FRANCESCO PETRARCA
DISCORSO
LETTO NELLA
SCUOLA NORMALE FEMMINILE PAREGGIATA SCALCERLE
DALLA DIRETTRICE
ENRICHETTA USUELLI RUZZA
il giorno 8 Aprile
memorante, nel sesto contenario della nascita
del poeta, la incoronazione di lui in Campidoglio

PADOVA
Stab. Tip. L. Crescini e C.
1904



E SULTAVANO al sole dell'aprile novo i bei clivi fioriti dell'eterna Roma; esultavano nell' alma carezza del favonio, nei gorgheggi dei nidi, nell' effluvio delle viole; e sotto l'effuso azzurro del cielo passava l'onda del Tebro «mormorante carmi divini.» La Città sacra esultava nel tripudio delle campane sonanti a gloria, nello squillo di cento oricalchi, nel grido di tutto un popolo accorrente. Gentildonne e donzelle, in gaia vesta, fiorivano palchi e balconi; e i vessilli alto levavano al vento l' aquile dell' oro.

Ma non la Vestale seguiva tacita e velata il Pontefice su pei gradi del Campidoglio; non il trionfo di Cesare volgeva la quadriga dai cavalli candidi per la Via Sacra: era un'altra resurrezione che si univa alla Resurrezione del Cristo; e gli archi dell'antica Roma attoniti miravano il trionfo novo d'Italia sull' età pagana, sull' età barbara.

Un uomo, nella floridezza d'una virilità possente, incedeva solenne insieme e modesto; segno a tutti gli sguardi, al palpito di tutti i cuori. Incedeva pensoso….. vedeva forse un altro giorno d'aprile memorando, quando per la prima volta gli arrise

«un verecondo viso fra i bianchi veli»

ed ei sentiva

«piovere sul mondo amor da tutti i cieli».

Quel giorno scrisse il destino della sua vita con sentenza di dolore….. ma insieme gli scaturì dal cuore il fonte della sua vera gloria: la poesia del Canzoniere.

L'incoronazione di Francesco Petrarca in Campidoglio, l' 8 di Aprile del 1341, è tale cerimonia che assume l'alta significazione di un fatto storico nazionale. Era l'età nova che incominciava per l'Italia; era la sua dittatura nel mondo; non più di spada o di leggi, non di pastorale o di riti, d'arte bensì e di civiltà. E come la dittatura antica e la medioevale erano stata romana cosa, così la dittatura italica del Rinascimento veniva asserita sul Campidoglio; mentre le mani, incallite a maneggiare l'azza e l'alabarda, fiori e lauri versavano sul Cantore di Scipione e di Laura.

Vana era uscita la speranza di Dante d'assumere la corona in «sul fonte del suo battesimo» nel «suo bel San Giovanni» la proscrizione e l'esilio, ultime relique delle comunali vendette, improntano sulla magra sua fronte il segno delle grandi sciagure; egli è il martire e il vindice dell'Italia, che vedeva morire le sue speranze con la morte dell' ultimo imperatore medioevale, Arrigo VII di Lussemburgo.

Solitario e gigantesco, Dante dilegua nella marina dell'Adria; e sul lido Tirreno, dove già approdò carca di fati la vela d'Enea, il maestro della nuova Italia ottiene in quella festa gioiosa di popolo il premio che Dante e Torquato non conseguirono che nella celeste Gerusalemme.

La venerazione nostra, l'accorata nostra simpatia è per i grandi sventurati e delusi, a cui i contemporanei cosparsero la vita di triboli; ma diamo pure un tributo di venerazione e di gratitudine a chi ebbe terso e confortato il pianto da tanta larghezza d'onori quasi divini, se, Roma plaudente, col trionfo del figlio prediletto iniziava Italia la sua terza dittatura nel mondo civile.

Nato nell'esilio da genitori fiorentini, trasportato quasi fanciullo in terra straniera, egli deve però avere appreso bambino, dal labbro materno, ad amare a sospirare la patria fiorentina, la patria italiana. E questo gli è gran merito, che, pure innamorato della bella francese, pur fra l'incanto di quel cielo e di quell'aura screna che nutrito aveva il suo grande amore, egli rimanesse di lingua e di pensiero italiano. Potè cantare nei muscosi antri del Sorga l' erba fresca su cui la sua donna «i dolci passi onestamente move» e il «fresco, ombroso, fiorito e verde colle» potè sfidare con la sua rima

«gli usignoli dolci e soli nei verzieri di Tolosa»

ma sempre, e nel folle ardore di giovinezza e nei dolori ben più amari dell'età virile, sempre egli ebbe in cuore la sua Italia. Una prova luminosa è pur questa: sentiva ben egli prepotente il desiderio della gloria, ma non gli sarebbe sembrato di goderla piena e intera se non gli fosse venuta dalla sua patria adorata; e rifiutò l'onore della corona, spontaneamente offertogli dall'Università di Parigi. All'Italia, a questa madre benigna e pia egli voleva dare il frutto delle sue fatich; appunto come un figlio che riporta alla mamma il premio sudato, e gode della carezza materna, più dolce d'ogni altra lode.

Nella festa trionfale della sua incoronazione mal si saprebbe distinguere se fosse più il darc o l'avere tra il poeta e la patria: questa gli concedeva l'alloro; quegli donava alla patria la gloria di un nome immortale!

