POESIE
DI
CONCETTINA RAMONDETTA FILETI.

Seconda edizione.

IMOLA.
TIP. D' IGNAZIO GALEATI E FIGLIO.
Via del Corso, 35.
1876.

ALLA SANTA MEMORIA
DI
MIA MADRE
A
MIO PADRE
CHE UNITAMENTE A LEI
ALL' AMORE DEL BELLO E DEGLI STUDI
MI EDUCAVA

A' MIEI FIGLI
CHE LA MAGGIOR PARTE
DE' MIEI CANTI ISPIRARONO

AL MIO SPOSO
IL QUALE CON OGNI STUDIO SI ADOPERA
PERCH' IO COLTIVI L' ARTE DE' CARMI
QUESTI VERSI CONSACRO.

1 Vedi Sismondo de' Sismondi Storia delle Repubbliche italiane, vol. III.

A TOMMASO GROSSI
CHE TANTE LACRIME DI PIETA E D' AMORE
MI HA FATTO SPARGERE
SUI CASI D' ILDEGONDA E DI LIDA
QUESTO PRIMO LAVORO
TREPIDAMENTE OFFRO.
2 L'illustre poeta, a cui è dedicata questa novella, scrivea all' autrice palermitana la seguente lettera.

« Pregiatissima Signora,

Immerso, sprofondato da quattordici anni nelle cure pesanti del più umile, del più positivo dei mestieri, quello di notaio; aggiuntasi alla freddezza dell' arte quella dell' età, Ella immaginerà di leggeri in che grado possa trovarsi la fantasia d' un ex poeta. Del passato non mi rimane che una lontana rimembrana, ed è svanita affatto quell' aura o quel fumo, di che vissi inebbriato nei miei verdi anni, che vagheggiai, e seguitai faticosamente in mezzo a tanti triboli, a tante amarezze, con passione ostinata e sdegnosa, malcontento sempre degli altri e più di me stesso. Se mi volgo indietro, tal' ora rido, talvolta
Di me medesmo meco mi vergogno,
e beato nell' oscura e modesta vita di famiglia, mi vo sempre più persuadendo della sapienza di quel detto, che la gloria è in versi, ma la vera felicità è in prosa.
Oh poveretta me! in che mani sono capitati i miei versi! a che orso mal leccato ho io profuse le mie gentilezze! mi par di sentirla sclamare. No, per carità graziosissima Signora, non mi credo però caduto tanto al basso che non mi sia rimasto ancora il senso del bello, del nobile, del generoso, che non provi un sentimento di simpatia e d' ammirazione per chi corre degnamente e con virile proposito una via sulla quale io mi sono arrestato a mezzo, o piuttosto sono caduto. E ho pur da confessarlo in confidenza? e potrò farlo senza scapito della gravità notarile? Se per dispetto ho abbandonato con magnanima risoluzione già da tanti anni la bella de' miei pensieri, trovandola infedele alle promesse di gloria e di beatitudine che m' avea fatte, non ho però mai potuto strapparmela interamente dal cuore, sicchè a quando a quando la di lei memoria non torni a mettermelo sossopra; e se vedo la sleale sorridere a qualche altro più avventuroso di me, lo sento battere ancora questo cuore, e a dispetto del gelo della consuetudine e dell' età,
Consco i segni dell' antica fiamma
e quasi quasi mi reco ad invidiare dal beato porto in cui mi trovo, le tempeste di che un giorno ebbi combattuta la vita.
Un tale rimescolamento degli antichi affetti mi fece appunto provare la lettura de' suoi bellissimi versi: che gentile e generoso sentire! che squisita ricerca de' più riposti nascondigli del cuore! che nobile, pellegrino e franco procedere della parola armoniosa e naturale! E tutto questo in una giovane donna che mi parla ancora del maestro. Progredisca con coraggio nella carriera intrapresa, che non potrà fallire a glorioso fine. A me non resta che di render grazie della benevolenza mostratami coll' indirizzarmi quel suo lavoro, e delle troppo indulgenti parole con cui si è degnata di accompagnarlo, pregandola a volermi tenere nel numero de' suoi più sinceri ammiratori.
Milano, 1 aprile 1852.
Dev. mo Servitore
TOMMASO GROSSI. »

….. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire….
Leopardi, Canti

E sempre, e sempre dell' Italia il fato Pianger io deggio?… O bella Italia, o bello, Ridente suol d' ogni virtù beato. Ora infelice e di dolore ostello! E l'invido stranier t'ha profanato, E l' ira del fratel contro il fratello; E Guelfi e Ghibellin' con odio pari Tinser d' italo sangue itali acciari. Madre d'eroi, discinta e sciolta il crine, Qual vedova mestissima t'assidi. Misera sei; ma sin le tue ruine È forza pur che lo straniero invidi; Tu nel valor, nell' opere divine, Con nullo regno il primo onor dividi; E a chi t' insulta negli affanni tui, Almen puoi dir con fronte altera: Io fui! D'alte memorie i nobili intelletti Tu pasci, e di perenne poesia, Nei figli tuoi cento sublimi affetti Piove del ciel la magica armonia. E son tua prole i cari giovinetti Onde risuonerà la lira mia; I cari, che all' amor creò l' Eterno, E vittima cadean d' odio fraterno. Siccome rosa nel seren d' aprile Cresceva Imelda dell' età sul fiore; Nel volto suo, nel favellar gentile Si palesava la bontà del core. In quell' età, che all' occhio giovanile Tutto s' informa di celeste amore, Ignoto senso è l' odio quasi, e spesso È forza amar anco nell' odio stesso. Leggiadro è Bonifacio, e il brando cinge Prode tra' Guelfi del natìo paese: Quel desir di bell' opre, che ne spinge Irresistibilmente ad alte imprese, Tutto l' infiamma, e spesso si dipinge Negli occhi suoi, nelle sembianze accese; Ma pur da quell' aspetto alto e virile Un' aura spira languida e gentile. Nel suolo istesso, da contraria gente Nacquero entrambi al pianto ed alle pene: E indarno della lor vita innocente Tentò l' odio attoscar l' aure serene. Quell' ugualtà di cor, d' età, di mente, Che ne' più duri petti amor diviene, Sebben cresciuti all' odio ed al furore, Accese entrambi d' amoroso ardore. Oh! chi può dir gli affanni, i lunghi pianti, I celati sospir', le gioie ascose De la donzella, i desiati istanti, E l' ore di dolor pigre, affannose, I varî affetti, i voti trepidanti Che al ciel porge con luci lacrimose, E 'l desio d' abborrirlo, e amarlo, e ognora Finger odio l' amor che la divora? E 'l giovinetto anch' ei tutta sentia Di un fervido desir l' anima accesa; La rabbia Guelfa e Ghibellina obblia, E ogni oltraggio dimentica, ogni offesa. Al più crudel de' suoi nemici avria, Sorridendo talor, la man distesa, E dato il nome di fratello, e spesso Schiuse le braccia ad un soave amplesso. —Nè tu sola, o gentil, ridesti in petto Dell' amato garzon sì bel pensiero; Ma il santo amor del patrio suol diletto, E la virtù ch' ha del suo cor l' impero; Chè un solo d' amistà tenero affetto Ei vorria ch' animasse il mondo intero; E s' affanna a veder cotanta guerra « Tra quei che un muro ed una fossa serra. »— Anco immolar vorria le più gradite Dolci speranze della verde etade, E sè stesso immolar, pur che la mite Calma ritorni alle natie contrade; E ricomposto ogni odio ed ogni lite, Che spesso insanguinò l' itale spade, La sua mano, il suo core e la sua fama Consacrare a colei che tanto l' ama E d' uguale desìo, d' uguale speme A la donzella si raccende il core: Onde sovente sua virtù che geme Si riconforta di novel vigore. Null' ostacolo scorge, nulla teme, Spegner confida ogni civil furore…. Vani sogni d' amor! che in un momento Sen volan ratti come nebbia al vento. Se nei deliri suoi di speme alcuna Vede il raggio talor la bella mesta, È come lampo che al nocchier la bruna Notte rende più truce e la tempesta. Ogni vivente aspetto la importuna; Dell' arcano avvenir l'idea funesta La strazia, e la miseria del presente Fuga ogni altro pensier dalla sua mente. Un' incertezza, un tedio, un affannarsi È il viver suo fra mille sensi ignoti, Un non voler conforti, un querelarsi Che nissun la consoli, un porger voti, Un desìo di vederlo, un conturbarsi Poichè 'l vede, e bramar ch' ei non la noti, Un celarsi e un temer che sul suo volto Si mostri il foco ch' ha nel cor sepolto. E sempre indarno trovar pace crede Se ritorni la luce, oppur s' asconda: A tristo dì notte peggior succede, Come all' onda di pria più torbid' onda. Brama sempre di aver ciò che non vede, E fuggir sempre ciò che la circonda; La notte invoca l' alma luce, e il giorno Vuol che l' oscurità faccia ritorno. Talor levando ambe le palme al cielo, Porge preghi che il labbro non ridice; Talor si adira, indi con santo zelo Quella man che l' opprime benedice; —Oh! forse, sclama, indarno mi querelo, Forse dubbia di me quell' infelice, Nè d' un sospiro, nè d' un solo accento Lenir m'è dato il suo crudel tormento!— Talor se d' obbliarlo si consiglia, Prepotente le sorge nel pensiero L' immagine di lui, la meraviglia Che destò in tutti il suo valor guerriero. Allor ch' ella col core e colle ciglia Seguiva l' agilissimo destriero, Nella giostra fatal, che il combattuto Premio mertava e il popolar saluto. La rimembranza di quel caro istante Con arcana possanza ha fitta in core, Quand' ei pallido pallido, tremante, Le volse un guardo che diceva—amore— E parve balenar nel suo sembiante Quasi l' obblio del meritato onore, E lei sola mirar… chè nell' amato Volto trasfonder vide ogni creato. Tal passavano i giorni a la donzella Che di dubbî pascea l' animo afflitto, Avvampante di amor, figlia, sorella Qualunque voto le parea delitto. Ma un dì, mentre piangea, venne un' ancella, Ed in secreto porsele uno scritto. Tra la piena d' affetti che l' oppresse Tremò, lo schiuse, e avidamente lesse. Poichè in note di amore il giovinetto Tutti gli affanni suoi le palesava, Diceva ancor com' egli avea sospetto Che in breve nova pugna l' aspettava, Che offerto avrebbe ai suoi nemici il petto. Nè l' ora di morir lo sgomentava, Se palesarle col suo labbro istesso La fiamma che l' ardea gli era concesso. L' odio antico, il furor del suo parente La bella innamorata più non cura: Chè al linguaggio d' amor nella sua mente Si cancella il pensier d' ogni altra cura. L' attende all' alba: a tal pensier si sente Maggior di sè, maggior d' ogni sciagura. Nulla teme…. l' istante sospirato Giunga, e poscia…. precipiti il creato. —Oh! se tutto obbliasti, ti condanni Quale ad amar non schiuse il cor giammai; Empia ti appelli, e rida a' fieri affanni; Da me sospiri e mesti carmi avrai. E il tuo pianto e 'l dolor, dopo i lunghi anni. Traggo dal muto sasso ove tu stai; Chè ognor ne' versi miei, con mesta cura, Onorai la virtude e la sventura.— Ahi quante volte dalla fida stanza Al mormorar dell' aura il piè rimosse, E aprì lieve le imposte, e in lontananza Lanciò lo sguardo, e attorno indi lo mosse! Mirò il ciel fra la tema e la speranza. Per conoscer se 'l dì vicino fosse…. Nella calma notturna il mondo gìace, Sol per lei non v' ha sonno e non v' ha pace. Notte tremenda! cento avversi affetti Nel concitato sen le fanno guerra: Talor brama che il di rieda, si affretti, Se a nova speme il cor le si disserra: Talor piena di tema e di sospetti Vuol ch' ombre eterne coprano la terra; Talor sospesa in mille dubbì ondeggia, Nè sa che desiar, che temer deggia. È l' alba: ed ecco il giovinetto amante, Ella tremando, palpitando vede, Che verso, quelle mura, ansio, anelante, Spregiando ogni periglio or volge il piede Assorto nell' idea del caro istante, Volar gli sembra alla superna sede. Giunge alla soglia della torre, e vola Tosto ad Imelda, nè può far parola. I lunghi anni di angosce e di tormenti Come sogno sparîr dal lor pensiero; E lor sembra in quei rapidi momenti L' esistenza racchiusa, e 'l mondo intero. —Oh chi m' ispira? oh chi mi dà gli accenti Sì che 'l linguaggio mio s' uguagli al vero? Sì ch'io possa ritrar nelle mie rime Ciò che il cor sente e 'l labbro non esprime?— Un arcano poter di mille affetti, Un' alta, inenarrabile, infinita Dolcezza che trabocca da' lor petti, Gli trasporta in un ciel d' amor, di vita, Nè so se coi sospiri, o pur coi detti Si trasfonda nell' anima rapita Quella possanza che ogni dir trascende, E che un core gentil solo comprende. Ma chi s'appressa?… oh qual sospetto, oh quale Fragor presago di lor trista sorte!…. Intenti stanno…. un tremito gli assale…. Ecco ad un tratto spalancar le porte. Oh vista! oh Dio! levando alto il pugnale. Apportatori di terror, di morte, I fratelli d'Imelda ecco avanzarsi, E ratti sul garzon precipitarsi. Gridar, pregar, fuggir, morir desia La sventurata, e tutto tenta invano; Il giovinetto riparar vorria Che del sen le fa schermo e della mano. Già l' attoscato acciar con vile e ria Gioia, e avvampante di furore insano, L' un d' essi immerge a Bonifacio in core…. —Imelda… Imelda!—ei dice, e cade e more. —Chi tel rapisce, Imelda? O qual possanza Dell' amor tuo, del tuo dolor più forte? Tutto perdesti; all' infelice avanza Unica speme, unico ben, la morte. Ma tu dubbî, e t' arresti, ed hai fidanza Di ridestar quelle sembianze smorte? Se la tua vita dar gli puoi, t' affretta; E se morto, a che vivi, o giovinetta?— Abbandonata sul caro giacente, Dalla ferita insanguinata e nera Trae colle labbra il sangue, e 'l cor, la mente Al ciel rivolge invece di preghiera. Già le sembra che palpiti, e le spente Sembianze guata, e si conforta, e spera; Scorge l' inganno, e l' è vieppiù gradita L' opra che tôr le può sì dura vita. Già va mancando; non ha più vigore; Chè 'l velen le trascorse in ogni vena. Curva il capo sul morto, come fiore Svelto, sovra altro fior che svelto è appena. Avvinse l' alme lor più santo ardore, Che spegner non può mai possa terrena; E un' eco avrà nella più tarda etade Questo esempio di amore e di pietade.

1849.

3 Il fatto rammentato ne' presenti versi avvenne realmente nella città di Glarona in Svizzera, durante l'aprile del 1854, secondo narrano i giornali di quel tempo. E tu varcavi il quarto lustro appena Nel mattin della vita e dell' amore; Sul fior de la beltà, casta e serena La mente e il core. In te vivea, del tuo soave affetto, L' uom che compagno ti concesse Iddio; Eri tu dell' amante giovinetto Speme e desio. Amor de' cori vostri un cor formava Con arcana dolcissima potenza, Tal che un' anima sola in voi spirava, Un' esistenza. Di tre bei figlioletti i vezzi e il riso All' amoroso nodo eran suggello; Essi del viver vostro il paradiso Rendean più bello. Troppo, ah troppo felice e avventurato È l' amor che v' inebria il sen, la mente; Nè a mortale cotanto esser beato Il ciel consente! —Già dentro il sen mi palpita Novella prole, o caro; Di nove gioie all' estasi Fidente il cor preparo. Accoglierò coll' impeto Di un primo ardente affetto Quest' altro pargoletto, Ond' io beata andrò. Ripeterò le vigili Cure, che vita, amore, Che speme soavissima Son d' una madre al core, Stolta colei che tedio, Che schiavitù le appella!— Tai detti un dì la bella Al suo fedel parlò. Ma su quel volto ove fioria la rosa Mestissimo pallore or si diffonde; L'infermo fianco sovra il letto posa, Schiude appena le luci tremebonde. La chiama indarno con voce amorosa, Che a' sospiri e a' singulti si confonde, Desolato il consorte, e a lei d' accanto S' innalza invan de' pargoletti il pianto. —Lasciatela dormir; da un compro seno Pender non vegga il novo figlioletto Che il suo cor vagheggiò; voli sereno Al paradiso quello spirto eletto. Del figlio i vezzi, i baci che sarieno Compenso a tal soffrire, a tanto affetto, E ciò ch' ella sognò ne' dì beati, Non vegga a venal donna ora serbati.— Ma a tanto strazio la involava morte, Che spense il raggio di beltà sì cara. È il rio destin che dell' amor più forte, Tronca ogni ben quaggiuso, e i cor' sepàra. —Miseri figli! misero consorte! (Sclama chi mira la infiorata bara) Come passò sì giovane, sì bella!— E sospirando sue virtù rappella. In sen di lacrimata sepoltura Fredda discende esanime Lucia. —Riposa in pace, e, in Dio fatta più pura, Quanto godesti in terra e i figli obblia; Riposa in pace! Omai non può sventura Rompere il sonno tuo ch' eterno e' fia; E solo il suon dell' angelica tromba Ridestarti potrà dentro la tomba.— Due giorni son vòlti. Profondo ululato Sorprende, nell' alma ferisce il Curato. Che presso dimora del tempio divin. Ogni angolo ei fruga sospeso ed intento, Là d' onde gli sembra partirsi il lamento Che appena destato sentì sul mattin. Ma indarno l' intera giornata dispensa Seguendo quel grido, che pargli di offensa Morente persona che speme non ha. No, certo s' inganna. Di sè pur non fida, Ed altri compagni tacendo egli guida; Ognuno l' ascolta, ma intender nol sa. Succede la notte: non tregua, non pace Ritrova il Curato nel letto ove giace, Chè il grido funesto trafiggelo ognor. Ma forse pel cupo silenzio dell' ora Ei sente più forte quel gemito ancora; E un dubbio crudele gli sorge nel cor. Si scote, balzando dal letto repente; Aita dell' opra richiede alla gente; Ciascuno si appresta, ma ignora per chi. —Correte, correte! l' indugio è delitto: Quest' atto pietoso nel cielo fia scritto: O Dio! non invano s' affannin così.— E giunti nel tempio scoverchian la fossa Là dove di mille sepolte son l' ossa. Cessato è 'l lamento, non s' ode un sospir. Discendon sotterra con santo coraggio; Di tremula face mestissimo il raggio Sui pallidi teschi si vede languir. Ahi vista! su corpi di estinti riversa Si giace una donna di sangue cospersa: L' affisano tutti tremanti di orror. Le candide membra son calde di vita, È pesta la faccia, son rôse le dita!… Chi è mai? chi sostenne sì novo dolor? Era Lucia. Non morte e non Iddio La tolse alla miserrima famiglia. In un letargo prolungato e rio, Onde morta sembrò, chiuse le ciglia; Ma alfin destossi. Ed or chè non poss'io Quel dolor, cui dolor nullo assomiglia, Ne' miei carmi adombrar? quello sgomento Che a tale imago in fondo all' alma io sento? Due dì son vòlti: ella si desta, e crede Nel suo letto destarsi e non sepolta. Oscurità più che di notte vede, Non ode alcuno, e desiosa ascolta. È fredda, intorpidita, eppur si avvede Fra raddoppiati panni essere avvolta, E 'l consorte chiamando, dalla faccia Rimoverli s'ingegna e dalle braccia. —Ch'io rivegga la luce e l' aria spiri! (Non cessa di pregar la sventurata) Discovritemi gli occhi; oh ch' io vi miri, Ch' io possa udir la vostra voce amata!— Ma nissuno risponde a' suoi sospiri, Onde rimane come trasognata; A stento tragge il respiro dal petto, Chè le si arresta nella gola stretto. Chi mai ritrar può le sue smanie, come D' esser sepolta si accorgeva, i pianti Ch'ella innalzò strappandosi le chiome, Gli urli vani, le strida laceranti; Come i più cari suoi chiamò per nome, Ed invocò gli uomini, il cielo e i santi, I piè, le mani dibattendo, il seno, Per liberarsi, o morir tosto almeno? Ma schiodarsi la cassa alfin già sente, E di speranza un lampo la conforta. Si leva: ed ecco al suol cade repente Pel puzzo e pel terror sì come morta. Urlando poscia disperatamente. Tra l' affanno e il furor che la trasporta, Morde le dita, lacera le braccia, E viso e collo e sen percote e straccia. Putridi corpi, ossa spolpate preme, E atterrita ritira il piè, la mano; Raccoglie a stento le sue forze estreme, Erge le braccia, e non trova che vano. Ahi! che perduta di campar la speme, L' alma lasciò piangendo il velo umano. Giace Lucia fra' morti al suol riversa, 'Ve la trovar del sangue suo cospersa. Nè sei la sola che sotterra il fiato Ultimo esali delirando: oh quanti Vittima son di sì tremendo fato, E non compianti! Sia benedetto il suolo, ov' è più cura Della stirpe mortal sì grama e frale; Ove, innanzi che scenda in sepoltura, Splendide sale Dánno all' estinto per più dì ricetto; Sì che talora e padre, e sposo, e figlia Da letargo mortal riede all'affetto Della famiglia. Ed empi noi più della gente avita Che vivo sotterrava il reo talora: Noi l' innocente seppelliam, di vita Fiorente ancora. Ma quel giusto imprecar, ma quell' orrenda Agonia sì crudel pesar vegg'io Su chi ne ha colpa, e provocar tremenda L'ira di Dio!

1855.

4 L' avvenimento narrato in questo canto accadeva in una casa sulla Piazza delle Erbe in Livorno, all' entrare delle truppe austriache in quella città, nelle luttuose vicende del 1849.

Magnanima menzogna! or quando è il vero
Si bello che si possa a te preporre?
Tasso.

