Alla scomparsa di Stefano Türr, un cumulo di memorie di una dolce tristezza si affacciano al mio pensiero.

Noi rivediamo la sua bella figura riapparirci come una visione di eroe leggendario, come una pagina scritta in caratteri luminosi nella storia della patria nostra, per quanto egli fosse nato straniero all' Italia. E come un destino gentile e meraviglioso per lui, che aveva sempre scacciata la morte, volendola solamente ricevere in patria, oggi il suo vaticinio e la sua speranza si sono verificati; proprio come una leggenda antica, come uno di quei poemi vissuti che troviamo soltanto nei libri eroici e armoniosi di Omero e di Pindaro.

Il generale Türr vide molte volte la morte vicina; sul campo di battaglia, nelle camere d'albergo, sotto la tenda, nella cabina dei brigantini, sulle vette dei monti, sulle sponde del Danubio, del Ticino e del Po, sulle rive incantate del Bosforo… da Scilla al Tanai — dall'uno all'altro mar. Essa gli era sempre apparsa, come mi diceva, sotto le forme di una donna vestita di bianco ed egli le aveva sempre detto: Vattene! ed essa se ne era sempre andata.

Perchè non se ne è andata anche questa volta? … Certamente egli in patria, stanco, sofferente, non ha più voluto cacciarla; ed è scomparso per sempre; l'ultimo sopravvissuto alla grande epopea garibaldina.

Conobbi Stefano Türr nel settembre del 1891. S'inaugurava in quei giorni a Mondovì, alla presenza di Re Umberto, di parecchi ministri e sottosegretari di Stato, un monumento a Carlo Emanuele I, il dotto, il sapiente, il precursore dei Re d'Italia. Convenivano colà artisti, scrittori, poeti (primo il Carducci), soldati; la parte piemontese dei due rami del Parlamento, moltissimi senatori e deputati di ogni regione; era una festa nazionale. Nel momento che cadeva il velario, sul palco reale veniva firmato il decreto d'amnistia pei renitenti delle leve di mare, auspice il conte Luigi Ferraris, ministro della giustizia, e si firmava il verbale di consegna del monumento alla città di Mondovì.

Quell'atto portava in ultimo un nome straniero, ma non per questo meno popolare e meno amato in Italia: quello di Stefano Türr.

Avevo veduto Stefano Türr molti anni prima a teatro a Parma, nell'epoca dell'epopea garibaldina. Garibaldi faceva allora una corsa attraverso l'Italia, accompagnato (nè mai sarà stato detto più giustamente) dal suo brillante stato maggiore. C'erano Cosenz, Bixio, Sirtori, Medici, per tacer d'altri; e ancora vedo la figura di Stefano Türr, incorniciata dall'oro di un palchetto a sinistra del teatro regio, nel fondo rosso, come in un quadro luminoso. Quando lo rividi sul palco reale di Mondovì, ebbi come un ritorno alla commozione di quella sera al teatro di Parma. La sua alta e nobile persona, i suoi mustacchi e la sua fiesca soltanto un po' brizzolata, al vento; il suo occhio sfavillante—di un azzurro profondo e pieno di dolcezza - mi fecero rifare la storia della vita … della vita sua, chè della mia non occorre di occuparsene.

Alla sera di quel giorno, dopo il pranzo reale, convenuti nella stessa sala nella palazzina Del Vecchio dove eravamo ospitati, che dava adito alle camere di Giosue Carducci, del ministro Luigi Ferraris e di lui, Stefano Türr, io potei assistere ad una scena indimenticabile, in cui questi tre uomini, così diversamente illustri e celebri e che si erano parlati in quel giorno per la prima volta, diventarono fanciulli nella dolcezza di una cordialità semplice, e finirono per cantare in coro: Zitti zitti, piano piano, non facciamo confusione, di quel Rossini che il Ferraris e il Türr avevano conosciuto nel fulgore della sua gloria e della sua fortuna. Ma fecero così poco zitto, e così poco piano, che il presidente del Consiglio dei ministri, che era allora il marchese Di Rudinì, uscì dal suo appartamento, coll'evidente intenzione di venire a partecipare della nostra allegria …

Nel mattino successivo ebbi un breve colloquio col marchese di Rudinì per spiegargli lo strano rumore; e gli accompagnai il generale Türr nell'atrio d'ingresso, dove li lasciai a confabulare di politica, in cui (se potei bene comprendere) si parlava animatamente di Francesco Crispi, col quale il generale Türr non era più d'accordo fino dal tempo del plebiscito di Napoli, benchè non gli contestasse il merito della spedizione dei Mille e dello sbarco di Marsala.

