POESIE
DI
GIUSEPPINA TURRISI-COLONNA
PRECEDUTE
DA UN DISCORSO E DA UNA NOTIZIA
SULLE VARIE EDIZIONI
DI
FRANCESCO GUARDIONE.

QUARTA IMPRESSIONE.

PALERMO,
STABILIMENTO TIPOGRAFICO VIRZI.
1886

Angel dell' armi, vivida Luce del regio scanno; Tu, che rotando il fulmine Sul capo di Satanno, Dalle sanguigne nuvole, Fra l' ire della guerra, Dispieghi sulla terra Le insegne della Fè; Tu che temuto al subito Cenno volgesti il brando Sui primi che mertarono Il doloroso bando, E dall'eterno giubilo Volti all'eterno pianto, Rinnovellasti il canto Della vittoria al re; Quando fu mai che il povero Raccôr negasti, quando Non festi pei colpevoli Più mite il re, pregando? Tu, mentre il giusto palpita Chiamato alla partita, Nella seconda vita Gli ergi securo il vol. Tu via, tu senno ai liberi Maestri della fede, Ne guidi per inospite Terre senz'ira il piede: Tu nello zel magnanimo Li reggi e nei tormenti, Pur che alle cieche menti Quinci rifulga il Sol. Vinta per te dei perfidi S'attuta la baldanza, Spunta nel cor dei timidi Il fior della speranza; Se a te non volgon gli uomini Un guardo, una preghiera, Chi nell'estrema sera Gli invola al predator? Vedi, o pietoso: in lagrime Quaggiù trapassan gli anni; Ed or nell' alma il cumulo S'accresce degli affanni; Ed or dal Norte un alito Pestifero ne invade, Per l'itale contrade Morte destando e orror. Deh! non udrai degli umili Il pianto e la favella, Mentre crudel propagasi Il morbo e ne flagella? Sorgi, immortal, rianima La speme dei portenti; Sana le afflitte genti Dal supplicato altar. Alzi per te la timida Sicilia ancor la faccia, Nè giunga a lei l'indomito Malor che la minaccia: Chiuse le tombe ai miseri, Pace per sempre rieda; L'inno d'amor succeda Al trepido pregar. Salve, o Piero: in te s'annoda La catena dei portenti; Primo lume dei credenti, Vera pietra della Fè. Salve, o Piero: per te n' oda Sempre mite il Re dei re. Fortunato! Tu vedesti La grand'ora del riscatto; In tua man del nuovo patto Il chirografo restò. Se legasti, se sciogliesti, Iddio sciolse, Iddio legò. Fortunato! Più che sole Nelle vesti, nella fronte, Rivelossi a te sul monte Tra' profeti il Redentor; A te sceser le parole Del portento e dell' amor. Dalla cena il seguitasti Al mestissimo recesso: Oh spavento! nell'amplesso Quivi un empio lo tradì. Oh spavento! lo negasti Tu pur anco, innanzi al dì. Nella prece, nell'affanno, Nelle lagrime dirotte, Quel momento, quella notte Rimembrasti di dolor; E piovea dall'alto scanno Il perdono del Signor. Oh qual fosti, quando il santo Paracleto in te discese, E oltre i monti si distese La tua voce, ed oltre il mar! Dei redenti accrebbe il vanto, Ruppe a Satana l'altar. Tu la chiesa apristi e il cielo Ai cresciuti negli errori; L'egro ergesti dai malori, Il sepolto si levò; Nella luce del Vangelo Tutto l'orbe si mutò. Dell'illusa Palestina Infra l'anime selvagge, D'Antiochia sulle piagge, Sull' italico terren, Chi diffuse la dottrina Dell' ignoto Nazaren? Te giammai non vinse, o prode, La baldanza dei potenti: Nei perigli, nei tormenti Teco amor si raffinò. Dalle man del tristo Erode Un cherubo ti salvò. Pur quel dì, che dilatata Fiamma incese il Campidoglio, Dell'unanime cordoglio Esultando un empio re, Fu l' ingiuria vendicata Nei guerrieri della Fè. Che momenti, quando immoto, Rovesciato sulla Croce, Degli affetti, della voce Ti struggevi nel Signor, E lasciando il cener voto Trasvolasti in sen d'Amor! Di là vedi la tua barca Nell'orror della tempesta: Non paventa, non s'arresta Se dal ciel con lei se' tu: Questo è il tempio, questa è l'arca Della mistica tribù. Vinci tu, nocchiero accorto, De' nemici l'ardimento, Queta l'onda, queta il vento, Vogli al segno il suo cammin; Tu raccogli dentro il porto L'affannato peregrin. Fuggi gli empî: ai tuoi t' invola Nell'età della speranza; Va solingo, ti consola Della lagrima d'amor: Per te scemi la baldanza Dell'antico tentator. Il color di bianca pelle, La ricchezza non è d'uopo Perchè l'uom si rinnovelle Nella santa credità: Anche al misero Etiòpo Splende il sol di libertà. Pei deserti, per le grotte, Nel silenzio, nella calma, Nelle preci della notte Ti solleva di quaggiù: Rinfrancata esulti l'alma Si ridesti alla virtù. Della Croce negli arcani Ti consiglia, ti commovi; Cresci lungi dai profani, Cresci al vanto della fè: Faccian letto i sassi e i rovi, Dian le selve il cibo a te. Ma se l'angelo ti tragge Nei tumulti di Palermo, Sospirando all'erme piagge Perchè temi l'avvenir? Vien; dei buoni ti fa schermo, Ti fa santo del patir. Dell'esemplo, della voce Riconduci i travïati, Dagli altari, dalla Croce Mite Iddio gli ascolterà: Scenda agli egri sconsolati La parola di pietà. Tolto a morte si riscota, Qual dal sonno, il fanciulletto, Che alla madre muta, immota Crudo feretro rapì, Se dell'umil Benedetto La preghiera al ciel salì. Oh qual fessi, quando bella La falange dei cherubi Risonar nell'umil cella Fe' l' invito dell'amor, E plaudendo fra le nubi L'erse ai regni del Signor! Del mestissimo, frondoso Falsomel nell'ermo chiostro, Titubante, lagrimoso Tutto un popol s' adunò: Un cadaver gli fu mostro; Gridò santo, e a lui pregò. Sempre oh riedi! Nell'esiglio Ne difendi, ne ristora; Al tapino asciuga il ciglio, Spezza l'armi del crudel; Per chi giunse l'ultim'ora Schiudi tu le vie del ciel. Va, Giuditta: sul letto nefando Nell'ebbrezza è sopito quell'empio; De' tuoi cari già vede lo scempio, Già n'esulta nel sogno crudel. Va, Giuditta: nel divo comando Vinci, riedi, conforta Israel. Veglian sopra la scossa murgalia Assetati, derisi, languenti, Per la notte levando lamenti, I guerrier dell'offesa città; E paventan che nova battaglia Del nemico trionfo sarà. Al chiaror delle fioche lucerne, Scarmigliate nei crudi perigli, Pei mariti pregando, pei figli Stan le donne dinanzi all'altar: Altre all'orlo dell'arse cisterne Forsennate sen vanno a spirar. Della luna par sangue la faccia, Piangon gli astri coperti d'un velo; Da lontano rimbomban pel cielo Cupi tuoni, che han l'eco nei cor; Dei celesti a chi va la minaccia, La nuov'alba a chi reca dolor? S'ode un grido: vincemmo! accorrete, Demolite, varcate le porte; Non servaggio v'attende, non morte, Dei prodigi vedrete il maggior; Per le tende, pei campi vedrete Negli Assiri diffuso il terror. Chi è Costei che solleva cruenta, Boccheggiante sul pugno una testa? Ogni turba a lei vola, s'arresta, Tace, agghiaccia alla vista fatal: È caduto: che più vi sgomenta, Nel cimento qual ferro preval? Chi è Costei? del deriso Israello È salvezza; inchinate Giuditta: Fra i nemici, fra l'armi l' invitta Sola, inerme, sollecita usei. Ferve il popol; con salmo novello Al trionfo ella il guida cosi:— Lode al Nume, che veglia, che regge La sua plebe, e gli estrani confonde: Dalla terra profana, dall'onde Fece salve le prime tribù: Tutti un segno ne strinse, una legge; Arse tutti l'istessa virtù. Cinque forti al novel condottiero Minacciando; giuraron battaglia, Ei non teme, discende, si scaglia, Dei fuggenti perseguita il vol: Parla al sole l'eletto Guerriero, E la luce prolunga del sol! Fulminato il crudel Madianita, Che non osan le lance di Giuda È trionfo la guerra più cruda, Dei trionfi s'accresce la fè. Chi dell'armi alla prova t' irrita. Israel, chi presume con te? Smisurato l'orribil gigante Ogni ardire sgomenta, ogni possa; Ma già scaglia l'ardita percossa, Già lo coglie l' ignoto pastor: Son più diri nel diro sembiante Gli atti estremi, l'estremo furor.— Di Betulia chi guida la figlia Sola, intatta nel campo deliro? Tronco immane l' indomito Assiro Senza moto, senz' ira restò. Dei nemici la fronte, le ciglia Già l'eterna vendetta segnò. Allungata una mano di foco Nel profano vegliar delle notti, Ecco annunzia ai potenti corrotti La ruina ch'estrema sarà: Nei covili d' inospito loco Altri bruto coi bruti vivrà. Ma pietoso, ma provido ai figli Circoncisi, d'Abramo alla terra, Ogni rischio ne vinci, ogni guerra, Della pace prolungane i dì: Nella gioia, gran Dio, nei perigli Il tuo popol t'adori così. E del viaggio faticoso anch'io Trascorrer veggio il sedicesimo anno, E sento come fugge ogni desio Nella misera valle, ed ogni inganno: Quanti pietosi, ahimè, del viver mio Conforto vero, abbandonata m'hanno; Quanti che meco semplici fanciulli Sorridean nelle fole e nei trastulli. Con che dolcezza candide, serene Di quei primi anni mi rivivon l'ore, Che s'adornavan come liete scene, Come un bel sogno, come un dì d'amore! Di cari eventi, di memorie piene Ritornano dolcissime nel core; E quei tanti discesi negli avelli Ritraggon vivi e favellanti e belli!— Tempo felice! a piè dell'amorosa Antica fante m'assidea le sere, E commossa intendeva e lagrimosa Nelle fole dolenti e lusinghiere, E ripeteva, come santa cosa, Quei cari nomi nelle mie preghiere; Ed oh con che pietà serbava in petto I casi d'una pia, d'un giovinetto! Caramente serrando nelle braccia L' immagine talor d'una fanciulla, La baciava per gli occhi e per la faccia, E di fregi adornavale la culla. Tempo felice! d'aurei sogni in traccia Nulla pur sogno che t'uguagli, nulla Di quei ludi fu mai, di quella mente Più soave, più caro, e più innocente! Poichè d'altri piacer, poichè d'altr'opra La verissima brama s'accendea, Sopra le carte meditando, e sopra I miei pensier, le notti producea: E di qual nei bei rischi il senno adopra, Quella trepida speme in cor sorgea, E viva in ogni loco, in tutte l'ore Nel suo segreto la nutriva il core. Ed un colloquio di che amor, di quale Ritentami pietà!—Pallido il raggio Della luna piovea, le tacite ale Scotea ricca dei fior l'aura di maggio; E sciogliean lamentando oltre il viale Gli usignoletti il flebile linguaggio, Allor che mesta una dolcezza move Dal ciel, dai fonti, e dall'erbette nove. Meco seduta una gentil donzella, Perchè, diceva, nei severi studi Perdi il sorriso dell'età novella, Perchè vogliosa ti travagli e sudi? Qual si legge sai tu, qual si favella: Cessa le cure faticose e rudi, E meglio godi ricreduta, oh meglio Ai passeggi, ai teatri ed allo speglio!— Io di rincontro: il sai; dai teneri anni Arcanamente dentro il cor profondo Un amaro provai senso d'affanni, Un tedio lungo, un diffidar del mondo. Nè della giovinezza i dolci inganni Mi suadono il vivere giocondo; Ma nelle veglie della fida stanza Mi lusinga soltanto una speranza. Ed Ella: statti, chè per me non sono Di così dure tempre; alle amorose Letizie io credo: A te l'allôr; tel dono Se invaghita ne sei; dammi le rose.— A quei detti fidenti, all'abbandono Ahi troppo avverso l'avvenir rispose, E al primo voto, al primo dì d'amore Si recise degli anni il più bel fiore.— Misera! e dalla lagrimata bara Un nome non avrai nei dì novelli, Chè sol dell'opre faticose, o cara, Nei volumi si vive oltre gli avelli: Pel dolce capo tuo, per ogni amara Rimembranza che al cor di te favelli, Io giuro meditar nei giorni mesti, Perchè un vestigio, un'ombra di me resti. Ahi, non è più festevole Riso per me la vita; Ahi come sogno involasi Ratta l'età fiorita; E so pur io le squallide Miserie di quaggiù. Tre lustri son, che al tacito Chiaror del pallido astro, Dal caro fianco a correre Scesi l'uman disastro, Tratta pur io nel secolo Di colpe e di virtù. E m' accogliesti, o candida Madre, nel dolce amplesso; E nelle belle lagrime Fatta più bella, spesso Ti sogguardò scherzevole Dalla mia culla Amor. E dolci premi, e tenere Speranze a te promise; Teco le vicendevoli Pene, i piacer divise; Teco le mie primissime Orme spargea di fior. Dai fanciulleschi strepiti, Dai giuochi, dalle fole Meglio per te mi secssero Gli sguardi e le parole, Meglio spuntò l' incognita Gioia d'un gran desir. Oh, se per me prolunghisi La perigliosa scena, Non crescerò dell'itale Vergogne la catena; Gli augurì soavissimi Non ti dovran mentir! Quanti negli ozì passano La gioventù ridente, Quanti non sanno ad utile Scopo levar la mente, O corrono alle subite Vendette, al folle amor. Ah non così ragionasi Nel sen di tua famiglia! Dell'opre noi, dell'animo, Nel suol di maraviglia Sull'orme dei magnanimi Correm sudato allor. Oh Madre! oh dolce Madre! ah non v' ha nome Più santo e puro, nè più santo affetto! Come son lieta nel tuo gaudio, e come È di te pieno l'infiammato petto! La tua fronte baciando e le tue chiome, Che non leggo negli occhi e nell'aspetto? E che non leggi nel mio cor, negli atti, Nel pianto, nei pensier focosi e ratti? Qual core, o Madre, di', qual senso al mondo È del nostro più caldo e più verace? Qual viver più tranquillo e più giocondo, Qual della nostra più sicura pace? Nè qui nobil desio, nè qui profondo Pensier nell'alma s' invilisce o tace; In te l'ardir, la fiamma, in te lo sprone, In te d'ogni bell'opra il guiderdone! Ve' come franca sulle tele imita Il tuo bel volto la gentil sorella; Come piena d'amor, piena di vita Ride la dolce immago e mi favella! Oh Madre! oh possa anch'io ne' versi ardita Ritrar l'alma, del volto ancor più bella; Ritrar quanto per noi mediti e senti Nelle gioie d'amore e nei tormenti! Questa la meta, questo il bel desio, Il miglior vanto onde vorrei fregiarmi; Di te narrar vorrei, del padre mio Ogni cura, ogni amor nei dolci carmi: Anch'io fama vorrei, l'ingegno anch'io Fra le tombe inspirato e i campi e l'armi; Io d'ogni gloria, d'ogni bella impresa, De' miei Sicani avidamente accesa. Oh cari moti, oh novo gaudio, oh nova Armonia, novo amor, sogni beati, In voi l'oblio de' mali, in voi ritrova Di che farsi divin l'estro de' vati: Ma che giovan quei sogni? ohimè che giova Che oltre il mondo e l'avello aspiri e guati? Più vile, più crudel sembrami questa Vita, quando alla vita amor mi desta. Ma no: dolce è la vita, è dolce il santo Nome di figlia sul materno seno; In quei trasporti, in quel soave pianto Il cor può tutto abbandonarsi almeno! Quanto più lieta, più vivace, oh quanto Avrò più caldo il petto, e più sereno, Ove ai begli ozi del natio soggiorno L'adorato fratel faccia ritorno! O mio fratello! immota la pupilla Qui fisso al cielo, qui di te lamento, Qui sul pallor della mia fronte brilla, Sulle lagrime mie l'astro d'argento! Sol mi risponde la notturna squilla Cupa, interrotta del vicin convento; Ma tu non m'odi, tu chi sa se mai Della suora fedel ti sovverrai! O cari giorni dell'infanzia! o cari Primieri studi! Allor più franco e destro Era l'ingegno, allor di foco pari Tu m'accendevi ed emulo e maestro: Ove quel foco, ove quel riso? Amari, Amari i frutti son del languido estro; Tu mi sei tolto: d'ogni gioia privo Il cor ti segue, mentre piango e scrivo. Deh torna! del mio cor, de' miei pensieri Ridesterai l'ardir: teco gli ascosi Principî svolgerò, gli eterni veri Del tuo Vico immortal, del Romagnosi. Oh, della mente i bei sogni leggieri Disingannando questi generosi, Meglio viver saprò; ch'oltre le nubi Non è dato emular sempre i cherubi. Deh torna, torna a festeggiar con noi L'amorosa, diletta genitrice! No, senza i voti, senza i baci tuoi, Non può sì caro dì sorger felice! Deh non turbarti! ciò che tu non puoi Amor per te le reca, amor le dice; E amor la vegli, del materno core Ogni speme a compir s'affretti amore! Sì, di mia vita il più beato giorno, Il più ridente è questo, il più felice; Questo che sorge del tuo nome adorno, De' miei voti, diletta genitrice: Amor mi guata, amor festeggia intorno, Mille cari pensieri amor mi dice, Mentre raccolta nelle fide braccia T'empio di dolci lagrime la faccia. Lascia ch'io pianga: questa gioia vera Non ha segno, lo sai, non ha parola; Ma tu leggi ogni affetto, ogni preghiera Nel cor, negli occhi della tua figliuola: Oh, se splende giammai letizia intera In questa vita che sì ratto vola, È nei baci, nel riso, è nelle ciglia, Nei trasporti di unanime famiglia! Oh benedetta questa soglia! e spesso Allor che mesta e tacita son io, Riviver sento nel materno amplesso Ogni speme più cara, ogni desio: Nei segreti silenzì, nell'istesso Meditar, nelle veglie, il pensier mio Toglie dai gaudì del materno amore Più franchezza, più lena, e più valore! Se della patria il nome, e i campi, e l'onda Sion conforto ai magnanimi perigli, Deh sulle chiome l'onorata fronda Ti rida un giorno per la man dei figli: Deh ciascun d'essi a' bei voti risponda Nell'affetto, neg'i atti, e nei consigli; Nè travolga, nè dorma, e lasci ai folli Le menzogne del mondo, e l'opre molli. Già maestro ed esempio e guida e sprone Ne regge l'astro del maggior fratello: In lui di tante cure il guiderdone, In lui l'orgoglio del paterno ostello: Ogni speme nell'arte, ogni amor pone, Ogni ingegno la suora, e col pennello Pugne imita e trionfi e selve e monti E sorrise bellezze e ardite fronti. Dolce sorella! e sempre insieme, e sempre Unanimi eravam dagli anni primi; Chè son pari dell'anime le tempre, Pari in ambo il desio d'opre sublimi! Di color, qual non fia ch'unqua si stempre, Tu spirto e moto nelle tele imprimi; Io le bell'acque anelo e i verdi allori Del divin che cantò l'arme e gli amori. Son poche lune, o cara, e il volto mesto Con che pietate mi volgevi mai, Quando, mal certa dell'estrano innesto, Dolorando le piume travagliai: Muta, immota, sopita nel funesto Error degli egri, di morir sognai. Moria tranquilla, e tu in quel punto ancora Mi sognavi—lo membri?—all'ultim'ora. Dolce morte!.. Che dissi! ah no! commossa, Lieta in noi viva l'amorosa madre; In noi, molle di pianto, in noi si possa Il caro sguardo riposar del padre! Oggi adulto l'ardir sento e la possa Nei cimenti e nell'opere leggiadre; Oggi che amor mi suona ed armonia Tutto nel nome della madre mia!— Oh Padre mio! si destano Puri nel cor, felici Di conforto, di giubilo In questo dì gli auspici, E ne' soavi palpiti Che non prevede il cor? Se la virtù fecondisi Dei paterni consigli, Godi all'aspetto, ai docili Pensier dei cari figli, Alle dolcezze, al premio Dell'utile sudor. Oh Padre mio! non ridono I piaceri bugiardi, Nè di prestigi adornasi La vita ai misti sguardi, Fra le dorate immagini Del mondo e dell' età. Offron più dolce gaudio, Più verace speranza I volumi, il silenzio Della romita stanza; Qui, se lusinghe mancano, Rimorsi il cor non ha: Qui di pianto, di languidi Sogni, di gloria vago, Vede i futuri secoli, Pinge di sè l'immago. Parla agli estinti, medita Senza sgomento il ver. Oh come al vuoto, al gelido Torpor del secol mio, Nella sdegnosa, indomita Staël m'accendo anch' io, Come l'ascolto, e affidami Per l' ispido sentier! Ahi! perchè gli estri tacquero Di Nina, e di Vittoria: Perchè se Gallia fregiasi Oggi di tanta gloria, Sorger non veggo un'itala Vincitrice rival? Veggo alle molli invadere Molli desiri il petto; Ma le bell'opre ignorano, Ignoran quell'affetto Che non è mai colpevole, Che non è mai fatal. Oh Staël! di magnanimi Pensier, d'opre leggiadre Nel dolor, nell'esilio Riconfortasti il Padre: Dell'orgoglio d'un secolo Più degna Amor ti fe'! Cedendo senza lagrime Il fior degli anni miei, Sì bella, ohimè, sì vivida Fronda impetrar vorrei; Vorrei, com' essa, coglierla O Padre mio, per Te! E tu di che dolcezza in me, di quale Amor vivevi quando fanciulletta Pe' campi i' folleggiava, e per le sale! E baciandomi il capo, e al seno stretta, Su' tuoi ginocchi mi volevi, oh posa, Dicendo, irrequïeta farfalletta! Come ogni affetto, come è dolce cosa Di quegli anni ogni speme, ogni desio Quando è la legge del dolor nascosa! Ma deh, qual fosti allor, diletto zio, Che ne' severi studi anch' io fui lieta E meditando mi commossi anch'io; Che m'udisti narrar, d'una segreta Gioia tentato, in semplici parole I sospiri d'un veglio anacoreta! Oh speranze, oh contenti, oh sogni, oh fole, Oh notti, oh pianti, quando al cor venia Calda, animosa la virtù che vuole! E tu, segui l'impresa, o figlia mia, Segui, dicevi, nè giammai viltade, Nè ti tragga livor dalla tua via. Deh, quella gloria che giammai non cade Sul dolce capo tuo sperando, io possa Fornir più lieta la mia stanca etade! Oh, sospirando interrompea commossa, Di te, di me farmi vuo' degna, e solo Non fia ceppo al voler temo la possa! Ma se non troncherà fato, nè duolo I miei poveri dì, ne' tuoi consigli Sciorrò più destro e più sicuro il volo, Dall'ambasee non vinta, e dai perigli. Deh torna! oh come ne travaglia, oh come Stanca il lungo desio, dolce fratello! Con quai detti soavi, e con qual nome Fra le scoppianti lagrime t'appello? Tu sai tutto il mio core, e tu sai come Veder ti bramo nel paterno ostello, Ove gioie sì care, ove i begli anni, Ove abbiamo trascorso i primi affanni! Quante care memorie, e quanto spesso A meditarle sospirando torno! A bramar quegl'inganni, quell'istesso Foco, quel gaudio che brillava un giorno! Di che amor non mi rise ogni successo De' primi studì, ogni gentil soggiorno; A quai sogni, a che speme, a che innocente Delirio trascorrea l'aceesa mente! Non i trastulli dell'età più lieta, Non sedussermi gli ozì e i blandimenti; Sola m'intesi, mi sentii poeta, Nel voler, nei desiri, e negli accenti: Sovente m'accogliea cella segreta, Altri giuochi tentando, altri cimenti; Pur mentre udiva, tra gioiosa e mesta, Delle compagne risonar la festa. Oh amiche dell' infanzia! oh lagrimate Dilette amiche! io v'avrò sempre in core; V'avrò sempre negli occhi, o sventurate, Nè fiamma perderà l'antico amore; Con che vero dolor, con che pietate De' cari di vedea reciso il fiore, Nè più m'era la vita un dolce incanto, Nè più trassi dai versi altro che pianto! Nobil pensiero è il tuo d'erger fra rari Cipressi e fiori, e limpidi ruseelli Agli ingegni, o fratel, più santi e cari Scritte veraci su modesti avelli: Ah! quivi del dolor ne' gaudì amari Sarian l'aure più miti e gli arboscelli; Nella mestizia degli affetti miei Tentar quivi la lira anch' io saprei! O tombe! ognor presenti a' miei pensieri Sicule tombe! in voi con pari affetto Due cari segnerò nomi stranieri, Util memoria d'ogni caldo petto: O Marco! degli Ellenici guerrieri Novo indomito Achille, o giovinetto, Vincitor dei nemici in guerra atroce, Per la Patria cadesti e per la Croce! Nel loco istesso, nell'istessa pietra Aroldo mio, tu pur sarai, tu pure Che inspiri al suon della dolente cetra L'amorosa pietà delle sventure: Va, cantici guerrier levando all'etra, Vanne a pugnar tra l'anime sicure; Spendi, prode britanno, infra gli eroi Per gli obbrobri di Parga i giorni tuoi! Splendida morte! Ah sì, nella notturna Pace, a' bei raggi della mesta luna, Pallidi sorger vi vedrò dall'urna, Bruni le chiome, in armatura bruna: S'animerà la seena taciturna, Fremeranno i boschetti, e la laguna; Novo ardir sentirò, novo coraggio Al volto, ai sensi del divin linguaggio. Ma invan, dolee fratello, invano io tento Ne' bei sogni obliar l'ingrato vero; Deh torna! è troppo indugio un sol momento, Se del cor ti precedo e del pensiero.— Qual suon, qual passo, qual'è quel ch'io sento Appressar velocissimo destriero? Oh quali affetti, oh quali amplessi! ah vieni, Vieni alfin ch'io ti baci, e t'incateni! A Novelli, ad Anemolo Anch' io vo' torre il vanto, E sulle tele esprimere Della beltà l' incanto; Ma no, non è più libero Nella sua scelta il cor: Il cor ne' be' deliri Della poetic' arte, Spese degli anni teneri Di sè la miglior parte, Nè sa obliar le tacite Gioie d'un lungo amor. Tu patrio ardir, tu patrie Virtù ne pingi, o cara. Ahi! se l'arti l'abbellano È men la vita amara. Delle tue forti immagini Io svelerò i pensier. Va, t' inspirin le lacrime Del tuo divin Zampieri, E inspireran quest'anima Torquato ed Alighieri. Addio! sia pari il premio S' è diverso il sentier. Oh Malvina! oh d'ingenua Beltà celeste immago! Io, che sol di memorie, Di bei sogni m'appago, Con affetto, con lagrime Penso al tuo viso, al cor. Penso al nome, e rimembrami D' Oscar la vaga sposa Dalla man candidissima, Dalla voce amorosa, Diva dell'arpa, ed ultimo D'Ossian conforto e amor. Benchè nata nell'umido Ciel, sul gelato Reno, Fra le ruine italiche Scaldi la mente e il seno, E t'innebrian le grazie Del linguaggio divin. E tu, poichè sì fervido D'Italia amor t'accende, Fremi, parla, difendila Se alcun la vilipende, Ahi! troppo esultan l'invide Genti del suo destin. Dall'utile, dolcissimo Peregrinar se torni Alle mura domestiche, Ai riposati giorni, Non obliar le sicule Sponde, il bel ciel, non me! Ti seguirà quest'anima In ogni tempo e loco; Per te dell'amicizia Sempre fia vivo il foco. Ben ama sol chi prodigo Degli affetti non è!

