrogativo come a dire: Ebbene? — Compar Venanzo alzò tutte e due le mani al cielo con un modo brusco, violento, che non affermava, non negava, non diceva nulla, ma minacciava tutto. Menicuccia proruppe in singhiozzi, si coprì il viso colle mani, scosse il capo in atto quasi disperato, poi si fece il segno della croce. Era una promessa a Dio, a sè stessa, alla terra tutta che le pareva piena del suo dolore, che non sarebbe mai stata d'altri che d'Antonuccio, fosse pure caduto il mondo.

È facile immaginare come rimanesse Antonuccio alla notizia della sua disfatta, chè ormai si capiva bene essere quella una disfatta bella e buona: bella e buona, così per dire, per amor dei contrarii, per beffa: poichè la lingua umana ha di queste ironie crudeli.

— E dunque, zio, cosa debbo fare adesso?

— Non te lo so dire, figlio mio: è una birbonata ma tant'è! la ragazza è la loro e non gliela puoi portar via.

— Ma essa cosa dice?

— Essa non c'entra, dice Nicola.

— Non c'entra? come non c'entra? Non è lei che deve prendermi?

— Che t'ho da dire Antonuccio! Pare che non c'entri poichè la legge la fanno gli uomini: le femmine hanno da tacere e penare.

— Zio Venanzo, ma questo è peggio che sotto le armi: voi non ci credete che le donne non abbiano a pensare colla loro testa!

— Io credo, Antonuccio, che il mondo sia di quelli che sanno farsi valere, capisci? Che non hanno bisogno di metterci in mezzo le terze persone e che san pigliare San Pietro per la barba. Io credo che quando uno vuol bene davvero, come ho voluto io a tua zia benedett'anima, benchè non m'abbia fatto figliuoli, non ci si spaventa di nulla e si riesce a tutto: rubare la ragazza no che è un peccato proibito dalla chiesa: farla scappare neppure perchè al mondo, Antonuccio, il credito è di chi se lo fa e un galantuomo non può essere contento di avere dei figliuoli da una donna scappata da casa sua, senza la benedizione di babbo e mamma, e che si possa dire almeno del primo che nasce: quello è il figlio rubato: rubato come… mi capisci. Per oggi mettiti quieto, Antonuccio: domani, sfreddata questa caldura, potremo pensarci meglio: parlerò io col signor Curato: vedrai che il rimedio ci sarà: basta che la ragazza ci tenga piede!

Antonuccio aveva ventisei anni e zio Venanzo sessantacinque: con questa diversità, diremo così, di temperatura, era difficile che potessero intendersi: uno era offeso, ma l'altro era offeso, afflitto e innamorato, tre cose, specie l'ultima, che non lasciano sfreddare la caldura: poi c'era la gelosia di mezzo che il buon vecchio aveva aizzata con quelle parole: basta che la ragazza ci tenga piede!

— Tenermi piede? pensava Antonuccio, intanto che si accomiatava dallo zio senza avergli promesso nulla, senza sapere quel che avrebbe fatto, senza accorgersi che le sue gambe lo portavano proprio verso la casa di Menica: tenermi piede? Oh! se me lo terrà! Ci mancherebbe questa che non mi tenesse piede essa. Zio Venanzo dice bene che il mondo è di chi sa farsi valere. Forse egli pensa che io sono un dappoco e che non so sbrigarmi da me e che metto gli altri nell'impiccio. Ah! zi' Venanzo! vedrete se saprò farmela dare la ragazza, e se nel caso saprò prendermela con tutti gli onori.… — E intanto la voce dello zio gli sussurrava il ritornello: sempre che ci tenga piede! — Che ci tenga piede! Oh dunque non la conosce, zi' Venanzo..… salvo che non avesse sentita qualche mala parola di quel pazzo di Nicola: ma son celie! Di Meniche ce n'è una sola e non può fallire. Sarebbe come non credere alla luce del sole. Benchè avrebbe potuto forzare un poco, chè quando una femmina vuole ne sa più del diavolo.

E così era arrivato nell'aia da dove si sentiva un brontolare cupo e adirato in cucina, tra Lucia, il marito e i figli, mentre il battere misurato del telaio rivelava ad Antonuccio che Menica era là. Il cuore gli si empi di tenerezza; sapeva che su quel telaio c'era la coperta bianca e turchina del suo acconcio. Ma Menica non cantava in quel giorno.

Il cane di casa che lo conosceva non abbaiò e gli si fece incontro scodinzolando; egli salì la scaletta esterna, s' affacciò al limitare senza sapere bene quel che si facesse, e diede il saluto consueto: Allegri ragazzi!

Nicola si voltò ringhiando — O che s'entra così in casa d'un cristiano? — Gli altri rimasero tutti fermi attoniti come statue. Menica quasi avvertita da un interno presentimento aveva lasciato di battere il telaio, colle pediche sospese, una mano in alto e un'altra sul petto porgendo ascolto con terrore represso.

Antonuccio si fermò sulla soglia e incrociando le dita, stirando le braccia in giù rispose con voce tremante di collera e di passione:

— Non è mica la prima volta che c'entro, Nicola, in questa casa.

— Potrebbe però essere l'ultima.

— E perchè? fece Antonuccio avanzandosi d'un passo e ponendosi le mani sui fianchi, ricacciandosi indietro la giacca e mostrando la cinta rossa legata intorno ai fianchi, da dove pendeva come un vezzo innocente una rivoltella che s'era riportato dalla milizia.

— Perchè, perchè?… rispose Nicola il manesco: o non avessi a credere di farmi paura con le tue mosse!

— Che idee, Nicola, fece Antonuccio che si sforzava di andar colle buone. — Son venuto perchè s'era inteso con babbo e mamma e con voi che io ci potessi venire: non ci debbo venire come uno dei vostri? Non ho da sposare Menica!?

— E batti! Non t'ha detto il compare che non siamo comodi adesso?

— Me l'ha detto, Nicola: ma questo è quello che non voglio sentire: eppoi tu non c'entri. C'entra babbo.

Il vecchio guardò al solito in alto, poi chinò lo sguardo in terra, poi rispose un mucchio di pretesti e di scuse: ci tirò dentro il solito se sarà destinato, poi disse che non s'era mai dato che prima della mietitura si fossero concluse le nozze: che la ragazza non aveva alcuna fretta; che bisognerebbe mettere un'opera; che si desse tempo; che anche il padrone desiderava facessero le cose con garbo; che finiti i pagliai, segate le stoppie, preparata la maggese se ne sarebbe discorso.

— Ma che paglia, ma che maggese, ma che stoppie! urlò Antonuccio al lungo ragionamento del vecchio: la ragazza la voglio che la voglio; essa è mia in faccia a Dio e in faccia agli uomini: o me la darete o me la piglierò.

— Te la piglierai, ma come? domandò Nicola schernendo.

— Non tentarmi, Nicola, che fo una pazzia!

S'udì un urlo soffocato dietro al telaio nella stanza vicina: Antonuccio fece un balzo, poi si fermò e cercò rabbonirsi.

— Al come ci penso io, Nicola, c'è sempre un come pei galantuomini.

— Un galantuomo non entra in casa d'altri a fare scene; sta prudente e educato.

— In questo hai ragione, vedi, Nicola, e me ne vado. Ma ricordati che la ragazza è mia e me la piglierò: me la piglierei fra l'acqua e il fuoco, sul picco della montagna e in mezzo al mare, capisci? E prima che l'abbia sor Fiorino ha da bruciare il mondo e tu dentro, Nicola. Pensaci, pensateci tutti: addio, addio! Poi diede un suo fischio col quale soleva dalla sua altura salutare Menica tutte le sere, ed essa rispose battendo fortemente il telaio. Si erano compresi e avevano promesso. Apparve un lampo di gioia sul viso adirato del boscaiolo e vi dipinse l'insita e consueta bontà. Discese lentamente gli scalini e giunto in mezzo all'aia udì il canto della fanciulla: Fiore di grano Misi lo piede e mi mancò il terreno Dico d'avvicinarmi e m'allontano! Misi lo piede e mi mancò la terra M'allontano da voi speranza bella; Misi lo piede e mi mancò la via M'allontano da voi speranza mia!

Al vederlo allontanarsi Nicola incominciò a fischiare la sua serenata insultante, poi urlò — Ce la vedremo, amico!

— Quando vorrai!

— Ce la piglierai sulla stanga del pagliaio la ragazza, mo che lo vuoi sapere.

— Anche là.

— Ma ci metterò il sapone come nell'albero della cuccagna.

— E io ci metterei il fuoco per bruciare te e il pagliaio che non ci possa arrivare a finirlo.

— Senti la merla cosa dice? Va via, va!

— Nicola, non levarmi il lume dagli occhi, urlò Antonuccio fermandosi e stringendo i pugni. Menica cantava sempre: Quando sarà che ti lascerò amore? Quando l'albero secco fa lo fiore! Quando sarà che ti lascerò amante? Quando l'albero secco fa le brancie!

Nicola le scagliò un improperio: e il boscaiolo dal principio dell'erta si rivolse tendendo le braccia. — E che non ti sognassi di torcerle un capello, che io ti torcerei il collo, credi pure, come alla gallina quando canta in gallo.

E ansante, trafelato, pieno d' ira e di dolore, battè alla porta del signor Curato.

Il Curato stava dicendo il breviario nella camera, che era insieme l'ufficio della Cura, lo studio e il luogo delle confessioni segrete.

Un gran seggiolone di pelle a borchie d' ottone e dall'alto schienale a forma tricuspidale e i cui spigoli s'incartocciavano, era la cattedra apostolica da cui tonava e fulminava sui disgraziati che avevano bisogno di pietà, di consiglio e di remissione. Sul suo capo, sospeso alla parete un grosso crocifisso nero, con una testa e due ossa di morto d'ottone, ai piedi. Più sotto un San Michele Arcangelo con la spada di fuoco che caccia dal paradiso terrestre i due capostipiti per cui l'umana progenie fu condannata al pianto: e di qua e di là il ritratto dei due ultimi papi in cromo-litografia con delle cornici di peltro. Intorno intorno scansie con libracci polverosi legati in pergamena, l'archivio della curia: il leggendario dei santi; messali di tutte le dimensioni e una grossa bibbia in foglio che evidentemente il signor Curato non aveva mai letto perchè i fogli non erano tagliati; più sotto molti Evangeli ad usum dei villani della parrocchia, con una preferenza spiccata di quelli che annunciano la fine del mondo, coi più certi segni delle stelle che si staccano dal firmamento e cadono in mare per spegnersi, e che tanto avevano turbato i sonni del boscaiolo quando era piccino: davanti a lui una grande tavola coperta d'un tappeto di sagristia color arancione rugginoso, di bavella fatta a spina; e alcune sedie a schienale di legno massiccio per la fabbriceria della parrocchia. E attaccato ad uno dei pomelli del seggiolone, mediante un laccetto, il famoso nerbo che infondevala scienza cristiana nelle tenerelle fibre dei poverini che andavano alla dottrinella.

Gli aprì il sagrestano, il factotum dei signor Curato, che prima d'introdurlo lo squadrò con diffidenza.

— O che vuoi, Antonuccio?

— Oh! una cosa piccola piccola… ho da pagare la decima, improvvisò il boscaiolo.

— Quand'è così entra pure. Il signor Curato dice l'uffizio ma quando si tratta della decima… O dico, fece sostando, ma non è mica ancora tempo.

— Lo so, ma debbo andare via.

— Ah! dunque la dài in denaro?

— La do in denaro.

— Bravo! facessero tutti così; col denaro si fa tutto e non si mettono in impiccio i Curati.

— Mi fai entrare? Avrei fretta, chiese seccato il nostro boscaiolo.

— Oh! che furia, Antonuccio, stamattina: si vede che sei sposo. Ma dico, vai via e lasci lì la ragazza?

Antonuccio pensò: poi — Non la lascio mica lì per gli altri sai!

— Ooh! fece il sagrestano con un'aria che parve canzonatoria al visitatore. E così entrarono.

Ad Antonuccio sembrò di vedere l'ombra del sor Fiorino fra la fessura d'una porta: il sangue gli sali alie tempie; ma si contenne.

Il sagrestano bussò sommessamente con le nocche delle dita, a cui rispose un — Avanti! rabbioso, che non faceva meraviglia ad Antonuccio ma che gli agghiacciò il sangue. Allora soltanto pensò come mai e perchè fosse venuto in quel luogo e sentì una voglia spasimata di tornare indietro. Ma ormai c'era e si cavò il cappello rispettosamente.

— Oh! fece il Curato nel vederlo e senza cercare di nascondere an atto di impazienza — Oh che buon vento!

— Vento di nulla, signor Curato: avrei da parlarle.

— L'ho capito già: se no non saresti venuto; è chiara.

Antonuccio chinò il capo e fece girare il cappello fra le mani con grande imbarazzo.

— Scusi, può sentire una parola?

— Ho gli orecchi per questo, figliuolo: di' su il tuo caso.

— È un caso da niente, signor Curato. Già Ella sa…

— Non so nulla; io non so mai nulla.

— Bene, allora glielo dirò io, signor Curato.

— Gli affari degli altri non mi importano niente affatto; ma di' pure…

Antonuccio cominciava a sentirsi venir le orecchie rosse.

— Signor Curato, disse con voce ferma e alquanto alta, già me l' hanno detto e già l'avevo capito da me, che lei me la tira…

Il prete diventò rosso come una mela granata, si tirò sulla fronte gli occhiali, diede un pugno sul tavolino e si alzò in piedi piantandovi sopra tutte e due le mani e abbandonando il breviario che cadde rumorosamente a terra sfogliandosi e lasciando volare intorno le immagini dei santi che v'erano dentro.

— Te la tiro? Io? Ah! villanaccio, si viene così in casa a perdere rispetto al Curato, al pastore, al direttore spirituale? Ma che direttore spirituale chissà chissà se pure!… — Si fermò, sbuffò, tossi, ripicchiò sulla tavola… Antonuccio a quella furia improvvisa s'era dato a correr dietro ai santini e a raccogliere i fogli e lo calmava.

— Ma senta, ma si persuada, ma scusi, Madonna mia!

E il prete continuava.

— È un pezzo che lo so che si va sparlando di me, e che non ho buone maniere e che strapazzo i paesani dall'altare. Strapazzare dall'altare io! Così lo avessi fatto, che questo villano non sarebbe venuto a interrompermi la meditazione con le sue impertinenze.. Gli avvisi sono rimproveri, i consigli bastonate: e — ripicchiò con tutte e due le mani poi le alzò al cielo ed esclamò:

Non amat pestilens eum, qui se corripit; nec ad sapientes graditus.

Antonuccio si fermò davanti al latino del prete tenendo nelle mani i due ultimi fogli raccolti dalla nevicata che si era fatta intorno a lui.