E questa Roma che lo coronava poeta—mentre frammischiato nella folla lo fissava con l'occhio scintillante un giovinetto che sognerà domani di farsene il tribuno—questa Roma fu sentita e pensata dal poeta come cuore e capo d'Italia, e potrebbe dirsi che, quanto il Petrarca fu meno imperialista di Dante, tanto più fu assertore dell'unità della nostra nazione. E la strofa solita ad avvolgersi flessuosa e molle intorno alle auree chiome ed alle belle membra di Laura, s'innalza solenne, augurale, quando al novo Senatore di Roma, al

«cavalier che tutta Italia onora»

dice, in tono quasi d'oracolo:

«Ma non senza destino alle tue braccia, «Che scuoter forte e sollevar la ponno, «è or commesso il nostro capo Roma.»

e non pure implorando esorta, ma con autorità di giudice comanda:

«Pon mano in quella venerabil chioma Securamente e nelle trecce sparte, Sì che la neghittosa esca dal fango.»

Qui è sdegno, ma figlio dell'amore; è sdegno ma non disgiunto dal rispetto figliale: quelle trecce sparte son pur sempre la venerabil chioma; e con quanta venerazione pare che il poeta pieghi il ginocchio reverente a baciare

«L'antiche mura che ancor teme ed ama E trema il mondo, quando si rimembra Del tempo andato e indietro si rivolve!»

E in quella Canzone all' Italia, che giustamente il De-Sanctis diceva così ricca di contenuto, così balda di sentimento e sicura di tono; in quella Canzone che fu la vera e grande ispirazione politica del Petrarca; che unghioni mette fuori la strofa, divenuta a un tratto felina, contro il popol senza legge e prorompe:

«Oh diluvio raccolto Di che deserti strani Per inondar i nostri dolci campi!….»

e quasi con voluttà feroce rimembra la strage fattane da Mario

«Quando, assetato e stanco, Non più bevve del fiume acque che sangue.»

e Cesare

«che per ogni piaggia Fece l'erbe sanguigne Di lor vene, ove il nostro ferro mise».

Il nostro ferro! Lo sentite voi tutto il valore di quel nostro? Non è già più il ferro latino; non è il ferro dei Comuni o delle Signorie; è il nostro ferro, il ferro d'Italia che si leverà un giorno compatta a propugnare i suoi diritti di nazione; è il ferro che ricaccerà lo straniero da tutti i nostri confini; si che fra noi e la tedesca rabbia lo schermo provvisto dalla natura torni ad essere sicuro baluardo. Con che ardimento magnanimo il poeta rimprovera ai Signori il mal governo ch'essi fanno delle belle contrade di cui fortuna aveva posto in mano loro il freno: e li bolla con quei versi di forza e d'ironia dantesca:

«Or par non so per che stelle maligne, Che il cielo in odio n'aggia: Vostra mercè, cui tanto si commise.»

e rinfaccia loro le voglic divise, e la viltà del perseguire le fortune afflitte e sparte; ed il pervertimento morale del gradire che gente straniera

«sparga il sangue e venda l'alma a prezzo»

ed il latin sangue gentile esorta che rammenti la nobiltà sua di fronte alla settentrionale barbarie:

«Chè il furor di lassù, gente ritrosa, Vincerne d'intelletto, Peccato è nostro e non natural cosa».

Nè però è pago: egli vuol riuscire nel suo intento di scuotere, di commovere i cuori italiani perchè abbiano pietà della patria; e ritocca le corde del sentimento con quei tenerissimi versi:

«No è questo il terren ch'io toccai pria? Non è questo il mio nido Ove nutrito fui sì dolcemente? Non è questa la patria in ch' io mi fido, Madre benigna e pia, Che copre l'uno e l'altro mio parente?»

La culla e la tomba; i ricordi dell'infanzia e il pensiero della morte; quanto è più sacro e più intensamente caro, tutto è richiamato alla mente dei cittadini perchè assolvano il debito loro!

Ma poi che anch'egli adempito ha il debite di poeta civile, parlando come da lui aveva diritto di attendere l'Italia.

«Piacemi almen che i miei sospir sian quali Spera il Tevere e l'Arno E il Po…»

eccolo innalzarsi, poeta cristiano, ad altre ammonizioni:

«Signor, mirate come il tempo vola, E sì come la vita Fugge, e la morte n'è sopra le spalle. Al passar questa valle Piacciavi porre giù l'odio e lo sdegno, Venti contrari a la vita serena; E quel che in altrui pena Tempo si spende, in qualche atto più degno O di mano, o d'ingegno, In qualche bella lode, In qualche onesto studio si converta; Così qua giù si gode, E la strada del ciel si trova aperta».

Io non so quale accoglienza abbia avuto allora questa Canzone, ammonita dal poeta che sarebbe dovuta andare fra gente altera; non so se abbia veramente trovata sua ventura

«fra magnanimi pochi a chi' l ben piace»

questo so che da sei secoli essa è là, giovine, possente e bella, come uscì dalla penna del suo poeta; so che, sgorgata dal cuore, trova la via del core anche oggidì the molti ideali sono spenti.

E chi potrebbe dire quanti italiani lungo questi sei secoli abbiano raccolto da questa libera Canzone l'eredità di liberi sensi?

La vita errabonda condotta in Italia e fuori, sempre cacciato dall'assillo che il pungeva; sempre desideroso quand'era oltralpe di rivedere questa «della quale non è altra terra migliore «contribuì a fare del Petrarca non il cittadino di alcuna regione, ma dell' Italia. Egli non era fiorentino come suo padre; nè erasi fatto lombardo come a Dante esule rimproverava Cecco Angiolieri: era italiano. Ei non partecipava ai costumi, alle passioni politiche di nessuna delle regioni in cui era divisa la patria, ma tutte le assimilava quasi nel suo cuore d'italiano; e deplorando amaramente quelle scissure va gridando:

«Pace, pace, pace!»