Odo un cupo sospiro, un gemer lento, Qual di persona che racchiuda in petto Del fisico soffrir più rio tormento; E abbandonato un uom veggo sul letto. Di dolore atteggiati e di spavento Fisan quel caro moribondo aspetto Due fanciullini.—Ah se perdean la madre, Lor salvi Iddio l' ultima speme, il padre!— Ferito ei giace: oh generoso! il caro Italo suol da' barbari difese; E col fido moschetto e coll' acciaro Vendetta fe' delle straniere offese. L' aspra tenzone con diletto amaro Ei membra, e l'ira onde il suo cor si accese: —Ancor si pugna, ed io d' Italia figlio Muto, inerte starò nel suo periglio? E si move a partire, e a gran fatica Già solleva dal letto il corpo stanco: Ma il vieta a lui con resistenza amica Un vecchio pio che gli è seduto al fianco. —Facil preda, gli dice, alla nemica Gente, o figliuolo, non offrirti almanco; Non libertade avrà la patria, danno Del morir tuo sol questi cari avranno.— Ei però si dibatte e lo scongiura: —Per Dio! mi lascia, arrenditi al mio pianto: Non far che omai la tua pietosa cura Maledir deggia questo core affranto. Tu dall' onta campar, dalla sventura Questi miseri puoi che ami cotanto.— E lacerar le ferite minaccia. Se non lo scioglie dalle amiche braccia. D' una lacrima allor bagnando il ciglio, Fisagli in volto un carezzante sguardo; Ma tuttavia con amoroso piglio Lo ricompon sul letto il buon vegliardo. Cede, ma con dispetto, a quel consiglio Lo sventurato, e sè noma codardo; Mentre gli stan piangenti al collo stretti, Colmandolo di baci, i fanciulletti. Entrambi poscia rincorati appieno Si slancian dell' amico sui ginocchi. Egli commosso se li stringe al seno, E lor bacia la fronte, i labbri e gli occhi. Traspar dal viso nobile e sereno Come niun' altra cura il cor gli tocchi, Che proteggere sol, giovar que' mesti, Finchè un' aura di vita anco gli resti. Vincol di sangue, amor di vil mercede Non lo traeva al doloroso tetto; Com' ei deserti questi cari vede Orbati in terra del materno affetto, Poi che volato alla superna sede Fu della madre lor lo spirto eletto. Giura aiutarli: chè possente è in lui La santa brama di ben fare altrui. Più che fratello e padre, alla dolente Famiglia in seno egli dispensa l' ore; E negli uffici di pietade sente Di nova vita palpitare il core. Sulle piaghe dell' egro e nella mente Farmaci versa e parole d' amore; Assiduo veglia i miseri fanciulli, Qual madre, e dona lor fiori e trastulli. È fugace ogni gioia, è menzognera, Che per poco c' infiamma, e al cor non giova; Ma pur, se consoliam colui che intera Degli affanni sostien la dura prova, Nell' esultanza d' una gioia vera Gode l' alma, s' innalza e si rinnova; E nel grato sospir dell' infelice, La parola di Dio ne benedice. Ma già da lungi rapido venìa Un cupo rombo, un indistinto suono: L' abborrito linguaggio alfin s' udia, E un azzuffarsi, un correre, un frastuono. Commosso, muto il veglio era qual pria Tra' fanciullini, e vèr l' amico prono, Che breve tratto sul suo volto affisse Le luci spalancate, e nulla disse. Poi furïosamente lo respinge, A terra balza, avventasi al moschetto; Chè l'egro corpo vita e foco attinge Dal patrio amor che sì gli scalda il petto. Schiude le imposte.—Oh cielo! incalza e stringe, I nostri, l'oppressore, il maledetto.— Dirige il colpo; un fremito lo invade; Vola il piombo omicida; ei sviene e cade. L'afferra tosto senza far parola Quel fido, che il periglio appien comprende: Sovra il letto lo adagia; indi consola I bambini, e seguirlo a lor contende. Perchè all' ira tedesca or non s'invola? Chi col fucile in man sull' uscio attende? Perchè negli atti e nell' accesa faccia Di Furore divampa e di minaccia? Ma qual urto? quai grida? e qual di porte Spalancarsi? qual fero ed improvviso Irromper della barbara coorte Che uno sgherro perdea dall' egro ucciso? —Son io che all' oppressor lanciai la morte— Grida il vegliardo con sicuro viso. Addosso gli si avventan que' feroci Fra l' osceno esultar di mille voci. L' eroe volge a que' mesti un amoroso Sguardo, e per essi in Dio confida e spera; Sfavilla nell' aspetto generoso Del sacrificio suo la gioia altera. Già lo spinge con urto impetuoso Fuori al supplizio l' orda iniqua e fera: Ei dopo breve istante in ciel pregava Pe' tre tapini che quaggiù lasciava. E tu cadesti; il corpo amato e santo Di zolle non covrir parenti o amici; Per te bestemmie, non funébre canto, E colpi ed onte fùr gli estremi uffici. Invano un giorno tra' singulti e il pianto Il genitor co' pargoli infelici, Che tu al ferro involasti e alla sventura, Cercheran l' ossa tue, la sepoltura. Ma in ogni petto hai tomba ed ara: il mondo Conosca alfin che in questo suol prostrato È il seme degli eroi sempre fecondo; Nè sperderlo potrà l' ira del fato. A te, o prode, il sospiro, a te il profondo Dolor d' Italia intera; allo stemmato Volgo il corteo, le aurate cifre, i marmi, E il suono adulator dei compri carmi.

Agosto 1857.

Trasfuso è nell'amabile
Colpa un velen di morte:
Quando l'esempio è forte.
Siam tratti ad imitar.
Prati. Sui romanzi Francesi.

—È dischiusa la porta: Agnese!.. Agnese!.. Perchè non mi rispondi? o dove sei? Forse vaghezza giovanil ti prese Di celarti per poco agli occhi miei? Deh! vieni; troppo il cor paterno attese; Nè aspettar senza pena or ti potrei. Ben sei crudel, se pur m' ascolti e taci, Nè corri alle mie braccia, ai caldi baci.— Sì parla, e pien d' impazïente affetto Si avanza Antonio e 'l guardo intorno gira: Fruga, spera trovarla, e quasi al petto Già se la stringe, e saltellar la mira. Pur importuna un' ombra di sospetto Fra l' ansia, fra la speme lo martira; E ancor la chiama, e all' alma dolorosa L'ingrato dubbio confessar non osa. Nei recessi del cor l' affanno asconde: Fassi in sull' uscio; alla vicina gente Della figlia richiede; e ognun risponde Che uscir l'ha vista allor ch' egli era assente. Palpita, trema Antonio e si confonde; Gli si comincia ad abbuiar la mente. Invan la cerca, invan manda messaggi Nei prossimi paesi e nei villaggi. No, qui ritrar, nè immaginar poss'io Del cor deserto le angosciose pene; Chè torce il guardo l' animo restio, Nè tanto strazio misurar sostiene. Sol chi percosso dallo stral di Dio Perdeva in terra ogni più caro bene, Comprenderà quell' ira e quel tormento. Cui rivelar non puote umano accento. Fratelli, amici a lui non diè la sorte In cui versar del suo dolor l' eccesso; E un lustro volge che immatura morte Tolse colei che il ciel gli avea concesso, Vittoria, buona e tenera consorte; Che nel delirio dell' estremo amplesso —Agnese, gli dicea, la nostra figlia Sarà la speme tua, la tua famiglia.— Ed or lei sola ad alte grida appella; Il seduttor, l' ingrata e il cielo accusa; Del suo crudo martir seco favella, E de' vicini ogni pietà ricusa. Rammenta come nell' età più bella La vita loro in un sol ben trasfusa Scorrea, pascendo il cupido desire Nel sogno ingannator dell' avvenire. A tal pensier si strappa il crine, e quanto Havvi di Agnese lacera ed atterra. Quasi pentito poscia in un gran pianto Scoppia, conquiso dall' interna guerra. Di vendetta e pietà mormora intanto Tronche parole, e si confonde ed erra: Dubbia talun, che accorse impietosito, Se il lume della mente abbia smarrito. Deh fosse ver! sull' egro spirto almeno Tanta sciagura non avria possanza; E misero conforto a lui sarieno Folle gioia talor, folle speranza; Nè tornerebbe a lacerargli il seno D' ogni passato ben la rimembranza; Chè pur la scorgerebbe il suo pensiero Circonfusa di nebbia e di mistero. Volgon più giorni: affranto e sconsolato Non ascolta consigli, o detti amici. Per fin l' obblio del sonno è a lui negato, Refrigerio sovente agl' infelici; Chè più la sera non si vede allato, Ad implorar su lui sogni felici, Colei che poscia al primo albor sorgea, E un bacio sulla destra gl'imprimea. —Tu, cui sì spesso a conversar col padre Scorrevan l' ore, o seco in bel volume La mente ad infiorar d'idee leggiadre, Vieni, ei t' invoca dalle stanche piume. Al ciel ti chiede, alla tua spenta madre, E delira, e si affanna oltre il costume; Vieni, e pur del tuo sguardo e dell'aspetto, E calma e vita gli ridesta in petto. Arde di febbre, è periglioso il male, E farmaco o ristor gli offrono invano; A lui, privo di te, viver non cale; Vien, lo soccorri della propria mano. Tutte le membra un tremito gli assale Talor, s' ode un legger passo lontano, Che il tuo gli sembra…. Ah sì crudele inganno Vince la possa di qualunque affanno!— Sui volti la pupilla erge bramosa, E de la figlia ognor chiede novella; Ma sempre, ahi sempre invan! chè a tutti ascosa È la sorte finor de la donzella. Se mai la custodìa qual santa cosa, Gli uomini e il cielo testimoni appella: E l'ha perduta! o Dio, concedi almeno Ch' anco una volta e' se la stringa al seno! Lungi d' Italia, ne' tripudi intanto L' obblia la figlia, ebbra d' un folle amore: Nè volger posso a maledirla il canto Pe' martir' del deserto genitore, Poichè al pensiero mi s' affaccia, ahi quanto Di lui più sconsolata, e nel dolore Del suo rimorso con tremante voce Prega, e m' addita un sasso ed una croce. Ma dell' afflitto alla cadente vita Iddio lena porgea; chè la divina Parola di perdon dal labbro uscita Finor non gli era verso la tapina. Pure i strumenti aborre, e la gradita Lettura d' ogni storia peregrina: Sol ne' giornali stanca ognor le ciglia Sperando nuove della ingrata figlia. Fabbro egli era; ma il cor non gli accendea Invida, bassa voglia, o sete d' oro; E più su' libri meditar solea, Che all' opera vegliar del suo lavoro. —Ove di nebbia assonnatrice e rea Si vela del saper l' ampio tesoro Alla mente del volgo? in quale piaggia Che il sol di civiltà non anco irraggia? Italia mia, de' figli tuoi nel petto Caldo è l' amor d' ogni gentil cultura; Il cor la plebe educa e l' intelletto A lenimento d' ogni grave cura; Ma dove impera con più lieto aspetto, E più profonde i suoi tesor natura, Perchè, se ferve ivi l'ingegno, stanza V' ha l' ozio obbrobrioso e l'ignoranza? Ah! se troppo la mente ha vaneggiato, Pietà la torni al doloroso tema: Il nostro affanno pianger non c' è dato, Deh, almen su' mali altrui si pianga e gema!— Legge Antonio: dell' occhio spalancato Scorre le cifre, e si scolora, e trema… Gitta il foglio gridando; e poi s' invola Rapidamente senza far parola. « O giovinette, che pascete il core Ne' fregiati volumi, e a le dolenti Bugiarde storie d' infelice amore Son tratte a delirar le vostre menti, D' Agnese vi rimembri, italo fiore: In Marsiglia per lei pianser le genti. Da' vani libri atro veleno attinse Che al fallo, e poscia a disperar la spinse. » Tutto il paterno cor, tutto comprese Poichè ciò lesse; e ad aitarla accorse: Fra la gioia e la speme ond' ei s'accese, Amor lo vinse, e perdonolla forse. E certo allor della pentita ascese Alfin la voce a Dio che la soccorse; E in un convento di Livorno, tolta Alla miseria, ella veniva accolta. Erra la mente sua, vacilla il piede Al varcar della soglia benedetta; Lo stuol devoto delle suore vede, Che a consolarla con amor s' affretta. Stupida guata, e di sognar si crede, Poichè affanni e martir' soltanto aspetta; E ovunque volga la smarrita faccia Una rampogna attende, una minaccia. Quell' asilo pietoso, quell' istessa Aura pura di pace e d' innocenza, Quell' ingenua bontà su' volti espressa Profanar teme della sua presenza. E più che mai si svela all' alma oppressa Tutta del fallo suo la conoscenza: Purchè ad ognun celarsi, allor torria Meglio morir sulla deserta via. Con mille cari modi e mille inchieste L'accompagna la schiera tutta quanta Delle suore, che mai non fur sì preste, Nè chiamate a compire ovra più santa. Squallida il viso, logora la veste, Più dal dolor che dal viaggio affranta, Alfin sul letto s'abbandona; e sembra Morte regnar nelle consunte membra. —Dormi, cara infelice; a'mali tuoi Ti sottragga dolcissimo riposo; Sorelle, amiche ti sarem, se vuoi; E ciò che t'ange investigar non oso.— Così parlava l' abbadessa; e poi Vôlta alle suore:—Al vostro cor pietoso Questa misera affido; ah! non invano Soccorso implori dalla vostra mano.— Antonio, dove sei? frena l'interno Rio tumulto che l'alma ti scompiglia; Vieni, rivolgi omai l' occhio paterno Alla tua moribonda unica figlia; Vedi siccome la punia l'Eterno, E, se puoi, d' abborrirla ti consiglia: Scorderesti in mirarla il suo trascorso, E del tuo sdegno avresti sin rimorso. Egli è in Livorno: il suo pensier soltanto, Poichè la nuova dolorosa lesse, Posa in Marsiglia, ove affannato tanto D' Agnese in traccia il suo cammin diresse. Breve è la sosta; e pur gli tarda, o quanto! L' infelice non sa, che in quelle istesse Che abbandonare anela itale sponde, La figlia sua presso a morir s' asconde. E mille volte il ratto andar precede Fantasticando, come amor lo spinge. Trovar la cara sciagurata crede, Ch' ora abbraccia piangendo, ora respinge. Spenta sul nudo suol talor la vede: Già contro il seduttore un ferro stringe; E nulla stima a lui toglier la vita, Ch' ogni felicità gli avea rapita. Dorme Agnese frattanto: un improvviso Sussulto la riscote; un'interrotta Voce balbetta, e sovra il mobil viso Appar lo strazio dell' interna lotta. In lei tengon le suore il guardo fiso. Deh! l' angosciosa visïon sia rotta; Ridestatela omai: così possente Martir non cape nella vostra mente. Poichè nella sconvolta fantasia Sogna l' empio, la fuga e l' abbandono; Sogna i travagli della lunga via, E il pentimento, e il disperar perdono; Vede il paterno ostello, onde fuggia, Muto, deserto. In lamentevol suono —Agnese, Agnese!—ode chiamare, e scorge Il padre, oh Dio! che a maledirla sorge. Qui con un grido spalancava gli occhi, E atterrita le braccia al sen chiudea; Chè forse al padre stringere i ginocchi, Implorando perdono allor credea. Uopo è che alcuna la richiami, e tocchi La fronte onde sudor freddo scorrea; Ma alfin destata, qual di, senno priva, Gridando il capo delle man' copriva. Chi la scote, la bacia e l' assicura Ch'ella riposa in sen d' amiche braccia; Chi a rispondere un detto la scongiura, E da quell' alma ogni timor discaccia. Ebbra di gioia, quanto a creatura Mortal consente il fato, erge la faccia, E lacrimando chiede:—Ah non è vero? Ah! fu dunque un delirio del pensiero? Non profferse mio padre il fero accento Che imprecava su me l'ira di Dio? Qui, nel fondo dell' alma ancor lo sento; Deh mel ridite che fu sogno il mio! Se di quanto soffrii maggior tormento Crear si può, tutto affrontar vogl' io; Ma, o ciel, fa che rivegga anzi ch'io mora Il padre, e mi perdoni, e m'ami ancora.— Poi lentamente ella chinò le ciglia; Chè delle amiche il volto non sofferse Commosso di pietosa meraviglia Come de' mali suoi l' arcano aperse: Impudica fanciulla, ingrata figlia, D' ambo le man' la faccia ricoperse; E dall' angoscia vinta e a morir presso, Cominciò, quando il pianto ebbel concesso: —Ecco, sorelle, a l'infelice Agnese, Ecco giungere alfin l' ultima sera. A purgar l' alma che fallì, palese Farò la colpa onde il mio cor dispera. Pur del vostro abbandon timor mi prese, E vi celai de' casi miei la vera Cagion funesta; ma nell' ora estrema Altro pensier m' affanna ed altra tema. In Pontedera, vaga verginella, Vissi tre lustri a canto al genitore; E, senza madre, nell' età novella In lui solo ponea tutto l'amore. Quando, con dolci sguardi e con favella Ignota a me, che sol comprese il core, Pace, innocenza, oh Dio! viver beato, Tutto mi fu da un dèmone involato. Ernesto si nomò: com' ei s' accorse Quant' io l' amaya, spesso fe' ritorno A conversar col padre; e un dì mi porse Furtivo un libro5 I Misteri di Parigi—E questo e gli altri particolari del fatto qui notati sono pura storia. di bei fregi adorno. Rapidamente il cupid' occhio scorse Più notti sino allo spuntar del giorno Que' fogli, che stillàr dentro al mio seno Mortale, soävissimo veleno. Un anno volse; e ognor vieppiù possente L' amoroso crescea crudel martiro. Ogni affetto dell' anima innocente, Primi dubbî, timor, tosto svaniro; E a poco a poco l' agitata mente Un sogno affascinò quasi, un deliro Che l' orror della colpa a me rapia. Anzi la colpa di splendor vestia. L' ostel paterno alfin, le patrie mura, Inorridite, il padre abbandonai! Tutto pel seduttor, lieta e secura Quasi volassi a trionfar, lasciai; Nè dell' error m' avvidi, e alla sventura A che dannava il padre io non pensai. Cieca d' amor vivea; ma Dio mi colse Tra poco, e l'empie gioie in pianto volse. L' indegno mi tradì: squarciossi il velo Onde mi cinse il forsennato affetto; La voce non osai levare al cielo, E de' viventi paventai l' aspetto. Del padre mio l' immago (ancor ne gelo!) M' apparve allora, e la scacciai dal petto: Mi vidi sola al mondo; e già da un alto Verone al suolo ecco lanciava un salto. Ma un angelo pietoso allor m' afferra; E spaventata al ver l' alma s'aprio. Pentita mendicai di terra in terra, Finchè placato a voi mi trasse Iddio. Non m'abborrite! scendere sotterra Tra' rimorsi e il dolor presto degg' io; Deh! vôlte al ciel con carità verace Pregate che il mio spirto accolga in pace.— Al nuovo dì gelidamente immota Più non soffria: timori, angosce, e quanto Ne' suoi begli anni le sfiorò la gota, Colla vita fuggîr dal seno affranto. La turba che vegliolla, ora devota Discioglie intorno a lei funebre canto. Quell' indistinto suon ode da lunge Tremando un uom che a quelle soglie or giunge. È Antonio, che in Livorno una funesta Improvvisa cagion, lasso, rattenne; Fu l' abbadessa ad avvisarlo presta, Com'ei quivi sostasse a saper venne. Che accolse Agnese un dì gli manifesta; E i rimorsi e il dolor ch' ella sostenne. Gli dà un foglio; ch'è morta alfin gli dice…. Così piangendo legge l' infelice: « Al fabbro Antonio l' ultimo sospiro Vòlgo morendo e l' anima commossa. La storia ch' egli udrà del mio martiro Avvalorar questa preghiera possa: Una Croce di ferro, altro desiro Non ho, deh! ponga accanto alla mia fossa, E su tanto anelato estremo dono Scriva: AD AGNESE, FIGLIA MIA, PERDONO. »

1858.

Renzo, fanciullo di due lustri appena, Ha soavi sembianze, ingenuo core; Ma il suo sguardo, la fronte ampia e serena Adombra il vel d' un intimo dolore. Timido, incerto nella via terrena, Poichè i parenti gl' involò il Signore, Ei tragge i dì fra il pianto e la fatica, Senza il conforto di persona amica. Sotto i logori panni al poverino Pende dal collo un segno benedetto, Ch' ei, prostrato alla sera e in sul mattino, Piangendo bacia con immenso affetto. Fiso in Maria, nel Pargolo Divino, Pensa alla madre sua; pensa che al petto Lo strinse con amor, lo benedisse, E in Dio raccolta, nel morir, gli disse: —Ed io pur ti abbandono, o figlio mio, Rimarrai sì fanciullo orfano e solo; Egli è il tuo babbo-che msi chiama, ed io Per poi seco aspettarti, al ciel men volo. Questa medaglia del materno addio Ti sia memoria; col Divin Figliuolo Maria v' è sculta, che di me più vera Madre ti resta: in Lei ti affida, e spera. Spera in quel Dio, che sì piccino e umìle Per nostro amor si rese, e patì tanto; Ei fra tutti ama più chi più simìle Gli è nella dura povertà, nel pianto. Spera nel tuo lavoro; ad opra vile Non scender mai, se dalla fame affranto; Serba l' onor del padre tuo, che in guerra Morì da prode per la patria terra.— Nè tai detti per tempo, o per vicende Cancellò dalla mente l' infelice: Ei curvo al suol fra' contadini intende Sempre al lavoro che a lui più s' addice, Chè un' incognita gioia al cor gli scende Nell' obbedir l' estinta genitrice, E pensa ch' ella gli rivolga un riso, E gli applauda talor dal paradiso. Volse un anno: già il verno incrudelia, E della fame il volto e la minaccia, Renzo, che sdegna l'accattar, fuggia Di asil, di pane e di lavoro in traccia. Moriva il giorno, e solo in sulla via Che alla città lo mena, ergea la faccia Spesso a mirare i negri nuvoloni, Mentre il cupo sentia rombo dei tuoni. In sen d' una boscaglia affretta il piede, E la Vergine santa e Iddio scongiura; Spinge innanzi lo sguardo, e nulla vede, Misero Renzo! è l' aria scura scura. Fra dumi e sterpi suo cammin procede, Finchè la fame, il freddo e la paura L' opprimon sì, che al suol cade languente, E piange, e piange sconsolatamente. Poi stretta la medaglia in fra le dita, —Pietà, grida, pietà, Gesù bambino! In tal notte Maria ti diè la vita, Salvami; anch'io son povero e piccino. So che m' ami, o Maria; che darmi aita Sola potrai col Figlio tuo divino; La mamma mel dicea presso a morire, E la mia mamma non sapea mentire. —Non pianger, Bianca, no, cor mio diletto; Ascoltami e vedrai. Se a te favello Commossa, e quasi con materno affetto De' casi d'un incognito orfanello, Egli è che il mio pensier gli dà l' aspetto Or dell' uno, or dell' altro tuo fratello; E non più Renzo allora, il figlio mio Ramingo, abbandonato allor vegg' io.— Ma Renzo nell' orror della bufera Di più fervido zelo il core accende; La madre sua gliel disse: ei crede, ei spera, Guarda il ciel, chè dal ciel soccorso attende. Quando ai lamenti, al suon della preghiera S' appressa il boscaiuol, la man gli stende; Con parole di amor lo rasserena, E alla sua donna, a' suoi fanciulli il mena. Ei stan seduti alla lor mamma accanto, Qual suoli tu co' fratellini, o cara, Festeggiando il Natal fra' giuochi e il canto, Quando in quel fido asil Renzo ripara. E allor che vera festa! e allor che pianto! L'accolgon tutti; con pietosa gara Chi cibo gli offre, o i panni suoi gli dona, E presso al focolar gli fan corona. Ei la storia narrò d' ogni suo male; E il marito e la donna, ai figli vôlto L' occhio afflitto, pensàr che danno uguale Potria colpirli, e si guardaro in volto; E disser: Qui con noi ti resta, quale Novo figlio già sei fra' nostri accolto, Da novi genitori; e i garzoncelli: Resta, sclamâr, noi ti sarem fratelli. È la Vergine, ei grida, è il babbo mio, La mamma mia dal ciel che vi consiglia! E bacia la medaglia, e loda Iddio Che gli ridona un tetto, una famiglia. —Or genuflessa in atto umile e pio Benedici il Signor tu pure, o figlia; E nella vita senza fine amara A fidar sempre in Dio da Renzo impara.—

1863.

Corri, vola: già presso a le porte Son le torri dell' empio oppressore. Fu respinta l' avversa cöorte; Ma più fero il periglio si fe'. Corri, vola: difesa maggiore Or la patria s' aspetta da te. Non s' arrende; ma pur nel servaggio Cadrà tosto del despota atroce, Che pensoso a cotanto coraggio Sulle torri all' assalto vien già, La rapina e lo strazio feroce Pregustando dell' arsa città. Sulle mura i fratelli diletti Stan pugnando: le voci non odi? Col furor, colle braccia, co' petti Sembran quasi la morte sfidar; Ma già cede la schiera dei prodi, Cui distrugge la fame, l' acciar. Supplicanti, atterrite nel tempio Stan le donne co' pargoli in seno; Altre, innante che veggan lo scempio De' lor cari, desiano morir; Dolorando sul nudo terreno Versan altre l' estremo sospir. Piangon tutte; una tace, una sola Non risponde a quel pianto, Stamura. Alle meste compagne s' invola Tutta assorta in un santo voler. Sola, inerme, s' avanza sicura; Fra' morenti si schiude il sentier. Ispirata nel volto procede, E qual nume alla gente si mostra: Non ascolta, non teme, non vede, Non l' arresta la tremula età, Che il suo cor colle membra non prostra, E più degna e sublime la fa. Dardi e sassi piovean sulle mura; Stanche già per l' estrema battaglia Sono i prodi; ma giunge Stamura, E alza un grido che infiamma ogni cor: —Rammentate Tortona!—e si scaglia Fra le torri con santo furor. Che mai tenta? Ma un grido s' innalza; Ma una luce percote ogni ciglio: Fra il terror che gli sprona, gl' incalza, I nemici si dànno a fuggir. Chi poteva, in sì duro periglio, Chi poteva tant' opra compir? Della patria chi sorge colonna E alla possa nemica prevale? Colla face nel pugno una donna, Ecco, appiè delle macchine appar, Paga sol che dall' ora mortale Le fu dato la patria salvar. Donne, o voi che volgete la chiave D' ogni core, a bell' opre sorgete. Deh! non fia che vi gridino ignave Ed imbelli, sol nate all' amor. D' alti sensi le menti accendete; Ridestate il sopito valor. Nell' obbrobrio, vilissima ancella, Giacea Roma in obblio di sè stessa: Di due donne la sorte, novella Libertade due volte le diè; Ed Ancona atterrita ed oppressa, O Stamura, l' ottenne da te. L' alta brama vi sorga nel petto D' esser madri di figli gagliardi; S' abbia il vostro magnanimo affetto Sol colui che la patria onorò. Maledetta chi sensi codardi Nella mente dell'uomo ispirò!