— Scusi, signor Curato; io non capisco, il suo latino sarà la parola di Dio.

— Non la volete sentire, nè ascoltare…

— Sarà la parola di Dio, gridò Antonuccio che era al colmo della rabbia e del dolore, ma si potrebbe dire con un po' più di bella maniera…

— Fuori di qui; Giovanni, Fiore, fuori, fuori, urlava il prete.

Antonuccio si provò di calmarlo, l'altro seguitava a urlare e a spingerlo; comparvero il sagrestano e sor Fiorino che l'aiutarono a metterlo fuori — Vergogna! Il suo Curato! Che scandalo! Che sacrilegio!… Altro che le decime! birbone, assassino! — Talchè il povero Antonuccio prima di aver avuto il tempo di raccapezzarsi, si trovò cacciato via, con tutte le apparenze di uno violento, senza aver detto nulla, senz'aver saputo nulla, con gli occhi pieni di lagrime e il cuore addolorato, e quando rientrò in se stesso e avrebbe voluto parlare, dire, scusarsi, perorare, giustificarsi, la porta aveva tanto di catenaccio, come se egli fosse andato a prendere d'assalto un luogo sacro.

Perdette quel po' di conoscenza che gli era rimasta. Ah! ribaldi, ah ipocriti! ah scostumati! urlava: a un par mio, a un galantuomo, a un povero figliolo che non ha fatto male a nessuno, si fanno di questi tiri. Infami, assassini, pezzi da galera; ma me la pagherete, oh se me la pagherete! Altro che cantar in coro, e snocciolare paternostri! Carità vuol essere e misericordia! Che vi possa pigliare tutto il male che meritate, brutti cani, e via di questo passo, che non era mica un bel passo. Tanto e vero che l'ira è un peccato, che la collera è la peggiore consigliera e che quella della sera bisognerebbe lasciarla per la mattina. Ma Antonuccio, lo sappiamo, era poco prudente e molto frettoloso: zio Venanzo non gli aveva mai potuto levare di dosso quell'impeto che madre natura gli aveva posto a galleggiare nel sangue caldo, anzi ardentissimo. Quando era soldato ai comandi iracondi del caporale, poichè si sa bene che i comandi più imperiosi vengono sempre dal basso e dal servo quando regna, egli ruggiva come un leone: e se chinava il capo gli era soltanto per la paura di quelle quattro mura in cui sapeva lo avrebbero rinserrato senz'altro e che avvezzo alla grande aria, al suo sublime orizzonte di montanaro, lo avrebbero fatto morire, pensava lui, nelle ventiquattr'ore.

E così Antonuccio se ne tornò via avvelenato, come diceva lui a zio Venanzo, temendo che il signor Curato, che sor Fiorino e perfino Giovannone il sagrestano gli potessero far del male, portargli via Menica, sagrificarla, farle fare qualche fattura, perchè anche Antonuccio nel momento dell'angoscia credeva possibile il malocchio, egli che se ne era sempre riso, e che aveva sempre beffato mamma Luciola, che si soffiava in seno quando vedeva una brutta faccia e andava a raccomandarsi alla vecchia Agnese, quando si ammalavano i pulcinelli, oppure le anitrelle non potevano andare contracqua nella corrente del fiume.

Ma il dolore empie l'animo di sospetti e di paure: è una passione depressiva; al contrario della gioia che eccita tutti i sentimenti, i sensi e gli affetti. Zio Venanzo non cessava di predicarlo a grande stizza di Antonuccio — « Eri troppo contento; era un'impertinenza della fortuna. le cose che sembrano belle sono brutte, le cose che sembrano brutte sono belle: bisogna prendere il bene e il male come piace a Dio; e in ultimo sia pur lunga una giornata suona sempre l'avemmaria.»

Ma quest'avemmaria predicata, invocata da zio Venanzo non pareva troppo prossima a suonare. La scena commessa in casa del Curato aveva posto a rumore il villaggio e la gente cominciava ad allontanarsi dal boscaiolo. Già si andava buccinando che questo matrimonio non si sarebbe più concluso.

(Continua)

Caterina Pigorini Beri.

SULLA MONTAGNA
RACCONTO

Si era giunti alla mietitura quando nei campi biondeggianti scendono le giovani coi fazzoletti rossi legati a turbante sul capo e quelli bianchi dalle grosse centinature incrociati sul seno e le camicie candide e i busti di molti colori cogli innumerevoli anellini, e vanno a mietere cantando le belle canzoni, accostando il capo a quello dell'innamorato e spezzando le ciambelle nello sdigiunetto del mattino, o nel bocconcello del dopo mezzodì.

Anche Menica sarebbe andata nel campo coi cannelli nelle dita per non ferirsi, e in quell'anno non glieli avrebbe recati Antonuccio: i bei cannelli ch' egli bruciava con un ferro da calzetta in mille capricciosi disegni d'artista ingenuo e pastorale, e che riempiva de' bei confetti di Foligno, durissimi e profumati, e non ne avrebbe avuto i garofani arrampicanti che fiorivano sulla finestrella di Menica; la quale ne aveva tre vasi, che ne inghirlandavano il davanzale. Non si erano più potuti vedere: nemmeno alla chiesa, perchè il padre e i fratelli avevano stabilito un patto col sagrestano e la facevano salire sulla cantorìa: e Luciola per mezzo di Agnese, la vecchia che possedeva la virtù di scantar l'occhio, gli aveva mandato a dire che per carità per ora non dicesse verbo e non facesse passi di nessuna sorta, che con la pazienza si sarebbe venuti a capo di ogni cosa, ma che per la Madonna dei Sette Dolori non bazzicasse intorno a casa, non andasse a messa alla Cura, si recasse al paese, fingesse di nulla, chè era necessario: e che essa era trafitta, ma che la ragazza teneva sodo e che la fedeltà avrebbe trionfato dell'ingiustizia.

Antonuccio si limitava a fare il suo solito fischio alla sera, e Menica cantava: Fiore di lino Damoci uno sguardo da lontano E mo che non si pole da vicino: Damoci uno sguardo colla mente Che da vicino non vuole la gente: Damoci uno sguardo collo core Mo che da vicino non si pole!

Lo Storto guardava biecamente quel che faceva Antonuccio e al canto di Menica, a cui egli si alzava tendendo l'orecchio e palpitando, lui diceva immancabilmente:

— Senti che canta, padrone?

E Antonuccio si sfogava, imprecava, si picchiava la testa coi pugni e diceva: — Se fossi re li farei impiccare tutti quanti!

Un giorno Agnese la vecchia venne a parlargli in gran segretezza. Gli disse che il cane di Menica era stato avvelenato, e che si dava la colpa a lui, perchè voleva avvicinarsi a casa di notte senza essere scorto da alcuno; che c'era stata baruffa in casa, che nel paese si facevano mille discorsi e che alcuni s'erano messi dalla sua parte, ma che il sor Fiorino che aveva dalla sua il Curato, faceva popolo contro di lui.

Antonuccio giurò sulla benedetta anima di sua madre, che non faceva di queste birbonate, che non sapeva nulla del cane, che lo dicesse a Menica e a mamma Lucia; che lui avrebbe dato una libbra del suo sangue per persuaderle che era un galantomo; che si fidava di esse come esse di lui e che aiutandolo Dio e la Madonna, poveretto sì, ma figliolo onesto fino alla morte. Agnese, la vecchia della virtù, lo credeva bene, ma — Che ci sai Antonuccio? questa è una invidia, e sai che l' invidia t' incanta lì in un fiat: bisogna scacciarla ad ogni modo. — Poi abbassando la voce in atto di grande solennità e afferrandogli un bottone della giacchetta con la sinistra e appuntandogli l'indice della mano destra al viso, e guatandolo co' suoi occhietti grigi, scintillanti di strega in buona fede: — Senti Antonuccio tu non ci credi che io abbia la virtù di scacciarti l'invidia: ti sei sempre fatto beffe di me, e non m' hai dato neppure una pagnotta dacchè sei ritornato dall'armata, perchè a fare il soldato si perde la fede e la grazia. Mamma tua e babbo, benedette le anime loro, ci credevano però, e mi governavano almeno nelle feste, e il bene che uno fa gli è contato in paradiso, dove essi si trovano e dove tu non andrai. Guarda Antonuccio: io però ti voglio bene lo stesso, perchè mamma tua ne voleva a me, e le ho salvato cento volte i pulcinelli e i cavoli dai vermi; e… ma giura che non ne parlerai ad anima viva…

Antonio era in disposizione d'animo da creder tutto, da sentir tutto, da obbedire a tutto; era sotto il fascino di quell'occhio grigio di strega benefica, che diceva di aver tanto amato la benedett'anima di sua madre.

— Giuro tutto quello che vuoi, Agnese. Aiutami; altro che tu mi puoi aiutare.

— Bene, figliuolo: guarda: domani l'altro a sera, siamo così d'accordo, finita la trebbiatura e fatti i pagliari, Luciola e Menica vengono da me a un'ora di notte a farsi scantar l'occhio. Fatti trovare a casa mia: vi intenderete meglio; ne ho dato un accenno a Luciola, che prima pareva non ci si volesse adattare, ma Menica ha tanto pregato e pianto, ha detto tanto, l' ha fatta persuasa che a parole vi potreste intender meglio, perchè c' è una trama, e il signor Curato la guarda come il basilisco, e sempre dall'altare parla delle fantelle capricciose e che non fanno l'ubbidienza, che ha finito per tacere… e tu sai, Antonuccio, « chi tace acconsente. »

Antonuccio balzò dalla gioia: avrebbe veduto Menica; le avrebbe parlato; avrebbe preso e dato coraggio, accettato e suggerito consigli, fatto e sentito fare chissà che piani, chissà che propositi, a voce, proprio davanti a lei, che lo avrebbe guardato con quegli occhi così neri e così timidi, di cui era all'oscuro da quasi un mese; avrebbe respirato nella stessa camera, avrebbe pensato le cose istesse di lei, nel momento stesso; avrebbe sentito il cuore di Menica palpitare nel suo petto null'altro che a guardarla; l'avrebbe accarezzata col suo occhio; l'avrebbe dipinta, poichè sapeva bene che l'occhio innamorato delinea perpetuamente i contorni della persona amata. E cosa non avrebbe dato in quel momento alla bu ona strega che gli portava l'annunzio, che gli faceva questa proposta, una proposta che egli non si sarebbe neppur sognato? E riempì il largo grembiale di Agnese di quanta grazia di Dio potè trovare in casa, e la lasciò andare con nuovi e reiterati giuramenti che non lo avrebbe detto ad alcuno, e che si sarebbe messo gli abiti più acci, come se fosse andato alle carbonara, perc hè il paese non supponesse nulla a vederlo in quell'ora fuori di casa.

Antonuccio la condusse fino in fondo all' aia che a guisa di terrazzo sporgeva sull'altura, dove si lasciarono, essa mettendo i suo scarno dito in croce sulle labbra come per sanzione, lui mettendo la sua mano sul petto, come per giuramento, e lieto, pieno di speranze, fischiò, e il solito canto rispose dalla vallata: Tanti saluti, o bello mio, ti mando Per quanti fili d'erba in prati sono, Per quante goccie d'acqua in mare stanno, Per quante arene gli stanno d'intorno, Per quanti uccelli su per l'aria vanno, Per quante miglia fa lo sole al giorno, Per quanti fior carica aprile e maggio Altrettanti saluti e davvantaggio.

— Senti che canta, padrone? — disse lo Storto, che non aveva perduto atto, nè gesto, nè sillaba della conversazione, nascosto dietro alla pula dell'aia.

— Canta e più canterà — rispose Antonuccio, quella sera tutto riderello, senza inquietarsi.

— Canta e più canterà — aveva affermato sentenziosamente lo Storto, e tutti erano andati a dormire.

Il mattino appresso il fischio della trebbiatrice nell'aia di Menica, svegliò i vicini e i lontani. Dalla casa di Antonuccio si vedeva il fuoco e il fumo e si sentivano i forti sospiri del mostro: si vedeva agitarsi una quantità di gente, uomini, donne, fanciulli intorno alle opere richieste dalla sollecitudine del lavoro, ancora un po' incerti dell'esito, con un misto curioso di paura e di curiosità: il vicinato si affollava, e tra i colori smaglianti degli abiti femminili e le camicie bianche dei contadini e il nereggiare del macchinista col largo cappello di paglia, si vedeva campeggiare il tricorno del signor Curato e l'abito di rigatino bianco e turchino del signor Fiore. Antonuccio stava sull'altura pensoso e taciturno, mettendosi una mano sugli occhi per raccogliere la luce e divincolandosi ogniqualvolta un hurrà rumoroso veniva a rompere la sua penosa solitudine.

Lo Storto gli si avvicinò.

— Padrone, — disse — quanto mi piacerebbe di veder la macchina! quasi quanto a te di veder Menicuccia.

— Taci, cane; non mi dir niente: va se vuoi andare; governa le bestie, poi prenditi il garzoncello e andate; a voi vi ci piglieranno, — disse poi con un sospiro: — date una mano, ci sarà da mangiare anche per voi, chè oggi ne dànno a tutti; non siate sprocedati; mangiate una consueta; non avessero a dire che siete morti di fame.

E lo Storto — Tu hai sempre ragione, padrone.

— E non dir nulla che c' è stata Agnese.

— Nemmeno l' ho vista padrone.

— Tanto meglio. Dirai a Menica che le rimando i saluti che m' ha cantato ieri: cioè non dirle nulla. Lo sa che le voglio bene. Piuttosto dài d'occhio a sor Fiorino, e dimmi se s'accosta a Menica e quel che fa Nicola.

Durante il giorno ci fu grande andirivieni giù nella vallata: tutto era gioia, tutto era festa; e gli evviva allorchè Menica portava da bere attorno salivano al cielo: e trovavano questa volta un'eco nel core di Antonie, il quale sapeva che la fine di quella letizia era riserbata a lui e pensava a quel che avrebbe detto, a quel che avrebbe fatto, pronto a mutar d' avviso e di progetto al primo veder Menica, pronto a inginocchiarsi davanti a lei come ad un' immagine, e ardendo di desiderio di baciarla in fronte senza sapere perchè gli veniva quel pensiero della fronte, mentre aveva le labbra sì belle e dei dentini sì splendidi. Gli è che l'amore è pieno di misteri, e la sua intrepidezza non è che un impasto contradditorio di slanci tempestosi e di timidezze piene di riserbo.

Quando a Dio piacque venne la sera co'suoi crepuscoli tremuli che confondeva in un velo uniforme tutte le cose: aveva pur ragione zio Venanzo quando diceva che, per quanto lunga sia una giornata, suona pur sempre l'avemmaria; e quanto non era stata lunga quella giornata di canicola per Antonio!