*** Aldruda, contessa di Brettinoro, nobilissima romana, vendicò in libertà Ancona, assediata nel 1174 dai Tedeschi e dai Veneziani, rianimando il coraggio dei guerrieri con forti e magnanime parole, e guidandoli ella stessa alla vittoria.—Vedi il libro del Fiorentino Boncompagni col titolo—De obsidione Anconae a copiis Frederici I Imperatoris, ejusque urbis liberatione.

Benchè orrendi perigli Fulminando minacciano dall'onda E guerrieri e navigli, E l'oste formidabile s'avanza Raccolta, furibonda, E le torri circonda; Nei fortissimi tuoi pur volgi, Ancona, Se vero amor li sprona, Volgi il trepido affetto e la speranza: Cadranno, sì, cadranno Le venete triremi, e l'Alemanno. Nè commosso, nè stanco Delle veglie, dei rischi alla battaglia, Rosso di sangue il fianco, Dai cimenti valor toglie il gagliardo, E gridando si scaglia Dalla scossa muraglia; Fra le coorti e le minacce e i teli De' nemici crudeli, Vola sicuro nella man, nel guardo; E per la patria sorte Ottien pugnando degli eroi la morte. Infiammarsi le donne Miro co' padri e co' mariti, e in crude Armi mutar le gonne, E osar più ch'essi, e tra' nemici il foco Lanciar di tema ignude, E nell'ovra più rude, Nei più forti cimenti agili e destre Farsi a' guerrier maestre, Ivi pugnando ove men fido è il loco, Ove ogni cor s' agghiaccia, E altri cade, altri fere, altri minaccia. Mentre per lor si suda, Ai soccorsi, al tuo dir chi non s'affida O generosa Aldruda?— Nè vaghezza d'onor, nè sete d'oro, Nè talento omicida Fra le schiere mi guida, Che pur commossa, dolorosa in questi Lunghi veli funesti, Il mio diletto amor vedova ploro; Ma pel suolo natìo Fra voi, gridàsti, sarò prode anch'io! Con avari pensieri E l'Alpi e l'onde varcan fulminando Gl'indomiti stranieri, E i vasti campi e le cittadi e i regni; In ludibrio nefando, Vinto l'italo brando, Vanno le meste itale donne, oh fato! Col rapitor soldato; E agli uffici più tristi, ai ceppi indegni, Lungi dai cari tetti, Son dannati vegliardi e giovinetti. Oh nei focosi accenti Scaldar potessi di valor, di sdegno Le generose menti; Capitanar magnanima falange Sotto novello segno Al trionfo più degno, Le impazienti vergini sdegnose E le madri e le spose! Chè invan non si lamenta e non si piange, Con indomita faccia Vendicando gl' insulti e la minaccia. Ecco duce e guerriero Fra la polve e le spade il figliuol mio Sul paterno sentiero; E di dolor, di sdegno, di vendetta, Di cruento desio Il cor gli accendo anch' io. Dalle torri, dagli alti baluardi Fulminate, o gagliardi. E che s' indugia omai, che più s'aspetta? Viltà gli animi prostra: Là fra i nemici, e la vittoria è nostra!

*** Il Perez, donando alla Poetessa un Euripide, dirigevale splendidi versi, ultimamente pubblicati nell' Antologia Poetica Siciliana del secolo XIX con proemio e note di Francesco Guardione, Palermo, Tipog. Edit. Tempo. 1885.