Nell'inchinarmi, com'era di dovere, davanti a quei due personaggi, per lasciarli parlare a loro talento di chi loro più piacesse, e guardandoli tutti e due, uno appoggiato alla veranda e uno ad una colonna, non potei a meno colla mia testa sediziosa di esclamare forte: « Un Tartaro e un Normanno! ».

Stefano Türr ne rimase colpito e rispose prontamente: « Deux barbares! »

Io non so se il generale Türr dicesse vero: so che da quel tempo egli, quando mi scriveva, non lasciava di firmarsi Il barbaro.

A Mondovì, di fronte al Santuario, alla inaugurazione di un monumento che immortalava un principe guerriero, legislatore e poeta, alla presenza di Giosue Carducci, che scriveva nella camera attigua alla mia La Bicocca di San Giacomo, coll'intervento del Monarca patriota e gentile e probo, quel barbaro così ingegnoso e semplice, così sereno e forte, così umano, così mansueto in pace, così valoroso e clemente in guerra, così avventuroso e così ingenuo nella sua altissima intelligenza, mi faceva ricordare il canto popolare del Barone Leutrum, che Costantino Nigra ha così dottamente illustrato nei Canti popolari piemontesi.

Anche Stefano Türr era un capitano di ventura, l' ultimo della specie, come lo era il fiero barone tedesco, che era venuto a combattere per la libertà d'Italia ad Asti e ad Alessandria. Come quel leale gentiluomo che non volle mutare l'antica fede e volle essere seppellito a Luserna, dove egli riscontrava un lembo di patria in quel manipolo di Poveri di Lione che si chiamano, Valdesi e che, presentato dal grande Eugenio di Savoia, fu - da Re Carlo Emanuele III visitato al



suo letto di morte, Stefano Türr, presentato all'Italia da Carlo Alberto e poi combattendo con Garibaldi, ebbe dimestichezza con Vittorio Emanuele e conservò l'affetto e la devozione al suo augusto Successore e all'attuale Re Vittorio Emanuele III.

Le analogie o, come dicono oggi, i ricorsi storici sono parecchi fra questi due capitani: uno al primo bagliore della nostra indipendenza; l'altro al compimento di quei destini che resero grande la patria comune.

Questo barbaro, nato a Baia nel 1825 da un padre commerciante e da madre di nobile famiglia militare, donna di altissimi sensi, adolescente appena, primogenito di numerosa fratellanza, a diciassette anni, quando cominciava a studiare il suo latino con onore, per spirito avventuroso si arruolò in un reggimento di cavalleria sotto gli ordini dell'imperatore. Mandato a Milano semplice soldato, diventò presto caporale, poi sergente, poi tenente; ed era tale nel 1848 quando, ribellatosi a Radetzky, intanto che Kossuth diventava il dittatore dell'Ungheria autonoma, passò in Piemonte a capo di un manipolo di prodi, che divennero i figli adottivi d'Italia.

Carlo Alberto, accogliendolo colla simpatia che meritava, e secondo quel fascino che quest'uomo ha sempre esercitato intorno a sè, lo incaricò di formare una legione de' suoi connazionali, nominandolo capitano.

Dopo i disastri della guerra, passato nel Granducato di Baden in ribellione, combattè col grado di maggiore poi di colonnello nell'armata rivoluzionaria, sotto gli ordini del generale Mierolewski, distinguendosi alla difesa del passaggio del Reno durata cinque giorni, contro quel Guglielmo che doveva diventare il primo Imperatore di Germania.

Domata la rivoluzione, da Baden Stefano Türr si rifugiò a Londra, insieme ad altri emigrati italiani e ungheresi. E allorchè il genio del conte Cavour s'intese coll' Inghilterra e colla Francia per la spedizione di Crimea, quando la Russia minacciava Costantinopoli, il nostro capitano di ventura prese servizio nella legione anglo-turca.