La luna tranquilla sbucava dalla gola dei monti e s'alzava dietro la selva annosa di quercie: Vedo la luna e non la vedo tonda, canticchiava Antonuccio, intanto che cavava fuori dal cassone del magazzino il suo abito più brutto e più nero di carbonaro e il suo cappello a cono. Strana ironia del destino! Egli che si sarebbe voluto far più bello, si trovava costretto a vestirsi come un traditore, come un ladro.

— Ah! Nicola, pensava tra sè, me la pagherai questa figuraccia che m'hai fatto! Tutto mi sarei creduto, ma che mi ferisse questa spina no. Pazienza per l'amor di Dio, che di spine n' ha avuto una corona.

E così si vestiva con una certa tal quale premura mista di tenerezza e di dolore, rivoltando il corpetto di saio e la giacca di mezza lanetta nera, a larghi bottoni color piombo. La camicia di nocchio e nocchio col largo collo arrovesciato, odorosa di timo e di spighetto risaltava al di sotto della giacca e spuntava sotto le maniche rimboccate; e la rossa cintura intorno ai fianchi reggeva la rivoltella inseparabile, per i cattivi incontri, diceva lui, ma infine perchè la sua trasandatezza apparente non fosse priva di una specie di forte eleganza; infine le sue scarpe a occhiellini lucidi, allacciati rigorosamente, colle correggie di cuoio nuovo, rivelavano la cura che aveva posto perchè Menica non provasse una cattiva impressione nel vederlo vestito più come un disertore che come un innamorato. Finito che ebbe di acconciarsi, diede l' ultima mano ai capelli che portava a scopetta dritti sulla fronte, vi impose il cappellaccio a cono, rialzandolo da un lato con un atto un po' bravesco e d'una tal quale spavalderia bonaria; si guardò nello specchio di ferro bianco che stava appeso alla finestrella; e parendo contento dell'esame, diede un'occhiata alle bestie, si affacciò in cucina per vedere se il fuoco era spento, lasciò cadere la ribalta del pollaio, si tirò dietro la porta il cui saliscendi cadde sulla imposta, la spinse: era chiusa: tutto taceva: mise l'alzarino nel solito buco dietro il pilastro della capanna, perchè i garzoni al ritorno potessero entrare, e dato un ultimo sguardo al basso vide partire gaiamente le opere da casa di Menica. Era tempo: in fretta e in furia prese il sentierolo coperto della macchia, e su e giù, ansante di speranza, di gioia e di impazienza, dopo aver camminato mezz'ora per scansare l'abitato si trovò alla porta della buona strega.

La casa d'Agnese, la casetta, come la chiamavano i terrazzani, era posta nel declivio del monte, sotto cui scorreva nei giorni di pioggia un rigagnolo capriccioso e pieno di ciottoli. La campagna brulla e cinerea intorno intorno, in cui crescevano rari ginepri e rovi e ginestre mestissime, con qualche ulivo tisico e contorto, era piena di alti e bassi, di grossi pietroni su cui le nereggianti crit togame si stendevano come ispida lanuggine e di solchi capricciosi e rossastri come la mano d'un vecchio, dove biancheggiavano gli scoperelli odorosi, fiorivano le rose selvatiche e le more: vi si saliva e discendeva per un sentierolo erto su cui mal si reggevano i piedi che non fossero stati scalzi o non avessero avuto i grossi zoccoli o le suole bullettate. Antonuccio la fece ballando: mai aveva trovato strada piu comoda e più allegra; aveva le ali al cuore e al piede.

La porta era chiusa: bussò sommessamente. Agnese la strega apri con precauzione, chiedendo una cosa inutile poichè lo vedeva bene e lo aveva già veduto arrivare dalla finestrella — Sei tu Antonuccio?

— Sono io, rispose lui, entrando e dando un'occhiata intorno.

La cucinetta era nera di fumo e buia, malgrado la lucerna a tre becchi che ardeva sulla tavola zoppicante, dove erano preparate le stregonerie dell'innocente sortilegio. Ma Antonuccio vide subito Menica, o per meglio dire la senti, perchè essa s'era ritirata dietro la madre e rimaneva nell'ombra.

Stettero tutti senza parlare: si sarebbero uditi i battiti del loro cuore. I bei discorsi che Antonuccio aveva preparati erano svaniti; i suoi progetti, le sue idee, i suoi pensieri si erano confusi in un solo palpito, in un solo sospiro. Cadde più che non sedette sulla panchetta vicina al muro, si pose il viso tra le mani coi gomiti sulle ginocchia e disse solamente:

— Si vorrebbe morire!

Chi mai aveva insegnato a quel fanciullo che l'amore e la morte sono fratelli? Chi mai gli aveva insegnato che non esiste l'amor gaio e che le lagrime sono in fondo a tutto?

Menica scoppiò in pianto e si coprì il volto col grembiale.

— Perchè piangete? esclamò Antonuccio: perchè? Sono io forse la causa che vi fa piangere? Madonna santa! Darei tutto il mio sangue perchè foste contenta. E anche voi, Luciola, che vorrei chiamare mamma mia!

Agnese li guardava fissi senza comprenderli. Buona strega a cui era mancato l'amore in ogni sua forma! O piuttosto non si ricordava più, quando giovanetta e snella correva sulla montagna a cercare le erbe per la sua nonna, che le aveva poi lasciata la virtù di scantar l'occhio e di essicar le ferite; e i pastorelli le correvan dietro con quella certa ammirazione mista di paura, che li teneva poi lontani dalla Casetta, quand'essa giovane e bellina aveva ereditata colla sapienza antica la innocente eppur paurosa fattucchieria.

— Mi sembrate pazzi, disse poi scotendo il capo; in fede mi parete pazzi. Siete venuti qui per parlarmi o per star lì ingrugnati? Questo si dice perdere il tempo invece di goderselo.

— Quell'Agnese!… sorrise Antonuccio a cui l'invocazione brutale della vecchia aveva dissipato l'incanto: e si alzò per avvicinarsi alle donne. Menica lo guardò timidamente e si strinse alla madre. E Luciola disse:

— E che ci sapete, Antonio: è una disgrazia: si pena, si combatte, non se ne può più. Un giorno pare una cosa, eppoi è tutta un'altra: il signor Curato ha pigliato pel collo quei due disgraziati e li ha minacciati di licenziarli, e loro tutti addosso a me e a questa poveretta, che è nata per la sua e per la mia tribolazione.

— Non dite questo, Luciola, non ditelo: mi fa tanto male, e anche a lei… noo? Menica? le chiese con voce bassa, dolce, come tremula, facendosele vicino.

— È un'invidia, miei cari, è un'invidia; ve l'ho detto: bisogna crederci: l'invidia ti crea quel male che se non si scanta l'occhio uno non se ne libera più. Venite qua tutti e tre, non fate questi miracoli, non abbiate paura. Vi fo tre volte lo scongiuro, chè tre volte bisogna farlo, e anzi ci vorrebbero tre giorni; ma a Dio non gli è niente impossibile, statevi boni, dite su un pater e mettetevici di buona voglia.

— Che sia vero, Agnese? chiese con un resto d'incredulità il boscaiuolo.

— Come, che sia vero? È vero come è vera la luce del sole e che tu sei qui in questo momento con Menica. A questo ci credi Antonuccio?

— Se ci credo!…

— E tu Menicuccia ci credi di esser qui?

— È un sogno! sussurrò: ed erano le prime parole che aveva pronunciate.

Agnese la vecchia li spinse verso il tavolino tutta invasata, con la faccia di chi vuol fare un miracolo.

— Tutto è pronto, mettetevi qui, che già si è tardato troppo: e prese per mano i due giovani guardandoli fissi col volto accosto ad essi. Menica tremava di terrore e Antonuccio di piacere: gli pareva che per la mano della strega, Menica dovesse sentire la calda appassionata stretta della sua.

— Mi pari, Agnese, salvando l'anima, il palo del telegrafo, come diceva il capitano: porta lo scritto e non sente nulla!

Agnese non capi: strinse gli occhi e borbottò certe sue strane parole: quelle della virtù lasciatale dalla nonna; poi disse forte un pater ingarbugliato, strinse fortemente quelle povere mani con una forza che non le si sarebbe supposta, divise i due giovani e se li mise uno per parte presso il tavolino, teneadoli discosti da esso perchè non traballasse, e l'acqua del piatto bianco preparato per lo scongiuro non si versasse. Poi si raccolse, strinse le labbra e gli occhi, lasciò i giovani che guardavano intenti ora il piatto ora la vecchia, e alzando le braccia al cielo disse tre volte: — Nel nome di Gesù e di Maria, chi ha fatto l'occhio cattivo lo mandi via. — Poi con la sinistra alzò solennemente il coperchio della fiorentina, e immerse il pollice della destra entro l'olio, lasciandone cadere tre goccie nell'acqua del piatto. Le goccioline verdastre dell'olio impuro si allargarono, l'acqua mossa le fece vagare intorno intorno e cambiare forma e colore.

— Tsss, fece la vecchia, non vi movete! — E con lo stesso pollice lentamente fece tre giri intorno al piatto: e l'olio vagò, si ritorse, si mescolò. La teoria del Laplace sulla formazione dei mondi, ebbe la sua sperimentale evidenza anche nel mondo morale; la vecchia urlò freneticamente:

— Ecco, ecco: ci vengono le lettere, tu che sai leggere, Antonuccio, leggi il nome di chi ti vuol male: guarda la faccia, guarda il naso: è brutto, è brutto! non è Sor Fiorino è un altro… oh! quanto è brutt…

Non potè finire la parola che un ton, ton, della campana a martello fece trasalire tutti di terrore. La campana della Cura suonava a incendio, qualche cosa di grosso era accaduta. Balzarono tutti fuori di casa: Antonuccio s'arrampicò come una capra sul greppo e guardò intorno.

— Madonna santissima! urlò, bruciano i pagliari della Cura, i vostri pagliari Menica.

— Gesummaria! Madonna salvateci, Signore! urlarono le donne e corsero via disperate, e Agnese dietro che gridava:

— Antonuccio prendi la lunga, per amor di Dio! non ti far scorgere di essere stato con noi! E tutti via a gambe.

Il boscaiolo lesto, sollecito, stupìto, non sapendo bene quel che fare, se correre ad aiutare quella gente, se fuggir via, se nascondersi, se mostrarsi, s'inoltrò nella selva, s'arrampicò fra i dirupi, discese nei burroncelli, guadò il fiume seguìto sempre dal ton, ton furioso di Giovannone, sì che giunse nel cortile di Menica l'ultimo di tutti, affranto, spaventato, incerto, pieno di terrore e di confusione, ignorando come vi sarebbe ricevuto, ma dicendo in cuor suo che egli era obbligato di andarci, tanto più che in certi momenti l'odio si smette, che egli era stato decorato appunto per un fatto di tal genere; in fondo, in fondo, bisognava dire che gli pareva un sogno, una combinazione fortunata che fosse accaduta una simile disgrazia, la quale gli apriva ancora la casa di Menica.

In quel serra serra nessuno gli badò. La gente correva coi secchioli, coi catini, con le pile per smorzare il fuoco di quei quattro pagliai in flamme. La luce rossiccia, tremula, mista di fumo illuminava la casa di Menicuccia, da cui uscivano grida di donne spaventate. Il pagliaio più vicino alla capanna minacciava di accendere la stalla; si prevedeva che la lunga asta sarebbe caduta per quella parte con tutta la paglia infocata e chissà quale altro danno era imminente. Antonuccio comprese in un lampo il pericolo.

— A me! urlò, cavate le bestie dalla stalla, lasciate il fuoco lontano, guardiamo al vicino! — E con un salto prese la lunga scala a piuoli, sali sul tetto, ordinò i secchioli a catena, lanciò l'acqua con furia tra esso e la casa: tagliò la corda che teneva raccomandata l'asta del pagliaio al tetto, scoperchiò per vedere se v'erano scintille, risali sulla parte del primo pagliaio non incendiato e giù acqua, acqua e acqua, sino a che il pericolo non cominciò a diminuire, e così diretta dal sangue freddo del bravo boscaiolo, la turba che prima stipava l'aia e faceva confusione e fracasso, divenne come unamacchina vivente, forte e utile e vincitrice.

Tutto ciò era avvenuto in sì breve tempo che nessuno si può dire aveva posto mente da che parte era piovuto questo inaspettato soccorso. La figura annerita del buon Antonio, spiccava in alto fra le fiamme e il fumo, con la sua testa scoperta e il suo ampio torace denudato dall'opera faticosa. Teneva in mano una scure trovata chissà come e dove: e tagliava fortemente tutto quello che potesse divampare intorno: la sua fronte grondante sudore riluceva in quello sprazzo di luce incendiaria; la sua rivoltella scintillava nella ciarpa rossa che gli cingeva i fianchi. Menica e Luciola smarrite stavano serrate l'una all'altra guardando in su; il Curato con l'asperges benediva il fuoco, chiamando Sant' Antonio con voce tra il deprecativo e il rabbioso. — Oh! povera paglia mia! o povere bestiole? Libera nos domine; a fulgure et tempestate! a improvvisa morte, a igne et omni mala voluntate! o povero me sono rovinato! — E sor Fiorino disutile teneva il secchiolo dell'acqua benedetta, dicendo libera nos, ora pro nobis, piangendo come un fanciullo.

— Altro che piangere, sor Fiorino mio, siete perfino vile nelle disgrazie, saltò su la buona strega: forza ci vuole e coraggio. Le donne vogliono gli omini forti sapete, non mica quelli che fanno come le femminelle. Nooo? Sor Curato, che Dio vi benedica, voi non vi perdete mica d'animo: queste son le persone bone! — Poi rivoltasi in su al boscaiuolo che tagliava la corda dell'ultimo pagliaio — Un omo solo ci voleva, gridò, ed eri tu Antonuccio! Dio te ne renderà merito.

A tale invocazione, Nicola il manesco che era come rimbecillito da quell'improvviso divampare dei quattro pagliai, guardò in su e vide il boscaiuolo intento all' opera: si battè sulla fronte, come avendo ritrovato il nodo di quel mistero; imprecò, pestò i piedi per terra.

— Antonio, urlò, cala giù! cala giù!

Sorpreso, il boscaiuolo guardò in terra e incontrò l' occhio iniettato di sangue di Nicola, e vi lesse un tremendo sospetto: gli balenò al pensiero il caso del cane morto, la minaccia fatta in un giorno fatale di prendere Menica anche sull' asta del pagliaio, fra il fuoco o l'acqua del mare: si ricordò… il sangue gli diede un tuffo, impallidi: quattro pagliai che bruciavano in un colpo solo, non era difatti una cosa troppo naturale.

Allibì di spavento; gli cadde la scure di mano e come colpito discese lentamente la scala.