Sì, anch' io nel primo vaneggiar beato, Nell'ardir, nella spene Audace, varia dell'età novella, Per vaghezza il coturno ho anch' io bramato! Ma poichè la procella Alle chete succede ore serene, Se conforto è la lira al nostro fato, In quelle larve, in quel leggiadro errore Disingannato non s' affida il core. Nè più s'affida il mio: passò stagione Che trastullo e diletto Alla fanciulla era de' carmi il raggio, E traea d'ogni obietto e fiamma e sprone. Speranza, non coraggio Scemavan gli anni all'animoso petto, Nè l'olezzar di floride corone, Ma un non so che d'arcano e di dolente Si mesce a' sogni dell'accesa mente. E tu il perchè ne chiedi? ahi! le parole Son gelide e bugiarde, E troppo ignoti siam noi stessi a noi! Potrà il riso del ciel, la patria, il sole, Potranno i versi tuoi In me tutta avvivar la fiamma ond'arde Nel cor, negli occhi la sicana prole, E teco, Italia a ridestar che dorme, Del mio Vittorio correrò sull'orme. Giuro il farò: ma pria lascia che infiori, E che asperga di pianto Del britanno Tirteo l'amato avello, Su cui l'argiva libertà d'allori Ponea serto sì bello. Agli estinti, a' gagliardi, il sai, del canto, Dell'ingegno, dell'alma offro i tesori; Nè vili o stolti lusingar, nè mai A me stessa mentir tu mi vedrai!
È ver della natura, Degli uomini, del ciel crudele, ingrata, È la legge per voi, sesso men forte. Legge, che d'onorata Opra inceppa l'ardir, legge che impone Ardue, ascose virtù nella prigione Delle segrete mura. Ma peggior d'ogni legge, e d'ogni sorte Vi travolge, v'oscura, E di fole v'appaga e di mollezza La lusingata fragile bellezza. Tal non fosti, o dolente Saffo, o spirto gentil: vive la cetra, Vive il foco, il tuo amor, Musa più vera! Un solo cor di pietra Non s'accese a' tuoi versi. Ahi! per quel core Dell'universo il desïato onore Pagavi amaramente. Non fur sì orrendi i giorni suoi, non era Sì lugubre la mente Della sicula Nina; e se fu grande Col sangue non comprò le sue ghirlande! E tu, Vittoria, oh come Degna tu fosti d' immortal guerriero, E all'insidie il togliesti, al procelloso Onor d'offerto impero. Non udì femminil canto soave Italia dopo te: spregiâr l'ignave L'allor delle tue chiome. Esulta, o Gallia, e vanta il glorioso Invidïato nome, Di lei, che vinse nell'eterne carte Viril possa, e allibir fe' Bonaparte! Oh Saffo, o Nina, o mia Vittoria, o mia Staël, Muse immortali! O voi beate fra gli amori e l'armi Apriste agli anni l'ali! Passar que' giorni e quegli eroi; non resta Che del dolor la cetra a chi funesta Gelida età sortìa.— Suonin rampogna almen, suonin miei carmi Alla fiacca genia, Se agli studi severi, alle leggiadre Opre tu invan non mi crescesti, o madre. Vergin d'Atene! rendimi Rendi a chi parte il core! Ma no; poichè rapivalo Da questo petto, Amore, È tuo, lo serba; ascoltami Or, che sì lungi andrò: . 1 Romaica espressione di tenerezza che vale: Mia vita, io t' amo! Per questo crin lunghissimo Che scherza all'aure sciolto, Per questa nera palpebra Che bacia il roseo volto, Per quest'occhi si vividi, O Bella, canterò: . Per la zona che adornati, Pei desiati baci, Pe' fior che offerti parlano Del labro più loquaci, Pe' gaudii, per le lacrime Che alterna Amor, dirò: . Vergin d'Atene! seguimi Tu del pensier dolente: Se il piè corre a Bisanzio, Qui resterà la mente; Qui l'alma. E potrà spegnersi Amor sì caldo? Ah no! . È ver; posarsi omai dovrebbe il core, S'è mal gradito, nè più gli altri infiamma; Pur, non amato, serberò d'amore Viva la fiamma! De' miei verd'anni ecco fornito il corso; Non ha più fiori amor, non ha più frutto; Deh che mi resta? col fatal rimorso Lagrime e lutto! Come vulcano solitario splende Nell'alma il foco, e mi consuma, e spira; Non altra fiamma che l'estrema incende Funerea pira! Ogni cresciuto, ogni crudel tormento, Ogni speranza, ogni gelosa pena, D'amor la forza più non reca, il sento, Ch'aspra catena. Oh men leggiadra è qui la mente e l'alma! Dei molli affetti vincerò la possa, Avrò, lo spero, degli eroi la palma, O nobil fossa. Oh Grecia! oh gloria! d'ogni tema ignudo Dell'armi ascolto, delle trombe il suono; Come Spartano sul difeso scudo, Libero sono. Desta, o mio spirto,—chè la Grecia è desta!— Desta il tuo foco, la virtù che langue! Forte mi scuoti: a versar corro in questa Impresa il sangue! Vinci ogni affetto risorgente, indegno O fredda etate!—se per te si sprezza Il riso, il pianto, il simulato sdegno Della bellezza. Oh perchè vivi, se caduto piangi Il fior degli anni? qui novelli onori Frutta la morte—fra le achee falangi Combatti e muori. Facil si trova, e fia per te del forte Bello il sepolcro—intorno guata e seegli; Nè dal riposo d'onorata morte Fia chi ti svegli. Che beato recesso! e qual dolente Soave ebrezza la natura infonde! Ai più leggiadri sogni della mente Sorrido e piango, e a me nessun risponde. Nati all'amore, oh chi l'amor non sente Ove è si puro il ciel, si azzurre l'onde, Sì lieti i campi; ove all'oppresso core Tutto è un suon d'armonia, tutto d'amore. Guardo, e imparo a soffrir con un sorriso, A viver senza invidia e senza sdegno; Come l'auretta che mi bacia il viso, È blando l'estro del commosso ingegno. O dolce luna, o stelle, in voi m'affiso, A voi rivelo ogni desir più degno, E ripeto mestissimi concenti Fra la luce e il silenzio e i firmamenti. Dolce luna d'Autunno! oh quando bianca Sarà la chioma, e vacillante il piede, Ringiovanir potrà l'anima stanca, Se il tuo raggio purissimo rivede: Ma se per me la tomba si spalanca, E d'ogni mal fra poco avrò mercede, Ohimè non chiudan le poetiche ossa In un chiostro; nei campi io vo' la fossa. Ne' campi, fra l'erbette, i fior, gli augelli Quel dolce sonno mi sarà più grato; Che val la pompa di superbi avelli? Meglio un sasso di lagrime bagnato. Della mia vita gli angeli più belli Su questo chineeranno il volto amato; Su questo i lauri fioriran, su questo L'astro d'amore splenderà più mesto. Quel dì, che contemplai lieta e dolente L'onesta imago del Tosean maestro, Che a me sì pueril d'anni e di mente Lo stile invigori, gli affetti, e l'estro; I' benedissi la virtù crescente Del tuo pennello generoso e destro; Senza pianto, gridai, senza contrasto Sien le tue glorie: ad ogni danno io basto. Ma da quel dì quanto sudasti, e quanto Nella mano crescesti e nell'ingegno; Tutto è nell'arte de' tuoi di l'incanto, E della fantasia popoli il regno: A te scrivendo giorno e notte accanto, Ogni effigie che pingi, ogni più degno Pensier tolgo alle fiamme, chè non mai Di te, dell'opre tue paga sarai. Questi cari pensier tutti raccolti In bel volume fra i miei versi mira; Molti li lodan, li vagheggian molti, Ma sol l'anima mia se n'empie, e spira. Un'eterea sembianza, un di quei volti Che sol d'aver sognato il cor sospira, Qui trova il cor. Più del soave Albani Celesti pingerai gli aspetti umani. Deh pennelleggia pur su queste carte Le vittorie d'Italia e di Triquetra; È la patria di noi la miglior parte, E lo sa chi per lei vivere impetra: Pari nel foco, nei pensier, nell'arte, In pari uso volgiam colori e cetra: Tu di te stessa, o cara; io degna sia Del mio maestro e della patria mia. Oh non s'appunta l'anima Nelle terrene cose; Voce non è degli uomini Quella che a me rispose! Nella dolente via Eterea compagnia Mi segue ognor quaggiù. Son meco, ombre invisibili, Gli eroi, gli antichi vati, Le più canore vergini, Gli artefici inspirati: Di gemiti, di canto Pascon l'ingegno affranto. Pungon la sua virtù. Indifferente al giubilo, Ad ogni umana cura, Dispregio come inutile Ciò che immortal non dura; E la gentile schiera Vieni, mi dice, e spera, Con noi ritorna in ciel. Vieni; la terra è un carcere Che gl'innocenti opprime; Vieni, e più dolci e libere Lassù sciorrai le rime: Ivi celesti cori Intrecceran gli allori Sul tu virgineo vel. Ivi fraterne largime, Fraterni baci avrai; Mille sognate imagini Nel Vero emenderai: Ivi nè basso affetto. Nè invidia, nè sospetto; Ivi s'eterna amor. Ivi fra luce e cantici, Nell'astro più sereno, Noi tutte ombre magnanime Ti stringeremo al seno; Benedirem gli affanni De' tuoi brevissimi anni, E il nobile sudor. Vien, pria che tutti sperdansi I cari sogni tuoi, Prima che il fato rendati Più misera di noi; Prima che tempo o loco Spenga il divino foco, E il poetico ardir. Ah sì verrò: nell'estasi Di gioventù gradita, Fra illusioni amabili Meglio è finir la vita: Verrò, verrò: la calma Ritroverà quest'alma Nell'ultimo sospir. Addio piante, addio floridi boschetti, Ove fanciulla vissi e folleggiai, Ove arcani pensier, celesti affetti, E creature angeliche sognai: O care grotte, o frondi, o rescelletti Al cui dolce susurro io meditai, Della gloria nei ratti e dell'amore Ah chi rispose ai palpiti del core? Non vedrò più gli altissimi cipressi, Nè più commossa bacerò quei marmi, Ove fur dalla suora i nomi impressi Nell'arte sua più nobili e nei carmi: Diletta suora! in questi ermi recessi Non puoi seguirmi più, non più ritrarmi; Non più ci narrerem fra questa calma I segreti dolcissimi dell'alma. Qui, fra gli alti dirupi, oh quante volte Sostenni i passi dell'antico zio, In chi fra l'ombre solitarie e folte Risorgeva del vivere il desio: Qui stesso con le luci al suol raccolte, Fatta guida amorosa al padre mio, Quante volte rattenni il pianto invano, E al cor mi strinsi l'adorata mano. Oh padre mio! se vaga, taciturna Ombra sei, tu rivivi in questo seno, Che nè pur freddo esser potrà nell'urna, Che fra' morti sarà d'affetti pieno: Te rivedo alla mesta aria notturna Qual nell'ultimo dì, stanco, sereno; E a me rivolger le dolenti ciglia, E la tua gioia dirmi e la tua figlia. Perchè dei cari estinti ognor favello, E del passato alle dolcezze torno; Perchè richiedo al cor quanti fer bello Questo per me sì magico soggiorno? Invan fra questi rami, invan gli appello E d'amor, di bei fregi invan gli adorno: Passâr per sempre, e di lor vita mesta Altro che il mio dolore a me non resta. Ah qui fra l'aer puro e l'erbe e i fiori, Fra le memorie dei primissimi anni, Accresceva dell'anima i tesori, Qui mi fur cari gl'innocenti affanni: In quai boschetti, in quai silvestri orrori, Sciorrò degli ninni, e della mente i vanni? No, il cor mel dice: al bel giardin natio Dirò per poco, e non per sempre addio. Ridi, o fanciul, concedimi Un bacio, un altro ancora: Oh! quella bionda immagine, Quel guardo m'innamora, Mi desta le memorie Della più dolce età In te vivranno i fervidi Pensieri, il cor del padre, Siccome a lui somigliano Le tue forme leggiadre; La sua virtù, la gloria Più cara in te vivrà. Ridi, folleggia: è rapida L'infanzia degli ingegni: Oh quale arte nel numero T'avrà dei suoi più degni, In che porrai dell'anima L' irrequieto zel? Del genitor magnanimo Scegli, scegli i pennelli; Nell'amor, nella patria T'inspira, e i tuoi modelli Sogna, diletto Empedocle, Sogna, com' esso, in Ciel! Deh godi, o fratel mio, di quest'intero Dolcissimo trionfo, e benedici I tumulti dell'alma e del pensiero, Nell'ebbrezza d'istanti sì felici. Se un caro sguardo, un sol detto sincero Può l'ingegno destar degli infelici, Miglior conforto ahimè! sprone più santo È d'un maestro venerato il pianto. Fra' boschetti d'aranci e fra' cipressi Io meditava di mestizia piena: Perchè non fui presente ai bei successi? Perchè non vidi anch'io sì cara scena? Alle lodi, alle lagrime, agli amplessi Anch'io avrei pianto, anch'io d'una serena Gioia animando le sembianze e il core, Non d'invidia avrei pianto, ma d'amore. E d'amor piango, e per la patria imploro Che sia felice del tuo ingegno il volo: Oh più di gloria a te frutti l'alloro, Se a me sognato non fruttò che duolo. Quel generoso ch'io pur teco onoro, Fra tanti allievi pregerà te solo; Io, se sprone ti fui, godrò pregiarmi Più dell'opere tue, che dei miei carmi. Poveri carmi! oh quante volte, oh quante Io maledissi invan d'esser donzella! Quale ingegno potria farsi gigante Fra meste cure in solitaria cella? Tu pei monti, pel mar, pensoso, errante Vanne, t'inspira, medita, favella; Se la perdita mia per te non senta La patria che adorai, morrò contenta. No, benchè il tempo muta La fortuna dei regni e delle genti, Non han foglia perduta Le tue belle corone, o patria mia! I sensi e le parole Vivon di quanti meditar nascosi Negli ozì generosi; Vivono ancor gli altissimi portenti Dei campioni vetusti, Primieri nei cimenti, Fra lance, e spade, e riversati busti. Deh sì lieto per noi rifulga il sole; Deh, come il cor desia, In noi l'ardire dei sicani eroi, L'antica tempra si rifonda in noi! Se la benigana etade I petti nostri al paragon non chiama Dell'ira e delle spade, Oh ne' caldi pensier, nell'opre oneste Sin riconforti l'alma! Assai più giova di tenzoni e d'armi La bell'arte dei carmi, Che il sorriso di pace e gli ozî brama, E ne lusinga e regge A magnanima fama, D'ogni affetto maestra e d'ogni legge. Vile chi sdegna la sudata palma! Saprà, nelle funeste Cure invilito, nei piacer bugiardi, Come il rossor, se pur l'infiamma, è tardi. E da quest'almo suolo Arditamente d'animosa donna Aprivan gl'inni il volo. Oh quel vanto perchè più non s'agogna Da libero pensiero? Perchè l'umili cure e l'ozio idegno Tolgon foco all'ingegno Se qui, di senno e di virtù colonna, Qui preparava Nina, Disdegnando la gonna, Al divino Alighier l'arpa divina? Deh, mel credete, ch'io favello il vero, Il celarsi è vergogna. Sorgete, o care, e nella patria stanza Per voi torni l'ardire e la speranza. Giovinezza non dura Sulle gote vermiglie e sul bel crine Per letizie o per cura, E tutti spegne dell'etate il gelo Quanti fiorian diletti, Finchè si scavi all'ultima percossa Un'obliata fossa. Deh men crudeli di quaggiù le spine Il bell'oprar ne renda, Ben nate cittadine, E del loco natio l'amor v'accenda. Più sicure dovizie agli intelletti Non piovono dal cielo; Nè soave lusinga o dolce incanto È qui verace, ove sol dura il pianto. Sicilia in noi riscossa Rintegrerà l'indomito ardimento, Le leggi sue, la possa. Ahi! smisurato divampava intorno Il morbo furibondo, E le rapia l'alme più calde, i primi Esemplari sublimi. Senz'ira, senza onor, senza cimenti Un popol si moria Derelitto, sgomento, Per le case dolenti e per la via! Quanti del sogno che più ride al mondo Eran sul primo giorno Quando s'affanna irrequïeto il core Nei dolci voti e nel desio d'onore! O sfortunati nostri, Su voi commosso qual fratel più sente Deplorando si prostri; Guati la corce, e le glebe, e le pietre Su pel funereo loco, E d'uguale virtù, d'uguale affetto Arda il commosso petto.— Pel suol che vi nutria sì dolcemente, E in che durano pure Quanti amati lasciaste alle sventure, Voi lassù, redivivi angeli, invoco: Le divine faretre Suonin sugli empi, e alle natie contrade Torni dei prischi eroi, torni l'etade. E tu vuoi che di rose orni la fronte, E nei campi m'inspiri e nel riposo, Interpetre gentil d'Anacreonte? Oh se 'l potessi! ma sperar non oso, Che ritrar possa quel leggiadro core Il mio cor sì dolente e sì sdegnoso. Oh fortunato! ebbro di vin, d'amore Scherzò cantando, nè vedea la tomba, Nè fu mai vecchio, nè sentì dolore. Invano il suon della meonia tromba Tentò sull'arpa, ove gentil custode Era avvezza a posarsi una colomba. No, quei sogni dolcissimi non gode Quest'alma: alle fanciulle, a' bei garzoni Ei cantò lusingando, io canto al prode. Finchè d'Italia carità mi sproni, Seguirò l'orme di più nobil vate, Di cui tuoni la voce, e il pensier tuoni. Nel vigor dell'ingegno e dell'etate Scriver cose potrei fervide e care, Se godessi dell'uom la libertate. O rupi, o selve, o procelloso mare, È per voi questo cor: ma in una cella Che sentir posso? che potrei pensare? Ah! quando eri tu meco, assai più bella Rise la gloria agli occhi miei: deh come L'esemplo m' infiammava, e la favella! Oh mio maestro! allor bramai le chiome Fregiar d'eterne foglie, allor bramai Ti fosse orgoglio il mio povero nome. Rapide l'ali della mente alzai Dietro a' tuoi voli, e là giugnea la speme, Ove umano pensier non giunse mai. Perchè affannosa la mia mente geme, Rimembrando quei giorni? ahi! troppo certo È quel destin che vaticina e teme. Tutto cangiò per lei, tutto è deserto. Nè d'umil fraticello o d'ava antica Ti ricevea qual talismano eletto, Nè sei memoria di soave amica, Nè ti baciò morente giovinetto: A me il caso t'offriva, e con pudica Gioia t'ascosi nel pudico letto, E rivolgendo a te gli occhi e la mente, Più tranquilla dormiva, ed innocente. Dolce reliquia! il nome venerato Cancellò il tempo, e chi tu fosti ignoro, Non so la patria, nè la stirpe, o il fato; E pur faccio bei sogni, e pur ti adoro. Eri forse un garzone, illustre, amato, E per Cristo fuggivi ogni tesoro, Anche de' tuoi l'affetto, anche la bella Primiera fiamma dell'età novella? Forse usavi del tempio al ministero, Solitario, castissimo Levita? O per la Croce indomito guerriero Il tuo sangue versavi e la tua vita? O santo re di popoloso impero, Con signoria benefica, gradita, Caro agli uomini e al ciel, dal trono all'ara Passavi, esempio di virtù sì rara? No; queste bianche ceneri, quest'ossa Non fur le membra d'animoso duce; Qui d'un guerriero non vivea la possa, Ma di cara beltà l'eterea luce: Quella beltà che vive oltre la fossa, Che sublima, ristora, e non seduce; Beltà d'opre, d'affetti, e di consigli, Sempre ugual nei contenti e nei perigli. Questa polve ch' io bacio era la veste D'una bell'alma nata alla sventura, Uno spirto purissimo, celeste, Un'amorosa ingenua creatura; Fra gli angeli più mesti e le più meste Vergini siede ove ogni umana cura S'oblia, ma non amore, e non può il riso Di tutto il cielo rallegrar quel viso. Un mistero di lagrime e d'affanni Fu il viver suo; nobile, invitto core Tacendo chiuse i floridissimi anni, E il segreto è con lei del suo dolore: Qual perfidia, qual'onta, o quali inganni? Chi trastullo si fe' d'un santo amore? Ah sol quel nome, da quel labbro pio Nell'ultima preghiera intese Iddio! Delle ruote, del foco, e dei flagelli Soffrì più lungo e barbaro martiro, Martiro che non so come s'appelli, Nè s' esprimer lo può voce o sospiro. Le sue vittime chiude negl' avelli, O preda lascia al morbo, ed al deliro, Nel coraggio ella forte e nel perdono, Di salvezza lo fe' strumento e dono. Oh, se le piaghe d'un afflitto seno Disacerbin le rime, alfin sorridi, Sorridi a me che ti comprendo almeno, O dolce Vergin, che giammai non vidi. Ove imbrunì per me l'aer sereno, E d'ogni umana cosa anch' io diffidi, Penserò a te, penserò al cielo, e in vece Del maledir, sul labbro avrò la prece. È la voce degli angeli e dei morti, È dei secoli il pianto e di natura, Che noi nel sogno della vita assorti, Ad altro viver chiama, ad altra cura: Ah tu, squilla mestissima, conforti I languidi pensier della sventura; Tu m'insegni a soffrir, tu mi riveli Che fugge il duol, fuggono i di crudeli. Coi prischi vati, coi guerrier, con Dio Vissi fuor della terra e dei suoi mali: Chi mi destò dall'innocente obblio, Ahi chi mi tolse la speranza e l'ali? Nell'audacia di nobile desio Bramai cangiar la sorte dei mortali, Render tutti felici: ahi! tutto in pianto Miro, e dei giorni miei rotto è l'incanto. No, non vorrei coi morti e nell'orrore Di gelido sepolcro addormentarmi, Vorrei, come rugiada in grembo al fiore, In grembo a rosea nuvola celarmi, Piangere, amar, pregare, in sin che fuore Me dal recesso mio, gli altri dai marmi La novissima tuba un dì ridesti, E n'apra i tabernacoli celesti. Nella libera, immensa aria sospesa Tenterò nuovi liberi concenti, E degli uomini invece, sarò intesa Dagli spirti, dai fulmini, e dai venti. Canterò forti note, a ria contesa Chiamerò le procelle e gli elementi; Canterò le mie pene, e gli astri e il sole Veleransi alle flebili parole. Fuggir sopra una nube! ad ogni umana Cosa fuggire è un nobile deliro, Un sogno etereo, un'esistenza arcana, Un mesto, placissidimo ritiro. Esser viva, esser sola, esser lontana, Desïata nel mondo e nell'empiro, Mistero a tutti, nota sol nei canti, Ebbrezza di cherubi, amor di santi! Ecco: dall' aurea nube armonïosa Veglio la patria mia, desto gli eroi, Parlo ai miei cari, e tenera, pietosa Memoria sono al cor gli affetti suoi. Lungi, o cari, da voi, solo riposa Chi troppo e invano s'agitò per voi; Addio per sempre… E tu di là tranquilla Ripeti il mesto addio, funerea squilla. È rotta, è rotta del dolor la lira: Oggi senza fatica e senza pianto Il più verace amor l'anima inspira. L'amor più degno di celeste canto, L'amor di suora generosa e cara, Delle patrie contrade orgoglio e vanto. Di lauri e rose la mia man prepara I genïali serti, e infiora a lei Di lauri e rose la domestic' ara. Vien, dolce amica dei be' giorni miei, Vieni, e come il ciel vuole, a lui ti giura, A lui che, spero, intenderà chi sei. I proprî mali, il proprio duol non cura Quest'alma al duol temprata, e, se ti perde, Allegrerassi nella tua ventura. Insiem cresciute dall'età più verde, Pari nel cor, nei modi, nei consigli; Ah sì fida amistà non si disperde! Affetto di consorte, amor di figli Deh men cara non renda la compagna Dei piacer, dei trastulli, e dei perigli. Oh non guardarmi! il pianto che mi bagna Non turbi il tuo bel volto: in questo giorno Di non esser più forte il cor si lagna. Sebben tu stessa dal natio soggiorno Puoi senza pianto congedarti, dove Quei dì traemmo che non fan ritorno? Qui dolci studî, qui sublimi prove, Pace, silenzio, amor, sogni dolenti Offrian dolcezze ognor gradite e nove. Qui coi vivi non fur le nostre menti: Nell' ira, nel dolor, nella speranza Fur colle prische e le venture genti. O severi volumi, o notti, o stanza! Quei divini piacer mai non sentia Del viver nostro chi spregiò l'usanza. Non titoli, non pompe, o suora mia, Ma le bell'opre, il nobile sudore Quel grido ne daran che non s'oblia. Vien; ti guidano all'ara dell'amore I parenti dolcissimi, i fratelli, E commosso per te prega il mio core. Vien; più ridenti i giorni tuoi, più belli Render saprà chi t'ama, e acquisterai Al suo fianco, o gentil, merti novelli. Oh s'ei mi fura il core dove io regnai, Oh ne sia degno, e ch'io lo benedico Allor che sei più lieta sentirai! A ridestar la possa, il grido antico, L'arti, l'onor del siculo terreno, S'egli ti pregia, non l'avrai nemico. Sotto il volto più mite e più screno So qual'alma tu celi, e, se più occulta, Non men calda la fiamma è del tuo seno. A questa terra d'ogni oltraggio inulta Invidii almen per noi le tele e i carmi. Ogni terra più libera e più culta. Util estro vogl' io: la patria e l'armi Suoui il greco mio plettro ai miei Sicani; Ah, ma te più non ho per inspirarmi! Se fuor ti mena dei silenzi arcani Che sì dolci ne fur sorte improvvisa, Sarem divise, ma nei dì lontani La gloria nostra esser non può divisa. Per le britanne amiche, Pei giovani britanni, Non obliar gli affanni Del nostro addio crudel. Ohimè! potrà mutarsi Il tuo men forte core; Non muterà l'amore Di questo cor fedel. Nè titoli, nè pompe Auguro ai giorni tuoi: Ah misere siam noi Anche fra gemme ed ôr. Un nobil petto renda L'amica mia felice, E sposa e genitrice Qui la rimeni Amor. La chioma è d'oro, vergini le rose Nel volto della bella innamorata: Mille piacer, mille dolcezze ascose In chi l'ascolta desta, in chi la guata; Ma le luci talor china pensose Con quell'atto gentil, quella pacata Malinconia sì dolce e sì potente, Ch'è lo spiro dell'anima innocente. E a lei che sensi nell'oppresso core Che lusinghe sorgevan, che diletto Nei colloquî d'ebbrezza e di dolore Con l'inglese adorato giovinetto! D'ogni cara memoria per lunghe ore Favellando commosso, e d'ogni affetto, O mia Teresa, ei ripetea, fornita A mezzo del cammin sento la vita! Talor nel più tranquillo e più remoto Loco ristando meditava in pianto, E chiuso a tutti, a sè piacente e noto Fea negli alti pensier più bello il canto. Rapir l'alma sentia d'un gaudio ignoto, Benchè dai voli della mente affranto: Celeste gaudio di ritrarre interi Quai si senton gli affanni ed i piaceri. Un dì Teresa a lui: se in dolci modi Per te Torquato sospirò, far segno Non vuoi di sante e generose lodi Il primer d'ogni vate e d'ogni ingegno? Esul, perduto dalle inique frodi, E nel dolor più grande e nel disdegno, Dante qui posa. Oh nome! oh ria fortuna! Dei sommi è patria il non averne alcuna. Sì, Giorgio interrompea; negli alti carmi Chi lo vinca non fia, nè chi l'uguagli: A quella tomba corro ad inspirarmi, Ove posa dai rischi e dai travagli: Che plori e inchini ai suoi funerei marmi Un estrano cantor dolce saragli. Comun lo sdegno, l'onorate cure Ho comuni con esso e le sventure. Toccava l'ora quando il ciel s'annera, E mesti sensi nella mesta cella Spira il vasto silenzio della sera A chi pensando col suo cor favella: Impregnata dei fior l'aura leggiera Scherzava tra la fresca erba novella, Ed una nuvoletta bruna, bruna Velava il volto alla sorgente luna. Incerta luce moribonda e cheta Piovea sul muro del vicin convento, Sul tempietto piovea del gran poeta, Chè tempietto rassembra il monumento. Ivi inoltra il Britanno, ivi s'acqueta Pallido, muto, senza movimento. Silenzio è intorno a lui, nè vento romba Entro i cupi recessi della tomba. Ahi, son care le tombe! ed oh qual vero Non disvelano all'anima commossa Gli archi, la scritta dolorosa, il nero Teschio, dai fori manifesto, e l'ossa? Ahi de' vetusti Achei santo il pensiero Che ai morti non apria lontana fossa; Ma spento il rogo, lacrimata e cara Nel proprio tetto avean la tomba e l'ara. Quali brame d'onor, quai pensier santi Destan l'urne dei vati e degli eroi, Che dopo il volger di tanti anni e tanti Vivon nell'opre, e si fan duci a noi! O Firenze! primier di tutti i vanti L'altissimo delubro additar puoi, Là dove stanchi posan nell'avello Michelangel, Vittorio, e Machiavello. E se Quegli non v'ha che in molli rime Lusingava la bella Avignonese Esule volontario, al re sublime Dei cantor chi matrigna, oh Dio, ti rese? Perchè negasti a chi le lodi prime Diè il mondo, l'aer del natio Paese, E, nova Atene, il generoso figlio Disdegnasti nell'opra e nel consiglio? Giorgio si scosse: ed o cantor divino, O giudici dei rei, saggio famoso, Dolce il vale ti sia d'un peregrino, Sia tranquillo, pregava, il tuo riposo: Quando tremò l'avello, e repentino Lo percoteva un raggio luminoso, E uscì del velo sepolcrale sgombra Con la testa e col petto una grande ombra. Scarne le tempie avea, pallido il volto, Minacciose le labbra, il guardo fiero, E sulla fronte ardea, sul ciglio folto La magnanima bile ed il pensiero; Ma fe' mite il sembiante, e a lui rivolto, Che, muto, agli occhi suoi non crede il vero: Dai silenzî di morte e dagli orrori Per te mi desto: Io son colui che adori. O giovin, proseguia, dei canti il volo, E l'indomito ingegno, e il cor profondo A me t'uniro: nè un sol ciel, nè un solo Terren; ma patria degli eccelsi è il mondo. Chinando gli occhi riverenti al suolo: A te innanzi? oh gran Padre! oh che rispondo? Oh gioia! oh vista! e, pien di mille affetti, Il Britanno seguiva in franchi detti: Oh quante volte io piansi ai tristi eventi Dei due cognati, alla querela pia; E su lui che dei figli ode i lamenti Nella cruda, lentissima agonia! In quelle orrende bolge oh come tenti Ogni parte dell'alma, ed ogni via; Come favellan sanguinosi bronchi, E vagolanti fiamme, e capi tronchi! Deh con che pianto udia l' acerba sorte Della tradita giovine Sanese, E di Manfredi l'onorata morte, Sì gagliardo, sì bello, e si cortese! Fra l'ombre che parean cose rimorte Inaspettato vidi il buon Forese, E nella vaga nuvola di rose Le più care d'amor sembianze ascose. Nei begli occhi rapir del tuo tesoro Di cielo in ciel ti vidi; e come rida E Piccarda, e Martel nell'alto coro, E Folchetto rimembro e Cacciaguida. Fra torrenti di luce, e scale d'oro Chi tender l'ali del pensier confida, E nella gioia dell'eterno canto Manifesto veder dei santi il santo? Oh estasi divina! oh idee celesti, O nell'immenso vol robuste piume, O dolci versi! Come ritraesti Di lassù tanto gaudio e tanto lume? Sorrise alquanto ai blandimenti onesti Quel magnanimo fuor di suo costume, Chè della vita dopo l'ultima ora Dolce è la lode, e ne ritenta ancora. Poi traendo un sospir, deh per qual fato Questa voce, dicea, non fu gradita? Perchè lungi da' miei m' ebber dannato Alla raminga dolorosa vita? Nè coi tristi pensai, nè fomentato Gli sdegni avea della città partita, Nè guelfo sollevai, nè ghibellino Impuri voti al ciel; ma fui latino. E povero, e vetusto intorno errai, Senza brutta viltà, senza paura, E gli argomenti d'ogni ver tentai, Così fatto maggior della sventura. Resti il mio canto almen, resti, gridai, De' cor maestro nell' età ventura, Testimone del mio: nei sensi egregi Meglio viver sapran popoli e regi. Nei labri, nel sentir, nell'intelletto Pochi sì caldi, sì veraci sono; Chè d'eccelso pensier, d'eccelso affetto Non fan linguaggio delle rime il suono. L'invariato povero subietto Al gran vate di Sorga io non perdono: Ahi, che Italia sonar dovevan sempre Delle melodi sue le dolei tempre! Meglio l'ali tendea l'ardito, immenso Cantor di Bradamante e di Marfisa, E caro in ogni detto, in ogni senso, Guerre, incanti, spelonche, orror divisa. Pur sovente con lui favello e penso Ove più bello il ciel s' imparadisa, E mi querelo che d' amor, di folle Vaneggiar l'invaghiva il secol molle. L'infelice è con noi che del Buglione Cantò la santa impresa e i lunghi affanni, Cantò d' Armida il giovine campione, Vincitor de' nemici e degl' inganni: Misero! nell' orror d'una prigione Misurando tradito i giorni e gli anni, Seppe come agli iniqui ed ai potenti È trastullo il dolor degli innocenti. Ma pien di riverenza e di desio Sempre è meco l'onor d'Italia e d'Asti: All' opre tue non è, Vittorio mio, Non è gloria quaggiù tanta che basti. O divo ingegno! a te qui risposi io, Qui dei fati, di me qui meditasti, E di pari desio, d'animo pari, Nuovi serti m' offristi e nuovi altari. O mio Vittorio! nell' ausonie rive Degli alti versi tuoi stupir le scene Al molle canto avvezze, alle lascive Lusinghe d' istrioni e di sirene: Dell' italo coturno in te più vive Surser le glorie e la perduta spene: Oh come impallidir sulle minori Fronti dinanzi a te veggo gli allori! E ride anch' ei nell' immortal soggiorno Di chiarissima luce il buon Parini, Che de gli amanti l'ozioso giorno Derideva coi numeri divini: Stanco, dolente al ciel fece ritorno Fra l' ire della guerra e dei destini, Quando truci pensier l'eroe fatale Sull' illusa volgea terra natale. Eroe che nel valor, nell' ardimento Scemò la fama degli antichi prodi, Venne, vinse, opponendo i dieci ai cento, E Marengo, e Vagramme, ed Ulma, e Lodi: Polve di Vaterlò! duro cimento, Fatal punto dei rischi e delle frodi! Come si spense all' animoso ingegno Del trionfo ogni speme, ogni disegno! D'inconcepibil duolo, in erma riva Agonizzando la prostrata salma, Rivolgerà commossa, fuggitiva Pugne, e vittorie ancor la nobile alma! Oh di foco nutrita, oh eresea, e viva D' ogni ardir la memoria e d' ogni palma; Sorga, deh sorga all' immortal guerriero Più divino del prisco un novo Omero! E già nel moto di vicende tante Inspirarsi vegg' io pochi gagliardi: Veggio la gloria dell' estrema Zante, E il cantor del Basville, e il Leopardi: Spezzatrici del fasto e del sembiante, E dell' esca dei vezzi e degli sguardi, Veggio d' Italia generose donne Farsi di senno e di virtù colonne. Nè tu fallire a gloriosa meta Potrai, figliuol; ma va: Grecia t' aspetta; Più che dei suoi guerrier di te sia lieta, Di te nel giorno della sua vendetta: Va; quando ogni bell' opra a te si vieta Nell' infelice mia terra diletta; Va, che più indugi? fra tiranne spade Fortunato è colui che vince e cade. Sì, Giorgio interrompea, maggior dei carmi È quel cimento; si, correrlo giuro: Fra la polve e gli estinti e 'l sangue e l' armi, Sete ho di gloria anch' io, nè morte curo. Ma ripiegò nei benedetti marmi Quello spirto magnanimo e sicuro, Chè i rosei del mattin raggi sereni Dipingevano il ciel per tutti i seni. Alfin partia. Chi del crudel momento Può narrar le memorie ed il dolore, E ciò che disse ai monti, all'acque, al vento Di quella terra ove lasciava il core? Oh come quel dolcissimo lamento Fu travolto per ira o per livore! Qual menzognero addio sulle divine Labbra pose un Francese, un Lamartine? Taci! l' italo amor del mio Britanno, Gl' itali sensi, oh male, oh mal comprendi: Non all' Italia no; ma frutteranno Onta infame a te stesso i vilipendi. Italia morta? e innanzi a te non stanno Ancor vivi, temuti, ancor tremendi Ugo, Alfieri, Canova? e presso a questi Sì magnanimi eroi, dinne, che resti?— Quella terra, quel ciel che l' innamora, Pien di mille pensier, di mille affetti, Giorgio saluta dalla mesta prora Coi sospiri, coll'anima, coi detti: Chi non sogna di te? chi non t'adora, O bella Patria d'animosi petti, Bella Patria dell'arti! il viver mio Tu che allegrar potesti, Italia, addio. Italia! Italia! com' è dolce il suono Della celeste armonica favella! Nel ciel, nelle adorate aure, nel dono D'ogni cosa gentil, come sei bella! Di foco è l'alma dei gagliardi, sono Di foco gli occhi d'ogni tua donzella; E da quegli occhi, da quell'alme anch' io Se il bel foco ritrassi, Italia, addio. Ahi! per le sette cime e per le valli Dei famosi che avean la terra doma, Più non s'urtan guerrieri, armi, cavalli, Più non suona il trionfo Italia e Roma; Nè più s'avventa ai minacciosi Galli, Sanguinoso gli artigli, irto la chioma, Il gran Leon di Marco, e steso e muto Anco abborre l' eroe che l' ha venduto. Venduto! ahi rabbia! qual vergogna è questa, Qual crudo patto, quale iniquo orgoglio! L' italo sangue avrai sulla tua testa O snaturato nell' infame scoglio. Tu le piaghe sanar d' Italia mesta, Tu rialzar dovevi il Campidoglio, Tu di Cammillo erede, il brando e il senno Vendesti ai figli che scendean di Brenno. Fioria d'ogni virtù, d'ogni divina Arte di pace questo suol fioria, E il tuo brando recò fatal ruina, E libertà peggior di tirannìa. Oh bugiardi Lieurghi! oh Cisalpina, Oh congrega di ladri, oh peste ria! Fu per l' italo suol, fu crudo inganno Se Marengo vincesti e l'Alemanno. Com'aquila fra i nembi, o come lampo Terribil passa, egli passò l' invitto; E copre mesto, solitario campo Il terror dell' Italia e dell' Egitto. Io, benchè tutto alla memoria avvampo Di tanto eroe, di si fatal conflitto, Io fremo, e dico: se vittoria il guida, La comprò col delitto il parrieida! Oh perdona all' ingrato! oh alfin riposa Dopo tanto dolor, tanto contrasto, E a più bei studi intenta, o generosa, Spregia l'armi crudeli e spregia il fasto: Teco, madre d' eroi, teco avrò posa Io che a soffrir la vita, ohime! non basto. Ritornerò più grande; il cener mio Qui dormirà compianto: Italia, addio. Deh posa, posa: troppo dolce e santo È d'una pace desïata il raggio; Ma pace bella d'ogni nobil vanto, Non ozio d'infingarde alme retaggio. Divina Italia! con che amaro pianto Vado altrove a cerear lodi al coraggio; Pur Grecia sogno, e mi vi chiama un Dio… Addio, patria mia vera, Italia addio. Oh Grecia! oh Grecia! qui fu vate, e invano Amò l'ardente Saffo: ai numi, ai prodi Ergea qui l'ara Omero, e il buon Tebano Armonizzò le rapide melodi. Oh Salamina! oh sanguinoso piano Di Maratona! quale onor, che lodi Ai vineitori! in che diversa barea Ripassò l' Ellesponto il gran monarca! Sorgi o mia Grecia! rotti i ceppi, è rotto Di servitude obbrobriosa il giogo: Novello Codro il giovin Sulliotto Salì contento per la patria il rogo: Non vo' pianto dicea; chi v' ha condotto Il nome a vendicar del patrio luogo Primo vincea, primo cadrà: sol voglio Frutti esempio il mio sangue e non cordoglio. S'ei cadde, o Grecia, vien sulle tue rive, Greco d'alma e di sensi un nobil vate, Rivive Alceo, Leonida rivive Nei bollenti pensier di libertate. Le più dolci lasciava e le più vive Gioie senza dolor, senza viltate: Tu fra gli eroi l'accogli in Missolungi; Ai trionfi ei s' appresta; ei non è lungi. Pallida, mesta risplendea la luna Sul nero bosco dei frondosi ulivi, E fra l'ombre perpetue bruna bruna L'acqua scorrea dei taciturni rivi: Pieno è il loco d'orror, stanza opportuna Ai lepri, ai daini, ai cervi fuggitivi, E il cavo tronco delle annose piante Offre vasto ricetto al viandante. Giorgio spesso vi riede, e una celeste Vaghezza di silenzio e di riposo In questo loco sì deserto, in queste Solitudini sente il doloroso: Va lento il suo destrier; tacite, meste Seguon l'amiche schiere, il numeroso Drappel di Sulliotti, impazienti Di vittorie, di rischi, e di cimenti. Bianca sull'elmo dei guerrier, sul petto È del bell'astro la pacata luce, Ed oh come il pallor del giovinetto Più soave, più languido riluce! Trasognato, qual fuor dell'intelletto, La fidata coorte ivi conduce, Nelle stelle, nel ciel tacitamente Fissi gli occhi tenea, fissa la mente. Quante dolci memorie, oh quai pensieri Nella mesta ridean mente invaghita: Oh come presentia che, fra guerrieri, Guerrier chiuder dovea tosto la vita! E tu, donna gentil, presente gli eri, Più dolente che mai, più intenerita: Invano udir la cara voce, invano Baciar volea quei labbri o quella mano. Ripensò i giorni dell'infanzia, i mille Conforti degli studì, il primo affetto; E le colline d'Aro, e le tranquille Gotiche sale del paterno tetto: Di che speme, dicea, di che scintille Ardea la mente allor, con che diletto, Con che amari pensier, con che tormento, Il sognato avvenir, lasso! rammento. Oh mio Scott! oh sublime, oh fortunato D'alti romanzi, e d'alle rime fabro! Come bello il tuo nome ed onorato In ogni core suona, in ogni labro! Io non invidio no, che trionfato Abbia sì tosto il cammin lungo, e scabro; Ma che, sposo diletto e genitore, Amor t' inspiri, t' incoroni amore. Nel sorriso dei popoli e del cielo Qual purissima gioia è l'esser gran le! Chiusa la mente, questo cor di gelo, E inaridite son le mie ghirlande. Quanto ho sofferto; qual funereo velo Sui più vivi color per me si spande! Tu se' lieto, onorato, io stanco vivo Di dolor, di memorie, e piango, e serivo. Ma poichè degli estinti il desïato Letto mi toglierà l'aer sereno, Cessi l' ira degli uomini e del fato, E m' abbia in pace fra gli estinti almeno: Sealdi il misero bardo sventurato Di vergin pia, di giovinetto il seno; Trovi l' incolto, desolato canto Un eco soavissimo, un compianto. Oh Sheppard! ora mi ritorna in mente La tua calda, verissima preghiera, Che sì giovine, languida, morente Per me levavi con pietà sincera: E Dio l'accoglie. Ah sì, bella innocente, Tu salvi un'alma disperata e nera: Un'alma travagliata nelle cure; Negli affetti più rei, nelle sventure. No: quest'alma caldissima, sdegnosa Era agli affetti più sublimi nata; Ma codardi nemici, iniqua sposa L' han di truci pensier contaminata: Se un fido amico, s' una generosa Amar sapea chi tanto amava!… Ingrata Sorte non getti mai sul nostro crine Senza sangue l'alloro e senza spine! Tu, donna, tu d'altrui moglie pudica, Dunque m'amavi tu ne' versi miei? Amarami! oh donna! oh qual sorte nemica Logorava i tuoi giorni? Oh dove sei? D'ogni suora più cara e d'ogni amica Obbliarti, volendo, io non potrei: Sovra il lauro dei vati e degli eroi Avrò caro il tuo pianto e i preghi tuoi. Che fa più meco amor? fuggi dall'alma Tormentoso pensier de' miei verdi anni, Quando vivea senz'ira e senza calma, Di parole, di lagrime, d' inganni. Fra i Greci son; qui degli eroi la palma Contenderò per voi crudi britanni: Qui v'odia ognun; ma laverò sol io Parga, e il sangue fatal col sangue mio. O Sulliotti (ad alto suon riprese, Volto ai guerrieri che il seguian tacenti) O Sulliotti, delle vostre imprese, Del vostro Marco ognor deh vi rammenti! A pugnare, a morir chi non apprese Nell'esempio di lui, nei caldi accenti? Qual'anima codarda oggi la morte Negherà meco vendicar del forte? Per la patria, per lui che ben caduto Vincitrici mirò queste bandiere, Siate nerbo dei greci e vero aiuto Di Lepanto sul golfo, alme guerriere. Vinse quivi Giovanni un dì venuto Con le venete flotte e con l'ibere; Ma destino miglior, miglior vendetta, E trionfo più bello ivi ne aspetta! Morte di Grecia ai barbari oppressori, L' indomito drappel fremendo grida; Tu pari a Marco, tu ricco d'allori, Tu sol di noi sei deguo, e tu ne guida. Si fe' l' eroe di foco, e: ai primi albori Voleremo a domar l'oste omicida; E se mai la fortuna o il ciel ne prostri, N' avran piena vittoria i figli vostri. Riedi, celeste imagine, Riedi ne' sogni miei, Un caro spirto, un angelo Consolator tu sei. Non figlio della polvere, Ma sempiterno e divo, Imaginai quell'essere Pel quale io piango e scrivo. Fatal, severo, lugubre Qual morte, è il nostro amore: Ma le umane delizie Son per un nobil core? Divino amor! nei cantici Solo gustarti, e solo Sperar che i tardi secoli Commova il nostro duolo.

