RIME
DI
MARIA GIUSEPPA GUACCI
NOBILE

TERZA EDIZIONE
IN DUE VOLUMI

VOLUME II.

NAPOLI
STAMPERIA DELL' IRIDE
1847

Ed ecco il secondo volume delle Rime di M. Giuseppa Guacci-Nobile dove viene per la prima volta a stampa il suo poemetto intitolato Ermanno e Teodoro, al quale segue l'ultima ora di Saffo che non leggesi nelle precedenti edizioni: e così pure vi si cercherebbero invano i cinque ultimi componimenti in ottava rima, e gli ultimi sei sonetti, cioè a dire Giambattista della Porta, la Leggenda, Isabella Coppola, il primo amore, la donna di Gaeta, la Speranza, alla Verità, in morte di una Giovinetta, a Carlotta Lenzoni, la Montanina, sopra un dipinto. Questi componimenti tutti fanno più ricca sopra le altre questa novella edizione da noi procurata delle rime della egregia nostra concittadina.

L' Editore.

Qualora io veggia in mezzo a'vivi prati Tra fronda e fronda lampeggiar le rose, E sotto a gli arbuscelli inghirlandati Fiorir le violette vergognose, Quasi tornando a' chiari dì passati, Stendo ratta le man' desiderose, Poi la man trema ed il voler si sperde, Quasi ardesse una serpe in mezzo al verde. Pur non volge ancor l'anno, e assai mi piacque Tesser ghirlande di rose novelle, Nè primavera splendida rinacque Ch'io non cantassi al sole ed a le stelle. Or meste l'erbe e torbide son l' acque, Senza luce per me le cose belle, E notte e dì d'ogni vaghezza è priva La letizia de'cieli e l'aura viva. Però tu non m'udrai, terra diletta, D'altra cosa cantar che di mestizia, E già l'amara offesa e la vendetta D'un caldo spirto, il nostro canto inizia. Era discesa da l'alpina vetta Quell'atra nebbia che il tuo raggio vizia, E l' Elvetico in arme audace e lieto Si specchiava nel placido Sebeto. Era fiorita ed animosa gente, Che in cerca va di guerra e di ventura: Qual si fuggìa del flutto d' occidente, Onde l' Europa mai non s'assecura; Altri scendea da'monti ove lucente Serpeggia il Reno e allieta la pastura, E in su la soglia de le schiette case A la donna il ritorno persuase. Ma un giovinetto a la ghiacciata Sprea, Su le cui rive i primi passi sciolse, Spesse fïate col desir correa, Benchè fra l'aure italiche s'avvolse; Solo ed oscuro milite sedea Ove un picciol drappello il duce accolse; Ma tanto non può far l'abito umìle, Che non lampeggi l'anima gentile. In quella parte, dove Borea fiede Di Napoli gioconda in su le spalle, Verde e fiorita una collina siede, Che si distende in largo e nobil calle: Lunge da lato ivi un castel si vede Ove il giorno per noi dichina a valle; Da l' altro il monte che a Pompei diè briga E di lucida fiamma ancor si riga. Chiunque move al dilettoso colle, Nel mezzo incontra un tondo e ricco seno, Onde una vasta aiuola il centro tolle Che di soave olezzo ha l' aer pieno: Mille dischiusi fior sul gambo molle Dipingon l'odorifero terreno, Ed ampia scala offre la via più grata A la cima di pini incoronata. Di bianchi tetti una ordinata lista Cinge l'aiuola in circolar figura, Ove un breve drappello amico in vista Custodisce quell'erta e fa secura. Ivi sedea fra gioventù commista, Tutto adombrato di profonda cura, Quel giovanetto; e da l'opposto monte Splendea la luna in su la bianca fronte. Ivi un girar di tazze, un canto, un riso, De l' improvvida armata giovinezza; Ivi il mondo vedresti e il ciel deriso Da quella etate ch' ogni fren disprezza: Però, col volto in su la palma affiso, Quel solingo mostrava altra vaghezza; Poi si volgea, dell'altrui gioia stanco, Verso un altro gentil che gli era al fianco. Un tempo fu, dicea, che la superba Forza di giovanezza e il gran desio Tai furo in me, che ne la etate acerba Abbracciai le speranze, e vissi anch'io! Or ogni mia dolcezza è secca in erba: Ecco, lo spirto invecchia, Ermanno mio, E fu di questa vita ultimo lampo Il desiderio di morir sul campo. E l'altro incominciò: Se quel fraterno Amor che lega i nostri cori insieme Potesse alquanto allevïar l'interno Antico duol che l'anima ti preme, A me, che addentro i tuoi pensier discerno, Ragiona pur de la perduta speme: Chè non parmi esser tuo, se questo core Una parte non ha del tuo dolore. Anch'io nel giovenil petto nascondo Un pensier che alimenta la mia vita, E forse fia ch' a più felice mondo E' m' accompagni a l' ultima partita. Ricorditi quel dì che dal giocondo Campo di Pesto io feci a te reddita, La persona tornò, ma il pellegrino Spirto rimase a mezzo del cammino. Rimase prigionier di duo begli occhi, Di ch' io non vidi stelle più serene; E da quel punto ora non è che scocchi, E ch'io non voli a quelle piagge amene; Ma, perchè tutta nel tuo sen trabocchi La cagion de le mie secrete pene, Io narrerò come fui vinto e come T' ascosi il dolce arcano e il dolce nome. Giace di Pesto la ruïna antica In mezzo a quete e solitarie lande, In cui ferve la state aspra e nimica, Sì che altrove il cultor le cure spande. Ivi non rezzo o agreste schiera amica Che s' allegra di povere vivande, Ma fra le grotte d' Apennino altero Luccican l'armi e cova il masnadiero. Ivi sai che vaghezza un dì mi spinse, Nè, fuor che un fido servo, altri ebbi meco; E, appena il ciel di fosco si dipinse, Che un grido mi venìa per l'aer cieco: Spronai tosto, e il destrier lo spazio vinse, E stuol d'armati io scorsi in atto bieco, Che di cocchio avea tratta una donzella, La qual fra l' empia turba era una stella. Trassi la spada, e minacciando corsi Dove non m'aspettava il fiero stuolo: Lascian la preda, e mi voltaro i dorsi Color, che non sapean ch'io m'era solo. Fatto securo, a la gentil soccorsi, A cui da gli occhi già scoppiava il duolo, Poichè in terra giacea nel sangue intriso Il vecchio padre al fiero scontro ucciso. Io seco piansi, chè il dolor verace Echeggia in noi siccome un' armonia, E poi seco pregai l'eterna pace A quel corpo disteso in su la via; Che, tratto in cocchio alfin, come a lei piace, Meco e di fida ancella in compagnia, Traemmo di Salerno entro le mura In cerca d' onorata sepoltura. Poichè la bella ebbe per me parole, Allor m'avvidi del nativo accento, E svegliato ne fui, siccome suole Chi rïabbia de gli occhi il lume spento. Chiaro sorgea da la marina il sole, Re dello interminato firmamento, E a me certo in quell' ore armonïose La terra si vestìa tutta di rose. Smontati ad un albergo, al bel paese, Stanza ad ogni gentil comoda e grata, Ella si volse a me tutta cortese, Benchè nel volto pallida e turbata; E con parole onestamente accese, Ch'io scrissi ne la mente innamorata, D' avermi, ella dicea, grazia infinita Ch'io le avea salvo l'onore e la vita; E che venìa de l'ultima Lamagna Col vecchio padre a la sebezia riva, Cui sì placidamente il Tirren bagna; E ch' or, d' aiuto e di sostegno priva, Da me contra sua voglia si scompagna, Perchè la fama sua di macchie è schiva: E, segnato il suo nome, e mostro il loco Ove cercarla, aggiunse legne al foco. Ma scorse il tempo designato, e mille Volte immoto restai su la marina, E da le prime insin l' estreme squille Percorsi invan la lieta Mergellina, E vive in petto duran le faville Di quella vista angelica e divina, E lei chiamo nel sonno incerto e breve, E abbraccio l' ombre e seguo l' aura lieve. Pur la speranza e il dubbïoso stato Mi dan tale amarissimo diletto, Che sovente dal mondo sconsolato L'anima si raccoglie in questo affetto; Così da quel di pria tutto mutato Teco non isfogai l' acceso petto, E vo' che la mia storia oggi sia salda Prova de l'amistà che a te mi scalda. E de l'alta mestizia che ti veste Prego che tu la fonte mi disveli; Che, s'io m' attengo a le maniere oneste, Alti natali ed alte cose celi. E l'altro, fiso a la volta celeste, Sospira, e par che ad altra vita aneli; E, vergognando poi come ancor taccia, Cinge il compagno con le aperte braccia. Poi cominciò: Se di speranza alcuna Lucesse un raggio a quest'anima stanca, Senza duol conterei mia vita bruna In che veruna cosa mi disfranca; Ma cerchieran la terra e sole e luna, Muteran loco e gente negra e bianca, E l'affranto mio spirto verrà meno, Anzi ch'io risaluti un dì sereno! Pur, se de' casi miei voglia ti prende, Di chiaro sangue e in molto pregio io fui; Ma povertà mi diè le prime bende, La qual convien ch'ogni chiarezza abbui: Amor, ch'a le bennate alme s'apprende, In fresca età mi pose in forza altrui, E una donzella amai, che, aprendo un riso, Spesso m'apriva in terra un paradiso. Di men antica stirpe ella nascea, Ornata sol d'affetto e di decoro; Ma il vecchio padre avidamente ardea Del suo raccolto ampissimo tesoro: Prima vedresti ritornar la Sprea Verso la fonte, ed oscurarsi l'oro, Che il fero vecchio al nostro amor piegarsi, E un pover cavalier genero farsi. La giovanetta mille modi tenta, Nè di quel duro cor frange lo smalto: Era la sua beltà quasi che spenta, Tale il dolor le facea grande assalto; Più d'ammorzarlo il padre s'argomenta, E il nostro foco più saliva in alto. Pur si consiglia, ed un suo fido chiama, E la nostra sventura ordisce e trama. Rispondea verso un loco ermo e romito La più secreta parte del palagio; Ivi di rivederci statuito Era fra noi, quand'ella n' ebbe l'agio; E ad un veron venìa quando il sopito Mondo più di splendore avea disagio, Ed ogni tempo mi rendea felice D' una parola sua consolatrice. Ivi chiamommi con mentito scritto L'insidïoso vecchio a l'aria scura, E di feroci sgherri circoscritto M' ebbe, e la preda sua tenne sicura; Ma, perch'io fossi eternamente afflitto, L' empio destino, e non per mia ventura, D' un' arme ch'io celava armò la mano, E trasse il colpo, e lui distese al piano! Disfavillò lo sprigionato foco Su la sua fronte, e il mio danno m'aperse; Fuggir'gli sgherri dal funesto loco, E libera la fuga mi s' offerse: Ma, in me raccolto, allor che a poco a poco La mia ragion dal fiero caso emerse, Pensai qual vita m'avanzasse, e quanto Fossi a la donna mia cagion di pianto. E la sua cara voce dolorosa Parvemi udir che il padre mi chiedesse, Nè più mi parve sopportabil cosa Il rivederla mai, nè il cor mi resse; E, innanzi che la gente desïosa Chiara cagion di quella morte avesse, Fuggii la dolce patria a l'aër tetro, Nè a salutarla torsi gli occhi indietro. E per aspro cammino e per dirupi A caso volsi i disperati passi. Spesse fïate i famelici lupi Dopo affannosa lotta a morir trassi, E in fredde grotte e in boschi orridi e cupi Stesi improvvidamente i membri lassi: M' arresto alfin, senza ch'io pur m'avveggia, Dove fra l'Alpi una città biancheggia. E improvviso l'orecchio mi percote Un alto suon di bellici strumenti. Non udiron giammai più dolci note I sensi miei fatti impediti e lenti; Mi sì rigar' di laerime le gote Pensando i campi di battaglia ardenti, E sperai del mio fato esser più forte Correndo a bella ed onorata morte. Scesi fra verdi piani, ove il tranquillo Reno più vasto a l' Alpe si fa specchio; Si stringea quivi al sicilian vessillo La gioventù come nel secol vecchio: Rimbombavano i monti al chiaro squillo Che inebrïava l'animo e l'orecchio: Così vestii queste guerriere spoglie; Ma di morir pugnando il ciel mi toglie. Vidi gl' itali campi e l'alma terra Che vivo a noi figura il paradiso, E qui non armi o strepito di guerra, Ma d' ogni parte mi scintilla un riso: E il desìo non m' uccide e non mi sferra, Anzi da me mi trovo esser diviso, E pur sogno il passato, e pur talvolta Fingo e vagheggio una speranza stolta. E solamente alcun dolce trarrei Da quel fraterno amor che a te mi stringe, Ma il padre tuo con modi acerbi e rei Da quest'ultimo ben mi risospinge, Sì che soventi volte a gli occhi miei Ira fatal novella benda cinge, E poi rapida frena il braccio armato La dolente memoria del passato. Stette sospeso Ermanno, e poi: Geloso Paterno amor, dicea, forse il flagella, Che te di giusti fregi glorïoso Tra le schiere vedrà l'alba novella, E me pur anche in mezzo al vulgo ascoso E a te sommesso in atto ed in favella…. Pur, Teodoro mio, soave forza, Fa pazïenza ed ogni sdegno ammorza. Trepido intanto di lontan lontano Un indistinto fremito venìa, E del bruno aer nel profondo vano Or tromba or flauto risonar s'udìa, Che, fatto chiaro poi, come sovrano Fiume, che s'apre non previsa via, Rompea la notte e di belliche note Tutte inondava le campagne vote. Con veloce ordin poi studiando il passo Venian guerrier da le dïurne giostre, I quai, poich'è del giorno il lume casso Fan posa a' ludi e a le guerriere mostre: Quasi un senso di vita in ogni masso Metteva il cupo suon de l'armi nostre; Ed ogni stella in mezzo al bruno velo Pareva una speranza accesa in cielo. Procedean gravi i duci, ed ogni schiera Indi in breve drapello era partita; Spazio tra l'un drappello e tra l' altro era, E d'un duce splendea l' arme forbita; Lenta movea la compagnia guerriera Intornïando l'aiuola fiorita; E in piè ritti i garzon, cui veder parmi Pensosi, è ver, ma non pensosi d'armi. Ecco, gli ordini rompe un fero duce, E, sovra Teodoro infurïando: Sozzo verme, dicea, chi ti conduce A porre ogni atto ossequïoso in bando?