— Oh! cane, urlò Nicola, adesso avrai quel che ti spetta; entrò in casa furiosamente intanto che Antonuccio, come stupidito, si prendeva il suo cappello e la sua giacca poggiata sulle spine della fratta. Ne uscì armato della doppietta da caccia e guardò, cercò. Menica vide, sentì, comprese: in un balzo fu sul fratello, ne nacque un parapiglia: Antonuccio prese in mano la rivoltella per difendersi o per minacciare, ebbe un furore sordo, muto, senza scoppio ma tremendo nella sua potenza: l'aia si divise in due campi per trattenere quei due forsennati: le urla di rabbia che uscivano dai loro petti erano coperte dal pianto delle donne, dalle esortazioni dei pacieri, dalla voce del Curato. — Figliuoli, cosa fate: che vi pigli il malanno! pax hominibus bonae voluntatis, che siate scannati, razza di vipere!

Ad un tratto Agnese, la strega, con la sua voce stridula gridò — Ssss! i carabinieri!

Il ton ton di Giovannone era giunto fino al capoluogo. Il brigadiere era salito sul campanile, aveva visto l' incendio, aveva preso su i suoi uomini e di corsa s'eran recati alla casa di Menica. Giungevano in tempo.

— È la Madonna che li ha mandati, disse Antonuccio divincolandosi dalle strette.

— Oh sì! la Madonna, signor brigadiere, vi manda: legatelo, arrestatelo, l'incendiario, l'assassino, il boia.

Si fece un circolo intorno al boscaiuolo; fu lasciato solo, illuminato da un resto di paglia ardente: egli sollevò la sua forte testa, stringendo i pugni, piangendo e ridendo di dolore e di rabbia.

— Signor brigadiere, tenetemi che non mi danni l'anima, che non mi danni!

— Adagio: silenzio: in nome della legge, o vi lego tutti quanti.

E lì cominciò il suo interrogatorio fra la gente attonita e smemorata. Chi ne diceva una, chi un'altra; ma la conclusione fu questa: che poco dopo finiti i pagliai, all'imbrunire, ad un tratto, come se una stessa mano traditrice v'avesse appiccato il fuoco, nel momento stesso avevan cominciato ad ardere. Il Curato sorpreso dalle grida che non erano le grida di gioia della giornata, e che diceva l'uffizio, s'era affacciato alla finestra e aveva fatto sonare a stormo. La confusione era al colmo quand' era arrivato Antonuccio, che vi avea posto ordine e domate le fiamme, come si era veduto; poi era successa la gran baruffa improvvisamente tra lui e Nicola; nessuno ne sapeva il perchè e Nicola lo aveva detto al brigadiere, concludendo:

— Ci metterei contro l'anima mia. Me l'aveva giurata e me l' ha fatta: ci metto la mano, giurerei sul Vangelo sacrosanto: tenetemi, signor brigadiere, che non mi faccia giustizia da me.

E l' uno e l'altro si guardavano biechi e furibondi in quella semioscurità rotta dalla luna nascente, con tutto l'odio e il furore dell'accusa che ha delle prove, con tutta l'innocenza che non sa o non può trovare discolpe.

— Zitti lì: e attenti in nome della legge: dite tutti la verità, in vostra malora. — Da che parte erano incendiati i pagliai?

— Verso la costa, disse Nicola.

— E voi Antonio eravate qui?

— No, signor brigadiere.

— E dove eravate?

Antonio girò gli occhi dal lato di Menica e Luciola le quali smarrite e piangenti si appoggiavano ad Agnese.

— Ero per i miei affari, signor brigadiere.

— Non rispondete in questo modo, boscaiuolo, in nome della legge: siete stato soldato?

— Signor sì, e ho la medaglia perchè ho spento un incendio.

— E ora lo riaccendi e rovini la povera gente, ma Dio paga giusto.

— Nicola, per le cinque piaghe!…

— Lasciatele stare le piaghe, che non ci hanno a fare. Dove eravate?

— Alle carbonare, disse prontamente Antonuccio ammiccando ad Agnese.

— Cosa sono questi segni? A chi li fate? Per le femmine: qua a me, guardiamo i vostri panni.

Antonuccio si sentì gelare. Aveva la camicia di bucato, gli stivaletti con gli occhiellini lucenti: si fece avanti non senza esitanza.

— Un lume, disse il brigadiere.

Lo portarono. Antonuccio tremò; le donne scomparvero, meno Agnese che gli stava di fronte con l'occhio intento, impaurita che non uscisse il suo nome: era sicura che Nicola il manesco l'avrebbe strozzata.

— Avete la camicia bianca, giovanotto, sentenziò il brigadiere con convinzione.

— Poveretto ma pulito, rispose Antonuccio, col cuore che gli batteva con veemenza.

— Fate vedere i vostri piedi.

— Antonuccio li mostrò: alzò un piede dopo l'altro, mostrò la suola bagnata recentemente dall'acqua dell'incendio; ma nessuna traccia di carbone: la pelle di vitello naturale era bella e nuova: le calzette a righe bianche e rosse sfoggiavano i loro sfacciati colori, mondi di macchia.

— Questi non son abiti da carbonare, mi dispiace, disse pensosamente il brigadiere, chiudendo gli occhi e abbassando la testa.

— Oh! anche a me! anche a me!

— Avete da dirmi qualche cosa in segreto, Antonuccio?

— Nulla, signor brigadiere.

— Dite la verità: da dove venite?

Esitò: poi confermò — Dalle carbonare, là nella macchia.

— Ora lo vedremo, disse il brigadiere. Prese il lume, lo diede al suo plantone, e girò intorno ai pagliai spenti. Dall'alto dell'erta un sentieruolo polveroso discendeva serpeggiando dal bosco di castagni che lo nascondeva e si confondeva poi in mille greti e in crocicchi nel vertice e ricalava giù verso la casa del boscaiolo. Il brigadiere girò intorno intorno abbassando il lume per scorgere, se era possibile, le orme lasciate in quei pressi. Ma eran tante che non ci si raccapezzò. Antonuccio si sentì sollevare il cuore quando vide il brigadiere ed i carabinieri salire verso la macchia; sapeva benissimo di non essere venuto di là.

Si avvicinò ad Agnese e le disse — Per l'anima tua, giura che non dirai mai che io era da te con Menica.

Agnese disse subito: giuro di cascar morta senza sacramenti.

— Basta! va a dire a Menica che se essa non lo dice, nè tu nè io le tradiremo, e domanda la benedizione a Luciola. È una prova che passerà.

Nicola, il vecchio e altri seguivano di lontano il brigadiere, il quale al crocevia parve fermarsi; aveva trovato un'orma conosciuta da tutto il paese — l'impronta dello stivale di Antonuccio colle iniziali dell'innamorata fatte di fresco sulla polvere, un'emme e un'esse, Menica Sestini. Si fermò e — Non occorre altro, disse: scendiamo.

Chiamò Antonuccio — Quando vi siete mutati gli stivali Antonio?

— Stassera nell'andare alle carbonare.

— Ne avete un paio con delle lettere, lo sanno tutti. — Il boscaiuolo arrossì e tacque.

— Dite, figliuolo, la verità.

— Sissignore.

— Or bene; quelle lettere sono impresse nello stradello il sopra.

— È impossibile, disse.

— È tanto possibile che è vero. Venite con noi a vedere. Allontanò tutti gli altri, mise un carabiniere di qua e uno di là del mal capitato e, lui dietro, lo condussero sul luogo incriminato.

— Vedete? chiese il brigadiere.

Antonuccio guardò, rimase fulminato: era vero.

— Madonna mia aiutami, disse: signor brigadiere, sono innocente, ve lo giuro per la benedetta anima di mamma.

— Lo sarete, ma intanto in nome della legge siete in arresto.

Antonuccio si divincolò, ruggì, si difese in ogni modo; ma le strettoie alle braccia lo fermarono: cadde si rotolò, trascinò nella caduta i due carabinieri, ma tutto fu inutile. Antonuccio fu ammanettato e circondato dai carabinieri che lo strinsero senza pietà. — C'è poco da dire; è un toro! aveva esclamato il brigadiere da conoscitore, e gli si era posto ai fianchi. La gente dell'aia era rimasta a guardarlo immobile: lo stesso Nicola s'era fermato come una statua con le braccia in alto e l' occhio fisso: formulata appena l'accusa, era diventata vera! Luciola e Menica piangevano in silenzio. Agnese la strega agitava le braccia e si per deva in un lamentio senza lagrime, intanto che Antonuccio, il più bello e il più costumato ragazzo del vicinato, veniva condotto per la più corta al capoluogo, dove fu posto a dormire sopra il tavolaccio dei delinquenti sotto l'accusa d'incendiario.

La camera di custodia in cui fu posto il povero Antonuccio, e dove entrò come un ubbriaco o un pazzo, esclamando, agitandosi, con dei brividi di febbre e la testa in fiamme, era situata al pian terreno della piccola caserma nel paesetto. Buia, umidiccia nella sua lindura tetra e piena di ignoti spaventi, gli gelò il sangue al primo entrare col suo tanfo di rinchiuso, coll'aspetto miserabile della tavola, che gli era fissata come luogo di riposo, e lo richiamò all'esistenza del fatto, alla realtà della sventura che lo colpiva. Nè per torto nè per ragione non ti lasciar mettere in prigione, diceva sempre il buon zio Venanzo, il quale forse in quello stesso momento sapeva che il suo nome onorato era iscritto nei libracci della giustizia.

Della giustizia? — Ma la giustizia che gli avevano insegnato a rispettare e a venerare quand'era piccino, non era mica così. Gli avevano detto che chi fa male ha male e chi fa bene ha bene; gli avevano detto che mal non fare paura non avere, e che chi può portare alta la fronte e ha monda di colpe la coscienza non cade nel precipizio; gli avevano detto che non è punto peccato di amare una giovinetta bella e buona; e anche la sua mamma aveva fatto così colla benedett'anima del babbo suo. E gli veniva alla mente il Curato iracondo che era stato tutta la causa del male, e il viso frollo e pesto di sor Fiorino, che era entrato a turbare la pace del suo nido, a fargli nascere nel cuore pensieri di vendetta e di sangue e a fargli spuntare sulle labbra delle parole stolte, che lo avevano condotto là, come un malfattore, ed un incendiario.

E quando il carabiniere muto, guardando con compassione il poveretto che aveva la medaglia al valore, che era agiato e bello e forte, aveva avuto fino allora il cuore raggiante di amore e di fede, che aveva combattuto con esso la grande battaglia del dovere, gli chiese se aveva bisogno di nulla, Antonuccio non rispose neppure.

Bisogno? Aveva bisogno di ritornare a casa sua, nella sua cameretta, nel suo letticciuolo, presso la stalla delle sue bestiole e ai campi che la spica aveva indorato e dove il prato con la sua verdura olezzante di timo e di peperello, gli preparava silenziosamente la governa per le sue mule, e per le pecorelle che dovevano restituirgli latte e lana. Aveva bisogno di sapere che Menica non era tribolata per lui, e che nessuno credesse egli avesse incendiati i pagliai… Poichè i pagliai erano stati evidentemente incendiati da una perfida mano. E aveva anche bisogno di sapere di chi era stata quella mano. Tutte cose che il carabiniere non poteva nè dire, nè fare, nè sapere. Ecco di che cosa aveva bisogno!

E seduto sul tavolaccio, coi gomiti sulle ginocchia e la testa nelle mani, nel buio di una notte eterna per lui, i suoi pensieri si perdevano, si urtavano, ora accusando l'uno, ora accusando l'altro, ora Nicola, ora sor Fiorino, ora il Curato, che se li fossero incendiati da loro stessi, per levarlo di mezzo, per sopprimerlo; tanto è vero che l'uomo entrato nella via del dubbio diventa cattivo, che l'ingiustizia produce ingiustizia, e il sospetto degenera in crudeltà.

E d'uno in altro pensiero, si vedeva nella casetta della buona strega vicino a Menica, palpitante di gioia e di desiderio, davanti al piatto dello scongiuro; e quell'innocente sortilegio gli pareva esso pure un delitto, perocchè sentiva allora che non bisogna tentare il Signore e che dalla sua mano bisognava prendere il bene e il male; che sapeva ben lui quel che faceva: e lì l'ira si rovesciava sulla povera strega e ne giurava aspra vendetta: eppoi pensava che senza di lei non avrebbe potuto vedere l'occhio timido e mansueto di Menica, la luce di quelle tenebre tormentose, e il forte suo petto si gonfiava di sospiri e di singhiozzi e benediceva quel che prima aveva maledetto.

In mezzo a tuttociò un'idea fissa lo perseguitava Come mai si trovavano le orme de' suoi stivali nel sentieruolo della china? Poichè c' erano: le aveva vedute lui, co' suoi proprii occhi: non si era ingannato. Ed era più d'un mese dacchè egli non si era recato a casa di Menica, nel giorno in cui minacciò Nicola e ne fu minacciato. Le impronte eran li, fatte di fresco che dicevano la cosa e il nome, erano una prova che nel suo cervello sottile di montanaro gli appariva chiaramente irrefragabile per condannarlo. — Oh! che il diavolo in persona se li sia posti per farmi dannar l'anima? pensava: e io mi son fatto trovar cogli stivaletti novi, e la camicia di bucato: ma non è dunque il diavolo che se li è messi davvero?

Ed era preso da un terrore superstizioso; poteva ben essere; non era egli andato a casa del Curato tutto pieno d'ira e il Curato non gli aveva scagliato contro il suo tremendo e misterioso latino? Che fosse il latino della scomunica?!

Ma faceva l'esame di coscienza con umiltà e con fede: la sua intenzione era stata monda di colpe; non era stato lui l'aggressore ma l'aggredito, non lui l'oppressore ma l'oppresso. Dio che scruta i cuori degli uomini doveva bene aver letto nel suo: no, egli non si sentiva fuori della legge: il sno amore era stato tanto puro quanto intrepido, la sua umiltà forse non era parsa sommessa, ma non era per questo meno profonda e meno sincera.

Ma quell'orma, quell'impronta de' suoi passi sul sentieruolo c' era senza alcun dubbio: — Signore, diceva con fervore, non mi abbandonare! — Comprendeva bene che una sola sua parola poteva mostrare la sua innocenza: dire tutta la verità: dire che si trovava dalla strega con Menica e Luciola: ma questo non gli balenò al pensiero neppure come un sogno o come una tentazione. L'amore è senza viltà e senza debolezza: il primo de' suoi caratteri è quello d'immolarsi: non c'è amore senza sacrifizio, senza mistero, senza silenzio: il morire per quello è ancora un conforto, ed è di tali spasimi appunto che si nutrono i cuori: qualche volta è la morte che ci rivela la vita. Antonuccio sentiva istintivamente che non avrebbe tutto perduto se non perdeva Menica. — Hanno vinto, diceva dolorosamente, ma non mi hanno vinto e non mi vinceranno!

