CLELIA PELLICANO
(Jane Grey)
Novelle calabresi

TORINO
SOCIETÀ TIPOGRAFICO-EDITRICE NAZIONALE
GIÀ Roux e Viarengo
1908

Proprieta letteraria

ROMA - STABILIMENTO TIPOGRAFICO DELLA « TRIBUNA »

A Giuseppe Mantica.

Pan! punfete!! patatonf!!! Due colpi secchi, un tonfo, un grido: « Santa Vergine Madre, m'ammazza! » e tutto ricadde in un silenzio pauroso.

Ai colpi, al tonfo, al grido, vi fu come un rimescolío nelle casupole accanto. Le comari si destavano, rizzandosi spaurite nei letti alti come torri, e tendevan l' orecchio. Qualcuna si chinava sul marito che le russava a lato, chiamando: « Cicciarèjo! Ohi, Cicciarè! Nicoluzzo pista(1) Pista — batte. l'Ajiva!(2) Ajiva — oliva. »

Ma il contadino si rivoltava con un grugnito, dopo aver tirato un calcio alla coltre, e la moglie finiva col riaddormentarsi anch'essa dopo aver rivolto all'icona di San Rocco protettore un: Santu Roccu mio, dunance suspiro!(3) San Rocco mio, dalle tregua!

I vicini erano avvezzi a quei risvegli notturni.

Nicoluzzo il vetturale passava per il marito più malo che possa toccare a una figlia di mamma, e l'Ajiva per la moglie più pecora che possa toccare a un marito malo.

La cagione dell'ultimo alterco risaliva al pomeriggio quando, tornando dal torrente dove era stata a lavar panni, l'Ajiva aveva trovato l'uscio chiuso, le finestre sbarrate, e aveva sentito un bisbiglio soffocato, un fremito di baci muti, venir dalla casa sorda e cieca.

Aveva chiamato, bussato, inutilmente: e poichè l'Ajiva era gelosa, e ne aveva ben donde, a quell'ostinato silenzio una vampa le salì al capo, un sospetto le traversò lo spirito. Con le forze raddoppiate dall'ira, si diede a scrollar l'uscio, a chiamare con quanto fiato aveva in corpo, senza altro risultato che quello d'attirar gente nella rruga(1) Rruga — vicolo. solitaria.

Le comari s'interessarono al caso, qualche monello lanciò un sasso contro l'uscio, un uomo chiese:

— Chi ci sarà, dentro, con lui?

Un altro rispose:

— La Maddamma de' Zimparì, certamente. E subito la voce si sparse:

— La Maddamma de' Zimparì è dentro con Nicoluzzo.

Tutti risero; ma come di Nicoluzzo non si rideva impunemente, fu giudicato più prudente l'andare a riderne altrove, e la tradita rimase di nuovo sola innanzi all'uscio chiuso.

Allora un bizzarro dialogo s'intavolò tra i coniugi, attraverso l'uscio:

Vattindi(2) Vattindi — vattene., e torna più tardi! — tuonò la voce di Nicoluzzo.

Arapre, ca vogghiu mu 'u ci mangi 'u cori(1) Apri, che voglio mangiarle il cuore!.

Vattindi, te dico!

Gnornò!

Vattindi!!

Manco si 'u Signuri vene 'u me caccia!(2) Nemmeno se il Signore in persona viene a scacciarmene. — E la gelosa sedè sull'unico gradino, col filandente(3) Il filandente è una tovaglia lunghetta di batista bianca somigliante alla magnosa delle ciociare. Per nozze, e nelle feste solenni è di merletto in seta e si chiama gramba. di traverso, il mento nelle mani, gli occhi a terra: cupa, risoluta, testarda. Le ore passavano, ed ella era sempre lì. Il sole discese dietro le casette della rruga: imbrunì, annottò, ed ella era sempre lì. A un tratto la porticina contro cui s'addossava si aprì con violenza e la rivale ne uscì, tutta chiusa nel vhancále(4) Il vhancále è una specie di filandente ma di panno e più ampio. Lo portano quando sono in lutto, di sera e nei giorni di cattivo tempo. di panno greve. L'Ajiva s'avventò con un balzo, un urlo roco di pantera ferita; ma un poderoso urto nel fianco la gettò di lato, e Nicoluzzo le passò innanzi, col cappello sugli occhi, sparve in direzione opposta a quella presa dalla druda.

— Ah caspita, me l'hanno fatta! — gemè la tradita reggendosi con una mano il fianco che aveva riconosciuto il pugno del padrone, tendendo l'altra minacciosa nel vuoto; e, dopo aver seguìto con occhio ardente, ora l'una, ora l'altra ombra sparenti nell'ombra amica. rientrò imprecando e invocando sul capo della rivale tutte le vendette celesti.

Questa Maddamma Rosaria de' Zimparì, altera e provocante bellezza, aveva il marito in America da tre anni.

I maligni volevano che si fosse consolata della temporanea vedovanza da prima col brigadiere Colucci, bel giovanotto anche lui, spavaldo, dagli occhi neri e dai baffetti a punta; poi con Nicoluzzo, bell'uomo anche lui, dalla forte testa ricciuta e dal torace possente, infine con tutti e due insieme, tanto per non disgustarne nessuno.

Il certo è che, tornato il marito e trovatala incinta, caso tutt'altro che raro dacchè l'emigrazione ha assunto le proporzioni che tutti sanno, invece di fare un eccidio, come più d'uno aveva fatto, era tornato là donde era venuto con la lodevole intenzione di non partirsene più. Gli amori della Rosaria non furono quindi oltre turbati che dalle gelosie di Nicoluzzo, cui davan fastidio i baffi a punta e le arie spavalde del brigadiere assai più che non le lagrimose querele della mo glie. Di queste, egli si rideva!

Ma rientrando a casa quella sera più briaco del solito, non piangente, minacciosa se la vide sorgere innanzi coi pugni sui fianchi, piccola e bruna come una pupa di fichi secchi della sua Calabria.

— Ohi scansati, tu! — le gridò ruvido, accompagnando le parole con l'atto.

Ma, in luogo di rincantucciarsi come soleva alle prime carezze, l'Ajiva l'investì con violenza:

Foco, foco(1) Foco foco — esclamazione di meraviglia, di spavento, d'allarme come di chi gridi: Al fuoco! che vitti!(2) Che vitti — cosa ho visto. L'intera frase si potrebbe tradurre così: Gesù maria, cosa m'è toccato vedere! Qui! nel letto mio! nella casa mia! E nun ve pigliat'i scornu!?(1) E nun ve pigliat'i scornu?! — E non ve ne vergognate?!

— Vergognati di parlare così a tuo marito! — replicò Nicoluzzo cui, a tanta nova temerità, per lo stupore era smaltita la sbornia. — Qui, fuori, dove mi pare e piace. Debbo renderne conto a te?! La casa è mia, mia, capisci? E chetati, se non vuoi che ti tiri una scarpa in testa!

Ma l'Ajiva non si chetava, e continuava ad urlare che quella « femmina mala » aveva dovuto chinarla, passandole innanzi, la faccia sfrontata! E tanto gridò, che la scarpa volò davvero, arrestando in aria due braccia roteanti come ali di mulino a vento. L'Ajiva, colpita al capo, s'abbattè, sparve tra le gonne come Colombina fra le quinte, e da quel mucchio informe si levò un pianto fragoroso, rotto da singhiozzi e da gemiti.

— Uh-uh! Uh-uh! Non me lo dovevate far questo a me! A me che v'ho tenuto caro come la pupilla degli occhi miei! Voi lo sapete se ho sopportato tutto, da voi! M'avete legata al letto pei capelli… battuta a sangue con la frusta grande… trascinata per terra come un sacco, che se non era per la gente m'ammazzavate… e non ho fiatato! Ma questo… questo… non me lo dovevate far questo, a me! — Un singhiozzo più violento degli altri le strozzò la parola in gola.

— E non lo sapevate forse? — le gridò brutalmente l'altro.

— E chi non lo sapeva? Tutti lo sapevano! Non avete fatto sempre il piacere vostro? Da

prima con Massara Betta de' Cafoli, n'debbi còlara! (1) Me ne presi collera!, poi con questa de' Zimparì… Ma il Signore me ne ha sempre data vendetta! Massara Betta s'era appena messa con voi che compare Giamba, il marito, venne a tagliarsi i cannarini(2) La gola. col rasoio, innanzi all'uscio di casa mia, lasciandola cattiva(3) Cattiva — vedova. con cinque creature che mi paion cinque anime purganti… Sempre, il Signore m'ha consolata! Anche questa volta mi consolava se non era per Mico de'Zimparì! Se Mico de' Zimparì aveva fegato, doveva vendicare l'onore suo, invece di tornarsene alla 'Mereca dopo averle trovato quel pallone davanti! — E, sputando in terra con disprezzo, gettò al tradito lontano un'ultima invettiva: — Cornuto!

— Sta zitta, lorda, fetosa, allatrata!(4) Sudicia, puzzolente, che latra come cagna. — tuonò Nicoluzzo furente.

— Si, cornuto! cornuto! Meno di voi però che vi credete d'essere stato solo a gonfiarlo!

Nicoluzzo le fu sopra d'un balzo:

— Ripeti, che ti ricaccio in gola come so io queste parole puntate!(5) Puntate — dette con intenzione di ferire, dai pungenti sottintesi.

Incurante della minaccia, l'altra ripeteva con selvaggia energia:

— Sì, cornuto, cornuto! Tutti lo sanno e voi no!

— Che sanno, strega della malora, che sanno? — E Nicoluzzo la strinse ai polsi, le soffiò in faccia l'alito appestato di vino.

— Che è stato… Ah Signore, lasciatemi che mi fate male! Che è stato… ma lasciatemi! Ohi Cola… Lasciatemi!!

Mo lo dirai, mo! Chi è stato?

— Il brigadiere Colucci… domandate… informatevi… non credete a me… E voi stesso… fatevi il conto… Ch'io possa morire uccisa se il bambino non nasce prima dell'Addolorata. Lui stesso s'e vantato… ridendo… sulla Casina… C'è chi lo vede uscire da quella casa tutte le sere che Voi passate fuori paese… quando andate pei viaggi lunghi… Me l'ha detto anche la baronessa Acqualagna che la tiene di fronte… l'ultima volta che fui a portarle il bucato…

Chino sulla donna così che quasi le mozzava il respiro, con l'orecchio presso la bocca di lei. Nicoluzzo beveva da ogni parola il veleno del sospetto, avidamente.

— Ah!… lo sanno tutti? Anche la Baronessa?… E lui… s'è vantato?

Poi nel bisogno imperioso d'essere rassicurato:

— Non è vero! Di' che non è vero!!

— E' vero, quant'è vero Dio!

— No!

— Sì!

— No!!

— Sì!!!

E allora pan, pun, due schiaffi sonori cui avean tenuto dietro calci e pugni a bizzeffe. Ad ogni percossa la donna mandava fuori un ohi sommesso seguito da gemiti che pareano ululati, finchè un ultimo calcio poderoso non la mandò a ruzzolare sotto la tavola, strappandole quel « Santa Vergine Madre, m'ammazza! » che aveva turbate i sonni delle vicine.

Quando l'alba irruppe nella stanzuccia dei combattenti con le prime voci, i primi chiarori, la trovò quieta come se nulla fosse accaduto. Sazio d'amore, di vino, di calci, il bruto dormiva il sonno del giusto e la vittima, dopo aver empito l'aria coi suoi guaiolii di cagnetta cui abbiano pestato una zampa, attese che a questi si accordasse il russare cadenzato del carnefice per andarsi a raggomitolare accanto all'uomo, là presso la proda, dove rotta, esausta, placata, non aveva tardato ad addomentarsi anch'essa.

Ma al primo canto del gallo, balzò in piedi con le membra peste, lo spirito pronto. E subito si diede a cancellare ogni traccia di lotta. Rialzò le seggiole: rimise a posto lo scarpone che le aveva lasciato il ricordo d'un livido in fronte; riordinò i guanciali, e tirò dalla cassa gli abiti del marito più belli, ricorrendo in quel giorno la festa di San Rocco, patrono del villaggio e dovendo Nicoluzzo recarsi in Marina con la carrozza, a prendervi il Procuratore del Santo (ch'era poi il Sindaco in persona) ed il brigadiere Colucci, quello stesso predecessore e rivale nelle grazie della Zimparì.

A tale pericolosa coincidenza pensava l' Ajiva stringendo le labbra, sbirciando con occhio umile e accorato il maritaccio che dormiva. E intanto si aggirava per casa col lieve ondeggiare delle gonne che mettevano intorno silenziose folate: poi scese in istalla a governare le bestie, due magre rozze, varie nella statura e nel pelo, che, in omaggio al brigante, allora famoso, Nicoluzzo avea battezzato coi nomi di Musolino e di Zòccali. E pensava con rimpianto alle imprudenti parole strappatele dalla gelosia la vigilia, sperava in cuor suo che Nicoluzzo fosse stato troppo brillo per serbarne memoria al risveglio. Invece, appena desto, mentre la moglie gli dava il buon giorno umilmente, Nicoluzzo la fissò torvo aggrottando i sopraccigli nello sforzo evidente di chi vuol rammentar qualcosa, giacchè, quantunque i fumi del vino e dell'ira si fossero svaporati nel sonno, un ricordo, un sospetto, un nome, facean capolino di tra l'ultime nebbie.

— Ohi, Mara!(1) Mara — diminutivo di Maria, nome che precede immancabilmente quello di Annunziata, di Rosa o di Teresa, comuni alle contadine del paese. — chiamò burberamente mentre s'infilava i calzoni. — Cosa mi diceste iersera del Brigadiere?

L'Ajiva impallidi.

— Niente, amaro(2) Amaro — poveretto. Cosa volevate che di cessi?

— Mi pareva… sarà stato in cantina.

— Chiacchiere della gente: non vi date pensiero.

Nicoluzzo continuò a vestirsi in silenzio, coi torvi occhi a terra e la ruga incisa tra i sopraccigli.

Quando fu pronto prese cappello e frusta.

— Vi raccomando il pranzo.

— Quando tornate?

— Non so. Tardi, credo. Per me non è mai festa.

— Che la Madonna v'accompagni.

— Statevi bene, Mara, e… se andate in chiesa salutatemi la Maddamma de' Zimparì.

Un riso ambiguamente crudele, accompagnò le parole: l'Ajiva n'ebbe un brivido nella schiena. L'udì traversar la stalla, uscir nel cortile dove Roccuzzello il quatraro(1) Ragazzo. aveva attaccato le rozze alla vecchia carcassa che si reggeva a furia di cordicelle e gemea stoppa da cento ferite; lo sentì girare intorno alla carrozza per ristabilirne l' equilibrio con qualche nodo qua e là, sprimacciarne i guanciali, affibbiare uno scapaccione al ragazzo il quale piagnucolava: « Non chico, non chico! »(2) Non ci arrivo, non ci arrivo.; poi, saltare in serpa. Giù cadde sibilando la frusta sulle due groppe male allineate di Musolino e di Zòccali: un tintìnnio di testiere, un cozzar di ferramenta, e la carrozza si precipitò per la china con lo stesso impeto che se fosse andata a rovesciarsi in un burrone.

— Benedetto uomo! Quando non ha la mala è più buono del pane! — mormorò commossa l'Ajiva.

E, dopo esser rimasta alla finestra finchè non l'ebbe visto sparire allo svolto, si diede a sbrigare le ultime faccende, ad allestire il pranzo con la solita grazia svelta e il frusciar lieve delle gonne pesanti.

E probabile che più ricca, o meno infelice, l'Ajiva sarebbe rimasta un pezzo col mento sulla mano, gli occhi fissi nel vuoto, a rodersi e a tormentarsi; ma, troppo occupata per concedersi tanto lusso, si limitò a scacciare i tristi pensieri con una scrollatina del capo; poi, fatta ogni cosa a dovere, prese a vestirsi come soleva in ogni altra festa comandata. Si acconciò le trecce folte e oscure che, da prima rialzate in molteplici giri come ciambelle di velluto nero, le ricaddero graziosamente sul collo; s'infilò la saja(1) una veste tutta d'un pezzo, di taglio monacale che si allaccia di dietro: è formata da una corazza liscia, e da una gonna increspata che giunge fino alla caviglia. di seta violetta dallo shiaccato(2) Shiaccato — sparato del coperto, davanti. color lilla chiaro, il quale distingue le Maddamme (moglie di artigiani) dalle foritàne(3) Contadine - vestita di gala., e se ne accomodò sul petto i nastri incrociati; infine si passò al collo il laccio di filigrana cui era sospeso un cuore, e agli orecchi i lunghi pendenti a frange d'oro. Non era punto brutta l'Ajiva quando era parata(4) In gran toilette.. Lo scollo della camicia col pizzio(5) Pizzo all'uncinetto. scopriva una gola magrina ma gentile; il visetto ulivigno era d'un disegno corretto; gli occhi non grandi ma nerissimi, ora ridenti, ora foschi; i denti bellissimi, la vita snella; e, di sotto alla gonna increspata, stretto nella scarpa di pelle lustra, guizzava fuori il più bel piedino che contadina possa vantare.

— Signore! fate che non abbia creduto! — sospirò legandosi alla vita il faddale(6) Faddale — un grembiulino di broccatello ornate di merlettini e passamani in seta. di seta lilla a righe bianche, e accomodandosi in capo il filandente di batista. — Quello è capace di fare un guaio come io di bere un bicchier d'acqua!

E dimenticò, per l'angustia, di guardarsi nel triangolo di specchio rotto nascosto in fondo alla cassa. Dati due giri di chiave alla porta, l'Ajiva s'inoltrò con piede agile e sicuro tra i sassi della viuzza, riuscendo nel vicino rione della Chiusa, dove già ferveva l'animazione giuliva d'un giorno di festa. Per via le comari, in gala anch'esse, la salutavano e si accompagnavano a lei; gli uomini, reduci da una prima visita alla cantina, si univano alle sorelle, alle spose, per far la strada insieme; e tutti l'interrogavano sulla battaglia notturna, con un misto di maligna curiosità e di compassione benigna.

Amàra, amàra, che n'daviste arzìra?(1) Poveretta, poveretta, cosa vi capitò iersera?

Sentimma! — disse un'altra in tono solenne d'esclamazione.

— Aveva un bicchiere in testa — spiegò l'Ajiva. — Uomini!

— E la Maddamma de' Zimparì?

— Non me ne parlate. N'debbi cèlara!

Tutte vollero informazioni precise. F di come era entrata, e di come era uscita, e della lunga attesa innanzi all'uscio chiuso, e dei rimbrotti, e delle ingiurie, e delle percosse. Col capo eretto, le braccia che fendevan l'aria nel gesto colorito e vivo, l'Ajiva raccontava la sortita della rivale, la quale, al sentir lei, aveva più l'aspetto d'una cagna bastonata che di una favorita trionfante, e la scenata fatta al suo uomo, quando era rientrato, e quel che gli aveva detto e quel che avrebbe voluto dirgli: sopratutto questo! Le comari approvavano in coro.

— Così gli diceste? Così?… Brava! Finalmente vi siete fatta sentire una volta!

— Ben fatto, a quella scandalosa che si porta in giro la sua vergogna come la levasse in trionfo!

— Aver la faccia di sporcare la casa vostra, che non è degna neppure di baciare in terra!

— E lui? Se fossi voi gli cambierei in fiele ogni boccone.

— Oh no — protestò l'Ajiva — quando non ha la mala è più buono del pane. Eppoi mi vuol bene, a suo modo.

— Che bene e bene! non lo vedete che se ne profitta? Quando v'avrà spremuta come un limone, un calcio dietro, e santa notte!

E giù esempi, ammonimenti, proverbi: tutta la scienza popolare a servizio della tradita. Ma con l'Ajiva la scienza non serviva. Ella ascoltava tutto e tutti approvando, sospirando, ridendo - poichè aveva la specialità di ridere e piangere nel medesimo tempo, di piangere e ridere anche quando il suo Cola glie ne avea fatta qualcuna più grossa delle altre, ma in fondo restava più dura d'un mulo. E quando le comari credevano d'esser riuscite a far ribollire quel suo sangue di schiava, sguisciava fuori in una esclamazione piena di filosofia rassegnata:

Ebbe'! Gli interessi se li prendon le altre, ma il capitale è sempre mio!

Oppure:

— Che volete farci? Son uomini. Tocca a noi donne lo stare a dovere.

— Ma s'ubriaca!

— Non giuoca. Son uomini! Se non c'è un vizio ce n'è un altro.

— Ma vi batte!

— Son uomini! Non vogliono esser risposti.

Tanta schiavitù appassionata, volontaria, accendeva la fantasia delle donne e feriva la vanità degli uomini.

— Siete una femmina d'oro, per questo non avete sorte! — esclamò con invidia Cenzo Femia, il quale apprezzava l'Ajiva per le solide qualità di massaia. — Voi sì che glie l'avreste fatta prosperar la bottega a Compar Ciccio il cantiniere, invece di mettergli più debiti che corna, come ha fatto Maddamma Rosa!

Tutti sapevano infatti che quando Nicoluzzo era stato a guardare il sole a scacchi per avere portato via con una staffilata l' occhio sinistro al garzone, aveva trovato al ritorno la stalla pulita, le bestie riposate e grasse, e non un soldo di debito.

— E quanti viaggi(1) Corse, andate e venute per affari. faceste per farlo uscire a libertà! Voi a Gioiosa, voi a Gerace, voi a Reggio che mi parevate la tarantola! Dall'usciere, dal cancelliere, dal giudice, dall'abbocato Schirilli, che voleva farlo passare per pazzo!…

L'Ajiva sorrideva, senza falsa modestia, pronta a raccontare per la millesima volta la sua avventura con l'avvocato, il quale non potendo esser pagato in contanti, pretendeva esserlo in natura, sì che l'Ajiva aveva dovuto difendersi a calci e a pugni; ma in quel punto sopravvenne Ciccio Ali, grande amico di Nicoluzzo, simpatico chiacchierone, un po' alticcio, e l'Ajiva si affrettò a chiedergli se avesse incontrato il marito con la carrozza.

— L'ho lasciato adesso quel vostro fortunato brigante! Era allegro come quando ha suonato la grancassa sulle vostre spalle.

L'Ajiva rise, poi si rabbuiò:

— Come, adesso? Non è sceso in Marina con la carrozza?

Gnorsissignora, ma prima, santo diavolo! è sceso a bagnarsi la gola da compare Rodinò, come si conviene a ogni buon cristiano in tutte le feste ricordate!

— Doveva andare a prendere il procuratore e il brigadiere Colucci - spiegò l'Ajiva rivolgendosi alle comari.

— Il diavolo e l'acqua santa! — ghignò qualcuno.

— Ma che diavolo! Ma che acqua santa! — protestò Ciccio Alì. — Si vede che non conoscete compare Cola! Lui si cura del brigadiere come io di questi! — e si battè, col palmo della mano, un calcagno.

In cantina trascorreva(1) Parlava, discorreva. di Maddamma Rosaria e del brigadiere che credono di fargliela a lui, mentre lui sa tutto, come avrebbe trascorso del Torbido(2) Torbido — torrente che attraversa e devasta il Circondario di Gerace. quando s'incontra col mare. Mico Crisara gli ha detto d'averlo visto uscire anche stanotte da quella certa casa, e lui rideva e beveva come se non fosse suo fatto. Ha detto: Lui ride sulla Casina, tra i galantuomini; io rido qui, fra i pari miei. Vedremo chi riderà l'ultimo!

— Così ha detto? Così?… — chiese l'Ajiva spaventata.

— Così. E rideva! E beveva! Vivete in pace, comare Maria Teresa, che lui quella femina lì non l'ha mai presa sul serio. Ci scherza. E' figghiolo (3) E' fanciullo.. Ma un giorno o l'altro vi torna. Per conto mio ci metto sempre la buona parola. Anche oggi gli ho detto: Non la maltrattate, amàra, che vale tanto oro quanto pesa! Non lo vedete che non pesa due once? — mi ha risposto. — Tanto vale!

L'Ajiva rise, sospirò, poi crollando filosoficamente le spalle:

Iju vole, compare Ciccio! Quando torna mi trova. Io sto sempre qui.

Così dicendo eran giunti sul sagrato dove il commercio dei maiali e del lino incominciava a languire.

Qualche monello, fermo innanzi ai banchi dove erano esposti i torroni, i mostaccioli, la càglia(1) Caglia — ceci abbrustoliti., i lunghi rosarii di nocciole e di castagne infornate, guardava estatico; qualche zito(2) Zito — fidanzato. ritto innanzi alla tavola d'un orefice, mercanteggiava un par di cerchietti. Le quattro campane della chiesa e dell'orologio squillavano brevi tocchi frettolosi e garruli; l'onda sonora fluttuò sulla folla della piazzetta, echeggiò per le valli, si perdè nella pianura, svegliando da per tutto echi argentini e tremuli. Passò anche sul cuore dell'Ajiva, e lo lasciò più triste.

— Purchè non faccia uno sproposito! — sospirava ella, pensando alle parole di Ciccio Alì, ai discorsi tenuti da Nicoluzzo nella bettola, a quel soverchio vino, a quella soverchia allegria.

Al richiamo festoso i fedeli accorrevano in frotte; la chiesa si gremivan, le fanciulle occupavano i primi banchi, quasi tutte belle e pudiche, coi lunghi cigli a terra, le mani raccolte sotto al grembiule; più indietro le spose, coi marmocchi in collo, belle talune, le più sfiorite innanzi tempo; poi le vecchie, susurranti o spettegoleggianti; infine i giovanotti, venuti ad occhieggiar le ragazze e a fare un po' di gazzarra. E tutti ciarlavano, ridevano e sparlavano del prossimo fra lo strillar dei marmocchi e i Psss…! scandalizzati delle beghine, senza curarsi dei preti in cappa magna che si sgolavano sull' altare. Qualche pomposa Maddamma arrivava ultima per far più colpo, come una signora bella a teatro. Al giungere di Maddamma Rosaria de' Zimpari, alta, provocante, superba, col seno che le scoppiava tra i lacci del corpetto, il ventre già turgido ma non anche difforme, bella e scintillante d' oro come la Madonna di Seminàra, un fremito d'ammirazione e d'invidia corse lungo i banchi.

— Guardatela impostatura(1) Portamento. che tene!

— Tutto il mondo è il suo!

— Invece d'andarsi a nascondere sotto terra!

Alla vista della rivale l'Ajiva era diventata color limone.

— Per lei, per lei sarebbe capace di fare uno sproposito! — pensò, piena d'amarezza e d'angoscia.

E più rifletteva al contegno di Nicoluzzo, al ghigno sinistro accompagnante il saluto alla Maddamma de' Zimparì, alle chiacchiere della bettola suggellate dal quel terribile: « Vedremo chi riderà l'ultimo! » più si persuadeva di aver agito imprudentemente la notte: Nicoluzzo aveva creduto e, con quella testa lì, la cosa non sarebbe finita bene. Ah che guaio aveva fatto, nella sua pazza furia! Che guaio s'era fatto, con le sue stesse mani! Durante la lunga funzione fu distratta, perfino all'Elevazione, mentre il campanello squillava e i chierici mandavano al cielo nembi d'incenso, mentre tutte le teste eran prone e le anime levate all'altare, ella era altrove con la mente e col cuore.

Ma il tempo passava, e Nicoluzzo non si vedeva. Pure la carrozza col procuratore avrebbe dovuto essere risalita da un pezzo; e in tal caso Nicoluzzo, lasciate le bestie alla stalla, non avrebbe mancato di entrare anch' egli in chiesa per fare il suo dovere di buon cristiano, con omaggio a San Rocco protettore.

— Purchè non me l'ammazzino, Santo Rocco mio, purchè non me l'ammazzino! — implorò mentalmente l'Ajiva. Ah, egli poteva batterla a sangue; non era forse il padrone? Poteva portarle in casa tutte le donne del paese; il padrone era lui!… Ma morire! Nicoluzzo morire!… Man mano che l' ora incalzava senza riportarle il marito, l'inquietudine dell'Ajiva si faceva smaniosa, il dubbio torturante. Un imperioso bisogno di correre, di volare incon tro alla certezza la sospingeva. All' Ite missa est non resse più: s'alzò per uscire. Sulla soglia della Chiesa s' incontrò nella Maddamma de' Zimparì. Le pupille delle rivali si scontrarono: quelle dell' Ajiva mandarono fiamme, la Rosaria salutò chinando lievemente il capo, senza sorridere.

Appena fuori, una ventata gagliarda la investì, le gonfiò le gonne: un secondo colpo di vento gliele cinse intorno alle gambe snelle con la violenza di una sferzata.

Signuri, che signu malu!(1) Che cattivo segno! — strillò l'Ajiva. Sapeva che le ventate improvvise, in giorno di bel tempo, annunziano un omicidio avvenuto lontano; e, non appena potè prender fiato, vinta da un' oscuro terrore, si segnò in fretta. Avrebbe voluto aver le ali per volare a casa, assicurarsi subito che le bestie erano in istalla, la carroza in cortile, Nicoluzzo alla bettola… ma venne travolta nell' onda di popolo che usciva sul sagrato e si formava in processione per r accompagnare il Santo alla sua chiesetta. Bizzarra processione, davvero! Andavano innanzi gli uomini, ballando un mezzo passo di tarantella che faceva pensare a una danza d'orsi ammaestrati, con le labbra strette, l' espressione concentrata, il sudore che colava a rivi giù pel collo dove i muscoli si tendevano come corde. Si sarebbero detti antichissimi sacerdoti compienti un rito selvaggio, oppure stregoni intenti a sciogliere un maleficio. Seguiva il clero: pretoni panciuti dalle larghe facce apoplettiche i quali s'andavan facendo vento col fazzoletto; poi la banda comunale, quattro ottoni assassini che avrebbero lacerate le orecchie anche ai sordi(1) Conviene dire, in omaggio alla verità e per l'amor proprio d'un caro paese, che da allora la banda comunale di Giojosa Jonica ha fatto grandi progressi e adesso è fra le migliori della Provincia.; e subito dopo il Santo, alto sulla folla e roseo nella barba grigia, con la classica mazza, il classico cane e la piaga classica. Venti portatori s'eran disputato all'incanto l'onore di sollevare lo zoccolo dorato, trasportarlo a spalla, dalla Chiesa Madre a quella di San Rocco, attraversando il paese in salita. E a chi un tale onore era costato due staia di grano, e a chi quattro cafisi d'olio fino. Ma chi pensava alla spesa? Stanchi, superbi, felici, i venti giovanotti raccoglievan le forze per estollere il Santo, in alto, più in alto che fosse possibile, quasi avessero voluto piazzarne il simulacro in Cielo, accanto all'originale.

Ultime venivano, cantando un salmo, le donne, tutte simili nel costume turchino, dal taglio sobriamente austero, sotto filandenti candidi come bende monacali: una turba disordinata che faceva pensare a un collegio di monache espulso in massa, in virtù della legge che scioglie le corporazioni religiose. La processione procedeva a stento. Di tanto in tanto era costretta a fermarsi: qualche femina urlante e singhiozzante, sorretta dal marito, dalla madre o dal figlio, si avanzava incontro al Santo strappandosi di dosso, con fanatica furia, i gioielli. Anelli, cerchioni, pezzotto, venivano sospesi con mal ferma mano alla mazza ricurva del santo; poi la donna retrocedeva lentamente, senza volger le spalle al taumaturgo, gridandogli la sua riconoscenza, il suo augurio:

San Rocco bello! ve ne pozzate vede' bene pe' quante grazie fate!

I doni in natura, come olio, capretti, granturco, fagioli e altro passavano a spalla diretti alla chiesina di San Rocco, dove il taumaturgo sarebbe giunto fra poco.

Un mormorio d'ammirazione — fors'anche d'invidia e di rammarico — li accompagnava.

— Quanta grazia di Dio! Che San Rocco se ne possa veder bene per quante grazie fa!

Il vice procuratore, mastro Cola Ruso, andava e veniva lungo il corpo della processione, affannato, importante come un mastro di cerimonie nel trambusto d'una festa ufficiale. Con fantastica rapidità andava scarabocchiando qualcosa d'indecifrabile su foglietti volanti che poi distribuiva in giro col gesto d'un dispensatore celeste. Coloro che aveano sciolto il voto gli si stringevano intorno petulanti, nella speranza di recuperare gli oggetti a buon prezzo allorchè verrebbero venduti all'asta in nome del Santo, e afferrato il proprio biglietto a volo, se lo chiudevano gelosamente in petto.

Pur non perdendo d'occhio lo zòccolo dove s'accumulavano i voti, mastro Cola Ruso calmava le ansie, leniva le angoscie, aveva una parola di speranza e di conforto per la miseria come per l'avarizia di ognuno.

— Non abbiate paura che riavrete ogni cosa. Non siamo già qui per derubarvi!

— Ah, siete voi Lucia Schérripe? Date qua, e non ci pensate: la perizia verrà fatta a dovere.

— Ciccio Cómmiso?… E che? avete paura che il Santo li mangi? Quando vende all' asta portate i soldi che riavrete ogni cosa. Non li avete i soldi? Che volete che vi dica? San Rocco v' ha ridata la salute. Ringraziatene San Rocco! Quando c'è la salute, c'è tutto.

Taluni se ne andavano fiduciosi, racconsolati, lanciando uno sguardo di tenerezza alle gioie portate da tre generazioni di spose; altri, i quali nutrivano minori speranze di riscattarli, se ne allontanavano a malincuore, con un sospiro di rammarico e uno sguardo d'addio. Dopo ogni fermata il Santo veniva risollevato sulla folla: e la processione si rimetteva in cammino per arrestarsi di nuovo pochi passi più in là.

L' Ajiva aveva tentato più volte scrostarsi da quella muraglia vivente di cui il suo filandente bianco non era che una piccola pietra; ma, stretta come in un torchio e pigiata d'ogni parte, non poteva che chiedere a questa e a quella:

— Sapete niente se è venuto il procuratore con la carrozza? E il brigadiere?… Nessuno aveva visto il brigadiere; ma qualcuno aveva sentito dire che il procuratore si trovava in paese; qualche altro aggiunse che, se c'era, si sarebbe veduto, giacchè doveva esser nella chisuola di San Rocco a ricevere le offerte. Ma l'Ajiva non sì calmava.

— E Nicoluzzo? Nicoluzzo mio? C'è chi ha visto Nicoluzzo? Ah, San Rocco scampalo tu!…

Come Dio volle si giunse. La porta della chiesetta era aperta, una vera chiesina di villaggio, povera e nuda come un romitorio, una folla irrequieta e pur compatta vi stazionava dinanzi, si divise in ali al giungere della processione.

I portatori sollevarono il Santo fino all'altezza del frontone; la statua restò un pezzo in aria oscillando, si chinò in avanti come a salutar la sua chiesa, si riaddrizzò come a benedirla, e dopo aver avanzato e retrocesso più volte, sotto l'urto di un'ultima spinta più gagliarda, varcò trionfalmente la soglia, s'arrestò sotto un baldacchino rosso a frange d'oro. I venti portatori gli si strinsero intorno come una guardia del corpo. E subito la fanfara diede fiato agli ottoni, la chiesuola echeggiò d'un clangore orrendo. Fuori, le due ali di popolo s'eran chiuse alle spalle del taumaturgo, una larga onda umana gli si rovesciò dietro, a fiotti.

Travolta nel gorgo, l'Ajiva si trovò dentro con gli altri. E sua prima cura fu di cercar con gli occhi il procuratore, là dietro al tavolo ingombro di litografie del Santo a colori vivi su fondo d'oro, nei cui molteplici cassetti si sarebbe presto ammucchiato il danaro delle offerte votive. Ma don Pasquale Jirinò, procuratore e sindaco, non era ancora al suo posto.

Giunse poco dopo, con gli occhi fuor dell'orbita, il cranio pelato e lustro, rosso come il globo d'una lampada accesa. E l'Ajiva avrebbe voluto saltargli incontro, stringerlo d'interrogazioni, gridargli: Come siete venuto? e Nicoluzzo? dov'è Nicoluzzo mio? Ma troppi corpi, troppe seggiole le sbarravano il passo. Pure, a furia di gomitate e di spintoni, a furia di « abbiate pazienza » e di « scusate » riuscì a farsi largo, a spingersi avanti, sempre avanti, tra le fanciulle composte e pudiche con gli occhi a terra e le mani sotto il grembiule, tra le spose chiacchierine e i marmocchi urlanti, tra i giovanotti che occhieggiavan le ragazze pestandosi i calli e sputando in terra; avanti, sempre avanti, verso il procuratore, verso l'uscita. Intanto si chinava ad interrogar questo e quello:

— Sapete niente se il procuratore è venuto con la carrozza di Nicoluzzo? E Nicoluzzo? Che sia andato a toglier di sotto? A mettere le bestie in istalla?

— Comare, io ho aspettato il Santo fuori di Chiesa; non ho visto nessuno.

— Comare, io ho seguito la processione come voi.

— Comare, io son quì da due ore: non saccio niente.

Solo Cenzo Femìa, meglio informato degli altri, l'assicurò che il procuratore era salito con la carrozza di Roccuzzo, non con quella di Nicoluzzo, e che l'aver atteso questa invano aveva forse causato il ritardo del Sindaco.

— Ah, San Rocco, scampalo tu! — gemè l'Ajiva torcendosi le mani.

Omai la certezza di qualche sinistro le campeggiava nell'animo foscamente.

— E il brigadiere? Chi è che ha visto il brigadiere?

Nessuno lo aveva visto. Doveva esser rimasto n Marina. Perchè, Santa Vergine Madre, perchè?!

— Perchè? Oh bella. Perchè così gli è piaciuto. Ne avrà viste di feste, in quei paesi di fuori!

Coteste risposte, anzichè calmar l'Ajiva, non facevano che aumentarne l'orgasmo, sospingerla avanti, sempre avanti, tra le vecchie bonarie e le beghine irose, tra i contadini mezzo avvinazzati e i portatori devoti. Sulla soglia s'incontrò di nuovo nella Maddamma de' Zimparì e questa volta si fermò su due piedi, le piantò gli occhi negli occhi:

— Nicoluzzo non è tornato. Neanche il brigadiere è tornato. Sapete niente, voi? E la scrutò ansiosa, non per gustare nel volto mutato della rivale la voluttà della vendetta, ma nella vaga speranza che la togliesse d'angoscia.

La Zimparì avea trasalito appena.

— Cosa volete che ne sappia, io!

— Credevo… scusate…

Altri due o tre passi, un ultimo spintone: varca la soglia, è all'aperto.

La piazzetta deserta, non sono tutti in chiesa? — riverbera, nei bianchi ciottoli ineguali, spietatamente il sole.

Raccolte e infaddate(1) Infaddate — rialzate sui fianchi e raccolte dietro in un gruppo alla maniera delle contadine. le gonne per poter meglio correre, l'Ajiva si precipita giù per la viottola che mena a casa. Un'ultima speranza le fa battere il cuore. Se fosse tornato? Se trovasse la casa aperta, la carrozza in cortile, Musolino e Zòccali alla mangiatoia, Nicoluzzo alla finestra? Ma no. La casa è chiusa così come l'ha lasciata, e, alla finestra, fra il testo di basilico e quello di garofani, non v' è che il grugnetto di Roccuzzello, un piccolo yorkshire color di rosa. Se almeno ci fosse il ragazzo per mandarlo in Marina!

Ma il ragazzo è sceso in serpa con Nicoluzzo. L'Ajiva ridiscende di corsa la straduccia, attraversa la piazza, risoluta ad incontrar lui, vivo o morto. Rapida come freccia ripassa tra le panche dei venditori, dà del fianco nel banco d'un orefice; rovescia con l'orlo della fadda un orciuolo, e prosegue, incurante dell'uomo che le grida dietro: Ohi Mara!(1) Quasi tutti i nomi di donna nel contado son preceduti da quello di Maria, per cui si può chiamare una sconosciuta Mara con la certezza di non sbagliare. Non me lo pagate il danno? Incurante del dolore, fermandosi solo per chiedere affannosa ai passanti:

— Avete visto Nicoluzzo? Nicoluzzo mio? Non è tornato, Nicoluzzo!

— Andate a preparargli il pranzo, che torna!

Sempre correndo, l'Ajiva va ficcando gli occhi sino in fondo ai bassi donde viene un suono vivace di tamburello; si ferma davanti alla cantina di compare Rodinò; entra risoluta; fissa un gruppo d'uomini avvinazzati, intenti a giuocar presso a un tavolo; poi volta le spalle e fa per andarsene.

— Donna Maria Teresa bella, a vostro servizio!

— Chi cercate? Nicoluzzo? Avete paura che si sperda, povera creatura!

— E perchè non gli mettete anche la lattàra?(2) Lattàra — Nutrice. Se tarda un'ora vi piglia la febbre!

— Andate dove so io, che ce lo cogliete sul fatto!

Incurante delle voci pietose o beffarde. l'Ajiva è già fuori, fuori del paese, lontana dalle ultime case, davanti alla strada ampia e disuguale che si svolge, tutta bianca e torrida e polverosa attraverso la campagna devastata dai torrenti. Si è pressi al meriggio: il sole dardeggia con ferocia, il riverbero accieca, l'afa incombe. L'Ajiva non si sgomenta. Si arresta un minuto ansante, riprende fiato, sta per islanciarsi di nuovo… Quando ecco un tinnir di lubboli, un frastuono di ruote, l'avvertono dell' avvicinarsi d'una carrozza. Nembi di polvere gliela nascondono ancora alla vista; ma il suo cuore la riconosce: è dessa, la veterana del circondario; son essi, Musolino e Zòccali che vengono avanti a passo a passo, con le groppe schiumanti, le teste ciondoloni. Un gruppo precede la carrozza, a piedi, e, con un urlo di belva ferita l' Ajiva riconosce il marito, tra due pennacchi rossi. La polvere l'ha imbiancato come un mugnaio; ha le mani strette nei nottolini, i cupi occhi a terra.

Alla vista della moglie trasale appena, con un'oc chiata imperiosa le impone di tacere.

Tu ch'a' fatto Nicoluzzo mio, tu ch'a' fatto!? — grida la donna scorgendo, lungo disteso sui cuscini della carrozza, il corpo esanime del brigadiere con la giubba aperta sul petto, la camicia rossa di sangue, il volto bianco come cera. — Tu ch'a' fatto!? — e protende le mani a respingere la visione orrenda, sfiora il volto dell'omicida con un gesto folle.

L'uomo la scosta dignitosamente e l'ammonisce con calma:

— Non piangere: fa la donna. Portati bene come ti sei sempre portata: sta attenta a Musolino ed a Zòccali, a Roccuzzello, alla casa… vieni a vedermi in carcere… — Un principio di commozione gli spezza la parola. — E se Dio vuole, quando esco a libertà… — Ma non riesce a completare il pensiero, la frase.

L'Ajiva fa cenno di sì col capo, di sì, sempre di sì, perchè i singhiozzi le fan groppo alla gola. Celato il viso lacrimoso nel grembiale da festa, vi si drappeggia come in un peplo. E segue il gruppo, a capo chino, passo per passo, soffocando i singhiozzi, continuando ad accennare di sì, sempre di sì col capo, umilmente, appassionatamente…

A Grazia Deledda.

Da tre giorni la Maddamma Rosaria de' Zimparì attirava, alla Corte d' Assise di Reggio Calabria, il pubblico delle grandi occasioni. Con la persona possente, il naso diritto sotto l'arco delle sopracciglia riunite con pochi peli sul punto ciliare, la bocca energicamente chiusa, il mento solido da statua, si sarebbe detta l'ultima brigantessa, dalla civiltà strappata alle macchie silane.

Vestiva il costume del natìo borgo: saja di seta violetta allacciata sul petto e aperta sullo sparato di velluto a disegni chiari, grembiale lilla a punti bianchi, grambà(1) Il grambà è il filandente delle grandi occasioni: una tovaglia di tutte in seta fiorata., di velo a fiori messo giù sulla fronte, ricchi cerchioni alle orecchie, un laccio a scollino intorno alla bella gola dorata.

Sedeva nella gabbia come su d'un trono, indifferente a tutto quanto la circondava, mentre gli occhi, aggrondati sotto la sbarra nera dei sopraccigli, seguivano i giuochi del sole che entrava per otto finestroni rettangolari. Da prima si era mantenuta sulla negativa, con abilità e con fermezza; poi, schiacciata dagli indizii, aveva preso il partito di chiudersi in un mutismo superbo e nemmeno le barzellette del Presidente, bello spirito napoletano, giunto di fresco con un sistema tutto proprio di giustizia allegra, riuscivano a strapparle un sorriso. Ma da quella taciturna emanava tal fluido magnetico afrodisiaco che l'ambiente n'era pervaso e come soggiogato. Il pubblico minuto, di là dalla cancellata, esprimeva ad alta voce la franca ammirazione plebea; quello più fine delle tribune si scambiava i propri commenti in tono minore; il giury, ch'ella percorreva con uno sguardo lento e distratto, vibrava sotto il suo occhio nero come un clavincebalo al tocco d'esperta mano; l'avvocatino della difesa, una figura miserevole perduta nell'ampiezza della toga, la saettava d'occhiate incendiatie; il cancelliere, tra una pagina e l'altra, alzava il capo a guardarla passandosi con rapido moto la penna dietro l' orecchio e la lingua sulle labbra come un gatto goloso dinanzi a una ciotola di latte; perfino i due giudici valetudinarii, ai lati del presidente, la fissavano, tra un pisolino e l'altro, con certa compiacenza senile, e il Presidente stesso profondeva con maggior larghezza del consueto i motti e lo spirito. Solo il Procuratore Generale, un magistrato dalle basette sale e pepe, dalle mani affilate e bianche, dal sorriso enigmaticamente crudele, pareva insensibile al fascino di quel femminino regale.

Il processo volgeva al termine. C'era da richiamare i testi più importanti, tra cui il perito legale della difesa: per il domani, si aspettavano arringhe e verdetto. Aperta la seduta, il Presidente si raggiustò il tocco, fece girare con due dita il cravattone risalitogli sulla spalla, e ordinò con larga pronunzia meridionale:

— S'introduca il teste.

Entrò un vecchiotto rubizzo dagli occhi cisposi, dal naso d'uccellaccio di rapina, dal mento uncinato dove un ciuffetto di peli si rizzava con la temerità d'uno spazzolino da barba. Vestiva il costume del contado di cui s'andava perdendo l'usanza: calzoni corti di velluto nero, giacca aperta sul panciotto ornato d'una quadruplice fila di bottoncini, calza traforata fasciante la gamba fin sotto al ginocchio, berretto lungo, a maglia, con la nappina. Avanzava di sghembo, guardandosi intorno e salutando ad ogni passo, da sinistra a destra. Quantunque il teste avesse giurato altra volta, per nulla al mondo il Presidente avrebbe perduta l'occasione di un fervorino. L'intemerata era il suo forte, e i contadini che gli capitavano dinanzi per la prova testimoniale, venivano esortati alla verità con argomenti come questi:

Tu sai l'inferno? addò'nce stanno i diavoli, chille ca le 'ncasano 'i fforche int'e rine?… Bè, vì ca tu llà vai si nun te capaciti ca ccà s' ha dda ggiurà sinceramente, ca 'nnanz' a Ddio nun ce stanno 'mbruoglie, figliù!(1) Conosci l'inferno? Dove ci stanno i diavoli, quelli che ti conficcano le forche nelle reni? Bene, tu andrai se non ti persuadi che qui si deve giurare sinceramente, che innanzi a Dio non ci stanno imbrogli. — E alle proteste, alle assicurazioni dell'altro concludeva: — Bravo, bravo, bravo, bravo! Senza timore 'e Ddio ccà nun se fa niente!

Ma questo non era che un piccolissimo saggio del suo spirito adattato all'ambiente e alle circostanze.

L'ottimo magistrato abbondava in trovate geniali, in motti lepidi, conditi da parole in vernacolo e da una sua mimica efficacissima, che, unita al resto, metteva nell'aula una correntella di buon umore. Riusciva così a volgere l'interrogatorio ai suoi giusti fini, e il foro, cui tal sistema giocava più di un tiro funesto, gli aveva messo il soprannome di Sciosciammocca.

Il teste sbirciò la gabbia, poi con voce sommessa cominciò il solito racconto:

In paese si diceva che Maddamma Rosaria de' Zimparì se l'intendesse da prima con Nicoluzzo il cocchiere detto Capariceia e poi col brigadiere Colucci, del quale era rimasta incinta. Che il marito, tornato dalla 'Mereca, avesse riattraversato l' Atlantico per protestare contro quella paternità di seconda mano, e per lei un uomo avesse perduto l'onore, un altro la vita, un altro la libertà.

Così si diceva. Si diceva anche che il bambino non fosse nato morto, ma soffocato dalla madre e poi gettato nel Nanilio, un sotterraneo dell'epoca romana servito forse da catacomba ai primi cristiani.

Ciò il vecchietto riassunse a suo modo, in un linguaggio inintelligibile che necessitava l'interprete e, grazie al brio presidenziale, suscitava un mondo di qui pro quo e di risate. Ma, giunto a! punto scabroso dell'infanticidio, il vecchietto aveva incontrato le pupille di giaietto della Zimparì e s'en affrettato a soggiungere, stringendosi nelle spalle, che parlava per sentito dire, e che al mondo c'è della gente mala che si diverte a contaminare(1) Calunniare. il prossimo suo.

Qui il Presidente si servì di un opportuno apologo per ricordagli che nella precedente deposizione aveva aggiunto qualcos'altro; ma non ci fu verso di rinfrescargli la memoria.

Sorse un piccolo battibecco tra il Pubblico Ministero e l' avvocatino della difesa, il quale, con voce di carrucola da pozzi, un gesticolare frenetico, si affannava ad elevare incidenti e ad opporsi alle interrogazioni del Pubblico Ministero. Infine il dibattimento riprese il suo corso.

Fu introdotta Maria Letizia Ilarione, vecchia fattucchiera che esercitava, abusivamente, la professione di levatrice. Era alta, magra, con un gran viso terreo dove le rughe s' intersecavano come segni cabalistici. Vestiva di nero. La voce pubblica l'accusava di aver propinato alla Rosaria durante la gravidanza, col pretesto di fattura, delle medele, dei decotti d'erbe selvatiche a scopo d'aborto. Si pretendeva anche di averla vista, la mattina del parto (quantunque abitasse all'altro capo del villaggio) gironzare, all'alba, con fare sospetto, nella rruga(1) Rruga — strada, rione. della Zimparì.

Maria Letizia giurava e spergiurava di non saper nulla di nulla, dilungandosi a raccontare in qual modo avesse conosciuta l'accusata. Costei era venuta a cercarla, tre mesi prima, in punto di mezzanotte, e le aveva detto: — Maddamma Letizia Ilarione, voi dovete farmi la majia(2) Majia — fattura, stregoneria. a Maddamma Maria Teresa l'Ajiva che sparla di fatti miei.

Foco foco! pure a majia me fici! pure a a majia!(3) Gesù, Gesù, pure la fattura mi ha fatto! — strillò una voce femminile al di là dello steccato.

Piccoli scrosci di risa si levarono qua e là, intorno all'Ajiva, che, vestita di nero come una vedova, levava le braccia in alto, nel gesto familiare, poi le tendeva verso la fattucchiera e verso la Rosaria, imprecando, infine le levava di nuovo al cielo, ad invocarne vendetta.

Intorno a lei la gente si chiedeva:

— Chi è?

— E' la moglie di quel cocchiere che due anni fa uccise il brigadiere Colucci, l'amante della Zimparì, e fu condannato.

— La stessa cui era destinata la fattura?

Eggià: per questo si ribella.

L'ilarità divenne generale. Perchè la strega potesse continuare a deporre, l' Ajiva fu fatta uscire tra due gendarmi e il presidente minacciò di sgombro il pretorio.

— S'era sfilato un anello dal dito e me l'aveva lasciato càder nelle mani — proseguì Maria Letizia impassibile. — Ci accordammo subito. E le diedi il filo, le arance e gli spilli da buttar sotto la finestra della nemica, dicendo: questo per il capo…. questo per le spalle…. questo per la vita…. e così di seguito; poi, dopo averle insegnato le parole sconsacrate le feci mandare a mente anche quelle che sciolgono la majia e ridanno la salute. Per scrupolo di coscienza, sapete.

Parlava con gravità e convinzione. Forse ella era la prima a credere in quel suo occulto potere Non fu possibile farla uscire da tale ordine di cose.

Il cancelliere e i giudici ascoltavano sorridendo, in aria di superiorità; il pubblico si divertiva un mondo, il Presidente sollecitava la strega a sbrigarsi con degli:

E mbè, facite ampresso, ogge è sabbato, e a mezanotte v'avite 'a truvà sotto' o noce!(1) Via, fate presto: oggi è sabato; e a mezzanotte vi tocca trovarvi sotto al noce… — Ma il Pubblico Ministero si levò di scatto, con l'indice appuntato contro la testimone e ne chiese, con tonante voce, l'arresto.

Vi fu un attimo di confusione, indi la Corte si ritirò per deliberare, riuscì annunziando d'aver accolta la domanda del Pubblico Ministero.

La vecchia fu trascinata fuori tra due carabinieri cacciando acute strida, picchiandosi il petto e strappandosi i capelli.

Fu fatta subito entrare Massara Marianna la Lattèra, comare e vicina della Zimparì. Era una donnetta senza età e quasi senza sesso, col viso chiuso in un fazzoletto color caffè. Anche costei evitava di guardar dal lato della Sfinge. Incominciò:

Gnure Presidente, gnuri ggiurati, n'davite a ssapire ca nui simo vicini cu d'ija…(2) Signor Presidente, Signori Giurati, dovete sapere che noi siamo vicini con lei… — e raccontò come la notte precedente al fatto, avesse udito dei lamenti nella casa attigua, e, verso l'alba, un miagolar di bimbo appena nato. Che, essendo entrata al mattino nella casa della Zimparì, l'aveva trovata a letto « senza colore in faccia » e, al suo entrare, costei aveva precipitosamente nascosto qualcosa sotto le coltri.

Trattandosi d'un testimone a discarico, la deposizione era sorprendente, e l'avvocatino gridò, con quanto fiato aveva in corpo, che si faceva dire al teste tutt'altro da quello che avrebbe voluto dire. Indi suggerì al Presidente una filza di nuove domande che indussero la Lattèra in contraddizione: dal che nacque un vivace scambio d'invettive tra Pubblico Ministero, Presidente, avvocato e giurati. Parlavano tutti in una volta, senza riuscire a soverchiarsi l'un l'altro, in un tumulto indescrivibile. Come Dio volle finirono con l'intendersi, col chiedersi scusa a vicenda, e la Lattèra potè, fra un silenzio relativo, continuare a narrare come, essendosi recata quell' istessa sera lassù alla Madonna delle Grazie(1) Remota chiesetta che fra romantiche balze domina il candido letto del Gallizi e dove le giojosane vanno a schiere, come in pellegrinaggio., una chiesetta remota, per le funzioni di vespero, avesse incontrato l'accusata nei pressi del Nanilio(2) Nanilio — rudero dell'epoca romana, per cui si scende in un sotterraneo ch'è forse servito di catacomba ai primi cristiani. con in capo una gerla di panni sudici, e avendole chiesto Dunde venite, mara? le fosse risposto che tornava dal torrente dov'era stata a lavar panni.

Lavar panni a quell'ora!

Durante la terribile deposizione gli occhi della Zimparì avevano errato qua e là, poi avevano fissato sulla teste uno guardo così perforante che la Lattèra n'ebbe un senso di malessere: avrebbe voluto tornare indietro, disdirsi, ma era tardi. La loquacità propria del suo sesso, le interrogazioni, stringenti sotto l'apparente bonarietà presidenziale, l'avevano fatta giunger più in là di quanto avesse voluto. Già il Magistrato della legge sorrideva beatamente accarezzandosi le basette con gli unghioni crudeli, già il Presidente la congedava congratulandola vivamente:

— Brava, brava, brava, brava! Questo si chiama parlaré. Ebbiva'e femmene! Quanno spilano 'a lengua, allumeno t'arricrei!(1) Quando snodano lo scilinguagnolo almeno ti consoli!

Si fece un silenzio grave, durante il quale s'udì lo scricchiolio della penna che finiva di trascrivere la deposizione. Uscita la donna, entrò Peppe Curzore; un gobbetto maligno dal testone riccioluto insaccato nelle spalle, con due gambine corte e sbilenche, un sorriso d'umile ossequio che si mutava talvolta in ghigno beffardo. Al paese non lo chiamavano il gobbo, ma il cervo volante, per un suo fischio modulato, in tre note, che somigliava singolarmente a quello d'un grosso coleottero, il lucano. Costui affrontò senza scomporsi lo sguardo tragulario della Rosaria, anzi lo cercò arditamente. Nei loro occhi foschi balenò il lampo d'una sfida.