Ed eccolo intervenire, apostolo di pace, fra Genova e Venezia, affinchè pongano fine alle secolari nimicizie, protestando che «italiano egli voleva occuparsi delle sventure d' Italia» e ammonendo che «la rovina d' Italia non avrebbe salvata Venezia» (1) Lett. Fam..

Erano passati dieci anni dalla cerimonia dell' 8 aprile e volta a volta egli aveva sperato per la sorte della patria stella migliore splendesse con l'aiuto di Cesare o di Pietro, ma sempre deluso. Pure il senso italiano mantenevasi vivo ed ansioso in lui.

«Voi che fate?—scrive ad Andrea Dandolo—se alcun rispetto serbate al nome latino, fratelli vostri, il sapete, son coloro dei quali movete alla rovina. Ahi! non Tebe soltanto, ma Italia ancora di fraterne stragi è fatta teatro, spettacolo di dolore agli amici, ai nemici di giubilo……»

«O vinti o vincitori che voi torniate, quale fine avrà la guerra? Incerto è il gioco della fortuna: e l'un degli astri d' Italia è forza che si estingua, e l'altro s' offuschi…..»

«Dalle piaghe che aprirannosi, non numantino o cartaginese, ma italiano sarà il sangue che dovrà scorrere in copia.»

E alla fine: «Dovrò, prorompe, io tacerti l'immenso dolore onde fui colto al sentire dell'alleanza da voi col re d'Aragona recentemente contratta? Italiani adunque a ruina d'Italia invocheranno il soccorso di barbari re? E qual più mai speranza d'aiuto può rimanere alla infelicissima Italia se, quasi fosse poco il vedere a' suoi danni rivolti i figli che venerar la dovrebbero, vengano pur gli stranieri chiamati ad aiutare il parricidio?»

Che se queste e altrettanto calde parole, da lui dirette ai Genovesi, non valsero a scongiurare la nuova guerra fra le due antiche rivali. ciò attesta la pravità di quei tempi; e nulla toglie alla magnanimità del poeta ammonitore. Ricordare, come fa qualche critico, che Andrea Dandolo lodava l'eloquenza del Petrarca e gli notava un errore di geografia, poi continuava la sua politica e la sua guerra, cose positive e tutte lontane da quelle fantasie di poeti, è constatare che la voce dei poeti rade volte viene ascoltata dai contemporanei; ma la vera poesia, appunto perchè superiore alle contingenze del momento, parla alle generazioni venture come voce delle energie indistruttibili della stirpe: voce fatidica, che i secoli, quasi Cursores tramandano ai secoli; ed è patrimonio prezioso più che le conquiste degli eserciti. La sacra significazione della parola Vates mantiensi quando il poeta è di tal tempra - e bene il Carlyle poteva dire della misera e divisa Italia ch'essa era grande più che l'impero dello Czar, perchè dal fondo dei secoli parlavano i suoi poeti per lei.

Per l' Italia egli voleva concordi ed attivi i due supremi reggitori: l'Imperatore e il Papa; ma per quello ormai non era la nostra penisola che terra da ricavarne moneta vendendo privilegi e diplomi; per questo era luogo di travaglio e disordine, lunge dal quale più comodamente traevasi la vita! Fino dal 1305 sede della Curia era Avignone; ed il Petrarca, entrato di buon ora nello stato ecclesiastico, sinceramente religioso deplorava i vizi e la corruzione insinuatisi in quella ch' egli non chiamò mai altrimenti che col nome di Nuova Babilonia: la Città di corruzione descritta nell'Apocalisse. Sotto il velo dell'allegorie in alcune egloghe, nella lettera a Francesco Nelli, ed in parecchie di quelle sine titulo, egli flagellò nudamente quei corrotti costumi; e la sua indignazione espresse con efficacia anche maggiore, come sempre quando si servì della materna sua lingua, nei tre sonetti contro la Curia Romana. Qui son poche frasi, ma acri e gagliarde, di quelle con cui Dante bollava i peccatori per la eternità.

Strano e quasi inconcepibile contrapposto è nel Petrarca lo spirito irrequieto che lo urgeva sempre verso nuovi paesi e nuove cose, e la sottile investigazione e i lunghi studi delle opere antiche; strano, se non ha forse origine da una ugual fonte: l'amore. Due grandi amori governarono la vita di lui: l'amore per Laura e l'amore dell' Italia: il primo in continuo contrasto nell' animo suo col sentimento ascetico, lo spinge, come duro assillo, pel mondo in cerca di quiete o d'oblio; il secondo lo fa ricercatore avidissimo e lo trattiene paziente sui vecchi codici per ritessere all'antica madre una delle sue corone di gloria.

Nelle sue tante peregrinazioni per l' Italia e oltralpe, egli rintracciò manoscritti che si credevano perduti e ne fu anche fortunato ritrovatore. Trascriveva spesso i manoscritti di suo pugno, se non trovava un copista adatto: ed è quasi commovente sentirlo come s'irrita contro la negligenza e l'ignoranza degli amanuensi; e più ancora come violentemente si sdegna contro quelli che osavano criticare Cicerone padre suo e Virgilio suo fratello.