…. Ahi misero, che tenti? ecco ti luce L'ira ne gli occhi e ne le mani il brando…. Cade il provocator, sovr'esso intanto Cade l'amico tuo che t' amò tanto! Ecco il ferito e il feritor circonda Tutto l'armato stuolo, ecco si sfrena L'ira ne gli altri duci e sovrabbonda, E il reo stende le braccia a la catena; Come torrente che le vigne inonda E per continue piogge acquista lena, Così la nuova turba a poco a poco Ingrossa, e mormorando ingombra il loco. E un ondeggiare, un chiedere, un urtarsi, Ed un fremer di sdegno indi succede, E più lontani poi sommessi e scarsi Soavissimi accenti di mercede. Così dal cavo rame in rote alzarsi Lo sfrenato vapor negro si vede, E a quando a quando vi si mesce e brilla Della motrice fiamma una favilla. Quando si piegherà sovra lo stelo Questo solingo fior de la mia vita, Quando compreso da l'estremo gelo La sua breve giornata avrà fornita, Allora il desir caldo e il puro zelo, E la speranza che mi fece ardita, Risuoneranno in qualche mesti carmi Che non potran dal sonno mio svegliarmi. Allor Napoli mia, che quasi a vile M' ebbe alcun tempo e quasi a sè nemica, Ricorderà del mio povero stile, In cui posi ogni affetto, ogni fatica; E l'amor che m'avea fatta gentile, Il vivo amor di questa terra aprica, Vincerà dopo morte ogni mia guerra, Rotta la nube che s'ergea di terra. Dunque senza sospetto itene, o versi, Su l' ale di quest'aure innamorate, Chè forse non andrete al tutto spersi A l' albeggiar de la futura etate, Poi che gli usi antichissimi e diversi Del paese natìo dolce cantate; Itene, dunque, e d' ogni giovin core Benigna udienza v'otterrà l'amore. Ed ecco s'apre a l'alta fantasia Una gioconda e tremula marina; Ivi nel sen di spazïosa via Un tempio sorge a la Bontà divina; Corre la turba mansueta e pia Con gli occhi accesi e con la testa inchina, E intuona salmi, e, desiando forte, Fa siepe in mezzo a le dischiuse porte. Di costa al tempio un nobile castello Porge memoria de le antiche mura; Ivi s'annida elvetico drappello Che il porto signoreggia e la pianura: Quando al Vesuvio in cima il ciel fa bello « Il ministro maggior de la natura, A quelle torri i primi raggi vibra, Specchiando sè ne la celeste libra. Sul nostro mondo vergine ed accesa Appena uscìa la dodicesma etade, Che l' eterna Pietà fra noi discesa Entro il cielo e la terra aprì le strade; E il potente vessillo ergea la Chiesa Vincendo remotissime contrade, Onde frati riedevano e romei Sacrate ossa recando ed agnusdei. Venner due fraticelli a questa riva, Mostrando al popol con devoto zelo L'immago di Colei, che, fatta Diva, Santificò l'ombrifero Carmelo. L'avea ritratta in su la tela viva Quel dipintor che la contempla in cielo, E da la pia misterïosa idea Larga fonte di grazie si spandea. Però dove spumeggia il bel Tirreno Un suburbano tempio edificaro, Che, di votive tavole ripieno, Fu poco appresso e a tutta Italia chiaro: Ivi donna gentil, mossa dal Reno, Pregò l'ultima pace al figluol caro, Quando l' ansia materna e le paure Men preste fur de l'angioina scure. Costei, che il nobil figlio avea veduto D' armi e di vita folgorar partendo, Che lo scettro sebezio a sè dovuto Strappar pensava a l'Angioin tremendo, Rivide un freddo tronco, e, il capo muto A l' affannoso petto suo stringendo, Dicea: Deh non potè trovar pietate La giovanezza tua nè la beltate! Oh Manfredi, Manfredi, iniqua sete Di regno al sangue tuo ti fe'nimico! Tu in battaglia cadesti ove la rete Ambizïon ti tese ed odio antico, E Carlo vince ed imperversa e miete La progenie gentil di Federico: Ma dove sparso fu sangue innocente La vendetta germoglia alta e possente. Così piangea costei senza ristoro, Cui tronco fu d'ogni speranza il filo; Pur con le preci volle e col molt'oro Far bello al figliuol suo l' ultimo asilo, Cui dato avrìa maggior lustro e decoro Di quelle moli ond' è famoso il Nilo, Se a la materna pièta consentìa L' angioina accigliata gelosia. La modesta chiesetta a nobil tempio Diè loco, e fulse in prezïosi marmi; Ivi dorme il garzon di cui fe' scempio L'angioino sospetto e non già l'armi, Ivi si parve un memorando esempio, Quando le trombe ritornaro a' carmi, E a le porte del mio dolce paese Fulminando spuntò l'Aragonese: Che tor voleva al provenzal Renato La signoria de la sebezia terra, E il Tirreno occupava, e presso al lato Orïental più raccendea la guerra. Parte una palla dal bronzo infiammato, Ecco le porte de la chiesa atterra, E tocca il Redentor sul santo legno, Che il divo capo di chinar fa segno. Allora universal grido levosse, E la potente immago un velo ascose, E statuiro che veduta fosse Ogni anno, al par de le stupende cose, E poi che l'età splendide o le grosse Vaghe dell'opre son miracolose, Ivi il popol s'aduna intento e fiso Al segno riverito in paradiso. Già s'apre il chiaro cielo, e gli arbuscelli Già si riveston di tenera fronde, D' erbe coperta e di be'fior' novelli La terra a le amorose aure risponde, Fan dolce coro i lascivetti augelli, E ad ale aperte su le lucid'onde Giugne la rondinella vïatrice, Ospite antica, al nostro suol felice. Rimbomba l'aer di sonore squille, E confusa letizia intorno spande, Ogni schiuso veron di color mille Mostra i serici panni e le ghirlande, Erra il pastor de le propinque ville Fra il romor cittadino e le vivande, Nè mancan balli e puerili giuochi, Nè l'apprestar di lavorati fuochi. Mille infiorate navicelle a riva, Stese le reti e il fune a'pali avvolto, Invitano a scherzar per l'onda viva Di garzonetti un baldo stuolo accolto; Misto a la turba garrula e festiva, Il nocchier mezzo ignudo e bruno in volto Vien con la donna sua forse devoto Da paurosi lidi a sciorre il voto. Contento in mezzo a la pietosa festa Lo spensierato popol si gavazza; Suonando una viola erge la testa Mendico un cieco per la vasta piazza: Canta la donna sua trepida e mesta, Ed al fanciul che qua e là svolazza, Spiega le grazie effigïate in tela De l' alta Donna onde pietà s'inciela. Di fresche frutta un monticel gradito, Adorno in cima di vïola e rosa, Qua e là sparso, fa gentile invito A l' assetata gente curïosa. Traendo a l'armonia del sacro rito, Secreta giovenil coppia amorosa Appaga il soavissimo disio Di rivedersi ove s'adora Iddio. D' elvetici soldati un drappelletto Lento il flutto del popolo fendea, Che un misero prigione in ceppi stretto Verso le torri del castel traea; Dietro Ermanno venìa solo e negletto Pieno di sua sciagura acerba e rea, E piede innanzi piè metteva appena, Come colui che il fato a perir mena. Ma, poichè mestamente alza le ciglia, Una giovane bionda in bruna vesta Gli si fa incontro, e per la man lo piglia, E dal fiero pensier l'alma gli desta: Parea l'aurora candida e vermiglia Che dal sen de la notte erge la testa: Il garzon la conobbe, e un vincitore Atto di riso gli scoppiò dal core. Poi, ricomposto a la mestizia il viso, Le dicea: Pur veniste, o donna mia: Io tanto v' aspettai, ch' ora m'è avviso Che la vostra venuta un sogno sia. Ahi, da trista ventura il cor conquiso, Al novello piacer chiude la via! Deh non mutate il dolce atto gentile Perch'io sia mesto, e non mi abbiate a vile. Tra quella schiera che al castel sen giva Era un compagno mio di ceppi carco, Anzi un fratello, ed io la cagion viva Son del suo fallo e del suo grave incarco: S'avvien ch'ei pera, a l'alma fuggitiva Quasi parato son di aprire il varco: Pur in sì fresca età perder mi duole Il vostro aspetto, e non ch'io perda il sole. La fanciulla abbassò gli occhi soavi, E tinse il volto di color di rose; E, volta poscia a lui: Deh non vi gravi Tutto svelarmi il vostro duol, rispose: Picciola stella a le diserte navi Talor provvido porto disascose; Da me splender potrebbe al vostro ciglio Una luce d' aiuto o di consiglio. Così, ridotti entrambi ove la bella Presso al chiaro Tirren facea dimora, Parlando Ermanno, incominciò da quella Ira che il cor del padre suo divora, Onde feroce in atto ed in favella Teodoro percosse, ed in quell'ora Medesma ne toccò lieve ferita, Che al giovanetto costerà la vita; E che movea da in vidïosa fonte La cieca rabbia sua dal dì che' ei vide L'opre di Teodoro ornate e conte, Cui non fortuna, ma virtù sorride. Come oserei, dicea, levar la fronte, Se il padre mio questo fedel m'uccide, E d'un amico pinto da le cime Mi fa sgabello per salir sublime? Oh salvarlo potessi! ed in sua vece Andrei volonteroso incontro a morte, Anzi torrei diece fiate e diece La vergognosa sferza o le ritorte. Pur, se vi move una mia calda prece, Donna, mi siete voi speranza e sorte; Chè il favor di lassù par mi baleni Quand'io riguardo i vostri occhi sereni. Sè stessa onestamente a lui profferse La donna, e confortando il fece dire; Ed ei: Quella prigion che a lui s'aperse Certo mi schiuderà l'uso e l' ardire. Se debil donna un dì, sotto diverse Spoglie, al marito suo diede il fuggire, Nè temè de'potenti il fiero aspetto, Avrei minor proposto o minor petto? Io voglio andar quando, fra l' ombre avvolto, In mezzo a l' alta notte il castel tace, E mutar vece con l'amico, e sciolto Spingerlo al vasto pian che sottogiace: Poichè la mia persona e l'aria e il volto Quasi a la sua persona si conface, E a la guardia il mantel, coprendo il resto, Non farà l'alto inganno manifesto. Disviluppato da le triste mura, Agevol troverà l'altro cammino; Ma, poichè solo, inerme, a l'aria scura Fuggirà innanzi a l' orrido destino, Voi pietosa gli siate, e più sicura Sia l' affannosa fuga al pellegrino: Ch' io di venire a voi gli farò prego, Se non mi fate di tal grazia niego. E, più che le parole mie, vi stringa La dolce carità del natio loco. Dove la Sprea vien che la terra pinga Nacque il fido compagno ond'io v' invoco. Allor Sofia: Non v' è mestier lusinga, Disse, e tanto arrossì che parve un foco; Avrà picciola nave a suo talento, O un giovane destrier che vince il vento. Altro aggiunger volea, ma la parola Fu vinta da la foga del disio, Chè un pensier per la mente le trasvola Che di lei da gran pezza è fatto Dio. Ermanno intanto: O cara donna, o sola Stella di quest'amaro viver mio, Io vi avrò sempre un vivo obbligo eterno, O sia nel paradiso o ne l' inferno! E, se da morte o se da carcer duro Si può schermir mia trista giovinezza, Non sarà mare al mondo o fossa o muro, Che mi tolga il veder tanta bellezza, Ma, se da' più begli occhi che mai furo Traluce l' alma a la pietate avvezza, Nè mai più mi vedrete, almen sovente Ricordivi di me pietosamente. Se d' alcun dolce poi sparger volete La mesta vita o il mio doglioso fine, Qualche pegno innocente a me porgete, O qualche fila de l'amato crine, E, quand'io giunga a l'ultima quiete, Saran compagne a queste ossa meschine, Ed io dirò che misero non sono, Se mi fia largo il ciel di tanto dono. La vergine pensosa alquanto tacque Innanzi a lui che tutto disfavilla; Poi, con gli occhi lucenti di quell' acque Che pietà soavissima distilla, Incominciò: Poich' al mio fato piacque Di non lasciarmi in terra ora tranquilla, È forza pur ch' al vostro caldo affetto Apra le pene del secreto petto. Ne l' età mia più verde e più fiorita, Ne la terra natia, dove più s' ama, Un giovinetto amai quanto la vita, E rïamata fui più de la fama, E dopo la sua dura dipartita, Dì e notte ansïoso il cor lo chiama, E spaventevol sacramento fei Ch' io di lui solo, e non d' altri, sarei. Voi, presso Pesto, o generoso core, Mi campaste da morte e da vergogna, E mi spiraste alto fraterno amore, S' io vo' guardar la lingua di menzogna; Ma l'alma cinta dal suo dolce errore Sempre l' antico ben figura e sogna: Vostra è la vita mia, vostro il volere, Ma d' esser vostro il cor non ha potere. Io v' amo quanto amar si può fratello, E il viril nobilissimo proposto Incuorar vo' con questo antico anello Che dal mio padre in dito mi fu posto; E, se non è d' acciar l' ampio castello, Porrò del rivedervi ordine tosto, E le grida alzerò per fin ch'io intenda Che la grazia serena a voi discenda. Pallido Ermanno ed affannoso in atto Tolse il gemmato anello, e più non disse. Correndo come stral da l' arco tratto, Anzi le mura del castel s' affisse, E al mar si volse, e poi le soglie ratto Passò com' uom che le sue sorti ha fisse. La luna intanto, amica de' mortali, Inalbava le porte orïentali. Ad una ad una s' accendean le stelle Su per gli spazïosi eterei campi; Quete al lido venìan l' onde sorelle, Il qual vien che di faci ancora avvampi; Levansi ancor di terra alte fiammelle Con un guizzar di rossi e verdi lampi; E mille volti e mille brune trecce Avvisan pur le colorate frecce. Qui par che un monticel le fiamme scotano, Come il Vesuvio, da la cima arsiccia; Or sole, or luna folgorando rotano, Di vivo foco una fontana spiccia, Crosciano i colpi e par che il ciel percotano Misti a le grida, e il fumo s' ammassiccia; Alfin tace la festa e il vulgo ancora, E la notte riman sola e signora. Il mar, che lieve lieve s' inargenta, Porta soave una barchetta bruna; Modula il remo la percossa lenta, E lucide scintille intorno aduna. Ivi s' appoggia una figura intenta, E scioglie il canto a l' amorosa luna: L' aura sparge le voci, e i petti invade Fremito di dolcezza e di pietade. « Oh fortunato (la canzon dicea) Quel vïator, che, dopo mille errori, L' anima nel natal porto ricrea, Onde partissi ne l' età de' fiori! Fortunato prigion, che gli occhi bea Nel cielo aperto, alfin di carcer fuori! Esul beato, che la patria riva Bacia ne la notturna ora furtiva! » « Ma più lieto colui che nel profondo Mar con le sue speranze s' abbandona, E seco ha la sua donna e irride al mondo, Cui lode o biasmo come legge suona! Ogni vento, ogni lido è a lui giocondo, O ride il cielo o fulmini sprigiona; Chiaro gli splende il divo amor sovrano Su per la vastità de l' oceàno. » « Vivean due giovanetti in una terra Cui mutuo amor da l' alte stelle rise; Aspro surse il potere e lor diè guerra, Ed i corpi, non l' anime, divise; Dolorosa prigione il giovin serra, Ma i ferrei ceppi industre amor recise, E accolti furo entrambi in umil nave, Che fausto il cielo avea, l'aura soave. » « Quand' ecco in su l' aprir de l' orïente Si coperse la stella mattutina, Levossi Noto torbido e potente, Ed i legni sconvolse e la marina; A mezzo del cammin fra l' onda algente S' innabissò la coppia pellegrina, E caramente stretti a l' ore estreme Felici fur, perchè moriano insieme. » Spandesi la canzon per l' aer muto, E fra' recinti del castel penètra, E vaga e dolce suona ove perduto Si giace Teodoro in prigion tetra; Il qual rïapre gli occhi, e l' abbattuto Capo rileva e in lacrime si spetra, E, sorreggendo con le man le gote, Avido bee le mal distinte note. Chi è costei che sotto bianco velo, « Vestita del color di fiamma viva, Scende quaggiù da lo stellato cielo, E sul Sebeto è di suo corso a riva? Arde ne gli occhi di amoroso zelo Tanto, che vince mia virtù visiva, E dove dolcemente i passi move Spuntano i fiori e l' erbe fresche e nove. Levasi il vecchierel canuto e bianco A la sua luce, e l' egra faccia schiara; Sotto i candidi veli, afflitto e stanco, L' orfano abbandonato si ripara; Cadono al negro le catene, e franco Il caro pregio de la vita impara: Salve, o pietosa, innanzi ogni splendore Concetta ne la idea del primo amore! Oh, se talvolta pe' deserti mari Su le prore britanne ardi e lampeggi, Se fren ponesti a' desiderii avari Che mercàr l' uomo un dì come le greggi, Scendi, diva, con me, dove in amari Antri, in obbrobrio de le sante leggi, Langue l' umana carne in sozzo obblio, Potente ancor de l' alito di Dio. Splendida Carità consolatrice, S'è ver che abborri da'superbi tetti, Vieni ove il vulgo errante ed infelice Par che il tuo raggio luminoso aspetti; E, poi che d' ogni amaro la radice E la morte vedrai de gl' intelletti, Per te l' età da' suoi pomposi sogni Sorga ad atti migliori o si vergogni. Deh, sarà mai che quelle cieche mura, Ove i pallidi rei giustizia frena, Dien loco al chiaro sole, a l' aura pura, Che l' anime risveglia e rasserena? Certo il delitto in fredda tomba oscura Più gli svïati spiriti incatena; Fugge smarrito ogni pensier gentile Da gente a'bruti omai fatta simìle. Non sonanti catene, e non diversi Aspri tormenti, o grotte paurose, Ma il miser che fallì sproni a dolersi La ricordanza de le andate cose, E fia che nobil penitenzia versi Lacrime redentrici e prezïose: Chè dove onor s' avviva e si rinverde La fattura di Dio pregio non perde. Apra le vie fra sviscerati monti L' itala architettrice arte regina, Svolga il corso de' fiumi, inarchi i ponti, Abbracci la volubile marina; Ma pria del nostro duol chiuda le fonti, Te seguitando, o Carità divina, Ed alzi spazïosa e vasta mole Ove riluca il pentimento e il sole. Quante madri diserte e quante spose E quanti sconsolati pargoletti Apriranno le braccia disïose Al pentito fra' lor dolci ricetti! Come dal prun le colorite rose, Spuntano dal pentir pensieri eletti; E ne l' egro mortal virtute alligna Quando è madre giustizia e non madrigna. Dunque mi segui, o mia pietosa, e varca Meco il ferrato ponte e l' atre porte; Poi, de la fiera vista ingombra e carca, Ragiona altrui di questa lunga morte; E così spiri a la mia fragil barca Zefiro dolce, e l' andar mio conforte, Come nessun t'udrà col ciglio asciutto, E dopo il fior verrà soave frutto. Tu pure, o speme, a cui fidanza io entro, A l' acceso desio porgi la mano! Ecco ne' giri del castel m'addentro, Volto a l' orïentale arco sovrano; Qui, dopo vie lunghe e distorte, al centro Quadro uno spazio si dilata e piano, Chiuso da'lati, e di rincontro a foggia