Gennaio, 1850.

Bella natura! E qui tu sei la sola Che ne sorridi ancor pietosamente; Ogni aura d' altro ben per noi s' invola Rapidamente. Quando rombava il tuon sulla pendice. Ed era il ciel di nubi ottenebrato, Fra me dicea: tale stagion s' addice Al nostro fato. Allor commosso e sospirando almanco Il pellegrin pel duol grave che n' ange: In questo suolo, dir potea, sinanco Natura piange. Ma già ride la terra, e un sovrumano Senso or si spande d' armonia, d' amore; Nè tutti san che ogni conforto è vano, Se geme il core. Chi lo seren del nostro ciel rimira E le opime campagne e il sol che ferve, Non sa che sotto sì bel ciel sospira Gente che serve. Per noi che vale, o Dio! l' etra ridente, E l'arcana bellezza del creato, Se a piangere e a servir miseramente N' hai condannato?

Febbraio, 1850.

6 Questa ode fu scritta, come appare dalla data, poco dopo la ristaurazione borbonica del 1849, e quindi sotto l' impero delle commozioni politiche prevalenti in quell' epoca.

Ma se le svergognate fosser certe
Di ciò che il ciel veloce loro ammanna,
Già per urlare avrian le boche aperte.
Dante, Purgatorio.

Cessi il canto; l' obbrobrio, lo sdegno Accompagni la sposa reietta: Giurò fede allo sgherro, all' indegno Della patria crudele oppressor. Cessi il canto; di giusta vendetta Faccia voti per essa ogni cor. Giurò fede; ma porta scolpita Del rimorso l' impronta sul viso; Verun labbro a sorrider la invita, Ma tacendo rampogna le dà: Dell' amante alla gioia, al sorriso La smarrita risponder non sa. Giurò fede: vilmente sicura Rinnegò la sua patria, i fratelli; Rinnegò la comune sventura. Ma già l' onta sul cor le pesò, E un contrasto di affetti ribelli Il rimorso nel sen le destò. Trepidante, celarsi desira Alla gente, e gli sguardi tien bassi; Fin dall' aura che incerta respira, Rinnegata, si sente accusar; Le traballa il terren sotto i passi, Qual se anch' esso la voglia scacciar. —No, l'amante a chi Dio m' ha sortita Non mi rende colpevol cotanto; S' egli veste l' assisa aborrita, Puote sensi nutrir di virtù: Ei non gode de' Siculi al pianto; Forse geme alla lor servitù.— Tal si scusa: si volge allo sposo: Ma repente ritorce la faccia, Che sul petto allo sgherro, all' esoso Vede il bianco e l' azzurro spiccar. Allor questa tremenda minaccia Da ogni labbro già parle ascoltar: Di Messina e Catania lo scempio, O spietata, ricorda tal segno; Di tal segno fregiavasi l' empio Della strage ch' ei fece in mercè: No, chi 'l mira e non arde di sdegno, Di Sicilia no figlio non è. Quella mano che stringi al tuo petto Gronda sangue, ma sangue fraterno: E quel labbro che ardente di affetto Or ti volge parole di amor, Ordinava la strage, e lo scherno Aggiungeva all' immane furor. Segui l' empio: dei Siculi oppressi La vendetta ti colga e l' affanno; Nell' ebbrezza dei trepidi amplessi Il rimorso ti gridi così: —I tuoi figli oppressori saranno Di quel suol che ti accolse e nutrì.— L' almo nome di Sicula figlia Sul tuo volto l' infamia cancelli; Oh! non sia nell' umana famiglia Chi al tuo fallo non frema di orror. Empia, va: rinnegasti i fratelli, Rinnegasti la patria, l' onor!

Marzo, 1850.

Qui riposi lo spirto. Oh come è dolce, In tanta calma ove non son tiranni, Fra sì mesta armonia che i sensi molce, Sfogar gli affanni! Se sospiro, se piango, e sopra il viso La tempesta dell' alma io porto sculta, Con vipereo velen beffardo riso Qui non m' insulta; Ma pianger meco in nota armonïosa Sembran gli augelli, s' io talor gli ascolto; E l'aura istessa lieve e sospirosa Mi bacia il volto. Qui fuga ogni pensier molesto e grave L' ebbrezza che m' innonda il cor, la mente; Qui magico nell' alma e più soave L' amor si sente. Piango il destin degl' infelici, e in mesti Sogni di amor trasformo il viver mio; Piango, e un tesoro di pensier' celesti Mi leva a Dio. E quasi sciolta dal corporeo velo, Trova rapito il libero pensiero, Pe' campi immensurabili del cielo, Sublime impero. Negl' inganni soavi ond' io son vaga, Che il volgo sprezzator noma follia, Pasco la mente, e dell' error m' appaga L' alta magía. Se rio poter, se tormentosa cura Mi desta al vero, e di sognar m' avveggio, O per la propria, o per l' altrui sciagura Piangere io deggio. E piangerò, finchè l' aspro martiro Domerà nel mio seno ogni desio; Finchè al mondo darò con un sospiro L' estremo addio.

Aprile, 1850.

7 Il seraschiere Kurscid fece nuove proposizioni di accordo a' Suliotti, i quali le rifiutarono e giurarono di pugnare sino agli estremi; e quando vedessero ogni speranza di salute svanita, uccider le donne e i fanciulli e poscia gittarsi in mezzo a' nemici ad incontrarvi morte vendicata e gloriosa. Ma le donne, le quali avean dato mille prove di coraggio e valore, rammaricaronsi forte di essere trattate come creature inutili, e proruppero in questi accenti.—Vedi Pouqueville, Storia del risorgimento della Grecia, l. 1, cap. IV. E noi verrem! Qual barbaro, inumano Consiglio omai v' incita A insanguinar la mano Nel sangue stesso che vi diè la vita? Nel sangue delle care, Onde con tanto affetto Foste cresciuti sul materno petto? In un medesmo suolo, in un ostello, Sin da' primissimi anni, Della vita il più bello Con noi partiste e i più secreti affanni. O quale, o qual di noi, Madri, sorelle, o spose Non vi seguì nelle caverne ascose? Alla possa nemica, alla minaccia A quale, a qual di noi Impallidì la faccia? Quale a pugnar non incitò gli eroi Col labbro e con l' esempio, Lieta impugnando l' armi Fra l' echeggiar de' marzïali carmi? Deh! rimembrate i dì trascorsi, quando Estenuati e lassi Deponevate il brando Fra queste mani; e sovra gli aspri sassi, O su raccolta paglia, Che ne la notte insonne Prepararono a voi le vostre donne. Disteso il fianco, narravate come Cadde il nemico affranto. Dal viso, dalle chiome Il sudor vi tergea ciascuna intanto: Chi l' acciar vi forbiva; Chi dell' ansante petto Al vostro capo amato facea letto. Come in udir le geste e l' opre ardite. Oh! come s' infiammava Ciascuna, e le ferite Di non femmineo pianto vi bagnava; E poscia l' archibugio Fornia dell' omicida Piombo, fra il plauso di giulive grida. E a voi siam note, all' empio musulmano Siam note e al mondo intero: Noi con la spada in mano, Accese il volto di furor guerriero, Non donne, eroi sembrammo; Noi, vincitrici e gravi Di spoglie, seguitàr tremanti schiavi. Sì, noi siam desse; nè chiediam la vita Onde coi crini adorni Dell' edera gradita Viver negli ozî di tranquilli giorni; Ma per morirvi al fianco, Ma per salvar la cara Oppressa patria, i nostri figli e l' ara. Noi difender saprem questi innocenti Amati pargoletti, Che teneri, che ardenti Sortiro al par di voi sublimi affetti, Cui dell' armi al baleno La gioia ed il sorriso Vividamente disfavilla in viso. Ove di schiavitù peggior di morte Ne minacci l' affanno, Tra le fiamme, col Forte Fanciulli e vecchi in aria sbalzeranno. Allor fia vana l' ira Del musulman feroce: L' armi! qua l' armi! andiam: viva la croce!

Aprile, 1850.

Vola, trascorri i liberi Campi dell' etra, e godi. Vola, più dolci e facili Sciorrai le tue melodi. A' vivi raggi, al tepido Rezzo, tra' fior', sui rami, Ovunque amor ti chiami, Presto il tuo vol sarà. D' ali fregiato, al carcere Non ti creava Iddio, Sol t' opprimea degli uomini L' orgoglio insano e rio. Che val se a te la folgore Del cacciator sovrasti? Un' ora almen provasti Di gaudio e libertà.

Maggio, 1850.

Quando da te strappato fui, da lunge L' avidissimo sguardo invan drizzai; Ma col cor che va ratto, e ovunque giunge, Ti salutai. Vidi prati e montagne, cui natura D' erbe e di fiori più che mai dipinse; E vie più nella sua cupa sciagura Il cor si strinse. Vidi il sol presso all' onde: sul mio viso Vibrò l' estremo raggio e dispario. —Così sparì da me letizia e riso— Fra me diss' io. Già l' aër s' imbruniva, e al sol ridente La luna succedea mesta e tranquilla; La partita del dì flebilemente Piangea la squilla. Quel suon destommi un fremito mortale, Una oppressura che ogni pena avanza; E intesi al cor, qual vipera infernale, La rimembranza. Rammentando le gioie al volgo ignote Che un di provava, e la presente guerra, Appien conobbi quanto esser si puote Misero in terra. Pensai le angosce, i feri dubbî, i pianti Che raddolciva un guardo, un sol sospiro, L' ansia, la tema pe' bramati incanti, Che, o Dio! fuggiro, Pensai del nostro addio l'istante ingrato; La terra che ne parte misurai Coll' occhio lacrimoso; e sconsolato Tacqui, e impetrai. Indi mi volsi intorno a' monti, a' lidi: Tremava il passo mio, tremava il core. Per me disparve il mondo, e solo vidi Il mio dolore.

Maggio, 1850.

(Sopra un dipinto di Andrea d' Antoni.)

—Qual fallo, a' tuoi più teneri Parenti, a' fidi amici, Qual ti rapiva all' estasi De' giorni più felici? Chi per maggior supplizio A viver ti dannava, E in mezzo a vile, a prava Gente ti fa languir?— Così commossa interrogo La pinta imago: in essa S' informa, parla un' anima Da cupo affanno oppressa. I suoi pensier', le smanie Appien rivela in volto; E la sua voce ascolto Da quelle labbra uscir: —Fisami ben, comprendere L' accusa, il mio delitto Potrai, chè sino il palpito Più ascoso in fronte ho scritto. Non tolsi il pane al misero, Non il seren turbai Degli altrui dì, serbai Pura la destra e il cor. Che val? dalle domestiche Mura fra ceppi stretto, Più soli or son, mi trassero Qui prigionier; nè un detto Mi condannò de' giudici; Nè tribunal m' intese; Alcun giammai non chiese Di me, del mio dolor. Non so qual fato attendemi: Sto saldo e nol pavento. Su questo libro medito; Di me maggior divento. Pur de' miei cari il gemito M' assal, mi strazia il seno; Nè mai quel pianto almeno Tergere, o Dio! potrò.— Qui d' importune lacrime Sugli occhi un vel mi scende, Che della pinta immagine La vista a me contende. Ma appien comprendo il misero; Già intendo il suo delitto: È de' tiranni il dritto Che a gemer lo dannò.

Gennaio, 1854.

Figlia d'Italia, che trasfondi al canto L' italo foco, un ciel puro e sereno Del primo tuo sorriso E del cor salutavi; Ma qui t' inebria nel sican terreno. Più miti e più soavi Spiran l' aure fra noi; del sol più pura L' eterea luce splende, Qui primavera eterna Di fiori e di verzura Riveste il colle, il prato; E il genio e la virtude Degli avi, ancor l' alme sicane accende. Il prisco onore, i fasti Tu cerchi invan: li tolse a noi sventura. Ma il cor che bolle e freme, Le memorie, la speme, Di natura il sorriso interminato, Rapir non ci potrà l' avverso fato.

Marzo, 1854.

8 Allude alla festa alla Richelieu data da Ferdinado II nell' inverno del 1855, mentre, per l' insolio caro dei viveri, in molti comuni di Sicilia si ripetevano luttuose scene simili a quelle avvenute in Palermo, e che si trovano accennate nei presenti versi. Chi ne' tripudî, chi stolido esulta E fa del riso omaggio a un vil tiranno? Chi con gioia sacrilega c' insulta Fra tanto affanno? In auree sale, d' un' età sparita Lo splendido costume ognun riveste, Un dolce olezzo, un' armonia gradita I sensi investe. Ferve la danza, brillano le faci; Della festa tu sei vanto e decoro, Fernando! Ah ne' piacer' folli e mendaci Profondi l' oro! E chi con la pietà del volto scarno Un pan ti chiede, un pan che lo disfami, E chi prega, riprega, e sempre indarno, Ribelle chiami. Tanto tesoro, o tu benigno e pio, Chè non volgevi a sollevar gli afflitti? Certo pesato avria più mite Iddio I tuoi delitti. Mira: nel giorno e nella notte oscura Stuol di mendici innonda la cittade, Nell' ozio l' artigian, della sciagura Vittima cade. Altri giacente sovra un suol grommato, Per fame agonizzando, l' infelice Famiglia mira, e coll' estremo fiato Ti maledice. Altri pe' campi a' bruti si confonde; Erba coglie a sfamar figli e consorte; Ma tutti in essa, che un veleno asconde, Trovan la morte. Ed è per te: le mura sin, le messi, L' aria che Dio ci dà tu vendi a noi Per impinguar Verri novelli, anch' essi Nemici tuoi. Ma trema! indarno folle gioia ostenti: Gioir non può, fra un popolo che langue, Re che spreme dal cor d' oppresse genti Lacrime e sangue.

Febbraio, 1855.

Sulle piume giaceva egro, morente Colui che Iddio ti diede amante e sposo; Tu lo fisavi con pupille intente, Ogni strazio premendo in seno ascoso. Ei ti chiamò, levando lentamente La persona con dolce atto amoroso; Sul collo un bacio t' imprimea, d' amore Un dì pegno, memoria or di dolore; E tacito restò. Gli si diffuse Più calma sulla fronte scolorita; Al cielo alzò, pregando, le socchiuse Luci e raccolse in Dio l'alma smarrita. Ma con quel bacio, in cui tutto trasfuse L'avanzo della sua fuggente vita, Ei parve dirti: O mia compagna, addio; Presso a lasciarti, il vedi, ahimè! son io. Non pianger, no; se questo mi promette Il tuo core, alla morte alfin sorrido; Pensa che ricongiunte e benedette Nostr' alme fieno in ciel, tanto confido. Le figlie…. oh le mie care figliolette, Obbliarle potessi!… a te le affido. In tale istante oh qual mi pesa amaro Di padre il nome che mi fu sì caro! Donna infelice! e tu non l' intendesti: Tergi le ciglia, ei di lassù ti mira. Sì tenero consorte, è ver, perdesti, Ma dà tregua al dolor che ti martira; E ascolta come con accenti mesti Sempre di lui si parla e si sospira; Come s' invoca dagli amici, come Chi 'l conobbe n' esalta il caro nome. Sincero, generoso, uman, cortese, Mertato grido unanime lo dice; E sì pio che la man spesso distese, Non pregato, a soccorrer l' infelice: Nè giustizia tradì, nè mai si arrese Dell' oro alla possanza allettatrice; E ne' codardi cor' temprava ogni empio Vile desio col labbro e con l' esempio. Ma crudele conforto al core affranto, Cui rapiva ogni ben morte immatura, Son queste lodi e il general compianto Che de' tuoi mali addoppian la misura. E tu, leggendo, versi un rio di pianto… Ahi! sol ti resta nella tua sventura Stringer le figlie al seno, e dir: fu mio L' angel che fe' ritorno in grembo a Dio.

Luglio, 1855.

—Così, così nell' estasi D' un' alta idea rapita, Intesi i primi palpiti D' amor, di nova vita, E vidi un campo roseo Aprirsi innanzi a me.— Sclamai, leggendo in tenere Note qual t' arde in petto Nobil desio, che l' anima Sublima e l' intelletto, E come un dì l' eterea Fiamma svelossi in te. E ripensai la trepida Speme, i desiri ardenti, I sogni della gloria, Le immagini ridenti, L' ardue prove, l' assidue Veglie, il crudel timor; L' abbandonarsi all'impeto Del libero pensiero, De' superati ostacoli L' orgoglio, il gaudio intero, E i trionfi che appagano Ne' primi voli il cor. In tale ebbrezza cingere Sperai d' allòr le chiome, Ed onorar la patria Dell' opre mie, del nome; Destando ognor co' cantici L' ignava gioventù. Sognai. Sparì l' imagine Di quel soave incanto Or che vaghi e carissimi Tre pargoletti, oh quanto! Co' lacci m' incatenano Di dolce schiavitù. Ma della vita sorgere Vedi l' albor sereno, Tu, senza cure, libera, Tu, che racchiudi in seno Foco immortal, poetico, Indomito desir. Tranquilla, solitaria Fra gli estri e l' armonia, Viver tu puoi di fervidi Pensier', di poesia; E nelle dotte pagine Lo spirto puoi nudrir. Qui dove un ciel purissimo Sorride a'campi, all' onde, Ove al sospir dell' anima Arcano eco risponde Quasi a narrar le glorie Della trascorsa età, Divina, irresistibile Potenza innalza il core All' opre eccelse, all' arduo Gentil desio d' onore, Che tra gli affanni l' Italo Ingegno splender fa. Essa armonizza il fervido Tenor de'versi tuoi; E quando della patria Canti e de' prischi eroi, Spira ne'detti un fremito Di generoso zel. Segui, animosa: all' invido Stranier gridin le rime, Che non si prostra il genio Se giogo vil ne opprime; Che in noi perenne, vivida Scintìlla accende il ciel. Segui: ma pur nell' impeto Dell' estro e degli affetti, Sceglier non déi si rapida Imagini e concetti; Medita pria: più splendido Sarà il tuo canto allor. Medita e scrivi: un palpito De' nostri cor' sarai; Tu ridestar l' Italia Co' carmi un dì potrai, E sulle tempia cingere Mertato, eterno allòr.

Agosto, 1855.

—Tergi le ciglia: quel leggiadro fiore Volò fra gli angeletti in grembo a Dio, Ignaro d' ogni mal, d' ogni dolore.— Così direi, se madre non foss'io; Ma l' angoscioso strazio del tuo core, Cui conforto non val, sente il cor mio, Che ti comprende appieno, e oppresso e affranto, Di carmi invece, versa amaro pianto.

Ottobre, 1855.

(Per l' albo di meraviglioso giovinetto)

Lascia i trastulli, o mio diletto, e assiso Qui sul veron per poco a me da canto, Ov'io ti accenno, fiso Verso la via l' occhio rivolgi alquanto, Che tosto un garzoncello Vedrai, gentil de la persona e snello. Di vane fole e fanciulleschi ludi Ei non si appaga; ma delizia e vita Trova ne' dolci studi Ond' ha la giovinetta alma nudrita; E ognor con novo ardore Sui libri a meditar dispensa l' ore. Di senno, di saper, bilustre appena, Ei con gli adulti gareggiar potria; La sua favella è piena Di magica dolcezza e d' armonia, Soave, umil ne'modi, L' affetto di ciascun merta e le lodi. Oh come un dì commossa io lo ascoltai E immota di stupor! l'avventurata Mortale invidiai Che madre sua dal ciel fu destinata, E ai raddoppiati evviva Di cento labbri, la mia voce univa. Deh! tanto genio in te trasfonda Iddio: Lascia i trastulli, e ne' volumi ognora Ti pasci, o figlio mio. Or che del viver tuo sorge l' aurora, Il cor, la mente adorna; Pensa che questa età mai non ritorna.

Novembre, 1856.

E te luce, conforto io salutai Dal dì che a questa mente Volgevi amica i tuoi divini rai; A te del cor l'ardente Fiamma e l'ingegno mio tutto sacrai: E nel tuo santo riso, Quasi obbliando ogni terrena cura, Bearmi intesi e divenir più pura. Sei tu che mi commovi e mi favelli Nel ciel chiaro e sereno, Nel mar, ne'lieti campi e ne'ruscelli; Che alla virtude il seno Mi schiudi, e ogni desir basso cancelli. Nelle cure materne, Degli angioletti miei ne'baci e il caro Riso ti sento, e novi affetti imparo. Possente ognor, purissima, sublime, Se della prisca etade Narri le glorie; se con dolci rime Suoni dolor, pietade, O d'innocente amor le gioie prime; Se canti d'un oppresso Popol che sorge e libertate agogna, Se imprechi al reo, se al vil tuoni vergogna. È falso vate, è indegna alma villana, Non mai scaldata al santo Raggio di amor, chi il nome tuo profana Col suon d'un compro canto Che abietta, adulatrice e cortigiana, Eccelsa Dea, ti rende; O con osceni detti al tuo decoro Insulta, e sfronda l' onorato alloro. Vorrei che tuono e fiamma il verso mìo Fosse all'indegno stuolo, Che ammorba l'aure del giardin natio, Del caro Italo suolo, Che tu francheggi dall'ingrato obblio In questa età codarda Che a vil mercede immola e patria e fama, E la virtù fola e delirio chiama. Povero ingegno è il mio, nobile il core Che in te vive, s'accende, E la tua missïone, il tuo valore, Arte divina, intende. Oh! se fosse il mio dir pari all'ardore, Destar tutti vedrei All'ispirata libera canzone, Ch'è d'ogni bell' oprar maestra e sprone. Pur griderò: meco a cantar sorgete Quanti, d'Italia figli, Poetica favilla in sen chiudete! Tesor d'alti consigli, In tanto sonno che noman quïe, Il nostro carme asconda; Esalti la virtù, pianga gli affanni, E impallidir, tremar faccia i tiranni!

Marzo, 1857.