**1 La bellissima Carlotta Sofia Willhoft nacque in Hamburgo nel 1806, e la Poesia e la Musica furono dai primi anni la sua più dolce occupazione. Unita di santi nodi al poeta Enrico Stieglitz, uomo più strano che colpevole, vedendo inutile ogni speranza di renderlo felice, si uccise la notte dei 29 dicembre 1834. Lasciò al marito una lettera dalla quale ho tratto unicamente il principio e la fine di questo componimento. Povera martire! nessuno la dovrebbe imitare; ma tutti compiangere.

Ah più infelice, o misero consorte, Esser non puoi; anzi più queto il vero Dolor ti renderà della mia morte. Chè santo, placidissimo pensiero Sorge nei grandi affanni, ed util, santo Abbattimento cagionarti spero. Soffrii senza querela, e senza pianto Morirò; sol mi strazia il tuo dolore, E sol rammento che m'amasti tanto. Della beltà, degli anni era sul fiore, Pura, innocente; e versi, e dolci note Erano i sogni del virgineo core. Le fantastiche pagine del Gote Leggea tremando, e il tenero Mozarte M'inebriava di doleezze ignote. Ah, fra i suoni, gli augelli, i fior, le carte Sorge il bisogno d'un gentile affetto, Che abbelli i suoni, i fior, la vita, e l'arte. Al lunar raggio nel natio boschetto Ti vidi, o mio poeta, e nuova speme, Nuova gioia brillò nell'intelletto. Soli, confusi tacevamo insieme: T'amo, dicesti alfin; t'amo, risposi; Vivrem beati fino all'ore estreme. Tu unpallidivi: ah trema! i procellosi Giorni, gli studi, i giuochi di Gottinga Spregiar fanno i domestici riposi. Fuggi, n' è tempo ancor, vergin solinga; Fuggi lo strano Allievo, il mesto bardo, Che di pace quaggiù non ha lusinga. Me divori la fiamma onde tutt'ardo; Ma te conforti un generoso amico, Uno spirto più dolce e men gagliardo. Taci, interruppi: io non ti lascio, Enrico.— E tosto il ciel ne vide innanzi all'ara. O dolce istante! ancor ti benedico. Caro tu m'eri, o sventurato, e cara La miseria del tuo povero ostello, Nè teco esser potea la vita amara. Uno sposo conforme era il più bello De' sogni miei, e dolci figli, e puri Tranquilli giorni, e immacolato avello. Ohimè! per la fatica e per gli oscuri Gaudî non era il tuo superbo ingegno, Creato a trasvolar nei di futuri. Io che dato t'avrei col sangue un regno, Per trovar pane languir ti vedea Nella tortura d'un ufficio indegno. Ah tu martire fosti; io sol fui rea D'aver legato ai mali della vita Chi soffrirla, qual io, non sostenea. Libera, sola quella mente ardita Errar quaggiù dovea, come leone Generoso, com'aquila romita. Un nobil sacrificio il cor m'impone. Solo, grande sarai: non è delitto Quel che chiede santissima ragione. È vil chi quanto era di lui prescritto Soffrir non seppe: chi l'altrui catena Col suo vivere infrange, è core invitto. Ah prima d'esser madre, e la tua pena Accrescer con la misera famiglia, Morir posso magnanima e serena! Che val, se bello e cinto di vermiglia Luce e d'incanto a me sorride il mondo? L'ultima volta il guardan le mie ciglia. Egro, e mesto vederti, ed infecondo Quel Genio, orgoglio della patria e mio, È rimorso crudele, è duol profondo. Scrissi, cantai, sorrisi: ogni natio Pregio, ogni cura usai; ma per te vana La mia debol virtù rendeva Iddio. Stanea pel mar, pei monti, per lontana Contrada ti seguiva; e più funesto Il tuo mal crebbe e la tua doglia areana. All'estremo rimedio alfin m'appresto; Alfin tranquilla prendo quella daga, Quella daga d'amor dono funesto Io te l' offriva sorridente e vaga Pria delle nozze: oh chi l'avria creduta A tal giorno serbata, ed a tal piaga? Addio, sposo dolcissimo; saluta Per me i cari parenti, i fidi amici, Che amai viva, e amerò gelida e muta. Oh non piangere i mici giorni infelici! Sii forte e grande, qual saperti anelo; Ci rivedremo liberi e felici Eternamente ricongiunti in ciclo.
Oh quai pensier mi desti, Quai palpiti divini, O patria del Bellini, O patria del mio amor.1 La sposa del celebre Maestro è nata in Sicilia. Qui nacque chi m'inspira Concenti sovrumani; Qui fra gli eroi sicani Bacio il sicano allor. M'innebriar gl'inviti Dei popoli e dei regi; Ma qui nei fatti egregi Meglio s'inebria il cor. Sorgi alla gloria, torna Ai prischi tuoi destini, O patria del Bellini, O patria del mio Amor. Ah sì: dolce, possente, immensa, arcana De' miei sogni leggiadri è la magia! Quando incresciosa è più la vita umana, Vola ai bei regni suoi la fantasia. Per altri, il so, quella dolcezza è vana, Ma d'aeree speranze io mi nutria, E negli estri di vergine e di vate Su leggiere cantai nubi dorate. Un dì sul labbro, nell' acceso petto De' miei Sicani i versi miei vivranno; Sarò per loro un nome benedetto, Sarò d'orgoglio un palpito e d' affanno. Ah finchè resti un generoso affetto, L'innocente mia polve adoreranno, E passionato culto e mansueto Avrà la mesta figlia dell' Oreto. Si, l' avrà; ch' altra speme, altri contenti Dall' infanzia non ebbe, altro desio, E a mille casi, a dolorosi eventi, A crude prove la trascelse Iddio. Sol nei muti, lunghissimi tormenti La virtù mi giovò del petto mio, E sorrisi, e cantai placidi versi, Più mite agli altri allor che più soffersi. Che val, se dopo il cammin lungo ed erto Bei premi il core, e bei trionfi scopre? Ei non godrà se pure un lauro io merto, Ei benedir non mi potrà nell'opre: Quel capo amato ch' io fregiar d' un serto Volca, quel santo capo il suol ricopre, Ahi nè dolce la gloria, nè leggiadre Le rime son per chi non ha più padre! E mi lasciò la dolce suora anch' essa, E in una culla pose ogni sua speme; Lasciommi sola in queste sale e oppressa, In queste sale ove sognammo insieme. Torna a' miei baci, è ver, sempre l'istessa Torna, ma l'alma si contrista e geme Pensaudo a' di trascorsi: amore e canto Era per noi la vita; or tutto è pianto. Oh d' eterea virtù, d'etereo zelo Vivrò, sì stanca della terra omai; Favellerò con gli angeli del cielo, Favellerò con l' alme che adorai: Un sol pensier mi lega al mortal velo; Non più, dolce pensier, m' agiterai: Volo a' bei sogni antichi; ah nel più vago, Più mesto sogno è la paterna Imago! Oh beato l' croe che a grandi imprese Amor di patria, amor di gloria sprona! E quel foco divino il cor t' accese O fortissimo Ottavio d' Aragona. Dalla tua man le vergini difese T' offron gl' inni, e le danze, e la corona; T' offron, più caro don, gli affetti santi, E il segreto pensier, l' estasi, i pianti. Salvezza, orgoglio di Sicilia e speme Ti noman due vaghissime orfanelle, Nate l' istesso dì, cresciute insieme, Pari nel cor, pari nell'opre belle: Di celeste virtù celeste seme È il puro amor di unanimi sorelle; Puro com' aura che tra' fiori spira, O luce d' astro, o suon d' eterea lira. L' amor di due sorelle! oh quell' amore D' emuli non paventa o di tiranni; Non ha duol, nè rimorsi, nè timore, Nè lusinghe, nè lagrime, nè inganni; E perfetta amistà che inebria il core, Che fa dolci divisi anche gli affanni. Ah fra' silenzi e l' utili fatiche Il mondo ignorin due beate amiche! I pensier d' una coppia si gentile Oh comprendere ad uom non è concesso; Coppia in cui tutto è candido e simile, Età, volto, costume, ingegno, e sesso: Quella soave, molle, femminile Tenerezza divien si forte spesso Che vince ogni altro affetto, ogni gradita Illusione, e domina la vita. Han nero crin, nerissima pupilla, E rosce gote Elvira e Teodora; Tacita l' una in maestà tranquilla I merti suoi, la sua dottrina ignora; Ma di grazie, d' amor l' altra sfavilla, Ridente come d' un bel dì l' aurora, E appaga l' inquieta alma sublime, La suora amando, la virtù, le rime. Se vivesser tue rime, o santo petto, Che gelosia per gli uomini, e che sdegno! Il tempio e il ciel ne chiuse Macometto.1 Maometto disse che le donne non anderanno nel suo Paradiso, poichè ivi sono le Huris, altra specìe di donne assai più belle e più perfette. E il Ginevrino ci negò l' ingegno:2 « Ce feu céleste quì échauffe et embráse l'ame, ce génie qui consume et dévore, cette brúlante éloquence, ces transports sublimes qui portent leur ravissement jusqu'au fond des coeurs, manqueront toujours aux ecrits des femmes. » Così Rousseau nella lettera a M˙ d'Alembert sui Teatri. Misera guerra! e l' ali al mio intelletto Negherà qualche vile o qualche indegno? Quanto sognai negli estri più felici Del maestro diranno e degli amici?— Di padre, di fratel cure amorose Non conobber giammai, nè cor materno: Un affetto in quell' alme il ciel ripose, Primo, uguale, potente, unico eterno. Oh degli uomini il vero e delle cose La lor pace non turbi, il gaudio interno; Non le divida alcun, non le ridesti Da quei bei sogni: ah! diverrian funesti. Nell' istorie dei popoli, nei vati, D' alti pensier vivean, d' alti consigli; Vivean nei dì futuri e nei passati. Vagheggiando magnanimi perigli; Quando reddiva ai lidi sospirati Il vincitor dei barbari navigli; Reddiva Ottavio, e in lui quelle innocenti Fermaro il volo delle stanche menti. Recò immensi tesor, tolti alle navi Trionfate a Modone, a Rodi, a Scio, E prigioniero addusse in ceppi gravi Il Bassà d' Alessandria astuto e rio: Seicento addusse liberati schiavi Ai parenti, agli amici, al suol natio. Dopo aver sull; iniqua avara setta Della patria compiuta la vendetta. Frequenti nella splendida cappella, Che al suo palagio interna ebbe Ruggiero, Popolo e Grandi in adunanza bella Il ritorno festeggian del guerriero: Quando sorge inspirata una donzella, Più che mortal negli atti e nel pensiero, E in caldi accenti nelle sacre soglie Al Dio delle vittorie il canto scioglie. Tace affranta dall' estro, e cade, e sviene, Gelida nelle membra e nella faccia; Accorre, e la solleva, e la sostiene Il campione fatal nelle sue braccia: In forti nodi per le libie arene, Pien di valore spesso e di minaccia, Strinse i nemici; or per la prima volta Vergin languente è in quelle braccia accolta. Ei maraviglia come tanto frale Beltà racchiuda sì potente foco: Ella, già sciolta del subito male, Sospirando rinviene a poco, a poco. Un plauso intanto, un grido trionfale Mesce i lor nomi, e ne rimbomba il loco; Udì la bella, e di rossor, di viva Gioia si tinse: il prode impallidiva. Impallidia sotto il pudico velo Della placida Elvira la sembianza; Placida, come gli angeli del cielo, Per virtù, per natura, e per usanza: Non l' amor per la suora, e non lo zelo Per l' arte in quella pia fessi baldanza. Ah se una fiamma in simil cor s' accende Fien più cupe l' ambasce e più tremende. È la notte: del gran Timolconte, Che ardito liberò la sua Triquetra, Legge Teodora le prodezze conte, E leva gli occhi lagrimosi all'etra: Elvira ascolta con pensosa fronte, Immota, quale imagine di pietra Che mediti su l'urne.—Oh chi procede Nei penetrali della casta sede? Alto e bruno un guerrier si manifesta Delle fanciulle passionate al guardo: Nessun timor vi tocchi; nell'onesta Magion qual vil non entro, o qual codardo: Santo è il pensier; ma innanzi alla modesta Beltà vostra paventa il cor gagliardo Che brillò nei perigli. Ah pari a voi Le figlie dei mortali aman gli eroi! E pari nella voce e nelle forme Dei miei sogni divini all'angiol sei, Bella Teodora: io degli eroi su l'orme Invincibil per te rivolerei. Se nel petto innocente amor non dorme, I palpiti dolcissimi otterrei? Io t'offro, e spero non offrirti invano, Il mio cor, la mia spada, e la mia mano. Grave, ma tinta di color di rose Pianamente risponde la fanciulla; Poeti, cavalier, donne famose Anch'io sognai dall'alvo e dalla culla. Ti seguirò, farò vittoriose Le tue bandiere; oh nulla schivo, e nulla Pavento: sposa d'un guerrier celeste, Canterò fra le pugne e le tempeste. Si, ti renda felice, esclama Elvira, E in pace soffrirò che m'abbandoni— —Lasciarti? ah non fia mai! troppo delira La tua mente: crudel, che mi proponi? O tu mi segui, o lui che mi desira Non seguirò; fra gl' itali campioni Mi segui, che pel mar fugano i Mori, E un petto nobilissimo t'adori.— E quella: ah no, ma fida; al tuo bollente Genio il valore degli eroi si prostri; Alla mia queta e solitaria mente Meglio la pace si convien dei chiostri: Se t'amo il sai: più grande, più dolente Fermezza il mio destin vuol che ti mostri. Segui lo sposo che t' ha il ciel concesso; Al mio cor basta Dio, basta egli stesso.— No, di studi nutrita, fra loquaci Femmine invano rimaner confidi; Ed io senza il tuo amor, senza i tuoi baci In lontani vivrò barbari lidi! E Ottavio a lei: taci, mia Donna, taci; Ella nosco verrà se a me ti fidi; O, rimanendo nel paterno ostello. Cederà la sorella oggi al fratello. Fra pochi giorni che il ritorno affretti Chiede la patria ove l'onor mi chiama: Vieni all'ara, o gentil, già tu m'accetti; Vieni e t'affida a chi per sua ti brama: Vieni, meco dividi i miei diletti, I perigli dividi e la mia fama. Ah, se fra l'armi la tua voce ascolto, Vincerò sol degli occhi e sol del volto! Tacque ciò detto, e il guardo austero e truce, Or lagrimoso in lei tremando affisa; A quel guardo che inebria e che seduce, La vergin soavissima è decisa. —Più della vita amai, più della luce La mia sorella, e ne sarò divisa? Pur fa che al mio destin l'alma prepari: Fra sei giorni verrò teco agli altari. Al pianto, alle carezze, ai preghi vani Piange Elvira, e lamentasi, e diresti Che possanza fatal l'una allontani, E più fatal possanza l'altra arresti. Misera Elvira! del tuo cor gli areani A te stessa non eran manifesti; Ignorarli volevi, e pur gli affanni In pochi di struggeano i tuoi begli anni. Rapido, orrendo è il male, e pur non sembra Dolersi che rimedio alcun non giova: Ah, i fisici curar posson le membra, Ma il fisico dell'alma ove si trova? Dolce parla alla suora, e le rimembra I trastulli, i piacer, l'età più nova, I cari studi, il meditar profondo, Il sognato avvenir, l'oblio del mondo. —Oh non struggerti in lagrime! e, tu il sai, Pria della carne era il mio cor già morto: Tutto vil mi parea, tutto sdegnai: Sotterra è la mia pace, e il mio conforto. E tu su quella fossa pregherai Ove eterna di te memoria porto; Di te che fosti si gradita e pia Alla strana, e severa anima mia. È livida la faccia, il petto ansante, E il respiro affannoso e la parola: Guarda Ottavio commosso la tremante Sposa, e di cari detti la consola. Qual voce turba il mio supremo istante? (La morente gridò): vanne, t' invola. Più tremendo risorge e più tenace Il mio tormento: ah ch'io moriva in pace! —Qual lampo atroce! rompi il generoso Crudel silenzio, Teodora dice: Senza pena tel cedo; ei fia tuo sposo, E nelle gioie tue sarò felice. Riedi, riedi alla vita; avrai riposo, Avrai conforto alfin, cara infelice: Lui fuggir, lui fuggir, che ad immaturo Morir ti conducea, per sempre io giuro. D'angelica bellezza e di contento Nel sacrificio splende, e l'adorata Suora bacia con impeto.—Oh sgomento! Nel bacio la senti tutta gelata. In udir quel tremendo sacramento La misera donzella era passata. Recato avessi nella tomba almeno Il segreto fatal dentro il tuo seno! La desolata vergin la riscalda Coi suoi baci e di lagrime la bagna: Ah quell'alma sì tenera e sì calda Così perder dovea la sua compagna?— Fuggi, dice al guerrier, fuggi, sto salda; Tutto finì per noi: solo ti lagna Col ciel, non meco; va: come potrei Nelle tue braccia non pensar di lei? Sorgeva il sesto di: giorno crudele! Le desiate nozze ella ricusa, E mira dell' eroe partir le vele, Dal chiostro ove qual vittima è rinchiusa. Cercò in Tracia la morte quel fedele, E nella tomba ancor la sorte accusa; E nella notte pare, o va per l' ôra Un singulto che piauge Teodora. Ah dai primi anni il lugubre Tuo fato lagrimai, E nell' età dei fervidi Pensier di te sognai; Nei voli miei, nell' estro Io t' invocai maestro, Io t' invocai fratel! Fu inoperoso e gelido L'amor d' Eleonora; Si con più nobil impeto Quest' anima t' adora: Ai viventi codardi Non rivolgo gli sguardi; Tu sol m' udrai dal ciel. Misero! i tempi e gli uomini A te fur sempre avversi; La pace t' involarono, Ti maledir nei versi: Dal carcere severo Nel cheto monistero Fuggisti all' odio, e al dì. Tu che nel sen d' un angelo Render sognasti l' alma, E innamorate vergini Plorar sulla tua salma; Tu, fra dolenti riti, Sotterra coi romiti Andasti, oh Dio! così. Esulta: finchè gemono D'amore e di tormenti, Difesa o refrigerio Non trovan gl'innocenti; Sol le virtudi e l' ossa Compiange nella fossa Inutile pietà. Esulta alfin: le ingiurie Rivendicò la morte, Copri di giusta infamia Alfonso e l' empia corte: Con Enea, col Pelide Goffredo a par s' asside; Chi muoverlo oserà? All' aquilon le ceneri Dei lividi censori, Che serto di martirio A te rendean gli allori: Maledetto chi l' ale Toglie a un genio immortale, Chi ne contrista il vol. Tu che nel regio tumulo Inonorata posi, Ti desta ai miei rimproveri, Sorgi dai tuoi riposi: I ceppi del cantore Perchè non rompe amore? Sorgi dal freddo suol. Va; nell' orrendo careere Solinga, palpitante Discendi fra le tenebre, Salva, o gentil, l' amante, Fuggi, dicendo; un lido Ritroverai più fido; Fuggi le corti e i re. Fuggi: a più bei miracoli Serba l'ardito ingegno; Io sola qui dei perfidi Combatterò lo sdegno: Non cedo, non pavento; Fia dolce ogni tormento Ch' io soffrirò per te. Fuggi: la dolce patria T' accoglierà più pia; Là fra le sue delizie Queste catene oblia: Ah sotto l' umil tetto In traccio al mio diletto, Anch' io sognai morir. Quando, finiti i palpiti Di sorte procellosa, T' allegreran le grazie D' un' innocente sposa; Quando nel tuo soggiorno Scherzino i figli intorno, Rivolgi a me un sospir. A me che, per supplizio, Nata sì presso al trono, Osava ad un magnanimo De' miei pensier far dono; La fe' che ti giurai Non tradirò giammai, Non tradirò l' amor. Come nell' orto sfrondasi La rosa impallidita, Io nella solitudine Terminerò la vita: Pietoso a tanto zelo Abbrevì tosto il cielo Gli strazì del mio cor. Ah non udia sì tenere Parole il prigioniero! Mancò forse alla timida L'ardir, non il pensiero; Forse, pregando invano Il barbaro germano, Amor la consumò. E dielle il volo, e scorsela Sublime oltre i pianeti: Là rivivea fra spiriti Eternamente lieti; E là quel suo Torquato, Quaggiuso a lei negato, Di rose incoronò. Dorme l' Eroe: quai palpiti non desta D'amor, di gloria l' animoso aspetto? È sostegno la manea all' egra testa, Strigne eoll' altra il fido brando al petto: Quel simulacro desolata e mesta Ergea la madre, quel marmoreo letto A Giovanni Romano e Ventimiglia, Rampollo d' antichissima famiglia. De' tuoi compagni, o giovine guerriero, Esempio, de' nemici eri sgomento, Delle virginee menti eri il pensiero, Pensier pieno d' orgoglio e di tromento. Chi fu leggiadra agli occhi tuoi, qual vero Amor ti fe' più grande nel cimento? Quai virtù, quali vezzi, quali modi Ama il cor nobilissimo dei prodi? Oh nulla d' arrogante e di virile Ama il cor degli eroi nella bellezza! Ma un non so che di puro e gentile Che domi lusingando la fierezza; Donna che fuor dell' uso femminile Dall' armi non aborre, egli disprezza, E cerca in terra d' un sognato viso Il candor, la mestizia, ed il sorriso. Nel secol più gagliardo e più nefando Qualunque fu colei nacque al dolore.