È superfluo il dire che ei non dormi quella notte. Non ebbe dunque nè sogni, nè illusioni, nè inganni pietosi, nè maggiori tormenti, ne spaventi più orribili dei reali.

Egli era nel pieno possesso del suo giudizio; la febbre del dolore, dell'amore, della paura e dell'ira c'era senza dubbio, ma il suo pensiero era limpido, come ne era sicura la coscienza. E quando sentì la campana dell'Ave nella chiesa del paesello a cui rispondeva l'eco dei monti insieme ai tocchi melanconici delle Cure vicine, il suo forte petto si schiantò di singhiozzi che non erano privi di una certa dolcezza: le lagrime gli cadevano a quattro a quattro sulla sua giubba di carbonaro ancora abbottonata fino al mento, tutte le amarezze di tanti giorni, tutte le sventure di quella notte fatale si presentarono alla sua mente con una lucidità piena di tormenti, ma piena altresì di speranze; rivide Menica come in mezzo ad un mare di luce, s'inginocchiò devotamente facendo il segno della croce, e disse il suo rosario con la testa poggiata sul tavolaccio, dove il signor brigadiere e il piantone lo trovarono addormentato, allorchè entrarono per tradurlo per citazione direttissima all' istruttoria e al carcere giudiziario.

Il risultato della perquisizione era stato sfavorevole ad Antonuccio il boscaiolo. Gli furono trovati sul letto gli abiti di ogni giorno, buttati là con una precipitazione piena di significato; gli stivali lunghi alla scudiera con le lettere accusatrici, posti a capo del letto sotto la cassa, e l cui gambali ne oltrepassavano l'altezza erano polverosi, e la polvere rossastra rassomigliava come due goccie d'acqua e quella del sentieruolo che menava a casa di Menica; poi, tra due bullette, ci si era ficcata una spiga di grano, e nel calcagno ci si vedeva la pula di qualche trebbiatura recente: ma c'era di più. Gli stivali che egli teneva con sì gelosa cura e che ostentava con tanta ingenuità orgogliosa, erano posti al rovescio, vale a dire, il destro era a sinistra e il sinistro era a destra: — Caso grave, caso contemplato! — aveva detto con solennità il signor brigadiere.

I due garzoni dormivano profondamente: l'uno nel presepe, l'altro, lo Storto, nel suo giaciglio, nello stanzino buio, presso la camera del padrone. È vero che erano stanchi, che avevano faticato molto durante la giornata ad aiutar la macchina, ma nè il cane aveva abbaiato, nè alcuno era penetrato in casa. Avevano trovato, come al solito, la chiave nella buca, erano entrati, e siccome avevano già cenato, se n'erano andati a dormire. Allo Storto parve che il padrone non fosse a casa, ma non ci aveva posto mente; quanto al garzoncello che dormiva nel presepe, disse: — è vero che gli era parso di sentire aprire e chiudere delle porte verso una certa ora, ma il cane non avendo abbaiato, pensò che fosse il padrone che ritornasse come al solito.

— Il cane non abbaia al padrone — aveva sentenziato il brigadiere.

E così perquisito tutto, guardato, aperto, richiuso, messi i suggelli, e fatto un involto dei poveri panni di Antonuccio e dei suoi belli stivali alla scudiera, se n'andò a proseguire il suo esame.

Seppe da Nicola e dagli altri con maggior precisione la minaccia di prendersi Menica tra l'acqua e il foco; seppe del cane morto avvelenato' perchè non abbaiasse all'amante notturno; seppe delle minaccie fatte al Curato, persona sacra, in luogo sacro, in momento solenne e dei vituperi che gli scagliò contro al di fuori della porta; seppe delle mormorazioni fatte prima e poi ad alta e a bassa voce nelle stalle e a veglia contro di lui, permettendosi il libero esame sui portamenti del suo nipote, un buon giovane mite e tranquillo, che non aveva neppure il porto d'armi e fuggiva tutti i rumori, e non ostentava le sue ricchezze: mentre lui, Antonuccio, era superbo della sua bellezza, fiero della sua forza e rideva di tutti quelli che gli contrastavano il passo, coll'evidente intenzione di soverchiarli; seppe che si vedeva ogni giorno con Agnese, la strega, la quale gli preparava sortilegi e fatture contro il Curato, il signor Fiorino e Giovannone, il quale fu da lui ingannato per poter penetrare in canonica a fare quell' azione da vagabondo, da malcreato e da prepotente che abbiamo narrato; seppe… ma che non seppe quel povero brigadiere? Il forte era caduto, bisognava bene salirgli sopra; è la storia dell'umanità tutta quanta in ogni luogo e in ogni tempo; non poteva essere diversa fra quei greti e quelle boscaglie, poichè l'uomo è, e sarà sempre lo stesso. Poteva ben darsi che Antonuccio fosse un incendiario, non era forse così bono come pareva; era troppo fortunato, gli andavano troppo bene le cose: una le paga tutte. E, quel che tagliava poi la testa al toro, i pagliai erano di Nicola e del Curato; c'era ruggine con l'uno e con l'altro; eppoi Antonuccio lo aveva detto: « la prenderò fra l'acqua e il foco. » Ma! a che cosa può portare una femmina! E lì i commenti non terminavano più. E Menicuccia e Luciola, senza parole e senza lagrime, smarrite, barcollanti, facendo delle restrizioni mentali e degli accomodamenti, tremando di parlare e di tacere, col loro cuore semplice, legato dalle promesse, dalla paura, soggiogato dalle fantasticherie della vecchia strega che aveva il suo giuramento per guida e la sua virtù per potenza, si raccomandavano ad essa che le terrorizzava e le consolava; faceva loro sperare la giustizia, ma passando pel castigo.

— Tutto anderà bene, mamma, — avea detto la giovanetta — ma come volete che Dio ci aiuti, se non diciamo la verità? Quel poveretto pena per noi; non va mica bene che, per salvarci noi, lo lasciamo penar lui!

E piangeva, piangeva, col suo istinto della giustizia, col suo intuito del dovere e con quel martello dell' amore che dà coraggio anche alle anime più timide e mansuete della terra. Ma Luciola s' era consigliata con Agnese e Agnese l' aveva fatta giurare che non avrebbe mai parlato, perchè non solo questo era nell' interesse di tutti, ma era il volere di Antonuccio che le avrebbe smentite in tribunale, come le aveva smentite coi carabinieri e coi testimoni. — Figurati! aggiungeva, non l' ha detto neppure a compar Venanzo, che è andato a cercargli l' avvocato e a parlare coi giudici; e sì! che questo zio gli vuol bene. Ma non si può mancare ai giuramenti, Lucia; chiama il castigo. Lo sa bene Gesù Cristo, che Antonuccio non è stato; vedrai che manderà dal cielo qualche soccorso: io gli dico una terza tutte le sere e gli scanto l'occhio: credi, è tutta un'invidia: sempre mi ci appare un non so che di tristo che non mi riesce di capire: l' ho scantato anche col grano: quel che so è, che è, che è un omo: femmine non c'entrano, l'acino m' ha cantato chiaro ma bisognerebbe saper lettera per leggere le parole che vengono nel piatto dell'olio.

(La fine al prossimo fascicolo).

Caterina Pigorini Beri.

SULLA MONTAGNA
RACCONTO

E così s'era rimasti. Zio Venanzo, chiamato in quella furia dai vicini, era salito in tempo per vedere portar via il corpo del delitto, come aveva detto il brigadiere.

— Ma che delitto, piangeva il vecchio, ma che delitto! Questa è tutta una trappola di qualcuno che gli vuol male: signor brigadiere, per quelle sante anime, fatemelo uscir libero, che (metteva le dita in croce e le baciava) s'egli non è libero e giusto come un santo, questa croce che bacio mi sia tossico e veleno.

Eppoi come pazzo, trasognato, era corso in qua e in là a cercar testimonianze, ad ammollire cuori, a pregare pietà. Era impossibile che avessero arrestato quel figliuolo; era una cattiva burla che gli facevano. E quel vecchio che correva come impazzato coi suoi capelli bianchi ricacciati indietro, con la sua berretta ricadente sull'orecchio, sotto alla cappelletta messa senza cura, e che singhiozzava e non si fermava nè giorno nè notte, correndo dal capoluogo alla città, dalla città alla cura, dalla cura al brigadiere, dal brigadiere ai testimoni, implorando, supplicando, gemendo, faceva una singolare pietà.

Ma la giustizia, gli aveva detto il procuratore del re, guardandolo con una certa noncuranza annoiata di uomo che si intende di lagrime ingannatrici; la giustizia non ha orecchi per lasciarsi impietosire; paga secondo i meriti.

Ma la giustizia, gli aveva detto il brigadiere, ha la nostra spada per braccio e i nostri occhi per veder chiaro. L'impronta dei piedi c'era, l'amore c'era, la gelosia c'era, e c'era l'odio, dunque c'era l' incendio.

Ma la giustizia, aveva detto l'avvocato, è di quelli che sanno farla valere: non importa se ha bruciato il pagliaio, importa di provare l'alibi: se si prova questo siamo a cavallo e non c' è paura di nulla.

Ma la giustizia, aveva detto il curato, è, che bisogna punire coloro che non hanno timor di Dio e che s' introducono in casa dei superiori ecclesiastici a perder loro il rispetto, e che Dio non paga il sabato.

Ma la giustizia, diceva la gente, è che non bisogna avere troppo bene nel mondo e che la fortuna è una cosa insolente a cui bisogna tagliare le ali.

Ma la giustizia, aveva detto finalmente il povero Antonuccio allo zio Venanzo dopo molte lagrime, quando, istruito il processo, lo lasciarono arrivare fino a lui — la giustizia, caro zio Venanzo, salvando quella di lassù, è una ribalderia che ti strozza come una serpe che ti viene addosso quando dormi. Non sai come ti si sia avvicinata; quando te n'accorgi li ha già fatto.

Credereste, zio Venanzo, che a guardarci, a pensarci, finisco io stesso per credere d'aver appiccato il fuoco ai pagliai? Almeno lo avessi fatto, chè l'odio e il rimorso mi toglierebbero la vergogna e il dolore. Ma sono innocente come l' acqua, zio Venanzo: lo giuro per la benedett'anima di mamma. Mi son trovato lassù, Dio sa come, a smorzare il loco; Nicola mi ha dato un'occhiata che m'ha fatto capire che lui pensava l'avessi invece appiccato io: che ci sai? Son rimasto come stupido, e son disceso e mi son lasciato arrestare, e ho visto io, vedete zi' Venanzo, ho visto io l' impronta de' miei piedi… Come sia stato non lo so: ma il fatto sta che c'erano.

—Benedetto figliuolo, che voglia t' è venuta!

— È vero, è stata una pazzia, ma questo non fa. Gli stivali non ci possono mica essere andati da loro.

— È vero, fece pensieroso il vecchio.

— Eppoi m' han rinfacciato di averli trovati pieni di polvere rossa con le spiche e la pula: poi di aver trovato i miei panni di ogni giorno messi in disordine sul letto, proprio come se me li fossi cambiati di fresco… ed era vero.

— Ma tu, Antonuccio, tu, dove eri?

— Io… rispose esitando ma con fermezza il boscaiuolo, io… era alle carbonare; e ho visto il fuoco di là.

— Antonuccio, fece il vecchio scotendo il capo con incredulità; qui non ci sente nessuno: dalle carbonare non potevi vedere il fuoco.

Il giovane chinò il capo arrossendo: ho sentito la campana a martello.

— Senti, Antonuccio, riprese il vecchio con autorevole semplicità; non voglio sapere dov'eri, i tuoi affari li hai da saper tu solo; se tu taci è segno che non puoi, che non devi dirlo. Ma alle carbonare non c'eri in quel momento. Qui dentro c'è qualche garbuglio d' innamorato: c' è poco da negarlo, ma Dio ti aiuterà perchè il tuo cuore è bono. L'avvocato dice che se si può trovare un testimonio che t'ha visto in quella sera, anche se li avessi bruciati non patiresti pena dalla giustizia.

— Caro zi' Venanzo, ma che giustizia se le ho vedute io le impronte de' miei stivali?!

— Ma chi se li possa esser messi?

— Chi lo sa!

— Ma e i garzoni?

— Erano ad aiutar la macchina.

— La casa?

— Era chiusa.

— La chiave?

— Era nella buca.

— E chi poteva saperlo?

— Ma nessuno, zi' Venanzo: cioè nessuno e tutti: ma chi volete che s'arrischi col cane a entrare in casa d'un cristiano? Eppoi questo mal pensiero a chi può esser venuto mentre io avevo lasciata casa mezz'ora prima?!

— È una gran cosa! disse rasseguato il vecchio.

E Antonuccio:

— Mo' vedete, zi' Venanzo, se ho ragione io di dire che se il fuoco non l' ha appiccato il diavolo, l' ho appiccato io stesso?

Eppoi avvicinandosi a lui con aria di mistero e di profonda commozione: — E Menica? domandò sommessamente.

—È diventata bianca come un panno; ma non esce mai di casa. Agnese che l' ha veduta dice che ti raccomanda al Signore, che porti pazienza, che sonerà la campana della sera anche per voialtri.

—Povera Menica! sussurrò singhiozzando il giovane.

—Sì! povera Menica! ma quanto ti costa, figliuolo mio!

— Vale anche di più, zi' Venanzo: e vedete? per quanto so che mi trovo in questi piedi per essa, io benedico sempre il giorno e l'ora che l' ho incontrata nel mondo. Questa è la giustizia del core, zio Venanzo, che non ha bisogno d'avvocati e non ha paura di giudici e di carabinieri; diteglielo a Menica; cioè ditelo ad Agnese: e ad Agnese dite anche si ricordi di quel che m' ha promesso, che io mi ricorderò di lei quando sarò fuori di queste pene!

Le parole e le esortazioni di Antonuccio non fecero che ribadire nella testa delle due vecchie l'idea che senza dire la bugia bisognava tacere la verità, il che rendeva naturalmente peggiore la situazione del paziente, e lo avviluppava fra i guai, fra i sospetti, fra i dubbi.

Perchè nessuno diceva di averlo veduto in quella sera? Perchè egli stesso così pronto nel rispondere a tutte le domande con chiarezza e sicurtà d'animo, tagliava corto e rimaneva imbarazzato e insisteva che era venuto dalle carbonare, mentre nessuno degli uomini ivi a guardia lo aveva veduto? Anche l'avvocato s'inquietava. — Dimmi che li hai bruciati dunque balordo, montanaraccio, ma dimmi come si può trovare un testimonio che affermi e giuri di averti veduto. — E lui il balordo, il montanaraccio rispondeva fermamente e senza alcuna variante: ho detto la verità; io non ho bruciato i pagliai, io sono un figliuolo onesto: prego Dio mi punisca se ho commessa questa ribalderia.