Salve, Re prode, Italo ardente figlio! Sei Tu, genio invocato Ne' giorni dell'affanno e del periglio, Sei tu che giungi in questo suol beato? D'un popol che ti acclama ebbro di gioia Già compiesi il desiro, Che sostenne col pianto e col martiro. Tu, che l'Italia a nova vita desti, Che primo al mondo insegni Come a regio poter virtù s'innesti, Itali pur, di libertà sì degni, Ne accogli, e dal comun fremito apprendi Qual cor chiuda nel petto Popolo che gemea sinor negletto. Mira quante ruine! ascolta il grido De' martiri innocenti! In ogni età vedransi, in ogni lido A tanto strazio inorridir le genti. Ma taccia il pianto in così lieto giorno: E Tu con fronte altera Ne guida, o Re, sotto la tua bandiera. Giuriam sott'essa, ove l'onor ci appella, Giuriam vittoria o morte. Dal Campidoglio e da Venezia bella Italia griderem libera e forte: E affrante fuggiran l' orde nemiche, O fian prostrate e dome, Di Te, Vittorio, alla possanza, al nome. —E vivo anch' io!—Nell'impeto D' un' esultanza altera, Mostrando a prenci e popoli La trïonfal bandiera, Grida Sicilia libera, Degna d'Italia figlia, E all' Itala famiglia Lieta si stringe alfin. Ma al ferro de' carnefici, Ma a lunga orribil morte Chi t' involò? qual Genio Franse le tue ritorte? Chi t' armò il braccio, e vindice D' ogni tuo mal si rese? Di speme il sen t' accese, D' allôr ti cinse il crin? Eri mesta, deserta, o patria mia, Fra l' osceno insultar di turba schiava; E di sgherro oppressor la tirannia Su te pesava. Ma il popol sorse, e coll' assidua voce Sfidò dell' armi la crudel minaccia; E spesso rimirò l' orda feroce Pallida in faccia. Che sperar, che temer nel suo sgomento? A minacciarne strage e sepoltura Già le ignivome bocche a cento a cento Stan sulle mura. Deh le saette sue scagli il tiranno; Palermo atterri! Nelle sue ruine Ahi! di cotanto disperato affanno Avrem la fine. Qual gioia sfavilla sui mesti sembianti? D' insolita speme già balza ogni cor. Ci guatan gli sgherri sparuti, tremanti: È nostra vendetta quel giusto terror. L' Eroe, Garibaldi, che all' Itala terra, Che ai popoli oppressi la vita sacrò, Con mille suoi fidi compagni di guerra Ai gemiti nostri si mosse, volò. Ei giunse a Marsala, talun l' ha veduto, Ha rossa la veste, no sogno non è; Dal lido Boëo ci manda un saluto: —Sta in armi, Sicilia! combatto con te!— Fra schiere vendute, fra cento castelli Ei preme una terra ricinta di mar; Ma egli è Garibaldi! sui pochi drappelli Che guida alla pugna, chi può trïonfar? E all' urto primiero l' avversa coorte Qual fere il suo brando conobbe, sparì; Sul colle, ove pianse nemico più forte9 È noto come la battaglia di Calatafimi fu combattuta sopra un colle detto Monte del Pianto dei Romani, per una vittoria riportatavi dai Segestani sui padroni del mondo., Or piangere un vile nemico si udì. L' attende con ansia, lo accoglie Palermo, Lo mira splendente d' un raggio seren: Al fato che 'l preme lo sgherro fa schermo Dell' ira feroce che gli arde nel sen. Tra il sangue e le fiamme, tra' muri cadenti Il duce ne accende di nobile ardir; De' martiri nostri, de' cari innocenti È grido di guerra l' estremo respir. Eppur nell' affanno di tanta sventura Di faci risplende l' altèra città. Ah! troppa è la gioia di speme sicura: Coperto d' infamia l' indegno cadrà. Trïonfa ove passa l' Eroe condottiero Co' prodi che infiamma del proprio valor; Invan gli si oppone l' esceito intero, Cui sta la sconfitta, l' obbrobrio nel cor. Dall' Etna alla patria di Mario e Cirillo L' eterna vendetta dirige il suo vol: Sul trono distrutto, del nostro vessillo I vivi colori risplendono al sol. Fra l' Itale suore le misere ancelle Ei spinse vestite di luce immortal; Ei d' altre due gemme sì vaghe, sì belle Fregiò di Vittorio la fronte regal. E nel ritiro, agli ozii D' un umile soggiorno, Dai campi di vittoria Ecco tu fai ritorno; De' tuoi trionfi immemore, Dell' avvenir pensoso, Il braccio glorïoso Pieghi a rude lavor: Quel braccio che dei despoti Scote i troni cruenti, Che sorge formidabile A liberar le genti; Quel braccio che ogni popolo Soggetto invoca e spera, Onde alla tua Caprera Fa plauso il mondo ognor. Ed a Caprera volgesi D' ogni sican l' affetto, E un vivo desiderio Sente di te nel petto; Te prode, te magnanimo, Te padre e redentore, Nel riso e nel dolore Triquetra invocherà. Oh! quando fia che i rustici Strumenti al suol gittando. Riprenderai la porpora Della tua veste e il brando? Verrà, verrà Sicilia Teco a Venezia oppressa! Tu la conosci; anch' essa Morire e vincer sa.

Dicembre, 1860.

Ha bionda la chioma, purpurea la vesta, Brandisce la spada, l' Italia si desta. Accorre, previene del Duce l' invito De' giovani ardenti lo stuolo infinito; Accorre chi sente di patria l' affetto, Chi spirto di vita racchiude nel petto. Vittorio invocando, levò lo stendardo L' invitto Nizzardo che impera ne' cor'. Di Roma e Venezia, fratelli gementi, Ei giura salvarvi, cessate i lamenti. Sostare quel braccio, signor di fortuna, Potrà quando Italia fia libera ed una; E allor solo bene quell' anima spera Le glebe, la pace dell' umil Caprera. Già riede a' trïonfi l' invitto Nizzardo; Possiede il suo sguardo l' impero de' cor'. Si scotano i petti d' un palpito amico, Di nostro dissidio non goda il nemico; Se resta l' Italia divisa per noi, Cadrem maledetti da' martiri suoi; Turbarci i riposi del sonno ferale Saprà de' nipoti lo sdegno mortale. Concordia, concordia! levò lo stendardo L' invitto Nizzardo che impera ne' cor'.

April, 1861.

Chi mai sulle macerie, Grama fanciulla, attendi? E brancolante e tacita Perchè l' orecchio intendi? Speri che alfin la tenera Tua madre erga la faccia, E fra le care braccia T' involi al tuo martir? Che ti ritorni al placido Tetto paterno ov' eri, E sparga a te di balsami Le peste membra speri? Seco lagnarti, piangere Di averti abbandonato. E d' ogni mal durato Scordare il sovvenir? Tapina! questi ruderi Su cui gemi e t' aggiri, Era l' asil domestico Ove tornar sospiri. Qui, massa informe, giacciono Tuo padre, i tuoi fratelli, Colei che indarno appelli Nell' ansie del dolor. Gl' inabissò la folgore Scagliata dal tiranno: Ma sin l' arse reliquie Vendetta imprecheranno. E te, da quelle ceneri Tratta a martir più fero. Addita il passaggero Con angoscioso cor. Ma da Caprera all' ardua Marsala oh! non invano L' Eroe lanciossi, e impavido Armò per noi la mano. Ei ci redense: ai despoti Prostràti, affanni ed onte! Sollevi alfin la fronte L' oppressa umanità. Spera, o fanciulla, un palpito Ferve d' amor, di vita; E pria che i dì ritornino Della stagion fiorita, Sarai, della miseria Al duro strazio tolta, Da eletta schiera accolta Cui duce è la pietà. Fra cento e cento pargoli In ampie sale andrai: Vaghe donne sorriderti, Baciarti allor vedrai; Da te rimossi i luridi Cenci, la tua sventura Lenir con dolce cura, La speme in te destar. È ver che fra le amabili Invano ebbra di affetto Della tua madre, ahi misera! Tu cercherai l' aspetto; È ver che invano il tenero Fratel chiamar potresti; Chè quanto un dì perdesti Non puoi quaggiù trovar: Ma serberai l' etereo Fior d' innocenza, o cara. Ivi ad amar la patria, Ad amar Dio s' impara; E fra la prece e l' utile Lavor traendo l' ore, Ivi s' educa il core Al bene, alla virtù. Se il ciel ti fea di un' anima Che sente, infausto dono, Nudrita negli esempii Di pace e di perdono, Saprai mite sorridere Ad ogni uman soffrire, E il fervido desire Volgere ognor lassù.

Novembre, 1861.

Di fervide canzoni, D' armonïsose note in questo giorno Per te l' etra risuoni. Al venerato simulacro attorno Chi la patria più cole e al divo raggio Dell' arti ispira l' alma, a farti omaggio Riverente si prostra, Siculo Anacreonte, a Te, per cui « Mostrò ciò che potea la lingua nostra! » Figli d' Italia, è vero, Ogn' itala grandezza è nostro vanto; È luce del pensiero Che superbi ci rende anco nel pianto: Ma per quei Grandi cui donò la vita Questa, che cinge il mar, piaggia fiorita, Teneramente il core, Qual madre suol per la più cara prole, Serba un secreto palpito d' amore. Oh! come è dolce, questi Luoghi, che amammo sin da' dì novelli, Che in versi or lieti or mesti Sembran, da te cantati, assai più belli, Mirar pensando: qui Meli s' assise, Qui s' ispirava e il genio suo gli arrise; E l' alma Poësia Ch' ei qui creò, rapito or lo straniero Ne la favella sua ritrar desia! Salve! gli allori, i mirti, I plausi accogli della tua Triquetra, E fra gli eletti spirti Amor per l' arte, amor da Dio c' impetra; Per quell' arte che ancor vivo ti serba, E fa la patria tua di te superba; Chè la nativa terra, No, soltanto colui non serve ed ama Che per lei cade fulminato in guerra! Stella, che di splendore e di bellezza Su l' altre luci tue compagne imperi, Tu m' infondi nel sen mesta dolcezza; D' amor, d' estro raccendi i miei pensieri. Al riso della cara fanciullezza, Alle speranze, a' sogni lusinghieri, Che pingon l' avvenir di rose adorno, Te contemplando, vaga stella, io torno. Nelle placide sere, a la ridente Aura de' campi, allor che di regale Pompa s' abbella il cielo e del fiorente Arancio a' mille odor' l' odor prevale; Quando tace la luna, e arcanamente Pur da tanto sublime, universale Silenzio spira un' armonia celeste, Una soavità che l' alma investe: Io fisar ti solea, bilustre appena, E per vezzo chiamar la stella mia. Vegliai sovente, e con interna pena Trassi il piè dal veron pigra, restia; Chè, assorta nella tua luce serena, Forse un raggio divin di poësia, Un bene, un refrigerio ignoto ancora, L' alma fanciulla presentiva allora. Spesso gli amati libri, giovinetta, Per mirarti sollecita lasciai, E da' recessi del giardin soletta, Col linguaggio del cor t'interrogai: Eran giorni di gloria, e a la diletta Patria, fissando i tuoi tranquilli rai, Inebbrïata dell' amor più santo, Scioglieva quasi involontaria il canto. In te le care imagini increate, L' ideal che dà vita al pensier mio, Lieto mar, vaghi colli, aure beate, Felicità che appaga ogni desio, E quanto può la fantasia del vate Idoleggiar negli estri, in te vid'io; E pe' tuoi campi, nova peregrina, Spazïando m' intesi al ciel vicina. Pur, nella solitudine del core, Quando con amarissimo diletto Meco ragiono d' ogni mio dolore, Fisando immota il tuo sereno aspetto, No, più dolcezza in me non desti e amore, Ma un desio de'prim'anni, un mesto affetto; E allora a la pupilla lacrimosa Tremolante apparisci e nebulosa. Tale, tale al mio cor sembri più bella Or che svanì del viver mio l' incanto. Sin dal dì che tu splendi, amica stella, Ahi, fu indiviso dalla cetra il pianto! Dammi, o ciel, dammi de l' età novella Un giorno, un' ora, un palpito soltanto, E dammi allor che, nel riposo eterno, Io m' addormenti sovra il sen materno.

1864.

Come d' amore e di dolcezze ignote N' empie talor notturna melodia, Se da placido sonno ci riscote, E dischiusa del cor trova la via; Chè quasi accolto in quelle dolci note, In quella soävissim' armonia L' eco sentiam de' primi anni sereni, Delle speranze, de' passati beni, Tal nella mente mia dolce risuona Una cara memoria. In quell' etade Che il core a vaghi sogni s' abbandona E sol desio dell' avvenir lo invade, Stava una sera fra gentil corona Di pochi amici, e alla natia cittade Ch'io rivedere al novo sol dovea Il cupido pensier già precorrea. Al suon d' umili corde un giovinetto Sposa intanto d' amore inculte rime: Ciascun gli applaude, e nel ridente aspetto E negli accenti la sua lode esprime. Rude la nota e disadorno e abietto, (Sebben non usa alla magìa sublime Fossi ancor de la bella arte de' carmi) Fra l' applauso comun quel canto apparmi. —Meste, leggiadre fantasie d' amore Idoleggia sovente il pensier mio; E meglio, meglio di cotal cantore Saprei ritrarle in miglior metro anch'io.— Fra me diceva, e mi sorgea nel core Quasi una speme, un trepido desio; Chè al facile trionfo con secreta Gioia pensando, mi sentia poeta. In quella cura assorta, in un leggero Sopor tutta la notte vaneggiai, E quanto amor pingevami al pensiero, In versi, in rozzo stil significai; Ma invan, poichè fui desta, il giorno intero Ridurli alla memoria m' ingegnaì. Muta e soletta sul veron l' ameno Villaggio contemplando e il ciel sereno. Quando, il fratello della madre mia M'invitò della voce e del sorriso. Ancor lo veggio! ed una grata e pia Stilla di pianto già mi bagna il viso. Da quel loco romito alfin restia Seco mi trasse, e a me da canto assiso Schiuse un libro, e commosso ed ispirato Di Clorinda leggea l' estremo fato. Egli leggeva: nel mio cor frattanto Provava un senso di dolcezza ignota, Chè solo allor sentia d' eccelso canto, D' eccelsa poesia la prima nota. Alle parole di perdono, al santo Lavacro, al lieto addio, sospesa, immota Dal suo labbro pendea, mentre già tutti I miei sogni di gloria eran distrutti. Piena di mille fantasie la mente, Salutai quegli amici e quel villaggio: Era amena la via, l' etra ridente, E all' occaso volgea del sole il raggio. Pensosa, assorta in un desio possente, Acquistava e perdea lena e coraggio, Se del rustico vate o del sublime Torquato ripetea talor le rime. Ma una penosa cura, uno sgomento Di perduta speranza, un mesto affetto, Ad alleggiar l' occulto aspro tormento Irrompere dovea dall'imo petto. Che val se l' arte ignoro? il sentimento Sveli e i moti del cor l' acceso detto. Di pensiero in pensier sì vaneggiai; Teneri, mesti versi alfin cantai. E da quel dì nel canto inebrïata, Sovente col pensiero a quel soggiorno, A' campi, a' monti, in cui nell' ispirata Prima canzon proruppi, io fo' ritorno. Que' luoghi salutar commossa e grata Mi è dolce; e sempre, oh! se il dolor quel giorno Spirò l'amor del canto all'ansio core, Benedirò quel giorno e quel dolore.

1867.

—Ermanno, Ermanno, addio! Gravar già sento Sul mio capo l'estrema ora fatal; Pròstrati, amico, un sacro giuramento Farai del moribondo al capezzal. Giura che tosto, al mio morir, n'andrai Alla mia sposa, che m'attende invan; Dì che la fe' non ruppi, e che spirai Sovra il tuo cor, da' cari miei lontan. Dille siccome a lei volava, e còlto Per via m' abbia il pugnal dell' assassin: Deh! una lagrima almen le bagni il volto A' tuoi detti, e compianga il mio destin. Lasso! al sospetto che talun, mendace Gridar mi possa e indegno cavalier, Sento che non avrei sotterra pace, Che pur m'inseguirebbe il rio pensier.— Qui agonizzando e da' martìri oppresso, Le luci tremebonde in lui fisò; E poichè l' altro in pianto ebbel promesso, Gli sorrise e la faccia asserenò. —Ma fugge il dì, per l' aria tenebrosa A volo il palafren mi porterà; Già m'attende all'altar l' ignota sposa, Fior d' Alemagna, angelica beltà!— Così, quand' ebbe la promessa udita, Così per poco Adolfo vaneggiò; E colla gioia del delir, la vita A lui sul fior degli anni s' involò. In veli candidissimi, Sparsa di gemme e fiori, Sedea silente e trepida Fra dame e fra signori, Bianca, la vaga vergine Nel suo natal castello: Oggi all' altar l' anello Dal conte Adolfo avrà. Da' grandi occhi cerulei, Dalla gentil presenza, Spira soave un' aura D' amore e d'innocenza; E in questo giorno l' ansia Di un novo senso arcano Veste di sovrumano Splendor la sua beltà. Non giunge Adolfo. Volgono L'ore noiose e lente, L'aër s'imbruna, e un fremito Si leva in fra la gente Che nel castello adunasi Al nuzïal convegno; Il padre arde di sdegno, Ed ei non giunge ancor. Tace la bella: il nobile Sposo non vide mai, E adombra sol d' un tenue Vel di mestizia i rai; Gioir non sa nè piangere Di quell'indugio, e all'ara A mover si prepara Senz' odio e senz' amor. Ma alfin l' alto silenzio Un suon di corno rompe; Fra' convitati unanime Voce di gioia erompe. Già concitato appressasi Galoppo di destriero: È desso! un cavaliero Giunge al castello alfin. Mesto l' aspetto, pallido Svela un' interna pena; Pur come raggio vivido Lo sguardo suo balena. Il Castellan sollecito Lo adduce alla figliuola, Che un cenno, una parola Rende al cortese inchin. Fra cento doppieri, fra balsami e fiori, Fra il riso e l' omaggio di dame e signori, Splendeva di Bianca l' ingenua beltà; Pur tacito Adolfo, severo l'aspetto Fra tanta esultanza si asside al banchetto, Un riso, un accento quel labbro non ha. Gli applausi non ode, le voci gioconde; La gioia che intera ne' cori si effonde Quel torbido volto non può serenar; E solo alla sposa furtivo, repente Un languido sguardo rivolge sovente, In cui la tempesta dell'alma traspar. Qual cura lo affanna, crudele, secreta, S' ei già d' ogni bene raggiunge la meta? Se a vergin sì vaga la mano darà? E più che si avanza profonda la notte Perchè con sospiri, con voci interrotte Perchè nella faccia più scuro si fa? Attonito, immoto ciascuno lo affisa, Già cessa la gioia, già cessan le risa, E sin la parola sui labbri già muor. Ma il padre di Bianca di nulla s' avvede: E sì ne' suoi strani racconti procede, Che fa di paura gelare ogni cor, Narrò di fantasmi, di spiriti alati, Di amori fin oltre la tomba serbati; E intento e sospeso, mentr' ei favellò, Lo sposo fisollo, rattenne il respiro, E dopo la tratta d' un cupo sospiro, Levossi e tacendo gli astanti inchinò. Son tutti compresi di novo stupore. E Bianca che pensa? nol sa, ma d' amore Il palpito forse già sente primier. —Ma il sacro ministro, ma l'ara v'attende— Esclama il Barone che d'ira s'accende, E interroga il volto del cupo stranier. Colui sospiroso crollando la testa, —Invano, risponde, l'altar mi s' appresta, Altrove stanotte dovrò riposar.— E pien di mistero l'aspetto e la voce, S' avvia, per le scale discende veloce: Lo insegue il Barone, lo vuole arrestar. Ma gli atrî tacendo frattanto trascorre; E poi che alla soglia giungea della torre, Laddove inquïo lo attende il caval, Si volse al Barone: la pallida luce Di lampada fioca, rendeva più truce Quel pallido volto, quel guardo feral. —Un obbligo sacro m'impon di partire, Son morto, men corro fra' morti a dormire; Chè a me l'assassino la vita involò— Proruppe, e d'un salto balzato in arcioni, Per entro li fianchi cacciava gli sproni All' agil destriero, che il ponte varcò. Non raggio di stella rompea l' aëetr fosco: Galoppa e si perde fra l' ombre del bosco. Affranto il Barone vorrebbe sognar; Ma sogno non era. Tremante, sparuto Tornò fra gli amici, narrò l'accaduto: Lo spettro de' monti! lo spettro! gridàr. Qui la donzella nel comun terrore Nelle sue stanze a chiudersi correa: Ivi il freno sciogliendo al suo dolore Sola, non vista in gran pianto rompea. Misera! e dianzi l'innocente core A sensi soavissimi schiudea, Sol rimirando il cavalier, che tutto Ora riempie di spavento e lutto. Ma rallentato l'impeto primiero Di sì novo dolor, confusamente, Paurosa da pria, del cavaliero Richiama il volto, i modi alla sua mente; E quell' aria di affanno e di mistero, E quel languido sguardo, che sovente Le rivolse furtivo e pien d' amore Sente confitti la delusa in core. —Misero Adolfo! traditor pugnale Sì giovane, sì bello a me ti tolse. Pur venne, mi donò l' estremo vale L'ombra tua cara e l'impromessa sciolse…. Ma s' ei respira ancor l' aura vitale? Se ignaro il padre in questo tetto accolse Il fantasma dei monti?….—Il volto asconde Qui fra le palme, e trema e si confonde. Poscia la scompigliata fantasia Riede alle fole, a' paurosi eventi Che al banchetto fatal dal padre udia, E che tremar fean le Alemanne genti. Fra il gaudio dell' eletta compagnia Pur mira lo stranier, gli sguardi intenti Fisar nel volto del Barone, allora Ch' ei la storia narrò d' Elëonora. E ripensava come a tòr la bella, Dall'altro mondo sul destriero alato (Siccome suona la strana novella) Tornò lo spettro dell' innamorato. Chi sa se a lei, per involarla, anch' ella L' ombra non tornerà del fidanzato? Assorta, vaneggiando in tai pensieri, Così a Bianca volgean due giorni interi. È mezzanotte. Un suon di meste note, Pari a lamento di persona oppressa, L' orecchio, il core alla gentil percote, Che ansïosa al veron ratto s'appressa. Oh vista! oh vista! e un tremito la scote, Non di paura: è la fantasma, è dessa! La scerne al raggio della luna, e intanto Le giunge l'armonia d'un flebil canto. Sgombra dall'alma tua, sgombra il terrore, Non son fantasma, nè fra' morti sto; Ben se mi neghi un palpito d'amore, Ben tra poco sotterra io scenderò. Son io che cader vidi assassinato Adolfo, amico de' miei primi dì, Che a me rivolto coll'estremo fiato —Vanne alla sposa mia—disse, e morì. Un desio di vederti allor provai; Una speranza mi commosse il cor: Tersi appena le ciglia, e a te volai Trepidante coll' ansia dell' amor. Alfin ti vidi ed arsi: un amoroso Ingenuo sguardo tuo l' alma beò. Io sono Ermanno: Adolfo tuo lo sposo, Dirti volea, su questo sen spirò; E voleva dinanzi alla splendente Ara prostrarmi a offrirti la mia man; Ma non l' osai, chè mi sorgeva in mente L'ira dei nostri padri e l' odio insan. Addio ti dissi, un' aria di mistero Assunsi, e m' involai come balen; Ma teco da quel dì fu il mio pensiero: Ebbi l' immago tua fitta nel sen. Sgombra dall' alma, sgombra ogni terrore, Non son fantasma, nè fra' morti sto; Ben se mi neghi un palpito d' amore, Ben tra poco sotterra io scenderò. E scorsi tre giorni, fervea nel castello Il moto, la vita d' un gaudio novello: Fregiavan l' altare di faci e di fior'. Non più peritosa, ma balda e sicura, Per celia membrando la strana avventura Ch' empiva il castello di pianto e terror. A canto ad Ermanno la bella si asside, Al triste fantasma che or lieto sorride: Di lui cavaliero più vago non è. Nè tacita e mesta con tremito ascoso, Siccome quel giorno che a incognito sposo A dar s' apprestava la mano e la fè. Ma in tutta l' ebbrezza d' un bene insperato Or vede appressarsi l' istante beato. Li guata il Barone, che teme sognar. Eppur non è sogno; quei fervidi cori Fra' canti, fra' voti di dame e signori, Si giurano fede dinanzi all' altar.

1867.

Esulta, o patria, il tuo cantor ti appella: Orniam la fronte sua di mirti e allori. In questa aiuola dilettosa e bella, Eccolo! ei sorge tra le frondi e i fiori. Oh! mentre ride la stagion novella, Forse a cantar dei campi e de' pastori Ei torna, e tutti in sì bel dì ci desta A gioia vera, a cittadina festa. E ben per così dolce aura diffusa Oggi udiam l' eco de' tuoi canti, o grande. O siculo poeta, a cui fu Musa Ogni bellezza che natura spande. Te del vate gentil di Siracusa, Che nei campi cogliea le sue ghirlande, Accese l' estro, e di colui che il core Fra le danze ispirava, il vin, l' amore. Or qui lieti moviamo a farti omaggio. Quale ad amico che da lunga via A' suoi lidi, a' suoi colli, all' almo raggio Del suo cielo, all' amor tornato sia; Chè in noi tu vivi, nel natio linguaggio, Cui tu vita accrescevi e leggiadria, Onde ne' carmi tuoi dal patrio suolo Scioglie fra' plausi ad altre piaggie il volo. In noi tu vivi; e chi nella fiorente Stagione, ai raggi estivi, all' aure quete D' autunno, all' aspro gelo, alla potente Malia di due pupille or meste or liete, Al suon di voce flebile, dolente, I noti versi tuoi chi non ripete? Chi non ripete, in lunghi aspri martiri, Di Polemon, d' Eraclito i sospiri? Oh! se i fasti, le glorie, ond' ebbe vanto Di culto e prode questo suol diletto, Leggiam sovente sulle carte, e un santo Nobile orgoglio ne raccende il petto; Or che del fabbro del siculo canto Fra noi sorride il venerato aspetto, Sorgi! e di santo orgoglio accesa e lieta, Sorgi! onora, o Palermo, il tuo Poeta.

1868.