Levato quasi di teatro o loggia. Indi si parte breve e stretto calle, Cui mette capo un ponticello angusto, Un ponticel che regge su le spalle Un covo, un antro squallido e vetusto: Nè le ghirlande porporine e gialle De l'alba che rinnova il campo adusto, Nè mai del mezzodì favilla alcuna Di quel loco mutò la faccia bruna. Per misero pertugio, ov'è contesta Ferrigna rete, il dì penètra appena, Anzi lieve chiarezza manifesta Che la terra di luce è tutta piena; Fetido umor quelle pareti infesta, Ove il tristo aer toglie polso e lena; Spesso la paglia qua e là cospersa Il ramarro, qual folgore, attraversa. Qui di fervidi voti e di querele L' aria ancor suona e trema di sospiri, Chè ne' passati dì più d'un fedele Spirto in questo squallor venne a' martìri, Che spiegò forse del desio le vele Mal contemplando gli stellati giri, E in duri ceppi qui l'ultima pace Chiamò, come costui che in terra giace: Come giace costui, che d' ora in ora Aspetta il punto che a morir lo danni, E, accolto in sè, de' mesti pensier fuora, Pensa il natal suo nido, i suoi dolci anni, E il fiume che le sue rive colora, E di fior ghirlandata in verdi panni La donna sua, che in atto onesto e tardo Parte, e gli volge il desïato sguardo. Quand' ecco il ferrato uscio stride e crocca, Tacito il doloroso Ermanno appare, Ed il prigion col core e con la bocca Grazie gli rende in voci oneste e care; Ma non così da le montagne scocca La luminosa luna e sveglia il mare, Sì come Ermanno abbraccia l'infelice, E del suo manto il copre, e: fuggi, dice. Fermò le piante a terra, e da le braccia Del suo compagno e dal mantel si scinse Teodoro, e levò l' ardita faccia: Così virtù l'amor di vita vinse. Perchè fuggir? chi 'l vuole o chi minaccia? Chi gridò grazia, o chi la legge estinse? O si muta per me l' alto giudicio, Perchè la vita m'è peggior supplicio? L' intese Ermanno, e si rivolse a' preghi: So ben che del morir nutri desio; Ma sarai sì crudel, che tu mi nieghi Ch' io salvi da la infamia il padre mio? Che se tu al fato minaccevol pieghi, Ei ne avrà carco, egli rimorso, ed io, Anzi che trar sì vergognosa vita, Ti seguirò ne l' ultima partita. Deh, per la vita mia vivi e perdona, E cerca il tuo riposo a miglior lido! Differenti d'andar nè di persona Siam noi, sì de lo scampo mi confido; Fuor del ricinto che il castel corona Soccorso troverai pietoso e fido Ne la magion che sul cammino è posta, Dove fa grembo la tranquilla costa. Ti apparirà dinanzi un' angioletta Come sarai ne la magion venuto, Che te medesmo e questo anello aspetta, E assai cortese ti sarà d' aiuto. Non cadde fuoco da l' aerea vetta, Come a l' altro fu l'animo caduto, Quando rifulse ne la mano amica L' anel di ch'egli avea notizia antica. Gli corse un gel per l' ossa, e ne la mente La bella donna sua viva gli venne, In cui pensò le prime fiamme spente E ad altro vôlte del desir le penne, E sembrò tal, che sovra il collo sente Il taglio micidial de la bipenne, E, pria che n'abbia rotta la persona, Il pauroso spirito sprigiona. Poscia, raccolte le sue forze sparte, A lui che gli era pur co'preghi intorno: Tu non farai per prego nè per arte Ch' io lontani da me l' ultimo giorno! Ma su l'occidental trepida parte La luna nascondea l' estremo corno, Venere ardea su l'oriente, e al fianco Le sorgea lento un nembo rosso e bianco, Un romor di tamburi, un suon di tromba I due compagni senza più divise: Il prigion su la terra umida piomba, Sovra il qual gelosia l'artiglio mise; Partesi l'altro, e dentro al cor gli romba Quel suon funesto, e pensa in mille guise Strappar nel nuovo giorno al destin bieco Il compagno innocente, o morir seco. Non lunge Arrigo, il padre suo, discerne, Cui corso innanzi con amaro piglio: Di quant' oprasti, o padre mio, d' eterne Lacrime porterai bagnato il ciglio! Deh almen soccorri a quel diserto, averne Tu déi pietà per la pietà del figlio; Ch'io, padre, sostener non potrò mai Questa colpa di te che tanto amai. Sorrise Arrigo, ed al figliuol mostrava Il destro braccio in un zendado avvolto; E l' altro: Di mortal macchia si grava Il percosso guerriero o poco o molto, Macchia che santamente il sangue lava, E a dritto il feritor di vita è sciolto; Però tempo saria di porre a' prodi Onesto fren co'generosi modi. Santa è la legge, o figlio, e un fero esempio Un solo uccide e mille vite serba: Così di questo misero a lo scempio Nessun più levi la testa superba. Padre, quel Dio cui l' universo è tempio Piglia talor de' rei vendetta acerba; Ma invia ne'petti il guardo suo celeste, E l' infelice di sua grazia veste. Deh, padre mio, quella ferita ascondi, Non accusar con la nimica vista! Io non avrò mai più giorni giocondi, Se la tua fama al suo morir fia mista! E quei, volte le spalle a gl' infecondi Preghi, con faccia dispettosa e trista Rivolse al luogo del giudicio il passo: L'altro il segula pensoso a capo basso. Pur, giunto a l' uscio onde s' udia distinta Del suo diletto la secura voce, Ch' ebbe al severo giudice dipinta L'alta sua colpa e la cagione atroce, Quando in consiglio udì la legge vinta Che il reo chiama a consiglio più feroce, Fuor di sè stesso uscì dal fero loco, Come colui che fugge innanzi al foco. Ma su la porta del castel sorgea De gli occhi belli il sospirato lume; Quasi l'aere intorno le ridea, Amore intorno le battea le piume; Nel veder la sua donna, anzi sua dea, Sentì sul volto un lacrimoso fiume, E stette alquanto, e dentro al cor più forte Presentì la dolcezza de la morte. Venia quella gentil, che tutta notte Avea vegghiato, e, poi che il pellegrino Splendore avea le sue speranze rotte, Riconducendo il rorido mattino, Le abbandonate membra al sonno indotte, Schiuso al pensiero il mistico cammino, Entro torbido sogno avea veduto Il suo diletto pallido e barbuto. Vedeva un ampio mar senza sentiero, Sul qual precipitava un chino aperto; Era lubrico il passo, e l'emisfero Tutto quanto di nubi ricoperto; Procedea quell' afflitto, e l' aer nero Più gli avversava quel cammin diserto, Quando nimico vento il circonfuse, E cadde, e sul suo capo il mar si chiuse. E da quell'onda uscìa grido mortale, Ch'arse a la donna l' ossa e le midolle, Sì che balzò dal reo sonno fatale D' affannoso sudor tepida e molle; Sempre quel mortal grido il cor le assale, Sempre ricorda il disastroso colle, Sempre la insegue un dimandar mercede, E un rammentar de la promessa fede. Così studiava il passo, e tutta sola, Smemorata traendo entro il castello, Portava del color de la vïola Leggiadramente sparso il viso bello; Accorse Ermanno, e senza far parola La ricondusse al consueto ostello, E, ne la fronte sua le luci fisse: Sola mi resta una speranza, disse. Volerò senza indugio al maggior duce, Perchè mutata la sentenza sia: Chè, se una vita vuol giustizia truce, Prenda questa odïosa vita mia. Certo diman la mattutina luco Te vedrà salvo, o me trafitto pria, O Teodoro….. E qui vien che trabocchi Sofia riversa, e chiude i lucid' occhi. Chiuse gli occhi potenti al caro nome, Che forse allor troppo temea d' udire; Su le spalle cadean le sciolte chiome, Era la voce vinta dal martire; E, come a sensi fe'ritorno, e come Potè qualche parola profferire, Dicea, tornando a l' orrido pensiero: Dite, per cortesia, che non è vero! È questo, dunque, o Teodoro, è questo Di tante pene e di tanti anni il frutto? Venni col vecchio padre (al quale infesto Non fu il tuo colpo) al mio voler condutto, E i suoi disagi e il suo morir funesto Ahi non eran per me l' ultimo lutto? Ecco la speme onde fra lungo stento Questa misera vita ebbe alimento! È questo, dunque, o mia perduta speme, L' infinito piacer del rivedersi, E il rinnovar ne la memoria insieme Quanto soffristi un dì, quant' io soffersi! E il viver teco, infino a l' ore estreme, Vita cui nulla son mille universi! Così lieta m'accogli e consolata, Oppresso da la gioia inaspettata? Dopo tanti anni, ahi lassa me, sperai Qui trovar pace a la mia vita grama! Ch' io sempre col pensier ti seguitai, E il cor mi conducea più che la fama. Qui ti ritrovo, e qui diman morrai….. E teco, o vita mia, morrà chi t' ama….. Ma pria con queste mani al maladetto Che t'oltraggiò vo' trarre il cor dal petto! E, s' io nol posso, la vendetta eterna Sovra il suo capo scellerato stia, E, quando ferve il sole e quando verna, L' aria, la terra abbia nimica e ria, E, invan chiamata, da la valle inferna L' anima al suo partir non trovi via, E invan fugga sè stesso, e notte e giorno Queste vittime sue si vegga intorno! Non così acerba tra' notturni balli Infurïata menade si mosse, Nè giovenca tra liquidi cristalli Balzò, che punta da l'assillo fosse, Come costei, che per monti e per vallì Co' nuovi fiori o con le frondi scosse Da lunghi anni il suo ben cercando giva, Ed ora il trova de la vita a riva. Con gli occhi accesi e con le trecce sparse Qua e là corre ed i pensieri accampa; La conforta il garzon con voci scarse, Ed ora impallidisce ed ora avvampa: Pur, queti i primi spirti, in lei rïarse De la diva ragion la chiara lampa, E pensa pur se v' ha mai prego od oro Da ricovrare il suo caro tesoro. Or questo modo elegge, or lo rifiuta, Or a quell' altro con foga s' appiglia, Come di speme o di timor s' aiuta, Or si rabbuia, or arde ne le ciglia; E mentre, in sè medesma incerta e muta, Col vivo desiderio si consiglia, Celando in eor l' immedicato affanno, A lei s'appressa e le ragiona Ermanno: Poi che fortuna minacciosa e ria Persegue a te l'amante a me l' amico, Leviamci insieme a pro di lui, nè sia Di tutta speme il nostro amor mendico; A Teodoro è, come a te, natia La terra del secondo Federico; Di' che saggio orator vien che sostegna Qui l' alto nome e l'ospitale insegna. Tu corri tosto, a quel gentil t' atterra, Che a Teodoro tuo venga in soccorso, E i santi dritti de la patria terra Alleghi, e rompa del giudicio il corso: Certo a'tuoi caldi preghi si disserra, Non dico d' uomo, un cor di tigre o d' orso; E, se almen tempo ottieni, io ti prometto Che gli aprirò la fuga a suo dispetto. Fiso il guardô la donna e non rispose, Chè a lui tutte parole eran crudeli; Ma le splendide anella ricompose Su l' ampia fronte, e sovra il petto i veli; Poi con le azzurre luci rugiadose, Invidia quasi de gli azzurri cieli, Addio gli disse; e con tremante core Prese la via che le mostrava amore. Non molto va, che una festosa gente In molti cocchi a lei si manifesta, Ch' avea nel mezzo un giovinetto ardente E una fanciulla timida e modesta; Di gemme la sua fronte era lucente, Intessuta di fior'la bianca vesta; E, mentre il guardo era a la terra affiso, Tra ciglio e ciglio sfavillava il riso. Mille procaci fanciulletti a gara, Con un batter di man che l' aria introna, Seguon la coppia innamorata e cara; Altri a lei snoda popolar canzona. Ride il sereno cielo, e da la chiara Marina un leve mormorio risuona; L'aura di primavera intorno olezza E spira soavissima dolcezza. Siccome donna, a cui l' unica prole Si dipartì per l' ultimo viaggio, Fugge i lochi abitati, ha in odio il sole, Quasi offuscato ha de la mente il raggio, Ma pure ogni fanciul carezza e cole, E ride a lui come vïola al maggio; Così l' egra Sofia l'andare allenta, Fuor di sè stessa a quel tripudio intenta. Splende di nuovi inghirlandati ceri La chiesa e d' oro e di candidi lini; Mista una voce a gli organi severi Spande per l' aria numeri divini; Stretti per mano trepidi e leggeri Van gli amanti con gli occhi al suolo inchini Là, dove il sacerdote in bianca stola Discioglie l' evangelica parola. Quasi grazia celeste, il sermon divo Diffondea luce in quelle menti grosse, Quando la donna in atto dolce e schivo Verso il diletto suo le luci mosse…. A quello sguardo tenero e furtivo Sofia di sè medesma ricordosse, Sì che vederne innanzi non sostenne, E via volò sì come avesse penne. A te, regina splendida de' mari, Che, nunziatrice d' un' età novella, « A guisa d' orizzonte che rischiari Di luminose leggi or ti fai bella, Sciolgano l' ale a te gl' inni preclari, Non per l'Italia cui destin flagella, Ma per l' umano germe al quale intendi, I cui sacri diritti ergi e difendi. Ed ecco dal tuo sen parte una voce, Che invigorisce i generosi petti, E biasma del guerrier la scuola atroce E i flagelli omicidi e maladetti. Oh come correrà baldo e veloce A la difesa de' paterni tetti Chi de la sferza onde il terren fe' rosso Ancora i segni porterà sul dosso? Ritorni a te da le marine estreme Il guerrier di ferite ricoperto, Ove affrontò le belve e le supreme Ire selvagge e l' oceàn deserto, E infaticabil fia, se più non teme Che la sferza de l'opre gli dia merto, E, rivocato a le battaglie conte, La morte incontrerà con lieta fronte. S' alzi un ingegno in te, fervida Francia, Profeta de le stelle, e il ciel penètri! Cresci, o Lamagna, con accesa guancia, Gli strumenti di guerra acerbi e tetri* Cotone fulminante.; Vincerà d' ogni merto la bilancia, Splenderà qual diamante in mezzo a' vetri Costei che scaccia la vergogna e vuole Svelar l' altezza de la umana prole. Non superbir di smisurate navi Ch' aprono i mari e squassan ferro e foco, Nè che d' Europa tu volgi le chiavi, Nè perchè festi un chiaro lume fioco; Ma la tua destra, onde ogni macchia lavi, A la svegliata umanità diè loco, E in te, vecchia Inghilterra, s' assecura Questa povera etate e la futura. Ed io vedrò, se la mia stanca vita Non condurrà fortuna a presto fine, Vedrò schiusa una via piana e spedita A l' alme valorose e pellegrine, Però che, di vergogna disvestita, L' arte di guerra avrà ghirlanda al crine, E, come de le piante è cima il fiore, Gentilezza sia cima del valore. Così la man de gli onorati duci Si disavvezzi da crudel costume, Nè scenda a le percosse infami e truci Per cui versato fu di sangue un fiume. O santa legge, e tu che a me traluci, Spanderai per l' Europa un chiaro lume, E levi gli occhi a te, meno infelice, Questa novella Italia imitatrice! Or questo femminil negletto verso Che a voi consacro, o venerande spade, E arditamente incontro al tempo avverso La cortesia fra l' armi persuade, Ha dal profondo petto a voi converso La carità de le natíe contrade, E porge, per cessar sì lungo scempio, Di Teodoro il miserando esempio: Di Teodoro, il qual, poi che la terza Aurora sul Tirren limpida ride, Dal dì che nuova e giusta ira lo sferza, Là menato ove il giudice s' asside, Pensa per via l' obbrobrïosa sferza, E contempla le lustre armi omicide De' suoi compagni, e: d' esse, pensa, alcuna « Troncherà questa vita inerte e bruna. Così pensoso il ponticel discende, E al centro de la piazza si raccosta; Ivi un quadrato di guerrier' si stende Ove la giudicial sedia fu posta; Rinchiuso il reo nel mezzo, un suono intende Di tamburi che fa tremar la costa; Nuda ha la fronte, ambo le mani avvinte, E d' onesto pallor le guance tinte. Del giudice a le spalle agita il vento In faccia al reo l' elvetico stendardo; A manca siede un sacerdote, intento Al giovanetto con paterno sguardo. Mirò del reo le forme e il portamento Quel capitan con occhio grave e tardo, E poi nel dir piacevol modo prese Che incomincin le accuse e le difese. E intanto a lui, che la tranquilla fronte Levava, disse: A te laudabil fia D' ogni pietate a la perpetua fonte Affigger l' alma conoscente e pia; Perchè, lavando