E così un giorno dopo l'altro, chiuso in carcere pascendosi di lacrime e di affanni, e la sera respirando sotto gli occhi dei secondini la bell'aria del cielo nell'angusto cortiletto, sotto l' imputazione di incendiario e accogliendo con una specie di noncuranza benevola le mal celate beffe de' suoi compagni di pena, i quali lo trovavano un incendiario molto annacquato, come i turpi monatti trovavano un untorello di poco spirito il povero Renzo, anche fra le pene passò il tempo e si arrivò al pubblico dibattimento.

Il suo avvocato gli disse un giorno che nell'udienza tale, sotto la presidenza del tale, si sarebbe svolto il suo processo: che sarebbe stato condotto nella grabbia dei rei fra i carabinieri, ammanettato: che bisognava farsi coraggio, che era il primo momento ma che in fondo uno ci si abitua.

Antonuccio non aveva capito: si abitua a cosa? si abitua a cosa? si chiedeva da sè. Zio Venanzo che la sapeva un po' più lunga gli aveva mandato a dire che aveva parlato coi giurati e gli aveva fatto dire una messa: non dal curato perchè sapeva che era un testimonio dell'accusa, ma al santuario della Madonna di Loreto: e che stesse in pace, che si fidasse in Dio e si rimettesse alla provvidenza. Antonuccio non era neppure più in facoltà di temere e di sperare: diceva tra sè:

— Ma si sa che i giudici mi faranno la giustizia: ci sono per questo, il Re li ha nominati perchè aiutino i disgraziati: come mai zio Venanzo può credere che i giudici vogliano andare contro il volere di Dio? È vero che anche il curato… ma è di sangue caldo: è avvezzo con noialtri poveri villani: questi trattano con gente pulita; non strapazzano mica i cristiani.

Difatti il giudice istruttore lo aveva, come si direbbe, perfino rispettato: si era limitato ad ammonirlo di dire la verità: gli aveva fatto delle domande una dopo l'altra che rivelavano il sospetto, ma infine lui non lo conosceva mica, non era obbligato di sapere che era un galantuomo: al dibattimento si sarebbe veduto chi era il birbante: il cancelliere aveva scritto le parole della verità.

Antonuccio confidava: ciò era, lo sappiamo, del suo carattere. Egli non sapeva rendersi conto della gravità dell'accusa: e poi Menica lo sapeva bene ch'egli non aveva bruciato i pagliai: e se lo sapeva Menica, cosa gl'importava del resto? E appena fuori di quell'imbroglio se la sarebbe portata in casa sua, lontana da tutti, dove insieme avrebbero passata la vita, non facendo male ad alcuno e perdonando a chi li aveva fatti tanto soffrire.

Allorchè fu tradotto dalle carceri alla Corte d'Assise fra i carabinieri ebbe però un tale schianto da non poter reprimere uno scoppio di pianto disperato. Avere la medaglia al valore, essere galantuomo e dover mostrare la faccia in tribunale? Egli che non se lo era meritato! Entrò senza vederci: il calore delle guancie gli aveva asciugate le lagrime le quali gli bruciavano gli occhi. La sua fiera bellezza montanara appariva ancora più splendida nel suo assetto pulito di contadino agiato: la sua camicia bianca col largo collare rivoltato, gl' incorniciava un collo di atleta in cui si vedevano battere a occhio nudo le arterie: i capelli corti rialzati in alto con una cura da figliolo educato che ricordava ancora la lindura militaresca erano madidi di sudore, e la fronte ampia e schietta, piena di pensieri era rossa della sua immeritata vergogna. Aveva la sua bella medaglia dal nastro turchino, a cui dovette al certo gli venissero levate le manette.

Rimase in un lato della gabbia senza fiato: ricordò in quel momento le parole dell'avvocato « è il primo momento, eppoi ci si abitua » e le comprese.

— Dio mio aiutami, disse come insensato a mezza voce.

Fu fatto collocare in mezzo; dichiarata aperta l'udienza fu interrogato delle sue generalità: e allora alzò la fronte e vide le toghe nere e i berretti della legge umana: vide i cappelli a due punte dei carabinieri: la forza umana: vide il banco dei giurati di fronte a lui; la giustizia umana: poi l'avvocato, i cursori, gli sfaccendati, gl' indifferenti e delle signore ben vestite nella tribuna riservata, che cinguettavano e si mostravano lui, l' accusato, poichè esse sapevano ciò ch'egli ignorava, che cioè anche Menica, la sua innamorata, si sarebbe presentata fra i testimonii, e si prevedeva un incontro drammatico.

Al di sopra del capo del presidente il crocifisso e una scritta fatidica: La legge è uguale per tutti. Antonuccio guardò la scritta e il crocifisso e gli parve fosse una crudele ironia; ma non ebbe tempo di pensarci: di fronte nel banco dei giurati aveva riconosciuto il sindaco del suo paesello, al quale recava le corbe piene di mele e di mandorle e che gli voleva bene. Pensò; colui sa che io sono un galantuomo! Ma egli non parve riconoscerlo: stava duro, impettito, tutto compreso nella sua missione di legislatore: Antonuccio non lo aveva mai veduto così neppure quando in nome del re gli aveva consegnata la medaglia al valore. Riguardò il crocifisso e chinò il capo aspettando.

Vennero uno dopo l'altro introdotti i testimonii. Nicola il manesco, Giovannone il sagrestano, i garzoni di Menicuccia, le opere di quel giorno, gli accorsi in quel parapiglia; comparve il signor curato e sor Fiorino, il brigadiere, i carabinieri: tutti accusatori o indifferenti. Nessuno poteva dir nulla de' suoi precedenti, era stato un buon diavolo, ma poi ci s' era ficcato di mezzo l'amore, c'eran stati dei guai, delle minaccie d'incendi, di distruzioni, di morti: poi s' erano incendiati tutti quattro i pagliai in una volta ed era evidentemente stato lui. Chi lo aveva detto? tutti e nessuno: poi s' erano trovate le impronte delle sue pedate al di sopra dei pagliai: egli stesso non avea potuto dir di no: era stato arrestato e si trovava lì…

— Cosa potete dire voi?

— Nulla signor presidente. È vero quello che dicono i testimoni: è vero che le impronte degli stivali sono le mie, ma io non ho bruciato i pagliai.

— È quello che vedremo. È vero che avete minacciato di pigliarvi quella ragazza fra il fuoco e l'acqua del mare?

Antonuccio sentiva un colpo al cuore ogni volta che si parlava di Menicuccia coll'appellativo di quella ragazza. Povera Menicuccia! Veder trascinato il suo nome così, lei tanto timida e mansueta che si collocava dietro il pilastro della cantoria per non farsi vedere da nessuno neppure alla messa.

— Sì, signor presidente. Ma non ho bruciato i pagliai.

— Lo vedremo giovinotto.

— Ho la medaglia al valore signor presidente: sono un povero figliuolo ma non ho mai fatto male a nessuno: i miei superiori lo possono dire: i miei paesani, tutti, ne chiamo Dio in testimonio: anche il curato se vuol dire la verità può testimoniare…

Il presidente guardò con una certa meraviglia affettuosa il boscaiuolo, perchè il linguaggio della verità ha un irresistibile accento: ma l' istruttoria del processo e i fatti stavano tutti contro di lui.

— Calmatevi giovinotto: parlerete quando sarete interrogato.

Il pubblico ministero volle si prendesse atto dell'ardimento dell'imputato.

Furono introdotti altri testimonii; i due garzoni di Antonuccio: il piccino che non fu fatto giurare, lo Storto col suo occhio bieco e la sua tiuta livida. Egli non sapeva nulla: non aveva sentito nulla; aveva sempre dormito.

— Sapete voi come gli stivali del vostro padrone si trovassero sporchi della polvere rossa dello stradello?

— No signore.

— Li avevate ripuliti da un pezzo?

— Li ripuliva sempre il padrone.

— Quando se li era messi?

— Non lo so.

— Dov'era quella sera dell'incendio?

— Non lo so.

— Ricordate di avere sentito rumore in quella sera?

— No signore.

— Cosa pensavate del contrasto che c'era tra la famiglia di quella ragazza e il vostro padrone?

— Non pensavo cosa.

— La conoscevate quella ragazza?

Lo Storto arrossì; alzò l'occhio bieco verso Antonuccio.

— La conoscevo: c' era stato per garzone due anni.

— E essa lo corrispondeva il qui presente Antonio?

Esitò un pochino, poi rispose: — Non so.

— Sapete voi che morisse un cane avvelenato in quella casa?

— Lo disse Agnese la strega.

Introdussero Agnese: la vecchia era pallida come una morta: ma il suo occhio brillava nell'occhiaia guardando in faccia la gente, ben sicura di sè. Le due rughe profonde agli angoli della bocca parevano due crepacci neri, e le davano un significato di durezza e di costanza. Il suo fazzoletto nero che le ricadeva un po' nella fronte, fermato da un lungo spillone d'oro, era annodato sotto al mento: un largo scialletto bianco di mussolo centinato sopra cui scendevano i coralli tradizionali era incrociato sul seno: il suo abito di rozza lana bruna cangiante tra il nero e il verdone le davano un aspetto insolito e straordinario. Entrata salutò il presidente e si fece il segno della croce. Il pubblico rise, risero i giurati e i giudici: essa sola e Antonuccio non risero. Si scambiarono un'occhiata in cui l' uno chiedeva e l'altra prometteva tutto. La sua deposizione fu chiara, precisa, sagace e pronta. Era in casa con mamma Lucia e Menica cui scantara l'occhio.

— Scantar l'occhio, signor Presidente (cosa mi importa delle genti che ridono!) è una virtù. L'occhio cattivo lo fa l'invidia; è quella che ha condotto Antonuccio là in quella gabbia signor presidente.

— State al fatto, vecchia; non cercate di entrare in altri argomenti: rispondete alle domande con precisione.

— Scusate, signor presidente; siamo un po' ignoranti, ma non ho inteso di perdervi il rispetto.

E seguitò la sua deposizione con una sicurezza intelligente quasi fatidica. Erano vicini alla tavola a vedere l'olio dell'occhio cattivo, che c'era chiaro come la luce del sole ad un tratto ton ton, era la campana a martello: uscirono di casa, videro il fuoco dei pagliai, si diedero a correre e arrivate all'aja a portar acqua, a lavorare, a fare quel che potevano, videro Antonuccio sul pagliaio vicino a casa che lavorava anche lui come gli altri, più degli altri… — Perchè è rinomato per smorzare il fuoco: dice che ha anche la medaglia del re per questo. In un momento Nicola il manesco, scusate signor presidente, ma lo chiamano così, gli gridò che calasse giù e gli diede la colpa del fuoco. Quello scempiato di Antonuccio, scusate signor presidente se parlo materiale, invece di buttargli addosso la secchia perchè si sfreddasse, bono bono è calato giù, poi s'è lasciato metter dentro perchè dice che i carabinieri han trovato l' impronta de'suoi piedi sullo stradello. Ma se lui sullo stradello non c'era stato, signor presidente!

Antonuccio fece un balzo, che richiamò l'attenzione della Corte.

— Ma dov'era stato dunque?

Agnese tacque un istante che parve un secolo all' imputato, poi mettendo le mani in croce sul petto disse con convinzione: — Non lo so.

— E allora come potete dire che non c'era stato?

— Scusate, signor presidente.

— Teste, voi siete parziale per l'imputato: guardate quello che fate, potrebbe venirvene male. Voi evidentemente sapete dove fosse in quel momento: l'imputato quando avete affermato che sullo stradello non c'era stato, ha fatto un salto molto significativo. Perchè ha fatto quel salto?

— Non lo so, signor presidente.

— Basta così. Sapete voi che ci fosse un amore contrastato tra Antonuccio qui presente e Menica Sestini?

— So e non so: queste cose la giovento le fa in due e non chiama testimonii, ma so che si dovevano sposare e che poi la famiglia di Menica si scorrucciò con Antonuccio e con zi' Venanzo. Dicea la gente che un altro più ricco la pretendesse. Non so altro.

— Antonuccio: è vero quello che dice la teste?

— Non so niente di queste cose, signor presidente.

— Badate che le sapremo anche senza di voi, giovinotto.

E venne introdotta Menica. Un movimento di curiosità scosse il pubblico, ed essa si presentò tremante, pallida e piena di sudore e di lagrime. Aveva in capo il suo fazzolo rosso, in mezzo cui pareva quasi luminoso il suo pallore. Il suo abituccio, tessuto dalle sue mani, così abili e leste, era di mezzolano rosso e turchino, tagliato a giacchetta corta ed increspato nell'ampia sottana, che aveva due larghe fascie di velluto nero. Un grembialino di aleppino nero stretto alla cintura da due nastri rasati, con molti sorsi rigonfi in fondo, e le scarpe bianche a occhiellini lucenti con le stringhe rosse compivano il suo abbigliamento, il quale benchè grossolano, non era privo d' una certa grazia contadinesca.

Stringeva con le mani convulse il lungo filo di corallo che le cadeva sul seno e che la contadina marchigiana non lascia mai, forse perchè il rosso è un talismano contro l' invidia e il conseguente occhio cattivo.

Antonuccio non era preparato a veder Menica e ad essere da lei veduto nella gabbia dei rei. Ebbe un singhiozzo che parve un urlo, balzò in piedi come pazzo e con le mani si coprì la fronte arrossita di dolore e di vergogna. Quell' urlo fece alzare gli occhi alla fanciulla verso la gabbia: lo vide e si senti vacillare: stese le braccia verso di lui poi si coprì il volto e pianse. Il pubblico s' intenerì e un' onda di simpatia calda e spontanea circondò quella contadinella a cui veniva brutalmente strappato il verecondo riserbo della fanciulla forese, la quale non aveva mai veduto che la Cura del suo villaggio e il capoluogo dove aveva recate a vendere le carderelle, i funghi e le fragole delle sue montagne. Il presidente l' incoraggiò, la fecero sedere, la lasciarono piangere; i suoi singhiozzi si confondevano con quelli del povero Antonuccio, che dopo tanto tempo, dopo tante pene la rivedeva, ma oh! Dio! in quale luogo!

Rimessa alquanto cominciò il suo interrogatorio. La sua voce prima lieve come un sospiro, tremante, lenta, alla benevolenza che il presidente le dimostrava, si faceva più ferma, più sicura, quasi metallica. Il colorito delle sue guancie si andava rianimando: il rossore della verecondia della sua bella gioventù, dava un risalto abbagliante allo splendore del suo occhio nero e timido. Le labbra che avevano ripreso il vivido incarnato si aprivano ad un racconto mesto, chiaro, preciso, pieno d' immagini luminose e di sentenze quasi severe, in quel linguaggio figurato del contadino marchigiano.

— Sì, signor presidente: c' era nato un contrasto fra lui, babbo e i fratelli; cose da contadini, sciocchezze di niente e avevo pregata mamma che mi conducesse a farmi scantar l'occhio da Agnese che ha la virtù.