—Guarda, mamma, la cara fanciullina! Ha chiusi gli occhi, ha sulle labbra il riso; Ella somiglia la nostra Dorina Allor che dorme e tu la baci in viso. Ma com' essa non ha però la culla, Nè come te le sta la mamma accanto; Un can l' è presso: povera fanciulla! Se si destasse, romperebbe in pianto.— —Figlia, sua madre al par di me solea Sempre vegliarla nella rosea cuna. Sol questa cara figlioletta avea, E delizia ed amor l' era quest' una. Ma quando intese una crudel minaccia Che ucciderla volea nemica gente, Strinse la pargoletta in fra le braccia, E s' involò precipitosamente. Piove, imperversa il vento, è l'aria scura; Già già la pesta di quei crudi ascolta; Fugge e stringe l' amata creatura, Come paventi non le venga tolta. Giunge al fiume; il nemico è a le sue spalle…. In picciol legno ella si gitta…. al lido Opposto è presso…. ode fischiar le palle: Non fu colta, ma sente un tonfo, un grido. Era la bambinella amata, oh quanto! Che in quell' orror precipitò nell' onda; Ma il fido can, che tu le vedi accanto, E latra invan sulla deserta sponda, Seguia nuotando i miseri fuggenti. Vede annegar l' amica sua; le afferra, Le stringe un lembo dei panni fra' denti, Lotta coll' onde e alfin la tragge a terra. Poscia presso alla cara tramortita, Siccome avesse sentimento umano, Mise a latrar quasi invocando aita: Latrò, latrò l'intera notte invano. E a lei son culla i duri sterpi, i sassi, Su cui, non dorme, no, giace svenuta.— —La mamma ov'è?—Volge ben lunge i passi, Piangendo ognor la figlia sua perduta. Ma un giorno, il so, dopo sì rio dolore. Dopo lunghi anni di martìri e lai, Si rivedran, si stringeranno al core, Si stringeran per non lasciarsi mai.

1868.

In grembo a verde aiola, Bella del suo pudor, S' asconde la viola Tra le sue foglie ognor. Così la verginella, Se nutre occulto amor, Cela gelosa anch' ella I moti del suo cor. Ma all' alito d' aprile, Che bacia l' erbe e i fior', La mammola gentile Concede il grato odor. Così la verginella, Se le vien chiesto amor, Di sua virtude anch' ella Farà beato un cor.

1874.

10 Queste strofe furono messe in musica dal maestro Bernardo Geraci. Madre del sommo Artefice, Porta del ciel, divina Consolatrice ai miseri, Degli Angeli regina, A Te rivolge il pargolo La prima prece ardente; A Te manda il morente L' estremo suo sospir. Sei Tu che strappi il fulmine All' ira dell' Eterno; Tu ne sottraggi a Satana, Trionfi sull' averno; La fronte dalla polvere L' uomo per Te solleva; Per Te la colpa d' Eva Siam tratti a benedir. Quando a Te s' erge l' anima Nel suo pregar verace, Le spiri un refrigerio Tu di perdono e pace, Una fidanza, un intimo Dolor dei falli sui: Scorda le offese altrui, Madre, rivive in Te. I voti accetta, i cantici Tu che ci leggi in core: Qual più ci brami rendici Nel riso e nel dolore; E fin su' figli reprobi, Su chi ti reca oltraggio Deh! Madre, piovi un raggio Di carità, di fè.

1868.

O cameretta umile, Solitaria, tranquilla, ove soggiorna Una donna gentile Ch' io mai non vidi, ed amo Ne' suoi teneri carmi; Di fior', di luce e bei volumi adorna, Piena di pace e calma, Che dolcissimi sensi ispira all' alma, Ti sogna il pensier mio, E vola a te sull' ali del desio. Tali dal cor profondo Traggo occulti sospir', gentil Marina, Dacchè lungi dal mondo Ti seppi. Ahi! che pur sempre Tra le materne cure, Onde rapido il dì per me declina, Tra le gare e l' uggioso Frastuono e il folleggiar vertiginoso Dei miei fanciulli, io sento Un desio che pur m' agita, un tormento. Desio che m' arde il petto Dolce potente sin da' teneri anni, Tal che ogni altro diletto Volgar, vile stimai; Nobil desio del canto, Luce d' amor che mi molcea gli affanni. Ma trista cura e vana Or mi molesta la sua voce arcana; Ond' io volgo un sospiro, O Marina, al tuo placido ritiro. Oh potess' io romita Ne' silenzi e la pace alma e gioconda, Potessi e forma e vita Dar col canto ai leggiadri Sogni, agli affetti mesti Ond' è la solitudine feconda! Scolpir potessi il vero, Così come si svela al mio pensiero, Scolpirlo nelle menti, Ne' freddi cor' cogl' ispirati accenti. Nè d' onor, nè di lode Disio mi sprona; ma l' amor dell' arte, Onde si spazia e gode L' alma dall' estro accesa In piagge a lei sol note; Ma zel d' unirmi nell' egregie carte, Che Liguria c' invia: Alla feminea schiera eletta e pia, Che del cor, dell' ingegno Porge alla Fede, alla Virtù sostegno. E in quei fogli sovente Lessi il tuo nome, e tu leggesti il mio; E a te volsi la mente, Donna gentil, talora; A te che solitaria e nell' obblio D' ogni terrena cura Ten vivi all' ombra delle sacre mura, In Dio paga soltanto, L' ore alternando fra la prece e il canto. Vanne, Canzon, presso Benaco a lei, E dille che i suoi studi e la beata Sua pace invidio; dille…. Ma veggio due nerissime pupille Lampeggiarmi di mezzo alla cortina, E un biondo roseo viso A sè invitarmi ebbro di tanto riso…. Dille, dille, o Canzon, che in tal momento Più nulla invidio, nulla; Anzi nell' alma sento Tanta felicità, mentre sul caro Labbro invalido a' baci io baci imprimo, Che me felice su' felici estimo.

1871.

Oggi che nel sorriso e l' esultanza T' offre doni l' amore e l' amistà, Un fior ti porgo di gentil fragranza Che mai foglia o color non perderà. Esempio di virtù modesta e rara Fu colei ch' educò sì vago fior; Nel suo profumo appien t' inebbria, o cara, Sì che olezzi perenne entro il tuo cor.

1870.

Declina il dì placidamente a sera, E sull' aura di maggio imbalsamata La squilla che c' invita alla preghiera Si spande lamentosa e prolungata: D' ogni anima gentil che piange e spera, Nel deserto del mondo abbandonata, La voce essa mi par, che afflitta e pia A invocar sorga, a salutar Maria. Il cor volgo fidente alla Regina, « Che di speranza è fontana vivace; » Prego coi figli, qual pregai bambina Colla madre, e al suo spirto imploro pace. Piena di santa autorità, divina Or più che mai che il caro labbro tace, Dentro mi suona ognor la sua parola, Che mi fia nella vita e norma e scola. Ella pregava in tanta ora serena La madre mia con puro zelo e santo; E in mezzo ai fior' de la villetta amena Poscia veniami ragionando accanto. Della natura la ridente scena, Talor sostando, contemplava alquanto; E ogni suo detto che movea dal core, Era un inno di grazie al Creatore. O dolce madre! i teneri consigli Che a me largivi in ogni tempo e loco, I saggi detti tuoi ripeto ai figli, Benchè il mio labbro sia gelido e fioco. Ne' dubbi, ne' dolori e ne' perigli Siccome santa, o madre mia, t' invoco; E d' ogni grazia, o disïato bene, M' è lo stesso invocarti ed arra e spene. Oh! se in ciel acquetavi ogni desio, Se racquistavi il caro figlioletto, Serba il sorriso ognor sul labbro mio, Conforto, vita al genitor diletto; Nel greve incarco che m' impose Iddio, Sia pari al buon voler, pari all' affetto L' opra mia, tua mercè; nè invan m' ingegni A crescer figli della patria degni. Figli che sappian (fra lo stuol meschino, Che l' uom progenie dell' urango crede, Che sconsolato, lo mortal cammino Trascorre e il nulla oltre la tomba vede) L' aura sentir dell' alito divino, E temere e sperar pena o mercede In una vita che non volge a sera. Oh beato colui che crede e spera!

1870.

Quel dì che al mio soggiorno Ti recavi, o gentil, dimmi, ti trassi Meco a un veron di bei pampini adorno? Ah! no, spogliati allora Erano i rami della vite mia, E ne cadea talora Qualche pallida foglia inaridita, Poich' era vôlta la stagion pietosa, In cui la sacra squilla Co' funebri rintocchi Pei cari estinti alla preghiera invita. Or di folta verzura, Di grappoli pendenti Sul mio capo si stende ampia cortina, Che di pensier' giocondi E d' ombra m' è cortese e di frescura. A me che in villa soggiornai bambina, Or qui seduta (s' io Ricrei su' libri l' intelletto e il core, Se nel lavor m' adopri, O l' ore in dolce meditare inganni) Riviver sembra a' miei primissim' anni. Poi quando il ciel s' imbruna, In quella ora sì pia Che tutti i cor' s'innalzano a Maria, Quando l' addio della morente luce Nell' anima c' infonde Un senso arcano di malinconia, Penso l' addio d' ogni persona amata, L' addio dei cari che m' amavan tanto E chiamo invan col pianto; Penso l' addio di crëature elette, Ch' io mai non vidi e che passâr sì presto, E una pietosa stilla Ancor mi bagna il ciglio Per gl' infelici che restar deserti, Raminghi in questo esiglio. E ben fra questi tu sorgi sovente Nella commossa mente; E ben da questo amico Padiglion di verzura ond' io son cinta, Contemplo il cielo e parmi D' astro in astro varcar velocemente Verso il lido Boëo, E nel vedovo tetto Sospirar t' odo dal profondo petto. O vate, o culto ingegno Che di Tullio cantasti e de l' augello Che s' erge oltre alle nubi e va sublime, Segui a cantar, novello Sprone il dolor ti sia. È ver che la divina Arte de' carmi anch' essa È misero conforto A cor che in quello de' suoi cari è morto; Pur levando l' accesa fantasia Su' vanni della Fede e dell' Amore Là 've il gioir s' insempra, La tua sposa vedrai con le dilette Bambine al seno strette, Raggiar di tanto riso, Che veder ti parrà ne' lor sembianti Accolto il Paradiso. Tergi, deh! tergi il pianto; Le interroga, favella, E l' immenso desio sfoga nel canto. Così, così, nell' ore meste o liete, Alla mia madre che dal ciel mi guarda, I dubbi e le secrete Pene e speranze affido; E di consiglio e aita Dispensatrice m' è qual era in vita. L' amato fratellin, la mia bambina Io veggo, oh gioia! e lor favello, e in questa Corrispondenza arcana amor si affina. E allor quell' io ch' odio la morte, e sento Pur pensando a quell' ora uno sgomento, Allor la morte anelo, Se ben per essa un giorno Sarò congiunta ai cari miei nel cielo. Ma tu più crudo ahi! della morte ancora, Perchè tanta speranza, Tanto conforto che n' ha Iddio concesso, Perchè invidii a te stesso? E in sen di fragil fiore E nel canto di garrulo augellino Vedi ed ascolti il tuo perduto amore? Leva, leva lo sguardo, Nè in questa valle oscura Cercar quelle dilette Alme fregiate d' immortal natura. Leva, leva lo sguardo, Sorgi meco a cantar, destiam ne' petti Della Virtù l' amor, la Fede avita, Cui distrugger minaccia D' empie dottrine la turpissim' onda, Che vien d' oltr' Alpi e già l' Italia inonda. Sorgi meco a cantar: d' ira e vergogna, Accesi il cor, gridiamo, Gridiam nei nostri carmi Al secol sozzo che imbestiarsi agogna; Gridiam che l' uomo coll' eterna mano Iddio creò, ch' Ei l' anima gl' infuse Col suo Spiro divino, e, a me ritorno, Disse, farai nell' immortal soggiorno. Canzon, vanne, t' affretta, Vanne al lido Boëo, Ivi un Signor te da più lune aspetta. Tu gli ti appressa e di': Sorgi, che il puoi, Colto ingegno e gentile, Richiama al Bello, al Vero L' itale menti col leggiadro stile. Oh! finchè del costume e del pensiero Italia nostra è ligia allo straniero, Finchè alla turpe scola Dubbio e veleno attinge, Onde la luce d' ogni Ver s' imbruna, Sebben già spieghi all' aure il suo vessillo, Sebben già forte ed una, Nobil vate, mel credi, Italia bella Non è libera, è ancella!

1872.

11 Ove adesso sorge il rinomato santuario di Nostra Signora di Gibilmanna, entro il territorio dell' antica e piacene città di Cefalù, esisteva un monistero di Bendettini fondato nel sesto secolo dal pontefice S˙ Gregorio il grande, e sino al secolo undecimo fu abitato da quei monaci. Questi per la venuta dei Saraceni lo abbandonarono, e nel secolo XII, sotto Ruggiero secondo, primo re di Sicilia, i Vescovi cefalutani curarono con fervorosa pietà quella chiesa, ove antichissimo era il culto che prestavasi alla Vergine Santissima.
Circa il 1530 fu trasportato il prodigioso Simulacro di Maria Santissima di Gibilmanna, e si ha per fermo che il trasferimento sia avvenuto il lunedì di Pasqua.
Nel 1535 il Santuario fu dato ai Cappuccini, che in oggi lo possiedono e vegliano fervidamente al culto della SS. Vergine.
Dilettose campagne, ah no! giammai Di vedervi ebbi speme, e nella mente Sol coll' ansio desio vi vagheggiai, Qual vi pingeva il mio pensier sovente. Ecco i castagni, ecco le querce, omai Ne accoglie il bosco, e a le pupille intente Già biancheggiano erette in su l' altura, Salve Regina! le sacrate mura. Ma il cielo, il sol che verso il mar declina Già risaluto in sul finir dell' erta; Ricca di aromi l' aura montania Già il sen m'inonda sulla piaggia aperta; Piaggia che più mi sembra al ciel vicina Che alla nostra di duol valle deserta, D' onde min stanno sotto i piè (sublime Vista!) de' monti le più eccelse cime. Lieta di colti sino al mar vegg' io Digradarsi la valle; il sol più lento Par che dicesse a questi luoghi: addio; M' alfin discende al mar, vien meno, è spento. Dolce, uniforme alla magion di Dio C' invita la campana del convento; Qua e là tra il verde delle piante, al noto Suon s' incammina il contadin devoto. Santi affetti di pace e di speranza Tal suon mi desta e riverente amore. Entro la sacra soglia il piè s' avanza; È d' inusata gioia invaso il core. Risuonan le squillette, e all' esultanza Degli organi e dei canti, e allo splendore Delle faci, la duplice cortina Ecco rimossa alfin — Salve Regina! — Alfin su Te l' avide luci affiso Ad appagar l' antica ardente brama. Misto alla diva maestà del viso, Spiri un affetto che perdona ed ama; Spira tanta fidanza il Tuo sorriso Che, Regina non più, Madre Ti chiama Il labbro, il cor che a Te si leva, e intanto Sgorga dagli occhi involontario il pianto. Piango e pregar non so, chè in Te rapita Ogni mia pena acqueto, ogni desiro; Nella celeste imagine scolpita Oh non dell' arte la scintilla ammiro; Ma sul Tuo volto palpitar la vita, Alïar fra le Tue labbra il respiro Ben veggio, o Madre, e come amor consiglia Chinarsi a noi, che T' invochiam, le ciglia. Brillan le gemme e i ceri, a Te dinnanti Stassi una folla che fidente e pia Vien da lungi al Tuo piè; di suoni e canti Si spande söavissim' armonia; E nell' ombre del tempio, supplicanti, Glorificando il nome Tuo, Maria, Fan croce al petto delle braccia i frati Nelle ruvide lane al suol prostrati. Mi volgo a destra, e il sorridente aspetto Della vasta campagna ombrato appare, Sotto un ciel cui di rose e d' oro eletto Zona inghirlanda ove congiunto è al mare: Ivi è Palermo, ivi il paterno tetto, Ove si stan due giovinette care12 Le me figlie Annetta e Bianca. Che a Te trassero un giorno, e in sulla sera Qui rivolgon la mente e la preghiera. E a questo paradiso anch' io sovente Da lungi col pensier farò ritorno, A Te che protettrice onnipossente Fai sacro ad ogni cor questo soggiorno. E quando in ciel vedrò pallidamente Scemar la luce, a sì beato giorno Volerà la commossa fantasia, Al più bel giorno della vita mia.

1873.

O fanciulletti dall' ingenuo riso, Quand' io vi miro folleggiar d' intorno, E il vostro sguardo, il vostro volto affiso, Del caro fior della salute adorno, D' ogni altra cura immemore, al sorriso Della mia fanciullezza anch' io ritorno: Tanto verace gaudio e tanta calma Per gli occhi vostri si trasfonde all' alma. A' campi, all' olezzante aër sereno, Fra' ruscelli e i fioretti e la verzura, Oh! com' è dolce inebbriarsi appieno, Trascorrer la vastissima pianura; E il capo stanco, della madre in seno Abbandonando poscia, ogni avventura, Ogni impresa narrar lieti e loquaci Ricambiando con lei sorrisi e baci. Ma ben de' cari genitor' l' affetto, Ma i trastulli, ma i fior' che amate tanto, Ma la vita, ma il ben dell' intelletto, Ma l' immortal raggio dell' alma e quanto V' empie di meraviglia e di diletto, Son tutti doni del Signor soltanto; E questa patria, questa Italia bella, Fanciulli, è dono del Signore anch' ella. Patria dal puro ciel, dalle ridenti Valli e colline, dal divin linguaggio; Madre d' invitti eroi, di eccelse menti, Onde ci son l' eterne opre retaggio. E li vedete voi ne' monumenti, E leggete le scritte in loro omaggio E a vostra norma, e i libriccini vostri Anch' ei vi parlan de' grandi avi nostri. Essi, qual voi, disappensati e gai Sorriser della vita ai primi albori; E il genio stesso che i benigni rai V' inchina e gioie su voi spande e fiori, Dal loro sguardo non si tolse mai; Ma lor sogni allegrava, e mirti e allori, Poich' essi aprivan dell' ingegno l' ali, Intrecciava a le lor fronti immortali. Deh! pensate, o fanciulli, in così liete Ore che il tempo rapido vi fura, Che di voi stessi l' avvenir voi siete Sol mentre il fior di fanciullezza dura; Che voi sostegno a' genitor' sarete, Voi cittadini dell' età ventura; Ma in voi sia primo palpito e desio L' onor, la patria e, sovra tutto, Iddio.

1871.

Dolce è quest' aura: come pio sospiro Scote l' ale vêr me söavemente; E giorni di letizia e di martiro Mi desta in mente. Il balsamo rapisce all' erbe, ai fiori Ch' io di pianto irrorai nel mio boschetto; E impregnata così di mille odori M' innonda il petto. O placid' onde, o piante, o suolo ameno, Da lungi vi contemplo, e scoppio in pianto. Un dì fra voi, misto a' sospir', dal seno Sgorgava il canto. Il canto mio, che spesso interrompea Della tenera madre il caro invito, Mentre i semi nel suolo ella spargea Di fior gradito. E tu passasti; e un fiore, un sol di quelli Più spiccar non potrai dal molle stelo; Ma de' terreni già fiori più belli Or cogli in cielo. Deh! non recida il fil del viver mio Morte col rio sembiante e gli atti truci; Tu scendi, o madre, in aurea nube, e a Dio Tu mi conduci. Tra pianta e pianta, allor che la notturna Scena animata è da' lunari rai, Qual piangente virtù sculta sull' urna, Mi troverai. Al tuo cenno d' amor che al ciel m' invita, O dolce madre, al tuo divin sorriso, S' aprirà tosto all' anima rapita Il paradiso.

Gennaio 1851.

Al par d' un verde ramicel fiorito Che spande, ignaro del nemico verno, Il balsamo gradito, Sorgevi, o caro, nel mio sen materno: Speranze, nè timori Ancor non senti, e nostra sorte ignori. Seminato di triboli e di affanni È della vita lo mortal cammino, Sì che i brevissim' anni Più che secoli sono all' uom tapino; Sì che grama e dolente In ogni etade fu l' umana gente. Pur fra la nebbia che c' ingombra, splende Divinamente di virtude il raggio; Che a bell' oprar ne accende L' alma sovente, e segnane il viaggio, Onde fra tanta piéta Volar sicuri alla difficil mèta. Nè misero sarà que' che l' infermo Oppresso core alla virtù disserra, E sorridente e fermo Del destino mortal sostien la guerra; Nè gli si muta l' alma, Ugual ne la tempesta e ne la calma: Nè chi sdegnoso de' volgari ludi, Sente la fiamma d' un desir più degno, E ne' severi studi E ne' regni del ver nutre l' ingegno; D' allòr la fronte infiora, E della fama sua la patria onora. E tu sortisti bella patria, o figlio, Bella patria infelice, un dì beata; Onde con mesto ciglio Pensoso il pellegrin s' arresta e guata: Squallor, miserie vede, E all' avita grandezza or più non crede. Amala tu; se al suo trafitto seno Giovar non puoi col sangue, in te dell' opre Si riconforti almeno; Franga per te l' obblio che la ricopre, Se in generoso petto Itali sensi chiudi e patrio affetto. Questo sentier ti addito, onde di bei Fior' di virtù l' amato crine adorni; Ma se tristo esser dèi, In sull' albor de' tuoi teneri giorni A me ti tolga Iddio, Nè si mova a pietà del pianto mio.

Maggio, 1851.

Dolce amor mio, riposati Qui sul materno petto: Una celeste immagine Tu sembri, un angioletto Che Dio nel suo sorriso Creava in paradiso A far più bello il ciel. Or che su te dall' etere Amico genio scende, E l' ali al par di roseo Vel su' tuoi lumi stende, Contemplerò l' amato Bel volto abbandonato, Qual fior su molle stel. Che sogni mai? qual estasi L' anima tua trasporta? In quale, in quale eterea Dolcezza or gode assorta? Forse su' vanni d' oro Vola al celeste coro Al cantico d' amor? Gli occhi socchiusi, e il mobile Labbro gentil ridente, L' ebbrezza, il gaudio esprimono Che inonda la tua mente; Gaudio celeste, arcano Che ad indagare invano L' anima vòlgo e il cor. Dormi fanciullo ingenuo; Fra poco ancor tu stesso Ignorerai le tenere Gioie che provi adesso; Nè apprezzerai tu forse Il tempo che trascorse Sì bello e sì seren. Dormi; rattengo l' alito, Rattengo i baci a stento Per non rapirti all' estasi Di questo bel momento. Dormi; così gradita Volga per te la vita; Dormi su questo sen.

Gennaio, 1852.

Nè rose, nè viole, Che sfoglia un soffio di söave auretta, Bramai di offrirti in dono, o Padre mio; Ma salda ed animosa, Infiammata d' un nobile desio, La rude e perigliosa Via di gloria tentai, Per consacrarti l' onorata fronda Che non perisce mai. Indarno, ahimè! chè a tanta brama onesta La divina virtù non fu seconda; E ignota a tutti e oscura, Nulla offrirti poss' io, nulla mi resta. Pur di te degno un cor mi ferve in petto, Di cui, Padre adorato, Il primiero tu sei tenero affetto. Questo dono sol t' offro; eternamente Caldo di amore e grato Sarà per te, che più che padre sei, E farà voti al ciel, riconoscente. Ne' detti, e sul ridente Viso, e ne' modi i pargoletti miei Mostrano anch' ei l' innato Santo amor che per te serbano in seno. Pregano meco Iddio, E folleggiando intorno Salutan di tua festa il caro giorno.

Ottobre, 1855.

E a te la voce della madre e il volto Già l'innata insegnò possa d' amor; Già co' teneri occhietti a me rivolto Tendi le braccia e mi sorridi ognor. Sai che son verso te dispensatrice D' ogni amorosa cura e d' ogni ben; Sai che tergo il tuo pianto, e la nutrice Onda ti appresto del materno sen. La sola brama, il sogno tuo son io, L' affetto onde il tuo cor sente d' amar; E pur chi sono ignori, e il nome mio Non odo sul tuo labbro anco sonar. Io son colei che prima idoleggiai L'imago tua nel fervido pensier; Che nove lune in grembo ti portai. E sorrisi al tuo palpito primier. D' ineffabili gioie e dure pene L'innocente cagion per me sei tu; Per te nell' ore chete e più serene Di trovar pace il cor non ha virtù; Chè quando a questo sen bever la vita Io ti contemplo, o figlio mio, talor M' ange 'l pensier, se tosto inaridita Torni la fonte del vitale umor. Sul viso ov' era eterea gioia espressa, Della salute il fior veggo languir; E già da cento e cento larve oppressa M' affaccio trepidando all' avvenir. A te del mondo ignaro pellegrino Sul calle del dolore io reggo il piè; E a' tanti mali del mortal cammino, Nell' immenso amor mio t' offro mercè. Nè sol per te l' accesa fantasia Novi tormenti al cor creando va, Chè ben da quattro cari labbri udia Quel santo nome che esultar mi fa. E come la fedele ombra indivisa Vorrei seguirvi nel futuro ancor; Ma tanto vaneggiar tronca improvvisa Funesta tema che m' agghiaccia il cor. Ah! s' io morrò? se teneri orfanelli Vi deggia tosto abbandonar quaggiù, Chi v' amerà quant' io? ne' dì novelli Chi guideravvi al bene, alla virtù?… Ma blando tu mi guati, e m' accarezzi Raggiandomi d' un riso lusinghier, Quasi voglia col don di mille vezzi Scacciar dalla mia mente il rio pensier. E già tutto obbliai; negli atti, in volto, S' altri non ti comprende, io leggo appien; Anzi dal giorno favellar t' ascolto Che vivere t' intesi entro il mio sen.