In queste ricerche in questi pazienti lavori, egli veniva certamente secondato dall'altro grande iniziatore del Rinascimento: Giovanni Boccaccio. L'amicizia dei due grandi era cominciata prima ancora che il Petrarca si recasse a Roma per il giubileo del 1350 e passando per Firenze fosse ospite di Messer Giovanni. Questi già ammiratore del poeta e corrispondente con lui per lettere, grandemente si onorò allora accogliendolo in sua casa; e tosto nell'indirizzo letterario dell'autore del Decamerone si manifestò l'influenza del Cantore di Laura. Fu amicizia vera e salda di cui si avvantaggiò il Boccaccio, che più giovine di sette anni soltanto, pur si considerò sempre come suo discepolo. E l'ospitalità ricevuta a Firenze rese il Petrarca qui in Padova all'amico, l'anno di poi, quando il Boccaccio fu mandato dal Comune di Firenze, che pur allora aveva istituito il suo studio per offrire al Petrarca la carica di Rettore ed un insegnamento, qual più gli piacesse si come ad uomo unico al mondo «e qualem non prima a sacculis vidit actas» ed a partecipargli essergli restituiti i beni confiscati al padre nel 1302, nella condanna per Bianco. —Che dolci e confidenti e geniali colloqui dovevano tener fra di loro i due nobili amici, qui nell'umile casetta vicino al Duomo (pur troppo demolita nell'ampliamento di questo) dove abitava il Petrarca, che il beneficio di Canonico aveva ottenuto da Jacopo da Carrara. Ma il Petrarca, rifuggente da qualsiasi legame che lo costringesse a stabile dimora, rifiutò l'onorevole incarico; ed il Comune di Firenze rimise senz'altro il sequestro sui beni paterni.

Questo culto per l'antichità raggiunse in Petrarca il fanatismo —e però fra il 1339 e il 1342 noi lo troviamo intento ad accarezzare un sogno di gloria, che poi doveva rimanere poco più di un sogno, attendendo ad un poema latino, l'Africa. Scipione il vecchio, l'eroe della seconda guerra punica e di quella che il Petrarca riteneva la più gloriosa fra le romane vittorie, gli parve sempre, fin dall' età giovanile, degnissimo di poema e deplorava che non avesse mai trovato un poeta. Volle esser egli questo poeta e dal suo Cicérone e da Livio deducendo la materia, trascorse quasi tutta la storia romana, coi grandi esempi delle romane virtù e nella seconda guerra punica seguì fedelmente le tracce del grande storico, con l'intreccio di qualche episodio.

Come epica l'Africa fu un errore, perchè l'epica vera non può riuscire ad un poeta che è sopratutto poeta d'arte, scrutatore dell'anima e de' suoi segreti, più che rappresentatore possente e plastico d'uomini e di fatti. Quindi il suo Scipione così pieno, e stavo per dire carico d'ogni virtù, gli riuscì così poco poetico come Enea, come Goffredo, come in generale i virtuosissimi eroi delle epopee d'arte. Ciò non toglie che l'Africa non abbia molti pregi nei fatti ed episodi secondari. Così la figura di Sofonisba troneggia nel fulgore della sua bellezza e nel pathos della sua fine. Così Massinissa rivela tutta la tragica lotta dell'anima fra un grande amore ed un gran dovere. Ma noi vediamo pur sempre rispecchiarsi in quelle figure le figure stesse del Petrarca e di Laura; e nel cantore di Scipione noi ritroviamo sempre il poeta del proprio e dei dolori d'Italia. Ne fa prova anche l' ultimo episodio del suo poema: Non è Mengone, non è il fratello d'Annibale quello che ferito e morente piange sulla nullità delle cose terrene con una profondità così triste quale non conveniva certamente ad un guerriero di quei tempi. è lui, è il nostro poeta elegiaco quel che medita e geme e ammonisce:

«Oh ciechi il tanto affaticar che giova? Tutti torniamo alla gran madre antica E il nostro nome appena si ritrova!»

è lui, è il poeta che dal cuore sanguinante sospira:

«Or conosch' io che mia fera ventura Vuol ch' io vivendo e lagrimando impari Come nulla quaggiù diletta e dura.»

Fino a qui vi ho mostrato Francesco Petrarca all' apice della sua gloria e quasi dirci sfolgorante in soglio, dappoichè egli era veramente un re nei liberi dominii della poesia; ve l'ho mostrato figlio devoto della sua madre Italia; poeta civile; cittadino che al bene della sua nazione consacra quanto ha di vivo e possente nel pensiero e nel cuore; ve lo accennai umanista insigne.

Della sua vita poco o nulla vi dissi, perchè molte di voi già la conoscono; e non molto importa il sapere dove compisse gli studi, o quando precisamente ei dimorasse a Roma, a Bologna a Montpellier o in Avignone. Ora ci resta, ed a bella posta riserbai questo per ultimo, a considerarlo nell'opera che sopra tutte gli conservò fama tra i posteri, nella sua vera gloria di poeta italiano, nel Canzoniere.

Francesco Petrarca «esce, dice il Carducci, dalla torbide e fredde nubi del Medio Evo e se ne allontana quanto, come poeta italiano, allontanasi da quell'antichità ch' ei proseguì pur sempre nelle altre opere sue. Egli fu il primo a denudare esteticamente la sua coscienza, a interrogarla ad analizzarla»; e la nota dominante del Canzoniere è appunto il continuo lavorio di meditazione e di analisi ch' ei fa sopra se stesso e dei propri sentimenti.