Da tempo il gobbetto andava perseguitando d'assidua corte la Zimparì; nè le continue ripulse e gli sgarbi e le beffe avevano affievolito il suo ardore. Quando s'ebbe visto anteporre il vetturino e il brigadiere, tacque, prudentemente, ringoiando la bile; ma scomparsi i due, le pretese di lui si fecero così audaci, l' insistenza così fastidiosa, che un giorno, perduta la pazienza, la Rosaria gli tirò dietro uno dei novantanove cestelli che ornavano la sua dimora « tanto per insegnargli a dimenticarne la strada ». Ed egli finse di dimenticarla, ma da quel giorno un odio implacabile covò, in quella sua gobba maligna, insieme con la morbosa libidine dell'essere spregiato e deforme, una smaniosa sete di vendetta; e sovente, di notte, il suo fischio s'udiva, quasi mònito e scherno, nella rruga della Zimparì.

Quell'odio aveva spiata, seguita la donna a passo a passo durante i nove mesi di gravidanza clandestina, s'era pasciuto della vergogna di lei, l'aveva attesa al varco del parto con l'impazienza di un segugio che fiuti la preda. E, nel giorno fatale, Peppe Curzore non aveva perduto d'occhio la Rosaria; l'aveva vista uscire pallida, troppo pallida, e snella, come non era da tempo, con un corbello sotto il braccio e l'andatura incerta; l'era andato dietro, non visto, prendendo le scorciatoie, celandosi dietro gli alberi, fin su alla Madonna delle Grazie, dove la via, tra romantiche balze e più romantici tor renti, sale a Mammola e a Grotteria; l'aveva veduta fermarsi presso i ruderi del Nanilio dove le ultime pietre si vanno sgretolando sotto l'azione del tempo; discendere nel sotterraneo, dimora di pipistrelli e di bisce, e aveva atteso, dietro un rialzo, ch'ella risalisse, col suo corbello. Non aveva atteso a lungo. Riuscita alla luce, la donna era discesa al vicino torrente per lavarvi della biancheria; poi, dopo essersi riposata alquanto, col cesto umido sui ginocchi, aveva ripreso la via del paese. E soltanto allora egli era sbucato dal nascondiglio, penetrato nel sotterraneo, col malvagio cuore che gli batteva di desiderio e d'ansia, e dopo brevi ricerche, aveva ritrovato l'infante, livido nei pannolini bianchi, senza respiro nè vita. E l'aveva rimirato, palpato con gioia selvaggia; poi lasciato lì, per darne avviso, di corsa, ai carabinieri.

Sulla denunzia di lui, quantunque la perizia medica fosse favorevole all'imputata, era stato istruito il processo; ed eccolo adesso, per la seconda volta, raccontare ai giurati l'incontro e la scoperta descrivere nei minimi particolari, il contegno, le tappe della Rosaria, e il corpicino gelido del neonato, dal visuccio striato di azzurro alle pinne del naso, e intorno alla boccuccia segni non dubbii di violenza. E precisava, calcava, senza alcun bisogno dei fervorini presidenziali nè dei tranelli del Pubblico Ministero.

Ad ogni nuovo particolare la Rosaria doveva rabbrividir di spavento, ma in quella sua maschera di brigantessa non un muscolo trasaliva. E quando il Presidente le si rivolse per le interrogazioni d'uso, si strinse nelle magnifiche spalle e tacque sdegnosa.

Il gobbo intanto usciva con aria spavalda, dopo averle lanciato un'occhiata che pareva dire: « Tienti questo, adesso! »

Sulla soglia s'incontrò nel medico condotto di Giojosa Jonica quello della perizia favorevole — che il Pubblico Ministero aveva fatto richiamare per chiarir qualche punto della perizia rimasto oscuro.

Biondo, snello, elegante, d'ingegno svegliato e di coscienza elastica, era la perfetta antitesi dell'antico medico di campagna, semplice, umanitario, paterno, pieno d'oscure devozioni e di sacrifici sublimi.

Tornato di fresco dalla clinica di Napoli con un ricco corredo di cognizioni, un'accesa brama di guadagni e di gloria, passava tra gli umili col cuor chiuso e gli occhi fissi verso la mèta lontana, lontana dall'oscuro villaggio dove intanto, dall'esercizio della professione, traeva non le intime gioie, ma i pochi vantaggi materiali: la cantina, il pollaio… e la riconoscenza delle donne belle. Chiamato a far l'autopsia del cadaverino mentre s'istruiva il processo della Rosaria, questa era andata a buttarglisi ai piedi, ad abbracciargli, piangendo, i ginocchi, e in quella superba femmina egli aveva intravisto un tal paradiso di gioie terrestri, da fargli accogliere l'ardito proposito di sottrarla alla punizione della legge, assicurarla al proprio piacere. Per cui, dalla perizia redatta innanzi al pretore, l'autopsia appariva favorevole all'imputata, ed era questa autopsia ch'egli veniva a sostenere e a difendere dai preveduti attacchi del Pubblico Ministero…. e dalla buona memoria di coloro ch'erano stati chiamati, dalla legge, ad assistervi.

Dietro ordine del Presidente, gli fu recato un barattoletto di cristallo nel quale fluttuavano i miseri resti del morticino; e gli occhi dell'accusata i quali si erano posati con indifferenza su quelle viscere che avevan palpitato nelle sue viscere, si fissarono ardenti di speranza sul medico seduto, in atteggiamento calmo e disinvolto sulla ruota. Fu uno sguardo lungo, penetrante, soave, ch'era insieme preghiera, promessa, offerta…

Il Cancelliere rilesse il verbale con voce monotona, tra le impazienze del pubblico e la disattenzione dei giurati: il Procuratore Generale levò il capo dagli appunti, fissò il medico con occhio ostile. Un fiuto speciale gli faceva scoprire coloro che dovean contendergli la vittoria; così che prese l'offensiva lanciando al perito, pel tramite presidenziale, l' interrogazione già pronta:

— Crede il teste che l'esame dei visceri e la prova così detta galenica dei polmoni posano in firmare i sospetti fondati su prove esterne ed indizii sicuri?

— Non lo credo: ne son certo. — Con voce maschia e ferma, la quale subito gli acquistò le simpatie dei giurati e del pubblico, il medico descrisse minutamente il metodo con cui aveva proceduto alla prova, senza mai levar gli occhi verso l'accusata, la quale, quasi avvertendo nell' aria alcunchè di grave e forse decisivo per lei, ascoltava coi gomiti sui ginocchi e il viso fra le palme.

— Mi duole vedere che si sparga tuttora il dubbio sul principio: « Vivere è respirare » e sui semplici mezzi che la scienza possiede per accertarsi dell'avvenuta respirazione e quindi dell'esistenza della vita. Credevo che dopo la mia perizia non vi sarebbe stato luogo a procedere, ma poichè si è creduto imbastire il processo su indizii.. dirò così storici, sento il dovere di illuminare la giustizia, ch'è sulla via d'un fatale errore.

Il Presidente gli fece osservare, bonariamente, che gli apprezzamenti personali erano superflui; ma il Pubblico Ministero scattò inviperito:

— Signor Presidente, la prego, faccia valutare i termini! Indizii storici! Processo imbastito!! la sua perizia!!! « Caro dottore, qui non si discute il principio che « vivere è respirare », ma se, per parlare di infanticidio è necessario venga provata l'esistenza della vita estrauterina, per escluderlo è pur necessario che venga provato… il contrario! Ceterum vivusne an mortuus lucem foetis adespescerit semper id rite prius constet in infanticidio oportet ».

— Ma è appunto quel che ho fatto io, signor Procuratore, è appunto quel che ho fatto io! Ella non dovrebbe…

— Si rivolga a me! si rivolga e me!

— Ma, signor Presidente! io non posso permettere!…

— Calma, calma, calma, calma!

Il latino aveva, come sempre, prodotto il suo effetto; il giury, insolitamente eletto — contava tra i suoi membri un droghiere e un farmacista — si fece attento, mentre il pubblico grosso, che non ne capiva gran cosa, rideva degli occhiacci del Pubblico Ministero, della balbuzie dell'avvocatino e ammirava la padronanza di spirito del dottore il quale, con una gamba sull'altra, le braccia al sen conserte, aspettava la fine della burrasca. Ce ne volle prima che il Presidente potesse riassumere il latino del Pubblico Ministero in una domanda concreta:

— Ha, o non ha l'autopsia provata l'esistenza della vita? La questione è tutta qui.

Il dottorino, anzichè affrontarla, preferì girarvi intorno:

— Potrei rimettermi alla perizia, ma preferisco dare qualche spiegazione. I medici pratici, da Galeno in poi, si sono studiati di fornire alla legge le prove della vita, ma quel che i pratici hanno edificato, i teorici hanno tentato distruggere, e in ciò la maggiore responsabilià — permetta che lo dica — ricade sui signori giureconsulti, i quali, profittando di sterili dissenzioni sorte nel campo medico, pretendono contraddire le prove accumulate in secoli di studio fecondo. — S'indugiò a spiegare come avesse proceduto alla docimasia dei polmoni, esperimento che consiste nel tuffare l'apparecchio polmonare del cadaverino nell'acqua ed è il più importante fra tutti, giacchè, per legge fisica, se quello è ancora allo stato fetale, non manca d'andare a fondo, mentre se l'aria l'ha penetrato e disteso, galleggia: prova evidente che il bimbo non è nato morto, ma, sia pure per pochi istanti, ha vissuto. Poi passò in rassegna i membri dell'infelice creatura, dallo stomaco ai reni, dal cervello ai visceri, spiegando i diversi metodi di prova, citando con grande familiarità, Devergie, Casper, Tardieu, Marc e Liman.

— Eccone uno che andrà lontanto! — sentenziò il farmacista rivolgendosi con entusiasmo ai colleghi.

— Peccato che teste simili si perdano nei nostri paesi!

— Non dubitate, non ci resta a lungo.

— Quello lì alla Camera ti rivoluziona l'Italia!

— Ssss! — e il droghiere pestò un callo al farmacista, il quale s'affannava a spiegar la questione a suo modo. Proclamata così l'eccellenza della prova idrostatica, il perito concluse energicamente affermando che essendo il bimbo nato morto, l'infanticidio era da escludersi.

Un mormorio d'approvazione, di sollievo, corse nell'uditorio. Faceva piacere pensare che una donna così bella non si fosse resa colpevole d'un delitto odioso.

Il Pubblico Ministero, subodorando l'imbroglio, si fissava le unghie in aria dispettosa. Poi di colpo tuonò: — Ed a che cosa dunque bisogna attribuire i punteggiamenti alle congiuntive, segni d'asfissia riscontrati sul cadavere? Signor Presidente! Voglia chiederlo al teste! Voglia chiedergli se l' imputata ha potuto, involontariamente, soffocare il bimbo tra le coltri, per celarlo all'occhio curiosi della vicina! Voglia chiedergli…

— Piano, piano, piano, piano! Procuratò! Embè! Vui ve facite venì nu colpo apoplettico! A salute, primm'e tutto!(1) Procuratore! Ebbene! Voi vi fate venire un colpo apopletico! La salute, prima di tutto.

Il dottore sorrise, stringendosi nelle spalle.

— Che cosa volete che ne sappia, io? So che ad ogni modo, ha soffocato… un cadavere.

— E gli indizi dunque?! gli indizi?!… — rantolò il Pubblico Ministero, vedendosi sfuggir la vittoria.

— Indizii? Nulla di più sicuro e di meno sicuro ad un tempo. Non già ch'io pretenda infirmare il valore dei caratteri esterni e locali; ma il mio dovere è di mettere in guardia la giustizia sugli errori che corrono comunemente in bocca di magistrati e di periti, il maggiore dei quali è questo, di credere che i segni di soffocazione siano cosi ovvii e caratteristici da potere, di per sè soli, decidere dell'infanticidio: sentenza tanto arbitraria e perniciosa quanto l'opposta che afferma la soffocazione non possa venire diagnosticata ove manchino segni d'esterna violenza.

Il dottore non aveva altro da dire, il Presidente si accinse a congedarlo; ma il Pubblico Ministero non volle darsi per vinto.

— Un momento, signor Presidente! Saprebbe dirmi il teste — la voce si era improvvisamente raddolcita, lo sguardo brillava, perfidamente — saprebbe dirmi perchè mai quei… resti, quei… visceri — abbia la cortesia, volti un po' il barattolo da questa parte — invece di galleggiare, radono il fondo?…

Un fremito d'ansia, un silenzio perplesso fecero da prima ondeggiare, poi ammutolire la folla.

Il medico sorrise di pietà.

— Ecco una domanda che mi aspettavo da un pezzo. Nulla di più naturale che, dopo esser rimasto sì lungo tempo in macerazione, l'apparecchio polmonare, gonfio d'acqua, sia calato a fondo… Bisogna non conoscere i primi elementi di fisica per fare domande simili. Cardieu, Devergie, Casper, Marc, Liman…

— Basta, basta, basta, basta! — interruppe inorridito il Presidente. Dottò! Embè! Ccà è tarde! cca nue ce n'aimma a ì! Dottò, facitene stu piacere, jatevenne pe mmo, ca po' lunedì chiacchiariate quanto vulite; chiacchieriate vui, chiacchiareiano i paglietti, e i ggiurati cacciano pure o verdetto!(1) Dottore! Ebbene! Qui è tardi! Qui noi dobbiamo andarcene! Dottore, fatemi questo piacere, andatevene per ora, che poi lunedi chiacchierate quando volete: chiacchierate voi, chiacchierano gli avvocati, e i giurati emettono anche il verdetto!

E così la seduta fu tolta.

«….. Signor Presidente! signori giurati! Io non so veramente quale castigo potrebbe essere adeguato a simile colpa! La madre, signori! La madre che, immemore dei suoi sacri doveri, snaturando sè stessa, soffoca il primo vagito della propria creatura, quel grido con cui il pargolo s'affaccia alla vita e s'annunzia quasi a chieder protezione e soccorso!

« Ma costei non è una donna, o Signori! E' una belva in sembianza umana, è una Cibele in cui, con varie forme, alberga il reo animo di Agrippina e di Messalina ad un tempo! Voi l'avete osservata durante il processo! Ella è rimasta impassibile come il simulacro d'una di quelle divinità feconde cui le credenze indiane attribuiscono il feroce compito di soffocare i propri nati! E voi, signori giurati, non vi lascerete commuovere da quegli occhi se reni che paiono ignorare la colpa! Voi dovete punire, giacchè avete il sacro obbligo di purgare la società da simili elementi, di schiacciare le serpi immonde che s'annidano nel suo grembo! Ed io non credo esiger troppo dalla vostra giustizia chiedendo, in virtù dell'articolo 350 del nostro codice, il massimo della mite pena con cui la legge punisce un tanto delitto »

La voce si abbassò di colpo come quella d'un predicatore che prepari l'effetto finale, riprese in tono più basso: « Dodici anni di reclusione, signori. La società li esige, li aspetta da voi ».

Il Pubblico Ministero, che aveva parlato durante un'ora e un quarto, sedè asciugandosi il sudore col fazzoletto.

La requisitoria fu accolta da un silenzio significativo; solo qualche modesto applauso qua e là indicò che più d'uno aveva gradito il pizzico di mitologia e di storia, nonchè il paragone indiano.

E la parola fu all'avvocatino della difesa. Costui prese a parlare in tono enfatico, inciampando in tutte le esse e le erre che incontrava per via. Poi man mano si scaldò: un torrente d'eloquenza rancidamente arcaica, si riversò nell'aula, mandò il pubblico in vìsibilio. Perfino l'accusata si lasciava cullare dalla musica di quella retorica così nuova per lei: un bell'umore osservò che gli occhioni neri nuotavano in un liquido perlato come uova nel burro.

Ma l'arringa minacciava andar per le lunghe; un senso di stanchezza, di noia, invase tutti. Gli occhi degli ascoltanti divennero vuoti e torbidi; le bocche s'apersero allo sbadiglio; i ventricoli si contrassero; le gambe s'intorpidirono.

Un sole africano piombava dagli otto finestroni, dardeggiando fuoco e fiamme sul capo degli infelici: la temperatura torrida, l'atmosfera malsana per l'agglomeramento di tanti corpi e più forse per tutte le crude nauseanti cose dibattutesi colà, dal mattino.

Ed ecco finalmente il razzo finale:

— Questa derelitta, o signori, che, abbandonata da un marito indegno — non vi fu uomo nella sala il quale non lo giudicasse il grande imbecille — travolta dalla passione, diviene madre, e, tra palpiti ed ansie, dà alla luce una creatura già morta; poi, cedendo all'umano impulso della propria salvezza, s'affretta a celare alla società spietata e beffarda il frutto della propria colpa; questa donna, o signori, è degna di pietà, non di biasimo! Chi è senza peccato scagli la prima pietra! E voi, signori Giurati, assolvete questa innocente! E quell'altro innocente ch'è lassù — le braccia s'apersero accennando il Cielo — quell'angèlo gioirà del vostro verdetto, canterà nel coro le vostre laudi, e piangerà di gioia al veder libera la madre!

Deo gratias — rispose il Presidente a mezza voce, mentre un applauso nutrito, scrosciante, salutava la chiusa.

L'avvocatino, collo zazzerone scomposto, i pomelli accesi, gli occhi che parean schizzargli dall'orbite, si risedè facendosi vento col fazzoletto.

Un silenzio religioso. Il Presidente, divenuto improvvisamente serio, così serio da non sembrare più lui, rivolse le ultime domande all'accusata, che rispose a monosillabi mantenendosi sulla negativa; poi riassunse con lucida concisione la causa; ordinò si leggessero le domande, già formulate, ai giurati; rivolse loro le ultime raccomandazioni rito.

L'imputata venne fatta allontanare, il giury si ritrasse nella camera delle deliberazioni, e l'impazienza del pubblico aguzzata, esasperata da trenta dibattimenti divenne spasmodica nell'attesa suprema. Commenti, previsioni, scommesse, s'incrociavano nell'aria carica d'elettricità; l'opinione, favorevole alla Zimparì, vedeva in ogni domanda del presidente un tranello. Finalmente, ecco i giurati. Un muggito di soddisfazione li accolse. Un psss prolungato, e il capo s'accinse alla lettura. Si sarebbe sentito volare una mosca. Molti occhi, crudelmente curiosi, corsero alla Rosaria: immobile, col capo eretto, le mani raccolte in grembo, non dava segno di commozione. I giurati avean risposto di no a tutto, anche a ciò ch'era chiaro come la luce del sole, e il verdetto assolutorio fu accolto da uno scoppio formidabile di battimani e di grida.

La folla pareva in preda a delirio: qualcuno propose di portar la Rosaria in trionfo. Poche settimane prima, pel medesimo crimine, una fanciulla madre era stata condannata a dieci anni di ergastolo, e lo stesso pubblico aveva applaudito con egual frenesia. E' vero però ch'essa era piccola, nerognola, con un visetto quasi sformato dal troppo piangere, e nessun perito innamorato aveva fatto l'autopsia della sua creatura…

— Siete libera, avete capito? Libera! — gridò un carabiniere nell'orecchio della Rosaria.

Ah… me ne pozzo jire? — E, pallida, come fulminata di stupore e di gioia, si rivolse all'avvocatino, che le confermò la notizia con una stretta di mano da farle crocchiar le giunture.

— Si, ve ne potete andare. Vi abbiamo fatta assolvere.

Una nebbiolina biancastra scese a velarle le pupille. E in quella nube si confusero i quattro Magistrati che uscivano seguiti dal Cancelliere senza aver l'aria d'affrettarsi per la diana dello stomaco, e il pubblico affamato, brutale, che si pigiava alle uscite. Ma tosto si riebbe, e, preso il fagotto che le porgeva un carabiniere, si fece largo tra la folla plaudente, uscì col suo passo da dea, senza voltar la testa da nessuna banda.

Il treno entrò con un fischio nella stazione di Reggio. E subito la Rosaria, seguita da un gruppo di conterrazzani (tra cui il vecchietto che aveva testimoniato pel primo) seguita da Marianna la Lattèra e da Maria Letizia la strega, diede l'assalto ad un carrozzone di terza.

Quei compaesani la Zimparì li aveva trovati fuori, nel corridoio della Corte, dove era stata circondata, accolta come una trionfatrice.

Nce cunzulamu ca n'asciste a libbertà! — aveva detto Maria Letizia Ilarione, sorridendo con la bocca sdentata.

Mariteme nun ce steva, ed io ho lasciato le bestie sole per venire a farvi da testimone! — avea aggiunto, in tono umile e trepido, Marianna, la vicina dalla deposizione contradditoria.

Ebbè? Se non ci aiutiamo tra S˙ Gianni e S˙ Gianni(1) Tra comari e comari. chi è che si deve aiutare?

Rosaria l'aveva ringraziata con un sorriso scevro d'ironia, troppo felice della recente liberazione per accoglier pensieri di vendetta, o giudicando forse che non fosse quello il momento di lasciarli scorgere. La Lattèra, rassicurata, s'era rivolta all'avvocatino che accompagnava la bella cliente con mille proteste di servitù.

Cume parlasteve belio, gnure abbocato! 'ndavite na parola ca 'mbalzama!(1) Come avete parlato bene signor avvocato! Avete una parola che imbalsama.

E Maria Letizia fece eco con voce stridula:

Signuri Signuri! Te veneva na tenerezza 'e core 'mu sente!(2) Signore, Signore! Ti s'inteneriva il cuore a sentirlo!

L'Ajiva era passata intanto fra un gruppo di testimoni a carico e di curiosi, gruppo ostile alla Zimparì, e il passo, i volti, il silenzio, tutto tradiva il furore della disfatta. Giunta sulla soglia, prima di uscire si era voltata, con le braccia in alto, gridando in tono solenne e fatidico:

— Ma è notte ancora! U' Signuri n'dave 'u me cunzula!

E il ghigno del gobbo, voltosi a fissar la Rosaria, pareva ripetere diabolicamente:

— Ma non è notte ancora!

Passato quel primo momento d' imbarazzo, di freddo, anche il gruppo amico, con la Zimparì alla testa, s'era avviato all'uscita. E lungo le pacifiche vie, dove i pacifici borghesi uscivano a bere un sorso d'aria dopo l'afa meridiana, per poi finire la serata intorno alla banda comunale o al caffè, tutti si volgevano a guardare la strana compagnia, stranamente vestita, in mezzo a cui la bellissima donna incedeva come regina tra la sua corte. Attraversarono così il Corso e la marina lungo le acque dello Stretto che accoglievan luci meravigliose(1) Ora a chi fa la Marina a piedi l'impressione è tutt'altra., costeggiando la fossa della Pangalla, divina conca di turchesi e di perle, folta di barche d'ogni foggia, i cui alberi, dalle vele attorte, si levavano come aste incontro al cielo arrossato dal tramonto. La linea montuosa della Sicilia si allungava di fronte; Messina — così vicina che pareva si potesse toccarla — appariva cinta di vapori come una sultana, e la mole aspra di monte Pentimele, si affacciava dovunque dominando la città come un nume tutelare: i suoi forti si ergevano, protezione e minaccia insieme, gettando sulla beltà delle cose, l'ombra tragica d'un pensiero, che quel Paradiso potesse un giorno venir insidiato, conteso; che la cupidigia e l'odio degli uomini potessero portarvi la distruzione, la morte.

Ma il gregge dei contadini passava ignaro della bellezza come del pericolo lontano, e giunse alla stazione un'ora prima del treno. Subito s'accalcò agli sportelli, e mentre l'Ajiva con la sua compagnia, occupavano uno scompartimento, la Rosaria col suo codazzo si affrettavano a riempirne un altro. Solo Marianna la Lattèra tradava a salire avendo trovato il medico cui si era appiccicata nel punto istesso in cui il poveretto stava per scomparire in una vettura di seconda.

N'davite a carità, gnure duttore! N'daju na pecora ca me more e 'u gnure vitrinario dice ca n'daju l'ammazzu!(2) Abbiate la carità, signor Dottore! Ho una pecora che mi muore e il signor veterinario dice che debbo ammazzarla!

— O che debbo curarvi anche le pecore, adesso? — aveva risposto l'altro un po' brusco. Ma la donnetta petulante e piagnucolosa non si dava per vinta, insisteva perchè venisse a veder la pecora il domani, e, visto che la Rosaria ascoltava dal finestrino, il volto del medico ebbe un lampo benigno, la voce si raddolcì:

— Bene, bene, verrò.

Un'altra campanella annunziò la partenza: Marianna, raggiante, si precipitò allo sportello, si arrampicò al suo posto, accanto alla Rosaria. E subito il treno si mise in moto, si diede a correre tra due siepi vive di gerani e di timo, d'acetosella e di lavanda, tra i campi verdi d'agrumeti e l' Jonio glauco immenso che si confonde col cielo. Il tramonto, roseo poc'anzi, diveniva sanguigno, tragico; le nuvole di bragia assumevano aspetti strani d'isole vulcaniche, di bastimenti incendiati, di mostri infernali; gli appennini calabri erano tutta una gloria d'oro, mentre il mare si colorava in rosso siccome l' Arbia di dantesca memoria. Apparivano e sparivano i prati dove i papaveri mettevan gridi di battaglia, dove le spighe porporine e bianche delle bettoniche, le còccole variopinte dei bèrberi e le corolle tur chinicce dei fiordalisi si cullavano alla brezza vespertina. Apparivano e sparivano le pasture ampie dove qualche solitaria giovenca levava l'occhio mansueto a guardare; apparivano e sparivano greti enormi di torrenti bianchissimi dove un rigagnolo scendeva saltellando fra i sassi; apparivano e sparivano campicelli di guaime, boschetti di fichi d'India dai rami contorti e dalle foglie spinose — scudi ed armi ad un tempo — e poi valli, forre, burroni, una successione non interrotta di scenarii, di sfondi, che parevan tirati via rapidamente, uno dopo l'altro, da qualche macchinista gigante. Non un uomo nei campi. Si sarebbe detto che tanto ben di Dio sorgesse per un miracolo della terra ferace, non fecondata che dal sole.

I contadini seguivano con occhio amico le rare donne lente, curve, cenciose, che s'aggiravan pei campi, commentando a modo loro l'esodo delle campagne. Essi giudicavano l'emigrazione un danno terribile, unico rimedio a danni peggiori.

Caticèja Tirinò, briosa donnetta la cui famiglia era tutta sparsa fra le tre Americhe, osservò ridendo:

— Adesso a noi donne non manca che guidar l'aratro e potar la vigna! Comare Sabetta ha già dato l'esempio.

Poi, avendo la Lattèra, il cui bestiame moriva, decimato da un male occulto, chiesto consiglio a Letizia Ilarione, la strega, costei prese a raccontare bizzarre istorie di precantamenti e di majie, di bimbi succiati dalle streghe, di fanciulle morte di mala salute, e gli animi furono tutti avvinti da un interesse profondo. Soltanto Rosaria de' Zimparì, seduta in un angolo, non partecipava alla conversazione generale. L'occhio, omai avvezzo a misurare i quattro palmi della prigione, spaziava, ebro di luce, per la campagna ancor nitida e pel cielo crepuscolare; e la tumida bocca socchiusa, tra cui brillava l'avorio dei denti, beveva a larghi soffii l'aure della libertà. Una gioia immensa e pur pacata le dilatava il seno, un sorriso sprezzante le increspava, di tanto in tanto, le labbra. Pensava alla città, alla Giustizia, a tutto quanto lasciava dietro sè e che pur ieri le faceva tremar vene e polsi di un tremore indimenticabile.

Senza che se ne rendesse ben conto, la complicata macchina sociale usciva dalla prova diminuita ai suoi occhi, spoglia del prestigio antico. Era Riggio, quella folla elettrizzata, plaudente, ch'ella scuoteva con uno sguardo, agitava con un monosillabo? La Curte, quel fantoccio con un coso in testa, fra due vecchi mascherati allo stesso modo?

Embrioni d'idee, confuse e troppo complicate pel suo cervello d'ignorante — più sensazioni che idee, più impressioni che pensieri la turbavano coi loro interrogativi, senza trovar risposta.

Perchè l'avevano assolta? E perchè l'avrebbero condannata?

Chi sa! Una cosa era certa, che senza il medico te la condannavano. Che bel trascorso! Quante parole difficili! Tutti stavano a sentirlo, come il predicatore dal pulpito. E quel giudice con gli scopettoni che te la voleva mandare in galera a forza; aveva fatto una faccia amara…. che gli pigli il veleno!

Mo, bisognava disobbligarsi. La mattina dopo gli avrebbe portato un paio di galline… Bastava? No, no, non bastava: sapeva lei quel che voleva quel pezzo di!… E adesso, era libera! Libera! E pensava con voluttà al furore della rivale, alle piccole vendette, ai grandi trionfi che l'aspettavano in paese. E sorrise, con una vanità tutta nuova di donna bella. Si sa: nei villaggi la miseria è grande, la vita dura, troppo dura e faticosa perchè l'estetica vi occupi un posto importante. Il valore della donna risiede in altro: nella sua resistenza di bestia da soma, nelle sue virtù di massaia; la bellezza è una quantità trascurabile, della quale si ricordano soltanto i rustici poeti nelle canzoni d'amore. E soltanto in città la Rosaria aveva acquistato la coscienza del suo potere, sapeva ormai di avere in sè una forza che agisce fatalmente sugli uomini, che li rende vili, che li rende schiavi, ne traeva un senso di orgoglio crudele.

E non un rimorso in quella coscienza semi barbara. Perchè avrebbe dovuto averne? Che cosa aveva fatto di male?

E' vero, dicevano che aveva soffo… Eh, sì, avrebbe anzi dovuto lasciarsi svergognare! dar soddisfazione a tutti! Quante non avevano fatto lo stesso? E poi… erano proprio sicuri che fosse stata lei? Chi l'aveva detto? Il gobbo… ma quello non faceva legge. Il giudice struttore… e poi quello con gli scopettoni… E' vero. Ma che ne sapevano, iddi? Chi l'aveva veduta? Nessuno! A furia di affermar fatti semi veri, circostanze semi false, un dubbio l'era entrato nell'animo, aveva messo ingenue radici: in carcere ella stessa aveva finito col non saper più bene… N'era passato del tempo! Come poteva ricordarsi?… Del resto, se tutti dicevano che non era vero, il medico, l'avvocato, i giurati, è segno che non era vero. La sua innocenza era stata dimostrata, proclamata (il come e il perchè non la riguardavano) tanto è vero che se ne tornava al paese: come non credere alla semplice logica dei fatti compiuti? Libera! Era finalmente libera! E pensava con voluttà al furore della rivale, alle piccole vendette, ai piccoli trionfi che l'aspettavano. Soltanto il ghigno del gobbo si affacciava a gettare un'ombra nel quadro ridente, un'ombra minacciosa… Ma la Rosaria era ardita; guardava in faccia l'avvenire, scrollando le belle spalle, e in quanto alle minaccie… sciu! Ci sputava sopra!

Maddamma Rosaria, gradiscite una limoncella? — Era la fattucchiera che gliela porgeva, sorridendo.

L'infanticida si scosse, si accorse che tutti intorno mangiavano con un rumoroso lavorio di ganasce, e, tratto da una saccoccia, fonda quasi federa di guanciale, un barattoletto di peperoni sotto aceto, un biscotto bruno e due melarance, prese. a mangiare, placidamente. E al caratteristico puzzo dei luoghi dove in breve spazio si ammucchia gente di dubbia nettezza si unì ben presto quello, non meno nauseante, dei cibi. La Rosaria si alzò a gettare le bucce fuor dello sportello.

Nel crepuscolo chiaro come un'alba le piccole stazioni di Bianco, di Bovalino, d'Ardore, ammantate di agrifoglio e circondate di robinie, parean nidi d'amore. Il treno vi si fermava un istante: s'udiva una voce, un passo, uno squillo, il grido d'un gruccione, uno scroscio d'acqua cadente; poi di nuovo via costeggiando, da un lato la campagna, dall'altro il mare, lasciandosi dietro le casine cantoniere e i giardinetti lillipuziani che mettono nel cuore dei potenti il vago rimpianto dell'umile felicità di cui la vita li ha privati per sempre.

L'aria si oscurò; una sola linea di spume separò la massa cupa del Jonio dalla spiaggia biancastra; una sola linea di brume divise la campagna dai monti. Poi una fitta nebbia scese lentamente dalle cime, ovattò le falde, nimbò le teste degli ulivi, rase il suolo, ravvolgendo la campagna in un denso fumo azzurrognolo, e con un grido di terrore i contadini riconobbero la primaverile nemica delle fioriture: la lopa.

D'improvviso tacquero, oppressi dal pensiero dei minacciati raccolti: su tutt'i volti apparve la pacata, quasi fatalistica rassegnazione del contadino, da secoli avvezzo a subire le avversità della natura. Il discorso si fece tetro, languido; poi cullati dal rullio del treno, appesantiti dalla digestione, chiusero gli occhi, uno dopo l'altro.

La fattucchiera fu l'ultima ad addormentarsi, sgranando la fadda, bizzarro rosario di lunghezza inverosimile, fatto d'un nastro di seta a nodelli, ove ogni posta è formata da cinquanta nodetti e la tappa del Pater-Ave-Gloria è segnata da un fiocchettino di vario colore. A vegliare non rimase che Rosaria de' Zimparì, eretta sul busto ed immobile, con gli occhi sbarrati nel buio, come una deità indiana.

Gioiosa! Gioiosa!

Si scosse, destò i compagni e tutti scesero alla rinfusa assonnati, smarriti. Non ci si vedeva al di là del naso. Due fanali infissi al fabbricato della stazione gettavano intorno una luce fioca, quasi stelle in cielo velato di vapori; gli impiegati passavano come ombre, preceduti da una lanterna che mal diradava la nebbia; altre ombre scendevano dagli sportelli aperti, passavano dileguando. I due branchi dell'Ajiva e della Zimparì si erano mescolati, spingendosi l'un l'altro, i contadini cercavano a tentoni l'uscita. Nell' oscurità Rosaria sentì una mano prendere e stringer la sua: una mano maschia ma non callosa, una stretta rude ma non brutale e riconoscendo quella stretta signorile, la rìcambiò con forza.

Finalmente, trovato il cancello, uscirono tutti all'aperto, un soffio umido e molle entrò loro in bocca.

Molti si congedarono sullo spiazzo, davanti alla stazione, che parea tappezzato da un soffice strato d'ovatta. Si congedavano quelli che, come Caticèja Tirinò, abitavano in Marina, e quelli che vi alloggiavano, per quella notte soltanto ospiti di un parente, come Maria Letizia Ilarione.

Gli altri salivano tutti al paese, distante dalla marina poco più di un chilometro.

— Buona notte a voi!

N'ce cunzulamo ca n'asciste a libbertà!

Bon sonno, e bona nottata!

— Grazie! Altrettanto a voi!

Rosaria salutava, ringraziava, senza troppa espansione, finchè rimase sola sullo spiazzo con Marianna la Lattèra che s'indugiava a spiegarle la sua deposizione e, in qualche modo, a scolparsi. Il vecchietto dalla nappina era andato galantemente a provvedersi di una lanterna, per accompagnarla in paese. Quand' ecco un' ombra piccioletta si avanzò correndo incontro alle due donne, quando fu a tiro gridò: Ma'! Jema'!

La Lattèra riconobbe la voce di Rocchicèjo, l'unico suo figliuolo tredicenne; si spaventò: — Che succedìo, figghio?

— E' morta la pecora! Oggi il Padre è sceso per farla vedere al vitrinario, e gli morì per via!

— E il Padre?

— Pel dispiacere se ne andò in cantina dove beve e beve, da stamattina. Mo lo lasciai sotto alla tavola, come un sacco, per correre al treno m'u vu dico, a vui!

Pover' 'a mija! Pover 'a mjia! — gridò Massara Marianna, avvezza a raccattare il marito sotto alle tavole delle osterie tutte le volte ch'ella si muoveva di casa. — Il cuore me lo diceva! — E corse via, preceduta dal figlioletto, dandosi dei gran pugni nel capo. Rosaria restò sola ad aspettare il vecchio con la lanterna. Quand' ecco due braccia vigorose la cinsero alla vita, la tennero stretta, mentre una bocca vorace premeva in silenzio la sua.

Oh gnure dutture! — Protestò debolmente. E non ebbe finito di dire che un dolore brusco come un urto, acuto come una trafittura, la colpì alle spalle, la trapassò a parte a parte. Un urlo roco le sfuggì, un urlo pressochè eguale sfuggì all'amante. Le braccia contratte della donna s'avvinghiarono disperatamente a quel corpo vacillante anch'esso, i due si abbracciarono negli spasimi dell'agonia.

Un altro colpo, un altro urlo, un altro, un altro, finchè rotolarono insieme.

Allora un sibilo modulato, in tre note, fendè l'aria come il fischio del cervo volante, si perdè nella nebbia insieme con una breve ombra difforme.

E quando tornò il vecchio con la lanterna, un fascio di luce giallastra squarciò la nebbia e illuminò due cadaveri sanguinosi, avvinti.

Alla contessa Ersilia Caetani Lovatelli.

— Vostra figlia ha dunque?

— Duecentomila lire di dote.

Invece della signora Maddalena Fazzolini, la quale se ne stava con le mani sulla pancia quasi a costringere l'adipe accumulato boccone a boccone in venti anni di pacifica vedovanza, aveva risposto il figlio, Gaetanino: un giovanottone dalla persona cascante e tutta salamelecchi, dalla larga faccia giallastra e senza un pelo, che gli avea valso in paese il soprannome di Frittellone, dagli scialbi occhi fuggenti adombrati da un ciuffo biondastro alla maniera dei Bravi di manzoniana memoria.

Il viso del cav. Anselmo Gentile, di colui che aveva ardito affrontare la spinosa questione, espresse un intimo contento ch'egli si sforzò invano dissimulare.

— In contanti? — aggiunse coraggiosamente sua moglie, donna Filomena, florida matrona dal pomposo abito color pesca, dal cappellino giallo ornato di un'aigrette trionfante, che troneggiava sul rigido divano accanto alla vedova Fazzolini.

— In contanti.

Donna Filomena respirò di sollievo, raddrizzó il busto opulento e volse uno sguardo dominatore intorno al salotto freddo e triste dove aleggiava un perpetuo odore d' incenso e di muffa; ma, nel signoreggiarsi più esperta del marito, si ricompose ben tosto, e solo un più celere moto della mano inguantata e carica di anelli che agitava il ventaglio di false piume, avrebbe potuto tradire l'interna emozione.

— Ecco, dirò: mio figlio… — Aveva incominciato D˙ Anselmo tirandosi sulle gambe le ali del soprabitone nero, uscito a rivedere il sole dopo vent'anni d'ombra e di canfora; ma donna Filomena gli tagliò la parola in bocca:

— Nostro figlio è unico: voi capite… voglio dire che tutto quello che abbiamo è suo, o meglio sarà suo, un giorno: la fattoria delle 'Rranche, il podere della Valletta, la tenuta di Spiricò, il palazzo di Radicéna: tutto, vi dico. Siamo imparentati con le prime famiglie: i Presti, i Nardò, i D'Apunzo… non avete che da chiedere: Gentile! Il cav. Anselmo e donna Filomena Gentile! Tutti vi diranno lo stesso.

La signora Fazzolini abbozzò un gesto, a significare che di ciò non v'era bisogno, la fama delle loro ricchezze avendoli preceduti sin lì, di quelle fame che non ammettono discussione; ma Gaetano, il quale durante il discorsetto si era inchinato e sbracciato con degli Ooooh! esprimenti a volta a volta disdegno, ammirazione, consenso, si credè in dovere di protestare:

— Ma vi pare! la vostra famiglia è troppo nota! noi siamo felicissimi! onoratissimi! I danari… peuh! i danari sono sempre stati l'ultimo nostro pensiero! Purchè vi sia l'educazione… la stima reciproca… la simpatia personale…

— E' dunque Sì? — l'interruppe donna Filomena, raggiante.

— Figuratevi!… Mia madre ed io siamo felicissimi! onoratissimi!… Ma ci è impossibile dare una risposta così su due piedi…

— Ma se è un mese che abbiamo fatto tastare il terreno! — proruppe D˙ Anselmo ch'era un uomo franco.

D˙ Gaetanino si confuse.

— Giustissimo… ma… purtroppo i tempi sono mutati! Le ragazze d'oggigiorno non son più quelle di cinquant'anni fa… Anna Maria… mi dispiace dirlo… ha già le sue idee… educata, in collegio, sapete… — e gettò uno sguardo d' incoraggiamento alla madre la quale si limitò, ad assentir sospirando.

— Le ragazze sono ragazze — sentenziò donna Filomena il cui viso florido s'era improvvisamente rabbuiato — e debbono fare la volontà dei parenti.

— Così doverebbe essere, così dovrebbe essere! — sospirò ipocritamente Gaetano — ma adesso è il mondo alla rovescia! Anche la maggiore, Assunta, ha voluto far di suo capo e… non faccio per dire, ha avuto i più bei partiti della provincia! Il Barone di Santa Rosalia; Zucchetti, di Palmi; Franciosini, di Reggio; Buscemi, di Gerace…

— E' anche un po' nostro parente… — mormorò D˙ Anselmo che ad ogni nome chinava, con deferenza, la testa.

— Ma almeno Assunta aveva la scusa della vocazione religiosa!… una vocazione dichiaratasi sin dalla più tenera età…

— Abbiamo saputo che si vestirà, presto… — interruppe donna Filomena con qualche acredine nella voce. — E quando, se non sono indiscreta?

— Giovedì prossimo…

— Ce ne rallegriamo assai!

— Grazie.

— E il monastero, se è lecito?…

— Monaca di casa, monaca di casa soltanto. Abbiamo preferito non allontanarla, visto che gli usi del paese ci consentivano di soddisfare le sue aspirazioni senza staccarla da noi.

— … e senza metter fuori la dote — pensò donna Filomena, resa maligna dalla previsione di un rifiuto.

— Adesso per Anna Maria è lo stesso… — siamo desolati! — e D˙ Gaetano torse il collo, chinò la faccia pretina e intrecciò le dita. — Anche a lei, non per disprezzare, si sono offerti i partiti più vantaggiosi! Schiavelli, di Laureana; D'Ambrosio, di Pellaro; Giacometti, di Bova… Li ha rifiutati, tutti! Non che pensi ancora a farsi monaca, ma, ora per una ragione, ora per un'altra, dice no, sempre no, e nostra madre non vuole insistere per lasciarle il tempo…

— … di pensarci — completò donna Filomena.

— Eh già, di riflettere, di prendere una decisione…

— … spontanea.

— Le ragazze, sapete! E' una cosa così delicata!… — e Gaetanino, cui non isfuggiva l'ironia di quelle interruzioni, volse alla madre un rapido sguardo imperioso che parea dirle: A te!

— Giustissimo, giustissimo… — mormorava D˙ Anselmo, mal celando il rammarico.

— Non bisogna volergliene, povera creatura — sospirò finalmente donna Maddalena in tono conciliante. — E' per non lasciarci… per non andar lontano… Tanto affezionata, povera figliuola!

— Ma Radicena non è poi in America! — osservò argutamente D˙ Anselmo, convinto di aver trovato l'argomento decisivo.

— Eh, lo sappiamo… ma che volete? Sono ragazze. Venuto il momento di staccarsi dalle nostre gonne par loro d'andare in capo al mondo. Voi non avete figlie, donna Filomena?…

— E' dunque No?… — interruppe questa alzandosi bruscamente.

Gaetanino si levò anch'egli, si prostrò fino a terra:

— No?! Ma che cosa dite, signora mia! No, a voi?! Ma noi siamo felicissimi! onoratissimi! Tutto sta a convicere la ragazza. Vorrei esser io nei suoi panni: sposerei vostro figlio domani. Se volete che la chiami… se volete sentire da lei stessa… persuaderla… parlarle…

— Grazie, è inutile. Andiamo, Anselmo. — E donna Filomena si accomiatò con sostenutezza, mosse dignitosamente verso l'uscio, seguita dallo sposo contrito e accompagnata fin nell'anticamera dai salamelecchi di Gaetanino.

Poi che la porta si fu richiusa sul suo ultimo inchino, marito e moglie si guardarono in faccia.

— Hai capito? Non vogliono metter fuori la dote.

— Ma, come?… le duecentomila lire?…

— S! buone per attirare i gonzi. E sono stati parecchi! Non hai sentito? « Schiavelli, di Laureana; d'Ambrosio, di Pellaro; Giacometti di Bova… i più bei partiti della provincia! » E dopo aver rifatto alla perfezione il tono e il gesto ampollosi di Gaetanino, donna Filomena aggiunse fremendo: Dire che ci siamo capitati anche noi!

— Ma scusa… se il padre gliele ha lasciate, queste duecentomila lire, non gliele toglie nessuno.

— Non ti dico che non ci siano… ci saranno; ma non la maritano, fa dunque lo stesso.

— Chissà… tante volte… le ragazze… — obiettò D˙ Anselmo, al cui candore ripugnava l'ammettere certe perfidie umane.

— Euh! le ragazze sono tutte ad un modo. Pur di maritarsi, prenderebbero il manico della scopa. Eppoi, ti par verosimile che finora non le sia andato a genio nessuno? Già tu sei stato sempre un credulone, un babbeo, ma di quelli che bevono grosso! Senza di te non si sarebbe fatta questa bella figura! M' hai dato ad intendere che mancava soltanto la domanda formale, che saremmo stati accolti a braccia aperte… S'è visto!!

— Non puoi lamentarti dell'accoglienza… del resto hai sentito… hai capito… — e D˙ Anselmo s'arrestò, mortificato e confuso.

— Oh sì sì, ho sentito, capito anche troppo! — E, dominandolo con l'alta persona e modulando la voce nel tono di un'arietta, donna Filomena gli canticchiò nell'orecchio:

— Non vogliono metter fuori la dote! — Poi si ricompose di un tratto.

Un signore atticciatello, dall'abito nero abbottonato fino al mento, dal cappello a tuba e i guanti paglierini, si faceva da parte, sul pianerottolo, per lasciarli passare. Quell' abbigliamento straordinario colpì donna Filomena.

— Chi sarà mai? — bisbigliò all'orecchio del marito allorchè furono giunti a pie' della scala e il passo svelto dello sconosciuto risuonò su per l'ultima tesa. — Sembra un pezzo grosso. E che toletta… Che sia uno dei soliti gonzi?

Lo sconosciuto intanto tirava a sè il pomo di ottone del campanello pensando: Che faccie lun ghe! Chi saranno? Uccelli forestieri… Uhm! Bisognerà informarsi…

— Annunziate: il barone Costetti.

Maria Grazia, la vecchia serva tabaccosa e fidata lasciò il visitatore nel freddo salotto provinciale già tornato nella penombra amica delle persiane verdi, e, strascicando le ciabatte, se ne andò ad avvertire i padroni.

Poco dopo il ciuffo impomatato di Gaetanino si affacció ad un uscio, la sua maschera scialba si sporse, contratta da una smorfia dove il fastidio, la vanità lusingata e una vaga apprensione si combattevano, e infine tutta la persona di lui si slanciò, con simulata cordialità, incontro al visitatore.

— Barone gentilissimo! Quale onore è questo!

— Fastidio, piuttosto… E donna Maddalena? E la signorina?

— Tutti bene, grazie: ma accomodatevi, ve ne prego. Posso offrirvi qualche cosa? Caffè? Strega? Chartrosa?

— Grazie, non v'incomodate; vengo per affari. Ma già, da voi, si gradisce tutto…

Pur scambiandosi i complimenti d'uso, i due si squadravano come duellanti sul terreno. Il Barone era alla testa del partito liberale; D˙ Gaetano inastava ancora la vecchia bandiera del clericalismo intransigente, e, in seno al Consiglio, le due correnti venivano spesso in conflitto. Allora la spada del Barone mirava al petto di D˙ Gaetano; il pugnale di D˙ Gaetano mirava alle spalle del Barone, e, passata la bufera, le armi venivano rinfoderate, senza che gli avversarii si fossero stretta la mano.

In quei giorni appunto il partito fazzoliniano lavorava sott'acqua a scalzare il Sindaco per mettere al suo posto il Barone Costetti; poscia attaccar questo nella sua qualità di capo dell'amministrazione, esautorarlo, sconfiggerlo e, dopo aver messo, con lui, fuori combattimento il partito avversario, regnare, indisturbato, in sua vece. Ma i costettiani, furbi, facevano lo stesso gioco, insistendo per elevare alla dignità di Sindaco il duce del partito avversario, gioco cui la vanità di D˙ Gaetano offriva più facile bersaglio.

— Vengo a portarvi un ramoscello d'ulivo — disse sorridendo il Barone.

— Ma cosa dite! Noi siamo sempre stati in pace! Le lotte del Consiglio non ci toccano! Sono pochi facinorosi che si servono del mio nome e del vostro per fare e disfare… Adesso, per esempio, quel povero Sindaco!… — e D˙ Gaetano arrovesciò il capo sullo schienale della poltrona, ridendo di quel suo riso cortigianesco e sforzato che parea gorgogliargli nella strozza.

— Per carità! Non parliamo di politica! — interruppe il Barone con sincero orrore — con l'ulivo, vengo a portarvi un ramoscello d'arancio, non fiorito, ma da fiorire…

La faccia di D˙ Gaetano espresse più che mai l'apprensione e la gioia vanitosa cozzanti insieme.

— Sarebbe a dire?…

— Ecco, in due parole. Mio nipote Paolo, figlio del povero Giandomenico e di mia cognata Cristina che morì al parto, è innamorato morto di vostra sorella Anna Maria…

D˙ Gaetano s'alzò in fretta:

— Permettete… vado a chiamare mia madre. In simili faccende l'unica arbitra è lei. Già, in tutto! — e sparve per tornare, seguito dalla madre, qualche tempo dopo: più di quanto sarebbe stato necessario a chiamarla soltanto.

— Oh, Donna Maddalena, come si va? — e il Barone, ch'era uomo di mondo ed aveva trascorso la giovinezza in città, le baciò galantemente la mano.

— Eh! come volete che si vada?! Come vuole Dio! — E la signora sedè sospirando e stringendosi nello scialle di lana nera che uno spillo-medaglione con l'effige del marito morto le chiudeva sul petto.

— Dicevo qui a D˙ Gaetano che mio nipote Paolo è innamorato della vostra figliuola minore… E' una cosa che data sin da quando la signorina era interna dalle Salesiane e mio nipote frequentava il Liceo…

D˙ Gaetano corrugò vivamente la fronte, al punto che il ciuffo si abbassò fino alla radice del naso.

Inna… Come sarebbe a dire?… — mormorò la signora Fazzolini, la quale doveva fingere meraviglia, ma non sapeva che mostrare, nel viso terreo e rugoso di beghina, dove per forza d'abitudine la bocca sottile e gli occhi smorti serbavan l'impronta di una tristezza omai cessata, l'istintiva repulsione per quella parola innamorato che le sapeva d'eresia.

— Sarebbe a dire che mi manda a chiederla in isposa! — E il Barone, che amava le cose spicce, tirò un respiro di sollievo.

In quanto alla posizione finanziaria, ecco qui. Mio nipote non è ricco di suo: anzi, per dirla com'è, non ha la croce di un centesimo. Mio fratello era un'ottima pasta d'uomo, ma aveva un cuore tanto fatto, e con quel cuore lì si fa presto a rovinarsi… Basta: ripeto, non ha un soldo; s'è laureato in legge quest'anno, ha quindi una professione, dell'ingegno, molta buona volontà, ventidue anni, e un cuore che arde come un incensiere… A morte mia tutto quello che ho, sarà suo, non prima, perchè… è sempre figlio di suo padre, e tengo ad assicurarmi una vecchiaia tranquilla.

Aggiunse ridendo del suo riso bonario: — E non c'è pericolo che mi salti il ticchio di prender moglie: non son più corbellerie della nostra età!

— Gaetanì, parla tu… — gemè la signora Fazzolini gettando un'occhiata supplichevole al figlio. D˙ Gaetano ebbe un lampo di corruccio che si spense subito in un sorriso melato:

— Cosa volete che vi dica? Sapete bene che di queste faccende io non m'immischio… Per conto mio… felicissimo! onoratissimo!

— E' dunque cosa fatta?! — esclamò allegramente il Barone battendogli un colpo amichevole sulla spalla…

— Fatta veramente, no… — cincischiò Donna Maddalena, che sotto la sferza d'un secondo sguardo corrucciato aveva preso il suo coraggio a due mani — fatta veramente, no… bisogna che ci diate del tempo… Anna Maria… mi dispiace dirlo… è una ragazza che ha già le sue idee… educata in collegio, sapete!… Eh! purtroppo i tempi sono mutati! le ragazze d'oggi giorno non son più quelle di cinquant'anni fa!…

Durante quello stentato discorsino, D˙ Gaetano, col collo torto e un sorriso più stento ancora, andava crollando il capo come a dire che, purtroppo, non bisognava fidarsi; e intanto le dita nervose si ostinavano ad attorcere un baffetto che non v'era, nè vi sarebbe mai stato.

— E' cosi! — si degnò confermare vedendo che la madre non era in grado di tirare innanzi. — Mia sorella è una ragazza… un po' bizzarra. Non faccio per dire, ma ha avnto i più bei partiti della provincia: Schiavelli, di Laureana; d'Ambrosio, di Pellaro; Giacometti, di Bova… e oggi stesso — abbassò il tono — li avrete forse incontrati… ci è stata chiesta dai Gentile, di Radicena: conoscete? il cav. Anselmo e Donna Filomena Gentile…

— Garantisco io della signorina Anna Maria! — interruppe il Barone con un lampo di malizia negli occhi. — In quanto al tempo… non c'è fretta. Pensate, riflettete. Son giovani: possono aspettare!

E s'alzò per accomiatarsi.

— Oh! già, già… possono aspettare.

— I miei rispetti, Donna Maddalena. Si potrebbero ossequiare quelle signorine?

— Ma… veramente…

— Ecco — intervenne Gaetanino — Assunta è sempre in orazione… Prende i voti giovedi prossimo…

— Ah sicuro!.., Augurii! un milione di augurii! Già ero venuto anche per questo.

— Grazie! E Anna Maria è qui accanto dalla comare…

— Non le incomodate! Non mancherà occasione! Non mancherà occasione!

E il Barone se ne andò, brillando di malizia nella faccia onesta e gioviale.

— Perdio! Non ti credere di fare all'amore di nascosto! — ruggì Gaetano balzando in camera delle sorelle e stringendo ai polsi Anna Maria.

La fanciulla gettò un grido di dolore e d'ira.

— Credi che non sappia tutto?! La tua tresca col nipote del Barone Costetti? quello spiantato scialacquatore, figlio di scialacquatori! quell'avvocatuccio senza cause! quel morto di fame che fa gli occhi di triglia alla tua dote! Credi che non sappia tutto?! Una porcheria che dura da quando eri interna dalle Salesiane! Bel convento! bella moralità!! bella religione!!!

— Lasciami! — strillò Anna Maria retrocedendo fino al lettuccio e svincolando i polsi grassocci dalla stretta brutale.

Nel brusco moto repentino la massa dei riccioli neri s'era scomposta; e, col. viso acceso, gli occhi lampeggianti d'ira, la fanciulla lo fissava nell'atteggiamento ardito di un'amazzone giovinetta.

— Non ti credere di farmela… a me! — ghignò in tono più mite il giannizzero. — Non ti credere di svergognar la famiglia coi tuoi amorucci di contrabbando! In casa nostra una cosa simile! Oh!!! — e il suo sguardo, fremente d'indignazione, andò da Assunta, che se ne stava addossata al tavolo, bianca come un cencio, alla madre che l'aveva seguito fin lì, trepidante e smorta.

— Abbi pazienza, Gaetanì… non lo farà più… Anna, promettigli di non farlo più…

— Già la colpa è tua — aggiunse rivolgendosi alla madre, rabbiosamente — Sì, tua, tua! Avresti fatto meglio a guardarla!

— Hai ragione… ma adesso abbi pazienza… non t'arrabbiare… finirai con l'ammalarti! — E, più sconvolta da tale timore che da qualunque altra cosa, D˙ Maddalena lo sospinse dolcemente verso la porta donde egli uscì torvo, col ciuffo di traverso, più brutto e ripugnante che mai.

— Oh mamma! — mormorò la monacella, non appena fu uscito, giungendo le mani. E nei dolci occhi lagrimosi, nel viso soave di Madonna, palpitava l'orrore della scena brutale.

— Abbi pazienza, Anna Maria, ma son cose che non si fanno! — diceva intanto donna Maddalena avvicinandosi alla ribelle che non aveva ancora abbassato gli occhi. — Far arrabbiare quel povero cristiano! intendertela con uno scavezzacollo… e senza prima consigliarti con lui! Ricordati che il capo di casa è lui, che ti fa le veci di padre; ricordati che la Madonna, quantunque madre di Dio, in tutte le cose di questo mondo si rimetteva al senno di Giuseppe, sapendo che a lui solo erano concessi i lumi necessarii a guidarla…

Anna Maria la guardò a lungo, con uno sguardo pieno di cose: poi abbassò gli occhi, e tacque.