Aprile, 1859.

Piangi! perchè? Del rapido Giorno di vita appena Vedi, fanciulla ingenua, Spuntar l' alba serena; Fida innocenza i candidi Vanni su te distende, E l' alma tua difende Dal tristo ingrato ver. Sei fiate il suol di vergini Rose ingemmava aprile Dal dì che a me sorridere Ti vidi, o fior gentile; Dal dì che il primo, estatico Sguardo su te fisava, E all' avvenir volava Il cupido pensier. Di gioia, non di lacrime, Questa è l' etade, o cara, Che fugge allor che l' anima Ad apprezzarla impara; E ognor con desiderio Mesto vi torna il core, Nel riso e nel dolore Amando i primi dì. Ma tu che lieta e facile Corri a' trastulli e godi, Che dolce spiri un' aura Pura, infantil ne' modi, Racchiudi in petto un intimo Senso che i nostri affanni Ne' tuoi primissim' anni Pianger ti fa così. Qual ti vegg'io, se storia Odi narrar di pianto, A trista scena, al lugubre Sospir d' un core affranto, Trascolorare il roseo Bel viso, e la pupilla Velar d' amara stilla Ch' elice la pietà! Nel guardo carezzevole, Negli atti, nell' accento, Trasfondi ognor dell' anima La vita, il sentimento; Ma più se movi a fervida Preghiera il labbro pio; Sì, la tua voce Iddio, Prega, ascoltar dovrà. Ah! se di morte il fulmine Su capo amato scende, L' alta sventura il tenero Tuo cor tutta comprende; D' un caro affetto vedovo Resta alla sua partita; Sente come la vita Contristi il dire: ei fu! Deh! frena omai tal impeto, Deggio gridarti, o figlia; Ma cara m' è la lacrima Che la pietà consiglia. Essa le pene al misero Rattempra, e una parola Grata, un sospir gl' invola Che accoglie Iddio lassù!

Ottobre, 1859.

Oh! non chiedete perchè a voi sì mesta Assorta in un pensier le ciglia volga, E i vostri detti e l' amorosa festa Tacendo accolga. Intender non potete il dolor mio; Nè con parole, o con sospiri e pianto Il duro strazio rivelar poss' io Del core affranto. Io ripenso a colei che mi diè vita, E palpitar la sento in queste mura; Anzi l' afflitta fantasia smarrita La raffigura. Ti veggo! a questo sen ti stringo omai; Già di due lustri compiesi il desire; Dalle mie braccia, il giuro, oh! non potrai Mai più fuggire! Ma dalle labbra sue sorge un lamento; Poscia di gioia sfolgorante in faccia, E rapita da un novo sentimento, Tende le braccia. Una bambina accoglie, e già il primiero Materno bacio sul suo volto imprime; Già la contempla sì che ogni pensiero Negli occhi esprime. Ella sembra indagar se sia conforme All' ideal che le ne pinse amore; Ma più la vita delle care forme Le appaga il core. Coll' alma accesa di sì vivo zelo, Che trova la favella indegna e fioca, Iddio ringrazia, ed ogni ben dal cielo Sovr' essa invoca. O Madre! se pensavi al duolo atroce Che il tuo mi preparava ultimo fato, Su me avresti col core e con la voce Morte invocato. Ma voi fisate, o cari, in me le ciglia Ove appar la commossa alma confusa; E folle, l'innocente meraviglia, Me forse accusa. Nè folle io son; ma allor che riede il mesto Giorno che l' anno segna al viver mio, A tal martiro, al vaneggiar molesto Mi danna Iddio. Deh! figli, quando tolta a tanta guerra Sarà costei che intorno a sè vi chiama, Che quale amar nessun vi puote in terra Più sempre v' ama, Questi lugubri carmi il dì leggete Che membra il nascer vostro; e a me rivolta L' alma piangente: Ah no! non fur, direte, Sogni di stolta.

Dicembre, 1859.

Sorridi alfin, sorridi, alfin sei pago: Già collo sguardo intento e pien d' amore Contempli, baci la materna imago, E altrui la mostri e te la stringi al core. Sovente, non è ver? tu sarai vago, O liete o meste ti si volgan l' ore, Di rimirarmi, e dall' immoto ciglio Dal muto labbro aspetterai consiglio. Ai giorni che vivevi a me d' accanto, Fantasticando, o caro, tornerai, Sì che la voce di chi t' ama, quanto Niun puote amarti, e sin tai detti udrai: — Venera Iddio, la patria onora, il santo Vero, o figliuolo, non tradir giammai; Suda sui libri, e ama colei che vive Teco del core, e per te prega e scrive.

1863.

Te, nelle faticose ore del giorno, Allor che ne' trastulli Fra le gare infantili e il riso e il pianto M' assordan folleggiando i miei fanciulli, Amica sera, invoco; Non per vaghezza d' ilari adunanze, Non per teatri o danze; Ma sol per un fugace Istante soavissimo di calma, In cui la mente asserenare e l' alma. Per le tacite stanze allor m' è dolce Vagar soletta e muta; Mentre il pensier, già ristorato e franco, Le sue più care fantasie saluta; Dolce al veron la fresca Aura spirar per poco, al firmamento Levar lo sguardo intento, E a questo letto e a quello Spesso appressarmi a vagheggiar gli amati Volti de' figlioletti addormentati. Chi sulle giunte candide manine La rosea guancia posa; Chi piega il collo e chiude al sen le braccia: Chi mollemente in abbandon riposa: Spira da' lor sembianti, L' angelica beltà dell'innocenza, Amore, riverenza; E dal respir soave, Prona sovr' essi con ardente affetto, Un profumo di fiori io ben m' aspetto. Oh troncar potess' io del tempo il volo: Tal pace, tal candore, Tanta felicità serbarvi, o figli, Sotto l' usbergo del materno amore! Ahi! ma da voi per sempre Fuggir vedrò, con tema e con secreta Pena, stagion sì lieta; Io vi vedrò dal seno, Ove or si quetan tutte vostre voglie, Correr del mondo alle dorate soglie. E già volo a que' giorni, e già la madre, Che i più begli anni e il santo Amor dell' arte a voi sacrificava. Che, misera, beata è in voi soltanto; La madre che, nascosi Nelle viscere sue, che ne la culla O nell' età fanciulla, A la virtude, a Dio, Del sangue suo, del latte, degli accenti, Dell'opre, volse ognor le vostre menti. Lasciar vi veggo pe'bugiardi amici: E ignari, fra' perigli Del vano conversar, porre in oblio, Anzi irrider sovente, i suoi consigli: Da pinta oscena immago, Da turpi infami libri, onde l'amena Terra d'Italia è piena, In voi già veggo il raggio Intorbidarsi della fede, e il flore Della virtù sfogliarsi e del pudore. Ma figliuoli non hanno e madri e spose, Quanti le sorti e il freno Reggon d'Italia? ed argine non fanno All' onda impura che le brutta il seno? Quanti l'italo nome Ahi svergognando, ch'è d'onor sì degno, Imputridîr l'ingegno Nel fango della Senna, E dan forma ai più luridi pensieri Nel divino sermon dell' Alighieri! Non da gallica fonte (in essa è morte), Ma lena attingi e voce, Figlio d'Italia, sol dai nostri padri, Dai Grandi che son vivi in Santa Croce. Come del patrio tetto Sarai (schiavo del vizio e dell' errore) Sostegno e redentore? Ma l'opre avverse a tanto Magnanimo desio che Italia grida, Fan che il Franco tra noi di noi già rida. Nelle romite stanze andrai, canzone, Ove l'itala madre, De' figlioletti che le fan ghirlanda, A puri, ad alti sensi è guida e sprone; E dici a lei: mi manda Una figlia d'Oreto. Ove te pure affanni Ciò ch'ella piange ognor nel suo secreto, Ed eco al suo lamento D'un palpito farai, d'un sospir solo; Per l'Italia sciorrò secura il volo.

1864.

Lo vidi, lo baciai quel fior gentile, Unico bene del materno amor; Ei fisavami in volto, e l'infantile Soave sguardo mi parlava al cor. Ma in breve, occulto morbo ahi! la fiorente Sanità del suo viso scolorò; Giacque più dì sovra il tuo sen languente, Nell' alba della vita a Dio tornò. Lina, sul caro avel gigli e vïole Promisi e carmi teneri versar; Ma il commosso desio, ma le parole Sento nel cor, sul labbro mio gelar. Sei tu, sei tu che in lacrimoso aspetto Mi ti affiggi nel trepido pensier, Se al tuo Guido ripenso, all' Angeletto Vivo nel riso dell' eterno Ver. Balzar dal letto al suol precipitosa Talor ti veggio e le piume abborrir: Su morbidi guanciali ahi! più non posa: Sotterra l'amor tuo scese a dormir. Scossa talor dal sonno, in disperato Pianto t'ascolto il suo nome invocar, Lassa! stringerlo al seno, il sospirato Labbro e le gote e i cari occhi baciar. Sognasti forse, e tutto al menzognero Bene insperato abbandonavi il cor, Sì che apparve a l' illuso ebbro pensiero Un sogno la sua morte, il tuo dolor. Spesso pensosa ti vegg'io, romita, Ripetere l'accento, il caro suon, Onde il tuo Guido nella sua partita Ti fea primo, anelato, ultimo don. In quella (oh rimembranza, acuta spina Struggitrice del core, aspro martir!) Che tu stando sovr' esso immota e china Trasfondergli speravi il tuo respir. Lina, non pianger, no: sull' ultim'ora, Che il ciel t'impose, l'amor tuo verrà: E con quel suon, con quell' accento ancora All' amplesso di Dio t'inviterà.

1864.

Nè trepidante dalle amate ciglia Indago i sensi del paterno cor, Se l'imago dell' unica tua figlia Oggi ti porgo in questo vezzo d'òr. All' amor tuo, che ogni altro amore avanza, So che non posso più gran dono offrir; Chè fonte e mèta d'ogni tua speranza, O padre, io sono, e d'ogni tuo desir. Così, come la luce, al ver conforme Sulla carta l'effigie mia segnò, Scolpisca amore sulle immote forme Il cor che intendo e rivelar non so. Questo cor che dal tuo paterno aspetto Beve l'obblio d' ogni dolor terren, E nell' amarti, e nel tuo santo affetto Sente la gioia d'un supremo ben.

1864.

—È sogno, è sogno! Ella qui a me venia, Nè un giorno è vòlto, e al fianco mio s'assise: Qui nel partir da me tarda e restia, La man mi strinse, e di tornar promise,— Tali accenti, sorella, amica mia, Al tristo annunzio che il mio cor conquise, Oppor tentava, e del novello giorno Anelai, paventai, lassa! il ritorno. A te volar, nel tuo ridente aspetto Sperai di asserenar l' alma smarrita; Ma fredda, immota sul funereo letto Tu t'avviavi all'ultima partita, Muto il cor che amò tanto, e l'intelletto Che tanto osava; e a richiamarti in vita Non l'arte valse, i caldi voti o il pianto De' cari figli tuoi che amasti, oh quanto!

12

Al dolor vero della tua famiglia Ecco risponde la città dolente; Esaltar con affanno e meraviglia Da tutti i labbri il nome tuo si sente. Io sull'imago tua stanco le ciglia, E volgo spesso ogni tuo detto in mente; Spesso contemplo sospirando il loco Dove sedesti, e su te pace invoco. Oh! se all' occaso della vita, o cara, Me invan cercasti co'morenti rai, Fu, da che appresi la novella amara, Teco il mio core, e tu dal ciel lo sai; Sai come anch' io la lacrimata bara Del desio, della prece accompagnai, E come allor che si fe' l'aria scura M' assalse uno sgomento, un' oppressura; Chè allor l'anima afflitta, allor comprese Come per sempre t' involavi a noi, Tu fregio, onore del sican paese Che or t'offre il pianto degli eletti suoi. Nel patrio zelo che il tuo core accese, Tu vivrai sempre, e nei volumi tuoi; Mestissimo desio, soave affetto, Vivrai, fin ch'io respiri, entro il mio petto. Verrò, verrò solinga e sospirosa Al sacro loco che il tuo cener serra; E nell' oblio d'ogni terrena cosa Che c'ispiran gli estinti da sotterra, Fra le croci trarrò mesta e pensosa: Genuflessa, al tuo nome, in sulla terra Ove dorme la tua spoglia mortale, A renderti verrò l'estremo vale.

1865.

Quando assisi vi miro innanzi a questo Arnese umìl, fra'libri e fra le carte, Su cui degli anni, che volàr sì presto! Soletta dispensai la miglior parte; Un desiderio sì profondo e mesto Mi stringe il cor dei libri miei, dell'arte, Qual chi sospiri un caro estinto, quale Chi rimpianga il lontan tetto natale. In voi fiso le immobili pupille, Ma vola ad altri giorni il mio pensiero; Sogni d'amor, poetiche faville, Diletti studi, oblio del mondo intero, E lunghe, meditate ore tranquille Nella notturna calma e nel mistero, Cari recessi in cui vagar godea, A voi l' alma ritorna e si ricrea! Allor, muta, raccolta in sul mattino, Fra pensieri celesti, ad ispirarmi Ne' vïali traea del mio giardino, E dal core sgorgar sentiva i carmi: La luce, il cielo, i fior', tutto divino Era ai miei sguardi, e in rimembrarlo parmi Udir gli augei, le squille in lontananza, E quell' aure spirar, quella fragranza. Ed oh, con qual desio, con quale amore La queta del tramonto ora aspettai, E nelle piante la beltà, l'odore Coll' onda della fonte io ravvivai! Nella mesta armonia del dì che more Spiccava dallo stelo i fior' più gai, Per poi fregiarne in umile celletta Le memorie d' estinta giovinetta13 Lauretta Li Greci, molto conosciuta da tutti per la sua immatura morte e pei suoi dolcissimi versi.. Fu sogno! or dove un dì l' alma e la mente Nei volumi per lunghe ore nudria, Ove trar sulle carte amai sovente Ogni affetto gentil che mi rapia (Onde sprone e mercè m' era un ridente Commosso sguardo della madre mia) Or voi, figli, sedete, io fra il loquace Stuolo infantil piango l'antica pace. Io nei lavori, nelle intense pene Del cor materno e nelle cure ingrate Invidio le felici ore serene Che in vani giuochi, o figli miei, sprecate. Deh! se il conforto, se l'etereo bene Che mi fu luce dalla verde etate Ai smarriti occhi miei per voi languiva, In voi l'alma s' acqueti, in voi sol viva. In voi, negli altri figli miei diletti, Se al fin v'infiammi di ben far vaghezza, Oh, mel credete! e negli studi eletti Ogni fior di virtù, di gentilezza…. E allor che il riso dei più cari affetti, Ogni affanno, ogni speme, ogni dolcezza, Per me qual sogno, e l'avvenir s' involi, Nella vostra virtù pur mi consoli!

1866.

Capelli amati, unico avanzo e caro Del mio fratel diletto, Io vi contemplo, e fra me penso: voi Fregiaste il capo al vago fanciulletto Che d'ogni affanno ignaro, Festevole, fiorente Di vita e di beltà meco crescea Fra le dolcezze del paterno tetto: Or vi contemplo in questo vezzo accolti, Aridi e senza vita, Qual foglia di gentil fiore appassita. Aridi e smorti, chè il materno pianto Più da tre lustri su di voi non scende A ravvivarvi alquanto. Ancor la veggio, ancora L'afflitta madre mia! Nella mestissim' ora Del dì morente, inculta Il vestito e la chioma, ell'è seduta Sull' usato veron pallida, muta. Qual candida figura in marmo sculta. Da bianco lin raccoglie Tremando i minutissimi capelli Al caro angiol recisi Ne' dì sereni e belli; E membra ogni suo vezzo, ogni suo detto, Mentre fitta al pensiero Le sta sempre una tomba, e delle forme Che mai più non vedrà, la massa informe. Capelli amati, oh! come un giorno accesa D' amor, di gioia, vi baciai sovente Sul caro capo, quando Per infantil contesa, Se mai brev' ora ne partia fugace Sdegno, ei correva, il fratel mio, chiamando Me con soavi nomi, a far la pace, E un angelico riso Asserenava l'innocente faccia, Poichè stretta m'avea fra le sue braccia. Le gioie dell' infanzia, i bei trastulli, I cari luoghi mi tornate in mente Che ne accogliean fanciulli; E i primissimi studi, i detti suoi, In cui splendea la rara Bontà dell'alma e dell'ingegno il raggio, Tutti rammento con dolcezza amara. L'afflitta fantasia Già riede a'giorni di terror, distrutto Ogni ben veggio, e alla paterna casa Tristezza incombe e lutto. La stanza miro, il letto in cui profondo Gemito mi destò; piangente un volto Mi sta dinanzi, ascolto Nunzio di morte, e già risente il core Tutto lo strazio del primo dolore. Qual talisman voi della madre in seno Capei diletti ognor posaste, in voi Mesto trovò conforto Negli affanni del dì, negl'interrotti Foschi delirii delle insonni notti. Ma in voi del padre mio Non s'appagava il core; affranto, lasso, Dal dolor divorato e dal desio Traeva al cimitero il tardo passo; Colà modesto un sasso Segna il nome del caro figlioletto. Spirar quell'aura, al suolo Ivi prostrarsi, rattenendo a stento I gemiti, il respir, sospeso e intento Restar lung' ora, come Aspettando dal figlio un solo accento, Raccoglier l'erba dalle sacre zolle Baciarla, e con immenso Religïoso affetto Riporla entro il suo petto Era al padre conforto: in tali uffici Ei si sentiva al figlio suo vicino, Quale ne' dì felici. Ahi! ma confusa e mista Fra mille salme era l' amata spoglia, Sì che il paterno pianto Ahi, forse, bagna l' imprecata fossa Che di vile assassin racchiude l' ossa! Ma tu, canzone, il sai Ove il diletto fratel mio riposa; Al santo loco, sulla cara polve Il vol raccoglierai. Ivi con voce mesta, armonïosa, Tal che richiami al core Le più dolci memorie del passato, Ripeti de' suoi cari il nome amato. Allor dal sen di Dio Scender, librarsi sulle bianche piume Tu lo vedrai; se gli baleni in viso Dei brevi dì vissuti, Della dolce famiglia amor, desio, Tu gli ti svela in quella, E digli: prega per la tua sorella.

1866.

Limpido, ciel, bei campi, e zolle amene Di fiori e di verzura inghirlandate, Mite luce d' aprile, aure serene Che di balsami pregne il vol spiegate, In voi sento nel petto e nelle vene Fluir vita novella, in voi beate Immagini d' amor sogna il pensiero, Sente il cor più divino il Bello, il Vero. Ma il loco, l' ora, la stagion, sovente Un dì che più non torna in me ridesta, E i bei fantasmi dell' accesa mente Allor distrugge una memoria mesta: Vigo, lo membri? il ciel così ridente Era in quel dì, sì pura l' aura, e questa Piaggia così spargea di fiori aprile, Quando qui pur venia quella gentile14 Rosina Muzio-Salvo. Su questo seggio, a queste aiuole intorno Sento la sua presenza, e con secreto Dolce tormento, di quel caro giorno I colloqui giocondi in me ripeto: Poscia sul calle lentamente io torno, Ov' ella il piè moveva, e quel roseto Onde m' offristi allor pallida rosa, Riverente contemplo e sospirosa. Ed ora?…. Ella già dorme in cimitero, E tu lungi da me, tu pur n' andrai: Deh! non negarmi un tenero pensiero Da' luoghi ove schiudesti al sole i rai, E pensa, in quella che con gaudio intero L' Etna sublime innanzi a te vedrai, Com' io vorrei di tal vista ispirarmi, E trar sì vera poesia ne' carmi.

1868.

A qual de' vaghi fior', che giovinetta Ne' recessi educai del mio giardin, Somigliarti poss' io, cara angeletta Dall' almo riso e dall' aurato crin? Sulla rorida guancia, ognor fiorita Veggo la rosa qual su verde stel; Ne la pupilla, ov' hai l' alma scolpita, È riflesso il zaffir del nostro ciel. Lene, odorato al par d' aura d' aprile Fra le tue labbra aleggia il tuo respir; È la tua voce a melodia simìle Che ci ridesti a caro sovvenir. Dal lieto aspetto, dalla eterea calma Onde t' irraggia l' innocente cor, Move uno spirto che s' apprende all' alma, E dirada la nube del dolor. Mentre ti credi ad ogni guardo ascosa, E ogni affetto, ogni palpito infantil Negli atti sveli, io tacita e pensosa Ti vagheggio da lungi, o fior gentil. Siedi soletta; eppur la fantasia, Che il suo mondo ideal racchiude in sè, Idoleggia una cara compagnia, E l' ascolti e la vedi innanzi a te. Sorrise parolette e dolci baci, Doni, inchieste, rifiuti e pianto allor, Infantili vendette e care paci E sorrisi e profferte e baci ancor. Vieni, amor mio, sovra il materno petto, Non tra fantasmi che il pensier sognò, Versa il tesor d' ogni innocente affetto, Chè sempre e ovunque a te risponderò, Con quell' amor che mi riscosse in quella, Quando alla vita ritornar mi fe' Un vagito e una voce — oh com' è bella! — Voce, al soffrir durato ampia mercè. In quella, in cui racquista ogni più cara Cosa, che dianzi perder paventò, Il cor materno, onde commosso impara Quanto penar, gioir la madre può. Qui dov' or siedi a vezzeggiarmi intesa, (Volge il terz' anno) io ti mirai quel dì La prima volta estatica e sospesa, E al sen ti strinsi e ti baciai così. Della tua guancia sulle labbra io sento Ancora il soavissimo tepor, E parmi vagheggiarti in qual momento Ch' io ti cingeva la crocetta d' òr. Io t' abbracciava, e dal mio core uscia Fervido un voto: — deh potessi almen Sempre ai perigli dell' umana via Così celarti sul materno sen! — Con che gioia t' offria, con che dolcezza Il petto colmo di vitale umor, Ed ebbra di materna tenerezza Puri, santi pensier formava allor! Per trasfondere in te, non pur la vita Delle membra e il vigor, la sanità, Ma ogni alto senso ond' è virtù nudrita Che guida al ben la tenerella età. Il primo riso, il primo caro affetto Vidi sul volto amato balenar; Ne la pupilla tua, dell' intelletto Io vidi la serena alba spuntar. Che val se quattro e quattro fiate Amore Mi sorrise, la cuna m' infiorò? Ben coll' ardor d' un novo affetto il core Nel primo accento tuo s' inebbriò. Ed or che premi il labbro al labbro mio, Mentre che tua mi chiami e dolce amor, Se l' alito rapirti potess' io E far che spiri ne' miei versi ancor. Trasfusa in essi fin la prezïosa Intima essenza tua vedrebbe appien Pur chi mai te non vide, ed ogni sposa Vorrebbe figlia sua stringerti al sen.

1868.