L'elogio della bellezza e delle virtù di Laura è lo scopo del poeta; ma egli rimane pur sempre il protagonista; e noi conosciamo Laura più ancora che per quanto egli ne dice, per gli effetti che la sua bellezza ha prodotti nel cuore di lui in vent'anni di lotta e di spasimi, tanto, che, commossi per la guerra di quel povero cuore, pure ammirando la virtù di Laura, ci sentiremmo quasi portati a rimproverarla di non aver voluto mai consolare d'una dolce parola l'innamorato poeta.

Il Petrarca fu detto l' ultimo dei trovatori, e la sua donna è certo la più significante figurazione femminile del Medio Evo e in un certo senso ella sta più viva ancora dell' angelicata Beatrice, perchè più compiutamente donna anche quando, anzi forse più che mai, quando è, al pari di Beatrice, accolta

«fra quei che il terzo cerchio serra»

Il poeta ci dà i più minuti particolari di lei e del suo aspetto. Laura splende agli occhi nostri in mille attitudini e mosse gentilesche di donna; e le sue chiome d'oro all'aura sparse ondeggiano veramente.

«Come il candido piè su l' erba fresca I dolci passi onestamente move»

pare che da' suoi pedini esca virtù che

«….. intorno i fiori apra e rinnove»

e la voce di Laura

«Suona in parole sì leggiadre e care Che pensar nol porria chi non l'ha udita»

e il guanto di Laura

«Candido, leggiadretto e caro guanto»

odora tuttavia come uscisse oggi dal cofanetto di Signora elegante.

Ma tuttavia si alto il Petrarca colloca nel pensiero la sua donna che, ogni amor proprio facendo tacere, ei ci confessa che «appena una certa pietà, un'ombra sola di più tenero affetto ha saputo egli destare nel casto suo cuore» ed apprezza e ne ammira quella virtù che pur tanto lo fece patire!

«L'alta beltà che al mondo non ha pare Noia t'è, se non quanto il bel tesoro Di castità par che l' adorni e fregi».

La bellezza terrena di Laura è scala pel poeta al sommo bene, alla somma perfezione; secondo quel concetto platonico che era stato così caro ai poeti del dolce stil novo, e che il Petrarca, specialmente avverso ad Aristotile ed attaccato a Platone, ha volto e rivolto in mille guise. Tale concetto egli va sempre più esplicando coll' andar degli anni, e dopo la morte di Laura il poeta a mano a mano s'innalza al disopra d' ogni vanità terrena e poi che «cosa bella e mortal passa e non dura» pare ch'ei si stacchi ognor più dalla terra per assurgere verso colei che

«il Ciel ritolse Per adornarne i suoi stellanti chiostri»

I concettini lambiccati, i versi infarciti d' antitesi, di bisticci e di figure rettoriche, quelli fatti a somiglianza dei provenzali, scarseggiano sempre più, per dar luogo a quelli in cui il poeta, nobilitando la sua passione, come dice il Carducci: idealizza il sensibile, india l' umano e:

«….. amore, in Grecia nudo e nudo in Roma, D' un velo candidissimo adornando»

rendeva in

«grembo a Venere celeste»

Chi volesse paragonare l'amore del Petrarca con quello di Dante direbbe cosa erronea. Malgrado il concetto platonico che fino ad un certo punto unisce i due Trecentisti, Laura rimane essenzialmente diversa da Beatrice, come essenzialmente diverso era il carattere dei due poeti.

Beatrice esercitò sull' animo forte di Dante un' efficacia tutta operosa:

«Volgendo gli occhi giovanetti a lui Meco il traeva in dritta parte volto»

per l'amore di lei Dante

«uscio dalla volgare schiera»

nelle rime e nelle prose Dante circondò la sua donna d' un nimbo celeste; nessun accenno mai ad un'aspirazione meno che pura; e se nella donna celata sotto il nome di Pietra, per cui ci lasciò versi appassionati di sensualità, qualcuno vuol credere adombrata Beatrice, l' averne mutato il nome basterebbe a provare di che rispetto ei la circondasse.

Fino dal suo primo apparirgli Beatrice fu per Dante la donna della salute; giovine ancora ei si propose di «non dir più di questa benedetta, infine a tanto che potessi più degnamente parlare di lei.»

Come abbia mantenuto la sua promessa lo vediamo nella Commedia veramente divina.

Ma se il nome di Petrarca giunse a noi celebre nelle sue rime d'amore, egli è per l'ineffabile dolcezza, per l' onda soave di armonia che vi trascorre; è perchè ne' suoi versi

«mostrò ciò che potea la lingua nostra»

non per proposito che egli abbia fatto di salire in fama a rendersi degno di lei. Oh, per questo Laura non esercitò alcuna influenza sull' anima bella, ma debole del poeta!

Ch' egli abbia molto amato, e di che natura fosse l' amor suo, meglio che gli stessi suoi versi ce lo dice il Secretum, dove nell'immaginato dialogo fra il poeta e Sant'Agostino (meravigliosa analisi d' una coscienza cristiana) il poeta mette a nudo il contrasto penoso dell'anima sua; ma il contrasto è sempre delle anime deboli.

Petrarca analizza troppo sè stesso e

«chi può dir com' egli arda è in picciol foco».

Così pel suo dolore: s'ei fu cocente ebbe anche lo sfogo allieviatore del pianto; e la possente immaginativa artistica del poeta gli concesse la multiforme consolazione di mille poetiche leggiadre fantasie.