Le origini della famiglia Fazzolini erano alquanto oscure. Parecchi secoli fa, i Fazzolini erano calzolai, cioè mastri, di padre in figlio.

Colui che diede lustro al casato fu un certo Benedetto Fazzolini, il quale, fattosi prete e giunto in breve per la santità della vita a confessare i più cospicui cittadini del paese, aveva il suo posto fisso alla tavola del Castello.

Avvenne che, ammalatosi gravemente il fratello del feudatario, vecchio celebre per le sue ricchezze come per l'avarizia arpagonica, don Benedetto fu chiamato al suo letto. E l'assistenza, tanto materiale che spirituale, prestata dal degno sacerdote ispirò tal fiducia alla famiglia, lieta di sentirsi alleviato un penoso dovere, ch'egli venne lasciato quasi sempre solo al capezzale dell'infermo. E durante i lunghi colloquii in cui lo preparava a ben morire. D˙ Benedetto aveva finito col conoscerne, oltre i peccati, i segreti.

Una sera in cui l'avaro si sentiva peggio e il confessore era solo a vegliarlo, colui gli rivelò il congegno d'un ripostiglio segreto cui si accedeva per mezzo di una scala sotterranea e che, a suo dire, conteneva mucchi di zecchini e di piastre. Lo supplicava — lui morto — di non confidarne l'esistenza che al fratello primogenito: non prima — aveva soggiunto — per l'amor del cielo! che sarebbe capace d'ammazzarmi per impossessarsene più presto.

Talchè non appena, dopo qualche ora, il vecchio ebbe chiuso gli occhi per sempre, D˙ Benedetto dovè combattere una tentazione tremenda.

Non si sa se la lotta fosse lunga o breve; il certo è che nella notte oscura un'ombra nera fu vista uscire, curva sotto un peso enorme, e scivolar lungo i muri; poi tornare al Castello, far più e più volte quel viaggio, sempre curva all'andare e sempre ritta al ritorno. E soltanto all'alba, quando il ripostiglio fu vuoto, il prete diede l'allarme, fece svegliare il marchese, confessò, tra le lacrime, d'essersi assopito e d'aver avuto, al ridestarsi, la crudele sorpresa di trovar che il morto… era morto.

Gli eredi, delusi, menarono del fatto grande scalpore. Possibile che, avaro com'era, il vecchio non avesse lasciato che terre e case? E le rendite accumulate? E le pazienti economie? Qualcuno bisbigliò dell'ombra notturna vista scivolar lungo i muri; un sospetto sfiorò D˙ Benedetto; un altro, più grave, colpì una giovine fantesca che aveva avuto qualche familiarità col defunto; l'uno e l'altro caddero per mancanza di prove. E continuando D˙ Benedetto a confessare i più cospicui cittadini del borgo, i suoi fratelli a maneggiar spago e lesina con l'usata solerzia, le nipoti a tessere la tela occorrente alle loro saje di « Maddamme col shiaccato » e nessun segno di mutate sorti avvalorando i sospetti, le ciarle si chetarono, gli stessi eredi finirono col darsi pace.

La storia vuole che negli ultimi anni di sua vita D˙ Benedetto venisse travagliato da una malattia cardiaca cui non era estraneo il rimorso: infermità che gli aveva tinto il viso del colore dei zecchini rubati — diceva quel dell'ombra — e curvate le spalle robuste come se tuttavia le piegassero i sacchi delle piastre… Mah! il tempo è il tempo.

Scomparso lui, morti anche i nipoti, i pronipoti Fazzolini incominciarono a prosperare A poco a poco gli uomini lasciarono i calzoni di velluto castagno fermati sotto al ginocchio e il berrettone con la nappina per l'abito borghese, e, col costume paesano, anche lo spago e la lesina; le donne abbandonarono la saja da Maddamma per la crinolina del tempo, e con la saja anche la spola e il telaio. Gli uni fecero gli strozzini e poi gli agenti d'emigrazione, il che è forse lo stesso; le altre, da buone massaie, si dedicarono alla azienda domestica: bacchettoni tutti, il che non impedì a nessuno d'impiegar parte del contante lasciato dal bisavolo nell' acquisto di terre confiscate ai religiosi, per cui divennero in breve ricchi possidenti, e, al tempo in cui le domande di matrimonio fioccavano per Anna Maria, la famiglia Fazzolini occupava il primo posto nell' alta borghesia del paese.

Frattanto in quella famiglia di calzolai arricchiti s'era andata istituendo una specie di majorascato come nella più rigida e conservatrice aristocrazia feudale.

Eccettuato il primogenito che prendeva moglie, e con la moglie una bella cifra rotonda, i cadetti erano tutti votati al celibato e alla monacazione; nè s'era dato ancora il caso che qualche cadetto, maschio o femmina, si fosse ribellato alla tradizione crudele. Vi si piegavano anzi con tanta buona grazia, che si sarebbe detto, le fanciulle nascessero con la vocazione religiosa, così come i fratelli con l'avversione al matrimonio; e un odore di santità si diffondeva da quella casa potente e ricca, dove la vita trascorreva tra macerazioni e preghiere, nello sforzo di meritarne una migliore.

Il padre di Assunta, di Gaetano e d'Anna Maria Fazzolini, era stato un po' diverso dagli altri: anzi molto.

Aveva anch'egli sposato, è vero, come tutti i primogeniti Fazzolini, la fanciulla, con relativa cifra tonda, che gli avevano ordinato di prendere; ma era quasi un ragazzo allora, e, fattosi uomo, non avea tardato a pentirsene. Dotato di animo ardente, di vivida fantasia, aveva in parte colmato il vuoto del cuore e le lacune della mente, dandosi tutto a viaggi istruttivi e ad opere filantropiche; sì che, invece di arrotondare il patrimonio avito, da Fazzolini degenere, lo aveva assottigliato non poco.

— Fortuna che sia morto giovine — soleva dire con filiale rimpianto Gaetanino alla madre — altrimenti non ne restava un centesimo.

Per conto suo non c'era pericolo che il patrimonio scemasse! Se si trattava di far bella figura in pubblico non risparmiava il denaro, lo profondeva anzi con sprezzante larghezza; ma non avrebbe certo commesso la grulleria di viaggiar senza scopo, nè quella, ancor più grossa, di beneficare i suoi simili. Rispettoso delle tradizioni, non aveva mancato di ricusare, ora con un pretesto, ora con un altro, i partiti offertisi alla sorella maggiore, pur avendo cura di non iscoraggiare alcuno innanzi tempo, perchè non si sospettasse la mala volontà, ed anche perchè la sua vanità puerile si compiaceva d'aggiungere « una gemma alla collezione » o, come avrebbe detto Donna Filomena, un grano al rosario da snocciolare ad ogni nuova richiesta. Ecco perchè a ventisei anni, perduta ogni speranza di maritarsi, Assunta medesima aveva chiesto di farsi monaca, e Gaetanino aveva avuto l'aria di cedere, non senza rammarico, all' « irresistibile » vocazione della sorella. A favorir quella d'Anna Maria s'era pensato di chiuderla per tempo in convento, di dove era uscita qualche mese prima in tutto il rigoglio dei suoi diciotto anni, ardente, indocile, sensibile: tutt'altra da quella che Gaetano si sarebbe aspettata. Non per questo mutò egli propositi, e con lo stesso metodo freddo e vile usato con l'altra, andava ora scartando da Anna Maria i molti pretendenti, attratti dalla pingue dote e dalle virtù familiari della fanciulla, più che dalla fiorente bellezza, perchè in provincia, si sa, la bellezza delle fanciulle da marito conta poco. Nè la madre si opponeva all' esercizio di quel freddo, ipocrita dispotismo.

Donna di limitatissimo ingegno e di un'ignoranza assoluta, già da tempo avea concentrato in quell'unico maschio le mediocri forze affettive di cui disponeva il suo cuore. Rimasta vedova giovanissima, s'era da prima fatta una legge dei capricci del bimbo, poi degli arbitrî dell'uomo, non avea più pensato che col cervello di lui, non più agito che sotto la molla di quella volontà dominatrice: e lo ammirava, lo adorava, lo idolatrava in tutte le manifestazioni del suo ingegno e della sua tirannia. Egli trovava ciò naturalissimo. Fisicamente e moralmente era il tipo classico del prelato nato per farsi dondolare perennemente il turibolo sotto il naso, amante della buona tavola e delle ricche prebende, delle lente, beate chilificazioni attese con le mani sulla pancia, la pipa all'angolo della bocca; e se avesse potuto scegliere avrebbe senza dubbio abbracciata la carriera ecclesiastica.

E' però giusto riconoscere che, con tanta tendenza al Cielo, non aveva mai tentato sottrarsi all' imprescindibile dovere di prender moglie. Ma, dovendo farlo, sognava una dote quale nessun Fazzolini seniore avea mai sognato, la dote delle doti, il… milione. E, a furia di cercarlo nelle provincie limitrofe, era riuscito a scovarlo nella gobba di un'ereditiera bruttissima che pretendeva ipotecarla sull' intera proprietà Fazzolini, cosa cui non si frapponeva altro ostacolo che Anna Maria, avendo Assunta di già rinunziato alla sua parte d'eredità paterna in favore del fratello.

Ecco perchè al sospetto che la sorella minore gli ciurlasse nel manico, Gaetano avea sentito ribollirsi nelle vene il poco sangue che vi scorreva tra molta linfa.

— Oh Anna Maria! — aveva esclamato Assunta con indefinibile accento di rimprovero, non appena la porta si fu richiusa anche dietro la madre. — Non ho mai visto Gaetanino in quello stato! Che cosa gli hai fatto? E' vero quel che ha detto?…

— E' vero — confermò senza cinismo e senza viltà la sdegnosa Anna Maria.

— E' vero che tu?… di nascosto…

— Oh!!! — E nei grandi occhi oscuri e pur limpidi, punteggiati di luci come la superfice d'un lago al lume delle stelle, Assunta rivelò tutto il suo candido orrore per gli amorucci segreti.

— Bevi — le disse Anna Maria senza scomporsi. — Non vedi come tremi? Hai le labbra bianche come quelle d'una morta. — E le versò dalla caraffa ch'era sulla tavola, un gran bicchier d'acqua.

Assunta non bevve.

— Tu?!…

— Sì, io, io, cosa c'è di strano? Credi che voglia farmi monaca, anch'io? — E Anna Maria si avvicinò alla piccola toeletta ch'era accanto al balcone, strinse in un fascio la criniera ricciuta e s' industriò a riportarla sull'alto del capo. Ma nello specchio vide una tale onda di dolore scolorare il volto della sorella, che si voltò di botto lasciando ricader le chiome e corse a buttarle le braccia al collo supplicando infantilmente:

— Non mi far quella faccia, Susunta bella! Vedi, tremo anch' io… ma di rabbia! Perchè vi son di quelle cose che fanno rabbia! Si sì sì, proprio rabbia!

— Ma perchè non confidarti a Gaetanino… alla mamma? — chiese, più dolcemente, l'Assunta.

— Perchè? perchè? me lo domandi?! Ma perchè era inutile! — E, lasciandosi cadere sulla sponda del proprio letto, mentre Assunta le restava in piedi dinanzi, proseguì con fuoco: — Non hai dunque capito che cosa m'aspetta? Oh l'ho indovinato, sai, fin dal primo momento! Sapevo che mi si chiedeva in isposa… che si rifiutava sistematicamente… e a me non una parola, mai! Oh certo, li avrei rifiutati anch' io! — e gli occhioni sfolgorarono d'amoroso orgoglio. — Avrei detto No al Re di Spagna! Ma loro, scusami, non avevano le mie stesse ragioni.

— Che cosa intendi dire?… — mormorò Assunta temendo di comprendere — Sai bene che da noi non si usa d'informar le ragazze… Se hanno rifiutato, lo hanno fatto per il tuo bene… gli aspiranti non saranno stati degni di te…

— No?! E chi aspettano dunque?… Qualche Principe prezioso? Un Rajah indiano? Un Pari d'Inghilterra? Va là che sei la grande ingenual Come se per te non fosse stato lo stesso!

— … io ho sempre desiderato di farmi monaca.

Sempre?…

— Sempre… — Ma la voce era così fievole che appena s'udì.

— Scommetto che non hai mai visto il colore d'un tuo pretendente!

— Naturalmente. Che bisogno c'era?…

— Che bisogno c'era?! Ma noi non sognavamo d'altro, in collegio! Ciascuna aveva il suo tipo. Chi lo voleva grande, bruno; chi biondo e snello: tutte poi coraggioso e appassionato. Io non avevo bisogno di sognarlo: lo vedevo in parlatorio tutte le domeniche, quando veniva a visitare una sua cugina del primo corso…

— Chi?

— Ma lui, lui, Paolo Costetti!

Al nome amato il bel volto d'Anna Maria s'imporporò dolcemente, le piccole narici ebbero come un fremito d'ali.

Anche Assunta arrossì: — E non ti vergogni?…

— ma non v'era più ombra di rimprovero nella voce. Una tenerezza quasi materna le gonfiava il cuore per quella sorellina, minore di dieci anni, cui avea fatto da madre.

— Non me ne vergogno, no; non è poi un delitto voler bene a qualcuno!

Assunta tacque. Una curiosità tutta femminea la pungeva per quel romanzetto intrecciatosi accanto a lei e ch'ella non avrebbe mai osato, neanche vagamente, immaginare per sè. Un'audace domanda la tentò:

— E… gli vuoi molto bene?

Come tu non potrai mai capire, povera Assunta! — e l'innamorata s'alzò, mise un bacio nel collo della sorella divenuto di fiamma, s'avviò di nuovo allo specchio.

In quel punto s'udì un picchio all'uscio. La voce di Donna Maddalena chiamò, di fuori:

— Ragazze! A cena.

— Io non vengo — ribattè pronta Anna Maria.

— Perchè questo capriccio? — sussurrò Assunta mentre il passo della madre si allontanava.

— Non vengo, non vengo, non vengo!

Il passo risuonò nuovamente, la voce chioccia della signora Fazzolini comunicò la risposta:

— Dice Gaetanino di fare come ti piace.

Una pausa. Poi vedendo che Anna Maria si accingeva a spogliarsi, Assunta chiese a bassa voce:

— E che fai adesso?…

— Oh bella! Vado a letto.

— Bada a quello che fai: non conviene irritar Gaetanino.

La risposta fu una spallucciata. Allora la monacella si alzò, mosse lentamente verso l'uscio. Per la prima volta, al pensiero di ritrovarsi col fratello e la madre provava un senso di malessere, misto a ripugnanza. Ma si pentì, subito. Non bisognava esser umili e docili? Amar tutti? Obbedire?… E, dopo aver gettato alla sorella uno sguardo di pietà, d'affetto e di sgomento insieme, raggiunse i parenti nella sala da pranzo.

Da quella sera uno speciale servizio di sorveglianza venne organizzato intorno alla ribelle. Le fu proibito d'uscir di camera: Assunta ebbe l'ordine di non lasciarla un minuto: Maria Grazia di portarle i cibi senza rivolgerle la parola e senza rispondere alle domande di lei. Come misura repressiva e preventiva venne congedato il cocchiere, la cui figliuola aveva il torto d'esser nelle buone grazie d'Anna Maria e di bazzicare in casa Costetti.

— Ordine di Gaetanino! — aveva spiegato Donna Maddalena annunziando tali disposizioni alla figlia.

— Meglio così! — aveva risposto costei, facendo spallucce.

— Puoi però venire adesso a messa, in cappella…

— Grazie, ne faccio a meno volentieri. — E, in piedi innanzi alla finestra, Anna Maria prese a tamburellare sui vetri.

Rientrando Assunta più tardi a riportare in camera il libro da messa, la trovò che leggeva le orazioni, seduta presso il tavolo, con la fronte sulla mano. Voltava le spalle alla porta, ma udendo entrar la sorella, si volse di scatto col volto in fiamme e la bocca tremante:

— Oh senti! Questo poi è troppo!

Assunta credè che alludesse alla prigionia decretata da Gaetanino, mormorò sgomenta:

— Abbi pazienza… che farci?

— Oh, non per questo! Me ne infischio io dei loro guardiani e dei loro chiavistelli! Ma senti, senti, senti qui!

E, tolto dal libro di preghiere che le stava aperto dinanzi un foglio sgualcito, lesse concitatamente:

« Anna Maria del mio cuore!

« Così come eravamo rimasti, lo zio Leonardo s'è recato oggi dai tuoi per la domanda formale. Io volevo far prima tastare il terreno, prevenirli; ma lo zio era di parere che bisognasse prenderli di sorpresa, e i fatti gli hanno dato ragione. Tuo fratello s'è dichiarato felicissimo, onoratissimo, non ha arricciato il naso neanche innanzi al florido stato delle mie finanze, nè ha chiesto di passare in rivista i miei clienti… futuri.

« E' l'importante, mi pare, visto che sul resto non v'è troppo a ridire. Tua madre ha chiesto del tempo per consultar te. — Te! — che a quanto pare sei capricciosetta, difficiletta (cara la mia Anna Maria!) e, ora per una ragione, ora per un'altra, hai rifiutato i più bei partiti della provincia. So che oggi stesso hai fatto dir no a un certo Gentile, figlio unico, che metteva ai tuoi piedi la fattoria delle 'Rranche, il podere della Valletta, la tenuta di Spiricò e il palazzo di Radicena… vedi se sono bene informato?! Dunque affrettati a dare il tuo responso. Io l'aspetto… con placido cuore.

Tuo Paolo ».

— Capisci?!… — fremè l'innamorata ripiegando la lettera e chiudendosela in seno — Gaetanino felicissimo! onoratissimo! la mamma che chiede del tempo… per dir no! io… capricciosetta, difficiletta, che, ora per una ragione, ora per un'altra, rifiuto i più bei partiti… dei quali non mi s'è mai parlato! Non è troppo, ah dì, non è troppo?!

E la fanciulla, che la vigilia non avea versato una lacrima sotto l'impeto e le minacce fraterne, abbandonò il capo sul braccio, il braccio sulla tavola, e scoppiò in pianto dirotto.

— Non piangere, Anna Maria, non piangere! — gridò Assunta, tanto sconvolta dal pianto della sorella quanto da quella lettera dove la pura gioia di una bell'anima giovanile era resa più commovente dalla perfidia dei suoi. — Che cosa posso fare per voi? Tutto quanto potrò fare farò… Andrò dalla mamma… da Gaetano… parlerò… pregherò… ma non piangere, te ne scongiuro, non piangere!

Anna Maria continuava a singhiozzare, crollando il capo in atto di sfiducia.

— Tu intanto prometti di non far nulla senza dirmelo! — continuava l'altra — Di non fargli credere… di non fargli pensare troppo male di loro… Prometti! — Ma Anna Maria se la cavò con un secondo scoppio di pianto che non impegnava nulla, ed Assunta uscì per mettere in atto i coraggiosi propositi.

Giunse, col cuore che le batteva forte, all'uscio dello studio di Gaetanino, un ampio studio a terreno dagli alti scaffali, dalla scrivania monumentale, dove si distribuivano gli ordini ai fattori e si esigevano i fitti. Gaetanino vi stava chiuso con la madre a doppio giro di chiave, e, al secondo picchio discreto, si recò egli stesso, accigliato e torvo, ad aprire.

— Ah, sei tu? — Perchè hai lasciata sola Anna Maria?

— C'era Maria Grazia…

— E che vuoi?

— Dirti una parola… di premura…

— Bè, siedi e aspetta.

Assunta gettò uno sguardo nell'interno, vide la madre alla scrivania con la penna in aria e in volto la stanchezza di una fatica insolita, capì che stavano elaborando una lettera. E si lasciò cadere sulla sedia ch'era accanto all'uscio, con le gambe molli e le mani in grembo. Gaetano, tornato alla poltrona, frugava tra alcune bozze senza più curarsi della sorella, e quando ebbe trovato quel che cercava incominciò a dettare:

« Egregio signor Barone ».

— Egregio signor Barone… — ripetè Donna Maddalena la cui penna scricchiolava faticosamente sul foglio.

Sono veramente dolente…

— Dolente…

— … di dover rispondere con un rifiuto a' llonorevole proposta di vostro nipote.

Assunta fece un piccolo salto sulla sedia; la signora Fazzolini mormorò:

— Corri troppo… Aspetta.

all' onorevole proposta di vostro nipote — ri petè Gaetano — Punto. Avete finito?

— Non ancora… Ecco.

Mia figlia è troppo giovane per ch'io pensi digià a maritarla…

Nuovo movimento della madre, nuovo atto di impazienza del figlio, il quale proseguì, dettando:

Spero quindi ch'egli non vorrà insistere nella sua richiesta…

— … nella sua richiesta…

— … (la quale sotto ogni rapporto ci onora altamente) nè turbare oltre la pace di Anna Maria.

Lunga pausa, turbata soltanto dallo scricchiolio della penna che spezzava insieme due speranze, due cuori.

Poi Gaetano riprese:

Mi creda col più vivo rammmarico e la più perfetta stima, di Lei dev ma

Maddalena Fazzolini.

— Scusa… — obiettò timidamente Donna Maddalena quando quando ebbe terminata la firma — Non sarebbe meglio dire la verità?…

— Quale verità? — chiese il figlio aggrottando le sopracciglia.

— Ma… quella che hai detta a me. Che il nipote non ha un soldo… che la professione non gli frutta nulla nè gli frutterà per molti anni ancora… che non possiamo contare sull'eredità perchè il Barone è giovine e potrebbe ammogliarsi da un giorno all'altro… Come dar loro ad intendere che rifiutiamo perchè Anna Maria è troppo giovine? Io ho sposato tuo padre a diciassette anni, e, naturalmente, furono i miei a volere il matrimonia…

Gaetanino sorrise sdegnosamente.

— Si dice sempre così. Tutti sanno che il pretesto della gioventù maschera un rifiuto motivato da ragioni che non si voglion discutere…

— Ah… — fece Donna Maddalena mediocremente persuasa.

— Ma perchè rifiutare così recisamente? — azzardò Assunta che, con mani nervose, andava tormentando il grembiale di merinos nero.

— Che? Cosa c'entri tu? — E Gaetano, il quale aveva persino dimenticato la presenza di lei si volse, tra indignato e stupito: — Oh guardate un po' che ora mette bocca anche lei!

Assunta si sentì agghiacciare; ma, attingendo un disperato coraggio nel pensiero della sorella, continuò bravamente:

— Quei due… si vogliono bene. Non vi sarebbe modo di accontentarli? La dote d'Anna Maria darebbe loro tutto l'agio d'aspettare i clienti… che verranno, se è vero che il giovine è intelligente, di buona volontà… Eppoi… si potrebbe indurre lo zio a fargli un assegno… Io stessa… potrei mutare le mie disposizioni… rinunziare in favore d'Anna Maria invece che in favor tuo…

La voce, da prima esitante e fioca, s'era andata man mano accalorando, affermando, e alle ultime parole Assunta aveva levato in faccia al fratello i limpidi occhi che lucevano nel volto colorato di gentile emozione.

— Ah, la tua porzione? Rinunzia pure in favore di chi ti pare e piace! Non so che farmene della tua elemosina, ma non ti mischiare di ciò che non ti riguarda, pettegola sciocca! « Quei due si vogliono bene! » Sfacciata! Ti paiono parole queste in bocca d'una monaca? Sta a vedere che le sorti d'Anna Maria staranno a cuore più a te che a me! Il capo di casa son io, e finchè vivo saprò farvi rigar diritto… tutte quante siete! Per ora va da chi t' ha mandato e dille che si tolga cotesti grilli di capo o la farò pentire della sua ostinazione. A giorni sarà qui la zia Rosa per la tua vestizione, e al ritorno se la condurrà a Fabrizia dove l'aria è fina, la vita calma, e la compagnia di quelle sante donne varrà a maturarla come una sorba sulla paglia. — E in così dire, con piglio iroso ed occhi terribili, Gaetanino la cacciò fuor dell'uscio.

— E così?… — chiesero al primo vederla gli sguardi ansiosi d'Anna Maria che, per quanto si facesse poche illusioni, non avea potuto non aprire uno spiraglio d'animo alla speranza.

Assunta, con la bocca stretta, gli occhi pieni di lacrime, abbozzò un gesto desolato.

— Me l'aspettavo… — mormorò l'altra chinando il capo.

— E' meglio che tu ti metta l'anima in pace: Gaetano non darà mai il suo consenso.

— L'anima in pace io? Io?… Ah, come mi conosci poco!

— Ha detto che fra giorni sarà qui la zia Rosa, e ti condurrà con sè a Fabrizia perchè ti si maturi la vocazione.

— A Fabrizia con la zia Rosa?! — gridò Anna Maria vedendosi sorger dinanzi il piccioletto spettro della monaca segaligna e fanatica che, in un sogno medioevalmente ascetico s'era ritirata a vivere di radici e d'erbe in una specie di montuosa Tebaide, fra monache più vecchie e fanatiche di lei. — A Fabrizia con la zia Rosa! Ah, si sbaglia! Senti, cara — e, presa Assunta per le braccia se la mise dinanzi, le piantò gli occhi negli occhi. — O me lo danno… e più amici di prima. O io sono capace delle peggiori pazzie! Ricordalo: delle peggiori pazzie!

La zia Rosa fu la prima a giungere tra i parenti invitati alla cerimonia.

Tremante e curva sotto il manto nero dell'Addolorata, avvolta nelle bende monacali come in fasce funebri, ella racchiudeva nel piccioletto corpo l'indomita energia, l'accesa fede delle grandi fondatrici d'ordini religiosi. E invero con quel suo profilo d'avorio antico dove la bocca pallida metteva un taglio sottile, e gli occhi, profondamente incassati, brillavano di giovanile ardore, pareva discesa da una di quelle tele che il misticismo ispirava ai pittori cristiani del Quattrocento. Zia paterna dei nostri giovani, aveva subìto di buona ora la sorte comune alle donne della sua casa, convinta che quella tradizione familiare fosse fatale e provvida come una legge di natura, nè esistesse al mondo stato più invidiabile del proprio. Trascorse così la giovinezza tra il culto di Dio e il culto del primogenito, adorando il Signore e idolatrando il fratello, godendo fuori dell'illimitata libertà che le veniva dall' abito, ed esercitando in casa l' incontestata dittatura che Donna Maddalena non poteva rammentare senza raccapriccio. Era lei che, secondo l'uso, distribuiva le elemosine, teneva le chiavi della dispensa e del forziere; insegnava i lavori domestici e le preci ai nipoti; lei che usciva a qualunque ora per recar soccorso ai poveri, assistere i moribondi, prender parte alle funzioni di chiesa: sola e fiera, abbassando appena gli occhi bellissimi sotto gli sguardi ammirativi dei passanti.

E, sempre secondo il buon dritto che le veniva dalle costumanze, non si trattava affare, nè si stipulava contratto, nè si prendeva decisione alcuna senza consultarla, talchè nella bilancia di famiglia il parere di lei pesava assai più di quello della cognata.

Morto il fratello, tutto ciò non le bastò più. I tepidi affetti familiari erano insufficienti a colmare il vuoto lasciato da quell' essere tanto amato e il breve campo d'azione in cui s'era aggirata fino allora parve angusto alla sua forte individualità. Così il culto di Dio, omai senza rivali, le divampò in cuore con novello ardore, ed ella sognò spendere a servizio di esso le possenti energie accumulate, votargli un' opera grande e duratura. Ma quale?…

La zia Rosa si guardò intorno, constatò con orrore la rilasciatezza di costumi invalsa nella casta delle monache di casa, le quali ormai non vestivano l'abito se non per godere d'una libertà maggiore e d'un maggiore prestigio; notò l' inverecondia con cui abbassavano sempre più lo scollo della camicia col pizzìo(1) Pizzìo — pizzo all'uncinetto., la cura con cui ingrassavano i maiali, la larghezza con che usufruivano delle dispense largite dalla chiesa, e concepì l'ardito disegno di strapparle alla corruzione invadente, riportarle alle discipline austere, gloria del cristianesimo.

Entrata cotesta idea nel cervello della zia Rosa, vi si conficcò come un cuneo. Ella l' accolse come un'ispirazione celeste, la considerò una necessità dei tempi, un dovere di coscienza; e, comunicata la sua fiamma a poche amiche, si ritrasse a viver con esse sulla montagna coperta di neve. E lì, con le proprie mani, pose la prima pietra dell'edificio che avrebbe dovuto raccoglierle tutte, donde, come da focolare invisibile, l'antica fede avrebbe dovuto irradiarsi sul mondo scaldando le anime infiacchite dai mondani contatti, fortificando le virtù vacillanti per assenza di freno.

Da prima alcune monache, sedotte, più che dalle ardenti parole della zia Rosa, dalla promessa di aiuti pecuniarii ai parenti, la seguirono; ma presto, sgomentate dai rigori della montagna e dalle asprezze del cenobio erano tornate, una dopo l'altra, al paese. Nè la zia Rosa le trattenne. Aveva compreso che la fede dei nostri padri, la fede degli asceti e dei martiri, quella da cui scaturisce il miracola, era morta, ben morta, e nulla avrebbe potuto risuscitarla, mai più! Così il picciolo drappello si andò sempre più assottigliando, finchè accanto al monastero in costruzione, dove un gran sogno era sepolto, non rimasero più, oltre la fondatrice, che le due o tre fide le quali avean diviso quel sogno. E la zia Rosa pensava, non senza tristezza, che essendo nate prima, esse l'avrebbero forse preceduta nella tomba, e a vegliare sul morto sogno un giorno, lassù, non vi sarebbe rimasta che lei.

Come mutata dal giorno in cui v' era salita, piena di speranza e d'ardore!

I cilicii e i digiuni avevano flagellato, macerato, quel corpo un dì fiorente e bello; gli anni e i venti della montagna ne avevano incartapecorita la pelle; la delusione aveva scavato un solco agli angoli della bocca sottile, messo una durezza nuova negli occhi neri; ma nulla, nulla aveva potuto spegner la fiamma di quegli occhi, e anche a coloro che la giudicavano matta e ridevano della sua Tebaide, la zia Rosa ispirava tuttavia venerazione e timore.

I parenti l' accolsero con grandi segni di rispetto. Gaetano la mise a parte dei dissensi familiari, chiese consiglio; e alla povera monaca, prima di morire, toccò vedere anche questo: una fanciulla di casa Fazzolini che si rifiutava di contribuire alla prosperità della famiglia e al lustro del primogenito, che non trovava lo stato monacale il più nobile e degno cui una donzella potesse aspirare, e per la quale il fratello maggiore non era un essere soprannaturale, investito d'un dritto divino, unto da Dio come un re del medioevo, ma un qualunque mortale cui ci si potesse ribellare impunemente.

— Cosa sento, cosa sento, cosa sento! — esclamò levando al cielo le mani tremule. E promise di vegliare sulla nipote, di condurla a Fabrizia, e lì nulla trascurare per affrettarne la conversione, giacchè non v'è cuore, per quanto indurito, che la grazia non possa toccare e volgere a Dio.

I giorni seguenti trascorsero in preparativi di ogni sorta. La zia Rosa e Donna Anastasia, le madrine spirituali d' Assunta (il rito voleva che ce ne fosse più d' una) venivano a prender la monacanda mattina e sera per condurla in chiesa; Gaetanino erà occupatissimo a diramare gl'inviti; Donna Maddalena a preparar torte e rinfreschi per tanta gente, perchè, come Gaetanino soleva ripetere volentieri, in casa Fazzolini, le cose si facevano, o non si facevano affatto. Assunta poi viveva in estasi perpetua. A significare la propria rinunzia al mondo e ad ogni civetteria femminile aveva rialzato le morbide onde dei capelli neri che la incorniciavano il viso di un ovale allungato, e le aveva strette in due trecce sull'alto del capo. Quell' acconciature, scoprendo l' intero orecchio, l'imbruttiva non poco; ma l'usanza voleva così, ed Assunta vi si era piegata senza rammarico. Già da qualche giorno la majsta(1) Maestra, sarta che cuce le saje alle contadine. le aveva portato la saja bianca dal manto nero delle sacramentiste, e piegatala nella cesta insieme col soggòlo, lo scapolare e il crocifisso, l'aveva mandata in chiesa per la benedizione rituale. La sorveglianza s'era quindi allentata insensibilmente intorno ad Anna Maria. E' vero che, per non lasciarla sola in casa, la zia Rosa ed Assunta conducevano anch'essa in chiesa dove c'era sempre un accattone ad offrirle l'acqua santa, e, con l'acqua, un biglietto che la fanciulla si faceva sparire in tasca; ma la sera, quando tutti dormivano e la si credeva in letto, scivolava fuori senza strepito, correva ad una stanzuccia remota dove si relegavano i mobili rotti e i ferri vecchi e, aperta cautamente la finestrella, coi gomiti sul davanzale, cercava nell'ombra della vinèia (1) Vicolo. la nota forma ritta all'angolo della via, e fino a tarda ora era un fitto scambio di parole sussurrate senza vedersi, egli di giù, ella di sopra, con la voce bassa e tremula che acquistava in profondità, in tenerezza, anche l' espressione degli occhi che si cercavano invano. Durante il giorno la ragazza aiutava la mamma a disporre in bell'ordine la roba che giungeva da Reggio, a ravviare i salotti, a confezionare alcune torte speciali che formavan l'orgoglio della signora Fazzolini: calma in apparenza, ma coi pomelli accesi da una fiamma lieve, ma con l'ombra d' un pensiero tenace sulla fronte bianca.

La partenza con la zia Rosa non veniva nemmen più discussa: tutti avevano l'aria di ritenerla cosa stabilita, accettata dalla stessa Anna Maria, la quale andava preparando, non senza ostentazione, la poca roba da portare con sè. Quell'insperata docilità aveva alquanto placato la zia Rosa e strappato un sorriso di degnazione a Gaetano. In altre condizioni, Assunta non avrebbe mancato di commuoversene; ma, intenta com'era a rendersi degna delle mistiche nozze, non sapeva pensare ad altro che non fosse il gran giorno.

E il gran giorno sorse, con un sole radioso, un allegro scampanìo. Le due sorelle che, per ben diverse cagioni, non avevano chiuso occhio durante l'intera notte, ne salutarono l'alba dall'alto del terrazzino fiorito di garofani. I puri occhi d'Assunta si levarono alla cima del campanile di dove tanta sonora letizia si effondeva, mentre quelli più ardenti d'Anna Maria cercavano, nella distesa ampia dei tetti, un tetto ch'ella avrebbe riconosciuto fra mille.

— Come sarei felice oggi, se tu non partissi domani! — aveva esclamato Assunta cingendo d'un braccio la vita della sorella e appoggiandole il capo sulla spalla. Anna Maria trasalì.

— Che fàrci? E' necessario… Eppoi… tornerò presto… e allora non vi saran più disturbi.

— Ho tanto pregato, sai, in questi giorni per te… riprese Assunta cui erano sfuggiti e il sussulto e l' accento profondo della sorella. — Ho chiesto al Signore che te lo tolga dal cuore, o ispiri Gaetanino a dir sì… Egli può tutto, se vuole!

Poi, più piano, quasi timidamente: — La comunione di oggi, l'offrirò per te… — E subito senti stringersi il braccio, come per muto ringraziamento, mentre un fugace rossore saliva al volto, insolitamente smorto, d'Anna Maria.

Rientrarono. La zia Rosa e Donna Anastasia erano di già venute pel giuramento e la vestizione; bisognava essere in chiesa alle dieci in punto, ed Anna scappò ad agghindarsi altrove, lasciando Assunta sola con le madrine.

— Preghiamo! — disse la zia Rosa inginocchiandosi dinanzi all'altarino su cui pendeva un crocifisso di legno color caffè.

S'inginocchiarono: Assunta in mezzo, le madrine ai lati, così vecchie e curve che quasi toccavano, con la fronte, l'altare, mentre i manti neri si spandevano a terra come strascichi lievi. Per qualche minuto non si udì che il biascichìo delle preci, i colpi secchi risuonanti sui legnosi petti contriti. Indi la più anziana, Donna Anastasia, si levò, chiese alla monacanda, sempre inginocchiata:

— Siete voi decisa a tagliarvi i capelli?

— Decisa!

— E ad amar Cristo, e a darvi a lui interamènte?

— Sì, sì! — E, con l'agili dita, Assunta si sciolse le trecce; rigettò indietro, con brusco moto del capo, la massa dei capelli che la coperse tutta come un manto d'ebano. La zia Rosa brandì un enorme paio di cesoie ch'eran lì sull'altare, strinse in una mano le chiome, e con l'altra vibrò un gran colpo netto. L'acciaro lampeggiò, stridè nella viva seta: la massa oscura cadde in silenzio e giacque. Assunta avvertì un brivido nella nuca, scosse il capo divenuto a un tratto fresco e leggero, si guardò istintivamente nello specchio della toeletta, si trovò brutta, n'ebbe una impercettibile stretta al cuore. Le monache intanto toglievano dalla cesta gli indumenti benedetti, la vestivano degli abiti religiosi, e quando l' ebbero chiuso il mento nel soggòlo, questo ridiede al suo viso pallido la grazia soave di che l' avean privata i capelli. Poi le acconciarono sul capo il filandente di batista bianca, e sul filandente il manto nero, lieve come velo, lucido come raso. In fine le passarono al collo lo scapolare di castoro rosso che tagliava di strisce sanguigne il candore della tonaca e scendeva, lungo il fianco sinistro, in due stole sui cui lembi erano ricamati, in seta bianca, i simboli della passione: la scala, la croce, il martello, i chiodi. Sul petto, la sfera del Sacramento raggiava e splendeva come un sole.

— Oh Assunta! Come sembri un' altra! — gridò Anna Maria irrompendo in camera seguita dalla signora Fazzolini che veniva a prender la figlia per condurla in salotto.

E si arrestò quasi perplessa dinanzi a quella nuova figura di donna che le sorrideva, ritta in mezzo alla stanza, in atteggiamento imbarazzato e pudico. Poi, vista a terra quella cosa morta, si precipitò a raccoglierla con un grido:

— I tuoi capelli! Non li pettinerò più i tuoi capelli! E se li portò appassionatamente alla bocca, vi nascose il viso, scoppiò in pianto convulso.

— Matta! — masticò la zia Rosa seguendola con occhio severo mentre usciva portandosi via il suo tesoro. — Farebbe meglio a pensare all'animal

Assunta taceva, turbata, scossa fin nell'intime fibre. Il tenero grido della sorella le avea fatto di nuovo passar sulla nuca il gelo delle cesoie crudeli, svegliato alla radice dei capelli quel vago dolore che dà l'assenza d'un membro di fresco reciso.

« I tuoi capelli! Non li pettinerò più i tuoi capelli! » Era vero! Essi erano morti, e nessuno li avrebbe intrecciati, accarezzati!

— Non vieni? Son tutti di là, ad aspettarti.

Assunta si asciugò in fretta due lacrime furtive, seguì la madre in salotto.

Gli invitati erano al completo: vecchie zie, cugine zitellone, grasse comari, beghine, monache, una folla di tonache chiare e scure, di vesti sgargianti e di cappelli variopinti. Soli rappresentanti del sesso forte, un vecchio zio, fratello della signora Fazzolini, pien d'acciacchi e di soldi, e Gaetano, azzimato come un damerino, e affaccendato a disimpegnar degnamente i suoi doveri di padrone di casa.

All'entrare della monacanda fu un coro di lodi, di benedizioni, di augurii;

Ch'este bèja! Pare' a Madonna, fora peccato!(1) Com'è bella! par'la Madonna, a parte il peccato (del confronto sacrilego).

— Che tu sia benedetta, per quanti passi fai!

— Che il Signore ti faccia fiorire come un cespo di rose a Maggio!

Assunta ringraziava, confusa; ma era tempo di andare in chiesa, e Gaetano tagliò corto alle cerimonie annunziando che le carrozze erano pronte. Lusso cui convenne rinunziare, giacchè le strade in salita, irte di ciottoli e sdrucciolevoli per le piogge recenti, non si potevano fare che a piedi, e Gaetano lo sapeva bene; ma egli avea stimato opportuno far attaccare a due belle pariglie di morelli e di bai, perchè tutti potessero ammirare gli attacchi in cortile, e nessuno sospettar lui di voler risparmiare i cavalli. Fra i cocchieri imbronciati e i cavalli scalpitanti, le verginelle, bianco vestite, aspettavano in un leggiadro disordine, e quando tutti si furono riuniti a basso, venne formato il corteo: le bimbe innanzi; la monacanda dietro, fra le madrine; alle spalle i parenti più stretti, indi i più larghi; poi la corporazione delle monache di casa; infine un vero battaglione di ciollonàri e ciollonàre(1) Coloni e colone. dei beni Fazzolini — una pomposa idea di Gaetano, questa; — in coda il seguito dei curiosi, dei monelli, dei polli, che andava ingrossando per via.

Anna Maria s'era mescolata al gruppo delle cugine, ben felice di non sentirsi addosso, per la prima volta dopo tanto, gli occhi torvi di Gaetanino, nonchè quelli acuti e severi della zia Rosa.

Indossava un semplice abito bianco che modellava le forme pienotte; le anella dei capelli neri sfuggivano di sotto alla paglia di riso, messa un po' indietro; e, con le gote rotondette che neanche l'amore contrastato era riuscito a sfiorire, gli occhioni lucenti tra le palpebre arrossate, la bocca vermiglia e tumida, si sarebbe detta la vivente immagine della Primavera.

Il popolino veniva sul davanti dei bassi a godersi lo spettacolo: i borghesi, in segno d'omaggio, avean messo drappi e coperte ai balconi; e, a render la scena più vivida contribuiva il sole, il sole che rideva nel fresco cielo primaverile, negli occhi delle donne e fin nelle pozze d'acqua lucenti tra sasso e sasso. Alla vista di Gaetanino, tronfio e pettoruto nell' abito nero, sotto il cappello a stajo, i monelli si davan di gomito sghignazzando: Frittellone! Ecco Frittellone! E gli venivano intorno per buscarsi le manciate dei soldi ch'egli distribuiva con ostentazione, salvo a metterli in fuga con uno Sciollà! quando non si credeva osservato.

Così giunsero sul sagrato, dove altra gente si assiepava per entrare col corteo e prendere i posti buoni. La chiesa era parata a festa, con molti drappi rossi a frange d'oro e un tappeto che correva dalla porta principale al cancelletto dell'abside ai cui lati erano disposte sedie per la monacanda, per la madrina, pei parenti e per gli invitati di maggior riguardo.

Non appena tutti ebbero preso posto, l'organo miagolò le prime note di una messa cantata; i sacerdoti officianti vennero fuori nei fulgidi paramenti delle feste solenni, presero a salire e a scendere dall'altare, a mani giunte, a passeggiarvi dinanzi con molti inchini, arrestandosi ogni tanto dinanzi al vecchio leggio di legno scolpito su cui era aperto il messale per cantare, con voce nasale, i versetti cui pochi pretil rubicondi, dal coro, rispondevano a gola spiegata.

Anna Maria aveva preso posto accanto al pilastro di sinistra contro cui si addossava un giovine biondo e snello, dalla vasta fronte intelligente, dal viso tormentato di passione. E subito gli occhi azzurri di lui si tuffarono, con un fremito amoroso delle pupille, in quelli neri e scintillanti di lei, vi cercarono e n'ebbero la conferma di una divina promessa. Poi il giovane si staccò dal pilastro, si allontanò in silenzio, dileguando nell'ombra d'una cappella laterale.

La funzione si svolgeva con opprimente lentezza fra la disattenzione dei fedeli, nell'ambiente brulicante e sussurrante come un alveare.

Grande era l'interesse destato dalla monacanda: tutti si spingevano per vederla, sfiorarla, e se le madrine non l' avessero protetta dall' invadente curiosità della folla, la povera fanciulla ne sarebbe rimasta soffocata.

All'elevazione si fece un silenzio profondo; ma all'appressarsi dell'Eucarestia, un nuovo e più largo fremito fece ondeggiare la folla. Assunta si levò per la prima, seguita dalle madrine; andò ad inginocchiarsi davanti alla balaustrata, nel centro. E subito, da tutti gli angoli della chiesa, con grande stridore di seggiole accompagnato da strascicare di piedi, colpi di tosse e tintinnar di rosarii, le monache di casa sorsero, si fecero largo tra la calca per avvicinarsi all' altare.

A destra e a sinistra di Assunta, si formarono una, due, tre file di donne genuflesse, fitta siepe di tonache chiare e scure, dove il candore delle Sacramentiste si mescolava al bruno austero delle Francescane; i manti azzurri delle Immacolatine ai veli neri delle Addolorate. E su tutte quelle teste prone e quelle anime oranti, l'ostia si levò tremolando fra le dita del vecchio prete.

Il momento era solenne. Quella comunione aveva per Assunta il carattere spirituale di una consacrazione, doveva essere la conferma dei voti, se voti poteano dirsi, pronunziati al mattino. E le monache tutte che la ricevevan con lei, erano testimoni delle mistiche nozze: unite in ispirito con la nuova sorella in Dio, avrebbero goduto delle stesse grazie di cui Nostro Signore la beava in quel punto. Il rito non esigeva altro.

Oh sublime semplicità della fede! Prima di quell'attimo, ella era ancora una donna libera, legata alla vita per mille vincoli; dopo, non si sarebbe appartenuta più. E niuna mano d'uomo, per quanto sacra, avrebbe stretto quel nodo, niuna formola, per quanto solenne, ne avrebbe turbato il mistero.

Così, mentre il miracolo si compiva, Assunta implorò con umiltà, con ardore: « Oh Signore lo sono la sposa, l'ancella vostra: da questo momento la vita mia vi appartiene. Fate che sia degna del Cielo! » Aggiunse, con egual fede: « Se una grazia può essermi concessa, oggi, non per me, ma pei meriti del vostro Sangue Prezioso, fate che Anna Maria sia felice ».

E tornando al posto cercò gli occhi la sorella — per dirle che l'offerta era stata fatta, la promessa mantenuta; ma, nella nube d' incenso che velava in quel momento la chiesa, le parve — le parve! — che la seggiola di Anna Maria fosse vuota.

Intanto la fitta siepe di comunicanti s'era diràdata per lasciar posto ad altre, altre ancora; nuovi fantasmi continuavano a sorgere d'ogni lato, a trascinarsi, fra lo stridere delle seggiole e il tintinnar dei rosariî, all'altare. Pareva non dovessero finir mai: erano duecento, le monache, e si sarebbero dette mille. Finalmente la processione si arrestò: la messa finì tra gran colpi d'organo, cui la banda comunale accordava, bizzarramente, le note briose di una polka. Poi il confessore di Assunta (lo stesso che l'avea guidata e diretta durante il noviziato, preparata al gran passo) salì sul pulpito e di lassù con voce calda e giovine, un forte accento calabro, incominciò: « Signori! Fra tanto imperversare di soppressioni religiose, le quali violano il più sacro diritto di un'anima, quello di aspirare come meglio crede alla sua perfezione, è bello l'esempio di queste vergini nostre che, non potendo fuggire le miserie e le tentazioni del mondo per la pace del chiostro, si fanno un rifugio dell'anima giovinetta e tutta la consacrano a Dio ».

Continuò celebrando la voluttà della rinuncia la forza della castità, la gioia della preghiera, mentre tutti pendevano dal suo labbro trattenendo il respiro.

Assunta ascoltava ad occhi bassi, le mani congiunte in grembo: il respiro le si faceva sempre più corto, per la commozione, e quando il predicatore si rivolse a lei, direttamente, per ammonirla, confortarla, esaltarla, un singhiozzo le sfuggì dal petto, echeggiò sotto le navate.

Non l'avesse mai fatto. Il contagio si propagò, dal primo all'ultimo banco della Chiesa, con la rapidità del fuoco ad una striscia di polvere accesa ai due capi. Le duecento monache presero a singhiozzare come una monaca sola; la signora Fazzolini pianse, le madrine piansero, i parenti piansero; piansero gli estranei; uomini, donne, vecchi, fanciulli.

Fortunatamente il sermone si chiudeva con un caldo elogio della famiglia Fazzolini « modello, esempio d'ogni cristiana virtù, di quella famiglia Fazzolini nella quale era tradizionale il culto alla fede dei nostri padri, così come n' erano tradizionali la virtù delle donne, l'austerità degli uomini… » e Donna Maddalena si asciugò le lagrime e Gaetanino, visibilmente soddisfatto, approvò affondando più volte il doppio mento nel colletto insaldato.

Finita la predica, la porta della chiesa si aprì a due battenti e il corteo ne uscì, tra lo sparo dei mortaretti, nello stesso ordine con cui vi era entrato. Ma giù per le viuzze soleggiate, dai ciottoli erti e sconnessi, l'ordine non tardò a scompigliarsi: le verginelle, intente a ciarlare e a rider fra loro, perderono presto la fila; i parenti affrettarono il passo, impazienti di giungere alla casa ospitale dove li aspettavano i rinfreschi; le monache mescolarono i manti e i veli senza alcun riguardo per la gerarchia monachile mentre i battaglioni dei coloni e delle colone, disposti secondo il sesso — gli uomini avanti, le donne dietro — si fondevano in un sol reggimento.

I mortaretti scoppiettavano gaiamente lungo il percorso, quasi sotto i piedi d'Assunta e del seguito, empiendo l'aria di nuvolette e gli occhi di fumo; il crepitio degli spari si confondeva con le metalliche sonorità degli istrumenti musicali: dalle finestre, sulla bianca figura della novella monaca, sul corteo a metà sbandato, piovevan grano, confetti e fiori. Altro grano, altri confetti, altri fiori salutarono Assunta all'arrivo, e altra gente era raccolta ad attenderla nella casa dove un insolito soffio di vita pareva aver fugato il vecchio tanfo d'incenso e di muffa.

Tutti la baciucchiavano, la felicitavano, mentre le domestiche portavano in giro enormi vassoi carichi di « formette » gelate: coloro che avevano preso parte alla cerimonia ne raccontavano i particolari animatamente, e quelli che non v' erano stati, ascoltavano con interesse, rallegrandosi in cuor loro d'aver evitato il sole, la salita, la confusione, la messa e il sermone.

Assunta rispondeva appena ai complimenti e agli augurii. Gli occhi, illanguiditi dalla stanchezza, e pur avidi d'un viso caro fra tanti visi indifferenti, cercavano Anna Maria senza riuscire a scoprirla. E intanto pensava con terrore al banchetto di cento coperti che le sarebbe toccato presenziare più tardi, alle funzioni di vespero cui non avrrebbe potuto mancare, alle visite da ricevere il giorno dopo, giacchè, secondo l'uso, quella stessa gente sarebbe tornata a portarle rosarii, scapolari, medaglie, tutt'i doni di rito, ed ella avrebbe dovuto ammirare, ringraziare, lasciarsi di nuovo baciucchiare e felicitare da tante bocche. Perchè soltanto dopo quella visita di rigore sarebbe incominciata la nuova vita.

— Sapete dov'è Anna Maria? — chiese, passando accanto alla madre, la quale divideva le sue attenzioni fra le degne matrone assise sul divano come tozze cariatidi — l'ho perduta di vista in chiesa. Che le sia venuto male? In quella confusione!

— Sarà andata a dare un'occhiata al pranzo — rispose la signora Fazzolini senza scomporsi; e, chiestane licenza alle venerabili signore, le quali andavano alternando il racconto di una monacazione alla ricetta di una conserva di frutta, un cucchiaino di sorbetto a un sospiro, scese nello studio a terreno adibito per l' occorrenza a sala da pranzo.

Un esercito di fantesche in costume del paese si affaccendavano intorno alla lunghissima tavola dove il rubino dei vini rossi e il topazio dei vini bianchi scintillavano tra i « piattini di rinforzo » e le fritture dolci.

— Avete visto la signorina Anna Maria?

— Nossignora. Qui non è venuta.

— Sarà in camera sua — pensò la signora Fazzolini, risalendo le scale.

In salotto, Gaetanino dirigeva il movimento di rotazione delle enormi guantiere cariche di confetti, di canditi e di biccherini d'ogni colore, con la solennità del Padre Eterno, regolante il moto degli astri. La madre lo fermò per susurrargli qualcosa all'orecchio, e alle prime parole il giovine divenne orribilmente pallido. Ricordava di non aver visto la sorella far parte del corteo, al ritorno, nè di averla ritrovata tra la folla degli invitati, all'arrivo.

Un dubbio atroce gli traversò lo spirito, mise un lampo negli occhi biechi.

— Non ti spaventare, sarà in camera sua…. balbettò la madre sbigottita. — Salgo a vedere.

— No: resta qui, tu: vado io. — E, d'un salto, varcò la soglia, fece a quattro a quattro le scale, corse all'uscio, lo spinse… ma la camera d'Anna Maria era vuota.

— E adesso?… — chiesero ad una voce gli assidui della farmacia del « Gallo d'oro » dove la fuiuta.(1) Fujuta — fuga. era stata variamente commentata, circondando il Barone Costetti che appariva in quel punto.

— Adesso… — il Barone sorrideva, riassumendo la situazione col suo tono di malizia bonaria: — Adesso bisognerà bene che la mettano fuori, la dote!

Ad Antonio Fogazzaro.

I nipoti, Don Stefano e Don Gregorio, avean presa di assalto la casa dell'arciprete. Era una cupa sera di dicembre, tutta lampi e saette, e il vento muggiva turbinando per l'unica piazza di S˙ Stefano, rotava intorno al palazzotto, posto sull'altura, quasi volesse scrollarlo dalle fondamenta.

La potente Perpetua, da trent'anni signora e padrona del luogo, era stata ghermita e chiusa in uno sgabuzzino buio, pochi vani distante dalla camera dove l'arciprete, immobile nella sua poltrona a rotelle, trascinava i giorni contatigli dalla paralisi progressiva.

Il marito della serva, Rocco Lucà — un marito da burla impostole dall'arciprete per coprire il lungo concubinato — era da qualche giorno fuori paese; i figli di costui — suoi davanti alla legge, dell'arciprete dinanzi all'opinione pubblica — erano rimasti, sequestrati dalla neve, in campagna; sicchè, favoriti dal caso, dalla notte, dal vento, i nipoti erano penetrati nella cittadella, risoluti a mantenervisi, con la violenza e con la legge.

Ora, ritti uno di fronte all'altro nella stanza che precedeva quella dello zio, quasi timidi e un po' stupiti della loro stessa audacia, i due fratelli si consultavano.

Oh! erano tranquilli! Gli uomini assenti, la donna chiusa a doppio giro di chiave, lo zio inchiodato nella poltrona in uno stato d'impotenza assoluta… Di lì, per l'uscio aperto, lo avevano di continuo sott'occhio, enorme nella vecchia sottana stinta, con la larga faccia giallastra e scialba irraggiata da una corona di capelli bianchi: sola cosa nobile in quel corpo degradato dal male, morto innanzi tempo.

Immoto e sacro come un Bouddha d'avorio antico, con gli occhi perduti nel gonfior livido delle borse, e i piedi, rigidi nelle larghe pantofole, poggiati sul treppiedi di legno d'un braciere, evocava l' immagine d'un di quei mostri assisi sul limitare dei templi indiani; e i nipoti, guardandolo, avevano l'impressione che al primo tocco quella massa flaccida dovesse disfarsi, scomporsi, orrendamente.

Dall'alto del cassettone un lampadino d'ottone a più becchi diffondeva intorno una luce incerta, rischiarando in pieno i piedi del paralitico, cui i nipoti lanciavan di tratto in tratto uno sguardo diffidente, quasi temessero di non ritrovarli più lì. Col vento, giungeva, or sì or no, il lamento fioco della nemica.

Quel lamento li metteva di buon umore. Perbacco! Pensare che quella volpona lì era riuscita a tenerli venti anni a distanza! Mica una bazzecola: venti anni! Essi! i nipoti! gli eredi! Ma ormai la cuccagna era finita: oh, se era finita! e si guardarono con un lampo di cattivo trionfo negli occhi biechi.

Erano due brutti ceffi. Don Gregorio, biondastro, tozzo, con una larga bocca sgangherata, un naso troppo piccolo che correva nel verso della bocca, un ventre maestoso tutto ciondoli d'oro, era il vero tipo del gaudente usuraio e cretino. Ma la sua caratteristica eran le mani: due mani enormi, pelose, bestiali, che gli pendevano lungo i fianchi, inerti.

L'altro — una figura allampanata cui l'abuso dell'alcool imprimeva un moto di perpetua agitazione — aveva un lungo volto verdastro reso più spettrale dai lunghi baffi alla cinese. Non parevan fratelli che per gli occhi: due occhi piccolissimi, bruttissimi, fuggenti fra le tempia depresse. E i fraterni occhiolini giravano di continuo, ficcando ovunque lo stesso sguardo irrequieto e rapace.