— Del suo guerrier chiedea la patria il brando, E a quel di patria cede ogni altro amore. Nell' isola recavan depredando Turchi e Mori ogni strage, ogni terrore, Dall' astuzia guidati e dalla possa De' Corsari Dragutte e Barbarossa. Ma di Sicilia i valorosi figli Scacciaron l' iniquissima genìa, E all' Affrica volgendo armi e navigli Conquistaron Coibia e Moadia. Della guerra, dell' onde nei perigli Il fior dei più gagliardi ivi peria: Vincendo in lontanissime contrade, Men felice non è l' eroe che cade. Languido, infermo alla natia riviera Reddia Giovanni in dubbio della vita, Chè mentre la battaglia ardea più fiera Gli aperse il fianeo una crudel ferita. Lunghesso il lito della bella Imera Corre una donna ansante e sbigottita: Disserle, ohimè, che le bramate vele Riportano morente il suo fedele. Nel comun pianto ei fermo, alla consorte Strignea la man con l' agghiacciata mano, O mia diletta! d' indugiar la morte, Io chiesi al ciel pietoso, e non invano. Oh, tel confesso, non morìa da forte Sì giovine, sì amato, sì lontano, Per l' onor, per la patria, a te vicino, Pago, lieto morrò del mio destino. Vedova appena moglie, oh non potea Sopravviver la misera donzella! E l' istesso sepolero racchiudea Il più forte campione, e la più bella. Io fra gli archi risorgere vedea, Quando tace ogni suono, ogni favella, E degli altari il sacro lume è spento Nella devota chiesa del convento, Risorgere l' eroe dai freddi marmi, Grave il passo, pesante l' armatura: Odo fioca una voce: ah non lasciarmi! E biancheggia una caudida figura: Misera! temo che ai perigli, all' armi Tornerai dalla muta sepoltura: Vedi, qui dormon gl' infelici e i rei; Solo eterni saran gli affanni miei? Donna al mio cor sì cara e sì conforme, Ancor temi che morto io t' abbandoni? Oh dormirò finchè la patria dorme, Il sonno teco dormirò dei buoni: Ma se il lento, vilissimo, uniforme Destin si cangi, se la tromba suoni, Infonderà l' amor del natio loco Nuovo sangue all' estinto e nuovo foco! Della pictosa la celeste faccia Più pallida si fea, tremava il passo: Ei la baciò, la tolse nelle braccia, La ricompose nel funereo sasso. E, la vita deposta e la minaccia. Accanto a lei protese il corpo lasso. A custodirne l' ossa ed il riposo Si richiuse l' avel misterioso. Febbre non è, non medicabil male Che strugge quella pia sul fior degli anni, Colei che aperse dell' ingegno l' ale, E nel silenzio visse e negli affanni; Ma segreto martir, piaga mortale, Dolorose memorie, atroci inganni: Tinta di sangue la leucadia pietra Alle donne fatal grida la cetra. Nè a te, misera vergin padovana, Giovò sangue gentil, rara bellezza, Nè i dolcissimi versi, nè l' umana Indol, la cortesia, la giovinezza. Quanto soffristi! qual crudele, areana Guerra ti vinse nella tua tierezza; Come celasti uguale e mansueta Dell' amante la fiamma e del poeta! Unico voto, unica speme, un solo Amore, un sol desio t'accese il petto, Nè lusinghe, nè tempo, assenza, o duolo Intiepidir quell' ostinato affetto: Ahi, della calda fantasia nel volo Vagheggiasti fedele un giovinetto, Il Conte di Collalto e di Trevigi, Chiaro nei versi e nei guerrier prodigi. Ei ti vide, e t' amò: gli studì e l'alma, Il suo nome t' offrì, la sua fortuna; Per te sudar bramò nobile palma, Per te vivere, o bella, o per nessuna. O dolce sera, o stelle, o cielo, o calma, O inargentata veneta laguna! Fra tante maraviglie di natura Fra i silenzì, e la luee a te si giura. Empio! e quel sagramento, e quella fede Egli obliar potè, potè lasciarti; Potè render sì barbara mercede, Potè un' altra ingannar con simili arti! Ma di lui più crudel chi pria ti diede La ria novella, che di vita trarti Dovea, pur come aquilonar tempesta Del giglio abbatte l' odorosa testa. Tu la gioia, l' ardire, il cor, la speme, Tutto ponesti in lui, tutto ei rapiva; Nè più di te, del tuo dolor gli preme; Conosci alfin se il perfido mentiva: E tu pur l' ami, e le preghiere estreme Al ciel volgi per lui: morente o viva Non puoi dunque serbar nel mite ingegno Un pensier di vendetta, un solo sdegno? Ah sì: prega e perdona, ostia di pace Muori senza viltà, senza querela; Quel senno, quel coraggio è sol verace Che nell' ora novissima si svela: Muori: per chi provò tutto fallace, Dolce è la tomba che difende e cela; Dolce il sonno, il silenzio, e quivi almanco Più agitato non fia quel cor sì stanco. Quel cor pieno di foco e d' innocenza Coi poeti sognò l'amor, la vita: Quale inganno, qual gel, qual differenza Al suo primo destarsi, e qual ferita! Ove son gli alti premì, e l' eccellenza Bramata, e l' avvenir?—sola, tradita, Lui chiami nella placida agonia, Che d' altra sposo, ohime! ride e t' oblia. Due bianche forme a te, quasi divisa Del fral, s' appressan lente: e vieni, o figlia, Vieni; io sono la tenera Eloisa, Dice l' una, e la man fredda ti piglia: Vieni, l' altra soggiugne, amor t' ha uccisa, E il tuo Genio, e il tuo fato a me somiglia, A me, povera Saffo; e un bacio imprime Sul labbro che dettò sì dolci rime. Vieni, vieni, ripeton; le volgari Donne trovan quaggiù diletti e beni; Ma volano gli spiriti preclari Sol dal martirio agli astri più sereni: Piangendo Italia su' tuoi casi amari, Gli inni ricanta di mestizia pieni.— Ah se il foco degli inni eterno avvampa, No, non è morta l' infelice Stampa! Oh di te nulla è più soave, oh nulla Di te più ride nella mente mia! Tu mi baciasti nella rosea culla, Mi bacerai nell'ultima agonia: Tu spiravi alla tenera fanciulla Pensier celesti, amabile armonia: Tu meco in ogni tempo; ma nell'ore Più solitarie più ti sente il core. Quaggiù non ti vedrò: quell' immortale Beltà sol degna è d'ammirarsi in cielo; Ma il soffio leggerissimo dell'ale M'agita, mentre io parlo, il crine e il velo. Amar dunque tu puio cosa mortale, Tu puoi vegliarmi con fraterno zelo? O mio fedel cherubo, o mio verace Consolator nei rischi e nella pace. Quando è il pensier più mesto e in sè raccolto, Al mio pianto risponde un suon di pianto; Sento una man che m'accarezza il volto, Sento una voce che m' invita al canto: È la tua man, la tua voce che ascolto, Sei tu che piangi all' infelice accanto; Più degli eterei balli, o giovinetto, Ami i nostri colloquî, il nostro affetto. E tu invisibil nella val e amara Mi seguirai, misterioso amico: Oh mi rendi, se il puoi, la vita cara. La vita che paventa il cor pudico. O almen di rose infiorami la bara, Fa che in terra non lasci alcun nemico, Dammi il bacio di morte: il volto mesto Io sul tuo collo piego, e in ciel mi desto. E tu quando al silenzio ed al riposo La campana mestissima t' invita, Mediti e baci un caro libro ascoso, Puro come i tuoi sogni e la tua vita? Mediti le mie rime, e d'amoroso Pianto le bagni, o vergine romita? Leggile al chiaro di: figlie del cielo Non offendon, mia cara, il chiostro e il velo. Sì, leggi, e prega per la dolce amica Dai primi anni sì fida e sì diletta; Per me che scrivo in questa sala antica, Mentre tu veglì nella tua celletta. Scrivo, e so che magnanima fatica Sol dall'urna risplende: oh benedetta Chi fra gli altari e i claustri, in mezzo al pio Silenzio offriva ogni speranza a Dio! Misterïoso loco ove abbian regno Donne piene d'amor, piene di fede, Talor mi pinse l' invaghito ingegno, E l'abbellia quasi celeste sede. Viver senza lusinghe e senza sdegno, Viver come agli eletti il ciel concede, È più sublime; ed è più bel decoro Benda sacerdotal, che gemme ed oro. Come due puri spirti, o due cherubi, Noi ci amerem, noi pregheremo insieme, Finchè di Dio la voce a te mi rubi, E m'inviti ove sempre ebbi la speme. Oh scenderò dalle dorate nubi A consolar le tue giornate estreme; Scenderò più potente e più cortese A vegliar chi m'amava e chi m'offese. Uscite, o bionde Pelasgiadi, uscite O di Minerva lavatrici; ascolto Le cavalle animose, a lei gradite. Uscite. Ecco la Dea. L'amabil volto Non asterse giammai, nè il braccio invitto, Se a' bei destrier non vide il fango tolto. Nemmen quando recò dal rio conflitto Dagl' iniqui giganti insanguinate L'armi che vendicarono il delitto. Ma la bocca spumosa, e le dorate Briglie che rode, e il limo, ed il sudore Purgò prima nell'onde interminate. Uscite. Delle ruote odo il fragore.— E non vasi alla Dea fra l'armi avvezza Recate, e unguenti di soäve odore. Non unguenti, non vasi: ella disprezza L'arte e lo speglio, e nell'etereo aspetto Sempre le ride il fior della bellezza. Non guardò nel metallo il viso e il petto La magnanima, o in fondo al Simoenta, Quando fu Pari al gran giudizio eletto. Nè Giuno: ma del cor, degli occhi intenta Nel lucido miraglio Citerea Ornò più volte il crin, di sè contenta. Per cammino lunghissimo correa Pallade, come rapidi l' Eurota Gli astri lacedemonî un dì vedea. E d'ulivo aspergendosi in remota Contrada, melagrane e mattutine Rose in color vincea la bella gota. Olio dunque recate alle divine Membra, l'olio di Castore e d'Alcide; Aureo pettin recate al suo bel crine. Esci, o Minerva; pronte son le fide Vergini, e portan, come è santo rito, Portan lo scudo del divin Tidide. Eumede ciò prescrisse, a te gradito Sacerdote, che un dì le offese e l'onte Fuggi sul Creo del volgo infellonito. Fuggì sul Creo, e di quell'alto monte Fra le rupi celò tua casta immago: Or pel tuo nome venerate e conte. Esci, o vergin fortissima, dal vago Cimiero, che fra polve e stragi ed ire E cavalli e guerrier senti il cor pago. Non lavate oggi, o donne; oggi fruire Argo, non puoi dei fiumi: o giovinette, È forza i vasi oggi alle fonti empire. D'oro misto, di fior, di fresche erbette L'Inaco scorre dai beati colli, E lavacro bellissimo promette. Ohimè, nuda costei fra l'acque molli Mortal non veda! Per audacia tanta Argo mai più non rivedreste, o folli. Vien, Palla veneranda, oh vieni, santa Difesa nostra, mentre alle donzelle Verace istoria la mia Musa canta. Amò Minerva più che l'altre ancelle Di Tiresia la madre, e come amiche Sempre unite vivean, come sorelle. E, se del Tespi visitò le antiche Muraglie, e Coronea, o in Aliarte Visitò dei Beozî le fatiche; Coronea, dissi, dove in ogni parte Olezzan boschi a lei, fumano altari, Non potè, dolce ninfa, abbandonarte. Misera! ti sovrastano, fra i rari Di Pallade favori, orride pene, Fra i balli che tu rendi a lei sì cari. Nelle purissime acque d' Ippocrene Ignude si tuffar; del mezzogiorno Ardevan l'ore fervide e serene. Lavan le belle membra: intorno, intorno Spira silenzio il monte.—Oh chi s' aggira Audacemente nel divin soggiorno? È Tiresia coi veltri: immensa il tira Sete all'onde funeste.—Ahi, sciagurato, Ciò che veder mai non dovrebbe, ei mira— O prole d' Evereo, l'empio tuo fato Non so se d' ira o di pietà mi tocchi: Al lavacro fatal chi t' ha guidato? Disse, e attonito, muto, i vividi occhi Spegner, velar sentiva il giovinetto, E le membra agghiacciarsi ed i ginocchi. Parla, che festi al figliuol mio diletto? Gridò Cariclo; ohimè cieco l' hai reso? Questo è il cor d'una dea, questo l'affetto? Misero figlio! hai senza colpa offeso Di Minerva il pudor, nè rivedrai Il caro sol nell'orïente acceso. O Elicona, o monte, oh non più mai Ti rivedrò: togliesti al mio figliuolo Per poche damme della luce i rai. Struggendosi d'amor, d' immenso duolo Tende al giovin le braccia, dolorante Come per selva flebile usignuolo. Taci, divina donna, ingiurie tante Non merto; questo inevitabil male È di Saturno per le leggi sante; Che dicono: chiunque un immortale Vede, se questi nol comanda ei stesso, Porterà pena all'ardimento uguale. E quello rivocar non fia permesso Che statuiva delle Parche il lino, Quando un figlio ai tuoi voti era concesso. Sciagurato garzone! il tuo destino Mi pesa sì, che ad allegiarne il danno Io ti farò dei popoli indovino. Oh d'Atteone un dì con quale affanno Ostie e voti offrirà la genitrice Per rivederlo, e inutili saranno! Rivederlo anche cieco l' infelice Padre desia, mentre ei cervo diventa, Vista ignuda la bella Cacciatrice. Ohimè! Cinzia crudel più non rammenta Che seco l'aure egli sfidava al corso, E la furia dei cani a lui s'avventa. De' proprj cani suoi la furia e il morso; E già vedo la madre a raccôr l'ossa Per le selve chinar l'antico dorso. Te beata, d' invidia ella commossa, Dirà, che meglio è veder cieco il figlio, Che per sempre comporlo entro una fossa. Non pianger: vive il tuo senza periglio: Per l'amor nostro, pei sofferti mali, Dei miglior vati vincerà il consiglio. Udrà gl' infausti augelli, e quei che l'ali Spiegano indarno, e quei che i rari e vani Contenti presagiscon dei mortali. Ai Beozî, ai magnanimi Tebani, E a Cadmo, ascolta! in che divini accenti Del pensiero di Dio legge gli arcani. E verga gli darò che i passi lenti Ne guidi per lunghissima vecchiezza; Gli darò giorni placidi e contenti. Conserverà l' ingegno e la saggezza Eì sol fra i morti, e sarà caro al trono, E all'animo del Dio della ricchezza. Sì dicendo annuì: sicure sono Ove annuisca, le promesse; il padre Le concesse ogni gloria, ogni suo dono. Chè non dal fianco di celeste madre, Ma dalla testa nacquero di Giove Grandi, armate le sue membra leggiadre. Agli eventi ogni ostacolo rimove Del sire il cenno, e la diletta figlia Con virtù pari il suo bel ciglio move. Vieni, o Palla: d'amor, di maraviglia Ergete, o verginelle, i carmi adorni, Se carità di patria vi consiglia. Salve, o dea, quando parti e quando torni; Salve: proteggi il suol, proteggi noi; Serba di Danao le ricchezze, i giorni Serba, e la gloria degli argivi eroi. Così, com' ora in questa cella oscura Sul fido letto l'egro fianco poso, Un dì nell'onorata sepoltura Troverò soavissimo riposo: Non odio, nè rimorsi, nè sventura Provai finor; ma tristo, pauroso Presagio sento, e questa vita, e questo Mondo, senza conoscerlo, detesto. Timido aspetto avrò, timida mano, L' indole mansueta, il cor dolente; Ma invan non batte questo sen, nè invano D' animosi pensier calda è la mente: Leggo il passato, e l'avvenire arcano, Parlo agli estinti, alla futura gente, Guardo la terra, il ciel, contemplo ardita Della tomba i misteri e della vita. Perchè nell'ozio femminil, giocondo, Strani cimenti ardiva e strane cose? Che ne otterrò dagli uomini e dal mondo? Poche lagrime, estinta, e poche rose. Giovino almen l' ira del cor profondo Alla patria, e le rime generose: Oh potess' io con fortunato ardire Della vita illustrarla e del morire! Son tristi i tempi, lugubre il sentiero, È senza gioie, senza onor la palma. Ove dei Grandi spregiasi il pensiero, Che lucrar puote, o che sperar quest'alma? Pur quando è più terribile, più vero Il presagio, ancor io mostro più calma; Lieta con tutti, dagli affanni oppressa, Non piango, non mi duol, che di me stessa. Imagini talor leggiadre e sante Alla vita ridestan l'egro petto, E nel ciel che sognâr Torquato e Dante, Sogno l'ebrezza d'un etereo affetto. Di codardo Faone il bel sembiante Accender non potea quest'intelletto: Nell' impeto del cor, nelle dorate Visioni bramava un prode, un vate. L'Angiol della mestizia e dell'amore Allor m'apparve, m' inspirò, m'accese: In lui rapito, in lui quetato il core, Nulla sperò dal mondo e nulla intese: L'anima volerà dov' è l'ardore, Fian brevi i giorni miei, le vane imprese, E ne' bei regni tuoi m' accoglierai, Spirto divin, che sulla terra amai. E tu lasciavi le trinacrie porte, E del mio ciel purissimo l' incanto; Addio ti dissi, e nel dolor più forte L'una e l'altra suggea co' baci il pianto. In ogni tempo, o cara, in ogni sorte Volgi all'amica un pensier mesto e santo, E nulla a me potrà rapir dal core La tua dolce sembianza, e il dolce amore. Di me parla ai vaghissimi angeletti, Al piccolo Cirillo, ed a Maria: Ah vivran quei soavi pargoletti Nei più casti pensier dell'alma mia! Con che lagrime, oh Dio, con quali detti Mi dier l'ultimo bacio; ed io sentia Un' ebrezza al dolor di quelle menti Sì leggiadre, sì care, e sì innocenti. E col buon padre, e con la genitrice, Con Lamleto di me favellerai, Che bei giorni con voi scorsi felice, E di sincero amor tutti v' amai. Oh qual tormento son d'un infelice Le tenere memorie allor saprai: Come obliar chi può render gradita La faticosa scena della vita? Infra i trastulli e gli ozî e la fatica, I fior, le danze, i passeggiati marmi, Al tuo fianco volea, diletta amica, Viver sempre, e dettar facili carmi: Volea di lieti sogni, di pudica Soavissima gioia inebriarmi. Ah teco il riso giovanil perdei, Teco la luce de' bei giorni miei! O antica sala, ove l'età più bella Passai nell'innocenza e nel dolore Al fianco della tenera sorella, I tuoi silenzî or son funesti al core: Ah nel suo volto, nella sua favella Gli estri sentia del genio e dell'amore: Or sola, oppressa dagli affanni miei, Dolci rime trovar più non saprei. Almen colui che ne divise, oh almeno Ti comprenda e t'adori, o mia diletta, E te stringendo con orgoglio al seno, Goda che s'abbia tal compagna eletta. Io con lo spirto di memorie pieno In questo asilo tacita, soletta, Sospirerò quei giorni, e possa Iddio Non destar nel tuo petto ugual desio. No, non sognava imagine più bella D'innamorato artefice il pensiero! L'angiol del Norte sei, regal donzella, L'angiol del padre tuo, del vasto impero. Te nell'opre gentil, nella favella, Te pia, modesta onora il mondo intero, E negli inni soavi e nella cetra Di te risonerà la m'a Triquetra. Mira: dalle ruine erge la testa, E per te, per l'augusta Genitrice A inusitata gioia si ridesta, Gioia d'ogni dolor consolatrice. Fra dolci voti e cittadina festa Esultando ogni cor vi benedice; Ride più puro il ciel, lascia i rigori L'inverno, e colli e prati orna di fiori. Mira, qui fu Ruggier; contro il nemico Sonaro i Vespri, qui creò divina La favella d'Ausonia Federico, Pinse il Novelli, e cantar Meli e Nina. Noi la libica possa al tempo antico, Noi la greca vincemmo e la latina, E volò pien di gloria e di sgomento Di Siracusa il nome e d'Agrigento. Tu, progenie d'eroi, tu di leggiadre Idee nutrita, sfolgorar vedrai De' Normanni e degli Arabi le squadre, E cantici guerrier nei campi udrai. Oh quando sposa d'un gagliardo, e madre Di generosi figli un dì sarai, Quando voglia infiammarli ad alte imprese, Narra i portenti del sican Paese! E tu passasti.—Oh non m'avea rapita Morte crudel giammai testa più cara! Quell'io ch'amo le tombe, inorridita, Io per te vedo preparar la bara; Passasti dunque, e non è più tua vita Che soave ricordo in valle amara; Nè più t'avran le sale ove io l'immenso Dolor muta divoro, e guato, e penso? Penso alla tua dolcezza, alla ridente Sembianza, ai soavissimi costumi, E come, benchè veglio, egro, languente, Meditavi il saper d'alti volumi: Nella difficil vita, a te la mente Inesperta chiedea conforti e lumi; Tu fido amico, cittadin, poeta, Cogliesti il fior d'ogni virtù segreta. Il più caro fratel del genitore Dalle fasce tu m'eri e dalla culla, E perdonavi con paterno amore Alle care follie della fanciulla; In te già stanco riviveva il core Nell'età che sorride e che trastulla; Membrava i dì che i primi affetti veste Illusion dolcissima, celeste. Bilustre appena, allor che drammi e fole In mille carte imaginava e mille, A te le semplicissime parole Brillaron di poetiche faville: Lascia, lascia, gridasti, e fusi, e spole, E l'idee più gioconde e più tranquille: Nata dell'arti all'onor faticoso, Spendi, in ciò, figlia mia, vita e riposo. Ma poi che per conforto e per ventura Qui giunse il traduttor del gran Tebano, Che con ala sì rapida e sicura Il vol ne segue per lo ciel toscano, All'alta sapienza, alla sua cura Affidar mi volesti, e non invano; Ne' suoi detti animosa, impaziente, Sui volumi stancai l'occhio e la mente. Il valor di quel sommo, i tuoi consigli, La fiamma del mio cor, la giovinezza, Con che gioia mi fer tutti i perigli Della gloria bramar, con che fierezza! Ahi, non sapea che della polve ai figli, Il periglio più certo è la saggezza; Retaggio non sapea d'un nobil core Degli affetti la guerra e del dolore. Oh fossi io sciolta dall'infanda guerra Che m'ha sì tosto crudelmente stanca; Oh fossi in un con te scesa sotterra, Ove ingombran le tombe a destra e a manca! Sogno, o sotto il mio piè trema la terra, La terra che ti rende, e si spalanca? Erger ti veggo la squallida testa…. Sorgi, parla, m'abbraccia. Oh chi t'arresta? Su l'umil paglia, in tenebrosa stanza, Agonizzava un misero innocente. Nessun di Dio gli parla o di speranza; Non gli è amico da presso e non parente: Or con pietosa, tenera fidanza Leva al cielo i begli occhi; ora furente S'agita e grida, e affretta l'ultime ore Della febbre il delirio e dell'amore. O Patria mia! la lira e l'intelletto Io ti sacrai; ma orribile sciagura Inonorato spegne e giovinetto Chi bramò degli eroi la sepoltura. Ah mi tormenta più che questo letto L'oblio temuto dell'età futura. Nessun lamenterà sì breve corso? Nè quel gelido seno avrà un rimorso? Elena, e mi tradivi! i dolci e casti Pensieri ove son più, la data fede, La fè che tante volte mi giurasti? Oh chi ti parla, ed al tuo lato incede? Tu gli sorridi? ah mai tu non m'amasti: Invano, e tardi questo cor sel vede. Ecco l'ara, ecco il rito: ah il mio feretro Presso è a quell'ara. Indietro, iniqua, indietro! No: vanne, oblia, d'un nobil fatuo sposa, Chi al tuo fianco sperò viver felice; Oblia che nella muta, dolorosa Tomba precipitavi un infelice. Oh qual sublime, qual celeste cosa Era il cor che infrangesti, o traditrice! Se l'avvenir, la pace, il dolce alloro Mi rapivi, almen piangi: io per te moro. Ah non ti vidi mai, non mai sorrise Agli occhi miei l'angelica sembianza: E sì degno d'amor l'oblio t'uccise, L'oblio di chi destò cara speranza. Empia! tradì la fede; empia! derise La tenerezza tua, la tua costanza. E del tuo cor l'altissimo tesoro D'un vil pospose alle lusinghe e all'oro. Qual'altra mai nel più deserto ostello, In un bosco, in un monte, in uno speco, O fra gli orrori dell'istesso avello Stata felice non sarebbe teco? Ahi, se distrusse il viver tuo sì bello, Non maledico all'empia e non impreco; Ma pianga alfin, copra d'un nero velo, Copra quel volto, e le perdoni il cielo. Oh fra i poeti e gl'infelici spirti È segreta amistà, segreto affetto; E ti vedrò talor, talora udirti Potrò nei miei deliri, o giovinetto. Vedrò di fiori e d'amorosi mirti Il biondo crin fregiato e il vago aspetto; A' miei canti vedrò di novo ardore Brillar quegli occhi e palpitar quel core. Sorge l'aurora, e tutto avviva intorno, Mentr'io di te lamento in queste sale: Oh vieni, oh vieni dal divin soggiorno, Di purissima luce ornato e d'ale! Oblia per me quel che soffristi un giorno, Per te mi scorderò d'ogni mio male; E alla soavità della mia lira Diran le genti: un angelo la inspira. Alfin tergo le ciglia: egro, languente, O padre mio, ti piansi, e cieco, e morto; Or più solenne duol l'anima sente. Duol che tregua non ha, non ha conforto. E della cetra generosa e pura Alle ceneri tue l'omaggio porto. Distruggeva l'orribile sciagura Dell'avvenir l'incanto, e sol mi resta Una speranza in terra, ed una cura. Oh con qual gioia, pensierosa e mesta Mi rivolgo al passato! oh per me come La tenerezza tua fu manifesta! Ed io grande bramai render tuo nome, E di foglie sudate un dì bramai Incoronarti le canute chiome. Quale sprone più bel, più nobil mai Delle carezze, dei soavi detti, Del mite volger dei paterni rai? Misero! orbato nei più cari affetti, Per te più non saran, misero core, Quei pensier, quella speme, e