Ciò che dissi per l' amore valga anche per il desiderio di fama, così sentito da entrambi, eppure così diversamente espresso. Dante abbenchè sollecito dell' eterna salute pure aspira anche alla rinomanza terrena

«Sanza la qual chi sua vita consuma, Cotal vestigio in terra di sè lascia Qual fummo in aere od in acqua la schiuma»

Egli può ben far dire a Oderisi

«Che fama avrai tu più, se vecchia scindi Da te la carne, che se fossi morto Innanzi che lasciassi il pappo e il dindi Pria che passin mill' anni?….»

ma persino accolto fra i beati, presso di Beatrice, in faccia al trisavolo suo, egli si mostra sollecito di questa fama:

«E s' io al vero son timido amico, Temo di perder vita tra coloro Che questo tempo chiameranno antico»

Egli la desidera, la vuole, già in qualche punto la vagheggia possibile:

«Se mai continga che il poema sacro Al quale ha posto mano e cielo e terra, Si che m' ha fatto per più anni macro,» «Vinca la crudeltà che fuor mi serra Dal bello ovile…..» «Con altra voce omai, con altro vello Ritornerò poeta, ed in sul fonte Del mio battesmo prenderò 'l cappello»

la corona, ch' egli ha la coscienza di meritare!

Il Petrarca anche la desidera questa fama tra i posteri; ma qui pure contrastato sempre dal dubbio:

«S' io avessi pensato che sì care Fossin le voci de' sospir miei in rima Fatte l'avrei dal sospirar mio prima In numero più spesse, in stil più rare;»

adesso egli deplora che sia tardi:

«Morta colei che mi facea parlare»

non ho più si dolce lima da rendere chiare e soavi le rime aspre; quando Laura vivea

«Pianger cercai, non già del pianto onore; Or vorrei ben piacer, ma quell'altera Tacito, stanco, dopo sè mi chiama».

pure, se gli fosse dato di vivere ancora qualche tempo, egli spera ancora di giungere ad immortalare il nome di Laura:

«Forse avverrà che 'l bel nome gentile Consacrerò con questa stanca penna».

(Quanta differenza dal forte proposito dantesco!)

Ma invano egli tenta persuadersi che se Laura fosse vissuta, egli avria parlato più degnamente di lei,

«Ma l'ingegno e le rime erano scarse In quell'etate a pensier novi e infermi» «Quel foco è morto e 'l copre un picciol marmo: Che se col tempo fosse ito avanzando Come già altri, infino a la vecchiezza,» «Di rime armato, ond' oggi mi disarmo, Con stil canuto avrei fatto, parlando, Romper le pietre e pianger di dolcezza,»

non non fu la morte di Laura che gli troncò l' ala agli alti voli, bensì agli alti voli non ebbero l' ali sue penne adeguate.

Ma s' ei non si aderse all' alto concetto dell' Allighieri, la fama che desiderò diffuse il suo nome per tutto il mondo civile e lo manterrà insigne fino che suoni la lingua del sì. E un grande poeta Russo, Alessandro Pusckine, chiamò la lingua del Petrarca lingua dell' amore. Certo l' amore, qual' era possibile soltanto nelle nuove letterature del mondo cristiano dopo le invasioni settentrionali, ebbe in lui un possente interprete.

Pure all'eterno contrasto del sentimento, che è il patetico dell'arte petrarchesca, e in cui l'innamorato di Cicerone e di Virgilio mostrasi non meno cristiano di quel che fosse italiano, noi dobbiamo i suoi versi più belli e più veri:

«I' vo' pensando e nel pensier m' assale Una pietà si forte di me stesso che mi conduce spesso Ad altro lagrimar ch' i non soleva»

e del suo vario stile in che piange e ragiona

«Fra le vane speranze e il van dolore»

egli stesso il poeta chiede venia a chi legge

…..«in rime sparse il suono Di quei sospiri ond io nutriva il core»

In questa lotta e in questa direi angosciosa oppressione del dubbio, il Carducci vede una parentela del Petrarca coi romantici del principio del secolo XIX. Vi è qualche cosa di vero— restando però sempre il sentimento religioso cristiano come carattere distintivo del Petrarca. Un sonetto che rende l'intonazione malinconica di Young, ma con una calma e fulgida trasparenza virgiliana, è quello:

«Solo e pensoso i più deserti campi Vo misurando a passi tardi e lenti; E gli occhi porto, per fuggir, intenti Dove vestigio uman l'arena stampi,» «Altro schermo non trovo che mi scampi Dal manifesto accorger de le genti; Perchè negli atti d'allegrezza spenti Di fuor si legge com' io dentro avvampi.» «Si ch' io mi credo omai che monti e piagge E fiumi e selve sappian di che tempre Sia la mia vita ch' è celata altrui.» «Ma pur si aspre vie nè si selvagge Cercar non so, ch' Amor non venga sempre Ragionando con meco ed io con lui.»

La semplicità, la sobrietà, l' efficacia, senza sottigliezze, senza frasi rettoriche di cui altra volta si compiace, sono meravigliose nella Canzone

«Di pensiero in pensier, di monte in monte»

dove nella lontananza geme il poeta errando fra ombrose valli, presso un limpido ruscello, poi sale su alto monte (che forse gli ricordava un' ascensione alpinistica fatta anni prima col fratello sul Monte Ventou; onde la descrizione ha l'alito forte e giocondo della natura.

Lo Zumbini disse questa canzone avere molta importanza, come quella che dimostra un amore tutto moderno per i grandi spettacoli del mondo fisico.