Mancavan di lì da quando, fanciulli, vi si recavano con la mamma a corteggiare lo zio prete. Lo zio era allora un pastore tutt'altro che cristianamente mansueto, un buontempone corpulento e pletorico che, come l'Innominato, se usava far dei soprusi, non ne aveva però mai tollerati. Nelle domeniche e nelle « feste ricordate », lo zio li teneva a pranzo. Che bengodi quei pranzi esuberanti di lasagne al sugo, di pollastre arrosto, di salsiccie, di frittole, i quali finivano in una scorpacciata d'alàci, di nacàtale, e di quante altre fritture dolci formano il sostrato della cucina paesana! Pranzi ch'era una festa l'aspettare, il ricordare una voluttà: tutta la voluttà, tutta la festa della loro infanzia buia.

La mamma in quei giorni girava per casa col mazzo delle chiavi in mano, cavando dagli armadi la biancheria damascata con la cifra dell'arciprete, e il gran servizio di porcellana a roselline, e l'argenteria famosa di cui ogni posata pesava una libbra. La Maria Rosa, allora in tutta l'esuberanza della sua beltà montanina, le veniva dietro con dei: Sì, gnora padrona. Come comanda, gnora padrona, spiranti l'umiltà più servile.

Poi eran tutti andati in America dove il padre, inventore di non so qual macchina idraulica, sognava di far fortuna ed era morto prima di averla fatta. Stefano e Gregorio aveano tentato mille mestieri, mille vie, dal banchiere al lustrascarpe, dall'antiquario al cerinaio, s'erano mescolati alla feccia della colonia, erano discesi negli infimi strati sociali, finchè, sepolta la loro chimera nel fango, non s'accorsero che il partito più savio era quello di tornare in patria. Ed ecco, come per colpo di bacchetta magica, trovar tutto cambiato: la serva diventata padrona, il marito spadroneggiante anch'esso; un branco di figlioli, il palazzotto sbarrato; e intorno ad esso gente ligia alla coppia o timorosa; lo zio rammollito dagli stravizii, mutato così da rinnegare il suo stesso sangue. Ma lontana, preclusa, la casa splendeva nella loro memoria come un castello incantato dove la distanza e la privazione andavano accumulando favolosi tesori.

Di alcuni luoghi non serbavano che confusi ricordi: di altri, come del granaio dove avean giuocato a rimpiattino, come dei salotti dalle consolles di legno di rosa, dove in vasi d'alabastro ridevan frutta che parevan vere, come della camera dello zio, tutta santi e madonne sotto campane di cristallo, essi ricordavano fin le più minute bellezze.

Ora le vôlte delle stanze parevan loro più basse, il salotto meno sfarzoso, la casa, nel complesso, meschina; persino le frutta che parevano vere ed i santi sotto le campane polverose avevano preso un colore di vecchiezza che li rendeva irriconoscibili; talchè al trionfo di Stefano e di Gregorio si mescolava come un sapore di delusione.

Stefano fu il primo a scuoter l'inerzia che li aveva intorpiditi dopo l'azione.

Disse bruscamente: Aspetta che vada a farmi un'idea. Prese il lucernino, e disparve.

Gregorio rimase al buio. L'usata mano non aveva chiusi, quella sera, gli scuri del balcone, e per le imposte crocchianti filova un'aria d'inferno che faceva gonfiar come vele le tende di merletto insaldato. L'urto di una folata più gagliarda le faceva garrire e palpitare un istante come grandi ali inquiete, poi abbattersi con un colpo secco greve d'amido. Lampi lividi rompevan le tenebre, rischiarando la ringhiera panciuta del balcone, la piazzetta sottostante, il campanile della chiesa madre, massiccio e quadrato come una torre aragonese e i tetti del borgo che scendevano, gli uni a ridosso degli altri, e si avvallavano giù, nel cuore del villaggio. In piazza, il libeccio facea ballare un sabba vorticoso alle immondizie, alla polvere e a quanto altro gli riusciva di racimolare in giro: un lungo sibilo annunziava, di tanto in tanto, un nuovo assalto alla casa. Notte malaugurosa, notte di delitto e di tregenda.

Don Gregorio vi si sentiva a disagio. Quell'alternarsi di tenebre e di chiarori, quel garrir delle tende, quel lamento umano che tornava, ostinato e lugubre, tra un ululato e l' altro del vento, tutto contribuiva a mettergli un freddolino per l'ossa e un senso di sgomento nel cuore. In piedi dietro i vetri, con gli occhi perduti nella notte, seguiva il corso dei suoi pensieri, voglari e torbidi come egli era. E pensava i'indomani, il rumore che, alla notizia del « colpo », si sarebbe ripercosso in paese, il rispetto che ne sarebbe ridondato su loro, il novo timore che avrebbero incusso a tutti. E mentre il guizzo bieco d'un lampo scopriva ai suoi occhi quel lembo di terra ch'era tutto il suo mondo, a lui già pareva di dominarlo, quel mondo, dall'alto del palazzotto; di portarvi, da sindaco, tra le scapellate e gli inchini, il ventre maestoso abbarbagliante di ciondoli; sfogar le ire e consumar le vendette meditate in venti anni d'inferiorità e di miseria: tutto un gretto, orgoglioso sogno di dominio, che consisteva nel far man bassa sulle magre cassette del Comune e sull'appetitoso gregge delle contadine.

Perchè ormai potevano tutto permettersi: erano ricchi. Ricchi! E Gregorio fece un calcolo, approssimativo, per stabilire a quanto ammontasse la fortuna dello zio. In paese la si faceva ascendere a parecchi milioni; ma in casa di Don Gregorio, dove tal calcolo era stato fatto le mille volte, non si era mai riusciti a farle sorpassare i duecentomila ducati.

Duecentomila ducati, dunque. Equamente divisi tra Stefano e Gregorio, costituivano a ciascuno una ricchezza considerevole.

Gregorio sapeva anche, per sentito dire, che tal ricchezza era tutta in cartelle al portatore e in piastre borboniche, accumulate — dicevasi — al tempo in cui l'arciprete faceva da manutengolo ai briganti. Infatti, di beni al sole lo zio non possedeva se non una vigna detta « La vigna della Corte » e questa casa « il Palazzo » fabbricata forse con le piastre brigantesche.

Giunto a tal punto delle sue riflessioni, Gregorio pensò che il fratello tardava troppo e un'inquietudine to punse.

— Come mai non torna quell'animale di Stefano?… Cosa diavolo avrà trovato di così?… Che sia morto di paura per via?…

Avrebbe voluto sorvegliarlo, seguirlo nel lungo giro d'ispezione, ma non osava avventurarsi fra quelle tenebre piene di voci.

Il freddo era così intenso che i denti incominciavano a battergli — e non di freddo soltanto. I piedi non li sentiva più. Li picchiò vigorosamente in terra, uno dopo l'altro; si fregò le mani; tossì; ripetè forte: — E perchè non torna quell'animale di Stefano, perchè non torrr… — ma la voce svegliò un'eco lugubre, sotto quelle volte, e il resto gli rimase tra i denti.

Allora prese una risoluzione eroica. Si staccò dal balcone e mosse diritto alla stanza attigua, guidato dal chiaror fosco del braciere che rosseggiava ai piedi del paralitico.

Si chinò, non senza un brivido di ribrezzo, a cercarne i manici, mentre le mani tremanti sfioravano invece quei piedi rigidi nelle larghe pantofole, e il respiro del vecchio gli alitava greve sul capo: trovatili, sollevò il braciere di colpo e tornò, correndo, accanto al balcone. Gli pareva di sentirsi addosso quegli occhi non visti, ma sentiti nell'oscurità, e a tal pensiero il cuore martellava forte, le gambe cedevano a un'invincibile voglia di correre. Infine, mentre una ventata mandava a ruzzolar nella piazza l'ultimo testo di garofani che ancora ornava il balcone, i passi di Stefano risuonaron nell'andito. Gregorio vide brillare un lumicino, si rincuorò. Era proprio il fratello, con una candela accesa nella mano destra, un prosciutto nella sinistra, una bottiglia polve rosa sotto ogni braccio. Aveva gli occhi lucidi, la bocca piena.

— Guarda che grazia di Dio! Un colpo di vento m'ha spento il lume, ma in dispensa ho trovato alcune candele e delle provviste da sfamare un reggimento. Sono sceso fino in cantina. Vedessi come si trattavano, i vecchi! C'è del Greco, del Corvo, e un Cognac da far risuscitare i morti. Eccolo. — E, attaccatosi al collo fuligginoso d'una bottiglia, ne tracannò un lungo sorso.

— E dove hai trovato le chiavi? — chiese Gregorio, tra la diffidenza e l'ammirazione.

L'altro fece schioccar la lingua: sentenziò, disse con placido cinismo:

— Caro mio, quando si detronizza un sovrano, la prima cosa che gli si toglie è lo scettro. Ma tu pensa a mangiare. Dopo ci sarà da discorrere; domani vuol essere la gran giornata! — Posate le bottiglie su d'un tavolino zoppo, presero a mangiare in piedi, avidamente. Le capaci tasche di Stefano rigurgitavano di ben di Dio. Ne venne fuori una provola, due salsiccie, quattro biscotti, otto mele gelate e un pugno di frutta secche.

Gregorio beveva poco e mangiava molto; Stefano beveva molto e mangiava poco.

Intanto discorrevano.

— Lascia fare a me — assicurava Stefano. — I carabinieri sono avvertiti. Abbiamo il Pretore e il Sindaco dalla nostra. Domani verrà anche la mamma. L'importante è d'esser dentro. Va là che quel camorrista infame di Rocco Lucà troverà un bel piattino, al ritorno!

— Come quello che fece trovare a noi.

— Una volta l'uno.

— Povero vecchio, in che mani era capitato! — sospirò ipocritamente Gregorio.

— Puh! te l'avranno pelato vivo.

— Ma adesso ci siamo noi…

— … e guai a chi gli torce un capello.

— Ma la vecchia? cosa conti far della vecchia?

— Liberarla, se non fiata. Se fiata… — e le mani di Stefano ebbero un tremito omicida. — Ma non aver paura, non fiaterà.

— E lo zio?…

— Se gli resta un barlume di ragione, dovrà esserci grato. Che diamine! Gli ridiamo una famiglia, la sua famiglia!

Gregorio disse: — Ti ricordi? Ci voleva bene.

Entrambi gettarono un'occhiata sospettosa verso i soliti piedi.

— Credi sia anche sordo? — chiese Gregorio, a bassa voce.

— Chissà. EG; un caso che s'è dato. Ma ora dorme, di certo.

— E noi? dove dormiremo noi?

— Di cosa ti preoccupi! Noi… staremo bene dovunque. Se mai ci butteremo sul lettone del vecchio.

La trovata non era del gusto di Gregorio, ma egli si guardò bene dal dirlo.

— Ti ricordi quei titoli, quelle piastre di cui parlava sempre la mamma? — chiese Stefano, alzandosi di scatto e deponendo la bottiglia del cognac, vuota, sul tavolino.

Gregorio, sollevato da un peso, assentì col capo.

— Debbono esserci. Noi li cercheremo. E… — quì la voce di Stefano s' abbassò di due toni — un'altra cosa bisognerà cercare… Capisci? — e ammiccò con l'occhio.

Ma come l'altro non capiva, gli convenne spiegare:

— Il testamento. Chissà che non l'abbiano obbligato a testare in favore di quei suoi bastardi?…

— I figli di Rocco Lucà, vuoi dire?

— S'intende. Secondo me, il testamento è nullo. Fatto in quelle condizioni! Ma ad ogni modo bisognerà veder l'epoca… leggerlo… assicurarsi… — e, preso il lume, entrò senz'altro in camera dello zio.

Il tremore alcoolico del suo corpo s'era accentuato. Oltre ciò non dava altro segno d'ubriachezza. Parlando del testamento, la sua maschera verde s'era accesa di cupidigia satanica.

Il primo oggetto che si parò loro dinanzi fu il paralitico, nella sua immobilità di bonzo. Non dormiva, e le grandi pupille nere, umide come nei molossi d'Ulma, esprimevan tutt'altro che gratitudine o affetto. Dilatate, fisse e piene d'iroso stupore, parevano chiedere angosciosamente: — Chi siete? Assassini?… Ladri?… Perchè in casa mia, a quest'ora? Che cosa v'ho fatto? Che cosa volete da me?

Ma i nipoti andarono diritto alla cassa forte. Cercarono nel mazzo la chiave; trovatala, apersero, si dettero a frugare nel mobile, smaniosamente. In verità, Stefano soltanto frugava. Gregorio reggeva il lume e allungava il collo per guardare fino in fondo ai reparti. Chi li avesse visti così di dietro, in tutto il comico contrasto delle due sàgome, non avrebbe avuto che a metter loro un fucile in ispalla per offrirli nell'ormai classica macchietta dei due amici a caccia.

La prima carta che venne loro fra mano fu il testamento, o meglio una copia del testamento depositato presso Notar Bova da Santo Stefano e portante la data del 1882, cioè di due anni posteriore alla partenza dei nipoti per l'America. Nulla di più probabile che lo zio fosse tuttora nella pienezza delle sue facoltà fisiche e mentali. Secondo il testamento l'intera proprietà — cioè vigna e casa — doveva venir divisa tra Carlo e Francesco Lucà, figli di Rocco e di Maria Rosa Lucà, « e tra quanti altri nascerebbero dalla loro unione. »

Vi era anche un piccolo legato per la madre di Stefano e di Gregorio, Filomena Catalano in Leone, sorella del testatore. Oltre a ciò la cassaforte non conteneva se non carte inutili, creditucci che Stefano giudicò subito di difficile esazione: nè cartelle, nè piastre. — Don Gregorio era divenuto rosso come i bargigli di un tacchino; Don Stefano s'era fatto più verde d'un ramarro: la delusione e la bile li soffocavano.

— Ah canchero, ce l'hanno fatta! — E, piantata la cassaforte, Stefano era corso ad aprire i cassetti del canterano, a spalancar l'armadio, buttando all'aria le pile di biancheria, le coperte di filugello e i coltroncini di seta scrupolosamente ordinati. Camminava a balzi, con un'andatura saltellante da scimmia, scompigliando tutto, ficcando ovunque le mani, masticando, tra due bestemmie: — Quì doveva esserci tutta l'argenteria da tavola: un tesoro! La biancheria era il doppio, il triplo, e adesso è la metà, il terzo!… Capisci che tutto è stato trafugato, sottratto?… Capisci che l'argenteria, come le cartelle, come le piastre, han preso la strada dei Lucà?… Capisci che siamo stati derubati, spogliati? E, rialzatosi furibondo, agitava quelle sue braccia da cercopiteco in faccia al fratello. Ma questi, bianco, stravolto, teneva gli occhi fissi in un punto della stanza con tale espressione di orrore, che Stefano fu trascinato a seguirne la direzione, allibì anch' egli.

Il paralitico li fissava, muto e terribile come il simulacro d'un nume irato. La fiamma oscillante della candela dava alla sua maschera cèrea toni cadaverici ed ombre livide che la rendevano tragica. Dal labbro inferiore, pendente e flaccido, la bava colava abbondante sulla sottana nera, mentre il fazzoletto, messogli accanto dalla mano vigile di Maria Rosa pendeva dall'un dei braccioli della poltrona, inutilmente.

Ma sopratutto gli occhi, gli occhi saturi d'odio, avevano assunta una straordinaria intensità d'espressione.

Parean dire: — Chi siete? Chi siete voi che mi mettete a soqquadro la casa, che aprite la mia cassaforte, che mi sconvolgete gli armadii?! Fuori! Fuori di casa mia! assassini, ladri! Fuori!! Ah se non fossi quì!…

I nipoti n'ebbero un brivido nelle midolla. Stefano s'accostò al vecchio e gli gridò sulla bocca, quasi lo credesse sordo: — Zio Stefano, non vi spaventate: Siamo noi; Stefano e Gregorio: il sangue vostro, i nipoti vostri.

Come si videro compresi, gli occhi divennero imploranti, supplici; andarono, smarritamente, dal povero corpo impietrato al lettone monumentale che, col lenzuolo rimboccato, pareva attender quel corpo. E diceva:

— E' da tanto ch'è passata l' ora d' andare a letto, e Rosa non viene a spogliarmi!… Perchè non viene?… Dov'è?… Chiamatela!… Voglio lei, voglio Rosa!.. Il nome non v'era; ma v' era tale appello disperato nelle pupille, che Stefano gridò:

— Zio! Maria Rosa e quello 'mpiso di Rocco v'hanno spogliato, hanno spogliata la casa; ma adesso ci siamo noi, Stefano e Gregorio, e nessuno vi torcerà un capello. Capite?…

Ma gli occhi continuavano a saettar pietà:

— Eh che m'importano le cose di questo mondo! Non mi restano che pochi giorni da vivere: voglio viverli in pace! Avevo una donna che prendeva cura di me, dei figli che amavo e che mi amavano… Dov'è?! Dove sono?! Perchè non li chiamate? Perchè non vengono?

Il lampo d' ira che aveva forse squarciato un attimo le tenebre di quel cervello si spense; nelle pupille di molosso non gemè più che un terrore infantile, un disperato impulso di chiamare al soccorso: null'altro che la sofferenza bestiale di quanto ancora viveva in quella povera carne agghiadata.

Il vento intanto avea ceduto in violenza, s'allontanava con uno zufolio dolce, raccoglieva le forze per tornare, con maggior veemenza, all'assalto. E nell' intervallo un gemito — umano questo — echeggiò nell'aria, lungo, cupo, dolente. Gli occhi udirono, debbero un lume di pianto: tutto lo strazio di quell'anima imprigionata nel rigido involucro palpitò un istante nelle pupille. Le quali, come percorse da un fremito minaccioso, s'accesero di uno sguardo che, non potendo incenerire i nipoti, li scacciava, li malediva. Questi non eran però uomini cui poteva imporsi il corruccio impotente, e stavano per uscire senza più curarsi del vecchio, quand'ecco videro una cosa òrribile. Nella faccia del paralitico, contrattasi ad una smorfia più atroce di quella che la Faustin tentò rapire all'agonia dell'amante, la bocca si era faticosamente aperta quasi due tenaglie ne sforzassero gli angoli; e in quella bocca, da anni muta, la lingua oscillò tremula, mandò un suono fesso che pareva uscir di sotterra: — Ro… Ro…

Gregorio, tetanizzato dal raccapriccio, si addossò alla cassa forte per non cadere; ma Stefano, cui l'alcool sovraeccitava le forze, l'afferrò pel braccio, se lo trascinò dietro, cascante e floscio.

— Eh via! — gridò piantandoglisi dinanzi, fosco e risoluto. — Ti paiono momenti da tremar, questi? Agire, bisogna, non tremare! Lascia da parte i tuoi terrori da femminetta! Che la chiami pure la sua Rosa, se gli riesce: sarei curioso di vederla accorrere! — E ghignò. — Occorre che quella sgualdrina ci dica dov'e il morto! Bisogna che parli, a costo di metterle una morsa alla gola! Tutto dovrà consegnarci; tutto! e prima dell'alba!

Erano giunti intanto dinanzi all'uscio della prigioniera, che Stefano aprì con la chiave, spalancò con un calcio. Levò il lume a rischiarare la contadina ch'era lì, tutto un mucchio, con la fronte contro un cassone; lo posò sul cassone istesso, e, la donna per di sotto le ascelle — il che fece raddoppiare i gemiti della disgraziata — con le mani sulle spalle di lei, curvo, faccià contro faccia, lasciò esplodere la sua collera bieca.

Ma Gregorio continuava a tremar forte, per cui Stefano lo scrollò vigorosamente.

— Scuotiti, ed ascolta! Tu adesso verrai con me.

— Dov'è che hai messo le cartelle conservate nella cassa forte? Dov'è che hai messo l'argenteria, e le piastre, e il resto?! Ladra! Ladra! Mala femmina! Ladra! Dimmelo, o ti strozzo con queste mani!

La donna tremava verga a verga, balbettava, strangolata dai singhiozzi:

— Santa Vergine, aiutatemi che stanotte moro! Io non saccio di carte… io non saccio d'argenteria… io non saccio di piastre! Don Stefanino, lassateme!

— Tu lo dirai, o tu non esci viva di quì! — ringhiò l'altro, premendo più forte. — Don Stefanino, lassateme! Fatelo per quando v'ho tenuto in braccio figghiolo!(1) Bambino. Fatelo pel bene che ho voluto a quella mamma vostra! C'u signuri mu v'a faci'u campa mill'anni!(2) Che il Signore ve la faccia campar mill'anni.

— Parla, dunque. Chi l'ha? Rocco Lucà, eh? A casa sua? Dove, di'? Dove? — e avvicinava ancor più la faccia, sfigurata dall'ira, a quella della vecchia dove, sotto i cernecchi e la fronte intersecata da mille rughe, lampeggiavano i resti dell'antica bellezza.

Me ella s'ostinava nel diniego.

— Don Stefanino, lassateme ca nun saccio nente! Don Stefanino, lassateme! Oh Santa Vergine, aiutatemi voi!….

Quella cocciutaggine contadinesca esasperava Stefano alla follia.

Con un calcio se la mise sotto, le puntò un ginocchio sullo stomaco, le si avventò, con ambo le mani, alla gola.

Ma la donna si dibatteva furiosamente, spiegando nella lotta tutto il suo vigore di contadina che vale, fisicamente, quanto un uomo.

— Reggila, Gregorio, reggila! — comandò Stefano, sentendosela guizzar di sotto.

E le mani di Gregorio — quelle mani enormi. pelose, bestiali, la presero per le spalle, l'inchiodarono a terra.

Il vento accompagnava sinistramente la sinistra scena. Era una sinfonia d' ululati, di sibili, di singhiozzi, di gemiti, tutte le voci dolenti o irose, schernitrici o ribelli, con cui nelle cupe notti d'inverno, la natura grida al Cielo i dolori della terra oppressa. Tronco, rapido, convulso, giungeva col vento, attraverso le stanze deserte, l' appello del paralitico:

Rorò… Rorò… Rorò…

Quel balbettio concitato faceva sui due l'effetto dello sprone nei fianchi del cavallo: incitava, urgeva. Gregorio ci perdeva la testa. Tutto ormai gli pareva possibile: che il vecchio s' alzasse. camminasse, venisse a strappar loro di sotto la preda. E il terrore che quella cariatide fosse per animarsi d'un tratto, cadergli addosso da un attimo all' altro, gl' infondeva il disperato impulso di finirla, e fuggire.

— Dillo o t'ammazzo! — ruggiva Stefano, col cervello annebbiato dalla cattiva ebbrezza — e ogni ingiunzione era accompagnata da una ginocchiata, e ad ogni colpo si stringeva il cerchio ferreo delle sue dita. Non più l'indignazione pel furto patito, nè la febbre di riacciuffar la fortuna gli accendeva il volto d'un diabolico fuoco: ma l'odio oscuro e implacabile accumulato in venti anni, ma la feroce voluttà d'aver finalmente la nemica lì, sotto il suo ginocchio, di tenerne la gola palpitante fra le mani contratte. E quel Ro,.. Ro… Ro… ininterrotto che veniva di lontano, pareva ripetergli senza tregua « Sbrigati, sbrigati, sbrigati. »

D˙ Stefanì… lassà… — rantolava la vecchia, ansando penosamente. — Io non sà… ccio… niè…

Violacea, con le vene del collo inturgidite, gli occhi che parean schizzarle dall'orbite, era spaventosa a guardarsi. Un ultimo colpo, un'ultima stretta. Le spalle fecero un supremo tentativo per isfuggire alle tenaglie di Gregorio; il capo si rialzò un attimo, poi ricadde pesantemente, come cosa morta.

Istintivamente, Stefano aveva allentata la morsa. E gli assassini guardarono la vittima, supina fra le pieghe della sottana di castoro rosso che le apriva intorno come un'aureola; guardarono l'ampia gola ignuda dove brillava il pezzotto d' oro e nereggiavano i segni lividi della strangolazione: si fissarono muti, nelle pupille alterate.

Come il trrr prolungato d' un congegno che smaltisca tutta la corda, veniva, col vento, l'inutile appello del paralitico.

Rorò… Rorò… Rorò…

All' on. Maggiorino Ferraris.

Questa farsa si recita nell'ultimo giorno di carnevale per le piazze, nelle campagne e ovunque si raccolga gente ad ascoltarla. Il popolo giojosano l'adora, e non saprebbe concepire un carnevale senza farsa, come una festa di nozze senza ballo, e un funerale senza prefiche.

Non sarebbe la sola, ma le altre vanno man mano scomparendo dal repertorio, essendovi i personaggi assai numerosi, mentre la schiera degli attori, a causa dell'emigrazione, si fa sempre più esigua.

In queste farse, come nell' antica commedia dell'arte, l'arbitrio dell'attore è grande: esso aggiunge, toglie, inventa, crea, e questa di Rosetta, col tempo, si è andata modificando al punto che, chi l'ha udita cinquant'anni fa, stenterebbe a riconoscerla adesso.

L'intreccio quasi non esiste: i due episodii di Rosetta e di Carnevale potrebbero star da soli, tanto sono slegati, e non si capisce perchè li abbiano messi insieme.

Il ballo finale, che, unendo i personaggi nella generale baldoria, dovrebbe fondere le due farsette, sciogliere il nodo dell'intreccio, dare a questo una conclusione, una morale qualsiasi, non offre che il grottesco spettacolo di uomini che danzano consecutivamente e solitariamente, con gli occhi sulla punta dei piedi, le braccia ciondoloni, recitando strofette che non hanno senso comune.

Nel ballo, come nel resto della farsa, ogni personaggio prima di uscir di scena e perdersi fra le quinte, cioè nel cerchio formato dagli attori e che circonda lo spiazzo dove la scena si svolge, suole annunziar la comparsa del personaggio che segue. Cio toglie alla recita anche quel tantino d'imprevisto che potrebbe restarle. Non importa. Benchè cognite a tutti, le sventure del Su Jacintu riportano sempre il medesimo successo d'ilarità, prova che la macchietta del marito corbellato ha fatto rider pubblici d'ogni tempo e d'ogni paese; il dialogo tra la vecchia e il medico, mostrando quanto saldo è nel popolo il convincimento che il danaro tutto corrompe e di tutto trionfa, solleva ogni anno le stesse ironiche sghignazzate, come la scarcerazione di Carnevale è sempre accolta con entusiasmo vivissimo. In questa farsa nessun personaggio ha un vero carattere. Il Su Jacintu, ch'è forse il meglio abbozzato, dovrebbe essere un innocuo fanfarone, un geloso che si contenta di sorvegliare e sospettare senza mai venire all'azione, magari violenta, anche quando parrebbe esserne il caso. Ma ciò s'intravvede appena. Rosetta, specie di Madonnina infilzata, sembra intenta a conciliare come meglio può, le proprie tendenze libertine con l'amore di pace, cui finisce col sacrificarle.

Dotato del coraggio, poco meritorio, che viene dal sentirsi il più forte, par che il Cosentino debba incarnare la forza bruta, e le simpatie di cui gode nel pubblico, provano la buona opinione che, in provincia di Reggio, si ha dell'ardimento, della gagliardia cosentina.

Il Volante non è nè carne nè pesce. Il suo còmpito consiste nel diriger le prove delle riunioni serali, aprire il ballo, recitare il prologo e l'epilogo della farsa, rivaleggiando con Pulcinella e Carnevale in lazzi e motti salaci: alla dignità di Volante non si assurge che con una riputazione indiscussa di superiorità intellettuale.

Ma la beniamina del pubblico è la Za Vecchia, madre di Carnevale.

Ella ha più spirito di tutti, interrompe ad ogni proposito, osserva, critica con arguzia bonaria, con ironia scevra d' amarezza ed ha un senso così profondo della vita, che si direbbe l'anima popolare parli per la sua bocca.

In quanto ai versi, se è vero che la rima zampilla, « su del popolo dal core » bisogna dire che questa gente, pur dall'anima traboccante di poesia, abbia l'orecchio molto duro!

Basta udire le canzoni d'amore o di sdegno che i dami cantano dall'alto dei carri alle belle veglianti nella notte ad udirle, canzoni dove ogni musicalità manca e tutta la virtuosità del cantore si riduce ad una nota tenuta, di esasperante lunghezza, nota che finisce in un urlo roco, per dedurne che, in fatto di gusto e di orecchio musicale, le tribù dell' India e dell' Africa ben poco hanno ad invidiarle.

Oh! quelle canzoni d'amore! Nelle sere d'estate, quando tutte le finestre del mio studio sono aperte alla brezza del mare e ai profumi della campagna, nel silenzio amico interrotto solo dal trillo delle rane e dal cri-cri dei grilli, con vero terrore le sento avvicinarsi, sui carri cigolanti. E non serve fuggire: quelle note tenute, quegli urli rochi vi raggiungono da per tutto, e, o bisogna rassegnarsi a un bagno russo, o rinunziare al lavoro.

Tornando alla farsa di Rosetta, così com'è, io l'ho raccolta dalla viva bocca del popolo, e se al lettore parrà talvolta incoerente e puerile, noisa sovente, pensi che molte commediole destinate a far ridere i pubblici cittadini non sono nè più logiche, nè più allegre di questa.

Il sole sfolgora in cielo e lo spiazzato erboso si va popolando di monelli, di donne, di maschere primitive: contadine che attraverso le imbottiture del seno e dei fianchi tradiscono le legnosità del sesso forte, pulcinelli dall'alto cappello a pan di zucchero, finti soldati impacciati nell'abito del fratello tornato appena di leva, e brutte facce di cartone dipinto dai pomelli accesi e dai nasi berneschi. La folla si disperde pel prato che si arrotonda come una conca di smeraldo, tra i campi rosei di mandorli in fiore, nella cornice delle colline sorgenti ad anfiteatro. E altre maschere in costumi bizzarri, appaiono con la musica in testa, un fremito di piacere percorre la folla, i monelli gridano: Gli attori! gli attori!

Sono una dozzina in tutto, preceduti dal Volante o Capu Farza, un omone dal grembiule di velo gettato sulle spalle a guisa di manto, dal cappello impennacchiato di fettucce multicolori: intorno ai polsi due fazzoletti di seta annodati, con le cocche in giù. Si fa largo con l'aiuto di una mazzettina di nocciuolo, e al roteare di questa gli spettatori retrocedono, i monelli corrono ad arrampicarsi sui mandorli, il prato rimane sgombro come l'arena di un circo.

Ed ecco Carnilevari(1) Carnevale. che, oppresso sotto il peso delle proprie colpe e delle accuse altrui, si trascina a fatica. Ha il viso tinto di nero fumo, chiuso in un cappuccio d'orbace; una corda intorno al collo, un'altra alla cintola da cui pendono due campani risonanti lugubremente ad ogni passo, un pignattino colmo di maccheroni a destra, la bumbulèja(2) Bumbulèja — orciuoletto. del vino a sinistra, in ispalla una pala, cui sono sospese le ossa del suo animale prediletto: il maiale. Dietro, la Madre, una vecchietta dalla saja sdrucita, dal misero vhanchalèjo (3) Vhanchalèjo — panno di lana che usano sul capo le vedove. piegato in quattro sui capelli grigiastri, ne va narrando in tono pietoso e cadenzato le gesta. Al fianco ha la rocca e il fuso, nel grembiule una manciata di stoppa, e si avanza appoggiandosi a un bastoncello e gettando degli Uh! uh! lamentevoli. Carnevale e la Madre sono seguìti dal Medico, cui presto toccherà l'onore di curare le coliche di Carnevale, e dall' Offiziale o Capitanu, che ne giudicherà i misfatti. Di capitano costui non ha che il nome e una sciabola, o meglio un coltellaccio da cucina il quale ne fa le veci, anzi, a giudicare dal fascio di carte che porta in mano, si direbbe piuttosto uomo di toga che di spada. Pendono dai suoi cenni Capurà Ninu e Capurà Giona, due berzaglieri autentici, col fucile ad armacollo, e i soliti fazzoletti intorno ai polsi.

Ed ecco Rosetta, l'eroina della farsa, tutta pudica nelle vesti nuziali, coperta d'oro come una Madonna miracolosa, che si avanza tra Su Jacintu, il marito, cui neanche lo spadone riesce a dare un aspetto marziale, e lu Cusentinu, l'amante, magnifico nel costume tradizionale reso famoso dai briganti, col cappello a cono messo spavaldamente di sghembo. L'intreccio della farsa vuole che la bella Rosetta tradisca il Su Jacintu pel fiero Cosentino, e v'è perfino un momento in cui le cose minacciano di volgere al tragico; ma il Su Jacintu, ch'è uomo prudente, preferisce non misurare la persona mingherlina con quella prestante del rivale, e tutto si risolve, come nelle farse, in una bella risata.

La folla riconosce man mano gli attori e fa loro festa. Carnevale e la Madre sono accolti da un urlo di gioia.

— E' Cenzo della Ferma! E' Rocco Prestì! Come sei bello, Cenzo, con quella faccia tinta!

Cenzo della Ferma non è brutto neanche col cappuccio d'orbace e il viso nero. Non v'è giovanotto più di lui fortunato con le donne. Dacchè è tornato dall'America, or son due anni, articchito e incivilito, con un'infarinatura d'inglese e la catena d'oro al panciotto, le sue avventure non si contano più. Ma chi lo ha preso e lo tiene davvero è Rosa Alì, la bella Rosa, moglie di Rocco Pagghiazzo il sartore.

Il Su Jacintu è accolto a fischi e beffe.

— Chi è? E' Rocco Pagghiazzo! Ah, ah, ah! E' Rocco Pagghiazzo!

E tutti ridono, tanto sembra buffo il caso di quel marito corbellato nei panni di un altro marito corbellato: ridono perfino i monelli che pendono, come frutti vivi, dai rami.

I fischi e le beffe vanno, parte alla maschera, parte all'uomo, ma Rocco Pagghiazzo non se la dà per intesa. Gli hanno detto, è vero, che in sua assenza la moglie riceve a tutte le ore Compar Cenzo della Ferma; ma Rocco è mingherlino quanto Cenzo è prestante, e preferisce ridere con la moglie e il compare della malignità della gente, C'è perfino chi pretende che una sera, rientrando ad ora incompatta, Rocco abbia visto coi propri occhi Compar Cenzo saltare dalla finestra nel podere, mentre Rosa, discinta e turbata, veniva ad aprirgli; ma gli occhi di Rocco guardano uno a levante, uno a ponente, ed egli deve essersi convinto di aver visto male, perchè mai come da quella sera è stato in migliore accordo col compare e con Rosa.

Gli amici - ha anche degli amici, benchè sia cattivo quanto brutto - speravano almeno di non vedergli accettare l'ingrata parte del Su Jacintu. O non gli bastava d'esserlo, sentiva anche il bisogno di raccontarlo in versi? Ma Rocco aveva accettato, quasi con premura, e questa era parsa a tutti la prova migliore che non v'è peggior cieco di chi non vuol vedere e peggior sordo di chi non vuol sentire.

— Ohè, Rosetta! Fatevi onore! Parete una zita, tanto siete parata!

Il pubblico è pieno d'indulgenza per la bella infedele. E Rosetta, nella saja turchina, col grambà di velo e le scarpe lustre, è una donnina da far dannare non uno, ma dieci Cosentini. Una donnina? Una donnina no, perchè nella farsa calabrese, rispettosa delle sue tradizioni greche, le parti femminili sono sostenute da giovanetti travestiti, e perfino in qualità di spettatrici, ne sono bandite le donne, a meno che non si nascondano lontano, fra gli alberi, o vi assistano all'ombra delle persiane, se la rappresentazione ha luogo in una piazza. Sicchè Rosetta ha questa volta il viso imberbe e leggiardo di Giusi Alì, fratello della vera Rosa e quindi cognato di Rocco Pagghiazzo, il quale, nelle vesti prestategli dalla sorella, le somiglia al punto da esser scambiato con lei. Se per caso Rocco covasse un segreto rancore contro l'infida, questo rancore non potrebbe che acuirsi durante la farsa, al vedersi da lei tradito nella finzione come nella realtà. Ma Rocco non ha rancori segreti, e tiene il cognato a braccetto, mentre il Cosentino gli cammina accanto dall' altro lato e il pubblico sghignazza:

— Se poi era Cenzo della Ferma a fare il Cosentino. Che risate, eh, compare?

Ma Cenzo della Ferma doveva fare da Carnevale, perchè non ce n'era un altro mangione e beone quanto lui.

Dietro la triade, viene Pulcinella, la cui maschera si scosta alquanto dalla tradizione ma che, da pulcinella autentico, si dispone a far da paciere e, come tutti i pacieri, a buscarle.

Il corteo vien chiuso da una gabbia di canne dove il povero Carnevale sconterà presto i furti perpetrati a empir l'epa nella breve vita di bagordi, e a guardia v'è un Castellano(1) Carceriere. Nella farsa la gabbia, o carcere, vien chiamata castello. che per solo distintivo porta un asciugamano intorno al collo.

Eccoli dunque tutti sullo spiazzo. La gabbia vien posata in terra, gli attori formano un cerchio e il Volante, solo nel mezzo, dà principio alla farsa.

Volante. (Misura a gran passi lo spazio vuoto agitando la mazzettina di nocciuolo, recitando in tono enfatico, senza variante alcuna. Ad ogni verso il Volante salta da un punto all'altro della… pista, sempre rasente il cerchio degli attori, e, nella sua bocca, più che finire, il verso si rompe, dando a chi ode la sensazione di uno strappo). Volante Largo, sulenzio e nun fate palore! Na bella farza vi voglio apprisentari Ch'è cumposta n'tra dodici persone N'tra gente de campagna e n'tra quatrari Non date a' recchia a cu sentiti diri! Ca sempre proponimmo cose bone E molti la roliano arrecitare Ma non sapianu fare avite a diri, E a nostra cumpagnia nun son potuti entrari Ca apposta vinne stu Carnelevari Sti chiazzi n'di l'inchìu di maccarruni Mangiamo tutti co' pochi denari A tutti n'de dunau soddisfaziuni So giurni allegri, e nun ponno mancari. Aju finitu, e me ritiru dintu Ca appresso n'ascirà lu Su Jacintu(1) Largo silenzio e non fate parole, una bella farsa vi vo' rappresentare, la recitiamo in dodici persone tra gente di campagna e tra ragazzi. Non date retta a quel che udite dire; sempre abbiamo messo in campo cose oneste, ma molti la volevano dire e se ne vendicano cosi, perchè, non sapendolo fare, non son potuti entrare a far parte della nostra compagnia. A bella posta è venuto questo Carnevale, per farci divertire. Ci ha empite le piazze di maccheroni; ci fa mangiare con poca spesa; a tutti ha dato gioia; son giorni allegri e non poteva mancare, ho finito e mi ritiro dentro che dopo verrà fuori il Sor Giacinto. Su Jacintu, poi Rosetta. Su Jacintu (guarda a destra e a sinistra con falso ardimento, facendo rotear lo spadone). Vi farò acconoscere lu Su Jacintu! Quello che porta la spata d'argento? (minaccioso a Rosetta che si avanza ad occhi bassi) Tu fila e nun me fa lu trentacinque! Nun serve che me jite supra vento. (con cinica spavalderia) Che spirituso so, certo m'avanto Pe rrobba de magnà nun me sgumento! La vita de lu lupo vorria fare Mu me mangiu li pecore e li crape; Accusì voglio campare felice Cu vene appresso cunta li pidate E io mo 'mbivo (incolla la bocca al fiaschetto che ha in tasca) e vi saluto amici, Nu brindisi n'ce faccio a lu me patri (dopo aver bevuto) O bene mio 'stu vinu e quant'è doce! Pare venuto appunto da Jerace E tanto bello che mi fa ballari (fa una piroetta) E moe n'ascirà Carnevalari(1) Vi farò conoscere chi è il Sor Giacinto, quello che porta la spada d'argento! (A Rosetta) Tu fila dritto e non farmi lo gnorri; è inutile che crediate (tu e il Cosentino) d' andarmi « contro vento ». So di essere spiritoso e me ne vanto, in fatto di mangiare non mi sgomento. Vorrei far la vita del lupo (linguaggio figurato) mangiare capre e pecore, e cosi scialarmela e esser felice, chi verrà dopo conterà l'orma dei miei piedi (cioè i miei figliuoli non troveranno nulla, ma a me cosa importa?)
Ed ora bevo e vi saluto amici (beve), facendo un brindisi al padre mio (che m'ha lasciato tanto da scia larla; e dopo aver bevuto): Oh ben mio, com'è dolce questo vino, par venuto proprio da Gerace (Capoluogo del Mandamento di cui fa parte Gioiosa, e dove si fa ancora il famoso Greco). E' tanto buono che mi fa ballare, ed ora verrà fuori Carnevale.
Carnevale e la Vecchia. Carnevale (si trascina, piegato in due, stringendosi con una mano il cappuc cio d'orbace sotto il mento, premendosi con l'altra il ventre troppo pieno. Annunzia lentamente, con voce cavernosa): Eo certamente sò Carnelevari! La faccia me risbrende com'a so le… (risate nel pubblico) Vecchia (interrompendolo) a mezzanotte! Carnevale N'altro omo comu mia non c'è, non have Paro fatto co regole e mesure!(1) Certo io sono Carnevale, il viso mi risplende come sole (è invece nero come un tizzo). Un altro uomo come me non v'è, non esiste, sembro fatto con regoli e compassi (tanto sono proporzionato e bello). (Il pubblico grida: Uh, uh! e nun te vidi! guardate u' specchiu!)(2) Uh uh! E non ti vedi? Guardati allo specchio! Vecchia Sì, figlio! ca se pigghiaro mesure pe' tia! E te fici tantu beju!(3) Sì, figlio! se ne presero misure per te! e t'ho fatto tanto bello! Carnevale Fici la vita mia 'ntra tanta sciali…(4) La vita mia passò tra orgie e banchetti. Vecchia … E mo li paghi co' tutti sti mali! Carnevale …Me mangiavo salzizze e maccarruni! (prende con le mani: nel pignattino, una manciata di pasta, e se la ficca in bocca). Vecchia E mangia! mangia! ca po' chiagni! Carnevale E mo che mangio dormo a sonno chinu Ca doppo n'ascierà lu Cusentino(1) Ed ora che ho mangiato, dormirò a sonno pieno, che dopo verrà fuori il Cosentino. Consentino, poi Rosetta. Il Consentino è di statura superiore alla media, spalle quadre, torace sporgente; porta la giacca buttata sulla spalla sinistra a guisa di spencer, il cappello a cono di traverso. Si dà delle arie spavalde. Spiccato accento cosentino). Cusentinu So partutu de notti ch'era scuru C'era la nive e nun me n'addonavi E su partutu cu na gran calura E pe la strata sudure jettavi! (chiamando verso Rosetta) Rosetta! bene mio! n'esce cca fora! Pe tia sugnu venuto a la bon'ora(2) Son partito di notte, ch'era scuro; c'era la neve e non me ne accorgevo; son partito con un gran calore (e la neve di poc'anzi?) e per la strada ne ho colato sudore: (a Rosetta) Rosetta, ben mio, vieni qui fuori; per te sono venuto di buon'ora! Rosetta (venendogli incontro lentamente tutta vergognosa) Bon vespo e ben venuto, mio caro cugino, Site venuto pe' mia di tanto luntanu Mo che facisti stu lungo camino Jamonindi a la casa, e lè la mano; (gli dà la mano senza guardarlo) E jamuncinde senza cchiù palore Mariteme nun c'è, ch'è gghiuto fora(1) Buon vespro e ben venuto mio caro cugino; giacchè per me veniste di tanto lontano, avete fatto un lungo cammino, andiamocene a casa: ecco la mano. Andiamocene senza più parole; mio marito non c'è, ch'è andato fuori. Consentino, Rosetta, poi il Su Jacintu. Cusentinu (con entusiasmo) Jamuncinde perdio! là ce vedimu(2) Andiamocene perdio! Ci vedremo li (vale a dire a casa). (In quel momento entra il Su jacintu, e sorprende gli amanti con le mani nelle mani. Apostrofa con violenza Rosetta, questa si nasconde dietro il Cosentino, il quale, per sottrarla agli sguardi dell'infuriato marito, va da destra a sinistra e da sinistra a destra, secondando i movimenti e i passi del Su Jacintu). Su Jacintu (a Rosetta) Mannaggia quandu parse sta mugliera!(3) Maledetto il giorno che mi capitò questa moglie. (tra sè, combattuto tra la gelosia e la paura) O' capitato un pezzo 'i 'mpresone(4) (Poi tra sè sbirciando il temuto avversario). Mi sono imbattuto in un gagliardo che con un buffetto mi manderebbe gamba all'aria. (Meditaudo di fargli un tiro). (Sempre tra sè, guardando di sottecchi lo spadone) Ma si 'u colpo riesce e nun me sgarra, Co 'stu scorcia crape n'de pijo li mesure(1) Ma se il colpo riesce e non mi falla; con questo scortica capre (il coltellaccio) gli prenderò le misure (per poi vibrarglielo al punto giusto). (Arrota furiosamente lo sciabolone sui sassi. Il Cosentino intanto gli è sopra d'un balzo, lo afferra pel collo. Rosetta profitta del momento per svignarsela). St Jacintu (voltandosi, inviperito e tremante Non mi toccare la parrucca Ca le smàfaro la bucca(2) Non mi toccar la parrucca che ti sconquasso la bocca (con un pugno ti rompo i denti). (seguono da una parte e dall'altra contumelie che è meglio omettere in omaggio alla decenza). Cusentino (prendendo l'altro pel petto e scrollandolo forte) Te farò conuscire lu Cusentinu! Su Jacintu (che geme e si contorce sotto la stretta del rivale, con voce flebile): Paisàni aiuto! paisàni aiuto! Ca vò accidere a mia, chisto cor … (il resto fa rima) VECCHIA (entrando) Chillo ch'è iddu chiama l'auti(3) Dice agli altri quello che toccherebbe a lui! Gli stessi e Pulcinella. Pulcinella (accorrendo, munito d'un fazzoletto attorcigliato, gettando botte a destra e a sinistra). Pianu! pianu! e che diavolo fate?! A cunto ve li dugno li mazzate!(1) Ve le darò numerate le botte! (Voleva forse dire senza contarle?) (battendo e contando) E una … e una che 'nde fanno due … E appresso 'nce sunno 'cehiue. Pe scotolà li spalle a lu Su Jace! A mia na cosa sula me dispiace, Ca mo cu la mugliera so nimici E ppe ddu misi nun 'nde fanno pace!(2) E una… e una che fan due, e dopo ce ne sono di più per scrollare la polvere dalle spalle del Su Jacintu. A me dispiace soltanto (è invece più probabile che gli faccia piacere, dandogli l'occasione d'intromettersi) che adesso con la moglie sono in urto e per due mesi non faranno che litigare fra loro. (Il Cosentino e il Su Jacinto si rivoltano, e sfogano la rabbia su Pulcinella. Il Su Jacintu gli dà delle piattonate sul capo; il Cosentino dei pugni nella schiena; e tutti e due lo suonano di santa ragione. Pulcinella grida: « Ohi! ohi! ohi! » e scappa a gambe levate. Anche il Cosentino se la batte. Su Jacintu e Rosetta. Rosetta (desiderosa di far pace col marito s'inoltra in aspettocontrito). Eo so Rosetta de nome e de fatto Nun vogghiu accunti cu li cori affritti!(1) Io son Rosetta di nome e di fatto, non vo' saperne di malinconie. (Insinuante, guardando il marito di sotto in su) Eo ndajo a lu Su Jaci ch'è de l'arte E me li porta tutti li provvisti(2) Ho il Su Jacintu ch'è un mastro (cosi si chiamano gli artigiani) coi fiocchi, conosce il suo mestiere, mi porta a casa le provviste, e non mi fa mancar di nulla. Su Jacintu (scagliandolesi addosso) Mannaggia a tija! pozz'essere accisa! (Rosetta si fa piccola e finge di tremare) Tu mi l'a fatta a mia cchiù di na vota! Ma a tija le l'ho a dunare lu castijo Ca pe ddu misi a ccasa nun ce vaju Me metto ndu nu pizzo mu te vijo E notte e gghiuorno sempre attento stajo. U ditto ca stu pede me lu sviju Smàfaro a quarcheduno e mi ndi vajo: E mi ndi vajo a na porta luntanu Ch'appresso n'ascirà lu capitanu(3) Tu me l'hai fatta più d'una volta! Ma bisogna che ti castighi: per due mesi non tornerò a casa, mi metterò in un canto di dove potrò sorvegliarti, e notte e giorno starò sempre all'erta. L'ho detto che finirò col mettere un piede in fallo; un bel giorno rovino qualcuno, faccio un guaio, e me ne vado. Me ne vado in un posto lontano, che ora verrà fuori il Capitano. (esce). Offiziale, poi Caporal Giona. Offiziale (Mimica sul genere di quella del Volante, accento di comando). Io sugno offiziale de chistu paese Vi farò tutte quante mu tremate! Vuje nun sapite le mie grandi imprese Ma se ppe sorte a sti mani 'ncappate Carcerate ve tengo sette mise Ca sete tutti na maneca 'e impisi!(1) Sono offiziale (comandante il presidio?) di questo paese, e vi farò tremar tutti. Voi non sapete le mie grandi imprese; ma se per caso mi cascate sotto l'unghie, vi terrò in carcere sette mesi, che siete tutti un branco di bricconi. (Volgendosi ad uno dei due caporali) Olà, Capurà Giona! Caporal Giona (sull'attenti) Che cumandate, signor Offiziale? Offiziale (picchiando sul fascio di carte che ha in mano) Tengo stu libbro chino de querele, Tutte contrare sunno a Carnevale O morto, o vivo, ccà ll'hai da portare(2) Ho questo incartamento pieno di querele e tutte contro Carnevale; bisogna che tu me lo porti, morto o vivo! Caporal Giona No dubitate no, su capitanu! Ca li vostri palori l'obbedimo! Mo parto e me ndi vajo piano piano Ped arrivà a Capurà Ntoninu E sì ntra tutt'e duje no lu pigliamo Cu mmia l'avrà da fa stu malandrinu!(1) Non dubitate signor Capitano, i vostri ordini saranno eseguiti; ora parto e vado a raggiungere Caporale Antonino, e se fra tutti e due non prendiamo cotesto malandrino, l'avrà a far con noi! (Andando verso Caporal Ninu). Caporal Giona, poi Caporal Ninu. Caporal Giona (a Caporal Ninu) Olà, Capurà Ninu! Tu sai che comandau lu Capitanu? N'ce sta ntra queste chiazze un malandrinu O morto o vivo jamo e lu levamo(2) Olà Caporal Nino! Sai cosa ha comandato il Capitano? In questi paraggi vi è un malandrino, e bisogna portarglielo, morto o vivo. I due Caporali e Carnevale. (che ha udite le ultime parole si dà a fuggire). Chaporal Ninu (che ha scorto il fuggente e vorrebbe aver solo la gloria d'agguantarlo, si rivolge a Caporal Giona in tono arrogante): Tu fatte arredo! ca volglio 'j lu primu E sulo voglio mu n'ce metto mano Ca sì farrace forza lu meschinu N'ce lu mettimo sutto sacrestano(1) Tu fatti indietro, che voglio andar primo, mettergli da solo le mani addosso, che se poi farà resistenza, tra tutti e due ce lo metteremo sotto, e lo faremo diventar quieto ed umile come un sagrestano. (a Carnevale che scappa sempre) Ferma Carnivalari, e non fujiri! Ca di li mani mie nun poi scappare. Nun me te cridi ch'è lu tempu primu Ca mo lu paghi tutti lu mangiari!(2) Fermati Carnevale, non fuggire! che non mi scappi dalle mani. Non crederti che siano i tempi d'una volta (cioè di tua prosperità) perchè ora è venuto il momento in cui sconterai tutti gli eccessi. (Sul punto di agguantare Carnevale, Caporal Giona lo raggiunge a tempo e la afferra dall'altro lato. La Vecchia salta a difendere il figliuolo). Caporali, Carnevale, Vecchia, poi l'Offiziale. (La Vecchia copre d'ingiurie i militi. Dopo qualche lotta, Carnevale si arrende. I caporali, tenendolo per di sotto le ascelle, lo conducono al cospetto dell'Offiziale). Caporal Ninu (all'Offiziale) Ecco ca ve portamo l'inquisitu(3) Ecco che vi portiamo l'accusato. Vecchia (che ha seguito il figlio) Povero figghio! povero figghio mio! Caporal Ni nu Quanno m'ha visto lui se n'è fujto! L'ajo orrivato n' faccia a lu caddàro Ca mangiava na vacca e nu porcejo E mi n' ci volle a poterlo pigghiare(1) Al vedermi s'è dato alla fuga; ma l'ho raggiunto davanti a una caldaia, intento a mangiare una vacca e un maiale: ce n'è voluto prima di poterlo prendere. Vecchia (avvicinandosi a Carnevale) No, nun piangere figghio, ca mo vegno (all'Offiziale) Non è l'overo signor offiziale! Se tutti quanti ne parlano a sdegno Margo n'ce càtte stu Carnelevari! (presentandogli il pignattino di Carnevale vuoto) Quisto è lu testu e quisto lu pignatu! Ca mancu un'onza i carne 'n cià lasciatu!(2) No, non piangere, figlio, ch'ora vengo! (All'ufficiale:) Non è vero signor Offiziale! E se tutti ne parlan con ira (si riferisce a Carnevale) vuol dire che toccò loro un magro Carnevale! Questo è il testo, questo il pignattino dove non ha lasciato nemmeno un'oncia di carne. Officiale (scacciando la Vecchia con mal garbo e volgendosi ai Caporali) Levatemillo da lu Castellanu E mu nce tene cura al malandrino!(3) Portatelo al Castellano, che me lo custodisca bene, il malandrino. (esce) Gli stessi meno l'Offiziale. Caporal Giona (al Castellano) Ecco ca te portamo a Carnevale Peju 'nquisito i questu nun ne' ndave Nun me te cridi ch'estu matto matto; Te prego me lu metti sotto chiave!(1) Ecco che ti portiamo l'accusato. Non v'è delinquente più pericoloso di questo. Non credere che sia un innocentino perchè lo vedi mogio mogio: ti prego, mettilo sotto chiave! Castellano (raggiustandosi l'asciugamano intorno al collo, con importanza) Tu lascia ca lu metta ca na ninta (accenna la gabbia) Ca fazzu mu la cula li campane. Cunterà l'ore quista faccia tinta, Quando se vede morere de fame!(2) Lascia fare che lo metto qui dentro (dopo, il senso non è ben chiaro, ma presso a poco dice così:) A un buffone come lui non giovano le campane (quelle a morto?) conterà l'ore questa faccia nera (come l'anima sua) allorchè si vedrà morir di fame (giusto castigo per chi aveva tanto mangiato). (Il Castellano afferra Carnevale; i Caporali lo spingono, la Vecchia grida, Carnevale sgambetta, tira calci, e dopo essersi dibattuto furiosamente, vien ficcato dentro per forza. L'uscio della gabbia si chiude, i Caporali escono). Carvevale solo, il Castellano silenzioso, poi la Vecchia. Carnevale (steso in fondo a la gabbia, con gli occhi al cielo, manda lugubri lamenti) Oh poveretto a mija che confusione! Dinto st'affrittu carcere n'cappavi! Firnivi di mangiare cose bone E pe la fame la panza me dole. Vajite a mama ca me porta pane Si no ccà muto li denti e li moli Ca me chiama lu medicu si vole Nun vogghio int'a stu carcere mu mori!(1) O poveretto me, qual confusione! Son capitato in questo tetro carcere, ho finito di mangiare cibi prelibati, ora lo stomaco mi duole per la fame! andate da mamma che mi porti del pane, se no qui cambio i denti ed i molari (cioè mi cascheranno per debolezza) e che mi chiami il medico se vuole, che non voglio morire in fondo a questo carcere! Vecchia (accorrendo tutta scarmigliata, col vhancalèjo di traverso). Eo vaio ca so mamma e me punge stu corio(2) lo vado che son mamma, e me ne piange il cuoio (per celia, invece di cuore). (risa nel pubblico) Carnevale Va, va, e levame chillu tumulo i vittaglie(3) Va, va, e portami quel tomolo d'erba da pascolo! Vecchia, Medico, poi Carnevale dalla gabbia. Vecchia (al medico che s'avanza con in capo una tuba spelacchiata, di forma indefinibile, ed un libro in mano) Gnuri medicu meu dotto e saputo Ve prego a lu castello mu venite Me' figghio Carnevali lu sapite; Dinta a lu carcere è statu mettuto E mò è malato cu li combulzioni Pe vuju n'ceste stu bono vurzone (mette la mano sotto il grembiule, ne toglie una borsa turgida di pietre, di stracci e glie la porge) E si a gnura vostra n'dave nu poco i lana Na ncanateja 'i stuppa, 'ncia filu!(1) Signor medico mio dotto e saputo, vi prego di venire alle prigioni; mio figlio Carnevale, lo conoscete? è stato messo in carcere ed ora è malato con le convulsioni. Qui per voi c'è un bel gruzzolo, e se la vostra signora ha un po'di lana, un pugno di stoppa glie la filo… Medico (con benevolenza) Cara za vecchia mia sono impedito! Non posso visitare un carcerato! Andate al Castellano e glie lo dite, Dince ca ti lu caccia si è malatu(2) Cara zia vecchia mia, sono impedito, non posso visitare un carcerato! Andate dal carceriere e diteglielo, che ve lo metta fuori se è ammalato! Vecchia E come lo caccia?… Così?… E s'ijo non vole? Medico Sì che te lo cacciano. Viene qua za vecchia, te voglio servire. Levaci questo biglietto autenticato! (Scarabocchia qualcosa su un pezzo di carta e glie lo porge). Vecchia (Saltando e ballando di gioia, corre dal Castellano) Sor castellanu, de Casa tarriso Lu medico t'entima stu mandutu. Castellano (rendendole il foglio che ha girato e rigirato tra le mani, con diffidenza) Cara zà vecchia mia, che nun te dico Lu foglio me lo disti e l'aju guardatu. Quisto me pare ch'è nu forte 'ntrico Non è dall' Offiziale autenticato!(1) Cara zia vecchia mia cosa vuoi che ti dica; il foglio me lo hai dato e l'ho guardato; a me questo pare un grande imbroglio: ci manca la firma dell'offiziale. Carnevale (sempre in tono lamentoso, grida alla madre) Va da lu capitanu se ti sente E levanci nu piatto i maccaruni Dinci ca so palori de la genti Ca no arrobbavi mai dui porci arranche!(2) Va dal Capitano, se ti dà udienza, portagli un piatto di maccheroni; digli che sono calunnie della gente, che non ho mai rubato due porci ad un tempo. Vecchia, Offiziale, Carnevale dalla gabbia, poi Volante. Vecchia (presentandosi all'Offiziale con un vassoio colmo di maccheroni al sugo) Gnor Offiziale! non v'ebbi che portari Ve portavo sti quattro maccarruni P'amuri de lu meu Carnelevari Ca si vuliti, putiti scarcerari! Ve portavo due provole salate(1) Signor Offiziale! non ho avuto cosa portarvi, e v'ho portato questi quattro maccheroni, per amore del mio Carnevale che se volete potete liberare. Vi ho portato due provole salate… (gli offre un mazzo di cipollazze — bulbi di liliacee che han la forma di provole) Offiziale (entusiasmato, interrompendola) Viva la Vecchia cu tutto lu sule! Vola Volante, e prepara a mangiare! (Il volante entra portando un panchetto, seguito da un ragazzo con la cesta dov'è l'occorrente per apparecchiare la tavola, e apparecchia rapidamente) Ca mo sta panza me vogghiu aggiustare! (L'Offiziale siede, e mangia. Intanto il Volante gira, ballando intorno alla tavola, rubandogli di tanto in tanto una forchettata di maccheroni, un boccone di carne, attaccandosi al fiasco che è sulla tavola) Volante (girando intorno alla tavola) Bellissima giornata ch'abbrescìo questa mattina Me mangiavi na supprezzata Cu nu pettu de gallina, Di vinu na cannata Me ciurrai inta na cantina(1) Che bella giornata è venuta fuori stamani! ho mangiato un salame con un petto di gallina, e ne ho ingozzato del vino giù in cantina! (ecc., ecc.) Offiziale, Vecchia, Carnevale dalla gabbia, poi i Caporali. Offiziale (levandosi da tavola d'ottimo umore) Alò, Za Vecchia! Vecchia Che comandate, signor Offiziale? Carnevale (dalla gabbia) Imà! Vidi quantu fannu li maccarruni!(2) Mamma! Lo vedi che potere hanno i maccheroni? Offiziale Vammi pe li soldati a chiamare! Vecchia (affannata e contenta, ai Caporali) Alò, Capurà Giona! Surti ca te vole lu Cunciliaturi! 'ndavi na cosa seria di parlare(3) Su, Caporal Giona: muoviti che il Coniliatore ti vuole: ha da comunicarti una cosa grave. (L'Ufficiale funge anche da Giudice Conciliatore). Caporal Giona (presentandosi in posizione d'attenti all'Offiziale) Che cumandate, su Cunciliature?… Offiziale (al Caporal Giona) Va colla Vecchia e fallo scarcerare Nun me n'davisse adavero mu more M'u vaju int'a petra l'offiziale(1) Va con la Vecchia e fallo scarcerare, che non abbia davvero a morire in prigione, e ne vada di mezzo l'Offiziale. (Caporal Giona, seguito da Caporal Nino e dalla Vecchia si avvia alla gabbia) Vecchia (al Castellano) Su Castellanu! E manco mo lu cridi? Fini ca li soldati ti portavi!(2) Sor Castellano! saresti capace di non crederlo nemmeno adesso? T'ho portato perfino i soldati! Castellano Eo no lo caccio senza li giampiuni, Ca li diritti mei l'hai da pagare(3) Io non lo metto fuori senza quattrini! Bisogna che paghino i miei diritti. Caporal Giona E cacciamillo senza cchiù palore Per ordinanza de lo superiore! Nun me ndavisse adavero mu more, Mu vaju sutta petra l'Offiziale!(1) E via liberalo senza più chiacchiere, per ordine superiore: che non abbia davvero a morire e ne vada di mezzo l'Offiziale. (Il Castellano apre a malincuore la gabbia. Carnevale n'esce, più morto che vivo. Non si regge sulle gambe, va cadendo di qua e di là. La madre, spaventata, corre a chiamare il medico e glie lo conduce) Medico, Carnevale, Vecchia, ecc. Medico (a Carnevale che si lamenta senza posa) Cos'hai, Carnelevari? Chi ti senti?(2) Cos'hai Carnevale? Cosa ti senti? Carnevale (premendosi il ventre doloroso) Ndajo nu curri curri dinta 'a panza(3) Ho un rumorìo, un corri corri nel ventre! Medico Me parè troppu fiascu stu malatu Pari ca teni stramutatu 'u visu: Tem li soi plomoni troppo unchiati! Pare nce teni na sarma de risu!(4) Cotesto malato mi sembra troppo flaccido: ha il viso mutato: i polmoni troppo gonfii: par ci abbia dentro una salma di riso! Carnevale (gemendo) Nun esti risu, no… ca so pruppetti Mparti sazzizzi… e mparti maccarruni(5) Non è riso, no… sono polpette… salsiccie in parte e in parte maccheroni. Medico Doppa ca ndai stu morbo de mangiari Nuju medico a tia te po' guariri! Mo pigghiati na tazza d'acqua cotta L'apri sta bucca e mostrami sti ferra…(1) Poichè hai un'indigestione di tal fatta nessun medico mai potrà guarirti; or pigliati una tazza d'acqua bollita. Apri la bocca e mostrami questi ferri (del mestiere di ghiottone). (Carnevale spalanca la bocca, il medico fa un salto indietro, per lo spavento) Mala pasca te pozza pigghiare! L'aprìa na bucca cchi parìa nu lupu Chi n'attru pocu mi ndavia mangiatu!(2) Che ti pigli la mala Pasqua! Apri una bocca che pareva un lupo. Per poco non m'ebbe a mangiare! Carnevale (ritrovando nel disprezzo un'energia fittizia) Guarda che medicheju! Se mette a pagura! A mia tu m'ordinasti l'acqua cotta?! Va pigghiatila, e sciacquati sta vucca! S'io moro, a tia, ti resta la pastura!(3) Guarda che mediconzolo! Si mette paura! A me ordinasti l'acqua bollita? Va, prendila tu, e sciacquati cotesta bocca! S'io moro, a te resta sempre il denaro della visita! Vecchia ed altri (insultando il medico) Vattindi a diavulu Va medica cavaji!(4) Vattene al diavolo! Va a medicar cavalli! (Il medico scappa) Carnevale (rivolto ai suonatori) E vui figghiuli, accumenzate i soni Pe dare spasso a tutte sti perzone! (I suonatori dan fiato agli strumenti, e incomincia il ballo). Volante (ballando, solo, a piccoli passi, con le braccia ciondoloni e gli occhi a terra) Io sono lu Volante Chi vi fazzu stare attenti E lu beni veni a mali Veni abballa tu, Offiziale!(1) Io sono il Volante che vi dirigo e vi comando l'attenzione. Il bene viene a male, vieni e balla tu Ufficiale. Offiziale (ballando) Io sono l'Offiziale Sempri dissi cosi veri Cu li causi criminali Lu 'ndonavi nu sumeru Lu decretu mi va ntrona Veni abballa, Capurà Giona!(2) Io sono l' Ufficiale che, nelle cause criminali, ho sempre detto la verità. Donai un asino; il decreto mi va contro: vieni e balla, Caporal Giona. Caporal Giona (ballando) Eo su Capurà Giona Fazzo officio i galantomo Vi li pigghio l'inquisiti Come già vui li viditi Mi jettu sempri lu primu Veni abballa Capurà Ninu!(1) Io sono il Caporal Giona, faccio parte del galantuomo, vi prendo gl'imputati come già voi lo vedete; mi getto sempre il primo, vieni a ballare Caporale Nino. Caporal Ninu (ballando) Eo su Capurà Ninu Sarto e zumpo sempre lu primu Pe m'abusco quarche granu Veni abballa Castellanu(2) Io sono Caporal Nino, salto e ballo sempre il primo, per buscarmi qualche grano, vieni e balla, Castellano. Castellano (ballando) Eo su lu Castellano Ballo e zumpo int'a sti chiani Sugno povero e meschinu Vene abballa Cusentinu(3) Io sono il Castellano, ballo e salto in questi piani, sono povero e meschino; vieni e balla Cosentino. Cosentino (ballando) Ed eo su lu Cusentinu So partito di Scarpentino Io so venuto qua di fretta Veni abballa tu Rosetta(1) Io sono il Cosentino, son partito da Scarpentino, son venuto qui di fretta, vieni e balla tu Rosetta. Rosetta (ballando) Ed eo sugno Rosettina Tegno assai mala fortuna (In queste strofette del ballo non v'è senso comune). Mariteme sempre grida Ch'è gialuso di natura E se parlo n'ciadispiace Veni, abballa tu, Su Jaci!(2) Ed io sono Rosettina, ho una gran mala fortuna, mio marito grida sempre, ch'è di natura geloso; e se parlo gli dispiace; vieni e balla tu Sor Jaci (abbreviativo di Giacinto). Su Jacintu (ballando) Eo su lu Sugghiaciutu Notte e gghiorno no ndajo abbento Mai nun pozzo riposari. Veni abballa Carnilevari(3) Io sono il Sor Giacinto che non ho pace notte e giorno; mai non posso riposare, vieni e balla Carnevale. Carnevale (ballando) Ed eo su Carnelevari N'ta li càrciari mbecchiavi E nascivi mpregiaria Veni abballa mamma mia(4) Ed io sono Carnevale invecchiato in carcere; ne sono uscito per miracolo, vieni e balla mamma mia. Vecchia (ballando) Eo sugno la Za Vecchia Cu stu fuso e sta cunocchia Scarceravi a Carnelevari E di nuju ndebbi meritu Veni abballa gnure medicu(1) Ed io sono la Zia Vecchia, tutta povera e tutta vecchia, con questo fuso e questa conocchia, ho scarcerato Carnevale, e di nulla ho avuto merito, vieni e balla signor medico. Medico (ballando) Eo sugno lu su medico Chi studia medicina Lu malatu chi nun sana Mu nciaccattanu lo cira Mu jèttanu suttaterra Veni abballa Pulcinella(2) Io sono il signor medico, che studia medicina; al malato che non sana gli comprino i ceri, lo mettan sotto terra, vieni e balla Pulcinella. Pulcinella (ballando) Eo su Pulicineja Su mbizzato a la battaglia Tengo ammanu chistu ferru (agita il fazzoletto attorcigliato) Pemmu battu a chi mi parra(3) Io sono Pulcinella avvezzo alla battaglia, ho in mano questo arnese per dare addosso a chi mi dà noia. Mena botte a destra e a sinistra, col fazzoletto. Al primo colpo Carnevale, affranto dal carcere, dal digiuno e dal ballo, cade. Tutti gli sono addosso gridando):