le tue colpe e l' onte, T' apra le porte de l' eterna via, O, volendo quaggiù la tua salvezza, Scorga a buon fin l' errante giovinezza. Non disse invan, chè tosto il giovin franco Torse al ministro del vangelo il ciglio, E quei levossi, e gli si fece al fianco, E a lui: ferma la speme, dolce figlio! Alta la fronte ed il crin raro e bianco Aveva, uom di pietate e di consiglio, E con la voce affettuosa e grata Si facea strada a l' anima affannata. A Teodoro allor la scarna mano Sul biondo capo impose e il benedisse, Udì fremer di pièta il vasto piano Il giudice e le luci a terra fisse, E, siccome discreto era ed umano, A quel diserto un difensor prescrisse, Onde benignamente lo richiede In cui più speri o ponga maggior fede. Ma non finì, che, tutto in volto acceso, In mezzo Ermanno a gran furia si caccia, E, come quei che ha l' intelletto offeso, Volto al compagno suo, stretto l' abbraccia: No, non fia da altri che da me difeso Questo tradito, ovver ch' io seco giaccia; Altri, gridò, non dee mover parola Ch'io, cagion de' suoi danni unica e sola. Arse di tenerezza e di pietate L' altro, e la testa gli piegò sul collo, E le amiche parole inaspettate A la costanza sua diedero un crollo. Come si china il fior su le avvivate Foglie, poi che la pioggia trasformollo, Tal si chinò quell' anima gentile E da gli occhi abbondò pianto non vile. Indi, riscosso, e gli smarriti spirti Imperïoso richiamando al core: Taci, fratel, dicea, non posso udirti Senza abborrir dal tuo spietato errore! L' alma rifugge, i crin' mi si fanno irti Al pensar che tu accusi il genitore; Oh, se tu 'l fai, bentosto e di mia scelta Avrò del corpo l' anima divelta. E incontanente al giudice, che in vista Par che tutte le forze in sè raccolga: Dimanda ti farò con preghi mista Ch' io sol di me l' ultima cura tolga; E questo mio diletto, il qual contrista La morte mia, dal fianco mi si sciolga: Chè veramente ogni valor vien meno, Se pietà de lo spirto allarga il freno. Allor mesti compagni intorno intorno L' atterrito garzon chiuser tra loro: S' ergeva il sole e saettava il giorno, Che più splendido parve a Teodoro, Il qual, già ricomposto in atto adorno Di signoril fierezza e di decoro, Ode l' accusa e la legge omicida Che l' indocil guerrier di morte sfida. E con sereno aspetto e ferma voce, E con guardo più ardente che piropo, Incominciò parlando: Assai mi cuoce D'accusar altri or ch' io di scusa ho d' uopo; Ma, se a l' onor più ch' a la vita nuoce, E dee venir la vita a l' onor dopo, A dritto da l' accusa orrenda e fiera Io difendo il mio nome, e il resto pera! Sempre per la memoria mi si gira Quell' ora atroce e le mie fibre scote, Ch' io, nutrendo pensier d' altro che d' ira, Levava gli occhi a le superne rote!…. Uom, che offeso non fere e non s' adira, Ha le potenze da virtù remote; S' io non feriva, al mio sacro vessillo Come il guardo alzerei chiaro e tranquillo? Quando vestii queste vermiglie assise, Io pensai d' acquistar più nobil pregio; Pensai che il cielo al buon guerrier commise Ogni santa difesa, ogni atto egregio; E pria che, per villana onta derise, Venisser segno al pubblico dispregio, Arditamente in mia ragion più forte Mille m' eleggerei, non ch' una morte. Onde, converso al vostro giusto seggio, Chieggo, signor, che tai questioni udite, Io chieggo al duce mio se fora il peggio O morir di vergogna o di ferite; E, s' è scritto lassù ch' io morir deggio, Ricorderan di me l' anime ardite, La patria udrà de la mia fine e come Serbai de gli avi intemerato il nome. De la milizia ho l' alte leggi infrante, A severa sentenza io m' apparecchio; Sarò nel chiuder de la vita errante A' miei compagni documento e specchio: Ma, se cor di macigno o di diamante In voi non è, pur mi darete orecchio, E in quanto chieggo avrò ben tosto esperto Se di pietà qualche favilla io merto. Poichè tra poco spazio il mio delitto Dal vostro labbro avrà debita pena, Io vi domando sol che a me prescritto Il flagello non sia, nè la catena; Nacqui gentile e tenni il cammin dritto, E a quest' ultimo passo onor mi mena; Felicemente io chiuderò quest' occhi, Dove nè ceppo nè flagel mi tocchi. E, innanzi che depor queste onorate Spoglie, che senza macchia un dì portai, Vestir del ladro le insegne malnate E al suo fianco affrontar del sole i rai, O le povere membra incatenate Per le grotte portar traendo guai, O avvinto a' carri far del bue l' uficio, In grazia chieggo l' ultimo supplicio! Finito ch' ebbe, e' si ritrasse indietro, E mentre a la prigion lento movea, Come raggio di sol traluce in vetro Pietade in ogni viso tralucea. Intanto un duce trepido, col tetro Volto cosperso d' una nube rea, Ne gìa da lunge seguitando l' orme: Chè fiera coscïenza in lui non dorme. E il buon pastor, che di lontan lo scorse, A Teodoro incominciò: Figliuolo, Propizio tempo a tua virtute occorse Di spiegar lieta in su l' ultimo volo! Indi veloce e disïoso corse A l' altro che venìa pensoso e solo, E seco il trasse; e, mentre ognun si tace, Con infiammata fronte e' gridò: pace! La faccia invermigliata di vergogna Il tristo Arrigo ad ambe man coperse, E Teodoro: Io son com' uom che sogna, Già da le membra l' anima s' aderse; Ma, se il mio fine a te non sia rampogna, Nè troppo il figliuol tuo s' armi a dolerse, Pria che ogni mortal cura io ponga in bando, Quel generoso cor ti raccomando! E, se alcun dal buon calle si disvia De' miei compagni e al dritto sia nocente, Vi sorga innanzi la memoria mia E rattenga le mani vïolente! Van sempre del rimorso in compagnia Ira veloce e nimicizia ardente, E in quest' ora vegg' io come son vane, Fuor di virtù, tutte le cose umane. Non potè Arrigo il fiato rïavere', Che il rimorso a la gola gli fe' groppo: Appena d' ascoltarlo ebbe potere, E ad accennar del sì non ebbi intoppo. Rotava intanto con l' eterne sfere Il fato del garzon, veloce ahi troppo! E l' aura de le trombe pellegrine Annunzïava del giudicio il fine. E l' udìa Teodoro, ed animoso Là ver' la piazza, onde partì, si mosse; Il sacerdote in dolce atto focoso Gli ragionava de l' eterne posse; Ed egli: Or m' è questo letal riposo Dolce più che ventura mai nol fosse, Se con la vita mia lascio un sospetto Ch' io non mi posso distaccar dal petto. Ed io l' alto Motor lodo e ringrazio In questa etate, in questo amaro punto, Perchè stanco di viver, non che sazio, Con l' infinito provveder m' ha giunto! Così dicendo, ove più largo spazio Prende la piazza, era con gli altri aggiunto: E un minor duce in grave contenenza A lui rilesse la mortal sentenza. Udita ch' ebbe la condanna, un riso Leve la bianca fronte rasserena, E, al tribunal tremendo il guardo affiso, Atto di grazie in volto gli balena. Allor nel petto di pietà conquiso Il giudice che gli occhi a stento frena, Siccome usanza vuol, quasi restìo Spezzò nera verghetta, e disse: Addio! Levossi, e a gli altri comandò con mano; Gli altri fur qua e là raccolti e sparsi; E, come i naviganti a l' oceàno Vedon groppo di vento approssimarsi, E col senno provvedon di lontano, Ed escon lor tutt'i partiti scarsi; Tal chi volea pregar, chi differire De l' infelice giovane il morire. Il qual, rivolto con pietoso piglio De' suoi compagni a la vista turbata: Vedete voi quanto crudel consiglio Dien giovanezza ed ira disfrenata! Fui d'invidia suggetto, ed ora al ciglio Già mi risplende l'ultima giornata! Siate pur sempre voi, giovani ardenti, A gli onorati duci obbedïenti. Ma, se addivenga mai ch' alma villana Le vostre assise oltraggi e il puro nome….. Morte, o fratelli, ogni ferita sana…. Lasciate al par di me le umane some! Questo calle terrà la stirpe umana O con le bianche o con le bionde chiome…. Assai visse chi a sè non venne manco, E vicino al morir si fa più franco. Addio, fulgido sole; addio, stellato Cielo, e tu limpid' ora mattutina, Che il ciel, dipinto di color rosato, Si specchiava ne l' onda cristallina! Addio, rose d' Italia, o fresco prato Tutto lucente di tremula brina! Addio, candide nevi, e dubbie stelle Del patrio lido, e voi leggi novelle! Or, pria che da le vostre armi io riceva L' ultima pace, ultimo amplesso abbiate. Così dicendo, al petto si stringeva I compagni dipinti di pietate; Quasi tenue vapor ch' alto si leva Di profonda valletta a mezza state, E, chiamato dal sol, sembra che aneli A la serena immensità de' cieli. E il nostro Ermanno or dove fia rimaso, Ch'io non abbia da lui congedo tolto? Non molto andò che di baldanza raso Comparve l' altro di prigion disciolto; E, come reo del miserabil caso, Così nel petto tien confitto il volto. Teodoro a lui corse, e con affetto Dicea: Leva le ciglia, o mio diletto. Sai ben con quanto mio desir, con quanto Dispregio io lasci questa inutil vita; Asciuga, dunque, il doloroso pianto, E segui la tua via dolce e fiorita. Saluta in nome mio colei che tanto Mi fu pietosa e mi profferse aita, E le svela il mio nome, e alcuna volta Le narra i casi miei, s' ella t' ascolta. Ahi misero, che parli? e perchè vuoi Aver più chiara la tua sorte fella? Tu non sai tu medesmo i dolor tuoi. Rispondea l' altro con rotta favella; E Teodoro: Amico, ambedue noi A prova pose una malvagia stella, Nè potè far, s' io non falso discerno, Che fosse il nostro amor men che fraterno. Or me ne parto', e l' anima presaga, Dispogliata d' umana gelosia, Col suo presto partir salda ogni piaga; Sol v' accomando la memoria mia. Qui stretti s'abbracciàr…. quando una vaga Lontana femminil voce s'udìa,… Che fe' tremar entrambi, e sciolti e muti Si riguardaro pallidi e perduti. Sosta, Ermanno gridò, fatto di foco; Vacillò Teodoro…. indi d'un salto Trovossi giunto a quel funesto loco, Che la piazza di sè facea rïalto; Ivi il pastor con parlar breve e fioco Gli additava del cielo il puro smalto, Ed i compagni in ordinata schiera Attendean l' ora che venìa leggera. Ei le ginocchia inchina, e di splendore Mostra la giovenil faccia cospersa; Ecco il subito lampo ed il fragore De l' arme micidial l' aria attraversa; Cade giù de la faccia ogni colore, E la bella persona si riversa…. Ecco Sofia prorompe infra la gente, A l' atroce spettacolo presente. E non morì e non rimase viva, E al morto corpo avea lo sguardo inteso, E come smemorata un foglio apriva Per cui l' aspro giudicio era sospeso! Di lunge intanto alto romor veniva Ch' Ermanno in grembo a l' onda era disceso, E in mezzo al ciel ridea, siccome suole, Di raggi d' oro incoronato il sole. Tutto sereno dichinava il giorno, E dal trepido cielo ad una ad una Disfavillavan le maggiori stelle. Un solenne silenzio, e quella mesta Areana voluttà che si raccoglie Intorno al core ed a' sensi si apprende, In su la vespertina ora pietosa, La terra e il cielo innamorava. Ardea Di vive rose l' ultimo occidente, E lo specchiato mare invermigliava, Che a onda a onda con lucide spume Sotto il sasso leucadio si frangeva. Siccome fra la eguale ombra notturna, Tarda e dolente in vista, erge la faccia La solitaria luna a l' orïente, Quando varcò di qualche giorno il mezzo Del consueto cerchio, e spande un raggio Dirittamente al cor de gl'infelici; Così per la montagna arida e bruna Una donna mestissima salìa Bianco vestita e ne' grand' occhi accesa D' una fiamma potente. Avea disciolto A l' aura il bruno crin; su l' ampia fronte L' onorata corona verdeggiava Che a l' olimpico agon cantando cinse; E dal collo pendea sul manco lato Un'aurea lira. Il vigoroso passo Studiava pur come salisse al cielo. Giunta al sommo, sostava; e, intorno intorno Movendo gli occhi, al mare interminato, A l' infinito firmamento, apria Un riso beatissimo d' amore; E, involontaria quasi, a poco a poco Dolce tentava le dormenti corde De la sua lira, ed al soave arpeggio Disposava la voce armonïosa. Salve, pallida sera, e tu, silente Misterïoso ciel; salve, sereno Mar, che fai letto al chiaro sol cadente De l' azzurro tuo seno! E voi, splendide fiamme de la notte, Eterne fonti d' armonia, salvete! Presto verran le mie catene rotte, E scernerò chi siete! Quell' indomato desiderio antico, Che in me sovente nov' abito veste, Seco mi tira sì, ch'io m' affatico Verso l' aura celeste. Un immortale amor mi sarà duce, Quell'immortale amor che a sè mi chiama; Certo, ov'è più bellezza, ov'è più luce, È il loco ove più s' ama. Te rivedrò lassù, te, mio gentile, Te leggiadra cagion d'ogni mia guerra; Dopo tanto dolor fia cosa vile Il rivederci in terra. Ed un alto sospir la desolata Traea dal petto fuor; quando le occorse Improvviso dal chino un venerando Sacerdote d' Apollo. Era un gentile Che a piè del monte avea nel tempio stanza. Candida barba gli scendea sul petto, Maestoso incedeva, e una inspirata Pietà gl'irradïava il bianco viso. Ver' la donna si fece, ella ver'lui, E: Padre, oh padre, in questo amaro passo, Dicea, tu mi sostieni! Ed ei: Ti acqueta, Pria gli smarriti spiriti rinfranca, Donna; poi narra i casi tuoi, se forse A l'aspra piaga tua rimedio alcuno Fia dato in questa terra. A me venìa Come risvegliatrice aura d' aprile La melodia del tuo doglioso verso, E tutto il cor mi ricercava. Il cielo Forse non chiede vittima cotanta. Ed ella: Oh padre, ogni conforto umano Mi abbandonò! Questa deserta vita, Ch'io forse porto ad immaturo fine, Mi fu soave un giorno… Ahi non potria Lontananza nè tempo nè fortuna Annebbiar ne la mente innamorata La ricordanza del perduto bene, Ultimo raggio del tempo felice! Però dolce mi fia, poi che tu il chiedi, Il rïandar con l' ultime parole L'amara storia de le pene mie. Qui volse gli occhi al mar, come attendesse Qualche nuova speranza, e l' egro fianco Verso un sasso piegò; lenta si pose A piè la lira; e, con pietoso ciglio A lui che presso le sedea mirando, Incominciò: Ne l' aurea Mitilene, Per vendemmie feconda, io gli occhi apersi Nè pria gli apersi, che per morte chiusi Furon gli occhi materni. Appena i novi Incerti passi movea trepidando, E l' aspra guerra il mio padre mieteva. Così sola mi crebbi in su la terra, Povero fiore abbandonato! Alcuno Non curò de la povera orfanella, E senza posa mendicai la vita, Levando sempre a sconosciuta gente Gli occhi desiderosi: e, quando l' ore Mi si volgean men triste, io tutta sola Affisava ogni donna, mormorando Madre! nè riso di persona mai Con l' infantil mio riso armonizzava! Ma la dolce stagion se ne venìa, Che va slegando l' alma pargoletta, La qual, già fuor di puerizia, appena Disviluppata da la prima scorza, Nuova farfalla, va baciando i fiori. Padre, io dirlo non so, ma una potente Fiamma tutta m' invase: era uno spirto Di poesia, di voluttà, di amore! Ne l'intelletto mi splendeano i versi, Di mezzo al core mi sgorgava il canto Senza mia voglia; a me parea che intorno S'aggirasse una nuvola di rose; Ogni erba viva, ogni più alta stella, Ogni raggio di sole, e tutta quanta Quest' ampia vôlta che i pianeti aggira, Aveano un ben d' intelligenza, un vago Lume, che trasfondeasi in quell' affetto Che da l'anima piena traboccava. Prendea qualche fïata una carola Tra festose compagne, e caramente Or l' una or l' altra mi strignea; talvolta Interrogava con le rozze note Del corso suo la vereconda luna, E larghissimo pianto mi scendea Giù per le gote. Eran le mie speranze Quante le stelle, e sfavillanti al paro Nascean con la medesima vicenda. Che dirti, o padre?