quei diletti. Invan ricerco all'alba il genitore; E il voto seggio della mensa invano Il brivido mi desta dell'amore. Ov'è più la dolcezza, il gaudio arcano, Quand'ei benedicendo i miei riposi Ai baci offriva l'adorata mano? Fra gli studi lunghissimi, penosi, Di che gioia splendevano in mirarmi Quei sembianti sì gravi e sì sdegnosi! Sciagurata! chi più saprà bearmi Di sì teneri sguardi, e chi può tanto Valor, chi tali palpiti destarmi? Nè più meco divide il lungo pianto, E le veglie e il dolor la suora mia, Che sempre, ohimè, solea vedermi accanto. Ma per amor più forte non m'oblia Quella cortese; e tu che m'adorasti Ancor m'adori, ombra severa, e pia. Del sican dritto scriverò nei fasti La dottrina, i magnanimi consigli, Di che la patria così ben giovasti. A quai sensi dirò crescesti i figli, I figli tuoi che il cielo ha destinato Nell'ambasce far grandi e nei perigli. Sarò dolce conforto al desolato Cor della madre; a voi, mesti fratelli, Sarò compagna nell'avverso fato. Ahi se nel fior dei nostri dì novelli Orfani siam, dall'anima commossa, La paterna virtù non si cancelli! Venite, o cari; sulla queta fossa Inginocchiati meco, un sagramento Facciam solenne alle santissime ossa. Giuriam far sacra ogni opera, ogni accento Far sacro, e il nome, ch'ei lasciò sì bello, Far di nuovi miracoli argomento. Giuriam, giuriamo sul temuto avello Amarci, e un sol volere, un sol pensiero Aver tutti, e una mensa, ed un ostello. Giuriam nel periglioso erto sentiero Della vita seguir l'orme illibate, E aver sobria la mente e il cor sincero. Giuriam la patria amar, d'ogni viltate Esser nemici, e nel funereo letto Scender famosi d'opere onorate. Giuriamo. Chi spergiura è maledetto. Sparsa le nere chiome, in nero ammanto, È la più mesta vergine del cielo; Colei che innalza fra le tombe il canto E scioglie l'alme dallo stanco velo. Nel cor, negli occhi, nell'aspetto santo Splende arcana pietà, celeste zelo; Di Dio ministra, nell'eterea corte Libertade si noma, e quaggiù morte. Crudel mostro, cadavere deforme L' inebriato nei piacer ti crede; Ma in tutta la beltà delle tue forme L'occhio de' giusti, amica dea, ti vede. Chi più sofferse, più tranquillo dorme Nelle tue braccia in sotterranea sede; E quivi io dormirò, qual pargoletto Sul molle grembo, o sul materno petto. Con un bacio, o pudica, ed un sospiro Deh chiudi il libro della vita mia! Ah fu tutta un poetico deliro Di tormenti, d'amore, e d'armonia! Se in te posi ogni affetto, ogni desiro, Se immacolata era finor la via, Chiudi le bianche pagine; a più rude Prova non por la debole virtude. Quando tace la notte, o sull'aurora Quando tutto è sì placido e sì arcano, Di fior t' adorna, e il suon dell'ultim' ora Tocca sull'arpa con tremante mano: Oh quel suon che rapisce e che innamora A sè tiri il mio spirto, e il velo umano, Più dalle pene che dal sonno oppresso, Ricevi, o morte, nel soave amplesso. Ma l'animo già pronto alla verace Patria rivoli dal desio portato, E più lieto, e più franco il tempo edace Nel trionfo si tragga incatenato. In su la soglia dell'eterna pace A me tende le braccia un veglio amato; O padre, o cielo, o desïata vista: Ciò che perdiam laggiù qui si racquista. No: canzoni più tenere, più bella Storia non lessi della Vita Nova. Del Petrarea soave è la favella, Il sentir men profondo, e che men giova. In quell'ebrezza, in quell'affetto, in quella Grazia il cor si sublima e si rinnova. Come fu nobil, timida, segreta La prima fiamma del divin Poeta! Te benedetto, o giovine Sanese, Che nelle dolci pagine inspirato Scolpivi quella vergine cortese, Miracolo d'amore, onta del fato. O le fanciulle del toscan paese Imparin da quel marmo invidïato, Che sol dall'Alighieri ebbero onore La virtù, la modestia, ed il candore. Se d'ogni tuo pensier, d'ogni tua grande Opra fui colta, qui la mente appago: Questa è la prima delle tue ghirlande, Dei cari sogni tuoi questo è il più vago. Quai memorie non desta? quai dimande Non faran le bell'alme a tanta imago? Sì, con quell'onestà, con quel sembiante Mover la vide, e la cantò l'amante. O divino saluto, o sguardi, o pura Gioia, o momento che fe' il Genio eterno! Ahi tosto il duol, l'esiglio, e la sciagura Colpir quel sommo, ed ei sognò l' inferno.— A te non turbi invidia, o mesta cura Di giovinezza il riso, il gaudio interno: Sogna amor sempre, e con ardir felice Vinci, se il puoi, te stesso e Beatrice. Alla beata quadrilustre moglie Che ti scelse, o fratel, libero il core, Infiorar godo le paterne soglie, E sciorre il canto del pudico amore. Ahi, dopo tanti casi e tante doglie, Perduto l'adorato genitore, L'acquisto d'una suora, e d'una figlia, Sol potea rallegrar questa famiglia! E fra le lodi unanimi, fra i voti Dell'amica città, movete all'ara; Città che brama simili nepoti Al giusto lagrimato oltre la bara. Dolee Palermo! a te non sono ignoti I buoni mai, nè sei di pianto avara, E ti lasciar verissimo desio L'ingegno e la virtù del padre mio. Rammentate quel nome e quegli esempi Ai sospirati figli, o giovinetti, Perchè lontani dal cammin degli empi, Giovin la patria di consigli eletti. Son rare le bell'opre, infidi i tempi; Ma la luce di nobili intelletti Può rischiarare ancor le nostre mura, O venerata render la sciagura. Tu degli anni sul fior, della bellezza: La novella magion rendi felice, Sposa gentile, e, a dolei studî avvezza, Esser saprai consorte e genitrice. Vien; colui che t' adora e t' apprezza, Ti chiama al rito, e il ciel vi benedice; Vieni: coppia miglior, nodo più santo Non fu mai segno dei poeti al canto. Elle pregavan; degli aspetti santi Chi ritrae la mestizia ed il candore? Chi la dolcezza dei celesti canti Presso l'alba nel tempio del Signore? Di soavi pensier, di cari pianti Cagion sarete, o benedette suore, Qualor dal tristo secolo fallace A voi ripensi ed alla vostra pace. Elle pregavan: con lo sguardo intorno Io fissava or le seritte sepolcarli, Or quelle penitenti, or quel soggiorno, Meditando la sorte dei mortali. V' ha chi nel breve procelloso giorno, Cercando le delizie, incontra i mali, E chi, fuggendo per solinga via, Tutto ignorar s' ingegna, e tutto oblia. In quell'urne antichissime, famose Dormon regi infelici anche sul trono; Dormon vergini pie, misere spose Ch'ebber fatale di bellezza il dono. Talor le elaustrali dubitose, Quando agitate arcanamente sono, Guardan quell'urne, levan gli occhi al cielo, E con nuovo fervor baciano il velo. Confortate così, non invilite, Tornano all'opre usate, alla preghiera, E l'ombre singhiozzar delle tradite Senton per la celletta in su la sera. Taccian gl' ingrati, o candide romite, Che inutil vi gridaro e folle schiera: Nobil destino chiamerò sol io Vittima offrirsi per la terra a Dio. Dormi, o bel giovinetto: oblia sotterra Le grandezze del mondo e le sciagure; Oblia la cruda, sanguinosa guerra, Il carnefice, il palco, e l'empia scure. Te ne' suoi Vespri la sicana terra Vendicò fra le stragi e le paure: Ora, placato, nell'oscuro letto Dormi i sonni regali, o giovinetto. Ahi! dalle braccia d'amorosa madre Venivi a racquistar l'impero avito, E solo andando contro mille squadre, T'ebber vinto così, non invilito. Derise gli anni, il grado, le leggiadre Tue forme di Partenope sul lito; Leggi, natura, Dio, tutto derise L'usurpator vilissimo, e t'uccise. Povera madre! qui volò; soltanto Credeati preso, non trovò che l'ossa. Oh di quai baci, di che amaro pianto Questo marmo copriva e questa fossa! L'unico figlio, il figlio amato tanto, Della vedova imbelle orgoglio e possa, Il figlio innocentissimo e pudico. I delitti pagar dovea d' Enrico? Dormi, o bel giovinetto: anch'essa dorme Alfin per sempre quella desolata, Che del gran Federigo un dì sull'orme T' incamminava, e la dicean beata! Oh se al voto comun, se al suo conforme La divina bontà fosse anco stata, Ultimo dei Normanni e degli Svevi, I prischi vanti rinnovar potevi. No; qui dormi illibato: è meglio, offeso, E vittima cader sul fior degli anni, Che, dello scettro sostenendo il peso, A Dio risponder degli umani affanni. Qui dall'amor, dalla pietà difeso, Nessun fia che t' insulti e che ti danni; Avrai lagrime, avrai dalle matrone, Dalle giovani schiere inni e corone. Son quattro lustri, o tenera sorella, Dacchè nacqui al dolor; sono passati I giuochi, i sogni dell'età novella, Sogni che tosto distruggeano i fati. Se del viso, del cor, della favella I tuoi mesti silenzï ho confortati; Se nel viver noiso, uguale, arcano, Dolcissima ti fui, non nacqui invano! Tu sorella, tu amica, e se v'ha nome Più santo e puro, ne sei degna, o cara: Quest' amicizia dei primi anni, oh come È preziosa nella vita e rara! Lascia ch'io pianga, e il tuo volto e le chiome Copra di baci, e con dolcezza amara Membri ogni affanno, ogni perduta speme, Ogni conforto che provammo insieme. Nei momenti dell'estro e del dolore I mestissimi versi a chi ripeto? Chi mi ricambia di verace amore, O chi m' asciuga il pianto più segreto? Qual cor batte conforme a questo core, E chi meglio il comprende? Ah teco è lieto Ogni destino, e la morente faccia Solo piegar vogl' io nelle tue braccia. Se men t' amassi, chiudere la vita Senza rimorsi in questo di vorrei, E ad ogni alma più cara e più gradita Lasciar la mia memoria e i versi miei. D'amor, di sogni, d'armonia nutrita, Nel consorzio dei vili oh che farei? Li fuggirò, vivrò nella dolcezza D'un cor che mi comprende, e che m'apprezza. E tu più bella, più gentil rivivi Nel mio cor, nei miei sogni, ombra divina; Chè degli estinti memore, fra i vivi Straniera mi riguardo, e peregrina. Quanto soffristi, ohimè! come perivi Sul fior degli anni tuoi, dolce cugina! Perchè si tosto nell'umana via A me furava il ciel guida sì pia? Dai chiostri appena uscita, appena sposa, E madre di due teneri angeletti, Una fine immatura e lagrimosa Troncò tante speranze e tanti affetti. Venner dell'ira i dì: la procellosa Indica lue deserta i nostri tetti: Invan tu preghi e piangi; in su la testa Dei tuoi miseri figli, ecco, s'arresta. Qual fantasia dipigner le tremende Ore potrebbe e la funerea scena? Chi d'orba madre l'agonia, chi rende? Ahi più che il morbo l'uccidea la pena! Sulle agghiacciate salme si protende, Sicura di morir; però serena: Bacia gli spenti volti, e immota e lenta Chiude gli occhi alla terra, e s'addormenta. Spirito soavissimo, compianto Fra tante illustri vittime sicane, Coi figli in braccio al padiglion del Santo Volava, e tra gli eletti ivi rimane. Oh se amabil ti fui, se cara tanto, Abbrevia anche per me le doglie umane, E là m'invita, o candissim' alma, Ove tutto è sorriso, e tutto è calma. Quai memorie sublimi, quai pensieri, Quali affetti nell'anima ridesti, O divina città dell'Alighieri, Città delle cognate alme celesti! Non per opra d'astuti o di guerrieri Dello scettro regal degna ti festi; Ma donna ti chiamaro, e non invano, Per l'ingegno maestro e per la mano, Anna, mia dolce suora, oh quai modelli Qui troveresti! oh perchè lunge sei? Vien: qui rinnova i siculi pennelli; Qui teco l'arpa rinnovar saprei. Vien: del famoso tempio infra gli avelli Interroghiamo i Grandi, i nostri dei: Ecco a te il Bonarroti apre le braccia, E Vittorio dall'urna a me s'affaccia! Qui palagi, e delubri, e tele, e marmi Di bellezza multiplice, infinita; Qui la vera favella, i dolci carmi, Qui scorre placidissima la vita. Oh qui tutta potessi trasmutarmi, E qui (perdona Isola mia gradita). Qui, libera di cure e di sgomenti, Nuove imagini ordir, nuovi concenti! Ahi nol potrò! Più forte del desio È l'amor che mi stringe ai miei più cari; Là, dove nacqui, dove è il ciel sì pio, Ritornerò per chiuder gli anni amari. Là, nella pace dell'ostel natio. Ripasserò sognando e colli e mari, Firenze rivedrò ne' miei deliri, Avrà Firenze gli ultimi sospiri. Amor destò la lira Di Saffo, amor canta Vittoria, e Nina; Amore nei dolenti Leggiadri sogni, amor ripeto anch' io: Ma sol la patria spira I più fervidi carmi al petto mio! Non trastul, ma di Dio Voce i carmi saran, saran divina Missïon fra le genti, E le sicane menti Guidar di gloria nel cammin desio Come al trionfo del natio Paese Guidò gli eroi la vergine francese! Bello, azzurro è il tuo cielo, O mia Scilia, eterna primavera E colli e prati infiora, E scherzano l'auretta, e bacian l'onde A'vaghi fior lo stelo; E celesti pensier nell'alma infonde Fra solitarie sponde La regal pompa di stellata sera, O la vermiglia aurora Che le campagne indora, O il sol che il raggio luminoso asconde, E il potente saluto invia dal monte Fra torrenti di luce all'orizzonte! Oh questo dolce suolo Esser dovria di mille vati il nido, Se l'aure, e l'acque, e i rami E l'erbe, e i sassi parlano armonia, Perchè sì lento il volo Dell'estro, ove natura è così pia? Oh per qual sorte ria Dell'antico valor s' oscura il grido, Nè v' è fra noi chi brami Della gloria i certami? Qui l'itala favella qui vagia, Ma sull'Arno restò: Greci, Sicani Vati fioriron qui, ma non Toscani! Mente, mente costei, (I superbi diran) gl'itali modi Vivono pur fra noi:— So che rivivon, che tu, dolce Oreto, Fosti canoro e 'l sei, Ma so che l'Arno, e il Tevere, e il Sebeto E l' Olona è più lieto, E là dei Grandi suonan le melodi Oh quai nomi d' eroi Annoverar tu puoi, Se quai nomi santissimi ripeto? Il mio l'aura disperda, o viva allato D'Alighier, di Vittorio, e di Torquato! Destò verace Marte Destò la terra sonnacchiosa all'armi, Nella terribil lutta S' inspiraron d' Italia i più gagliardi, Inspirò Bonaparte D' Ugo, di Monti il cor, di Leopardi. Noi timidi, codardi Non infiamman le trombe a' forti carmi; Sanguinosa, distrutta Arde l' Europa tutta, E un caro veglio al ciel leva gli sguardi, Canta greggi, pastor, silenzi, amore, E dolcezza fatal ne infonde al core. S' ei gli spirti addormenta, I vivi io desterò, desterò i morti; E all'opra generosa La vita sacrerò, gli inni, il pensiero! Vil, chi nell'alma senta Senza rossor, la voce dell'austero Fatidico del vero! Nè lo riscaldi il sol, nè lo conforti Bacio, o lingua amorosa Di figliuoli o di sposa, Nè d' amico leal detto sincero, Ma dei rimorsi la terribil possa Lo travagli nel letto e nella fossa! S' alti pensier divini Di patria carità destin l' ingegno, Sole, inermi, o Sicane, Muteremo d' un popolo i destini! A farsi di noi degne Il giovin sacri a' più bei studì l'ore, E sprone ai fatti più lodati e santi I palpiti saran d' un puro amore; Amor di sovrumane Idee nutrito, di celesti canti, D' ogni più nobil' arte Nelle tele, ne' bronzi e nelle carte. Lungi, lungi, o sorelle, Dal miraglio, dall'opre neghittose: Dei forti, degli egregi Saran le glorie più felici e belle, Se non turban le spose, Ma dividon con lor gli studì e l'alma. E ti rapì la moglie, o sciagurato Del-Sarto, ogni conforto ed ogni palma. Disconobbe i tuoi pregi, E folle ti credè, non inspirato, Byron, la donna oscura, D'ogni fallo cagion, d'ogni sciagura. L'arroganza, il cipiglio Sull' umil gente non vi piaccia, o care, E sia d'onor la brama Pudica e santa e nel femineo ciglio! Le virtù che fan care Giungete alle virtù che illustri fanno, E la dottrina torni alla fanciulla, Torni gioia alla madre, e non affanno. Meglio che per la fama, Vegliate a studio dell'amata culla, E i pargoli soavi Degni cresceti degli onor degli avi. Degni crescete i figli Della patria, di voi, sicule madri, Nè dal latte venale Bevano ohimè! tristissimi consigli: Di forti, di leggiadri Esempli provvedete agl' innocenti; L'ore tolte a compor gli alti e le chiome, Ponete a coltivar le care menti; Nè vincer la rivale Di grazie, ma bramate un santo nome, Agli studi più eletti Educando fanciulle e giovinetti. Madri, son vostri i falli Dei nati, e vostro ne sarà il rimorso; Chè voi li trascuraste Vaghe d'ornarvi e di piacer ne' balli; Rapidissimo è il corso Di giovinezza, e nell'età matura Ingrati vi saranno e paurosi I confidati a mercenaria cura. Le pene che mertaste, Vi troncheranno i giorni dolorosi; Nè di pianto o di voti La fossa onoreran figli e nipoti. Deh vi suada il vero Che al profetico labbro amore inspira! Di speme, di coraggio Ebre correte il nobile sentiero, E nell' amor, nell' ira Dimostrate il valor che più non dorme. Nè trastullo, nè servo il nostro sesso, Col forte salga a dignità conforme; Veder deh tosto il raggio Di sì bel giorno deh mi sia concesso; Ah! vi sproni il mio verso A ridestar la patria e l' universo! Era la notte: e i nembi, e la procella Coprian la terra, e l'onda, e il firmamento, Nè di luna piovea raggio o di stella, E cupo urlava e minaccioso il vento. Bella, dicea l'inglese vate, oh bella Vivida scena! oh che trasporto i' sento! Che pensieri, che ardir m' infonde al core Questo mar, questo cielo, e questo orrore! Senza conforto, ahimè, senza consiglio A rivederti giungo, anima mia, E sei tu fuori almen d' ogni periglio O travagliata dalla febbre ria? Così pensò molle di pianto il ciglio Sul termin desïato della via; Chè fra l' ire del mar, la lieve antenna Toccò le dolci piagge di Ravenna. Nè bisogno di cibo o di riposo, Divorato ei sentia dalla sua cura, E palpitando entrava e sospettoso Della nota magion le chete mura. Ma visto un servo muto e doloroso Nel volto gli leggea la sua sventura. E di sè tolto alla più interna stanza Precipitoso e trepido s' avanza. Entrò l' uscio fatale, accorse al letto, Oh Teresa, gridando, oh che sgomento! E smarrito negli atti e nell'aspetto Uscir quasi parea del sentimento. Rompe il mesto drappel d'intorno stretto, Alzando un acutissimo lamento, Morrò, dicendo, morrò teco; io voglio Con la vita troncare il mio cordoglio. Mollemente sul seno il crine sciolto Cadea riverso dalla testa bionda, E riposava sulla manca il volto, E dormendo piangea la moribonda: Coll' animo e col ciglio in lei rivolto La deserta famiglia la circonda, E par che indarno di reprimer tenti I singulti, le lacrime, i lamenti. Fatto il giovine al letto ancor più presso, Guatò dell' egra la mutata faccia, E desolato lacrimando anch' esso Intorno al petto rannodò le braccia: Mentre ei dal pianto e dalla doglia oppresso Che decida non sa, nè che si faccia, Da un tristo sonno l'infelice desta Sospirando turbata alzò la testa. Alzò la testa, e come sbigottita, Tu, diceva, tu qui? m'inganno forse?— Non l' inganni, son io, dolce mia vita, Giorgio rispose, e a sostenerla accorse,— Ah, m' è dolee or la morte!—e intenerita Lacrimando la man fredda gli porse, E la sua strinse, e un pallido sorriso Rianimava della mesta il viso. Con un tratto dal cor sospiro amaro Seguia, levando a lui gli occhi pudici: Per te la morte sol m' è dura, o caro, Chè speranza non ride agli infelici: Ma tu nell'ira del destin più avaro Tu in preda resti del dolor…—Che dici! Il misero gridò: non fia giammai: Nell' abisso, o nel ciel teco m'avrai.— No, vivi, il prego de' bei carmi al vanto, L'innamorata donna replicava; Vivi per me che ti scongiuro, al santo Onor deh vivi sulla terra prava! E qui le luci in sè molli di pianto Tacita raccogliendo singhiozzava, Ed, ahi! soggiunse, nell'arida gola Impedita s'arresta la parola. Ma basso lamentando sull' aurora Nel dolce sonno ogni dolor sopiva, E Giorgio muto, palpitando esplora S'è fatal la quïete intempestiva. Dopo una lunga placidissima ora, Più riposata gli occhi riapriva, Ed, oh! dicca, nelle dirotte membra Un novello vigor sentir mi sembra! Del giovin nelle cure e nell'aspetto Si riviver parea la bella oppressa; E fa cor, tergi gli occhi, o mio diletto, Fa cor, sovente ripeteva anch' essa: Ogni palpito in breve ogni sospetto Di quella vita lacrimata cessa, E del britanno udir le meste note Ella gode col pianto su le gote. Deh con che volto mai, con quali affetti Ebro, acceso, commosso, palpitante I proprì sensi allora, i proprî detti Le rilevava il generoso amante! Fra belle amiche, fra' natì boschetti Dal cor dettate, fra lusinghe tante, Care le rime de' begli ozì, e caro Il valor dell'indomito Corsaro! Dai nemici, dal career, dal cimento Appena salvo per pietoso aiuto. O Medora, Medora, immoto, intento Sopraffatto, gridava, quel perduto: Ahi, che il duol la consunse! il ciglio spento Bianco, placido il volto, il labbro muto, Giace la bella, d' un feroce core, Ad amar non temprato, unico amore! Ma più stanco del mondo e più dolente, Di pianger sempre, di portenti vago, Cogli spirti e con l' ombre avea la mente Su la cima dell' alpi il giovin mago.1 Manfredi Chi lo rattien, mentre deciso, ardente Il fondo guata dell' immenso lago? Che giova? steso, con le luci torte No, difficil non è, dicea, la morte.