— Dunque anche voi ci credete, Menica?

— Ci credono tutti; anche il signor curato dice che non è mica peccato; glielo chieda a lui, signor presidente, che io ho sempre fatto e fo quel che credono i vecchi e i superiori. Ma a casa avevamo detto che ci andavamo per farlo scantare ai pulcinelli che ci morivano. E dunque eravamo lì a vedere i segni nella cupetta dell'acqua e si sentì a sonare a campana e martello. Io e mamma ci siamo sentite il sangue a darci un avviso: il core ce lo ha detto che la disgrazia era per noi. Siamo corse via come una palla lanciata, dàgli a correre che pareva ci portasse il vento. Arrivate nell'ara abbiamo veduto tutti e quattro i pagliai in fiamme: Madonna scampaci! Pareva la fine del mondo!… Poi…

—Poi seguitate ragazza; non vogliamo farvi alcun male: dite la verità; ricordatevi che avete giurato di dire la verità.

—E la verità l' ho detta signor presidente: rispose con fermezza la fanciulla.

Antonuccio era immobile, cogli occhi fissi a guardarla e le mani sulla bocca tremanti e convulse come estatico o catalettico.

— Poi, prosegui con sforzo la fanciulla, alzando gli occhi su di lui quasi solennemente con tutta la veemenza della passione compressa, poi vedemmo lui, e l'acceanò con la mano, sul pagliaio a spegnere il fuoco. Era più d' un mese che non era entrato nel cortile. Babbo e i fratelli non volevano più che io lo trattassi. In un momento ci fu la scena con Nicola. Lo fece calar giù, si litigarono, arrivarono i carabinieri e lo condussero via, come un birbone. — E le parole finirono in un singhiozzo.

— E perchè lo condussero via?

— Madonna mia! dissero che avea bruciato i pagliai esso. Ma chi lo ha detto, se lui non c'era?!…

— Ma non sapete che hanno trovato l' impronta dei suoi stivali col vostro nome nello stradello?

— Lo so: ma è una birbonata.

— Figliuola calmatevi: come spiegate voi quell'impronta? Nessun altro ha questo nome sulle suole, povera fanciulla.

— È vero.

— E dunque?

— Signor presidente, Antonuccio è innocente.

Il Presidente scosse il capo con pietà. — Gli stivali non ci possono mica essere andati da sè!

— Signor presidente, fate parlare lo Storto. Fatelo dire a lui dunque che Antonuccio non portava quegli stivali in quella sera!

Furono successivamente introdotti i testimoni più importanti e fatti trattenere per confrontarli tra di loro con l' imputato.

Lo Storto era preso da un sigolare tremito: guardava Antonuccio e Menica cogli occhi sbarrati, poi Agnese, poi il curato, poi il presidente.

Parve volesse parlare, poi chinò il capo e disse. — Io non so nulla, io dormiva, non ho sentito nulla.

— Ma voi, fanciulla mia, sapete che abbia minacciato Nicola di bruciare i pagliai?

— Sì signore.

— Come spiegate che i pagliai si son bruciati e che le impronte erano degli stivali di colui?

— Non lo so, non lo so!

— Dunque voi vedete, teste, il reo evidentemente è lui.

— Ma lui non c'era, signor presidente.

— Ma dov'era dunque?

— Dov'era? fece la giovinetta aizando fieramente la testa verso il crocifisso e verso quella scritta che le avevano detto prometteva a tutti la giustizia purchè tutti dicessero la verità, dov'era? Ma era con mamma e con me in casa di Agnese.

— Non è vero, tuonò Antonuccio.

— Non è vero, urlò Agnese.

Ma l'amore è interpido e la fanciulla alzando le braccia verso la Corte e verso il crocifisso.

— Lo giuro, signor presidente, lo giuro, è vero è vero! Hanno tutti paura, hanno tutti paura: anche voi, Antonuccio, avete paura non so di che cosa, non so di che cosa; anche l'avvocato che non vi difende, siete fiacchi, siete bugiardi, siete bugiardi, urlava piangendo, avete paura: signor curato, Storto, Agnese, dite la verità sacrosanta, qui davanti a Dio e alla giustizia — E dibattendosi si strappava i capelli, inginocchiata e stendeva le braccia intanto che Antonuccio come un leone ferito si agitava nella gabbia imprecando. Agnese protestava che aveva giurato, che aveva giurato, che aveva giurato, che cosa? E il signor curato sbuffava sul suo banco, attestando che si vedeva proprio che eran tutti gente violenta, e che se ne lavava le mani: e ne faceva l' atto, rosso in viso come una melagranata, e pestando furiosamente i piedi.

— Oh! che gente o che gente! farsi compatire così in tribunale; che vergogna! che vergogna!

Solamente lo Storto con l' occhio vitreo rimasto immobile, guardando la scena tra l'attonito e l' impaurito, singhiozzava senza lagrime, e la gente diceva — Oh! quello Storto che ha? Perchè non salva il padrone? — La ragazza è forte, lo vuol salvare, lo vuol salvare, ma non ci riuscirà!

Menica fu portata fuori in preda ad una convulsione violenta: l' imputato urlava: — Non le fate del male!.. Poi si sedette si coprì gli occhi, pianse sempre: non volle rispondere alle domande del presidente: non aveva già risposto al giudice istruttore che aveva preparata tutta quella carta scritta contro di lui? E non comprese che imperfettamente la requisitoria del pubblico ministero, e l'arringa dell'avvocato che il pubblico e i giornali poi chiamarono brillante, e il riassunto del presidente, e il verdetto dei giurati. Cosa gli importava tutto ciò? Egli pensava più di tutto ad una cosa sola, a Menica portata via a braccia dai carabinieri: quel giglio, quella bellezza, quel fiore, quell'anima, dibattersi fra uomini socnosciuti, gente che lui sapeva quel che pensava, lui che aveva fatto il soldato, quando vedeva passare una giovinetta davanti alla porta del caserma. E poverina per salvar lui, perdeva sè inutilmente, poichè gli era rimasto tanto di senno e di lucidità per comprendere questo solo: che ormai dopo tutto quello che era accaduto non gliel'avrebbero data mai più. Il pubblico ministero aveva rinveito contro di lui, povero Antonuccio. Lo chiamano l'avvocato della legge, ed è pagato per dir nero, come l'avvocato della difesa è pagato per dir bianco. Perchè, pensava tratto tratto Antonuccio, mentre i due dialettici misuravano le loro armi in una scherma crudele il cui premio era l'onore d'un uomo e la sua vita, perchè ci sono degli avvocati e degli accusatori per gl'innocenti? L' innocenza dovrebbe presentarsi da sè ed essere riconosciuta.

Perchè l'avvocato veniva a parlare là in sua difesa adesso e non lo avevano lasciato parlare e non gli avevano lasciato parlare a lui prima, quando un giudice freddo e insensibile faceva scrivere tutto quello che voleva al cancelliere (che doveva ben essere il cancelliere) in quei giorni di botta calda, quando la verità poteva ben venire a galla? Perchè invece di aiutar lui a trovare il bandolo di quella matassa intricata, avevano senz'altro stabilito che il colpevole era lui, non poteva essere altro che lui, altro che lui non doveva anzi essere, mentre i suoi precedenti, la sua onestà, la sua condotta di figliolo costumato, di figliolo che non avrebbe neppur torto un crine alla più testarda delle sue mule, doveva invece conciliargli almeno quella benevolenza, che poteva far scoprire a lui, chi gli aveva fatto tanto grave danno? Perchè invece di trattenerlo in carcere tanto tempo, povero figliolo, lasciando la casa sua allo sbaraglio, in mano del primo che capitava non gli avevano fatto il processo li per lì, davanti al signor curato, senza lasciargli tempo di digerire quella bile, e d' ingrandire montandosi di quello che aveva detto lui, quel famoso attentato, quando lui, il curato, aveva buttato via il breviario, come un pazzo, mentre egli era andato a cercargli soccorso e compassione?

Perchè si credeva tutto agli altri e nulla a lui?

Perchè infine lo avevano allontanato dal luego dove tutti lo conoscevano e avevano lasciato giungere le voci ingrossate dalla lontananza, come faceva lui quand'era piccino e scendeva nelle gole dei monti e gridava va via va! perchè l'eco gli ritornasse la sua voce di fanciullo diventata grossa come quella di zio Venanzo?

In mezzo a tutto ciò come un ferro rovente gli bruciava il cervello un' idea fissa, costante, implacabile: i suoi stivali come erano andati in quello stradello? Perchè era ben vero: il curato era stato cattivo per lui e anche Giovannone e anche Nicola il manesco, e quell'odioso di sor Fiorino: tutti avevano deposto contro di lui, ma infine, pensava in quella ridda di dolori e di vertigini, i pagliai erano stati bruciati e non poteva Nicola aver esso appiccato il fuoco: era la sua rovina, la rovina del padre per quell'anno. Il campagnuolo ha sempre in queste cose il tatto giusto; si misura, sa quel che uno per vendetta è capace di fare in un atto di sdegno: ma questo neppure per sogno. L' idea del fuoco è orribile per lui più che per ogni altra classe sociale; e ha inventato il proverbio — Dio gli dia loco!

Antonuccio aveva il sentimento della giustizia: conosceva tutta quella gente: gli faceva del male, ma in fondo anch'essi dovevano essere ingannati, traditi. Da chi? da chi? Si chiedeva intanto che la Corte si ritirava per decidere: da chi? da chi? — Chi poteva esser penetrato in casa sua, aver preso i suoi stivali, appiccato il fuoco a' pagliai, rimesso tutto al posto, senza che nessuno vedesse?

Anche i garzoni erano via quel giorno: lo ricordava bene; altro che il diavolo per pigliarsegli l'anima, tentarlo, fargli perdere la fede, farlo morir disperato.

Ma la Corte non credeva al diavolo, si vedeva bene: e non ci credeva neppure l'avvocato e neppure il pubblico, che nell'assenza della Corte si abbandonava al chiasso consueto, come nell'intervallo della predica il contadino tosse, si agita, si move, tanto per fare qualche cosa. Lo avevano fatto ritirare, ed egli macchinalmente era andato, eppoi era ritornato, senza neppur pensare che si trattava in quel momento della sentenza.

Ai quesiti del presidente, egli nel suo candore pieno di spavento supertizioso ne contrapponeva un altro: ma chi si può esser messi i miei stivali in quella sera?

Quando letto il verdetto dei giurati risultò che il nominato Antonio Radici, detto il boscaiolo, era colpevole di avere nella data sera bruciato i pagliai di Giacomo Sestini e figli, per vendetta e con premeditazione e che ammettendogli le attenuanti della provocazione e della gelosia lo si condannava a tre anni di carcere non compreso il sofferto, alla rifazione dei danni e alle spese del processo, Antonuccio parve risvegliarsi dal suo torpore, alzò gli occhi verso il presidente e urlò: Tre anni! tre anni! Giustizia di Dio! Madonna mia! tre anni! tre anni!

E staccatasi la medaglia al valore violentemente la lanciò sul banco della presidenza e ruppe il calamaio di cristallo che volò in ischeggie lasciando spargere lentamente l' inchiostro sul tappeto verde.

Lo scandalo fu enorme. Ammanettato di nuovo, ben bene assicurato fra quattro carabinieri accorsi in un baleno, fu trascinato via fra i clamori del pubblico: nella tribuna riservata una signora svenne: nella platea di quell'arena di feroce curiosità, si pigiarono, si insultarono, si manomisero: non mancò il borseggio. I giurati se n'andarono tumultuando e riflettendo che quella medaglia poteva ben arrivare fino alla loro fronte. — O perchè non gli hanno fatto levare la medaglia a quel birbante? Si mandano alle assise i malfattori armati di oggetti insidiosi? — Il pubblico ebbe la sua lezione di civiltà: le donne la loro scuola di carità: i fanciulli trovarono che Antonio il boscaiolo non sapeva mirare diritto: la giustizia del paese era passata: era passata col metodo sperimentale, dietro le deposizioni giurate di tanti testimoni: gl' indizi erano stati schiaccianti egli non aveva saputo neppure difendersi; e in ultimo aveva lanciata la sua medaglia con intenzione di offendere la Corte, offendendo in pari tempo il re e la giustizia. Egli aveva dunque non solo bruciato i pagliai, ma era indegno di quella medaglia che gli fregiava il petto: anzi non se l'era mai meritata. Aveva minacciato di rubare la fanciulla che per difenderlo non aveva esitato di giurare il falso: aveva minacciato il suo curato in casa sua; era una voragine d'odio e d' ira: cosa non era diventato quel meschinello davanti al mondo e alla giustizia?

L'amore, delizia e terrore delle anime, era venuto ad aggiungere la sua parte di tormento: questo gran problema della vita per cui tutto si fa e pel quale tutto è fatto, si presentava anche in quel momento come il fondo di quel dramma.

Ma quel dramma non tentava nessuno; nè la Corte, nè la giustizia, nè la legge, nè il pubblico: non c' erano scandali, nè vituperi; era una cosa troppo semplice e ingenua: due giovani foresi che si amavano e che contrastati avevano bruciati i pagliai. Quale prosa!

I loro cuori avevano pure gli stessi palpiti, le loro anime erano purtuttavia figlie di uno stesso-riscatto, ma l'epoca più democratica del mondo ama lo splendore più d'ogni altra: e se Menica fosse stata vestita di seta, la legge uguale per tutti le avrebbe fatto salvare il suo innamorato. La forma è tutto e la povera Menica era vestita di mezzalanetta che si era tessuta da sè!

Queste cose non pensava Antonuccio quando lanciò la sua medaglia al valore, sul banco della presidenza, nel che ebbe gran torto. Ma se un gran signore accusato e condannato a torto o a ragione avesse buttata la sua medaglia (dato che l'avesse avuta) in faccia ai suoi giudici, questo atto si sarebbe chiamato nobile indignazione. E se Antonuccio invece di essere accusato di aver bruciato quattro poveri pagliai avesse incendiato un gran palazzo, ucciso in duello qualche rivale, il pubblico si sarebbe affollato intorno alla sua gabbia per vedere il nuovo Pisistrato che andava alla fama con un gran delitto; ma per quattro pagliai si faceva tanto chiasso?

Ed ecco perchè aveva torto quel povero Antonuccio a prendersela con la giustizia, e a buttare la sua medaglia in faccia ai suoi giudici. Avrebbe dovuto, o piuttosto non avrebbe dovuto, buttarla in mezzo al pubblico che assisteva al suo processo, indifferente se lo condannavano o se lo lasciavano libero, ma curioso soltanto di vedere e di sentire cosa avrebbe saputo dire in sua difesa una contadinella per la quale s'era fatto incendiario.