… Allor, se agli occhi miei S' appresentava un angue, io non avea Altro senso, che amore! Ahi l' empio fato Mi appresentava il fior d' ogni bellezza, Il fior d' ogni virtude! A poco a poco Il mio povero canto avea diffusa Qualche fama di me, sì che sovente Ne l' olimpico agon mi perigliai, Là dove colsi la contesa fronda. Però tosto di me vaghezza prese Un giovinetto, Elpenore d' Antissa, Di chiaro sangue e di gentil costume. Ma un dì, che di mia pace era l' estremo, Nel patrio circo m' assidea, rapita Già ne l' ebbrezza del futuro canto, E innanzi a gli occhi mi vedea schierati I gareggianti carri, luminosi Come il carro del sole: impazïenti I cavalli mettean chiari nitriti; E già gli aurighi snelli eran d' un salto In cima al cocchio. Uno fra tanti io vidi, Che, bello in volto d' ansïosa speme, Leggiadramente bellicoso, in atto Di vincitor, su gli emuli sospesi Ergea la nobilissima persona. Rimaser gli occhi miei fisi ed attenti A quel vivace aspetto; e gli altri sensi Tutti assopiro. Il disïato segno De la corsa scoccava, ecco levarsi Da l' ampia arena un nugolo di polve; Ma non sì ch' io non discernessi il novo Arditissimo auriga: e veramente Da gli occhi suoi movean lampi e faville Che un Dio detto lo avresti! Era di poco Lungi a la meta Elpenore d'Antissa, Ma l' acceso garzon gli era a le spalle; E già con trïonfal piglio agitava La sferza, e già gli contendea la palma… Ma le ruote volubili fra loro Impigliârsi, crollarono, a le stelle Ne andâr le schegge, e con fragore infranti Trabalzavano i carri. Io misi un grido Fin da l' imo del core, e gli occhi torsi: E, al suon del plauso universale, in petto Richiamando la vita fuggitiva, Elpenore vid'io, che, in piè balzato, Con la sinistra mano il fren reggea A' cavalli de l' emulo, con l' altra A lui porgea soccorso, infin che tratto Di periglio non l' ebbe: e quindi sorse Fra' due campioni generosa gara, Che l' uno a l'altro la vittoria cesse, Sì che dubbia rimase. Ed io cantai! Un soave pensier dopo quel giorno Di me s' insignoria, che dissipava Ogni terrena cura. Oh! se vedesti Alcuna volta, o padre, un nuvoletto Approssimarsi a la rotonda luna, E approssimato dissolversi in aura; Tal fu ne la mia mente ogni pensiero Soluto da quell' unica dolcezza! E cantai più sovente, e l' amor mio Ne' versi divampò. Fattone accorto, L' amatissimo giovine m' arrise, Però che, acceso di virtude, amore Sempre altro accese. Io rïamata amai! Le luminose fantasie passate, Il promesso avvenir misterïoso, Tutto s' accolse in quel celeste obbietto; Pur fra' dolci sospiri, e ne'fidati Colloquî, un leggier velo di mestizia Vidi passar su la serena fronte, Di che mille fïate ansia, gelosa, Gli feci inchiesta, e nulla ottenni. Io volli Me medesma ingannar, credei che un vago Dubbio di me lo angesse, e ripetea Con secreto diletto: Io t' amo, io t' amo; Nè per volger d' età nè di ventura De la mia fiamma scemerà favilla! Alfin quella infelice alba si apria, Che il mio Faon movea d' armi lucente, Bellissimo ne l' armi! Ancor mi suona Entro la mente il suo funesto addio. Addio, donna, e' dicea; l'aura di guerra Forse ammorzar potrà questo infiammato Desio che di te porto! Addio, te perdo! Ma non uccido Elpenore, il fratello De' miei primi anni, il generoso amico Ch'io m' era eletto! Or vedi quale e quanta È la miseria mia! forse in battaglia Giungerà qualche stral che ponga in terra Questa inferma persona. Odi; se fama Te ne volasse, a la memoria mia Un canto lamentevole consacra! Non chiuse la parola, e mi disparve Come imagin di sogno. Io stetti immota; Io ficcai gli occhi verso l' orïente, Quasi anelando al ridestarmi… Ahi scorsi Ch' era ben desta! E qui da gli occhi belli Un ruscello di lacrime correa, Così che al vecchio rivocò sul ciglio Il caro pregio de' verd' anni, il segno De la pietà. — Silenzïosa intanto Sovra il dorso del monte procedea Schiera di sacerdoti in doppia lista, E riverente sorreggeva un' ara Onde odorato vortice salìa Verso le nubi, e dal volubil grembo A lucenti fiammelle apriva il varco; E quella mesta, poi che al lungo duolo Refrigerio di pianto ebbe concesso, Ricominciò: Dopo l' amaro annunzio, Indarno lo cercai per tutto il giro De la terra natìa: fama suonava De la sua dipartita, e fama venne Ch' ei tosto attinta avea con fausta prora La divina Sicilia. Io già non tolsi Ad obblïarlo, no; chè innanzi avrei Tolto a strapparmi l' una e l' altra luce; Ma, quando vidi ogni speranza morta, Volli depor questo gravoso incarco Del viver mio; morendo, eluder volli De l' amistà le sollecite cure; E al mio proposto di pietà fea velo A gli occhi altrui, nè fu spirto sì ardito Che stornarmene osasse! Indi secura Presi via per quest' erta sconsolata: Meco sol ebbi un mio compagno antico, Un altero pensier! Padre, oh, se mai, Fra gli arcani silenzî de la notte, Levasti gli occhi al ciel, dì', ti lucea, Benchè cinto di nuvole, il pensiero D' una splendida vita oltre la terra? È questo il mio fido conforto! è questo Il sospirato lido! Io fra le stelle, Fra l' eterne armonie, fra le delizie D' un mar di luce, al mio sommo diletto Riconterò le mie pene infinite. Or sol mi avanza quest' ultimo passo, Dal quale omai non potrà dilungarmi Cosa del mondo!—E il sacerdote: Almeno, Se tanto hai sete del morir, concedi Che in devoto olocausto a Febo Apollo Offra i tuoi giorni io stesso.—Ed ella: Io sento Una virtù che abbraccia ogni creato; Questa è mio nume. Or de la morte in faccia Sento lo spirto sollevarsi e spargersi Per l' ossa un foco inusitato! Ahi troppo Alta cosa è il morir! Certo una voce Dal cielo immensurabile mi chiama! Spirto misterïoso, o tu che informi Queste immense bellezze, a me ti svela! Se d' affetto in affetto mi trasformi, T' apri e m'inciela! Solo in pensar di te l' anima abbonda, Di maraviglia e di vigor vestita, E dilacera il vel che la circonda Ne l' egra vita. Amore, Amor, tu sei, che da le fasce Mi desti il canto ond' io famosa andai, E quanto l'universo alberga e pasce Fiorendo amai! Ne la tua vasta luce si raccoglie Ogni dolcezza, ogni armonia d' affetto; Sì che, levando il cor, tutte mie voglie Trovan ricetto. Oh date il passo! oh ch'io tra l' onda viva Ravvolga e chiuda la persona stanca; E l'alma ruoti a quell' eterna riva Vogliosa e franca. Addio, terra natale, ove sovente, Tenera fanciulletta, io mi assidea, E le candide rose e l' erba olente Sola intessea! Addio, superbo agon desiderato, Ove il mio verso in aër si librava, E fremea 'l circo, e tuono d' invocato Plauso scoppiava! Ahi! non la folta olimpica palestra, Ove m'inghirlandai d'eterna fronda, Ma splenderà l' amor che mi balestra In mezzo a l' onda! Meco verrà questo negletto verso Col sospiroso desiderio mio; Quanto or suona di me, cadrà sommerso In cupo obblio. Forse l' indagatrice età futura Udrà d'ingiusta fama aura perenne; Forse dirà: Costei per fiamma impura Incesa venne. Ma voi, serene stelle, e tu falcata Luna, che tremolar fai la marina, Accogliete, di luce innamorata, La pellegrina! Così cantando, fra l' avido flutto Precipitò. D' unanime spavento Levossi un grido fra'sacri ministri, Che cerchio intorno le faceano, assorti Ne la dolcezza del suo canto. Alcuno Non porse il capo, alcuno al biancheggiante Mar non intese; e di lontan lontano Uno snelletto pin l' acque rompea, Ove agitar di piume e lampi d' armi Veduto avresti! La commossa schiuma Mandava quasi un gemito soave, Che facea tremar l' aura, e fin da l' imo Rimescolar la consapevol' onda! Io vo' chiamando invan le rime e i versi, Dolce conforto a'miei lunghi martìri; Non sa l'anima mia se non dolersi, E si disface in lacrime e sospiri; Lassa! dal primo dì che gli occhi apersi Stella non è che a me benigna giri, Sì che per molta doglia è la mia vita Languida e secca in su l'età fiorita! Solea talvolta, quando il chiaro sole Volge a l' occaso le infiammate rote, A'monti ed a le selve oscure e sole Accomandar le mie povere note, E al suon de le mestissime parole Rigar di care lacrime le gote; Così piangedo, allevïar sentia Il grave fascio d' ogni pena mia. Or, quando sorge la pietosa Luna A innamorar di sue bellezze il cielo, Maladico le stelle ad una ad una, E il dì che venni a provar caldo e gelo, Maladico ogni fior che a l'aria bruna Dolcemente riposa in su lo stelo, Maladico ogni cosa ovunque io movo, Che dorme in pace, ed io pace non trovo. Qualor vegg' io questi soavi colli, Lieti d'un aer lucido e sereno, E de le viti erranti i bei rampolli Nel campo di vivaci arbori pieno, E vaghi fiori ed erbe fresche e molli Spuntar da l' odorifero terreno, Sento la mente mia, ch'era smarrita, Di leggiadri pensier'tutta fiorita; E un canto snodo, e te, spirto cortese, Seguendo vo' pel tuo giocondo albergo, Ed ogni cura che il pensier m'offese Tosto dal fianco mio parto e dispergo; Quanto si stende il nostro almo paese, Per cui lagrime spando e carte vergo, Non ha di questo un loco più gentile, Ove sempr' erra il giovinetto aprile. E qui le verginelle d'Elicona Prendon diporto, or carolando in volta, Or de'colti fioretti una corona Formando a gara a l'aurea chioma sciolta; E intorno intorno una dolcezza suona Ch'è ad ogni alma volgar precisa e tolta, Mentre la notte il carro in giro mena Più che mai bella e più che mai serena. Fra ricchi cespi di vermiglie rose Ghirlandate di tenera verzura, Le vïolette oneste e vergognose Dispiegan lor bellezza umile e pura; In pallide sembianze dolorose Clizia rammenta ancor la sua sventura; Quasi odïando china in su lo stelo La chiara luna ascesa a mezzo il cielo. V'ha l'accesa Amarilli, e 'l sonnolento Papaver crespo, e i candidi ligustri: Ben chi ritrar potesse a suo talento Di quante gemme il bel loco s'illustri Potria narrar l'immenso firmamento Di quante stelle s'incoroni e lustri, O quante perle il vasto mar profondo Cupido serbi ne l'algoso fondo. Ma, proseguendo il dilettoso calle, Soavemente al bel giardin soverchia Un culto monticel, che le sue spalle Tutto di bianchi fior' veste e coverchia, E di lievi ombre e quete orna la valle Pe' lenti salci onde il suo capo cerchia, Fra'quai qualche cipresso a quando a quando Vien la profonda e ritta ombra levando. Nel mezzo, ove la luna amica e pia Manda un raggio del suo dolce splendore, Siede l' urna di tal ch'ora s'india E colse qui d'ogni eccellenza il fiore. Ben è muto ogni loco ove non sia Una memoria che favelli al core: Chè da quest'urna sorge un nuovo incanto, E gli occhi sforza ad amoroso pianto! Ed un'aura odorata intorno spira Che le tremule foglie appena scote; Ma quasi di pietà dolce sospira, Quasi risponde a le mie rozze note: Forse qui l'alto spirito s'aggira Sceso per poco da l'eterne rote, E de'campi si piace, e non disdegna Ch'io sovra la sua polve a piagner vegna. Salve, o beato spirto, io ti ravviso Cinto di luce in sottil veste e bianca; Tu mi lampeggi un angelico riso Che tutta l'alma mia scalda e rinfranca; Tu da l'almo giardin di paradiso, Cui non arde la state, o il verno imbianca, Pur de l'usata carità t' accendi, E una infelice a consolar discendi! O a gl' infelici affettuoso padre! Sempre il tuo nome in ogni cor fia scritto, E il vivo ingegno e l'opre tue leggiadre Faranno ad altri secoli tragitto: Ben fra l'etadi invidiose e ladre Tu sempre passerai chiaro ed invitto, Poi che di tutti eroi torna più grande Tal che pietoso i beneficii spande. Nè già per acquistar terre lontane E imporre il freno a sconosciute genti, O simular benigne voglie e piane, Poi montar su calcando gl'innocenti, Si trova l'acqua più soave o il pane, Si dormon sonni placidi e contenti, Passando al fin col cor di tema scarco Di questa vita il periglioso varco. O santo petto, e tu sempre converse Le luci avesti a l' alta Cagion prima Dal dì che nuda e bella a te s' offerse La verità che l'anima sublima; Tu le fortune prospere e le avverse Miravi come tal che da la cima D'un fermo scoglio con intrepid' alma Spregia del vasto mar l' ira e la calma. Era con te quella umiltate, quella Che la verace sapïenza affina, E nel puro intelletto al par di stella Ti splendea l'evangelica dottrina; Rifioriva per te l'aurea favella De la caduta maestà latina; Fulgea ne l'opre tue divino lume, E di casta eloquenza un largo fiume. Salve, o bell'alma; in quest' ombrosa chiostra Sì grata a te, non poggi alma crudele, O tal che a vile abbia la terra nostra, O tal che a ciascun vento apra le vele; Ma ogni alto spirto che col fato giostra Empia quest' aer de le sue querele, Ed a man piene in quest' ora notturna Di schietti gigli ti ricopra l' urna. E così, fin che il ciel non muti stilo, Onor di laudi e di sospiri avrai, Ch'è la tomba del giusto un caro asilo A qualunque sen viva in lutto e in guai; E, benchè tronco abbia la Parca il filo Di tua vita mortal, pur tu verrai, Come or, visibilmente, alma felice, A'miseri verrai consolatrice. Così queste feconde aure tranquille E i fioriti arbuscelli e la verd' erba Risuoneranno in mille canti e mille A la stagion matura ed a l' acerba, E tai di gloria limpide faville Manderà l'urna che il tuo cener serba, Che, ardendo, cercherà tua nobil' orma Ogni intelletto dove Amor non dorma. Chi mai, chi presterà sì largo volo, Chi tanta lena al mio poco intelletto, Che l' umil canto mio taccia ogni duolo, E suoni un dolce loco al ciel diletto? O tu che movi da le stelle, e solo Spiri il tuo spirto in generoso petto, Destami, o Verità, l'aura seconda, E altere piume a' versi miei circonda. Spesso addivien che fra dorate sale E fra cittadi e splendidi palagi Infiorato il delitto in alto sale Pe'velenosi assentator' malvagi, Così che alcun fra noi splende immortale Non di virtù, ma di ricchezze e d' agi, Nè giammai quelle menti aspre nutrica La melodìa d' una parola amica. Ma in questi eletti campi, ove si spazia Quant' è l'ingegno e si rinnova il core, De la rugiada al par piove la grazia La qual di cortesia rallegra il fiore, Chè ogni alma, di piacer colma e non sazia, Risponderebbe a tutte inchieste: Amore; Nè alcun quest' aere, ov' alto amor si gode, Contaminò d' invereconda lode. Erano un giorno inospiti, selvagge Sì erbose terre, eran di sterpi offese; Ma, sciogliendo parole accorte e sagge, Un angelico spirito discese, E pompeggiar colline e fiorir piagge Vedi, e levarsi una magion cortese; Sì ch' ora, al ciel tornata, ov' è felice, China il guardo quell' alma e benedice. La nobil casa il sereno aer fende Sola fra le campagne spazïose; Verdeggia un fitto bosco a manca e scende Di frondi intesto e porporine rose; Chè un sì tenero fior qui s' erge e stende Tra spessi rami le braccia amorose; E il bel coperto, di rose novelle Ricco, somiglia un ciel ricco di stelle. Qui l' eterno multiplice amaranto Riluce tinto di color di foco; Porta d'Iride accesa il nome e il manto Sul verde gambo l' odorato croco; Spiega le acute foglie il molle acanto Che a la inventrice fantasia diè loco, E in greco lido alle colonne inconte Inghirlandava la marmorea fronte. Ecco, un lene aleggiar de l'aura estiva, Ch' agita i rami, a gli occhi manifesta Un' angeletta che fra l' erba viva Quasi un fior siede, avvolta in bianca vesta; E rose e gigli e fior' d'estrania riva Piovono a gara in su la bionda testa; Ed ella altri ne strugge, altri