L'Inghilterra, fidando nell'accorgimento politico e commerciale del Türr, lo incaricò dell'acquisto dei cavalli per rifornire l'armata inglese; e recandosi perciò nei Principati Danubiani, s'incontrò a Bukarest per fatalità co' suoi antichi commilitoni del reggimento Francesco Carlo che vi faceva la sua guarnigione. Vi fu riconosciuto, preso, mandato a Vienna sotto buona scorta; sottoposto a un consiglio di guerra come disertore, fu condannato a morte. La Regina Vittoria, istruita del pericolo del suo mandatario, intervenne personalmente, e lo salvò come suddito inglese.

Cessata la guerra di Crimea, si ricondusse in Turchia per seguitare a farla a modo suo contro la Russia, partecipando alle guerriglie di una tribù di Sciti ribelli e per fondare una Società commerciale inglese al fine di promovere il commercio col Caucaso. Ma al primo sentore della guerra del 1859 lasciò commercio e industria e corse in Italia in qualità di colonnello della legione ungherese e addetto allo stato maggiore di Garibaldi.

I fatti a cui egli partecipò appartengono alla storia.

Quando egli mi raccontava, colla sua forma quasi orientale e immaginosa, queste gloriose vicende e me ne consegnava i documenti, era morto da poco anche il generale Cosenz, ed egli restava il solo superstite di quell'epopea di giganti.

Partì con Garibaldi dallo scoglio di Quarto e seguì il suo eroe passo passo nell'odissea della campagna in Sicilia e nel regno di Napoli. Quando la spedizione dei Mille salpò da Quarto, sia per ignoranza, sia per tradimento, mancarono le barche cariche di munizioni, per cui i nuovi argonauti furono obbligati di sbarcare a Talamone, per tentare di averne dal comandante della fortezza.

Garibaldi prima di sbarcare indossò l'uniforme di generale: ma ciò a poco gli sarebbe valso per ottenere le munizioni, se non provvedeva la sagacità di quel barbaro, che con un curioso stratagemma persuase il colonnello Giorgini, comandante la piazza, a consegnarle in sue mani, per un ordine superiore che fu improvvisato e che parve piovuto dal cielo. E così s'incamminarono a quelle vittorie per cui si potè, in mezzo a infiniti pericoli, alle mene dei demagoghi, alla malafede degli ambiziosi, alla reazione dei violenti, agl'intrighi dei procaccianti, giungere al plebiscito di Napoli e all'annessione.

La risposta vivace, serena, leale che il generale Türr fece alle Ire d'oltre tomba di Agostino Bertani, ci dà in mano la chiave di molti avvenimenti che l'Italia in gran parte ignora, in gran parte ha dimenticati. Nessuno può dire se senza il generale Türr, che faceva la guardia e disimpegnava la sua fazione di vigile sentinella intorno all'uomo straordinario a cui aveva dedicato la sua vita, quel plebiscito avrebbe avuto luogo in quel tempo e in quel modo, con Bertani e con Crìspi che tenevano prigioniero il Dittatore e sotto gli occhi di Mazzini nascosto in Napoli, il quale dirigeva il movimento personalmente.

A Napoli noi lo vediamo con Alessandro Dumas e Maxime Duchamp a seguire il campo garibaldino. Se i Tre moschettieri non fossero stati scritti prima, in verità ci domanderemmo se Dumas non si fosse ispirato a Stefano Türr nelle imprese meravigliose di quel suo libro affascinante. Certo Dumas, colla sua fantasia immensa, aveva avuto la visione di uomini come Garibaldi, come Cosenz, come Bixio, come Sirtori, come Medici, come Türr. E singolarmente come Türr, che non era nè tutto D' Artagnan, nè tutto Porthos, nè tutto Athos, e aveva di Aramis tutta la eleganza accurata del vestire, e l'accortezza nel sorprendere le impressioni fuggitive dei diplomatici, coi quali il suo fato lo condusse a trattare.

In un saggio artistico fatto da Arsène Houssaye, quando lo vedeva a Napoli insieme a Dumas e a Duchamp, e li sentiva a rifare il mondo nella guerra, nella politica, nelle lettere, nell'arte e nella scienza, noi troviamo pagine di un colorito vivace e caldo, dove le donne, i cavalieri, l'armi e gli amori s'intrecciano nelle imprese dei Moschettieri, nel supplizio di Carlo I, nelle imboscate di Monk, nella forza di Cromwell, nelle ribellioni della Fronda, nelle rappresaglie con Mazzarino, nella riconquista dei puntali di diamanti per la regina Anna, sotto lo spionaggio del cardinale di Richelieu.