Annetta, Annetta, guardami; Rispondi, un solo accento; Quel volto, quel silenzio O Dio! mi fa spavento. Vuoi tu, cor mio gentile, Lucente un bel monile? Una smaniglia d' or? Forse un sopor benefico Or molce il tuo soffrire; Ma in me ridesta un dubbio Crudele, un rio martire…. Deh! aprla Annetta, e avrai Ciò che a te più celai Gelosamente ognor. Oh! ch' io ti vegga correre Da questa parte e quella, Tutto rapire, frangere, Piena di vita e snella; E pel materno affetto, O cara, io tel prometto, Mai più ti sgriderò. Ma sulle mie ginocchia abbandonata, Ove dormia finor bella e serena, Come gelida ell' è, come cangiata! Respira appena. Quanti ammiraste un giorno i pregi suoi, Venite, è qui la vaga creatura; Rimiratela, e dite, chi di voi La raffigura? Fugge la notte…. ahi! forse il novo sole, Caro angeletto, tu non rivedrai; E più tua madre con dolci parole Non chiamerai. Nè la veste azzurrina e gli ornamenti, Che acquistarti dovean grazia novella, Potrò vestirti, ed ascoltar le genti, Dir: com' è bella! Ma invece udrò versando amaro pianto, Sommessamente mormorar tai detti: —Vedete là, colei che mena accanto Due figlioletti? Altra fanciulla avea che a sè rapia Attoniti gli sguardi; io l' ho veduta: Che vezzi, che beltà, che leggiadria! … E l' ha perduta! — O madri, o voi che i figli vostri amaste Anzi che nati, e al palpito primiero Che vi riscosse il sen, li vagheggiaste Già nel pensiero; Che ne accoglieste il primo almo sorriso E con un bacio l' ultimo sospiro; D' una lacrima almen bagnate il viso Pel mio martiro. Ma già ridente e florida È Annetta al fianco mio; E se talor correggerne Vo' l' infantil desio, Quella notte rammento, E tosto il duro accento Più profferir non so.

1855.

Fior di beltà, d'amor, di gentilezza,
T' uccise un soffio di notturna brezza.

Figlie, fanciulli miei, che a gara intenti Cullare, vezzeggiar vi vidi ognora Quell' angelo da' neri occhi splendenti, Cui baci e latte prodigai fin ora; Madri che mute, meste a' miei lamenti Una memore stilla il ciglio irrora, Deh! voi mel dite ove nascosta sia La mia bambina, l'angeletta mia. Son poche lune, in questo sen vivea Ignota al guardo, ed io l' amava, oh quanto! Di eletti fior' la culla cospargea, E in partorirla, ahimè, soffersi tanto! A francheggiarla in quest' età sì rea, Di Maria le imponeva il nome santo; Sospeso fra la candida cortina La vagheggiava ognun la mia bambina. Fra mille cure, fra' più dolci affetti Già gli olezzi spandea quel vago fiore; Già col linguaggio de' vivaci occhietti Chiedeva a tutti e rispondeva: Amore. E allor che dolci sguardi e sorrisetti Mi rivolgea, s' io la premea sul core, O solo al suon della mia voce amata, (Forse fu colpa) mi sentia beata! E un bel mattino (oh rimembranza amara!) Come al dì del battesmo io l' adornai; Meco al tempio l' addussi, e a piè dell' ara Per lei fervidamente il ciel pregai: Mira, Signor, quest' angeletta cara, Alla tua Fede, al ben serbala omai; Se trista crescer de' la mia figliuola O sventurata, a me tosto l' invola. Crudel preghiera!… Sul materno seno Tre dì la strinsi ancor bella e vivace; Ahi! ma tosto s' adombra il bel sereno Del suo volto, del suo sguardo loquace. Ahi più non mi sorride! in lei vien meno Ogni vigore, abbandonata giace, E le membra sin or biancorosate, Son lievemente di pallor velate. Non la Vergine santa e non Iddio, Ma tu, madre che or vivi in fra' celesti, Perchè il ver non aprivi al guardo mio Tu che alla tomba d' un figliuol piangesti? Chè, mentre con fidanza e con desio Cercai fra' labbri scolorati e mesti Leggera eburnea traccia, un sol sospetto Del suo malor non mi destavi in petto? Sorride alfin, sorride…. Oh! la vitale Onda che dal mio seno avidamente Dianzi bevea, vigor le infuse…. oh quale Nova luce nel caro occhio languente! Maria, Maria!… ma un tremito l' assale…. Ma versa spuma la bocca ridente…. Quasi frenar quel tremito sperai, Al cor la strinsi, e, stupida impietrai. Poi fu deposta nella cuna. (Ognora Parmi vederla, e il suo lamento ascolto). Ond' io convulsa, a inebbriarmi ancora D' un ben che tosto mi verrebbe tolto, Spirai l' alito suo, stillai talora Latte in que' labbri, e la baciai nel volto I begli occhi fisando e l' almo riso, Ove un raggio splendea di paradiso. Ella viveva ancor, mi stava innanti, Ed io, stolta, infelice io mi stimai! Tremendi, eterni, eppur fugaci istanti, Dal deserto del cor v' invoco omai. Qui sul mio sen colle labbra spumanti, In agonia co' tremebondi rai, O bianca bianca immota in sulla bara Ch' io la rivegga l' angeletta cara! Ma sotterra ella giace…. Oh le adorate Membra che ognor baciai con tanto affetto, E godea nel sentirle abbandonate In dolce sonno sul materno petto, Che difendea per lunghe ore vegliate Solo al ronzio di vagabondo insetto, Or sozzi vermi han guasto; e a me, infelice! Difenderle, vegliarle ahi! più non lice. Ell' è sotterra…. Colle inerti braccia, Prive del caro peso, ognor m' aggiro Fra tanti figli, eppur deserta, in traccia Dell' angeletta mia che invan sospiro. Qual fu, qual fòra al mio pensier s' affaccia, I luoghi ov' era, ov' or sarebbe io miro; E di vederla indomito desio Consuma a frusto a frusto il viver mio. Novero fra me stessa i giorni e l' ore Che in grembo la portai, che di cotanto Tesor fui lieta, e i giorni di dolore Ch' orba dell' amor mio trascino in pianto; Le sue vesti, i suoi lini con amore Religïoso bacio; e beve intanto Nelle memorie di quel ben passato E vita e morte il core esulcerato. Sempre ne' sogni possederla parmi Fiorente, bella; e nel suo volto assorta Ribaciarla, chiamarla, inebbriarmi Nell' impeto d' amor che mi trasporta; E sempre novo, improvviso al destarmi Nel cor mi piomba il tristo annunzio: è morta! Spalanco gli occhi, oppressa da uno schianto, Ahi! la culla non veggo, e torno al pianto. Ben fu la prece mia stolta e funesta, Se fu sola cagion di sua partita; Or desïarla invan, pianger mi resta, E odiar la luce e maledir la vita…. Che dissi mai? Vergine santa, a questa Misera madre che in Te spera aita, Tu di tai detti forsennati e rei Perdono impetra, Tu, che madre sei!

1869.

Perchè, bambina mia, Perchè mi volgi lagrimosi e mesti I grandi occhi amorosi? Forse la sorellina Un ninnolo, una chicca a te rapia? Vien, ch' io ti stringa al petto; Un bacio, un altro, alfin sorridi, obblia Ciò che t' affanna, tenero angeletto, Ch' io tergerò le stille, Con le mie labbra, da le tue pupille. Quando tu piangi, il core Della tua madre si rattrista e geme, Perchè nell' alba della vita appena Tu quel dolor presenti Che al gener nostro incombe. Pur que' grandi occhi tuoi neri e splendenti, Sì belli nella gioia e nell' amore, Se inondati di lacrime sollevi, Quasi invocando la materna aïta, Più belli e più lucenti Brillan di nova vita; E una mestizia languida, soave Spirano, un sentimento Che in fondo alla commossa anima sento. Dolce Maria, tu mi sorridi, e in volto Fisa mi guardi sì, qual ne' recessi Del cor materno penetrar volessi; Va, corri e ti trastulla, E i miei pensieri ascosi Ignora, vezzosissima fanciulla: Tu li saprai quel dì che al seno stretta Vagheggerai leggiadra figlioletta. Or ti dirò che tosto Da te s' involerà questa beata Stagion primaverile Del viver tuo gentile. Oh! nell' uman vïaggio, Dolce bambina, ai cari occhi loquaci, Segno ai materni baci, Lacrime di pietà, di tenerezza Solo consenta il ciel; nè mai, nè mai T' offuschi, il pianto del dolore, i rai.

1873.

Salvete, io vi riveggo, o piagge amene, E le vostre tepenti aure respiro! Ai verdeggianti colli, a le serene Plaghe del cielo, al mar lo sguardo giro. Qua l' onde immensurate, agresti scene Là sul pendìo delle montagne ammiro; E fin sull' erta, sull' estreme alture Campi, vigneti e d' alberi folture. Io vi riveggo coll' istesso affetto Di pellegrin che torni al suol natio: Voi richiamate al bel tempo diletto Dell' amor, dell' infanzia il pensier mio. Quanta spirate dal sereno aspetto Aura di pace! qual soave obblio! Qual senso arcano che m' invoglia al pianto E in me ridesta l' armonia del canto! Delle sere di april, chi la divina Estasi, il riso adombrerà? Scintilla Ampio, stellato il ciel, sulla marina Di tremolante luce Espero brilla; Nereggia la campagna e la collina, E sol per la silente aura tranquilla S' ode interrotto un gracidar di rane, Un fragor di cadenti acque montane. Sublime scena! che all' accesa mente Riviver suol quand' io, sotto l' ombrosa Pergola mia, godo fissar sovente Sul declinar la stella luminosa. E su questo veron, teneramente Sollevar la pupilla desïosa (Forse di me pensando) in ver la stella Veggo bionda e modesta verginella. Modesta verginella, angelo caro A me più della vita, amor, ben mio, Nel cui sorriso, nel cui pianto imparo Quanto esultar, quanto soffrir poss' io. Leggiadro fior cui l' aura mite e il chiaro Seren del tuo bel ciel rende il natio Vigor, l' olezzo che mi fa beata, Terra da me, quanto la patria, amata. T' amo nel raggio che la dolce figlia Bacia dal colle in sul mattin sereno; Nel queto mar cui fisa ognor le ciglia E un pensier volge al suo natal terreno; T' amo nel ciel che l' occhio suo somiglia, T' amo nell' aura che le molce il seno; T' amo nel riso degli aprici monti, Nella pompa regal de' tuoi tramonti.

1873.

Bianca, figliuola mia, porgi la mano, Ch' io vo' donarti un anellino d' oro: Gemma non v' ha, di artefice sovrano Esso, figliuola mia, non è lavoro; Ben ti sarà memoria e talismano, Più caro lo terrai d' ogni tesoro: Del cor, che mai non muterà, sovr' esso, Mira, del cor materno è il voto espresso. Dio ti guardi! (Fu questo il voto ardente Nel darti i primi baci, i primi sguardi) Più che dall' odio di nemica gente, Da finto amore e da sospir bugiardi; Più che dall' onte altrui, dall' inclemente Rimorso di mal' opra Iddio ti guardi; Chè contro i colpi della rea ventura Nobil conforto è la coscienza pura. Oh! quando più non ti sarà d' accanto Costei che al sen ti stringe e benedice Questo anel bacerai, di pace intanto Un' aura sentirai consolatrice. Pensa allor che sui tristi, che sul pianto E gli occulti sospir' dell' infelice, Di lassù (credi e spera, angelo mio), Veglia l' onniveggente occhio di Dio!

1875.

(Dal greco di Anacreonte).

Tra le foglie d' una rosa Picciol ape stava ascosa; Ed amor non se ne accorse, Sì che il dito ella gli morse. Ei volando sen correa A la bella Citerea, E dicea con grido acuto: Son perduto! son perduto! Madre, un picciolo serpente, Che ape chiama questa gente, E sul dorso ha l' ali d' oro, Mi feriva; o madre, io moro. Se t' affligge tal ferita, Rispondevagli Afrodita, Quanto, i petti de' mortali, Non affliggono i tuoi strali?

Agosto, 1849.

(Dal greco di Rufino).

Hai la beltà di Venere, Di Piso la favella, E nell' aspetto florido Tu rassomigli, o bella, All' aure che sospirano Di primavera ai dì. Qual voce di Calliope La voce tua mi bea; Di Temi hai la giustizia, Le mani d' Atenea. O amica, l' alme Grazie Son quattro unite a te.

Agosto, 1849.

(Dall' inglese di H˙ Luscincton).

Coverta era la fossa: i fidi intanto Compagni dell' esiglio Quivi, compiuto il caro ufficio e santo, Stavan con mesto ciglio. Fratelli! un altro prode, iniqua e fera Morte mieteva nella vostra schiera. Furon l' esequie umili, e di pietosi Amici sconsolati Fu lo scarso corteo. Pur fra' pomposi Sepolcri istorïati Che sorgon ne' tuoi templi, o La Valletta, Quale un sì puro e nobil cor ricetta? Se avesse pari al delator sortita Alma di tempra algente, Nemica al Ver che tra le pene ha vita, E prona facilmente Al facile mentir, con più desio L' oro amando che il ben del suol natio; Allor non gli aspri tumulti del core, In vile etade e trista, Non d' un vano aspettar l' ansia, il timore, Non l' affannosa vista Del delitto in trionfo avrebbe tutte Le fibre della vita in lui distrutte. Nè innanzi sera, affranto dal martiro, Qui, su straniere sponde Versato avrebbe l' ultimo sospiro; Ma fòra, ove nell' onde Etna riflette i verdi fianchi ameni, Giunto all' occaso de' suoi dì sereni. Ma non in tutti i cor' l' oro ha possanza, Se premio è del delitto; Onde, offuscata l'Itala speranza. Qui povero, proscritto Il termine varcò d' ogni tormento, E — Palermo! — fu l' ultimo lamento Amico, in mar di tempestoso duolo Ogni speme svania; Speme per te, pe' tuoi, pel patrio suolo: Codarda tirannia Il vol troncava a tante peregrine Virtudi, e un lungo affanno era la fine. La fine? A noi d' investigar non lice: Ma, se al par degli eroi Il vostro genitor visse infelice, Figli, non dolga a voi; Nè che tranquilli più, men decorosi, Nella patria non dorma i suoi riposi. Il cieco evento, e la bugiarda e frale Fama, a colui che imposto Ebbe da Dio l' estremo dì, che vale? Oh! confidiam piuttosto Che un guiderdone in regno più sublime Ha un nobil core, se quaggiù si opprime. Sincero, umano, generoso, onesto Or da ciascun si dice; Ed ei fu tale: il tardo premio è questo Che alla bontà si addice. Salve; l' alta ingiustizia omai cancella Pentito il mondo, e il ver di te favella. Dormi su stranio suol, prode Sicano, Caro ai nostri Angli petti: Rivestito lassù di un sovrumano Splendor, fra gli altri eletti, Il divino Alighier cantato avria L' esule in te che schiavitù fuggia.

Aprile, 1855.

(Dal francese della signora Girardiu).

È questo il giorno, o Vergine, Che a noi donasti Iddio, Il giorno in cui più fervida Ti volgo il pregar mio. D' un grave affanno l' anima Oggi plorar non osa: Maria, son donna e sposa, E un figlio sol non ho. Del Dio grande e terribile O Madre casta e bella, Ecco mi prostro in lacrime Entro la tua cappella: Presso la cuna eterea, Vinta da rio martiro, Piena d' invidia miro Il figlio tuo sì bel. Se questo pianto ingenuo Da te fia benedetto, L' òr delle chiome, i lucidi Monili io ti prometto; I serti miei più splendidi, Vergine santa avrai, Se un figlio alfin darai, Un angioletto a me. Allor nelle domestiche Mura, ove gemo in pianto, Ritornerebbe il gaudio, Sciorrei pel figlio il canto; E, rinascendo all'estasi Che il duol m' avea rapita, Libar potrei la vita Di gioia tutta e amor. O illusïone! rapido Bel sogno disfiorato, Potresti a me sorridere Nel bambolo adorato. Nobile orgoglio, gloria Santa del puro amore, Vi apprezzerà il mio core Stringendo il figlio al sen. Lungi fuggir le insidie Seco potrei del mondo; E il mio sostegno valido Fora quel capo biondo. Su questa terra è debole Il cor privo di affetto: Un caro pargoletto Austera guida è ognor. Tranquilla, l' implacabile Tempo volar vedrei, E nel suo corso mietere Il fior degli anni miei. Nè le appassite grazie Vorrei celare altrui: Che fia vecchiezza? in lui E non in me vivrò. Per sin da me dividersi L' amato sposo infido Mirar potrei senz' odio, E il cor serbargli fido. Muto il dolore, i gemiti Fian muti a tanto oltraggio. Io dir potrò: Coraggio! Son madre, ei tornerà.

Gennaio, 1856.

(Dall' inglese di Tommaso Moore).

È questa dell' està l' ultima rosa Che rimaneva ancor sola a fiorir: Di sue belle compagne l' odorosa Famiglia estinta veggo al suol languir. Nè amico fior, nè vago bottoncino, Che ne rifletta il vivido color, Si sta pietosamente a lei vicino, A ricambiarne il sospiro d' amor. O solitaria! no, languir cotanto Sul gramo stelo non ti vo' lasciar; E poi che dormon l' altre rose, accanto Di lor tu pure scendi a riposar. Così pietoso io spargo le tue foglie, Ancor fiorenti, sull' istesso suol Che delle care tue compagne accoglie L'inodoroso ed appassito stuol. Sì tosto il viver mio si spenga e cada, Quando languisca d' amistade il fior; E quando, pari a stille di rugiada, Cadan le gemme al serto dell' amor. Ove ogni cor più caro è trapassato, Ove ogni cor più fido, ahimè! cangiò, Chi mai diserto, nell' esiglio ingrato Di sì gelido mondo viver può?

Maggio, 1857.

Amarti, o cara, amarti! per la stella Lontana il giuro che su te brillar Veggo dal ciel, sì mestamente bella, E tremolando lacrimosa appar. Così com' essa è l' amor mio piangente, Così com' essa splenderà mia fe'; Amarti, o cara, amarti ardentemente: Sino alla morte mi consacro a te. Lasciarti, o cara, no; lasciarti, mai! Di me non fia quell' astro più fedel; E quando i voti miei fallir vedrai, Anch' esso allora aberrerà nel ciel. Nube notturna può velar la chiara Sua luce, e morte ottenebrar mia fè: Ma lasciarti non mai, lasciarti, o cara! Sino alla morte mi consacro a te.

Maggio, 1857.

Nel mattin di sua vita io vagheggiai Tua bella immago, nè temetti allor Ch' anzi sera, o Maria, potesse mai Pallida morte scolorarne il fior. Ma quel raggio splendea sovra il tuo viso Che sopravvive all' ultimo sospir: Nè mai la vita ebbe cotanto riso, Qual nell' ora, o Maria, del tuo morir. Pari a ruscel che sopra sabbia d' oro Si svolge e scorre placido ed umíl, E sembra d' ignorar che un tal tesoro Splenda, o Maria, nell' onda sua gentil; Sì velato ne' dolci modi tui Il luminoso genio tuo brillò; E quel ch' era un incanto al guardo altrui, O Maria, senza pregio a te sembrò. Se avesser l' alme sempre in ciel dimora, Scesa, o Maria, qui non saresti tu; Se fermar si potesse chi s' adora, Giammai perduta non t' avrei quaggiù. Sebben menti sublimi, e di più rara Beltà ridenti veggiam forme ognor, Pure è membrar di te, cosa più cara Per noi, o Maria, del vivere fra lor.

Maggio, 1857.

Colpìa la vela il tremulo Raggio del sol cadente, E sotto noi riärdere Parea l' onda lucente: Quando fra lunghi gemiti Dall' affannato cor: Ah riedi presto! dissemi Tremando il mio tesor. Di clima in clima l' agile Barchetta fu errabonda, Sbattuta ognor dall' arbitro Imperversar dell' onda; Ma in caldo, in gelo, al placido Tramonto udìa nel mar: Ah riedi presto! un flebile Sospiro mormorar. Pur se quest' alma vigile Scorse il pensier talora Lungi da te rivolgersi, Ah! fu soltanto allora Che di battaglia il turbine Intorno infuriò, Ed ogni prode il cupido Sguardo su me fisò. Ma se dell' armi all' impeto Nel marzïal rumore Taceva l' ineffabile Possa gentil del core, Amor pingea la gloria Bella d' un riso tal. Che cara de' pericoli Rendea l' ora fatal. E poi che spento il bellico Furor che i petti ardea, Al grido, alla vittoria La calma succedea: Ah riedi presto! un gemito Cupo sentia nel cor Il mesto addio ripetere In suono di dolor.

Giugno, 1857.

Quando infelici ed esuli Corriam l' uman cammino, Perdendo quanto il vivere A noi rendea divino, Se al nostro orecchio giungono Note che amammo, allor Che della vita roseo Ne apparve il primo albor. Oh come dolci all' anima Risuonan que' concenti! Care memorie destano Per lunga età dormenti; Scorsi sorrisi avvivano, E gioie che brillàr In occhi che le lacrime Da gran tempo offuscàr. Pari al sospir dell' aure Pregne di mille odori, Che sovra i campi aleggiano D' orïentali fiori, È grato il suon di tenera Canzone che s' udì In ore, ohimè! sì rapide E sì felici un dì. E qual ricca di balsami L' aura prolunga il volo, Sebbene estinti dormano I fior' curvati al suolo, Tal, poi che sparve il rapido Piacere ingannator, Ha un eco nella musica La sua memoria ognor. A te dinanzi languida È la parola, oh quanto! E vien meno all' imperio Del tuo sublime incanto. O perchè mai si esprimono I palpiti del sen Ne la favella gelida, Se tu gli sveli appien? Mente il linguaggio tenero Dell' amistà talora; E quel d' amor che inebbria, È più mendace ancora: Ma dolcemente, o Musica, Le note tue lenir Possono sol dell' anima Le angosce, e non mentir.

Luglio, 1857.

Volâr que' giorni in cui beltà divina Dolcissima intessea catena al cor, Quando da che il sol nasce a che declina Amor fu il sogno di mia vita, amor. Fiorir potranno altre speranze, e adorni Sorger di luce più sereni dì; Ma nulla, nulla fia che dolce torni Come il primo d' amor sogno così. Ben leverassi a maggior fama il bardo, Poichè l' ardente gioventù volò: Il sorriso del saggio avrà, che il guardo Un dì severamente in lui fisò. Pur nel meriggio di sua gloria, tanto Soave gioia non può mai provar, Siccome allor che il suo fervido canto Ei fea la prima volta risuonar Ad orecchio di tenera donzella, Che, suffusa le guance di rossor, Ripeter ne l' armonica favella Il nome dell' amata udiva ognor. Oh! quella prima immagine ridente, Cui pinse Amor, non mai si obblierà; Languida a visitar perennemente Della memoria l' öasi verrà. Fu olezzo che svanì, diffuso appena, Fu visïone alataa del mattin, Luce che più non brillerà serena Sul mortale, mestissimo cammin.

1867.

Nel mattin della vita, allorchè i tanti Suoi dolori ignoriamo, e i suoi diletti Vergini ancor veggiam danzarci innanti; Quando viviamo in un raggiante mondo Che tutto è nostro, e la sua luce arcana Onde siam cinti da noi tutta emana; Non è, mel credi, o cara, In quell' età gradita Che amar possiamo d' un amor profondo, Come possiam nell' ora in cui cotanta Estasi è illanguidita. È amore, albor giocondo D' ogni nostra speranza e d' ogni riso, E quand' essi svanîr, potentemente Nell' anima si sente. Quando il serto primiero Veggiam di gioventù fuggir da noi, Siccome foglia cui trascini l' onda Che più non fa ritorno; Quando la tazza, che brillante un giorno Traboccò di piacer, fia che si muti, In un calice amaro, in quella oh! in quella Su' nostri cor' l' impero Ottien l' affetto con sì dolce possa, Con tenerezza tal, che non si prova Mai nel sorriso della gioia. Amore Tra' piacer' nato, al par d' essi è fugace; Amor che nel dolore Nasce, sarà come il dolor tenace. Ove più splende il sole, Sebben più vivi splendano i colori, Pure un profumo lieve Spandono intorno i fiori; Le nubi son, le brume Del nostro ciel sì lugubre, che appieno Traggon lor grati odori. Tal della gioia in seno Accendersi potrà d' amor la fiamma; Ma il vero affetto nel dolor si svela; E pur ch' egli ebbe vita Fra il riso della gioia e fra l' incanto, Tutto lo spirto d' ogni sua dolcezza Espresso è dalle lacrime soltanto.

1868.

Allor che mollemente Del crepuscolo piovon le rugiade Su' rosei flutti, o cara, La stella io fiso il cui raggio sovente A te guidommi, o cara. Tu pur quell' astro a noi tanto diletto Ah! tu contempli a sera, E pensi che, sebben quaggiù perduta Io t' avessi per sempre, Pur mia sarai nella celeste sfera. Non v' ha sentiero ameno Sul quale io mova di piaggia gradita, Nè fior ch' io vegga, o cara, Che non ridesti in me qualche fuggita Speranza e qualche gioia Teco involata, o cara. E vicino quel giorno ahi! sempre anelo, In cui le offese perdonando e l' onte, Ogni dolore, onde piangemmo in terra, Si possa in riso trasmutar nel cielo.