ne spiega, Altri ne coglie, e in ghirlandetta lega. Ma un canto, una ineffabile dolcezza Si diffonde per l'arïa romita; L' anima presa di gentil vaghezza Precorre il piè su per la via spedita; Qui l' erba luce di nova bellezza, Di più gioioso april ringiovenita; Qui d' incontro a la tremula marina Si leva un' amenissima collina. Qui dolce ninfa siede, e l' armonia Tempra qui de le italiche sue note Sotto l' irsuto pin, che, di Sorìa Tratto, ombreggia le piante a sè mal note, Nè teme il sol, se per la immensa via Poco ristà su le infiammate rote, Nè che la oscura pioggia a le sue zolle Sfiori l' erbetta, più che il sonno, molle. Salve, o candida ninfa, al tempo antico Ch' ebbero i verdi boschi anima e mente, Te cara deità del colle aprico Tenuta avria l' innamorata gente: Tanto dal labbro tuo dolce e pudico Corre di melodia largo torrente, Tanto ne l' atto d' onestate adorno Sdegni la terra che ti ride intorno. Salve, o candida ninfa, ad altro calle Convien ch' io volga i passi pellegrini, Ove il fulgido sole apre una valle Superba quasi de gli aerei pini, Cui fresca per le scorze antiche e gialle Serpe la rosa e cinge i duri crini: Così fra noi beltà fiorisce, e i prodi Cinge sovente di leggiadri nodi. E tu, giovine pin, che d' anno in anno Vestendo vai l' onor de le aspre chiome, Se ti crebbe colei ch' è fuor d' affanno* La Contessa Luisa Ricciardi. E pur dianzi lasciò le umane some, Quando gli afflitti a l' ombra tua verranno; Forse in memoria del suo chiaro nome, Porgi l' ombra ospitale, e sì gli affida Da le saette di fortuna infida. Ma l' alta fantasia, che a gran fatica Per tant' aere si libra, i vanni ha sciolti Ove qual laberinto entro s' intrica Il bel giardin di stretti calli e folti. Vedi da lato biondeggiar la spica, Ondeggiar come il mare i pingui colti, E il castagno, di fior' bianchi ripieno, Offrir l' asilo del suo cavo seno. Chi è colui che venerando siede Sotto l' ombrella delle verdi foglie? Egli è il signor del loco onde si vede La terra adorna di sì belle spoglie: A l' ingrata città le spalle ei diede, Però che amaro frutto ivi si coglie, E qui si piace, e questi campi schiuse A le afflitte arti, a l' esulanti muse. Ecco il cupo secreto ombroso speco Di un freddo soavissimo giocondo. Qui regna sempre a l' aer chiaro o cieco Un sacro orrore, un silenzio profondo. Io qui m' assido e de la flebil eco Desto la voce dell' arcato fondo, E, di rorido umor tutta stillante, Porgo i miei versi a quello spirto errante. Quindi un bruno cipresso e di vïole Notturne un cespo vergine pallente, Ove ninfa gentil sempre si duole, Ove piange ogni augel pietosamente; Qui l' ultimo saluto or manda il sole Mentre i raggi raccoglie a l' occidente, E siede in cima a la difficil balza Ove l' ermo Camaldoli s' innalza. Sola vedi salir l' alta montagna, Toccando il ciel d' oro listato e pinto; In cima ha un loco ove pietà si lagna Sul cener caldo d' almo lume estinto; Veste i ripidi fianchi e la campagna Di vario verde un bel color distinto; Pendon da' greppi a' folti paschi in mezzo Le caprette lanose al grato rezzo. Or dammi d' eloquenza un vivo fiume, Erato bella, e il pensier mio sprigiona; Io veggio mille piante oltra il costume Che già fiorir' sotto diversa zona; Quanti colli feconda il maggior lume, Quante mai terre l' oceàn corona, Voller di rare frutta e nuovi fiori Al bel prato invïar larghi tesori. Qui tra' bruni giacinti e il fiordaliso Di vïolette vien molta famiglia; E dove io lascio te, vago Narciso, O voi ligustri cui l' alba invermiglia? Cresci, o pianta gentil di paradiso, Che de la tua bellezza hai maraviglia, Ed in tepida cella adempi al tutto Il dilicato fior, l' avaro frutto. O pieghevol Cratego ventilante, Di be' coralli imitator vivace; O capannetta da le verdi piante Intornïata, ove il sol quasi tace, Tu gli atti mesti e il tramutar sembiante Vedesti di colei ch' or posa in pace, Quando, scorata in pena ed in desìo, Un dì rispose a' dolci amici: Addio. Abbi sempre benigno e sole e luna Tu, pietoso arboscel, che al par de' fiori Un dì campasti da crudel fortuna I fuggitivi ed innocenti amori; E forse, Atala udendo, a l' aria bruna E del fulmine a rapidi furori, Quel bel disio che mai forza non perde, Allor ti pinse di sì vivo verde. Doppia fila di cedri apre un sentiero Che il suo gradito olezzo a l' aer manda; Ma di perpetua giovinezza altero Il maggior cedro avvien che i rami spanda, E vago già de l' aspettato impero Di sudditi arbuscelli s'inghirlanda, E aspira al ciel, chè in più sacre foreste Forse un tempo sentia l' aura celeste. Mas voi, di novi rami arbor' conserti E di mille color' tutti fioriti, Vedrò di pomi un dì gravi e coperti, Od abbracciati da le carche viti; Nè turberò le vostre ore solerti Api gelose de gli arcani riti, Sì ch' entro i chiusi alberghi assai soavi Sien le dolcezze de' curati favi. Or dove l' intelletto e il desiderio, Dominatrice fantasìa, levasti? Quindi il giardin del bel paese esperio, Quinci i campi del ciel sereni e vasti. Già il sol dichina a l' opposto emisperio, E di contro co' rai silenti e casti La luna su le cose in pria sì liete Versa una malinconica quïete. Il semplicetto augel la consapevole Compagna segue ad ali tese in aria; S' ode il sospir di un venticello agevole Nel grembo de la valle solitaria: Io sola, misurando al dì fuggevole La parte orientale e la contraria, Veggo Napoli mia che le memorie Conserva pur de le cadute glorie. L' occhio invaghito da la eccelsa logia I campi e la cittade e il mar discopre, E il cor tutto lo segue, e, ovunque poggia, Scerne antiche reliquie e pensa l' opre; Mira quanta speranza ivi s' appoggia, E quant' onor, quanta vergogna copre Fin l' erba e i sassi di quel lido ameno Che abbraccia il placidissimo Tirreno. Nè sempre tu pacifico e solingo Fosti, o ceruleo mar, chè ad altra etade Le curve navi in bellicoso aringo Corser tonando le tue dubbie strade, Tal che fuggiva il pescator guardingo Al balenar de le forbite spade, E le rive battea l' onda commossa Tinta di sangue e d' arme sparsa e d' ossa. Ecco il distruggitor monte superbo, Stanco di tanti danni, in pace starsi, Ma sol da l'ampia bocca il fumo acerbo E vorticoso incontro al sole alzarsi, Testimon ch' altre fiamme accoglia in serbo Contro i paesi travagliati ed arsi; Ma intorno a l' ire sue stanno assueti Schietti abituri e fertili vigneti. Là dove fan quelle due coste un lago Cerchiando poco mar piano e tranquillo, Trasse di sangue un dì sazio e non pago, Punto ne l' imo cor di eterno assillo, Quel Cesare che vide in bassa immago Levar la fede nostra aureo vessillo Al qual poi vôlta la romana terra Salmeggiando scordò l'inno di guerra. Oh come fatta se' povera e vile, Sì chiara un dì voluttuosa Baia! O Formia, in grembo a te cadde un gentile Primo ne l' arte del figliuol di Maia! Oh salve, eterne piagge! il vostro aprile Non fugga quando i giorni il sol dispaia! Chè di Torquato nostro in voi fiorito Udiste il soavissimo vagito. Chi è colui, che, senz' aver mai posa, Punge un destriero e a tutta briglia il caccia? Leva la giovanil fronte pensosa Come saluti pur l' antica traccia; A lui la famigliuola desïosa Vola dinanzi con aperte braccia….. Vedi un tender di man' pria ch'e' s'appressi, E quindi un alternar di cari amplessi. In sè romito e' cercò monte e piano, Come colui che d' alto foco avvampi; Varcò l'Alpi nevose e l' oceàno, Segnò la via spesso al chiaror de'lampi, Pur non rinvenne per cammin lontano L' amor che brilla in questi dolci campi, E addòlcia l' alma sua spirante foco Ne la soavità del natio loco. Ahi, ben tosto a ciascun la fronte ingombra Una pallida nube di mestizia; Cerca ogni guardo, ogni pensiero adombra Quella Pia ch' or del ciel prende letizia: Ch' ella sovente assisa a la bell' ombra Educar queste piante ebbe in delizia. Ahi tristo riveder le patrie sponde Chiamando un nome a cui nessun risponde! Così, de l' ire sue lasciando il segno, Divorator de' campi il fulmin passa; Torna il pastore e piange ogni sostegno Tolto a la famigliuola afflitta e lassa. Qui dolorando l'affannato ingegno Piega le scarse penne e il volo abbassa: Chè in questa terra a noi soave tanto Gioia non è che non si volga in pianto. Ecco il gelido tempo, i brevi giorni, Le lunghe notti in nubiloso manto, E molto andrà che l' augellin ritorni L' alba serena a salutar col canto. Io veggio gli arbuscelli disadorni, Borea ottener sovra i compagni il vanto, Ed Orïone armato aspro governo Far de' nocchieri in tempestoso verno. Il pescator la piccioletta barca Ristoppa e si commette al mare infido, E pur cantando e perigliando varca L'onda che procellosa insulta al lido; Al figliuoletto il breve omero carca Di reti e nasse; e cerca un seno, un nido, Per fare schermo a qualche nova ingiuria Del fiero vento che rombando infuria. L'aer s'annebia, per lo ciel s'aggirano Immense nubi e il vasto mare adombrano, Con disfrenata lotta i venti spirano, L' onde la navicella tutta ingombrano, La qual pietose genti al lido tirano, Mentre affannati i naviganti sgombrano Il bianco flutto che s' avanza, ed errano Lunghissim' ora, alfin la sponda afferrano. L' aer ferzando a schiera lunga e piena Ecco venir le lamentose grue, E, quando spesso folgora e balena, Sgominarsi e fuggirsi ad una a due; Gli audaci storni il vento innanzi mena, E l' usignuol, che sì soave fue, Co'figliuoletti in paurosa pace A' cavi tronchi si confida, e tace. Da l'altra parte il cacciator solingo, Tutto avvolto di lane in rozza foggia, Lascia il suo tetto, e tacito e guardingo La fulminea sua canna al dorso appoggia, Ed insidia gli augei qua e là ramingo Mentre ora in basso cala, or alto poggia, Or fra' rovi s' appiatta, e in mezzo a quelli Aspetta al varco gl'innocenti augelli. E, a la dolce compagna ritornando, Che l' attendeva nel fidato tetto, Tutto carco di preda e tutto ansando Conta i felici colpi a suo diletto; Poscia, ricolmo il nappo, a quando a quando Di spumante Lieo conforta il petto, E reti ed arme tutto lieto in faccia Va preparando a la futura caccia. Tutta quanta diserta è la campagna; La neve imbianca ove fioriva l' erba; L'olmo sostiene invan la sua compagna Che de'lucidi grappi un più non serba; Lento il Sebeto mio la riva bagna Povera e nuda, in pria ricca e superba Di leggiadretti fior', che quasi a gara Specchiavansi ne l' onda viva e chiara. Errando va la dolce pecorella Pe' dispogliati paschi, e langue e geme; Ove rideva un dì l'erba novella, Corrono il toro e la giovenca insieme: Per la montagna or qua or là saltella, Da l' ime falde insin le vette estreme, La semplicetta capra, e mostra intanto Ingemmato di neve il bruno manto. E l' antico pastor sotto un alloro Solo soletto con la canna agreste Va ricordando il giovenil martoro E dolce canta in mezzo a le tempeste! E, memore del suo caro tesoro, A quel cantar, dal sen de le foreste Con lungo mormorio flebilemente Eco pietosa lamentar si sente. Ma, quando muore il giorno, onde discende Da gli altissimi monti maggior l' ombra, Ei la povera verga in man riprende, E dal ritroso campo il gregge sgombra. La villanella, ch' al tugurio intende, Di campestri vivande il desco ingombra, E sì l' uom suo ristora al foco intorno De le fatiche del caduto giorno. Indi la colma rocca e il fuso piglia Presso la cuna de' suoi dolci nati, E favoleggia con la sua famiglia Pur de gli antichi secoli beati, Quando senz' arte e senza maraviglia Eternamente rifioriano i prati, Ed era ognor sereno il firmamento, E di dolcezza era pien l' aere e il vento. Sorge intanto la notte, e fredda e bruna Par che le cose in un color confonda; Non arde stella in ciel, nè splende luna, Nè zefiro aleggiando increspa l' onda; Nessun lamento od armonia nessuna Rompe quella quiete alta e profonda, E la grave natura sonnolenta Par nel suo nulla ripiombata e spenta. O s'ode sol, qualor l' aer discorda, De' fulmini l' altissimo fragore, E vento e pioggia vïolenta assorda Il bifolco, l' armento ed il pastore; Il pallido nocchier fra l' onda ingorda Mira indarno del polo a lo splendore; Chè tempestando il dì la terra lassa, Come la notte tempestando passa. E, se al brillar de l' ora mattutina Tregua il rigido verno alfin concede, Piangente la campagna, e la marina Tutta sconvolta e torbida si vede; La valle, il monte, sparsi di pruina, Fan di cruda tempesta aperta fede, Quasi campo guerrier, che a triste impronte Mostri de la sconfitta i danni e l' onte. Or, mentre chiusi i lucidi sereni Assai stagion saranno e il vivo sole, Nè coronar potranno i prati ameni, Vermiglie rose e pallide viole; E fioccar neve e lampeggiar baleni Assai vedrem come nel verno suole, Cantiamo in mezzo a' tuoni, in mezzo al gelo, Poichè del canto ne fu largo il cielo. Vieni, o donna gentil, di un folto lauro Vieni a l' ombra sicura e canta meco, Vieni di eletti modi a far tesauro, E a te risponda innamorata l' Eco; Ed io quel serto più che gemme od auro Pregiato in Elicona, assisa teco, T' intesserò, cogliendo un ramo verde Che per fredda stagion foglia non perde. Spesso vedremo il furïoso nembo Atterrar fulminando il pino e il faggio, E de la terra nostra il fertil grembo Farsi infecondo, squallido e selvaggio, E sole noi de l' Appennino al lembo Invocherem le dolci aure di maggio, E con traquille ciglia in faccia a' lampi Allegrerem d' un canto i mesti campi. E il dì verrà che mirerem le valli D' erba vestirsi in giovenil figura, E sciorsi i fiumi in liquidi cristalli, E rider tutto il cielo e la natura, E cinta di fior persi, azzurri e gialli Primavera venir lieta e secura, Seminando di rose ogni verziere, Innamorando gli uomini e le fere. Perchè, venuto d' orïente fuori, Insidïoso morbo pellegrino Per tutta Europa si dilati, e sfiori Questo soave italico giardino, Perchè gli abbietti schianti ed i migliori, Sul cader de la vita e sul mattino, Mai non porrà silenzio a l' armonia Che mi raggia da te, diletta mia. Pera qualunque in pubblica tempesta Di privata allegrezza si nutrica, O, campando dal turbine la testa, De la ruina altrui pensi a fatica! Ma, quando Amor due vivi rami innesta, Due vaghi spirti ad una rete implica, Quel senso allor che in ogni petto ha stanza, Non allegrezza, è lucida speranza. Speranza che il bel nodo v' apparecchi Ozii bëati, e ne germoglin cose Eguali a lo splendor de' tempi vecchi, A le future età maravigliose; Che accesa di vergogna, in voi si specchi Questa patria languente, alme amorose, Che benigna fortuna a voi rivolta S' accompagni a virtù la prima volta. O giovinetto a cui la mente viva Innamorate melodie ragiona, In questa terra di ogni luce priva S' erga l' ingegno tuo da la persona, S' involga in altra età quando fioriva L' armonia che a l' Italia diè corona, Quando correan d' aurea dolcezza fiumi Seguitando gli antichi aurei costumi. Tu, de la mia diletta a' cari versi Le tue limpide note disposando, L' uno ver' l' altro con amor conversi Ogni gravezza altrui porrete in bando; E coglierete in chiari tempi o avversi Quella vita gentil che non ha quando; Mille età varcheranno e mille vie Vostre aeree leggiadre fantasie. E tu, diletta mia, che il cor diviso Hai da volgari e da femminee fole, E il sereno intelletto o l' occhio hai fiso Ne la belleza che morir non