In questo forte e gentile capitano hanno posto la loro fiducia Vittorio Emanuele e Garibaldi, anche nei momenti in cui il conte di Cavour era al timone del governo, e non voleva o non poteva ammettere la preponderanza della rivoluzione nella grande impresa dell'unità nazionale.

Il conte di Cavour non poteva ignorare quel che era accaduto fra il Re e il generale Türr in un giorno doloroso per l'Italia. Si trattava della cessione di Nizza alla Francia; e il generale Garibaldi, ospite sfortunato di quel marchese Raimondi, la cui figlia ebbe per un istante con lui comuni i destini, nell'ansietà di vedersi rapire la patria scrisse a Türr una lettera storica a tutti sconosciuta, che importa di trascrivere qui.

Quella lettera dice così:

Fino, 17 del 1860.

Mio caro Colonnello Türr,

Vogliate avere la compiacenza di chiedere a Sua Maestà, se è deciso di cedere Nizza alla Francia.

Questa domanda mi vien fatta molto caldamente da' mieì concittadini.

Rispondetemi subito.

G. Garibaldi.

Stefano Türr si presentò al palazzo reale di Torino e trovò il Re a letto indisposto. Gli consegnò la lettera di Garibaldi che egli lesse prontamente.

—Ebbene, sì! - disse il Re con tristezza; ma non telegrafate: andate a trovarlo e ditegli che se a lui duole la cessione di Nizza, può immaginare il mio dolore di cedere la Savoia. Ma pare che il destino chieda a noi due il più grande sacrifizio, per fare l'Italia … e lo faremo!

Questa completa confidenza del Gran Re con Türr e questa piena fiducia da quel giorno andarono man mano certamente aumentando, poichè lo vediamo, dopo gli avvenimenti che avevano resa autonoma l'Ungheria e libera l'Italia, avere l'incarico di trattare con Napoleone III e coll' imperatore Francesco Giuseppe, anch'egli preso dal fascino di quest'uomo, una triplice alleanza fra l'Italia, l'Austria e la Francia, alla vigilia della guerra franco-prussiana.

Il trattato non fu concluso. E se il generale Türr avesse voluto dire tutto quello che sapeva, la storia di quel periodo avrebbe oggi una pagina di più. Nelle carte da lui lasciate è certo che si troverà messe copiosa di documenti preziosi per la patria e per la storia. Ma intanto quello che sapevamo noi, a cui egli a quando a quando raccontava pittorescamente le sue avventure meravigliose, era questo. Egli aveva avuto un lungo colloquio nel 1867 col principe di Bismarck, e aveva indovinato un pensiero di quel potente uomo: fare la guerra alla Francia. E glielo aveva detto a viso aperto con quell' audacia soldatesca che era uno dei distintivi del suo carattere.

« — Le jour, - egli disse al principe di Bismarck, - où vous apprêterez pour la guerre contre la France, je me mettrai contre vous. Certes ma personne seule ne sera rien à vos yeux, mais j'espère que tout le parti libéral, qui vous a aidé partout en 1866, en fera autant ».

Il principe di Bismarck gli lanciò uno sguardo di fuoco, ma si contenne e gli rispose dopo una breve pausa dissimulando:

«—Mais non; je ne veux pas de guerre contre la France. Il y a deux semaines j'ai vu le général Ducrot qui passait par Berlin: je lui ai demandé: Pourquoi voulez-vous la guerre en France? - Il m'a répondu: Parce que nous sommes le coq. - Et bien: nous ferons la poule, lui ai-je dit! »

In quel memorabile colloquio il principe di Bismarck gli disse che Benedetti era un eccellente ambasciatore, ma che per la sua qualità di Còrso, era un po' troppo ardente. E poi aggiunse testualmente:

— Dites bien à Sa Majesté, que je me fais fort d'obtenir de mon roi en quelques semaines, tout désir que Sa Majesté m'aura exprimé en écrit. Quant à la Belgique, Sa Majesté connaît mes idées par le projet du traité. Pour ce qui concerne le Luxembourg, je ne demanderai même pas si la majorité est pour la France: je dirai: prenez-le! ».