— D'oro, di piume, di bei veli ornate Di fior, di gemme, di trapunte stole Menan donne e fanciulle innamorate Co' lor vaghi le rapide carole. Ma Lara perchè freme? a chi giurate Ha l'ire sue? che volto, ahi che parole! Arresta, arresta, o al pianto e alla vendetta Sola, ascosa riman la tua diletta. Oh perchè volge dell'offesa moglie Strana vendetta nel senil pensiero, E del suo sangue le vetuste soglie E i congiunti, e l'onor macchia Faliero? E tu forte nei rischi e nelle doglie Tu, Foscari, tradito e prigioniero, Speglio rivivi d'ogni cor gagliardo Nell'alte note dell'inglese bardo. Questi l'ultimo foglio avea rivolto, E baciò un nome, e mormorò Torquato:1 Byron scrisse il lamento del Tasso. Impallidissi, e declinando il volto Interruppe la donna: Oh sventurato! Esul, tradito, misero, sepolto Fra' vivi, oh come fosti travagliato, Come ti parver nei dolori, o mesto, E la gloria e l'amor sogno funesto! Sogno funesto! e il sono, ed io l'appresi Fra le lusinghe dei primissimi anni, Perchè si vive desolati, offesi Dal timor, dall'invidia, e dagli inganni: Così Giorgio gridava, e gli occhi accesi Di sdegno avea membrando i propri danni, E fatto in volto come fiamma viva, Quasi fuor di sè stesso ei proseguiva. Oh Aroldo, mesto peregrin, tu sei2 Il pellegrinaggio di Aroldo. La mia più vera imago; o giovinetto, Le mie pene, i miei voti, i pensier miei Ogni cura ti sveli ed ogni affetto. Pietosa istoria! in mille casi rei Con desio la vergava, con diletto, Facile, calda, vera come al core Interrogato la spirava amore. Bella, pietosa istoria! e narrerei Come il tetto natio, come i più cari Senza pianto fanciullo abbandonai, E nuove terre vidi e nuovi mari: Nè mai periglio mi turbò, nè mai Temetti il minacciar de' casi amari, E d'aurei sogni, di bei rischi vago Sulle belle sedea rive del Lago. Dolce Cadice, oh te qual vidi! oh come Favellan gli occhi delle tue donzelle! Quegli occhi neri, quelle nere chiome Delle britanne mie le fan più belle: Nè il sembiante obliai, nè il vostro nome O albergatrici mie greche sorelle, O amate e viste fra' soavi odori Delle piante aromatiche e dei fiori! Senza un caro desio, senza una spene Al patrio lido, alla magion reddia, E fra pompe, lusinghe, amori, e cene Dal dolor divorato i' mi sentia: Oh Ada, oh Ada, e tu gravi catene Compensavi nascendo, o figlia mia, Ravvisarmi sperai nelle leggiadre Tue membra, e il caro nome udir di padre. Ma nè padre, nè sposo a te dell'armi, Delle glorie, de' regni, della fede, E dell'arti maestra e dei bei carmi, Italia, volsi desïoso il piede: Fra castelli, e ruine, e tele, e marmi Desta mille memorie ogni tua sede, E mille incanti il ciel, le selve, i monti L'aure celano e l'erbe e i vivi fonti. Ancor t'adornan generosi petti Della spada, del lauro, e dell'uliva: Vivi gli studi, i più sublimi affetti Vivi, dell'arti la scintilla è viva: Colla mente, coll'anima, co' detti Questo cielo io saluto, e questa riva, E l'urne adoro dei vetusti, e i figli Canto prodi nell'opre e nei consigli. Oh che pianto, oh che sensi, oh che pensieri, Che memorie, che amor nell'alma desta La croce sepoleral dei cimiteri, Quando tutta s'imbruna la foresta! Meditando il dolor, gli eterni veri Quella scena gentil non è funesta; Deh fra fra gl'itali avelli e fra' cipressi Dormir tosto tranquillo anch'io potessi! Abbian d'itali fior, d'itala scritta, D'italo pianto onor queste fredde ossa Ove ingombran gli avelli a manca, a dritta, Ove pregai con l'anima commossa: Ove d'un mesto, d'una derelitta Vergine, d'un guerrier sopra la fossa Parlar con varì affetti in vario modo Io l'udiva dal sasso, ed ahi! pur l'odo. Ammutissi d'un tratto, e qual furente Nel cor, negli occhi, nell'acceso volto Strane cose rivolge, e più non sente Ne' feroci pensier tutto raccolto. Quando Teresa, pallida dolente, Giorgio, Giorgio, diceva, ahimè che ascolto! Morir tu brami! Ahi, che non può gradita Quest'immenso amor mio farti la vita!— Perchè piangi? che dissi! ahimè perdona Trasognato, dicea, dolec cor mio, Se un'arcana potenza in me ragiona Come frenarla, ahimè! che far poss' io? Stanco del mondo sol non m' abbandona D'un bene veracissimo il desio, E qual contento sogno, qual conforto Fra le vittorie e l'armi, cader morto, Cader morto, e fia tosto: ahi no! funesta Non è la vita mia, diletto amore, Se tu sei meco, tu che chiudi in questa Santa sembianza più che santo il core: Per te sola vivrommi, e per la mesta Cetra che disacerba il mio dolore, Per te sola, o Teresa! Ed ella invano Parlar tentava e gli strignea la mano. No, lasciarti, non vuo': d' ogni cimento A parte esser vogl' io, d' ogni tua sorte: Nè i disagi, nè il mar teco pavento, Nè l'orror delle pugne e della morte: Molli le membra è ver, ma un'alma sento Che il sesso vince e gli anni, audace e forte, E gli alti voli dell' ingegno apprezza Più del sorriso della tua bellezza! E teco lontanissime contrade Vedrò consolatrice peregrina; Vedrò fra tanto sangue e tante spade Degli infidi la morte e la ruina; Nè trionfi d' ellenica cittade Onorata sarò più che reina, Salve! i Greci diran, bella pudica, Salve! del nostro croe fedele amica! Oh dolci sogni! oh Giorgio! oh come vaga Di cimenti e di lodi anch' io sarei! Come nelle tue braccia, oh come paga Dopo sì care illusion morrei! A che resisti più? parla, m' appaga, Chè mal senza di te, viver potrei… E taci, e andar cosi pensi tu solo? E sai pur troppo che morrò di duolo! Vanne dunque, crudel, vanne, e deserta Nel terror m'abbandona e negli affanni; Va, nè rieder mai più, chè pronta e certa Di mie pene è la fine e dei tuoi inganni. Nelle palme la fronte avea coperta Pallida, intesa ne' futuri danni, Quando a lei Giorgio sorridendo: oh quanto Di te non degno, e intempestivo è il pianto! Nè le noie del mar, nè la paura Dell' armi, o cara, e del furor t'arresta? Oh di fedele amor, d' alma sicura La più verace d'ogni prova è questa! Ma l'inquieta, ahimè! trepida cura De' rischi tuoi, della tua dolce testa Vieta che fra le pugne e il sangue e i gridi Timida, molle a impallidir ti guidi. A noi lascia le pugne: il tuo bel viso Delle rose d'amor solo s'adorni, Chè per poco da te, cara, diviso A viver tornerò teco i miei giorni. Oh Dio! grida la mesta; un improvviso Terror m' agghiaccia, o Dio, se tu non torni….. E interruppe gli accenti, e immota e bianca Gli occhi molli di pianto in lui spalanca. Taci! non tornerò: nell' alma anch' io Sento mesti presagi, un grido sento: Va, l' ostinato di morir desio Grecia t' appaga, va, corri il cimento. Deh non pianger! che dissi! ah no, cor mio, Fia lungi ancor si desiato evento, Vincerò, tornerò; dolce, gradita Tu sola render mi potrai la vita. Sai tu, con che dolor, con che tormenti Dal tuo fianco m'involo e dal tuo aspetto? Sai come quest'addio, questi momenti Spoglian di forza e di conforto il petto?— Ma la salvezza delle greche genti Il sacrificio vuol d'ogni altro affetto. Altro che versi questo secol brama E fra' guerrieri avrò guerriera fama. Tenta pur nova gloria, e sol concedi A me teco venir, morirti accanto; Oh disumano e il neghi! oh parla, a' piedi Di lui prostrata ripeteva in pianto. Nelle braccia l'accolse; e insisti, e chiedi Morir, dicea dalla pietate affranto, Chiedi che i lacci a' vendicati schiavi Rompa, e la fossa tua per me si scavi?— Lasciami, deh non più tentarmi! Io spero Per deserti, per vie strane, per l' onde D'ozioso cantor fatto guerriero Titol novo acquistarmi e nove fronde: Ma ne' sospetti d' un crudel pensiero Farnetica la mesta e non risponde; E chi sa, dice il cor, chi sa se mai Di Grecia tornerà, se il rivedrai! Deh m'ascolta! rispose il giovinetto, E commosso traea dal seno un foglio; Di verissima fè, di caldo affetto Che ti sian pegno queste rime i' voglio Tu le dettavi al cor, tu dell'aspetto E de' verdi anni tuoi nel dolce orgoglio, A un sorriso, a un accento, di sì bei Labri amorosi deh che non farei! A te fia sacra del signor de' canti, Del celeste Alighier la Profezia, Oh di che sdegno, di che zel, di quanti Accendeva pensier l' anima mia! Io 'l vidi, e non fu sogno, a me davanti Movere il vidi ombra cortese e pia, E bear di sue lodi, ed incitarmi A cantar le vittorie, a toglier l'armi. Oh se animar la nordica favella, Se tal maestro di seguir tentai Son tue le lodi, e tanta speme, o bella. Solo brillar potè quando t' amai!— Sorrise l'infelice, e una novella Gioia animar parea gli umidi rai, Nè umana cosa ritraea quel viso Nel dolor, nelle lacrime, nel riso. Dolce pegno d'amor! dolente, sola Leggerò, coprirò ne' miei deliri Ogni parte, ogni verso, ogni parola Di caldissimi baci e di sospiri. Se gloria, immite gloria, a me t'invola, Su questo deh! l' ultimo fiato spiri, E nella tomba mia, dentro il mio seno Questo pegno d'amor si chiuda almeno. Tu piangi? tu? fra le sublime cure Senti dunque pietà della mia sorte?— Deh taci! io piango, io che le mie sventure, Che il dolore spregiai, spregiai la morte. Perchè tanto sentir? perchè più dure Del cor le tempre, e non son io più forte? Ma chi vederti, e non amar, chi puote Abbandonarti con asciutte gote? La bella sciolse allor dal'e sue chiome Un nastro di vaghissimi colori, Ove col proprio dell'amante il nome Trapunse dotta ne' più bei lavori: Serba questo, dicea, serbalo come Dono infelice d' infelici amori, E mi rammenta, e mi compiangi, ch' io Mi struggerò d' affanno e di desio. Con che parole, ohimè! con quale affanno Da quell' ultimo addio da quelle braccia Si disciolse, tornò, vide il britanno Di morte colorir l'amata faccia! Ingannator lo chiama, empio, tiranno La desolata, e l' auree chiome straccia, E il fido amor, la gloria, l' infelice Vita, gli uomini, il mondo maledice! E ver: quell'estro, o cara, quel potente Foco struggea degli anni il più bel fiore; Ma nei trasporti dell'accesa mente Chi può curar di morte e di dolore? Che val negli agi trar vita languente? Meglio è la gloria di brevissime ore; Meglio da cure generose affranta Onorata morir, giovine, e pianta. Pur qui, fra queste mura, in questa cara Domestica prigion, l'alma sdegnosa A soffrire, a tacere umile impara, D'ogni pregio invaghita, e desiosa. Troppo fatal l' ingegno, è troppo amara La tenerezza: qual difficil cosa È patir sorridendo! ah non il sesso Che gode libertà, forte è l'oppresso! Anche a te, dolce suora, a te compagna Della mia vita, cui tutto confido, Il volto celo, se il dolor lo bagna, O fra le stesse lagrime a te rido. Soffrimi così mesta, e non ti lagna, Se i miei giorni così teco divido: Io sola amica de' tuoi dì verace, Rallegrarne dovrei gli ozî e la pace! No, non credea colui che sì celeste Di Rosalia sognava la sembianza, Che le tinte uguagliar soavi e meste Una giovin sicana avria baldanza! O gran Fiammingo, se più bella in queste Piagge cresceva un dì la tua possanza, Mira da' nembi, offerta la felice Copia all'amor di cara genitrice. Io che offrirle potrei? Sento il cor vago De' be' portenti anch' io, ma non ho l'arte, E sol d'affetti, di dolor m'appago Fantasticando su le vecchie carte. Della sorella mia la dolce imago Benchè inesperta, o madre, oso ritrarte, Divina copia ella ti reca, ed io Del pensier sol mi vanto e del desio. Scarsa e debole ognor nella secreta Cella dei miei pensieri, entri la luce. Quale ebrezza nell'alma d'un poeta Quella soave oscurità produce! Cantar non mi vedrà nè rider lieta Fra le pompe del sol chi mi conduce, Perchè rotto ogni incanto, ogni mistero Truce col sol m' inaridisce il vero. No; l'ombra non mi fea pallida e mesta! Pure all'ombra vegg' io fiorir la rosa; Ma del ciel degli eventi la funesta Fatalità rendon la vita esosa. Nell'ascoso sentier, nella foresta Lasciatemi cantar; sì dolce cosa È cantar lacrimando! Oh la ridente Freschezza non avrà chi troppo sente!! Io ti saluto, o cara pargoletta, Nelle prime di vita ore serene; In te saluto l'avvenir, la spene, Il tesor della mia suora diletta. D'alti consigli, di beltà perfetta Cresci conforto di leggiadre pene, Cresci all'onor delle sicane arene, Più di germe virile ai tuoi diletta. Della madre l'esempio ed il desio Vinci, e la gloria antica e lo splendore Accresci di magnanima famiglia. In te grandi speranze, in te vegg' io Un lieto augurio, un angelo d'amore, E in te riposo le dolenti ciglia. Cagion d'ogni tua cura D' ogni amor, d' ogni speme, Dal dì che nacquer, furo sempre i figli; E come sempre fosti Nella lode prudente e nei consigli, Quando mutavan essi Le carole e i trastulli De' semplici fanciulli Nelle fatiche prime, ond' uom s' addestra! Ed or come ti allieti sospirando Nel mio adulto german, nella sorella Inorgoglita del più dolce vanto! Deh! benedici sulle care teste I fortunati affanni, E le scorse premure manifeste, Diletta madre, che tu n' hai ben d' onde; Nè ai domestici voti Altri meglio risponde. Oh! ve' di quell' amata Ne' suoi studi fedele, Ve' come ridon l' animate tele! Mente, mente chi 'I dice: ah non è vero, Non vince il miglior sesso Nella mano gagliarda e nel pensiero; E saggie ed animose Donne ogni terra vanta ed ogni etade Che immortalàr se stesse Delle sudate carte e delle spade! Tu siccome l' esemplo Fra noi sia caldo ancora Attesterai dell' opre, o dolce suora; E con la cetra eburna, Che trionfa dell' urna, Io di pari desio M' infiammerò, vestirò l' ale anch' io. Oh! nell'infanda polvere Questo per noi si tenti! Qui sempre in duol ne tornano I fortunati eventi, La nova età dileguasi Come un festivo di. Ne' deschi, nelle lucide Voglie si appaghi 'l folle: Ma noi non vinca indocile Desir, non opra molle, E la materna gloria Accrescerem così. Oh forse dubbio in te, forse tormento Destava, o madre, questo cor, di foco, Questo che audace irrequïeto sento; Questo che in ogni tempo, in ogni loco S'agita e freme, sicchè pace invano Invan quïete a tanti affetti invoco! Oh come è procelloso, oh come è strano Tanto crudel tumulto in sì verd' anni! Quale è simile al mio qual petto umano? Benchè aperta cagion non ho d' affanni, Esser lieta non so, nè so lagnarmi Per non far tuoi dell' egra mente i danni. Deh spera, o madre mia! saprò inspirarmi Ne' tuoi detti, saprò vincer me stessa, Saprò la gioia ritentar de' carmi E ogni cura obliar che sì mi ha oppressa! Oh non sapea che Strocchi tutta rese Quell' armonia sì placida e sì bella, E i tuoi carmi soavi, o Cirenese, Volger tentava nella mia favella. Non esser godo all' italo Paese Necessario il valor d' una donzella, E all' egregio rival cede la palma Senza viltà, senza rancor quest'alma. Sol qualche pio, qualche sublime core Pianga su' versi ch'io pensai pur tanto; Per una cara lacrima d' amore Dell'Asia cedo e dell' Europa il vanto. E non pago del serto e dell' onore Ove l'affetto ei mi contrasti e il pianto, Cederò tutto, se alle men leggiadre Rime serbi il tuo cor, diletta madre. Me solo amor consiglia, Me sol conforta amore; Dei carmi d'una figlia Quale offerta più nobile Più degna è del tuo core? Oh se l'affetto vero, Le imagini leggiadre M'infiammano il pensiero, È tuo l'onor, la trepida Gioia, diletta madre! Sai chi dell'estro il foco Mi desta, chi m'inspira? Per te, pel natio loco, Per l'amor dei magnanimi Sudo a temprar la lira. E sol perchè il volesti, Perchè n'è sacro il fine, Uscir permisi ai mesti Versi dalle domestiche Nell'aure cittadine. Che val, se tanto zelo Strugge l'etate acerba? Io sol vivere anelo Per poco, e te fra l'itale Madri lasciar superba. Oh Stuarda! oh qual nome! oh qual divina Beltà innocente! oh misera Stuarda! Nè libera, nè sposa, nè reina Soffrir tutto sapesti, alma gagliarda! Morir sapesti pria che alla latina Fede degli avi tuoi farti bugiarda; Ogni accusa, dicevi, ogni tormento O di Neron più cruda, i' non pavento. Oh mia dolce Stuarda! oh sventurato Chi sol nasce al dolor, chi troppo sente, Chi ne' cimenti d'un avverso fato Esser duro non sa benchè innocente! Fatal bellezza! ingrato dono, ingrato Bugiardo fregio dell'età ridente, De' tuoi perigli, delle tue sventure Sola cagion ti preparò la scure! Pieno di simpatia, pieno d'amore Io sento il cor, sento che un sol trasporto D'ira è lungo rimorso, odio il livore, Morte invoco ai miei mali e non conforto. Come vecchiezza è di mia vita il fiore, E il pallor di vecchiezza in viso porto, Ahi secca per novissimo dolore È la vena dei carmi, il foco è morto. Perchè vivo? perchè finor soffersi Di quest'inferno l'aborrita guerra Fra démoni sì turpi e sì perversi! O suora, o fratel mio, per voi la terra Ancor felice sognerò nei versi; Ogni speranza mia non è sotterra. Oh bella sera! Più soave splende Il firmamento al pallido chiarore Di tremolanti stelle, che vestito De' raggi vividissimi del sole, Come è più bel di donna il caro sguardo, Se furtiva d'amor lacrima il veli. È pei felici del mattin sereno La luce e il moto: per gli oppressi, il vasto Silenzio della sera, allor che spira Sì placida mestizia il bianco volto Della placida luna; è per chi sente Del delitto l'Erinni e del rimorso La truce interminata ombra di notte.— Me ispira il lume d'amorosa stella, E l'interrotto suon della campana Che parmi dir: Prega agli estinti pace, Ai cari estinti che sì amasti un giorno Ed or d'affetto e di beltà son nudi; Prega per loro ed a morir t'appresta! No, non fu ingiusta l'ira onde m'accese Temerario parer, lingua mordace Di chi spregia l'italico paese E quell'ira sì bella ancor non tace! Ma tu caro fra noi spirto cortese Tu non segui e non ami il vile audace; Tu l'italo dolor non maledici, E rammenti gli eroi negl'infelici! Che riedi alla tua Francia! ivi s'appresta Il trionfo novel di Bonaparte, Ivi guerriero fra guerriera festa Avrâ l'ara e la tomba il vero Marte. A questa gioia cittadina, a questa Tomba corri, Gustavo, ad inspirarte, E a te si volge Italia e per te manda All'ingrato figliuolo una ghirlanda.— Oh chi frenar le lacrime Potrà nel dirti addio? Ti seguirem dell'anima, Dell'occhio, del desio: La sicula amicizia Nè scemasi nè muor. Tu bella, tu magnanima Nell'opre e nei consigli, Bear lo sposo, crescere Sai degnamente i figli, E sol nelle domestiche Gioie t' appaga Amor. T' invidio al mondo, all'Anglia, O donna sovrumana! Oh qui potessi vivere, Oh fossi tu Sicana! Più che fra genti libere, Util fra noi sei tu. Qui morte, qui silenzio Regna, sol ride il cielo! Ma tu potresti accendere Delle bell'arti il zelo, Arti delizia ed ultimo Conforto di quaggiù. Oh delle rupi elvetiche Su le nevose cime, Rimembra lei che sciogliere Quivi desia le rime. E là più presso all'etere Sentir più grande il cor! Ma chi frenar le lacrime Potrà nel dirti addio? Ti seguirem dell'anima, Dell'occhio, del desio: La sicula amicizia Nè scemasi në muor. Oh maschera di ferro! oh qual mistcro Di pietà, di dolor tu rappresenti, Tu che vivesti ignoto, prigioniero Nella oblianza delle morte genti: Di che sangue nascesti? Eri straniero Alle colpe di Francia ed a' tormenti, Eri d' Italia forse, eri tu nato Nel suol di Ludovico e di Torquato? E tu pregar, compiangere Tu vuoi sulla mia bara? Ripeti, deh ripetimi Queste parole, o cara! Ma taci se rinnovasi, Se cresci il tuo dolor. È mesto il cor: dileguasi Ogni gentil diletto, Ed oh se morte apprestami Il solitario letto, Tu sola avrai pel misero Un gemito d'amor! Ma brilla nella torbida Mente di pace un raggio, E amor novelli palpiti Desta, novel coraggio; Di te parlando membrami Quanto son caro a te. Oh benedette lacrime D'un che è sì tardo al pianto, Che divora in silenzio Del cor gli affanni! oh quanto Prezïose dall'arida Pupilla son per me! Fu lieto il cor, fur vivide Le spemi, ed i piaceri, Simili ai tuoi dolcissimi Furono i miei pensieri; Or nè beltà, nè gloria Più non mi tenta il cor. Dunque pregar, compiangere Tu vuoi sulla mia bara? Ripeti, deh ripetimi Queste parole, o cara, Ma taci se rinnovasi, Se cresce il tuo dolor. Oh deh chiuda la tomba i miei tormenti, E lo spirto lassù faccia ritorno! Sono inferno crudel questi momenti, E nove piaghe m' apre il novo giorno. Non piangon gli occhi, nè bestemmia il core, Nè di conforto in me nasce desìo: È degli imbelli il garrulo dolore, Dolor più vero, più tremendo è il mio! Deh! taci, taci di quei giorni amati, Giorni fuggiti in che ti diedi il core, Giorni fien sempre dolci e rimembrati, Finchè brillin per noi vita ed Amore! Chi chi obliar potrà quando i dorati Capei baciando ti commossi il core, Languidi pieni di dolcezze tante Ancor veggo quegli occhi e quel sembiante. Oh maestra non dirmi e non rivale! Sorella, amica ognor m' avrà il tuo core: Oh non dir che mi temi! una sì frale Crëatura non può destar timore: E se provar chi più nei carmi vale, Oggi ne sprona alto desio d'onore, Pensosa, incerta scendo nell' arena Ove è il perder vergogna, il vincer pena! Non dorme, non travolgesi Nell' insito talento Il saggio allor che l' agita Magnanimo cimento, Ma tenta ognor, ma fervida Speme raccoglie in cor. Mel so pur io, nè scemasi L'ardor d' eletti studi, E in umile silenzio Come per me si sudi, Un dì fia noto: oh speralo! E attendi, attendi ancor. Se tu m' impenni l' ale Al nobile cimento, La fronda trïonfale Teco pur io corrò. Sento il bel foco, e sento Lo spron di gloria anch' io: Degna del padre mio, Degna di te sarò!— Non io di versi lugubri, Di garrulo dolore, Profanerò le pagine Ch' offre la man d' amore, Nè turberò gli amabili Pensier della beltà. Te cui le gote imporpora Felicità sicura, A dolce vanto, a facili Piacer formò Natura, Nè procelloso e rapido Il tuo destin sarà. Splende celeste amor, celeste calma Ne' bei sembianti al giovine d' Urbino. Questi feroce come il volto ha l' alma, E freme al riso del rival divino. Tardi ogni pianto, ogni querela è tardi, Se lamenti il passato e gemi e plori, Chè tralignati son questi codardi Ne' conviti, ne' balli e negli amori. Deh spera! volgi a noi lieta gli sguardi E rifiorir vedrai gli antichi allori, O patria, spera! se l' ingegno ferve Non si muor nella gonna e non si serve.