Morte a Carnevale!

(Il Su Jacintu accorre col suo spadone; l'Offiziale e i bersaglieri con gli archibugi, i coltelli, i fazzoletti, ecc. Grande confusione; s'ode Carnevale gemere) Carnevale. Ohi! Ohi! M'ammazzano! — Dalli! dalli! dalli! Morte a Carnevale!

Tutti sanno che a rendere più palpitante la verità, dei budelli turgidi di sangue porcino sono stati celati nel grembo di Carnevale, e un urrà trionfante erompe da ogni bocca allorchè uno zampillo di sangue vivo sprizza dal petto di Carnevale, gli imbratta le vesti e tinge in rosso l'erba novellina.

L'orciuoletto del vino si è infranto, e il liquido vermiglio corre a mescolarsi col sangue; Carnevale straluna gli occhi con una espressione indicibile di stupore e d'angoscia, geme:

— M'hanno acciso… m'hanno acciso overo(1) M'hanno ucciso… m'hanno ucciso veramente.

L'illusione è perfetta; la folla, delirante, applaude; i monelli schiamazzano, gli attori si rialzano, inebriati, frenetici.

Il sole sta per andar sotto: il cielo è tutto un incendio su quella scena selvaggia. Gli attori asciugano, ridendo, le lame rosseggianti sull'erba del prato: nell'occhio guercio di Rocco Pagghiazzo sfavilla una gioia satanica.

E mentre Carnevale rantola, cosi bene che pare agonizzi davvero, il Volante chiude enfaticamente la farsa:

Volante Ecco, è ditta la farsa o mei signori Dal fini, 'ndi 'ndaviti a cumpatiri Perchè li recitanti su figghioli; Graditi questi quattru cerimoni Che Santu Roccu, nostru protetturi Na bon'annata vi pozza manaari: E vui tutti facitemi nu favori Gridate tutti: Ebbiva Carnalevari!(1) Ecco la farsa è detta, miei signori. Compatite gli attori in grazia dell'eccessiva gioventù e dello scopo avuto di farvi divertire. Gradite questi quattro complimenti. Che San Rocco nostro protettore vi mandi una buona annata. E voi tutti, fatemi il favore, gridate tutti: Evviva Carnevale!

E gli spettatori gridano in coro:

— Ebbiva Carnalevari! Ebbiva!! Ebbiva!!!

Un tuono giocondo saluta la fine. Gli spettatori si sparpagliano, si raggruppano, commentando e ridendo, poi man mano se ne vanno. Intorno agli attori, intenti a radunare il materiale servito alla farsa, per traportarlo altrove, restano i monelli che fan loro codazzo.

E Carnevale rantola sempre, benchè più debolmente, così bene, che par agonizzi davvero.

— E fatelo m'u fini! — grida Rosetta che, per la prima volta in vita, vibra ad una finzione viva come la realtà stessa. — Nun pozzu m'u sentu(2) Non ho la forza di udirlo.

— Core tenero ca n'dave! — ghigna Rocco Pagghiazzo. E, nell'occhio storto con cui fissa il cognato giovinetto così somigliante, nel pallore della commozione, alla infedele sua Rosa, brilla la stessa gioia maligna che vi brillerebbe se vedesse la moglie in persona assistere all'agonia dell'amante — Non lo vedi che fa apposta?

— E finiscila, Cenzo, levati! — grida il Volante, spingendo Carnevale col piede.

E Carnevale smette di rantolare. Allunga una gamba, poi l'altra, facendo tintinnare i campani della cintura, e sta rigido, immoto, grottesco, con la faccia nera vòlta al cielo.

Il Volante è assalito da un dubbio orrendo. Si china sull'amico, lo chiama, lo scuote; invano. Il corpo pesa come fosse di piombo, la testa e le braccia ricadono inerti.

Solo gli occhi guardano ancora, con quell'espressione indicibile di stupore e d'angoscia. Livido e stravolto, il Capu farza si volge ai compagni, lividi e stravolti anch'essi, balbetta:

— Morìo…

Un soffio gelido passa su quegli uomini travestiti.

Chi l'ha ucciso? Un solo?… Tutti?… Nessuno?… Chi, chi nella furia di colpire e squarciare i budelli suini ha immerso il coltello fino al cuore?

Un solo?… Tutti?… Nessuno?…

E, comprendendo in quel punto la gravità del caso, il pericolo d'esser trovati lì, accanto a quel morto, coi coltelli sanguinosi e le faccie bianche, gli attori si dan tutti come un sol uomo, a fuggire. Carnevale rimane solo, presso la gabbia, là dov'è caduto supino, fra la tavola apparecchiata e la cesta vuota, solo sul prato di smeraldo, tra i mandorli in fiore.

Il sole è andato sotto; il cielo violastro sul suo capo è di una dolcezza ineffabile, la cerchia delle colline intorno si vela di vapori e l'orizzonte si tinge di un verde bronzeo dalle sfumature squisite. Poi il crepuscolo scende, avvolge quel corpo, copre dei suoi veli oscuri il viso tinto del morto, empie d'ombra gli occhi che guardano ancora, che guardano sempre, con quella loro indicibile espressione di stupore e d'angoscia.

A Bice Tittoni.

Gnura, mu n'dunati nu sordu? mu n' dunati? (1) Signora, me lo date, un soldo? Me lo date? — La vocetta querula si perdeva nella vastità luminosa di un'aria senza vibrazioni, senza echi, accecante pel riverbero delle sabbie giallastre che il mar Jonio lambiva, assai dolcemente.

— Me lo date, gnura: me lo date? — A chiedere era soltanto la voce: l'atteggiamento della bimba non aveva nulla d'implorante e di supplice: la personcina eretta, salda sui piedi nudi, si staccava nel sole, sottile e bruna, come fusa in un bronzo dorato; la testina oscura, coronata di riccioli, s'ergeva sul collo esile come la corolla vellutata di un fiore, e il braccio sinistro, gentile e scarno, si alzava a schermo del viso in un gesto pieno di grazia. Dietro il braccio gli occhi grandi, nerissimi, lampeggiavano arditamente. La bella signora stava per affondare il piede, calzato della scarpetta di bulgaro, nell'arena giallastra, mentre con una mano si tirava in su la gonna davanti: e alla domanda s'arrestò, guardò la bimba negli occhi. Le parve carina con quella sua grazia selvaggia, nell'armonia della persona gentile da cui pareva sprigionarsi un profumo d'acqua marina e d'alghe, un profumo di carni sane e giovani liberamente cresciute al sole e ai venti del mare.

— Perchè farne, carina? — chiese con dolcezza.

— Per giocarlo, gnura.

La domanda innanzi ai pochi cenci che, con naturale eleganza, mal coprivano quel piccolo bronzo vivente, poteva anche esser superflua; ma la risposta era stata sincera, e la signora, sorridendo, si frugò nella tasca della sottoveste.

— Con chi lo giuochi? — chiese porgendole un nichelino che luccicò al sole.

— Con Micarello, il compagno mio.

— E se lo vince Micarello?

— Io lo perdo.

— Buona fortuna, allora. — E la giovane donna affrettò il passo per raggiungere là, presso la riva, la barca azzurra che aspettava, e nella barca un gruppo giocondo di bimbi rosei: tutto un ondeggiare di vesti bianche e di paglie morbide, spiccanti-sulle vesti oscure della babinaia e della Miss.

La bimba strinse la monetina in pugno senza dir grazie (forse non sapeva nemmeno che si dovesse dire) e restò immobile, con gli occhi seguendo la figura snella che, giunta presso la barca tra gridi di giubilo e manine levate in alto a carezzarla, vi saltava dentro brandendo un remo, metteva l'altro nelle mani del figlietto più grande, e dava il segnale della partenza. Il lieto gruppo era di già lontano sulle acque azzurre increspate da un fremito, e la piccina era ancora lì, estatica, con la monetina in pugno.

— Marinarella! — Una calda voce infantile la riscosse. Un ragazzetto, come lei bruno, come lei cencioso, ma più tozzo, con un viso schiacciato e corto che nei tratti caratteristici serbava l'impronta saracena così come il puro ovale della bimba ricordava il tipo greco, le sorse accanto.

— Micarello! Ho dei soldi, sai, per giocare.

— E chi te li ha dati?

— La signora della Villa, quella che ha tanti bambini belli: eccola lì che se ne va in barca.

Sedettero sull'arena, coi piedi nella sabbia che ne scottava le piante ignude, incuranti del sole che mordeva loro le carni, e incominciarono a giocare un bizzarro gioco cui facevan da dadi i ciottoli della riva.

Avevano davanti il mare vestito di una corruscante lorica a scaglie d'oro, dalle maglie più o meno larghe o strette a seconda della distanza e del moto impercettibile delle onde: a sinistra la punta di Roccella che si spingeva nell'acqua; a destra, lontanissimo, il Capo Bruzzano: alle spalle gli appennini calabri e la campagna folta d'ulivi le cui chiome grige, trascoloranti nel meriggio torrido, assumevan toni di vecchio argento. Ma, indifferenti a quelle bellezze viste le mille volte, i fanciulli apparivano sempre più assorbiti dal gioco, e, dalle rare esclamazioni, dal mutarsi delle fisonomie, era facile cogliere le diversità delle due nature: egli primitivo e rozzo, furbo ed avido, ma già pronto a subire l'impero di quell'acerba femminilità; ella più intelligente e precoce, francamente ardita, — di quella femminilità già disposta ad affermare il dominio. Le sorti volgevano favorevoli alla bimba, quando con un abile colpo di mano cui la fortuna era estranea, Micarello le mutò; e la vittoria fu sua. Con gesto furtivo e rapido fece sparire la moneta in una tasca del calzoncino, mentre Marinarella sporgeva i labbruzzi in gentile atto di broncio:

— Vinci sempre tu! — La cosa sarebbe finita, al solito, in rissa, se in buon punto una vela bianca non fosse venuta a distrarli.

Il broncio di Marinella sfumò in un grido d'allegrezza.

Ecco 'u Patri!

— Torna dalla prima pesca — disse Micarello — Bisognerà avvertire perchè l' aiutino.

— Ci penserà lui.

La paranza infatti ingrandiva a vista d'occhio; la vela latina solcava l'acqua come l'ala d'un gabbiano, e, quando la barca fu a tiro, uno dei tre ch'eran dentro si levò a prua, fece, delle mani unite, un cornetto alla bocca, e gridò con quanto fiato aveva in corpo: Ahooh!

In un lampo la spiaggia brulicò di monelli, di donne — nubili la più parte — dalle spalle quadre e dai polpacci bronzini. Quando i pescatori della paranza l'ebbero viste tutte lì, sulla riva, gettarono un'ultima volta la rete. Marinarella e il compagno, i quali si tenevano indietro, la videro svolgersi in tutta la lunghezza dei suoi cinquanta metri mentre i sugheri galleggianti si disponevano in semicerchio; le donne, da terra, raccolsero le funi, chiamando i monelli a dare anch'essi una mano, e, con uno sforzo lento e concorde per cui s'incarnavano le spalle quadre, oscillavano i tendini dei polpacci bronzini, il sacco fu tirato alla riva. Di tra l'umide maglie brune fu visto guizzare l'argento vivo dei pesci.

— Caterina?! dov'è Caterineia?… — chiese Fonzo(1) Fonzo — Alfonso., il marinaio che primo aveva dato la voce mettendo piede a terra nel momento istesso in cui vi giungeva la rete. Non era vestito che della camicia aperta sul petto, stretta intorno alle coscie nerborute: lo sguardo mite cercava tra la folla la figlia, ch'egli era il solo a non chiamare con quel soprannone di Marinarella.

— Eccomi, padre. Faceste(2) Nel dialetto calabro il passato remoto si usa anche in luogo del passato prossimo. buona pesca?

— Bella giornata, figlia. Non poteva mancare: è giornata della Madonna. Tre cale, una più fortunata dell'altra.

Dopo essersi chinate con curiosità sulla preda che l'onda lambiva di un'ultima carezza quasi a prolungarne la vita, le ragazze marinare si dispersero con la stessa rapidità con cui s'erano adunate, scomparvero nelle casette costeggianti la spiaggia: miseri avanzi d'un recente maremoto, il più terribile di cui si avesse memoria.

Con l'aiuto di compar Titta e di Pascalèio, il garzone, la barca fu messa a riposare, con la chiglia al sole; poi anche i due se ne andarono a far la siesta dopo aver mangiato un boccone, e Fonzo rimase solo coi bimbi. Si sdraiò all' ombra della barca, mentre i fanciulli frugavano nell'aspro tessuto della rete per trarne gli ultimi prigionierie gettarli in fondo a un catino; tolse dalla barca un pane, due cipolle, quattro arance, un pugno di fichi secchi, e ne fece parte ai ragazzi.

Questi ridacchiavano fra loro osservando le facce mute dei pesci che Micarello sosteneva tagliate tutte nello stesso stampo, mentre la bimba vi riscontrava dissomiglianze profonde, li classificava in belli e brutti, buoni e cattivi… E si divertivano un mondo a vederli saltare con le branchiette dilatate e le bocche aperte, a ficcar le mani in quel viluppo odoroso, dai mirifici riflessi, che si contorceva come in un accesso di follia disperata.

Il sospetto che tutta quella carne in convulsione soffrisse, ch'essi assistevano, ridendo, a un crudele spettacolo, non li sfiorava nemmeno.

— Non avrò bisogno di tornarci, stasera — diceva Fonzo seguendo con occhio soddisfatto i ghiozzi, le palaie e le aguglie, che dopo aver danzato tra le dita dei bimbi, andavano a raggiungere i compagni d'agnonia in fondo al catino. — Badate a non farveli scappar di mano.

— Euh! — fecero ad una voce i ragazzi.

— Sembrava maledetto, il mare, dopo quella tempesta della malora — continuava Fonzo — ed ecco che la Madonna l'ha ribenedetto. Nessuno ci credeva, stamani. Compar Titta e Pascalèio crollavano il capo, tra una boccata e l'altra di fumo, tra uno sputo e l'altro… Io dicevo: vedrete. Era l'ira del cielo, pei peccati nostri; ma oggi è giorno della Madonna, incomincia il mese dedicato a lei, il mare ci deve rendere quello che ci ha tolto. Cosi è stato.

Vidistivu?!(1) Avete visto? Avete visto un pesce laggiù? Vidistivu nu piscija' ftora? — e Micarello allungò il braccio in direzione della punta di Roccella, additando qualcosa che brillava a fior d'acqua.

— Là là, compare Fonzo: guardatelo com'è grosso!

— Oh caspita, Caterineja! Se l'ho detto ch'è giornata della Madonna? Quello dev'essere allunato (1) Allunato (paralizzato dalla luna) cioè in istato letargico. quant'è vero Dio! Guardatelo come se ne va, pancia all' aria! — E, prima che si potesse distorlo dall' ardito proposito, Fonzo s' era denudato fino alla cintola, vi aveva incrociato intorno le maniche della camicia legandole dietro il dorso, si era gettato a nuoto.

Il piccolo mostro continuava la sua rotta, lontano un cento braccia, ora mettendo fuori la testa, ora sollevando la coda, più che guizzando, lasciandosi tasportare dall' onda: poi si arrestò, in lunga sosta, immobile, quasi ad attender l'audace.

Marinarella e il compagno erano balzati in piedi prendendosi, istintivamente, per mano. I larghi occhi ansiosi seguivano, bracciata per bracciata, l' avanzarsi dell' uomo, il quale vigorosamente nuotava, e, misurando la distanza, sempre minore, che lo separava dal pesce, pregustavano, con voluttà mista a timore, lo spettacolo d'una caccia eroica. Quando Fonzo fu ad un tiro di schioppo, il pesce diede uno scossone, e via come una freccia incontro all'orizzonte che s' incurvava laggiù. Il marinaio respirò di sollievo. Aveva temuto di peggio: che so? una piccola balena, un pesce cane… ed era soltanto una cernia: una cernia enorme, dal grosso capo dove la bocca orrenda metteva in mostra una doppia fila di denti acuminati e sottili.

— Ah! caspita! se l'ho detto ch'è giornata della Madonna? Una cernia! Cinquanta lire ad occhi chiusi. — E Fonzo si diede, bravamente, ad inseguirla.

— Oh Signore! gli basteranno poi le forze a tornare?! — gridò Marinarella vedendolo rimpicciolirsi, divenire un punto bianco nell' immensità del liquido piano. Il cuoricino le batteva forte, e il cuore di Micarello batteva col suo.

Poi di nuovo il punto bianco s'ingrandì; la coda della cernia s'agitò più vicina, e un superbo spettacolo s'offrì ai bumbi attoniti. Fonzo era balzato sul pesce quasi cavalcandolo: il torso ignudo, lucente di mille goccioline prismate dal sole, s'ergeva sull'acqua immobile, pareva dominarla come quello d'un fiero iddio. La cernia si divincolava nello sforzo di tuffarsi e fuggire, ma Fonzo le s'era avventato alla gola forandola con le forti dita, e la teneva così, sanguinante e ribelle, alla superficie. Tutto intorno una solitudine immensa, un silenzio ardente, nel mezzo soltanto quell'epico gruppo il quale faceva pensare a qualche mitologica visione: Nettuno cavalcante un delfino.

Un grido d' ammirazione e di giubilo partì dalla spiaggia.

— Tornate, Padre! tornate! — gridò Marinarella, lasciandosi cadere sull'arena; e, come ebra, tuffò le mani nel catino, si lasciò scorrere tra le dita un ruscello d'argento odoroso e vivo. L'allegria di Micarello era più incomposta. Piroettava e saltava, lanciando in alto il berretto, oppure rideva sgangheratamente piegandosi sulla vita e dandosi dei gran colpi sui ginocchi con le mani aperte.

— Vieni a sentire che voce fanno — disse Marinarella invitandolo a piegarsi su quell'iridescenza di squame argentine verdastre e rosee, dove soltanto qualche timido guizzo e un languido agitarsi delle code pinnute tradiva ancora la vita. La maggior parte dei pesci pareva rassegnata alla sua barbara sorte, boccheggiava senza strepito; alcuni mettevano in quel silenzio il palpito delle branchie sonore che pareva un frullo d'ali spaventate o un rantolo d'agonia. I ragazzi se li avvicinavano all' orecchio per udire il trrr ininterrotto, somigliante al rullio d'un piccolo ventilatore in azione, e aspiravano violentemente il profumo della fresca carne moribonda.

— Adesso non ce ne importa più niente di voi! — cantava Marinarella continuando a lasciarsi scorrere tra le dita il ruscello d'argento odoroso e vivo. — Adesso papà ha preso il pesce grande, e domenica a messa Marinarella avrà la veste nuova e il faddaleiu(1) Grembiulino. di merinos e il fazzoletto di seta!…

A un tratto cacciò un grido acutissimo.

— Che c'è? — chiese Micarello, balzando.

— M'ha punta un pesce; quello che ci guarda adesso, con gli occhietti cattivi. — Si chinarono entrambi sul delinquente, grande come un cefalotto, dal cui dorso una pinna spiegava a ventaglio le punte digradanti, acuminate come aghi, di una trasparenza grigiastra. Micarello, di natura vendicativa, avrebbe voluto schiacciargli la testa con un sasso, ma lo trattenne il timore d'esser punto.

— Ti duole? — chiese.

— Un poco. — In verità Marinarella provava un dolore acuto, un bruciore intollerabile; ma era una bimba animosa, e poi metteva un certo orgoglio nel mostrarsi stoica con lui.

— Fa vedere. — Il ragazzo le prese delicatamente la mano, guardò la ferita: una puntura profonda che correva sotto la pelle, e la cui superfice violetta pareva il morso di una pulce, sparita la rosa.

— Adesso che ti sei fatta male… mi dispiace.

— Che cosa?

— Di averti fatto perdere, prima.

Marinarella ritirò in fretta la mano.

— Non importa: ci sono avvezza. — Ed ebbe un sorriso adorabile.

La premura del compagno le metteva in cuore come il tepore d'una carezza. Anche poc'anzi, quando, nell' ansia del pericolo, erano balzati su insieme, la mano nella mano, ella aveva sentito che quella palma infantile era già forte e secura, vi si era appoggiata nella tranquillità d'un affetto che ignorava sè stesso. Ed ora una dolcezza nova pervadeva quella sua animuccia precoce, un sentimento complesso e oscuro dove l'amicizia metteva le sue radici, l'amore i suoi sparsi elementi, e che non era ancora nè l'una cosa, nè l'altra.

— Eccolo che torna il Padre! Eccolo che torna! — gridò a un tratto dimenticando lo spasimo della trafittura. E si mise a batter le mani, gridando a squarciagola: — Torna, Pa, torna!

Fonzo volgeva alla riva spingendosi innanzi con un braccio, tirando dietro con l'altro il pesce che perdeva sangue per la ferita della gola. Ma il movimento di quel braccio era languido, tardi i moti delle gambe, e quando la bimba potè scorgere il viso del padre lo vide contratto e livido, nello sforzo di un'energia disperata presso a soccombere.

— Non ne può più, Micarello, non ne può più! — urlò, vinta dal terrore. E si volse intorno, in cerca d'aiuto.

Micarello ebbe un gesto eroico:

— Adesso mi getto!

— Non ti gettare! Annegate tutti e due! —

Fu un momento terribile. Sul punto di darsi per vinto, Fonzo si era fermato, guardando verso i bimbi che dal lido lo incitavano con la voce e coi gesti; poi, ricuperata la lena per un ultimo appello della volontà trionfante, filò un breve tratto col braccio libero che fendeva l'acqua come un remo: altri due colpi vigorosi e fu a terra. La cernia, palpitante, con la gola sanguinosa e la bocca aperta, era anch'essa sul lido.

— Che pazzia, papà! per un pesce così brutto!

Fonzo protestava col capo, non riuscendo a parlare. Il petto gli ansava forte, il fianco gli si sollevava come quello di una bestia inseguita: aveva le labbra violette, i capelli incollati alla fronte e gli occhi che parean schizzargli dall'orbita. Ma si riebbe ben tosto. L'ebbrezza della vittoria fece le veci di un cordiale, e poco dopo potè alzarsi, tirare in secco la cernia che rendeva gli ultimi aneliti.

— Nessuno avrebbe fatto quel che ho fatto io — disse con orgoglio ai bambini. — E senza coltello, senza nemmeno un temperino. E' vero ch'era allunato, ma questi hanno il diavolo in corpo arche quando li prende la luna! E se fosse stato un pesce cane, Dio liberi?! Mi mangiava, com'è vero che sto qui. Su, allegra, Caterineja! Mo sì che te la compro la veste nuova!

Marinarella si sforzò di sorridere, quantunque le dolesse atrocemente la mano. E non la mano soltanto. Le pareva che il bruciore invadesse anche il braccio, accendesse tutte le vene, mentre il cuore picchiava gran colpi disordinati, ora frettolosi, ora lenti, interroti da brusche pause. E, per quanto volesse mostrarsi forte, un gemito le sfuggì.

— Cos'hai? Non ti senti bene? Troppo spavento ti pigliasti, amara!

— L'ha punta un pesce — spiegò Micarello.

— Quello lì. — Marinarella allungò il braccio, divenuto gonfio e rigido, ad indicare il pesce che paceva fissarla ancora con gli occhietti cattivi.

Fonzo impallidì orribilmente.

— Quello?! Ma è una tràcina!(1) Trachinus draco. Allorchè è attaccato, dalla prima pinna dorsale secerne ed inietta un umore venefico pari in potenza a quello della vipera. Non s'è mai dato il caso che un adulto sia morto per la sua puntura; ma un bimbo, non curato, puo anche morirne. T'ha punta una tracina?!… Tu va a chiamar Compare Titta — ordinò a Micarello, mal dissimulando l'orgasmo — e affidagli il pesce. Che non tocchino la cernia: ci penserò io, dopo. E' mia, mia soltanto! Conduco Caterina, e vado in cerca di Comare Ardirò: lei le sa guarir queste cose. — E a Marinarella: — Non temere, piccola. C'è Comare Cata che s'intende di precantare(2) Precantare — combattere e neutralizzare l'influsso maligno d'un male occulto, mediante formule magiche, segni di croce ed altri scongiuri. e con due erbe, due parole di quelle che sa dir lei, ti sana, quant'è vero Dio.

Micarello restava lì come inebetito. Aveva sentito parlare delle virtù venefiche della tràcina, sapeva che, non appena presa, i pescatori si affrettano a tagliarle, di netto, la fatale pinna, e una leggenda pretendeva perfino che un marinaio, venuto da Roccella a Gioiosa per farsi precanlare, «ci fosse rimasto» per via.

— Va, va — dovette dirgli Marinarella per iscuoterlo.

Vaju. — Ma non si muoveva. Guardò la piccola amica andarsene, diritta ancora e leggera, a lato del padre; poi si prese la testa fra le mani, e se la tempestò di pugni.

— Marinarella si more! Aiutala, gnura, Marinarella si more!

Era una vocetta ben altrimenti querula, ben altrimenti dolorosa quella che accolse la signora del mattino, nel punto in cui, tornando dalla gita, metteva piede a terra. Micarello le stava davanti, piccino e tozzo, con due occhioni disperati nella faccia sconvolta.

— Marinarella? Chi?

— Quella di stamani… quella dei soldi per giocare…

— Ah… Andate a casa, vojaltri: vengo subito.

E salutati in fretta i bimbi che, ebbri di tutta una giornata sul mare, passavano ridendo dalle braccia dei marinaio ritto nella barca, in quelle della bambinaia e della Miss, la signora si allontanò di corsa, ora preceduta ora seguita da Micarello il quale andava a balzi silenziosi, con la agilità d'una scimmia. Il sole scendeva dietro gli Appennini calabri senza apparato di nuvole, silenzioso, e il mare cambiava la smagliante lorica del giorno in un'armatura di bruno acciaio.

— Ma come? com'è stato? Di' dunque!

— L'ha punta un pesce, un pesce malo :(1) Malo — Cattivo. la tràcina… la sapete? Comare Ardirò le ha fatto gli empiastri d'erba marina, ha detto le parole consacrate, ma arrivò tardi. Era fuori paese. E adesso gli scongiuri non servono, e adesso Marinarella si more: aiutala, gnura, se tu puoi!

Viste vane le cure della strega, il povero Micarello, senza dir nulla a nessuno, era corso ad aspettare la dama sulla spiaggia, con una suprema speranza di salvezza, e adesso l'implorava come s'implora la Madonna da cui s'aspetta il miracolo.

L'altra non credeva ai suoi orecchi. Moribonda la creatura che poche ore innanzi aveva visto sorvolare su l'arena candida con una leggerezza di creatura alata?!

Rivide lo personcina eretta nel sole, la testina riccioluta, il braccio scarno levato a schermo del viso; riudì la vocetta querula:

Mu n'dunati, gnura, mu n'dunati?… — Una profonda tristezza la vinse dinanzi all'ignoto di quel tragico fato.

— E il medico? Che cosa dice il medico?

Micarello si volse, stupefatto, a guardarla.

— Il medico?… Il medico… non l'ha chiamato nessuno.

— Nooo?! E tu vieni a cercar me, piccolo sciagurato, invece di chiamar lui?! Va subito e conducilo, più presto che puoi! — E mentre Micarello partiva come una freccia in direzione del villaggio, la giovane donna, accesa d'ira, affrettò il passo verso il borgo marinaio le cui case brune, smozzicate, smantellate, s'allineavano lungo la spiaggia come ruderi antichi.

— Sai la casa, gnura? E' l'ultima, quella tra le letticunare(1) Euphabia titimalus — pianta grassa (dai corimbi verdi, tendenti al giallo) che in tutte le sue fibre contiene un latice biancastro ed acre. Le spiaggie jonie ne sono disseminate., quella che ha un piede d'aloè innanzi alla porta — le gridò dietro Micarello.

La signora l'avrebbe ritrovata anche senza indicazioni di sorta, dalla folla che assiepava l'entrata, dalle voci confuse che ne uscivano in confuso ronzio.

— E' la Contessa… quella della Villa… viene per la creatura… Bellu cori ca n' davi!(2) Che bel cuore ha!

La folla si divise in ali sul suo passaggio, un sussurrio l'accompagnò fin nella stanzuccia avvolta in una semioscurità malaugurosa. Nell'ombra, alcune ombre più cupe si aggiravano lente intorno al giaciglio: sul giaciglio, una piccola forma bianca posava.

All' entrare della signora, Fonzo s' era alzato, col berretto in mano, e la seguiva singhiozzando forte.

— La colpa è stata tutta mia, gnura, tutta mia.. L'ho lasciata sulla spiaggia… sola col ragazzo… per correre dietro a un pesce… una cernia che poteva pesare venti chili… l'ho presa come un cane da caccia può prendere una lepre, alla corsa… le ho ficcate le dita nella gola, così… Per lei, gnura, per lei! E intanto la tràcina me l'ha punta, ed io non so più che farmene della cernia, dei soldì, della vita mia!

Un singhiozzo più violento lo scosse. Dei sospiri gli fecero eco, intorno. Le ciangiuline,(3) Ciangiuline — Prefiche. nere come corvi nelle saje oscure, già sedevano intorno, sugli scanni bassi, col fazzoletto alla bocca, il seno gonfio di sospiri, e le molli trecce, pronte a sciogliersi, ondeggiavano ad ogni moto del capo.

Ve n'erano tre — lusso raro per un pescatore — attratte più dalla notizia della cernia che assicurava a tutte, per due giorni consecutivi, il cibo e la non lauta paga di una lira per dì, che da un reale affetto per Marinarella; e tra queste Maddamma Teresa Armocìdo, celebre per l'arte con cui cantava le laudi dei defunti e ne piangeva la morte, comunicando in chi l'udiva a volta a volta brividi di pietà e fremiti di commozione, destando intorno rimpianti d'una dolcezza accorata. In piedi presso il letto, comare Cata Ardiró, vero tipo di strega leggendaria, alta, magra, con una gran testa quadra, dove pipistrelli e gufi avrebbero potuto comodamente acquattarsi, teneva solennemente nelle sue la mano gonfia di Marinarella e non cessava di stropicciarla, facendovi su fitti e brevi segni di croce, bisbigliando parole incomprensibili in quel suo dialetto che la miscela d'un barbaro latino rendeva più incomprensibile ancora.

— Lasciatela: non vedete che la tormentate inutilmente? — disse, un po' bruscamente, la signora scostando la fattucchiera.

Alcune voci femminili sorsero nell'ombra.

— Arrivò tardi, signora: non la rimproverare.

— Aveva perduto i sensi, e non ha potuto contare nemmeno fino a cinque.

— Fino ad undici avrebbe dovuto contare — brontolò la strega, per discolparsi — Non si fa deccato, e questo è il ringraziamento!

La signora s'era chinata sulla ragazzina:

— Marinarella, mi riconosci?… Son io… Adesso verrà il medico e ti guarirà.

La piccina usciva appunto da un deliquio: aprì gli occhi, riconobbe la sua grande amica, e la bocchina s'agitò come per parlare. Ma non ne uscì che un ohi lamentoso e un po' di bava. Il veleno aveva agito con rapidità prodigiosa: al fuoco delle vene, al palpito accelerato del cuore, s'erano aggiunti crampi, brividi, vertigini, sincopi, e adesso un torpore algido le paralizzava gli arti inferiori, un sudore gelido le incollava i riccioli sulla fronte, e intorno agli occhi, presso alle narici, ai lati della bocca, su quel volto poche ore innanzi sì vivo, erano già i segni bruni con cui l'avea segnato la morte.

— Adesso verrà il medico… guarirai.

Era questa la prima parola di speranza che suonasse lì dentro. Il popolo non è uso a velare di pietose menzogne le sue crude sentenze, e per le vicine, accorse in pellegrinaggio durante l'intero giorno, Marinarella era condannata sin da quando non aveva potuto contare fino ad undici. Epperò la stanza echeggiava di conforti come questi:

— Ti muori, povera Marinarella, ti muori?!

— Ah sorte infame!

— Sei nata appena e già te ne vai!

— Beata lei! Va a star meglio!

— Santa Caterina le ha già preparate la palma e la seggiola, accanto a sè, in Paradiso…

Così anche Marinarella ci s'era rassegnata: forse soffriva troppo per desiderare altrimenti. Teneva gli occhi fissi sulla soglia, e pareva attender qualcuno.

— Che guardi? Chi aspetti?

Un gemito soltanto rispose. Lo signora comprese.

— Micarello? Cerchi Micarello? Sarà qui a momenti…

In quel punto l'alta persona del medico ostruiva il vano della porta, e Micarello sgusciandogli di fra le gambe, faceva anch' egli il suo ingresso, affannato e con la lingua penzoloni.

Il dottor Vecchi era un omone sempre frettoloso, vero medico dei poveri, dalle rapide diàgnosi fatte con un'occhiata, dalle ricette scritte in piedi, con un sol tratto di penna, dalle brusche sentenze, racchiuse in un monosillabo che sovente la vita si divertiva a smentire. Alla vista della signora si scoperse, si avvicinò in fretta al letto.

— Avvelenamento?

— Avvelenamento.

Guardò il braccio e la mano gonfii; toccò i piedi diacci sotto la coltre leggera, si chinò ad ascoltare il cuore.

— Più niente da fare.

— Oh! — fece la signora con le lacrime nella voce, mentre tutta una gamma di sospiri accoglieva la sentenza, in giro. — E se l'avessero chiamata in tempo?…

— L'avrei salvata: vi sono mille mezzi. Avrei dilatata la ferita… poi cauterizzata col sale ammoniaco, col nitrato d'argento, con la potassa caustica… Avrei somministrato l'acquavite per bocca… Vi sono mille mezzi, ripeto: tutto sta ad applicarli con prontezza.

Fece per riprendere il cappello.

— Oh! — esclamò di nuovo la signora, sopraffatta dal rammarico e dallo sdegno.

— E sempre così, sa; ed è inutile, faranno sempre così.

Gli occhi del dottore caddero su Comare Ardirò, all'altro lato del letto, ne incontrarono le pupille smorte. Un lampo scaturì: gli occhi della strega e del medico incrociarono l'eterna sfida che la superstizione e la scienza si lanciano tuttora, nelle campagne.

— La colpa è stata tutta mia, gnore duttore… — balbettava Fonzo, strangolato dai singhiozzi. accompagnando il medico all'uscio. — Tutta mia… L'ho lasciata sulla spiaggia sola col ragazzo… avevo visto un pesce… un pesce grande così…

— Bene, bene, bene. Me lo conterai dopo: ho venti visite, adesso. Solo ricordati, se qualche tràcina ti fa uno scherzo simile, chiamami a tempo. I miei ossequii, signora contessa. — E sparve.

Marinarella sorrideva angelicamente. Aveva finalmente scorto Micarello solo in un canto, coi gomiti sui ginocchi, il capo tra le mani, e, quasi per andarsene non avesse atteso che lui, volse intorno i grandi occhi già velati di morte, li arrestò sul compagno: li richiuse per sempre. Un sospiro lungo, un ultimo fremito del corpo, accompagnarono il volo dell'anima fuor della sua spoglia terrena.

— Figlia! Figlia! Figlia! — urlò Fonzo brancolando sul corpo della figliuola.

Senza scomporsi, Comare Ardirò accese un lumino ad olio, ne passò e ripassò la fiamma, che non oscillava, dinanzi alla bocca della morta, poi la posò davanti a un'immagine della Madonna di Portosalvo. E quasi questo fosse un segnale, un grido altissimo eruppe dal seno delle prefiche, le quali con le trecce disfatte, il fazzoletto sulla bocca, s'erano disposte in cerchio intorno al letto. Il grido andò man mano digradando, si addolcì in un lamento prolungato, di una monotonia esasperante.

Te ne andasti, Marinarella, te ne andasti! — incominciò Teresa Armocìdo che, secondo il rito, sedeva di fronte al Dolituri,(1) Dolituri — dolente, parente prossimo che piange il caro perduto. accompagnando col capo la nenia funebre. — E tuo padre è rimasto solo, solo su questa terra dov'è sempre notte, senza di te!…

La voce si ruppe in un urlo breve e roco, come un singhiozzo.

— Tu eri la festa di casa! — continuò la seconda prefica — Quando ridevi tu, ne rideva l'aria… Quando volavi sull'arena, il tuo piede era leggero come quello della gallinella d'acqua, e quandi ti bagnavi nel mare, i gabbiani invidiavano la tua bianchezza…

— Figlia! Figlia! Figlia! — ripeteva Fonzo, e quel singhiozzo accompagnava il canto delle prefiche, come la nota aspra e spezzata che i contadini calabresi strappano all'unica corda d'un loro bizzarro istrumento detto l'arzarino.

— Sentilo il padre come piange! — cantò la terza. — Cosa gli diremo noi quando ci domanderà: Dov'è andata? dov'è andata la figlia mia?… Quando la sera tornando dalla pesca, s'affaccerà alla porta e chiamerà: Marinarella! Ohi, Marinarella! Chi gli risponderà se non il murmure del risucchio sul lido? E quando s'accosterà al desco per mangiare un boccone, il pane gli resterà nella strozza, perchè non saranno state le tue mani a spezzarglielo…

— Figlia… figlia… figlia…

— Doveva essere giorno di festa, oggi — ripigliò la prima, poi che l'eco strascicata dell'ultima nota si fu perduta nell'aria. — Tuo padre aveva affrontato la morte per prendere un pesce come non s'era visto l'eguale… e tu domenica avresti avuta la vesta nuova, e il faddaleiu di merinos, e nessuna figlia di pescatore sarebbe stata bella come te!…

— Ma il destino non ha voluto — continuò la seconda — il destino ch'è sempre in agguato, che si nasconde nella pinna d'un pesce per recidere il filo d'una vita, il destino geloso della tua bellezza e della tua gioventù!

— E t'ha messo nel sangue il fuoco che divora, il veleno che uccide — proseguì la terza — e ha mandato Comare Ardirò fuori paese perchè non giungesse in tempo a salvarti, e t'ha tolto i sensi perchè tu non potessi contare fino ad undici, mentre essa ti precantava: perchè questa, questa era la tua sorte maligna!

— Figlia… figlia… figlia…

Il pianto si spandeva intorno, armonioso e triste. Ogni episodio di quell'umile vita breve veniva glorificato, magnificato, descritto. Le tragiche vicende di quell'ultimo giorno, la caccia alla cernia, la puntura fatale, il precantamento, la morte, tutto era pretesto ad interminabili geremiadi; tutto era esaltato, poetizzato dal canto. E l'estro delle prefiche s'accendeva. Una fioritura d'immagini delicate, di metafore ardite, sbocciavano su dal cuore di quel popolo immaginoso ed ardente: la poesia ne sgorgava in un getto che toccava talora le sommità della lirica. Lacrime silenziose che nessun lacrimatoio era lì a raccogliere, scorrevan giù per le gote di quelle donne scarmigliate: i sospiri gonfiavano i magri seni: di tanto in tanto un singhiozzo magistrale, da grandi artiste, lacerava l'aride gole. E fuori la gente si assiepava ad udirle: esclamazioni ammirative correvano sommessamente nei crocchi, commossi da un senso misto di pietà e di diletto. La signora potè scivolar fuori quasi inosservata, dopo aver messo nelle mani della morticina tutte le rose della sua cintura. E lungamente, per l'oscura via, l'accompagnò il verso con cui le prefiche ripigliavano il canto:

Aju misu la me' vita a l'antisa cu chija du patri vostru… — Cioè: Ho messa l'anima mia all'unisono con quella del padre vostro quasi si trattasse davvero di accordare due istrumenti, e che il monotono, straziante appello di Fonzo, glie ne desse il la…

Adesso Micarello era solo con la sua morticina. Le prefiche s'erano allontanate per tornar l'indomani; Comare Ardirò era uscita anch'essa col pretesto di preparare una tazza di caffè al dolente, ma in realtà per trafugar pochi cenci radunati durante il giorno; e Fonzo s'era addormentato col capo sulla sponda del letto e un singhiozzo in gola.

Micarello non dormiva. Accoccolato nel suo cantuccio, coi gomiti sui ginocchi e il viso tra le palme, non istaccava gli occhi dalla piccola amica, e quegli occhioni asciutti, ardenti di febbre, brillavano come carbonchi nel suo viso d'arabo. Il mistero della morte, intravisto per la prima volta, gli empiva l'anima d' un confuso orrore.

Cos'era, morire? Dov'era andata Marinarella? Sarebbe ella tornata? No! E perchè era nata allora? Perchè era morta? Perchè?!

A quel no Micarello sentiva strapparglisi qualche cosa nel petto: un nervo, una vena, un muscolo, non sapeva bene, ma certo qualcosa di lui, ch'ella portava con sè. Addio belle corse sull'arena candida, e merende sul lido coi piedi nella spuma, e sieste all'ombra della barca, e allegri giuochi, e fieri bisticci, e dolci paci infantili! Tutto questo non tornerebbe mai più, mai più. Come dubitarne? Le prefiche avean cantate le sue lodi, Comare Ardirò le aveva messo ai lati due ceri gialli, le vicine l'avean cosparsa di fiori, e invano egli l'aveva chiamata, da prima a bassa voce, poi più forte, sempre più forte: «Marinarella, ohi Marinarella?!… »

Nessuno aveva risposto: nessuno gli avrebbe risposto, mai più!

Com'era bella! Le sue fattezze, non più turbate da alcun moto interiore, s'erano ricomposte in una perfetta armonia d'espressione e di linee. Chiusi gli occhi nella cui retina era forse rimasta l' immagine di lui, Micarello: un' ombra di mistero inquietante cerchiava l'alto delle gote: un'altra ombra s' accoglieva nel cavo inferiore della bocca, chiusa da un bocciolo purpureo.

La morte le avea dato in più quell'aureola di cui sublima la fronte degli eletti, un lume di beltà riposato e dolce: l'ultimo omaggio ch' essa rende all'opera che s'accinge a distruggere. Ma se la piccola bocca già torta da tanti spasimi, sforzata da tanti gridi, era ormai chiusa dalla morte e suggellata sul mistero del di là, il bocciolo purpureo vi parea pur messo a simboleggiare ancora la vita: quell' ardente vita, com' esso recisa prima di aver dischiuso i petali al sole.

Un rimorso metteva la sua punta avvelenata nello strazio del fanciulletto. Gli s' era affacciato al mattino, subito dopo la vittoria sleale, a quel: « Vinci sempre tu! » della bimba; s' era tradito al tono con cui aveva detto: « Adesso che ti sei fatta male, mi dispiace » ed aggiunto: « d'averti fatto perdere, prima »; s'era acuito all' accento rassegnato con cui ella averva risposto, sforzandosi di sorridere: « Non importa: ci sono avvezza ». — Oh quel broncio gentile, l'accento rassegnato, il sorriso, Micarello non li avrebbe dimenticati, mai più! E da prima timido, sensibile appena, quel rimorso era man mano divenuto acuto, sempre più acuto, intollerabile: ed ora ch' ella era morta, che non avrebbe potuto più renderle il mal tolto, questo rimorso gli metteva in cuore il disperato rammarico dell'irreparabile.

— Marinarella, perdonami! — diceva mentalmente, supplicandola con occhi ardenti — Tu adesso sai tutto, e certo non mi vuoi più bene, e se tu vivessi non vorresti più giocare con me… E' vero, ti vincevo tutti i soldi, e a volte anche la frutta, anche il pane; tu eri così buona e non sospettavi di niente!… ma adesso che sai tutto, saprai che io mi taglierei una gamba, un braccio, la testa, pur di farmi perdonare, da te…

Così passò la notte; venne l'alba. E con l'alba i canti, la folla, tutto l'apparato esterno del dolore. La prima a giungere fu una larga corona di fiori bianchi mandata dalla Villa, dove, su un gran nastro d'amoerro, la signora stessa aveva dipinto a lettere d'oro: « Marinarella ».

Quei fiori che gli ricordavano la donatrice e il dono della vigilia, inacerbirono la piaga. Il nikelino era tuttora lì, nella tasca, e di tanto in tanto la mano di Micarello s'insinuava a sfiorarlo pel crudele piacere d'avvivare il rimorso; se ne ritraeva bruscamente, come se si fosse punto, o scottato. Poi venne D˙ Giacomo, il parroco, a benedire la salma; e sul tardi una piccola cassetta d' abete. Fonzo si abbrancò al letto, perchè non gli portassero via la sua morta; ma, secondo l'uso, ne fu strappato a viva forza; le prefiche supplicarono ad alte grida Marinarella di non andarsene, di non lasciare il padre solo su questa terra dove era sempre notte senza di lei, ma sotto gli stessi lor occhi Comare Ardirò e un'altra donna la presero, fecero per metterla nella cassa. Allora Micarello lasciò il suo cantuccio, s'avvicinò alla morta con la mano in tasca, le nascose in pugno qualcosa che luccico per l'ultima volta al sole, e scappò via col suo dolore, lontano.

A Luigi Capuana.

Ndringhete ndringhete zin! Ndringhete ndringhete zin!

Il banchetto di nozze volgeva al termine ed i suonatori accordavano gli strumenti: una lira che dell'antica ha la forma, non il suono strappatole da un archetto simile a quello del violino; l'arzarino, cioè un cerchio di ferro aperto al sommo sul quale un altro ferro batte in cadenza; l'organino, il tamburello e la chitarra: un insieme bizzarro ma non stridente che nel ritmo della danza è di una dolcezza monotona, priva d'ogni incitamento.