è vero; il Petrarca ha molto lavorato di antitesi e contrapposti sul lauro e l'aura e il laureto; si sbizzarrì talvolta la sua musa in rebus e logogrifi; e noi abbiamo dovuto confessare che molte delle insulsaggini dei petrarchisti erano in germe nel Canzoniere. Ma gli imitatori impotenti a fare, copiano sempre il peggio, cioè lo strano, che a loro par bello, e lo esagerano. Certe critiche acerbe, che si son fatte al maestro, derivano forse dall'averlo conosciuto attraverso quella nuvolaglia ronzante come i moscherini d'agosto, che sono i petrarchisti, più che nell'originale. Se da questi cotali critici fosse stato con amore e senza preconcetti studiato il Canzoniere, si sarebbero accorti come quel peggio rade volte si trovi nelle Canzoni; più spesso, è vero, nei sonetti, e di questi piuttosto nelle terzine che terminando per cosi dire appuntite (la frase che riporto a memoria parmi sia del Gaspary) invitano al pensiero sottile, a far colpo nella chiusa, anche a costo del criterio e del buon gusto. Onde si dice che i petrarchisti più pedanti pensassero prima un bel verso, qual che fosse, purchè rimbombante o sentenzioso e su di quello andassero tessendo con sottili avvolgimenti l' idea del sonetto.

Ma noi abbiamo già notato che la bellezza del Canzoniere si fa maggiore, più grande la spontaneità e l'efficacia, quanto minore la ricercatezza, nella seconda parte; cioè nelle rime in morte di Madonna Laura, la quale veramente allora è più viva di prima.

La corrispondenza d'affetto che prima mancava ora è piena. Laura è in Cielo; il poeta può più liberamente costruirne la figura di sulle reminiscenze, senza tema che la realtà turbi la vaghezza del suo sogno.

Ella scende a consolare l'innamorato nelle sue pene; gli rasciuga le lagrime; lo conforta:

«Ma chi nè prima, simil, nè seconda Ebbe il suo tempo, al letto in cui languisco Vien, tal che a pena rimirar l'ardisco, E pietosa s' asside in su la sponda,» «Con quella man che tanto desiai M' asciuga gli occhi, e col suo dir m' apporta Dolcezza ch' uom mortal non sentì mai».

ell' è felice e lo attende lessù dove l' ha preceduto:

«Mio ben non cape in intelletto umano Te solo aspetto e quel che tanto amasti E laggiuso è rimasto il mio bel velo,»

Sì la creatura d'amore è santa…. ma non ha dimenticata la terra; ed è questo che il Carducci chiamò il tradimento fatto dal Petrarca al Medio Evo.

«Ella, contenta aver cangiato albergo, Si paragona pur coi più perfetti; E parte ad ora ad or si volge a tergo» «Mirando s'io la seguo; e par che aspetti: Ond' io voglie e pensier tutti al Ciel ergo Perch' io l'odo pregar pur ch'io m' affretti».

Certo non sempre si esalta il poeta in quelle visioni di Paradiso; egli percorre ancora sconsolato i luoghi ove già solea vedere l'amor suo; e parla all' erbe, ai fiori, al monte, al sasso, alle stelle, alla natura tutta, chiamandola confidente del suo dolore, come già fu spettatrice della bellezza sovrumana di colei che non è più.

Primavera ritorna, tutto olezza, tutto sorride rinnovellato; ma più greve sull'anima del poeta scende tristezza:

«Zeffiro torna e il bel tempo rimena E i fiori e l'erbe e sua dolce famiglia» «Ma per me, lasso, tornano i più gravi Sospiri che dal cor profondo traggo.»

Sente il canto di un usignuolo e gli rammenta più doloroso il suo affanno:

«Vago augelletto che cantando vai O ver piangendo il tuo tempo passato, Vedendoti la notte e il verno a lato, E il di dopo le spalle, e i mesi gai,» «Se come i tuoi gravosi affanni sai, Così sapessi il mio simile stato, Verresti in grembo a questo sconsolato A partir seco i dolorosi guai».

Così l'eleganza della forma è insuperabile e il Petrarca ne fu riverito come un maestro della poesia mondiale.

La lingua per Dante è principalmente stromento del pensiero; per il Petrarca ha già un valor suo massimamente musicale; e noi comprendiamo che molti di que' suoi gioielli abbia composti accompagnandosi col liuto, tentando e ritentando le modulazioni finchè non avesse trovata la più armoniosa.

Come il filosofare del Petrarca s' è liberato da Aristotile e dalla scolastica, così la lingua ha già assunta una leggiadria e una modernità fuori d' ogni scorza medioevale, e già ci pare sentirla rimbalzare agile e piena nelle ottave dell'Ariosto, e forte di nerbo stendere a ragionare il periodo nella prosa del segretario fiorentino.

Ma se gli affanni dell'amore ci diedero i versi più mollemente soavi del Petrarca, il sentimento ascetico ha la sua più potente espressione nella Canzone alla Vergine non superata in bellezza da altra mai che dal mistico inno di S. Bernardo ben degno dell'Olimpo. Pure la Madonna petrarchesca è lontana e diversa dalla Donna del Cielo; il poeta con figliale confidenza l'attira quasi e l'avvicina all' umanità ond' ebbe origine:

«Vergine umana e nemica d' orgoglio Del comune principio amor t' induca»

egli si rifugia nel materno seno di Maria con l'atteggiamento del fanciullo malato che in braccio della mamma trova la più dolce e sicura medicina.