DEDICA Pag. V

Giuseppina Turrisi-Colonna VII

Notizia sulle varie edizioni e della presente ristampa XLI

A Giuseppina Turrisi-Colonna, Omaggio LIX

I A san Michele Pag. 3

II A san Pietro 7

III A san Benedetto 11

IV A Giuditta 14

V Le Rimembranze 18

VI Alla Madre 22

VII Alla stessa 25

VIII Alla stessa 29

IX Al Padre 32

X Ad uno zio 35

XI Alfratello Niccolò 37

XII Alla sorella 41

XIII A M. Suermondt 43

XIV Ad Aldruda 45

XV A Francesco Perez 49

XVI Canzone 50

XVII Giorgio Byron a Teresa Macrì 53

XVIII Ult.0 Canto di Giorgio Byron 55

XIX Una sera d'autunno 57

XX Alla Sorella 59

XXI L' Estasi 61

XXII L' Addio 64

XXIII A Emped. Lo Forte 66

XXIV Alfratello Giuseppe 69

XXV Alle Donne Siciliane 71

XXVI A Giuseppe Borghi 75

XXVII Una Reliquia 77

XXVIII La Campana del 2 Novembre 80

XXIX Per le nozze della Soreila Pag. 83

XXX A Carolina Graham 87

XXXI Giorgio Byron a Ravenna 88

XXXII L' Addio di Giorgio Byron all'Italia 99

XXXIII Giorgio Byron a Missolungi 103

XXXIV Al mio Genio 110

XXXV Al marito Enr. Carlotta Stieglitz 111

XXXVI Versi per esser posti in musica da Thalberg 116

XXXVII Il Conforto 118

XXXVIII Ottavio d'Aragona 121

XXXIX Inno al Tasso 132

XL Un sepolcro del 1550 in Termini 138

XLI Gaspara Stampa 142

XLII All Angelo mio 146

XLIII Ad una Giovine Monaca 148

XLIV Il Lavacro di Pallade 150

XLV La Malinconia 158

XLVI A Carolina Graham 161

XLVII Alla mia stanza 163

XLVIII A˙ S˙ A˙ I˙ La Granduchessa Olga. 164

XLIX In morte dello zio Pietro Turrisi Pag. 165

L Il Poeta morente 169

LI Un Ritratto 171

LII In morte del Padre 173

LIII La Morte 177

LIV A Giovanni Duprè 179

LV Al fratello primogenito 181

LVI Le monache di Santa Chiara in Napoli 183

LVII Il sepolcro di Corradino 185

LVIII Alla Sorella 187

LIX In morte di Giuseppa Massa 189

LX Firenze 191

LXI Alla Patria 193

LXII Alle DonneSiciliane 197

LXIII Giorgio Byron 201

LXIV Teresa e Giorgio Byron 212

LXV Alla Sorella 218

LXVI Per una copia del Vandich fatta dalla sorella 220

LXVII L'Oscurità 221

LXVIII Per la nascita della nipote Pag. 222

LXIX Alla Madre 223

LXX Alla stessa 226

LXXI Alla stessa, dedicandole la versione del Lavoro di Pallade 227

LXXII Alla stessa, dedicandole le Liriche 228

LXXIII Maria Stuarda 230

LXXIV Sonetto 231

LXXV La Sera 232

LXXVI A Gustavo Chatenet 233

LXXVII A Lady Graham 234

LXXVIII La Maschera di Ferro 236

LXXIX Canzonetta di Byron 237

LXXX Da Byron 239

LXXXI Traduzione 240

LXXXII La Gara 211

LXXXIII Canzonetta 242

LXXXIV Canzonetta 243

LXXXV Per Album 244

LXXXVI Pe' Ritratti di Michelang, e di Raffaello 245

LXXXVII Per Album 246