Era egli sincero il principe di Bismarck quando diceva così al generale Türr? Presso a poco come lo era Napoleone III quando al racconto che gliene faceva il nostro capitano di ventura, gli rispondeva:

« — Je comprends que M. de Bismarck ne soit pas content de la présence de Benedetti. Il lui a fait tant de promesses! Du reste il est toujours prêt à offrir ce que ne lui appartient plus! »

Sarebbe molto istruttivo di studiare le diverse fasi di quelle trattative che precedettero la fatale guerra del 1870. È certo che se l'alleanza tra la Francia, l'Italia e l'Austria-Ungheria colla benevolenza dell'Inghilterra fosse stata formata, il principe di Bismarck non avrebbe, per affrettare la guerra, alterato il famoso dispaccio di Ems, ma avrebbe fatto il possibile per impedirla. Roma sarebbe egualmente venuta all'Italia, perchè il destino glorioso del popolo italiano doveva compiersi; e gli avvenimenti erano così precipitati che il generale Türr da Firenze alla vigilia della guerra del 1870 aveva scritto al ministro degli esteri di Francia:

« Lo stesso generale La Marmora dichiarò di non poter assumere la responsabilità di proteggere la frontiera pontificia. Dipende dalla Francia di far marciare l'Italia, che alla sua volta farebbe marciare l'Austria ».

Fra questi raggiri d'una politica d'intrigo, in cui la Francia doveva perdere l'Alsazia-Lorena, il generale Türr rimetteva il mandato nelle mani del re Vittorio Emanuele, con lealtà di soldato e con cuore di patriota, mediante una lettera da Vienna, che dovrebbe trovarsi nell'Archivio degli affari esteri:

Sire,

La mia missione è terminata. Tocca ora alla Maestà Vostra di dare una base all'alleanza e conchiudere il trattato.

Questa lettera par rinnovare la scena storica del barone Leutrum, rammentata nel canto popolare piemontese e illustrata con tanta perizia d'arte e di scienza da Costantino Nigra:

O dime un po', baron Litrun, Vosti nen che ti batisa? Faria venì 'l Vésco d' Turin: Mi serviria par to parin, Barun Litrun l'a ja bin dit! Mi poss mai pi rive a tan: O bon barbetta o bon cristian!(1) Dimmi un po' barone Lodrone, o non vuoi tu che ti battezzino? - Farei venire il Vescovo di Torino: io ti servirei da padrino. - Baron Lodrone gli ha ben detto: Sia ringraziata Vostra Corona: giammai arrivare non poss'io a tanto: o buon barbetta o buon cristiano.
È noto che si dà il nome di barbetta ai Valdesi, in mezzo ai quali volle esser sepolto il barone Leutrum, perchè era e volle rimanere protestante.

E il capitano di ventura s'inchinò davanti alla volontà illuminata di Vittorio Emanuele, riservando le sue opinioni antiche contro il Re di Prussia, cioè contro il principe di Bismarck, che aveva un giorno comperato il ducato di Lauemburg da un Ministro austriaco, quando era già firmato il Condominium sullo Schleswig-Holstein, per mostrare, come disse più tardi Napoleone III di lui: « A ces nigaud de princes allemands, que l'Autriche est capable de vendre les choses que ne lui appartiennent pas ».

E da allora il generale Türr per istinto, per eredità, per passione, mise al servizio delle grandi imprese industriali e commerciali il suo slancio militare, la sua finezza diplomatica, la sua conoscenza degli uomini e delle cose del mondo. Dopo la canalizzazione dell'Ungheria, l'impresa del Caucaso e il taglio dell'istmo di Corinto, eccolo a caldeggiare l'iniziativa del Principe di Napoli - che come Re d'Italia ha poi realizzato il grande progetto agricolo internazionale, per l'insegnamento dell'agricoltura nei reggimenti del nostro nobile esercito - e a mettersi a capo della Lega per la pace.

In questa ultima qualità lo abbiamo veduto al banchetto di Roma, dove udimmo per l'ultima volta la voce sapiente di Ruggero Bonghi, come il grido di un'anima grande assetata di ideali; quella del senatore Trarieux, che veniva a porgergli il saluto della Francia; quella di Luigi Ferraris, allora ultimo superstite di una generazione di forti, di sapienti e di onesti uomini, che alla dottrina del legislatore e alla dignità dell'uomo di Stato univa l'arguzia sottile d'un carattere superiore alle ironie dei casi e della fortuna; quella di un giovane, lo Schanzer, asceso oggi al seggio di ministro, e che allora era alle sue prime armi nell'agone politico; e lui stesso, Stefano Türr, a inneggiare alla fratellanza delle schiatte eredi dell'Ellade antica.