suole, E l' arti eterne abbracci, e, più che il viso, L' animo pennelleggi e le parole, Or pingi i patrii fatti e in tele adempi Eterna scuola di sublimi esempi. Così santi pensieri Amor t' instilli, Nè dell' ingegno il vol ti sia disdetto, E di lume pacifico sfavilli Quella virtù che ad ambi scalda il petto, Nè rompa i sonni tuoi lunghi e tranquilli L' amaro dolce del materno affetto, Questo che ogni altro mio desir divora, Nè mi concede riposata un' ora! Dolce cosa è veder la propria vita Rigermogliar ne' cari pargoletti; Ma tanto ben frastorna una infinita E diversa tempesta di sospetti, Che, da sè stessa l' anima partita, Non sa pur quel che tema o quel che aspetti; Sol ne l' amato pegno ha luce e mente, Nè piacer nè travaglio intero sente. E, quando poi la tenerella pianta Porta i fioretti tra le nuove foglie, L' adora e inchina come cosa santa, Ed abbandona a lei pensieri e voglie. Il pargoletto mio così m' incanta Quand' apre un riso o la parola scioglie, Così sparger mi fa quella vaghezza Lacrime copïose di dolcezza. Quanti lucidi sogni, e quante amene Speranze, e quanti desiderii e voti! A debil filo l' anima s' attiene, Ed in torbido fondo avvien che nuoti; Nè i lauri de la patria o le catene, Nè bella invidia a' secoli remoti, Avanzan mai la vigil cura e pia Ch' è tanta parte de la vita mia. Però la vena de l' usato ingegno, Quando sorgea più rigogliosa, è morta; E fors'era feconda, ed era indegno Il nome mio di questa vita corta! Ma tu, che aspiri ad onorato segno, Non desïar quanto il contrario apporta; Tu vola, mentre Amor già t' alza l' ali, Ed avrai prole d' opere immortali. Quand' io movo le luci al vivo cielo Che abbraccia questa terra pellegrina, E miro ogni splendor che senza velo Si specchia entro la piana onda marina, Come si drizza aperto in su lo stelo Un lieto fiore a l' aura mattutina, Così sento da trepido sopore L' anima risvegliarsi a nuovo amore. Però dal mio fiorito e verde colle, Ove cinta di stelle Urania siede, Se miro il monte che a manca s' estolle, E fe' già di cittadi avare prede, Quand' ei più fiamme versa e più ribolle, La fantasia dipinge e l' occhio vede, Vede un antico in mezzo al fummo rio, Ch' ivi pose la vita e il gran desio1 Plinio.. Poi, se mi volgo a la meriggia parte Ove sul mar la mia città si stende, Un' aquila vegg' io con penne sparte Ch' a' misteri del sol vigile intende; Questi è colui che diè corona a l' arte D' opre scure orditrice e di stupende, E di dottrina aprì fonte secreta, Onde il tedesco ed il britanno asseta2 Vico.. O ben creato ingegno, a cui le cime Scoverse del saper l' eterna Mente, Così avess' io virtù tanto sublime Da snodar versi al tuo valor lucente!… Ma chiama a sè questi occhi e queste rime Un raggio che mi vien da l' occidente, Ove pompeggia una montagna aprica Che dà le spalle a Mergellina antica3 Il Vomero.. Fra schietti pini e tra vivaci abeti Ivi forse un bel tetto ancor s' alloggia, Dove fuggìa del mondo e lacci e reti Un alto spirto in disusata foggia; Le ruote de la terra e de' pianeti, De l' armonìa la sempiterna pioggia, De l' aer vago il variato affetto, Eran sospir del fervido intelletto; Spargeva il suo cammin di fresche rose La innamorata giovineza viva, Quand' ei per vie deserte al vulgo ascose Seguitò la natura fuggitiva, Ed ordigno mirabile compose Imitator de la virtù visiva, E fe' scala a colui che a l' occhio intento Le porte disserrò del firmamento4 La camera oscura forse aprì la via alla invenzione del telescopio.. Come ne' tempi che un soave sguardo Disdegnoso parea di fama oscura, Errar soleva il fior d' ogni gagliardo, Desïoso di fulgida ventura; Così questo gentil non parve tardo In cercar sapïenza alta e sicura, E ovunque ne scorgesse una fiammella, Gli lampeggiava il cor come una stella. Nè mai nocchier da l' eritree maremme, Tornando a le sue rive sospirate, Portò con tanto amor le care gemme Che gli chiuser la via di povertate, Come costui che del tuo lume ingemme, O chiara fama, a le sue sponde amate Portava di scïenza il bel tesoro, Onde sì poco pregio han perle ed oro. Già d' altre palme Italia si cingea, Più che di lieti mirti e di viole, E inaspettato lume si spandea Da' luoghi lungi dal cammin del sole5 Keplero.: Già maturava ne la eterna Idea La verità che lenta ergersi suole, Poi di subito schiara ove trabocca Siccome l' alba che da'monti scocca6 Il sistema di Copernico.. Amorosa ti sia l' aura tirrena Nel tuo ritorno, o pellegrin gentile; E l'austera scïenza, e la camena, Entro l'ingegno tuo sveglino aprile! Non perchè a l' aura cieca o a la serena, Or in vista pensosa ora in umìle, Or per valle or per monte ed or per fiume, Di verità cercasti il chiaro lume; Non perchè primo da la umana fronte, E da gli occhi e dal viso e da la guancia Insegnasti a scoprir le voglie pronte Che spesso uom copre con diversa ciancia, E ne fe' poi le carte illustri e conte Colui che suona ancor per tutta Francia, E di te tacque, e del pensiero egregio7 Lavater. Giambattista della Porta fu il primo a scrivere un trattato sulla fisonomia. Tolse a la terra mia la fama e il pregio. Non perchè la mutabil maraviglia De l' aer che la terra orna e circonda, E il ciel colora e le rose invermiglia, Ne le vive tue carte si diffonda8 Trattato di meteorologia del Porta.; Ma perchè la socratica famiglia Rivochi a solitudine gioconda, E a gl' italici ingegni adulti e scorti Primo rïapri d' Academo gli orti9 Il Porta aperse la prima accademia che fosse in Italia.. Ecco, veggio adunar la bella scuola, Ciascun di santo amor nutrito e caldo; Stringe fra lor la tua dolce parola Legame di virtù lucido e saldo; Ride il fiorito loco e l' aura vola Lene fra l' odorifero smeraldo; E par ch' ogni augelletto ivi saluti Questo nido d'italiche virtuti. Talora il flutto de gli umani eventi Or questa terra or quella ricoperse; Cadder gl' imperi e si mutàr le genti, E d' una fonte uscìr cose diverse: Ma l' armonia di poche elette menti Sempre a sua voglia i secoli converse; E in poca cella e in mezzo a breve stuolo I destini del mondo apriro il volo. Non pur le sacre vergini sorelle Nacquero insieme in dolce compagnia, Ma le severe discipline, quelle Che discorron l'eterna melodia, Più magnanime furo e fur più belle, Più discoprir de la celeste via Allor che, insieme costellate, assai Più s'abbelliron con mutüi rai. Ed al petto mortal cinsero usbergo Di sovrana fortezza, onde litigi Movea di Siracusa al ricco albergo L'almo Platone, ed atterria Dionigi. Ma dove, o Porta mio, le rime adergo?… Ben è ch'io torni a' tuoi santi vestigi, Cui segue il vecchio Tebro e quante chiare Terre corona il bipartito mare10 Accademia de'Lincei, ed altre molte per tutta la penisola.. E tosto in riva d' Arno ardita schiera Già si raccoglie al luminoso esempio11 Accademia del Cimento, fondata da' discepoli di Galileo Galilei.. La fama di costor non vedrà sera, Chè alzaro a verità splendido tempio. E il grande, che cortese ebbe ogni sfera, Ed ebbe guerra sol dal secol empio, La via lor diede, ond' ei cogliea le prove Di que' fulgor' che fan ghirlanda a Giove. Ecco tentata in mille parti e mille La terra e il mar con aura in prora o in poppa; Altri contando va l'auree faville De l'universo, ed assai nodi sgroppa: Come acceso di belliche scintille, Giovin destriero abbatte ovunque intoppa, E in fitto bosco si fa larga strada, Così la nuova età convien che vada. Pur la parte di noi che a la infinita Bellezza è più conforme e più diletta, Ancor non è del vizio disvestita, Ancora è pigra e da ree voglie stretta: Però, Sofia, fin che a serena vita Ella non sorga libera e perfetta, Io non dirò che il tuo splendore adorno Empie la terra di novello giorno. Ne l' ampie scuole ragionava il vero Il tarantino Archita, e, contemplando Del creato il mirabil magistero, Ne scernea con la mente il come e il quando; Poi nel campo d' onor duce e guerriero Era fiamma nel cor, fiamma nel brando, E riportava al patrio suol tranquillo Le intatte leggi e il nobile vessillo. Già un lustro declinò, ch' ebbe Zamora Un cavalier famoso, Alvaro detto, Alvaro fier cui tutta Spagna onora D' alta possanza e di gentile aspetto, Terribil come folgore, qualora Sovra Aquilone, il suo destriero eletto, Solo i Mori mietea siccome biada Con la sua Trinciferro, ultrice spada! Mai non fu vinto in giostra od in battaglia, Nè fu visto giammai votar l'arcione, Mai cavalier non vestì piastra o maglia Che'l pareggiasse in nulla sua tenzone; Ma non è fama che tant'alto saglia E che duri quaggiù lunga stagione: Alvaro il forte alfin vinto s'accese A gli occhi di una bella cordovese. Gittò la spada, e la sua vista fiera In sembianza mutò dolce ed umana; Montato poi sovra una mula nera Leggera e presta e di tre piè balzana, Drizzò l'alma e il cammino a l'Algazera, Che fu reggia di Cordova sovrana, Ove splendea quella beltà gentile Più che la prima rosa de l'aprile. Ivi sol vago de le luci belle Errò tutto soletto e disarmato, Mentre Aquilone al sole ed a le stelle Nudo pascea la fresca erba del prato, E il cavalier, trattando arti novelle, La cetra avea, non più la spada, allato; Ed innanzi a colei che il fea sì gramo Tentò le inculte fila, e disse: Io t' amo! Io t'amo tanto, o fior d'ogni bellezza, Ch'io son mutato, oimè, da quel di pria. Deh pon giù, mia regina, ira ed asprezza, E monta in groppa, e vieni a dritta via! E tu sempre sarai la mia ricchezza, Tu la mia luce, e tu la vita mia: Chè non ti pieghi a gli ardenti desiri, Ma levi gli occhi e tacita sospiri? Zobeide rispondea (chè così nome Ebbe quella fanciulla pellegrina): Già mie virtuti, o cavalier, son dome Da la tua fama ch' ogni altezza inchina; Ma indarno sosterrem d' amor le some, Tu cristiano nascesti, io saracina; A me fia punta il mio dolor crudele, E morirò, ma morirò fedele. Ei, de' suoi passi ricalcando l'orme, Allor si volse a la vita verace, E pria de' poverelli a l'ampie torme Fu largo di quel ben ch' al mondo piace. In questa tomba il fratel Zaimo dorme, Su le fredde ossa sue pregate pace, Se ancor lo spirto in sede alma e sicura Non colse il frutto de la sua sciagura. Se mai dolcezza alcuna o se conforto Presi di quest' amara vita mia; Se il corpo vinto, che a gran pena porto, Sentì l' aura celeste e l' armonia; Da te, che attingi un desiato porto, Isabella gentil, da te venìa; Chè in te, benigna al mio solingo stato, Trovai ricco tesoro invidiato. D'amicizia tesoro, a cui sovente La fastosa grandezza indarno aspira; Poichè allaccian furtive ogni possente Prone lusinghe nimicizia ed ira. Veramente mi lasci? Oh veramente Seco la morte ti travolve e gira? Ove sono i grandi occhi e gli atti onesti? Anima luminosa, ove traesti? Già per egregio stil ritratta in carte* Elogio del ch. Marchese Basilio Puoti. S' erge tua lode e per Italia suona; E i grazïosi modi a parte a parte Pinge e la nobilissima persona, E quanto ingegno disposato a l' arte Ti porse in fresca etate aurea corona, Quando, sovra la Senna, il dubbio giorno La voce tua rasserenava intorno. Avvi chi ti rimembra in finta scena, Del gaio socco o del coturno cinta, O ne la gioia o nel dolor sirena, Bella se d' ira o di pietà dipinta; E l'intelletto che ad antica vena Di sapïenza avea virtude attinta, Fe' il vago Reno e l' Istro immansueto Astïosi del picciolo Sebeto. Altri le chiare pompe e le festose Veglie rimembri e il cielo a te secondo, E vago sol per te d' itale rose L'inaspettato domator del mondo; Io de l' altre bellezze al vulgo ascose Sempre mi pascerò nel cor profondo; E, a te volando con l' usato affetto, Ritornerò con le man' vôte al petto. Quando dischiuso lo stellato cielo Confortava quest'occhi a l' aria bruna, O i fior chinati cospargea di gelo A mezzo del cammin la pura luna, A te, ravvolta nel terrestre velo, Dicea le mie fatiche ad una ad una, E per te mi parea piaggia fiorita Quest'immenso deserto de la vita. Quanti casti pensier', quanto disio, Ne l'imo petto mi vivranno eterni, Che a te fidai, spirto cortese e pio, Secura in te d' insidïosi scherni! Ed or di questo frale viver mio Chi più sarà che il navigar governi? Chi mai guida sarà così divina A quest'abbandonata pellegrina? Quante fiate, accese in una speme, L' anime nostre dispiegaro il volo, Interrogando per le vie supreme Ogni pianeta innamorato o solo! Alfin, librate ove ogni luce preme, Chiuso nel lume suo, l' eterno polo, Dalla virtù che ogni mistero serra Come a ritroso ritornaro in terra. Quante fiate a'miei negletti versi Tu rispondevi con gentil sorriso! E le lunghe vigilie e i giorni avversi Tu m' allegravi col materno viso! Or tutti i miei pensier vagan dispersi, Il cor da sè medesmo erra diviso; A stringer l' ombre il desir caldo agogna, E somiglio vivendo un uom che sogna. E, ovunque gli occhi volga, ovunque il passo, Riveggo te come una donna viva; Poichè il pensier, di richiamarti lasso, Sovente inganna la virtù visiva: E, fin ch' io giunga a quel dubbioso passo Che l' anime conduce a l' altra riva, Meco, santa memoria, esser tu dèi, Come l' ultimo fior de' giorni miei! Ed io con l' amorosa pargoletta, In che il tuo nome rinnovar mi piacque, Ricorderò quell'anima diletta Che dolce sorridea com'ella nacque: Ma la dolente mia canzon soletta Udran l' aure notturne e l' erbe e l' acque, Perchè il mondo, che i tristi onora e côme, Non faccia strazio del tuo chiaro nome. Come talvolta in faccia a l' aureo sole, Per forza d' austro o d' altro scuro vento, Stendersi un vel di spesse nubi suole, Ma non può far che paia il giorno spento, Chè nutre i pingui colti e le vïole La velata beltà del firmamento, E l' augellin su l' arbore si posa, Aspettando la luce armonïosa; Così nel fosco stato, ove m'induce La tua partita, o dolce alma gentile, Io sento in mezzo al cor la viva luce Che mi promette un più cortese aprile; Quella virtù ch' ad alte opere è duce Veste tua forma in questa terra ostile, E m' incatena a le stellate sfere Con la speranza pia del rivedere. Quando la nostra angelica farfalla, A sè mal nota, in questa terra viene, Porta una speme in sè che mai non falla, Porta un' impronta de l' eterno bene, Nè tante volte il mar s' alza e s' avvalla Per luna agitatrice in su le arene, Quant' ella a novo obbietto il vol distende, E poi delusa, onde partì, discende. Però sovra la terra ad un sol fiore Trae qualche stilla di pura dolcezza, Il qual simiglia la virtù d' amore, Ch' è la fonte quaggiù d' ogni bellezza; Nè pregio d' intelletto o di valore, Nè gemme ed ôr che il cieco vulgo apprezza, Potran l' alma rapire in paradiso, Come fa spesso un disïato riso. Allor la mente a l' eccellenza aspira, Come libera fiamma aspira al cielo; Nè pon cura a la carne, anzi sospira Di svilupparsi da quest' atro velo. Nè limpida stagione o stagion dira, Nè vario stato, nè di morte gelo, Da l' imo cor quest' armonia diparte, Che del nostro universo è tanta parte. Voi, giovinetti, e voi, donne e donzelle, In cui virtute a leggiadria risponde, Se mai provaste in cor dolci quadrelle Ne le fiorite vostre ore gioconde, Un'arra fu del regno de le stelle, Che l' eterna Virtù vi disasconde, Fu quel disio che sfida i tempi avversi E crea l' arti sorelle e spira i versi. E, se colei che al mondo non ha posa I giorni tronca al vagheggiato