Innocenza la sposa e Giusi di Barracca lo sposo, sedevano a capo della lunga tavola intorno a cui si pigiava, oltre il largo ma povero parentado, un denso stuolo d'amici.

Innocenza, diciassettenne appena, era un tipo di Lucia manzoniana meno insipida. La sua carnagione di bruna pallida, dovendo lottare col celeste troppo vivo della saja nuziale, ci scapitava d'un tanto; ma in compenso i capelli corvini azzurreggiavano attraverso al velo fiorato del grambà, i grandi occhi neri sfavillavano di sotto ai lunghi cigli costantemente abbassati e un sorriso fremente, indizio di sensibilità rara in una contadina, contraeva la bocca arcuata e gentile.

Giusi, ragazzo onesto e faceto che senza un soverchio amore pel vino sarebbe stato perfetto, non le sfigurava punto daccanto.

Era quella l' unione di due miserie e di due cuori: miserie confortate da un' eccellente salute e dalla buona volontà di lavorare; cuori ardenti e giovani la cui fedeltà aveva sfidato durante tre anni le ire di Mara Gabrela(1) Maria Gabriella., madre della sposa, donnetta astuta e rapace che sulla bellezza di quell'unica figlia fondava le più ardite speranze.

A destra d'Innocenza sedeva Natale 'i Sabbeja il Messere(2) Il suocero., uomo di buon consiglio, il cui parere veniva richiesto nelle più gravi contingenze, e Giusi aveva alla sinistra Vice di Giannella, ricco massaro, importantissimo personaggio, destinato a far da padrino al primo nato. Gli altri sèguivano senza distinzione di sesso ma secondo le norme di una rigorosa etichetta: i parenti dello sposo accanto alla sposa e viceversa, giù giù digradando secondo la maggiore o minore importanza.

I'Mericani(3) Si chiamano così gli emigranti rimpatriati d'America. si distinguevano al tratto più civile, ai riguardi di cui erano oggetto; e tutti sedevano un po' discosti dalla mensa alla maniera dei contadini, brandendo in una mano la bròccia(4) Bròccia — forchetta., appoggiando l' altra sulla coscia. Solo Mara Gabrela non sedeva con gli altri. Secondo l'uso, il suo compito era di cucinare con l'aiuto di qualche amica e di servire a tavola nel medesimo tempo, sicchè andava e veniva di continuo portando le pietanze nei larghi tondi communi; poi, dopo averli deposti sulla tovaglia oscura, prendeva parte alla conversazione, rispondeva ad una facezia, rideva di un frizzo, si chinava a sussurrar qualcosa all'orecchio della figlia o del genero.

Vedova da dodici anni e più, quella mattina soltanto avea mutato il vanchàle di panno nero che d'inverno e d'estate s'inquadra sul capo delle vedove pel solito filandente bianco, e in quel candore la faccia rugosa innanzi tempo sembrava più oscura, più neri i piccoli occhi grifagni, più ripugnante la bocca umida e larga che tradiva una natura sensualmente proclive ai piaceri della tavola e cupidamente venale.

Il pranzo era stato allegro. Da prima pareva dovesse guastarlo un litigio sorto tra le donne nel recarsi in chiesa e continuato a tavola circa il diritto di camminare alla spaja(1) Alla spalla., cioè a fianco d'Innocenza, dritto che le costumanze assegnano alle parenti più prossime ma che le amiche della sposa si disputano con furore; e un altro, nato tra le due sorelle di Giusi, a proposito d'un posto d'onore che entrambe ambivano alla mensa. Del resto, ciò non sorprendeva nessuno. L'etichetta paesana è così complicata, così grande la suscettibilità delle donne, che non v'è solennità la quale non sia turbata da qualche screzio, e non è raro il caso di aspiranti deluse che piantino a mezzo un pranzo o un corteo di nozze e se ne tornino a casa tra lo sparo dei mortaretti, sotto la pioggia del grano augurale, facendo irosamente ondeggiare il velo del capo.

Qui, grazie all' autorità di Natale 'i Sabbeja, ai buoni uffici di Mico della Sorda e di Pascà di Buggiacca, inseparabili amici, cantatori esimî, anima d'ogni riunione villereccia, si era giunti alla fine senza incidenti notevoli.

E già Mara Gabrela aveva portato trionfalmente in tavola le nacàtole dorate e spolverizzate di zucchero, il vinello bianco, le arance dolci come il miele, e già i suonatori invitavano coi loro accordi alla danza.

Ndringhete ndringhete zin! Ndringhete ndringhete zin!

Ma nessuno si muoveva. I vecchi se la discorrevano pacatamente d'una questione sorta tra due coloni di poderi limitrofi a cagione d'un bove che, arando, aveva varcato il limite per assaggiare l'erba del vicino: i giovani discutevano con assai più calore se Rocco della Bella, il cui matrimonio era andato a monte in quei giorni, dovesse o no ripagar la famiglia della sposa delle spese fatte e del danno patito(1) Non appena accettato, il fidanzato ha il suo posto alla mensa dei futuri suoceri, anche se il matrimonio, come spesso accade, avviene in capo a degli anni. Pero, ove il matrimonio si rompa per sua colpa, è tenuto a rimborsare la famiglia della promessa sposa di quanto ha speso per lui in ragione di due carlini al giorno. La legge, non votata da Parlamento alcuno ma ribadita da secoli di obbedienza, è tassativa; la nuova generazione però vi si ribella sovente, e allora, inasprita dal puntiglio, la questione finisce dinanzi al giudice che, per solito, si uniforma al codice popolare e condanna..

N'ascite n'ascite! — urlava Ntoni da' Fumata apertamente avverso la legge. — Mo uno n'dave 'u ce paga pure na muzzecata 'i mangiare! (1) Andate, andate! Sta a vedere che ora bisogna loro pagare anche un boccone di cibo! E non se mettono scorno!

— Che scorno e scorno! Dovere, mi pare! E la zita? Chi la ripaga degli anni e dei matrimoni perduti? Che forse la roba in casa ce la portava l'acqua? N'davarria 'u ce face 'a dota, n'davarria 'u ce face!(2) Dovrebbe farle la dote, dovrebbe farle!

Le zitelle erano tutte del parere di Mico della Sorda, schieratosi così cavallerescamente dalla parte del più debole, mentre le Maddamme più aristocratiche badavano a criticar fra loro i rustici commensali venuti dalle campagne, i quali ignoravano il saper vivere al punto da dividere i maccheroni con le mani.

In quanto agli altri non erano così schizzignosi, e la più grande cordialità regnava fra i commensali.

Ad ogni nuova portata i vicini si scambiavano, secondo l'uso, una forchettata di maccheroni, di broccoli, di baccalà di nacâtole, e se qualcuno si ritraeva bruscamente lasciando il cibo spargersi sulla tovaglia o sugli abiti, lo schizzo era accolto dalla più schietta ilarità.

Il vino circolava in copia. Ne veniva offerto allo sposo, alla sposa; tutti se lo offrivano, scambievolmente, accompagnando l'atto con motti cortesi e vivaci. Ed era un gran ridere quando qualche bello spirito, dopo avere accostato il bicchiere ricolmo al labbro del vicino, lo trangugiava d'un fiato, lasciando l'altro a bocca asciutta.

— Poco! poco! n'daviteme 'a carità! — supplicava la sposina, condannata a gustare d'ogni pietanza un boccone, d'ogni bicchiere un sorso. E, tanto per non sembrare scortese, vi posava appena le labbra, mentre lo sposo ingozzava bocconi su bocconi, bicchieri su bicchieri, al punto d'averne la testa e lo stomaco oppressi.

Chistu vino è d'oje, ma è comprato d'ajeri E purtamo nu brindisi a Nocenzèja Cavaleri. Chistu vino è fino com'a Pascà di Buggiacca E purtamo nu brindisi a Giusi 'i Barracca E venuto alla via mia E salutamo la compagnia.

Con questo toast agli sposi, Vice di Giannella diede la stura ai brindisi che si seguirono come fuochi d'artificio cogliendo a pretesto ogni atto, ogni motto e portandolo, per torte vie, a rimare coi nomi dei commensali. Barbaro metro e barbare rime; ma la vena era così facile, l'allegria così schietta, che Madonna Prosodia in persona avrebbe perdonato ridendo.

Il torneo si chiuse con un brindisi a Mara Gabbrela; poi la sposa si levò lasciando cadere i chicchi di grano rimastile nel grembiule; lo sposo l'imitò con le gambe grevi, la testa che gli oscillava sul collo, e tutti s'alzarono gettando nella tafarèja(1) Tafarèja — guantiera. posta in mezzo alla tavola la moneta destinata a pagar lo scotto. Chi vi buttava alcune lire, chi dei ventini di nikel, chi semplicemente dei soldi, e chi approfittava della confusione per avvicinarvi soltanto la mano vuota: i parenti più ricchi vi deponevano, con molti riguardi, una carta da cinque lire, e, giunto il turno di Vice di Giannella, il compare, questi vi lasciò cadere con ostentazione un biglietto da dieci. Fu un trionfo!

Incurante e distratta, Innocenza era andata intanto a sedere nel suo atteggiamento da Lucia lungi dalla tavola, accanto a Giusi: ad essi giungeva confusamente il tintinnìo dell'argento e del rame sullo stagno dando loro un senso di molestia più che di piacere; ma c'era Mara Gabbrela a badarvi per quattro, ella non perdeva d'occhio la tafarèja, contava il denaro con un batter di cigli; poi, quando tutti ebbero fatto il loro dovere, ghermì la guantiera e disparve.

Riapparve tosto per ìsparecchiare con l'aiuto delle donne, trarre in disparte la tavola sulla quale vennero allineate bottiglie piene e bicchieri vuoti. La stanza venne così sgombrata pel ballo. Era la più vasta della ridente casetta che Mara Gabbrela, con meraviglia di tutti e scandalo di parecchi, aveva fabbricato in due mesi per la figliuola.

Una casa in due mesi! in un villaggio! E chi le aveva dato i denari? Non certo Giusi ch'era povero in canna, nè il marito buon'anima che a a Nocenzèja non aveva lasciato un soldo di dote!

Le male lingue insinuavano che tanta improvvisa prosperità si dovesse ad un certo Barone al quale piacevano le forosette in generale ed Innocenza in particolare.

Ma i meglio informati sapevano che Innocenza era la più onesta fanciulla del villaggio, per cui le oscene proposte del novello Don Rodrigo erano state da lei sdegnosamente respinte.

Di quello famoso, immortalato dal Manzoni, costui non aveva nè gli avi illustri nè il piumato cappello, e neanche la baldanza audace e la giovanile protervia. Grasso e grosso, di un'ignoranza marchiana, impacciato nel titolo e nelle ricchezze nuove come un pulcino nella stoppa, prepotente senza ardimento, superbo senza fierezza, prodigo per sè e avaro per gli altri, era il vero tipo del signorotto moderno che in alcune provincie remote e tarde ad incivilirsi ha rimpiazzato l'antico.

Non so se qualcuno o qualcosa vi abbia guadagnato nel cambio, non certo la poesia nè l'estetica, e nemmeno i fittavoli che, per eredità del sangue servile, piegano ai nuovi signori la schiena.

Se i privilegi sono morti, i mezzi di dominazione son molti e varii, il denaro è un'arma onnipotente in ogni tempo, le leggi sono fatte pei forti, e gli Azzeccagarbugli pronti a farle valere a vantaggio dei Don Rodrighi non si contano più.

Il giudice è lontano e la vendetta vicina! — pensa il moderno vassallo, non meno angariato dell'antico; e si curva al giogo di una signoria non riconosciuta ma incontrastata, senza velleità di rivolta. Il Don Rodrigo d'Innocenza si contentava di ridurlo sul lastrico dopo qualche anno di colonia e di dividere con esso il possesso delle donne belle: discrezione che gli valeva la gratitudine di molti e la stima di tutti; però essendo vile, non amava incontrare Giusi di Barracca per via, nè avrebbe mai ardito inviare al curato alcuni bravi che pur non gli sarebbe stato arduo trovare.

Si limitava a minacciare vagamente Innocenza che, come Lucia, giudicava prudente non farne parola al suo Renzo, e ad accarezzare i lati deboli di Mara Gabbrela, che lo consigliava pel suo meglio:

— Sciocca! sciocca! cosa ne farai di quel tanghero senza la camicia? Col barone invece… — Ma Innocenza l'arrestava con lo sguardo fiammeggiante e sdegnoso:

— Quando ci sono la salute e le braccia, non c' è paura di niente, mà!

— La salute? le braccia?! E se due non ponno, le altre cosa fanno? Lavorerai tu sola per te, per lui, e per quelli che verranno?

Innocenza crollava le spalle con la bella imprevidenza degli innamorati.

— Come fanno le altre farò anch'io!

— Le altre! Le altre non sono nemmeno degne d'incrocchettarti la saja!(1) D'agganciarti le vesti. Ma sia fatta la tua volontà!

E Mara Gabbrela si rassegnò alle nozze.

Allora, come per un colpo di bacchetta magica, parve mutata d'un tratto.

Non più rimbrotti alla figlia nè bronci al futuro genero: quasi avesse rinvenuto un misterioso tesoro, in due mesi fabbricò la casetta nuova, allestì a Nocenzèja un corredo da Maddamma, e spinse la generosità fino a regalare una somma a Giusi, perchè comprasse gli ori e le vesti delle nozze.

Tanto lusso stupì tutti, eccetto i fidanzati, troppo felici per istupirsi di nulla.

Infine, garbasse o no ai maligni, la casa era finita, una casetta a terreno che guardava da un lato sul Vallone, lurido precipizio in fondo a cui scorreva un melmoso rigagnolo, dall'altro sulla via, e si componeva di tre stanzette: la camera da letto degli sposi a destra, la cucina a sinistra, in mezzo il tinello dove s'era pranzato e nel cui angolo oscuro, sapientemente nascosto da una filza di coperte poste a guisa di tende, si celava il letto della vecchia. E, garbasse o no ai maligni, anche le nozze avevano avuto luogo e poichè, in fatto di denari, il più importante è d'averceli, le male lingue invitate al banchetto erano le prime a magnificarne il fasto, proclamando Mara Gabbrela il modello delle madri, la perla delle suocere, ed a festeggiare gli sposi.

Ndringhete ndringhete, zin! Ndringhete ndringhete, zin!

Per gli altri incominciava il ballo, per Mara Gabbrela il lavoro più faticoso.

Si trattava di spedir le mandate(1) Mandate — piatti colmi di maccheroni, di carne, etc. ai parenti e agli amici che non avevano potuto intervenire alle nozze, e anche in ciò Mara Gabbrela si coperse di gloria, non essendosi mai viste mandate più abbondanti e numerose partire pei quattro canti del villaggio.

Ndringhete, ndringhete zin! Ndringhete, ndringhete zin!

Gli sposi aprirono le danze, mentre la musica mal copriva l'assordante grugnir di maiali che saliva dal Vallone. Innocenza ballava composta, con grazia innata, ora prendendo con due dita ora lasciando una cocca del grembiule di broccatello. Teneva gli occhi a terra — tutto un fulgore tra la frangia dei cigli — un pudico rossore le animava le gote, e il sorriso della bocca gentile si faceva sempre più fremente, pareva alternare sul suo volto ombre e luci bizzarre, forse prodotte soltanto dall'ondeggiar del grambà. Giusi invece si dimenava pesantemente e la sua danza pareva più quella di un orso ammaestrato che d' uno sposo felice.

Compare Giusi n' dave nu jidito'icchiù!(1) Compar Giusi ne ha un dito (di vino) più del bisogno! — osservò maliziosamente Pascà di Buggiacca.

Giuvani! — E Natale 'i Sabbeja sorrise con indulgenza al peccatuccio di Giusi, che in quel giorno pareva ancor più scusabile.

Benchè occupatissima, Mara Gabbrela veniva di tanto in tanto a guardar la figliuola. Si fermava un momento sulla soglia, con una mano sull'anca, gli occhietti lucenti di legittimo orgoglio; poi s'asciugava la bocca col dorso della mano e spariva.

Dopo il primo giro di ballo si avvicinò al genero e gli fece scivolare in tasca un napoleone nuovo di zecca, perchè lo donasse alla sposa. L'usanza voleva che, dopo ogni giro, il cavaliere il quale aveva avuto l'onore di ballar con la sposa la regalasse, mettendole in mano una somma che andava da un soldo alle cento lire, secondo le nature e le borse.

Fu dunque con vivo moto di sorpresa che, tornando al posto. Innocenza si vide luccicare sul palmo della mano una moneta mai vista. Cos'era quello: dell'oro? E come mai si trovava nelle tasche di Giusi? Dell'oro, Giusi?! — Ma non le lasciarono il tempo di riflettere al caso stupefacente.

Mico della Sorda veniva ad invitarla pel secondo giro, e che ridere quando, dopo una tarantella più 'legante delle altre, Mico, sempre burlone, le mise in mano un vecchio soldo del Papa!

Altre coppie uscirono a ballare, le donne tutte più o meno graziose, gli uomini tutti più o meno sgraziati, eccezion fatta dei 'Mericani, i quali sapevano perfino ballare abbrazzati, portando nel ballo una spigliatezza, un rispetto della misura ignota agli altri.

Innocenza veniva invitata di continuo, regalata dopo ogni giro. Che fiamma le saliva al viso ogni qualvolta si trovava in mano quell'obolo! Correva a gettarlo in un cestello, quasi le scottasse, poi tornava a ballare con la stessa foga giovanile, lo stesso ingenuo piacere.

Il sudore colava a rivi, il seno le ansava forte, ma ella non si dava per vinta; in breve il cestello fu così pieno che Mara Gabbrela, venuta a darvi un'occhiata, si affrettò a chiuderlo nella cassa ed a mètterne fuori un altro.

Fra una tarantella e l'altra gli uomini si avvicinavano alla tavola dei rinfreschi per bagnarsi la gola con un bicchiere di vino: le donne si avvicinavano al cuccomo di creta ch'era in un canto a calmare l'arsura con un gran sorso di acqua.

Mara Gabbrela portava in giro premurosamente dolciumi e rosoli, versava da bere agli uomini, e spingeva l'affabilità fino a porgere con le sue mani il bicchiere al genero:

Colla salute, Giusi!

Alla salute vostra, e di cu bene vulite!(1) Alla salute vostra e di chi amate. — e Giusi tracannava il bicchiere d'un sorso, col capo arrovesciato, gli occhi socchiusi; lo deponeva vuoto sul desco, facendo schioccar la lingua pastosa, mentre Mara Gabbrela, dopo aver seguito con occhio attento ogni gesto del genero, si affrettava a versargli nuovamente da bere.

Imà! Non lo fate bere tanto, Giusi! — rimproverò Innocenza ghermendo la madre per la saja nel momento in cui le passava accanto — Non lo vedete ch'è 'mbriaco sicco?(1) Ubriaco fradicio.

— Uh figlia! Ci si accasa una volta sola! — E Mara Gabbrela tornò in cucina, mentre Mico della Sorda e Pascà di Buggiacca offrivano agli astanti lo spettacolo di un ballo prodigioso per resistenza ed abilità.

Danzavano a capo chino, tenendo le mani sui fianchi, poi levandole in alto con un gran colpo di nacchere, accompagnando il ballo con un gran pestare dei piedi e suon di man con elli, intramezzandolo con salti e sgambetti d'ogni sorta. E sia che tirassero calci come muli insofferenti soma, o gettassero in avanti le teste come tori smaniosi di prendersi a cornate, i lor volti serbavano una serietà grave, che avrebbe fatto ridere, se la tensione dei muscoli e il rossore delle gote non avessero tradito lo sforzo.

Quando parevano sul punto di arrendersi, una piroetta improvvisa, seguita da un dos à dos, e il ballo ricominciava più indiavolato che mai. Annottava, e ballavano ancora. Gli spettatori ne avevano abbastanza, e quando Mara Gabbrela riapparve portando i lumi, fu accolta come una liberatrice:

— Mara Gabbrela! venite a fare un giro anche voi! fateli finire questi arraggiati!(2) Arrabbiati.

La donnetta si schermiva ridendo:

— Ma vi pare? alla mia età? Non son cose per le mie gambe!

Ma non ci fu verso:

— Dovete ballare! dovete ballare! Con Natale 'i Sabbeja! V'attòcca!(1) Vi spetta!

Il vecchio saggio la colse al laccio del suo berrettone azzurro: messere e donna(2) Suocero e nuora. presero a danzare. E Mara Gabbrela se la cavò con tanta agilità, tanto garbo, che un coro di applausi la riaccompagnò in cucina. Gli sposi chiusero finalmente le danze.

Innocenza, stanca morta, si reggeva soltanto per un miracolo della volontà; Giusi, ubriaco fradicio, girava su sè stesso come una trottola che, rotando, renda gli ultimi aneliti.

Gl' invitati tolsero congedo: non rimasero che i parenti più prossimi. Si parlò del più e del meno, del litigio tra le due cognate, del denaro cogghiuto(3) Raccolto. dalla sposa, delle nozze, del banchetto, del ballo.

— Giusi, che il Signore ti benedica! — disse infine Natale i' Sabbeja levandosi in piedi.

— Beneditemi Madre! Beneditemi Padre! — gridò Innocenza cadendo in ginocchio, secondo l'uso, ai piedi della madre e del suocero. Giusi le s'inginocchò pesantemente a lato: i genitori posero insieme gravemente la destra sul capo degli sposi.

Vi benedico, figli! Che possiate lavorar poco e raccogliere assai!

Innocenza si levò prima, Giusi fece per imitarla ma, nel rialzarsi, barcollò, cadde senza un grido.

— Giusi!!

Al tonfo del corpo, all'urlo straziante della sposa, i parenti si precipitarono a rialzare il giovane, privo di sensi, lo deposero sul letto di Mara Gabbrela. E tutti gli si strinsero intorno, bestemmiando, consigliando, confortando, gemendo.

— E' questo vino ammisturato(1) Vino misturato. che ammazza i cristiani!

— Non c' è legge. Ti spacciano un figlio di mamma per guadagnare un soldo di più!

— Con tutti questi colpi poprettici(2) Apoplettici. che si sentono in giro!

— Non vi spaventate, ch'è niente. Na verticine… (3) Uno svenimento.

'Na debolezza 'i core…

— Spruzzatelo con l'acqua…

— Pigliate un limone…

— Fategli una gazosa con un coccio di carbonato… (4) Granello di bicarbonato…

Imà! Sbottonatelo voi! — pregava Innocenza, combattuta tra l'apprensione e il pudore, alla madre che s'era accostata al letto ripetendo:

— E' niente… è niente… è niente.

Mara Gabbrela si chinò sul genero, gli aprì il colletto della camicia, gli sbottonò la cinghia dei calzoni, gli bagnò con acqua e aceto le tempie. Ai primi spruzzi, Giusi socchiuse gli occhi, allungò una gamba, respirò forte; poi, voltatosi dall' altra parte, si addormentò.

Quando lo ebbero udito russare, anche i parenti si accomiatarono, dopo avere abbracciato Innocenza che piangeva dirottamente.

— Non piangete! che il vino non ammazzò nujo, mai!

— Lasciatelo dormire, che col sonno gli passa!

— Assicuratevi che domani sta meglio di me e di voi!…

Mara Gabbrela li accompagnò col lume fino allo svolto del vicolo e rientrò mentre i passi si smorzavano in lontananza.

Seduta in un canto, col grembiale sugli occhi, Innocenza piangeva sempre.

— Che c'è da piangere, stupida?! Vien di là; aiutami a contare il danaro della tafarèja…

— E Giusi? — obiettò la sposa lanciando un timido sguardo al marito che dormiva — solo lo lasciamo? Qui?…

— E dove vorresti metterlo, babba?(1) Sciocca, babbea. Nel letto grande? Perchè t'insudici la coperta imbottita e le lenzuola arricamate? Per stanotte gli cedo il mio letto, ci starà come un papa. Domani sera… domani sera poi è un' altra faccenda.

Innocenza obbedì macchinalmente. Quel russare, intramezzato da sibili, le faceva un effetto strano e quasi pauroso. La casa nuova, così ridente il giorno, le pareva orribilmente tetra coi suoi angoli bui dove non giungeva un riflesso del fumoso lucignolo. Non poteva vincere un senso di umiliazione, di tristezza; aveva il cuore gonfio di presagi, di sospiri, di pianto.

Prima di allontanarsi si fermò a pie' del letto, avvolgendo in uno sguardo lungo, misto di rimprovero e di rammarico, il sonno del giovine spso: uno di quei sonni grevi che paion abolire fin le parvenze della vita.

— Guardatelo come dorme! sembra addormentato con la papagna!(1) Col decotto di papavero.

Mara Gabbrela si arrabbiò: — Come vuoi che dorma? Con gli occhi aperti?! Domani starà meglio di me e di te. E non piangere, sciocca, che sei nata vestita. Un'altra nei tuoi panni ballerebbe sola!

Un picchio discreto all' uscio esterno, quello della camera degli sposi che dava sulla strada, e, più che un picchio, uno strofinìo leggero, l'interruppe.

Innocenza sobbalzò.

— Chi sarà? Andate a vedere.

— Chi vuoi che sia a quest'ora? Sarà stato il vento. Vado.

E Mara Gabbrela s'avviò.

Sulla soglia si fermò, trattenuta dalla voce lacrimosa d'Innocenza.

— Non lasciatemi sola! Me spagno!(2) Ho paura.

— Di che temi? E' per rassicurarti: vado e torno.

Innocenza l'udì aprir l'uscio di fuori e richiuderlo dopo breve sussurrìo. Il cuore le batteva forte, senza che ne sapesse il perchè.

— Chi era? Con chi parlavate? — chiese alla madre che tornava.

— Chi vuoi che fosse? Nujo(3) Nessuno..

— Mi pareva…

— Va a riposare ch'è tardi: li conterò io i soldi. Devi aver raccolto più di cento lire!

E, credendo che la figlia esitasse per un infantile terrore dell'oscurità, aggiunse più dolcemente:

— Questo lume qui me lo prendo io, ma in camera c'è il lumino di San Rocco… se non l'ha spento il vento. Va.

Presala per le spalle con dolce violenza, la spinse nella stanza attigua; poi, cautamente, sprangò l'uscio, vi stette dietro, in ascolto.

Il silenzio era altissimo. S' udiva il respiro grave di Giusi e quello, assai più sonoro, dei maiali, giù nel Vallone.

Mara Gabbrela prese la lucernetta, si chinò sulla cassa. l'aprì. L'argento ammucchiato nella guantiera brillò. La voce d'Innocenza giunse tremula dalla stanza da letto:

Imà! qui non c'è luce(1) Lume. l'avrà spento il vento…

— Riaccendilo. Ci sono gli abbàttere(2) Fiammiferi. sotto al guanciale, dalla parte tua.

Mara Gabbrela si chinò di nuovo, e, con le dita che tremavano un poco, prese la tafarèja dei soldi, se ne andò in cucina a contarli.

Imà!

Un terribile grido squarciò il silenzio.

Imà! Giusi! Giusi! Giusi! Aiuto! Giusi! Aiuto!!

Dalla camera da letto veniva come un tumulto di lotta.

Qualcuno correva perdutamente dando di cozzo nei mobili, come un pipistrello, acciecato dalla luce, in una stanza senza uscita.

D'un tratto la finestra sul Vallone si aprì con violenza, s' udì un fragore di vetri rotti, il tonfo d'un corpo, un grido soffocato… più nulla.

Mara Gabbrela era apparsa sulla soglia della cucina lasciando cadere i soldi che aveva in grembo. Livida, impietrata da un dubbio orrendo, tendeva l'orecchio ai passi che fuggivano nella via.

Lo sposo dormiva sempre.

A “ Sfinge ”.

— Oh Dio, non parlo dell'amore che si paga all'ora, al minuto; quello, chi più chi meno, ce lo procuriamo tutti… Parlo dell'amore grande, vero, completo, fonte d'idealità, di poesia… dell'amore che accende la fantasia ed esalta lo spirito, che inebria i sensi e soggioga il cuore, dell'Amore infine, con l' a maiuscola: quello li, credilo, a trentacinque anni, io non l'ho provato ancora…

— E che Dio te ne scampi fino all'ora della morte: amen! — sospirò Giulio Brizzi con accento tragi-comico che veniva dall'imo di una sua vecchia ferita, mal cicatrizzata.

— Perchè? — chiese Carlo Cràveri sostando dinanzi alla magnifica fronte del Policlinico ed accendendo la ventesima sigaretta della giornata. — Ti assicuro che, a furia di sfiorarlo nella vita e nei libri, di respirarlo negli sguardi e nei discorsi degli altri, mi prende a tratti una nostalgica curiosità di questo sentimento sconosciuto e fatale che sconvolge l'esistenza umana e, talora, la distrugge… Un senso d'invidia pel resto dell'umanità che soffre forse più di me, ma certo più di me gode perchè ama, misto a vergogna per questa mia impotenza ad ardere della febbre comune, quasi mi riconoscessi, di fronte agli altri uomini, in una condizione d'inferiorità: un eunuco del sentimento…

Brizzi rise, d'un breve riso amaro.

E lasciandosi dietro il lungo isolotto che i padiglioni giallo-cromo, alternati da giardinetti verdeggianti, del Policlinico formano di fronte alle merlate mura di Servio, l'isolotto sacro alla scienza dove anche il dolore par si nasconda e sorrida, i due giovani dottori si avviarono lungo il bel viale alberato che va a Porta Pia.

Il sole, al tramonto, dorava le cime di lontani cipressi, filtrava attraverso le foglie dentellate degli ippocàstani, accendeva le vetrate di un padiglione, al cui balcone si affacciava la figuretta chiara e pensosa di una inferma: dinanzi alla cancellata centrale, ad archi rotondi, un infermiere in grembiule bianco filava con una fantesca ridanciana e belloccia, ed il silenzio intorno non era rotto che dal passo sonante di una coppia di cavalli condotta all'aperto; dal passo frettoloso di una Miss, reduce dalla passeggiata solitaria, che si affrettava alla Pensione, accesa nei capelli e nel volto, stringendosi al seno un fascio d'umili fiori di campo.

I due amici si camminavano silenziosamente a lato, seguendo la traccia scintillante della tramvia: Giulio Brizzi, un siciliano smilzo, ulivigno, malaticcio, con due occhi che splendevano come carbonchi nel magro viso segnato dalla vita, indelebilmente; la elegante persona stretta nella finanziera oscura, sorpassava dell' intera testa Carlo Cràveri, un piemontese biondo, roseo, ben nutrito, chiuso anch'egli in un leggero pastrano color nocciola, con un principio di calvizie e due chiari occhi freddi dove soltanto l'ambizione metteva una fiamma.

Nell'uno come nell'altro mancava l'impronta professionale: Brizzi, più che un medico, si sarebbe detto un artista; Cràveri, piuttosto un banchiere che un medico: ed erano colleghi di clinica, amici di giovinezza, tanto vero che Carlo invidiava a Giulio le sue pene di cuore, Giulio invidiava a Carlo la beata indifferenza: a vicenda poi s'invidiavano gli elogi del Direttore di Clinica e le « chiamate » dei clienti.

— Che cosa vuoi che ti dica? — ruppe a dir Giulio, masticando un mozzicone di sigaro toscano, compagno assiduo di lavoro e d'ozio, passiva vittima del suo umore rabbioso, e gettandosi indietro il cappello con gesto che gli era familiare. — Che cosa vuoi che ti dica? L' amore non è, in fondo, che una malattia dell'anima: bisogna averla una o due volte nella vita, come il morbillo o la tosse canina… Dopo, si è vaccinati… per qualche tempo.

Carlo ebbe un accesso di falsa gaiezza.

— Secondo te, dunque, io godrei dell' immunità… a vita?

— Forse. Il caso è raro, ma esiste. Taluni si mantengono immuni dal morbo fino alla maturità; poi ammalano, ed allora il caso è grave, è grave assai!… Altri, come te, sfuggono all'infezione con fortuna incredibile: le donne hanno un bell'inoculargliela con gli sguardi e con gli atti, il cuore di cotesti fortunati mortali resta insensibile al fascino femminile come, all'azione del siero, il braccio degl'individui refrattarii al vaiuolo… Però, ti ripeto, il caso è raro, tanto che, se non ti conoscessi da venti anni, lo avrei, senz'altro, dichiarato impossibile…

— Sarei dunque un fenomeno?

— Forse. — E Giulio sospirò pensando che, accanto ad esseri privilegiati come Cràveri, i quali passano nella vita al pari della salamandra nel fuoco, ve n'erano altri come lui, Brizzi, condannati ad ardere di malsane febbri, ad aver la giovinezza intossicata da amori indegni, a vederla sfiorire, di recidiva in recidiva, fra tormenti continui.

Buttò via il sigaro e si fermò ad accenderne un altro, nella piazzetta semi-circolare tra il villino Durante e Villa Patrizi, i cui rossi comignoli rompevano la massa cupa del parco come le guglie di una cattedrale avvolta nel mistero di un bosco. E dopo aver tirato qualche stizzosa boccata riprese a camminare dicendo: — Se tu sapessi quante volte ho chiesto a me stesso, incredulo: Ma è proprio vero che quel suo cuore non abbia palpitato una volta? Mai?! Nè per la servotta che si lasciò dare il primo pizzico, nè per la crestaia che gli lanciò il primo sguardo assassino, nè per la fanciulla sentimentale che a lui studente sorrise dalla finestra, tra due vasi di fiori; nè per la cugina giovanetta, nè per la zia maritata, nè per la vedova matura, nè…

— Cercando bene — l'interruppe Cràveri, con insolita gravità — l'alba di un romanzo d'amore parve levarsi un giorno anche nel placido cielo della mia vita…

— Alla buon'ora! lo dicevo io!…

— Piano! Un' alba che non giunse al meriggio, un bagliore di fiamma spenta appena accesa: la miglior prova, forse, della mia impotenza sentimentale, giacchè, se una volta io dovevo amare, quella era, non altra…

— E non me ne avevi accennato mai?!… Dev'essere un caso interessantissimo!

— Chi se ne ricordava più? Data, figurati, da quando ero medico condotto ad M… ti ricordi? quel paesello di Calabria, piantato sul cocuzzolo d'un monte, dove, per mia fortuna, rimasi un anno appena: il tempo di prepararmi al concorso d'assistentato…

— Mi ricordo.

— Il paese, se pure poteva dirsi tale, si componeva d'un mucchio di casupole nere e di una strada, irta di ciottoli, che lo attraversava in salita, conducendo alla chiesa posta in cima. Soli abitanti poche famiglie di contadini, decimate dall'emigrazione, e un fattore arricchito, la cui agiatezza contrastava con la miseria circostante. Costui possedeva la più bella casa del villaggio, o meglio la sola degna di tal nome, ed una figlia unica…

— Ci siamo!

… la quale possedeva, per suo conto, due occhioni di velluto nero in un visetto di mela rosa, una foresta di riccioli bruni, una salute da montanara ed una intelligenza pronta, vivida, non anche profanata dalla più lieve cognizione.

— Per bacco! Terra vergine. Cuore, mente, corpo, tutto vergine! Briccone! L'eroina c'è: e vorresti darmi ad intendere che non ci sia stato il romanzo?

— Ascolta. Anaide mi piaceva per quella sua floridezza quasi oltraggiosa di bambina quindicenne, per la fervida gioventù che splendeva nel volto colorito, fremeva nella persona agile e robusta. Mi piaceva per quell'attrazione che la perfetta salute esercita su noi poveri diavoli avvezzi al tanfo d'ospedale, ai colori cachettici ed allelingue patinose, per noi che senza la salute non sappiamo quasi concepire la beltà femminile…

— Infatti, anch'io mi sono sempre innamorato di donne che crepavano di salute: è forse per questo ch'esse hanno fatto sempre crepar me…

— Quella ragazza mi pareva dunque un magnifico esemplare umano, avrei voluto che ve ne fossero state molte ad M* come quella, e quando l'incontravo pei campi mi fermavo a considerarla con la compiacenza del botanico innanzi ad una strana pianta rigogliosa… E l'incontravo sovente. Perchè — dimenticavo il meglio, ossia il peggio — Anaide era orfana di madre, ed il padre, uomo di corto cervello e di tempra fiacca, si lasciava governare da una serva-padrona sposata in seconde nozze: specie di « Femmina di Luco » d'Annunziana, della quale ricordo tuttora gli avambracci nerboruti, nudi insino al gomito e, sotto le ali dei capelli lucidi, spartiti sulla fronte cupa, la sbarra nera delle sopracciglia, riunite all'altezza del naso camuso.

— Un tipo!

— Cotesta femmina, che parlava poco, che non rideva mai, si curava di Anaide come… di una cagnetta randagia incontrata per via, si che la fanciulla cresceva in libertà e scorazzava pei campi come una puledrina selvaggia.

— Ho capito tutto!

— Non hai capito niente!

— Ma si!…

— Ma no!…

Si erano fermati a contraddirsi sotto l'arco maestoso di Porta Pia innanzi al quale via Venti Settembre si allungava in una linea ampia e nobile costaggiando Ville, Palazzi, Ministeri, Ambasciate; ma investendoli la brezza vivace dei Monti Sabini alle spalle, Brizzi si strinse con un brivido nelle medesime, mentre Cràveri si rincamminava brontolando:

— Se t'ho detto che piaceva al medico, non all'uomo.

— Baie!

— Per quanto possa sembrarti strano, è così. Nell'acceso fiore della sua bocca io non vedevo che il giovane sangue ricco di globuli rossi; negli occhioni stellanti che si fissavano arditi nei miei, soltanto il raggiare di una vita esuberante, e la vista delle gambotte tornite, spenzolanti giù dal muricciòlo del paterno podere, non accelerava di un attimo il corso placido del mio sangue.

— Che macigno!

— Questo, da prima. Poi mi sbalordì e mi piacque anche per quella sua miracolosa ignoranza che ne faceva davvero una creatura primordiale, intatta come la neve sui monti. Mi divertivo a farla chiacchierare in quel suo rapido dialetto a radici greche, a chiederle: Perchè sei sempre in giro? Non tessi, a casa? Non fili?

Ella si stringeva nelle spalle e rideva, facendo balenare la dentatura affilata di giovine lupa. Ma io sapevo che la sua casa era un inferno dove, tra la matrigna ferocemente dispotica ed il marito che a quel dispotismo opponeva la passïva resistenza dei deboli, erano liti perenni, condite da busse, e ch'ella cercava all'aperto un rifugio nel grembo di quella inebriante natura meridionale di cui si sentiva la vera, prediletta figliuola.

— Che cosa fanno a casa? — le chiesi un giorno, tanto per dir qualcosa. — « La Gnora Cenza, mina al Padre! »(1) La signora Vincenza picchia mio padre! — rispose.

— « E lui? » — Esitò un attimo; poi con un'ombra d'ironia sprezzante: Iddu se lassa 'u mina! »(1) Egli si lascia battere!

Una mattina mentre, all'ombra di una quercia, andavo sfogliando il grosso volume del Sappey, me la sentii improvvisamente alle spalle.

Nelle piccole condotte è frequente il caso di dover improvvisare (è la parola!) operazioni tra le più complicate e difficili, senz'altra assistenza che quella del primo contadino che ti capita sotto mano, operazioni che non si oserebbe affrontare da soli se l'urgenza del caso, la responsabilità che incombe, non ce ne facessero un dovere, ed io non disdegnavo di tornare ogni mattina al mio vecchio trattato, perchè il corpo umano, labirinto di cui ogni chirurgo è il Teseo, mi fosse ad ogni ora presente e direi quasi tangibile, attraverso le carni che lo vestono, nell'armonico congegno degli organi principali, nell'intrico sapiente delle arterie e dei muscoli, come la quercia dagl'intrecciati rami e dalle foglie innumerevoli, che mi proteggeva. Ne ho mandata di gente all'altro mondo in quel tempo! (molta anche ne ho salvata) e quella « praticaccia » in corpore vili, fatta senz'altra guida che il mio sapere, il mio ingegno, senz'altro giudice che la mia coscienza, mi è poi servita meravigliosamente dopo, in un campo più vasto ma dove occorreva procedere con maggior prudenza…

— Non divagare.

— Una esclamazione dunque mi fece volgere il capo. Era Anaide, la mia piccola Galatea calabrese, con le pupille spalancate sull'incisione che mi stava dinanzi: una incisione spaventosa d'uomo dal cranio orribilmente scuoiato, che per l'ampio squarcio del petto e del ventre, metteva a nudo gli apparati respiratorii e digerenti, a colori cosi accesi e crudi, che il disgraziato pareva sfuggito allora a un macello.

Era stato un grido così schietto di meraviglia e di orrore che ne risi di gusto. Ma l'orrore ha pure il suo fascino, e la fanciulla m'incalzò di tante domande che finii col mostrarle quante illustrazioni del volume potei senza offendere il suo pudore, col darle un sommario concetto delle parti e delle funzioni del nostro corpo.

Se tu avessi visto come beveva le mie parole dagli occhioni spalancati! E innanzi al miracolo di un organismo vivente, quali effetti di luce l'incredulità, l'ammirazione, alternavano sul visetto aperto! Per qualche giorno mi ronzò intorno col timoroso rispetto di una piccola zingara per lo stregone che sa tutti gl'incantesimi, dal quale spera la rivelazione di un segreto magico. Infine azzardò umilmente: M'imbizzate 'u leju?(1) M'insegnate a leggere?. Ed io, che pure non avevo tempo da perdere, non seppi dir no, mi prestai all'insegnamento come ad un gioco, senza aiuto del sillabario, cercando le lettere, le sillabe, sul mio trattato. In poche settimane imparò a leggere: e sì ch'io non ero un maestro paziente! D'allora non mi diede tregua. Voleva un libro « u' libbro! » tutto per sè, da leggere a casa. Ed io non sapevo dove metter le mani! Frugai tra i pochi volumi della mia biblioteca amena, e, scovato il « Romanzo di un giovane povero » glielo portai, sorpreso di vederglielo accogliere con lo stesso ingenuo tripudio con cui aveva dovuto festeggiare la prima bambola. Altri gliene diedi, di miei, non tutti a portata della sua mente nè dell'età sua; altri me ne feci prestare dal farmacista, dal parroco, e quanto ne comprendesse non so: so che li divorava tutti, invasa da una insaziabile avidità di sapere.

— Carlo, se tu abbreviassi?…

— Lasciami narrare con ordine. Dicevo? Ah!… D'allora la incontrai più di rado. Veniva qualche volta a riportarmi un libro, a chiederne un altro, senza dirmi le sue impressioni, ch'io indovinavo dall'aria commossa del viso, dal tremito della mano; mi lanciava un « Grazie! » frettoloso abbassando gli occhi, cosa nuova in lei: d'un tratto mi parve meno bimba, più donna.

— Che adorabile creatura! — proruppe Brizzi — e non te ne innamorasti alla follia? Io, francamente, ci avrei perduto la testa…

— Non ne dubito. Oh senti: se prendessimo una botte? — E Cràveri guardò l'orologio. — Debbo essere alle nove da una vecchia americana che ha la stravaganza di abitare fuori porta Cavalleggeri…

— Accidenti!

— Paga bene…

Senza accorgersene, erano giunti in Piazza San Bernardo. Sotto l'Ambasciata d'America, dove, spoglia della bandiera stellata, la monca asta nuda sporgeva; di fronte all'aristocratica chiesa di Santa Maria della Vittoria. dove dal candidissimo marmo la Santa Teresa del Bernini in veste cristiana diffonde il suo pagano ardore, dinanzi al fontanone del Mosè che per tre liquidi ventagli soffia in faccia ai passanti il fresco tesoro dell' Acqua Felice, si affollavano le comode botti, su ciascuna delle quali il vetturino sedeva sdegnoso aspettando la « corsa » come, sotto il baldacchino stemmato, un antico Principe Romano avrebbe atteso d'esser richiesto di una grazia.

— La serata è così fresca! — osservò Brizzi, gettando uno sguardo sul breve tratto in fondo al quale scintilla la fontana delle Terme, e che par tendersi dall'una all'altra piazza come il braccio di un gigante che nel pugno stringa una coppa rutilante di gemme. — Così fresca, ch' io proporrei di scendere invece a piedi fino a Piazza Venezia. Colà ci separeremo: anch'io ho una visita, nei dintorni…

— Andiamo.

Passarono innanzi al Grand Hôtel che occupa tutto un lato della via — monumento sacro al lusso invernale nella sua forma più modernamente brutale — senza levar gli occhi alle sue cento finestre chiuse come occhi stanchi di godere: una macchina da inaffiare veniva loro lentamente incontro, bagnando di minuta pioggia il selciato arso e deserto, quello stesso selciato nella stagione di Cosmopolis brulicante di legni, di automobili, percorso in quell' ora istessa dall'elegante pellegrinaggio del Piacere che ha per mèta l'albergo.

— Dire che si parla ancora di « pomeriggi torridi » di « città morta » mentre Roma è, d' estate, la più fresca e simpatica città d'Italia! — esclamò Brizzi, il quale, nella sua fervida ammirazione per la capitale, non ammetteva si potesse fuggirla dal giugno all' ottobre, come una città appestata.

— La più fresca e simpatica città d'Italia! — confermò Craveri. — Meglio così: ce la godiamo in pochi.

Piazza dell'Esedra era infatti di una vivificante freschezza, così vasta ed aperta alle umide brezze dei lontani colli, contornata di giardini, con l'ampia ombrella centrale ed i pennacchi d' argento della sua fontana vigilata dalle Najadi. Non più il sole si rifrangeva nei getti, non più colorava l'orizzonte: alcune nubi, reduci da l'orgia vespertina, traversavano solennemente il cielo, trascinandosi dietro i lembi della sdrucita porpora.

— Se prendessimo una ghiacciata? — propose Brizzi, accennando al caffè sotto i portici, dove una variopinta folla borghese si accalcava intorno ai tavolinetti, anelando al doppio refrigerio che il luogo offriva al corpo torturato dall'afa meridiana. — La tua americana può ben aspettare qualche minuto ed io sono impaziente di ascoltar la tua storia…

— Impossibile! Te la racconterò per via…

— E meno flemma, ti prego!

Cràveri sorrise, accese un' altra sigaretta, riflettè un istante; poi, senza scomporsi, riprese:

Un giorno mi fu annunziato che il padre di Anaide era morto: morto violentemente, cadendo dall'alto di una scala che andava dalla cantina al granaio — dov'era appunto salito con la Gnora Cenza a prendere un sacco di noci — o meglio dal granaio alla cantina… La conoscevo: era ad alti scaglioni, ripidissima: precipitando giù, sotto il sacco delle noci, il pover'uomo, corpulento e vecchiotto, aveva battuto la tempia contro il taglio dell'ultimo scalino: vi era rimasto cadavere.

Venni chiamato, ma non mi restò che constatarne la morte. Fui colpito, in quell'occasione, dal pallore livido di Anaide, dai suoi occhi pieni di orrore: non più stelle, ma buche paurose.

Contro ogni buon costume paesano non piangeva, pareva impietrita, sollevando intorno col suo contegno disapprovazioni e commenti: mentre la matrigna, abbandonandosi alle più scomposte manifestazioni di dolore, come quella di strapparsi i capelli che avea lunghi e bellissimi, di gettare strida laceranti, alternate da gemiti stranamente modulati, otteneva un invidiabile successo di ammirazione e di stima.

— Ma tu, tu! Finora non mi parli che di loro!

— Io… tornai a casa perplesso, e direi quasi turbato, come dinanzi a un confuso enigma. Ma non mi fermai a considerarlo. Mancavano poche settimane alla chiusura del concorso e, nell'urgenza di scampare da quel loco selvaggio, la mia volontà si tendeva alla mèta diritta, fredda, tenance come lama di acciaio. Avevo appena acceso il lumetto da studio, disponendomi alla consueta veglia, che la fantesca di Anaide venne, trafelata, a chiamarmi. Era una megera senza età nè sesso, logora dall'uso più che dal tempo, con un muso di faina sporgente fuor del vhancàle(1) Panno che s'inquadra a guisa di magnosa, d'inverno e d'estate, sul capo delle vedove; di sera e quando il tempo è cattivo lo portano anche le donne maritate e le ragazze. di panno greve che la mano adunca teneva stretto sotto il mento. La chiamavano Gianna, ma in omaggio alla strega della « Tempesta » io l'avevo ribattezzata shaekspearianamente: Sycora. Benchè avesse fama d'esser « l' anima dannata » della Gnora Cenza, io la sapevo devota, in egual misura, ad Anaide. E appena mi vide strillò, protendendo le mani: 'A gnuricèja se more! 'a gnuricèja se more!(2) La signorina muore!.

— Anaide? Possibile? Ma se scoppiava di salute!

— Fu quello che mi dissi anch'io. Per solito, una chiamata a quell'ora mi faceva l'effetto di una tegola sul capo; ma, trattandosi di Anaide, non esitai.

— Avrei voluto vedere anche questa!

— Presi loden, mazza ferrata, lanternino, e mi avviai su per l'erta: sai, di quell'unica strada che attraversa il villaggio conducendo alla chiesa posta in cima. Sycora mi precedeva, rapida e leggera, projettando sull'acciottolato l'ombra piccoletta. Col vhancàle che le scendeva più giù della vita, la camicia biancheggiante per mezzo palmo fuor della sottana corta, più fantasma che donna, pareva che da un attimo all'altro un colpo di vento avesse dovuto trasportarla, a cavalcioni di una scopa, al Sabbat leggendario…

— Auff! Quante descrizioni!

— Lasciami un poco rivivere quei tempi, fra quella gente, quei luoghi; o crederò di averli sognati, tanto mi sembrano lontani, fuori della vita!…

Il « Palazzo » di Anaide (nelle borgate calabresi ogni casa decente è un palazzo) stava a mezza costa. Pochi minuti dopo entravo nella sua camera da letto, ampio stanzone, scarsamente illuminato da un lampanino..

— Fammi grazia dello stanzone!

— Bè, te lo descriverò poi: ti assicuro che ne vale la pena… Mi avvicinai al letto: un primo sguardo gettato sulla fanciulla, su quel volto congestionato dove gli occhi, lustri di febbre, si allungavano socchiusi tra le palpebre contratte, bastò a convincermi che la fantesca non aveva esagerato. La osservai in silenzio: un'agitazione smaniosa ne faceva senza tregua rotolare la testa da un lato all'altro del guanciale; le presi il polso: contava 110 battiti al minuto; provai a sollevarle il capo: la nuca, rigida, mi oppose una resistenza inaspettata. D'un tratto ella vi portò le mani emettendo un grido strano, monotono, spaventoso… Compresi.

— Era la meningite!

— Pareva. E ritenni mio dovere far subito avvertir la matrigna. Anaide intanto delirava. Le pareva di precipitare dall'alto di una scala senza fine, e, seduta sul letto, con gli occhi spalancati e chini sul pauroso abisso, la fronte grondante sudore per l'angoscia e lo spasimo, accompagnava col corpo l'immaginaria caduta finchè l'urto immaginario — o meglio una fitta più violenta delle altre — non le strappava un altro dei suoi lugubri gridi. Chiamata dalla fantesca la matrigna venne, chiusa nelle sue gramaglie come un corvo nelle sue penne, nera dalla testa ai piedi. L'ho presente come se fosse adesso. Entrò a fatica, sospirando, gemendo; nel volto cupo, incorniciato dal mantile di casimiro a frange, gli occhi immobili guardavano in dentro: simile nell'atteggiamento, nell'espressione, ad una di quelle immagini del Pianto scolpite sulle antiche urne funerarie. Brevemente, nel suo dialetto, l'avvertii della gravità del caso. Ma in quella faccia, composta classicamente al dolore, non un muscolo trasalì per commozione o sorpresa. Tirando fuor dal petto, come da un mantice, un sospirone musicale, si rivolse all'ammalata con accenti di nenia funebre: — Amàra, amàra! E che n'daju 'u te fazzu, eo, ca sugnu cchiù morta 'i tija? Morta sugnu, figghia! Distrutta! Distrutta cume la me'vita!(1) Poveretta, poveretta! E che posso farti, io, che sono più morta di te? Morta sono, figlia! Distrutta! Distrutta come la mia vita!.

Al suono di quella voce Anaide si riscosse: piantò addosso alla matrigna le pupille dilatate, fiammeggianti di sdegno e d'odio e protendendo le mani a respingerla con energia terribile gridò: — Jatevinne! Nun vogghiu 'mu ve viju! Nun vogghiu 'mu ve sentu! Jatevinne!!(2) Andatevene! andatevene! Non voglio vedervi! Non voglio sentirvi! Andatevene!.

Ricadde sui guanciali, vaneggiando: l' incubo della caduta tornò ad opprimerla, a suggerirle parole sconnesse, fra le quali il nome della matrigna prorompeva con accenti d'ira e moti di ribrezzo. Alla vedova si erano sbiancate le labbra. Il suo sguardo, acuto come lama di temperino, era corso a cercar la fantesca, raggomitolata in un canto, quasi a rinfacciarle, tra la paura e il rimprovero: Non te l'avevo detto, io, ch'era meglio non chiamarlo? Mi si squarciò un lembo dell'orribile verità: gli occhi mi guizzarono, istintivamente, alle solide mani celate dal mantile a frange, agli avambracci nerboruti che avevano forse impresso la spinta fatale.

— E tu non prendesti per le spalle quel mostro e lo scaraventasti fuor dell'uscio? — interruppe il focoso Brizzi.

— Sarebbe stata un'imprudenza inutile e forse pericolosa ad Anaide. Chi sa di quale tragica scena la fanciulla era stata involontaria testimone? Chi sa di che cosa ancora la truce femmina era capace? E se, dopo aver causato, nella violenza dell'ira (con o senza intenzione chi avrebbe potuto mai precisarlo?) la morte del marito, avesse stimato utile di sopprimere anche la figliastra?

— Eh via! Non eravate poi… in Serbia!

— Mah! Quella brigantessa lì mi pareva capace di tutto. E poi l'acònito, il papavero, sono laggiù a portata di mano… le donne del contado use a farne decotti per addormentar bimbi e sopire infermi… qualcuno talvolta, così, per caso, ne muore… e i delitti di tal genere, in provincia, restano sovente impuniti…

— Basta, per carità! Mi si fa la pelle d' oca!

— Mi affrettai dunque invece a rassicurare la Gnora Cenza, la quale ascoltava quei vaneggiamenti crollando il capo e sospirando: — Amàra! Este sullevata 'i testa!(1) Poveretta, ha dato di volta!; a trovare naturalissimo che, dopo il « disgraziato incidente » di cui il suo povero padre era rimasto vittima (qui fece eco un sospirone più angoscioso degli altri) l'incubo di una vertiginosa caduta fosse familiare alla mente delirante di Anaide; naturalissima l'improvvisa avversione mostrata dalla fanciulla per lei, sua madre (qui altro sospiro) essendo comune a molti infermi, nei casi più gravi, l'istintivo bisogno di allontanare da sè le persone più care… Mi credette: il viso fosco si rischiarò fugacemente. Conclusi persuadendola ad allontanarsi, sia per evitare commozioni all' inferma che per riposare il corpo stanco dalla notte passata vegliando il morto, l'animo affranto dal legittimo cordoglio. Non domandava di meglio. E quando l'ebbi assicurata che a vegliar la fanciulla bastavo io con l'aiuto della fantesca e in caso di pericolo l'avrei fatta chiamare, mi fece un piccolo inchino e si ritirò, non senza avermi ringraziato con un altro di quei sospiri musicali che pareano uscir dalle viscere di una cassa armonica sfondata.

Rimasi solo con Anaide. E subito un magnifico ardore di battaglia s'impossessò di me. Che vuoi? Si nasce medici come si nasce guerrieri: il lezzo del morbo aspro a vincersi è talora più incitante alle nostre energie che l' odor della polvere a quelle di un soldato nel fervore della mischia, e mi pareva che sarei partito più contento di me dopo esser uscito vincitore da uno di quei fieri duelli tra la scienza e la morte, dove soltanto la natura entra terza a dar la vittoria o la sconfitta.