Con queste due idealità, la pace e il lavoro dei campi, nel 1898 Stefano Türr, in Torino invitta, lo abbiamo veduto servire cavallerescamente del suo braccio la baronessa De Suttner, l'autrice di Abbasso le armi! e dell' Era delle macchine, dotta, socialista e aristocratica per giunta; per quel singolare contrasto delle cose umane, per cui un soldato avventuroso può predicare la pace; e una dama ricca, ben vestita e con corona baronale sulla broche e nel suggello prezioso, può predicare la fratellanza e, occorrendo, la lotta di classe.

Per Stefano Türr però non socialista, non aristocratico, e avendo avuto il patriziato soltanto sulla punta della sua spada, parve che queste due idealità gli avessero persuaso, che quando col ferro non si faranno soltanto più corazze, fucili, armi, lancie e spade, ma coltri, aratri, zappe e vanghe, nel mondo rifiorirebbe l'età dell'oro, l'età dei grandi perdoni e delle grandi giustizie riparatrici.

Egli è morto prima di poter raggiungere il suo ideale. Non importa se la sua fata bianca a cui diceva vattene! si sia posata sulla fredda coltrice del suo sepolcro: non importa neppure se quest'ideale non sarà raggiunto mai: l'ideale non muore e la luce non si spegne nel cuore degli uomini: e il nome di Stefano Türr non sarà mai cancellato nella storia della patria redenta.

Egli ritornava spesso in Italia, anzi non si sapeva mai quando ne era partito. E quando ritornava questo capitano di ventura immaginoso e strano, faceva sempre una punta a Torino: a Torino dove Carlo Alberto gli affidò la prima legione, dove Vittorio Emanuele II gli affidò l'ultimo, il più grave incarico politico per la cessione di Nizza alla Francia.

E all' Albergo d' Europa in piazza Castello, dove sfilavano le schiere gloriose, egli voleva sempre la camera da cui poteva scorgere la storica loggia, le tre finestre dove dormiva Vittorio Emanuele in cui gli consegnò la lettera di Garibaldi, e dove aleggiano le sante memorie del risorgimento della patria e della libertà, per cui egli ha combattuto e vinto.

Chi scriverà la vita del generale Türr scriverà un poema eroico e cavalleresco, scriverà una leggenda piena di luminosi fantasmi, scriverà una storia di rivendicazioni e di imprese degne di Ariosto e di Torquato Tasso.

Allora quello storico o quel poeta ricorderà di mettere per epilogo le parole che egli rispose ad Alessandro Dumas, il quale gli chiedeva la vita di un capobrigante e che egli gli concesse: « In tempi simili a quelli in cui viviamo, bisogna essere tre volte puri, tre volte bravi, tre volte giusti per non essere calunniati che in parte. Così trascorsi dieci o dodici anni si comincia ad essere apprezzati dai proprii nemici, e non ne occorrono meno del doppio per esserlo da coloro che furono beneficati ».

E se quel poeta ricorderà il cavallo alato di Ariosto e le pugne contro il re Sacripante, non potrà trascurare le armi gloriose e il capitano del gran Torquato, quando narrerà che il vescovo di Ariano di Puglia volle abbracciarlo per aver salvato il suo popolo e il suo clero, che s'erano levati a tradimento contro di lui e de' suoi volontarii; per avergli restituito le lettere che potevano provare il suo e il loro tradimento; per avere con leggi di clemenza riconosciuto in lui il pastore delle anime, l'apportatore della buona novella alle povere plebi travagliate e averne ricevuto, con cuore semplice e caldo, il giuramento da lui prestato in sue mani di fedeltà al nuovo Re e alla patria.

Come a me sian potute giungere e siano state custodite gelosamente nel cuore e nell'intelletto queste memorie di Stefano Türr, non occorre dire oggi. Basta che siano vere, e che tornino di gloria a Lui, e all'Italia che ne conobbe, ne senti, ne apprezzò i meriti preclari e i servigi incancellabili.

Caterina Pigorini-Beri.