obbietto, Una viva memoria prezïosa Riman signora del profondo petto, Che toglie pregio ad ogni fragil rosa, Veste più larghe penne a l'intelletto, Il qual, messo per via nuova, infinita, Coglie i misteri de l' eterna vita. Così talor veggiam l' opaca luna Far di sè denso velo al re del giorno, Sì che innanzi stagion l' aria s'imbruna, E l' ampia terra impallidisce intorno; Ma se da l' ombre fuor favilla alcuna Va saettando il luminoso corno, Un mar di luce si diffonde, e svela Leggi novelle, e l'intelletto inciela. Gentile spirto, a cui scurato è il sole D' un chiaro viso e d' un soave sguardo, E pellegrino in piagge oscure e sole Forse a morire ti par esser tardo, Or altro lume in vece di parole Il petto stanco ti rifà gagliardo, Chè in questa terra ov' ogni duol s' annida Il pensier de' perduti è stella fida. Quantunque volte l'alma pellegrina In te si posa, o terra mia fiorita, Ed i colli soavi e la marina Mira di luce splendida vestita, Tante per caldo affetto e per divina Ebbrezza accesa e tutta in sè romita Alte cose matura e pensar suole Opre condegne a così chiaro sole. E, mentre vasta pace a' nostri campi Securi lascia i rugiadosi fiori, Io chieggio a voi qualche benigni lampi, Anni, che del presente or siete fuori, Perchè ne' petti un desiderio stampi Di rose no, ma di vivaci allori, Perchè si svegli a glorioso die Questa, ch' è sogno de le notti mie! Dolce, se vaghi zefiri sereni Aprano i fior'su l'erbe tenerelle, Dolce, se l' alma notte in giro meni Fregiato il carro suo d' ardenti stelle; Ma non concesso ciel, vivi baleni, Fragoroso cozzar d' onde rubelle, Levan l' umana mente ad infinita Solenne altezza, in quell' altezza è vita. Così fu vista un' ansiosa madre Spinger fra l' armi il suo figliuol diletto; Così pria le romane alme leggiadre Locàr l' Italia nostra in seggio eletto; Così movea fra le nemiche squadre, Da cittadino amor difesa il petto, Sotto spesse ombre un' animosa donna Sparse le trecce, avvolta in rozza gonna. Queto era il mondo, su l' umida terra Spandea le nubi un tenebroso velo, E la notte che gli occhi e l' opre serra Salia con le bilance a mezzo il cielo; Ma se tacea lo strepito di guerra, Vivea nel campo franco ardito zelo, Per conquistar quella marina aprica Ch' Enea rammenta e la nutrice antica. Or dove corri tu, cosa gentile? Qual fiera voglia l' anima t' investe? Perchè traggi fra l' armi? Il tuo virile Spirto forse desia l' aura celeste? Nè de' figli lasciati in loco umìle Ti vanno al cor le voci manifeste; Ma le tue mura sol pensi comprese Da quel torrente che per l' alpe scese! Sola procedi, tacita, leggera, Siccome fiamma che sotterra viva: Vedi il campo nemico e l' ombra nera De le tende ingombrar la muta riva! Sovra i fulminei bronzi, o mia guerriera, Intrepida così come furtiva, Alto un martel brandisci e con ingegni Novi la chiusa folgore ne spegni! La scolta apria le sonnacchiose ciglia, E sonando ne l' arme ricadea, E i morenti occhi suoi per maraviglia A te rivolse, di sua morte rea; Venìa già l' alba candida e vermiglia, La parte orïental già d' oro ardea, Ferve il nemico, e da turrita vetta Ti lancia inconsapevole saetta. Or cedi al fato, e per ascoso calle Come cerva t' imbosca e ti disvia; Al caro nido tuo dando le spalle, Solca del mar la perigliosa via; Ogni speranza tua ruina a valle, Fra le tue mura lo stranier s' india, Ed anzi il popol cieco in tutte bande Su le miserie sue sparge ghirlande! Molte fïate intorno al gran pianeta La terra gierà di sangue intrisa, A l' Italia la guerra immansueta Or una parte or altra avrà recisa, Quando risorgerà candida e lieta Pace che le miti alme imparadisa, E chiamerà da le ruine estreme Nuov' ordine di regni e nuova speme! E tu compagna l' opra tua lucente Ne l' abbandono de l' esiglio avrai; Nel patrio lido ignota a tutta gente Non porrai tregua a' dolorosi guai; Ma in ogni casto petto, in ogni mente, Iride colorata, splenderai! Chè di vittime sol, quasi ampio foco, Vive la carità del natìo loco. Veramente nel mio stanco intelletto Una viva virtù siede e ragiona, E mi rinfiamma l' agghiacciato petto, E mi riempie tutta la persona; Nè, perch' io cangi il giovenile aspetto, Men forte ad infinito amor mi sprona, Così che i versi e il povero concetto Volonterosa l' anima sprigiona. Salve, limpido ciel, che le tirrene Onde inzaffiri! oh salve, aure amorose, Che a' miei vergini dì foste camene! Accogliete le mie rime dogliose, Finchè morte, de' giusti ultima spene, Non mi travolga fra l' eterne cose. Ed io pur ti saluto, ansia, scontenta, Divinità che incontro mi saetti, Tu feritrice a gli onorati petti Sei pur nel sempiterno ordine intenta; Se la tua vecchia rabbia vïolenta Amaro porge a' nobili intelletti, Sprona forte il desio perchè s' affretti Verso stellata via l' anima lenta. Oh segui, incurva un' altra volta l' arco Pallida Invidia, e le tue fere notti Veglia formando i miei futuri danni! Era lo spirto mio di nebbia carco, Ed al piover de' tuoi strali dirotti Ritorna a l' armonia de' suoi begli anni. Quell' io, che lungamente combattuta Fui d' avversa fortuna e quasi vinta, Rivocando la mia speme perduta La nave de l' ingegno ho in mar sospinta; E già l' alma s' allegra, e risaluta Più d' una luce che teneva estinta, E, s' or di chiare stelle il ciel m' aiuta, Vedrò la riva di be' fior dipinta. Oh! se per l' alta perigliosa via Errando ognor non toccherà mai proda La pellegrina navicella mia, Ch' io pur l' onde solcai per fama s' oda, Nè l' ardir nostro inonorato fia, Ch' anco il tentar le belle imprese è loda. Quando il tuo riso, o diva mia beata, M' innamorò la giovenile idea, Salve sospiratissima, dicea, L' anima a dolci sogni abbandonata! Ma non sì tosto de la mia giornata Il poco mezzodì si diffondea, Ch' io te conobbi di mia morte rea Perchè infiori d' amor la terra ingrata, E spesso il fallo occulti e la rapina, Spesso nascondi co' tuoi dolci effetti Come il mondo al suo peggio si dichina. Cosa sei tu dal regno de gli eletti, Ma qui t' aggiri, o santa pellegrina, Creando larve ed agitando i petti. Zefiro spira ed asserena il giorno E fa più chiare fiammeggiar le stelle, Apre le verdi frondi tenerelle, E desta mille fiori intorno intorno; E pur fia breve il suo dolce soggiorno Per le tirrene sponde apriche e belle, Ch' e' volerà fiorendo erbe novelle Fin del vasto universo a l' altro corno. Ahi, mentre spira e subito va via, Par che m' adombri come il tempo vole, E se ne porti ancor la vita mia! Ahi forse il dì ch' e' tornerà, qual suole, Da questa salma che sotterra fia Desterà qualche cespo di vïole! Dolce la tua chiarezza e dolce l' ora Che nel ciel ti richiama, o viva luna, Dolce la tua virtù che ogni alma bruna Di luce soavissima colora! A quella età che l' anime innamora Tu mi ritraggi da la mia fortuna, Onde si sveglia e di vaghezza alcuna L' abbandonata mente mi s' infiora, E di mille leggiadre fantasie Va popolando questi colli ameni, E riconforta le speranze mie. Chi nutrirà pensier' di tosco pieni Allor che tu per le stellate vie Il tuo carro lucente in giro meni? Quando vegg'io d' erbe e di fiori sparti I tuoi splendidi campi, e tutta intorno A te diffusa la beltà del giorno, Io grido: O terra mia, come lasciarti? Vien desïoso da lontane parti Il pellegrino a sì dolce soggiorno, Ove la copia versa il pieno corno, Ov' è più viva l' armonia dell' arti. Qui l' aurea luna in virginal candore, E i rivi snelli, e qui tra fronda e fronda Par che l' aura susurri: Amore, amore. Chi crederà che da sì bella sponda Atterrito rifugga ogni alto core Perchè di lei men omicida è l' onda? Soventì volte al solitario cielo Gli occhi dogliosi e l' intelletto invio, E maggior' ale impenna il voler mio, Benchè ravvolto nel corporeo velo. Sovente a voi, stellati campi, anelo, Ove forse non è tema o desio, Non è lusinga di speranze, ond'io Vissi ardendo e tremando in caldo e in gelo. Oh potess'io per mezzo a l' infinito Spazio solinga e rapida levarmi Sovra il mondo di tenebre vestito! Oh potess' io di libertade aitarmi, Sciogliendo i ceppi a questo spirto ardito A cui non basta l' armonia de' carmi! Fioriva appena, appena al dì s' apria Questa povera vita, e ne la mente Mi splendesti, o Virtù, chiara ed ardente, Cui loda il mondo, anzi a parole indìa; E quindi affisa in te l' anima mia, Schiva così de la volgare gente, Di fortuna portò l' ira possente, Più salutato nume ove che sia. Or, che si sfiora il giovanil mio stato, Or mal fido mi giugne il tuo splendore, Che spesso muta nome e muta lato. Ahi non fuggirmi, ahi sino a l' ultim' ore Inganna almen lo spirto affaticato, Sì che abbracci un pensier consolatore! Un tempo fu che di tutta dolcezza A l' alma mia fosti argomento, o luna, Nè di cosa celeste altra veruna, Come del tuo sorriso, ebbi vaghezza. Ed or, che un' atra nube di tristezza Il bel seren de la mia vita imbruna, La tua candida vista emmi importuna, E le tenebre invoco, al pianto avvezza. Però, mentre di perle rugiadose Tu allegri il mondo, io dico, sospirando, Ahi non ridon per me sì care cose! Così forse, altamente dolorando, Maladice le sfere armonïose Spirto dannato a sempiterno bando. Benchè tranquillo porto a me contenda Cieca fortuna, rinfrescando l' ira, L' anima per usanza si rigira Ove che lume di bellezza splenda; Ed ama, e ne l'amor vede l' ammenda Di quanto in questa vita si delira, Mentre il cielo or s' infosca or s' inzaffira E muta le venture ed avvicenda. Quindi cosa non è ch' io tema o brami, Schiva del mondo, ch' al peggior s'invia, Solamente pregando ch' io sempre ami! Oh, come avvien che da la eterna via Un raggio, un' aura si diffonda, e chiami Dal secreto de' cor' tant' armonia? Oh! dove ruinaste, anni amorosi, In che l' anima mia tutta fioriva? Spenta è con voi quella speranza viva Ove il cor vago e l' intelletto io posi! Or ne la notte del futuro ascosi Son gli anni di mia vita fuggitiva, Finchè in un mar che non ha fondo o riva Si travolga quest' anima e riposi. Oh se il ciel mi largisse una, sol una Di quell' ore lucenti e consolate In che i primi pensier' la mente aduna, Avrei conforto in così stanca etate, E starien salde a' colpi di fortuna Queste dolenti rime abbandonate! In quella età, che in pargolette membra Vivacemente l' anima fioriva, Il ciel t' invola a questa poca riva Ed a gli amori angelici ti assembra. O verginella, or godi e ti rimembra Lieta che il tuo mortal giorno s' apriva, Poichè nembo di duol te non feriva, Che i maturi intelletti agita e smembra. O verginella, e sol ti ardea nel core Di quella speme candida la face Che poi muta con gli anni in tristo ardore. Ahi ben vivesti fin che il viver piace, E da una cara visïon d'amore Ti risvegliasti ne l' amor verace! Io vo pensando a' sospirati colli Là dove tu m' aspetti, o mia divina, Fra l' olezzo de l' aura pellegrina Che move l' erbe rugiadose e molli; E la speme depongo e i pensier' folli Surti in questa mortale onda marina, Pel lume tuo che l' intelletto affina, Onde chiara virtù vien che rampolli. Teco sarò per la stellata via, Nè l' aurea luce del maggior pianeta Sarà nemica a la veduta mia. Allor mi spirerai canzon più lieta, Che alfin risponderà quell' armonia A' desiri de l' alma irrequïeta. Perchè mi rida e pargoleggi intorno La famigliuola mia bella e fiorita, E, dopo il sospirato ultimo giorno, Per lei m'albeggi una futura vita; Perchè la mesta mia canzon romita Non frutti lauri, ma dispregi e scorno, Non lascerò quella speranza ardita Cui notte e dì con la memoria torno. E, finchè sgorghi de la mente il fiume, Chiamerò questa età cui sonno frena Ad alte geste ed a viril costume. Salve, speranza mia, salve serena! Spandi sovra l'Italia un chiaro lume, Levati da la viva onda tirrena! Se colassù di questa età novella Ti punge, o Verità, pietoso zelo, Lucidissima scendi, e il bianco velo Squarcia che l' atra ipocrisia fa bella. Vinca giustizia e si rimanga in sella, E senta iniquità l'ultimo gelo; Caggia a la frode il velenoso telo, E di calunnia il mal seme si svella! Tu vedrai l' ignoranza impaurita Fuggir da te, siccome augel notturno Che fugge il lume onde ogni cosa ha vita; E il mondo, vincitor d' Austro o Vulturno, Adempirà verso la riva ardita L'infrangibil cammino dïuturno. Soave aspetto e placido costume, Donna, ti fean pregiata infra le mille; T' uscìan da gli occhi angeliche faville, Scorrea da'labbri di dolcezza un fiume: Però, vestita di lucenti piume, Come schiva del mondo, anzi le squille, Drizzando ad alta via l' ali tranquille, T' inceneristi fra l' eterno lume. Oh! ben a te ne l' aureo firmamento S' addicea quella prece alma e pudica Che Dio facesse a'nostri mali intento; E a noi, che il sol d' Italia ancor nutrica, Implorasse il magnanimo ardimento A rinfiammar questa battaglia antica. Così le valli inseminate e chiuse Primavera soave apre e riveste, Come l'affetto vostro una celeste Luce dentro la mente mi diffuse. E veramente in voi, donna, trasfuse Veggio le antiche gentilezze oneste Da l' alta stirpe onde in retaggio aveste L' intelletto de l' arti e de le muse. Nè mai questo immortal serto fiorente Perderà pregio al tramontar de gli anni, O di fortuna a l' ire vïolente: Sì che ogni alma, obbliando i comun' danni, A l' alma Roma, italico orïente, Vi seguirà con amorosi vanni. Spesse fiate a l' ora mattutina, Con le membra dal sonno appena sciolte, Balzar vegg' io la snella montanina Succinta in gonna e con le trecce accolte, E l' erbe vive odorosette e folte Por su'canestri lucidi di brina, E di candide rose allora colte Incoronar la fragoletta alpina; E a l' aria di zaffiro colorita Disciorre una canzon tutta amorosa, Contenta a la campagna rifiorita. Perchè ride a costei pace gioiosa? Perchè fu schiusa a me questa infinita Via de la mente che non ha mai posa? Chi è costui che ne la sacra reggia Del terzo Niccolò bacia il gran manto? Veste le lane di Francesco, e intanto Di guerriero desìo tutto fiammeggia! Salve, o Procida ardito! Ancor lampeggia Il franco pellegrin d'ira e di pianto, Quando il vendicator Vespero santo Per le colline di Palermo echeggia. Ed io pur te saluto, o giovinetto. Che, dispiegando tua gentil virtute. Ritraggi in tela un generoso petto! Ch' ove tutte le stelle a noi son mute Svegliar potria de l' arti il chiaro aspetto La scintilla d' amore e di salute.

Ermanno e Teodoro, poemetto pag. 1

L'ultima ora di Saffo, canto 67

STANZE

Il Dolore 83

In morte di Donato Gigli 85

La Villa di Camaldoli 91

Il Verno 103

Le Nozze 110

Giambattista della Porta 114

Leggenda 122

Isabella Coppola, Duchessa di Campochiaro 125

Il primo Amore 130

La Donna di Gaeta 133

SONETTI

La Poesia 139

Alla Invidia 140

La Speranza 141

La Poesia 142

La Primavera 143

La Luna 144

La Partenza 145

Il Desiderio 146

La Virtù 147

Alla Luna 148

L'Amore 149

La Giovinezza 150

In morte di una fanciulla 151

Alla Musa 152

La Speranza 153

Alla Verità 154

In morte di una giovinetta 155

A Carlotta Lenzoni 156

La Montanina 157

Sopra un dipinto 158

ERRORI CORSI IN POCHI ESEMPLARI

A pag. 34, v. 4, dove dice

E sul Sebeto e di suo corso a riva

Leggi

E sul Sebeto è di suo corso a riva?

Pag. 34, v. 8 — e nove?—e nove.

Pag. 61, v. 12 — non ebbi intoppo — non ebbe intoppo