Quì la natura così profondamente sentita e con potenza d'arte trasfusa nella Canzone:

«Chiare fresche e dolci acque»

è sparita. Il poeta è stanco di lottare, stanco, si direbbe, d'amare. L'immagine della Madre sua, Eletta, ch' egli aveva cantata poco più che ventenne in dolci e nobili versi latini, gli appare forse in quell'occidente della vita confusa con quella di Laura; e l' una e l'altra si sublimano fino a confondersi con la Vergine bella con la cosa gentile con la Vergine dolce e pia che innamora il cielo di sue bellezze.

Per l' Italia s' era rivolto al Rettor del Cielo al Signor cortese; per sè ricorre a Maria, alla miscricordia, alla

«Vergine in cui ho tutta mia speranza Che possi e vogli al gran bisogno aitarmi»

e tutte le apre le sue piaghe:

«Da poi ch' io nacqui in su la riva d'Arno, Cercando or questa ed or quell' altra parte Non è stata mia vita altro che affanno Mortal bellezza, atti e parole m' hanno Tutta ingombrata l'alma».

Ecco Laura—sempre Laura!—E quasi sgomento di quell' oblio chiesto sempre e sempre negato, quasi sopraffatto da quell' amore che torna sempre e l' anima impaurita assale, ei prega e supplica:

«Vergine umana Miserere d' un cor contrito umile»

e le promette:

«Se del mio stato assai misero e vile Per le tue man resurgo, Vergine i' sacro e purgo Al tuo nome pensieri e ingegno e stile».

Negli ultimi anni passati dal Petrarca fra Milano, Padova e Venezia, accolto per tutto festosamente dai Visconti, dai Carraresi e dalla Repubblica, ei volle glorificare l' estinta Laura con un poema, I Trionfi, stanca imitazione di Dante, in cui appariscono in visione successivamente sei figure simboliche: Amore, Castità, Morte, Fama, Tempo, ed Eternità, e ciascuna trionfatrice della precedente.

Quì l' arte del poeta non si solleva all' usato splendore se non quando il Petarca parla di se stesso e di Laura. Oltre alla bellissima e tante volte imitata descrizione della morte di Laura

«Pallida no, ma più che neve bianca»

che in fatto è pittura leggiadrissima, tutto interessante è il Capitolo 2. del Trionfo della Morte. Ivi l'apparizione dell'anima di Laura e il dialogo di lei col poeta; ivi l'assicurazione ch'egli fu amato, e castità sola tolse che gli fosse palesato apertamente:

«Fur quasi uguali in noi fiamme amorose Almen poi ch' io m'avvidi del tuo fuoco»

ivi il compiacimento di Laura d' essere stata tanto celebrata; ivi la certezza che egli è atteso da lei, ma esser non potrà la loro unione così presta:

«Però vorrei saper, Madonna, s' io Son per tardi seguirvi, o se per tempo»

ed ella risponde che a lungo sarà in terra il vivere del poeta senza di lei; ma verrà pure la morte:

«La morte, fin d'ogni prigione oscura Agli animi gentili»

Spoglia d' ogni terrore medioevale sorride quì la morte nell' idea cristiana mista alla greca idea; come il dolce passaggio di cui tiene parola Socrate nei dialoghi scritti dal divino Platone.

E tale, quasi a compenso delle passate pene, raccolse essa il poeta pietosamente nel suo grembo.

Già da quattro anni egli aveva dato un addio ai faticosi clamori della vita cittadina e s' era ridotto a vivere in pace, nella quiete di un villaggio nascosto fra i nostri colli Euganei, ad Arquà, dividendo la sua giornata fra i diletti studi, la Chiesa e la coltivazione di un suo orticello.

Non già che nol seguisse quì pure il ricordo di altri colli, di altre acque, sorrise un tempo dalla bellezza di Laura:

«Sul laghetto d'Arquà (cannuccie integre gli fan cintura e trepidanti pioppi) sicure dalle reti e dagli schioppi pispole, capinere e cingallegre» «cinguettan da gli albori a l'ore negre: ma la pioggia d'april par che raddoppi la gioia di lor vita, e suonan scoppi vivi di trilli e un frullar d' ale allegre»

(così descrive mirabilmente Guido Mazzoni) e quì pei molli sentieri scendeva il vecchio poeta, e seduto su qualche zolla, in quel silenzio così pieno di voci, ripensava l'ispirato cantico di un altro poeta innamorato della natura, di San Francesco:

«Ma d'altre acque il ricordo e d'altri colli nel distratto pensiero, ahi, gli sorrise! e aperto il libro gli sfuggia sull' erba.»

Ma venne il giorno doloroso in cui per tutta Italia doveva scorrere improvvisa la notizia della sua morte, e un fremito di pietà profonda commovere tutti i cori!

Reclinata la testa su di un volume, quasi in attò di meditazione, egli non vide albeggiare la mattina del 19 Luglio 1374! Quali furono gli ultimi suoi pensieri?… è un segreto rimasto fra quell' anima e Dio.

Forse nell'alto silenzio della notte, in quella cameretta solitaria apparve alla mente estatica del poeta una visione divina: un crepuscolo lieve, trasparente, a poco a poco si tinse d'aurora, e in quella luce eterea tre figure di donne,—Eletta, Laura, Maria—si piegavano dolci….. sempre più dolci verso di lui….. fin che da un sospiro raccolsero, e in trionfo d' amore scortarono a Dio l' anima di Francesco Petrarca.