1870.

(Dal tedesco).

Giacea sognando in una valle or ora, E vidi un raggio della patria terra. Sovresso un prato, cui vesìa l' aurora, Stava il paterno ostello. Come azzurro era il cielo! Come ubertoso il campo e come bello! Come il terren natio Inondava una luce aureorosata! Ma il sogno ecco spario, E a tante care immagini d' amore Successe, ahimè! il dolore. Acceso allor di desiderio ardente Errai lontan lontano Nel diserto paese; Ed erro ancora, ed erro ancora, e invano Cerco il mio tetto intanto; Nol veggion gli occhi miei pregni di pianto.

1871.

(Dall' inglese di Pope).

In questo placidissimo soggiorno, Ove il silenzio a contemplar c' invita, Perchè sovente a tribolarmi torno? Da questa cara al ciel piaggia romita Perchè sen vola il mio pensier lontano, E l' antica m' assal fiamma sopita? Amerò forse ancor?… Sì, la sua mano Questo scritto vergava; è l' adorato Nome, cui d' obbliar mi sforzo invano, Che riveder, baciare ancor m' è dato. Nome caro e fatal! no, non vogl' io Che il mio labbro da te sia profanato. Nasconditi per sempre entro il cor mio, Ove il pensier caro e soave, oh quanto! D' Abelardo, è confuso a quel di Dio. Ch' io più non segni il nome suo, cotanto Non osi questa man…. ma già l' ho scritto…. O ciel! saprollo cancellar col pianto. Invan prego, sospiro; è il cor trafitto Dallo strale d' amor, che a suo talento Sul mio fragile impera animo afflitto. O mura, che chiudete ogni tormento De' volontarii martiri, e suonate De' sospiri che tragge il pentimento! Rocce da pie ginocchia logorate! Antri ingombri di dumi orridi e spessi! Are da grame vergini vegliate! Statue de' santi che domàr sè stessi! Il mio lungo silenzio, e nella mente Lo avervi sempre e nella vista impressi, Non m' han resa qual voi fredda e indolente. Invan mi chiama il ciel, ribelle ognora Natura invade questo core ardente. I digiuni, le preci, i pianti, ancora Spegner…. che dico? mitigar nemmeno Ponno il foco d' amor che mi divora. O Abelardo, che vivi entro il mio seno, Tosto che schiusi colle man tremanti Lo scritto tuo, sciolsi al dolore il freno; Poichè il tuo nome agli occhi miei dinnanti Vidi segnato, il nome che non posso Mai profferir senza sospiri e pianti. Cogli occhi lacrimosi e il cor commosso Scorro l' amato foglio, e, ahimè! non leggo Che i tanti mali onde tu sei percosso. Ivi da te dipinta ora mi veggo Ebbra d' immenso affetto, or combattuta Da tanto duol che a sostener non reggo. Sul fior di giovinezza alfin perduta D' un chiostro mi vegg' io nel bujo orrore, Ove la fiamma più viva s' attuta; Ove i più santi affetti del mio core, Nobili affetti ond' io sospiro ed ardo, Dovran tosto morir: gloria ed amore. Scrivimi tuttavia, caro Abelardo; Scrivimi ciò che l' alma tua risente, Sì ch' io rivolga ad altri giorni il guardo, E ogni mia pena, ogni sospir dolente A' tuoi confonda: tal conforto omai Tòrci non può fortuna, o avversa gente. E tu, di loro più crudel sarai? Scrivi: non alla prece, all' amor solo Le lacrime vo' dar, gli ascosi laì. Che faran gli occhi miei? Tristo consolo Nel pianto mi daran, nella lettura; Scrivimi, e in me riversa ogni tuo duolo. Oh! certo il cielo, con pietosa cura, Certo ispirava dello scriver l' arte Per gli oppressi quaggiù dalla sventura. L' amante, il prigionier, cui lungo parte Spazio dal caro ben, dal patrio tetto, Parla, esprime l' amore in sulle carte. Del giovin core ogni segreto affetto Senza tema si svela e ogni desiro: L' alma si schiude all' adorato oggetto. Sin delusa è l' assenza, e l' ampio giro Di monti e mar vincendo e la distanza, Varca dall' Indo al polo un sol sospiro. Tu il sai con quale ingenua peritanza All' amor tuo da prima io rispondea, Amor che d' amistade avea sembianza. La mente che di te pur s' accendea, Dava angeliche forme al tuo sembiante; Ne' vividi tuoi sguardi il ciel vedea. Allor credendo di poter le tante Tue virtudi ammirar senza timore, Senza rimorso ti divenni amante. Se cantavi le lodi del Signore, Mi parevano i cieli intenti anch' essi Della tua voce alle armonie canore; E assai più belli mi parean gli stessi Detti divini, se talor gli udìa Soavemente dal tuo labbro espressi. E qual precetto, se da te venia, Süader non dovea? da te imparai, Da te, come delitto amor non sia. All' impeto del cor m' abbandonai; Nè adorno più di angelica natura, Chi adorava qual uom, veder bramai. Allor m' apparve in lontananza scura Il gaudio de' celesti, e più non m' arse Desio del ciel, cui l' amor tuo mi fura. Se pur vedessi a me dinnanti starse Cesare ad offerirmi e gemme ed oro E il trono e sin la gloria onde si sparse Il nome suo pel mondo:—ogni tesoro Tienti, direi; regina esser non calme; L' amante esser vogl' io di lui che adoro.— O qual felicità! due fervid' alme Che ubbidiscono unite al solo amore, Finchè lascin quaggiù le fredde salme. Accesi entrambi dal medesmo ardore I veri amanti, negli sguardi espressi I pensieri, i desir leggon del core. Felicità, gioja perfetta è in essi: Tal fu la mia ne' giorni avventurati, Che mi staranno ognor nell' alma impressi. Ahimè que' dì felici or son cangiati! Quale scena ritorna al pensier mio? Legato, ignudo, o ciel! fra gli spietati Sicarî, asperso di sangue vegg' io L' adorato Abelardo…. e ov' era, ov' era, La misera Eloisa allor, gran Dio? Con le sue grida almen, con la preghiera Schermo gli fora stata…. Oh rattenete, Empî, la mano sanguinaria e fera! L' ira vostra su me sol rivolgete; O se d' entrambi fu la colpa, almeno Con la medesma pena ambi cogliete! Ma il suo dolore mi dilania il seno… Per pietà, per pudor, cessate: omai A narrar l' empio caso il dir vien meno. Potresti tu dimenticar giammai, Abelardo, il solenne dì fatale In cui, chinati i tremebondi rai, Stavam prostrati a piè dell' ara, quale Stavano già le vittime tremanti L' atroce ad aspettar colpo mortale? Chè lacrime versammo in quegli istanti! Il vel baciàr le mie labbra di gelo; Abbandonai del mondo i dolci incanti. L' are tremàr, caliginoso velo Offuscò il raggio delle faci, e a stento Alla conquista sua credette il cielo. Sin gli angeli stupiro in quel momento Che i voti pronunciai; pur m' appressava Al santuario piena di spavento. Non sulla croce il guardo mio fissava, Ma su te sol; chè un infelice amore, Non santo zelo, all' ara mi chiamava. Vieni, a lenir deh vieni il mio dolore! Co' sguardi tuoi, colle parole, almanco Confortar t' è concesso il mesto core. Fa che beata mi ti assida al fianco; Ch' io dal labbro e dagli occhi lusinghieri Beva un dolce veleno, e il capo stanco Sul tuo sen posi…. O ciel, sì rei pensieri Per sempre si disperdano!… piuttosto Vieni, o caro, m' insegna i miei doveri. Non più di un bene che s' invola tosto, Ma agli occhi miei squarciando il denso velo, D' un ben mi parla ch' è lassù riposto. Pingimi tutto lo splendor del cielo, E fa che t' abbandoni pel suo Dio L' anima mia calda di santo zelo. Se non odi i miei preghi, il pianto mio, Pensa alle fide suore mie; son esse Che formano il tuo gregge umile e pio. Son piante ch' educàr tue mani istesse, Che abbandonaro il mondo in quell' etate In cui la vita sol di fior' s' intesse. Tu le adducesti qui nelle sacrate Mura, che tu colla tua mano ergesti, Ove pregando traggon le giornate. Tu, caro al cielo, tu gentil rendesti Questo muto deserto, e il paradiso In questo loco selvaggio schiudesti. Qui non veggio orfanel che mesto in viso, Dell' oro di suo padre risplendente Miri l' altare, il suolo, intento e fiso. Qui non è quadro di pennel valente, Nè veggio statua peregrina eretta, Estremo don di peccator morente. Qui sol vegg' io semplicità perfetta, Siccome la pietà che vi si accoglie; Qui meglio, meglio Iddio le lodi accetta. Oh! se tu vieni a queste sacre soglie, Dove vivrem, dove la muta pietra Alfin richiuderà le nostre spoglie; Se sotto queste cupole, cui tetra Notte circonda sempre, un dì verrai, Ove di luce un raggio sol penètra; Con le pupille tue dissiperai Queste tenebre cupe, e a te d' intorno Rifulgeranno della gloria i rai. Ma null' oggetto di dolcezza adorno Qui si rinvien, tutto è mestizia e morte, Suona di pianti e lai questo soggiorno. Vieni, amico, fratel, padre, consorte: La schiava tua, la figlia tua t' ispiri Con tai nomi pietà della sua sorte. Nulla potrà fra tanti aspri martiri, Nulla più trarmi al meditar diletto, O frenar gl' inquïi miei desiri. Non più il sereno inebbriante aspetto Di natura, che s' offre al guardo mio, Moti soavi mi ridesta in petto. Questi pini, piantati in sul pendio Dell' aspre roccie, le cui brune fronde Spesso agitar da un venticel vegg' io; Questi ruscelli, che con limpid' onde Serpeggiando precipitan da' colli, E rimbombar fan le grotte profonde; Questi laghi, che increspa de le molli Fragranti aurette l' alito leggero, E questi oggetti, ch' io beata colli Avidi sguardi un dì mirai, men fero Non fanno il mio dolor, nè pace alcuna M' ispirano nell' alma e nel pensiero. Questi boschi, questi antri ognor la bruna Melanconia possiede, e il tenebroso Ricinto che sol tombe in sè raguna. Essa emana d' intorno un pauroso Silenzio a quello della morte uguale, E colla sua presenza il dilettoso Spettacol di natura, e col mortale Alito attrista, onde l' oppresso core Occulto senso di paura assale. Ella offusca de' fior' l'almo splendore, Terribil rende il mormorar sonante Dell' onde, e tutto empie d' ignoto orrore. Pur qui per sempre star degg' io, fra tante Miserie, monumento sciagurato Dell' obbedienza d' una cieca amante. Ahi! sol la morte può troncare il fato Che qui m' impiomba; qui lasciar degg' io Le fralezze del core innamorato; Qui l' ardor mio fia spento, e il cener mio Aspetterà sepolto qui fra poco, Che unirsi al tuo pur gli conceda Iddio. Misera! ognuno in questo sacro loco Sposa di Dio ti crede, e schiava invece D' un uom tu sei…. Salvami, o ciel, t' invoco! Ma chi, chi spira al labbro mio tal prece? È pietà? è disperanza? o in questo santo Asilo amar profanamente lece? Vo' pentirmi e nol so; mi struggo in pianto Non per la colpa, pel mio amor perduto; Biasmo la colpa, e pur m' è cara, oh quanto! M' ange il rimorso d' ogni ben goduto; Pur de' novi ne agogno; i lumi al cielo Or levo ad implorar perdono, aiuto; Or di te penso e piango e mi querelo; Di rivederti alto desio mi preme, Nè l' innocenza de' prim' anni anelo. Pentimento ed amor confusi insieme Mi scompigliano il core, il cor che omai Perdutamente innamorato geme. Fra l' amore e il dover quanto lottai Per ridonar la pace al core oppresso! Tutto, fuor d' obbliarti, invan tentai. Or più non temo; o padre mio, concesso Mi sia vederti, e a rinunciar m' apprendi All' amore, alla vita, a me, a te stesso. Vieni, il core, di Dio m' empi e m' accendi; Ei sol può surrogarti, o sposo amato; Vieni, alle mie preghiere alfin t' arrendi. Oh! mille volte avventuroso il fato Di tenera, modesta verginella, Che a Dio l' alma e la mente ha consacrato. Gode nel sen de la romita cella Una calma dolcissima, profonda, E il mondo che l' obblia dispregia anch' ella. Un' aura d' innocenza la circonda; Umile, rassegnata, ha la superna Grazia alle sue preghiere ognor seconda. Fra il lavoro e il riposo il tempo alterna; Dorme placidi sonni; il casto petto, Fra le dolcezze d' una speme eterna, Ha mite ogni desìro ed ogni affetto; Di Dio giunge il suo prego al sommo scanno, Nelle lacrime sol trova diletto. Fulgidi rai corona ognor le fanno; Di vaghi sogni messaggeri sono Gli angeli a lei che a custodirla stanno. Il divo sposo le prepara il dono Del nuzïale anel; bianco vestite Donzelle sciolgon di sue lodi il suono. D' Eden le rose ognor vaghe e fiorite S' invermiglian per lei, dall' ali d' oro Fragranze soavissime, infinite Versan sovr' essa i cherubini in coro; Al suon dell' arpe de' beati spira, E alfin sen vola all' immortal tesoro. Altri sogni, altra ebbrezza, ahi! la delira Anima mia fan travïar sovente; L' anima mia che a te soltanto aspira. Quando l' äer s' imbruna, e la mia mente Qual io ti vidi or ti rivede, tace Coscenza, e a te rivola il core ardente. Amo e detesto d' ogni ben fallace La rimembranza; t' odo alfin, ti veggio, Stringere al sen vo' l' ombra tua fugace. Mi desto, lassa! e di sognar m' avveggio; L' ombra s' invola al par di te spietata, E indarno d' arrestarsi io la richieggio. Poi chiudo gli occhi: o visïon beata, Torna, deh! torna a consolarmi alquanto! O de' miei sogni immagine adorata! Ma indarno ti rivedo, ahimè! soltanto Per andarne in quest' arido deserto Errando insiem pe' nostri mali in pianto. Ascender tosto ti vegg' io d' un erto Castel le antiche torri ruïnose, Cui fa l' edera trista orrido serto; O le rocce salir vertiginose Sul mar sospese; ivi mi par dal cielo Che a me scendesser tue voci amorose. Ma delle nubi il tenebroso velo Già ne sepára, mugghian l' onde, i venti Rombano tempestosi; io tremo! io gelo! … Si rompe il sonno: in preda a' miei tormenti Gli spaventati lumi attorno giro, E i tristi oggetti che qui ognor presenti Mi stanno, ahi! solo a me dinanzi io miro. Per te temprava i suoi rigori il fato, E men greve ti rende ogni martiro. Nulla commove il viver tuo pacato Simile al mar, pria che da tempestosi Improvvisi aquiloni sia turbato; Simìl d' un santo ai placidi riposi, Cui rimetteva ogni peccato Iddio, E in un bene avvenir l' anima posi. Vieni, caro Abelardo, amor, ben mio; Che temeresti tu? D' amor la face Non può i morti destar dal freddo obblio. Più periglio non hai; natura tace; Religïon t' ha l' anima conquisa, E indifferenza te invincibil face. Pur t' ama ancor la tenera Eloisa: O fiamma viva che mi bruci il core, Tu invano, invan t' accendi, a quella guisa Di lampa sepolcral che il suo calore Nell' urna invano infonde, ed arde solo I morti a illuminar nel buio orrore. Quai nove, triste immagini di duolo Non m' assalgon la mente? ovunque io miri, Sia pur ch' io mova fra il devoto stuolo Delle suore, o solinga pur m' aggiri; Sia che all' ara mi prostri, o sugli avelli: Sia che mi strugga in lacrime e sospiri: Queste imagini ognor care e ribelli Mi turban l' alma assorta nel diletto, Nel sogno ingannator de' dì novelli. Sempre nel core ho il tuo soave aspetto, Che si frappon tra il cielo e me; se un canto Levarsi odo di Dio nel sacro tetto, Ascoltar parmi la tua voce, e intanto Ogni parola della prece mia Segue una stilla di verace pianto. Quando fuman gl' incensi, e l' armonia Che dall' organo move dolcemente Più ciascun' alma ben disposta india, Un pensier che ti chiami alla mia mente A te mi tragge, ed è per me distrutto Quanto ammirai commossa e riverente. La sacra pompa, i ceri, il tempio, tutto, Fuor che l' idea del mio perduto amante, Per me svanisce immersa in pianto e in lutto. E allor che l' are brillan di raggiante Luce ed invasi di rispetto sono I cherubi, io d' amor son delirante. Pur mentre genuflessa al divin trono Pentita innalzo il pianto e la preghiera Implorando da Dio pace, perdono; Mentre una grazia vincitrice impera Già sull' anima mia, vieni, se l' osi, Nello splendor di tua bellezza altera, Qual ne' dì che ogni affetto in te riposi; Opponti al ciel, contendigli il mio core: Con la malìa de' tuoi sguardi amorosi Vieni, cancella il gaudio e lo splendore Del cielo agli occhi miei; rendi ancor vano Il pentimento del mio grave errore. Sin la grazia m' invola; la tua mano A Dio mi strappi, a' sacrosanti altari…. Che dico? o ciel! fuggi da me lontano. Ci separino monti e vasti mari; Non scriver, non tornare; i miei tormenti Non partir meco e i miei sospiri amari. Abelardo da tutti i giuramenti Sciolgo, dimenticarlo appien vogl' io: Ch' ei m' abborra o di me non si rammenti. Teneri sguardi di Abelardo mio! Dolci pensier' su cui spesso beata Amava vaneggiar, per sempre addio! Tu, diva grazia, virtude increata, Tranquillo obblio d' ogni profana cura, Pace dell' alma, dolce speme e grata, Figlia del cielo, madre della pura Gioia, che pregustar l' almo diletto Fai d' immortal felicità sicura, Venite ospiti cari entro il mio petto: Date riposo all' aspro mio tormento; Sovra un' urna prostrata ecco v' aspetto. Che ascolto intorno? è il mormorar del vento, O voce che qui suona e a sè m' appella, E che più fiate udia pari a lamento? Una notte era fioca ogni fiammella Che arde presso i sepolcri, ed ascoltai Tal voce:—Vieni, o misera sorella! In questa tomba alfin riposerai. Io come te fui vittima d' amore; Piansi, tremai, siccome te pregai. Nel sonno eterno trovò pace il core: Qui solo ha fin degl' infelici il pianto, Religïon qui perde ogni rigore; Chè più indulgente de' mortali, il Santo De' santi a' nostri falli omai perdona; Perdona a noi che abbiam sofferto tanto.— Io vegno, io vegno; gli archi e la corona Preparino i cherubi, e la celeste Lor palma che agli eletti il Nume dona. Io volo dove alfin dalle funeste Cure posano i rei, dove i felici Spirti de' santi pura fiamma investe. Caro, m' appresta tu gli estremi uffici, Tu mi conforta nel lasciar pel cielo Questi luoghi sì cari ed infelici. Guarda le labbra mie fatte di gelo, Gl' immoti occhi mi chiudi, e coll' amante Alma accogli il sospiro ultimo, anelo. No, ch' io piuttosto mi ti vegga innante Nella sacerdotal vesta ravvolto, Col sacro cero nella man tremante. All' occhio mio morente e al ciel rivolto Offri la croce; e insegnami, ed impara Da me a morir. Fisa il mio spento volto, Mira Eloisa che ti fu si cara; Allor non fia più contemplarla errore Presso all' estrema dipartita amara. Mira questi occhi in cui di vita muore Già l'ultima scintilla, e questa gota Su cui la rosa illanguidisce e smore. Stringi allor la mia mano, infin che immota Perderò tutto il sentimento, e il seno Più la vita o l' amor non mi riscota. Come eloquente sei tu, morte! appieno Si comprende per te quanto è follia Lo amare un po' di polve, un fior terreno. Giorno verrà che il riso e la malia Cadran distrutti alfin di tua bellezza, Bellezza onde s'accese l'alma mia. Per te si muti in una santa ebbrezza Lo strazio del morir; nubi lucenti Scendan d' angeli a te; con tenerezza Alla mia pari, le beate genti T' abbraccin liete, e fra' celesti evviva Piovan di gloria raggi risplendenti. Deh! sulla stessa tomba almen si scriva Il nostro nome, sì che l' amor mio Alla tua fama pari eterno viva. Oh! se chiamati allor da un sol desio Due fidi amanti nell' età futura, Del Paracleto15 Il Paracleto, convento fondato da Abelardo., dell' umile e pio Ritiro a visitar verran le mura, Ed a legger la scritta inclineranno La testa sulla nostra sepoltura, Per noi piangenti con profondo affanno: Deh tolga il ciel di amarci come voi Così miseramente!—esclameranno. Chi mentre al cielo de' begli anni suoi Farà olocausto, vôlto impietosito All' urna nostra, piangerà di noi, E nella pompa del tremendo rito Aberrerà dal cielo il suo pensiero, No, per tanta pietà non fia punito. Deh! se alcun vate, sì profondo e fero Tormento provi uguale al mio; se in pianto Ei pur consumi il suo vivere intero, Dall' oggetto lontan, che ama cotanto, I vezzi rimembrando e il desiato Volto, che più non si vedrà da canto; Pur che perdutamente egli abbia amato Qual io, deh! canti i casi nostri. Solo Chi più sarà pietoso al nostro fato, Trarrà meglio ne' carmi il nostro duolo.

1867.

Dedica Pag. 5

NOVELLE.

Imelda 9

Lucia 20

Una magnanima menzogna 28

Agnese 34

La fiducia in Dio 49

LIRICHE.

Stamura 57

Un bel giorno d' inverno 61

Le nozze 63

Nel mio giardino 66

Le Donne Suliotte ai Suliotti 68

Ad un uccello fuggito dalla gabbia 71

La lontananza 72

Il prigioniero 74

Per l' albo di Marietta Piccolomini 77

Una festa in costume 78

A una vedova 80

A una giovinetta pei suoi primi versi 83

A una madre che ha perduto il figlioletto 87

A mio figlio Michelino 88

Alla Poesia 90

A Vittorio Emanuele 93

A Giuseppe Garibaldi Pag. 95

Inno per musica 100

L' Orfana del bombardamento 102

Nell' anniversario del natalizio di G˙ Meli 106

A una stella 108

I miei primi versi 111

Il fantasma, ballata 115

Per la inaugurazione del busto di Giovanni Meli nella Villa Giulia 125

Sopra un' incisione, a mia figlia Carolina fanciulla di cinque anni 127

La viola 130

A Maria Vergine, strofe per musica 131

A Marina Astori 133

A gentile Fanciulla 136

La squilla della sera 137

Al Signore S˙ S˙ 140

Gibilmanna 145

I Fanciulli 149

AFFETTI.

Rimembranza 155

Ode 157

A mio figlio che dorme 160

Al padre 162

A mio figlio Gaspare 164

Il Pianto 167

Nel mio giorno natalizio 170

Nel mandare il mio ritratto a un mio figlio 173

Canzone 174

A una madre che ha perduto un bambino di nove mesi 178

Al padre nel giorno del suo nome 180

In morte di Rosina Muzio-Salvo 181

Ai miei figli F˙ e G˙ che studiano sul mio tavolino. 184

I capelli di mio fratello morto nel colera del 1837 187

Rimembranza, a Salvatore Vigo 191

nel giorno natalizio di mia figlia Dorina, fanciulla carissima di tre anni Pag. 193

Per malattia di mia figlia Annetta. 197

In morte della mia bambina Maria 200

Gli occhi della mia Maria 205

Una visita a Cefalù 207

Dio ti guardi (a mia figlia Bianca) 210

TRADUZIONI.

Sopra Amore 215

A una 216

In memoria di Pietro d' Alessandro 217

Il Natale 221

Melodie irlandesi

I. È questa dell' està l' ultima rosa 224

II. Amarti, o cara, amarti! per la stella 225

III. Nel mattin di sua vita io vagheggiai 226

IV. Colpia la vela il tremulo 227

V. Sulla musica 229

VI. Il primo sogno d' amore 232

VII. Nel mattin della vita, allorchè i tanti 234

VIII. Allor che mollemente 236

L' antica terra natia 237

Epistola di Eloisa ad Abelardo 238

Note 259