Con poca tela cerata ch' era in casa (la farmacia più vicina distava di parecchi chilometri e quella del borgo mancava di tutto) improvvisai una borsa da ghiaccio; somministrai qualche cucchiaio di lattofenina e m' installai al capezzale, risoluto di strappare alla morte « il magnifico esemplare umano » come lo chiamavo tra me, che il destino affidava alle mie cure. Ed ora che dirti? Tre giorni ella stette fra la vita e la morte: per tre giorni io non vissi. Non presi quasi riposo nè cibo a fine di non abbandonarla un minuto; non permisi a nessuno, oltre Sycora, di avvicinarla. E tutt' i vecchi mezzi di cui la scienza dispone in simili casi e i nuovi tentativi che l'ingegno, aguzzato, mi suggeriva, furono messi in opera con perseverante ardore. Volevo, volevo vincere! E mi stupivo che quel corpo d'adolescente il quale, pur arso dalla febbre si disegnava baldanzoso sotto la coltre leggera, non mi venisse in aiuto con le riposte energie di una trionfante giovinezza. Da alcune esclamazioni sfuggite all'inferma, dai gesti suoi più frequenti, potei ricostruire, a un dipresso « la scena ». Ecco come la immaginavo: Scoppiato fra i coniugi nel granaio uno dei soliti alterchi, la matrigna, furibonda, aveva spinto il marito, curvo sotto il sacco delle noci, fuor dell'uscio, imprecando. Alle grida Anaide era accorsa, apparendo sul pianerottolo inferiore nel momento in cui una seconda spinta mandava il vecchio a ruzzolar per le scale. M'ammazzàu!(1) Mi uccise! (nei dialetti calabri il passato remoto tien luogo del passato prossimo e anche del presente). — aveva dovoto gridar questi precipitando. E la figlia aveva proteso istintivamente le braccia invocando il miracolo: « Sana Vergine, raccoglietelo nel manto vostro! » Ma soltanto la fantesca era accorsa a raccoglierlo e, con l'aiuto di Anaide, lo aveva deposto sul letto. Complice dunque la piccola strega come avevo supposto da prima? No. Ma ignara del delitto nemmeno. E quella bocca suggellata sul fosco segreto che attirava il mio sguardo ogni qual volta lo levavo al capezzale di Anaide — bocca tremante impercettibilmente ad ogni parola della padroncina e direi quasi vigilante ogni moto di questa mi turbava. Non potevo pensare senza malessere che quel segreto, del quale ero anch' io depositario muto e nolente, creava fra noi, pur tanto dissimili, un legame di complicità: la complicità del silenzio.

— Ma il vostro silenzio si spiegava! — interruppe vivacemente Brizzi. — La serva era umilmente legata alla Gnora Cenza che le assicurava il pane vita natural durante; tu, eri lì per fare il medico, non lo sbirro — mestiere che certo ti ripugnava. Ma Anaide, Anaide? Perchè non denunziare, accusare a voce alta? Perchè assistere alla turpe commedia dei funerali senza levarsi, giustiziera e vindice della morte paterna?

— E' ciò che non avrei mancato di chiedermi anch'io, conoscendo la fiera natura di quella gente spietata nella vendetta, se in quel momento non avessi avuto il capo a tutt'altro; ma in quel momento, vedi, io avrei dato dieci anni della mia giovinezza — io, io, sì, Carlo Cràveri — per salvare la giovinezza di Anaide; e quando, nei rari momenti di conoscenza, mi chinavo su lei in atto trepido, dovevo avere un aspetto così « straordinario » che le pupille della fanciulla esprimevano più stupore che gratitudine. Quanto provavo infatti era così nuovo e strano! Pensa: doveri professionali, preparazione agli esami, interessi, necessità, conforti dell'esistenza quotidiana, tutto era dimenticato, quasi fuori del tempo, fuori della vita! Il mio mondo si concentrava lì, in quel breve spazio, dove contendevo alla morte una preda rara, e al pensiero di cederla l' orgoglio mi si ribellava, tutto il mio essere insorgeva, fremendo Era amore, quello? Era amore? Dillo tu, Giulio, che di tali malanni hai tanta esperienza!

— E che diavolo vuoi che fosse?! — proruppe Brizzi, il quale non sapeva se arrabbiarsi o ridere al pensiero che l' altro potesse ancora dubitarne. — Amore, caro, e di quel buono! — o meglio « di quel cattivo », come dico io.

— Perchè l'amore, vedi — qui prese il tono, tra importante e misterioso, che assumeva nel far la diagnosi del malanno prediletto — l'amore che per gl'idealisti risiede nell'anima, pei materialisti nei sensi, pel volgo nel cuore, non è, in fondo, che un malattia dell'immaginazione. Sicuro. Il pericoloso microbo entra per gli occhi e per l'udito, s'introduce nel cervello dove si nutre di chimere e si moltiplica tal quale come se si trovasse nella gelatina o nell'agar, e, da l' alto della cittadella sacra al pensiero, compie la sua opera devastatrice: accende la fantasia come un fuoco pirotecnico, infiamma le vene, fa martellare il cuore, comunica la febbre all'intero organismo finchè, ad un'alta temperatura, come ogni altro microbo, muore, ucciso dal suo stesso fuoco. Se poi trova il terreno favorevole al proprio sviluppo e la sua virulenza è tale ch'ogni resistenza è inutile, produce nel paziente danni e squilibrî irreparabili; poi, attraverso la neurastenia nelle sue forme più acute, lo conduce alla follia e talvolta alla morte… Il caso è tutt'altro che raro.

— Anzi: le cronache dei giornali ne abbondano — rincalzò Cràveri con una punta di canzonatura.

— Prendiamo per esempio il tuo caso — continuò Brizzi senza rilevarla. — Scommetto che durante quei tre gicrni in cui il morbo, rimasto fino allora in incubazione e perciò ignoto a te stesso, scoppiò improvviso tenendoti tutto nel furore di un primo accesso, la tua fantasia, assillata dal microbo, era più sovraeccitata del motore di una macchina a grande velocità…

— Che confronti!

— Ne vuoi la prova? Tu fantasticavi di continuo intorno al « tragico caso »; ne poetizzavi la vittima innocente al punto che per poco « l'ignorantella selvaggia » di un paesucolo di provincia, l'erede del fattore arricchito, la figliastra della Gnora Cenza non si trasformava ai tuoi occhi in una Principessa delle fiabe, la cui salvezza era commessa al tuo valore. E' così?

— Potrebbe anche darsi.

— Ne vuoi un'altra prova? Tu non potevi ignorare che la meningite, di sua natura infettiva, è dovuta all'azione di tubercoli: ebbene, scommetto che, contro ogni esperienza, tu allora propendevi ad attribuirla alla « scossa morale » tal quale come uno scrittore romantico di cinquant'anni fa! Lo negheresti?

— Non lo nego.

— Perchè era più « interessante » sebbene scientificamente falso. Oh la fantasia! la fantasia malata! Quante illusioni crea, deliziose, bizzarre, pericolose, fallaci! Quando io m' imbatto in un innamorato — e lo riconosco a prima vista — mi par sempre di vedergli, attraverso la fronte, il misterioso microbo, finora invisibile anche al microscopio, in forma di ragno tessere l' insidiosa tela che così sovente un ditino femminile infrange…

— Va là che sei un bel matto!

— Credilo, Carlo: il giorno in cui avrò scoperto l'eros-microbe (lo chiamerò così) ed il siero atto a renderlo innocuo, avrò reso all'umanità il più grande servigio di cui sia stata beneficata attraverso i secoli!

— Matto, matto!

— Liberata finalmente dal morbo occulto che ha fatto strage in ogni tempo, contro cui si è creduto vano ogni rimedio (morbo che, col crescere della civiltà, va assumendo forme sempre più complicate e letali) soltanto allora l' umanità si avvierà alla sua perfezione. Liberi! Saremo finalmente liberi! E quindi forti. Perchè noi, che c'illudiamo di aver conquistato tutte le libertà, non saremo stati fino allora che servi di questo miserabile insetto, il quale è l'arbitro vero delle nostre azioni.

— Matto, matto!

— Oh vedrai, una scoperta che sconvolgerà il mondo! Si è detto che le sorti dell'Impero Romano sarebbero state diverse se il naso di Cleopatra fosse stato di un centimentro più lungo o più corto. Che si dirà allora della storia dei popoli? Chi può infatti prevedere a quali altezze assurgeranno questi allorchè potranno nobilmente svolgersi in un' atmosfera nuova di serenità, e di pace? Pensa! La quiete assicurata alla famiglia, l'ordine alla società. Si cesserà di gridare: Cherchez la femme! Perchè — devi convenirne — senza i delitti passionali la criminalità verrebbe sfrondata delle sue pagine più violenti e più fosche, ridotta a proporzioni direi quasi… oneste.

— Ma questi sono paradossi!

— Via, rispondi: senza l'amorosa follia di Elena e Paride, vi sarebbe forse stata una guerra di Troia?

— Ma l'Iliade nemmeno!

— Sì, ridi, ridi pure; ma verrà il giorno in cui sentirai parlare di Giulio Brizzi. Quel giorno la sua gloria avrà offuscato quella di Darwin, Newton, Pascal, Pasteur, Behring…

— Soltanto?…

— … il suo nome sarà annoverato fra quelli dei più grandi benefattori dell'umanità!

— Bum!

Chiacchierando, ridendo, sostando ad ogni passo, avevano disceso gran parte di via Nazionale, erano giunti a Pizza Magnanapoli. Intorno al palmizio centrale il giardinetto verdeggiava come un' oasi rompendo la cruda bianchezza dell via riarsa. A destra un breve tratto saliva alla deserta Reggia del Quirinale; a sinistra la chiesa di Tor de' Specchi ergeva in linee snelle la facciata leggiadra, dietro cui si fantasticava di un convento patrizio e fastoso dove, al tempo della Roma papale, monache belle e superbe nei veli ondeggianti cantavano con voci meravigliose, ricevevano ospiti regali, movevano al teatro, in ricchi cocchi, come le antiche vestali allo spettacolo del Circo. A lato della chiesa, i giardini di Villa Aldobrandini si affacciavano ridenti, domi nando la piazza da l'alto delle mura vetuste. Ai piedi di queste, sotto gli sguardi compassionevoli di Brizzi, Cràveri si era fermato a smaltire la sua ilarità.

— Sarà dunque stato amore, non dico! — riprese poi ch' ebbe vinto l'accesso, volendo, con quella remissione, farsene perdonare l' impertinenza. — Non lo contesto, poichè tu pretendi riconoscerlo a sintomi infallibili; ma che sia stato « di quel buono » o meglio « di quel cattivo » come dici tu, questo te lo nego, assolutamente!

— Come fai a saperlo, non avendo amato che una volta? Ti manca la base per un confronto.

— Dal seguito! Perchè finora la mia storia è delle più banali, non è vero?

— Direi piuttosto delle più… fatali!

— Capirai: una bella fanciulla in pericolo di vita…

— … un giovane medico che si atteggia a salvatore…

— Soli, notte e giorno, nell'intimità di una camera verginale…

— Eh, capisco!

— Una matrigna fosca come una eroina del teatro greco…

— … una fantesca paurosa come una strega del medioevo…

— Il tutto avvolto nell'ombra di un mistero tragico: convieni che c'era di che scaldare la fantasia di un giovanotto presso ai 25 anni…

— Ne convengo!

— Niente dunque di più naturale che io me la sia… scaldata.

— Di più normale, devi dire!

— Infatti, l'anormale comincia adesso. Ed è tale da sconvolgere le teorie dell'eros-microbe, da fuorviare il più grande benefattore dell'umanità futura…

— Euh! Sentiamo.

— Ascolta. La terza sera mi trovavo solo con l'ammalata. Sycora si era addormentata sovra una panca nella stanza attigua, ed Anaide, la quale durante il giorno non aveva cessato di lamentarsi, si era finalmente assopita. A combattere i fenomeni di compressione sul midollo e sull'encefalo sopraggiunti nel pomeriggio, io avevo praticato una puntura lombare alla quinke: non altro mi restava a fare. E, cosciente di aver esaurito tutt' i mezzi che mi offriva la scienza, di non poter ormai più contare che sull'imprevisto; segretamente umiliato da una impotenza struggente, ferito nell'amor proprio di sanitario quanto nelle mie fibre d'uomo, spiavo i segni annunziatori di una crisi benefica con l'ansia di un generale che, prima di ceder le armi, scruti l'orizzonte in attesa del soccorso che potrà mutarne le sorti. E tutto intorno cospirava ad accrescere il mio nervosismo — chi mai, prima di allora, si era accorto di aver dei nervi? — lo stanzone troppo vasto, i crepitanti lucignoli del lampanino d'ottone le cui lingue fumose allungavano ombre bizzarre sulle pareti a latte di calce; le nude travi del soffitto dove un esercito di tarme industri pareva aver impiantato una rumorosa segheria; le pendule filze di poponi d'inverno, di cacio cavalli, di mele granate e di salsicciotti che parevano dondolarmi sul capo le teste allungate o rotonde e dalle quali si sprigionava quell'aroma composito, tra piccante e dolciastro, ricco di succhi raccolti, grave di maturanza, proprio alle dispense provinciali… Ma quel che mi turbava sopratutto era lei, immobile sotto le coltri, come intorpidita — lei che con occhi aridi, febbrili, già vedevo composta nella bara, che le mie mani inabili si sarebbero prestate a dischiudere. Che cosa avrebbe arrecato quel sonno? — mi chiedevo. Era soltanto la reazione del corpo affranto dalla veglia o una tregua in cui si preparava la rinascenza? Vigilavano le forze ascose della natura, raccogliendo il vigore per levarsi alla riscossa, o il fato triste si andava compiendo, ineluttabilmente?

— Mi diventavi poeta!

— La tregua fu breve. Uno spasimo acuto la strappò al sonno con un grido inumano; gli occhi, poc'anzi chiusi, mi si sbarrarono in faccia, tutti bianchi, chiedendo soccorso. Non dimenticherò quel momento. Al chiaror fioco della lampada la sua testa, d'un classico disegno, si staccava netta sul guanciale, in un cerchio d'ombra. Vista di scorcio, nella scomposta cornice dei riccioli guizzanti come serpentelli neri sul nitore della federa, con quegli occhi vuoti donde l'iride, torta dallo spasimo, scompariva, mi ricordava una strana testa di Medusa giovinetta, incisa in non so più quale medaglia antica… Io tremavo di pietà: pietà di me come di lei. Acuii tutte le facoltà dell'intelligenza e dell'anima per venirle in aiuto; le trasfusi nello sguardo: cercai intorno, disperatamente. Chi m'ispirò? Vidi il suo gomito levato verso la nuca dolorosa dove la mano si perdeva nell'aggrovigliamento dei riccioli; suguii macchinalmente la linea dell' avambraccio ripiegato fino alle dita, scottanti al tocco delle mie dita gelide, che si puntellavano dietro l'orecchio destro, quasi a comprimervi il dolore. Le sollevai: una protuberanza calda mi si offerse al tatto: il sangue, di colpo, mi affluì al cuore, facendolo tumultuar di speranza.

— L'orecchio medio! Era una infiammazione dell'orecchio medio!

— Sì, dell'apofisi mastoide, il cui processo infiammatorio, come sai, presenta i caratteri della meningite…

— E, trascurato, dà luogo alla meningite stessa.

— Ed io, bestia, non averlo sospettato neppure! Pretendere che gli effetti sparissero senza aver soppresso la causa! Io che aspettavo la crisi, il soccorso impreveduto, il miracolo!

— Bè?…

— Lusingandomi potesse trattarsi di un'osteoperiostite, alla luce ineguale del lampanino praticai una incisione longitudinale alla Wilde, parallela al solco retro auricolare, profonda fino al periosto. Il penetrare del bisturi scosse appena Anaide dal suo torpore, le strappò un fioco lamento. Ma il sollievo fu immediato. Riprese conoscenza, chiese da bere, mi ringraziò con voce fievole: in fine si riaddormentò, di un sonno quasi normale. Che notte, Giulio, fu quella! Eterna e pur rapida per un ansioso avvicendarsi di pensieri, di sensazioni, che non saprei descriverti. Era un senso di vergogna per l' imperdonabile indugio a ricercare la causa vera del male; non ne dovevo la scoperta ad un puro caso? Un delirio di orgoglio e di felicità al pensiero che per me quella giovinezza stava per rientrar nella vita; una impazienza febbrile pel tempo che scorreva placido; uno slancio nuovo di speranza e di gratitudine verso una Volontà superiore di cui avevo sempre negato l'esistenza…

— Era l'amore, l'Amore!

— Non chiusi occhio l'intera notte: credo di aver avuto la febbre…

— Se te lo dico ch'era l'amore?

— Furono quelle, certo — me ne rendo conto anch'io — le ore da me più intensamente vissute. La mia bizzarra passione toccò in quella notte il culmine cui, dato il mio temperamento, poteva assurgere: fu davvero la fiamma divina celebrata dai poeti, in cui lo spirito si esalta e si purifica, l'anima brucia come in un rogo…

— Ne convieni finalmente anche tu?!

— Ne convengo… e non ne convengo: ascolta. Verso le 3 ant. la temperatura, ch'erasi abbassata, si rialzò improvvisamente; tornò il delirio, riapparvero i fenomeni minacciosi della vigilia. Mi convenne modificar la diagnosi, convertire la speranza dell'osteo-periostite in una certezza più grave.

— La suppurazione delle cellule?…

— Appunto. Occorreva operare subito. La trapanazione dell'osso mastoideo non era però faccenda che potessi sbrigare senza aiuto di mani esperte; e, nel contempo, mi ripugnava di introdurre altri in quella camera dove avevo lottato, sofferto solo, di far altri partecipi del salvataggio…

— Intendo!

— L' alba mi trovò dietro ai vetri della finestra che dava sovra un largo quadrato di terra metà orto, metà frutteto, tagliato da siepi di mortella e di rosmarino, limitato dal pollaio, intento a spiarne i primi riflessi: carnei nel cielo glauco, grigi sul piccolo mondo vegetale che si destava appena, aulente e rorido. E quello spettacolo della natura mi avrebbe commosso per la prima volta in vita, se avessi avuto tempo da concedere alla commozione. Ma non ve n'era. Dopo matura riflessione avevo risoluto di agire da solo e, ricordando di aver visto gemere in fondo alla ferita una gocciolina di pus, mi affiettai ad introdurre lo specillo nel sottile meato osseo dal quale mi era parso di vederla spicciare… Ebbi così la prova di non essermi ingannato: ma non m'indugiai ad assaporare il trionfo. Svegliata la fantesca, preparato l'occorrente, incrociai, sul primo taglio, verso l'occipite, una seconda incisione e, disseccati i due lembi triangolari di cute, raschiai il periosteo; poi, seguendo il tragitto segnato dallo specillo…

— Scusa: ma perchè tanto lusso di particolari?

Cràveri, il quale teneva particolarmente a questa parte della sua narrazione, ribattè, seccamente:

— E' la mia maniera di raccontare. Se ti piace, bene; e se non ti piace, smetto.

— Oh oh! Il flemmatico Cràveri che prende cappello! Volevo soltanto farti osservare che di questo passo…

— Se non mi lasci dire!

— … sarai in ritardo per la tua americana.

— Non preoccupartene. Da venti anni a questa parte, cervello e cronometro sono andati per me d'accordo nel calcolare il tempo con precisione matematica. Non mi è mai capitato di giungere ad un appuntamento cinque minuti dopo — o prima — dell'ora stabilita.

— Beato te! Ma continua: sono curioso di sapere come andò a finire.

— Oh, è sempliciss mo. L'operazione riuscì per fettamente. Anaide non mi aveva opposto resistenza alcuna: anzi, quando la volsi cautamente a giacere sul fianco sinistro e le rialzai i capelli per disinfettare la parte, quando mi vide brillare tra le dita il bisturi e comprese che le si preparava una tortura ignota, non mi rivolse domanda, ma soltanto uno sguardo lungo, nuovo, indefinibile, pieno di fiducia cieca, d'umile riconoscenza, quale doveva rivolgere al Santo, patrono del villaggio, quando andava a pregarlo in chiesa. Devi sapere che la donna colà, anche la più fiera, ha dell'amore una concezione tutta mussulmana. Più ardente, meno sensuale dell'odalisca, devota al maschio, al padrone secolare, per gl' istinti ereditarii del servaggio fino al completo sacrficio di sè — talora fino all'abiezione o al delitto — mette a servizio della sua schiavitù orientale una attività tutta occidentale: l'intelligenza agile e vivida, le mani industri, il corpo docile e temprato alle fatiche…

— Quale magnifico strumento d'amore! — sospirò Brizzi.

— Magnifico davvero! Tale infatti se la rammento mi appare Anaide in quello sguardo di muta, estatica adorazione: non più la libera selvaggia che conoscevo, ma la schiava d' Oriente, prostrata ai piedi del suo signore…

— Fortunato briccone! Sicchè dopo guarita ne facesti la tua amante?

— Ma no: per chi mi hai preso? Anzi lì per li nei suoi occhi vidi soltanto la prova che le mie cure ansiose non l'erano sfuggite, che me n'era grata… e passai oltre. Dimentichi che mi accingevo ad una operazione? Tutte le mie potenze cerebrali stavano per concentrarsi nell'occhio e nel braccio; e, tu lo sai, in quei momenti potrebbe cadermi il mondo sulle spalle, non me ne avvedrei… Ero per giunta fuori di esercizio; temevo che la vita di quegli ultimi giorni mi avesse infiacchito il polso, e fu con una specie di voluttà che, aperta la prima celletta mastoidea dove si annidava il pus e prosciugato il campo operatorio, abbattetti i sepimenti intercellulari, formando dell'interno una cavità unica… Sì, lo confesso: amo la mia arte come tu le amanti: con geloso fervore! E forse questa passione, perchè è una passione. Ad immunizzarmi, come diresti tu, da tutte le altre: quella per la donna compresa? Molti mi giudicano un ambizioso: può darsi. Per Essa soltanto però vorrei salire in fama e distinguermi, non per altra via! ad Essa dedicare le gagliarde energie della mia giovinezza e le forze coscienti dell'età matura: pur senza arrivare — soggiunse sorridendo — all'innaturale aspirazione di quello scienziato francese: faire remonter le sexe dans son cerveau… Se mi offrissero di partire alla conquista di un regno rifiuterei… ma regnare da sovrano nel mondo della scienza, maneggiare il bisturi, spada dell'avvenire, come gli antichi cavalieri la spada eroica, restaurare questa complessa macchina umana, man mano che si smonta, cementarne la compagine perchè resista alle ingiurie del tempo rubando il mestiere al Creatore: qual sogno da giganti! — E Cràveri si era stranamente animato: gli occhi chiari lanciavano sprazzi come di magnete, cui davano maggior risalto i pomelli accesi. Sembrava più magro, più alto, eretto nell'ambizioso sogno come su d'un piedistallo.

Giulio non lo aveva mai visto così. Per la prima volta in venti anni quel gaudente egoista — tale almeno lo aveva sempre giudicato — gli ispirava un senso di timorcsa ammirazione.

— Io preferisco la medicina — osservò, a mo'di comento. — E' meno cruenta.

— La medicina! — ghignò Cràveri il quale, da buon chirurgo, nutriva per la scienza sorella un disprezzo temperato d'indulgenza. — Ma è uno strascico del ciarlatanesimo, la medicina! Non siete voialtri forse gli eredi degli stregono che primi guarirono la febbre con gli esorcismi e i dolori reumatici con le melopèe? Non vi giovate della suggestione come essi della superstizione?

— Voialtri! Di' noialtri, almeno!

— Oh, io da un pezzo ho abbandonato la medicina per la chirurgia; e, in qualità di medico, non vado che dai clienti abbastanza ricchi per pagarsi il piacere d'esser corbellati… E tutte le volte che mi vedo scarabocchiando una ricetta sotto gli occhi fiduciosi dell'infermo e dei congiunti riuniti, non posso non evocar l'immagine dello stregone primitivo, tracciante in terra col gesso il cerchio intorno al quale i parenti danzeranno cantando in coro!

— Esagerazioni!

— Meno di quanto credi. Dillo tu: in secoli di studio, la medicina ha forse saputo strappare al mondo vegetale, al minerale, alle acque, al fuoco, tutt'i segreti di salute che contengono?

— Non tutti; ma gran parte, certo! Dovresti saperlo quanto me.

— Illusione! Salvo pochi farmaci veramente efficaci e non molto nuovi, come il chinino, il sublimato e qualche altro, essa non dispone che di miscele, di polveri, che per agire han bisogno di tutta la buona volontà del cliente…

— E i sieri, che vanno debellando le più ostinate infezioni? E gli anestetici di cui si giova la chirurgia? Non sono vittorie della medicina, queste?

Ma Cràveri non si arrese.

— Per me, la ritengo una scienza bambina, che della infanzia ha appunto l'incertezza e l'incoscienza…

— T'inganni: anch'essa evolve e progredisce. Non vedi come si allea tutte le conquiste nuove, dalla battereologia al magnetismo, all'ipnotismo?… Chissà che anche lo spiritismo non le riserbi qualche sorpresa mirabile, non le appresti armi imprevedute per la lotta?

Cràveri sentenziò, sdegnosamente: — Per conto mio la ritengo destinata a scomparire il giorno in cui l'igiene, adottata come norma rigorosa del viver civile, l'avrà resa superflua.

— Accusi me d'esser paradossale; ma tu?…

— Io, dico quel che penso: cioè ch'è una scienza astrusa, chimerica, tra l'alchimia e l'occultismo, dalle apparenze amabili, fatta per le donnine isteriche che han bisogno di andare alle acque… per ragioni in cui entra ultima la salute; e pei dottorini galanti, poeti come te, che hanno il buon senso… di prenderla sul serio…

— La medicina o la donna?

L'una e l'altra… Mentre la chirurgia! Ecco la realtà sicura, tangibile! Precisa come una scienza esatta, miracolosa come l'opera di Dio stesso!

— Torniamo in Calabria! — propose pacificamente Brizzi — e che ciascuno resti del suo parere.

— Torniamo in Calabria — annuì Cràveri — e precisamente a casa mia, dove giunsi mezz'ora dopo, stanco morto e con la testa in fiamme.

Con quale ebrezza respirai l'aria pura della via, con quale ebrezza mi tuffai nella vasca di zinco dove, d'inverno come d'estate, mi sferzo il sangue con la doccia e ravvivo le membra nell'acqua fredda! Con quanta voluttà mi rotolai nelle fresche lenzuola tese dalle mani del fido Luca: un gobbetto che disimpegnava presso di me i più varii uffici, dal più alto al più umile: assistente chirurgico, cameriere, cuoco e donna di faccende ad un tempo…

Mi addormentai subito e dormii fino al domani, d'un fiato. Svegliandomi non fui troppo sorpreso di ritrovarmi nel mio letto. D'intorno, i noti oggetti posavano nell'ordine consueto, comunicandomi un senso di pace serena. La pace aveva sempre regnato nella mia vita di scapolo laborioso e positivo; ma non mai come in quell'istante ne gustai la dolcezza, non mai come allora mi apparve tal bene prezioso da non doversi barattare con alcun altro al mondo… Come spieghi tu, Giulio, che le cose serbino, pur in nostra assenza, l'impronta, il carattere di chi le dispose e ci visse in mezzo? Che ne riflettano lo spirito come uno specchio invisibile?

— Io me lo spiego così — rispose Brizzi pensoso. — Attraverso le porosità del legno, del cristallo, del bronzo, gli oggetti s' impregnano dei fluidi magnetici che si sprigionano da noi, li custodiscono, come le fiale i profumi, e a lor volta ce li rimandano in esalazioni misteriose, impercettibili a sensi umani come la respirazione delle piante, dei fiori; a lor volta ce ne avviluppano facendoci in essi ritrovare noi stessi…

— Vivrebbero dunque di una vita riflessa, diretta emanazione dell' essere nostro?

— Non è inverosimile il supporlo. Create dalla mente e dalla mano dell'uomo, reclamate dai nostri istinti, predilette dia nostri sensi, le cose finiscono con l'armonizzarsi alla vita del nostro spirito, alla voce della nostra coscienza, col divenire i muti echi del nostro pensiero… E' per questo ch' esse accolgono e riflettono con tanta vivezza gioie e tormenti nostri, che paiono parteciparvi, infondendoci la tristezza o la calma: ad ora ad ora dolenti, serene, confortatrici…

— Così deve essere — concluse Cràveri senza dargli questa volta del poeta o del matto. — Perchè quell'ambiente familiare e fredduccio nel quale mi ritrovavo come in un elemento nativo (non altrimenti un pesce, gettato a boccheggiar sulla riva, dovrebbe ritrovarsi nell'onda dove una mano incauta o pietosa l' ha risospinto) aveva contribuito, più del lungo sonno ristoratore, a rimettermi in equilibrio. Sul tavolo, il lumetto da studio pareva tuttora piegare il paralume verde sulla Patologia del Koënig, aperta così come la avevo lasciata nel punto in cui era venuta a chiamarmi Sycora; e quel particolare valse a ridarmi la memoria di quegli ultimi giorni, a ricordarmi che dovevo salire al « Palazzo » per la medicatura.

— Così presto l'avevi dimenticata?

— Così presto. Anaide? — mi chiedevo tra incredulo e sbalordito. — Era stata veramente in pericolo di morte? Avevo io realmente trepidato per la sua vita? La Gnora Cenza, la strega, il delitto, la meningite, l'operazione; e le angosciose veglie, e l'ombre nere sulle pareti bianche, e la lucida febbre di quella mia ultima notte: tutto non era un sogno? Uscivo da un'allucinazione, o ero vittima di un incantesimo? Non mi aveva Sycora fatto bere un filtro?… Scherzi a parte, ebbi davvero l'impressione di chi esce da un incubo, bizzarro, intenso, angoscioso. E non fu senza apprensione che m'incamminai su per l'erta: temevo di ritrovare lassù le sensazioni della vigilia, d'esser ripreso dalla strana follìa che per tre giorni mi aveva fatto un altro.

— L'amore ha di questi fenomeni di sdoppiamento!

— Adesso quasi la rimpiango, quell' amorosa follìa!

— A torto.

— Allora constatai con sollievo che il mio polso era normale, e il piede non tradiva impazienza alcuna. La vista dello stanzone, e sopratutto quell'odore da dispensa provinciale che le mie nari riconobbero senz' altro, mi diedero la certezza (se dubbio poteva sussistere) di non aver sognato.

Anaide, sollevata sui guanciali, bianca al pari dei lini che le cingevano il capo e il mento a guisa di soggòlo, raggiò tutta, al vedermi, nel suo pallore…

— E tu?

— lo… ero calmissimo. Constatai con soddisfazione che tutto andava bene — la febbre scomparsa, la convalescenza assicurata. Poi, seduto a rispettosa distanza dal letto, l'interrogai freddamente sulle cause prime del male. Mi raccontò di aver sofferto, da bimba, di uno scolo dall'orecchio destro, esauritosi in capo a due anni, e mi confessò che la sera dell' « accidente » (come tremò nell' alludervi, temendo forse ch' io volessi penetrarne la causa, violarne il segreto!)

— La sera dell'accidente?…

— Accesa dal pianto, era corsa, a capo nudo, in contro al vento fresco dell vicina selva — la stessa dove mi aveva sorpreso col Sappey sulle ginocchia — provando da prima un refrigerio, poi un acuto malessere, nel sentirsi penetrare dall'umida brezza notturna…

Povera creatura! — mormorò Brizzi - Forse più che rinfrescare il capo ardente, volle sfuggire alla tragica visione che la perseguitava… sfogare il dolore, lo sdegno così a lungo repressi, nel grembo dell'amica natura… nel luogo istesso dove tu pel primo schiudesti alla mente e all'anima giovinette, orizzonti sconosciuti…

— Ecco il poeta! — schernì Cràveri reagendo contro la segreta commozione che dall' amico gli si comunicava sottilmente. — Sei incorreggibile, col tuo lirismo!

— E tu, col tuo scetticismo! Che cosa facesti, per esempio, dopo quella preziosa confessione? Scommetto che tu…

— lo?… Mi spiegai tutto, perfettamente. Quella causa reumatica, avendo riacutizzato il processo morboso sonnecchiante nell'orecchio medio, lo aveva lanciato verso le cellule mastoidee… Di li il delirio, la meningite, e il resto.

— Come tutto era semplice! — esclamò ironicamente Brizzi. — Direi quasi… volgare! E tu ci avevi edificato sopra un romanzo alla Montèpin, del quale per poco non ti ho creduto il protagonista!

— Io, protagonista di un romanzo? Scusa, eri tu che pretendevi…

— E così? Non osservasti altro?

— Ma si, notai che ad ogni interrogazione, fatta nel tono professionale, Anaide mi fissava con crescente doloroso stupore… Sorpresa di non riconoscere in quel medico nell' esercizio delle sue funzioni l' infermiere trepido, stravolto, apparsole nella penombra notturna, forse anch' ella si chiedeva in quel punto se avea visto o sognato…

— E si rammaricava che la realtà fosse tanto diversa dal sogno! Anch'ella ti aveva creduto un altro, si era attaccata a « quell'altro » con tutte le fibre della sua anima amante!

Cràveri non protestò, vi era anzi un'ombra di segreta tristezza nel tono con cui soggiunse:

— Quando mi levai per andarmene, i suoi occhi erano pieni di lacrime.

— E… non una parola della « cosa »? - insistè Brizzi — Che ricordava del suo delirio? Non immaginava che tu avessi udito, compreso?

— La fantesca aveva dovuto accennarle al pericolo delle frasi inconsciamente sfuggitele in mia presenza, perchè più volte, tornato a medicarla, vidi tremarle sul labbro una domanda che non trovava la via d'uscita…

— Voleva chiederti consiglio o dissipare in te ogni sospetto?

— L'una e l'altra cosa, forse.

— E non mai ardì affrontare lo spinoso argomento?

— Sì, avemmo una piccola spiegazione l'ultima volta che la vidi, quando mi recai a salutarla prima della mia partenza per Roma…

— Racconta, racconta!

— Fu così. Già da una settimana avevo sospeso le medicature. Ella non aveva però lasciato ancora la camera, mentre io già da un mese ero tornato alle consuete occupazioni.

— Con perfetta libertà di spirito?

— Con perfetta libertà di spirito. Capirai, vi era del lavoro arretrato: occorreva riparare al tempo perduto. Di giorno venivo chiamato sovente nei paesi vicini, per qualche operazione importante e ben retribuita; di notte studiavo per me, pel mio concorso, tenendomi su fino all'alba a furia di caffè… Quell'ultimo mese di M*segna una data nella mia vita, non perchè decise del mio avvenire (ammesso tra i primi a concorrere, non mi restava che presentarmi agli esami del cui esito ero sicuro), ma perchè la mia giovine macchina raggiunse in quel tempo il maximum dello sforzo, diede, in attività e in intensità, la maggior somma di lavoro ch'abbia fornito dacchè Domeneddio l'ha creata.

— E quel lavoro da forzato agì come controveleno, contribuì a guarirti di quell'altro malanno…

— … sentimentale? Può darsi. E' certo che, fra tanti pensieri, Anaide non era il pensiero più pressante. La trascuravo anzi un poco, distratto da casi più urgenti e gravi: non però al punto da dimenticare la medicatura quotidiana, che sbrigavo frettolosamente, accorgendomi appena come, invece di rifiorire, la fanciulla divenisse ogni giorno più cupa, più smorta, quasi una occulta malattia di languore ne ritardasse la convalescenza.

— Ti amava, la poveretta!

— Mi amava. N'ebbi la prova quella mattina che, come dicevo, volli dirle addio. Era la mattina di Pasqua: una Pasqua radiosa e tepida, sebbene l'aprile fosse in ritardo su quei monti e lo si vedesse rider nel piano mentre ancora lassù si agglomeravano le brume e i vorticosi venti del marzo spadroneggiavano sul sagrato. Il giorno innanzi Luca mi aveva annunziato, fregandosi le mani, che erano state « liberate » le campane, e che abusassero della libertà riconquistata mi accorgevo purtroppo dall' assordante scampanìo che mi perseguitava dalla vigilia. Dico purtroppo: ma in fondo non mi dispiaceva. Se il mondo cristiano era in festa, quel giorno, anche il mio cuore era in festa. Partivo il domani per la capitale col mio « assistentato » in tasca — o quasi! — Mi sentivo temprato per la lotta, avido di trionfi: « un forte » nel corpo come nello spirito, e la voce del bronzo sonora pareva accordarsi con la voce della mia giovinezza, gli squilli librati a stormi per la campagna, accompagnare il volo del mio pensiero di là dal monte e dal piano nella città magnifica dove ferveva la vita e fioriva la civiltà. Unendo il loro ritmo al ritmo del mio cuore, le campane mi cantavano nel cervello e nell'anima: Va con letizia e con fede! Incontro alla vita che ti chiama, all'avvenire che ti sorride, al lavoro che ti aspetta! Osanna! E' gloria nei cieli e sulla terra oggi — ve ne sarà forse un raggio anche per la tua fronte!

— Dovette essere un bel giorno! — consentì Brizzi.

— Salivo così lietamente verso Anaide facendomi largo tra la folla che seguiva la processione: la processione solita della Pasqua, sai? Con la madonna da un lato, S˙ Giovanni dall' altro, i quali muovono incontro a Gesù risorto per riabbracciarlo sul sagrato, tra lo sparo dei mortaretti e il volo dei colombi sfuggenti al manto dell' Addolorata..

— E' così anche da noi, in Sicilia…

— L'Addolorata di M.*, benchè chiusa nel suo manto nero, era troppo florida per esser in carattere: ma chi badava a coteste piccolezze? Le donne, già pregustando la gioia del sacro incontro, ne accompagnavano l'andare con un canto che incominciava: Bella Madre, consolati, che il il tuo patire è finito! — Io mi fermai dinanzi alla casa di Anaide mentre la processione continuava verso la chiesa dove il Figlio aspettava, tra un'altra folla tripudiante; e trovai la fanciulla, ritta presso il balcone panciuto che guardava la piazza, intenta a seguire la spettacolo, il quale doveva avere ai suoi occhi l'incanto — vecchio e sempre nuovo — dei riti cari alla nostra infanzia.

Nello stanzone, luminoso e ridente come una chiesa di campagna, dove le mele cotogne, le mele granate, i fichi secchi, i fichi d'India, le salsicce e le provole mettevano i loro toni di mogano e d'acero, di rubino e d'ambra, il suo aspetto mi colpi, come una nota stonata in un concerto di voci armoniose e gaie.

Mancavo da circa una settimana, non l'avevo ancor vista in piedi, nelle sue vesti d' orfana, che tintore e Majsta dovevano averle portato in mia assenza, e fui sorpreso di trovarla cresciuta assai, con un che di grave nella fronte pallida, negli occhioni pensierosi, che la faceva rassomigliare all'Anaide di qualche mese innanzi come… non saprei… come il frutto somiglia al fiore, la donna alla bimba. Donna! Era la parola. Nè, vedendola, con quel viso non più tondo ma ovale, donde le rose della prima giovinezza erano sfiorite, con l'ombra severa dello sguardo, la foresta dei riccioli non più scomposta ma raccolta in ciambelle intorno agli orecchi e sulla nuca da statua, avrei più ardito chiamarla scherzosamente: Nadde! come facevo talora quando le insegnavo a leggere.

— Tutto sommato non piaceva più nemmeno al medico? — chiese Brizzi, ridendo.

— Oh Dio… certo… la trovavo meno vivace e florida… più… « interssante » come suol dirsi… tanto vero che per la prima volta la salutai con un: Buon giorno, signorina! che da pallida la fece diventar rossa come una peonia. Sycora, la quale andava disponendo nei bicchieri le viole di Pasqua, a mazzi, a spiche, dinanzi alla Vergine, al Cristo e al S˙ Giovanni del cassettone, vedendo quel rossore crollò il capo scontenta. — Bella la vostra processione! — soggiunsi per mostrarmi cortese. — Poi fissandola più attentamente: — Ma che brutta cera! Scommetto che non seguite le mie prescrizioni! Prendete il latte mattina e sera?

Est'u nigru ca nun ce còle!(1) E' il nero che non le giova! — sentenziò Sycora, togliendo i tre simulacri dalle campane di vetro e disponendoli come per l'incontro che avrebbe avuto luogo tra breve lassù, sul sagrato: Cristo in mezzo, la Madonna a destra, S˙ Giovanni, con la pecorella, a sinistra. E mi spiegò, con accento convinto, come vi fossero persone cui il nero giovava, altre cui nuoceva, a seconda che le gramaglie erano più o meno in armonia col lutto del cuore. Sapevo, per triste esperienza, quale spiegazione dare alla superstizione paesana. I tintori locali, ignorando l'arte di dosare il vetriolo, erano fonte di pericolosi malanni ai dolituri(1) Parenti prossimi del morto.

L'anno prima che io giungessi ad M* una intera famiglia in lutto era morta — morta, capisci? — per aver assorbito il veleno di cui erano impregnate le stoffe, dalla tela della camicia al merinos del fazzoletto da collo! E per ottenere che si proibisse di tingere in nero avevo dovuto sostenere una campagna (che mi aveva valso qualche inimicizia) con l'amministrazione locale, coi tintori, e persino con le vittime volontarie, cocciute al punto da preferire la morte al farsi strappar di dosso quelle pezze avvelenate!

Ma tutto ciò, oramai, non mi riguardava più. Mi riserbavo di affidar l'impresa all'energia del mio successore… non appena me lo avessero dato. Intanto, accostatomi ad Anaide con le sopracciglia aggrottate, ne respirai le vesti: emanavano infatti un violento odore di vetriolo fresco.

— Dove avete fatto tingere questa roba? — gridai indignato.

— Qui.

— Qui?! Sapete bene che avreste dovuto invece comprarla dal mercante, a Cosenza! — Sycora tacque; Anaide si strinse nelle spalle con un atto di suprema indifferenza.

Ebbi uno scatto d'ira.

— Oggi stesso farete bruciar questa roba, o denunzierò la cosa.

Mara Vergine! Che dice mai?! — esclamarono insieme le due donne, segnandosi scandolezzate. — Togliersi il lutto del Padre, fosse pure per un'ora?!

— E' necessario — insistei, suggestionando Anaide con lo sguardo imperioso. — E' del veleno che respirate! Vi farebbe troppo male, indebolita come siete…

Col mento sul petto, la fanciulla non rispondeva. Io continuavo: — Mandando domattina una persona in città per la stoffa potrete averla la sera stessa. In due giorni il costume sarà pronto. Intanto, se vi ripugna di mostrarvi senza lutto rimettetevi a letto, rifate l'ammalata per qualche giorno…

— Non può, Gnore medico: non può! — intervenne la strega — Sarebbe una ingiuria alla buon'anima! Chiamerebbe la mala sorte!

— Poche chiacchiere! — imposi fulminandola con lo sguardo — o denunzio anche Voi e quella megera della vostra padrona…

L'effetto di tal minaccia sorpassò le mie intenzioni. Sycora ammutolì di botto, scivolò via come un'ombra… Anaide mi stralunò gli occhi in faccia.

— Rassicuratevi — dissi accorgendomi del tremito nervoso che la scoteva. — Ho detto così per ispaventarla…

Idda(1) Essa. è innocente, signore!

— Non ne dubito. Ma rassicuratevi! Non intendo denunziare alcuno. Se ne aveste avuta la intenzione avreste ben potuto farlo voi… E avete invece preferito di soffrire in silenzio.

Non dimenticherò mai lo sguardo indefinibile che mi rivolse, lampeggiante di mille sentimenti, mille pensieri cozzanti insieme: Cah?!(1) Esclamazione dialettale di frequente intercalata nel discorso e indicante, secondo l'accento, indignazione, meraviglia, ironia. — esclamò timidamente, come a dire: « E' così: lo capite anche voi? » Poi con un accento indefinibile come il suo sguardo, mi spiegò a voce bassa: — Este cinta!(2) E' incinta!. — E chinò pudicamente lo sguardo nel quale avevo visto cozzare insieme l'odio per la matrigna e la pietà per la vittima, la sete di vendetta ereditaria covante come fuoco di vulcano sotto la cenere del suo silenzio, e la volontà che ne aveva soffocato l'impulso, il timore ch' io la credessi imbelle e vile sol perchè avea taciuto e l'ansia di riabilitarsi ai miei occhi dandomi la chiave del mistero…

— Era incinta! La matrigna era incinta! — esclamò Brizzi, colpito. — Ora capisco! La fanciulla che non avrebbe avuto pietà per la donna ebbe pietà della madre! La maternità rendeva sacra ai suoi occhi anche l' assassina del padre suo…

— Come corri! — ammonì Cràveri, divertendosi dell' entusiasmo di Brizzi. — Io credo piuttosto che la trattenesse il pensiero del fratellino… futuro. Vendicandosi non avrebbe colpito anche la creatura del suo sangue?

— E' vero… — concesse Brizzi. — L'inno cente avrebbe potuto morire nel grembo della madre sbigottita o nascere in carcere, portando nell'organismo tracce indelebili della gestazione dolorosa… E che cosa sarebbe stato di lui più tardi, orfano di padre, con la madre in galera e l'onta di un nome macchiato dal delitto?…

— Sì, tutto questo dovè pesare nella bilancia di Anaide — approvò Cràveri — a farla pendere dal lato della pietà… Ma, troppo poco evoluta per ispirarsi ad una evangelica filosofia tolstojana, fu nell'istinto della sua femminilità che trovò la forza di far tacere ogni altro istinto.

— Ah! — proclamò Brizzi con enfasi. — Io l'avrei amata pel suo silenzio come Otello amò Desdemona per la sua pietà! Mentre scommetto che tu non avesti una parola di tenerezza per quella oscura eroina…

— T'inganni. Con tutto il calore di un'ammirazione sincera, io le dissi: — Avete fatto bene.

— E le bastò?

— Se le bastò! Parve trasfigurata d'un tratto nel viso commosso di gratitudine e di speranza. E mentre io soggiungevo: — Vivete dunque tranquilla: non una parola mai uscirà dalla mia bocca — con gesto così pronto che non feci in tempo ad evitarlo, si portò la mia destra alle labbra, v'impresse un bacio rovente…

— Cosa avrei pagato per veder te in quel momento!

— Infatti, dovevo esser grottesco… Sottraendomi in fretta (sia detto a mia lode!) a quello slancio di riconoscente espansione, profittai del buon momento per consigliare: — Intanto ubbiditemi: smettete quei panni — Gemè: — Non posso! Incalzai: — Se è vero che mi siete grata del poco bene che v'ho fatto provatemelo obbedendo. Non oggi soltanto, ma sempre: anche quando non sarò più qui. — Non avendole mai parlato nè di concorso, nè di esame, nè di partenza, quell' allusione ebbe l'effetto di un fulmine a ciel sereno. — Perchè dite questo? — mormorò impallidendo — Voi ci starete sempre, qui, non è vero? Chi può mandarvi via?

Nella sua ingenuità credeva ch'io fossi destinato a vivere in quel borgo (del quale aveva pur dovuto varcare, nelle molte letture, i limiti con la fantasia) senza altra aspirazione che di morirvi.

— Restarvi sempre! — esclamai inorridendo — Ma ci sarebbe da morire di…

Il suo pallore, quasi cadaverico, mi avvertì troppo tardi della crudeltà commessa. E quasi si fosse trattato di completare con pochi tratti una operazione chirurgica, conclusi brutalmente:

— Parto domani per Roma: venivo appunto a dirvi addio.

— Partite? Perchè partite? — balbettò vacillando, colpita da quell' annunzio come da una palla in pieno petto.

— Per darvi alcuni esami…

Un raggio di speranza tornò a brillarle negli occhi.

— Non è vero! — gridò credendo ch'io volessi burlarmi della sua ignoranza come solevo talvolta prima della malattia quando, con racconti alla Verne, mi divertivo a darle strabilianti notizie dell'universo mondo, ed ella m'ascoltava sgranando gli occhi finchè, accortasi del giuoco, non scoppiava in una risata schietta. — Non è vero! — Poi quella negazione parendole troppo assoluta, poco rispettosa, corresse con una punta di trionfante malizia: — Cah! Turnaste quatràru? I quatràri dànno esamini!(1) Che! tornaste ragazzo? I ragazzi danno gli esami!

— E sovente anche gli uomini! — ribattei sospirando.

Quella mia gravità la scosse. Ripresa dall'ambascia, domandò, col seno anelante, l'occhio che mi scrutava sino in fondo:

— E dopo?…

— Dopo… non so… Mi daranno forse un posto, laggiù…

— Non tornate più?…

Rotta, ansante, la voce fischiava tra i denti serrati.

Non trovai di meglio che stringermi nelle spalle mormorando:

— Chi sa?

Ma ella comprese, si nascose il volto tra le palme singhiozzando:

— Ed io?!

Ah quell' lo?! con quale impeto proruppe dal cuoricino schiantato per morire fra le labbra contratte: grido, gemito, sospiro ad un tempo!

Cràveri si fermò, oppresso dal ricordo, quasi sentisse ancora risuonarsi dentro l'eco dell'appello angoscioso.

Brizzi profittò della pausa per attaccar l'amico vivacemente:

— E tu vi resistesti?! E tu non ti sentisti scosso dal grido dell'anima implorante: Che cosa sarà di me quando non sarete più qui? Sola con la Gnora Cenza che odio e che mi odia? Con questo terribile segreto fra noi?! « E tu non leggesti nei suoi occhi di gazzella ferita il rimprovero: Ah perchè mi avete salvata? Non era meglio lasciarmi morire anzichè abbandonarmi così? »

— Hai finito? — chiese tranquillamente Cràveri, riaccendendo la sigaretta spentasi durante la melodrammatica tirata di Brizzi.

— Ho finito; ma ciò non toglie che tu abbia un cuore di pietra.

Carlo alzò le spalle.

— Si fa presto a dirlo! Che cosa potevo fare per lei? Sposarla? Non l'amavo abbastanza per commettere una simile corbelleria: anzi — ne avevo avuto la prova — non l'amavo affatto… Il passato? Il passato era un' illusione della fantasia o dei sensi, non sapevo bene… Prenderla con me? Si, era questo ch' ella mi chiedeva, ch' ella mi offriva, tacitamente. Sè stessa, e con sè un infinito tesoro di devozione, di amore… Ma avevo io il diritto di accettare? Eppoi, confesso il mio egoismo, quell'amore troppo elementare per non esser tirannico mi faceva paura… Pel momento, è vero, il padrone ero io: amante o schiava, l'una e l'altra insieme, potevo farne quel che mi piacesse… ma perciò appunto non avrebbe ella finito col signoreggiarmi? Ed io invece avevo bisogno di andar dritto per la mia strada senza indugi pietosi, senza vincoli di gratitudine nè legami di sensi, libero di entrare, di uscire, di ammogliarmi il giorno in cui lo avessi ritenuto utile alla mia carriera, necessario alla mia felicità…

Brizzi sospirò, d'invidia. Cràveri aveva infatti sposato, qualche anno innanzi, la figlia naturale del prof. Di Novello, una fra le tre o quattro illustrazioni che vanti, nel ramo chirurgico, l'Italia scientifica. Questa fortuna, ignorata da molti, gli aveva procurato, con l'ambìto posto di assistente primario del suocero, occasioni magnifiche di istruirsi e di far valere il suo ingegno. E Brizzi pensava con amarezza che, marito di una donna piacente e savia, padre di due bimbi intelligenti e graziosi, Cràveri vedeva, in fondo alle vie maestre del lavoro e del matrimonio, raggiare una eredità di gloria, mentre egli, Brizzi, trascinato dal suo temperamento a debolezze e ad errori irreparabili, era quasi uno spostato, nella sua classe.

— La verità mi apparve, lucidamente — proseguiva l'altro. — Se cedevo, ella sarebbe stata un ingombro inutile nella mia vita fino al giorno in cui avessi incontrato la fanciulla che mi conveniva e, quel giorno, un ostacolo. Bisognava dunque respingere la tentazione di una debolezza da scontarsi penosamente poi. Al suo: « Ed io?! » replicai quindi con energica fermezza: — Voi, vi mariterete. Siete giovane, bella, ricca: chi sa quanti aspirano alla vostra mano! E' il miglior modo di sfuggire alla Gnora Cenza, al ribrezzo della sua vista, al pericolo del suo contatto… e alla tristezza dei ricordi — soggiunsi, più dolcemente.

Levò il capo, e guardandomi fisso con occhi in cui non era più traccia di preghiera o di pianto, dichiarò risolutamente: Mai.

Uno scoppio di mortaretti le rispose da l'alto del sagrato dove i divini congiunti si erano finalmente riuniti. Guardammo in su, distrattamente: era il momento culminante. Il peplo rosso del Cristo risorto si confondeva, nell' amplesso, col manto nero dell' Addolorata, mentre S˙ Giovanni, col fido agnello, aspettava discretamente da parte che giungesse il suo turno per congratularsi.

La caratteristica scena si svolgeva nel breve quadrato della sagra, brulicante di gente in pittoreschi costumi, al di sopra dei tetti del villaggio, in una luce d'apoteosi. In un baleno il manto nero scivolò dalle spalle della Madonna lasciandone sfuggire un volo di colombi bianchi, ed ella apparve nella veste azzurra trapunta d'oro, circondato di stelle il capo, rosea e bionda come una pupattola di Norimberga. Fu un delirio di allegrezza. I petardi scoppiettavano vivacemente intorno agli zoccoli dei simulacri sollevando gaie nuvolette di fumo: uno strepito di gragnuola giungeva al nostro balcone col frastuono della banda, la voce delle campane e il romoreggiar della folla… Quel quadretto, così vivace nella cornice di un cielo di cobalto dove il volo dei colombi gettava una nube candida, avrebbe tentato un colorista; ma, sentendo forse acuirsi, pel contrasto, il tormento del cuore, Anaide piegò il capo sulla curva ringhiera e vi nascose la testa… Un colombo dello stormo, venuto a rifugiarsi palpitando nell'angolo del balcone, fissava col roseo occhietto diffidente la oscura massa che gli posava allato. Io tacevo, aspettando il momento propizio per toglier congedo. Ma come il tempo passava, mi risolsi a sfiorare il braccio della fanciulla dicendo con fare compunto:

— A rivederci, signorina: fatevi coraggio! Avete sedici anni, che diamine! (capivo di esser goffo, ma non trovavo altro a dirle) Sedici anni che… sicuro… hanno balsami per tutte le ferite: ve ne accorgerete più tardi! Intanto non dimenticate di bruciar quella roba e di rimettervi a letto: fate ch'io parta tranquillo…

Ella scosse violentemente il capo a significarmi che non sarei stato obbedito; poi, con atto di selvaggia protesta, si strinse nel fazzoletto da collo quasi avesse voluto incollarselo addosso, farsi penetrare nel sangue d'un tratto il veleno che l'impregnava.

— Ho capito come andò a finire — disse melanconicamente Brizzi. — Tu partito, la fanciulla non smise i mortiferi panni… Ci visse dentro, notte e giorno, bevendo dai pori la morte, sfiorendo d'ora in ora, nella segreta voluttà di sentirsi morire, lentamente, per te…

Cràveri scoppiò in un risata, mentre Brizzi continuava, esagerando l'indignazione:

— E tu hai potuto viver dieci anni con un rimorso simile?! Mangiare, dormire, prender moglie, arricchirti!…

— Me ne duole per te, ma la fine del mio romanzetto fu assai meno tragica, e questa ti consiglio di serbarla per qualche novelliere il quale non sappia come disfarsi, al momento opportuno, di un protagonista infelice… Avrà, non foss'altro, il pregio della novità: si è tanto abusato di rivoltella, di morfina, di carbone, di gas illuminante e di fernet!

— O allora?

— Allora quando senti che me ne andavo davvero sorse di scatto, drizzandomisi in faccia con un rauco: No! E mentre io indietreggiavo, colpito dall'aspetto veramente tragico ch'ella aveva in quel punto, con la bocca schiusa nel grido, gli occhi da folle, le mani protese disperatamente nell'atto di aggrapparsi a me, quasi avesse sentito mancarsi l'unico sostegno, la vidi girare due volte su sè stessa…

E cadde come corpo morto cade — completò dantescamente Brizzi.

— Sì, piombò giù come un masso, senza sensi: morta davvero nell'aspetto! Io profittai della sincope…

— Per svignartela.

— Ma no! Per chiamar Sycora, e ordinarle senza preamboli: Spoglia la tua padroncina e mettila a letto, subito! Poi, prima che rinvenga, prendi la sua roba, tutta, dalle calze al fazzolettone, e portala a me. Ti aspetto nel pomeriggio. Se manchi… bada!

Non mancò: in sua presenza bruciai le vesti, mandai Luca a Cosenza ad acquistarvi la stoffa pel nuovo costume che la stessa Sycora avrebbe portato il domani alla sarta; e dal tono con cui la piccola strega me lo giurò, dalla solennità con che prese commiato, ammonendo e supplicando insieme con le palme levate e gli occhi al cielo: « Signore! L'onore di questa casa è nelle vostre mani! » quasi si fosse trattato della Casa d'Italia o d'Inghilterra, mi convinsi che non avrebbe osato disubbidirmi. Il domani partii, relativamente tranquillo…

— ?!