A nessuno venne in mente se in quella gran faccenda di amori e di odii villerecci ci potesse esser stata in mezzo una terza persona. Il problema che tormentava il povero Antonuccio, e intorno a cui si erano così poco affaticati i suoi giudici e il suo avvocato e i giurati e il pubblico: quegli stivali non ci possono essere andati da sè, era tuttavia il nocciolo di quel frutto; ma quel frutto era parso troppo insipido ai palati avvezzi agli aromi piccanti dei cittadini perchè volessero addentarvi; e così Antonuccio detto il boscaiolo diventò Antonuccio l' incendiario.

Solo in quel momento ch'egli fu ricondotto in carcere dopo la sua monellata violenta della medaglia, e che gettò la sua ultima occhiata d'odio impotente a quel mondo ingiusto che lo condannava sotto quel crocifisso ch'egli aveva tanto invocato, incontrò lo sguardo serpentino dello Storto che nel tumulto generale era rimasto immobile, col viso livido e le labbra contratte di un terrore pieno di crudeltà.

Ebbe un lampo di luce, un sospetto fiero gli passò l'animo come una punta di pugnale. Ma sì! ma Menica non gli aveva detto una volta ridendo che lo Storto stava a guardarla come estatico quando essa annaspava nella stalla, allorchè era garzone in casa sua? Ma sì! era lui, era lui, l'odio di zio Venanzo, il segnato da Dio, il beneficato, il serpe riscaldato in seno, l'uomo degli stivali: era lui! non poteva essere che lui: e tutta una rivoluzione si fece nella sua mente, in un baleno, e colla rapidità della corrente elettrica lo involse, lo atterrì, lo commosse, lo fece rientrare in sè stesso, e mettendo insieme l' idea del crocefisso con quella del tradimento, si battè la fronte col ferro delle sue manette e urlò fissando lo Storto: — Giuda!

Nessuno comprese quel grido, o piuttosto nessuno lo udì, la porta si chiuse rumorosamente dietro di lui e la sua condanna, e il gran mare del giudicato sommerse tutto: ma lo Storto lo udì, lo sentì, per così dire, lo vide, e rotolò sotto il banco da cui fu cavato stecchito e portato all'ospedale, perchè cadendo si aveva battuto la testa e ne aveva avuto una commozione cerebrale.

Naturalmente la cosa non poteva finire così, l'avvocato imputava di nullità il processo perchè il presidente aveva dimenticato certe formalità legali. Zio Venanzo imputava di falso i testimonii, il pubblico ministero si appellava per troppa mitezza di condanna; nessuno era contento. Antonuccio poi pareva impazzito e disturbava i carcerati e i carcerieri ripetendo giorno e notte; l' ho scoperto adesso, è lui l'uomo degli stivali; è stato il crocifisso, che me l'ha detto; ditelo al signor presidente! — Tanto che fu posto prima in segreta, poi all'infermeria e minacciato del corpetto di forza.

— Ma dunque non c'è giustizia per i poveretti!

Povero Antonuccio ancora non se ne era persuaso abbastanza! Ma l'avvocato lo calmò; gli disse che si era appellato, che si farebbe un altro processo, che stesse quieto, che si guarderebbe di far parlare al curato; che in quanto a lui non aveva fede che il crocefisso gli avesse detto quella tal cosa in un orecchio, ma che si spenderebbe, si pagherebbe, si farebbe comparire un uomo di paglia, che infine si domanderebbe la grazia.

A queste cose Antonuccio non si acquetava: un altro processo? Lo facessero subito, era quello ch'egli cercava; ma nè grazia nè uomo di paglia: la verità benedetta come egli aveva giurato, nè più nè meno. — Ah! perchè ho buttato la medaglia in faccia al presidente invece di mirare alla tempia dello Storto? Che prove?! che giudici! che avvocato! che procuratore del re! Il re quella è una faccia! quello che ama i poveretti e li soccorre e ci crede a noialtri che abbiamo fatto il soldato. Ma il re davvero, non quello di carta che mettono in tribunale che non sente, nè ascolta: a quella faccia là gli ho tutto il rispetto benchè abbia buttato via la medaglia, ma non era per lui: e come l' ho alla croce che gli han messo sopra, ma i suoi uomini, sono quello che il curato è per la croce: ne fanno carne di cani di noialtri povera gente. Ma, ha pur da venire il governo della giustizia.

— E batti lì, diceva infastidito l'avvocato, testardo d'un montanaro.

E Antonuccio lo lasciava partire sempre più sconsolato, e pensando: — Benchè i giudici hanno ragione, se tanto se ne cura l'avvocato che si prende il sangue mio!

Un giorno che Antonuccio era stato più inquieto del solito e che avevano dovuto rimetterlo in segreta, che è che non è, lo ricavano fuori con grande solennità e gli dicono che un prete, lo zio Venanzo il procuratore del re col direttore generale delle carceri e l'avvocato gli debbono parlare: che faccia presto, si sbrighi e non sia testardo come con loro, chè coi superiori non si scherza,

Antonuccio rimase come stordito. Tutta questa gente per lui? Ma dunque lo venivano a mettere in libertà; non c'era dubbio: la sua innocenza era fatta palese! Da chi e come? E Menica, Menica! Il fondo del suo pensiero, l'eterno suo sospiro, la luce che nella segreta veniva a confortarlo di speranza e di fede e gli diceva che quella gran prova sarebbe passata, che la campana della sera avrebbe sonato pace anche per essi, Menica dov'era?

Pensava a questo, e si sbatteva i panni di carcerato per dare al suo abbigliamento tutto quel po' di decenza che gli pareva possibile in quella stretta, quando entrò nella camera dov'era aspettato. Si levò il berrettino, lo spinse con tutte e due le mani verso di loro allungando le braccia — Signor curato, disse con voce strozzata, che siate benedetto!

— Sì figliuolo fece tra il sommesso e il confuso, chinando gli occhi a terra quel pover'omo tutto contrito, su allegro, s' è scoperta la verità…

— Madonna mia! zi' Venanzo! mi pare mi si faccia male!…

Lo fecero sedere: lo consolarono, gli furono attorno — Egli badava a dire come un insensato. — Mi conducete fuori non è vero? Io muoio se sto qui. Voleva ben dire: ch' è stato? È stato lo Storto? gli perdono, ma portatemi via da questo inferno. Anime sante! che tormento! Anche lei signor curato mi perdoni: credeva me la tirasse. Ditemi tutto: ma prima conducetemi fuori: e che a Menica non gliene venga male… Oh! Dio mi par di morire!

Ci volle del buono e del bello a persuaderlo che la giustizia lo avrebbe voluto, ma la legge non lo consentiva. C' erano delle formalità da compiere, da rifare il processo, da interrogare i testimoni da riabilitarlo al cospetto degli uomini, da pronunciare il decreto della sua scarcerazione, tutte cose che esigevano tempo, studio e fatica.

— Oh! che mondo! oh! che mondo! — non ci vuol tanto per levare un'anima dal purgatorio! O dunque io debbo rimanere qui… qui fra questa gente!… diceva rabbrividendo: se sapeste quel che dicono, quel che fanno! Madonna dei sette dolori! sono cose da far spaccare le pietre!

Il curato, a cui la tenerezza che si destava in lui con un sentimento nuovo era un rimorso, un tormento, un rimprovero, voleva pur avere ragione, trovare il motivo perchè s'era unito agli altri per aggravarne la condizione. — Ma tu perchè non dire subito la verità, testardo! sempre lo sei stato! E quello stortaccio… Basta?

— Segnato da Dio!… sentenziava lo zio Venanzo…

— È stato dunque lui; non poteva fallire: altro che lui non doveva essere: ma come? ma perchè? con tutto il bene che gli si è fatto l'uno e l'altro?!

— Mah! figliuolo!… L' ho detto tante volte anche dall'altare: Chi lava la testa all'asino perde il tempo e il sapone. Oh! che animale, santa fede! che birbaccione!… Ma ha confessato tutto; questo sì! come ha fatto, come non ha fatto: ha messo fuori tutto quel fiele che aveva in corpo, quel galeotto, che Dio gli perdoni! E ora vede anche lui il sole a scacchi: ma è tanto cretino che i giurati gli faranno la grazia. Nooo signor procuratore? A desso c' è una giustizia fatta diversamente dai tempi nostri. Chi più grossa la fa divien priore… si diceva in seminario.

Il procuratore nicchiava e non diceva nè sì e nè no: forse pensava che in seminario e alla Corte, in prigione e in casa, in campagna e in città la giustizia si prestava a molte interpretazioni: tanto è vero che il curato stesso interpretava a suo modo la giustizia divina.

— Ma, domandò timidamente Antonuccio quando dovette rassegnarsi ad aspettare la sua liberazione: ma… scusi signor curato; perchè lo Storto mi ha fatto questa birbonata?

— Perchè, perchè?! sei curioso anche tu: o ci vuol tanto a capirla? Era innamorato anche lui di Menica quel bestione.

— Innamorato di… lei, quello Stortaccio?

— Sicuro! ed era invidioso di te…

— L'aveva ben detto Agnese la strega che era tutta una invidia!

— E dice che tu nell'uscire dalla gabbia, quando facesti quella bella scena!… Va là che hai fatto una bella cosa anche tu, pazzo da catena!… Gioventù! gioventù!.. Dice dunque che gli hai detto Giuda! E lui è cascato come per morto. L' hanno preso su e poichè aveva delle convulsioni, che già ci andava soggetto, l' han dovuto portare all'ospedale e lì, ha cercato i sacramenti, si è confessato… proprio confessato con umiltà e ha ricevuto il Venerabile. Dopo, per l'ingiunzione del sacerdote… e vedete la religione che bene fa?! ha accusato pubblicamente la sua colpa, e si è costituito prigioniero; e l'hanno carcerato, che ce lo tengano, ce lo tengano, signori; non si lascino impietosire. Il perdono lo deve dare Iddio solo: è un esempio che farà bene a tutti i paesani… che ne hanno bisogno.

Ma poichè minacciava di seguitare le sua invocazione, i due funzionari accennarono a partire, dopo avere rassicurato il giovane.

— Ah! sì non teniamoli più incomodati questi signori: ringraziali e domanda perdono; e a rivederci presto…

Antonuccio li vedeva partire con rammarico, ma questa volta temperato da tenera dolcezza. Erano passati dei mesi passerebbero anche questi pochi giorni: ma gli pareva ben curiosa la riparazione che gli davano!…

Si accostò poi allo zio Venanzo che aveva sempre pianto in silenzio e gettandogli le braccia al collo gli chiese tremando. — E Menica?

— Menica sta bene e ti saluta: sa tutto quella fantella: pare rinata… e si finisce l'acconcio.

— Ma… ma me la daranno adesso che son stato condannato? — Sancta semplicitas! — borbottò il curato rivolgendosi ai due che sulle mosse per partire sorridevano… Santa semplicitas; che condanna! non c' è condanna!… Bisognerà pure farlo questo matrimonio! e finire anche questa scempiaggine.

La chiamava scempiaggine lui, il povero curato!

Antonuccio gli baciò la mano, chiese la benedizione a zio Venanzo, salutò gli altri con rispetto e con l' animo questa volta riconfortato, sperando in cuor suo di non rivederli mai più nè in quel luogo nè altrove.

— Buon diavolo, ma testardo come un montagnolo, che non è altro, chiuse il suo elogio il curato con quei signori.

E c' è da scommettere che quei signori pensavano senza osare di dirselo, che se di uguale testardaggine ce ne fosse parecchia nel mondo, ci sarebbe più forza, più dignità, più carattere, più onestà, ciò che renderebbe più facile e meno faticoso l' esercizio del dovere e della virtù. Ma le scommesse bisogna farle in due e nessuno di quei signori avrebbe voluto tenerla nè con Antonuccio, nè con chi scrive la sua storia.

Antonuccio e Menica si rividero poco tempo dopo una sera sotto i grandi alberi della selva, a capo del sentieruolo dove lo Storto aveva lasciato le impronte degli stivali accusatori: e ci fu condotto per mano da Nicola il manesco che chiese perdono ad Antonuccio e gli promise solennemente la sorella.

Con la quale poi furono concluse le nozze e celebrate con grande sfarzo dal signor curato, che fece baciar la Pace agli sposi e tenne loro un bel discorso sulla mansuetudine e sulla pazienza: e uno dei testimoni volle essere il sor Fiorino che fece alla sposa una ricca conocchia.

Pel giorno delle nozze Antonuccio si volle riserbare l'innocente compiacenza di fare un bel falò degli stivali che l' avevano portato in carcere; e prima di licenziare il parentado dalla sua casetta del monte, diventato il nido d'una colomba che sapea metter gli artigli nel giorno della passione e dell'amore, volle fare anche lui come un altro sposo, il cui nome sarà ricorso più di una volta alla mente del lettore, questo bel discorso:

Dicono che l' amore ha la benda sugli occhi, ma che ci vede bene è un fatto perchè per scendere nel core bisogna che entri per gli occhi.

La giustizia ha gli occhi ma ci vede male, perchè legge quello che non è scritto: chi non ha gli occhi è la collera che non lascia mirare diritto; chi non ha gli occhi è lo Storto che non vede la gobba sua, benchè veda la bellezza degli altri: chi non ha gli occhi è l' ignoranza che mette il nome dell'innamorata sotto la suola degli stivali: chi non ha gli occhi è la contentezza che non è prudente e dice tutto quello che sa e pensa: chi non ha gli occhi è Menica, che mi ha trovato degno di essere lo sposo suo!

Viva gli sposi! gridarono in coro gli invitati: e l'eco dei monti ripetè il grido fra gli spari dei mortaletti. Poi confusamente discesero allegri, ammirati dell'eloquenza bonacciona di Antonuccio il boscaiolo, che pareva avesse dimenticato il male sofferto.

A mezza costa, Agnese la strega, che era stata tra gli invitati e discendeva, si battè la fronte con la mano come risovvenendosi di qualche cosa e ritornò su correndo, quando Antonuccio aveva cinto col suo braccio Menica e tutti e due guardavano senza vedere la gente allegra che partiva.

— Antonuccio, disse trafelata; sai? La figura che mi compariva sempre nel piatto era storta, proprio tale e quale come il mulo!… Voleva dire l'esposto, il garzone traditore.

— Aaah! fece Antonio scuotendosi. Credeva che fosse storta come la giustizia!

Questa fu l'unica vendetta e l'ultimo rimpianto di Antonuccio il boscaiolo, dell'errore giudiziario di cui era rimasto vittima. Altra gente più istruita si sarebbe vendicata per molto meno!

Lo Storto fu mandato assolto dai giurati che gli accordarono a forza irresistibile anche perchè un alienista gli aveva trovato a figura assimetrica. Tale meravigliosa scoperta l'aveva del resto atta anche Agnese la strega, nel piatto della sua innocente fattucchieria.

(Fine)

Caterina Pigorini Beri.