— Ma sì, perchè non avrei dovuto esserlo? Avevo preso tutte le opportune misure per sottrarre da Anaide quella forma di suicidio che la superstizione metteva a portata della sua mano, sicuro che, quella mancando, non ne avrebbe cercata un'altra… A sedici anni non ci s'indugia in foschi propositi! In quanto a me, che cosa potevo rimproverarmi? Di averle preso — così involontariamente! — il cuore? Ma non le avevo forse salvato, due volte, la vita? In fondo il creditore ero io…

That is the question! — oppose Brizzi con amletiana gravità. — L' avevi forse interpellata per sapere che cosa avrebbe preferito di perdere? Evidentemente, ella non sapeva che farsene della vita senza l'amore… visto che voleva gettarla via come una veste irreparabilmente lacera. Tu dirai ch'è dei popoli civili il commutare la pena di morte nella galera a vita… Oh senti! Io non ho mai potuto udir inneggiare alla soppressione della pena capitale senza rabbrividire quasi dinanzi ad uno scherno feroce! Si, uno scherno! La vita senza la libertà?! Ha forse ragione di essere? Se almeno non vi fosse la segregazione cellulare potrei anche accordare alla società l'attenuante della buona fede….. ma come crederla sinceramente pietosa, finchè condannerà uno sciagurato — che il più delle volte è irresponsabile — a smaniare fra i quattro palmi di una cella, con barbara assiduità interdicendogli il suicidio, cioè la liberazione? E questo per anni, fino a che si danni l'anima, fino a che senta picchiarsi nel cranio il martello della follìa! Perchè, tu lo sai, dopo qualche anno di segregazione, non si sfugge alla demenza, e attraverso quali torture vi si giunga Dio solo lo sa!.. Ora, quale credi tu più feroce castigo? Uccidere il corpo o la mente di un uomo? Scommetto che, se il condannato potesse scegliere, novantanove volte su cento sceglierebbe… di tornare all' antico. Lo prova tornandoci da sè… sempre che gli riesce.

— Finiscila coi tuoi paradossi!

— Paradossi un corno.

— Ma non capisci? Non è per far piacere ai condannati ch'è stata soppressa la pena di morte; ma perchè la violenza applicata alla violenza metteva la giustizia a livello dell'assassino, perchè ciò costituiva un esempio demoralizzante, una crudeltà inutile…

— Ecco la verità! Non per pietà, ma per ribrezzo del sangue, al castigo violento ma breve d'un tempo questa nostra ipocrita società, così raffinatamente civile, preferisce l'agonia lenta, nell'ombra e nel silenzio, donde non giungono, a scuoterne i nervi delicati, il rantolo e le maledizioni di migliaia d'infelici! E pretende d' esser gabellata per umana mentre è soltanto egoista e vile?!

— Dio come sei tragico, sempre!

— Tu, mio caro — e Brizzi appuntò solennemente l'indice contro il petto di Cràveri — come la società, hai commesso un arbitrio. Sicuro, un arbitrio! Non si ha il diritto di scegliere il beneficio senza interpellare il beneficato!

— Peccato ch'io abbia allora dimenticato d'interpellare anche te! — ribattè Cràveri, lievemente beffardo.

Erano giunti in Piazza Venezia, bellissima nel chiarore diffuso dalle lampade ad arco. L' ora del pasto aveva fatto diradare la folla dei pe doni e degli equipaggi: un gruppo di gastronomi a spasso stazionava dinanzi all' appetitosa vetrina del Dagnino: qualche ritardatario si affrettava a casa traversando rapidamente il folto intrico dei binarii dove le vetture-tramvai, padrone del campo, s'incrociavano, prepotenti e rumorose, con la vaga parvenza e l' impeto di siluri terrestri. I due palazzi Venezia — l'autentico e lo pseudo — uno di fronte all'altro, affratellavano le sagome simiglianti, facendo dimenticare in parte la dissonanza e l'ingiuria del tentativo mal riuscito.

— Temo di aver fatto tardi — disse Cràveri guardando l' orologio. — No: un quarto ancora da star con te.

— Un quarto d'ora? Bene. Eccoci da Faraglia. Entriamo.

— E la tua visita? — domandò Cràveri.

— Oh quella! E' passata da un pezzo.

— Non m' hai l'aria di prendertela troppo a cuore…

— Peuh! E' un malato immaginario il quale passa la giornata sui libri di medicina studiando il suo « caso » e aspetta la mia visita per sciorinarmi la sua scienza. Tutte le sere io lo assicuro ch'egli è pertettamente in grado di curarsi da sè, giacchè nessuno « si conosce » meglio di lui: ed egli va a letto contento.

— E se, come stasera, non ti vede giungere?

— Va a letto di malumore: ecco tutto.

Poca gente ai tavolini del caffè novissimo che empiva di stigli d' acero, di specchi e di libere pitture il pianterreno del palazzo nuovo.

I due amici, i quali per risparmio di tempo e comodità di lavoro avevano adottato il vecchio orario estivo del pranzo a mezzodi e della cena sul tardi, sedettero ordinando uno sciampagnino Faraglia ed uno chop di Pilsen Chiara.

Lo sciampagnino era per Brizzi, il quale, dopo aver sorbito voluttuosamente qualche cucchiaio dell'ambrata bevanda, chiese con interesse:

— E cosi? Non ne avesti più nuove?

— Di Anaide? Sì; una volta: tre anni fa. Fu per mezzo di un loro fittavolo venuto qui a farsi operare di un fibroma. L'operai io stesso, al Policlinico.

— Ebbene?

— Ebbene, mi raccontò che, pochi mesi dopo aver data alla luce un maschietto, la Gnora Cenza s'era rimaritata, nell'impeto di una passione tardiva, con un massarotto di quindici anni più giovine, ed era partita con lui per l' America, portando seco quanto potè in biancheria e denari, ma lasciando in compenso alla figliastra il bambino.

— Sicchè, Anaide?

— Con molto dispetto dei numerosi aspiranti al possesso… delle sue terre, Anaide si era « tagliati i capelli » divenendo monaca di casa e si era dedicata con selvaggio ardore al fratellino, che amava come un figlio… Teneva anche una piccola scuola gratuita per insegnare a leggere ai bimbi del villaggio: ecco tutto.

Brizzi taceva, pensoso. Forse l'indole immaginosa ed ardente gli faceva rimpiangere l'altra fine intravista.

— Ecco perchè — concluse Cràveri — ti ripeto che non ho mai amato nè amerò mai nel vero senso della parola. E sarei curioso di sapere in quale categoria il banditore della scienza nuova classificherebbe un amore — pardon! — un morbo che descrive la sua parabola in tre giorni e scompare senza lasciar traccia?

— Evidentemente — masticò Brizzi alquanto imbarazzato — ci troviamo di fronte ad un caso speciale, specialissimo, in cui la malattia non ha seguìto il corso normale. Perchè, generalmente, se a combattere la cristallizzazione del microbo nella cellula donde si propaga, non intervengono quei reagenti che il volgo chiama « delusioni » il processo è ben altro!… E in te, ch'io sappia, cotesti reagenti non sono intervenuti: a meno che…

— A meno che — completò Cràveri — non si voglia metter nel numero delle delusioni… reattive la scoperta dell' infiammazione mastoidèa: un buon soffio di prosa, quello, sul romantico castelletto delle mie fantasticherie! E' questo che volevi dire?

— E' questo.

— Senti: con tutto il rispetto dovuto ad un novatore par tuo, ti dirò come io riesca, presso a poco, a spiegarmi l'enigma. Non ti dicevo dianzi ch' è forse la mia passione per la scienza ad immunizzarmi da ogni altra: quella per la donna compresa? Il mio caso ne sarebbe la prova. Ed io penso che la malattia di Anaide, apparentemente invincibile, abbia avuto su questa passione, avvezza ai trionfi, lo stesso effetto dell' ostacolo che ingigantisce e sferza la passione commune… Chi sa ch'io non sia stato spinto a conoscerla e a vincerla, la mia incognita ribelle, dallo stimolo medesimo che suol dare all' amante il chiuso disdegno della donna amata? Perchè mai, finchè non l'ebbi domata con l'arte mia, sarei dunque vissuto nell'ossessione e nella febbre della mia impotenza? Soltanto quando il caso mi condusse alla felice scoperta, la mia febbre cadde ed io tornai padrone di me…

Ecco perchè ho potuto — concluse Cràveri — durante tre giorni scambiare il mio sacro amore per la scienza con l'amore profano per una donna.

— Tutto ciò non esclude le mie teorie — osservò Brizzi il quale non voleva darsi per vinto — e a me pare che il tuo amore sia stato della stessa natura di quelle febbri, non ben definite nè classificate, che il volgo chiama « nervose »: febbri violente e rapide che vengono senza che si sappia come, vanno senza che si sappia perchè: piccole meteore sconosciute, per dir così, del nostro cielo medico…

— Una effimera? — ghignò Cràveri.

— Appunto: una effimera.

— Giacchè tieni assolutamente a metter l'amore nel novero delle malattie la trovata non è cattiva.

E Carlo si alzò, pagando (era sempre egli che pagava) il prezzo delle bibite consumate.

— Ciao — soggiunse tendendo all'amico due dita, mollemente. — Bisogna che vada.

— Ci vediamo all'ora solita?

— All'ora solita.

E, fatta accostare una botte, il chirurgo vi salì, dando l'indirizzo di Porta Cavalleggeri.

Brizzi, col cappello di traverso, l'eterno toscano all'angolo della bocca, stette sul marciapiedi a vederlo partire. Pensava alla storia udita, a quel gran cuore calpestato… e non lo invidiava più.

— Che imbecille! — si disse seguendo con gli occhi l'amico che il veloce cavallo trasportava giù pel Corso Vittorio Emanuele. — La vita che si è fatta valeva poi il sacrificio di un amore simile?!

E convenne seco stesso che, se invece della pupattola crudele e vuota in cui si era imbattuto, avesse incontrato una donna come Anaide, avrebbe volentieri mandato al diavolo le teorie dell' erosmicrobe… e si sarebbe lasciato amare!

A mio marito.

Il teatro della farsa è un paesello della provincia di Reggio, posto sull'altura; protagonisti ed antagonisti, il pretore Aspasia, giunto di fresco con poca dottrina e molta albagia, e il barone Gullì, pezzo grosso del paese, capo dell'opposizione, ricco di censo e di autorità; entrambi testardi, partigiani, tenaci negli odii come negli amori: due ossi duri da rodere.

Il Pretore è un ometto sulla cinquantina, calvo, tarchiato, con gli occhiali: nell'ira il cranio pelato gli si accende come un lampione, il collo taurino diventa paonazzo, le corte braccia si agitano come ali di mulino a vento.

Il Barone è giovane, slanciato, militarmente disinvolto, parco nei gesti: ha la collera fredda.

La guerra è scoppiata per ragioni politiche. L' opposizione, con a capo il barone Gullì, sta per rovesciare il partito governante, alla cui testa è l' onorevole Colantoni, un Depretis in ventiquattresimo, volpone di tre cotte, che per un ventennio ha retto senza controllo le sorti del Comune. L'elemento giovane del paese pensa ch'egli abbia ormai fatto il suo tempo. Esso aspira, nella persona del barone Gullì, ad un governo più modernamente inteso, più ricco di energie, per cui la lotta ferve in grembo al Consiglio.

Il Pretore potrebbe e dovrebbe restarvi estraneo, ma si prevede che nell'imminente bufera non uno dei vecchi santi rimarrà sul piedistallo; il pretore Aspasia s'interessa appunto ad uno di questi, certo Bettinelli, membro del partito condannato, e la protezione del pretore Aspasia è come quella dell'Inghilterra: Gare à qui touche!… Comunicazioni… sottomarine vengono stabilite fra Municipio e Pretura, allo scopo di trattare il salvataggio di Bettinelli.

Il barone Gullì consente a risparmiare la testa di costui per avere il piacere di offrirla al Pretore in pegno di futura amistà: le trattative pendono tuttavia allorchè la crisi scoppia, il Consiglio entra in convulsioni, Colantoni cade con tutti i filistei, Bettinelli compreso, e il barone Gullì sale agli onori del sindacato fra il tripudio dei suoi.

Apriti cielo! Il Pretore grida al tradimento, giura che « quei ragazzi » glie la pagheranno, e ai primi verbali di contravvenzione che gli capiteranno tra le grinfie per il « lascia passare » si faranno « i conti ». Il Sindaco ribatte che la nuova amministrazione non si lascerà imporre nè ostacolare da lui: gl'insulti s'incrociano, la guerra è dichiarata: potere giudiziario e potere amministrativo stanno di fronte « l'un contro l'altro armato » nelle persone del Pretore e del Sindaco, entrambi risoluti a non ceder di un palmo.

I personaggi, oltre i due protagonisti, sono:

Mariannella, fantesca del Pretore, bella ragazza sui vent'anni; Pizzone, un tempo membro della Guardia Nazionale, ora capo della Guardia pretoriana del Sindaco; un altro vigile; il segretario comunale Gelardi; D˙ Peppe, l'usciere; Cancelliere della Pretura; Tenente dei cabinieri; due carabinieri; Sottoprefetto; Procuratore del Re; il Giudice istruttore; Mastro Sabato Grio, capo dei dimostranti; Dimostranti; Consiglieri comunali; Popolo.

Scena unica

E' il crepuscolo. La piazzetta sonnecchia in una semi oscurità piena di mistero, i salci che l'ornano si cullano dolcemente alla brezza vespertina. Nella fontana di mezzo l'acqua fluisce e canta con ritmo eguale, la sua voce di liquido cristallo sembra velata di melanconìa. Una forosetta lava, china sulla vasca, con la saja infaddata(1) Rialzata sui fianchi., ed il plaf, plaf, violento come uno schiaffo, della biancheria, tuffata e rituffata nel bacino, interrompe a tratti quella musica lene.

Due vigili spuntano all'angolo di una via.

— Che cosa fate qui?! — grida una burbera voce uscendo da due baffi grigiastri, mentre il più prestante fra i due militi si ferma alle spalle della donna accarezzandosi con perfida compiacenza il napoleonico pizzo per cui in paese lo hanno sopranominato Pizzone.

— Qui?! — fa eco l'altro milite che si tiene in disparte pieno di rispetto pel compagno.

La forosetta si raddrizza, scoppiando in una risata più fresca di quel filo d'acqua corrente.

— Non vedete? Lavo. — Nel volgersi la collaretta di pizzo le si rialza dietro, incorniciandole il capo come un collo Maria Stuarda: nel viso bruno occhi e denti son tutto un luccicore di madreperla e di smalto.

— E chi siete? — chiede, ancor più burberamente, Pizzone, il quale la conosce benissimo.

— Chi? — fa eco il compagno.

— Oh bella! Sono la serva del Pretore.

— Ah! ah! (quell'ah-ah, modulato in due toni, uno maggiore, uno minore, va dalla finta meraviglia al trionfo). — Benissimo! Non avete dunque letto il manifesto ch'è lassù? — e Pizzone addita solennemente la facciata di una casa immersa nell'ombra.

Risata più impertinente della prima.

Eo nun saccio 'u lejo!(1) Io non so leggere.

— Be', ve lo dirò io: quel manifesto avverte che, a causa del colera, la Giunta esige una scrupolosa osservanza del regolamento di pulizia urbana, il quale proibisce, tra l'altro, di lavar panni alla fontana pubblica. Chiunque vi contravviene sarà puinto a norma del detto regolamento… Avete capito?

Eo nun saccio 'u lejo! Il padrone mi manda, ed eo vegno!(2) Io non so leggere! Il padrone mi manda, ed io vengo.

— Ma non è la prima volta che vi ci colgo!

— E non sarà l'ultima. Il padrone manda, ed io vengo!

— A dispetto del regolamento?

— A dispetto… del diavolo che vi porti!

E, con un ultimo plaf schernitore, Mariannella attorce e strizza un pannolino, lo aggiunge agli altri nella cesta, s'alza questa in capo e se ne va, col suo passo ritmico e svelto, dondolando i fianchi procaci.

Alle guardie non resta che stendere il loro bravo verbale.

Sono le nove. La Pretura ha un aspetto insolito d'importanza e di lindura.

Il Pretore siede sulla ruota, col tocco di traverso, un'aria canzonatrice d' anticipato trionfo; D˙ Peppe l'usciere, che ha finito or ora di spazzar l' aula di giustizia, gli si pianta fieramente allato, come a dire: Vedremo chi di noi aveva torto o ragione! « Con quel noi-intende il Potere giudiziario del quale, naturalmente, fa parte.

Mariannella, la serva, siede sullo scanno dei rei e ride e cinguetta e splende come un mattino di primavera. E' lei che bisogna giudicare per le ripetute infrazioni all' art. 9 del regolamento di pulizia, per ribellione alle guardie e resistenza alla forza pubblica.

Dopo avere più volte invitato Mariannella a recarsi in Municipio, dopo uno scambio di lettere vivaci col pretore Aspasia, il Sindaco ha inviato il verbale delle guardie in Pretura per gli ulteriori provvedimenti. Sperava, l'ingenuo! che il Pretore, trattandosi di faccenda in cui è così direttamente implicato, si sarebbe astenuto; ma il Pretore, il quale si sente superiore ad ogni sospetto, ha calzato il suo bravo tocco ed è venuto in udienza risoluto a giudicare la serva con quell'imparzialità ch'è da prevedersi.

La Pretura si popola. Primi a giungere il Cancelliere ed il Segretario comunale (quest'ultimo fungente da Pubblico Ministero, lancia spezzata del Sindaco) i quali, prima di sedere, uno alla destra, l'altro alla sinistra del Giudice, si scambiano un'occhiata da cane a gatto.

Entra l'avvocato difensore, Bettinelli in persona, che si sprofonda in inchini dinanzi al Pretore, e sorride, con aria protettrice, a Mariannella. Pretorianti e Sindacanti — questi in assai maggior numero — gremiscono il pretorio. Un mormorìo ironico corre nel pubblico alla vista del giudice, dell'avvocato e della serva.

— Taglierini in famiglia!

Acquaiuò, l'acqua è fresca?

— L'Arciprete della Motta! Chiamava la mamma per testimone!

Un frizzo, più pungente degli altri, giunge all'orecchio del Pretore; ma il Pretore, ch' è uomo di spirito, senza scomporsi, dichiara aperta l' udienza. Mariannella viene interrogata. La ragazza risponde baldanzosa, confermando i fatti. Ad ogni sua ardita risposta il Pretore china il capo indulgente e il Pubblico Ministero mastica tra i denti: — Sfacciata!…

Pretorianti e Sindacanti sono d'accordo in una cosa sola: nell' ammirazione per Mariannella; e non v'è chi non lodi il gusto del Pretore, il quale, in fatto di donne, ha fama di conoscitore finissimo.

Dopo l'interrogatorio dell'imputata, D˙ Peppe introduce i testi, Pizzone e il compagno, li scorta fino alla ruota con un sorrisetto di compassione. Par dire:

— « O che cosa credono d'esser quei due? Forse perchè stanno intorno al Sindaco? Faremo loro vedere in che conto teniamo i verbali di contravvenzione! » — E Pizzone darebbe Dio sa che cosa per rintuzzar quel sorriso. Si sente sicura di sè l'ex-guardia nazionale: quale più bella occasione di far valere la voce baritonale e il pizzo napoleonico?

— Deve sapere, signor Pretore, come qualmente questa Vostra domestica…

— Dite l'imputata.

— Questa Vostra imputata è stata sorpresa in fragrante delitto di lavare alla fontana prubbeca. Come vostra signoria conosce, il regolamento dice…

— Attenetevi al verbale!

— Obbedisco, signor Pretore. Nel verbale èscritto come qualmente noi l' abbiamo pregata, con tutta l'aducazione, a volere sfrattare… Ma lei, signor Pretore, ha risposto che la Vostra Signoria… che il padrone ce la mandava alla fontana, e che lei ci veniva, a dispetto del regolamento…

— … a dispetto del diavolo che vi porti — corregge onestamente Mariannella.

Si ride; il Pretore minaccia di far sgombrare l'auletta.

— Signor Pretore! Noi abbiamo fatto il nostro dovere — riprende solennemente Pizzone. — Abbiamo disteso il verbale, come di ragione, e ci siamo querelati per ingiurie alla forza prubbeca. Allora il sindaco, S˙ E˙ il barone Gullì (Pizzone s'inchina rispettosamente) ha invitato la con… contravven… trice, a comparire dinanzi al Municipio per gli esprimenti di conciliazione. Lui voleva conciliarsi, capite, con Vossignoria, che a lui gli dispiace…

— Non divagate!

— Dunque dicevo come qualmente noi stessi siamo andati a chiamare la vostra… imputata, ma lei sul Municipio non ci è voluto salire, e questo perchè si sa spalleggiata da Vossignoria, che se non si saprebbe spalleggiata…

— Si tratta del vostro verbale, non delle spalle dell'imputata…

— Vostra Signoria, scusate. Dicevo dunque che alle nostre ripetute giunzioni, ha risposto che sul Municipio lei non ci veniva neanche tirata pei capelli….

— Ho detto: neanche legata alle corna vostre!..

A questa seconda rettifica di Mariannella, l'ilarità del pubblico diviene infrenabile. Il Pretore scampanella. Ottenutosi un relativo silenzio, Pizzone riprende con vòce tonante:

— Ma questa donna, signor Pretore, s'infischia (il vocabolo usato da Pizzone è più energico) del Sindaco, come di Vossignoria, come del mondo intero…

— Non dimenticate il rispetto dovuto all'imputata.

— Io non dimentico nulla, signor Pretore, ma una este la verità, e quando…

— Bene, bene, potete andare.

I testi si allontanano malcontenti. Mariannella ride, approva e si dimena sul banco come a confermare: Vero! vero! verissimo!

Dietro richiesta del Segretario comunale, fungente da Pubblico Ministero, viene letta una lettera del Sindaco che invita il Pretore a mandargli in uffizio la serva.

— Sarebbe utile leggere anche la risposta del sig. Pretore — insinua il Pubblico Ministero. — Se non m'inganno la risposta fu che, essendo la domestica al proprio servizio, non a quello del Sindaco, egli la mandava dove meglio gli pareva e piacesse…

— Siamo qui per fare il processo alla serva, non al padrone — osserva argutamente il Pretore. — Ma se ci tenete, leggiamo pure.

Il Cancelliere legge con voce nasale la lettera incriminata, sorvolando coscenziosamente i passi che il Segretario comunale vorrebbe maggiormente accentuati, saltando a pie' pari i vocaboli più vivaci.

Il Pretore ascolta gravemente, qua e là sorridendo di compiacenza.

A lettura finita, chiede: — Il Pubblico Ministero è contento?

E il Pubblico Ministero, chiesta la parola, si leva a fulminar Mariannella che ride, a descriverla come un mostro di spudoratezza femminea e di femminile protervia. Conclude chiedendo il massimo della pena, pur accordando all'imputata le attenuanti « per essere stata istigata a contravvenire da chi pel primo avrebbe dovuto inculcarle il rispetto alle autorità amministrative ed alle deliberazioni della Giunta ».

L'allusione è trasparente, il pubblico la commenta con approvazioni e risatine significative, il Pretore resta impassibile.

Si alza Bettinelli. Convinto che la causa ha un'importanza considerevole per la sua carriera politica, comincia col fare una carica a fondo contro l'attuale amministrazione « corrotta e corruttrice » prosegue esaltando la passata « onesta e saggia ».

Una parte del pubblico si associa, approvando; l'altra zittisce; un Bravoo! parte da destra, un urlo da sinistra: pretorianti e sindacanti stanno per venire alle mani.

Come dio vuole si ristabilisce la calma: fra il silenzio generale, il Pretore legge la sentenza:

« Dappoichè il fatto ascritto all'imputata non costituisce reato, e non essendovi altre testimonianze fuor di quelle, poco attendibili, delle guardie, tanto la pretesa ribellione alla forza pubblica quanto le ingiurie alle autorità restando improvate, l'imputata Marianna Gemini è prosciolta da ogni accusa ».

Mariannè, vattene a casa — aggiunge paternamente il Pretore. — E bada che l'arrosto non bruci, al solito!

Mariannella esce, ridendo, tra i fischi, gli applausi e i commenti maliziosi del pubblico.

INTERMEZZO

Settimana tempestosa. Il Consiglio comunale in massa si ritiene offeso, schernito dalla beffarda sentenza del Pretore Aspasia. Il Sindaco convoca la Giunta, affinchè stigmatizzi la condotta di quel magistrato partigiano e pettegolo « il quale ostacola il funzionamento della nuova amministrazione, menomandone l'autorità » e ne chiede, urgentemente, il trasloco. La Giunta, fremente di legittima indignazione, delibera; il Consiglio si riunisce anch'esso, e delibera: le deliberazioni vengono inviate a chi di dovere per essere prontamente eseguite.

Ma il Pretore ricorre, vince: un decreto reale annulla le deliberazioni del Consiglio e della Giunta perchè vertenti su « questioni non di loro competenza ». Gli edili, mortificati, furenti, si trovan di fronte un avversario più temerario e baldanzoso che mai.

Il Pretore Aspasia e il Barone Gullì — cui l'assoluzione della serva e le deliberazioni annullate sono rimaste in gola con un nodo più duro del pomo di babbo Adamo — vengono ai ferri corti.

Non v'è settimana in cui il Pretore non sospenda l'udienza perchè il Sindaco non gli ha mandato in Pretura un Assessore, come non v'è settimana in cui il Sindaco non ribatta che l'Assessore è impedito, obbligando il Pretore a contentarsi del Segretario Comunale.

Non v'è giorno in cui il Pretore non mandi al Municipio i cartellini penali, perchè il Sindaco certifichi della buona o cattiva condotta di un imputato la mattina stessa dell' udienza; nè v' è giorno in cui il Sindaco non li respinga protestando che non gli si lascia, ad arte, il tempo per le necessarie informazioni.

Non un verbale di contravvenzione entra in Pretura senza uscirne col danno e le beffe. E' una guerricciola fatta di puntigli, di agguati. Da una parte e dall'altra si mira a crearsi vicendevolmente grattacapi, a cogliersi in fallo; da una parte e dall'altra si ordiscon le fila e si stringon le maglie della tagliola in cui l'uno o l'altro volpone dovrà lasciare la coda.

L'intero paese si appassiona alla lotta. In farmacia, in piazza, in caffè, non si parla d'altro. Ogni mossa dei due avversarî viene commentata, discussa col sangue agli occhi. Le fila del Sindaco ingrossano dì per dì: al Pretore non resta che la vecchia amministrazione municipale, gli interessanti a vincer le cause, qualche avvocatino bramoso di una magra difesa, Bettinelli, il Cancelliere, e l'usciere. Perfino Mariannella pencola. I suoi plaf plaf si fanno meno impertinenti di giorno in giorno, e, pur strizzando la biancheria alla fontana, tien d'occhio gli sbocchi della piazza per tema che la ragazzaglia sbuchi fuori a cantarle sotto il naso « Mariannella ardita e bella » canzone composta dopo il processino, in suo onore. Quando incontra il Sindaco, di una così maschia bellezza coi baffoni marziali, l' andatura militarmente disinvolta, gli dardeggia un' occhiata assassina; poi gli passa innanzi dondolando i fianchi procaci.

E mentre il barone Gullì, impettito e sorridente s'indugia per le vie tra le scappellate e gli inchini, il Pretore Aspasia passa ratto e insalutato, col tocco di traverso, gli occhiali sulla punta del naso, un' aria da « Orazio sol contro l'Etruria tutta ».

Il Barone Gullì è solo in ufficio; sbriga la corrispondenza. Di tanto in tanto posa la penna, si arriccia un baffo, poi si frega le mani, contento di sè.

Un timido picchio all'uscio gli fa alzare il capo: è Gelardi, il Segretario comunale, che viene a chiedere se Pizzone può entrare.

— Entri pure. — Pizzone si avanza rapido, si pianta, salutando militarmente, davanti al Sindaco come, tanti anni or sono, dinanzi al Capitano della sua vecchia guardia; poi accenna, misteriosamente, che vi son « cose grosse ». Il Barone depone la penna, drizza gli orecchi come un segugio sulla pista.

— Eccellenza, il Custode non c'entra affatto!

— Come, non c'entra? Le detenute escono ad ore incompatte, rientrano alla chetichella, fanno il comodo loro… Il Custode apre, chiude, sta zitto… e non c'entra affatto?

— Volevo dire che obbedisce ad ordini impartiti dall'alto!

— Come dall'alto?

Pur fingendo meraviglia, il Sindaco fiuta l'aria, quasi senta farsi più acuto l' odore della selvaggina.

— Sicuro; a scopo…. innominabile! — Qui Pizzone gonfia le narici soffiando, coi baffi irti ad esprimere un sovrano disgusto.

Gelardi, rimasto in piedi presso il tavolo, in apparenza distratto, ma con tutti i sensi raccolti nell' udito, fa notare al Sindaco come tutte le detenute che finora han goduto di questa libertà… ad ore fisse, siano giovani, belloccie e di facili costumi.

Il Sindaco lo ha notato benissimo. È appunto per ciò che, alle prime voci d'irregolarità carcerarie, ha fatto, per suo conto, una piccola inchiesta. I risultati ne sono stati così incoraggianti da fargli chiedere a Roma il permesso di una inchiesta regolare, alla luce del sole, che, partendo dal custode, mira a colpire più in alto: s'indovina chi.

— Ci vogliono delle testimonianze, delle prove — mormora il Barone, pensoso.

— Le avremo. Iersera ho fatto cantare il custode. M' ha giurato che se gli tocca un mal di testa per quello 'mpiso… Vostra Signoria mi capisce!… lui le spiattella chiare e tonde anche davanti al Re! E ce n'ha da contarne! Filomena la Strana, quella ch'è uscita a libertà il mese scorso e che anche Vossignoria onorò, una volta…

— Avanti, avanti…

— Mi ha detto che per Vossignoria si butta nel fuoco, che è pronta a testimoniare. Quel…. le faceva chiamar fuori, con qualche scusa, in certe ore che non escon nemmeno i lupi e poi… Vossignoria mi capisce: qualcuna perfino a forza.

— Oh! oh! — fa il Sindaco, grave.

— Cose da Medioevo! — rinforza Gelardi.

— Andate, Pizzone; e anche voi, Gelardi. Al bisogno, vi farò chiamare.

— Oh Eccellenza! — prorompe Pizzone — Questo scandalo deve cessare! Il paese non ne può più! Sarà un trionfo, Eccellenza! Un trionfo pel partito, per l'autorità municipale, ed una lezione per quella carogna…

— Ssst… Andate, andate. Faremo il nostro dovere fino in fondo. Nasca quel che può nascerne!

Il Segretario e Pizzone escono entusiasmati; il Sindaco si frega le mani.

— Ma che naso, che naso! Se ne libereranno dunque una buona volta di quel botoletto ringhioso! E sarà lui che dovrà chieder mercè!

Il soliloquio sindacale viene interrotto sul più bello da una maschia voce iraconda:

— E' permesso? E permesso? — E, quasi contemporaneamente, un giovanottone dal cappello alla cacciatora, con gli stivaloni a mezza gamba, il fucile ad armacollo, irrompe in ufficio. Ha due occhi bovini che paiono schizzargli dall'orbita, la faccia congestionata di un apoplettico.

— Signor Barone! Signor Barone! Sono stato minacciato! insultato! Ormai non si è nemmeno padroni di salutare o di non salutare per strada chi ci piace! Guardate un po' cosa mi capita! Passando per la Piazzetta incontro quell' arlecchino in tocco e toga, quel Pretore dei miei stivali, che mi piglia pel collo, che mi fa volar via il cappello con un manrovescio, che pretende io gli abbia riso in faccia, e minaccia d'ammonirmi, di togliermi il permesso d'armi, perchè, dice, non l'ho salutato, perchè dice, non rispetto l'autorità! Ma questa non è libertà non è vita! Ma questa è tirannia bella e buona!

— Calmatevi, D˙ Michele, calmatevi. — E il Sindaco fa sedere l' agente delle imposte sul divano, mentre egli stesso prende posto alla scrivania. — Lasciate fare a me. Pel momento vi dichiaro in arresto…

— ?!

— ….. per misura d'ordine pubblico. E intanto preparo un rapporto alla Sottoprefettura.

« Egregio Signor Sottoprefetto — dice forte man mano che scrive. — Il latore della presente le dirà quali ingiurie abbia avuto a subìre per non aver voluto rendere « al primo magistrato del paese » l'omaggio di un saluto. Per misura d'ordine pubblico l'ho dichiarato in arresto, ma in paese il fermento cresce, e mi ci vuole non poca fatica ad evitare dimostrazioni ostili al Pretore Aspasia.

« L'inchiesta, di cui vado informandola giorno per giorno, mette in luce fatti di gravità eccezionale, che hanno portato al colmo l'indignazione popolare. Temo una sommossa le cui conseguenze sarebbero imprevedibili. Sento quindi il dovere di prevenirla che, ove il signor Aspasia non moderi il contegno insolente e provocatore, io non rispondo più nè della sua vita, nè della sicurezza pubblica, nè della dignità del potere giudiziario.

« Accolga, egregio signore, i sensi della mia perfetta stima.

« firmato: Barone Gullì ».

Con una gamba sull' altra, il cappellaccio e il fucile buttati sul divano, D˙ Michele ascolta ed approva con sordi grugniti. Quasi egli abbia sudato a comporla, si passa, di tratto in tratto, il fazzoletto sulla fronte accesa, e la gamba ch'è in aria, stretta nello stivalone, freme per tutti i muscoli, per tutti i nervi tesi come corde.

Il Sindaco, soddisfatto, sta per gettare la polverina sul foglio, quando Gelardi si precipita dentro, bianco come un cencio.

— Eccellenza?! Eccellenza!… Il signor Pretore è qui… negli uffici dello Stato Civile… Ha messo due carabinieri alla porta, e pretende che l'impiegato gli lasci perquisire i registri.

— Ah bene! delle prepotenze adesso! Si sa. Il volpone ha odorato che stiamo per rivedergli le bucce e prende l'offensiva e spera, ficcando il naso nei nostri registri, di scovare qualche irregolarità che gli dia buon giuoco. Ma la vedremo! la vedremo! — E il Sindaco, al colmo dell'irritazione, cinge rapidamente la sciarpa.

— Gelardi! Pregate i carabinieri di venir qui. Ordine del Sindaco.

Gelardi scompare, mentre D˙ Michele giura e tempesta che soverchierie simili non si sono vedute mai.

I carabinieri appaiono sulla soglia: due colossi pressochè della medesima statura, che contemporaneamente s'inchinano innanzi al Sindaco. Con la sciarpa a tracolla, le sopracciglia aggrottate, il barone Gullì è addirittura imponente.

— Saprebbero dirmi a quale scopo si trovano nei miei uffici? Con l'autorizzazione di chi?… Se in forza di un ordine superiore, abbiano la cortesia di mostrarmelo; se arbitrariamente, possono andarsene per tornare quando ne saranno muniti.

I carabinieri, perplessi, si guardano in faccia.

— Ma… veramente… — balbetta il più ardito, mentre l'altro si limita a sorridere arrossendo — Ordine scritto non v'è… il signor Pretore… Per conto nostro siamo pronti ad andarcene anche adesso…

Le ultime parole sono, più che dette, cacciate in furia. I due giovanotti, impacciati e sorridenti, fanno per salutare e volger le spalle: ma il Sindaco li ferma per stringer loro la mano.

— Grazie! Ero sicuro della Loro correttezza. E… poichè sono tanto cortesi, mi facciano un favore. C'è qui il signore ch'è agli arresti: me lo scortino fino a Gerace, e consegnino questa lettera al Sottoprefetto.

I carabinieri, felici tanto di far cosa grata al Sindaco quanto d'uscir d'impaccio, mostrano il loro consenso a sorrisi.

Il Barone appone il bollo municipale alla lettera, la consegna ai carabinieri, i quali, preso in mezzo D˙ Michele, che non sa se arrabbiarsi o ridere di quella impreveduta scorta d'onore, si avviano.

— Di qui, di qui — avverte il Sindaco, avvedendosi che stanno per uscire dallo stesso uscio per cui sono entrati e volendo evitare che il Pretore li veda. — Scendano per questa scala interna che dà nel vicolo: giungeranno più presto.

Usciti i carabinieri, il Sindaco scende nelle stanze a terreno da Gelardi pomposamente battezzate per « gli uffici dello Stato Civile », ridendosela sotto i baffi del tiro birbone giuocato al Pretore. Questi, comodamente seduto, con le gambe a cavalcioni, va sfogliando il grosso registro che ha sulle ginocchia. All'entrare del Sindaco si alza appena, saluta seccamente, riprende a sfogliare, con ostentata indifferenza. Ritto innanzi a lui, l'impiegato volge al Barone uno sguardo che par dire: Ho fatto il possibile: ma è cocciuto! — Il Sindaco freme.

— Avrebbe la cortesia di dirmi che cosa la conduce qui, ad insaputa del potere amministrativo?

— Come capo del potere giudiziario eseguo un atto del mio ministero pel quale non ho bisogno del permesso di alcuno.

— Prego, prego. Gli atti del potere giudiziario sono determinati dalla legge, o da ordini speciali del Procuratore del Re. La legge stabilisce date epoche per le visite allo Stato Civile, il Procuratore del Re emette l'ordine che vi autorizza il rappresentante locale; costui, a sua volta, ne avverte di ufficio il capo dell' amministrazione… Senza detto ordine — qui la voce del Barone, tremante d'ira rattenuta, squilla e si eleva di due toni, scandendo ogni parola, ogni sillaba — il Sindaco è obbligato a scacciarla per tutelare la dignità dell'amministrazione.

— Scacciare me, il Pretore Aspasia! Oh, è troppo! — E scattando in piedi, col cranio in fiamme, il Pretore cerca farsi più alto per tener testa al Sindaco che, in atteggiamento risoluto, gli addita la porta. — Lei non ha il dritto di scacciarmi, capisce? La sfido a farlo, sia pure con la forza! Carabinieri! Carabinieri! Impiegato! Mi si insulta! Qui! A me!

Ma i carabinieri corrono sulla via di Gerace al trotto di due buone bestie avendo in mezzo D˙ Michele, e l'impiegato si è « liquefatto » al primo tuono.

— Ah! non c'è nessuno?!… Mi si lascia solo?… Bene, vado, perchè voglio andarmene, ma si ricordi, signor Barone, ch'Ella pagherà a caro prezzo l'ingiuria fatta al Potere giudiziario, alla magistratura tutta! Io la farò arrestare! Io la farò ammanettare! Io la farò processare! Farò processare il Consiglio municipale in massa! Io… io… io…

— Intanto, esca.

E il Sindaco gli apre l'uscio, s'inchina correttamente, lo richiude dietro il Pretore furibondo; poi risale in ufficio a schiccherare un altro rapporto.

(Espresso).

Ore 12,50.

Procuratore del Re

Gerace Marina.

Prego venire immantinenti insieme Giudice istruttore, Cancelliere, inquisire grave offesa arrecatami.

Pretore: Aspasia.

(Espresso).

Ore 21,15.

Nuove provocazioni pretore Aspasia spinto al colmo eccitazione popolare. Dimostrazioni ostili, serva fischiata, vetri rotti. Prego intervenire, provvedere. Declino responsabilità.

Sindaco: Gullì.

Grande animazione per le vie del paese. Due sgangherate carrozze han portato da Gerace il Procuratore del Re, il Giudice Istruttore e il Cancelliere del Tribunale da un lato — il Sotto-prefetto col suo segretario particolare e il tenente dei carabinieri dall'altro. Il Potere giudiziario è sceso dinanzi alla Pretura, il Potere amministrativo nel cortile del Municipio: gli autorevoli personaggi sono in conciliabolo, parte col Pretore Aspasia, parte col Sindaco Gullì.

— Ma, caro Pretore mio — esclama il Procuratore del Re, un omone dal fare bonario che si crede infallibile e non tollera contraddizioni, entrando, seguìto dal Giudice istruttore e dal Cancelliere, nell' ufficio del Pretore Aspasia. — Ma, caro Pretore mio! Lei mi tempesta di ricorsi! Lei mi mette la Procura sossopra! Lei pretende che si facciano delle leggi espressamente per lei!

— Io non pretendo nulla. Ma vengo insultato, minacciato, scacciato; nella mia persona s'insulta la magistratura intera, e la dignità esige…

— Calma, calma! Noi siamo qui appunto per tutelare la dignità della magistratura. Io credo che con un po' più di garbo in principio… un po' più… di tolleranza, con… minore parzialità, si poteva evitare questo conflitto…

— Ella mi dà dunque torto!

— Io non le dò torto… nè ragione. Dico che con un po' di prudenza le cose non sarebbero giunte a questo punto. Ora è in ballo la dignità della magistratura e, piaccia o non piaccia a cotesti signori, Ella deve restare al suo posto…

— Ma io…

— Ella deve restare al suo posto — riprende, più energicamente, il Procuratore. Poi, mutando tono:

— Non si potrebbe tentare una conciliazione? »

E l'omone si lascia cadere pesantemente sul divano di crine nero, mentre Giudice Istruttore e Cancelliere siedono ai lati della scrivania. — Pensi, Pretore, quanto sia funesto un simile stato di cose! Perchè la giustizia funzioni liberamente occorre che Potere giudiziario e Potere amministrativo procedano uniti, concordi nel dovere comune, pel bene comune…

— Conciliarmi col barone Gullì?! con quel ragazzaccio insolente e cocciuto che, sol perchè ha quattro soldi e un titolo preso a prestito, sol perchè un pugno di mascalzoni è pronto a leccargli le zampe, mette superbia e detta legge, a me: e osa scacciarmi, me, me, me! dagli uffici dello Stato Civile? Vorrei piuttosto morire.

— Troppa, troppa, troppa intransigenza! — brontola il Procuratore, il quale non vede l' ora di tornare a Gerace dove ha un mondo di faccende importanti; ma, nella bontà del suo cuore, vorrebbe lasciare tutti pacificati e contenti.

— Io non gli dò torto — osserva il Giudice Istruttore, uomo segaligno e bilioso, che par sempre malato d'itterizia. — Noi siamo qui per inquisire, assodare i fatti; tocca poi al Ministero punire i colpevoli, tutelare il decoro della magistratura…

— Ma no. ma no! — protesta vivacemente l'altro — Vorrei sapere che bene si farebbe a mischiare il Ministero in cotesti pettegolezzi. Quale figura farebbe il pretore Aspasia che si è tirato addosso l'ostilità d'un paese intero? Quale figura faremmo noi, che abbiamo lasciato le cose giungere a tal punto? Conciliarsi bisogna, e tirare innanzi alla meglio, finchè non si troverà al Pretore una destinazione più adatta.

Procuratore del Re e Giudice Istruttore sono raramente d'accordo. Quest'ultimo ama contraddire sovente il collega, e l'amor proprio del buon Procuratore ne soffre; il Giudice è propenso a vedere in ogni individuo sospetto di qualche misfatto un reo, e il Procuratore in ogni reo un innocente: ragione per cui il Procuratore è sempre pronto ad abbandonare una istruttoria per liberare un povero diavolo, il Giudice Istruttore ad imbastire processi per lasciare un disgraziato in gattabuia il più a lungo possibile.

— In ogni caso tocca a loro fare il primo passo! — insiste il Giudice Istruttore.

Il Procuratore è in fondo dello stesso parere, ma tal parere è stato espresso anche dal Giudice Istruttore: ciò basta per fargli mutare il proprio.

— Ma che primo e secondo! L'importante è di conciliarsi. Infine il Pretore ha offeso…

— Se l'ho detto che mi dà torto!

— Ma io non le dò torto!

— Ma si!!

— Ma no!!!

— Ma sì!!!

Il Giudice si schiera dalla parte del Pretore, il Cancelliere da quella del Procuratore: dopo breve disputa si decide di mandare pel Sindaco, e di venire a patti. Della delicata missione viene incaricato Don Peppe, l'usciere.

AL MUNICIPIO

— Ma, caro Sindaco mio! — esclama il Sottoprefetto, un omettino magro e svelto che nuota in una casacca color caffè, entrando in Ufficio col Segretario e il tenente — Ma, caro Sindaco mio! Lei mi tempesta di ricorsi! Lei mi mette sossopra la sottoprefettura, lei mi manda in ufficio quel suo agente delle imposte che non è un agente ma un energumeno! Francamente il suo dispaccio di iersera mi ha spaventato. Sono venuto a vedere di che si tratta.

— Ecco quì. Ma seggano, prego, prendano il caffè. — E mentre i visitatori sorbiscono la grata bevanda al cui calore lo stomaco si disgela e lo spirito si predispone favorevolmente, il Sindaco, compìto e sorridente, riepiloga i fatti, narra gli ultimi eventi: la battaglia di Mariannella che ha perseguitato i monelli a colpi d'anfora fino alle porte del borgo; il pauroso agglomerarsi della folla sotto alle finestre del Pretore, le grida di: « Abbasso! » e di « Via! » — la feroce sassaiola contro i vetri; gli sforzi fatti da lui, il Sindaco, per ricondurre la calma.

— Caro Sottoprefetto, così non si va avanti! — conclude il Barone risolutamente — O si provvede, o dò le mie dimissioni oggi stesso.

Proprio in quel punto, D˙ Peppe l' usciere, allampanato e misterioso, giunge latore di un' ambasciata di premura pel Sindaco, e Pizzone, il quale lo introduce, gli ricambia di gran cuore l'occhiata compassionevole che n'ebbe qualche mese avanti in Pretura.

— Signori Lustrissimi!… — balbetta l'usciere con un sorriso untuoso — Lo Gnore Procuratore mi manda a pregar Vossignoria di venire alla Pretura senza ritardazione. C'è anche lo Gnore Giudice Struttore e tutti aspettano l'Eccellenza vostra per gli esprimenti di conciliazione…. Vogliono fare la pace, ecco!

— Ah! ah! — esclama il Sottoprefetto fregandosi le mani — Vengono dunque a più miti consigli!

Il Sindaco aggrotta le sopracciglia:

— Quali esperimenti? Di quale conciliazione intendono parlare? — Poi, rivolto bruscamente all'usciere: Rispondete al Procuratore del Re che, come individuo, non intendo aver rapporti di sorta col Pretore Aspasia: come funzionario sono sempre a sua disposizione quì in ufficio, dalle 8 alle 12.

— Troppa, troppa, troppa… intransigenza!

Il Sottoprefetto, malcontento, si gratta il mento mal coperto dalla barbetta biondiccia; il Sindaco si richiude in un superbo silenzio; Don Peppe, immobile nel mezzo della stanza, gira e rigira il cappello fra le dita con comica espressione di attesa. Par dire: Dunque? E' questa l'ultima parola?… — Finalmente ardisce alzar gli occhi in faccia al Sindaco che tiene i suoi a terra, si risolve bruscamente:

— Bè, come comanda Vossignoria!… — Ed esce riaccompagnato da Pizzone, pieno di legittimo orgoglio pel fiero contegno del suo Capo.

— Troppa, troppa, troppa intransigenza! — ripete il Sottoprefetto.

— Non è intransigenza, è dignità — ribatte il Sindaco, serio.

Il tenente dei carabinieri è del suo parere, il Segretario divide quello del Sottoprefetto; s'impegna una discussione vivace, interrotta in buon punto dall'arrivo del Cancelliere.

— Signor Barone, il Procuratore del Re e il Giudice Istruttore, persuasi che Don Peppe non si è spiegato bene, mi mandano a pregarla…

— Ho risposto che non vengo.

Il Cancelliere si arresta interdetto, fa un gesto, si inchina ed esce accompagnato da Gelardi, il Segretario comunale.

I due non si guatano più in cagnesco, come durante il processo di Mariannella, ma si scambiano un sorriso consapevole di auguri furbacchioni.

— Troppa, troppa, troppa intransigenza!

Il Sindaco s'alza di scatto:

— Convoco la Giunta perchè deliberi sui fatti che si vanno svolgendo! — E la Giunta viene convocata d' urgenza.

ATTO V ED ULTIMO

La Giunta è riunita in seduta plenaria. Grande animazione. Il Sottoprefetto è al posto d'onore, fra il tenente dei carabinieri e il Sindaco. I consiglieri siedono frettolosamente.

Il Sindaco s'alza, espone brevemente i fatti, chiede il parere della Giunta:

— Deve, o non deve recarsi in Pretura?

Un coro di unanime protesta si leva:

— No, no! Non bisogna andare!

— Non c'è decoro! Non c'è dignità!

— Vengano loro!

— Gli offesi siamo noi!

— Bisogna tutelare la dignità del Corpo Municipale! la morale!… l'ordine!…

I paroloni s'incrociano. Si vocifera, si gesticola, s'urla: par di stare in una scuola dalla quale si sia per poco assentato il maestro, o al Parlamento nazionale, in tempi d'ostruzionismo.

Il Sottoprefetto tenta persuadere quegli energumeni che, in tondo, non vi sarebbe gran male: cedens arma toga! — ma le parole dell' omìno si perdono nel vocìo generale come grida di naufraghi nel fragore della tempesta.

Il Sottoprefetto risiede, scorato; il Sindaco sorride ed aspetta, le braccia al sen conserte, finchè la Giunta delibera che il Sindaco non andrà, invitando invece il Potere giudiziario a comparire nell'adunanza per chiarire ogni equivoco, venire ad una pacifica soluzione.

Alcuni méssi volano a portare la deliberazione della Giunta in Pretura, dove è accolta con ira dal Pretore, con dispetto del Giudice Istruttore e quasi con sollievo dal Procuratore del Re.

— Infine, come Dio vuole, si viene ad un accomodamento! — E i tre magistrati, seguiti dal Cancelliere, si avviano lentamente al Municipio, fanno il loro ingresso nella sala di riunione tra i consiglieri eccitati, animatissimi.

Il Sindaco va loro incontro a mani tese, stringe quelle del Procuratore del Re e del Giudice Istruttore, mentre il Pretore tiene le proprie dietro il dorso.

— Lor signori debbono convenire che anche il Potere giudiziario ha dei torti… dei gravi torti verso il Potere amministrativo!… — dice sorridendo (i consiglieri approvano, il Giudice Istruttore e il Procuratore del Re annuiscono col capo). — Gli deve quindi una riparazione.

Il Pretore scatta: — Ma che riparazione! Non ci mancherebbe altro! Signor Procuratore, me ne appello a Lei. Sono stato insultato! In me è stata oltraggiata la dignità della toga. Si è perfino simulata un'inchiesta per meglio calunniarmi… si è tentato processar me… me, un pubblico funzionario, un magistrato del Re! E adesso mi si chiede una riparazione. Ma sono io che ho dritto ad una riparazione! Son essi che debbono darmela, domandarmi scusa. E' il meno che possono fare dopo avermi tolto ogni prestigio, aizzata contro la popolazione, dopo avermi lasciato insultare, beffeggiare, fischiare!

— E' il Pretore col suo contegno che s'è resa ostile la cittadinanza! — ribatte il Sindaco — Noi tutti non domandavamo di meglio che rendergli omaggio. Se fosse stato meno partigiano e puntiglioso e pettegolo e caparbio…

— Partigiano, puntiglioso, pettegolo, caparbio è Lei!

— No, Lei!

— Calma! Calma!

Tutti s'interpongono, temendo che di nuovo le cose s'inaspriscano e gli avversari vengano alle mani. Ma il Sindaco continua senza scomporsi:

— Quanto all'inchiesta, non è nostra colpa se, per fatti venuti casualmente a conoscenza del pubblico, il temperamento… dongiovannesco del cavaliere Aspasia è rifulso in tutto il suo… vigore. (Tutti ridono, il Pretore eccettuato). Ma ciò non ci riguarda più. Se il Pretore si dichiara pronto a ritrattare le ingiurie che da più mesi va lanciando contro il Corpo municipale, e promette formalmente di non più ostacolarne l'azione, noi non domandiamo di meglio che di assicurargli un lungo e pacifico regno.

— Ma che regno! Io voglio andar via, ora, subito! — strilla il Pretore, cui i sassi della vigilia han messo in corpo una paura maledetta.

Dalla strada, quasi a fargli eco, sale un rombo come di tuono.

— Che c' è? — si chiede d'ogni parte accor rendo alle finestre, sotto le quali una moltitudine romoreggiante si accalca. Le grida dí « Abbasso il Pretore Aspasia! » — « Evviva il barone Gullì! » fan tremare i vetri.

Il Pretore illividisce; Sottoprefetto e Procuratore del Re si scambiano gesti, come a dire: E' impossibile che costui resti qui. I consiglieri non nascondono il loro allarme, per la grave dimostrazione improvvisata, e lo stesso Sindaco. che di quella improvvisazione sa qualcosa, mal dissimula l'intima preoccupazione.

— Ma se non domando di meglio che di an darmene! — piagnucola il Pretore.

— Che mandino su qualcuno a parlamentare. Sentiremo che cosa vogliono! — comanda il Sotto prefetto.

E Pizzone vola in piazza, dove il baccano di poc' anzi assume il carattere di una discussione, risale accompagnato da una ventina di giovanotti, capitanati da Mastro Sabato Grio, fedelone del partito sindacale.

I venti giovanotti entrano, spingendosi l'un l'altro, si aggruppano dietro il loro capo, con uno scalpiccìo d' armento sospinto dalla pertica del pastore.

— Che c'è, brava gente? — chiede il Sottoprefetto, paterno e mingherlino nella casacca color caffè.

Eccellenzia… Signori Lustrissimi… — inco mincia Mastro Sabato con parola adorna — Le Vostre Signorie debbano assapere che noi a quello lì… (accenna il Pretore, accigliato e livido tra i suoi due santi protettori) non to vogliamo neanche pittato. La cittadinanza non lo vuloe! Lui ha offenduto il Corpo municipale e la Cittadinanza che ci doveva portare rispetto essendo che amministrava la giustizia, perchè, come Lei m'insegna chi, non porta rispetto non debbe nemmeno essere rispettato…

Il Pretore fa per andargli addosso coi pugni alzati; Procuratore del Re e Giudice Istruttore lo trattengono per le falde del soprabito.

— … E anche la moralità ha offenduto: sieuramente, che ha commiso certe sporcherie, con rispetto delle Vostre Eccellenzie

— Abbiamo capito, abbiamo capito. Andate pure, lasciate fare a noi! — E il Sottoprefetto porta solennemente una mano al petto, accenna con l'altra che possono uscire. Ma nessuno si muove.

Mastro Sabato tiene a metter fuori tutto il suo discorso:

— Eccellenze, Signor Sottoprefetto…

— Andate, andate, e mantenetevi calmi.

Interviene il Sindaco con l'autorevole parola:

— Avrete ogni soddisfazione! Il signor Sottoprefetto, qui presente, ve ne ha dato parola.

E alla magica voce il duce saluta rispettosamente, l'armento volge le groppe ed esce: il Sindaco gira intorno lo sguardo trionfante e modesto di un conduttore di popoli.

Procuratore del Re, Giudice Istruttore, Sottoprefetto, Tenente, Cancelliere, son tutti intorno al Pretore per vincerne le ultime riluttanze. E il Pretore, più scosso dalla prosa inelegante ma efficace di Mastro Sabato che non dalla eloquenza dei colleghi, si decide finalmente a parlare:

— Signori… io non ho inteso offender nessuno… Ho sempre rispettato il Consiglio e i membri che lo compongono.

— Bene! bravo!

— Dei malintesi… deplorevoli e deplorati…

— Li deploriamo anche noi!

— … han prodotto uno stato di cose che rende la mia residenza qui incompatibile con gli umori della cittadinanza e con la dignità del mio ufficio. Ringrazio quindi il Consiglio delle buone disposizioni mostrate a mio riguardo e spero portare con me nella nuova dimora la stima di tutti, come a tutti offro i sentimenti di una leale amicizia.

— E noi l'accettiamo lealmente come è lealmente offerta! — risponde il Sindaco con magnanimo gesto. E stringe energicamento la mano al Pretore, mentre un fragoroso applauso suggella la pace.

— Che cosà conta di fare adesso? — chiede a mezza voce il Procuratore del Re al Pretore Aspasia.

— Partire col treno delle due e aspettare a Napoli il mio trasloco.

Dinanzi a quella partenza che ha tutta l'aria di una fuga, il Sindaco non può trattenere un sorriso di fine ironia.

— Non v'è dunque tempo da perdere. — E volgendosi cavallerescamente alle autorità giudiziarie; — Permettono che li accompagni alla stazione?

Le autorità non solo permettono, ma non domandano di meglio; e chi più se ne compiace è il Pretore, al quale il pensiero di riattraversare il paese, senza difesa, sotto la minaccia di una seconda gragnuola, agghiaccia il sangue nelle vene.

Egli comprende bene che l'offerta va a lui, a lui solo, volendo il Sindaco, con la sua presenza, proteggerlo da ogni nuova ingiuria della folla: lo ringrazia con un tremito nella voce.

Poco dopo, le due carrozze sgangherate e polverose escono dal cortile municipale. Quella in cui siede il Potere amministrativo è scortata dal tenente dei carabinieri; l'altra col Potere giudiziario dal Sindaco Gullì: entrambi a cavallo.

E la folla raccolta in piazza fa una dimostrazione entusiastica ai due poteri rappacificati, li accompagna per un tratto fuor del paese al grido di:

— Viva il Pretore Aspasia! Viva il Sindaco Gullì!

Schiave p. g. 1

L'infanticida 31

La dote 67

Colpo di Stato 119

La farsa di Rosetta 139

Marinarella 181

Medioevo moderno 209

Una « Effimera » 231

Potere giudiziario e Potere amministrativo 293